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SEGOBRIGA (Spagna)

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VEDUTA AEREA DI SEGOBRIGA

Il Parco Archeologico di Segóbriga è il più importante complesso archeologico della meseta spagnola. un altopiano della regione di Castiglia-La Mancia.Saelices, in provincia di Cuenca.

Segobriga fu una città romana della Spagna Tarraconense appartenente al conventus Carthaginensis. facente parte della Hispania Citerior (Spagna Citeriore)

Esso è un bene di interesse culturale nonchè patrimonio Storico, ed è stato dichiarato Monumento Nazionale il 3 giugno 1931.
Segobriga divenne poi municipium romano della provincia Tarraconense, ubicato a Saelices y Almonacid del Marquesado, Cuenca, Castilla-La Mancha,

Oggi l'antica città fa parte di un grande parco archeologico, con all'entrata un piccolo museo all'interno del quale sono conservati i reperti più preziosi e delicati, quali statue e mosaici.

A partire del I sec. d.c., in epoca romana divenne un nodo di strade di comunicazione, un importante centro agricolo e commerciale, nonchè la capitale amministrativa di un ampio territorio, fino al suo abbandono dopo la conquista islamica.

Il Parco archeologico fu anche un importante giacimento celtíbero e romano situato intorno ad una collina chiamata Cerro de Cabeza de Griego (collina di testa di greco).

Il nome di Segóbriga deriva da due termini di origine celtíberica, da Sego, che significa vittoria e del suffisso briga, che significa città, pertanto "Città della Vittoria" o "Città Vittoriosa".

Fu dunque originariamente un castro celtiberico e le prime notizie di Segóbriga sono del geografo greco Strabone 60 a.c. - 24 d,c.), che indica Bílbilis e Segóbriga i luoghi dove avrebbe combattuto Metello Pio, mandato in Spagna come proconsole, per reprimere la rivolta di Quinto Sertorio, parente di Gaio Mario.
Lo scrittore romano Sexto Julio Frontino (40-103), nella sua opera Strategemata, menziona Segobriga descrivendo l'attacco da parte del lusitano Viriato contro Segóbriga ( 146 a.c.), alleata con Roma durante la conquista della Hispania:

RICOSTRUZIONE
- Viriato disponendo le sue truppe per un'imboscata, inviò un paio dei suoi a rubare del bestiame ai segobrigenses; e come quelli partirono in gran numero per castigarli essi si dettero alla fuga per farsi inseguire..  Viriato tornò sui suoi passi ed attaccò invece i segobrigenses ignari, intenti ad operare i loro sacrifici agli Dei. -

Plinio il Vecchio, nella sua Naturalis Historia, definisce Segobriga e la sua area come "caput celtiberiae" (capo Celtiberio), precisando che la zona di Segóbriga era il confine tra i Celti e Carpetanos. Inoltre indica che Segóbriga era un città tributaria di quel Conventus.

Inoltre nella sua Naturalis Historia Plinio menziona lo sfruttamento di lapis specularis (pietra speculare) che egli definisce"lapis duritia marmoris, candidus atque translucens"una varietà di gesso speculare traslucido apprezzato per fare finestre di vetro, una parte importante dell'economia Segóbriga.

Narra plinio che questo minerale è stato estratto trovato in "100.000 passaggi intorno Segóbriga" e assicura che "il più trasparente di questa pietra si ottiene nei pressi della città di Segóbriga, estratto da pozzi profondi".

LAPIS SPECULARIS
Dopo la conquista romana agli inizi del II sec. a.c.., nelle Guerre celtibere, Segobriga divenne un oppidum o città celtibérica.

Inoltre la città venne completamente demolita e ricostruita. Per riprodurre la tipica città romana si dovette procedere al terrazzamento dei terreni, ancora conservati nel parco archeologico.

Durante le guerre di Sertorio, nell' 80 e a. c., divenne il centro della meseta, con il controllo di un vasto territorio.

Sotto Augusto, circa 12 a.c.., cessò di essere città tributaria e divenne un municipium, città governata da cittadini romani, assegnato alla tribù Galería e governato da quattuorviri ed edili. Godette così di un crescente status economico della città e un grande programma di costruzioni monumentali che terminerò in in età flavia, 80 d.c., a cui si debbono gli splendidi edifici pubblici.

Al termine del mandato di Vespasiano la città era al suo punto massimo, avendo già completato le opere di teatro e dell'anfiteatro, ed essendosi completamente integrata socialmente ed economicamente nell'Impero Romano. Sembra che l numero dei suoi abitanti fosse di circa 5000 abitanti.

L'importanza e la ricchezza di Segóbriga derivarono dall'attività agricola, pastorizia e soprattutto mineraria. Qui si estraeva il "lapis specularis" una pietra di gesso cristallizzata e trasparente di alta qualità, che lasciava filtrare la luce e i romani lo usarono tanto per i vetri dei loro edifici quanto per decorare pavimenti e pareti.

Inoltre questa pietra venne utilizzata, tritata e mescolata alla sabbia, in teatri e circhi per far brillare la superficie del terreno e quindi rendere le prestazioni più impressionanti. Le miniere erano sparse in un raggio di 148 km intorno alla città. Un'altra miniera si trovava nella città di Torrejoncillo, circa 35 km a nordest, con circa 50 km di gallerie in totale. Si sta studiando di rendere visitabili al pubblico parte di queste gallerie.

La sua felice posizione geografica la rese luogo di passaggio di diverse strade romane; il più importante collegamento tra Carthago Nova con Complutum e la sua connessione con Toletum e Segontia (Cartagena, Alcalá de Henares, Toledo e Sigüenza).

I reperti archeologici indicano che nel III sec. esisteva ancora in Segóbriga importanti personaggi che vivevano in città, ma nel IV sec. ebbe un inesorabile declino e la sua progressiva trasformazione in un centro rurale.

Dopo la Riconquista, la popolazione si spostò nell'attuale città di Saelices, a 3 km più a nord, nei pressi della fontana dell'acquedotto che aveva fornito l'antica città di Segóbriga. La città trasformò il nome in "Capo dei Greci", con una popolazione dipendente da villa Uclés, a soli 10 km, costruita utilizzando le pietre delle rovine per costruire il loro convento-fortezza.

A causa della crisi dell'Impero Romano iniziò il suo declino economico nel IV secolo e la la sua trasformazione in un centro rurale. Da allora il suo abbandono fu continuo e graduale, fino a che solo la piccola cappella costruita sulle antiche Terme Monumentali, restò l'ultima testimonianza dell'antica città conservata fino ad oggi. Vennero abbandonate le sue principali attrazioni, il teatro e l'anfiteatro che vennero sfruttate per uso agricolo.

Le parti scavate del parco sono oggi appena il 10% della superficie stimata dell'antica Segobriga.



LE MURA

Le mura di Segobriga proteggevano tutto il perimetro della collina per circa 1.300 m comprendendo un'estensione quadrata di circa 10 ettari. Non aveva torri ma aveva tre porte: a est, a nord e a nord est.

BLOCCHI DELLE MURA
Le mura consistevano in due paramenti di pietra riempiti di terra e piccole pietre. 

Nei luoghi più importanti la parete è realizzata con pietre e opera cementizia con uno spessore di 2,5 a 3 m e un'altezza di 4 a 6 m. 

Si ritiene che le mura furono costruite quando la città divenne municipio romano.

La porta d'ingresso, o Porta Nord, portava al cardo massimo e stava presso il Teatro e l'Anfiteatro.
Sorgeva su una base di opera cementizia profonda m 1,50 m ed era edificata in blocchi di pietra. Non aveva torri ed era alta come le mura.



IL FORO

Il foro di Segobriga a tutt'oggi è ancora oggetto di scavo, ed è formato da una piazza pavimentata estesa per m 38,60 da nord a sud e  32,70 m da est a ovest, per una superficie totale di 1.262 mq.

L'area pavimentata, di cui si è recuperato oltre la metà della pavimentazione, è delimitata da una linea perimetrale di pietre, leggermente elevata, attraverso cui si accedeva ai portici laterali. Uno degli accessi, quello da ovest, proveniva dal cardo massimo attraverso una scalinata monumentale  e un portico presieduto da un gruppo scultoreo in bronzo, di cui sono stati recuperati alcuni elementi.

Al centro del foro si elevava un grande monumento di forma quadrata munito di scalinate, con varie statue, probabilmente tutte della famiglia imperiale, come dimostra una delle statue dissotterate.

Questo monumento conserva la prima fila dei blocchi e tracce della seconda fila. Questo complesso era delimitato da una ringhiera di pietra (balteus) con sostegni tra i blocchi di bronzo e ferro.

Di fronte a questo monumento nella parte occidentale venne rinvenuta un'iscrizione che purtroppo è stato rubato. Il testo consisteva di lettere in bronzo di circa 32 cm. inserite in alveoli. Questa tecnica di intagliare la pietra per inserire le lettere e che rimangano a filo con la lastra onde evitare inciampi ai pedoni.

 "Proculus Spantamicus Laus forum sternundum d (e) s (ua) p (ecunia) c (uravit -erunt)". Da cui si deduce che Proculo Spantamicus aveva finanziato di sua tasca la costruzione del forum e ci permette di datare il foro al regno di Augusto. E 'noto che il forum è stato completamente costruito prima dell'anno 14, quando Augusto concesse alla città il rango municipale. Questo proculo doveva essere davvero ricco per permettersi tanta beneficenza, per quel fenomeno di "evergetismo" che spingeva i ricchi romani a farsi apprezzare attraverso costose opere pubbliche a favore della popolazione, usanza poi totalmente scomparsa.

Alcuni dei monumenti equestri che si trovavano nel forum, erano persone importanti della città. Inoltre sono state numerose iscrizioni dei governatori di Segobriga come C. Calvisius Sabino, che governò la Hispania Citerior.

Sui lati del foro ci sono stati altri monumenti, un altare dedicato all'imperatore Augusto, che presidiava il portico a sud. Accanto vi era un monumento con due statue dedicato alla famiglia Calventios nativa di Segobriga. Nel portico orientale invece venne collocata una statua equestre dedicata al nativo Manlio.

Interessante è anche il pozzo della piazza orientato con gli assi solari, esso fu il  mundus di Segobriga, quando la città fu fondata venne scavato un pozzo dove vennero poste delle reliquie sacra alla profondità di otto metri. 

Venne però derubato diverse volte ed ora ha solo un riempitivo.

A nord del forum cerano due criptoportici di cui uno sotterraneo di m 35.54 x 9,89 di cui restano le basi quadrate che sostenevano il portico superiore. Nella Basilica si svolgevano le attività amministrative della città.

Attraverso la sua soglia si accedeva ai portici che dovevano funzionare come archivio cittadino. Al piano superiore della basilica si svolgeva invece il governo di Segóbriga.

Questo piano era dipinto di rosso con colonne a motivi quadrati e circolari, e qui sono state rinvenute varie lastre di marmo a scopo decorativo, oltre a iscrizioni, un piccolo piedistallo, una bambola d'avorio, una statua vestita, e la testa in marmo di Agrippina, la madre di Caligola.

A nord del criptoportico settentrionale stava la Curia, le cui pietre vennero saccheggiate durante il Rinascimento.

Oggi è un criptoportico di 18,36 x 11,76 m e si presume che entrambi i criptoportici fossero uniti da un arco.
Il Foro venne usato fino al XVI e XVII secolo, secolo in cui avvenne il saccheggio per edificare il monastero.

RICOSTRUZIONE DEL TEATRO

IL TEATRO

Il teatro doveva già far parte dei progetti di Augusto, ma la sua costruzione iniziò probabilmente in epoca di Tiberio. Infatti la cavea e parte delle statue della scena. di cui una è del prefetto dei fabbri M. Octavius Novatus, probabilmente segobrigense. sono dell'età di Tiberio o di Claudio.


La dedica dell'iscrizione monumentale è a Vespasiano e Tito e cita un discendente di Ottavio Novato, che fu ufficiale della Legio XXI Rapax e prefetto di Aquitania nel 76-79 d.c.

Il che fa supporre che la costruzione ebbe termine ai tempi di Vespasiano, verso il 79 d.c.

Il teatro era quasi addossato alla cinta muraria, dalla quale era separato da una via coperta a volta che univa le porte nord est e nord  della città. Su questa volta doveva poggiare pertanto il summum maenianum, ormai inesistente.

STATUA DEL TEATRO
La cavea, di 60 m, è semicircolare con 5 scale e fornita di vomitoria. Le sue gradinate, ben conservate, si dividevano in tre parti, separate per differenziare per classe sociale gli spettatori. 

La media e la ima cavea, accoglievano 5 file di sedili ciascuna, tutte intagliate nella roccia e separate da baltei.

Tre gradini di roccia, riservati all'ordine dei decurioni, separano la cavea dall'orchestra, che dà sulle pàrodoi ( passaggi all'aperto che permettevano al coro di raggiungere l'orchestra) e su un ricco pulpito (palco) mistilineo.

Il proscenio, di legno, poggiava sulla roccia e su blocchi parallelepipedi e la scenae frons era scandita da colonne corinzie e da decorazioni vegetali.

Tre aperture davano sul proscenio, quella centrale all'interno di una nicchia semicircolare, fiancheggiata da due colonne tortili.

Una statua della Dea Roma doveva occupare la parte superiore.

La scena era decorata da quattro statue di Muse e da altre raffiguranti personaggi togati della famiglia imperiale.

Dietro la scena si snoda un lungo corridoio retto da contrafforti, con al centro un'aula trapezoidale, con un altare all'esterno, forse adibito al culto imperiale. Sembra potesse contenere circa 2500 spettatori.

RICOSTRUZIONE DELL'ANFITEATRO

L'ANFITEATRO

Costruito di fronte al teatro, l'anfiteatro era situato come il precedente all'entrata della città. La sua forma ellittica irregolare e i suoi 75 metri di lunghezza ne fanno il maggiore monumento del complesso archeologico, con capacità per circa 5500 spettatori.

La sua facciata si innalzava fino a raggiungere i 18 m di altezza, mentre l'arena ha una forma ellittica di 42 m x 34. Contrariamente a quanto accade in altri anfiteatri romani, l'anfiteatro di Segobriga non possedeva sotterranei. L'unica infrastruttura sotterranea è una fogna che drenava le acque piovane e di deflusso all'esterno dell'edificio.

La galleria è divisa in tre settori distinti, da anticamera, a tre arcate che mantengono una larghezza costante di 2 m. Parallela ad essa, ma separato, si snoda un corridoio di servizio di 90 cm. larghezza comunicante con un altro corridoio di servizio che corre dietro il podio sul lato nord. La porta occidentale ha una larghezza di 4 m nella sua parte esterna e 3,20 m verso l'arena.



Questa galleria con volta a botte era suddivisa in tre diversi settori attraverso molti archi in muratura. La comunicazione tra l'esterno e l'interno dell'edificio avveniva tramite una o più rampe di scale in parte scavate nella roccia. In questa galleria si apre un piccolo vano sotto il livello della cavea, che potrebbe essere identificato con un piccolo sacello o recinto sacro. 

Si apriva direttamente sull'arena, a sud dell'asse minore, una stanza di piccole dimensioni, scavata nella roccia e coperta con una volta a botte, forse il Carcer, per la sistemazione di delle bestie che facevano parte dello spettacolo.

All'arena si può accedere attraverso due ingressi alle estremità dell'asse maggiore. L'ingresso che si trova a est è il più grande, potrebbe essere considerata la Porta Triumphalis e comunica con il Teatro circostante e il tratto finale della strada che conduce alla porta principale della città. 

Il pavimento del corridoio ha una leggera pendenza che colma il divario tra il pavimento della dimensione esterna e il livello della sabbia. Questo era coperto da una volta a botte lungo la sua lunghezza (frammenti opera cementizia che appartengono a queste volte può essere visto oggi nello stesso luogo in cui sono caduti dopo il crollo del palazzo).

Il corridoio coperto ha una larghezza che va da 6 m nella sua parte più esterna, fino a 4,5 m nella parte più vicina all'arena.

L'arena è delimitata da un podio, a sud scavato nella roccia, a nord costruita con grandi pietre. Il Podium e il balteus (la ringhiera) raggiungono 3,20 m sopra il livello dell'arena, stuccati in modo da simulare un rivestimento in marmo.

Sopra al podio si levava la cavea divisa in due parti: ima cavea (vicino all'arena) e summa cavea (più in alto). La separazione tra un settore e l'altro avveniva tramite passerelle e ringhiere. Ogni cavea era divisa a sua volta in sezioni più piccole con corridoi e scale in una rete di distribuzione che facilitava l'accesso, la circolazione e l'evacuazione degli spettatori.

Gli spettatori accessibili ai vari vomitoria presentano entrambi archi esterni e interiori. Questi vomitoria erano coperti da volte a botte attualmente scomparse.




LE TERME

Le terme vennero costruite in epoca augustea fra le mura e il decumano. Si trattava di terme doppie, in quanto i due sessi vennero separati, di cui si è conservata, però, soltanto la parte riservata agli uomini. 

IL COMPLESSO DELLE TERME
Lo spogliatoio aveva un lungo sedile modanato e alcune nicchie entro cui dovevano giacere delle divinità solitamente protettive delle acque. Inoltre vi è stata rinvenuta un'iscrizione in opus signinum in cui si legge:

- (B)esso Abiloq(um) Velcile(sis a}rtifex a fundame(ntis). cioè Besso Abiloqun Velcilesis è l'artefice (della sala o delle terme?) fin dalle fondamenta.

Dallo spogliatoio si passava a un laconicum circolare (una sauna) con vasca, e al caldarium con piscina rettangolare. Si arrivava poi alla fornace per il riscaldamento passando presso le latrine situate accanto alla postierla (piccola porta riservata alle guardie) delle mura.

A est erano dislocate la piscina all'aperto con peristilio e una grande aula rettangolare con dieci pilastri ionici, fungente da criptoportico del complesso monumentale terme-piscina-teatro. 

Inoltre il summum maenianum, o balconata superiore, la più alta del teatro, comunicava con il peristilio della natatio, attraverso un'aula situata sul criptoportico.

Di solito nei palchi in alto (la cosiddetta piccionaia) sedeva la gente più povera, il poterla far defluire direttamente nella piscina scoperta permetteva da un lato di evitare il contatto tra gente di alto rango con gente umile, dall'altro evitava la calca della gente, probabilmente fluente in modo più ordinato tra  i più abbienti e colti, e più disordinato tra i popolani.




IL TEMPIO DEL CULTO IMPERIALE

All'epoca di Vespasiano venne costruito un tempio dedicato al culto dell'imperatore che sorse al centro della città, ad est del foro. accedendovi tramite una scala direttamente dal cardo massimo.
Esso ha una pianta rettangolare di m 35,81 x 19,53. Sorge sulla roccia con fondamenta di un m di larghezza. 

RESTI DEL TEMPIO
L'interno è a tre navate separate da due colonnati centrali di 10 colonne ciascuno, con fusti scanalati e modanature convesse su basi attiche e uno zoccolo quadrato.

Nel suo scavo sono stati rinvenuti inoltre nove grandi capitelli corinzi. Nel colonnato est, all'interno della navata, vi sono due plinti che una volta sostenevano piedistalli e statue. Pur essendovi chiari segni di pavimentazione, non vi è traccia di lastre evidentemente asportate anticamente.

E' stata pure rinvenuta la testa in marmo di una persona anziana identificata con l'imperatore Vespasiano, che a sua volta aveva riutilizzato un vecchio ritratto di Nerone. E 'anche apparso un altare dedicato alla dea Fortuna.
Le navate laterali sono rettangolari, mentre l'abside centrale, accessibile con tre gradini, termina in un mosaico bianco e nero, a cui si accede attraverso un piccolo spazio rettangolare. 



OSCULATORIO UCCELLI

Questa è la riproduzione di un strumento di origine romana, di cui l'originale si trova nel Museo di Segobriga.

L'osculatorio è stato trovato nel forum della città, il suo anello è di una sezione rettangolare ed è decorata con un piccolo cerchio sulla parte esterna.
L'asta è di sezione circolare e presenta superiormente un'apertura. Il pezzo è coronato da l'immagine di due uccelli.

Con questo strumento si prelevava un olio denso e profumato per spalmarselo sul corpo.


LO SCANDALO

Il Parco Archeologico di Segobriga è minacciato dalla costruzione imminente di un parco eolico vicino, promosso dalla società Wind Energy Basin. Il sito sarà modificato con l'installazione di turbine eoliche alte da 14 a 121 m. Le stesse cose che accadono in Italia, ma....

COSA ASPETTA L 'EUROPA DICHIARARE QUESTO SITO PATRIMONIO MONDIALE DELL'UNESCO E A SALVARLO DAL BRIGANTAGGIO DELLE SOCIETA' COLLUSE CON LE AMMINISTRAZIONI LOCALI?












TEMPIO VENERE ERICINA-SALLUSTIANA

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Nell'età imperiale si chiamavano horti le residenze con un grande parco costruite all'interno dell'urbe anche se in aree suburbane (periferiche). Anche Sallustio aveva i suoi horti, tra Quirinale, Viminale e Campo Marzio, erano i più grandi e i più ricchi del mondo romano.

VENERE ERICINA
Ed è del sito degli Horti Sallustiani che parla Vacca descrivendo il rinvenimento del tempio di Venere Ericina.

Vacca:
« Nella vigna di Gabriel Vacca, mio padre, accanto porta Salara, dentro le mura... cavandovi trovò una fabrica di forma ovata (corr. rotonda: è il tempio di Venere Ericino-Sallustiana) con portico attorno ornato di colonne gialle, lunghe palmi 18 scannellate, con capitelli e basi corintie ... ed a ciascuna (delle quattro) entrate vi erano due colonne di alabastro orientale si trasparente, che il sole vi passava senza impedimento... 

Il cardinale di Montepulciano comprò di quelle colonne, e ne fece fare la balaustrata alla sua cappella in s. Pietro in Montorio. Comprò ancora quelle di alabastro, una delle quali essendo intiera la fece lustrare, e delle altre rotte ne fece fare tavole, parendogli cose preziose. 

Le infrascò con altre anticaglie e tavole commesse, e le mandò a donare al re di Portogallo, ma quando furono in alto mare l' impetuosa fortuna trovandosele in suo dominio, ne fece un presente al mare ».

Il Tempio di Venere Erycina era situato sul colle Quirinale, costruito tra il 184 e il 181 a.c. dopo la conquista di Erice dove vi era il culto della Venere locale (da cui l'appellativo di Erycina) già descritto da Diodoro Siculo che narra l'arrivo di Liparo, figlio di Ausone, alle Isole Eolie (V, 6,7), aggiungendo che i Sicani «abitavano le alte vette dei monti e adoravano Venere Ericina».

- Livio nel lib. XXX e XXXVIII mostra che fuori Porta Collina era un tempio di Venere Ericina prossima a un circo, che poscia fu designato col nome Sallustiano, e dove dovevansi celebrare i giochi Apollinari, che una inondazione del Tevere impediva di dare nel circo Flaminio.

Ovidio nei Fasti lib. IV lo dice prossimo alla porta:
"Templa frequentari Collinae proxima portae
nunc decet: a siculo nomina colle tenent.
Ut Syracusas arethusidas abstulit armis
Claudius et bello te quoque cepit Erix:
carmine vivacis Venus est translata sibillae
inque suae stirpis maluit Urbe coli".

Strabone nel lib. VI lo dichiara posto fra le vie Salaria e Nomentana, di prospetto alla porta medesima.

PIANTA DEL TEMPIO
Rufo e Vittore portano fino a questo tempio l'estremo limite della regione V. 
Queste testimonianze così positive ne definiscono il sito quasi geometricamente entro la villa già Sciarra ed oggi Bonaparte fra le vie Nomentana e Salaria antica, oggi dette di Porta Pia e di Porta Salara, e probabilmente il casino fu eretto sulle sue rovine.

Lucio Porcio Licino console l'anno 570 a.u.c. (ab urbe condita) ne fece voto nella guerra contro i Liguri e lo dedicò tre anni dopo come mostra Livio lib. LX e XXXIV. 

Siccome era in una situazione vantaggiosa Silla vi pose gli alloggiamenti nell'anno 671 a.u.c., allorchè volle coprire Roma dall'assalto di Ponzio Telesino, secondo Appiano, Guerre Civili lib. I.

Strabone citato di sopra lo descrive come un tempio nobile per la cella e per il portico che lo circondava, onde può supporsi che avesse un'area sacra intorno. Sembra che la statua della Dea fosse effigiata in modo che avesse presso di sè quella dell'Amore, poichè Ovidio in Remedia Amoris verso 549 così scrive:

Est propre Collinam yemplum venerabile portam
imposuit templo nomina celsus Erix;
est hic letheus Amor, qui pectora sanat
inqua suas gelidam lampadas addit aquam:
illic et iuvenes votis oblivia poscunt,
et si qua est duro capta puella viro.

Vittore e Rufo notando questo tempio mostrano che rimaneva ancora in piedi sul principio del V sec., oggi non ne rimangono avanzi visibili. -

Il tempio venne poi inglobato negli Horti Sallustiani, tanto che iniziò anche ad essere chiamato come di Venus Hortorum Sallustianorum. Un disegno di Pirro Ligorio lo mostra a base circolare. L'edificio si doveva trovare presso l'incrocio tra via Sicilia e via Lucania.
Entro gli Horti Sallustiani che andavano dalla porta Salaria a quella Pinciana, era alloggiato infatti il tempio di Venere Ericinam secondo alcuno dedicato nel del 180 a.c., nonchè un magnifico ninfeo adrianeo i cui resti, posti oggi a ben 14 m sotto il livello stradale, si trovano al centro di piazza Sallustio. 

Dal VI secolo d.c. e fino a tutto il Medioevo la zona degli Horti Sallustiani rimase abbandonata, naturalmente coperta di vigne e uliveti che coprivano secoli di storia gloriosa cancellandoli dalla mente degli uomini.

SU UNA FACCIA VENERE ERICINA, SULL'ALTRA
PROBABILE TEMPIO DI VENERE ERICINA A ROMA
Nel XVI secolo, tra le odierne via Lucania e via Sicilia, fu rinvenuto e subito distrutto il Tempio di Venere Ericina. Una struttura a forma circolare le cui colonne in marmo “giallo antico”, nonchè i suoi marmi, furono depredati e riutilizzati dal papato per la costruzione di una cappella nella chiesa di San Pietro in Montorio, prima di cancellarne totalmente i resti.

Nel XVII sec. l’area del quartiere Sallustiano tornò alla famiglia Barberini e il palazzo della villa sorse proprio sui resti di antichi edifici romani e su una parte delle mura repubblicane costruite nel IV secolo a.c.. Nel 1870 l’intera proprietà venne acquistata dall’antiquario ed editore svizzero Giuseppe Spithoever, il quale, 11 anni dopo iniziò una serie di lavori di livellamento dei terreni e di costruzione di strade.

ACROLITO LUDOVISI
Per effetto di questi lavori il padiglione monumentale che oggi è possibile ammirare in tutta la sua bellezza a Piazza Sallustio resterà semisepolto e quasi invisibile a livello delle nuove strade che traversano la zona. Unico accorgimento adottato nei confronti del monumento è stata la costruzione di grosse mura di contenimento. 

Il tempio fu descritto di forma tonda e di grande solidità, mezzo diroccato, deformato e sepolto secondo l'antiquario Dalmazzoni che riferisce nel 1804.

Alcune celle del tempio avevano un luogo appartato dove si conservava il simulacro della Dea, e quest'area era chiamata "sacrarium" o "penetrale".

Finalmente, nel 1969, il complesso viene dichiarato di «notevole interesse archeologico» e a fine secolo si è, finalmente, intrapreso un serio progetto di restauro per il padiglione degli Horti Sallustiani di Piazza Sallustio.

In questi paraggi vennero rinvenuti il Trono Ludovisi e la grande testa femminile detta Acrolito Ludovisi (entrambi al Museo nazionale romano).

Può darsi che fossero opere originali della Magna Grecia (databili forse attorno al 460 a.c.) prelevate dall'originario santuario di Erice e collocate nel tempio appositamente costruito a Roma come nuova casa per la divinità.

ARAUSIO - ORANGE (Francia)

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Orange è un comune francese del dipartimento della Vaucluse nella regione della Provenza-Alpi-Costa Azzurra, a circa 21 km a nord di Avignone.

L'arco e il teatro romani di Orange sono stati inseriti nel 1981 nella lista dei Patrimoni mondiali dell'umanità dall'UNESCO.


DA ACCAMPAMENTO A COLONIA

A causa della minaccia determinata di invasioni da parte di Cimbri e di Teutoni, provenienti da nord, i romani crearono un accampamento militare sulla collina di Sant'Eutropia, per controllare la via della valle del Rodano.

LATO POSTERIORE DEL TEATRO
La capitale della tribù dei Galli Tricastini, si chiamava Noviomagus, e il suo territorio, in Provenza nel sud della Francia, fu conquistato da Cesare. Augusto poi, avendo nel 36-35 a.c. ottenuto il territorio da assegnare ai coloni dalla tribù dei Tricastini vi creò la colonia Augusta Tricastinorum che successivamente prese il nome di Colonia Iulia Firma Secundanorum Aurasio.

 Il nome della colonia è tramandato da Plinio il Vecchio e da un'epigrafe latina.
Questa venne occupata dai veterani della Legio II Gallica, cioè Colonia degli uomini della II, fedelissimi alla gens Iulia, che fa pensare a un legame con i veterani di una II Legione. Il termine gallica suggerisce un suo probabile impiego in Gallia, o contro i Galli, gestito in ogni caso con onore.

Vi furono inviati altri coloni all'epoca di Vespasiano, che fece redigere nel 77 d.c. un catasto scolpito su marmo (les Cadastres), attualmente conservato al Museo Municipale e le dette il nome di Colonia Flavia Tricastinorum.
Vi passava la strada costruita da Agrippa tra Arles e Lione, e un'altra strada romana che conduceva a Vaison. La cinta muraria circondava un abitato di circa 70 ettari e comprendeva gran parte della collina di Sant'Eutropia, estendendosi verso nord per circa un km. La città appartenne alla provincia romana della Gallia Narbonense.
RICOSTRUZIONE DEL TEATRO

LE MURA ROMANE

All'entrata del cimitero di Peyron si trovano i resti di una porta e di una torre della cinta fortificata di epoca romana. La torre, per lungo tempo creduta un edificio termale, potrebbe essere identificata con la tour Gloriette dei trovatori.




IL TEATRO ROMANO

Edificato in epoca augustea, tra il I sec. a.c. e il I sec. d.c., deve la sua fama all'ottima conservazione della scena e del muro retrostante, che raggiunge un'altezza di 37 m e una lunghezza di 103 m.

PIANTA DEL TEATRO
La decorazione della scena e le statue appartengono ad un rifacimento dell'epoca di Antonino Pio. I blocchi sporgenti in cima al muro, sulla facciata esterna, erano utilizzati per fissare il velario che proteggeva gli spettatori dal sole.

Il teatro segue lo schema tradizionale del teatro romano, con i gradini della cavea (37 file per 9.000 spettatori circa) disposti a semicerchio intorno all'orchestra. La cavea è in parte sostenuta da sostruzioni, e in parte si addossa alla collina di Sant'Eutropia.

La sua acustica notevole, dovuta alla conservazione della scena, consente di adoperarlo tuttora per il festival musicale delle Chorégies.

L'ARCO DI ORANGE

L'ARCO DI ORANGE

L'arco, a tre fornici, segnava l'ingresso della città romana di Arausio (oggi Orange) dal lato nord e scavalcava una delle vie costruite in Gallia da Agrippa, che dalla capitale provinciale di Lugdunum (Lione) conduceva al Mediterraneo e quindi verso Roma.

L'arco venne probabilmente eretto negli anni 20-25 d.c.,  dedicato a Germanico, figlio adottivo di Tiberio e comandante della II legione, morto nel 19, per commemorare le sue vittorie. L'arco fu in seguito ridedicato a Tiberio nel 26-27 d.c. e in tale occasione fu aggiunta la dedica. 


In epoca medievale fu fortificato e inserito in un bastione avanzato di difesa della città. Fu restaurato negli anni 1820 dall'architetto Auguste Caristie, che lo liberò dai contrafforti utilizzati per la sua fortificazione e dalle strutture che gli erano state addossate e rimpiazzò le parti mancanti o troppo danneggiate. Un restauro e pulitura dell'arco si è concluso nel 2009.

L'arco è stato inserito nel 1840 nella prima lista dei monumenti storici francesi. Dal 1981 è inserito con il teatro romano della città tra i Patrimoni dell'umanità dell'UNESCO.

L'arco è edificato in opus quadratum on blocchi di pietra locale e misura 19,57 m di larghezza x 8,40 con un'altezza di m 19,21.

Sui lati maggiori fra i fornici e agli angoli sono presenti semicolonne corinzie rialzate su piedistalli che sorreggono la trabeazione principale sui quattro lati. 
Al di sopra di questa si trova un doppio attico, che sporge nella parte centrale, dove lo spazio dell'attico inferiore è occupato da un frontone.


L'attico superiore doveva fungere da basamento per delle statue monumentali di bronzo, oggi scomparse come quasi tutte quelle analoghe sopra gli archi romani, fuse per ricavarne bronzo per le armi da guerra ma soprattutto per cancellare le tracce di un impero glorioso con la sua antica religione di cui si volle cancellare ogni ricordo in nome del Dio unico. 

I lati corti dell'arco sono decorati con quattro semicolonne che sorreggono la trabeazione e un frontone con arco centrale, che occupa lo spazio dell'attico inferiore.

Su molte delle superfici libere dell'arco sono presenti rilievi.

Sulla facciata principale gli spazi sopra i fornici minori e sotto la trabeazione sono decorati da rilievi con cumuli di armi, tra le quali alcuni scudi presentano iscrizioni con nomi, interpretati come i nomi degli scultori, ovvero come nomi di famosi fabbricanti.

Sempre in corrispondenza dei fornici laterali, l'attico inferiore è decorato con pannelli raffiguranti delle spoglie navali, come prue di navi, ancore, tridenti.

Il fregio della trabeazione principale mostra sui quattro lati del monumento un fregio con combattimenti tra Galli e Romani, rappresentati come una serie di duelli. 

I Galli dai lunghi capelli combattono nudi e armati di scudi, mentre i Romani indossano la tunica e talvolta la corazza. 

I personaggi sono di fattura grossolana, con mani e piedi sproporzionati.

Nella parte centrale dell'attico superiore, che doveva sorreggere un grande gruppo scultoreo equestre, si trovano dei pannelli con scene di battaglia. 

Vi partecipò la II legione Gallica, riconoscibile dal suo emblema con il capricorno, presente sullo scudo di un ufficiale. 

Intorno al rilievo, privo di incorniciatura, i blocchi della muratura presentano numerosi fori disposti irregolarmente, che dovevano servire a fissare elementi decorativi in bronzo regolarmente depredati e scomparsi.

Tra le colonne dei lati corti sono presenti altorilievi con trofei, ai piedi dei quali sono mostrati due prigionieri barbari incatenati. Gli altorilievi sul lato ovest sono in gran parte frutto della ricostruzione ottocentesca.


Iscrizione

Sui lati lunghi dell'arco la fascia inferiore dell'architrave della trabeazione principale recava un'iscrizione con lettere in bronzo, applicate per mezzo di grappe di cui restano visibili i fori, in particolare sul lato nord.

Dallo studio delle cavità per grappe fu proposta nel 1862 da Pierre Herbert una prima lettura dell'iscrizione: IMP CAIO I CÆ AVGVSTI DUVI I FIL ÆGYPT TRP XI COMAT TRIBVT GERMANIA VICTA
COH XXXIII VOLVNT COLONIA ARAUS I SECVNDAN HVNC ARC DED PVBLICE

"Imp(eratori) Caio I(ulio) Cæ(sari) Augusto divi I(ulii) fil(io) Ægypt(o) Tr(ibunicia) P(otestate) XI comat(a) tribut(aria) Germania victa
Coh(ors) XXXIII volunt(ariorum) (et) colonia Araus(io) I(iulia) Secundan(orum) hunc arc(um) ded(icavit) publice"


Ne consegue che l'iscrizione dati l'arco al 12 a.c. confermando la città come colonia romana fondata dai veterani della legione cesariana. Le vittorie a cui l'iscrizione si riferisce furono la battaglia di Azio nel 31 a.v. di Ottaviano in Egitto e le vittorie di Druso sui Germani nel 12 a.c.

In seguito a studi più recenti la lettura dell'iscrizione della trabeazione principale è stata modificata:

TI CAESAR DIVI AVGUSTI F DIVI IVLI NEPOTI AVGVSTO PONTIFICI MAXI
POTESTATE XXVIII IMPERATORI IIX COS IIII RESTITVIT R P COLONIAE (ovvero alla fine RESTITVTORI COLONIAE)

"Ti(berio) Caesar(i), divi Augusti f(ilio), divi Iuli nepoti Augusto, pontifici max(imo)
(tribunicia) potestate XXVIII, imperatori IIX, co(n)suli IIII restituit R(es) p(ublica) coloniae (ovvero restitutori coloniae)"


A Tiberio Cesare, figlio del divo Augusto, nipote del divo Giulio, Augusto, pontefice massimo, che ha esercitato per la XVIII volta la potestà tribunicia, imperatore per l'ottava volta, console per la quarta volta restituì la colonia (ovvero restitutore della colonia)

La datazione appare essere spostata al 26 -27 d.c., in occasione di una restituzione di terre da parte di Tiberio o per una strana "restituzione" dell'arco a questo imperatore. L'iscrizione sarebbe stata collocata in epoca successiva alla prima costruzione dell'arco, su una zona non normalmente destinata a quest'uso. 

Nell’arco di Orange i tre fornici sono inquadrati da semicolonne e tre quarti di colonna di ordine corinzio posti su alti piedistalli, mentre i loro piedritti sorgono direttamente da una base a livello del suolo; il tratto della trabeazione in lieve risalto in corrispondenza del fornice centrale sorregge un timpano sull’attico, anch'esso decorato.

TRIONFO NAVALE
In tempi successivi fu elevato un secondo attico con forti rilievi in corrispondenza sia del fornice centrale sia dei fornici laterali.

L'arco è carico di rilevi e di fitte decorazioni: girali vegetali negli stipiti, ghirlande negli archivolti, trofei di armi di ogni genere negli spazi sopra i fornici laterali e nelle ali del primo attico, oltre ai relitti di una battaglia navale nel secondo attico.

DA SINISTRA: GIULIANO DA SAN GALLO, DISEGNO DEL LATO OVEST DELL'ARCO DI ORANGE
CENTRO: MANTOVA CHIESA DI SAN SEBASTIANO
DESTRO: SANTA MARIA DELLA PACE A ROMA
Anche i fianchi vennero poi decorati  scolpendovi quattro colonne incassate nel piano e negli angoli, con la trabeazione interrotta e sormontata da un arco 'siriaco' che invade il timpano soprastante.
Si dice siriaco in quanto attestato nella città di Seia in Siria, in un edificio ellenistico elevato sul finire del I sec. a.c.: nel tempio, dedicato alla divinità locale Dusharaa.

In pittura invece l’arco interrotto era apparso a Pompei sulle pareti dell’oecus corinzio della Casa del Labirinto e riapparirà nelle tombe rupestri di Petra del II sec. d.c.

Il fianco dell'Arco di Oranges e in particolare il modello dell'arco spezzato sarà diffuso tra gli architetti del Rinascimento grazie a un noto disegno di Giuliano da Sangallo. Mantenuto fino alla Roma umbertina e oltre.

Gruppi statuari coronavano probabilmente l’ultimo attico, il che confermerebbe l'ipotesi che l’arco arausio facesse parte dei monumenti celebrativi per la morte di Germanico (19 d.c.) volute dal Senato secondo le prescrizioni della Tabula Siarensis.

La Tabula Siarensis è una iscrizione lacunosa, recuperata nel 1982 in due frammenti provenienti probabilmente dal sito dell’antica Siarum, la colonia romana posta a 15 km da Utrera, nella provincia di Siviglia, recante le disposizioni votate dal Senato di Roma nel 19 d.c. a proposito degli onori funebri da tributare al defunto Germanico.

Le disposizioni votate dal Senato romano a proposito degli onori funebri dedicati a Germanico sono narrate da Tacito nel libro II degli Annales, al capitolo 83, e testimoniate più volte epigraficamente, dalle seguenti iscrizioni su bronzo:

- la Tabula Siarensis, conservata nel museo di Siviglia;

- il frammento romano CIL VI 31199a, perduto;

- la Tabula Hebana, conservata nel museo di Grosseto (d’ora in poi abbreviata Tab. Heb.);

- il frammento di Todi (Baschi), al Museo Nazionale di Napoli;

- un frammento scoperto di recente a Carissa Aurelia nella Betica, il cui testo è sovrapponibile
a quello della Tab. Heb.

La Tabula Siarensis contiene, in due frammenti non riaccostabili, il testo lacunoso delle decisioni
prese dal Senato di Roma, su consiglio dell’imperatore Tiberio, in onore di Germanico, morto ad Antiochia il 10 ottobre del 19 d.c,

LEGIO II AUGUSTA

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LE ORIGINI

La legio II Augusta sorse ad opera di Ottaviano e del console Gaio Vibio Pansa Caetroniano nel 43 a.c., per combattere Marco Antonio; la II Augusta combattè a Filippi, dove Ottaviano sconfisse i cesaricidi Bruto e Cassio, e a Perugia, dove Ottaviano sconfisse Lucio, il fratello di Marco Antonio.

All'inizio del principato di Augusto, nel 25 a.c.,, la II augusta fu spedita in Hispania, per combattere nelle Guerre Cantabriche, che ristabilirono definitivamente il dominio romano in Hispania, e più tardi si accampò nell'Hispania Tarraconensis, una delle tre province spagnole.

Con l'annientamento delle Legio XVII, XVIII e XIX nella battaglia della Foresta di Teutoburgo, la II Augusta si spostò in Germania, probabilmente a Mainz. Dopo l'anno 17, passò all'Argentoratum (modern Strasbourg).
Stanziata a Caerleon-Isca dal 75 d.c., la II Augusta fu la prima legione dell'Esercito Britannico, chiamata all'inizio Sabina (di suolo sabino), arrivata dalla Germania (nella parte che in seguito venne chiamata Superiore) nel 43 d.c. ed aveva fatto da allora la sua casa in quella provincia.

Se mai ci sia stata una macchia sul suo cursus, è stata quando il suo praefectus castrorum rifiutò di sostenere il suo comandante dell'esercito contro i ribelli di Budicca.

Ma è questione di opinioni, il fatto di Budicca fu una vergogna romana perchè quando la regina reclamò il suo regno promessole, i romani per tutta risposta le stuprarono le figlie.

Qualche romano pensò che Budicca aveva ragione, in quanto im quel caso si erano comportati da barbari e non da romani.

Le insegne della legione sono stati il ​​capricorno, il Dio Marte e il cavallo alato Pegaso.
Dal III sec. rimase solo il simbolo del capricorno,

LA DEDICA

L'ISCRIZIONE

In questa iscrizione ci sono: la dedica, l'esecuzione e l'attribuzione.


LA DEDICA

IMP(eratori CAES(aris) TRAIAN(i) HADRIANI AUG(usti) LEG (io) II AVG (usta).
C'è solo il cognomen di Adriano e quella di suo padre adottivo (Traiano), inserita tra le parole Impero, Cesare e Augusto. Dunque il comando è di Adriano.

ESECUZIONE

Alla frase LEG (io) II AVG (USTA). manca una parola: VEX (illatio). Il che significa: i lavori di costruzione del forte non vennero eseguiti da un distaccamento della legione, ma dall'intera unità. La Legio II Augusta era accampata nei pressi con un occhio ai lavori di costruzione e uno al possibile e frequente attacco dei feroci Pitti..


ATTRIBUZIONE

Il responsabile del progetto è A (ULO) PLATORIO NEPOTE LEG (ato Augusti) PR (o) PR (aetore). Comandante dell'Esercito Britannico, appena arrivato dal comando dell'Esercito Germanico Inferiore, sotto Adriano, che non deve solo combattere ma anche progettare e costruire, proprio come sapeva fare qualsiasi aristocratico romano in qualsiasi parte del mondo.
Il Vallo di Adriano fu costruito "per separare i barbari dai Romani"; ma erano già separati, dalla capacità di comandare soldati a cui si insegnava di tutto. compreso il saper costruire il Vallo di Adriano.



IN BRITANNIA

Le legioni che participarono alla conquista della Britannia nel 43 furono:
- Legio II Augusta
- Legio IX Hispana
- Legio XIV Gemina
- Legio XX Valeria Victrix

La legio II Augusta era comandata dal futuro imperatore Vespasiano. Fu Vespasiano che condusse le legioni nelle campagne contro le tribù dei Durotriges e dei Dumnonii. Ricordando ancora la amara sconfitta per mano dei Silures nel 52, la II Augusta si impegnò al massimo dimostrando di essere una delle legioni migliori, anche dopo la sua disgrazia durante la rivolta della regina Boudica.

Qui infatti il suo praefectus castrorum, Poenio Postumio, che faceva le veci di comandante (il suo Legato e tribuno probabilmente era assente insieme al governatore Svetonio Paolino), violò gli ordini di Svetonio di unirsi a lui così che successivamente si suicidò per l'onta. Non fu chiaro comunque perchè non prese in mano la situazione un altro ufficiale sotto di lui.
Dopo la sconfitta di Boudica, la legione venne dispersa in diverse basi;

- dal 66 al 74 invece stazionò a Glevum (moderna Gloucester), e mosse a Isca Augusta (moderna Caerleon), costruendo una fortezza di pietra che i soldati occuparono fino alla fine del III sec.La legione ebbe anche connessioni con il campo di Alchester nell'Oxfordshire; delle terracotte lo ricordano nelII sec. ad Abonae (Sea Mills, Bristol) sulle rive dell'Avon (Princeton Encyclopedia).

- Nel 122, la II Augusta aiutò a costruire il Vallo di Adriano.
- Nel 142, la II Augusta aiutò a costruire il Vallo Antonino e vennero ricordati su una lastra del Bridgeness.
- Nel 196, la II Augusta sostenne la domanda della porpora per il governatore della Britannia, Clodio Albino, che fu sconfitto da Settimio Severo.
- In occasione della campagna scozzese di Severo, l'Augusta si trasferì a Carpow, per tornare a Caerleon sotto Alessandro Severo.



I COMANDANTI DELLA II AUGUSTA

Caius Largennius (miles) - prov. Germania - campus Argentoratum 
Qui vi è la sua tomba con l'iscrizione:
« Caio Largennio
figlio di Gaio della tribù Fabia, dei soldati di Luca,
della II legione, delle centurie Scaeve,
morto nel 38, dopo 18 anni di servizio,
è posto qui »
C(aius) Largennius
C(aii filius) Fabia (tribu) Luca miles
Leg(ionis) II (centuriae) Scaevae
An(norum) XXXVII stipendiorum
XVIII
H(ic) S(itus) E(st)
Gnaeus Julius Agricola - tribunus - prov. Britannia

- Nacque il 40 a Forum Iulii (fondata da Giulio Cesare) e morì a Roma nel 93. Fu un grande condottiero romano che molta parte ebbe nella conquista della Britannia di cui fu governatore.


Iulius Marcellinus - centurio - prov. Britannia - campus Banna

- soldato romano e funzionario imperiale elevato a console nel 275 da Aureliano per la sua lealtà e il suo valore. Era una promozione insolita non avendo egli raggiunto il rango di prefetto pretoriano che introduceva al Senato.


Poenius Postumius - praefectus castrorum - prov. Britannia

- Colui che ignorò la richiesta del suo comandante di unire le sue truppe alle sue, e che poi si suicidò.

La II Legio Sabina doveva essere identica alla II Legio Gallica. Dopo il 30, stazionò da qualche parte nel nord della Hispania Tarraconensis e prese parte alle campagne di Augusto conto i Cantabrici, che durarono dal 25 al 13 a.c.. Nella grande guerra furono coinvolte parecchie legioni:
I Germanica, fondata nel 48 da Giulio Cesare;
IIII Macedonica, fondata nel 48 da Giulio Cesare;
V Alaudae, fondata nel 52 da Giulio Cesare;
VI Victrix, fondata nel 42 da Ottaviano;
VIIII Hispana, combattè con Cesare nel 58;
X Gemina, combattè con Cesare nel 58;
XX Valeria Victrix, fondata dopo il 31 da Ottaviano;
e forse la  VIII Augusta, che combattè con Cesare nel 58.

BENNA

In questi anni, la Legio II Augusta e la I Germanica furono coinvolte nella costruzione della colonia Acci in Spagna. I Veterani vennero poi stanziati a Barcellona e a Cartenna (in Mauretania).

La II Augusta sembra poi venisse inviata sul Reno dopo la sconfitta romana della Foresta di Teutoburgo ( 9 d.c.). Stazionò non si sa bene dove nei dintoni di Mainz. Da qui la legione marciò nella "libera Germania", durante le campagne di Germanico (14-16).

Insieme alla Legio XIV Gemina, fu una delle unità che minacciò di naufragare in una campagna navale sul mare di Wadden. Venne poi richiamata e ricevette una nuova base a Strasburgo nella Germania Superiore, dove la legione protesse un punto di passaggio strategico del Reno.

Nel 21, la II Augusta fu coinvolta in un'operazione militare contro due capi galli ribelli: Julius Sacrovir e Julius Florus, che avevano sollevato nella rivolta molti galli. La vittoria venne commemorata con un arco trionfale ad Orange.



SOTTO CLAUDIO

In 43, la Legio Augusta partecipò sotto l'imperatore Claudio all'invasione della Britannia, insieme alla VIIII Hispana, XIV Gemina e XX Valeria Victrix. Il comandante della II Augusta fu niente di meni che Tito Flavio Vespasiano, il futuro imperatore.

La legione venne stanziata prima a Silchester e poi nel 49 a Dorchester. Nel 55, la legione spostò la propria base a Exteter costruendovi la propria base. Dopo 19 anni fu invece spostata a  Gloucester.

Nella guerra civile del  69, una parte minore della II Augusta si schierò con l'imperatore Vitellio, prese parte nella sua marcia su Roma, e combatté nella battaglia di Cremona contro le legioni di Otone.

Più tardi, questi soldati vennero sconfitti da quelli di Vespasiano, e tornarono in Gran Bretagna nel 70. Sembra però che il corpo principale della legione sia sempre stato leale a Vespasiano.



SOTTO VESPASIANO

Durante il regno di Vespasiano, la II Augusta era ancora in Britannia, finchè non fu trasferita a Caerleon nel Galles nel 75.

FORTE DI MAIDEN CASTLE
Il futuro imperatore Vespasiano portò la Legio II Augusta verso ovest conquistando molti oppida e fortezze sulle colline, tra cui il forte di Maiden Castle. Il resto vennero inviati a nord e nord-ovest e verso il Galles. Nel 122 tutta la terra conosciuta oggi come Inghilterra e Galles erano ormai state conquistate

Quando Giulio Agricola fu nominato governatore della Britannia (77-83), essa rimase a Caerleon, come riserva strategica nel Galles.

Si spostò solo nel 139 in Scozia, per costruire il Vallo Antonino, tra Edinburgh e Glasgow, lavoro che la impegnò fino al 142, ma il vallo non servì a lungo, perchè i romani si postarono di nuovo sul Vallo di Adriano, tra Newcastle e Carlisle.

Tra gli anni 155 e 158, nel nord della Britannia scoppiò una rivolta, che richiese pesanti combattimenti alle legioni britanniche. La II Augusta dovette soffrire parecchio, dovendo pure fornire rinforzi alle due province germaniche.



SOTTO SETTIMIO SEVERO

Nel 196, il governatore di Britannia Decimus Clodius Albinus tentò di diventare imperatore. Le legioni britannici vennero traghettate nel continente, ma vennero sconfitte dal sovrano legittimo Settimio Severo.

Al loro ritorno, trovarono la provincia invasa dalle tribù del nord. Le azioni punitive che seguirono non scoraggiarono gli uomini delle tribù, e nel 208, Settimio salì in Gran Bretagna, nel tentativo di conquistare la Scozia.
La II Augusta si trasferì allora a nord, dove condivise una grande fortezza con VI Victrix, a Carpow sul fiume Tay.



SOTTO ANTONINO PIO

Sotto Caracalla ed Eliogabalo, la II Augusta continuò a battersi con onore, ma sotto Antonino Pio ricevette il soprannome di Antonina, a dimostrazione dell'apprezzamento dell'imperatore nei suoi confronti per il valore e la fedeltà in combattimento.

Naturalmente quando un imperatore concedeva questo alto riconoscimento a una legione, questa riceveva un aumento di stipendio e varie regalie.
Durante il regno di Alessandro Severo, le conquiste terminarono e la II Augusta tornò a Caerleon, dove rimase fino al 255.

È notevole che quasi nessun subunità della II Augustam abbia, per quel che sappiamo, combattuto al di fuori dell'Inghilterra.

Si può presumere che fossero stati inviati sul Reno o sul Danubio o al di là, ma non ci sono molte prove. Tuttavia, la presenza di una subunità durante la guerra di Domiziano contro i Chatti nell'83 sembra essere determinante.

Nel III secolo, una subunità può aver combattuto in Armorica in Gallia occidentale.

Nel IV secolo, la II legione Augusta faceva parte della difesa delle coste del Kent (a Richborough). È possibile che la II Brittannica abbia avuto origine da una unità mobile della II Augusta.

I GIOIELLI ROMANI

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PREGEVOLE COLLANA ROMANA


LE TECNICHE DI LAVORAZIONE


Fusione in terra

La fusione più arcaica per realizzare gioielli è quella della colata in terra, dove il metallo fuso viene colato in uno stampo composto da una terra speciale, detta terra da fonderia, che alla fine del processo verrà rotta per poterne estrarre il pezzo.

La terra da fonderia era un impasto naturale di sabbia silicea, argilla e acqua. Le terre però una volta usate, perdono le loro qualità alla cottura, per cui si possono riutilizzare solamente dopo un certo trattamento. 

A cottura ultimata il pezzo deve essere ripulito dalle incrostazioni e dai residui della fusione. E' un processo elaborato a causa della perdita della forma di base che va ricostruita ogni volta in quanto viene spaccata per l'estrazione. E' un processo poco costoso ma può essere usato solo per spessori notevoli, non sempre compatibili con il valore dei metalli preziosi.
Per creare gioielli più sofisticati gli oggetti ottenuti dalla fusione venivano lavorati a bulino e o a cesello.


Fusione a cera persa

ORECCHINI CON PERLE
Il metodo consiste nel creare a mano e in cera il modello a tutto tondo da riprodurre, a cui vengono aggiunti i canali di entrata/uscita (sempre in cera) e quindi si realizza lo stampo in gesso. Questo viene poi scaldato nel forno, in modo che la cera esca dai canali, e allora si cola  al suo posto, all'interno dello stampo, il metallo fuso. 

Poi il gesso viene rotto e si ottiene l'oggetto dal quale vanno tolti i canali di entrata/uscita. Il gioiello viene rifinito mediante lucidatura o altre lavorazioni.

Il pregio di questo processo è l'altissima finitura superficiale del pezzo finale, che è la più alta tra tutti i processi di fonderia, ma anche elaborata per la perdita della forma di base che va ricostruita ogni volta in quanto viene spaccata per l'estrazione. 

Permette di usare strati molto sottili di metallo prezioso, alleggerendo il gioiello sia come peso che come costo, lasciando invece il costo del contenuto artistico.

I bronzi di Riace sono un gigantesco esempio di fusione a cera persa.


Fusione in forma permanente

Si effettua con una matrice formata da due parti, in bronzo o in terracotta. Prima che avvenga la colata si posizionano le anime, che possono essere in terra o metalliche. Le superfici della cavità sono rivestite di un materiale refrattario in modo tale da aumentare la loro durata. E' l'unico modo in cui non si perde la matrice.


Cesello e sbalzo 

La lavorazione del cesello e sbalzo delle lastre di oro e di argento è uno dei metodi più raffinati e difficili dell'oreficeria.  Per riprodurre un disegno in rilievo su lastra si deve operare dal rovescio. Si riporta il disegno sulla lastra di dimensione superiore a quella dell' oggetto finito, per poterne rettificarne il contorno, la si fissa su un supporto di legno coperto di pece quindi con un punzone e un piccolo martello si abbozza il disegno.

Dopo un certo numero di colpì occorre procedere alla ricottura del metallo, per riportarlo alla malleabilità originaria, altrimenti diventa duro e tende a spaccarsi.

Con lo sbalzo si procede a rifinire i contorni del disegno, quindi si volta la lastra e si ricomincia dal verso diritto, ossia dall'esterno poi se necessario si ripassa ai rovescio, e cosi via. Per questo lavoro si usano punzoni di varie forme mentre il martello da cesellatore ha una caratteristica forma a fungo con testa larga circolare e con la penna sferica o semisferica. 

La cesellatura viene invece effettuato sempre dal diritto, per rettificare i contorni di motivi già abbozzati, spesso ottenuti per fusione. Anche qui vengono usati punzoni e martello la differenza più grande ed evidente tra sbalzo e cesello è quindi che nello sbalzo la maggior parte del lavoro viene eseguita dal rovescio, mentre il cesello vero proprio viene eseguito dal diritto. 

Il cesellatore batte con la mazzetta piccoli colpi continui sulla testa del cesello che tiene con la sinistra, stretto fra il pollice e l'indice, mentre il medio e l'anulare lo dirigono spostandolo
leggermente dopo ogni colpo.

I romani erano grandi esperti in tutti questi tipi di fusione che si usano a tutt'oggi.





I MODELLI


I gioielli delle bambine


Per prima cosa le bambine romane indossavano la bulla aurea, un ciondolo d'oro che serviva da amuleto portafortuna.

BULLA
In realtà la bulla aurea era un gioiello di origine sabina voluto dalle sabine quando accettarono di sposare i romani dopo essere state rapite.

La bulla veniva indossata da maschietti e femminucce, e in origine almeno, non era un porta fortuna ma il segno della sacralità dei bambini, chi osava far loro del male sarebbe stato punito con la morte.

Naturalmente la bulla non poteva essere indossata dai piccoli schiavi ma solo dalle persone libere.

La bulla era in genere di solo "oro matto" (oro a 22 carati), talvolta aveva attaccato un ciondolo con una pietra dura o una pasta vitrea.


Mummia di Grottarossa

Nel 1964 si scoprì al Km.11 della Via Cassia la mummia di una bambina romana di otto anni della metà del II secolo d.c.. Questa fu ritrovata appunto a Grottarossa, a nord di Roma, all'11 Km della via Cassia, all'interno di un sarcofago assieme al suo corredo funerario.

Il corpo della bambina era avvolto in una pregiata tunica di seta cinese con una collana in oro e zaffiri, una collana intatta e lunga 36,5 cm. a filo d’oro lavorato a cordoncino con un pendaglio di tredici zaffiri sfaccettati.

Inoltre aveva due orecchini di filo d'oro e un anello con castone aureo sul quale era incisa una Vittoria alata. Un filo avvolgeva parte dell'anello per ridurne il diametro. Accanto al corpo fu trovata anche una bambola in avorio con braccia e gambe articolate. Completavano il corredo funerario alcuni vasetti, piccoli amuleti ed un minuto busto femminile, tutto in ambra rossa.


Crepereia Tryphaena

Bellissima la bambola d'avorio di Crepereia Tryphaena, una fanciulla romana morta nella seconda metà del II secolo d.c. 

La bambola venne sepolta accanto alla bambina e dotata di un cofanetto di legno e avorio, dove erano conservati gioielli d'oro in miniatura, come miniaturizzato era anche il suo completo da toilette: due pettinini in avorio e due minuscoli specchi d'argento. 

Al dito della bambola era conservato un anello d'oro con la piccolissima chiave che apriva il cofanetto.

La bambola era alta circa 20 cm con articolazioni snodate alla spalla, all'anca e persino al gomito ed al ginocchio, snodi che neppure oggi si usano nemmeno per le bambole più costose..

Le mani hanno le unghie, i piedi sono perfettamente delineati ed il volto, decisamente bello, è sovrastato da capelli disposti in un'acconciatura di sei trecce raccolte sul capo a corona, la pettinatura tradizionale delle spose romane.


I gioielli dei poveri e dei ricchi

Gli orecchini, inaures, erano il primo degli ornamenti femminili, che possono essere indossati fin dall'infanzia. Li portavano tutte le bambine, povere o ricche che fossero.
Portavano così anche il cerchio da porre al braccio, la buccola, in oro o argento o rame o bronzo, semplice o con una pietra preziosa o in pasta vitrea, con attaccati gingilli o conchiglie o bacche..

Ma ogni bambina portava al dito mignolo un anello d’oro, e alle orecchie altri due cerchi d'oro. Per quanto poveri un filo sottile di oro potevano indossarlo soprattutto trasmetterlo da madre a figlia.


I gioielli delle donne

I gioielli delle adulte somigliavano molto ai modelli etruschi del III° e II° sec. a.c., abilissimi orafi che prediligevano  il gioiello flessibile e snodato in più maglie ritorte in se stesse e tra loro. Il cerchio rigido ritorto fu invece di uso quasi solo maschile, adoperato per onorificenze militari. Ve ne erano di argento e di oro e i soldati non se ne separavano perchè dimostrava il loro valore guerriero e patriottico guadagnandosi così il rispetto della gente. Forse il gioiello più in voga, sia etrusco che greco e pure romano, nonchè egizio, fu un serpente d'oro sull'avambraccio o come anello, antico simbolo portafortuna della Dea Terra.



GIOIELLI ETRUSCHI

Tra i primi ornamenti, nella stessa Etruria, ci furono le fibule, fibbie che fungevano da spille, soprattutto in bronzo e in argento, con decorazioni varie, ma anche in ambra o in oro.

ANELLO ETRUSCO
Quasi contemporaneamente si diffusero fermacapelli per donna e altri monili, tra cui le collane, con lamine di argento ed oro. 

C'erano poi i girocolli, con inserti di pasta vitrea, ambra e perle. Il medaglione divenne elemento di copertura, di altri prodotti meno preziosi e fu lavorato a lamina o a filamenti spiroidali.

Verso l'VIII e ill VII sec. a.c. comparve la granulazione, minuscoli granuli d’oro utilizzati nella decorazione dei gioielli. L’oro veniva separato in sottilissime parti, unite a carbone in polvere, compresso e scaldato fino alla fusione che ne provocava la particolare forma di sferette minuscole. 

Dopo il raffreddamento, l’oro si sottoponeva al lavaggio. Per montare le sferette si usava una colla, e quindi venivano fissate in modo permanente col calore.

Tra i gioielli si diffuse la rappresentazione di animali, veri o fantastici, e arabeschi vegetali. Le collane, costituite da un intreccio a catena, venivano abbellite con pendagli decorati all'uso orientale

Si idearono pendenti formati da uno scarabeo girevole, e comparvero le pietre dure. I bracciali, formati dapprima da un elemento circolare rigido, divennero a fascia o a serpentina. Gli orecchini erano composti da una lamina decorata a filigrana, unita al lobo dell’orecchio tramite un piccolo filo.

Dalla metà del VI secolo a.c. si eseguirono gli anelli con un castone a sbalzo, tramite incisione, o con gemme intagliate. Al termine dal VI secolo a.c. subentrò una granulazione sottilissima, con effetto a pulviscolo, unita a paste vitree e pietre dure, con effetto molto decorativo.

I monili che si utilizzarono, furono diademi trattati a sbalzo, pendenti per le orecchie a ferro di cavallo, o a scudo ellittico. In epoca ellenistica, si diffusero anche modelli caratterizzati da pendenti eseguiti in materiali diversi, dall’oro, all’ambra, con rappresentazioni di uccelli e di altri animali.



GIOIELLI GRECI

La produzione di gioielli in oro e argento, destinata alla classe dirigente, inizia nell’Occidente greco sin dagli inizi della colonizzazione, alla fine dell’VIII sec. a.c., con fibule e collana di pendagli discoidali in lamina d’oro da Cuma, pendenti di argento ispirati a modelli orientali, con scarabei egizi di faïence incastonati.

ANELLO MAGNA GRECIA
Poi un pettorale di oro e argento decorato a sbalzo con palmette e fiori di loto, degli inizi del VI sec. a.c.. A Taranto serie di statuette coperte da preziosi diademi di argento.

Nel corso del VI e del V sec. a.c., le oreficerie magno-greche si diffusero anche al disopra della penisola, come emerge dai rinvenimenti nelle necropoli. Dal IV sec. a.c. si segnalano le produzioni delle botteghe orafe di Cuma e Taranto.

Sono state rinvenute anche imitazioni in terracotta colorata di questi monili, destinate ai ceti meno abbienti, che imitavano le classi più ricche. Taranto emerge in età ellenistica per la grande produzione di gioielli e l’uso quasi esclusivo dell’oro, proveniente dall’Oriente ellenistico. Non va dimenticata l'ambra, proveniente dall’area balcanica attraverso le vie commerciali dell’Adriatico.

Tra le splendide oreficerie tarantine decorate con varie tecniche (incisione, godronatura, filigrana, sbalzo), si ricordano gli orecchini a navicella e quelli configurati a protome di leone, diffuse dal tardo IV sec. a.c. anche per le terminazioni di collane e bracciali; anelli a spirale, con ovali a raffigurazioni incise o con pietre incastonate; diademi, come quello del III sec. a.c. rinvenuto a Canosa nella Tomba degli Ori, con serti floreali impreziositi da smalti e pietre dure.

Gli ori di Taranto sono attestati sino agli inizi del II sec. a.c., quando la conquista romana fece entrare in concorrenza i propri orefici con le botteghe locali.

COLLANA ROMANA (modello loop in loop)

GIOIELLI ROMANI

I romani per l'oreficeria presero a modello tanto l'oreficeria etrusca che quella greca, e perfino un tocco di oriente persiano. Indubbiamente però i primi orefici che servirono Roma furono etruschi. Ma l'oreficeria romana ebbe anche anelli a losanga incisa, di derivazione greca; o lo scarabeo girevole. I gioielli realizzati in oro e gemme si moltiplicarono verso la fine dell'età repubblicana e soprattutto a partire dall'età augustea (27 a.c.-14 d.c.), con l'apertura dei mercati orientali da cui provenivano le pietre preziose.

Soprattutto si diffusero le perle, pescate nell'Oceano Indiano e nel Mar Rosso, usate non solo nei gioielli, ma anche per ornare i vestiti e pure i calzari. Plinio e Tacito si dolsero non poco di tanto sperpero di denaro a causa della vanità femminile, ma non pensarono all'artigianato e al commercio che ne fiorirono sfamando la popolazione.

La matrona si vestiva e ingioiellava grazie alle schiave ornatrices, pratiche di abbigliamento e abbinamenti per far risaltare la sua bellezza. Esse si preoccupavano di creare con armonia tra le vesti, le calzature e i gioielli.  Le vesti delle donne romane furono tra le più belle, perchè non complicate ma fluttuanti, leggere e femminili, senza costrizioni ma in pieno rispetto del corpo, e di colori pastellati e vivaci, come non se ne avranno in seguito. Anche i gioielli furono inimitabili, con quel caratteristico aspetto dorato scuro dell'oro a 22 carati come usava all'epoca, più attente al gusto che non al peso dell'oggetto.

Plinio descrive Lollia Paolina con un tocco di riprovazione, perchè "... ricoperta di smeraldi e perle ... con gioielli risplendenti sulla testa, nei capelli, sul collo, alle orecchie e alle dita... " (Plinio, Storia Naturale).
Provenienti soprattutto da miniere egiziane, gli smeraldi erano molto desiderati "... per molte cause, ma certamente perché di nessun colore l'aspetto è più gradevole .... i soli che fra le gemme soddisfano lo sguardo senza saziarlo" (Plinio, Storia Naturale).


Petronio, con un pizzico di humor "... Fortunata si tolse le armille dalle sue braccia grassissime per mostrarle all'ammirazione di Scintilla. Alla fine si tolse anche i cerchi dalle caviglie e la reticella d'oro dai capelli ..." (Satyricon, LXVII).

Appezzatissimi gli smeraldi, provenienti per lo più da miniere egiziane, i granati e i diaspri.
L'oro viene usato molto più dell'argento e di materiali poveri come il bronzo. Fanno eccezione delle collane e degli spilloni per i capelli, spesso di bronzo o materiali poveri.

La maggior parte dei resti rinvenuti sono quelli delle città sepolte vesuviane che documentano quanta ricchezza di oreficeria si possedesse in una città di provincia da parte dei soli ceti medi, senza tener conto degli aristocratici. I gioielli erano diffusissimi tra le romane.


Acconciature

Per fermare l'acconciatura c'erano aghi crinali e reticelle: queste ultime (reticula o retiola aurea), in sottili fili d'oro talvolta arricchiti da gemme, costose ed estremamente delicate. Nel ritratto della c.d. Saffo (ritratto femminile di Pompei) si nota la capigliatura racchiusa in una reticella d'oro.

SAFFO
Per i capelli si usava l'Ago Crinale, uno spillone che fissava la pettinatura sulla nuca, composto da un ago sormontato da una pallina o da decorazioni varie: una ghianda, una pigna, un bocciolo, una testa d'animale, un busto femminile, un erote o una Venere.

Poteva essere in osso, avorio, d'argento e d’oro.
Nella pallina o decorazione, se cava, potevano essere conservati anche veleni.

In Grecia furono proibiti perchè le donne li usavano contro gli uomini quando si sentivano aggredite. A Roma non furono mai proibiti, ma nessuna donna avrebbe osato tanto.

In area vesuviana, una delle aree che ha conservato, a causa dell'eruzione vulcanica, la maggior parte dei monili antichi, ha presentato diversi modelli di aghi crinali.

Però, diversamente da altri ornamenti (anelli, orecchini e bracciali) gli aghi crinali più numerosi sono fatti di materiali meno preziosi, come l'osso o l'argento, raramente è stato rinvenuto l'oro.

Tra questi ultimi, sono di grande eleganza quelli con presa a forma di vaso (un cratere), decorato da una gemma.

E' da ricordare l'elegante esemplare in vetro, proveniente dalla villa di Crassio Terzio ad Oplontis, unico del suo genere, Viene da pensare che gli aghi fossero di materiali meno preziosi in quanto facili da perdere con una riavviata di capelli.

L'acconciatura del capo prevedeva anche un diadema e in area vesuviana se ne è rinvenuto un esemplare in lamina d'oro traforata in cui sono incastonate grandi perle barocche, evidentemente di una donna d'alto rango.


Orecchini

Molto più diffusi gli orecchini (inaures). Spesso gli autori antichi li descrivono come uno dei monili più amati dalle donne che facevano a gara per possederne di sempre più preziosi, attirando le critiche ed i rimproveri dei moralisti:

ORECCHINI
"... non appesantite le orecchie con gemme costose... spesso ci mettete in fuga con il lusso attraverso il quale cercate di attirarci" (Ovidio, L'arte di amare).

Ma Ovidio cercava di farsi benvolere da Augusto e spesso ne interpretava l'austerità ben incarnata dalla schiva moglie Livia. Gli orecchini erano i gioielli più usati; le donne ne portavano anche più di uno per orecchio. Largamente usati i "crotalia", pendenti doppi con una perla alle estremità, che producevano un piacevole tintinnio.

Giovenale, con l'acidità solita verso il mondo femminile: " La donna crede di potersi permette tutto ... quando appende grandi perle alle orecchie, allungandole per il troppo peso". (Satire, VI, 457 - 459).

Il pendente poteva essere costituito da un'unica perla, magari di grandi dimensioni, o da due o tre perle o anche da più coppie di perle:

"... non ci si limita ad accostare una sola grande perla ad ogni orecchio ... le orecchie sono ormai abituate a sostenere grandi pesi: si uniscono e si sovrappongono coppie a coppie di perle (Seneca. Benefici, VII, 9, 4).

ORECCHINI
Egli si riferiva probabilmente al tipo crotalia, per il tintinnio che le perle producevano urtandosi fra loro.

I modelli con più di due perle erano naturalmente per i più ricchi, soprattutto gli orecchini "a grappolo" o "a canestro", in filo o in lamina d'oro, di forma emisferica, nel quale sono fittamente inserite perline o altre gemme.

In alcuni il canestro è costituito da castoni saldati fra loro (da Oplontis) oppure il canestro era formato da una elegante reticella aurea, senza gemme (da Ercolano).

Tra i modelli di orecchini il tipo più diffuso nel ceto medio è quello a forma di spicchio di sfera, costituito da una lamina d'oro sagomata alla quale viene saldato un gancio a doppia curva per appenderlo all'orecchio.

Esso è ritenuto invenzione degli orefici campani ed è caratterizzato dall'ampia superficie liscia, uno dei motivi preferiti dall'oreficeria romana. Ve ne sono però alcuni decorati con puntinatura a sbalzo, economica imitazione della granulazione.

Alquanto diffuso, fino al III secolo d.c. è anche l'orecchino di derivazione ellenistica costituito da un semplice anello in filo d'oro, a volte decorato con piccole gemme, dal quale pende un filo in oro terminante con una perlina o una pietra.

COLLANA


Le Collane

Nell'area vesuviana le collane, comuni quasi quanto gli orecchini, difficilmente erano in oro o argento. spesso invece in materiale alternativo come la pasta di vetro o perle, corallo, ambra ecc..

Il modello più usato, di lunghezza varia, ha una serie di grani sferoidali di colore turchese, solcati da costolature longitudinali.

COLLANA IN PASTA VITREA
Un altro modello presenta grani lisci in cristallo di rocca, o barilotti di vari colori, o vetri sfaccettati.

Spesso i grani sono mescolati, con diverse forme e colori. Le altre collane documentate sono in oro, talvolta arricchito da gemme, ma le più frequenti sono quelle meno costose: un semplice girocollo in oro, provvisto di un pendente.

Il pendente è quasi sempre una lunula (un piccolo crescente lunare) amuleto che, secondo Plauto (Epidicus), si usava regalare alle bimbe alla loro nascita,  indossato prevalentemente dalle ragazze e dalle donne non sposate.

A volte la collana aveva diversi pendenti, o alternavano sferette d'oro a sfere di pasta vitrea, oppure dischetti in oro con pasta vitrea o perle.

Le maglie delle catenine invece erano generalmente costituite da piccole lamine che rendevano piatta la collana, oppure erano in filo tagliati a forma di 8, ripiegati e inseriti gli uni negli altri.

Questo tipo di maglia, chiamato loop in loop, assumeva una sezione quadrangolare.

Negli esemplari più elaborati le catene in filo potevano essere a maglie multiple, così da formare cordoncini di vario spessore.

Andava di moda la catena formata da maglie a ∞ non ripiegate, in filo molto grosso. Ma pure le collane con grani, in lamina d'oro, a sfere o ovoidali.

Le chiusure sono spesso dei semplici ganci, a volte con borchie applicate per impreziosirli.

Il giro collo a volte aveva pietre preziose, unite in vario modo, che gli davano un tocco di colore.

Si trattava spesso, come è documentato anche nella regione vesuviana, di smeraldi tagliati, talvolta alternati a perline. Oppure con coralli, perle barocche o ametiste.

Ci si chiede che valore avessero gli smeraldi per i romani, dato che sono state rinvenute collane di smeraldi con alcune delle pietre sostituite in pasta vitrea. Evidentemente delle pietre si erano spaccate, oppure non si avevano sufficienti smeraldi per la collana. Oggi non si completerebbe mai una collana autentica di pietre preziose con pietre false, invece i romani lo facevano.

Strano, perchè i romani avevano molto chiaro il concetto dell'originale e del falso, ma è come se non venisse applicato sulle pietre.

Un modello di notevole effetto e di grande pregio è quello costituito da più catene di maglia in filo accostate, così da costituire un nastro sul quale sono fissate le pietre preziose. Sono noti solo pochissimi esemplari, due dei quali dall'area vesuviana.

Si ricordano la collana con grandi perle barocche alternate a smeraldi a forma di prisma, otto esemplari di collane di grande lunghezza, con maglie in lamina o in filo, nonchè collane costituite da una fila di foglie in lamina, come lo splendido esemplare rinvenuto nella Villa di Diomede a Pompei.

Di grande valore e bellezza è la collana recentemente trovata negli scavi in località Moregine, a Pompei, il cui lunghissimo laccio (cm. 242) è costituito da una maglia multipla del tipo loop in loop.

Potevano infatti venire avvolte in più giri attorno al collo e poggiate sulle spalle oppure poggiate sulle spalle e incrociate sul petto e sul dorso, con le borchie nei punti di incrocio, come è documentato da alcune pitture. Insomma le lunghe collane degli anni venti furono copiate dalle collane romane. Praticamente queste catene d'oro servivano a modellare la veste, incorniciandone i seni e/o il punto vita. Talvolta erano così lunghe da ricadere sui fianchi.

Forse, a questo tipo di ornamento si riferisce il passo di Plinio che deplora l'eccesso di lusso delle catenae d'oro che corrono lungo i fianchi (Plinio, Storia Naturale, XXXIII,12, 40).

BRACCIALE A FOGGIA DI SERPENTE

Bracciali

I bracciali (armille), erano abbastanza diffusi, sia alle braccia che ai polsi ed anche alle caviglie (periscelides). Sono quasi sempre in oro, pochi quelli in argento e ancor meno quelli in bronzo. Negli esemplari in oro, spesso la verga non è piena ma costituita da una lamina.

BRACCIALI BIZANTINI
Le donne portavano sovente gioielli a lastra, come si vede in molti films riferiti all'epoca, che si aprivano a pressione, attorno al braccio ma soprattutto all'avambraccio.

Le cavigliere possedevano spesso dei pendenti leggeri che risuonavano al passo delle leggiadre fanciulle romane, infatti erano molto frequenti in argento, che lasciava un suono più tintinnante. Insomma tra orecchini e periscelides quando una fanciulla romana passava si notava per il gradevole tintinnio alle orecchie e ai piedi.

Il modello prevalente a Pompei ed Ercolano, è quello a serpente, generalmente con il corpo del rettile avvolto in una o più spire, o a due teste affrontate, o con pietre incastonate sul capo o negli occhi.

Le armille seguivano una moda: quelle con verga a nastro avvolta in spire e teste di serpe divergenti alle due estremità del bracciale, (come quella trovata nella casa del Fauno a Pompei), sono del I sec. a.c.; quelle sempre con verga a nastro ma con una sola testa, di età augustea; quelle con verga tonda, del I sec. d.c. inoltrato.

Il serpente, nell'antichità e in tutte le epoche e in tutte le parti del mondo, ebbe un significato sacro e apotropaico.

Solo nella religione cristiana prese un significato malefico.

Il serpente era il simbolo della Dea Tellus, di ogni Dea della Natura, pertanto simbolo di fecondità e prosperità.

Le realizzazioni sono superbe, nel corpo assottigliato verso la coda, nelle scaglie ben delineate, nella testa ben scolpita e negli occhi costituiti da perline di pasta vitrea.

Frequenti sono anche le armille con semplice verga tonda e cava, spesso riempita di resina o altro materiale per ottenere una maggiore solidità, solo con un castone liscio, appena accennato; altre possono recare una o più pietre di smeraldo.

Un altro modello tipico di questo periodo è il bracciale costituito da una serie di calotte ovoidali o coppie di calotte semisferiche agganciate fra loro.

Questo bracciale, che ricorda quello degli orecchini a spicchio di sfera e delle armille a verga tonda, è del gusto tipico dell'oreficeria romana fra il I sec. a.c. e il I d.c., un gusto sobrio ed elegante che preferisce le superfici lisce al quelle granulate granulazioni e filigranate del mondo etrusco ed ellenistico. Modelli più rari sono le armille con verga a nastro e castone decorato a sbalzo o quelle a maglie rigide.



Gli Anelli

L'ornamento più diffuso tra la popolazione è l'anello, presente ovunque anche in chi non poteva permettersi gioielli.

ANELLO MEDAGLIA PIETRE
Questi venivano indossati in più di un esemplare per ciascuna mano. Era un costume seguito anche dagli uomini, come ricordano con ironia alcuni caustici epigrammi di Marziale: "...

Charinus porta sei anelli ad ogni dito" (XI, 59) ; ":.. chi sarà quel ricciutello ..: che porta ad ogni dito un anellino..." (V, 61); però deve riconoscere che il suo amante fa altrettanto, e pure con ostentazioni preziose "Il mio Stella ... porta sardonici, smeraldi, diamanti e diaspri ad ogni dito" (V,11).

L'anello aveva anche la funzione di sigillo e per questo si rinvengono molti anelli con castone o con gemma incisa.

L'incisione delle gemme diventa così un'arte vera e propria e il loro uso riguarda sia donne che uomini, soprattutto in oro, pochi in argento o ferro e ancor meno in bronzo.

Sulla pietra o sul diaspro si incidono divinità, simboli romani, teste di imperatori, animali e così via, ma sull'anello d'oro si pongono pure monete o piccole medaglie

Tra i vari modelli documentati prevalgono nettamente gli anelli con il castone decorato da una gemma, spesso incisa; la verga è liscia e per lo più cava, era realizzata con una lamina riempita con resina o altra sostanza che le conferiva maggiore solidità.

Le gemme più usate erano smeraldi, prasii, granati, ametiste, niccoli, quarzi, ma soprattutto corniole, queste ultime quasi sempre incise. La corniola e il niccolo avevano un costo minore e pertanto erano sovente montati in ferro. Per giunta non restavano attaccate alla cera se usati come sigillo (Plinio, Storia Naturale, XXXVII, 30 - 31).

Un altro modello di anello a larga diffusione è quello con verga liscia che si allarga verso un castone, tipo definito liscio o inciso.
Molto usato naturalmente l'anello a corpo di serpente: a due teste affrontate, con una patera o una perla nella bocca o avvolto in diverse spire.

Rari invece gli anelli a cerchio, con verga a sezione circolare liscia o più raramente godronata. Ancora più rari quelli in cui la verga si sdoppia formando due anelli con castoni lisci combacianti.


Le Fibule

Le fibule furono le spille tra le più antiche usate dai romani per fermare le vesti sulle spalle ed alla vita. Si ritiene che lo spillone fosse ancora più antico, ma in ogni caso l'uso fu concomitante.

Erano pertanto delle fibbie, che connettevano un tessuto ad un altro, o un nastro a un vestito, un nastro a una borsetta (le romane ne facevano uso), o una fascia a un cappello, o diversi nastri tra loro, o una lunga collana che veniva fissata. mediante una fibula. a una spalla o sui fianchi ecc. .

La fibula è una "spilla di sicurezza" (tipo "spilla da balia") derivante da uno spillone, ottenuto in fusione quindi di un certo spessore, dalla ripetuta piegatura ornato in vari modi con ingrossamenti vari o applicazioni laminari.

Le fibule più antiche furono in bronzo e più tardi di ferro, lunghe dai 2 ai 50 cm, ma ne sono state trovate anche d'argento o d'oro e, in età imperiale, anche decorate con gemme.

Il loro utilizzo cessò verso il VI secolo, sostituito per lo più dalle spille vere e proprie. .



CONCLUSIONE

Le romane in età imperiale indossarono di tutto: anelli a tutte le dita delle mani e pure dei piedi, fibbie, aghi crinali, retine d'oro, diademi e pietre preziose per i capelli, o nastri ornati di gemme da inserire nelle chiome, bracciali su bracci e avambracci, frange d'oro alle sciarpe, fili d'oro ricamati sui tessuti, cammei, pietre preziose, niccoli intagliati, ambre, coralli, perle, argenti, collane, cavigliere.

Fu l'esplosione dell'arte orafa e del buon gusto, purtroppo mai ripetuto dalle generazioni posteriori, dove la donna fu castigata e soffocata nel corpo pure se con vesti preziose, e senza quella fantasia colorata e delicata che portò l'arte di adornarsi con i preziosi, coi nastri e con le piume con uno stile così fresco e leggero, aereo e svolazzante come quello delle donne romane.











TEMPIO DI MINERVA MEDICA

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RICOSTRUZIONE

TEMPIO DI MINERVA MEDICA ALL'ESQUILINO DI ROMA

Negli scavi effettuati in varie epoche furono rinvenute diverse sculture: nel XVI secolo le statue di Asclepio, Igea e le figlie collegate con la scienza medica ed una statua di Minerva con il serpente (simbolo della medicina), da cui l'odierna denominazione ritenuta però ultimamente impropria.

Si dimentica però che Igea, o Igeia, era proprio uno degli aspetti di Minerva nella sua qualità di guaritrice, non ci si meravigli che le venisse associato anche Asclepio (corrispondente romano di Esculapio, Dio della medicina).

Del resto sia Cicerone che altre fonti parlano del tempio di Minerva Medica, uno degli aspetti più antichi della Dea.

Non a caso ad Atene, come a Roma, la Dea era corredata di serpenti, simbolo della Dea Madre e della guarigione sia in generale che miracolosa, infatti di solito era associata alle acque e questo tempio sembra non fare eccezione.

Robert Graves nella "Dea Bianca" scrive che Asclepio era legato al corvo, poiché sua madre era Coronide (cornacchia), probabilmente epiteto di Atena a cui questo animale era sacro.

Suo padre era Apollo, il cui animale sacro era sempre il corvo.

Per cui per l'autore Asclepio era figlio di Atena. Tanto è vero che fu proprio lei a donare ad Asclepio il sangue della Gorgone per guarire, dimostrandosi ancora una volta guaritrice. Uno dei suoi epiteti era infatti Minerva Medica.

Alla fine dell'Ottocento furono rinvenute altre statue (oggi ai Musei Capitolini), fra cui due statue di magistrati romani in procinto di lanciare la mappa, l'atto che dava inizio alle corse dei carri nel circo.

Si sa che le corse dei carri erano particolarmente care a Marte e Minerva, quest'ultima ritenuta inventrice del carro attaccato ai cavalli nonchè delle briglie per cavalcare o guidare l'animale.

L'edificio, risalente al IV secolo d.c., si presenta di pregevolissima architettura.

Trattasi di una grande costruzione dalla pianta decagona, in origine coperta da una cupola (in parte crollata nel 1828) del diametro di circa 25 m.

Su ognuno dei lati del decagono erano presenti nove nicchie semicircolari, tranne quello di ingresso che forse era scandito da colonne.

Al di sopra delle nicchie grandi finestroni arcuati che oltre a fornire la fornire la luce alleggerivano la mole e il peso dell'edificio.

Dieci pilastri fornivano il sostegno alla cupola, la quale, partendo da una forma poligonale, assumeva gradualmente un aspetto emisferico.

Viene ritenuto e probabilmente a ragione, il ninfeo degli Horti Liciniani, dei quali è indefinibile l'epoca, ma nulla toglie che negli Horti si edificassero vari templi dedicati agli Dei più cari ai proprietari degli Horti, sia per fede, sia perchè volevano poter sacrificare o pregare ai propri Dei senza dover uscire dalla proprietà.

Inoltre il tempio era un abbellimento e un orgoglio per chi lo edificava, nonchè una benedizione da parte della divinità che si pensava accettasse di buon grado questa dedica.

Il tempio di Minerva viene misconosciuto così come è stato misconosciuto il tempio di Vesta, che solo successivamente fu attribuito ad Ercole, ed ora riattribuito a Vesta, anche perchè non si spiegherebbe il foro centrale per il fuoco, classico dei templi femminili, nonchè la rotondità dell'edificio, anch'esso classico dei templi più antichi, che erano quasi tutti femminili.

Eppure l'archeologia insegna che le attribuzioni popolari di un luogo contengono sempre un pizzico di verità.

IL TEMPIO OGGI


I colori segreti di Minerva medica ricostruiti virtualmente
ROMA

«Senza il cosiddetto tempio di Minerva Medica non ci sarebbe stata la basilica di Santa Sofia ad Istanbul». 

Non ha dubbi la Soprintendente ai beni archeologici di Roma Mariarosaria Barbera quando parla della maestosa struttura architettonica che sopravvive nel quartiere Esquilino, col suo fascino romantico di «rudere», da diciassette secoli. 

Oggi il colossale edificio che rasenta con la sua cupola i trentadue metri d’altezza, appare incastonato a via Giolitti, tra i binari della stazione Termini e le rotaie del tram.

Gioiello di desolata solitudine affogato nella modernità.

Eppure la grande aula di «Minerva Medica», capolavoro della Roma dell’imperatore Costantino (primi decenni del IV secolo d.c.) è uno dei monumenti più importanti dell’antichità.

La sua struttura è tipica dell’epoca tardoantica con un’amplissima cupola a spicchi del tipo “a vela”, terza a Roma nelle proporzioni dopo il Pantheon e le Terme di Caracalla.

Magistralmente illuminata e alleggerita da finestroni, con un assetto poligonale che la cambia quasi inavvertitamente in emisferica con una fitta e precisissima opera laterizia.

Tutti i lati del decagono accolgono infatti altrettanti nicchioni semicircolari presenti in tutti i lati del decagono, ad eccezione dell’ingresso. Tra ogni nicchione si erigono massicci pilastri con funzione di contrafforti. 

Lo spazio risulta dilatato all’interno e all’esterno grazie alle profonde nicchie presenti su nove lati, disposte con simmetria assoluta e sovrastate da grandi finestre arcuate; l’elemento architettonico tradizionale, rappresentato dalle colonne, ritorna invece nell’ingresso e nei quattro nicchioni disposti ai lati dell’edificio. 

Per assicurare la stabilità dell’edificio, nel tempo furono tamponate le nicchie aperte, dando continuità alla struttura realizzando all’esterno, nelle zone di risulta fra le nicchie, poderosi contrafforti addossati ai pilastri angolari, interventi che modificarono la sagoma esterna dell’edificio.
Le due grandi esedre, disposte all’esterno sull’asse trasversale, come si vede nel disegno qui a lato, andarono a fiancheggiare il padiglione a pianta centrale, inserito in un complesso di altri ambienti curvilinei o absidali: tra questi, lo spazio allungato a doppia abside, simile ad un nartece, aggiunto davanti all’ingresso. 

Nei resti molteplici i segni di una sontuosa decorazione: sulla cupola restano tracce di mosaici in preziosa pasta vitrea, successivamente ricoperti da uno strato di intonaco.

Sulle pareti erano lastre marmoree, fissate come di consueto su un preparato di malta e frammenti di tegole; i pavimenti erano ricoperti da mosaici lapidei ed opus sectile a vivaci colori.

All'ampia bibliografia degli studi di settore, che sembra farne uno dei monumenti più studiati dell'antichità, ha fatto finora riscontro una preoccupante sottovalutazione dei problemi statici.

Infatti nel 1828 vi fu il rovinoso crollo della cupola, oggetto di un complesso restauro negli anni Quaranta del Novecento; mentre è in corso di avvio un intervento di consolidamento e restauro dell’intero monumento.
  Così, dopo quasi un secolo di abbandono, è proprio la Barbera a guidare un complesso e ambizioso progetto di restauro e consolidamento che per la prima volta ha consentito uno studio integrale e innovativo del monumento. 

I risultati saranno presentati oggi in Spagna, a Merida, in occasione del Congresso internazionale di archeologia classica, ospitato presso il Museo nazionale di arte romana della cittadina spagnola. 
( E in Italia quando arrivano?...)



LE SCOPERTE

I lavori sono stati avviati nel 2011, con un piano di finanziamento complessivo di 2 milioni di euro.
La vera scoperta l’hanno riservata le tracce di mosaici, marmi e paste vitree originali. 

STATUA RINVENUTA NEI PRESSI
Prove con cui è stata elaborata per la prima volta la ricostruzione «virtuale» dell’intero complesso decorativo interno dell’edificio. 

«I dati certi rinvenuti nella struttura muraria sono stati confrontati con elementi decorativi di monumenti coevi», racconta la Barbera. 

Quello che ne viene fuori è «Un trionfo di luce, un’architettura che segna il punto di passaggio tra l’arte tardo antica e quella bizantina», dice la Barbera.

La struttura, dalla pianta rara e inconsueta, con forma decagonale dove si aprono nove nicchie semicircolari, era rivestita completamente di ricchi ornamenti. 

Le superfici erano ricoperte di lastre di marmi policromi combinati in giochi di tarsie in stile «opus sectile», che dal pavimento risalivano lungo le pareti, nell’incavo delle nicchie e su fino al tamburo della cupola.



MARMI «TRICOLORE»

STATUA DI DIONISO RINVENUTA
NEI PRESSI
«Sappiamo quali erano i colori - avverte la Barbera - all’insegna del tricolore, con marmi bianchi, abbinati al rosso antico africano e al verde porfido spartano». 

L’ipotesi più accreditata è che i mosaici riempissero le absidi delle nicchie e la possente calotta della cupola (tra le più ampie di Roma con un diametro di oltre 25 metri) con un repertorio di motivi floreali, animali e figure simboliche. 

Cuore del cantiere sono stati, poi, gli scavi archeologici condotti per la prima volta: «Siamo riusciti in questo modo a mettere a punto una diagnosi del dissesto del monumento - avverte la Barbera - abbiamo individuato tutte le strutture preesistenti su cui è stato costruito il monumento, che risalgono all’epoca repubblicana e ancora prima».

A rischio crollo, l’aula è rimasta dimenticata per un secolo, lasciata a resistere in balia di manutenzioni sporadiche (l’ultimo intervento parziale risale agli anni ’40 del secolo scorso). 

Non a caso tra il 1904 e il 2006 la superficie della cupola ha subito una riduzione di quasi il 50 per cento. 

Ora si va avanti con il consolidamento: «Il progetto prevede di integrare due archi che poggiano su un pilastro ottocentesco in modo da ripristinare la continuità della cupola ed evitare il collasso delle coperture superstiti», avverte Marina Magnani Cianetti, direttore dei lavori. 

L’obiettivo: valorizzare il monumento e aprirlo al pubblico entro il primo semestre del 2015.


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VASI:
Macel de' Corvi
"Quì sebbene non vi sia, che una piccolissima piazza, con tutto ciò evvi un abbondante mercato di tutte le sorte di viveri. E' notabile il sepolcro di Cajo Publicio, che si vede nell'angolo della salita, che dicesi di Marforio, con una antica iscrizione, che resta quasi perduta".

Data: MDCCCIV (edited 2 Ottobre 2003) Autore: ANGELO DALMAZZONI (edited Valentina Onofri).
XI giornata



IL MONUMENTO SEPOLCRALE DI C. POBLICIO

- A macel de' corvi nel principio della salita di Marforio a mano sinistra vi è il monumento sepolcrale di C. Poblicio Bibulo. Non è meraviglia di vedere le rovine dell'anfiteatro, del Pantheon, dei mausolei di Augusto, e di Adriano, de' bagni, ec.; giacchè queste immense fabbriche non potevano essere affatto distrutte dal tempo, nè dalla più gran barbarie; ma è cosa singolare di veder quasi interamente conservata una piccola fabbrica come è questa tanto più antica delle sopra accennate, e, per così dire, in mezzo alla città. Quest'onesto, e degnissimo cittadino era stato Edile nel principio del V secolo, e la sua probità e virtù fu tale, che, avendo egli guadagnato la stima, e l'amore del Senato egualmente, e del popolo, per comun loro decreto fu onorato di questo monumento sepolcrale per sè, e per la sua posterità.
Questo monumento era di ordine dorico con festoni di fiori, e teste di bovi nel fregio. L'iscrizione è come siegue: "C. Poblicio L. F. Bibulo AEdili Pl. honoris, virtutisque causa Senatus consulto, populique jussu locus monumenti, quo ipse, posterique ejus inferentur publice datus est." -


STAMPA DEL PIRAANESI DELL'ISCRIZIONE



La gens Publicia

MONUMENTO FUNERARIO
A COLONIA
Appare nella monetazione di Ercole nella prima parte della repubblica con il conio monetale della gens Publicia, quando questa gens, seppur plebea, guadagnò prestigio e pure ricchezze nel periodo tra la I e la II Guerra Punica. In Ursini - familia romana in publicia - si narra che il primo Publicius noto fu CaiusPublicius, tribuno della plebe nel 545 a.u.c. cui honoris virtutisque causa fu concessa per sè e per i suoi posteri la sepoltura in Roma, vale a dire che gli fu concessa la piena cittadinanza romana, come testimonia un'epigrafe:

SEXTVS
PVBLICI
VS
SEX. F. MAE
SCRIBA PUBLICIA
SEX .L. CALLIP
LIS

Un altro Publiio ha un bellissimo e ben conservato monumento funerario a Colonia, un altro Caio Poblicio, (sappiamo che Publicius e Poblicius riguardavano la stessa gens) veterano della V legione, del 40 dc.

C'è poi memoria di un Publicio Hilario cui si deve un'importante edificio pubblico, detto la Basilica Hilariana. La costruzione, nell'area sacra di S. Omobono a Roma, risalente all’età antonina, era luogo di culto di Cibele e Attis e sede della congregazione religiosa dei dendrofori, addetta al culto. Fu dedicata dal ricco mercante di perle Poblicio Hilario, finanziatore dell’edificio, come testimoniano una base onoraria a lui dedicata e una testa, probabilmente un suo ritratto, ritrovati all’interno della basilica.



 Caius Publicius Bibulus

Il Sepolcro di Gaio Publicio Bibulo è un monumento funerario in  travertino e tufo, un tempo posto lungo l'antica via Lata con la facciata principale a sud-ovest, poco al di fuori della Porta Fontinalis che si apriva sulle mura Serviane.

ISCRIZIONE DEL SEPOLCRO

Via Lata

"Tra i sepolcri aveva evidentemente principio la via Lata, della quale prendeva il nome la regione, e questa, tenendo la stessa direzione della moderna via del Corso, dava la comunicazione per questa parte della città al Campo Marzio. Lungo questa via si pongono comunemente dai topografi i tre archi registrati da Rufo in questa regione l'uno detto di Gordiano, l'altro Nuovo, ed il terzo di L. Vero e Marco Imperatori. Ed in fatti attestano molti scrittori che diversi resti di archi si viddero nei secoli a noi più prossimi lungo la via del Corso"".

Oggi si trova a pochi metri dal lato sinistro del Vittoriano, miracolosamente risparmiato dalla demolizione durante la costruzione dell'edificio.

Il monumento, che risale all'inizio del I secolo ac., e di cui solo una parte della facciata sopravvive, si trovava a un livello stradale molto più basso dell'attuale, per cui il suo basamento è completamente interrato. Trattasi di un monumento funerario quadrato su un alto basamento, sul quale si trova una cella rettangolare della quale resta solo una facciata. 
Al centro si trova la porta fra quattro lesene tuscaniche, tra le quali si trovano due riquadri. Il fregio superiore si è conservato solo in un tratto, ma comunque si rivela come un unico blocco di architrave decorato con ghirlande, bucrani e rosette. In cima al basamento si vede un'iscrizione che si ripeteva anche sui lati: 

C(aio) Poplicio Bibulo ead(ili) pl(ebis) honoris
virtutisque caussa Senatus
consulto populique iussu locus
monumento quo ipse postereique
eius inferrentur publice datus est 

Cioè: "A Caio Publicio Bibulo, edile della plebe, in riconoscimento del suo valore e dei suoi meriti, per decisione del Senato e del popolo è stato concesso a spese pubbliche un terreno per il sepolcro, perché egli e i suoi discendenti vi siano deposti".
Si tratta quindi di un sepolcro pubblico, caso rarissimo a Roma, concesso per i meriti a un personaggio del quale non si sono tramandate le imprese, tanto più che il titolo di edile è il minore spettante ai pubblici uffici, quindi i meriti devono essere stati notevoli e strettamente personali.  Qualcuno ha pensato e dedotto che anche l'essere stato seppellito nel pomerio fosse un privilegio accordato al personaggio, ma secondo altri studiosi però, poichè gli antichi romani non potevano essere sepolti all'interno delle mura e la tomba di Caio Publicio Bibulo sembra violare la regola, significa che il monumento è stato eretto in una zona ai piedi del Campidoglio che non era stata incluso nel pomerio, il confine sacro della città di Roma.

FOTOGRAFIA DEL 1880 DEL SEPOLCRO
Il fatto che, sempre nell'XI giornata, si nota che 
"A poca distanza del descritto sepolcro si trovano resti di altro sepolcro i quali si giudicano avere appartenuto a quello della famiglia Claudia, che per quanto indica Svetonio si stabilisce a piedi del Campidoglio" suffraga quest'ultima ipotesi, perchè il divieto di seppellire entro le mura era davvero inderogabile, come lo fu anche in seguito, tanto è vero che ingrandito il pomerio, le tombe si allontanarono sempre più dalla città, fino a doversi dislocare oltre le mura aureliane, lungo le vie consolari.

Durante il Medioevo il fronte del monumento venne a costituire la facciata di una casa, come testimoniano i disegni del XV secolo, che venne demolita però nei lavori per il Vittoriano.

MACCHINE DA GUERRA

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Le macchine da guerra usate dai Romani furono in parte tradizionali ma in gran parte con grandi invenzioni e innovazioni che si protarranno nell'uso fino al Medioevo e al Rinascimento. Gli ingegneri militari romani furono capaci come pochi e i legionari furono esecutori ineguagliabili. 

Soprattutto le armi da assedio (apparata oppugnandarum urbium) rappresentarono la grande forza di conquista dell'esercito romano. Con le macchine i romani abbatterono o superarono le mura delle città assediate, insieme a congegni di artiglieria, in parte copiate dai Greci della vicina Magna Grecia.
I romani copiarono il meglio di tutto riuscendo anche a migliorarlo, e inventarono di tutto.

« I Romani, allestiti questi mezzi, pensavano di dare l'assalto alle torri, ma Archimede, avendo preparato macchine per lanciare dardi a ogni distanza, mirando agli assalitori con le baliste e con catapulte che colpivano più lontano e sicuro, ferì molti soldati e diffuse grave scompiglio e disordine in tutto l'esercito; quando poi le macchine lanciavano troppo lontano, ricorreva ad altre meno potenti che colpissero alla distanza richiesta. Quando i Romani furono entro il tiro dei dardi, Archimede architettò un'altra macchina contro i soldati imbarcati sulle navi: dalla parte interna del muro fece aprire frequenti feritoie dell'altezza di un uomo, larghe circa un palmo dalla parte esterna: presso di queste fece disporre arcieri e scorpioncini e colpendoli attraverso le feritoie metteva fuori combattimento i soldati imbarcati. Quando essi tentavano di sollevare le sambuche, ricorreva a macchine che aveva fatto preparare lungo il muro e che, di solito invisibili, al momento del bisogno si legavano minacciose al di sopra del muro e sporgevano per gran tratto con le corna fuori dai merli: queste potevano sollevare pietre del peso di dieci talenti e anche blocchi di piombo. Quando le sambuche si avvicinavano, facevano girare con una corda nella direzione richiesta l'estremità della macchina e mediante una molla scagliavano una pietra: ne seguiva che non soltanto la sambuca veniva infranta ma pure la nave che la trasportava e i marinai correvano estremo pericolo.»
(Polibio - Le Storie)

 Usarono le scale d'assedio, l'ariete, la falce murale, la rampa d'assedio, la torre mobile, la balista, la catapulta, la carrobalista, la chierobalista, lo scorpio, la manubalista, l'onagro, il corvo.



 SCALE D'ASSEDIO

La scala d'assedio fu il primo strumento d'assedio utilizzato fin dalla notte dei tempi. Esse servivano per scalare facilmente le mura nemiche, usate anche da egiziani e assiri, poi dagli elleni e infine dai romani. Naturalmente erano proporzionate all'altezza del muro.

Polibio ne narra l'uso durante la II Guerra Punica:
« Per quanto riguarda la corretta misura delle scale, il metodo di calcolo è il seguente: se da un complice viene fornita l'altezza delle mura, risulta evidente quale dovrà essere la corretta misura delle scale; se infatti l'altezza del muro è ad esempio 10, le scale dovranno avere una lunghezza di 12 abbondante. Per ottenere poi la giusta inclinazione della scala, per coloro che vi salgono, questa dovrà avere la base ad una distanza dalle mura pari alla metà della loro lunghezza, perché una maggiore distanza dal muro ne compromette la resistenza quando la scala è affollata dai soldati che vi si arrampicano, mentre una maggior vicinanza alla perpendicolare, la rende insicura per chi vi sale. Quando non sia possibile misurare un muro o avvicinarsi per farlo, occorre come riferimento considerare da una certa distanza l'altezza di un qualsiasi oggetto che si innalza perpendicolarmente su una superficie piana ed il metodo per calcolarla è facie per coloro che conoscono bene la matematica. Qui è ancora una volta evidente che coloro si occupano dei piani militari e degli assedi alle città, dove mirano al successo, devono aver studiato geometria... per quanto serve ad avere un'idea dei principi della proporzione e della teoria delle figure simili. »
(Polibio, Storie)

Secondo Apollodoro di Damasco, le scale invece dovevano oltrepassare il bordo del muro di tre piedi, cioè di circa un m, e doveva essere di frassino, faggio, olmo o altro, purché leggero, ma resistente. Potevano essere componibili con ogni sezione non più lunga di 12 piedi, si che i montanti della seconda scala andavano inseriti in quelli della prima, quelli della terza tra quelli della seconda e così di seguito. Le estremità inferiori andavano poi fissate ad una trave circolare lunga 15 piedi, fissata al suolo davanti alle mura e si doveva sollevare la scala a gran velocità con corde e funi, arte in cui i legionari erano versatissimi. Nessuno poteva uguagliare le manovre dei legionari sia in precisione che in velocità.

SONO ANCORA VISIBILI I RESTI DELL'ENORME RAMPA D'ASSEDIO CHE COSTRUIRONO
I ROMANI NELLA CONQUISTA DI MASADA

RAMPA D'ASSEDIO

La rampa d'assedio fu utilizzata dai legionari romani durante numerosi assedi di città poste in luoghi particolarmente elevati (come Masada e nella Battaglia di Avarico). Era una struttura costituita da tronchi di legno, pietre e terra messe insieme dai legionari, con la quale si raggiungeva l'altezza delle mura. Su questa rampa potevano essere poi poste torri e macchine d'assedio per la conquista della città nemica.

E' menzionata durante l'assedio di Atene dell'87-86 a.c. quando Lucio Cornelio Silla demolì il grande muro che conduceva da Atene al Pireo, utilizzandone le pietre, il legname e la terra, per la costruzione di una serie di rampe.
«....Quando le rampe cominciarono a crescere, Archelao, generale di Mitridate, eresse delle torri a quelle contrapposte, e pose la maggior quantità possibile di artiglieria su di loro. .... E mentre Silla stava creando la sua rampa d'assedio alla giusta altezza presso il Pireo, cominciò a piazzarvi sopra tutta una serie di macchine d'assedio. Ma Archelao cominciò a demolire la rampa portando via la terra, i Romani per lungo tempo non avevano sospettato nulla. Improvvisamente la rampa crollò. Intuito rapidamente lo stato delle cose, i Romani ritirarono le loro macchine e riempirono di terra la rampa e, seguendo l'esempio del nemico, iniziarono loro stessi a scavare sotto le mura avversarie. Gli uomini, scavando sotto terra, si incontrarono tra gli opposti schieramenti e combatterono con spade e lance, sebbene al buio. E mentre ciò accadeva, Silla cominciò a martellare le mura nemiche anche con quegli arieti che erano stati posti in cima alle rampe, salvo che una di queste cadde a terra. Poi si affrettò a bruciare la torre vicina e riversò un gran numero di dardi di fuoco contro di essa, ordinò poi ai suoi soldati più coraggiosi, di salire sulle scale d'assedio. Entrambe le parti combatterono con coraggio, ma la torre fu bruciata.»
(Appiano, Guerre mitridatiche)

Giulio Cesare, durante la conquista della Gallia, nel 52 a.c., giunto presso la città di Avarico, pose il campo base di fronte alla città dove i fiumi e la palude consentivano solo uno stretto passaggio, e cominciò a costruire un ampio terrapieno di fronte alle mura (Murus gallicus) nemiche, insieme alle vineae e due torri d'assedio:

« Al grandissimo valore dei soldati romani venivano opposti espedienti di ogni genere da parte dei Galli Essi, infatti, con delle corde deviavano le falci murali e dopo averle assicurate le tiravano dentro toglievano la terra sotto il terrapieno con gallerie, con grande abilità poiché nel loro paese esistevano grandi miniere di ferro avevano inoltre costruito delle torri in legno a diversi piani lungo tutte le mura e le avevano coperte di pelli e con frequenti sortite di giorno e di notte davano fuoco al terrapieno o assalivano i legionari impegnati a costruire le loro torri le sopraelevavano per eguagliare le torri dei Romani, tanto quanto il terrapieno era innalzato giornalmente con legni induriti dal fuoco, con pece bollente o sassi pesantissimi ritardavano lo scavo delle gallerie e impedivano di avvicinarle alle mura.»
(Cesare, De bello Gallico)

I legionari, nonostante il pungente freddo e le forti piogge, riuscirono a costruire nei primi 25 giorni di assedio, un terrapieno largo quasi 100 m e alto quasi 24 m, di fronte alle due porte della cittadella. Cesare, era riuscito ingegnosamente a raggiungere il livello dei contrafforti, tanto da renderli inutili per la difesa degli assediati.


SAMBUCA

La sambuca fu inventata da Eraclide di Taranto attorno al III secolo a.c., ed era una specie di scala mobile a forma di ponte volante che serviva per scalare le mura. Essa consisteva in una torre d'assedio trasportata tra due navi affiancate. Condotta dalle navi sotto le mura delle città nemiche, i legionari poggiavano la torre alle mura per poi scavalcarle con un ponte levatoio manovrato da corde. Venne chiamata sambuca in quanto una volta innalzata assomigliava allo strumento musicale chiamato appunto sambuca.

I Romani iniziarono ad usarla dopo le guerre pirriche del 280-275 a.c. Sappiamo pure che venne usata dai Romani negli anni 214-212 a.c., dal console Marco Claudio Marcello durante l'assedio di Siracusa difesa dal grande Archimede. Si racconta che i Romani diedero l'assalto alle mura siracusane con tutti i mezzi a loro disposizione, tra cui torri d'assedio, arieti, vineae e pure le sambuche:
 « ...quando i Romani tentavano di sollevare le sambuche, Archimede ricorreva a macchine che aveva fatto preparare lungo il muro e che, di solito invisibili, al momento del bisogno si levavano minacciose al di sopra del muro e sporgevano per gran tratto con le corna fuori dai merli. Queste potevano sollevare pietre del peso di dieci talenti e anche blocchi di piombo. Quando le sambuche si avvicinavano, facevano girare con una corda nella direzione richiesta l'estremità della macchina e mediante una molla scagliavano una pietra. Ne seguiva che non soltanto la sambuca veniva colpita ma pure la nave che la trasportava e i marinai correvano estremo pericolo. »
(Polibio, Le Storie) e ancora:

« Dopo aver posto una scala, larga quattro piedi, da risultare alta come le mura, e collocata ad una giusta distanza da queste, ne avevano chiuso i fianchi a sua protezione; l'avevano posta in modo orizzontale sulle fiancate adiacenti tra loro delle navi affiancate, molto sporgenti rispetto ai rostri. Alla sommità degli alberi erano poste delle carrucole con funi, per cui quando era necessario, legavano le funi all'estremità superiore della scala, e poi le tiravano con le carrucole, le tiravano  da poppa. Altri uomini, stando a prua, cercavano di assicurare la macchina così innalzata, puntellandola alla sua base. Servendosi quindi delle file dei remi, poste sulle due fiancate esterne, avvicinavano le navi a terra e provavano ad appoggiare la scala al muro. In cima alla scala, era posto un tavolato protetto su tre lati da graticci, dove salivano quattro uomini, i quali davano battaglia con il nemico posto sulle mura, pronto ad impedire che la sambuca venisse appoggiata al muro. Una volta riusciti ad appoggiare la scala, si trovavano spora il livello delle mura, toglievano i graticci laterali e scendevano dal tavolato sui fianchi, su mura e torri. Gli altri seguivano, salendo attraverso la sambuca»


ARIETE

Secondo Vitruvio, l’ariete d’assedio fu inventato dai Cartaginesi, venne però adottato durante l’assedio romano di Cadice, alleata dei cartaginesi, nel 205 a.c.. Il cartaginese Ceras fu il primo a costruire una piattaforma in legno, montata su ruote con sopra una struttura di legno ricoperta di pelli per proteggere gli uomini addetti alla manovra. Dato che questa macchina era molto pesante e lenta nei movimenti fu chiamata testuggine arietaria.

Fu adottata dai Romani per abbattere porte e mura delle città talvolta dotandolo di un grosso sperone, come un rostro. Comunque l'esercito romano lo aveva già usato per certo nel 250 a.c., durante l'assedio di Lilibeo, durante la I Guerra Punica: « ...presso questa città da entrambe le parti e avendo bloccato le zone tra gli accampamenti con un fossato, una palizzata e un muro, cominciarono a spingere le opere per l'assedio contro la torre situata più vicino al mare, verso il mare libico. » (Polibio, Storie)

I romani, grandi osservatori, avevano però già appreso queste tecniche d'assedio durante le guerre pirriche del 280-275 a.c., insieme alle torri d'assedio e le vinea. L'ariete era una grossa trave, ricavata dal fusto di un albero, con una estremità rivestita da una calotta di metallo che in genere aveva la forma una testa di ariete, da cui prese il nome. Con questo macchinario si potevano sfondare le porte di accesso delle fortezze, e pure le mura se poco spesse.
« esso consiste in una trave di enorme grandezza, simile ad un albero di una nave, dove sulla punta era posto un grande rinforzo di ferro a forma di testa d'ariete, da cui prende il nome. Attraverso un sistema di funi, è sospeso nel punto centrale ad un'altra trave, come l'asta di una bilancia, quindi sorretta alle due estremità da tiranti la sostengono. Essa viene tirata indietro da un grande numero di addetti, che poi la spingono avanti tutt'insieme, andando a sbattere contro le mura con la punta di ferro. E non esiste torre o cinta muraria così spessa che, se anche riesce a sopportare i primi colpi, possa resistere sotto i continui colpi. »
(Flavio Giuseppe, La guerra giudaica)

L'ariete veniva appeso ad un castelletto (muscolo o testuggine), e tirando delle funi, agganciate nella parte posteriore, esso veniva tirato indietro al massimo, rilasciando poi le funi di colpo così che colpisse il bersaglio con grande forza. Questa manovra veniva ripetuta continuamente contro fino a distruggere l'obiettivo. Gli arieti più leggeri erano imbracciati a mano dai soldati, o montati su carri a quattro ruote lanciati contro le strutture degli assediati, altre volte ancora erano montati in altre macchine come torri mobili.

Procopio di Cesarea durante le guerre gotiche degli anni 535-553 ai tempi di Giustiniano narra di un gigantesco ariete azionato alle corde da 50 uomini, Vitruvio di uno uno azionato da 100 uomini. ma non è il massimo, perchè durante la III Guerra Punica, i Romani misero in azione un ariete manovrato da 6000 uomini, al comando di un ufficiale, che agiva con massima precisione come fosse manovrato da un uomo solo.

Ma la cosa più interessante è che gli arieti i romani non se li portavano appresso, per la loro proverbiale celerità nelle guerre, viaggiavano più leggeri possibile, pertanto tutti i macchinari da guerra venivano costruiti sul posto dai legionari stessi, straordinari ideatori ed esecutori di strade, ponti, acquedotti, accampamenti e macchine da guerra, utilizzando i materiali più vicini alla città assediata.



FALCE MURALE

 La falce murale (Falx muralis), o Gancio d'Assedio, era una macchina appunto d'assedio, consistente in una lunga pertica o asta, a cui era fissato un grosso uncino di ferro tagliente, talvolta anche due. Il veloce movimento rotatorio, sia longitudinale che trasversale, prodotto manovrando delle corde, permetteva di togliere la calce tra i mattoni o tra i massi delle mura, o di far crollare le travi di legno delle palizzate degli accampamenti.

Si sa che venne usata durante gli assedi di Avarico, nel 52 a.c. tra l'esercito romano di Giulio Cesare e l'esercito gallico dei Biturigi:
« Al grandissimo valore dei soldati romani venivano opposti espedienti di ogni genere da parte dei Galli Essi, infatti, con delle corde deviavano le falci murali e dopo averle assicurate le tiravano dentro, toglievano la terra sotto il terrapieno con gallerie, con grande abilità poiché nel loro paese esistevano grandi miniere di ferro, avevano inoltre costruito delle torri in legno a diversi piani lungo tutte le mura e le avevano coperte di pelli e con frequenti sortite di giorno e di notte davano fuoco al terrapieno o assalivano i legionari impegnati a costruire le loro torri le sopraelevavano per eguagliare le torri dei Romani, tanto quanto il terrapieno era innalzato giornalmente con legni induriti dal fuoco, con pece bollente o sassi pesantissimi ritardavano lo scavo delle gallerie e impedivano di avvicinarle alle mura. »
(Cesare, Commentarii de bello Gallico)

Venne usata pure nell'assedio di Alesia, sempre del 52 a.c,, tra i romani di Giulio Cesare e i galli di Vercingetorige ma pure nel 54 a.c., quando un legato di Cesare, Quinto Tullio Cicerone, dovette difendersi a Namur, dall'assedio di Ambiorige, re della Gallia belgica. L'assedio fu tolto alla notizia dell'arrivo di Cesare; e gli Eburoni, in un assalto al campo romano, furono completamente sconfitti. Anche Polibio, nelle Storie, ne descrive l'uso nell'assedio romano ad Ambracia:

« Gli etoliani assediati dal console Marco Fulvio offrivano una certa resistenza e mentre gli arieti battevano vigorosamente sulle mura, ed i lunghi pali con i loro ganci di ferro strappavano le mura, tentarono di inventare macchine in grado di sconfiggerli, facendo cadere pesanti pietre e pezzi di quercia grazie a leve addosso agli arieti; ed attaccando ganci in ferro sugli arpioni trascinandoli all'interno delle mura, in modo che i pali a cui erano attaccati si rompessero sulle merlature, conquistando quindi questi ganci»
(Polibio, Storie)



MUSCOLO 

Il muscolo (musculus) era una struttura realizzata interamente in legno. di forma quadrata o circolare a seconda dei bisogni, con una tettoia a doppio spiovente e a multistrato per prevenirne la distruzione ad opera di pesanti proiettili o del fuoco. Era infatti composta di mattoni e sassi cementati con della malta, coperti di cuoio ripiegato e poi ancora da materassi di lana, in pratica una capanna spostata con un sistema di rulli. Veniva utilizzato dai legionari per avvicinarsi alle mura di un fortino o di una città evitando così armi da tiro o da getto degli assediati. Infatti il muscolo fungeva da riparo mentre i soldati romani intaccavano le fondazioni delle mura o colmavano il fossato per permettere l'uso della rampa d'assedio.

Plinio il Vecchio racconta che il nome del musculus deriverebbe da un animaletto marino uso accompagnarsi alle balene: il "topo marino", quel che oggi chiamiamo il Pesce pilota. Giulio Cesare nel suo De bello civili ne parla con precisione:

 « Cominciarono a costruire un muscolo lungo sessanta piedi, fatto di travi dello spessore di due piedi, del quale muscolo questa era la forma. Si posano al suolo due travi della stessa lunghezza e distanti fra loro quattro piedi e vi si inseriscono perpendicolarmente colonnette alte cinque piedi. Si uniscono l'una all'altra tali colonnette per mezzo di cavalletti leggermente inclinati in modo da poter collocare su di essi le travi destinate a formare il tetto del muscolo. Le travi disposte sopra questi cavalletti hanno lo spessore di due piedi e sono tenute in sede mediante lamine e chiodi. Ai bordi del teoo del muscolo e alle estremità delle travi si piantano regoli di forma quadrata larghi quattro dita per impedire lo slittamento dei mattoni che dovranno essere sistemati sopra il muscolo stesso. Munita così di un tetto a doppio spiovente e costruita metodicamente appena le travi sono collocate sui cavalletti, la struttura viene coperta di mattoni e di malta per difenderla dal fuoco lanciato dalle mura. Quindi si stendono pelli di cuoio sui mattoni per impedire che l'acqua eventualmente immessa attraverso condotte disgreghi i mattoni. Coprono poi le pelli di materassi in modo che non siano danneggiate a loro volta dal fuoco e dalle pietre. ricorrendo a quel congegno che si utilizza per le navi, cioè rulli sottoposti al muscolo, lo accostano alla torre dei nemici in modo da farlo combaciare con le mura. »
(Cesare, De bello civili)

Il musculus fu solo una delle tante macchine da assedio realizzate dall'esercito di Cesare durante l'Assedio di Marsiglia del 49 a.c., voluta dallo stesso Cesare che nel campo delle innovazioni era un maestro. In realtà i romani conoscevano delle armi da assedio elleniche fin dal III secolo a.c., quando le Guerre Puniche resero necessari i mezzi ossidiali (di assedio). Fu infatti nel 250 a.c., durante l'assedio di Lilibeo, che i romani fecero ampio uso delle armi da assedio. Purtroppo Polibio, che ne narrò la storia, non si soffermò sui macchinari usati dagli assedianti.

Da un punto di vista funzionale, il musculus era simile alla vinea ma più elaborato e resistente, che veniva spostato verso la struttura fortificata nemica grazie ad un sistema di rulli, come fosse una nave. Poteva essere anche utilizzato prima di una torre d'assedio, quando doveva essere colmato un fossato o costruita una rampa d'assedio. Doveva pertanto poter resistere sotto i colpi degli assediati, come grossi macigni o liquidi bollenti come la pece incendiata. Sappiamo da Cesare che durante l'assedio di Marsiglia ne furono impiegati alcuni, le cui dimensioni erano di circa 60 piedi di lunghezza (18 m).



PLUTEO 

 l pluteo era un piccolo riparo mobile, dotato di tre ruote, che poteva avere forma ad angolo retto o ricurva. Era normalmente in legno, ricoperto da pelli per limitare il rischio di incendiarsi. Le tre ruote davano agli assedianti una grande manovrabilità sotto le mura avversarie. Ce ne scrive Cesare nell'assedio di Marsiglia del 49 a.c. durante la guerra civile.

Il pluteo aiutava ad avvicinare macchine d'assedio più grandi per abbattere o assalire le mura nemiche, oppure veniva usato come riparo fisso come accadde durante la conquista della Gallia del 51 a.c., quando Cesare puntò verso la regione che era appartenuta ad Ambiorige, per razziarla, o ancora a protezione del porto di Brindisi nel tentativo di bloccarvi Gneo Pompeo Magno:

« Cesare, temendo che Pompeo non giudicasse opportuno lasciare l'Italia, decise di bloccare il porto di Brindisi. dove l'imboccatura del porto era più stretta fece gettare su entrambe le rive un terrapieno piazzava poi sul prolungamento della diga coppie di zattere di trenta piedi per lato sul davanti ed ai due lati le proteggeva con graticci e plutei, mentre con quattro zattere faceva innalzare due torri a due piani, per difendersi meglio dall'assalto delle navi e degli incendi. »
(Cesare, De bello civili)

e poi:
« Al grandissimo valore dei soldati romani venivano opposti espedienti di ogni genere da parte dei Galli Essi, infatti, con delle corde deviavano le falci murali e dopo averle assicurate le tiravano dentro toglievano la terra sotto il terrapieno con gallerie, con grande abilità poiché nel loro paese esistevano grandi miniere di ferro avevano inoltre costruito delle torri in legno a diversi piani lungo tutte le mura e le avevano coperte di pelli e con frequenti sortite di giorno e di notte davano fuoco al terrapieno o assalivano i legionari impegnati a costruire le loro torri le sopraelevavano per eguagliare le torri dei Romani, tanto quanto il terrapieno era innalzato giornalmente con legni induriti dal fuoco, con pece bollente o sassi pesantissimi ritardavano lo scavo delle gallerie e impedivano di avvicinarle alle mura.»
(Cesare, De bello Gallico)

Un altro esempio di rampa d'assedio è quella descritta a Masada dove Flavio Giuseppe narra che per raggiungere la fortezza, ne fu costruita una gigantesca, alta 200 cubiti tra terra e pietre, oltre a 50 cubiti di una piattaforma in legno (per un totale di oltre 110 m), e larga 50, a sua volta sormontata da un'imponente torre d'assedio.



TORRE MOBILE

Un’alta struttura di legno a più piani, montata su ruote, con scale interne che portavano ai vari livelli. Potevano essere rivestite in ferro o in materiale ignifugo. Affinchè fossero stabili al massimo, avevano base quadrata e si restringevano in altezza, in modo che l'area della piattaforma superiore era pari ad 1/5 della base. La torre veniva accostata alle mura della città assediata per innalzare i soldati a livello delle mura, pertanto doveva essere superiore all'altezza delle mura della città assediata.

Ne consegue per i costruttori delle torri, conoscere l'altezza delle fortificazioni avversarie. In cima vi era invece un "ponte levatoio" che permetteva l'accesso sulle mura Esse erano trainate da buoi e con alcune pareti rivestite con pelli per proteggersi dai dardi nemici, ed erano anche una copertura per le truppe che la spingevano e per quelle che la seguivano dietro. Dalla sua sommità si lanciavano frecce, dardi incendiari e pietre sui difensori per cercare di allontanarli dalle mura. Calando, quindi, un ponte sui parapetti antistanti, gli assedianti tentavano di entrare nella città fortificata.

Le torri più grandi avevano nella parte inferiore un ariete per aprire un varco nelle mura, impegnando così i soldati nemici sia nella parte inferiore che nella parte superiore delle mura. Si hanno diverse notizie del loro uso:
- Venne usata a Selinunte dai Cartaginesi per l'assedio della città 409 a.c..
- Esse potevano raggiungere altezze considerevoli, il greco Diade, architetto di Alessandro Magno, nel 330 a.c., ne realizzò di diverse misure fino ad un'altezza massima di 120 cubiti (53 metri).
- I romani le usarono nell'assedio di Numanzia nel 133 a.c.
- Ancora i romani le usarono nell'assedio di Avarico del 52 a.c.
- e nell'assedio di Gerusalemme nel 70.
- Ancora i romani le usarono a Masada nel 74 costruendone una di 60 cubiti (26 m) munita anche di catapulte, baliste ed un grande ariete.



CORVO
CORVO

Macchina bellica d’assedio in uso presso Greci e Romani. Era costituita da una struttura in legno su ruote per essere trasportata. ne emergeva una trave, che poteva muoversi in senso verticale o ruotare in orizzontale.

 Ad una estremità della trave era collocato un grosso uncino, come il becco di un corvo, con cui si potevano abbattere mura, palizzate o afferrare e tirare a sé carri o macchine nemiche.



CORVO FALCIATORE

Un tipo particolare di corvo era quello detto falciatore, che agendo con un movimento orizzontale, falciava i nemici, che si trovavano a difendere una muraglia.



CORVO D'ABBORDAGGIO

Si chiamava ancora corvo (corvus), un congegno di abbordaggio navale utilizzato dai Romani nelle battaglie navali della I Guerra Punica contro Cartagine.

 Nelle Storie, Polibio lo descrive come una passerella mobile larga 1,2 m e lunga 10,9 m, con un piccolo parapetto sui due lati.

Il ponte era dotato di uncini alle estremità che agganciavano la nave nemica, consentendo alla fanteria di combattere come sulla terraferma.

La nuova arma fu ideata per compensare la mancanza di esperienza in battaglie fra navi e consentì una tecnica di combattimento che permetteva di sfruttare la conoscenza delle tattiche di combattimento terrestri in cui Roma era maestra.

L'arma fu provata per la prima volta nella battaglia di Milazzo, la prima vittoria navale romana; e continuò ad essere provata negli anni successivi, specialmente nella dura battaglia di Capo Ecnomo, combattuta nel 256 a.c. fra Roma e Cartagine.
"Le due squadre dei consoli, infine si lanciarono al soccorso di quelli che erano in pericolo e che riuscivano a resistere solo per il timore che i punici avevano dei "corvi""

In seguito, con la crescita dell'esperienza romana nella guerra navale, il corvo fu abbandonato a causa del suo impatto sulla navigabilità dei vascelli da guerra.



OSSERVATORIO

Quasi sempre usati durante i numerosi assedi sostenuti dagli eserciti romani nei secoli, e si trattava in sostanza di un posto di osservazione molto elevato, costruito con il medesimo principio delle scale moderne, ovvero in più tronconi tra loro congiungibili, in modo da allungarsi a piacimento. Tale strumento permetteva di valutare i movimenti della città assediata, lo spessore delle mura, l'entità delle truppe assediate, ecc. I particolari costruttivi sono elencati da Apollodoro di Damasco nella sua opera sulle macchine da guerra.



TESTUGGINE 

La testuggine ( testudo) era una macchina che permetteva agli assedianti di avvicinarsi alle mura nemiche per demolirle, protetti da questa struttura mobile.

Era di solito montata su ruote, oltre ad essere costruita con robuste travi in legno inclinate e protette da un tavolato con uno strato di argilla, per evitare che massi, tronchi, pece infuocata o olio bollente, lanciati dagli assediati, potessero danneggiare la struttura e i soldati. L'estremità inferiore della struttura, opposta alle mura, era dotata di punte cje la ancoravano al terreno.



EMBOLON

Era un tipo di testudo a rostro, a forma di prua di nave, che serviva in caso di assedi di città o fortezze che si trovavano su pendii particolarmente ripidi a garantire una migliore protezione agli assedianti. Erano strutture più resistenti in caso di lancio sopra le stesse di massi, pietre e così via. Di questo tipo di arma se ne fece largo uso durante la conquista della Dacia, come ben testimoniato sulla Colonna Traiana durante i vari assedi alle cittadelle daciche ed alla loro capitale Sarmizegetusa Regia.



TESTUDO ARIETATA

L'evoluzione della testuggine fu la testudo arietata, unendo appunto testuggine e ariete. L'ariete in questi caso era mosso su rulli o ruote, e la percussione contro le mura nemiche era azionata tirando avanti e indietro, le funi ancorate alla parte posteriore.

I soldati che l'azionavano erano protetti da una tettoia coperta di pelli resistenti al fuoco. In questo modo la parte anteriore a forma di ariete veniva sospinto contro le mura, per creare una breccia, mentre coloro che l'azionavano, erano al riparo da dardi e pietre nemiche.



TOLLENO

Il tolleno, in italiano tollenone, era formato da due travi di cui una posta verticale e l'altra orizzontale appoggiata alla prima attraverso un montante girevole, al cui capo era ancorato un grosso cesto dove erano posti alcuni armati.

Questi venivano sollevati, facendo forza a mezzo di funi attraverso altri armati lasciati a terra, in modo da tirare verso il basso la parte posteriore della macchina d'assedio in questione, oltre a fare in modo di ruotare in direzione ed altezza la cesta posta al capo opposto. Sembra fu citato per la prima volta da Enea Tattico nella sua Poliorketika nel IV sec. a.c.



VINEA

L'uso di questo macchinario d'assedio da parte dei romani risale al 502 a.c., agli inizi della Repubblica, in occasione dell'assedio di Suessa Pometia, un'antica città del Lazio. Vegezio, la descrive come una tettoia mobile alta circa 7 piedi, larga 8 piedi e lunga 16 (2,1 × 2,4 × 4,8 m), riparata sui lati da vimini intrecciati.

Unendone diverse tra loro, si poteva formare un corridoio coperto sia ai lati che sopra per proteggere i soldati assedianti sotto le mura nemiche. Poichè però gli assedianti vi gettavano torce o addirittura pece greca, sovente venivano coperte con pelli o lana o frasche verdi o coperte bagnate. Alla base poi avevano dei pali appuntiti per poterli fissare al terreno quando i soldati che li trasportavano avevano bisogno di riposarsi.

Tito Livio narra che durante l'assedio di Sagunto del 219 a.c., Annibale le utilizzò per proteggere i suoi soldati dai lanci degli assediati ed avvicinare un ariete alle mura. Giulio Cesare le descrive diffusamente durante l'assedio di Avarico, del 52 a.c., quando dopo 27 giorni, profittò di una fitta pioggia, che avrebbe pertanto vanificato ogni tentativo di incendio, per avvicinare una delle torri d'assedio alle mura della città, nascondendo i soldati all'interno delle vineae, per irrompere poi sugli spalti della città gallica degli Biturigi.
Ma anche Sallustio racconta dell'uso delle "vigne" nelle guerre giugurtine, durante i vari assedi operati dai romani.  



LE MACCHINE DA ARTIGLIERIA 

Sappiamo che le macchine di artiglieria (tormenta) servivano al lancio di proiettili anche incendiari (dardi, frecce, giavellotti, pietre e massi), atti a perforare le difese nemiche, agevolandone l'assalto, o nel caso degli assediati, la difesa. Esse vennero usate:

- da Marco Furio Camillo, in vista della guerra da condurre contro i Volsci di Anzio;
- nella I Guerra Punica, contro le città cartaginesi in lunghi assedi di loro potenti città, difese da imponenti mura e dotate di artiglieria - da Cesare durante la conquista della Gallia tra il 58 ed il 52 a.c.;
- da Germanico nella campagna del 16 d.c. contro i Germani;
- e a Corbulone in quella del 62 contro i Parti,

Queste macchine erano di tipo nevrobalistico o a torsione, poiché utilizzavano come propulsore il rapido svolgimento di una matassa, di solito una corda di fibre, nervi, tendini o criniere di cavalli.
Addetti alle macchine da lancio erano poi i ballistarii, i quali, grazie ad un'elevata specializzazione, appartenevano a quel gruppo di legionari privilegiati, chiamati immunes. Erano alle dipendenze di un Magister ballistarius (almeno dal II sec. d.c.), coadiuvato da un optio ballistariorum (attendente al servizio del comandante) e ad un certo numero di doctores ballistariorum (sotto-ufficiali di complemento). Ogni legione, infine, poteva disporre fino a circa 60 tra catapulte e baliste.



BALISTA O BALLISTA

Dal latino ballista, dal greco ballistēs, da ballo "lanciare", macchina d'assedio inventata dai Greci e perfezionata dai Romani. Fu impiegata, soprattutto negli assedi, per lanciare giavellotti, pietre, frecce o dardi infuocati, palle di piombo, usufruendo dello scatto di un arco di grandi dimensioni.

Le prime baliste furono di legno, tenuto da lastre e chiodi di ferro, con un cursore in alto, in cui venivano caricati i bulloni o le pietre. La struttura della balista era mobile, entro certi limiti, sia nel piano orizzontale che in quello verticale, in modo tale che il lancio del proiettile poteva essere orientato. L’arco della balista era costituito da due aste di legno, fissate a un telaio posto su un cavalletto.

Le due aste tenevano due fasci di fibre intrecciate, fatte di tendini di animale, che fungevano da propulsore, essendo tese al massimo. I perni di bronzo o ferro, che assicuravano la torsione delle corde, erano regolati da perni e fori periferici, che potevano essere regolati a seconda delle condizioni meteorologiche. Una robusta corda, agganciata alle due aste, veniva tesa e fissata all’ estremità di un carrello mobile, trattenuta da un grilletto. Il giavellotto, o altro, era collocato in una scanalatura del carrello, cosi che, sganciando di colpo dal perno la corda tesa dalle due aste, veniva spinto violentemente in avanti.

La sua portata massima era di oltre 460 m, ma il raggio di precisione molto meno: un giavellotto o dardo fino a m. 350; una pietra di 800 g. fino a m. 180. La leggerezza dei colpi della Ballista non ha avuto il successo delle pietre gettate dagli onagri più tardi, trabucchi, o mangani, pesanti fino a 200-300 libre (90-135 kg).

Fu utilizzata da Giulio Cesare durante la conquista della Gallia e per sottomettere la Gran Bretagna: Durante l'assedio di Alesia in Gallia, nel 52 a.c., Cesare l'aveva quasi completamente circondato la città assediata da 14 miglia (21 km) di trincea riempita di acqua deviata dal fiume locale, poi un'altra trincea, poi una palizzata di legno e torri, poi l'esercito romano accampato, poi un'altra serie di palizzate e trincee per proteggerle da eventuali forze galliche in soccorso. All'esterno aveva fatto collocare tante piccole baliste manovrate da cecchini sulle torri, oltre ad altre truppe armate con archi o fionde. Dopo Giulio Cesare, la balista diventò permanente nell'esercito romano, costantemente migliorata dagli ingegneri militari.

Si sostituirono le parti in legno col metallo, creando una macchina più piccola e leggera, capace di una potenza maggiore, dal momento che il metallo non si deforma come il legno, e richiede meno manutenzione, anche se vulnerabile alla pioggia. Ammiano Marcellino (IV sec.) ricorda che si trattava di macchine da lancio atte al lancio dei giavellotti. I dardi potevano risultare di piccole dimensioni (20–22 cm) fino a raggiungere quasi i due metri, come degli autentici giavellotti. La loro gittata era stimata in 350 m circa.

La balista, pur avendo principi analoghi anche in termini di costruzione a quelli delle catapulte, fu progettata per il lancio di pietre o massi pesanti (fino a oltre 45 kg), non invece per tiri di precisione. Flavio Giuseppe narra dell'assedio di Gerusalemme in cui un proiettile in pietra del peso di un talento (33 kg) fu lanciato ad oltre due stadi di distanza (377 m).

Sempre Flavio Giuseppe, nel raccontare durante Nell'assedio di Iotapata ricorda episodi terribili:
 « tra gli uomini che si trovavano sulle mura attorno a Giuseppe un colpo staccò la testa facendola cadere lontano tre stadi. All'alba di quel giorno una donna incinta, appena uscita di casa, fu colpita al ventre e il suo piccolo venne scaraventato a distanza di mezzo stadio, tanto era la potenza della balista. Tutto il settore delle mura, dinanzi al quale si combatteva, era intrinso di sangue, e lo si poteva scavalcare attraverso una scalata sui cadaveri.»
 (Giuseppe Flavio, La guerra giudaica)



CATAPULTA

Il nome è la forma latinizzata del greco antico katapeltes, da kata ( contro) e Pelta (scudo): il pelta è il piccolo scudo di legno e cuoio dei peltasti, della fanteria greca.. Sembra sia stata inventata nel 399 a.c. a Siracusa sotto il tiranno Dionisio I. Ma in realtà i Romani chiamarono con questo nome la macchina atta in genere a lanciare soprattutto rocce e pietre. Fu un'arma complessa, in legno, con qualche parte costruita o rivestita in metallo, con corde o tendini di animali come tensori. Infatti all'inizio funzionarono a tensione, in seguito a torsione, che davano una spinta molto maggiore.

Mentre la Ballista serviva a lanciare frecce e giavellotti, lunghi da 4 a 6 m., la catapulta, macchina d’ assedio, era usata per scagliare grossi sassi (anche di un quintale), proiettili o sostanze infiammabili, con molta violenza. Era costituita da un braccio di legno che terminava con un secchio contenente il proiettile. L’altra estremità era inserita in corde ritorte che fornivano al braccio la propulsione. Le catapulte venivano solitamente assemblate o costruite totalmente sul luogo dell’ assedio, impiegando il legno della zona. Il che fa comprendere la capacità ingegneristica ed esecutiva dei soldati romani.

Originariamente infatti la catapulta scagliava dardi capaci di trapassare le corazze meno robuste. I Romani utilizzarono la catapulta (il lithobolos greco), la macchina per lanciare pietre, anche in modelli più piccoli, come l'Onagro. Il Palintonon era una macchina di 3 tonnellate, caricato a sassi di 13 kg, (usato pure nell'assedio di Gerusalemme), ma poteva essere caricata solamente a dardi o sassi, mentre il cucchiaio dell'Onagro permetteva l'utilizzo di munizioni incendiare deflagranti, oltre ad essere di più facile costruzione. Inoltre l'onagro consentiva un tiro a parabola particolarmente efficace per scavalcare le mura delle città.


Catapulta tensionale 
Le prime catapulte furono tensionali, derivanti dal gastraphetes (una balestra rudimentale): una parte sotto tensione propelle il braccio che scaglia il proiettile, simile ad una balestra gigante.


Catapulta torsionale 
La balista fu la prima catapulta torsionale, che sfruttava l'elasticità di torsione prodotta da fasci di fibre elastiche. A questo fine erano usati tendini, crini e anche capelli. Anche gli onagri, costruiti dai Romani, sfruttavano lo stesso principio. Queste armi avevano un braccio che terminava con una fionda contenente il proiettile. L'altra estremità del braccio era inserita in corde o fibre che venivano torte (nevrobalistica), fornendo al braccio la forza propulsiva. Il sistema torsionale è assai più efficace del sistema tensionale, ma più complesso.



CHIEROBALISTA 

Verso il 100 d.c. venne progettata la Cheirobalista, uno scorpione di dimensioni minori ma quasi interamente in metallo, matasse incluse, rivestite da due cilindri di bronzo. Il metallo permetteva di ridurre le dimensioni senza penalizzare le prestazioni dell'arma. Di quest'arma vennero costruite anche versioni trasportabili a mano delle dimensioni di una balestra: le manuballiste.

Una ricostruzione sperimentale effettuata in un documentario della BBC, la TV inglese , dimostrò che i Romani potevano sparare anche undici proiettili al minuto, quasi quattro volte la velocità di una Ballista ordinaria. Una carica con espulsione a ripetizione che reinserisce a usa volta la carica. Il tipo di materiale permetteva infatti di ridurre le dimensioni senza penalizzare le prestazioni dell'arma, dotata di una precisione micidiale. Di quest'arma vennero costruite anche versioni trasportabili a mano delle dimensioni di una balestra (solo il meccanismo era differente) battezzate manuballiste. 



MANUBALLISTA 

La Manuballista (per alcuni autori la stessa chierobalista, per latri diversa), ma detta pure arcoballista, era una versione portatile della tradizionale Ballista.

 Si narra che attorno all'anno 100, il famoso architetto delle campagne daciche di Traiano (e poi di Adriano), Apollodoro di Damasco, progettò un nuovo tipo di scorpione, riducendo alcune parti in legno, pesanti ed ingombranti, con strutture in ferro con potenza di lancio superiore.

Realizzata quasi interamente in legno e molto più piccola, aveva poco metallo, anche col vantaggio di essere meno costoso. Non era la Gastraphetes antica, ma l'arma romana, con le stesse limitazioni però della Gastraphetes. Secondo altri invece fu progettata da Erone di Alessandria intorno al 100 sempre con dardi più piccoli e di metallo.



CARROBALISTA

La carrobalista era una macchina da lancio posta su un apposito carro a due ruote, trainato da cavalli, impiegata sia negli assedi che nelle battaglie campali in quanto facilmente spostabile durante la battaglia.

L'uso della macchina era basato sull'elasticità dei materiali e la tensione delle corde, esattamente come l'arco, la balista, lo scorpione, la catapulta e l'onagro. Si sa che venne introdotta nel I sec. a.c., ed appare come un'evoluzione della balista, che poteva essere montata su un traino e spostata tramite muli.

La carrobalista sfruttava la potenza di ampie molle di bronzo per sparare lunghe frecce oppure "ghiande" di piombo (proiettili cosiddetti per la forma a ghianda). Era manovrata complessivamente da 11 uomini ed era costituita da quattro parti principali: il calcio dove si trovava il congegno di scatto, il telaio dove erano le corde e i bracci di metallo, un sostegno e il carro. Una vite di puntamento consentiva di alzare o abbassare la traiettoria dei dardi.

Venne largamente utilizzata dall'imperatore Traiano, prima contro i Daci di Decebalo, come si vede nella Colonna Traiana, e poi in Mesopotamia contro i Parti. Le carribaliste furono usate dalle centurie, con 1 carrobalista con undici serventi, ed alla legione con 10 onagri e 55 carribaliste.



SCORPIONE 

Lo Scorpione (scorpio) fu più di un arma da cecchino che una macchina d'assedio, essendo gestito da due soli uomini, anche se fu usato pure negli assedi. Arma di notevole precisione e potenza, era particolarmente temuta dai nemici dell'Impero Romano.

Fu l'antesignana della balestra, probabilmente ispirata dal Gastraphetes greco, una piccola ballista portatile alimentata a dardi. Fu inventata nel 50 a.c. con dardi lunghi 70 cm. con un lancio di precisione a 100 metri, ma poteva arrivare, con tiro meno preciso, fino a 400. Oppure si usavano dardi di 130 cm. con una gettata fino a 650 metri, ma con tiro meno preciso.

Quest'arma, descritta in dettaglio da Vitruvio (20 a.c.), grande ingegnere militare romano, come arma destinata al lancio di dardi e giavellotti, venne usata parecchio nelle campagne in Gallia e Germania e durante l'età repubblicana e imperiale, ogni centuria aveva scorpioni e baliste. Vegezio li definisce "balestre a mano". Gli scorpioni venivano collocati in batterie su alture dominanti distruggendo parecchi nemici.

Ne fece grande uso Giulio Cesare in Gallia e durante l'assedio di Avarico, descrivendone la terrificante precisione. La loro maneggevolezza permise di impiegarle anche sui carri, prendendo così il nome di carrobalista. Sulla Colonna Traiana se ne contano diverse. Sembra cominciarono ad essere impiegati nell'esercito romano nella prima metà del I sec. a.c., ovvero dal tardo periodo repubblicano. Infatti durante la Repubblica e l'Impero dei primi secoli, ogni legione aveva 60 Scorpio, che potevano sparare fino a 240 frecce al minuto, o uno scorpio per centuria.

Lo Scorpione ha principalmente due funzioni in una legione: nel tiro teso, in cui poteva abbattere un uomo a 100 m, perforandone anche lo scudo, o nel tiro parabolico, con distanze fino a 400 m. Le gomene erano generalmente costituite da crini di cavallo o da capelli, specialmente di donne. In seguito gli ingegneri militari romani proposero di adoperare delle molle di bronzo composte da molte lamine.



ONAGRO 

Deriva il suo nome dall'azione ripetuta e veloce della macchina, come i calci di un onagro, l'asino selvatico. Una macchina bellica da assedio, impiegata per lanciare grossi sassi o proiettili di piombo a distanza.

Era simile alla catapulta, ma con traiettoria di lancio molto più curva, che poteva superare ostacoli alti e colpire i nemici dietro recinti o mura. Era inoltre impiegata per l’ indebolimento delle fortificazioni o contro truppe d’attacco o artiglieria nemica. Era un telaio orizzontale con due travi di quercia, alla cui estremità anteriore veniva fissato un telaio verticale di legno massiccio, e al centro un palo terminante in un secchiello appeso a funi in cui si poneva il proietto.

 A volte il telaio era fornito di ruote, nella cui parte centrale era disposto orizzontalmente l'organo di propulsione formato da un unico e grosso fascio di materiale elastico (corda di canapa o lunghi capelli umani intrecciati o tendini animali formanti una grossa corda). Il palo, orizzontale prima del lancio, liberato dal gancio che lo tratteneva e tirato da corde, scattava in verticale urtando una barra si che il proietto si scagliava per contraccolpo, saliva per 40 m. e cadeva a parabola ad una distanza di 30 m.

Il peso del proiettile, secondo Vitruvio, poteva arrivare fino a 60-80 Kg. Secondo Vegezio ogni legione recava con sé 10 onagri trainati da cavalli o buoi e sostiene che non era possibile trovare arma più potente di questa. Era, inoltre, in grado di abbattere oltre a cavalli e armati, anche le macchine avversarie. Ma le macchine più grandi spesso venivano costruite sul posto oppure portate in pezzi e montate poi sul campo di battaglia L'onagro poteva essere di piccole dimensioni - per navi e spalti di fortificazioni - oppure molto grande, purché le proporzioni della macchina venissero riprodotte esattamente. Il fascio di corde poteva avere un diametro dai 10 cm. ai 30 circa e pertanto poteva lanciare, a seconda di questo fattore e quindi della grandezza dell'onagro, pietre sferiche del peso fra i 4 e gli oltre 50 kg a distanze variabili fra i 600 e i 200 m.



IL CANNONE A VAPORE

Fonte e immagine: Roman History Made Easy Durante l’assedio di Massilia (19 aprile – 6 settembre 49 a.c.) Giulio Cesare menziona un’arma che poteva provenire dall’arsenale di Archimede. Nel 49 a.c., Massilia – l’odierna Marsiglia – era la più grande città Greca indipendente.

Circa 400 mila Greci e Galli vivevano all’interno delle mura della più grande città a ovest di Roma, e nonostante quasi cento anni di conquiste sia in Gallia sia in Grecia, vari generali romani – tra cui Giulio Cesare – avevano lasciato questo posto tranquillo.

Massilia non era una città militare, ma un centro economico attraverso il quale passarono per 400 anni gran parte di esportazioni e importazioni della Gallia. Questo traffico di merci arricchì la città, che poteva quindi permettersi i migliori sistemi di difesa acquisendoli dai Greci stessi; queste armi non vennero testate contro gli eserciti romani fino a quando Giulio Cesare attraversò il Rubicone. Mentre la guerra civile si espandeva, Massilia si schierò con i pompeiani, diventando una spina nel fianco delle linee di rifornimento di Cesare tra il Nord Italia e la Spagna.

Per scavalcare le massicce mura di Massilia, Cesare riferisce che il suo legato Gaio Trebonio dovette costruire strutture alte 80 piedi (circa 25 m), e fu durante questa costruzione che le legioni vennero attaccate dalle ballistae, che scagliavano pali di legno lunghi 12 piedi (3-4 m) muniti di punte; questi enormi proiettili erano in grado di penetrare quattro strati delle protezioni che i Romani usavano per lavorare. Una normale ballista avrebbe potuto teoricamente sparare un dardo di quel tipo, anche se secondo la tradizione questo non successe mai; il cannone a vapore di Archimede poteva sparare non solo palle di cannone, ma anche lunghi pezzi di legno.

Il funzionamento di un cannone a vapore è abbastanza semplice: si tratta di un barile di bronzo o rame – molto simile a qualsiasi cannone a polvere da sparo – con l’estremità chiusa posta su un fuoco. Una pietra sferica o un proiettile di metallo viene quindi fatto entrare dalla bocca del cannone, ed è tenuto fermo da un pezzo di legno che a sua volta è tenuto in posizione da un altro listello di legno trasversale (cfr figura). Ora il cannone è caricato. Per sparare, viene aperta una valvola che sparge acqua su una barra incandescente posta sul fuoco; l’acqua si trasforma in vapore e, raggiunta una certa pressione, il listello trasversale si spezza, rilasciando il palo di legno e il proiettile. Essendo più leggero, il primo potrebbe finire più lontano del secondo, e quindi poteva essere a sua volta trasformato in un’arma con una punta di ferro.

Non si può stabilire se fosse questo che le truppe di Trebonio si trovarono a fronteggiare; d’altra parte un’eventualità del genere non può nemmeno essere esclusa del tutto: il cannone a vapore, che non aveva parti mobili, dotato di una grandissima forza, e limitato solamente dalle scorte di acqua e proiettili a disposizione dell’esercito, potrebbe essere stata la ragione per cui Massilia riuscì a rimanere indipendente per molto tempo.


IL PUTEAL ROMANO SACRO E PROFANO

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PUTEAL ALBANI CON FIGURE ELEUSINE

Numerosi puteali scolpiti, di provenienza varia, si trovano in musei e collezioni pubbliche e private. Ma la forma cilindrica e cava non è sempre sufficiente a definire la natura di quegli oggetti come "vere da pozzo".

Sembra che nella religione romana fosse frequente il caso di inibire l'uso di certe aree di terreno considerate sacre per qualche motivo speciale, specialmente quei luoghi dove si era abbattuta la folgore, e come il punto considerato sacro venisse perciò isolato e protetto mediante un recinto, vero e proprio puteale (oidental o puteal).
  • Notissimo nel Foro repubblicano di Roma il puteal Libonis o puteal Scribonianum, eretto dal magistrato Scribonio Libone per ordine del Senato, e riprodotto su un denaro argenteo del 54 a.c. Rimane controverso il punto dove sorgeva.                                           
Il Puteal Scribonianum o Puteal Libonis era una struttura del Foro romano, un classico recinto in pietra, in genere tondo ma talvolta quadrato, che si metteva sopra al pozzo aperto per impedire che la gente ci cadesse dentro.

Esso fu dedicato o restaurato da un membro della familia Libo. Probabilmente fu il Lucius Scribonius Libo, forse pretore nel 204 e comunque tribuno della plebe nel 149 ac..

Il Tribunale dei pretori era stato convocato nelle vicinanze, essendo stato rimosso dal Comizio nel II sec. a.c. diventando così un luogo dove si riunivano i litiganti, gli usurai e gli uomini d'affarii.

Qui infatti Scribonius, membro di una famiglia senatoriale. accusò Servius Sulpicius Galba di oltraggi contro i Lusitani. Egli fu inoltre lo Scribonius che consacrò il Puteal Scribonianum spesso menzionato dalle antiche fonti, che fu posto nel Foro presso l' Arcus Fabianus. Esso fu chiamato Puteal perchè era aperto in cima come un pozzo. Anni più tardi fu riparato e dedicato da un altro Libo, pretore nell' 80 a.c.

Secondo le antiche fonti i Puteal Scriboniano era un bidentale, cioè un punto che era stato colpito da un fulmine. Prese il nome dal cordolo in pietra o bassa recinzione che lo recingeva, simile a quella che si pone attorno a un pozzo, e si trovava tra il Tempio di Castore e Polluce e il Tempio di Vesta, nei pressi del Porticus Julia e dell' Arcus Fabiorum. Non ci sono resti di questo puteale, o almeno, non sono stati scoperti. Un tempo si pensava che un cerchio irregolare di blocchi di travertino nei pressi del tempio di Castore facesse parte del puteale, ma questa idea è stata abbandonata nei primi anni del XX sec.

Una moneta emessa nel 62 ac. da Lucio Scribonio Libo, console nel 34 ac., descrive questo puteale, che egli aveva fatto restaurare. Assomiglia un cippo (monumento sepolcrale) o un altare, con corone di alloro, due arpe e un paio di pinze o tenaglie sotto le corone. Le pinze possono essere quelli di Vulcano, colui che forgiava il fulmine, l'arpa sembrerebbe l'emblema di Apollo, ma non sappiamo a che titolo.
    PUTEAL DI MONCLOA
    • Anche l'ubicazione del leggendario Lacus Curtius del Foro era indicata in età storica per mezzo di un puteal. Secondo Tito Livio, il sabino Mevio Curzio (Mettius Curtius), dopo aver ucciso in duello il romano Osto Ostilio, e inseguito da Romolo desideroso di vendetta, trovò scampo nella palude (lacus Curtius) ove in seguito sarebbe sorto il Foro Romano. 

    Per Plutarco siccome era straripato il fiume si era formata una melma densa, Curzio non se ne accorse e perse il proprio cavallo inghiottito dalla melma, e per poco anche la vita.

    Per Terenzio Varrone, invece si tratterebbe di un luogo dichiarato sacro, secondo l'usanza romana, perché colpito da un fulmine, e la cui consacrazione avvenne nel 445 a.c. sotto il consolato di Gaio Curzio Filone.

    A memoria del fatto resta un bassorilievo marmoreo rinvenuto nel 1553 nei pressi della Colonna di Foca, rappresentante il cavaliere Marco Curzio mentre si getta nella voragine.

    Secondo una terza versione di Tito Livio, il luogo ricorderebbe una profonda voragine apertasi al centro del Foro. Secondo gli auguri, la voragine si sarebbe colmata soltanto gettandovi la cosa più preziosa del popolo romano. Allora il giovane cavaliere Marco Curzio, ritenendo che la cosa più preziosa del popolo romano fosse il coraggio dei suoi soldati, armatosi di tutto punto montò a cavallo e si consacrò agli dei Mani gettandosi nella spaventosa voragine, "e una folla di uomini e donne gli lanciò dietro frutti e offerte votive"          
      • Infine davanti all'edicola di Giuturna, presso il tempio dei Dioscuri, si conserva un puteale vero e proprio, marmoreo, con dedica scolpita sul giro e ripetuta sul piano dell'orlo.                                                                                                                                                
      Quando un puteal si trovava in un santuario, era anch'esso sacro; un esempio è quello coll'iscrizione dedicatoria davanti all'edicola di Giuturna sul Foro Romano.                                    
      Puteal o corpi formalmente corrispondenti a bocche di pozzo furono adibiti al coronamento di pozzi sacri d'indole speciale od alla recinzione di luoghi sacri, sia per tenere il luogo aperto al cielo o per impedire che venisse calpestato, sia per immetterci sacrifici ed offerte.
        Non si può perciò sempre definire con assoluta sicurezza la natura e la destinazione, sacra o profana, di parecchi puteali antichi scolpiti: la cui importanza intrinseca, del resto, risiede nella loro decorazione sculturale.
        • È famoso il puteale di Madrid (Collezione Medinaceli), con la scena, a bassorilievo, della nascita di Atena, ispirata dal frontone orientale del Partenone.
        • Un altro puteale pure artisticamente importante è quello di Marbury Hall (Inghilterra), istoriato col mito di Elena e Paride.
        • Altri interessanti puteali scolpiti si trovano nella Collezione Albani (Roma): uno con figure di divinità eleusine, copia di un originale greco del IV sec. a.c. 
        • e un altro della collezione Albani con scena di pigiatura dell'uva.
        • Una scena affine si osserva su un puteale del museo di Napoli.
        • Due puteali del Museo Vaticano sono decorati con scene ispirate dal mondo infero.
        Con particolare frequenza s'incontrano scolpite, intorno ai puteali classici, teorie e processioni di divinità olimpiche:
        • come si vede intorno a un puteale del Museo Capitolino,
        • in uno del museo di Napoli (di provenienza Farnese) 
        • e in un terzo in Inghilterra, proveniente da Corinto: tutti di arte neoattica.
        Bibl.: J. A. Hild, in Daremberg e Saglio, Dictionnaire s. v. Puteal; R. Cagnat e V. Chapot, Manuel d'archéol. romaine, II, Parigi 1920; L. Paschetto, Ostia, colonia romana, Roma 1912; A. Mau, Pompeji, Lipsia 1913; A. Maiuri, Pozzi e condutture d'acqua nell'antica città di Pompei, in Notizie scavi, 1929, p. 414; 1931; D. Vaglieri, ibid., 1912; per i putealia del Foro v. H. Thédenant, Le Forum Romain, Parigi 1908, passim; L. Du Jardin, I pozzi della valle del Foro Romano, in Rend. Pont. Acc. di Arch., VII (1932); per i puteali scolpiti: S. Reinach, Répert. de Reliefs, II e III.

        IL RISCALDAMENTO DEI ROMANI

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        TERME DI BATH

        Gli antichi romani non usavano il camino come si usò in seguito, e il riscaldamento nelle case era affidato ai bracieri o all'ipocausto.
        Ovvero il camino fu usato in tempi remoti, ma si poneva al centro della stanza unica, servendo da riscaldamento e da cucina, e per i fumi si praticava un foro nel tetto.



        BRACIERI


        Il braciere è lo strumento di riscaldamento antico che l'uomo conosca e nacque quando l'essere umano iniziò a cuocere il cibo, nel braciere più elementare, quello di argilla, o in quello più elaborato di bronzo.

        Il braciere nacque come pentola in cui cuocere il cibo.

        Essa veniva posta direttamente sopra la legna ardente, ma affinchè non soffocasse la fiamma, vi vennero posto sotto tre piedi, più o meno alti a seconda dell'uso e dei bisogni.

        Ovviamente le prime furono d'argilla, il materiale più povero, perchè in fondo è una terra, invece il metallo va reperito nelle miniere e poi posto spesso in lega con altri minerali, posto nella forma, poi battuto, forgiato, decorato ecc.

        Naturalmente l'uomo si accorse che la legna continuava a cuocere il cibo anche quando era diventata brace, anzi scaldava meglio perchè aveva un calore meno forte ma più uniforme.

        Così ci si accorse che la brace, o meglio ancora il carbone acceso (tipo lignite, torba ecc.) scaldavano ancora di più e soprattutto duravano più a lungo.

        Pertanto le pentole per cuocere vennero usate anche per scaldare l'ambiente, fino all'epoca dei romani e oltre,

        Nelle case romane della prima età imperiale, il focolare non si usava più, se non in cucina con un piano alto ad uso esclusivo della cottura dei cibi, Pertanto il riscaldamento della casa proveniva esclusivamente dai bracieri.
        I bracieri romani erano di forma, circolare o rettangolare, appoggiati sul pavimento o sostenuti da alti tripodi, portatili o fissi, oppure montati su ruote, e furono eseguiti in materiali diversi:

        POMPEI I SEC. D.C.
        - in argilla,
        - in bronzo,
        - in peltro (ebbene si, i romani conoscevano il peltro),
        - in piombo,
        . in rame,
        - in argento,
        - in argento dorato,
        - in elettro (lega di oro e argento)
        - e addirittura in oro,

        Secondo alcuni, comunque fossero, comportavano il pericolo dello sprigionarsi del monossido di carbonio, come avviene con una stufa o un camino senza canna fumaria o con una inadeguata..

        Non dimentichiamo che le case romane, sia ricche che povere, avevano molte comunicazioni con l'aria aperta. Ai giorni nostri mal sopporteremmo tante correnti nella stagione fredda.

        Le domus erano aperte su un giardino interno, e le porte che separavano le stanze da questo avevano la parte superiore come traforata, cioè con listelli di legno che formavano un disegno non pieno, come un'inferriata.

        Alcune stanze, soprattutto il salone, o i saloni erano addirittura aperti sul giardino da cui li separavano solo delle colonne o delle lesene di pietra.

        Nelle case povere, cioè nelle insule, le finestre erano piccole come tutte quelle romane, ma non possedevano vetri.

        E' vero che usavano pelli di animali o stoffe pesanti per isolare un po' il freddo, ma è anche vero che facevano molto poco.

        Tutti sappiamo quanto possa incidere il cosiddetto spiffero della finestra che non chiude bene, figuriamoci una finestra aperta.

        Naturalmente bisogna tener conto che all'epoca dei romani il corpo umano reggeva molto meglio di oggi alle basse temperature.

        Già nei primi del '900 le persone si scaldavano con un semplice camino, perchè la legge è che il corpo umano si abitua, e più viene scaldato meno sopporta il freddo.

        Pertanto i romani non correvano il rischio del monossido di carbonio, mentre correvano molto di più, con i bracieri di ustionarsi o di dare fuoco alla casa.



        IPOCAUSTO

        Tra il III e il II sec. a.c. nacquero a Roma i bagni, detti, come afferma Varrone, balneum per il bagno privato e balnea per i bagni pubblici.


        Prima del I sec. a.c, i bagni locali erano riscaldati da grandi bracieri con numerosi inconvenienti, sia per poter mantenere una temperatura costante, sia per i fumi di combustione. Questi inconvenienti vennero superati con il sistema hypocaustum, un sistema di riscaldamento indiretto ottenuto tramite canalizzazione dell'aria calda in spazi d'aria nel pavimento o nelle pareti. Il tutto si dipartiva da una o più stufe a legna la cui aria calda veniva inviata sotto al pavimento del locale da riscaldare.

        In Grecia Eraclito invitò degli stranieri di riguardo nella sua cucina dove c'era la stufa per cuocere, quindi un luogo dove scaldarsi invitandoli a non formalizzarsi, perchè anche lì "c'erano gli Dei". Ma si era nel VI o V sec. a.c. ed è ovvio che ci si scaldasse con la brace con cui si aveva cucinato.

        I greci usarono prima dei romani i "laconici", luoghi dove si sudava a causa delle stufe per poi lavarsi nell'acqua fredda, insomma una sauna. Ma le "suspensurae" sono romane.

        Sembra che il sistema di riscaldamento a ipocausto continuo sia nato in Campania, lungo
        la costa dei Campi Flegrei, presso il Vesuvio. La gente di quei luoghi conosceva da lunghissimo tempo la cura dei vapori bollenti delle sorgenti termali, che uscivano a 60 gradi e venivano convogliati in piccole stanze, dove si entrava e si sudava molto, per eliminare gli “umori delle
        malattie”.

        Gli impianti di riscaldamento romani erano costituiti dall’ipocausti, uno o più stufe, accudite incessantemente dagli schiavi, alimentate da legna, carbone vegetale o fascine. Un canale conduceva il calore insieme alla fuliggine e al fumo all'ipocausto adiacente, formato da tanti pilastrini di mattoni, detti suspensurae, attraverso cui circolava il calore.

        Le suspensure, formate da mattoni quadrati sovrapposti, costituivano delle pilae alte di solito circa 50 cm. Vitruvio nel I sec. a.c. le descrisse associate agli ipocausti dei calidari termali ("suspensura caldariorum")

        Caio Sergio Orata (Lucrino, 140 a.c – 90 a.c. ) viene ritenuto l'inventore dei "pensiles balneae", cioè il riscaldamento a ipocausto nelle terme. Poiché però l'ipocausto era già usato in Grecia, si ritiene che l'invenzione di Orata fosse il bagno a vapore, insomma la sauna.

        Non si devono però confondere le thermae con i balnea, in quanto questi ultimi sono più piccoli, con meno stanze e privi di annessi per le attività sportive e sociali, insomma meno lussuose ma forse per questo più diffuse nella sfera privata.

        Plinio il Vecchio contrappone le terme ai 170 balnea esistenti a suo tempo nell’urbe, distinzione che resterà fino al IV secolo d.c., quando nei Cataloghi Regionari verranno censiti 11 thermae e 856 balnea per la sola Roma. Plinio il Giovane poi aggiunge che i balnea erano numerosi anche nelle piccole città di provincia.

        Ma nulla era paragonabile alle terme gratuite ai tempi di Augusto. Seppur di bassissimo costo, erano di un lusso inaudito per i servizi, le comodità e gli ornamenti ricchissimi. Plinio riferisce che a Roma, nelle terme delle donne, i mobili erano d'argento.

        Quel che era eccezionale era che ci si poteva andare tutto l'anno, perchè le terme erano sempre scaldate, anche in estate per i calidarii, ma soprattutto d'inverno dove tutte le stanze emanavano un delizioso tepore grazie ai pavimenti e alle pareti riscaldate, con le sospensure sotto il suolo e i tubi a parete.

        Le sospensurae potevano essere quadrate, in genere di cm 20x20, o rotonde, con 20 cm di diametro. e talvolta di dischi ottagonali.

        Vitruvio, nel De Architectura, raccomandava, onde facilitare il drenaggio dell'acqua di condensazione e la circolazione del calore verso l'alto, di inclinare il sottosuolo dell'ipocausto verso la fonte di calore.

        Per il materiale refrattario del pavimento superiore, consigliò di utilizzare una malta fatta di una miscela di argilla e crini di cavallo, con sopra uno strato di argilla e uno spesso strato di cemento miscelato con mattoni sbriciolati ("cocciopesto"). Lastre di marmo e pezzi di mosaico si adagiavano poi sulla lastra, costituendo la pavimentazione finale.

        Si otteneva così un piano ipocausto con uno spessore di 30-40 cm che garantiva il mantenimento della temperatura per parecchio tempo, anche dopo che il forno era stato 'spento', e che era impermeabile ai gas tossici della combustione.


        Le suspensurae non ricoprivano mai l'intera superficie degli ipocausti per cui per scaldare il pavimento di una stanza occorrevano più ipocausti. Pertanto questo sistema poteva essere utilizzato per riscaldare un vano unico e isolato come si vede nelle stanza da bagno delle ville pompeiane o nel calidarium delle terme.

        Il sistema era così efficiente che negli ambienti più caldi delle terme, calidarium, la temperatura poteva arrivare anche a 50/60 gradi, tanto che per camminare in tali ambienti era necessario indossare degli zoccoli di legno,

        I romani proprio perchè si scaldavano potevano lavarsi spesso, in epoca imperiale si lavavano in media una volta al giorno. Sembra che addirittura l'imperatore Gordiano facesse cinque bagni al giorno. Commodo figlio di Marco Aurelio, addirittura sette o otto, perchè dopo ogni pasto prendeva un bagno. Nerone poi aveva abitudine di fare il bagno durante le portate del pasto principale, per favorire la digestione, in modo da rinnovare l'appetito per altre portate.

        Insomma il riscaldamento cambiò le abitudini di vita dei romani rendendoli più puliti, ma anche più sportivi e più socievoli, le terme erano come una spiaggia di lusso, una palestra, un intrattenimento di spettacoli vari e un salotto dove incontrare la gente.

        IL PONTE DI CESARE

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        "XVII. Cesare, per le ragioni che ho ricordato, aveva stabilito di attraversare il Reno; ma giudicava che l'attraversamento con navi, oltre a non essere abbastanza sicuro, non si addiceva al suo decoro personale né a quello del popolo romano. 

        Pertanto, nonostante le grandi difficoltà della costruzione di un ponte, considerata la larghezza, l'impetuosità e la profondità del fiume, tuttavia riteneva di dover affrontare questa sfida, anche a costo di rinunciare a trasferire l'esercito.

        Concepì dunque il ponte in questo modo. Piedritti in legno dello spessore di un piede e mezzo, un poco appuntiti all'estremità inferiore e di altezza adeguata alla profondità del fiume, furono collegati a coppie tenendoli distanziati di due piedi. Questi, calati nel fiume con appositi attrezzi, furono messi in posizione e infissi con battipali, non verticalmente come le comuni palificate, ma inclinati secondo corrente; di fronte ad essi, quaranta piedi a valle, furono disposte coppie di piedritti analoghe, ma inclinate contro corrente.



        Tra le opposte coppie di piedritti, in sommità, furono posti in opera trasversi dello spessore di due piedi, pari al distanziamento dei piedritti, e collegati a entrambe le estremità mediante coppie di caviglie; con questi trasversi che le distanziavano e le collegavano contemporaneamente, le strutture acquistavano una rigidezza e quanto più aumentava la spinta della corrente tanto più i dispositivi di collegamento si serravano.

        Queste strutture furono poi collegate con travi longitudinali, sulle quali fu steso un impalcato di tavolame e graticci; inoltre altri pali obliqui furono infissi dal lato di valle, i quali, con la loro funzione di puntello intelaiato con le altre strutture, contribuivano a sostenere la spinta della corrente; altri pali ancora furono infissi poco a monte del ponte, a difesa da eventuali tronchi d'albero o altri natanti gettati dai nemici, per attutirne l'impatto ed evitare danni al ponte.
        XVIII. Nel giro di dieci giorni dall'inizio dell'approvvigionamento dei materiali da costruzione l'esercito potè passare sul ponte."


        da Caio Giulio Cesare - De bello gallico - libro IV

        Il ponte sul Reno di Cesare fu un ponte militare in legno, costruito e progettato da Cesare stesso nel corso delle due campagne dallo stesso condotte contro i Germani, nell'ambito della conquista della Gallia.

        Il primo fu costruito nel 55 a.c., ed in base ai ritrovamenti archeologici, in una località da identificare con Neuwied, a 15 km a valle di Coblenza ed a sud di Bonn.
        Il secondo fu costruito due anni più tardi nel 53 a.c., poco più a monte (2 km circa), in una località compresa tra Urmitz e Weissenturm ancora una volta di fronte alla sponda germanica abitata dagli Ubi.

        Cesare, una volta, tornato in Gallia (nel 55 a.c.), fece abbattere l'intero ponte. Due anni più tardi (nel 53 a.c.), non solo evitò di distruggerlo completamente, ma pose sul territorio gallico a presidio dello stesso un forte ed una torre alta quattro piani, al fine di dissuadere nuove incursioni in territorio gallico da parte dei popoli Germani di oltre Reno.



        IL METODO

        La cosa più complessa era l'impianto dei pali nel fondo del fiume, dovevano conficcarsi nel suolo, dovevano essere così pesanti da infiggervisi da soli e dovevano affondare nel greto del fiume, così profondamente da resistere alla corrente. Di solito si realizzavano sul posto dei grandi cassoni, usando dei riempimenti di pietre o di calcestruzzo.

        Vitruvio descrive bene la cosa, cioè come piantare i palo nel mare per delle costruzioni, nel mare o nel fiume, a parte la corrente, la cosa è identica e nel De Architectura V.XII Vitruvio spiega come realizzare delle fondamenta immerse nell’acqua del mare:

        "Si costruisce una cassaforma che funzioni da diga con pile di assi di quercia tenute insieme da catene e assi trasversali che vengono saldamente ancorate al fondo; quindi si pulisce e si livella il fondale che rimane internamente alla cassaforma e si riempie lo spazio interno fin sopra il livello dell’acqua con la malta, realizzata con due parti di pozzolana ed una parte di calce mescolate con acqua, e con pietrame.

        Se non si può reperire la pozzolana allora occorrerà realizzare una cassaforma a doppia parete avendo cura di collegare saldamente le due pareti; l’intercapedine interna viene quindi riempita di alghe ed argilla ben pressate; quindi si àncora la cassaforma al fondo e la si vuota dell’acqua utilizzando pompe a vite o ruote ad acqua; si procede quindi utilizzando la normale sabbia in luogo della pozzolana.
        Se tuttavia la violenza delle onde o della corrente impediscono di realizzare la diga allora si costruiscono all'estremità della terra ferma delle solide fondamenta realizzando una banchina a strapiombo sull'acqua; la banchina viene quindi circondata con degli argini di legno che rimangano sopra il livello dell'acqua e che avanzino frontalmente nell'acqua; lo spazio racchiuso dagli argini viene quindi riempito di sabbia fin sopra il livello delle acque; sopra la base di sabbia viene quindi realizzato un pilone in calcestruzzo largo quanto più possibile e che dovrà restare ad asciugare per due mesi; passato tale tempo vengono rimosse le pareti e l'acqua dilavando la sabbia che sostiene il masso lo farà quindi adagiare sul fondo; eseguendo ripetutamente tale procedura si potrà ottenere un avanzamento della costruzione nel mare."
        Dunque Cesare usò i cassoni per reggere i piedidritti del ponte? No, perchè non aveva pietre a disposizione, intorno a lui c'era solo la foresta.




        I PIEDRITTI

        I piedritti dei ponti sono le pile, le spalle e le pile-spalle, tutte parti di sostegno che trasmettono alle fondazioni le spinte e i carichi generati dalla struttura: per evitare danni i piedritti sono spesso difesi da rostri: avambecchi o retrobecchi.

        SEZIONE
        Però i pedritti che dovevano costruire il ponte non erano in pietra, ma in legno, grossi pali squadrati che dovevano sostenete il camminamento e i parapetti del ponte. Dunque Cesare pose i piediritti di legno sul Reno? Si e no, perchè Cesare da genio qual'era, si inventò una cosa nuova, anzichè i piedritti usò i piedi inclinati, una cosa mai vista prima:

        " non verticalmente come le comuni palificate, ma inclinati secondo corrente; di fronte ad essi,  furono disposte coppie di piedritti analoghe, ma inclinate contro corrente."

        I piedritti, che in realtà furono obliqui per dare al ponte una maggiore stabilità, come noi umani distanzieremmo i piedi per piantarci meglio al suolo, vennero pertanto infissi nel greto del fiume senza cassoni che facessero da fondazioni. I pali o piedritti dovevano però essere inflitti profondamente per non essere divelti dalla corrente. Ma come fare per incassarli nel greto?




        IL BATTIPALO

        Un battipalo è una macchina per infiggere nel terreno dei pali, un corpo pesante e rigido che viene fatto battere ripetutamente in cima al palo posto verticalmente sul terreno, sfruttando la forza di gravità.

        Cesare fece costruire un battipalo, una tecnica però già in uso presso i romani, Una specie di argano che lasciava cadere il peso in pietra o in calcestruzzo che col suo peso e la sua velocità vibrava colpi sui pali come un maglio, tanti colpi quanti erano necessari per conficcare i pali alla giusta profondità.

        IL BATTIPALO
        Ma come funzionava in mezzo al fiume? Veniva costruito a riva, poi gli si agganciavano due corde che venivano portate lungo il fiume fino all'altra riva. Poi gli venivano fissate altre due corde e così via, affinchè attraverso il tiro di corde il battipalo potesse farlo spostare lungo il fiume per battere ogni palo necessario. Ma i pali non erano diritti, per cui fu necessario porre nello strumento del battipalo una guida, sempre di legno, fissata in modo che la pietra scivolasse su di essa con la stessa inclinazione dei pali, per colpirli verticalmente nonostante fossero inclinati.

        Come era fatta la macchina? Non esistono descrizioni sulla sua forma, quel che è certo è che si trattasse di un attrezzo per conficcare pali in terreni paludosi o bagnati. L'immagine qui sotto è però di un battipalo ricostruito dai tedeschi in memoria del ponte di Cesare sul Reno. Poi i tedeschi festeggiano la sconfitta di Pietroburgo, ma ricostruiscono tutto il ricostruibile dei romani.

        La costruzione del ponte doveva essere iniziata formando  specie di cavalletti alti e stretti con delle travi appuntite all’estremità inferiore e lunghe a seconda della profondità del fiume, congiunte a coppie a 60 cm l’una dall’altra. Poi si calavano nel fiume tramite macchinari e si conficcavano nel fondale con i battipali.
        I cavalletti non vennero conficcati diritti, ma inclinati nel senso della corrente. A 12 m da essi si disponeva un’altra fila di cavalletti, ma in senso contrario, e sopra di essi si incastrarono delle travi lunghe 60 cm, come la distanza tra un palo e l’altro di ogni cavalletto, che rendevano le due strutture simili a scale a pioli. 
        Inoltre le estremità dei pali da 60 cm avevano dei ramponi che impediscono ai cavalletti di avvicinarsi. Praticamente più violenta era la corrente e più solida diventava la struttura. Infine, sulle traverse si ponevano le travi ricoperte di tavole e graticci, che costituivano il passaggio del ponte.
        Il ponte è ulteriormente puntellato a valle da contrafforti in senso obliquo, e difeso a monte da altre travi che faranno da “colino” contro tronchi e navi di nemici che volessero distruggere il ponte. Questi risultò lungo 500 m e largo 4, e fu allestito in soli dieci giorni. Avrà vita breve, nemmeno tre settimane, ma incanterà e stupirà il mondo.

        LEPTIS MAGNA (Libia)

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        Leptis Magna, conosciuta anche come Lectis Magna in latino e Lepcis Magna nella pronuncia locale, detta anche Lpqy, Neapolis, Lebida o Lebda a tutt'oggi, fu un'importante città dell'Impero Romano. All'inizio fu un grande emporio fondato da uomini di Tiro, città fenicia dell'attuale Libia. La data di fondazione è incerta: dall'XI al VII secolo a.c.

        I suoi resti sono locati a Khoms, in Libia, a 130 km a est di Tripoli, sulla costa, dove il fiume Wadi Lebda sfocia nel mare. Con Sabratha ed Oea costituiva l'antica regione degli Emporia, anche conosciuta col nome greco di Tripolitania.

        La città, dal 1982 figura nella lista dei Patrimoni dell'Umanità dell'UNESCO, ma durante i recenti scontri in Libia, l'UNESCO ha più volte richiamato le parti in conflitto sulla necessità di salvaguardare i Patrimoni dell'Umanità nel paese.



        LA STORIA

        La città fu fondata da coloni fenici intorno al 1100 a.c., che le dettero il nome Libico-Berbero di Lpqy.
        Il territorio dell'antica Leptis era ideale per i Fenici: era un luogo centrale per i traffici con l'Africa ed era facile da difendere. 

        SETTIMIO SEVERO
        Si trattava infatti di un promontorio poco elevato nei pressi del fiume Wadi Lebda, quindi con acqua a disposizione e passaggio fluviale con l'entroterra, presso una spiaggia ben riparata che permetteva l'ingresso alle navi.  
        Ma divenne potente solo quando Cartagine divenne la regina del mediterraneo nel IV sec. a.c..


        Il dominio di Cartagine

        Leptis rimase indipendente amministrativamente ma non economicamente dal 200 a.c., e, come le altre città della Tripolitania, in quanto sotto il dominio cartaginese. Nel VI sec. a.c. la città fu assalita da un esercito spartano, respinto però dai Cartaginesi, ai quali Leptis rimase sempre fedele, anche durante le guerre puniche.

        Con Sabratha ed Oea costituiva l'antica regione degli Emporia, o Tripolitania, di cui Leptis era il centro amministrativo e fiscale. All'inizio lo sviluppo di questi empori fu lento, per espandersi poi più velocemente nel V e IV sec. a.c.. 

        Questo perchè Cartagine non incoraggiava la libertà di commercio per il nord Africa, come dimostra il trattato che stipulò con Roma nel 507 a.c. e nel 348 a.c.. Il traffico navale commerciale era proibito da tutti i porti dell'Africa fenicia eccetto che da Cartagine.

        Inoltre le tasse cartaginesi erano ingenti, Tito Livio (59 a.c. - 17 d.c.) informa che il tributo su Leptis ammontava a un talento di argento al giorno, equivalente al salario giornaliero di 2.500 lavoratori. 
        Peraltro in tempo di guerra, i cittadini di Leptis dovevano fornire a Cartagine reclute e rifornimenti, perchè era proibito alla città mantenere un esercito e navi proprie.


        Il dominio di Roma

        Peraltro Sallustio, nominato Governatore della Numudia (46 a.c.) da Cesare, scrive che Leptis aveva proprie leggi e propri magistrati. Tutto ciò fino alla fine della III Guerra Punica nel 146 a.c. quando Leptis divenne parte della Repubblica Romana. 

        Nelle battaglie contro Giugurta, re di Numidia, che aveva ucciso i commercianti italici di Cirta, gli abitanti di Leptis fornirono ai Romani navi da trasporto e furono ricompensati col titolo di città federata di Roma.
        Così Leptis poté conservare magistrature puniche. Come al solito Roma consentì alla città di conservare il proprio pantheon come Melqart, assimilato poi all'Ercole dei Romani. Vi aggiunse naturalmente i propri Dei ma senza imposizioni di culto.

        Anche nella lingua Roma fu liberale, Leptis si continuò ad utilizzare la lingua punica insieme al latino.
        Durante il conflitto tra Cesare e Pompeo però Leptis si schierò con quest'ultimo e questo le costò un tributo annuale in olio di oliva e la riduzione a "città stipendiaria". Secondo l fonti Leptis avrebbe pagato ogni anno a Roma ben tre milioni di libbre d'olio, ma la città era ricca di oliveti lungo la fascia costiera.

        ARCO DI SETTIMIO
        L'imperatore Augusto, realizzato che la ricca provincia africana pagava molti tributi, stabilì che dovesse essere accuratamente difesa, così inviò la III Legio Augusta a proteggere l'Africa. Ciò avvenne all'incirca nel 30 a.c., sicuramente a Theveste, che già faceva parte dell'impero dal 146 a.c. e dove stabilì il castrum la III Legio finchè non fu trasferita a Lambaesis.

        Leptis Magna rimase abbastanza indipendente fino al regno dell'imperatore Tiberio, quando la città e i suoi dintorni furono effettivamente incorporati nell'Impero come parte della Provincia d'Africa. Da allora prosperò sotto Roma e divenne uno dei più grandi centri commerciali africani. 

        Leptis iniziò la sua grandezza soprattutto nel 193, quando un suo figlio nativo, il berbero Lucio Settimio Severo, divenne imperatore. Egli ovviamente favorì Leptis sopra le altre città di provincia, ingrandendola, abbellendola e facendone la terza città dell'Africa, rivaleggiando con Cartagine e Alessandria.

        Nel 205, Settimio con la famiglia imperiale visitò la città e ne ricevette grandi onori. Anzitutto egli vi fece edificare un grande foro con capienti magazzini e la fece estendere sul territorio. Il porto naturale aveva tendenza a insabbiarsi ma con le modifiche e i lavori di Settimio paradossalmente la situazione peggiorò, una delle cause del declino della città. Si salvò solo la parte orientale, che per quanto molto usata, si conserva ancora oggi.

        Durante la crisi del III sec., la città declinò e perse d'importanza, finchè verso la metà del IV sec. venne abbandonata.
        Ammiano Marcellino narra che la situazione si aggravò a causa di un governatore romano corrotto che durante un'incursione tribale chiese tangenti per proteggere la città.
        La città in rovina non poteva pagare e quindi denunciò il governatore all'imperatore Valentianiano.

        Ma il governatore corruppe la gente di corte accusando gli inviati Leptani che dovevano essere puniti "per aver portato false accuse".

        La città ebbe una piccola rinascita a partire dal regno dell'imperatore Teodosio I.

        Nel 439, Leptis Magna e le altre città della Tripolitania caddero sotto il controllo dei Vandali col loro re Gaiseric, che per dare un esempio agli altri popoli sottomessi, fece spianare la città.

        Belisario ricatturò Leptis Magna in nome di Roma nel 534, distruggendo il regno dei Vandali.. Leptis divenne capitale dell'Impero Romano d'oriente ma non fu mai ricostruita dalla distruzione dei Berberi.


        DESCRIZIONE

        Augusto fece dell'Africa un'unica provincia e concesse a Leptis il privilegio di autogovernarsi e l'esenzione dai tributi. Leptis fu trasformata in una vera e propria città romana, con una pianta a scacchiera delle vie cittadine, avente al suo centro l'incrocio tra il cardo e il decumano.

        Nella parte più antica, dove sorgeva ancora la città punica, si progettò il Foro Vecchio. Qui sorgeva il tempio dedicato a Melquart, che divenne un santuario dedicato a Roma e Augusto. Accanto però fece erigere altri due templi dedicati a Bacco-Liber Pater ed a Melquart, associato ad Ercole. I tre santuari comunicavano tra loro per mezzo di arcate poste al livello del foro. Successivamente, tra il I e il II sec. d.c., nella stessa area vennero costruite la basilica e la curia.


        Evergetismo

        Incoraggiati dalla bellezza dei nuovi edifici diversi nobili locali iniziarono quel fenomeno di "evergetismo" che fu da sempre caratteristico di Roma. Per crearsi un lustro e farsi propaganda dei cittadini facoltosi facevano erigere a proprie spese degli edifici pubblici o abbellivano quelli preesistenti, avendone in cambio la possibilità di un'epigrafe che lo ricordasse ai presenti e ai posteri.

        - Un benefattore del luogo di nome Iddibal patrocinò la costruzione di un tempio dedicato a Cibele accanto all'area civile romana.
        - Un altro benefattore, Annibale Tapapio Rufo, per emulare Augusto fece costruire, nel 9 d.c. il macellum, mercato di carne e di pesce.
        - Dieci anni dopo, Rufo fece costruire un teatro che, nella parte inferiore, era completamente scavato nella roccia e aveva un palcoscenico spettacolare, restaurato e coperto di marmi nel II secolo d.c..
        - Nel 35 d.c. Suphunibal, figlia di Annibale, fece edificare, nella parte superiore della gradinata, un tempio dedicato a Cerere.
        - Iddibal Cafada Emilio, un altro benefattore, eresse il Calcidico, un edificio di cui non si conosce la destinazione, forse a mercato di stoffe.


        La via colonnata

        MARCO AURELIO GIOVANE
        Per mettere in comunicazione il porto con la parte meridionale di Leptis venne costruita una grandiosa via colonnata, lunga 400 m e larga 44. Essa collegava il porto alle terme e terminava in una piazza ottagonale decorata con un ninfeo.

        Ciascun lato di questa imponente via era dotato di 125 colonne di marmo verde con venature bianche, sulle quali poggiavano delle arcate.

        Il Foro Nuovo è, però, l'elemento architettonico più scenografico di Leptis.

        Detto Foro Severiano, da Settimio Severo, comprendeva anche la basilica, ed era una piazza chiusa di m 100 per 60, con pavimento in marmo.

        Il tempio principale era con otto colonne in marmo rosso su basi bianche e decorate con una gigantomachia in rilievo che rappresentavano gli Dei del pantheon romano e quelli orientali che combattevano contro giganti dal corpo serpentiforme.

        Il portico tutt'intorno al foro si reggeva su un centinaio di colonne di marmo verde venato, poggiate su basi in marmo bianco, quest'ultimo impiegato anche per i capitelli.

        Gli archi sostenuti dai capitelli recavano scolpiti mostri della mitologia. Sotto le arcate della piazza sorgevano diversi edifici commemorativi.

        La basilica, vicina al foro, era l'edificio più prezioso di tutta Leptis. Fu iniziata da Settimio Severo e terminata dal figlio Caracalla nel 216 d.c.. Era lunga 92 m e larga 40 e divisa in tre navate. Il secondo piano era sostenuto da 40 colonne in granito rosso egiziano.

        Intorno al 300 d.c. la riforma territoriale voluta da Diocleziano divise l'impero in province, prefetture e diocesi e Leptis, con l'area confinante, venne inserita nella Tripolitania.

        Il IV secolo d.c. fu inaugurato in modo funesto da due forti scosse di terremoto che causarono alla città gravi danni. Malgrado ciò, Leptis parve riprendersi sotto Costantino: furono nuovamente innalzate le mura cittadine che il terremoto aveva sbriciolato.

        Nel 365 d.c., però, un nuovo terremoto distrusse numerosi monumenti che non vennero più ricostruiti per mancanza di fondi. Intervennero, poi, diverse sommosse a carattere religioso, quando la Tripolitania venne coinvolta nella lotta contro l'eresia donatista, nata tra coloro che rifiutavano di riconoscere quei vescovi che non avevano resistito alle persecuzioni di Diocleziano e avevano consegnato ai magistrati i libri sacri.

        Intorno al 430 d.c. i Vandali diedero a Leptis il colpo di grazia, saccheggiando una città oramai ridotta in miseria. Nel V secolo, poi, si verificarono delle rovinose inondazioni dovute al cattivo drenaggio del Wadi Lebda e tempeste di sabbia seppellirono interi isolati e monumenti.

        Quando i Bizantini occuparono Leptis costruirono delle mura difensive per il porto, mentre il resto della città rimase in uno stato di completo abbandono, tranne una piccola basilica situata in un angolo del Foro Severiano e il tempio di Roma e Augusto che era stato trasformato in chiesa.

        Nel 634 le truppe arabe si impadronirono di quel che rimaneva di una splendida città. Sopravvisse solo un piccolo villaggio, sorto nel luogo in cui i Fenici si erano stabiliti ben 1700 anni prima. Un'invasione di nomadi, però, spazzò via il villaggio, che scomparve nell'XI sec. Le sabbie del deserto finirono per ricoprire Leptis fino a cancellarne ogni traccia.



        I COMMERCI

        Dall'area interna di Leptis provenivano molti prodotti particolarmente apprezzati dai romani: le zanne d’elefante per l'avorio, i leoni di Numidia per i circhi, la malachite per i gioielli, le pelli per i tappeti, gli schiavi e, dalla costa, come narra Plinio, una particolare qualità di garum e dei pesci amari molto ricercati.

        ARCO DEL MERCATO
        Tutto ciò si dipartiva dal porto di Leptis per consegnare le merci a Roma e nel resto dell’impero.

        L’altra ricchezza era l’agricoltura, perchè Fenici prima, e i Romani poi, compirono il miracolo di trasformare i vasti territori predesertici in frutteti e oliveti. Pertanto si produceva olio, frumento, e anche della vite.

        Il rinnovamento edilizio che seguì la pace augustea diede anche impulso a una corrente artistica di notevole importanza e nella città si trapiantò un’intera officina di scultori proveniente da Afrodisia (Turchia).

        Sui modelli e sul gusto romani l'edilizia monumentale prese piede profittando pure delle adiacenti; il marmo, proveniente soprattutto dalla Grecia e quindi più caro, venne adoperato soltanto per le decorazioni.

        Comunque i più grandi costruttori, durante i primi due secoli dell’Impero, furono proprio i privati cittadini; essi, semiti di stirpe punica o libio-punica, come mostrano i loro nomi (es. Annobal = Baal ha fatto la grazia), aggiungevano al proprio un nome romano, segno di voler sentirsi parte del nuovo mondo romano, così civile, raffinato e ricco di possibilità.

        Nelle iscrizioni infatti, compare spesso l’appellativo di amator civium e di ornator patriae, segno di un sentimento di amore per la bellezza della propria città e per il vantaggio dei propri concittadini.



        LE SCOPERTE 2005

        Nel giugno 2005,  gli archeologi della University of Hamburg, lavorando sulla costa libica, rinvennero per una lunghezza di 30 piedi cinque splendidi mosaici policromi creati datati al I o II sec.

        TESTA DI MEDUSA - FORO SEVERIANO
        I mosaici mostrano con chiarezza eccezionale un guerriero in combattimento con un cervo, quattro giovani uomini che lottano con un toro selvaggio buttato a terra, e un gladiatore che riposa in uno stato di affaticamento, fissando il suo avversario ucciso.

        I mosaici decoravano le pareti di una piscina con acqua fredda in un bagno privato all'interno di una villa romana a Wadi Lebda in Leptis Magna.

        Uno di questi famosi mosaici, il mosaico "gladiator"è ritenuto dagli studiosi come uno dei migliori esempi di rappresentazione musiva mai visto, un "capolavoro paragonabile in qualità con l'Alexander Mosaico a Pompei."

        I mosaici sono stati inizialmente scoperti nel 2000, ma sono stati tenuti segreti per evitare saccheggi. Sono attualmente in mostra al Museo di Leptis Magna.

        Nel 1686 e nel 1708, il console di Francia a Tripoli, con il consenso delle autorità ottomane, evidentemente attirate molto dal denaro e meno esperte di arte e archeologia, spoliò di colonne e marmi quel che restava visibile di Leptis ed inviò tutto in Francia, dove il prezioso materiale venne utilizzato per edificare la reggia di Versailles. Altri marmi, in seguito, finirono a Londra e nel castello dei Windsor.

        Il primo intervento scientifico in loco fu quello dell'epigrafista italiano Federico Halbherr, nel 1910, condotto con lo storico Gaetano De Sanctis.

        Quando l'Italia occupò la Libia, nel 1911, ebbe inizio lo scavo sistematico della città. Il soprintendente per l'archeologia della Tripolitania, Salvatore Aurigemma, raccolse moltissimo materiale.

        Il primo, però, a scavare sistematicamente l'antica Leptis fu Pietro Romanelli che, tra il 1919 e il 1928, scoprì le terme e la basilica di Severo.



        I MONUMENTI FUORI LEPTIS

        Nel 1686 e nel 1708, il console di Francia a Tripoli, con il consenso delle autorità ottomane, spoliò di colonne e marmi quel che restava visibile di Leptis ed inviò tutto in Francia, dove il prezioso materiale venne utilizzato per edificare la reggia di Versailles.

        Parte di un antico tempio è stato portato da Leptis Magna al British Museum nel 1816 e installato presso la residenza reale Forte Belvedere in Inghilterra nel 1826.

        Ora si trova entro il Windsor Great Park. Le rovine si trovano tra la riva sud del fiume Virginia Water e la strada Blacknest vicino al bivio con la A30 London Road e Wentworth Drive.



        I MONUMENTI A LEPTIS

        I principali:

        - uno stupendo teatro di impianto augusteo;
        - un mercato del I secolo a.c., modificato sotto Tiberio, ma che risale all’VIII sec. a.c.:
        - le Terme adrianee;
        - l'Arco di Severo, l'arco del 37 in onore di Tiberio, un altro arco quadrifronte di Traiano;
        - il Nuovo Foro;
        - un ippodromo;
        - un anfiteatro;
        - un circo;
        - una basilica;
        - tre templi;
        - un’esedra monumentale;
        - la curia;
        - il calcidico (forse mercato per particolari merci);
        - i modiglioni di ormeggio alle banchine del porto;
        - resti di un tempietto dorico;
        - resti del tempio di Giove Dolicheno;
        - resti del faro;
        - resti di case e ville;
        - l’anfiteatro;
        - ruderi di mausolei;
        - le terme extraurbane;
        - due fortezze sulle colline, per la difesa del limes tripolitanus.



        LE MURA

        Sembra che la città fosse già difesa da mura in età punica, e lo fu sicuramente al principio dell'Impero, perché lo testimoniano le fonti letterarie. La cinta muraria che sopravvive sul lato occidentale dal mare alla Porta di Oea ed oltre, con altri tratti sulla destra del torrente, è molto tarda, del III o IV sec. d.c., infatti fu costruita in gran parte con materiale di spoglio, giusto all'epoca della iconoclastia cristiana, cui seguì più tardi, l'iconoclastia islamica.

        Sono invece di età bizantina le mura a ovest e a sud del Foro Vecchio dove la porta tra due torri quadrangolari immette nel cardo massimo. Le torri avevano un ristretto interno: del primo l'elemento meglio conservato è l'arco della porta; il secondo è probabilmente di età bizantina, ma forse ha sostituito una costruzione precedente: frammenti di un'iscrizione trilingue, latina, greca e neopunica, menzionano infatti un delubrum Caesaris.

        Le mura costeggiano poi il Foro severiano, e continuando sulla destra del torrente dietro al bacino del porto. Da qui inizia un tratto più largo, sempre di età bizantina, come avessero deciso subito dopo la costruzione di allargare le difese.


        Non si sa nulla invece delle mura dell'alto Impero che forse aveva solo un dosso di terra con fossato, che, dai cosiddetti Monticelli di Lebda a sud, terminasse ad oriente sulla destra del fiume all'altura di Sidi Barku presso il circo, per una lunghezza di circa 5,5 Km. Il che farebbe pensare ad una difesa di emergenza, forse per l'incursione dei Garamanti nel 69 d.c. Fino ad età molto tarda, la città non ebbe mura dalla parte del mare.

        Contando che l'area compresa nelle mura del III-IV sec. si estende per circa 130 ettari, ma che esclude una larga parte della Leptis tardo-imperiale, si calcola che la città coprisse una superficie di circa 200 ettari.

        IL PORTO

        IL PORTO

        Esso fu il principale porto della regione (Tripolitania) fra le due Sirti, detta in antico degli Emporia.
        Il porto fu trasformato sotto Settimio Severo, che vi eresse un faro di cui restano solo le fondamenta.
        Il faro era alto più di 35 m e secondo le fonti antiche era simile al più rinomato faro di Alessandria.

        Delle installazioni portuali si conservano il molo orientale, i magazzini, le rovine di una torre di osservazione e una parte delle banchine utilizzate per il carico delle merci.
        Nei pressi del porto si conservano i resti del tempio dedicato a Giove Dolicheno, con la sua scalinata.

        Paradossalmente il tentativo di ingrandire e migliorare il porto fu la causa del suo declino.
        Gli ingegneri romani sbagliarono i calcoli volendo ampliare il porto naturale con il risultato che il bacino si insabbiò poco a poco.



        IL CHALCIDICUM

        CHALCIDICUM
        Il chalcidicum si trova nell'isolato immediatamente a ovest dell'arco di Traiano.

        Costruito nel I sec. d.c., durante il regno di Augusto, ha un portico colonnato collegato alla via Trionfale per mezzo di una serie di gradini.

        Al suo interno sorgeva un tempietto in onore di Augusto e di Venere, nume tutelare suo e di tutta la gens Iulia, e si conservano fusti in marmo cipollino e capitelli corinzi del II sec.d.c.

        Presso l'angolo orientale si può notare un basamento a forma di elefante.



        IL FORO VECCHIO


        L’area del Foro, parte del più antico nucleo urbanistico della città, venne abbellita e ampliata da Augusto (27 a.c.-14 d.c.). La grande piazza trapezoidale era dominata da due grandi templi originariamente dedicati agli dei patri, Shadrapa (Liber Pater) e Milk’Ashtart (Ercole).

        Il tempio di Ercole sarà da Tiberio (14-37 d.c.), ridedicato, ospitando il culto imperiale di Augusto e Roma, con dentro la cella un magnifico ciclo di statue della dinastia giulio-claudia. Successivamente si aggiunge un terzo tempietto, probabilmente per ridare ad Ercole il suo culto.


        I tre templi del lato nord-ovest del Foro Vecchio:

        1) Tempio di Liber Pater
        2) Tempio di Roma e Augusto
        3)  Tempio di Ercole; 
        4) insediamento punico
        5)  Curia;
        6)  Basilica vetus
        7) Tempio della Magna Mater
        8) Trajaneum, poi basilica cristiana
        9) esedra severiana
        10) tempio a tre celle
        11) battistero
        12) fortificazione bizantina 

        Il foro vecchio, il cui primo impianto risale ad Augusto, e su cui sorse una basilica trasformata poi in cristiana è il foro più antico di Leptis Magna, ed era al centro della vecchia città punica, dominata dal culto di Šadrafa-Liber Pater.

        LA PALESTRA DELLE TERME

        L'EMPORIO

        Si sa dai saggi eseguiti che sotto la piazza del Foro Vecchio giace una serie di strutture fenicio-puniche nella parte est, certamente il famoso emporio punico di età tardo ellenistica. Evidentemente Augusto ordinò la nuova edificazione della piazza, naturalmente di architettura romana, con portici colonnati sui tre lati, a cura del proconsole Cneo Calpurnio Pisone nel 4-6 d.c. Dovette essere nuovamente lastricata nel 53-54 d.c. sotto l'imperatore Claudio.



        I TRE TEMPLI  (del Foro Vecchio)

        Entrando nel foro dalla Porta bizantina, si vedono le rovine di tre templi su alto podio. A sinistra il tempio d'età augustea tradizionalmente attribuito a Liber Pater, un Dio italico allegro e licenzioso come Bacco, ma secondo alcuni fu dedicato a Giove, di cui resta solo il podio e pochi resti della cella. Probabilmente hanno ragione entrambi, poichè il Dio Libero, o Liber Pater fu pian piano sostituito col Dio Iuppiter, cioè Iovis Pater.

        Al centro della piazza si erigeva il tempio di Roma e di Augusto, dove l'imperatore era protetto dalla Dea in quanto imperatore e in quanto Dio. Fu costruito tra il 14 e il 19 d.c. in pietra calcarea, fronteggiato da un'alta tribuna decorata da rostri, che fungeva da palco  per gli oratori che arringavano la folla. 

        I colonnati dei due templi maggiori furono rifatti in marmo nel II secolo d.c., ma una semicolonna originale del tempio di Roma e Augusto è rimasta sempre in piedi. A destra si hanno i resti del tempio di Ercole, il più rovinato dei tre, infatti le pareti del podio e il colonnato sono opera di restauro.



        BASILICA VETUS  (del Foro Vecchio)

        La basilica non si affacciava sulla piazza del Foro Vecchio, ma su una stradina che si dirigeva verso il Tempio Flavio e quindi verso la banchina occidentale del porto. Sul lato opposto della piazza restano alcuni fusti di colonna in granito grigio, fortemente erosi, vestigia dell'antica basilica civile, eretta nel I sec. d.c. e ricostruita nel IV sec. dopo un incendio. Accanto era collocata la curia del II sec. d.c.

        A sinistra dell'ingresso alla piazza è un edificio di età traianea, in seguito trasformato in chiesa bizantina, di cui restano l'abside, le navate laterali e il nartece (piccolo atrio tuttora presente nelle chiese cattoliche). Al centro del foro si notano un piccolo battistero con vasca a pianta a croce e un'esedra.

        E' stato scritto che i due grandi fori siano paragonabili per estensione e per magnificenza ai fori imperiali di Roma. Sembra un po' esagerata ma di certo erano magnifici.



        LA CURIA (del Foro Vecchio)

        La Curia di Leptis non si trovava sulla piazza del Foro Vecchio, ma su una stradina che si dirigeva verso il Tempio Flavio e quindi verso la banchina occidentale del porto. Sulla stessa via insiste uno dei suoi ingressi della basilica vetus, prima metà del I sec. - II sec.

        La Curia,eretta su alto podio, affaccia verso sud-ovest con una fronte colonnata come la fronte del Calcidico sulla via Trionfale
        La Curia, sorta agli inizi del IV secolo, tramandava nella sua planimetria quella della Curia Julia di età augustea.  Insomma un templum cum porticibus sviluppato su di un’area di 1.760 mq, ben più grande di quella dello stesso Tempio di Roma e Augusto, uno tra i maggiori di Leptis.



        IL FORO SEVERIANO (O FORO NUOVO)

        Il foro imperiale (o Severiano), era costituito dalla piazza forense, circondata all’interno da un portico quadrangolare, con portici e botteghe, un grande tempio e la monumentale basilica. Il nuovo foro, di circa 10.000 mq, quadrangolare e riccamente adornato di marmi importati e di granito, aveva al suo centro un tempio dedicato all'Imperatore Severo e alla sua famiglia imperiale.

        FORO SEVERIANO
        Le architetture di epoca severiana sono ovviamente le più ricche. Il foro nuovo della città, il cui porticato è ornato da enormi e bellissime teste di Vittoria e di Medusa, tutte diverse e con diverse espressioni. 

        Di fronte alle teste rimaste intatte sono visibili alcuni pannelli verticali con iscrizioni dedicatorie che fungevano da plinti per le statue. La basilica conserva rilievi su pilastri con le fatiche di Ercole e altri straordinari decori.
        Il progetto di abbellimento e ampliamento della città voluto da Settimio Severo prevedeva anche la ristrutturazione del centro cittadino, che fu da lui trasferito dal vecchio foro ad uno nuovo, dedicato stavolta alla sua dinastia imperiale.

        Il nuovo Foro presentava così un magnifico scenario di colonne in cipollino con basi e capitelli in marmo bianco, del tipo cosiddetto romano-asiatico, molto diffusi nel II-III secolo d.c.  La trabeazione e gli archi sono, invece, in pietra; grandi clipei di Gorgoni e di Scilla e di Medusa sporgono da medaglioni inseriti negli spazi triangolari tra arco e arco. Di questi se ne conservano ben 70. Tutta la piazza era pavimentata in marmo, di 100 m per 60 ed era circondata da portici ad arcate.

        Erano rappresentazioni simboliche della Dea romana che spaventava i nemici di Roma. Gli archi erano di pietra calcarea, mentre le teste erano scolpite in marmo. Davanti alle colonne dei portici erano basamenti per statue, che conservano le iscrizioni dedicatorie.

        Sul lato sud-occidentale del foro sorgeva il tempio dedicato alla dinastia dei Severi, del quale rimangono soltanto la scalinata, il podio e un magazzino sotterraneo. Ad esso appartenevano pure alcuni fusti di colonna in granito rosa che si trovano sparse per il foro. Tutto il foro era interdetto al traffico, insomma era una zona pedonale.

        Appoggiato al muro perimetrale del foro, si erige il tempio della Gens Septimia. Sembra che ciò che rimane del foro sia solo un’ala del progetto originario, stroncato dalla morte dell’imperatore Caracalla, (211-217 d.c.), e che doveva essere di raccordo tra il Foro nuovo e il vecchio di raccordo al foro vecchio. Oggi del tempio rimangono soltanto la scalinata, la piattaforma e un magazzino sotterraneo. Ad esso appartenevano pure alcune colonne di granito rosa che si trovano sparse per il foro.


        RICOSTRUZIONE DEL TEATRO


        IL TEATRO

        Il teatro di Leptis fu eretto nel I secolo d.c., come mostrano le iscrizioni celebrative apposte da ricchi cittadini di Leptis con i finanziamenti di un ricco benefattore leptitano, Annibal Rufus.

        Più tardi, un altro nobile della città dedicò la porticus post scaenam del teatro stesso, cioè il porticato posto tra il teatro e il mercato, con un tempio agli Dei Augusti, che in quel tempo erano Cesare, Augusto, Livia, come segno di lealtà verso la casa imperiale. E' stato uno dei primi teatri in muratura dell'impero romano.




        Esso è il secondo dell'Africa per dimensioni (dopo quello di Sabratha) e fu costruito sul sito di una precedente necropoli punica utilizzata tra il V e il III sec. a.c.

        Aveva il palcoscenico in marmo e il frontescena, ancora visibile, a facciata monumentale, con tre nicchioni semicircolari e un triplice ordine di colonne.

        PALCO DEL TEATRO

        L'edificio risale all'epoca di Antonino Pio (138-161 d.c.). Vi si trovavano numerose sculture che raffiguravano divinità, imperatori e cittadini illustri, di cui due superstiti sono ancora nella loro posizione originaria: la statua di Bacco, ornata da viti e foglie, e quella di Eracle, con la testa ricoperta da una pelle di leone.

        La cavea originaria del teatro era stata scavata nella roccia nel 90 d.c. i gradini riservati ai seggi dei notabili della città furono ricavati subito sopra l'orchestra, separati da quelli del pubblico pagante da una massiccia balaustra di pietra. In cima alla cavea si trovavano alcuni tempietti e un porticato con fusti di colonna in prezioso marmo cipollino.

        PLASTICO DI UNO DEI 2 OTTAGONI DEL MERCATO

        IL MERCATO

        Il mercato venne edificato nel 9 a.c. da un magistrato locale, come attesta un’iscrizione lunga ben 13 m, posta sul lato sud-ovest, ovvero la fronte principale durante la prima fase del mercato sotto il regno augusteo.

        Sul lato sud del mercato si trovano le basi marmoree dei banchi del pesce decorate con coppie di delfini.

        Poi venne ricostruito durante il regno di Settimio Severo: alcune colonne con capitello di marmo risalgono all'epoca severiana. Questo mercato fu realizzato in pietra calcarea ricoperta di marmo, era di forma rettangolare ed aveva un cortile porticato, a colonne tonde e colonne angolari squadrate, sul quale vennero eretti due padiglioni ottagonali ricostruiti oggi sui modelli originali.



        IL MERCATO NELLA SUA INTEREZZA

        Il padiglione settentrionale sembra riguardasse il commercio dei tessuti e conserva, anch'essa in copia, una tavola di pietra (l'originale è custodito nel museo), del III sec. d.c., su cui sono incise le principali unità di misura: il braccio romano o punico (51,5 cm), il piede romano o alessandrino (29,5 cm) e il braccio greco o tolemaico (52,5 cm). Cosa si vendesse nell'altro padiglione non si sa.

        RESTI DEL MERCATO

        Hannobal Tapapus Rufus, figlio di Hilmico, lo costruì dunque a proprie spese e lo inaugurò nel 9 - 8 a.c., creando uno dei mercati più funzionali e più belli dell'antichità. Praticamente una rotonda con quattro portici intorno ai quali erano disposti i banconi sopra i quali si esponeva la merce.

        Mense e banchi di esposizione e di vendita correvano a 360° negli intercolumni del portico ottagonale di calcare.

        Nei portici che circondano i due tholoi c'erano dei tavoli. Uno di questi ha una iscrizione, noto come IRT 590:

        "TIberivs CLaudivs AMICVS MARCVS HELIODORVS Apollonide aediles mensas Pecvnia Sva Dono Dedervnt"

        il che significa che questi due uomini erano degli edili che avevano pagato di tasca propria i tavoli che avevano ordinato di fare. Queste ostentazioni di potere, fatte beneficando la popolazione, purtroppo non esistono più da nessuna parte.

        LA BASILICA SEVERIANA

        LA BASILICA (Foro Nuovo)

        La Basilica fu una delle più grandi costruzioni edificate a Leptis La Grande. Misurava 525 piedi (160 m) di lunghezza e 225 piedi (69 m) di larghezza.

        La basilica era a tre navate, con una sala colonnata fornita di un'abside abside a ciascuna estremità. A fianco delle absidi stavano le lesene riccamente scolpite e raffiguranti la vita di Dioniso e le dodici fatiche di Ercole (entrambi favoriti della famiglia Severo).  Il secondo piano era sostenuto da 40 colonne in granito rosso egiziano, il  marmo rosa di Siene, che veniva usato spesso per gli obelischi.

        Edificata nel I sec. d.c. fu ricostruita nel IV sec. Doveva essere chiusa su quattro lati da un colonnato di cui oggi restano solo due colonne di granito. Il suo disegno imitava quello della Basilica Ulpia a Roma.

        Visto che Settimio Severo, per ragioni di spazio, non potè costruire un foro a lui dedicato nell'Urbe come avevano fatto Cesare, Augusto, Nerva e Traiano, decise di dedicarsene uno nella città natia di Leptis.

        LA BASILICA

        La decorazione del marmo, specie nei disegni floreali, veniva realizzata con una tecnica speciale: il disegno era bucherellato in modo che la luce creasse giochi d'ombra, cioè acuendo i contrasti in modo da staccare di più i rilievi. Le decorazioni sui marmi del ninfeo erano ovunque, anche nei punti quasi invisibili. 

        Due lunghe iscrizioni celebrano l'inizio, a opera di Settimio Severo, e il completamento, a opera di Caracalla, della basilica. In una seconda iscrizione si citano tutti gli imperatori, a cominciare da Nerva che lo hanno preceduto, con l'intento di legittimare il suo potere. La lista non include Commodo, suo figlio Marco Aurelio e suo fratello Geta. 

        La decorazione della basilica era estremamente varia e molto probabilmente proveniva da Afrodisia (la città sede di una scuola di scultori e marmorari attivi soprattutto a Roma). I rilievi sono eseguiti con grande perizia, ma soprattutto se ne ricava l'impressione che avesse un intento puramente decorativo, più che per evocare miti, simboli o poteri vari.

        L'ANFITEATRO

        L'ANFITEATRO

        Posto presso Leptis Magna, a poche centinaia di km a est di Cartagine e a circa 130 km dall'odierna Tripoli, l'anfiteatro venne costruito nel 56 durante il principato dell'imperatore Nerone approfittando della cavità di una vecchia cava di pietra.

        L'anfiteatro, piuttosto vicino al mare, era interamente scavato in una depressione naturale, secondo alcuni in una cava dismessa, ma non tutti sono d'accordo, a sud est della città, e poteva ospitare 15.000-16000 persone.

        Poichè la pietra sottostante è assolutamente identica a quella dell'anfiteatro, l'potesi della vecchia cava sembra attendibile.

        L'asse maggiore dell'ellisse misura 100 m di lunghezza mentre quello minore 80 m. Anch'esso nacque per un fenomeno di evergetismo, cioè donato da una potente familia del luogo alla popolazione per immortalare il proprio nome nell'anfiteatro e guadagnarne la gloria.

        Un'iscrizione informa che l'anfiteatro fu edificato da Marcus Pompeius Silvanus Staberius Flavinus d'Africa, nel terzo anno del suo officio, e che Quintus Cassius Gratus era il suo vice. Il monumento era dedicato all'imperatore Nerone e venne terminato infatti nel 56.



        I primi gradini erano riservati all'elite Lepcitaniana, e dalle iscrizioni possiamo dedurre che preferivano il lato sud-est, dove erano esposti a un dolce venticello.

        L'arena misura 57 x 47 m. Oggi, gran parte è coperto con lastre di pietra che una volta erano sui sedili, e altri pezzi di pietra naturale. Tra queste pietre è un altare di Nemesi, la Dea del destino, una divinità preferita negli anfiteatri, dove il destino imperscrutabile decideva ogni giorno la vita e la morte dei combattenti dell'arena.


        VISTA AEREA DI ANFITEATRO E CIRCO


        IL CIRCO

        Pur essendo più giovane dell'anfiteatro è più spoglio di questi, essendo meno ricoperto dalla sabbia e quindi più visibile e pertanto più spoliabile delle sue pietre, dei suoi marmi e delle sue statue.


        RESTI DEL CIRCO

        Dietro l'anfiteatro, più vicino al mare, ecco dunque il circo, a circa un km dalla città, che è circa un secolo più giovane dell'anfiteatro. Di notevole lunghezza, circa 450 m. doveva accogliere non solo la gente di Leptis, ma anche gli abitanti dei centri vicini, senza alcun intralcio per la città, essendone costruito fuori.

        Esso è molto capiente, molto lungo con un lato diritto e uno tondo, come tutti i classici circhi romani, si calcola che circa 16.000 persone potrebbero essere sistemati in tribuna.

        Sembra che l'arena venisse usata spesso sia per le lotte con le belve feroci che tra gladiatori. Ma soprattutto veniva usato per le corse dei cavalli. Sembra che ne resti ben poco, anche se in parte è ancora da scavare.



        LA VIA COLONNATA

        La piazza antistante il Ninfeo segnava l'inizio di una via monumentale, fiancheggiata da portici colonnati, diretta al porto. La strada era colossale, larga più di 20 m e lunga circa 400 m., fiancheggiata da 125 colonne con fusto in marmo cipollino, verde con venature bianche, e basi e capitelli in pentelico, su cui poggiavano delle arcate.

        Le arcate sostenevano a loro volta dei giganteschi clipei, tutte teste di medusa ma ognuna diversa dall'altra.
        Poiché collegava le terme e il nuovo foro dei Severi con il lungomare, era una delle strade più importanti della città. Doveva essere estremamente suggestiva soprattutto per la prospettiva del faro della città che, dal bacino portuale, si elevava perfettamente in asse con la via.

        Essa raccordava l'Antico Foro col Nuovo Foro.


        ARCO DI SETTIMIO SEVERO

        GLI ARCHI

        Sul decumanus si allineavano due archi monumentali: l'arco a due fronti che fu incorporato nelle mura del tardo Impero, e divenne quella che oggi chiamiamo la Porta di Oea, e l'arco a quattro fronti scoperto recentemente, e tuttora inedito, ancora più ad occidente.
        Il tratto del decumanus tra l'Arco dei Severi e la cosiddetta Porta di Oea, scavato recentemente, presenta sulla sua destra la fronte di un edificio non identificato, costituito da un cortile porticato absidato sui lati minori e nicchie sul lato lungo, di fronte all'ingresso. Segue un edificio termale e abitazioni di età tarda, quindi un tempio all'interno di un cortile porticato.



        ARCO DI ANTONINO PIO

        Il primo, che sembra fosse eretto in onore di Antonino Pio, era ornato di colonne in avancorpo, due ai lati di ogni fornice, secondo lo schema solito, e alla sua decorazione dovettero appartenere un frammento con figura di Vittoria ed un altro con una grande egida con la testa di Gorgone.



        ARCO DI MARCO AURELIO

        Si questo non restano che le basi dei quattro piloni, con una colonna inserita nell'angolo esterno. Apprendiamo dall'iscrizione che fu eretto nell'anno 174 in onore di M. Aurelio, essendo proconsole d'Africa C. Settimio Severo, zio del futuro imperatore, e questo legato del proconsole.


        ARCO DI SETTIMIO SEVERO

        ARCO DI SETTIMIO SEVERO

        All'incrocio del decumano massimo col cardo massimo stava l'arco quadrifronte dei Severi; un cippo della strada costruita nel 15-16 d.c. da L. Elio Lamia, ci dice che qui era il limite dell'abitato urbano.

        Un grande architrave con l'iscrizione Augusta Salutaris e il nome del proconsole C. Vibio Marso, rinvenuto nelle adiacenze, potrebbe appartenere ad un'altra porta. L'arco di Settimio segnava l'incrocio delle due grandi strade,  tra il cardo massimo e il decumano, ma rimanendo sopraelevato di qualche gradino sul piano di esse, non era accessibile ai veicoli.

        Fatto inusuale in quei tempi, il nucleo dell'arco fu costruito in pietra calcarea e poi rivestito in marmo, un bel risparmio di pietra marmorea. Di esso si è ritrovato fortunatamente quasi tutto il fregio ad altorilievo.
        Esso è uno dei monumenti più celebri di Leptis in quanto esprime simbolicamente il suo legame artistico con Roma e il suo imperatore.

        Di esso oggi non resta in piedi che uno solo dei quattro piloni originali, ma le basi degli altri tre hanno permesso di ricostruirne perfettamente pianta e misure (larghezza dei fornici: m 5,80; lato dei pilastri, senza le colonne in avancorpo, m 3) così come il recupero di gran parte della decorazione scultorea e di molti elementi dell'alzato (colonne, lesene, cornici) dà un'idea abbastanza chiara del suo aspetto originario: incerta tuttavia rimane ancora la ricostruzione della parte superiore.

        Su ogni fronte due colonne in avancorpo su basamento fiancheggiavano l'apertura del fornice; lesene e pilastri, decorati da tralci di vite, stavano agli angoli esterni del monumento e ai lati dei fornici; cornici e fregi, dello stesso stile, al di sopra di questi, lacunari con rosoni nella volta di essi.

        Magnifica la decorazione scultorea. Oltre alle sei Vittorie alate, che occupavano gli spazi triangolari tra la curva dei fornici e la modanatura del riquadro, alle aquile che guarnivano i triangoli sferici sotto la cupola, ai trofei tra colonne e lesene angolari, tale decorazione comprende due serie di rilievi.

        La prima ha dei rilievi minori, sulle pareti interne dei quattro pilastri: con divinità accostate l'una all'altra, scene di guerra e scene di carattere religioso. Delle divinità alcune sono identificabili con quelle dell'Olimpo greco-romano, a cominciare dalla triade capitolina, di altre si suppone siano divinità orientali e africane. Le scene di battaglia ricordano le campagne orientali dell'imperatore.

        I rilievi della serie maggiore hanno quattro grandi scene, forse poste sulle quattro fronti dell'attico, forse in luogo delle iscrizioni.

        Due rappresentano scene di trionfo; solo una è quasi completa, ma l'altra era costruita, a quanto risulta dai frammenti superstiti, su uno schema analogo.

        La quadriga imperiale, sulla quale sta Settimio Severo (203-204), fiancheggiato dai figli Caracalla e Geta, avanza da sinistra, preceduta da prigionieri incatenati; e da un ferculum su cui è una donna e altre figure piangenti; sul fondo personaggi togati; dietro la quadriga è un gruppo di cavalieri con vexillum.

        Sullo sfondo il faro di Leptis.

        Le stesse divinità ritornano ai lati della Tyche in uno degli altri due rilievi in scene di carattere religioso.

        Qui le tre figure presiedono ad un atto di Concordia Augustorum: Settimio Severo stringe la mano ad uno dei giovani principi, probabilmente Caracalla, presenti Geta, Giulia Domna e forse anche il pretorio Fulvio Plauziano: altre figure, tra cui quella di Roma-Virtus, stanno ai lati del gruppo principale.

        Nell'altra scena è un sacrificio in onore di Giulia Domna - Giunone, alla presenza di Settimio Severo - Giove. Probabilmente risale al 203, quando l'imperatore visitò la città e la provincia.

        Ad essa lavorarono artisti di Afrodisiade, il cui stile si rivela anche nei pilastri della basilica e in tutte le altre costruzioni severiane, a tratti di chiara tradizione romana se ne affiancano altri caratteristicamente orientali, il frontalismo delle scene, il decorativismo lineare delle vesti, schiacciate contro le figure, preludono già all'arte bizantina.

        L’opera che si ammira è, come si è accennato, una semi-fedele ricostruzione dell’antico monumento, al pieno recupero del quale gli archeologi stanno tuttora lavorando. L’arco è costituito da quattro imponenti pilastri che sorreggono una copertura a cupola. Ciascuna delle quattro facciate esterne dei pilastri era affiancata da due colonne corinzie, tra le quali erano scolpite decorazioni in rilievo rappresentanti le grandi virtù e le gloriose imprese dell’epoca dei Severi.

        Nel punto di intersezione tra la cupola e i pilastri si notano le aquile con le ali piegate, simbolo della Roma imperiale. Sopra le colonne si trovano due bei pannelli che riproducono nei dettagli processioni trionfali, riti sacrificali e lo stesso Settimio Severo che tiene per mano il figlio Caracalla.

        Sulla facciata interna delle colonne sono riportate scene di campagne militari, cerimonie religiose e immagine della famiglia dell’imperatore. Sulla facciata interna delle colonne invece scene di campagne militari, cerimonie religiose e l'immagine della famiglia dell'imperatore.

        C'è una certa differenza tra i monumenti romani e quelli africani: i primi più espressionistici e realistici, i secondi più aulici e classicheggianti. Ciò è dovuto senz'altro alle diverse maestranze che curarono i monumenti e la loro decorazione, piuttosto che alle variazioni del gusto. A Leptis Magna dovevano essere gli artisti greco-orientali a dirigere le maestranze locali, inoltre spesso alcune parti architettoniche arrivavano già decorate dalle officine artistiche vicine alle cave del marmo in Bitinia e nella Caria, soprattuto di Afrodisia. 

        Infatti c'è una grande somiglianza di questi ornamenti con lo stile e la tecnica dell'Asia Minore. Il resto delle decorazioni venne eseguita dalle maestranze locali adeguandosi a questi modelli, nonostante le alterazioni anche un po' rozze. 

        Ce lo confermano i contrassegni con sigle di artigiani in alfabeto greco presenti su interi elementi, ad esempio le colonne del Foro con capitelli a foglia d'acqua secondo lo stile di Pergamo. Ma anche i rilievi delle lesene della basilica Severiana rilevano la provenienza "afrodisiense", importazione dei vari pezzi già lavorati e poi inseriti nell'edificio.



        ARCO DI TIBERIO

        I cittadini di Lepcis Magna onorarono il loro imperatore erigendogli un modesto arco onorifico, in pietra, a cavallo del cardo massimoVenne edificato nel 37 d.c.

        Ma esso è uno è solo uno dei due archi dedicati a Tiberio.

        In una strada parallela al Cardo Massimo sono stati rinvenuti i resti di un secondo arco. L'inusuale duplicato degli onori non è chiaro. 

        L'iscrizione, su entrambi i lati di entrambi i monumenti, ricorda che fu costruito durante il governatorato di Gaio Rubellio Blando, agendo attraverso il suo vice Marco Atilio Luperco. (Blandus fu legato dell'Africa nel 35-36). 

        Essa informa anche che l'arco ha commemorato la pavimentazione di diverse strade, ed è stato finanziato con le confische alle tribù native dopo la rivolta di Tacfarinas (17-24), all'inizio del regno di Tiberio.



        ARCO DI TRAIANO

        Dopo il successo delle sue campagne in Dacia, che era stata conquistata nel 106, Traiano assegnò alla città di Leptis il rango di colonia, ed era da ora in poi chiamato ufficialmente Colonia Ulpia Traiana Lepcitaniorum.

        PLASTICO DELL'ARCO DI TRAIANO
        Tutti gli abitanti nati liberi ebbero la piena cittadinanza, la città doveva essere governato da due magistrati (paragonabili ai consoli), e ci doveva essere un tempio chiamato Campidoglio, dove gli Dei supremi dei Romani, Giove, Giunone e Minerva, venissero venerati.

        Per esprimere la loro gratitudine, i Lepcitaniani dedicarono un elegante arco onorifico al loro benefattore, presso il Chalcidicum. Ora l'Arco di Traiano sembra modesto perchè ne resta solo un fornice, ma ne aveva quattro, insomma era un arco quadrifronte (tetrapylon)

        Sui quattro angoli possiamo vedere due bellissime colonne corinzie, e le colonne simili dentro l'arco, che supportano la volta, che dovette avere una bassa cupola.
        L'iscrizione riporta:

        IMP(eratori)  CAESARI DIVI NERVAE F. NERVAE TRAIANO AVGVSTO GERM(anico)  | DACICO PONT(ifici)  MAX(imo)  TRIB(vnicia POT(estate)  XIIII IMP(eratori)  VI CO(n)S(vli)  V P(atri)  P(atriae)  CON[lacuna] | 
        ORDO ET POPVLVS COLONIAE VLPIAE TRAIANAE FIDELIS LEPCIS MAGNAE ARCVM | CVM ORNAMENTIS PECVNIA PVBLICA FECERVNT

        RESTI DELL'ARCO DI TRAIANO
        All'imperatore, Cesare, figlio del divino Nerva, Nerva Traiano Augusto Germanico, Dacico, pontefice massimo, nel XIV anno dei suoi poteri tribunizi, 6 volte imperatore, 5 volte console, padre della patria, [...] il Concilio e l'Assemblea della Colonia Ulpia Traiana Lepcis Magna dedicarono questo arco con i suoi ornamenti, eseguito con i fondi pubblici.

        L'iscrizione, che può essere datata al 109-110, è il primo riferimento a Lepcis come stato di colonia. Esso cavalcava gli incroci del cardo massimo con la strada del teatro. L'arco quadrifronte somiglia all'arco di Settimio Severo, che fu costruito un secolo più tardi, e che probabilmente si ispirò a questo arco.

        L'elefante che ora si trova nella sala centrale del Museo di Lepcis Magna, fu scoperto vicino all'Arco di Traiano.

        IL COMPLESSO DELLE TERME

        TERME ADRIANEE

        L'edificio fu costruito sotto Adriano, quando era proconsole dell'Africa Valerio Prisco (126-127); fu restaurato e modificato sotto Commodo, e nel III sec., sotto Severo.  Fu lo stesso Adriano, agli inizi del II sec. d.c., a commissionare le terme che presero il suo nome. Il complesso fu inaugurato nel 137 d.c., secondo altri nel 127.

        Come ogni terme romana, si sviluppa su un asse centrale nord-sud con ambienti disposti simmetricamente.
        Gli ambienti principali erano: natatio, frigidarium e calidarium, disposti lungo l'asse centrale, con gli ambienti minori ed accessori disposti ai lati. Invece qui la palestra sta in posizione centrale, antistante il corpo principale delle terme, che è decisamente spostata verso oriente, forse per rispettare edifici e strade preesistenti.

        LE TERME
        Le terme sono accessibili dalla palestra, dalla quale si passa nella natatio, un vasto ambiente con il pavimento rivestito da marmi e mosaici in cui si trova una piscina all'aperto circondata da colonne su tre lati.  Di seguito si apre il frigidarium, con le vasche di acqua fredda, in una sala di 30 m per 15, pavimentata in marmo.

        Ben otto massicce colonne con fusti di marmo cipollino alte quasi 9 m sorreggono il soffitto a volta, un tempo ornato con mosaici di colore blu e turchese, di cui oggi però non rimane praticamente nulla. 

        La palestra del complesso è un ampio spazio rettangolare aperto, con i lati minori ad emiciclo, circondato da portici, con a nord due esedre rettangolari absidate. ll lato lungo meridionale combaciava con il portico di facciata delle terme. Dalla palestra si passava alla natatio, la piscina scoperta circondata su tre lati da portici e fiancheggiata da quattro stanzette, accessibili due, che dovevano fungere da spogliatoi, dal portico di facciata e dalla natatio, e due dal corridoio retrostante, forse piccoli magazzini con le forniture di manutenzione.

        Ben quattro porte immettevano dalla natatio al corridoio, da cui si accedeva al frigidario, una grande sala di m 30 × 15, coperta da una triplice volta a crociera poggiante su otto colossali colonne di cipollino, che si apriva sui lati corti in due larghi bacini ancora rivestiti di marmo, come dovevano essere in antico anche le pareti della sala.

        Sicuramente le volte erano ornate di mosaici, così come nel tepidario, di cui si sono reperiti dei frammenti. Numerose statue di divinità e simboli romani circondavano i bacini, come del resto nelle altre sale delle terme; al centro della sala c'è la larga base di una statua con dedica a Settimio Severo.



        In origine il corridoio che divide la natatio dal frigidarium correva tutto all'intorno di questo, isolandolo dal resto dell'edificio: poi, tra il frigidarium e il complesso del tepidarium e calidarium, venne trasformato il largo corridoio in piccole piscine con elegantissime decorazioni  
        Il calidarium, coperto a volta, con due grandi vasche sui lati corti, e tre sotto le arcate a sud, immetteva alle quattro sale dei tepidaria, disposte ai lati della piscina dietro il frigidarium. I forni per il calore si trovavano all'esterno dell'edificio, sulla parte posteriore.

        A sud delle terme giacevano le cisterne, dove è collocata l'iscrizione che ricorda l'acquedotto portato in città, sotto il regno di Adriano (119-120), da Q. Servilio Candido. 
        Ad entrambe le estremità della sala si trova una vasca, mentre, lungo le pareti si allineano nicchioni che ospitavano 40 bellissime statue, di cui solo alcune sono conservate nei musei di Leptis e di Tripoli. Il resto andò distrutto a causa soprattutto dell'iconoclastia cristiana.

        A sud del frigidarium c'era il tepidarium, adibito al bagno tiepido, in origine con una piscina centrale fiancheggiata su due lati da colonne, mentre le altre due vasche furono aggiunte successivamente. 

        Tutto intorno le stanze del calidarium, per il bagno caldo, orientate a sud. Un tempo, probabilmente, avevano grandi finestre in vetro sul lato meridionale. 

        Vi vennero poi aggiunte cinque laconica (bagni di vapore) durante il regno di Commodo. All'esterno, sul lato meridionale, erano collocate le fornaci per scaldare l'acqua, mentre sui lati orientale e occidentale degli edifici corrono le cryptae, i deambulatori.

        Alcuni ambienti più piccoli erano gli apodyteria, ovvero gli spogliatoi. Le forica, le latrine, sono abbastanza ben conservate.

        TERME DEI CACCIATORI

        TERME DEI CACCIATORI

        Le Terme dei Cacciatori risalgono alla seconda metà del II sec., con successive modifiche del III o IV sec.; ad età severiana sono da ricondursi le due composizioni principali della caccia, forse scelte in quanto l'edificio apparteneva ad una corporazione di fornitori di belve per gli spettacoli dell'anfiteatro, ma non ve ne sono le prove.

        Le terme sono costituite da una serie di ambienti a pianta rettangolare ed altri poligonale, con volte a botte, tutti scavati nell'arenaria. Il complesso venne realizzato nel II secolo d.c. e fu utilizzato per quasi tre secoli. Conservano mosaici e affreschi, uno dei quali, situato nel frigidarium e nel quale sono raffigurate scene di caccia ambientate nell'anfiteatro, ha dato il nome al complesso.

        Uno degli affreschi risale ad un'epoca precedente alle terme e vi è stato riutilizzato al momento della loro costruzione. Sono inoltre presenti pannelli marmorei scolpiti.

        Queste terme, modeste come ampiezza, hanno una decorazione interna a mosaico e una pittura degli ambienti principali, nonchè forme architettoniche notevoli. Da principio il corpo centrale era costituito da un corridoio di ingresso che immetteva nella sala principale, il frigidarium, ampio ambiente rettangolare coperto da volta a botte con due absidi contenenti ciascuna una vasca. Il corridoio aveva sulla destra due ambienti minori rettangolari, accessibili solo dal frigidarium, adibiti probabilmente a spogliatoio e latrina.

        Successivamente una vasca, coperta da volta a crociera, sostituì parzialmente questi ambienti. Dal frigidarium si passava in due sale ottagonali affiancate e coperte a cupola; in origine esse non comunicavano fra loro, ma solo ognuna di esse con una sala rettangolare retrostante. Uno dei due ambienti ottagonali era un tepidario, l'altro e le due sale retrostanti, coperte da volte a botte, dei calidaria.

        Un altro calidarium, con tre piccolissimi ambienti susseguentisi l'uno all'altro, fu aggiunto successivamente al corpo originario. All'esterno dell'edificio, si allinearono avanti al corpo originario un portico a pilastri e, dietro questo, una lunga sala rettangolare, spartita da una fila di sei pilastri sorreggenti il tetto, che dovette servire da spogliatoio.

        Altri due ambienti, fra cui uno con bella decorazione dipinta delle pareti, vennero aggiunte successivamente.
        In una prima fase la volta e la parte superiore dei muri del frigidarium erano rivestite di intonaco bianco con pitture incorniciate di stucco: non ne restano che poche tracce.

        I catini delle absidi al di sopra delle vasche e le lunette sopra l'arco di apertura delle absidi stesse erano invece ornati con mosaici a figure. Appena visibili sull'abside orientale parte di una ninfa che allatta un capretto, la testa e le spalle di un Tritone, e motivi nilotici. Poi uno strato di intonaco dipinto fece scomparire la decorazione, e successivamente la parte inferiore dei muri venne stata rivestita di marmi colorati.

        Le due scene si ispirano ai consueti motivi delle rappresentazioni di caccia: caccia al leone sulla parete settentrionale di cui resta quasi nulla, caccia al leopardo sulla parete opposta. La scena comprende gruppi di cacciatori in lotta con le fiere, con poche variazioni e diverse ripetizioni.

        Altra scena figurata, con paesaggio e figure di carattere nilotico, che all'epoca andavano molto di moda, è su una delle pareti della vasca ricavata in un secondo tempo a nord del frigidarium. Nelle altre sale riquadrature in pittura o in stucco che talvolta imitano un rivestimento di marmi colorati, o si incorniciano di delicati motivi vegetali; nei pavimenti sono mosaici geometrici a bianco e nero.

        Altro edificio termale consimile, almeno nell'aspetto architettonico esterno, è stato riconosciuto, ma non ancora scavato, vicino alla Casa detta di Orfeo da uno dei mosaici che la decorava, dalla stessa parte della città.



        IPPODROMO

        Lo stadio è accessibile attraverso un passaggio secondario che si apre sul lato occidentale dell'anfiteatro. Edificato nel 162, durante il regno di Marco Aurelio poteva ospitare 25.000 spettatori. Ne restano solo le fondamenta.
        Il circo è stato solo parzialmente esplorato; si allunga tra l'orlo del leggero risalto, che il suolo presenta a breve distanza dal mare, e la spiaggia: esso aveva pertanto la cavea appoggiata da un lato sul terreno naturale e dall'altro sorretta da sostruzioni. Era lungo circa 450 m x 100, e la spina era costituita da cinque ampi bacini rettangolari allineati l'uno appresso all'altro. Dei carceres e della porta triumphalis più nulla rimane, ma essi furono ancora visti in parte, e disegnati anche se un po' idealizzati, nel XVII sec. da un viaggiatore francese, il Durand.


        PARTE DEL NINFEO

        NINFEO di SEPTIMAE POLLA

        Una strada colonnata, di cui non resta molto, collegava il nuovo foro al porto. All'inizio della strada e a oriente della palestra e delle terme di Adriano vi è una piazza ornata dal grande nymphaeum, o tempio delle Ninfe.

        L'Esedra, di cui rimane pochissimo, tra cui alcune colonne di granito verde egizio, sopravvisse grazie all'iscrizione di una costosa statua d'argento dedicata a Septimia Polla, una sorella del padre dell'imperatore Settimio Severo. La statua pesava circa 52 kg. Naturalmente la statua era ricoperta d'argento e il resto era di marmo.


        STATUA DEL NINFEO
        SEPTIMIAE
        POLLAE Lvci
        SEPTIMI SEVERI
        IIVIRi FLAMinis PERPetui
        FILiae Pvblivs SEPTIMIVS
        GETA HERes SORORI
        SANCTISSIMAE
        EX ARGento Pondo CXXXXIIII
        S vnciae X Semis DECRETO
        SPLENDIDISSIMI
        ORDINIS POSVIT
        EX TESTAMENTO
        EIVS HVIC DONO
        VICESIMAM ET
        ARGenti Pondo IIII S vnciae X Semis
        AMPLIVS QVAM
        LEGATVM EST ADIECIT

        A Septimia 
        Polla, figlia di Lucius 
        Settimio Severo, 
        duumviro, sempre sacerdote, 
        ha Publio Settimio 
        Geta, erede della sua sacrissima
        sorella, eretto questa [statua] 
        da 144 libbre d'argento 
        e 10 once 
        della migliore
        qualità, come decretato 
        nel suo testamento. 
        Per questo dono 
        è stato aggiunto un ventesimo 
        e 4 libbre, 10 once d'argento 
        più di quanto
        era stato lasciato in eredità.

        Il ninfeo è in realtà una fontana monumentale con la facciata riccamente articolata da colonne con fusti di granito rosso e marmo cipollino e con nicchie, ora vuote, che un tempo ospitavano delle statue di marmo. Secondo alcuni il monumentale ninfeo curvilineo era stato costruito come tempio delle ninfe, poi trasformato in una fontana monumentale. Non tutti gli studiosi concordano, comunque il ninfeo ha delle decorazioni eccezionali.

        Con l'avvento del cristianesimo questi monumenti non furono risparmiati e la maggior parte dei templi e delle basiliche vennero trasformati in chiese deturpandoli notevolmente. 

        RICOSTRUZIONE DEL NINFEO
        Al suo inizio Settimio Severo aveva costruito un grande ninfeo che nel 1937 in parte venne ricostruito da archeologi italiani che lo chiamarono Belvedere Mussolini. Questo perché il leader del fascismo era stato invitato a raggiungere un terrazzo sulla sommità dell'edificio per avere una visione complessiva del sito. 

        Italo Balbo, governatore della colonia, che aveva fatto un ottimo lavoro, fu invece rimproverato di aver speso troppi soldi su ricostruzioni tanto costose. 

        Nel VII la conquista degli arabi provocò il totale abbandono di Leptis. 
        I suoi templi, basiliche, terme ed altri monumenti divennero per gli arabi una grande cava a cielo aperto. 
        Finchè fortunatamente tutto venne sommerso dalla sabbia sottraendolo alla cupidigia di cristiani ed arabi.



        I MOSAICI

        I mosaici di Lebda sono un eccezionale reperto archeologico, unico per le dimensioni e per i pregiati decori interni. I 5 grandi pannelli rinvenuti riproducono con eccezionale veridicità e colore scene di caccia e di combattimenti tra gladiatori; un pannello in particolare – il gladiatore che dopo lo scontro osserva, in una posizione di riposo, il nemico sconfitto - è comunemente considerato dagli studiosi un capolavoro, uno dei migliori esempi noti di arte mosaicale.



        MAUSOLEI

        I mausolei, che emergono alla periferia di Leptis Magna, sono perloppiù mausolei a torre, come quelli di Qasr Shaddad, Qasr el-Banat, Qasr el-Geledah,  cioè a più piani sovrapposti-

        Quello di Qasr ed-Duirat, è uno dei meglio conservati, anche se mostra solo lo zoccolo e il piano più basso del corpo, e negli elementi sparsi all'intorno una decorazione scultorea di gusto e fattura locale.

        Era anch'esso dello stesso tipo dei precedenti, ma probabilmente era coronato da un elemento cilindrico con tetto a squame.

        Altri mausolei sono quelli del tipo a guglia, soprattutto nell'interno della regione.



        ACQUEDOTTO

        A Leptis si conservano piuttosto bene i resti di un acquedotto, che convogliava le acque nelle cisterne vicine alle terme. L'acquedotto era duplice, con uno speco più alto e uno più basso, appoggiato al primo e costruito in un secondo tempo per usufruire anche di acque che il primo non sfruttava.
         
        Il tipo di costruzione dell'acquedotto e dei serbatoi li caratterizza all'età severiana, o comunque alla prima metà del III secolo. Acquedotto e serbatoi non sorsero insieme, il serbatoio a monte è una costruzione quadrangolare rivestita esternamente con conci di calcare di travertino, di m 22,40 × 26, diviso internamente in tre ambienti a volta, ai quali corrispondono sulla fronte, verso il torrente, tre porte, successivamente chiuse in parte: al di sopra di queste sono cinque nicchie ornamentali.

        L'acqua scendeva in una vasca posta all'esterno, alla testata dell'acquedotto più basso, mentre all'interno sembra proveniva da uno speco proveniente dal Cinyps ( uadi Qaam), che corre circa 25 km ad est di Leptis. Il secondo serbatoio, a valle, è più ampio (m 42,25 × 26), diviso internamente in cinque gallerie a volta comunicanti tra loro e aperte in origine verso l'esterno ciascuna con una porta, che l'acquedotto poi sbarrò per quasi tutta la loro altezza.

        VILLA DAR BUC

        VILLA DAR BUC AMMERA (o Villa Zliten)

        Non lontano da Leptis è la Villa Dar Buc Ammera, che dista solo 3 km dalla città di Leptis Magna. Essa conteneva un grande mosaico dedicato ai combattimenti nell'arena, quando gli animali dovevano combattere uno contro l'altro, come il toro e l'orso.

        La villa risale al II sec. d.c. e in alcune stanze vi sono scene nilotiche.

        È anche possibile vedere l'esecuzione dei criminali gettati ad bestias, come l'esecuzione di un criminale legato ad un palo che viene portato nell'arena, dove una pantera affamata lo ucciderà. Ha una pelle scura, e potrebbe essere stato uno dei Garamanti nativi.


        Nell'Anno dei quattro imperatori (69), gli abitanti di Oea avevano attaccato gli abitanti di Leptis Magna. L'ordine fu ripristinato dal generale Valerio Festo nel 70, ed è possibile che i nemici giustiziati fossero i Garamanti.

        I gladiatori del mosaico presentano due combattimenti, uno già terminato coll'avversario steso a terra. Nell'altro un Mirmillone (a sinistra: con schiniere e cresta sul casco) e un Trace (a destra: con alti schinieri). Il combattente di sinistra sembra aver avanzato troppo la gamba destra, prendendosi un fendente sulla parte posteriore della coscia. Il sangue è uscito copioso e lui presto morirà di una morte dolorosa, a meno che non riceva il colpo di grazia.



        ZEUGMA

        - « Quel chiarore sul fondo? E' un mosaico. La malta idraulica lo proteggerà per secoli: è lo stesso materiale che usavano gli antichi romani per fissare i ponti ». Mentre i contadini strappavano all'acqua gli ultimi alberi di pistacchio, gli archeologi cercavano di mettere in salvo l' ultimo tesoro scoperto dall'umanità. In questo angolo giallo di Turchia, nel giro di un anno erano venuti alla luce 700 mq di paradiso: mosaici romani intatti, un sito senza eguali nel mondo, figure straordinarie, comparabili per qualità a quelle del museo di Tunisi e a Pompei.

        Un tesoro affidato alle cure della squadra del Centro di Conservazione di Roma guidata sul campo da Schneider. Primo obiettivo: salvare il salvabile, prima che la diga gonfiandosi coprisse tutto. Sei mesi di lavoro, grazie ai fondi del governo turco e soprattutto ai 10 miliardi di lire sborsati dagli americani del Packard Institute: una ventina di grandi mosaici figurativi recuperati insieme a migliaia di reperti.

        Statue, gioielli, 65 mila bullae, ovvero i sigilli che venivano uniti alle merci o ai documenti, testimonianza di quanto fosse importante questa «dogana» ai confini del mondo. I mosaici geometrici, quelli meno preziosi, sono rimasti là sotto. Dai 4 ai 40 m di profondità. Poseidone e Teti sconfitti dall'«idra idroelettrica».
        « Perduti? Non sono affatto perduti. L' acqua - assicura Schneider - è buona conservatrice. Resisteranno. Per le prossime generazioni ».


        Le primissime generazioni, invece, al posto di quella diga grigia che si vede due km a valle, una delle 22 dighe grigie che strozzano il Tigri e l' Eufrate, avevano costruito duemila anni fa un ponte verso l' altro mondo. Dal secondo piano delle loro ville sulla riva, i comandanti di Roma guardavano verso il deserto dei Parti.

        Al di là dell' Eufrate e oltre c' erano i barbari, le ricchezze dell' Oriente, l' ignoto. Al di qua, le fontane con i mosaici di Eros e Psyche, e la pax romana. Oggi, sotto questo lago appena nato, c'è quel che rimane della favolosa città di Zeugma, di cui scrissero Tacito e Cicerone e il cui nome significa ponte, punto di passaggio.

        Fondata da un generale di Alessandro Magno, Seleuco, fiorì sotto gli imperatori romani raggiungendo il massimo splendore nel II sec. d.c., grande come tre volte Pompei, Zeugma aveva 70 mila abitanti, stretti intorno alla «forza di Difesa rapida» del tempo, i 5 mila soldati della Terza Legione Scitica. Duemila anni dopo, Zeugma è perduta.

        « Perduta? Ma se là sotto c'è solo un quinto della città», si scalda il professor Kemal Sertok. E il resto? « Sotto ai nostri piedi. Qui siamo nella zona del teatro: importante come quello di Mileto. Su quell'altura c'è l' acropoli, con il tempio alla dea Tyche, la Fortuna dei romani. Abbiamo la sua immagine sulle monete. Bisogna solo scavare e portarlo alla luce».
        E i mosaici? Il professore sospira. « Il lago ha inondato alcune ville. Ma i mosaici abbiamo fatto in tempo a salvarli: in pochi mesi abbiamo fatto quanto gli archeologi, in uno scavo classico, fanno in dieci anni».

        Per salvarli hanno lavorato anche di notte, con le fotoelettriche. Duecento archeologi di tutto il mondo e centinaia di operai hanno sudato con 50 gradi all' ombra, la paura degli scorpioni e l' acqua alle caviglie. E pensare che il tesoro era lì da secoli, a pochi metri sotto terra. Zeugma, la città sepolta due volte: distrutta dai Sassanidi nell'anno 256, scomparve quasi all'improvviso, probabilmente per l' effetto di un' invasione e di un terremoto in rapida successione.

        Da decenni gli studiosi (e i ladri di reperti) sapevano della sua esistenza. Da alcuni anni gli archeologi erano al lavoro. Con pochi soldi, e nessuna notorietà. La diga di Birecik hanno cominciato a costruirla nel ' 92. Ma solo alla fine del ' 99 sono venuti alla luce i mosaici più belli. Cosa costava ai turchi privarsi di una delle 22 dighe del progetto Sud-Est? Sottovoce, l' archeologa francese Catherine Abadie-Reynal accusa:
        « Abbiamo chiesto almeno il rinvio dell' inondazione, ci hanno risposto di no».

        Cosa costava aspettare un anno? L' ingegner Cansen Akkaya, responsabile ambiente delle Opere Idrauliche dello Stato, alza il sopracciglio e fa due calcoli. L' arte un tanto al kilowatt. In energia elettrica non prodotta, il danno sarebbe stato di « due miliardi e mezzo di dollari. Quale Paese si sarebbe privato di 5 mila miliardi di lire all'anno? Un quinto dell' energia mondiale è prodotta da centrali idroelettriche. In Occidente le dighe non sono più di moda: costano troppo, rovinano l' ambiente». -

        VILLA SILIN

        VILLA SILIN (Selene)

        Rinvenuta da poco tempo, grazie ai continui scavi che tutt'ora vengono effettuati lungo il litorale che va da Tripoli e Leptis Magna, Villa Silin è la meglio conservata tra le splendide residenze private che in età romana sorgevano sulla costa Tripolitana. 

        In queste ville vivevano i ricchi commercianti, arricchitisi grazie al commercio con Roma, che preferivano vivere lontani dai grossi insediamenti urbani.

        Al suo interno si possono ammirare degli splendidi pavimenti decorati a mosaico, intere pareti e alcuni soffitti affrescati e delle terme private ancora intatte.

        INTERNI DELLA VILLA
        "La villa romana di Silin, a circa 15 km di distanza da Leptis, un edificio da sogno, degno dell’ambientazione di un romanzo storico dalla trama intrecciata e viva, un luogo di primaria importanza per il patrimonio archeologico, storico e culturale della Libia, in considerazione dell’unicità del complesso, per stato di conservazione, articolazione architettonica ed estensione degli apparati decorativi, oltre che per sinuosa bellezza oggettiva. Un gioiello.
        La villa era la spettacolare residenza di uno dei facoltosi notabili locali di estrazione punica, “romanizzati” nei gusti e nei costumi del vivere quotidiano.

        Il vasto edificio – circa 50 gli ambienti coperti – risale al II sec. d.c. La fronte a mare appare articolata in portici colonnati e giardini. 
        L’impianto è suddiviso in due settori: uno, di rappresentanza, a occidente, l’altro a oriente, gravitante su un vasto giardino al quale è collegato il nucleo circolare delle terme. 

        Quasi tutti gli ambienti recano decorazioni pavimentali, musive o in marmi commessi, e intonaci dipinti parietali.
        Ancor oggi memore di tanta bellezza, scopro, con gioia e soddisfazione, che il progetto di restauro della villa Silin viene presentato proprio a Ferrara, la mia città."

        La Villa Selene ("Casa della Luna"), alla foce del Wadi Yala che chiude la città di Homs, è famosa soprattutto per i suoi splendidi mosaici. Si pensa che il suo nome sia da ricollegarsi al moderno villaggio di Silin. Essa dista tre o quattro d'ore a piedi da Lepiis Magna. 

        Questo giardino (peristylium), che è circondato da tre lati da un portico, è aperto sul Mediterraneo. A sinistra si scorge l'entrata alle due stanze da pranzo. Il giardino si apre a nord-est e a sud-ovest dove c'è l'entrata ad un altro giardino. Questa stanza da pranzo (triclinium) veniva usata d'estate. 

        Su questa mappa, si può vedere la casa dell'atrio in verde. A un certo punto, un'ala delle camere è stata livellata, e sulle fondamenta è stato edificato uno dei portici. Il primo ingresso venne chiuso, e la sala venne trasformata probabilmente in una biblioteca. 

        Le camere in beige sono stati aggiunte in seguito e includono il triclinio estivo. A destra, in blu, è possibile vedere lo stabilimento balneare. La stanza quadrata che circonda l'atrio fu decorato con affreschi. Qui a lato potete vedere due cacciatori. A destra troneggia un albero, i due leoni ben visibili, come lo scudo che il cacciatore porta sul braccio sinistro. Qui nessuna precauzione è inutile

        La Villa gode di splendidi mosaici pavimentali, di cui uno sta nel triclinio d'inverno, insediato nella parte centrale della casa. Poichè i banchetti duravano molto ed erano occasione di amicizie e relazioni, i triclinii, le stanze da pranzo, erano fondamentali per i romani.

        Era pertanto necessario che le stanze estive fossero all'aperto, spesso in stanze aperte sul giardino, o direttamente sotto la tettoia del giardino in estate. per l'inverno andava benissimo una stanza piuttosto centrale, quindi molto riparata dal freddo dell'esterno. 

        Un mosaico rappresenta la storia di Licurgo e Ambrosia. Un altro raffigura le Iadi, le ninfe che si presero cura di Dioniso bambino. Quando Licurgo diede loro la caccia, esse fuggirono sul mare, ad eccezione di Ambrosia che venne mutata in vino.

        In un'altra sala posta nell'atrium della villa, si osserva il famoso mosaico del circo di Leptis Magna. Mosaico importantissimo anche perchè delucida sulla pianta del circo. Di fronte si vedono i boxes di partenza (carceres) con le porte aperte che danno il via alle gare. Ci sono molti carri e cavalli, e la spina, con svariati monumenti e decorazioni.











        CAMPUS BARBARICUS

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        RICOSTRUZIONE

        Si trova presso Roma, lungo la via del Campo Barbarico che raggiunge Tor Fiscale, una torre medievale che sorge nell'intersezione tra l'acquedotto di Claudio e l'acquedotto Marcia-Tepula-Iulia.

        I due acquedotti si intersecano una seconda volta 300 m più a monte, creando così uno spazio più trapezoidale che triangolare di 22.433 mq facile da fortificare.

        Questa possibilità fu notata per la prima volta nel 537 d.c., mentre i Goti stringevano Roma con uno degli assedi più drammatici subiti dalla città, la quale a sua volta era difesa dalle truppe bizantine del generale Belisario, chiuso dentro le Mura Aureliane.

        Furono i Goti di Vitige a realizzare la fortificazione, murando le arcate degli acquedotti e realizzando così l’accampamento, e la zona ancora oggi porta questo nome.
        Tutto il campo era attraversato da nord a sud dalla Via Latina. Nell’angolo nord, successivamente fu realizzata la Tor Fiscale proprio sopra all’incrocio degli acquedotti e della stessa via Latina.

        Infatti re Vitige, calcolando fosse impossibile assediare Roma date le sue colossali dimensioni, aveva creato degli accampamenti per controllare gli accessi in città, e siccome la via Latina era uno degli accessi più importanti, in questo spazio costruì il suo principale campo trincerato, dal quale poteva controllare anche la via Appia Antica.



        (Procopio di Cesarea, La Guerra Gotica, Libro II cap. III)

         "Esistono ancora due acquedotti tra la via Latina e la via Appia, molto alti e per la maggior parte su archi. Alla distanza di 50 stadi da Roma questi due acquedotti si incrociano, poi corrono per un breve tratto in senso contrario, così che quello che prima era sulla destra passa alla sinistra, poi si riuniscono ancora e riprendono il precedente percorso, rimanendo però separati. Così avviene che lo spazio tra loro, così chiuso dagli stessi acquedotti, diventa una fortezza. 

        I barbari, murando con pietre e terra la parte inferiore degli archi, diedero al luogo la forma di castello, ponendovi così un accampamento di non meno di 7000 uomini perché impedissero che ai nemici venissero portate in città vettovaglie. Allora i Romani persero ogni speranza e non avevano che prospettive sinistre."

        Adiacente agli acquedotti romani, come ricorda Procopio, passava la via Latina che, prima dell’Appia antica, collegava Roma con la Campania felix. 

        Trattavasi pertanto di un punto di grande transito di merci e comunicazione circondato da grandi ville rustiche.

        I Goti per giunta troncarono i canali dell'acqua, assetando così la città per mettere in difficoltà Belisario; per i Romani il disastro prodotto dalla guerra gotica fu tale che la popolazione si trasferì in massa nelle campagne, lasciando all'interno delle Mura meno di 50.000 persone.

        La decadenza della città provocò non solo l'abbandono delle abitazioni ma anche della manutenzione degli acquedotti.

        Unica eccezione i casi in cui essi servivano importanti luoghi di culto cristiano; l'acquedotto di Claudio, che serviva il complesso del Laterano, fu infatti più volte restaurato, e, pur con portata ridotta, rimase funzionante fino all'anno Mille. Di Roma si cancellava il ricordo, sostituito dalle rovine e dalle costruzioni delle nuove basiliche cristiane che dilagavano sempre più su piazze e vie.

        Per riconoscere oggi il perimetro fortificato, occorre osservare che uno dei due acquedotti, il Marcio, è stato distrutto per far posto all'acquedotto Felice, mentre l'acquedotto di Claudio è stato quasi completamente smantellato per cavarne materiale da costruzione.

        Se quindi è ormai difficile rendersi conto dell'importanza strategica del luogo a partire dai ruderi rimasti, restano però sia il nome di Campo Barbarico, che da allora accompagna questa località, sia soprattutto la presenza imponente della torre medievale.




        MAUSOLEO DEL CAMPO BARBARICO

        All’incrocio tra via del Campo Barbarico e via Monte d’Onorio è visibile un sepolcro in laterizio su due piani, del tipo “a tempietto”, risalente al II sec. d.c.. 

        MAUSOLEO
        La facciata è completamente rifatta, mentre gli altri lati sono originali. 

        Al piano superiore, dove si svolgevano le cerimonie funebri, si conservano nicchie con incorniciature architettoniche in laterizio e un’abside con avanzi di stucco. 

        Come altri analoghi monumenti funerari del suburbio, anche questa tomba, demolita la volta tra il piano terra e il primo piano, venne utilizzata in epoca moderna come fienile.

        Dopo gli eventi summenzionati nella zona cade l’oblio, scompare il tempio della Fortuna Muliebre che qui era locato, crollano gli acquedotti, fino a quando sono realizzati l’acquedotto Felice ed il casale di Roma Vecchia, prelevando i materiali dall’unica cava disponibile, “gli acquedotti crollati” e in particolar modo il Claudio, poi ancora silenzio.

        Resti della villa romana di Via Lemonia, una villa in parte rustica e in parte residenziale. Insomma la casa della villeggiatura, appena fuori Roma, nel silenzio dell'agro romano, con terme e marmi vari.

        VILLA ROMANA

        LA TOPIA DEI ROMANI

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        GIARDINO DI LIVIA


        Utopia fu un nome coniato da Thomas More nel 1516, con le voci greche ū ‘non’ e tópos ‘luogo’; quindi “luogo che non esiste”. E' come l'isola che non c'è. Qualcosa di inattuabile che può essere solo sognato.

        La Topia invece è il luogo che esiste ma bisogna darsi da fare per realizzarlo. Esso può essere non sognato ma ideato.
        La Topìa è quel desiderio di un'atmosfera e di un luogo che esprima quella parte viva, frizzante, armoniosa e perfino estatica di noi, che di solito si perde nei meandri del quotidiano coi suoi affanni, nei doveri e nelle necessità della vita.

        I Romani questa Topia la sentivano e cercavano di riprodurla,  a Roma, nei luoghi di villeggiatura, nelle ville extraurbane, negli affreschi, nelle statue, nei mosaici, e pure nell'architettura. Sembra difficile rappresentare la Topìa nell'architettura, eppure i romani lo fecero, come lo fecero, molto più tardi il Piranesi che vi attinse a piene mani, e pure Escher.

        La Topìa è libertà dagli schemi, dove può collocarsi anche l'assurdo, ma un assurdo vivibile, che ha il suo lato estetico e ludico, come il pavimento che sembra a cubi in rilievo.

        Questo è un pavimento di Pompei, e a fianco un pavimento di Esher:




        Ecco qui sotto un esempio di pittura che illustra bene il prototipo degli edifici descritto da Vitruvio. Può essere Ercolano, o Pompei, o  qualsiasi altro luogo: è un edificio tipo ma può benissimo essere un decoro di teatro come suggerisce il sipario alla sommità dell'immagine.

        Un edificio con portale elaborato, arricchito di colonne marmoree e sormontato da un prezioso architrave elaborato, da cui pendono oscillum e serti di alloro. Sopra l'architrave statue di bronzo e sotto pannelli, nuove colonne, altre porte con altri architravi con dipinti e stucchi.



        TOPIA E UTOPIA

        PITTURA POMPEIANA
        Questa è la "topia" romana, che è il contrario dell'utopia, il termine che verrà coniato molto più tardi.

        Infatti mentre la "topia"è il "luogo", l'"utopia"è il "non luogo".

        Nelle Bucoliche virgiliane vi era la Topìa che  tornerà nella poesia dell'Arcadia rinascimentale.

        Il tema della Topia, il mondo dove è bello vivere perchè è naturale e senza odio, dove non ci sono ricchi e poveri, dove la guerra è sconosciuta, dove si lavora giocando e si crea l'arte per divertirsi è insito nella parte migliore dell'umanità.

        Un mondo dove regna l'armonia è un mondo dove la ragione si unisce ai sentimenti partorendo la fantasia che crea.

        Diverso dall'utopia che è un sogno di felicità raggiungibile attraverso un ordine e un'organizzazione perfetta. Ma l'ordine e la precisione assolute non cercano tanto la felicità quanto la cessazione dell'angoscia e quel che accade nelle persone accade nei popoli.

        Vi sono periodi in cui un popolo esprime leggerezza e creatività, per poi volgersi a un clima di pesantezza e di moralismi, per poi volgersi alla ragione che rifiuta i moralismi, fino a scadere poi nella cessazione dei sentimenti. Per poi magari abbandonarsi al romanticismo, magari privo di razionalità, per poi magari tornare alla fusione di razionalità e sentimenti con la ricerca della Topìa.

        GIARDINO DI LIVIA
        Dunque l'utopia è il luogo ideale, che può essere una città, un paesaggio, una casa, che però è solo ideale perchè per varie ragioni non è realizzabile, al contrario la topìa è un luogo non posseduto ma realizzabile, o con qualche possibilità, sia pure remota, di realizzazione.

        La Campania Felix fu il luogo per eccellenza delle Topie, per lo sfondo magnifico e fantastico che poteva offrire alle splendide ville, così Ercolano, Pompei, Boscoreale e Oplontis per non parlare di Ischia e Capri, furono il centro delle realizzazioni delle topie.

        Tuttavia anche nell'Urbe, per chi ne aveva le possibilità, si poteva realizzare una topia, come ad esempio gli Horti, a cominciare da quelli di Mecenate, a quelli Liciniani, che vennero non a caso definite da Lucrezio: "Le tranquille dimore degli Dei".

        "Tutta la pittura pompeiana ed ercolanese preservata è a carattere ornamentale,
        - commenta Eugenio La Rocca - destinata a decorare ambienti: di case e di edifici pubblici e privati. 
        Essa è opera di abili, talora abilissimi, artigiani, ma non v’è nulla in essa pari ai cicli di affreschi dei grandi maestri del tardo Medioevo e del Rinascimento, e tanto meno pari alla moderna pittura di “cavalletto”. 
        Il problema consiste quindi nel chiedersi se, sulla base di quanto si è conservato, sia possibile capire qualcosa della grande tradizione pittorica del mondo classico.

        GENIETTI ROMANI
        La pittura pompeiana ed ercolanese è la pittura romana. Non fu certamente Pompei a ispirare Roma, bensì la imitò e copiò. A cominciare dai giardini di sogno, i giardini sono già una "topia", tanto è vero che Livia, la moglie di Augusto, pure essendo la sua casa immersa in un giardino, se ne fece dipingere uno nella sua camera da letto.

        Oppure basta guardare i giardini dipinti nell'area vesuviana, dove di certo i giardini non mancavano, ma erano dei "topia" che distendeva e rallegrava l'animo guardare. Il cielo era sempre azzurro, gli uccelli svolazzavano o passeggiavano nel verde, i fiori mostravano le corolle spalancate e gli alberi erano carichi di frutti maturi. 

        A guardarli si comprende da dove siano nati i famosi giardini inglesi, in parte coltivati e in parte selvatici, ovvero coltivati fingendo una natura selvaggia e incontaminata, piena e rigogliosa ma con sapienti spazi e toni, che solo la mano umana sa procurare per creare il "luogo", il posto dei sogni, il giardino segreto, la "topia", quel luogo ideale dove aleggia invisibile il Genius Loci.

        Ma anche un mondo dove esistono allegri genietti che svolgono il lavoro degli uomini è topia.

        Un po' come nella favola del buon ciabattino che la mattina dopo trovava il lavoro magicamente svolto da non si sa chi. Ovvero da un genietto generoso che voleva aiutare il povero ciabattino.

        I genietti romani sono la Topia della favola, e le favole si scrivono per i bambini e per gli adulti, perchè un mondo di favola piace più o meno a tutti, perchè ai doveri si sostituisce la fantasia.

        I genietti si occupano delle attività più svariate: 

        - raccolgono l'uva, 
        - fanno il vino, 
        - lo versano nelle anfore, 
        - elaborano gioielli, 
        - diventano fabbri e forgiatori,
        - o suonatori di lira
        - o suonano il flauto,
        - o suonano i cimbali,
        - o la tromba
        - o mescolano le erbe per le medicine,
        - o cuociono il pane
        - o semplicemente giocano cavalcando capre, 
        - o delfini 
        - o granchi, 
        - oppure giocano a mosca cieca
        - talvolta ammaestrano animali
        - o li tengono in braccio, come oche o pesci,
        - o vanno in barca
        - o dipingono
        - o scolpiscono
        - o si occupano di cosmetica per signore
        - o raccolgono fiori nei vasi per distillarne profumi
        - o girano col cane al guinzaglio
        - o con altri animali selvatici cui mettono le redini
        - o fanno da corteo a Venere
        - o si fanno coccolare da una menade
        - a volte più che amorini sono pigmei e allora cavalcano ma pure cacciano animali feroci
        - o sono armati di spade, di lance e di frecce.

        Ma pure le case, anzi le domus sono Topia, sono le case da sogno che pochi potevano possedere ma che molti potevano dipingere nelle proprie case.

        Sono case amalgamate nella natura, mare o campagna che fosse, angoli di paradiso isolate dalla folla, con viste mozzafiato su panorami da favola, spesso ritoccati con grotte, sentieri, terrazzi e portici che sottolineassero la scenografia del luogo.

        - Case sulla riva del mare,
        - o immerse nel verde,
        - con torri colorate,
        - isolette con ponticelli,
        - ombrosi porticati,
        - terrazzi e verande,
        - vialetti ornati di statue
        - stupende esedre,
        - con vasti giardini,
        - statue e fontane. 

        Oppure domus elaborate da preziosi arabeschi, decori in pietra, stucchi e statue in bronzo, un gioco sottile di architettura con colonnine, balconi, torrette, archi e porticati, con scale che salgono e scendono fra porte e terrazzi intraviste da trafori e ringhiere.

        Sono ornate da creature fantastiche:

        - grifoni o draghi,
        - o da cavallini scalpitanti,
        - o da cervi,
        - o da teste leonine,
        - o da pinnacoli
        - o da antefisse con volti mostruosi, tra l'umano e il bestiale, una specie di horror apotropaico
        - oppure da mascheroni
        - oppure l'architettura fantastica inventa torrette svettanti,
        - terrazzi ringhierati con ferro o pietra che sporgono sul paesaggio sottostante,
        - o enormi loggiati sulla sommità delle ville per una passeggiata che faccia godere del fresco e del panorama
        - o colonnine svettanti con la statuina dorata della Vittoria
        - o artistici vasi di pietra con cespugli profumati

        La preziosa decorazione prevede colonne dorate e scanalate, capitelli ionici e corinzi, tempietti tondi con statue al centro, cesti di frutta, tavolinetti che ostentano dolciumi, cancelletti di ferro, mascheroni, con tende, festoni e rami fronzuti.

        Come mai ci sono momenti nell'arte in cui un popolo fa emergere la topia?

        Perchè ha bisogno di sognare per sfuggire alla pesantezza del quotidiano?

        In genere è il contrario, si sogna quando non abbiamo molte preoccupazioni, e gli artisti sognano e dipingono perchè lavorano e guadagnano e attraverso la pittura manifestano nell'ottimismo la bellezza della natura e delle opere dell'uomo, che stavolta non scavalca la natura ma vi si immerge e la riproduce nei colori, nelle volute e nella fantasia.

        Pompei era una città ricca dove nessuno moriva di fame, non potendo prevedere la sua tragicissima fine era colma di speranza e di creatività.

        Ovunque aleggiava la topia a cui le splendide ville si avvicinavano sempre più, e dove non si poteva si usava l'affresco per fare quel piacere degli occhi.

        Per Pompei ed Ercolano fu una catastrofe, per noi moderni l'opportunità unica di conoscere le bellezze di una civiltà che peraltro fu spazzata via dalla nuova religione imperante.

        Qualcuno mormora che non fu una cosa voluta ma fu colpa del tempo che usurò i beni storici.

        Per la stessa ragione noi avremmo allora dovuto perdere tutti i palazzi, le statue e gli affreschi del Rinascimento, mentre conserviamo ancora i dipinti del medioevo che sono pochi perchè dalla caduta dell'Impero romano d'Occidente e quindi dall'inizio del Medioevo nel 476 vi fu una caduta a picco dell'arte.

        Ma nessuno li distrusse.

        Quel che è peggio che a parte il liberty, che era appunto lo stile della libertà, quindi la Topìa, nel moderno essa è sparita, e lo stile è teso al non figurativo (che non tocca emozioni), al lineare e spesso pure all'incolore.
        Ma si può capire, in un mondo dove il futuro è così incerto c'è poco posto per la Topìa.

        CURSUS HONORUM

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        Il Cursus Honorum a Roma, in età repubblicana (ed in seguito anche in età imperiale), obbligava ogni cittadino, che volesse ricoprire cariche politiche, a seguire un certo percorso, procedendo in ordine crescente di importanza (cursus honorum) e secondo vincoli di età determinati dalla lex Villia annalis (180 a.c.).



        LEX VILLIA

        La lex Villia annalis fu un plebiscito fatto approvare nel 180 a.c. dal tribuno Lucio Villio, la cui famiglia acquistò per questo il cognome di Annalis. La legge introdusse un’età minima per l’accesso alle magistrature del Cursus Honorum e un intervallo obbligatorio di due anni tra l’assunzione di due cariche. Restarono invariate le regole per la rielezione alla stessa magistratura, già stabilite da un plebiscito del 342 a.c.

        Non si poteva essere questori prima di aver prestato dieci anni di servizio militare (decem stipendia), termine innalzato poi da Silla a 30 anni. 
        Ai tempi di Cicerone non si poteva essere 
        - edili curuli prima dei 37 anni, 
        - pretori prima dei 40 
        - consoli prima dei 43. 

        La lex Villia voleva garantire l’avvicendamento al potere dei membri della classe dirigente, evitando concentrazioni di potere e la continua successione delle cariche. La legge è citata, fra gli altri, da Cicerone e Livio:
        Legibus enim annalibus cum grandiorem aetatem ad consulatum constituebant, adulescentiae temeritatem uerebantur ...”
        “Quando stabilivano un’età più matura per il consolato mediante leggi che prescrivevano un intervallo di anni, temevano l’ imprudenza della gioventù …”
        (Cicero, Phil., V, 47)
        Nella Repubblica Romana ogni ufficio militare e politico aveva dunque un'età minima per l'elezione. C'erano intervalli minimi per tenere uffici successivi e leggi che proibivano di reiterare un ufficio.

        Queste regole furono a volte modificate o contraddette nel corso dell'ultimo secolo della Repubblica. Per esempio, Gaio Mario fu console per cinque anni consecutivi tra il 104 e il 100 a.c., ma è anche vero che Mario fu richiamato a gran voce perchè era un generale eccezionale che vinceva sempre, insomma la garanzia di salvezza. Con le riforme di Lucio Cornelio Silla era richiesto invece un intervallo di due anni per un nuovo ufficio o per concorrere un'altra volta allo stesso ufficio.

        CITTADINI ROMANI AL VOTO

        IL PLEBISCITO

        La Lex Villia fu promulgata per Plebiscito cioè "interrogazione alla classe sociale dei plebei".
        Il plebis scitum indicava la deliberazione della sola plebe riunita nei Concilia Plebis. Inizialmente funzionava sui soli plebei. Ma con la Lex Hortensia nel 287 a.c., si promulgò che decisioni assunte nei concilia plebis vincolassero tutti i cittadini.

        Nell'età imperiale, venendo meno la distinzione tra popolo e plebe, venne meno anche la differenza tra plebiscito e legge. La maggior parte dei provvedimenti legislativi, sebbene indicati dai giuristi romani come leggi, erano in realtà plebisciti. Tanto contava all'epoca il popolo romano. Nessuna odierna democrazia prevede tanto spazio al popolo.



        IL CURSUS E L'ONORE

        Il Cursus Honorum era importantissimo per i romani, non solo per le cariche pubbliche, ma anche per la rispettabilità e l'onore del romano. Nessuno avrebbe iniziato un qualsiasi lavoro di un minimo di prestigio se prima non aveva assolto la sua parte di militare, combattendo in qualsiasi grado nell'esercito.

        Tra il 90 e l'88 a.c., Cicerone servì sotto Gneo Pompeo Strabone e Lucio Cornelio Silla durante le campagne della Guerra sociale, per poter poi tentare la magistratura.
        Narra Properzio che Mecenate abbia partecipato alle campagne di Modena, di Filippi e di Perugia prima di dedicarsi alla sua splendida villa e alla corte di Augusto.
        Insomma anche i grandi dovevano farsi onore dimostrando l'amor di patria.

        Aver combattuto per Roma era la garanzia del buon cives romanus, e qualsiasi ricco, anche non aristocratico cittadino avrebbe aperto la porta di casa a gente che non avesse potuto raccontare della vita da legionario spesa per un certo periodo a favore della patria.

        Tutto questo finirà con l'avvento del cristianesimo che considerava la guerra peccato, però assoldava militari stranieri per combatterla e questi non avevano nè il sacro fuoco dell'eroismo, nè l'amore per una patria acquisita. Così cadrà l'amor di patria, l'eroismo, il mito di Roma e l'importanza del Cursus Honorum.


        Il Nepotismo

        Il cursus honorum, cioè il corso degli onori conseguito o da conseguire, cominciava ufficialmente con dieci anni di servizio militare nella cavalleria romana o nello staff di un generale che era un parente o un amico della famiglia. Il nepotismo non veniva condannato, perchè ogni famiglia prestigiosa doveva continuamente tenere alto il prestigio, o combattendo valorosamente in guerra e o costruendo a proprie spese edifici pubblici a favore del popolo. Fatto sta però che il membro della familia prestigiosa doveva tenere alto questo prestigio, dimostrando valore e capacità in guerra, e magnanimità verso lo stato e i cittadini in tempo di pace. Pertanto il nepotismo era garanzia di grande impegno per non far sfigurare la gens e gli avi.

        I candidati romani per i pubblici uffici erano dunque scelti per la reputazione personale e per quella della loro famiglia. Era anche vero che il membro di una famiglia gloriosa veniva allevato al rispetto e al valore di questa gloria che lui doveva assolutamente emulare, per cui nessuno osava sconfessare questi valori, anche a costo della vita.

        I candidati che provenivano dalle famiglie più antiche erano quindi favoriti perché potevano usare le abilità dei loro antenati per la loro propaganda elettorale.





        I PRIMI PASSI

        Il primo passo si compiva attorno all'età di vent'anni, ricoprendo il tribunato militare per almeno due o tre anni di carica (tribunus laticlavius). I passaggi successivi del cursus honorum erano realizzati tramite elezioni dirette che si svolgevano annualmente.



        TRIBUNUS LACTICLAVUS

        Con la riforma di Gaio Mario il tribunus lacticlavus si trovava come II in grado rispetto al legatus legionis, il comandante di legione, e superiore degli altri cinque tribuni angusticlavi (tradizionalmente appartenenti all'ordine equestre) e più tardi del praefectus castrorum.

        Questa carica era il I gradino obbligatorio del cursus honorum delle famiglie senatoriali. Questi portava il lacticlavius, una striscia di porpora sulle spalle, fissata su una tunica bianca, e che cadeva avanti e dietro in senso verticale per la lunghezza della tunica. Il nome deriva da latus (largo) e clavium (ornamento fissato sull'abito), quindi ornamento largo. Il laticlavio ancora più largo era riservato ai senatori. Invece, i cavalieri portavano una striscia di porpora più stretta, ovvero l'angusticlavio.

        Riepilogando:
        la banda purpurea stretta andava agli equites, i cavalieri;
        la banda purpurea media andava al tribuno lacticlavio
        la banda purpurea larga andava ai senatori
        la banda purpurea larga andava anche sulle toghe dei bambini come segno di inviolabilità (toga praetexta).

        Svetonio narra che Augusto permise ai figli dei senatori, per velocizzare il loro apprendimento, di vestire con il lacticlavio, poco dopo aver indossato la toga virile e di assistere alle sedute del Senato. Coloro poi, che avessero affrontato la carriera militare, potevano entrare sia nella legione con il grado di tribunus laticlavius, o nelle truppe ausiliarie con il grado di praefectus alae. E affinchè ciascun figlio maschio di senatore affrontasse la vita militare, mise due ufficiali con il laticlavio al comando di ciascuna ala di cavalleria.

        Il tribuno laticlavio di solito aveva vent'anni (a parte Tiberio, che ricoprì la carica a 16 anni), e apparteneva alle più ricche famiglie di Roma, subordinato al solo legatus legionis. Dopo due o tre anni di questo incarico poteva accedere al gradino successivo, tornando nella capitale ed ottenendo la carica annuale di questore.



        QUESTORE
         
        Il secondo passo era quello di Questore (quaestor). I candidati dovevano avere almeno 30 anni (con la riforma di Augusto 25 anni). Ma i patrizi potevano anticipare la candidatura di due anni, per questa o per qualsiasi carica.

        Da otto a dodici questori servivano nella amministrazione finanziaria a Roma o come secondi dei governatori.

        L'elezione a questore comportava, fin dalla tarda repubblica, la nomina a senatore.



        EDILE


        Il terzo passo avveniva a 36 anni, quando gli ex questori si potevano candidare per l'elezione ad una delle quattro cariche di Edile (aedilis). Gli edili avevano responsabilità amministrative a Roma, soprattutto nelle infrastrutture, e spesso organizzavano giochi alla fine della carica. Gli edili erano solitamente due patrizi e due plebei. Questo passaggio era facoltativo.



        PRETORE


        Il terzo o quarto passo (a seconda si sia passati o meno per l'edilità) era quello di pretore (Praetor). Sei Pretori  erano eletti tra uomini di almeno 39 anni (con la riforma di Augusto 33). Principalmente avevano responsabilità giudiziarie a Roma. Ma potevano comandare una legione e governare, alla fine del loro mandato, province non assegnate ai consoli.

        - Praetor urbanus, che amministrava cause giudiziarie tra cittadini romani; 
        - Praetor peregrinus, che amministrava la giustizia in cause in cui almeno una delle due parti non aveva la cittadinanza romana:
        - Praetor aerarii, incaricato della sovrintendenza dell'aerarium. Gli ex pretori spesso rivestivano cariche con competenze simili a quelle della pretura, ma non vincolate dalle norme dell'annualità e dell'intervallo di tempo che regolava l'accesso alle magistrature. 



        CONSOLE

        Il quarto o quinto passo era il Consolato. La carica di Consul era la più prestigiosa di tutte e rappresentava il vertice della carriera. L'età minima era 42 anni (con la riforma di Augusto 33). I nomi dei due consoli eletti identificavano l'anno (es. era l'anno del console Tizio).
        I consoli erano responsabili della vita politica della città, controllando che tutte le cariche si svolgessero secondo giustizia, comandavano eserciti di grandi dimensioni e governavano, alla fine del loro mandato, province importanti. Un secondo mandato come console poteva essere tentato solo dopo un intervallo di 10 anni.




        ALTRE CARICHE IMPORTANTI



        CENSORE

        L'ufficio di Censor all'inizio aveva una durata di cinque anni; in seguito la permanenza in carica fu diminuita a 18 mesi anziché i 12 mesi usuali. Anche se non aveva l'imperium militare, la carica di Censore era considerata un grande onore. I censori erano responsabili dello stato morale della città, avviavano grandi lavori pubblici e selezionavano i membri del Senato, ma potevano anche decretarne l'espulsione, in genere per indebitamento eccessivo.



        TRIBUNO DELLA PLEBE

        Passo importante nella carriera politica di un plebeo, anche se non faceva parte del cursus honorum, però facilitava la carriera successiva. Soprattutto conferiva l'assoluta inviolabilità della sua persona (violata solo nell'assassinio di uno dei Gracchi) per cui, in epoca imperiale, l' imperator  si faceva attribuire senza soluzione di continuità la tribunicia potestas, oltre al ruolo ufficiale di difensore della plebe.

        Aver tenuto ogni carica all'età più giovane possibile era considerato un grande successo politico, poiché mancare la pretura a 39 anni significava che si sarebbe potuti diventare console solo dopo i 42.
        Cicerone espresse il suo estremo orgoglio sia per essere un homo novus (come, prima di lui Gaio Mario), cioè una persona che era diventata console senza che nessuno dei suoi antenati lo fosse stato in precedenza, sia nell'essere stato eletto console "in suo anno".




        CARICHE IMPORTANTI ALDIFUORI DEL CURSUS

        GOVERNATORE

        - (gubernator), un ufficiale (magistrato o promagistrato) eletto o insediato a capo dell'amministrazione di una provincia romana, durante il periodo repubblicano o imperiale.



        PROCONSOLE

        - (proconsul) promagistrato romano, a volte ex console incaricato di governare una provincia romana.



        PONTEFICE MASSIMO

        - (pontifex maximus) - la più alta carica religiosa, inviolabile.



        PRINCEPS SENATUS

         - (presidente del Senato) - primo inter pares, primo tra i pari grado, era il portavoce ufficiale e aveva il diritto di votare per primo, influenzando la votazione degli altri.



        PRAEFECTUS URBI

        - in origine custos urbi. Tito Livio narra di un praefectus urbi il quale in seguito alla cacciata dell'ultimo re di Roma, Tarquinio il Superbo, convocò i comizi centuriati che elessero i primi due consoli. Ebbe un grande potere, cioè la sovrintendenza su macellai, banchieri, guardie, teatri e milites stationarii, e sulla polizia urbana delle coorti urbane. Aveva anche giurisdizione sui casi riguardanti schiavi o i liberti vs. loro padroni ed ex-padroni, come pure sui figli accusati di mancata pietas verso i genitori.



        CURSUS HONORUM SOTTO CESARE


        Cesare creò un cursus honorum per il centurionato, che si basava sui meriti del singolo e non sulla sua gens o familia, nè tantomeno che fosse patrizio o plebeo, tanto che a seguito di gesti particolari di eroismo, alcuni soldati potevano essere promossi ai primi ordines, dove al vertice si trovava il primus pilus della legione. 

        Inoltre, poteva anche avvenire che un primus pilus venisse promosso a tribunus militum. Precedentemente i tribuni erano nominati dal Senato e per avere questo incarico era sufficiente far parte della classe senatoria.

        Aver basato un cursum honorum per il centurionato sul valore e non sul censo, ricordiamo che Cesare aveva le nomine facili, spronava molto i suoi ad emergere a tutti i costi in battaglia, fu una vera rivoluzione perchè dette una spinta non indifferente alla carriera di chiunque lo meritasse.



        I DUE CURSUM HONORUM SOTTO AUGUSTO


        Nella repubblica la condizione necessaria per accedere al cursus honorum (come prima carica per i figli dei senatori), era aver già rivestito cariche minori che facevano parte del Vigintisexvirato, primo scalino ai figli dei senatori per iniziare la carriera politica.

        Infatti Giulio Cesare ebbe l'incarico di curator viarum e restaurò parti della Via Appia.

        Nel 13 d.c., tuttavia il Senato approvò un senatus consultum che riservava l'oramai ridotto vigintivirato all'ordine equestre. Ottaviano Augusto abolì i due curatori delle strade (duoviri viis extra urbem purgandis ) ed i quattro prefetti Campani (praefecti Capuan Cumas), cambiando così i vigintisexviri in vigintiviri (venti uomini).

        Augusto ritoccò il cursus honorum e rese obbligatoria la carica nel vigintivirato (un collegio costituito da 20 membri con varie funzioni pubbliche).

        In età imperiale, dunque, il cursus honorum si sviluppava solitamente secondo le seguenti tappe: 

        1) - Un anno di tribunato militare (a partire dai 17 anni); 
        - se si apparteneva all'ordine senatorio, si accedeva alla carica di tribunus militum laticlavius
        - se si apparteneva all'ordine equestre, si diveniva tribunus militum angusticlavii

        La differenza tra i due tribuni stava nell'avere una banda purpurea sulla toga più larga per il tribuno senatorio, più stretta per il tribuno equestre. 



        SENATORI

        Augusto dettò dei parametri d'avanzamento per chiunque, in particolare per l'ordine equestre.




        CARICHE PRELIMINARI PER SENATORI


        VIGINTIVIR 

        Nella Repubblica Romana vi furono i Vigintisexviri (Ventisei uomini), un collegio (collegium) di magistrati minori (magistratus minores) divisi in:
        - triumviri capitales -  aiutavano il pretore nelle cause penali;
        triumviri monetales aere auro argento lando feriundo (AAAFF) - preposti al funzionamento ed al controllo della zecca;
        quattuorviri viarum curandarum - per la manutenzione delle strade all'interno di Roma;
        - due curatores viarum - per le strade fuori da Roma,
        decemviri stilitibus iudicandis - che collaboravano con il pretore nelle cause civili;
        - quattro praefecti Capuam Cumas - inviati in Campania a Capua e Cuma per amministrarvi la giustizia.

        Sotto Augusto il cursus honorum si sviluppava solitamente secondo le seguenti tappe: 
        1) - Un anno di tribunato militare (a partire dai 17 anni); 
        - se si apparteneva all'ordine senatorio, si accedeva alla carica di tribunus militum laticlavius; 
        - se si apparteneva all'ordine equestre, si diveniva tribunus militum angusticlavii. 

        La differenza tra i due tribuni stava nell'avere una banda purpurea sulla toga più larga per il tribuno senatorio, più stretta per il tribuno equestre.


        TRIBUNO LACTICLAVUS - (vedi sopra);




        CARICHE INTERMEDIE

        CURATORE (di strade, di acqua, di approvvigionamenti ecc.), 

        LEGATO 

        che si suddivideva in
        Legatus pro praetore, che faceva le veci del console  in absentia e a cui spettava il comando di una o due legioni in epoca repubblicana.
        - Legatus legionis, un ex pretore comandante di una legione, in province imperiale con più di una legione (tranne Egitto e Mesopotamia).
        - Legatus Augusti pro praetore, un ex console o un ex pretore cui era dato il governo di una provincia romana.
        - Proconsole; chi agiva al posto di (pro) un magistrato ufficiale. Aveva tutta l’autorità di un console, ed era in alcuni casi un ex-console la cui carica governatoriale veniva reiterata di un altro mandato (prorogatio imperii).




        MAGISTRATURE 

        QUESTORE 


        STATUA DI GIOVANE MAGISTRATO ROMANO
        possedeva giurisdizione penale, competenze amministrative, supervisionando e gestendo il tesoro e le finanze. Occorrevano almeno 27 anni. Vi erano diversi tipi di questori:

        - quaestor urbanus, una sorta di tesoriere statale; 
        - quaestor propretore provinciae, incaricato dell'amministrazione finanziaria delle province senatorie, con poteri propretorii, equivalenti al pretore; 
        - quaestor principis, portavoce in Senato dell'imperatore; 
        - quaestor consulis, portavoce in senato del console. 
        - quaestores Caesaris rappresentavano l'imperatore in senato.



        EDILE
        - (aediles) erano magistrati di antiche città sabine e latine, tra cui Roma.



        TRIBUNO DELLA PLEBE 
        la prima magistratura plebea a Roma, dotata di sacrosantitas (inviolabilità).



        PRETORE 
        praetor, un magistrato dotato di imperium (poter emanare ordini inappellabili, come i fasci littori o i dictator) e iurisdictio (potere di impostare in termini giuridici la controversia). Al Praetor spettava l'actio, con cui permetteva ad un cittadino romano che chiedeva tutela, nel caso in cui non ci fosse una lex a tutela, di agire in giudizio dinnanzi al magistrato.



        CONSOLE
        - uno dei due magistrati che, eletti ogni anno, esercitavano collegialmente il supremo potere civile e militare.



        SACERDOTI

        - Flamini - 3 maggiori e 12 minori, addetti ciascuno al culto di una divinità;
        - Pontefici - in numero di 16, con a capo il Pontefice massimo, per la sorveglianza e governo del culto;
        - Auguri - 16 sotto Giulio Cesare, per l'interpretazione degli auspici e verifica del consenso degli dei;
        - Vestali - 6 sacerdotesse consacrate a Vesta;
        - Decemviri o Quimdecemviri sacris faciundis - per la divinazione e l'interpretazione dei Libri sibillini;
        - Epuloni - addetti ai banchetti sacri.



        SODALIZI

        A Roma vi erano quattro grandi confraternite religiose:

        ARVALI -  (Fratres Arvales), ("fratelli dei campi" o "fratelli di Romolo"), dodici, addetti al culto della Dea Dia, a maggio compivano un'antichissima cerimonia di purificazione dei campi, gli Arvalia.
        LUPERCI - presiedevano la festa di purificazione e fecondazione dei Lupercalia, divisi in Quintiali eFabiani.
        SALII - sacerdoti di Marte, divisi in due gruppi da dodici detti Collini e Palatini. A marzo e ottobre portavano in processione i 12 ancilia, dodici scudi di cui il primo donato da Marte al re Numa Pompilio.
        FEZIALI - (Fetiales), 20 membri addetti a trattare con il nemico. La guerra per essere Bellum Iustum doveva essere dichiarata secondo il rito corretto, il Pater Patratuspronunciava una formula mentre scagliava il giavellotto in territorio nemico.




        CARICHE EQUESTRI

        Milizie equestri:

        PREFETTO DI COORTE
        - che comandava una coorte;

        TRIBUNO AUGUSTICLAVIO
        - di legione;

        TRIPLO TRIBUNO A ROMA
        - vigili, coorti urbane e coorti pretorie;

        PREFETTO D'ALA
        - (praefectus alae);

        PROCURATOR AUGUSTI
        - per conto dell'imperatore a controlli amministrativi di carattere palatino a seconda degli uffici di Roma:

        - cancelleresco (di cancelleria)
        - tributario (es. a studiis, ab epistulis, XX hereditatium), 
        - finanziario provinciale - di maggior rango in province con più di una legione es. Belgica et duarum Germaniarum, Syria) 
        - presidiale - di maggior rango in province con più auxilia es. Mauretania, Rezia etc; 



        PREFECTUS PRAETORIO

        - comandava la guardia del corpo dell'imperatore, cioè la guardia pretoria; con la riforma di Diocleziano.300 d.c., divennero gli amministratori delle prefetture pretorie e costituivano il Fastigium equestre, cioè l'apice della carriera di un cavaliere; 

        - praefectus urbi - di rango senatorio, che si occupava della città di Roma;
        - praefectus vigilum - comandante dei vigiles;
        - praefectus annonae - responsabile dell'annona (rifornimento alimentare della città);
        - praefectus vehiculorum - responsabile del cursus publicus, servizio imperiale di posta all'interno dell'Impero. Iniziò sotto Augusto.



        CON INCARICHI PROVINCIALI

        - praefectus Alexandreae et Aegypti
        - poi praefectus augustalis (governatore della provincia d'Egitto);
        - praefectus Mesopotamiae - governatore della provincia di Mesopotamia da Settimio Severo;
        - praefectus Sardiniae - governatore della provincia di Sardegna (età augusteo-tiberiana);
        - praefectus Iudaeae - ufficiale con autorità sul distretto di Giudea (età augusteo-tiberiana);
        - praefectus gentis o civitatium - ufficiale che aveva autorità su alcune popolazioni non romanizzate;
        - praefectus Caesaris - sostituto dell'imperatore (o di altra personalità, nelle cariche municipali);
        con incarichi militari:
        - praefectus legionis - comandante, di rango equestre, della legione;
        - praefectus legionis agens vice legati - comandante di legione con delega di legato;
        - praefectus castrorum - comandante dell'accampamento militare sembra di istituzione augustea;
        - praefectus aerarii militaris - responsabile dell'aerarium militare;
        - praefectus fabrum - ufficiale a capo del genio militare solo nell'Alto Impero;
        - praefectus sexmenstris - comandante con un incarico di soli 6 mesi;
        - praefectus alae - comandante di una turma di cavalleria;
        - praefectus equitum - comandante di cavalleria, in sostanza di ala e quindi associabile al praefectus alae);
        - praefectus cohortis - comandante di coorte;
        - praefectus militum - comandante di unità militari generiche;
        - praefectus veteranorum legionis (comandante dei veterani legionari);



        CON INCARICHI NELLA FLOTTA

        - praefectus classis - comandante di una delle flotte imperiali:
        - praefectus classis Misenis e praefectus classis Ravennatis - comandanti delle due flotte pretorie;
        - praefectus classis Alexandrinae - comandante della flotta sul Nilo;
        - praefectus classis Germanicae - comandante della flotta sul Reno e Danubio;
        - praefectus classis Britannicae - comandante della flotta sul Tamigi e sulla Manica;
        - praefectus ripae Danuvii e di altri fiumi - responsabile delle sponde e delle acque del Danubio;
        - praefectus orae maritimae - con compiti di controllo litoraneo;


        LA FRUTTA DEI ROMANI

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        « Faceva servire tre portate o sei quando esagerava, non spendendo eccessivamente, seppure risultando estremamente affabile. Infatti, quando gli ospiti tacevano o parlavano a voce bassa, li trascinava in una conversazione generale o faceva intervenire narratori, istrioni e anche ordinari attori del circo, più frequentemente ciarlatani. »

        (Svetonio, Augustus, 74.)


        Una parte notevole del nutrimento degli antichi sia in Grecia sia a Roma era costituito da vegetali, verdure e radici, ma anche frutta selvatica o coltivata. La frutta era una grande risorsa perchè, come scriveva Varrone (De re rust., I, 2, 6) nel suolo italico "tota pomarium videtur".

        Insomma nell'impero si gustava di tutto, sia risorse romane che straniere. Come nessun popolo i Romani cercarono cibi nuovi importandolo da ogni lato del mondo, e soprattutto sperimentando e inventando sempre nuove ricette con ingredienti nuovi.

        Si cercò anche di innestare e migliorare i generi degli alberi da frutta (Plinio, Nat. hist., XV, 73) inventando sempre varietà nuove che purtroppo in gran parte sono andate perdute, perchè caduto l'impero romano cadde ogni entusiasmo e ogni curiosità, perchè anche il cibo era strumento del demonio.

        Per i romani invece era non solo una curiosità ma una passione. Non esisteva un ruolo fisso per cui un romano doveva occuparsi solo della sua professione. Un grande generale poteva fare lo scrittore come Plinio, o il collezionista d'arte come Mecenate, o l'architetto come Agrippa, oppure la sua passione era innestare la frutta per inventare un prodotto nuovo, che per giunta avrebbe potato il suo nome.

        Questa poliedricità sarebbe scomparsa con la caduta dell'impero.

        - per esempio Plinio il giovane cita una pira (pera) Dolabelliana, (che si crede di Publio Cornelio Dolabella 69-43 a.c.),
        - pira Pomponiana,
        - pira Seviana,
        - pira Aniciana
        - pira Martiana
        - pira Decimiana (forse di un certo Decinianus della gens Claudia)
        - mala Manliana
        - mala Mattiana derivò il suo nome dal botanico Caius Matius Calvena, noto per la sua amicizia con Giulio Cesare e Cicerone.
        - mala Cestiana

        La carne infatti era cibo raro, almeno nella mensa del ceto povero ma pure del ceto medio.




        LE BACCHE

        Anche le bacche erano considerati frutti:


        - LA ROSA (ovvero il cinorrodo della rosa)

        La rosa canina era la specie di rosa spontanea più comune sul suolo italico, molto frequente nelle siepi e ai margini dei boschi. La rosa risultava commestibile o almeno il cinorrodo della rosa, cioè il suo frutto (anche se non è un frutto vero e proprio), ma la rosa conosciuta sai romani era la rosa selvatica, il cui frutto era ritenuto nutriente e curativo, e in effetti è carico di vitamina C.

        Con questo si facevano delle salse per i cibi salati ma pure dolci o vellutate da mangiare da sole o per guarnire delle torte. A volte si scioglievano nell'acqua insieme a delle essenze di altri fiori per farne bevande rinfrescanti. Anche i petali, uniti col miele ed altre essenze erano un cibo raffinato.


        - LA MORA (rubus)

        Ne usavano sia di fresche che di elaborate con miele ed essenze per le cucine agrodolci.
        Mentre però il lampone, l’uva spina e il ribes, potevano essere coltivati, non c'era l'equivalente nelle more, dato che a nessuno piaceva avere nella sua terra un rovo infestante che soffocasse qualsiasi altra pianta.

        Per questo il rovo si è sempre limitato ai confini del terreno o del bosco, ma niente di più. Tanto più che i romani come proprietari terrieri erano sempre attenti al business.


        - IL LAMPONE (rubus),

        Di sapore un po' simile alla mora, anch'esso dolce ma più tendente all'acidulo. Quando è maturo acquista un bel colore rosso che non scurisce come il frutto della mora cui per altro somiglia molto. Veniva molto usato per le bevande rinfrescanti ma anche per farcire degli arrosti irrorati di vini rossi e corposi.
        Si tratta di un frutto selvatico reperibile nei boschi, cosa che oggi lo rende alquanto raro e costoso, ma all'epoca, per i contadini e per gli schiavi il problema del reperimento non esisteva.


        - IL PRUGNOLO SELVATICO o PRUNO (prunus)

        È una pianta spinosa spontanea dell'Europa, Asia, e Africa settentrionale; cresce ai margini dei boschi e dei sentieri. I romani li conoscevano e li apprezzavano, in genere elaborati tramite cottura e aggiunta di miele, comunque ne usavano anche di freschi, per il sapore aspro e aromatico insieme. Ricordiamo che i romani non usavano il limone in cucina, frutto conosciuto ma usato solo come medicina.

        Per dare un sapore aspro ai cibi usavano invece l'aceto o dei frutti selvatici carichi di tannino che dava loro appunto il sapore aspro. La cucina romana indulgeva molto sui sapori agrodolci e sull'enorme elaborazione delle ricette.


        - LA FRAGOLA (fragaria)

        La fragola selvatica è probabilmente la più delicata tra i frutti di bosco. E' pure uno dei frutti più gustosi del bosco, particolarmente adatto ai suoli di origine vulcanica.

        Poichè il suolo italico è in gran parte vulcanico, a cominciare dalla città di Roma, i romani non solo l'apprezzarono ma la coltivarono con grande successo.

        Naturalmente, allora come oggi, non c'era confronto tra le fragoline di bosco e quelle coltivate, e solo i più ricchi potevano concedersi le prime, a meno che non andassero personalmente a cercarsele nella vegetazione del sottobosco.
        C'è anche da aggiungere che all'epoca di boschi ce4 n'erano tanti, pe cui non era difficile reperire i frutti del sottobosco.


        - IL PINOLO (pinus)

        Il pinolo o pignolo, cioè la bacca del pino, veniva impiegata soprattutto per fare dolci, senza dimenticare che la bianca corteccia interna del pino veniva macinata per produrre una farina, poco ricercata per il gusto ma molto nutriente per i componenti.

        Pertanto dal pino di potevano ottenere, oltre alla legna, i pinoli e la corteccia ad uso culinario. L'uso preminente dei pinoli era mescolarli al miele o alla melassa bollenti, da soli o unitamente ad altra frutta secca. Venivano poi usati per fare le torte, ma anche per condimenti su carni e pesci.


        - LA GHIANDA

        Le ghiande sono il frutto delle querce e vennero usate però non come frutti ma per produrne farina dopo averle depurate del tannino. La ghianda veniva dichiarata dagli antichi come il frutto caratteristico degli uomini primitivi, e ancora degli Arcadi in tempi storici, e di ogni età e di ogni paese in tempi di carestia. Tuttavia se ne mangiarono normalmente sia in Grecia che sul suolo italico, soprattutto nel mondo contadino.


        - LA CORNIOLA (corna)

        Le corniole, secondo Omero vennero usata dapprima a nutrire i porci, ma poi passata anche a servire di cibo agli uomini; il che corrisponde a verità anche sul suolo romano.

        Si tratta di frutti rossi simili a ciliegie, di sapore aromatico ma asprigno e acerbo, pertanto occorre metterli sotto acqua salata per un certo periodo, e poi condirli con foglie di alloro e semi di finocchio prima di consumarli.

        Per i piatti salati entravano soprattutto nella farcitura della cacciagione. Venivano usate molto anche per salse in agrodolce, sempre per piatti di selvaggina ma anche per carni rosse in generale.

        I romani li usavano per farne sciroppi e dolci. Oppure venivano serviti bicchieri con acqua e sciroppo di cornioli, di sapore un po' acidulo, per preparare lo stomaco alle nuove portate. Insomma come uggi serviamo i sorbetti al limone durante pranzi importanti.

        Spesso le corniole venivano unite con frutti meno aciduli come le pere, le mele e il sambuco per prepararne dolci al cucchiaio.


        - IL GINEPRO

        E' una delle Cupressacea ed è presente in tutta Europa fin dai tempi più antichi. Presenta frutti piccoli e tondeggianti o oblunghi, secondo le varietà, di un bel colore violetto chiaro, che richiama certi tipi di prugne. I suoi frutti autunnali venivano raccolti e lasciati essiccare in luogo ventilato per poterle poi raccoglierle in vasi ed usufruirne tutto l'anno.

        I romani ne conoscevano e apprezzavano le bacche fin dai tempi più antichi, per l'aroma molto particolare che davano alle pietanze. Si usavano negli arrosti e soprattutto nei ripieni molto saporiti e piccanti, insieme al finocchio selvatico e al timo, soprattutto di uso invernale, da accompagnare con vini rossi, forti e secchi.


        - L'AGNOCASTO (Vitex agnus-castus)

        E' una verbenacea che cresce presso il litorale di quasi tutta la regione mediterranea e nell'Asia occidentale sino in Persia, ma è spesso coltivato anche lontano dal litorale. agnocasto La medicina tradizionale ha sempre attribuito a questa pianta proprietà calmanti e in particolare quella di placare il desiderio sessuale.

        Infatti nel Medioevo venivano piantate nell’orto dei conventi pianticelle di agnocasto e si mettevano i boccioli della pianta nelle tasche dei novizi, sperando di annullarne le pulsioni sessuali. I suoi frutti hanno un sapore leggermente amarognolo come il loro profumo e per questo veniva dai raffinati romani unito alle giuggiole o al miele. Aveva inoltre un sapore leggermente piccante ma molto meno del pepe nero, veniva usato per dolci ma pure nelle zuppe.





        FRUTTA SECCA


        - LA NOCE (Juglans regia)

        Il noce è una pianta della regione mediterranea orientale e dell'Asia occidentale, essa era noto ai Greci che lo trascurarono finché non ricevettero dalla Persia una varietà detta del Re.
        Si chiama noce la parte commestibile del frutto dell'albero del noce, ovvero il seme contenuto in una drupa, insieme al suo endocarpo legnoso.

        I Romani lo coltivavano dall'epoca dei re e lo ritenevano d'origine persiana: è noto il vecchio uso che essi avevano di gettar noci nelle feste nuziali. Del noce parlano Varrone, Plinio e Dioscuride.

        Il frutto del noce fu sacro a Diana Caria, di cui esisteva un monastero e un santuario in quel di Benevento. Le sacerdotesse eseguivano riti segreti che vennero poi proibiti dal cristianesimo, Le sacerdotesse usavano danzare attorno all'albero sacro, da cui la leggenda delle streghe che danzavano attorno al noce di Benevento. con relativi roghi e torture.


        - LA MANDORLA (amigdala)

        Il mandorlo è originario della Regione mediterranea e dell'Asia occidentale temperata. È citato da Teofrasto e da Dioscuride, Plinio però dubita che fosse conosciuto dai Romani all'epoca di Catone. L'uso delle mandorle dolci e amare passarono dalla Grecia a Roma; si credeva che mangiate prima del vino impedissero l'ebbrezza.

        Le mandorle vennero molto utilizzato in diverse cucine tradizionali nell'area del mediterraneo, in particolare nella cucina siciliana e nella cucina pugliese. Sia nel dolce che nel salato. Vennero usate sia per piatti salati che per piatti dolci. Oppure venivano servite accanto alla frutta polposa.


        - I PISTACCHI (pistacia)

        I pistacchi, venuti dall'Oriente, sono semi contenuti in una drupa, erano talvolta considerati come commestibili, ma soprattutto per mescolarli ad alcune pietanze della raffinata cucina romana.


        - LE NOCCIOLE

        Pure conosciute erano le nocciole; se ne citano di Abella nella Campania e di Preneste.




        LA FRUTTA CARNOSA


        - IL FICO (ficus)

        Si ritiene nativo della Caria, in Asia Minore. Prima dei romani venne coltivato in Palestina, in Egitto, nelle regioni Caucasiche, e in Grecia. Il fico si mangiava fresco e secco e i freschi erano assai apprezzati, mentre i secchi formavano il nutrimento occasionale più usato in qualunque momento della giornata. In taluni luoghi i fichi tenevano luogo di pane e Catone (De re rustica, 56) consiglia di diminuire agli schiavi la razione di pane nella stagione dei fichi.

        Il fico si mangiava fresco e secco e i freschi erano assai apprezzati, mentre i secchi formavano il nutrimento occasionale più usato in qualunque momento della giornata. In realtà, specie in Campania, i romani amavano molto mangiare pane e fichi.

        Era sacro presso i greci e i romani, perchè quando era un po' acerbo emetteva un liquido che somigliava al latte, perciò era sacro alla Dea che allattava, per i romani alla Dea Rumina, antichissima Dea preromana e romana, cui era appunto dedicato nel Foro Romano il Ficus Ruminalis.


        - IL SICOMORO (ficus sycomorus, ficus aegyptia)

        Il frutto, commestibile e apprezzato, è in realtà una grossa infiorescenza carnosa piriforme (siconio), all'interno della quale sono racchiusi i fiori della pianta.


        - LA MELA (malum)

        Nelle sue numerose varietà, la mela non è mai un frutto, bensì un pomo dove il vero frutto è il torsolo, mentre la parte commestibile è il ricettacolo del torsolo. Presso i romani veniva mangiata sia cruda che cotta e in questo caso dolcificata col miele o con la melassa. Non dimentichiamo che i romani conoscevano la barbabietola da cui estraevano appunto una melassa dolcificante. Veniva usata soprattutto dai ceti più bassi per la facilità della sua coltivazione e del suo mantenimento.


        - LA MELA COTOGNA (malum cotoneum)

        Venne identificata da alcune fonti greche con i pomi delle Esperidi.
        Dai romani vennero conosciute ed usate abbastanza presto ed era considerato frutto sacro ad Afrodite, citata da Catone, Plinio e Virgilio.

        Ve ne erano diverse qualità ma poche erano adatte ad essere mangiate crude; in generale si cucinavano col miele o con la melassa. In realtà in epoca romana se ne facevano soprattutto una specie di marmellata con cui si confezionavano dolci e biscotti.

        Venivano pure bollite col miele unite a mandorle e noci.


        - LA MALUM MUSTERIUM

        Era una mela prodotta innestando il cotogno col melo comune ottenendone una varietà molto apprezzata dai romani. Sembra fosse particolarmente ricercata, di un sapore leggermente asprigno e pure notevolmente compatta, si che si usava come oggi si usa la frutta disidratata, come un intermezzo o per confezionare dolci.

        Aveva il pregio di mantenersi a lungo. Oggi questo innesto non sembra prodursi ancora, preferendo l'innesto del cotogno sul pero in modo da ottenere un frutto più morbido e dolce. I gusti cambiano.


        - LA PERA (pirum)

        Nativa dell'Europa, ma per altri dell'Asia Minore, facilmente da ambedue le parti, era nota presso i romani in parecchie qualità differenti, enumerate da Plinio (XV, 16) e non tutte ancora identificate, anche perchè probabilmente alcune specie si sono estinte.

        Anche essa, come la mela, era mangiata cruda e cotta e serviva anche a fare particolari piatti di cucina. Venivano pure conservate e seccate al sole e si mangiavano bollite nel vino.

        “Alcune pere rivelano di aver preso nome dai loro scopritori, è il caso della Decimiana e della pseudo-Decimiana da questa derivata, della Dolabelliana dal lungo picciolo, della protuberante Pomponiana, della Liceriana, della Seviana e di quelle che ne sono derivate, come la Turraniana che si distingue per il lungo picciolo, o la rossa Flavoniana, un po’ più grande della Superba, la Lateriana, la Aniciana, che matura in autunno ed ha un buon aroma acidulo. La Tiberiana prende il suo nome dall’Imperatore Tiberio al quale piaceva molto. Queste pere sono più colorate dal sole e hanno maggiore pezzatura, ma in fondo sono sempre Liceriana. Alcune pere portano il nome della regione di origine; le Amerine, peggiori di tutte, le Picetine, le Numantine, le Alessandrine, le Numidiane; le greche e tra queste le Tarentine, le Signine, che alcuni chiamano Testacea per il loro colore, cosa che accade per le Onicine o le Purpuree. Dal loro profumo prendono il nome le Myrapya (mirra),Laurea (alloro), Nardina (nardo); dalla stagione di maturazione le Hordearia (orzo); dalla loro forma le Ampulacea (ampolla).”

        (Historia NaturalisXV 15; tratto da Janick, 2002)

        San'Agostino, uno dei Padri della Chiesa Cattolica, ritenne la pera il frutto proibito che determinò il peccato originale, poi la Chiesa optò per la mela, Ma la pera aveva un precedente: era il frutto sacro dei Pitagorici che asserivano in essa fosse contenuto il mistero del cosmo.



        - LE NESPOLE (Mespilus germanica)

        Contrariamente alla tradizione che attribuisce le nespole ai soli giapponesi, le nespole del Giappone non hanno nulla a che fare con quelle dei romani, ovvero con quelle germaniche, che, molto diverse dalle orientali, sono asprigne e dure.

        I frutti infatti non possono essere consumati alla raccolta, ma vanno conservate in un ambiente asciutto e ventilato, cancellando così il forte sapore acido ed astringente, rendendole commestibili, escludendone però la parte della buccia e dei semi.

        Furono proprio le nespole germaniche ad essere adottate dai romani, però trattate a lungo e dolcificate, forse anche usate col vino. Secondo Plinio, che ne cita l'uso, erano ancora sconosciute al tempo di Catone.


        - LE SORBE (sorbum)

        Sono ricordate da Ippocrate (VI, p. 572) come medicinale astringente, Comunque la loro polpa veniva al tempo dei romani essiccata e a volte mescolata alla farina di grano quando era poca, per farne pane o focacce saporite.

        Esse sono come piccole polpose pere ma ormai pochi se ne ricordano. Un tempo i contadini raccoglievano le sorbe in autunno, quando ancora non erano commestibili e le ponevano sulla paglia a maturare, e col tempo diventavano dolci e profumate garantendo scorte di frutta energetica e ricca di vitamine, quando la stagione non offriva altri frutti.


        - LA PESCA (persicum)

        Originaria della Cina, giunse in Persia e quindi in Europa; dalla Persia ne deriva il nome.

        Pesca pesca In Egitto era sacra ad Arpocrate, il Dio del silenzio. Grazie ad Alessandro Magno si diffuse in tutto il bacino del Mar Mediterraneo. Pare infatti, secondo lo scrittore romano Rutilio Tauro Emiliano Palladio, che rimanesse affascinato dal frutto vellutato quando lo vide per la prima volta nei giardini di re Dario III, durante la spedizione contro la Persia.

        La pesca giunse a Roma nel I sec. d.c, e dapprima rappresentò un frutto raro e perciò riservato alla mensa dei ricchi, poi si diffuse in tutte le mense nella varietà persica semplice e in quelle duriora o duracina con la carne aderente al nocciolo.


        - L'ALBICOCCA (Prunus)

        Originaria della Cina nordorientale al confine con la Russia, si estese poi ad ovest attraverso l'Asia centrale sino ad arrivare in Armenia dove sembra venne scoperta da Alessandro Magno. Tuttavia furono i Romani a portarla non solo in Italia ma pure in Grecia, all'incirca nel 70-60 a.c.

        L'albicocca è inoltre menzionata da Dioscuride e pure da Plinio che la denomina Praecocium. Spesso veniva essiccata al sole per goderne nel lungo periodo in cui non se ne produceva.


        - LA MELAGRANA (malum granatum)

        Il melograno è ritenuto originario dell'Asia sudoccidentale, ed è stato coltivato nelle regioni caucasiche da tempi antichissimi.

        Esso è presente da epoca preistorica nell'area costiera del Mediterraneo, e vi venne diffuso dai Fenici e dai Greci che lo inserirono nelle loro colonie. Secondo la tradizione greca Afrodite stessa (Athen., III, p. 84) l'aveva piantata a Cipro.

        Inoltre l'Odissea (VII, 115) ne poneva l'albero nel giardino di Alcinoo. L'albero della mela granata venne dall'Oriente in alcune varietà, che i Greci e i Romani moltiplicarono traendone frutti e gusti diversi. Era considerato l'ultimo frutto dell'autunno e quindi il frutto della maturità e della saggezza.

        Pertanto nel mito greco Core, la giovane figlia di Demetra, non può tornare a sua madre come prima perchè ha mangiato sette chicchi di melograno che le hanno donato la conoscenza del lato oscuro, cioè l'Ade. Pertanto d'ora in poi lei parteciperà sia del lato luminoso che del lato oscuro, vivendo in parte sulla terra e in parte nell'Ade, il tutto dovuto all'aver mangiato del frutto della conoscenza; per i greci la melagranata.


        - IL GIUGGIOLO (lotus)

        Secondo la leggenda era stato il nutrimento dei Lotofagi che avrebbe rischiato di far perdere ai compagni di Ulisse il desiderio del ritorno in patria con l'allettamento della sua dolcezza (Odissea, I, 94). E' originaria dell'Asia ma in Italia e' presente fin dal tempo dei Romani.

        La giuggiola, colta non ancora matura, è verde ed ha un sapore di mela. Col procedere della maturazione scurisce, la superficie si fa rugosa e il sapore diviene più dolce, simile a quello di un dattero. Sembra che i romani ne mangiassero sia fresche che appassite, queste ultime spesso affogate nel vino (costituendo il cosiddetto brodo di giuggiole).


        - LA PRUGNA (cereum prunum)

        Nota in numerose varietà, non sempre per noi identificabili, fu di uso antico e largamente praticato; già i medici greci consigliano di adoperarle a scopo terapeutico, mescolate col miele e cotte.

        I termini “susina” e “prugna” vengono spesso usati come sinonimi, ma sono due diverse specie:
        - Prunus domestica e
        - Prunus salicina, comunemente indicati come susini europei e susini cino-giapponesi.

        La prugna (prunus domestica) e' leggermente piu' allungata rispetto alla susina (prunus salicina) che invece e' tondeggiante. La Susina è un frutto dal sapore lievemente acidulo con un discreto potere lassativo, il suo nome deriva da Susa, città della Persia dalla quale provengono diverse specie di prugne.

        La Prugna è il frutto di un albero (Prunus domestica) originario dell'Asia, in particolare della zona del Caucaso, ed è coltivata in tutta l'Europa. E' un frutto che può essere acquisito fresco in estate e autunno, ma può anche essere consumato essiccato lungo tutto l'anno. I romani conoscevano sia le prugne secche che quelle essiccate di cui conoscevano il potere lassativo. Molto apprezzate erano all'epoca le prugne di Damasco che si vendevano già snocciolate.


        - LA CILIEGIA (prunus avium)

        Nella forma selvatica esiste da tempo in Europa ed è rappresentato anche negli scavi preistorici, come in quelli della Lagozza. La cerasa, ovvero il Prunus cerasus deriva invece dal nome della città di Cerasunte (o meglio Giresun), nel Ponto (Turchia).

        Da qui, secondo Plinio il Vecchio, furono importati a Roma nel 72 a.c. da Lucio Licinio Lucullo i primi alberi di ciliegie dopo l'impresa di Mitridate.

        Sembra che da questa importazione Lucullo si arricchì non poco. Il ciliegio visciolo (Prunus cerasus) produce le amarene e le marasche, definite anche come ciliegie acide, mentre quelle tutt'ora normalmente consumate sono le ciliege del Prunis avium. V'era poi la ciliegia amara ottenuta dall’incrocio di un albero di Prunus Avium e l’alloro, che dava un prodotto squisito e leggermente amaro.

        Sembra che i romani ne conoscessero e apprezzassero tutte e tre le qualità.


        - IL DATTERO (palmulae)

        I datteri sono ricordati la prima volta dal poeta ditirambico Melanippide e rimasero lungamente usate come frutta esotica importata dall'estero, così in Grecia come in Roma; essi erano già noti al tempo di Platone; Plinio ne enumerava ben 50 varietà tra cui le più caratteristiche erano quelle di Gerico e della Tebaide.


        - L'OLIVA

        Raramente erano mangiate fresche le olive, come frutta da tavola, mentre talora veniva mangiato il frutto della persea, che è una pianta ancora per noi non bene identificata.


        - LA CARRUBA

        Poco apprezzato pare fosse il carrubo (siliqua graeca o syriaca) e Galeno lo sconsiglia come nocivo alla salute. Sembra però che entrasse nella ricetta di alcuni dolci dove veniva unito in polvere al miele e alle noci pestate traendone un sapore squisito.


        - L'UVA

        L'uva è per gli antichi una delle principali frutta da tavola, anzi Galeno afferma che c'era gente che durante due mesi non mangiava che fichi e uva con poco pane e stava ottimamente in salute; varie erano le qualità note delle uve commestibili e diversamente apprezzate. Molta importanza ha per gli antichi l'uva secca; se ne conoscono numerose varietà che richiedono ciascuna cure particolari.

        I Romani avevano di diverse qualità di uva sa tavola ancora oggi esistenti, come la Baresana, la Regina, Pizzutello, Sultanina bianca (fresca o essiccata).


        - Il SAMBUCO

        Il sambuco pare che fosse pure mangiato come frutta ma con particolare trattamento.


        - IL CORBEZZOLO

        Appare pure sulla mensa il corbezzolo, in Grecia almeno dal tempo di Pericle. A Roma era poco usata se non per fare salse o dolci.


        - LA CASTAGNA

        Le castagne, note sotto nomi diversi, erano pure generalmente conosciute e mangiate o direttamente o in forma di farina. Di largo uso veniva lessata, arrosto o essiccata, o cucinata con finocchio oppure in purea o zuppa.





        LE CUCURBITACEE

        Alcune cocurbitacee erano considerate frutta dai romani, ad esempio:


        - LA ZUCCA

        la zucca si mangiava bollita da sola o con acqua e aceto o con mostarda


        - IL CETRIOLO


        - IL POPONE

        Ovvero il melone, originario dell'Iran, dove venne usato fin dal V sec. a.c.




        LE RICETTE


        GLI SCIROPPI

        Si usava fare bollire a lungo fichi e mele cotogne nel mosto molto concentrato, tanto da ottenerne uno sciroppo che poteva essere usato anche come dolcificante.


        - LA "CASSATA" DI OPLONTIS

        In un affresco di un triclinio della Villa di Oplontis (Torre Annunziata) è raffigurato un dolce simile alla moderna cassata siciliana. Eccone la ricetta ricostruita approssimativamente: Tagliare a dadini la frutta secca di albicocche, prugne, uva sultanina, datteri e lasciare dei frutti per la decorazione. Far cuocere in poco miele noci e pinoli facendone una miscela caramellata. Far freddare e sminuzzare. Mescolare la ricotta con il miele fin quando la crema non diventa morbida.

        Aggiungere la frutta a dadini ed il caramello sminuzzato. A parte impastare la farina di mandorle con miele ed un po’ di colore rosso da pasticceria. Stenderlo in una teglia lasciando una striscia per foderare il contorno. Riempire la teglia con la crema di ricotta e mettere al fresco. Dopo un giorno sformare la cassata su un vassoio, coprire con un velo di ricotta e decorare con frutta fresca.


        - PANE GIALLO (Pangiallo)

        Nell’antica Roma usava la distribuzione di dolci dorati durante la festa del solstizio d’inverno, in modo da favorire il ritorno del sole. Tritare le noci, le nocciole, le mandorle e i pinoli. Scaldare a fuoco lento del miele in un pentolino, unirvi gli ingredienti tritati, aggiungendo uva passa, farina, e polvere di carrube, amalgamando fino ad ottenere un composto denso. Farne dei panetti e infornare.


        - PATINA DE PIRIS (torta di pere)

        Dopo aver mondato le pere dai torsoli e averle lessate, si tritavano unitamente a pepe, comino, miele vino passito e olio. Si aggiungono le uova e si inforna.


        - FRAGOLE AL MIELE E PEPE


        - VINO ALLA ROSA (canina)

        Per ottenerlo si usavano i cinorrodi interi immersi nel vino bianco secco o nel vino rosso, anch'esso però secco. Vi si aggiungeva corteccia di cannella macinata, miele e semi di finocchio. Si lasciavano macerare per quasi un mese e infine veniiva schiacciato, poi filtrato e infine servito.

        Qualcuno tuttavia macerava i petali di rosa insieme ai conorrodi, oppure vi macerava solo i petali di rosa uniti però ai petali di viole o di altri fiori, a seconda della disponbilità.


        - DULCIA DOMESTICA

        Farcisci con un composto di noci, pinoli e pepe tritati i datteri snocciolati. Sala il tutto e scalda nel miele cotto.


        - PUREA DI ROSA (canina)

        Si immergono in acqua i cinorrodi finchè non si ammorbidiscono, si setacciano e poi si schiacciano, si uniscono al miele e si fanno bollire mescolando finchè non si ottiene una purea gradevole che si sparge su carni rosse arrostite o sulle focacce dolci. Si sa che i romani amassero molto i sapori agrodolci.


        - NIVES CITRATA (granita al cedro)

        Il cedro era l'unico agrume che i romani conoscessero (a parte i limoni che tuttavia usavano solo a scopi medicamentosi, almeno per quel che si sa), e le granite si ottenevano portando giù la neve dai monti come accadeva ad esempio in Campania dove si prendeva sul Vesuvio.

        Naturalmente era una cosa da ricchi, e naturalmente erano gli schiavi che andavano sui monti a prelevare neve o ghiaccio, perchè si sa che i romani amavano molto il gelato nella stagione calda, un gelato anzitutto di frutta. Tanto era affinata la loro cucina.


        - CUCURBITAS AD AENOGARUM

        Cubetti di zucchine all’aenogarum, una salsa a base di garum e vino.


        - CUCUMERES AD AENOGARUM

        cetrioli all’aenogarum, una salsa a base di garum e vino.

        GENNAIO (Feste Romane)

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        CALENDE IDI E NONE

        Nel calendario romano le calende, da cui deriva appunto la parola calendario, erano il primo giorno di ciascun mese. In quel giorno, i pontefici annunciavano presso la Curia Calabra. da dove avvistavano la luna nuova, per la data delle feste mobili del mese seguente.  Infatti le calende erano il giorno della luna nuova, le none erano il giorno del primo quarto, le idi il giorno della luna piena.

        La data veniva dunque misurata in avanti per i successivi giorni come le calende, none o idi. Per trovare il giorno delle calende del mese corrente, si conta quanti giorni rimangono nel mese e si aggiunge due.

        Così, il 22 aprile, è il 10 delle calende di maggio, perché mancano 8 giorni nel mese di aprile (che ha 30 giorni), + 2 = 10.

        - Quindi il primo giorno del mese è chiamato calende;
        - sei giorni dopo ci sono le none di: maggio, ottobre, luglio e marzo;
        - quattro giorni dopo le none di: novembre, aprile, giugno e settembre
        - otto giorni dopo ci sono le idi.

        Pertanto:

        Mesi con Idi e None nel 13° e 5° giorno: gennaio, febbraio, aprile, giugno, agosto, settembre, novembre e dicembre.
        Mesi con Idi e None nel 15° e 7° giorno: marzo, maggio, luglio e ottobre.

        Per far corrispondere il calendario lunare con il ciclo solare, cadevano dieci giorni di festa, le calende di Marte, in onore del Dio considerato il padre biologico dei romani, esattamente alla fine dell'anno.

        TRIADE CAPITOLINA


        MENSIS IANUARIUS DIES XXXI


        MESE GENNAIO, Giorni 31

        Il mese prende nome dal Dio Giano, il Dio dai due volti, principio fine, presente passato, vita morte. Egli è il Dio del passaggio.


        1 gennaio - AESCULAPIUS - festa in onore di Esculapio, Dio della medicina che dal 291 a.c. aveva un  tempio sull'isola Tiberina.


        Dio della medicina, Esculapio era il nome latino del Dio greco Asclepio, figlio di Apollo e di Coronide, e allevato dal centauro Chirone. 

        Le sue straordinarie capacità di medico gli permisero non solo di curare i malati, ma di risuscitare i morti. Ades se ne lamentò con Zeus che colpì il medico con un fulmine.
        Esculapio alla sua morte ricevette onori divini e gli furono eretti molti templi, tra cui più celebre quello di Epidauro, dove i malati si recavano in pellegrinaggio. 

        Qui era rappresentato con una statua in oro e avorio con l’aspetto di un uomo dalla lunga barba, che reggeva in mano un bastone intorno al quale era attorcigliato un serpente.

        Da Epidauro il suo culto fu introdotto a Roma in seguito a una pestilenza scoppiata nel III secolo a.c. 
        Quando, grazie ai sacrifici offerti ad Esculapio, l’epidemia cessò, i Romani, grati, gli eressero un tempio. 

        Sue figlie furono Panacea. personificazione divina di un'erba o di una medicina mitica, capace di guarire ogni male, e Igea, dea della salute e dell'igiene.


        IL TEMPIO

        Il tempio di Esculapio era situato sull'Isola Tiberina, a Roma. Il tempio venne eretto tra il 293  e il 290 ac, mentre la sua consacrazione avvenne l'anno successivo.

        Secondo una tradizione, nel 293 ac a Roma scoppiò una grave epidemia, che spinse il Senato a far costruire di Asclepio, che poi avrebbe assunto il nome latino di Aesculapius. Dopo aver consultato i Libri Sibillini una delegazione di saggi romani venne inviata a Epidauro, in Grecia, in cui era presente un santuario molto famoso dedicato appunto ad Asclepio, per ottenere una statua del Dio da portare a Roma.

        In realtà non ottennero la statua ma durante i riti propiziatori un serpente colubro, sacro sia ad Apollo che ad Esculapio sbucò dalla base della statua del Dio, uscì dal santuario di Epidauro e andò a nascondersi all'interno della nave romana  o forse nella stanza del tribuno Ogulnio che guidava la delegazione.

        Certi che fosse un segno del Dio, i Romani tennero il colubro, finchè, giunti sul Tevere, accadde che nei pressi dell'isola Tiberina il serpente uscì dalla nave e si nascose sull'isolotto, indicando così il luogo dove avrebbe dovuto sorgere l'edificio. I lavori iniziarono subito e il tempio venne inaugurato nel 289 ac: da lì a breve l'epidemia ebbe fine.

        L'isola, a ricordo dell'evento, venne rimodellata a forma di trireme. Un obelisco venne posto al centro dell'isola, davanti al tempio, come un albero maestro, mentre sulle rive vennero posti blocchi di travertino che simulavano una poppa e una prua. Sull'isola sorsero diverse strutture adibite al ricovero degli ammalati, e ciò è testimoniato da numerosi voti e iscrizioni rinvenuti in loco.
        Il tempio andò distrutto nell'anno 1000 per costruirvi sopra la basilica di San Bartolomeo all'Isola. Il suo obelisco per sfregio fu abbattuto e smembrato in tre pezzi di cui due sono al museo di Napoli e uno al Museo di Monaco.

        Il simbolo del serpente comunque era l'antico simbolo della Grande Madre, simbolo in parte terrestre perchè striscia sulla terra, e in parte ctonio, perchè scava le sue tane sottoterra.


        LA FESTA

        Si sa che durante la festa veniva sacrificato un bue, animale a lui sacro e venissero portati in processione i serpenti. La carne del bue veniva poi cotta e distribuita tra i sacerdoti, gli ammalati che sostavano presso il tempio e il popolo che assisteva. Insieme alla carne veniva distribuito il vino annacquato recato dai fedeli in omaggio al Dio.


        I gennaio  - IANUS - I festa in onore di Giano, Ianus dies. 
        La festa di Giano veniva poi ripetuta il 17 agosto (insieme ai Portunalia ) e l'11 dicembre. Nel 260 a.c. gli venne dedicato un tempio da Caius Duilius dopo la vittoria riportata a Mylae, (Milazzo), sui cartaginesi.

        Giano è una divinità esclusivamente romano-italica, la più antica tra gli Dei nazionali, Pertanto il suo culto è antichissimo, probabilmente la divinità principale del pantheon romano in epoca arcaica, non per nulla venne chiamato Ianus Pater anche in epoca classica.

        Infatti nel Carmen Saliare Giano si invita:
        « cantate Lui, il padre degli Dei, supplicate il Dio degli Dei »

        Era anche denominato Consivio, cioè seminatore (creatore) del genere umano, era preposto alle porte (ianuae), ai passaggi (iani) e ai ponti: ne custodiva l'entrata e l'uscita e portava in mano, come i portinai, gli ianitores (da cui il termine genitori, coloro che creano), una chiave e un bastone, mentre le due facce vegliavano nelle due direzioni, entrata e uscita.

        Giano non aveva un flamen specifico, ma il Rex Sacrorum, che apriva per primo le processioni e le cerimonie religiose, precedendo lo stesso flamen Dialis, sacerdote di Giove. Sembra che anticamente si sacrificassero a lui le sementi a simbolo di vita e poi gli animali a simbolo di morte, ma su questa simbologia non v'è grande accordo.

        Si sa invece che le porte del tempio di Giano si spalancavano in tempo di guerra e nel suo tempio si sacrificava per ottenere vaticini sulla riuscita delle imprese militari.


        I gennaio - IOVIS -  In onore di Giove Capitolino al Campidoglio.
        Il tempio fu inaugurato il 13  settembre del 509 a.c. da Marco Orazio Pulvillo, console repubblicano,
        nel I anno della Repubblica. La sua festa infatti si celebrò da allora anche il 15 settembre, in cui si ricordava la dedicatio del tempio.

        Arrivato ai piedi del Tempio di Giove , il trionfatore romano scendeva dal carro e saliva la scalinata del tempio di Giove Capitolino.

        Poi si toglieva la corona dal capo e la depositava sull'ara del Dio, a significare che il merito della vittoria era soprattutto dovuto alla benevolenza del Dio.

        Però il tempio di Giove (con tre celle dedicate rispettivamente a Giove Capitolino, Giunone e Minerva), fondato, si dice, da Tarquinio Prisco e ricostruito varie volte, per ultimo da Domiziano, era il culto primigenio di una antica trinità formata da un padre, da sua moglie e da sua figlia, in quanto Minerva aveva solo un padre senza madre.

        Era la festa più importante di Roma, in cui si snodava una lunga e ricca processione, in cui si immolavano buoi, giovenche e capre, dove il popolo mangiava e beveva a spese dello stato, dove il colle del Campidoglio si riempiva di bancarelle piene di merci e souvenir, ma soprattutto di statuette delle tre divinità, un po' come noi teniamo in casa il quadretto della Madonna.

        Ci si chiede come mai questo Giove adorato in precedenza da solo venisse poi posto su un unico trono insieme a due Dee, ma la risposta è semplice, nel IV sec. a.c. a Roma regnavano gli etruschi, soprattutto Servio Tullio, cioè l'etrusco Mastarna. Gli etruschi avevano grande rispetto per le donne e per le Dee, per cui appare logico che il padre degli Dei fosse sostenuto da due divinità femminili.

        Ma ciò che colpisce di più è che Giunone, sposa di Giove, non siede alla sua destra, ma alla sua sinistra, alla sua destra invece c'è Minerva. Ciò dipende dal fatto che gli etruschi, come gli antichi egizi ed altri popoli, prediligeva la sinistra alla destra, per cui Giove tiene i fulmini con la sinistra, Minerva tiene la lancia con la sinistra e Giunone tiene lo scettro con la sinistra. I razionalissimi romani privilegeranno invece la destra.


         I gennaio   - VEDIOVIS  - divinità arcaica il cui culto terminò forse in età imperiale.
        In qualità di divinità ctonia gli si attribuivano come sacri le radici o i frutti del terreno con i semi avvolti da un baccello. come ad esempio i legumi.
        Se la divinità aveva riti segreti di Acri ;Misteri, di solito quei vegetali era proibito consumarli, se invece il rito non aveva risvolti segreti venivano al contrario consumati in onore del Dio, in forma pubblica e in rito pubblico, oppure come cibo sacro in forma privata nelle case, secondo la tradizione tradizione.


        3 gennaio - COMPITALIA -  antica festa celebrata in onore dei Lares.
        I Lares erano divinità protettrici della famiglia, costituita anche da liberi e schiavi. I compita erano gli incroci delle strade. Presso gli incroci erano delle edicole dedicate ai Lares. Era una festa a cui partecipavano principalmente gli schiavi e gli affrancati.

        Dionigi di Alicarnasso attribuisce l'origine della festività a Servio Tullio e in quell'occasione si offrivano come sacrifici dolci di miele che venivano in realtà benedetti e poi offerti in ogni casa. Gli officianti del rito non sarebbero stati uomini liberi ma schiavi, per volere stesso dei Lari. Peraltro durante i Compitalia gli schiavi perdevano i loro doveri verso i loro padroni.

        Durante la celebrazione della festività ogni famiglia appendeva al portone della propria casa, una statuetta della Dea Mania. Inoltre sui portoni i romani appendevano figure fatte col filo di lana a effigie di uomini e donne, accompagnante da richieste e protezioni ai Lari. Per quanto riguarda gli schiavi anziché figure di uomini, appendevano sfere o i panni di lana.

        Secondo Macrobio le Compitalia sarebbero state ristabilite da Tarquinio il Superbo, in seguito ad un oracolo che gli chiese in cambio della pace e della prosperità una testa per salvare una testa, così ordinò che si sarebbe dovuto sacrificare dei bambini a Mania, madre dei Lari. 

        Ma Lucio Giunio Bruto, dopo l'espulsione dei Tarquini, sostituì le teste di bambino con quelle di aglio e dei papaveri, così soddisfacendo l'oracolo che avevano richiesto soltanto delle teste, in latino "capita", non specificando di che tipo.

        Sono necessarie delle spiegazioni su diversi fatti:
        - perchè gli officianti erano schiavi
        - perchè si poneva Mania sulla porta
        - perchè si appendevano figure di lana sulla porta
        - perchè gli schiavi invece non appendevano figure
        - se è vero che Tarquinio il Superbo sacrificasse i bambini.

        I Compitalia erano antiche feste preromane che riguardavano una Dea che nel suo aspetto di portatrice di morte era detta Mania. In quel giorno si rendeva omaggio alla Dea dell'Oltretomba con cui i sacerdoti poco avevano piacere di celebrare da un verso, e dall'altro verso il celebrare l'oltretomba sovvertiva parecchio i costumi umani. Pertanto erano gli schiavi ad avere a che fare con la morte e nel sovvertimento delle cose erano liberi, almeno in parte.

        Infatti l'effigie della Dea Mania aveva lo scopo di allontanare la morte dai propri cari, ma in tal caso di augurarne un po' ai meno cari. Infatti la ragione per cui non veniva concesso agli schiavi di fare le figure di lana sta nel fatto che si trattava di malefici, e gli schiavi avrebbero in quella notte potuto farne ai propri padroni.

        La Dea Mania era infatti la madre dei Lares, cioè dei geni dei crocicchi, e i malefici si facevano appunto nei crocicchi. Come infatti Venere era Trivia e dominava i postriboli sacri, l'antica Ecate era Quadrivia e dominava i quadrivi, cioè la stregoneria. L'antica Ecate e l'antica Mania, la Dea che produceva la follia, erano l'identica divinità, la Dea Maga.

        In quanto ai sacrifici umani si sa che è stato detto di tutti i nemici, compresi i cartaginesi, i sumeri,  e pure i cristiani. I romani giudicavano barbari i sacrifici umani che a Roma, in tutta la sua durata, vennero fatti solo due volte, e in momenti di tragica follia. Gli etruschi poi non sacrificarono mai i bambini, e nemmeno gli adulti.


         3 gennaio - COMPITALIA PER LA DEA PAX
        La religione dei romani era fortemente legata alla sfera civile, familiare e socio-politica. Il culto verso gli Dei era un dovere morale e civico, in quanto solamente la pietas, quindi l'homo pius, ovvero il rispetto per il sacro e l'adempimento dei riti, poteva assicurare la Pax Deorum per il bene della città, della famiglia e dell'individuo.

        La Dea Pax provvedeva pertanto alla tutela dei romani e delle loro istituzioni, a iniziare da quella degli schiavi, la manodopera a buon mercato che tanta ricchezza portò si romani. Per questo di festeggiarono le Compitalia per la Dea Pax, a sottolineare la protezione della Dea per tutti, non solo per i romani, ma pure per gli schiavi. Insomma una Dea Madre a cui ricorrere.


        4 gennaioCOMPITALIA PER LA DEA PAX
        Vedi sopra.


        4 gennaio - PRINCEPS SALUS -  si facevano riti e voti alla Dea Salus per la salute del princeps.
        La Pax Romana, la salute e la fortuna dello stato dipendeva dal suo princeps, pertanto officiare in suo favore ovvero per la sua salute significava pregare per la protezione non solo del princeps ma del suo Genius, a cominciare da quello di Augusto che assicurava il popolo e la Pax Romana.

        Si faceva la processione, si officiava davanti al tempio e veniva offerto un bue che, cotto e mangiato, veniva distribuito al popolo insieme a delle focacce.


        5 gennaioCOMPITALIA PER LA DEA PAX
        Vedi sopra.


        5 gennaio - VICA POTA - in onore di Vica Pota,
        Dea romana della vittoria e del potere ( Vincere - Potiri). Il suo tempio sulla Velia era stato consacrato proprio il 5 gennaio. Secondo Cicerone l'etimologia deriverebbe dal latino "vincendi atque potiundi" (vincendo e potendo). Trattavasi di un'antica Dea italica guerriera, quindi preromana. In suo nome si facevano spesso spettacoli di gare ginniche  con le armi e poi combattimenti gladiatori.


        8 gennaio - IUSTITIAE - festa della Dea Giustizia.
        « ..visse ai tempi dell' Età dell'oro degli uomini ed era il loro capo. A causa della sua integrità ed imparzialità fu denominata Giustizia ed a quel tempo nessuna Nazione straniera era impegnata nella guerra, nessuno ancora navigava sopra i mari, ma tutti si godevano le loro vite ché si preoccupano per i loro campi. Ma gli uomini che vennero dopo, cominciarono ad essere meno osservanti al dovere e più avidi, di modo che la Giustizia si accompagnò più raramente con gli uomini. Infine il male diventò sì estremo, durante l'Età del Bronzo, che Ella non poté resistere oltre; e volò tra le stelle» Igino Astronomo Astronomica
        E' evidente che fosse un'antichissima Dea sostituita poi da divinità successive soprattutto maschili. Anche Vesta lasciò cortesemente il posto a Mercurio, ma perchè gli Dei cambiarono di importanza.

        La Iustitia romana però, pure essendo più mite di quella greca, Temi che puniva le ingiustizie, iustitia era spesso bendata per cui non del tutto affidabile nella sua "giustizia", oltre tutto armata di bilancia e spada, figura poi assorbita nel cattolicesimo nell'arcangelo Michele. La sua festa perciò era un'esortazione a non colpire chi la onorava o a colpire chi aveva nuociuto all'orante. Le si offrivano primizie e vino, tutti prodotti vegetali, a ricordo forse dei tempi più antichi, quando si viveva di agricoltura.


        AGONALIA
        9 gennaio  - AGONALIA IANI -  in onore soprattutto del Dio Ianus, Giano. 
        Anticamente, Agonalia, o Agonia, la I festa in onore di varie divinità, come Giano e, come riferisce Festo, anche il Dio Agonius, che i romani usavano prima di intraprendere qualsiasi attività. Ad essi si immolavano di solito degli ovini, tranne in caso di guerra, in cui si immolavano bovini.

        Negli agonalia ci si sfidava in gare o in combattimenti non cruenti.


        11 gennaio -IUTURNALIA - in onore di Giuturna, Dea delle sorgenti.
        Iuturnalia è la festa della ninfa Iuturna, o Giuturna, moglie di Giano e Dea delle fonti. Infatti è simboleggiata dalle sorgenti, che portano l'acqua dalle profondità per scaturire dalle alture. In suo onore ci si purificava bagnandosi nelle acque sacre e si banchettava poi ai piedi delle sorgenti.


        11 gennaio - CARMENTALIA - I festa in onore di Carmenta.
        Era la Dea protettrice delle donne e delle partorienti, con una corona di fave sui capelli e un'arpa in mano. Aveva un tempio presso la Porta Carmentalis, tra il Forum boarium e il Forum olitorium.
        La Dea Carmenta (da carmen che significa "oracolo") è una profetessa italica, una delle Camène, antiche divinità delle sorgenti fluviali. Essa rendeva i suoi oracoli in versi, ed aveva a Roma un suo tempio, dove officiava un apposito sacerdote, il flamine carmentale. 

        Carmenta è anche conosciuta col nome di Metis, la Titanessa della Saggezza. E' anche chiamata Carya, che era uno degli appellativi di Diana venerata nei Sacri Misteri. Dopo il suo arrivo nel Lazio con suo figlio Evandro, andò in cima al Monte Capitolino e iniziò a profetizzare. Iniziò così ad essere adorata come Dea. A lei si fa risalire l'invenzione dell'alfabeto di 15 lettere latino


        11 gennaio - SEPTIMONTIUM
        Ne parla Sesto Pompeo Festo, istituita da Numa Pompilio e pare si festeggiasse con una processione lungo tutti i "sette monti" con relativi sacrifici presso i siti dei 27 sepolcri degli Argei, gli eroici, per altri meno eroici e invece vessatori, principi greci che, giunti nel Lazio al seguito di Ercole, vinsero i siculi e i liguri ivi stanziati. 

        All'inizio la festa era riservata alle sole genti di stirpe latina ma con Servio Tullio venne estesa anche alle genti di origine sabina abitanti il Quirinale. In epoca imperiale divenne comune a tutta la città.


        12 gennaio - LUDI PALATINI - in onore di Augusto.
        Istituiti già da Livia il 14 d.c. per l'anniversario delle nozze con Augusto, si svolsero dal 37 d.c. non più come privati ma come Ludi Pubblici, davanti al Tempio del Divo Augusto. Essi avvenivano in un teatro provvisorio, quindi di legno, che veniva montato e smontato ogni anno, alla data della dedica del Tempio in onore di Augusto.


        12 gennaio  - COMPITALIA - festa dei crocicchi, con fiere e mercati.
        Stavolta la festa era a carattere più profano che religioso, si festeggiavano i crocicchi in genere che ospitavano sovente le immagini dei Lari, ma soprattutto si mangiava e beveva con spettacolini e prodotti in vendita sulle bancarelle, sia alimentari che artigianali.

        Durante i Compitalia venivano appese figurine in legno che rappresentavano gli schiavi e i bambini della famiglia, cioè le figure più bisognose di protezione perchè più fragili.


        13 gennaioLUDI PALATINI - secondo giorno dei Ludi.



        13 gennaio  - I FERIAE AUGUSTAE - in onore di Giove e di Cesare cui fu dato in quel giorno il     nome  di Augusto.
        Ma le ferie augustali vere e proprie vennero dislocate in Agosto.


        14 gennaioLUDI PALATINI - terzo giorno dei Ludi.
        Durante i Ludi si svolgevano corse e gare ginniche (tra cui lotta, tiro del giavellotto, lancio del disco, ecc.)



        14 gennaio - CARMENTALIA -  Festa in onore di Carmenta. 
        Fu voluta dalle matrone romane perchè la Dea che le aveva favorite contro il Senato che aveva proibito loro l'uso delle carrozze. Per non essere costrette a casa o ad estenuanti camminate, le donne si coalizzarono negando ai mariti il piacere dei sensi finché non costrinsero il Senato a togliere il divieto. La Dea aveva un tempio presso la Porta Carmentalis, tra il Forum boarium e il Forum olitorium.


        15 gennaioLUDI PALATINI - IV giorno dei Ludi.


        15 gennaio  - CARMENTALIA - II festa in onore di Carmenta.



        16 gennaio - LUDI PALATINI - V giorno dei Ludi.



        16 gennaio  - CONCORDIA - festa in onore della Concordia, Dea dell'accordo pubblico e privato.
        Il tempio principale, nel Forum, era stato dedicato da Furio Camillo nel 367 a.c. per le leggi Liciniae-Sextiae. Nel 10 d.c. venne restaurato da Tiberio e intitolato alla Concordia Augusta. Un altro tempio in Capitolium era stato costruito da L. Manlio nel 216 a.c. per la fine della ribellione delle truppe in Gallia Cisalpina. Ma era pure la Dea dell'accordo tra gli abitanti, i membri di una famiglia o i componenti di un organico.
        Per queto la festa era celebrata tanto dallo stato che distribuiva cibo e vino tanto nelle famiglie che festeggiavano con particolari banchetti.

         
        17 gennaio - LUDI PALATINI - VI giorno dei Ludi.




        17 gennaio - FELICITAS -  I festa della Dea Felicitas.
        Felicitas, antica Dea italica, era una divinità dell'abbondanza, della ricchezza e pure del successo nella carriera, soprattutto politica, e presiedeva alla buona sorte.

        A volte era un epiteto riferito a Giunone Felicitas personificazione della Felicità. 
        A Roma aveva molti templi, fra cui uno sul Campidoglio, ed era raffigurata con il caduceo e la cornucopia.

        Una sua seconda festa veniva celebrata il 9 ottobre.

        18 gennaio - LUDI PALATINI -  VII giorno dei Ludi.


        19 gennaio - LUDI PALATINI - VIII giorno dei Ludi.


        19 gennaio  - FORNICALIA - I festa in onore della Dea Fornix.
        In nome della Dea Fornace, si cuoceva e si offriva la mola salsa alla Dea e il pane alla gente. La festa si protraeva nelle varie zone dell'Urbe fino a fine gennaio. L'usanza di donare il pane si ripeteva anche per la feste di Cerere.
        Sembra che anticamente avvenissero anche accoppiamenti in nome della divinità.


        20 gennaio - LUDI PALATINI - IX giorno dei Ludi.


        20 gennaio -  FORNICALIA - II giorno di festa in onore della Dea Fornix, Fornace.
        Ancora si cuoceva e si offriva la mola  salsa alla Dea e il pane alla gente.


        21 gennaio - LUDI PALATINI - XX giorno dei Ludi.


        21 gennaio  - FORNICALIA - II giorno di festa in onore della Dea Fornix, Fornace.
        Di nuovo si cuoceva e si   offriva la mola  salsa alla Dea Fornix (Fornace) e il pane alla gente. Soprattutto i poveri si giovavano di queste elargizioni festive pagate dallo stato.

        La Dea Fornace era una divinità preromana antichissima, colei che presiedeva alla cottura dei cibi e alla sessualità. Si ritiene che da lei venga il termine fornicare, cioè esercitare la sessualità, anch'essa collegata col calore.


        22 gennaio - LUDI PALATINI - XXI giorno dei Ludi.


        23 gennaio - LUDI PALATINI - XXII giorno dei Ludi.


        24 gennaio - LUDI PALATINI - XXIIII giorno dei Ludi.


        24 gennaio  - PAGANALIA - I festa dei villaggi, pagus, istituita da Numa Pompilio.
        Lo scopo della festa era di invocare protezione per la semina da poco eseguita, per rendere le donne più fertili, il bestiame più forte, e il raccolto più abbondante. La festa durava due giorni, con distanza di una settimana l'una dall'altra.

        Tellus, la madre terra che protegge nel suo grembo il seminato, veniva onorata il primo giorno sacrificando una scrofa gravida. Cerere, responsabile della 'forza vitale' del seme, veniva onorata il secondo giorno, con l'offerta di torte di farro.

        Venivano però invocate altre divinità minori:

        "Vervactor, il Dio della prima aratura, Reparator, Dio della seconda aratura; Obarator per l'aratura in genere, Occator, per l'erpicatura, Imporcitor, per i solchi profondi, Insitor, per l'innesto, Sarritor, per la zappatura, Subruncinator, per ili diserbo; Messor, per la vendemmia, Convector, per la raccolta, conditor, per immagazzinare,. Promitor, di portare fuori per l'uso "

        "Gli agricoltori e gli animali da lavoro riposano. Gli animali vengono incoronati con ghirlande e vengono appesi agli alberi gli oscilla (maschere di Bacco), a prendere il vento che soffia la fertilità dei vigneti guardati a vista"

        (Ovidio - Fasti)



        24 gennaio - FERIAE SEMENTIVE - I festa dedicata al tempio della Dea Tellus sul colle Esquilino.
        Era la festa che segnava la fine della stagione della semina.
        In origine era una festa mobile, costituita da due giorni separati da una settimana, ma col tempo venne fissata in tre giorni consecutivi di gennaio, il 24, 25 e 26.


        25 gennaio - FERIAE SEMENTIVE - II festa dedicata al tempio della Dea Tellus.



        25 gennaio - PAGANALIA - II festa dei villaggi, pagus, istituita da Numa Pompilio.



        26 gennaio - FERIAE SEMENTIVE - III festa dedicata al tempio della Dea Tellus.



        26 gennaio - PAGANALIA - III festa dei villaggi, pagus, istituita da Numa Pompilio.


        27 gennaio - CASTORIS ET POLLUXIS - in onore dei divini gemelli. 
        Si rievocava la dedicatio al  tempio: dedicatio aedis castrorum. che si trovava nel Foro romano. Il culto dei Dioscuri fu inoltre particolarmente legato alla classe degli equites e probabilmente dal loro tempio partiva la tradizionale parata degli equites (transvectio equitum), istituita da Quinto Fabio Massimo Rulliano nel 304 a.c. e che si teneva ogni anno il 15 luglio, anniversario della battaglia.

        Le fonti citano a Roma un altro tempio dedicato ai Dioscuri, situato nella zona del Circo Flaminio, probabilmente collocato tra questo e la riva del Tevere: in questa zona infatti, presso la chiesa di San Tommaso ai Cenci, vennero ritrovate le due statue dei Dioscuri attualmente collocate sulla balaustra della piazza del Campidoglio.


        29 gennaio - EQUIRRIA -  I festa in onore degli Equiri.

        Trattavasi di corse dei cavalli dedicati a Marte, in Campo Marzio. Rappresentavano l'inizio della stagione delle campagne militari annuali. 

        Venivano poi ripetute il 27 febbraio e il 14 marzo e terminavano sei mesi più tardi, nel giorno dell'October equus (15 ottobre).

        I sacerdoti tenevano riti di purificazione dell'esercito e si tenevano corse di cavalli nel Trigarium in Campo Marzio. 

        Il Trigarium era un terreno di allenamento alle gare equestri ubicato nel margine nordoccidentale del Campo Marzio, presso l'attuale via Giulia.


        30 gennaio - ARA PACIS AUGUSTAE - in onore di Pax, Dea della pace. 
        L'ara venne costruita nel 13 a.c. e dedicata nel 9 a.c. in Campo Marzio per il felice ritorno dell'imperatore Augustus dalla Gallia e dalla Hispania pacificate.


        31 gennaio - PENATIS - in onore Dei Penati.
        Questi risalivano ai Penati di Enea, di cui i Romani si supponevano discendenti. Esisteva un tempio sul Palatino, dove venivano rappresentati come due giovani seduti. Qui doveva svolgersi la festa col sacrificio del bue.

        LEGIO X EQUESTRIS O GEMINA

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        "Ariovisto chiese che Cesare non si recasse al colloquio scortato dalla fanteria, perchè temeva che gli venisse tesa una trappola: ambedue vi si sarebbero recati accompagnati dalla sola cavalleria gallica. Stabilì dunque che la cosa più conveniente sarebbe stata quella di sostituirei cavalieri gallici con i legionari della X Legione, che avevano tutta la sua fiducia, facendoli montare a cavallo. 
        Mentre si svolgeva l'operazione, un soldato della X Legione, se ne uscì con una battuta di spirito, dicendo che Cesare stava facendo per loro molto di più di quanto aveva promesso: aveva detto che li avrebbe presi come sua coorte pretoria ed ora li passava addirittura nella classe dei cavalieri."


        LE ORIGINI

        Con la VII, l'VIII e la IX legione, la X fu fra le più antiche unità dell'esercito romano.

        La sua formazione potrebbe addirittura risalire alla Guerra sociale del 90-89 a.c., secondo altri studiosi al 72 a.c. nella Gallia Transalpina; non c'è prova però che sia la stessa guidata da Cesare circa un decennio più tardi. 
        Si ha notizia ancora di una legio X, sempre nella Gallia Transalpina, negli anni 67- 65 a.c., con il governatore Caio Calpurnio Pisone. Questi fu console nel 67 e, nel 66 a.c. e proconsole della Gallia Narbonese dove riuscì, con la decima legione a sopprimere una rivolta degli Allobrogi. 
        Tuttavia nel 63 a.c. Pisone fu accusato di maltrattamenti verso gli Allobrogi e di aver condannato ingiustamente a morte uno di loro. Sembra che l'accusa contro la condanna a morte fosse stata fatta su istigazione di Giulio Cesare che si voleva togliere di mezzo un generale rivale, e che voleva magari guidare proprio quella legione che era riconosciuta come molto efficiente.

        Pisone implorò Cicerone di difenderlo e di accusare Cesare di aver fatto parte della congiura di Catilina, cosa che già si mormorava in senato, ma Cicerone si limitò solo alla sua difesa. Di questa legione è presumibile ritenere che avesse i suoi hiberna (castra invernali) nei pressi di Narbona, capitale della Gallia Narbonense.



        LEGIO X VENERIA

        Viene ricordata come la legio X di Cesare o legio X Equestre oppure come legio X Veneria, cioè un'unità militare tardo repubblicana, la cui origine potrebbe essere antecedente alla conquista della Gallia di Gaio Giulio Cesare. 
        La Legio X Equestris fu creata comunque o almeno ribattezzata da Giulio Cesare nel 61 a.c, quando era il governatore della Hispania Ulteriore. La X fu la prima legione guidata personalmente da Cesare, e fu sempre a lui fedelissima. Il nome Equestris venne applicato dopo che Cesare ebbe fatto montare i legionari della X (quindi fanti) su cavalli per uno stratagemma nel colloquio con il re tedesco Ariovisto nel 58 a.c.
        La cosa andò così. La X all'inizio si chiamava Veneria, "devota a Venere", in quanto Cesare si proclamava discendente da Enea a sua volta figlio della Dea Venere, pertanto protettrice della famiglia Julia. L'aveva propugnato in pubblico alla morte di sua madre e sicuramente aveva fatto circolare la voce tra i soldati. Del resto Cesare era talmente intelligente, versatile e decisionista che non fu difficile per i suoi militari credere nel suo sangue divino.
        Ma fu modificato in Equestris dopo il colloquio che Cesare ebbe con Ariovisto, Re della tribù degli Svevi, comandante in capo degli eserciti germanici. Ariovisto intendeva invadere la Gallia, ma anche Cesare voleva conquistarla per cui chiese un abboccamento col re.
        Questi accettò a patto che Cesare venisse scortato solamente da un gruppo di cavalieri, ben sapendo che la cavalleria romana era formata solo da alleati Edui (ovvero gallici) facili da manovrare per Ariovisto. Ma Cesare, che aveva compreso il pericolo, fece travestire i fedelissimi della X da galli, e ne fece dei cavalieri. I nemici non potevano sapere che Cesare, nella sua lungimiranza, aveva fatto insegnare ai suoi fanti della X anche l'arte di andare a cavallo come provetti equites. Le due carriere erano talmente separate che nessuno avrebbe potuto sospettare che dei fanti sapessero andare a cavallo. Ma la sua X era addestrata a tutto.
        I fanti della X scherzarono allora sul fatto che Cesare aveva loro promesso di farne dei pretoriani, ma ora li passava ancor più di grado facendone degli Equites. Da allora la X si chiamò "Equestris".

        ISCRIZIONI DELLA LEG X SULL'ACQUEDOTTO DI CESAREA



        LEGIO X EQUESTRIS

        La Legio X fu famosa nel suo tempo e tale rimase nel corso della storia, per quanto venne citata e in un certo senso valorizzata nei Commentari di Cesare e il ruolo fondamentale che essa ebbe nelle campagne galliche di Cesare. 
        Fu la legione preferita di Giulio Cesare che egli guidò per tutta la sua vita militare, facendone, attraverso il durissimo addestramento, il suo corpo militare d'elìte, ma pure legandoli a sè con un atteggiamento risoluto, duro eppure affettuoso, incoraggiante e forte che si impresse a fuoco nei legionari. Egli ne fece la sua guardia personale, si ricordava di tutti i nomi dei Centurioni e di gran parte dei milites, e gli affidava gli incarichi più delicati e più difficili.

        Usava svegliarli di notte perchè si preparassero a tempo di record e gli faceva fare marce di notte per abituarli anche a questo. Ogni uomo doveva conoscere perfettamente il suo compito, per cui molti ordini non erano neppure trasmessi, si che potessero essere veloci e silenziosi al massimo.

        Grazie all'appoggio dei triumviri, Cesare ottenne con la Lex Vatinia il proconsolato delle province della Gallia Cisalpina e dell'Illirico per cinque anni, con un esercito di tre legioni. Poco dopo un senato gli affidò anche la vicina provincia della Narbonense e la X legione. che da quel giorno fu la "sua legione".

        Cesare nei suoi libri non citò mai atti di valore individuali. Un esercito in guerra non aveva bisogno di eroi, se tutti facevano il loro dovere si vinceva e basta, però a un certo punto Cesare citò un soldato (DbC: III°, 91,1):
        "V'era nell'esercito di Cesare un richiamato di nome Crastino, che l'anno precedente era stato sotto di lui primipilo della X legione, uomo di straordinario valore. Egli, quando il segnale fu dato, gridò rivolgendosi a Cesare: "Oggi farò in modo, o generale, d'avere morto o vivo [ut aut vivo mihi aut mortuo], la tua riconoscenza"

        Questa era la capacità di Cesare di coinvolgere emotivamente i suoi soldati, e questo fece di lui un capo. Ma soprattutto i legionari della X avrebbero per lui dato tutti la vita, tanto era vivo il legame tra lui e loro.

        Cesare chiamava i suoi soldati commilitoni, cioè cum-militantes, cioè quelli che combattevano insieme a lui; un titolo di parità e non di gerarchia. Li riforniva di ottimi equipaggiamenti, dando loro delle armi decorate con oro e argento per aumentare il loro prestigio, in parte perchè così erano rinforzate, ma soprattutto perchè facessero l'impossibile per non perdere in combattimento armi tanto preziose. Tutti sapevano che ogni legionario della X era disposto a morire per Cesare e Cesare stesso, nel conflitto con Ariovistus, dichiara che si è fidato sempre completamente di questa unità.

        Da allora la X partecipò ad una lunga serie di battaglie e campagne militari con Cesare non solo quando invase la Gallia nel 58 a.c., ma fu nella battaglia contro i Nervi nel 57 dove ebbe il merito della vittoria. Infatti insieme la IX e la X sconfissero Atrebati, mossero contro i belgi sull'altro lato del fiume e catturarono il campo nemico. Da quella posizione, la X potè vedere la disperata situazione per la XII Victrix e la VII, per cui discesero in fretta, traversarono il fiume, e attaccarono i Nervii alle spalle, intrappolandoli in una morsa fatale.

        Ma pure a Genava (Ginevra) si distinse la X Legio soprattutto nella fase finale della battaglia. L'esercito di Cesare schierato contro gli Elvezi, era costituito inizialmente dalla sola X legione, a cui si aggregarono solo al termine della battaglia le tre stanziate ad Aquileia (la VII, l'VIII e la IX) oltre all'XI e alla XII appena reclutate nella Gallia Cisalpina, per un totale di 25.000 legionari, oltre ai 4.000 alleati. Le forze degli Elvezi erano di circa 92.000 armati, ma vinse ancora Cesare. Era normale per la X Legione combattere contro un numero superiore di armati, perchè i romani erano infinitamente più organizzati e strateghi.

        Ancora c'era la X quando Cesare vinse la battaglia sul fiume Arar ed a Bibracte contro gli Elvezi; poi in Alsazia contro il suddetto Ariovisto, sempre nello stesso anno. L'anno successivo sul fiume Axona e sul Sabis contro le popolazioni dei Belgi; nell'invasione della Britannia del 55 e 54 a.c., dove il vessillifero della X svolse un ruolo eroico, forse ad Avaricum nel 52 contro i Biturigi.

        La X partecipò anche all'assedio di Gergovia, sempre nel 52, nella battaglia tra Cesare e Vercingetorige dove Cesare fu eccezionalmente sconfitto, ma soprattutto ad Alesia che portò alla disfatta definitiva delle genti galliche nel 52 a.c. Nell'inverno del 52-51 a.c. la X rimase, insieme alla XII sempre con Cesare a Bibracte, la capitale degli Edui.

        Le guerre galliche proseguirono per la X di Cesare fino all'anno 50 a.c. Ormai non solo Cesare era diventato famoso anche grazie agli pseudo-giornali che faceva circolare a Roma con la descrizione delle sue prodezze militari, ma pure la X Legio era diventata famosa essendosi coperta di gloria.

        Un altro aneddoto illustra l'importanza della X Legio per Cesare. Ad un certo punto, fallite le transazioni con Ariovisto, occorreva combattere ma le legioni, intimorite dalla fama feroce e guerriera dei Germani stavano per ammutinarsi. Cesare annunciò allora che avrebbe sfidato Ariovisto portando con sé solo la fedelissima X legione, e chiese ai suoi legionari se fossero disposti a seguirlo.

        I soldati della X dichiararono a gran voce di essere pronti a seguirlo in battaglia, ben sapendo che andare a combattere con una sola legione sarebbe stato andare incontro a morte certa. I soldati si vergognarono di essersi tirati indietro, e un po' per l'affetto che portavano a Cesare, un po' perchè tutta Roma li avrebbe considerati codardi e traditori, si misero in riga e lo seguirono.

        Questa era la X Legione per Cesare.

        CESARE E LA DECIMA


        IL TRIUNVIRATO

        Con l'inizio della guerra civile fra i due triumviri Pompeo e Cesare,, la legione si trovava nei pressi di Narbona, nella Gallia Narbonense. Prese parte prima all'assedio di Marsiglia e poi alla campagna in Hispania, al comando di Lepidus, nella battaglia di Ilerda (estate 49).

        Nel 48 la Legio fu trasferita in Macedonia dove combatté a Dyrrhachium (Durazzo, Albania) tra gli eserciti di Pompeo e quello di Cesare. Cesare provò a circondare Pompeo chiuso in Durazzo, ma questi riuscì a penetrare l'ala destra di Cesare, le cui truppe si demoralizzarono e, malgrado l'intervento del loro generale, si diedero alla fuga. La vittoria di Pompeo non fu totale solo perché pensò che l'altro, famoso per le sue trappole strategiche, gliene stesse tendendo una. La battaglia decisiva fu pertanto quella di Farsalo.
        Cesare disponeva di 22.000 uomini, suddivisi in otto legioni, per lo più dei legionari che avevano seguito Cesare nella lunga campagna di Gallia, particolarmente legati al loro comandante, per il quale si sarebbero battuti fino alla morte anche in condizioni disperate.

        La legione Xfu posta all'ala destra sotto il comando di Publio Cornelio Silla, le legioni VIII e IX all'ala sinistra sotto il comando di Marco Antonio; al centro erano schierate le restanti cinque legioni, tra cui la legio XI e la legio XII, agli ordini di Gneo Domizio Calvino.

        Le forze di Pompeo erano oltre il doppio di quelle di Cesare. Come più volte era accaduto, la X fu decisiva per la battaglia, perchè Cesare la pose a guardia di una zona apparentemente sguarnita che doveva fungere da trabocchetto, tenendo duro fino ai rinforzi, e così fu. Nella battaglia Pompeo perse 15 000 soldati, mentre le perdite di Cesare ammontarono in tutto ad appena duecento uomini.

        La X prese poi parte alla battaglia di Tapso. in Africa. Pompeo era stato ucciso, ma i suoi luogotenenti Marco Porcio Catone Uticense, Marco Preteio, e Quinto Cecilio Metello Pio Scipione Nasica, con alleato re Giuba I di Numidia si radunarono nelle province d'Africa e organizzarono una resistenza.

        La fazione pompeiana contava 40.000 uomini (circa 10 legioni romane), 20 elefanti, una potente cavalleria, condotta dall'ex braccio destro di Cesare, Tito Labieno, oltre alle forze alleate del re di Numidia e una sessantina di elefanti. Cesare assediò Tapso con tre linee di fortificazioni.

        L'esercito di Metello Scipione circondò Tapso. I pachidermi stavano massacrando i fanti, ma Cesare fece suonare enormi trombe con tanta violenza da spaventare e far retrocedere gli elefanti che calpestarono la cavalleria nemica.

        Circa 10.000 soldati avversari, tra cui lo stesso Metello Scipione, volevano arrendersi a Cesare, ma vennero invece uccisi, un costume che Cesare non ha mai avuto. Altre fonti riportano invece che si arresero e che addirittura passarono dalla sua parte, fattostà che Cesare vinse.
        Subito dopo la legione fu sciolta ed i suoi veterani furono inviati attorno a Narbona. Questa era stata la prima colonia romana al di fuori dell'Italia, fondata nel 118 a.c. a cui seguì questo secondo nucleo di coloni, costituito per lo più da veterani della leggendaria X Legio di Cesare. Siamo nel 46 a.c..

        Poco dopo però, mentre Cesare passava da Narbona per l'ultima campagna spagnola, verso la fine dello stesso anno, i veterani nostalgici della vita militare e di Cesare, chiesero di essere reintegrati nel suo esercito, e Cesare ordinò a Marco Antonio di formare nuovamente la legio X, la quale prese parte, quindi, alla battaglia di Munda del 45 a.c. Ancora una volta si evidenzia l'attaccamento che i legionari della X avevano per Cesare. I suoi veterani erano ormai in pensione a godersi la pace delle loro terre ma la nostalgia della compagnia d'arme e dell'eccezionale comandante li fece tornare sul campo. Prima e ultima volta nella storia.

        RESTI DEL CAMPO DELLA LEG X A MASADA

        Nel 45 a.c. nelle pianure di Munda (Spagna), si svolse l'ultima battaglia della guerra civile tra Giulio Cesare ed i seguaci di Pompeo. Dopo questa vittoria, e la morte di Tito Labieno e di Gneo Pompeo (il figlio maggiore di Pompeo), Cesare tornò a Roma come capo incontrastato dell'impero.

        Qui Svetonio racconta di un episodio curioso. Davanti a Munda, mentre si spianava la foresta per l'accampamento delle legioni, fu trovata una palma. Cesare ordinò di rispettarla come fosse un presagio di vittoria. Poco dopo la palma cominciò a germogliare nuovi virgulti che in pochi giorni crebbero moltissimo, riempiendosi di nidi di colombi, che di solito evitano le palme. Si narra che questo prodigio abbia indotto Cesare a nominare come successore il nipote di sua sorella, Ottaviano.


        DOPO CESARE

        Dopo Munda, dove Cesare sconfisse definitivamente gli avversari ponendo fine alla guerra civile, la legione venne di nuovo sciolta, ed i legionari ricoperti di doni. 

        All'uccisione del dittatore, i legionari addoloratissimi, tornarono a Roma per i funerali del Dittatore e chiesero di essere reintegrati ancora una volta per poter vendicare il loro vecchio comandante. Pertanto i soldati della X entrarono a far parte dell'esercito di Marco Antonio.

        Così dopo lo scoppio delle guerre civili, la legione fu ricostituita da Lepido, combattendo al comando dei triumviri fino alla Battaglia di Filippi dove vennero sconfitti i cesaricidi Bruto e Cassio. I veterani ottennero terre vicino a Cremona, e da un'iscrizione si sa che a quel tempo il nome della legione era di nuovo Veneria, cioè devota a Venere, la Dea da cui si dichiarava discendente la gens Iulia.

        La legione seguì poi Marco Antonio in Armenia, nella sua scellerata, e male organizzata, Campagna contro i Parti.

        Ne uscì terribilmente indebolita, e dopo ciò molti uomini cominciarono a dubitare di Antonio, che non ritenevano più il "successore di Cesare" e quando il generale si pose contro a Ottaviano, durante la battaglia di Azio, molti soldati disertarono per entrare a far parte dell'esercito di Ottaviano, che consideravano "il Nuovo Cesare".

        Dopo la battaglia di Azio, i veterani furono insediati a Patras. Poi la legione, non si sa perchè, si ribellò ad Augusto, così fu privata del titolo di equestre e fu unita alla Legio X Gemina. Svetonio infatti scrive di una legio X che venne tutta congedata con ignominia, «poiché ubbidiva con una certa aria di rivolta» Però questa notizia è controversa ed appare inattendibile. Se così fosse non avrebbe ricevuto poi il massimo degli onori come vedremo poi.

        Del resto una legione unita ad un'altra o una legione congedata con ignominia sono cose molto diverse. Le legioni con le morti o i congedi dei soldati spesso si sguarnivano e venivano unite ad altre. Secondo un'altra versione infatti, visto che il numero di effettivi era notevolmente diminuito, la X Veneria venne unita ad un'altra legione, divenendo la X Gemina, in quanto riferita al gemellaggio di due legioni.


        LA FINE

        Dopo molti secoli, che la videro impegnata in diversi fronti, la X Legio fu sciolta definitivamente con la riforma militare dell'Imperatore Gallieno. Il Senato conferì a questa legione, ed a tutti i legionari che ne avevano fatto parte nel corso della sua storia, un glorioso titolo unico nella storia, un titolo che spettava al Dio Mitra, che d'altronde era il Dio dei soldati: l'appellativo di MILES INVICTI.

        FEBBRAIO (Feste Romane)

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        FEBBRAIO

        Febbraio era dedicato al Dio Februus, identificato con Lupercus, Faunus e tardivamente con Dis Pater, il Dio del regno dei morti.
        Nel corso del mese avvenivano le Februa, le Purificazioni.

        1 - Kalendis Februaris - IUNO SOSPITA MATER REGINA -

        S. NICOLA IN CARCERE SUL TEMPIO
        IUNO SOSPITA (Roma)
        Templum Iunonis Sospitae Matris Reginae - Dedicazione del tempio di Giunone Salvatrice Madre e Regina, divinità proveniente da Lanuvio.

        Il culto venne importato a Roma nel 338 a.c. quando venne concessa la cittadinanza ai Lanuvini.
        Il tempio nel Forum Olitorium venne invece costruito nel 194 a.c.

        Era stato promesso da Caius Cornelius Cetegus nel 197 a.c. durante la guerra celtica.

        Nelle statue e nelle monete la Dea (Giunone propizia) viene solitamente rappresentata con una pelle di capra sul capo, una lancia in mano ed accompagnata da una serpe.

        Un altro santuario, molto celebre in tutto il Lazio antico, era stato edificato a Lanuvio.

        IUNO SOSPITA
        Un'antefissa raffigurante la Dea è stata rinvenuta ad Antemnae, presso Roma, munita di orecchie e corna di mucca, nonchè di lunghi orecchini. 

        L'antefissa deve essere molto arcaica. Si suppone che ad Antemnae vi fosse un suo santuario

        Fra i personaggi più legati alla Sospita si ricorda Metella Balearica, figlia del trionfatore Quinto Cecilio Metello Balearico, vergine vestale e sacerdotessa di Giunone Sospita.

        Con la sua influenza riuscì a salvare il giovane Giulio Cesare dal dittatore Lucio Cornelio Silla, che lo aveva condannato a morte per aver rifiutato il divorzio da Cornelia Cinna. 

        Fu anche la protettrice di Sesto Roscio, difeso da Cicerone e dai suoi nipoti Q.Cecilio Metello Celeree e Q. Cecilio Metello Nepote Minore nella celebrata orazione Pro Roscio.

        2 - ante diem quartum Nonas Februarias -

        3 - ante diem tertium Nonas Februarias -

        4 - pridie Nonas Februarias -

        5 - Nonis Februariis - AUGUSTUS PATER PATRIAE -

        Festa di Augusto Padre della Patria, titolo conferito il 5 febbraio del 2 a.c.

        Pater Patriae (Padre della Patria) era un titolo onorifico iscritto di solito sulle monete o su i monumenti imperiali, abbreviato in P.P.

        Il titolo era solo un riconoscimento onorario ufficiale attribuito dallo Stato.

        Alcuni imperatori come Tiberio non vollero mai accettarlo e Adriano lo accolse solo dopo due anni, ma non costituì mai titolo ufficiale, come non lo erano i titoli di "Augustus" o "princeps".

        Ottaviano lo fece attribuire anche a Giulio Cesare. 
        Svetonio narra che anzitutto fu la plebe romana ad attribuirglielo, ma poiché lo rifiutava, una folla coronata di lauro, glielo richiese mentre entrava ad uno spettacolo. Fu poi la volta del Senato nella curia, con Valerio Messala che, a nome di tutti, gli disse:

        « Le mie parole siano di buon auspicio e di felicità a te e la tua famiglia, Cesare Augusto! Così noi riteniamo di invocare eterna prosperità e gioia eterna per la Res publica: il Senato, con il consenso del popolo romano, ti saluta pater patriae. »
        A Messalla Augusto rispose con le lacrime agli occhi:
        « Avendo ottenuto quanto avevo desiderato dai miei voti, padri coscritti, che altro potrei chiedere agli dei immortali se non che possa vedere questo vostro accordo mantenersi fino all'ultimo giorno della mia vita?»
        (Svetonio, Augustus, 58.)

        6 - ante diem octavum Idus Februarias

        7 - ante diem septimum Idus Februarias

        8 - ante diem sextum Idus Februarias

        9 - ante diem quintum Idus Februarias

        10 - ante diem quartum Idus Februarias

        11 - ante diem tertium Idus Februarias

        12 - pridie Idus Februarias - TEMPLUM FAUNI -

        Festa in onore di Faunus, Dio dei pastori e protettore dei greggi.

        Fu anche chiamato Luperco, in qualità di difensore delle greggi, il che provoca però non poche perplessità, per un Dio lupo che protegge le pecore.

        Si celebrava l'anniversario della dedicatio del tempio di Fauno.
        Si concludeva il 13 febbraio, quando ricorreva esattamente la dedica del 196 a.c.

        Nel mito latino, Fauno era figlio di Giove e della maga Circe. La sua sposa era Fauna, chiamata anche Fatua, antica Signora delle Belve.
        Fu anche identificato più tardi col Dio Quirino. Divenne poi una specie di semidio, ovvero sostituito coi fauni dei boschi che insidiavano le ninfe.

        13 - Idibus Februariis - PARENTALIA -

        Inizio delle celebrazioni degli antenati defunti. La festa veniva celebrata per nove giorni.  Parentes significava “gli antenati, gli avi”. Le celebrazioni erano pertanto in onore dei defunti.
        Si concludeva il 21 febbraio con la cerimonia dei Feralia.  I templi restavano chiusi. I matrimoni non venivano celebrati.. Venivano offerte corone di fiori ai defunti.
        Proseguiva poi il 15 febbraio in onore del Dio Faunus, protettore dei pastori. Si festeggiavano inoltre i Lupercalia dove i flamines luperci, ossia i sacerdoti del dio Fauno, celebravano antichi riti importati dall'Arcadia al tempo di Romolo e Remo.

        Vine da chidersi cosa c'entrasse il culto dei defunti con il culto del Dio Faunus, con i Lupercalia e con i Feralia. In effetti c'entrava, perchè il culto dei defunti rimandava a feste antichissime preromane, dove il Dio Faunus stava per La Signora delle Fiere, veneratissima nel suolo italico, che assumeva in vari luoghi il nome di Dea Fauna, Dea Lupa e Dea Fera, cioè delle fiere. La Signora delle Fiere era appunto Dea degli animali, colei che dava la vita, dava il nutrimento e dava la morte.

        14 - ante diem sextum Kalendas Martias

        15 - ante diem quintum decimum Kalendas Martias - Si festeggiava ancora il Dio FAUNUS, (o Lupercus) protettore dei pastori. Si festeggiavano nella stessa data i LUPERCALIA.
        Corsa di giovani intorno al Palatino, dove la lupa aveva allattato Romolo e Remo.

        Soppressa da Papa Gelasio nel 494.

        "Lupercalia dicta, quod in Lupercali Luperci sacra faciunt. Rex cum ferias menstruas Nonis Februariis edicit, hunc diem februatum appellat; februm Sabini purgamentum, et id in sacris nostris uerbum non ignotum: nam pellem capri, cuius de loro caeduntur puellae Lupercalibus, ueteres februm uocabant, et Lupercalia Februatio, ut in Antiquitatum libris demonstraui".

        (Varrone - De lingua latina)

        La Dea Lupa, e non una lupa qualsiasi, allattò i fatidici gemelli, soppiantata da un Dio Luperco che era assai strano in un popolo di pastori. 

        16 febbraio - ante diem quartum decimum Kalendas Martias

        17 febbraio - ante diem tertium decimum Kalendas Martias - QUIRINALIA -
        Festa celebrata in onore del Dio Quirinus, un Dio oracolare sabino, figlio di Pico e di Pomona, nipote di Marte e padre di Latino, Fu un'antica divinità degli abitanti del colle Quirinalis, poi identificato con Romolo. Il flamen quirinalis, ossia il sacerdote di Quirinus, era annoverato tra i tre flamines maiores.  Fu il patrono delle curie e dei romani Quirites, titolare del colle Quirinalis, protettore della proprietà e della repubblica, della pace, del lavoro e degli uomini liberi. Il suo patrocinio sulle curie era condiviso dal dio umbro Uofion, che formava la triade grabovia insieme a Giove e Marte, così come Quirino era il terzo della triade romana Giove-Marte-Quirino, poi sostituita da quella capitolina e filoetrusca di Giove-Giunone-Minerva. 

        18 febbraio - ante diem duodecimum Kalendas Martias

        19 febbraio - ante diem undecimum Kalendas Martias

        20 febbraio - ante diem decimum Kalendas Martias

        21 febbraio - ante diem nonum Kalendas Martias - Si concludeva la cerimonia dei FERALIA, celebrazioni in onore dei defunti. I templi erano chiusi. I matrimoni non venivano celebrati. Concludeva la festa dei PARENTALIA. Parentes significa “gli antenati, gli avi”. Venivano offerte corone di fiori ai defunti. I Feralia non avevano a che vedere con i giorni di "ferie", ma era riferite alle feste dell'antica Dea Fiera, ovvero la Signora delle belve. In Italia se ne conserva un santuario a Feronia, che testimonia appunto il culto della Dea Fera. Si usava mangiare pane e vino accanto alle sepolture offrendone ai defunti, cosa inglobata dal cristianesimo nell'eucarestia, ma ne fu in secondo tempo bandito l'uso accanto alle tombe perchè troppo simile al culto pagano.

        22 febbraio - ante diem octavum Kalendas Martias - CARISTIA -
        subito dopo la commemorazione dei morti (Parentalia e Feralia), veniva indetta questa festa in onore dei Lares, divinità tutelari della casa, e dei Genii, Dei tutelari degli umani. I membri della famiglia si riunivano a banchetto e deponevano ogni rancore e discordia.
        I Caristia, conosciuti anche come Cara Cognatio, erano un'antica festività romana. Sebbene fosse ufficiale, era tenuta in ambito privato il 22 febbraio con banchetti e scambi di doni per celebrare l'unione familiare. Le famiglie cenavano insieme ed offrivano incenso ai Lari. Era anche un giorno di riconciliazione, ma Ovidio nota satiricamente che essere ottenuta solo escludendo i membri disturbatori della famiglia.
        La Cognatio erano gli Affini, legati tra loro per discendenza comune sul padre o sulla madre. Cognatio è bilaterale a differenza di agnatio che è unilaterale con i privilegi di discendenza patrilineare. Pertanto la Cara Cognatio erano i cari affini o cari parenti, che c'entra allora la Caristia?
        E' molto simile alla parola Carestia, cioè "penuria, mancanza di" ma non se ne comprende l'accostamento.

        23 febbraio - ante diem septimum Kalendas Martias - TERMINALIA -

        Festa celebrata in onore di Terminus, Dio protettore dei confini.

        La cerimonia pubblica aveva luogo al VI miglio della via Laurentina, antico confine dello stato romano, con il sacrificio di una pecora.

        Tuttavia Plutarco riferisce che Termine era l’unica divinità romana che rifiutava i sacrifici cruenti e accettava in dono solo foglie e petali di fiori per ornare i suoi simulacri.

        E' evidente che il rito era anticamente incruento e che venne poi modificato.

        In effetti si trattava della festa dei termini, cioè delle pietre terminali, su cui si ponevano una corona e una focaccia offerta al Dio, il che ne conferma l'antico rito incruento.

        Nume Pompilio ordinò ai contadini di porre le pietre terminali ai loro campi e in caso di violazione dei confini la pena era gravissima.

        Infatti il violatore veniva reietto e abbandonato alla collera divina, e in caso venisse ucciso da qualcuno l'assassino non commetteva reato, interpretando la volontà degli Dei.

        24 febbraio - ante diem sextum Kalendas Martias - REGIFUGIUM - Festa si commemorazione per la fuga dell'ultimo re di Roma Tarquinio il Superbo.

        25 febbraio - ante diem quintum Kalendas Martias

        26 febbraio - ante diem quartum Kalendas Martias

        27 febbraio - ante diem tertium Kalendas Martias - EQUIRRIA -

        Festa celebrata il 27 febbraio e il 14 marzo -

        Era la festa del Dio Mars (Marte). Dio della guerra e padre dei romani.

        Rappresentavano il giorno dell'uscita dell'esercito romano, ovvero l'inizio della stagione delle campagne militari annuali.

        Queste terminavano sei mesi più tardi, nel giorno dell'October equus (15 ottobre).

        Si tenevano le corse di cavalli in Campo Marzio, nel Trigarium, o sul Monte Celio in caso di straripamento del Tevere.

        I romani adoravano le corse dei cavalli che avvenivano o con cavalli senza fantino o con cavalli trainanti bighe, trighe (da cui Trigarium) e quadrighe, a seconda di quanti cavalli ritavano i carri: due, tre o quattro.

        In questa festa i sacerdoti effettuavano anche riti di purificazione per l'esercito.

        28 febbraio - pridie Kalendas Martias


        PUBLIO VIRGILIO MARONE

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        Nome: Publius Vergilius Maro
        Nascita: Andes, 15 ottobre 70 a.c.
        Morte: Brindisi, 21 settembre 19 a.c.
        Professione: Poeta, scrittore

        « ... li parenti miei furon lombardi,
        mantoani per patrïa ambedui.
        Nacqui sub Iulio, ancor che fosse tardi,
        e vissi a Roma sotto ’l buono Augusto
        nel tempo de li dèi falsi e bugiardi.
        Poeta fui, e cantai di quel giusto
        figliuol d’Anchise che venne di Troia,
        poi che ’l superbo Ilïón fu combusto. »


        (Dante Alighieri, Divina Commedia Inferno - Canto I, vv. 68-75)

        La biografia di Virgilio cui maggiormente hanno attinto gli studiosi, a partire dal IV secolo dc. e per tutto il Medioevo, è quella di Elio Donato, giudicata in genere attendibile, che a sua volta è una trascrizione, o un compendio, di una perduta Vita Vergilii dello storico Caio Svetonio Tranquillo (75-150), avvocato e segretario privato dell'imperatore Adriano, autore della Vita dei dodici Cesari, raccolta di biografie di dodici imperatori romani, da Giulio Cesare a Domiziano.
        Nulla sappiamo della vita di Elio Donato tranne che fu maestro di S. Girolamo, il che fa pensare a un cattolicesimo un po' estremo, come quello che fece giurare a Girolamo di non leggere mai più un testo letterario che non fosse cattolico, pena l'ira del Signore, che odiava, secondo il santo, la filosofia, la poesia ecc. Questo spiega forse la divinizzazione di Virgilio come cristiano inconsapevole nato in epoca sbagliata ma purtuttavia santo.

        Essendo diventato famosissimo da Ottaviano in poi, Virgilio fu dunque adottato dai cristiani nello stesso modo in cui vennero adottate le sibille, costruendovi leggende cristiane anzichè pagane, così non solo non andavano contro il popolo che amava quei miti, ma li rovesciava a loro favore.

        Ma le maggiori notizie su Publio Virgilio Marone le dobbiamo però all'amico Orazio, perchè Virgilio, di temperamento timido e schivo, cercò costantemente di sottrarsi alla curiosità dei contemporanei e quasi nulla ha lasciato scritto di sè. Se Orazio, pigro e desideroso della quiete della campagna, fece della sua vita e dei suoi amici il soggetto privilegiato della sua produzione poetica e soprattutto satirica, al contrario forse nessun poeta ha parlato così poco di sè come Virgilio:

        I
        "Vergilius Maro Mantuanus parentibus modicis fuit ac praecipue patre, quem quidam opificem figulum, plures Magi cuiusdam viatoris initio mercennarium, mox ob industriam generum tradiderunt, egregieque substantiae silvis coemendis et apibus curandis auxisse reculam.
        Natus est Gn. Pompeio Magno M. Licinio Crasso primum conss. Iduum Octobrium die in pago qui Andes dicitur et abest a Mantua non procul. Praegnas eo mater somniavit enixam se laureum ramum, quem contactu terrae coaluisse et excrevisse ilico in speciem maturae arboris refertaeque variis pomis et floribus, ac sequenti luce cum marito rus propinquum petens ex itinere devertit atque in subiecta fossa partu levata est.
        Ferunt infantem ut sit editus neque vagisse et adeo miti vultu fuisse, ut haud dubiam spem prosperioris geniturae iam tum daret. Et accessit aliud praesagium, siquidem virga populea more regionis in puerperiis eodem statim loco depacta ita brevi evaluit tempore, ut multo ante satas populos adaequavisset, quae arbor Vergilii ex eo dicta atque etiam consecrata est summa gravidarum ac fetarum religione suscipientium ibi et solventium vota.

        II
        Initia aetatis Cremonae egit usque ad virilem togam, quam XV anno natali suo accepit iisdem illis consulibus iterum duobus, quibus erat natus, evenitque ut eo ipso die Lucretius poeta decederet. Sed Vergilius a Cremona Mediolanum et inde paulo post transiit in urbem.
        Corpore et statura fuit grandi, aquilo colore, facie rusticana, valetudine varia; nam plerumque a stomacho et a faucibus ac dolore capitis laborabat, sanguinem etiam saepe reiecit. Cibi vinique minimi; libidinis in pueros pronioris, quorum maxime dilexit Cebetem et Alexandrum, quem secunda Bucolicorum egloga Alexim appellat, donatum sibi ab Asinio Pollione, utrumque non ineruditum, Cebetem vero et poetam.
        Vulgatum est consuesse eum et cum Plotia Hieria. Sed Asconius Pedianus adfirmat, ipsam postea maiorem natu narrare solitam, invitatum quidem a Vario ad communionem sui, verum pertinacissime recuasse.
        Cetera sane vitae et ore et animo tam probum constat, ut Neapoli Parthenias vulgo appellatus sit, ac si quando Romae, quo rarissime commeabat, viseretur in publico, sectantis demonstrantisque se subterfugeret in proximum tectum. Bona autem cuiusdam exsulantis offerente Augusto non sustinuit accipere.
        Possedit prope centiens sestertium ex liberalitatibus amicorum habuitque domum Romae Esquiliis iuxta hortos Maecenatianos, quamquam secessu Campaniae Siciliaeque plurimum uteretur. Parentes iam grandis amisit, ex quibus patrem captum oculis, et duos fratres germanos, Silonem inpuberem, Flaccum iam adultum, cuius exitum sub nomine Daphnidis deflet.
        Inter cetera studia medicinae quoque ac maxime mathematicae operam dedit. Egit et causam apud iudices unam omnino nec amplius quam semel; nam et in sermone tardissimum eum ac paene indocto similem fuisse Melissus tradidit.

        III
        Poeticam puer adhuc auspicatus in Ballistam ludi magistrum ob infamiam latrociniorum coopertum lapidibus distichon fecit: Monte sub hoc lapidum tegitur Ballista sepultus; Nocte die tutum carpe, viator, iter. Deinde Catalepton et Priapea et Epigrammata et Diras, item Cirim et Culicem, cum esset annorum XVI. Cuius materia talis est. Pastor fatigatus aestu cum sub arbore condormisset et serpens ad eum proreperet, e palude culex provolavit atque inter duo tempora aculeum fixit pastori. At ille continuo culicem contrivit et serpentem interemit ac sepulchrum culici statuit et distichon fecit:
         Parve culex, pecudum custos tibi tale merenti Funeris officium vitae pro munere reddit.

        IV
        Scripsit etiam de qua ambigitur Aetnam. Mox cum res Romanas inchoasset, offensus materia ad Bucolica transiit, maxime ut Asinium Pollionem, Alfenum Varum et Cornelium Gallum celebraret, quia in distributione agrorum, qui post Philippensem victoriam veteranis triumvirorum iussu trans Padum dividebantur, indemnem se praestitissent. Deinde scripsit Georgica in honorem Maecenatis, qui sibi mediocriter adhuc noto opem tulisset adversus veterani cuiusdam violentiam, a quo in altercatione litis agrariae paulum afuit quin occideretur.
        Novissime Aeneidem inchoavit, argumentum varium ac multiplex et quasi amborum Homeri carminum instar, praeterea nominibus ac rebus Graecis Latinisque commune, et in quo, quod maxime studebat, Romanae simul urbis et Augusti origo contineretur.
        Cum Georgica scriberet, traditur cotidie meditatos mane plurimos versus dictare solitus ac per totum diem retractando ad paucissimos redigere, non absurde carmen se more ursae parere dicens et lambendo demum effingere. Aeneida prosa prius oratione formatam digestamque in XII libros particulatim componere instituit, prout liberet quidque, et nihil in ordinem arripiens.
        Ac ne quid impetum moraretur, quaedam inperfecta transmisit, alia levissimis verbis veluti fulsit, quae per iocum pro tibicinibus interponi aiebat ad sustinendum opus, donec solidae columnae advenirent. Bucolica triennio, Georgica VII, Aeneida XI perfecit annis. Bucolica eo successu edidit, ut in scena quoque per cantores crebro pronuntiarentur.
        Georgica reverso post Actiacam victoriam Augusto atque Atellae reficiendarum faucium causa commoranti per continuum quadriduum legit, suscipiente Maecenate legendi vicem, quotiens interpellaretur ipse vocis offensione.
        Pronuntiabat autem cum suavitate et lenociniis miris. Ac Seneca tradidit, Iulium Montanum poetam solitum dicere, involaturum se Vergilio quaedam, si et vocem posset et os et hypocrisin; eosdem enim versus ipso pronuntiante bene sonare, sine illo inanes esse mutosque. Aeneidos vixdum coeptae tanta exstitit fama, ut Sextus Propertius non dubitaverit sic praedicare: Cedite, Romani scriptores, cedite Grai: Nescio quid maius nascitur Iliade.

        V
        Augustus vero - nam forte expeditione Cantabrica aberat - supplicibus atque etiam minacibus per iocum litteris efflagitarat, ut 'sibi de Aeneide,' ut ipsius verba sunt, 'vel prima carminis hupographè vel quodlibet kòlon mitteretur.' Cui tamen multo post perfectaque demum materia tres omnino libros recitavit, secundum, quartum et sextum, sed hunc notabili Octaviae adfectione, quae cum recitationi interesset, ad illos de filio suo versus, 'tu Marcellus eris,' defecisse fertur atque aegre focilata est. Recitavit et pluribus, sed neque frequenter et ea fere de quibus ambigebat, quo magis iudicium hominum experiretur.
        Erotem librarium et libertum eius exactae iam senectutis tradunt referre solitum, quondum eum in recitando duos dimidiatos versus complesse ex tempore. Nam cum hactenus haberet: 'Misenum Aeoliden' adiecisse: 'quo non praestantior alter,' item huic: 'aere ciere viros,' simili calore iactatum subiunxisse: 'Martemque accendere cantu,' statimque sibi imperasse ut utrumque volumini ascriberet.

        VI
        Anno aetatis quinquagesimo secundo inpositurus Aeneidi summam manum statuit in Graeciam et in Asiam secedere triennioque continuo nihil amplius quam emendare, ut reliqua vita tantum philosophiae vacaret. Sed cum ingressus iter Athenis occurrisset Augusto ab Oriente Romam revertenti destinaretque non absistere atque etiam una redire, dum Megara vicinum oppidum ferventissimo sole cognoscit, languorem nactus est eumque non intermissa navigatione auxit ita ut gravior aliquanto Brundisium appelleret, ubi diebus paucis obiit XI Kal. Octobr. Cn. Sentio Q. Lucretio conss.
        Ossa eius Neapolim translata sunt tumuloque condita qui est via Puteolana intra lapidem secundum, in quo distichon fecit tale: Mantua me genuit, Calabri rapuere, tenet nunc Parthenope; cecini pascua rura duces. Heredes fecit ex dimidia parte Valerium Proculum fratrem alio patre, ex quarta Augustum, ex duodecima Maecenatem, ex reliqua L. Varium et Plotium Tuccam, qui eius Aeneida post obitum iussu Caesaris emendaverunt.
        De qua re Sulpicii Carthaginiensis exstant huiusmodi versus: Iusserat haec rapidis aboleri carmina flammis Vergilius, Phrygium quae cecinere ducem. Tucca vetat Variusque; simul tu, maxime Caesar, Non sinis et Latiae consulis historiae. Infelix gemino cecidit prope Pergamon igni, Et paene est alio Troia cremata rogo.

        VII
        Egerat cum Vario, priusquam Italia decederet, ut siquid sibi accidisset, Aeneida combureret; at is ita facturum se pernegarat; igitur in extrema valetudine assidue scrinia desideravit, crematurus ipse; verum nemine offerente nihil quidem nominatim de ea cavit. Ceterum eidem Vario ac simul Tuccae scripta sua sub ea condicione legavit, ne quid ederent, quod non a se editum esset.
        Edidit autem auctore Augusto Varius, sed summatim emendata, ut qui versus etiam inperfectos sicut erant reliquerit; quos multi mox supplere conati non perinde valuerunt ob difficultatem, quod omnia fere apud eum hemistichia absoluto perfectoque sunt sensu, praeter illud: 'quem tibi iam Troia.' Nisus grammaticus audisse se a senioribus aiebat, Varium duorum librorum ordinem commutasse, et qui tunc secundus esset in tertium locum transtulisse, etiam primi libri correxisse principium, his versibus demptis: Ille ego qui quondam gracili modulatus avena Carmina et egressus silvis vicina coegi, Ut quamvis avido parerent arva colono, Gratum opus agricolis, at nunc horrentia Martis? Arma virumque cano.

        VIII
        Obtrectatores Vergilio numquam defuerunt, nec mirum; nam nec Homero quidem. Prolatis Bucolicis Numitorius quidam rescripsit Antibucolica, duas modo eglogas, sed insulsissime parodesas quarum prioris initium est: Tityre, si toga calda tibi est, quo tegmine fagi? sequentis: Dic mihi Damoeta: cuium pecus anne Latinum? Non. Verum Aegonis nostri, sic rure locuntur. Alius recitante eo ex Georgicis: 'nudus ara, sere nudus' subiecit: 'habebis frigore febrem.' Est et adversus Aeneida liber Carvili Pictoris, titulo Aeneomastix. M. Vipsanius a Maecenate eum suppositum appellabat, novae cacozeliae repertorem, non tumidae nec exilis, sed ex communibus verbis, atque ideo latentis. Herennius tantum vitia eius, Perellius Faustus furta contraxit.
        Sed et Q. Octavi Aviti omoiotèton octo volumina quos et unde versus transtulerit continent. Asconius Pedianus libro, quem Contra obtrectatores Vergilii scripsit, pauca admodum obiecta ei proponit eaque circa historiam fere et quod pleraque ab Homero sumpsisset; sed hoc ipsum crimen sic defendere adsuetum ait: cur non illi quoque eadem furta temptarent?
        Verum intellecturos facilius esse Herculi clavam quam Homero versum subripere. Et tamen destinasse secedere ut omnia ad satietatem malevolorum decideret."



        LE ORIGINI

        Virgilio, ovvero Publius Vergilius Maro, nacque nel consolato di Gneo Pompeo Magno e Marco Licinio Crasso, il 15 ottobre del 70 a.c., nel villaggio di Andes, a tre miglia da Mantua, (odierna frazione di Pietole presso Mantova). In realtà viene considerato oggi nativo di Mantova che lo onora con una statua.
        Il padre sarebbe stato un figulus, cioè un vasaio che, divenuto cieco in vecchiaia, morì più o meno insieme alla madre, quando Virgilio era già adulto e di lì a poco perse anche i due fratelli, Silone e Flacco.

        Secondo altri il padre sarebbe invece stato servitore di un tal Magio che gli avrebbe dato in sposa la figlia Magia Polla. Questa, prossima al parto, avrebbe sognato di aver partorito un ramo d'alloro, simbolo della poesia, che, al contatto con la terra, subito germogliò con fiori e frutti, allusione all'arte di Virgilio. Il giorno seguente, mentre era in campagna con il marito, partorì in un fosso e il bimbo nacque sereno e senza pianti.
        Una virga di pioppo, cioè un ramo, che nell'etimologia è collegata al nome di di Virgilio, piantata nel luogo del parto, crebbe prodigiosamente si da eguagliare in altezza gli alberi piantati molto tempo prima:
        così il cosiddetto albero di Virgilio venne venerato dalle partorienti.

        Ma la versione più probabile è che il padre di Virgilio, Stimicone Virgilio Marone (citato nelle Bucoliche, V,55), fosse un piccolo proprietario terriero arricchitosi tramite l’apicoltura, l’allevamento e l’artigianato mentre la madre, di nome Polla Magio, era la figlia di un facoltoso mercante, Magio, al cui servizio aveva lavorato il padre del poeta.
        Altrimenti non si spiegherebbero due cose: l'amore e soprattutto la conoscenza che ha Virgilio dei lavori campestri, apicoltura compresa, e come abbia potuto viaggiare e fare studi così approfonditi se la sua famiglia era così povera.



        GLI STUDI

        Virgilio fece il primo corso di studi a Cremona, poi a Milano e poi a Roma, per frequentare la scuola di retorica di un certo Epidio assieme a Ottaviano, il futuro Augusto. Non fu granchè come oratore, cosìcchè sostenne la difesa di una sola causa, dove a cagione della sua timidezza non riuscì quasi a parlare. Infatti in un celebre epigramma dette l'addio alla retorica per veleggiare verso i porti beati della filosofia dove la vita è liberata da ogni affanno. A Roma fece peraltro il veterinario dei cavalli di Augusto, cosa che gli riuscì meglio dell'arte oratoria.

        La scoperta di non essere portato per le cariche pubbliche e forse più ancora per il clima mondano e sfrenato di Roma lo fecero precipitare in una depressione che lo fece fuggire dall'urbe in cerca di quiete. Da qui il suo viaggio in Campania.

        Nonostante le umili origini, la sua fu una formazione fu ottima, studiando, oltre alle materie letterarie, la matematica e la medicina. Secondo Macrobio ( IV - V sec. dc.), Virgilio apprese le lettere greche da Partenio, autore di un manuale di mitologia per Cornelio Gallo, il poeta elegiaco amico dello stesso
        Virgilio. Dopo la guerra civile per la lotta tra Cesare e Pompeo, e dopo la morte di Cesare Virgilio visse una tragedia più grande, perchè la distribuzione delle terre ai veterani dopo la battaglia di Filippi mise in grave pericolo le sue proprietà nel Mantovano ma, grazie all'intercessione di personaggi influenti (Pollione, Varo, Gallo, Alfeno e lo stesso Augusto), Virgilio riuscirà ad evitare la confisca, dopodichè abbandonerà Roma cercando posti più adatti alla sua cagionevole salute e pure al suo carattere, così si spostò a Napoli.

        In effetti a Virgilio piacque molto più Napoli che Roma, tanto che vi risiedette dopo il 42 a.c., da amante della campagna e della quiete qual'era, e raramente tornò a Roma, dove aveva però una casa sull'Esquilino presso gli Orti di Mecenate. Secondo Servio a Napoli frequentò la scuola dei filosofi Sirone e Filodemo per apprendere i precetti di Epicuro, e qui conobbe diversi importanti personaggi nel campo politico ed artistico, come Orazio e probabilmente anche Vario e Quintilio Varo, tutti esponenti con lui del futuro circolo di Mecenate.
        Talmente era schivo che se rischiava di essere riconosciuto si dileguava come poteva, nè parlava di sè nelle sue opere, neppure dei grandi poeti che gli furono amici e ammiratori, come Orazio, Tibullo e Properzio, Tucca, Vario e altri. Virgilio nello stile sembra attingere soprattutto da Catullo, d'altronde il più valido della poetica latina dell'epoca. Risentì anche di Lucrezio, meno riconosciuto all'epoca perchè, anche lui piuttosto schivo, non fece parte di alcun movimento.
        Certo, Virgilio ammirò e, soprattutto in gioventù, imitò Catullo, tanto che possiamo ipotizzare un 'periodo catulliano', ma ammirò anche Lucrezio e ne seguì gli insegnamenti poetici, soprattutto nelle sue opere maggiori.

        Dopo il successo delle Bucoliche venne in contatto con Mecenate ed entrò a far parte del suo circolo, che raccoglieva i migliori letterati dell’epoca e che era vicinissimo ad Augusto. Ma Virgilio più che la corte di Roma frequentò le tenute terriere di Mecenate in Campania nei pressi di Atella ed in Sicilia. Attraverso Mecenate, Virgilio conobbe Augusto che lo pose sotto la sua protezione per la bravura dell'arte e per la propaganda fatta attraverso l'Eneide a Ottaviano, ai suoi antenati e all'impero di Roma.



        CITAZIONI FAMOSE

        "Omnia vincit amor""L'amore vince ogni cosa" (Ecl.10.69)
        "Arma virumque cano""Canto le armi e gli uomini" (Aen.1.1)
        "Audentis fortuna iuvat""'La Fortuna aiuta gli audaci" (Aen.10.284)


        LA POETICA

        L'Appendix Vergiliana è una raccolta di 33 carmi di diversa composizione metrica per vari motivi legati al nome di Publio Virgilio Marone, probabilmente composti tra il 44 ed il 38 ac. tra Roma e Napoli. La raccolta fu così chiamata sin da Giuseppe Giusto Scaligero, umanista noto in Francia, dove nacque nel 1540 e visse fino alla morte, nel 1609, come Joseph-Juste Scaliger, figlio di Giulio Cesare Scaligero, pseudonimo di Giulio Bordoni, studioso di Riva del Garda.
        Il Virgilio che conosciamo attraverso le opere di sicura attribuzione - Bucoliche, Georgiche ed Eneide - è un poeta ormai maturo, di eccezionale e sperimentata forza espressiva. Ma Elio Donato attribuisce alla giovinezza del poeta le seguenti opere:
        "Catalepton et Priapea et Epigrammata et Diras, item Cirim et Culicem, cum esset annorum XVI".
        Per tutte le altre ci sono molti dubbi sull'attribuzione per cui gli studiosi si dividono sul pro e sul contro, ma la tradizione li attribuisce al poeta mantovano.

        Se gli studiosi furono molto divisi sul tema, credendo taluni all'autenticità di tutta la raccolta o rifiutandola  in blocco, o considerando una parte autentica e una spuria,  l'analisi storica e linguistica ha invece accertato che i componimenti risalgono perloppiù ai decenni centrali del I sec. ac.,  il periodo della sua giovinezza, il che giustificherebbe in molti casi una poetica un po' più immatura.

        Questi componimenti sembrano mancare della limatura e revisione che in genere precede la pubblicazione, in particolare per un preciso quasi ossessivo come Virgilio, il che potrebbe comportare che l'autore non li avesse mai pubblicati e fosse invece in attesa di revisionarli. Forse i componimenti dell'Appendix erano contenuti e protetti, assieme all'incompiuta Eneide, negli "scrinia" che il poeta chiese insistentemente di distruggere negli ultimi momenti della sua vita, proprio perchè giudicati insufficienti.

        Infatti nelle opere della maturità si ritrovano versi e frasi intere presi sani sani dai componimenti dell'Appendix, e non, come è stato ipotizzato, un saccheggio di Virgilio su ignoti autori dell'Appendix. Il Virgilio che conosciamo si sarebbe ispirato ma mai avrebbe copiato e saccheggiato l'opera di altri autori, lui così timoroso e mai sicuro di ciò che scriveva. Un'accusa di plagio, a parte la sua indiscussa morale, l'avrebbe di sicuro annientato, perciò è da escludere recisamente.

        Il talento e lo stile, unitari nei diversi componimenti, fanno pensare che Virgilio potrebbe averli composti, unitamente alla Priapea, in massima parte prima delle Bucoliche. In accordo col sensibile animo virgiliano che conosciamo, e al contrario delle comuni Odi a Priapo, l'autore limita al massimo il linguaggio volgare e i riferimenti osceni, e questo è da lui..


        CIRIS - AIRONE
        La Ciris prende il nome dall'uccello, identificato con l'airone bianco, nel quale secondo il mito fu trasformata Scilla. Si tratta di un epillio in 541 esametri che deve molto a Catullo, tanto che è stato facilmente puntato l'indice infamante sulla continua trasposizione di brani, sulle citazioni ed in generale sulla sfacciata imitazione del Veronese. Ma il poemetto deve altrettanto a Virgilio stesso, per una fine
        sensibilità e dolce delicatezza che, sconosciuto a Catullo, è uno dei tratti più propri di Virgilio.
        La storia narra che il Re di Megara, Niso, ha ricevuto un dono dagli dei: la sua città non sarebbe stata presa fino a che lui avrebbe portato in testa un capello d'oro, del quale nessuno, con l'eccezione della figlia Scilla, conosceva l'esistenza. Minosse attacca la città. Scilla, dall'alto delle mura, s'innamora di lui. Riesce ad incontrarlo e gli rivela il segreto del padre. Minosse le ordina di strappare il capello al padre, lei obbedisce e Minosse conquista la città. Il padre capisce di essere stato tradito dalla figlia, corsa incontro a Minosse. Quest'ultimo però la ripudia come traditrice del proprio padre e della propria città. Niso vorrebbe uccidere Scilla ma lei viene trasformata in un airone bianco dagli dei, mentre il padre diviene un'aquila nera.

        CATALEPTON - ALLA SPICCIOLATA
        I quindici componimenti della raccolta sono di origine diversa, oltre che di vario tema e metro, presentati esplicitamente come opere virgiliane. Fra questi carmi, un paio sono componimenti d'occasione che potrebbero veramente essere del giovane Virgilio, tuttavia, anche l'iniziativa di un falsario non è da escludersi. Si tratta in ogni caso di testi di modesto valore poetico.

        MORETUM - FOCACCIA
        Di ispirazione campestre, ma pure abile parodia, con tono umoristico e ispirazione virgiliana descrive la sveglia del contadino Similo all'alba, presentato come un eroe. Appena alzato si prepara, aiutato dalla schiava, una colazione rustica a base di farina e aglio, che mangia con appetito, prima di avviarsi al lavoro nei campi.

        PRIAPEA - CANTI A PRIAMO
        Tre componimenti rusticani, composti in onore del Dio Priapo, custode degli orti, che viene presentato in atteggiamenti osceni. L'autore limita al massimo il linguaggio volgare e i riferimenti osceni.

        In primavera sono circondato
        dalle rose, in autunno dalla frutta,
        in estate dalle spighe.
        L'inverno è la mia sola dannazione.
        Temo il freddo e ho paura
        ch'io, dio di legno come sono, serva
        per il fuoco dei pigri contadini.

        Eccomi qui, secco pioppo, sbozzato
        da scure contadina, che difendo
        e custodisco, o viandante, allontanando
        le mani ladre, questo campicello
        davanti al quale vedi la villetta
        e l'orticello del povera Ero.
        In primavera m'offrono corone
        di fiori variopinti, in estate
        le bionde spighe, poi l'uva dolcissima
        coi suoi pampini verdi e poi, d'inverno,
        la glauca oliva maturata al freddo.
        La capretta gentile dai miei pascoli
        porta al mercato le mammelle piene
        di latte, dagli ovili miei l'agnello
        è condotto in città, così il padrone
        ritorna a casa con le mani piene
        di danaro, e la tenera vitella,
        mentre la madre mugge, sparge il sangue
        davanti al tempio.
        Viandante, rispettami,
        tieni le mani a posto; ti andrà bene
        perchè già pronto il palo del supplizio.
        "Magari" dici? Ma ecco il contadino
        arrivare e strappata con robusto
        braccio la fava servirsene a modo
        di manganello con la mano destra.

        Questo luogo palustre, giovanotti,
        questa capanna coperta di giunchi
        e fascine di larici io, Priapo
        fatto di quercia secca da una scure
        contadina, li faccio prosperare,
        che diventino ogni anno più prosperi.
        Poichè mi rendono omaggio e mi venerano
        i padroni del povero tugurio,
        un padre con il figlio adolescente;
        l'uno bada con cura che le erbacce
        e i rovi non m'invadano il tempietto,
        l'altro mi porta doni in abbondanza
        con le tenere mani. A primavera
        mi offrono corone variopinte,
        anzitutto la spiga verdeggiante
        dalla tenera arista, gialle viole,
        lattiginosi papaveri, pallide
        zucchette, mele dal dolce profumo
        e l'uva rossa coltivata all'ombra
        dei pampini. Ed inoltre la mia arma
        (ma non lo dite!) spruzzano di sangue
        il capretto barbuto e la capretta.
        Per tutto questo ora mi sembra giusto.
        tutelare e proteggere la vigna
        e l'orto del padrone. Voi, ragazzi,
        non tentate qui dunque una rapina:
        qui vicino c'è un Priapo molto ricco
        e trascurato, andate lì a rubare,
        ecco il sentiero che lì vi conduce.

        EPIGRAMMATA
        qui è stato dimostrato che l'autore è unico, avvalorando in questo quel che è stato tramandato dai codici. Numerosi sono gli echi di Catullo, Callimaco, Archiloco, Plauto, ma l'autore mostra una personalità ed interessi autonomi rispetto a ciascuno di essi. Comprendono:

        E' E NON E' (DE EST ET NON)
        (già all'epoca giudicata spuria.)
        Est et non cuncti monosyllaba nota frequentant.
        his demptis nihil est, hominum quod sermo uolutet.
        omnia in his et ab his sunt omnia, siue negoti
        siue oti quicquam est, seu turbida siue quieta.
        alterutro pariter non numquam, saepe seorsis
        obsistunt studiis, ut mores ingeniumque,
        et facilis uel difficilis contentio nata est.
        si consentitur, mora nulla interuenit 'est, est':
        sin controuersum, dissensio subiciet 'non'.
        hinc fora dissultant clamoribus, hinc furiosi
        iurgia sunt circi, cuneati hinc †laeta† theatri
        seditio, et tales agitat quoque curia lites.
        coniugia et nati cum patribus ista quietis
        uerba serunt studiis salua pietate loquentes.
        hinc etiam placitis schola consona disciplinis
        dogmaticas agitat placido certamine lites.
        hinc omnis certat dialectica turba sophorum.
        †estne dies, est ergo dies? non conuenit istuc.
        nam facibus multis aut fulgoribus quotiens lux
        est nocturna homini, non est lux ista diei. 20
        est et non igitur, quotiens lucem esse fatendum est,
        sed non esse diem. mille hinc certamina surgunt,
        hinc pauci, multi quoque, talia commeditantes
        murmure concluso rabiosa silentia rodunt.
        qualis uita hominum, duo quam monosyllaba uersant!

        UOMO BUONO (VIR BONUS)
        già all'epoca giudicata spuria.

        ELEGIAE IN MAECENATIS OBITU 
        Le Elegiae in Maecenatem sono un poema di interesse storico-culturale, poiché rievocano la morte e la personalità del più influente consigliere politico e letterario di Augusto, Gaio Cilnio Mecenate. Sono divise in due parti: 144 versi la prima, 34 versi la seconda e vennero scritte dopo la morte del grande protettore di poeti. Nella prima viene difeso Mecenate dalle accuse di essere un manifesto epicureo, cioè troppo dedito al fasto e al lusso. Nella seconda Mecenate, sul punto di morire, riafferma la sua devozione alla casa regnante d'Augusto. Poiché però Mecenate è morto dopo Virgilio, quest'opera è sicuramente non virgiliana.

        HORTULUS
        il poemetto tra il poetico e il botanico. on cui do parla si parla delle preziose erbe e verdure coltivate dall'autore stessoi in un pezzo di terra accanto alla sua casa.

        IL VINO E VENERE  (DE VINO ET VENERE) 
        "Ragazzo, prendi vino e dadi. Che il domani cerchi la propria salvezza! La morte, tirandoti l'orecchio, grida: "Goditi la vita: io giungo!"

        IL LIVORE (DE LIVORE) 
        La rabbia per le ingiustizie come privare i contadini vussuti su una terra e della propria terra per darla ai combattenti che la terra non la conoscono, non la amano e non la sanno coltivare.

        IL CANTO DELLE SIRENE (DE CANTU SIRENARUM) 

        IL GIORNO NATALE (DE DIE NATALI) 

        LA FORTUNA (DE FORTUNA) 

        SU ORFEO  (De ORPHEO)

        SU SE STESSO  (DE SE IPSO)

        LE ETA' DEGLI ANIMALI  (DE AETATIBUS ANIMALIUM)

        IL GIOCO  (DE LUDO)

        DE AERUMNIS  HERCULIS

        DE MUSARUM INVENTIS

        LO SPECCHIO  (DE SPECULO) 

        MIRA VERGILII VERSUS EXPERIENTIA

        MIRA VERGILII EXPERIENTIA

        I QUATTRO TEMPI DELL'ANNO  (DE QUATTUOR TEMPORIBUS ANNI)

        LA NASCITA DEL SOLE  (DE ORTU SOLIS)

        LE FATICHE DI ERCOLE  (DE HERCULIS LABORIBUS) 

        LA LETTERA Y  (DE LITTERA Y)

        I SEGNI CELESTI  (DE SIGNIS CAELESTIBUS)

        OSTESSA (COPA
        Servio reputa virgiliano anche la Copa, breve carme in 19 distici elegiaci, dedicati al carpe diem. Donato, con ogni probabilità a ragione, non ne fa menzione riguardo Virgilio. Descrive un'osteria sulla strada, dove il viandante si ferma a ristorarsi, allietato dalla presenza di una giovane ostessa.

         MALEDIZIONI (DIRAE) 
        Il titolo delle Dirae, o imprecazioni, rende perfettamente il tono duro e aspro del breve carme in 183 esametri, con il quale il poeta esprime il proprio sfogo crudo e violento, di una rabbia quasi incontrollata, per la perdita dei propri campi nella prima parte, e la propria triste amarezza per la lontananza della donna amata, Lidia. Un'accusa rabbiosa come questa, contro la discordia civile che l'ha privato della sua terra e l'ha ridotto in miseria per premiare un soldato che ha combattuto in una guerra funesta e che, rendendolo esule senza colpa, l'ha anche privato dell'amore, non si ritrova altrove in Virgilio, che peraltro manifesta a più riprese il proprio orrore per la guerra ed è sempre assai riservato sulla propria vita. Tuttavia è facile pensare ad uno sfogo sull'evento che segnò la sua vita e che il suo animo dovette sentire particolarmente ingiusto, mentre nelle Bucoliche si ritrova il ricordo del fatto ammorbidito dal tempo e trasfigurato dall'elegia.Alla fine del carme però la rabbia si stempera nel ricordo dell'amore che ha potuto godere. Secondo questa interpretazione, le Dirae potrebbero essere di qualche anno anteriori alle Bucoliche e, quindi, probabilmente posteriori ai due epilli che qui seguono.

        ZANZARA  (CULEX) 
        Il Culex, è senza dubbio di Virgilio, testimoni Lucano, Stazio e Marziale, tutti ammiratori e, soprattutto i primi due, imitatori del Mantovano, nonchè il grammatico Nonio (IV sec. dc.); una certa ineguaglianza di stile e di espressione, peraltro giovanile, ha portato alcuni studiosi, magari giudicando l'opera non a livello di Virgilio, ad ipotizzare che l'originale virgiliano sia andato perduto e sostituito dall'opera di un anonimo falsario.
        Il poemetto narra la triste storia di una zanzara che salva un pastore dall'assalto di un serpente ma ne è involontariamente uccisa. Ciris mostra un diverso aspetto di Virgilio, paragonabile a Lucrezio e al mondo omerico, alquanto serio seppure bucolico.
        Vi viene trattata la concezione dell'oltretomba e dell'immortalità, del bene e del male, sul piano filosofico. All'inizio troviamo un pastore addormentato all'ombra di un albero, che sta per essere ucciso da un serpente, proprio in quel momento una zanzara lo sveglia con la sua puntura. Il pastore si salva, ma la zanzara da lui schiacciata, gli compare in sogno. Gli descrive le sue pene di creatura insepolta, destinata a vagare nelle tenebre. Il pastore ne viene impietosito e le dona una onorata sepoltura.

        ETNA (AETNA) 
        L'Aetna, ha attribuzione  discorde, Servio invece lo attribuisce a Virgilio. Un lungo carme, 646 esametri, in cui è illustrata la dottrina sui vulcani. Il modello è Lucrezio, ma di scarso valore; è stato variamente attribuito, tra l'altro al Lucilio cui Seneca dedicò tre opere e a Cornelio Severo, poeta contemporaneo di Ovidio.
        L'opera vuole spiegare scientificamente l'origine delle eruzioni vulcaniche e dei fenomeni annessi come terremoti, nubi di cenere e tremori, criticando la fallacia vatuum, cioè le menzogne dei poeti che avevano spiegato le eruzioni coi miti quale quello dei Giganti o la fucina di Vulcano sotto l'Etna.
        La parte finale dell'Etna contiene la critica dei confronti dei viaggi, tema ripreso da Lucrezio e Seneca: solo i viaggi fatti per ammirare la natura sono legittimi, non quelli fatti per visitare palazzi e rovine: l'uomo passa, la natura invece offre spettacoli eterni. La conclusione dell'Etna contiene la Miranda fabula dei pii fratres catanesi, mito antichissimo in cui: i due giovani Anfinomo e Anapia furono risparmiati dalle fiamme dell'Etna, che si aprirono al loro passaggio, perché preferirono salvare il padre e la madre anziani piuttosto che portare in salvo dalla lava denaro e oggetti preziosi, come invece facevano tutti gli altri. In loro onore furono erette due statue che Claudio Claudiano dichiara ancora presenti alla sua epoca alle pendici del vulcano e la loro effigie venne incisa su monete e vasellame. In effetti vi è una contraddizione tra la razionalità scientifica e il mito moraleggiante.

        GESTA ROMANE (RES ROMANAE)
        opera solo progettata e poi abbandonata.

        CHE NOVITA' CI SONO?  (QUID HOC NOVI EST?)
        carme priapeo.

        LYDIA

        DE ROSIS NASCENTIBUS
        già all'epoca giudicata spuria.

        DE DIE NATALI  

        DE INSTITUZIONE VIRI BONI




        LE OPERE DELLA MATURITA'

        VIRGILIO
        Le opere della maturità: Bucoliche e Georgiche
        Secondo Donato, Virgilio assunse la toga virile, secondo l'uso, a 17 anni (nel 53 ac.) nel giorno stesso in cui moriva Lucrezio quindi non ebbe modo di conoscere nè Catullo nè Lucrezio, i suoi maggiori ispiratori.
        Era l'epoca di Cesare e della conquista della Gallia, ma anche della guerra civile -  il 53 ac. è l'anno dei gravi disordini che impedirono l'elezione dei consoli e aprirono all'elezione di Pompeo consul sine collega, l'episodio col quale Pompeo si avvicinò definitivamente alla parte senatoria - che, mutati ogni volta i contendenti, vedrà le battaglie fratricide di Tapso e Munda, quella di Filippi, quella di Azio; vedrà l'assassinio di Cesare davanti al senato e il sorgere del principato, l'impoverimento della popolazione e le devastazioni per foraggiare gli eserciti e le distribuzioni di terre agli innumerevoli veterani dell'una e dell'altra parte.
        Di questi eventi e delle loro conseguenze sulla popolazione civile rimane poetica testimonianza negli accenni presenti nelle Bucoliche e nelle Georgiche.



        LE BUCOLICHE

        (Carmina Bucolica cioè i canti dei bovari), dal greco boukòlos, contadino, furono composte in due o tre anni tra il 42 e il 39 ac. a Napoli, dieci egloghe di stile perlopiù bucolico sul modello del poeta siciliano Teocrito. Note anche con il nome di Eclogae, o 'brani scelti', così chiamati dai grammatici.
        Sono gli anni delle guerre civili prima tra Cesare e Pompeo, poi contro i cesaricidi, infine tra Ottaviano e Antonio, e pubblicati con un ordine che non rispetta quello di composizione. Tra il 42 - 43 il poeta perde casa e podere per assegnamento all'esercito, recuperati poi grazie agli influenti amici e ad Ottaviano.

        Secondo Servio  Virgilio avrebbe scritto un carmen bucolicum su invito di Asinio Pollione, ed in effetti all'inizio dell'VIII il Mantovano si rivolge a Pollione presentandogli gli iussis carmina coepta tuis, mentre la IV è intitolata proprio a Pollione.

        Secondo Donato, le Bucoliche volevano essere un poema sulle imprese di Roma, mai terminato per le difficoltà dell'argomento e soprattutto perchè prematuro e in un certo senso fuori tempo in epoca di guerre intestine.
        Virgilio sarebbe inoltre stato attratto dalla dolcezza della poesia di Teocrito, il poeta siracusano del III secolo ac. cui accenna in alcuni luoghi. Egli avrebbe iniziato le Bucoliche per ringraziare Asinio Pollione, Alfeno Varo e Cornelio Gallo per il loro interessamento che lo aveva salvato dalla perdita del suo podere nella distributio agrorum ai veterani delle terre al di là del Po che i triumviri decisero dopo la battaglia di Filippi.

        - I egloga - è un dialogo tra due contadini, Titiro e Meibeo. Melibeo è costretto ad abbandonare la sua casa ed i campi, che diverranno la ricompensa di un soldato romano. Titiro invece può restare grazie all'influenza di un potente (forse Ottaviano, o un nobile della sua cerchia, come Asinio Pollione). La trama è piuttosto autobiografica, per la disperazione di vedersi defraudato ed espropriato delle sue terre nel mantovano, e il sollievo per lo scampato pericolo.
        Donato nota che solo sette dei dieci componimenti sono propriamente pastorali, essendo gli altri tre le ecloghe IV, VI e X; questo spiega probabilmente la scelta del nome di ecloghe in luogo di quello, peraltro originale, di bucoliche.

        - II egloga - contiene il lamento d'amore del pastore Coridone, che si strugge per il giovane Alessi;
        - III egloga -  è una gara poetica fra due pastori, svolta in canti alternati detti amebèi;
        - IV egloga - è dedicata a Pollione, amico di Virgilio;
        - V egloga -  è il lamento per la morte di Dafni;
        - VI egloga - il vecchio Sileno canta l'origine del mondo a Varo;
        - VII egloga -  Melibeo racconta la gara di canto tra due pastori;
        - VIII egloga -  è dedicata ad Asinio Pollione;
        - IX egloga - è molto simile alla prima, i due protagonisti sono Lìcida e Meride

        - X egloga - è dedicata a Gallo che Virgilio cerca di confortare dopo una delusione d'amore. Ricorda pure una delusione d'amore dell'autore per la celebre Lydia che tanto dolore gli arrecò.



        LE GEORGICHE (Georgicon)

        Composte dal 37 al 30 ac., per altri (tra il 36 e il 29 ac.), comunque anni difficili, ma anche gli anni in cui si definisce la supremazia di Ottaviano e la fine di Antonio. Composte a Napoli in sette anni e suddivise in quattro libri. È un poema didascalico sul lavoro dei campi, sull’arboricoltura (in particolare della vite e dell’olivo), sull’allevamento e sull'apicoltura come metafora di un’ideale società umana. Ogni libro  si apre con un prologo e si chiude con un epilogo, suddiviso in vari temi.

        Le Georgiche, o Georgica carmina (dal greco georgòs, colui che lavora la terra, agricoltore). Dopo le lunghe guerre civili e dopo gli espropri e la distribuzione delle terre ai veterani, il lavoro dei campi rischiava l'abbandono da parte di coloro cui le devastazioni e l'infrazione del diritto di proprietà suggerivano di vendere e ritirasi in altri luoghi, mentre la produzione della terra rischiava di contrarsi drammaticamente per l'imperizia dei nuovi coloni.

        Il poeta nato in campagna, tra contadini e pastori, legato profondamente alla sua terra, ispirato dalla dolcezza della natura, può finalmente cantare il lavoro agreste e la nobiltà dell'agricoltore, con un pizzico di rivincita sui veterani nuovi arrivati, che avevano involontariamente tentato di sottrargli il podere, riuscendovi con tanti altri, benché totalmente digiuni del lavoro dei campi quanto abili nelle armi.

        Il proemio del terzo libro contiene il proposito di darsi alla poesia epica, secondo Donato già avuto in gioventù quando aveva interrotto un poema sulle gesta di Roma per concentrarsi sulle Bucoliche e che riprenderà con l'Eneide.
        Secondo Seneca, Virgilio con le Georgiche non ebbe l'intenzione di giovare ai contadini quanto di dilettare i lettori, e forse è vero quanto insieme è vero l'entusiasmo e l'amore che ha Virgilio nei confronti della natura..

        Ottaviano è il referente naturale degli appelli di Virgilio e delle sue speranze in un secolo di pace, dopo un secolo di guerra, che ridoni alle campagne braccia oneste e volga le spade in falci feconde. Appelli e speranze che non rimasero delusi, in quanto riposti in una personalità eccezionale come quella di Ottaviano.

        L'augusto, da sincero difensore delle arti e nel contempo saggio valutatore della propaganda attraverso un cantore delle qualità di Virgilio, non mancò di interessarsi ai progressi del Mantovano: da Donato apprendiamo che nel 29 ac. Augusto, fermatosi ad Atella, non lontano da Napoli dove risiedeva Virgilio, per ristabilirsi da un mal di gola, di ritorno dalla campagna che dopo Azio l'aveva visto attraversare tutto l'oriente per rinsaldare il dominio romano, si fece declamare tutte le Georgiche da Virgilio in persona, sostituito nella lettura da Mecenate quando la gola gli doleva. E altrettanto Ottaviano apprezzerà l'Eneide.

        Ciascun libro presenta una digressione:
        Il I le guerre civili,
        il II la lode della vita agrestre,
        il III la peste degli animali a Norico,
        il IV libro si conclude con la storia di Aristeo e delle sue api (questa digressione è anche un  mito eziologico).
        In realtà, nella prima stesura delle Georgiche, la conclusione del IV libro era dedicata a Cornelio Gallo ma, caduto questi in disgrazia presso Augusto, gli venne ordinato di concludere l’opera in modo diverso. L’opera fu dedicata a Mecenate. Si tratta sicuramente di uno dei più grandi capolavori della letteratura latina e l’espressione più alta dell’autentica e vera poesia virgiliana. I modelli qui seguiti sono Esiodo e Varrone.

        ENEIDE - FUGA DI ENEA CON ANCHISE SULLE SPALLE


        ENEIDE (Aeneis)

        Poema epico, suddiviso in dodici libri, composto a Napoli, Atella ed in Sicilia sul modello omerico, inizato subito dopo le Georgiche, forse già nel 29 ac., proseguì per undici anni fino alla morte. Secondo Donato, Virgilio cominciò dapprima a stendere gli argomenti e le scene in prosa distribuendoli nei dodici libri che poi effettivamente la composero, ma senza osservare un ordine definitivo e senza fermarsi a perfezionare brani incompleti o insoddisfacenti, preferendo invece seguire l'ordine dettato dall'ispirazione. Questo modo di procedere si ritrova nel testo che possediamo, il quale è evidentemente incompiuto, tanto che 58 versi non rientrano nella scansione metrica e rompono l'armonia della lettura (i cosiddetti tibicines), mentre la conclusione del poema è generalmente ritenuta troppo frettolosa per essere quella desiderata da Virgilio.

        Opera monumentale, considerata dai contemporanei alla stregua di un’Iliade latina, fu il libro ufficiale del regime di Augusto ribadendo l’origine e la natura divina del potere non imperiale come alcuni sostengono ma solo augusteo.
        Essa narra la storia di Enea, esule da Ilio e fondatore della divina gens Iulia. Secondo alcuni biografi l’opera si sarebbe dovuta articolare in ventiquattro libri, che comprendevano la storia romana fino ai tempi di Augusto. Il poema rimase privo di revisione, e nonostante Virgilio prima di partire per l’Oriente ne avesse chiesto la distruzione e ne avesse vietato la diffusione in caso di sua morte, esso fu pubblicato per volere dell’imperatore. Nel XV secolo il poeta Maffeo Vegio compose in esametri il Supplementum Aeneidos, cioè il tredicesimo libro a completare il poema virgiliano.

        Non sorprende che Virgilio avesse chiesto a Vario - il quale si rifiutò - di bruciare l'Eneide se gli fosse accaduto qualcosa prima di terminarla; e che in punto di morte non cessasse di chiedere i suoi scrigni per distruggerla di sua mano. Del resto aveva ottenuto da Vario e anche da Tucca la promessa che essi non avrebbero pubblicato nulla che egli non avesse pubblicato in precedenza.
        Ma per fortuna quando gli amici furono incaricati da Augusto della revisione e pubblicazione, non si opposero limitandosi saggiamente a ritocchi superficiali ed evitando di alterare lacune come i versi imperfetti e di integrare le parti incompiute.

        Dati il perfezionismo e il labor limae esasperato di Virgilio, si può credere all'aneddoto di Augusto, lontano da Roma per la spedizione contro i Cantabri in Spagna (25 ac.), che si preoccupa per lo sviluppo del poema che cantava la gloria di Roma e della gens Iulia, di Cesare e di Augusto stesso, fin a ricorrere a suppliche e minacce, affinchè Virgilio  gli spedisse anche una semplice bozza del lavoro, e che il timido e insicuro Virgilio rifiutasse.
        E quando Virgilio poté leggere tre capitoli - ovviamente non consecutivi: e precisamente il secondo, il quarto e il sesto - alla presenza di Augusto e della sorella Ottavia, quest'ultima, all'udire i versi dedicati al proprio figlio Marcello - erede designato di Augusto ma morto in giovane età - nel sesto libro, svenisse, per il rimpianto del figlio e per i versi che sapevano giungere al cuore.

        Le ulteriori rare letture pubbliche, ma sempre in ambiente selezionato, nonostante Virgilio leggesse quasi solo i brani secondo lui peggiori per sentire le critiche, gli dettero presto grandissima fama, tanto che Properzio commentò: nescio quid maius nascitur Iliade.

        I dodici libri dell'Eneide sono divisi in due parti: la prima narra il viaggio di Enea dalla distruzione di Troia fino all'approdo in Italia, la seconda narra la guerra contro le popolazioni latine per stabilirsi nel Lazio.



        LA STORIA

        La narrazione inizia quando Enea già da sette anni è al comando di venti navi troiane che guida attraverso il Mediterraneo verso il Lazio, dove conta di stabilire la sua nuova patria. Giunone, irata con Enea perché perse la gara di bellezza con Venere, madre di Enea, fa scatenare da Eolo una tempesta che rischia di sommergere le navi, finchè Nettuno placa venti ed onde permettendo ai superstiti di approdare in Africa presso Cartagine.

        Venere intercede presso Giove che accorda la tregua. Così la regina di Cartagine, Didone, accoglie  i profughi e si innamora di Enea, che durante il banchetto in suo onore, narra il suo periglioso viaggio coi suoi compagni, racconto che si estende per i due libri successivi.

        Enea parte dall'Iliade e narra i Greci, entrati in Troia col famoso espediente di Ulisse, il cosiddetto cavallo di Troia, di notte escono e mettono la città a ferro e fuoco. Enea, svegliato dal fantasma di Ettore, cerca con un gruppo di compagni la fuga dalla città in fiamme, conducendo per mano e il figlio Iulo e portando il vecchio padre Anchise sulle spalle, ma nella fuga perde la moglie Creusa che muore.

        Enea fa allora costruire una flotta per tutti i superstiti e prende il largo per il Mediterraneo. A Delo, interpella l'oracolo di Apollo per la destinazione e questi risponde di cercare 'l'antica madre', da dove la stirpe d'Enea avrebbe dominato sul mondo. Anchise suggerisce di recarsi a Creta, da dove sorse Teucro, capostipite della stirpe troiana. Ma i Penati, in sogno, spiegano che la meta è in Italia alla volta di Corythus, la città (identificata da Silio Italico con Cortona) dove ebbe origine Dardano.

        Dopo varie avventure in cui tra l'altro Anchise muore, i Troiani giungono a Cartagine. Didone si è già innamorata e si confida con la sorella Anna che suggerisce di dichiarare il suo amore. Giunone concorda allora con Venere il matrimonio di Didone con Enea, per impedire le grandi imprese future; ma Giove invia Mercurio a ricordare all'eroe i propri doveri verso il destino. Enea, seppure a malincuore decide di partire nonostante la disperazione di Didone. Infine la regina disperata ordina di mettere su una pira tutti i ricordi delll'amato. Poi corre al porto ormai vuoto delle navi troiane, allora corre alla pira maledicendo Enea.  L'anatema scagliato è la discordia e la guerra tra la discendenza del suo popolo e quella di Enea, quindi si uccide con la spada. Enea da lontano vede il fumo della pira e comprende che è per Didone, così il destino continua a snodarsi come un serpente per il suo compimento.

        I Troiani approdano in Sicilia, bene accolti da re Alceste. Per l'anno dalla morte di Anchise, Enea organizza giochi funebri con la partecipazione di Troiani e Sicaniche si misurano in gare navali, di corsa, di pugilato e tiro con l'arco. Giunone sotto spoglie mortali convince le mogli dei Troiani a bruciare le navi per fermarsi in quella terra, ma Giove invia la pioggia che salva quindici navi. Enea è incerto se rimanere in Sicilia o proseguire per l'Italia, ma l'ombra di Anchise lo spinge a proseguire. Enea fonda  una città, Acesta, dove lasciare i vecchi e più stanchi dei suoi compagni, poi riprende il mare e sbarca a Cuma, dove interroga la Sibilla. Questa gli predice che giungerà nel Lazio, ma dovrà combattere per la nuova patria. Enea per mezzo della Sibilla discende nell'Ade dove incontra Didone, e dopo Anchise che gli rivela il glorioso futuro che spetterà alla sua stirpe. I Romani primeggeranno in tutte le arti e governeranno il mondo con saggezza. Il libro si chiude con la profezia della prematura scomparsa di Marcello, nipote prediletto di Augusto.

        Poi Enea e i suoi compagni sbarcano alla foce del Tevere e chiede al re Latino il permesso di potersi stabilire in quella terra. Latino accetta perché sa che Dardano, fondatore di Troia, nacque nella città etrusca di Corito; e soprattutto perché suo padre, il Dio Fauno, e vari prodigi gli hanno anticipato l'arrivo di uno straniero, il quale avrebbe generato dall'unione con sua figlia Lavinia una stirpe eroica e gloriosa. Per questo Lavinia, benché promessa a Turno, re dei Rutuli, non era ancora andata sposa.

        Enea si innamora di Lavinia, ma Latino teme l'ira di Turno. Giunone istiga la gelosia di Turno e l'odio verso i nuovi arrivati della moglie di Latino, Amata. Nasce una rissa tra Troiani e Latini in cui muore il giovane Almone. Allora Turno, nonostante Latino cerchi di placare gli animi, muove un esercito e contro i troiani, aiutato da  Mezenzio, il crudele re etrusco cacciato da Cere.

        Enea in sonno vede il Dio Tiberino che gli consiglia di chiedere l'alleanza di Evandro, re di una popolazione di origine greca ora sul Palatino. Evandro e suo figlio Pallante riconoscono in Enea la comune discendenza da Atlante, e riferisce che l'etrusco Tarconte ha riunito gli eserciti della varie città-stato contro Turno e che affiderebbero volentieri il comando ad Enea il quale naturalmente accetta.

        Tarconte ha posto l'esercito presso il bosco del Dio Silvano dove Venere consegna a Enea le armi forgiate da Vulcano, tra cui uno scudo con scene del glorioso futuro di Roma.
        La Dea Iride avvisa Turno che Enea è a capo della confederazione etrusca, per cui attacca il campo troiano prima che torni Enea. I Troiani Eurialo e Niso, amici inseparabili, vogliono forzare il blocco dei Rutuli assedianti e raggiungere Enea, ma aver fatto strage nemico ed essere scappati incappano in una pattuglia nemica che li uccide.

        Turno, riuscito ad entrare fa strage di troiani, ma infine è circondato e trova scampo tra le braccia del padre Tevere che lo riporterà da i suoi. Sull'Olimpo gli Dei disapprovano la guerra tra Troiani e Rutuli: Venere implora Giove di aiutare Enea.

        L'eroe troiano è di ritorno dall'Etruria con Tarconte e l'esercito, si scontra con Turno e vince sui nemici, il suo posto viene preso da Pallante che, dopo aver vinto alcuni scontri, è affrontato da Turno che lo uccide.

        Enea infuriato uccide in duello Mezenzio. Evandro, ricevendo il corpo di Pallante, ne chiede la vendetta. Su richiesta di Latino, si concorda una tregua di dodici giorni.
        Enea propone allora di risolvere le sorti della guerra con un duello tra lui e Turno. Ma la guerra prosegue e, nonostante l'intervento dei Volsci a fianco dei Latini, volge in favore dei Troiani. Turno accetta la sfida di Enea, ma Giunone convince Giuturna, sorella di Turno, a radunare e mandare all'attacco l'esercito rutulo, rompendo la tregua. E' di nuovo battaglia, poi finalmente il duello. Gli Dei lasciano che il fato si compia, Enea ferisce Turno e vorrebbe quasi risparmiarlo quando gli scorge addosso la cintura di Pallante e lo uccide. La guerra è finita e i Troiani vincitori possono stabilirsi nel Lazio.

        Il protagonista del romanzo, il pio Enea, incarna tutte le virtù dell'eroe romano: coraggioso e leale, accorto e responsabile, giusto e clemente, devoto al padre e attento verso il figlio, paziente e pacifico ma pronto ai suoi doveri verso la sua patria, il suo popolo e la sua famiglia. Per questo Enea è pius e caro agli dei, perché incarna la pietas, la devozione agli Dei, alla familia, ai compagni e alla patria, doveri che compie con fede incrollabile.



        LA MORTE

        Sembra che Virgilio, verso la fine della sua vita, volesse consacrarsi unicamente alla filosofia e grazie alla prodigalità degli amici, soprattutto di Mecenate e Augusto, condusse una vita agiata, giungendo  a possedere 10 milioni di sesterzi, ma pur sempre modesta, mangiava e beveva pochissimo, e lontano dagli altri, a Napoli era comunemente chiamato parthenias, la verginella.

        Amava talmente una vita tranquilla senza brama di ricchezza e di eccessi che quando Augusto gli offrì i beni di un tale condannato all'esilio, egli li rifiutò.

        Fisicamente, è descritto come alto di statura, di colorito bruno, di salute cagionevole: soffriva spesso di stomaco, di gola, di testa, in accordo con quella che si tramanda sia stata la sua sorte. Avendo deciso di trasferirsi in Grecia e in Asia per dare all'Eneide l'ultima mano, pensava di dedicarvi un triennio, giunto ad Atene vi incontrò Augusto che tornava a Roma dall'oriente e decise di tornare indietro con lui.

        Durante una visita alla vicina città di Mègara, però, sotto il sole cocente si ammalò. La lunga navigazione verso l'Italia lo fece aggravare, tanto che morì poco dopo esser approdato a Brindisi. Era il 21 settembre del 19 ac. e Virgilio era ancora cinquantunenne. Il suo corpo fu portato a Napoli e seppellito in un sepolcro sulla Via Puteolana, sul quale venne inciso il distico:
        " Mantua me genuit; Calabri rapuere; tenet nunc Parthenopae; cecini pascua, rura, duces"

        Metà della sua sotanza finì in eredità ad un fratellastro, figlio di sua madre; un quarto ad Augusto; un dodicesimo a Mecenate; e il resto agli amici fraterni Lucio Vario e Plozio Tucca, quelli stessi che dopo la sua morte rividero, per ordine di Augusto, l'Eneide. La fama di Virgilio alla sua morte era tale che presso il popolo fu immediatamente divinizzato e nell'immaginario collettivo assurse fin dai primi anni dell'era volgare a protettore di Napoli.



        IL DOPO VIRGILIO

        Nel corso del I secolo il sepolcro di Virgilio fu acquistato da Silio Italico, il poeta che coi suoi Punica volle essere continuatore dell'Eneide. Egli istituì una celebrazione annuale nel giorno della nascita del Mantovano, che si tramandò per alcuni secoli e contribuì a fare di Virgilio il nume tutelare della città e dei suoi resti mortali, custoditi nel sepolcro, oggetto di venerazione; tanto che nel XII secolo i Normanni, per piegare Napoli al loro potere, non trovarono di meglio che far trafugare e nascondere (per sempre) il vaso con le ceneri e le ossa di Virgilio.

        Virgilio fu per Roma quel che Omero fu per i greci, e pure di più, perchè non parlava solo di glorie passate ma pure di glorie presenti, anzi quelle più fulgide dell'impero romano. Se Cesare era stato l'uomo sorprendente ed eclettico, capace di imporsi, di trovare credito, di vincere infinite battaglie e di sfidare tutto e tutti per conquistare il suo seggio, Ottaviano era il suo erede nella pace, capace di trattare, prevedere, organizzare, oltre che di promuovere le arti e di abbellire Roma oltre i sogni più arditi.

        Si pensa che Virgilio abbia voluto ingraziarsi Augusto con l'Eneide, ma Virgilio era uno schivo che non amava la corte nè la celebrità. Egli ad Augusto ci credeva, innanzi tutto perchè prometteva e manteneva quella pace che era tanto mancata dopo la guerra civile. Tutto il popolo romano credeva in pieno alla Pax Augusta.

        Il suo capolavoro poi fu letto non solo per tutta Roma e nel suolo italico, ma in tutto l'impero, ed era opera così famosa che la Chiesa non se la sentì di demonizzare l'opera come aveva fatto con tante altre, perchè il mondo pagano vi si era molto affezionato e lo onorava come fosse un Dio. Il Cristianesimo allora capì che non poteva demolirlo per cui tentò di tirarlo dalla sua parte per volgere a sua favore un'opera così famosa e apprezzata, eseguendo una assurda esegesi cristiana delle sue opere. Così la profezia contenuta nell'ecloga IV riguardante l'avvento di un bambino che avrebbe portato una nuova età dell'oro, fu interpretata come illuminazione divina concessa al vate mantovano riguardo la prossima venuta di Cristo.

        Lo stesso Dante dette il massimo riconoscimento col farne nella Divina Commedia la propria guida attraverso l'Inferno e il Purgatorio, facendogli però confessare, per ingraziarsi la Chiesa, di essere vissuto "sotto lo buon Augusto, al tempo degli Dei falsi e bugiardi".
        Ingiustamente poi Virgilio nella Divina Commedia passa dai critici per la "ragione" che guida Dante negli Inferi. Virgilio non rappresenta affatto la parte razionale di Dante bensì la parte saggia, la consapevolezza che tuttavia, non essendo cristiana non viene ammessa al paradiso in quanto per il Cristianesimo, o almeno quello di allora, sembra più importante il battesimo che non la bontà e la saggezza dell'uomo. La Chiesa porrà pertanto Virgilio nel limbo anche se oggi il limbo è stato sconfessato dall'attuale Papa Ratzinger.

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