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TEMPIO AEDES CERERIS

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AL CENTRO IL TEMPIO DI CERERE AVENTINA


LA STORIA 

"Nei primi anni della repubblica: nelle distrette d'una grave carestia, i libri sibillini, all'uopo interrogati, suggerirono di placare gli dei greci Demetra, Dioniso e Core, ai quali il dittatore Aulo Postumio votò, nell'anno 496 a.c., un tempio, che sorse presso il Circo Massimo, e fu poi dedicato tre anni più tardi, e alla cui decorazione lavorarono due artisti greci, Damofilo e Gorgaso."

Quando il tempio venne distrutto da un incendio nell'anno 31 a.c., fu sostituito con un altro, fatto costruire da Augusto e terminato al tempo di Tiberio, nel 17 d.c. Come luogo di provenienza del nuovo culto i Romani indicavano più tardi l'antico tempio di Demetra e Core a Enna di Sicilia. 

Considerando però la data molto antica della erezione di esso (496 a.c.), sembra più probabile che sia arrivato a Roma attraverso le città della Magna Grecia; tanto più che è noto essere stati i culti di Demetra e di Dioniso fiorenti assai nella Campania, e che dalla Campania, e precisamente da Napoli e da Velia, si facevano venire di preferenza le sacerdotesse, per celebrare in Roma i misteri di Cerere

 Entrò così nella religione romana una nuova triade divina, d'origine greca, i cui membri non mantennero però il loro nome originario (come accade, per es., per Apollo, per Ercole, per Esculapio), ma assunsero senz'altro il nome e la figura di quelle divinità indigeti, alle quali sembravano più somiglianti: sicché Demetra fu identificata con Cerere, Dioniso e Core con Libero e Libera, divinità anche queste dell'antico Lazio.

CERERE DI EMERITA AUGUSTA
Il tempio comune si chiamò ufficialmente aedes Cereris Liberi Leraeque; più semplicemente, aedes Cereris, giacché Cerere. prese subito il posto principale nella nuova triade. Perciò, la festa anniversaria della dedicazione del tempio fu assegnata al giorno delle Cerialia (19 aprile), e i giochi relativi furono detti ludi Ceriales, e le sacerdotesse addette al culto della triade designate come sacerdotes publicae Cereris populi Romani Quiritium.

Sui nuovi sviluppi del culto di Cerere in Roma, dopo la sua assimilazione con la greca Demetra, abbiamo le seguenti notizie: nell'anno 217 a.c.,

- Per la prima volta sappiamo che fu compresa in un lettisternio di dodici Dei e appaiata, in questo rito, con Mercurio;

- Da allora si tennero ripetutamente nel suo tempio supplicazioni, per suggerimento dei libri sibillini. - press'a poco negli stessi anni, fu introdotta nel suo culto romano una cerimonia propria del rito greco di Demetra, il sacrum anniversarium Cereris.

- Scopo principale della festa era una rievocazione delle nozze di Persefone e di Plutone, con i relativi episodi del ratto e del ritorno di Persefone. Alla cerimonia, che si celebrava secondo il rito greco dei misteri, partecipavano le matrone romane, in abito bianco e con particolare acconciatura del capo, accompagnate e presiedute dalle sacerdotesse della Dea, che, come abbiamo detto, si facevano venire dalle città della Magna Grecia.

- Per tutta la durata della festa, che cadeva in agosto, probabilmente intorno al 10, così le matrone romane come le sacerdotesse dovevano astenersi da qualunque rapporto sessuale e rimanere perciò separate dai loro mariti, ed evitare pure di mangiare pane; il rito vietava anche libagioni di vino.

- I ludi Ceriales ci sono testimoniati come feste a data fissa per la prima volta nell'anno 202: duravano otto giorni, dal 12 al 19 aprile, e consistevano in divertimenti di vario genere, di cui era parte principale una caccia alla volpe, nella quale si facevano correre gli animali con fastelli in fiamme legati alla coda (!).

- L'ultimo giorno era riserbato ai giochi del circo. Finalmente, nell'anno 191 a.c., fu introdotta, sempre dietro indicazione dei libri sibillini, un'altra festa: lo ieiunium Cereris, cioè un digiuno in onore di questa Dea, a espiazione di sinistri prodigi verificatisi. Fu prima quinquennale; dal tempo di Augusto in poi annuale, e ricorreva il 10 ottobre.

Rilievo fine del V sec. a.c, marmo pentelico con dedica a Demeter, rinvenuto negli anni '30, tra le fondazioni del Palazzo della Banca d'Italia e in cui oggi si trova la Questura. In esso appaiono: Kore nell'atto di sollevare il lembo della veste, un peplo dorico con kolpos e apoptygma; Demetra mentre regge una lunga torcia che poggia a terra.



CERERE E TELLURE

La Dea Cerere, così trasformata dall'influsso della greca Demetra, venne in nuovi rapporti con Tellure, e, talora, la sostituì, in certe attribuzioni per le quali la Tellure romana somigliava piuttosto a Demetra che non alla originaria Cerere: così la troviamo quale Dea romana delle nozze, al posto dell'antica Tellure, per influsso della greca Demetra (legifera Ceres, in Virg., Aen., IV, 58).

A essa è rivolta più tardi, invece che a Tellure, nel rito funebre, l'offerta della porca praesentanea, e l'ingresso nell'oltretomba si chiama mundus Cereris, mentre in origine la Dea romana rappresentante dell'oltretomba non era stata Cerere, ma Tellure.



CERERE E LA PLEBE

Va infine ricordata la stretta relazione in cui il santuario di Cerere venne a trovarsi, fin dai primi decenni del sec. V a.c., con la plebe e con i suoi edili: sicché non pare possa mettersi in dubbio che questi magistrati plebei abbiano avuto il loro nome dal tempio, sia che questo si dicesse l'aedes per antonomasia o che quelli si chiamassero aedilei Cereris (poi semplicemente aediles), come mostrerebbe la denominazione di aediles plebei Ceriales, introdotta da Cesare.

Forse, a parte la tradizione, il tempio fu edificato, nel corso del sec. V, da qualche plebeo o dalla plebe stessa: certo è che là si conservava, sotto la sorveglianza dei due edili, l'archivio della plebe e anche il suo tesoro, costituito dall'ammontare delle multe imposte dai magistrati plebei. E del resto la plebe festeggiava, in modo speciale, con riunioni e conviti le Cerialia.

In epoca imperiale, Cerere divenne soprattutto la Dea del frumento; e, in tale funzione, ebbe a compagna e satellite Annona (v.). Fra le provincie, quella che più vide fiorire il culto di C. fu l'Africa, in grazia appunto della sua ricca produzione di cereali; ivi spesso, al posto del nome della dea, troviamo il plurale Cereres, con evidente allusione a C. e Proserpina, in dipendenza, probabilmente, del culto siciliano di Demetra e Core (v. Toutain, Les cultes païens dans l'Empire rom., I,1, 345 segg)



LA LOCAZIONE

Il tempio congiunto a Ceres, Liber Pater e Libera (equivalente a Demetra, Dioniso, e Kore: Dion Hal., Ant. Roma 6.17.2), di solito abbreviato a 'aedes Cereris' Circus Maximus (es. Vitr., De arch. 3.3.5: specie aedium ... uti est ad circum Massimo Cereris; Plinio NH 35.154: Cereris aedem ... ad Circus Massimo; Tac., Ann. 2.49: Libero Liberaeque et Cereri iuxta cir Maximum) e nei pressi dei templi di Flora e Luna. 

DEMETRA
Non ne sono stati identificati i resti. Venne molto considerato anche per la sua immagine di Ceres, la "prima immagine di bronzo di una divinità a Roma" (Plinio, NH 34.15) e per le opere d'arte squisita lì esposte (Strabone 8.6.23, Pliny, NH 35.24, 35.154-55)

Il Tempio di Ceres era un luogo dove i plebei si autoidentificavano. L'edificio aveva un aspetto straordinariamente antico e Vitruvius (cit. Cit.) lo cita come esempio primario dello stile toscano poco prima che venisse distrutto dal fuoco nel 31 a.c.. (Dio Cass. 50.10.3, cfr Strabo 8.6.23). 

Notevolmente, Augusto iniziò la sua ricostruzione (insieme al vicino Tempio di Flora e al Tempio di Iano presso il Foro Olitorio; RG 19-21 non è altro che questo aedes) e la sua ridedicazione non avvenne prima del 17 d.c. (Tac. , Ann 2.49: coeptasque ab Augusto dedicavit [Tiberius]), il che significa che questo santuario importante rimase sia una rovina che in cantiere durante tutto il periodo di Augusto.

La testimonianza più dettagliata per la posizione del tempio deriva da Dionigi di Halicarnasso, che lo descrive come "alla fine del Circo Massimo, direttamente sopra le porte di partenza" (Ant. Rom. 6.94.3). Pertanto il suo posto sul pendio più basso della punta nord aventina, appena sopra la testa del Circo, è concordato (Richardson 80, Coarelli LTUR I, 261). 



AEDES E TEMPIO

Il templum è tale in virtù della inauguratio compiuta dallo augure. La aedes invece non è inaugurata; è consacrata dal pontefice e dedicata dal magistrato; per i quali due atti diviene proprietà della divinità cui essa è dedicata. Quindi può essere templum anche un sito o un edificio di uso civile (p. es., il Comizio, la Curia); la aedes è sempre un edificio di culto.

Quando un edificio è inaugurato, consacrato e dedicato, è templum e aedes; è adibito al culto, ma può essere adibito anche a funzioni civili (p. es., riunioni del Senato). Il giorno della dedicatio è il dies natalis della aedes, e se ne celebra ogni anno la ricorrenza.

La aedes, perché sacra, cioè proprietà della divinità, è inviolabile e non è commerciabile; il suo patrimonio è commerciabile, purché risponda allo scopo per il quale è costituito.
Il tempio, esastilo e con la statua della Dea al centro, mentre ai due lati c'erano le statue di Ade e Proserpina, serviva anche come quartier generale degli edili plebei e ospitavano il loro archivio, con copie dei decreti del Senato (Livy 3.55.13). Inoltre, il tempio disponeva dell'asilo Cereris, luogo di rifugio dove il pane era distribuito ai poveri (Varro in Non 63.1-4 Lindsay, cfr Coarelli, LTUR I, 130).



LETTERE DI PLINIO IL GIOVANE

"Per un avvertimento degli aruspici debbo ricostruire, abbellendolo e ingrandendolo, il tempio di Cerere che è nei miei possedimenti, ed è assai vecchio e angusto mentre per altro nel giorno stabilito è largamente visitato.

Infatti alle Idi di settembre da tutta la regione confluisce una gran folla, si trattano molti affari, si fanno e si compiono molti voti. Ma non v'è nei pressi nessun riparo dalla pioggia e dal sole.

Darò pertanto prova di munificenza e al tempo stesso di religiosità se farò costruire un tempio il più bello possibile, cui affiancherò un porticato, quello per uso della dea, questo per gli uomini.

Vorrei perciò tu comperassi quattro colonne di marmo, secondo il tuo gusto, e comperassi dei marmi per rivestire il pavimento e le pareti.

Bisognerà anche far fare una statua di quella dea, giacché quella antica di legno è smozzicata in parecchi punti a cagione della sua vetustà. Quanto al porticato, non mi viene in mente nulla per ora, che tu debba ricercare costì, se non forse che tu mi mandi un disegno adatto al luogo.

Non posso infatti circondare tutto il tempio: giacché il terreno ove esso sorge è limitato da una parte dal fiume con delle rive scoscese e dall'altra dalla strada.

Oltre questa vi è uno spazioso prato, che sarebbe un luogo abbastanza adatto per sviluppare, in faccia al tempio, il colonnato; se però non troverai una miglior soluzione tu, che sei capace con la tua bravura di superare gli ostacoli del terreno. Addio. "



CULTO DI VITULA

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VITULARIA FESTA DELL'ALLEGRIA

LA DEA VACCA

Vitula era una divinità della religione romana antica, probabilmente di origine sabina. Dea della gioia, la cui esistenza è riportata anzitutto da Macrobio, era collegata alle celebrazioni dei vitulatio. La Dea Vitula, o Dea Giovenca, ricorda un'altra giovenca, la Dea Europa dall'aspetto bovino, declassata poi al rapimento di Giove incapricciato della bella ninfa chiamata Io oppure Europa.

In questo caso il Dio greco si appropria dell'aspetto bovino presentandosi all'umana Europa in qualità di toro mansueto che la invita a salirgli in groppa per poi ingravi
darla in luogo appartato dopo lunghissimo viaggio.

Vitula che, nel linguaggio comune, designa appunto una giovenca, ha avuto, di per sé e nei suoi derivati: ​​vitulari e vitulatio, un significato profondamente religioso. In realtà la Giovenca fu una delle frequenti rappresentazione della Dea Terra, ovvero la Natura, colei che provvede al nutrimento delle piante, degli animali e degli uomini. Come la giovenca era provvida di latte così la Madre Terra è provvida di latte per tutti suoi figli, cioè tutti gli esseri che la abitano, senza distinzioni.

AMENOFI II IN PIEDI DAVANTI ALLE ZAMPE ANTERIORI DI HATOR
E CHINO MENTRE NE SUCCHIA IL LATTE
Dall'Europa all'Asia e all'Africa la Dea Vacca fu grandemente onorata, ne fa esempio l'antica Dea Hator dalla testa di Vacca, o Iside dalle orecchie di vacca, o la Vacca Sacra dell'India, antica Dea della Natura. "Rallegrate la nostra fattoria con piacevoli muggiti.” sono versi del Rig Veda si riferiscono alla mucca come Devi (Dea), identificata con la Dea vedica Aditi, madre di tutte le forme esistenti, degli Dei e degli esseri viventi.

L'antica Dea Madre, o madre Terra, era Dea della vita e della morte, per cui anche la guerra e le battaglie le erano pertinenti. Pertanto Vitula divenne anche una divinità della vittoria, e il nome venne distorto successivamente in Vitellia (o Vitelia), probabilmente su influenza del nome della gens Vitellia, l'origine del cui nome si ricollega, stando a Svetonio, ad alcune divinità sabina.

Svetonio in realtà riporta due diverse versioni delle origini della gens Vitellia: una afferma che sarebbero discendenti degli antichi sovrani del Lazio, e questi a loro volta discenderebbero dalla Dea sabina Vitula; nell'altra descrive la famiglia come di umili origini (facendo derivare il nome dal cognomen Vitulus).

Nel Giornale Enciclopedico di Napoli, del 1815, si osserva che Cicerone scrive di una strada dell'Irpinia che chiama Via Vitularia, che si suppone sia un derivato del termine germanico per la Dea "Vitula", ma forse invece per le feste che si svolgevano in suo nome. 

Macrobio, sulla base di testi più antichi, ci informa che Vitula è una divinità che presiede alla gioia; e i poeti del primo periodo, Nevio, Ennio e Plauto, fanno dei termini "vitulari" e "vitulatio" sinonimi di allegria o di rallegrarsi, ma con una connotazione religiosa.

La Dea Vitula recava gioia con i suoi doni perpetui, e il contatto con la sua essenza donava gioia anche agli uomini che riuscissero a percepirla, così i suoi sacerdoti erano sempre sorridenti e ripieni di "gioia sacra", una specie di gioia estatica che proveniva dalla Dea. 



LA VITULATIO

Varrone narra che la divinità ebbe origine in Grecia. ma portata lì dagli Umbri, dove questa usanza sembra abbia avuto origine. La vitulatio consisteva infatti nel rincorrere prima una una mandria di vitelli che simboleggiano un esercito ostile, quindi se ne sacrificava uno come promessa di vittoria o come celebrazione della vittoria già conseguita. Vitula, Dea Vacca della fertilità dei campi e degli armenti, divenne pertanto una divinità della Vittoria  a cui si consacravano i morti e le vittorie. 

Ora però rincorrere vitelli considerandoli nemici era già una corruzione del rito più antico, dove i giovani guerrieri spingevano con suoni di tamburi e trombe dei giovani tori, mentre altri gli correvano ai fianchi o addirittura davanti, cercando di sfuggire ai loro zoccoli e alle loro corna.

Si trattava di una prova di coraggio, un po' come l'“Encierro” spagnolo, che consiste in una corsa di circa 800 m davanti ai giovani tori, che ha come punto di arrivo la" plaza de toros", per una durata media tra i tre e i quattro minuti. Solo dopo aver dato prova di sè alla Dea, i giovani potevano mangiare la carne del toro sacrificato che veniva offerto anche al popolo.

La parola Vitula venne poi corrotta in Vitellia o Vitelia, confondendosi col nome della gens Vitellia, le cui origini Svetonio collega peraltro con Fauno e Vitellia, divinità Sabine trapiantate a Roma. L'antica festa della Vitulatio sarebbe da ricercare nella festa della Poplifugia o Capratine Nones, in onore di Giunone Caprotina.  (Varrone - Juno, p 685; Poplifugia, p 579)

VICTORIA
Le None Caprotine erano una festa femminile celebrata in onore di Giunone Caprotina dove le donne banchettavano nel Campo Marzio sotto un caprifico, col sacrificio di solo latte che veniva versato sull'ara. Partecipavano alla festa anche le schiave che si colpivano tra loro con un ramo di caprifico, si lanciavano sassi e beffavano i passanti. 

Gli antichi spiegarono l'origine della festa con la leggenda per cui, avendo i popoli confinanti imposto con le armi ai Romani la consegna di matrone e fanciulle, vennero consegnate schiave vestite da libere e poi, nel campo nemico, una di loro, salita di notte su un caprifico, diede ai Romani il segnale convenuto perchè piombassero sui nemici dormienti dopo l'orgia.

Le Poplifugia commemoravano invece la fuga dei Romani quando i Fidenati e i Ficulei li assalirono poco dopo la conquista di Roma da parte dei Galli, nel 390 a.c.

Ma non era dei romani commemorare l'onta di una fuga. Si sa poi che i Galli di Brenno assediarono Roma in quella data e che molti romani si rifugiarono sul Campidoglio.

I Galli stavano per riuscire, nottetempo, a entrare nel Campidoglio, ma delle oche, unici animali superstiti alla fame degli assediati perché sacre a Giunone, cominciarono a starnazzare avvertendo del pericolo. I romani riuscirono a tenere il Campidoglio pur dovendo pagare a peso d'oro lo scioglimento dell'assedio nemico.

Così ne parla Varrone:

Il giorno del Poplifugia par così chiamato perciò che in esso sia fuggito il popolo, levato ad improvviso tumulto. Ed invero questo dì è poco dopo quello in cui i Galli lasciarono Roma; a quel tempo i Ficolesi ed i Fidenati ed altri popoli presso che formavano allora i sobborghi di Roma, le congiurarono contro. 

Nei sacrifici di questo giorno v’han più ricordi che accennano a siffatta fuga... Nel Lazio le donne in quel dì si sacrificavano a Giunone Caprotina, e questi sacrifici si fanno sotto un Caprificio. Perchè poi in questo giorno concedasi loro la pretesta."

Sembra che tale festa fosse contigua alle None Caprotine e al Poplifugia, due feste dedicate alle donne, visto che alle Caprotine officiavano le donne e pure ai Poplifugia, dove addirittura indossavano la toga pretexta dei senatori. Evidentemente ambedue le feste commemoravano le donne per essersi comportate in quei frangenti con grande valore.

La festa, celebrata nel mese di luglio, era molto allegra, con canti, suoni e danze, con ghirlande di fiori sulla testa degli animali e delle persone. Sembra durasse tre giorni e fosse nei tempi più antichi riservata solo alle donne, ma che in seguito, venendo la Dea associata alla Dea Victoria, venisse estesa anche agli uomini ed ebbe anche inizio il sacrificio del toro sacro. 

I FIORI E I ROMANI

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LA FESTA FLORALIA


LA BASILICA FLOSCELLARIA

La Basilica Floscellaria, menzionata sia nei Cataloghi Regionari che in Polemius Silvius (545), era un edificio in cui si svolgeva il commercio dei fiori a Roma. Sembra che nella costruzione troneggiasse una statua della Dea Flora. (Dea dei fiori e precisamente colei che apre le corolle in primavera)

Sembra che nella basilica vi fossero pareti con ornamenti  e bassorilievi di pietra e di marmo, con pitture di fiori e tralci vari, e che vi fossero posti dei banchi in marmo dove si esponevano i fiori con cui i romani ornavano se stessi e le loro case.

La gente si recava nella basilica floscellaria per portarvi dei fiori o per acquistarli. Infatti i fiori giungevano dai campi extraurbani dove avevano colture intensive, portati sui carri per essere venduti ai grossisti di fiori che ne acquistavano in grande quantità smistandoli ai vari fiorai della città o sui banchi della basilica stessa.

Spesso vi si recavano gli schiavi per acquistare nuove piante o fiori per la casa, perchè gli antichi romani amavano, come oggi, e più di oggi, ornare la propria casa con vasi colmi di fiori.


OMAGGIO FLOREALE

ADONAEA

Non mancavano naturalmente le piante di fiori che servivano a ornare i giardini delle domus, o i balconi delle case romane, posti in genere al primo o al secondo piano. I romani pur avendo finestre piuttosto piccole avevano stanze molto luminose che si affacciavano direttamente sui giardini.

A metà estate le donne greche mettevano immagini di Adone sui tetti, poi piantavano semi a rapida germinazione come frumento, lattuga e orzo in contenitori di fortuna come vecchi vasi rotti o cestini rovinati, e lì coltivavano per otto giorni.

Dopodichè mettevano le giovani piantine germinate di fronte all'altarino e le lasciavano morire al sole e senza acqua, ricreando così il ciclo di nascita, vita e morte di Adone. Si pensa che fu la prima piantagione in vaso, almeno in occidente, perchè i giardini di Babilonia magari ne avevano ancor prima.


Ecco l'antesignano delle piantine nei barattoli di conserva sui davanzali delle case, i vasi di fortuna che divengono poi vasi di terracotta, di marmo e di pietra, sempre più elaborati e di dimensioni maggiorate, finchè a Roma, dove dominava il gusto dei giardini e del verde, nasce questo nuovo tipo di giardino, con piante in vaso, che prima coronano il giardino e poi ne diventano le protagoniste.

I vasi si diffondono e trionfano a Roma, dove coronano un ninfeo o sono al termine di un viale, o lo costeggiano, o ai lati di un portale, finemente scolpiti e issati su erme di marmo. Oppure ornano le balaustre su parallelepipedi con mensole in pietra, o sono al culmine di una fontana, o alternano sedili ricurvi in una specie di salotto da giardino, o sono portati da ninfe che li poggiano graziosamente sul capo o sulla spalla, o stanno ai lati di un minuscolo tempietto, o al suo centro.

Sul Palatino l'imperatore Domiziano ha una corte adornata di fiori che nascono in vasi disposti tutto intorno al tetto del cortile colonnato. I vasi vengono  ogni tanto calati e sostituiti con vasi colmi di fiori di colore diverso, perchè all'imperatore piace cambiare colore. Si troveranno usi simili anche a Pompei.

NEGOZIO ROMANO DI PIANTE E FIORI

USO DEI FIORI

L'uso dei fiori da parte dei romani era molto vario, il che giustifica ampiamente che vi fosse un mercato dei fiori a cui era dedicata un'intera basilica. I fiori venivano dalle campagne vicine ma pure dal sud del territorio italico. Il suolo campano ne forniva ampiamente.

I romani usavano molto i fiori in medicina, o per adornare se stessi, o per ornare la casa, con piante, tralci, corone o fiori a mazzi, per i funerali, per ornare i morti sui catafalchi.

Oppure erano usati per fare un presente all'amata, o per cortesia verso gli ospiti che venivano cinti di corone, o per usi propiziatori, o  per le persone che volevano onorare, giungendo a infiorargli il cammino, con rami o petali di fiori.

OFFERTA VOTIVA
Ma usavano fiori pure per le immagini sacre dentro e fuori casa, nelle edicole, o per adornare una tavola imbandita, o addirittura per mangiarli.

I fiori venivano offerti alle divinità spesso insieme a una coppa di latte o ad erbe profumate, poste ai piedi della statua, artisticamente deposti in un piatto votivo.

Durante i matrimoni i fiori dominavano la cerimonia: sugli sposi, sugli addobbi, sugli invitati e sui triclini dove si svolgevano i banchetti. Anche gli schiavi venivano incoronati di fiori.

Con i fiori si producevano profumi e creme di bellezza, che gli innamorati donavano alle loro donne ponendoli in vasetti più o meno preziosi. A Roma gli amanti riempivano di fiori le case delle amate, queste a loro volta regalavano agli amanti corone di fiori intrecciate con le proprie mani.

L'arte di intrecciare fiori era molto sentita come la pittura, la musica, e il cucire le vesti. facente parte dell'educazione della fanciulle di buona famiglia.

Intrecciare fiori significava anzitutto conoscere la durata dei fiori e dei rami, non si potevano intrecciare insieme rami o fiori che non avessero la stessa durata. Poi c'era la composizione delle forme e dei colori, giungendo a creare delicate sfumature, oppure creando contrasti evidenti.

I romani, anzi le romane, conoscevano pure l'arte di porre i fiori nei vasi, con rami, tralci e fiori. Una matrona raffinata stupiva gli ospiti con l'addobbo floreale della sua casa, sia all'interno che all'esterno. Di solito si ponevano tralci tra una colonna e l'altra, e si usava anche ornare le statue con tralci o fiori.

Chi portava una buona notizia veniva sempre ricompensato con una coppa di vino e, se la notizia era molto buona, veniva incoronato di fiori. La verbena, invece, veniva raccolta al Campdoglio e se ne intrecciavano serti nell'incoronazione dei sacerdoti durante le feste.

Durante i banchetti spesso i padroni di casa regalavano agli ospiti delle corone di fiori con cui cingersi i capelli. Spesso i fiori scelti alludevano al carattere o ai bisogni del commensale. Per esempio un politico poteva ricevere  una corona di fiori di elicrisio, pianta simbolo del sole e del successo, o un militare una corona di alloro, per la gloria in battaglia,



FIORI MALOCCHIO E MAGIA

Secondo i romani alcuni fiori avevano proprietà magiche o apotropaiche (portavano fortuna o difendevano dal malocchio)

- Acetosella - Il suo nome deriva dal sapore "acido" e un po' aspro delle foglie della pianta, che anticamente venivano utilizzate proprio come condimento per le insalate. Era considerata protettiva dal malocchio.

- Acanto - Nella mitologia greca Acanto fu una ninfa desiderata da Apollo, ma che non voleva saperne. Un giorno Apollo fece per rapirla, l'altra fuggì e quando il Dio del Sole la raggiunse la bella ninfa il volto del bell'Apollo, il quale infastidito la trasformò in una pianta “amata dal sole”.
Plinio il Vecchio nei suoi trattati di botanica, nel 50 d.c invitava i romani ad ornare d’acanto gli splendidi giardini romani; ma l'acanto a Roma era ovunque, e le foglie di acanto stavano scolpite sui capitelli dello stile corinzio. Si pensava infatti che la pianta portasse la buona ventura e l'abbondanza.

Agrifoglio - Plinio il Vecchio, (I sec. a.c.)., consigliava di piantare l'agrifoglio vicino alla porta di casa, per proteggerla dalla perfidia dei malvagi.

- Amaranto - Nella mitologia greca si narra che le Dee amassero essere festeggiate con ghirlande di amaranto; che era sinonimo di protezione e benevolenza. I romani attribuivano all'amaranto il potere di tenere lontana l'invidia e la sventura.

- Biancospino - era molto apprezzato in quanto utile per scacciare il malocchio e la sfortuna, e per questo motivo veniva scelto durante la celebrazione di matrimoni e come simbolo di protezione per i neonati.. Per questo solitamente non mancava mai nei giardini o almeno accanto al compluvio come pianta utile oltre che ornamentale.

Ciclamino - ritenuti ottimi contro i morsi dei serpenti più velenosi; e forse per questo si sono attribuiti a questi fiori dei poteri magici, come allontanare i malefici, di portare fortuna e di alimentare l'amore in chi si desidera ci ami.



Corbezzolo - Il suo nome botanico, Arbutus unedo (= ne mangio uno solo), gli fu assegnato da Plinio il Vecchio, in quanto non avendo un buon sapore chi ne mangiava uno non ne mangiava un secondo.  I romani gli attribuivano poteri magici. Virgilio, nell’Eneide, dice che sulle tombe i parenti del defunto si usava poggiare dei rami di corbezzolo.

- Croco - Il suo nome deriva dal greco kroke, infatti il fiore era già conosciuto dai greci. Omero descrive il talamo nuziale di Giove e Giunone ricoperto di fiori di croco. I romani ponevano il croco sulle tombe, come simbolo di speranza per la vita ultraterrena. Probabilmente, gli antichi conoscevano soltanto il croco da cui si ricava lo zafferano, con il quale preparavano anche filtri d'amore.
Sembra che ai romani fosse vietata l’importazione dello zafferano, che però veniva importato di soppiatto come polvere dalla Grecia e come unguenti e profumi dalle regioni orientali. La proibizione doveva dipendere dal fatto che questa spezia era estremamente cara (per ottenerne 125 g servono oltre 20.000 stimmi di fiori che devono essere raccolti a mano per non essere rovinati) e il senato cercava di impedire le spese pazze dei romani per non aumentare il debito erariale.
Plinio però lo indicava come cura in caso di ulcere, tosse e dolori al torace, il che significa che almeno ai suoi tempi non c'erano più divieti. .

MANDRAGORA
Iperico - che veniva colto nella notte del Solstizio d'Estate e che veniva indossato come un amuleto contro malocchio e incidenti.

- Malva - Le foglie di malva, e pure i fiori, poste sotto l’addome delle partorienti, facilitavano magicamente, secondo i romani, l’espulsione del feto. Era così efficace che dopo il parto si doveva togliere tutto per impedire che venisse espulso anche l’utero.

Mandragora - solo la radice, che era già considerata magica al tempo degli egizi. Si riteneva capace di procurare sogni rivelatori.

.- Lavanda - Plinio il Vecchio esalta le qualità curative della lavanda, del resto già conosciuta e usata dagli etruschi, che i romani amavano porre nelle vasche dei bagni come profumo e cura per il corpo per le sue qualità rinfrescanti, infatti è proprio dal verbo lavare che il fiore prende il suo nome. Si riteneva salvasse dalla magia negativa.

- Ninfee - Non mancavano le ninfee, almeno in epoca imperiale, già conosciute dagli egizi e fai greci, che ne ornavano gli stagni dei giardini, in genere accompagnate da pesci rossi che tenevano pulite le acque da zanzare e affini. Si riteneva purificassero le acque e i giardini da influenze negative.

Oleandro - Plinio il Vecchio scrisse a proposito dell'oleandro che da esso si otteneva un miele non commerciabile, velenoso, in quanto prodotto dalle api con il nettare dei fiori ritenuti velenosi.. Naturalmente era una falsa credenza perchè il nettare di fiori velenosi non è velenoso. Sembra che per questo entrasse in alcuni rituali di magia.
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- Papavero da oppio - Ippocrate (460 - 377 a.c) lo dava come rimedio per varie malattie, anche se Ma già da allora, alcuni studiosi iniziavano a capire come funzionava infatti Erasistrato di Chio (nato nel 330 a.c.), avvertì dei pericoli dell'uso. A Roma si diffuse dopo la conquista della Grecia (146 a.c.), visto che i greci ne facevano uso. Si riteneva allontanasse gli influssi maligni. Si narra facesse parte della famosissima Teriaca, un rimedio polifunzionale usato da 18 secoli come rimedio per ogni male. Si disse inventato da Mitridate, re di Ponto(132–63 a.c.) e fu Pompeo a scoprirlo dopo aver sconfitto Mitridate, per cui venne chiamato Elettuario di Mitridate (l'elettuario è un preparato semidenso di vari farmaci impastati con miele e sciroppi).

Fu Andromaco il Vecchio, medico di Nerone (37 – 68 d.c.), che perfezionò la ricetta aggiungendovi varie sostanze tra cui l'oppio. Galeno (131 – 201 d.c.), lo usò per avvelenamento, cefalee, problemi di vista, epilessia, febbre, sordità e lebbra e con questo farmaco curò Marco Aurelio (121 – 180 d.c.) facendone un oppiomane, come testimoniano i resoconti clinici di Galeno.
Dopo la caduta dell'impero romano la chiesa ne proibì l'uso anche come prodotto farmaceutico.
Le varietà spontanee in suolo italico sono principalmente il Papaver somniferum var. setigerum e il Papaver rhoeas (rosolaccio) con basse percentuali di alcaloidi.

Pervinca - Lucio Apuleio (o Apuleio da Madaura, 125-170 ca.) suggerì una precisa prassi di raccolta dei fiori pervinche per proteggersi da possessi demoniaci, attacchi di serpenti e animali feroci, veleni, invidie, paure e per prosperare in salute.

L'INNAMORATO

FIORI PIANTE E DEI

Piante e relativi fiori erano consacrati a Dei o a Ninfe, spesso con significati precisi anche se non ne sappiamo più di tanto. Erano consacrati tanto agli Dei che alle Dee:

- Adone - divinità greca e poi romana, gli era sacro il fiore anemone.

Apollo - Gli era sacro l'alloro, con i suoi frutti e suoi fiori, che era prima dedicato alla ninfa Dafne. Egli tentò di afferrarla per calmare il suo desiderio ma ella invocò gli Dei che per salvarla la trasformarono in pianta. Il Dio trovandosi tra le mani l'albero odoroso ne staccò un rametto e se ne cinse la fronte, usanza seguita poi da tutti gli eroi, imperatori compresi.

- Bacco - gli erano sacri l'uva coi suoi frutti, il pino e le pigne, l'edera e i suoi fiori.

- Cibele - A Roma in onore di Cibele, Magna Mater, si tagliavano delle canne fresche tagliate presso le rive dei fiumi, poi venivano ornate di numerosi fiori fissati con nastri colorati, ma pure con rami di bacche e frutti e portate in processione. Venivano regalate ai ragazzi che le avrebbero portate poi verso proprie case innalzandole festosamente, nella processione dei Cannophori, festeggiata il 15 di marzo e nelle Megalesiae del 12 aprile.

- Demetra - le fu dedicato il papavero in quanto calmò il dolore della perdita di sua figlia con una tisana di papavero, però era sacro anche alla figlia Persefone poichè quando venne rapita da Ade stava raccogliendo papaveri.

- Diana - garofano, in cui si trasformò un suo amato poi da lei abbandonato nella disperazione. Commossa se ne adornò.

- Dioniso - gli era sacro il melograno ma era sacro anche a Proserpina che se ne cibò nell'Ade.


- Ecate - gli erano sacri il papavero e il ramo d'ulivo (quest'ultimo da prima che venisse importato il culto di Atena-Minerva.

- Flora - il fiordaliso poichè il suo amato Cyanus morì in un campo pieno di fiordalisi.

- Giove - I rami di quercia, sacra a Giove, ornavano spesso l'impluvio, come offerta al re degli Dei, ma pure perchè i rami di quercia mantengono intatte molto a lungo le loro foglie, si che venivano cambiate da un anno all'altro.

- Giunone - il giglio. le fu sacro perchè nato da una goccia di latte caduta mentre la dea allattava Ercole per fare un favore a Giove.  Ma le furono sacri anche il croco, l'asfodelo, la verbena, l'iris, la lattuga e la menta, ma anche il melograno, il cotogno e il fico.

- Iride - la messaggera degli Dei aveva come fiore a lei dedicato l'iris, che da lei prendeva il nome.

- Latona - madre di Apollo e Diana, Plinio il vecchio ne fa la pianta del dio Peone, medico degli Dei a cui dovrebbe il nome, che venne tramutato nel fiore della peonia, per aver liberato Latona dai dolori del parto.

- Marte - gli erano sacri l'aglio e l'agrifoglio.

- Venere - In onore di Venere si ornavano la statua con rami di mirto, ma stranamente il mirto era pure la pianta dei morti, segno che anticamente la Dea era anche infera. Gli antichi Greci ritenevano che chi coglieva o coltivava mirto, e chi lo usava per abbellire la casa e gli abiti aumentasse vigore e potenza. Ad Atene, i vincenti, atleti o guerrieri si cingevano il capo con una corona di mirto.

Fiori dei Morti - A parte la pianta del mirto, sia per i greci che per i romani erano consacrati ai morti i fiori di asfodelo.

FIORI SUI CAPELLI

LA MODA ROMANA

Ad Atene e a Roma c'erano le modiste che applicavano fiori veri o artificiali sui cappelli.
Ma le raffinate romane usavano anche porne direttamente nei capelli, e i graziosi ombrellini parasole servivano non solo a proteggere la pelle che doveva essere rigorosamente bianca ma anche i fiori freschi che ornavano le loro chiome. Plinio sostiene che brave modiste si trovavano a Chiarenza in morea (Peloponneso).

Ma le belle romane ponevano fiori anche sugli abiti o sul corpo. A volte attorcigliavano fiori freschi attorno agli orecchini formati da semplici cerchi d'argento o d'oro. oppure ne ponevano sulle cavigliere anch'esse d'oro e d'argento che mettevano ai piedi, sovente con ciondoli tintinnanti, sia per gli orecchini che per le cavigliere. Tale uso però era in genere riservato alle ragazze, più raro per le matrone in quanto ritenuto un po' sfrontato.

IL CORTEGGIAMENTO

FIORI EDULI

I romani si nutrivano di vari fiori, alcuni come quelli che usiamo ancora oggi, altri in disuso nella nostra cucina, altri mai usati. Conoscevano così svariati fiori eduli (commestibili).

Avevano del resto una cucina molto raffinata, anche perchè avevano colto il meglio da occidente ed oriente, visto che potevano importare tutto e il meglio di tutto. Inoltre amavano sperimentare piatti e ingredienti sempre nuovi, per cui l'uso dei fiori in cucina erano una prelibatezza sia per il sapore leggerissimo che conferivano ai piatti, sia perchè ornavano con grazia e fantasia la tavola imbandita.

I fiori venivano cucinati o passati nel miele, o conservati col ghiaccio, o sparsi freschi sulle pietanze per dare un leggero aroma ma pure per donare un colore particolare alla pietanza.


Eccone alcuni:

Acetosella - i suoi fiori hanno un sapore acidulo, ma meno delle foglie. Si mescolavano all'insalata proprio per questo delicato sapore d'aceto.

Allium -  facevano uso dei fiori dell’allium (porri, erba cipollina, aglio…) il porro era usatissimo dai Romani,

Asparagiselvatici - bolliti o conditi in salsa agrodolce.

Basilico - usavano i fiori anche in vari colori, dal bianco al rosa al blu. Il sapore è simile alle foglie, ma più delicato, ma li usavano soprattutto per decorare le pietanze.

Borragine – Di una bella tonalità blu, il fiore sa di cetriolo. Plinio: «Un decotto di borragine allontana la tristezza e dà gioia di vivere»

GELSOMINO
Calendula – Di gusto piccante, ha un colore dorato che porta un raggio di sole i qualsiasi piatto. Il nome deriva dal latino Calendae, ovvero il primo giorno del mese, dato che fiorisce una volta al mese durante tutta l'estate. I romani insaporivano carni e insalate con un’originale “vinaigrette” preparata con fiori di calendula e aceto. In alcune cerimonie sacre i sacerdoti officiavano con al collo ghirlande di fiori di Calendula.

Carciofi - che sono fiori, carciofi selvatici e dal I secolo d.c. anche coltivati e provenienti dalla Sicilia.

Cardo - gustoso il suo fiore, Plinio nella sua “Storia Naturale” lo annovera fra gli ortaggi pregiati. Molto usata fin dall'antichità a scopo medicinale per i problemi biliari, il cardo ha splendidi fiori violetti circondati da un'aureola bianca e pungente.

CerfoglioI fiori sanno di anice,  pianta annuale importata in Europa dai Romani dalla Russia meridionale, dal Caucaso o dal Medio Oriente;

LAVANDA
Coriandolo –  il fiore ha un'aroma leggermente speziato che ricorda il limone. Secondo Plinio il Vecchio (Naturalis Historia, XX, 82), mettendo alcuni semi di coriandolo sotto il cuscino al levar del sole si poteva far sparire il mal di testa e prevenire la febbre. Comunque i romani lo spargevano fresco nel sugo di carne perchè acquistava sapore.

Dente di leone (tarassaco) – I romani ne usavano sia le fogli che i fiori. Questi ultimi venivano fritti in pastella. La salsa di fiori di tarassaco era a base di aceto di vino.

Finocchio selvatico – I fiori gialli venivano fritti aggiungendo sale o miele secondo i gusti. Anticamente si adorava una ninfa detta "la Dea del Finocchio Selvatico", le cui sacerdotesse si cingevano la fronte con i rami profumati della finocchiella.

Gelsomino – Questi fiori super fragranti venivano usati nei dolci e nei biscotti.

Issopo  – Sia il fiore che le foglie hanno un sottile gusto di anice e di menta ma un po' amaro. Usato dai romani per condire carni e focacce.

ROSMARINO
Lavanda – Veniva usata per i dolci, per il sapore speziato e profumato dei suoi fiori.  Plinio il Vecchio ne esalta le qualità curative, già usata dagli etruschi, che i romani amavano porre nelle vasche dei bagni come profumo e cura per il corpo per le sue qualità rinfrescanti, infatti è proprio dal verbo lavare che il fiore prende il suo nome.

Lilla (Sirynga) – Odore pungente, aroma agrumato, ci si preparavano profumi e si ricavava anche l'olio da massaggio  per  reumatismi e dolori. I fiori freschi potevano servire ad allontanare gli spiriti malvagi. Si usavano nelle creme dolci miste a miele e tuorli d'uovo, con cui talvolta si spalmavano le focacce.

Limone -ha  fiori dolci e molto profumati. Non si usava il limone se non come medicina, però se ne usavano i fiori spargendoli freschi sui cibi caldi.

Menta - Usata anche nelle bibite fresche con cannella e miele.


Monarda – I suoi fiori rossi hanno il sapore di menta.

Nasturzio – Uno dei fiori commestibili più usati. Di colori brillanti e di  sapore dolce, spesso uniti ai semi di calendula.

ROSA
Ravanello – Di diversi colori, i fiori hanno un distinto sapore pepato.

Rosa – I petali hanno un sapore profumato ideale in bevande, dolci e marmellate. I romani utilizzavano violette e petali di rosa per decorare le pietanze.

Rosmarino – I fiori sono di sapore più leggero rispetto alle foglie; molto usato anche come guarnizione delle portate.

Rucola – I suoi fiori hanno un piacevole sapore pepato molto più forte delle foglie. Veniva usato nelle insalate ma pure per le carni.

Salvia – Sapore simile a quello delle foglie, ma più delicato.

Verbena odorosa –I fiori bianchi hanno sentore di limone. Ottimo il te e nei dolci

Viola – Con un sapore delicato di menta. I romani vi decoravano le pietanze, ma le univano anche nei dolci.

Zafferano - Veniva usato nelle salse che acquistavano così oltre al sapore un colore dorato intenso. Ma usavano ricoprire le strade di zafferano per onorare il passaggio di un principe, o generale o imperatore.

CIRENE (Libia)

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CIRENE DONNA

Appartiene alla mitologia greca, una donna di tipo antichissimo, quando le donne greche erano libere e combattive. Era figlia di Ipseo, re dei Lapiti, e di Tricca, come riferisce Pindaro nella nona Ode pitica.

Quando un leone attaccò le pecore del padre, Cirene immediatamente attaccò la belva. Apollo, che era presente, si innamorò della giovane e la rapì. La portò in Nord Africa dove fondò la città di Cirene in suo onore.

Anche la regione, Cirenaica prese il nome da lei. Insieme ad Apollo ebbe un figlio, Aristeo. Con Ares invece ebbe Diomede di Tracia.




CIRENE NINFA

Cirene secondo altri fu una ninfa, che si battè col leone e fu rapita  da Apollo. Qui infatti viene incoronata da una Nuke priva di ali per aver sconfitto il leone, che però, al contrario di Ercole, non uccide, ma ammansisce. Come si vede il bassorilievo è dipinto all'uso antico. 

LE 5 MUSE DELLA DOMUS DI GIASONE MAGNO

CIRENE CITTA'

Cirene fu una colonia greca e poi romana, posta sul Mediterraneo,  vicino all'odierna cittadina di Shahat, in Libia orientale, nel distretto di al-Jabal al-Akhdar. Il primo insediamento, come individuato dai saggi eseguiti, avvenne sull’acropoli, circondata da mura poligonali.

Venne fondata nell 630 a.c. dai dori provenienti da Tera  (Santorini), che si dicevano discendenti di Euristeo Euristeo, personaggio della mitologia greca, figlio di Stenelo e Nicippe e cugino di Eracle. Erodoto riporta che gli abitanti di Thera, spinti da motivi demografici e da una siccità, dopo aver consultato l'oracolo di Delfi, vennero in Africa cercando il luogo con una fonte.

Trovarono così la fonte della ninfa Chirene (Cirene) a cui dedicarono la città. I coloni erano guidati da Batto che fu il primo re della città, e che diede inizio a una dinastia che durò fino al 331 a.c..Il quartiere della collina si organizzò attorno al tempio di Zeus, costruito prima del 515 a.c., periptero, octastilo con cella tripartita, oggetto di numerosi restauri nel corso della storia.

La seconda fase di edificazione riguardò la zona dell’agorà (VI sec. a.c.); infatti accettando l'influenza della Persia, con cui si alleò nel VI secolo a.c., Cirene conobbe grande prosperità sotto Batto IV il cui regno durò quarant'anni (514-470 a.c.).

Dei contrasti interni contro il re Arcesilao IV portarono ad una guerra civile che si concluse nel 440 con l'esilio del re, poi assassinato. Con la fine della monarchia di Arcesilao, Cirene fu riorganizzata in una democrazia che terminò con l'occupazione del regno tolemaico d'Egitto. L’agorà, posta al centro dell’abitato, verso il IV sec. a.c. ebbe un processo di regolarizzazione e monumentalizzazione.

Nel III secolo a.c. vi fiorirono i cosiddetti filosofi cirenaici, tra cui ebbe un ruolo preminente Aristippo, e così la città fu soprannominata "Atene d'Africa". Nel II sec. la città si estese verso est, con isolati disposti ortogonalmente, dove sorse il ginnasio.

Dopo il periodo di protettorato romano nel  II secolo a.c. tornò ai Tolomei fino a che uno di costoro, Tolomeo Apione, re di Cirene per vent'anni, decise lasciò in eredità a Roma la città e la Pentapoli cirenaica (96 a.c.).

BUSTO DI FILOSOFA
Nel 74 a.c. Cirene e la Cirenaica furono elevate, insieme a Creta, al rango di provincia romana, cosa che produsse un periodo di massimo splendore, diventando Cirene un grande snodo commerciale per il traffico di merci fra Europa e Africa.

Nel I sec. d.c. un foro quadrangolare circondato da colonne doriche (Cesareo), affiancò il tempio di Zeus.
Nel 31 a.c., dopo Azio, tutta la Cirenaica passò sotto i Romani. 

Con la fine delle guerre civili Corene beneficiò della pax romana di Augusto che vi fece costruire un tempio dedicato a Zeus con una replica delle statua di Fidia.  

I romani inoltre scoprirono tra le piante autoctone della Cirenaica una specie di finocchio chiamato Silphium che ben presto, poiché graditissimo ai romani, venne commerciato e pagato a peso d'oro. Purtroppo la pianta poi è scomparsa.

Sotto Traiano la zona nord est del santuario fu occupata dalle terme e di nuovo la città su abbellita e ingrandita..

A Cirene si formò una numerosa comunità ebrea e, dopo la distruzione del Tempio di Gerusalemme nel 70 d.c., ci furono molti rivolgimenti. La pace fu interrotta nel 115, quando un cirenaico ebreo, di nome Lukuas-Andreas, che si credeva il Messia e scatenò una imponente rivolta che devastò la città nel 117.

Fu Adriano a portare la pace dove c'era la guerra e come suo solito portò la  ricostruzione e l'abbellimento della città cui seguì un periodo di benessere e fioritura delle arti. La città fu famosa anche per l'allevamento di cavalli vincitori di molte gare e fu punto terminale delle rotte commerciali verso l'interno dell'Africa, da dove provenivano schiavi, pelli e metalli. Per ricchezza Cirene gareggiava con Atene e fu anche un centro di cultura. Di Cirene furono i filosofi Aristippo e Teodoro della scuola edonistica.

Con la riforma amministrativa di Diocleziano del 305 d.c. la Cirenaica viene separata da Creta e passa a far parte, con l'Egitto e con la Marmarica, della diocesi d'Oriente. Poi la residenza dei governatori fu spostata più verso il mare, a Tolemaide. Ammiano Marcellino la chiama già "urbs antiqua sed deserta".

Stragi sanguinose tra pagani e cristiani si propagano dall'Egitto alla Cirenaica, dove la lotta raggiunge proporzioni di feroce parossismo. L'imperatore Teodosio ordina che sian rasi al suolo gli altari e i templi degli Dei perché fomentano la rivolta per il popolo.

Un terribile terremoto che si abbatté poi su tutta la Cirenaica e che fece sprofondare in mare buona parte della città di Apollonia, porto di Cirene, spostò a Tolemaide la capitale della Libya Superior.
 
Nel 410 la città fu definitivamente abbandonata ai nomadi laguatani e non fu più riconquistata dall'impero romano, neppure durante la cosiddetta Ananeosis, cioè la rinascita della Cirenaica, voluta dall'imperatore Giustiniano. Cirene cade nell'oblio.
 
LE GRAZIE ( Museo di Cirene )

CIRENAICA

La Cirenaica storica era costituita dalla regione compresa tra l'Egitto e la Numidia che sconfinava nel deserto del Sahara ed era composta da cinque città di origine greca che formavano la cosiddetta Pentapoli: la capitale Cirene con il suo porto di Apollonia (oggi Marsa Susa), Balagrae (Al Bayda), Arsinoe (Tocra), Berenice (Bengasi) e Barca (Al Marj).

La Cirenaica che sorge su un altopiano fertile e coltivato, era nota nell'antichità per la produzione di una pianta, che oggi sembra estinta, di grande valore: il silfio.

Quando Alessandro si fermò nell'oasi di Siwa, una delegazione di Cirenei fece atto di sottomissione al re macedone, che comunque non era interessato alla sua conquista..

Più tardi passò sotto il controllo dei Tolomei, separata poi dal resto dell'Egitto a opera di Tolomeo VIII che la cedette al figlio Tolomeo Apione. Morto quest'ultimo senza eredi, la regione fu lasciata in eredità a Roma nel 96 a.c. e organizzata in provincia nel 74 a.c.

Con la riforma di Augusto nel 27 a.c. venne aggregata all'isola di Creta come provincia di Creta e Cirene. Con la riforma dioclezianea fu nuovamente separata da Creta e suddivisa nelle due provincie di Lybia superior (orientale) e Lybia inferior (occidentale), appartenenti alla prefettura del pretorio d'Oriente.


Cirenaica oggi
 
Dal VII sec. d.c., l'Africa ha ricevuto una forte influenza islamica, sia sulle coste orientali, sia in Egitto, così come nella cirenaica. La tratta degli schiavi, avviata dagli Arabi sin dal X sec. e proseguita con maggiore intensità verso la tratta atlantica gestita dagli Europei dal XVI sec. in poi, ha interessato tutto il continente fino al XIX sec. e preceduto il colonialismo. Tuttavia nella zona di influenza islamica la schiavitù è rimasta una realtà viva sino ad oggi.

La stagione delle indipendenze è iniziata nel 1951, quando la Libia è formalmente diventata una nazione libera. Oggi Cirene è per importanza la seconda area archeologica della Libia, dopo Leptis Magna.



L'AREA ARCHEOLOGICA DI CIRENE

PORTICO DELLE ERME

PORTICO DELLE ERME 

Sulla Skyrota, la via principale di Cirene, il primo tratto è adornato dal Portico delle Erme, ove emergono le grandi statue del passato, che raffigurano le Cariatidi, immagini di semidei, Ercole ed Ermete. Naturalmente sono sfigurate dal tentativo ripetuto di abbatterle o almeno di sfigurarle.



LE MURA

Se ne vedono solo a tratti, ma sono riconoscibili per quasi tutto il suo tracciato, anche là dove non esistono più avanzi. Sembrerebbero non anteriori all'epoca ellenistica con numerosi rifacimenti romani e bizantini. Ma la prima cinta di mura della Cirene fondata da Batto, doveva essere limitata alla sommità della collina occidentale, se non soltanto all'altura dell'acropoli oltre al tèmenos d'Apollo.

TEMPIO DI ZEUS AMMONE

TEMPIO DI ZEUS AMMONE

Sulla collina di fronte alla città si trova il tempio di Zeus, eretto nel V sec. a.c. come il Partenone di Atene ed il tempio di Zeus ad Olimpia e, nell'interno della cella, si trovava una statua simile a quella di Fidia in Olimpia.Questo è il tempio greco più grande del Nordafrica ed è più grande del Partenone di Atene

Il culto di Zeus si identificò presto con quello del Dio egiziano Ammone, un Dio egizio raffigurato come un sovrano, con la corta veste e la collana; sul capo torreggiano due alte piume, e sulle tempie ha due corna d'ariete.

Fu lo sposo della Dea Mut e con lei ebbe il figlio luna Hons. Il culto giunse fino a Roma, come uno degli attributi di Giove e gli era sacra l'oca.

Ne esistono a Roma, nel museo Barracho, due immagini: una che porta l'ariete sulle spalle del tipo "Buon pastore" e una testa barbuta tipo Iuppiter, con le corna d'ariete sulle tempie.

Era una ipostasi del sole che muore nel solstizio di inverno e risorge in primavera nel segno dell'ariete, un po' come il Cristo, il che spiega la presenza dell'ariete e delle sue corna.

Il tempio aveva 8 colonne doriche sulla fronte e 17 sul lato lungo, furono tutte abbattute durante la rivolta giudaica del 117 d.c. e non più risollevate.

Altri danni furono provocati dal terremoto del 365 e dai cristiani che presi da furia iconoclasta abbatterono le numerosissime statue, i fregi e pure le colonne..

L'opera di restauro degli archeologi italiani (che ha interessato molti altri edifici di Cirene) ha restituito l'originaria imponenza al tempio di Zeus, uno dei più grandi dell'intero mondo greco. Ciò che si vede è frutto di questi restauri.

GYMNASIUM

QUARTIERE DELL'AGORA'

Ai piedi della collina del tempio di Zeus c'è il quartiere dell'Agorà, con l'edificio del Gymnasium costruito nel II secolo a.c. ed usato come palestra; è uno spazio chiuso con ingressi monumentali, i propilei, con 4 colonne e timpano ed all'interno era circondato da un colonnato dorico ripristinato dal restauro.

In un’unica stele scoperta nell’agorà sono riuniti, insieme col senatoconsulto Calvisiano, cinque editti di Augusto indirizzati ai Cirenei ( editti di Cirene), di sommo interesse per la conoscenza della giustizia civile e penale nelle province e per lo studio dei rapporti tra queste e Roma all’inizio dell’Impero.

Accanto al Gymnasium corre una strada porticata che serviva come pista di allenamento per la corsa e sui pilastri sono disposti alternativamente le figure di Hermes ed Herakles protettori dei ginnasi. Nel I secolo d.c. i Romani utilizzarono il Gymnasium come Foro della città e luogo dove si amministrava la giustizia, e insieme eressero teatri, lussuose terme e sontuose case.
Durante la rivolta giudaica del 117 il ginnasio  venne distrutto in quanto simbolo del potere romano ma venne poi fatto restaurare da Adriano. Nulla fu conservato del pavimento, delle statue e dei suoi ornamenti, ad opera dei cristiani prima e dei musulmani dopo.

TEMPIO DI ZEUS ED HERA

TEMPIO DI ZEUS ED HERA

Al centro della piazza dell'Agorà c'è un basamento di statue lungo e stretto, detto altare di Zeus ed Era, forse dedicato alle due massime divinità dell'Olimpo nel IV secolo a.c..

A Cirene si formò una numerosa comunità ebrea e, dopo la distruzione del Tempio di Gerusalemme nel 70 d.C., ci furono molti rivolgimenti e la città fu distrutta nella rivolta giudaica del 117. La città fu ricostruita da Adriano, ma ormai era iniziata la decadenza e come tutte le città della Pentapolis fu abbandonata nel IV secolo, dopo il terremoto del 365.

In età bizantina il cristianesimo avanzante ripudiò tutti luoghi di culto pagano, per cui si cominciò a usare i suoi marmi per farne calce. Fu una distruzione e una devastazione enorme che privò l'umanità di monumenti grandiosi e irripetibili.

ODEON

ODEON

Sul lato meridionale del Gymnasium si trova un piccolo teatro, o più probabilmente un Odeon, con la cavea sorretta da sostruzioni a volta. Come tutti i suoi monumenti anche il teatro era stato coperto di terra, erbacce  e dimenticato.

La città, di cui si ignorava ormai l'esistenza, fu riscoperta nel 1705 dal console francese Lemaire, ma scavi sistematici furono iniziati dagli Italiani negli anni 1920-30; dopo, si è scavato quasi con continuità da parte di spedizioni diverse, ma il sito è molto vasto.



MONUMENTO NAVALE

Sul lato orientale dell'Agorà si trova un monumento con base a forma di nave su cui poggia la statua di una Vittoria senza ali di età ellenistica.

Trattasi di una nave di marmo celebrativa di una vittoria navale di Tolomeo III, marito della splendida Berenice, la cui chioma ispirò al cireneo Callimaco versi celeberrimi.

Dopo le nozze il faraone partì per la guerra e Berenice dedicò una ciocca dei suoi capelli alla Dea Afrodite Zefirite, per il ritorno vittorioso del marito.

In seguito alla sparizione della ciocca, nacque la leggenda che i capelli della regina fossero diventati la costellazione chiamata Chioma di Berenice.

Callimaco celebrò l'evento in un poema, del quale rimangono alcune righe, conservatosi nella traduzione latina di Catullo.

Verso il 243 a.c. Berenice vinse una gara nei giochi nemeani e partecipò ai giochi olimpici.

Già inserita nel culto dinastico insieme al marito con il nome di Dei Evergeti, dopo la sua morte Tolomeo creò in suo onore un sacerdozio annuale, l'Athlophoros. Sotto c'è una vasca perché il monumento era stato poi trasformato in una fontana.

PAVIMENTO DELLA DOMUS IN OPUS SECTILE

DOMUS DI GIASONE MAGNO

Nel quartiere dell'Agorà è stata scoperta la casa di Giasone Magno, gran sacerdote del tempio di Apollo nel II secolo d.c..

La casa occupa un intero isolato ed è divisa in un'ala privata ed una pubblica, vi sono due sontuosi triclini con pavimenti a tarsie marmoree (opus sectile) e motivi geometrici a riquadri.

Sul lato sud del peristilio, di fronte all'ingresso del triclinio estivo, c'è un capitello corinzio con maschere tragiche e teste di personaggi e vicino sono state disposte cinque statue femminili (le Muse) recuperate durante gli scavi.

Nella stessa domus sono state rinvenute in quello che doveva essere il giardino della villa, oltre a parti di colonne, sia rocchi che capitelli, cinque statue rappresentanti delle Muse, naturalmente tutte decapitate e vandalizzate dalla furia cristiana.

SANTUARIO DI DEMETRA E CORE

SANTUARIO DI DEMETRA E CORE

I templi più importanti dell'Agorà sono però il santuario dedicato a Demetra e Kore (Cerere e Persefone), il cui culto era iniziato a Cirene, ed il tempio di Apollo ricostruito in epoca romana nel II secolo d.c., su un edificio più antico risalente al IV secolo a.c..

Il santuario di Demetra e Kore è a pianta circolare e senza copertura; è stato ricostruito con le statue delle due divinità sedute, Naturalmente Demetra e Kore, di epoca ellenistica, ed altre due statue in piedi, aggiunte in epoca romana, che si suppone fossero Cerere e Proserpina, le divinità equivalenti romane.

Callimaco compose l'inno ad Apollo per le feste Carnee di Cirene e l'inno a Demetra Thesmophòros, in cui è cantata la processione del kàlathos procedenti appunto da questo santuario a Cirene.


TEMPIO DI APOLLO

TEMPIO DI APOLLO

Prendendo la via sacra, che scende prima in una valle, raggiunge poi il santuario di Apollo con la fonte sacra, la fonte di Keronea, dove fu fondata la città nel VII secolo a.c.. Per fondare una città era indispensabile trovare anzitutto una sorgente copiosa di acqua potabile, che di solito veniva consacrata a una ninfa divenendo pertanto sacra.

Nel tempio di Apollo si venerava il fondatore e protettore della città; il portale marmoreo che si vede nel fondo era l'ingresso alla cella del tempio greco, l'avancorpo con cortile porticato fu aggiunto in epoca romana e l'ingresso è segnato da due colonne doriche di cui restano i rocchi inferiori.

MAGAZZINI ROMANI

HORREA

Prendendo la via sacra si vedono a destra i magazzini romani scavati nella roccia, i cosiddetti Horrea, dove si depositavano le merci in entrata e in uscita dal porto, un transito considerevole in quanto Cirene era snodo commerciale tra oriente e occidente.

Da qui giungevano a Roma le sete, gli avori, le spezie ma soprattutto il prezioso silphium, la spezia più cara in assoluto tanto che equivaleva al prezzo dell'oro.



IL QUARTIERE DELL'APOLLONION

Il complesso più importante di Cirene era costituito dal santuario di Apollo, su una terrazza ai piedi dell’acropoli, che comprendeva un grande tempio arcaico (VI sec.), dorico, periptero, esastilo, modificato in epoca augustea, e radicalmente riedificato da Adriano, oltre a templi dedicati a Latona, Iside, Ecate e altre divinità. 

Sul lato orientale della collina dell'Apollonion, in primo piano nella figura, si trovano le Terme costruite al tempo di Traiano. Queste rimasero in funzione anche in epoca bizantina e per poco tempo anche dopo l'invasione araba.

Qui fu scoperta la Venere di Cirene che era conservata al Museo di Tripoli.Diciamo che era perchè oggi è scomparsa. Da qui si ha un'ottima visione del quartiere con al centro il tempio di Apollo.

TERME ROMANE

A sinistra della collina si trovano i Propilei greci e Donario degli Strateghi, e a destra il Santuario di Apollo.

L'ingresso all'area del santuario è segnato dai propilei greci del IV sec. a.c., formati da quattro colonne doriche scanalate con architrave a triglifi e frontone, di squisita fattura e di enorme impatto, date le vaste dimensioni.

La collina dove si trova il santuario dell'Apollonion, è  la parte più antica di Cirene più volte rifatta e quindi ormai di impronta romana.

Sulla sinistra della collina si erge un tempio, donario degli strateghi o dei tre generali, dedicato in seguito all'imperatore Tiberio. E' il santuario dell'Apollonion, ricostruito nel IV secolo a.c., poi distrutto dalla rivolta ebraica e restaurato da Adriano. Il tempio ha 6 colonne sulla fronte, 11 sul lato, ed è in stile dorico con colonne fatte a rocchi.

SANTUARIO DI APOLLION

Piazzale di Apollo

Dal versante settentrionale del penultimo terrazzo dell'altopiano cirenaico, a 570 m d'altezza sul mare, sgorga una fonte la cui acqua, dopo aver fluito attraverso un cunicolo che addentrasi nell'interno della collina per circa 300 m e sulle cui pareti si leggono numerose iscrizioni non più recenti dei tempi antoniniani, sbocca all'esterno.

Qui la parete rocciosa presenta dei tagli, fatti allo scopo di applicarvi una tettoia, ragion per cui questa grotta è da considerarsi un rarissimo esemplare di nymphàion primitivo, cioè di sacello naturale di una ninfa, ossia di un'acqua sorgiva divinizzata e personificata, di una dea-fonte, insomma. La fonte fu da Pindaro e da Erodoto chiamata Fonte di Apollo, nella cui pratica rituale era usata per l'appunto l'acqua della sorgente. 



FONTANA DI CHIRENE
FONTANA DI CHIRENE

A sinistra del tempio sorge la Fontana di Kirene, o Chirene, la ninfa amata da Apollo, alla quale era sacra la fonte e da cui prese nome la città. Un'epigrafe informa che si tratta di un monumento votivo donato nel III secolo a.c. da Pratomedes figlio di Polymnis.

Il monumento è costituito da un basamento a forma di esedra su cui si erge una colonna, la meta, ed alle estremità due leoni marmorei. Apollo e la ninfa Kirene sono scolpiti alla base dell'esedra. Il monumento simboleggia l'arrivo dei Greci a Cirene presso la fonte indicata dall'oracolo.

I due leoni denunciano la provenienza antichissima della fonte, in quanto sacri a Cibele, antica dea mesopotamica.

Secondo la mitologia greca i due leoni rappresentano i personaggi mitologici di Melanione e Atalanta, trasformati in leoni da Zeus e condannati a trascinare il carro della Dea di cui avevano profanato il tempio. In realtà Si tratta di una antica Dea Potnia Theron, la Signora delle belve, rappresentata sempre tra due animali selvaggi.

L'ANFITEATRO

ANFITEATRO

Sul lato nord-ovest della terrazza del santuario di Apollonon si trova il Teatro, il più antico di Cirene, che si pensa edificato verso la fine del VI sec. a.c., diverse volte, come mostrano i suoi resti, restaurato e rimaneggiato. Nel II sec. d.c. i Romani lo trasformarono in anfiteatro con arena ovale e, sul lato nord dove la terrazza finiva a strapiombo, crearono con ardite sostruzioni alcune file di sedili della cavea.

Naturalmente non solo lo ingrandirono ma lo abbellirono di rilievi, di statue e di marmi, tutto distrutto dall'intransigenza cristiana prima e musulmana poi.

L'anfiteatro serviva alle corse delle bighe e dei cavalli, e probabilmente anche a lotte tra gladiatori. Da questo punto si ha una bella vista della valle in direzione di Apollonia. Sul fianco della montagna è stata trovata una necropoli.

TEATRO DI APOLLONIA

APOLLONIA

Apollonia si trova a circa 18 Km più a ovest di Cirene, e ciò che rimane oggi, per lo più, risale al periodo bizantino, durante il quale era conosciuta come la “città delle chiese”, visto che la maggior parte dei monumenti sacri o pubblici vennero sostituiti con chiese cristiane.

Dal teatro greco le rovine di Apollonia si estendono per circa 1 km in direzione ovest. Quattro delle cinque chiese bizantine si trovano all’interno dei bastioni, mentre la quinta sorge subito fuori le mura. La città, frequentatissima dagli stranieri, vista l'importanza del porto, godeva di terme romane e pure bizantine, il gymnasium, i magazzini, e un bel teatro greco posto non lontano dalla spiaggia



RESTITUITA LA VENERE DI CYRENE

La Venere di Cirene, che torna in Libia dopo 95 anni, è una magnifica scultura marmorea acefala rappresentante Afrodite, copia romana di età adrianea di un originale ellenistico, risalente forse al IV secolo, della scuola di Prassitele. Lo splendido marmo di questa Venere Anadiomene fu rinvenuto nel 1913, durante il conflitto tra Italia e Turchia, in territorio libico e precisamente a Cirene, conosciuta anche come l'Atene d'Africa.

La città fu infatti fondata dai greci intorno al 630 a.c. e passata in seguito sotto l'influenza di altre culture per diventare nel 96 a.c. capoluogo di una provincia dell'Impero Romano.
Tra le principali vestigia, oltre alla grande necropoli con numerosi sepolcri, i tempietti di Ecate e dei Dioscuri, il ben conservato impianto idrico romano, figurano l'acropoli greca e i templi di Zeus e Apollo.

Proprio qui la missione archeologica italiana, nel 1913, riportava alla luce la scultura acefala di Venere Anadiomene, copia romana di splendida fattura di un capolavoro di Prassitele andato perduto.

Trafugato e trasportato in Italia, il marmo è stato esposto a Roma, nell'Aula Ottagona dell'ex-Planetario, da dove è stato rimosso solo nel 2002 per un accurato intervento di restauro e quindi parcheggiato in un deposito del Museo delle Terme di Diocleziano in attesa di essere rimpatriato dopo il decreto del ministro dei Beni-attività culturali Giuliano Urbani, che stabiliva il passaggio della proprietà della statua marmorea acefala dal demanio al patrimonio dello stato in vista appunto del ritorno in Libia.

Una restituzione di cui si parlava già dal 1989, quando la stampa riferiva di una precisa richiesta da parte libica al ministero degli Affari esteri di allora, Gianni De Michelis, cui aveva fatto subito eco l'opposizione di Italia Nostra alla riconsegna.

Nel 2002 arriva il decreto del ministro Urbani, seguito dall'annuncio del presidente del consiglio Silvio Berlusconi, durante una visita di stato in Libia nell'ottobre di quell'anno, dell'imminente rientro in Libia della statua. Nuova opposizione di Italia Nostra che, con un ricorso al Tar contesta anche la formula del prestito a lungo termine, adottata dal Governo e dal ministero dei Beni culturali.

La risposta definitiva è di questi mesi. Ad aprile il Tar e a luglio il Consiglio di Stato con le loro sentenze scrivono la parola fine alla lunga vicenda.



SCOMPARSA LA VENERE DI CYRENE

Una minaccia sospesa come una Spada di Damocle sui tesori artistici ritornati alla luce grazie al lavoro svolto dagli archeologi italiani durante e dopo la colonizzazione libica. Ricordate la Venere di Cirene restituita nell'agosto del 2008 da Silvio Berlusconi a Muhammar Gheddafi? Di quella vestigia di donna nuda, senza braccia e senza testa, amorevolmente curata per 92 anni nella nostra Roma non ci sono più notizie. Bengasi, la città dove Berlusconi la riconsegnò a Gheddafi, è diventata prima la culla della rivoluzione, poi la base delle milizie islamiste ed, infine, la prima linea della guerra tra queste ultime e il governo in esilio di Tobruk. 

Lo scempio, da quelle parti, inizia nel maggio 2011 quando i reperti del cosiddetto Tesoro di Cirene - conservato dal 1917 nei sotterranei nella Banca Commerciale - vengono saccheggiati e rivenduti sul mercato clandestino delle opere d'arte. 

Due anni dopo Cirene, il patrimonio dell'Umanità sopravvissuto a 26 secoli di storia viene occupato da un'orda di nuovi barbari che trasforma 200 delle sue tombe e dei suoi siti archeologici in case e negozi. Cirene, distante ottanta chilometri dal caposaldo dello Stato Islamico di Derna, non è però la più a rischio. Sabratha, la necropoli romana tornata alla luce grazie al lavoro compiuto nel 1920 dall'archeologo italiano Renato Bertoccini è oggi un tesoro inaccessibile. 

A pochi chilometri dal suo teatro romano e dalla Basilica cristiana di Giustiniano opera un campo d'addestramento dell'Isis. Da lì sono usciti i responsabili delle stragi messe a segno al museo del Bardo di Tunisi e sulla spiaggia di Soussa.


COMMENTO

E' lodevole e doveroso che un bene trafugato venga restituito, ma come mai dall'Italia si trafuga tutto e non ritorna nulla? Ed ora la bella statua di Venere è sparita, non esiste più, o fatta a pezzi dagli integralisti islamici o venduta a qualche privato che se la gode nel suo sotterraneo. Ma non stava meglio in Italia in un museo pubblico?

GENS MARCIA

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CORIOLANO
La gens Marcia è una gens romana di antichissima origine sabina, da annoverarsi tra le cento gentes  originarie ricordate dallo storico Tito Livio. Il suo nome deriva dal nome della divinità sabina Mavors o Mamers, Dio dei giardini, latinizzato nel Dio romano Mars, cioè Marte. Di questa gens si hanno notizie in epoca regia, in epoca repubblicana e in epoca imperiale.

Il personaggio più importante ed antico di questa gens è Anco Marzio (o "Marcio"), il IV re di Roma, il cui praenomen Ancus ne denota l'origine Sabina, mentre il nomen Marcius riporta ad una gens di condizione plebea, anche se la sua origine fu certamente patrizia.

Sembra infatti che vi sarebbe un rapporto di parentela tra Anco Marzio e Numa Pompilio, poiché entrambi erano di nobile stirpe sabina, e vennero rappresentati insieme sulle facce dei denarii fatti coniare dalla gens Marcia. In particolare, secondo il Pallottino, Anco Marcio sarebbe nipote di Numa, in quanto figlio di sua figlia Pompilia e di un esponente sconosciuto della gens Marcia

LUCIO MARCIO FILIPPO

PATRIZI E PLEBEI

Ebbero una branca patrizia che usò il cognomen Rex, reclamando la discendenza da re Ancus Marcius, il personaggio più importante ed antico di questa gens, il IV re di Roma.  Ancus era il praenomen (di chiara origine sabina), Marcius il nomen vero e proprio, indicante l'appartenenza alla gens Marcia.  Il nomen Marcius in età storica si riferisce ad una gens di condizione plebea, anche se la sua origine fu certamente patrizia; secondo alcuni studiosi, infatti, vi sarebbe un rapporto di parentela tra Anco Marzio e Numa Pompilio, poiché entrambi erano di nobile stirpe sabina, e vennero rappresentati insieme sulle facce dei denarii fatti coniare dalla gens Marcia. Secondo il Pallottino, Anco Marcio sarebbe nipote di Numa, in quanto figlio di sua figlia Pompilia e di un esponente sconosciuto della gens Marcia.
Le branche plebee usarono invece i cognomina Censorinus (da Marcius Censorinus), notabili i consoli del 149 e del 39 a.c.,  e Philippus.

L'illustre gens Marcia si divise in diversi rami: 

- i Re (latino: Rex, probabilmente legato alla discendenza del re Anco Marzio),
- i Coriolani,
- i Filippi,
- i Rutili,
- i Censorini,
- i Tremuli,
- i Figuli.

 La gens Marcia fu, indubbiamente, una famiglia di primaria importanza nella storia di Roma; i suoi membri ricoprirono spesso le varie magistrature durante tutta l’età repubblicana e ascesero al consolato per ben 21 volte. La famiglia di Marcia fu poi connessa agli oppositori dell'imperatore Nerone. Nel 65 d.c. dopo il fallimento della congiura di Pisone la sua famiglia cadde in disgrazia presso Nerone.

LUCIO MARCIO FILIPPO


PERSONAGGI ILLUSTRI

-Anco Marzio
ovvero Marcio, IV re di Roma

Marcia
moglie del console Marco Atilio Regolo. Furiosa per la terribile fine del marito, chiese e ottenne dal senato di poter avere in sua mano dei prigionieri cartaginesi, sottoponendoli, lei e i suoi figli, ad atroci torture come era stato fatto a suo marito, finchè il senato decise di mettere fine all'obbrobrio e rimandò a casa i prigionieri.

Gneo Marcio Coriolano
V secolo a.c., noto come Coriolano, valoroso generale al tempo della guerra contro i Volsci. Nel 493 a.c. conquistò la città volsca di Corioli (antica cittadella dei Volsci, oggi Monte Giove), dalla quale trasse il cognomen, riportò il trionfo e venne decorato della corona d'alloro. In seguito, per essersi ribellato al senato, ma in realtà per il suo dispotismo e per avere vietato la distribuzione di grano alla plebe, venne esiliato da Roma.
Rifugiatosi presso i Volsci che aveva sottomesso, per vendetta li mosse in armi contro la patria ingrata. Giunto alle porte dell'Urbe, venne fermato dalla madre Veturia e la moglie Volumnia, che lo convinsero a ritirarsi. Ma i Volsci lo considerarono un traditore (e non avevano tutti i torti), e lo misero a morte. Alle vicende di Coriolano è ispirata l'omonima tragedia di William Shakespeare.

    -Gaio Marcio Rutilo
    Plebeo molto amato dal popolo e dai soldati, perchè valoroso e intelligente. Visse nel IV secolo a.c., fu quattro volte console; la prima nel 357 a.c. con Gneo Manlio Capitolino Imperioso. L'anno successivo fu nominato dittatore col compito di respingere una invasione degli Etruschi. Rutilio sorprese il nemico nel suo campo e lo inseguì fin nel suo territorio; per questa vittoria ricevette, per volere del popolo ma con l'opposizione del Senato romano, un trionfo.
    Fu di nuovo console nel 352 a.c. con Publio Valerio Publicola della gens Valeria, , alla fine del mandato si candidò per la carica di censore: malgrado l'opposizione dei patrizi fu eletto. nel 344 a.c. con Tito Manlio Torquato Imperioso, ed ancora nel 342 a.c. con Quinto Servilio Ahala, quando comandò un esercito nelle guerre sannitiche. Fu il I dittatore romano appartenente alla plebe, nonché censore e quattro volte console.


    MARCIA OCTACILLA SEVERA
    Gaio Marcio Rutilo Censorino
    figlio di gaio Marcio Rutilo, IV sec. a.c., fu console nel 310 a.c. con Quinto Fabio Massimo Rulliano della gens Fabia.

    "iterum enim censor creatus ad contionem populum vocatum [...] gravissima oratione corripuit, quod eam potestatem bis sibi detulisset, cuius maiores, quia nimis magna videretur, tempus coartandum iudicassent. Uterque recte, et Censorinus et populus: alter enim ut moderate honores crederent praecepit, alter se moderato homini credidit."

    Nominato console per la seconda volta riunì il popolo  a cui rivolse parole durissime, per aver reiterato una carica che gli antenati avevano proibito di reiterare onde non concedere ad alcuno troppo potere. Furono corretti entrambi: l'uomo perchè voleva moderare gli onori degli uomini, e il popolo perchè ebbe fiducia nella sua moderazione.
      Quinto Marcio Tremulo
      IV-III sec. a.c., di origine plebea, fu console della Repubblica Romana per ben due volte, nel 306 a.c. e nel 288 a.c. sempre con Publio Cornelio Arvina,  della gens Cornelia.
      Durante il suo primo consolato Tremulo affrontò gli Ernici e gli abitanti di Anagni, battendoli facilmente e conquistando la città. In questo modo riuscì a portare assistenza al suo collega impegnato nel Sannio. Al suo arrivo fu attaccato improvvisamente dai Sanniti, ma Cornelio Arvina giunse in suo soccorso ed insieme ottennero una brillante vittoria sul nemico. Cornelio Arvina rimase nel Sannio, mentre Tremulo tornò a Roma, dove celebrò il trionfo sugli Ernici e Anagnini; una statua equestre a lui dedicata fu eretta nel foro davanti al tempio di Castore.
        Quinto Marcio Filippo
        III sec. a.c., fu console nel 281 a.c. con Lucio Emilio Barbula, della gens Emilia, e combattè nelle guerre sannitiche con lui ma sembra che solo Barbula ottenesse il premio per la vittoria di Taranto nel 280.

        - Lucio Marcio Settimio 
        Un valoroso militare romano del III sec. a.c. che riuscì a mettere in salvo le rimanenti forze romane, sconfitte nelle battaglie del Baetis superiore dove erano periti i due generali, Publio Cornelio Scipione e Gneo Scipione Calvo.
        Grazie all'esperienza raccolta sotto Gneo Scipione, riuscì a raccogliere le disperse forze romane, a ricongiungersi al presidio di Tiberio Fonteio e a guidare i Romani oltre l'Ebro dove fortificarono gli accampamenti e vi trasportarono i rifornimenti. Le truppe romane, radunate nei comitiis militaribus lo elessero comandante supremo all'unanimità.
        All'avvicinarsi di Asdrubale Giscone, i Romani afferrarono le armi e si precipitarono alle porte ad assalire il nemico incauto che avanzava in schiere disordinate.L'imprevista situazione gettò nel panico i punici per i quali l'esercito romano era quasi distrutto, per cui si diedero alla fuga.

        Quinto Marcio Ralla
         tribuno, dedicò al dio Veiove un tempio nel 192 a.c.
        "Il console Lucio Furio Purpurione fece voto di erigere un tempio dedicato a Veiove nel 200 a.c. durante la Battaglia di Cremona contro i Boi. Lo fece poi iniziare nel 196 a.c. e venne inaugurato nel 192 a.c. da Quinto Marcio Ralla, col fronte rivolto a occidente, verso la pendice del Capitolium. L'edificio si affacciava sulla via Sacra, in gran parte conservatasi sino ai giorni nostri e l'area circostante era pavimentata a lastroni di travertino".
        Anche il. tempio della Fortuna Primigenia sul colle Quirinale fu dedicato da Quinto Marcio Ralla, creato duumviro per questo; ne aveva fatto voto dieci anni prima nella Guerra punica Sempronio Sofo, e lo aveva dato a fare essendo censore.


          Quinto Marcio Filippo
          II sec. a.c., pretore in Sicilia nel 188 a.c., fu console nel 186, per la prima volta.
            - Gaio Marcio Figulo
            II sec. a.c., console nel 162 a.c. con Publio Cornelio Scipione Nasica Corculo, della gens Cornelia. Fu eletto ancora console nel 156 a.c. con Lucio Cornelio Lentulo Lupo, della gens Cornelia. Nello stesso anno Roma mosse un esercito, guidato dal console Caio Marcio Figulo, contro Delminium, la capitale dei dalmati.
            Dopo un anno di alterni combattimenti la guida dell’esercito romano passò da Caio Marcio al console Publio Scipione Cornelio Nasica che seppe infondere nuove motivazioni alle truppe ed espugnò Delminium dopo una sanguinosa battaglia. Insomma Marcio Figulo non ci fece una gran figura.

              - Lupo Gaio Marcio Figulo
              II sec. a.c., console nel 156 a.c. con Lucio Cornelio Lentulo, della gens Cornelia. Poi censore nel 147 a.c. e senatore nel 131 a.c., fu un cittadino distinto per gli onori, ma comunque accusato di estorsione; è attaccato nel primo libro di Satire di Gaio Lucilio.
              Durante l'anno del suo consolato condusse una campagna militare contro i Dalmati ed i Pannoni, utilizzando Aquileia quale suo "quartier generale". Da qui sembra si spinse fino a Siscia in Pannonia, lungo la Sava, con discreti successi.

                Lucio Marcio Censorino
                II sec. a.c., console nel 149 a.c. con Manio Manilio, nel I anno della III Guerra Punica. Ambedue i consoli vennero inviati a Cartagine, il comando dell'esercito venne dato a Manlio, mentre quello della flotta fu affidato a Censorino.
                Quest'ultimo fu il referente delle trattative con i cartaginesi quando rifiutavano di aderire alle richieste romane, che prevedevano l'abbandono di Cartagine costruendo una nuova città a 15 km dalla costa. I due consoli posero l'assedio, pero Censorino tornò a Roma per dirigere i comizi lasciando la direzione delle operazioni al suo collega. Censorino fu eletto censore nel 147 a.c., con L. Cornelio Léntulo Lupo.

                  Quinto Marcio Re
                  II sec. a.c., patrizio del ramo che si dichiarava discendente di Anco Marzio. Pretore nel 144 a.c., provvide alla costruzione dell’importante acquedotto che da lui prese il nome, quello dell’Aqua Marcia, convogliando a Roma le acque provenienti dalla Valle dell’Aniene (lat. Anio). Per la realizzazione dell'acquedotto, a Quinto Marcio fu prorogata la scadenza annuale della magistratura. In realtà questo fu deliberato già nel 179 a.c., ma la realizzazione venne rinviata a causa del veto di Marco Licinio Crasso, che si opponeva al passaggio delle condutture sul terreno di sua proprietà.
                    Quinto Marcio Re
                    figlio del precedente, console nel 118 a.c. con Marco Porcio Catone operò alla conquista della Gallia Cisalpina sconfiggendo gli Stoni, una popolazione alpina stanziata nel Trentino sud occidentale, ai piedi delle Alpi. La vittoria conseguita venne celebrata nel 117 con un trionfo menzionato nei Fasti triumphales. Nel 118 a.c. venne inoltre fondata la colonia di Narbo Martius, l'odierna Narbonne, che deve appunto il suo nome al console in carica in quell'anno, e cioè Quinto Marcio, e che diverrà la capitale della provincia romana della Gallia Narbonense. la colonizzazione avvenne mediante la deduzione di alcune migliaia di agricoltori italici nei pressi di un precedente insediamento elisico, poi volco, con il nome di Narbo Martius. Fu un antenato di Cesare.

                    - Lucio Màrcio Filippo
                    esordì come democratico: verso il 104 a.c., come tribuno della plebe, propose una legge agraria destinata all'insuccesso; nel 100 si oppose a Saturnino; pretore nel 96 a.c., console nel 91 con Sesto Giulio Cesare (della gens Iulia), lottò contro il tribuno M. Livio Druso e la parte del senato che lo seguiva e riuscì poi a fare abrogare le leggi proposte dal tribuno. Fu censore nell'86. Seguì il partito sillano. Fu in seguito sostenitore di Pompeo, al quale propose di assegnare l’imperium proconsolare. Fu uno dei migliori oratori del suo tempo. Morì, all'incirca sessantenne, non prima del 76.
                        Lucio Marcio Censorino
                        I sec. a.c., triumviro monetale nell'82 a.c., fece coniare denarii d'argento riportanti l'effigie di Numa Pompilio e di Anco Marzio sulle due facce; console nel 39 a.c. con Gaio Calvisio Sabino.

                          Gaio Marcio Censorino
                          I sec. a.c., triumviro monetale nell'88 a.c., fece coniare denarii d'argento riportanti l'effigie di Numa Pompilio e di Anco Marzio sulle due facce; console nell'82 a.c. con Gaio Asinio GalloFu sostenitore di Mario; morì nello stesso anno dopo la battaglia di porta Collina.

                          - Lucio Marcio Censorino
                          I sec. a.c., triumviro monetale nell'82 a.c., fece coniare denarii d'argento riportanti l'effigie di Numa Pompilio e di Anco Marzio sulle due facce, probabilmente padre dell'omonimo console nel 39 a.c. Potrebbe essere il legato citato nel 70 a.c.

                          Lucio Marcio Censorino
                          console nel 39 a.c. con Gaio Calvisio Sabino. Lui e il suo collega Gaio furono gli unici due senatori che cercarono di difendere Giulio Cesare quando fu assassinato, nel 44 a.c.. Per questo atto di fedeltà ricevettero la carica di consoli da parte dei membri del secondo triumvirato

                          - Gaio Marcio Censorino
                          I sec. a.c., console nell'8 a.c. con Gaio Asinio Gallo.

                          - Quinto Marcio Re
                          console nel 68 a.c.

                          - Gaio Marcio Figulo
                          console nel 64 a.c., con Lucio Giulio Cesare. Durante un dibattito in Senato in cui si discuteva sulle pene da dare ai cospiratori di Catilina, si dichiarò favorevole alla loro condanna a morte ed, in generale, fu favorevole alle proposte di Cicerone.

                          Marcia Rex
                          figlia di Quinto Marcio Re e nonna paterna di Giulio Cesare, 63 a.c. .

                          - Lucio Marcio Filippo 
                          plebeo, console del 56 a.c., suocero di Marco Porcio Catone Uticense.

                          Lucio Marcio Filippo
                          I sec. a.c., figlio del precedente, fu console nel 56 a.c. con Gneo Cornelio Lentulo Marcellino della gens Cornelia. Sposò Azia, nipote di Cesare e madre di Gaio Ottavio, il futuro imperatore Augusto, del quale fu, quindi, il patrigno.

                          Marcia
                          moglie di Catone il giovane. Fu la seconda moglie di Catone, il grande moralizzatore di costumi, che venne da questo "data in prestito", all'oratore Quinto Ortensio. Dopo la scomparsa di questo secondo marito ella però tornò da Catone che la richiamò, divenendo un simbolo di fedeltà coniugale, citato da numerosi autori, da Lucano a Dante Alighieri. In realtà non fu affatto fedele, perchè entrò in un altro letto, per volere del marito che però condivise. Venne celebrata quindi non perchè fosse fedele ma perchè fosse obbediente al marito, pure nel tradirlo, mentre Catone si intratteneva con altre donne. Comunque non è vero che usasse a quei tempi, perchè invece fece un certo scandalo. Insomma uno scambio di coppie.

                          - Marcio Rufo 
                          plebeo, questore del 49 a.c. di Caio Scribonio Curione, cesariano.  Votò in senato a favore di Giulio Cesare quando si decise di non consentirgli il rientro a Roma da trionfatore.

                          - Quinto Marcio Filippo 
                          plebeo, pretore nel 48 a.c., cesariano.  Votò in senato a favore di Giulio Cesare quando si decise di non consentirgli il rientro a Roma da trionfatore.


                          - Lucio Marcio Filippo
                          plebeo, tribuno della plebe nel 49 a.c., pretore del 44 a.c., console suffetto del 38 a.c., figlio di Lucio Marcio Filippo (console del 56 a.c.), cesariano e cugino di Augusto. Votò in senato a favore di Giulio Cesare quando si decise di non consentirgli il rientro a Roma da trionfatore.

                          MARCIA FIGLIA DI CATONE
                          - Marcia
                          Figlia Azia minore, e di Lucio Marcio Filippo (console suffectus 38 a.c.) e figlio di Lucio Marcio Filippo, console del 56 a.c., fu la cugina di Ottaviano, e sposò Paolo Fabio Massimo, console nell'11 a.c.

                          - Quinto Marcio Barea
                          Console suffetto nel 26 e due volte proconsole della provincia d' Africa.

                          - Quinto Marcio Barea Sorano
                          figlio del console del 26, console suffetto nel 52 e proconsole d'Asia. Fu lo zio di Marcia, madre del futuro imperatore Traiano, e di Marcia Furnilla, seconda moglie del futuro imperatore Tito

                          Marcia Servilia Sorana
                          figlia del console del 52, sposò il senatore Gaio Annio Pollione, accusato di lesa maestà e mandato in esilio. Nel 66, durante l'ingiusto processo contro il padre, venne accusata anche lei di aver pagato dei Magi, ma la sua difesa fu che i riti erano finalizzati ad accrescere la sicurezza del padre e dello stesso Nerone. Sorano chiese che la figlia venisse risparmiata perché non era colpevole né di aver rapporti con Plauto né di essere al corrente dei misfatti del marito. Entrambi vennero però condannati e poterono scegliersi il tipo di morte.

                          Marcia
                          figlia del senatore Barea Sura, amico dell'imperatore Vespasiano, a sua volta figlio di Quinto Marcio Barea, console suffetto nel 26. Suo zio era Quinto Marcio Barea Sorano, console suffetto nel 52 e proconsole d'Asia. Marcia era sorella di Marcia Furnilla, seconda moglie dell'imperatore Tito, e cugina di Marcia Servilia Sorana. Fu madre dell'imperatore Traiano.

                          MARCIA FULVIA
                          - Marcia Furnilla
                          figlia del senatore Quinto Marcio Barea Sura o di suo fratello Quinto Marcio Barea Sorano e Antonia Furnilla. Seconda moglie dell'imperatore Tito.

                          - Quinto Marcio Barea Sura 
                          figlio del console del 26, senatore, amico dell'imperatore Vespasiano e padre di  Marcia  Furnilla.

                          Marcia 
                          moglie di Paullus Fabius Maximus, console nell'11 a.c.

                          Marcia
                          madre di Ulpia Marciana e dell'imperatore Traiano, figli del senatore Quintus Marcius Barea Sura e Antonia Furnilla, sua sorella fu Marcia Furnilla, moglie del futuro imperatore Tito. 

                          - Marcia
                          Marcia era figlia del senatore Quinto Marcio Barea Sura, una amico dell'imperatore Vespasiano, a sua volta figlio di Quinto Marcio Barea, console suffetto nel 26. Suo zio era Quinto Marcio Barea Sorano, console suffetto nel 52 e proconsole d'Asia. Marcia era sorella di Marcia Furnilla, seconda moglie dell'imperatore Tito, e cugina di Marcia Servilia Sorana.

                          -Quinto Marcio Barea Servilio Sorano
                          senatore romano e fratello del precedente. 

                          Marcia Servilia Sorana
                           moglie di Quinto Marcio Barea Servilio Sorano e cugina di Furnilla, I sec. d.c

                          Marcio Turbo 
                          generale romano che durante il II sec. d.c. servì sotto due dei 5 Buoni Imperatori 

                          Marcia
                          figlia del senatore Aulo Cremutio Cordo, messo a morte per ordine dell'imperatore Tiberio nel 25 d.c.

                          Marcio Agrippa 
                          (fl. c. 300), esteta e politico romano.

                          - Marcia 
                          fu la zia materna di Furnilla e della figlia di Titus Julia Flavia o Flavia Julia Titi.

                          - Marcia
                          amante di Commodo.

                          - Marcia Otacilla Severa 
                          Figlia di un certo Severiano e sposa, prima del 238, di Filippo l'Arabo, fu elevata al rango di augusta quando il marito fu eletto imperatore, nel 244; ricevette anche il titolo di mater castrorum, "madre degli accampamenti", un titolo risalente alle donne della dinastia dei Severi.
                          Diede a Filippo un figlio, Marco Giulio Severo Filippo, Cesare e poi augusto, e una figlia chiamata Severina, forse Ulpia Severina che sposò Aureliano. Durante il regno di Filippo, Otacilia fu onorata su monete e con statue: l'iconografia ufficiale la celebrava come madre del futuro augusto, in quanto Filippo sperava di instaurare una dinastia. La sorte di Otacilia non è nota: la coniazione di monete in sua memoria si interrompe nel 248, inducendo a ritenere che sia morta in quell'anno; ad ogni modo, dopo la caduta di Filippo (249), la memoria della sua famiglia fu maledetta, e il nome di Otacilia cancellato da iscrizioni e papiri.
                          Secondo fonti cristiane, Otacilia era in contatto con i cristiani, se non cristiana essa stessa. Eusebio di Cesarea afferma che scambiò lettere con Origene, ma ella fece erigere monete a suo nome dedicate a Giunone.

                          Marcia
                          santa della cristianità ortodossa morta nel 285 d.c. si festeggia il 2 luglio come martire. Di lei non si sa nulla.

                          COLONNA DI FOCA

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                          RICOSTRUZIONE DELLA COLONNA DI FOCA NEL FORO ROMANO

                          Fra le tante colonne onorarie erette nel Foro Romano l'unica restata in opera, priva però della statua che vi era stata sopra posta. È questa inalzata da Smaragdo Esarco, nel 608 dell'Era volgare, e dedicata nel primo di Agosto all'Imperatore Foca, a cui spettava la statua dorata, secondo l'iscrizione che si legge nella parte del piedestallo rivoltato alla Via Sacra ed a S. Adriano, che resta incognita fino al 13 Marzo 1813. collo scavarsi apparve del seguente tenore.
                           
                          Questa colonna d'ordine Corintio è alta piedi 43 ed il piedistallo ne ha 11, in tutto piedi 54. Profondendosi lo scavo nel 1818 si rilevò che il piedistallo s'innalzava su di 11 scaglioni di marmo, che piantavano sul piano del foro lastricato di travertini, ed inclinato verso la parte posteriore dall'iscrizione, ivi poi alla distanza di palmi 11 dall'ultimo scaglione si rinvennero i due gran basamenti di muro, spogliati de' marmi che li rivestivano, e destinati anch'essi a sostenere due colonne loro del diametro di piedi 3 e mezzo; ed al di là di questi basamenti, 4 piedi distante fu rinvenuta quella via lastricata di selci non ancora interamente scoperta, colla quale aveva il suo termine la larghezza del Foro, che si estendeva fino a s. Adriano, come già si è accennato; e la riunione di queste colonne onorarie non ci permette più di averne alcun dubbio. "

                          (Avv. Carlo di Fra - 1822)



                          DESCRIZIONE

                          La Colonna di Foca è un pilastro in marmo, alto 13,60 metri, in stile corinzio e scanalata, che si innalza da una base dotata di gradini. Essa fu fatta erigere, nel corso del 608 d.c., dall’esarca bizantino Smaragdo per onorare l’imperatore orientale Foca che aveva regalato il Pantheon al pontefice Bonifacio IV.

                          La colonna si erge sul suo basamento cubico di marmo bianco,  in marmo proconnesio (da Proconnesio sul Mar di Marmara), assai diffuso a partire dalla fine del I sec. d.c. e soprattutto dal II d.c., sormontata da un capitello corinzio databile in epoca traianea e si presuppone fosse un riutilizzo, in quanto originariamente costruita intorno al II secolo. fondamento quadrato è in mattoni mentre il basamento è in marmo bianco. Il fondamento di mattoni non era originariamente visibile, non essendo stato il livello attuale del Foro scavato fino alla pavimentazione augustea fino al XIX secolo.



                          GLI EVENTI

                          Questo pilastro costituisce l’ultima opera civile e onoraria innalzata all’interno del Foro Romano.
                          In origine, alla sua sommità si poteva osservare anche una riproduzione dell’imperatore Foca (602 - 610 d.c.). La base non era visibile quando Giuseppe Vasi e Giovanni Battista Piranesi fecero schizzi ed incisioni della colonna a metà del XVIII secolo.

                          Essa fu rinvenuta durante il 1813, nel corso dei lavori che portarono al disseppellimento delle numerose opere presenti nel Foro Romano. Insieme alla colonna fu ritrovata anche un’incisione che recita:

                          “Optimo clementiss(imo piissi)moque /
                          principi domino n(ostro) /
                          F(ocae imperat)ori /
                          perpetuo a d(e)o coronato, (t)riumphatori /
                          semper Augusto /
                          Smaragdus ex praepos(ito) sacri palatii /
                          ac patricius et exarchus Italiae /
                          devotus eius clementiae /
                          pro innumerabilibus pietatis eius beneficiis et pro quiete /
                          procurata Ital(iae) ac conservata libertate /
                          hanc sta(tuam maiesta)tis eius /
                          auri splend(ore fulge)ntem huic /
                          sublimi colu(m)na(e ad) perennem /
                          ipsius gloriam imposuit ac dedicavit /
                          die prima mensis Augusti, indict(ione) undicesima /
                          p(ost) c(onsulatum) pietatis eius anno quinto”.

                          L'amicizia per Foca fu espressa dal papa Bonifacio IV, con l'ultimo monumento eretto nel Foro Romano, la Colonna di Foca, che ancora ne reca testimonianza, eretta a Roma il 1º agosto 608.
                          Sembra che l'imperatore fosse fedele al Papa e a Roma, tanto che il papa chiuse un occhio sulla sua crudeltà, definendola addirittura "pietà"

                          LA COLONNA DI FOCA OGGI
                          Ecco infatti l’iscrizione in italiano:

                          All’ottimo e clementissimo e piissimo 
                          principe nostro signore Foca, 
                          imperatore perpetuo, coronato da Dio, 
                          trionfatore, sempre Augusto, Smaragdo, 
                          già preposito al sacro palazzo, 
                          patrizio ed esarca d’Italia, 
                          devoto alla sua clemenza 
                          per gli innumerevoli benefici della sua pietà 
                          e per la tranquillità procurata all’Italia 
                          e per la libertà conservata, 
                          pose sopra questa altissima colonna 
                          questa statua della sua maestà, 
                          fulgida per lo splendore dell’oro, 
                          a perenne gloria di lui, e la dedicò 
                          il primo giorno del mese di agosto, 
                          nell’undicesima indizione, 
                          il quinto anno dopo il consolato della sua pietà”.

                          Tuttavia da quanto scritto si ricava che la colonna non risale al 608, anno in cui fu posizionata la statua dell’imperatore, ma che ipoteticamente potrebbe essere appartenuta ad una costruzione più vecchia, risalente probabilmente al II secolo d.c.

                          Esisteva una scalinata che venne rimossa per permettere di leggere l'iscrizione di Lucius Surdunus sulle lastre pavimentali, che ha permesso di datare l'ultima lastricazione al 12 a.c. circa.

                          Secondo un’antica leggenda questa colonna apparteneva originariamente al Tempio di Hercules Victor, più comunemente noto come il Tempio di Vesta. L’idea  alla base di questa leggenda potrebbe essere in relazione al fatto che entrambe le costruzioni sono dello stesso periodo e che all’interno del tempio del Foro Boario manca una colonna.

                          Sembra invece che la colonna fosse stata riciclata e sostenesse un tempo una statua dedicata a Diocleziano: l'iscrizione precedente fu cancellata per dar spazio a quella presente.



                          L'IMPERATORE

                          Foca era una figura oscura per le sue origini e le sue gesta che, quando egli si ribellò, L'allora imperatore Maurizio non sapeva nemmeno chi fosse; ma quando scoprì che il suo rivale, così audace nella sedizione, era invece un codardo, pare che esclamò queste parole:
                          «Ahime! Se è un codardo, sarà sicuramente un assassino».

                          L'IMPERATORE FOCA
                          Infatti, Maurizio venne trucidato insieme ai suoi cinque figli maschi il 27 novembre 602, e negli otto anni di regno di Foca molti pagarono la loro opposizione o rivolta con la morte, spesso preceduta da crudeli torture.

                          I cadaveri vennero gettati in mare mentre le teste vennero esibite in piazza. L'ex Augusta Costantina e le sue tre figlie vennero invece risparmiate in un primo momento, ma in seguito anche loro vennero giustiziate quando Foca scoprì che Costantina stava complottando contro di lui.

                          Anche il figlio maggiore di Maurizio Teodosio morì, giustiziato da un certo Alessandro, anche se in seguito si sparse la voce che Alessandro sarebbe stato corrotto dal senatore Germano e avrebbe risparmiato la vita a Teodosio che sarebbe dunque riuscito a fuggire in Persia. Queste voci vennero poi sfruttate dallo Scià di Persia Cosroe II quando dichiarò guerra ai bizantini.

                          Nell'ottobre 610, Foca, l'usurpatore, divenne oggetto di tutto quello che aveva fatto agli altri. Infatti fu catturato, torturato, assassinato e  smembrato; e condannato alla damnatio memoriae. La statua dorata dell'imperatore era un segno di gratitudine di Smaragdo, che era indebitato conlui  poiché questi gli aveva permesso il ritorno da un lungo esilio e la carica a Ravenna.

                          Egli non era ben visto a Costantinopoli soprattutto a causa della sua politica di fedeltà verso Roma che ebbe come conseguenza la già citata donazione al papa del Pantheon. Era, inoltre, di aspetto deforme e personalità violenta e tutto ciò gli costò la vita, nel corso del 610 quando Eraclio ne prese il posto facendogli tagliare la testa.

                          La colonna di Foca era davanti i "rostra" nel Foro Romano, Purtroppo poi dal 608 d..c. iniziò il progressivo stato di abbandono del Foro Romano.

                          24 NOVEMBRE - BRUMALIA

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                          Il nome di Brumalia deriva da bruma,"Solstizio d' inverno","freddo d' inverno"; un accorciamento di Brevima, presunta forma superlativa obsoleta di brevis, poi brevissima ("più piccola","più bassa","più breve"). I Brumalia erano un'antica festività romana in onore di Saturno, Cerere e Bacco, che introducevano i Saturnalia ed il solstizio d'inverno.

                          In questo giorno si traevano auspici sull'andamento dell'inverno appena iniziato. Ad esempio se avesse nevicato ci sarebbe stato un buon raccolto, perchè la neve impediva ai semi di gelarsi, da cui l'antico detto: "sotto la neve pane". Ma era importante pure che le querce producessero molte ghiande per nutrire i maiali e che gli animali potessero ingrassarsi per superare l'inverno.

                          "ubi solstitium fuerit ad brumam" (Cato, Agr. 17,1; Varro L. 6.8.) 
                          "eas (litteras) mihi post brumam reddiderunt" (Cicero ad fam. 3.7.3)
                          "muore continuos xxx sub bruma esse noctem (Caesar, guerra gallica 5.13.3; Vitruvius 9.3.3; (Livy 43.18.1; Ovid fasti 1.163; Manilius 2.404; Columella Arb. 24; Plinio l'Anziano, NH 18.231; Terence Ph . 709; Cicero Div. 2,52)
                          "solis accessus discessusque solstitiis brumisque cognosci" (ND (?) 2.19.)

                          CARRO DI PROSERPINA, BACCO E SATURNO
                          John Malalas nella sua "cronaca" 7.7 fornisce un resoconto delle origini delle brumalia. Questi ci dice che la festività cadeva in inverno, e che fu istituita da Romolo (o "Romus" come Malalas lo chiama).

                          "A causa di questo Romus ha ideato quello che è conosciuto come Brumalia, dichiarando che il re deve intrattenere tutto il suo senato e funzionari e tutti quelli che servono nel palazzo, dato che sono persone, e durante l'inverno vi è una tregua della giustizia. Così iniziò invitando e divertendo prima coloro i cui nomi cominciarono con alfa e così via, fino all'ultima lettera; ha ordinato al suo senato di intrattenere nello stesso modo. Anche loro hanno intrattenuto l'intero esercito e quelli che volevano. . . . Questa abitudine della Brumalia è persistita nello stato romano fino ad oggi."
                          [ La Cronaca di Giovanni Malalas , trans. E. Jeffreys et al. ( Byzantina Australiensia 4, Melbourne,
                          1986), p. 95]

                          SACRIFICIO DEL MAIALE
                          Per alcuni autori le Brumalia di Bacco venivano dunque celebrate dai Romani due volte nell'anno, il 12 di marzo e il 18 di settembre, e vennero istituite da Romolo che durante queste feste usava  intrattenere il Senato per la coesione dei cittadini e dello stato. Si dice che il termine Brumalia venisse da Brumus, un antico nome di Bacchus. 

                          Tertulliano è molto contrariato che tra altre feste pagane, che alcuni dei primi cristiani erano molto propensi a osservare, menziona la Brumalia, dato che i cristiani non erano coerenti nella loro religione come i pagani che non avrebbero mai rispettato una delle feste cristiane.

                          Le Brumalia furono anche chiamate anche Hiemalia dal nome delle fortezze in cui stazionavano i legionari in inverno, che si dicevano Castra Hiemalia (o Stationes Hibernae).

                          In epoca bizantina queste feste si facevano iniziare il 24 novembre e duravano un mese, fino ai Saturnalia, cioè il solstizio d'inverno, e tra i festeggiamenti c'erano banchetti, libagioni e divertimenti vari; durante la celebrazione si ricercavano inoltre auspici per l'inverno incombente, se sarebbe stato mite oppure no.

                          Si ha ancora testimonianza di questi festeggiamenti dall'imperatore cristiano Costantino Copronimo (718 - 775). Durante questi festeggiamenti c'era l'usanza di scambiarsi l'augurio "Vives annos!", "Vivi per anni", che equivale al "Lunga vita!"

                          La vita romana durante l'antichità classica era incentrata sull'esercito, l'agricoltura e la caccia, pertanto i giorni invernali, più corti e freddi, ostacolavano svariate attività. I Brumalia venivano così festeggiati in questo periodo di poca luce e poco lavoro, ed avevano un carattere ctonio associato ai raccolti, i cui semi venivano interrati prima di germogliare.

                          BACCO BAMBINO
                          In questo periodo i contadini sacrificavano maiali a Saturno e Cerere, mentre i viticoltori sacrificavano capre in onore di Bacco (dal momento che le capre erano un pericolo per le viti), che venivano poi scuoiate per ricavarne bisacce, su cui si saltava in modo augurale e apotropaico. I magistrati portavano le primizie delle viti, degli olivi, del grano e del miele ai sacerdoti di Cerere.

                          Le Brumalia riguardavano queste tre divinità, Saturno, Cerere e Bacco perchè esprimevano la vitalità della natura che nutriva uomini ed animali. Saturno era il Dio della semina, quindi del seme nascosto sotto terra, Cerere era il futuro della messe che sarebbe germogliata in primavera, e Bacco la vite che seppur morta, nei frutti, conservava nelle botti il suo prodotto vivificante, la gioia dell'uomo industrioso e affaticato. Il vino affogava tutti i dispiaceri e allietava ogni festività.

                          Ovunque nelle campagne si bruciavano le foglie e i rami secchi innaffiandoli di vino e libando alla triplice divinità. I contadini si raccoglievano attorno ai falò suonando e danzando, mentre si levavano i cori dedicati agli Dei. Era obbligatorio ad ogni libagione ricordarli tutti e tre.

                          Anche se le Brumalia vennero celebrate fino alla fine del VI secolo, i suoi  celebranti e coloro che vi partecipavano vennero ostracizzati dalla chiesa cristiana, finchè non furono vietate severamente dall'imperatore Giustiniano. Tuttavia, alcune pratiche persistevano tuttavia nei mesi di novembre e dicembre.

                          LEGIO II PARTHICA

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                          La Legio II Parthica, così chiamata perchè venne fondata per la campagna partica, fu creata dall'imperatore Settimio Severo nel 197, in occasione della sua campagna contro i Parti. Fu attiva fino al V sec.. I suoi emblemi erano il toro e il centauro.

                          Fu fondamentale nell'ascesa al trono dell'imperatore della dinastia dei Severi Eliogabalo, che si ribellò all'imperatore Macrino grazie al sostegno della II Parthica. Macrino era inviso all'esercito, perchè aveva firmato una pace coi Parti dai termini molto onerosi e aveva ridotto la paga dei soldati.

                          Il 16 maggio, la legione III Gallica, di stanza ad Emesa, proclama Eliogabalo imperatore, annientando una unità di cavalleria inviata da Macrino. L'imperatore pentitosi fa un donativo alle truppe, e insieme alla II Parthica attacca Emesa, ma venne sconfitto,


                          SETTIMIO SEVERO (146 - 211)

                          Per combattere i i Parti, l'imperatore Settimio Severo decise di raccogliere altre tre legioni, la I, la II e la III Parthica, con cui conquistò e saccheggiò la capitale partiva di Ctesifonte.

                          Questa città era stata conquistata nel 116 da Traiano nelle sue campagne partiche, dopodiché fu ripresa da Lucio Vero nel 165 (campagne partiche di Lucio Vero).

                          Nel 198 fu nuovamente conquistata e stavolta distrutta da Settimio Severo, che assunse il titolo di Partico Massimo.


                          Campagna britannica

                          Dopo la conquista avvenuta ad opera di Claudio nel 43, la Britannia era diventata una provincia imperiale, governata dal legatus Augusti pro praetore di rango consolare. La capitale fu stabilita nel centro di Camulodunum; poi, dopo la rivolta di Boudicca, fu spostata a Londinium. 

                          L'usurpazione di Albino (145 - 197) suggerì, allo scopo di mantenere la sicurezza, che se in Britannia stazionavano tre legioni, potevano fornire a un uomo ambizioso e sleale, una forte base per la ribellione, come era avvenuto per Albino. 

                          Inoltre, qualsiasi ufficiale ribelle che marciare su Roma e prendere il trono, avrebbe dovuto spogliare l'isola delle sue guarnigioni, lasciando l'isola indifesa verso gli attaccanti, cosa che Albino aveva fatto nel 196.

                          Per questo, una volta sconfitto Albino (battaglia di Lugdunum nel 197), Settimio Severo nel 207 divise in due la provincia: Britannia inferiore (capitale Eburacum) e Britannia superiore (capitale Londinum). La II Parthica aveva partecipato con rilievo alla campagna in Britannia. 

                          Dopo la guerra, la II ritornò in Italia, accampandosi non lungi da Roma, ai Castra Albana (Albano Laziale), diventando così la prima legione stanziata in Italia in due secoli.

                          La funzione della II Parthica non era come al solito di difendere una provincia romana, ma di fornire una riserva strategica per la difesa dei confini e come strumento a disposizione dell'imperatore a Roma contro eventuali usurpatori.

                          Severo negli ultimi anni di vita condusse nuove campagne in Scozia (dalla fine del 208/ inizi del 209 al 211), ma i territori conquistati vennero nuovamente ceduti dal figlio Caracalla, dopo la morte del padre avvenuta ad Eburacum (York).



                          CARACALLA(188 - 217)

                          COSTUME LEGIONARIO II PARTHICA
                          La presenza del potente castrum nei pressi di Roma agì sui giochi di potere imperiali. Quando Caracalla assassinò il fratello e collega Geta (dicembre 211), si recò immediatamente ai Castra Albana per guadagnarsi il sostegno dei legionari, che avevano reagito negativamente alla notizia. 

                          Così narrò di essere dovuto difendere da un complotto di Geta, e sedò l'inizio di rivolta dei soldati pagando loro un grosso donativo e aumentandone la paga del cinquanta per cento.

                          Narra Erodiano che Caracalla creò un'unità militare che fu il primo esempio di legione romana di lanciarii: la legio II Parthica Antoniana, che assomigliasse il più possibile alla falange macedone, in quanto l'imperatore voleva a tutti i costi essere uguale ad Alessandro Magno.

                          I suoi ufficiali dovevano, inoltre, portare i nomi dei generali di Alessandro, e infine, arruolò alcuni giovani di Sparta e formò una nuova unità militare chiamata Laconica e Pitanata


                          Campagna contro gli Alemanni

                          Il primo documento in cui gli Alemanni vennero menzionati è la descrizione della campagna di Caracalla del 213, dello storico Cassio Dione Cocceiano. Gli Alemanni occupavano il bacino del Meno a sud del territorio popolato dalla tribù dei Catti. Dione fa degli Alemanni le vittime del suo sanguinario imperatore.

                          LANCIARII II PARTHICA
                          Caracalla infatti, chiamato in aiuto dagli stessi Alemanni avrebbe approfittato della loro debolezza per colonizzare il loro territorio, cambiare il nome dei loro insediamenti e uccidere i loro guerrieri più valorosi. Quando l'imperatore cadde ammalato gli Alemanni rivendicarono di aver lanciato su di lui una maledizione.

                          Caracalla si dice, contrastò questa influenza malvagia chiamando in aiuto gli spiriti dei suoi antenati, e in risposta al loro maleficio l'imperatore inviò loro contro la Legio II Traiana Fortis che li sconfisse e che fu per questo chiamata Germanica. Caracalla venne assassinato nel 217 mentre si recava in Partia per una seconda spedizione.

                          Lo storico Erodiano dice che a ucciderlo fu Marziale, un ufficiale della guardia del corpo imperiale, poiché questi voleva vendicare la morte del fratello, condannato da Caracalla. Cassio Dione, invece, afferma che lo fece per il risentimento di non essere stato nominato centurione. Certo è che Marziale fu ucciso poco dopo da un arciere.

                          MACRINO (164 - 218)

                          Sembra invece che fu il comandante della II Parthica, Marco Opellio Macrino che in occasione della campagna contro i Parti di Caracalla, assassinò l'imperatore e ne prese il posto. 

                          Caracalla si recò a visitare un tempio, presso il luogo di una precedente battaglia, accompagnato solo dalla sua guardia del corpo, Macrino compreso. Sembra certo che Caracalla venne ucciso a questo punto del viaggio. Al ritorno, l'11 aprile, Macrino, il prefetto del pretorio, si autoproclamò imperatore, ma governò solo sino al 218.


                          ELIOCABALO  (203 - 222)

                          La legione rimase di stanza ad Apamea in Siria. Nel 218 Eliogabalo apparve presso le legioni orientali di stanza ad Edessa_(Mesopotamia), reclamando il trono come figlio illegittimo di Caracalla.

                          Macrino si recò ad Apamea e cercò di garantirsi la fedeltà della II Parthica, pagando un sostanzioso donativo e nominando il proprio figlio Diadumeniano (rinominato Antonino, vero nome di Caracalla) Augusto.



                          DIADUMENIANO (200 – 218)

                          Marco Opellio Antonino Diadumeniano, il figlio dell'imperatore Macrino, quando nel 217 suo padre si nominò imperatore, venne da questi nominato "Cesare" ed erede. L'anno seguente nel 218 venne nominato "Augusto".

                          Secondo la Historia Augusta, Diadumeniano incitò Macrino a non risparmiare nessuno di quelli che potevano opporglisi o che tramavano contro di loro. Tuttavia godette poco di quel potere, perché le legioni della Siria si ribellarono e proclamarono il quattordicenne Eliogabalo come imperatore dell'Impero Romano.

                          COSTUMI II PARTHICA
                          Quando Macrino venne sconfitto dagli insorti nella battaglia di Antiochia, l'8 giugno 218, cercò la fuga e inviò il figlio con un ambasciatore dal re dei Parti. Entrambi vennero però catturati e giustiziati. Diadumeniano venne decapitato e la sua testa venne presentata come trofeo ad Eliogabalo.

                          Sotto il successore di Caracalla, Macrino (217-218), era salito al rango di prefetto del pretorio. Stava in oriente con l'imperatore quando, nella vicina Antiochia di Siria, il presunto figlio di Caracalla, Eliogabalo (218-222), venne nominato imperatore dalle truppe della Legio III Gallica.

                          Macrino inviò Ulpio Giuliano, già al servizio di Caracalla, e parte della II Parthica a sedare la rivolta, e Giuliano mandò la cavalleria numida contro il nemico, ma senza risultati: allora fece avanzare la legione contro l'accampamento nemico. 

                          I difensori misero il quattordicenne Eliogabalo in vista sugli spalti delle mura e mostrarono le immagini di Caracalla, a invocare la imperiale discendenza. Allora i soldati di Giuliano, , anche della II Partica, che avevano amato Caracalla tanto quanto non gradivano Macrino, passarono al nemico e uccisero Giuliano. In seguito i soldati diedero la testa di Giuliano a Macrino, durante una cena.

                          All'inizio dunque la II legione combatté per Macrino, ma quando Macrino si ritirò ad Antiochia lasciando la II Parthica ad affrontare i ribelli, questa passò dalla parte di Eliogabalo, aiutandolo nella sua salita al trono e sconfiggendo Macrino nella Battaglia di Antiochia (218).


                           

                          ALESSANDRO SEVERO(208 - 235)

                          TOMBA DI FELSONIUS VERUS
                          AQUILIFERO DELLA LEGIO II PARTHICA
                          Adottato dal cugino e imperatore Eliogabalo, dopo il suo assassinio salì al trono. Alessandro Severo regnò dal 222 al 235, anno della sua morte.

                          Venne ucciso nel 235 a Mogontiacum (Magonza), insieme alla madre, dove era accampata la II Parthica, in un ammutinamento probabilmente capeggiato da Massimino Trace, un generale della Tracia, che ad ogni modo si assicurò il trono.

                          Per questo motivo la legione fu premiata dal nuovo imperatore Massimino Trace con i cognomina Pia Fidelis Felix Aeterna ("Pia, fedele, fortunata, eterna"), imperatore che marciò su Roma a capo di diverse legioni tra cui la II Parthica, ma fu assassinato dai propri soldati.



                          MASSIMINO TRACE (173 - 238)

                          Nella lotta per la successione la II Parthica puntò su Massimino il Trace, al quale il Senato romano oppose (238) Gordiano III, dichiarando Massimino persona non grata. Ma la II Parthica seguì Massimino nella sua marcia su Roma.

                          TOMBA DI AURELIUS MUCIANUS
                          LEGIONARIO DELLA II PARTHICA
                          Giunti ad Aquileia, arrivarono voci di sommosse nella capitale, alle quali gli uomini fedeli a Massimino risposero causando vittime tra i civili: i soldati, preoccupati per la vita dei loro famigliari, si lamentarono con Massimino, il quale venne poi ucciso dai propri uomini.

                          È possibile anche che i soldati, stimato che il loro comandante non avesse buone possibilità di riuscita, decisero di ucciderlo prima di arrivare allo scontro con le forze senatoriali. L'esercito di Massimino fu rimandato alle proprie guarnigioni, tranne i pretoriani e la II Parthica, che si recarono a Roma.

                          Il Senato perdonò alla legione la fedeltà a un nemico dello Stato, e le concesse di tornare al suo accampamento sui monti Albani. Nei decenni successivi la II fu utilizzata come rinforzo di diverse province, e come strumento di lotta per il trono da parte di numerosi pretendenti del III secolo.



                          GALLIENO (218 - 268)

                          L'imperatore Gallieno conferì alla legione i cognomina V Fidelis V Pia VI Fidelis VI Pia, rispettivamente "Cinque" e "Sei volte fedele e pia". Nella prima metà del III sec. metà dei soldati della II Parthica provenivano dalla Tracia, i restanti da Italia e Pannonia.

                          All'inizio del IV secolo, la II Parthica aveva abbandonato l'Italia, e stazionò sulla frontiera del Tigri; a metà del IV secolo, subito prima della sconfitta dei Romani a Singara in Mesopotamia.

                          Nel 360 il sasanide Sapore II attaccò e conquistò l'importante città fortificata di Bezabde (Cizre in Turchia), che  era parte dell'Impero romano, e si trovava sul confine con l'impero dei Sassanididifesa dalla II Parthica, dalla Legio II Armeniaca e dalla Legio II Flavia Virtutis

                          La popolazione venne massacrata, dopo aver valorosamente difeso la città. Shāpūr riparò le mura e vi installò una guarnigione, in quanto la città era in posizione strategica. Nemmeno l'imperatore romano Costanzo II (317 - 361) riuscirà a riprendere la città, malgrado l'uso pesante di artiglieria.



                          I CASTRA

                          Secondo la Notitia Dignitatum, la II Parthica stazionò:
                          - A Cepha, Turchia, attorno agli anni 420, sotto il comando del Dux Mesopotamiae. -
                          - Nei Castra Albana, in Italia dal 197 - al 218. -
                          - Ad Apamea, in Siria dal 218 al 234. -
                          - A Moguntiacum, in Germania dal 234 - al 238 -
                          - Di nuovo nei Castra Albana dal 238 all'inizio IV sec.. -
                          - A Bezabde, in Mesopotamia nel 360. - 
                          - Di nuovo a Cepha, in Mesopotamia, agli inizi V sec. -



                          ONORI di BATTAGLIA della II Parthica (dal 197)

                          - Pia Fidelis Felix Aeterna, "Pia, fedele, fortunata, eterna" (dal 218) -
                          - V Fidelis V Pia, "Cinque volte fedele, cinque volte pia" (253/260) -
                          - VI Fidelis VI Pia, "Sei volte fedele, sei volte pia" (prima del 260) -


                          PORTA RAUDUSCULANA (Mura Serviane)

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                          La Porta Raudusculana si apriva sulle mura serviane, tra due alture dell'Aventino, grosso modo al centro dell'attuale viale Aventino, all'altezza dell'incrocio con via San Saba. Essa è conosciuta da fonti testuali, in particolare il catalogo delle porte di Roma di Varrone (Raudusculana quod aerata fuit. Ling. 5.163: Rauduscula - Dictaque Rauduscula; Festus: Rodusculana porta appellata, quod rudis et inpolita sit relicta, vel quia, raudo, id est aere, fuerit vincta).

                          In vari modi, queste fonti derivano il nome del cancello da raudus, 'rame o bronzo' (con Paulus, in Festus 339, alternativamente da rudis, 'non liscio'). Questo si spiega o come porta bronzea (ne parla Varrone) oppure come maschera di bronzo scolpita o affissa sulla porta stessa, secondo un episodio riportato da Valerio Massimo.

                          Poiché la base Capitolina (CIL VI 975 = ILS 6073, AD 136) situa il quartiere di vicus portae R(a)udusculanae in Regio XII e, inoltre, il catalogo di Varrone situa la porta tra la Porta Naevia e la Porta Lavernalis, esiste un accordo generale (ad esempio, Lanciani, FUR 41, Richardson, Coarelli) che la Porta Rauduscula segnasse l'intersezione delle Mura Serviane con una via repubblicana che avrebbe probabilmente seguito la depressione centrale dell'Aventino ( Sv. Aventino: Via).

                          La Base Capitolina, o Base dei Vicomagistri, è il basamento marmoreo di una statua dedicata all'imperatore Adriano dai vicomagistri nel 136 d.c. di fondamentale importanza per la ricostruzione della topografia dell'antica Roma, in quanto su di esso è riportato l'elenco dei vicomagistri dedicanti, suddivisi ciascuno per il vicus di competenza.

                          Rinvenuta sul Campidoglio nel XV secolo, è conservata presso i Musei capitolini.
                          Sicuramente la porta era stata rivestita in bronzo per renderla corazzata, tanto è vero che il tratto di mura serviane dalla porta alle sponde del Tevere sembra essere tra i più robusti dell'intera cinta muraria.

                          I pochi resti, peraltro ben conservati, comprendono anche, tuttora visibile, un'arcata, aperta ad una certa altezza, che riguardava una postazione per un'arma da lancio, catapulta o balista. Queste piazzole erano rare lungo gli 11 km delle mura serviane, sia perché ne è stata ritrovata solo un'altra, nei pressi della porta Sanqualis, sia perché non ve n'è alcuna traccia nei testi e nelle testimonianze d'epoca.



                          LA LEGGENDA

                          C'è anche un episodio leggendario che riguarda la Porta Raudusculana e che si rifa alla gens Genucia, una delle più importanti e illustri famiglie plebee dell'Aventino (un ramo dei quali aveva anche il "cognomen" Aventiniensis), i cui rappresentanti hanno anche ricoperto importanti cariche pubbliche almeno fino all'epoca delle guerre puniche, dopodichè erano scomparsi dagli annali.

                          VIA SANT'ANSELMO
                          Per comprendere la leggenda occorre rammentare quanto i romani fossero un popolo fiero, che non sopportava di essere sottomesso o governato con tirannide. La monarchia etrusca aveva talmente disgustato i romani che mai più vollero un re, desiderando eleggere i propri rappresentanti senza dettami dall'alto.

                          In seguito furono governati dagli imperatori che però erano eletti dal senato e riconfermati ogni anno, quindi un minimo di democrazia restava. Pertanto chiunque volesse farsi acclamare re veniva odiato e punito con la morte. Da qui il racconto che segue.

                          Si narra così che ad un certo Genucio Cipo, pretore, appena varcata la porta per uscire dalla città, capitò uno di quei prodigi preconizzatori di grandi eventi: gli spuntarono un paio di corna sulla fronte. Oggi diamo alle corna ben altro significato, ma un tempo le corna le portavano gli Dei o i re.

                          Un augure che era con lui gli predisse che, non appena fosse rientrato in città, ne sarebbe divenuto re, allora Genucio, convinto sostenitore della repubblica, non rientrò in città e si esiliò per la vita. Per questa fedeltà nei confronti del popolo e dello Stato gli venne dedicata un'effigie bronzea sulla porta dell'Urbe, che si chiamò Raudusculana (bronzea) per questa ragione. (Ov. Met. 15, 616-621 Val. Mass. 5,6,3).

                          Inoltre, poiché la gens Genucia era una famiglia molto antica, la cui notorietà ed importanza era già notevole nei primi tempi repubblicani, il suo legame con la porta fa ritenere che anche quest'ultima fosse piuttosto antica, edificata dunque insieme alla cinta serviana nel 378 a.c.



                          VICUS PORTAE RAUDUSCULANAE

                          L'esistenza di un vicus portae R(a)udusculanae in Regio XII (CIL VI.975) è la prova della locazione di questa porta sulla parte orientale dell'Aventino.

                          Il vicus è generalmente considerato una continuazione del Vicus Piscinae Publicae (qv), e se così, la porta era nella depressione tra le due parti della collina, all'incrocio del moderno Viale Aventino e della Via di Porta S Paolo (Jord I.1.234, HJ 184, Gilb, II.295-206, 308-309, Merlin 120, 129, BC 1891, 211 n.).

                          Oggi la maggior parte degli studiosi la riconosce nella porta, di cui resta solo la parte superiore, che si apre sulle mura serviane tra Piazza Albania e Via S. Anselmo, dove è stata posta l'epigrafe che rammenta appunto la Porta Raudusculana.


                          LA COSIDDETTA DOMUS DI LIVIA

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                          LA COSIDETTA DOMUS DI LIVIA

                          La cosiddetta "Casa di Livia"è una delle poche abitazioni repubblicane rimaste sul colle Palatino, nella zona occidentale, la più importante perché conserva le testimonianze più significative della fondazione e della storia dell'Urbe.

                          Nel 1869, per incarico di Napoleone III, l'archeologo Pietro Rosa mise in luce una casa di epoca repubblicana con murature databili tra il 75 e il 50 a.c. che erroneamente, interpretando un passo di Svetonio, venne detta casa di Livia.


                          L'edificio si trova poco distante dal tempio della Magna Mater, posto tra le capanne arcaiche e la Domus Tiberiana, presso la Casa di Augusto, l'abitazione privata dell'imperatore, su una terrazza più bassa del tempio e su un terreno in leggera pendenza.

                          La casa è posta leggermente più in basso delle case adiacenti e in origine si sviluppava su due piani, collegandosi con gli altri edifici adiacenti.

                          Si accedeva alla domus per mezzo di un corridoio inclinato, di cui resta il pavimento a mosaico a tessere nere su uno sfondo di tessere bianche. Una decorazione pavimentale analoga prosegue nel pianerottolo. 


                          Si pensa che questo non fosse l'entrata originaria, ma che questa venne chiusa in seguito a vari rimaneggiamenti. L'ingresso originale si trovava invece sul lato opposto, dove si trovano infatti tracce di un impluvium e alcuni cubicola.

                          Da qui si passa a un cortile rettangolare i cui pilastri dovevano sostenere una tettoia ma di questi ne restano solo le basi. Il tablino, cioè il salone della casa, in genere preposto all'accoglienza dei clientes e al disbrigo degli affari, era posto tra altre due stanze che si affacciano sul cortile, per cui metteva in comunicazione le due parti della casa.  

                          Nel tablino si è anche conservata una conduttura di piombo, che portava acqua alla casa e su cui, secondo l'uso, si trova il nome del proprietario, Iulia Aug(usta), che ha fatto pensare a Livia, ma anche alla figlia di Tito, Giulia.

                          L'IMMAGINE CENTRALE SULLA PARETE DI DESTRA RITRAE IO, ARGO E NETTUNO
                          L'attribuzione della casa come "di Livia" venne basata anche sul nome impresso sulla tubatura e pure per la vicinanza alla Casa di Augusto. 

                          RICOSTRUZIONE DELL'AFFRESCO SOPRA
                          Sicuramente non si tratta della casa dove Livia visse col primo marito Tiberio Nerone, se non forse un appartamento a essa riservato nella casa del marito, che era un agglomerato di numerose case più antiche.

                          Ma su questo gli studiosi fanno diverse eccezioni.

                          E' possibile però che dopo il ritorno dalla Sicilia del 36 a.c., Augusto si prendesse cura di questa abitazione modificandola in modo da rendere la "casa di Livia" una sorta di dépendance che le permettesse di estraniarsi in completo riposo. Le pitture risalgono infatti agli anni 30 a.c. e alcuni restauri in mattoni sarebbero pertinenti a dopo l'incendio dell'anno 3 d.c., però la preoccupazione di Augusto per l'indipendenza di Livia ci lascia un po' perplessi.

                          Ottaviano amava sua moglie ma l'aveva scelta proprio in base a questa sua mansuetudine, riservatezza di costumi e totalmente dipendente da suo marito.


                          Una famosa decorazione ad affreschi di II stile è stata rinvenuta. e pure ben conservata, sia nel tablinio che nei due ambienti adiacenti, oggi staccate e databili al 30 a.c. Le pareti erano più antiche, come ha dimostrato proprio lo stacco delle pitture sotto cui sono stati individuati passaggi tamponati per disporre della parete intera. Queste antiche pareti sono in opera reticolata piuttosto irregolare e risalgono al 75-50 a.c.

                          Pertanto la casa era più antica, una casa di valore mantenuta nel tempo, tenendo conto che il palatino occidentale fu il primo centro dell'Urbe, pieno di tradizioni e leggende, ma anche di storia che influenzò tutto il mondo.


                          La parete più conservata è posta destra del tablino, decorata da colonne corinzie dipinte come se si ergessero da un basso podio, su basi piuttosto alte con effetti illusionistici di prospettiva che aprivano la parete creando fondali a diverse profondità. 

                          AFFRESCO DEL TEMPIO DI
                          ISIDE A POMPEI
                          D'altronde anche se si chiama "Trompe l'oeil", alla francese, in realtà fu inventato dagli antichi romani. 

                          Le colonne dipinte infatti sostengono un soffitto a cassettoni in prospettiva. 

                          Al centro, dentro una finta porta aperta, si scorge Io (o Europa), la sacerdotessa amata da Giove, seduta sotto l'idolo della Dea Giunone, sorvegliata da Argo, armato di lancia e spada, e visitata dal leggiadro Mercurio che giunge a liberarla. 

                          Il tutto liberamente tratto del quadro del greco Nikias (del IV sec. a.c.) stimatissimo da Plinio e già celebre per l'affresco dell'Andomeda. L'affresco, di m 2,30 x 1,60 si trova nella cosiddetta "sala di Polifemo".

                          Come narra infatti Plinio il vecchio nella Naturalis Historia, il pittore Nikias aveva realizzato, nella prima metà del IV sec. a.c., un dipinto pressoché identico, nella tomba di Filippo II a Verghina.

                          AFFRESCO DELLA CASA
                          DI LIVIA
                          Io, seduta al centro della scena, è la protagonista ed ha alle sue spalle, tra le rocce, una colonna esagonale con in cima una divinità femminile, probabilmente Era, visto che Io ne era la sacerdotessa. 

                          Più indietro due alberi spuntano dalle rocce inondando i lati e la parte superiore della scena con le sue fronde, inquadrando ancora la centralità della figura umana di Io.

                          Ella è infatti dipinta con sembianze umane e ad alludere alla sua trasformazione in giovenca, ci sono solo delle piccole corna sulla fronte. Io, avvolta in un chitone blu-azzurro, è rivolta verso Argo, suo custode e carceriere. 

                          Quest'ultimo però, il mostro dai cento occhi, è raffigurato come un giovane atletico e quasi nudo, con in mano una spada. Sulla sinistra, dietro le rocce, sopraggiunge Ermes, in clamide color giallo-bruno e petaso grigio-azzurro, che qualcuno pensa aggiunto all'originale dipinto greco.


                          Comunque il suo nome è iscritto in greco sulla roccia alla sua sinistra, e dovevano esserci anche quelli di Io e Argo, come testimoniano i disegni dell’epoca del rinvenimento della villa (1869 ca.).

                          Ai lati sono dipinte altre due porte dipinte coi battenti aperti, dove al centro lasciavano vedere una complessa città con architetture in prospettiva, popolata da vari, piccoli e strani personaggi (quella di destra è perduta). 



                          A metà altezza si trovano quadretti con scene di genere, mentre un po' tutta la superficie è popolata da vari elementi decorativi minori: sfingi, figurine alate, racemi e candelabre (sorta di colonne vegetali stilizzanti i fiori dell'aloe). 

                          Il triclinio a sud del cortile (dove venivano serviti i pasti ai commensali sdraiati sui lettini), vicino a dove sbucava il corridoio che probabilmente portava all'accesso originario, era pure decorato da pitture, tra le quali spiccava al centro della parete davanti l'ingresso un paesaggio con simulacro aniconico di Diana.

                          La parete opposta all'ingresso aveva un affresco al centro con la ninfa Galatea su cavallo marino mentre fugge da Polifemo.

                          Nella stanza di destra si è ben conservata la parete di sinistra, con una partitura a riquadri più semplice del tablino, con ghirlande, frutta, fogliame e, in alto, un fregio a sfondo giallo con scene egittizzanti, realizzate con un'interessante tecnica a schizzo con lumeggiature.  
                          A differenza dell'ombreggiatura, la lumeggiatura si basa sullo schiarire, rispetto al colore di base, le zone in luce, una tecnica inventata dai romani. La stanza di sinistra era decorata da partiture simili, ma senza elementi figurati.

                          Nell'ambiente a sinistra del tablino le pareti sono decorate con un sistema analogo a quello degli altri due ma senza scene rappresentanti figure; la decorazione è costituita da colonne e pilastri sopra un basamento di finto marmo.

                          MONTE CAVO - CABO (Lazio)

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                          VULCANO LAZIALE

                          Il monte Cavo, detto anche Vulcano Laziale, fa parte del complesso dei Colli Albani, situato appunto nel Lazio, ed è un vulcano estintosi circa 10.000 anni fa, la cui caldera si è formata con la fuoruscita delle scorie. Detto anticamente Mons Albanus, ovvero monte di Alba, deriva il suo nome attuale da Cabum, un insediamento italico dell'epoca, esistito sul monte. Da qui deriverebbe Monte GABO o CAVO.

                          Il fatto che si chiamasse Vulcano Laziale rimanda al mito del Dio Vulcano, un Dio schivo e cupo che fabbricava nella sua fucina, posta dentro un cratere, i fulmini di Giove. Volkanus, questo è in realtà il nome dell'antico Dio in suolo italico, è il Dio romano del fuoco che distrugge. Secondo Varrone il re Tito Tazio, che governava unitamente a Romolo, aveva dedicato altari ad una serie di divinità tra cui era anche Vulcano. Talvolta il Dio viene indicato come figlio di Giove e Giunone, in realtà è stato generato per partenogenesi da Giunone in qualità di antica Grande Madre.

                          Nonostante il vulcano si dica estinto 10000 anni fa, Livio riporta nella sua Storia Romana, che sotto re Tullo Ostilio, il vulcano abbia ripreso la sua attività. Forse allude all'eruzione avvenuta tra il 673 e il 641 a.c. con una pioggia di lapilli sul Monte Albano, durata piu giorni e per la quale venne istituito il Sacro Novendiale.

                          Così scriveva Tito Livio, negli Ab Urbe condida libris: "Devictis Sabinis cum in magna gloria magnisque opibus regnum Tulli ac tota res Romana esset, nuntiatum regi patribusque est in Monte Albano lapidibus pluvisse"
                          cioè: "Sconfitti i Sabini, quando ormai il regno di Tullo Ostilio e la potenza di Roma avevano raggiunto il vertice della gloria e della ricchezza, venne annunciato al re e ai senatori che sul monte Albano stavano piovendo pietre".

                          Siccome la cosa non era molto verosimile furono inviati dei messi a controllare il fenomeno. Anche in loro presenza cadde una spessa pioggia di pietre che "cadevano come chicchi di grandine ammucchiata dal vento sulla terra". Fatti del genere, durati parecchi giorni, sono noti in quell'epoca in tutta l'area dei Colli Albani. Si stabilì pertanto che ogni volta fosse accaduto lo stesso prodigio si sarebbero celebrati 9 giorni di festività dette Novendiales.

                          Monte Cavo fu sacro per i popoli italici del Lazio, e poi per i Romani, poiché vi sorgeva il tempio di Iuppiter Latiaris, il più importante santuario del Lazio, meta di pellegrinaggi per i popoli latini e romani con un percorso che partiva dall'Urbe, si diramava per oltre 30 Km, costeggiando il Lago di Nemi, ove si adorava la Diana Nemorensis, per poi giungere alla base della montagna, da cui iniziava una strada lastricata in basalto, detta appunto via sacra o via trionfale, che con un percorso di 6 km raggiungeva al tempio.

                          Fu re Tarquinio Prisco che fissò un tempio comune ai Latini, agli Ernici ed ai Volsci sul monte Albano, dove ogni anno si celebravano feste in onore di Iuppiter Latiaris che sorgeva sulla sommità del monte, rimasto sotto l'egida di Alba Longa sino alla distruzione di questa, verso la metà del VII sec. a.c.

                          Qui si nominava il capo della confederazione latina, il Dictator Latinus, e qui, tra gennaio e marzo, si svolgevano le Feriae latinae. Queste duravano 4 giorni e vi partecipavano 47 città, di cui 30 latine e 17 federate. I Consoli appena insediati dovevano sacrificare a Giove Laziale e indire le "ferie latine".

                          SACRIFICIO ED OFFERTA DEL TORO BIANCO A GIOVE
                          Quando il console otteneva una vittoria in guerra doveva anche celebrare il trionfo sul monte Albano.
                          Il momento culminante delle celebrazioni consisteva nel sacrificio a Giove di un toro bianco: le sue carni venivano distribuite ad ogni popolo latino partecipante - il cui nome veniva scandito ancora nella tarda età imperiale - come simbolo della originaria parità di diritti di tutti i membri della lega.

                          Sempre sotto i Tarquini,  fu infine eretto sul Campidoglio un tempio di Giove, che pian piano sostituì quello della lega sul Monte Cavo, esattamente come avvenne per il tempio di Diana sull'Aventino, che costituì un'alternativa al culto di Diana nemorense.


                          Il legame tra culto capitolino e culto del Mons Albanus si evidenzia nella cerimonia del trionfo, che su decreto del senato era concesso ai generali romani vittoriosi e celebrato a Roma al ritorno dalle imprese belliche, oltrepassando la porta Triumphalis ed ascendendo con la pompa triumphalis fin sul Campidoglio. 

                          Chi non riusciva ad ottenere il trionfo dal senato, poteva celebrare la cerimonia in monte Albano, dove appunto era nata la cerimonia di tradizione etrusca.

                          Ovvero l’importanza di questi santuari diminuì quando Roma, distrutta nel VII sec. a.c. Alba Longa, la città più importante della Lega Latina, assorbì i culti federali e li spostò all’interno dell’Urbe celebrando qui le Feriae Latinae. Ciò nonostante, il tempio del Monte Albano, che venne ricostruito in pietra da Tarquinio il Superbo verso la fine del VI sec. a.c., rimase un centro religioso molto importante, tanto che qui venivano celebrate le “ovazioni” (da ovis, la pecora che veniva offerta in sacrificio), cioè trionfi minori, per quei generali per i quali non era stato decretato un vero trionfo a Roma.
                          Dell'antico santuario nulla rimane, ad eccezione di alcuni blocchi di tufo ormai fuori posto: il sito venne infatti stravolto dalla realizzazione di un oratorio nell'ultimo decennio del XVI secolo, nonché di un convento e di una chiesa nel corso del XVIII secolo. 
                          Secondo alcuni oggi non si è neppure in grado di affermare con sicurezza se al Dio venne destinato un culto all'aperto o se vi fosse un vero e proprio tempio. Gli scavi hanno riportato alla luce solo costruzioni minori in pessimo stato di conservazione e di incerta identificazione. Solo le stipi votive, portate alla luce nei secoli scorsi, hanno permesso di affermare con sicurezza che il luogo fu sede di intensa attività religiosa sin dall'età del Bronzo finale.

                          Siamo andati con un permesso speciale e abbiamo raggiunto la cima del colle che non ci è stato però consentito di fotografare. Abbiamo notato sulla piattaforma della cima, sporgendoci al di sotto, che le pietre che sorreggevano la terrazza della sommità sono enormi e pertanto antichissime. Attorno alla cima c'è un muro esterno che sembra quasi ciclopico, un lavoro grandioso.


                          Ne consegue che:

                          1) Non si sarebbe sostenuto un terrazzamento così elevato solo per cautelare uno spiazzo all'aperto.

                          2) Non si sarebbe attuato uno spazio così elevato senza un tetto sotto cui ripararsi in caso di pioggia.

                          3) Si sa che i templi Etrusco-italici vennero eretti in pietra almeno dal VI e V sec. a.c. ma che prima ancora, verso il VII sec. se ne costruivano in legno e fango con tetto in terracotta.

                          4) Se i sacerdoti e i pellegrini si facevano un così lungo percorso per celebrare il rito e la festa, sulla sommità c'era un tempio e dei luoghi di ristoro, dove dormire e mangiare, nonchè magazzini per approntare i sacrifici, le mense, gli scanni e tutto l'occorrente per una festa che durava ben 4 giorni.

                          Oggi il Monte è coperto da una selva di antenne e ripetitori televisivi, e da altre installazioni elettroniche civili e militari.

                          Non distante, sorge un'Abbazia, "Santa Maria di Palazzola", o "Convento di Palazzolo", dei Monaci Cistercensi di Casamari e che si erge su un'area in cui anticamente sorgeva un altro tempio pagano, destinato al culto del Sole e della Luna. Ogni tempio pagano del resto venne occupato da un tempio cristiano perchè il clero si era accorto che questi testardi di pagani, nonostante il reato punibile con la morte e la confisca dei beni alla famiglia, si ostinavano ad adorare gli Dei dei templi distrutti sull'area dove questi sorgevano.

                          VIA SACRA

                          LA VIA SACRA

                          Molto ben conservata è invece l'antica strada che conduceva al santuario partendo dalla via Appia, all'altezza di Ariccia. Essa costeggia a oriente il lago Albano, con i tagli nella roccia dell'antico percorso, oltrepassa Palazzolo, salendo ripida fin sulla cima.

                          L'antico basolato, con i marciapiedi in peperino, interseca in più punti la via moderna e può essere ancora percorso a piedi lungo quasi tutto il percorso originario. 

                          Sembra che pure la via Latina, di origine neolitica, avrebbe avuto come punto d'arrivo la cittadella latina di Cabum (in etrusco Cape, da cui deriverebbe anche il nome della porta nelle antiche mura repubblicane di Roma: Capena), sorta in un crocevia di antiche vie di transumanza.

                          E' documentato, non solo qui ma in tutta l'area mediterranea, l'uso da parte dei partecipanti alle cerimonie di corde appese ai rami degli alberi per andare in altalena (oscillare): tale pratica risaliva al culto delle antiche sacerdotesse che, come asserisce Robert Graves nella Dea Bianca, imitava il crescere e il decrescere del disco lunare.

                          Infatti si usava contemporaneamente un ombrellino paraluna che veniva usato solo di notte soprattutto in altalena affinchè i raggi della luna non potessero irradiare più di tanto gli astanti.
                          Non c'è da meravigliarsi, i pastori della transumanza usavano un tempo coprirsi il capo di notte quando dormivano negli stazzi, per ripararsi da ceri raggi nocivi, come quelli della "luna rossa" di marzo.

                          ANTENNE SUL MONTE CALVO
                          Calata la notte e finita la festa, si purificava l'area sacra con il latte.

                          Nello stesso momento a Roma si chiudevano le identiche celebrazioni e finiva la corsa delle quadrighe in Campidoglio.

                          Per tutta l'età imperiale il culto di Iuppiter Latiaris e, di conseguenza, la fama del santuario del Mons Albanus, è ben documentato dalle fonti letterarie, che ricordano Caligola fregiarsi del titolo di Dio dei latini consacrandosi in quel tempio, e il sacrificio di Antinoo fatto al Latialis da Adriano, notizia del tutto falsa, ma che non avrebbe potuto diffondersi senza il tempio di Iuppiter Latialis.

                          Nel medioevo il tempio venne demolito e sostituito con un eremitaggio dei devoti di S. Pietro, per la furia iconoclasta cristiana, poi anche questo venne abbattuto e sostituito con un monastero nel 1727.

                          Nel 1758 vi vennero i passionisti di San Paolo della Croce e nel 1783 fu restaurato, usando i materiali che ancora restavano del tempio di Giove, per volere di Enrico Benedetto Stuart, duca di York, vescovo della diocesi di Frascati.

                          I missionari abbandonarono il monastero nel 1889, quando i Colonna affittarono l'ultimo piano dello stabile al Ministero dell'Agricoltura.

                          Nel 1890 però il ministero non rinnovò il contratto, lasciando che la struttura fosse adibita ad albergo, oggi un rudere in stato di abbandono. Invece il monte ospita solo le mostruose antenne della TV, uccidendo uno dei più bei siti e panorami del Lazio.



                          LA MAGIA DELLA VIA SACRA

                          La Via Sacra, solo per un tratto di circa 100 m, ha una curiosa anomalia: la discesa si comporta come una salita e viceversa. Il tratto si raggiunge percorrendo la 'Via dei Laghi' fino a un quadrivio. Qui si prende la strada a destra, per Ariccia, e si incontra una discesa, che si trasforma poi in una salita. In questa salita qualsiasi oggetto tondeggiante posato al suolo tende a risalire la pendenza o, posto in discesa, si ferma o torna indietro.

                          Si è pensato a un fenomeno ottico e dagli anni '70 sono giunti scienziati da ogni parte d'Europa. Sono stati usati svariati strumenti di misurazione: livelle, bolla a cannocchiale, magnetometro, contatore geiger, bussole, teodoliti, Si è ipotizzato di grossi meteoriti ferrosi sepolti sottoterra,che agirebbero come giganteschi magneti, ma il magnetismo agirebbe solo su oggetti ferrosi, mentre si comportano ugualmente i materiali più disparati.

                          La trasmissione "Superquark",il primo marzo 1996 mandò in onda un reportage concludendo che era tutto regolare, trattavasi di illusione ottica. La prova effettuata con la livella a bolla, infatti, confermò che non si trattava di un dislivello stradale. Invece tengo a testimoniare che siamo anni fa andati in tre a misurare la pendenza con la livella, che invece ha confermato il fenomeno anomalo. Come mai la TV ha dato allora una notizia così infondata? Tanto più che verso gli anni 70 vennero molti scienziati a controllare il fenomeno e nessuno disse che era un effetto ottico, visto che è sufficiente una livella da muratore per appurarlo.

                          D'altronde tutta la zona di Monte Cavo è un'anomalia dal punto di vista magnetico, che supera di parecchio la media del magnetismo terrestre naturale.



                          SENTENZA CONTRO LE ANTENNE DI MONTE CAVO

                          E’ stata depositata il 13 novembre 1914 una sentenza storica per la Città di Rocca di Papa, con la quale il Tar del Lazio ha respinto il ricorso fatto dalla società R.T.I ( Canale 5, Italia 1 e Rete 4) contro l’ordinanza di demolizione delle antenne site sul territorio di Rocca di Papa del 2003, con l’allora sindaco Carlo Umberto Ponzo.

                          L’ingiunzione allo sgombero di Monte Cavo Vetta invitava le emittenti a trasferirsi presso i siti alternativi individuati dal Piano territoriale di coordinamento adottato nel 2001 dalla Regione Lazio. Ora, dopo svariati anni, il Tribunale Amministrativo ha dato ragione al Comune di Rocca di Papa ed ha riconosciuto la legittimità e la piena operatività dell’atto impugnato.

                          “Siamo a dir poco emozionati – riferisce il sindaco Pasquale Boccia -. Sono anni che combattiamo contro le emittenti radio-televisive installate senza alcuna autorizzazione sul nostro territorio intorno agli anni ’70, alterando irreversibilmente un luogo dalla forte valenza ambientale, storica, culturale e identitaria.

                          La nostra battaglia è iniziata nel ’98 quando, con delibera di Consiglio comunale all’unanimità decretammo che il territorio di Rocca di Papa non poteva essere individuato come sito per l’installazione di impianti di radiodiffusione, ed è poi disseminata di atti, diffide e richieste in tutte le sedi opportune che documentano il nostro costante impegno negli anni. Fino ad arrivare alla storia più recente, quando il controllo richiesto da questa Amministrazione ha permesso di individuare tre emittenti che sforavano i limiti di emissione, costrette a pagare una sanzione pecuniaria, oltre che a rientrare nei parametri consentiti dalla legge.

                          Questa sentenza è una vittoria per tutto il territorio dei Castelli romani, ugualmente coinvolto e colpito dalla presenza delle antenne di Monte Cavo, e di tutti i cittadini che ci hanno supportato in questa battaglia. Ho già dato mandato ai miei tecnici di verificare le modalità di attuazione di questa sentenza e di inviare comunicazione alla Regione Lazio, Presidenza del Consiglio regionale e Prefettura.

                          Alla luce di questa sentenza ci aspettiamo che gli organi sovra comunali lavorino urgentemente, ognuno per le proprie competenze, per predisporre gli atti necessari che ci permetteranno di attuare la sentenza
                          ”.

                          Le antenne stanno ancora là, perchè il bene del patrimonio artistico, paesaggistico e archeologico in Italia non è al primo posto nell'interesse dei vari governi che si sono succeduti.


                          CULTO DI TANA

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                          LA DEA CHE CAMMINA A PIEDI NUDI SULLA TERRA

                          TANA, detta in etrusco THAINA, fu appunto una divinità etrusco/romana della magia e della trasformazione. Di origine etrusca venne, con la conquista romana dei territori etruschi, importata a Roma, dove venne pian piano assimilata a Diana.

                          Fu Dea del cielo, della Luce e della natalità, ovvero del parto; come Dea del cielo veniva rappresentata dalla prima stella del mattino, quella che i latini chiamarono Lux-Fero (Porto la luce) italianizzata in Lucifero e demonizzata dalla chiesa cattolica che le mutò sesso trasformandola in maschio e demone, anzi nel capo della schiera dei demoni maledetti da Dio.

                          Era pure Dea della magia e della trasformazione, ella operava, come le sue sacerdotesse nell'oscurità di un antro che diveniva la Tana della Dea. Attraverso la magia, tanto temuta anche dai romani, si operavano le trasformazioni, esteriori ed interiori. Del resto la Dea della Natura operava magie in continuazioni trasformando uomini, animali e piante mediante la trasformazione delle stagioni.

                          LA TANA DEGLI ANIMALI SELVAGGI
                          Fu pure Dea della liberazione, e quindi della libertà, pertanto protettrice di oppressi e di fuorilegge, divenendo Asylum per gli uomini ricercati che si rifugiavano nel suo tempio, dopodichè divenivano intoccabili o Tana per gli animali selvaggi. Ella camminava a piedi nudi sulla Terra perchè non poneva ostacoli tra sè e il suolo, ella era tutt'uno con la Terra.

                          Venne anche assimilata a Feronia, Dea degli animali selvaggi e a sua volta pure Dea dei Liberti, cioè dei liberati.

                          Ella proteggeva le tane degli animali dove si rifugiavano i nuovi nati, ma pure le tane degli animali che cadevano in letargo.

                          Questa Dea, nella qualità di Liberatrice (opzione oggi passata pari pari alla Madonna) presenziava come nume tutelare alla funzione di liberazione degli schiavi. Da Dea Tana Liberatrice divenne S. Maria Liberatrice.

                          Secondo alcuni ebbe anche il nome di Fero dai molti doni che le si portavano. Invece Feronia è la Potnia Theron, come lo era Tana, che dette anche il nome alle cavità dove si rifugiavano gli animali, cioè le tane (o viceversa).

                          Feronia come Tana venne chiamata "Fero" abbreviativo della locuzione "Lux Fero" (io porto la luce,
                          dal lat. portare = fero fers ferre). In qualità di tana divenne pure un sinonimo della vagina che può essere penetrata dal fallo, per cui il "fare tana" equivaleva a fare sesso.

                          Anche se Feronia doveva il suo nome alle Ferae, le fiere, cioè gli animali selvaggi che costellavano la sua veste e che ella proteggeva.

                          L'idea della liberazione cui conduceva oltre che all'esterno, all'interno delle anime (un po' il "Conosci te stesso"), si è tramandato attraverso il gioco del "nascondino" conosciuto anche dai romani come si vede a Pompei dove due eroti giocano a "nascondarella".

                          Chi scopriva colui che si era nascosto allo sguardo, esclamava, come ancora oggi fanno i bambini nel gioco: "Tana libera tutti!" sembra retaggio dell'antica Dea.

                          GERMANI

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                          Si dissero un insieme di popoli con la stessa lingua, costituiti in tribù, di origine indoeuropea e in parte autoctoni, provenienti dalla Scandinavia meridionale e la Germania settentrionale, che occuparono un'ampia area dell'Europa centro-settentrionale, dalla Scandinavia all'alto corso del Danubio e dal Reno alla Vistola. Nel III sec., molte tribù germaniche migrarono nel basso continente europeo con varie guerre e battaglie.

                          All'epoca di Gaio Giulio Cesare (58-53 a.c.) i Germani ad est del Reno erano più alti rispetto ai romani che superavano di rado il metro e mezzo di statura, i Germani invece superavano i 170 cm.
                          Secondo Tacito avevano occhi azzurri e capelli fulvi, dotati di un fisico robusto ma incapace di resistere alla sete e al caldo, sebbene ottimi per il combattimento che per resistere al gelo.

                          « senza essersi mescolati con altre nazioni esser gente propria, e schietta, solamente a sé stessa e non ad altri simile. Onde ancora l'aspetto dei corpi, quantunque in tanto gran numero d'uomini, è in tutti il medesimo: gli occhi fieri, di colore ceruleo, i capelli biondi, grandi di statura, vigorosi solamente nell'impeto, ma non già nelle fatiche e nel patire, come neanche possono tollerare la sete e il caldo, ma sono abituati dalla qualità del paese e dell'aria a sopportare il freddo e la fame »

                          POPOLAZIONI GERMANICHE (Ingrandibile)
                          I Germani si scontrarono con Roma nel II sec. a.c., con le incursioni di Cimbri e Teutoni che penetrarono fino alla provincia romana della Gallia Narbonense. Qui discesero il Rodano sollevando le tribù celtiche appena assoggettate a Roma sconfiggendo più volte le legioni romane.

                          Poi i Cimbri penetrarono in Iberia, e i Teutoni nella Gallia settentrionale, minacciando la Gallia cisalpina. Fu Gaio Mario che in due battaglie annientò entrambi i popoli: i Teutoni ad Aquae Sextiae nel 102 a.c., i Cimbri ai Campi Raudii nel 101 a.c. Fu poi Giulio Cesare che, con una lunga serie di vittorie, fissò stabilmente il confine dei territori soggetti a Roma sullo stesso Reno.

                          Augusto tentò di spostare il Limes romano dal Reno all'Elba (12 a.c.), ma costò la perdita di tre legioni nella battaglia di teutoburgo, come nel caso della Battaglia della foresta di Teutoburgo (9 d.c.): comandate da Publio Quintilio Varo.
                          Dopo la disfatta di Publio Quintilio Varo nella foresta di Teutoburgo, i Romani avevano deciso di abbandonare la nuova provincia di Germania, ad est del fiume Reno, lasciando solo dei forti costieri lungo il Mare del Nord nei territori di Frisoni e Cauci.

                          Seguirono altre campagne guidate da Tiberio, a cui partecipò anche Germanico, per volere di Augusto, nel 10 ed 11 d.c., Tiberio era orientato ad utilizzare la diplomazia nei territori germani,  ma Germanico, inviato come proconsole della Gallia per un censimento, cambiò i suoi piani.

                          Germanico, infatti, spinto dal desiderio o forse dall'ossessione, di dover emulare il padre, Druso, senza aver richiesto alcuna autorizzazione al suo princeps, invase nuovamente i territori germanici.



                          I GUERRA GERMANICA

                          « (nell'11 dc.) ... Tiberio e Germanico, quest'ultimo in veste di proconsole, invasero la Germania e ne devastarono alcuni territori, tuttavia non riportarono alcuna vittoria, poiché nessuno gli si era opposto, né soggiogarono alcuna tribù... nel timore di cadere vittime di un nuovo disastro non avanzarono molto oltre il fiume Reno. »
                          (Velleio Patercolo, Storia di Roma II, 121.)

                          Tiberio riuscì a schierare un esercito composto da otto legioni:
                          - per il fronte "inferiore": la legio XXI Rapax, la legio V Alaudae, la legio I Germanica e la legio XX Valeria Victrix;
                          - per quello "superiore": legio II Augusta, legio XIII Gemina, legio XVI Gallica e legio XIV Gemina.

                          « (Germanico)... abbatté le forze nemiche in Germania, con spedizioni navali e terrestri, e placate più con la fermezza che con i castighi la pericolosissima situazione nella Gallia e la ribellione sorta tra la popolazione degli Allobrogi... (del 13 dc.). »
                          (Cassio Dione Cocceiano, Storia Romana, LVI, 25.)


                          DOPO LA MORTE DI AUGUSTO

                          Le campagne militari (14-16)
                          Subito dopo la morte di Augusto, si ribellarono le legioni di Germania chiedendo una riduzione della leva a 16 anni ed un aumento della paga. Presso la riva sinistra del Reno c'erano due eserciti: quello della Germania superiore agli ordini del luogotenente Gaio Silio, e quello della Germania inferiore affidato ad Aulo Cecina Severo, sotto l'alto comando di Germanico, occupato ad effettuare un censimento nelle Gallie.

                          La rivolta ebbe inizio presso l'esercito "inferiore" con 4 legioni:
                          - la legio XXI Rapax,
                          - la legio V Alaudae,
                          - la legio I Germanica
                          - la legio XX Valeria Victrix.

                          Germanico raggiunse le truppe e riuscì a placarle, concedendo: il congedo ai soldati che avevano 20 anni di servizio militare; a quelli che ne avevano 16 anni di servizio, il passaggio automatico nella riserva senza altro obbligo che quello di respingere il nemico; il lascito che pretendevano, pagato immediatamente anzi raddoppiato.
                          Cecina poté così tornare nella città degli Ubi, ad Ara Ubiorum (l'attuale Colonia) con le legioni I e la XX, mentre Germanico, recatosi presso l'esercito superiore, ricevette il giuramento di fedeltà anche da parte delle altre 4 legioni:
                          - legio II Augusta,
                          - legio XIII Gemina,
                          - legio XVI Gallica
                          - legio XIV Gemina.



                          II GUERRA GERMANICA ( 14 d.c. )

                          I soldati presi dal rimorso e dalla paura, poiché era giunta un'ambasceria del Senato presso Ara Ubiorum, temevano che ogni concessione fatta da Germanico fosse stata annullata a causa del loro comportamento. Cominciarono, così, a punire i fomentatori della rivolta, e così accadde anche nella fortezza legionaria di Castra Vetera sessanta miglia a nord (dove svernavano la V e XXI legione).

                          GERMANICO
                          Germanico, per calmare gli animi delle legioni, sognando di seguire le orme del padre Druso, pur non avendo l'autorizzazione di Tiberio, decise di gettare un ponte sul fiume Reno, dove vi passò con vexillationes di quattro legioni (pari a 12.000 armati), 26 coorti di fanteria ausiliaria ed 8 ali di cavalleria, ed invase la Germania.

                          I Romani penetrarono nella selva Cesia, dove posero il loro campo sui resti di una precedente fortezza legionaria augustea. Germanico, sapendo che quella era una notte di festa per i Germani, dispose che il suo luogotenente, Cecina, si addentrasse nei boschi, portandosi innanzi le coorti leggere, per togliere di mezzo tutto ciò che nel bosco ne ostacolava il cammino, e a breve distanza lo avrebbero seguito le legioni. Si giunse, così, ai villaggi dei Marsi, già distesi sulle brande o ancora ubriachi a tavola.

                          Germanico divise le legioni in quattro cunei, per aumentare il raggio di devastazione nell'arco di 50 miglia, e mise a ferro e fuoco ogni cosa. Fu un massacro. Vennero sterminati i soldati, le mogli e i loro figli. Anche il tempio di Tanfana, il più famoso per quei popoli, fu dato alle fiamme. Quella orribile strage fece, però, sollevare i Bructeri, i Tubanti e gli Usipeti, che si appostarono nelle gole boscose dei loro territori, attraverso i quali l'esercito romano doveva passare, per rientrare ai quartieri invernali.

                          Germanico, avuto notizia dell'imboscata, fece avanzare i soldati in pieno assetto di combattimento: all'avanguardia pose parte della cavalleria e le coorti ausiliarie, a seguire la I legione, i bagagli nel mezzo, la XXI legione a sinistra, la V legione a destra, ed infine alla retroguardia la XX legione ed il resto degli alleati.

                          I nemici attesero le schiere romane nel bosco e attaccarono la retroguardia. La fanteria leggera era in allarme, ma Germanico in persona, incitò la XX legione affinché cancellasse il ricordo di Teutoburgo. Il coraggio dei legionari allora si infiammò sgominando il nemico, per poi far ritorno ai quartieri d'inverno.



                          III GUERRA GERMANICA - PRIMAVERA ANNO 15

                          Tiberio al termine della prima campagna di Germanico, decise di decretargli il Trionfo, mentre ancora si combatteva la guerra. Germanico sperava, prima di passare il Reno, di dividere i nemici in due partiti: uno filo-romano, guidato dal suocero di Arminio, un certo Segeste contro l'altro, capeggiato da Arminio, per la Germania libera dall'oppressore romano.

                          Egli divise l'esercito in due colonne: la prima affidata ad Aulo Cecina Severo, mosse dai Castra Vetera (Xanten), al comando di vexillationes di quattro legioni della Germania inferiore (12/15.000 legionari), 5.000 ausiliari ed alcune schiere di alleati germani, abitanti sulla riva sinistra del Reno; la seconda, guidata da Germanico stesso, mosse da Mogontiacum (Magonza), al comando di vexillationes delle quattro legioni della Germania superiore (12/15.000 legionari) e di un doppio numero di alleati germani, abitanti sulla riva sinistra del Reno.



                          BATTAGLIA CONTRO I CATTI

                          Germanico andò ad accamparsi sulle rovine di un forte costruito dal padre Druso (nel 10-9 a.c.), presso il monte Tauno. Lasciò Lucio Apronio a protezione della strada e dei passaggi dei fiumi, poi, liberatosi dei bagagli, si addentrò velocemente nel territorio dei Catti, dove compì orrende stragi di tutti coloro che per età o sesso non avevano le forze per resistere, mentre i più giovani fuggivano e si lanciavano nel fiume Adrana (Eder), sopra il quale i Romani stavano costruendo un ponte per attraversarlo.

                          Passati sull'altra sponda i Romani si spinsero fino alla capitale dei Catti, Mattium (nei pressi di Niedenstein), che incendiarono e saccheggiarono. Infine tornarono sul Reno, senza che i nemici ormai terrorizzati osassero inseguirlo.



                          BATTAGLIA CONTRO I MARSI

                          - Cecina Severo intanto dissuase i Cherusci ad aiutare i Catti combattendoli lungo i loro confini, poi sconfisse i Marsi che l'avevano attaccato.

                          DRUSO MAGGIORE
                          - Germanico informato da alcuni ambasciatori che Segeste, il suocero di Arminio suo alleato, era assediato dal suo stesso popolo (i Cherusci),  si precipitò a salvarlo mettendo in fuga gli assedianti.

                          - Intanto Arminio, venuto a conoscenza della resa di Segeste, e che sua moglie e suo figlio erano stati consegnati ai Romani, chiese alleanze a tutti i suoi confinanti (tra cui lo stesso zio, Inguiomero).

                          - Germanico allora divise ancora una volta l'esercito in più colonne:
                          1.  mandò Cecina, con 40 coorti (quasi 20.000), attraverso il territorio dei Bructeri fino al fiume Amisia (l'attuale Ems); 
                          2.  mandò il prefetto Pedone, con la cavalleria, nel paese dei Frisoni in direzione dello stesso fiume; - egli stesso, imbarcate 4 legioni (20.000 legionari), le guidò verso l'estuario del fiume Amisia, così da trovarsi tutti presso il fiume. 
                          3. Poi Germanico chiese ai Cauci gli aiuti promessi, arruolandoli nel suo esercito. 
                          4. Quindi inviò contro i Bructeri, Lucio Stertinio, con forze armate leggere (fanteria e cavalleria ausialiarie). Questi, devastati i territori di queste popolazioni, ritrovò l'insegna della XIX Legione, caduta in mano ai Germani sei anni prima, dopo il massacro delle legioni di Varo nella foresta di Teutoburgo.  
                          5. Il grosso dell'esercito, intanto, procedeva devastando l'intero territorio tra i fiumi Amisia (Ems) e Lupia (Lippe), fino a raggiungere i resti delle legioni di Teutoburgo. 
                          Germanico volle poi vedere i luoghi dove tre legioni, con Publio Quintilio Varo, erano state massacrate. Mandato in avanscoperta Cecina fece costruire ponti e terrapieni sopra gli acquitrini per raggiungere il luogo.

                          « ...nel mezzo del campo biancheggiavano le ossa ammucchiate e disperse... sparsi intorno... frammenti di armi e carcasse di cavalli e teschi conficcati sui tronchi degli alberi. Nei vicini boschi sacri si vedevano altari su cui i Germani avevano sacrificato i tribuni ed i centurioni di grado più elevato. I superstiti di quella disfatta, sfuggiti alla battaglia od alla prigionia, ricordavano che qui erano caduti i legati e là erano state strappate le Aquile; e mostravano dove Varo ricevette la prima ferita e dove si colpì a morte, suicidandosi; mostravano il rialzo da dove Arminio aveva parlato ai suoi, i numerosi patiboli preparati per i prigionieri, le fosse scavate e con quanta tracotanza Arminio avesse schernito le insegne e le Aquile imperiali... »
                          (Cornelio Tacito, Annali I, 61)

                          - Germanico, seppelliti i resti delle legioni, inseguì Arminio con la cavalleria,  Ma Arminio preparò loro un'imboscata, poiché prima ripiegò verso le foreste, poi tornò improvvisamente indietro, mentre una parte dei suoi uomini, appostata nelle foreste, attaccarono i cavalieri romani ai fianchi. La cavalleria romana presa dal panico, cominciò a scomporsi, Germanico inviò le coorti ausiliarie, ma la confusione aumentò; e tutti sarebbero stati cacciati verso una pericolosa palude, se Germanico non avesse fatto avanzare le legioni schierate a battaglia.

                          - Allora il panico passò fra i nemici, mentre i soldati romani ripresero a combattere con ardore, ma nessuno vinse. Ricondotto l'esercito indietro, Germanico lo divise nuovamente in tre colonne:
                          1. - le legioni, condotte da Germanico, caricate sulla flotta tornarono al punto di partenza; 
                          2. - parte della cavalleria raggiunse il Reno lungo la costa dell'Oceano; 
                          3. - Cecina, con 40 coorti, tornò attraverso i pontes longi (uno stretto passaggio tra foreste e paludi, costruito da Domizio Enobarbo, il 3 - 1 a.c.. 
                          AGRIPPINA E GERMANICO

                          BATTAGLIA DEI PONTES LONGI

                          I pontes longi erano delle strade in legno costruite dai Romani su terreni paludosi o acquitrinosi, che i romani appresero dai celti-germani. Molti ne costruì il generale Enobarbo, usati poi da Germanico per invadere appunto le terre dei Germani.
                          Arminio precedette l'esercito romano, e, disponendo i suoi armati per un nuova imboscata, aspettò l'arrivo di Cecina ma questi, pur ripristinando i vecchi ponti, fece costruire a una parte degli uomini l'accampamento. I Germani attaccarono, abituati al terreno molle e insidioso, i Romani provarono a difendersi ma erano appesantiti dalle corazze, e non riuscivano a calibrare i lanci in mezzo all'acqua.

                          Finalmente giunse la notte che evitò il disastro. I Germani, senza riposarsi, cercarono di convogliare tutte le acque circostanti dove si trovavano i Romani, per allagare il terreno e far crollare i terrapieni.
                          Allora Cecina decise di contrattaccare, cacciando il nemico dentro le foreste, e permettendo ai feriti a ai carriaggi della colonna di essere protetti dalle schiere romane, disponendo:
                          - la V Alaudae sul lato destro,
                          - la XXI Rapax su quello sinistro,
                          - la I Germanica in avanguardia
                          - la XX Valeria Victrix come retroguardia.

                          Tacito narra del sogno fatto quella notte Aulo Cecina Severo: « ...gli parve di vedere Publio Quintilio Varo uscire dalle paludi, interamente coperto di sangue, e gli sembrò di udirlo come se lo chiamasse, egli invece non lo seguiva e spingeva lontano da sé la mano che Varo gli tendeva.... »
                          (Cornelio Tacito, Annali I, 65)
                          E' evidente che Cecina non voleva fare la stessa fine di Varo, per cui la mattina seguente, le legioni inviate per proteggere i fianchi, abbandonarono la posizione, per occupare la zona di terra oltre la palude. Arminio, quando vide i carriaggi impantanati nel fango e i romani che procedevano in modo disordinato, ordinò l'assalto gridando:
                          « Ecco Varo e le sue legioni, dello stesso destino sono ormai presi in una morsa!»

                          I Germani spezzarono la colonna romana, colpendo i cavalli che disarcionavano i cavalieri, finchè il cavallo di Cecina fu colpito al ventre, travolgendo il suo generale. I Germani si precipitarono verso di lui ma lo salvò la legio I Germanica accorsa in aiuto.

                          Trascorsa la giornata a combattere, le legioni riuscirono a trovare un terreno aperto ed asciutto per costruire un nuovo vallo con terrapieno per la notte, ma gran parte degli attrezzi con cui scavare era andata perduta. Mancavano tende per i soldati, medicine per i feriti, ed i soldati imprecavano a quello che poteva essere l'ultimo loro giorno di vita.

                          La mattina seguente i Germani attaccarono l'accampamento, cercando di colmare il fossato con graticci e provando a sfondare la palizzata, dove erano schierati solo pochi soldati. Ma in quello giunsero le legioni, che con una manovra di aggiramento, colpirono alle spalle i Germani.

                          I Romani vinsero e Arminio con Inguiomero, ferito gravemente, fuggirono mentre gran parte dei suoi veniva massacrata dai Romani. Intanto si era sparsa la voce che le legioni erano state accerchiate e che i Germani minacciavano di invadere le Gallie. Ma Agrippina, moglie di Germanico, mantenne la calma nell'accampamento, distribuendo ai feriti vesti e medicine, per poi rendere lodi e ringraziamenti alle legioni che tornavano.

                          Germanico, intanto, affidò a Publio Vitellio le legioni II Augusta e XIV Gemina per riportarle nei quartieri invernali via terra, per alleggerire la flotta e permetterle di navigare lungo le coste poco profonde del Mare del Nord, evitando così di arenarsi a causa del riflusso della marea, ma ciononostante la colonna venne travolta e trascinata in mare. Le onde provocarono un grande disastro, trascinando tra i flutti animali, salmerie ed uomini.

                          Alla fine Vitellio riuscì a portare la colonna di soldati, ormai allo sbando, su una leggera altura salvandone molti. La mattina del giorno seguente, la marea si era ritirata, e poterono ricongiungersi a Germanico ed alla sua flotta, imbarcandosi anche loro e facendo ritorno ai quartieri d'inverno.

                          Intanto Stertinio, inviato ad accogliere la resa di Segimero, fratello di Segeste, aveva già ricondotto lui e suo figlio nella città degli Ubi, ed a loro fu concesso il perdono, nonostante si dicesse che il figlio di Segimero avesse recato oltraggio alla salma di Publio Quintilio Varo.

                          Al termine delle operazioni militari, vennero decretate le insegne trionfali ad Aulo Cecina Severo, Lucio Apronio ed a Gaio Silio per i meriti acquisiti nelle operazioni compiute sotto il comando di Germanico.



                          V GUERRA GERMANICA - ANNO 16

                          Giunta nuovamente la primavera, Germanico, resosi conto che:

                          - Se da una parte i Germani, erano battibili in campo aperto su terreni compatti e piani, dall'altra partivano favoriti se protetti dalle foreste, dalle paludi, dall'estate breve e dall'inverno precoce del loro paese;

                          - I legionari romani, invece, penavano a percorrere grandi distanze in percorsi difficili ed accidentati, con interminabili colonne cariche di equipaggiamenti, esposti a continue imboscate.

                          - Inoltre le Gallie, il cui popolo doveva sostentare con continui rifornimenti (di cibo ed armi) gli eserciti romani, erano allo stremo avendo esaurito le loro risorse di cavalli.

                          - Germanico allora decise di avanzare in territorio nemico, via mare. L'intero esercito romano, inclusi i rifornimenti sarebbero giunti attraverso i fiumi, con le forze pressoché intatte.

                          - Delegò a Publio Vitellio e a Gaio Anzio il censimento delle Gallie, mentre Silio, Anteio e Cecina si sarebbero occupati della costruzione della Classis Germanica, una flotta di 1.000 navi, molte fornite di ponte per trasportare macchine da guerra, cavalli e carriaggi; tutte con vela e remi, concentrate sull'l'isola dei Batavi, presso la foce del Reno.

                          - Quindi Germanico ordinò al legato Gaio Silio di attaccare i Catti con le truppe ausiliarie, mentre lui, saputo che il forte sul fiume Lupia era stato assediato, vi si recò con 6 legioni. Silio rapì la moglie e la figlia di Arpo, capo dei Catti, ma gli assedianti fuggirono dopo aver distrutto il tumulo eretto alle legioni di Varo e l'ara in memoria di Druso.

                          - Germanico, ricostruita l'ara paterna, fece proteggere con barriere tutte le zone comprese tra il forte d'Aliso ed il Reno. Intanto la flotta  entrò nel canale scavato da Druso, raggiunse la riva sinistra dell'Amisia, anzichè la destra e fu un errore, poiché avrebbe dovuto costruire un ponte più oltre, dove traghettare le truppe e che richiese alcuni giorni.

                          - Intanto gli Angrivari avevano defezionato e Germanico inviò Stertinio, con reparti di cavalleria e truppe ausiliarie leggere, a devastare i loro territori. Poi con l'esercito, si recò al fiume Visurgi (Weser), dove i due eserciti si schierarono, i Romani sulla riva sinistra, e i Germani, con Arminio su quella destra.



                          LA BATTAGLIA DI IDISTAVISO (16 d.c.)

                          « Il fiume Visurgi divideva i Romani dai Cherusci. Sulla riva opposta si fermò Arminio con altri capi e domandò se Cesare Germanico era arrivato. 

                          Come venne a sapere che c'era, chiese di poter parlare con il fratello, il quale militava nell'esercito romano con il nome di Flavo, soldato di straordinaria fedeltà e privo di un occhio, perduto, in seguito ad una ferita pochi anni prima, sotto il comando di Tiberio. 

                          Concessagli l'autorizzazione al colloquio, Flavo avanzò salutato da Arminio, il quale, allontanata la sua scorta, chiese il ritiro dei nostri arcieri schierati lungo la riva del fiume. 

                          Dopo che questi si furono ritirati, chiese al fratello l'origine di quello sfregio sul volto. Quest'ultimo gli riferì il luogo e la battaglia. 

                          Arminio chiese ancora quale compenso avesse ricevuto. Flavo rammentò lo stipendio accresciuto, la collana, la corona e gli altri doni militari, mentre Arminio irrideva la sua servitù a Roma per quegli insignificanti e vili compensi ricevuti... continuarono a parlare, Flavo esaltando la grandezza di Roma... Arminio ricordando la religione della patria, l'antica libertà... la madre di entrambi, alleata a lui nelle preghiere, perché Flavo non volesse abbandonare parenti, amici e tutta la sua gente... e non preferisse essere traditore piuttosto che capo... A poco a poco passati ad insultarsi, poco mancò che si gettassero l'uno contro l'altro... se Stertinio non avesse trattenuto Flavo... »

                          (Cornelio Tacito, Annali II, 9-10.)

                          Il giorno dopo i Germani si schierarono a battaglia al di là del Visurgi. Germanico, dovendo finire i ponti sul fiume con i relativi presidi, mandò avanti la cavalleria divisa in due ali. La guidavano Stertinio ed Emilio (uno dei centurioni primipili), i quali scesero in campo in luoghi distanziati per dividere l'esercito nemico.

                          La battaglia volse a favore dei Romani, grazie alla superiorità tattica di manovra, d'addestramento e di armamento. Anche se poco dopo, ma i Germani prepararono un nuovo agguato ai Romani presso Idistaviso. Vennero ancora battuti e Germanico fece innalzare un secondo trofeo con l'iscrizione:
                          « L'esercito di Tiberio Cesare, vinte le popolazioni tra l'Elba e il Reno, consacrò questo monumento a Marte, a Giove e ad Augusto»
                          (Cornelio Tacito, Annali II, 22.)

                          Sopraffatti i Cheruschi, Germanico mosse contro gli Angrivari, ma questi passarono dalla sua parte come alleati. Germanico decise di rimandare alcune legioni nei campi invernali via terra, mentre la maggior parte andò via mare, ma una terribile tempesta si abbattè sulla flotta, si che molte navi, per evitare di arenarsi o di affondare, furono costrette a buttare a mare: cavalli, muli, salmerie, perfino le armi, per alleggerire le carene che imbarcavano acqua. La stessa trireme di Germanico approdò nella terra dei Cauci mentre quest'ultimo colto da sconforto:
                          « Cesare, aggirandosi per tutti quei giorni e quelle notti tra scogli e promontori, gridava di essere il responsabile di un così grave disastro; a stento gli amici lo trattennero dal cercare la morte nelle stesse onde.»
                          (Cornelio Tacito, Annali II, 24.)

                          Alla fine della tempesta, la maggior parte delle navi tornarono, piuttosto danneggiate. Alcune furono mandate in perlustrazione sulle isole, dove recuperarono numerosi dispersi. Altri furono restituiti dagli Angrivari e altri ancora furono restituite dalla Britannia.
                          Alla notizia della distruzione della flotta, spinse i Germani si risollevarono ma Germanico inviò Silio, contro i Catti con 30.000 fanti e 3.000 cavalieri; ed egli attaccò i Marsi che arresi gli fecero recuperare una seconda Aquila legionaria di Varo:

                          « (I Germani) Andavano dicendo che i Romani erano invitti, e che nessuna sciagura poteva piegarli, poiché distrutta la flotta, perdute le armi, le spiagge coperte di carcasse di cavalli e di cadaveri, erano tornati ad assalire con lo stesso indomito valore e fierezza, quasi che si fossero persino moltiplicati in numero. La campagna di quest'anno si concluse con una nuova incursione nella regione dei Catti e dei Marsi, i quali però, all'apparire delle legioni, si dispersero nelle foreste.»
                          (Cornelio Tacito, Annali II, 25.)

                          A Roma fu accolto con grande favore, ma Tiberio, pur permettendogli la celebrazione del trionfo, lo aveva richiamato a sé non tanto per invidia, ma più per timore di un nuovo disastro in Germania, e che non fosse necessario inglobarne altri territori.

                          PARTICOLARE DELLA CORAZZA
                          DI GERMANICO
                          « (Germanico) Era quasi sicuro che il nemico germanico stesse per cedere e fosse ormai orientato a chiedere la pace, tanto che, se le operazioni fossero proseguite nell'estate successiva, era possibile portare a termine la guerra. (seguita da una possibile nuova occupazione) Ma Tiberio, con frequenti lettere, consigliava Germanico di tornare per il trionfo già decretato: tutti quegli avvenimenti, felici o meno felici, potevano bastare. Germanico aveva raccolto numerosi successi in grandi battaglie, ma doveva ricordarsi dei gravi danni provocati, pur senza sua colpa, dal vento e dall'Oceano. (Tiberio ricordava che) inviato ben 9 volte in Germania dal divo Augusto, aveva compiuto la sua missione più con la prudenza che con la forza. 
                          Egli aveva accettato la resa dei Sigambri, costretto alla pace i Suebi ed il re Maroboduo. Anche i Cherusci e gli altri popoli che si erano ribellati, ora i Romani si erano vendicati, si potevano lasciare alle loro discordie interne. E quando Germanico gli chiese ancora un anno per concludere la guerra... gli offrì un secondo consolato... ed aggiungeva che, se fosse stato ancora necessario combattere, Germanico avrebbe dovuto lasciare una possibilità di gloria anche per il fratello Druso. Germanico non indugiò oltre, pur comprendendo che si trattava di finzioni e che per odio Tiberio gli voleva strappare quell'onore che già aveva conseguito.»
                          (Cornelio Tacito, Annali II, 26.)

                          Germanico la prese male anche se lo stesso Augusto lo aveva ammonito di non oltrepassare i fiumi Reno e Danubio. Tuttavia egli ottenuto solo dei successi parziali e il suo luogotenente, Aulo Cecina Severo per poco non cadeva in un'imboscata con 3-4 legioni, scampando a mala pena ad un nuovo e forse peggiore disastro di quello della foresta di Teutoburgo. Tiberio decise di sospendere ogni attività militare oltre il Reno, strinse alleanze con alcuni popoli contro altri, in modo da tenerli in guerra tra di loro.

                          "È certo che Germanico riuniva, ad un grado che nessuno mai raggiunse, tutte le qualità di corpo e di spirito: una bellezza e un valore senza paragoni, doti superiori dal punto di vista dell'eloquenza e della cultura, sia greche, sia latine, una bontà straordinaria, un enorme ardore e una meravigliosa capacità decisionista che gli dava la simpatia e l'affetto degli uomini. 
                          La magrezza delle sue gambe non era in armonia con la sua bellezza, ma a poco a poco anche queste si irrobustirono, grazie alla sua abitudine di montare a cavallo dopo il pasto. Spesso uccise qualche nemico in combattimento a corpo a corpo (pur essendo un generale, cioè combattendo come un soldato). Sostenne cause giuridiche anche dopo il suo trionfo e tra gli altri frutti dei suoi studi lasciò pure alcune commedie greche. Semplice e democratico, sia nella vita pubblica, sia in quella privata, entrava senza littori nelle città libere e alleate. 

                          Dovunque sapeva di trovare tombe di uomini illustri, portava offerte funebri agli dei Mani. Quando volle far seppellire in un unico sepolcro gli antichi resti dispersi dei soldati morti nel disastro di Varo fu il primo a raccoglierli e a trasportarli con le sue mani. Anche nei confronti dei suoi detrattori, chiunque fossero e per quanto gravi potessero essere i loro torti, si mostrò cosi poco vendicativo che, vedendo Pisone revocare i suoi decreti e perseguitare i suoi clienti, non si decise a esprimergli il suo risentimento se non quando venne a sapere che questi impiegava contro di lui perfino i malefici e i sortilegi. Ma anche allora si limitò a togliergli l'amicizia, secondo l'usanza antica e a raccomandare ai suoi intimi di vendicarlo se avesse dovuto succedergli qualcosa.

                          Queste virtù produssero largamente il loro frutto; egli fu talmente stimato e amato dai suoi parenti che Augusto (di tutti gli altri tralascio di parlare), dopo essersi a lungo domandato se non doveva sceglierlo come successore, lo fece adottare da Tiberio. Era talmente ben visto dal popolo che, stando a quanto dicono molti autori, ogni volta che arrivava in qualche posto o quando ne partiva, la folla gli correva incontro o si metteva al suo seguito, col rischio, non di rado, di soffocarlo; in particolare, quando ritornò dalla Germania, dopo aver tenuto sotto controllo la rivolta dell'armata, tutte le coorti pretoriane gli si fecero incontro, benché due sole di loro avessero ricevuto l'ordine di lasciare Roma, e il popolo romano, senza distinzione di sesso, di età e di condizione si dispose lungo la strada fino a venti miglia dalla città. "

                          TEMPIO FORTUNA RESPICENS

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                          TEMPIO DI GIOVE VINCITORE (sinistra) TEMPIO DELLA FORTUNA RESPICENTE (destra)

                          LA DEA FORTUNA

                          Orazio - ode 35, alla Fortuna di Anzio, libro I:
                          Te semper anteit saeva Necessitas 
                          Clavos trabales et cuneos manu
                          Gestans aena, nec severus
                          Unqus afiest liquidunque plumbum. 

                          Te Spe et albo rara Fides colit
                          Velata panno nec comitem abnegat
                          Utcunque mutata patentes
                          Veste domo inimica linquis.

                          Te sempre precede la dura Necessità
                          portando nella sua mano di bronzo
                          chiodi da travi e cunei nè le manca
                          il fiero arpione e il piombo liquido.

                          Te accompagna la Speranza e la rara Fedeltà
                          di panno bianco velata, la quale non ti rifiuta
                          la sua compagnia allorchè tu, mutata veste e fatta nemica,
                          abbandoni le case dei potenti.

                          La Dea romana del Caso o del Destino, Plutarco dice di Fortuna: "... ogni volta che si adopera e prende il comando, fornisce da fonti inaspettate nei confronti di tutte le emergenze impiantando intelligenza nel irragionevole e insensato, e il coraggio e l'audacia nel vile."

                          Ligorio narra di una statua della Dea fortuna ritrovata sul Palatino in marmo nero con veli che le ondeggiavano attorno, ma non vi sono conferme di altri autori.

                          Cicerone nel De Legibus lib. II e XI ricorda la Fortuna Huiusque Diei e la Fortuna Respiciens dicendo che: "Fortunaque sit vel huiusce diei, nam valet in omnes dies, vel Respiciens ad opem ferendam".
                          Anche la Respiciens ebbe la sua statua sul Palatino ricordata da Vittore e dalla Notizia, che dava pure il nome a un vico della stessa Regione.

                          Nella statuaria è frequente la rappresentazione della Fortuna con il Timone come governatrice delle umane sorti; o con una cornucopia, ovvero con un giovane Pluto, Dio della ricchezza, in braccio. Solo negli ultimi tempi posteriori per indicare l'incertezza della Fortuna venne rappresentata su una palla o su una ruota.


                          Falconieri:

                          "La Fortuna Respiciente, penso non far errore, se la dico un' Edicola del Vico, che dello stesso nome si legge in Vittore, ovvero una statua c'era forse in pubblico nel Vico medesimo."

                          "Anche se immagini della Dea come statue e come dipinti a Roma ma pure altrove ce ne fossero parecchi, perchè trattavasi di Dea molto seguita ed onorata, il suo tempio non era posto in un vico ma sopra un colle".

                          Sembra infatti che il suo tempio fosse stato edificato nella parte centrale del versante orientale del Palatino, come Tempio della Fortuna Respiciens, cioè che osserva e scruta, ma in questo caso che guarda indietro, e che porta fortuna al passato, e sana pertanto i guai provenienti dal tempo passato.

                          Respiciens è infatti il participio presente di respicere, dove la particella re significa indietro, e spicere sta per "specere", scrutare, osservare, guardare. Letteralmente sarebbe "Colei che è volta a guardare all'indietro".

                          Al contrario della Fortuna Huiusce Diei, cioè la fortuna del giorno presente, quella che provvede ai danni conseguiti in quel giorno stesso e il cui tempio è posto a Largo Argentina sempre a Roma.

                          I danni del passato potevano riguardare vari argomenti, a cominciare da vecchie malattie o incidenti, o vecchie liti che pregiudicavano qualcuno, o conseguenze di una vecchia eredità, o crediti fatti che non venivano pagati, o errori del passato che si riaffacciavano nel presente.

                          Spesso gli autori l'hanno confusa con la Fortuna Reduce, quella che faceva tornare indietro i combattenti sani e salvi dalla guerra "Edificarono il tempio alla Fortuna Reduce, perciò che ricondotto aveva salvo il capitano, onde Martiale:

                          - Hic ubi Fortuna reducis fuilgentia late,
                          - templa nitent felix area super erat."

                          Ma la Fortuna Respiciente aveva scopo protettivo molto diverso dalla Fortuna Redux.

                          Bernardso Gamucci "Era nel Palatino la casa e i prati di Vanò e quella di Vitruvio Bacco, nel cui sito, essendo rovinata, fecero i Prati di Bacco con il Vico di Pado, il Vico della Fortuna respiciente."

                          La Dea fortuna aveva molti nomi e titoli a Roma:

                          DEA FORTUNA
                          - Fortuna Annonaria, la fortuna del raccolto abbondante
                          - Fortuna Belli, la fortuna in guerra
                          - Fortuna Primigenia, tradotto erroneamente come protettrice delle nascite, in realtà la primigenia era lei, la prima nata tra gli Dei, in quanto un tempo Grande Madre, un  po' come Eros nel Convivio.
                          - Fortuna Virilis, la fortuna maschile, cioè degli uomini
                          - Fortuna Redux, la fortuna che fa tornare salvi dai viaggi e dalla guerra.
                          - Fortuna Respiciens, pur essendo romana, era conosciuta anche in greco: Epistrephomenê,  come "Colei che si gira", probabilmente riferendosi alla sua capacità di cambiare la sfortuna in fortuna. Quindi la fortuna che guarda dietro, al passato, che rimedia ai guai avvenuti in passato, erroneamente interpretata come fortuna familiare, o generosa o provvida.
                          - Fortuna Muliebris, la fortuna femminile, cioè delle donne.
                          - Fortuna Victrix, la fortuna vincitrice, che procura la vittoria
                          - Fortuna Balnearis, la fortuna che assicura la buona salute nei bagni
                          - Fortuna Equestris, la fortuna che protegge i cavalieri
                          - Fortuna Huiusque, la fortuna del giorno presente
                          - Fortuna Obsequens, letteralmente la fortuna ossequiente, quindi indulgente e provvida.
                          - Fortuna Privata, la fortuna personale.
                          - Fortuna Romana, la fortuna di Roma
                          - Fortuna Virgo, la fortuna vergine, come tutte le Grandi Madri, e non la fortuna delle vergini, come taluni interpretano, perchè sarebbe alloa Fortuna Virginorum.
                          - Fortuna Conservatrix, la fortuna che preserva
                          - Fortuna Augusta, che si trasmette tramite il buon governo di Augusto.
                          - Fortuna Dubia, quando si hanno dubbi sull'esito di un fatto, per assicurarsene il buon esito.
                          - Fortuna Brevis, la fortuna per eventi a breve termine.
                          - Fortuna Mala, la cattiva fortuna, evidentemente da scongiurare.
                          - Fortuna Publica Populi Romani Quiritium Primigenia, la fortuna primigenia del popolo romano.



                          DEA FORTUNA RESPICIENS

                          Si suppone fosse stata istituita da Servio Tullio, che certamente ne innalzò il primo tempio sul Palatino, non distante dal tempio di Giove Vincitore. Trattavasi della Dea che guarda al passato, guarda indietro, per capire la causa dei problemi, e che può pertanto sanare oggi, con accorti modi, i guai che nacquero nel passato. E' la Dea che torna sui suoi passi, per cambiare il corso delle cose.



                          TEMPIO DELLA FORTUNA RESPICIENS SUL PALATINO

                          Era un tempio esastilo, con sei colonne sul fronte e due libere sui lati, seguite da quattro colonne per lati inserite nel muro della cella, un po' come il tempio di Portunno.

                          "Lo ha ricostruito Maria Jose' Strazzulla, una studiosa che di recente ha riesaminato sculture di terracotta da tempo rinvenute presso la chiesa di San Gregorio al Celio, forse pertinenti a un antico tempio della Fortuna. Vi si vedono infatti due raffigurazini della dea Fortuna: una guarda avanti, l'altra si volge indietro ("Fortuna respiciens")."

                          Al santuario conduceva il Vicus Fortunae Respicientis, che appunto prendeva il nome dal santuario.

                          La sua edificazione è attribuita a Servio Tullio, il VI Re di Roma.

                          Costruito su un alto podio che svettava sopra un doppio porticato che sosteneva a mo' di sostruzioni le pendici del Palatino, aveva capitelli corintii e colonne tonde marmoree che ne sostenevano la trabeazione con immagini fittili in parte e in parte a rilevo a loro volta pitturate, secondo l'usanza più antica.

                          In basso vi erano scalinate e balaustre marmoree con splendide fontane anch'esse di marmo.

                          Il podio era preceduto da una scalinata al centro della quale in basso si levava un altare.
                          Sopra al centro della trabeazione c'erano tre statue, quella di Fortuna con cornucopia nella mano al centro, e due della Vittoria che spicca il volo con il serto d'ulivo in mano, probabilmente tutte in bronzo dorato come usava all'epoca sopra ai templi, sopra ai mausolei e sopra gli archi di trionfo.

                          Il tempio, con le sue scale e la sua ara, era completamente rivestito all'esterno di travertino bianco, mentre le immagini sulla trabeazione erano dipinte in azzurro e oro.

                          Anche la cella rettangolare, circondata da colonne di marmo per tre lati, era rivestita esternamente in travertino. Insomma appariva come una copia un po' più piccola del Tempio di Giove Vincitore, votato da Fabio Rulliano a Sentino nel 295 a.c. che appariva poco lontano, anch'esso in abbagliante travertino.

                          I due templi dovrebbero essere più o meno della stessa epoca anche se non sappiamo da chi fu dedicato il Tempio a Fortuna, che tuttavia viene spesso menzionato anche come Tempio a Vittoria, a meno che in seguito non cambiò la dedica, cosa piuttosto difficile perchè i Romani erano molto attaccati ai loro antichi Dei, e soprattutto vi era attaccato Augusto.

                          Una doppia fila di sostruzioni a portico sostenevano ambedue i templi con un paio di lunghe gradinate che permettevano di passare direttamente ai templi della sommità.

                          Purtroppo l'ignoranza e l'ingordigia ha fatto fondere tutte le infinite statue che adornavano Roma, soprattutto per farne cannoni o palle di cannoni, distruggendo così il patrimonio più prezioso che avesse il mondo civile, di ieri e di oggi.







                          SALA DEL FRONTONE ( Musei Capitolini )

                          La sala ospita la ricostruzione del frontone in terracotta policroma di un tempio della metà del II sec. a.c., i cui frammenti furono rinvenuti alla fine dell'800 in via di San Gregorio, nella valle tra Palatino e Celio, al di sotto di un strato contenente i detriti dell'incendio neroniano del 64 d.c. Il tempio è stato identificato, sull'interpretazione delle immagini reperite, con quello della Fortuna Respiciens sul Palatino, per altri invece sarebbe un tempio di Marte sul Celio.

                          Il reperto costituisce l'esempio più completo di frontone chiuso in terracotta di età tardo-repubblicana finora ritrovato a Roma. Nel rilievo del timpano è raffigurata una scena di sacrificio celebrato alla presenza di Marte e due divinità femminili di controversa identificazione, una seduta su un'ara e l'altra stante e appoggiata a un pilastrino, da un offerente togato a cui sono condotti dalle due estremità del frontone sei animali da tre inservienti a torso nudo.

                          Una vivace policromia contraddistingueva tutte le figure, che risaltavano sul fondo dipinto in nero come in uno spazio vuoto. La rappresentazione era concepita per una visione dal basso: i vari elementi, modellati a mano, hanno una sporgenza crescente verso l'alto fino al tutto tondo della parte superiore dei personaggi. Gli spioventi del tetto erano
                          decorati in facciata da un'alta cornice variopinta, la sirna frontonale, costituita da lastre baccellate innestate sul bordo esterno delle tegole finali, alla cui sommità era sovrapposto un rilievo figurato di piccole dimensioni raffigurante la lotta di un giovane Eracle con un mostro marino per la liberazione di Esione, figlia del re di Troia Laomedonte e sorella di Priamo



                          L. ANSELMINO

                          Il Progetto

                          - L. Anselmino – L. Ferrea – M. J. Strazzulla, "Il frontone di Via S. Gregorio ed il Tempio della Fortuna Respiciens sul Palatino: una nuova ipotesi" in RendPontAcc 63 (1990-91), 193-262 -

                          "La ricerca prende avvio dallo studio del frontone fittile rinvenuto in Via di S.Gregorio nel 1878 e conservato nel Braccio Nuovo del Museo dei Conservatori. L’identificazione del suo soggetto e la sua attribuzione al Tempio della Fortuna Respiciens è stata determinante per approfondire la collocazione topografica. Tale edificio, in base ad una più approfondita lettura delle fonti epigrafiche, è stato localizzato nella parte centrale del versante orientale del Palatino.

                          Ulteriore conferma di tale posizionamento viene dai dati di archivio delle diverse parti del frontone e di gran parte della decorazione architettonica fittile (lastre di rivestimento, di coronamento, sime) relative al tempio medesimo. Il luogo del rinvenimento si è potuto ben individuare proprio nell’area intermedia tra le Curiae Veteres ed il Septizodio, in corrispondenza con la Base Capitolina e i Cataloghi Regionari.

                          Le dimensioni del frontone, di età tardo repubblicana, sono di notevoli proporzioni: possiamo calcolare che il frontone raggiungesse una lunghezza di m 15/16 con un’altezza di circa m 2 ed un angolo di circa 15°. 

                          Resti sicuri delle strutture del tempio di Fortuna non sono stati finora identificati, a meno di mettere in rapporto con esso le sostruzioni in opera incerta tra il portale del Vignola e la chiesa di S.Bonaventura. 

                          Tali strutture si distinguono nettamente per tecnica edilizia dalle contigue murature di età imperiale.
                          Dopo queste prime ricerche si è arrivati a due diverse possibilità: la prima prevede la localizzazione del tempio sulla sommità della collina, su una platea rettangolare precedente alla Domus Flavia, la seconda, considera l’edificio nelle adiacenze della strada di fondovalle, molto vicino al luogo di rinvenimento delle terrecotte.

                          Recentemente è stata effettuata una campagna di rilievo e di pulizia delle strutture individuate nell’area retrostante la chiesa di S. Bonaventura, che ha messo in luce il tratto terminale dell’acquedotto Celimontano, nel punto in cui questo si collegava ad una serie di cisterne, che sono state ad oggi solo parzialmente esplorate e rilevate.

                          L’area in questione del Palatino risultava, tuttavia, quasi completamente inedita: ciò ha portato alla necessità principale di documentare in planimetria le varie evidenze emergenti.
                          Recentemente è stata effettuata una campagna di rilievo e di pulizia delle strutture individuate nell’area retrostante la chiesa di S. Bonaventura, che ha messo in luce il tratto terminale dell’acquedotto Celimontano, nel punto in cui questo si collegava ad una serie di cisterne, che sono state ad oggi solo parzialmente esplorate e rilevate.

                          La nostra ricerca ha quindi lo scopo di studiare le diverse strutture emergenti presenti nel tratto del versante orientale del Palatino, di arrivare a potere meglio localizzare l’ubicazione del Tempio della Fortuna Respiciens e di documentare l’ultimo tratto dell’acquedotto Celimontano con le sue diverse cisterne ancora oggi ben visibili per arrivare ad una migliore conoscenza di questa significativa parte della città."




                          TEMPIO DELLA FORTUNA RESPICIENS SULL'ESQUILINO

                          Il tempio a Roma della Fortuna Respiciens si trovava anche sul colle Esquilino, come molti dei templi Fortuna a Roma, il cui edificio è stato attribuito ancora a Servio Tullio, un re di Roma particolarmente devoto alla Dea.

                          Detta anche Fortuna di Seiano, in quanto avrebbe annunciato la fine del generale volgendosi, la statua che la raffigurava, all'indietro mentre egli le sacrificava..

                          Per altri si sarebbe trattato del tempio della Fortuna Virgo, per alti non si trattava del tempio ma solo della statua della Dea che si trovava prima nella casa di Servio Tullio, casa poi occupata da Seiano e successivamente occupata dalla Domus Aurea. Per ultimo secondo alcuni la Domus Aurea aveva occupato il suolo di un antichissimo tempio della Fortuna nell'Esquilino.



                          CORRIERE DELLA SERA

                          Un tratto di strada recentemente rinvenuto conduceva verso la "Porta Triumphalis", attraverso cui il corteo celebra la sua entrata nel centro urbano: i suoi resti sono stati individuati nell' area Sacra di Sant' Omobono, proprio davanti all' attuale Anagrafe. Passato poi per la zona del Circo Massimo, la cerimonia prevedeva un momento suggestivo in via Gregorio.

                          Lo ha ricostruito Maria Jose' Strazzulla, una studiosa che di recente ha riesaminato sculture di terracotta da tempo rinvenute presso la chiesa di San Gregorio al Celio, forse pertinenti a un antico tempio della Fortuna. Vi si vedono infatti due raffigurazioni della Dea Fortuna: una guarda avanti, l' altra si volge indietro ("Fortuna respiciens"). E lo stesso gesto che, secondo gli autori antichi, compiva durante la processione il trionfatore, come per riflettere sulla propria sorte o per guardare il punto di partenza.

                          FLORENTIA - FIRENZE (Toscana)

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                          LA FONDAZIONE

                          La fondazione di Firenze ebbe diverse storie, in parte miti e in parte semistoriche o storiche.
                          Ne citiamo alcune:

                          - Raffaello Gualtierotti
                          "Della descrizione del regale apparato fatto nella nobile città di Firenze per la venuta, e per le nozze della serenissima madama Christina di Loreno moglie del serenissimo don Ferdinando Medici terzo gran duca di Toscana" stampata a Firenze nel 1589, ed in cui scrive:
                          " La fondazione della prima città di Firenze, della quale si è havuto in diversi tempi molte dubitazioni e opinioni differenti: perciocché alcuni hanno voluto, che già fusse fondata, e di abitanti ripiena, dal più antico Ercole detto il libico, per la toscana passando ci fondasse città, e rasciugasse l'acque dannose, e particolarmente aprisse il corso a l'acque stagnanti del fiume d'Arno, facendo la rottura della Gonfolina; alla città di Firenze desse principio... "


                          - Francesco Guicciardini nel suo trattato delle " Cose Fiorentine " del 1441, sulla fondazione di Florentia scrive in modo confuso e contraddittorio:
                          " Tengo per certo che non da quelli Romani che Sylla o altri aveva mandato a Fiesole, ma che nel luogo medesimo dove ora è Firenze fussi mandata una colonia che edificò questa città... , ma poi, più avanti ...né dubiterei dire che questa colonia, mandata da Roma nel luogo proprio dove è ora Firenze, fussi più presto mandata da Sylla che da altri... "

                          - Furono gli etruschi a fondare Florentia, che chiamarono anticamente Birent o Birenz, che in etrusco significa terra tra le acque, visto che l'Arno con i suoi affluenti, Mugnone e Affrico, spesso impaludavano la piana. Parola molto simile a Firenze ma che i romani chiamarono Florentia, a nostro parere non per la derivazione dall'etrusco, ma per la dedica alla Dea Flora, Dea della primavera, dei fiori e della perpetuazione della vita, oltre che delle prostitute.

                          - Firenze fu anticamente una città romana detta Florentia che sorse nella valle dell'Arno. La tradizione la vuole costruita dalle legioni di Gaio Giulio Cesare nel 59 a.c., durante il periodo primaverile dei “Floralia” (o Ludi Florales: giochi in onore della Dea Flora, la Dea romana dei fiori e della crescita delle piante). I romani scelsero questo periodo in quanto considerato particolarmente favorevole. In effetti il Liber Coloniarum attribuisce ad una " lex Iulia agris limitandis metiundis ", voluta da Giulio Cesare, la volontà di far nascere un nuovo impianto urbano in questo tratto della valle dell'Arno, là dove traversava il fiume all'altezza di Ponte Vecchio.

                          - L'ipotesi più accreditata dagli studiosi è che la fondazione di Florentia risalga al periodo augusteo (tra il 30 ed il 15 a.c.), dopo che era stata effettuata un’opera di bonifica della pianura, voluta sicuramente da Giulio Cesare.

                          In ogni caso gli storici sono concordi nel datare alla II metà del I secolo a.c. la fondazione della colonia romana di Florentia. L'area dove sorse la città fu senza meno quella in cui era più facile il guado dell'Arno per la minor distanza tra le due sponde.

                          La zona ebbe comunque un insediamento etrusco, per il collegamento dell'Etruria interna con la città di Fiesole. Sicuramente, come avvenne a Roma per il guado sull'Isola Tiberina, l'attraversamento del fiume venne assicurato da una passerella di legno e da un traghetto, nel punto in cui l'Arno si restringe (zona del Ponte Vecchio), anche per prevenire eventuali attacchi.

                          La colonia romana di Florentia viene fondata sulla riva destra del medio corso dell’Arno, in un’area pianeggiante che aveva già insediamenti villanoviani a partire dal IX sec. a.c.. Il guado sul fiume rendeva la zona ben accessibile e favorevole ai commerci via fiume, anche se la zona era paludosa e quindi malsana. In questa area sboccavano molti affluenti e l’area era piuttosto bassa, quindi umida e miasmatica.

                          Le colline a nord dell’Arno avevano però terreno più asciutto e ventilato, adatti pertanto all’insediamento villanoviano di Fiesole. I suoi terreni avevano una buona produzione agricola e la sua posizione era adatta alla difesa dominando dall'alto il fondovalle.

                          ANFITEATRO, TEATRO E TERME DI FLORENTIA

                          LA STORIA

                          Espandendosi l'abitato dal guado si passò al ponte, molto più adatto per i cavalli e i carri, e quindi per trasportare merci. Dai reperti trovati nell'Arno, delle pile di pietra su cui montavano tavole di legno, si è dedotta la grandezza della passerella.

                          Dopo che i romani ebbero occupato l'Etruria e la pianura padana, l'insediamento aumentò, anche perché la via Cassia, per un certo periodo, traversò l'Arno proprio nella zona dell'attuale Ponte Vecchio. Dall'odierna Piazza Donatello verso il torrente Affrico sorgeva un agglomerato urbano etrusco-romano derivato da Fiesole a difesa del ponte etrusco che attraversava l'Arno all'altezza di Rovezzano, citato dallo storico medievale Giovanni Villani:

                          « l'antico ponte de' Fiesolani, il quale era da Girone a Candegghi: e quella era l'antica e diritta strada e cammino da Roma a Fiesole »

                          Si pensa fosse l'avamposto costruito durante la guerra civile tra Gaio Mario e Lucio Cornelio Silla vinta da Silla che conquistò la colonia di Fiesole favorevole a Mario. La decadenza di Fiesole dopo l'80 a.c., creò un nuovo insediamento a valle.

                          Nella congiura di Catilina, conclusasi con la sua morte nel 62 a.c. a Pistoria (Pistoia), e dove i municipi toscani confederati si erano armati contro Roma, l'avamposto acquisì sempre più valore strategico data la sua posizione geografica tra il fiume e la collina.

                          La promozione a colonia romana, con il nome di Florentia, avvenuta, si ritiene, verso la metà del I sec. a.c. (59, 44 o 41 a.c.), porta alla creazione di una città, su un’area di circa 480 x 420 m, con impianto regolare di 50 isolati, delimitati da strade ortogonali, lastricate con basoli di pietra e ampie fino a 7 metri, dotate di un efficiente sistema fognario.

                          La colonia viene cinta da possenti mura in laterizio (30-15 a.c.), orientata secondo i punti cardinali (non secondo il corso dell’Arno), con torri circolari e quattro porte, verso le quali confluivano le due strade principali della città: il cardus maximus con orientamento nord-sud (attuali via Roma e Calimala), e il decumanus maximus con orientamento est-ovest (attuali via del Corso, via degli Speziali, via Strozzi). La centuriazione della campagna circostante seguiva invece un allineamento parallelo al corso dell’Arno.

                          Dal punto di vista economico la Florentia della prima età imperiale risulta inserita nel mare dei commerci gestito dallo Stato che opera sulle diverse aree dell’Impero, garantendo la produzione dei beni e la vendita sui luoghi di consumo: l’olio e i prodotti a base di pesce erano importati dalla Spagna, mentre il vino proveniva dalla Gallia, dalla Spagna e dai vigneti del Valdarno; il vasellame da mensa era invece di produzione aretina o pisana (sigillata italica e tardo italica).

                          L'ANFITEATRO, GLI IMMOBILI ODIERNI RISPETTO ALLA STRUTTURA ORIGINARIA
                          In età adrianea (117-138 d.c.) la città, la cui estensione travalicava ormai le mura coloniali, si arricchisce di edifici monumentali: il teatro viene ampliato utilizzando la pietra, si costruisce un anfiteatro e si realizzano alcuni impianti termali (terme di Por santa Maria; terme capitoline; terme di piazza San Giovanni; terme di piazza della Signoria).

                          Nell'espansione vennero superate le mura e furono edificati l’Anfiteatro (tra il 124 ed il 130 d.c.) ed il Teatro (circa 150 d.c.). Venne costruita la rete fognaria, i pozzi, l’acquedotto (dal Monte Morello), le terme , un foro, il ponte sull’Arno (123 d.c.), il porto fluviale che consentiva commerci fino con Pisa.

                          Venne anche  ampliato anche il foro (61×111 m), dotato di una nuova pavimentazione in marmo e di portici laterali. Sul lato occidentale della piazza, a fianco del tempio capitolino era la Curia, e un’esedra monumentale con fonte ipogea. Un secondo tempio dedicato a Iside si trovava fuori dalle mura coloniali, nel suburbio sud-orientale. Alla prima età imperiale si data forse anche l’acquedotto che da val di Marina, dopo 16 km., arrivava da nord, presso la chiesa di S. Maria Maggiore.

                          Le necropoli vennero collocate oltre il pomerio della città lungo le vie che uscivano dal centro urbano (a nord lungo via San Gallo, via Faenza e Valfonda; a sud presso Santa Felicita)

                          Tra il I e il II sec. d.c. la città, probabilmente sotto il principato di Adriano, che realizzò il nuovo percorso della via Cassia, Florentia conosce una grandiosa ristrutturazione urbanistica. Infatti alla prima fase augustea, con diffuso utilizzo di pietra locale e di cocciopesto, seguì una serie di costruzioni con largo uso di marmi.
                          Florentia entrò  pienamente a far parte del vasto e organizzato sistema commerciale dell'impero, grazie anche al porto fluviale, che consentiva commerci fino con Pisa. Gli scavi archeologici hanno documentato inoltre scambi con la Gallia e l'Africa.

                          A partire dal III secolo gran parte di queste merci (anfore e sigillata) saranno sostituite da quelle provenienti dall’Africa settentrionale (Tunisia). che permettono la fioritura a Florentia di commercianti e lavoratori di legname, calzolai e fabbri. La città si estese a nord nell'area religiosa del Tempio di Marte e poi dell'antica chiesa di Santa Reparata, verso sud fino al fiume e anche oltre l'Arno dove si stanziò una colonia di commercianti siriani. 

                          Ma Florentia si estese soprattutto ad est come testimoniano le fondazioni di edifici civili e resti di terme del periodo imperiale, scoperti durante gli scavi in piazza della Signoria, ma soprattutto nella discesa che porta alla sottostante piazza San Firenze.

                          Nel 285 l’Imperatore Diocleziano stabilì a Firenze la sede del “Corrector”, cioè il governatore incaricato di provvedere all'amministrazione di tutta la “Tuscia”, vista l’importanza strategica dell’insediamento. Agli inizi del IV sec. d.c, dopo che furono conquistate anche città come Volterra e Chiusi e furono fondate le colonie romane di Pistoia e di Lucca, l'imperatore Diocleziano proclamò Firenze come capitale della settima regione “Tuscia et Umbria”.

                          Con Costantino il Cristianesimo divenne religione di Stato, tuttavia le borgate dell'Oltrarno, dove vivevano numerosi commercianti orientali, soprattutto siriani, erano adoratori di Mitra, di Iside (un tempio a lei dedicato si trovava in Piazza San Firenze), e in parte di Cristo.

                          Ma si trattava solo di un sobborgo della città, abitato da gente umile, il centro della città, invece, era in mano alle famiglie patrizie legate alla religione romana. La conversione spontanea poco innalzò il cristianesimo, ci volle la conversione forzata pena la confisca dei beni e la morte per spingere le città a convertirsi al nuovo Dio, mentre il paganesimo si mantenne occulto nelle campagne.

                          Nel tardo impero la città fu coinvolta nelle generale crisi, anche economica, dell'impero. Nel IV e V sec. compare a Florentia un’edilizia regredita che fa uso del legno e di materiali spoliati dagli edifici romani, che coesistono con aree destinate a discariche o a sepolture.

                          Contemporaneamente compaiono i primi grandi complessi religiosi cristiani, posti nel centro della cittadina, con largo uso di materiali spoliati dai grandi edifici romani che evidentemente vennero distrutti. Florentia decade, abitata solo a piccole isole, al cui centro stanno le chiese, circondate da piccole aree cimiteriali e da aree abbandonate o ridotte a orti.

                          Con le guerre greco-gotiche e la conquista longobarda si aggravò definitivamente la situazione di generale ripiegamento, con l'interruzione dei traffici commerciali ed il generale impoverimento.

                          Nel 405, dopo un lungo assedio, Florentia fu saccheggiata dagli Ostrogoti di Radagaiso, e di nuovo nel 552 dagli stessi Ostrogoti stavolta comandati dal re Totila. Totila fa distruggere Florentia nel 552.

                          Dopo di ciò, tra il VI e l'VIII sec., entrò in crisi anche la struttura urbanistica della città, con il calo demografico, l'abbandono delle aree più esterne ed il degrado generale e progressivo di tutti gli edifici e delle mura.

                          A partire dall'XI secolo la nuova crescita edilizia lascia poche vestigia del passato. I resti del teatro, delle terme dell'anfiteatro e di altri edifici furono inglobati in nuovi edifici o usati come fondamenta. La piazza del Foro fu densamente edificata e diventò in seguito parte del Ghetto, intorno alla piazza del Mercato Vecchio.

                          Con la sistemazione sabauda della piazza del Mercato Vecchio, al tempo di Firenze capitale d'Italia (il cosiddetto Risanamento), il Ghetto fu abbattuto e con questo anche le più importanti vestigia del Campidoglio e del Foro sono scomparse. Dei ritrovamenti fatti durante tali lavori, furono fatti solo sommari rilievi e le testimonianze raccolte dall'architetto Corinto Corinti.



                          L'IMPIANTO URBANISTICO 

                          Al tempo del II Triumvirato risale invece l'effettivo impianto della città e la centuriazione del suo territorio, per poter sistemare i veterani per mezzo dell'assegnazione di terreni. Come consueto nella fondazione di nuovi insediamenti, la città ed i suoi dintorni vennero definiti secondo un preciso piano che coinvolgeva l'impianto urbano ed in territorio agricolo.

                          Se la città venne edificata secondo i principi urbanistici romani con gli assi cardo e decumano da cui si diramavano le vie ortogonali, il territorio circostante fu sistemato tenendo conto della conformazione idraulica, ruotando gli assi secondo quanto occorreva.

                          Dalle foto aeree, si distinguono il cardo massimo Nord-Sud da Via Roma all'Arno, e il decumano massimo Est-Ovest di Via Strozzi e Via del Corso, che si incrociavano all'altezza di Piazza della Repubblica, sede del Foro della città e del Campidoglio, circondati dai principali edifici pubblici e i templi.

                          Mamo a mano, in epoca imperiale, la città venne fornita di un acquedotto (dal Monte Morello), due terme, un teatro e un anfiteatro, locato fuori dalle mura, secondo le consuetudini romane.
                          Florentia ebbe fin dall'inizio, come era d'uso, il suo castrum e la sua dedica al Dio Marte, affiancato alla Triade Capitolina e alla già insediata Dea Flora.

                          Lorenzo Ghiberti nella sua Cronaca del XV sec. scrive:
                          « Dunque dovrem nei sempre rammentarci che qui Marte aveva altari ed incensi? Dove adesso giganteggia il quadrangolar Campanile a lato della maestosa Cupola del Duomo, poco presso v'ebbe Gradivo il suo tempio che ancora vi esiste... L'elegante tempio di Marte, ammirazione ancora dei presenti quantunque a fronte della mole sublime del Duomo, presenta i suoi lati ottagoni che ovunque avesse spirato il vento dovesse stendersi il braccio ferreo del Dio guerriero. »

                          Si ritenne pertanto da parte degli studiosi che dove sorge il Battistero vi fosse edificato un tempio dedicato a Marte, ma i resti archeologici non l'hanno confermato. Oggi il Battistero non è visitabile, e resti di edifici romani si intravedono da alcune grate pavimentali poste all’interno del Battistero.

                          TORRE DELLA PAGLIAZZA

                          LE MURA

                          Lo schema urbanistico dell’antica città romana, pur affondando le proprie radici nella tradizione etrusca e pure greca, si ispira direttamente all’organizzazione del castrum, cioè dell’antico accampamento fortificato romano.

                          Come il castrum, la città è fortificata: la cinta muraria ha quattro porte, munite di bastioni, poste alle uscite del cardo e del decumanus maximus (esistono quindi la porta nord, quella sud, la est e la ovest). La pianta del “castrum” era rettangolare, circondata dalle mura laterizie con quattro lati di circa 1800 m, intervallate da torri di difesa; al centro dei quattro lati si aprivano altrettante porte che alcune delle quali furono in uso fino a tutto l’alto medioevo; al centro dell’insediamento vi era il “forum urbis” oggi Piazza della Repubblica, luogo in seguito destinato alla Curia e al Tempio Capitolino.

                          Il “castrum” ospitava al suo interno tra i 10.000 e 15.000 abitanti. Alla colonia appartenevano anche gli insediamenti dei veterani della guarnigione al di fuori del Castrum. Secondo la Lex Julia ai veterani veniva assegnato un terreno perché vi costruissero le loro abitazioni dopo il congedo dal servizio militare.

                          Le mura del castro però, coadiuvate da un fossato alimentato dalle acque del Mugnone, seguivano un tracciato che non includeva tutta la città esistente, lasciando fuori l’antico Ponte sull’Arno (a pochi metri dal Ponte Vecchio attuale) oltre alla zona di Santa Trinita, Santa Croce e la zona di Oltrarno.

                          Alcuni scavi hanno posto in luce degli edifici romani e una cinta muraria a fianco delle mura del 1333 abbattute nel XIX sec. per fare posto ai viali di Circonvallazione. Le fondazioni delle mura, con torri difensive, sono state rinvenute sotto via del Proconsolo e secondo gli scavi più recenti risalirebbero al periodo tra il 30 e il 15 a.c. Erano spesse in media 2 m e circondavano un'area di circa 20 ettari. Altri resti romani sono stati trovati sotto il vicino palazzo dell'Arte dei Giudici e Notai.

                          Nel 1996 l’area antistante la Loggia dei Lanzi, rimasta fino ad allora inesplorata, ha restituito (a livello di fondazione) un tratto del paramento delle mura romane a cui si addossavano sepolture del VI-VII sec. d.c. In via del Proconsolo, prima dell’imbocco in piazza San Firenze (fra i numeri civici 2 e 9r), sul lastricato stradale è riportata la sagoma di una torre della cinta muraria fiorentina del 30-15 a.c. e di parte della cinta stessa.

                          Le fondazioni dell’una e dell’altra sono venute in luce nel 1994, nel corso di opere di sistemazione, oltre a quelle rinvenute otto anni prima all’angolo della stessa strada con via Dante Alighieri.
                          Altri resti dell'antica cinta muraria sono visibili ancora in via del Proconsolo, venendo dal Duomo, subito dopo la Badia, grazie a un pavimento in vetro all'interno di un negozio d'abbigliamento.





                          PORTA SUD

                          Porta Romana è la porta più a sud delle mura di Firenze. Posta sulla via per Siena e per Roma, da cui il nome, vi confluiscono dal centro via Romana e via de' Serragli da piazza della Calza, rendendola tutt'oggi un importante punto di accesso al centro della città.

                          In angolo fra piazza della Repubblica e via degli Speziali è stata rinvenuta l’imposta di un arco a due fornici che delimitava l’accesso al Capitolium (identico a quello reperito nel 1999 all’incrocio fra via Tornabuoni e via Strozzi), di poco disassato rispetto a via degli Speziali: il che conferma il mantenimento, almeno parziale, dell’assetto viario di età romana.

                          Un saggio di scavo eseguito all’interno di una delle cantine medievali all’interno di piazza della Repubblica, lato via Roma, ha evidenziato la presenza di un lastricato marmoreo del Capitolium, assunto nel medioevo come piano base per l’edificazione; vi è stato possibile riposizionare, con esattezza, l’allineamento del cardo maximus.



                          PORTA MERIDIONALE

                          Percorriamo quest’ultimo e imbocchiamo Calimala, fino a incontrare, sulla sinistra, Calimaruzza. Qui, inglobati in una cantina di un palazzo moderno (al numero civico 3), sono visibili i resti della porta meridionale della cerchia muraria romana: interessante è anche il tratto di selciato, nel quale si possono notare i solchi lasciati sulla pietra dalle ruote dei carri. La porta si apriva presso l’attuale Tor S. Maria, sulla strada che conduceva al ponte sull’Arno (posto allora poco più a monte di Ponte Vecchio).

                          PORTA AQUILONEM

                          PORTA CONTRA AQUILONEM

                          A piazza S.Giovanni, tra il Battistero e il Palazzo Arcivescovile, si trovava la porta settentrionale (Porta còntra Aquilonem) di Florentia, venuta in luce nel 1893-94 durante i lavori per l’arretramento della facciata del Palazzo Arcivescovile. Furono ritrovati i resti della porta, la parte inferiore della torre di sinistra e un tratto della pavimentazione del cardine maggiore

                          PORTA AQUILONEM VISTA DALL'INTERNO DELLE MURA CON LE RISPETTIVE TERME

                          L'ACQUEDOTTO

                          Nell'Ottocento alcuni nomi delle vie attorno a piazza della Repubblica furono scelti in base ai ritrovamenti romani nel sottosuolo: via delle Terme, via del Campidoglio, via di Capaccio (cioè del Caput Aquae, dello sbocco dell'acquedotto, che Nuova Cronica di Giovanni Villani è assegnato a Macrino, generale di Cesare).

                          « Macrino fece fare il condotto dell'acqua in docce e in arcora, faccendola venire di lungi a la città per VII miglia, acciò che la città avesse abondanza di buona acqua da bere, e per lavare la cittade; e questo condotto si mosse infino dal fiume detto la Marina a piè di monte Morello, ricogliendo in se tutte quelle fontane sopra Sesto, e Quinto, e Colonnata. E in Firenze faceano capo le dette fontane a uno grande palagio che si chiamava termine, capud aque, ma poi in nostro volgare si chiamò Capaccia, e ancora oggi in Terma si vede dell'anticaglia. »
                          (G. Villani Nuova Cronica Lib. II Cap. I)

                          Sul castellum aquae, cioè il grande serbatoio inerente all’acquedotto, provvisto di funzione di collettore e di distributore dell’acqua, è stata anche rinvenuta un’iscrizione dedicatoria, da parte di un probabile liberto di origine etrusca.

                          IL FORO, STAMPA E RICOSTRUZIONE IN COMPUTER GRAFICA

                          IL FORO

                          Il Foro era la piazza principale dei nuclei urbani romani. Nasce con la funzione di luogo di mercato, diventando pian piano centro politico, religioso e commerciale della comunità: giunge quindi a costituire il fulcro della vita pubblica cittadina.

                          Vi sorgevano spesso il Campidoglio, e i templi importanti del culto cittadino, nonchè gli edifici pubblici principali (la Basilica, la Curia, l’Erario), con i portici, di norma ai lati, che costituivano luogo d’incontro per commercianti e per cittadini in genere, e ospitavano anche maestri che vi facevano scuola.

                          Dietro i portici si allineavano le botteghe che, in fasi urbanistiche più sviluppate, furono sostituite dal Macellum o da altre costruzioni civili e religiose. Con il passare del tempo, il Foro divenne il luogo in cui si esercitarono le attività pubbliche, politiche e religiose; di conseguenza le altre attività (commercio, spettacoli) furono decentrate, anche se non sempre il commercio scomparve completamente dal Foro.

                          IL FORO IN TUTTA LA SUA AMPIEZZA
                          Nell’attuale piazza della Repubblica si incrociavano, più o meno in corrispondenza della “Colonna dell’Abbondanza”, le due strade principali di Florentia, il cardine e il decumano massimi, e qui si estendeva il Foro della città. In un primo momento esso era traversato dalle vie principali ed era aperto al passaggio dei carri, come testimoniano tratti di selciato che hanno conservato il segno del passaggio delle ruote (inizio epoca imperiale).

                          La grande piazza, di forma rettangolare, di m 44×92, era orientata con i lati lunghi in senso est-ovest e sul limite occidentale vi si ergeva il tempio capitolino, che sovrastava l’ampio spazio aperto, all'inizio lasciato a terra battuta. La prima pavimentazione della piazza fu in pietra e si trovava allo stesso livello del cardine e del decumano maggiore. L’ingresso dal lato meridionale era segnato da un grande arco impostato sul tratto sud del cardine maggiore, il cui percorso è adesso ricalcato da Calimala.

                          Le domus, con impluvium e peristilio, erano delimitate da muri in pietra, mentre le suddivisioni interne potevano essere realizzate anche da pareti in argilla, intonacate e dipinte; i pavimenti erano in calcestruzzo o mosaicati.

                          SCAVI DEL FORO
                          Il lato nord della piazza era delimitato da un muro di recinzione; ai lati orientale e meridionale sorgevano edifici pubblici e sul lato occidentale il Tempio Capitolino. In un secondo momento, il Foro venne ampliato e reso ancor più monumentale. Probabilmente in epoca adrianea, nel 117-138 d.c., il piano pavimentale fu rialzato di circa mezzo m e lastricato in marmo lunense, rimanendo chiuso al traffico pesante.

                          Quest’ultimo seguì un percorso alternativo, posto subito fuori dalle mura urbiche e corrispondente a quello della nuova Cassia, del quale si sono trovate tracce sotto i livelli stradali di borgo Santi Apostoli. L’area del Foro fu inoltre allargata, abbattendo il vecchio muro perimetrale nord e costruendone un altro, che permetteva l’ingresso alla piazza attraverso piccole porte provviste di gradini.

                          A ovest, parallelo al cardine maggiore, si trovava un portico decorato in marmo; tra il piccolo porticato e il Campidoglio erano collocate statue di magistrati e di imperatori, delle quali sono stati rinvenuti frammenti e alcune epigrafi. Dietro al portico, a est, sono state ritrovate tracce di muri di fondazione pertinenti a un ulteriore edificio, la cui destinazione non è stata chiarita. Nell’area oggi occupata dal complesso della “libreria Edison” si trovava il leggero rilievo su cui sorgeva il Campidoglio, di cui sono stati ritrovati resti di fondazioni.

                          IL CAMPIDOGLIO

                          IL CAMPIDOGLIO


                          Venne chiamato Capitolium il tempio che sorgeva sul colle omonimo di Roma, dedicato a Giove, Giunone e Minerva, detti la “Triade Capitolina”. Il tempio, di origine etrusca, risale alla fine del VI sec. a.c.: secondo la tradizione inaugurato nel 509 e fu il famoso artista etrusco Vulca a scolpire la statua di Giove. Il tempio era senza vestibolo e a tre celle: la centrale a Giove, le altre due a Giunone e Minerva. Aveva sei colonne sulla fronte e sei sui lati; si trovava su un alto podio, con scalinata d’accesso.

                          Il culto della “Triade Capitolina” ebbe un’importanza particolare nella religione romana e un significato di tutela divina su tutta la città e sullo stato, diventando culto nazionale. Con tale funzione il tempio sul colle di Roma, ripetendone spesso la pianta a tre celle. Particolarmente significativa era, per la romanizzazione, la presenza di questo tempio nelle colonie: la diffusione dei Capitolia iniziò nel I - II sec. a.c. e talvolta coincide colla fondazione di una colonia. Dal II sec. d.c. il tempio del Campidoglio viene esteso anche ai municipi e ad altre città.

                          IL DIO FLUVIALE ARNO
                          Il tempio poggiava su un podio quadrangolare, alto circa 3 m, , orientato ad est; una parete trasversale lo divideva in un pronao e nella parte riservata alle celle. Vi si accedeva attraverso una scalinata.
                          Le celle erano tre e quella centrale risultava di dimensioni maggiori che le laterali, edificati con un misto di mattoni e pietre in filaretti, il sistema che più garantisse dalle scosse sismiche.

                          All’inizio dell’epoca imperiale fu ricostruito su nuove fondamenta, più grandi delle precedenti; le pareti laterali furono prolungate per oltre 6 m dalla facciata delle celle e il tempio fu dotato, sulla fronte, di una fila di colonne in marmo.

                          Fu rivestito e decorato sempre in marmo e con lo stesso materiale fu realizzata la pavimentazione del podio, al di sotto del quale furono costruite due cellette di incerta destinazione.

                          La gradinata di accesso si protendeva maggiormente nel Foro, inglobando la gradinata più antica e nella parte inferiore fu divisa in due rampe da un piccolo podio che sosteneva un’ara.

                          Fino alla fine del secolo scorso il nome e il carattere sacro del luogo vennero conservati dalla chiesa di S.Maria in Campidoglio, antico edificio di culto costruito su un angolo del podio, sfruttando come cripta una delle due cellette sotterranee; questa fu distrutta nel corso delle ristrutturazioni tardo-ottocentesche, ma ne rimase l’omonimo ottocentesco della vicina via del Campidoglio. Da secoli i reperti del Tempio erano stati spoliati e riutilizzati altrove, se non calcinati.

                          A sud del podio e molto ravvicinato a esso, più o meno in corrispondenza dell’arco che unisce i due lati dei portici moderni, sorgeva un edificio a pianta circolare, aperto verso il Foro, che chiudeva l’accesso alla piazza dal decumano maggiore. Un'altra struttura a pianta rettangolare si appoggiava al lato nord del podio, aperta verso il Foro e costruita su un precedente edificio, con un cortile su cui si aprivano varie stanze pavimentate in cocciopesto. Si ignora l'uso preciso dei due edifici ma dovrebbero essere uno un tempio e l'altro un magazzino di stoccaggio.

                          Ancora più a nord, sul luogo in cui oggi è il cinema Gambrinus e quasi all’angolo tra via Brunelleschi e via del Campidoglio, si trovava una fonte sotterranea a pianta rettangolare, cui si poteva accedere attraverso una gradinata. Sulla parete vi era il bassorilievo di una divinità fluviale, sicuramente l'Arno. L’attribuzione all’ età romana di quest’ambiente fu avanzata sin dall’inizio e senza perplessità.



                          TEMPIO DI ISIDE

                          Poco distante, fuori dalle mura, sono state trovate le tracce di un Tempio di Iside (II secolo d.c.), scavate tra l'ottobre e il dicembre 2008.

                          A piazza San Firenze, presso l’omonima chiesa, con il convento annesso, durante il ‘700 vennero alla luce parti della decorazione di un tempio dedicato alla Dea Iside, edificio della cui struttura però non sono mai state identificate tracce: dai materiali si deduce una datazione del II sec. d.c.

                          COLONNE DEL TEMPIO DI ISIDE
                          Il culto di Iside era stato portato dall’Oriente, grazie ai proficui scambi commerciali di cui Firenze viveva in quel periodo; gli stessi che porteranno, poi, al Cristianesimo. 

                          Ma questo culto ebbe una proliferazione spontanea, tanto forte che diversi imperatori, temendo sovrastasse le divinità tradizionali, ne confinarono il culto oltre le mura della città o addirittura ne proibirono il culto distruggendone templi e statue. 

                          Infatti questo tempio di Iside era stato realizzato subito fuori le mura, vicino all'attuale Tribunale nell’angolo sud orientale di Florentia.

                          Del tempio che giace sotto il tribunale di piazza San Firenze sono stati trovati, attraverso  uno scavo profondo circa 4 m, largo 2,5 m e lungo 5 m, alcuni resti di colonne intarsiate e di pezzi di frontone risalenti al II secolo d.c., oltre a centinaia di frammenti marmorei di decorazione architettonica relativi a capitelli, frammenti di colonna, basamenti e rivestimenti. Stando ai responsabili degli scavi vi è stato l’impiego di marmi eterogenei, comprendenti anche marmi bianchi e policromi.



                          IL TEATRO
                          TEATRO

                          Il teatro, del I sec. d.c., si ergeva a sud-est delle terme, nel declivio naturale della discesa da Piazza della Signoria a Piazza San Firenze. resti di questa struttura furono rinvenuti per la prima volta nel 1875, durante i lavori per la costruzione di una fogna in via de’ Gondi, e altri ritrovamenti relativi si sono avuti negli anni Trenta all’interno di palazzo Vecchio. 

                          L’area del teatro, infatti, è oggi occupata dal palazzo della Signoria e dal palazzo Gondi, che hanno inglobato nelle proprie fondazioni gran parte dell’antico monumento. Dove oggi è il Tribunale doveva trovarsi la scena e verso piazza della Signoria le gradinate per il pubblico.

                          Il fognone ottocentesco intaccò nove cunei radiali di sostegno della cavea e apparve chiaro che l’impianto stradale e le strutture più recenti avevano cancellato gli ordini superiori delle gradinate e le parti più alte di sostruzione ai cunei.

                          POSIZIONE DEL TEATRO

                          Insieme ad alcune sue caratteristiche tecniche, il ritrovamento nei pressi del teatro di una testa scultorea di età giulio-claudia postaugustea daterebbe l’edificio al pieno I sec. d.c., cronologia che collocherebbe la costruzione di un teatro tanto capiente (era capace quanto il Teatro di Marcello a Roma, che poteva contenere circa 15.000 persone) in una fase di grande sviluppo demografico per Florentia.

                          Gli scavi sotto Palazzo Vecchio, condotti in collaborazione con l'Università di Siena tra il 1997 e il 2006, proseguiti fino al 2010, e finanziati dal Comune di Firenze, dopo un'interruzione di circa 3 anni, sono ripresi, sotto la direzione della Soprintendenza per i Beni Archeologici per la Toscana, nell'area sottostante le stanze dell'Anagrafe comunale.

                          IL TEATRO SI TROVA SOTTO PALAZZO VECCHIO
                          Le prospezioni all’interno di Palazzo Vecchio (1997-98) hanno consentito di individuare con esattezza la disposizione sia della cavea che dell’orchestra del teatro. Tuttavia non sono ancora definibili con esattezza le dimensioni e la struttura della scena, la cui dislocazione si può presumere in base a una documentazione sporadica risalente al 1932.

                          PROPORZIONI TRA TEATRO E PALAZZO VECCHIO
                          Nel 2010 si è poi concluso lo scavo archeologico nei sotterranei di Palazzo Vecchio, che ha riportato in luce alcune parti del teatro romano, databili fra I e II sec. d.c., tra cui alcuni tratti delle burelle, cioè i corridoi radiali in muratura sui quali era impostata la cavea a semicerchio.

                          Ne è emerso anche il vomitorium, il corridoio centrale grazie al quale si accedeva all’interno del teatro, nonchè il margine interno della piattaforma dell’orchestra, che nel teatro romano non ospitava il coro come in quello greco, ma era riservata alle autorità.

                          Il Palazzo della Signoria o Palazzo Vecchio, poggia dunque sul grandioso teatro di epoca imperiale. Per la sua edificazione fin dal I sec a.c., venne sfruttato un declivio naturale di circa 5 m nell’area sud-orientale della colonia. 

                          I RESTI SOTTO PALAZZO VECCHIO
                          Gli scavi hanno consentito di identificare 2 fasi costruttive. Una prima in cui scena, di circa 35 metri, orchestra e gradini erano in muratura mentre gli spalti, per circa 8/10.000 spettatori, erano in legno.

                          Nel successivo ampliamento in epoca adrianea, tra il I e II secolo d.c., l’ingresso alla platea e la cavea furono costruiti in muratura. 

                          Il teatro, che risponde ai canoni di Vitruvio, presenta un diametro di circa 100 metri e un’altezza di 24/26 metri. Il monumento, indicato con il termine Perilasium utilizzato per gli edifici di spettacolo, compare nei documenti che risalgono al IX secolo. 

                          Negli anni successivi la zona del teatro è ancora conosciuta con i termini di burelle e Guardingo. Nel medioevo subì una ulteriore spoliazione, e con l’arrivo dei Longobardi sembra perdersi ogni traccia dei suoi elementi architettonici. 

                          Per un lungo tempo fu poi usato come prigione comunale. La conferma storica dell’ubicazione del teatro si ebbe nel 1375, ma soltanto a partire del 1875, con gli scavi di Corinto Corinti, furono messi a nudo i resti della cavea. Questa scoperta permise di ricostruire con sufficiente precisione la struttura dell’edificio.

                          I ritrovamenti di età imperiale, ma con successive stratificazioni di epoca medievale (XII-XIV sec.) hanno restituito pozzi, fondamenta di abitazioni e altri edifici. E’ tuttora, in previsione, un progetto di musealizzazione di parte del piano terreno di Palazzo Vecchio, per cui, in futuro, dovrebbero risultare visitabili alcune delle strutture afferenti al teatro romano.

                          L'ANFITEATRO

                          L'ANFITEATRO 

                          Una delle poche strutture effettivamente ancora riconoscibili in laterizio romano è quella dell'Anfiteatro, che si trovava fuori dal castrum cesariano, nell'attuale quartiere medievale di Santa Croce. Il primo che fece uno studio approfondito su questa struttura fu l'erudito Domenico Maria Manni che nel 1746 pubblicò il libro Notizie istoriche intorno al Parlagio ovvero anfiteatro di Firenze.

                          POSIZIONE DELL'ANFITEATRO E RICOSTRUZIONE GRAFICA
                          E' possibile determinare l’esatta ubicazione di questo edificio, poiché sui resti delle strutture perimetrali e dei cunei delle gradinate si sono impostate le costruzioni medievali (fra cui anche le proprietà della cospicua famiglia dei Peruzzi) e le loro successive ristrutturazioni.

                          Circondato da una strada chiamata sin dal Medioevo via Torta, l'anfiteatro, con un perimetro di m 300, poteva contenere circa 20.000 posti, (contro gli 87.000 del Colosseo), evidentemente per l'esiguità della popolazione, ben riconoscibile nelle sue strutture portanti, anche se la sovrapposizione di case medievali ha chiuso gli antichi archi e ha sfruttato tutti gli spazi.

                          Possiamo comunque seguire l’andamento ellissoidale della pianta percorrendo, da piazza de’ Peruzzi, via de’ Bentaccordi e via Torta; mentre quello che doveva essere il tratto orientale si perde negli edifici che si affacciano su via de’ Benci e su piazza S.Croce. Nel 1887 una piccola parte dell’edificio venne in luce, durante i lavori per la costruzione di una fogna in borgo de’ Greci: da questi resti si è cercato di ricostruirne le forme e le dimensioni.

                          L’asse maggiore dell’ellisse, in direzione nord-ovest/sud-est, è lunga circa 113 m, mentre l’asse minore circa 90 m. La gradinata era divisa, in summa e ima cavea, da un ambulacro che ne percorreva tutta l’ellisse. L’arena misurava circa 64x40 m.

                          La tecnica edilizia e l’uso dei marmi policromi lo data alla prima metà del II sec. d.c., periodo in cui Florentia conosce un grande sviluppo urbanistico anche fuori della cinta muraria, in una zona un tempo paludosa ma poi bonificata.



                          STADIO (o ippodromo)

                          L'edificio misurava dalla Croce al Trebbio a Piazza dell’Unità Italiana circa 200/220 metri di lunghezza ed era largo 45/50 metri; poteva ospitare circa 20 mila persone, non moltissime ma occorre rendersi conto della grandezza della città del tempo. Esso doveva apparire molto simile come tipologia a quello riportato in luce ad Aphrodisias in Caria, nell’attuale Turchia. 

                          POSIZIONE DELL'IPPODROMO
                          Questo Stadio, o Ippodromo funzionò anche da Circo, venendo infatti destinato ai pubblici giochi, soprattutto ai ludi gladiatorii ma pure, corse alle corse di cocchi e di cavalli. 

                          Aveva la forma dell’ippodromo greco; leggermente obliqua rispetto all’asse longitudinale si trovava la “spina”, alto basamento in mezzo all'arena su cui si ergevano gli obelischi e i vari delfini o segnacoli per contare i giri dei carri.

                          Alle due estremità della spina sorgevano le “metae” (una dalla parte della Croce al Trebbio, l’altra verso Piazza dell’Unità), intorno alle quali giravano i cavalieri. 

                          Intorno all’arena si elevavano le gradinate della “cavea” simili a quelle degli stadi odierni.

                          La più antica menzione scritta sull’Ippodromo o stadium di Florentia, risale ai primi del IV sec. d.c., nell'“invectiva” che Coluccio Salutati, Cancelliere della Repubblica Fiorentina, inviò nel 1375 al vicentino Antonio Luschi, il quale dubitava sull’origine romana di Firenze, origine di cui i fiorentini erano molto orgogliosi.
                          .
                          Vincenzo Borghini nel 1569, chiarendo la differenza tra Anfiteatro e Circo identificava quest’ultimo: “ dove oggi è la Croce al Trebbio, non solo per la forma rotonda, la quale, come anche l’Anfiteatro rappresentavano le case tirate sopra i vecchi fondamenti, ma ancora per alcuni vestigi trovati sotterra a diverse occasioni che si riconoscono per propri di questa sorta di fabbriche
                          LE TERME

                          LE TERME


                          TERME CAPTOLINE

                          Le Terme Capitoline erano state costruite su un edificio di età repubblicana. Alcuni reperti sono esposti nel cortile del Palazzo della Crocetta insieme a dei resti di fognature che correvano al di sotto delle strade di Florentia. Queste sorgevano lungo via Strozzi (che ricalca il percorso del decumano maggiore), in corrispondenza dell’isolato situato fra essa e le vie de’ Vecchietti e de’ Pescioni, e vennero in luce durante le demolizioni del 1892.

                          L’ingresso dava sul decumano maggiore e da esso si accedeva a un vestibolo nel quale si trovava una prima vasca. Il vestibolo comunicava con il frigidarium, a pianta rettangolare e provvisto di due vasche per l’acqua fredda, situate ai lati; esso prendeva luce da due grandi finestre ad arco, come risulta dai resti delle pareti.

                          Un tepidarium di minori dimensioni metteva in comunicazione il frigidarium con i calidaria, due grandi sale dalla pianta a croce, comunicanti fra loro e provviste di due vasche semicircolari, disposte lungo le pareti nord e sud. Una delle due vasche doveva contenere acqua calda, visto che si trovava su suspensurae in mattoni quadrati.


                          TERME DEI BAMBINI

                          Verso l'ingresso del Foro, ad ovest del pozzo pubblico e molto vicino ad esso, si trovava un edificio termale dotato di vasche di piccole dimensioni, probabilmente destinato ai bambini.


                          TERME DI TORRE PAGLIAZZA

                          Un’altra terma è situata nell’insula circoscritta dall Corso, originariamante decumanus maximus, via de’ Calzaiuoli, via delle Oche (un decumanus minore) e piazza Santa Elisabetta (càrdines minores).

                          TERME ROMANE SOTTO LA PAGLIAZZA
                          Dalle specifiche campagne di scavo riferite alla torre della Pagliazza (attuale piazza Santa Elisabetta), la torre, che lascia dubbi agli studiosi, è di difficile datazione (longobarda o bizantina) sia per la forma semicircolare, anomala rispetto alle altre torri del centro di Firenze, sia per lo stile.

                          In realtà ha forma circolare in quanto si fonda su una struttura romana, di età imperiale non meglio precisabile, conformata a esedra, facente parte, si pensa, del complesso termale pubblico.

                          L’edificio era enorme: da un vano rettangolare con condotto per aria calda si accedeva in vari ambienti successivi fino a un’esedra, di forma non perfettamente regolare, riconoscibile come piscina e visibile nel sottosuolo dell’attuale torre.

                          Oggi si possono vedere al museo della Pagliazza i resti di una strada e di un calidarium romani , la stessa torre che oggi è sede dell'hotel Brunelleschi, in Piazza sant'Elisabetta.


                          TERME DEL CAPUT ACQUAE

                          Guardando adesso la planimetria di Firenze: a ovest della porta meridionale, i nomi moderni di via delle Terme e via di Capaccio (il cui nome probabilmente deriva dal caput àquae: la “testa”, ossia il terminale di un braccio, “dell’acqua”, ossia delle grandi condutture idriche di acquedotto e fognoni), ci danno una chiara indicazione sul tipo di testimonianze archeologiche relative alla zona, definita terma dai cronisti fiorentini medievali.

                          STATUA DI ERCOLE RECUPERATA ALLE TERME
                          Era qui situato un grande impianto termale, datato alla prima metà del II sec. d.c., di cui è stato esplorato (nel secondo dopoguerra) soprattutto il frigidàrium: il locale presentava al centro la piscina per l’acqua fredda, circondata da una fascia pavimentata in marmo e da un doppio colonnato a capitelli corinzi.

                          La città moderna ha coperto tutte queste vestigia; dopo la Restaurazione tuttavia, nel 1826, al numero 16 di borgo Santi Apostoli l’architetto Telemaco Buonaiuti costruì un bel bagno pubblico ancora usato nel 1912, l’unico edificio d’influsso Biedermeier a Firenze, la cui incisiva insegna neoclassica (“Bagni nelle antiche terme”) risulta tuttora ben visibile, a rammentarci che nei secoli era perdurata consapevolezza dell’esistenza sul posto del maggior stabilimento termale di Florentia.

                          Si ritiene che l’antico acquedotto romano della città provenisse dalla Valdimarina e che penetrasse in città da nord-ovest, attraverso l’attuale direttrice di via Faenza - via de’ Conti o per quella di via Valfonda.

                          Ancora nel Settecento erano visibili alcuni suoi alti tratti edili, che hanno lasciato almeno una traccia odonomastica (via dell’Arcovata, situata non lontano da Rifredi).


                          TERME DI PIAZZA DELLA SIGNORIA

                          Spostiamoci verso Piazza della Signoria, ricchissima di testimonianze archeologiche: il primo intervento di scavo risale al 1974/75, quando si pose il problema della ripavimentazione della Piazza. Durante i saggi per ritrovare tracce della pavimentazione trecentesca in cotto vennero allora in luce notevoli strutture medievali e parte di un edificio termale romano. Questo grande complesso è stato più tardi esplorato, durante le campagne di scavo che si sono susseguite dal 1983 al 1989.

                          L’ingresso dell’edificio era situato sul lato settentrionale e presumibilmente si affacciava sul decumano minore, che correva presso il lato settentrionale della piazza (via della Condotta, all’incirca); da qui si accedeva a un grande salone lastricato, che comunicava con i vari ambienti termali.

                          Fra essi spiccano il frigidarium, provvisto di una vasca absidata, e un grandissimo calidarium, caratterizzato da un pavimento rivestito in marmo. Intorno al complesso correva una galleria, coperta con volta a botte e destinata ai servizi: un tratto di essa presenta la bocca di un forno che doveva alimentare il riscaldamento del calidàrium. Le terme, datate intorno alla prima metà del II sec. d.c., si imposero su una serie di strutture precedenti, presumibilmente di carattere privato.

                          PLANIMETRIA DELLA FULLONICA 1


                          LA FULLONICA 1



                          SCAVI DELLA FULLONICA 1
                          In Piazza Signoria, negli anni '80, fu effettuata una delle più importanti scoperte archeologiche del XX secolo di Firenze: una fullonica. 

                          Un’importante testimonianza dell’antico periodo romano è stata infatti messa in luce a sud del grande impianto termale. 

                          Si tratta di una fullonica, cioè un negozio artigianale che funzionava da lavanderia e da tintoria, di cui sono stati identificati tre bracieri allestiti per la preparazione dei colori e una serie di vasche e piani inclinati comunicanti su differenti pendenze. 

                          Come le terme, la fullonica, la cui costruzione è da collocare tra la fine del I sec. e la prima metà del II sec. d.c., aveva inglobato strutture più antiche, riferibili al periodo di fondazione della colonia.

                          Il locale rinvenuto date le dimensioni più che un negozio sembra uno stabilimento specializzato nella lavorazione dei tessuti, che venivano lavati in grandi vasche, trattati e poi tinti. 

                          Queste operazioni venivano fatte da operai immersi in vasche fino alla vita, che dovevano pigiare le stoffe con i piedi, un po' come si faceva per ottenere il vino dall'uva.
                          L’imponenza dell’impianto confermerebbe l’ipotesi della fioritura in Florentia di attività legate alla lavorazione di tessuti, poiché sembra difficile che una struttura così imponente fosse funzionale solo al fabbisogno di privati cittadini.

                          Evidentemente qualche vivace imprenditore aveva fondato una discreta industria che serviva l'intera città, e forse trattavasi addirittura di un'impresa imperiale al servizio dei cittadini.

                          PLASTICO DELLA FULLONICA 2

                          LA FULLONICA 2

                          FULLONICA 1
                          In via del Proconsolo, all’imbocco con via del Corso, si nota sulla strada un listello che segnala la posizione di una porzione del tratto orientale delle mura romane di Florentia, erette da Augusto fra il 30 ed il 15 a.c. 

                          La prosecuzione a nord dell’imponente struttura in mattoni, dotata di torri circolari, è visibile anche dalle vetrine di un esercizio commerciale all’angolo fra via del Proconsolo e via Dante Alighieri.

                          In questo punto, alla fine del I secolo d.c., quando la funzione difensiva delle mura era venuta meno, fu costruito un impianto per la lavorazione dei tessuti (fullonica), simile a quello rinvenuto sotto piazza della Signoria.



                          PONTE SULL'ARNO

                          Nel punto di restringimento dell’ Arno, fu costruito un ponte, in corrispondenza della direttrice di via Calimala (cardo maximus), che partiva proprio dall’attuale piazza del Pesce. Il ponte, inizialmente in legno e obliquo al corso del fiume per meglio sostenere la spinta delle piene, venne riedificato in pietra nel II sec. d.c. in seguito all’aumentato traffico convogliato dalla Via Cassia Adrianea. Sarà distrutto solo quattro secoli dopo, per cause belliche e alluvionali.

                          Risulta infatti dalle fonti antiche (Strabone), che l’Arno fosse navigabile: una navigabilità di piccolo-medio cabotaggio e sembra plausibile, a tale proposito, che l’attracco portuale potesse trovarsi immediatamente fuori dalla cinta urbica, non lontano dall’unico ponte d’attraversamento sull’Arno (che, come abbiamo visto, si trovava subito a monte dell’attuale Ponte Vecchio).

                          Attraverso questo ponte doveva pervenire a Firenze la via Cassia dopo che, nel 125 d.c. circa, Adriano ne ebbe spostato il tracciato sulla sinistra dell’Arno. Passato il fiume, si ritiene che il nuovo itinerario raggiungesse la porta meridionale di Florentia per un breve raccordo viario parallelo all’odierna Porta Santa Maria e che lambisse le mura meridionali e occidentali della città secondo un tracciato pressappoco corrispondente a borgo Santi Apostoli.

                          Di lì doveva indirizzarsi verso il vecchio tracciato della Cassia, approssimativamente alle attuali piazza Santa Trinita e alle vie del Limbo/Inferno, Belle Donne, Avelli, Valfonda, attraverso il Romito e via F. Corridoni: l’attuale “forca di San Sisto”, per esempio (ossia lo stretto canto stradale fra via del Sole e via delle Belle Donne), conserverebbe nel proprio nome ricordo dell’antico xystus, il “portico” stradale cioè che costeggiava la nostra direttrice viaria.



                          LA CASSIA

                          Si pensa che precedentemente, finché Florentia non ebbe acquisito maggiore importanza, la Cassia evitasse il fondovalle e si mantenesse su vetuste direttrici lontane da acquitrini o da rischi alluvionali.

                          La Cassia preadrianea sarebbe dunque rimasta alla destra dell’Arno, ricalcando (nel Valdarno Superiore) l’odierna, suggestiva “Via dei Sette Ponti” e, nella conca fiorentina, un itinerario pedecollinare per Compiobbi, Terenzano, Settignano e poi per Coverciano, S. Gervasio, Cure, Pellegrino, Montughi, Rifredi, Le Panche, Castello ecc. (oppure, alle basse falde collinari, dopo Settignano: Corbignano, Maiano, Camerata, la Pietra, Careggi, Quarto ecc.).

                          Mentre il più antico tracciato della Cassia, (Cassia Vetus) attraversava l’Arno nei pressi di Arezzo, quello più recente (Cassia Nova) passava il fiume circa all’altezza di Ponte Vecchio. Il percorso della Cassia Nova fu la conseguenza, e non una causa, dell’accresciuta importanza di Florentia. Sotto la chiesa di Santa Felicita si trova comunque un tratto della via Cassia più recente.


                          Altre Vie Per Florentia

                          Da questo sistema di percorrenze, Florentia doveva essere raggiunta mediante tre possibili raccordi.
                          - Uno, meridionale; l’altro, orientale; il terzo, settentrionale. Taluni studiosi ritengono che il primo di essi costituisse il percorso principale della Via fin dalla nascita di Florentia; esso provenendo dal pian di Ripoli, per Ricorboli e la direttrice delle vie dei Bastioni, S. Niccolò, de’ Bardi raggiungeva la Porta Meridionale, nell’attuale Calimaruzza, per la breve direttrice delle piazze del Pesce, S. Stefano e de’ Saltarelli).
                          - Il secondo, orientale, corrispondeva alla prosecuzione esterna del decumano massimo (borghi degli Albizi e La Croce; vie Pietrapiana, Gioberti e Aretina).
                          - Il terzo infine, settentrionale, corrispondeva alla continuazione del Cardo massimo (borgo S. Lorenzo, via Ginori e via S.Gallo, viale don Minzoni). Quest’ultimo raccordo, proseguendo lungo il torrente Mugnone, venne a costituire il primo tratto della via Faventina, corrispondente all’attuale SS. 302 (“Faentina”).

                          Se non ci sono motivi di dubitare che la direttrice della strada romana per Pisa corrispondesse grossomodo all’attuale Via Pisana (SS. 67), forti dubbi riguardano le direttrici usate per attraversare l’Appennino tosco-emiliano e per pervenire a Bologna: dato l’aumento di importanza di Florentia, un loro raccordo col tratto fiorentino della Cassia deve aver prevalso su eventuali precedenti direttrici casentinese-mugellane o pedemontane valdarnesi.



                          CIMITERI

                          Le aree cimiteriali di Florentia sorgono fuori dalle mura, lungo le strade principali. Una delle necropoli di maggior estensione, già in uso alla metà del I sec. a.c., si trovava lungo il tratto della via Cassia posto in direzione di Pistoia: resti di questa necropoli vennero alla luce nel XVI sec., durante gli scavi per l’edificazione della Fortezza da Basso e nel XIX sec. con la costruzione del ponte della ferrovia, al Romito.

                          Il culto cristiano a Firenze ha il suo sviluppo sulla sponda sinistra dell’Arno: sul monte di San Miniato (Mons Florentinus) e sulle sue pendici. Nel luogo della chiesa di Santa Felicita (dove probabilmente sorgeva un tempio della Dea Felicitas), vi è un cimitero cristiano sotterraneo scavato alle falde collinari di costa San Giorgio. Dell’ antico cimitero sono state rintracciate numerose lapidi, ora esposte nell’androne a destra della chiesa.

                          Localizzazione dei ritrovamenti di sepolcreti fiorentini
                          - 1. Affrico sepoltura isolata
                          - 2. p.za S. Firenze necropoli I d.c.
                          - 3. borgo SS. Apostoli necropoli IV-V d.c.
                          - 4. S. Pancrazio necropoli
                          - 5. Valfonda sepoltura isolata I d.c.
                          - 6. Fortezza da Basso necropoli I-III d.c.
                          - 7. S. Stefano in Pane necropoli
                          - 8. S. Gallo necropoli I-III d.c.
                          - 9. S. Felicita necropoli IV-V d.c.



                          IL PORTO

                          Al tempo della decadenza dell'Impero romano, Florentia era una città florida grazie al commercio, e l'Arno, come testimonia Strabone, era un fiume ancora navigabile e all'altezza dell'odierna Piazza de' Giudici c'erano delle banchine, più o meno dove oggi c'è il Circolo della Canottieri Firenze, per il carico e lo scarico delle merci nella zona che ancora oggi si chiama la Dogana.
                          La tradizione antiquaria fiorentina, medievale e moderna, poneva però l’antico scalo portuale di Florentia in un’ormai interrata rientranza dell’Arno, che sarebbe un tempo esistita nell’area dell’odierna piazza Mentana, successiva a Piazza de' Giudici.



                          GLI SCAVI


                          Non sono rimasti monumenti visibili del periodo romano poiché Firenze ebbe un rapido sviluppo durante i periodi successivi, quando Firenze si allargò e si sovrappose a quella romana; ancora oggi però affiorano dal sottosuolo costruzioni come il complesso termale scoperto in Piazza della Signoria ed il teatro, oggi inglobato dal palazzo Gondi.


                          MOSAICO ROMANO DELLA CHIESA DI SAN REPARATA
                          La struttura della colonia romana ha determinato il successivo sviluppo della città, tanto che, dalla lettura dell’attuale strutturazione edilizia, è possibile risalire all’impianto urbanistico antico.

                          Ultimamente si sta tentando di rilevare le antiche testimonianze tramite lo scavo stratigrafico, ma in precedenza, soprattutto negli ultimi decenni dell’Ottocento, quando gli scavi non seguivano alcun metodo scientifico, si sono spesso cancellate molte tracce del passato.

                          Così, le fonti archeologiche si riferiscono essenzialmente agli interventi effettuati in città durante la ricostruzione postbellica, mentre i recenti scavi in Duomo e in Piazza della Signoria hanno fornito una serie ricchissima di dati sulla storia di Firenze, dalle origini al Medioevo, dati che, per buona parte, sono ancora in corso di studio.

                          I ritrovamenti archeologici hanno permesso di individuare ed identificare i resti di importanti lavori pubblici, come i bagni Capitolini, i bagni di Capaccio, il sistema delle acque scure, la pavimentazione delle vie ed il Tempio di Iside.

                          Ma il monumento più riconoscibile è quello dell’anfiteatro che mantiene sempre la sua forma ellittica; non a caso la strada che lo circonda è stata battezzata Via Torta (cioè storta). Resti monumentali inoltre sono visitabili nel sottosuolo del Duomo (area di Santa Reparata), del Battistero (domus con mosaici), di Palazzo Vecchio (strutture del teatro) e della Torre della Pagliazza, in piazza Sant’Elisabetta (impianto termale), nonché in via Calimaruzza (porta meridionale).

                          Visibili al pubblico sono le testimonianze di edifici romani emersi, negli anni '70, durante gli scavi dell’ antica cattedrale fiorentina di S. Reparata, al di sotto del Duomo di S.Maria del Fiore. La visita agli scavi dà l’occasione di osservare le successive trasformazioni subite attraverso i secoli. Sono visibili le testimonianze stratigrafiche pertinenti alla città romana, con l'edificazione della basilica paleocristiana, il cimitero longobardo, e le varie ristrutturazioni di S.Reparata.

                          Resti delle fondazioni, alcune parti del pavimento in cocciopesto o in mattoni e alcune canalette coperte e a cielo aperto (per lo scorrimento delle acque) sono emersi nel corso degli scavi; questi materiali, ritrovati durante lo scavo, hanno permesso di riferire le fasi più antiche dell’edificio alla fine del I sec. a.c.

                          Sotto la basilica paleocristiana sono stati individuati i muri di fondazione di un edificio romano che subì varie ristrutturazioni. Nel momento in cui fu costruita la basilica, le mura che ancora rimanevano furono abbattute, (eccetto il muro A, che venne inglobato nella parete nord di S. Reparata).

                          Il vescovo milanese Ambrogio nel 393 consacrò la prima cattedrale cristiana extramuraria di San Lorenzo, edificata sul luogo in cui si trovavano alcune tabernae romane che si affacciavano sul prosieguo del cardine massimo.

                          Dovremmo però verificare quello che venne scoperto e risotterrato, dagli scavi di piazza Signoria di una ventina di anni fa, ai ruderi emersi durante la pavimentazione di Piazza de' Cimatori, che bloccarono i lavori per un paio di mesi e poi una mattina all'improvviso tutto fu richiuso. Sempre in zona ci sono altri reperti che vengono tenuti segreti per evitare grane in caso di ristrutturazioni o obblighi nei confronti della sovrintendenza.

                          Sotto Palazzo medici è tornato alla luce un tratto dell’antico corso del torrente Mugnone deviato dagli antichi Romani. I resti della villa usata per riempire il letto del torrente hanno restituito numerosi oggetti d’epoca, tra cui strumenti di medicina usati probabilmente dal proprietario della casa, tra cui una statuina usata per studi anatomici: un pezzo di grande rarità e valore.

                          SARCOFAGO CON CACCIA DI MELEAGRO

                           I REPERTI

                          Contrariamente a quanto si possa immaginare, la quasi totalità di arte romana presente oggi a Firenze, a parte alcuni rari esempi di sarcofagi citati poco sopra, non apparteneva a Florentia, ma venne portata da Roma all'epoca dei Medici e dei Lorena.

                          Vengono da Roma la collezione di statue antiche che decorano la Loggia dei Lanzi, la Galleria degli Uffizi, Palazzo Pitti e il Giardino di Boboli, compreso l'obelisco. L'altro obelisco romano della città, che si trova in Piazza Santa Trinita di fronte alla chiesa omonima, viene dalle Terme di Caracalla, dono di papa Pio IV al Granduca Cosimo I. Le collezioni romane del Museo archeologico nazionale hanno varia provenienza e furono in gran parte convogliate in città tra Otto e Novecento.


                          SESTO PROPERZIO

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                          Nome latino: Sextus Propertius
                          Nascita: 47 a.c. Assisi
                          Morte: 15 a.c. Roma
                          Professione: poeta



                          "Di te, Cinzia, sarò vivo, di te morrò!"


                          LE ORIGINI

                          « Cinzia per prima con i cari occhi mi prese, misero,
                          prima nessuna passione mi aveva sfiorato.
                           »

                          Sesto Aurelio Properzio nacque quasi certamente ad Assisi, 47 a.c. e da alcuni riferimenti si può dedurre che morì poco dopo il 15 a.c., a Roma, a circa 35 anni.  Fu un poeta romano, uno dei maggiori poeti d'amore. "Umbra la patria" lo dice Properzio stesso (IV,1, 121), "presso Perugia, tra la nebulosa Mevania (Bevagna) e il lago".

                          Nacque ad Assisi, come dichiara nell'elegia proemiale del IV libro e come suggeriscono recenti acquisizioni epigrafiche recanti il nome di P. Passennus Blaesus, parente di Properzio e suo conterraneo (a quanto attesta Plinio il Vecchio), e l'indicazione della tribù Sergia (Assisi era l'unico municipio umbro a essere iscritto in questa tribù).

                          Alcuni archeologi, inoltre, sostengono di aver trovato la casa del poeta, una lussuosa villa con affreschi mitologici ed iscrizioni in greco, sotto la basilica di Santa Maria Maggiore.



                          LE RISTRETTEZZE ECONOMICHE

                          "La medicina è rimedio a tutti gli umani dolori, solo l'amore è un male che non vuole altra cura."
                          Il padre apparteneva all'ordine equestre, quindi di buona agiatezza, ma la ripartizione delle terre operata da Augusto dopo la battaglia di Filippi, nel 41–40 a.c., lo pose in ristrettezze economiche. Inoltre il padre morì che Properzio era ancora fanciullo; la madre di conseguenza lo portò a Roma per fargli intraprendere la carriera forense, ma morì poco dopo che egli ebbe presa la toga virile.

                          Ormai in condizioni disagiate, sentì tuttavia una profonda avversione agli studi forensi, e si diede alla poesia. Evidentemente la poesia gli aprì l'animo, ai sentimenti e all'amore. Ma gli fece guadagnare anche dei soldi, perchè pubblicò il suo primo libro di poesie alla giovane età di 16 anni, ed ebbe successo.

                          Da qui possiamo comprendere quanto fosse vasta la cultura dell'epoca, se anche un giovinetto qualsiasi potesse avere un così vasto successo.



                          L'AMORE

                          "L'amore non è sincero se non scende in guerra: se la tengano gli altri una donna indifferente."


                          Il primo e breve amore lo ebbe non appena deposta la toga pretesta, sui sedici o diciassette anni, per una schiava Licinna, "la lupetta", esperta di voluttà, ma spontanea e affettuosa.

                          Ma a 18 anni conobbe Cinzia, la padrona di Licinna, il grande e doloroso amore della sua vita. Al poeta sembrò di amare la prima volta, non solo con la sensualità ma pure con la passione. Siamo nel 29, e nello stesso anno scrive il suo primo libro delle elegie, che lo porta immediatamente alla ribalta e lo inserisce nei circoli mondano-letterari della capitale. Fine della miseria e nascita del grande amore

                          Come la Lesbia di Catullo, Cinzia era men giovine dell'amante; esperta in amore lo dominò: " Cuncta tuus sepelivit amor ". Il tuo amore ha seppellito tutti gli altri; e nessun altro dopo aver messo catene dolci sul mio collo" .Ma fu davvero così?

                          Cinzia viene ritenuta da alcuni una cortigiana, ma è poco probabile, sia perchè non sarebbe stato tenuto all'anonimato (il nome fittizio non era per esigenza poetica ma soprattutto per ragioni di opportunità), sia perchè la sua donna era molto raffinata nelle cultura e nell'arte, come difficilmente lo sarebbe stata una cortigiana, anche se maggiormente colta di qualsiasi matrona.

                          Cinzia aveva una vita brillante, con un gusto squisito per il canto, la poesia e la danza, esattamente all'uso greco. Ma guarda caso, per quanto Properzio fosse innamorato, fu proprio a causa di un suo tradimento che accadde la prima rottura.

                          Il poeta pianse molto la severità di un intero anno di separazione da parte dell'amata, per il tradimento di una sola notte. Tra poesia e vita mondana, il primo periodo dell'amore per Cinzia durò cinque anni. Tuttavia, dopo qualche tempo, i due ricominciarono a frequentarsi, ma stavolta è Cinzia a non essere fedele, e dopo cinque anni di tormenti, viene la rottura definitiva, e come per Catullo, gli spezza il cuore.

                          Se ella volesse concedermi talvolta di tali notti, anche un anno di vita sarà lungo.
                          Se poi me ne concederà molte, allora in esse diverrò immortale:
                          chiunque in una sola notte può trasformarsi in un Dio
                          ”.



                          LA GLORIA

                          "Il vero amore non ha mai conosciuta alcuna misura."

                          Da questo momento però Properzio si dedica a uno studio impegnativo: vuole cantare il passato di Roma, le leggende italiche, i fatti e personaggi della romanità. Di animo generoso e per nulla invidioso dell'altrui bravura, salutò l'Eneide con gli splendidi versi: Nescio quid maius nascitur Iliade, si appagò di essere il Callimaco e il Fileta romano; l'emulo e il continuatore, nello spirito della latinità, dei due più famosi elegiaci ellenistici. P., poeta di passione del cuore, il suo primo libro lo rese ben presto famoso. Con l'amore e la poesia venne la gloria. Gloria di cenacoli letterari, con le protezioni influenti, e le amicizie artistiche. Come Virgilio, fu del circolo di Mecenate, con Virgilio, Gallo, Pontico, Basso.



                          LE ELEGIE

                          Le Elegie, in quattro libri, nei quali si distribuiscono i novantadue componimenti complessivi, tutti in distici elegiaci. Molti editori suggeriscono tuttavia una scansione diversa, che determinerebbe un aumento del numero totale di componimenti. L'avvicinamento di Properzio a Mecenate e al suo famoso circolo avvenne forse nel 28 a.c., dopo la pubblicazione del primo canzoniere. Il poeta fu amico di Virgilio e, soprattutto, di Ovidio.

                          La sua vita fu breve (come quella di Catullo e di Tibullo). Non sono presenti nei suoi versi riferimenti cronologici posteriori al 16 a.c., data probabile della morte. Forse, Properzio è il seccatore adombrato nella IX Satira di Orazio, che pare non lo potesse soffrire.

                          Detta in latino Elegiarum libri IV, o più semplicemente Elegiae, l'opera venne pubblicata nella II metà del I secolo a.c. Il loro successo fu immediato e la sua poesia non solo fu molto apprezzata dai contemporanei, ma ebbe un notevole influsso sulla lirica dei secoli successivi e furono il modello elegiaco imitato dal grande poeta latino Ovidio che lo emulò nella sua prima opera elegiaca dal titolo “Amores”.



                          LA GLORIA FUTURA

                          "Sempre l'assenza è un pungolo per il desiderio".

                          Nel Medioevo le tracce della sua presenza sono deboli e sporadiche. 
                          Già all'età di Quintiliano (Inst. orat., X,1, 93) Properzio era un classico dell'elegia e si discuteva chi fosse maggior poeta tra lui e Tibullo. Ma Tibullo ha un'originalità spontanea e discreta, profonda e intima che Properzio, più vario e passionale, non ha, perchè talvolta l'erudizione ne blocca la spontaneità.

                          Se vuol persuadere a Cinzia una bellezza senza adornamenti, ricordandole che Leucippe e Ilaira si fecero amare per una grazia pura e ingenua, che Calipso, Issipile, Evadne, dimenticarono d'ornarsi nella genuinità del loro dolore, è egli stesso ridondante nella sua poetica puntigliosa. Mentre Tibullo evoca Dei ed eroi con l'atavico culto della religione rustica, o con il fervore dei recenti culti orgiastici dell'oriente: gli dei e i personaggi mitici di Properzio appartengono alla poesia erudita, per poco sentimento e troppa raffinatezza letteraria.

                          Quando descrive i fascini di Cinzia, Properzio elenca minuziosamente echi mitologici e letterari, di Arianna, Andromeda, Antiope, Ermione, Andromaca, Briseide, con una poesia ornamentale e fredda. Fu però rivalutato dalla poesia umanistica. Con Ariosto, Tasso, Pierre de Ronsard e, soprattutto, nel Settecento neoclassico, la poesia di Properzio conobbe più ampia diffusione e fortuna, per toccare - con Goethe - il suo punto più alto.


                          Cynthia

                          Difficile ricostruire la realtà biografica della protagonista della "Monobiblos" di Properzio, anche perchè il nome della donna, se libera e soprattutto se nobile, non poteva essere diffamato.

                          Lo scrittore latino Apuleio (Apologia, 10) la identifica con una certa Hostia, e secondo alcuni avrebbe preso l'equivalenza di sillabe tra il nome fittizio e il nome reale; il nome di Cynthia inoltre, secondo alcuni studiosi, rievocava Apollo Cinzio (ovvero nato sul Monte Cinto, nell'isola di Delo), ma secondo noi, e ci sembra molto evidente, rievocava l'antico nome della luna, derivante da Artemide, anche lei nata sul monte Cinto. Cinzia era pertanto un appellativo ad Artemide (Diana) e il nome della Luna.

                          Properzio accenna inoltre ad un antenato poeta nella famiglia dell'amata, ritenuto essere Hostius, autore, probabilmente poco dopo il 129 a.c., di un poema epico-storico sul Bellum Histricum e della stessa famiglia riportata da Apuleio.



                          IL I LIBRO

                          Il I libro (Monobiblos, "libro unico"), costituito da ventidue elegie, noto anche sotto il titolo di Cynthia (nei manoscritti), rappresenta la prima raccolta di elegie pubblicata nel 28 a.c. e dedicata alla donna amata, appunto a Cynthia, secondo la tradizione dei poeti alessandrini. 

                          Se però gli alessandrini insistevano sulla raffinatezza e l'eleganza dei metodi espressivi e stilistici, Properzio sembra più vicino ai neoretici, che fiorirono in quell'epoca a Roma, con uno stile elegante si ma passionale e diretto (vedi Catullo). Vi si canta prevalentemente l'amore impossibile per Cinzia con l'aiuto di un ricco repertorio di figure mitologiche.



                          IL II LIBRO

                          Anche nel II libro, in trentaquattro componimenti, prevale di gran lunga, sugli altri temi, l'amore per Cinzia. È un romanzo commosso, talvolta invece un po' troppo letterario, dominato da questa affascinatrice bionda, dalle belle mani, graziosa, affascinante e appassionata. 



                          IL III LIBRO

                          Nei venticinque componimenti di cui consta il III libro, invece, alle poesie d'amore si affiancano dichiarazioni di poetica e poesie d'argomento politico e civile. La parte di Cinzia si fa sempre minore e le note d'amore divengono più generiche, dispettose, vendicatrici. Il poeta parla della sua arte, si preconizza la gloria, piange illustri morti romani, rende omaggio a Mecenate e ad Augusto. La poesia langue.



                          IL IV LIBRO

                          Questo libro rivela un'ambizione nuova, Properzio vuol essere il Callimaco romano (Callimaco fu l'autore dei Pinakes, o Tavole, della storia letteraria dei Greci), cantare le leggende della latinità, con uno spirito tra callimacheo e virgiliano. Vengono rievocati il Dio Vertumno, Giove Feretrio, Ercole, Tarpeia, ma solo quest'ultima colpisce per il dramma del suo amore tragico e colpevole.

                          L'elegia in cui Cinzia, da poco defunta, appare nella visione notturna al poeta, rispolvera il poeta sensibile appassionato. Rievoca gli occhi dell'amata colmi di passione ardente, i suoi biondi capelli, la veste bruciacchiata dal rogo, le labbra rese livide dall'onda del Lete.

                          Cinzia vi compare gelosa, ma è pure orgogliosa di essere l'unica amata, vorrebbe ancora vivere ancora sulla terra e amare; invece le tocca la tristezza squallida della tenebra. Rimpianto, ribellione alla morte, e dolore in cui Cinzia prega accoratamente l'amante di strappare dalla sua fossa l'edera che le fa male, stringendo le sue ossa in una morsa. 

                          Negli undici componimenti, i temi civili e la propaganda augustea diventano tuttavia preponderanti, in particolare nelle cosiddette Elegie romane. Qui Properzio intende ispirarsi al modello principale dell'alessandrinismo, Callimaco, riprendendo in particolare gli "Aitia" (Le Cause), in cui si illustravano le origini di miti e culti religiosi. Ora si ispira al mito e alla storia; la celebrazione riguarda ormai solo Roma, con il suo orgoglio di eroici legionari, le sue capacità di conquista e civilizzazione, il più bel faro di arte, diritto e civiltà nel mondo.



                          ELEGIA ALLA PORTA 
                          (parla la porta di Cinzia)

                          Io che un tempo mi ero aperta ai grandi trionfi, 
                          porta nota all’onestà di Tarpea, 
                          le cui soglie calcarono i carri cinti di alloro, 
                          bagnate dalle supplichevoli lacrime dei vinti, 
                          ora io, ferita dalle risse notturne degli ubriachi, 
                          spesso mi lamento toccata da mani indegne; 
                          e turpi corone non mancano sempre di essere appese e fiaccole, 
                          segno di un innamorato respinto, di giacere a terra. 

                          Né posso difendere le notti dell’infame padrona, 
                          io nobile sommersa da canti osceni. 
                          Nè tuttavia essa si guarda bene dall’onorare la sua reputazione 
                          e di non vivere come una svergognata nel libertinaggio del tempo. 
                          Nel frattempo sono costretta presa dalla tristezza a piangere 
                          le ahimè lunghe veglie di un pretendente che supplica. 

                          Egli non lascia mai in pace i miei battenti 
                          intonando canti di un’arguzia carezzevole: 
                          “Porta, più crudele anche della padrona che sta dentro, 
                          perché non mi parli chiusa nel tuo impervio passaggio? 
                          Perché mai aperta non accogli il mio amore, 
                          incapace di tener conto commossa delle furtive preghiere? 
                          Nessuna fine sarà concessa al mio dolore? 
                          E il mio sonno sarà triste e sulla tiepida soglia? 

                          Hanno pietà di me che giaccio le mezzenotti, 
                          le stelle che calano e la fredda brezza col suo gelo orientale. 
                          Tu sola, mai impietosita dei dolori umani, 
                          rispondi coerente con i muti cardini. 
                          Volesse il cielo che la mia flebile voce 
                          passando attraverso uno spiraglio entrasse 
                          nelle orecchie della padrona dopo averle raggiunte! 

                          Per quanto essa sia più dura dell’Etna, 
                          sia per quanto sia più dura anche del ferro e dell’acciaio: 
                          non potrà tuttavia chiudere gli occhi 
                          ed emetterà un sospiro mentre piange controvoglia. 
                          Ora giace avvinta dal braccio felice di un altro 
                          mentre le mie parole si perdono nella brezza notturna. 
                          Ma tu sola, o porta, sei la più grande causa 
                          del mio dolore, mai vinta dai miei doni. 

                          Nessuna petulanza della mia lingua ti offese, 
                          quelle parole volgari che suol dire lì per lì un adirato. 
                          Come puoi tollerare che io con la voce affievolita per un lamento 
                          così lungo vegli soffrendo su una strada? 
                          Eppure spesso ti dedicai canti dal verso nuovo 
                          e stampai baci prostrato sulla tua soglia. 

                          Quante volte, ingrata, mi volsi ai tuoi battenti 
                          e ti feci le dovute offerte senza che gli altri se ne accorgessero!”. 
                          Questo mi dice e, se qualcosa sapete voi amanti infelici, 
                          lo va strepitando pure agli uccelli mattutini. 
                          Così io ora a causa dei vizi della padrona e dei pianti 
                          di chi è sempre innamorato sono oggetto di eterna impopolarità. -



                          ELEGIE, I, 12
                          (Cinzia sarà l'unico amore)

                          Perché non smetti di intentarmi, Pontico, l'accusa di pigrizia
                          che a Roma, a sentir te, mi tratterrebbe?
                          È lei che è ormai lontana dal mio letto tante miglia
                          quanto dista l'Ipani dal veneto Eridano;
                          Cinzia ora più non nutre il nostro amore nei consueti amplessi
                          né più al mio orecchio dolcemente parla. 

                          Un tempo le ero caro: in quei giorni, a nessun altro avvenne
                          d'amare con altrettanta fiduciosa certezza.
                          Fummo oggetto d'invidia: fu un dio che mi fece sprofondare,
                          o fu quell'erba, sul Caucaso raccolta, che divide gli amanti?
                          Non son più quel che ero: lunghi viaggi trasformano le amanti.
                          In poco tempo, quale grande amore se n'è fuggito! 

                          Per la prima volta son costretto a conoscere da solo le lunghe notti,
                          e ad essere molesto io stesso alle mie orecchie.
                          O felice colui che davanti all'amata poté versare lacrime
                          (s'allieta Amore alle lacrime sparse),
                          ma felice anche colui che, disprezzato, poté mutare i suoi affetti
                          (c'è un po' di gioia anche a cambiar padrone!).
                          Per me sta scritto che non potrò amare un'altra, né staccarmi da lei:
                          Cinzia fu la prima, Cinzia sarà anche la fine.


                          (I dolori di Properzio)

                          Cinzia per prima m’irretì, sventurato, con i suoi dolci occhi,
                          quand’ero ancora intatto dai desideri della passione.
                          Allora Amore abbassò il consueto orgoglio del mio sguardo
                          e mi oppresse il capo sottoponendolo al dominio dei suoi passi,
                          finché m’insegnò crudele a odiare le fanciulle caste
                          e a condurre una vita priva di qualsiasi saggezza.
                          E ormai da un anno intero questa follia non mi abbandona
                          mentre sono costretto ad avere gli Dei avversi.
                          Milanione, o Tullo, disposto a non fuggire nessun travaglio,
                          infranse la crudeltà della dura figlia di Iasio.
                          Egli infatti errava talora, folle, per gli anfratti
                          del Partenio, e andava a scovare le irsute fiere;
                          e anche, percosso da un colpo di clava dal centauro Ileo,
                          giacque ferito e gemente sulle rupi d’Arcadia.
                          Dunque poté così domare la veloce fanciulla:
                          tanto in amore valgono le preghiere e i benefizi.
                          Per me Amore impigrito non escogita alcun espediente,
                          né ricorda di percorrere, come prima, le note vie.
                          Ma voi che traete giù dal cielo con ingannevoli arti
                          la luna, e compite riti propiziatorii sui magici fuochi,
                          orsù mutate l’animo di colei che mi signoreggia,
                          e fate che il suo volto divenga più pallido del mio!
                          Allora crederò che voi potete guidare il corso
                          degli astri e dei fiumi con gli incantesimi della donna di Cytaia (?).
                          E voi amici, che tardaste troppo a sollevare il caduto,
                          cercate aiuti per un cuore ormai infermo.
                          Sopporterò con saldezza le torture del ferro e del fuoco,
                          purché sia libero di dire ciò che l’ira mi detta.
                          Portatemi in mezzo a popoli e a mari remoti,
                          dove nessuna donna possa conoscere il mio cammino:
                          voi, il cui dio accondiscende con favorevole orecchio,
                          rimanete, e l’amore vi sia sempre sicuro e reciproco.
                          Quanto, a me, la mia Venere mi travaglia con amare notti,
                          e Amore non mi abbandona mai lasciandomi libero.
                          Vi ammonisco, evitate questo male: ognuno indugi
                          nella propria passione, né si stacchi da un sentimento consueto.
                          Che se alcuno tarderà ad ascoltare i miei ammonimenti,
                          ahi, con quanto dolore ricorderà le mie parole!


                          Elegia XIX (Non temo la morte ma la mancanza d'amore)

                          Adorata Cinzia, non temo i tristi Mani,
                          né voglio ritardare i fati dovuti all’estremo rogo;
                          ma che una volta spirato, per caso rimanga privo del tuo amore,
                          ciò temo, più duro della stessa morte.
                          Non così lievemente il dio fanciullo s’impresse
                          sui miei occhi al punto che la mia polvere ne sia priva,
                          smemorata d’affetto. Laggiù, nei tenebrosi recessi,
                          l’eroe filàcide non poté dimenticare l’amata sposa,
                          ma desiderosa di stringere in un vano abbraccio la sua fonte di gioia,
                          il Tessalo, ormai ombra, raggiunse l’antica dimora.
                          Laggiù, comunque sarò, sia pure soltanto fantasma,
                          sarò detto tuo: un grande amore varca anche le rive fatali.
                          Laggiù vengano in coro le belle eroine,
                          parte del bottino dardanio agli eroi argivi,
                          nessuna di loro, o Cinzia, mi sarà più gradita
                          della tua bellezza e (ciò mi conceda la giusta Terra)
                          anche se ti trattenga una sorte di lunga vecchiezza,
                          le tue ossa saranno sempre care al mio pianto.
                          Possa tu, viva, sentire ciò sul rogo che mi arde.
                          Allora la morte non mi sarebbe amara dovunque.
                          Ma come temo, o Cinzia, che spregiato il sepolcro,
                          Amore crudele ti distolga dalle mie ceneri e t’induca
                          ad asciugare malvolentieri le fluenti lagrime! Una fanciulla,
                          per quanto fedele, si piega ad assidue minacce.
                          Perciò noi amanti, finché si può, godiamo:
                          mai nessuno tempo l’amore è lungo abbastanza.


                          Libro II
                          Elegia XV (le gioie dell'amore)

                          Oh me felice, o notte per me splendida,
                          e dolce letto reso beato dalla mia delizia!
                          Quante parole ci siamo detti distesi accanto alla lucerna,
                          e quante battaglie d’amore abbiamo ingaggiato,
                          allontanato il lume. Infatti ella ora lottava con me
                          a seni nudi, ora indugiava a lungo coperta dalla tunica.
                          Ella con le labbra mi aprì gli occhi assonnati,
                          e disse: “Così, insensibile, giaci?”.
                          Come abbiamo intrecciato le braccia in diverse forme d’amplesso!
                          Quanti lunghi baci ho impresso sulle tue labbra!
                          Non giova guastare i piaceri di Venere con movimenti ciechi;
                          se non lo sai, gli occhi sono la guida dell’amore.
                          Si dice che lo stesso Paride si consunse vedendo nuda la Spartana,
                          mentre si alzava dal talamo di Menelao;
                          nudo anche Endimione, narrano, conquistò la sorella di Febo,
                          e giacque a sua volta insieme con la dea nuda.
                          Se invece tu con animo ostinato ti adagerai vestita,
                          ti strapperò la veste e proverai la forza delle mie mani;
                          e anzi se l’ira da te provocata mi spingerà a trascendere,
                          dovrai mostrare a tua madre le braccia ferite.
                          Non ancora dei seni cadenti ti impediscono tali giochi:
                          badi a queste cose colei che si vergogna di avere già partorito.
                          Finché i fati ce lo permettono, saziamoci gli occhi di amore:
                          viene per te una lunga notte, e il giorno non tornerà. 
                          Oh volessi che una catena ci avvincesse
                          così che nessun giorno ci potesse più separare.
                          Ti siano d’esempio le colombe congiunte in amore,
                          il maschio e la femmina stretti in un connubio totale.
                          Erra colui che cerca la fine di un folle amore:
                          un amore vero non conosce alcun limite né misura.
                          La terra ingannerà con false messi gli aratori,
                          e più presto il sole spingerà i cavalli neri,
                          e i fiumi cominceranno a far rifluire le acque alla sorgente,
                          e i pesci saranno asciutti nei gorghi disseccati,
                          che io possa rivolgere altrove i miei affanni d’amore;
                          di lei sarò vivo, di lei morrò!
                          Se ella volesse concedermi talvolta di tali notti,
                          anche un anno di vita sarà lungo.
                          Se poi me ne concederà molte, allora in esse diverrò immortale:
                          chiunque in una sola notte può trasformarsi in un dio.
                          Se tutti desiderassero trascorrere una tale vita,
                          e giacere con le membra oppresse da molto vino,
                          non vi sarebbe il crudele ferro né una nave da guerra,
                          e il mare di Azio non travolgerebbe le nostre ossa,
                          né Roma espugnata tante volte dai propri trionfi,
                          sarebbe stanca di sciogliere i suoi capelli.
                          Questo certo potranno elogiare di me i miei discendenti:
                          le mie coppe non hanno mai offeso alcuno degli Dei.
                          Tu ora, mentre il giorno splende, non lasciare i frutti della vita:
                          se mi darai tutti i tuoi baci, me ne darai pochi.
                          E come i petali si distaccano dai serti avvizziti,
                          e li vedi galleggiare sparsi nelle coppe,
                          così per noi, che ora amanti nutriamo un vasto sentimento,
                          forse il domani concluderà i fati.


                          Libro III
                          Elegia I (novello Callimaco)

                          Spirito di Callimaco, e sacri riti del coo Filita,
                          vi prego, permettetemi di entrare nel vostro bosco,
                          per primo io, sacerdote, mi accingo a guidare dalla pura fonte
                          tra i misteri italici la schiera greca.
                          Ditemi, in quale antro entrambe modulaste i carmi?
                          Con quale piede entraste? Quale acqua beveste?
                          Ah, lontano da me chiunque trattiene Febo tra le armi!
                          Scorra levigato con sottile pomice il verso
                          per cui la sublime Gloria mi solleva da terra,
                          e la Musa nata da me trionfa sui cavalli inghirlandati,
                          e sul cocchio gli Amori fanciulli sono trasportati con me,
                          e una folla di scrittori fa da corteggio alle mie ruote …
                          Perché contendete con me inutilmente a briglia sciolta?
                          Non è dato correre alle Muse per un’ampia via.
                          Molti, o Roma, aggiungeranno agli annali la tua gloria,
                          e molti canteranno che Bactra sarà il confine dell’impero:
                          ma un’opera che tu possa leggere in tempo di pace,
                          la mia pagina l’ha tratta giù dal monte delle Sorelle
                          per una via sinora non percorsa. Date, o Pegasidi, molli corone
                          al vostro poeta; non si confà al mio capo un duro serto.
                          Ma ciò che a me vivo ha sottratto l’invida turba,
                          dopo la morte me lo renderà l’Onore in misura raddoppiata.
                          Il tempo dopo il trapasso fa divenire tutte le cose più grandi,
                          dopo le esequie, la rinomanza corre più vasta sulle bocche.
                          Infatti chi saprebbe che una rocca fu abbattuta da un cavallo di abete,
                          e che i fiumi contrastarono l’eroe emonio,
                          l’idèo Simoenta e lo Scamandro, prole di Giove?
                          E che Ettore insanguinò tre volte le ruote che lo trascinavano sui campi?
                          A stento Deifobo ed Eleno e Polidamante e Paride,
                          qualunque ne fosse il valore nelle armi, sarebbero noti alla loro terra.
                          Ora si parlerebbe appena di te, Ilio, e di te,
                          Troia, abbattuta due volte dalla potenza del dio etèo.
                          E quell’illustre Omero, cantore della tua fine,
                          sentì accrescersi la fama dalla sua opera tra i posteri.
                          Me Roma loderà fra i suoi tardi nipoti.
                          Io stesso prevedo quel giorno, quando sarò cenere.
                          A una pietra che indichi le mie ossa in un sepolcro non spregiato,
                          ho provveduto io, se il dio licio esaudisce i miei voti.


                          Elegia II (il poeta rende eterna l'amata)

                          Intanto ritorniamo nel cerchio della nostra poesia;
                          si compiaccia la fanciulla emozionata dal consueto canto.
                          Tramandano che Orfeo con la sua lira tracia trattenesse le fiere
                          e arrestasse i fiumi resi impetuosi dalla piena.
                          E narrano che le rocce del Citerone mosse per virtù di magia
                          si unirono spontaneamente per formare le mura di Tebe,
                          e anzi, o Polifemo, alle pendici del selvaggio Etna,
                          Galatea piegò al tuo canto i madidi cavalli:
                          e ci stupiremo dunque se con il favore di Bacco e di Apollo
                          lo stuolo delle fanciulle venera le mie parole?
                          Certo la mia casa non poggia su colonne di marmo tenario,
                          né possiede soffitti dorati fra eburnee travi,
                          né i miei giardini eguagliano quelli dei Feaci,
                          l’acquedotto marcio non irriga le mie grotte istoriate;
                          ma mi tengono compagnia le Muse, e i carmi cari al lettore,
                          e v’è Calliope, ormai sazia dei miei ritmi.
                          Fortunata colei chiunque sia, se la celebrano i miei versi!
                          I miei carmi saranno durevole testimonianza della tua bellezza.
                          Infatti né il fasto delle piramidi elevate fino alle stelle,
                          né il tempio di Giove elèo che emula il cielo,
                          né il tesoro sontuoso del sepolcro di Mausolo,
                          possono scampare alla estrema condizione della morte.
                          Le fiamme o le piogge cancelleranno ogni sorta di pregio,
                          o cadranno vinti dal peso degli anni, sotto i loro colpi.
                          Ma la fama conquistata con l’ingegno non sarà annullata dal tempo:
                          l’ingegno ha una sua gloria immune dalla morte.


                          Elegia XXV (il poeta sbeffeggiato)

                          Ero divenuto oggetto di riso tra i convitati nei banchetti
                          e chiunque poteva divertirsi a sparlare di me.
                          Ho potuto servirti fedelmente per cinque anni:
                          rimpiangerai spesso la mia fedeltà mordendoti le unghie.
                          Non mi lascio commuovere dalle lacrime: conosco già l’inganno della tua arte;
                          il tuo pianto, o Cinzia, scaturisce sempre da una insidia.
                          Piangerò, allontanandomi, ma l’offesa è più forte delle lacrime:
                          tu non vuoi che il nostro legame proceda felice, conveniente ad entrambi.
                          Ora addio, soglia lacrimante per le mie parole,
                          addio porta, malgrado tutto, non infranta dalla mia mano irata.
                          Ma te incalzi la tarda età, se pur celerai gli anni,
                          e sopraggiungano le squallide rughe della tua bellezza!
                          Allora possa tu desiderare di svellere dalla radice i capelli bianchi,
                          mentre lo specchio, ahimè, rimprovererà il tuo volto grinzoso,
                          e a tua volta respinta, sopportare l’altero disprezzo,
                          e vecchia lamentarti di subire ciò che un tempo infliggesti.
                          La mia pagina ti predice tale funesta sorte:
                          apprendi a temere il destino della tua bellezza.


                          Libro IV
                          Elegia VII (Cinzia fa il suo testamento).

                          “Così con le lagrime della morte saniamo gli amori della vita,
                          ed io nascondo le molte colpe della tua perfidia.
                          Ma ora ti affido le mie volontà, se per caso ti lasci commuovere,
                          e se l’erba magica di Clori non ti possiede tutto.
                          La nutrice Partenie non manchi di nulla nei suoi tremuli anni:
                          non è mai stata avida con te, e lo avrebbe potuto.
                          La mia dolce Latri, che trae il nome dal suo lavoro,
                          non debba porgere lo specchio alla nuova padrona.
                          E tutti i versi che hai composto nel mio nome,
                          bruciali per me: cessa di tenere con te le mie lodi!
                          Strappa dal sepolcro l’edera che nei suoi pugnaci corimbi
                          si lega alle mie tenere ossa con implicate chiome.
                          Dove l’Aniene fecondo di frutti si distende nei campi alberati,
                          e mai sbiadisce l’avorio per la protezione di Ercole,
                          scrivi su una colonna un’epigrafe degna di me,
                          ma breve, che possa leggerla il viandante che proviene frettoloso dalla città:
                          - Qui in terra tiburtina giace la splendida Cinzia;
                          gloria, o Aniene, s’è aggiunta alle tue rive -.
                          E tu non disprezzare i sogni che giungono dalle porte dei beati:
                          se vengono, tali sacri sogni, devono avere un senso.
                          Di notte vaghiamo, la notte rende libere le ombre rinchiuse;
                          tolte le sbarre, anche Cerbero erra.
                          All’alba l’inferna legge c’impone di tornare agli stagni del Lete:
                          c’imbarchiamo, e il nocchiero soppesa il carico.
                          Ora ti possiedano altre; ben ti avrò io sola:
                          sarai con me, e consumerò le tue ossa con le mie ad esse mischiate”.
                          Dopo che finì di parlarmi con tono di dolente rimprovero,
                          l’ombra si dileguò nel mezzo del mio abbraccio.


                          Elegia XI
                          (Parla Cornelia rivolgendosi al marito Paolo)

                          Se poi egli memore si appagherà di restare fedele alla mia ombra,
                          e stimerà che tanto valgono le mie ceneri,
                          sin da ora imparate a preoccuparvi della sua futura vecchiaia,
                          e nulla tralasciate per lenire i suoi affanni di vedovo.
                          Il tempo che è stato sottratto a me, si aggiunga ai vostri anni:
                          così, grazie alla mia prole, Paolo si consoli di essere vecchio.
                          E’ bene così: io madre non ho mai vestito a lutto:
                          e tutta la schiera dei congiunti venne alle mie esequie.
                          Ho finito di perorare la mia causa. Testimoni in pianto per me,
                          alzatevi, mentre la terra benigna mi ripaga del sacrificio della vita.
                          Il cielo si apre alle caste indoli: possa con i miei meriti
                          essere degna che le mie ossa siano portate tra gli illustri avi.

                          TITO FLAVIO CLEMENTE

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                          Nome: Titus Flavius Clemens
                          Nascita: --
                          Morte: 95 d.c.
                          Dinastia: Flavia
                          Professione: Politico
                          Consolato: 95 d.c.


                          Tito Flavio Clemente (console nel 95) detto pure San Clemente.

                          Titus Flavius Clemens è stato un politico romano, appartenente alla dinastia flavia. È stato messo a morte dall'imperatore romano Domiziano nel 95. Secondo alcuni sarebbe un convertito all'ebraismo, secondo altri al cristianesimo e un santo, ma non c'è prova nè dell'uno nè dell'altro.

                          Alcuni l'hanno identificato con papa Clemente I, ma anche questo non c'entra per nulla, poichè fu il IV vescovo di Roma e papa della Chiesa cattolica dal 92 al 97, mentre Clemente morì nel 95 e non ebbe mai un ruolo religioso, fu solo un politico.

                          Clemente invece era figlio di Tito Flavio Sabino, consul suffectus nel 69 e nel 72, a sua volta figlio di Tito Flavio Sabino, consul suffectus nel 47, e fratello maggiore dell'imperatore Vespasiano. Pertanto Clemente era parente degli imperatori romani Vespasiano, Tito e Domiziano.

                          Suo fratello maggiore Tito Flavio Sabino sposò nell'81 Giulia, figlia dell'imperatore Tito e fu console ordinario nell'82. Clemente sposò Flavia Domitilla, figlia di Flavia Domitilla minore, sorella di Tito e di Domiziano, e da lei ebbe sette figli, affidati alla cura di Quintiliano.

                          Domiziano ebbe all'inizio grande considerazione do Clemente e di sua moglie Domitilla, tanto è vero che Clemente venne nominato console per l'anno 95, con l'onore di avere per collega l'imperatore stesso; i figli di Clemente e Domitilla, ancora giovani, furono designati eredi dall'imperatore, che non aveva figli, e che cambiò loro nome in Vespasiano e Domiziano.

                          Secondo quanto racconta Svetonio, Domiziano però mise a morte Clemente appena terminato il suo consolato, sulla base di un leggero sospetto di ateismo:

                          "Denique Flavium Clementem patruelem suum, contemptissimae inertiae... repente ex tenuissima suspicione tantum non in ipso eius consulatu interemit. "
                          (Svetonio, Vita di Domiziano)

                          L'ateismo era considerato un delitto in quanto non si riconosceva la figura divinizzata dell'imperatore, chiunque avesse adorato questa immagine, anche se non riconoscesse altri Dei, non sarebbe potuto essere accusato di ateismo.

                          Cassio Dione racconta che l'accusa contro Clemente era di ateismo, accusa mossa verso molti di coloro che si lasciavano cadere negli usi dell'Ebraismo, dei quali alcuni erano messi a morte e altri privati dei propri beni, mentre Domitilla era stata solo esiliata a Pandateria (Ventotene).
                          Nello stesso anno Domiziano mandò a morte, con molti altri, Flavio Clemente, allora console, benché fosse suo cugino e avesse in moglie Flavia Domitilla, sua parente. Entrambi furono condannati per il delitto di ateismo. Secondo questi capi di accusa furono condannati molti altri, che avevano seguito i costumi giudaici: molti uccisi, altri puniti con la confisca dei beni; Domitilla fu solo esiliata a Pandateria."
                          (Epitome di Cassio Dione, Historia romana)

                          In seguito Domiziano fu assassinato da un collaboratore di Domitilla. Nessun autore accenna dunque al cristianesimo: perchè il primo autore che ha attribuito a Clemente la fede cristiana è stato Giorgio il Sincello nel IX secolo, cioè 700 anni dopo, quando la Chiesa era a caccia di santi e soprattutto di martiri.

                          Nel 1725 furono scoperte nella basilica di San Clemente al Celio delle ossa che furono credute quelle di Flavio Clemente, che per puro miracolo sarebbero sopravvissute per 700 anni. Il Martirologio Romano ne ricorda la traslazione il 22 giugno. « A Roma, commemorazione di san Flavio Clemente, martire, che dall'imperatore Domiziano, di cui era stato collega nel consolato, fu ucciso con l’accusa di ateismo, ma in realtà per la sua fede in Cristo.» (Martirologio Romano (2004), p. 349)

                          BASILICA DI SAN CLEMENTE

                          ROBERTO LANCIANI

                          " Tra i due palazzi appena descritte, il Pomponiano e il Valeriano, nello spazio ora occupato dal Palazzo Albani e la chiesa e il convento di S. Carlino alle Quattro Fontane, c'era una casa umile, che apparteneva a Flavio Sabino, fratello di Vespasiano. Qui l'imperatore Domiziano nacque, il 24 ottobre dell'anno 50. La casa che si trovava in un angolo del Semita e la strada "Melograno"è stato convertito da lui in un memoriale di famiglia, o mausoleo, dopo la morte del padre e del fratello. Qui sono stati sepolti, oltre a Vespasiano e Tito, Flavio Sabino, Julia, figlia di Tito, Domiziano e, infine, se stesso.

                          La storia della sua morte è la seguente:

                          Dopo aver ucciso suo cugino Flavio Clemente, il principe cristiano, la cui sorte che ho descritto nel capitolo I, la sua vita è diventata un peso insopportabile per lui. Il timore che qualcuno improvvisamente insorgesse per vendicare il sangue innocente in cui aveva immerso le mani lo fece tremare ogni istante per la sua vita; tanto è vero che fece incrostare i portici del palazzo imperiale col marmo Phengite, nella cui superficie brillante poteva vedere il riflesso dei suoi seguaci e assistenti, e poteva guardare le loro azioni, se pure fossero a una certa distanza dietro lui. 

                          Per diverse settimane fu spaventato da fulmini. Una volta che il Campidoglio venne colpito, accanto alla tomba di famiglia sul Quirinale, che aveva ufficialmente dedicato Templum Flaviae Gentis; e un'altra volta il palazzo imperiale e anche la sua propria camera da letto. Egli è stato sentito a borbottare a se stesso in preda alla disperazione, "Lascia che facciano: chi se ne frega" In un'altra occasione un ciclone furioso strappò l'epigrafe dedicatoria dal piedistallo della sua statua equestre nel Foro.

                          Nel 194 sognò che Minerva, la divinità protettrice dei suoi giorni più felici, era improvvisamente scomparsa dalla sua cappella privata. Ciò che lo spaventava di più, tuttavia, fu il destino di Askletarion l'indovino. Avendo chiesto che tipo di morte Askletarion avesse previsto, la risposta era stata: "Io molto presto sarò sbranato dai cani."

                          Per convincere se stesso e ai suoi amici che queste previsioni non meritavano alcun credito, Domiziano, che aveva appena ricevuto un tristissimo avvertimento da parte dell' Oracolo della Fortuna Prenestina, fece uccidere l'indovino, e fece seppellire le sue spoglie in una tomba ben custodita. Ma mentre la cremazione era in corso, un uragano spazzò l'ustrinum, e cacciò via gli addetti spaventati, in modo che i resti mezzo-carbonizzati andarono in preda ai cani. La storia venne riferita all'imperatore quella sera mentre era a cena, e non fu una bella serata. "

                          DEMOGRAFIA DI ROMA

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                          Roma fu la prima grande metropoli dell'umanità (tanto che il numero di abitanti della Roma augustea fu raggiunto solamente agli inizi del XIX secolo da Londra) ma soprattutto accolse la più importante civiltà antica, che influenzò la società, la cultura, la lingua, la letteratura, l'arte, l'architettura, la filosofia, la religione, il diritto e i costumi di tutti i secoli successivi.

                          Capitale della Repubblica prima e dell'Impero romano poi, estese il suo dominio su tutto il bacino del Mediterraneo e gran parte dell'Europa, in Asia e in Africa.  Roma è stata nella storia dell'Occidente la metropoli più popolosa fino all'età industriale.

                          Ci sono molti sistemi che gli storici hanno adottato per conoscere il numero della popolazione di Roma nel suo massimo apogeo che va dal partire del I sec. a.c fino al II sec. d.c. :
                          - si è pensato di calcolare gli abitanti in base alla quantità di acqua che gli acquedotti trasportavano ogni giorno a Roma;
                          - oppure la quantità di frumento che la Capitale del futuro Impero importava prevalentemente dal centro Italia e dalla costa Africana, che veniva distribuito gratis  alla popolazione Romana.
                          - e pure dalla la carne di maiale che anch'essa veniva distribuita gratis
                          -. oppure l'estensione di Roma e il numero delle insule che si ergevano all'interno delle mura.



                          XI SEC. A.C. 

                          - Roma fu centro urbano anzitutto sul Palatino, uno dei sette colli di Roma, situato tra il Velabro e il Foro Romano, scavi recenti hanno infatti dimostrato che delle popolazioni vi abitavano già nel 1000 a.c. circa. Si trattava di un villaggio di pochi ettari, circondato da paludi, dal quale era possibile controllare il corso del Tevere, che allora non aveva ponti ma solo un guado nei pressi dell'isola Tiberina.

                          Delle capanne del Palatino abbiamo i fondi di tre capanne del VII secolo a.c., scavati nella roccia tufacea e rinvenuti nel 1948 nell'area prospiciente il Tempio della Magna Mater. Si tratta dei migliori reperti dei primi insediamenti di Roma nella I e II età del ferro (dal X sec. a.c. alla metà del VII secolo a.c.), rispetto ad altri siti nel Foro Boario e sulle pendici della Velia.

                          Secondo fionigi di Alicarnasso i primi abitanti di Roma furono:
                          • gli Aborigeni, popolo laziale, che cacciarono i Siculi,
                          • i Peloponnesiaci di Enotro provenienti dall'Arcadia, 
                          • i Pelasgi, 
                          • gli Arcadi di Evandro, 
                          • gli Eraclei, anche essi provenienti dal Peloponneso, 
                          • i Troiani di Enea.
                          • Aldilà del Tevere c'erano gli etruschi e si sa che tra le popolazioni di confine c'è sempre un rimescolio di razze. 
                          All'epoca molte genti erano nomadi pertanto sia per difesa che per offesa era abituate a combattere per uccidere e razziare, per cui si era spesso guardinghi verso i popoli limitrofi, o ci si alleava o si combatteva. A causa di tante guerre c'erano molti schiavi che arrivarono a migliaia già nei primi secoli della Roma monarchica. 

                          Infatti, soprattutto in età Imperiale, i "Liberti"(gli schiavi liberati) erano moltissimi e anche gli "ingenui"(i nati liberi da genitori libertini) col tempo divennero tanti, perchè i Romani furono spesso generosi con coloro che li avevano serviti bene per molto tempo, e la liberazione di uno schiavo era pertanto molto diffusa.



                          LA MONARCHIA

                          VIII SEC.  A.C.

                          - Il centro si ampliò notevolmente perchè già nel sec. VIII a.c. si estendeva su un terreno di oltre 100 ha, sotto l'autorità dei patrizi, i primi abitatori del Palatino che usarono questa precedenza come privilegio.

                          (TITO LIVIO)  - Romolo

                          Nel frattempo la città cresceva in fortificazioni che abbracciavano dentro la loro cerchia sempre nuovi spazi: si costruiva più nella speranza di un incremento demografico negli anni a venire che per le proporzioni presenti della popolazione. In seguito, perché l'ampliamento della città non fosse fine a se stesso, col pretesto di aumentare la popolazione secondo l'antica idea di quanti fondavano città (i quali, radunando intorno a sé genti senza un passato alle spalle, facevano credere loro di essere autoctoni), creò un punto di raccolta là dove oggi, per chi voglia salire a vedere, c'è un recinto tra due boschi.
                          "
                          Lì, dalle popolazioni confinanti, andò a riparare una massa eterogenea di individui, nessuna distinzione tra liberi e schiavi, avida di cose nuove: e questo fu il primo energico passo in direzione del progetto di ampliamento."



                          VI SEC. A.C.

                          - Verso la metà del VI secolo a.c., sotto la monarchia di Servio Tullio, sembra che Roma contasse già una popolazione di oltre 30.000 abitanti, all'epoca uno dei più importanti centri della regione etrusco-laziale.

                          - La città venne ricinta da solide mura  e difesa da un esercito campale, organizzato secondo le nuove tecniche militari di importazione greca, il cui reclutamento avveniva sulla base di una distribuzione dei cittadini in classi censitarie.

                          - Mentre l'originaria struttura gentilizia dello Stato era basata su una divisione degli abitanti in tre tribù genetiche, i Tities (Sabini del Quirinale), i Ramnes (gli abitanti del Palatino vicini al rumon, fiume) e i Luceres (gruppi di Latini del Celio), ognuna delle quali comprendeva dieci curie (assemblea curiata), in cui prevalevano le più antiche famiglie, la riforma serviana superò tale struttura senza però sopprimerla.

                          POPOLAZIONE A ROMA NEI SECOLI
                          - Creò così una una nuova distribuzione degli abitanti in base al censo, e quindi non più sul principio della nascita, e inserì nella vita attiva dello Stato i nuovi ceti artigianali e commerciali in espansione. Roma cominciò a moltiplicare i suoi abitanti, con gli immigrati dalle vicine contrade, di recente annesse, e con quanti da fuori venivano in città a cercare fortuna e che andavano a ingrossare i ceti plebei.

                          - L'esercito ebbe una nuova organizzazione nella legione e pure l'onere del servizio militare, che era anche un diritto per la distribuzione delle prede di guerra, che competé in primo luogo ai ceti più abbienti, indipendentemente dalla nascita. Roma cominciò a espandersi verso le foci del Tevere e nell'entroterra laziale raggiungendo presto la zona dei Colli Albani.

                          - L'abitato incluse poi il colle del Quirinale, cosicchè entro il VI sec., la Roma monarchica, governata dagli etruschi con tre re, diventò una grande città con il suo centro sacro del Campidoglio, dove venne edificato il tempio dedicato a Giove, Giunone e Minerva, e quello politico nel foro ai piedi del Palatino dove si indicavano i Comizi del popolo.

                          Questa politica suscitò opposizioni negli esponenti degli antichi ceti gentilizi formanti il patriziato, che si sentivano anche minacciati nei propri interessi dall'emergere di nuovi ceti plebei favoriti dai re di provenienza etrusca: approfittando dell'assenza di Tarquinio il Superbo, impegnato in una spedizione militare, con una congiura soppressero, verso il 510 a.c., la monarchia, instaurando al suo posto un regime repubblicano nel quale il potere esecutivo passò ai due pretori comandanti dell'esercito campale, successivamente chiamati consoli; solo in casi gravi di discordie interne o di pericoli esterni, richiedenti unità di comando, si faceva ricorso eccezionale a un dittatore nominato dai consoli.



                          V SEC. A.C.

                          Repubblica

                          - Roma, minacciata dalla calata dei popoli montanari: Equi, Volsci, Sabini, dovette abbandonare molte cittadine occupate nel Lazio e nel 493 a.c. strinse un patto di alleanza (foedus Cassianum) con le città latine, per combattere anche  la pressione degli etruschi.

                          - All'inizio del V sec. la classe patrizia controllava il Senato, manovrava con i suoi clienti le assemblee elettive e legislative e si accaparrava i terreni di proprietà dello Stato, su cui rivendicava diritti di precedenza.

                          -  La plebe che, costituita da piccoli commercianti, artigiani e piccoli imprenditori,  reclamò, attraverso  i propri tribuni  l'uguaglianza nell'ammissione alle magistrature, l'accesso all'ager publicus e l'alleggerimento dei debiti e dei tassi usurai.

                          Secessione Aventina

                          Non ottenendo nulla, i plebei si ritirarono una prima volta sull'Aventino, così  i patrizi accettarono come magistrati i tribuni della plebe con l'inviolabilità e il diritto di veto su ogni proposta dannosa per la plebe.

                          Poi i plebei ottennero la codificazione del diritto che pose fine all'arbitrarietà dei giudici che facevano gli interessi del patriziato, l'abolizione del divieto dei matrimoni tra i due ceti e l' accesso alle cariche pubbliche.



                          IV SEC. A.C.

                          Nella seconda metà del sec. IV a.c., Roma si espanse di nuovo nel Lazio. I Romani assediarono Veio, nel 396 a.c., e la conquistarono dopo un assedio di dieci anni.

                          Roma riorganizzò poi la Lega Latina e combattè a Sud con i Sanniti, che avevano occupato gran parte dell'Italia centromeridionale, strappando loro la Campania.

                          La lotta contro i sanniti (326 - 304 a.c.) fu vinta da Roma, che successivamente dovette affrontare Etruschi, Sabini, Umbri e Galli coalizzati contro di lei. Naturalmente vinse Roma.

                          Roma riorganizzò poi la Lega Latina e combattè a Sud con i Sanniti, che avevano occupato gran parte dell'Italia centromeridionale, strappando loro la Campania.

                          La lotta contro i sanniti (326 - 304 a.c.) fu vinta da Roma, che successivamente dovette affrontare Etruschi, Sabini, Umbri e Galli coalizzati contro di lei. Naturalmente vinse Roma.

                          Tutti i centri abitativi vennero divise in tre categorie:  i municipi con cittadinanza romana, per lo più in zone prossime a Roma; città e popoli alleati, cioè i socii, e le colonie. Tutti avevano autonomia amministrativa e non versavano tributi; dovevano però fornire contingenti militari, come ausiliari delle legioni, e non potevano stringere patti con altri popoli anche se alleati di Roma. Superate le lotte locali la popolazione crebbe ovunque, gli scambi commerciali si allargarono, favoriti da costruzioni di grandi strade.



                          III SEC.  A.C.

                          - Nel III sec., alla vigilia delle guerre puniche (270 a.c. circa), Roma, con circa 187.000 residenti, era seconda sul Mediterraneo occidentale, solo a Cartagine. Dopo la Lex Hortensia del 286 a.c., lo Stato romano stabilì che dei due consoli uno dovessero essere uno patrizio e uno plebeo,



                          REPUBBLICA

                          La classe patrizia controllava il Senato, manovrava con i suoi clienti le assemblee elettive e legislative e si accaparrava i terreni di proprietà dello Stato, su cui rivendicava diritti di precedenza.

                          Tutti i centri abitativi vennero divise in tre categorie:  i municipi, i cui abitanti avevano la cittadinanza romana, per lo più in zone prossime a Roma; città e popoli alleati, cioè i socii, e le colonie. Tutti avevano autonomia amministrativa e non versavano tributi; dovevano però fornire contingenti militari, inquadrati in reparti ausiliari delle legioni, e non potevano stringere patti separati con altri popoli e città anche se alleati di Roma.

                          Con il superamento delle lotte locali la popolazione crebbe ovunque, gli scambi commerciali si allargarono, favoriti da costruzioni di grandi strade. Ancora nel sec. III, dopo la Lex Hortensia del 286 a.c., lo Stato romano stabilì che dei due consoli uno dovesse essere patrizio e una plebeo.


                          Roma e Cartagine 

                          Cartagine andava allargando la sua penetrazione in Sicilia, per cui Roma dovette difendere gli interessi mercantili delle città greche del Sud, sue alleate, minacciate dai Cartaginesi in Sicilia, in Sardegna e Corsica. Così nel 264 a.c., scoppiò la I guerra punica, e Roma, dotatasi di forti flotte e di addestrati equipaggi, riuscì a sconfiggere Cartagine che dovette abbandonare prima la Sardegna e poi la Corsica.

                          Successivamente i Cartaginesi, rimessisi dalla sconfitta, avevano cercato di arricchirsi in Spagna, ma quando essi, al comando di Annibale, espugnarono la città di Sagunto, alleata di Roma, i Romani fecero scattare la II guerra punica, 218-202 a.c.



                          II SEC. A.C.

                          - Con la conquista di Cartagine del 146 a.c., Roma ebbe un notevole  allargamento delle zone abitate e quindi anche della popolazione, perchè moltissimi immigrati cartaginesi si spostarono a Roma per stanziarsi nella Capitale della Repubblica più importante di tutto il Mediterraneo; questo processo migratorio verso Roma però non iniziò solo dalla caduta di Cartagine, ma sin dall'inizio dell'espansione primordiale di Roma, solo che in modo minore.

                          Nella seconda metà del II sec. a.c., si ebbe un ulteriore sviluppo, Roma era il paese delle opportunità e tutti gli stranieri vi si recavano nella speranza di fare fortuna.  In effetti era sufficiente conoscere u qualsiasi mestiere: sarto, cappellaio, barbiere, massaggiatore, falegname, fabbro, marmista, ombrellaro, calzolaio, artigiano del cuoi per tende da carrozza, da finestra, tendoni da campo, mantelli, borse, sedute di sedie e sgabelli. Oppure una professione più qualificata come erborista, medico, insegnante, filosofo, avvocato, oppure un artista come  pittore, scultore, poeta e scrittore. Tutti cercavano fortuna a Roma. Dal 172 a.c. i consoli potevano essere ambedue plebei,

                          Al termine, Cartagine sconfitta, fu ridotta ai soli possessi africani, senza flotta e con enormi indennità da pagare; la Spagna rimaneva ai Romani. Seguirono guerre e spedizioni a catena, in cui Roma si estese su tutte le coste mediterranee, dal 199 al 146 a.c., Tra queste vi fu la III guerra punica, 149-146 a.c., in cui Cartagine fu distrutta e i suoi possedimenti africani divennero provincia romana

                          Capitolarono anche la Gallia meridionale, la Narbonese e il regno di Pergamo, venne creata la provincia d'Asia. Così Roma ebbe otto province: Sicilia, Sardegna-Corsica, Spagna Citeriore e Ulteriore, Macedonia, Africa, Asia, Gallia Narbonese. Ai confini delle province, poi, c'erano per lo più regni o città alleate.

                          Roma si arricchì di splendidi monumenti ed edifici. Ad essa tornarono in gran numero coloni romani e latini che, impoveriti dalle guerre e dalle ferme militari, abbandonavano le campagne italiche creando i latifondi. La popolazione romana aumentò enormemente, ma diminuì moltissimo nelle campagne italiche: nel censimento del 135 a.c. i cittadini romani adulti erano scesi a 317.993 da 337.452 registrati nel 163 a.c.. Ciò comprometteva l'efficienza dell'esercito legionario, che ora doveva montare la guardia da un capo all'altro del Mediterraneo. Era necessario ricostruire la classe contadina,

                          Tiberio Gracco si fece nel 133 a.c. promotore, come tribuno della plebe, di una riforma agraria per la distribuzione ai cittadini nullatenenti dell'ager publicus, l'insieme dei terreni confiscati ai popoli italici vinti e in larga parte occupati, in genere abusivamente, dai grandi proprietari patrizi

                          La riforma urtava contro gli interessi della nobiltà e turbava anche i rapporti con gli alleati latini e italici, essi pure colpiti dal recupero dell'ager publicus. Il Senato l'avversò con ogni mezzo: ne seguirono disordini e Tiberio Gracco venne ucciso dai suoi avversari.
                          Dieci anni dopo, il fratello Gaio che, eletto tribuno nel 123 a.c., ripropose la riforma agrariae anche lui venne ucciso nel 121 a.c..

                          Mancando i militari allo stato, Gaio Mario si servì degli arruolamenti volontari di proletari nullatenenti, per lo più ex contadini, che si attendevano poi la ricompensa, una volta congedati, in terre. Questo tipo di esercito di regola si rivelò più fedele al generale comandante che allo Stato stesso. Così Gaio Mario, col favore popolare, fu eletto console, e fu rieletto per cinque volte perchè vinse ogni nemico ed ogni battaglia

                          Prima di Cesare il censimento veniva fatto solo recandosi a Roma, e molti abitanti della Repubblica non si recavano nella capitale per registrarsi (solo i capi famiglia maschi potevano andarsi a registrarsi e dovevano dire al censore il numero dei componenti della propria famiglia); Tuttavia sappiamo che all'epoca di Augusto venne fatto un censimento in tutto l'impero, tanto è vero che nei Vangeli si dichiara che Maria e Giuseppe dovettero recarsi a Nazareth per farsi censire.



                          I SEC. A.C.

                           Mario e Silla 

                          La necessità di donare le terre ai reduci di tante battaglie fece riesplodere la questione agraria e accese la rivolta degli Italici che chiedevano la cittadinanza romana per aver anch'essi, al momento del congedo, le assegnazioni terriere.

                          Scoppiò così la guerra sociale (90-88 a.c.) e infine Roma  sconfisse gli Italici, ma dovette accordargli la cittadinanza romana. I cittadini romani passarono allora di colpo da ca. 400.000 a ca. 900.000.

                          Cornelio Silla, di famiglia nobile ma decaduta, ricevette dal Senato il comando di una nuova spedizione contro Mitridate, ma i comizi tributi trasferirono a Mario l'incarico.

                          Allora Silla marciò, alla testa delle sue legioni, su Roma dove entrò in assetto di guerra, e ristabilì l'autorità del Senato.

                          Roma ritornò in mano ai seguaci di Mario, ma Silla tornato vincitore dalle battaglie, sconfisse alle porte di Roma l'esercito dei Mariani e si nominò dittatore e restaurò l'oligarchia del senato.

                          Morto Silla il console M. E. Lepido cercò di ribellarsi al Senato, ma fu facilmente travolto da Gneo Pompeo, già distintosi nella guerra civile dell'83-82 a.c. come valido alleato di Silla e più tardi per aver represso le ultime resistenze dei democratici in Sicilia e in Africa.

                          Alla morte di Silla, Pompeo, che nel 70, come console, aveva ripristinato i poteri tribunizi umiliati da Silla, ed eliminato la pirateria, ottenne dal senato un comando senza limiti di tempo e con piena facoltà di intraprendere guerre o concludere paci, ed egli se ne avvalse per sconfiggere Mitridate ed invadere l'Oriente conquistando l'Asia anteriore, la Siria e la Palestina.

                          A Roma Cicerone si illuse di aver reintegrato il Senato nell'antico prestigio, ma  si era visto negare dal Senato, geloso e timoroso della sua potenza, la ratifica delle misure prese in Oriente e la sistemazione dei veterani.

                          Allora Cesare, di discendenza nobile ma dei populares come suo zio Mario, eletto console nel 59 a.c., dopo aver fatto ratificare gli ordinamenti che Pompeo aveva dettato in Oriente, fece approvare la legge agraria per la distribuzione di terre ai veterani di Pompeo e alla plebe povera.

                          Partito poi, nel 58 a.c., con poteri proconsolari per la Gallia, Cesare riuscì a sottomettere tale immensa regione definitivamente nel 51 a.c., con un esercito addestrato e fedele e un'enorme riserva di ricchezze, con un prestigio militare che oscurava pure Pompeo.

                          Avendogli il Senato, istigato da Pompeo, intimato di cedere il comando della Gallia e di sciogliere l'esercito, Cesare, consapevole che ubbidire significava per perdere ogni potere, dopo aver cercato invano un compromesso, ordinò alle sue truppe di varcare il Rubicone (49 a.c.), che segnava il confine tra il territorio romano e quello provinciale, ponendosi così fuori della legge.

                          Dopo una rapida discesa lungo la penisola, Cesare entrò senza fare rappresaglie a Roma, dalla quale erano però fuggiti, rifugiandosi nella penisola balcanica, Pompeo e i suoi seguaci, e, impadronitosi del tesoro statale, passò in Spagna dove vinse l'esercito pompeiano. Fattosi eleggere console nel 48 a.c., dopo aver preso alcune misure per risollevare la precaria situazione economica, affrontò Pompeo a Farsalo (48 a. c.)  e lo vinse dimostrando grande abilità tattica, nonostante la superiorità delle forze pompeiane.

                          Stroncato nel 45 a.c. un ultimo focolaio di resistenza a Munda in Spagna, liquidando così ogni forma di opposizione, Cesare, si trovò padrone del mondo romano e poté dunque iniziare un'opera grandiosa di riforme costituzionali, amministrative e sociali: allargò il Senato, aumentò il numero dei magistrati, riorganizzò municipi e colonie, creò nuove colonie tra cui Cartagine e Corinto, represse gli abusi nel governo delle province, riformò il calendario.

                          Promosse a Roma anche grandiose opere pubbliche come la sistemazione del Foro, e favorì le lettere e le arti, istituendo la prima biblioteca pubblica di Roma. Ma alle Idi di marzo del 44 a.c., cadde ucciso in un complotto organizzato da Bruto e Cassio, al quale presero parte una sessantina di giovani, tutti esponenti della nobiltà.




                          I SEC. D.C.



                          Augusto

                          - Si aprì così una lunga serie di lotte civili che sconvolse il mondo romano. Marco Antonio, fedelissimo di Cesare, del quale voleva raccogliere l'eredità politica: ma Ottaviano venne designato inaspettatamente dal prozio Cesare come erede adottivo dei suoi beni.

                          - Preso il nome di Cesare Ottaviano, questi sottrasse ad Antonio, gran parte delle forze militari cesariane. Accortosi poi che il Senato cercava di estrometterlo per restaurare i suoi antichi poteri,  si presentò alle porte di Roma con un esercito, si fece nominare console e si accordò col rivale nel 43 a.c., assieme a Emilio Lepido, altro fedele cesariano, per costituire un triumvirato quinquennale, poi ratificato dal Senato, per di riordinare lo Stato.

                          - I triumviri sconfissero a Filippi, nel 42 a.c., le forze di Bruto e Cassio che tenevano sotto controllo l'Oriente, e si divisero il territorio dell'impero. Ottaviano, responsabile dell'Italia, si trovò a fronteggiare una ribellione causata dalle spogliazioni di terre a favore dei veterani.  Domata l'insurrezione, ristabilì l'accordo con Antonio, e distrusse nel 36 a.c. la flotta di Sesto Pompeo, dopo aver cacciato Lepido dal governo dell'Africa, Poi sconfisse Antonio e di Cleopatra e divenne padrone dell'Occidente, come princeps senatus,  ovvero primus inter pares, nonchè imperator.

                          - La città, con circa 1.200.000 abitanti, fino allora divisa in quattro distretti corrispondenti alle quattro tribù urbane (Esquilina, Palatina, Suburana, Collina), fu riorganizzata in quattordici regioni e l'Italia, che contava  una decina di milioni di abitanti, fu suddivisa in undici regioni con 300 municipi forniti di autonomia locale.

                          - L'abbandono della politica di espansione, inizio di un lungo periodo di pace, permise anche di fissare in venticinque legioni gli effettivi dell'esercito, 250.000 uomini, che Augusto trasformò in milizia stanziale distribuendola ai confini per la difesa.

                          - Come già Cesare, anche Augusto promosse grandiose opere pubbliche a Roma,: costruì o restaurò templi per favorire gli antichi Dei contro il diffondersi delle religioni orientali; eresse teatri, riparò strade. Favorì la cultura, e la letteratura latina conobbe in questo periodo, con Virgilio, Orazio, Livio, il suo momento più alto.

                          - Secondo alcuni studiosi in età imperiale Roma aveva circa 1.200.000 abitanti (schiavi e immigrati esclusi). Sappiamo per certo comunque che al tempo di Cristo l'Impero contava ben 25 milioni di abitanti e la città più popolosa appunto era Roma che aveva una densità abitativa pari a 50.000 persone per km quadrato, simile alla densità odierna di Genova e Napoli.

                          - In realtà la percentuale delle nascite era inferiore ai morti, ma a far salire la popolazione romana c'erano gli immigrati che per tutta la vita dell'Impero arrivavano ininterrotti a flussi costanti. Infatti Augusto spinse la popolazione a procreare, donde la lotta contro il celibato e i privilegi ai padri di tre figli o di quattro (se libertini).



                          Popolazione delle maggiori città dell'impero nel I sec. D.C.

                          Roma - 1,200,000
                          Alessandria - 600,000
                          Antiochia - 500,000
                          Cartagine - 400,000
                          Pergamo - 350,000
                          Efeso - 250,000
                          Atene - 150,000
                          Gerusalemme - 130,000
                          Lepitus Magna - 100,000
                          Mileto - 100,000
                          Lugdunum - 95,000
                          Smyrna - 80,000
                          Tarraco - 70,000
                          Mediolanum - 70,000
                          Ostia - 50,000

                          - Roma è bellissima, potente e rumorosa:
                          "La mattina non ti lasciano vivere i maestri di scuola, di notte i fornai e a tutte le ore del giorno i fabbri che battono con i loro martelli. Qua c'è un cambiavalute che, non avendo altro da fare, rivolta un mucchio di monete sul suo sudicio tavolo; là un orafo che batte l'oro di Spagna per modellarlo; e non smettono di vociare rumorosamente i religiosi, fanatici seguaci della dea Bellona. E non la smettono più! Il naufrago, tutto avvolto nelle bende, ripete la sua storia; il piccolo ebreo, ammaestrato dalla madre, chiede l'elemosina frignando; il venditore ambulante offre gridando la sua merce... E chissà quante mani battono in città su recipienti di rame quando, durante un'eclissi di luna, si fanno sortilegi e pratiche di magia? "
                          (MARZIALE)

                          Il traffico a piedi è un'impresa:
                          - "A me, che vado sempre di fretta, la folla che mi precede mi sbarra la strada; quella che mi segue mi spinge la schiena; uno mi pianta un gomito in un fianco, un altro mi colpisce forte con un bastone, un altro ancora mi sbatte in testa una trave, quell'altro una botte. Le gambe affondano nel fango, da ogni parte suole grandi così mi pestano i piedi, un militare mi buca l'alluce con i chiodi dei suoi scarponi" (GIOVENALE)

                          - C'erano due tipi principali di abitazione, la domus (residenza signorile) e l'insula (grandi caseggiati a più piani con appartamenti in affitto), per un totale di 1790 domus e 44.300 insulae. I più ricchi possedevano anche gli horti, vaste proprietà periferiche caratterizzate da enormi giardini, e le ville, costruite al di fuori dell'area urbana.

                          - Tuttavia il problema degli alloggi era gravissimo perché gli abitanti erano troppo numerosi. Vitruvio (I secolo d.c.) scrive che "i cittadini sono così numerosi che bisogna costruire dappertutto le abitazioni".

                          Il traffico in carrozza, vietato di giorno, si scatena di notte:
                          - "A Roma la maggior parte degli ammalati muore di insonnia... Ma c'è una casa in affitto che a Roma permetta di dormire? Solo ai ricconi è permesso dormire. La colpa di questo malanno è soprattutto dei carri che vanno su e giù lungo i vicoli, e delle mandrie di animali che si fermano e fanno un fracasso che toglierebbe il sonno... ad una vacca marina".
                          (GIOVENALE)

                          - Ma non era solo il traffico a togliere il sonno.
                          "Abito proprio sopra le terme. Il vociare è tale che vorresti essere sordo. Se i più robusti si esercitano con i pesi, sento i loro mugolii quando aspirano l'aria, e ansimano affannosamente. Se qualcuno si fa fare un massaggio, sento il colpo della mano sulla sua spalla, con un suono diverso secondo che sia dato a mano piatta o concava. Se viene quello che vuole giocare a palla e comincia a contare i colpi ad alta voce, è finita ".
                          (SENECA)

                          - "Insomma, il povero non ha un luogo per pensare o per dormire in pace a Roma"
                          (MARZIALE)

                          In strada poi può cadere di tutto, dalle tegole ai topi e ai contenuti degli orinali:
                          "E pensa ora a tutti i diversi pericoli della notte: la distanza da te alla cima dei tetti, da dove una tegola può sempre cascare giù e spaccarti la testa; vasi crepati e rotti che spesso cadono dalla finestra: guarda che segno lasciano sul marciapiede! Sei considerato pigro ed imprevidente se esci di casa per andare a cena da qualche parte senza prima aver fatto testamento. Tante volte puoi morire, quante sono di notte le finestre aperte sulla strada per la quale tu passi. Augurati quindi che le finestre si contentino di versarti sulla testa i contenuti dei loro catini."
                          (GIOVENALE)

                          Questi palazzi a cinque-sei piani, costruite da imprenditori disonesti, che usavano materiali scadenti, e amministrati da proprietari esosi, erano a rischio di crolli gli incendi. Infatti solitamente i palazzi erano troppo alti rispetto al perimetro di base, e i muri maestri non superavano i 45 cm di spessore: vedersi crollare la casa sulla testa era una delle esperienze più temute dagli inquilini, e una delle più probabili.

                          " Abitiamo in una città che si regge in gran parte su fragili puntelli. Con questi il padrone di casa tiene in piedi le mura pericolanti. Ricopre con della calce una vecchia crepa e ci invita a dormire tranquilli anche sotto la minaccia di un crollo improvviso ".
                          (GIOVENALE)

                          -  Altro incubo dei romani erano gli incendi, che in città erano frequentissimi. In caso di incendio, chi abitava ai piani superiori non aveva possibilità di scampo: i vigili del fuoco non erano in grado di far arrivare l'acqua oltre il secondo piano.
                          Il terzo piano è in fiamme; tu non te ne sei nemmeno accorto, perché mentre in basso sono già tutti scappati, chi sta lassù - dove le colombelle depositano le uova - quello, sia pure per ultimo, è destinato ad arrostire. "
                          (GIOVENALE)

                          - Città invivibile? Può darsi. Ma, per dirla con Marziale, " Dea del mondo e delle genti, Roma, cui nulla è pari e nulla è secondo. "

                          Dinastia Giulio-Claudia

                          - Dopo la morte di Augusto, il principato si trasmise agli esponenti della famiglia giulio-claudia (Tiberio, 14-37; Caligola, 37-41; Claudio, 41-54; Nerone, 54-68), fino a che i rapporti tra popolo col Senato e l'aristocrazia non si guastarono definitivamente con Nerone.

                          Tiberio
                          - Tiberio, fedele alla politica augustea di equilibrio col Senato, si dimostrò abile politico e ottimo amministratore, rivelandosi grande generale nelle campagne in Germania e in Armenia, ma fu ritratto come tiranno nella storiografia di parte aristocratica (vedi Tacito).

                          Claudio
                          - Claudio, succeduto al folle e crudele Caligola, svolse un'ottima politica curando l'organizzazione burocratica e finanziaria dell'Impero, e favorendo l'integrazione delle province, alle quali aggiunse anche la Britannia, ma fu oggetto di scherno e denigrazione da Seneca, esponente dell'aristocrazia senatoria. 

                          Nerone
                          Con Nerone sembrò tornare l'equilibrio, ma presto esercitò un assolutismo di tipo orientale, con un esagerato filellenismo, e con crudeli intrighi familiari che gli portarono l'ostilità del senato. Nel 64 fu sospettato di aver appiccato il grande incendio che distrusse Roma. Nel 65 riuscì a sventare una congiura ordita dai massimi esponenti dell'aristocrazia, tra cui i Pisoni, Seneca, Lucano, e ne confiscò i beni accrescendo il patrimonio imperiale. Ma quando il malcontento raggiunse l'esercito, Nerone si fece uccidere da un servo (68). 


                          Dinastia Flavia

                          Vespasiano
                          Dopo quasi un biennio (68-69) di dure lotte per la successione, nel quale i capi militari Galba, Otone e Vitellio riuscirono a farsi proclamare imperatori, finendo però tragicamente subito dopo, prevalse il generale italico Vespasiano, capostipite della dinastia Flavia, originaria della Sabina: fu acclamato imperatore dalle legioni di Oriente al comando delle quali si trovava nella repressione della rivolta giudaica del 66, che si concluse nel 70 con la presa di Gerusalemme a opera del figlio Tito.
                          Ristabilì l'accordo col Senato riportando nell'Impero l'elemento italico, introdotto sempre più nel Senato, nell'amministrazione e nella milizia, Con la Lex de imperio Vespasiani, estese le funzioni giuridiche del principe su tutte le magistrature civili, militari e religiose e in politica estera, perfezionò il sistema fiscale, riorganizzò il sistema giudiziario, rese più efficienti i governi locali, accentuò gli arruolamenti tra i provinciali, scarseggiando ormai gli italici che si davano alle carriere amministrative.

                          Tito
                          Durante il suo breve regno  (79-81), durante il quale avvenne la grande eruzione del Vesuvio che distrusse Pompei ed Ercolano, si dimostrò come il padre persona saggia e grande generale, 

                          Domiziano
                          (81-96) Continuò la politica paterna sia nell'incrementare l'apparato burocratico e giudiziario, sia nel coordinare lo sviluppo economico, sia ancora nel consolidare i confini, ma le sue tendenze dispotiche posero fine all'accordo col Senato che si vedeva sempre più esautorato dal consilium principis, un ristretto organo consultivo formato da familiari e da amici del principe, introdotto già da Augusto, ma divenuto potente a partire da Vespasiano. 

                          Nerva
                          - (96-98) Ultimo rampollo della dinastia Flavia, sempre per l'incremento della natalità, provvide all'assistenza all'infanzia con  le istituzioni alimentari a loro favore.

                          DEMOGRAFIA NELL'IMPERO (ANNO 117 D.C.)

                          II SEC. D.C.

                          Imperatori adottati

                          Traiano 
                          (98-117) ottimo princeps, ovvero  il migliore imperatore conosciuto da Roma nell'arco di tutta la sua lunga storia. Provvide all'assistenza all'infanzia con  le istituzioni alimentari a loro favore.
                          - La popolazione di Roma aumentò in età antonina (metà del II secolo), con 1.200.000-1.700.000 residenti stipati in circa 49.000 edifici, per la maggior parte insule. La città raggiunse gli stessi livelli demografici solo nel censimento del 1951.

                          Adriano
                          - (117-138) Ai cittadini condonò i debiti verso il fisco e stabilì che ogni quindici anni si facesse una revisione dei debiti e che le imposte, anziché col sistema degli appalti, venissero riscosse direttamente. Tolse ai padroni il diritto di vita e di morte sugli schiavi. Stabilì pene severe contro i padroni che maltrattavano i servi. Proibì il commercio degli schiavi quando si offendeva il pudore e le leggi dell'umanità. Tolse la pena di morte agli schiavi che, in caso di uccisione del padrone, Mantenne gli aiuti per gli orfani e i bambini indigenti. Roma mantiene il suo enorme abitato.

                          Antonino Pio
                          - (138-161 d.c.) Tra le tante riforme aumentò le elargizioni alla plebe di Roma, oltre ai 200.000 cittadini che avevano grano e acqua senza lavorare per la legge di Augusto, fece distribuire anche olio e vino.

                          Marco Aurelio
                          - (161-180 d.c.) Fu uno degli imperatori più generosi e giusti dell'impero, molto sollecito coi poveri e i derelitti, tuttavia la popolazione romana decrebbe a causa dell'inondazione del Tevere e della pestilenza.



                          III SEC. D.C.

                          Aureliano
                          - Occorre arrivare al III sec. d.c. per trovare un imperatore intelligente, equilibrato ed ottimo generale: Aureliano  (270-275 d.c.), purtroppo ucciso a tradimento dai soldati.



                          IV SEC. D.C.

                          - Al principio del sec. IV d.c. la lotta contro la denatalità cessa, forse perché le condizioni estremamente complesse della vita dell'impero non le avevano permesso di essere efficace. Le istituzioni alimentarie per i bambini poveri cessano del tutto con Costantino.




                          V SEC. D.C.

                          Circa cent'anni dopo (410 d.c.) Teodosio e Onorio aboliscono i privilegi dei padri di tre figli.
                          Colla decadenza dell'impero, nei duecento anni successivi, la popolazione decrebbe si che all'inizio del V secolo si attestava fra i 700.000 e il 1.000.000 di abitanti.

                          - Verso la metà del V secolo, dopo il sacco del 410, Roma si attestava a non più di 650.000 abitanti dentro le mura.



                          VI SEC. D.C.

                          - Il secondo sacco ad opera dei Vandali (455), molto più distruttivo del precedente, cui seguirono anni di guerre e carestie, decimarono la popolazione, si che all'inizio del VI sec. gli abitanti di Roma non superavano le 200.000 persone.

                          - Dopo la guerra gotica che per quasi un ventennio devastò il Lazio e buona parte d'Italia (535-553), la popolazione scese ancora a non più di 100.000 persone.



                          GLI IMPERATORI ADOTTIVI 

                          L'aristocrazia, colpita con indiscriminate confische di beni, ordì una congiura che eliminò Domiziano e portò al potere l'anziano senatore Cocceio Nerva, che dette inizio alla serie degli imperatori adottivi (Nerva, 96-98; Traiano, 98-117; Adriano, 117-138; Antonino Pio, 138-161; Marco Aurelio, 161-180), con i quali l'Impero conobbe il periodo della sua maggiore stabilità in una continuata prosperità economica. .

                          Seguaci dell'ideale stoico secondo cui al vertice dello Stato deve essere il migliore tra i cittadini in grado di operare per il benessere comune, gli imperatori adottivi, forti dell'alleanza con la classe dirigente dell'Impero, garantirono i confini con opere di difesa e con una sagace dislocazione delle legioni, migliorando l'apparato burocratico con la gerarchizzazione delle carriere, stimolando lo sviluppo economico con opere pubbliche e favorendo il progresso culturale.


                          TRAIANO

                          Traiano, primo imperatore provinciale nato a Italica in Spagna, abile generale, allargò un po' dovunque, dove lo richiedevano ragioni di sicurezza e di difesa, i confini dell'Impero che, con lui, raggiunse la sua massima espansione territoriale: conquistò infatti la Dacia, l'odierna Romania (105), assoggettò l'Arabia settentrionale (106), l'Armenia (114) e l'Assiria (116), riuscendo così a controllare anche le vie carovaniere del Mar Rosso.


                          ADRIANO

                          Riprese la politica difensiva augustea rafforzando ovunque i confini con nuove linee fortificate (come il vallo in Britannia) e stabilendo, dove era possibile, rapporti di alleanza con i barbari confinanti.

                          Il ritorno della pace, insieme all'oro della Dacia affluito in gran quantità sui mercati dell'Impero, fece riprendere vigore, in Italia e nelle province, all'attività produttiva in ogni settore, artigianale e agricolo: gli scambi commerciali, favoriti anche dalla grandiosa rete stradale, ovunque sviluppata, che univa tra loro le più lontane province, si infittirono rinsaldando così l'unità politica e culturale dell'Impero, che si estendeva su una superficie di oltre tre milioni di km² con 50-60 milioni di abitanti (ca. 15-20 ab. per km²). Numerose città furono abbellite con edifici e monumenti fastosi anche nell'Occidente, in Gallia, in Spagna, in Africa, province in cui la romanizzazione trovò stimolo in larghe concessioni della cittadinanza romana e dei diritti latini a interi centri urbani.

                          Tuttavia si andavano poi delineando differenziazioni sociali tra gli honestiores, i ceti dominanti da una parte, e gli humiliores, i nullatenenti diseredati dall'altra, nei confronti dei quali lo Stato non sapeva che prendere misure di assistenza momentanee e dispendiose come le distribuzioni di grano e di altri generi.


                          MARCO AURELIO

                          Un brusco e drammatico risveglio dalla lunga pace si ebbe durante l'impero di Marco Aurelio, l'imperatore filosofo deciso a realizzare fino in fondo l'ideale stoico del sovrano impegnato costantemente, al servizio dello Stato, a migliorare le condizioni di vita dei sudditi: i Parti avevano attaccato l'Armenia e bande di Marcomanni, alla testa di una vasta coalizione germanica, avevano assaltato i confini danubiani, mentre una rovinosa pestilenza, venuta dall'Oriente, dilagava nell'Impero decimando le popolazioni, già stremate da carestie.

                          Per il momento il pericolo barbarico fu però scongiurato grazie all'abilità dell'imperatore: con l'aiuto del coreggente Lucio Vero, riuscì infatti ad aver ragione dei Parti e a riaffermare, con una pace conclusa nel 166, la superiorità romana nel settore armeno. Più tardi Marco Aurelio ristabilì la pace anche lungo il confine danubiano sconvolto per anni dai continui assalti barbarici (un'incursione di Marcomanni e Quadi aveva persino raggiunto Aquileia nel 167) e riportò le popolazioni germaniche alla clientela, senza tuttavia procedere a nessuna annessione.

                          Pure domate erano state alcune ribellioni in Spagna e Britannia (161) e in Mauretania (172-173) e la rivolta del governatore Avidio Cassio in Oriente (175). Le difficoltà e le angosce del tempo sono riflesse nei bassorilievi della superstite colonna dedicata alle campagne di Marco Aurelio (oggi in Piazza Colonna) in cui non c'è più la limpidezza descrittiva dell'altra colonna dedicata alle imprese di Traiano più di mezzo secolo prima.


                          COMMODO


                          Morto Marco Aurelio di peste nel 180, gli succedette il figlio Commodo il quale, con atteggiamenti dispotici e una condotta spesso dissennata, ruppe l'alleanza con l'aristocrazia senatoria sui cui membri infierì con esecuzioni e confische, Eliminato Commodo in una congiura nel 192, il Senato non riuscì più a imporre stabilmente un proprio candidato, come aveva fatto un secolo prima con Nerva, e l'Impero precipitò temporaneamente nell'anarchia.


                          PERTINACE

                          Dapprima fu nominato imperatore il senatore Pertinace, ma, dopo soli tre mesi di principato, i pretoriani, preoccupati per il programma di austerità e parsimonia che egli aveva instaurato allo scopo di riparare ai danni causati alle finanze statali dalla politica folle del predecessore e dalle forti spese sostenute nelle guerre di Marco Aurelio, lo uccisero.


                          SETTIMIO SEVERO

                          Nella contesa che seguì per la successione tra vari aspiranti, cioè Didio Giuliano, che aveva ottenuto dal Senato il titolo di Augusto dopo aver versato a ciascuno dei pretoriani 25.000 sesterzi contro i 20.000 offerti dal concorrente Sulpiciano (l'Impero all'asta!), Pescennio Nigro, legato di Siria e sostenuto dalle legioni di Oriente, Clodio Albino, legato di Britannia, e Settimio Severo, un originario di Leptis Magna acclamato imperatore dalle legioni del Reno e del Danubio, ebbe la meglio quest'ultimo che riuscì a eliminare gli avversari a uno a uno, dopo aver occupato Roma nel giugno del 193 e aver fatto ratificare la sua nomina dal Senato.

                          Attivò una politica di accentramento, con cure particolari ai ceti bassi, esautorando, il Senato, potenziando  l'esercito (con sempre più elementi barbari), diminuendo i privilegi di cui ancora godeva l'Italia rispetto alle province.

                          Nel 198 sconfisse i Parti rafforzando il dominio romano in Mesopotamia, dove fu istituita una nuova provincia, rese più sicuri i confini danubiani, fece avanzare verso il deserto il limes africano, e, nel 208, assicurò la pace anche nella regione oltre il vallo di Adriano.

                          Tuttavia le grandi spese militari e le spese per l'amministrazione e le opere pubbliche, appesantirono il bilancio dello Stato, cosicché dovette inasprire la politica fiscale,: obbligando gli agricoltori a consegnare allo Stato, per il vettovagliamento delle truppe, parte dei loro raccolti.

                          La pressione fiscale, se mantenne in sesto il bilancio, danneggiò le attività commerciali e artigianali e l'ulteriore fuga dalle campagne di molti piccoli agricoltori, la classe media, specialmente quella italica, iniziò a decadere, mentre diventavano sempre più potenti i militari.


                          La cittadinanza romana ai cittadini dell'Impero 

                          Provvedimento sfavorevole al primato dell'Italia fu la Constitutio Antoniana de civitate (212), con la quale Caracalla concesse la cittadinanza romana a tutti i cittadini liberi dell'Impero, a esclusione dei dediticii (gli abitanti di centri rurali di origine barbarica). Il provvedimento, che sanciva l'uguaglianza di tutti gli abitanti dell'Impero, permise una tassazione uniforme e regolare con un gettito più abbondante, quale richiedevano sia le immense spese militari, sia le spese burocratiche e amministrative dello Stato.

                          Caracalla continuò la politica accentratrice del padre: uccise il fratello Geta, a lui associato nell'Impero, e fece sopprimere chiunque gli si opponesse, con una corte sempre più simile alle corti orientali e  propagatrice delle religioni orientali contro la vecchia religione romana, venne ucciso da una congiura a Carre nel 217.

                          Dopo il breve regno di Macrino, un cavaliere di origine mauretana che scontentò esercito e Senato finendo ucciso, il potere tornò nelle mani della famiglia dei Severi con Eliogabalo, appena quattordicenne e sacerdote del dio Sole di Emesa in Siria: anch'egli fu però presto eliminato, nel 222, per le ripetute follie e il dispotismo mistico di stampo orientale.

                          Il successore Alessandro Severo, giovanissimo e debole, cercò vanamente di ristabilire l'equilibrio tra la classe militare e l'aristocrazia senatoria, ma si alienò l'esercito che, nel 235, gli si ribellò e lo uccise, acclamando nuovo imperatore Massimino, un cavaliere della Tracia che aveva fatto tutta la carriera nell'esercito e che il Senato avversò per la dichiarata volontà di continuare l'assolutismo militare e la forte pressione fiscale.

                          Per quasi mezzo secolo, gli imperatori furono fatti e disfatti dall'esercito, mentre i barbari attaccavano da ogni parte le frontiere seminando terrore e distruzione. Nel 242-243 le orde di Goti e di Carpi, varcato il Danubio, dilagarono nella Tracia occupando la Mesopotamia e parte della Siria. Per il momento le invasioni furono respinte e, nel 248, l'imperatore Filippo poté celebrare  il millennio di Roma, ma dopo qualche anno, le inasini si ripeterono, e l'imperatore Decio (248-251), venisse ucciso in battaglia, e Valeriano (253-260), venne catturato e morì in prigionia.


                          POSTUMO

                          Con l'usurpatore Postumo, si costituì un Impero nell'Impero, comprendente Gallia, Spagna e Britannia, che mantenne la propria autonomia per quattordici anni (260-274); in Oriente il principe di Palmira, Odenato, e successivamente la vedova Zenobia col figlio Vaballato, estesero il loro dominio su gran parte di quelle province, mentre si infittirono sempre più le incursioni barbariche, una delle quali arrivò fino ad Atene.


                          CLAUDIO 

                          Con l'imperatore Claudio (268-270), ma soprattutto con Aureliano (270-275), ufficiale pannonico, ebbe inizio la ripresa, per i rinforzi militari venuti dalle regioni danubiane, sconfiggendo Alemanni, Marcomanni, Vandali, Goti. la Dacia transdanubiana, la cui difesa diventava difficile, venne però abbandonata, ma Palmira fu alla fine distrutta e l'Oriente riconquistato (272); nel 274 rientrava pacificamente anche la secessione occidentale e l'Impero era così riunificato.


                          AURELIANO

                          Per meglio difendere Roma, Aureliano la ricinse allora di una possente cerchia di mura (quasi 19 km).


                          DIOCLEZIANO

                          Grande figura di imperatore fu Diocleziano (284-305), un generale illirico di modeste origini (era figlio di un liberto).

                          Dopo aver domato, nei primi anni del suo governo, numerose rivolte militari e aver respinto le incursioni barbariche ai confini, rafforzò l'autorità dell'imperatore; riorganizzò i sistemi amministrativi, giudiziari e finanziari dello Stato; risanò l'economia sempre più in difficoltà e rinnovò i quadri militari.



                          LA TETRARCHIA

                          Per evitare le lotte interne e le usurpazioni  e per garantire la difesa e un maggior controllo del potere centrale nell'Impero, dette vita alla tetrarchia nominando come secondo Augusto per l'Occidente Massimiano, mentre egli tenne il governo dell'Oriente: ognuno dei due si nominò poi un Cesare, nelle persone rispettivamente di Costanzo Cloro e di Galerio, che avrebbero dovuto succedere loro scegliendo poi a loro volta altri due Cesari, in modo da garantire una successione automatica senza più contese.

                          I due Augusti e i due Cesari si suddivisero aree e compiti di governo, ognuno con una sua capitale prossima alle frontiere, che fu Nicomedia per Diocleziano e Sirmium per Galerio, Milano per Massimiano e Treviri per Costanzo: Roma era ormai troppo lontana dalle zone calde di confine.

                          Diocleziano suddivise gli effettivi dell'esercito, di 500.000 unità, in reparti di guarnigione, limitanei, stanziati stabilmente alle frontiere, e in reparti mobili, comitatenses, stanziati presso le capitali al seguito delle corti, ma pronti ad accorrere nelle zone più esposte a pericoli. Venne velocizzata la burocrazia e un nuovo sistema fiscale di tipo catastale rese la tassazione più regolare e copiosa in vista del risanamento dello Stato.

                          L'aggravarsi della pressione fiscale, anche se benefico all'inizio, procurò poi la diserzione delle campagne e l'abbandono della professione: venne allora sancita l'ereditarietà delle professioni e il divieto ai contadini di abbandonare i campi, cosa che ucciderà la libera iniziativa economica.

                          I cristiani erano aumentati, nonostante le persecuzioni a opera di Decio e Valeriano, dopo la tolleranza di cui avevano goduto nell'epoca degli Antonini. Contro di loro, ritenuti un pericolo per l'unità dell'Impero, Diocleziano scatenò nel 303 in Oriente, in Africa e in Italia una violenta persecuzione.




                          FINE DELLA TETRARCHIA


                          COSTANTINO

                          Costantino (306-337), figlio di Costanzo Cloro, col fallimento del sistema tetrarchico, nella lotta di successione seguita all'abdicazione di Diocleziano (305), si liberò degli avversari (tra cui Massenzio nel 312). Nel 313 emanò l'Editto di Milano che sancì la libertà di culto, ma di fatto instaurò come religione principale il cristianesimo, partecipando in persona al Concilio di Nicea nel 325.


                          GIULIANO 

                          - L'imperatore Giuliano (361 - 363 d.c.), una delle personalità più elevate della serie imperiale romana, per un suo senso del dovere e quella sete di giustizia che ricordavano Marco Aurelio: nipote di Costantino, già Cesare dal 355 di Costanzo II, al quale era succeduto nel 361, cercò di ridimensionare le spese, ma la sua azione finanziaria e politica ad ampio raggio, insieme al tentativo di restaurare la religione pagana in un ritorno allo spirito della tradizione repubblicana di Roma, rimase interrotta perchè fu ucciso nel 363 combattendo contro i Persiani in Mesopotamia.



                          LE INVASIONI BARBARICHE

                          - 363 d.c. -
                          Ripresero allora le incursioni barbariche ai confini, interrotte negli ultimi decenni grazie all'attenuarsi della pressione da Oriente dei più lontani popoli asiatici. Ma quando gli Unni, sospinti a loro volta dai Mongoli, varcarono il Volga, l'equilibrio fu nuovamente infranto e le popolazioni germaniche stanziate nell'Europa orientale furono costrette ad avanzare verso i confini dell'Impero.

                          - Nel 378 d.c. -
                          - I Visigoti attaccarono Adrianopoli: l'esercito romano, ormai costituito in maggioranza di barbari, venne travolto e lo stesso imperatore Valente, che aveva invano cercato un compromesso permettendo ai Visigoti di stanziarsi nel territorio romano, fu ucciso.


                          TEODOSIO

                          Teodosio, (379 - 395) ordinò la religione cristiana come unica ufficiale dello Stato romano mentre interdisse il culto pagano. la famosa tolleranza religiosa di Roma naufragò per sempre.

                          Il ritorno dell'ordine all'interno e della sicurezza ai confini per le riforme di Diocleziano, insieme alle ricchezze confiscate ai templi pagani, favorirono nel sec. IV una notevole ripresa economica, con gli stanziamenti di barbari operati dagli imperatori, l'agricoltura prosperò  e fu intensificata, anche con fabbriche di Stato, la produzione manifatturiera artigianale e pure i commerci, favoriti dalla ripresa dell'urbanesimo.

                          Grande incremento dell'attività edilizia soprattutto nella nuova capitale Costantinopoli la cui costruzione richiese ricchezze immense. Roma stessa ottenne nuovi grandiosi edifici, le terme di Diocleziano, la basilica di Massenzio, l'arco di Costantino.
                          Tuttavia la riorganizzazione che aveva reso più efficienti i servizi statali e permesso la ripresa, alla lunga portò a un tale aumento delle persone a carico dello Stato e ciò, insieme alle spese militari, al dispendio delle corti e alle distribuzioni di grano e di altri viveri alle plebi urbane per garantire l'ordine pubblico, causò una irreparabile dilatazione della spesa pubblica.

                          Teodosio consentì a numerose comunità di barbari di stanziarsi entro i confini dell'Impero come federati: ciò favorì il graduale insediamento barbarico nei posti di comando imperiali gettando le basi dei futuri regni romano-barbarici. Morto Teodosio, il potere centrale si indebolì, anche per l'inefficienza degli Augusti, spesso adolescenti sotto tutela, e le invasioni barbariche non trovarono più ostacoli.

                           - Nel 410 d.c. -

                          I Visigoti, guidati da Alarico, irruppero in Italia all'inizio del sec. V: inizialmente furono fermati da un esercito composto in maggioranza di barbari ma riuscirono ad arrivare quasi indisturbati fino a Roma che presero e saccheggiarono .

                          - Nel 451 -

                          Gli Unni di Attila: scacciati dalla Gallia, dove si erano nel frattempo insediati i Visigoti, dopo una sconfitta a opera del generale barbarico Ezio che combatteva per Roma, invasero l'Italia settentrionale seminando terrore, ma poi si ritirò.

                          - Nel 455 -

                          Roma fu nuovamente messa a sacco dai Vandali di Genserico. Mentre la parte orientale sopravvisse per più secoli ancora, quella occidentale, a causa degli incessanti attacchi barbarici avvenuti nel corso della prima metà del sec. V, perse definitivamente la propria unità politica frantumandosi nei vari regni barbarici che si erano venuti a costituire nelle province romane.

                          - Nel 476 d.c.  -

                          Odoacre, il generale sciro salutato re dai mercenari dell'esercito romano, trovatosi padrone dell'Italia, depose l'ultimo imperatore, il giovane Romolo Augustolo, rimandò le insegne imperiali all'imperatore d'Oriente dichiarando di voler governare quale suo luogotenente col titolo di patrizio che da tempo veniva conferito ai comandanti delle forze imperiali. Odoacre e gli altri capi barbari si accordarono presto con i grandi proprietari e gli alti prelati eredi dell'Impero caduto.




                          FINE DELL'IMPERO ROMANO D'OCCIDENTE

                          RIASSUMENDO:

                          IX secolo a.c. 
                          - almeno un migliaio di abitanti, per lo più aborigeni e pelasgi che si allearono per cacciare i siculi dal Lazio. C'erano anche greci arcaici e troiani esuli. Gli Eraclei del Peloponneso presero il sopravvento ma vennero cacciati (Argei).

                          VIII secolo a.c.
                          - gli etruschi si infiltrarono tra i romani con un grande apporto culturale. Ogni volta che si aggiungeva un popolo aumentava la popolazione insieme alla conoscenza.  Roma si estendeva per oltre cento ettari. Ai romani si unirono i sabini. Gli abitanti salirono, si pensa, a una decina di migliaia. E' l'epoca di Romolo (753 - 716 a.c.). I romani erano divisi in tre tribù: i Tities (Sabini del Quirinale), i Ramnes (gli abitanti del Palatino vicini al Rumon, fiume) e i Luceres (gruppi di Latini del Celio)

                          VII secolo a.c.
                          -  epoca di Numa Pompilio (715 – 674 a.c.), Tullo Ostilio (673 – 641 a.c.) e Anco Marzio (640 – 616 a.c.), Roma ospita tutti i forestieri e conta circa 30.000 abitanti. L'abitato incluse il colle del Quirinale, gli etruschi a Roma sono in aumento, diventò una grande città con il suo centro nel Foro ai piedi del Palatino.

                          VI secolo a.c. 
                          - Gli etruschi hanno il sopravvento su Roma impiantando sul trono ben tre re etruschi:
                          Tarquinio Prisco (616  – 579 a.c.), Servio Tullio (578  – 535 a.c.) e Tarquinio il Superbo (535  – 510 a.c.). Gli etruschi sono ottimi combattenti e vincono ogni nemico, ma i romani hanno una loro identità e cacciano i re instaurando la Repubblica Romana. Il centro sacro sta sul Campidoglio col tempio di Giove, Giunone e Minerva, il che ne testimonia la forte presenza greca e pure troiana, e il centro politico sul Foro coi Comitia. la popolazione è salita sia per l'apporto di nuovi immigrati sia per la popolazione stessa che si è arricchita.

                          V secolo a.c. 
                          - Roma,  attaccata da diversi popoli, nel 493 a.c. dovette abbandonare molte cittadine occupate nel Lazio per cui strinse un patto di alleanza (foedus Cassianum) con le città latine, per combattere anche la pressione degli etruschi. L'abbandono dei centri comporta un aumento della popolazione che si è adattata allo stile di vita romano per cui emigra nella capitale.  

                          IV secolo a.c
                          - C'è un calo della popolazione perchè Roma deve abbandonare alcuni centri vicini per gli attacchi di vari popoli. Poi pian piano riesce a riprenderseli. Roma si espanse di nuovo nel Lazio. I Romani nel 396 a.c. conquistarono Veio,  e a sud vinse contro i sanniti (326 - 304 a.c.). La popolazione, superate le lotte locali. aumenta di nuovo ovunque, gli scambi commerciali si moltiplicano. Si contano circa 100.000 abitanti. C'è la secessione aventina della plebe, ormai sono tanti, che chiede ed ottiene nuovi diritti.

                          III secolo a.c. 
                          - Roma, con circa187.000 residenti, è la seconda città sul Mediterraneo occidentale, dopo Cartagine, che andava allargando la sua penetrazione in Sicilia, per cui Roma dovette difendere le città greche del Sud, sue alleate, in Sicilia, in Sardegna e Corsica. Nel 264 a.c., scoppiò la I guerra punica e Roma, dotatasi di forti flotte e di addestrati equipaggi, vinse Cartagine che dovette abbandonare Sardegna e Corsica.
                          Successivamente i Cartaginesi, rimessisi dalla sconfitta, avevano cercato di arricchirsi in Spagna, ma quando espugnarono Sagunto, alleata di Roma, i Romani fecero scattare la II guerra punica, 218-202 a.c.

                          II secolo a.c. 
                          - Con la conquista di Cartagine, nella III guerra punica del 146 a.c., Roma ebbe un notevole allargamento delle zone abitate e quindi anche della popolazione, perchè moltissimi immigrati cartaginesi si spostarono a Roma per stanziarsi nella Capitale della Repubblica più importante di tutto il Mediterraneo. Peraltro la conquista spagnola portò altri immigrati.
                          La popolazione romana aumentò enormemente, ma diminuì moltissimo nelle campagne italiche per la morte dei vari combattenti: nel censimento del 135 a.c. i cittadini romani adulti erano scesi a 317.993 da 337.452 registrati nel 163 a.c..

                          I secolo a.c. 
                          - E' il secolo di Cesare che partito  nel 58 a.c., con poteri proconsolari per la Gallia, riuscì a sottomettere tale immensa regione nel 51 a.c., con un esercito addestrato e fedele e un'enorme riserva di ricchezze, con un prestigio militare che oscurava pure Pompeo. Negatogli il riconoscimento e i diritti di così fantastica e ineguagliabile impresa, Cesare si prende il potere con la forza e diventa dittatore a vita.
                          Sotto di lui l'Urbe prospera ma dura poco, perchè viene ucciso alle Idi di Marzo. Intanto molti celti sono emigrati a Roma, la popolazione aumenta.

                          I secolo d.c. 
                          - Il potere di Cesare viene conquistato, dopo una lunga e sanguinosa serie di guerre civili, dal figlio adottivo di Cesare, Ottaviano Augusto, amministratore giusto e lungimirante. La città, con circa 1.200.000 abitanti, fino allora divisa in quattro distretti (Esquilino, Palatino, Suburana e Collina), fu riorganizzata in quattordici regioni e l'Italia, che contava  una decina di milioni di abitanti, fu suddivisa in undici regioni con 300 municipi forniti di autonomia locale.
                          Con la Dinastia Giulio-Claudia di Tiberio, Claudio e Nerone, Roma amplia ancora i suoi abitanti
                          e quelli meno abbienti vengono già da Augusto generosamente aiutati col grano e con i soldi.
                          Con la Dinastia Flavia di Vespasiano, Tito, Domiziano e Nerva, lo stato e l'Urbe prosperano ancora. Si pensa che Roma abbia toccato anche 1.500.000 abitanti, tantissimi, se si pensa che la media dei palazzi (insule) era di tre piani, considerando pure le molte domus.

                          II secolo d.c.
                          E' il secolo degli Imperatori adottati: 
                          Traiano, che provvide all'assistenza all'infanzia con  le istituzioni alimentari a loro favore.
                          Adriano, che ai cittadini condonò i debiti verso il fisco e stabilì che ogni quindici anni si facesse una revisione dei debiti e che le imposte, anziché col sistema degli appalti, venissero riscosse direttamente. Tolse ai padroni il diritto di vita e di morte sugli schiavi. Stabilì pene severe contro i padroni che maltrattavano i servi. Proibì il commercio degli schiavi quando si offendeva il pudore e le leggi dell'umanità. Tolse la pena di morte agli schiavi che, in caso di uccisione del padrone, venivano giustiziati. Mantenne gli aiuti per gli orfani e i bambini indigenti. Roma mantiene il suo enorme abitato.
                          Antonino Pio, che aumentò le elargizioni alla plebe di Roma, oltre ai 200.000 cittadini che avevano grano e acqua, fece distribuire anche olio e vino. In età antonina,, con1.200.000-1.700.000 residentistipati in circa 49.000 edifici, per la maggior parte insule, la città raggiunse gli stessi livelli demografici solo nel censimento del 1951.
                          Marco Aurelio, molto sollecito coi poveri e i derelitti, tuttavia la popolazione romana decrebbe a causa dell'inondazione del Tevere e della pestilenza.

                          III secolo d.c. 
                          - Occorre arrivare al III sec. d.c. per trovare un imperatore intelligente, equilibrato ed ottimo generale: Aureliano  (270-275 d.c.), purtroppo ucciso a tradimento dai soldati. La popolazione di Roma è stabile, non c'è più la ricchezza di prima però c'è il fenomeno dell'urbanizzazione.

                          IV secolo d.c.
                          - Al principio del sec. IV d.c. la lotta contro la denatalità cessa, forse perché le condizioni economiche peggiorano. Le istituzioni alimentarie per i bambini poveri cessano del tutto con Costantino. Nonostante il fenomeno di urbanizzazione per l'abbandono delle campagne, il numero degli abitanti decresce per mancanza di lavoro e risorse. Roma conta solo  tra i 700.000 e il 1.000.000 di abitanti.

                          V secolo d.c.
                          - Verso la metà del V secolo, dopo il sacco del 410, Roma si attestava a non più di 650.000 abitanti dentro le mura.

                          VI secolo d.c.
                          - Il secondo sacco ad opera dei Vandali (455), molto più distruttivo del precedente, cui seguirono anni di guerre e carestie, decimarono la popolazione, si che all'inizio del VI sec. gli abitanti di Roma non superavano le 200.000 persone.

                          - Dopo la guerra gotica che per quasi un ventennio devastò il Lazio e buona parte d'Italia (535-553), la popolazione scese ancora a non più di 100.000 persone.

                          10 DICEMBRE - SEPTIMONTIUM

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                          SEPTIMONTIUM
                          « Dove adesso si trova Roma c'era un tempo il Septimontium così chiamato per il numero di montes che in seguito la città incluse all'interno delle sue mura.» (Varrone - De lingua latina, V, 41.) Il Septimontium ( o Septimonzium) era la festa romana dei sette colli di Roma. In realtà era la festa dei "sette monti" che non corrispondono ai tradizionali "sette colli" perché si riferiscono a una fase più antica dell'abitato. Veniva celebrata anticamente a settembre, in seguito venne celebrato dal 10 al 12 dicembre in memoria della inclusione dei sette colli nella cinta muraria.

                          La lista più antica dei montes riguardava infatti:
                          1. Il Palatino (ove avvenne la fondazione della città),
                          2. il Germalo (una propaggine dello stesso Palatino verso il Tevere), 
                          3. la Velia (posta tra il colle Oppio, una delle propaggini del colle Esquilino, e il Palatino), 
                          4. il Fagutale, (parte occidentale dell'Esquilino)
                          5. l'Oppio (parte meridionale dell'Esquilino)
                          6. il Cispio (parte settentrionale dell'Esquilino) 
                          7. la Suburra (in direzione del Quirinale).
                          I sette colli invece, come riportati da Cicerone e Plutarco in epoca più tarda furono:
                          1. Aventino ( inserito nella città ai tempi di Anco Marzio)
                          2. Capitolino (secondo Tacito, Campidoglio e Foro Romano, furono aggiunti alla Roma quadrata da Tito Tazio)
                          3. Celio (inserito da Anco Marzio
                          4. Esquilino (sobborgo del Palatino)
                          5. Palatino (formato da Palatium e Germalus)
                          6. Quirinale (formato dal Collis Latiaris,, il Mucialis e il Salutaris)
                          7. Viminale ( tra l'Esquilino e il Quirinale)


                            LE ORIGINI

                            Il primo centro "proto urbano" di Roma sorse dall'unione di villaggi pre-urbani attorno alla prima metà del IX sec. a.c.. e secondo Theodor Mommsen, l'attestazione in epoca storica di una festa religiosa, sarebbe la prova di questo centro proto-urbano, successivo alla Roma quadrata.

                            Il fatto che la festa fosse originariamente riservata alle sole genti di stirpe latina che abitavano quei luoghi, conferma l'antichità della festa, forse anche precedente all'epoca di Numa Pompilio, corrispondente alla prima espansione del centro urbano dal Palatino ai colli circostanti.

                            Sembra che la prima festività sia stata istituita dal re Numa Pompilio e che consistesse in una processione lungo tutti i "sette monti" (da cui il nome di Septimontium) con relativi sacrifici da celebrare presso i siti dei 27 sepolcri degli Argei (che si trovavano appunto su quelle alture). Questi erano dei principi greci che, giunti nel Lazio al seguito di Ercole, conquistarono il territorio strappandolo alle popolazioni sicule e liguri che già vi si erano stanziate.

                            Solo con il re Servio Tullio sembra che la celebrazione sia stata estesa anche alle genti di origine  sabina abitanti il Quirinale. Sesto Pompeo Festo riporta una festa del Sptimonium che si celebrava l'11 gennaio.

                            Venivano organizzate processioni e rituali con sacerdoti e preghiere, i fedeli non avevano l'obbligo di visitare tutti i sepolcri degli Argei, ma dovevano visitarne almeno sette, in cui i sacerdoti sacrificavano sette animali per sette volte in sette luoghi diversi all'interno delle mura della città, cioè sui sette colli.



                            IL CULTO SUCCESSIVO

                            Il comune romano identificato dal Septimontium, inizialmente ristretto ai soli montes, fu allargato in seguito anche ai colles Quirinale e Viminale (Latiaris, Mucialis, Salutaris, Quirinalis e Viminalis), secondo i nomi di queste alture a quel'epoca.

                            In epoca imperiale si perse dunque il significato primitivo della festa, che venne allargata a tutta la città. E' comprensibile che ormai i romani non volevano festeggiare tanto il primo nucleo urbano quanto l'intera città, divenuta ormai prospera e potente.

                            Durante il Septimontium nel periodo repubblicano, i Romani evitavano di usare carrozze trainate da cavalli, perchè in quei giorni erano ammesse solo nei giochi. Infatti venivano offerte ai romani che affollavano i circhi gare di corse di cavalli e corse di carri. In epoca imperiale poi gli imperatori erano molto liberali col popolo e facevano distribuire grano, denaro, vino e focacce, soprattutto vino diluito e focacce, caratteristici dei banchetti religiosi dell'epoca più arcaica.



                            IL GIORNO DEI SEPOLCRI E IL GIRO DELLE SETTE CHIESE

                            La tradizione cattolica vuole che siano sette le chiese visitate durante la serata del giovedì santo e si chiama "la visita dei sepolcri", e i tabernacoli avevano la forma di sepolcri.. Non si sa quando si iniziò a chiamare " Sepolcri " questi altari ritenendoli impropriamente la tomba di Cristo. Con la denominazione di giovedì santo si indica il giovedì precedente la Domenica di Pasqua.

                            Tale giovedì è detto in latino Feria Quinta in Cena Domini (Quinto giorno della settimana della Cena del Signore) e coincide con il primo giorno del triduo sacro. Era il quinto giorno perchè il I giorno era quello del Sole, trasformato poi nel giorno del Dominus, il signore, da cui domenica, e il triduo iniziava il venerdì, poi sabato e poi domenica, cioè morte e resurrezione, perchè in epoca romana il giorno iniziava al tramonto del giorno precedente, pertanto il venerdì iniziava la sera del giovedì.

                            SACRARIO DEGLI ARGEI

                            I SEPOLCRI ARGEI

                            La versione più concreta è che gli Argei, che in epoca antichissima conquistarono Roma, ovvero gli abitanti della futura Roma, furono cacciati in seguito dagli stessi Romani e i loro capi gettati nel Tevere, usanza riservata ai tiranni dell'Urbe, tanto è vero che i Romani in epoca monarchica, non potendo gettare a Tevere Taquinio, ci gettarono dei covoni di grano dei suoi campi. I romani erano tosti, facili alla ribellione, facili ad aggregarsi e organizzarsi tra loro per cacciare qualsiasi tiranno. Prova ne sia che gli Argei se ne andarono e non tornarono più.

                            Il 16 e il  17 marzo, gli Argei erano 27 edicole sacre create dai Numina (potenti e antichi dei senza forma nè faccia) nelle diverse regioni di Roma. Nella celebrazione, 30 fantocci argei, fatti di vimini a fattezze umane, venivano lanciate nel fiume. Alcuni documenti storici indicano che gli argei erano i marinai e pirati che si unirono ad Ercole, giunsero a Roma e poi occuparono il colle capitolino. I romani dell'epoca non apprezzarono e in seguito li combatterono, li cacciarono e i prigionieri li gettarono nel Tevere. Questa è la tesi più attendibile, perchè i romani gettavano nel Tevere i nemici più odiati, imperatori compresi.

                            Invece il 9, l'11 e il 13 maggio, si eseguiva la festa (di scongiuro) dei Lemuri ("lemures", spiriti della notte), che erano gli spiriti dei morti diventati vampiri, ossia anime che non riescono a trovare riposo a causa della loro morte violenta. Secondo il mito tornavano sulla terra a tormentare i vivi, perseguitando le persone fino a portarle alla pazzia. Gli Argea, prima venerati, erano poi deceduti per morte violenta, in quanto i romani li avevano legati come salami e gettati nel Tevere. Da qui le Lemuria per impedire che potessero tornare dai vivi e vendicarsi.



                            I SEPOLCRI CATTOLICI

                            Nel 1998, la chiesa ha stabilito che il tabernacolo in cui viene custodito il " Corpo di Cristo " non deve avere la forma di sepolcro, così come deve essere evitato l'uso di chiamarlo in tal modo. In un'altra parte del documento viene spiegato che la "cappella della reposizione viene allestita non per rappresentare la sepoltura del Signore, ma per custodire il Pane Eucaristico per la Comunione che verrà distribuita il venerdì della passione di Gesù ".

                            Alla fine della messa " in Coena Domini " si esponeva il tabernacolo sull' Altare della Reposizione, dove viene riposta e conservata l'Eucaristia al termine della messa vespertina del Giovedì santo, la Messa nella Cena del Signore (in Cena Domini). Esso viene addobbato in modo solenne, con composizioni floreali o altri simboli, in omaggio all'Eucaristia, che viene conservata in un'urna, detta repositorio, per la Comunione nel giorno seguente, il Venerdì santo, ai fedeli che partecipano all'Azione liturgica della Passione del Signore. La reposizione dell'Eucaristia si compie per invitare i fedeli all'adorazione nella sera del Giovedì santo e nella notte tra Giovedì e Venerdì santo.

                            Anche se per secoli si sono adorati nelle chiese i sepolcri, tanto che il tabernacolo aveva la forma di una bara, coperta con una stoffa viola con una croce sopra, hanno fatto bene a proibire i sepolcri, effettivamente richiamavano ben altri sepolcri: quelli degli Argei, in cui si faceva il giro dei sette sepolcri, e quello di Adone con riti piuttosto simili.

                            RICIOSTRUZIONE DEI GIARDII DI ADONE - GLI ADONEI

                            LE ADONIE

                            Ma c'è un particolare: a Roma subito dopo l'equinozio primaverile si svolgevano in aprile le Adonie, le feste della resurrezione di Adone. Il mito narra che Afrodite avesse nascosto in una cassa un bimbo bellissimo, Adone, figlio di Mirra, affidandolo a Persefone, regina degli inferi, la quale non voleva più restituirglielo. Allora Zeus decretò che Adone abitasse con Persefone per la metà fredda dell'anno e per l'altra metà con Afrodite. Ma un giorno un orso o un cinghiale uccise Adone mentre era a caccia. La Dea si disperò per l'immenso dolore e tutte le donne con lei.

                            Nella celebrazione del lutto le donne seminavano grano, orzo, lattuga, finocchi e fiori vari su tele di cotone che innaffiavano ogni giorno. La primavera li faceva rapidamente germogliare ma, non avendo radici, appassivano rapidamente e dopo otto giorni venivano gettate, con le statuette di Adone morto, nel mare o nelle sorgenti affinché aiutassero il rinnovamento della natura. Il culto del Figlio della Dea che muore e risorge all'equinozio di primavera è antichissimo e risale al figlio-vegetazione della Grande Madre Natura che ogni anno muore e risorge.

                            In Sicilia si seminano ancora in primavera come d’estate dei giardini di Adone; da ciò possiamo forse arguire che la Sicilia e la Sardegna celebrassero un tempo una festa primaverile del dio morto e risuscitato. All’avvicinarsi della Pasqua, le donne siciliane seminano del grano, delle lenticchie e dei grani leggeri in piatti, che tengono al buio e innaffiano ogni due giorni. Le piante crescono rapidamente, se ne legano insieme i germogli con dei nastri rossi e si mettono i piatti che li contengono sui sepolcri che si fanno con le immagini del Cristo morto, il venerdì santo, nelle chiese cattoliche e greche, proprio come i giardini di Adone venivano posti sulla tomba del dio morto. L’intero costume – i sepolcri e i piatti con i germogli di grano – può essere la continuazione, sotto un nome diverso, del culto di Adone.
                            (Frazer - Il ramo d'oro)

                            La Chiesa Cattolica ha rieditato molti culti pagani, ma ogni tanto se ne accorge e le modifica.

                            LEGIO VI VICTRIX

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                            La Legio VI Victrix (la vittoriosa) venne creata da Ottaviano nel 41 a.c., come copia conforme alla VI Ferrata di Cesare, di cui divenne infatti la legione gemella. Sembra che accolse nei suoi ranghi i veterani della Ferrata insieme ad alcuni soldati delle legioni di Gaio Giulio Cesare.

                            La sua prima battaglia fu l'assedio di Perugia nel 41 a.c. e poi combattè nella guerra contro Sesto Pompeo, il figlio di Pompeo Magno, che aveva occupato la Sicilia, impedendo così i rifornimenti di grano per Roma, finchè Agrippa distrusse la flotta di Sesto nella battaglia di Nauloco.

                            Nel 31 a.c. la legione combatté nella battaglia di Azio contro Marco Antonio e la regina d'Egitto Cleopatra. Nel 30 a.c. fu dislocata nella provincia della Spagna Tarraconense, dove servì nelle guerre cantabriche (25.-13 a.c.).
                            La legione rimase poi in Spagna per quasi un secolo, ricevendo perchè l'appellativo di Hispaniensis o Hispana. 
                            Alcuni dei suoi soldati, insieme a quelli della X Gemina furono tra i primi coloni di Saragozza (Caesaraugusta). 
                            Il soprannome di Victrix risale invece al tempo dell'imperatore Nerone, quando la VI venne dislocata a Castra Vetera, lungo il Reno, nella Germania Inferiore. Ma quando Servio Sulpicio Galba (3 a.c. - 69 d.c.), governatore della Tarraconense, si ribellò a Nerone, questa legione lo sostenne e lo proclamò imperatore.
                            Così Galba creò la VII Gemina e marciò su Roma dove venne nominato imperatore.
                            Sembra che l'ascesa di Servio Galba fu profetizzata da Augusto che da Tiberio, il quale gli disse "Anche tu, Galba, assaggerai l'impero".

                            Ma fu giusto un assaggio, perchè venne assassinato dopo soli sette mesi di regno.



                            IN BRITANNIA

                            Nel 119, Adriano portò la VI Victrix nella Britannia settentrionale a supporto delle truppe che si trovavano già in loco per combattere la resistenza britanna.

                            Le diverse iscrizioni sugli altari ritrovati farebbero capire che i soldati furono piuttosto contenti del trasferimento, nonostante la differenza di clima piuttosto freddo rispetto a quello spagnolo.

                            LAPIDE PER LA VITTORIA DELLA LEGIO A XANTEN
                            Gli altari reperiti in loco sembrano mostrare una legione molto contenta di essere sbarcata in Britannia. Conosciamo i nomi di entrambi i suoi comandanti, in entrata P. Tullio Varrone, e in uscita Propinquus dal 122 a.c. e sappiamo anche il suo tribuno laticlavius ​​(secondo in comando di una legione), era M. Ponzio Laelianus Larcius Sabino.

                            Ed ecco il contenuto della lapide dedicatoria per la vittoria della legione a Xanten:

                            IMPeratoris VESPASIANI AVGvsti Filio
                             TRibvnicia POTestate IMPeratore IIII
                             COnSvle II DESIGnato III CENSoribvs DESIGnatis
                            Avlo MARIO CELSO LEGato AVGvsti PRo PRaetore
                            SEXto CAELIO TVSCO LEGato AVGvsti
                            LEGio VI VICTRIX ...

                            All'imperatore Vespasiano Augusto, con poteri tribunicii,
                            imperatore per la IV volta, due volte console,
                            designato per la terza volta, designato come censore
                            Ad Aulo Mario Celso, governatore con rango di propretore,
                            e a Sesto Celio Tusco, comandante
                            dalla VI Legio Victrix.
                            La Sesta Victrix aveva un suo animale totemico su una scultura e delle iscrizioni, non molto chiare in verità, ma da cui si è dedotto dovesse essere un toro.

                            Il nuovo comandante sembra fosse giunto ​​sul Tyne direttamente dalla sua base a Xanten-Vetera nella Germania Inferiore, come è indicato sui due altari scoperti nel fiume vicino al luogo probabile della Pons Aelius.

                            Questa legione ebbe a distinguersi nel successo delle operazioni militari e alla fine avrebbe rimpiazzato la Legio IX Hispana che aveva subito molte perdite. 


                            IL VALLO DI ADRIANO

                            Quando Adriano raggiunse la Britannia durante i suoi viaggi attraverso le province attorno al 122, dispose la costruzione di un vallum, detto poi il vallo di Adriano, costruito lungo la linea di frontiera dello Stanegate, una strada romana che nell'Inghilterra del nord. Univa i due forti di Luguvallium (Carlisle), a ovest, e Corsopitum (Corbridge) a est.

                            L'imperatore ne dette incarico al nuovo governatore e suo amico Aulo Platorio Nepote a cui affidò il comando della legione proveniente dalla Germania inferiore: la VI Victrix che doveva sostituire la IX Hispana. 
                            ISCRIZIONE DELLA TOMBA DI UN LEGIONARIO DELLA VI
                            Venti anni dopo la Legio VI curò anche l'edificazione del Vallo di Antonino, che venne però presto abbandonato. Nessuna delle legioni che costruirono le mura è citata come un distacco o vexillatio, ma ci potrebbe essere stata una vexillation presente. 
                            Un'iscrizione registra 3.000 truppe dal VII Gemina da Hispania Tarraconensis e VIII Augusta e XXII Primigenia dalla Germania Superior di essere inviati nella spedizione britannica adrianea. 
                            Forse si trattava di truppe supplementari per aiutare il processo di costruzione, oppure un progetto di truppe per sostenere le esaurite legioni britanniche, non lo sappiamo.
                            E' anche logico che un'impresa della portata del Vallo abbia assorbito tutti i militari disponibili, e così non solo le unità ausiliarie vennero convogliate a lavorare sul Vallum ma perfino la flotta (la classis Britannica) dovette lavorare tantissimo per costruire il forte di Benwell. Certo durante la costruzione, le legioni dovettero fare il lavoro preminente, poi furono gli ausiliari ad essere preminenti sul lavoro, ma senza alcun ruolo esclusivo.
                            Nel 185, le legioni di stanza in Britannia Romana si ribellarono e sollecitarono un loro comandante, il governatore Stazio Prisco, a rimpiazzare l'impopolare imperatore Commodo, ma lui rifiutò e tornò nel continente. La rivolta fu sedata da Pertinace, che sarebbe poi salito al soglio imperiale dopo l'uccisione di Commodo. 

                            SPALATO

                            LUCIO ARTORIO CASTO

                            Nel 175, l'imperatore Marco Aurelio arruolò 8.000 sarmati nell'esercito romano, 5.500 dei quali furono poi inviati lungo il confine settentrionale della Britannia romana dove si unirono alla Legio VI Victrix, in cui prestava servizio Lucio Artorio Casto, generale della cavalleria romana, (secondo alcuni alla base del personaggio di Re Artù), anche se sembra che sia rimasto fedele a Roma. 

                            Invece di rimandare a casa questi guerrieri una volta terminati i loro 20 anni di servizio, le autorità romane li insediarono in una colonia militare nell'odierno Lancashire, dove fonti storiche del 428 attesterebbero all'epoca dei loro discendenti detti "truppa dei veterani sarmati".

                            Inoltre un'epigrafe in due frammenti e pure lacunosa rinvenuta a Podstrana, sulla costa dalmata mostra chiaramente di essere stata una lastra del sarcofago di Artorio. 

                            Una seconda iscrizione, una targa commemorativa della stessa località, riporta pochi dati ma simili a quelli del sarcofago. 

                            Un'altra epigrafe, recante il solo nome di Lucio Artorio Casto, fu invece ritrovata a Roma e attualmente è al Louvre. 

                            Secondo l'iscrizione del sarcofago, Artorio Casto, membro della gens Artoria,  probabilmente originario della Campania, era stato un centurione della III legione Gallica, poi passato alla VI legione Ferrata, alla II legione Adiutrice e alla V legione Macedonica, di cui divenne primo pilo. 

                            Fu poi Praepositus della flotta di Miseno, la forza navale della Baia di Napoli, e infine Prefetto della VI legione Vitrix.
                            Qui ottenne il titolo di "dux", riservato a chi si era distinto per imprese eccezionali.

                            Casto si ritirò poi dall'esercito e divenne procurator centenarius, cioè governatore, con un ricco stipendio di centomila sesterzi annui, (un legionario prendeva circa 900 sesterzi annui) della Liburnia (Dalmazia settentr.), dove certamente concluse la sua vita, facendosi seppellire nella necropoli di Salonae Palatium (Spalato).

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