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CORNELIA SCIPIONE AFRICANA (MADRE DEI GRACCHI)

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Nome: Cornelia Scipio
Nascita: 191-190 a.c.
Morte: 121 a.c.


CORNELIA SCIPIONIS AFRICANA

 nata nel 191 o 190 ac. e morta nel 100 ac. vissuta quindi non meno di 90 anni, fu la seconda figlia di Publius Cornelius Scipio Africanus, l'eroe della II Guerra Punica, e di Aemilia Paulla, figlia di Lucius Aemilius Paullus (console nel 216). Andò in sposa a Tiberius Sempronius Gracchus Major, di età già avanzata, padre di Tiberio Sempronio Gracco.

Nonostante la differenza di età l'unione fu felice ed ebbero ben 12 figli, di cui però solo tre sopravvissero: Sempronia, sposata a suo cugino Publius Cornelius Scipio Aemilianus; e i fratelli Tiberio e Gaio Gracco, che avrebbero sfidato le istituzioni politiche di Roma, con i loro tentativi di riforme popolari.



LA VEDOVA

PHYSCON
Dopo la morte di suo marito ella decise di restare vedova, pur avendo un alto stato sociale, per dedicarsi all'educazione dei suoi figli. Rifiutò perfino la proposta di matrimonio di re Ptolemy VIII, soprannominato Physcon, re d'Egitto.

Cornelia aveva studiato lettereatura latina e greca e parlava il greco fluentemente, e per questo fece venire a Roma grandi studiosi e filosofi come Blossius da Cuma e Diophanes da Mytilene, in qualità di educatori.

Durante il periodo della vedovanza continuò a coltivare i forti interessi culturali che le erano stati trasmessi dal padre circondandosi, presso la residenza di Miseno, nei dintorni di Napoli, di un nutrito stuolo di letterati e di intellettuali greci. 



PLUTARCO

Plutarco scrisse parecchio sulla relazione che aveva Cornelia con i suoi figli adulti, illustrandola nei libri: "Vita di Tiberio Gracco" e "Vita di Gaio Gracco". Ella partecipò attivamente all'azione politica dei suoi figli, specialmente durante il tribunato di Gaio.

Plutarco afferma che la gente aveva approvato la legge graccana per il gran rispetto che avevano di lei, dei suoi figli e di suo padre. 

Inoltre scrive anche che Cornelia aiutò Gaio a minare il potere delle console Opimio assumendo raccoglitori stranieri per aiutare la resistenza degli agricoltori. 

Plutarco riferisce di quando Gaio rispose a un avversario politico che aveva attaccato Cornelia:

"Che cosa? Tu abusi Cornelia, che ha dato vita a Tiberio?
E dal quel momento accusò l'altro di pratiche effeminate: 
"Con quale sfrontatezza, puoi confrontarti con Cornelia? Hai forse avuto figli, come ella ha fatto? E in verità tutta Roma sa che ella si trattenne dal commercio con gli uomini per quanto superiori di grado, se tu sei un uomo. "

Evidentemente Cornelia aveva fama di donna casta, e i Gracchi usarono questo a loro vantaggio nella loro retorica politica. Plutarco scrive anche di come Gaio fece rimuovere Marco Ottavio, perché Cornelia gli aveva chiesto di rimuoverlo.

Cornelia supportò sempre Tiberio e Gaio, anche quando le loro azioni si rivolsero contro le famiglie patrizie in cui ella era nata.

Cicerone, nell’esaltare le prerogative di Cornelia, che sapeva scrivere molto bene sia in latino sia in greco, sottolinea che i due Gracchi furono “figli non tanto del grembo della madre, quanto della sua cultura” (Brutus, 211).

CORNELIA E FIGLI


LA MORTE DEI FIGLI


Tiberio Gracco infatti, tribuno della plebe, nel 133 a.c. aveva fatto approvare la lex Agraria, che vietava l'accaparramento di terreno con la revisione degli appezzamenti già assegnati. I senatori, sentendosi danneggiati, posero il veto alla legge attraverso Marco Ottavio, il collega di Tiberio Gracco.

Tiberio riuscì però a far deporre Marco Ottavio ed a far approvare la legge. Dopo aver organizzato un triumvirato composto da lui stesso, Gaio ed Appio Claudio, venne tuttavia assassinato nel 132 a.c. da Scipione Nasica.

Alla sua morte, Gaio Gracco fra il 123 ed il 122 a.c. ripropose il progetto di Tiberio: la lex agraria, la lex frumentaria a favore delle distribuzioni di grano, dei provvedimenti a favore dei militari, la lex iudiciaria, che prevedeva che la competenza dei processi per corruzione passasse dai senatori ai cavalieri, la creazione di tre nuove colonie (Iunonia) a Cartagine, la concessione della cittadinanza romana ai Latini e del diritto latino agli Italici.

Il senato, allarmato, ricorse al suo collega Livio Druso, che, riuscendo a far approvare leggi ancora più democratiche, sminuì fortemente l ruolo dei Gracchi che, per rivalsa, organizzarono bande armate.

Il senato proclamò lo stato d'assedio e i graccani vennero massacrati. Gaio, fallito il suo progetto, si fece uccidere da uno schiavo.

Dopo le morti violente dei suoi figli elle si ritirò da Roma nella sua villa di Misenum, continuando però a ricevere ospiti.
Per Roma fu un esempio di virtù e quando ella morì a tarda età la città votò per innalzarle una statua in suo onore.

I GRACCHI
Grande il senso di dignità che traspariva dalla figura di Cornelia, figlia devota, sposa integerrima e madre orgogliosa: Plutarco (Vita di Gaio Gracco) riferisce, a tal proposito, che, sino al volgere dei suoi giorni terreni, la matrona decantò le lodi del padre, l’Africano, e dei figli, i due Gracchi, “ricordandoli senza manifestazioni di dolore e senza lacrime, come se si trattasse di personaggi delle età antiche”.

Cornelia fu una delle sole quattro donne romane di cui sopravvive uno scritto: una lettera scritta a Gaius Gracchus, il più giovane figlio di Cornelia.
Non tutti gli studiosi accettano come autentica la lettera di Cornelia, ma la maggior parte concordano.
La data della lettera doveva precedere il tribunato di Gaius nel 122 ac.
Gaio fu ucciso nel 121 ac. mentre il fratello Tiberio fu ucciso nel 133 ac. I brani sono stati conservati in manoscritti di Cornelio Nepote, il I biografo latino.


Il testo:

Tu dirai che è una bella cosa prendere la propria vendetta sui nemici. A nessuno appare cosa più grande o più bella di come appare a me, ma solo se è possibile perseguire questi fini senza agire contro il nostro paese. Ma vedendo come ciò non possa essere fatto, i nostri nemici non periranno per lungo tempo e per molte ragioni, e saranno come sono ora, e in più avremo un paese morto e distrutto. . . 

Giurerei solennemente che, ad eccezione di quelli che hanno ucciso Tiberio Gracco, nessun nemico si è imposto con tanta difficoltà e disagio su di me quello quanto quello che hai tu a causa delle questioni: ci si dovrebbe avere sulle spalle le responsabilità di tutti di quei bambini che io ho avuto in passato, e per fare in modo che io possa avere la minima ansia possibile nella mia vecchiaia, e che, qualunque cosa hai fatto, si vorrebbe farmi piacere più grande, e che si considerano un sacrilegio di fare qualcosa di contrario ai miei sentimenti, tanto più che io sono una persona con davanti solo un breve tratto di vita. 

Impossibile anche questo lasso di tempo, breve, come si è, essere voi opposti da me distruggendo il nostro paese? In ultima analisi, che fini ci saranno? 

Quando sarà la nostra sola famiglia a comportarsi follemente? Quando smettiamo insistendo sulla difficoltà, di causare loro sofferenza? 

Quando cominciamo a sentire vergogna per i danni al nostro paese? Ma se questo è del tutto in grado di prendere posto, cercano la carica di tribuno, quando sarò morta, per quanto mi riguarda, non quello che vi piace, quando non è percepire ciò che si sta facendo. 

Quando mi sono morti, si sacrifica per me come un genitore e invitare il Dio di un genitore. A quel tempo non si vergogna di chiedere preghiere di questi Dei, che voi considerate abbandonata e deserta quando erano vivi ed a portata di mano? 

Ma non Giove per un solo istante consente di continuare in queste azioni, né permettere che una simile follia di entrare nella tua mente. E se persistono, temo che, per colpa tua, si può incorrere in problemi del genere per tutta la vita che in nessun momento sarebbe in grado di farti felice."

CORNELIA CON I FIGLI
Nei primi anni del 40 ac, Cicerone, contemporaneo di Nepote, disquisiva col suo amico Attico sull'influenza delle madri sulla libertà di parola dei bambini, in cui Atticus leggeva le lettere di Cornelia, madre dei Gracchi. 
Attico sembra voler dimostrare  che i Gracchi siano stati fortemente influenzati dal discorso di Cornelia più che dalla sua educazione. 

Più avanti, Marco Fabio Quintiliano (35 circa - ca. 100) avrebbe riaffermato che nelle lettere di Cornelia si comprendeva quanto ella avesse influenzato i figli "abbiamo sentito che la loro madre Cornelia aveva contribuito notevolmente alla eloquenza dei Gracchi, una donna il cui dottissimo discorso inoltre è stata tramandata alle generazioni future nelle sue lettere"(Ist. Orat. 1.1.6). 

In un altro brano di Cornelio Nepote "Sugli storici latini" c'è una lettera di Cornelia a Gaio che era stata verbalmente recitato fino ad impararla a memoria  da Nepote:

"Mi permetto di fare un giuramento solenne che, fatta eccezione per gli uomini che hanno ucciso Tiberio Gracco nessun nemico mi ha dato così tanti problemi e fatica, come hai fatto tu a causa di questi problemi. Si dovrebbe invece aver cura che dovrei avere ansia il meno possibile in età avanzata, che qualunque cosa hai pensato di fare qualcosa di importante contro i miei punti di vista, soprattutto perché così poco della mia vita rimane. . . . Saprà la nostra famiglia mai desistere dalla follia? . . . Riusciremo mai a provare vergogna nel gettare lo stato nel caos e confusione? Ma se davvero non può essere, cerca il tribunato dopo la mia morte. "

Nella lettera, Cornelia esprime una forte opposizione alle intenzioni Gaio di ottenere il suo Tribunato. Si invita inoltre a non continuare le politiche rivoluzionarie del suo fratello Tiberio Gracco, che ha portato in ultima analisi, alla sua morte. I frammenti sono stati probabilmente inclusi nella Vita Nepote 'di Gaio Gracco, oggi perduto.

La prima immagine di Cornelia, dipinta in gran parte da vedute di Plutarco, è di una donna aristocratica, che a causa della vita stravagante e ricca nella villa della sua famiglia, mostra un notevole interesse per l'educazione (soprattutto quella greca), nella retorica latina e greca.
Nel corso dei secoli successivi Cornelia si evolve negli occhi di scrittori romani e il suo successo scolastico e le capacità diventano un esempio di ruolo di madre ideale.




LA STATUA DI CORNELIA

Dopo la sua morte venne eretta una statua di marmo di cui oggi solo la base è rimasta. Ma questa statua sopravvisse a Silla e divenne un modello per le donne romane culminando col modello di Elena, la madre di Costantino, 400 anni più tardi; comunque sulla base della statua la dicitura di "figlia di Scipone" venne sostituia con la dicitura "madre dei Gracchi".


Approfondimenti: 
CAIO SEMPRONIO GRACCO

VIA CORNELIA

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RITROVAMENTI SOTTO VIA BOCCEA

La via Cornelia era un'antica strada romana, che collegava Roma con Caere (Cerveteri). Livio e Valerio Massimo scrivono di un collegamento viario tra le due città in occasione della presa di Roma da parte dei Galli, quando le Vestali furono trasferite a Caere.

Alcuni archeologi ritengono che la via Cornelia non esistesse e che il nome fosse una corruzione  del nome via Aurelia.

PONTE NERONIANO
Questo perchè della via Cornelia si parla solo in itinerari e testimonianze del VII e VIII secolo d.c., quando la popolazione di Roma era diminuita da un milione e mezzo del I sec. d.c. a circa 60 000 abitanti. Pere giunta la popolazione si era impoverita e analfabetizzata non avendo più nè scuole nè maestri.

I cittadini non conoscevano neppure la topografia del periodo imperiale, nè la sua storia, nè la sua arte, nè i suoi monumenti, perchè nella furia iconoclasta del cristianesimo un'intera cultura di importanza mondiale era stata distrutta persino nel ricordo per cancellare un passato di gloriosa civiltà ritenuto peccaminoso.

Invece Nel territorio si osserva che nel Municipio Roma 18 di Roma sono conservati i resti dell'antico asse viario della Via Cornelia opera forse di un certo Cornelio, esistente, presumibilmente, sin dal secolo IV a.c.

Tra l'altro, documenti del IV secolo d.c. riportano che San Pietro fosse stato sepolto lungo la via Triumphalis (L. E. Hudec, Recent Excavations under St. Peter's Basilica in Rome, Journal of Bible and Religion, Vol. 20, N. 1. gennaio 1952).

Ci vollero gli cavi del 1924 sul sito di Antiochia di Pisidia per scoprire un'epigrafe del 93 d.c. che testimoniava l'esistenza della via Cornelia nel periodo precostantiniano.

Essa menziona un comandante dell'VIII legio augusta sotto Vespasiano, che era stato curator della via Aurelia e della via Cornelia. Si sa che il ponte neroniano oggi sul fondale del tevere immetteva sulla via Cornelia.



L'ITER

La via consolare usciva dalle mura romane attraverso la Porta Cornelia (posta in prossimità del Ponte Elio), doveva correre verso ovest, lungo il muro settentrionale del Circo di Nerone.

PLANIMETRIA DELL'AREA DEL VATICANO
TRATTA DALLA FORMA URBIS
La Cornelia era la più settentrionale delle quattro porte sulla riva destra del Tevere, e si trovava probabilmente nei pressi del Ponte Elio (oggi ponte S. Angelo), nel punto dove iniziava l’antica via Cornelia che dal ponte seguiva all’incirca il tracciato dell’attuale Via della Conciliazione per proseguire poi oltre il colle Vaticano posto sulla riva destra del Tevere.

Da qui si originava anche, seguendo per un breve tratto il fiume e poi piegando a destra dalle parti dell’attuale Porta Santo Spirito, la via Aurelia nova, e la porta era infatti chiamata anche “Porta Aurelia”, circostanza che nel tempo ha creato una certa confusione con l’altra Porta Aurelia (attuale Porta San Pancrazio) da cui partiva la via Aurelia vetus.

Forse il nome di “Aurelia” derivava non dalla via, ma dal mausoleo di Adriano in cui erano sepolti molti rappresentanti della nobile gens Aurelia.

Quando si parla di Necropoli Vaticana, ci si riferisce generalmente a quella che si estende sotto la basilica di San Pietro, sviluppata sulla via Cornelia tutt'intorno alla tomba del Principe degli apostoli, come si osserva qui sotto nella foto a destra.

In epoca cristiana assunse il nome di “Porta San Pietro”, per la vicinanza con la basilica vaticana, la cui edificazione cancellò il tratto iniziale della via Cornelia.

Sebbene scomparsa molto presto, la via Cornelia è ben testimoniata da diversi documenti antichi che la descrivono protetta dal torrione sporgente dal mausoleo di Adriano, il cui inglobamento nelle mura risale agli anni 401-403, quando l’imperatore Onorio inserì nella cerchia cittadina anche il colle Vaticano già escluso dall’imperatore Aureliano.

RESTI SOTTO IL VATICANO
Secondo alcune fonti invece risalirebbe all’epoca aureliana, verso il 270, a difesa del ponte Elio collegato al mausoleo con due ali di muro. Era noto che le pareti meridionali della basilica di San Pietro poggiassero sulle pareti settentrionali del Circo di Nerone e che a nord del circo correva una strada, proprio sotto alla basilica.


Però uno scavo archeologico del 1936 in Piazza San Pietro portò alla scoperta delle tracce di una strada che ben poteva essere la via Cornelia post-costantiniana.

Lì fu pure rinvenuto un frammento della strada pavimentata pre-costantiniana, (chissà perchè immediatamente ricoperta) posizionato sullo stesso allineamento del tratto scoperto presso l'angolo sudoccidentale della basilica.

Si ritiene pertanto che la via Cornelia provenisse da est salendo verso ovest.


La Cornelia, l'Aurelia Nova e la Triumphalis.

Poco prima dell'attuale fontana meridionale di Piazza San Pietro, la via Aurelia Nova deviava a sudovest, mentre la via Cornelia proseguiva, passando appena a sud della facciata della basilica.

La via Triumphalis, proveniente dal Pons Neronis, si dirigeva anch'essa verso Piazza San Pietro, da dove, virando a nordovest verso la Città del Vaticano, proseguiva verso Veio, fino a incontrare la via Cassia all'altezza della zona La Giustiniana.

L'attuale Via della Conciliazione segue approssimativamente lo stesso percorso che seguiva la via Cornelia.

Più avanti, la via Cornelia doveva seguire il percorso oggi formato dalle vie G. De Vecchi Pieralice, dei Monti di Creta e di Boccea.
Fuori Roma, il percorso della Cornelia corrisponde in parte a via Tragliata e a vicolo Casale Castellaccio.

Si ritiene possibile che la via Cornelia fosse stata costruita dall'imperatore Caligola per migliorare l'accesso ai giardini imperiali, gli Horti_Agrippinae.
Perciò, potrebbe aver costituito il confine settentrionale dei giardini all'epoca di Nerone. 
Sarebbe anche stata collegata al Circo di Nerone, alla basilica e ad una doppia fila di mausolei.



ROMA MUNICIPIO XIX


Valcannuta

Partendo da via Madonna del Riposo si può percorrere la via Aurelia Nuova, il cui tracciato si sovrappone a quello della via Cornelia arrivando in località Valcannuta.

PORTA SANTO SPIRITO
Il suo nome deriva da "cannutulum" per l'abbondanza di canneti: qui avveniva l'incontro tra la via Aurelia Vecchia e la Nuova oltre il quale, le due vie ormai unificate, si dirigevano in direzione Civitavecchia.

La via Cornelia, lasciata la via Aurelia Nuova, si inoltrava nel territorio di Boccea seguendo il tracciato della moderna via Boccea, il cui nome deriva, oltre che dalla presenza del castello omonimo al Km. 14+500, anche dalle numerose piante di bosso, "buxsus", attraverso cui si snodava.


Acquafredda

Proseguendo per la via Cornelia incontriamo la località Acquafredda. Prende il nome dalla freschezza delle acque del fosso della Magliana dove si fermò, secondo lo storico latino Procopio nel suo " Bellum Ghoticum, il re dei Goti Totila quando, nell'anno 547, invase Roma.


Montespaccato

Dopo l'Acquafredda, la via Cornelia arriva in località Montespaccato. Il nome deriva dalle "spaccature" dei monti provocate appunto dalla via Cornelia Antica che si intersecava sul primo monte con via dell'Acquafredda e sul secondo con l'attuale via Cornelia. In questa area sono state trovate molte testimonianze sia Etrusche che Romane consistenti, per lo più, in tombe e ville.


Casalotti

Dopo il bivio per Palmarola si arriva in località Casalotti dove la via Cornelia, abbandonato il suo corso quasi parallelo alla via Boccea, si riunisce ad essa sovrapponendosi a tratti sul suo tracciato verso il casale di Boccea.

VEIO - GROTTA CAMPANA
Qui, fra il Km 5 e 6 della via Cornelia-Boccea, per caso fu riportato alla luce, all'inizio del secolo, un magazzino, dotato ancora di grandi "dolii" affioranti dal terreno che doveva appartenere ad una villa rustica dei dintorni.

Il particolare dei dolii (altezza m.1,60, circonferenza massima m.4,50, diametro della bocca m. 0,53), aventi corpo interamente affondato nel terreno, si può riscontrare anche in magazzini simili di Ostia e Pompei. 

A circa 600 metri di distanza sono stati trovati resti di un pavimento a mosaico bianco e nero rappresentante Nereidi e mostri marini, insieme a molluschi e pesci. Non lontano è stata rinvenuta una tomba a camera di pianta singolare e molti frammenti marmorei e suppellettili.


Casal Selce

Oltrepassata l'area di Casalotti troviamo la zona denominata Casal Selce per via dell'abbondanza di basalti, comunemente detti selci, nel terreno. Qui anticamente sono registrati i Fondi Gratinianus e Rosarius, due nomi di antichi romani.


Porcareccia Vecchia

Percorrendo la via Cornelia-Boccea, all'altezza del Km.5,500, si arriva a Porcareccia vecchia. La tenuta, un tempo molto vasta, arrivava a comprendere anche Montespaccato, Pantan Monastero ed altre località limitrofe.

VIA DELLA CONCILIAZIONE
Attualmente Porcareccia Vecchia comprende il casale ed il castello: il centro abitato è un grazioso agglomerato che riproduce quasi fedelmente l'aspetto del borgo cinquecentesco.

Il tutto fu quasi sicuramente costruito sopra i ruderi di qualche antica villa rustica, perché risalgono ad epoca romana molte iscrizioni, delle quali alcune databili ad età repubblicana, colonne di granito, un bassorilievo con due grifi posti l'uno di fronte all'altro, un'ara con ghirlanda ed una serie di frammenti di marmo lavorati e inseriti nelle facciate del castello e della chiesa. Dai sotterranei del castello si diparte una fitta rete di cunicoli con sfiatatoi all'altezza del terreno, da mettere in relazione al percorso sotterraneo dell'acquedotto traianeo che percorreva questa parte di campagna.


Selva Candida

Dopo Porcareccia si arriva in località Selva Candida. Il nome Selva Candida è posteriore, perché all'inizio questa località era conosciuta come "Silva Nigra", in origine un'antica area sacra etrusca che successivamente, a partire dal III secolo d.c., divenne un'area sacra cristiana. Con il passare degli anni tutto il territorio di Selva Candida cadde in rovina a causa delle incursioni dei Goti e dei Vandali, dei Saraceni ed infine dei pirati mussulmani. 



Il Castello di Boccea

Oltrepassato il km.9, la via Boccea ricalca quasi interamente il percorso dell'antica via Cornelia sino ad arrivare al km. 14.500 , dove, sulla destra, si trovano i resti dell'antico castello costruito tra i secoli IX ed XII.
Il Castello di Boccea sorge sul “fundus Bucciea” che domina la valle del fiume Arrone e il fondo denominato anticamente “Ad Nimphas Catabasi”, sito al decimo miglio dell’antica via Cornelia.

BATTAGLIA DI ARICIA (504 A.C.)

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Floro:

" i loro vicini, da ogni dove, li infastidivano continuamente e, da qualunque porta uscissero, erano sicuri di incontrare un nemico."

A quei tempi le città cercavano di espandersi, per cui si attaccava e si veniva attaccati. Dionisio di Alicarnasso, Strabone e Plinio descrivono le comunità più antiche del Latium Vetus, tra cui Albalonga, centro della Lega Latina attorno alla prima metà del VII secolo a.c., prima cioè di venire distrutta da Roma.

Secondo Plinio facevano parte della foederatio albensis: Albalonga, Cora (Cori), Manates (Tibur), Fidenates (Fidaene), Foreti (Gabii) Accienses (Aricia), Tolerus (Valmontone).

Si crede che la Lega Latina venisse poi controllata dagli Etruschi che infatti divennero nemici comuni di Romani e Latini.

Cuma aveva intanto esteso il suo predominio su quasi tutto il litorale campano, ma nel 524 a.c. gli Etruschi di Capua formarono una lega con altre popolazioni per conquistare Cuma ed espandersi sia territorialmente che commercialmente.

I Cumani vinsero ma continuarono a temere l'avanzata degli Etruschi, per cui quando i Latini, allora alleati di Roma, compresero che gli Etruschi volevano tornare a Roma, si unirono con Latini e romani contro gli Etruschi di Chiusi.

Infatti Lars Porsenna, Re etrusco di Chiusi, secondo la tradizione, avrebbe tentato di restaurare a Roma il regno di Tarquinio il Superbo (secondo altri voleva prendere il suo posto sul trono), assediando la città e ponendo il campo sul Gianicolo, ma venne respinto più volte dai Romani, finchè non desistè dall'impresa.

Secondo Tacito invece, Porsenna avrebbe combattuto e vinto, esigendo dai romani che non toccassero più ferro, fatta eccezione per gli aratri (Plinio il Vecchio). Alcuni autori antichi tramandano che il figlio di Porsenna, Arrunte, sarebbe morto nella battaglia di Ariccia, mentre per altri il nome Porsenna sarebbe solo una corruzione romana del termine etrusco purϑ, equivalente forse a praetor.

MURA DI ARICIA


L'ANTEFATTO ARICINO

Comunque Aricia aveva un vecchio conto con gli Etruschi: durante la riunione della Lega Latina tenutasi presso il Locus Ferentinum nel 651 a.c. il delegato aricino Turno Erdonio si era opposto fortemente a Tarquinio il Superbo, il quale adirato per tanto ardire lo fece uccidere.



L'ANTEFATTO ETRUSCO

Sembra che Porsenna fosse stato chiamato da Lucio Tarquinio il Superbo a mediare con i Tirreni su una controversia contro i Romani che avevano ingiustamente cacciato Tarquinio da Roma. Lucio Tarquinio non ebbe successo; ciò danneggiò i suoi rapporti coi Tirreni e fu invitato a lasciare il campo che Porsenna aveva posto presso Roma. Porsenna restituì ai Romani i prigionieri di guerra, strinse patti di alleanza e fu ricambiato dai Romani con un trono d'avorio, uno scettro e una corona d'oro.

Porsenna però voleva un bottino per i suoi soldati, in più non gli sarebbe spiaciuto allargare i suoi domini a sud, specie su Cuma. Così, spedì suo figlio Arrunte, con metà del suo esercito contro Aricia, una acropoli arroccata su un alto sperone lavico. Gli aricini furono informati del pericolo da un ambasciatore del Tuscolo inviato da Egerio Bebio Tuscolano, dittatore di Tuscolo.

TESTA DI PORSENNA
Arrunte arrivò ad Aricia e pose il suo accampamento ai piedi della collina, nella Valle di Aricia, presso le rive di un lago alimentato dall'emissario del Lago di Nemi. Pose sotto assedio l'acropoli per due anni, visto che le mura erano invalicabili. Gli aricini, grazie ad una rete di cunicoli sotterranei, in parte residui di colate laviche e in parte artificiali, riuscivano nottetempo a far arrivare aiuti alimentari da Lanuvio, città della Lega Latina.

Infine gli Aricini, sempre attraverso i cunicoli, fecero uscire degli ambasciatori che giunsero via mare fino a Cuma. Una volta arrivati chiesero aiuto al generale Aristodemo di Cuma, chiamato Malakos, l'effeminato.

Aristodemo, che aveva un conto aperto con gli Etruschi, avendone subito l'assedio 20 anni prima, accettò e i Cumani sbarcarono presso il Castrum Iunii, assieme ai Rutuli di Ardea, ai Volsci di Anzio, ai Lanuvini e ad altri della lega latina.

Secondo il piano di Arrunte gli aricini sarebbero scesi dall'acropoli e avrebbero affrontato nella valle gli etruschi, magari di sorpresa. 

Poi, avrebbero fatto finta di ritirarsi, facendosi imseguire, ma in quel punto sarebbe intervenuto il grosso dell'esercito cumano e della lega a circondare gli Etruschi. 

Così avvenne. e nell'anno 504 a.c. Arrunte venne ucciso in battaglia. 

I soldati etruschi che riuscirono, feriti, a fuggire, si rifugiarono presso i romani che, non si sa per quale ragione, li accolsero. 

Gli aricini lo considerarono un tradimento, proclamarono Aristodemo salvatore della patria e gli fu donato un ingente bottino che fu trasportato a Cuma da navi aricine.

Per altri, ed è più credibile, avvenne esattamente il contrario, fu Aristodemo che accolse Tarquinio il Superbo dopo la sua cacciata da Roma, probabilmente incentivato da grandi elargizioni economiche.



BATTAGLIA DI ARICIA

Così la battaglia si consumò ad Aricia (Ariccia), nel Lazio, che era stata la città capo della Lega Albena, come allora era diventata capo della Lega Latina, nel 504 a.c. e gli Etruschi vennero sconfitti. 
"Iniziata la battaglia, gli Etruschi si erano lanciati all'attacco con tanta foga, che sbaragliarono col solo urto gli Aricini: le coorti cumane opponendo l'astuzia alla violenza, ripiegarono un poco, e quando i nemici le ebbero superate, operata una conversione li assalirono, sbandati com'erano, alle spalle. Così, presi in mezzo, gli Etruschi già quasi vincitori furono sbaragliati " 
(Tito Livio - Storia di Roma).

Così l'intervento degli alleati latini e dei Cumani permise a Roma di conservare gli ordinamenti repubblicani, frenando le mire espansionistiche etrusche nel Latium centro-meridionale. Ma al termine della supremazia etrusca sul Latium Vetus si scatenarono le lotte fra Roma e le altre città del Lazio.

TITO QUINZIO FLAMININO

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TITO QUINZIO FLAMININO

Nome: Titus Quinctius Flamininus
Nascita: 229 a.c. Roma
Morte: 174 a.c. Roma
Cariche: generale, console

Tito Quinzio Flaminino, ovvero Titus Quinctius Flamininus, fu insigne esponente della gens Quintia, o Quinctia, una delle più antiche gentes romane, quindi patrizia, con molti illustri rappresentanti sia nel periodo repubblicano che in quello imperiale.

Secondo Tito Livio, la gens Quintia si stabilì a Roma quando la città di Alba Longa fu conquistata dai romani. Pertanto Tito nacque a Roma il 229 a.c. e morì sempre a Roma nel 174 a.c. Narra infatti Livio che quando Tito assistè ai giochi istmici in onore di Poseidone nel 196 a.c.aveva 33 anni.



ESCURSUS HONORUM

Di lui si sa che combatté nella guerra Punica sotto il valoroso Marco Claudio Marcello, per ben 5 volte console di Roma, e soprannominato pertanto la "spada di Roma", il quale vinse in combattimento, a Nola, nel 215 a.c., l'esercito di Annibale, come ci conferma anche Tito Livio. Il che significa che Tito Quinzio avrebbe avuto 14 anni, indubbiamente troppo giovane.

Però Claudio Marcello, eletto poi proconsole nel 209, combattè Annibale anche nelle campagne di Strapellum vicino a Venusia ma non gli andò bene e dovette ritirarsi nella città. La mossa non piacque ai senatori che lo richiamarono a Roma per giustificare la scarsa condotta di generale; il senato era molto severo e bastava una sconfitta per cancellare un monte di vittorie. Questa data invece è possibile, Tito Quinzio avrebbe avuto quasi venti anni, e si riporta che fosse già Tribuno dei soldati quando Claudio Marcello cadde nel 208.

La storia non ci dice se potè distinguersi in questa battaglia, ma dovette farlo, perchè sembra che ne uscì molto valorizzato. Infatti Tito nel 205 a.c. venne eletto propretore a Taranto ma non quadra, i pretori erano eletti almeno a 39 anni (ma non sono tutti d'accordo, o almeno non per tutti i periodi della repubblica), con la riforma di Augusto poi a 30, ma qui siamo in epoca repubblicana.

RITRATTO DI TITO GIOVANE
I propretori per giunta, erano stati pretori che, esercitata per un anno questa carica, avevano ottenuto il comando di un esercito o di una provincia. Ora nel 205 Tito Quinzio avrebbe avuto solo 24 anni, e sarebbe stato nominato pretore a 23 anni, evidentemente Livio si era sbagliato.

Di Tito si conosce pure un incarico successivo: nel 201 a.c. fu uno dei dieci commissari nominati per la misurazione e la distribuzione di terre pubbliche nel Sannio ed in Apulia. Aveva dunque 28 anni, ci può stare.

Le terre furono date ai veterani che avevano combattuto sotto Scipione l'Africano in Africa contro i Cartaginesi. L'anno successivo fu uno dei triumviri incaricati di completare il numero di coloni a Venusia, ridottisi a causa della guerra punica.

Questi incarichi richiedevano grande onestà e grande ascendente, perchè i militari si contendevano le terre per assicurarsi la pensione e spesso c'erano controversie e accuse, se non corruzione e scambi di favori. Ma Tito Quinzio già godeva di una certa pubblicità come uomo fattivo, determinato e integerrimo, un uomo che i soldati seguivano volentieri e che le gente stimava.

Grazie a questa sua buona fama nel 199 a.c. fu nominato questore e verso la fine del suo mandato si candidò per il consolato. Come raccontato da Livio, due tribuni della plebe, Marco Fulvio  (secondo alcuni quel Marco Fulvio Nobiliore che ottenne poi il governo sulla Spagna Ulteriore) e Manio Curio, si opposero pubblicamente alla sua candidatura, perché secondo il tradizionale cursus honorum avrebbe dovuto ricoprire le cariche di edile e di pretore, prima di adire al consolato. Ma non era stato pretore, come richiedeva la legge, prima di diventare propretore? Evidentemente no, perchè il suo nome era di per sè una garanzia, di onestà oltre che di coraggio e bravura. E un po' anche perchè era patrizio.

Alla fine il Senato accettò la candidatura di Flaminio, dato che aveva già raggiunto l'età legittima di trenta anni, ma non dovevano essere 39? Evidentemente no, ma soprattutto perchè Tito piaceva anche ai plebei, era gentile e non si dava arie. I due tribuni rinunciarono all'opposizione perchè si resero conto che anche il popolo stava dalla parte di Tito. Pertanto Flaminino fu eletto console per l'anno 198 a.c. con Sesto Elio Peto Catone. Quest'ultimo fu un grande giurista ma non si distinse militarmente durante il suo consolato, per cui tutti gli onori andarono al suo collega Flaminino, tra l'altro molto più giovane di lui.



IL CONSOLATO

Finalmente Tito otteneva ciò cui aveva sempre mirato: non il potere o la ricchezza, ma gli onori e la gloria, che aveva sognato per tutta l'infanzia. A soli trent'anni fu eletto console nel 198 a.c. assegnatagli come provincia la Macedonia, una terra posta tra l'Illiria e la Tracia e a nord della Grecia. La provincia di Macedonia non era proprio un regalo perchè Tito doveva guadagnarsi la provincia cioè occuparla togliendola al suo conquistatore re Filippo IV.

Questi infatti nel 215 a.c., durante la II guerra punica, aveva osato stringere alleanza con Annibale, in guerra contro Roma. L'impero non aveva dimenticato e soprattutto doveva dare un monito alle province assoggettate. Pertanto una volta sconfitta Cartagine, si decise una ritorsione militare contro re Filippo,

FILIPPO V DI MACEDONIA
Naturalmente il compito venne affidato al miglior generale di cui si poteva disporre e il senato puntò si Flaminio, uomo capace, valoroso, audace, ma pure grande conquistatore di animi.  Tito Quinzio quindi chiese e ottenne dal senato il permesso di formare un'armata di 3000 fanti e 300 cavalieri, scelti fra quelli che si erano distinti nelle recenti guerre in Africa e Spagna. in aggiunta a quella che stava già in Macedonia, per affrontare Filippo V.

Nacque così la I guerra macedone, affinchè anche questo popolo riconoscesse il predominio di Roma come tutti gli altri popoli adiacenti. Tito aveva già il suo piano ed era felicissimo dell'incarico che gli avrebbe finalmente permesso di mettere totalmente in luce le sue qualità di condottiero, la qualità in assoluto più apprezzata da tutti i romani.

Tito aveva una gran fretta di partire ma tuttavia si trattenne a Roma, come prescrivevano le regole di guerra, per le cerimonie religiose pubbliche, per rendersi propizi gli Dei prima di una qualsiasi spedizione.

Secondo la tradizione però avrebbe dovuto trascorrere a Roma i primi mesi della sua carica ma Tito scalpitava, così radunò velocemente l'esercito e mosse verso la Macedonia.

Tito si dimostrò abile per terra e per mare, un po' come Giulio Cesare di cui condivideva vari aspetti. Come l'altro usava l'ingegno e l'improvvisazione, e si adattava anche a sfide nuove senza timore, e come l'altro sapeva accattivarsi l'animo dei suoi uomini.



I GUERRA MACEDONE

Tito navigò, con i rinforzi appena arruolati, da Brundisium (Brindisi), fidata città con cittadinanza romana fin dal 240 a.c. e imbarco naturale per la Grecia, fino a Corcira (Corfù) all'epoca conquistata dagli Illiri, ma con i quali Roma aveva buoni rapporti, e lì fece accampare gli uomini, per farli riposare, ma soprattutto per creare un accampamento che facesse da testa di ponte tra Grecia e Roma e proteggesse i rifornimenti in arrivo.

Ma Tito era instancabile, non si riposò e proseguì il viaggio per mare con parte dei suoi uomini. Sbarcò in Epiro, da qui  raggiunse a marce forzate il campo dell'esercito romano che fronteggiava Filippo V di Macedonia presso il fiume Aoo, (odierna Albania), e ne assunse il pieno comando, il tutto a grande velocità.

Per prima cosa licenziò i suoi predecessori, poi, mentre aspettava l'arrivo dei rinforzi lasciati a Corcira, ispezionò l'esercito, lo incitò e impartì gli ordini. All'arrivo dell'armata di Cocira radunò immediatamente tutto lo stato maggiore e dette gli ordini dettagliati per l'invasione della Macedonia, così come l'aveva concepita. Lo stato maggiore non era d'accordo.

C'era una strada breve che avrebbe potuto portarlo in zona di guerra più velocemente, ma il suo stato maggiore glielo sconsigliò. Sicuramente il nemico l'avrebbe atteso lì, al passo di Antigoneia, dove sarebbe stato più difficile difendersi. C'era invece un passaggio più lungo ma più sicuro dove avrebbero potuto andare senza troppi rischi: Tito rifiutò.

Ci si è chiesti come mai Flaminino fece un passo così azzardato, forse sperava nella fazione filo-romana dell' Epiro, guidata dall'amico Carope,  e forse sperava che molte città greche, ancora indecise, si alleassero a Roma, abbandonando Filippo.


Le trattative

Per quaranta giorni si battè col nemico con alterni risultati, tanto che il re macedone pensò di chiedere ai Romani un trattato di pace a lui favorevole, anche tramite la mediazione degli Epiroti. Questi erano gli abitanti dell'Epiro, la zona nord occidentale della Grecia, abitato dalle tribù greche dei Caoni, Molossi e Tesproziani e sede del prestigioso santuario di Dodona.
Non aveva fatto i conti col carattere decisionista di Tito, lui aveva promesso a Roma di liberare la Grecia da Filippo, e non si transigeva. Quindi pretese subito che tutte le città della Grecia e della Tessaglia fossero liberate prima delle trattative.

Nel frattempo però Tito Quinzio venne informato da Cercope di un passaggio tra i monti che poteva condurre le truppe alle spalle dei Macedoni. Questo passo non era presidiano da forze nemiche o perché non conosciuto da Filippo o perché erano sicuri che i Romani non lo avrebbero mai scoperto, o ed è più probabile, che il passaggio, prima ostruito e impraticabile, fosse stato liberato..

I battitori di Flaminio verificarono l'assenza di reparti macedoni, e così Flaminino spedì le guide con 4300 uomini armati, che in pochi giorni giunsero alle spalle dell'esercito macedone. Giustamente Tito volle restare col grosso dell'esercito per non abbandonare gli uomini e perchè era abituato a fidarsi solo di se stesso.


La vittoria sull'Epiro

In poco tempo i Macedoni, attaccati su due fronti, fuggirono retrocedendo verso la Tessaglia ed abbandonarono il passo, dopo aver perso 2.000 uomini ed il campo, caduto in mani romane.

FILOPEMENE FERITO
Flaminino aveva vinto e, con la mediazione di Cercope, tutto l'Epiro si sottomise a Flaminino, il quale trattò i soldati e la popolazione con clemenza, inoltre liberò i prigioneri, perché tutti potessero fare il raffronto tra lui e Filippo. Anche in questo fu simile a Cesare la cui clemenza fu proverbiale e chissà che Cesare in parte non si ispirasse a questo intelligente predecessore nella sua condotta militare.

A questo punto l'armata romana, comandata dal console Flaminino, marciò attraverso i passi montani e raggiunse la Tessaglia, dove Filippo aveva fatto razziare le campagne e distruggere molte città, così da fare terra bruciata davanti ai Romani.

La prima città tessala raggiunta da Flaminino e che gli resistette fu Faloria, che venne conquistata dopo una strenua resistenza della guarnigione macedone e fu ridotta in cenere, anche come avvertimento per tutte le altre città che avessero deciso di combattere apertamente i Romani. Ma nonostante ciò, le altre città della Tessaglia, con forti guarnigioni macedoni, che potevano inoltre ricevere rinforzi da Tempes, dove era l'armata di Filippo, non accennarono ad arrendersi.
Conquistata e distrutta la prima città della Tessaglia, Flaminino pose l'assedio a Carace, ma nonostante i grandi sforzi profusi dai Romani e qualche parziale successo, Flaminino fu costretto a togliere l'assedio.


La conquista della Focide

Dopo aver devastato e saccheggiato il territorio, Flaminino marciò verso la Focide, dove parecchie città anche marittime gli aprirono le porte, permettendogli di comunicare con la flotta romana sotto il comando di suo fratello, il propretore Lucio Flaminino.

Flaminino, che si proclamava filoellenista, cambiò l'approccio romano alla guerra contro Filippo V. Si passò dalla richiesta di "pace in Grecia", ovvero della sospensione degli attacchi macedoni alle città greche, a quella della "libertà per i Greci", ovvero del ritiro delle truppe macedoni da tutte le città greche fino ad allora occupate, ed il rientro entro i confini della Macedonia.

Infatti al comando della flotta contro Corinto, riuscì abilmente a convincere tutti gli antichi alleati di Filippo, l'Epiro, la lega acaica, e la Beozia a passare dalla parte romana. Solo Elateia, la principale città della regione, forte di grandi fortificazioni, si oppose strenuamente e lungamente a Flaminino.

Lucio intanto riuscì a stringere un'alleanza con la lega Achea, una lega di città del Peloponneso centro-settentrionale, costituitasi nella regione Acaia, dal 280 a.c. al 146 a.c. tanto più che Aristeneto di Megalopoli (186 - 185 a.c.)., stratega della lega, era ben disposto verso Roma. In ogni caso le città di Megalopoli, Dyme ed Argo rimasero fedeli a Filippo.

Dopo aver conquistato Elateia, Flaminino fece svernare il suo esercito tra la Focide e la Locride; ma dopo breve tempo scoppiò una rivolta ad Opus e la guarnigione macedone dovette ritirarsi nell'acropoli della città.

La popolazione era divisa tra chi voleva chiamare i romani in aiuto e chi la lega etolica, avversaria della lega achea. Gli etoli giunsero per primi, ma le porte della città si aprirono solo per Flaminino, tanta era ormai la sua buona fama, così conquistò la città senza combattere.

Intanto la truppa macedone si era asserragliata nell'acropoli e Flaminino non l'attaccò, anche perché il re macedone aveva chiesto trattative di pace.
Tito avrebbe potuto con facilità sgominare la resistenza, ma da quel bravo politico che era preferì trattare, per dimostrare alla Grecia la sua mitezza e magnanimità, insomma gli premeva il favore dei greci. Questo perchè aveva riscontrato non solo la bravura ma anche il valore dei combattenti greci che offrivano volentieri la propria vita per la patria, e ciò poteva accendergli il malanimo di tutta la Grecia.

BUSTO DI ANTIOCO III
Le trattative si tennero a Nicea, sul golfo, per tre giorni; Flaminino e i suoi alleati, tra cui la lega etolica che però coprì Filippo di insulti. I romani presentarono una lunga lista di richieste per il trattato di pace, ma la prima e imprescindibile fu che Filippo ritirasse tutte le milizie dalle città greche.

Gli alleati greci dei romani volevano una risposta immediata o la guerra, ma Flaminino allungò i tempi sperando che intanto giungessero i rinforzi da Roma. Si stabilì infine una tregua di due mesi e di inviare a Roma ambasciatori di ambedue le parti, a condizione, però, che Filippo abbandonasse tutte le città della Focide e della Locride ancora in suo possesso.

Intanto aveva concordato con gli alleati greci quanto dovevano riferire al senato. Fedeli alla consegna i greci dichiararono che la Grecia non poteva considerarsi libera finché Demetria, Calcide e Corinto non fossero state tolte ai macedoni; che o Filippo obbediva o era guerra, e che non ci sarebbe stato momento migliore per costringere Filippo, piuttosto in difficoltà, ad accettare queste richieste.

Allora il senato chiese agli ambasciatori macedoni se il re avesse intenzione di liberare le tre città suddette, ma non seppero rispondere. Il Senato non sapeva che fare, per cui li informò che da quel momento avrebbero dovuto riferirsi al solo Flaminino. Infatti, evento eccezionale, gli conferirono pieni poteri a tempo indeterminato sia per ottenere la pace, sia per tornare in guerra.

Praticamente Flaminino ottenne per la Macedonia e la Grecia tutta, una carica di dictator a tempo indeterminato (per legge era di sei mesi) tanta era la fiducia che nutrivano in lui, non solo per il suo valore di comandante ma anche per le sue capacità politiche.

Filippo non accolse le richieste romane e si preparò alla guerra, ma consapevole della inferiorità del suo esercito, chiese una alleanza con Nabide, il tiranno di Sparta. Questi ne profittò per occupare Argo e, subito dopo, invitò Flaminino ad Argo per stipulare un trattato tra Roma e Sparta.

Secondo il trattato, Sparta concedeva truppe ausiliarie ai Romani per la guerra contro Filippo e si impegnavano a rispettare le altre città della lega Achea. Flaminino dovette ingoiare l'occupazione di Argo, che non fu però menzionata nel trattato e quindi non ebbe veste legale. Ricevute le truppe spartane di Nabide, Flaminino marciò su Corinto, difesa da Filocle, amico di Nabide, sperando che gli aprisse le porte della città, ma così non fu.

Piuttosto che tentare un lungo assedio, Flaminino deviò in Beozia, dove le città ruppero l'alleanza con Filippo e gli aprirono le porte, anche se molti giovani beoti continuarono a combattere nelle file macedoni fino alla fine della guerra.



II GUERRA MACEDONE (200-196 a.c.)

Dopo la morte nel 207 a.c. del reggente spartano, Nabide rovesciò il re con un esercito mercenario e si pose sul trono. Polibio descrive le forze di Nabide come «un'accozzaglia di assassini, ladri, borseggiatori e predoni». Filippo V di Macedonia offrì allora a Nabide la città di Argo se Sparta avesse abbandonato la coalizione romana e si fosse schierata coi macedoni.

Nabide accettò e ottenne il controllo di Argo; cosa che non era piaciuta nè ai romani nè ai loro alleati. Pertanto nella primavera del 197 a.c. Flaminino con l'esercito e gli ausiliari spartani, della lega achea e di altre città, lasciò gli accampamenti invernali per iniziare la II campagna contro Filippo. Presso le Termopili un grosso contingente della lega etolica si unì all'esercito alleato.

 Anche Filippo che aveva ora una forza equivalente a quella Romana, scese verso sud per la battaglia. A Fere, in Tessaglia, i Romani riportarono la vittoria, ma lo scontro decisivo, dove in poche ore l'esercito macedone fu definitivamente sconfitto, avvenne nei pressi delle colline Cinocefale (teste di cane). 



BATTAGLIA DI CINOCEFALE

La battaglia si svolse nel 197 a.c. presso il luogo odierno di Karadagh inTessaglia.

Forze in campo romane:

- Fanteria romana
- Legionari romani
- Fanteria leggera della Lega etolica alleata
- Arcieri ausiliari cretesi
- Cavalleria romana
- Cavalleria alleata dei numidi del re Massinissa
- Elefanti numidi.

Forze in campo macedoni:

- Fanteria macedone
- Falange macedone (20.000 macedoni)
- Fanteria leggera mecedone (peltasti)
- Fanteria leggera alleata della Tracia, Illiria e Creta.
- Cavalleria macedone



UN CAPOLAVORO DI STRATEGIA

La battaglia iniziò in cima alle colline Cinocefale tra i primi reparti di fanteria leggera degli eserciti. Filippo divise il suo esercito in due falangi, una alla sua destra e l'altra a sinistra. All'arrivo di rinforzi romani alla fanteria leggera i fanti macedoni arretrarono in attesa della falange destra, mentre l'altra ancora marciava per raggiungere la cima. 

La falange di destra in aiuto della fanteria leggera fece arretrare le truppe romane ma Flaminino, schierate le altre due legioni e gli elefanti di fronte alla falange sinistra macedone, la attaccò, ed essa, in difficoltà per il passaggio dalla formazione di marcia a quella di battaglia, ruppe l'assetto. 

Allora Flaminino, mentre inseguiva la falange, inviò in aiuto alle due legioni che stavano ancora arretrando, venti manipoli, che attaccarono i nemici dal loro fianco sinistro, scompaginandone la formazione rigida tipica delle falangi. I Macedoni erano ormai disorientati e in fuga. Nel massacro che ne derivò i falangiti alzarono le picche in segno di resa, ma i Romani, non comprendendo il gesto, proseguirono la strage.

Morirono oltre 8.000 macedoni e 5.000 furono catturati, mentre i Romani e gli alleati ebbero solo 700 morti. La Tessaglia si arrese e Filippo chiese la pace. Però a Flaminio non piacque l'atteggiamento della lega etolica, le cui truppe erano state di grande aiuto in battaglia; ma che si prendevano tutto il merito della vittoria, e molti greci gli credevano.


La Beozia

Flaminino senza consultare la lega concesse a Filippo una tregua di quindici giorni per iniziare trattative di pace, ben sapendo che la lega etolica voleva la guerra fino alla distruzione dell'impero macedone. Gli etolici accusarono Flaminino di essersi fatto comprare da Filippo, ma il generale voleva concludere una pace immediata con i macedoni per tornare a Roma a celebrare il suo trionfo, temendo che Antioco III il Grande sbarcasse in Europa in aiuto dei macedoni. Così Flaminino concesse infine diversi mesi di tregua e mandò ambasciatori di ambo le parti a Roma.

Egli intanto aveva liberato tutti i beoti che avevano servito nell'armata macedone e che erano caduti prigionieri, ma, invece di essergliene grati, riconobbero la loro libertà al merito di Filippo e nominarono beotarca (magistrato con funzioni esecutive, militari e diplomatiche) il vecchio comandante delle truppe beote nell'armata macedone.

Però la fazione filo romana della lega fece assassinare il beotarca, sembra con l'approvazione di Flaminino. Esplose una violenta rivolta tra la popolazione della Beozia, stanca anche dell'armata Romana stazionata in Elateia, e quasi 500 cittadini Romani che si trovavano in Beozia furono uccisi e abbandonati senza sepoltura.

Per ritorsione Flaminino devastò la Beozia, assediando le città di Coroneia e Acrefia, presso cui si trovavano molti dei corpi insepolti. Allora la lega beotica mandò a chiedere la pace. Tito era riluttante; ma per l'insistenza della lega Achea li trattò con clemenza e concesse la pace in cambio della consegna dei colpevoli degli eccidi e del pagamento di trenta talenti, invece dei cento già richiesti.

Nella primavera del 196 a.c.,giunsero in Grecia dieci commissari romani con i termini ultimi della pace con Filippo V che doveva liberare ogni città greca ancora in suo possesso sia in Europa che in Asia. La lega etolica si oppose, ma inutilmente, considerandole troppo miti o frutto di corruzione.



GRECIA LIBERA

Nell'estate del 196 a.c. si svolsero proprio a Corinto i Giochi Istmici in onore di Poseidone, che richiamarono migliaia di persone da ogni parte della Grecia.

Flaminino, accompagnato dai dieci commissari, entrò nell'assembla e, al suo comando, un araldo in nome del Senato Romano annunciò la liberazione e l'indipendenza dell'intera Grecia.

GIOCHI ISTMICI
"Dunque dopo che i Greci ebbero preso posto allo spettacolo, un araldo con la tromba avanzò in mezzo all'arena. Impose il silenzio con la tromba e disse queste parole:
- Il Senato e il Popolo Romano, e il comandante Tito Quinzio, che sconfissero i Macedoni, ordinano che tutti i popoli della Grecia che furono sotto il dominio di re Filippo, siano liberi ed esenti da tributi. .
Quando udirono le parole dell'araldo tutti quelli che erano presenti lodarono con grandi grida e acclamazioni Flaminino. Infatti nulla è più gradito della libertà agli uomini."

L'annuncio era assolutamente inatteso e la gioia e l'entusiasmo arrivarono alle stelle. Flaminino fu circondato da una così tanta folla plaudente che temette per la sua vita. Era il ritorno alla libertà, dopo circa un secolo e mezzo di dominazione straniera. Battuto dai Romani, il re macedone Filippo V doveva andarsene ma Roma, vinto il padrone, aveva restituito la libertà ai suoi servi anzi, offriva loro la sua protezione senza chiedere niente in cambio.

Tito riuscì col suo carisma ad imporre tutte le condizioni di pace e in breve tempo Corinto fu liberata dai macedoni e passò sotto il controllo della lega Achea. Flaminino e gli altri dieci commissari si occuparono dei territori liberati e la Tessaglia fu suddivisa in quattro nuovi stati: Magnesia, Perrebia, Dolopia e Tessaliotide. 

La lega etolica riebbe Ambracia, la Focide e la Locride, non contenti chiesero di più al Senato Romano, che come al solito girò le richieste a Flaminino, ma questi li tacitò immediatamente.
La lega Achea ricevette tutti i possedimenti del Peloponneso e invece Atene, città favorita da Flaminino, ebbe incrementi territoriali.

Comunque il rientro delle legioni in Italia fu completato solo nel 194 a.c.. mantenendo però alcune guarnigioni in città di importanza strategica, prima occupate dai macedoni, come Corinto, Calcide e Demetriade.

Ma siamo ancora nel 195 e le guerre per Flaminino non sono terminate. In primavera il Senato Romano concesse i pieni poteri a Flaminino per agire contro Nabide nel modo che gli pareva più opportuno, cioè doveva eliminarlo.



GUERRA LACONICA

(tra la città-stato di Sparta e una coalizione composta da Repubblica romana, Lega achea, Regno di Macedonia, Rodi e Regno di Pergamo)

Dopo la guerra l'esercito romano non si ritirò dalla Grecia, ma distribuì delle guarnigioni nei luoghi strategici della regione, perchè ora si doveva liberare Argo. 

Flaminino inviò un messaggero a Sparta, chiedendo a Nabide di restituire Argo alla Lega achea o di prepararsi alla guerra contro Roma e i suoi alleati greci; Nabide respinse l'ultimatum di Flaminino, e 40.000 soldati romani, oltre agli alleati greci, avanzarono verso il Peloponneso. A Cleonae i Romani di Flaminino si congiunsero con 10.000 fanti e 1000 cavalieri della Lega achea sotto il comando di Aristeneo e si diressero su Argo, roccaforte spartana difesa da Pitagora, cognato di Nabide. Poiché la guarnigione spartana di Argo era forte e la popolazione non si era ribellata agli spartani, Flaminino pensò al da farsi..

Alcuni ribelli di Sparta fuggirono dalla città e raggiunsero il campo di Flaminino, cui suggerirono che se avesse mosso il proprio campo più vicino alle porte cittadine, gli Argivi si sarebbero ribellati agli Spartani. Il comandante romano inviò la propria fanteria leggera e la cavalleria in esplorazione, per trovare il luogo adatto per il nuovo campo. Il gruppo fu scoperto da alcune truppe spartane, che uscirono dalle porte per battersi ma i Romani li costrinsero a ritirarsi in città.

Flaminino mosse il campo vicino a Sarta e attese per un giorno, ma gli Spartani non attaccarono. Flaminino convocò un consiglio per decidere l'assedio di Argo; tutti i comandanti greci, ad eccezione di Aristeneo, concordarono che si doveva attaccare la città, Aristeneo invece voleva colpire direttamente Sparta e la Laconia. Flaminino era solito ascoltare sempre i pareri di tutti, per poi, come al solito, agire secondo il suo sentire, infatti concordò con Aristeneo.

Il giorno dopo giunsero gli alleati: gli esiliati spartani guidati dal legittimo re di Sparta rovesciato venti anni prima, e da 1500 fanti macedoni e 400 cavalieri tessali inviati da Filippo, mentre una flotta romana di quaranta navi guidata da Lucio Quinzio Flaminino; una flotta di Rodi di diciotto navi e guidata di Sosila, il quale voleva porre termine alla pirateria di Nabide e una flotta del Regno di Pergamo di quaranta navi e guidata da re Eumene II, per guadagnarsi la protezione romana in caso di attacco di Antioco III.
 
Nabide fu sconfitto due volte sotto le mura di Sparta, ma la città resisteva e Flaminino non insistè con l'assedio, preferendo tagliare le vie di rifornimento del nemico e razziando i territori circostanti.

Di nuovo Flaminino convocò un concilio, stavolta a Corinto, di tutte le città greche per deliberare su Sparta, e tutti i greci volevano abbattere Sparta, solo gli Etoli si mostrarono contrariati dall'ingerenza romana. Comunque fu decisa la guerra contro Nabide e i Romani ottennero truppe dalla lega Achea, Rodi, Eumene di Pergamo e perfino Filippo V di Macedonia, ormai alleato dei Romani.

Con l'aiuto della flotta, comandata dal fratello Lucio, Flaminino occupò il porto di Gytheio, catturando la base navale spartana. Allarmato Nabide chiese trattative di pace. Flaminino, temendo un sostituto che gli strappasse i successi voleva concludere, ma gli alleati volevano la fine di Nabide, ma fu proprio questi a rifiutare le condizioni di pace dei romani.


Sparta

A Flaminino non restò che marciare su Sparta. Nabide per il suo esercito aveva ordinato la leva di 10.000 cittadini, assoldando altri 1000 mercenari cretesi. I suoi alleati cretesi inviarono 1000 soldati scelti oltre ai 1000 che avevano già inviato.

HOPLITE SPARTANO
Affinchè i suoi sudditi non si ribellassero, Nabide li terrorizzò mandando a morte ottanta importanti cittadini.

Lucio Quinzio Flaminino intanto accettava la resa volontaria di diverse città costiere della Laconia.

Respinto a fatica il primo assalto e scoperto che Gytheio si era arresa, decise di inviare un messaggero a Flaminino per discutere la pace. Nabide offrì il ritiro degli spartani da Argo e la restituzione ai Romani di tutti i disertori e i prigionieri.
Flaminino come al solito convocò un consiglio di guerra con gli alleati, la cui maggioranza intendeva catturare Sparta e Nabide. Il generale romano ringraziò tutti e come la solito fece di testa sua. Ascoltare i pareri diversi l'aiutava a chiarirsi le idee, ma non riteneva che questi potessero vincolarlo.

Pertanto presentò a Nabide le sue condizioni per una tregua di sei mesi: il tiranno spartano doveva: rinunciare ad Argo e all'Argolide, concedere la libertà alle città costiere della Laconia e cedere loro la propria flotta, pagare una indennità di guerra per otto anni e rinunciare ad ogni alleanza con i cretesi. Nabide rispose che aveva abbastanza provviste per sostenere un assedio e la guerra continuò.


L'assedio

Flaminino con 50.000 soldati sconfisse gli Spartani fuori le mura cittadine, quindi iniziò l'assedio. Temendo un assedio sfibrante attaccò vigorosamente le mura. Gli Spartani risposero con frecce e pietre ma i grandi scudi romani offrivano un largo riparo. I Romani superarono le porte ma la angustia delle strade oeriferiche rallentavano il passaggio. Verso il centro le strade si allargarono e nel corpo a corpo i romani mostrarono la loro superiorità.

Nabide tentò la fuga, ma Pitagora ordinò loro di dar fuoco alle costruzioni più vicine alle mura. Le macerie in fiamme furono lanciate contro i soldati alleati che entravano in città, facendone strage, Flaminino si ritirò.
Ad un nuovo attacco, gli Spartani resistettero per tre giorni, finchè Nabide inviò Pitagora con una offerta di resa. Flaminino, molto adirato per aver perso tanti uomini si rifiutò di incontrarlo, ma infine dovette riceverlo avvertendo però che le condizioni di resa non erano cambiate. Nabide accettò e il senato romano ratificò. Flaminino era di nuovo l'eroe del giorno.

Appena conclusi gli accordi Flaminino si precipitò alla volta di Argo, partecipò ai giochi Nemei e proclamò ufficialmente la libertà della città, che tornò a far parte della lega Achea. Così egli divenne per i Greci il loro liberatore e per i Romani il campione del filellenismo in Roma, come attestano statue, iscrizioni e agoni decretati in suo onore in varie città della Grecia.

Finalmente tornato a Roma, Flaminino celebrò un grandioso e meritato trionfo di tre giorni nel 194 a.c



DI NUOVO IN GRECIA

MONETA LEGA ACHEA
All'assedio di Sparta, gli Argivi guidati da Archippas si ribellarono contro gli spartani, l'accordo fu che gli Spartani lasciassero Argo incolumi, e che gli Argivi dell'esercito di Nabide tornassero a casa.
Nabide dal canto suo ritirò i militari dai centri cretesi e revocò le riforme che avevano rafforzato dell'esercito spartano. 

Ma Romani non tolsero il trono a Nabide, perchè una Sparta indipendente, seppure di media potenza, controbilanciava la Lega achea in crescita.

Nabide dovette inoltre, come era d'uso consegnare 5 ostaggi, tra cui il figlio Armenas.

I Romani non permisero agli esiliati di tornare in patria, ma concessero alle spose degli ex-iloti di raggiungere il marito in esilio.

Ma gli Etoli cospirarono contro Roma con Nabide e stavolta pure con Antioco III, re della Siria. Nabide assediò Gytheio, ora occupata da una guarnigione della lega achea.


E' guerra

Siamo nel 192 a.c. gli Achei chiesero aiuto a Roma e il Senato Romano inviò una flotta sotto il comando di Gaio Atilio insieme ad un'ambasciata capitanata da Flaminino, benvoluto dai Greci e che avrebbe potuto portate nuove alleanze.

Flaminino però non gradì affatto che l'azione venisse affidata a un altro, ha 37 anni e si sente nel pieno delle forze, come osano trattarlo come un saggio anziano?
Si prepara in tutta fretta senza avvisare alcuno e si precipita in Grecia prima di Gaio Atilio per vedere la situazione, qui intima ai greci a non intraprendere nessuna operazione militare prima che fosse giunta la flotta romana. Poi però vedendo Gytheio ormai conquistata cambia idea e dichiara guerra contro Nabide. Ora il protagonista era di nuovo lui, e come al solito fa di testa sua.

La situazione cambia, Filopemene, stratego della Lega Achea per ben otto volte e grande eroe, sta per sconfiggere definitivamente il tiranno spartano, non si è curato dei suoi ordini di attendere la flotta romana. Filopemene vuole la sua fetta di gloria ma Flaminino lo ferma, deve salvare Nabide, affinchè la lega Achea non divenga la potenza egemone greca.

In realtà vuole accattivarsi i greci, scontenti delle condizioni di pace con Nabide, ma soprattutto, per avere il suo ruolo di protagonista come comandante. Il posto di eroe non lo lascia ad alcun altro. Flaminino ha i pieni poteri del senato e Filopemene, a denti stretti, deve concludere la tregua con Nabide.

Intanto Antioco III si prepara ad invadere la Grecia; e Flaminino, con molte promesse, riesce a convincere Filippo e la Macedonia a stare dalla sua parte. Come ambasciatore è fantastico, convince tutti, o quasi.

Ora Nabide chiede aiuto agli Etoli, che inviano a Sparta 1000 fanti e 30 cavalieri scelti al comando di Alessameno. Però mentre Nabide assiste alle esercitazioni, Alessameno lo uccide con la sua lancia, uccide l' ultimo re spartano effettivamente sovrano.


La fine di Sparta

Gli etoli cominciano a saccheggiare la città, ma gli spartani, sempre valenti guerrieri li cacciano da Sparta. Finalmente Filopemene entra in città con l'esercito e Sparta diviene un membro della Lega achea. La città mantiene leggi e territorio, ma gli esiliati non possono tornare in patria.

Nel 189 a.c., tutti gli ostaggi spartani a Roma, a parte il figlio di Nabide che si era ammalato ed era morto, furono autorizzati a tornare a Sparta ma la città non si arrende. Conquista la città di Las, residenza di molti esiliati e membro dei Laconi Liberi. Allora gli Achei decidono di farla finita e chiedono la consegna dei sei cittadini responsabili dell'attacco, ma questi uccidono i membri della fazione pro-achea, invocando la protezione dei Romani che non intervengono.

Nel 188 a.c. Filopemene, con un esercito acheo e con gli esiliati spartani fa uccidere per ritorsione ottanta esponenti anti-achei a Compasio, poi distrugge le mura di Sparta fatte erigere da Nabide; fa rientrare gli esiliati, toglie le leggi spartane e mette quelle achee. Sparta diviene membro della Lega achea, sua precedente rivale, ponendo fine a diversi secoli di indipendenza, la sua storia è finita..



RITORNO A ROMA

Nel 204 a.c. Marco Claudio Marcello era il tribuno della plebe incaricato di investigare sulle spese fatte da Scipione l'Africano. Però il rapporto tra Marcello e Scipione l'Africano è poco chiaro (il padre di Marcello e lo zio di Scipione furono consoli insieme nel 222 a.c.). Fatto sta che nel 189 a.c. fu eletto censore con Tito Quinzio Flaminino.

Quest'ultimo venne inviato come ambasciatore presso Prusia I re di Bitinia nel 183 a.c., per ottenere la consegna di Annibale, che però nel frattempo si avvelenò.
Morì nel 174 a.c. o poco prima, poiché in tale anno si celebrarono giochi funebri in suo onore.

LA VERGINE IPAZIA

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REGGENZA DI ELIA PULCHERIA 

"Pulcheria (sorella di Teodosio II imperatore) era una donna forte, ambiziosa, amante del potere e molto bigotta. L'atmosfera di corte divenne pesante come quella di un chiostro. Il nuovo prefetto del pretorio fu un certo Aureliano che divenne il principale consigliere di Pulcheria. La donna liquidò anche Antioco dalla carica di tutore del fratello, al quale disse che da allora in poi ella stessa desse lezioni di comportamento.


La filosofa Ipazia

Dopo che Pulcheria ebbe assunto la reggenza ad Alessandria accadde un fatto gravissimo. Ipazia, donna pagana celebre per le sue conoscenze filosofiche e matematiche, guidava un cenacolo di filosofi, letterati e ricercatori che affluivano da ogni parte per ascoltarla. Fu suo padre Teone ad indirizzarla sulla via della scienza, come lui stesso testimonia nell'intestazione del III libro del suo commento al Sistema matematico di Tolomeo, su cui è scritto: "Commento di Teone di Alessandria al terzo libro del Sistema matematico di Tolomeo. Edizione controllata dalla filosofa Ipazia, mia figlia".

Filostorgio e poi Suda, scrissero di interessanti scoperte compiute da Ipazia sul moto degli astri, scoperte che ella condivise con i suoi contemporanei con un testo, intitolato Canone astronomico. Filostorgio aggiunge che "Introdusse molti alle scienze matematiche" si buttava sulle spalle il tribon – (come ce la raffigura Raffaello) il mantello dei filosofi – e se ne andava in giro per Alessandria a spiegare alla gente cosa volesse dire libertà di pensiero, l’uso della ragione.


Socrate Scolastico, storico cristiano e coevo, narrò la vicenda nella sua Storia ecclesiastica (VII libro) secondo cui Cirillo tentò di far accettare alla parte meno fanatica della comunità cristiana di Alessandria (perchè la più fanatica l'aveva già accettata), la beatificazione del monaco Ammonio, brutale e violento, che il prefetto Oreste, vittima di una sua aggressione, aveva fatto giustiziare. Cirillo tentò subito di fare adorare Ammonio come martire col nome di Taumasio, ma «le persone equilibrate, quantunque cristiane, non approvavano tale eccessivo zelo di Cirillo nei confronti di costui» (VII, 14).

Socrate riferì che Ipazia era la terza caposcuola del Platonismo, dopo Platone e Plotino. Damascio ci spiega come seppe passare dalla semplice erudizione alla sapienza filosofica. Pallada poi, in un epigramma, tesse uno degli elogi più belli all'indirizzo di Ipazia:
"Quando ti vedo mi prostro, davanti a te e alle tue parole, vedendo la casa astrale della Vergine, infatti verso il cielo è rivolto ogni tuo atto Ipazia sacra, bellezza delle parole, astro incontaminato della sapiente cultura".

Ma Ipazia fu anche una guida spirituale; uno dei suoi più cari discepoli, Sinesio, le scrisse, affetto da una malattia mortale:
"Detto questa lettera dal letto nel quale giaccio. Possa tu riceverla stando in buona salute, o madre, sorella e maestra, mia benefattrice in tutto e per tutto, essere e nome quant'altri mai onorato!".

E pensare che Sinesio divenne poi vescovo cristiano di Cirene: 
"E se c'è qualcuno venuto dopo che ti sia caro, io debbo essergli grato poiché ti è caro, e ti prego di salutare anche lui da parte mia come amico carissimo. Se tu provi qualche interesse per le mie cose, bene; in caso contrario, non importano neanche a me".

Ancora Socrate:
"Ella giunse ad un tale grado di cultura, che superò di gran lunga tutti i filosofi suoi contemporanei. Per la magnifica libertà di parola ed azione, che le veniva dalla sua cultura, accedeva in modo assennato anche al cospetto dei capi della città e non era motivo di vergogna per lei lo stare in mezzo agli uomini. Infatti, a causa della sua straordinaria saggezza, tutti la rispettavano profondamente e provavano verso di lei un timore reverenziale". 

Damascio:
"Poiché tale era la natura di Ipazia, era cioè pronta e dialettica nei discorsi, accorta e politica nelle azioni, il resto della città a buon diritto la amava e la ossequiava grandemente e i capi, ogni volta che si prendevano carico delle questioni pubbliche, erano soliti recarsi prima da lei".

Per i cattolici era davvero troppo: donna, pagana, istruita, amatissima e addirittura geniale! Non era sopportabile.

"Per questo motivo, allora, l'invidia si armò contro di lei. Alcuni, dall'animo surriscaldato, guidati da un lettore di nome Pietro, si misero d'accordo e si appostarono per sorprendere la donna mentre faceva ritorno casa. Tiratala giù dal carro, la trascinarono fino alla chiesa che prendeva il nome da Cesario: qui, strappatale la veste, la uccisero colpendola con i cocci.
Dopo che l'ebbero fatta a pezzi membro a membro, trasportati questi pezzi al cosiddetto Cinerone, cancellarono ogni traccia di lei nel fuoco
".




Il martirio di Ipazia (VII, 15) ad opera di una squadra di monaci teppisti detti «parabolani» capeggiati dal lector Pietro che costituivano, per Cirillo, una specie di «guardia del corpo »: catturata per la strada, denudata, lapidata, fatta a pezzi e bruciata. Commenta Socrate, al termine di quel capitolo: «Questo misfatto procurò non poco biasimo a Cirillo e alla chiesa di Alessandria.»
Nè d'altronde Cirillo biasimò l'accaduto. La sua complicità è affermata anche da Damascio, il neoplatonico autore della Vita di Isidoro, che vive un secolo più tardi. 

Altra fonte importante è Filostorgio (368-439 d.c.), ariano e avverso sia ai pagani che degli atanasiani trionfanti ad Alessandria. Probabilmente aveva ascoltato direttamente le lezioni di Ipazia, che era diventata, nel campo della osservazione degli astri, migliore di gran lunga rispetto a suo padre Teone (Hist. eccl. VIII, 9).

L’opera di Filostorgio, in quanto di ispirazione ariana venne distrutto ma il patriarca Fozio ne fornì un riassunto: «L’empio (Filostorgio detto in senso ironico e amichevole) a questo punto dice che, al tempo del regno di Teodosio, quella donna fu fatta a pezzi dai sostenitori della consustanzialità» .
I sostenitori della consustanzialità erano Atanasio, Teofilo e Cirillo. Per Filostorgio dunque l’assassinio non era opera della folla fanatica ma di Cirillo, che ad Alessandria la guidava e dominava.

Louis Duchesne (dalla Histoire ancienne de l’Église III, p. 301) condanna fortemente il massacro di Ipazia e lo descrive con notevole partecipazione:

«Tra le persone più apprezzate dal prefetto Oreste c’era l’illustre Ipazia, donna di elevate facoltà letterarie, stimata per i suoi costumi come per il suo ingegno. Era ancora pagana e dirigeva la scuola neoplatonica; Oreste non era il solo cristiano a stimarla, l’onorava pure il vescovo Sinesio. La corte di Cirillo ritenevala istigatrice di tutti i malevoli progetti prefettizi e responsabile dell’ostilità di Oreste contro il Vescovo. Un giorno, alcuni fanatici, guidati da uno dei lettori di Cirillo, di nome Pietro, l’attesero per via, la strapparono giù dal suo carro, la trascinarono nella chiesa del Caesareum, e là, la spogliarono delle vesti, l’uccisero a colpi di tegola, tagliandone poi il cadavere a pezzi, bruciati in un’orgia di cannibali

Mentre per lo spirito orientale non c'era problema nel concedere parità di diritti a una donna, tanto è vero che Pulcheria poteva essere reggente, nello spirito della Chiesa Cattolica era un insulto.

IPAZIA
Pertanto il Patriarca Cirillo sobillò la folla dei cristiani incitandoli al linciaggio della giovane Ipazia, che dalla folla, come si è detto, fu denudata, letteralmente smembrata viva e seminati i suoi pezzi sanguinanti nella piazza.

Pulcheria, cristiana devota alla Chiesa e seguace di Cirillo, impedì che il commissario incaricato svolgesse obiettivamente le sue indagini.

Il popolo pagano di Alessandria chiese allora giustizia presso Teodosio II sul loro vescovo per aver fatto massacrare, non solo Ipazia, ma tanti avversari religiosi.

Ma Cirillo convocò illegalmente il Concilio di Efeso, III Concilio ecumenico della storia della Chiesa, in cui legittimò il suo delitto, per cui non solo non pagò i suoi crimini ma fu successivamente fatto santo dalla Chiesa (!).

Con la morte di Ipazia sparirono pure i suoi scritti e tutto quello che si ha di lei è stato tramandato dagli studiosi e dai suoi discepoli, tra i quali il suo più importante allievo, Sinesio di Cirene. La misoginia ecclesiastica non solo la uccise materialmente ma pure moralmente, privando il pubblico della sua preziosa scienza, per quel principio secondo cui le donne sono "instrumentum diaboli", e massimamente se pagane.

Alcuni autori, naturalmente cattolici, difesero il vescovo Cirillo, come Giovanni di Nikiu, che considera il linciaggio di Ipazia una meritata punizione:
"Ipazia ipnotizzava i suoi studenti con la magia e si dedicava alla satanica scienza degli astri" precisando poi che
 "Tutta la popolazione circondò il patriarca Cirillo e lo chiamò nuovo Teofilo, perché aveva liberato la città dagli ultimi idoli".

Per altri 1400 anni, i cosiddetti "secoli bui" si visse nell'ignoranza; nulla si sapeva di come si era vissuti prima. Si cancellò dalla memoria pure l'impero romano e la gente divenne analfabeta.

Il sapere venne sostituito con la superstizione, l'apatia, la rassegnazione; fu spenta ogni energia vitale individuale e collettiva. Bisognava solo pregare, sacrificarsi e ubbidire. Dio amava la sofferenza volontaria e la totale sottomissione degli uomini.

La filosofa viene oggi riconosciuta come martire della libertà di pensiero, ma paradossalmente il vescovo Cirillo nel 1882 è stato proclamato santo. Sarà un caso, ma spesso la chiesa ha santificato uomini che odiavano le donne,

Invece Raffaello la inserì nel famosissimo affresco della Scuola d'Atene, unica donna presente,
ed è anche l'unico personaggio che rivolge lo sguardo all'osservatore. Come mai? Intanto notiamo la sua somiglianza con lo stesso Raffaello. Forse il pittore si identificava un po' in lei e quello sguardo al pubblico denunciava ciò che l'autore non poteva dire, anch'egli legato dal potere ecclesiastico che lo dominava, seppur pagandolo profumatamente.


A SINISTRA RITRATTO DI RAFFAELLO, A DESTRA IPAZIA DA UN OPERA DI RAFFAELLO

DA:

IL CRIMINALE SAN CIRILLO D'ALESSANDRIA

di Karlheinz Deschner
(Storia Criminale del Cristianesimo, Ariele 2001, Vol. 2; pagg.132-137)


SAN CIRILLO PERSECUTORE DEGLI "ERETICI" E IDEATORE DELLA PRIMA "SOLUZIONE FINALE"

La lotta per la fede soddisfò, come spesso accadde nel cristianesimo, l'orrenda sete di potere di questo santo. L'opera di Cirillo, pur essendo andata in parte distrutta, riempie dieci tomi della Patrologia greca; una produzione che, tra i padri della chiesa, è paragonabile soltanto a quella di Agostino e Giovanni Crisostomo,

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Cirillo vide "la Chiesa di Dio" costantemente minacciata da "eresie", da dottrine immonde e sacrileghe di altri cristiani, da senza Dio, che "precipitavano all'inferno" o nel "cappio della morte" nel caso in cui non avessero fatto, e in ciò Cirillo fu molto d'aiuto, "già in questa vita una brutta fine".

Alla luce della sua ossessiva sete di potere si comprende l'enormità e la ferocia della sua infamia. Seguendo le orme del famigerato Attanasio, "beato e notissimo Padre della Chiesa", (uno psicopatico come lui) Cirillo continuò a perseguitare massicciamente i cristiani eterodossi, superando il maestro per la brutalità, e quanto a mancanza di stile riuscì almeno a raggiungerlo.

Nel linguaggio e nelle immagini di Cirillo, non può essere un caso che persino i cattolici vi trovano "poco o niente di attraente" [a parte Ratzinger, ndr].

Il suo stile viene definito "fiacco e prolisso, ma anche ampolloso e sovraccarico" (Biblioteca dei Padri della Chiesa), mentre cautamente si dice dei suoi scritti che "in letteratura non occupano una posizione di primo piano" (Altaner/Stuiber).

Chi non la pensa come lui, non può essere altro che un "eretico", è anche moralmente maligno e Cirillo gli attribuisce "stoltezza", "eccesso", "smisurata ignoranza", "insensatezza e depravazione": lo accusa di "oltraggio", "molestia", "follia" e di "giochi di prestigio e chiacchiere senza senso", "al massimo grado di stupidità". Queste persone sono "altamente sacrileghe", "calunniatrici e ingannatrici di diritto", "ebbre" e "annebbiate dai fumi dell'alcool", "fermenti della malvagità", "gravemente affetti da ignoranza di Dio", pieni di "follia" e professano dottrine "di origine diabolica".

E naturalmente chiede all'imperatore: "Avanti dunque con le ondate dirompenti di quegli uomini ... ", "avanti con i pettegolezzi e le chiacchiere senza senso, con parole abbellite da chimere e inganno!"
Cirillo intese l'annientamento degli eretici come un obbligo di chi detiene il potere e nel 428 ottenne un editto contro tutti gli eretici.

E minacciava con le parole del Vecchio Testamento: "Se non si convertono, il Signore farà luccicare la sua spada contro di loro". Il Signore non era soltanto l'imperatore, ma soprattutto Cirillo.
Subito dopo le elezioni episcopali del 412 Cirillo procedette con decisione contro gli "ortodossi" novaziani, fino a quel momento tollerati.

Fece chiudere le loro chiese, scacciando gli stessi novaziani. Andando ulteriormente contro le leggi imperiali, si appropriò di tutti i loro beni, compreso il patrimonio privato del vescovo novaziano Teopempto.

Come riporta trionfante la "Biblioteca dei Padri della Chiesa", Cirillo diede il colpo di grazia ad alcune sette, naturalmente con la "penna", la sua principale arma vien detto qui.
"Oh follia", gridava sempre più spesso; "Oh ignoranza, senno sconsiderato!", "Oh sproloquio da suocera, intelletto assopito, in grado solo di blaterare ... ". Gli eretici abbondano soltanto di "invenzioni irreligiose", "favole raccapriccianti" e di "pura stupidità". Essi sono "il culmine della malvagità". "La loro gola è davvero una tomba spalancata ... , le loro labbra celano veleno di vipera".

Cirillo perseguitò anche i messalliani: asceti penitenti dai capelli lunghi, provenienti per lo più dagli strati più infimi della società, che si astenevano dal lavoro e nella povertà più assoluta si sacrificavano alla ricerca di Cristo. I messalliani interpretavano la "fratellanza" come comunità mista di uomini e donne, interpretazione che ai cattolici dispiacque particolarmente.

Cirillo decretò la loro fine a Efeso. Naturalmente molti altri parteciparono alla caccia. Il patriarca Attico di Costantinopoli (406-425), elogiato da papa Leone I e venerato dalla chiesa greca come santo (Festa: 8 febbraio e 11 ottobre), aizzò i vescovi di Panfilia a scacciare i messalliani come fossero topi o parassiti. Il patriarca Flaviano di Antiochia li fece cacciare prima da Edessa e poi da tutta la Siria.

Il vescovo Amfilochio di Ikonium li perseguitò nelle sue diocesi così come il vescovo Letoio di Melitene, che diede fuoco ai loro conventi, chiamati dal vescovo e padre della chiesa Teodoreto: "covi di briganti".

Ogni qual volta Cirillo passò all'attacco, da un lato c'era sempre un abisso di errori, follia, stupidità e chimere - anche questo un fenomeno, durato per due millenni, tipico della politica ecclesiastica. Dall'altro lato c'era l'ortodossia immacolata, lui stesso, le cui "ragioni e giudiziose esposizioni sono irreprensibili", con fede "salda come una roccia e che difendono la loro devozione fino alla fine ... " e che ridono della "inefficacia dei loro avversari". "Dio è con noi ... ". Lo "splendore della verità risplende sempre dalla loro parte".

"La prova più bella del suo nobile intelletto" - così glorifica Cirillo un'"edizione speciale",  con imprimatur ecclesiastico e sotto Hitler particolarmente apprezzata "è che anche in guerra ha tentato di salvare il comandamento dell'amore fraterno e nonostante la sua innata irruenza non perse mai il dominio di sé neanche di fronte alla terribile malafede del suo avversario".


IPAZIA

Ma Cirillo non li colpì soltanto letterariamente, come altri padri della Chiesa, ma anche nei fatti. Già nel 414, quest'uomo "tutto d'un pezzo" (così il cattolico Daniel-Rops), "dalla straordinaria forza d'azione" si impadronì di tutte le sinagoghe d'Egitto e le trasformò in chiese cristiane. Al suo tempo anche in Palestina la repressione degli ebrei divenne sempre più radicale, mentre monaci fanatici distruggevano le loro sinagoghe.

Senza alcun diritto, fece assalire e distruggere le sinagoghe da un' enorme folla che, come in guerra, fece man bassa dei loro beni e scacciò più di 100 000 ebrei, forse 200 000, lasciando donne e bambini senza cibo e senza averi. L'espulsione fu totale: lo sterminio della comunità ebraica alessandrina, la più numerosa della diaspora, che esisteva da più di 700 anni, fu la prima "soluzione finale" della storia della chiesa. La "Biblioteca dei Padri della Chiesa" (1935) dice che "è possibile che il comportamento di Cirillo non sia stato propriamente riguardoso o del tutto privo di violenza".

Quando il governatore imperiale Oreste manifestò il suo dissenso a Costantinopoli, dal deserto giunse un'orda di monaci, seguaci del santo, "che puzzavano di sangue e di bigottaggine già da lontano" (Bury). Essi accusarono Oreste, battezzato a Costantinopoli, di idolatria, dandogli del miscredente e di fatto procedettero contro di lui. Se il popolo non fosse accorso in suo aiuto probabilmente la pietra che lo colpì alla testa, invece di ferirlo, l'avrebbe ucciso. All'attentatore suppliziato e morente, Cirillo riservò onori da martire, santificando il monaco in una predica. E il 3 febbraio portò la sua truppa d'assalto, ridotta da una disposizione imperiale del 5 ottobre da 500 a 416 unità, a 600 unità.

La tortura che portò il "martire" alla morte, preparò il terreno per l'uccisione di Ipazia.

Nel marzo del 415, durante il tumulto di Alessandria, Cirillo acconsentì, o meglio fomentò (Lacarrière) l'esecuzione di Ipazia, al tempo filosofa pagana molto nota e stimata. Figlia di Teone, matematico e filosofo, ultimo rettore a noi noto del Museion, l'accademia alessandrina, Ipazia fu maestra del padre della chiesa e vescovo Sinesio di Cirene, che in una lettera la definisce "madre, sorella e maestra" e "filosofa amata da Dio", e che era seguita anche da molti uditori cristiani.

Cirillo covò rancore contro Oreste, il praefectus augustalis, anche perché questi trovava gradita la compagnia della filosofa. II patriarca diffuse notizie false su di lei e riuscì, con l'aiuto di prediche che la diffamavano come maga, ad aizzarle contro il popolo. Presa a tradimento dai monaci fedeli a Cirillo e guidati dal chierico Pietro, Ipazia fu trascinata nella chiesa di Kaisarion, dove fu spogliata e letteralmente fatta a pezzi con schegge di vetro; infine, la salma dilaniata fu pubblicamente bruciata, "la prima caccia alle streghe della storia" (Thieβ).

Il patriarca Cirillo si guadagnò la nomina di "ideatore spirituale del crimine" (Giildenpenning). Persino il volume Riformatori della Chiesa, con tanto di imprimatur ecclesiastico (1970), scrive di costui, uno dei più grandi santi cattolici: "Almeno per la morte della nobile pagana Ipazia, egli è responsabile".

Anche uno dei più obiettivi storici cristiani, Socrate ritiene che i seguaci di Cirillo e la chiesa alessandrina furono accusati del fatto. "Ci si può convincere che la nobile e colta donna divenne realmente la vittima più eminente del vescovo fanatico" (Tinnefeld).

L'ideatore della prima "soluzione finale" della Chiesa cristiana, alla quale sarebbero seguite molte altre, divenne il "più nobile santo dell' ortodossia bizantina" (Campenhausen), ma anche uno dei più brillanti santi della chiesa cattolico-romana, "doctor ecclesiae", padre della chiesa. Anche dopo lo sterminio hitleriano degli ebrei, per i cattolici rimase "un uomo virtuoso, nella pienezza del termine" (Pinay!).

Quando il grande santo morì, tutto l'Egitto tirò un sospiro di sollievo. Il generale sollievo lo testimonia una lettera, forse apocrifa, inviata al padre della chiesa Teodoreto:
"Finalmente, finalmente è morto quest'uomo terribile. Il suo congedo rallegra i sopravvissuti ma sicuramente affliggerà i morti."

Il santo Cirillo pose le fondamenta a tutta la caccia alle streghe di cui si macchiò a lungo e orribilmente la Chiesa.

AQUA ANIO VETUS

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Plinio il vecchio 36.123
"ma se qualcuno calcolerà scrupolosamente l'abbondanza di acqua (fornita) alle (fontane) pubbliche, alle terme, alle cisterne, ai canali, alle case, ai giardini, alle ville suburbane, e la distanza da cui proviene l'acqua, gli archi costruiti, le montagne perforate, le vallate livellate, egli vi confesserà che mai è esistita cosa più mirabile sull'intera Terra".

Frontino Gli Acquedotti I.16
"Con una tale schiera di strutture tanto necessarie e che trasportano così tanta acqua compara, se lo desideri, le oziose piramidi o le altre inutili, se pure rinomate, opere dei Greci".

L’Anio vetus, vale a dire “Aniene vecchio” fu il secondo acquedotto costruito per il rifornimento idrico di Roma, dopo l’acquedotto Appio, che fu il primo, edificato ben quarant’anni prima. Venne detto vetus (vecchio) solo quando, tre secoli dopo, fu realizzato un altro "acquedotto Anio", detto appunto novus, il nuovo.
PERCORSO DELL'ANIO VETUS (cliccare per ingrandire)
Esso venne costruito con il bottino della guerra vittoriosa combattuta da Roma contro Taranto e Pirro, tra il 272 e il 269 a.c., dal censore Manio Curio Dentato, il glorioso vincitore della III guerra sannitica che durava da ben 49 anni.

Il senato, per compensarlo di tanta vittoria, lo aveva poi nominato "duumvir aquae perducendae", una carica di tutto rispetto e ben pagata, per provvedere alla costruzione del nuovo acquedotto insieme a Fulvio Flacco, che però morì cinque giorni dopo l’incarico.
Pertanto la gloria andò tutta a Manio Curio Dentato.
Dopo un percorso in gran parte sotterraneo o interrato, l’Anio Vetus traversava, nel territorio di San Gregorio di Sassola, la valletta del Fosso della Mola (in uno dei suoi punti più stretti) mediante il Ponte della Mola (detto anche degli Arci o della Mola di San Gregorio).



PONTE DELLA MOLA

Venne restaurato nei primi due secoli d.c. e all’epoca dell’imperatore Adriano risale la costruzione del Ponte della Mola, nei pressi di San Vittorino, realizzato per attraversare una vallata che consentiva un accorciamento di circa 1,5 km. 

PONTE DELLA MOLA
E' una costruzione stupenda, un ponte che sarebbe notevole anche ai nostri giorni, lungo 156 m e alto 24,50, con un doppio ordine di 29 arcate a cui vanno aggiunte due arcate iniziali singole. 

La parte centrale, per un tratto di tre doppie arcate, è crollata nel 1965 grazie all'incuria assurda di governanti e preposti, e una quarta doppia arcata adiacente, tanto per aggiungere altro scempio, è stata subito dopo demolita perché pericolante.

Di interventi di conservazione non se ne parlava e non se ne parla neppure oggi.
Il che dà la misura dell'incuria dei governi italiani per le opere d'arte che tutto il mondo ci invidia.

Il suo rivestimento in laterizio denuncia che il ponte Della Mola non è contemporaneo al'acquedotto. Fu infatti realizzato dagli ingegneri di Adriano che ne ordinò il restauro. 

Essi sostituirono un tratto tortuoso della canalizzazione e un piccolo ponte (ora completamente scomparso) che ne accorciava il percorso mantenendone la pendenza. Non tutte le arcate sono originali di epoca Adrianea, e alcune mancano anche per i citati crolli e demolizioni, si che sono sopravvissute solo otto doppie arcate.



I RESTAURI

L’Anio vetus fu restaurato tre volte, contemporaneamente all’acquedotto Appio: nel 144 a.c., dal pretore Quinto Marcio Re, trionfatore degli Stoni in Gallia Cisalpina, in occasione della costruzione dell’acquedotto marciano, o dell'Aqua Marcia che aggiungeva all’Anio vetus 164 quinarie tramite un condotto secondario nella zona di Casal Morena); nel 33 a.c..

Fu il grande ingegnere Agrippa che per ordine di Augusto revisionò tutto l’apparato idrico della città; tra l’11 ed il 4 a.c.. Per l'occasione edificò una diramazione sotterranea, lo “specus Octavianus”, che, dall'attuale Pigneto, seguiva la via Casilina e raggiungeva l’area delle future Terme di Caracalla. 

Augusto fece inoltre segnare la via percorsa dall'Anio Vetus e dall'Acqua Marcia con dei cippi numerati, secondo alcuni  già presenti fin dalla costruzione di entrambi. Sembra però non fossero della stessa epoca, per cui probabilmente Augusto, che fece operare ben due volte il restauro dell'Anio Vetus, fece sostituire i cippi rovinati e magari ne aggiunse alcuni.

PONTE TAUTELLA

Dal bacino di raccolta (230 x 165 x circa 5 m), posto a 262 m di quota, partiva il condotto, lungo 43 miglia romane ( 63,5 km.), di cui 43000 sotterranee, e terminava in città “ad spem veterem”, presso Porta Maggiore, dove confluivano ben otto  acquedotti. 

Era in realtà in percorso più lungo (circa 60 Km) perché ancora si preferiva un percorso lungo e tortuoso, che seguisse per quanto possibile il terreno per una pendenza costante, piuttosto che un tragitto molto più breve ma con ponti e passaggi sospesi. 

Nei pressi di Tivoli, il condotto raggiungeva la zona di Gallicano nel Lazio (con ponte Tautella e ponte Pischero), quindi seguiva la via Prenestina fino a Gabii e da lì la via Latina nell’attuale Casal Morena. Qui, con una "piscina limaria" (bacino di decantazione), parte delle acque veniva smistata nelle ville rurali della zona.

I due ponti: Tautella e Pischero sono nella incuria più completa. Il ponte del Pischerlo è crollato e ne restano i piedritti e una parte dell'arco, il ponte di Tautella è invaso da fanghiglie, vegetazione e rami che ne corrodono pian piano le pareti, senza che alcuno se ne occupi.

Il condotto superava poi la via Tuscolana, proseguica per la via Labicana e traversava la via Prenestina con l’unico tratto scoperto, pari a circa 330 m, fino “ad spem veterem”; da qui il percorso urbano, sempre sotterraneo, girava intorno all’Esquilino.

Superando poi le aree dell’attuale Stazione Termini e di piazza M. Fanti, giungeva alla porta Esquilina, dove il “castello” terminale provvedeva alla distribuzione dell’acqua. Il canale originario sotterraneo fu scoperto e distrutto giusto sotto Porta Maggiore.


PONTE PISCHERO

L'acquedotto si riforniva direttamente dal fiume Aniene (Anio) nei pressi di Tivoli, all'altezza del XXIX miglio della via Valeria, a circa 850 m a monte di San Cosimato, presso la confluenza nell'Aniene del torrente Fiumicino, tra i comuni di Vicovaro e Mandela (una regione Sabina conquistata dallo stesso Manio Curio Dentato poco prima), dove il Canina individuò un laghetto artificiale. (Lanciani: Ruins and Excavations of ancient Rome).

L'Aniene è un emissario di sinistra del fiume Tevere e su di esso gravita un'antica leggenda.
Catillo, divinità minore preromana, rapisce la figlia del semidio del fiume Anio e la porta con sé sul monte, che da lui prende nome, per farne la sua amante. Suo padre tenta di oltrepassare il fiume per salvare la figlia, ma viene trascinato dalle acque e muore. Catillo e la ragazza scorgono allora un bagliore: compare in tutta la sua luce lo spirito di Anio che porta in salvo la fanciulla strappandola a lui. La maledizione di Anio intrappolò Catillo sul monte e vi rimase per sempre, anche dopo la sua morte.

Il mito ha fatto pensare ad alcuni la piena dell'Aniene che non riesce a scalfire i fianchi del monte Catillo. Altri invece vi scorgono una lotta fra tribù montane e della valle, dove queste ultime hanno il sopravvento.

Comunque il fiume Aniene andava soggetto alla diminuzione della portata in periodi di siccità o l’intorbidamento dell’acqua per grandi piogge e piene. Così in epoca imperiale si limitò l’Anio vetus all’irrigazione di ville e giardini e all’alimentazione delle fontane. Non era consigliabile l'uso di berlo.

Il condotto, di 1,75 x 0,80 m, era realizzato in blocchi di tufo, e la portata era all’inizio di 4.398 quinarie, (182.517 m³ giornalieri e 2.111 L al secondo), ma a causa di dispersioni accidentali o abusive durante il percorso, e di un paio di diramazioni secondarie, la portata finale al “castello” di porta Esquilina era di sole 1.348 quinarie (55.942 m³ al giorno e 647 L al secondo).

MANIO VALERIO VOLUSO MASSIMO

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Nome: Manio Valerio Voluso Massimo
Nascita: VI sec. a.c.
Morte: V sec. a.c.
Nipote di: Publio Valerio Publicola
Professione: Politico e militare

Manio Valerio Voluso Massimo (VI - V sec. a.c.), non si conoscono le date nè i luoghi della sua nascita nè della sua morte, anche se Livio riporta la notizia della morte di un augure Manio Valerio nel 463 a.c.. Si sa però che è stato dittatore nel 494 a.c..

Era il figlio di Marco Valerio Voluso Massimo, console nel 505 a.c., che, come narra Tito Livio, aveva partecipato alla Battaglia di Lago Regillo nel 496 a.c., agli ordini del dittatore Aulo Postumio Albo Regillense. Quando i Latini stavano per cedere, uno dei figli di Tarquinio il Superbo avanzò con il corpo degli esiliati romani riequilibrando la lotta. Allora Voluso si lanciò contro Tarquinio, ma cadde colpito dai nemici.

Era inoltre nipote di uno dei padri della repubblica, quel Publio Valerio Publicola che fu quattro volte console dal 509 al 504 a.c. Questi fu augure e dittatore e vinse varie guerre contro i Sabini e i Medulini, riportando anche un trionfo sui Veienti, ma soprattutto fu Publicola, cioè amico del popolo.

Manio proveniva da questi mitici generali romani, nonchè dalla gloriosa gens patrizia Valeria, di origine sabina, molto stimata sia dai patrizi che dai plebei. I Valerii ricoprirono infatti ben 74 volte la carica di Console. Furono rispettati e ben voluti dai plebei perchè spesso si batterono per far valere i loro diritti durante il primo periodo della repubblica.

Questa gens aveva la propria residenza sulla sommità della collina Velia, e godettero a Roma di straordinari privilegi, tra i quali quello di essere gli unici le cui porte si aprivano direttamente sulla strada; nel circo avevano un seggio speciale a loro riservato. Inoltre potevano seppellire i loro defunti all'interno delle mura della città, privilegio riservato a pochissime famiglie, che mantennero anche quando passarono dall'uso dell'inumazione a quello della cremazione.



L'ISCRIZIONE LAPIDEA

In una iscrizione marmorea di età augustea, scoperta ad Arezzo nel 1688, è riportato l’elogium di Manio Valerio:

MONETA DELLA GENS VALERIA CON LA VITTORIA SU UN LATO
E L'AQUILA LEGIONARIA SULL'ALTRO
M/ · Valerius
Volusi · f
Maximus
dictator · augur primus · quam
ullum · magistratum · gereret
dictator · dictus · est · triumphavit
de Sabinis · et · Medullinis · plebem
de sacro · monte · deduxit · gratiam
cum · patribus · reconciliavit · fae
nore · gravi · populum · senatus · hoc
eius · rei · auctore · liberavit · sellae
curulis · locus · ipsi · posterisque
ad Murciae · spectandi · caussa · datus
est · princeps · in senatum · semel
lectus · est.

per altri:

M (Anius) Valerius
Volusi . f (ilius)
Maximus
dittatore ed augure. Primus quam
ullum magistratum gereret
dittatore dictus est Triumphavit
de Sabini et Medullinis.
Plebem
de sacro monte deduxit gratiam
cum patribus reconciliavit.
hlelnore gravi populum senatus hoc
eius rei auctore liberavit. Sellae
curulis locus ipsi posterisque
ad Murciae spectandi caussa datus
est. Princeps in senatum semeil lectus est.


----------------------- Traduzione -----------------------

(Manio Valerio Massimo, figlio di Volusus, dittatore ed augure.
Prima di tenere qualsiasi magistratura, è stato dichiarato dittatore.
Ha celebrato un trionfo sui Sabini e la Medullini.
Ha guidato la plebe giù dal monte sacro
quando ha ristabilito un rapporto di amicizia con i Padri.
Il senato ha rilasciato la gente dal debito pesante
con lui come il promotore di quel movimento.
Un luogo con una sedia curule, con lo scopo di osservare,
è stato fornito per lui e per i suoi discendenti vicino il tempio di Murcia.
E 'stato nominato come Princeps al Senato una volta).

Secondo lo studioso Theodor Mommsen  questa iscrizione era stata posta da Augusto all’interno del Foro e una copia di essa era stata collocata anche ad Arezzo, unitamente ad altri sei elogia tratti da iscrizioni presenti in quel Foro. Erano i Padri della Patria che Augusto desiderò immortalare come statue e come elogio epigrafico affinchè non venissero dimenticati.



PATRIZI E PLEBEI

I consoli del 494 a.c., Tito Veturio Gemino Cicurino e Aulo Verginio Tricosto Celiomontano secondo quanto riferisce Tito Livio dovettero fronteggiare una situazione molto difficile, tanto fuori che dentro Roma.

MONETA DELLA GENS VALERIA CON LA VITTORIA SU UN LATO
E VALERIO FLACCO SULL'ALTRO.
Infatti alle frontiere i Sabini, gli Equi ed i Volsci, effettuavano scorrerie in territorio romano e latino (i Latini erano ormai alleati), preludio a imminenti battaglie, mentre a Roma i plebei, infuriati  per le promesse non mantenute, decisero di riunirsi sull'Esquilino e sull'Aventino, rifiutandosi di andare in guerra se non fossero state accolte le richieste e le promesse già fatte in precedenza, soprattutto quelle riguardanti la riduzione in schiavitù dei debitori.

Le promesse riguardavano gli editti di Publio Servilio Prisco Strutto stilati a favore dei plebei per cui : « ....più nessun cittadino romano poteva essere messo in catene o imprigionato, in modo da impedirgli di iscrivere il proprio nome nella lista di arruolamento dei consoli, nessuno poteva impossessarsi o vendere i beni di un soldato impegnato in guerra, né trattenere i suoi figli e i suoi nipoti. »

Non sapendo come agire i due consoli chiesero consiglio al Senato che si mostrò piuttosto infastidito dalla questione. I senatori dapprima risposero che i consoli dovevano saper decidere da soli ma in seguito ordinò loro di imporre la leva militare con la forza se fosse stato necessario. Ci fu così una rissa tra i plebei e i senatori presenti che proposero la nomina di un dittatore.

I senatori più giovani, avventandosi minacciosamente verso gli scranni dei consoli, intimarono loro di rassegnare le dimissioni e di rinunciare a quel potere che, per mancanza di temperamento, non riuscivano a far rispettare, proponendo il senatore Appio Claudio Sabino alla carica di Dittatore.

Ma i consoli e i senatori più anziani, preoccupandosi che quella carica, già di per sè vicina all'onnipotenza, non finisse in mano a un carattere violento e esaltato, elessero dittatore Manio Valerio, figlio di Voleso.

La nomina di Manio a dittatore rassicurò da subito la plebe di Roma, per la stima verso la gens di provenienza e la mitezza del suo carattere: « La plebe, pur rendendosi conto che la nomina di un dittatore avveniva a suo discapito, non temeva tristi sorprese o repressioni da quella famiglia visto che era stato proprio un fratello del neoeletto a far varare la legge sul diritto d'appello. In seguito un editto del dittatore confermò queste buone disposizioni perchè riproduceva a grandi linee quello del console Servilio ».
Venne scelto quindi Manio Valerio Massimo, e non Appio Claudio, per la sua personalità non aggressiva e molto più duttile rispetto a quella di Appio, nonché per la sua appartenenza alla gens Valeria, popolare tra la plebe. Alla fine Manlio riuscì a convincere i plebei a fare la leva, più che con la minaccia derivante dalla sua carica, con la conferma delle promesse fatte da Publio Servilio.



LE BATTAGLIE

Il popolo si fidò e rispose con entusiasmo alla chiamata alle armi, tanto che il dittatore poté organizzare 10 legioni, affidandone a ciascuno dei due consoli 3, e mantenendone così 4 sotto il proprio diretto controllo.

Decise poi che Aulo Verginio avrebbe condotto le proprie legioni contro i Volsci, Tito Veturio contro gli Equi, mentre lui si sarebbe opposto ai Sabini, con l'ausilio dalla cavalleria condotta dal magister equitum Quinto Servilio Prisco.

Manio Valerio, nonostante i Sabini in quel momento rappresentassero la minaccia più temibile per i romani, ne ebbe facilmente ragione, ottenendo per questo il trionfo.
 « ...Lanciatosi all'attacco con la cavalleria, aveva fatto il vuoto nel centro dell'esercito nemico, rimasto troppo scoperto per l'eccessiva apertura a ventaglio delle due ali. Nel bel mezzo di questo disordine subentrarono i fanti all'assalto. Con un solo e unico attacco presero l'accampamento e misero fine alla campagna..... »
(Tito Livio, Ab Urbe condita libri, lib. II, par. 31)

Anche gli eserciti guidati da Tito Veturio e Aulo Verginio vinsero i propri nemici, e gli eserciti poterono tornare a Roma, con la speranza che le promesse fatte fossero stavolta mantenute.

LA SECESSIONE


LA SECESSIONE

Infatti Manio Valerio, che non aveva dimenticato nè la plebe nè i problemi dei debitori, ripresentò l'editto al senato, chiedendo un pronunciamento definitivo sulla insolvenza per debiti. Visto che la richiesta non fu approvata, Manio Valerio si dimise da Dittatore e Tito Veturio ed Aulo Verginio rientrarono nella pienezza dei loro poteri consolari fino alla fine dell'anno.

 « ...Infatti Valerio, dopo il rientro del console Vetusio, diede precedenza assoluta alla causa del popolo vincitore, portandola all'attenzione del senato e chiedendo un pronunciamento definitivo sugli insolventi per debiti. Visto che la richiesta non fu approvata, disse:

« Non placeo concordiae auctor. Optabitis, mediusfidius, propediem, ut mei similes Romana plebis patronos habeat. Quod ad me attinet, neque frustrabor ultra ciues meos neque ipse frustra dictator ero. Discordiae intestinae, bellum externum fecere ut hoc magistratu egeret res publica: pax foris parta est, domi impeditur; priuatus potius quam dictator seditioni interero»

« Io non vi piaccio perché cerco di portare concordia. Tra pochi giorni, ve lo garantisco, desidererete che la plebe abbia dei difensori come me. Per quel che mi riguarda, non ho intenzione di frustrare i miei concittadini né di continuare a farmi frustrare in qualità di dittatore. Questa magistratura era l'unica soluzione per uno Stato diviso tra urti interni e una guerra esterna: fuori è tornata la pace, mentre in città si fa di tutto per ostacolarla. Interverrò nei disordini da privato cittadino piuttosto che da dittatore. » 

Uscì quindi dalla curia e rassegnò le dimissioni.... »
(Tito Livio, Ab Urbe condita)

Così Manio Valerio, constatato di non essere riuscito ad imporsi quale “concordiae auctor”, in quanto il senato non aveva accettato le sue proposte per la liberazione dei plebei dai debiti, abdicò dalla dittatura, «facendo al senato profezie» (Dionys., 6,43,2) sulla secessione della plebe.
Udito ciò i plebei si consultarono e per protesta si ritirano sul Monte Sacro, tre miglia fuori Roma sulla destra dell'Aniene dove si accamparono in un fortino, facendo mancare così ogni lavoro di artigianato necessario alla città.



IL RUOLO DI MANIO

La secessione rientrò poi per l'intervento di Menenio Agrippa che rivolse ai plebei il famoso apologo delle membra e dello stomaco, ma pure per la mediazione di Manio Valerio che riuscì prima a farli scendere dal Mons Sacrum, il Monte Sacro, e fu riconosciuto sia da Cicerone prima che da Valerio Massimo poi, come valentissimo oratore.

Manio Valerio, nonostante le dimissioni, o forse proprio per quello, perchè dimostrò la sua onestà alla plebe, ebbe un importante ruolo per tutta la durata della secessione. Infatti sia Livio che Dionigi colgono il nesso tra l’abdicazione di Manio Valerio dalla dittatura e l’inizio della secessione plebea. 
Ne ricevette infatti un elogium epigrafico in alcuni testi di Cicerone, di Dionigi di Alicarnasso, di Valerio Massimo e di Plutarco. 

Da queste sappiamo che Manio per primo ricoprì contemporaneamente la dittatura e l’augurato, come solo Quinto Fabio Massimo, Lucio Cornelio Silla e Caio Giulio Cesare dopo di lui faranno; e per primo egli ricevette l’onore della speciale denominazione di Maximus (Cic., Brut.; Plut., Pompeius), della quale solo molto tempo dopo sarà insignito anche Quinto Fabio.

Comunque, la liberazione dai debiti sarà formalmente deliberata dal senato nel 493 a.c., e grazie soprattutto a Manio Valerio, venne istituita infine una carica magistrale a difesa della plebe: il Tribuno della plebe. Questa carica era interdetta ai patrizi e venne sancito con una legge (la Lex Sacrata) che garantì in modo assoluto il carattere di assoluta inviolabilità e sacralità (sacrosancti) della carica. Vennero quindi eletti i primi due tribuni della plebe, che furono Gaio Licinio e Lucio Albino.

NINFEO DI VIA AMBA ARADAM

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Di tutti i siti sotterranei di Roma pochissimi sono aperti abitualmente al pubblico, data la politica di licenziamento vigente che preferisce tenere chiusi i siti che non producano molto, anche se permettessero quasi solo la sopravvivenza di custodi e bigliettai, con relativa manutenzione e controllo del bene in questione.

Per la visibilità di questi beni sono stati identificati cinque gradi di difficoltà. riguardano il primo grado i siti completamente illuminati da un impianto elettrico e di conseguenza aperti e accessibili a tutti i visitatori.

Più numerosi sono invece gli ambienti bui e privi di luce elettrica. Questi sono chiusi al pubblico e visitabili solo dopo la richiesta di un permesso, quasi mai accordato e variano dal secondo al terzo grado.

La maggior parte dei siti appartengono al terzo grado, di proprietà della Soprintendenza Archeologica di Roma, della Sovrintendenza del Comune di Roma e del Vaticano, dove il buio è totale, dove non c'è ricambio d’aria e si annidano animali. 

L’accesso a questi ipogei può avvenire solo attraverso tombini, botole e piccoli passaggi protetti da porte di ferro da cui si deduce che alle autorità poco interessa la protezione e la visibilità di questi luoghi, e che la visita degli stessi sia molto problematica. Quando un bene interessa si procura pure di fargli un'entrata decente e sicura..

Al quarto e quinto grado appartengono gli ambienti più complicati, cioè quelli in cui è possibile accedervi solo se si è a conoscenza di particolari tecniche speleologiche o subacquee, in questo caso, poichè le persone che sono in possesso di tali requisiti sono pochissime, la loro visita è veramente per pochi. 

Certo in un paese straniero certi siti verrebbero ricostruiti sulla terra ferma onde renderli accessibili a tutti, ma non rientra nella politica attuale dei nostri governi. 

Tra i tanti ambienti sotterranei con un elevato grado di difficoltà, (per forza, Roma antica sta dai 6 ai 12 m sotto l'attuale piano stradale) c'è il Ninfeo di Via dell’Amba Aradam. 

Nel 1962, durante gli scavi per la costruzione degli edifici dell’attuale archivio del Vicariato, tra via dei Laterani e via dell’Amba Aradam, a una profondità di circa 7,50 m, vennero alla luce i resti di un ninfeo romano. Roma è così, come fai un buco trovi vestigia romane, ma i ritrovamenti sono quasi sempre per caso, raramente sono scavi archeologici.

Il ninfeo si presenta a pianta basilicale, costituito da un ambiente principale di forma rettangolare che termina in un’esedra, con al centro una nicchia, e due ambienti più piccoli ai lati. Si pensa che questi ambienti fossero collegati alle terme ancora visibili soprasuolo accanto al battistero lateranense.

Il Ninfeo presentava sulla volta a botte, un rivestimento in mosaico policromo, un pavimento in mosaico, pareti rivestite di lastre marmoree e decorazioni pittoriche dai motivi floreali.

Alcuni resti di preziosi mosaici in pasta vitrea fanno risalire la prima fase costruttiva all’età neroniana, o comunque giulio-claudia.

Successivamente, intorno al III secolo d.c., il ninfeo venne ristrutturato aggiungendovi una decorazione a mosaico, lo zoccolo venne rifatto con lastre marmoree, e le pareti furono decorate con pitture a motivi floreali, in parte ancora in buono stato di conservazione, soprattutto quelle nell’ambiente a destra dell’abside.

In alcuni punti si conservano ancora alcune conchiglie, mentre altrove ne restano poche tracce; successivamente, III secolo d.c., vennero realizzate alcune pitture visibili in un ambiente a destra della stessa abside, con fasce colorate in rosso, bruno, arancione, giallo che realizzano motivi geometrici.

Si suppone che si trattasse già anticamente di un ipogeo, cioè di un ambiente sotterraneo, e forse facevano parte di questo ninfeo una serie di ambienti imperiali collegati alla vicina Domus Faustae, oggi rintracciabili sotto i palazzi della Sede dell’INPS.
Secondo altri questi ambienti erano collegati con quello che rimane delle Terme, ancora visibili, presso il Battistero Lateranense, databili alla prima metà del III sec. d.c.

Al di sotto della contigua sede INPS, posta di fronte su via Amba Aradam, altre strutture a gradoni pertinenti forse a due diversi edifici di età giulio claudia, uniti nel IV secolo per formare un solo edificio con un corridoio largo circa 5 m, chiuso a nord ma con ampie finestre a sud.

Questo è affrescato a personaggi di dimensioni maggiori del vero, oltre ad ippocampi, di cui alcuni che vengono tratti dal mare da un giovanetto con corto mantello bianco e calzoni rossi; gli altri personaggi sono stati riconosciuti con Crispo, Fausta, Costantino, Teodora, Costanzo Cloro. 

L'ingresso al monumento, attualmente, può avvenire o dall'interno dell'archivio del Vicariato e da un tombino lungo la strada, infatti il ninfeo si trova a m. 7.50 sotto il piano stradale, a metà tra la proprietà comunale e quella vaticana. Pertanto non è visitabile.

Si può accedere all’ipogeo, almeno teoricamente, sia attraverso un tombino posizionato al centro della strada, quasi di fronte l’Ospedale di San Giovanni, sia dai sotterranei degli stessi edifici vaticani. Un cancello divide in due settori ben distinti l’area archeologica del Vaticano da quella del Comune di Roma. 

Ad eccezione del settore che si trova al di sotto dell’area vaticana, il resto del Ninfeo, oltre alla possibilità di avere il fondo allagato, è totalmente privo di qualsiasi tipo di luce.




LEGIO I E LEGIO II ARMENIACA

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LEGIO I ARMENIACA

Fu una legione del tardo Impero e il suo nome significa: legione dell'Armenia. Essa è menzionata su un tardo testo romano conosciuto come "Notitia Dignitatum".

EMBLEMA SCUDO DELLA
I ARMENIACA
La Notitia dignitatum et administrationum omnium tam civilium quam militarium" cioè la "Notizia di tutte le dignità ed amministrazioni sia civili sia militari"è un documento redatto da un anonimo e attribuito dagli studiosi ad un periodo compreso tra la fine del IV sec. e l'inizio del regno dell'Imperatore romano d'Occidente Valentiniano III (425-455).
Ebbe ed ha grande importanza documentativa per le molte notizie sul sistema amministrativo del tardo Impero romano, e anche se alcuni studiosi hanno dubbi che derivasse da fonti ufficiali, oggi si tende a considerarla autentica anche nei contenuti.
Il documento è diviso in due parti, una per l'Impero d'Oriente e una per quello d'Occidente, dove elenca una lista di "alti" dignitari imperiali con le loro aree di competenza, oltre ad i corpi militari, secondo la distribuzione territoriale.

Secondo la Notitia questa legione deve aver avuto il suo primo presidio in una delle due province dell'Armenia, entrando solo in seguito a far parte del campo dell'esercito romano, posizione decisamente più prestigiosa.

Il dux Armeniae dipendeva, come documenta la Notitia, dalla diocesi Pontica, il cui comandante militare non è elencato nella Notitia, ma era probabilmente il magister praesentalis.

Più tardi, il dux Armeniae passò sicuramente sotto il comando del magister militum per Orientem. La struttura orientale, come  attesta la Notitia, rimase in gran parte intatta fino al tempo di Giustiniano I (525-65)

GIULIANO IMPERATORE
La legione armeniaca fu probabilmente fondata nel III secolo, ma non sappiamo da chi. Sappiamo solo che prese parte alla campagna persiana sfortunata dell'imperatore Giuliano l'Apostata (363).

Fu una delle legioni limitanei o ripariani (riparienses), cioè unità militari di confine dell'esercito romano costituite da truppe armate leggere con il compito di tenere a bada i barbari invasori in attesa dell'arrivo delle truppe armate pesanti, cioè i comitatensi. 

Questi ultimi sono menzionati per la prima volta nella legge del 325, contenuta nel Codice teodosiano come riparienses, in contrapposizione alle forze mobili dei comitatensi.

Il loro ruolo fu molto importante verso la fine dell'Impero, soprattutto per le riforme militari del tardo III sec. ad opera dell'imperatore Diocleziano, completate e messe in atto poi da Costantino. Il primo riferimento scritto ai limitanei è del 363, creati insieme ai comitatensi. 

Queste truppe leggere persero gran parte del loro ruolo a causa della povertà in cui vivevano lungo la frontiera, mentre i comitatensi che vivevano nelle città non ebbero difficoltà.




LEGIO II ARMENIACA

La Legio II Armeniaca fu una legione "pseudo comitatense" del tardo impero. Era pertanto una legione di "limitanei" entrata poi a far parte del comitatus, cioè dell'esercito mobile il cui ruolo era di intervenire lì dove occorreva.

EMBLEMA SCUDO II ARMENIACA
(Notitia dignitatum)
Inizialmente le legioni psudocomitatensi erano limitanei temporaneamente distaccati nel comitatus, e in questo periodo i soldati ricevevano una paga maggiore, ma poi l'unità tornava ai limitanei a guardare la frontiera. 

In seguito le unità pseudocomitatense rimasero nel comitatus sempre più a lungo, tanto che il distaccamento di uomini dai limitanei divenne la norma. Far parte dell'esercito di campo era una posizione più importante e meglio pagata.

I limitanei o ripariani, come già detto, erano unità militari leggere che dovevano impegnare i barbari invasori in attesa delle truppe pesanti, cioè i comitatensi, e la Notitia dignitatum registra la II Armeniaca sotto il magister militum per Orientem.

Il nome della legione potrebbe riferirsi ad una permanenza nella provincia dell'Armenia, ma l'unità fu in seguito spostata, insieme alla legione gemella I Armeniaca, nell'esercito campale. La presenza della legione è attestata dalle iscrizioni romane a Satala, dove avrebbe costruito un accampamento. Satala era l'antica fortezza legionaria della provincia romana della Cappadocia, (odierna Sadak), posta di fronte al regno d'Armenia.

Le legioni I e II Armeniaca, erano unità di limitanei a guardia dei territori romani al di là del Tigri; quando questi territori vennero persi (in seguito alla campagna sasanide di Giuliano del 363), le unità entrarono a far parte dell'esercito mobile d'Oriente col nome di legiones pseudocomitatenses.

Nel 360, Satala servìrono, insieme alla II Parthica e alla II Flavia, come presidio di Bezabde sul Tigri, ma cadde nelle mani dei Persiani. Ammiano Marcellino racconta che la II Armeniaca si trovasse a Bezabde (odierna Cizre) assieme alla II Flavia Virtutis e alla II Parthica, quando il re sasanide Sapore II assediò e conquistò la città, uccidendo molti abitanti. La legione però sopravvisse alla sconfitta. 

La campagna sasanide di Giuliano fu voluta dallo stesso imperatore per conquistare il regno dei Sasanidi, ma dopo essere giunto fino alla capitale sasanide di Ctesifonte e avervi sconfitto l'esercito nemico, Giuliano fu costretto a ritirarsi, ma morì prima di tornare in territorio romano. Sembra vi avessero partecipato entrambe le legioni armeniache.

CANOSIUM (Puglia)

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STAMPA DI CANOSIUM - XXVIII SEC.


Canosa antica o Canosium, è posta sul margine nord-occidentale dell'altopiano delle Murge da cui domina la valle dell'Ofanto e la pianura del Tavoliere delle Puglie, ed è uno dei principali centri archeologici della Puglia.

Questa antichissima città, la cui fondazione viene attribuita dalla tradizione al greco eroe Diomede, risale al neolitico (6.000-3.000 a.c.), e verso la fine del XII sec. a.c., viene invasa dagli Illirii, portatori della civiltà apula, altrimenti detta iapigia.

Canosa diventa uno tra i più importanti centri indigeni della subregione della Daunia, segmento del più ampio territorio storicamente poi noto con il nome di Apulia.

Un'ulteriore civilizzazione avviene per i contatti con il mondo ellenico, Metaponto e Taranto prima e, dal IV sec. a.c.,dopo la caduta di Taranto, direttamente con la Grecia con cui stabilisce ricchi commerci..

A quest'epoca fioisce la società dei 'principes', dal ricco arredo architettonico degli ipogei con i loro corredi di armi, di ceramica a figure rosse, di vasi a decorazione plastica e policroma e di manufatti aurei di incomparabile ricercatezza, segno del prestigio e dell'alto rango raggiunto nella comunità cittadina.

Nel 318 a.c., onde evitare l'occupazione romana. gli aristocratici locali stipulano un trattato di alleanza con Roma che accetta, rispetta la sua indipendenza ma romanizza Canosa, esportando manufatti e costumi.

Nella seconda guerra punica (218.-201 a.c.), Canosium mostrerà grande fedeltà a Roma combattendo per lei nei pressi di Canne, e soprattutto donando almeno a una parte dei romani sconfitti una generosa ospitalità presso la famiglia della leggendaria matrona Busa.

"Un modo per ricordare la figura di una donna che durante la Battaglia di Canne aiutò i Romani a scampare da morte certa. Arte e storia per vivere il territorio, con l’aiuto di pittura, arti grafiche e fotografia. “Questo personaggio femminile - spiega Anna Maria Fiore, presidente della Fidapa - è l’emblema della donna forte, coraggiosa, attiva. Una donna fra mito e realtà, che noi della Fidapa vogliamo far conoscere alla società. Per questo abbiamo promosso un premio legato al territorio e alla valorizzazione del patrimonio archeologico

La matrona Paola Busa discendeva da una ricca famiglia di mercanti greci, i Busos, e aveva ereditato l'amministrazione dei suoi beni che operava con grande responsabilità. Per questo e per la sua saggezza aveva grande seguito e rispetto presso i suoi concittadini. 

"Nella battaglia di Canne del 216 a.c. i romani subirono un terribile sconfitta ad opera dei cartaginesi condotti da Annibale, che secondo Tito Livio, comportò l'uccisione di oltre 55.000 soldati romani.
Circa 10.000 uomini, in tempi diversi, riuscirono però a fuggire, percorrendo di notte strade secondarie; i fuggitivi arrivarono a Canosa in condizioni critiche, senza cibo, senza vestiti, senza cure e senza armi.
Busa venne loro in soccorso, e fornì a questi soldati il necessario ospitandoli in casa sua. Si fece assistere da medici e si prese cura dei feriti.
Nella moderna Canosa di Puglia è ancora presente un rudere di un'abitazione romana in pieno centro cittadino, che alcuni fanno risalire all'abitazione della nobildonna
."


IPOGEI LAGASTRA
Dopo la vittoria sui cartaginesi Canosa e il suo territorio vengono inseriti nella tribus oufentina e gli scambi commerciali prosperano. Nel 90 e 88 a.c. però, con la guerra sociale, la città si schiera dalla parte dei soci italici. Roma vince, ma concede la cittadinanza romana agli sconfitti, facendo di Canosium un municipium, che beneficia del passaggio della via Traiana (109 d.c).

La città è affidata ad un quattuorvirato scelto da un ordo decurionum di magistrati locali in pensione, sul modello di Roma. La romanizzazione si estende ai rituali funerari. come quello della nobile fanciulla Medella, figlia di Dasmus, le cui ceneri, deposte in un'urna, secondo un'usanza tipicamente romana, vennero lasciate nell' ipogeo di Lagrasta I; cui seguirà poi l'edificazione di monumenti funebri in laterizi.

Sotto Antonino Pio (II metà II sec. d.c.), Erode Attico, legato imperiale, ricco cittadino ateniese con possedimenti in loco,  trasformò Canosa da municipium a colonia con il nome di Colonia Aurelia Augusta Pia Canusium e verrà detta "Piccola Roma£ in quanto anch'essa sorge su sette colli.

E' di questa epoca il rinnovamento urbanistico con l'anfiteatro, l'acquedotto, le terme, il monumentale tempio di Giove e il Foro con le botteghe. Ai piedi dell’Acropoli si sviluppò un abitato, del quale però si conoscono solo gli edifici di età imperiale.

Agli inizi del III secolo la città, pur nella crisi dell'impero, mantiene il suo splendore, come testimonia la tavola bronzea dei decurioni che oltre ai magistrati locali in carica nell'anno 223 d.c. cita un elenco di patroni, cittadini canosini non residenti che, per meriti verso la città, avevano diritto di partecipare alle sedute plenarie in senato.

VASI CANOSINI


VASI CANOSINI

In questa città fu prodotta quella particolarissima e stupenda tipologia di vasi che vanno sotto il nome di canosini.

I vasi di epoca ellenistica sono a scopo funerario, caratterizzati da decorazione plastica aggiunta e decorazione pittorica policroma, con colori a tempera applicati dopo la cottura.

Colpisce la varietà e la vivacità dei colori, e la ricchezza delle forme plastiche abbondantemente cosparse sui vasi di eccellente fattura.

Un lusso che poco si addice all'uso, se non per il fatto che denotava insieme ad altri particolari dei corredi, la elevata posizione sociale dei fruitori della tomba,
La splendida arte della ceramica apula inizia dal tardo IV sec. a.c. e si protrae fino alla metà del II sec. a.c.


La decorazione plastica è costituita da figurine che riproducono vari soggetti umani, come quello della lamentatrice, o animali, come quelli delle protomi equine, oppure esseri mitici, come le teste di Gorgone, eroti alati e nikai.
Il tutto è seguito da una decorazione secondaria vegetale e a festoni. iconografia di inequivocabili influssi greci.

Il disegno era invece a contorno e in stile lineare, privo di modellazione, con ampie zone riempite di giallo e dettagli colorati in rosa, rosso e blu, mentre il fondo bianco era aggiunto dopo la cottura.
I ritrovamenti avvengono  a partire dagli scavi del 1844 nelle tombe ipogee nella zona dell’antica Canusium.

ARCO DI TRAIANO


ARCO DI TRAIANO

Lungo la statale per Cerignola e sul tratto della via Traiana, si trova un arco romano, detto Porta Varrese o Arco Traiano. Esso è edificato in laterizi ad un solo fornice, di linea molto semplice, ma elegante nelle proporzioni.

Il monumento risale alla meta' del II sec. d.c., edificato come arco onorario, e attribuito a Varrone, e posto nel punto in cui la Via Traiana, dopo aver attraversato il ponte sull'Ofanto, entra a Canosium.

Pertanto ebbe sia funzione di monumento celebrativo sia di separazione tra l'area delle necropoli con i monumenti funerari e il centro urbano. 

L'arco era originariamente costituito da basamento, trabeazione e attico per un'altezza complessiva di circa 13 m. 

Attualmente è molto compromesso del punto di vista statico, privo dell'attico e parzialmente interrato; conserva il rivestimento in cortina laterizia, molto rimaneggiato a seguito dei numerosi e dubbi interventi di restauro eseguiti in passato.



TORRE CASIERI

Trattasi di una tomba a ipogeo posta in Via S. Paolo (via Traiana) Km.11 S.S. 98 Canosa - Cerignola a 11 Km dalla S.S. Canosa-Cerignola; a 60 m dall'arco onorario di Canosa di Puglia.

Essa è costituita in un conglomerato cementizio grossolano a pianta quadrangolare con ingresso ad occidente, edificato nel I o II sec. d.c. e composto da un basamento alto 0,70 m, un corpo centrale lavorato a riquadri e un piccolo tamburo cilindrico. 

All'interno si apre la camera sepolcrale rettangolare, voltata a botte, che presenta sulla parete di fondo, al di sotto della lunetta, due nicchie semicircolari chiuse da cupolette. In conglomerato cementizio che la delinea è coperto da cortina in laterizio. 

Fa parte dell'area di necropoli di via S. Paolo, lungo l'antico asse della Traiana, presso gli altri mausolei e l'arco onorario.

Nel tempo ha subito parecchi restauri che ne hanno alquanto alterato l'aspetto.



VILLA ROMANA

Antica villa romana posta a 5 km ad est di Canosa, in localita' La Minoia, non ancora completamente indagata.


Essa è dotata di pars padronale e di pars rustica con vasca olearia collegata al torchio e deposito di dolii, ovviamente per la produzione dell'olio. 

Fu ristrutturata tra III e V secolo, raddoppiando la produzione dell'olio e creando nuovi ambienti di servizio, in uno dei quali è stata rinvenuta una fornace.

Essa risale al I o II sec. d.c.. ma nel III i - VI sec. d. c. la villa venne ampliata e fu costruita una nuova vasca rivestita da intonaco idraulico, inoltre si restaurò la precedente per la sedimentazione dell'olio di cui si raddoppiò la produzione. 

In questa fase venne anche costruito il deposito dei dolii. Si realizzarono nuovi ambienti di servizio e in uno di questi è stata rinvenuta una fornace. 

Tra il VI e VIII secolo il sito fu abbandonato. Gli scavi del 1989 hanno poi indagato altre strutture riferibili alla pars rustica, alcune fosse e canalette; inoltre sono stati individuati i resti della pars padronale abitata.



ANFITEATRO

A 300 m dalla stazione ferroviaria dir. Barletta e a 100 m dal cavalcavia Canosa di Puglia sono collocati i restidell'Anfiteatro, poco scavato e in pessimo stato di conservazione.

In una vallata a 200 metri dalla stazione ferroviaria e ai piedi della collina del castello si trovano i resti delle gradinate di un magnifico anfiteatro, i cui ruderi furono criminosamente distrutti durante la costruzione della ferrovia Barletta- Spinazzola. 

Il monumento e' stato oggetto di scavi nell'autunno del 1958 per conto della Soprintendenza della Puglia e del Materano, dopodichè il silenzio. Del monumento oggi resta solo parte del muro di cinta esterno e 3 pilastri da cui si ripartono setti murari radiali che sostenevano le gradinate e uno degli ingressi.

L'anfiteatro risale alla metà I sec. d.c. E' stato riconosciuto in parte il circuito murario esterno, costituito da un muro curvilineo lungo 15 m. che presenta a distanze piuttosto regolari, tre pilastri rettangolari, da cui si dipartono setti di muro radiali che dovevano sopportare le spinte dei materiali di riempimento su cui poggiavano le gradinate. 

E' stato rinvenuto anche uno dei probabili ingressi. Si desume che l'anfiteatro avesse l'asse maggiore lungo circa 137 m e un asse minore lungo 108 m. L'anfiteatro è in pessimo stato di conservazione, praticamente abbandonato.



PONTE ROMANO

Il ponte, che si trova a due Km da Canosa, sul tracciati della via Traiana, è costituito si trova a da quattro grosse pile di diversa dimensione realizzate in blocchi squadrati isodomi, munito da speroni triangolari e pigne piramidali, con cinque arcate di luci differenti.

Il primo impianto del ponte venne edificato in epoca repubblicana a blocchi tufacei stretti e allungati. In epoca Imperiale, I sec. d. c. vennero costruiti i muri di terrazzamento e basolati, per ordine dell’imperatore Traiano perche' la via (chiamata poi Traiana) proveniente da Benevento potesse continuare verso Brindisi, consentendo l'attraversamento del fiume Ofanto sul suddetto ponte.
Nel 700-'800 vennero compiuti lavori di irrobustimento della struttura portante tramite la realizzazione di contrafforti, ma anche di allargamento della carreggiata e di apertura e ampliamento degli archetti prospicienti la sponda orientale, evidentemente più soggetta ad inondazioni. E' della prima meta' del XX sec. l'allargamento del tratto terminale ovest del ponte.

RESTI DELLA BASILICA

BASILICA SANTA SOFIA

Al centro dell'area settentrionale della necropoli di Ponte della Lama. presso Canosa, giacciono, abbandonati in modo vergognoso, i resti di un superbo edificio funerario.

La zona paleocristiana, tra il V e il VI sec. d.c. comprende la Basilica e le catacombe di S. Sofia. 

La Basilica ha il suo ingresso lungo la riva del torrente Lamapopoli e presenta una struttura a pianta basilicale con abside semicircolare. 

La disposizione delle tombe e' regolare, ma le acque del torrente ne hanno cambiato la fisionomia.
Al centro dell'area settentrionale della necropoli di Ponte della Lama, sono state rinvenute quindici sepolture, un sarcofago e tombe a cassa, evidentemente un edificio funerario a carattere familiare.



TERME FERRARA

A Piazza Terme Canosa di Puglia, mai espropriata e in pessimo nonchè vergognoso stato di conservazione, appunto di proprietà privata di cui non è stata imposta alcune custodia, giace un imponente edificio romano conservato soprattutto nel settore orientale.

Le terme Ferrara, dal nome del proprietario dell'edificio dove furono inglobate forse nell'Ottocento, giacciono sepolte nei sotterranei di un condominio che si affaccia sull'attuale piazza Terme. 

Furono individuate come monumento archeologico nel gennaio del 1967 in seguito alla demolizione di vecchi fabbricati compresi nell'area tra piazza Terme e le vie Imbriani, Giuliani e Rovetta.

La loro costruzione risale all'età antonina e sulla base degli ambienti superstiti e dei documenti di scavo, si ipotizza un complesso di 43 x 60 m. 

Il calidarium è stato riconosciuto nell'ambiente D absidato (20 x 9 m) coperto da volta a crociera; 3 praefurnia erano posti sui 3 lati dell'abside e quello orientale era collegato all'ambiente di servizio B tripartito, con scala di accesso al piano superiore. 

Dal lato opposto all'abside si accedeva al tepidarium, non conservato, e al calidarium, un ambiente quadrato (15x15 m). 

Dal tepidarium si accedeva all'ambiente A (9,50 x 5,90 m) che è stato rimaneggiato, probabile laconicum. A S dell'ambiente D si apriva l'ambiente E ad esedra, probabile unctorium, forse colllegato alla palestra.

BASILICA DI SAN LEUCIO

BASILICA DI SAN LEUCIO


La Basilica di San Leucio è stata edificata tra il IV e il V sec. d.c., sopra un tempio che sembra fosse dedicato a Minerva, del II sec. d.c.

Dai resti si evince che il tempio aveva una cellula dedicata al culto e ai suoi lati si aprivano due ampie camere, evidentemente riservate ai sacerdoti, con i pavimenti decorati a mosaici policromi.

MINERVA
Le colonne, le basi e i capitelli erano in tufo ma intonacate e dipinte, in stile in parte ionico e in parte dorico.
Esso doveva contenere enormi sculture, sicuramente di divinità, di cui attualmente non c'è traccia.

La basilica paleocristiana ha riutilizzato pareti, 
colonne e capitelli del tempio precedente.
Il rivestimento è costituito da una parete esterna rettangolare, larga 50 m, con una Esedra su ogni lato in cui è presente un secondo ordine di pilastri concentrici all' Esedra.

L'architettura della basilica è orientale, sia per la forma che per le grandi aree di colore. 

Alla fine del VII secolo, a causa delle gravi lesioni procurate dai pessimi lavori di restauro, venne modificato il piano della basilica, che divenne una croce inscritta in un quadrato.
Nel IX secolo fu costruita una cappella a fianco dell'abside destinata ai riti funebri.


TOMBA DEGLI ORI

Situata sul tracciato della Via Traiana, nei pressi dell'ipogeo del vaso di Dario e vicinissima all'arco di Traiano, è senz'altro, assieme agli ipogei Lagrasta, la più celebre tomba canosina. La tomba, della seconda metà del IV-III sec a.c.. è stata recentemente ritrovata ma poi nuovamente coperta per consentire la viabilità. Pertanto non visitabile, anche se un modo si sarebbe potuto trovare.

La scoperta avviene casualmente nel 1928, ma, in tragica continuità con le distruttive metodologie di scavo preunitarie, anche questa volta viene ignorato qualsiasi tentativo di comprensione del ruolo e della posizione sociale dei defunti; così, dopo aver 'ripulito' con cura le tre celle, la tomba viene ricoperta e dimenticata.

Solo dal successivo studio dei reperti, e grazie soprattutto alla riscoperta dell'ipogeo nel 1991, si è giunti ad una sua più completa conoscenza.

Questa è costituita da tre celle con ampio dromos, di notevole qualità architettonica con un ricco corredo di un'aristocratica canosina costituito da ori, argenti, vetri e ceramiche.

Straordinaria la qualità degli oggetti riportati alla luce: coppe di vetro con lamina d'oro, vasi a decorazione plastica e policroma, resti dell'equipaggiamento di un cavaliere e, soprattutto, una serie di suppellettili in argento e in oro tra cui il celebre diadema, esemplare testimonianza dell'abilità degli orafi magnogreci, e l'altrettanto celebre teca con il nome della aristocratica fanciulla Opaka Sabaleidas in cui fu rinvenuto il fantastico diadema.

Il diadema, ritrovato nel 1928 in un ipogeo di Canosa, fatto restaurare nel 1934 a Taranto, venne riportato a Canosa nello stesso anno per essere esposto nel locale Museo civico.

Questo fu istituito appositamente dopo la scoperta della Tomba degli Ori, e pertanto attendeva l'oggetto più prezioso della collezione: il diadema di Opaka.

Esso riprese dunque la via di Taranto nell’aprile 1941, su disposizione del soprintendente Ciro Drago, su un aereo a protezione antiaerea durante il periodo bellico. Fu un viaggio pieno di pericoli e trepidazioni. Ma infine il diadema raggiunse il suo museo.
Al VII sec d.c. risale un sepolcreto nella stessa area con tombe a cassa di lastroni di tufo per sepolture monosome e bisome



IPOGEO DEL VASO DI DARIO

Scoperto casualmente alla metà del XIX sec., l'ipogeo prende il nome dall'eccezionale raccolta di ceramica apula a figure rosse ritrovata al suo interno e attribuita appunto al pittore di Dario.

Su uno di questi vasi, probabilmente quello più celebrato della ceramografia italiota, al centro di una movimenta scena con sessanta figure, campeggia, in trono, Dario, re dei Persiani.

Purtroppo dell'ipogeo, tanto per cambiare reinterrato dopo l'asportazione dei reperti, si conosce soltanto un'approssimativa ubicazione nei pressi della Via Traiana, per cui non si può visitare.



LA FULLONICA

Presso l'ipogeo Lagrasta sorgeva una bottega che svolgeva il lavoro di lavanderia e tintoria, di cui si conservano vasche intonacate e canali di scolo, nonchè di abitazione dei proprietari.

FULLONICA
Lo scavo nella proprietà privata Di Gaetano venne eseguito in due successive campagne dalla Soprintendenza. L'intervento era stato determinato dall'affioramento di resti archeologici nel corso di lavori di fondazione di un'abitazione
civile.

Si trattava di una lavanderia e tintoria di stoffe, di cui si conservano: due vasche intonacate a tenuta di liquidi comunicanti tramite un foro, un ambiente con un'altra vasca simile e una serie di canali di scolo.

Altri tratti di murature affioranti sarebbero attribuibili ad un altro edificio, forse un'abitazione rustica per la presenza di intonaci dipinti e di una lastra riferibile ad un trapetum (mola olearia). 

Lo scavo fu eseguito in due campagne a fine anni '50, a seguito di rinvenimenti durante lavori di fondazioni di strutture abitative.

LEGIO MARTIA I

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Una Legio Martia I, oltre alla famosissima creata da Giulio Cesare, che si meritò il titolo onorevole di Legio Martia senza altre specifiche o motivazioni, la ritroviamo nel tardo impero. Anch'essa era evidentemente dedicata al Dio della guerra Marte, come venne rinvenuto un'incisione e una iscrizione ora perdute.

FORTEZZA DI SIRMIO
La legione è anche menzionata nel testo tardo-antico della Notitia Dignitatum come una legione stanziata in Gallia, e sembra che i suoi soldati si chiamassero Martenses.
Si suppone sia stata fondata da Constantius I Chlorus (293-306), padre di Costantino, discendente della dinastia flavia.

Gli ultimi membri di questa gens furono cristiani e secondo alcuni non avrebbero chiamato una legione col nome di un Dio pagano.

Tuttavia all'epoca c'era una religione mista, tanto è vero che Costantino fino all'ultimò festeggiò il 25 dicembre il Dies Natalis Solis Invicti, e gli Dei pagani avevano ancora, in modo sotterraneo e non, un largo seguito.

Per giunta una legione di certo non poteva essere intitolata al Cristo, alla Madonna o a qualsiasi alta immagine cristiana essendo questa notoriamente contraria alla guerra, tanto è vero che Costantino che voleva dare un simbolo cristiano al suo esercito, pose la croce e non un'immagine divina.

Inoltre spesso vennero rieditate le legioni di Giulio Cesare che restò sempre un idolo nel cuore dei romani, anche quando scomparve definitivamente il paganesimo, con grande scorno dei vari papi.

SCUDO DELLA MARTIA I
Infatti le ceneri di Cesare, in base alla tradizione vennero collocate, nei Mirabilia Urbis Romae, dentro la sfera che sovrastava l'obelisco posto accanto alla basilica di S.Pietro. Ebbene i pellegrini devoti si inginocchiavano anche dinanzi all'obelisco, si che Sisto V indignato la fece aprire dichiarando che la sfera era vuota e non conteneva un bel nulla.

Pertanto per una legione portare il soprannome di una gloriosa legione di Cesare non solo era un grande onore, ma anche una spinta ad essere all'altezza di quel nome.
 Nel 357, come ci informa Ammiano Marcellino, le tribù dei Quadi attaccarono con diverse incursioni il limes pannonico, coalizzati con i Marcomanni e i Sarmati Iazigi, devastando le province romane di Rezia, Pannonia e Mesia.

L'imperatore Costanzo II dovette allora intervenire nel 358, svernando a Sirmio, in Serbia, col suo esercito (che sembra includesse la I Martia) e tra battaglie e assegnazioni di nuove terre ad alcune tribù della coalizione, riportò la pace in quei luoghi

AFFRESCO DEL CASTRO DI BRIGETIO
Si parla poi di una fortezza in provincia di Valeria nell'Ungheria occidentale che nel 371 ospitò ancora la Legio Martia I insieme ad altre legioni.

Però nel 374, Quadi e Iazigi tornarono a fare incursioni nella provincia romana, per cui il nuovo imperatore, Valentiniano I (321 - 375), fece partire in tutta fretta dalla fortezza legionaria di Carnuntum, una spedizione in assetto di guerra che ottenne piena vittoria sui razziatori.

Si suppone che la I Martia vi abbia partecipato.

A novembre dello stesso anno, nella fortezza legionaria di Brigetio, Valentiniano I, al termine delle sue campagne militari, morì durante un colloquio con i Quadi, un popolo germanico di origine suebica, colpito da un ictus cerebrale. 

Così terminarono le campagne militari di Valentiniano I contro i Quadi nel 375, .

Secondo alcuni però questa legione era identica alla Martenses menzionata come parte del campo dell'esercito illirico intorno al 400 d.c, e si suppone che la legione sia stata fondata da Diocleziano.

Si ricordano però altre unità col soprannome di Martia, pressappoco contemporanee alla Legio Martia I, note per aver custodito il confine del Reno e la costa armoricana. E 'possibile che queste unità fossero in qualche modo correlate all'altra, forse come vexillationes o altro, ma non se ne hanno notizie precise.

SANNITI

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AFFRESCO TOMBA SANNITA IV SEC.

I Sanniti o Sabelli furono un antico popolo italico stanziato nel Sannio, corrispondente agli attuali territori della Campania nordorientale, dell'alta Puglia, di gran parte del Molise (tranne il tratto frentano), del basso Abruzzo e dell'alta Lucania.

Detti in osco Safineis, i Sanniti abitarono la regione del Sannio, nell'Italia centro-meridionale, tra il VII-VI sec. a.c. e i primi secoli dell'impero romano. Insieme costituirono la potente Lega Sannitica che a lungo tenne testa ai romani.

Le differenti denominazioni a noi giunte in lingua latina si spiegano per il fatto che, in latino arcaico, la lettera "f", intervocalica o consonante che dir si voglia, non esisteva, per cui Safinim divenne per assimilazione Samnium, da cui i Romani derivarono il nome Samnites.

Di questo popolo conosciamo diversi aspetti, ma innanzi tutto che era costituito da varie tribù di cui quattro più importanti, stanziate in aree diverse:

  • Pentri che occupavano l’area centro-settentrionale del Sannio, con capitale Bovianum (oggi Bojano); formavano la gloriosa Legio Linteata un gruppo scelto di guerrieri, votati con una cerimonia sacra, che li destinava al sacrificio estremo in battaglia per il proprio popolo. 
  • Carricini (o Caraceni) occupavano la zona più settentrionale; si dividevano in Carricini supernates e Carricini internates, città principali: Cluviae (presso Casoli) e Juvanum (i resti e fra Torricella Peligna e Montenerodomo);
  • Caudini, occupavano la zona sud-ovest, di forte influenza ellenica, con capitale Caudium, dove avvenne la cocente sconfitta delle Forche Caudine) (presso Montesarchio);
  • gli Irpini che occupavano la zona meridionale; con capitale Maleventum, città di fondazione osca, il cui nome in lingua osca era Maloenton, il cui nome venne poi trasformato dai romani in Benevento.

Più tardi vi si unirono i Frentani, posti sulla costa adriatica a nord del Gargano e presso i monti Frentani, con capitale Larinum (Larino).

L'insieme di tribù riunite nella Lega sannitica, estesero nel corso del V - IV sec. a.c. la propria area di influenza, fino ad arrivare a comprendere i loro vicini meridionali, gli Osci, ai quali erano linguisticamente molto affini.

I Sanniti rispettavano la stessa tradizione dei Sabini: in occasione di un Ver Sacrum, un voto pubblico che si metteva in atto a primavera, fatto in situazioni di emergenza (carestia, malattie ecc), un folto gruppo di giovani abbandonavano il territorio e fondavano una colonia. Si dice anche che i Sanniti fossero gli emigranti di un Ver Sacrum sabino, quindi che derivassero dai Sabini.

I Sanniti procedevano così: una volta penetrati in territorio straniero, si impadronivano degli sbocchi o sul mare o nelle vallate, da cui attaccavano e razziavano le zone e le città sottostanti, pronti a rifugiarsi, in caso di pericolo, sui monti dell’interno.

Sui monti impervii, già difficili da risalire, infatti edificavano delle città-fortezze, con mura alte più di tre metri e spesse più di un metro, tutte in opera poligonale, che raggiungevano i sei o sette km. di lunghezza. L'area all'interno era adibita al ricovero delle genti, delle merci e degli armenti, nonchè delle armi di cui erano abili fabbricanti, si che avevano la possibilità di chiudere le porte e difendersi a lungo.

GUERRIERI SANNITI

IL VER SACRUM

Secondo la tradizione, la tribù sabellica dei Pentri, (il cui nome ha la stessa radice del celtico pen ("sommità") e significherebbe quindi "popolo dei monti") guidata dal "bove" (un bue sacro), si sarebbe fermata a nord del Tifernus (fiume del Molise e della Provincia di Campobasso), e avrebbe fondato la città di Bovianum (di cui quasi tutto l'abitato romano e sannita si trova al di sotto dell'attuale livello della città e non è stato oggetto di scavo) che era, come conferma Tito Livio, la capitale del Sannio. 

Bovianum ricordava annualmente con il ver sacrum (la Primavera Sacra):

- L'arrivo della tribù pentrica guidata dal bue che dette il nome alla città.
- Una seconda tribù, quella degli Irpini guidata dal "lupo" (in osco hirpus) si sarebbe fermata nelle valli del Calore e del Sabato (dal popolo dei Sabini "Sabus", i Sabatini erano una tribù sannita del bacino del Sabatus (Livio).
- Una terza tribù, guidata dal "picchio" (picus) si sarebbe fermata a sud del Terminio (montagna dei monti Picentini, nell'Appennino campano), nel paese detto perciò dei Picentini.
- Una quarta tribù, i Caudini, (quelli delle Forche Caudine), guidata dal "cinghiale" (aber, donde Abella, l'attuale Avella), si sarebbe stanziata tra i monti del Partenio e il Taburno e nella Conca avellana.
Si ritiene molto probabile che non si facesse ricorso ad un animale reale, ma che gli abitanti marciassero sotto un vessillo su cui l’animale era raffigurato. Noi pensiamo invece che probabilmente il loro capo era identificato con l'animale per le caratteristiche che traeva da questo, es. la forza dal bue, l'aggressività dal lupo ecc, oppure da un animale sacro a una divinità, ad es. il picchio sacro a Marte. 
Non dimentichiamo che anche i Romani usarono gli animali come vessillo, animale che spesso era il richiamo del segno zodiacale del loro generale.

I Sabini che avevano lungamente combattuto senza successo contro i vicini Umbri, decisero di sacrificare quanti sarebbero nati in quell'anno, se avessero riportato vittoria sugli Umbri. Ciò accadde, per cui mantennero il voto, ma la consacrazione non consisteva nell'uccisione dei figli come alcuni hanno ipotizzato, ma uno sciame in territori stranieri. 

GUERRIERO SANNITA DI PIETRABBONDANTE
Infatti in un ver sacrum famoso il capo della spedizione era Como (o Comino) Castronio. Strabone racconta che il bue (animale allora molto importante per il trasporto e pure per arare la terra) si fermò ai piedi di un colle chiamato Samnium e che da lì il popolo prese il proprio nome.

Per altri nello stesso modo fondarono Bojano facendo fermare l'animale alle fonti del Biferno per dissetarsi.

Lì sarebbe stata fondata la città di Bovaianum (nome osco derivante dal bue). 

La migrazione sarebbe invece partita dal laghetto di Cutilia ( lago sacro alla Dea sabina Vacuna e per questo reso inaccessibile con dei recinti) famoso per un'isoletta natante ricca di vegetazione che vi si trovava al centro, nel territorio di Rieti, ritenuto nell'antichità l'ombelico d'Italia.

Il Ver Sacrum non accadde, come spesso supposto, a causa della sovrappopolazione, molto difficile pensare che all'epoca vi fosse mancanza di territori e non dimentichiamo che i Romani dovettero ricorrere all'Asylum per popolare Roma. Viceversa occorrevano molti combattenti per difendere il paese. 

Si narra poi che oppressi da grave carestia, per liberarsi da tale calamità decisero di consacrare nuovamente agli Dei i loro figli nati, pensando di tacitare la collera divina. I giovani, consacrati al Dio Marte, giunti all'età adulta furono mandati dai loro genitori a cercare altre terre.

Mandare via da una terra i giovani maschi lasciando donne e bambini avrebbe significato togliere guerrieri e forza lavoro condannando la popolazione alla fame. Vero è invece che inviavano i giovani consacrati a occupare nuove terre col compito di razziare animali e merci da spedire in patria per soccorrere il popolo rimasto. 

Ancora oggi gli emigranti asiatici o africani usano, non appena trovano lavoro nella nuova terra, inviare soldi ai loro genitori, essendo ancora molto legati ad una famiglia patriarcale dove i genitori anziani venivano mantenuti dai figli, anche se muniti di pensione (del resto alquanto scarsa).



LA LEGA SANNITICA

I Sanniti costituivano una confederazione di popoli, la Lega sannitica, strettamente correlati agli Osci, popolazione indoeuropea del gruppo osco-umbro. Questa confederazione si espanse sempre più, ma giunti al Basso Lazio e alla zona di Napoli, nel IV sec. a.c. vennero in contatto con la Repubblica romana, allora potenza in piena ascesa, con i quali stipularono un patto di amicizia nel 354 a.c.. Tra il 343 e il 290 a.c. tre Guerre sannitiche sancirono la supremazia dei Romani, Le cose andarono così. Nel 343 a.c., la città etrusca di Capua fu occupata dai Sanniti e chiese aiuto al Senato romano, che accolse la supplica. 

Scoppiò così la I guerra sannitica che fu vinta infine dai Romani con la Battaglia di Suessula (341 a.c.) ma Roma stipulò un trattato di pace assai mite con i Sanniti, per timore di altri territori in rivolta. La II guerra sannitica scoppiò a causa della fondazione della colonia romana di Fregellae, città del Latium adiectum, sulla via Latina, in territorio sannitico nel 326 a.c.

I Sanniti si allearono con altri popoli sottomessi e ribelli ai Romani. Inizialmente la guerra fu favorevole ai Sanniti: che umiliarono i Romani nelle Forche Caudine (321 a.c.), presso Caudium, il che impose al Senato una tregua. 

La guerra riprese nel 316 a.c. i Sanniti occuparono parte del Lazio grazie all'aiuto della Lega Ernica. Infine tuttavia Roma vinse presso Maleventum (Benevento), e infine nella battaglia di Boviano (305 a.c.), sugli stessi Sanniti, che l'anno seguente accettarono un trattato di pace i cui termini ricalcavano quello precedente, che di fatto romanizzò tutto il Sannio.

La III guerra sannitica (298-290 a.c.) fu voluta dai Sanniti che formarono una nuova coalizione con Etruschi e Umbri, ma i Romani li sconfissero nella battaglia di Sentino nel 295 e poi nella battaglia di Aquilonia del 293 a.c. I Sanniti vennero confinati in un piccolo territorio mentre altri vennero deportati in altre terre, molti villaggi vennero distrutti.

I sanniti comunque conservarono sempre una certa ostilità verso i romani si che appoggiarono le Guerre pirriche (280-275 a.c.) e l'invasione di Annibale in Italia (217-214 a.c.).

Inoltre parteciparono alla rivolta dei popoli italici nella guerra sociale del 90-88 a.c., ma alla fine i ribelli vennero sconfitti dai Romani e Lucio Cornelio Silla devastò con il suo esercito il territorio sannitico. Parteciparono anche alla guerra civile romana tra sillani e mariani dell'83-82 a.c. contro l'aristocrazia guidata da Cornelio Silla, giungendo fino alle porte di Roma. Silla, accorso in aiuto dell'Urbe riuscì, dopo sanguinosa battaglia, a distruggere l'esercito sannita.
I Sanniti intervennero ancora nella III guerra servile (73-71 a.c.) e della Congiura di Catilina (62 a.c.).

Le rivolte finirono quando i Romani concessero loro la cittadinanza e i Sanniti si integrarono anche nella classe dirigente romana.



LA SOCIETA' SANNITA

La società sannitica era di tipo rurale e le città erano costituite principalmente da capanne di pastori. Aesernia (distrutta da Silla), Aeclanum, Allifae (distrutta da Silla), Cubulteria (distrutta da Fabio Massimo), Maleventum, Saepinum, Telesia (distrutta da Silla), Trebula Balliensis e pochi altri centri erano i principali ma di estensione limitata. Erano organizzati in comunità rurali, con caratteristiche servili e feudali dei contadini e soprattutto pastori verso i nobili proprietari di fondi, in genere un militare di grado elevato

I Sanniti usavano coprirsi con indumenti di lana e le donne si ornavano con orecchini, collane, fibule e forcine, gli uomini con coltelli che attaccavano alle cinture. Nonostante le ripetute distruzioni perpetrate dai Romani e da altri dopo di loro, restano le fortificazioni poligonali erette in cima ai monti, i più antichi monumenti del Sannio, anche se con pietre non gigantesche come nello stile “ciclopico” e non così curate.

La casa dei Sanniti era il triibon (dal latino trabem, “trave”) evidentemente in legno, probabilmente composta da una stanza per dormire e da una dispensa. Dal 400 a.c. in poi l’arte sannita pur copiando i modelli greci li personalizzò in raffigurazioni meno raffinate ma molto sentite. Pochissime le sculture in pietra pervenute. Gli oggetti di bronzo sono più numerosi, soprattutto statuette di guerrieri, rappresentanti di solito Mamerte o Ercole. Come pittura, restano solo le pitture tombali con temi greci, ma con tecnica etrusca.

I Sanniti parlavano l'osco, una lingua indoeuropea del gruppo osco-umbro diffusa tra numerosi popoli italici ad essi affini, come i loro vicini meridionali Osci, assorbiti dai Sanniti nel V sec. a.c. La capacità di leggere e scrivere si andò lentamente diffondendo nel corso del II e I secolo a.c., per il processo di romanizzazione che imponeva la conoscenza del latino e dell'aritmetica. Verso il I sec. a.c. il popolo sannita, come gli altri popoli italici, era del tutto alfabetizzato. Essi erano monogami, ma potevano divorziare sia i maschi che le femmine. 

Molto popolari erano i combattimenti tra gladiatori: probabilmente originato dai Sanniti e importato a Roma. Per lungo tempo, infatti, il solo tipo di gladiatore conosciuto a Roma era quello detto "sannita". Originariamente i combattimenti si svolgevano solo in occasione dei funerali, come usava del resto tra gli etruschi.

GUERRIERI SANNITI

L'ECONOMIA

Avendo un territorio privo di coste, i Sanniti non navigavano e poco commerciavano, erano un popolo di contadini e allevatori, e la loro vita era dura e spartana. Allevavano bovini, cavalli e, presumibilmente, asini, muli, pollame, capre e maiali. Ma per i Sanniti gli animali più importanti erano le pecore, per la produzione di latte e derivati, e per la lana e praticavano la transumanza.

L’industria locale non era molto sviluppata. La maggior parte della stoffa era tessuta in casa dalle donne ed era di lana. Veniva prodotta della ceramica di impasto semplice e qualità mediocre. Anche la lavorazione dei metalli era limitata alle armi e agli attrezzi tutto di semplice fattura. Non risulta che decorassero con pitture i loro vasi. Prima della guerra sociale gli Stati del Sannio non coniarono né emisero monete.



IL GOVERNO

L’unità politica amministrativa sannita il touto, termine osco per definire la comunità a carattere corporativo che includeva vari pagi, cioè i villaggi, la più piccola esistente presso i popoli italici, ovvero un distretto che poteva a sua volta includere, nelle zone pianeggianti, uno o più insediamenti, villaggi circondati non da mura ma da palizzate, o, nelle zone montagnose, cittadelle circondate da mura.

Il pagus era un distretto rurale semi-indipendente, che si occupava di questioni sociali, agricole e soprattutto religiose. Si pensa che qui avvenisse il reclutamento militare. Ciascuna delle quattro tribù sannite (Carecini, Caudini, Irpini e Pentri) doveva costituire un touto.

Ogni touto era una specie di repubblica, soggetta pertanto alle elezioni. Le aristocrazie locali avevano però in mano le cariche pubbliche. La carica principale era quella del Meddix, termine osco per il latino magistratus. 

Il meddix supremo, capo dello stato, veniva chiamato Meddix Tuticus, che godeva di un’autorità completa e illimitata nel suo touto, ne era il capo militare, ne curava l'amministrazione della legge, e i decreti che regolavano la vita dei campi, della transumanza, e la vita stessa delle popolazioni dei pagi e dei relativi vici,  La carica era annuale, ma poteva essere rieletto più volte consecutive. Il meddix tuticus era l'equivalente del console romano, però senza collega.
Tuttavia egli sentiva il parere del popolo perché veniva eletto democraticamente e veniva anche contestato e non rieletto, non essendo un monarca. La carica di meddix tuticus era annuale ma poteva essere rinnovata. Egli era inoltre caposacerdote della religione ufficiale, come del resto a Roma l'imperatore era Pontefice Massimo.

Dopo il 265 a.c., probabilmente per influsso romano, si ebbero anche due Meddix Tuticus, come a Velitrae, Nola, Messana e Corfinium. A differenza dei consoli romani, tuttavia, i duemeddices tuticis non erano di pari grado, ma vi era un meddix e un vice-meddix.

Ciascuna tribù sannita aveva un consiglio e un'assemblea (detta kombennio o komparakio) che si riunivano periodicamente in determinati luoghi, convocati e presieduti del meddix tuticus. La costituzione di uno stato sannita era quindi “mista”: il meddix tuticus rappresentava l’elemento monarchico, il consiglio quello aristocratico e il kombennio o komparakio quello democratico.



LA TAVOLA OSCA

La tavola venne scoperta in uno scavo occasionale nel marzo 1848 da un contadino, presso la fonte del Romito a Capracotta. e la notizia comparve sul “Bullettino dell’Istituto di Corrispondenza Archeologica” di Roma, come il ritrovamento di una tavoletta di bronzo, databile fra il II e il III sec. a.c., incisa su ambedue le facciate, recante scritte in lingua osca, la lingua dei Sanniti.

La scoperta, di altissimo valore archeologico, ebbe risonanza internazionale fino a coinvolgere il grande studioso Teodoro Mommsen che si recò ad Agnone, per visionare la placca bronzea denominata "Tabula Agnonensis " eccezionale reperto della civiltà osca ritenuta oggi della metà del III sec. a.c.. 

Sulla tavola è riportata una lunga iscrizione di numi italici tra cui Cerere, la "vendicatrice", Giove il "fulminatore", Ercole, oltre a divinità floreali, delle acque e di fertilità. Molti specialisti si dedicarono al reperto con interpretazioni spesso discordi. 

Due studiosi della storia sannitica, Paolo Nuvoli e Bruno Paglione, esaminando la storia e il reperto della “Tavola di Agnone” ne hanno pubblicato un libro intitolato: "Gli enigma - La tavola osca e Pietrabbondante".

Essi pensano che la Tavola non fosse stata trovata tra Agnone e Capracotta, ma che provenga da Pietrabbondante e il sospetto appare fondato.

Infatti nessun tempio è mai esistito presso la fonte del Romito, nessun muro ove potesse essere appesa la Tavola, nessuna pietra concava particolare all’interno della quale si conservasse perfettamente.

Pietrabbondante è il luogo dove sorge il grande centro religioso e politico dei Sanniti, ed è ricca di monumenti sacri e non.

Gli autori inoltre ritengono che sia stata fatta una copia perfetta della Tavola e che questa, e non l’originale, sia stata venduta nel 1867 all’antiquario, collezionista di Roma, Castellani, e da questi nel 1873 al British Museum di Londra.

Nuvoli e Paglione sostengono che il sito religioso di Pietrabbondante fosse l’antica Herculaneum, come dimostrano i ritrovamenti di una grande statua in pietra e di molte statuette votive di Ercole.
concludendo: “Per i cittadini, per i fruitori, molisani e non, Pietrabbondante rimane un luogo irrisolto, pressoché sconosciuto e desolato. I Giornali di scavo, gli inventari, la documentazione topografica, fotografica e progettuale non risultano pubblicati, solo qualche lavoro monografico non sempre reperibile”.

La Tavola incisa a bulino su entrambe le facciate, e assolutamente priva di elementi ornamentali, dal 1873 è conservata a tutt'oggi nel British Museum di Londra. Una seconda Tavola, gemella della I, è stata rintracciata presso i discendenti della famiglia Paolo d'Onofrio, l'orafo agnonese che nel 1863 vendette la Tavola al Castellani che dieci anni dopo la rivendette al museo di Londra.

Domanda: quale sarà l'originale? E poi: come mai tutti i governi stranieri s'industriano di acquistare i reperti di archeologia italiana mentre il governo italiano non ne acquista nessuno nemmeno nel suo territorio?



LA MILIZIA

I guerrieri italici (vedi statuette bronzee dei peligni e sanniti) per la protezione del cuore e dello stomaco indossavano corpetti su cui erano sistemati tre dischetti di bronzo, uno a destra e a sinistra per il cuore e uno verso la parte centrale dello sterno. Altri tre erano fissati sulla schiena, tutte fissate fra loro, attraverso una serie di fibbie di metallo che si intersecavano sulle spalle e sotto le ascelle.

Come tanti altri popoli italici, anche i Sanniti utilizzavano il classico scutum ellittico, diviso verticalmente da una nervatura con un umbone al centro, o uno scudo più largo nella parte superiore (a protezione del viso e del petto), più stretto nella parte inferiore (verso le gambe, spesso protette da schiniere, o almeno una). Lo scudo non era di metallo, ma di giunchi intrecciati, ricoperti esternamente da pelle di pecora.

L’elmo era spesso ornato da un pennacchio (soprattutto quello degli ufficiali o degli appartenenti alla legio linteata). A volte con aperture laterali dove venivano fissate  penne d’aquila. 

La tunica era di lino o pelle, copriva il torace fino ai fianchi, dove era spesso presente una cintura in pelle, munita di fibbie in bronzo. Aveva inoltre maniche corte.

Come armi utilizzavano lance, adatte più che altro al combattimento ravvicinato, un piccolo giavellotto, lunghi pugnali e, più raramente, spade a doppia lama. Questo significa che le armate sannite apparivano con armamenti non troppo pesanti, quindi adeguati al fatto di dover spesso combattere su di un territorio spesso montuoso, adeguati quindi ad una azione flessibile.

I successi dei Sanniti sul terreno montuoso fanno capire che essi usassero un ordine di battaglia flessibile e aperto, piuttosto di una falange serrata, e il fatto che usassero la cavalleria anche sulle alture presuppone avessero un allenamento superlativo per guidare gli animali in quei luoghi, tenendo conto poi che cavalcavano senza sella.

L'ottima cavalleria sannita verrà infatti utilizzata dai Romani come cavalleria alleata nelle successive campagne militari, fino alla guerra sociale (90-88 a.c.), quando a tutta l'Italia centro-meridionale verrà concessa la cittadinanza romana, diventando parte integrante dell'esercito romano.



LA VERREIA

Un'importante istituzione sannitica, con funzioni sia governative che militari, era la Verehia o Verreia che, sul finire del V secolo a.c., costituiva l'organizzazione per la gioventù, simile alla juventus romana. I giovani si chiamavano i Guardiani della Porta, e serviva a formare i giovani sanniti alla vita militare, alle arti equestri ed all'uso delle armi. In seguito questa istituzione si preoccupò di formare militarmente i soldati che avrebbero fatto carriera raggiungendo i gradi più alti. Con la romanizzazione del Sannio la "Verehia" perse però la connotazione militare occupandosi invece del benessere della gente e della città in cui vivevano. 



LA LEGIO LINTEATA

Inizialmente l’esercito dei Sanniti era formato da gruppi di uomini guidati da un condottiero, ma le guerre sannitiche fecero sviluppare un'organizzazione migliore, molto simile a quella romana:

«...lo scudo sannitico oblungo (scutum) non faceva parte del nostro equipaggiamento nazionale [romano], né avevamo ancora i giavellotti (pilum), ma si combatteva con scudi rotondi e lance.... Ma quando ci siamo trovati in guerra con i Sanniti, ci siamo armati come loro con gli scudi oblunghi e i giavellotti e copiando le armi nemiche siamo diventati padroni di tutti quelli che avevano una così alta opinione di se stessi. »
(Ineditum Vaticanum)

Dal frammento in greco detto Ineditum Vaticanum, si desume che i Sanniti usassero sia il giavellotto (pilum) sia il lungo scudo rigato (scutum) e che i Romani appresero da essi l’uso di tali armi, anche se è più probabile che i Romani abbiano adottato la tattica manipolare e tali armi in contemporanea ai Sanniti, all’inizio del IV secolo.

Livio infatti scrisse di “legioni” sannite e precisò che l'esercito sannita era organizzato in coorti di 400 uomini, divisi in manipoli, e tra gli ufficiali avevano pure i tribuni militari. La cavalleria sannita era molto considerata e temuta.

I Sanniti avevano inoltre un gruppo scelto di guerrieri. Era la Legio Linteata, che Livio descrive come una specie di "legione sacra tebana", candida nelle vesti e nelle armi. Livio scrive pure che le armi della linteata fossero ricoperte d'oro e argento. Alcuni non lo credono perchè il costo sarebbe stato altissimo, ma non dimentichiamo che pure Cesare fece guarnire le armi dei suoi con oro e argento, pensando che dato l'alto costo i militari non avrebbero facilmente rinunciato alle loro armi.

Dopo una particolare cerimonia sacra, diventava una casta di guerrieri votata al sacrificio estremo pur di difendere il proprio popolo. Questa legione partecipò a tutte le Guerre sannitiche. La Legio Linteata rappresentava un corpo speciale dell’esercito Sannita formato da guerrieri che si erano dimostrati valorosi e capaci in battaglia che formavano una Devotio alle divinità protettrici sannite.

La Devotio la troviamo a Roma nel 340 a.c. quando il milite Publio Decio Mure si immola per salvare la patria. Ecco la formula della sua Devotio (non doveva essere molto diversa quella sannita):

« Oh Giano, Giove, Marte padre, Quirino, Bellona, Lari, Divi Novensili, Dei Indigeti, Dei che avete potestà su noi e i nemici, Dei Mani, vi prego, vi supplico, vi chiedo e mi riprometto la grazia che voi accordiate propizi al popolo romano dei Quiriti potenza e vittoria, e rechiate terrore, spavento e morte ai nemici del popolo romano dei Quiriti. Così come ho espressamente dichiarato, io immolo insieme con me agli Dei Mani e alla Terra, per la Repubblica del popolo romano dei Quiriti, per l'esercito per le legioni, per le milizie ausiliarie del popolo romano dei Quiriti, le legioni e le milizie ausiliarie dei nemici. »
(Tito Livio, Ab Urbe condita)


L'iniziazione

L’iniziazione nella Legione avveniva anzitutto col giuramento di fedeltà alla Legione Linteata, quindi si consacravano, con l'opera dei sacerdoti, la propria spada e la propria vita alla battaglia. Questo giuramento avveniva sui candidi panni di lino che ricoprivano il recinto in cui era stata consacrata la nobiltà: da qui il nome "Linteata". Dopo questo giuramento i soldati venivano consacrati come guerrieri votati fino al sacrificio estremo per difendere il proprio popolo.

« Compiuto il sacrificio, il comandante faceva chiamare da un messo, i più nobili per famiglia e per imprese. Essi venivano introdotti ad uno ad uno. Oltre ad altri sacri apparati sacri, che infondevano nell'animo il timore religioso, vi erano al centro del recinto, coperto tutto intorno, are e vittime uccise, ed erano schierati dei centurioni con le spade sguainate. 
Il giovane veniva condotto davanti agli altari più come una vittima che come un iniziato, ed egli giurava che non avrebbe rivelato ciò che vedeva o sentiva in quel luogo. 
Lo costringevano a giurare secondo una formula fatta appositamente per invocare una maledizione su questi, sulla sua famiglia e stirpe, se si fosse rifiutato di combattere dove i suoi generali volevano, o se fosse scappato dal campo di battaglia, o avesse osservato un altro fuggire e non avesse fatto nulla per ucciderlo. 
Alcuni che si erano rifiutati di giurare in quel modo, furono uccisi in modo barbaro davanti agli altari. I loro cadaveri abbandonati in mezzo alle altre vittime, erano di esempio agli altri perché non si rifiutassero di giurare.»
(Livio, Ab Urbe condita)

Livio narra che presso la città di Aquilonia, nel 293 a.c., si radunarono ben 60.000 uomini, tra cui furono scelti 16.000 guerrieri per questa legione, a cui si aggiunse una seconda "legione" di discreta qualità, formata da altri 20.000 uomini:

«..alla guerra questi s'erano preparati con lo stesso impegno e con gran dovizia di fulgide armi; e ricorsero anche all'aiuto degli dei, giacché i soldati erano stati iniziati alla milizia prestando il giuramento secondo un antico rito, e s'era fatta una leva per tutto il Sannio con una nuova legge, in virtù della quale chi fra i giovani non fosse accorso alla chiamata dei comandanti, e chi si fosse allontanato senza il loro ordine, doveva essere consacrato alla vendetta di Giove. Poi tutto l'esercito ricevette l'ordine di radunarsi ad Aquilonia. Vi si raccolsero circa 60.000 uomini, il fiore delle milizie ch'erano nel Sannio. »
(Livio, Ab Urbe condita)

PITTURE TOMBALI SANNITE

LA RELIGIONE

Era composta da elementi greci ed etruschi misti a un animismo più antico, e al pari di altri popoli italici, usavano lo stesso luogo per il culto contemporaneamente di due o più dei. Essi concepivano il proprio mondo come popolato di poteri e spiriti misteriosi sia benevoli che malevoli, con cui instaurare buone relazioni. 

Questi numina non venivano immaginati in forma umana, e popolavano la casa, soprattutto la porta, il focolare e la dispensa; i campi, i confini, le sommità, le caverne, i boschi, i ruscelli, le sorgenti e le tombe.

La Tabula Agnonensis, risalente al 250 a.c. circa, perfettamente conservata, misura 27x15 cm. Contiene i nomi di 18 divinità:
  1. Kerres - Cerere (la dea greca Demetra), la divinità cui era dedicata l'area sacra;
  2. Vezkeí – Divinità sconosciuta;
  3. Evklúí Patereí – Mercurio, nel suo aspetto di psychopompos;
  4. Futreí Kerríiaí - Persefone figlia di Cerere;
  5. Anter Stataí - la levatrice che "sta prima" del parto
  6. Stata Mater - la levatrice che “sta in mezzo” durante il parto;
  7. Ammaí Kerríiaí - Maia, Dea italica della primavera;
  8. Diumpaís Kerríiaís - Le Ninfee delle sorgenti;
  9. Liganakdíkei Entraí - Divinità legata alla vegetazione ed ai frutti;
  10. Anafríss Kerríiuís - Le Ninfee delle piogge;
  11. Maatúís Kerríiúís - Dea italica connessa con il parto, con l’allattamento e con la rugiada:
  12. Diúveí Verehasiúí - Giove Virgator, che presiedeva all’alternarsi delle stagioni;
  13. Diúveí Regatureí - Giove Pluvio;
  14. Hereklúí Kerríiuí - Ercole;
  15. Patanaí Piístíaí - Dea della vinificazione, e che faceva aprire le spighe per la trebbiatura;
  16. Deívaí Genetaí - Mana Geneta;
  17. Pernaí Kerríiaí - Pales, la Dea dei pastori; forse anche del parto felice.
  18. Fluusaí – Flora, protettrice dei germogli.
    Ma i Sanniti adoravano anche:

    - Marte (Mamerte), iI Dio a cui erano particolarmente devoti, Dio della guerra e dell’agricoltura, connesso con la primavera e la fecondità dei campi, del raccolto e del bestiame, tuttavia era anche il Dio della giovinezza e quindi dotato di forza e abilità nel combattere.
    - Diana, Dea della caccia; 
    - la Dea Terra; 
    - Angitia, Dea della guarigione e della sicurezza. 
    - Ercole, 
    - Castore e Polluce, 
    - le Ninfe, 
    - Apollo, 
    - Ermes 
    - Dioniso.

    I meddices, e in particolare il meddix tuticus, erano i sacerdoti ufficiali incaricati di sorvegliare e regolamentare le celebrazioni di stato, di fissare il periodo intercalare, di definire i confini dei santuari, di prendersi cura delle più antiche testimonianze e di adattare la vita religiosa ai mutamenti provocati dalla dominazione romana.

    ACQUEDOTTO TRAIANO

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    Il X° acquedotto di Roma, cioè l'Acquedotto Traiano (Aqua Traiana) venne costruito da Traiano nel 109, per l'approvvigionamento idrico di Trastevere, l'unica zona non ancora dotata di acqua corrente. Esisteva si l''Aqua Alsietina, costruita oltre un secolo prima da Augusto per il servizio della naumachia posta in Trastevere, ma non era acqua potabile.

    Il percorso è di circa 57 km, con una portata giornaliera di 2.848 quinarie, quasi 118.200 m3. Ogni quinaria equivale a 0,48 litri al secondo, per cui quasi 1400 litri al secondo. Il condotto era completamente rivestito in calcestruzzo romano largo 1-1,30 m. per un'altezza di 1,78-2,30 m., con una pendenza media di 2,67 m. per km,

    L’intero percorso si svolgeva su terreni, di 9 m. di larghezza, appositamente acquistati personalmente dall'imperatore, praticamente un esproprio di terreno che però non venne pagato dalle casse dello stato ma dai soldi di Traiano, l'illuminato imperatore che risanò l'erario cominciando a metterci del suo. L’acquedotto raccoglieva le acque di diverse sorgenti attorno al lago di Bracciano (lacus Sabatinus), sui monti Sabatini e giungeva fino a Roma con un percorso in gran parte sotterraneo, entrando a Roma sul colle Gianicolo, sulla riva destra del fiume Tevere.

     Là dove l'acquedotto non è stato demolito, l’intonaco impermeabile è bianco e in perfetto stato di conservazione e altrettanto dicasi dell’opus reticolatum dei rivestimenti, una struttura davvero eccezionale. Alla periferia di Roma, all' Ipogeo degli Ottavi, durante lavori di risistemazione delle condotte negli anni ottanta se n’è riconosciuto un pezzetto che non avrebbe smesso di funzionare da circa duemila anni.

    Molte sezioni dell’Aqua Traiana sono conosciute oggi, ma poche di loro furono direttamente incorporate nell'acquedotto del Papa, pur essendo state edificate nello stile del II secolo d.c., e cioè con pareti in calcestruzzo a vista o in muratura o in opus reticulatum. Sia sopra che sotto il suolo, il canale d'acqua era a volta in calcestruzzo e allineato di sotto della volta con cocciopesto, un cemento che i romani utilizzarono per secoli per fare pavimenti impermeabili, cisterne e acquedotti. Al contrario, le parti dell'Acqua Paola che scorre ancora oggi non mostrano alcuna traccia di antica muratura.





    LAGO DI BRACCIANO 

    "Quest'acquedotto pertanto è a giusto titolo considerato dagli intelligenti dell'arte forse il più perfetto di quanti altri sono stati costrutti sotto la romana potenza e posteriormente ancora, si per l'esatta livellazione e magnificenza, quanto per l'acqua abbondante tutta di sorgenti limpidissime, allacciata con immensa spesa nelle macchie di Manziana, Bracciano, Vicarello e Bassano, richiamate per mezzo di altrettanti piccoli bracci nella forma, il lavoro de' quali non può certo valutarsi per quello che essi meritano, se non dai medesimi ingegneri della Presidenza della acque, e da chi si è preso il piacere di perlustrarli nel loro immenso giro, come feci io stesso, con l'aiuto di persona pratica e bel istruita di que' luoghi difficili e cotanto impraticabili"

    (Paolo Bossi)

    Secondo l'archeologo Alberto Cassio l'acquedotto si riforniva da varie sorgenti ai piedi dei monti Sabatini, posti tra fra la valle del Tevere ed il mar Tirreno, nell'area tutto intorno al lago di Bracciano ( lacus Sabatinus). Poi le acque venivano convogliate attraverso vari cunicoli al dotto principale, il
    cui inizio (il "caput aquae") doveva trovarsi tra Pisciarelli, Manziana, le terme di Vicarello e il comune di Trevignano.



    LE FONTI DELL'ACQUEDOTTO 

     - Sette sorgenti nella zona di Villa Flavia - raccolte in tre vasche chiamate da Cassio e Lanciani come Greca, Spineta e Pisciarello. Carlo Fontana li chiama invece: Botte Greca, Botte Ornava, e Botte Arciprete

    - Presso il lago di Bracciano c'è poi la Fonte Micciaro con l'omonima via.

    SORGENTE SANTA MARIA FIORA
    - Il fosso di Grotta Renara - dove Carlo Fontana pone una vasca di contenimento delle acque traiane chiamandola Botte di Pisciarelli. Il fosso è locato a est di Manziana con un ramo di acquedotto che scendeva a sud est fino alla sponda del lago e lo aggirava in senso orario, intercettando le acque provenienti dalle altre sorgenti. Lanciani identifica la Fonte del Grugnale nel moderno sobborgo di Pisciarelli, nel Comune di Bracciano.

    - Le sorgenti intorno al Fosso di Fiora: tra cui la sorgente monumentale al Ninfeo di S. Fiora, Sicuramente Santa Fiora è la trasformazione della Dea Flora, Dea della primavera e quindi fonte di rinascita e di conseguenza delle prostitute, sacerdotesse della sessualità. 

     - La sorgente al Carestia Nymphaeum circa 1 km dalla Fiora, adesso in rovina, documentata da varie piante nel Fondo Orsini. - Un ulteriore ramo di acquedotto traeva origine a sud est di Oriolo Romano a Santa Fiora, nota per l’omonimo ninfeo. Questo secondo ramo scendeva verso il lago per ricongiungersi con quello delle Grotte Renara, con un percorso però non identificato. 

    Venne tagliato tra il VI e il IX secolo e mai più ripristinato, Una sorgente si sa però che usciva sotto la Chiesetta rupestre di Santa Maria della Fiora, un luogo dove si conservano tracce sovrapposte di antichissime pratiche di culto (sicuramente attinente alla Dea Flora). Cioè dove sorgeva un santuario di acqua sacra, dopo averlo accuratamente distrutto vi hanno costruito sopra una chiesa, tante volte qualcuno volesse fare riti sul luogo sacro. 

    NINFEO DI SANTA FIORA
    1590 - Comune di Oriolo Romano - Nel documento si legge: “La parte di Santo Spirito tende a Mezzogiorno e in un angolo detto la Fiora nasce un bel capo d’acqua che congiungendosi con l’Acqua Venere a Vicarello sopra al Lago di Bracciano fu da’ Romani Antichi condotto a Roma e se ne vedono vestigi per tutto il viaggio che faceva.”

    - Le sorgenti alle Terme di Vicarello. - Un sorgente vicino il ristorante attuale Acqua delle Donne. 
    - Le sette botti al est dell'Acqua delle Donne.  - Vari sorgenti al nord di Monte Rocca Romana nel territorio di Bassano Romano e lungo il Fosso della Calandrina incluso il notevole Fonte Ceraso. 

     - Gli Aquarelli al nord-est del lago. 

     - L'Acqua D'Impolline al est del lago.
    Successivamente l'acquedotto girava sul lato orientale del lago, in parte sotterraneo e in parte su archi bassi. Dopo Anguillara seguiva sulla sinistra il corso del fiume Arrone, unico emissario del lago, poi se ne distaccava e, dopo aver incrociato su un lungo tratto di archi l'acquedotto dell'Aqua Alsietina, tornava sotterraneo.

    RESTO DO VILLA FLAVIA
    Seguiva quindi l'antica via Clodia (tra la Cassia e l'Aurelia) fino alla località La Giustiniana. Da qui seguiva  via della Pineta Sacchetti e via del Casale di S. Pio V, tornando in supeficie con nuove arcate, sul percorso della via Aurelia antica, all'esterno di Villa Doria Pamphilj, fino al "castello" terminale situato dove sorse poi la "Porta Aurelia" (Porta San Pancrazio).


    Tagliato una prima volta durante l'assedio di Roma da parte dei Goti di Vitige, nel 537, l'acquedotto Traiano fu ripristinato dal generale bizantino Belisario. Venne poi con varie vicende di nuovo tagliato e ricostruito, poi abbandonato nel IX sec. finchè nel XVII sec. venne ricostruito sulle antiche strutture, cambiando nome in acquedotto dell'"Acqua Paola". Dal nome dell'imperatore a quello del Papa.



    LA CACCIA AL CAPUT ACQUAE 

    Antony Nibby nel 1825 andò di persona a cercare le sorgenti dell’acqua traiana, anche lui dunque un cacciatore di acquedotti, la cui avventura egli indicò come una "lunga e penosa perlustrazione a traverso boschi e dirupi". Racconta:

    ACCESSO ALLA CAPUT AQUAE
    La visita, onde procedesse con ordine, cominciò dalle sorgenti più occidentali, cioè fra le terre di Oriolo e di Bracciano: Andando pertanto verso Oriolo, e passato appena il ponte del fosso di Boccalupo presi a destra un sentiero; seguendo questo, dopo circa un miglio, entrando nella vigna denominata allora del Tenente, trovasi la sorgente più occidentale di tutte, denominata Ferratella, per una piccola ferrata ivi esistente.

    Questa venne allacciata, o riallacciata di nuovo da papa Paolo V. A sud ovest della Ferratella è la botte del Belluccio, ed a settentrione di questa, quella grande delle 25 vene, così designata perché in essa unisconsi 25 sorgenti. Seguendo sempre la direzione verso sud-ovest, ripassai il fosso di Boccalupo sopra un ponte eretto da Paolo V e chiamato ponte del Pettinicchio, perché l’arco ha una curva simile a quella de’ pettini, così denominati: di là da esso entrai nell’altra gran botte che appellano volgarmente del Micciaro costrutta di nuovo da Paolo V, nella quale si raccolgono 39 vene ed un grosso capo di acqua acidula: questa botte ha 60 palmi di lunghezza, ed essendo riguardata come la più insigne tra quelle costrutte da Paolo V ha un’arma ed una epigrafe di quel papa. A sud ovest della botte del Micciaro incontrasi l’altra detta di Piscina. 

    Quindi scendendo di nuovo al rivo di Boccalupo notai la comunicazione aperta tra questo e l’acquedotto, ed interrotta da un incastro, perché secondo le circostanze in caso di siccità il fosso possa servire di sussidio al condotto. A sud ovest di questo incastro è la botte di Grotta Renana e di là da questa, andando sempre verso levante, presso il fosso Fiora, sono due altre botti, che per la loro situazione rispettiva appellansi la botte di sopra e la botte di sotto. Da questo punto volgendosi verso Vicarello incontrasi primieramente la botte delle Ferriere; tra Vicarello e Trevignano sono le sette botti; nel territorio di Bassano è la botte di Fonte Ceraso; in quello di Vicarello la botte dell’Aretta; e finalmente più lungi verso levante sono quelle del Fosso del Guardiano, del fosso Capra e di Rocca Romana, che è la più orientale di tutte, come quella della Ferratella dissi essere la più occidentale. In quella lunga e penosa perlustrazione a traverso boschi e dirupi, mi persuasi, che Trajano allacciò principalmente le scaturigini orientali e che Paolo V unì a queste ancora molte di quelle verso occidente.” 

    La scoperta recente "Il caput aquae", cioè l’inizio dell’acquedotto, è stato scoperto solo recentemente, a seguito di una ricerca iniziata nel 2008 e culminata nel 2011, ad opera di un gruppo di esploratori, che si sono denominati “cacciatori di acquedotti”, tra cui due documentaristi inglesi, gli O’Nell, e sul loro sito è illustrata e fotografata la scoperta.

    In realtà che l’acquedotto partisse nei pressi di Manziana era accreditato da lunghissimo tempo pur indicandosi per l’inizio dell’acquedotto località diverse poco distanti tra loro, come la fonte Praecilia ad esempio: invece è dalle acque della Fiora, sotto un’antica chiesetta omonima, seminascosta dalla vegetazione, nella campagna al confine tra Manziana e Bracciano che i cacciatori di acquedotti pongono il vero inizio, con un ninfeo da cui l’acqua era incanalata nella condotta. 

    Altre fonti nelle vicinanze della Fiora, citata tra l'altro in un manoscritto sulla storia di Oriolo erano, con nomi medievali, Matrice e Carestia, di cui la prima è ancora nota ed era in uso in epoca preromana uscendo da un cunicolo d’irrigazione etrusco e ormai persa la seconda. Altre ancora intorno Bracciano, una dalla località di Pisciarelli, qui l’acquedotto “pisciava indietro”, dove in una fattoria ne sono state trovate le tracce ma, come per la Fiora, va un po’ a trovarle, e c’abbiamo provato, se qualcuno del posto non ti fa da guida o ti dà le indicazioni giuste! 

    E poi effettivamente devi fare un po’ come Indiana Jones. Altre sorgenti da Vicarello, dove c’erano le acque termali, con l’acqua Venere, dalla località detta Calandrina e dalla fonte Ceraso presso Bassano e altri rami ancora dopo, a est di Vicarello, se non c’ingannano i nomi delle strade che scendono alla via delle Sette Vene come Via dell’Acqua delle Donne o via Acquarella.

    Almeno l’ultimo ramo dell’elenco, però, detto allora nei documenti d’Ampolline e poi di Polline oggi vi corrispondono la Via di Polline e il Lungolago di Polline, e in quest’ultimo si possono osservare due cippi dell’acquedotto - secondo Carlo Fea nel suo “Storia dei condotti antico-moderni delle acque Vergine, Felice e Paola” del 1832, fu aggiunto in seguito, nemmeno da Paolo V, che si fregiava di aver riportato a Roma la " pura" acqua traiana, ma con Innocenzo X nel 1649. Che i rami più orientali fossero aggiunti dai papi in seguito è in accordo con le conclusioni a cui giunse il Nibby. Traiano aveva fatto costruire l’acquedotto nella pienezza dell’impero romano “PECUNIA SUA”, come si legge in un’iscrizione, ritrovata in località La Storta, descritta da Carlo Fea nel 1830, e dalla quale si deduce l’anno di costruzione dell’acquedotto.

     
    RAMO SOTTERRANEO DI SANTA FIORA


    L’Aqua Traiana sbarca negli Stati Uniti 
    Straordinaria scoperta nell'Alto Lazio alla ribalta internazionale
    di Rodolfo Fellini

    Gli antichi Romani si vantavano, e a ragione, di aver costruito opere utili per la collettività e durevoli nel tempo. Ciò vale anche per l’Acquedotto di Traiano, che per 57 km costeggia il Lago di Bracciano e attraversa i quartieri occidentali di Roma fino a raggiungere Trastevere e, da qui, l’intera città. 

    Inaugurato nel 109 d.C., il decimo acquedotto dell’Urbe è ancora visibile in numerosi tratti. Lo stato di conservazione non sempre è all’altezza della sua importanza, poiché le istituzioni gli hanno riservato attenzioni piuttosto alterne. Oggi, a quasi due millenni dalla costruzione, la grotta artificiale posta all’origine della prima sorgente dell’acquedotto viene messa a rischio dalle radici di alcuni alberi. 

    La scoperta del ninfeo risale a due anni fa, quando sotto la chiesa paleocristiana di Santa Fiora, nel Comune di Manziana, due documentaristi britannici, Mike e Ted O’Neill, individuarono i resti di una volta, con tracce di affrescature di color blu egizio. L’esplorazione ha portato poi alla scoperta di una cappella dedicata al dio delle acque o alle ninfe, con annessi due laghetti che captavano l’acqua della sorgente e la convogliavano verso i cunicoli i quali, a loro volta, andavano a sfociare nel canale principale. 

     Ora il ninfeo e l’acquedotto, di cui esso costituisce il “Caput Aquae”, si sono guadagnati la copertina di “Archaeology”, la più prestigiosa e diffusa rivista di archeologia pubblicata negli Stati Uniti. E a breve, il lavoro televisivo degli O’Neill sarà trasmesso dalla tv americana. 

     Sotto il titolo “L’acquedotto perduto dei Romani”, l'articolo del giornale ripercorre la storia del monumento e sottolinea l’importanza del ritrovamento. Il ninfeo che sorge sotto Santa Fiora è il meglio conservato tra tutti i “Caput Aquae” degli acquedotti romani, e l’unico potenzialmente visitabile. Esso offre un mirabile esempio dell’architettura e dell’ingegneria degli antichi Romani, con volte a crociera, opere in laterizi e in reticolato. Unica difficoltà: esso sorge su un terreno privato e non è sottoposto a vincoli monumentali, archeologici o ambientali.

     
    D - Come mai il ninfeo è rimasto segreto così a lungo?
    R - Non era segreto alla popolazione locale, ma non è mai stato riconosciuto come la sorgente dell’Aqua Traiana. I grandi archeologi dell’800 e del ‘900 Rodolfo Lanciani e Thomas Ashby non lo conoscevano. Noi siamo riusciti a individuarlo dopo molte ricerche, compiute nella Biblioteca dell’Archeologia e Storia dell’Arte a Roma.

    D - Come sono i rapporti con il proprietario del terreno?
    R - Ai tempi dei Augusto, i terreni posti a 100 metri a destra e a sinistra gli acquedotti erano indefinitamente da considerare patrimonio pubblico. Ma temo che la legge non sia più in vigore, scherza O’Neill.

     Il monumento appartiene al popolo italiano, ma il proprietario del terreno ha i diritti d’accesso perché per raggiungerlo si deve attraversare il suo possedimento, che fa parte una zona agricola.

    Il proprietario si è detto in principio disponibile all’esproprio, ma non a qualsiasi prezzo. Le trattative con il Comune di Manziana, nella persona delll’ex sindaco Lucia Dutto, sono state avviate nel 2010, ma non sono andate a buon fine. L’amministrazione proponeva per di acquistare il terreno al doppio del suo valore di mercato, tuttavia la controparte non ha accettato. Il proprietario comunque non ha dimostrato alcuna sensibilità dopo la scoperta, tanto che ha impedito l’ingresso agli architetti dall’Università di Bologna, incaricati di fare dei rilievi nel monumento. Lui possiede anche il terreno con l’acquedotto sottostante, nonché la Piscina Limaria – il serbatoio romano sopra al quale ha costruito una casa - ed il chiusino d’acqua costruito dal Duca Odescalchi nel 1718 per portare l’acqua di Santa Fiora a Bracciano.

    D - In che condizioni versa il monumento?
    R - Da due anni non abbiamo potuto più accedere al sito il quale, all’epoca delle nostre ricerche tra il 2009 e il 2010, era minacciato da diversi alberi. Il grande fico che si trovava sopra la grotta è stato tagliato, ma le radici, sia del fico che degli altri alberi, continuano a nutrirsi del calcio dalla muratura romana. Oggi sarebbe importante che un restauratore potesse applicare un forte collante, capace di consolidare l’intonaco romano e preservare la vernice di color blu egizio. Il tutto è già molto friabile, tanto da sbriciolarsi tra le dita.

    D - Asssieme alla Provincia di Roma e a diverse istituzioni accademiche avete scritto al ministro per i Beni culturali Ornaghi. Che cosa gli avete chiesto?
    R - Abbiamo chiesto che sia posto un vincolo al terreno, in modo da agevolare le procedure di esproprio da parte del Comune. Un vincolo posto dalla Soprintendenza ai beni archeologici può costituire infatti un elemento di grande importanza se l’iter per l’esproprio dovesse finire davanti a un giudice. L’ex sindaco aveva chiesto un contributo di 20.000 euro alla Provincia per salvaguardare il sito di Santa Fiora e proposto di pagare un affitto ai proprietari del ninfeo per eseguire i lavori di salvaguardia. Ma, perché il denaro pubblico possa confluire, il terreno deve essere espropriato.

    D - E’ possibile che attorno al ninfeo ci siano altre opere?
    R - La zona di Santa Fiora potrebbe diventare uno dei siti archeologici più interessanti da esplorare nei prossimi 20-25 anni. Secondo il professor Lorenzo Quilici dell’Università di Bologna, che lo ha visitato, intorno al sito sorge un complesso monumentale grandioso come il Canopo di Villa Adriana a Tivoli. Tra tutti gli acquedotti romani, poi, questo sarebbe l’unico con la sorgente visitabile. Oggi, peraltro, si può vedere solo una minima parte del monumento: il complesso contiene diversi altri vani che oggi non si vedono, e davanti al ninfeo dovrebbe sorgere una piscina a forma di croce. Questo era un grande luogo di culto pagano, che va assolutamente portato in mani pubbliche, sia per preservarlo che per esplorarlo.

    Nel frattempo, per dissidi in seno alla maggioranza, Manziana è rimasta senza sindaco e al suo posto si è insediato un commissario ad acta. Dal sindaco e dalla giunta che scaturirannno dalle elezioni della prossima primavera dipenderà in gran parte il destino di un’area archeologica che insigni studiosi, italiani e stranieri, definiscono di straordinaria importanza.


    IL TRIONFO

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    Nell'antica Roma il trionfo era la più alta ricompensa militare, seguito poi dall'ovazione, un onore tributato a un generale dell'esercito romano che avesse non solo vinto, ma in modo eccezionale per la bravura e il coraggio.
    Il generale in causa inoltre doveva richiederlo al Senato e questi doveva approvare la richiesta. Il richiedente doveva essere stato investito dell'imperium maius ed essere stato comandante effettivo in capo.

    Se i comandanti dell'esercito fossero stati due, rivestiti di pari grado, l'onore era devoluto soltanto a quello che nel giorno della battaglia decisiva avesse esercitato l'autorità suprema, con l'auspicium e l'imperium. Le ingenti spese che la solenne cerimonia del trionfo comportava, venivano assunte dallo stato in seguito a votazione del Senato.
    Se il richiedente fosse già entrato nel recinto urbano di Roma, prima di chiedere e ottenere il trionfo, ne perdeva ogni diritto. Egli doveva infatti attendere col suo esercito reduce dalla guerra, fuori del pomerium della città; doveva cioè conservare l'imperium che si deponeva appena chi ne fosse investito avesse varcato la soglia di una delle porte della cinta serviana. Nella sosta, talvolta lunga, il candidato al trionfo e il suo esercito si accampavano nel Campo Marzio.

    Nella celebrazione del Trionfo il corteo si formava nel Campo Marzio ed entrava in città dalla Porta Triumphalis, traversava il Velabrum e il Circus Maximus, percorreva la via Sacra e il Forum, ascendeva il clivus Capitolinus e si fermava dinnanzi al tempio di Giove Capitolino.
    Secondo Orosio, da Romolo a Vespasiano furono riportati 320 trionfi; e circa una trentina furono celebrati in età posteriore.



    DURANTE LA MONARCHIA

    Il trionfo era il massimo onore tributato con cerimonia solenne al generale che avesse conseguito una vittoria importante per la patria. Il primo a ottenerlo fu Romolo, il quale dopo aver ucciso il re dei Ceninensi, lo celebrò percorrendo la via Sacra fino al Campidoglio, deponendo nel tempio di Giove Feretrio le spolia opima nel 752/751 a.c: (Tito Livio - Fasti)

    "Romolo, figlio di Marte, re, trionfò sul popolo dei Ceninensi, alle calende di marzo"
    Però Romolo andò a piedi mentre in seguito, a partire dai Tarquini il percorso si fece su un cocchio. Tale onore rimase in auge quando un comandante romano  batteva un comandante nemico a duello, e in tal caso portava le spoglie, Spolia Opima, al Tempio di Giove Feretrio.

    Il trionfo nacque dunque in epoca monarchica, infatti  poi Tarquinio Prisco celebrò il trionfo nel 598 sui Latini, nel 588 sugli Etruschi e nel 585 contro i Sabini.

    Il che fa pensare che fosse anzitutto una consuetudine etrusca, visto che questo popolo amava molto i festeggiamenti. Solo per i funerali le celebrazioni etrusche duravano da una settimana a 15 giorni, e i Romani molto copiarono dagli Etruschi, che erano piuttosto guerrieri.

    Il trionfo fu accordato anche per vittorie navali. Il primo esempio fu quello di C. Duilio, in ricompensa della disfatta da lui inflitta alla flotta cartaginese nell'anno 260 a.c.

    Il trionfo romano,secondo alcuni studiosi, diventa prevalentemente celebrazione solenne e festa della vittoria: mentre il significato originario del trionfo era connesso ad un’idea di espiazione per il sangue versato dunque ispirato a sentimenti religiosi.
    Sicuramente l'idea dell'impurità del combattimento in cui si è versato sangue umano si evidenzia anche nel rito dell'armilustrium, ma anche nel rito di ringraziamento a Giove o chi per lui, nonchè con i doni dei bottini ai templi, affinchè il sangue versato non ricadesse sui generali o sui soldati.



    IL VOLTO DIPINTO DI ROSSO

    Il re sfilava col viso tinto di rosso, il che lo equiparava a un Dio, (Giove capitolino aveva il volto dipinto di rosso, ma pure Dioniso a Corinto) col manto rosso, con l'alloro sul capo e lo scettro in mano.

    Il volto dipinto di rosso richiamava il sangue dei nemici uccisi, sicuramente un'antica usanza tribale per spaventare gli avversari, qualcuno però sostiene avesse anche un aspetto espiatorio, cosa che non concordiamo molto, dato l'aspetto apertamente cruento, tanto cruento che era proibito entrare nel pomerio con la pittura rossa sul viso, nè tanto meno incontrarsi in seduta coi Senatori.

    Alcuni autori hanno sostenuto che il colore rosso ricordava il colore di Giove nelle antiche statue di terracotta. A noi sembra alquanto improbabile, primo perchè tutte le statue antiche erano in terracotta e non solo quella di Giove, secondo occorre tener presente che a seconda delle zone la terracotta era gialla anzichè rossa, e quarto perchè il rosso era una tinta decisamente squillante, molto simile al colore del sangue. Insomma il colore rosso era una dichiarazione di guerra.

    Era uso inoltre che il trionfatore portasse al collo una bulla con amuleti per scongiuro, contro l'invidia e la magia degli invidiosi.



    L'ARCO TRIONFALE

    Il significato d’espiazione sembra sottolineato dal passaggio dell’arcus e della porta triumphalis. Nel passaggio sotto l’arco e la porta si compirebbe un rituale di espiazione e quindi di purificazione da una condizione precedente di impurità: di questo rituale di espiazione esemplificato da “un passar sotto” abbiamo testimonianza nell’episodio narrato da Livio a proposito del Tigillum Sororium, che però non riguarda il trionfo.

    Si trattava di un trave sostenuto da due pali che sorgeva a Roma alle falde della Velia, accanto agli altari di Giunone Sororia e di Giano Curiazio. Vi si compivano cerimonie di carattere espiatorio. Il culto era in origine gentilizio, della gente Orazia: qui, infatti, l’Orazio superstite del duello con i Curiazi sarebbe stato purificato, dopo aver ucciso la propria sorella. Anche se di altro genere l'arco rudimantale fa da passaggio dall'impuro al puro, come porta di espiazione.

    L'arco tuttavia più che una purificazione sa di celebrazione e testimonianza dell'eroe vincitore per l'eternità. Era molto viva tra i romani l'idea che il rimanere eterni dipendeva dal rimpianto dei cari prima e dei posteri poi. Anche se la loro religione non lo stabiliva c'era l'idea greca dell'eroe che accedeva al mondo dei beati nei Campi Elisi.

    Immortalarsi nei monumenti pertanto non solo era un'opera di propaganda presso i vivi ma pure un viatico di eternità presso i morti.



    L'ONORE DELLE ARMI

    Ma l'arco aveva pure una connotazione di riconoscimento, era la porta sotto cui solo gli eroi potevano passare. Ad esso coincide un po' o almeno lo richiama, l'onore delle armi, che pare che sia stato preteso ai Romani da truppe degli sconfitti Iberi; i legionari lo avrebbero poi adottato come regola d'onore, applicandolo in parte ai trionfi.

    All'armata sconfitta, seppur disarmata ma con i propri vessilli, si concedeva di passare in rassegna una rappresentanza dell'esercito vittorioso, come fosse stata la vincitrice.

    L'esercito vittorioso, al passaggio del valoroso avversario sconfitto, alzava le armi come spesso si usava per osannare un capo o un eroe..Poichè le armi alzate erano inclinate verso i vinti ma aldisopra delle loro teste, queste formavano una specie di arco, da cui probabilmente derivò l'uso dell'arco, prima di legno e poi di pietra.



    LA CORONA D'ALLORO

    Il giurista Masurio Sabino nei Fasti o i Commentarii de indigenis, che illustrano antiche consuetudini e cerimonie, collegi sacerdotali, riti e trionfi militari, riporta a detta di Plinio, che esisteva la celebrazione dell’alloro, perché, brandito anche dai nemici armati, è simbolo di pace:

    "Ipsa pacifera, ut quam praetendi etiam inter armatos hostes quietis sit iudicium.Romanis praecipue laetitiae victoriarumque nuntia additur litteris et militum lanceis pilisque, fasces imperatorum decorat".

    e lo mette in relazione l’alloro con pratiche espiatorie, come riferisce ancora Plinio:
    "Ob has causas equidem crediderim honorem ei habitum in triumphis potius quam quia suffimentum sit caedis hostium et purgatio, ut tradit Masurius."

    Plinio aggiunge che veniva deposto sulle ginocchia di Giove Ottimo Massimo, ogni volta che una nuova vittoria ha apportato gioia: "In gremio Iovis Optimi Maximi deponitur, quotiens laetitiam nova victoria adtulit". Pertanto il trionfatore cinto d'alloro era in un certo senso equiparato a Giove.

    Inoltre venne usato nei trionfi, perché sacro ad Apollo a cui anche i primi re di Roma avevano l’abitudine di inviare doni. Riferisce ancora Plinio che l’alloro era sacro anche perchè, unico tra tutti gli alberi, non viene mai colpito dal fulmine.



    DURANTE LA REPUBBLICA

    Eutropio - Breviarium ab Urbe condita:
    "Ma contro Camillo sorse un'aspra invidia, col pretesto di ingiusta divisione del bottino, e per tale motivo fu condannato ed espulso dalla città. Subito i Galli Senoni calarono su Roma e, sconfitto l’esercito romano a dieci miglia dall'Urbe, presso il fiume Allia, lo inseguirono e occuparono la città. Nulla poté essere difeso tranne il colle Campidoglio; e dopo averlo a lungo assediato, mentre ormai i Romani soffrivano la fame, in cambio di oro i Galli levarono l'assedio e si ritrassero. Ma Camillo, che viveva da esiliato in una città vicina, portò il suo aiuto e sconfisse duramente i Galli. Ma non solo: Camillo inseguendoli ne fece tale strage che recuperò sia l'oro, sia tutte le insegne militari da essi conquistate. Così riportando il trionfo per la terza volta entrò in Roma e venne chiamato "secondo Romolo" come fosse egli stesso fondatore della patria."

    All'epoca della prima Repubblica la consuetudine del trionfo rimase, ma per celebrare il trionfo il console o il generale che vi aspirava lo chiedeva al Senato e doveva dimostrare di aver ucciso almeno 5.000 nemici.

    Si narra che le teste dei 5.000 uccisi venivano infisse sui pali e venissero fatte sfilare prima davanti alla casa del vincitore e poi nel Foro, dove i pali venivano infissi nel terreno e le teste lasciate a decomporsi.

    Si denominava la Negatio Capitis, consuetudine oltre che sanguinaria anche pericolosa, perchè la decomposizione poteva portare anche il colera, e il fetore doveva rendere inagibile mezza città, oltre al foro.

    Sicuramente le teste venivano bruciate dopo il primo giorno, ma si ha notizia che una cerimonia di questo genere fu celebrata dal sanguinario Silla, che il mattino del 2 novembre dell'82 a.c. fece sfilare di fronte alla sua casa le teste di 6.000 soldati mariani, quasi tutti sanniti, uccisi nella Battaglia di Porta Collina il giorno prima. Comunque ufficialmente Silla ottenne il trionfo per la vittoria su Mitridate, e anche perchè il senato non osava opporsi a lui.

    Uno dei trionfi più spettacolari fu il trionfo celebrato nel 61 a.c. da Pompeo, vittorioso su Mitridate, del quale abbiamo una lunga e dettagliata testimonianza di Plinio, che non nasconde la sua ironia su alcuni eccessi, come il ritratto di Pompeo, composto di perle.

    Anche il quinto trionfo di Cesare, nel 45, fu concesso per la vittoria sui pompeiani di Spagna che non potevano essere considerati alleati di aggressori stranieri.

    Ma  il senato poteva rispondere sui requisiti richiesti per il trionfo con una certa elasticità, tanto che nelle fonti si scrive di un "Numero giudicato adeguato" di nemici uccisi, senza un riferimento preciso, e pure sulla qualità dei nemici, specie quando temeva per la sua incolumità.



    IL PRIMO TRIONFO 

    Il primo trionfo in epoca repubblicana e decretato dal popolo romano venne deciso nel 449 a.c., quando da soli tre anni Roma si era liberata dall'oppressione dei Decemviri che, eletti per emanare le leggi, assunsero un potere violento e dittatoriale che sfociò in una rivolta contro Appio Claudio.

    Sotto i Decemviri l'esercito romano non aveva brillato nelle battaglie contro i nemici che minacciavano Roma, violando tra l'altro il patto di soccorso ai Sabini, cosa che fece credere alle popolazioni circostanti che Roma fosse sul punto di crollare.

    Il suicidio di Appio Claudio e di Spurio Oppio mise fine all'oppressione dei Decemviri sulla plebe e Lucio Valerio Potito partì contro l'esercito di Equi e Volsci uniti, mentre Marco Orazio Barbato fu inviato a combattere i Sabini.

    Equi e Volsci si erano radunati al Monte Algido dove, già nel 458 a.c.aveva vinto Cincinnato, ma due anni i Romani erano stati sconfitti dagli Equi. Il console Valerio si accampò a poca distanza dal nemico vietando qualsiasi risposta alle scaramucce nemiche.

    Gli Equi e i Volsci, visto che i Romani non accettavano la battaglia, si allontanarono per saccheggiare il territorio circostante che era in parte degli Ernici e in parte dei Latini, lasciando il loro campo presidiato da un contingente limitato.

    Allora i Romani attaccarono il campo nemico, Equi e Volsci uscirono per dare battaglia, ma prima che potessero schierarsi, furono investiti dall'esercito romano che ne fece strage. Quando il resto dei nemici tornò l'esercito romano attaccò di nuovo con successo.

    Durante la battaglia Valerio inoltre inviò i cavalieri attraverso lo schieramento nemico ad attaccarne le retrovie, mentre la fanteria attaccava frontalmente sia Equi che Volsci.

    (Tito Livio) "La fanteria e il console stesso assieme ad ogni altra forza si proiettano negli accampamenti, menando gran strage e impadronendosi di un grandissimo bottino"

    Il secondo console Marco Orazio Barbato, appresa la vittoria di Valerio, scatenò i suoi:

    (Livio) "La battaglia fu degna di due eserciti molto motivati, il primo, dall'antica e gloriosa tradizione, il secondo, dalla fierezza conseguita grazie alla recente e inusitata vittoria."

    Durante la battaglia i cavalieri romani non disdegnarono di scendere da cavallo e combattere insieme alla fanteria contro i nemici sabini:
    Livio: "I Sabini, allo sbando nella campagna, lasciarono i loro accampamenti al saccheggio del nemico."

    I Consoli chiesero il Trionfo: "il Senato, perfidamente, decretò un solo giorno di ringraziamento agli Dei. Il popolo, pur senza il decreto senatorio, anche il giorno dopo si trovò numeroso a celebrare i riti di ringraziamento"

    I consoli convocarono il senato al Campo Marzio proprio in quei due giorni, ma i senatori rifiutarono di convocarsi fra le truppe ancora in armi.

    Allora i consoli, obbedendo alla tradizione, riconvocarono il senato ai Prati Flamini, ma anche stavolta i senatori negarono il trionfo. Era una prova di forza del Senato che temeva forse un eccessivo delirio del popolo per i due consoli, tanto era forte la paura di una monarchia o dittatura.

    Allora Lucio Icilio, uno dei più famosi tribuni della plebe che molto si era messo in luce nella cacciata dei Decemviri, propose che fosse il popolo a decretare il trionfo ai consoli vincitori.

    Il patriziato, con Gaio Claudio si oppose perchè:
    "Sempre era stata una prerogativa del Senato la valutazione e il giudizio sull'attribuzione di questo onore. Neppure i re avevano osato sminuire l'autorità del Senato."

    Si andò allora ai comizi tributi e le tribù votarono a favore della proposta di Icilio e fu questa la prima volta che il trionfo venne decretato dal popolo, senza il consenso del senato, anzi contro di questo.
    Tanto grande era a quei tempi il potere del popolo, tanto grande che oggi, in tempi di apparente democrazia, ce lo potremmo solo sognare.



    DURANTE L'IMPERO

    Spesso ciò che gli studiosi non criticarono durante la repubblica romana, lo criticarono in epoca imperiale. L'arco per esempio è stato anche oggetto di critiche ideologiche, contro la 'vanità' del trionfalismo imperiale:

    "Tali grandiosi giocattoli, invenzioni tanto grandiose quanto irrilevanti nella loro vanità ma purtuttavia con le loro dediche austere, nitidamente scolpite, costituiscono un aspetto di quel culto della personalità che stava alla base dell'idea imperiale. Hanno quindi il loro posto nella storia, un posto insigne."
    (Mortimer Wheeler, Arte e Architettura romana)

    In età imperiale, quando l'imperatore era il capo supremo dell'esercito e i generali, semplici legati, combattevano sotto i suoi auspici, era soltanto a lui che apparteneva, in caso di vittoria, il titolo di imperator e il trionfo. Tutto ciò venne stabilito da Ottaviano e mantenuto dagli imperatori successivi

    Agli autori reali della vittoria si usò concedere l'uso della toga ricamata, della corona d'alloro e dello scettro (ornamenta triumphalia); Agrippa per il primo rifiutò il trionfo, ma accettò gli ornamenti del trionfatore. Immediatamente Augusto ne fece legge.

    Con Traiano però, con quella giustizia e generosità che lo contraddistinse sempre, la legge fu revocata e tutti i consoli ebbero il diritto di assumere nelle cerimonie ufficiali gli ornamenti trionfali.



    LE SPOGLIE DI GUERRA

    Alla vigilia del ritorno dalla Sicilia di Marcello nel 211 a.c. si scatenò a Roma, come riferiscono Polibio (IX 10) e in Plutarco (Marcello 21), un acceso dibattito sulle prede di guerra riportate dal generale.

    La decisione di trasferire a Roma le opere d’arte della Sicilia, non piace a Polibio, per lui una città non è adornata da splendori esterni, ma dalla virtù dei suoi abitanti: «per lo più si ritiene che Marcello ed i suoi non si comportarono in modo conveniente. Aumentando il loro progresso determinarono, però anche l’abbandono di quello stile semplice di vita che li aveva condotti a superare popolazioni dal tenore di vita più raffinato del loro».

    Insomma l'arte è un pericolo per il romano, è una tentazione dell'anima, trasferire a Roma le opere d’arte greche rischia di snaturare l’austero stile di vita romano, come sottolinea Plutarco, in Marcello 21, Secondo l'autore Marcello prese con sé le più belle opere d’arte di Siracusa con l’intenzione di farne mostra nel suo trionfo e di abbellire la città. 

    IL TRIONFO DI TITO
    Fino ad allora, nota Plutarco, Roma non possedeva nulla di così raffinato, in essa non c'era leggiadria nè delicatezza, anzi « piena di armi barbare e di spoglie insanguinate, adorna di monumenti trionfali e trofei non era uno spettacolo né gaio, né rassicurante né adatto a spettatori ignavi e delicati » .

    Infine c’era l’aspetto più patetico dello spettacolo trionfale, rappresentato dai prigionieri di guerra, uomini comuni e sovrani con i loro familiari ed amici, che sarebbero stati gettati in prigione o addirittura uccisi, secondo un crudele rituale, non appena la quadriga del triumphator avesse deviato verso il Campidoglio, come ci attesta, tra gli altri Cicerone (in Verrem):

    Moltissimi sovrani si sottrassero con il suicidio alla prospettiva di un’infamante sfilata nel corteo trionfale: questo destino, come è noto, scelse anche Cleopatra, con disappunto, secondo Plutarco, di Ottaviano che non rinunciò, però a far sfilare nel trionfo un’effigie della regina, mentre si faceva mordere dall’aspide.



    LA CERIMONIA

    Il trionfo era  legato a tutti quei rituali che permettevano al miles di ritornare sia dalla guerra sia dallo stato militare a quello civile, sia di purificarsi dal sangue versato.

    Esso avveniva al termine della stagione di guerra, e si eseguiva nella zona della Carinae, tra San Pietro in Vincoli e Colle Oppio, passando sotto al Tigillum Sororium, il primo arco trionfale di Roma dove passavano i combattenti al rientro. Infatti i generali che chiedevano il trionfo non potevano entrare dentro al Pomerium per fare la richiesta, nè potevano entrare nell'urbe i soldati in armi.

    Il trionfo doveva celebrare l'imperator, proclamato da tutti popoli del gruppo umbro-osco-sabino come il vincitore che tornato dal campo di battaglia restituiva le armi e l'imperium, si che tutto l'esercito dei miles tornassero cives.

    Dunque il trionfo non si poteva celebrare in caso di guerre civili, occorreva essere Consoli o Pretori, i nemici vinti dovevano essere di un certo numero, gli onori andavano soprattutto a Giove Ottimo Massimo che aveva garantito la vittoria, ma sopra ogni cosa la guerra doveva aver corrisposto a precisi rituali, rite inductum, e contro il giusto nemico, contra iustum hostem.

    Le procedure del rite inductum erano la rerum repetitio, la denuntiatio e l’indictio, cioè tutti tentativi di evitare la guerra o dimostrare che fosse inevitabile. Solo allora la guerra diventava giusta e da farsi: bellum istum.

    Pertanto il nemico era iustus quando non apparteneva alla comunità romana, a meno che non fossero latrones, i ladroni, che Gellio definisce nomen humile: i servi e i pirati.  Nelle Filippiche infatti Cicerone definisce Antonio e i suoi militari latrones.

    Come descrive Tertulliano, il Trionfo consisteva in un corteo formato dalle truppe vittoriose con alla testa il triumphator,  che, partendo da Campo Marzio, entrava in corteo, portando al seguito i nemici prigionieri e le spoglie di guerra,  attraverso l'Arco di trionfo.

    Guidava il corteo l'intero Senato, poi un gruppo di suonatori di corni e di trombe che annunciava una lunga serie di carri carichi delle spoglie del nemico e del bottino di guerra.

    Gli oggetti più notevoli per valore e pregio artistico erano portati, isolati o in gruppo, su apposite portantine. Subito dopo erano condotti gli animali sacri destinati al sacrificio con i relativi sacerdoti

    Seguivano i vessilli, gli emblemi e i trofei delle armi prese al nemico, i principi e le notabilità dei vinti con le loro famiglie; venivano poi gli altri prigionieri di minore rango con le mani legate. 

    I littori, con la fronte e i fasci ornati da ghirlande di alloro introducevano poi il trionfatore ritto sul carro trionfale, tirato da quattro cavalli affiancati.

    Il triunphator vestiva la toga picta, e la corona d' alloro, e con la destra recava un ramo di alloro. Dietro di lui uno schiavo teneva sospesa sul suo capo una corona d'oro, ornata da gemme, imitante le foglie di lauro. 

    I suoi figli minori avevano posto con lui sul carro; quelli che avevano raggiunto l'età virile procedevano a cavallo subito dopo. Dietro al trionfatore venivano gli ufficiali superiori tutti a cavallo. Seguiva l'interminabile sfilata dell'intero corpo delle legioni. I legionarî recando in mano un ramoscello d'alloro, con sul capo ghirlande della stessa pianta, gridavano: Io triumpe!, o cantavano le canzoni composte in onore del loro duce e di quando in quando lanciavano frizzi, anche salaci, al suo indirizzo (v. trionfali, carmi).

    Il triumphator avanzava su una quadriga trainata da cavalli bianchi sul cui predellino erano aggrappati figli e parenti.

    Uno schiavo gli teneva alzata aldisopra della testa una corona d'alloro sussurrandogli:
    "Memento mori, memento te hominem esse, respice post te, hominem te esse memento."
    Cioè: "Ricordati che devi morire, ricordati che sei un uomo, guardati attorno, ricordati che sei solo un uomo".
    Il richiamo rivolto al trionfatore era un invito a non montarsi la testa, visto che il trionfatore veniva paragonato a Giove e psannato fino al delirio dalla folla plaudente che gli lanciava fiori.

    In Plutarco, nella vita di Emilio Paolo, ci descrive il suo trionfo, con il popolo che si era costruito dei palchi sia negli ippodromi, sia attorno al foro ed aveva occupato le restanti parti delle città, in ogni luogo ove passasse il corteo e fosse possibile scorgerlo dall'alto.

    Giunto al Campidoglio il trionfatore offriva a Giove Ottimo Massimo il lauro che teneva in mano e quelli che avevano decorato i fasci dei littori, quindi compiva il sacrificio. A chiusura dei festeggiamenti un banchetto riuniva i magistrati e i senatori, mentre venivano distribuiti cibi e vino ai soldati e al popolo.


    LE TAVOLE


    Dal canto suo Properzio immagina il passaggio, fra la folla plaudente sulla via Sacra, del corteo trionfale, mentre egli, con atteggiamento distaccato, leggerà appoggiato sul seno della sua fanciulla i nomi delle città conquistate scritte sulle tavolette:

    IL TRIONFO DI MARCO AURELIO
    "ante meos obitus sit, precor, illa dies, qua videam spoliis oneratus Caesaris axes, ad vulgi plausus saepe resistere equos, inque sinu carae nixus spectare puellae incipiam et titulis oppida capta legam ".

    L’uso di far sfilare tavole non solo con i nomi ma anche con le rappresentazioni delle città conquistate e le fasi salienti della guerra divenne canonico nel trionfo, come attesta App.Lyb. 66, quando descrivendo la forma del trionfo di Scipione nel 201 a.c., in cui appunto c’erano tavole di quel tipo, sottolinea che lo stile rimase invariato.

    Livio narra del trionfo di Tito Sempronio Gracco nel 176 a.c. sulla Sardegna, quando fu fatta sfilare la tavola con la riproduzione dell’isola. Analogamente, durante l’impero, Tacito (Annales) ricorda il trionfo di Germanico sui Cheruschi e i Catti e gli Agrivari e su tutte le altre genti fino all’Elba e menziona simulacra montium, fluminum, proeliorum..

    Questa pratica coinvolgeva gli spettatori, trasportandoli idealmente nei territori teatro delle operazioni militari e della vittoria, con una funzione didascalica di conoscenze geografiche.

    Accanto a questi pannelli, analoghi all’orbis pictus di Agrippa, le prede di guerra, oggetti e prigionieri rappresentarono gli altri aspetti “spettacolari” del trionfo.

    Dopo la riforma di Gaio Mario il trionfo perse un po' dell'aspetto religioso privilegiando l'aspetto sociale, portava infatti prestigio a tutta la sua famiglia, stabilendo un rapporto privilegiato con le proprie truppe.

    I TROFEI DI MARIO
    I trionfi, simboleggiati da armi e armature mescolate, vennero scolpite nel marmo col nome del trionfatore, i cosiddetti trofei, che spesso troviamo sui portali romani, in particolare famosi quelli di Mario a Piazza Vittorio o quelli sul Campidoglio accanto ai Dioscuri.

    Importanti erano le armi del bottino, che sappiamo, in occasione del trionfo di T. Quintius Flaminius, nel 194 a.c., vennero affisse all'esterno della casa del vincitore, e nel trionfo di Emilio Paolo nel 167 a,c, le armi vennero fatte sfilare su ben 2700 carri che sfilarono in tre giorni, carichi di armi, scudi e armature. Queste armi venivano poi affisse sui templi, usanza che perdurò fino al principato di Ottaviano.

    Augusto concesse il trionfo soltanto ai membri della sua famiglia. Ai suoi generali concesse, a partire dal 12 a.c., le ornamenta triumphalia, per cui sfilavano con le vesti del triumphator insieme all'Imperatore.

    Plinio nella sua Historia narra che Augusto superò chiunque altro facendo porre nel suo foro due quadri, non sappiamo se dipinti o in mosaico, ma propendiamo per il primo, molto più suggestivo, che riproducevano la guerra e il trionfo:
    "Super omnes divus Augustus in foro suo celeberrimo in parte posuit tabulas duas, quae Belli faciem pictam habent et triumphum".

    Belisario fu l'ultimo generale a ricevere un trionfo a Costantinopoli in nome dell'imperatore Giustiniano, come riconoscimento della sua vittoria sui Vandali.



    IL TRIONFO A GIOVE LAZIALE

    Se il Senato avesse rifiutato a un generale l'onore del trionfo pubblico, questi poteva, senza altra autorizzazione, celebrare un trionfo salendo al tempio di Giove Laziale, sul monte Albano. Il primo che usò di questa facoltà fu C. Papirio Masone nell'anno 231 a.c.



    L'OVATIO

    Altra forma di trionfo era l'ovatio che ne costituiva una forma minore. In questo caso il generale vittorioso entrava in Roma non su una quadriga, bensì a piedi con la semplice toga praetexta, senza lo scettro, ed una corona di mirto al posto di quella d'alloro. La processione spesso coinvolgeva la folla, ma non comprendeva una parata di soldati, ed al termine della processione veniva sacrificata una pecora, non un toro.

    TERME DECIANE

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    RICOSTRUZIONE  DELLE TERME DI DECIO

    Gaio Messio Quinto Traiano Decio fu imperatore  romano dal 249 fino alla morte, avvenuta insieme al figlio Erennio Etrusco in battaglia, regnando così per soli due anni. In questo breve regno fece costruire le Terme Deciane, o Thermae Decianae, un complesso termale sull'Aventino destinate a servire un quartiere aristocratico.

    La pianta delle terme è conosciuta da un disegno cinquecentesco di Andrea Palladio, una struttura simile alle altre terme imperiali, sebbene di dimensioni più ridotte, che ha permesso anche di collocare correttamente i resti superstiti all'interno del complesso originario (di circa 70 x 35 m).
    Tra questi ambienti spicca un'abside che apparteneva all'aula sullo spigolo meridionale, di cui molte sale sono conservate fino alla volta, con i loro mosaici e le pitture a riquadri, con piccoli soggetti, paesaggi, maschere  e fiori, di epoca traianea, confermato dai bolli laterizi. Alcuni suppongono che l'edificio appartenga a case di proprietà dello stesso Deciom visto che altri membri della sua gens abitavano sull'Aventino, oppure che si tratti della casa di Traiano (Privata Traiani).

    Come già specificato la dimensione delle terme era ridotta, destinate com'erano ad un pubblico ristretto ed elitario. Sul versante opposto dell’Aventino erano già funzionanti le più grandi e popolari terme di Caracalla, più grandiose ma destinate ad un uso di massa da parte delle genti del quartiere popolare della XII regio., ma non di meno queste erano ornate di pregevoli opere d'arte, come dimostrano le molte rinvenute nell'area stessa delle Terme.
    Furono anzi le più piccole di tutte, più o meno come le Terme di Agrippa, e con solo edificio  balneare. Assai scarsamente documentate e praticamente scomparse, vennero localizzate grazie a vecchie mappe di Roma, come quella settecentesca del Nolli, che ne riportano i ruderi allora esistenti, e ad alcune iscrizioni sulla storia dell'edificio, una delle quali è ancora nel cortile del Casale Torlonia. 



    I RESTAURI

    Le terme, di cui restano alcune rovine, sono menzionate in alcune iscrizioni che, oltre a confermare la localizzazione, forniscono elementi certi circa la storia del complesso, come il restauro sotto Costante I o Costanzo II e un altro del 414, sotto Onorio, ad opera del praefectus urbi Cecina Decio Aginazio Albino in seguito ai danni causati dal Sacco di Roma di Alarico.



    I RESTI

    La pianta mostra uno sviluppo simmetrico degli ambienti secondari posti ai lati di una grande aula centrale il tepidarium). I due ambienti evidenziati in bianco costituiscono l'apodyterium, ossia lo spogliatoio, affiancati alla palestra (celeste). Gli ambienti disposti a sud-ovest fanno parte del calidarium (arancione): da qui si passava prima in un ambiente più temperato,  il tepidarium in giallo e poi negli ambienti blu che costituiscono il frigidarium.

    LA PIANTA DELLE TERME  E LA  PIAZZA DEL TEMPIO DI DIANA OGGI
    Costruite su edifici più antichi, sono state a loro volta inserite nel medioevale tuttora esistente. Sotto le terme si trovano infatti i resti di edifici precedenti, visibili nei sotterranei del Casale Torlonia, oggi Borghese, e sotto la piazza del Tempio di Diana: si tratta di muri in opera quasi reticolata con tracce di una decorazione a finte incrostazioni marmoree in pittura e stucco (I stile pompeiano), la testimonianza più antica di questo schema decorativo a Roma, risalente all'ultimo quarto del II secolo a.c.  

    Le strutture precedenti sono riferibili ad una domus di età traianea, che a sua volta aveva inglobato strutture precedenti, in opera reticolata, pertinenti ad un’altra domus di cui rimangono alcuni ambienti che presentano la decorazione a pannelli del II sec. a.c..
    Questo altro edificio di epoca traianea è sfarzosamente decorato da mosaici e pitture a riquadro con molteplici soggetti (maschere, fiori, paesaggi), forse l'abitazione privata di Traiano (Privata Traiani) prima che diventasse imperatore che doveva trovarsi nelle vicinanze, o forse una residenza dello stesso Decio sulla quale fece edificare il complesso termale.

    Tra le strutture rimanenti nel casale Torlonia, rimangono visibili alcuni muri laterizi tra cui la parete sud-ovest del casale, che si affaccia sul cortile interno e che corrisponde alla facciata sud-ovest del complesso termale.
    A circa 10 m è stato rinvenuto infatti un grosso muro di fondazione delle terme in opera cementizia, che taglia uno dei vani di una casa preesistente. Quest'ultima, venuta alla luce intorno agli anni Venti, durante i lavori per una fognatura, è composta da cinque ambienti conservati in tutta la loro altezza, comprese le volte a crociera. Essa presenta due archi laterizi inglobati in una struttura più tarda, che va forse riferita ai restauri compiuti dal prefetto urbano del 414 Caecina Decius Acinatius Albinus, che restaurò in particolare il calidarium. Esso versava, infatti, in pessime condizioni e rischiava di far cadere tutto il complesso. Qui è stato ritrovato anche l’ipocausto.

    Le pareti del primo ambiente sono finemente affrescate con decorazioni lineari a riquadri su fondo bianco, all'interno dei quali sono raffigurati paesaggi, nature morte e maschere teatrali, gli altri ambienti presentano una decorazione lineare ma più semplificata, con mazzi di fiori, uccelli e gazzelle all'interno dei riquadri bianchi e un motivo concentrico di cerchi e ottagoni che trasforma le volte a crociera dei soffitti in una specie di cupola ottagonale.
    Nell'ultimo ambiente, ancora parzialmente interrato, è visibile, in un sottarco, una decorazione a larghe fasce di colore violaceo con cavalli marini, stambecchi e fiori, probabilmente realizzata durante una delle ristrutturazioni della casa (epoca severiana) prima della costruzione delle Terme Deciane.

    Della domus tardo-repubblicana, inglobata dall'impianto imperiale, sono stati rinvenuti un muro in tufelli, una colonna in travertino, un pavimento in scaglie di marmo colorato. Tale struttura inizialmente si estendeva verso nord ed era collegata con altri ambienti situati attualmente sotto il Casale Torlonia e anch'essi utilizzati come fondazione delle Terme Deciane, rimasti però quasi completamente inesplorati. Attualmente non sono visibili essendo all'interno di una proprietà privata, dato che il comune di Roma non ha mai reclamato questi beni.
    Anche questi ambienti presentano numerose fasi successive: una, più antica, in opera quasi reticolata con decorazione a pannelli in rilievo di primo stile pompeiano (fine II sec. a.c.) e una seconda, dovuta a una ristrutturazione, con una decorazione a schema lineare, analoga a quella rinvenuta nel primo ambiente sotto piazza del Tempio di Diana, con paesaggi sacrali e con figure femminili presso altari, ritratte nell’atto di compiere sacrifici. La seconda decorazione è databile ai primi decenni del II sec. d.c. 

    Tutti questi ambienti dovevano far parte, originariamente, di un unico grande complesso di epoca imperiale, che aveva inglobato case di epoca repubblicana di una vasta area (secondo alcuni la domus cd. Casa Bellezza) e nel quale si è voluto riconoscere un settore dei Privata Traiani, ossia la casa privata di Traiano (da altri invece identificata con la casa sotto S. Prisca), che i Cataloghi Regionari localizzavano sull’Aventino citandola dopo le terme Deciane e il Dolocenum (che è stato rinvenuto sotto via di S. Domenico, ossia la strada posta pochi m a settentrione della piazza del Tempio di Diana).



    I REPERTI

    Gli scavi hanno restituito nel tempo molte opere d'arte, come l'Ercole fanciullo in basalto verde o il rilievo di Endimione dormiente, entrambi ai Musei Capitolini. Pochissimi i frammenti decorativi marmorei pertinenti alla decorazione del complesso, alcuni dei quali conservati ai Musei Capitolini.



    VIGNA MASSIMI - DELLA CASA PROFESSA - TORLONIA

    La presente vigna Torlonia all'Aventino, la maggiore dentro le mura della città, che si stende dal sommo del monte presso s. Alessio, e dal Priorato di Malta, sino alla porta s. Paolo, abbraccia le vigne segnate nella pianta del Nolli coi nomi di s. Alessio, della Casa Professa e del Noviziato de' Gesuiti, del collegio Luganini, dell'Università di Frul1aro1i, e la vigna Maccarani. Quest'ultima è stata tagliata fuori dal corpo principale per mezzo del nuovo viale di porta s. Paolo aperto del 1889. 


    VILLA DEI TORLONIA
    La vigna Massimi è insigne per gli avanzi delle terme Deciane e per ritrovamenti di marmi scritti e figurati. A e. 126 del cod. berlin. del Pighio, il Florent parla di una tavola marmorea (Grutero, 128,5, CIL. VI, 222) « effossa ante triennium (1567) in vinca R. archiepiscopi de Maximis in mòte Aventino nunc extat in atrio domus suae Romae, anno 1570 die 29 octobris» : ma cade in errore, sapendosi dal Manuzio essere stato trovato quel marmo insigne fra le rovine della stazione della quinta corte dei Vigili alla Navicella. Le indicazioni topografiche e cronologiche date dal Florent spettano invece al ritrovamento dell' insigne base di statua di Vettius Agorius Praetextatus, CIL. 1777, la quale indicherebbe il sito di una seconda domus urbana di quel personaggio, o piuttosto di una domus aventiuese, distinta dagli horti esquilini. Vedi Lanciani, Syll. aquar. n. 52-53. 

    Nell' istesso luogo furono ritrovate la base di una statua trasferita dal prefetto Anicius Paolinus alle terme Deciane nell'anno 331, CIL. VI, 1051: il piedistallo n. 1159 dedicato a Costanzo augusto da Memmius Vitrasius Orfitus: quello n. 1160 dedicato al medesimo da Flavius Leontius: quello n. 1107 dedicato a Magnenzio da Fabius Titianus, e quello n. 1008 dedicato a M. Aurelio dai decuriales pullarii. Per ciò che spetta al 1192, che determina il sito delle terme, il Doni ap. Gori {Iscr. Rlr. tomo II, 150) è il solo epigrafista che lo dica esistente "in hortis Alexaudri Maiimi", mentre si sa da Pietro Sabiuo essere stato trovato sin dal febbraio 1513 nella vigna adiacente di Mario da Volterra, che fu poi del Lisca.

    Tutti questi ritrovamenti devono essere riusciti assai accetti all'arcivescovo d'Amalfi padrone della vigna, ridotto un po' a mal partito. Trovo infatti negli atti di Curzio Saccoccia aver egli, sino dal 18 febbraio 1567, imposto su questa proprietà un censo di scudi diciotto d'oro a favore delle monache di s. Ambrogio della Massima, per un prestito di scudi duecento. Maggiormente gradita gli sarà stata la scoperta dell'Ercole di basalto, che F. Vacca descrive a questo modo: - mi ricordo, che nel monte Aventino, nella vigna di monsignor de Massimi verso Testacelo, si trovò una statua di basalto verde, quale dicevano che sia il figliuolo d'Ercole in età fanciullesca con la pelle di leone in testa, e con la clava in mano . . . questa statua la comprarono i Romani dal detto monsignore per ducati mille di camera» {Mem. 90) e ciò avvenne il giorno 10 novembre del 1571. 

    Gli epigrafisti contemporanei ricordano pure fra i cimelii della vigna un'arula rotonda dedicata a Silvano da L. Manilius Saturninus, CIL. G51, e un frammento di base marmorea commesso nel piano dell'aia, col nome di C. Octavius Appius Suetrius Sabinus cos. 214, indizio della prossimità della sua residenza aventinese. Vedi anche Lanciani, Syll. aq. 175, 176.
    L'autore del cod. barber. vat. XXX, 89 descrive il cippo di Flavia Helpis, CIL. VI, 18357 come esistente «nella vigna o giardino dell'arcivescovo de Massimi, incontro S. Sabina, tramezzato dalla strada publica, in una pietra antica di marmo bianco di 2 busti piccioli di maschio e femina».

    Il giorno 13 novembre 1635 Marcello Vitelleschi acquistò la vigna dal marchese Massimo Massimi a favore della Casa Professa dei Gesuiti. Nell'apoca stipolata dai notari Colonna e Buratti è detta confinare con l'orto di s. Alessio, con il sig. Virgilio Lucharini, con li sigg. Specchi, e con il noviziato di s. Andrea. 



    MARSI

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    I Marsi furono una popolazione italica, di lingua osco-umbra, affine agli Umbri e ai Sanniti, che risiedevano fin dal I millennio a.c. nella conca del Fucino, la valle del Giovenco (affluente del Fucino da est) e l'alta valle del Liri.

    La parte centrale della zona fucense era occupata dai Marsi, a nord-ovest avevano gli Equi che si allargavano nell'odierno reatino, mentre a sud avevano i Volsci, che occupavano la parte sud della Valle Roveto, tutte popolazioni con cui si sentivano intimamente legati, anche perchè dividevano con essi un'antica Dea Madre Angitia, o Anctia, o Anxia, una Madre Terra con i tre aspetti di nascita, crescita e morte.

    Alla Dea erano legati anche dei Sacri Misteri, come dimostra anche la traduzione romana della Dea importata a Roma secondo la consuetudine dei vincitori romani che accoglievano qualsiasi divinità ritenuta potente. Più gli Dei nemici erano potenti, più, una volta trasportati e onorati a Roma avrebbero protetto l'impero.

    A Roma la Dea mutò il suo nome in Angerona, con la bocca imbavagliata che non rappresentava, come qualcuno ha ingenuamente inferito, il lato segregato della donna, ma come colei che ha un segreto che non può divulgare. Trattasi dei Sacri Misteri riservati alle donne, nella loro qualità di sacerdotesse e pitie, legate al serpente sacro, che del resto era, come esplicita il suo nome, l'attributo della Dea: Anguis = serpente.

    Il nome "Marsi" deriva però da Marte, Dio della guerra, che in lingua sabellica si pronunciava "Mars" o "Mors". Il nome fu assunto in seguito a un rito di Ver Sacrum, per cui i Marsi si staccarono dal gruppo sabellico. Probabilmente il Dio era figlio di Angitia e ne personificava il lato distruttivo attraverso la guerra. Come i Peligni adoravano anche i Dioscuri (Iovies Pucleis in lingua marsicana), anch'esse divinità guerriere.

    Come i sanniti, i Marsi erano governati da meddix, una specie di praetor, detentore di molti poteri: con le supreme funzioni militari e giudiziarie; da questa carica dipendeva il calendario, i cui anni erano identificati con il meddix in carica - esattamente come a Roma con i consoli.

    In questo popolo fiorì la magia e l'arte curativa con le erbe, caratteristiche di ogni società in cui fosse rimasto un retaggio matriarcale. Erano infatti le sacerdotesse ad occuparsi della magia e delle pozioni con le erbe. In seguito l'arte fu esercitata dagli uomini.

    Marruvio, secondo Silio Italico, era la capitale dei Marsi "Marsos Marruvium", come emerge da due lapidi rinvenute in S. Benedetto dei Marsi, rese note dal Febonio. Altri centri furono Antinum (Civita d'Antino), Milonia (Ortona dei Marsi), Plestinia (Pescasseroli), Fresilia (Opi) e il bosco sacro di Lucus Angitiae (Luco dei Marsi).

    Il nome Marsi Anxates, ricordato da Plinio il Vecchio, presuppone inoltre l'esistenza di una città chiamata Anxa, da Angitia che, nella forma arcaica, è detta Anctia. Il centro di Anxa sorse nell'Età del Ferro, con una cinta in opera poligonale che cinse l'oppidum e il santuario per un'area di 30 ettari che gli studiosi pensano sia stata edificata nel IV sec. a.c..

    SANTUARIO MARSICANO DI ANGITIA


    LE GUERRE CONTRO I ROMANI
    408 a.c.
    - Nel 408 a.c., il Senato aveva deciso che la campagna militare contro i Volsci ed Equi, radunatisi davanti ad Anzio,avrebbe dovuto essere condotta da un dittatore, Gaio Servilio Strutto Ahala.
    Nominato Magister equitum Ahala, il tribuno consolare Gneo Cornelio Cosso condusse l'esercito romano contro i Volsci, alleati dei Marsi.
    « L'esercito vincitore devastò il territorio dei Volsci ed espugnò una fortezza situata vicino al lago Fucino, dove furono catturati 3.000 nemici, mentre i Volsci superstiti, ricacciati all'interno delle mura, non poterono difendere le campagne. »
    (Tito Livio)

    - 389 a.c.
    - Passano una ventina d'anni e nel 389 a.c. e ancora un membro della gens Cornelia, Publio Cornelio, venne eletto tribuno consolare con Lucio Valerio Publicola, Lucio Verginio Tricosto, Aulo Manlio Capitolino, Lucio Emilio Mamercino e Lucio Postumio Albino Regillense. Durante il tribunato i romani, condotti da Marco Furio Camillo, nominato dittatore per la terza volta, sconfissero i Volsci, gli Equi e gli Etruschi, che avevano assediato la città alleata di Sutri. Il controllo dell'area conquistata viene posta sotto il controllo di Publio Cornelio. Questa volta la pace dura più a lungo.

    - 325 a.c.
    - Siamo nel 325 a.c. Roma combatte la II guerra sannitica, i Marsi, insieme ai Vestini, ai Marrucini e ai Peligni, si unirono in confederazione. Roma mandò come generale il console Decimo Giunio Bruto Sceva, il pericolo era grave, la federazione poteva unirsi ai sanniti. Bruto devastò le campagne per costringere gli italici a scendere in campo aperto. Grandi perdite da entrambe le parti. ma gli italici dovettero fuggire nelle cittadelle.

    - Poi Livio cita uno scontro tra le legioni di Quinto Fabio Massimo Rulliano e i Sanniti, ormai alleati a Marsi e Peligni; fu una piccola battaglia ma i Marsi avevano rotto il trattato di pace.

    - 304 a.c.
    - Nel 304 a.c., dopo la grave disfatta subita dagli Equi ad opera dei Romani guidati dai consoli Publio Sempronio Sofo e Publio Sulpicio Saverrione, i Marsi, come i loro vicini Peligni, Marrucini e Frentani, inviarono ambasciatori a Roma per chiedere un'alleanza, che fu loro concessa attraverso un trattato. Non appoggiarono più la Lega sannitica, contribuendo alla vittoria romana.

    - 303 a.c.
    - Nel 303 a.c. Roma fondò in territorio marsicano, sulla sponda nord ovest del lago del Fucino, dove alloggiano gli Equi, la colonia latina di Alba Fucens. Contemporaneamente i Marsi si allearono ai Romani, dopo decenni di guerre sanguinose.

    - 301 a.c.
    - Nel 301 a.c., approfittando di una rivolta dell'Etruria, i Marsi si opposero alla colonia di Carsoli, appena fondata da quattromila uomini. Allora Roma nominò dittatore Marco Valerio Corvo, che sbaragliò i Marsi in una sola battaglia; li costrinse quindi a trincerarsi nelle loro cittadelle, prima di conquistare in rapida successione Milonia, Plestinia e Fresilia. Stavolta i Marsi dovettero rinunciare a parte del loro territorio, per rinnovare l'alleanza con Roma.

    - 280 - 275 a.c. 
    - La romanizzazione dei Marsi è opera pressocchè compiuta. A differenza di altri popoli osco-umbri, dopo la sottomissione rimasero fedeli a Roma in occasione delle Guerre pirriche.

    - 225 a.c.
    - Nel 225 a.c. infatti i Marsi combatterono poi al fianco di Roma alla II Guerra punica partecipando a un contingente di cavalleria di quattromila armati insieme a Marrucini, Frentani e Vestini.

    - 217 a.c. 
    - Nel 217 a.c. secondo Tito Livio, nel corso della II guerra punica il territorio dei Marsi e dei loro vicini Peligni sarebbe stato devastato dalle truppe di Annibale, in marcia verso sud dopo la vittoria nella battaglia del Lago Trasimeno; ma Marsi e Peligni non si trovavano lungo l'itinerario dei Cartaginesi. La notizia potrebbe essere del tutto infondata.

    - 91-88 a.c,
    - 91-88 a.c,, sono i Marsi i principali ispiratori, con Peligni e Piceni, della grande coalizione di popoli italici che scatenò la Guerra Sociale, detta anche Bellum marsicum,  per la concessione della cittadinanza romana. In realtà non è tanto una guerra contro Roma quanto una guerra per diventare romani (con i relativi privilegi che ne conseguivano). L'esercito italico, aveva due rami: uno sabellico guidato dal marso Quinto Poppedio Silone, un altro sannitico affidato a Gaio Papio Mutilo, e quello marso guidato da Tito Lafrenio. 

    - 91 a.c.
    - Nel 91 a.c. la rivolta delle popolazioni fucensi, portò, alla Guerra sociale,che diventò a Roma la guerra civile tra Mario e Silla. La rivolta degli alleati italici fu poi sedata dal console Gaio Mario con la conseguente concessione della cittadinanza romana a tutti i confederati.

    - 90 a.c.
    - Con la Lex Julia de civitate, promulgata da Lucio Giulio Cesare nel 90 a.c., si concesse la cittadinanza romana a tutti gli Italici rimasti fedeli a Roma, estesa poi anche ai popoli ribelli, tra i quali i Marsi. I loro territori furono intensamente colonizzati, soprattutto nell'epoca di Silla. Ottenuta la cittadinanza, i popoli sabellici furono incorporati nelle tribù romane: i Marsi, con i Peligni, furono iscritti nella gens Sergia.

    In realtà Tito Livio riferisce che, sin dall'età arcaica, l'omonima tribù rustica Sergia comprendeva località nel territorio sabino e della Marsica, e centri peligni quali Corfinio e Sulmona, e in Umbria Assisi. Da allora la romanizzazione degli Italici si completò, come attesta la rapida scomparsa delle varie lingue, sostituite dal latino.

    - ancora 90 a.c.
    Nel 90 a.c. Lafrenio fu il primo difensore di Ascoli (città non marsa, ma della federazione), assediata da Gneo Pompeo Strabone; presto ricevette il soccorso dei Piceni di Gaio Vidacilio e dei Peligni di Publio Vettio Scatone. 
    In seguito i Marsi di Lafrenio assediarono lo stesso Pompeo a Fermo, prima di essere battuti da Mario. 
    Poppedio invece, comandante di Marsi e Vestini, tese un'imboscata in cui cadde il romano Quinto Servilio Cepione il Giovane, prima che Roma vincesse definitivamente sui socii ribelli con la presa di Ascoli da parte di Pompeo

    Durante le numerose battaglie della piana del Fucino, i Marsi si guadagnarono la fama di guerrieri invincibili e coraggiosi, come riporta un proverbio romano citato dallo storico greco Appiano di Alessandria.
    « Non si può vincere né senza i Marsi né contro di essi»

    Ma c'era un altro detto sul valore dei Marsi "per fare un guerriero marsicano sono necessari quattro legionari romani". Nei secoli successivi i Marsi divennero il fulcro apprezzatissimo delle legioni romane.
    ANGIZIA (forse)


    LA STELE VOTIVA

    Un importante documento epigrafico del 295 a.c. proveniente dalla Marsica, venne reperito nei pressi del grande santuario di Lucus Angitiae, contenente una dedica votiva di Caso Cantovios incisa su lamina di bronzo.

    "Caso Cantovios e alleati". La targa di bronzo fu trovata nel lago di Fucino, scritta in dialetto-latino o misto Marsicano e latino. Ogni linea (tranne 3 e 4) va da destra a sinistra. Caso Cantovios Aprufclanos istituì dei pilastri al confine Basilicano nella città di Casontonia, e i suoi alleati portarono una preda bellica recata come dono votivo ad Angitia, a nome delle legioni marsicane.

    Il testo latino risale agli inizi del III sec. a.c., e sembra trattarsi di un frammento bronzeo di cinturone, del tipo a fascia rettangolare molto alta, delimitata lungo i bordi da forellini per la cucitura sul cuoio.

    Il contesto potrebbe essere del 295 a.c. quando venne inviato da Roma sul fronte settentrionale, ove dovevano essere affrontate le forze congiunte di Galli, Etruschi, Umbri e Sanniti, un esercito costituito non solo dalle quattro legioni romane e dalla cavalleria, ma anche da mille cavalieri campani, da socii e da Latini.

    Caso Cantovios, con le sue legioni marse, deve dunque aver partecipato a queste operazioni; prima a Sentinum, ove furono impiegate tutte le forze disponibili, e poi nell’anno successivo nei territori umbri ed etruschi al seguito di Q. Fabio, spingendosi fino a Casuentum.
    La dedica nel Lucus Angitiae si riferiva dunque a un oggetto preso dal liberto Caso Cantovios nella città di Casuentum nel 294 a.c
    Probabilmente Caso Cantovios morì in guerra, per cui i suoi sottoposti, a nome delle sue legioni, sciolsero il voto fatto ad Angitia, portando nel santuario l’oggetto con la lamina bronzea.



    LUCUS ANGITIAE

    Il Lucus Angitiae, sulle rive occidentali del lago Fucino, fu un importante santuario marsicano, che aveva un bosco dedicato alla Dea Angitia, figlia di Eete, sorella della maga Circe e di Medea, esperta nella preparazione di medicine e pozioni magiche. Inoltre le era sacro il serpente, il che la ricollega
    alla Madre Terra.

    Molti reperti venuti alla luce casualmente o durante lavori pubblici e privati testimoniano l'importanza del sito archeologico che sorge nella sua area. Sono stati reperite statue, sculture a bassorilievo, monete ecc. oggi custoditi presso il museo storico di Chieti.

    Da anni si cerca di iniziare gli scavi archeologici per riportare interamente alla luce il sito ma per mancanza di fondi e problemi burocratici nulla è accaduto. Tuttavia nel 1998 con un autofinanziamento dell'amministrazione comunale sono iniziati i primi lavori di scavo che hanno portato alla luce un'imponente tempio di eta' augustea, colonne doriche e sepolture.



    RESTI ANTICHI

    AIELLI • 
    La vetta del monte Secino è circondata da una cinta di mura italiche.
    ALBA FUCENS • 
    Tra il Velino e il Fucino, una altura a 1000 mt di quota ospita i resti della più importante città romana d'Abruzzo edificata nel 303 a.c. Interessanti i resti della Basilica, dell'Anfiteatro, delle terme e le mura megalitiche del periodo italico. La chiesa di S.Pietro, del secolo XII, edificata sui resti del tempio di Apollo, domina le rovine antiche.
    ALFEDENA • 
    Il centro più importante dei Sanniti in Abruzzo. Da visitare l'Acropoli di monte Curino, le 1500 tombe scavate nella necropoli di Campo Consilino anche se praticamente invisibili.
    DENARIO MARSICO
    AMITERNUM • 
    Città dei Sabini che nel 293 a.c. fu conquistata da Roma. Le sue rovine si trovano a 9 km da L'Aquila. I monumenti da visitare più imponenti sono: l'anfiteatro e il teatro.
    ATRI • 
    La cripta della cattedrale di Santa Maria Assunta è stata realizzata ristrutturando una cisterna romana dell'antica Hatria. La cattedrale è della fine del secolo XII ed è uno dei monumenti più noti d'Abruzzo e ospita affreschi dipinti dal 1450 in poi. Da visitare anche il museo Capitolare e le chiese trecentesche di S. Domenico e S.Agostino.
    AVEZZANO • 
    A Sud della città si affacciano sul Fucino gli imponenti imbocchi dei cunicoli di Claudio, tunnel utilizzati tra il 42 e il 51 d.C. per scavare la galleria di 5633 m, che servì a prosciugare il lago per la prima volta.
    BARREA • 
    Poco a valle del paese, sulle rive del lago, sono da visitare i resti alcune tombe Sannite.
    BOLOGNANO • 
    La grotta dei piccioni, nelle gole dell'Orta,
    è stata utilizzata come luogo di culto dal Neolitico all'età del ferro.
    CAMPLI •
    La piana di Campovalano ha ospitato tra i secoli X e V a.c. un'importante necropoli dell'età del ferro.
    Alcune delle 600 sepolture scavate sono visibili. I corredi sono al museo archeologico di Campli.
    CASTEL DI SANGRO •
    Ai piedi del castello sono visibili tratti di fortificazioni sannite.
    CELANO •
    Al margine della piana del Fucino, sono venuti alla luce una necropoli e un villaggio su palafitte della tarda età del bronzo.
    CHIETI • I resti della teate romana affiorano in più punti della città: teatro romano, il complesso templare noto come Tempietti Romani e una cisterna delle antiche terme.
    CIVITA D'ANTINO •
    Questo centro della valle Roveto conserva tratti delle mura poligonali del secolo V a.C..COLLELONGO • Oltrepassando un fitto bosco di querce si arriva al Tempio Italico e alla Necropoli Italica e Romana di Amplero. Dal 1969 sono state scavate 29 tombe e solo alcune sono visibili.
    CORFINIO •
    Da visitare i due imponenti sepolcri romani nei pressi della basilica di S.Pelino. L'antica Corfinium conserva ampi tratti della città antica: il teatro, l'anfiteatro e le terme.
    JUVANUM •
    A 1000 m. tra le valli dell'Aventino e del Sangro, importanti sono i resti di queta città dei Frentani, ricostruita al tempo di Roma e abitata fino all'Alto Medioevo. Particolarmente interessante è visitare il Foro, la Basilica, i due piccoli tempi e il piccolo teatro.
    LANCIANO •
    All'interno del Seminario si possono ammirare i resti della Anxanum romana.
    LUCO DEI MARSI •
    Al margine dell'abitato sono visibili tratti di mura poligonali dell'antica Lucus Angitiae.
    OPI •
    All'imbocco della Val Fondillo è stato scavato un interessante insediamento italico.
    ORTUCCHIO •
    Nella grotta di Maritza sono tornati alla luce resti di insediamenti del paleolitico, del neolitico e dell'età del bronzo.
    PALOMBARO •
    I Cerecini utilizzarono la grotta di Sant'Angelo come luogo di culto.
    PELTUINUM •
    Questa città dei Vestini è stata ricostruita ai tempi di Roma. Le rovine includono l'anfiteatro e i tratti delle mura. Accanto ai resti antichi c'è la chiesa di San Paolo di Peltuino, del secolo XII.
    PIANO VOMANO •
    Tra l'abitato e Colle del Vento è visibile il tracciato della strada romana che collegava Amiternum
    con l'Adriatico.
    QUADRI •
    Su un tempio sannitico del secolo II a.C. poggia la Chiesa della Madonna dello Spineto.
    RAPINO • 
    La grotta del Colle ha ospitato contadini e pastori a partire dal paleolitico.
    RIPE • 
    All'imbocco della gola del Salinello, il Romitorio di Grotta Sant'Angelo è stato utilizzato dal neolitico all'età romana come luogo di culto.
    ROCCAMORICE • 
    Ha ospitato uno dei primi insediamenti preistorici dell'Abruzzo. In una grotta nei pressi dell'eremo di S.Bartolomeo di Legio sono stati ritrovati circa 20.000 manufatti in pietra.
    SAN BENEDETTO DEI MARSI • 
    I resti della Marruvium romana includono case con mosaici e strade lastricate.
    SCHIAVI D'ABRUZZO • 
    Un tempio italico del secolo III a.c. è cirondato dai resti di un insediamento romano.
    SCURCOLA MARSICANA • 
    Un'importante necropoli dell'età del ferro (secoli IX e V a.c.).
    SULMONA • 
    Ai piedi del monte Morrone sono le grandi terrazze del santuario di Ercole Curino, il luogo di culto italico più imponente della regione. Le strutture che si vedono oggi risalgono al I sec a.c. ma il santuario è probabilmente molto più antico. Sotto il complesso dell'Annunziata sono visibili i resti romani.
    TERAMO • 
    Nel centro storico dell'antica Interamnia Petruzia sono i resti del teatro e dell'anfiteatro romano e ruderi delle terme.

    VIA AEMILIA SCAURI

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    La Via Æmilia Scauri è una strada romana fatta costruire dal censore Marco Emilio Scauro, console nel 115 a,c, e censore nel 109 a.c., stesso anno in cui fece edificare la strada.

    Nella zona ad occidente di Sestri, sono visibili i resti della Via Aurelia Scauri e dei ponti che la sorreggevano per consentire il trasporto delle truppe durante l'età repubblicana.
    La posizione della Liguria era importantissima, per aprirsi una strada verso Gallia e Spagna, contrastando ai Cartaginesi il predominio del Mediterraneo.

    Fu appunto il Console Emilio Scauro ad ultimare la costruzione di alcuni tratti della Via Aurelia, consentendo la prosecuzione lungo le coste della Liguria.
    Attualmente rimangono ancora resti nei tornanti nei cinque ponti sorretti da archi a tutto sesto in pietra a vista con calce di tipo romano.

    VIA AEMILIA SCAURI
    Secondo Strabone, la via congiungeva Roma a Vada Sabatia (oggi Vado Ligure), presso Savona, partendo da Luna (Luni), ma non era la prosecuzione della Via Aurelia, che si fermava a Pisa, bensì collegava Roma e le Gallie verso la Liguria di levante e di ponente.

    Vada Sabatia si sviluppò nel II sec. a.c. intorno ad un campo militare dell'Impero romano, uno dei primi della colonizzazione romana in Liguria.

    Divenne quindi municipio e importante nodo viario grazie alla bonifica delle paludi effettuate dai Romani. Nel 109 a.c. Vado venne collegata con il centro levantino di Luni e Roma dalla Via Emilia Scauri. La via che valicava gli appennini liguri per mezzo del passo di Cadibona per poi scendere verso il passo della Cisa.

    Un importante tappa lungo le vie Aurelia ed Aemilia Scauri. fu il porto di Vada Volterrana, cioè il porto di Volerra, celebrato da Plinio e da Rutilio Namaziano, il quale vi era sbarcato tra il 415 e il 420, e che descrive un sistema di secche qui presente che non rendeva agevole la navigazione.

    PONTE ROMANO SULLA AEMILIA SCAURI
    L'Aemilia Scauri e l'Aurelia erano strade consolari, coperte con lastre di basolato che non solo era resistentissimo ai carri ma aveva superfici levigatissime, in modo da risultare molto lisce e agevolare il transito. Queste vie erano larghe circa cinque m poiché dovevano consentire il transito contemporaneo di due carri che procedevano in senso opposto. 

    Lungo il percorso vi erano "stazioni di posta" per il cambio dei cavalli chiamate mutationes e posti di guardia, ovvero locande di vario tipo e di vario prezzo per l'ospitalità dei viaggiatori dette mansiones.

    AURELIA ANTICA

    LA VIA AURELIA

    Per via Aurelia si intende genericamente il tracciato costiero che da Roma, mirava ad andare alla Gallia ed alla Spagna, ma all'epoca terminava a Pisa, dopo essere stata prolungata da Vada Volaterrana (via edificata nel 239 a.c. dal censore Aurelio Cotta). che era in pratica la Vecchia Aurelia. 

    Sulla piazza centrale del paese c'è infatti il cippo del 287° Km dal Campidoglio di Roma. Sicuramente qui c'era la stazione di posta e il cambio dei cavalli.

    Per andare  da Pisa verso la Liguria, cioè verso le basi marittime di Luni, Genova e Marsiglia, i romani erano costretti a navigare  costa a costa, oppure raggiungevano la via Clodia lungo il Forum Clodii cioè lungo il vecchio percorso del Serchio nella Garfagnana.

    Il Forum Clodii della Tabula Peuntingeriana viene identificato da alcuni storici con Fivizzano, dove si sarebbe intersecata la strada proveniente da Lucca attraverso la valle del Serchio e diretta a Parma, con quella proveniente da Luni.

    CEMELENUM TERME - AURELIA- NIZZA
    Qui sarebbe stata la mansio del più alto da attraversarsi, una stazione di sosta per i passeggeri. prima di affrontare il valico di Linari o Lagastrello o il Passo del Cerreto.

    L'Aemilia Scauri, inoltre, grazie ad una specie di "bretella" da Pisa a Lucca, si congiungeva anche con un'altra strada consolare, la Cassia, che da Roma raggiungeva Arezzo, ed in seguito anche Firenze e Lucca.

    Col tempo, il tratto da Vada a Pisa venne chiamato anch'esso Via Emilia, come attesta il ritrovamento di un cippo presso la località Crocino, in cui si dice che l'imperatore Antonino Pio restaurò questo tratto della via Emilia a 188 miglia da Roma.

    Ma anche l'intero percorso da Roma alla Francia, dove si congiungeva alla via Domiziana, venne chiamato Aurelia.

    Per collegare Roma a Genova o Marsiglia (l'antica Massalia), i Romani passavano infatti via terra da Pisa e Lucca verso Piacenza, poi verso le valli Piemontesi, di qui, riattraversando l'Appennino Ligure, sfociavano alternativamente o a Genova o a Vada Sabatia (Vado Ligure).

    VIA POSTUMIA
    La Via Æmilia Scauri assicurava i collegamenti tra la base-colonia di Luni e  Piacenza, Tortona, Vado Ligure e Marsiglia. Il collegamento lungo costa tra Pisa e Luni era reso impossibile per la presenza di paludi (Fossae Papirianae), lungo la costa e delle Alpi Apuane oltre la costa.

    Lungo la costa Tirrenica, da Roma verso Nord, la via Aurelia del II sec. a.c. si interrompeva a Pisa.

    Per proseguire a Nord si doveva deviare da Pisa attraverso Corliano, Rigoli e Ripafratta (Acquae Pisanae) verso Lucca e poi verso la Val del Serchio (Auser) in Garfagnana (Forum Clodii), fino a Minucciano.

    Dal Forum Clodii si proseguiva verso l'attuale Parma attraversando i valichi della Lunigiana.

    Per recarsi a Luni si percorreva la strada fino all'attuale Minucciano, lungo l'Auser o (Serchio), poi fino a Gorfigliano e quindi raggiungere quel "Foro Clodi" (Fivizzano) e da dove si dipartiva la strada per Luni che toccava Bardine di Cecina e Marciaso..

    Da Luni era stato tracciato un collegamento con le Tabernae Frigidae, dove si conservavano i beni alimentari, cioè Massa.


    PERCORSO COSTIERO

    Una importante diramazione della Via Aemilia Scauri congiungeva Vada Sabatia a Dertona (Tortona), dove si trovava già la grande strada padana costruita dai romani trent’anni prima e nota come Via Postumia. 

    La Via Postumia venne fatta costruire dal console Spurio Postumio a partire dal 148 a.c. e si sviluppa da Genua (Genova) ad Aquileia, attraversando tutta la Pianura Padana.

    La strada, partendo da Vada Sabatia risaliva la val Quazzola, oltrepassava l colle di Cadibona, il più agevole valico dell'intera dorsale alpino-appenninica a 456 slm.

    Da qui seguiva l'asta della Bormida di Spigno, toccando i vici di Canalicum e di Crixia fino ad Aquae Statiellae (Acqui Terme), da cui una diramazione si distaccava verso Alba Pompeia (Alba).

    Da Acqui la strada raggiungeva Derthona (Tortona), di cui sono ancora visibili lunghi tratti del tracciato originario.

    Il tratto di Via Aurelia tra Pisa e La Spezia, fu completato dopo che Giulio Cesare riuscì a tracciare una scorciatoia tra Lucca e Luni, facendo costruire intorno al 56 a.c. dal figlio del censore Marco Emilio Scauro, la Via Sarzanese che collega tuttora per via provinciale Lucca a Camaiore (Campus Major) e Massa, su percorso collinare.

    Il tratto di Aurelia tra Pisa e Massa Carrara fu chiamato anche Via Clodia, poi Via Scauri e poi Via Aurelia.

     Quindi la Via Æmilia Scauri del 109 a.c. non è da confondere con la scorciatoia Scauri (che il figlio costruì per Cesare sessant'anni dopo) attraverso Corliano, Rigoli e Ripafratta (San Giuliano Terme) verso Lucca, nè con la Via Clodia che attraversava la Garfagnana lungo la Valle del Serchio, già prima del 109 a.c.

    Nel 13-12 a.c., i tratti lungo costa dei percorsi delle due Via Æmilia Scauri furono ricompresi nel tracciato della via Julia Augusta, che oggi da Roma a Ventimiglia si chiama Via Aurelia.

    ARCO DI CAMIGLIANO

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    Una scoperta di un certo interesse è quella dell'arco d'ingresso orientale all'Iseo del Campo Marzio, noto nel Rinascimento come "Arco di Camigliano", nel corso di lavori di una casa all'angolo tra via Piè di Marmo e piazza del Collegio romano. Sappiamo pure che Piazza del Collegio Romano nel Medioevo era chiamata Piazza di Camigliano.

    Piazza del Collegio Romano infatti prese questo nome soltanto nel 1584, quando fu inaugurato il palazzo omonimo, ma anticamente era chiamata "Campo Camilliano", poi  Piazza di Camigliano. da un arco che sorgeva all'imbocco di via di Pie' di Marmo ed appunto chiamato "Arco di Camigliano".

    Secondo alcuni l'arco era pure detto di Campigliano, ma non si deve dare molto credito a certe copiature di scrivani poco attenti.

    Esso, probabilmente corrispondente al più antico "Arco di Iside" dell'Iseo Campense, si riteneva scomparso ma recenti lavori di restauro nella casa posta ad angolo con via di S.Ignazio ne hanno riportato alla luce parte del pilone sinistro in travertino.

    In basso, disegno del rilievo con cinque edifici dalla tomba degli Haterii (da Christian Hülsen, The Roman Forum: Its History and Its Monuments, tradotto da J.B. Carter (seconda edizione), 1909.

    BASSORILIEVI DELLA TOMBA HATERII

    Il primo di questi rilievi è ritenuto essere l'Arcus ad Isis ("arco presso il tempio di Iside"), interpretato generalmente come uno degli archi di ingresso dell'Iseo Campense (arco di Camigliano, i cui resti erano visibili fino al XVI secolo a piazza del Collegio Romano). Tuttavia alcuni sostengono che al tempio di Iside si accedesse attraverso una gigantesca arcata e se ne uscisse attraverso un arco più piccolo, detto Arco di Camigliano.

    Ora la prima famiglia “Camillo” di cui si ha notizia è quella di Marco Furio Camillo ( 403 a .c.), una gens molto gloriosa e camigliano potrebbe derivare da camilliano, cioè da un rappresentante della gens camilla. Altri hanno ipotizzato dal nome degli aiutanti dei sacerdoti, detti appunto Camilli, ma dubitiamo che figure così poco importanti potessero determinare il nome dell'arco.

    Dunque l'arco romano tutto ricoperto di marmo fu, come narra il Martinelli, fatto gettare a terra dal cardinale Anton Maria Salviati, nel 1595, che lo richiese in dono dal Papa Clemente VIII, che gliel'accordò, per adornare con quelle pietre il suo palazzo. Palazzo che però ebbe breve vita in quanto demolito a favore della famiglia Pamphili. Insomma fu l'ignoranza di cardinali e papi a decretare la distruzione dei monumenti romani e non, come da tanti anni si mente sui libri di storia, il vandalismo dei barbari.

    TOMBA HATERII
    Uscendo oggi da via S. Stefano del Cacco ci troveremmo esattamente in corrispondenza dell’arco di Camigliano, ora scomparso, che F. Castagnoli (Bcom 1941, 59) ha identificato con l’Arcus ad Isis del rilievo degli Haterii.
    La sua pianta a tre fornici è riscontrabile sia nella forma urbis sia da cartine di Roma del XVI sec., del Tempesta e del Du Perac Lafrery.

    L’arco fu mutilato a più riprese, fino alla totale demolizione proprio negli ultimi anni del XVI sec., ma resti di alcuni blocchi in travertino del fornice settentrionale sono stati riscoperti nel 1969 e nel 1980-81 all’altezza del civico 24 di via del Piè di Marmo.
    Le vicissitudini della sua sopravvivenza sono rintracciabili grazie all’archivio della Compagnia della Ss. Annunziata, allora proprietaria dello stabile. In una pianta del 1563, conservata nel codice n° 920, si menziona il “massiccio anticho”, cioè il pilastro settentrionale, all’interno dell’ambiente “B”.

    L’Arco di Iside esisteva ancora quando via del Piè di Marmo viene chiamata “strada sotto l’arco di Camigliano, strada dinanzi che va alla piazza innanzi al Collegio de Gesuiti

    Antonio da Sangallo il giovane fu il primo a riconoscere l’arco di Camigliano come quello che dava accesso all’Iseo Campense sul fronte occidentale.


    TROPAEUM AUGUSTI O TROPAEUM ALPIUM (Francia)

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    RICOSTRUZIONE DEL MONUMENTO

    Il Trofeo di Augusto, o Tropaeum Augusti (detto anche Trofeo delle Alpi, Tropaeum Alpium, e in francese Trophée des Alpes) è un monumento romano elevato a emblema dei trionfi e quindi dei trofei di Augusto, posto su un'altura a 480 m slm, nel comune di La Turbie, nel dipartimento delle Alpi Marittime, molto vicino al Principato di Monaco.

    Il monumento venne eretto, sulla cosiddetta via Iulia Augusta, la strada che da Aquileia portava al Norico, negli anni 7-6 a.c. in onore di Augusto per commemorare le vittorie riportate dai suoi generali (tra cui Druso e Tiberio) e la definitiva sottomissione di 46 tribù alpine.

    Servì inoltre a demarcare la frontiera tra l'Italia romana e la Gallia Narbonese lungo la Via Julia Augusta.

    Questo trofeo nel tempo segue, nelle Gallie, il trofeo di Pompeo, in Summum Pyrenaeum, quello di Briot (ora al museo di Antibes), i Trofei di Mario e altri.


    LE BATTAGLIE

    26-25 a.c.

    - In questi due anni di campagne furono sottomesse le popolazioni a guardia del passo del Gran San Bernardo. Il primo scontro con i romani si era avuto nel 143 a.c. sotto il consolato di Appio Claudio Pulcro, che venne sconfitto con gravi perdite, finchè nel 100 a.c. il Senato Romano aveva istituito la colonia latina di Eporedia (Ivrea), apportandovi molti coloni romani.

    I romani di Augusto si batterono ancora contro i Salassi, sospingendoli verso le montagne; le ultime resistenze organizzate cessarono nel 25 a.c. Al termine delle varie battaglie i 44.000 sopravvissuti tra i Salassi furono tutti venduti come schiavi al mercato di Eporedia, mentre in luogo della fortezza militare venne fondata la colonia di Augusta Praetoria (Aosta), con la concessione del diritto romano agli abitanti.

    23 a.c.

    - La conquista romana del Trentino era già avvenuta nel corso del primo secolo a.c. Trento, sorta già prima della conquista come accampamento militare romano (castrum), venne battezzata Tridentum ("città dei tre denti"), perché nei pressi sorgono proprio tre colli somiglianti a tre denti. Divenne municipium tra il 50 e il 40 a.c.

    In periodo augusteo, con l'Impero impegnato in una serie di operazioni militari nell'arco alpino, Tridentium (Trento) venne fortificata, per la futura avanzata del generale Druso.

    - Tiberio accompagnò Augusto in Gallia, dove trascorse i tre anni successivi, fino al 13 a.c., per assisterlo nell'organizzazione e governo delle province galliche.

    Il Norico meridionale fu occupato, ottenendo anche una forma di vassallaggio da parte del regno Norico settentrionale




    15 a.c.

    - Tiberio, insieme al fratello Druso, condusse una campagna contro i Reti, stanziati tra il Norico e la Gallia, e i Vindelici.

    L'operazione a tenaglia permise ai due fratelli di avanzare fino alle sorgenti del Danubio, dove ottennero la definitiva vittoria sui Vindelici.

    Queste vittorie consentirono ad Augusto di sottomettere le popolazioni dell'arco alpino fino al Danubio, e gli valsero una nuova acclamazione imperatoria, mentre Druso, figliastro prediletto di Augusto, poté più tardi ottenere il trionfo.

    14 a.c.

    - Al termine delle battaglie, vennero lasciate a protezione dei territori conquistati della Vindelicia due legioni. La provincia della Rezia verrà infatti costituita sotto Claudio.

    Anche i Liguri Comati delle Alpi sudoccidentali furono in parte sottoposti ai praefecti civitatum, in parte aggiunti al vicino regno di Cozio, che trovò un accordo di alleanza con Roma. A Segusium venne eretto il famoso Arco di Augusto con il patto di alleanza ancora oggi visibile nel fregio.

    Tutti questi successi furono commemorati con l'erezione del celebre trofeo di La Turbie nella Francia mediterranea, per commemorare la pacificazione delle Alpi da un estremo all'altro e per ricordare i nomi di tutte le tribù sottomesse. In quanto alle Alpi Marittime, in esse abitavano diversi gruppi di tribù: le Ligures, Capillati e Montani.

    Queste ultime raggruppavano tre serie di tribù: le tribù del litorale, già da tempo sottomesse: (Deciates, Oxibii, Vedianti); le tribù dell’entroterra (Avantici, Biodontici, Sentii). e le popolazioni vinte da Augusto e menzionate nel Tropaeum Alpium (Sogionti, Brondionti, Nemaloni, Gallitae, Triullati, Vergunni, Eguituri, Namaturi, Oratelli, Nerusi, Velauni, Sutri);

    Il monumento, eretto negli anni 7-6 a.c. in onore di Augusto, conteneva i nomi di ben 45 tribù alpine tra l'Italia, la Gallia Narbonese e la Rezia:

    Triumpilini, Camuni, Vennoneti, Venosti, Isarci, Breuni, Genauni,

    Focunati, le quattro tribù del Vindelice: Suaneti, Rucinati, Licati e Catenati, Ambisonti, Rugusci, Suaneti, Calugoni, Brixeneti, Leponti, Uberi, Nantuati, Seduni, Varagri, Salassi, Acitavoni, Meulli, Ucenni, Caturigi, Brigiani, Galliti, Triutalli, Ectini, Vergunni, Equituri, Nemanturi, Oratelli, Nerusi, Velauni e Suetri..



    TROPAEUM AUGUSTI

    Il monumento, eretto negli anni 7-6 a.c. in onore di Augusto, conteneva i nomi di ben 45 tribù alpine tra l'Italia, la Gallia Narbonese e la Rezia:

    Triumpilini, Camuni, Vennoneti, Venosti, Isarci, Breuni, Genauni, Focunati, le quattro tribù dei Vindelici (Suaneti, Rucinati, Licati e Catenati), Ambisonti, Rugusci, Suaneti, Caluconi, Brixeneti, Leponti, Uberi, Nantuati, Seduni, Varagri, Salassi, Acitavoni, Meulli, Ucenni, Caturigi, Brigiani, Galliti, Triutalli, Ectini, Vergunni, Eguituri, Nemanturi, Oratelli, Nerusi, Velauni e Suetri.


    La Gallia Narbonense 

    Era una provincia romana più o meno corrispondente alle regioni della Francia meridionale di Linguadoca-Rossiglione e Provenza-Alpi-Costa Azzurra.

    Prima si chiamava Gallia Transalpina e in epoca romana Provincia Nostra o semplicemente Provincia, da cui il nome francese di Provence (Provenza).

    Essa era già provincia romana fin dal 121 a.c., col nome di Gallia Transalpina (aldilà delle Alpi), o Gallia ulterior o Gallia comata, mentre la Gallia cisalpina era "al di qua delle Alpi", o Gallia citerior.

    Nel 118 a.c. venne fondata Narbona, che fu la prima colonia romana al di fuori dell'Italia, con l'apporto di di alcune migliaia di agricoltori italici che convissero coi nativi.

    Un secondo nucleo di coloni, per lo più da veterani della leggendaria X Legio vi si insediò, per dono di Cesare, nel 46 a.c.

    La regione venne così rinominata Gallia Narbonensis, con capitale Narbona. In età imperiale, la provincia fu affidata a un proconsole dell'ordine senatorio.


    - La Rezia:

    La conquista di Rezia ed arco alpino sotto Augusto degli anni 16-7 a.c. preparavano all'invasione della Germania del 12 - 9 a.c., onde portare i confini settentrionali dell'impero ai fiumi Elba e Danubio. Le campagne di Augusto dovevano consolidare le conquiste dell'età repubblicana, per ottenere frontiere più difendibili.

    L'imperatore, in realtà di indole pacifica, comprese che doveva rafforzare i confini se desiderava un regno pacifico. "Si vis pax para bellum" se vuoi la pace prepara la guerra e così fu. Augusto in persona si dedicò, con l'aiuto di Agrippa, sottomise anzitutto la parte nord-ovest della penisola iberica, in tumulto da decenni.

    Questi territori furono annessi con le sanguinose campagne militari in Cantabria durate 10 anni (dal 29 al 19 a.c.). A questa conquista succedette quella dell’arco alpino, per la sicurezza dei valichi e le relazioni con la Gallia.



    ARCO DI AUGUSTO

    Il Tropaeum Augusti non fu l'unico monumento eretto all'epoca in onore di Augusto.

    A Segusium, capitale del Regno dei Cozii, nella provincia detta delle Alpi Cozie. venne eretto inoltre un arco per ricordare l'accordo con Roma, che riporta fra i nomi delle quattordici tribù governate da Cozio, alcune delle quali sono riportate nel Trofeo delle Alpi.

    Sagusium era stata conquistata all'epoca dai Romani guidati da Giulio Cesare che combatterono con le popolazioni locali e stabilirono con Donno, il loro re, un patto di alleanza, in modo da garantire un transito sicuro verso la Gallia a militari, merci e carri.

    Augusto penalizzò fortemente le tribù ribelli, soffocandole nel sangue. Poichè però Sagusium non si era ribellata, sancì di nuovo con essa i buoni rapporti avuti con Cesare, e a memento dei saldi rapporti di pace si procedette alla costruzione dell'arco di Augusto.

    - 1) I Triumplini

    I Trumplini erano un antico popolo alpino stanziato in Val Trompia, che vennero sottomessi da Roma durante le campagne di conquista di Augusto di Rezia e arco alpino, condotte dai suoi generali Druso maggiore e Tiberio contro i popoli alpini tra il 16 e il 15 a.c.

    Plinio il Vecchio (23-79 d.c.), rifacendosi alle origini di Catone il Censore descrive i Trumplini come una delle tribù euganee assoggettate dai Romani:
    « Voltandoci verso l'Italia, i popoli euganei delle Alpi sotto la giurisdizione romana, dei quali Catone elenca trentaquattro insediamenti. Fra questi i Trumplini, resi schiavi e messi in vendita assieme ai loro campi e, di seguito, i Camunni molti dei quali assegnati ad una città vicina. »

    Evidentemente, in seguito alla sconfitta, vennero stati venduti in massa come schiavi. Il nome degli Trumplini è ricordato in prima posizione nel Trofeo di Augusto.

    - 2) I Camuni

    Stanziati in Val Camonica fin dall'Età del ferro (dal XII sec. a.c.), vennero conquistati da Roma all'inizio del I sec. d.c., e inseriti nelle strutture politiche e sociali dell'Impero romano: pur conservando una certa autonomia (Res Publica Camunnorum).

    Nella II metà del I sec. d.c.ottennero la cittadinanza romana, con un rapido processo di latinizzazione linguistica, culturale e religiosa.

    Strabone (58 a.c.-25 d.c.) pensava che i Camuni facessero parte dei popoli retici e li accostava ai Leponzi, i quali, invece, derivavano dalla Cultura di Golasecca (Pianura Padana, età del bronzo, poi influenzati da popoli di stirpe celtica):

    « Vi sono poi, di seguito, le parti dei monti rivolte verso oriente e quelle che declinano a sud: le occupano i Reti e i Vindelici, confinanti con gli Elvezi e i Boi: infatti si affacciano sulle loro pianure. 
    Dunque i Reti si estendono sulla parte dell’Italia che sta sopra Verona e Como; e il vino retico, che ha fama di non essere inferiore a quelli rinomati nelle terre italiche, nasce sulle falde dei loro monti. 
    Il loro territorio si estende fino alle terre attraverso le quali scorre il Reno; a questa stirpe appartengono anche i Leponzi e i Camuni. »

    Plinio il Vecchio (23-79 d.c.) scrisse invece dei Camunni come di una delle tribù euganee assoggettate dai Romani:

    « Voltandoci verso l'Italia, i popoli euganei delle Alpi sotto la giurisdizione romana, dei quali Catone elenca trentaquattro insediamenti. Fra questi i Triumplini, resi schiavi e messi in vendita assieme ai loro campi e, di seguito, i Camuni molti dei quali assegnati ad una città vicina. »
    Citati nel nel Trofeo di Augusto.



    - 3) I Vennoneti

    I Vennoneti o Vennonetes, erano un antico popolo alpino stanziato in Valtellina e nella Svizzera orientale. che vennero conquistati dall'esercito romano durante le campagne militari di Augusto contro la Rezia e l'arco alpino, tra il 16 e il 15 a.c.

    A termnare la conquista del fronte alpino orientale fu Publio Silio Nerva, amico intimo di Augusto, con cui condivideva la passione per il gioco ai dadi. Divenne console nel 20 a.c., e combattè nelle campagne nella Spagna superiore.

    Nel 16 a.c. fu nominato proconsole dell'Illirico, dove si distinse contro le tribù della Pannonia e del Norico, tra cui i Taurisci, e aver occupato i territori del Norico meridionale. Sottomise inoltre i Camuni e Triumplini, nonchè le valli da Como al Lago di Garda. Citati nel nel Trofeo di Augusto.


    - 4) I Venosti

    I Venosti erano un antico popolo alpino stanziato al sud del Passo di Resia, un valico alpino a ovest del Brennero, nell’attuale Val Venosta, una valle dell'Alto Adige occidentale.

    I Venostes vennero sottomessi dall'impero romano durante le campagne militari di Augusto di Rezia e dell'arco alpino, condotte dai suoi generali Druso maggiore e Tiberio contro i popoli alpini tra il 16 e il 15 a.c. Il nome dei Venosti è in terza posizione nell'iscrizione frontale del Trofeo delle Alpi.


    - 5) Gli Isarci

    Gli Isarci erano un antico popolo alpino stanziato nella Val d'Isarco, una delle due valli principali dell'Alto Adige, che si estende dalla sorgente del fiume Isarco al Brennero fino alla foce nell'Adige a Bolzano.

    Sottomessi da Roma nelle campagne di conquista di Augusto di Rezia e arco alpino, condotte da Druso maggiore e Tiberio contro i popoli alpini tra il 16 e il 15 a.c. Il nome degli Isarci è ricordato in quinta posizione nel Trofeo di Augusto.

    - 6) I Breuni

    I Breuni erano un antico popolo alpino che abitava la Val d'Isarco e i due versanti del Brennero.
    Strabone (63 a.c. – 24 d.c.) sosteneva che facessero parte dei popoli illirici e assieme ai Genauni della Val di Non:
    « I Vindelici ed i Norici invece occupano la maggior parte dei territori esterni alla regione montuosa, insieme ai Breuni e ai Genauni; essi appartengono però agli Illiri. Tutti questi effettuavano usualmente scorrerie nelle parti confinanti con l’Italia, così come verso gli Elvezi, i Secani, i Boi e i Germani. »

    Conquistati da Roma durante le battaglie di Augusto di Rezia e dell'arco alpino, tra il 16 e il 15 a.c. Il nome dei Breuni è ricordato in sesta posizione nel Trofeo di Augusto.

    Orazio (65. – 8 a.c.) li cita nel IV libro delle sue Odi:
    « quid Marte posses. milite nam tuo
    Drusus Genaunos, inplacidum genus,
    Breunosque velocis et arcis
    Alpibus inpositas tremendis
    deiecit acer plus vice simplici;
    maior Neronum mox grave proelium
    conmisit immanisque Raetos
    auspiciis pepulit secundis, »


    - 7) I Genauni

    I Genauni erano un antico popolo alpino di cui è ancora incerta la localizzazione.
    La scoperta della Tabula Clesiana (rinventa nel1869), un editto di Claudio del 46 che concedeva la cittadinanza romana a Anauni, Sinduni e Tulliassi, e che trattava della controversia fra i Comensi o Comaschi ed i Bergalei, posizionati nella Val di Non, lasciò intendere che questi popoli coincidessero con gli Anauni. Secondo altri invece avrebbero dovuto risiedere nell'angusta Val di Genova.

    Gli Anauni vennero assoggettati da Roma anche prima delle campagne di Augusto di Rezia e arco alpino.

    Il loro nome non è ricordato nel Trofeo delle Alpi, dove invece sono citati i Genauni e per qualche tempo si è ritenuto che i due nomi indicassero la stessa popolazione.

    Essi vennero aggregati da Augusto al municipium di Tridentum

    Strabone (63 a.c. – 24 d.c) sosteneva che i Genauni facessero parte dei popoli illirici e assieme ai Breuni:
    « I Vindelici ed i Norici invece occupano la maggior parte dei territori esterni alla regione montuosa, insieme ai Breuni e ai Genauni; essi appartengono però agli Illiri. 
    Tutti questi effettuavano usualmente scorrerie nelle parti confinanti con l’Italia, così come verso gli Elvezi, i Secani, i Boi e i Germani. »

    I Genaunes vennero sottomessi a Roma da Augusto nelle campagne militari di Rezia e arco alpino, condotte dai generali Druso maggiore e Tiberio.

    Orazio (65 – 8 a.c.) li cita nel IV libro delle sue Odi:

    « quid Marte posses. milite nam tuo
    Drusus Genaunos, inplacidum genus,
    Breunosque velocis et arcis
    Alpibus inpositas tremendis
    deiecit acer plus vice simplici;
    maior Neronum mox grave proelium
    conmisit immanisque Raetos
    auspiciis pepulit secundis
    , »

    Il nome dei Genauni è ricordato in settima posizione nel Trofeo di Augusto.

    - 8) I Focunati

    I Focunati erano un antico popolo alpino.della cui localizzazione c'è ancora incertezza, anche se diversi autori lo pongono bella Valsesia, Considerata la valle più verde d'Italia e posta in Piemonte, la Valsesia è una valle alpina della provincia di Vercelli, di cui occupa la parte settentrionale, le cui acque confluiscono nel fiume Sesia, da cui prende il nome

    I Focunates vennero sottomessi da Roma nelle campagne militari di Augusto di Rezia e arco alpino, condotte dai generali Druso maggiore e Tiberio. Il nome dei Focunati è posto in ottava posizione nel Trofeo di Augusto.



    LE QUATTRI TRIBU' DEI VINDELICI

    I Vindelici erano un'antica popolazione alpina che abitava la regione preromana,Vindelicia. L'area corrispondeva alla parte nordorientale della Svizzera, al Baden sudorientale ed al sud del Württemberg e della Baviera.

    La cultura dei Vindelici era la Cultura di La Tène, che va dall'età del ferro fino al I sec. a.c.. Alcune delle società archeologicamente identificate come appartenenti al La Tène furono definite dagli autori greci e romani del V sec. a.c.con i termini di "celtiche" e "galliche"Si suppone che fossero una popolazione di origine celtica, ma con una forte componente illirica.

    I Vindelici vennero sottomessi a Roma nelle campagne militari di Druso maggiore e Tiberio tra il 16 e il 15 a.c. Nello stesso anno la capitale della regione occupata dai Vindelici, in realtà un accampamento militare attorno a cui si sviluppò un abitato, venne rinominata Augusta Vindelicorum (Augusta dei Vindelici), e in seguito trasformata dall'imperatore Adriano in municipium. Oggi è la città di Augusta.

    Orazio li citò nel IV libro delle Odi, descrivendo il primo volo dell'aquila, una lunga metafora a lode di Druso.

    « Quae cura patrum quaeve Quiritium
    plenis honorum muneribus tuas,
    Auguste, virtutes in aevom
    per titulos memoresque fastos
    aeternet, o, qua sol habitabilis
    inlustrat oras, maxime principum,
    quem legis expertes Latinae
    Vindelici didicere nuper 
    »

    Il nome dei Vindelici è ricordato in nona posizione nel Trofeo delle Alpi e in esso si specifica che essi si suddividevano in quattro tribù: 9) i Suaneti, 10) i Rucinati, 11) i Licati e 12) i Catenati. Ricordati nel Trofeo di Augusto.

    - 13) Gli Ambisonti

    Gli Ambisonti erano un antico popolo alpino che abitavano una zona del Norico presso il fiume Isonta, oggi Salzach, nella provincia di Salisburgo.

    Essi erano legati federalmente con i Taurisci, sotto un unico re che risiedeva a Noreia (oggi Magdalensberg), un oppido a m 1000 s.l.m.

    Gli Ambisontes vennero sottomessi da Roma nelle campagne militari di Druso maggiore e Tiberio tra il 16 e il 15 a.c. Ricordati nel Trofeo di Augusto.



     I Taurisci

    Nel 16 a.c. un'invasione dell'Istria da parte di alcune tribù della Pannonia e del Norico, tra cui alcune tribù dei Taurisci, provocarono l'annessione del Norico meridionale con la campagna condotta da Publio Silio Nerva. Nel trionfo di Augusto però vennero incluse solo le vittorie dei suoi due figli, come fossero direttamente di Augusto, pertanto non fa parte del trionfo e non vi è citato.

    - 14) I Rugusci

    Erano un antico popolo alpino che abitava la zona della Svizzera meridionale tra l'alta Valle del Reno e l'alta Valle dell'Inn. Vennero sottomessi da Roma nelle campagne militari di Druso maggiore e Tiberio tra il 16 e il 15 a.c. Ricordati nel Trofeo di Augusto.

    - 15) I Suaneti

    I Suaneti erano un antico popolo alpino della Vindelicia di cui è incerta la collocazione. Secondo alcuni è la Val Schams nella Svizzera del sud, secondo altri è la Valle Soana in Piemonte, anche se l'ipotesi si basa solo sulla similarità tra il torrente "Soana" e "Suaneti".
    I Suanetes vennero sottomessi da Roma nelle campagne militari di Druso maggiore e Tiberio tra il 16 e il 15 a.c. Ricordati nel Trofeo di Augusto.


    - 16) I Caluconi

    I Calucones vennero sottomessi da Roma nelle campagne di Rezia e arco alpino, condotte da Druso maggiore e Tiberio contro i popoli alpini tra il 16 e il 15 a.c. Il nome dei Caluconi è ricordato (anche da Plinio il Vecchio) nel Trofeo di Augusto.


    - 17) I Rugusci

    I Rugusci erano un antico popolo alpino che sembra abitasse la zona della Svizzera meridionale tra l'alta Valle del Reno e l'alta Valle dell'Inn. Essi vennero sottomessi da Roma tra il 16 e il 15 a.c. Il loro nome è ricordato nel Trofeo di Augusto.


    - 18) I Brixeneti

    Secondo lo storico Claudio Tolomeo (100 - 175) essi dovevano essere i più settentrionali tra i Reti. Secondo gli studiosi moderni dovevano invece abitare la Val Pusteria, una valle delle Alpi Orientali e la città di Bressanone (del Trentino-Alto-Adige). Ricordati nel Trofeo di Augusto.


    - 19) I Leponzi 

    Il loro territorio era compreso tra il Canton Ticino, la Lombardia occidentale, la Val d'Ossola e l'alto Vallese e facevano parte della provincia romana della Rezia. Ricordati nel Trofeo di Augusto.


    - 20) Gli Uberi 

    Secondo Plinio il vecchio essi dovevano essere una comunità che comprendeva i Leponzi, situata presso il Rodano. Vennero sottomessi da Roma dai suoi generali Druso maggiore e Tiberio tra il 16 e il 15 a.c. Ricordati nel Trofeo di Augusto.




    - 21) I Nantuati 

    Una delle quattro tribù galliche stanziate nell'attuale Canton Vallese verso la fine della cultura di La Tène, poco prima della conquista della Gallia da parte di Cesare. Il loro oppidum era Tarnaiae, probabilmente dedicata al culto di Taranis, Dio del tuono. Come le altre tre tribù della Vallis poenina, i Nantuati caddero sotto la dominazione romana, all'interno della provincia della Raetia, Vindelicia et Vallis Poenina. Ricordati nel Trofeo di Augusto.


    - 22) I Seduni 

    I Seduni erano galli stanziati nel Vallese centrale nel I sec. a.c. La loro esistenza è attestata da iscrizioni e testi antichi. Non sappiamo che rapporti avessero con i Galli che saccheggiarono Roma nel 390 a.c.. Ricordati nel Trofeo di Augusto.

    - 23) I Veragri

    Antica tribù collocata nell'attuale Svizzera. Giulio Cesare, nel De bello Gallico, li stanzia nel canton Vallese tra i Nantuati e i Seduni. La loro capitale era Octodurus; per questo Plinio li chiama Octodurenses.

    Dione Cassio (155 - 235), citando Cesare afferma che il loro territorio si estendeva da quello degli Allobrogi, al lago di Ginevra fino alle Alpi.
    Strabone li chiama "Varagri", e li colloca tra i Caturigi e i Nantuati; Plinio il vecchio li pone tra i Seduni e i Salassi: questi ultimi nell'attuale Valle d'Aosta.

    Livio (59 a.c. - 17 d.c.) li colloca tra le Alpi, sulla strada che conduce al passo delle Alpi Pennine, o al Gran San Bernardo, il che sembra molto probabile. Riporta anche che il passo era occupato da "tribù semigermaniche", ponendo un dubbio sulla loro appartenenza etnica.

    Ricordati nel Trofeo di Augusto.


    - 24) I Salassi 

    Fu un popolo appartenente alla cultura di La Tène, che si collocò a nord delle Alpi intorno al VI sec. a.c. Espandendosi a sud i Salassi giunsero nella valle della Dora Baltea e nel Canavese, zone poco popolate, colonizzando l'intero territorio e fondando Eporedia (Ivrea).

    La prima battaglia con i romani si tenne nel 143 a.c. sotto il consolato di Appio Claudio Pulcro, che venne sconfitto con gravi perdite. Ma le sorti mutarono e nel 100 a.c. il Senato Romano vi istituì la colonia latina di Eporedia, inserendovi molti coloni romani.

    L'Impero romano si scontrò ancora ripetutamente contro i Salassi, sospingendoli verso le montagne; le ultime resistenze organizzate cessarono nel 25 a.c. con la fondazione di Augusta Praetoria (Aosta), attraverso la concessione del diritto romano agli abitanti. Menzionati nel Tropaeum Augusti.


    - 25) Gli Acitavoni

    Non si sa bene dove fossero insediati, ma alcuni studiosi li stanziarono in acune vallate del Gran Paradiso, tra Valle d'Aosta e Piemonte, tra le quali la Valle Orco, Valle di Rhemes e Valsavarenche. Menzionati nel Tropaeum Augusti.


    - 26) I Medulli 

    Tribù del regno dei Cozii. Menzionati nel Tropaeum Augusti.

    - 27) Gli Ucenni 

    Non se ne hanno notizie, seppur menzionati nel trofeo di Augusto.

    - 28) I Caturigi

    I Caturigi, o Caturiges, furono un piccolo popolo celtico stanziato nella valle dell'alta Durance, nelle Alpi Cozie. Gaio Giulio Cesare li menziona una volta nel De bello Gallico..

    Sono ricordati tra i popoli alpini che rispondevano a Cozio nell'iscrizione dedicatoria dell'Arco di Augusto a Susa. Menzionati nel trofeo di Augusto.

    - 29) I Brigiani  - 30) I Sogionti  - 31) I Brodionti  - 32) I Nemaloni  - 33) Gli Edenati   - 34) I Vesubiani -  35) I Veamini  - 36) I Galliti -  37) I Triullati -  38) Gli Ecdini -  39) I Vergunni -  40) Gli Eguituri -  41) I Nematuri -  42) Gli Oratelli -  43) I Nerusi -  44) I Velauni -  45) I Seutri

    Di tutti questi popoli non si hanno notizie, seppur menzionati nel trofeo di Augusto.




    IL MONUMENTO

    Secondo la tradizione, i trofei erano dedicati alle divinità della vittoria, in questo caso si pensa ad Ercole, nonchè alla Nike o Dea Vittoria romana. Al termine di un combattimento, i vincitori riunivano le spoglie del nemico su un palo costituendo così una sorta di fantoccio. Questi fantocci, portati poi come vessillo per dimostrare al popolo la conquista eseguita, però si usuravano per vennero poi riprodotti in pietra e lasciati a perenne ricordo, cosicchè i trofei divennero veri e propri monumenti architettonici.

    Il Tropaeum Augusti è edificato parte in marmo lunense (da Luni), un marmo bianchissimo che spiccava in lontananza come un faro, e parte in pietra calcarea locale, eseguito secondo le regole di Vitruvio sul modello del Mausoleo di Alicarnasso. Esso venne edificato sulle alture dell’antico porto di Monaco, di modo che segnalava l’estremità delle Alpi. Si inquadrava anche nel paesaggio del santuario dedicato ad Eracle Monoikos (Ercole di Monaco).

    Gli scrittori antichi associano quasi sempre il nome di Monaco, in greco Monoikos, a quello di Ercole: Augusto venne così assimilato ad Ercole, figlio di un Dio che doveva diventare un Dio, un eroe che porta la civiltà oltre le Alpi, nel paese dei barbari.

    Il monumento presentava un piedistallo quadrato di 38 m di lato, sulla cui facciata occidentale era posta un'iscrizione con la dedica ad Augusto. Ai lati dell'iscrizione c'erano dei trofei. Il secondo ordine era composto da un basamento, anche questo quadrato ma di m 36, su cui poggiavano 24 colonne, con capitelli dorici, poste in cerchio e adornate da un fregio dorico con alternanza di metope e triglifi.

    All'interno del colonnato si trovava una torre cilindrica in cui, tra le colonne, si aprivano delle nicchie con le statue dei generali che avevano guidato o partecipato alle battaglie tra cui quella di Druso e sicuramente quella di Tiberio.

    Sulle colonne poggiava una copertura conica a gradoni, alla cui sommità si ergeva una grandiosa statua di Augusto in bronzo dorato, colto nell'atto di sottomettere due barbari inginocchiati ai suoi piedi. Nell'insieme il monumento doveva raggiungere i 50 m d'altezza.
    COME DOVEVA APPARIRE ORIGINARIAMENTE


    L'ISCRIZIONE

    La gigantesca iscrizione posta sulla facciata occidentale, di cui rimanevano solo alcuni frammenti, è stata ricostruita completamente durante il restauro del monumento curato da Jules Formigé, avendone letto la citazione di Plinio il Vecchio nella sua Naturalis Historia. Essa è la più lunga iscrizione latina scolpita conosciuta nella storia antica.

    Il testo riporta tutti e 45 i nomi delle tribù sconfitte in ordine cronologico ed è affiancato da due bassorilievi della Vittoria alata. C'è poi l'immagine del "trofeo", una raffigurazione delle armi conquistate ai nemici e appese ad un tronco d'albero. Ai due lati del trofeo sono raffigurati coppie di prigionieri galli in catene.

    « All'imperatore Augusto, figlio del divino Cesare,
    pontefice massimo, nell'anno 14° del suo impero,
    17° della sua potestà tribunizia, il senato e il popolo romano
    poiché sotto la sua guida e i suoi auspici tutte le genti alpine,
    che si trovavano tra il mare superiore e quello inferiore
    sono state assoggettate all'impero del popolo romano.

    Genti alpine sconfitte:
    I Trumpilini -   I Camunni - I Venosti -  I Vennoneti -   Gli Isarci -  I Breuni -  I Genauni -  I Focunati
    - Le quattro nazioni dei Vindelici: Cosuaneti  Rucinati  Licati  Catenati -  Gli Ambisonti -  I Rugusci
    - I Suaneti -  I Caluconi -  I Brixeneti -  I Leponzi -  Gli Uberi -  I Nantuati -  I Seduni - I Veragri -  I Salassi -  Gli Acitavoni -  I Medulli -  Gli Ucenni -  I Caturigi -  I Brigiani -  I Sogionti - I Brodionti -  I Nemaloni -  Gli Edenati -  I Vesubiani -  I Veamini -  I Galliti -  I Triullati -  Gli Ecdini -  I Vergunni -  Gli Eguituri -  I Nematuri -  Gli Oratelli -  I Nerusi - I Velauni -  I Seutri »



    LA DEVASTAZIONE

    LA TRASFORMAZIONE IN FORTEZZA
    Tra il XII ed il XV secolo il Trofeo venne trasformato in fortezza, soprattutto contro le scorribande dei pirati saraceni.

    Durante la Guerra di successione spagnola, Luigi XIV ordinò la distruzione di tutte le fortezze conquistate ed il Trofeo venne minato e fatto esplodere il 4 maggio 1705.

    La distruzione del complesso dette luogo alla sua spoliazione per trarne materiale da costruzione, nonostante l'originaria cava di epoca romana si trovasse a soli 500 m di distanza.

    Quando Turbia tornò sotto i Savoia andò ancora peggio, perchè venne autorizzato il prelievo dei materiali dal Trofeo, per la costruzione della sottostante chiesa di San Michele, nel 1764.



    LA RICOSTRUZIONE

    Dopo l’annessione della Contea di Nizza alla Francia, nel 1860, il trofeo venne classificato come monumento storico. Nel 1905, la Società francese degli scavi archeologici affidò a Philippe Casimir, erudito locale, lo sterro del Trofeo. Successivamente, Jean-Camille Formigé e suo figlio Jules, architetti dirigenti dell’ente di tutela dei monumenti storici, ricostruiscono una parte dell’edificio grazie al finanziamento del mecenate americano, Edouard Tuck (1929-1933).

    Prima del restauro parziale del XX secolo non rimanevano che quattro colonne intatte, e solo la facciata occidentale (con l'iscrizione) è stata ricostruita quasi completamente grazie agli studi dell'architetto Jules Formigé; ulteriori resti e frammenti sono esposti nel museo archeologico ricavato nel basamento.

    L'altezza del monumento misura oggi 35 m, mentre originariamente, con la statua d'Augusto, raggiungeva i 50 metri.

    Questo monumento celebra la vittoria di Augusto, imperatore romano, sui popoli delle Alpi definitivamente sottomessi tra il 25 e il 14 a.c. Nel 7-6 a.c., il senato ed il popolo di Roma gli dedicano il trofeo. E’ eretto sul colle di La Turbie, punto culminante di quella via Giulia che Augusto aveva fatto costruire per agevolare gli scambi con la Gallia.












    SESTO ELIO PETO CATONE

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    Nome: Sextus Aelius Paetus Catus
    Nascita: -
    Morte: Canne 216 a.c.
    Professione: Politico


    LE ORIGINI

    Ovvero Sextus Ailius Paitus Catus , dove Cato sta per "di Catone" oppure per "il saggio", il figlio più giovane superstite di Quinto Elio Peto, un pretore che era uno dei molti senatori romani uccisi a Canne nel mese di agosto del 216 a.c.

    Peto Catone proveniva da una nobile famiglia con rami plebei, suo padre era dunque il pretore Quinto Elio Peto, e suo fratello maggiore è stato un altro console, Publio Elio Peto.

    Era membro della gens Aelia, i cui membri avevano già vantato  alte cariche, come Publio Elio Peto, che fu console nel 337 a.c., e Gaio Elio Peto, console nel 286 a.c..

    Questi consoli possono essere stati gli antenati o parenti collaterali di Sesto, ma la connessione non è menzionata dallo storico romano Tito Livio.

    L'anziano fratello Peto divenne Master Equitum nel 202 a.c., e console l'anno successivo.
    Altri membri della famiglia, compreso il figlio di Publio, salìrono al consolato negli anni successivi.



    LA CARRIERA

    Comunque dovette fare una brillante carriera militare perchè sappiamo che nel 209 ottenne la prestigiosa carica di Pontifex Maximus. Successivamente, nel 200 fu edile curule, come cita Tito Livio., quando dovette importare grano dall'Africa, una rapida carriera perchè dopo due anni, nel 198 fu eletto console con il collega Tito Quinzio Flaminino.

    Le fonti riportano di lui che nel 198 il console Sex. Elio Paito Cato non poté congedare i soldati e impiegò con loro un intero anno per riportare a forza i coloni a Piacenza., Liv. XXXII 26, quindi si trovò in guerra nello stesso anno del consolato.
    D'altronde spesso un romano veniva eletto console proprio per le sue qualità di generale in vista delle molteplici guerre e battaglie che roma dovette affrontare.



    IL GIURISTA

    Secondo un elaborato di Oxford sui giuristi romani, la rapida carriera di Catus da edile curule al consolato e la censura non è stata causata dalla morte di suo padre o del fratello maggiore, nè tanto dai suoi successi in battaglia, quanto dalla sua attitudine per la legge.

    Oggi infatti, egli è più noto per la sua interpretazione delle leggi delle dodici tavole, di cui sappiamo solo attraverso la lode di Cicerone.
    L'appellativo si "catus" che significa "intelligente" o "furbo" sarebbe in riconoscimento delle sue capacità giuridica.

    Un pregevole studio di Oxford ritiene che egli possa essere stato il primo professionista giurista  nella storia di Roma.
    Non è chiaro se i giuristi precedenti non fossero professionisti, ma un pater di familia romana di rango e di status, o i figli cresciuti,  per difendere la famiglia, dovevano pur intendersi di materia giuridica.

    Forse la guerra punica, ha fatto sì che come molti clienti fossero troppo lontani da Roma, e incapaci di gestire le questioni legali.

    Suo fratello Publio Elio Peto era stato console tre anni prima, nel 201 a.c., e fu eletto censore 199 a.c. il successo Publio Sesto potrebbe avere contribuito al consolato nel 198 a.c., ma fu messo in ombra dal suo fine più famoso e più giovane collega patrizio, Tito Quinzio Flaminino, poi all'età di soli trent'anni.

    Sesto non si distinse militarmente durante il suo consolato, in cui tutti gli onori, tra cui le campagne greche in Macedonia, andarono al suo collega più giovane Flaminio.

    I suoi sforzi proprio nella sua provincia non sono contrassegnati con molto successo. Tuttavia, egli venne ancora eletto censore nel 194 a.c. con Gaio Cornelio Cetego, forse per rispetto alle sue doti di giurista, forse rispetto per il suo fratello maggiore, un ex censore.



    LE OPERE

    Sia Elio Peto che suo fratello Publio Elio Peto (console 201 a.c.) erano giuristi. Ma fu Sesto l'autore dell'opera Tripartita Commentaria o Tripertita, che illustra le XII Tavole, le commenta, e ne deriva le varie leggi. Un altro lavoro chiamato Ius Aelianum divenne base di diritto consultato anche da Cicerone, che lo menziona al suo amico Tito Pomponio Attico. Non si sa quando sia scomparso.

    Quest'opera era divisa in tre parti:
    una trattava le "XII Tavole",
    la seconda l'"interpretatio pontificium" (interpretazione pontificale),
    la terza riguardava le "legis actiones".

    Un'analisi del diritto di quell'epoca, per cui Sesto Elio viene ritenuto il primo vero giurista romano da cui poi nacque la giurisprudenza romana poiché i precedenti scritti che si perdono nella tradizione si limitano a elencare i vari atti normativi mentre lui è il primo a fare una vera e propria analisi comparata.



    INTERPRETATIO PONTIFICIUM

    Il pontefice era l'unico interprete dell'ordinamento giuridico e del diritto, facendo da mediatore tra l'ordinamento giuridico e la società. Le delibere dei pontefici si pronunciavano sul diritto del caso concreto, alla fattispecie contingente (interpretatio pontificum). .

    Il pontifex maximus, presidente e rappresentante del collegio, ancora verso la fine della repubblica rivestiva gerarchicamente il quinto posto, dopo il rex sacrorum, ed i tre Flamini maggiori: il Dialis, il Martialis ed il Quirinalis.

    Il suo potere divenne tale da subordinare il rex sacrorum e da consentirgli giurisdizione sui Flamini e sulle Vestali.
    Molte pronunce pontificali sono state tramandate oralmente, fino ad essere inserite nella legge delle XII tavole nel 451-450 ac.



    LE XII TAVOLE

    Erano un corpo di leggi compilato nel 451-450 a.c. dai decemviri legibus scribundis, per volontà dei plebei al tempo delle lotte tra patrizi e plebei all'inizio dell'epoca repubblicana.
    Esse furono considerate dai Romani come fonte di tutto il diritto pubblico e privato (fons omnis publici privatique iuris)

    Nel 451 a.c. fu istituita una commissione di decemviri legibus scribundis scelti tra gli ex-magistrati patrizi;

    sempre T. Livio ce ne fornisce i nomi:

    - Appio Claudio Crasso, console;
    - Tito Genucio Augurino, console;
    - Tito Veturio Crasso Cicurino;
    - Gaio Giulio Iullo;
    - Aulo Manlio Vulsone;
    - Servio Sulpicio Camerino Cornuto;
    - Publio Sestio Capitone;
    - Publio Curiazio Fisto Trigemino;
    - Tito Romilio Roco Vaticano;
    - Spurio Postumio Albo Regillense.

    Le Dodici Tavole vennero affisse nel foro, dove rimasero fino al sacco ed all'incendio di Roma del 390 a.c.
    Cicerone narra che ancora ai suoi tempi (I secolo a.c.) e Livio confema definendole “fonte di tutto il diritto pubblico e privato [fons omnis publici privatique iuris]”.
    Erano così indibiduate:

    Tavola I (procedura civile)
    Tavola II (procedura civile)
    Tavola III (procedura esecutiva)
    Tavola IV (genitori e figli)
    Tavola V (eredità)
    Tavola VI (proprietà)
    Tavola VII (mantenimento delle strade)
    Tavola VIII (illeciti)
    Tavola IX (principi del processo penale e controversie)
    Tavola X (regole per i funerali)
    Tavola XI (matrimonio)
    Tavola XII (crimini)



    LEGES ACTIONES

    Le azioni che ebbero in uso gli antichi erano chiamate legis actiones, o perché erano state introdotte da leggi, o perché erano state adattate alle parole delle leggi, e perciò venivano osservate come immutabili al pari delle leggi.

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