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PORTA FERENTINA (Roma Quadrata)

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La Porta Ferentina era una porta della Roma Quadrata che dava anche un accesso al Tevere, menzionata da Plutarco, quando Romolo, in seguito ad una grave pestilenza che aveva colpito la città di Roma, procedette alla sua purificazione con sacrifici espiatori, che si celebrarono presso questa porta, che conduceva alla selva ferentina ai piedi dei Colli Albani.

"Nella strada che sale dalla valle della Ferratella e sale alla piazza della Navicella, e che dicesi Via delle Mole, conduce alla Porta che, essendo nella direzione del celebre luco di Ferentino presso la città di Marino, dove i latini adunavano la loro dieta, ebbe perciò il nome di Porta Ferentina, e viene nominata da Plutarco nella Vita di Romolo c.XXIV, dicendo che quel fondatore purificò con lustrazioni la città, e che quelle cerimonie dicevansi essere le stesse di quelle che, ai suoi dì, facevansi alla Porta Ferentina."

(Antonio Nibby - Roma 1838)

ROMA QUADRATA
"Sempre più sarà certo che la Porta Ferentina dovesse rimanere presso la Via Latina nel Celio e nel recinto di Servio, perchè al tempo di Plutarco non esisteva ancora la porta Latina delle mura aureliane, da cui sortire per quella via.
Ma l'unica discesa dall'alto del recinto di Servio sul Celio venga verso la via Latine; si è quella della Navicella, come già dissi, scende lungo la villa e vigna Mattei, fino alla Ferratella (già Porta Metronia delle mura aureliane), dalla qual porta, come nota S. Gregorio, ancora dal suo tempo, si poteva passare nella via Latina.
Perciò qualora si fissi la Porta Ferentina presso l'angolo orientale della Villa Mattei, sul principio dell'accennata discesa nell'alto, sarà questo il luogo più conveniente e proprio della Porta Ferentina.

Ponendo poi mente al costume dei Romani, già da me altra volta accennato, di aver essi varie porte della città destinate e denominate da qualche funzione publica o sagra solita praticarsi in vicinanza di esse, allora si troverà naturalissimo che la porta chiamata da Festo Piacolare perchè presso di essa si facevano alcune espiazioni Piacularis Romae appellatur propter aliqua piacula quae ibidem fiebant fosse accanto immediatamente alla Ferentina presso la quale sono indicate da Plutarco le espiazioni istituite da Romolo: la Piacolare come porta destinata e conducente al solo oggetto Espiatorio e la Ferentina come porta di uso pubblicò e generale.

E siccome uno de riti principali anzi essenziale delle antiche espiazioni consisteva nelle abluzioni in acque correnti di fonti o di fiumi così la nostra acqua Crabra detta in oggi la Marrana che appunto nel sito della Ferratella entra in Roma e si approssima più che altrove al Celio ed al recinto di Servio fu per tale rito opportunissima sebbene non si voglia allora in sì gran copia.

E riflettendo che il Celio fu cominciato ad abitare da come narra Dionisio e che Romolo fu l istitutore tali espiazioni come dice Plutarco si troverà naturale che Tullo Ostilio quando chiuse di mura questo monte vi un transito per l'accesso all'espiazioni già istituite e poi Servio o Tarquinio il Superbo nell'accrescere le sue relazioni cosi formasse in quelle mura la porta Ferentina che desse comodo accesso alla via Latina e facilitasse le comunicazioni con quei Popoli.  

Il volume delle mura di Roma pone la porta Pacolare la via di S Susanna e la Vittoria per la sola ragione, come si esprime, di non saperla mettere altrove e confondendo i sagrifizj coll'espiazioni, non reca ragione alcuna per cui debbansi fare diverse espiazioni alla porta Piacolare da quelle che Plutarco dice da Romolo e conservate fino al suo tempo alla porta quae adhuc etiam Ferentinam ad portam observari tradunt e forma così due porte Espiatorie in siti di senza bisogno. 

Ed ecco come dalla porta Esquilina proseguendo a destra Orientale del recinto di Servio su i confini delle regioni III e II poi lungo la costa meridionale del Celio si contavano 4 porte la Querquetulana, cioè la Caelimontana. la Ferentina e la Piaclaris, porte che ancora esse furono molti moderni attribuite e supposte nelle mura Aureliane di ogni possibilità poichè di tutte se ne trova negli antichi scrittori quali sono Varrone, Cicerone, Plinio, Plutarco e Festo. anteriori tutti alla fondazione mura Aureliane.

(Stefano Piale - Delle Porte Meridionali di Roma) 

SELVA DI FERENTO

LA SELVA FERENTINA (oggi Parco Colonna)

"Famosa è nell antica istoria la selva che dalla dea Ferentina cui era consacrata toglieva nome di ferentina e dove i popoli del Lazio confederati radunavano le loro assemblee per discutere gli affari più importanti allo stato. Fu in essa che decretarono di non sottomettersi a Tullo Ostilio di contrastare alle conquiste di Tarquinio Prisco e di poi muover guerra ai Romani per ristabilire in trono gli stessi Tarquini.
 In essa si consultarono pure intorno allo assedio di Fidene come altresì di dare la famosa battaglia presso il lago Regillo. Le quali diete si convocavano sotto la protezione di Giove Laziale e con quali cerimonie tu conosci abbastanza ed io ti ricordai nella mia intorno al Monte Cavi. Ora questa tanto celebrata selva ferentina vorresti tu vedere.

Lasciando a tergo Marino dalla parte che mette sulla via di Castel Gandolfo, una ma assai forte discesa ti conduce a destra ad una chiesuola e quindi ad un pubblico lavatoio a piedi del paese che sulla costa monte declinando alquanto si prolunga assai, che nei dipinti del Francesco Knebel prestava, non è gran tempo, uno dei più importanti soggetti di costui.

A sinistra finita la discesa medesima una fontana e qui presso un cancello che nel parco dei Colonna, il quale si dilunga verso oriente, ameno quanto mai a dire, tutto ombrato da alberi. irrigato da un ruscelletto che scaturisce in mezzo da dentro la convalle stessa e che il guardiano del parco di cui io ho fatta ricerca, mi additò fra quegli alberi e cespugli intrigatissimi.

Ora questo parco è la Selva Ferentina e questo ruscelletto è nientemeno che il Caput aquae ferentinae nel quale per i maneggi di Tarquinio il Superbo, fu precipitato deputato ariccino Turno Erdonio, coperto con un graticcio pieno di sassi, ingiustamente accusato di complotto contro la lega latina."

(Oreste Raggi - Sui Colli Albani e Tusculani)


CULTO DELLA DEA CIRCE

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Circe vive nell'isola di Eea ed è figlia di Elio e della ninfa Perseide (o Persa). Almeno questo è il mito che va per la maggiore. Elio, padre di Circe, è il Dio del Sole che in età tarda divenne sempre più seguito nella religione romana.

Così l'imperatore Giuliano nel suo Inno a Elio re:

« L’Uno sembra preesistente a tutte le cose, o come il Bene, per usare l’espressione favorita di Platone; questo principio unitario del tutto che è fonte primaria, per ogni essere esistente, di bellezza, di perfezione, di unità e di potenza irresistibile, in virtù della sua sostanza creatrice e permanente, ha originato da sé, quale mediatore, al centro delle cause mediatrici, intelligenti e demiurgiche, Helios, dio potentissimo, in tutto simile a sé »

(Giuliano imperatore Inno a Helios)

STATUA DI CIRCE PROVENIENTE DALLA
VILLA DI TIBERIO
Perseide, madre di Circe, è una delle Dee delle acque ed è pure un' oceanina.
Suo padre è Oceano, un antichissimo Dio, cioè un titano figlio di Urano e di Gea, e sua madre è Teti, una Titanide figlia anch'essa di Urano e di Gea, per cui Perseide è sorella e moglie di Oceano.

Le Oceanine erano potenti Dee delle acque e dei mari, personificavano le acque correnti, ossia ogni corrente marina o grande fiume.
Dunque un Dio Sole che è Fuoco e una Madre Oceanina che è Acqua: i due opposti si incontrano e generano una figlia solare.

Ritenuta Figlia di Helios e Persa (o Perseide) per la maggior parte delle fonti, invece di Aiete ed Hecate solo per Diodoro.
Comunque è imparentata con Medea ed implicata nella vicenda degli Argonauti, la Dea però è nota soprattutto per l’episodio omerico dell’incontro con Odisseo,

Ella abita sull’isola di Eèa, luogo selvaggio e favoloso, ove dimora l’Aurora e nasce il Sole, sulla cui localizzazione in Oriente o in Occidente la tradizione letteraria è controversa. Virgilio la ricorda intenta a tessere tele, ammaliatrice attraverso i suoi canti.

Ma dietro l’ospitalità che offre ai viaggiatori cela l’insidia; benevola verso animali e piante, malevola ingannatrice allorché tramuta in maiali i suoi ospiti, con una chiara allusione alla loro incontrollata bramosia sessuale. Insomma Circe è una maga seriale che trasforma gli uomini in animali.

In quanto all'isola di Eea, dove dimorava la Dea Circe, è stata identificata, fin dall'antichità, come testimonia Strabone, con l'attuale promontorio del Circeo. Anche Esiodo (VII sec. a.c.) sostiene che avesse qui la propria dimora.

IL PROMONTORIO DEL CIRCEO
In realtà il Circeo è un promontorio e in passato era una penisola; si pensa perciò che anticamente fosse circondato dal mare o collegato alla terra da una spiaggia.

Infatti esiste ancora una grotta intitolata alla Maga Circe, nonché le rovine del cosiddetto "Tempio di Circe (o di Venere)", dove fu rinvenuta una testa di una statua, attribuita alla maga.

In un libro dei primi novecento c'è l'immagine della testa gigantesca di una Dea che venne trovata ai piedi del promontorio del Circeo, caduta sembra dalla cima dello stesso promontorio dove la Dea aveva un suo tempio. Si è pensato alla statua di Circe, vista la vicinanza al tempio.

Ma il racconto non è questo, perchè fu sulla cima del promontorio, dove c'era la Villa 4 Venti, che nel 1928 un pastore scoprì per caso sul promontorio del Circeo una statua antica raffigurante una fanciulla, in realtà solo la testa di una fanciulla. E la testa stava sopra e non sotto il colle.

Poi il reperto sparì e più tardi venne recuperato da alcuni privati che l’avevano acquistato, illegalmente, e attualmente è conservato al Museo Nazionale Romano di Roma.

Si tratta di un reperto presumibilmente di età imperiale. Non fu difficile comprendere che si trattasse della Dea Circe perchè portava in capo una corona raggiata, per intenderci una fascia di bronzo dorato da cui si dipartivano in orizzontale dei lunghi raggi della forma di triangoli molto stretti e appuntiti.

Oggi però si parla solo di fori che dovevano sostenere la corona radiata, che tuttavia non era pertinente solo alla figlia del Sole, ma alla stessa Venere. Però a noi non risulta che Venere portasse una corona radiata, un diadema si, ma senza raggi.

IL CIRCEO

Ed ecco dall'articolo del SOLE 24 ORE

Tempio di Circe tra le «erbe»
di Cinzia Dal Maso
03 luglio 2016

- La Villa dei Quattro Venti: è una costruzione romana a terrazze digradanti, a pochi passi dal centro di San Felice Circeo e in posizione dominante il mare. Una meraviglia. Un luogo veramente spettacolare che si diceva aver ospitato il triumviro Marco Emilio Lepido in esilio.


CIRCE CON LITUUS, DIADEMA E GIOIELLI
Peccato però che quella struttura a terrazze digradanti sia tipica di molti santuari ellenistici, e che proprio nel Lazio ve ne siano parecchi, costruiti o ristrutturati tra la fine del II e l'inizio del I sec. a.c. Come i santuari di Palestrina o Terracina, per citare i più famosi.

Ma allora quella “villa” del Circeo, non potrebbe essere anch’essa un santuario? Il dubbio serpeggiava tra molti, ma la certezza è giunta nel 2011 quando, durante un’operazione di pulizia dell’area, è stata scoperta un’iscrizione votiva di un certo Calpurnio Lucio.

Se fosse giunto fino a noi anche il nome della divinità a cui si rivolge, saremmo stati a cavallo. Ma così non è. Però nel frattempo c’è stato chi ha ripreso le indagini archeologiche alla “villa” e altrove nel Parco del Circeo, e un’idea ora ce l’ha: è Diego Ronchi, archeologo dell’Università di Tor Vergata.

Gli indizi da lui raccolti suggeriscono che la “villa” sia il «santuario di Circe» di cui parla Strabone. Circe la maga di Ulisse, la signora del Circeo, luogo “ricco di erbe” a lei utili.

Finora si diceva che la dimora della maga fosse posto sul picco occidentale del promontorio, dove nel 1928 è stata rinvenuta una testa femminile in marmo oggi conservata al Museo nazionale romano, e identificata con Circe.

Però Ronchi, che indaga il Circeo dal 2008, ha saputo gettare nuova luce sulle vicende e i monumenti del promontorio, compreso il cosiddetto ritratto di Circe.

Col georadar ha individuato sotto la “villa” strutture finora ignote che ne hanno chiarito la funzione sacrale già prima della scoperta dell’iscrizione.

I rilievi e le ricostruzioni 3D gli hanno consentito di analizzare la struttura e le tecniche costruttive di molti edifici del promontorio.

Ma le indagini storiche lo hanno anche portato a precisare l’epoca in cui le genti del Lazio si sono impadronite dei miti greci: quell’inizio del IV sec. a.c. quando fu anche fondata la colonia latina di Circei (393 a.c.).

Il momento in cui il promontorio, che già i naviganti greci avevano identificato con l’isola della maga e il luogo dove Elpenore morì, e da Ulisse fu sepolto, divenne rilevante anche per i latini.

Non a caso Teofrasto prima, e Plinio il Vecchio poi, descrivono il sepolcro di Elpenore al Circeo circondato da piante di mirto «albero forestiero» (Plinio), ricordando le piante aromatiche, strumenti di magia, per cui il promontorio era famoso.

Quanto al ritratto di Circe, è stato identificato come tale per dei fori presenti sul capo e interpretati come incassi per una corona radiata che si addice alla figlia del Sole.

"Tuttavia", osserva Ronchi, "tra i molti ritratti a noi noti della maga, solo in due casi lei appare con i raggi in testa". E la statua del Circeo, copia romana di I sec. a.c. di un originale ellenistico, presenta molte analogie con diversi ritratti di Venere, rappresentata molto spesso con un diadema: i fori della statua del Circeo sono perfetti per fissare un diadema di Venere.

Inutile ricordare come la pianta sacra alla dea dell'amore sia proprio il mirto, e se si aggiunge l’'iscrizione in cui il Circeo è definito “Promontorium Veneris, il gioco è fatto: quello sulla cima del promontorio è santuario di Venere dove probabilmente aveva luogo un culto connesso con la diffusione del mirto in Italia. E grazie a un’altra iscrizione, Ronchi identifica anche chi ha introdotto il culto di Venere al Circeo: i coloni giunti in loco grazie al padre di Cesare nell’89-88 a.c.

Il più antico santuario di Circe ha dominio del porto, e quello più recente di Venere è sulla cima del monte. Però Ronchi avverte: solo una nuova stagione di scavi ai Quattro Venti e nel Circeo tutto, potrà forse trasformare le attuali ipotesi, per quanto calzanti, in vere certezze. -

TESTA DI CIRCE

I DUBBI

Ora nel libro "Santuari del Lazio" del 1932, un archeologo inglese, tale Thomas Ashby, rivela di un ritrovamento della gigantesca testa di una statua femminile, munita di una corona solare come Helios e ingioiellata. Ora Circe è appunto figlia di Helios, per cui a buon ragione indosserebbe la corona solare, e i gioielli le darebbero un aspetto afrodisiaco, cioè magico e seducente, e anche questo la fa coincidere con Circe. 


Nel libro però non si parla di buchi della corona solare, ma di resti bronzei della corona solare. 

Vero è però che la Dea porta una collana di perle, che è il gioiello specifico di Venere.

E' possibile che i romani, che poco amavano la magia, abbiano teso ad assemblare le due Dee in una, a scapito della insidiosa Circe. 

Però c'è un rebus, il validissimo archeologo Thomas Ashby nella copertina del suo libro riporta il disegno della testa ritrovata, ha la stessa pettinatura di quella del museo ma è alta quasi un metro, almeno a detta dell'autore ed ha al collo una collana di perle. 

Ma c'è di più, in località Villa 4 Venti, la sommità del Circeo che secondo alcuni sarebbe l'antico santuario, si è rinvenuta una parte di testa, di grandi dimensioni. Da quale statua proviene? Forse dalla stessa di cui Thomas Ashby ha visto l'enorme testa della Dea? Viene da chiedersi se parliamo della stessa statua.

Ma viene anche da chiedersi quanto durò il culto della Dea-Maga Circe. Premessa doverosa: la maggior parte delle Dee antiche erano maghe, religione e magia si identificavano. Poi le nuove religioni, più patriarcali, negarono la magia e stabilirono in loro vece ampli cerimoniali. 



LA POTNIA THERON

Circe è attorniata da leoni e lupi, resi mansueti dalla sua magia; una vera Potnia Therôn, la Signora delle Belve. L'etimologia di Circe, da kiv rko"“sparviero”, nella religione egizia uccello sacro al Sole, e Circe è figlia del Sole, ricorda alcune divinità orientali raffigurate come Dee nude, sumere o fenicie, accompagnate da rapaci e attorniate da animali selvatici, ma riporta pure alle antiche e numerose rappresentazioni di divinità con ali da sparviero.

REPERTO STATUA DI CIRCE
L'avventura di Ulisse ha messo in evidenza la Dea ma come divinità minore, mentre nei miti orientali la Dea Madre di Dei e creature è basilare per l'eroe amante mortale che grazie a lei ottiene il suo successo e la sua evoluzione.

Circe è analoga alla Inanna-Išthar vicino-orientale che tramuta in bestie i suoi amanti, provocando così il rifiuto di Gìlgamesh alle sue profferte amorose. Infatti Hermes invita Odisseo a non rifiutare il letto della Dea per recuperare ai suoi compagni la forma umana ed ottenere la sua benevolenza.

Il santuario di Circe sorge sul punto più alto del monte, come santuario celebre e dominante, che come Corinto ed Erice, dovrebbero risalire a un modello fenicio-cipriota, che si innalza sul mare, dando alla Dea un compito ulteriore di protezione sulla navigazione e sui traffici.

Circe è anche colei che insegna ad Odisseo la strada per l’Ade, su come attirare le anime dei morti per averne responsi e consigli, offrendo loro una bevanda fatta di formaggio, miele, farina d’orzo e vino, la stessa bevanda magica, il kukew'n , con la quale accoglie i suoi ospiti e li trasforma in bestie; non a caso la stessa bevanda è propria di Demetra e dei riti eleusini.

La Dea pertanto, come tutte le antiche Dee Madri, aveva un aspetto ctonio e infero, nonchè magico responsivo, è la Dea che procura gli oracoli e che fornisce bevande un po' allucinogene, che fa uscire fuori la vera natura degli uomini. Le antiche sacerdotesse non erano esenti da bevande o sostanze inebrianti, che fosse vino, o foglie di alloro masticate, o papavero da oppio ecc.

Trattavasi di una divinità in grado di esercitare un forte dominio sulla natura, sugli animali e sugli uomini, dotata anche di una capacità lussuriosa e produttiva, è la natura provvida che fa partorire donne e animali, e fa crescere le piante.

Una epigrafe conservata a tutt'oggi ricorda che nel 213 d.c., sotto Caracalla, ci fu un restauro dell’altare di Circe. Se all'epoca di Caracalla c'era ancora l'ara di Circe significa che nel II sec. d.c. la Dea era  ricordata e venerata. Anzi risulta dall'iscrizione che l'imperatore Caracalla, con il consenso dei sacerdoti addetti al culto, ordinò il restauro dell'ara dedicata al culto di Circe Sanctissimae, dandone l'incarco a Servio Calpurnio Domizio Destro,  console suffetto nel 204 e console ordinario nel 225.

VILLA DEI 4 VENTI

LA DESCRIZIONE

L'opera antica, realizzata in accurata opera incerta, sorge su due terrazze sostruite, orientate nord/nord-ovest – sud/sud-est: una inferiore, con la forma  di un trapezio rettangolo, e un’altra, sopra di questa, di forma rettangolare. La sostruzione della prima terrazza parte del pendio che degrada verso la costa dal pianoro su cui sorge il centro storico di S. Felice, con la realizzazione di un sistema sostruttivo costituito da una fascia di cellette con 13 ambienti interrati sul lato lungo nord-est e  10 su quello corto sud-est, cui va aggiunto un modulo posto all’angolo.

VILLA 4 VENTI
I setti murari sono alti m 5,20: quello esterno era largo alla base m 1,77  e quello interno, oggi invisibile, doveva essere pressocchè uguale.
L’accesso alla struttura doveva provenire dall’abitato di Circeii attraverso una via sacra che si arrampicava sul colle  Sul lato sud della terrazza superiore, spostata verso l’interno, si trovano la scalinata e poi il corridoio, che connette la terrazza superiore con la prima terrazza.

La superficie ottenuta attraverso la sostruzione del pendio è occupata da due strutture: da un ulteriore terrazzamento e dai resti di un ninfeo, tra i quali si apriva un giardino. Il ninfeo di forma quadrata con un lato di m 6,30 ha, inscritto nel quadrato, un ambiente circolare di m 5,20 di diametro, sul quale si aprivano quattro nicchie semicircolari.

L’unico ambiente non interrato è  posto all’interno del lato lungo nord-est, a forma circolare con diametro di m 1,80 e altezza di m 1,54. Nonostante le sue modeste dimensioni, per tutelarlo, fu approntato un sistema a blocchi in opera quadrata. Forse l'ambiente conteneva tutte le attrezzature sacerdotali per le feste e i sacrifici di culto.

RESTI DEL SANTUARIO DI CIRCE

IL SANTUARIO

Il santuario di Circe si affaccia sul mare, a 541 metri slm, guardando nella direzione in cui muore il sole; un sole dunque sotterraneo, relativo al suo nascere e morire. Gli antichi lo chiamavano "il Sole di mezzanotte", allusivo alla luce che vince le tenebre, fuori e dentro di noi. Non a caso Mitra nasce a mezzanotte del solstizio di inverno, il giorno più buio dell'anno, e il Cristo ne segue l'iter.

Ma il promontorio era chiamato Promontorium Veneris, per quell'assimilazione tra Venere e Circe, ambedue non sposate ma con molti amanti, prolifiche come la natura. Infatti i grandi santuari di Afrodite riferibili al medesimo modello fenicio sorgono in corrispondenza di grandi porti, in relazione al mare:
- Corinto, con il tempio di Afrodite Urania sull’Acropoli, ma anche con il tempio di Afrodite presso il porto di Kenkreai e quello di Afrodite Melainìs presso il bosco detto Kraneion;
- Erice, con lo spettacolare Aphrodision sulla vetta del monte;
- Citera, che ospitava un tempio di Afrodite Urania definito da Pausania come il più venerabile e il più antico di tutta la Grecia.

I santuari più importanti del Lazio arcaico erano:
- quello di Giove Laziale su Monte Cavo,
- quello di Diana nel bosco di Ariccia,
- quello della Fortuna Primigenia a Preneste
- e quello di Circe sul promontorio del Circeo.

Strabone ci elenca i culti di età romana al Circeo; tra il I sec. a.c. e il I sec. d.c., tre sono i luoghi di culto importanti :

1) un santuario di Circe;
2) un altare di Atena;
3) un luogo, non meglio identificato, dove si mostra una tazza appartenuta a Odisseo.

Il culto di Elpenore, analogamente a quelli di Lavinio con la saga troiana, fa parte di quel fenomeno di IV sec. a.c. in cui le città latine accolgono come loro miti di origine elementi di culture straniere, come le greche e le troiane.

Il luogo di culto di Elpenore deve far parte di questo ambito.

A supporto dell’identificazione del sepolcro di Elpenore con il cosiddetto santuario di Circe sulla vetta non ci sono prove ma solo congetture,

Però più tardi, quando sotto Augusto si rafforzarono gli antichi miti della fondazione di Roma e il loro risalire fino ad Enea, questo luogo può essere stato oggetto di culto anche in tal senso.

Inoltre l’iscrizione rinvenuta alla base del colle dove era scritto CIL X, 6430
“ad promonturium Veneris”
richiama pure il culto di Cesare e di Ottaviano, ovvero della gens Iulia nei riguardi di Venere considerata la progenitrice della Gens Iulia.

Diciamo che Ottaviano aveva ottime ragioni di piazzate la Dea Genitrix in ogni dove, per cui, non potendo spodestare la Dea Circe. dato che egli era rispettosissimo verso gli antichi Dei, fece affiancare, come presumo, le due Dee nel medesimo tempio, cioè sul Monte Circeo.


LA CONSERVAZIONE DELLE MEMORIE ANTICHE SEMPRE DELUDENTE

Purtroppo oggi c'è una scarsa sensibilità verso l'archeologia e l'arte. La recente installazione delle reti di contenimento per evitare le frane, ha coperto l’iscrizione di età imperiale della moderna via del Faro.
Questa ricalca l’antica strada verso Valle Caduta e Vasca Moresca, all’altezza della Valle del Demonio, nel punto dove la parete rocciosa va a picco sul mare.

Scolpita nella viva roccia, tra la metà e la fine del I secolo a.c., l'epigrafe incorniciata da un timpano ricordava il «promontorio di Venere»

«Ad promuntur(ium) Veneris public(um) Circeiens(ium) usq(ue) ad marem a termino... LXXX long(itudo) ped(um) p(lus) m(inus) DCCXXV».

L’attuale tracciato di via del Faro, fu progettato durante gli anni ’50, ma prima ancora, durante la bonifica, erano state apportate delle modifiche che hanno falsato e compromesso la prospettiva dell’iscrizione che in precedenza doveva trovarsi ad altezza d’uomo.

Sicuramente le feste Circee dovevano raccogliere molti paesi vicini, con processioni, fiaccolate e canti che si svolgevano snodandosi per tutto il colle. Si ipotizza, come in varie e numerose altre zone, che qui si svolgesse la prostituzione sacra, come era abitudine nel culto delle Dee della natura e quindi fertilità.

Le erbe che Circe offriva agli uomini per inebriarli facilmente venivano offerte alle coppie della ierodulia, e forse, per tornare lucidi, si usava poi il moly, un'erba dalla radice nera e dal fiore color latte, ben conosciuta al tempo dei romani, che è l'antidoto che Hermes dà a Ulisse contro il filtro della maga. probabilmente il filtro che occorreva per entrare nella dimensione del sacro e quello per tornare alla dimensione del profano.


VERULAMIUM (Inghilterra)

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AFFRESCO MURALE

Posta anticamente sulla strada tra Londinium (Londra) ed Eboracum (York), Verulamium, oggi detta pure Old Verulam (Vecchia Verulam), fu la città principale dei Cautieuclanis (detti pure Catuvellauni ) e la probabile residenza di Cassivelaune. L'attuale abbazia fu costruita con le pietre della Vecchia Verulam.



L'INSEDIAMENTO PREROMANO

L'insediamento risulta in epoca pre-romana di Tasciovano, un principe celtico o re, conosciuto attraverso le sue monete. Probabilmente è stato il capo della Catuvellauni. Anticamente il suo nome era Verlamion, nome che i romani si erano accontentati di latinizzare. Il nome significava "i l posto sopra la palude", perchè in effetti il luogo era paludoso, e furono poi i romani a bonificarlo.

Nelle sue monete troviamo la nota VIR, il che significa che sono state coniate a Verulamium, evidentemente la capitale del suo regno. In Verulamium sé ma è venuto finora nessuno delle sue monete in giorno.

LE MURA ESTERNE

L'INSEDIAMENTO ROMANO

Verulamium si trova a sud-ovest della città attuale di St Albans in Hertfordshire. Di essa sono stati esplorati solo otto ettari degli ottantuno compresi entro l'ultima cinta muraria, quella in pietra del 265-270 d.c.
L'insediamento romano era situato sul Watling Street, già occupato a suo tempo da Giulio Cesare, ricevette nel 50 d.c. il rango di municipium, che dava ai residenti gli stessi diritti civili dei romani. Successivamente, l'insediamento crebbe divenendo una grande città.

Secondo le fonti romane, nel 61 d.c..durante la rivolta di Boudicca con le tribù celtiche degli Iceni e dei Trinovanti, la città venne da questi saccheggiata e distrutta. Questa distruzione risulterebbe anche archeologicamente per lo strato di cenere che la ricopre. Sia nel 155 che intorno all'anno 250, la città è stata distrutta da un incendio e poi per lo più ricostruita in pietra.

Nei primi anni del III secolo la città aveva una pianta a scacchiera, con le mura, un profondo fossato, un forum, una basilica, un teatro, le terme e diversi templi, per circa 50 ettari. Nel III e IV secoli, inoltre, erano state costruite molte ville di campagna, le ville rustiche, con peristili, mosaici e ipocausti, molto diverse dalle precedenti ville per lo più piccoli edifici residenziali in legno e pietra. Tra il 450 e il 500 è conclusa l'occupazione romana e la città decadde.

Nel Medioevo, infine, i resti emersi a nord-est, probabilmente del cimitero, furono legati alla tradizione del martirio di S. Albano del 314, a cui venne consacrata la cattedrale di St Albans, la cui creazione derivò dalla spoliazione delle rovine romane usate come una cava, tanto che oggi solo una parte delle mura della città, un ipocausto e il teatro sono ancora visibili.

Nella zona circostante sono diverse ville, come la Villa Rustica in Gorhambury dove i cittadini benestanti della città hanno vissuto e fornito la città con i loro prodotti agricoli.

MOSAICO DEL DIO OCEANO

IL FORUM

Il Forum è stato il centro dello schema a scacchiera della città ed è stato con le sue dimensioni di m 161 x 117 il secondo forum in ordine di grandezza per la Gran Bretagna. Secondo una iscrizione del governatore Gneo Giulio Agricola il teatro venne iniziato nel 79 d.c. ma si concluse solo in età flavia.

Il suo aspetto esatto non è chiaro, nonostante i numerosi scavi. Quello che è certo è che il forum venne ricostruito più volte, anche se è difficile separare le fasi.

Il lato nord-est del fabbricato consisteva in una serie di spazi aperti presumibilmente verso l'esterno, che vennero probabilmente utilizzati come negozi. Dietro c'era una seconda serie di camere, che probabilmente si aprivano all'interno del forum.

Segue la grande basilica, oltre al Forum vero e proprio, una grande piazza di m 62 x 94, i cui ingressi erano situati sul lato sud-est e il lato nord-ovest. Nel sud-ovest ci sono altri tre edifici di cui uno era la Curia.

Sotto al foro del 79 vi sono strutture in muratura che possono indicare l'esistenza, in questa zona, di edifici pubblici pre-flavi, forse di un foro più antico.



IL MACELLUM

A nord ovest del Foro sorgeva il Macellum, costituito da due file di negozi. Al centro c'era un cortile con una fontana che portava l'acqua dal vicino fiume. 
Nei pressi del macellum sono state rinvenute molte ossa di animali, i ricercatori hanno concluso che, così come per altri Macella, questo vendeva anche carne di animali.



LE TERME

Finora, sono stati scavati nel sito di Verulamium i resti di tre terme. Nella XIX Insula sono stati trovati negli scavi una parte dell'edificio e resti di colonne e affreschi di alta qualità.Secondo i risultati, era un edificio pubblico ed è stato utilizzato fino alla fine del secolo.

Anche durante gli scavi sul dell'insula III sono stati trovati resti di edifici, che probabilmente appartenevano ad un bagno termale, che è stato costruito alla fine del primo secolo e distrutto nel grande incendio del 150. Tuttavia, solo tre camere del palazzo sono stati scavati, uno dei quali aveva un ipocausto. A causa della struttura dell'edificio e il numero di oggetti trovati WC, è abbastanza certo che fossero un bagno pubblico.

Altri grandi terme sono state trovate durante gli scavi nord-est della città romana accanto a un grande recinto templare, è per questo che potrebbe essere stato utilizzato principalmente per scopi rituali. Un complesso extraurbano di ambienti termali, costruito verso la metà del II sec., è stato invece scavato a Branch Road, 275 m oltre la porta di nord est.

IL TEATRO

IL TEATRO

Nonostante le imposizioni dei vincitori, le tribù britanne si integrarono pian piano con i cittadini romani presenti nell’isola e i loro costumi, alcuni dei quali molto gradevoli, come la passione per i giochi gladiatori, a cui seguì la costruzione del grande numero di anfiteatri della provincia.

 Il teatro di Verulamium è uno dei pochi edifici che si possono ancora vedere oggi. L'edificio, che si compone di una sala e un'area semicircolare destinata all'orchestra ha un diametro di 24,3 m. Era di tipo romano gallico ed è stato inserito in parte nel terreno.
E 'stato ricostruito più volte e ha ricevuto un boccascena con un ordine corinzio. Con molta probabilità il teatro era collegato con il quartiere vicino al tempio, in modo che in teatro si potessero celebrare anche eventi religiosi.



I TEMPLI

La città aveva numerosi templi. Nel forum probabilmente erano due templi tipo classico. Altri templi della città appartengono al tipo di tempio gallo-romano ma solo due templi sono stati scavati. Degli altri templi abbiamo solo individuato la base attraverso le fotografie aeree.

Nell' Insula XVI, accanto al teatro e al forum, c'era un grande edificio eretto alla fine del I sec. a.c., che l'intera insula aveva successivamente occupato. Questo era circondato da mura e situato a nord del teatro, con cui era in contatto. Nel centro del quartiere c'era il vero tempio con una cella centrale, un maneggio e due estensioni allungate non ancora identificate.

Nel sud della città, esattamente di fronte ad una delle porte della città, è stato scavato un piccolo tempio, stranamente di forma triangolare, forse a causa del poco spazio che aveva a disposizione. che era stato eretto alla fine del I sec. a.c, successivamente occupato da una piccola insula.



LE CHIESE

Dal IV sec. d.c., il cristianesimo era la religione di stato nell'impero romano, tuttavia non sono stati rinvenuti oggetti con simboli cristiani, almeno fino ad oggi, in Verulanum. Una prova scritta dell'esistenza di una chiesa nella città la offre il monastero anglosassone benedettino, attraverso il teologo e storico Beda. Dov'era la chiesa non è chiaro. Tuttavia, in letteratura tre edifici sono discussi come potenziali chiese, ma nessuno l'edificio si è dimostrato essere stato una chiesa.

Uno degli edifici è nel quartiere del Tempio dell' Insula XVI, sin dal suo ingresso nord-ovest, che secondo ricostruzione, potrebbe essere stato una chiesa chiusa. Un edificio di 15,8 m di lunghezza e 12,5 m di larghezza dell' insula IX, o forse una basilica, è stato preso in considerazione per la pianta per una chiesa. Una prova di tale interpretazione tuttavia non esiste.

Nel 1966 di fuori della ex città, circondata da un terreno di sepoltura, di almeno 6 m di lunghezza e 3 m di larghezza c'era un edificio con abside che per la forma e la posizione si è supposta essere stata una chiesa cimiteriale, ma neanche qui vi è alcuna prova che se ne facesse un uso ecclesiastico.
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LE MURA

LE MURA

Dalla metà alla fine degli anni 40 d.c. sul sito sorgeva un forte con poderose mura. Il più antico sistema di difesa della città, un terrapieno con fossato che racchiudeva un'area di 47,6 ha, risale più o meno al 60 d.c. Però non si sa se esso risalga a prima o dopo il saccheggio della città da parte della regina Boudicca nel 61.

Un bastione in legno e terra iniziato nel tardo II sec., che racchiudeva un'area di 93,6 ha, non fu mai terminato; il muro di cinta in pietra, invece, che comprende un'area di 81,3 ha, appartiene al periodo che va dal 265 al 270 d.c.., anche se non tutta l'area interna alle mura era edificata. Di questa cinta restano notevoli tratti.



LE TOMBE

Una tomba del 50 d.c. venne scoperta nel 1991-92, posta entro un'area rituale di c.a 2 ha di estensione a Folly Lane, fuori della città romana, che sembra essere sepoltura di un membro dell'aristocrazia dei Catuvellauni, forse un «re cliente» insediatosi poco dopo la conquista romana.

Essa faceva parte di una necropoli del King Harry Lane, la più importante della tarda Età del Ferro, che ospitava ben 472 sepolture, a seguito di una lunga continuità di sepolture, tanto è varo che alcune tombe avevano un corredo di oggetti importati dal mondo romano, e sicuramente molte erano proprio della conquista romana.



IL MUSEO DI VERULANIUM 


Nel centro di St Albans, fondato da Mortimer e Tessa Wheeler nel 1930. c'è il museo Verulamium. Si spiega sia la storia del luogo nell'Età del Ferro, sia in epoca romana.

Inoltre, mostra gli importanti reperti archeologici, tra cui una delle migliori collezioni di pavimenti mosaici d'Inghilterra, tra cui la Conchiglia Mosaico a scagliola, la Venere di Verulamium, figurina in bronzo, e molti altri manufatti.

FONTANA ROMANA A VIA FLAMINIA

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LA FONTANA A DESTRA DETTA "IL BEVERATORE" A VILLA GIULIA
Tra il 1551 e il 1553 papa Giulio III si fece costruire la villa sulla via Flaminia, “fuori porta del Popolo”, oggi conosciuta appunto come villa Giulia, circondata da un parco con piante, statue e giochi d'acqua, tra cui un ninfeo alimentato da un condotto secondario dell'Acquedotto Vergine, fatto scavare appositamente per raggiungere la villa.

Il Vasari sostiene che Giulio III fu "il primo che disegnasse e facesse tutta l'invenzione della Vigna Julia", ma la realizzazione e la decorazione furono opera di un nutrito gruppo di artisti,

Nel 1552, alle spalle del ninfeo, e quindi all'esterno del perimetro della villa ed all'imbocco della strada di accesso, fece erigere, per uso pubblico dei viandanti che si recavano a Roma verso porta del Popolo, una fontana monumentale. La sua posizione era però alquanto strana, perché per coloro che percorrevano la via Flaminia verso Roma diventava visibile solo dopo averla superata. Ma l'inconveniente aveva una sua logica, in quanto si era dovuta usare la stessa condotta d'acqua per l' edificazione alle sue spalle del ninfeo.



L'architetto Bartolomeo Ammannati, dette notizia, in memoria del Papa, del fatto che l'acqua fosse stata portata direttamente “sul posto” dal Pontefice per la sua villa di campagna: ".. una bella fontana, nella quale condusse l'acqua la felicissima memoria di papa Giulio, senza avere mai avuto luce che in tal luogo vi si potesse trovare acqua. Ma avendo anticamente in pratica la sua villa, fece scavare profondamente e con diligenza, non perdonando a spesa, per fare questo ben pubblico, di dove è oggi il suo palazzo insino a questo principio di strada. E vedendo che questo suo desiderio riusciva, con ogni studio si deliberò fargli l'ornamento, che ora se gli è fatto…”. Infatti la fontana, come recitava l'iscrizione dell'epoca, era per “'’PVBLICAE COMMODITATI'’”

La fontana realizzata nel corso del Novecento, si avvale di una splendida vasca termale romana d'età classica, a cui sono stati aggiunti elementi pertinenti ad un abbeveratoio per animali cinquecentesco.
fatto erigere da papa Giulio III poco più a nord sulla via Flaminia, ove ora sorge la Fontana delle Tre Conche.

La fontana era costituita da un'antica vasca ovale di granito di origine termale, che si suppone facesse parte delle Terme di Diocleziano, che riceveva l'acqua da un sovrastante mascherone inserito in una conchiglia. 


Nel 1672, quando il cardinale Federico Borromeo divenne proprietario della villa suburbana, ripristinò il flusso idrico nella fontana-abbeveratoio, nel frattempo interrotto, e la fece inserire in un prospetto architettonico a due ordini: in quello superiore, sotto lo stemma, era collocata l'iscrizione ancora oggi visibile sia pure spostata di qualche metro rispetto alla posizione originaria. Inoltre aggiunse al mascherone una valva di conchiglia a raggiera in peperino. 

Nel 1750, passata la proprietà al marchese Giulio Sinibaldi, papa Benedetto XIV, Lambertini (1740-1758), in previsione del gran numero di pellegrini provenienti dal nord per l'anno giubilare, ordinò il restauro della fontana, ormai decaduta, e nel prospetto venne murata una iscrizione che ne ricordava il rinnovamento.

Verso la metà dell'800 essa fu trasferita sulla facciata di un fienile, nella stessa via Flaminia, noto per essere stato lo studio del fotografo Mariano Fortuny, sulla cui zona basamentale, decorata a bugne regolari, vennero ricavati due archi, uno per sistemarvi la fontana con l'iscrizione del Sinibaldi (per cui essa prese anche il nome di «Arcosolio di Benedetto XIV»), l'altro per costituire un elemento simmetrico al primo.

Nel 1877 la vasca termale venne rimossa e riutilizzata a Villa Borghese per far posto alla vasca della fontana del Babuino, temporaneamente smontata per la costruzione della rete fognaria di Campo Marzio.

Quando nel 1929 la Cassa del Notariato acquistò il terreno, il vecchio abbeveratoio venne sostituito da una nuova composizione, l’attuale Fontana delle Tre Conche; il mascherone e la conchiglia, ricongiunti all’antica vasca marmorea di epoca romana recuperata da Villa Borghese, vennero quindi rimontati sulla facciata dello Studio Fortuny, dove un tempo si trovava un abbeveratoio noto come Arcosolio di Benedetto XIV.

Nel 1965 la Cassa del Notariato fece restaurare il fienile e spostare la fontana abbeveratoio dell'Ammannati che l'architetto Spaccarelli sistemò lì accanto, isolata e addossata ad un muro di calcestruzzo ondulato. Fu solo dopo ulteriori lavori di risistemazione dell’edificio che la fontana venne nuovamente spostata per trovare la sua attuale collocazione in via Flaminia.



Stato di conservazione

La fontana è in mediocre stato di conservazione. La valva di conchiglia e il rilievo marmoreo, già consunti per l’erosione dei fenomeni atmosferici, mostrano un principio di decoesione, fessurazioni e spesse incrostazioni di calcare e alghe, ravvisabili anche sul bordo della vasca termale sottostante.

Il calcare ingloba particellato atmosferico e materiali inquinanti, assumendo l’inestetica colorazione grigio-nera. La vasca presenta numerosi punti di fuoriuscita dell’acqua, che denunciano l’alterazione, se non la completa mancanza, dello strato impermeabilizzante. Le vecchie stuccature sono deteriorate e non più funzionali.

L’area di rispetto e il bacino interrato, privi di strutture di recinzione o dissuasione, sono danneggiati dall’accumulo di rifiuti e dalla sosta non autorizzata di mezzi a due ruote.


DOMUS DI SANTA CECILIA

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LA SANTA

Cecilia, nata da famiglia patrizia a Roma, sposò il patrizio Valeriano, ma il giorno delle nozze cantava: “conserva o Signore immacolati il mio cuore e il mio corpo, affinché non resti confusa”. Da qui è diventata patrona dei musicisti.

Confidò allo sposo il suo voto, e quello che non aspettava altro si convertì al Cristianesimo e si fece battezzare quella notte stessa dal Pontefice Urbano I.

Non contento Valeriano pregò che anche il fratello Tiburzio ricevesse la stessa grazia e così fu.
Ora il giudice Almachio aveva proibito di seppellire i cadaveri dei Cristiani, ma i due fratelli convertiti giravano per seppellire tutti i corpi gettati per strada. 

La cosa non è verosimile, perchè Urbano I fu pontefice sotto Alessandro Severo (146 - 211) che fu favorevole a tutte le religioni compreso il Cristianesimo, per cui non vi furono persecuzioni.

Inoltre i Romani erano così igienisti che i cadaveri nemmeno li seppellivano ma li bruciavano nelle pire, e se si era poveri c'era l'ustrinum pubblico che valeva anche per gli schiavi ed era gratuito.

I fratelli vennero così arrestati ma convertirono l’ufficiale Massimo nel tempo che occorse per condurli in carcere, dove furono torturati e decapitati. 

Cecilia invece fu condannata a morte per soffocamento nel bagno di casa sua (ai vapori del calidarium, ma allora tutti i romani che ci andavano ogni giorno?..) ma si narra che "la Santa invece di morire cantava lodi al Signore". 

Convertita la pena per asfissia in morte per decapitazione, Papa Urbano I, sua guida spirituale, le rese degna sepoltura nelle catacombe di San Callisto.
La Legenda Aurea narra che papa Urbano I «seppellì il corpo di Cecilia tra quelli dei vescovi e consacrò la sua casa trasformandola in una chiesa, così come gli aveva chiesto -

BASILICA DI SANTA CECILIA IN TRASTEVERE

LA DOMUS

Sotto la chiesa di S. Cecilia c'è in effetti un importante complesso di edifici romani, parti del primo edificio di culto e un battistero. La domus più antica risale al II secolo a.c., accanto alla via Campana-Portuense, con pareti in opera quadrata e in reticolato.

Vi si individua un atrio delimitato da colonne di tufo e altri ambienti con pavimenti a mosaico geometrico e a cocciopesto, ancora in gran parte conservati nei sotterranei della chiesa.

Annesso alla casa, ma successivamente costruito, c'è un magazzino con otto grandi vasche cilindriche inserite nel pavimento, con un rivestimento interno a cortina e fondo in opera spicata.

Evidentemente per derrate alimentari.

Nel II secolo d.c., nell’area occupata dalla domus, fu costruita un'insula che utilizzò in parte le strutture dell’edificio precedente.
Ne restano una scala che conduceva ai piani superiori, parte del cortile centrale e una sala absidata pavimentata a mosaico. Il locale della foto qua sopra richiamerebbe invece una cucina romana.


All’interno del cortile dell’insula vi è un larario con bassorilievo della Dea Minerva, che un po' contraddice la fede dei due sposi cristiani.

LARARIO
Fra il III e il IV sec. d.c., sul lato nord dell’edificio furono costruite le terme, su cui si impiantò la leggenda per cui s. Cecilia fosse stata condannata a morire soffocata dai vapori di un calidario, un tipo di condanna piuttosto fantasiosa perchè di vapori dell'acqua non si muore.

Senza contare che Cecilia visse nel II sec. d.c. per cui le terme all'epoca non esistevano.

Nel corso del V sec., il complesso divenne sede della comunità cristiana del posto (titulus Caeciliae), che costruì un battistero, utilizzando una vasca delle terme, i cui resti sono stati rinvenuti all’interno dell’aula a nord del cortile.

L’ambiente era servito da una conduttura di piombo, conservata per m 2,80, su cui è un’iscrizione con i titoli di S. Cecilia e S. Crisogono, evidentemente collegati amministrativamente.

Nell'area visitabile sono visibili pezzetti di mosaici, le colonne, gli ambienti destinati alla vita quotidiana, e i sarcofagi contenenti il corpo della santa e di altri cristiani martirizzati. 

Non lasciatevi ingannare dalla bella cripta bizantina perfettamente conservata... è del 1900.



PIGNORA CIVITATIS

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TEMPIO DI VESTA

IL SIGNIFICATO

Le Pignora Civitas romane erano gli oggetti di culto tramandati dalla notte dei tempi che i romani conservarono gelosamente nei loro templi perchè erano il pegno degli Dei che garantivano attraverso questi la protezione della città eterna. Finchè i Pignora Civitas restavano a Roma la città non poteva cadere, e, per ironia del destino, così fu. I Pignora Civitatis furono custoditi nel Tempio di Vesta dalle sue sacerdotesse, le vestali, le uniche che avessero il diritto di vedere e custodire gli oggetti sacri, diritto non accordato nemmeno al Pontifex Maximus.


Quali furono questi Pignora?

1) Il Palladio
2) I Lari e i Penati di Enea
3) La Dea Nera
4) Le reliquie di Tanaquil
5) La corona di Alessandro Magno



IL PALLADIO - I MITO

Il Palladio era una statua di legno, senza gambe, alta tre cubiti, che ritraeva Pallade, l'amica libica di Atena, reggente una lancia nella mano destra e una rocca e un fuso nella sinistra; il suo petto era coperto dall'egida.

Atena, uccidendo per sbaglio la compagna di giochi, come segno di lutto assunse ella stessa il nome di Pallade e fece costruire questa immagine, ponendola sull'Olimpo a fianco del trono di Zeus.

PALLADIO
Un altro Pallade generò i cinquanta Pallantidi, nemici di Teseo, che pare fossero sacerdotesse guerriere di Atena.
Platone identificò Atena patrona di Atene con la Dea libica Neith, ed Erodoto ci dice che le sacerdotesse vergini di questa annualmente si impegnavano in un combattimento per disputarsi il titolo di "Gran Sacerdotessa" della Dea. Originariamente Neith fu la Dea della caccia e della guerra, artefice delle armi dei guerrieri e guardiana dei morti in battaglia.

Il suo simbolo era un telaio, cosicché divenne Dea della tessitura, delle arti domestiche, protettrice delle donne e guardiana del matrimonio.

Ma come Dea della guerra fu anche associata alla morte, avvolgendo i morti con le bende nella imbalsamazione. Nel tempo, fu considerata la personificazione delle acque primordiali della creazione, nella Ogdoade, e quindi madre di Ra. Come Dea delle acque fu anche considerata madre di Sobek e raffigurata mentre allatta un piccolo coccodrillo. In tempi più recenti, la Dea della guerra e della morte fu identificata con Nefti, e quindi considerata moglie di Seth.

Nell'iconografia, Neith appare come una donna con una spola di telaio sulla testa, con in mano un arco e delle frecce. Viene anche rappresentata come una donna con la testa di leonessa, di serpente o di mucca.
Una grande festa, chiamata la Festa delle Lampade, si teneva ogni anno in suo onore. Dal racconto di Erodoto sappiamo che i devoti della dea durante la celebrazione notturna accendevano centinaia di luci all’aria aperta.
Platone nel Timeo afferma che i cittadini di Sais la accomunavano alla Dea greca Atena.



IL PALLADIO - II MITO

All'inizio, dopo che un oracolo disse a Dardano di non fondare una città sulla collina Ate, dove invece lui avrebbe voluto, poiché se no sarebbe stata una città disgraziata, Troia venne costruita alle pendici del monte Ida, chiamandosi Dardania.
Dardano, uno dei re di questa prima città, venne a sapere da un oracolo che, finché la dote di sua moglie fosse rimasta sotto la protezione di Atena, la città che stava per fondare sarebbe stata invincibile. Dardano aveva diversi figli, tra cui Ilo che aveva vinto la gara di lotta ai giochi in Frigia; il Re Frigio gli diede anche una mucca pezzata e gli consigliò di fondare una città là dove la mucca si fosse stesa.
Così fece: la mucca si stese a dormire sulla collina di Ate e là, Ilo fondò la sua Ilio.

Tracciato il solco che segnava i confini della città, Ilo pregò Zeus perché gli desse un segno e il mattino dopo trovò davanti alla tenda un oggetto di legno, per metà sepolto nella terra e coperto di erbacce.
Questo oggetto era il Palladio, un simulacro senza gambe alto tre cubiti, fatto da Atena in memoria della sua compagna di giochi libica Pallade.

Pallade (nome che poi Atena aggiunse al suo) reggeva una lancia nella mano destra e una rocca e un fuso nella sinistra. Il suo petto era coperto dall'egida. Atena pose prima il simulacro sull'Olimpo, accanto al trono di Zeus, dove gli furono tributati grandi onori; ma quando la bisnonna di Ilo, la Pleiade Elettra, fu violata da Zeus e insozzò il simulacro con il suo tocco, Atena scaraventò lei e il simulacro sulla terra. Apollo, allora, consigliò ad Ilo di aver cura della Dea caduta dal cielo così la città sarebbe stata protetta, poiché la forza e il potere, disse, accompagnavano sempre la Dea ovunque. Ilo obbedì all'oracolo ed innalzò sulla cittadella un tempio che ospitasse il simulacro.



IL PALLADIO - III MITO

Nel tempo dei tempi re Teucro regnava sulla troade, in Asia Minore. A lui un giorno si presentò un giovane avventuriero di nome Dardano, che veniva dalla Samotracia in cerca di una terra su cui regnare. Teucro l'accolse benignamente e gli diede per moglie sua figlia Batea. Dalle loro nozze nacque un figlio, Erittonio, padre di Troo, il quale si sposò ed ebbe tre figli: Assàraco, Ilo e Ganimede. 

Ganimede fu rapito da Zeus e divenne coppiere degli Dei; Ilo succedette al padre sul trono e, non più soddisfatto della vecchia capitale Dardania, volle costruirsene una nuova e, per scegliere il luogo dove costruirla, interrogò l'oracolo. 

Questo gli rispose di seguire una mucca bianca, pezzata di scuro, che se ne stava allora pascolando in pianura; e dove si fosse fermata doveva fondare la città.

Ilo seguì la mucca appena si mosse dal pascolo: la bestia si fermò su una collinetta da cui si dominava tutta la pianura sino al mare. Qui fece costruire la sua città che chiamò Troia, dal nome di suo padre. Zeus, per dimostrargli il suo compiacimento, gli mandò una statua di legno, la statua di Pallade Atena che fu chiamata poi il Palladio, con questo privilegio: la città non avrebbe potuto mai essere conquistata finchè avesse avuto la statua dentro le sue mura. 

Ilo aveva tanta fede nella promessa di Zeus, che non volle nemmeno cingere di mura la città, persuaso che il Palladio bastasse a difenderla.



IL PALLADIO A TROIA

Ilo aveva chiesto un segno a Zeus, mentre marcava i confini della città, e lo ottenne. Apollo Sminteo consigliò a Ilo:
« Abbi cura della dea che cadde dal cielo e avrai così cura della tua città, poiché la forza e il potere accompagnano la dea, dovunque essa vada»

- Alcuni dicono che il tempio di Atena fosse già in costruzione, quando l'immagine cadde dal cielo.
- Altri dicono ancora che fu Elettra stessa a donare il Palladio a Dardano.
- Si dice che, nell'occorrenza di un incendio, Ilo si tuffò tra le fiamme per recuperare il Palladio, ma Atena, infuriata che un mortale si avvicinasse incauto al suo simulacro, accecò Ilo. Questi, tuttavia, riuscì a placare la dea e riottenne la vista.

Secondo la leggenda, durante la guerra di Troia, gli achei seppero da Eleno, figlio di Priamo, che la città non sarebbe stata conquistata fin tanto che il Palladio si trovasse in città.

Ulisse e Diomede si travestirono da mendicanti ed entrarono nella città, presero l'immagine della dea e, scavalcando le mura, la portarono nel loro accampamento: questa avventura viene menzionata come una delle cause della sconfitta troiana.



IL PALLADIO AD ATENE

Si racconta inoltre che Crise portò con sé, nel viaggio dalla Grecia a Troia, i suoi idoli e numi tutelari, tra i quali il Palladio. Ma i miti principali non fanno di Crise la sposa di Dardano.

Ma Pallade Atena era anche patrona della città di Atene. Gli ateniesi raccontavano che Pallante, un eroe che volle ambire al trono di Atene, ebbe una figlia, tale Crise, che sposò Dardano, considerato il capostipite dei troiani.

Ma era solo una propaganda politica: in tal modo si faceva di Troia e dello stretto dei Dardanelli proprietà achea.

Questo comunque descrive come le due città avevano un culto comune: ad Atene i figli di Pallante eran detti Pallantidi ed erano cinquanta, così come cinquanta erano i figli di Priamo.

Ciò potrebbe significare che in entrambe le città esistevano dei collegi di cinquanta sacerdoti che officiavano il culto alla dea Atena.

Ma questa conclusione ci convince poco perchè non c'è mito in cui non ci siano cinquanta figli, a cominciare da quelli di Priamo.



IL PALLADIO A ROMA

Durante il regno dell'imperatore Eliogabalo (218-222), che era il gran sacerdote della divinità solare siriana El-Gabal, il Palladio venne portato coi più importanti oggetti sacri della Religione romana nel tempio di questa divinità a Roma, l'Elagabalium, in modo che solo questo Dio venisse adorato.

Secondo Virgilio, invece, Ulisse e Diomede non rubarono il vero Palladio, poiché Enea portò con sé la statua in Italia, che venne più tardi trasferita nel tempio di Vesta nel foro romano. 

Su alcune monete dell'epoca di Cesare, Enea viene rappresentato con il padre Anchise sulle spalle e il Palladio nella mano destra.

Durante il tardo impero una tradizione bizantina affermava che il Palladio venne trasferito da Roma a Costantinopoli da Costantino I e seppellito sotto la Colonna di Costantino.

Strano perchè il Palladio agli occhi dei cristiani era un orrendo demone pagano. Però sappiamo pure che Costantino era per metà cristiano e metà pagano, dispensando onori e riti non solo a Cristo, ma pure a Mitra e ad altri Dei pagani..

IL FUOCO SACRO DI VESTA

IL FUOCO DI VESTA

All’interno della pedana del tempio di Vesta a Roma, si apriva un vano a forma trapezoidale che rappresentava il penus Vestae. Ad esso era possibile accedere soltanto attraversando la nicchia e le sacerdotesse Vestali erano le uniche dotate del permesso di raggiungerlo.

Nel primo giorno dell'anno, una fiaccola accesa al tempio di Vesta portava il fuoco di ogni casa. L'accesso al tempio era vietato agli uomini, con l'eccezione dei Pontifex Maximus, a cui però era interdetto l'accesso al sancta santorum (penus Vestae) che aveva la funzione di conservare i "pignora civitatis", alcuni oggetti sacri legati a Roma e “pegno” delle fortune dell'Urbe, non visibili neppure all'imperatore, tranne appunto il Fuoco Sacro di Vesta che egli poteva controllare aldisopra della
Gran Sacerdotessa.



LARI E PENATI DI ENEA

Per i Penati della famiglia di Enea esisteva a Roma un culto pubblico, in quanto identificati come Penati di Roma, per il fatto che Roma veniva fatta ricondurre alla stirpe eneade. Per queste divinità esisteva un tempio sul Palatino, dove venivano rappresentati come due giovani seduti.
Gneo Nevio Bellum Poenicum I

"Poiché gli uccelli scorse Anchise nel ciclo,
sull'ara dei Penati si dispongono in ordine gli oggetti sacri;
immolava una vittima bella coperta d'oro
."

I Penati pubblici erano a tutela della vita dello stato, venerati prima nel tempio di Vesta, la Dea delle origini, sintesi del culto di tutti i focolari privati, poi sulla Velia in un tempio proprio, restaurato da Augusto, dove, come narra Dionisio di Alicarnasso, erano raffigurati come due giovani seduti e armati di lancia. Questo tempio è certamente quello raffigurato nel rilievo di Enea nell'Ara Pacis.

La leggenda delle origini troiane del popolo romano fece risalire i Penati di Roma e di alcune città latine agli dei tutelari di Troia, per cui Enea portò con sé i Penati (Virgilio, Eneide libro II), che gli indicarono la via verso l'Italia, e ai quali egli istituì pubblico culto in Lavinio. 

Secondo la leggenda quando Ascanio, fondata Alba Longa, vi trasferì da Lavinio i Penati, questi per ben due volte abbandonarono la nuova sede e ritornarono nottetempo a Lavinio. 

Perciò il culto dei Penati di Lavinio storica offuscò quello di Alba, la città madre della confederazione latina, da cui, dopo la distruzione, i Penati sarebbero stati trasportati in Roma.
I Penati erano raffigurati come due guerrieri seduti, lancia in pugno, in origine contenuti in giare che restarono a lungo a Lavinio. Venivano a volte identificati con i Dioscuri e i Cabiri.

Il culto degli antichi Penati, unitamente a quello dei Lari, già nei riti di Roma arcaica, erano un punto di riferimento che dava continuità e protezione alla familia di appartenenza. Essi rappresentano la continuità del tempo nello spazio, le generazioni che si susseguono nella casa degli avi, insomma la continuità della vita che si perpetua con vita e morte, in un'unica energia che i popoli più antichi riconoscevano istintivamente, ma che nel tempo, a causa del distacco progressivo tra istinto e mente,
si perde via via fino a sparire.



LA DEA NERA

Durante la Seconda Guerra Punica, nel 205 a.c., i Libri Sibillini consultati nell'estremo pericolo, consigliarono ai Romani di cercare e recuperare a Pessinunte la pietra nera della Madre degli Dei.

Ed ecco come ci descrive la storia Marcus Iulius Perusianus:
- Il sacerdote consultò il destino nelle parole del carme Euboico, e questo sarebbe stato interpretato:
"La Madre è assente: ti impongo, o Romano, di cercare la Madre; quando arriverà, dovrà essere ricevuta da mano casta"

I padri si smarriscono nelle ambiguità dell'oscuro oracolo, quale sia il genitore assente, in che luogo debba essere richiesta. Si consulta l'oracolo di Delfi, che risponde:
"Andate a cercare la Madre degli Dei, la si troverà nei gioghi del monte Ida. Si inviano dei notabili. In quel tempo regnava sulla Frigia Re Attalo, il quale rifiuta la richiesta ai nobili Italiani".

Canterò un fatto straordinario: la terra tremò con lungo boato, e così parlò la Dea dai suoi ambienti:
"Io stessa ho voluto essere cercata, che non ci sia indugio; spediscimi che lo voglio: Roma è luogo degno per ogni Dio."

Attalo tremando di terrore alla voce disse:
"Parti, sarai comunque nostra: Roma discende da antenati frigi."

Subito innumerevoli scuri tagliano quei tronchi di pino che aveva adoperato il pio Frigio (Enea) in fuga. Mille mani si uniscono, e la nave concava dipinta con colori a fuoco riceve la Madre degli Dei. Quella viene trasportata in piena sicurezza attraverso le acque del suo figlio (Nettuno), e raggiunge il lungo canale della sorella di Frisso, oltrepassa il tempestoso capo Reteo e le spiagge Sigee, e quindi Tenedo e l'antica potenza di Eezione. Lasciata Lesbo alle spalle raggiungono le Cicladi, e quei guadi di Caristo dove si infrange l'onda; oltrepassa anche il mare Icario, dove Icaro perse le ali cadute e lasciò il suo nome alle vaste acque. Poi a sinistra Creta, a destra le onde del Peloponneso, e si dirige verso Citera sacra a Venere.
Quindi il mare trinacrio, dove Bronte, Sterope e Acmonide usano immergere il ferro incandescente, e le equoree distese di Africa, e vede dalla parte dei remi di sinistra i regni della Sardegna, e raggiunge l'Ausonia.

Aveva toccato la foce (Ostia) dove il Tevere si disperde nell'alto mare e scorre in uno spazio più libero: tutti i cavalieri e i seri senatori mischiati insieme alla plebe le vanno incontro alla foce del fiume toscano. Procedono accanto le madri, le figlie e le nuore, e le vergini che tutelano i sacri fuochi. Gli uomini affaticano le attive braccia con il tiro alla fune: la nave avanza a stento nella corrente contraria. La terra era secca da tempo, l'erba era bruciata dalla sete: la nave resiste incagliata nel guado fangoso.

Ognuno partecipa allo sforzo, e si affatica quanto può, e aiuta le mani forti con le grida: la nave sta ferma in mezzo all'acqua come se fosse un'isola. Sbalorditi di fronte al fenomeno gli uomini si fermano e si impauriscono. Claudia Quinta discendeva dalla stirpe dell'antico Clauso (e il suo aspetto non era da meno in quanto a nobiltà), virtuosa essa passava per non esserlo: voci ingiuste, accuse infondate, avevano attaccato la sua reputazione, il suo abbigliamento, l'eleganza delle sue acconciature le avevano fatto torto e, secondo i vecchi severi, la sua lingua era troppo pronta.

Consapevole della propria rettitudine se la rise delle menzogne che si dicevano in giro, e tuttavia noi altri siamo gente facile a credere nel male. Come quella si avanza dal gruppo delle caste matrone, e raccoglie con le mani l'acqua pura del fiume, e per tre volte si bagna il capo, tre volte alza le mani al cielo (tutti quelli che guardano pensano che sia impazzita), e inginocchiata fissa il volto nell'immagine della Dea, e sciolti i capelli dice queste parole:
"Alma e feconda Madre degli Dei, accogli la preghiera di questa tua supplice in una condizione sicura. Si nega che io sia casta: se tu mi condanni, affermerò che l'ho meritato; pagherò con la morte la colpa, per giudizio divino; se invece la colpa è assente, tu darai con un gesto la prova della mia purezza, e casta, tu seguirai mani caste!"

Ciò detto, ella senza grande sforzo tira la corda; dirò una cosa che fa stupire, eppure attestata anche in teatro: la Dea si avvia, segue la donna che la guida e, seguendola, la giustifica. Un clamore che esprime la gioia sale fino agli astri. Arrivano alla curva del fiume (che gli antichi chiamano Atrio del Tevere), da dove il fiume gira a sinistra. Arriva la notte: legano la fune a un tronco di quercia, e abbandonano i corpi sazi di cibo a un sonno leggero.
Arriva il giorno: sciolgono la fune dal tronco di quercia, dopo tuttavia aver posto davanti bracieri di incenso, ornarono prima la nave di ghirlande, e immolarono una giovenca che non aveva mai né lavorato né montato. Esiste un luogo dove lo scorrevole Almone confluisce nel Tevere e il fiume minore perde il nome nel fiume maggiore. Là un sacerdote canuto con la veste purpurea lava la Signora e gli arnesi sacri nell'acqua dell'Almone.
Il corteo urla, il flauto suona furiosamente, e mani effeminate percuotono i tamburi di pelle di toro. Claudia, celebrata dalla folla, precede con il volto lieto, alla fine e con fatica creduta casta per la testimonianza della Dea: la quale seduta sul carro è trasportata attraverso Porta Capena: i buoi aggiogati sono cosparsi di fiori appena colti. -

L'effigie della Dea era in effetti una pietra nera senza forma (aniconica), probabilmente un meteorite di una certa grandezza disceso dal cielo. Si dice che la pietra fosse infine riposta del tempio delle Vestali dove erano custodite tutte le "Pignora Civitatis"



LE RELIQUIE DI TANAQUIL

Plinio racconta che nel tempio di Sanco si conservasse ancora la conocchia e nel tempio della Dea Fortuna il manto da lei intessuto per Servio Tullio. Nel tempio di Semo Sancus invece venivano conservati ;
- il suo fuso,
- la sua conocchia, - la sua cintura delle erbe
- le sue pantofole,
- la statua in bronzo di Caia Cecilia (Tanaquil).

TANAQUIL
Gli oggetti addosso a questa statua si credettero avessero poteri di guarigione. Le erbe erano il suo aspetto guaritivo, il fuso e la conocchia la capacità di tessere e filare, le pantofole erano in realtà le scarpe etrusche, una specie di babbucce con la punta rivolta all'insù che le Etrusche indossavano con grande raffinatezza. Queste scarpe erano in effetti o di cuoio morbido dipinto e ricamato o di velluto trapunto con piume, perle, pietre preziose e nastri lucidi. Un paio di scarpe regali potevano che valere cifre altissime.

Inoltre, Caia Cecilia sarebbe stata collegata al Dio del fiume Tevere, Tiberinus e con l'isola nel mezzo del fiume, forse con un piccolo santuario insieme a Tiberinus, in cui si faceva una offerta e una festa l'otto dicembre.

Tanaquil era dunque associata con i Lari, il focolare e la profezia che da sempre appartiene alla Madre Terra, tanto è vero che Giove per oracolare dovette ingoiare la Dea Temi, appunto Dea oracolare, che da quel momento in poi emise oracoli nientemeno che dalla pancia di Giove.

I suoi collegamenti con Acca Larentia (la Madre dei Lari) e i Lari stessi la collegano alla natura e al lato infero, cioè agli spiriti dei morti. Spesso le grandi personalità vengono divinizzate, così accadde probabilmente a Ercole, a Romolo, e pure a Cesare, perchè la gente crea i suoi idoli e i suoi eroi. Ma quando l'eroe è un'eroina il culto è molto forte, perchè al potere divino si associa la comprensione e la compassione che è pertinente soprattutto al mondo femminile.



CORONA DI ALESSANDRO MAGNO

Alcuni autori medievali ritengono di aver trovato su scritti d'epoca la citazione di questa reliquia conservata tra le "Pignora Civitas" romane, vale a dire la corona d'oro di Alessandro Magno. In realtà molti autori sostengono che i pignora riguardassero solo le reliquie che Enea aveva portato con sè da Troia, visto che i romani ci tenevano molto a discendere dall'eroe troiano.

A parte la propaganda del potere, e la voglia romana di sentirsi di nobile lignaggio, molti segni e molte leggende riconducono alla presenza di abitanti troiani fuggiti dalla città in fiamme e rifugiatisi sulla costa del Tirreno.

Un po' meno credibile è questa corona di Alessandro Magno che sarebbe giunta fino a Roma,  anche se, attraverso la conquista della Grecia (che divenne protettorato romano nel 146 a.c.) la storia-leggenda di Alessandro, precedente di circa due secoli, si diffuse nei libri, nella pittura, nei mosaici e nelle statue dell'Urbe, divenendo un forte riferimento per ogni condottiero abile ed audace. 

Non a caso Giulio Cesare pianse sulla sua tomba lamentando di non aver ancora fatto nulla di importante nei suoi trenta anni quando già Alessandro aveva conquistato mezzo mondo.

Si dice che la corona di Alessandro, coperta di fiori, venisse immessa nella sua tomba e sepolta con lui, o forse era essa stessa forgiata con i fiori, come questa qui, appartenuta a Filippo II, padre di Alessandro. Tutto è possibile.

TOMBA DI NERONE

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Tomba di Nerone (al VI miglio della via Cassia - fine II secolo - inizio III secolo d.c.)
Come risulta dall’iscrizione orientata a favore della antica via e visibile dal lato opposto a dove scorre oggi la Cassia, si tratta del sepolcro del Prefetto Publio Vibio Mariano e della moglie Reginia Massima realizzato dalla loro figlia ed erede Vibia Maria Massima.

Venne detto Tomba di Nerone dopo che papa Pasquale II nel XII secolo ordinò di abbattere la vera tomba di Nerone, il sepolcro dei Domizi, ubicata dove ora sorge Santa Maria del Popolo.

Si pensa che questo papa fosse molto superstizioso e vedendo dei corvi volteggiare nei pressi della tomba dei Domizi ed in base ad altri casuali riscontri cabalistici dai quali si deduceva che Nerone si sarebbe reincarnato nell’Anticristo di cui narra Giovanni nell’Apocalisse, avesse deciso di farlo abbattere.

In realtà il cristianesimo avversò qualsiasi ricordo o affezione del passato romano, non a caso venne deposta la presunta urna di Giulio Cesare, la palla che sta al Palazzo dei Consevatori, perchè i pellegrini del Vaticano andavano là ad omaggiare il grande generale di Roma.

Infatti il popolo romano, che ancora amava la figura dell' Imperatore Nerone, in grazia dei sontuosi spettacoli che aveva sempre e generosamente offerto al popolo, era solito portare i fiori alla tomba il 9 Luglio, anniversario della morte di Nero.

Così il Papa ordinò di distruggere il monumento. La cosa però dispiacque molto al popolo che manifestò contro il capo della Chiesa con molto vigore.

Allora,  per placare il malcontento popolare, venne artatamente diffusa la voce che le ceneri fossero state traslate in un mausoleo sulla Cassia, abbastanza lontano per sperare che cessasse la tradizione di portare i fiori sulla tomba al 9 di Luglio. 

La speranza però restò disillusa, perchè i romani affrontarono il viaggio continuando ad omaggiare l'imperatore, e la cosa si protrasse talmente che ancora oggi la località che ospita il sepolcro si chiama "Tomba di Nerone"


L’epigrafe riporta:

D(iis) M(anibus) S(acrum)
P.VIBI [P.] F. MARIANI E.M.V. PROC.
ET PRAESIDI PROV. SARDINIAE P.P. BIS
TRIB. COH. II [PR.] XI URB. IIII VIG. PRAEF. LEG.
II ITAL. P.P. LEG. III GALL. [---] FRUMENT.
ORDIUNDO EX ITAL. IUL. DERTONA
PATRI DULCISSIMO
ET REGINIAE MAXIME MATRI
KARISSIMAE
VIBIA MARIA MAXIMA C.F. FIL. ET HER.

Sacro agli dei Mani
a Publio Vibio Mariano figlio di Publio eminentissimo uomo, Procuratore
e Presidente della provincia di Sardegna, due volte Pro Pretore,
Tribuno della Coorte X Pretoriana, XI Urbana, IV dei Vigili, Prefetto della Legione
II Italica, Pro Pretore della Legione III Gallica, Centurione dei Frumentarii,
oriundo dalla colonia italica Iulia Dertona
padre dolcissimo
e a Reginia Massima madre
carissima
la figlia ed erede Vibia Maria Massima ebbe cura di costruire.





GIOACCHINO BELLI

Nel 1831 Gioacchino Belli scrisse il sonetto, "un deposito", con soggetto la tomba; il poeta, come lui stesso spiega, da' voce al punto di vista del popolano rozzo e ignorante:

«Io qui ritraggo le idee di una plebe ignorante, comunque in gran parte concettosa ed arguta, e le ritraggo, dirò, col concorso di un idiotismo continuo, di una favella tutta guasta e corrotta, di una lingua infine non italiana e neppur romana, ma romanesca. Questi idioti o nulla sanno o quasi nulla: e quel pochissimo che imparano per tradizione serve appunto a rilevare la ignoranza loro: in tanto buio di fallacie si ravvolge. Sterili pertanto d’idee, limitate ne sono le forme del dire e scarsi i vocaboli.»
(Giuseppe Gioachino Belli, introduzione alla raccolta dei sonetti).

Ed ecco il sonetto del Belli:

Dove nasce la cassia, a mmanimanca, nò a ppontemollo, tre mmía piú llontano, ce sta ccome un casson de pietra bbianca
o nnera, cor P. P. der posa-piano.

Lí, a Rromavecchia, ha dditto l’artebbianca, ce sotterronno un certo sor Mariano, che mmorze de ’na palla in una scianca a la guerra indov’era capitano.

Duncue, o cqui er morto è stato sbarattato;
10e allora me stordisco de raggione
ch’er governo nun  ciabbi  arimediato.

O cchi ha scritto er pitaffio era un cojjone:
perché, da sí cch’er monno s’è ccreato,
questa è la sepportura de Nerone.

L’iscrizione in latino è carica di abbreviazioni che la rendono di non semplice interpretazione o almeno con possibili sarcastici equivoci. Ad esempio "er P P der posa piano", dove essere un "PosaPiano, nel dialetto romanesco, indica una persona molto lenta e svogliata, termine tratto dal linguaggio dei trasporti dove è scritto Posa Piano per intendere di maneggiare con calma e attenzione. 

Nonostante gli errori qualche popolano più acculturato riesce a darne una traduzione in fondo veritiera, secondo la quale, come racconta il fornaio (l’arte bianca), il sepolcro che si trova sulla Cassia, tre miglia dopo ponte Milvio (ponte mollo), risulterebbe d’un certo sor Mariano (il signor Mariano, Publio Vibio), capitano morto in guerra per una palla di fucile che lo ferì ad una coscia (lascianca).

Siccome però il monumento era noto come tomba di Nerone, il popolano, che si crede arguto ma è invece più ingenuo degli altri, arriva a pensare che o hanno scambiato il morto (er morto è stato sbarattato) o chi ha scritto l’epitaffio era un asino ignorante, perchè lo sanno tutti che quella è la tomba di Nerone.

Insomma, ci dice il Belli, nonostante l’epigrafe fosse ben visibile definendo in modo chiaro chi fosse il reale proprietario del monumento, lo sciocco popolino arrivava a pensare che si trattasse realmente della tomba di Nerone e che piuttosto l’epigrafe fosse sbagliata.



DESCRIZIONE

Questa tomba, detta di Nerone, ha la facciata principale orientata lungo l'antica via Cassia e dal lato opposto alla moderna via, con in evidenzia l'epitaffio; guardando la lastra riportante l'epigrafe incisa al suo angolo superiore destro si nota il ripristino di una parte della cassa; si tratta di un buco fatto da qualcuno probabilmente in epoca assai remota per vedere cosa vi fosse dentro; naturalmente la parte superiore è il coperchio a tetto con acroteri angolari, che deve essere piuttosto pesante. Sui due lati corti è inciso in altorilievo un ippogrifo.

Si tratta di un sarcofago ad arca, con tetto a doppio spiovente ed acroteri angolari, interamente in marmo decorato con bassorilievi e posto su di un alto basamento originariamente rivestito di marmo e oggi rivestito in mattoni; lo stile delle sculture e dell’iscrizione, non raffinatissime ma comunque belle, lo fanno datare al III secolo d.c.. 



L'OROLOGIO ROMANO

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«Maledicano gli dei colui che per
primo inventò le ore
e collocò qui la prima meridiana.
Costui ha mandato in frantumi il
mio giorno di povero diavolo.
Quando ero giovane, infatti, l'unico
orologio era lo stomaco
assai più preciso e migliore di
questo aggeggio moderno

(Plauto - in Aulo Gellio -Notti attiche)

I Romani ereditarono dagli Etruschi  l'agrimensura, la scienza della misurazione geometrica dei confini, pratica utilissima per stabilire i limiti delle proprietà e dei confini delle terre conquistate. Dall'agrimensura viene infatti il termine groma, lo strumento misuratore, e gnomone, altro strumento. dal greco gnwmwn. Lo gnomone servì a stabilire i quattro punti cardinali nonchè il Decumanus e il Cadus, reperendo così i diametri del cerchio, presupposti per un orologio.

All'inizio i Romani scandivano il tempo del giorno sui fenomeni ben visibili di alba e tramonto,m e chiamavano "dies" il giorno e "nox" la notte. Il giorno dopo (domani) era detto "postridie" e il giorno successivo (dopodomani) "post diem tertium eius diei" (il terzo giorno dopo quel giorno). Il giorno prima, (ieri) o vigilia era detto "pridie" e il giorno precedente (avantiieri) "ante diem tertium".
Questo avvenne fino a circa 460 anni dalla fondazione dell'Urbe. 



LE ORE

Mentre i babilonesi fissavano l'inizio delle ventiquattro ore dal sorgere del sole e i greci dal suo tramonto, per i romani, come ancora oggi, l'inizio del giorno è dalla metà della notte, cioè la mezzanotte.

Metone di Atene inventò nel 432 a.c. il ciclo metonico, un ciclo di diciannove corrispondente a 235 mesi lunari, su cui si basavano i vari calendari lunisolari aritmetici, come quello ebraico, che mantengono il sincronismo sia col corso del sole sia con quello della luna.

Il quadrante solare creato da Metone consisteva in una calotta di pietra con al centro uno stilo o gnomone che segnava l'ombra del sole nella pietra concava. Si ottennero così le horae, e il primo l'horologium dei romani.

E' il sistema delle ore cosiddette "tempo-rarie" o "ineguali", di durata variabile a seconda delle stagioni. Al tempo in cui Gerusalemme fu espugnata da Pompeo, cioè 63 anni a.c., era in uso il sistema del "Quadripartito" per cui sia il giorno che la notte erano suddivisi in quattro parti uguali della durata di tre ore ciascuna, ma facendo in modo che in ogni periodo dell'anno, sia la notte che il giorno venisse diviso sempre in dodici ore.

Il punto di riferimento principale dell'intera giornata, cioè il mezzogiorno ( meridies ),venne ufficializzato solo nel 338 a.c. Intorno al 274 a.c. i Romani adottarono finalmente la suddivisione del giorno e della notte in 24 parti uguali con suddivisione duodenaria del giorno-chiaro.


La descrizione di Macrobio

"Il primo tempo del giorno è chiamato inclinazione della mezzanotte; poi viene Gallicinio e quindi Conticinio, quando i galli tacciono e anche gli uomini allora riposano. Poi viene diluculo, cioè quando si comincia a distinguere il giorno; poi mattino quando il giorno è chiaro. Dal mattino si arriva al mezzogiorno dal quale nasce il "tempus occiduum" cioè il tempo che va fino al tramonto;quindi arriva il supremo momento, "suprema tempestas", cioè l'ultimo tempo del giorno che viene così espresso nelle dodici Tavole:
"Il tramonto del sole sarà il momento supremo"; quindi vi sono i Vespri, il cui nome è tratto dai Greci che furono ispirati dalla stella Hespero, da cui l'Italia è chiamata Hesperia poichè era vicina al tramonto.
Da questo momento si dice "prima fax" , cioè prima parte della notte in quanto si accendono le prime fiaccole. Poi viene notte "Concubia", cioè nottefonda e quindi "Intempesta", poichè non è favorev-ole allo svolgersi delle azioni".Nella tavola 1 è rappresentata la suddivisione delgiorno e della notte dei Romani, secondo l'interpretazione di Giovanni Poleno" .




LE PARTI DEL GIORNO

Alla fine del IV sec. a.c. i romani dividevano ancora la giornata in due parti: prima e dopo mezzogiorno. Un messo dei consoli annunciava al popolo il passaggio del sole al meridiano «tra i rostri e la graecostasis»

AMORINO CON SFERA CELESTE (Pompei)
Poichè nel 304 il curule edile Gneo Flavio eresse un santuario dedicato alla Dea Concordia che Plinio il Vecchio asserisce trovarsi accanto alla Graecostasis, significa che l'edificio era già esistente ed ecco dimostrata la data approssimativa.

Ai tempi della guerra di Pirro (280 - 279 a.c.) si cominciò a dividere le due parti del giorno in altre sezioni: 
- la mattina - mane 
- l'antimeriggio - ante meridium
- il pomeriggio - de meridie 
- sera - suprema.

290 a.c. - Ma i tempi cambiano e i Romani, mentre prima dividevano la giornata in quarti, annunziati dal littore nel Foro, o, per conoscere il mezzodì, osservavano l'apparire del sole tra i Rostri e la Grecostasi, nel 290 a.c. videro piazzato presso il tempio di Quirino da L. Papirio Cursore un orologio solare preso ai Sanniti.

Ognuna delle quattro parti della giornata fu chiamata"Vigilia". Una notte era formata da quattro vigilie di tre ore ciascuna che cominciavano al tramonto e terminavano col sorgere del Sole.
La prima era chiamata "Vespera", la seconda"Media-nox", la fine della terza era detta"Galicinium", dal canto del gallo, e l'ultima"Conticinium", contata dal tempo del silenzio, ossia dal tacere del gallo.

M. M. Valerio Messalla, nel 263 a.c., situò nel Foro un orologio solare (solarium) trasportato da Catania, il quale non poteva segnare esattamente, perché la latitudine di quella città differisce di 5° da quella di Roma. 

Un orologio tarato sulla latitudine di Roma lo troviamo solo nel 56 a.c., quando il patrigno di Augusto, Q. Marcio Filippo, fece costruire il primo orologio solare fatto apposta per Roma. 



IL PRIMO HOROLOGIUM A ROMA

All'inizio della I guerra punica nel 263 a.c. il console Manio Valerio Massimo Messalla aveva riportato come bottino di guerra il quadrante solare di Catania e lo aveva fatto collocare sul comitium.

Plinio il Vecchio sostiene che da allora i romani seguirono per circa un secolo l'orario dei catanesi ma forse continuarono a calcolare l'ora basandosi sulla posizione del sole nel cielo.

Successivamente nel 164 a.c. come narra Plinio il Vecchio, il censore Q. Marcio Filippo fece installare un horologium predisposto appositamente per Roma e quindi molto più preciso che fu molto apprezzato dai romani.

Dopodichè i censori Publio Cornelio Scipione Nasica e Marco Popilio Lenate aggiunsero vicino al dono di Q.Marcio Filippo, l'installazione nel 159 a.c. di un orologio ad acqua che supplisse il quadrante solare quando il cielo era nuvolo o era notte.



VARI TIPI DI OROLOGI

Gli orologi più diffusi erano quelli solari, le meridiane, che si trovavano ovunque, sia nei luoghi pubblici che nelle case private, spesso sopra il peristilio dove batteva il sole. Vitruvio ne descrive diversi, a quadrante concavo o piatto. Diverse ne sono emersi a Pompei, molto accurati, indicanti le ore stagionali, i solstizi e gli equinozi.
Ecco l'elenco di Vitruvio dei diversi orologi e dei loro inventori:

Hemicyclium 
Scaphen o Hemisphaerium 
Discum in Planitia
Arachnen
Plinthium 
Pros ta istoroumena 
Pros pan clima
Pelecinon
Conum 
Pharetram
Gonarchen
Engonaton
Antiboraeum
Viatoria Pensilia                                                                 
Beroso Caldeo
Aristarco di Samo
Aristarco di Samo
Eudosso di Cnido
Scopa Siracusano
Parmenione
Theodosio e Andrea
Patrocle
Dionisidoro
Apollonio
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HEMICYCLIUM

Grazie ai ritrovamenti archeologici del XVIII sec., si è potuto non solo chiarire la natura di questo strumento, ma di dimostrarne l’esatta descrizione fatta da Vitruvio, il funzionamento e la sua storia.

Il primo ritrovamento archeologico avvenne in Italia, ma per mano dell’astronomo Boscovich che arrivò fortunatamente in tempo sulle rovine in cui si scavava, per sottrarre all’incuria dell’uomo il primo orologio di questa specie e studiarlo nei minimi particolari.

L’orologio era stato trovato presso la villa "Rusinella" sulla collina del Tuscolo a Roma e grazie allo studio dell’astronomo fu resa finalmente chiara la frase di Vitruvio "Hemicyclium excavatum ex quadrato, ad enclimaque succisum".

Da allora gli emicicli furono scavati in gran quantità, e si scoprì che essi adornavano le strade di Pompei, di Ercolano e delle altre città dell’impero romano e persino il Papa, Benedetto XIV, ne utilizzò uno antico nella sede del Campidoglio, nel 1751, per il gusto di leggere le ore alla maniera degli antichi.

FRAMMENTO DI OROLOGIO ORIZZONTALE


DISCUM IN PLANITIE

Anche qui il lavoro degli interpreti non è stato facile, ma grazie all’eccezionale ritrovamento di una lastra marmorea con su inciso un orologio orizzontale, avvenuta per mano di Sante Amendola nel XVIII secolo sull’Appia antica, si è potuto meglio identificare questo orologio.

Si tratta di un normale orologio solare orizzontale con le linee orarie temporarie e le curve dei solstizi ed equinozi.

Qui a lato la foto di un frammento di un orologio orizzontale conservato a Roma nel Museo delle Terme di Diocleziano.

Generalmente il tracciato orario e le curve diurne venivano racchiuse in un cerchio lungo il quale venivano riportati i principali venti. Si dimostrarono esatte, quindi, le teorie degli gnomonisti rinascimentali sulla natura di questo strumento, basate peraltro solo sull’interpretazione del testo vitruviano.



PENSILIA

Altra categoria citata da Vitruvio è quella degli orologi detti "pensilia", orologi solari portatili, ovvero trasportabili e quindi "da viaggio", ma detti "pensili" perchè per il loro corretto uso è necessario sospenderli nell’aria e orientarli manualmente.

Di questi orologi ne sono stati trovati diversi esemplari e delle più svariate forme.
Ciò che sta a dimostrare quanto la gnomonica fosse giunta, a quei tempi, ad un livello tecnico ed artistico davvero ragguardevole e come si sia tramandata dalle scuole primarie elleniche a quelle romane.

OROLOGIO DI MORLUNGO
Sono stati ritrovati orologi pensili d’altezza del tipo ad anello astronomico, del tipo a cassa chiusa (orologio di P.A. Secchi), e uno tipo sestante. Ma soprattutto minuscoli orologi ad anello, addirittura di 3 cm di diametro.

Ma, quando l’11 giugno del 1755 fu trovato negli scavi archeologici di Ercolano un orologio solare che imitava perfettamente la coscia di un prosciutto, probabilmente gli studiosi pensarono che si trattasse di uno scherzo. Invece era proprio un orologio solare dell’antichità, e risalente circa al 28 a.c.

Tale orologio fu, per tutti gli anni a venire, denominato stranamente "prosciutto di Portici", mentre come è noto fu rinvenuto in Ercolano.

Questo orologio, che vedete qui a lato, di appena 6 cm, risale al primo decennio d.c. ed è l’orologio tascabile più antico al mondo ed è' conservato nel museo di Este alla sezione romana. E' un piccolo cilindro in osso-corno, e fu ritrovato nel 1884 durante la campagna di scavi in Morlungo, nel corredo della cosiddetta tomba del medico oculista. 

Il cilindretto osseo fu classificato come “astuccio cilindrico” fino al 1984 quando Simonetta Bonomi vi riconobbe un orologio solare. 
La scoperta rimase però sconosciuta finchè l’astronomo Mario Arnaldi non arrivò a Este per visitare il museo e riconobbe il più antico orologio portatile del mondo. 

Sul cilindro è disegnata la rete delle linee orarie e dentro vi è un cappello di 38 mm, su cui sono inserite due verghette in bronzo che fungono da gnomoni.
Sopra il cappello c’è un anellino di bronzo per esporlo perpendicolare al sole. I mesi, indicati da dodici linee verticali, riportano le prime tre lettere del loro nome in corsivo latino.



PELECINUM o PELIGNUM

Ancora descritto da Vitruvio, e riprodotto nel mosaico di Treviri. Era l’orologio (orizzontale o verticale) che riporta il tracciato orario delimitato dalle due curve diurne dei solstizi e la cui forma ricorda appunto, nel suo insieme visivo, una scure bipenne. Un pelecinum venne trovato a Nemi

Da: La storia 

 - Pelecinum e Pelignum (estratto da Nicola Severino, Storia della Gnomonica, Roccasecca, 1992)
Sul pelecinum c’è un discorso a parte, perchè probabilmente la sua storia si intreccia con quella di un altro strumento al quale non è stato ancora dato un nome. Nel Landesmuseum di Trier, è conservato un mosaico, proveniente da una antica villa romana di Treviri, in cui viene rappresentato un vecchio (si dice fosse Platone) che mostra uno strano tipo di orologio solare per il quale e per quel che si sa, la letteratura gnomonica non ha ancora trovato un nome.

PELECINUM
Secondo quanto scrive Vitruvio, Patrocle fu l’inventore del Pelecinum, un orologio composto, secondo le odierne ipotesi, da due tavole di marmo la cui forma assomiglia ad una scure bipenne, dal quale deriva anche il nome di bipennis. 

Durante gli scavi di Pompei furono ritrovati vari orologi solari: alcuni hemicyclium, degli orizzontali e un pezzo di pelecinum, ora conservato al Museo Nazionale di Napoli. 

Uno intero, invece, è situato sulla faccia superiore di un tronco di colonna, nel peristilio della casa detta dei capitelli figurati. 

Presenta dei difetti nel tracciamento delle curve del solstizio estivo e delle linee orarie. Sembra pure che questo orologio, ai suoi tempi, sia stato associato a un disco di bronzo il cui gong risparmiava allo schiavo la fatica di annunciare a voce il trascorrere delle ore. Un altro pelecinum proviene da Nemi.

Secondo me, gli orologi solari citati e chiamati pelecinum, possono identificarsi con gli "arachne". Infatti, sulla loro superficie piana sono incise le linee orarie e le curve di declinazione del sole, formando la famosa tela di ragno. Mentre è da considerare che la descrizione teorica data per il pelecinum non si adatta gran che alla forma degli arachne. 

Al più la scure bipenne potrebbe essere rappresentata, in questi, dal disegno delle linee orarie, ma non regge, perchè la teoria data oggi per il pelecinum, calza alla perfezione per l’orologio nel mosaico del Landesmuseum, per il quale ritengo che il nome giusto debba essere "pelignum" per l’epoca di Vitruvio, alterato in "pelecinum" attorno al II sec. d.c. 
Una prima prova di ciò è data da alcuni manoscritti antichi che descrivono un orologio solare come per il pelecinum, chiamandolo pelignum.
La descrizione di questo orologio l’ho trovata in una edizione del 1730 delle "Exercitationes vitruvianae primae. hoc est: Ioannis Poleni commentarius criticus de M. Vitruvii Pollionis...". in una parte intitolata: "Anonymus scriptor vetus de architectura compendiosissime tractans, quae vitruvius et ceteri locupletius quidem ac diffusius tradidere. cum annotationibus Ioannis Poleni". Si tratta del capitolo XXIX dell’Artis architectoniicae privatis usibus adbreviatus liber , detto anche Liber artis architectonicae, di M. Cetius Faventinus, scrittore vissuto nel III o IV sec. d.C.

Il Pelignum (inteso come l’orologio visibile nel mosaico di Treviri e lo strumento descritto da Faventino)
- è formato da due lastre di marmo a forma di ascia incernierate per un lato;
- le tavole sono più larghe sopra e più strette sotto;
- lo gnomone è installato nell’angolo alto della giuntura;
- le tavole sono di uguale dimensione e forma;
- il numero di linee orarie presenti per ogni lastra è cinque, per un totale di 10 in quanto la linea meridiana in questi orologi non c’è perchè corrisponde con la verticale del lato ove le due lastre sono incernierate -



LA MERIDIANA DI AUGUSTO

L'uso degli orologi solari cominciò a diffondersi in tutte le dimensioni dimensioni, minuscoli portatili, di non più di tre cm di diametro, ritrovati ad Horbach e ad Aquileia. all'enorme Horologium Augusti fatto installare a Roma.

Augusto fece costruire in Campo Marzio, fra l’Ara Pacis e i portici di Agrippa, nel bel mezzo di un grande parco, un grandioso orologio solare, il Solarium Augusti, il cui quadrante misurava 180 m x 80 e il cui gnomone era l'obelisco egiziano (ora a Piazza Montecitorio) prelevato ad Eliopolis nell’anno 12 a.c. e trasportato a Roma con enormi chiatte.

Opera grandiosa perchè era la più grande del mondo per dimensioni, misura 37 m, e perchè utilizzava per gnomone un obelisco sacro agli egiziani per l’adorazione del Dio Sole, eretto  dal re Psammetico II, nel VII sec. a.c.
Era talmente grande che le ore, in lettere romane e di bronzo, infisse sul travertino che pavimentava un'enorme piazza, erano lunghe ben tre m. ciascuna.

L’opera fu inaugurata il 9 d.c. e, stando a quanto riporta Plinio, fu realizzata da un personaggio detto "Fecondo Novo", cioè il grande Manilio che scrisse il "Poema Astronomicon", uno dei pochi astronomi romani di una certa importanza.

Fin dal XVI secolo, gli autori si sforzarono di interpretare e ricostruire la forma dell’orologio di cui l’obelisco era l’altissimo gnomone. Solo due uomini seppero giustamente interpretare, andando controcorrente, i segreti del tracciato orario dell’orologio sotto i lastricati di Campo Marzio. Questi furono il Masi e il grande Athanasius Kircher che addirittura ne diede un disegno completo, nel 1650, di tutto l’orologio e della sua estensione.

Fu l’unico a sostenere che non poteva trattarsi di un orologio composto della sola linea meridiana, ma di uno strumento completo di tutte le linee orarie e delle curve diurne. Il disegno che egli fece, pubblicato in Obeliscus Panphilius, è identico a quello ottenuto dall’archeologo tedesco Bruckner sulla scorta delle recenti scoperte archeologiche sull’antico lastricato dell’orologio.

"Tra i monumenti poi che occupavano la parte media del Campo Maggiore doveva principalmente figurare l'obelisco alto centosedici piedi colla base che serviva di gnomone ad un grande Orologio solare fatto eseguire da Augusto con sommo ingegno con l'opera di Manilio matematico, il quale vi aveva aggiunta pure una palla indorata sulla sommità. Era in tale Orologio determinata la lunghezza dei giorni e delle notti mediante alcune linee di bronzo incastrate in un grande strato di pietra, le quali segnavano ancora le ore sino alla sesta, ed il crescere e decrescere dei giorni.
Quest'Orologio era degno di ammirazione non tanto per l'obelisco fatto trasportare sino da Gerapoli (secondo altri da Eliopoli) città dell'Egitto, insieme coll'altro che stava nel circo Massimo, quanto per il grande lastricato di pietra, il quale, affinchè avesse potuto contenere la indicazione delle prime ed ultime ore del giorno, era di necessità che avesse molta estensione. Per cui essendosi ultimamente rinvenuti diversi pezzi di lastre di travertino nel fare le fondamenta della casa posta nel lato minore della piazza di S. Lorenzo in Lucina, sembra potersi stabilire essere giunto almeno sino a tale luogo.
Il piedestallo che reggeva quest'obelisco fu riconosciuto essere stato situato dove è ora la cappella maggiore posta nel lato occidentale della Chiesa di S. Lorenzo in Lucina, e fu ritrovato intorno esservi stati sette gradi con un suolo di lastre di marmo, nel quale stavano incastrate diverse linee di metallo, come pure negli angoli del medesimo vi erano le figure dei quattro venti principali. L'obelisco poi fu trovato alquanto discosto da tale luogo al disotto di una casa posta verso l'Impresa, come lo dimostra la iscrizione ivi collocata, per essere stato nel cadere evidentemente trasportato. Ora stà innalzato sulla piazza del Citorio."

I rilevamenti archeologici l'hanno portata alla luce, per ahimè seppellirla subito dopo, in quanto la meridiana sconfina di molto sotto vari palazzi d'epoca. Nei sotterranei ben puntellati, a una decina di metri sotto il manto stradale, l'orologio solare c'è ancora, ma nessuno può goderne la vista.



LA MERIDIANA PORTATILE

A Pompei, nel 1912, è stata riportata alla luce, nella bottega di Verus, forse un fabbro, un orologio "portatile", una piccola meridiana incisa su di una scatoletta di avorio, un orologio da taschino ante-litteram.

Purtroppo ne rimangono pochi frammenti dei lati e della parte superiore, dove erano incise le linee della meridiana e dove era fissato lo gnomone, sicuramente smontabile e rimontabile all'occorrenza.
Un congegno multi uso, perchè in uno dei due lati lunghi della scatola era incisa una scala graduata di riduzione, sicuramente utilizzata per prendere misure lineari.

Ad Aquileia è stato ritrovato un altro orologio solare portatile, forse più usuale, un piccolo disco di bronzo che veniva appeso e ruotato in modo che i raggi solari vi battessero sopra. Sul disco ci sono due quadranti solari, delle latitudini di Ravenna e di Roma, con le sigle RA e RO. Insomma tenevano conto del fuso orario.

Ad Oxford è invece conservata una meridiana portatile romana, sempre in bronzo e del III secolo d.c., formata da due dischi sovrapposti, uno più piccolo con gnomone girevole dotato di scala oraria graduata, e uno più grande con una scala delle latitudini. Sul retro del disco più grande sono incise le latitudini corrispondenti a ben trenta province romane. Ruotando il disco piccolo in corrispondenza delle latitudini era possibile sapere l'ora nelle varie province. Doveva essere un tipo che viaggiava molto.



MERIDIANA DEL PASTORE

Straordinaria scoperta, ad opera dello gnomonista Mario Arnaldi di Ravenna, e pubblicata nell’articolo A roman cylinder dial: witness to a forgotten tradition", comparso su Journal for the History of Astronomy, Cambridge, 1997: un orologio cilindrico verticale, della categoria "meridiana del pastore", di epoca romana!
Indietreggia quindi di circa un millennio l’invenzione di questo strumento, fino ad oggi attribuito prima agli Arabi (IX sec.) e successivamente divulgato nell’Europa cristiana dal monaco Ermanno Contratto nella prima metà dell’anno Mille. L’orologio ri-scoperto da Arnaldi era conservato nel Museo d’Este, e nessuno prima di lui aveva fatto caso alla sua importanza storica! E’ l’unico esemplare che si conosca al mondo. E’ probabile, quindi, che tale orologio sia da aggiungere alla lista fornita da Vitruvio. L’esemplare del museo d’Este risale al II secolo d.c.



LE CLESSIDRE


C'erano poi le clessidre ad acqua, citate da Vitruvio e da Cesare nel De Bello Gallico, quindi di uso anche militare.

Servivano a misurare intervalli di tempo, come quello a disposizione degli oratori nelle cause in tribunale. Di solito misuravano una mezz'ora, e al massimo non più di due ore.



GLI OROLOGI IDRAULICI

Dal tempo di Augusto clepsydrarii e organarii fanno a gara per soddisfare le esigenze di ricchi clienti che vogliano ornare le loro case di horologia ex aqua sempre più perfezionati o ricchi di accessori come quelli descritti da Vitruvio che ad ogni nuova ora segnata lanciavano in aria sassi, uova o addirittura fischiavano.

OROLOGIO AD ACQUA
Nel recipiente dove l'acqua si accumulava, scendendo attraverso un foro dal diametro ben calcolato, venivano indicate le ore con le tacche regolate in base a un orologio solare. Sembra servissero soprattutto per la notte, in particolare durante le ronde.

Ma gli  orologi ad acqua nella II metà del I e nel II sec. andò di moda. Era oltremodo raffinato mostrare ai propri ospiti di possedere un orologio ad acqua.

Nel Satiricon di Petronio, Trimalcione ostenta: « un orologio nella sala da pranzo e un suonatore di corno assunto apposta perché udendolo si sappia ad ogni ora quale porzione della vita è stata perduta».

Trimalcione addirittura fa scrivere nel suo testamento prescrive che venga collocato un "horologium ex acqua" sulla sua tomba « in modo che chiunque guardi l'ora debba leggere anche il mio nome, voglia o non voglia »

Solo da Pompei ne provengono dozzine e varietà. in terracotta, di tufo, di marmo, due sono orizzontali e il terzo, poggiato su di essi, è la metà di un pelecinum, oggi esposto nella sezione tecnologica del Museo nazionale di Napoli.


LA PRECISIONE

Poteva accadere che lo gnomone non fosse stato ben tarato alla latitudine del luogo o che l'orario segnato dall'orologio ad acqua non tenesse conto delle diverse misurazioni a seconda dei giorni dei diversi mesi.

« Non ti posso dare un'ora precisa, è più facile mettere d'accordo filosofi che orologi» commenta Seneca.

D'altronde era possibile accordare il quadrante solare con l'orologio ad acqua durante il giorno, ma non per la notte. Inoltre mentre oggi le ore sono tutte di sessanta minuti, nelle ore romane ogni ora era diversa dall'altra a seconda fosse diurna o notturna e in quali giorni dell'anno fosse stata misurata.

D'altronde la vita quotidiana dei romani, era piuttosto flessibile, durando di meno la luce solare in inverno ci si dava da fare di più rispetto all'estate quando la luce durava di più.

Comunque i Romani si alzavano molto presto per profittare delle ore di luce, dato che l'illuminazione serale era piuttosto scarsa, e dopo una veloce toeletta si affrettavano ad uscire di casa per sbrigare i loro impegni.


OROLOGI A CIFRE ROMANE

Ancora oggi spesso nel quadrante degli orologi le ore sono a cifre romane. Ma il 4 non è rappresentato con un IV, ma con la variante IIII.

È una versione meno usuale ma corretta: i romani non avevano istituzionalizzato il loro sistema di numerazione. Solo che allora, per coerenza, il 9 dovrebbe essere scritto VIIII, e invece in tutti gli orologi è sempre IX.

Quando gli orologi erano solo sui campanili, i fabbri avevano trovato il modo per fabbricare tutti i numeri con un solo stampo: VIIIIIX. Infornando quattro volte questo stampo si ottenevano tutte le ore: il primo diventava V, IIII, IX; il secondo VI, II, IIX, il terzo VII, III, IX e il quarto VIII, I, IX.

Poi, una volta uscite le cifre di ferro, bastava rigirare il IIX per avere il XII e uno dei due IX per avere l’XI.


CULTO DI DISCIPLINA

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ATENA CHE INSEGNA LE DISCIPLINE

Nel panteon romano, la Dea Disciplina era una divinità minore, personificazione della disciplina.
Il termine disciplina proviene da discipulis, cioè discepolo, allievo, dunque l'insieme delle regole e dei principi che devono rispettare quelli che si trovano in veste di discepoli.

D'altronde i discepoli erano coloro che imparavano a discere, cioè a distinguere e quindi a capire. Da cui il detto: Discere docendo, cioè si impara insegnando.



DISCIPLINA ETRUSCA

Le Scritture etrusche erano un insieme di testi che veniva chiamato Etrusca Disciplina. Questo nome appare in Valerio Massimo e in Marco Tullio Cicerone.

Questi testi erano i Libri Fatales, i Libri Ostentaria, i  Libri Tagetici, che includevano i Libri Haruspicini e i Libri Acherontici, e poi quelli della profetessa Vegoiam, i Libri Vegoici, che includevano i Libri Fulgurales e parte dei Libri Rituales.

La disciplina iniziò dunque per stabilire regole nella religione, e nel modo di interpretare la volontà degli Dei, per passare poi a Roma alle regole del diritto e dell'educazione dei fanciulli.

Ma la disciplina più importante era quella militare che prevedeva varie qualità e valori morali. Alla Dea Disciplina erano preposte infatti l'istruzione, la formazione, l'autocontrollo, la determinazione e la conoscenza in un campo di studio, ma era anche e soprattutto un modo ideale di vivere.

In questo senso e soprattutto era la Dea della disciplina militare, verso Roma, l'imperatore e i superiori dell'esercito. Senza disciplina non c'era onore nè virtù (Honos et Virtus)

Fin dall'addestramento i centuriones e i loro vice, gli optiones, tormentarono le reclute con il vitignum, la canna di vite per punire qualsiasi mancanza.

Nel 340 a.c. il console Manlio Torquato ordina che nessuno inizi il combattimento se non dietro suo ordine preciso, suo figlio però accetta la provocazione di un dignitario latino che lo sfida a duello. Lui combatte e vince. Ma il console lo mette a morte in nome della Dea Disciplina.

Ma essere un buon generale significava pure ottenere la stima del proprio esercito. Ne seppe qualcosa Scipione l'Africano, che per questo ottenne molto plauso ma pure tante invidie.

Per mantenere la disciplina gli imperatori donavano premi e denaro ai valorosi, Giulio Cesare, come egli stesso narra, si faceva invece prestare denaro dagli ufficiali per compensare i soldati meritevoli.

In tal modo legava a sè i soldati per la gratitudine e gli ufficiali per riscuotere il credito. Pochi generali furono amati come Cesare nonostante li obbligasse a una pesante disciplina.

La Dea Disciplina fu venerata dai soldati romani soprattutto in età imperiale, in particolare da quelli che vivevano lungo i confini e che pertanto erano più esposti alle battaglie. Altari a lei dedicati sono stati trovati in Inghilterra e in Nord Africa.

Il forte di Cilurnum, lungo il Vallo di Adriano, era consacrato alla Dea Disciplina, come testimonia un'iscrizione di un altare di pietra trovata nel 1978.
Sembra che alla Dea si facesse un sacrificio cruento, in genere di un ovino femmina, e che vi fossero apposite preghiere e libagioni di vino ma pure di acqua per la Dea. 

Le sue virtù principali erano Frugalitas, Severitas e fidelis: frugalità, severità e fedeltà. Diventare seguaci della Dea voleva dire cercare gli stessi ideali nella vita di ogni giorno. Nell'adorare Disciplina un soldato diventava frugale nel denaro, nel consumare energie e nelle azioni. La virtù della Severitas veniva dimostrata nella sua concentrazione, determinazione e nel comportamento deciso.

Era fedele alla sua unità, al suo esercito, agli ufficiali e al popolo romano. Il che voleva dire che era fedele a Roma.

AECLANUM (Campania)

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AECLANUM

Presso il Passo di Mirabella, frazione di Mirabella Eclano (in provincia di Avellino), vi sono i resti dell'antica città di Aeclanum, uno dei principali centri della tribù sannita degli Irpini. Il Parco archeologico di Aeclanum (in latino Aeculanum) raccoglie e conserva i resti di questa città sannita.
Il suo nome è riportato con parecchie versioni: Aikolanom, Aeculanum, Aiculanon, Acculanum, Eculianum, Esculanu, Aeclanum o Eclano, e i suoi abitanti vengono chiamati Aeculanensis, Auseculani o Aeclanensi. 



LA STORIA

Sulle tracce della via Appia Traiana, realizzata dai romani per collegare Roma a Brindisi, si percorre un’amena strada di montagna fino al passo di Mirabella Eclano. Qui, al confine tra Campania e Puglia, giacciono i resti di Aeclanum, la fortezza a guardia dell'importante valico, l’ultimo avamposto prima dell’ampia pianura apula.

L ’antica Aeclanum il cui primo impianto può risalire alla fine del III sec. a.c., e venne fondata dalla tribù sannita degli Irpini, poi abitata sino al VII sec. d.c.. Nel IV sec. d.c. Diocleziano, attuando una nuova divisione amministrativa dell’Italia, assegnò la città alla regione apula.

Dall’VIII sec. d.c. il sito viene ricordato con il toponimo di Quintodecimo, attestante la distanza del centro da Benevento di quindici miglia.come scrivono Appiano (Bellum), Tolomeo (Ptolemy) e Plinio (Naturalis Historia),

La più antica menzione di Aeclanum è stata fatta da Tito Livio il quale informa che nel 293 a.c. i romani, dopo di aver espugnato Saepinum, conquistarono Velia, Palombinum e Herculanem.

Al tempo della Guerra Sociale (89 a. c.), come ci informa Appiano, la città aveva solo una cinta di legno, incendiata poi da Silla quando, resosi conto che gli eclanesi aspettavano aiuto dai Lucani, ordinò di accatastare intorno alle mura fascine di sarmenti, bruciate dopo che trascorse il tempo concesso dal dittatore per arrendersi.

Aeclanum infatti fu saccheggiata ed occupata, perché non si era arresa spontaneamente ai Romani ma anche per convincere le altre città irpine ancora insorte a deporre le armi.

Dopo la Guerra Sociale, circa nell'87 a.c., la città divenne municipio con diritto di voto ed iscritta alla tribù Cornelia. Più tardi passerà sotto il diretto dominio dell'imperatore Augusto "ager aeclanensis" entrato nel "patrimonio principis" di sua moglie Livia Drusilla i cui possedimenti si estendevano fino ad Abellinum. 

Ciò è affermato da V.A. Sirago. Amministrativamente Aeclanum da Augusto viene assegnata alla Il Regio detta ufficialmente "Apulia et Calabria". All'epoca dell'imperatore Adriano (120 d.c.), divenne colonia col nome di di "Aelia Augusta Aeclanum".

TERRACOTTE ARCHITETTONICHE
Una seconda immissione di coloni si ebbe sotto Marco Aurelio, per l'intervento del console Lucio Cossonio Eggio Marullo, console della famiglia eclanese degli Eggii. Egli in una iscrizione rinvenuta nel suburbio, è citato come uno dei tresviri addetti alla coniazione delle monete e come pontefice. 

Notevoli sono i resti della città romana: le terme pubbliche, situate su una piccola altura, la piazza del mercato coperto (macellum), alcune abitazioni e botteghe.

Attraverso la porta occidentale entrava la Via Appia, unica via con cui era collegata, proveniente da Benevento, e ne usciva attraverso la porta orientale.

Sono visibili anche i resti delle mura, alte circa 10 metri con almeno tre porte e torri di diversa grandezza. All’età tardo-antica risale la costruzione di una basilica paleocristiana con, al suo esterno, un fonte battesimale con pianta a croce greca e scalini per il rito ad immersione.

La città di Aeclanum, in età romana, si estendeva per 18 ettari, con una cinta muraria di 1820 m in opus reticulatum a prismi di travertino e di pietra arenaria. Secondo i costumi romani infatti ogni città occupata veniva romanizzata con imponenti ricostruzioni e monumenti in materiali pregiati.

Si presume che Aeclanum fosse capitale sannita all'epoca della Guerra Sociale e che la popolazione contò sui quattro-cinquemila abitanti quando assunse il ruolo di colonia ed il suo territorio superò l'estensione di 700 kmq.

Le epigrafi, nel tramandare il nome di alcuni magistrati e cittadini di Aeclanum, ricordano il loro evergetismo, cioè le opere pubbliche da essi realizzate per farsi eleggere o comunque per nobilitare il nome loro e della loro famiglia. Tra queste opere la manutenzione delle vie urbane ed extraurbane, la costruzione o il rifacimento di edifici, e pure i pubblici spettacoli offerti alla cittadinanza.

Nel 369 d.c. un violento sisma colpì Aeclanum con conseguenze disastrose, come si apprende in un'epigrafe. 

In questa Umbonio Mannachio, di rango senatorio, è definito "fabbricatore ex maxima parte etiam civitatis nostrae".

Nel 410 d.c., il passaggio di Alarico e dei Visigoti dalla Campania alla Puglia arrecò altri danni alla città. 

Con l'arrivo dei Longobardi (570 d.c.) ed il passaggio dell'imperatore Costante II di Bisanzio, diretto all'assedio della longobarda Benevento, vennero definitivamente distrutte le ultime tracce della splendida architettura romana. E fu Medioevo.




GLI SCAVI

I primi lavori di scavi iniziarono nel 1900 e rinvennero i resti delle terme, del macellum e anche delle originarie abitazioni in cui vivevano gli irpini. Negli anni 30 emersero negli scavi quattro monumenti oschi: un'epigrafe dedicata a Mamers (Marte), un'ara di tufo dedicata alla Dea Mefite di un santuario della Via Appia, e un'epigrafe su una costruzione ordinata da Magio Falcio ed una sul Dio Fauno.

Mamers o Marte era la divinità protettrice dei Sanniti, popolo infatti molto bellicoso. La Dea Mefite era la Grande Madre dei Sanniti e un po' di tutta l'Italia centrale dell'epoca. In quanto al Dio Fauno era il consorte della Dea Fauna, un tempo Signora delle belve, o Potnia Theron, 

Tra il 1970 e il 1980, poi, altri scavi hanno portato alla luce un’antica domus romana che gli abitanti della fortificazione utilizzavano anche come magazzino, e al cui interno si sono rinvenuti recipienti in terracotta per la cottura a la conservazione dei cibi.

Si sono poi reperiti i resti di una basilica paleocristiana, le cui origini risalgono ai tempi di Giustiniano. Si tratta di una costruzione molto imponente che presenta tre navate, un fonte battesimale e una scalinata..

Aeclanum era interessata a diverse strade: la via Aeclanum - Aequum Tuticum che la collegava alle Puglie, la via Herculia che attraversava la parte orientale della giurisdizione eclanese e la via Aurelia Aeclanensis che procedeva in direzione di Ordona.

Al periodo romano, per lo più imperiale, risalgono la costruzione ed il rifacimento di opere pubbliche come le Terme, il Macellum, il Gimnasium, il Foro, l'Anfiteatro, il Teatro ed il "forum pecuarium" (mercato del bestiame da pascolo).



EDIFICI E MONUMENTI:
  1. Terme dei nobili (con il "Calidarium", il "Tepidarium", ed il "Frigidarium" del II sec. D.C., ancora oggi visibili)
  2. Piazza Mercato detta Macellum
  3. La casa del vetraio
  4. Canali di scolo
  5. Botteghe
  6. Resti di abitazioni private
  7. Una grande Domus (datata al I sec. d.c.)
  8. La Basilica Paleocristiana
  9. Strade Roman
  10. Necropoli Eneolitica di Madonna delle Grazie
  11. Località Passo : Necropoli (II e il III sec. d.c. ma utilizzata fino al IV sec.).
  12. Località Madonna delle Grazie: Tombe della Cultura del Gaudo (III millennio a.c.)
  13. Mura Difensive e Torri adiacenti
  14. Statua di Niobide
Non è stato riportato alla luce l'anfiteatro, che certamente doveva esserci e che lo storico locale Raimondo Guarini cita come una struttura che  "chiamavasi Coliseo" e che comprendeva "varie cave destinate al ricovero delle bestie feroci".

LE TERME

LE MURA

Dopo che Silla ebbe fatto incendiare le mura lignee della città, con l'avvento romano si dovè innanzitutto ricostruire la sua cinta muraria; opera onerosa alla quale presiedè nella sua dignità di “patronus”, contribuendo di molto anche economicamente.

Questo benefattore fu Caio Quinzio Valgo, suocero di P. Sevilius Rullus, tribuno della plebe, uno degli uomini più ricchi del momento, capoparte sillano e proprietario di vasti latifondi in Irpinia, come riporta Cicerone, il quale anche a Pompei aveva voluto elargire in pubbliche munificenze parte delle sue acquisite ricchezze.  

Egli è ricordato da Cicerone nell'orazione contro la sua legge agraria, con la quale mette in evidenza gli sconfinati possedimenti di cui si appropriò presso Cassino ed in Irpinia, approfittando del caos politico durante la guerra tra Mario e Silla, divenendo così il più grande proprietario terriero dei Sillani.

La cinta muraria romana, alta circa 10 metri, fu realizzata in muri a sacco, rivestiti in opus reticulatum composto da prismi di travertino e alcuni di pietra serena, ed abbracciava un’area di circa 18 ettari che si estendeva verso sud, a delimitare un pianoro di forma triangolare. Le mura avevano almeno tre porte fiancheggiate da torri quadrate, e ogni 20 m si ergeva una torre di guardia più piccola.



IL MACELLUM

Il Macellum, mercato all’aperto per carni e pesce, è ora una piazzetta centrale rotonda ed una vasca che sicuramente era una fontana, come usava a Roma per ogni macellum.

IL MACELLIM
Ancora oggi a Roma si usa, nei mercati, una fontanella zampillante, la cosiddetta nasona, utile per innaffiare i prodotti per mantenerli freschi, ma soprattutto per ripulire la piazza a mercato concluso. 

Il mercato era naturalmente coperto come usava nelle città romanizzate.  L'opera era in laterizio era ricoperta in pietra locale, travertino bianco e marmi.

Quel che invece non era frequente per i romani è la pianta circolare del mercato, che troviamo solo, oltre che ad Aeclanum, al Alba Fucens in Abruzzo e a Ordona in Puglia. La tholus macelli aeclana è costituita da alcuni pilastri in opus vittatum e la pavimentazione, in pietra locale, è arricchita da inserti di marmo marmo.

Su questa piazza si ergeva, ancora oggi visibile, un edificio a mura quadrate con una costruzione centrale a pianta circolare, ubicata a nord del supposto foro, sicuramente circondata da un porticato dove si aprivano numerose tabernae (botteghe). 

La particolarità è che il mercato consiste in un cerchio iscritto in un quadrato dove il quadrato è il porticato e le tabernae erano a spicchi dentro il cerchio, delle taberne disposte a raggiera con pianta a trapezio e pareti davanti e dietro ricurve, ai due lati invece oblique.

Ogni lato del quadrato porticato doveva misurare 27 m e il cortile quasi 20 m di diametro. Purtroppo gli scavi, eseguiti nel 1956-7 portarono alla luce solo il cortile e due locali delle tabernae a sud. Il resto è ancora sepolto.

LE TERME

LE TERME

Su una piccola altura, a nord-ovest, si estendeva un bel complesso termale, le cui strutture sono ancora ben conservate per un’altezza notevole, in alcuni casi fino all’attaccatura delle volte. 

All’interno del complesso, al momento degli scavi, furono rinvenute statue e decorazioni marmoree, nonchè vasche coperte a mosaico, che attestano la magnificenza raggiunta dal centro irpino, soprattutto in epoca imperiale, nel corso del II sec. d.c.
Nell'area delle Terme fu rinvenuta una pregiata statua marmorea raffigurante Niobide ed oggi collocata in una sala del Museo Irpino di Avellino, ove sono esposti numerosi reperti provenienti da Aeclanum. In un'altra occasione fu raccolta un frammento di statua di Arpocrate, datata al II secolo d.c. e che rappresenta il Dio fanciullo con il corno dell'abbondanza.

Esse sono in opus mixtum, mattoni e pietra locale, con travertino a vista in opus reticulatum. Ne sono ancora visibili parti del tepidarium, del calidarium e del frigidarium.

LA DOMUS DEI VETRI

DOMUS DI TIPO POMPEIANO

Vicino a una strada basolata è visibile un’abitazione di tipo pompeiano con peristilio sostenuto da colonne in laterizio, originariamente coperte di stucco. 
Alla stessa abitazione appartenevano anche altri ambienti, con funzione di rappresentanza. 

In una fase successiva l’abitazione sembra cambiare destinazione d’uso, in particolare nel peristilio, che ha oramai perso la funzione di centro della casa per ospitare pozzi e apprestamenti per produzione artigianale. 

Il rinvenimento durante le fasi di scavo di una grande quantità di scorie di vetro ha fatto supporre che si trattasse di un’officina di vetraio.

FONTE BATTESIMALE DELLA BASILICA

BASILICA PALEOCRISTIANA

Era una grande composizione a tre navate, con pavimenti a mosaico e, al suo esterno, un fonte battesimale con pianta a croce greca e scalini per il rito del battesimo ad immersione.


ACQUEDOTTO ANIO NOVUS

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L'acquedotto ANIUS NOVUS, come l'Aqua Claudia, fu iniziato da Caligola nel 38 d.c.. (Suet. Cal. 20) e completato nel 52 da Claudio, che dedicò entrambi il I di agosto.

Sia le opere eseguite che lo scopo di questo acquedotto può definirsi il più ambizioso e innovativo degli acquedotti romani. Certamente è visivamente molto impressionante.

La costante crescita della Roma imperiale nei primi anni del sec. aumentò la domanda dell'acqua, ormai non solo per bere e lavarsi, ma anche per scopi di lusso e decorativi.

Frontino (2.14) indica che la sua sorgente fangosa era situata vicino a quella della Marcia e Claudia:

AD SPES VETEREM
"L'Anio Novus ha la sua assunzione alla 42 ima pietra miliare sulla via Sublacensis nel territorio Simbruibe, dal fiume Aniene, che scorre fangoso e torbido anche senza il cattivo effetto della pioggia, dal momento che sono stati coltivati i terreni intorno ad esso, e di conseguenza, il terreno è abbastanza sciolto. Per questo motivo una vasca di decantazione è stato installata dalla presa del condotto, dove l'acqua possa depositarsi ed essere filtrata tra il fiume e il canale dell'acquedotto. Ma anche così, giunge torbida in città quando ci sono forti piogge."

Traiano rispose alle carenze della fonte citata da Frontino spostando l'acquedotto a monte del lago formato quando Nerone arginò l'Anio per la sua villa.


Il costo dei due fu di 350.000.000 sesterzi, equivalente a 3.500.000 sterline (Plin. NH XXXVI.122; Frontinus, de aquis, I.4, 13, 15, 18‑21; II.68, 72, 73, 86, 90, 91, 93, 104, 105; Suet. Claud. 20; CIL VI.1256; IX.40511).

L'Anius novus accoglieva le acque nell’alta valle dell’Aniene, da cui derivò appunto il nome, al quale venne aggiunto l’aggettivo “novus” per distinguerlo dall’altro acquedotto Anio, il più antico, che da allora si chiamò “vetus”.

ANIUS NEL CANALE PIU' ALTO
L’acqua veniva presa direttamente dal fiume, circa 6 km più su delle sorgenti dell’aqua Claudia, presso Subiaco, al XLII miglio della via Sublacensis. Presso le sorgenti della Claudia, sull’altro lato del fiume, l'Anio riceveva le acque dal “Rivus Herculaneus”, che, provvisto di acqua più pura, lo migliorava non poco.

Le sponde dell’Aniene che spesso franavano intorbidavano spesso le acque si da rendere inefficace pure la “piscina limaria” ovvero l'apposito bacino di decantazione per la “pulizia” dell’acqua, si da giungere a Roma ancora torbida.

Nerone aveva fatto costruire, nella sua villa presso Subiaco, tre laghetti artificiali con dighe sul fiume e un sistema di chiuse, che funzionarono come grande piscina limaria.

I tre laghetti costituivano una notevole opera di ingegneria; il mediano era sostenuto da una diga colossale alta ben 40 metri, crollata assieme agli altri sbarramenti a causa di un'alluvione nel 1300.

La vicinanza dei due acquedotti con l'acquedotto Marcio permise agli architetti imperiali di costruire imponenti opere per l'interscambio delle acque, in modo che, in caso di manutenzione di un acquedotto, fosse possibile dirottare l'acqua sugli altri.


Come il Marcio, anche l'acquedotto di Claudio e l'Anio Novus erano dotati, nei pressi di Capannelle, di piscine limarie per la depurazione dell'acqua; da lì cominciava il tratto sopraelevato con le arcate in opera quadrata di peperino, che raggiungevano la massima altezza di 28 metri dalle parti di via del Quadraro.

Infatti  l'acqua derivava dal fiume Anio al 42° miglio della via Sublacense, ma quando cominciò a intorbidirsi, Traiano nel 98 usò due dei tre laghi formati da Nerone per la sua villa di Subiaco, la Simbruina stagna di Tacito (Annali XIV.22 (NS 1883, 19; 1884, 425; Giovannoni, Monasteri di Subiaco I.273).

In questo modo spostò l’origine dell’acquedotto, facendolo partire dal secondo dei laghi, dove oggi si trova il monastero di San Benedetto, allungandolo fino a quasi 59 miglia. 

La lunghezza 62 miglia data all'acquedotto originale nell'iscrizione di Claudio a Porta Maggiore  può essere un errore di 52 al posto di 62.

PARCO DEGLI ACQUEDOTTI


IL PERCORSO

L’Anio novus aveva il percorso maggiore di tutti gli altri acquedotti dell’epoca: 58,700 miglia romane, pari a 86,876 km, di cui circa 73 km sotterranei e circa 14 in superficie; la metà del percorso superficiale era condiviso con l’Aqua Claudia, al cui canale l’Anio novus si sovrapponeva dal VII miglio della via Latina per giungere a Roma sulle arcuazioni in buona parte ancora visibili nel Parco degli Acquedotti.

L'Anio Novus seguiva la valle dell’Aniene sulla sinistra del fiume, a circa metà strada tra Subiaco e Mandela si affiancava, ad un livello più elevato, prima al condotto dell’Aqua Claudia, poi a quello dell’Acqua Marcia e più avanti, dopo Mandela, a quello dell’Anio vetus.
Dopo Castel Madama si allontanava dal fiume per riavvicinarsi dopo aver aggirato un paio di alture. 

Lasciato un ramo secondario, proseguiva verso Tivoli su viadotti e ponti di cui rimangono importanti e imponenti resti, piegava a sud e quindi aggirava da ovest i monti Tiburtini.
Qui traversava un’ampia cisterna dell’epoca dei Severi, entro cui si univa di nuovo col ramo secondario lasciato prima di Tivoli. 

La cisterna era costituita da tre ambienti comunicanti e, oltre a fungere da piscina limaria, poteva integrare, l’Anio vetus, l’Acqua Marcia e l’Aqua Claudia che correvano più in basso.

Superato Gallicano in condotto sotterraneo, usciva di nuovo in superficie e, di nuovo su ponti e viadotti ancora visibili, accostava la via Prenestina, quindi raggiungeva la via Latina e poi la località Capannelle, dov'era un’altra piscina limaria dopo la quale il condotto si appoggiava a quello dell’Aqua Claudia.

Insieme a questo correva insieme fino ad entrare in Roma nella località "ad spem veterem", presso Porta Maggiore.





LE CARATTERISTICHE

La portata giornaliera dell'acquedotto, la maggiore di tutte, era di 4.738 quinarie, pari a 196.627 m3 e 2.274 l. al secondo, cioè 196,627 mq in 24 ore. 

Poco prima di Porta Maggiore 163 quinarie venivano cedute, con apposito condotto, all’acquedotto dell’Aqua Tepula.

Un'iscrizione del 381 d.c. testimonia un record di riparazioni, anche se non sappiamo con certezza quali parti siano state riparate (CIL VI.3865 = 31945).


Dalla sua piscina vicino al VII miglio della Via Latina, l'acqua era trasporata sugli archi dell'Aqua Claudia, in un canale immediatamente sovrapposto e fu il più alto livello di tutti gli acquedotti che entravano in città.

Questi archi finivano dietro gli Horti Pallantiani, ex Vigna Belardi, dove era situata la piscina terminale dei due acquedotti (LF 24; cf BC 1912, 163, 228-235; NS 1912, 195,. Anno 1913, 6 - 8).
Come la Claudia, la Anio Novus forniva le parti più alte della città.

Il terminale dell'acquedotto era un grande 'castellum' sul colle Esquilino, vicino al tempio di Minerva Medici che i Novus condivisi con il Claudia (cfr. D.27).

Prima delle riforme introdotte da Frontino, venne liberamente utilizzata per alimentare le carenze (in gran parte dovuto alla disonestà dei curatori come l'integerrimo Frontino ebbe spesso a constatare) di altri acquedotti, ma, essendo torbido, li rendeva impuri.

La rimozione dei suoi difetti, tuttavia, si dice che abbia reso la sua acqua uguale a quella Marcia, cioè piuttosto di qualità. (ib. II.93).

Il rapporto tra la Anio Novus e la Claudia è parallelo a quello tra la Tepula e la Julia. Le acque dei due acquedotti sono stati mescolati e poi separati da ogni canale entra in città.

Testimonianze archeologiche supporta questa connessione di vari 'Castella' e il posizionamento effettivo dei rispettivi specus. I due sistemi sono entrati Roma distinti tra loro, e vale la pena notare che la Arcus Caelimontani era una branca cruciale della Claudia.

Questa diramazione potrebbe essere stato costruito per alimentare la Domus Aurea, in particolare la sua vasta rete idrica, compreso lo 'stagnum' situato nella valle del Colosseo, e il ninfeo sul Celio. Potrebbe essere stato utilizzato per aumentare la fornitura di acqua sul Palatino e nel centro di Roma, dopo l'incendio del 64 dc.

A causa di questa manutenzione richiesta da questi due acquedotti, amministratori di acqua ed equipaggio di manutenzione vennero raddoppiati in numero. Altri uomini vennero impiegati per pattugliare i corsi delle linee onde smantellare i numerosi allacci illegali.

Qui a fianco una bella vista in uno dei canali dei doppi ponti per far attraversare all'acquedotto Anio Novus un affluente del Fosso di Gregorio nella Valle Barberini. Da notare il particolare del tetto e la cassaforma, che sono perfeti a tutt'oggi, dopo duemila anni circa.
Grande risalto è stato dato alla scoperta del caput aquae dell'Acquedotto Traiano, fra Bracciano e Manziana, in corrispondenza della chiesa rupestre di S.Fiora.

Uno per tutti, l'articolo pubblicato dall'Agenzia ANSA

CAMERA DI MANOVRA DEL CAPUT ACQUAE
Le fotografie allegate agli articoli, la posizione geografica, la descrizione dei luogi hanno subito riportato alla mente dei nostri soci Michele Concas e Marco Gradozzi un'esplorazione fatta nello stesso luogo insieme alla Dr.ssa Rita Santolini ed al Dr. Hubertus Manderscheid ad ottobre del 2005.

Acquedotto Traiano - l'accesso alla Camera di manovra

Come riporta Curatolo, il sito fu visitato fra il 1914 ed il 1927 da Thomas Ashby, il quale nel suo libro "Gli Acquedotti Imperiali di Roma" scrive:

"Gli unici resti scoperti dall'autore sono circa 125 metri ad est della cappella in rovina di S.Fiore...." ;

negli anni ’40 del '900 fu poi visitato da una commissione dell’Ufficio Tevere ed Agro Romano.

Che si trattasse dell'acquedotto Traiano non vi era dubbio.

E' l'unico acquedotto imperiale proveniente dalla zona di Bracciano (l'Alsietino proveniva dal lago di Martignano) e tutte le fonti riportano che una delle sorgenti si trovava lungo il fosso del Fiora.

A conferma di ciò il Cassio ricorda due tratti dello speco in opera reticolata e laterizia viste dall'Ashby non lontano dalla cappella di S.Fiora.

Che la chiesa rupestre sia un ninfeo poi modificato nel tempo, può essere.
Che questa sia la prima sorgente non si sa, mentre è certo che erano numerosi i punti dai quali l'acquedotto attingeva l'acqua prima di iniziare il suo tragitto verso Roma.

 Comunque una cosa è certa: queste notizie riescono ogni tanto, per fortuna, a riaccendere l'attenzione sul patrimonio archeologico sotterraneo troppe volte dimenticato.

Qui a lato: un tratto dell'acquedotto Traiano.

Da notare la perfezione dell'opera, con le pietre perfettamente allineate e connesse.




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Il Caput Aquae, acquedotto di Traiano

Scoperta la prima sorgente, risale al 109 d.C., vicino a Bracciano.

Rimasto sconosciuto fino ai nostri giorni, è stato incredibilmente ritrovato nella provincia di Roma, in una zona sul Fosso della Fiora al confine tra il comune di Manziana e di Bracciano, il Caput Aquae dell'acquedotto di Traiano, ovvero la prima sorgente del percorso attorno al lago di Bracciano dell'acquedotto inaugurato nel 109 d.C. per servire la zona urbana di Trastevere. 

CHIESA CAMPESTRE EX NINFEO
A fare la scoperta, due documentaristi inglesi, Michael e Ted O'Neill, impegnati in una ricerca sugli acquedotti romani, che si sono imbattuti nei resti di un ninfeo con straordinarie volte colorate in blu egizio. 

E l'importanza del ritrovamento è confermata dall'archeologo Lorenzo Quilici, professore di topografia antica all'università di Bologna, che definisce il ninfeo "stupefacente". 

Coperto da una grotta artificiale che accoglieva una cappella della Madonna, risistemata agli inizi del Settecento dai principi Odescalchi - anticipa Quilici che il 28 gennaio illustrerà la scoperta insieme con Michael e Ted O'Neill in una conferenza stampa a Roma - è venuto fuori un monumento "che si è rivelato un ninfeo, costruito all'origine delle prime sorgenti dell'acquedotto", un monumento straordinario, dice il professore, "che possiamo paragonare al Canopo di Villa Adriana o al Ninfeo di Egeria nel Triopo di Erode Attico sull'Appia Antica".

Si tratta, racconta Quilici, "di una cappella centrale dedicata al dio della sorgente o alle ninfe, che si approfondisce ai lati in due bacini coperti da straordinarie volte ancora colorate in blu egizio che, alla base, con un ardito sistema di blocchi messi a filtro, accoglievano l'acqua in due laghetti, dai quali partiva il canale dell'acquedotto". 

IL NINFEO
Le strutture, alte fino a 8-9 metri, sono realizzate, spiega il professore, "in opera laterizia e in opera reticolata assai raffinata e gli ambienti, con le volte a botte e a crociera, i pozzi, i cunicoli di captazione che vi si convergono, il canale che principia l'acquedotto sotterraneo sono oggi tutti percorribili perché privati dell'acqua". 

Entrarvi al momento é un'avventura, raccontano Michael e Ted O'Neill, padre e figlio, documentaristi per la Meon Htdtv Productions Ltd, perché il luogo, che si trova all'interno di una piccola proprietà dove si allevano maiali, è incolto e soprattutto coperto da un gigantesco albero di fico che con le sue radici scende fino al più profondo del ninfeo, minandone tra l'altro la struttura. 

Fatica ricompensata però, secondo Quilici, "dall'emozione di accedere a un monumento rimasto segreto per secoli e straordinario nella sua architettura". 
L'acquedotto di Traiano è stato il penultimo in ordine di tempo degli undici grandi acquedotti che rifornivano Roma antica.

Inaugurato nel 109 d.C, è rimasto praticamente sempre in funzione. All'inizio del Seicento Paolo V lo fece restaurare. L'acquedotto papale prendeva però l'acqua dal lago di Bracciano, come fa ancora all'incirca il condotto attuale, mentre l'acquedotto romano captava lungo il suo percorso le acque delle sorgenti che alimentavano il bacino. 

Per celebrare la sua opera, Traiano fece coniare anche delle monete sulle quali è raffigurata l'immagine semisdraiata di un dio fluviale sotto un grande arco affiancato da colonne. 

Per secoli si è creduto che l'immagine rimandasse alla mostra d'acqua che l'imperatore avrebbe costruito sul Gianicolo, anticipando di 1500 anni il fontanone di Paolo V. 

Ma forse - è l'ipotesi suggestiva degli O'Neill - quello raffigurato sulla moneta è proprio il ninfeo grotta di Bracciano, che ora, è la speranza di Ted e Michael che per questo si sono rivolti alla soprintendenza, dovrebbe essere studiato e restaurato.



IL FUTURO

Come annunciato nella conferenza stampa ufficiale del 28 gennaio 2010 presso l'Hotel Quirinale, partirà in futuro una Fondazione per restaurare e valorizzare il complesso, che attualmente versa in condizioni critiche: la fitta vegetazione che lo circonda a causa dello stato di abbandono (nella grotta anche due pompe che aspirano l'acqua dalle camere sottostanti per innaffiare i campi coltivati) ed un albero di fico con i suoi grossi rami stanno lesionando gravemente le strutture fino al più profondo del ninfeo.

Sarà necessario espropriare il sito con relativa servitù di passaggio e procedere quanto prima al restauro ed alla sistemazione di tutta l'area: in conferenza si è parlato di un ammontare di ca. 3 miliardi di euro per completare l'opera, ma come ricorda il prof. Quilici non è necessario fare tutto e subito, ma predisporre il lavoro affinché un domani il sito torni ad essere fruibile non soltanto per gli specialisti. 

Lodevole l'impegno dei due cittadini britannici, i quali dopo la scoperta si sono attivati per coinvolgere nell'iniziativa le autorità locali, le Soprintendenze, enti di ricerca italiani e stranieri, studiosi, appassionati e tutti coloro che a vario titolo possono finanziare ed interessarsi del monumento una volta passato il clamore mediatico della scoperta.

JULIA SOAEMIAS

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JULIA SOAEMIAS

Nome: Julia Soaemias
Nascita: 180 d.c. Apamea (Siria)
Morte: 11 marzo 222 d.c. Roma
Genitori: Gaio Giulio Avito Alessiano, Giulia Mesa
Parentela: Nipote di Settimio Severo
Figli: Eliogabalo
Fratelli: Giulia Mamea
Nipote: Alessandro Severo

Giulia Soemia nacque ad Apamea in Siria, era la prima figlia di Gaius Giulio Avito Alexianus e Giulia Mesa; divenendo poi la sorella maggiore di Julia Mamaea. Nel193, sposò un altro Apamean, Sesto Vario Marcello, un cavaliere romano con una brillante carriera.

Nello stesso anno lo zio di Soemia, Settimio Severo, diventò improvvisamente imperatore, dopo aver conteso il trono a Pescennio Nigro.

Quest'ultimo era governatore della Siria ed era stato proclamato imperatore dalle legioni orientali dopo l'uccisione di Pertinace e dopo la vendita all'asta del titolo imperiale a Didio Giuliano.

Tra le province che caddero sotto il suo controllo c'era l'Egitto, e ricevette sostegno dal governo della provincia dell'Asia. Settimio Severo, però prese Roma per primo, e quindi mosse quindi contro di lui in Oriente. Pescennio Nigro fu sconfitto e ucciso mentre tentava la fuga.



JULIA MAESA

Figlia di Giulio Bassiano, sacerdote del Dio Sole El-Gabal, adorato ad Emesa, Giulia Mesa, o Moesia, sposò Giulio Avito, cui diede due figlie, Iulia Mamea
 e Iiulia Soemia, che divennero entrambe madri di un imperatore.

IULIA MESA
Quando salì al trono suo cognato Settimio Severo, marito della sorella Giulia Domna, Mesa si trasferì a Roma a vivere la vita di corte insieme alla sorella.

Dopo la morte del nipote e imperatore Caracalla e il suicidio di Domna, Mesa ritornò in Syria, ma il successore di Caracalla, l'imperatore Macrino non la proscrisse, consentendole ingenuamente di tornare a Roma e di mantenere i propri beni. 

Mesa, come Soaemias, era però piuttosto ambiziosa e desiderosa di potere, e probabilmente in tal senso influenzò non poco la figlia che, anch'essa piuttosto ambiziosa, non mancò di seguirla.

Non paga di ciò Mesa organizzò un complotto contro Macrino pere mettere sul trono il figlio quattordicenne di Soemia, Sestio Vario Avito Bassiano: e a tale scopo, Mesa fece girare la voce che il nipote fosse in realtà il figlio illegittimo di Caracalla.

La manovra politico-militare riuscì e infatti Macrino fu deposto, anche perché era di oscure origini e senza legami politici, e il nipote di Mesa divenne imperatore, con nome di Eliogabalo.



GAIO IULIO BASSIANO

Per alcuni un discendente della principessa Drusilla di Mauretania oppure l'antenato della regina siriana Zenobia di Palmira. Si sa solo che nel 187 era gran sacerdote ad Emesa. Però di lui non si hanno molte notizie

Bassiano (... - 117 circa) era un membro della famiglia reale di Emesa, che aveva l'onere e l'onore di fornire i sacerdoti del Dio: il che comportava oltre che a una ottima remunerazione, anche a un notevole prestigio e influenza sulla città.

La famiglia reale di Emesa apparteneva all'aristocrazia siriana aramea nonchè era un regno cliente dell'Impero romano.
Lucio Settimio Severo, allora solo un ufficiale romano, aveva visitato Emesa per un oroscopo che gli aveva rivelato che avrebbe trovato sua moglie in Siria.

Bassiano gli presentò le sue due figlie, Giulia Soemia e Giulia Avita Mamea, avute da un primo letto, e la figlia minore Giulia Domna, che. Severo sposò poco dopo, e da cui ebbe due figli, Lucio Severo Bassiano (186-217), cioè Caracalla, e Publio Settimio Geta (189-211).



SESTO VARIO MARCELLO

Sesto Vario Marcello, cioè Sextus Varius Marcellus (165 -.215): era nato da una famiglia aristocratica nella città di Apamea in Siria, e sposò Julia Soaemias, divenendo poi padre del futuro imperatore Heliogabalo (218-222).

Il matrimonio di Soemias con Sextus potrebbe essere servito a Severo per rafforzare la sua posizione in oriente, tanto più che Iulia non era particolarmente bella.

Da parte del cavaliere, sposare la nipote dell'imperatore era un lasciapassare per ogni carica pubblica.

Salito al trono Settimio, Soaemias appartenne alla dinastia reale, per questo si sa che presenziò le feste secolari del 204, che venivano celebrate ogni 110 anni.

Più o meno nello stesso tempo, lei e suo marito festeggiarono la nascita di un figlio di nome Vario Avito Bassiano, nato nel 203 o 204.

Il fatto che il figlio prenda il nome dal padre di sua madre, Avito, suggerisce l'esistenza di un fratello maggiore, dal nome del padre di suo padre. La famiglia viveva a Roma, dove sono noti per essere stato presenti durante i Giochi secolari del 204.

IULIA SOAEMIAS
Si narra che Julia Soaemias avesse avuto un tempo avuto una breve relazione con Caracalla, e che Varius Avito Bassiano fosse in realtà il figlio dell'ex imperatore. Questo stratagemma era stato proposto da un uomo che è chiamato in vari modi, da Gannys a Eutichiano; egli è chiamato "amante di Soemia", che può essere vero o potrebbe essere un pettegolezzo.

L'iscrizione ci dice anche qualcosa sulla carriera Sesto Vario Marcello, e cioè che ebbe scarso successo, anche se non aveva compiti estremamente responsabili. La spiegazione di questo paradosso è che la sua carriera venne bloccata. Il potente prefetto del pretorio Severo, Plauziano, cercò di ostacolare l'ascesa di tutti gli altri nobili influenti, tenendoli fuori del loro ufficio. Una volta che Plauziano venne ucciso, nel 205, le cose cambiarono.
Il primo compito di Vario Marcello fu di procuratore della fornitura di acqua di Roma, il che significava che era responsabile per gli acquedotti. Fu un lavoro normale per un uomo che non apparteneva all'elite senatoriale di Roma, ma apparteneva però al secondo livello della classe superiore, l'ordine equestre.

Fu anche la funzione di un principiante, che venne pagato 100.000 sesterzi all'anno, come registrato nell'iscrizione, che lo menziona come un procuratore centenarius.
Dovette aver fatto bene il suo lavoro, perché  l'ufficio seguente fu di procuratore della Gran Bretagna, il che significava che doveva raccogliere le tasse di quella parte dell'Impero Romano. Ma la Gran Bretagna era, dal 208 al 211, una zona di guerra: 
L'imperatore Settimio Severo infatti inviò Marcello nella Britannia romana, nel 197, con il compito di aiutare il governatore Virio Lupo a riorganizzare la provincia: Marcello fece le funzioni di procuratore provinciale, raccogliendo le tasse e gestendo le finanze della Britannia, e forse sovrintendendo all'incameramento nella res privata dell'imperatore di terre private.
Severo, che stava cercando di conquistare la Scozia, dette fiducia a Vario Marcello, cui concedette un forte aumento. Divenne così un ducenarius procuratore, guadagnando ben 200.000 sesterzi.

Nel suo terzo ufficio, Varius Marcello guadagnò 300.000 sesterzi: era ora responsabile delle finanze private dell'imperatore. In questa veste, deve aver assistito al trasferimento del potere da Severo ai suoi figli Caracalla e Geta, nel mese di febbraio 211.

I due fratelli odiavano a vicenda, e prima della fine dell'anno, Caracalla avevano ucciso Geta (Dicembre 211). Questa fu una grave crisi, e Caracalla non si fidava del prefetto del pretorio nè dell'urbis praefectus. Si fidava invece di Varius Marcello a cui affidò entrambe le posizioni, come prefetto del pretorio al posto di Emilio Papiniano (213-216) e come praefectus urbi (tardo 211) in sostituzione di Lucio Fabio Cilone. Subito dopo venne ammesso in Senato, con il rango di un ex pretore.
Quasi immediatamente, venne nominato prefetto della tesoreria militare, concomitante al fatto che nel 212, Caracalla dette la cittadinanza romana a tutti gli abitanti maschi liberi dell'Impero.

Ne conseguì, sempre per legge, che tutti i beneficiati dovettero pagare un'imposta di successione del 5%, che venne utilizzata per pagare le pensioni dei legionari.
L'ultima funzione citata sulla lapide fu il governatorato di Numidia. Deve quindi essere morto in Numidia, o subito dopo il suo ritorno, prima che potesse aver raggiunto il consolato e prima della morte di Caracalla, altrimenti si sarebbe letto qualcosa circa la sua relazione con Macrino.

La sua lapide, dedicata da Soaemias e dai suoi figli, è stata rinvenuta a Velletri, non lontano da Roma. E 'interessante, perché dimostra, in primo luogo, che Eliogabalo aveva un fratello, un ragazzo che prese il nome dal padre di suo padre.

Sesto Vario Marcello aveva occupato posizioni molto importanti, ma è morto prima che i suoi meriti fossero stati debitamente ricompensati.



EPIGRAFE DELLA TOMBA DI VARIO MARCELLO

La lapide di Sesto Vario Marcello, noto agli studiosi come CIL10.6569, può essere trovata nel cortile dei Musei Vaticani ottagonale.

- Sexto Vario Marcello procuratori acquarum centenario
- Procuratori Brittanniae duocenario.
- Procuratori rationis privatae tracenario.
Le cariche per cui percepì relativamente 100, 200 e 300 sesterzi.



LA VEDOVA

Suo marito morì prima che Caracalla fosse assassinato nel 217 e gli successe Macrino, ma  Giulia Mesa, madre di Giulia Soemias, voleva riconquistare il trono che apparteneva alla sua famiglia.

Iulia Maesa procedette pertanto a corrompere la III legione Gallica, che ora sostenne la pretesa del figlio, che aveva già fatto il sacerdote del Dio del sole Elagabal ad Emesa.

ELIOGABALO
In seguito agli intrighi di corte, ai quali Soemias non fu esente, Macrino venne sconfitto e giustiziato, e la famiglia siriana tornò così a Roma.

Il ragazzo divenne il famoso Heliogabalus. Come sua madre, Soaemias ricevette il titolo di Augusta, e diverse monete furono coniate con il suo ritratto.

A sua volta Maesa, non potendo più essere Augusta, venne onorata dal nipote imperatore con il titolo di Augusta avia Augusti (Augusta, nonna dell'Augusto).

La proclamazione dell'imperatore avvenne nel 218 ad opera dei soldati della III legione Gallica (in Siria), a seguito delle trame di sua madre e sua nonna Maesa, sorella della moglie di Severo 'Giulia Domna'.

Come imperatore,  Avito viene di solito chiamato Eliogabalo, per aver adorato il Dio del Emesene sole Elagabal e per averno portato il culto a Roma.

Soaemias e Giulia Mesa  convinsero lui e il senato ad accettare il cugino Alexianus, il figlio di Julia Mamaea, come Cesare; questi, dopo l'adozione, venne chiamato Caesar Alessandro Severo.

Eliogabalo, che di avere doveri poco ne voleva sapere, divorziò si dalla Vestale che aveva osato sposare pubblicamente, ma si risposò con una signora romana, discendente della persona amata dell'ex imperatore Marco Aurelio.

Ma la cosa non finì qui, perchè nel mese di dicembre 221, Eliogabalo risposò Aquilia Severa, la vestale, e cercò di sbarazzarsi di Alessandro Severo, figlio di Giulia Mamea. Entrando Eliogabalo in rivalità con cugino, Mesa fu più favorevole al secondo e si ritiene che avesse avuto un ruolo nel successivo assassinio di Eliogabalo per opera della sua stessa guardia pretoriana. Tutto questo anche se coinvolgeva sua figlia Giulia Soemias.
Fattostà che Giulia Mesa e il Senato appoggiarono il caesar Alessandro Severo, che si era dimostrato molto più saggio e dignitoso di suo cugino e l'11 o il 12 marzo 222, Eliogabalo e Soaemias vennero linciati dai soldati, e condannati poi alla damnatio memoriae per comportamenti dannosi e oltraggiosi verso Roma.

Si trattava di una pena particolarmente aspra riservata agli hostes, ossia ai nemici di Roma e del Senato, reali o presunti o divenuti tali dopo essere caduti in disgrazia del potere politico. Si cancellava ogni traccia dell'esistenza del nemico sia cancellando il suo nome sia cancellando la sua immagine da qualsivoglia immagine o scultura, come se non fosse mai esistita.

TEMPIO DEL SOLE NEL CIRCO MASSIMO

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IL TEMPIO DEL SOLE AL CIRCO MASSIMO

IL CIRCO MASSIMO

Il Circo Massimo venne realizzato per il divertimento e gli spettacoli, sia sacri che profani, come la corsa delle bighe, dei cavalli e le lotte dei gladiatori. È una delle più grandi arene mai costruite: lungo 600 metri e largo 140, il circo poteva ospitare fino a 300.000 persone. Ha una forma ad "U" e le gradinate per il pubblico sono disposte su tre lati.

Fu uno degli edifici più antichi di Roma, che risaliva infatti all’epoca dei Tarquini (Tarquinio Prisco fu il primo dei re etruschi di Roma), poi modificato e ingrandito più volte.

Per alcuni secoli le strutture rimasero in legno; le prime opere in muratura iniziarono dopo il II secolo a.c.. Così in questa era al circo vennero aggiunti i carceres, cioè le gabbie di partenza dei carri, e la spina, cioè il muretto che divide la pista a metà in senso longitudinale.

Sulla spina si ponevano sette uova di pietra (e in seguito sette delfini in bronzo) per contare i giri delle bighe.

Danneggiato da un incendio, il Circo venne ricostruito da Augusto, che aggiunse il pulvinar, cioè la zona riservata all’imperatore, e fece innalzare sulla spina l’obelisco egiziano di Ramsete II (oggi a Piazza del Popolo). 

Col tempo si aggiunsero nuove strutture, decorazioni in marmo, statue, archi, colonne, portici . Sotto Costantino fu aggiunto l’altro obelisco egiziano di Thutmosis III (oggi a piazza San Giovanni in Laterano).

Nel circo da quindici anni si svolgono lavori di scavo, consolidamento e restauro; è in preparazione un progetto per la sistemazione dell'area archeologica, così come per l'organizzazione della Torretta e di alcuni ambienti limitrofi relativi alla Marrana come antiquarium del circo.

IL TEMPIO DEL SOLE

IL TEMPIO DEL SOLE AL CIRCO MASSIMO

Si sa che ve ne era uno proprio all'interno del Circo Massimo, in quanto la religione pagana sapeva unire il sacro col profano, cioè il culto alla divinità colla festa e il divertimento.

Coll'avvento del Cristianesimo la festa religiosa significa solo astensione dal lavoro ma niente divertimento perchè la mente mana nel frattempo si è ancor più scissa relegando alla religione il sacrificio e al peccato il divertimento.

Nel Circo Massimo dunque il tempio, quello col tetto a due spioventi, si ergeva di fronte alla spina del circo e non distante dalla tribuna d'onore dell'imperatore che si vede sulla destra.

MONETA RITRAENTE IL CIRCO MASSIMO
Il Dio Sole riguardava molto da vicino l'auriga che correva nell'arena, essendo il Dio guidatore infallibile del carro solare che ogni giorno faceva salire nel cielo per farlo ridiscendere dietro l'orizzonte.

Il carro del sole veniva dai romani concepito come una quadriga, quadriga che fu usata anche per Giove ma pure per l'apoteosi degli imperatori romani.

Sul Mausoleo d'Augusto l'imperatore appariva infatti alla guida di una quadriga di bronzo dorato.

Per contro la Luna guidava sempre una biga, probabilmente in quanto divinità minore e pure per il percorso apparentemente più lento.

Non dimentichiamo che nello stesso circo, il 28 agosto, si celebravano i Ludi Circensi in onore del Sole e della Luna. Tacito ci parla dell'antico tempio del Sole in circo Maximo come di un "Vetus aedes apud circum". Tertulliano fu ancora più esplicito, dichiarando il circo consacrato al Dio Sole di cui brillava un'immagine bronzea sulla sommità del tempio a lui consacrato ed eretto dentro al circo, esattamente sulle gradinate.

Di questa immagine esiste una riproduzione sul sesterzio di Traiano ma molto semplificato con la sagoma di un tempio e un grande sole in mezzo.

Presso il Circo Massimo venne infatti rinvenuta una lastra di bronzo con un'immagine del Dio Sol e con la scritta : INVENTOR LUCIS. Forse un ex voto del tempio o la lastra per una vittoria ottenuta.



AEDES SOLIS

"Un tempio arcaico posto entro il  Circus Maximus e dedicato al Dio Sole, a cui il circo era stato consacrato, (Tert., De spect. 8; Humphrey 269-71, Richardson, Ciancio Rossetto); il tempio fu costruito nel sito dell'Aventino, proprio opposto alla linea di confine e va dal Pulvinar al Circum Maximum (Humphrey 94; see fig. 9).
Tacito, in in un preciso riferimento al tempio, lo denomina un vetus aedes nel 65 a.c. (Ann. 15.74.1); una successiva testimonianza in numismatica si può riconoscere nel denarius di Mark Antony datato al 42 a.c., che mostra un piccolo, santuario dedicato al Dio Sol (RRC 496/1; Ciancio Rossetto; Humphrey). 
Notare che qui la Luna non venne adorata fin oltre il 64 d.c., (secondo altri c'è un errore, da leggersi la Luna venne adorata) quando il fuoco distrusse il suo tempio sull'Aventino (Humphrey). Sull'esatta locazione e forma del tempio Augustano non si sa molto".




I SACRI MISTERI

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"Felice colui, tra gli uomini viventi sulla terra, che ha visto queste cose!
Chi invece non è stato iniziato ai sacri misteri, chi non ha avuto questa sorte non
avrà mai un uguale destino, da morto, nelle umide tenebre marcescenti di laggiù
."

(Inno a Demetra)

Possiamo suddividere i Sacri Misteri in queste principali categorie. anche se in effetti ce ne furono parecchi altri. Tanto per farne un esempio anche il culto di Mitra aveva un culto misterico riservato e le sue cerimonie di svolgevano nel sottosuolo.

- Misteri Lernici (di Dioniso e Demetra)
- Misteri Isiaci
- Misteri Dionisiaci
Misteri Eleusini ( riti religiosi misterici che si celebravano nell’antica città greca di Eleusi)
Misteri Lernici di Dioniso
Misteri Orfici
- Misteri della Grande Madre



MISTERI ELEUSINI

La Storia

I riti eleusini erano antichissimi, si svolgevano già prima dell’invasione ellenica (periodo miceneo, circa 1600-1100 a.c.). Secondo alcuni studiosi il culto di Demetra fu fondato nel 1550 a.c.


I MISTERI ELEUSINI
Eleusi fu una città-stato indipendente fino al VII sec. a.c., divenendo parte dello Stato ateniese, per cui i riti si estesero a tutta la Grecia e alle sue colonie.

La città divenne un centro importante per il culto di Demetra, a cui era dedicato un tempio di epoca micenea, posto sull'acropoli.

Il tempio era noto per la celebrazione di riti di iniziazione detti Misteri Eleusini.
Riferimenti alla città e ai Misteri si trovano in diversi miti greci.

Ebbero larga diffusione anche a Roma e perfino Cicerone, gli imperatori Adriano, Marco Aurelio (che ebbe come mistagogo Erode Attico) e Gallieno ne seguirono il percorso spirituale.

Il santuario fu chiuso da Teodosio I nel 381. Pochi anni dopo Eleusi fu presa e saccheggiata dai barbari, e nel 396 venne abbandonata. Nessuno seppe mai cosa avvenisse in questi misteri.


I Misteri

I misteri rappresentavano il mito del ratto di Persefone, strappata alla madre Demetra dal re degli Inferi, Ade, in un ciclo di tre fasi, la "discesa" (la perdita della figlia), la "ricerca" (della figlia) e l'ascesa (alla terra), dove il tema principale era la "ricerca" di Persefone e il suo ricongiungimento con la madre.

Il rito era diviso in due parti: la prima, i Piccoli Misteri, era una specie di purificazione che si svolgeva in primavera nel mese di Antesterione, la seconda, Grandi Misteri, era un momento consacratorio e si svolgeva in autunno nel mese di Boedromione (settembre-ottobre). Secondo i moderni la cerimonia voleva rappresentare il riposo e il risveglio perenne della vita delle campagne.

I riti erano in parte dedicati anche alla figlia di Demetra, Persefone, poiché l’alternarsi delle stagioni ricordava l’alternarsi dei periodi che Persefone trascorreva sulla terra e nell’Ade.

KERNOS PER IL CICEONE
I riti, le cerimonie e le credenze erano tenute segrete.

Gli iniziati credevano che la vita non finisse con la morte, ma non che ci fosse un premio o un castigo.

I vari aspetti dei Misteri sono rappresentati su molti dipinti e ceramiche.

Poiché i Misteri comprendevano visioni e invocazioni a una vita oltre la morte, alcuni studiosi ritengono che il potere e la longevità dei Misteri Eleusini derivasse da agenti psichedelici, collegati all'utilizzo di pane a base di segala cornuta, cioè segala contaminata dal fungo claviceps purpurea.

Per molti studiosi ciò che non capiscono loro non è da capire, è folle.


Mircea Eliade scrive:

" - Il primo giorno la festa si svolgeva nell'Eleusinion di Atene, ove il giorno prima erano stati solennemente trasportati da Eleusi gli oggetti sacri.
- Il secondo giorno la processione si dirigeva verso il mare. Ogni aspirante all'iniziazione, accompagnato da un tutore, portava con sé un porcellino che lavava nelle onde e sacrificava al ritorno ad Atene.
- Il giorno successivo, alla presenza dei rappresentanti del popolo ateniese e delle altre città, l'Arconte Basileus e la sua sposa eseguivano il grande sacrificio.
- Il quinto giorno segnava il momento culminante delle cerimonie pubbliche. Un'enorme processione partiva all'alba da Atene. I neofiti, i loro tutori e numerosi Ateniesi accompagnavano le sacerdotesse che riportavano ad Eleusi gli oggetti sacri.
Verso la fine del pomeriggio la processione attraversava un ponte sul Kephisios, e là uomini mascherati lanciavano insulti contro i cittadini più importanti.
Al calare della sera, con torce accese, i pellegrini entravano nel cortile esterno del santuario.
Una parte della notte era dedicata alle danze e ai canti in onore delle dee.
- Il giorno successivo gli aspiranti all'iniziazione digiunavano ed offrivano sacrifici; circa i riti segreti (le teletes) possiamo, però, soltanto avanzare alcune ipotesi.
Le cerimonie che si svolgevano all'esterno e all'interno del telesterion si riferivano probabilmente al mito delle due Dee. Si sa che gli iniziandi, con le torce in mano, imitavano Demetra vagante con fiaccole alla ricerca di Persefone
 ".


Clemente Alessandrino ci ha tramandato la formula sacra dei misteri:
"Ho digiunato; ho bevuto il ciceone (bevanda rituale); ho preso nel cesto e, dopo averlo maneggiato, ho deposto nel cesto, poi, riprendendo dal cesto, ho riposto nel cesto".

Probabilmente il paniere rituale simboleggiava il mondo infero e l'iniziando, scoprendolo, scendeva agli Inferi. A seguito di questa misteriosa manipolazione degli oggetti sacri, l'iniziato era nato di nuovo e si considerava da ora in avanti come adottato dalla Dea.



MISTERI LERNICI DI DIONISO

Nati nell'antichissima zona di Lerna riguardavano il mito di Demetra e Dioniso. Il segreto della fonte di Lerna era il dono di Poseidone quando giaceva con la figlia "senza colpa" (l'unica delle 50 sorelle che rifiutò di uccidere il proprio marito) di Danao, Amimone.

DEA DI LERNA
Lerna è stato uno degli ingressi degli Inferi, e gli antichi Misteri di Lerna, sacri a Demetra, venivano qui celebrati. Pausania (2.37.1) dice che i misteri sono stati avviati da Filammone, gemello di Autolico, che avrebbe anche stabilito le frasi in prosa e poesia che accompagnavano il rito. 

Si diceva poi avesse inventato pure i cori femminili.

Al Lago Alcyonian, l'ingresso agli inferi poteva essere raggiunto da un eroe che avesse osato sondare le profondità del lago, come fece Dioniso,  alla ricerca di sua madre Semele. Per i mortali il lago era estremamente pericoloso. 

Secondo Pausania:
"Non c'è limite alla profondità del lago Alcyonian, e non so di nessuno che con qualsiasi artificio sia stato in grado di raggiungere il fondo di esso in quanto nemmeno Nerone, che aveva fatto fare molte corde di diversi stadi legate tra loro, senza omettere nulla che potesse aiutare il suo esperimento, è stato in grado di scoprire il limite della sua profondità. Anche questo, ho sentito. L'acqua del lago è, in apparenza, calmo e tranquillo, ma, anche se è tale da guardare, ogni nuotatore che si avventura ad attraversarlo è trascinato verso il basso, risucchiato in profondità, e spazzato via".



MISTERI DELLA GRANDE MADRE 


Misteri di Cibele

Cibele è un'antica divinità anatolica, venerata come Grande Madre Idea, dal monte Ida presso Troia, Dea della natura, degli animali (potnia theron) e delle selve, veniva raffigurata seduta sul trono tra due leoni o leopardi, spesso con in mano un tamburello e con su il capo una corona turrita.

Era venerata soprattutto a Pessinunte, nella Frigia, e da lì si estese nel VII sec. a.c.nelle colonie greche dell'Asia Minore e nel Mediterraneo.

La Dea ebbe un figlio senza concorso maschile, Attis, che crebbe e divenne il suo amante, infedele però poichè la tradì con la ninfa Sangaride. Durante il banchetto nuziale di Attis con la figlia del re di Pessinunte, l'ermafrodito Agdistis si sarebbe innamorato del giovane ma, non essendo corrisposto. lo fece impazzire, facendolo fuggire sui monti. Qui Attis si uccise evirandosi o gettandosi da una rupe. Sembra che Attis sia poi resuscitato, esattamente come la vegetazione annuale, che muore in autunno per resuscitare in primavera..

Nelle cerimonie funebri che si tenevano nell'equinozio di primavera, i sacerdoti della Dea, i Coribanti, suonavano tamburi e cantavano in una sorta di estasi orgiastica, nel corso della quale alcuni arrivavano ad evirarsi con pietre appuntite. 

Catullo descrive i coribanti come eunuchi che vestivano da donna. Virgilio riferisce che nei pressi di Avellino, dove oggi sorge il santuario di Montevergine si trovava un tempio dedicato di Cibele. In effetti oggi Montevergine è un luogo di culto per persone omosessuali e transessuali, che ogni anno, in occasione della festa della Candelora, si recano al santuario per accendere una candela in omaggio all'icona della Madonna nera.

In Sicilia, a Palagonia (CT), ogni anno si svolge "'A Spaccata 'o pignu" (La spaccata del pino) alla vigilia della festa di Santa Febronia (il 24 giugno). Si pone pertanto sull'altare maggiore della Chiesa Madre una grande pigna che schiudendosi svela al suo interno l'immagine della Martire, che viene incoronata e assisa in cielo dagli angeli tra scene di giubilo e grida entusiastiche dei fedeli presenti. 

La pigna sarebbe il corpo mortale che libera l'anima di Febronia dopo i vari supplizi patiti per andare in paradiso, ma sembra chiaro si tratti di una rivisitazione del culto di Cibele e di suo figlio.



A ROMA

Il culto di Cibele, la Magna Mater dei Romani, fu introdotto a Roma il 4 aprile 204 a.c., quando la pietra nera aniconica (priva di immagine), simbolo della Dea, vi fu trasferita da Pessinunte per scongiurare la disfatta ad opera di Annibale, secondo il responso tratto dai sacerdoti dai Libri Sibillini.

Il simulacro della Dea venne posta sull'Ara nella Curia del Foro e infine in un tempio a lei dedicato sul Palatino nel 191 a.c. presso la casa di Romolo. La pietra nera, detta anche "ago di Cibele", costituiva uno dei sette pignora imperii, cioè uno degli oggetti che secondo le credenze dei romani garantiva il potere dell'impero.

« Ci furono sette garanzie a mantenere il potere a Roma: l'ago della Madre degli Dei, la quadriga di argilla dei Veienti, le ceneri di Oreste, lo scettro di Priamo, il velo di Iliona, il palladio, gli ancilia»
(Maurus Servius Honoratus In Vergilii carmina comentarii ad Aen,)

Durante la Repubblica venivano organizzate le e feste in onore di Cibele e Attis dal 15 al 28 marzo, quindi nell'equinozio di primavera, feste dette Megalesia, o Ludi Megalensi. Si procedeva pertanto al complesso rito del Sanguem.



RITO DEL SANGUINEM


Canna intrat

Le celebrazioni iniziavano il 15 marzo, con una processione, detta Canna intrat ("Entra la canna"), che giungeva al tempio di Cibele sul Palatino. I partecipanti, detti "cannofori", portavano al tempio fusti di canne, per commemorare l'esposizione di Attis bambino in un canneto. Secondo alcuni il rito derivava da antichi rituali propiziatori della pioggia in contesto agricolo.


Arbor intrat

I sette giorni seguenti la Canna intrat venivano considerati di espiazione, ed erano noti come Castus Matris ("Digiuno della Madre").

Il 22 marzo avveniva la processione dell'Arbor intrat ("Entra l'albero"), celebrante la morte di Attis. Quel giorno si tagliava il pino, simbolo del Dio, se ne fasciava il tronco con sacre bende di lana rossa, lo si ornava di viole e strumenti musicali e sulla sua sommità si ponevano le effigi del Dio giovanetto. L'albero veniva portato dai "dendrofori" fino al tempio di Cibele, dove avveniva la commemorazione funebre di Attis. Il culto venne proclamato ufficiale dell'Impero Romano a Lione nel 160 d.c.


Sanguem

Il 24 marzo era il Sanguem, o anche Dies Sanguinis: iniziavano le cerimonie funebri e i fedeli culminavano il compianto per la morte di Attis.

L'arcigallo, il gran sacerdote, si tagliava le carni con cocci e si lacerava la pelle con pugnali per spargere sull'albero-sacro il sangue che usciva dalle ferite, in ricordo del sangue versato dal Dio da cui nacquero le viole. Il gesto veniva imitato dagli altri sacerdoti, poi gli uomini che seguivano la scena iniziavano una danza frenetica e nell'eccitazione sguainavano le spade per ferirsi.

Il pino decorato veniva chiuso nel sotterraneo del tempio, da cui sarebbe stato rimosso l'anno successivo. La notte era poi passata nella veglia.


Hilaria  e Lavatio

Il giorno seguente, 25 marzo, il dio era risorto: si celebravano allora le feste chiamate Hilaria e per le strade vi erano cortei gioiosi. In epoca imperiale le celebrazioni prevedevano una processione della statua di Cibele. Il giorno della celebrazione era successivo all'equinozio di primavera, ovvero il primo giorno dell'anno in cui il periodo di luce è più lungo di quello della notte. 
Lo scopo della festività era proprio festeggiare il lento ma graduale svanire delle oscurità dell'inverno e l'attesa di una stagione più gioiosa e luminosa.
In questo giorno era il permesso qualsiasi scherzo o gioco, soprattutto il mascheramento. Ad ognuno era permesso assumere l'identità e l'aspetto di ciascuno, persino di appartenenti ad alte cariche pubbliche come i magistrati.


Requetio

Seguiva un giorno di riposo, detto il Requetio


Lavatio

Il giorno successivo, il 27 marzo giungeva il momento della Lavatio ("Abluzione") della statua di Cibele. La statua della dea, con incastonata sul capo la pietra giunta da Megalesia nel 204 a.c., veniva posta su un carro e portata fin dentro al fiume Almone.

Qui l'arcigallo lavava la statua, asciugandola e cospargendola di cenere. Canti e danze riaccompagnavano la statua al Palatino.


Initium Caiani

L'Initium Caiani era la cerimonia di iniziazione ai misteri di Attis, che veniva praticata il 28 marzo.
L'iniziazione avveniva in un santuario frigio situato sul colle Vaticano, fuori dalle mura. Gli iniziandi consumavano un pasto negli strumenti musicali, cimbali e timpani.

Poi veniva una processione, in cui veniva portato il "kernos", un cratere contenente dei lumi. Infine avveniva una ierogamia, in cui gli iniziati, identificandosi con Attis, celebravano le nozze mistiche con la Dea Cibele.

In epoca imperiale, il ruolo di Attis, la cui morte e resurrezione simboleggiava il ciclo vegetativo della primavera, dette luogo ai Sacri Misteri che si protrassero fino al al 389 quando l'Editto di Teodosio ordinò l'abbattimento di tutti i templi pagani.

MISTERI ORFICI

MISTERI ORFICI

Orfeo è un cantore greco, figlio di Eagro, re della Tracia e della musa Calliope. Le Muse gli insegnarono a suonare la lira, dono di Ermes e di Apollo, cui aggiunse due corde, che divennero nove. 

Il suo canto era magico e incantava le bestie inferocite. Partecipando alla spedizione degli Argonauti, Orfeo supplica gli Dei Cabiri della Samotracia, ai cui misteri egli è iniziato.

Amò fortemente la ninfa Euridice, che il giorno stesso delle loro nozze, per sfuggire alle insidie del pastore Aristeo, fu uccisa dal morso di un serpente velenoso. Orfeo va allora a cercarla negli inferi, riuscendo ad ammansire con la sua musica anche Cerbero e Caronte.

Giunto di fronte agli Dei dell'Ade riesce a commuovere anche Persefone che accetta di restituirgli l'amata purchè nel ritorno alla terra egli non si volga all'indietro. A un certo punto Orfeo non sente più i passi dell'altra e si gira, giusto per vederla svanire nel buio.

Poi le versioni di diramano, per alcuni Orfeo si ritirò sul monte Rodope, dove fu ucciso e dilaniato dalle Baccanti, stanche della sua musica lamentosa. La sua testa fu gettata nel fiume, ma continuò a cantare. Mentre tutti gli esseri viventi piansero la sua morte, gli Dei punirono la Tracia con una pestilenza, che sarebbe cessata solo quando la testa di Orfeo sarebbe stata ritrovata e gli fossero stati tributati gli onori funebri. Alla foce del fiume Melete un pescatore la ritrovò e lì fu costruito un santuario.

Secondo un’altra versione, Orfeo sarebbe morto perché aveva proibito alle donne la partecipazione ai misteri da lui istituiti. Dopo Euridice Orfeo avrebbe infatti ripiegato sull'amore per i fanciulli, innamorandosi profondamente di Calais, figlio di Borea. Con tale comportamento traviò anche i mariti delle donne di Tracia, che si infuriarono dilaniando il poeta, nutrendosi anche di parte del suo corpo. Infatti da molti Orfeo è considerato l'istitutore dell'omosessualità, ma non si tratta in effetti di omosessualità bensì di pederastia

L’orfismo in definitiva si distacca dagli altri culti misterici, segreti in quanto basati su consapevolezze ignorate dalla massa, fondandosi invece su prescrizioni precise di comportamento, con o senza consapevolezza, insomma più che sacri misteri sembra una religione.

L'Orfismo, che nasce nel VI secolo a.c., si basa sulla possessione divina propria dell'esperienza dionisiaca, e sulla convinzione delle pratiche di purificazione proprie dei Misteri eleusini.
I suoi principi sono:
- la credenza nella divinità dell'anima e quindi nella sua immortalità;
- per evitare la perdita di tale immortalità, la necessità di condurre una vita di purezza.
Per Pindaro
« Il corpo di tutti obbedisce alla morte possente,
e poi rimane ancora vivente un'immagine della vita, poiché solo questa
viene dagli dei: essa dorme mentre le membra agiscono, ma in molti sogni
mostra ai dormienti ciò che è furtivamente destinato di piacere e sofferenza
. »
(Traduzione di Giorgio Colli - La sapienza greca)

Quindi nell'Orfismo si riscontra per la prima volta un riferimento a un'"anima", contrapposta al corpo e di natura divina. Tale sciamanesimo si fondava sulle pratiche estatiche laddove però non era il Dio a "possedere" lo sciamano quanto piuttosto era l'"anima" dello sciamano che aveva esperienze straordinarie separate dal suo corpo.

Per l'Orfismo la morte di per sé non "libera" l'anima immortale che invece è destinata a rinascere:
tale liberazione poteva essere conseguita solo seguendo una "vita pura", la "vita orfica", in quanto
l'uomo, nella sua attuale costituzione, è conseguenza dell'uccisione del Dio Dioniso, ed in lui convivono un aspetto "dionisiaco" (lo spirito, l'anima) e un aspetto "titanico" (la materia, il corpo).

Tra le regole di vita del culto orfico: il vegetarismo, il divieto di compiere sacrifici animali, la castità o la temperanza. Il non mangiare carne riguarda il fatto che nell’animale potrebbe esserci un reincarnato, ma pure un discostarsi dal sistema religioso greco, che esercita sugli animali sacrifici cruenti. Non dimentichiamo che gli orfici dovevano evitare non solo il contatto con i morti, ma pure con le donne gravide e con il parto.

Dovevano indossare una veste bianca, simbolo di purezza, e mai vesti di lana, perché provenienti da animali. Tutto ciò non per rispetto degli animali ma per una ricerca un po' ossessiva di purezza, tanto è vero che gli orfici vivevano in comunità isolate, una specie di bramini attenti alla contaminazione.

Secondo l'Orfismo, lo spirito (daimon), che risiedeva nei cieli, ha compiuto un peccato ed è decaduto dal regno dei cieli sulla terra, incarnandosi in un corpo che utilizza per espiare la propria colpa (ora si capisce da chi l'ha preso il cristianesimo). 
Con la morte, l'anima trasmigra e si ricompone (non sulla base di un principio individuale, ma sul principio delle simili nature) in un altro corpo, che può anche non essere quello di una persona (questo dipendeva anche dal comportamento che il daimon ha tenuto nella vita precedente); se invece ha espiato la colpa, l'anima ritorna nel regno dei cieli.

Nell'Orfismo troviamo quindi diverse similitudini coll'odierno buddismo, la teoria delle reincarnazioni (anche in animali), a seconda delle colpe o dei meriti. La consapevolezza avviene per espiazione e non per comprensione. C'è insomma un giudizio con premio e castigo, come del resto nel cattolicesimo.

L'orfismo è dunque alla base di tutto il dualismo tra anima e corpo, bene e male che troverà la massima espressione nella religione cattolica provocando una forte spinta mentale e un forte distacco dal corpo, fonte, come Freud insegnò, di ogni attuale nevrosi.



LA REALTA'

Molto è stato scritto sui Sacri Misteri, spesso con molta confusione e poca fantasia. I Sacri Misteri venivano proposti a coloro che non si accontentavano della religione ufficiale, che non volevano adorare ma capire.

Si trattava di guardare all'interno di se stessi scoprendo che ciò in cui credevano era ciò che gli altri gli avevano raccontato e non ciò che essi stessi avevano scoperto. Il lungo cammino dei Sacri Misteri non seguiva un procedimento razionale come poi ideò S. Freud per sondare il profondo di ognuno, ma un percorso istintivo ed esperienziale, fatto di emozioni così forti da scardinare ogni idea preconcetta.

D'altronde gli antichi potevano affrontare queste cosiddette "Prove Iniziatiche" perchè erano molto meno mentali di noi e forniti di molto più istinto di noi moderni. Col passare dei secoli noi abbiamo coperto sempre di più il nostro mondo istintivo ed emozionale, per cui un sistema del genere su di noi non funzionerebbe perchè resteremmo chiusi a tali forti emozioni.

L'uso dei simboli al posto delle spiegazioni era perfettamente congruo a questo tipo di insegnamenti, perchè il simbolo non può essere compreso dalla mente ma solo dall'istinto. Ed è per questa ragione che gli alchimisti, gli ermetisti ecc. si inventarono dei loro simboli comprensibili solo facendo un percorso interiore. Infatti sul tempio di Delo, come narra Plutarco, stava scritto "Conosci te stesso", perchè la verità si scopre solo togliendo la mente condizionata.

L'iniziato si trovava perciò a demolire tutto ciò in cui aveva creduto fino a quel giorno, scoprendo poi, una volta caduta la mente condizionata, la vera essenza del mondo. Affrontava pertanto la morte e capiva cosa poteva esserci aldilà di questa, non per deduzione mentale ma per puro istinto, cioè non lo pensava ma lo sentiva con assoluta certezza.

L'iniziato non scopriva una vita nell'aldilà come hanno scritto diversi studiosi dalla mentalità un po' cattolica, cioè un dopo-morte con l'anima che veleggia come un fantasma, bensì scoprivano qualcosa che non è divulgabile, perchè per essere credibile va sperimentato.

Di certo solo pochi tra quelli che intraprendevano i Sacri Misteri giungevano a svelarli, ma coloro che ci riuscivano superavano la paura della morte e anzi l'accoglievano con assoluta serenità, il che permetteva loro di vivere molto meglio.

Il fatto che non sia possibile raccontare la propria esperienza perchè la mente comune non potrebbe accoglierla era tanto vero che nessuno, in 1500 di Sacri Misteri l'ha mai divulgati, perchè chi non li aveva scoperti non aveva nulla da dire a meno di inventarsi fandonie, chi l'aveva capito era tanto saggio da tenerselo per sè, da non avere nessuna voglia di divulgarlo per chiari motivi:
- perchè non aveva l'ansia di condividere la sua scoperta, avendo ormai perduto ogni paura.
- perchè sapeva che non sarebbe stato creduto
- perchè se per assurdo qualcuno l'avesse creduto, questi si sarebbe disperato e gli si sarebbe scagliato contro.
Tacere era l'unica strada possibile.

STATIO ANNONAE - APPROVVIGIONAMENTO DEL GRANO DI ROMA

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LA DEA ANNONA

Nella moneta della foto, nel cui diritto era effigiato l'imperatore Nerone, sono raffigurate, nel retro della stessa, la Dea Annona e la Dea Cerere, ambedue connesse alla necessità di grano  e alla sua reperibilità per la città di Roma.

Se la Dea Cerere (Ceres) infatti era la Dea delle messi, la Dea Annona era un'antica Dea italica, Dea dell'abbondanza e degli approvvigionamenti, insomma l'addetta alla protezione dei mezzi di trasporto del cereale, alla sua manutenzione e alla sua equa distribuzione.

Da non confondere pertanto con la Dea Abbondanza (Abuntantia), in quanto la Dea Annona presiedeva ad una sola stagione, ed era rappresentata di solito con le spighe in mano.

Il suo nome derivava da Annualis, da annus, anno, perchè ricorreva ogni anno, quando gli addetti romani vagliavano il raccolto per l'esazione delle imposte ma anche per garantire le scorte in caso di carestia.

Pertanto prese il nome di Annona il raccolto di grano di un'annata (annus), poi, gradualmente, ogni altra derrata prodotta da un territorio in un anno.
In seguito si intese con questo nome l'insieme dei prodotti agricoli raccolti in un anno per l'approvvigionamento di una città o di uno Stato.
Vi si aggiunse poi anche il magazzino adibito al deposito dei prodotti e l'ufficio che vi sovrintendeva.

Infatti la Dea presiedeva alla partizione del raccolto per la semina successiva e come granaio di riserva in caso di necessità, e in pratica naturalmente provvedeva a ciò il servizio statale dell'Annona, sotto gli auspici della Dea.

Durante la Repubblica romana il grano prodotto nelle regioni italiche era sufficiente ai bisogni dell’Urbe, ma la città subì una enorme urbanizzazione, Roma giunse a contare ben un milione e mezzo di abitanti, un numero inimmaginabile e unico per l'epoca.

MOSAICO DELLA CHIESA
Pertanto l'approvvigionamento fu sempre più gigantesco e complesso, pericoloso per giunta se il grano, che era la base del nutrimento dell'epoca veniva a scarseggiare, perchè il popolo romano, abituato ad avere voce in capitolo coi suoi governanti, protestava energicamente e non esitava a ribellarsi alle autorità. 

Fu necessario quindi un intervento sempre più ampio dello Stato, sia quando vi erano ritardi nella consegna del grano, sia quando scoppiavano carestie, che andavano coperte con larghe e frequenti distribuzioni gratuite o semigratuite di grano.

Ne andava della quiete cittadina e dell'immunità sia del senato che dell'imperatore. I romani sapevano farsi rispettare.

Augusto, da quell'uomo lungimirante che era, se ne occupò a fondo riformando l'ente in varie occasioni, finchè giunse ad affidare il delicato incarico a un Prefetto dell'Annona (Praefectus Annonae), un membro dell’ordine equestre che risiedeva nella Statio Annonae collocata presso il Foro Boario.



LA STATIO

La Statio Annonae, l'istituzione che gestiva l'approvvigionamento e garantiva la distribuzione di cibo al popolo romano, sorgeva in epoca imperiale esattamente nel sito in cui sorge oggi la Basilica di Santa Maria in Cosmedin in Roma, posta tra il Tevere, il Foro Boario e il Circo Massimo.

Ancor prima, però, quel luogo era stato sede dell'Ara Massima di Ercole, santuario molto venerato in quanto protettore dei commerci e quindi dei mercanti che pullulavano in quella zona per la navigabilità del Tevere che permetteva il trasporto delle merci dall'oltremare a Roma.

Con l'insediamento della Statio Annona il tempio si mantenne, tanto è vero che già nel I secolo a.c., Vitruvio cita un tempio a pianta rettangolare posto all'ingresso del Circo Massimo e dedicato ad Ercole Invitto o Pompeiano.

Probabilmente il tempio citato è proprio quello adiacente all'Annona, di cui peraltro si è rinvenuta l'ara esterna posta nelle fondamenta della chiesa.

Proprio per l'importanza del luogo, l'annona e gli edifici vicini divennero sede fin dal VI sec. di una diaconia cristiana, che cancellò così ogni traccia dei templi pagani e degli edifici pubblici romani, di tanta arte e bellezza che gli edifici successivi non riuscirono ad eguagliare.

La prima piccola chiesa fu fatta costruire da papa Gregorio I, la cui famiglia aveva grandi possedimenti nella zona, attorno all'inizio del VII sec..

All'epoca i papi venivano scelti infatti nell'ambito delle ricche famiglie aristocratiche romane, che avevano accumulato soldi nelle battaglie o nei traffici commerciali.

Papa Adriano I la fece ricostruire alla fine dell'VIII sec. dentro la struttura dell'antica sede dell'Annona, di cui la chiesa incorporò la struttura e il colonnato, dividendola in tre navate e abbellendola di splendide decorazioni.

Da notare che i testi dicono che la Chiesa, seppur di notevoli proporzioni, fu costruita dentro e non sopra l'Annona, e questo fa capire che la struttura romana doveva essere ben più vasta della chiesa.

D'altronde se provvedeva all'approvvigionamento del grano e degli altri prodotti basilari per l'alimentazione romana, si può capire quanto vasti dovessero essere i suoi magazzini, quanti dovessero essere gli impiegati addetti alla catalogazione e all'amministrazione dei beni e quanti gli operai addetti al trasporto e all'immagazzinamento degli stessi.

Già questi splendidi pavimenti cosmateschi se colpiscono per la loro bellezza, peraltro fanno rabbrividire nel comprendere quanto belli e vasti fossero i pavimenti marmorei originali, ricchi di marmi pregiati, tra cui i preziosissimi serpentino verde e porfido rosso, cave estinte già al tempo della caduta dell'impero.

La chiesa e i suoi annessi furono poi affidati ad una colonia di monaci greci che si erano rifugiati a Roma per sottrarsi alle persecuzioni degli iconoclasti e si erano stabiliti su questa riva del Tevere, dove era già insediata la comunità greca ed era per ciò nota come Ripa Greca.

Da questi la chiesa prese il nome di Santa Maria in Schola Greca, e divenne poi nota come Santa Maria in Cosmedin, dalla parola greca kosmidion (ornamento), probabile allusione al fatto che venne adornata pezzo a pezzo con i recuperi dei resti antichi..

Diversamente dalla gran parte delle chiese romane del periodo, questa chiesa non era sorta sulla tomba di un martire. Tuttavia ebbe anch'essa la sua cripta, scavata purtroppo nel podio della stessa Ara Massima.

Per questa ragione è possibile che il cosiddetto tempio di Vesta, che oggi si crede tempio di Ercole fosse, come ci consegna la tradizione, effettivamente dedicato alla Dea del focolare, perchè un tempio rettangolare era già vigente a un centinaio di m da detto tempio.

Per esperienza sappiamo che in genere le tradizioni riportano la verità, tanto che molti archeologi hanno scavato basandosi su queste e le loro aspettative non sono mai state smentite, in tutto o almeno in parte.

Come d'altronde è probabile che la dedica rinvenuta a Ercole Olivario, protettore dei mercanti di olive ed olii, non reperito all'interno del tempio ma adiacente ad esso, venisse invece dal tempio rettangolare che giaceva accanto all'Annona.

 L'interno della chiesa è oggi costituito da tre navate, separate da pilastri e da diciotto colonne di varia provenienza. Vale a dire che la provenienza è l'Annona e il suo tempio.

L'altare di granito rosso posto sul fondo dell'abside della Chiesa risalirebbe invece al 1123, ma stranamente ha l'esatta forma a vasca caratteristica delle fontane romane poste soprattutto nelle antiche terme, ma anche a decoro dei luoghi pubblici in genere. Tutto ne farebbe presupporre una provenienza di epoca imperiale.

Come già detto, sul medesimo luogo da tempo antichissimo si trovava l'Ara Maxima Herculis, di culto greco, che fin da tempi lontanissimi erano penetrati in Roma anche grazie alla colonia della Magna Grecia che aveva occupato tutto il sud della penisola italica.

Anche per il carattere di zona portuale e di commerci dell'aerea del Velabro fin dalla più alta antichità, la zona, ad esso prospiciente, aveva culti e riti di provenienza varia, ma soprattutto greca.

L'ara è stata identificata da diversi archeologi con il gigantesco blocco di tufo nel quale è scavata la cripta della chiesa, e vicino ad essa sorgeva un tempio di Ercole, che sopravvisse sino alla fine del XV secolo. la longevità del tempio fa capire quanto in realtà gli Dei pagani sopravvissero di molti secoli all'abbattimento legale e fisico delle divinità e dei culti pagani.

LE COLONNE DELLA STATIO ANNONAE

LE RIUTILIZZAZIONI

Le varie riutilizzazioni dei reperti romani derivarono da azioni diverse. prima l'abbattimento selvaggio di edifici, statue, colonne, cornicioni, mosaici ecc., per la furia iconoclasta del cristianesimo che faticava tantissimo ad abbattere una religione che anzitutto era viva da un millennio, ma che inoltre variava da luogo a luogo in una miriade di Divinità con miti, immagini e nomi diversi.

Secondariamente, visto il pesante scadere delle arti che seguì la caduta dell'impero sia per ragioni economiche ma soprattutto per la nuova religione che guardava con sospetto qualsiasi pratica che non fosse intenta a glorificare il Signore, le maestranze abilissime di cui Roma disponeva decaddero poco a poco.

COLONNE DELLA STATIO ANNONAE
Così si pensò bene di rispolverare quell'arte tanto esecrata e tutto quel marmo ormai diventato carissimo da acquistare.

Si iniziò a scavare i reperti spaccati e sotterrati, oppure si smontarono direttamente gli edifici costruendone dei nuovi con destinazione diversa, molto spesso religiosa, che si avvaleva però nell'ornamento dei resti della vecchia costruzione.

In tal senso fu edificata la Chiesa di Santa Maria in Cosmden, così ricca di mosaici tratti dai magnifici pavimenti romani da fornire una sia pur pallida idea di come potesse esser superbamente bella e vasta la Statio Annonae dell'epoca.

Ci accorgiamo così e gli archeologi lo confermano, che molte delle colonne utilizzate nella chiesa sono di provenienza antica, sradicate e riutilizzate seppur spesso di altezza e materiale diverso. Era tuttavia così caro il prezzo di una colonna se ordinato a una cava e poi fatta eseguire, che sarebbe stato pressocchè impossibile usufruirne.

Meglio dunque assemblare marmi diversi o far porre basi diverse sotto le colonne affinchè raggiungessero l'altezza richiesta.

Nella foto  si può notare che le due colonne di fondo della chiesa, parte lisce e parte scanalate, sono state sollevate con delle basette di riesumate e non identiche tra loro.

Ma pure le colonne del resto della chiesa hanno altezze diverse, marmi diversi e sono state acconciate con basi che ne sistemassero l'altezza.

Ciò riguarda pure le colonne del baldacchino sopra l'altare principale,
tutte scanalate, anch'esse reperti romani riesumati dalla Statio Annonae.

Il rifornimento del cibo per Roma era pertanto il chiodo fisso non solo del pretore dell'Annona ma dell'imperatore stesso, che non voleva certamente scontentare o peggio affamare il popolo romano col pericolo di veder scendere in piazza un milione di persone, molto difficili da tenere a bada con la guardia pretoriana.

Ragion per cui gli imperatori intelligenti se ne prendevano cura a loro volta e si curavano di rammentarlo al polo tramite le monete, che erano all'epoca i manifesti pubblicitari dell'imperatore.

Tutti usavano le monete, per cui non vi era pubblicità che potesse superarle, e dunque niente di meglio che instillare nel popolo che l'imperatore e la Dea Annona vegliassero unitamente sul popolo romano.

Questa Dea Annona fu talmente pubblicizzata e venerata nel culto ufficiale che nell'Urbe il suo culto soppiantò di gran lunga quello di Cerere, peraltro sentito molto di più dell'altra nelle campagne.

Tale tipo di moneta era così importante che fu usata da tutti gli imperatori, come questa moneta aurea di vespasiano, fino a Filippo I (244-249).



L'ARA MAXIMA

Aldisotto della chiesa è stata scavata una cripta, che in realtà ha tolto i massi di tufo all'Ara Maxima di Ercole che lì aveva il suo tempio, in qualità di protettore dei commercianti, come testimonia anche l'epigrafe dedicata a lui e trasferita nel tempio cosiddetto di Vesta, che sarebbe, non si sa perchè, un altro tempio di Ercole, a si e no 100 m dall'altro tempio sempre di ercole.

Anche la cripta, come del resto la chiesa superiore riporta colonne romane sottratte all'annona e pure magari al tempio di Ercole.

Il culto di Ercole Invitto, culto di origine greca che poi a Roma venne sostituito con il culto di Sol Invicto e successivamente di Mitra Invicto acquisito in oriente, non era dissonante coll'Ercole protettore dei commerci via mare.

Infatti le navi romane si trovavano a sovente a combattere contro i pirati che volevano depredarle dei preziosi carichi.

A Roma navigare significava commerciare e combattere insieme, per cui i commercianti assoldavano sulle loro navi veri e propri soldati corredati di armi e armature che si raccomandavano pertanto ad un Dio che molto aveva navigato con i greci.

Questi infatti  avevano navigato in lungo e in largo dalla Gracia e per tutto il Mare Nostrum per fondare le tante colonie instauratasi sul Mediterraneo e soprattutto in suolo italico dove avevano combattuto contro gli autoctoni fondando la vasta Magna Grecia.

L'Ara Maxima del Tempio di Ercole era posta, come in tutti i templi, alla base della grande scalinata che discendeva dal podio del tempio. I giganteschi lastroni in pietra ne testimoniano l'età molto arcaica, di certo preimperiale, e tutto fa pensare al podio del tempio coi suoi numerosi archi, su cui poggiava la gigantesca Ara.

Sappiamo del resto molto bene quanto il cristianesimo come religione ormai imperante nell'antica Roma, dimenticando la civile tolleranza romana per ogni altra forma di religione, cancellò fin la memoria degli Dei pagani e perfino dei monumenti dell'antica Roma, perchè tutto doveva essere distrutto e riedificato con nuove formule che cancellassero ogni traccia del passato impero romano.



MARIO MASSIMO

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STELE FUNERARIA DI MARIO MASSIMO

Nome: Lucius Marius Maximus Perpetuus Aurelianus
Nascita: 158
Morte: 230
Professione: Storico, Militare romano e Senatore.



LE ORIGINI

Lucio Mario Massimo Perpetuo Aureliano, ovvero Lucius Marius Maximus Perpetuus Aurelianus, noto in genere come Mario Massimo, nacque tra il 158 e il 160 da una famiglia originaria dell'Africa, esattamente come Settimio Severo, e fu figlio di Lucio Mario Perpetuo, appartenente all'ordine equestre, valente condottiero, visto che ottenne per le sue capacità il titolo di procuratore in Gallia Lugdunense e in Aquitania.



LA CARRIERA

Si distinse ben presto nell'attività sia militare che politica, si che divenne senatore sotto l'imperatore Commodo (180-192). Nel 193 salì al potere il suo conterraneo Settimio Severo, mentre Mario Massimo era legatus legionis (comandante di legione) della Legio I Italica, che si spostò in oriente per battersi con i Parti, ricevendo anche il titolo di Severiana.

La Legio I Severiana era stanziata nella Mesia Inferiore, dove avvenne lo scontro tra Severo e un altro pretendente al trono, Pescennio Nigro.

Mario Massimo si battè in favore di Severo di fronte a Bisanzio e ancora per lui si battè nel 197  nella Battaglia di Lugdunum, in cui venne sconfitto il pretendente Clodio Albino. 

A seguito di ciò Mario venne nominato governatore della Gallia Belgica. Nel 199 poi ottenne la nomina di console suffetto.
I suoi successi, il consenso dell'imperatore e la sua carriera furono tutt'uno. 

Severo lo nominò governatore della Germania Inferiore e poi, nel 208, della Coele-Syria.

Anni dopo divenne il primo ex-console a tenere in successione il proconsolato di Asia e Africa, avendo probabilmente ottenuto l'approvazione di Caracalla, ormai salito al potere, non meno di quanto avesse avuto quella del suo predecessore.

Ma le sue prestazioni furono apprezzate da molti perchè ottenne i favori anche del nuovo imperatore Macrino, che nel 217 gli concesse l'ambitissima e onorevolissima carica di Praefectus Urbis. Nel 223 per giunta venne eletto console per la seconda volta.

Ebbe anche ampie soddisfazioni in famiglia perchè suo figlio Lucio Mario Massimo ottenne il consolato nel 232.



LO SCRITTORE

Mario Massimo non fu mai inoperoso così, tra le sue varie mansioni riuscì a trovare il tempo per scrivere, compilando una serie di biografie di dodici imperatori, da Nerva ad Eliogabalo, continuando il lavoro di Svetonio, andato perduto; la sua opera era ancora letta nel IV secolo e fu utilizzata come fonte dagli storici dell'epoca, in particolare dagli autori della Historia Augusta. 

SETTIMIO SEVERO
La natura e l'affidabilità dell'opera di Mario Massimo, così come l'ampiezza della sua influenza sull'Historia, sono questioni ancora disputate tra gli studiosi.

Non è noto con certezza quando Mario abbia scritto la propria opera, ma è probabile che ciò sia avvenuto verso la fine della sua carriera.

Caesares, questo apparentemente il titolo dell'opera, era nelle intenzioni del suo autore una continuazione della De vita XII Caesarum ("Vita dei dodici Cesari") di Gaio Svetonio Tranquillo, in quanto copriva i regni dei dodici imperatori successivi a quelli descritti da Svetonio, da Nerva ad Eliogabalo. 

Sebbene fosse stato un testimone di prestigio e diretto di sette di questi regni, Massimo non adottò il sistema della cronaca come il collega Cassio Dione Cocceiano, ma scrisse in modo,leggero e disinvolto con ampiezza di ricco di aneddoti, qualche volta al limite del pettegolezzo, un po' come aveva fatto Svetonio. 

Per questo arricchì le sue storie con brani di lettere, editti senatoriali e altri documenti pubblici, ma sembra che, al pari di Svetonio, alcuni di questo documenti erano di pura fantasia.

I suoi scritti vennero criticati sia da Ammiano Marcellino che da Sofronio Eusebio Girolamo, due autori cristiani e pertanto poco amanti del frivolo. Venne disapprovato pure dall'anonimo autore della Historia Augusta, che però lo cita direttamente almeno 26 volte e forse altrove in maniera indiretta. 

L'opera di Mario Massimo, anche se costellato di alcune inesattezze, contribuì non poco alla storia dei suoi tempi. 

Sembra del resto che la narrazione dell'assassinio di Eliogabalo della Historia Augusta, ben narrata e infarcita di dettagli piuttosto verosimili, sembra sia stata attinta dall'opera di Massimo.



LA VIGNA DI UBERTO STROZZA (CESARE LANCIANI)

Ed ora un salto in avanti, siamo nel 1553, e si sta scavando nella II Regio Augusta, sul Mons Caelimontium, in un terreno posseduto da Uberto Strozza mantovano,  segretario apostolico e camerario del cardinale Pompeo Colonna..

Uberto Strozza, gravemente malato, fa testamento, donando al cardinale Ippolito d'Este  tutti i marmi trovati nella vigna da lui acquistata l'anno 1546 sulla spianata del Celio, vicino al Laterano (not. Reydet, prot. 6153, e. 642).

Ne parlano tanto Milziade che Ligorio e il sito, pianeggiante, è posto tra l'ospedale di Sancta Sanctorum, e s. Stefano Rotondo, da est ad ovest, e tra gli archi neroniani (via di s. Stefano) e la via della Ferratella da nord a sud: cioè nell'altipiano della villa Fonseca.

Qui gli operai rinvennero un edificio quadrato con torri in sugli angoli, lungo m. 109,30. Vi si aprivano 10 stanze di m. 5,94 X 4,95, e 4 saloni saloni, lunghi ciascuno m. 13,66, e larghi come i cubiculi m. 5,94.
TEGULA RIPORTANTE LA SCRITTA DELLA
I LEGIO ITALICA
 Vicino ad esso fu rinvenuta traccia di un altro edificio rettangolare, erroneamente ritenuto il castra Peregrina.
 Nel mezzo della corte di vigna Strozza vi era una edicola o un tempietto rotondo, con peristilio di diciotto o venti colonnine, parte di porfido, parte di granito rosso, e con epistilii, capitelli e basi di marmo bianco.

Le camere circondanti il cortile « erano bene ordinate quanto alla intenzione: ma variamente ridotte con qualche difformità per li restauri fatti" (Ligorio), ciò che è confermato dalla espressione di « stufe plebee » con la quale il Vacca descrive le fabbriche trovate in quest'altipiano:
« Ho veduto cavare " egli dice « da s. Stefano Rotondo fino allo spedale di s. Giovanni in Laterano, e trovare molte stufe plebee, e muri graticolati, con alcuni condotti di piombo, e molte urne con ceneri, tutte cose di poca considerazione. Dopo le stufe si servirono di questi luoghi per sotterrarvi, al tempo che abbruciavano li cadaveri»

Ora nell'altipiano del Celio vi furono 4 edifici importanti: la statio cohortis II Vigilum, le castra Peregrinorum, le Lupanaria, e lo Xenodochium Valeriorum.

Sapendo che la statio coh. II, compresa nel recinto di villa Mattei, era separata dalla vigna Strozza-Fonseca dal gruppo monumentale di santo Stefano; dalla vigna Morelli-ss. Sanctorum-Colacicchi, e dalla grande strada, la quale, uscendo dalla porta (anonima) serviana, scendeva alla porta Metroni e alle Decennie, dobbiamo escluderla.

Le castra Peregrinorum, comprese nel recinto degli orti Teofili, poi Casali, erano anch'esse separate dalla vigna, sia dalla linea degli archi neroniani, che dalla grande strada che portava a porta Celimontana.

Le Lupanaria, di cui si ritrovarono importanti tracce  in vigna Morelli-ss.Sanctorum-Colacicchi nell'anno 1878, non potevano occupare un rettangolo di 109 m. di lato.

Resta da pensare che gli Strozza abbiano scoperto l'atrio o della magnifica DOMVS L • MARII • MAXIMI, l'illustre storico, il cui nome ricorre tanto spesso nelle Vitae Augg., e la cui carriera, restituita dal Borgliesi (in Gioni. arcad. 1856, pp. 13 e 463: Oeuvre^, tomo V, p. 459) e dall' Henzen (ad. CIL. VI, nn. 1450-1453) conta fra le più brillanti e fortunate del tempo.

Con le ricchezze accumulate durante la sua amministrazione della Celesiria, Asia, Africa. Belgica. Mesia, Germania, ecc. non solo potè ornare la casa celimontana con cospicue opere d'arte, ma anche assicurarsi il possesso delle ville sulla spiaggia di Ardea, e nel territorio di Velletri.

Negli scavi Strozza, dei quali mi sto occupando, ossia, come dice Ligorio « nella vigna di M. Roberto Strozzi  nel M. Coelio venne di fatto scoperto l'angolo sinistro superiore di una base di statua onoraria {CIL. 1453), recante il nome di Mario Massimo.

Per ciò che spetta alle opere d'arte raccolte da Mario Massimo nella sua casa, basti la testimonianza del Bartoli, Mem. 52 : « partendosi dall'ospedale di s. Giovanni in Laterano nell'andare verso s. Stefano Rotondo, nella villa de' Fonseca vi fu, tra le altre belle statue, trovato il bellissimo centauro, che in oggi si vede alla villa Borghese».

 "Per la strada che va da s. Giovanni Laterano à S. Quattro, in una vigna a mano manca, furono trovate in occasione di cava statue diverse di bellissima maniera, e tra l'altre, due di Fauni, in atto di saltare con i crotali, e non so che a piedi; statue veramente riguardevoli: furon vendute a monsignor Mazzarino; oltre a questo furon trovati canali di pietra da condur acqua da un luogo all'altro, che fece creder, vista la diligenza con che erano lavorati, che fusse anticamente luogo di delitia" .

IPOGEO DI VIA DINO COMPAGNI

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« Nei sotterranei l’atmosfera è magnetica, l’emozione è grande. I colori, luminosi, avvolgono il visitatore con caldi toni rossi, bruni e violacei, con chiare pennellate gialle, ocra, arancione e vibranti tocchi azzurri, verdi e grigi: le scene dipinte, oltre un centinaio, rimbalzano da una parete all’altra creando un caleidoscopio variopinto e variegato… A ragion veduta viene definita dagli studiosi la “pinacoteca del IV secolo”… »
(L. De Santis, op. cit., p. 281)

L'ipogeo detto "di via Dino Compagni" fu scoperto nel 1955 nel corso di lavori edili. Il complesso, databile alla metà del IV sec. d.c., si sviluppa su tre gallerie fino a 16 m. sotto il livello stradale. Vi sono stati rinvenuti cubicoli poligonali dai quali si accede a nicchie e camere decorate con stucchi e affreschi, ispirati al Vecchio e Nuovo Testamento nonché alla mitologia classica, che rappresentano la più importante testimonianza di pittura tardo-romana.

Il quartiere Appio Latino visse il suo periodo di massima urbanizzazione dalla metà degli anni '30 fino all'inizio degli anni '60 quando, i nuovi piani regolatori, realizzati in modo quasi folle, non tennero conto che questa zona, in antichità fuori dalla cinta muraria ed attraversata da diverse vie consolari, era notevolmente ricca di ambienti cimiteriali ipogei.


E' facile quindi immaginare quanti di questi, venuti alla luce durante i lavori di costruzione dei moderni edifici, furono occultati o distrutti.

Quest'ipogeo, di cui le fonti antiche tacciono totalmente, fu scoperto per caso nel 1954, mentre si stavano realizzando le fondazioni di alcuni edifici residenziali, il terreno crollò e venne alla luce questa struttura sotterranea, ma i lavori andarono avanti.

PLANIMETRIA DELL'IPOGEO
Solo in seguito, a lavori praticamente ultimati, il responsabile del cantiere informò del ritrovamento la Pontificia Commissione di Archeologia Sacra. Viene ovviamente da chiedersi come mai non furono informate le Belle Arti, visto che il sito archeologico non appartiene al Vaticano ma al patrimonio archeologico nazionale e romano.

Il fatto è che questa Commissione, con i Patti Lateranensi del 1929, acquisì competenza anche sulle catacombe presenti nel territorio di tutto lo stato italiano. Ma occorre capire di che competenza si tratta, perchè un conto è la competenza in base a cui si possono esprimere pareri, un conto è la competenza che dà poteri sui lavori, lavori ordinati dalla Chiesa ma pagati dallo stato.

Comunque ciò che non poterono le Belle Arti lo potè la Chiesa si che, seguendo le indicazioni del responsabile, l'Ing. Mario Santa Maria, il figlio fece scavare un pozzo di 16 m e, calatosi all'interno, constatò la presenza di un ipogeo e degli ingenti danni provocati dai lavori sovrastanti.

LA DEA TERRA (TELLUS)
Il crollo di parte degli intonaci, provocato dai pilastri di fondazione che avevano invaso alcuni ambienti, colate di cemento e danni di improvvisati tombaroli che avevano cercato di trafugare le pitture staccatesi dalle pareti.

Nonostante tutto questo, dopo una lunga opera di recupero e restauro, iniziata il 2 novembre 1955 e terminata il 15 giugno 1956, ci si rese conto della bellezza delle sue pitture e delle sue policrome e variegate decorazioni, tanto che molti studiosi dell'arte paleocristiana, l'hanno definita la "pinacoteca del IV secolo".

L'ipogeo venne scavato per ospitare sempre più tombe di famiglie imparentate tra loro, i cui membri erano sia pagani che cristiani. Trattasi infatti di un immenso cimitero privato, in cui sono presenti circa quattrocento inumazioni, ad una profondità variabile (tra i 13 e i 16 m dalla quota di Via Dino Compagni) ed è formato da due gallerie parallele di 30 m, distanti tra loro circa 18 m, tagliate perpendicolarmente da un corridoio di oltre 40 m.

Sul corridoio si aprivano 14 ampi cubicoli forniti di camere, nicchioni ed arcosoli, ai quali sono collegati ambienti poligonali con camere decorate da stucchi, colonne e modanature.

Le maestranze dell'epoca non si limitarono ad ornare solo i vani principali ma, in un tripudio di colori e una varietà enorme di soggetti, utilizzarono pareti laterali e d'ingresso, colonne, timpani, architravi e zoccolature; ovunque dipinsero ghirlande, fiori, genietti, uccelli, amorini ed animali. Le volte poi, vennero lavorate a cassettoni con mattonelle di varie figure geometriche.

ERCOLE E CACO
Benché non si conosca la proprietà della tomba, vista la totale assenza di epigrafi, si sa che fu utilizzata per un cinquantennio, fino al 360 d.c., in quattro fasi successive, da famiglie strettamente imparentate tra loro, il che spiegherebbe come tutto il monumento risponda comunque a criteri di unitarietà.

Il cimitero accoglie le tumulazioni di cristiani e di pagani, con una straordinaria eterogeneità delle raffigurazioni pittoriche riguardanti sia miti cristiani che pagani. Non si comprende infatti come mai sia intervenuta la chiesa non trattandosi di catacomba cristiana. 

Ma non finisce qui perchè intervenne poi la Società Internazionale delle Catacombe, fondata nel 1980 da Estelle Shohen Brettman (1925-1991), dedicata alla conservazione e alla documentazione delle catacombe ebraiche e di altre rare testimonianze di storia che illustrano le comuni influenze sull'iconografia ebraica, cristiana e politeista e pratiche funerarie nel tempo dell'Impero Romano. 

La società si sforza inoltre di aumentare la conoscenza delle interconnessioni tra giudaismo, cristianesimo e mondo antico circostante, rilasciando sovvenzioni, sponsorizzando conferenze e diffondendo informazioni e pubblicazioni.

L'antico ingresso è oggi ostruito da una costruzione recente; il che rende la misura di quanto in Italia vengano rispettate le opere d'arte. Un qualsiasi imprenditore può accaparrarsi, non si sa come, il diritto di costruire sopra beni archeologici di due millenni fa.

RITI DELLA TERRA
Si accede all'ipogeo da una botola sul marciapiede davanti al civico 258 di Via Latina, per cui di difficile accesso. Dopo una lunga scalinata si entra in una galleria su cui si aprono una serie di cubicoli, decorati con scene ebraiche, come la caduta di Adamo ed Eva, Noè ubriaco, Mosè salvato dalle acque, Assalonne pendente dalla quercia, Sansone che uccide i Filistei con una mascella d'asino, lo zelo di Fines e molti altri.

Poco più avanti, tramite scale, si accede a un vestibolo su cui si aprono altri due cubicoli. Uno di questi, il primo a essere visitato al momento della scoperta, oggi definito della Tellus, la Dea simbolo della terra, in origine fu grossolanamente interpretato come la morte di Cleopatra.

Questo perché nell'arcosolio di fondo è rappresentata una figura femminile, distesa su un campo di grano e papaveri con un serpente attorcigliato al braccio sinistro. Giustamente il serpente fu da sempre e universalmente il simbolo della Madre Terra.

SANSONE LOTTA CON I LEONI
Alcune di queste immagini restano a tutt'oggi di difficile interpretazione, come quella della cosiddetta "lezione di medicina o di filosofia", in cui alcuni personaggi in tunica e pallio ne circondano un altro vestito come un filosofo greco, che mostra il corpo di un bambino sdraiato a terra.

 Più avanti si dipartono altre due gallerie, una con loculi, l'altra con scale che conducono a un pozzo. Nell'ultima fase costruttiva fu realizzato un ambulacro in direzione ovest che conduce a un vestibolo a pianta esagonale con colonne angolari e volta a vela.

Su questo vestibolo si aprono due ambienti, uno a pianta esagonale ed uno a pianta quadrata, e due arcosoli. La galleria prosegue fino all'ultimo ambiente: un cubicolo quadrato con volta a botte e nicchie laterali, separato dagli ambienti precedenti da una transenna di marmo. 

Quest'ultima tomba si differenzia dalle altre per la presenza preponderante di marmi, per la solarità delle rappresentazioni, con serti di fiori e spighe e per la presenza in larga parte d'immagini femminili, tra cui spicca, nel sottoarco dell'arcosolio, quello di una giovinetta, forse la defunta, dai grandi occhi scuri ed i capelli raccolti dietro la nuca.


NOTA BENE:

Il sito ipogeo di via Dino Compagni è sotto la custodia della Pontificia Commissione di Archeologia
per cui solitamente è chiuso al pubblico. Eccezionalmente è concessa l’apertura su richiesta che prevede la presenza di un loro custode e di un loro archeologo che si occuperà dell’esposizione del sito. All’interno dell’area non è consentito fare fotografie o riprese video, sarà necessario munirsi di una torcia e indossare scarpe comode, se necessario vestirsi a strati.



PONTE D'AEL (Val d'Aosta)

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Presso il modesto ma grazioso villaggio di Pondel, in Val d'Aosta, sorge il Pont d’Aël, un impressionante ponte-acquedotto risalente all’anno 3 a.c., frutto dell’ingegno e dell’operosità del padovano Caius Avillius Caimus, durante il Xiii consolato di Ottaviano Augusto (CIL V 6899)

Il ponte scavalca il torrente Grand Eyvia, corso d’acqua che nasce dal Gran Paradiso e scorre con direzione sud est – nord ovest gettandosi nella Dora Baltea nei pressi di Aymaville.

Il ponte risale all'epoca del tredicesimo consolato di Ottaviano Augusto) dal patavino CAIUS AVILLIUS CAIMUS. Opera privata. (CIL,V,6899O) Oltrepassando il villaggio appare una sponda rocciosa che scende ripidissima nel torrente Grand Eyvia che va alla valle di Cogne.

Qui appare un’unica arcata monumentale, ampia quasi 15 metri, che scavalca la forra ad un’altezza di 56 metri dal corso d’acqua sottostante.  

IL PASSAGGIO INTERNO
Il ponte era strutturato su tre livelli: nella sua parte più elevata fungeva da acquedotto essendo composto da un canale impermeabilizzato con malta idraulica.

Sotto al canale correva una galleria con pavimento in assi di legno per il transito di persone e animali, e nel canale ancora più basso, suddiviso da setti murari perpendicolari alle pareti esterne, non passava nessuno ma serviva ad alleggerire la struttura e a risparmiare materiale.

Tutt’intorno pareti rocciose a strapiombo ricoperte di fitte edere e boschi. E’ il Pont d’Ael. Il Pons Avilli,qui realizzato da un ricco dominus padovano, un ingegnere di oltre 2000 anni fa.

Il monumento aveva una funzione di ponte-acquedotto.
Si presenta, infatti, suddiviso in due livelli: un condotto superiore pavimentato in grosse lastre litiche squadrate (lo specus).

PASSAGGIO DELLE ACQUE OGGI DIVENUTO PEDONALE
Originariamente era impermeabilizzato con la malta idraulica, che consentiva il passaggio dell’acqua, e un camminamento inferiore, largo circa un metro e opportunamente aerato ed illuminato.

Si tratta di una grandiosa opera idraulica, probabilmente voluta per incanalare l’acqua verso le cave di marmo di Aymavilles, un ardito ponte-acquedotto suddiviso su due livelli: un percorso scoperto superiore, oggi percorribile a piedi, ma che in origine costituiva il canale idrico dove passava l’acqua; un altro sottostante, coperto, dove transitavano uomini e animali.

Un’opera privata, come precisa l’epigrafe ancora in posto al centro della facciata che guarda verso valle, eseguita per necessità e pure procurarsi la gloria, e magari un redditizio posto politico dove occorreva ovviamente essere eletti.
Quell'opera era infatti una eterna pubblicità del suo costruttore, perchè era ogni giorno sotto gli occhi di chi transitava sul ponte, e in cuor suo non ci si poteva che complimentare di chi procurava acqua e strada del tutto gratuite ai cittadini.

Si tratta di una gigantesca opera in muratura e blocchi di pietra da taglio, alta circa m 56  e lunga quasi 51 costruita nell'anno 3 a.c., molto ben conservata e disponibile al pubblico, grazie ai fantastici lavori di restauro conservativo eseguiti nel 2011-2012.

IL FONDO DEL PONTE
Il ponte-acquedotto congiunge le profonde e scoscese pareti rocciose a picco sul torrente Eyvia che scorre nel fondo dell'orrido.

Probabilmente serviva a portare ad Aymavilles l’acqua attinta dal Grand Eyvia stesso con un’opera di presa ancor oggi esistente circa 2.5 km più a monte del ponte.

La presa alimentava un canale scavato nella roccia ed ancor oggi in parte visibile ed il cui tracciato è visibile nella foto di cui sopra.

Inoltre dopo aver percorso circa 3.5 km sulla sinistra del torrente ed esser disceso a circa 600 m a valle di Pont D’Ael, il canale formava un tornante che portava l’acqua allo stesso livello del ponte, che veniva poi raggiunto e alimentato.

Scavalcato il torrente, l’acqua alimentava un ulteriore canale appositamente scavato sulla destra e raggiungeva Aymavilles.

Qui l'ipotesi più ovvia è che venisse impiegata in una cava di marmo bardiglio di proprietà dell’imprenditore che aveva costruito il ponte, pur non potendosi escludere un uso dell’acqua per irrigare gli appezzamenti coltivati circostanti ad Aymavilles.

La cosa più probabile è che servisse ad entrambi, per cui se ne giovavano tanto Caius Avillius quanto i contadini e i proprietari terrieri.
Il transito pedonale realizzato nell'opera di restauro avviene ove un tempo c’era il canale dell’acqua, mentre il passaggio di persone/animali avveniva nel condotto interno, oggi ancora percorribile dai turisti.

La costruzione dell’opera avvenne a spese di un privato tale Caius Avillius Caimus, di origine padovana che fece incidere nome, anno di costruzione e proprietà privata sulla lapide presente sull’arcata del ponte:

IMP(PERATORE) CAESARE AUGUSTO XIII CO(N)S(ULE) DESIG(NATO)
C(AIUS) AVILLIUS C(AI) F(ILIUS) CAIMUS PATAVINUS
PRIVATUM

"Imperatore Cesare Augusto nell'anno del suo 13° consolato (3 a.c.)
Caius Avillius Caimus, figlio di Caius, Padovano
Privato"

In quanto a Caio Avilio Caimo, il costruttore del ponte, si sa che apparteneva ad una ricca famiglia padovana con antenati etruschi e greci.

Aveva interessi commerciali nella gestione di fondaci nella città di Spina, (attuale provincia di Rovigo).
La famiglia approfittò dell’espansione romana verso il Piemonte e la Val d’Aosta, svoltasi contro le popolazioni liguri-galliche (i Salassi), che peraltro spesso attaccabano e depredavano i territori romani di confibe, per avviare attività di cava di marmi nelle valli piemontesi a sud del Gran Paradiso.

Di qui si portarono poi a Nord del Gran Paradiso stesso, nella valle di Cogne, ove sfruttarono la cava di marmo bardiglio di Aymavilles, il cui nome richiama quello di Avilio.



IL PERCORSO

Praticamente il visitatore passa nello “specus“, cioé nell’antico condotto idrico, dove scorreva l'acqua sorgiva, risalendo a ritroso rispetto all’originario senso di corrente dell’acqua.
Si scendono poi alcuni scalini per raggiungere uno dei due ingressi originali del camminamento coperto pedonale.

Una vista da mozza fiato: si percorrono i 50 m di lunghezza del ponte su un camminamento di vetro illuminato aldisotto. Poi si supera l’altro accesso d’origine, rimasto per tanti secoli chiuso e inutilizzato, e si esce di nuovo sul vuoto.
Infatti un tempo i Romani passavano su un ampio sentiero ritagliato nel banco roccioso che poi è franato nel torrente, ma oggi al suo posto c’è una panoramica passerella in acciaio che consente di ripercorrere il loro tragitto.

La passerella conduce poi all’interno di un piccolo edificio che, da rudere dismesso, è ora un piccolo ed accogliente centro visitatori.



IL RESTAURO

I recenti lavori di ricerca, restauro e valorizzazione del monumento, finanziati con fondi della Comunità europea, sono consistiti, oltre che in una serie di campagne di scavo archeologico effettuate sia sul camminamento superiore sia lungo la sponda in sinistra orografica, anche nel completo restauro conservativo del ponte-acquedotto, nella realizzazione di un percorso di visita e nel recupero di un piccolo fabbricato adiacente posto a servizio del sito.

Il progetto di valorizzazione ha permesso la ricostituzione dell’originario percorso ad anello, consentendo così ai visitatori, dopo aver transitato nel condotto superiore, di entrare nel livello pedonale attraverso l’accesso in sponda sinistra e uscire guadagnando la sponda destra, dove, grazie ad una passerella in acciaio, si è ripristinato il percorso dell’antica strada romana di servizio ricavata nella roccia naturale, oggi in parte non più visibile a causa della natura scistosa e friabile della roccia locale.

Complessa l'ideazione e la messa in opera che ha sfruttato solo le buche pontaie già esistenti ed ha usato quanto si poteva i materiali originari che erano crollati, permettendo la distinzione interna di ciò che è originale da quello che non lo è.

Il camminamento pedonale sotto lo specus.


OLBIA (Sardegna)

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RELITTO DI NAVE ROMANA (OLBIA)

LE ORIGINI

 Le origini di Olbia si perdono nella notte dei tempi, prima centro neolitico, poi enolitico (età del rame), nuragico, fenicio, punico, cartaginese e romano.

"La spedizione di Tiberio Sempronio Gracco del 238 a.c. sanciva la fine della dominazione di Cartagine sulla Sardegna e il suo ingresso nel nascente impero mediterraneo di Roma.  La posizione geografica, che ne aveva indotto la fondazione ad opera di Cartagine dopo il trattato del 348 a.c. e che le aveva assegnato sin da quel momento un ruolo importante di intermediazione, soprattutto commerciale, con l’antistante costa tirrenica, faceva di Olbia una strategica testa di ponte per l’ingresso di Roma in Sardegna e non a caso, con la presunta conquista nel 259 a.c. ad opera di Lucio Cornelio Scipione, fu protagonista del primo tentativo di Roma di sbarcare nell’isola già durante la I guerra punica".

Durante il suo consolato Tiberio Sempronio Gracco del 238 a.c. conquistò la Sardegna, che si era ribellata al dominio cartaginese. Nonostante la vittoria venne criticato dai romani, poiché non portò a Roma prigionieri di valore. Per la Sardegna e soprattutto per Olbia fu una gran fortuna, perchè la città non divenne solamente un centro commerciale, ma anche un'importante base navale militare. Venne collegata con il resto dell'Isola da tre vie importanti usate sia per le legioni che per le merci.

Olbia divenne il più importante avamposto romano della Gallura, la parte nord-orientale dell'isola, ma subì all'inizio le incursioni dei cosiddetti Corsi della Gallura e dai Balari del Monteacuto. Durante la dominazione romana sia i Corsi di Sardegna che di Corsica si rivoltarono più volte all'occupazione, venendo ricordati in diversi Fasti triumphales romani, in quanto vinti brillantemente.

ARCHITRAVE DEL TEMPIO DEDICATO DA ATTE A CERERE RITROVATO AD OLBIA
(OGGI RISIEDE NEL CAMPOSANTO DI PISA)
L'Olbia romana (chiamata anche Olvia o Olbi) ospitava una popolazione di ormai 5.000 abitanti ed era dotata di un foro, di strade lastricate, di terme pubbliche e di un acquedotto (proveniente dal monte Cabu Abbas, dal latino caput aquarum). Vi risiedeva, inoltre, e possedeva vasti latifondi e una fabbrica di laterizi, riportanti il bollo "ACTES AUGusti Liberta", la liberta di Nerone, Atte, lì esiliata dopo il matrimonio dell'imperatore con Poppea.


Nella necropoli romana fuori dalle mura. durante gli scavi del 1904, fu scoperto un tesoro di 871 monete d'oro di diverso taglio e portanti il marchio di 117 diverse famiglie romane. 
Nel 1999, nell'area del porto vecchio, durante i lavori per la costruzione di un tunnel. tornarono alla luce 24 relitti di navi romane. Furono i Vandali ad affondare alcuni dei relitti portando alla distruzione dell'abitato ed al crollo della città antica che comunque continuò a sopravvivere.

Tra le vestigia del periodo romano sono importanti

- i resti dell'Acquedotto Romano in località Tilibbas, edificato tra il I e il II sec. per trasportare, su un percorso di 7 km circa, l'acqua delle sorgenti sulla montagna di Cabu Abbas alle terme della città antica;
- i resti della villa rurale romana di s'Imbalconadu, risalente al 150 a.c. circa nell'età repubblicana, lungo la strada per Loiri dopo il rio Loddone;
- il Parco di villa Tamponi;
- il Foro romano vicino al Municipio;
- i resti dell'acquedotto romano vicino al vecchio ospedale.
Il patrimonio archeologico di Olbia è inoltre costituito da numerosi giacimenti subacquei. Circa un centinaio di siti con vari reperti tra cui la testa di statua in terracotta che raffigura a grandezza naturale il dio Ercole. Si tratta della copia di un perduto originale in bronzo che doveva trovarsi nel santuario cittadino dedicato al Dio e realizzata a Olbia nel II secolo a.c. con l'uso di matrici.

Il tracciato dell'acquedotto, partendo da Cabu Abbas, si snodava per circa 7 km e si immetteva nel centro urbano da nord lungo un percorso che toccava gli attuali Centro Martini, via A. Nenni e il vicolo F di via delle Terme per raggiungere l'impianto termale.

RESTI DELL'ACQUEDOTTO ROMANO
I resti oggi visibili si trovano a sud della strada asfaltata in località Sa Rughittula; l'acqua defluiva prima in una condotta interrata, poi in una piccola vasca quadrata dalla quale inizia un tratto costituito da archi, alcuni dei quali conservati, che prosegue con una porzione in muro pieno.

Sulla destra della strada si trova una grossa cisterna di pianta rettangolare a due navate quasi completamente scavata nella roccia salvo la copertura con ancora i fori di aerazione e porzioni del rivestimento impermeabile in malta idraulica. Adiacenti ai lati corti della cisterna si trovavano altre due vasche e un pozzo di entrata e uscita dell'acqua.

L'area, di m 120 x 20, in cui sono stati rinvenuti i resti di imbarcazioni, corrisponde al porto principale della città antica, protetto anticamente da un lungo molo che collegava la riva all'isola di Peddona.

Sono state recuperate notevoli quantità di reperti ceramici di varie epoche, gioielli, monete, lucerne, colonne di granito, ossa animali, strumenti per la pesca e soprattutto 24 relitti di navi, in buono stato di conservazione, di cui due dell'epoca di Nerone, 16 risalenti al V sec. d.c. e due dell'età giudicale (fra il IX ed il XV sec.).

Uno dei rinvenimenti più importanti è costituito dal recupero di una flotta imperiale del V sec. composta di navi originariamente lunghe tra i 18 e i 30 m, disposte parallelamente fra loro e perpendicolari alla linea di costa, colate a picco alla stessa profondità, in acque basse.

Dalla posizione si è dedotto che esse siano state affondate mentre erano ormeggiate in porto, lungo pontili lignei di cui sono stati individuati i resti. Ciò ha fatto pensare che la distruzione fosse avvenuta per tutte nello stesso momento in seguito ad un attacco distruttivo di grande portata, viste anche anche le tracce di bruciature sui legni.



GLI SCAVI

Le prime indagini sulle origini della città si svolsero al principio del XVII sec. e interessarono le aree cimiteriali presso la chiesa di San Simplicio. Nella I metà dell'Ottocento gli scavi produssero reperti che in parte confluirono nei musei, ma pure in collezioni private italiane ed estere.

La cronaca di tale attività, che portò a numerosissime scoperte, fu data dal canonico Giovanni Spano dal 1855 al 1876. A partire dal 1880 e fino al 1884 Pietro Tamponi compilò una serie di importanti note sulle scoperte archeologiche effettuate a Olbia e nel suo territorio.


Scavi del 1890

Nuove scoperte di antichità nell'area dell'antica Olbia. Per ridurre a cultura il piccolo predio denominato OHu Manivi, posto ne' pressi di questo abitato, e confinante da una parte col tronco di strada ferrata conducente al porto, e dall'altra con la riva del mare, s'intraprese un grande scavo. Vi si raccolsero varie monete romane di moduli diversi e in discreta conservazione. Alcune spettano agli imperatori M. Aurelio, Settimio Severo, Massimino.

Fra i fittili, copiosissimi risultarono gli avanzi di anfore e di minuto vasellame, insieme a fondi e pareti di scodelle aretine; ma sopratutto merita riguardo un dolio, privo del collo, in posizione orizzontale, alla profondità di m 0,90. In mezzo alla terra di cui era ripieno si trovarono alcune ossa umane in cattivo stato; vi mancava il cranio.

Il corpo del recipiente ha nella parte più pronunciata m 1,42 di circonferenza, che poi diminuisce gradatamente per terminare col fondo a punta. Eguale a questo per configurazione, e sepolto quasi allo stesso livello, ne fu rinvenuto uno più piccolo, con anse robustissime, foggiate a semicerchio: è alto m. 0,65, misurando nella maggior iugolfatura, m 0,50.

Vennero pure raccolti tasselli di marmo bianco e nero, e vari pezzi di ferro. Ma la cosa più notevole è un tratto di fondamenta delle mura che cingevano Olbia, tutte in blocchi di granito, talora malamente squadrati, e talora appena disgrossati nelle sole facce all'esterno.

RESTI DELLE TERME ROMANE
Si estendono in linea retta per quanto è lungo il cortile cioè per m 160; e restano in perfetta orientazione con altra fila di blocchi, simmetricamente infissi lungo la spiaggia del mare, i quali non sono altro che la continuazione di detta muraglia.

Queste tracce proseguono ancora e sempre in linea retta e vicinissime alla spiaggia, sino a Porto Romano, ove sussistono altri macigni più voluminosi, ma più internati nel mare, che costituiscono l'ossatura dell'antica banchina di quel porto.

Da qui, le tracce della muraglia fanno angolo smussato, si internano nella villa Tamponi e l'attraversano per intero, onde rendersi poi visibili nel predio del Molino. Cosicché da questa ultima località abbiamo l'esatto andamento di una parte dei muri di cinta, del percorso di m 885, formato da due perfette rettilinee; settentrionale ed orientale. La prima di m 360 ha cominciamento dal luogo degli odierni scavi sino al Porto Romano, e la seconda di m 525 si estende da quest'ultimo punto, per finire al Molino. Il massimo spessore delle fondazioni è di m 3,50, il minimo di 2,30.

Reperito poi un grande masso tufaceo rappresentante due guerrieri combattenti, sterrato nel 1874 entro la villa Tamponi, ai piedi della muraglia; forse la principale decorazione di una porta della città. Il materiale usato proveniva dalle vicine cave granitiche di Cuceianaj Varrasolas, Tilibbas, Banale e Contramanna, nelle quali mi fu dato vedere dei blocchi enormi, già tagliati in antico, e del tutto somiglianti a quelli della cinta.

TESTA IN BRONZO
Emersero alcuni ruderi  in laterizi, interrati a circa m. 2 dal livello del campo;
- due colonne granitiche con zoccolo;
- metà di colonnina, pure di granito;
- ziretto a perfetto pulimento;
- un tubo di piombo per conduttura di acqua;
- 37 chiodi; tre piccole palle di granito;
- due fusaiuole di terracotta, di forma conica con foro nella sommità;
- una lastra di piombo bucherellata, con con altri due pezzi informi;
- 26 monete irriconoscibili per l'ossido;
- alcune asticelle di ferro;
- 3 cerchietti di piombo;
- 5 dischi fittili forati nel centro,
- 2 luceruine col concavo adorno di fiori;
- altra piccola lucernina di forma elegante;
- 4 pezzi di marmo, nei quali pare di ravvisare leggerissime tracce di lettere;
- un vasetto mancante del collo;
- metà di un mattone ottangolare di argilla verdastra;
- altri mattoncini oblunghi di terra .ordinaria
- copiosi frammenti di oggetti di vetro.

In un dissodamento molto profondo, eseguito nel cortile di certo Luigi Negri, vicino al paese, si trovarono i residui di alcune tombe in laterizi devastate in antico. Anche qui abbondavano:
- vetri frammentati e fittili.
- 200 piccole monete di bronzo, guaste dall'ossido;
- un pezzo di piombo in sottile verga,
- grossi embrici romani, privi di bollo, e già serviti in costruzione.
Nel terreno della casa di Giovanni Azzena, entro l'abitato, si rinvenne casualmente una piccola mano di statuetta di bronzo che stringe un globetto dello stesso metallo.

(P. Tamponi. Roma, 1890 Il Direttore delle Antichità e Belle arti)



Scavi dopo il 1958

Dal 1958 al 1977 la città è stata oggetto di interventi sporadici di scavo e di recupero, come quelli del primo Soprintendente alle antichità per le Province di Sassari e Nuoro Guglielmo Maetzke tra la fine degli anni Cinquanta e il 1966 e quelli di Enrico Acquaro negli anni Settanta.

Dal 1990 viene svolta ad Olbia un'attività di ricerca e di conoscenza approfondita del territorio, che comprende anche il controllo ed il recupero del patrimonio archeologico proveniente da scavi sporadici sia terrestri sia subacquei. Purtroppo la distruzione delle strutture della città antica è andata di pari passo con lo sviluppo della città moderna.

La maggior parte degli scavi nella sola area urbana hanno infatti avuto, ed hanno tutt'oggi, le caratteristiche dell'emergenza (in numero di cinquanta dal 1980 al 1994, sotto la direzione dapprima di Antonio Sanciu e poi di Rubens D'Oriano). Nel 1992 uno scavo d'urgenza ha messo in luce un'importante area funeraria in località Su Cuguttu.

Nel luglio del 1999, durante i lavori per la costruzione di un tunnel sotto il livello del mare, sono stati ritrovati i resti di quelli che lo scavo archeologico, dislocato lungo la fascia litoranea e durato tre anni, condotto da Rubens D'Oriano, ha identificato come i relitti di navi antiche con i loro carichi.

VILLA DI S'IMBALCONADU


VILLA RUSTICA DI S'IMBALCONADU

Trattasi di un complesso del 125 a.c., munito di solide fondazioni,di forma quadrangolare, visibile in tutta la parte centrale, con forti muri che arrivano fino ad un altezza di un metro, composti da massi di granito legati con malta di fango.

La villa è orientata secondo i punti cardinali, e misurava circa 33 metri per lato, con una corte al centro e, accanto alla parte rustica, c'era una parte abitativa padronale. In alcune parti della fattoria sono stati rinvenuti numerosi mattoni crudi evidentemente il soffitto della struttura.

Molto importante il ritrovamento all'interno dell'abitazione di un blocco di granito scolpito in basso rilievo con il segno di "Tanit", divinità protettrice adorata in periodo punico, ma anche in periodo romano.

Altre importanti rinvenimenti si trovano nei due ambienti oltre l'ingresso, uno di questi adibito alla macinazione del grano, vista la presenza di una macina in basalto, e l'altra alla cottura, come fa presupporre la presenza di un forno di terracotta. Un altro ambiente potrebbe essere stato utilizzato per la produzione del vino, vista la presenza di due vasche.

Il sito è situato sulla strada provinciale che da Olbia conduce a Loiri, (partendo da Olbia al km 3, sulla destra, segnalato dall'apposito cartello).



A Olbia durante i lavori per la rete del gas emerge un’urna cineraria romana

Durante gli scavi per la rete del gas, ad Olbia è riemerso un reperto di epoca romana: si tratta di un’urna cineraria del I secolo a.c., individuata dagli operai in via Mameli. 

URNA CINERARIA
Il reliquiario conserva ancora i resti di un defunto e probabilmente faceva parte della grande necropoli della città antica, iniziata dai cartaginesi e continuata dai latini al di fuori delle mura.

Gli scavi sono stati seguiti da Giuseppe Pisano e diretti da Rubens D’Oriano della Soprintendenza per i Beni Archeologici. 

E’ probabile che affiorino nuovi reperti, in loco stanno lavorando gli esperti della soprintendenza, guidati dall’archeologo Rubens d’Oriano.

STADIO PALATINO O MEGALENSE

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RICOSTRUZIONE DELLO STADIO PALATINO
Siamo nella parte centrale del colle Palatino che, alla fine del I secolo d.c., era occupata dalla Domus Augustana, il palazzo degli imperatori per eccellenza, un immenso palazzo dinastico tanto da fare un notevole effetto sui contemporanei. Sul lato orientale del settore privato della domus si estendeva lo stadio, uno spazio rettangolare, molto allungato.

Infatti Domiziano, non contento di possedere un palco di lusso sul Circo Massimo, volle anche costruire un proprio stadio ad uso privato ed inaccessibile all'esterno. La sua domus fu l'ultima ad essere costruita, dopo la Domus Flavia e la Domus Augustana, le parti pubblica e privata della reggia. E vi aggiunse uno splendido stadio, molto vasto e sfarzoso,  ma non era ad uso pubblico, bensì era riservato alla famiglia imperiale e ai suoi ospiti. Siamo molto lontani dagli imperatori illuminati che lasciarono invece al pubblico per testamento arte dei loro beni (vedi Cesare).

Il suo uso non è ancora chiaro, forse un ippodromo per le corse dei carri, o per le sue cavalcate, sicuramente anche per gli spettacoli, ma anche giardino per le passeggiate dell'imperatore nonchè della sua corte.

Il circo, che sta ad est della Domus Augustana, fu disegnato dall'architetto Rabiro (particolarmente lodato da Marziale per le opere palatine), ed ha una forma rettangolare molto allungata, diritta a nord e curva a sud, ed era in opera laterizia e marmo.  Inoltre aveva un muro perimetrale dotato di un porticato articolato su due piani, ed occupava tutta la parte centrale del Palatino dalla fine del I sec. d.c., e per edificarlo si erano sacrificati edifici più antichi, dalla Repubblica a Nerone, .

RICOSTRUZIONE

LA STORIA

I lavori vennero diretti dall'architetto Rabiro, iniziati poco dopo l'81, quando salì al potere di Domiziano, e terminarono nel 92, verso la fine del suo regno, come confermano i bolli laterizi.
Venne poi risanato, soprattutto nei porticati, nel periodo di Adriano e, per quanto concerne i lavori sull’esedra, sotto Settimio Severo, che vi aggiunse dei pilastri per rinforzare la struttura portante.

Alle due estremità sono poste delle piccole costruzioni semicircolari che potevano essere delle fontane.

Il piccolo recinto ovale che si vede a sud risale infine all'epoca di Teodorico, quando forse venne usato come anfiteatro, non come campo di allenamento di gladiatori, essendo questi già stati aboliti ai tempi di Onorio.

Il complesso venne scoperto e scavato nel XVIII secolo, al quale seguirono presto veri e propri saccheggi che hanno irrimediabilmente compromesso lo stato dell'edificio.

LO STADIO PSALATINO OGGI


DESCRIZIONE

Lo Stadio fiancheggia totalmente il lato orientale della Domus Augustana, per un totale di circa 88 m, di lunghezza e 30 m di larghezza, con una superficie di 160 x 48 m..

Il livello inferiore del porticato, caratterizzato da una volta a botte con cassettoni,  era composto da enormi pilastri, dei quali oggi sono visibili unicamente i basamenti, realizzati con mattoni all'epoca rivestiti di marmo come tutto il complesso.

Il suo livello è notevolmente inferiore alla reggia, il livello coincide con quello del peristilio inferiore, con cui però non comunicava.

Al centro aveva un'ara quadrata rappresentava le 12 maggiori divinità dell'Olimpo.

Era realizzato in mattoni i cui bolli laterizi sono tutti pertinenti alla fine del principato di Domiziano, con alcuni rifacimenti in epoca adrianea (nei portici) e severiana (nell'esedra) rifacimenti dell’età di Adriano e di Settimio Severo, come l'esedra semicircolare e le arcate di rinforzo del portico

Il viale ad anello che lo circondava era sovrastato da archi di laterizio rivestito di marmi, con nicchie, statue, vasi di marmo e piante ovunque. Questi archi, prospicienti il Circo Massimo, avevano la funzione di creare un piano artificiale su cui edificare la nuova ala del palazzo che però è crollata.

Porticato inferiore

Il piano inferiore era formato da 3 stanze aperte verso l'arena e presentava dei dipinti sulle pareti. Le stanze dovevano servire per accogliere tutte le attrezzature necessarie al mantenimento dello stadio, come pure alla sosta dei protagonisti dello spettacolo che dovevano presentarsi nell'arena, e la terza per gli addetti ai lavori dello stadio. Le stanze dovevano avere porte a due battenti con la parte superiore aperta per la luce.



Porticato superiore

Il livello superiore aveva invece un colonnato in marmo, di cui resta solo l’angolo nord-ovest, in parte ricostruito. Con la ristrutturazione severiana, le colonne che prima sorreggevano da sole la volta, ora poggiavano su pilastri di laterizio rivestiti in marmo.

IL PALCO IMPERIALE

L'esedra

Al centro del lato lungo orientale era situato il grande palco imperiale,  un podio a emiciclo, formato da un'esedra semicircolare circondata da un corridoio voltato a due piani con stucchi e con tre ambienti affiancati al livello dell'arena e aperti su questa.

Attorno al palco pertanto girava un corridoio anulare posto su tre livelli, tutti voltati a botte cassettonata e rispettivamente corrispondenti al piano dello stadio, a quello dell’esedra e all’imposta della semicalotta; vari altri ambienti quadrangolari si trovano a ridosso dei corridoi.

La tribuna, posta al livello superiore del portico e leggermente sporgente, è sorretta dai tre ambienti aperti sullo stadio. con sopra tre stanze aperte sull’arena e alte oltre il porticato. Si tratta del palco imperiale, ma anche il luogo dove veniva svolto il rituale del lectisternium cioè il trasferimento sacro dei simulacri divini, portati su lettighe, sulla tribuna, onde gli Dei potessero godere delle competizioni che si svolgevano. La tribuna al centro così ampia, era tipica degli stadi delle grandi "domus" private.

Secondo altri studiosi invece trattavasi di una grande esedra semicircolare, forse coperta da una semicalotta, ma l'edificio è troppo ampio, alto e articolato per una semplice esedra.

L'ANFITEATRO INTERNO

L’estremita semicircolare dello Stadio

La piccola recinzione ovale nella parte sud dello Stadio, collocabile al periodo di Teodorico, doveva essere utilizzata  per le corse a piedi, ma anche come anfiteatro, di certo non per gladiatori, essendo questo spettacolo già stato abolito dai tempi di Onorio.


L'arena

L’area in cui si svolgevano i giochi, nella parte centrale, era percorsa da una “spina” longitudinale, che divideva in due l’arena, e attorno a cui correvano i carri: di questa spina centrale oggi, purtroppo, restano soltanto gli elementi terminali semicircolari.


Il giardino

Lo stadio era solcato da un largo viale ad anello da cui si diramavano vialetti ed aiuole ed era finemente arredato con statue e marmi preziosi; proviene infatti da qui la maggior parte delle statue presenti nel Museo Palatino. Per terra lungo tutto lo stadio si possono vedere colonne di marmo cipollino e di granito, capitelli e frammenti della decorazione marmorea che circondava l'intero stadio.

Sicuramente l’edificio era utilizzato come maneggio e come giardino, il Viridarium del palazzo, o come narra Plinio il Giovane a proposito delle ville romane, dotate di ippodromi privati e di cortili dalle forme simili ai circhi impiegati anche per cavalcare. Plinio soggiunge però che lo spazio verde dell'imperatore veniva da questi usato per il riposo e le passeggiate, e dove si dice che l'imperatore Eliogabalo, in un'estate afosa, abbia fatto trasportare una montagna di neve.

RICOSTRUZIONE DEL FONDO DELLO STADIO
"Qui non siamo con i piedi sulla terra come alla "Vigna Barberini", ma si "vola". Siamo sull'isola delle "Arcate", le straordinarie sostruzioni romane, le strutture ad archi su due piani, alti, altissimi e stretti, 10 - 20 m e più, larghi due m e mezzo circa, che sono il sistema usato sul Palatino per creare spazio in piano dove spazio in assoluto non c'era, e nello stesso tempo fare da fondamenta agli edifici. Una applicazione della tecnica degli acquedotti di cui i romani erano provetti.

L'isola è quella delle "Arcate" cominciate da Domiziano e completate da Settimio Severo per le sue terme. Sull'isola delle "Arcate" perché la zona aperta al pubblico è proprio una terrazza sulla struttura, formata da una parte lunga circa una cinquantina di metri e larga una dozzina, ed una di dimensioni minori. Siamo su un'isola perché questo blocco delle "Arcate"è staccato dalle altre sostruzioni, sempre altissime che sono attorno, e che si percorrono nella parte finale per arrivare alla terrazza. E che sono un altro spettacolo a parte, con quello che si vede e che si intuisce del loro interno, mura possenti senza pavimento fra i piani, ambienti.

L'isola della terrazza è esattamente una penisola grazie ad un ponticello in muratura che si appoggia alle "Arcate" e unisce i vari blocchi di sostruzioni (un ponticello che qualcuno voleva sostituire con una passerella metallica, ma che è stato salvato perché ci si è ricordati che non era una aggiunta ottocentesca, ma compariva già in incisioni del Settecento).

Anche questa apertura era attesa da anni. Le "Arcate" furono restaurate negli anni 1997-2000, dovevano essere aperte per il Giubileo, ma non lo furono mai per mancanza di personale (le stesse difficoltà che si sono ripetute oggi). 

Dalla parte più piccola della terrazza si può lanciare lo sguardo all'interno dello "Stadio" e si vede parte della arena che è lunga 160 metri e larga 48. 

INTERNI DEL LAVACRO SEVERIANO
Sempre su questa parte della terrazza si innalza una esedra con al centro una nicchia che doveva ospitare una scultura di ridotte dimensioni. Una posizione che gli archeologi attribuiscono all'intervento di Massenzio. Nell'esedra si apre sulla destra una scaletta che scende ad una terrazza inferiore che è una tribuna ancora più vicina al Circo Massimo.

Da questa posizione più bassa si ha la migliore vista laterale delle "Arcate" e degli interni, fra le luci e le ombre del tramonto. Le "Arcate" a due piani,  pure e semplici, monumentali strutture senza pavimento fra un piano e l'altro per alleggerire il peso. 


Il sistema delle sostruzioni sul Palatino non è stato finora precisato nelle dimensioni né studiato nelle caratteristiche e non è stato neppure mai aperto al pubblico. Ma è un sistema di ambienti che anche gli archeologi devono esplorare. 

Sotto le "Arcate severiane" - spiega Mariantonietta Tomei responsabile del Palatino-Foro Romano -, "c'è un intrico di stanze da consolidare, in parte da scavare. Un programma di molti anni e molti soldi".

La terrazza collegata all'esedra di Massenzio "non è aperta al pubblico perché la sala che la precede, anche questa molto alta, deve essere messa in sicurezza". Sarà aperta in una seconda fase. 

Al di là della terrazza, sulla destra, sono i resti non visibili del palco imperiale che Massenzio si fece costruire per assistere da casa agli spettacoli del Circo Massimo e farsi vedere dal pubblico. Deve essere stato un colpo d'occhio indescrivibile con i 250 mila spettatori che il Circo Massimo poteva contenere.

Così Massenzio sopravanzava Domiziano che si era fatto costruire su un lato lungo, orientale, dello "Stadio" un palco a due piani, semicircolare, dal quale assistere alle gare di atletica, alle moderate corse nello "Stadio" che era riservato alla famiglia imperiale. Sono gli imponenti resti che i visitatori sfiorano nell'itinerario delle "Arcate", con la grande galleria anulare. 

Palco e galleria dovevano essere piene di opere d'arte, dipinti e statue, e i cassettoni ricoperti di stucchi, il tutto con abbondanza di marmi preziosi.

Anche lo "Stadio" (o "Ippodromo"), progetto dell'architetto Rabirio che aveva già ricostruito sul Campidoglio il tempio di Giove Capitolino, il massimo tempio di Roma, "doveva essere arredato come una vera galleria d'arte". Era tutto "contornato da portici per l'altezza di almeno due piani, con larghi corridoi interni e con mezze colonne rivestite di marmo verso l'arena".

Le meraviglie non sono ancora finite. Sulla via del ritorno le mille aperture delle mura altissime che chiudono lo "Stadio" si "incendiano" del sole al tramonto.
È vero che Palatino-Foro Romano-Colosseo vengono chiusi un'ora prima del tramonto, ma già allora si manifestano gli effetti del calare del sole. E poi sarebbe bello prevedere la possibilità di rimanere fino al pieno completamento del tramonto, il "Tramonto su Roma dal Palatino".


(GOFFREDO SILVESTRI)


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