Quantcast
Channel: romanoimpero.com
Viewing all 2265 articles
Browse latest View live

GIOCHI ROMANI

$
0
0

I romani amavano moltissimo i giochi con le scommesse, come il gioco dei dadi, degli astragali, a testa e croce, e a morra, di regola vietati ai grandi, che erano consentiti loro soltanto in dicembre durante i Saturnali. Così il gioco d'azzardo era proibito e se veniva colto in fallo il giocatore pagava una multa di quattro volte la posta scommessa.

Invece le "sponsiones", (scommesse) erano consentite durante i Ludi circensi, sulle corse dei cavalli e sui gladiatori, il che aumentava alle stelle il piacere dello spettacolo. Un po' come si scommette oggi all'ippodromo. I romani erano fissati con le scommesse e scommettevano su tutto, spesso turlupinati da giocatori truffaldini che gironzolavano nelle terme per trovare il pollo da spennare.

Ben lo sa Marziale che avverte i bari:
Quae scit compositos manus improba mittere talos, 
si per me misit, nil nisi vota feret. 
(la mano disonesta che sa lanciare dadi truccati,
se lancia contro di me, deluderà le sue aspettative)


Naturalmente i giochi erano truccati e qualcuno ci cadeva sempre per questo i giochi che includevano scommesse erano proibiti e i vigilantes giracchiavano per le terme per arrestare il giocatore truffaldino e l'ingenuo truffato, che pagava una multa a sua volta.

Per evitare guai i giocatori si riunivano spesso nel retro delle thermopolie (fast food) o nel retro delle locande (cauponae), anche perchè, mentre i trasgressori venivano puniti con le ammende, non c'era punizione per chi li ospitasse.

In tutti questi giochi si scommettevano parecchi soldi, che a volte dilapidavano i beni del giocatore, il che era la ragione delle proibizioni.

Come si vede all'epoca si era sotto questo profilo più civili ed assennati di oggi, poichè comprendevano benissimo la malattia del gioco e cercavano di proteggere i giocatori nonchè le loro famiglie.

Inoltre i debiti di gioco non erano riconosciuti e se il giocatore debitore aveva già pagato poteva richiedere giudizialmente quanto aveva dato al giocatore creditore, il che frenava in parte i giocatori ( la nostra legge non prevede la restituzione di quanto spontaneamente pagato dal debitore al gioco.).

DADI ROMANI A 6 FACCE

I DADI

Erano detti aleae, e si giocavano lanciandone due o tre per volta.

DADO ROMANO A 20 FACCE
Sulle facce come oggi, erano segnati i punti da uno a sei, e le giocate erano associate nei risultati a nomi di eroi o di divinità, ad esempio vinceva in assoluto chi faceva il colpo di Venere se riusciva a mettere a segno un tot di lanci con tutti risultati diversi. ). Veniva detto "turricola" o anche "fritillus"il bossolo per lanciare dadi e astragali.

"Odio dover penetrare in questi piccoli dettagli, ma voglio che il mio studente sappia lanciare i dadi con facilità e calcolare la quantità di spinta che dovrebbe dare loro nel gettarli sul tavolo, e che sappia come fare per ottenere il numero di tre o indovinare il lato che è da evitare, e che siano abili e prudenti nei gioco dei ladruncoli; e che una pedina non può combattere due nemici .... "

(Ovidio, arte di amare, III)

FANCIULLA ROMANA GIOCA AGLI ASTRAGALI

GLI ASTRAGALI

Gli astragali, nome greco che in latino si traduceva con "talus" erano piccole ossa di ovini, articolati tra tibia e perone, usati per gioco come dadi, in effetti erano simili ai dadi anche essendo di forma stretta e lunga, invece di sei facce, avevano quattro facce: una liscia, una ruvida, una concava ed una convessa. Ad ogni faccia veniva assegnato un punteggio numerico (1, 3, 4, 6) in modo tale che le facce contrapposte dessero come risultato 7.

Marziale all'amico Paolo:
Paulum seposita severitate,
dum blanda vagus alea December
incertis sonat hinc et hinc fritillis
et ludit tropa nequiore talo,
nostris otia commoda Camenis. 
(Paolo deposta un poco la tua seriosità,
mentre Dicembre che si incapriccia del dado accattivante
riecheggia di qua e di là dei bossoli incerti
e impazza la tropa con l’astragalo più sregolato,
consacra gli ozi alle nostre Camene).

MONETA DEGLI ASTRAGALI
In un disegno trovato a Ercolano una fanciulla, dopo aver gettato in aria i cinque astragali, ha voltato la mano destra e ne ha raccolto la ricaduta di tre sul dorso, mentre due stanno cadendo a terra, accanto a quelli persi da un tiro precedente. La mano è ancora stesa in avanti con il palmo verso terra e le dita tese ad impedire la caduta degli astragali. La ragazza accovacciata davanti a lei controlla il risultato.

Con gli astragali si compiva anche un altro gioco, quello di lanciarli in aria per poi riacchiapparli con le mani, oppure col solo dorso delle mani. Vinceva chi ne raccoglieva di più. Un gruppo di terracotta da Capua, databile 340-330 a.c., raffigura due fanciulle accovacciate, intente nel gioco con gli astragali che tengono in entrambe le mani: si usava lanciarli in aria per poi cercare di recuperarli al volo nel maggior numero possibile.

A differenza dei dadi, però, contava non tanto il punteggio ottenuto, ma le combinazioni che si ottenevano lanciando tre o quattro astragali, tra i vari segni incisi sulle facce rivolte verso l’alto: il “colpo di Afrodite” (Venere) era costituito da quattro facce diverse, mentre il “colpo del Cane” (quattro facce uguali, tutte col valore più basso) costituiva il risultato peggiore.

Gli astragali erano anche realizzati in bronzo pitturato nei quattro lati o in bronzo dorato, ma ne sono stati rinvenuti anche in avorio e in argento e in oro. Marziale (XIV, 14) in "tali eborei" (astragali d’avorio):
Cum steterit nullus vultu tibi talus eodem,
Munera me dices magna dedisse tibi.
(Se nessun astragalo avrà la stessa faccia,
dirai che io ti ho dato grandi doni).



TESSERAE LUSORIAE

Se ne sono trovate di epoca tardo-repubblicana ma ciò non toglie che possano essere proseguite nell'uso per tutto l'impero.

Sembra si trattasse di una specie di gioco dell'oca, perchè le tessere sembra si dovessero pescare magari da un bussolotto e seguire un percorso per giungere a una meta che dava la vittoria. Le tessere erano rettangolari con un dischetto ad una estremità che doveva servire come impugnatura, modanate e decorate, in osso o in legno, e forse anche in avorio,

Le tessere avevano dei numeri e delle scritte, tipo felix o infelix, o i nomi di alcune divinità, o insulti o apprezzamenti, ed alcune non avevano scritte, il che fa pensare che il giocatore potesse procedere o arrestarsi o tornare indietro di tot numeri a seconda della scritta, tipo incontri Marte ti arresti perchè c'è la guerra, oppure torni indietro perchè sei infelice, e le tessere senza scritta doveva significare pescata nulla.
Purtroppo non sono mai stati ritrovati i tavoli o le basi su cui dovevano scorrere le tessere.



NAVIA ET CAPITA

- gioco a "navia et capita" (nave o testa), il nostro testa o croce con cui si doveva indovinare se la moneta cadeva dalla parte della testa o della nave.

MONETA CON LA TESTA DELLA DEA ROMA
E LA PRUA DI UNA NAVE
Sembra si chiamasse così in onore della Dea Roma per la quale era stata coniata una particolare moneta che aveva la testa della Dea su un lato e sull'altra una prua di nave, a significare l'espansione di Roma grazie al nuovo armamento navale che le permise all'epoca di conquistare il Mediterraneo.

Per i romani, abituati a combattere via terra, l'armamento navale fu una novità che usarono però egregiamente superando tutti i concorrenti marittimi.



PAR ET DISPAR

- Era l'odierno gioco a "pari e dispari" con cui un giocatore teneva chiuso nelle mani un determinato numero di sassolini e l'altro doveva indovinare se erano di numero pari o dispari.

Qui accanto due matrone stavano giocando al "par et dispar" romano, perchè anche le donne non disdegnavano qualche piccolo gioco d'azzardo.


LA MICATIO

MICATIO

Era il gioco della morra, usatissimo dai romani, che consiste nell'indovinare la somma dei numeri che vengono mostrati con le dita dai giocatori. Simultaneamente i due giocatori tendono il braccio mostrando il pugno oppure stendendo un numero di dita a scelta, mentre gridano un numero da 2 a 10 (la morra). 

Il giocatore che indovina la somma conquista il punto e, nel caso di gioco a squadre, mantiene la mano e dovrà combattere con l'altro giocatore della squadra concorrente e così via. 

Se entrambi i giocatori indovinano la somma il gioco continua e nessuno guadagna il punto. Il gioco finisce quando si raggiunge il punteggio deciso a priori.

Cicerone, in un suo scritto, ci dice che "dignus est quicum in tenebris mices", ossia "è persona degna quella con cui puoi giocare alla morra al buio". In latino la morra era indicata come "micatio", dal verbo "micare", che per esteso era "micare digites", ossia protendere le dita nel gioco.

PEZZI DEL DOMINO ROMANO

IL DOMINO

I romani giocavano anche una specie di domino, in genere di legno, ma pure in avorio o in bronzo.
Lo giocavano tanto i bambini quanto gli adulti. Se ne sono trovati solo frammenti ma è attestato da diverse fonti.

In realtà l'invenzione del domino deriva dall'antico Egitto, da cui passò in Grecia e quindi a Roma. Nell'Urbe arrivava e si diffondeva tutto di tutto, e ogni novità faceva scalpore.



LE NOCI

I giochi con le noci erano più giochi di abilità che di fortuna,  si facevano cumuli formati da tre noci come base con una sopra, e si doveva cercare di colpire il cumulo lanciando una quinta noce da una certa distanza (come il nostro gioco del tiro al barattolo).

Chi colpiva il cumulo vinceva le noci che aveva abbattuto.

In una variante si lanciavano alcune alcune noci cercando di fare canestro in un vaso dal collo stretto, oppure in alcune buche sul terreno. Questo gioco era chiamato "tropa".

Il "Ludus castellorum" o le "ocellate", era un'altra variante del gioco delle noci. Consisteva nell'abbattere piccole piramidi di noci o altri semi di frutta, come si vede su un rilievo di epoca imperiale.

Ma vi erano delle varianti, come quella raffigurata sulla destra dello stesso rilievo: due ragazzini fanno scivolare la noce su un piano inclinato cercando di centrare un mucchietto di noci.

Ovidio descrive almeno sette modi di giocare alle noci. Uno nel disporre a terra tre noci a triangolo e nel farne cadere con delicatezza e precisione una quarta, che doveva rimanere in equilibrio su quelle di base.



LA PALLA E IL VOLANO

Marziale distingue vari tipi di palla: follis, di pelle e vuota dentro, paganica ripiena di piume, e harpasta ripiena di sabbia. Famoso il mosaico di Piazza Armerina, in Sicilia, dove delle ragazze in bikini giocano con la palla lanciandosela tra di loro.

Ma le donne non si lanciavano solo la palla, ma anche volani che dovevano essere colti al volo, costituiti da un cerchio raggiato collegato al centro con uno stelo, il tutto in legno leggero. Con lo stelo si lanciava il volano che l'altra doveva afferrare sempre per il gambo.

Oppure si lanciavano un cerchietto servendosi di due bastoncini che l'altra doveva catturare con i suoi bastoncini e rilanciare. Oppure si lanciava la palla e l'altra la respingeva con un piccolo scudo di metallo verso la lanciatrice.


Pila trigonica

Sei giocatori raggruppati a due a due, in modo da formare tre squadre.in un triangolo di due metri di lato, disegnato sul terreno aperto.

In ogni vertice del triangolo si posizionano due giocatori, uno davanti all’altro. Quelli che stanno davanti iniziano il gioco, mentre quelli che sono dietro aspettano il proprio turno. Il gioco consiste nel passarsi la palla provando a ingannare gli avversari che possono riceverla.

Se a un giocatore cade la palla, lo sostituisce il compagno di squadra. Il giocatore che subentra riprende a tirare la palla. Vince la copia di giocatori a cui cade la palla il minor numero di volte.


Trigon

C'era poi un particolare gioco della palla, detto il "trigon" (trigono), con tre soli giocatori, posti ai vertici di un triangolo tracciato al suolo, che si lanciavano la palla con delle piccole reti una piccola palla di crine.


Harpastum

Un altro gioco della palla era l'harpastum, che si giocava con due squadre. Il primo giocatore colpiva con la mano la palla, posizionandosi nel fondo davanti alla linea che delimita il campo, la palla doveva oltrepassare la linea centrale. I giocatori avversari dovevano rimandare la palla dall’altra parte, colpendola con la mano in modo che la palla passi sul suolo o in alto e cercando di oltrepassare la linea di fondo difesa dall’altra squadra.

I giocatori delle due squadre dovevano impedire che la palla oltrepassasse la linea di fondo, segnando ogni volta un punto. Vinceva la squadra che per prima arrivava a 10 punti.



NUMMUM LACTARE

La dotazione a ciascun giocatore poteva essere di due o più monete. Si tracciavano due linee parallele sul terreno separate tra loro di due passi, e i giocatori, a turno, lanciavano una moneta da una delle linee per avvicinare la moneta alla linea opposta, ma evitando di oltrepassarla pena la squalifica. 

I giocatori potevano usare il loro turno per cercare di smuovere le monete degli avversari, cercando di fargli superare la linea. Vinceva il giocatore che riusciva ad avvicinare maggiormente la sua moneta alla linea opposta senza superarla..



TABULAE LUSORIAE

Erano giochi da tavolo, sia per bambini che per adulti, visto che si trovavano spesso incise su pavimenti o sui gradini dei fori cittadini.

TABULAE LUSURIAE
 In genere le tabulae lusoriae, tavole da gioco, erano piani portatili in legno, semplici o intarsiate, o di marmo, bronzo, o pietre pregiate.

Diverse venivano incise o scolpite sui pavimenti o sui gradini dei tribunali dove coloro che assistevano, evidentemente annoiandosi ad ascoltare le cause, giocavano a filotto per passare il tempo.

Nelle case dei ricchi si usavano generalmente scacchiere, che potevano anche essere ricchissime e realizzate in materiali preziosi. Pompeo Magno fece sfilare nel corteo del suo trionfo sui pirati, con il resto del bottino, la preziosa scacchiera di 3 piedi x 4 (90 x 120 cm) le cui caselle erano ricavate con l'intarsio di due tipi di pietre preziose.

Le tabulae erano:
  • filotto
  • gioco delle fossette
  • i latruncoli o gioco dei legionari (ludus latrunculorum)
  • gioco delle dodici linee (duodecim scripta)
  • gioco "dei Reges", o della composizione delle lettere
  • duplum molendinam


    Ludus ladrunculorum

    Il gioco dei ladruncoli, o semplicemente Latrunculi (da cui il termine italiano di ladruncoli), o Latrones (ladro di strada), era praticato molto dai legionari, simile al gioco odierno della dama.

    LATRUNCULI
    In questo gioco la scacchiera era composta da caselle dello stesso colore, mentre le pedine erano di colore diverso; su ciascun campo poteva essere messa solo una pedina; le pedine si spostavano in linea retta nelle 4 direzioni con numero di passi a piacere. Insomma un gioco strategico il cui scopo era di circondare le pedine avversarie, perchè la pedina circondata dall'avversario metteva in pericolo se stessa e tutte le altre dello stesso colore.

    L'avversario però, anche sacrificando qualcuna delle proprie pedine, poteva sfondare l'assedio riconquistando libertà di movimento sul retrofronte dell'avversario, con possibilità di graduale conquista della scacchiera.

    "Trimalcione: Mi permettete, però, di finire il mio gioco.
    Era seguito da uno schiavo con un asse di legno terebinto e dadi di pasta vitrea. E ho notato un particolare che rasentava il massimo della raffinatezza; come pedine in bianco e nero venivano servite monete in oro e argento. "(Piet. sab 33)


    Gioco dei Reges

    Il gioco dei Reges, (da regor reges = regola) raggruppava lettere anche senza senso determinato, con le stesse parole, di significato non chiaro, disposte su quattro righe e distinte in due campi, non sempre nello stesso ordine, ma in maniera tale che nella prima riga ci siano sempre dieci lettere, nella seconda e terza otto e nella quarta e ultima sette.

    Un esemplare sta nei Musei Capitolini con sequenza di lettere ben calcolate nelle colonne: due E nella seconda, quattro G nella quarta, tre R e una S nell'ultima, e lettere che si alternano come R ed S nella quinta ed G ed E nell'ottava.


    Duodecim Scripta

    Su una tavola, in genere di marmo, erano scritte 2 parole, ognuna di 6 caratteri, disposte su 3 righe, per un totale di 36 lettere. Si usavano 3 dadi e 30 pedine, 15 bianche e 15 nere; ogni casella poteva contenere più di una pedina. Il giocatore poteva muovere da una a tre pedine:
    • una sommando il punteggio dei tre dadi;
    • due pedine utilizzando per una il punteggio di due dadi e il resto per la seconda;
    • tre pedine utilizzando il punteggio di ogni singolo dado.
    Vinceva chi faceva uscire per primo dalla tavola le proprie pedine, seguendo un certo percorso, scegliendo la somma o la scomposizione dei numeri totalizzati con i dadi.


    Duplum Molendinam

    Il primo giocatore collocava una pedina sulla linea inferiore o all’incrocio delle linee del tavolo da gioco. Il secondo giocatore poneva poi la sua pedina cercando di evitare che l’avversario potesse allineare 4 pedine. Vinceva colui che riusciva per primo ad allineare 4 delle sue pedine in fila orizzontale, verticale o diagonale.

    Occorreva una tavola lusoria e 12 pedine per ogni giocatori. In una variante però si assegnavano ai giocatori solo 9 pedine ad ognuno.



    AES SIGNATUM (carte da gioco)

    AES SIGNATUM
    Esiste una nuova teoria che vuole che le carte da gioco derivino direttamente da lingotti romani conosciuti come aes signatum (minerale - rame o bronzo - contrassegnato, del peso di circa 1,5 kg).

    Su questi lingotti di forma rettangolare vi erano, tra varie figure, un sole (o anche un'aquila), una spada, un bastone ed una coppa. 

    Per cui gli assi e i relativi semi sarebbero direttamente ispirati ad antichissime monete romane chiamate Assi. 

    Queste monete non sarebbero mai entrate nella ricostruzione storica in quanto praticamente sconosciute (se ne conoscono pochissimi esemplari).

    L' Aes Signatum, come quello di fianco illustrato, apparve durante la Repubblica Romana dopo il 450 a.c. Era in bronzo. misurava 185,00 × 90,00 mm e pesava 1,662 g. (Biblioteca Apostolica Vaticana, Roma). Probabilmente veniva usata anche o soprattutto dagli adulti.


    TEMPIO DI BELLONA

    $
    0
    0
    AL CENTRO IL TEATRO MARCELLO


    IL TEMPIO IN CIRCO FLAMINIO

    Era un antico tempio romano eretto in Campo Marzio, vicino al tempio di Apollo Sosiano e al teatro di Marcello, dedicato a Bellona, divinità italica della guerra poi adottata dai romani.
    Fu promesso in voto nel 296 a.c. da Appio Claudio Cieco dopo una vittoria sugli Etruschi, nella zona conosciuta come "in circo Flaminio", al di fuori del pomerium cittadino, ma in prossimità delle mura, e venne dedicato pochi anni più tardi.

    Il console del 79 a.c. della stessa famiglia del fondatore, Appio Claudio Pulcro, vi pose le imagines clipeatae (ritratti su scudi) dei suoi antenati, perpetuando il legame tra il tempio e la gens Appia che l'aveva edificato.

    Publio Vittore nel registrare in questa regione il tempio di Bellona lo indica posto verso la porta Carmentale, avanti a cui era la Colonna Bellica. Nei seguenti versi di Ovidio poi si addita a tergo del Circo, cioè dietro la parte convessa del medesimo:

    "Prospecit a tergo summum brevis area Circum,
    Est ubi non parvae parva columna notae.
    Hinc solet hasta manu belli praenuntia mitti
    In regem et gentes, cum placet arma capi."


    TEATRO MARCELLO (sinistra), TEMPIO DI APOLLO SOSIANO (al centro)
    TEMPIO DI BELLONA (destra)
    Qui più volte si riunì il Senato per vicende che coinvolgevano stranieri, tipo ricevere gli ambasciatori di popoli non alleati, o comandanti militari.che tornavano a Roma dopo la vittoria in guerra, o per il saluto ai proconsoli in partenza per la provincia loro assegnata.

    "L'indicata posizione si trova ora occupata in parte dal monastero di Tor di Specchi, ove per altro nessun resto di antico edifizio si rinviene. La Colonna Bellica, donde si soleva dai Consoli tirare l'asta verso quel popolo a cui si voleva intimar la guerra, dovendo stare avanti al detto tempio, ed essere rivolta verso la porta Carmentale, indica la direzione del medesimo tempio essere stata posta verso la via antica che dalla detta porta andava al Circo. In questo stesso tempio, e non in un locale distinto, sembra che si solesse riunire il Senato per ricevere i trionfatori prima di entrare in Città, come anche si costumava di fare nel vicino tempio di Apollo;  e perciò doveva essere di una ragguardevole grandezza."

    TEMPIO DI APOLLO (3 colonne a sinistra)
    TEMPIO DI BELLONA (destra)
    Un paio di secoli dopo, il console del 79 a.c. della stessa gens di Appio Claudio Cieco, e cioè Appio Claudio Pulcro, lo restaurò e vi aggiunse i clipei con le immagini dei suoi antenati, tramandando così il culto di Bellona e la gloria della sua gens.

    Il tempio, al di fuori del pomerium cittadino, è stato identificato nei resti di un podio rinvenuti nei lavori degli anni 1930 per la liberazione del teatro di Marcello, che appartengono ad una ricostruzione di epoca augustea, non ricordata dalle fonti antiche, ma che si ebbe probabilmente nella fase di trasformazione di tutta l'area per la costruzione del teatro.
    I resti del podio sono costituiti dal riempimento in cementizio tra le strutture portanti dell'elevato che erano costruite in blocchi in opus quadratum, asportati dopo l'abbandono per essere reimpiegati e quindi ora mancanti.
    Il dedicante fu probabilmente un altro membro della gens Appia, Appio Claudio Pulcro, console del 38 a.c. e trionfatore sugli Hispani nel 33 a.c., fedele alleato di Ottaviano nonchè parente di Livia.


    Monastero di Tor de specchi 


    Il Monastero di Tor de’ Specchi si trova ai piedi del Campidoglio fra la basilica di s. Maria in Aracoeli e le rovine imponenti del Teatro di Marcello.


    Santa Rita in Campitelli

    I resti del podio sono costituiti dal riempimento in cementizio tra le strutture portanti in blocchi (opera quadrata), asportati dopo l'abbandono per essere reimpiegati e quindi ora mancanti.

    Sul podio c'è attualmente la struttura della chiesa di Santa Rita in Campitelli, presso la scalinata dell'Ara Coeli, qui spostata dalle pendici del Campidoglio durante i lavori degli anni 1930.

     L'elevato doveva essere, come nel vicino tempio di Apollo Sosiano, parte in marmo e parte in travertino.

    Dalla pianta sulla Forma Urbis Severiana risulta che il tempio fosse un "periptero", cioè con colonne su tutti i lati della cella, esattamente sei colonne sulla facciata e nove sui lati lunghi, pertanto un tempio di rilevante ampiezza.

    Al podio si accedeva per mezzo di una lunga scalinata frontale.

    L’edificio doveva essere ancora in buono stato di conservazione nel V secolo, come possiamo capire da un’iscrizione del 420 che a esso si riferisce.



    COLUMNA BELLICA

    Dinanzi al tempio di Bellona si trovava la columna bellica, il cui recinto è stato recentemente riconosciuto in un tratto di lastricato di forma circolare visibile presso il teatro di Marcello. Il singolare monumento era costituito essenzialmente da una piccola colonna che segnava la zona dove, a partire dal III secolo a.c., venivano svolti i rituali per la preparazione di una guerra.

    Narra Servio, sulla dichiarazione di guerra contro Pirro, re dell'Epiro, non potendo procedere all'indictio belli secondo il rito, poiché i confini del nemico si trovavano oltremare, un soldato di Pirro venne catturato e costretto ad acquistare un appezzamento di terra  (ager hostilis) vicino al Circo Flaminio, ut quasi in hostili loco ius belli indicendi implerent.

    Successivamente in quel luogo, davanti al tempio di Bellona, venne consacrata una colonna, non si sa se in pietra o in legno, dalla quale veniva lanciata l'asta nel territorio considerato nemico..

    Secondo altri era la colonna a rappresentare simbolicamente il territorio nemico, per cui si scagliava la lancia contro la colonna. In realtà l'asta veniva lanciata nel territorio posto accanto alla colonna, perchè doveva conficcarsi al suolo e lì restava fino al termine della guerra.

    In seguito il rito continuò con la colonna  e l'ultimo esempio conosciuto è del 179 d.c., sotto Marco Aurelio.

    Un'area circolare con la pavimentazione rifatta di fronte al tempio è stata interpretata come il luogo dove il monumento sorgeva, anche sulla base delle indicazioni date dalle fonti antiche. Nei pressi, davanti al tempio di Apollo Sosiano, sorgeva invece il perirrhanterion, dove si svolgevano le cerimonie lustrali alla fine delle campagne militari.



    I FEZIALI

    Le fonti riportano sin dall’età della monarchia un collegio sacerdotale dei feziali, la cui attività veniva richiesta nei momenti più significativi dei rapporti con altre comunità. Durante l’età monarchica il re, e poi il senato, designavano di volta in volta il collegio dei feziali, i quali avevano un compito di intermediari fra gli dei e gli uomini e di vittima designata in caso di rottura della fides.

    I RESTI
    Le formule ed i riti dello ius fetiale presentano un’elaborazione giuridica raffinata, simile a quella dei pontefici nel campo del diritto privato, ma non erano loro a prendere le decisioni di politica estera, anche se le formule della rerum repetitio, nella dichiarazione di guerra, nella conclusione formale di un foedus, nella deditio internazionale, testimoniano contenuti giuridici.

    Nella rerum repetitio il feziale, nel momento in cui varcava il confine della comunità presso cui si stava recando, e prima di esporre i postulata del popolo romano, chiedeva di essere ascoltato da Giove, dai confini del popolo in questione, chiarendo la propria posizione di publicus nuntius del popolo romano, inviato iuste pieque: vi è la consapevolezza di entrare in un territorio straniero, e la necessità di esporre i motivi di un’azione che in sé potrebbe essere illegittima.

    Informati gli Dei, la stessa dichiarazione veniva poi ripetuta più volte, onde essere certi che la comunità tutta era stata informata della legittimità della presenza del feziale romano nel suo territorio e delle richieste di cui egli stesso era portatore. Trascorsi i dies sollemnes senza che avvenisse la riparazione richiesta, il feziale faceva constatare agli Dei il comportamento inadeguato, e rendeva noto che sarebbe tornato a Roma, dove si sarebbe deciso il da farsi.

    ROSETTA DEL TEMPIO
    A Roma il re convocava il senato e chiedeva ad ogni senatore il suo parere, con la formula:
    Quarum rerum, litium, causarum condixit pater patratus populi Romani Quiritium patri patrato Priscorum Latinorum hominibusque Priscis Latinis, quas res nec dederunt nec solverunt nec fecerunt, quas res dari, solvi, fieri oportuit, dic”, inquit ei quem primum sententiam rogabat, “quid censes?” Tum ille: “Puro pioque duello quaerendas censeo itaque consentio consciscoque”.

    Alla delibera del senato seguiva l’invio del feziale per la dichiarazione di guerra, che avveniva attraverso il lancio dell’asta in territorio nemico e la pronuncia di una formula alla presenza di almeno tre uomini puberi appartenenti alla comunità nemica.
    Da un lato le parole pronunciate dal feziale durante il giuramento esecratorio, dove si invoca la punizione divina sul popolo romano se Roma per prima verrà meno al trattato “publico consilio dolo malo”, dall’altro la formale richiesta rivolta dal feziale al re di essere nominato regium nuntium populi Romani, e la risposta del re "Quod sine fraude mea populique Romani Quiritium fiat, facio".

    La formula più antica secondo Livio prevedeva una serie di domande e risposte, ciascuna delle quali ha un contenuto giuridico preciso: esse erano dirette ad accertare l'investitura di chi compiva la deditio da parte della propria comunità, nonché l'essere questa in sua potestate, e quindi capace di decidere autonomamente della propria sorte. Inoltre veniva elencato dettagliatamente ciò che si intendeva ricompreso nella deditio, onde non lasciare margine ad incertezze e a possibili future contese.

    La deditio di un comandante che avesse promesso al nemico, senza l'assenso del senato e del popolo, la conclusione un trattato, mentre Roma non intendeva onorare la promessa, doveva essere iusta, e cioè i colpevoli dovevano essere consegnati nudi e con le mani legate dietro alla schiena.

    Le implicazioni religiose e giuridiche sono evidenti: la promessa è stata fatta da un comandante romano, e quindi Roma ne è comunque coinvolta. Non onorarla rappresenta un scelus impium, dal quale Roma si libera consegnando colui che ha promesso, e ciò può fare in quanto lo stesso comandante, avendo promesso iniussu populi Romani, non aveva alcun potere di impegnare Roma.

    Il collegio sacerdotale dei feziali rifletteva in termini giuridici sui rapporti con comunità straniere, elaborando formule e riti con una tecnica simile a quella utilizzata dai pontefici, nell’isolare il dato rilevante dal punto di vista giuridico, e nell’escogitare le parole ed i gesti che andavano rispettivamente pronunciate e compiuti per raggiungere il risultato voluto.



    CULTO DI NEHALENNIA

    $
    0
    0
    NEHALENNIA
    Nehalennia è una divinità di origine incerta, secondo alcuni, da attribuire al pantheon germanico, secondo altri a quello celtico, e pare venisse adorata inizialmente solo presso gli attuali Paesi Bassi e le coste germaniche del Mare del Nord.

    La Dea era venerata come protettrice delle strade, custode dei viandanti e dei viaggiatori dei mari del nord. Spesso però invocata dal popolo per assicurarsi un dopo-morte felice, in quanto patrona di tutti coloro i quali ricercavano la via dello spirito.

    Il suo nome significa "Signora della nave", ma anche "Timoniera, Guida". Numerosi altari o steli votive vennero realizzate con le donazioni di quei marinai o capitani che ne avevano invocato la protezione durante le tempeste.

    ALTARE VOTIVO
    Sotto l'Impero Romano il culto di Nehalennia si diffuse notevolmente, e nelle province della Gallia Belgica e della Germania Inferiore vennero edificati numerosi santuari e cippi votivi sempre a seguito di un viaggio per mare riuscito senza intoppi.

    Ma la Dea proteggeva anche i lunghi viaggi, a piedi, a cavallo o in carrozza, che era anch'essi pieni di pericoli.
    Anche i romani, seppure senza includerla tra gli Dei ufficiali romani, ebbero a venerarla diffusamente e offrirle ex voto e pure donazioni.

    Col tempo però, avendo diversi attributi in comune con lei. come ad esempio protettrice delle strade (o dei crocicchi) e Dea degli Inferi, o per la presenza del cane nell'iconografia, finì a Roma con l'essere assimilata alla Dea Ecate.

    Per quanto riguarda le sue raffigurazioni, esse erano legate al viaggio dell'anima che, attraverso le acque di un lago, giungeva ad Avalon, cioè l'Altro Mondo o Tìr Na Nòg irlandese, la Terra delle Mele, della Conoscenza, dei Morti e dei Saggi.

    Insomma era l'anima dei volenterosi che andava ad esplorare il mondo dell'oltretomba, come accadeva in tutti i culti primitivi della Grandi Madri.

    L'acqua del lago trasportava le persone che vi si imbarcavano all'isola di Avalon, oppure le faceva perdere nella nebbia per ritrovarsi al centro del lago senza scorgere alcuna isola. A questo punto non restava che tornare mestamente indietro senza aver scoperto nulla.

    Infatti il viaggio non poteva esser fatto da chiunque. Solo le anime dei morti o i vivi che avevano percorso un particolare sentiero spirituale potevano scorgere l'isola e sbarcare su di essa.

    ALTARE DI NEHALENNIA
    L'isola era la terra di mezzo tra questo mondo e l'altro, e in momenti propizi, quando i confini tra i mondi diventavano sottili, spesso anche a seguito di rituali magici eseguiti dai vivi, delle anime potevano tornare nelle case in cui avevano abitato in vita. A volte invece tornavano per lamentare una trascuratezza nei loro confronti cui era necessario porre rimedio pena una certa invasione del defunto
    nella casa attuale.

    La visita delle anime poteva fornire ai vivi previsioni future e relativi consigli.

     Era ancora l'epoca in cui i morti non facevano tanta paura, si che anche a Roma venivano evocati due volte l'anno nella festa del Mundus Patet.

    Poi, con l'avvento della cristianesimo, l'aldilà divenne un incubo infernale e si ebbe una paura panica del morire e dei morti.

    Nell'altare qui a fianco si nota che la Dea è seguita come al solito dal fedele cane, elemento infero caro a Diana e ad Ecate.

    Accanto alla Dea è posto un cesto di frutta, e un altro è collocato tra le sue braccia, chiaro simbolo della fertilità del suolo preposta alla divinità in questione.
    Come tutti i culti riguardanti il mondo dell'Aldilà, il culto di Nehalennia ebbe a parte un culto più ristretto che riguardava dei Sacri Misteri, appunto per chi non temeva di guardare in faccia la morte.



    I SACRI MISTERI

    Le sue statue erano poste solitamente sotto un baldacchino a forma di conchiglia in compagnia di un cane, con una piccola nave in mano ed un cesto di mele ai piedi, raramente con in mano uno scettro; ma appare assai spesso mentre impugna un timone o in piedi sulla prua di una nave.

    NEHALENNIA (Germania Inferior)
    Il baldacchino a forma di conchiglia indica la nascita marina della Dea, esattamente come Afrodite.

    Il fatto che la conchiglia stia sopra ha un velato senso misterico che allude allo scambio tra mare e cielo. Là dove il cielo è la mente asettica, va posto il mare ricco di istinti e sentimenti.

    La presenza del cane, esattamente come Ecate, ma pure come Diana, indica la necessità che muove gli eventi. Il cane è l'animale al servizio dell'uomo, è l'istinto che lo spinge, cioè l'istinto di sopravvivenza.

    E' necessario ad esempio che, per eternare la vita, vi siano nascita, crescita e morte, una trinità il cui svelamento era affidato solo ai Sacri Misteri.

    Il simbolo della nave che ella padroneggia, che infatti tiene nella sua mano, è la capacità di scorrere sulle acque delle emozioni senza affondare. Naturalmente per il popolo era solo la protezione dei marinai.

    Il cesto di mele ai suoi piedi indica la capacità di cogliere il frutto dall'albero, col significato del giungere a conoscenza.

    Non a caso Adamo ed Eva vengono puniti per aver mangiato la mela dall'albero della conoscenza, conoscere è liberarsi, mentre l'ignoranza rende schiavi. E' evidente che Nehalennia avesse i suoi Sacri Misteri.

    Lo scettro, attributo caro anche a Giunone, indica che lei guida tutto, quindi si delinea come un'antica Grande Madre, Signora dell'Universo, quindi di uomini, animali e piante. E' lei che stabilisce nascita e morte delle creature senzienti.

    RICOSTRUZIONE DEL TEMPIO DI NEHALENNIA

    IL TEMPIO DI NEHALENNIA

    A Colijnsplaat, nella Germania Inferiore, è stato fedelmente ricostruito il tempio della Dea Nehalennia, un tempio esastilo eseguito come una curia con due finestrelle in alto e un colonnato a poco più di mezza altezza. Sorgeva su un modesto podio di 4 gradini. Terminava con un tetto a tegole romane e aveva due finestrelle sulla facciata.



    AVALON


    Il primo documento scritto che ci parla di Avalon lo identifica come l' Isola delle Mele, ovvero il luogo misterioso della conoscenza.

    NEHALENNIA (Colonia)
    In tutta l'Europa, da nord a sud la mela ha avuto il significato della conoscenza, contrapposta al buio dell'ignoranza. 

    Il termine Avalon si trova nella Historia Regum Britanniae di Goffredo di Monmouth, storico e scrittore britannico medievale che scriveva però in latino.
    Le sue opere sono tutte scritte in latino per cui questa è la traduzione più probabile di "Avalon", visto che in bretone il termine di "mela"è Aval, mentre in gallese è Afal, pronunciato però aval.

    Inoltre il concetto di un'"isola dei beati", posta a occidente, nel luogo del tramonto, è presente anche altrove nella mitologia indoeuropea, in particolare nel Tír na nÓg, ("Terra del giovane eterno") è l'altromondo della mitologia irlandese e nel mito delle greche Esperidi, custodi, insieme a un drago-serpente delle preziose mele che vengono però loro sottratte dall'eroe Ercole..

    L'isola di Avalon veniva chiamata anche "Inis witrin" (cioè "isola di vetro") per l'abbondanza di guado (insatis tinctoria), pianta che veniva utilizzata dai Britanni per tingersi il volto di quel blu/azzurro che rendeva il loro aspetto così terribile in battaglia.

    L' Historia Regum Britanniae è una celebre cronaca in latino, scritta da Goffredo di Monmouth intorno al 1136. L'opera ripercorre la storia dei re britanni lungo un periodo di circa 2000 anni, da Bruto, discendente diretto di Enea conosciuto nelle leggende medievali come il fondatore e primo sovrano della Britannia, su cui avrebbe regnato per ventitré anni attorno al 1100 a.c, fino all'avvento degli Anglo-Sassoni in Gran Bretagna nel VII secolo.

    Nel libro La Dea Nehalennia è la maga per eccellenza, è la Dama del Lago, la Signore delle acque profonde, colei che fornisce la spada con cui combattere, ovvero il coraggio di contrastare e svelare le nostre parti oscure, perchè, come dice merlino: "I peggiori nemici sono dentro di noi".

    QUINTO AURELIO SIMMACO

    $
    0
    0
    QUINTO AURELIO SIMMACO

    Nome: Quintus Aurelius Symmachus
    Nascita: Roma 340
    Morte: 402
    Professione: Oratore, Senatore e Scrittore romano

    È considerato il più importante oratore in lingua latina della sua epoca, paragonato dai contemporanei a Cicerone.

    La sua famosa relazione sulla controversia riguardante l'altare della Vittoria non ebbe però successo, e il suo coinvolgimento con un usurpatore e la sua opposizione all'imperatore cristiano Teodosio I lo obbligarono ad allontanarsi dalla vita politica.

    Teniamo conto che un usurpatore è come un antipapa.
    Si presentano due uomini che ambiscono allo stesso potere e brigano, con le armate o con la corruzione, o magari con entrambi, per ottenete il seggio.

    Chi vince diventa i regnante o il Papa legittimo, chi perde diventa autonomamente usurpatore o antipapa.

    Quinto aveva tenuto per l'uomo pagano che avrebbe potuto salvare il paganesimo e magari riportare Roma agli antichi splendori, convinto com'era della bellezza della romanità e dei suoi valori.

    Negli ultimi anni della sua vita si dedicò alla filologia, di cui è considerato il fondatore.

    Tra il 365 e il 402 ebbe una fitta corrispondenza epistolare a noi pervenuta, prezioso documento sulla classe dirigente romana dell'epoca e di un personaggio non-cristiano della fine del IV secolo.



    LE ORIGINI

    Simmaco apparteneva ad una nobile famiglia romana di rango senatoriale, innalzatasi soprattutto sotto Costantino I. Il padre era Lucio Aurelio Avianio Simmaco, praefectus urbi di Roma nel 364-365 e console designato per il 377 (ruolo che però non ricoprì).

    DITTICO DI SIMMACO NICOMACO
    La famiglia dei Symmachi aveva rapporti stretti con i Nicomachi, altra famiglia nobile ed influente; Simmaco strinse un rapporto d'amicizia con Virio Nicomaco Flaviano.

    Sposò, entro il 371, Rusticiana, da cui ebbe Quinto Fabio Memmio Simmaco; la figlia, invece, sposò nel 393 l'omonimo figlio di Flaviano, e in questa occasione fu probabilmente prodotto il dittico dei Simmachi e dei Nicomachi.

    Il suo bisnipote fu Quinto Aurelio Memmio Simmaco, autore di una Storia romana andata perduta e padre adottivo del filosofo Boezio.

    La famiglia dei Symmachi era molto potente e ricca, aveva tre domus a Roma, una a Capua e quindici ville suburbane, tre delle quali a Roma.

    Fu educato in Gallia e fu amico del poeta latino Decimo Magno Ausonio, oltre ad essere un buon conoscitore della letteratura greca e della letteratura latina.


    Abbiamo di Simmaco:

    - cinque orazioni incomplete, in cui fu difensore della tradizione e del mos maiorum.;
    - quarantanove relationes ufficiali (la terza, pronunciata dinanzi a Valentiniano II, che riguarda la polemica per l'ara della Vittoria, pervasa da sincera commozione, è scritta con fluida eleganza)
    - dieci libri di lettere, sul tipo di quelle di Plinio, ricche di informazioni su avvenimenti e personaggi dell'epoca, di cui il decimo libro contiene la corrispondenza con gli imperatori. Nove libri sono di corrispondenza privata e uno appunto di corrispondenza pubblica.
    - tre panegirici rivolti agli imperatori Valentiniano I e a suo figlio Graziano

    Come studioso si dedicò alla recensione del testo di Livio, autore che incarnava i suoi ideali di auctoritas e del mos maiorum.

    Nel suo cursus honorum ricoprì importanti cariche tra cui: proconsole d'Africa nel 373, praefectus urbi dal 383 al 385, fino a diventare console nel 391. In qualità di prefetto dell'urbe scrisse molti rapporti, o relationes, il più conosciuto dei quali è quello rivolto all'imperatore Valentiniano II nel 384 in cui si schiera a favore del mantenimento della antica Religione romana nelle cerimonie ufficiali dello Stato.



    LA RIMOZIONE DELLA DEA

    L'occasione fu data dalla polemica sorta in occasione della rimozione dell'altare della Vittoria dalla curia del Senato romano, voluta dai senatori cristiani.

    I senatori pagani rendevano infatti ad essa omaggio, considerandola come simbolo della romanità e della sovranità dello stato, più che come divinità.

    VITTORIA
    I senatori cristiani, offesi da questo comportamento, ottennero nel 382 dall'imperatore Graziano, la sua rimozione, anche grazie all'intervento del vescovo di Milano Ambrogio. Morto Graziano, il senato di Roma inviò a Milano una delegazione al suo successore Teodosio.

    In questo contesto si sviluppò la polemica tra Simmaco e Ambrogio dove il primo portò una concezione ispirata al pluralismo e alla tolleranza religiosa:

    « Dobbiamo riconoscere che tutti i culti hanno un unico fondamento. Tutti contemplano le stesse stelle, un solo cielo ci è comune, un solo universo ci circonda. Che importa se ognuno cerca la verità a suo modo? Non si può seguire una sola strada per raggiungere un mistero così grande.»
    (Quinto Aurelio Simmaco, Relatio de ara Victoriae)

    E poi: “Noi rivendichiamo pertanto lo stato giuridico dei culti religiosi, che per lungo tempo fu utile alla cosa pubblica”.

    In effetti, da Costantino in poi, benché gli imperatori, a parte Giuliano, fossero cristiani, i culti tradizionali e i relativi sacrifici continuarono a mantenersi a spese dello Stato e gli stessi principi cristiani continuarono a rivestire la suprema carica della religione pubblica romana: il Pontificato Massimo. 

    Fu sotto l'intolleranza del vescovo Ambrogio che Graziano soppresse tra i titoli imperiali quello di pontifex maximus; privò le vestali e i collegi sacerdotali delle immunità e delle sovvenzioni pubbliche e ne confiscò i beni; fece nuovamente rimuovere l’altare della Vittoria dalla Curia Julia sede del Senato di Roma operando così la laicizzazione dello Stato.
    Una visione di grande civiltà ma Ambrogio, convinto che solo il Cristianesimo dovesse esistere, riteneva che solo il Dio dei cristiani fosse il vero Dio ipse enim solus verus est deus: da cui la falsità di ogni religione non cristiana.

    Del resto santo Ambrogio era colui che aveva scritto: "Adamo è stato condotto al peccato da Eva e non Eva da Adamo. È giusto che la donna accolga come padrone chi ha indotto a peccare"

    Per i pagani i provvedimenti che toglievano il sussidio dello stato alla religione pagana erano assurdi, la res publica non avrebbe potuto sostenersi senza il cultus deorum, garante la pax deorum, vale a dire la protezione divina sulle sorti dell’Impero. Era come se venisse unilateralmente infranto un antico patto giuridico: quello che, a partire da Romolo e Numa, era stato stipulato fra res publica Romanorum e potenze divine, col fine ultimo della tutela e conservazione della comunità dei Romani. 

    Abolire il finanziamento pubblico ai culti tradizionali era rompere l’antico patto: ecco perché non potevano esistere culti, che non avessero pubblica sanzione e finanziamento.

    Senza un riconoscimento pubblico, giuridicamente valido, i culti rientravano nella sfera privata, ma la res publica diveniva un’entità desacralizzata priva di luce e riferimento superiore, con conseguenze gravissime facilmente immaginabili: la caduta della stessa res publica, abbandonata a se stessa da quelle divinità che l’avevano sostenuta per undici secoli e mezzo”.

    Teodosio diede ragione ad Ambrogio e l'ara della Vittoria venne distrutta mentre la statuetta della Dea Vittoria, che era diventata il simbolo chiave del senato romano e che da tanti secoli i senatori salutavano per prima entrando nell'aula, venne fusa, uccidendo oltre a una preziosa opera d'arte, il fondamento della più importante civiltà del mondo.

    Dopo pochi anni gli imperatori cristiani succubi dei loro vescovi imposero leggi sempre più intolleranti. Ambrogio rivendicò a sé il diritto di giudicare e assolvere anche capi di Stato; Teodosio si sottomise  e il vescovo milanese gli fece pagare caro il suo perdono.

    PAUSILYPON - POSILLIPO (Campania)

    $
    0
    0

    Posillipo figura già nelle fonti degli antichi Greci, i primi ad abitare il suggestivo promontorio coperto ricoperto da rocce e alberi che si affacciava su uno splendido mare.

    Ma dopo i Greci furono i Romani ad essere conquistati e a conquistare il territorio, infatti presso la spiaggia sono disseminate le rovine Romane che si inerpicano fino al più alto della collina. Ancora di possono scorgere vedere i resti delle aperture che ventilavano il tunnel che conduceva alla residenza di Publio Vedio Pollione, la meravigliosa villa del ricco liberto.

    Proprio qui sorgono la Villa Imperiale di Pausilypon, affiancata dai resti dell'imponente Teatro del I secolo a.c., appartenuti a Publio Vedio Pollione e oggi parte del Parco archeologico di Posillipo.

    Publio veniva infatti da una famiglia di liberti, ma era cosi' ricco che potè raggiungere l'ordine equestre. Soprattutto servì egregiamente Augusto come consigliere economico nella riorganizzazione della provincia dell'Asia (27-25 a.c.). A dimostrazione della sua fedeltà costruì un Caesareum nella propria città natale, Benevento.

    BAIA TRENTAREMI
    Pollione possedeva una enorme e bellissima domus sull'Esquilino e la meravigliosa villa di Posillipo.
    Alla sua morte nel 15 a.c., lasciò parte delle sue ricchezze ad Augusto, il quale fece della villa a Posillipo una propria villa, mentre rase al suolo la lussuosa casa romana per costruirvi sopra il portico di Livia.

    Accanto alla villa vi sono i resti di un anfiteatro. Con la caduta dell'impero la popolazione di Napoli si ritirò entro le sue mura e l'intera zona cadde in declino, preda delle invasioni barbariche e del saccheggio successivo dei cristiani.

    Purtroppo gli ultimi popoli non hanno rispettato granchè questo stupendo paesaggio, basti guardare la villa moderna che sorge proprio nel parco non distante dalla villa imperiale, in pieno parco archeologico.

    APOLLO

    PARCO SOMMERSO DI GAIOLA

    Sulla punta di capo Posillipo si trova il Parco sommerso di Gaiola, istituito nel 2002 dai Ministeri dell'Ambiente e dei Beni Culturali, nelle acque che circondano gli isolotti della Gaiola, si estende dal porticciolo di Marechiaro alla Baia di Trentaremi, con finalità di protezione sia Archeologica che Ambientale.

    I dolci pendii digradanti verso il mare e le alte falesie di tufo giallo napoletano, ammantate dai colori della macchia mediterranea hanno da sempre esercitato un fascino particolare sui popoli che qui si sono succeduti.

    APOLLO DOPO I LAVORI DI PULITURA
    Il Parco sommerso ha anche una notevole importanza biologica: l'estrema complessità geomorfologica dei suoi fondali e la continua vivificazione delle sue acque, garantita dal favorevole sistema di circolazione delle acque costiere, hanno permesso l'insediamento in pochi ettari di mare di numerose comunità biologiche marine tipiche del Mediterraneo.

    Ci meravigliamo non poco che un simile patrimonio non si sia potuto sottrarre al mare, come hanno del resto fatto i Paesi bassi per un territorio infinitamente più esteso.

    Sarebbe stato visibile non solo ai sub ma a tutti visitatori che bene avrebbero apprezzato questa opera unica al mondo.
    Anche per sottrarla all'attacco costante dei minuscoli abitanti del mare.


    Per avere un'idea di ciò che il mare nasconde basti scendere in questi fondali e scorgere i marmi e le statue, spesso abbandonate ad degrado che necessiterebbero di continua manutenzione per non essere erose dal mare.

    Come ad esempio questo splendido Apollo qua sopra nelle due versioni sporca e pulita.

    Il Parco sommerso di Gaiola è una piccola area marina protetta di 42 ettari di mare che circonda le Isole della Gaiola nel golfo di Napoli, un gioiello incastonato nel paesaggio costiero di Posillipo, a poca distanza dal centro della città di Napoli.

    La zona è dovuta alla fusione tra elementi vulcanologici, archeologici e biologici. Sui fondali del Parco, infatti, è possibile osservare i resti di porti, ninfei e peschiere attualmente sommersi a causa del lento sprofondamento della crosta terrestre (bradisismo).

    Per non parlare degli splendidi mosaici che spuntano dai fondali, continuamente ricoperti dalla sabbia e le alghe.

    L'ISOLA DELLA GAIOLA

    L'ISOLA DELLA GAIOLA

    La maledizione

    L'isola trae la propria denominazione dalle cavità che costellano la costa di Posillipo (dal latino cavea: "piccola grotta", e dunque attraverso la forma dialettale "caviola"). In origine, la piccola isola fu nota col nome greco di "Euplea" ("navigazione felice"), da Venere Euplea, protettrice della navigazione sicura e fu caratterizzata da un piccolo tempietto, di cui però non si sono ancora scorte le tracce

    L'isola è molto vicina alla costa, raggiungibile con poche bracciate di nuoto. 
    All’epoca era un unico blocco di tufo attraversato da una cavità.
    La copertura di questa cavità si sarebbe assottigliata ed infine, nell’Ottocento, sarebbe crollata.

    Oggi è sostituita da un piccolo ponte che collega i due tronconi in cui è rimasta suddivisa.

    Altri sostengono invece che sia stata separata artificiosamente in epoca romana per volere del generale Lucullo.

    Le prime notizie sulla Gaiola la danno utilizzata come punto di avvistamento o come base per gli addetti alle attrezzature portuali ed alle peschiere. Poi più nulla, come per tutto il complesso Pausilypon.

    ISOLE DELLA GAIOLA
    Testimonianze del ‘600 asseriscono che sulla più piccola delle isole napoletane esistevano ancora molti resti di edifici romani, mentre quelli alla sua base, che una volta affioravano dall’acqua, ormai erano già sommersi, poiché si considera che il fenomeno del bradisismo (che fa elevare e abbassare il livello terrestre) abbia provocato in zona un abbassamento del suolo di circa 3-4 metri da quando Pollione vi costruì la sua magnifica villa. 

    Naturalmente non mancavano le famose peschiere delle ville romane, ed infatti anche Pollione ne era particolarmente appassionato e fiero. 
    Restano, in una prolungamento dell’isola, dei blocchi di tufo attraversati da cavità ancora rivestite in muratura.
    Nel 1648, dopo la rivolta che vide coinvolto il famoso Masaniello, l’isola divenne la base dei rivoltosi di Posillipo, che qui posizionarono i cannoni di una nave arenata nei paraggi. 

    Di questa situazione tenta di approfittare Alfonso di Lorena per far ritornare la città sotto il dominio dei Francesi, ma la flotta Spagnola distrugge le sue speranze sconfiggendo definitivamente i rivoltosi, e spedendo di nuovo l’isola nell’oblìo.

    Secondo altri i Borboni furono gli unici ad occuparsi delle bellezze campane e a farle restaurare.
    Fu nel corso del ‘700 che la Gajola riebbe la sua meritata fortuna, come tutta la zona di Posillipo, grazie alle sue bellezze naturali, ed anche archeologiche, per la verità, grazie ai viaggiatori stranieri, soprattutto pittori. 

    Fra questi Pietro Fabris, il gallese Thomas Jones, il francese Volaire ed il tedesco Wilhelm Tischbein, amico di Goethe, che andava a disegnare e dipingere la domenica alla “Scuola di Virgilio” con i suoi allievi.

    ISOLE DELLA GAIOLA
    Negli anni venti è stata in funzione una teleferica che collegava l'isola alla terraferma.
    All'inizio del XIX secolo, l'isola era abitata da un eremita.
    Costui, che effettuava non si sa bene se guarigioni o pratiche magiche, venne soprannominato  "Lo Stregone",  e visse dei regali dei pescatori. 

    Poco dopo, verso la metà dell'800, l'isola vide la costruzione di una villa che la caratterizza ancora oggi. 

    La villa che sorge sulla terraferma, proprio di fronte a lei è chiamata “conventino”, forse perché costruita sui resti di un convento brasiliano, e fungeva da dependance o da riparo per i giorni di mal tempo in cui non era possibile raggiungere la villa sull’isola.

    Nel 1873 la casa esistente sulla Gajola è ampliata e trasformata, divenendo la sede della Società Italiana di Piscicoltura, fondata da Luigi de Negri, che acquistò l’isola nel 1871, ed ottenne dallo Stato la concessione di un’ampia zona di mare (compresi i ruderi contenuti) per la pesca. 

    L’area si estendeva fino alla vicina cala di Trentaremi, ed è qui, nelle sue grotte, che il de Negri voleva impiantare i depositi e la fabbrica per la trasformazione del pesce pescato.

    La società intendeva pescare in modo “moderno” da Gaeta a Capo Miseno, comprese Ischia, Procida e Punta Campanella (Sorrento) con i suoi quaranta battelli. 

    Purtroppo la società ben presto fallì e la Gaiola fu acquistata dall’ingegnere inglese Nelson Foley, dirigente della Hawtorn-Guppy, azienda del periodo borbonico che si occupava di meccanica, sul lato orientale di Napoli.

    La villa, che nasce in posizione privilegiata, fu anche di proprietà del celebre e inquietante Norman Douglas, autore della Terra delle Sirene.

    La popolazione del luogo, generalmente, non ha mai visto di buon occhio la Gaiola, considerandola una sorta di "isola maledetta", che con la sua bellezza nasconde "sorti inquiete", nomea dovuta alla frequente morte prematura dei suoi proprietari.

    Agli inizi del '900 risale l'episodio del "San Giorgio".

    La "maledizione" della Gajola non ha risparmiato, infatti, neanche la Marina Militare Italiana. Nel pomeriggio del 12 agosto del 1911 l'incrociatore San Giorgio, varato poco tempo prima nei cantieri di Castellammare, si schiantò a tutta velocità sulla secca davanti all'isoletta. Il comandante fu accusato di essersi "distratto" con una sua "amica" contessa e fu licenziato. Per liberare la nave i tecnici impiegarono più di un mese, nonostante l'utilizzo di cariche esplosive, dopo aver riparato le falle per rimorchiare l'incrociatore in cantiere.

    Negli anni Venti i proprietari erano due: Grunback, che si uccise, e Hans Braun, anch'egli suicida dopo che la moglie fu uccisa da una mareggiata che la sbalzò fuori dalla teleferica mentre ritornava sull'isola.

    La villa passò così al tedesco Otto Grunback, che morì d'infarto mentre soggiornava nella villa. 
    Simil sorte toccò all'industriale farmaceutico Maurice-Yves Sandoz che morì gettandosi da una finestra di una clinica svizzera, convinto, erroneamente, di essere sul lastrico.

    Il suo successivo proprietario, un industriale tedesco dell'acciaio, il barone Paul Karl Langheim, fu trascinato al lastrico dagli efebi e dalle feste, dei quali di solito amava circondarsi. Ne fu proprietario dal 1955 al 1965 poi fu mantenuto dal nuovo proprietario della villa: Gianni Agnelli, che subì però la morte di molti familiari.

    Passò poi a Paul Getty il cui nipote venne rapito e mutilato di un orecchio, successivamente, a Gianpasquale Grappone, che la acquistò nel 1978 per 350 milioni; la sua sorte segnò anche quella della Gajola: fu arrestato per bancarotta e l’isola fu rivenduta all'asta dal tribunale di Napoli.

    Messa all'asta, l'isola è diventata finalmente proprietà della Regione Campania che nel 1983 comprò l'isola per circa 800 milioni di lire. Nel 1998 è stata concessa in affitto dalla Regione Campania all’associazione “Mare vivo” per la realizzazione di un “Centro Mediterraneo per la conoscenza, la valorizzazione e la diffusione delle risorse marine”.

    Ma guarda caso, da allora non è più visitabile.

    VILLA DI POLLIONE

    LA VILLA IMPERIALE


    Altro importante sito è la Villa Imperiale di Pausilypon, dove, tra uno dei panorami migliori del Golfo, è possibile ammirare anche i resti dell'imponente Teatro e di alcune sale di rappresentanza.

    Dopo la battaglia di Azio (31 a..), Publio Vedio Pollione decise di ritirarsi dalla guerra e dagli affari per trascorrere gli ultimi suoi giorni nella sua splendida villa di Pausilypon, che significa “sollievo dal dolore”. 
    Molto interessanti, in vari punti delle vestigia, sono le presenze delle condutture dell'acquedotto (rivestite in malta idraulica), segno di ulteriore opulenza di chi vi soggiornava.

    Molti imperatori trascorsero periodi di ozii nella splendida villa a picco sul mare. L'ultimo ad abitarla fu Publio Elio Traiano Adriano.
    Accanto alla villa, fece costruire anche un teatro di 2000 posti, un odeon per piccoli spettacoli, un ninfeo e un complesso termale.

    I resti di altre domus romane si possono scorgere a Marechiaro, lungo la spiaggia, oppure alla Calata Ponticello, risalendo il borgo, dove si possono scorgere una colonna a base ionica ed una nicchia in laterizio. 
    Sulla spiaggia, invece, andando verso la Gaiola si può ammirare ciò che rimane della "Villa degli spiriti" anche detta “Villarosa”. 

    Proseguendo lungo la costa, verso occidente, è possibile notare il perimetro della “Scuola di Virgilio” dove si riteneva che il "vate" praticasse arti magiche.


    Il parco è stato riaperto al pubblico dopo i lavori di restauro nel 2009 per la kermesse Maggio dei monumenti grazie anche alla collaborazione del "Centro Studi Interdisciplinari Gaiola". 

    Oggi il parco sta venendo pian piano riscoperto dai cittadini napoletani ma anche dai turisti stranieri grazie alla strutturazione di diversi itinerari di visite guidate ed ai laboratori didattici per le scuole curati dal CSI Gaiola onlus.

    Nel 2010 l'amministrazione municipale annunciò l'intenzione di recuperare l'impianto funiviario dismesso negli anni sessanta che rappresenta la soluzione ideale per superare gli ostacoli di accesso al parco.



    IL TEATRO

    Qui, nell'incanto di uno dei paesaggi più affascinanti del Golfo, è possibile ammirare i resti del teatro della Villa di Pollione.

    L'ODEON
    Ma accanto al teatro ci sono anche le vestigia del più piccolo teatro dell'Odeon. 
    Gli Odeon erano teatrini adibiti a rappresentazioni musicali, ai concorsi di poesia e di musica, che non raccoglievano una grande folla nè abbisognavano di una vasta arena, ma solo di una buona acustica.

    Non mancano alcune sale di rappresentanza della villa (visibili ancora tracce dei decori murali), le cui strutture marittime fanno oggi parte del limitrofo Parco sommerso di Gaiola, su cui si affacciano i belvedere a picco sul mare del Pausilypon.

    GROTTA DI SEIANO

    LA GROTTA DI SEIANO

    La grotta di Seiano, un capolavoro architettonico di rara bellezza, è un traforo lungo 770 m, scavato in età imperiale nella pietra tufacea della collina di Posillipo, che congiunge la piana di Bagnoli con il vallone della Gaiola, passando per la baia di Trentaremi.

    La cosiddetta grotta, ovvero il sottopassaggio, fu costruita da Lucio Elio Seiano, prefetto di Tiberio, che, come riportano le fonti, nel I sec. d.c ne commissionò l'allargamento e la sistemazione.

    Sembra però che un precedente traforo fosse stato realizzato una cinquantina di anni prima dall'architetto Lucio Cocceio Aucto per volere di Marco Vipsanio Agrippa, onde collegare la villa di Publio Vedio Pollione e le altre ville patrizie di Pausilypon ai porti di Puteoli e Cumae.

    La galleria, orientata in direzione est-ovest, si estende per circa 770 metri, con un tracciato rettilineo ma una sezione variabile sia in altezza che in larghezza.
    Dalla parete sud si dipartono tre cunicoli secondari, terminanti con aperture a strapiombo sulla baia, che forniscono luce ed aerazione.

    Caduta in disuso e dimenticata nel corso dei secoli, fu rinvenuta casualmente durante i lavori per una nuova strada nel 1841 e subito riportata alla luce.
    Anzi venne  resa percorribile per volontà di Ferdinando II di Borbone, che molto amava le antichità, diventando meta di turisti. 
    Nel corso della II guerra mondiale fu utilizzata come rifugio antiaereo per gli abitanti di Bagnoli.
    li eventi bellici, alcune frane nel corso degli anni cinquanta, e la solita incuria per i monumenti la riportarono in un vergognoso stato di abbandono.
    Ed è attraverso l'imponente grotta di Seiano che si accede al complesso archeologico-ambientale che racchiude parte delle antiche vestigia della villa del Pausilypon.



    GROTTE DI TRENTAREMI

    Il Parco Sommerso di Gaiola rappresenta per la Città di Napoli un’occasione unica per riscoprire le meraviglie del proprio mare. Questo itinerario è stato quindi studiato per visite guidate specifiche nell’Area Marina Protetta.

    Dopo una presentazione delle peculiarità del Parco con l’ausilio di materiale audiovisivo presso il Centro Visite (Discesa Gaiola 27/28) si scenderà al porticciolo della Gaiola dove ci si imbarcherà sull'Aquavision, il battello a visione subacquea.

    L'itinerario di snoderà dal borgo di Marechiaro alla Baia di Trentaremi, illustrandone le caratteristiche naturalistiche, vulcanologiche e storico-archeologiche.



    SCOPERTA UNA SPLENDIDA VILLA ROMANA

    Venne riportata alla luce nel 2004 durante i lavori di restauro della cripta della Chiesa Madre di Positano. E´ una villa romana considerata la più grande scoperta archeologica avvenuta in Costiera negli ultimi decenni. Negli ultimi anni sono stati scoperti splendidi affreschi sulle pareti della villa ed anche delle opere di grande valore come ippocampi, colonne dorate, grifoni, amorini a cavallo e un bellissimo pegaso alato.

    La villa sarebbe stata costruita in un periodo compreso tra il I sec. a-c- ed il I sec. d.c. Il proprietario originario dovrebbe essere il liberto Posides Claudi Caesari, dal cui nome deriverebbe anche il toponimo Positano.
    Favolosi gli sfondi architettonici che fungono da cornice per le raffigurazioni.

    La villa giace nei pressi dell’attuale Chiesa dell’ Assunta, sigillata da una coltre di lapillo dell’eruzione vesuviana del 79 d.c., alta poco più di ½ metro, che con le pressanti piogge solidificò e indurì con effetti piuttosto dannosi per le strutture della villa. 

    Il suo processo di seppellimento fu simile a quello di Ercolano: schiacciata nella morsa del fango indurito, la parte che più si trovava addossata al fianco del vallone sicuramente subì meno danni, mentre la parte più bassa venne trascinata fino al mare.


    La villa, di età giulio-claudia, risulta dai saggi e scavi  formata da un peristilio con colonne laterizie stuccate, chiuse da un muretto basso e continuo, pluteo, riempito di terra all’interno e adibito a fioriere. Forse l’angolo nord costituiva l’ingresso alla villa e da lì si estende un lungo criptoportico visibile anche qui per tre lati (dei quali uno solo dell'originaria lunghezza di m. 32),  in opus incertum.

    Questa residenza estiva era stata creata sullo schema della domus con ampio giardino (che nel corso del tempo si amplierà moltiplicandosi e frazionandosi nella direzione di un parco naturale con opere portuali e vivai per l’itticoltura), come attesta l’archeologo Amedeo Maiuri che la scavò nel 1934.
    La villa nell'alto medioevo è stata saccheggiata dei reperti più preziosi; molto è stato il materiale di reimpiego. 

    Dalla villa infatti, provengono le paraste e le colonne distribuite nell’aria antistante l’arenile, così come il dolio vicino alla "Buca di Bacco” e una base di labrum al centro del piazzale davanti alla scala con i leoni. 




    Due grandi frammenti architettonici decorati di epoca romana, sovrapposti, costituiscono invece la base della croce in ferro davanti alla chiesa del Rosario a piazza dei Mulini.

    Sui resti della villa fu costruita una abbazia per cui quattro colonne furono inglobate come sostegno all’interno della cripta (‘700) e con l’avvento dell’età moderna è stata di nuovo sepolta ma dal piazzale antistante (Mingazzini 1977).  

    Lo scavo settecentesco di Carlo Weber:
     "si trova, sotto terra, alla profondità di circa 30 palmi, un famoso edificio antico, il cui primo mosaico è di marmo bianco e molto pregiato, però sino a questo momento appare senza disegni.
    In questo punto è stato asportato il lapillo per costruire immediatamente al lato del campanile, e proseguire in maniera da indicare che il tempio antico è situato al di sotto della chiesa e che si era, a beneficio della chiesa, scavato per molto tempo diverso materiale antico di colonne ed altro, il che è dimostrato dai mosaici di vari disegni e dai marmi antichi verdi e gialli che ho visto collocati come pavimento del presbiterio. 

    Si ebbero poi venduto colonne ed altri reperti alle monache di S. Teresa a Napoli; questi reperti furono molto apprezzati e mediante questo beneficio si costruì più grande la chiesa che prima era molto più piccola

    Al riferito mosaico seguono, discostandosi dalla chiesa, alcune stanzette con le pareti dipinte rappresentanti ornamenti, piccoli vasi, grifi, foglie etc., il cui intonaco dipinto è per la maggior parte caduto perché in cattive condizioni; ne conserva alcuni piccoli frammenti il citato Atanasio.

    Successivamente ho visto due colonne grandi in laterizio, con intonaco rosso molto vivo, che accompagnano  lateralmente un condotto d'acqua, circolarmente, che rappresenta la delizia di un giardino con vasca.

    Dopo si vede un altro condotto, simile al precedente, con colonne in laterizio intonacate bianche e, al suo lato, un giardino a pianta quadrangolare, il cui lato maggiore è quasi 200 palmi ed è circondato da un corridoio con pavimento di astragli e pilastri intonacati e avente al centro una vasca con condotto di scarico.

     Questo è quanto ho potuto osservare in detti luoghi dando ordine al riferito Atanasio perché faccia chiudere e incassare la prima grotta e le stanzette con pietre e terra pestata, con tre pilastri di malta per assicurare il campanile…. 

    E´ dunque una villa romana di spettacolare bellezza considerata la più grande scoperta archeologica avvenuta in Costiera negli ultimi decenni. 
    Nel corso degli scavi sono stati scoperti splendidi affreschi con cornici in stucco, al di sotto delle quali, sulla parte sinistra è raffigurato un ippocampo e, sulla destra, un’aquila adagiata su un globo; mentre nel riquadro centrale dell’affresco compaiono un pegaso e due amorini, questi ultimi sono di stucco e resi in rilievo.
    Le raffigurazioni sono inquadrate da raffinati sfondi architettonici, fra cui spiccano l’architrave classico da cui si eleva il cavalluccio marino ed il soffitto cassettonato, in un insieme animato dalla corposa e vivace gamma cromatica incentrata sul rosso “pompeiano”, sull’azzurro e sul giallo ocra.
    All’interno della coltre fangosa (formata da materiali piroclastici) sono emerse le impronte cave di grossi pali lignei di sostegno del soffitto in tegole e coppi. Alcuni risultano spezzati e dislocati insieme a parti dei muri in opus reticulatum di tufo giallo.



    LIMES TRIPOLITANUS

    $
    0
    0

    FORTE DI GHERIAT EL GARBIA

    Il Limes Tripolitanus era la zona di frontiera dell'Impero romano in occidente, costruita nel sud da quella che oggi è la Tunisia e il nord-ovest della Libia. Fu destinato soprattutto alla protezione delle città tripolitane di Leptis Magna, Sabratha e Oea in Libia.

    Il Limes Tripolitanus venne costruito dopo Augusto e fu legato principalmente alla minaccia dei Garamanti. Settimio Flacco nel 50 d.c. fece una spedizione militare che si inoltrò nella parte orientale dell'Africa fino all'Equatore. Inoltre raggiunse l'attuale Fezzan, una regione della Libia nel cuore del deserto del Sahara.



    I GARAMANTI

    I romani non conquistarono i Garamanti ma li convinsero con i benefici del commercio e li scoraggiarono con la minaccia della guerra. L'ultima incursione Garamanti verso la costa avvenne nel 69 d.c., quando aderirono con la gente di Oea (attuale Tripoli) in battaglia contro Leptis Magna.

    LIMES AFRICANUM
    I Garamanti iniziarono a diventare uno stato cliente dell'impero romano, ma sempre nomadi, misero in pericolo la zona fertile della Tripolitania costiera. Per questo i Romani crearono il Limes Tripolitanus. Il primo forte sul limes fu costruito a Thiges per proteggersi dai nomadi, nel 75 d.c.

    Lo studio del limes tripolitano è interessante non solo per le linee di difesa romane, ma  anche come esempio di come i romani intervennero presso delle società di nomadi, come entrarono nell'ecosistema dei Garamanti, un paese costituito da quattro aree fertili situate nel deserto del Sahara.

    Qui infatti è stato rinvenuto un documento estremamente importante, scritto nella prima metà del III secolo a Fort Gholaia, un avamposto romano sul fronte meridionale dell'impero. Appartiene a una collezione di più di 146 appunti incisi su terracotta che sono sopravvissuti nei secoli. Non avendo le tavolette cerate a disposizione, qui i legionari bagnavano l'argilla e vi incidevano le frasi, poi ponevano l'argilla al sole e questa diventava terracotta, dato il clima caldissimo.

    Questi scritti ci danno uno scorcio di vita di tutti i giorni nella vita del forte. Vi si scrive di soldati messi in congedo, di alcuni di essi che sono malati, e di altri legionari inviati a una stazione di polizia dove si nutrono i viaggiatori e si dà l'acqua ai loro dromedari. C'è l'annuncio dell'arrivo di circa cinquantaquattro reclute, circa il ritorno di un soldato che è stato in servizio durante uno spettacolo di gladiatori, e dei soldati che tagliavano la legna per il riscaldamento del bagno pubblico del forte.
    Guardando le rovine di  Gholaia, nei pressi di Bu Njem, che si trova in pieno deserto, ci si chiede come avessero potuto fare tanto. L'unico bosco esistente si trova nel palmeto dell'oasi vicina, dove tagliare gli alberi sarebbe un suicidio economico. Che i soldati a Bu Njem abbiano ottenuto del legno suggerisce che nel III sec. d.c., il paese era più verde e più fertile rispetto ad oggi. La storia della frontiera Sahara romana è pertanto da riguardare rispetto all'ambiente del tutto diverso da quello europeo.



    TERRA DI TRE CITTA'

    "Terra di Tre Città", era l'appellativo di tripolitana, disponendo appunto di tre città fenicie: Sabratha, Oea e Lepcis Magna. Anche all'epoca questa terra era arida ma fertile, almeno per la coltivazione delle olive e cereali. Al suo interno, nomadi libici vagavano attraverso il Gebel as-Soda e il cosiddetto predeserto.
    SIGILLO ABU TBEIRAH


    In inverno e in primavera, i nomadi viaggiavano da oasi a oasi, ma alla fine della stagione estiva, trasferivano le loro greggi alla zona Chott al-Djerid (in Tunisia) e in Tripolitana, dove lavoravano come salariati nelle fattorie per la raccolta di olive. I loro dromedari venivano usati per arare e il loro letame era molto utile per concimare.

    Inizialmente, la conquista romana non ebbe problemi sulla interazione tra gli abitanti della città e i nomadi del deserto. Naturalmente, le spedizioni al suo interno, miravano solo solo a mostrare le armi romane alle tribù per avere il loro rispetto e a scoprire dove vivevano in primavera per individuare i centri commerciali.

    Il topografo Strabone sapeva che il paese era dove stava il commercio. Prodotti lattiero-caseari e carne venivano scambiati per i cereali e olio. Avorio, oro, e altri articoli provenienti dall'Africa sub-sahariana venivano scambiati con i prodotti degli artigiani urbani. C'era anche qualche scambio di conoscenze.

    Le storie che si raccontavano nei porti del Mediterraneo circa le mele d'oro delle Esperidi contenevano informazioni circa le donne guerriere che custodivano l'oro del fiume del Senegal. abitato come una pelle di leopardo, con verdeggianti oasi circondate da deserti privi di acqua.

    ISCRIZIONE DI FORT TILLIBARI

    I nomadi non rappresentavano una seria minaccia. Dopo tutto, il loro stile di vita dipendeva dalla collaborazione con gli agricoltori. Ma le tensioni erano inevitabili e quando le cose andavano male (ad esempio, durante il regno di Tiberio), i guerrieri tribali potevano colpire rapidamente e in molti luoghi, perché i loro dromedari si spostavano più velocemente di chiunque altro.

    I romani risposero con la costruzione di stazioni di polizia, per essere più rapidi e organizzati, le strade per raggiungere rapidamente i villaggi se attaccati, e aprirono nuove zone agricole. Se una terra era troppo lontana dai mercati urbani, ed era stata usata per questo come pascolo per capre e dromedari, veniva trasformata in terre coltivabili; e attraverso le strade, i prodotti potevano essere venduti nelle città. In questo modo, la regione circostante il Chott al-Djerid si sviluppò nel primo secolo.

    Però in questo modo i nomadi, avevano meno spazio, per il pascolo e non potevano evitare le zone settentrionali spostandosi più in basso perchè sarebbero stati tagliati fuori dai mercati urbani, con grande detrimento del commercio. Diventare stanziali significava cambiare vita totalmente e perdere il contatto coi parenti che incontravano nei loro viaggi. Per cui non avevano scelta, dovevano riconquistare il loro pascolo.



    III LEGIO AUGUSTA

    I pochi che si erano convertiti in contadini avevano peraltro peggiorato la situazione dei loro  ex compagni di tribù, trasformando altri pezzi di pascolo in terreni seminativi. Quelli che scelsero di combattere però ebbero a che fare con la Terza Legione Augusta, che reagì con la costruzione di fortificazioni e nuove strade, che aprirono anche nuove zone per l'agricoltura.

    Il limes si espanse sotto Adriano Hadrian e sotto Settimio Severo, in particolare con Quinto Anicio Fausto, nominato legatus legionis tra il 197 ed il 201 della Legio III Augusta sotto l'Imperatore Settimio Severo. Fausto costruì numerosi forti ausiliari lungo il limes Tripolitanus, nel sud della Numidia ed in Tripolitania, tra cui quelli di Bu Ngem,, Gheria, e Ghadames, per proteggere la provincia dalle incursioni delle tribù nomadi. Compì la sua missione con successo e velocità.

    Il primo dei nuovi forti fu costruito a Thiges, per proteggere i contadini di tutto il Chott al-Djerid contro i nomadi delle tribù Gaetulian. Questo accadde durante il regno di Vespasiano (69-79), che era stato governatore di Africa e conosceva la situazione. Ma pure sotto Adriano (117-138), che visitò l'Africa nel 123, che fece espellere i nomadi Phazanian dalla zona sud di Gabès moderna e fece edificare il forte Tillibari nei pressi dell'odierna Remada.

    Solo la Tripolitana rimase aperta, però sotto protezione. Non c'era motivo per costruire fortificazioni, perché il Garamanti abitavano lontano e lo sviluppo di questa zona arida era più difficile. Naturalmente, potenziali aggressori garamantici potevano passare lungo le oasi fortificate, ma si sarebbero trovati a corto di acqua, perché anche i dromedari avevano bisogno di bere dopo circa quattro, cinque giorni. Avrebbero potuto caricare sacchi d'acqua sui dromedari, ma questo avrebbe reso gli attaccanti più lenti.

    Qui, dato il luogo, una legione singola, la III Augusta, fu in grado di proteggere una zona di frontiera di 2.500 km: un po 'meno rispetto alle quattro legioni che proteggevano i 675 km della frontiera Neckar- Reno tra Schwäbisch Gmünd-Schirenhof e Katwijk.

    Tuttavia, le incursioni dei nomadi dovevano essere punite e il governo romano doveva proteggere Tripolitana. Così nel 201, i soldati della III Augusta iniziarono a costruire dei forti nelle oasi di Ghadames, Gheriat el-Garbia, e Bu Njem.


    SETTIMIO SEVERO

    Lucio Settimio Severo (193 - 211) nacque a Leptis Magna e ed era stato a capo dell'Impero Mediterraneo per quasi dieci anni. All'inizio del 202, l'imperatore andò a visitare la frontiera, ma la sua visita nel paese natale è scarsamente documentata. Solo la Historia Augusta dice che "ha liberato la Tripolitana, la regione della sua nascita, per paura di un attacco e uno schiacciamento da parte di diverse tribù bellicose" .

    Poco si sa circa la guerra del deserto che sembra essere implicita, ma che sicuramente c'è stata.. Severo aveva già fatto la guerra al di là dell'Eufrate ed era prossimo a portare la guerra a nord del Vallo Antonino, quindi una guerra al di là della frontiera imperiale nel Sahara ci stava.

    Per stabilire le linee di comunicazione, fece aggiungere fortezze e piccole torri di guardia  ai tre forti. Il miglioramento più spettacolare, però, è stato lo sviluppo del predeserto tra le tre oasi e la campagna di Sabratha, Oea e Lepcis Magna. Il predeserto è una zona che segna il passaggio dal deserto ad una zona avente un clima meno arido, con piogge modeste concentrate in alcuni periodi dell'anno



    DIGHE, CHIUSE E CISTERNE

    Per l'agricoltura è necessaria una pioggia annuale di circa 200 mm, cosa che la costa libica possedeva. Se non c'era abbastanza pioggia, ci si poteva aiutare con l'accesso a un lago o un fiume, anche con un flusso non perenne.

    CISTERNA ROMANA
    In Libia, i romani decisero di migliorare l'economia Tripolitana migliorando le risorse idriche, e ci riuscirono. Era praticamente impossibile portare l'acqua da tanto lontano, ma studiarono il modo di mantenere e usare tutta l'acqua che scendeva dal cielo.

    Ad esempio, l'Eufrate scorre giù dalle montagne dell'Armenia, passando per l'Iraq arida, che diventa estremamente fertile. A causa delle inondazioni del fiume vennero scavati canali per consentire alle acque eccessive di defluire senza allagare i campi di cereali.
    Inoltre si costruirono le chiuse, per cui l'acqua raccolta veniva poi smistata nelle cisterne sotterranee che mantenevano l'acqua al fresco impedendone l'evaporazione. Da qui si irrigavano poi i campi più lontani dal fiume.

    Alcuni metodi dovevano essere conosciuti anche dai contadini perchè in epoche molto arcaiche esistevano sistemi simili per reperire l'acqua, ma coi cambiamenti religiosi e di potere questi accorgimenti svanirono nel nulla. Comunque i romani questi segreti e molti altri li conoscevano bene e Severo investì grossi capitali per realizzarli, in grande e con infiniti accorgimenti e ideazioni come solo i romani sapevano fare.

    Severus aveva aggiunto olio d'oliva gratuito per l'approvvigionamento alimentare di Roma (Annona) e dette a Lepcis Magna di un magnifico centro. Tuttavia, non tutti erano convinti della saggezza di queste decisioni. Lo storico Cassio Dione,governatore della provincia di Africa nel 223, lo riteneva denaro sprecato, ma ebbe torto.

    I legionari in pensione ricevettero appezzamenti di terra lungo il fiume, nelle zone aride tra le oasi e la campagna delle tre città. Altri coloni erano nomadi, ma si dettero alla vita sedentaria. Da 220 giunsero anche gli immigrati provenienti dalla Siria. Infatti il miracolo avvenne. I romani trasformarono una zona predesertica in una gigantesca oasi, ricca e verdeggiante.

    I legionari della terza legione gallica, già sciolta dall'imperatore Eliogabalo, vennero aggiunti alla III Augusta. In questo modo, la Tripolitana divenne un paese multietnico.  I soldati a Bu Njem veneravano il Dio romano Giove insieme alla Dea Cannaphar libica e al Dio Ammon.
    Si ebbe un grande sviluppo per le colture e per i commerci, tutto dovuto alle dighe e alle cisterne edificate dai romani, che ancora oggi sono visibili, come lo sono i confini dei campi quadrati che gli ispettori romani avevano misurato.

    PORTA ROMANA A GOLAHIA
    Si possono anche vedere anche gli mausolei edificati con un misto tra architettura classica e stile nativo con rappresentazioni di attività agricole e di pesca. Uno spreco di denaro, secondo Cassio Dione, fu pure la basilica di Settimio Severo a Leptis Magna.

    Gli investimenti dovevano effettivamente essere considerevoli. Ad esempio, le porte delle chiuse erano di legno di quercia, che deve essere stato importato dai monti dell'Atlante. Ma i rendimenti furono notevoli. I contadini coltivavano cereali, datteri, fichi, olive e verdure. Avevano capre, dromedari, e una mucca o due ogni famiglia. Che ci fosse un insediamento di alberi con relativo taglio, si deduce dai bagni pubblici romani, come quello di Bu Njem.

    Quindici anni dopo il giudizio negativo di Dio Cassio, la vitalità della nuova zona agricola era innegabile. Nel 238, il governatore Gordiano e suo figlio si ribellarono contro l'imperatore Massimino, ma furono presto sconfitti dalla III legione Augusta.

    Tuttavia, gli eventi a Roma portarono all'adesione del nipote di Gordiano, e il giovane immediatamente sciolse l'unità responsabile della morte di suo padre e suo nonno. Ma i coloni dimostrarono che tipo di uomini erano: invece di allontanarsi, ora che l'esercito li aveva lasciati, decisero di rimanere e di fortificare le loro aziende agricole. Se Roma li aveva abbandonati, avrebbero fatto il lavoro da soli. Quella terra era la loro terra.

    Delle masserie fortificate, chiamate Centenaria (sing. Centenarium) ne sono state identificate più di 2.000, come quelle in Gheriat ESH-Shergia, Qasr Banat, e Suq al-Awty. Ci doveva essere stata una pianificazione centralizzata a livello regionale, perché tutte sono simili e hanno una pianta quadrata, e si trovano solo nel Tripolitana. Inoltre erano collegate da una rete di torri.

    IL LIMES

    VALERIANO

    Quando la III Legione Augusta venne nel 253 ricostituita da Valeriano (253 - 260), il sistema di difesa era diventato irriconoscibile. I contadini stavano armati nella terra di confine, e funzionavano al posto dei i presidi dei tre forti nelle oasi. Erano loro ad avvistare per primi i nemici, e subito li segnalavano alle altre aziende agricole.

    Si erano così organizzati da poter respingere un piccolo esercito di nomadi, o comunque rallentarlo tanto a lungo da dare ai legionari il tempo per arrivare. Naturalmente i nomadi potevano superare i i contadini e scontrarsi con la legione, ma non era facile senza poter avere accesso a un pozzo.

    Al tempo di Costantino il Grande (306-337), questo sviluppo era stato completato. La civiltà di frontiera dei Tripolitanus Limes sopravvisse all'Impero Romano, anche se con qualche difficoltà, perché le città andarono in declino.

    LIMES TRIPOLITANUS
    Nel V sec. però i Tripolitanans dovettero combattere contro un nuovo nemico: i Vandali, una tribù europea che si era fatta strada combattendo attraverso la Gallia, Hispania, e Numidia e si erano stabiliti a Cartagine.

    Per la prima volta da quando la Tripolitana era stata conquistata dai romani, divenne una vera e propria zona di guerra. Legionari a cavallo dovevano combattere contro guerrieri su dromedari. L'imperatore bizantino Giustiniano inviò il suo generale Belisario per ristabilire l'ordine.

    Pose nuovi presidi di stanza nelle tre città. Le centenaria rimasero e alcune di loro divennero ville o parti del palazzo reale. La produzione di olio d'oliva aumentò e così la ricchezza della campagna, Questo però fece della Tripolitana un obiettivo  per Laguatan e l'espansione islamica.

    Dall' XI secolo, quando due dinastie arabe, il Zirids e Fatimidi, furono coinvolti in una grande guerra, il sistema crollò. La Tripolitana con un territorio coperto con fichi, olive, risale, palme, e altri alberi da frutto, e venne devastata dagli arabi.

    I contadini furono costretti a lasciare il paese, i frutteti vennero distrutti, ed i canali bloccati. A volte alcune culture perdono la capacità di vitalizzare e diventano culture di morte.

    Ciò che per otto secoli era stata una provincia ricca della romana, bizantina, e poi un impero musulmano, ora è diventato di nuovo un deserto. Il declino della popolazione ha fatto sì che non ci fosse nessuno che potesse distruggere le antiche città, le centenaria, le torri di guardia, i forti. Essi sono stati semplicemente lasciati come erano, fino a nove secoli dopo il crollo.

    Oggi i primi archeologi hanno iniziato a studiarli. Speriamo che oltre che studiarli li rimettano in piedi, perchè gli edifici possono essere risollevati interamente, visto che i mattoni erano a crudo, cioè cotti al sole, e in quei climi si mantengono eterni.

    L'eccellente stato di conservazione rende le fortezze del Limes Tripolitanus unico. Un'altra ragione è che ci sono pochi posti su questo pianeta dove si può vedere l'immenso potere di un imperatore romano. Per proteggere la sua città natale, Settimio Severo ha cambiato un intero ecosistema, e il risultato è durato per più di otto secoli. Per questa dimostrazione di potere, il mondo antico non offre parallelo.

    PALILIA (21 Aprile - 7 Luglio)

    $
    0
    0
    VESTALI NEL RITO DELLA PALILIA - (Rievocazione storica)
    "Qui ogni anno purifico i miei pastori 
     e aspergo di latte, perché si plachi, la dea Pale. 
     Assistetemi, dei, non disprezzate i doni 
     che a voi vengono da un povero desco 
     in disadorne stoviglie d'argilla".
    (Tibullo)

    In questo giorno si svolge la festa in onore di Pale, o Pales. Si ripetono gli stessi riti del 21 aprile, con sacrifici alla Dea degli armenti perché favorisca la fecondazione delle vacche e la nascita di buoni vitelli.

    I Palilia o Parilia erano festa pastorale di antichissime origini che si celebrava il 21 aprile in onore del numen Pale, a volte venerato come genio della pastorizia genio, a volte come divinità femminile.

    Celebrata per purificare le greggi ed i pastori, la festa dei Palilia, insieme alla precedente dei Fordicidia (15 aprile) e la successiva dei Robigalia (25 aprile), faceva parte delle tre cerimonie consecutive antecedenti alla fondazione di Roma, del 753 a.c., dedicate alle antiche divinità laziali.

    Si sa che queste popolazioni, come spiegò il sociologo e naturologo Bachofen, prima che si instaurasse il potere di Roma erano società matriarcali, per cui si onoravano anzitutto le Grandi Dee e secondariamente i loro paredri. Successivamente, con la patriarcalizzazione dei popoli, si instituì il matrimonio, le coppie divine (e pure i mortali) si sposarono e la figura più importante divenne la divinità maschile con la femminile al seguito. In molti casi la divinità femminile scomparve del tutto.
    DEA PALE

    DEA PALE

    Pale era una Dea protettrice degli allevatori e del bestiame, a volte da sola a volte maritata e insieme formavano gli Dei "Pales". Era appellata a volte "montana", in quanto foriera di pascoli abbondanti sulle alture, e pure "pastoria", visto che i suoi fedeli erano pastori. Tibullo narra che i pastori ponevano immagini primitive e lignee della Dea sotto gli alberi. Sempre secondo l'autore latino, anche Giunone collaborava a salvare il bestiame dalle infezioni e dagli animali feroci che assalivano il bestiame.

    Nell'immagine di cui sopra Pale ha lo scettro, il pastorale, il trono e l'asino, asino che poi passò come emblema al Dio Pale maschio sinonimo di virilità sessuale.

    Nel 267 a.c. il console Marco Atilio Regolo (299 - 246) consacrò un tempio proprio a Pale, Dea dei pastori per propiziarsi il successo sui Salentini, il che dimostra quanto fosse vivo questo culto in quell'epoca, e fa nascere il sospetto che la divinità fosse pure Dea della Guerra, perchè nessuno avrebbe promesso un tempio prima di affrontare una guerra a una divinità pacifica. Come tutte le Grandi Madri, Pale era Dea degli animali, e quindi della pastorizia, delle messi e della guerra.

    Si narra che l'Aventino fosse la sede della Dea Cerere e dell'organizzazione plebea, contrapposto al Palatino, che era la sede della Dea Pales, protettrice della pastorizia e di tutti i culti tradizionalmente patrizi. Il che confermerebbe la derivazione di Palatino da Pales. In tempi più remoti e pastorali la ricchezza veniva calcolata dal numero degli animali, dagli armenti. Il che avrebbe determinato la prima nobiltà.



    I FESTEGGIAMENTI

    Il 21 aprile e il 7 Luglio veniva celebrata in onore della Dea Pale la la festa di purificazione delle greggi, i Palilia (o Parilia): per cui prima si compiva il sacrificio rituale già descritto, poi, si accendevano mucchi di paglia o di fieno disposti in file e vi si conducevano attraverso i capi d'allevamento, seguiti dai pastori che procedevano saltando. 

    Secondo alcune narrazioni invece la Palilia era la festa della fondazione dell'Urbe. Comunque, a partire dal 121 si iniziò a festeggiare nella stessa data anche il giorno della fondazione di Roma, una festività detta Romaia, o Dies Romana. Ovidio.ce ne ha lasciato la descrizione dell'intero cerimoniale.

    La festa aveva un cerimoniale urbano e uno rurale. (Fas. IV, 721-781). Nel rito urbano si eseguiva una lustrazione sull'ara di Vesta colla partecipazione della vestale più anziana che vi bruciava profumi e poi vi mescolava cenere di vitello (sacrificato nelle precedenti Fordicidia), sangue di cavallo (il cavallo di destra della biga vincitrice della festa dell'equus October dell'anno precedente) e steli di fave.

    Nelle campagne invece il pastore spruzzava d'acqua il gregge, spazzava l'ovile e lo ornava di fronde. Bruciava poi fronde d'olivo, zolfo, erbe sabine e fronde di lauro stillante d'acqua con fiaccole. Offriva poi latte, miglio e pizze di miglio a Pale. Doveva quindi recitare quattro volte una preghiera (vv. 746-776) in cui si domandava perdono a Pale per l'infrazione di interdetti operata dal pastore stesso o dal suo gregge e se ne chiedeva l'intervento per placare le divinità (numi di boschi e fonti) offese per avere:

    « - violato luoghi sacri come alberi, erba di tombe, boschi interdetti;
    - tagliato fronde di boschi sacri;
    - essersi rifugiato col gregge in templi per sfuggire il maltempo;
    - aver turbato laghi e fonti cogli zoccoli degli animali.
    - Visto esseri divini: Fauno, Diana, ninfe ed ogni altro nume dei luoghi selvaggi anche ignoto,
    obbligandolo con ciò a fuggire. »

    (Ovidio, Fasti, IV, 746-776.)



    La preghiera doveva esser recitata rivolti ad Oriente. Poi il pastore doveva lavarsi le mani, bere latte e sapa (bevanda preparata dalla bollitura del vino) ed infine saltare tre volte tra le stoppie incendiate.
    Sembra che in epoche anteromane il rito prevedesse, dopo il salto dei pastori sulle tra le stoppie incendiate, gli accoppiamenti con le donne che però prima li faceva passare in una piscina con acqua benedetta e li inebriava col vino cotto.
    Infatti quando Pales divenne un maschio, nel tempio di Vesta si celebrava a memoria dei riti più arcaici, l'accoppiamento sacro, o “hieros gamos” tra la Dea e il Dio Pales (o Pallas).

    Ovidio spiega le interpretazioni che i Romani davano al rituale. Acqua e fuoco sarebbero i due elementi opposti indispensabili alla vita ed anche efficaci di per sé per la purificazione. I vuoti steli delle fave bruciati significherebbero l'annullamento delle colpe ottenuto tramite il rito. Il valore religioso della festa è quindi di una lustratio (lavaggio con acqua o aspersione di acqua con rami di lauro o di olivo o mediante "aspergillum") che è sempre e ovunque un rito di purificazione.

    Dumezil dubita che il sangue del cavallo possa essere quello dell'equus October dell'anno precedente, contro l'opinione della maggior parte degli studiosi, in effetti a meno che non fosse conservato solido sotto sale e pepe e aglio come un salame non poteva di certo evitare la putrefazione, ma in questo caso non poteva essere asperso.

    PUTEAL SCRIBONIANUM AL FORO ROMANO

    $
    0
    0

    (Cicerone) "Puteal locus erat in Foro, ad quem conveniebant mercatores et feneratores ad tradendum et recipiendum. Alii dicunt fusse pro Rostris, ubi tribunal erat praetoris"

    "Il puteal era posto nel Foro, a cui convenivano mercanti e usurai per prendere o dare. Alcuni dicono fosse presso i Rostri, dove c'era il tribunale col pretore."

    Il Puteal Scribonianum (Scribonian Puteal) o Puteal Libonis (Puteal di Libo) era una struttura che si trovava nel Foro Romano. Si chiamavano puteal nell'epoca più antica le chiusure poste sui pozzi affinchè nessuno potesse caderci dentro. 

    Queste chiusure potevano essere in marmo, metallo o legno. Poi il puteal divenne la vera del pozzo, ma anche il muretto circolare che si elevava su di esso e che terminava poi con la vera, cioè l'anello di pietra su cui poggiare il secchio per l'acqua. Il pozzo e il suo puteal potevano essere sia tondi che quadrati.

    Talvolta il puteal poteva essere scolpito in un solo blocco, in marmo o pietra che fosse, oppure in terracotta. Come si può vedere a Pompei, il puteal veniva posto nell’atrium, attorno alla bocca di estrazione della cisterna sotterranea dove confluiva l’acqua raccolta nell’impluvium, divenendo così un elemento di arredo della casa.

    Il puteal signatum  era il suo corpo cilindrico scolpito e decorato, in genere con cimase, ovuli, dentelli, scanalature a mo’ di fusto di colonna, a rilievi con soggetti figurati, spesso eseguiti da botteghe neo-attiche.

    - 9: Tempio di Cesare
    - 10: Regia
    - 10': Fasti consolari
    - 11: Tempio di Vesta
    - 12: Pvteal Scribonianum
    - 13: Via Sacra
    - 14: Arco d'Augusto

    Lo Scribonian Puteal fu dedicato o restaurato da un membro della famiglia Libo, secondo alcuni il pretore del 204 a.c., o il tribuno del popolo nel 149 a.c.. Il pretore del Tribunale veniva convocato lì vicino, essendo stato rimosso dal comizio nel II sec. a.c. Così era diventato un luogo dove convenivano litiganti, usurai e uomini d'affari.

    Secondo le antiche fonti lo Scribonian Puteal era un bidentale, cioè un posto sacro in quanto colpito da un fulmine. In realtà un luogo era chiamato bidentale perchè doveva purificarsi con una o più pecore che erano dette appunto bidentali.

    I bidentali erano preti che eseguivano rituali per segnare un luogo colpito da un fulmine creandogli un recinto sacro come a un tempio. Essi dovevano sacrificare una pecora di due anni, e tale posto veniva chiamato bidentale. Non era stato permesso camminarci, ed era chiuso con un muro, o palizzata, con un altare eretto su di esso.

    Ecco la moneta con la riproduzione del Puteal Scribonianum sul retro di un denario fatto produrre da Lucius Scribonius Libo nel 62 a.c., con al diritto la testa della divinità Bonus Eventus, inteso in genere come conclusione felice di qualcosa, o ritorno dalla guerra, operazioni economiche ecc.

    RAPPRESENTAZIONE DEL PUTEAL DEL FORO ROMANO

    Il puteal prese il suo nome dal cordolo in pietra o bassa recinzione intorno al pozzo che si trovava tra il tempio di Castore e Polluce, e il Tempio di Vesta, vicino al portico Iulia e l'arco dei Fabii. Non resta del puteal, Tuttavia, fu scoperto. 

    Un tempo si pensò che il cerchio irregolare di blocchi di travertino trovato vicino al Tempio di Castore facesse parte del puteal, ma questa idea è stata abbandonata nel XX sec.

    Una moneta emessa nel 62 a.c. da Lucio Scribonius Libo (console nel 34 a.c.) descrive questa pietra, che egli aveva rinnovato. Somiglia a un cippo o a un altare, con corone di alloro, due lyre e un paio di pinze oltre a un martello e delle tenaglie sotto le corone. 

    Per altri tuttavia le due lyre altro non erano che due finestre, per altri ancora due labari. 

    Da specificare che qualcuno credette che il puteal del Foro fosse non un pozzo per l'acqua ma una fossa in cui venivano calati i rei di gravi delitti per ascoltarli dall'alto. 

    RAPPRESENTAZIONE DEL PUTEAL TRATTO
    DA UNA MONETA ROMANA
    Questa ultima ci sembra una bella invenzione, i romani non avevano ragione di tali paure, e non esitavano a strangolare o a gettare nel vuoto le persone imputate di gravi delitti, nè aveano tali contorsioni mentali. 

    Il carcere era unico, per i condannati e per quelli in attesa di giudizio. I condannati morivano e gli altri uscivano, o assolutamente liberi o con multe e o esilio e confisca dei beni.

    La moneta datata nel 62 a.c. fece si che molti attribuissero il puteal a questo personaggio ma c'è un altro Lucius Scribonius Libo, tribuno della plebe nel 149 a.c. e membro di una familia senatoriale. Fu quello che accusò il console Servius Sulpicius Galba di oltraggi perpetrati sui Lusitani.

    Per lo più si crede sia stato lui a far costruire il Puteal Scribonianum. Secondo alcuni non si tratta di un pozzo ma di un cippo aperto sopra come un pozzo. Anni più tardi sarebbe stato riparato e ridedicato da un altro Libo, pretore nell'80 a.c. che l'avrebbe restaurato appunto nel 62. a.c..

    La versione e la congettura più probabile è che nel Foro Romano non ci fosse alcun pozzo. In un luogo corrispondente alla city odierna non c'erano abitazioni ma luoghi pubblici e uffici, circondati da statue e fontane. 

    Non c'era pertanto bisogno di pozzi anche perchè ce n'era quasi sempre uno in ogni isolato, nessuno sarebbe andato fino al foro per attingere acqua. Per ogni necessità momentanea di acqua sarebbe bastata una fontana, a parte le tabernae che vendevano ogni sorta di bevande.

    Invece si creava un puteal, cioè una specie di pozzo, un luogo circondato da pietre o colonnette con un coperchio sopra, quando un luogo era stato maledetto o benedetto dagli Dei che avevano colpito quel punto con un fulmine. Potevano aver colpito perchè i romani avevano violato delle regole oppure perchè desideravano onori o un tempio o un'ara. 

    Stava ai sacerdoti interpretare il presagio, il signum. Comunque il luogo non poteva essere calpestato per cui veniva protetto rendendolo simile a un pozzo. Del resto se di pozzo si fosse trattato non si sarebbero curati di restaurarlo nell'identico modo dell'antico. Sarebbe bastato un qualsiasi recinto chiuso.

    Le due immagini laterali sembrano effettivamente due lyre, come dimostra questo rilievo greco di Apollo con le due lyre e due alberi di alloro, che descrive l'oracolo di Delfi. Viene allora da chiedersi cosa avesse a che fare Apollo col puteal colpito dal fulmine.

    E se fosse un piccolo santuario?

    La risposta ce la danno gli oggetti in rilievo scolpiti sulla base del puteal a destra, dove sono i diversi strumenti che si utilizzano per la fabbricazione delle monete: un martello, pinze e un'incudine. Sul disegno di un altro puteal c'è invece il crogiolo, evidentemente la parte posteriore dello stesso puteal. 


    Questa rappresentazione degli strumenti utilizzati per forgiare monete sarebbe un'allusione alle attività monetarie legate al fuoco come avviene nella fucina di Vulcano per la fabbrica dei fulmini. Come dire che il fulmine lanciato viene trasformato in denaro per Roma, un malo evento che diventa un buon evento, da cui l'associazione del Dio Bonus Eventus col fulmine scagliato nel Foro.

    Ma Apollo che c'entra?

    Apollo c'entra perchè è il Dio dell'alloro, e bruciare rami di alloro dava secondo la tradizione romana il potere di proteggersi dai fulmini, ma pure di trarre responsi dal fulmine caduto. E chi meglio della Pizia di Apollo sapeva trarre responsi da un fulmine caduto?


    NONAE CAPROTINAE (7 Luglio)

    $
    0
    0

    Era una arcaica festa celebrata il 7 luglio in onore di Iuno Caprotina, e la motivazione della festa era dagli autori raccontata in diversi modi:

    - per alcuni doveva commemorare la vittoria dei Romani sui Senoni di Brenno,
    - per altri una festa dedicata a Giunone Caprotina come Dea della fecondità.
    - per Dionigi di Alicarnasso invece le feste ricordavano il giorno in cui i Romani fuggirono per il panico scatenato dalla scomparsa di Romolo.
    GIUNONE CAPROTINA
    - anche per Plutarco le None Caprotinae, o Poplifugium, sono riferite alla scomparsa di Romolo, quando si tenne un'assemblea nel Capreae Palus, dove improvvisamente scoppiò un temporale, accompagnato da tuoni terribili. Tutti fuggirono ma, a tempesta finita, non poterono ritrovare Romolo, il loro re.
    - per altri ancora la festa deriva dal Caprificus, un fico selvatico, su cui salì una vergine romana, prigioniera nel campo nemico, si alzò in un albero di fico selvatico, tendendo una torcia accesa verso la città, il segnale atteso dai romani per attaccare i Galli.

    Le due feste, la None Caprotine e il Poplifugium, erano così legate tra di loro che, per Plutarco e Macrobio, che vivevano rispettivamente nel I e IV secolo d.c., non c'è differenza.



    POPLIFUGIA

    Secondo altri la festa del Poplifugia si festeggiava invece il 5 luglio in onore di Iuppiter, ossia Giove.

    LA IUNO ETRUSCA
    Poplifugium significa "fuga del popolo" e ricorderebbe la fuga dei Romani quando i Fidenati e i Ficulei li assalirono poco dopo la conquista di Roma da parte dei Galli, nel 390 a.c. e la successiva riscossa sotto la protezione di Giove.

    I Ficulei erano gli abitanti di Ficulea, dai figules (i vasai), che si estendeva dalla via Nomentana fino al IX miglio della via Tiburtina.

    Secondo altri autori si ricordava invece la disfatta subita dai Troiani (ritenuti antenati di Roma), di Patrizio Lucerino 1833.

    Pensare che i romani festeggiassero le sconfitte loro o dei loro antenati significa avere idee poco chiare sull'animo dei romani.

    Era un popolo tanto fiero che i soldati sconfitti (cosa che accadeva di rado) venivano guardati con disprezzo dai romani, si che una legione sconfitta non chiedeva che di riabilitarsi combattendo coloro che li avevano battuti.

    Solo così avrebbero riconquistato la stima e l'onore perduti.



    IUNO CAPROTINA

    Si trattava dell'antica Dea Capra, raffigurata tra gli antichi etruschi come la Dea dalle corna e le orecchie di capra, e successivamente dai romani come Iunio vestita in pelle di capra, ce n'è una statua bellissima nei musei vaticani, è una reminiscenza della Dea lussuriosa e datrice di latte, insomma una Dea Natura, donatrice e selvaggia.

    Infatti la festa era caratterizzata da una specie di disordine rituale, quasi in antitesi all'ordine di Giove. 



    LA CELEBRAZIONE

    Durante la festa la gente si radunava nella palude Caprea, nel Campo Marzio, per compiere un sacrificio; uscendo dalla città (il Campo Marzio era fuori dalle mura Serviane) la folla gridava i nomi più comuni presso i Romani come Marco, Gaio, Lucio e così via.

    GIUNONE CAPROTINA
    Essendo la Dea protettrice e fautrice della fertilità, le romane invocavano così i nomi più comuni degli auspicati figli maschi, perchè le femmine erano meno gradite.

    Chiamandoli li spronavano a manifestarsi nel grembo delle donne. Ricordiamo che le romane tra l'altro non erano molto prolifiche.

    Al rito partecipavano le donne incinte per ringraziare e quelle che desideravano esserlo per ottenere l'esaudimento della maternità.

    Naturalmente il rito proveniva da uno molto più arcaico, in cui le donne invocavano nomi a caso per invitare i maschi all'accoppiamento.

    All'epoca non c'era il problema della paternità, per cui per gli uomini i figli erano tutti uguali e per le donne idem, perchè le donne accoglievano tutti i figli come figli della Dea Madre. Non c'erano problemi di famiglie di appartenenza le donne non erano solo delle donne che li partorivano, ma erano di tutta la comunità.

    Nei novilunii, la sacerdotessa le eseguiva un rito notturno segreto, assolutamente proibito ai profani, il che fa pensare ad antichi riti legati alla Madre Terra, quindi ctonii, un sorta di Sacri Misteri sopravvissuto al patriarcato.

    CONSUALIA (7 Luglio)

    $
    0
    0
    RATTO DELLE SABINE AI CONSUALIA
    Era la festa in onore di Conso, "il sotterrato", con allusione forse all'ara sepolta nel Circo Massimo. L’etimologia sembra di derivazione sabina o etrusca, da condere (seppellire, piantare, nascondere). Secondo un’altra interpretazione, Conso sarebbe il Dio delle riunioni segrete, facendone derivare il nome da consilium (luogo dove ci si riunisce insieme).

    Era un antico Dio della vegetazione annuale e poi divinità del grano e del suo approvvigionamento. Al 7 luglio si sarebbero celebrate contemporaneamente tre feste: le Palilia, le Consualia e le Caprotine. Ma secondo alcuni autori le Consualia si festeggiavano solo ad agosto e a dicembre.



    OPI CONSIVIA

    ANTICA ARA
    Sembra che le Consualia prevedessero al 7 luglio solo le corse dei muli, mentre nelle altre date prevedevano corse di cavalli e di asini. Il culto più antico riguardava la Dea Ops Consiva, così chiamata perchè il suo altare era sepolto sotto la terra, a indicare il suo culto misterico. La Dea Vergine (cioè senza marito) dette alla luce il Dio Conso, che nel seguito dei miti divenne il suo paredro e inseminò la Dea Consiva in qualità di Madre Terra.

    Le furono dedicati due santuari, uno sul Campidoglio e l'altro nel Foro, e in suo onore si celebravano le feste tradizionali degli Opiconsivia il 25 agosto e degli Opalia il 19 dicembre.

    Col volgere del tempo il culto di Ops (Opi) si affievolì e invece si rafforzò il culto di Conso che prese tutti gli attributi della Dea, a cominciare dall'ara, che da interrata divenne sotterranea (anche perchè era più semplice).



    CONSO COME PERSEFONE

    Per alcuni corrispondente alla greca Persefone (Proserpina) simbolo della forza generatrice insita nel chicco di frumento. Questa similitudine riguarda il fatto che il seme giace sotto terra per germogliare in primavera e fruttificate in estate per essere colto e usato dagli uomini. Pertanto Persefone che va negli Inferi nel mese freddo sarebbe il seme nascosto che poi si manifesta come pianta nel mese caldo.

    Ora ridurre il mito di Persefone e Demetra alla storia di un seme è come pensare che Greci e Romani, stupefatti e ammirati dalle vicende del seme ci abbiano costruito sopra un mito, quando un bambino osserverebbe e capirebbe il fenomeno con molta semplicità. Forse è vero il contrario, ed è che gli antichi usarono la vicenda del seme sotterraneo per spiegare il viaggio interiore di anima che scopre se stessa nei Sacri Misteri.



    LA FESTA ISTITUITA DA ROMOLO

    Secondo Tito Livio i Consualia furono istituiti da Romolo quando, con i giovani romani snobbati dalle genti vicine, organizzò il famoso Ratto delle sabine. Romolo:...
    « ...ludos ex industria parat Neptuno equestri sollemnes; Consualia vocat. Multi mortali convenere, studio etiam videndae novae urbis, maxime proximi quique, Caeninenses, Crustumini, Antemnates; iam Sabinorum omnis moltitudo cum liberis ac coniugibus venit. »
    « ...predispose ad arte solenni giochi in onore di Nettuno equestre, giochi cui diede nome di Consuali.
    Accorse un gran numero di persone, anche per la curiosità di vedere la nuova città, e particolarmente i più vicini: i Ceninesi, i Crustumini, gli Antemnati. E venne anche, praticamente al completo, con mogli e figli, la popolazione dei Sabini. »
    (Tito Livio, Ab Urbe condita)

    Come tutti i personaggi leggendari, a Romolo venne attribuito di tutto, ma probabilmente la festa era tra le più arcaiche e forse più che istituita, venne usata da Romolo per organizzare il famoso rapimento.



    L'ARA DEL CIRCO MASSIMO

    Il solco della Roma Quadrata sul Palatino, secondo Tacito, sarebbe passato accanto all'ara di Conso, dove sorgeva il suo più importante sacrario. In effetti il Circo Massimo stava all'esterno della Roma quadrata.

    L'ara era sempre sepolta (si dice pure coperta di terra) e non veniva dissepolta se non durante le feste del Dio, ricorrenti ogni anno al 21 agosto (consualia) e al 15 dicembre (grandi Consualia), cioè al termine della raccolta e della semina.
    Tutti i riti pertanto si svolgevano davanti a un altare sotterraneo del Circo Massimo, che veniva portato in superficie in occasione della festa. Erano previsti anche dei Ludi Circensi, con le corse dei muli, mentre cavalli e asini restavano a riposare incoronati da ghirlande.

    NEPTUNUS EQUESTER

    NEPTUNUS EQUESTER

    Secondo Dionigi, il Dio Conso, era da molti identificato nel Neptunus Equestris, ovvero nel Dio Nettuno protettore degli equini. Pertanto erano di rigore le celebrazioni con corse di asini, cavalli e muli, cui assistevano anche gli equini non concorrenti, agghindati con ornamenti floreali e per quel giorno esentati da ogni lavoro.

    Sembra tuttavia improbabile perchè Nettuno fu una divinità portata forse dall'invasione dorica in Grecia e poi a Roma, pertanto diffuso ovunque, mentre il Dio Conso, prettamente agricolo, non sembra certificato oltre i confini dell'Urbe romana. Il Dio ha le sue memorie nella Vallis Murcia, cioè nella valle del Circo Massimo, esattamente sull'altura dell'Aventino dove L. Papirio Cursore, dopo l'espugnazione di Taranto, gli dedicò nel 272 a. c. un tempio; e al suo sacrario principale, alle radici del Palatino (Ara di Conso). 

    Però è vero che durante il III sec. a.c. venne identificato da taluni con Posidone Ippio (Neptunus Equester), e con la graduale decadenza dell'agricoltura presso i Romani, ovvero gli venne abbinato nei giochi circensi.



    CHIESA DI SANTA ANASTASIA

    La Basilica di Santa Anastasia nel Rione Campitelli, si trova ai piedi del Palatino, ed è una delle chiese più antiche della capitale. Era presso il Lupercale, la grotta dove la lupa allattò Romolo e Remo.

    CHIESA DI SANTA ANASTASIA
    Per questo nella caverna si costruì un santuario dedicato a Fauno-Luperco, nel quale era conservato il simulacro di una lupa allattante i gemelli. Nel IV sec. fu fondata presso l'antica caverna la Chiesa di S.Anastasia.

    Per edificarla vennero utilizzati alcuni ambienti del primo piano di un'insula con grandi botteghe al livello stradale, e al primo piano dell'insula doveva esserci la sala destinata alla riunione per il culto.

    Il complesso archeologico visibile sotto la chiesa va dall'età repubblicana al V sec. d.c.: ambienti che si affacciano sulla via dei Cerchi e abitazioni sotto la navata destra della chiesa stessa e lungo le pendici del Palatino.

    Nel 1526 infatti, B. Marliani ci testimonia un ritrovamento nell'area dell'attuale edificio di culto "...repertum est sacellumin ipso circo, post divae Anastasiae templum..".

    Si era rinvenuta infatti n'ara di Conso con il suo sacello, giusto dietro la basilica dell'Anastasis (S. Anastasia ai Cerchi) e Bartolomeo Marliani ce ne ha lasciato una suggestiva descrizione (in Antiq. Romae Topographia, ediz. del 1534). Trattasi di una concamerazione in opera quadrata posta nei sotterranei della basilica di S. Anastasia, all'abside della basilica, giusto accanto al circo Massimo.

    SOTTERRANEI
    Il Lanciani pensò potesse trattarsi del Lupercale, mentre lo Hulsen lo identificò come ninfeo di una domus. Questo perché il rinvenimento citato dal Marliani come "sacellum"è che un ambiente/grotta decorata con conchiglie.

    Nel 1847 nell'orto Nusiner, tra la Chiesa di S. Teodoro e quella di S. Anastasia, scavi eseguiti dalla Corona Russa portarono alla scoperta di una struttura antica e di un tratto di basolato. Due ambienti contigui compresi tra il Clivus Victoriae  ed il colle. 

    La Chiesa paleocristiana fu costruita sopra l'intera base di botteghe e domus.

    Originariamente fu a navata unica con pianta cruciforme e dedicata al culto dell'Anastasi (Resurrezione), perché è soltanto nel VI sec che il nome di "Anastasia" comparve nelle cronache con riferimento a questo luogo di culto che sorgeva stranamente nel nulla, circondato da vigne e pascoli.

    LATRINA ROMANA DI VIA GARIBALDI

    $
    0
    0

    Nel 1963 alle pendici del Gianicolo si rinvennero, alla profondità di 4 m, due muri perpendicolari di un ambiente semipogeo, individuato come latrina. Dell'ambiente, orientato in senso NO-SE, si conservano soltanto due muri, in opera mista, tra loro ortogonali interrotti alle estremità. Infatti, la realizzazione del muraglione di sostegno, che sappiamo essere stato eretto nel 1605 quando fu sistemato anche l'accesso alla chiesa, causò evidentemente la perdita del lato est dell'ambiente e danneggiò le altre murature.

    Lungo le pareti e sul lato sud, sull’attuale ingresso, sono visibili un canale, largo circa 0.40 m e profondo m 0.80, che corre su tre lati.

    Esso ha il fondo rivestito di bipedali e le sponde di cocciopesto, per lo scorrimento dell’acqua, e costeggia una pavimentazione a mosaico geometrico in bianco e nero, decorato da un ottagono centrale con una stella a quattro punte, conservata in parte.

    Tutta la parte est dell’ambiente, invece, era già andata perduta, probabilmente asportata o inglobata durante la costruzione del muraglione moderno del piazzale. Sicuramente l’ambiente doveva appartenere a un complesso più ampio.

    Una canaletta anch’essa in cocciopesto, attualmente deteriorata, più piccola rispetto al precedente canale, destinata allo scorrimento di acqua pulita, corre parallela alle sponde del canale a ridosso della pavimentazione a mosaico: essa era destinata per la pulizie del servizio igienico e per immergervi le spugne immanicate utilizzate per l’igiene corporea (come riferito da Seneca e da Marziale).

    I RESTI
    Lungo le pareti, in corrispondenza del canale e a copertura di esso, erano disposti i sedili forati nella parte superiore. le sellae pertusae, generalmente in materiale lapideo, ma in questo caso, ipotizzabili in legno. Si trattava, probabilmente, di una serie di tavole mobili, poggianti sopra supporti collocati su sporgenze, le cui tracce sono conservate lungo il canale di scarico.

    Di solito sul canale di scarico, dove scorreva perennemente l'acqua, erano disposti i sedili in pietra, in genere di marmo, detti sellae pertusae, forati nella parte superiore per ovvi motivi, ma qui non ne è stata rinvenuta traccia, per cui si ritiene che una serie di tavole mobili forate, disposte su supporti collocati probabilmente su sporgenze, di cui se ne conservano due lungo il muro ovest, costituissero i sedili.

    Sul lato sinistro della parete di fondo, a ridosso della parete ovest, è visibile il vano di una porta, ora tamponata, comunicante con un secondo ambiente, non scavato.

    Su questo lato l'intonaco dipinto è stato notevolmente danneggiato dai lavori di sottofondazione del muraglione della soprastante piazza. Per questo stesso motivo fu demolita la parte nord della pavimentazione a mosaico, danneggiando il canale di scolo, per far posto a due grossi pilastri di cemento che furono addossati al muro nord.

    Le pareti affrescate presentano frammenti di una prima fase pittorica ornata da candelabri vegetali, di cui uno  sormontato da una piccola figura femminile alata. I due lacerti conservati, di elevata qualità tecnica, mostrano assonanze con modelli pittorici riferibili alla seconda metà del I sec. d.c., come ad esempio gli affreschi degli ambienti di via Genova a Roma.

    È possibile pensare che solo in un secondo momento l’ambiente fu trasformato in latrina. In quest’occasione, il vano fu nuovamente intonacato e affrescato con una decorazione pittorica a schema geometrico, inquadrabile nell’ambito della pittura romana della prima metà del III sec. d.C., quando si diffuse uno stile detto «rosso e verde lineare».

    Lo schema decorativo vede una divisione a registri sovrapposti e campi rettangolari delimitati da fasce di colore rosso giallo, verde e blu che inquadrano pannelli con al centro motivi decorativi di genere (ghirlande disposte ad arco e schematici cespi di foglie) dipinti in maniera piuttosto sommaria. A questi si aggiunge la raffigurazione di uno stambecco realizzato sicuramente da una mano diversa per qualità e per tecnica da quella del resto dell’affresco.

    In base a confronti stilistici con altri edifici affrescati di Roma (ad esempio in via Eleniana, nella casa sotto la Basilica di S. Giovanni in Laterano, quelli della seconda fase del criptoportico della domus sulla Velia sotto il giardino del Pio Istituto Rivaldi), gli affreschi si possono attribuire a un arco di tempo compreso tra la seconda metà del II e i primi due decenni del III sec. d.c., periodo a cui dovrebbe risalire il cambiamento di destinazione di uso di un ambiente già esistente.

    Quest’ultimo, sulla base della tecnica edilizia e dello stile pittorico degli affreschi rimasti, potrebbe risalire al periodo traianeo, al massimo ai primi anni di quello adrianeo. Di particolare interesse sono le numerose incisioni di natura spontanea, tracciate con le dita sull’intonaco ancora fresco, traslando in alcuni punti anche il colore, evidentemente appena steso, e raffiguranti quadrupedi, barche, falli, figure umane stilizzate, nonché iscrizioni.

    Tra queste ve ne sono due in greco di contenuto osceno e una in latino, tracciata con uno stilo e con una grafia alquanto impacciata e in cui si legge:

    pos tantas epulas et suava / vina / ut cunnum lingas / quo cula quo venter.

    La massima, di natura salutistica, può essere tradotta: "dopo aver goduto dei piaceri della tavola è bene fare un salto qui prima di dedicarsi poi, leggeri, ai piaceri del sesso orale e anale". I romani erano spiritosi e amavano esprimersi sui muri.

    Il problema è che nessuno può vederla, nè la scritta nè la latrina. La stradina per arrivarci è praticamente scomparsa e per accedere davanti a una porta di ferro, si deve percorrere un pericoloso sentiero sconnesso e privo di gradini o ringhiere.Come al solito i Beni artistici e culturali di Roma, dovrebbero riaprire il sito, scoperto nel 1963 e chiuso da tempo immemore.



    L'HASTA CAELIBARIS

    $
    0
    0
    HASTA CAELIBARIS
    Per Ovidio e Festo l’hasta caelibaris serviva a “pettinare” (comat, comebatur) le chiome delle nubentes, per Plutarco a dividerle, per Arnobio ad “accarezzarle” (mulcetis), alludendo probabilmente ad una delicata ravvivata dell’acconciatura.



    SPILLONI PER CAPELLI 

    Evidentemente dell’hasta caelibaris è stato dimenticato con il tempo il suo vero uso. Continuava ad essere impiegata più per tradizione che per scopo pratico.

    Così sul suo significato, si sono fatte molte congetture degli antichi stessi, che vedevano tutto ma a volte gli sfuggiva l'aspetto più semplice.

    Sia per Festo che per Plutarco l’hasta era usata, perché le matrone romane erano sotto la protezione di Iuno Curitis e l’asta era sacra a Giunone, spesso raffigurata appoggiata ad essa, e Giunone era la dea cui si connetteva la maggior parte delle cerimonie. 

    Secondo Festo invece, l’hasta caelibaris era usata per buon augurio nella procreazione di una forte e coraggiosa prole o perché, essendo l’asta summa armorum et imperii, si voleva sottolineare che la sposa era soggetta alla potestà del marito.

    SPILLONI
    Anche per Le Bonniec in Le témoignage d’Arnobe cit., p.127 ss., l’asta sarebbe il simbolo della sovranità del marito sulla moglie.

    L’Arnobe considera il rito dell’asta, cui erano sottoposte di certo solo le fanciulle che si sposavano per la prima volta, come attesta anche Ovidio “un rite de passage” che faceva entrare la fanciulla nella categorie delle matrone. La toilette della sposa nel giorno del matrimonio, iniziava con la pettinatura speciale di tutte le spose.

    I capelli venivano spartiti in sei ciocche (sex crines) con la punta di una lancia detta (hasta caelibaris), e, dopo esser stati divise se ne facevano sei trecce arrotolate e poste le une sulle altre in modo da formare un cilindro stretto ed alto e posto sulla sommità del capo.

     Esso avrebbe fornito un'alta e solida pettinatura su cui stendere il velo dalla sposa aumentando peraltro la sua statura. Infine il tutto veniva adornato con le bende sacre, ("le vittae").


    Però affinchè la punta della lancia fosse adatta allo scopo e portasse fortuna occorreva adoperarne una con cui fosse stato ucciso un gladiatore. Inoltre i gladiatori costavano cari da allenare, vestire e nutrire e i loro managers se li tenevano cari come oggi si tiene caro un giocatore di calcio con la speranza che diventi famoso e faccia fare tanti soldi.

    FERMA CAPELLI
    Quindi sulla punta di quella lancia poteva soltanto esserci qualche rugginosa macchia di sangue di chissà chi o di chissà quale animale. Una volta acconciata la fanciulla indossava la veste da sposa che era uguale per tutte le Romane.

    Si trattava di una tunica di lino bianco, molto semplice e a taglio diritto che veniva stretta alla vita da una cintura detta "cingulum" legata con un nodo detto nodo di Ercole che poi la sera sarebbe poi stato sciolto dallo sposo.

    Completava il suo abbigliamento il "flammeum", il velo nuziale rosso fiamma.  Ora sappiamo che il flammeum era il velo delle antiche sacerdotesse di Vesta, e che le vittae erano bende sacre che ornavano o la fronte o la capigliatura delle antiche sacerdotesse.

    AFRODITE, HERMES, PHOTOS ED EROS
    La strana pettinatura delle spose era inoltre una specie di corona alta e circolare che doveva indicare lo status sacro della nubenda. Ma le donne romane non usavano spilloni per i capelli? Direi di si.

    Per i capelli si usava l'Ago Crinale, uno spillone composto da un ago sormontato da una pallina o da decorazioni complesse. Poteva essere in osso, avorio, d'argento e d’oro. Nella pallina o decorazione, se cava, potevano essere conservati anche veleni. In Grecia furono proibiti perchè le donne li usavano contro gli uomini quando si sentivano aggredite.

    A Roma non furono mai proibiti, ma nessuna donna avrebbe osato tanto. Ora viene da chiedersi come mai doveva proprio essere l'hasta caelibaris a delineare la pettinatura della sposa, e una risposta c'è, ma bisogna risalire ad un lontano costume greco. Un tempo tutte le greche portavano infilato nei capelli uno spillone, come descrive il mito delle Danaidi:



    IL MITO DELLE DANAIDI 

    Le Danaidi erano cinquanta figlie di Danao, che fuggirono insieme al padre dalla Libia, temendo i cinquanta figli del fratello gemello di Danao, Egitto che aveva usurpato il trono. Una volta stabilitosi ad Argo, Egitto mandò i suoi figlioli con l'ordine di non tornare senza punito Danao e la sua famiglia. Appena giunti, essi pregarono Danao di concedere loro in spose le sue figlie, decisi a ucciderle la notte delle nozze.

    Danao rifiutò e i figli di Egitto assediarono Argo. Nella cittadella argiva non vi erano sorgenti per cui Danao promise le figlie in matrimonio. Alla data delle nozze e Danao scelse i mariti per ciascuna delle sue figlie, ma segretamente consegnò alle figlie dei lunghi spilloni che esse dovevano celare nei loro capelli; e a mezzanotte ciascuna di esse trafisse il cuore del proprio sposo. Soltanto uno sopravvisse: per consiglio di Artemide, Ipermestra salvò la vita di Linceo che aveva rispettato la sua verginità, e lo aiutò a fuggire.

    All'alba, Danao seppe che Ipermestra aveva disubbidito ai suoi ordini e la portò in tribunale affinché fosse condannata a morte; ma i giudici la assolsero. Essa innalzò un simulacro ad Afrodite Vittoriosa nel tempio di Apollo Lupo, e dedicò inoltre un santuario ad Artemide Persuasiva. Sono evidenti diverse cose, che per avere il regno i figli di Egitto dovevano avere spose figlie di re, altrimenti perchè ci avrebbero tenuto tanto a sposarle? E poi che le donne all'epoca erano coraggiose e sapevano difendersi, e gli spilloni sui capelli servivano soprattutto a questo.

     L'Hasta Caelibaris, cioè l'asta del celibato, o caelibaris, cioè di colei che poteva celebrare i riti riservati alle vergini, era l'arma concessa da Giunone per difendere le fanciulle da chi attentasse alla loro verginità. Tanto è vero che Ipermestra risparmiò Linceo perchè aveva rispettato la sua verginità. L'Hasta era dunque un segno dell'antica potestà muliebre di cui era restata un'insegna ormai senza significato, ma il fatto interessante è che Ipermestra innalzò un tempio a Venere Vittoriosa, una Venere di cui si è trovato un simulacro in cui guarda caso, non solo la Dea è vestita ma è pure armata di lancia e fu rinvenuta a Cipro.

    VILLA DI AGRIPPINA MAGGIORE (al Gianicolo)

    $
    0
    0


    UNA SCONOSCIUTA DOMUS ROMANA AL GIANICOLO

    di Isabella de Stefano Giannuzzi Savelli

    -  Roma: a Palazzo Altemps in esposizione i reperti ritrovati nel 1999 sotto il Gianicolo durante i lavori di scavo del parcheggio sotterraneo per il Giubileo.

    - Vi si possono ammirare marmi colorati, lastre di alabastro e pitture parietali datate al I – II sec. a.c.

    - Il fasto? Una parola tutta da reinventare, dopo una visita ad una mostra come quella a Palazzo Altemps.

    - I colori del fasto. La domus del Gianicolo e i suoi marmi, che documenta con rigore e disinvoltura la ricchezza di una domus imperiale scoperta casualmente nel 1999, durante i lavori di costruzione del tunnel della rampa del Gianicolo, in direzione del parcheggio sotterraneo.

    - Sono sempre più frequenti le sorprese che la città di Roma riserva anche agli archeologi più consolidati, con un sottosuolo ricco di testimonianze di ogni epoca che aspetta ancora di essere conosciuto e studiato.

    - Dalle notizie lette sui quotidiani degli ultimi giorni, non è di grande consolazione sapere che il patrimonio archeologico conosciuto sul territorio nazionale rappresenta meno del 5% di quello complessivamente esistente; inoltre solo 1% è sottoposto a vincoli ufficiali e il 50% è a rischio di furto e distruzione.

    - La vicenda di questa incredibile scoperta inizia nel 1999 quando, scavando il “fertile”suolo di Roma in occasione dei lavori giubilari, sono stati trovati preziosi reperti provenienti da un complesso edilizio di età imperiale databile fra l’età traianea e il II – III secolo d.c., che da alcuni è stato identificato come la villa suburbana di Agrippina Maggiore, la madre di Caligola.

    - Un lusso “sfrenato”, paragonabile forse solo alla ricchezza di un sultano o di uno sceicco della nostra epoca, caratterizzava gli arredi di questa domus romana, sconosciuta anche ai grandi nomi dell’archeologia contemporanea.

    AGRIPPINA
    - Come possiamo rimanere indifferenti davanti alla varietà di almeno quindici pregiati marmi antichi, dai nomi così altisonanti ed evocativi da far girare la testa, come il rosso antico, il cipollino, il bigio, il pavonazzetto, il giallo antico, il serpentino e tanti altri che costituiscono un caleidoscopio cromatico di luci e colori, di cui anche i pochi frammenti superstiti riescono a suggerire la magnificenza del luogo.

    - Marmi e non solo, perché gli scavi hanno riportato alla luce anche degli affreschi parietali, contraddistinti da esili e delicate architetture, dipinte nei teneri colori pastello del verde o nella vivacità, mai violenta, del giallo, del rosso e del blu.

    - Fragili uccellini, che fanno invidia ai moderni trompe l’oeil, si alternano alle ghirlande e ai tralci floreali, quasi cantando la poesia della stagione primaverile.

    - I motivi floreali tornano anche in due splendidi, nonché rari, capitelli di parasta, formati da una lastra di rosso antico su cui sono applicate deliziose foglie di acanto in marmo bianco e giallo antico e delicatissimi fiori di calcare verde, di una raffinatezza che sembra ricordare l’eleganza delle porcellane settecentesche.

    - Un’opera che, anche dai pochi frammenti rimasti, ci suggerisce la dimensione di un capolavoro, degno di essere ammirato con i dovuti onori.

    - L’ambiente in cui sono stati trovati questi preziosi marmi era anche ricoperto da un rivestimento di alabastro, di cui sono esposte in mostra alcune lastre, venate di sfumature policrome che variano dal tono caldo del giallo miele, listato di bianco, a quelle più accese e variopinte di un rosa più intenso.

    Queste e tante altre sono le sorprese che riserva la mostra di Palazzo Altemps, in un percorso avvincente capace di riunire tanti reperti preziosi, allestiti secondo un criterio che riesce a calibrare in un perfetto equilibrio contenuto e contenitore - in questo caso d’eccezione perché si tratta dello scenografico teatro del Museo in appena due stanze del Museo.

    A conferma che la qualità di una mostra non coincide sempre con la quantità delle opere esposte, criterio che invece, in molti casi, sembra guidare l’indistinto proliferare delle mostre degli ultimi tempi.



    ARCHEOLOGIA ROMANA


    I fasti del Gianicolo


    A Roma, a Palazzo Altemps, sfila per la prima volta il repertorio unico e inedito di marmi imperiali rinvenuti nel 1999, durante i lavori di scavo per la rampa d'accesso al parcheggio sotterraneo del Gianicolo.

    - Fu uno dei ritrovamenti più eclatanti della Roma antica. Uno di quelli che riuscì a scatenare polemiche e controversie all'ennesima potenza. Perché c'era di mezzo il mastodontico cantiere delle infrastrutture per il Giubileo e si lavorava sotto la spada di Damocle delle scadenze urgenti da rispettare. 

    - A fronte di una soprintendenza archeologica di Roma che ordinava lo stop alle ruspe per avviare uno studio d'emergenza ed evitare perdite o manomissioni di quello che da subito appariva come un tesoro d'inestimabile valore. 

    - Accadde nell'estate del 1999, mentre si scavava per la rampa d'accesso al parcheggio sotterraneo del Gianicolo, adiacente al traforo Principe Amedeo Savoia, in una posizione leggermente elevata alle pendici settentrionali del colle, in una zona compresa tra la riva destra del fiume Tevere e il cosiddetto Monte di Santo Spirito. 

    - Un'area notoriamente indicata dalle fonti antiche come sede privilegiata delle residenze private della famiglia imperiale e dove, con molta probabilità, si sarebbero trovati gli "horti" di Agrippina Maggiore (14 a.c. - 33 d.c.), nipote di Augusto e madre di Caligola. 

    - E Roma non si smentì neanche in quell'occasione. 

    - Vennero alla luce i resti pertinenti ad un ampio complesso edilizio, ribattezzato la "domus imperiale", che cominciò a regalare sorprese su sorprese. 

    - Innanzitutto la stessa struttura architettonica datata verosimilmente fra l'età traianea e il II-III secolo d. c., articolata in molti ambienti e dotata di un apparato decorativo di pitture su fondo bianco che riproducono in un elegante e raffinato naturalismo uccellini, maschere gorgoniche e finte edicole stilizzate inquadrate da tralci e ghirlande. 

    - Un complesso che infervorò non poco il parterre di archeologi che volevano riconoscervi i famosi sopra-citati "horti Agrippinae", i giardini di Agrippina Maggiore che potrebbe averli ricevuti in eredità dal marito Germanico oppure dal padre Agrippa, genero di Augusto, rinomato per le sue vaste proprietà nel campo Marzio e nel Vaticano. Giardini passati poi, nel 33 d.c., a Caligola e menzionati da Tacito.

    - Non solo. 


    - Due ambienti della domus restituirono un eccezionale deposito di elementi architettonici, unico e rarissimo, nei più pregiati marmi colorati, disposti ordinatamente l'uno accanto all'altro lungo le pareti. 

    - Circa seicento elementi marmorei, databili al I secolo d.c. e pertinenti ad un altro edificio aulico, che per il momento rimane sconosciuto, reduci da un ipotetico smontaggio dell'apparato decorativo. 

    - Un deposito delle meraviglie per la ricchezza e la varietà dei marmi e per i dettagli plastici decorativi dei singoli elementi architettonici.

    - L'apoteosi di sontuosità raccontata da grandi capitelli di lesena in rosso antico, uno dei marmi più preziosi proveniente dalla Grecia meridionale, arricchiti da applicazioni policrome, un unicum nel panorama finora noto dell'architettura antica.  


    - La serie strepitosa di capitelli corinzieggianti in marmo bianco insieme ad altri più piccoli capitelli figurati con il motivo di coppie di delfini. 

    - Ancora, marmi giallo antico della Numidia utilizzato in cornici o in piccoli inserti per pannelli figurati, l'ardesia per cornici e pannelli intarsiati, il portasanta, pavonazzetto, cipollino in molte cornici e lastre di rivestimento insieme con l'africano, il marmo di Sciro. 

    - E, soprattutto, un eccezionale corpus di lastre di alabastro per rivestimenti parietali entro cornici.

    - Un'altra sorpresa fu anche il rinvenimento, sul pavimento di un ambiente scavato, di una piccola statuetta in marmo di Afrodite Charis, elegante nella fattura, che rivela l'immagine della dea vestita di una semplice tunica fluttuante e scivolata, lasciando intuire il movimento del corpo, leggermente flesso, senza la rigidità canonica della statuaria classica. Un piccolo grande capolavoro. 


    - E dalle viscere del Gianicolo questo repertorio unico e inedito di marmi imperiali mai visti primi dal grande pubblico sfila per la prima volta nella mostra:

    -  "I colori del fasto. La Domus del Gianicolo e i suoi marmi"

    LE COLATE DI CEMENTO
    - In scena a Palazzo Altemps fino al 18 aprile, curata dal soprintendente archeologico di Roma Angelo Bottini, dalla direttrice di Palazzo Altemps Matilde De Angelis d'Ossat, da Fedora Filippi e Claudio Moccheggiani Carpano. 

    - Una rassegna che gioca sulla preziosità dei reperti antichi e sulla personalità sontuosa dello stesso Palazzo Altemps. 

    - Tant'è che l'allestimento insiste sull'effetto di una "mise en scène," su una scenografia che coinvolge l'intero Teatro del Palazzo, dove sono stati ricostruiti gli ambienti della domus con le pitture parietali, e nello specifico quelli che hanno riportato alla luce il deposito dei marmi.

    - In più, si avanza una ipotesi di ricostruzione dell'apparato decorativo dell'ambiente cui appartenevano i materiali del deposito, sfoggiando i tre mirabili ordini di capitelli. 


    - Quello maggiore, dato dal grande capitello di lesena in rosso antico, che poteva raggiungere un'altezza di quasi 6 metri. Il mediano, costituito dalla serie de splendidi capitelli corinzieggianti di lesena, che si alzavano per almeno 3,50 metri. 

    - Il minore, documentato dai capitelli figurati con delfini appartenenti a semicolonne dell'altezza di un metro e che inquadravano presumibilmente delle edicole, all'interno delle quali gli archeologi immaginano che fossero posizionate piccole statue decorative come quella dell'Afrodite Charis.

    -  "Tutto il materiale in mostra è frutto della complessa vicenda della scoperta archeologica - racconta Angelo Bottini - che risale al 1999 quando durante gli scavi per il Giubileo, si trovarono una serie di ambienti datati al II secolo d.c., decorati con pitture a fondo bianco, e in due ambienti, si rinvenne lo straordinario deposito di materiali marmorei, circa 600 pezzi riferibili al I secolo d.c.".

    - "Fu un ritrovamento eclatante, al centro di polemiche - ricorda Moccheggiani - Dopo la scoperta, la soprintendenza bloccò i lavori e avviò invece lo scavo archeologico sviluppando un accurato studio scientifico. 


    - Lo scavo intercettò una struttura addossata alla collina del Gianicolo, parzialmente ipogea, collegata con scale alle parti superiori, quindi strutturata su almeno due piani. 

    - Datata all'epoca d Traiano, per il rinvenimento di bolli traianei in cartiglio circolare sulla cabaletta del sistema fognario. La villa rivelò ben presto interventi di ristrutturazione dei epoche successive, con una ripartizione degli ambienti e un apparato decorativo risalenti al II secolo d.c. 

    - All'interno di due stanze, la vera scoperta del deposito, con tutto questo materiale architettonico che probabilmente costituiva l'apparato decorativo di un altro complesso edilizio datato al I secolo d.c. in seguito abbandonato e smontato. 

    - Forse fu un terremoto a seppellire questo magazzino, altrimenti oggetto di razzia". "Nelle nostre intenzioni - anticipa Bottini - una volta conclusa la mostra, vorremmo conservare questo materiale proprio qui a Palazzo Altemps, inserendolo nel percorso permanente di visita del museo".


    MOSTRE: ROMA, LA DOMUS IMPERIALE A PALAZZO ALTEMPS

    Esposti per la prima volta i reperti della dimora al Gianicolo
    di Adnkronos Cultura © ADNKRONOS - Gennaio 2006

    - Secondo le antiche fonti, tra cui i testi di Seneca e Filone, sulle pendici settentrionali del colle Gianicolo, nella zona compresa tra il monte di Santo Spirito e la riva destra del fiume Tevere, si trovavano gli Horti di Agrippina Maggiore, sede delle residenze private di Agrippina, nipote di Augusto e madre di Caligola.

    - Il fastoso apparato decorativo della dimora che sorgeva tra i giardini affacciati sul Tevere, i suoi pregiati marmi colorati lavorati a capitelli, lesene, cornici e lastre di rivestimento, le raffinate decorazioni parietali e i vari rinvenimenti, ricostruiscono idealmente il lusso della dimora lungo il percorso espositivo e nella "mise en scène" allestita nel Teatro di Palazzo Altemps. 

    - Tra il 1999 e il 2000, gli scavi portarono alla luce, infatti, una serie di ambienti (di cui uno ricostruito in mostra) con pitture a finte architetture e motivi decorativi e, da uno di questi ambienti, emerse uno straordinario deposito di materiali marmorei, ordinatamente riposti per essere poi riutilizzati: seicento pezzi, probabilmente appartenuti ad un unico complesso edilizio, databili intorno al I secolo d.c.

    - Gran parte dei rinvenimenti provengono dal deposito dei marmi della domus, in cui i pezzi erano stati suddivisi per tipologie (capitelli, basi, lesene, cornici lisce e decorate, architravi e così via). 

    - I marmi colpiscono per la grande varietà: dal bianco di Carrara al rosso antico della Grecia meridionale; dal giallo antico della Numidia all’ardesia; dal portasanta al pavonazzetto e il cipollino; dal marmo di Sciro all’orientale alabastro. In questo sorprendente deposito, sono stati rinvenuti anche elementi di intarsi figurati, una colonnina, una base di tripode e l’“Afrodite Charis”. 

    - Figura femminile vestita di un lungo chitone trasparente che le lascia in parte scoperto il seno, il volto della piccola e raffinata statuetta di Afrodite presenta un volto eseguito con grande perizia: nell’ovale del volto spiccano gli occhi dal taglio allungato, il naso dritto e ben proporzionato, la bocca appena dischiusa. 

    - La pettinatura dei lunghi capelli, divisi da una scriminatura centrale e raccolti sulla nuca in uno chignon, presenta due fori che fanno risaltare l’acconciatura raffinata completata da un alto diadema gemmato. 

    - L’elegante figurina, uno degli esempi più raffinati del tipo statuario detto “Afrodite Louvre-Napoli”, riflette il gusto eclettico del secondo quarto del I secolo per l’aggraziata figura ispirata alla scultura greca di età classica.

    - Tra le decorazioni parietali ritrovate ed esposte, elementi a tralci e ghirlande vegetali, maschere gorgoniche, uccellini, candelabri, steli floreali. 

    - All’interno di uno dei pannelli, sotto il festone di foglie, si conserva parte di una figura umana, mentre sull’intonaco sono stati rinvenuti alcuni graffiti, quali studi con un compasso, un occhio apotropaico e alcune lettere capitali. 
    - Particolarmente curiosa, un’iscrizione su due righe in alfabeto greco a lettere capitali, frutto probabilmente di una delusione d’amore: corretti gli errori, nell’iscrizione si può leggere la frase “la città è bella ma la donna è brutta”.

    - Tutte le caratteristiche degli affreschi rinvenuti rientrano nell’ambito della pittura del II secolo d.c., caratterizzata da una progressiva semplificazione dei sistemi decorativi con una sempre maggiore perdita della ricerca prospettica. 

    - L’edificio, doveva essere strutturato almeno su due piani, come suggerisce l’impronta di una scala rinvenuta su uno degli ambienti. 

    - Accanto agli ambienti originali della domus, sono stati rinvenuti una serie di spazi orientati in senso nord-sud, frutto delle diverse fasi costruttive che si sono succedute nel tempo. 

    - Difficile identificare i resti rinvenuti ma, vista la ricchezza e la raffinatezza dei materiali, è quasi certo che si tratti delle decorazioni di una domus di età imperiale, databile tra l’età traianea e il II e III secolo d.c. 

    - Le strutture ritrovate hanno destato l’interesse dell’ambiente scientifico: in molti hanno voluto riconoscervi i famosi Horti Agrippinae, i quali dovevano estendersi nella zona prima occupata da quelli di Domizia. 

    - Alla morte di Agrippina (33 d.c.), Caligola divenne a sua volta proprietario degli horti, che ritroviamo, in seguito, menzionati da Tacito come proprietà dell’imperatore Nerone.


    Da Romano Impero:

    - Tra il 1999 e il 2000, gli scavi eseguiti per ricavare le fondazioni di un parcheggio portarono alla luce, una serie di ambienti con pitture a finte architetture e motivi decorativi e, da uno di questi ambienti, emerse uno straordinario deposito di materiali marmorei, ordinatamente riposti per essere poi riutilizzati: seicento pezzi, probabilmente appartenuti ad un unico complesso edilizio, databili intorno al I secolo d.c.

    Purtroppo la villa venne demolita per volontà del sindaco di Roma per far posto ad un parcheggio a beneficio del Vaticano. Solo in Italia accadono queste cose.... -



    COME ANDARONO LE COSE

    Coro di critiche: decisione scellerata. 
    Rifondazione: hanno vinto gli interessi del Vaticano Gianicolo, via libera del governo
    Sarà completata la rampa di accesso al parcheggio. 
    Melandri vota contro

    Quattrocento pullman (al giorno) contano di più di un’area archeologica.

    E’ ovvio: si tratta di pullman ultramoderni, con aria condizionata, Abs, toilette e tv e che trasportano tanti bei pellegrini pronti ad aprire il portafoglio; mentre la villa di Agrippina è roba vecchia, duemila anni, pensate un po’, che sta lì solo per creare problelmi.

    Perciò, nessun dubbio: la rampa Torlonia di accesso al parcheggio del Gianicolo, nel cuore di Roma, sarà completata, anche se i lavori dovranno essere subordinati ad una serie di prescrizioni (e comunque non saranno terminati prima di Pasqua).

    E’ questa la contestissima decisione (che ha visto contrario persino il ministro dei Beni culturali, Giovanna Melandri) presa ieri dal governo, chiamato a decidere sul futuro della rampa dopo il ritrovamento in una discarica dei reperti archeologici estratti durante i lavori. Al sottosegretario Bassanini è toccato il compito di illustrare la decisione del consiglio dei ministri. In sostanza, il governo si impegna a realizzare l’opera e contemporaneamente: proseguire gli scavi archeologici, cercare soluzioni idonee alla conservazione e valorizzazione dei reperti (anche mediante il ricollocamento in sito) e introdurre modifiche nei lavori qualora si scoprissero altri resti archeologici importanti.

    Come dire: conciliare l’inconciliabile. E’ per questo che la decisione del governo ha raccolto esclusivamente critiche, se si fa eccezione, manco a dirlo, per il sindaco Rutelli, che, invece, l’ha definita "equilibrata e soddisfacente". Nettamente contrari Vittorio Emiliani e il senatore verde Manconi del "Comitato per la bellezza", secondo i quali la decisione del governo è "scellerata" ed "è un atto di funambolismo".

    Anche perché i tecnici hanno già bocciato ogni altra soluzione alternativa.
    Addirittura "vergognosa" la definisce Italia Nostra, secondo la quale "dove non sono arrivati i lanzichenecchi hanno provveduto il governo D’Alema e il Campidoglio. Un vero e proprio colpo di spugna", dice l’associazione ambientalista, visto che l’inchiesta penale nei confronti dei responsabili del cantiere è ancora in corso.

    Durissimi anche i Verdi. La decisione, secondo la portavoce Grazia Francescato, "non è motivato delle motivazioni addotte dal sottosegretario Franco Bassanini, che forse non sa che non è possibile costruire una rampa senza attentare ai reperti archeologici.

    Ora aspetteremo al varco governo e sindaco di Roma su due punti: sull’assicurazione che i lavori verranno fatti "a mano" e senza ruspe e sulla questione dei bus turistici, che rischiano di essere un boomerang per un sindaco che aveva promesso di cacciare i pullman dal centro storico".

    Già, i pullman. Angelo Bonelli, leader dei Verdi del Lazio, ricorda che saranno 400 al giorno quelli ospitati nel parcheggio: "sarebbe bene– dice, annunciando un ricorso alla Corte dell’Aja per impedire la distruzione della villa di Agrippina – che il consiglio comunale arrivi in fretta a diminuire se non dimezzarne il numero".



    E CHE ACCADDE? LA VILLA FU DISTRUTTA

    Su questo i Verdi troveranno dalla loro parte il Prc, che fin da ora annuncia una battaglia per ridimensionare la presenza dei bus turistici. Rifondazione, spiega il capogruppo in comune Patrizia Sentinelli – offende chiunque abbia a cuore il futuro di Roma. Quel parcheggio non serve alla città, risponde solo agli interessi del Vaticano".

    E mentre Salvadore Bonadonna, assessore regionale all’urbanistica (Prc) parla di "precedente umiliante" e di un "atto di subalternità alle scelte del Vaticano", Walter DeCesaris e Roberto Musacchio, rispettivamente deputato e responsabile ambiente del Prc, commentano:

    "Il governo si è coperto di ridicolo agli occhi del mondo. Solo il peggiore speculatore avrebbe avuto il coraggio di prendere una decisione simile. Il governo italiano ha reso in questo modo chiaro come intende preservare il patrimonio storico culturale del nostro Paese: lo considera semplicemente un ingombro da rimuovere e buttare in discarica".

    VIA POPILIA - ANNIA DEL SUD

    $
    0
    0


    VIA POPILIA o VIA CAPUA REGIUM o VIA ANNIA

    La Via Capua - Regium (Via ab Regio ad Capuam), nota anche come Via Popilia o Via Annia, è la strada più importante dell'antichità nel meridione d'Italia, costruita nel 132 a.c. per ordine della magistratura romana che chiedeva una strada che congiungesse agevolmente Roma con la "Civitas foederata Regium", estrema punta della penisola italica.



    IL PERCORSO


    La strada si staccava dalla via Appia a Capua e raggiungeva:

    TOMBA SANNITA A NOLA
    - Nola,
    - Nuceria Alfaterna (Nocera Superiore, del VI sec. a.c.)
    - Salernum (Salerno) sul mare Tirreno.
    - Eburum (Eboli).
    - Atina (Atena Lucana),
    - Tegianum,
    - Consilinum (Padula),
    - Sontia (Sanza)
    - i pagi di Marcellianum e Forum Anni,
    - Forum Popilii.
    - Nerulum: antico sito fondato dai Lucani nel VI secolo a.c menzionato da Livio.
    - Muranum (Morano Calabro),
    - Interamnium (San Lorenzo del Vallo),
    - Caprasia (da Ciparsia del Comune di Castrovillari),
    - Consentia (Cosenza)
    - Mamertum (Martirano) alleata di Roma, che fece eroica resistenza contro Pirro nelle guerre pirriche e per aver dato origine al nome di Mamertini, soldati mercenari famosi soprattutto per ail loro importante ruolo nella I guerra punica.
    - Ad Sabatum Flumen, passaggio obbligato per l'antica Vibona, (Vibo Valentia).
    - Hipponium, ribattezzata dopo le guerre pirriche Valentia (unita con Vibo nel comune di Vibo Valentia),
    - Nicotera, (prov. Vibo Valentia) - il porto di Scyllaeum (Scilla),
    - Civitas foederata Regium.

    Ad essa si innestavano altri antichi percorsi viari, come la via Herculea che collegava il Sannio alla Lucania, ovvero che da Nerulum portava a Venosa, passando per Grumentum, Potentia, Anxia).

    La strada venne edificata alla fine del III sec. per volere di Diocleziano.

    Si ritiene fosse denominata Via Popilia, in quanto ordinata dal console Publio Popilio Lenate, forte avversario e persecutore dei Gracchi) nel 132 a.c. come testimonia il cosiddetto Cippo di Polla.

    Secondo altri si tratterebbe invece della Via Annia, costruita dal Console Tito Annio Lusco, grande oratore e nemico di Tiberio Gracco, nel 153 a.c.. come da iscrizione miliare ritrovata nel vibonese, recante il nome di un certo "Tito Annio, pretore, figlio di Tito" e la distanza da Vibo a Capua (255 miglia).

    Ora si pensa che la strada sia stata iniziata da Popilio ma completata l'anno successivo da Annio.

    Non però Tito Annio Lusco ma Tito Annio Rufo, uno dei pretori del 131 a.c. che si pensa figlio del precedente.



    IL CIPPO DI POLLA

    TRATTO DELLA VIA POPILIA
    IN PROVINCIA DI REGGIO CALABRIA
    Il cippo di Polla è un'epigrafe in lingua latina incisa su una lastra in marmo di 70 x 74, il cui nome deriva dal luogo del rinvenimento, in San Pietro di Polla (Salerno).

    Il reperto è la più importante testimonianza scritta sulla strada romana che univa Capua a Reggio Calabria, comunemente nota come Via Capua-Rhegium (o Via Annia Popilia). Sembra che la strada risalga alla prima metà del II sec. a.c.

    Sul cippo (iscrizione) ritrovato a Polla (prov. Salerno) sono indicati i centri principali attraversati dalla Via ab Regio ad Capuam:

    StazioneLocalità attuale
    CapuaCapua
    NuceriaNocera
    MoranumMorano
    CosentiaCosenza
    ValentiaVibo Valentia
    ad fretum ad statuam (o ad columnam)presso Cannitello
    RegiumReggio


    Il cippo di Polla (Lapis pollæ)Trascrizione del testo originale

    VIAM·FECEI·AB·REGIO·AD·CAPVAM·ET
    IN·EA·VIA·PONTEIS·OMNEIS·MILIARIOS
    TABELARIOSQVE·POSEIVEI·HINCE·SVNT
    NOVCERIAM·MEILIA·LI·CAPVAM·XXCIIII
    MVRANVM·LXXIIII·COSENTIAM·CXXIII
    VALENTIAM·CLXXX      AD·FRETVM·AD
    STATVAM·CCXXXI    ·REGIVM·CCXXXVII
    SVMA·AF·CAPVA·REGIVM·MEILIA·CCCXXI
    ET·EIDEM·PRAETOR·IN
    SICILIA·FVGITEIVOS·ITALICORVM
    CONQVAEISIVEI·REDIDEIQVE
    HOMINES·DCCCCXVII·EIDEMQVE
    PRIMVS·FECEI·VT·DE·AGRO·POPLICO
    ARATORIBVS·CEDERENT·PAASTORES
    FORVM·AEDISQVE·POPLICAS·HEIC·FECEI


    Traduzione

    Feci la via da Reggio a Capua e in quella via posi tutti i ponti, i miliari e i tabellarii.
    Da questo punto a Nocera 51 miglia, a Capua 84, a Morano 74, a Cosenza 123, a Vibo Valentia 180, allo Stretto presso la Statua 231, a Reggio 237.
    da Capua a Reggio in totale 321 miglia.
    E io stesso, pretore in Sicilia, catturai e riconsegnai gli schiavi fuggitivi degli Italici, per un totale di 917 uomini, e parimenti per primo feci in modo che sull'agro pubblico i pastori cedessero agli agricoltori.
    In questo luogo eressi un foro e un tempio pubblici.

    IL TESTO

    Il testo dell'iscrizione può essere diviso in diverse parti:
    1. la prima presenta un'iscrizione relativa ad opera pubblica con la costruzione della via, l'edificazione dei suoi ponti e l'apposizione dei miliarii e tabellarii lungo il percorso;
    2. la seconda informa sulle distanze che separano il punto in cui era collocata dalle città di Nuceria e Capua verso nord, Muranum, Cosenza, Vibo Valentia, lo Stretto (con le mansiones"Ad Statuam Ad Fretum") e Reggio verso sud. Infine viene indicata la distanza totale da Capua a Reggio;
    3. con la terza si riconosce il merito, da governatore della Sicilia, della riconsegna di 917 schiavi sfuggiti ai legittimi proprietari e della prima distribuzione, agli agricoltori, di quote di agro demaniale sottratto ai pastori;
    4. la quarta ed ultima notifica la fondazione, in quel luogo e ad opera dello stesso
      magistrato, di un foro e di edifici pubblici.
    Il nome del magistrato non compare nell'epigrafe o forse era inciso su un altro blocco andato perduto. Si sono fatte ipotesi di attribuzione, per giungere ad una data di costruzione della strada.

    Infatti la riconsegna degli schiavi potrebbe collegarsi alla prima rivolta servile siciliana del 135-132 a.c., mentre le concessioni demaniali agli agricoltori potrebbero riferirsi alle distribuzioni di quote di ager publicus, di cui si ha notizia, avvenute a seguito della riforma agraria di Tiberio Gracco.

    Su vari elementi si basa l'ipotesi  del Mommsen, la più attendibile, che individua il magistrato in Publio Popilio Lenate, console del 132 a.c., che avrebbe fondato quel Forum Popilii, segnato sulla Tabula Peutingeriana, che venne anche esiliato per indebita condanna ad alcuni cittadini populares.

      BASILICA GIUNIO BASSO

      $
      0
      0


      Iunio Annio Basso, ovvero Iunius Annius Bassus fu un importante politico romano della gens Annia, un'antica famiglia plebea romana, di cui la prima persona nota, menzionata da Tito Livio, fu il pretore latino Lucio Annio di Setia, una colonia romana nel 340 a.c.

      Quel che sappiamo di Iunio Basso è che nonostante le origini plebee fece carriera e servì come Prefetto Pretoriano a Roma dal 318 al 331, e che rivestì pure la carica di console, ispirando parecchie leggi del Codex Theodosianus.

      Inoltre suo figlio Junius Bassus fu Prefetto dell'Urbe, e il suo sarcofago è il più antico tra quelli ritrovati con scene cristiane.

      La Basilica di Junius Bassus (basilica Iunii Bassi) era una basilica civile sul colle Esquilino a Roma. 

      HYLAS RAPITO DALLE NINFE

      Il suo sito oggi è occupato dal Seminario Pontificio di Studi Orientali, in via Napoleone III, piuttosto conosciuto per gli spendidi lavori in  opus sectile, una speciale tecnica usata nei pavimenti ma soprattutto sulle pareti per cui venivano composte delle scene ritagliando marmi di diverso colore e disegno onde comporre una scena come fosse una pittura.

      La basilica fu costruita da Giunio Basso nel 331 durante il suo consolato. Verso la II metà del V sec.
      sotto Papa Simplicio ( 468-483), essa venne trasformata nella Chiesa di Sant'Andrea Catabarbara. 

      I suoi resti vennero riscoperti e purtroppo demoliti nel 1930, e questi scavi produssero anche il ritrovamento di una domus augustana contenente mosaici del III sec., uno con soggetti dionisiaci e uno con i nomi dei proprietari della casa  (Arippii ed Ulpii Vibii). Questo mosaici si trovano ora nel Seminario.

      L'architettura dell'edificio era piuttosto semplice, con un'aula rettangolare absidata, preceduta da un atrio con un unico ingresso e nicchie interne. Sulle pareti correva una triplice finestratura (non sul lato dell'abside).

      I due pannelli costituiscono, insieme ai due ora ai Musei Capitolini, quanto rimane della ricchissima decorazione parietale della “Basilica di Giunio Basso”, un’aula di rappresentanza dell’edificio fatto
      erigere sul colle Esquilino da Giunio Basso, console del 331 d.c. 

      L’aula era completamente rivestita di pannelli in opus sectile, raffinata tecnica artistica caratterizzata dall’uso di materiali pregiati di svariate forme e dimensioni.

      Un pannello raffigura un episodio celebre della saga degli Argonauti, il rapimento del giovane Hylas da parte delle ninfe.


      L’altro riproduce invece una cerimonia circensis: al centro del circo campeggia il patrono dei giochi, forse lo stesso Giunio Basso; alle sue spalle, vestiti con tuniche di colore diverso, sono gli aurighi rappresentanti delle quattro fazioni: la rossa (russata), l’azzurra (veneta), la verde (prasina) e la bianca (albata).

      Il tema figurativo verte sui miti e i temi cari alla figurativa pagana, in opposizione alla nuova iconografia cristiana, dominante si, ma sempre più scadente.

      La magnificenza del monumento era data dal rivestimento interno di incrostazioni marmoree figurate  che ricopriva le pareti e che fu visibile fino al XVI sec. quando fu disegnato da Giuliano da Sangallo e altri artisti.

      In queste copie è ben riprodotta la decorazione: la parte bassa era occupata da un zoccolatura che il Sangallo riempì di fantasie del tutto sue, forse perché così rovinata da non potersi distinguere; seguiva la zona a specchiature separate da pilastri, in corrispondenza dei piedritti delle finestre. In ciascuna delle specchiature, divise verticalmente in tre sezioni, si potevano vedere motivi a pelta (scudo).

      Sotto le finestre, più in alto, correva un fregio continuo di archetti pensili su mensole. Tra le finestre e sopra di esse, entro riquadri bordati da fasce con tripodi delfici, si trovavano poi altre due serie di pannelli figurati.

      Queste grandi scene erano contornate in basso da finti drappi, coi bordi ricamati e con scenette mitologiche, e in alto da lotte tra animali e centauri e immagini del processus consularis.

      Di questi pannelli oggi ne restano solo quattro frammenti, divisi tra il Museo dei Conservatori (due) e Palazzo Massimo alle Terme (due), queste ultime già nella raccolta privata di palazzo Del Drago.

      Più in alto, infine, il Sangallo disegnava scene di corteggio ufficiale e mitologico e pannelli con gorgoneia, molto probabilmente frutto della sua interpolazione.

      Delle lastre superstiti, la più grande è quella a palazzo Massimo alle Terme, con un "drappo" inferiore ornato da scene egittizzanti, un "vela Alexandrina" citato anche da Plinio, e una scena principale del mito di Ila e le ninfe (il giovane amato da Ercole che recatosi a una fonte viene sedotto e rapito dalle ninfe).

      La seconda lastra di Palazzo Massimo, priva del velum, è quella del processus consularis di Giunio Basso, che è raffigurato su un cocchio, seguito da aurighi delle quattro fazioni circensi.

      I due pannelli di palazzo Drago raffigurano simmetricamente due tigri che sbranano buoi.

      I marmi preziosi accostati nelle figure generano una policromia vivacissima, con la capacità talvolta di riprodurre anche il chiaroscuro disponendo in maniera studiata le screziature della pietra.

      I motivi egittizzanti del drappo forse adombrano l'utilizzo di maestranze specializzate alessandrine, visto anche l'uso di pietre durissime come porfido e serpentino nelle tarsie, che erano a appannaggio praticamente esclusivo degli artigiani orientali.

      Confronti con decorazioni simili si possono fare con la decorazione di una schola di Cenchreae in Grecia e soprattutto con un edificio di Ostia, forse pure una schola, più tardo (fine del IV secolo) ma con molto elementi decorativi in comune quali i motivi a pelta, le specchiature con tondi e i leoni che assalgono gazzelle.

      Si può quindi presumere che questo tipo di decorazione derivasse da fonti comuni, forse arazzi o da imitazioni di strutture reali.

      La scena del cocchio invece è da mettere in relazione coi contorniati (tipo particolare di medaglioni in uso nel IV secolo), dove si trova un'analoga composizione dei cavalli, del carro e perfino delle ruote in prospettiva.

      La frontalità della raffigurazione è tipica del periodo (si vedano i rilievi dell'arco di Costantino), ma qui è ulteriormente esaltata dallo sfondo neutro color verde, dove le figure sembrano muoversi al di fuori di qualsiasi convenzione prospettica.

      Controversa è l'interpretazione del monumento.

      L'uso funerario sembra da escludersi, mentre è possibile un confronto con aule di ricevimenti ufficiali di quest'epoca successivamente trasformate in chiese, come Santa Susanna (del 320 circa) e Santa Balbina (del 330 circa), o altri edifici non coevi, come la basilica di Costantino a Treviri (inizio del IV sec.) e l'accostamento basilica/corridoio "della Grande caccia" nella villa di Piazza Armerina.

      Anche la tecnica edilizia, a mattoni molto regolari, è assimilabile alle opere approntate da Massenzio o da Costantino I nel suo primo periodo di governo.

      Il soggetto delle decorazioni, carichi dei simboli legati alla filosofia neoplatonica molto in auge tra l'aristocrazia romana del Basso Impero, potrebbe ricondursi all'esaltazione della vita pubblica del console.
      SARCOFAGO DI IUNIO BASSO, FIGLIO DELL'AUTORE DELLA BASILICA



      PORTICUS DIVORUM

      $
      0
      0


      La Porticus Divorum era un'area sacra di Roma che si ergeva in Campo Marzio, nella zona a sud est dell’Iseo, dall'attuale Piazza Grazioli alla via di San Marco (all'incirca in corrispondenza di Palazzo Venezia), dove sorgeva la Villa Pubblica. Essa constava dei portici e di due piccoli templi che si fronteggiavano: il tempio del divo Tito e un tempio sicuramente dedicato al divo Vespasiano.

      A sinistra c'era l'entrata da nord mediante un triplo grande arco trionfale di cui un angolo si addossava contro uno dei muri del portico. Il Porticus occupava l’area attuale compresa tra piazza Grazioli e Piazza del Gesù. Il Porticus sorse in parte sulla Villa Publica dove le fonti ricordano il pernottamento dei trionfatori la notte precedente la celebrazione del trionfo e dove sostarono i due imperatori Vespasiani prima della cerimonia trionfale per la conquista della Giudea nel 71 d.c..

      Trattavasi di una vasta piazza rettangolare allungata chiusa da un muro ininterrotto, che sorgeva lungo la Via Lata, tra i Saepta Iulia e le terme di Agrippa. Al suo interno si ergeva un portico colonnato rialzato addossato su tre lati, mentre il lato settentrionale era occupato dall’accesso principale monumentalizzato dal grande arco a tre fornici, e sempre su questo lato sorgevano i due templi pressoché identici, ambedue con una sola fila di 4 colonne posta di fronte alla cella, del divo Tito e del divo Vespasiano, posti l'uno di fronte all'altro.

      Il portico, descritto in undici frammenti della Forma Urbis marmorea di età severiana, invece contava oltre trenta colonne sul lato lungo e sedici sul lato corto. Includeva anche un altare e un boschetto a fianco degli altari. Esso misurava 194 m x 77 metri, ed era chiamato Templum Divorum o, più comunemente, solo Divorum.
      Stuart Jones (Quarterly Review, Oct. 1925, 393) ritiene che il rilievo del Suovetaurilia posto a Louvre (Companion pl. 50) derivasse dal Portico, così come il Bufalini nei suoi disegni  'Colonato antiqui' ne attribuisce  le colonne della Chiesa di S. Stefano del Cacco al suddetto Portico.

      Questo venne fatto edificare da Domiziano (51-96), come testimonia Eutropio (ma anche Eusebio ne parla):
      « Romae quoque multa opera fecit, in his Capitolium et Forum Transitorium, Divorum Porticus, Isium ac Serapium et Stadium. »
      « Realizzò molte opere anche a Roma, tra queste il Capitolium e il Foro Transitorio, il Portico dei Divi, l'Iseo e il Serapeo e lo stadio. »
      (Eutropio, Breviarium Historiae Romanae, VII, 23)

      L'ORGANIZZAZIONE ARCHITETTONICA DOVEVA ESSERE MOLTO SIMILE
      A QUELLA DELL'ISEO CAMPENSE SOPRA RIPRODOTTO

      Secondo altre fonti il Porticus venne iniziato da Tito in onore di suo padre dopo la sua morte ma non potè vederne la fine perchè morì a sua volta. Così Domiziano lo fece terminare determinandone anche ampliamenti e abbellimenti.

      Infatti in connessione con il Porticus Divorum Domiziano vi fece edificare contemporaneamente il tempio di Minerva Chalcidica, locata presso la chiesa di S. Marta in Piazza del Collegio Romano. Secondo alcuni la notizia è errata, perchè il Tempio della Minerva si ergeva di fronte al colonnato.

      L'appellativo di Chalcidica (custode) si riferisce alla sua posizione all'ingresso del Divorum. Non ne è stata trovata nessuna traccia, ma dalla Forma Urbis severiana appare con pianta circolare, forse una cella tonda circondata da colonne, su una base quadrata con gradini su tutti e quattro i lati. Il ricordo di questo tempio rimane nel nome moderno dato alla vicina chiesa di S. Maria sopra Minerva.


      Dopo il IV secolo, il portico non è più citato, ma se ne conservò il nome come "Diburi" o "Diburo" (da Divorum) in parecchi documenti medioevali relativi al monastero di San Ciriaco in Camilliano.

      L’edificio è oggi quasi completamente scomparso, fatta eccezione per pochi resti murari rinvenuti tra la fine dell’Ottocento e i decenni iniziali del Novecento: si tratta di un tratto di muro in via Santo Stefano del Cacco, un tratto del colonnato orientale sotto palazzo Grazioli e un breve tratto del muro di delimitazione orientale in via del Plebiscito.

      Si ritiene che il rilievo di cui sopra, che è conservato oggi al Palazzo della Cancelleria, provenga dal Portico Divorum. Nel rilievo si nota l'imperatore Vespasiano, preceduto da Minerva e Marte, che cammina accompagnato dalla Dea Roma, insieme al Genio del Senato con la cetra e il Genio del Popolo Romano con la cornucopia. 

      In un altro rilievo, sempre in Palazzo della Cancelleria, è rappresentata l'entrata a Roma dell'imperatore Vespasiano, ricevuto da un giovane uomo in tunica, forse il figlio Domiziano. Nella scena sono presenti il Genio del Senato e il Genio del Popolo Romano, nonchè le vergini Vestali e la Dea Roma. Anche questo rilievo si suppone appartenente al Porticus Divorum.



      ALBANIANA (Limes Retico)

      $
      0
      0


      RICOSTRUZIONE DEL FORTE DI ALBANIANA
      Albaniana era il nome di un forte romano (castellum) nella moderna Alphen aan den Rijn, nei Paesi Bassi. La Tabula Peutingeriana la situa tra la castella di Matilo e Nigrum Pullum. E 'stata una parte dei  Limes basso germanici, che separava l'impero romano dai paesi tribali del nord.

      L'origine del borgo Alphen aan den Rijn può essere fatta risalire a circa 2000 anni fa. Il paese attuale, che oggi si compone di circa un centinaio di migliaia di abitanti, un tempo era solo una frazione di quello. E 'stata una colonia romana, dal nome "Castellum Albaniana" che significa 'colonia dalle acque bianche '.

      Queste acque bianche probabilmente si riferiscono al Vecchio Reno, dove era situato l'accampamento. Il Castellum, interamente in legno, è stato costruito nel tempo dell'imperatore Caligola, nel 37 a.c.. per proteggere i 'limes' e con l'idea di traversata per la Gran Bretagna; cosa che non venne compiuta durante il suo regno, ma solo in quello del suo successore, l'imperatore Claudio.

      POSIZIONE DI ALBANIANA NEL LIMES GERMANICO-RETICO
      L'edificio era un avamposto isolato, a parte alcune colonie che si trovavano nelle vicinanze. Il complesso aveva muri esterni e torri di guardia interamente in legno che del resto abbondava in zona, essendo il suolo coperto da foreste.  

      Nella costruzione del forte si riconoscono almeno sei fasi. La più antica fortezza era circondata da un bastione di terra con infissi dei pali di legno legati tra loro probabilmente da liane. La parete era interrotta nei punti dove c'erano porte in legno e due torrette guardavano le entrate. 

      In seguito vennero costruite torri ai quattro angoli e poi vennero edificate in quantità rispettando spazi equidistanti. La palizzata venne poi ripetuta a poca distanza riempiendola di terra e sassi.  Finalmente venne riedificata in muratura e venne scavato un canale fuori delle mura.

      Si è scavato aldiqua e aldilà delle mura, che erano  larghe circa un metro e lunghe circa ottanta metri, scoprendo vari reperti. Durante la rivolta dei Batavi il muro fu demolito dai Cananefates; e venne successivamente ricostruito dopo che la rivolta era stata sedata.

      Nel 160 d.c. le pareti di legno vennero sostituite dai muri di mattoni.  In questo periodo venne edificato anche un nuovo cancello d'ingresso. con un'iscrizione che fa riferimento all'imperatore Settimio Severo. Infatti fu Settimio ad ordinare il ripristino delle mura danneggiate. Molto probabilmente l'imperatore ha, circa nel 209 d.c.., fatto un viaggio di ispezione lungo il Limes.

      In quest'epoca, i militari accampati nel forte erano circa 4000, e con loro c'erano tutte le loro famiglie, per concessione dell'imperatore.

      RICOSTRUZIONE DELLE MURA


      IL VICUS

      Come gli altri fortini dei Limes, l'Albania disponeva di un villaggio e di un vicus. A est del forte un gruppo di mercanti, artigiani e prostitute, operanti sia all'interno che dall'esterno offrivano ai legionari dell'impero romano i loro beni e servizi.  

      Per i soldati e le loro famiglie questa era una  terra privilegiata per lo shopping e l'intrattenimento. Inutile dire che il vicus forniva un terreno di incontro di culture, dove era inevitabile che i tedeschi e i Romani si influenzassero reciprocamente. Verso il 270 d.c., il Castellum e il vicus vennero evacuati.  

      BORRACCIA DI LEGIONARIO RITROVATA
      DURANTE GLI SCAVI
      Le tribù germaniche attraversarono il Reno e invasero l'Impero Romano e saccheggiarono le castella. Nel medioevo i forti vennero utilizzati come cave di pietra, dopo di che i resti scomparvero coperte di terra ed erbacce. Questi resti sono stati riscoperti solo nel XX secolo. Da allora la maggior parte della zona era stata costruita sopra le vestigia demolendo un grande patrimonio archeologico.  

      Nel 2001 un'ampia ricerca archeologica è stata iniziata nel centro di Alphen aan den Rijn realizzando molte scoperte. Vennero reperiti i resti del castellum, e le canabae che si trovano nelle vicinanze nonchè i cimiteri adiacenti.   Le canabae erano l'agglomerato civile (anche di non-cittadini romani), sviluppatosi fin dai tempi di Augusto, attorno alle fortezze legionarie permanenti (castra stativa).

      Sono emersi pezzi di due edifici allungati che possono aver servito come deposito, eppoi, all'interno del Castellum sono stati trovati caserma, con pavimenti in legno, con oggetti militari e personali appartenenti ai soldati, come strumenti per la scrittura, degli utensili da cucina, resti di carbone, pezzi di tufo lavorati a cunei, rivestimenti di vimini, uno specchio, e oltre ottocento monete risalenti al regno di imperatori romani Tiberio, Caligola, Claudio e Nerone.  Questi imperatori regnarono consecutivamente da circa il 14 fino al 68 d.c..  

      Inoltre emersero avanzi di cibo conservati e semi, che hanno reso possibile possibile la ricerca delle tecniche di coltivazione e le abitudini alimentari dei soldati. Esaminando le fondazioni si è potuto elaborare le conoscenze sulle tecniche di costruzione utilizzate dagli antichi romani. Vennero recuperati anche varie componenti in legno, tra cui una porta completa, lungo il Reno è stata recuperato un intero rivestimento in legno di una parete, che è stato costruito intorno al 94 e pezzi di capanne di fango.

      Inoltre ad  Albania sono state rinvenute delle monete con l'immagine della 'Classis Germanica', una flotta militare romana. Un certo numero di questi artefatti scoperti attualmente può essere trovato nel Rijksmuseum di Oudheden a Leiden. Una pietra con iscrizioni romane si trova vicino alla riva sul Rijnplein a Alphen aan den Rijn. Inoltre, un parco storico di nome Archeon si trova a Alphen aan den Rijn. 



      ALPHEN AAN DEN RIJN (Centro)  

      PARTE DELL'ISCRIZIONE ALL'ENTRATA DEL FORTE
      In Albaniana nel centro di Alphen si trovano i resti della frontiera Fort Albaniana, il villaggio del campo, le sue infrastrutture e la parte dei cimiteri. In direzione est della strada del Limes c'era la guardia romana. Nel 2001 e nel 2002 sono stati effettuati degli scavi per la costruzione di un nuovo centro commerciale e sono stati rinvenuti dei resti romani di importanza internazionale per la loro eccellente stato di conservazione. 

      Questo forte venne utilizzato da circa il 41 al 270 d.c. e probabilmente venne costruito sotto l'imperatore Caligola (37 - 41 d.c.), che voleva fare la traversata in Gran Bretagna, ma alla fine ha lasciato il compito al suo successore Claudio (41-54 d.c.). 

      Albaniana era nei primi anni un avamposto isolato, ma presto vennero costruiti i campi più vicini come il castellum pretorio di Agrippinae Valkenburg (S-H), il forte Flevium in Velsen alla foce del Rijntak a nord, e il Forte Vechten Fectio. Il forte era costituito da un bastione tra palizzate di legno infisse in terra e aveva una torre di legno ad ogni angolo. Intorno al 160 il forte venne ricostruito in pietra. Secondo la mappa di Peutinger, la distanza tra il forte e il vicino Nigrum Pullum Zwammerdam era meno di 5 km su questa strada
      è stata ritrovata una stazione di guardia.
       

      TEMPIO DI GIOVE VINCITORE

      $
      0
      0
      IL PALATINO CON IL TEMPIO DELLA FORTUNA RESPICENTE (sinistra)
      ED IL TEMPIO DI GIOVE VINCITORE (a destra)
      "Trovandosi accanto al descritto tempio (di Apollo), verso Occidente traccie, di altro tempio, si giudica dal Ch. Ballanti esservi stato quello di Giove Propagatore che si trova indicato in una iscrizione antica riportata dal Rosini 276. Ma se questo era precisamente quello dedicato a Giove con tale distintivo, o a Giove Arbitratore o Vincitore, siccome si trova designato nel catalogo di Vittore, a me non pare ben certo; ed anzi io credo più a proposito di prescegliere essere stato ivi quello col suddetto ultimo attributo di Vincitore, perchè questo si trova più distintamente registrato nel catalogo della Notizia."

      Il tempio di Giove vincitore stava sul palatino accanto alla Casa Flaminia, o Domus Flaminia, dove viveva il Gran Sacerdote di Giove, il Flamen Diale. Narra Tito Livio del re Numa Pompilio:

      "Quindi designò un flamine a sacerdote unico e perpetuo di Giove, dotandolo di una veste speciale e della sedia curule, simbolo dell'autorità regale. A lui aggiunse altri due flamini, uno per Marte e uno per Quirino. Inoltre sceglie delle vergini da porre al servizio di Vesta, sacerdozio questo di origine albana e in qualche modo connesso con la famiglia del fondatore."

      Dall'altro lato aveva il tempio della Fortuna respiciente, il cui frontone fittile venne rinvenuto in Via di S. Gregorio nel 1878 e conservato nel Braccio Nuovo del Museo dei Conservatori. La sua attribuzione al Tempio della Fortuna Respiciens è confermata nella parte centrale del versante orientale del Palatino.

      DOMUS FLAMINIA, (sinistra) TEMPIO DI GIOVE VINCITORE (destra)

      Il tempio era posto su un alto podio cui si accedeva mediante una lunga scalinata alla cui base era posta l'ara sacrificale. Aveva otto colonne, tutte scanalate e sormontate da capitelli corinzi, con sopra al culmine del tetto la quadriga di bronzo dorato di Giove e ai lati del tetto due Vittorie alate con la consueta corona d'alloro, anch'esse in bronzo dorato.

      Sembra che la statua che veniva conservata all'interno della cella, per essere poi mostrata al popolo nelle feste e cerimonie di culto, fosse quella che da tempi remoti era stata venerata a Praeneste e da qui sottratta, come racconta Tito Livio, da Cincinnato, che avendo conquistato la città alla fine del IV sec., portò a Roma come preda di guerra proprio una statua di Giove Vincitore, posizionandola sul Campidoglio.

      Fu invece il generale romano Quinto Fabio Massimo Rulliano a fare erigere il tempio che doveva ospitare la statua nel 295 a.c., il Tempio di Giove Vincitore per la Battaglia di Sentino durante la III guerra sannitica.


      Nel 295 a.c. infatti venne eletto all'unanimità console per la quinta volta e a capo dell'esercito romano sconfisse una coalizione di Etruschi, Sanniti e Galli nell'epica battaglia di Sentino, ma poichè non rispettò gli ordini del dictator per legge doveva essere messo a morte.

      Fu il favore del popolo e del senato ad intercedere per lui, ma Fabio si sentì di ringraziare soprattutto Giove Vincitore, il Dio che assicurava la vittoria anche quando tutto sembrava perduto. Fu in nome di quella vittoria che la sua vita fu risparmiata e Fabio ringraziò Giove innalzandogli un tempio nell'anno stesso.


      CAMPANIA

      $
      0
      0


      CAMPANIA FELIX

      L'antica regione campana, densa di civiltà e di bellezze naturali, lambita dal mare e dal sole, ricca per una particolarissima terra fertilizzata dalle antichissime eruzioni vulcaniche, giustamente fu definita dai romani Capania Felix, dove Felix stava per opima, ricca e fertile.

      Questo nome indicava all'inizio il territorio della città di Capua, (S. Maria Capua Vetere) nel periodo romano, ed altre pianure di municipi confinanti. Fu un territorio molto vasto che si estendeva dalle pendici del monte Massico (a nord) fino a lambire a sud i Campi Flegrei e l'area vesuviana comprendendo l'ager Falernus, che poi venne escluso da Roma a causa dell'alleanza della città di Capua con Annibale.
      Qui si incrociarono civiltà diverse, in particolare la greca, la sannita e la romana. Meta ambitissima dei ricchi patrizi romani ne conserva splendidi resti sia nella costa che nell'entroterra, che la rendono forse la regione più bella della penisola, purtroppo ormai devastata da un'infelice amministrazione che non ne ha mai valorizzato il preziosissimo ambiente.

      I Greci si insediarono a Cuma (punto della terraferma più vicino a Lacco Ameno) e poi a Dicearchia (Pozzuoli), Parthenope e poi presso la definitiva Nea Polis (Napoli), col tipico impianto urbanistico ippodameo costituito da plateiai e stenopoi, divenuti poi nell'epoca romana l'area dei decumani di Napoli. L'insediamento greco avvenne infatti solo lungo le coste, mentre la parte interna era abitata dagli etruschi che diedero vita ad una lega di dodici città con a capo Capua, Nuceria, Nola, Acerra, Suessula.

      Già oggetto di  insediamenti punico-cartaginesi dal X sec. a.c. subì poi la felice colonizzazione da parte dei Greci. Il geografo Strabone, lo studio del mito della Sirena Partenope e degli altri fatti storici hanno convinto gli studiosi su un antecedente insediamento Rodio posto nell'isolotto di Megaride, attuale Castel dell'Ovo. Esso, riconducibile al IX sec. a.c., costituirebbe il primo nucleo delle futura Napoli.

      La prima delle colonie in Campania ma pure di tutta l'Italia meridionale, fu l'isola di Ischia, dove agli inizi del VIII sec. a.c. un gruppo tecnico culturale proveniente dalla Calcide di Eubea si insediò priva di armi e con il consenso dei Cartaginesi nella baia di Lacco Ameno, onde apprendere le abilità etrusche nell'estrazione e la lavorazione del ferro dell'Elba.

      Il primo stanziamento, detto dai greci Pithecusa, fu un misto tra la cultura greca e quella cartaginese. A questo seguirono quelli di Naxos e Megara Hiblea nella Sicilia meridionale.

      I principali centri abitati della regione furono comunque:  Capua, Cumae, Neapolis, Caprae (Capri), Pompei, Sorrentum, Stabiae, Nuceria Alfaterna e Salernum.

      POMPEI


      ISOLA DI MEGARIDE

      Secondo Strabone, l'isola fu fondata da coloni provenienti da Rodi che qui avrebbero stabilito, tra il IX-VIII sec. a.c., un emporio commerciale. I culti religiosi in epoca greca furono appunto quelli dei greci, ed uno dei culti più antichi fu il culto della sirena Partenope, già noto in Grecia orientale prima della fondazione della città.

      MEGARIDE
      Sul culto della sirena, o ninfa, Partenope ci sono poche notizie, tra cui una corsa con le fiaccole che ogni anno si compiva in suo onore, le cosiddette Lampadoforie, il che fa pensare a un culto misterico greco. Pare che la sirena sia morta  a Megaride, essendo stata trasportata dal mare nella zona in cui oggi sorge Castel dell'Ovo e proprio lì, guarda caso, venne fatta seppellire dalla chiesa cristiana una dei patroni di Napoli, santa Patrizia.

      Secondo alcuni, Partenope morì dopo essere stata rifiutata da Ulisse, per altri gli Argonauti passarono per l'isola dove viveva la sirena e Orfeo, che era con loro, suonò la cetra facendo suicidare Partenope in mare (suonava così male?). Comunque a Napoli la Partenope era venerata come Dea protettrice.
      Così il primo stanziamento di coloni interessò l'isola di Ischia e poi passò alla zona della provincia di Napoli, divenendo a tutti gli effetti una colonia greca.



      I PRIMI INSEDIAMENTI LUNGO LE COSTE
      Pithecusa 
      CUMA, TEMPIO DI GIOVE
      - Ischia -  nella prima metà dell'VIII sec. a.c. (770 a.c. ca.) dai Greci di Eretria e di Calcide (Eubea). Qui è stata rinvenuta una fattoria greca tenuta da agricoltori benestanti, e la colonia era famosa per l'ottima produzione di ceramica.
        Kyme 
        - Cuma - fondata intorno al 740 a.c., dal IV sec. a.c., dopo le guerre sannitiche, l'isola passò con Napoli sotto il dominio romano, e divenne centro di attività commerciali e manifatturiere. Qui l'antro della Sibilla cumana e i suoi rispettati responsi.
          Dikaiarcheia
          - Pozzuoli - in origine scalo commerciale greco cumano, fondata nel 528 a.c. da esuli sami, con il nome di Diceàrchia (giusto governo). Nel 421 a.c. passò ai sanniti. Dopo la conquista romana della Campania (228 a.c.), Puteoli (così ribattezzata per le sorgenti termo-minerali) col suo porto divenne prospera per gli scambi commerciali. Nel 194 a.c. divenne colonia romana e i romani ne fecero il loro porto principale, collegandola con un'ottima rete stradale all'Urbe e alle città più importanti della Campania, mentre le città marittime dell'Oriente vi impiantarono stazioni commerciali. Vi eressero magnifiche ville e bellissimi edifici pubblici, come l'Anfiteatro Flavio, il Tempio di Serapide, lo Stadio di Antonino Pio, l'Anfiteatro Minore e il Tempio di Augusto.
            Parthenope e Neapolis 
            PESTUM
            - Napoli - a Napoli la sirena Partenope era venerata come Dea protettrice, poi declassata a ninfa suicida per pene d'amore.
              Poseidonia 
              - Paestum - chiamata dai fondatori Poseidonia in onore di Poseidone, ma devotissima a Era e Atena, fondata verso la metà del VII sec. a.c. Fiorì con tre diverse civiltà, quella greca, quella lucana e quella romana.
                Elea-Velia
                - Ascea - Strabone narra della città di Elea nella sua opera Geografia, specificando che i fondatori Focei, la chiamarono inizialmente Hyele, I Romani, dal 535 a.c. circa, la chiamarono Velia.
                  Pixunte
                  - Policastro Bussentino - colonia greca di Rhegion (Reggio Calabria) come base per i commerci della città dello Stretto con il Golfo di Taranto collegato attraverso il fiume Siris nel 471 a.c. con il nome di Pyxous (Pixunte), dotata di cinta muraria. Divenne romana nel II sec. a.c. con il nome di Buxentum.


                  Atella 
                  - ebbe come primi abitanti gli Osci Romani, nel suoi centri abbondano i resti delle città e le tombe arcaiche. 

                  Frattaminore
                  - che con Il suo territorio pianeggiante costituisce l'estremo lembo settentrionale della Provincia di Napoli al confine con il casertano.
                    Orta di Atella
                    BAIA
                    - situata nella Pianura Campana (antico Ager Campanus), attraversata dal Volturno. Dopo l'occupazione da parte dei Romani 210 a.c., il suo territorio venne confiscato e destinato ad un intensivo uso agricolo. Con la Pax Augustea, tale occupazione - operata da parte dei contadini impostivi dai vari domini )- divenne stanziale. Sorsero così le numerose villae rusticae con uno sfruttamento più intenso e articolato dei campi da coltivare.
                      Sant'Arpino
                      - situato nell'ager campanus, ovvero Piana del Volturno, e fa parte dell'agro aversano, il suo territorio ricade in gran parte sul sito della antica città di Atella.
                        Succivo
                        - sul sito della città osca di Atella, fucina della commedia latina, è sede del museo archeologico nazionale dell'agro atellano.
                          Baiae
                          - abitata dagli antichi romani, area archeologica situata a Baia, frazione di Bacoli, nell'area dei Campi Flegrei. Rimane oggi soltanto quella che allora era la parte collinare della città, trovandosi la rimanente sotto il livello del mare, sprofondata a causa di fenomeni bradisismici. Nel Parco Archeologico di Baia (Terme Romane e/o Palazzo Imperiale) con gli edifici termali monumentali: Tempio di Diana, Tempio di Mercurio, Tempio di Venere, la villa di Cesare inglobata nel Castello Aragonese (Baia), il Parco sommerso di Baia con il Ninfeo di Punta Epitaffio.
                            Bauli 
                            - Bacoli - abitata dagli antichi romani che la chiamarono Bauli. Vanta molti monumenti tra cui: Cisterna romana Centocamerelle, Cisterna romana Piscina Mirabilis, piccolo odeion chiamato "Tomba di Agrippina".

                              La Campania diventò così uno dei centri culturali più importanti della Magna Grecia la quale influenzerà nel corso dei secoli la società romana e tutta la civiltà occidentale. Si pensi a Cuma che diffuse in Italia la cultura greca e l'alfabeto calcidese, che assimilato e fatto proprio dagli Etruschi e dai Latini, divenne l'alfabeto della lingua e della letteratura di Roma e poi di tutto l'occidente.

                              Successivamente la regione venne invasa dai Sanniti ( V sec. a.c.) finchè Roma decise che voleva un'altra colonia,. A seguito delle tre guerre sannitiche (343-290 a.c.), fu occupata dai Romani, che vi fondarono parecchie colonie (come quella di Puteoli, l'attuale Pozzuoli).

                              Durante la II guerra punica, solo poche città si allearono ai cartaginesi, mentre la maggior parte della regione campana restò fedele a Roma. Fece parte della Regio I; ai tempi di Diocleziano acquisì poi l'autonomia. Molti ricchi romani apprezzarono la zona e costruirono lungo la costa le proprie ville estive. Ci fu uno straordinario sviluppo dell'agricoltura e del commercio, una delle zone più ricche del mondo classico e romano e ciò gli valse l'appellativo di Campania Felix.

                              ERCOLANO


                              PAGUS AUGUSTUS FELIX SUBURBANUS

                              BOSCOREALE
                              Boscoreale 
                              - abitata dagli antichi romani

                              Boscotrecase 
                              - abitata dagli antichi romani,  Scavi archeologici di Boscoreale, Antiquarium

                              Capri
                              - abitata dagli antichi romani - Grotta Azzurra, la cosiddetta Scala Fenicia, Villa dei Bagni di Tiberio (chiamato "Palazzo a Mare"), Villa Imperiale di Damecuta, Villa Jovis.

                              Casola 
                              - Napoli - Necropoli del III e IV sec.

                              Cimitile
                              - Napoli - Romani - Basiliche Paleocristiane


                              Cumae (la greca Kyme) 
                              - Cuma -  Magna Grecia - Anfiteatro, Antro della Sibilla, Arco Felice, Capitolium, galleria carrozzabile chiamata "Crypta Romana", Foro, galleria carrozzabile chiamata Grotta di Cocceio, Masseria del Gigante, Mura greche, Necropoli, Strada romana, Tempio con Portico, Tempio di Apollo, Tempio di Giove, Terme ellenistiche chiamate "Tomba della Sibilla", Terme romane del Foro.

                              Herculaneum
                              - Ercolano -  Osci  Etruschi  Sanniti Romani - Scavi della città antica, Teatro romano, Villa dei Papiri.

                              Gragnano
                              - abitata dagli antichi romani - Acquedotto, Necropoli

                              Pithecusa
                              - Isola d'Ischia - abitata dagli antichi romani -- Casa greca di Punta Chiarito, resti sommersi di Cartaromana, Sorgente di Nitrodi.

                              Lacco Ameno
                              - abitata dagli antichi romani - scavi sotto la Chiesa di Santa Restituta.

                              Lago Lucrino e Lago d'Averno
                              - abitata dagli antichi romani - Galleria sotterranea chiamata "Grotta della Sibilla", galleria carrozzabile chiamata Grotta di Cocceio, cd. Navale di Agrippa, Sala termale chiamata "Tempio di Apollo", Terme romane chiamate "Bagni di Tritoli", Terme romane chiamate "Stufe di Nerone", antico porto militare romano Portus Iulius sommerso nel mare.

                              Liternum
                              - Lago Patria - abitata dagli antichi romani - Anfiteatro, Basilica, Capitolium, Foro, Necropoli, Teatro.

                              Massa Lubrense
                              - abitata dagli antichi romani - Area archeologica di Punta Campanella (Strada romana e Tempio di Minerva), Necropoli del Deserto, Ville romane.

                              Misenum
                              Miseno - abitata dagli antichi romani, Cisterna romana chiamata "Grotta Dragonara",
                               Sacello degli Augustali, Teatro romano, grande Sala termale (in proprietà privata), sede della flotta (Classis Misenensis).

                              Neapolis
                              - Napoli - Opici Osci Ausoni Magna Grecia Romani
                              - Chiesa del Carminiello ai Mannesi (Resti di un edificio di epoca romana),
                              Crypta Neapolitana,
                              Fontana delle zizze (Sarcofago romano),
                              Grotta del Cane,
                              Decumani di Napoli,
                              Insediamenti agricoli di età romana (Ponticelli),
                              Isolotto di Megaride,
                              Monte Echia,
                              Napoli sotterranea, 
                              Oasi di Santa Maria di Pietraspaccata, 
                              Parco archeologico della Mostra d'Oltremare, 
                              Parco archeologico di Posillipo (comprende la Grotta di Seiano, la villa imperiale di Pausilypon con annesso teatro dell'Odeon, il Parco sommerso di Gaiola ed il palazzo degli Spiriti), 
                              Ponte romano (via Salvator Rosa),
                              Ponti Rossi (acquedotto romano del Serino), 
                              Reperti archeologici nella Stazione Neapolis,
                              Resti archeologici di Pizzofalcone (Necropoli),
                              Resti archeologici di Scampia,
                              Resti del Tempio dei Dioscuri (Colonne sulla facciata di epoca greca), 
                              Resti dell'Acropoli sulla collina di Caponapoli, 
                              Resti della Porta Furcillensis, 
                              Resti di epoca romana in Sant'Aspreno al Porto, 
                              Resti di una Domus Romana negli scantinati di una Banca, 
                              Resti nel Chiostro dei SS. Marcellino e Festo, 
                              Scavi archeologici di San Lorenzo Maggiore, 
                              Scavi archeologici interni al Maschio Angioino, 
                              Scavi di Santa Chiara, 
                              Scavi archeologici del Duomo, 
                              Scavi di Piazza del Municipio (antico circondario del Maschio Angioino), 
                              Strada romana all'interno del Palazzo Corigliano (aula "Mura Greche"), 
                              Teatro romano di Neapolis, 
                              Tempio della Gaiola, 
                              Terme romane di Agnano, 
                              Terme romane di via Terracina, 
                              Tunnel Borbonico, 
                              Villa di Licinio Lucullo, 
                              Tazza di Porfido (proveniente dal Tempio di Era di Paestum), 
                              Catacombe delle Anime del Purgatorio ad Arco, 
                              Catacombe di San Gaudioso, 
                              Catacombe di San Gennaro, 
                              Catacombe di San Paolo Maggiore,
                              Catacombe di San Pietro ad Aram, 
                              Catacombe di San Severo fuori le mura,
                              Catacombe greche, 
                              Cimitero delle Fontanelle, 
                              Cimitero di Santa Maria del Pianto, 
                              Catacombe di Sant'Eufebio, 
                              Colombarium di via Pigna, 
                              Mura greche di Neapolis, 
                              Parco Vergiliano.

                              OPLONTIS

                              Nola
                              - Nola - Napoli - Ausoni Romani - Anfiteatro, Complesso archeologico di Via Saccaccio, Mausolei romani Le Torricelle, Scavi Chiesa di San Biagio (Terme romane).

                              Oplontis
                              - Torre Annunziata - Napoli - Pelasgi, Osci, Magna Grecia, Etruschi, Sanniti, Romani - Scavi archeologici di Oplontis, villa romana di Crassio Terzio, Villa romana di Poppea.

                              Ad Teglanum
                              - Palma Campania - Napoli - Osci, Magna Grecia, Etruschi, Sanniti, Romani - Acquedotto Augusteo.

                              Pompei
                              - Pompei - Napoli - la città antica, Villa dei Misteri

                              Puteoli 
                              - Pozzuoli - Napoli - Magna grecia Sanniti romani - Acquedotto romano, Anfiteatro Flavio di Pozzuoli, Anfiteatro Minore, Area archeologica del Rione Terra, Cisterna romana Cento Camerelle, Cisterna romana Piscina Cardito, Cisterna romana Piscina Lusciano, Macellum (chiamato Tempio di Serapide), Mausolei romani del Fondo Di Fraja, Necropoli romana di San Vito, Necropoli romana di Via Antiniana, Necropoli romana di Via Celle, Ruderi dei Collegia, Stadio romano, Tabernae romane, cd. Tempio di Diana, Terme di Nettuno, Via Celle, Via Consolare Campana, Via Puteolis-Neapolim, Villa romana detta Villa di Cicerone.

                              Pithekoussai (o Pithecusae)
                              - Isola d'Ischia - Il ritrovamento di muri a secco, nel 1989 a seguito di uno smottamento, in località Punta Chiarito, nella frazione di Panza, ha dato l'avvio tra il 1993 ed il 1995 ai lavori di scavo che hanno evidenziato una fattoria greca, anticipando lo sbarco dei primi coloni greci di circa venti anni, cioè intorno al 790-780 a.c.

                              - Lacco Ameno sull'Isola d'Ischia - Napoli - Magna grecia Romani - Necropoli di San Montano.

                              Quarto Flegreo
                              - Napoli - Magna grecia Romani - Mausoleo a Cuspide, Resti di Villa romana, Statio ad Quartum, Via Consolare Campana, mausolei funerari.

                              Stabiae 
                              - Castellammare di Stabia - Napoli - Sanniti, Etruschi, Magna Grecia - Scavi archeologici di Stabiae (Villa Arianna, Villa San Marco, secondo complesso, Villa del Pastore, Villa Petraro, Villa Carmiano, Villa Sant'Antonio Abate, Necropoli); Musei: Antiquarium stabiano.

                              Suessula
                              - pressi di Acerra - Osci, Etruschi, Romani - Resti della città romana, resti del teatro romano.

                              Surrentum
                              - Sorrento - Napoli - Osci Romani - Ponte di Porta Parsano, Porta Greca, Villa di Pollio Felice (detta Bagni della Regina Giovanna).

                              ABELLA
                              Torre Annunziata
                              - Napoli - Pelasgi, Osci, Magna Grecia, Etruschi, Sanniti, Romani - Terme romane, Ville romane di Oplontis.

                              Sora e Calastro
                              - Torre del greco - Napoli - Romani - Villa Sora

                              Vivara
                              - Magna Grecia - insediamento miceneo- isola flegrea tra Procida e Ischia. Sicuramente ancora in epoca romana Vivara era collegata all'isola di Procida da una stretta falesia, oggi scomparsa, sul lato settentrionale del cratere.

                              Abella
                              - Avella - Avellino - Osci Etruschi Sanniti Romani - Anfiteatro, Monumenti funerari. Dimostrò fedeltà a Roma durante la guerra sociale (91 -89 a.c.) che fu punita nell'87 a.c. con la distruzione da parte dei sanniti che ancora occupavano Nola.

                              Abellinum Atripalda 
                              FRATTE
                              - Avellino - Sanniti Romani - parco archeologico con il forum su cui si affacciano alcuni templi da cui provengono molti reperti conservati nel Museo Irpino (tra cui un'ara di marmo del I sec. dedicata a Tiberio); terme con calidarium dette Torre degli Orefici; sezione dell'acquedotto romano del Serino;
                              domus gentilizia di 2500 m² con spazi e ambienti tipici delle case romane come il cubicolo ornato con motivi vegetali su rosso pompeiano, e il peristilio.
                              Nella città antica erano presenti anche un anfiteatro, di cui è rimasto solo qualche pezzo di struttura, e un lupanare, per il ritrovamento di monete con raffigurazioni erotiche.

                              Aeclanum
                              - Mirabella Eclano - Avellino - Sanniti Romani - Casa officina, Mura, Necropoli, Terme

                              Aequum Tuticum
                              - Ariano Irpino - Avellino - Romani - Resti dell'abitato

                              Compsa
                              - Conza della Campania - Avellino - Romani - Foro

                              BENEVENTO
                              Beneventum 
                              - Benevento - Osci, Sanniti, Romani - Arco di Traiano, Museo del Sannio, Ponte Leproso, Teatro romano, Arco del Sacramento, Tempio di Iside.

                              Caudium 
                              - Montesarchio - Benevento - Sanniti, Romani.


                              Saticula 
                              - Sant'Agata dei Goti - Benevento - Sanniti, Romani - Necropoli.

                              Telesia 
                              - San Salvatore Telesino - Benevento - Sanniti, Romani - Mura, ponte romano, anfiteatro, acquedotto e terme

                              Allifae 
                              - Caserta - Osci, Sanniti, Romani - Cinta muraria, Criptoportico, Mausoleo degli Acili Glabrioni, Monumento funerario il Torrione, Necropoli, Teatro

                              Atella 
                              - nei comuni di Frattaminore,

                              Orta di Atella 
                              - Caserta - Sanniti, Romani - Rovine della città, Tombe.

                              Sant'Arpino
                              - Caserta - Sanniti, Romani - Rovine della città, Tombe.

                              Succivo
                              - Caserta - Sanniti, Romani - Rovine della città, Tombe.

                              Kaiatinim poi Caiatia 
                              - Caiazzo - Caserta - Sanniti, Romani - Cinta muraria

                              Cales 
                              - Calvi Risorta - Caserta - Ausoni. Romani - Anfiteatro, Cinta muraria, Santuari, Terme romane.

                              Capua 
                              - Santa Maria Capua Vetere - Caserta - Osci, Etruschi, Sanniti, Romani - Museo campano, Anfiteatro Campano, Arco di Adriano, Criptoportico, Mausoleo Carceri Vecchie, Mausoleo La Conocchia, Mitreo, Via Appia.

                              Calatia 
                              - Caserta - Osci, Romani - Necropoli del V sec. a.c. nei sotterranei della Reggia.

                              Casilinum 
                              - Capua - Caserta - Osci, Etruschi, Sanniti, Romani

                              Cubulteria (o Combulteria)
                              - presso Alvignano - Caserta - Sanniti, Romani.

                              Forum Popilii
                              - Carinola - Caserta - Romani

                              Francolise
                              - Caserta - Romani - Villa romana di San Rocco.

                              Rufrae
                              - Presenzano - Caserta - Romani - Cinta muraria

                              Sant'Angelo in Formis
                              - Caserta - Romani - Santuario Diana Tifatina

                              Sinuessa
                              - Mondragone - Caserta - Romani - Cinta muraria, Via Appia

                              Suessa
                              - Sessa Aurunca - Caserta - Aurunci, Romani - Cinta muraria, Criptoportico, Teatro romano

                              Teanum Sidicinum
                              - Teano - Caserta - Sidicini, Romani - Cinta muraria, Santuari, Teatro romano; monetazione Teanum Sidicinum.
                              Trebula Balliensis
                              - Pontelatone, fraz. Treglia - Caserta - Sanniti caudini, Romani - Cinta muraria

                              Eburum
                              - Eboli - Salerno - Etruschi, Romani - Museo archeol. media valle del Sele, Cinta muraria, Necropoli, Quartiere artigianale, Villa romana, fornaci romane di Eboli

                              Elea-Velia, (la greca Hyele)
                              - Ascea - Salerno - Magna Grecia, Romani - città antica, cinta Muraria, Porta Rosa, Teatro ellenistico, resti del tempio, terme romane.

                              FORNACI EBOLI
                              Castellammare della Bruca
                              - Salerno - Sull'acropoli di Elea: cappella palatina

                              Area archeologica etrusco-sannitica di Fratte 
                              - Salerno (rione Fratte) - Salerno - Sarrasti, Etruschi, Sanniti, Romani - Sito della città antica e necropoli.

                              Nuceria Alfaterna
                              Nocera Superiore - Salerno - Etruschi, Sanniti, Romani - Anfiteatro, Battistero paleocristiano di Santa Maria Maggiore (chiamato La Rotonda), Mura di cinta, Teatro romano, Necropoli di San Clemente

                              Monumenti funerari di Piazza del Corso
                              - Nocera Inferiore

                              Nocera Inferiore 
                              - Salerno - Etruschi, Sanniti, Romani - Monumenti funerari

                              Minori
                              BUCCINO
                              - Salerno - Romani - Villa romana
                              Moio della Civitella 
                              - presso Cannalonga - Salerno - Magna Grecia - Avamposto difensivo eleatico: abitato, muro di cinta
                              Monte Pruno
                              - presso Roscigno - Salerno - Necropoli

                              Paestum
                              - la greca Poseidonia - Salerno - Magna Grecia, Romani - Museo archeologico nazionale di Paestum, Scavi della città antica, necropoli, necropoli del Gaudo, santuario dell'Heraion alla foce del Sele, santuario extraurbano di Afrodite-Venere in loc. Santa Venera

                              Molpa
                              - Palinuro - Salerno - Magna Grecia, Romani - Resti dell'antica città di Molpa.

                              Parco archeologico urbano antica Picentia
                              - Pontecagnano Faiano - Salerno - Etruschi, Romani - Museo archeologico naz. Pontecagnano, Necropoli

                              Orbitania (la romana Patrizia)
                              - Roccagloriosa - Salerno - Lucani, Romani - Cinta muraria e tombe

                              Consilinum
                              - Sala Consilina - Salerno - Romani - Necropoli

                              Salernum
                              - Salerno - Romani - Impianto termale romano sotto la Chiesa di San Pietro a Corte e resti del cd. tempio di Pomona (presso palazzo arcivescovile).

                              Sarnus
                              - Sarno - Salerno - Etruschi, Romani - Necropoli e teatro.

                              Volcei
                              - Buccino - Salerno - Etruschi, Romani - Museo archeologico nazionale di Volcei, Mura, tempio e ville.

                              INTERAMNIA PRAETUTIORUM - TERAMO (Abruzzo)

                              $
                              0
                              0


                              Secondo alcuni storici la sua fondazione è dovuta ai Fenici che, giunti nel territorio dove oggi sorge Teramo, e che chiamarono "Petrut" cioè "luogo elevato circondato dalle acque", fondarono un emporio commerciale che con il tempo divenne la capitale del Pretutium con il nome di Interamnia Praetutiorum ( per distinguerla da Interamnia Nahars - l'attuale Terni - e da Interamnia Lirinas).

                              Interamnia, la moderna Teramo, il cui nome romano,  "posta tra i fiumi", è dovuto alla posizione della città, sorse dunque su un promontorio attorno a cui scorrevano tre corsi d'acqua, fatto che da un lato ne facilitava il commercio via fiume, dall'altra la rendeva più difendibile e per ultimo godeva di un territorio agricolo molto fertile per l'abbondanza di acque.

                              Il territorio dei Pretuzi entrò nell'influenza dell'Urbe dalla guerra contro i Sabini del 290 a.c., e nel 241 a.c. venne incluso nella tribù Velina. Godette di una relativa indipendenza dai Romani fino al III sec. a.c.. quando fu assoggettata da Silla e successivamente trasformata da municipio in colonia.

                              Ma il periodo più florido Interamnia lo ebbe dopo la conquista dei Romani nel 268 a.c.

                              L'imperatore Cesare Augusto la inserì nella V regione romana e sotto l'imperatore Adriano la città, che già aveva prosperato sotto Roma grazie al commercio facilitato dalle strade consolari, conobbe un periodo di grande splendore che portò alla realizzazione di templi, teatro e anfiteatro.
                              In seguito a ciò la data di edificazione di teatro e anfiteatro sono alquanto dibattute, chi le attribuisce al 30 a.c. (sotto Augusto) e chi al II sec. d.c. (sotto Adriano). 

                              L'area dell'antico cento urbano, non ancora ben chiaro, può essere delimitata dalla Porta Reale ad est, dalle vie del Baluardo e di Torre Bruciata a nord, da via della Banca ad ovest e da via Stazio a sud. Tratterebbesi di una zona rettangolare di circa m 440 × 240, in cui si riconoscono due nuclei divisi dall'allineamento di via S. Antonio e di Largo Melatini. 

                              Ambedue i settori mantengono oggi le tracce di una sistemazione ortogonale del reticolato stradale, la cui antichità viene documentata dall'orientamento del teatro e dell'anfiteatro nella parte occidentale, e dal rinvenimento di un basolato sotto il Corso De Michetti nella parte orientale.

                              Parte del materiale lapideo del duomo di Teramo fu prelevato dagli adiacenti teatro romano ed anfiteatro romano, di quest'ultimo fu addirittura demolita la parte nord-occidentale per far posto alla cattedrale. 

                              Le pareti del Duomo mostrano i fregi dorici del I sec. d.c., riutilizzati per la costruzione della chiesa e provenienti dal vicino anfiteatro. Le pietre lavorate sono inserite e attualmente visibili nelle mura esterne del Duomo in Piazza Martiri della Libertà, a destra e a sinistra.

                              PIETRA ROMANA INSERITA NEL DUOMO


                              NECROPOLI  (ETA' DEL FERRO E ROMANA)

                              Dell'abitato preromano non c'è quasi nulla di visibile, ma molto è interrato, a parte i resti di una necropoli dell'età del ferro. Il materiale delle tombe, tutte a inumazione, è conservato nel Deposito del Museo Archeologico e nella Biblioteca Melchiorre Delfico.

                              La necropoli di Ponte Messato-La Cona era la più importante ed estesa tra le necropoli disposte nell'anello più esterno intorno all'antica città di Teramo (Intermamna Praetuttiorum).
                              Questa venne usata e ampliata nel periodo romano, ai lati dell'antica strada lastricata della Via Cecilia, una via romana contornata di monumenti, che staccandosi dalla Salaria al 35º miglio da Roma raggiungeva la costa adriatica, presso Castrum Novum (Giulianova).

                              Detta anche "la via sacra d'Interamnia" una Via Appia antica in piccolo, venne scoperta per caso nel 1961, durante i lavori per la costruzione di un garage per pullmans e, secondo alcune testimonianze, gli operai "rompevano le enormi urne cinerarie nella speranza di trovarvi monete d'oro..." (sig!)

                              Per fortuna intervenne Adriano La Regina, allora Funzionario Archeologico per la Soprintendenza alle Antichità per l'Abruzzo e il Molise, che reperì sedici mausolei fine del I sec. a.c. e l'inizio del I sec. d.c. Per una estensione di 1000 m², furono rinvenute sepolture dall'età del Ferro all'età imperiale romana. 

                              NECROPOLI DELLA CONA
                              Numerosi sepolcri sono stati scoperti in varie epoche lungo le strade che uscivano dalla città. La più importante è avvenuta casualmente nel 1961, quando, in località Ponte Messato, apparvero numerosi basamenti di sepolcri monumentali, con nucleo in cementizio e rivestimento in blocchi di travertino.

                              Tra il 1982 e il 1985, vennero alla luce un altro tratto di strada romana glareata (battuto di ciottoli e ghiaia) di età romana e una necropoli romana con tombe monumentali a pianta quadrata e circolare con urne cinerarie all'interno.

                              Iniziata contemporaneamente allo sviluppo della città, intorno alla seconda metà del I sec. d.c. ed utilizzata fino al IV sec, la necropoli di Interamnia costituisce in provincia un esempio unico. I monumenti sepolcrali sono ispirati all’architettura ellenistica e romana con diverse tipologie.

                              Gli edifici sono allineati lungo la strade e si alternano per diverso ceto sociale, individuabile dal corredo funerario più o meno ricco. Accanto alle tombe ad inumazione si trovano spesso olle cinerarie disposte in buche scavate nel terreno e prive di recinzioni.

                              In alcune tombe sono stati rinvenuti appliques figurate d'osso, parti di letti funerari bruciati nel rogo assieme al cadavere. La necropoli era iniziata in età tardorepubblicana, dopo la fondazione della colonia, e proseguita per gran parte del I sec. d.c.. Tra le tombe più grandi e più antiche, la più notevole è quella di Sextus Histimennius, di cui è stata recuperata anche la statua marmorea, purtroppo acefala, e poi rubata, insieme ad altro materiale archeologico, da un magazzino del Comune.

                              Dal 1997 al 2014 gli scavi portano alla realizzazione del Parco della necropoli monumentale di età giulio-claudia sulla "Via Sacra" e la scoperta di un grande tempio romano-repubblicano, sul modello etrusco-laziale, della grandezza di m 21,0 per 31,0. La strada romana, l'Interamnium Vorsus, una diramazione della Via Cecilia che conduceva nella Sabina raccordandosi con la Via Salaria, fino a Roma.

                              Nel 2000 venne alla luce anche un tempio di età ellenistico-romana e una ulteriore parte della necropoli dell'età del Ferro. La zona doveva essere stata terrazzata per seppellirvi i defunti tra il X sec. e il VI sec. a.c..

                              BEDUTA AEREA DI TEATRO ED ANFITEATRO


                              LA CITTA' ROMANA

                              La sovrapposizione della città medievale e moderna a quella antica, e la scarsità dei reperti, rendono difficile la ricostruzione dell'antico impianto urbano, che doveva essere costituito da una parte orientale più antica, si dice che i più antichi abitanti fossero fenici, corrispondente al sito del municipio, e una occidentale corrispondente alla colonia sillana che qui fu dedotta dopo la prima guerra civile.

                              Proprio nella zona occidentale si trovano i principali edifici pubblici conservati: il teatro e l'anfiteatro.
                              Nel 410 d.c.. (anno del sacco di Roma) i Visigoti invasero la zona del Picenum e Interamnia fu praticamente rasa al suolo.



                              IL TEATRO

                              Il teatro romano di Teramo si trova nel centro della città e, caso eccezionale, a pochi metri dall'Anfiteatro romano. Scavi realizzati all'inizio del secolo e ripresi di recente hanno liberato gran parte delle strutture del teatro, il monumento meglio conservato della Teramo romana.


                              Fino ad oggi è stato possibile riportare alla luce solo il tratto orientale del palcoscenico in quanto la zona circostante è edificata. Dal 2007 sono in corso i lavori per la demolizione di Palazzo Adamoli sito sopra l'area del teatro che porteranno alla luce un'ulteriore porzione del monumento simbolo della città di Teramo.

                              Il teatro può essere considerato il più conservato degli altri teatri del Piceno anche se nel periodo medioevale fu utilizzato, come si soleva fare in quell'epoca di degrado culturale, come cava di materiale lapideo per la costruzione di edifici vicini, in particolare il Duomo di Teramo.

                              Sgattoni, ispettore onorario ai monumenti e le antichità, inviò una lettera al giornale  "Il Messaggero", edizione Abruzzo, 10 settembre 1969, per protestare contro le "ragioni superiori" che avevano sacrificato le bellezze del Teramano alle esigenze della "società dei consumi", impedito di riordinare il museo civico, di aprire un museo d'arte sacra e rovinato il Teatro romano.
                              La lettera era intitolata: " I monumenti scompaiono", lettera poi ripubblicata in Fare cultura in Provincia. Testimonianza di Pasquale Limoncelli, Teramo, Casa della Cultura Carlo Levi, 1980.

                              VENERE INTERAMNIA
                              Il teatro si trova a circa tre metri sotto il livello stradale ed ha una cavea del diametro di ben 78 m, e poteva ospitare sulle gradinate circa tremila spettatori.

                              L'alzato dei palcoscenico è decorato con nicchie alternate semicircolari e rettangolari, e la muratura interna era realizzata in tufo e mattoni, il perimetro era costituito da 20 arcate, due delle quali ancora visibili.

                              Sono anche visibili ben 24 pilastri della praecinctio a due ordini di arcate, 20 dei 22 muri radiali di sostegno e un vomitorio con resti di scale collegate al secondo ordine di gradinate che davano l’accesso al teatro.
                              Inoltre sono visibili 14 gradini che facevano parte di una delle gradinate dirette all'uscita degli spettatori. Il pulpitum, l'alzato del palcoscenico, è decorato con nicchie di pianta rettangolare e semicircolare, ma una sola è visibile. Si vedono infine, tratti della pavimentazione di uno degli ingressi laterali per gli spettatori.

                              Il frontescena con due grandi nicchie rettangolari aveva due porte che consentivano agli attori di entrare in scena. Statue decorative dovevano collocarsi nelle nicchie.

                              Le parti del frontescena furono rinvenuti nel 1918 grazie agli scavi voluti dallo storico e archeologo Francesco Savini. Questi fu Fu presidente della Commissione provinciale per la tutela dei monumenti fin dal 1908, si interessò di tutti gli scavi nella Provincia di Teramo tra la fine dell’800 e la fine degli anni Trenta.

                              TEATRO
                              Studiò soprattutto il Teatro e l’Anfiteatro romani che identificò correttamente visto che in precedenza, erano stati scambiati l’uno per l’altro.

                              Studiò la “Domus” romana rinvenuta proprio sotto il suo palazzo e riportò alla luce il “Mosaico del leone” una delle immagini più rappresentative dell’Abruzzo e di Teramo in particolare.

                              L'impianto della cavea, invece, era costruito in travertino e poggiava su venti arcate, due delle quali ben conservate, alle quali corrispondevano altrettanti fornici radiali destinati a sostenere le gradinate. La ricchezza delle decorazioni e il tipo di costruzione datano il complesso intorno al 30 a.c.

                              ANFITEATRO

                              ANFITEATRO 

                              A ovest del teatro sorgeva l'anfiteatro, i cui resti in laterizio si possono vedere lungo via San Berardo, sulla fiancata sinistra della cattedrale e incorporati nelle mura del cortile dell'attuale liceo artistico.

                              La pianta aveva forma ellittica con un perimetro di 208 m, con l'asse maggiore di 74 m e l'asse minore di 56 m., in verità dimensioni un po' scarse per cui si pensa che l'anfiteatro utilizzasse in parte le pendici di una vicina collina. Il piano antico è situato a 6 m di profondità rispetto all'attuale manto stradale.

                              Nel perimetro murario si aprivano diversi accessi come quello ad arco sull'asse minore, e quello con tre archi affiancati lungo l'asse maggiore. Una serie di passaggi secondari conducevano alle gradinate destinate al pubblico, della cui struttura non rimane nulla. La parte più visibile dei restanti muri perimetrali in laterizio sono riconoscibili in via San Berardo e nell'area a sinistra della Cattedrale.
                              L'elegante decorazione della scena, gli accorgimenti edilizi e architettonici, hanno fatto datare la costruzione ai primi decenni dell'età augustea (30-20 a.c.), quando la romanizzazione delle città riguardava anche e soprattutto lo stile snello e insieme monumentale degli edifici romani. Tutto l'impero brillava di pietre e di marmi.

                              La facciata esterna era costituita a due piani sovrapposti, dei quali si conserva gran parte di quello inferiore, costituito da arcate su pilastri in opus quadratum. L’anello murario esterno, alto 12 metri circa, era a cortina in opera laterizia (opus latericium) ed il muro perimetrale in opera a sacco. Le volte che sostenevano la cavea erano a botte e in opus caementicium, di veloce costruzione e di grande resistenza nel tempo.

                              ANFITEATRO
                              Della scena e dell'orchestra è stato scavato purtroppo solo il tratto orientale. Il pulpitum (cioè l'alzato del palcoscenico) è decorato con nicchie alternativamente di pianta rettangolare e semicircolare (una sola delle quali è visibile). Questa caratteristica lo ricollega molto all'epoca augustea che l'adottò in grande stile.

                              L'anfiteatro è decorato nella parte alta da decorazioni architettoniche a lesene.e da una serie di cornici con mensole e di frammenti di capitelli, oltre che dai resti di una grande iscrizione non decifrabile e una statua femminile in marmo, acefala. 

                              " 8 giugno 1583 - Dal verbale della visita pastorale di mons. Giulio Ricci, vescovo e principe di Teramo, alla Cattedrale di Teramo si legge che il Vescovo (intuendo il valore del monumento sottostante) ordinò di rimuovere la terra dal fianco del muro inumidito che emergeva negli orti nei pressi della Cattedrale.
                              Nel corso di quella ricognizione furono esaminati e descritti:
                              - la curva ellittica del muro esterno, (tornato alla luce per quasi la quarta parte);
                              - l'ingresso originario, rappresentato da un muro radiale al fianco sinistro del Duomo, prolungato verso l'interno dell'Anfiteatro per circa 10 m;
                              - un altro tratto di muro radiale riferibile alle strutture, interne all'edificio, di sostegno alle gradinate, con continuazione verso il centro dell'arena;
                              - l'altezza di me 12, della cortina muraria, considerata dal livello;
                              - tre archi laterizi, riferibili all'ingresso meridionale;
                              - i resti della praecintio esterna con paramento laterizio;
                              - vari diaframmi radiali in coordinazione con il muraglione ellittico del giro esterno dell'edificio;
                              - una sostruzione per le gradinate disposte tutt'intorno alla cavità del grande monumento;
                              - frammenti romani grezzi;
                              - una mano femminile destra di marmo greco che stringe qualcosa di indefinibile.
                               "

                              - Nel medioevo l'anfiteatro e il teatro vennero utilizzati come cava di materiale per la costruzione di vari edifici come il Duomo edificato nel XII sec. sull'area nord-occidentale dell'anfiteatro stesso. Nella parete destra esterna del Duomo e in alcune parti interne, si possono osservare le pietre scolpite asportate dall'anfiteatro.

                              - Fino al 1926 i resti dell'anfiteatro furono confusi con quelli dell'adiacente teatro romano perché su entrambi erano state edificate varie costruzioni.

                              ISCRIZIONE DANNUNZIANA DEL TEATRO
                              - Nel 1937 furono eseguiti scavi per meglio identificarne i resti che divennero ancor più visibili e chiari nel loro impianto nord-sud con il successivo abbattimento degli edifici addossati lungo la muratura perimetrale del monumento.

                              - Nel 1939 il ministro dell'Educazione Nazionale (della Cultura) Giuseppe Bottai si recò a Teramo per un sopralluogo al Teatro e alle prime emergenze dell'Anfiteatro, prendendo la decisione di finanziare il recupero di entrambi i reperti romani. 

                              - Nel 1942 su rinviene nel teatro un bella statua femminile acefala, che dovrebbe rappresentare Venere.

                              - La demolizione fu interrotta a causa della II Guerra Mondiale e i finanziamenti andarono perduti. 

                              - Nel 1944 il podestà Giovanni Lucangeli avviò la demolizione degli edifici sorti su parte del Teatro romano. Nel corso dei lavori si arrivò a distinguere il Teatro romano dal limitrofo Anfiteatro di cui parlavano il vescovo Ricci e Friedelander.

                              - Nel 1979, l'anello esterno, unica parte conservata, è stato liberato dai resti degli edifici moderni che lo coprivano. E' emerso così un muro in laterizi, ad anelli via più stretti verso l'alto, sull'ultimo dei quali aggettano delle lesene. 

                              Si pensa che l'anfiteatro sia stato usato come struttura difensiva o almeno come via segreta di fuga perché nel suo sottosuolo sono stati rinvenuti cunicoli che collegavano soprattutto le chiese tra loro, come il cunicolo reso visibile sotto il pavimento del Duomo di Teramo nel corso degli ultimi restauri, che prosegue sotto piazza Martiri della Libertà o quello presso la chiesa della Madonna delle Grazie.

                              Attualmente sopra l'anfiteatro è sito il grosso edificio dell'ex Seminario, la cui costruzione nel XVIII sec. causò l'irreparabile perdita delle strutture interne.

                              DOMUS DEL LEONE

                              DOMUS DEL LEONE

                              I resti della Domus del leone, abitazione di età repubblicana arricchita da pavimenti a mosaico apparvero nel 1891, durante i lavori di ristrutturazione della casa Savini in Corso Cerulli.

                              Dall'ingresso si accedeva ad un grande atrio rettangolare (9,90 x 6,85 m.) con impluvio tetrastilo (a 4 colonne), pavimentato con mattoncini posti a spina di pesce. L'atrio ha un pavimento a mosaico, con lastrine di pietre colorate disposte irregolarmente.

                              Dall'atrio si accedeva al tablino, attraverso una soglia costituita da un mosaico policromo con la rappresentazione di un meandro prospettico. Il tablino è pavimentato con un ricco mosaico a cassettoni, decorati internamente da vari motivi.

                              MOSAICO DEL LEONE
                              Il centro del pavimento è occupato da uno splendido quadretto (emblema) con un leone in lotta contro un serpente e tutt'intorno un motivo con quattro ghirlande. il leone é universalmente riconosciuto come uno degli esempi più alti dell'arte del mosaico. 

                              Lo stile e la tecnica dei mosaici datano la domus intorno alla metà del I sec. d.c..Il lavoro del leone, di gusto ellenistico, è stato probabilmente realizzato in bottega e poi incastonato nel pavimento della villa.


                              Un cortile con porticato (peristilio) era accessibile al centro della domus, probabilmente ornato da statue, piante, oscillum e decorazioni architettoniche

                              Di questa importante dimora sono stati 'ricostruiti' l'atrio con il pavimento in mosaico, il tablino, che è l'ambiente più importante di una casa romana, e l'ingresso, che però è stato ricoperto
                              Le dimensioni eccezionali dell'atrio, la bellezza delle decorazioni e la posizione della casa vicina al foro lasciano pensare alla dimora di un membro dell'aristocrazia locale, forse uno dei primi magistrati della colonia sillana.



                              SANT'ANNA 

                              Sulla piazza attigua a via dell'Antica cattedrale si affaccia la chiesa di Sant'Anna (un tempo Sancta Maria Interamniensis, poi S. Getulio), Sorta in età bizantina su un tempio romano, fu ricostruita nel sec.XII e poi bruciata dai Normanni nel 1155.

                              Restano della chiesa arcate romaniche in mattoni ed il presbiterio ricco di resti romani; sempre dell’età romana si conservano tratti di pavimentazione musiva di epoca repubblicana e materiali architettonici come colonne con capitello corinzio.del VI sec. d.c. che sorge su di una residenza (domus) privata romana, i cui ruderi si vedono ancora sotto lastre di vetro.

                              Dallo scavo archeologico più recente, condotto dalla Soprintendenza per i Beni Archeologici dell'Abruzzo, si evidenziano le vestigia di una chiesa paleocristiana i cui lati sud ed ovest poggiavano su fondamenta di epoca romana. L'intero edificio risulta alloggiato nell'impianto di una precedente insula romana, dove insisteva anche la domus.

                              Dall'analisi della muratura si evidenzia il copioso utilizzo di mattoni che recano nel bollo la lettera "S", laterizi uguali ad altri posti in opera in strutture romane della seconda metà del I sec. d.c..



                              TORRE BRUCIATA

                              TORRE BRUCIATA
                              Accanto all'antica cattedrale si erge un bastione romano, in opera quadrata, del II sec. a.c. denominato appunto "Torre Bruciata".

                              Il corpo della costruzione si sviluppa da una base quadrata ed è alto circa 10 m, con mura spesse 1,30 m e larghe 8 m.

                              Questa possente torre venne eretta nel II secolo a.c. utilizzando grandi blocchi di travertino ben squadrati.



                              TERME

                              In Largo Madonna delle Grazie vi sono i resti di una struttura termale, che sembrano appartenere alla fase di espansione del municipio romano in questa zona della città.



                              I MUSEI

                              Il materiale archeologico è conservato in parte al Museo Archeologico di Chieti, in parte presso il Museo Archeologico Comunale. Nel Deposito archeologico comunale sono riuniti i reperti provenienti dalle tombe dell'età del Ferro, gli elementi architettonici del teatro, vari ritratti e un gruppo di lastre architettoniche di terracotta con rappresentazioni di scene di commedia. Il materiale epigrafico è in gran parte raccolto nell'atrio del Palazzo Comunale.

                              Nel Museo Civico è conservata una piccola ma pregevole raccolta di oggetti antichi; tra questi una serie di ritratti, un gruppo di lastre fittili con rappresentazione di scene teatrali, il cippo di S. Omero con iscrizione sudpicena; nel Municipio una collezione di iscrizioni latine. Proviene inoltre da Teramo un busto fittile di personaggio virile del I sec. a.c., conservato a Roma nel Museo Nazionale Romano.

                              Viewing all 2265 articles
                              Browse latest View live




                              Latest Images