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ALBINTIMILIUM - VENTIMIGLIA (Liguria)

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Albintimilium è un sito archeologico di epoca preromana e romana, collocato a levante dell'attuale città ligure di Ventimiglia, in località Nervia. Il sito e l'area archeologica sono gestiti della Soprintendenza Archeologia della Liguria. L’ingresso dall'Antiquarium è in Corso Genova, n. 134.

Denominato anticamente Albium Intemelium (oggi Ventimiglia) fu, unitamente ad Albium Ingaunum (oggi Albenga), una delle più importanti sedi degli antichi Liguri. Sorta in epoca arcaica si sviluppò già in epoca preromana come centro marittimo ed agricolo.

I liguri furono ottimi guerrieri, infatti Cicerone informa che combattessero insieme alle loro donne che non erano per nulla inferiori, per capacità e coraggio ai loro uomini. Dovette infatti difendere a lungo la propria indipendenza contro i Greci di Marsiglia, che avevano colonizzato la costa provenzale sino a Monaco.

Alleata con gli Ingauni di Albenga si pensa fu dalla parte di Cartagine durante la II guerra punica, poi, dopo un periodo di ostilità con Roma, entrò nel 180 a.c. nell’orbita romana ed accettò a poco a poco leggi e costumi più civili. A lato dell’oppidum dei Liguri Intemelii, che occupava le ultime propaggini della ripida collina sulla destra del Nervia, si insediò probabilmente un castrum con un presidio romano, che fu antesignano della città romana.

Si ritiene che nell’89 a.c. i Liguri Intemelii conseguirono il diritto latino costituendo un municipium, con costumi ed edifici romani. Il suo territorio si estese per tutto l'entroterra di Ventimiglia, il bacino del Roia, aggregando alla civitas degli Intemelii i Liguri Montani, nelle zone di Saorgio, di Sospello e di Briga, sottomessi successivamente, e giungendo lungo la costa sino ai confini di Monaco e di Sanremo.

Nel 49 a.c. il centro urbano, ormai romanizzato, ottenne la concessione della cittadinanza romana grazie a Giulio Cesare. Albium Intemelium contrasse in età augustea il suo neme in Albintimiium e fu nell’organizzazione augustea l’ultima città considerata amministrativamente italica, quindi con una certa autonomia. 

Zona di passaggio per la Gallia meridionale e sede di importanti traffici provenienti da tutto il Mediterraneo, acquisì una notevole prosperità. Strabone la definì "città assai grande"e Cicerone, sempre nel 49 a.c. informa che il partito pompeiano provocò disordini, facendo assassinare un concittadino, il nobile Domizio, che aveva ospitato Giulio Cesare.

LE MURA ROMANE
Le due fazioni erano in armi ma gli Intemelii insorsero (provocando il motto della Città: Civitas ad arma iit) e M. Celio Rufo, luogotenente di Cesare, accorse con le sue truppe dalla Provenza a soccorrere il presidio minacciato dai pompeiani. 

La città doveva essere a quest’epoca completamente romanizzata, grazie soprattutto alla sua posizione di nodo stradale sulla via Aurelia, che nel 13 a.c. venne denominata Julia Augusta, di cui restano diverse pietre miliari tra Ventimiglia e Nizza. 

Ormai la Iulia Augusta era divenuta la principale via di comunicazione terrestre con l’Occidente. ed entrò a far parte della IX Regio contraendo il suo nome in Albintimilium.

La città aveva come supremi magistrati i duoviri, cariche simili ai consoli di Roma, nonchè un senato municipale di decuriones. 

Aldisotto tutte le altre cariche civili e religiose di ogni città romana: edili, prefetti, questori, flamini e collegi corporativi.

I cittadini di Albintimilium, iscritta alla tribù Falerna, combattevano a fianco di Roma nelle legioni e nelle coorti pretorie, e e se il cursus honorum era degno ottenevano le carriere pubbliche fino ai gradi più alti. 

Ne fanno fede il il cippo funerario e il sigillo di Mario Emilio Basso, che al tempo di Adriano ebbe molti incarichi di primo piano nella carriera procuratoria e che fu tra l’altro un successore di Ponzio Pilato nel governo della Giudea.

Anche Gneo Giulio Agricola, il conquistatore della Britannia, era nato ad Albintimilium e Tacito, che era il genero di Agricola, narra della sventurata madre del generale, Juiia Procilla, trucidata nei suoi poderi suburbani durante il saccheggio della città, nel 69 d.c., da parte dell’armata navale di Otone, dopo la battaglia contro il rivale Vitelio sulla costa nizzarda.

Tacito narra dei funerali della donna, svoltisi ad Albintimilium mentre Vespasiano veniva proclamato imperatore; e descrive la città città con "pieni agri" e "apertae domus" cioè terre fertili e grandi case, in contrasto con la povertà delle valli interne.

Solo nella Val Nervia, vicina alla città, sembra si fosse sviluppata una vita rurale più ricca.

Per non parlare della costa da Bordighera a Mentone, costellate di ville suburbane.

Dopo il saccheggio del 69 d.c. Albintimilium si riprese, sicuramente aiutata da Agricola e col favore di Vespasiano, e prosperò per i secoli a venire, fino al IV e al principio del V secolo, quando fu oggetto delle invasioni barbariche.

La città decadde rapidamente anche dal punto di vista civile ed economico, mentre la popolazione cercava rifugi più sicuri nelle valli e sulle alture circostanti.

Dopodichè, mutando il suo nome in Vintimilium, venne governata da una delle prime sedi vescovili della Liguria, che ereditò la giurisdizione territoriale del municipium romano. Nel VI secolo fu un castrum, a difesa del limes bizantino contro i Longobardi, e resistette fino al 641, anno della conquista di Rotari, e forse ancora per qualche decennio dopo, nella "Provincia Maritima Italorum quae dicitur Lunensis et Vigintimiliensis", ultimo baluardo della difesa bizantina. 

In questo periodo avvennero il definitivo abbandono della città distrutta nella piana di Nervia e il trasferimento della sede principale e giurisdizionale sul colle meglio fortificato di Ventimiglia alta, a ponente del Roia.



TEATRO

Il teatro di Ventimiglia, posto vicino alla Via Julia Augusta, tra II e III secolo, fu edificato nella parte occidentale della città ligure. La struttura di forma canonicamente semicircolare è rivestita, in gran parte, con una pietra calcarea bianca detta Pietra della Turbie, località sopra Monaco, la stessa pietra con cui venne elevato il trofeo di Augusto.

PORODOS - ACCESSO AL TEATRO
Si accedeva nel teatro dall'entrata ovest (Versura Parodos), ancora ben conservata, che permetteva l'entrata ad almeno 2000 persone, visto che che 2000 erano i posti a sedere (anche sei teatri, come nei circhi, esistevano i posti in piedi). A fianco del teatro si trovava la Porta di Provenza, che si apriva sulla Via Julia Augusta e, di fronte, le terme ornate da mosaici pavimentali.

Nulla è rimasto della summa cavea, la parte più alta, a causa delle estrema spoliazione che venne eseguita su molti monumenti ma soprattutto su quelli di spettacolo, ritenuti peccaminosi dalla nuova religione imposta da Teodosio e a seguire da altri.

PRAEFUNIUM
Gli spettacoli erano principalmente commedie, danze e mimi, e raccoglievano la cultura dell'epoca con opere greche e romane.  Con la chiusura dei teatri, che collimò con la chiusura delle scuole, si entrò nel buio culturale del medioevo.

Il teatro è uno dei più piccoli nel suo genere, e fu abbandonato nel IV secolo. La vetrina all'interno dell'Antiquarium adiacente mostra una riproduzione in scala che raffigura l'aspetto originale del teatro.

Il teatro fu scavato nel corso del XIX secolo da Girolamo Rossi e in seguito da Pietro Barocelli negli anni dieci del XX secolo e da Nino Lamboglia nei decenni successivi.



LA VIA JULIA AUGUSTA

Entrando a nord del teatro, la Via Julia Augusta attraversava Albintimilium, lungo l'asse est-ovest, e il suo tracciato veniva a corrispondere con il decumano massimo della città.

La strada romana, larga circa 3 m, era dotata di due marciapiedi e lastricata in pietra della Turbie, e al centro scorreva una cloaca (canale), che permetteva la raccolta delle acque piovane e degli scarichi.

All'inizio del XX secolo un tratto della carreggiata, scoperta nel 1929, è stato ricollocato, per esigenze di conservazione, nel giardino del Museo Bicknell di Bordighera.

LE TERME

LE TERME

Nelle terme rinvenute si possono distinguere i due grandi vani affiancati che venivano riscaldati con dell'aria calda convogliata nell'intercapedine sotto il pavimento. Accanto vi sono la stanza dei forni, la piscina, lo spogliatoio e la palestra all'aperto. Le terme all'ingresso dell'ex ospedale Santo Spirito conservano invece due bei mosaici, uno a motivi floreali e geometrici e uno raffigurante Nereide in groppa a un delfino.



ANTIQUARIUM

L'Antiquarium è un museo archeologico situato al centro del sito archeologico, a valle del teatro, dalla quale lo divide l'attuale corso Genova.

IL CALIDARIUM
L'edificio originario era noto come istituto di educazione. Parzialmente distrutto nel corso della II guerra mondiale, è stato rinnovato nel 1980 dal Ministero per i Beni e le Attività Culturali, ed è ora un centro espositivo e didattico per la visita dell'area archeologica.

All'interno dell'Antiquarium un percorso espositivo illustra, con riproduzioni in scala, i principali monumenti della città romana:
- la Porta di Provenza, eretta nel I secolo a.c., che si apriva nelle mura di cinta sul lato occidentale;
- il teatro, edificato tra il II e il III sec. in pietra della Turbie;
- le terme, erette dopo la metà del I sec. presso l'angolo sud-est del teatro.

All'esterno, la visita dell'Antiquarium si integra con quella dell'area delle terme e del teatro, dove è possibile vedere in situ i resti scoperti degli impianti termale e teatrale.



GLI SCAVI

Nella seconda metà dell'Ottocento, in seguito all'ampliamento della città nell'area della piana del Nervia, vennero alla luce le rovine dell'antica Albintimilium, rimaste coperte a partire dal Medioevo da una vasta duna di sabbia.

SCAVI ATTUALI
Lo studioso locale Girolamo Rossi (1839-1914), riporta le notizie degli scavi svoltisi ra il 1854 e il 1914, relativi a teatro, necropoli e terme. Molti dei materiali rinvenuti finirono però in mano a collezionisti ed antiquari esteri. 

Scavi sistematici vennero compiuti dalla Soprintendenza alle Antichità del Piemonte e della Liguria: sul teatro, le mura e 145 tombe della necropoli. Nel 1938 gli scavi furono ripresi giungendo fino ai livelli preromani nella parte nord della stessa. Verso la fine degli anni quaranta, la ricerca si concentrò nuovamente nel teatro e aree limitrofe, in particolare nella necropoli, nella zona del nuovo Cavalcavia e successivamente nelle insulae occidentali.

Il materiale epigrafico fu reperito principalmente nelle tre necropoli:
- la necropoli occidentale, allineata con il decumano massimo, detta "Via dei Sepolcri", con tombe di I-II sec., ricche di epigrafi e suppellettili;
- la necropoli orientale, lungo il decumano massimo;
- la necropoli settentrionale, in corrispondenza della strada che collegava la città con l'entroterra della Val Nervia.

SET DA VIAGGIO
Gli ultimi scavi archeologici hanno riportato in vista una consistente parte della cinta muraria della città, la parte terminale di un cardine, una strada orientata nord/sud, e una porta urbica aperta ai probabili collegamenti con la retrostante Val Nervia.

Si è individuata inoltre una necropoli di età tardo antica con tombe di diversa tipologia, orientate est-ovest, che presentavano ciascuna i resti di almeno due sepolture, di cui è attualmente in corso di scavo la tomba in anfora n. 309.

Tra i reperti: nell'Antiquarium marmi provenienti dalle terme, vasi, boccette di vetro, attrezzi per la toilette, gioielli, statuine, monete e utensili per la vita quotidiana mostrano un certo grado di benessere. Particolarissimo il set da viaggio in argento, con un manico dal quale si diramano ben sette elementi ruotanti: un cucchiaio, un colino, un pulisci-orecchie, un punteruolo, una forchetta, uno stuzzicadenti e un coltello.




15 DICEMBRE - CONSUALIA

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I Consualia erano due feste  dedicate entrambe a Conso, Dio dei granai e degli approvvigionamenti.
La prima veniva celebrata il 21 agosto, durante il periodo del raccolto, e la seconda il 15 dicembre.  Questa ultima era la festività più importante, detta infatti "Grandi Consualia". Tutti i riti si svolgevano davanti a un altare sotterraneo del Circo Massimo, portato in superficie in occasione della festa.

Secondo Dionigi, il Dio Conso, da molti identificato nel Neptunus Equestris, ovvero nel Dio Nettuno protettore degli equini, veniva celebrato con corse di asini, cavalli o muli, cui assistevano anche gli equini non concorrenti, agghindati con ornamenti floreali e per quel giorno esentati da ogni lavoro.
Mentre nella festa di Luglio erano previsti dei Ludi Circensi, con le corse dei muli, mentre cavalli e asini restavano a riposare incoronati da ghirlande, nella festa di dicembre partecipavano muli, cavalli e asini, con gare continue che prendevano l'intera giornata. 

La dedica a Nettuno equestre fu determinata da Romolo:
« Predispose ad arte solenni giochi in onore di Nettuno equestre, giochi cui diede nome di Consuali. Accorse un gran numero di persone, anche per la curiosità di vedere la nuova città, e particolarmente i più vicini: i Ceninesi, i Crustumini, gli Antemnati. E venne anche, praticamente al completo, con mogli e figli, la popolazione dei Sabini.»
(Tito Livio, Ab Urbe condita)


Evidentemente era stato importato dalla Grecia il culto di Nettuno come Dio dei cavalli da guerra, che si dice di derivazione iperborea. Quando ad Atene i cittadini dovettero scegliere se dedicare il partenone ad Atena o a Nettuno, i due Dei furono invitati a portare un dono alla città e il miglior dono avrebbe determinato il vincitore. Atena portò l'olivo simbolo i pace e Nettuno il cavallo da guerra. Gli ateniesi scelsero la pace e Romolo, a cui la guerra piaceva molto, decise di dedicare la festa più a Nettuno che a Conso, ma comunque sia Conus che sua moglie Ops vennero sempre inclusi nella festa.

Era la festa in onore di Conso, "il sotterrato", con evidente allusione all'ara sepolta nel Circo Massimo. L’etimologia sembra di derivazione sabina o etrusca, da condere (seppellire, piantare, nascondere). Secondo un’altra interpretazione, Conso sarebbe il Dio delle riunioni segrete, facendone derivare il nome da consilium (luogo dove ci si riunisce insieme). 

Alcuni studiosi hanno dedotto che il termine Conso derivasse sia dal Sotterramento che dal Consiglio dei coltivatori. Essi partono dal fatto che anticamente vi fosse una specie di consiglio degli agricoltori per cui una parte del raccolto non veniva consumato ma posto cumulativamente da tutti i contadini in una cassa che veniva poi sotterrata e custodita nel tempio. Al momento della semina veniva dissotterata e distribuita, e ciò serviva ad evitare le carestie a seguito di un raccolto molto scarso. 

Il culto più antico riguardava la Dea Ops Consiva (Dea Opi), così chiamata perchè il suo altare era appunto sepolto sotto la terra, a indicare il suo culto misterico. La Dea Vergine (cioè senza marito) dette alla luce il Dio Conso, che divenne il suo paredro e inseminò la Dea Consiva in qualità di Madre Terra. In questo mito il Dio rappresenta il seme figlio della pianta che sotterrato torna a nuova vita. Il rito prevedeva processioni e sacrifici ad ambedue gli Dei, nonchè banchetti e giochi solenni nel Circo Massimo con ampie scommesse.

Vi partecipava in massa la classe degli equites che considerava questa festa come propria essendo questi combattenti a cavallo (alae). Per l'occasione indossavano le armature e le vesti migliori, nonchè gli anelli d'ordinanza e le onorificenze acquisite. Il loro ingresso ne circo era una specie di parata militare a cui i romani dedicavano grandi applausi ed acclamazioni.



Col tempo il culto di Ops si affievolì e invece si rafforzò il culto di Conso che prese tutti gli attributi della Dea, a cominciare dall'ara, che da interrata divenne sotterranea, anche perchè era più semplice). Sembra infatti che nei tempi dell'impero l'ara venisse fatta scivolare su una specie di zattera su quattro ruote che la facesse risalire all'aperto, il che permise di sostituire l'ara di legno con un'ara di marmo.

Nel 1526 B. Marliani riporta un ritrovamento nell'area dell'attuale edificio di culto "...repertum est sacellumin ipso circo, post divae Anastasiae templum.." alludendo al rinvenimento di un'ara di Conso con il suo sacello, giusto dietro la basilica dell'Anastasis (S. Anastasia ai Cerchi). Poichè detta Chiesa giace accanto al Circo Massimo è possibile che fosse lì sotterrata l'antica ara, che anzi venendo spostata in età imperiale in un sotterraneo, è facile che fosse spostata dal circo ad una zona ad esso adiacente. 

Pertanto la festa, nata come contadina, divenne soprattutto festa dell'esercito, fanti compresi, perchè tutti i legionari dovevano saper andare a cavallo. Tuttavia, essendo dicembre un mese che segnava l'inizio del riposo della terra e pertanto anche dei contadini, questi facilmente giungevano a Roma per assistere alla festa e soprattutto alle corse degli equini.

ANTRUM CYCLOPIS

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Quando Ulisse arriva su un'isola abitata da Ciclopi decide di scendere dalla nave e visitarla con parte dei compagni. Giungono in un antro al cui interno trovano un recinto con delle pecore e cibo. Torna però il ciclope che richiude la grotta e chiede agli stranieri cosa facciano nella sua casa. Ulisse risponde che sono stranieri in cerca di ospitalità e il suo nome è "Nessuno".

Il ciclope Polifemo, incurante delle leggi dell'ospitalità afferra gli amici di Ulisse e li mangia vivi, quindi si addormenta. Ulisse allora, con un lunghissimo ed acuminato tronco acceca il ciclope che chiama in suo aiuto gli altri ciclopi che gli chiedono se gli stanno facendo del male. Il gigante gli risponde che "Nessuno" gli ha fatto del male ed i ciclopi se ne vanno. La mattina seguente, Polifemo apre l'antro spostando l'enorme masso e fa uscire il suo gregge a pascolare. Ulisse ed i suoi amici si aggrappano al ventre delle pecore e riescono ad uscire uno per volta, poi raggiungono la nave e scappano.

Questa è la storia narrata da Omero nell'Odissea, è da capire dunque come mai a Roma vi fosse una grotta del Ciclope.


LA GROTTA DI SPERLONGA PUO' DARE L'IDEA DI COME APPARIVA L'ANTRUM CYCLOPIS


ANTRUM (Notitia) O ANTRIUM (Curiosum) CYCLOPIS 

I Cataloghi regionari sono due redazioni, leggermente diverse tra loro, che ci sono pervenute di un originario catalogo delle 14 regioni di Roma augustea. Delle due versioni la prima ci è giunta con il titolo di Curiosum urbis Romae regionum XIIII, mentre la seconda, priva di titolo, è normalmente conosciuta come Notitia urbis Romae.

Per entrambi il testo è un elenco di monumenti suddiviso per regione, per la maggior parte in ordine topografico, e quindi il numero dei vici (quartieri) e delle loro edicole compitali, dei vicomagistri e dei curatores della regione, e ancora delle abitazioni (domus e insulae), dei magazzini (horrea), impianti termali (balnea), specchi d'acqua (lacus) e dei forni (pistrina). L'elenco si conclude con l'indicazione della lunghezza del perimetro della regione. Un riassunto finale elenca il numero complessivo di monumenti e delle altre categorie di edifici nel complesso della città.

L'Antrum o Atrium Cyclopis, menzionata solo nel Catalogo Regionale nella Regio I,era locata presso Porta Capena, la porta delle mura serviane da cui entrava in città la via Appia che si inoltrava nella valle a sud del Celio, fino oltre il successivo percorso delle mura aureliane. Pertanto si trattò probabilmente di una grotta posta nella collina, sopra la Vallis Camenarum.
Mentre non è possibile decidere con certezza tra queste due letture, l'Antrum della Notitia o l'Atrium del Curiosum, antro è probabilmente corretto, in quanto grotta, che può facilmente essere l'antrum Volcani di Giovenale.

 "Nessuno conosce così bene la sua casa come io conosco il bosco di Marte e l'antro di Vulcano, vicino alle rupi eolie".

GRUPPO STATUARIO DELLA GROTTA DI SPERLONGA
L'antrum Cyclopis conosciuto dai Romani era una enorme grotta di Capo Palinuro, ma a Roma esisteva un altro Antrum Cyclopis, che tra l'altro dette il nome al vicus Cyclopis (CIL VI.2226).

I romani usavano spesso le grotte naturali come coenationes, vedi la grotta di Tiberio a Sperlonga e il ninfeo Bregantino a Castelgandolfo, grotte vaste ed elaborate che venivano abbellite con statue, scherzi d'acqua, sedili, triclinii, colonnine e fontane.
L'antrum di Roma doveva estendersi a detta di alcuni autori a sud ovest dell'Appia fino alla via Appia (HJ 208, 230; RE IV.1905), e l’antrum Cyclopis della Domus Aurea Publio Vettore lo pone in zona celimontana.

Si suppone però perlopiù trattarsi dunque di due siti. Il primo era un ninfeo collegato al Fons Camenarum, poco più a valle rispetto alla Porta Capena, presso il vicus Camerarum, già parte dell'antichissimo Lucus Camenarum della Ninfa Egeria, collocato nella I Regio, chiamato piuttosto Antra Cyclopis, probabilmente con bassorilievi o pitture della scena omerica, mentre il secondo, l'Antrum Cyclopis vero e proprio, era posto sulle pendici del Celio, pertanto contiguo, ma facente parte della II Regio.

Si suppone fosse una enorme grotta che proprio per la sua grandezza suggeriva il mitico nome, ma non necessariamente dedicata al mito greco. Forse era anticamente dedicata alle Camene e poi sconsacrata oppure abbandonata e poi inglobata nei famosi horti, di Mecenate o Lamiani che fossero, con probabile funzione di ninfeo. E' possibile che in seguito il ninfeo fosse stato affrescato tipo grotta di Tiberio, oppure doveva il suo nome alla vastità della grotta, così come si chiamano ciclopiche le mura poligonali per indicare la mole enorme delle pietre che le componevano, senza che coi ciclopi avessero nulla a che fare.



17/23 DICEMBRE - SATURNALIA

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I SATURNALIA

SATURNALIA ET OPALIA

Furono un ciclo di feste celebrate dal 17 al 23 dicembre, periodo fissato in epoca imperiale da Domiziano, in onore di Saturno (Crono) e della Dea dell’abbondanza dei frutti della terra, Ops, sua sposa. Dalla religione cattolica sono state sostituite dal ciclo di feste che vanno da Natale a Capodanno. Anche in queste feste pagane erano previsti addobbi nelle città, di ghirlande, di fiaccole, di bracieri accesi davanti ai templi, di nastri, di rami e di fiori invernali.

I Saturnalia erano dedicati all'insediamento nel tempio del Dio Saturno e alla mitica Età dell'Oro. Secondo il mito, Saturno fu da Giove cacciato dal cielo e accolto da Giano nel terreno italico, che prese il nome di Saturnia, dove regnò durante la suddetta Età dell’Oro, insegnando agli uomini la coltivazione della terra e stabilendo le prime leggi.

Secondo Esiodo si tratta della prima età mitica, quando « un'aurea stirpe di uomini mortali crearono nei primissimi tempi gli immortali che hanno la dimora sull'Olimpo. Essi vissero ai tempi di Crono, quando regnava nel cielo; come Dei passavan la vita con l'animo sgombro da angosce, lontani dalle fatiche e dalla miseria; né la misera vecchiaia incombeva su loro... » (Esiodo - Le opere e i giorni).

Che siano gli uomini a creare gli Dei e non viceversa lo sostiene anche Plutarco nei suoi "Dialoghi Delfici", come a dire che le religioni sono inventate dagli uomini, il che non nega le potenze superiori del cosmo, ma dimostra che l'uomo le ha sentite, rappresentate e infine inquinate dai suoi desideri e proiezioni deformandole totalmente.

In onore di Saturno per sette giorni si commemoravano i tempi del suo regno felice con divertimenti, scambio di doni e banchetti, cui si convitavano gli schiavi perchè non c’erano differenze di ceto sotto il governo del Dio. Infatti, durante l'età dell'oro gli uomini vivevano senza bisogno di leggi, senza odio nè guerre tra di loro, e non coltivavano la terra poiché vi crescevano le piante spontaneamente.  Era sempre primavera, perciò non c'era bisogno di costruire case o di ripararsi in grotte. Con l'avvento di Giove che pone termine all'età dell'oro dando inizio inizio all'età dell'argento.

Esiodo dice che l'Età dell'Argento aveva diverse colpe, perchè i figli restavano a lungo presso le loro madri (invece di andare in palestra a imparare la guerra) e gli adulti erano litigiosi (ma non c'erano guerre). Giove li punì di questo sterminandoli. L'età dell'Oro doveva essere il periodo primitivo ed istintivo, dove l'uomo non aveva consapevolezza della propria morte.

L'età dell'Argento è il Matriarcato (argento, luna e acqua sono tutti elementi del femminino), dove non si facevano le guerre, Giove (il nuovo patriarcato) li stermina ponendo fine all'Età dell'Argento e dando inizio all'Età del Ferro (sempre secondo Esiodo) dove si fanno le guerre.

La fine dell'Età dell'Oro avviene per colpa di una donna, (dimenticando che il buon Saturno sbranava i suoi figli e per questo venne detronizzato), perchè Prometeo impietosito dagli uomini che non hanno il fuoco per cucinare, lo ruba agli Dei per donarlo agli umani. Giove, che evidentemente non ama gli umani, punisce Prometeo e giacchè  c'è punisce pure gli uomini inviando Pandora, la donna curiosa. E' lei ad aprire il vaso proibito, e pertanto funesto per gli uomini. Strano, perchè il presupposto di ogni scienza e progresso è la curiosità.

DIO SATURNO
I saturnali avevano inizio con grandi processioni, sacrifici, ricchi banchetti con copiosità di cibo e di vino per cui, non essendoci la condanna del sesso, si sconfinava anche i rapporti piuttosto licenziosi. Le orge però ce le infilò la chiesa cattolica, perchè i romani non le vedevano di buon occhio. Catullo definisce la festa "Optimo dierum" (il migliore tra i giorni).

I convitati della festa usavano poi scambiarsi l'augurio "io Saturnalia" (ego Saturnalia), che secondo gli autori era l'abbreviazione dell'augurio di trascorrere lieti Saturnalia (ego tibi optimis Saturnalia auspico), oppure significava "Io sono i Saturnalia" che però non sembra avere gran senso, tanto più che si trattava di una festa molto conviviale. L'augurio era accompagnato da piccoli doni simbolici, detti strenne (dalla Dea Strenua, la Dea del solstizio d'inverno), a base di candele, noci, datteri e miele. 
Infatti gli schiavi durante la festa diventavano uomini liberi, non dovevano servire i padroni ma a volte erano gli stessi padroni a servirli, o almeno organizzavano un banchetto per loro; in memoria del fatto che durante il regno di Saturno non c'erano servi nè schiavi. Inoltre veniva eletto, tramite estrazione a sorte, un "princeps", una caricatura della classe nobile, a cui veniva assegnato ogni potere sulla festa stessa, vestito con una buffa maschera e colori sgargianti tra cui predominava il rosso, colore degli Dei e degli imperatori.

Il princeps, che seguiva e organizzava la festa, assicurandone il buon andamento, rappresentava una divinità infera, Saturno o Plutone, guardiano dei defunti, ma anche protettore delle campagne e dei raccolti. Nei Saturnalia veniva permesso anche il gioco d'azzardo, proibito per tutto il resto dell'anno, giochi ai dadi compreso. 

In epoca romana si credeva che tali divinità (Saturno, Plutone, Proserpina), uscite dal sottosuolo, vagassero in corteo per tutto il periodo invernale, quando la terra riposava incolta a causa del gelo invernale. Dovevano quindi essere placate con l'offerta di doni e di feste in loro onore per renderli benevoli e farli poi tornare nell'aldilà, dove, come divinità del sottosuolo, avrebbero protetto i semi, li avrebbe fatti germogliare in primavera e avrebbero favorito i raccolti della stagione estiva.

Durante i Saturnali non esistevano giorni infausti e si abolirono i lutti. Infatti Svetonio per far comprendere quanto Germanico fosse amato dai romani e quanto si addolorarono per la sua morte, riporta il fatto eccezionale che il lutto della popolazione proseguì eccezionalmente anche durante queste feste. "Così nel tempo dei saturnali Svetonio dice che il lutto di Germanico fu tale che durò anche in quei giorni"


Il Dio Saturno, ovvero il suo corrispondente greco Kronos, Crono, che era anche la divinità del tempo, venne esiliato da Zeus e dagli Olimpi suoi figli al termine della Titanomachia, ed aveva secondo alcuni spostato il suo regno in un luogo che, Greci prima e Romani poi, chiamavano le "Isole Beate" che. da Claudio Tolomeo (100 - 175 d.c.) in poi si è sempre sostenuto che coincidessero con le isole Canarie.

Un'altro mito invece, prettamente italico, narrava che Saturno fosse stato legato e sepolto da Giove in un posto segreto del Lazio. Il nome di questa regione veniva fatto risalire a "latere" (nascondere) e Latium alludeva al luogo nascosto della tomba del Dio. Chi avesse potuto scoprire il sepolcro avrebbe potuto ottenere il "seme d'oro" che Saturno custodiva nel suo sepolcro, seme che avrebbe reso felice e immortale chiunque l'avesse posseduto.

Durante i Saturnali i tribunali e le scuole erano chiusi: era proibito iniziare o partecipare a guerre, stabilire pene capitali, portare lutti e, comunque, e qualsiasi altra attività che non fosse il festeggiamento. I Saturnali si svolgevano nel periodo precedente il solstizio d'inverno, alla vigilia del Natale del Sole: il nuovo Sole che rinasce dopo la sua morte simbolica. Era la festa più cara ai romani perchè partecipata da tutto il popolo, una festa che si svolgeva in tutto l'impero soprattutto per strada, con fiere, spettacoli e mercatini, da cui i nostri mercatini natalizi.

La parte ufficiale della festa consisteva in un solenne sacrificio nel tempio cui si assisteva a capo scoperto e durante il quale si scioglievano le bende di lana che avvolgevano i piedi del simulacro di Saturno. Seguiva un banchetto pubblico dove tutti i convenuti si scambiavano brindisi e auguri. Saturno rimaneva slegato ad adempiere le sue funzioni di fondatore di una nuova era fino alla fine dell'anno. Saturno moriva al solstizio d'inverno per rinascere come Dio-bambino all'inizio dell'anno. I Saturnali si celebravano anche nell'esercito; la festa era detta "Saturnalicium castrense"; nei castri si addobbavano le sale dove si organizzavano banchetti e brindisi vari, e i gradi inferiori sedevano per una volta accanto ai gradi superiori dell'esercito romano.



I giorni di festa erano scanditi così:

- 17 dicembre - ante diem sextum decimum Kalendas Ianuarias - Saturnalia -

- I Saturnali iniziavano con il rito del “lectisternium”: le statue di Giove e dei 12 Dei venivano stese sui letti in atteggiamento commensale, ovviamente avevano statue apposite per questo; gli si parlava, e con grande rispetto si chiedeva loro la protezione di Roma e dei cittadini, spiegando i problemi attuali; poi gli si offriva il cibo che veniva in seguito consumato pubblicamente dai partecipanti, in alcuni casi, quando c'era un pericolo incombente, il cibo veniva invece bruciato come offerta agli Dei.
- C'’era poi la celebrazione religiosa con processione fino al tempio di Saturno posto alle falde del Campidoglio e si facevano sacrifici di animali.
- Si accendevano le candele e vi era un grande banchetto di quartiere, con focacce, formaggi, olive e vino annacquato al quale tutti erano invitati; si facevano anche i brindisi e gli auguri. Il tutto a spese dello stato.
- Dal 17 iniziavano le feste in cui non si lavorava, si scambiavano doni e biglietti di auguri, spesso epigrammi, nonchè si regalavano i tre simboli dei saturnalia: il mirto, il lauro e l’edera (sacri a Venere, Apollo e Bacco).
- Si facevano grandi banchetti e veniva eletto il "Princeps Saturnalicius" che governava la festa. Anche le vesti cambiavano: si abbandonava la toga e s’indossava la synthesis (una veste da casa molto disinvolta), e come copricapo si usava il pileus (un berretto a forma di cappuccio).

"Nel culto della persona e nel vestire fu così sciatto che aveva i capelli sempre tagliati a scaletta e, dopo il viaggio in Grecia, anche cadenti giù sulla nuca; inoltre usciva in pubblico quasi sempre senza cintura e scalzo, in veste da camera (synthesis) e con un fazzoletto al collo."
(Svetonio, Vita di Nerone)

Secondo un'altra tradizione i Saturnalia erano stati istituiti dai compagni di Ercole rimasti in Italia.
Varrone invece faceva risalire i Saturnalia ai Pelasgi insediatisi in Italia dopo averne scacciato i Siculi. In ogni caso le feste di Saturno risultavano molto antecedenti alla fondazione di Roma.
La festa, la cui regolamentazione ebbe luogo nel 217 a.c., durava due giorni ai tempi di Cesare, quattro ai tempi di Caligola e sette ai tempi di Domiziano, perchè i romani amavano fare vacanza.

Gli schiavi giravano per la città mascherati e con in testa il berretto frigio (quello della liberazione, quando cessavano di essere schiavi e diventavano cittadini romani) abbandonandosi alla più sfrenata baldoria, ma i cittadini non erano da meno. E' evidente che nella settimana dei Saturnalia Roma era in preda al caos, ai rumori e alla confusione, come riportano Seneca e Plinio il Giovane: quest'ultimo ci narra che durante i festeggiamenti si rifugiava in una casa di periferia, lontana dai rumori e gli schiamazzi della festa.

- 18 dicembre - ante diem quintum decimum Kalendas Ianuarias - Saturnalia -
Secondo giorno delle feste in onore di Saturno. Ancora banchetti pubblici e privati, tutti invitavano tutti, Roma si riempiva di bancarelle, giocolieri, danzatori e musici, le edicole degli Dei venivano adornate con nastri e fiori. Vi si univa la festa dell’Eponalia, dedicata ad Epona e particolarmente cara agli equites, Dea celtica dei cavalli, preservatrice e dispensatrice di abbondanza e fertilità. Per giunta il 18, 19 e 20 erano i giorni di Mercatus, praticamente le fiere di oggi.

SATURNALICIUM CASTRENSEM
- 19 dicembre - ante diem quartum decimum Kalendas Ianuarias - Opalia -
Terzo giorno dei Saturnalia, in onore della Dea Ops o Opis, antica Dea dell'Abbondanza, protettrice di un ricco raccolto, considerata la moglie di Saturno. Anniversario della dedicazione del tempio di Ops sul Campidoglio. La Dea era di origine sabina, il culto venne introdotto a Roma al tempo di Tito Tazio. A lei si chiedevano le grazie e si facevano voti.

- 20 dicembre - ante diem  tertium decimum Kalendas Ianuarias - Sigillaria -
Nell'ambito dei Saturnali si svolgeva anche la festa delle statuette di terracotta, dette sigillaria, di cera, di pasta, o di terracotta, come ex-voto e doni augurali. che si scambiavano durante i Saturnali e che venivano offerte ai Lari; ma se ne offrivano pure al Dio Saturno, essendo Dio del tempo e quindi anche della morte, come a scongiurare la propria: l'offerente dava al Dio il sigillum in sostituzione della propria persona.

- 21 dicembre - ante diem duodecimum Kalendas Ianuarias - Saturnalia -
- Quinto giorno delle feste in onore di Saturno. Roma si riempiva di gente dell'impero e di oltre impero, giunta a vedere la meraviglia della festa romana, dove l'Urbe dava il meglio di sè negli spettacoli sulle piazze. Per strada si vendeva cibo, souvenir, sigillaria, vesti, ornamenti e gioielli. Artigiani di ogni dove offriva merce realizzata in cuoio, in legno, in terracotta, in bronzo, in ottone e in argento e in elettro. 

- 22 dicembre - ante diem undecimum Kalendas Ianuarias - Saturnalia -
Sesto giorno delle feste in onore di Saturno. Poichè la festa coinvolgeva tutto l'impero, da altre città si recavano a Roma le compagnie di danzatori di attori e di mimi che si esibivano nelle piazze. Nell’84 Marziale pubblicò gli Xenia (doni per gli ospiti), dei suoi scritti riguardanti i doni che i Romani usavano scambiarsi in occasione dei Saturnali.

- 23 dicembre - ante diem decimum Kalendas Ianuarias - Saturnalia -
Settimo ed ultimo giorno delle feste in onore di Saturno. Si ringraziavano gli Dei con una nuova processione, le strade pullulavano di fiaccole e bracieri, e la giornata passava tra i banchetti e le terme addobbate a nastri e ghirlande per l'occasione. La chiusura avveniva al tramonto.

CURIA ACCULEIA

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ORATORIO DEI 40 MARTIRI (CURIA ACCULEIA)

Le attribuzioni di luogo e di edificio della Curia Acculeia sono molteplici:

1) - La Curia Acculeia viene menzionata da Varrone (LL. VI.23) come una località dove si celebravano le Angeronalia, e dove si offrivano sacrifici per tale festa, che venivano anche celebrate al sacellum Volupiae (Macrob. Sat. I.10.7; Hemerol. Praenest. ad XII Kal. Ian.).

2) - Secondo alcuni la Curia Acculeia era solo un altro nome del Sacellum Volupiae.

PLANIMETRIA
3) - Secondo altri invece si trattava di una non ben identificata struttura adiacente, che stava vicino al punto dove la Via Nova entrava al Velabro (HJ 45; RE IV.1821; Gilb. I.56‑58; II.104‑107).
Il 21 dicembre i pontefici, come riporta Macrobio, eseguivano un rito nel Sacello di Volupia, dove un'immagine di Angerona con la bocca imbavagliata era posta sull'altare del sacello. Nei Fasti (Prae. Maff. ) questo giorno è chiamato Divalia.

Plinio spiega la bocca imbavagliata come immagine del silenzio che deve essere mantenuto sul nome sacro di Roma e ciò deve essere inteso allo stesso modo dal grammatico romano Verrio Flacco in una nota dei Fasti Prenestini, sostiene che poichè il 21 dicembre è il solstizio d'inverno, ci si dovrebbero aspettare in questo giorno il culmine delle celebrazioni del nuovo anno.
Macrobio dice che Verrio Flacco derivò il nome di Angerona dalla sua capacità di disperdere "angores ac sollecitudines animorum". Aggiunge che Masurio spiega la sua presenza sull'altare di Volupia: "quod si suos dolores anxietatexque dissimulant perveniant patientiae beneficio ad maxima voluptatem "

4) - Secondo altre interpretazioni la Curia Acculeia fu semplicemente un recinto senza tetto, come la Curia Calabra, probabilmente una stazione augurale per l'osservazione di segni celestiali riferiti al solstizio.

INTERNI DELL'ORATORIO DEI 40 MARTIRI
5) - Varrone suggerisce una relazione tra la Curia Acculeia e Acca Larentia, la cui ricorrenza cade il 23 dicembre, due giorni dopo la festa del solstizio, e la cui tomba giace al Velabro presso la Porta Romana (Varro Ling.). Se il Sacellum Volupiae e la Curia Acculeia non erano identiche, i tre luoghi dovevano essere contigui, o vicini tra loro, come a grappolo, ai piedi del Palatino, appena a ovest di San Giorgio al Velabro, non necessitando di grande spazio.

Sembra che sia i Divalia che la Curia Acculeia fossero nomi ideati per nascondere il vero nome di Angerona, ammesso che questo fosse il suo vero nome. Se il suo bavaglio alla bocca aveva a che fare col nome segreto di Roma e la locazione del suo tempio giusto fuori la Porta Romana, ne consegue che possiamo considerarla come la protettrice della Porta.

6) - Al contrario Coarelli pone la Curia Acculeia vicino al Lacus Jugurtae. In effetti il Lacus Juturnae era luogo sacro e miracoloso In onore della ninfa Giuturna, a Roma e nel Lazio, si celebrava la festa Iuturnaria, per scongiurare la siccità. La fonte era tra i numerosi santuari dedicati alle divinità acquatiche dove si recavano gli ammalati per cercare beneficio nelle acque considerate medicamentose. La parete di fondo dell' edicola di Giuturna infatti s' appoggia ad una sala con abside di buona opera laterizia, situata esattamente nell' asse della Nova Via. Si suppone trattarsi della Curia Acculeia, che in era cristiana fu trasformata in un oratorio dedicato ai Quaranta martiri. 
In quest'area la trasformazione in ampio piazzale pavimentato viene messa in relazione con la presenza della statio Aquarum che si trovava nell'area già nel III sec.

L'edificio della Statio aquarum (ufficio degli acquedotti) si trovava nel Foro Romano tra la Fonte di Giuturna, il tempio di Vesta e la Casa delle Vestali, con strutture murarie di varie fasi, dalla tarda repubblica all'epoca di Costantino, e venne identificato grazie a due iscrizioni su un cippo reperito in una stanza dell'edificio.
L'edificio era decorato da varie statue, come quella di Esculapio ancora in sito (che ricorda forse la virtù medicamentosa delle acque), mentre un Apollo arcaizzante è stato portato nell'Antiquarium del Foro. Il pavimento dell'interno dell'Oratorio è realizzato rozzamente utilizzando pezzi di marmi di vari colori, il che testimonia che qui e intorno vi fossero invece preziosi pavimenti in opus sectile.



7) - Secondo Fabiano Nardini il tempio rotondo di Ercole (o di Vesta):
 " Non è strano che fosse il Sacello di Volúpia di cui Varrone parlando della Porta Romanula - Qui habet Gradus in annuncio navalia Volupie Sacello que Nauali - il testo non voglia dire in Nova Via che dal Palatino si riguardavano altrove, esser stato possibile non necessario dir che fosse l' antico sbarco prima ch'al tempo d 'Anco Marzio fosse col Ponte Sublicio impedito alle navi arrivar tant'oltre.
Anzi assai dopo esservi durato lo sbarco de burchij ch'una seconda del fiume venivano prima che si fabricassero gli altri ponti non ê negabile. Se dunque l' annuncio Sacello Volupie si riferisce da Varrone ai Navali, parola più prossima, il Sacello è cosa facilissima fosse questa convenendo in quella della fabrica rotonda e corintia. Più ch 'annuncio altro Nume se il medesimo annuncio si riferisce alla Porta Il Sacello di Volúpia fu altrove.
Tra S Anastasio e S Teodoro douumque si fosse nell altare di questa Dea esser Stato il simulacro di Angerona fuit contraria fcriue Macrobio nel Primo libro de Saturnali - Duodecimo Vero Feriae sunt Dive Angeronie cui Pontifices nel Sacello Volupie facrum faciunt quam Verrio Flacco Angeroniam dici ait quid Angares ac animorum sollicitudines propiciata depellat Mafurtui adjcit simulacrum eius Dee minerale obligato atque obsignato in air Volupie Praeterea collocatum quod qui suos dolores anxietatesque dissimulant perveniant patientie beneficio annuncio maximam voluptatem -

(Fabiano Nardini - Roma Antica - 1666)

DENARIO CON DIANA NEMORENSE (ACCA LARENTIA)

Giuturna - Acca Larenta - Acca Larenzia - Dea Lara - Angerona - Voluptas - Curia Acculeia

Ai piedi del Palatino, tra il Tempio di Vesta e quello dei Dioscuri, c'era una sorgente dedicata alla ninfa Giuturna.  Il gruppo dei Dioscuri ad essa correlati fu trovato in pezzi (dovuti a una furia iconoclasta) nella vasca della Fonte di Giuturna e poi ricomposto, databile tra la fine del II sec. e l’inizio del I sec. a.c. Sui quattro lati vi sono raffigurati i Dioscuri, su un lato Giove e su un altro Leda, genitori dei gemelli, e davanti una figura femminile con fiaccola, che si suppone Giuturna. La statua di stile arcaizzante di Apollo in marmo greco, dell I-II secolo d.c., probabilmente decorava il vicino edificio dell’amministrazione delle acque e degli acquedotti (Statio aquarum).

Del punto dove sorgeva la fonte è visibile il bacino con al centro il calco dell’ara. Un’edicola sacra, probabilmente il tempietto dedicato a Giuturna, e l’edificio in mattoni della Statio Aquarum, in origine decorato da numerose sculture, completano il sito della fonte più importante a Roma in età arcaica. Dietro la parete dell'edicola sorgeva, a quanto dicono, la Curia Acculeia.

Il culto della Curia Acculeia e della Dea Acca Larentia (o Acca Laurentina) hanno in comune il nome di Publius Accoleius Lariscolus, magistrato monetario nel 43 a.c., che pose la testa di Acca Larentia su una moneta in corso. La testa di Acca richiama Accoleius e il nome Larentia richiama Lariscolus. E' possibile che Acculeia fosse un nomen derivato da Acca. Questo potrebbe spiegare il fatto che la Curia Acculeia effettuasse un sacrificio in onore di Angerona, Dea tutelare della stessa Roma, durante la Angeronalia.

MOSTRA DELLA FONTE DI GIUTURNA
Nella Curia Acculeia aveva luogo il sacrificio ad Angerona (Varrone) che altre fonti (Macrobio) ambientano nel Sacellum Piae Volupiae: per questo è probabile che Ara Volupiae e Signum Angeronale si trovassero all'interno della Curia Acculeia. Ma quest'ultima prende probabilmente nome da Acca Larentia, ciò che obbliga legarne il culto a quelli di Volupia e di Angerona: si tratta ovviamente di un rapporto di carattere cultuale, oltre che topografico, risulta anche dalla posizione del sacellum Larundae (forse da identificare con la curia Acculeia) in cui Tacito riconosce l'angolo Acca Larentia, Larunda.

La connessione con Angerona era interpretata dagli antichi come una relazione tra “piacere” (voluptas), pertinente alla Dea Volupia, e “dolore” (angor), pertinente alla Dea Angerona. Sembrerebbe un inno al masochismo, ma è tutt'altro.

Questi miti sono tutti molto arcaici e preromani, che appartenevano a diversi riti italici. Volupia (Voluptas= sesso) e Angerona erano il duplice volto della Dea della vita e della morte. Angerona custodiva il segreto della morte, evidentemente retaggio a un antico culto misterico.

Acca Larentia, antica Dea Lupa era connessa alla prostituzione sacra e alla morte e rinascita. Anche qui la sessualità, produttrice di vita, era connessa con la morte. Lara o Larenta o Larunda, madre dei Lares, era una Dea degli inferi, e quindi connessa ad un rito ctonio e segreto.

Ma c'era anche la Dea Muta o Tacita, Dea degli inferi che presiedeva ai culti funebri intesi come trapasso da ciò che è semplicemente morto a ciò che diviene sostegno per nuova vita. E’ dal rito propiziatorio alla Dea Tacita che è nata la tradizione delle fave dei morti, i dolci che in molti paesi vengono preparati e mangiati durante le annuali feste dei morti. 

La Dea Tacita si poneva il dito sulle labbra intimando il silenzio, oppure era imbavagliata come Angerona. Si sa, i culti nei tempi si trasformano per adattarsi ai nuovi tempi, ma a cercar bene si ritrovano le loro origini sacre e molto antiche.

La Curia Acculeia doveva accogliere queste antiche divinità ctonie adorate nei diversi luoghi e in età diverse sotto diversi nomi. La gente si raccoglieva in loro nome per riconoscersi e applicare la giustizia o prendere decisioni ispirate dalla Dea della vita e della morte.

IL DICTATOR

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CINCINNATO

LE ORIGINI DELLA DITTATURA

La dittatura nasce a Roma?

Scriveva Strabone:
- I Lucani sono di stirpe Sannitica ma avendo battuto i Posidoniati e i loro alleati in guerra vennero in possesso delle loro città. In tutti i periodi ordinari, ed è vero, il loro governo era democratico, ma nei periodi di guerra veniva scelto un re dai magistrati in carica. Adesso sono Romani. -
Anche i Lucani avevano dunque un dictator.

Sappiamo inoltre che nelle città latine esisteva un dittatore, magistrato annuo, di cui abbiamo sicura testimonianza per Aricia, Lanuvio e Nomento, e Catone cita da un antico documento un dictator della lega latina. Dunque il dictator non è prerogativa romana.

Comunque per Roma le fonti la danno fondata nel 501 o nel 498 a.c., citando come primi dittatori T. Larcio o M. Valerio. Eliminato Valerio, ma poichè la gente Valeria, potente anche in epoca tarda, si assunse spesso onori arbitrari, si ritiene che il primo dittatore sia stato Tito Larcio, della cui età (circa 500 a.c.) fanno fede i fasti consolari e il nome del suo magister equitum Spurio Cassio, autore del trattato di alleanza con i Latini che porta il suo nome (foedus cassianum).

Dunque Roma non si inventò la dittatura, quindi il potere assoluto pro tempore (perchè la tirannia esisteva da un pezzo) ma la usò molto a lungo, praticamente fino all'impero. Come mai fu così ampiamente adottata? Perchè i romani avevano una grande capacità razionale e quindi organizzativa. Essi adottarono sempre le migliori espressioni degli altri popoli, non temevano il cambiamento. Inoltre avevano un grande amor di patria e per questo sapevano scegliere gli uomini migliori per guidare e per combattere.

GIULIO CESARE

CARATTERISTICHE

Il potere del dictator era dotato di temporaneità, pienezza dei poteri e della particolare procedura di designazione del dittatore.

Il potere del dittatore era assoluto e non poteva essere controllato da nessuna istituzione o magistrato. Egli poteva sospendere tutti gli altri magistrati forniti di imperium o conservarli nel loro ufficio, ma subordinati a lui stesso. Era scelto originariamente tra i patrizi: solo dal 356 la dittatura fu accessibile anche ai plebei.

Anche se il grande studioso Theodor Mommsen ritiene che la dittatura romana fosse una magistratura straordinaria, non risultano dalle fonti delle distinzioni tra le magistrature ordinarie e quelle straordinarie.
Difficile pure considerare il dictator come una magistratura, perché al contrario di tutte le magistrature dell'età repubblicana, non aveva:

- collegialità, cioè era "sine collega", non aveva collega,
- nè elettività, non era eletto dalle assemblee popolari come i magistrati,
- invece veniva dictus, cioè nominato, da un console in accordo con l'altro console e con il senato, seguendo un rituale che prevedeva la nomina di notte, in silenzio, rivolto verso oriente, e in territorio romano.

Cicerone e Varrone, anzi, ricollegano l'etimologia del termine a questa particolare procedura di nomina.
Il dittatore, nominava come proprio luogotenenete, il magister equitum (comandante della cavalleria), ed è probabile che questi fosse l'antico comandante della fanteria, il magister populi, e questo spiegherebbe l'antico divieto per lui di montare a cavallo.



LA DECADENZA

La dittatura decadde nel sec. III soprattutto per l'ampliarsi del potere del Senato e il moltiplicarsi dei magistrati forniti d'imperio; sicché il dittatore diventava nello stesso tempo inutile e sospetto all'oligarchia senatoria.

L'ultimo dittatore con poteri militari (rei gerundae causa) è del 216; l'ultimo "comitiorum habendorum causa"è del 202. La dittatura fu rinnovata da Silla, che si fece dare dai comizi il titolo di "dictator republicae constituendae" nell'82 e lo depose nel 79. Poi Cesare, dopo una prima breve dittatura nel 49, si fece poi nominare nel 48 dittatore a tempo indeterminato e nel 46 dittatore annuale per la durata di dieci anni. Dopo la morte di Cesare la dittatura non fu più rinnovata, perchè nacquero gli imperatori.



I POTERI DEL DICTATOR

Alla dittatura si faceva ricorso solo in casi straordinari:
- particolari pericoli da nemici esterni,
- rivolte,
- impedimento grave ad operare del console che lo nominava.

MARCO FURIO CAMILLO
Quando vi era la necessità di nominare un dittatore, il Senato emetteva un decreto, il senatus consultum, che autorizzava i consoli a nominarne uno, il quale si insediava immediatamente. Spesso il dittatore rimaneva in carica fino a quando non era cessato il pericolo, per poi dimettersi e restituendo i poteri concessigli.

Comunque non restava in carica più di sei mesi, e usciva dalla carica una volta scaduto l'anno di carica del console che lo aveva nominato.

Il dittatore era dotato di summum imperium, cioè la facoltà di impartire ordini a cui nessuno poteva sottrarsi, unendo in sé il potere dei due consoli, e per questo era accompagnato da ventiquattro littori.

Inoltre non era soggetto alle limitazioni dei Tribuni della plebe nè al limite della "provocatio ad populum", la possibilità che il popolo potesse trasformare la pena capitale di una condannato a morte in altra pena se richiesto dal condannato.

Per questo i suoi littori giravano anche all'interno del pomerium con le scuri inserite nei fasci littori.
Tutti gli altri magistrati erano a lui subordinati.
Sembra però che in seguito i dittatori dovettero piegarsi sia ai tribuni che alla provocatio.
I magistrati ordinari (come consoli e pretori) rimanevano in carica, ma  diventavano subordinati al dittatore.Nel caso in cui avessero disubbidito agli ordini del dittatore, potevano anche essere costretti a dimettersi.

E mentre un dittatore poteva ignorare il diritto della Provocatio, cioè il diritto di grazia da parte della plebe ad un condannato che si fosse rivolto ad essa, ma questo diritto, così come l'indipendenza dei tribuni della plebe, in teoria continuava ad esistere anche durante la dittatura. 
Il suo potere equivaleva alla somma dei poteri di due consoli insieme, senza alcun controllo sul suo operato da parte di alcun organo di governo. Così, quando vi era questa necessità, era come se per sei mesi Roma tornasse al periodo monarchico, con il dittatore che prendeva il posto dell'antico Re monarchico. 
Egli era poi accompagnato da ventiquattro littori fuori dal pomerium e dodici al suo interno (come era per il re), al contrario un console ne aveva dodici fuori dal pomerium e sei al suo interno. 
Come segno esterno della provocatio ad populum i littori che precedevano i consoli, quando erano nella città di Roma, portavano i fasci littori privi di scure, ad indicare che il magistrato era privo del potere di erogare pene capitali. Fuori Roma, come accadeva in occasione di campagne militari, il potere era in genere pieno, ed i littori avevano pertanto i fasci con le scuri. Dentro Roma però il dictator aveva littori con la scure nei fasci.
Il normale governo era sciolto e tutto passava nelle mani del dittatore, il quale aveva potere assoluto sulla res publica. Egli nominava quindi un Magister equitum (comandante della cavalleria) da utilizzare come suo giovane subordinato. L'ultimo dittatore venne nominato nel 202 a.c. Dopo questa data le emergenze estreme vennero gestite attraverso un decreto senatoriale; senatus consultum ultimum, corrispondente oggi allo stato di emergenza. 
In questo modo cessava il normale governo civile e si dichiarava la legge marziale, investendo i due consoli del potere dittatoriale. Ci sono molti motivi per questo cambiamento. Fino al 202 a.c., i dittatori erano spesso nominati per sedare i disordini della plebe. Nel 217 a.c., passò una legge che diede alle assemblee popolari il diritto di nominare i dittatori togliendone il monopolio dell'aristocrazia, che l'aveva avuto fino ad allora..



I CASI DELLA DITTATURA
  • dictator rei gerendae causa (per affrontare pericoli esterni e governare lo Stato in situazioni di difficoltà). I più noti dictatores rei gerundae causa furono Cincinnato e Fabio Massimo (durante la II guerra punica). Dopo di allora questa forma di dittatura cadde in disuso. Molto più tardi Giulio Cesare ripristinò la dittatura rei gerendae causa, quindi la modificò con la durata di un anno completo. Fu nominato dictator rei gerendae causa per un anno completo nel 49 a.c. e poi fu successivamente designato per nove volte consecutive a questa carica annuale, diventando di fatto dittatore per dieci anni. Nel 44 a.c. il Senato votò per nominarlo dictator perpetuus (dittatore perpetuo).
  • dictator seditionis sedandae causa (per sedare una rivolta) Dionigi di Alicarnasso, ricorda l'utilizzo dei poteri del dictator perordine durante la secessione della plebe
  • dictator comitiorum habendorum causa (per convocare i comitia per le elezioni)
  • dictator clavi figendi causa (per piantare il clavus annalis, il chiodo annuale, nella parete del tempio di Giove, utile ai fini del computo calendariale degli anni)
  • dictator feriarum constituendarum causa (per determinare le festività)
  • dictator ludorum faciendorum causa (per officiare i giochi pubblici)
  • dictator quaestionibus exercendis (per tenere determinati processi)
  • dictator legendo senatui (per nominare nuovi senatori ai posti che si erano resi vacanti nel Senato)
  • dictator rei publicae constituendae causa et legibus scribundis (durante le lotte tra Gaio Mario e Lucio Cornelio Silla, questi marciò su Roma e si fece eleggere dai comizi, su proposta dell'interrex Valerio) Questa nuova dittatura non corrispondeva a quella tradizionale, perché non aveva alcun limite temporale e non era basata su una dictio. 
SILLA
Silla tenne questa carica per anni prima di abdicare volontariamente e ritirarsi dalla vita pubblica.
Fu poi la volta di Cesare, mai imperator ma sempre dictator, a detenere la carica, sebbene tutto il mondo l'abbia sempre considerato il primo imperatore di Roma.

Dopo l'assassinio di Cesare, il collega consolare Marco Antonio fece approvare una lex Antonia che abolì la dittatura e la cancellò dalla costituzione repubblicana.

La carica fu successivamente offerta ad Augusto, che prudentemente rifiutò ed optò invece per la potestà tribunizia e per l'imperium consolare senza detenere nessuna altra carica che quella di pontifex maximus e di princeps senatus, una disposizione politica che lo lasciò con le funzioni di dittatore senza doverne tenere il discutibile titolo.

« Il popolo con grande insistenza offrì ad Augusto la dittatura, ma lo stesso, dopo essersi inginocchiato, fece cadere la toga dalle spalle e, a petto nudo, supplicò che non gli fosse imposta. »
(Svetonio, Augustus, 52)

Così Roma abrogò i dittatori facendo sorgere gli imperatori.



LISTA DEI DITTATORI ROMANI

501 a.c. - Tito Larcio Flavo - Magister equitum Spurio Cassio Vecellino.
Console nel 501 a.c. fu scelto come dittatore (la prima volta che fu attribuita la carica) per comandare l'esercito contro le trenta città latine che avevano giurato di reintegrare Tarquinio il Superbo a Roma, cui si temeva si sarebbero alleati i Sabini.
« ...Dopo l'elezione del primo dittatore della storia di Roma, quando la gente lo vide preceduto dalle scuri, provò una paura tale da obbedire con più zelo alla sua parola. Infatti non era più possibile, come nel caso dei consoli, i quali dividevano equamente il potere, ricorrere o appellarsi al collega, né esisteva altra forma di comportamento che l'obbedienza scrupolosa. »
(Tito Livio, Ab Urbe condita)

499 a.c. - Aulo Postumio Albo Regillense - m. e. Tito Ebuzio Helva
Venne eletto per la battaglia con la lega delle città latine, guidate da Tarquinio il Superbo e da suo genero, Mamilio Ottavio, dittatore della città di Tusculum. Vinse sul lago Regillo ed ebbe il trionfo.

494 a.c. - Manio Valerio Voluso Massimo - m. e. Quinto Servilio Prisco
Tito Livio narra che dovette fronteggiare una guerra imminente, dato che alle frontiere i Sabini, gli Equi ed i Volsci, effettuavano scorrerie in territorio romano e degli alleati latini, e, all'interno di Roma c'era la rivolta della plebe. Seppe far fronte ad entrambe ed ebbe il trionfo.

458 a.c. - Lucio Quinzio Cincinnato I - m. e. Lucio Tarquizio Flacco 
439 a.c. - Lucio Quinzio Cincinnato II  - m. e. Gaio Servilio Strutto Ahala
Fu due volte dittatore, nel 458 e nel 439 a.c. Sappiamo da Tito Livio (IV, 13) che aveva passato gli ottant'anni quando fu proclamato dittatore per la seconda volta.

437 a.c. - Mamerco Emilio Mamercino I  - m. e. Lucio Quinzio Cincinnato - vincendo contro Fidene e Veio.
434 a.c. - Mamerco Emilio Mamercino II  - m. e. Aulo Postumio Tuberto
426 a.c. - Mamerco Emilio Mamercino III  - m. e. Aulo Cornelio Cosso - vinse Fidene definitivamente.

435 a.c. - Quinto Servilio Prisco Fidenate I  - m. e. Postumio Ebuzio Helva Cornicino - vincendo contro Equi e Labicani
418 a.c. - Quinto Servilio Prisco Fidenate II - m. e. Gaio Servilio (Strutto) Axilla - vinse contro Labico

431 a.c. - Aulo Postumio Tuberto  - m. e. Lucio Giulio Iullo - vinse contro Volsci ed Equi.

408 a.c.- Publio Cornelio Rutilo Cosso - m.e. Gaio Servilio Strutto Ahala - vinse contro Volsci ed Equi.

396 a.c. - Marco Furio Camillo I -  celebrò il trionfo quattro volte, cinque volte fu dittatore e fu onorato con il titolo di Pater Patriae, e Secondo fondatore di Roma.
390 a.c. - Marco Furio Camillo II
389 a.c. - Marco Furio Camillo III
368 a.c. - Marco Furio Camillo IV
367 a.c. - Marco Furio Camillo V

385 a.c.- Aulo Cornelio Cosso - Vinse i Volsci.

380 a.c. - Tito Quinzio Cincinnato Capitolino - vinse Preneste e Velletri.

368 a.c. - Publio Manlio Capitolino - per domare le richieste dei tribuni della plebe, dopo le dimissioni di Furio Camillo, richieste in parte andate a buon fine.

363 a.c. - Lucio Manlio Capitolino Imperioso - eletto per motivi cerimoniali fu accusato di crudeltà verso gli uomini e verso il figlio.

362 a.c. - Appio Claudio Crasso Inregillense - sconfisse gli Ernici.

361 a.c. - Tito Quinzio Peno Capitolino Crispino - sconfisse i galli ed ottenne il trionfo.

360 a.c. - Quinto Servilio Ahala - sconfisse i Galli alleati dei tiburtini.

358 a.c. - Gaio Sulpicio Petico - sconfisse i Galli e ottenne il trionfo

356 a.c. - Gaio Marcio Rutilo - sconfisse gli etruschi e ottenne il trionfo.

353 a.c. - Tito Manlio Imperioso Torquato - quando sembrò che Cere si fosse alleata con Tarquinia contro Roma, ma stabilì la pace.
349 a.c. - Tito Manlio Imperioso Torquato - fu rinominato dittatore per presiedere alle elezioni consolari.

352 a.c. - Gaius Iulius Iulus - una pretesa guerra contro etruschi, ma in realtà per consentire l'elezione di due patrizi nei comizi consolari, in violazione  della lex Licinia Sextia.

351 a.c. - Marco Fabio Ambusto - fu nominato dittatore perché fosse rispettata la legge per l'elezione dei consoli.

350 a.c. - Lucio Furio Camillo - fu nominato dittatore perché fosse rispettata la legge per l'elezione dei consoli.
345 a.c. - Lucio Furio Camillo - combattè e vinse gli Aurunci

344 a.c. - Publio Valerio Publicola - per un evento prodigioso, fu nominato dittatore, onde stabilire un calendario di cerimonie religiose.

342 a.c. - Marco Valerio Corvo I - domò con mitezza la rivolta di Capua
301 a.c. - Marco Valerio Corvo II - sconfisse Marsi ed Etruschi ottenendo il trionfo

340 a.c. - Lucio Papirio Crasso - nominato per combattere Antium ma concluse poco.

339 a.c. - Quinto Publilio Filone - nominato dal suo collega, promulgò tre leggi, tra le quali la Lex Publilia, per la quale i plebisciti avevano valore anche per i patrizi.

337 a.c. - Gaio Claudio Regillense - nominato dal senato, ma quando gli auguri misero in dubbio la legalità della votazione rinunciò alla carica.

335 a.c. - Lucio Emilio Mamercino Privernate - fu nominato dictator comitiorum habendorum causa per assicurare lo svolgimento dei comizi centuriati e l'elezione dei consoli per l'anno successivo.
316 - Lucio Emilio Mamercino Privernate - nominato dictator rei gerundae causa, per combattere i Sanniti che infatti li vinse.

333 a.c. - Publio Cornelio Rufino - rinunciò all'incarico perchè si temette infondatamente un attacco dei Sanniti.

332 a.c. - Marco Papirio Crasso - nominato perchè si temeva un attacco dei Galli, attacco che non giunse.

331 a.c. - Gneo Quintilio Capitolino - nominato per un rituale che scongiurasse un evento terribile: 170 matrone romane furono condannate per veneficio, dopo che altre si erano suicidate. L'evento, inspiegabile, fu considerato frutto di menti folli.

327 a.c. - Marco Claudio Marcello -  nominato allo scopo di convocare i comizi. La nomina fu però invalidata per vizio di forma da parte dei tribuni.

324 a.c. - Lucio Papirio Cursore - vinse i Sanniti ottenendo il trionfo.
309 a.c. - Lucio Papirio Cursore

322 a.c. - Aulo Cornelio Cosso Arvina - sconfisse i Sanniti e ottenne il trionfo.

321 a.c. - Quinto Fabio Ambusto - Nominato dittatore all'indomani delle Forche Caudine, per l'elezione dei nuovi consoli, si dimise per qualche irregolarità nell'elezione.

321 a.c. - Marco Emilio Papo - nominato dopo le Forche Caudine per l'elezione dei nuovi consoli, dopo che Quinto Fabio Ambusto, si era dimesso a causa di alcune irregolarità nelle sue elezioni, si dimise a sua volta, in quanto non riuscì a presiedere all'elezioni consolari.

315 a.c. - Quinto Fabio Massimo Rulliano - sconfisse i Sanniti.

314 a.c. - Gaio Menio Publio - per il timore di una defezione di Capua, defezione che non avvenne.

313 a.c.- Gaio Petelio Libone Visolo - vinse i Sanniti.

312 a.c. - Gaio Sulpicio Longo - a causa della malattia che aveva colto il console Publio Decio Mure e per affrontare gli Etruschi, ma non vi fu scontro.

306 a.c. - Publio Cornelio Scipione Barbato - Fu nominato dittatore per l'assenza dei consoli Quinto Marcio Tremulo e Publio Cornelio Arvina, impegnati contro i Sanniti, per indire le nuove elezioni consolari

302 a.c. - Gaio Giunio Bubulco Bruto - sconfisse gli Equi ottenendo il trionfo. 

292 a.c. - Appio Claudio Cieco I - nominato due volte dittatore, sconfisse Etruschi, Latini, Sabini e Sanniti,
285 a.c. - Appio Claudio Cieco II .

249 a.c. - Aulo Atilio Calatino, in seguito al disastro della battaglia svoltasi a Drepana, durante la I guerra punica .

217 a.c. - Quinto Fabio Massimo, il temporeggiatore della II guerra punica.

216 a.c. - Marco Giunio Pera, dopo il disastro della battaglia di Canne

208 a.c. - Tito Manlio Torquato - nominato per tenere i comizi e di presiedere ai giochi indetti dal pretore Marco Emilio

203 a.c. - Publius Sulpicio Galba Massimo - per controllare l'esercito cartaginese

82/79 a.c. - Lucio Cornelio Silla - vedi Silla

49/44 a.c. - Gaio Giulio Cesare - vedi Cesare



IL COMMENTO

Per quasi 400 anni i Romani mantennero la carica della dittatura e con grandi profitti, perchè il senato e i consoli, avendo a cuore, pur con ambizioni e beghe varie, più il benessere di Roma che quello della propria classe dirigente o militare, o peggio, del proprio profitto personale, nominarono sempre gli uomini migliori che la patria offriva in quel momento.

Inoltre, Silla a parte, se i senatori patrizi romani non avessero indegnamente escluso Cesare dai suoi trionfi attentando inoltre alla sua vita, non lo avrebbero costretto alla guerra civile per salvare la sua vita e i suoi diritti.

Ma forse dovremmo ringraziarli per averci procurato il più grande imperatore di tutte le epoche.

"Così egli operò e creò, come mai nessun altro mortale prima e dopo di lui, e come operatore e creatore Cesare vive ancora, dopo tanti secoli, nel pensiero delle nazioni, il primo e veramente unico imperatore".

(Theodor Mommsen)

BATTAGLIA DELLE FORCHE CAUDINE

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FORCHE CAUDINE

La battaglia delle Forche Caudine fu un infausto evento della II guerra sannitica, in cui i Sanniti di Gaio Ponzio sconfissero i Romani con ignominia, avendoli costretti a passare sotto i famosi gioghi.
La società romana ne uscì così sconvolta da ricordarlo per secoli come marchio d'infamia per la Repubblica associandolo alla disfatta dell'Allia e poi alla battaglia di Canne. Secondo la versione che ne dà Tito Livio, si trattò di una resa e non di una battaglia. I romani si arresero senza combattere perchè altrimenti sarebbero tutti morti.

Alla fine della I guerra sannitica, nel 341 a.c., i Sanniti avevano ottenuto la pace dai romani promettendo di rimanere neutrali nelle continue battaglie tra Roma e i popoli vicini. Tuttavia nel 327 a.c. i bellicosi Sanniti ruppero i trattati appoggiando i Palepolitani, abitanti di Parthenope, futura Neapolis, nell'area posta tra il Vesuvio e l'area vulcanica dei Campi Flegrei.
Dopo alterne vicende, i sanniti nel 322 a.c. furono sconfitti da Roma e dovettero accettare condizioni umilianti: la consegna di Brutulo Papio come istigatore dell'insurrezione, di tutte le sue ricchezze (di Brutulo, suicidatosi, fu poi consegnata la salma) e la restituzione dei prigionieri.
I Sanniti speravano inoltre di poter riottenere lo status di alleati ma Roma, non fidandosi, non concesse l'alleanza.

Nel 321 a.c. vennero eletti consoli Tiberio Veturio Calvino e Spurio Postumio Albino Caudino. I Sanniti invece nominarono comandante tale Gaio Ponzio, definito da Livio:
« patre longe prudentissumo natum, primum ipsum bellatorem ducemque.» cioè:
« figlio di un padre famoso per la grande saggezza, e lui stesso combattente e stratega di prim'ordine. » (Tito Livio, Ab Urbe condita)

 I Sanniti avevano inviato i loro ambasciatori, col corpo di Brutulo, per trattare le condizioni di riparazione; ma Roma non aveva accettato la pace. Ponzio allora arringò fieramente il suo popolo, arringa che Livio riporta così:
« quorum saevitiam non mors noxiorum, non deditio exanimatorum corporum, non bona sequentia domini deditionem exsatient, [placari nequeant] nisi hauriendum sanguinem laniandaque viscera nostra praebuerimus.»
« la cui ferocia non è stata saziata dalla morte dei colpevoli, né dalla consegna dei loro cadaveri, né dai beni che accompagnavano il trasporto dei loro defunti proprietari, né lo sarà mai se non dall'offerta del nostro sangue da bere e delle nostre carni da sbranare.» (Tito Livio, Ab Urbe condita libri, IX, 1)



LA TRAPPOLA

Durante le trattative di pace, l'esercito romano era ancora stanziato nel Sannio, vicino a Calatia. Gaio Ponzio si accampò segretamente presso Caudio, spostandosi di notte. Da lì mandò una decina di soldati, travestiti da pastori, per farsi catturare dai romani, che giravano il territorio per sorvegliare e per depredare bestiame e viveri per la truppa.

I falsi pastori raccontarono ai omani che l'esercito sannita stava assediando Luceria in Apulia, città alleata di Roma, per cui i consoli credettero bene di accorrere in aiuto dell'alleata.

C'erano due vie per giungere a Luceria: una strada più aperta e sicura ma più lunga che costeggiava l'Adriatico e una più breve che doveva attraversare le strettoie di Caudio.

Non sappiamo dove fosse Caudio e supponiamo che furono i romani stessi a cancellarne le tracce, anche se Livio ci descrive il luogo:
« saltus duo alti angusti silviosique sunt montibus circa perpetuis inter se iuncti. Iacet inter eos satis patens clausus in medio campus herbidus aquosusque, per quem medium iter est. Sed antequam venias ad eum, intrandae prima angustiae sunt et aut eadem qua te insinuaveris retro via repetenda aut, si ire porgo perras, per alium saltum artiorem impeditoremque evadendum.»

« due gole profonde, strette, ricoperte di boschi, congiunte l'una all'altra da monti che non offrono passaggi, delimitano una radura abbastanza estesa, a praterie irrigate, nel mezzo della quale si apre la strada; ma per arrivare a quella radura bisogna prima passare attraverso la prima gola; e quando tu l'abbia raggiunta, per uscirne, o bisogna ripercorre lo stesso cammino o, se vuoi continuare in avanti, superare l'altra gola, più stretta e irta di ostacoli.» (Tito Livio, Ab Urbe condita)

Con ogni probabilità per risparmiare tempo e portare aiuto agli alleati, i consoli romani si incamminarono con le legioni al seguito. Però, a quanto pare, non si preoccuparono di mandare qualcuno in avanscoperta. Così i romani scoprirono gli sbarramenti dei Sanniti e notarono i nemici sulle alture circostanti quando giunsero alla seconda gola:
« In eum campum via alia per cava rupem Romani demisso agmine cum ad alias angustias protinunt pergerent, saepta deiectu arborum saxorumque ingentium obiacente mole invenere.»

« I romani, discesi con tutto l'esercito nella radura per una strada ricavata nelle rocce, quando vollero attaccare senza indugi la seconda gola, la trovarono sbarrata da tronchi d'albero e da ammassi di poderosi macigni.» (Tito Livio, Ab Urbe condita)

Ovviamente le legioni romane cercarono di ritornare per la via da cui erano giunte ma trovarono la prima gola chiusa con uno sbarramento uguale a quello dell'altra. Livio:

« Sistunt inde gradum sine ullius imperio stuporque omnium animos ac velut torpor quidam insolitus membra tenet, intuentesque alii alios, cum alterum quisque compotem magis mentis ac consilii ducerent, diu immobiles silent. »

« Senza che ne venga dato l'ordine si arrestano: gli animi sono presi da sgomento, le membra irrigidite da un insolito torpore; si guardano gli uni gli altri come se ciascuno cercasse nel viso del compagno un'idea o un progetto di cui si sente privo: immobili in lungo silenzio.»
(Tito Livio, Ab Urbe condita)

GUERRIERO SANNITA (Pietrabbondante - Molise)

LA SAGGEZZA DI GAIO ERENNIO

Presto però vennero innalzate le tende dei consoli, costruirono un vallo vallo vicino all'acqua e scavarono un terrapieno, mentre i nemici li irridevano dall'alto della gola.  Scese la notte e in ambedue i campi si cercò una risoluzione. Il comandante dei Sanniti si rivolse al padre Gaio Erennio Ponzio, che per l'età e l'indebolimento del corpo, si era ritirato dall'esercito e dalla politica. Però aveva una mente molto lucida.

Il padre consigliò di lasciar andare i romani senza fargli alcun male ma l'esercito sannita, scontento, rimandò il messaggero. Erennio rispose allora di uccidere tutti i romani, dal primo all'ultimo, e il figlio stupito lo fece portare in Consiglio con un carro per parlarci direttamente.

Il vecchio Erennio spiegò: se i soldati fossero stati lasciati andare, si sarebbe potuto contare sulla gratitudine di Roma; se l'esercito romano fosse stato distrutto, Roma non avrebbe potuto riarmarsi in breve tempo e i Sanniti avrebbero potuto vincerla definitivamente. Non esisteva una terza soluzione. Dice Livio: "tertium nullum consilium esse".

« Servate modo quod ignominia inritaveritis: ea est Romana gens, quae victa quiescere nesciat. Vivet semper in pectoribus illorum quidquid istuc praesens necessitas unisserit neque eos ante multiplices poenas expetitas a vobis quiescere sinet »

«  Conservate ora coloro che avete inaspriti col disonore: il popolo romano non è un popolo che si rassegni ad essere vinto; rimarrà sempre viva in lui l'onta che le condizioni attuali gli hanno fatto subire, e non si darà pace se non dopo averne fatto pagare il fio ad usura »
(Tito Livio, Ab Urbe condita)
Ma le proposte del vecchio Erennio non trovarono accoglienza.



LA RESA

I consoli romani, comprendendo la gravità della situazione, chiesero ai sanniti una pace equa oppure che si schierassero per la battaglia in territorio aperto, in modo da dimostrare quale fosse l'esercito più coraggioso e capace. Aggiunse che non c'era onore nell'aver sconfitto i nemici con l'inganno, ma Gaio Ponzio non la pensava così e pose le sue condizioni:

« inermes cum singulis vestimentis sub iugum missurum; alias condiciones pacis aequas victis ac victoribus fore: si agro Samnitium decederetur, coloniae abducerentur, suis inde legibus Romanum ac Samnitem aeque foedere victurum »

« li avrebbero fatti passare sotto il giogo, disarmati, vestiti della sola tunica. Le altre condizioni di pace accettabili ai vinti e ai vincitori: il ritiro dell'esercito dal territorio dei Sanniti e quello delle colonie ivi mandate; in seguito Romani e Sanniti sarebbero vissuti ciascuno con le proprie leggi in giusta alleanza. » (Tito Livio, Ab Urbe condita libri)

Lucio Lentulo, figlio del difensore del Campidoglio assalito da Brenno e i suoi Galli e ch’era per dignità e per merito capo degli ambasciatori, avendo già dimostrato di non avere paura, poteva parlare apertamente di resa, così disse:

« Se fosse a noi possibile combattere col nemico, non mancherei di consigliare a voi di seguire l’esempio di mio padre (che si era opposto alla deliberazione del Senato di ricomprare con l’oro la città di Roma dai Galli, potendo uscire dalla città e combattere contro di loro). Certamente confesso essere cosa bella morire per la patria, ed io sono pronto ad offrirmi come vittima per la salvezza del popolo romano; ma io vedo qui la patria e tutte le forze delle legioni romane, le quali cosa salverebbero con la loro morte? Dirà qualcuno: le case di Roma, i templi, le mura e la moltitudine che abita la città. Invece io dico che, con la distruzione di questo esercito, tutte quelle cose andrebbero come premio nelle mani dei Sanniti. In questo luogo sono tutte le nostre speranze, le nostre forze; se noi le salveremo, noi salviamo e conserviamo anche la patria; perdendo l’esercito e lasciandolo tagliare a pezzi, tradiamo o perdiamo anche la nostra patria. E’ cosa turpe o vergognosa darsi al nemico, ma l’amore di patria questo ci chiede: salvarla con la nostra ignominia. Si ceda, dunque, alla necessità. Andate, o consoli, e cedendo le armi ricomprate una città, che i nostri antenati ricomprarono con l’oro. »

Contrariamente a quanto era accaduto ai tempi del padre, non c'era un esercito romano fuggito a Veio e pronto a ritornare alla riscossa con Furio Camillo. I consoli si recarono da Ponzio per discutere la resa. Ponzio voleva gettare le basi di un vero e proprio trattato ma i consoli replicarono che non era possibile; la cosa doveva essere decisa dal popolo romano e confermata dai Feziali con gli opportuni riti. Fu quindi fissata la data della consegna delle armi, degli ostaggi e del rilascio dell'inerme esercito romano.

Alla fine i romani accettarono:
« Iam primum cum singulis vestimentis inermes extra vallum exire iussi; et primi traditi obsides atque in custodiam abducti: tum a consulibus abire lictores iussi paludamentaque detracta. Primi consules propri seminudi sub iugum missi; tum ut quisque gradu proximus erat, ita ignominiae obiectus; tum deinceps singule legiones: circumstabant armati hostes, exprobrantes eludentesque, gladii etiam plerisque intentati, et vulnerati quidam necatique, si vultus eorum indignitate rerum acrior victorem offendisset. »

« Furono fatti uscire dal terrapieno inermi, vestiti della sola tunica: consegnati in primo luogo e condotti via sotto custodia gli ostaggi. Si comandò poi ai littori di allontanarsi dai consoli; i consoli stessi furono spogliati del mantello del comando. Furono fatti passare sotto il giogo innanzi a tutti i consoli, seminudi; poi subirono la stessa sorte ignominiosa tutti quelli che rivestivano un grado; infine le singole legioni. I nemici li circondavano, armati; li ricoprivano di insulti e di scherni e anche drizzavano contro molti le spade; alquanti vennero feriti ed uccisi, sol che il loro atteggiamento troppo inasprito da quegli oltraggi sembrasse offensivo al vincitore. » (Tito Livio, Ab Urbe condita )



LA SUBJUGATIO

I legionari romani pertanto subirono la subjugatio, il passaggio sotto il giogo che era costituito da un passaggio tra due lance confitte in terra, una sospesa orizzontalmente a queste ultime: lo sconfitto, nudo, doveva passarvi sotto, inchinandosi, in presenza dell'esercito nemico. Ne conseguiva, come nota Cassio Dione (Hist. Rom. V) "grande gloria a chi imponeva una tale umiliazione, ma totale ignominia a chi la subiva" tanto che spesso si preferiva piuttosto affrontare la morte. Nella storia romana questo è l'unico esempio di un intero esercito consolare che subisce un simile affronto.

Sembra in realtà che i legionari fossero stati costretti a sfilare totalmente nudi, con pesanti allusioni spregiative e sessuali nei loro confronti. Dobbiamo tener presente che i romani avevano grande considerazione dei loro militari, ben sapendo che la sicurezza di Roma, cioè di tutta la loro patria, dipendesse da loro. 

Tanto è vero che a Roma non si poteva far carriera politica se non si era stati combattenti e più si era servito la patria con onore più il popolo apprezzava e votava per le cariche politiche e perfino religiose. Patrizi o plebei la cosa non cambiava, le donne erano orgogliose dei mariti o dei parenti che combattevano per Roma, e se c'era una sconfitta non perdeva solo Roma ma anche il valore degli uomini delle romane. Esse cessavano di essere orgogliose dei loro uomini e si vergognavano di apparire in pubblico, giungendo a volte di vestirsi a lutto.



LE REAZIONI

L'esercito romano umiliato ed avvilito uscì dalla valle e dalle selve e verso sera giunse nelle vicinanze di Capua, dove trascorse la notte, non avendo il coraggio, per la vergogna, di entrare in città. La qual cosa riferita a Capua, mosse a compassione i Capuani che subito inviarono ai romani aiuti di ogni genere ed il popolo stesso andò loro incontro per offrire la dovuta ospitalità

I Capuani portarono in soccorso intanto cibo, vestiti, armi e perfino i simboli del potere per i consoli. Ma i Romani sembravano abulici e concentrati nel dolore e nella vergogna. A Roma, alla notizia del disastro, si abbandonò l'idea di una nuova leva e si ebbero spontanee manifestazioni di lutto: furono chiuse botteghe e sospese le attività del Foro.

I senatori tolsero il laticlavio e gli anelli d'oro. Addirittura ci furono proposte di non accogliere gli sconfitti in città. Fortunatamente la richiesta non fu accolta ma i soldati, gli ufficiali e i consoli si chiusero in casa con le mogli e i figli. Non solo loro ma le loro famiglie temevano di mostrarsi in pubblico. Tanto che il Senato dovette nominare un dittatore per l'esercizio delle attività politiche.

Ma il popolo non accettò le magistrature e si dovettero eleggere due interreges: Quinto Fabio Massimo e poi Marco Valerio Corvo. Questi proclamò consoli Quinto Publilio Filone e Lucio Papirio Cursore, i migliori comandanti militari disponibili.



IL SEGUITO

320 a.c. - L'anno successivo i due consoli eletti, Lucio Papirio Cursore e Quinto Publilio Filone, con l'esercito, tornano alle Forche Caudine, per lavare l'onta subita dai romani. Rigettano la condizioni di pace sannite, consegnando ai Sanniti anche i due Consoli che le avevano accettate affinchè ne facessero ciò che volessero.

Conoscendo la crudeltà dei sanniti fu una proposta orribile. Tuttavia sembra che fossero i consoli stessi, accusati di ignominia dal senato, a proporre di offrirsi come capri espiatori. La vita, in tale degradazione di stima e rispetto, era divenuta per loro inaccettabile, per cui scegliettero di riabilitare almeno la loro familia e magari la loro gens di cui si ritenevano responsabili, offrendo in cambio, non solo la vita, ma una morte che poteva essere molto dolorosa, visto l'odio che avevano i sanniti contro i romani, peraltro ricambiato da questi ultimi. Ma il capo dei sanniti, come si sa, rifiutò.

Così i consoli Tiberio Veturio Calvino e Spurio Postumio Albino Caudino, coloro che avevano accettato le condizioni di resa alle Forche Caudine senza averle fatte ratificare dal Senato e dal Popolo Romano, andarono a consegnarsi ai Sanniti, affinchè il senato potesse ritenersi liberi da quella pace, vergognosa per Roma, Gaio Ponzio rimandò indietro i due prigionieri romani replicando:
« Né io accetterò questa consegna, né i Sanniti la riterranno valida. Perché tu, Spurio Postumio, se credi che gli Dei esistano, non consideri nullo l'intero accordo, oppure non ti attieni ai patti? Al popolo sannita vanno consegnati quelli che sono stati in suo potere, o al posto loro va riconosciuta la pace. Ma perché dovrei rivolgermi a te, che ti consegni nelle mani del vincitore, mantenendo, per quel che è in tuo potere, la parola data? È al popolo romano che mi appello: se è pentito della promessa fatta alle Forche Caudine, allora deve riconsegnarci le legioni all'interno della gola dove sono state accerchiate»
(Livio, Ab Urbe condita)

Gaio Ponzio tentò di fare pace coi Romani, ma questi rifiutarono, perchè nessuno straniero poteva permettersi di umiliare un solo romano. Il capo sannita dovette ripensare alle sagge parole del padre, ora le ritorsioni ci sarebbero state e pesanti, tanto che tenne una concione ai sanniti per dichiarare che lui aveva fatto tutto il possible per evitare le future guerre, erano i romani a non volere la pace. Pertanto gli Dei non potevano essere in collera coi Sanniti.

Nel corso dell'anno successivo ci fu la pace di Caudio, rimasta celebre per la disfatta subita dai Romani, durante il consolato di Tito Veturio Calvino e Spurio Postumio. Quell'anno il comandante in capo dei Sabini era Gaio Ponzio figlio di Erennio, figlio di un padre che eccelleva in saggezza, e lui stesso guerriero e stratega di prim'ordine. Quando gli ambasciatori inviati a chiedere soddisfazione rientrarono senza aver concluso la pace, Gaio Ponzio disse:

"Non crediate che questa ambasceria non abbia avuto esito alcuno, perché con essa abbiamo espiato l'ira degli dèi sorta nei nostri confronti per aver violato i patti. Qualunque sia stato il dio che ha voluto farci sottostare all'obbligo di restituire ciò che ci era stato richiesto in base alle clausole del trattato, sono sicuro che questo stesso dio non ha gradito che i Romani abbiano respinto con tanta arroganza la nostra riparazione per l'avvenuta rottura dei patti.

Ma che cos'altro si sarebbe potuto fare per placare gli dèi e rabbonire gli uomini, più di quello che già abbiamo fatto? Quel che è stato tolto ai nemici come bottino, e che secondo le leggi di guerra avrebbe già potuto dirsi a buon diritto nostro, l'abbiamo restituito. I responsabili della guerra li abbiamo riconsegnati morti, visto che non ci è stato possibile consegnarli vivi.

Le loro cose, per evitare che ci rimanesse addosso qualcosa che potesse far ricadere la colpa su di noi, le abbiamo portate a Roma. Cos'altro devo a voi, o Romani, cosa ai trattati, e agli dèi testimoni dei trattati? Chi vi devo proporre a giudice della vostra rabbia e della nostra pena? Non voglio sottrarmi al giudizio di nessuna popolazione e di nessun privato cittadino.

Se infatti il più forte non concede al più debole alcun diritto umano, allora mi rivolgerò agli dèi che si vendicano degli eccessi di superbia, e li implorerò di rivolgere le loro ire contro quanti non hanno ritenuto sufficiente la restituzione delle proprie cose né l'aggiunta delle altrui, contro quanti la cui ferocia non è stata saziata dalla morte dei colpevoli, né dalla consegna dei cadaveri né dai beni che accompagnavano la resa dei loro legittimi proprietari, contro quanti non potranno mai essere placati se noi non offriremo loro il nostro sangue da succhiare e le nostre membra da sbranare.

La guerra, o Sanniti, è giusta per coloro ai quali risulta necessaria, e il ricorso alle armi è sacrosanto per quelli cui non restano altre speranze se non nelle armi. Di conseguenza, se nelle imprese degli uomini è una cosa di assoluta importanza avere gli dèi dalla propria parte piuttosto che contro, state pur certi che le guerre del passato le abbiamo condotte più contro gli dèi che contro gli uomini, mentre questa che è ormai alle porte la condurremo agli ordini degli dèi in persona".

E' dunque di nuovo guerra. Prima i romani, condotti da Publilio, hanno la meglio sui Sanniti in uno scontro in campo aperto presso Caudio, poi in una battaglia, condotta da entrambi i consoli, presso Luceria in Apulia, dove si trovava un forte contingente di Sanniti, e i circa 600 cavalieri romani rimasti in ostaggio, dopo la sconfitta delle Forche Caudine. 

Posti sotto assedio a Luceria, i Sanniti devono arrendersi, liberare gli ostaggi, consegnare tutte le armi e salmerie, e passare sotto il giogo dei soldati romani, che così si vendicano dell'umiliazione subita. Ma non basta.

319 a.c. - i Romani riconquistano Satrico, passata ai Sanniti dopo le forche caudine, e sconfiggono i Ferentani.

320 a.c. - I Sanniti ottengono una tregua biennale, mentre Roma conquista Canusio e Teano in Apulia, città che si allea con Roma l'anno successivo, quando il console Quinto Emilio Barbula conquista Nerulo in Lucania.

316 a.c. - I Romani, condotti dal dittatore Lucio Emilio Mamercino Privernate, sconfiggono i Sanniti in battaglia sotto le mura di Saticula..

315 a.c. - I romani, condotti dal dittatore Quinto Fabio Massimo Rulliano, sconfiggono i Sanniti, sempre sotto le mura di Saticola, che viene così riconquistata. Nella durissima battaglia di Lautulae In quello stesso anno però i Sanniti riprendono ai romani Plistica.

314 a.c. - Con l'aiuto di traditori, i romani prendono Sora, Ausona, Minturno, Vescia e con le armi Luceria, che si era unita ai Sanniti. Intanto, le voci di un'insurrezione in preparazione a Capua, porta alla nomina a dittatore di Gaio Menio Publio.
Sempre nello stesso anno poi, l'esercito romano, condotto dai consoli Marco Petelio Libone e Gaio Sulpicio Longo, affrontano e vincono i Sanniti in campo aperto in Campania:

« Ormai i Romani stavano prevalendo su tutta la linea e i Sanniti, smesso il combattimento, vennero uccisi o fatti prigionieri, fatta eccezione per quelli che ripararono a Malevento, la città che oggi si chiama Benevento. Stando alla tradizione, 30.000 Sanniti sarebbero stati uccisi o fatti prigionieri.»
(Tito Livio, Ab Urbe condita)

313 a.c. - I romani prendono ai Sanniti la città di Nola.

311 a.c. - I romani sconfiggono i Sanniti davanti la città di Cluvie,  in una battaglia in campo aperto, alla quale erano stati tratti con un sotterfugio. Anche in questo caso però i romani hanno la meglio.

310 a.c. - I Sanniti, saputo che etruschi e romani sono di nuovo in guerra, riprendono a battersi sconfiggendo l'esercito romano in una battaglia campale, nella quale rimane ferito lo stesso console Gaio Marcio Rutilo Censorino. Per questo motivo, a Roma viene eletto dittatore Lucio Papirio Cursore, che vince contro i Sanniti nei pressi di Longula, mentre sull'altro fronte i romani conseguono due decisive vittorie contro gli Etruschi nella battaglia del lago Vadimone e di Perugia. 

308 a.c. - Quinto Fabio Massimo Rulliano sconfigge ancora i Sanniti, cui questa volta si erano alleati i Marsi e i Peligni.
« Affrontò poi in campo aperto i Sanniti, sconfiggendoli senza eccessivo impegno. Di questa battaglia non ne sarebbe rimasta notizia, se nell'occasione i Marsi non avessero combattuto per la prima volta contro i Romani. Alla defezione dei Marsi seguì quella dei Peligni, che andarono incontro allo stesso destino. »
(Tito Livio, Ab urbe condita)

307 a.c. - I romani, guidati dal proconsole Quinto Fabio Massimo Rulliano conquistano Alife.

306 a.c. - I romani sconfiggono gli Ernici ribellatisi a Roma, e di nuovo l'esercito sannita in campo aperto. 

305 a.c. - I romani conseguono la decisiva vittoria nella battaglia di Boviano. 

304 a.c. - I sanniti chiedono la pace a Roma, ponendo fine alla II guerra sannita.

303 a.c. - Roma fonda le colonie di Alba Fucens nel territorio degli Equi e Sora in quello dei Sanniti, oltre a concedere la cittadinanza romana ai cittadini di Arpino e di Trebula. Frusino invece perde un terzo del proprio territorio.

Roma si è finalmente vendicata dell'oltraggio delle Forche Caudine.

TEMPIO DI TELLUS

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DEA TELLUS - ARA PACIS

LA DEA TELLUS

Dei documenti greci, il più antico è l'Inno alla Terra, uno degli inni cosiddetti «omerici», anche se databile posteriormente, agli inizi del secolo VI a. c.:

"Mi accingo a cantare alla Terra, Madre universale dalle solide fondamenta,
vecchia venerabile, che nutre quanto si trova sulla superficie di essa.
Da te procede la fecondità e la fertilità, o Sovrana!,
e da te proviene dare e togliere la vita agli uomini mortali.
Beato colui al quale tu, benevola, rendi onori;
questi ha tutto in abbondanza... dea augusta, generosa divinità!
Salve, Madre degli Dei, sposa del Cielo stellato!
Concedimi una vita felice come premio al mio canto!
D'ora in poi mi ricorderò di te nei rimanenti canti."


Tellus, o Madre Terra, è una Dea italica prima e romana poi, con gli attributi della cornucopia , o mazzi di fiori o frutta. Spesso fu associata a Ceres, nei rituali relativi alla terra ed alla fertilità agricola. Varrone elenca Tellus come uno Dei Selecti, i venti principali Dei di Roma, e una delle dodici Divinità agricole.

E' identificata alla bella figura centrale sul “pannello del sollievo dell’Italia” nell’Ara Pacis, che è incorniciato da bucrani e motivi di vegetazione. La Dea veniva invocata sia nelle cerimonie alla nascita di un bambino, quando il neonato era posato a terra, immediatamente dopo la nascita, sia in occasione dei matrimoni.

Numa istituì per la Dea il sacrificio di una mucca incinta, e Ovidio specifica che assicurava la fertilità del grano piantato e già in crescita nel grembo della Madre Terra. Questo sacrificio pubblico fu poi trasformato in olocausto (l'animale veniva interamente bruciato), sacrificio di stato che veniva celebrato in ognuna delle trenta curie, presieduto dalle Vestali.

NINFA DEL MARE

Inno orfico a Gea:

"Riconosco l’essenza dell’unica Dea, 
generatrice di tutte le esistenze; 
le sue forme sono infinite, 
Ella manifesta se stessa nel nostro amore 
e tutti noi siamo suoi amanti. 
Tratto tutti gli esseri con rispetto, 
poiché la Dea vive in ognuno di essi 
tanto quanto in me.
Tollero tutte le altre religioni e non costringo nessuno 
ad unirsi al Cerchio della Dea; 
la Dea stessa provvede a chiamare coloro che sono pronti 
ed essi sentiranno il Suo richiamo. 
Esprimo la mia adorazione alla Dea 
ristabilendo l’equilibrio sul suo pianeta. 
Mangio principalmente cereali, verdura e frutta, 
dimodochè il cibo sul pianeta sia sufficiente per tutti; 
ogniqualvolta mi nutro rivolgo un ringraziamento alla Dea, 
fornitrice di tutte le energie; 
non rifiuto di mangiare con moderazione carne animale, 
ma ogni qualvolta lo faccio, 
rivolgo un ringraziamento allo spirito dell’animale che mi nutre. 
Nel Cerchio della Dea creo il consenso 
per mezzo del rispetto delle differenti opinioni; 
riconosco che nel percorso della Dea vi sono molti percorsi. 
Nella mia casa creo un luogo sacro per la Dea, 
in cui pregarla e compiacerla; 
medito e rivolgo il mio pensiero alla Dea tre volte al giorno: 
al mattino, a mezzogiorno e alla sera. 
La sessualità è il Suo Sacramento, 
godo del suo dono e benedico coloro con cui lo condivido 
con affetto e amore, ricordando che il sopravvento della gelosia 
è causa della cessazione del ciclo della rinascita. 
Annuncio la Dea al mondo attraverso buone opere, 
onesto lavoro e semplici atti di bellezza e amore".



IL TEMPIO

Del tempio dedicato a Tellus, situato nel quartiere delle Carinae (Suet., 15, Servius, ad Aen, 8.361).nessun resto archeologico ne sopravvive, anche se è descritto nella Forma Urbis Severiana del III sec.  (Rodríguez Almeida, Forma pl 59, fragment 672). 

Il Tempio di Tellus è stato il punto di riferimento più importante della Carinae, un quartiere alla moda sul Colle Oppio. Vicino alle case appartenenti a Pompeo e alla famiglia di Cicerone.

Il tempio fu promesso in voto da Publius Sempronio Sophus, console con Appio Claudio Russo, con cui guidò i Romani alla sottomissione definitiva dei Piceni nella battaglia di Ascoli nel 268 a.c., nel giorno in cui un terremoto colpì l'esercito dei Piceni facendolo sbandare fortemente. (Cfr 1.14.2), Sembra però che il tempio venisse poi costruito dal popolo romano (Val. Max. 6.3.1b Shackleton Bailey: aedem Telluris, Dion Hal., Ant. Rom. 8.79.3).  


( http://atlasofancientrome.com/ )

Il 13 dicembre, l'anniversario del Tempio di Tellus era celebrato con un lectisternio (banchetto) per Ceres, che incarnò la produttività della terra.
Per un certo tempo Cicerone visse in prossimità del tempio e riferisce che alcuni Romani affermassero di essere responsabili della sua salvaguardia (Cic., Har., 31). Coarelli interpreta questo passaggio, così come  per suggerire che Cicero ripristinò il tempio e dedicò una statua di suo fratello, Q. Tullius Cicero. (Cic., Q Fr. 3.1.14)

Dionisio di Alicarnasso racconta che il Tempio di Tellus era in piedi sulla "strada che conduceva alle Carinae" (Ant. Rom. 8.79.3; s.v.  Carinae: Strade). 

Utilizzando questo riferimento, e poi prove epigrafiche e letterarie, Palombi offre un'interpretazione convincente della Tavola Severiana che colloca il Tempio di Tellus nelle vicinanze di S. Pietro in Vincoli, un sito sicuro all'interno delle Carinae (156-58, fig. 62-65).

Coarelli, dopo Colini, individua il tempio sul sito di una fondazione in calcestruzzo rettangolare trovato giusto ad ovest del Compitum Acili.Tuttavia, questo podio è di data neroniana (Schingo; Palombi 154; Velia Building) e rientra nei confini della Velia piuttosto che della Carinae (Coarelli sostiene una Velia gravemente limitata per accogliere la sua teoria); Quindi non può essere considerato un punto probabile per il tempio di Tellus.

NINFA DELL'ARIA

LE CARINAE

In realtà non è chiara l'ubicazione delle Carine. – Serv. Aen. 8.361: Le Carinae erano edifici fatti a forma di carene che erano attorno al tempio di Tellure. Sono dette splendide o per l'eleganza degli edifici o perchè Augusto, che era nato alle Curie Vecchie, era stato nutrito nelle opulente Carinae. Altri dicono che l'altura è chiamata Carinae poichè il terreno suburbano di fronte alle porte era costoso. Altri dicono che si chiamavano splendidi gli alloggi degli ambasciatori, che in quella regione solevano essere ospitati. Altri poichè qui abitavano i nobili sabini, la cui stirpe si soleva invidiare e deridere.

Secondo alcuni autori il tempio della Dea Tellus si trovava alle Carine, o Carene, tra la Velia e il Fagutal dalle parti del Vicus Sceleratus (oggi via Frangipane), così chiamato, perché in quella via Tullia, figlia del re Servio Tullio, passò con il cocchio sopra il cadavere del padre, che schizzò sangue.

TEMPIO DI TELLUS A DOUGGA

La Devastazione dei resti del tempio ad opera di Pio IV

1550, 6 gennaio. R. IV. IN TELLVRE
"La vigna o villa Mattei occupava l'altipiano del Cespio, tra s. Pietro in Vincoli la via della Polveriera e la via del Colosseo, altipiano oggi tagliato dalla nuova via de' Serpenti, e coperto in gran parte dalla scuola municipale Vittorino da Feltro". (Vedi Nelli, tav, 13-14: tav. XXIX della /". U. R: e Bull. Com. tomo XX, a. 1892, pp. 19-37)
Di questa scoperta parla il Florent anche nel cod. Bruiell. 4347, e. 32, e il Sigonio nell'epistola all'Orsino, in cod. vatic. 4105, e. 219. Vedi CIL. tomo I, parte I, ed. 2% p. 14 e Ligorio Torin. XV, e. 225 : 

« La spira di sotto e delle colonne dell'ordine composito del portico del tempio di Tellure tolta et guasta dalle reliquie che a questi di sono cavate di sotto terra havante alla piazza di Torre de' Conti... le colonne erano di marmo bianco pentellico ».
Questo ricordo del Ligorio si riferisce agli scavi eseguiti in Tellure al tempo di Pio IV per la ricerca di materiali destinati alla costruzione della porta Pia.


SULMO - SULMONA (Abruzzo)

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TEMPIO DI ERCOLE CURITO
Tanto Ovidio quanto Silio Italico, ritengono Sulmona, ricollegabile ai profughi della distruzione di Troia. Il nome della città deriverebbe da Solimo (Ovidio - Tristia IV 10), uno dei compagni di Enea. Tito Livio invece narra di un oppidum italico che, nonostante le disfatte del Trasimeno e di Canne, rimase sempre fedele a Roma contro Annibale.

Sulle alture del monte Mitra si hanno testimonianze archeologiche dell'oppidum, più in alto di Sulmona, che assunse tale posizione solo nel periodo romano.

In epoca romana, Sulmo ( Sulmona) divenne uno dei tre municipi peligni assieme a Corfinium e Superaequum.
Nell'81 a.c. avvenne la distruzione della città da parte di Silla, a seguito della ribellione per ottenere l'integrale applicazione della Lex Cornelia de Suffragiis.

Nel 49 a.c. però la città venne ricostituita, nonostante l'ennesima rivolta dei sulmonesi, attraverso la costituzione di una guarnigione pompeiana, che dovette arrendersi, per l'ennesima rivolta dei sulmonesi, a Marco Antonio, inviato da Cesare.

La data storica più importante per Sulmona è il 43 a.c., anno di nascita dell'illustre poeta latino Publio Ovidio Nasone, il cantore dell'amore e delle Metamorfosi, poi relegato a Tomi, in Romania, per ignote ragioni, dall'imperatore Augusto (la relegatio a differenza dell'exilium non comportava la perdita della cittadinanza romana e dei diritti conseguenti né comportava la confisca dei beni).

ERCOLE DI SULMO
Dalle iniziali del celebre emistichio ovidiano "Sulmo Mihi Patria Est", la città ha preso le lettere contenute nel suo stemma, 'SMPE'. Scrive Ovidio: "Sulmo mihi patria est, gelidis uberrimus undis, milia qui novies distat ab Vrbe decem" (Ovidius, Tristia IV, 10 - versi 3-4),

"Sulmona è la mia patria, ricchissima di gelide acque, che dista nove volte dieci miglia da Roma".
E ancora:
"Pars me Sulmo tenet Paeligni tertia ruris parva, sed inriguis ora salubris aquis. ... arva pererrantur Paeligna liquentibus undis ... terra ferax Cereris multoque feracior uvis"
"Sono a Sulmona, terzo dipartimento della campagna Peligna, piccola terra ma salubre per le acque che la irrigano... nei campi peligni scorrono limpide acque... Terra fertile di grano e molto più fertile di uve" (Amores II, 16).

Si tratta delle acque del fiume Gizio sorgive dal pittoresco paese di Pettorano sul Gizio (del Club Borghi più belli d'Italia) appollaiato su una collina tra le montagne a dieci km da Sulmona.

Le tracce della Sulmona romana sono riemerse dagli scavi nel tempio di Ercole Curino, posto ai piedi del monte Morrone in cui, secondo un'antica leggenda, vi sarebbero i resti della villa di Ovidio. Le ricerche hanno portato alla luce una copia in bronzo rappresentante l'Ercole in riposo, oggi custodito nel Museo archeologico nazionale d'Abruzzo, a Chieti.

Si tratta di un bronzetto, dono di un mercante, databile intorno al III secolo a.c., rappresentante l'eroe appoggiato col braccio sinistro sulla clava da cui pende una pelle di leone: viene considerato uno dei capolavori della piccola plastica antica. Oltre all'Ercole, sono stati ritrovati materiali architettonici e immagini votive.

TEMPIO DI ERCOLE CURINO

TEMPIO  DI ERCOLE CURINO

Tra pini e cipressi che costeggiano le pendici nord-occidentali della montagna si giunge aell’area archeologica con i resti della chiesetta celestiniana e le terrazze del tempio italico-romano con il sacello. Nella piana si distinguono la città di Sulmona, la base di Fonte d’Amore e la Badia Morronese. A sinistra si osserva Colle Mitra, che probabilmente in epoca romana ospitava un santuario di del Dio Mitra.

Il santuario di Ercole Curino si trova ai piedi del versante occidentale del monte Morrone, a circa 6 km. di distanza dalla città di Sulmona, nel comune di Bagnaturo. L´edificazione del santuario italico di Ercole Curino risale al IV secolo a.c. Si tratta di uno spazio sacro di epoca preromana consacrato ad Ercole, il cui culto era diffuso tra le genti peligne.

Venne parzialmente modificato dai romani nel I sec. a.c.. Nel II sec. d.c. fu sepolto da frane e il sito fu abbandonato fino a quando fra' Pietro da Morrone, il futuro Celestino V, per cancellare, come usava all'epoca, le tracce di un culto pagano, vi fece erigere, pur essendo il luogo molto lontano dall'abitato, una chiesa detta di S. Maria "in gruttis", trasformata poi in chiesa di S. Gaetano. 

La chiesa di San Gaetano: l'antica Santa Maria intus, di origine alto medievale, nonostante la modestia delle architetture esterne, rivela all'interno una eccezionale sequenza di emergenze archeologiche che documentano in successione stratigrafica le varie fasi del tempio cristiano, eretto sui resti di un preesistente edificio romano con mosaici del I-Il sec. d.c.

A sud, la Piazza Maggiore della città rinascimentale, è evidente la presenza di un campus, luogo in cui ci si allenava in esercizi ginnici e si addestrava l'esercito. Il rinvenimento in questa zona, presso la Fontana del Vecchio, di una iscrizione mutila recante le lettere CIRCV, fa pensare all’area dell’antico circo. Tanto più che le dimensioni del pianoro settentrionale esterno alla cinta urbica, attualmente sede dei giardini pubblici, coincidono con le misure canoniche di un circus (70 x 350); ne consegue che diversi studiosi hanno localizzato il circo in quest'area..

FONTE DELL'AMORE

FONTE DELL'AMORE

Madre degli amor teneri, cerca un nuovo poeta,
sfioran queste elegie ormai l'ultima meta,
l'elegie che composi, io dei Peligni nato
(nè mi sconvenne, penso, il verso innamorato),
io per antico rango, se ciò può mai valere,
non per recente turbine di guerre cavaliere.
Ebbe in Virgilio Mantova, ebbe in Catullo il Cigno
Verona; io sarò detto gloria del popolo peligno,
che il libertario orgoglio spinse ad armi onorate,
quandò paventò Roma le schiere federate.
E l'ospite, guardando le mura dell'acquosa Sulmona,
che i campi chiudono ben poca cosa,
dirà un giorno: vi chiamo grandi pur se modeste,
voi che un tale cantore dare al mondo poteste.
(Amores - Ovidio, libro III)

Fonte d’Amore, la fontana celebrata da Ovidio. Un’area di sosta, con panchine all’ombra degli alberi, invita a leggere i versi ovidiani tratti da Tristia (IV,10,3-4) Sulmo mihi patria est, gelidis uberrimus undis milia qui novies distat ab Urbe decem (La mia patria è Sulmona, ricchissima di gelide acque, che dista nove volte dieci miglia da Roma) e dagli Amores (II,16,1-2) Pars me Sulmo tenet Paeligni tertia ruris parva sed inriguis ora salubris aquis (Sono a Sulmona, una delle tre città della campagna peligna; è una piccola località, resa però salubre dalle acque che la irrigano).

Collocata ai piedi del Monte Morrone in prossimità dell’Abbazia di Santo Spirito e dell’Eremo di Sant’Onofrio, in un’area la cui sacralità è attestata anche dalla presenza del santuario italico- romano di Ercole Curino, la fontana è stata fin da tempi remoti considerata miracolosa per le sue acque, dotate, secondo la leggenda locale, di poteri straordinari e afrodisiaci e perciò denominata, come la località, Fonte d’Amore. 

Sempre stando alla tradizione, le sue particolari virtù si ricollegano alla memoria del poeta latino Ovidio (Sulmona 43 a.c. – Tomis 17 d.c.), l’autore degli Amores e dell’Ars Amandi che qui avrebbe tenuto i suoi numerosi convegni amorosi con Corinna.

Infatti, attorno alle rovine del Tempio di Ercole Curino, nacque l'insediamento di Fonte d'Amore in onore del poeta Ovidio. Dato che il santuario veniva erroneamente attribuito al poeta: si pensava che i resti del tempio fossero i resti della "Villa d'Ovidio".

CHIESA DI S. GAETANO

GLI SCAVI

Nel 1957, gli scavi diretti da Valerio Cianfarani, nella convinzione di riportare alla luce l´abitazione natale del poeta latino, vedono emergere, invece, i resti dell´imponente santuario. Il santuario di Ercole Curino era uno dei più importanti luoghi di culto dell´epoca romana, dedicato ad Ercole, Dio protettore di sorgenti ed acque salutari nonché dei mercanti e di soldati. 

SCALE DEL TEMPIO
L'imponente santuario di Ercole Curino si scorgeva dalla valle per miglia e miglia, articolato su due grandi terrazze. Sulla terrazza inferiore si trovano quattordici ambienti, probabilmente locali di servizio, che venivano comunemente denominati poteche. Tutti gli ambienti presentano la traccia della volta a botte, tranne che ai due estremi, i quali fungevano da tromba per le scale che conducevano ai piedi della terrazza superiore. 

La gradinata monumentale separava la zona più sacra del luogo di culto dagli altri spazi del santuario.

Il percorso di ascesa al tempio vero e proprio era cadenzato da “tappe” rituali che hanno caratterizzato l’architettura dello spazio sacro: un donario era posto al limite della piazza lastricata, alla base della scalinata di accesso al terrazzo superiore.

Nel donario si raccoglievano le offerte dei fedeli in denaro o in oggetti preziosi.

Sull’ultimo gradino la fontana, rappresentava il momento della purificazione: la valenza cultuale e rituale dell’acqua è chiaramente espressa sul santuario di Ercole Curino, dove sono state scoperte successivamente le tracce di diverse canalizzazioni sottostanti la gradinata, probabilmente confluenti in un’ulteriore fontana o vasca di cui finora si è persa la memoria.

DONARIO
Il terrazzo superiore doveva essere interamente coperto da un tetto a doppio spiovente, le tracce di decorazione policroma interessano tutte le pareti superstiti, anche all’esterno del sacello.

Questo ambiente è addossato alla parete orientale del terrazzo, e precede uno spazio che probabilmente ospitava la cella vera e propria, ora completamente perduta.


Qui si trovava un porticato in marmo colonnato con tre bracci, del quale resta un muro, e la gradinata che conduce al sacello. 

Su uno dei ventuno gradoni è rappresentato, in rilievo, un simbolo fallico che aveva una funzione apotropaica. 
Sull'ultima terrazza un antico mosaico di ispirazione ellenistica ritraeva il nuoto dei delfini, accompagnato dai colori vividi di vecchi affreschi.
Gli scavi recenti hanno reso possibile visitare i resti di due edifici di età romana: della chiesa di San Gaetano e all’interno del Palazzo della SS. Annunziata (museo della domus). 

Le ricerche finora compiute e gli scavi occasionali effettuati dalla fine dell’Ottocento hanno infatti interessato siti in cui insistevano per lo più abitazioni: le notizie di rilievo si riferiscono al rinvenimento di mosaici, che spesso sintetizzano con la loro evidenza la presenza di un’ "altra" città sottostante quella moderna.


Le indagini archeologiche permettono anche di ipotizzare un’antica struttura urbana che oggi non è più visibile, perché altri edifici e altri spazi pubblici si sono sovrapposti nel tempo alle case e agli spazi della città di età romana.

Per l’individuazione del sito del teatro, una recente ipotesi prende spunto dal rinvenimento di una poderosa muratura in opera quasi reticolata su cui ancora si accalcano i palazzi di via Manlio D’Eramo: i limiti costruiti del giardino retrostante, relativo al Palazzo Mazara, delineano una struttura a emiciclo aperta verso sud-ovest e addossata al forte dislivello del pianoro su cui si apre il centro storico. E' evidente che quello altro non può essere che l'antico teatro.

Per quel che riguarda invece il sito dell’anfiteatro, la fotografia aerea ne svela la presenza  nella forma ellittica di un edificio posto a nord del centro storico, che risulterebbe, nella città antica, addossato alle mura. Per il rinvenimento dei siti è importante lo studio degli spazi non edificati posti ai due estremi dell’abitato, che hanno sempre conservato una funzione commerciale e ludica: a sud piazza Garibaldi, sede del mercato, e a nord la "villa comunale".

Della città antica restano anche le epigrafi, che tramandano la presenza di collegi sacerdotali per il culto di Cerere e Venere, di magistrati (i quattuorviri municipali) dei cives e della plebe, di uno scriba dei publicae e dei seviri Augustales, mentre lo scenario cittadino ricostruibile dalle iscrizioni è limitato ad un "locum publicum", ad un edificio "vetustate dilapsum", e animato dal vociare dei ludi circenses.

A Sulmona non si è scavato abbastanza, per cui per ora restano solo le ipotesi sulla ubicazione dei monumenti pubblici che erano d'obbligo nelle città romane, come ad esempio il teatro, l’anfiteatro, il circus, la curia, il capitolium, le basiliche, il forum.

L'ANFITEATRO ROMANO

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IL TEATRO

La costruzione di edifici da spettacolo di carattere fisso trovò per la rigidità senatoriale della Roma repubblicana un'opposizione accanita.

IL TEATRO
I senatori, in nome dei mores maiorum (mores maiorum servandi sunt iuvenibus - i giovani devono rispettare le usanze degli antenati), non consentivano di erigere a Roma teatri in muratura, quantunque moltissime città in Italia avevano già da vari decenni i teatri fissi.

A Roma i teatri erano di legno, con panche smontabili e rimontabili nelle grandi occasioni. Poichè montare un teatro era un'impresa, la cosa si faceva in casi eccezionali, per cui anche gli spettacoli erano eccezionali. Secondo i senatori i divertimenti infiacchivano gli animi e li rendevano cattivi combattenti. Invece i migliori combattenti nonchè generali brillarono proprio in età imperiale, quando i romani avevano spettacoli a non finire.

Comunque si dovette aspettare Pompeo perchè Roma venisse dotata di un teatro stabile, mentre per la costruzione del primo anfiteatro si dovrà aspettare il principato di Augusto (anfiteatro di Statilio Tauro, nel Campo Marzio). Questo fu distrutto dall'incendio del 64 d.c. e Nerone ne costruì uno in legno.




L'ANFITEATRO

I combattimenti gladiatori, come le gare con i carri, si tenevano in origine in grandi spazi aperti con dei sedili provvisori; è stato attestato che alcuni munera avevano luogo nel foro, ad esempio. Quando, in seguito, i giochi divennero più frequenti e popolari, si rese necessaria una struttura più grande e permanente.

Anche se a tale scopo veniva spesso usato il circus maximus per via della sua maestosa capacità, i romani alla fine crearono un edificio specificatamente per questo tipo di spettacoli, chiamato Anfiteatro perchè i sedili erano distribuiti tutti intorno alla struttura ovale o ellittica dell'area in cui avvenivano i combattimenti nell'arena, il cui terreno era ricoperto di sabbia.

Un anfiteatro è diverso dal circo romano che era usato per corse con i cavalli aggiogati a dei carri, e che ha una forma molto più allungata (di solito supera i 400 m). Tuttavia i circhi erano piuttosto rari, mentre teatri e anfiteatri (assieme alle terme) rappresentano un reperto tipico di ogni città romana grande o piccola.

L'Anfiteatro, nell'architettura romana, era uno spazioso edificio scoperto, generalmente ellittico, costituito da uno spazio centrale piano, l'arena, circondata da gradinate disposte in file concentriche e attraversate da corridoi radiali. Sotto l'arena potevano trovare posto ambienti di servizio, celle, gabbie per animali. Come i teatri Romani così gli anfiteatri erano delle strutture provvisorie: non essendo scavati nel declivio naturale del terreno infatti, questi potevano essere costruiti ovunque.

Uno degli anfiteatri più antichi è quello di Pompei, che risale all'80 ca. a.c. con una capienza di circa 20.000 posti, è ancora ben conservato. Si possono vedere attraverso il livello superiore delle arcate una serie di sedili in pietra disposti a gradinate, oltre alle mura esterne.

Nella città di Roma, il primo anfiteatro, in legno, fu costruito nel 59 a.c. dal pontifex maximus Caio Scribonio Curio, mentre il primo parzialmente realizzato in pietra risale al 30 a.c., edificato da Ottaviano. Ma furono i Flavi a dotare Roma di un grande edificio per gli spettacoli dei gladiatori, degno della Capitale. L'edificio, l'Anfiteatro Flavio, sarebbe passato alla storia come Colosseo. Vi si svolgevano lotte di gladiatori, combattimenti di animali feroci e altri spettacoli; talvolta l'arena veniva allagata per ospitare battaglie navali.

Solo con il Colosseo la città ebbe un anfiteatro interamente costruito in pietra; l'anfiteatro Flavio venne iniziato dall'imperatore Vespasiano nel 72 d.c. e inaugurato dal figlio Tito nell'80. Secondo un documento del IV secolo, esso riusciva a contenere circa 85.000 spettatori, ma gli studiosi contemporanei ritengono che potesse ospitarne solo 50.000, almeno da seduti. Tutte le principali città dell'impero ebbero un anfiteatro. Fra gli edifici meglio conservati, si ricordano gli esempi di Pozzuoli, Capua, Verona in Italia, Tarragona in Spagna, Nîmes e Arles nella Francia meridionale, El Djem in Tunisia.



GIOCHI GLADIATORI

Come le gare con i carri, anche le lotte gladiatorie ebbero origine probabilmente come giochi funebri privati, pur essendo molto meno antichi rispetto alle prime.

Il primo combattimento gladiatorio in Roma di cui si ha testimonianza ebbe luogo quando tre coppie di gladiatori lottarono fino alla morte durante il funerale di Giunio Bruto nel 264 a.c., ma si pensa che non fossero stati i primi.

I giochi gladiatori, chiamati "Munera" poichè costituivano in origine una sorta di "tributo" versato agli antenati defunti, gradualmente si spostarono dai funerali di cittadini individuali e divennero una parte importante degli spettacoli pubblici, finanziati dai politici e dagli imperatori. La popolarità di questi giochi è testimoniata dall' abbondanza di dipinti murari e mosaici che ritraggono i gladiatori.



I GLADIATORI

I gladiatori, il cui nome deriva dalla spada romana chiamata gladius, erano in genere criminali, condannati, prigionieri di guerra, schiavi; alcuni però erano volontari, liberti o uomini liberi delle classi inferiori, che sceglievano di assumere lo stato sociale di uno schiavo per il compenso economico o per la fama e l' eccitazione.

Chiunque diventasse gladiatore era automaticamente infamis per la legge e quindi non rispettabile. In realtà anche un esiguo numero di esponenti delle classi più elevate si confrontava nell' arena, benchè proibito dalla legge, ma costoro non vivevano con gli altri gladiatori e combattevano in un modo molto ritualizzato, per una specie di dottrina esoterica, per cui affrontavano la morte come forma di liberazione della paura e dalle passioni. Anche le donne fornivano uno spettacolo molto particolare, estremamente però anche perchè la maggior parte degli imperatori proibì loro di combattere.



I  RITUALI

Vi erano, comunque, molti rituali nell’arena.

Quando un gladiatore era stato ferito e intendeva dichiarare la resa, sollevava il dito indice: a questo punto, la folla avrebbe manifestato con particolari gesti simbolici la sua volontà riguardo alla sorte del gladiatore sconfitto: se cioè egli dovesse essere ucciso o risparmiato.

Secondo quanto si è soliti credere, "pollice verso"equivaleva alla morte, "pollice alto"alla salvezza, ma non vi sono effettive testimonianze di questo fatto, e i testi scritti riportano che, se "pollicem vertere" indicava la morte, era invece "pollicem premere"ad esprimere la volontà di risparmiare il gladiatore.

In ogni caso, il finanziatore dei giochi decideva a questo punto se concedere o meno una sospensione della condanna (missio).

Se il gladiatore doveva essere ucciso, egli era tenuto a subire il colpo finale con una sorta di ritualità, senza lamentarsi o tentare di sottrarvisi.

Alcuni studiosi ritengono che si seguisse un rituale anche per rimuovere il cadavere del gladiatore, con un uomo mascherato da Caronte che tastava il corpo per accertarsi che fosse veramente morto, e quindi uno schiavo che lo trascinava con un uncino attraverso un cancello chiamato Porta Libitinensis (Libitina era una dea della morte).



IL COLOSSEO

La sua costruzione fu iniziata da Vespasiano nel 72 ed inaugurato da Tito nell'80, tuttavia, l'opera fu rifinita in tutti i suoi particolari solo da Domiziano. È probabile che sotto questo imperatore furono creati i sotterranei in muratura dell'arena, altrimenti non si potrebbe comprendere la notizia di "naumachie" (battaglie navali) date sotto Vespasiano e Domiziano nell'anfiteatro. Da allora in poi non si parlò più di tali spettacoli ma bensì di giochi gladiatori ("munera") e cacce di animali selvatici ("venationes").

Il Colosseo come sistema complesso era molto simile ad uno stadio attuale: le arcate a pianterreno, 80 in tutto, tramite dei passaggi chiamati "vomitoria" perché permettevano una veloce evacuazione, davano accesso alle gradinate della cavea. Sopra ognuno degli archi superstiti è ancora indicato il numero progressivo che corrispondeva al numero di biglietto (tessera di cui ogni spettatore era munito.

I quattro ingressi posti in corrispondenza degli assi principali non avevano numero. L'unico di essi intatto è quello settentrionale che mostra tracce evidenti di un portichetto che lo caratterizzava particolarmente. Al suo interno sono evidenti resti di stucchi figurati: questo era, infatti, l'ingresso che portava alla tribuna imperiale, collocata al centro del lato nord. Gli altri tre ingressi assiali dovevano avere la stessa funzioni per categorie privilegiate: i magistrati, le vestali, gli ospiti d'onore, i collegi religiosi..

Entrando, si scorge subito l'arena, lo spazio per le rappresentazioni, una volta formato da una pavimentazione mista di muratura e legno é oggi del tutto scomparso. Al suo posto vediamo però i sotterranei, dove erano alloggiati gli apparati di supporto alla preparazione e allo svolgimento dei giochi.

Nei due piani sotterranei si trovavano ascensori e montacarichi, a contrappeso, dei quali oggi sono ancora visibili i binari, erano considerati gli effetti speciali dell'epoca, venivano infatti usati per sollevare velocemente animali e gladiatori che irrompevano sull'arena da botole, apparendo d'improvviso in una nuvola di polvere dando al pubblico uno strepitoso effetto sorpresa. Un complesso sistema di cerniere e strutture ad ascensore permetteva di far emergere anche sfondi scenografici di forte impatto, usati per gli spettacoli di caccia.

Le manifestazioni che vi si svolgevano erano ad un tempo simboliche e concrete e creavano un legame fra la cittadinanza e il suo capo attraverso la comune partecipazione ad importanti eventi pubblici avendo inoltre la non trascurabile funzione di divertire il popolo e sviare la sua attenzione su problemi diversi da quelli politici. Da sfatare è la credenza che nel Colosseo venissero uccisi i cristiani come forma di spettacolo, questo avvenne in altre epoche ed in altri anfiteatri.



NEL COLOSSEO

I Ludi Gladiatori nel Colosseo vengono annunciati con l'indicazione sui muri della città della data, del motivo per cui il magistrato li offre e di altre notizie, come quella se l'anfiteatro verrà o no coperto da velario a protezione del pubblico. Gli spettatori, muniti di tessere con il numero del posto da occupare sulle gradinate, entrano già alle prime luci dell'alba e inizialmente assistono a spettacoli di pura bestialità.
Per motivi di sicurezza tutti i cancelli del Colosseo vengono chiusi e in uno scenario esotico, che riproduce l'ambiente da cui provengono, le fiere, incatenate l'una all'altra, si combattono tormentandosi atrocemente tra loro, tra le accanite scommesse del popolino. Ma vi erano molti combattimenti tra uomini e bestie. Plinio il Vecchio riferisce di orsi abbattuti con il cranio fracassato da pugni. L'imperatore Commodo fa una strage di bestie feroci, uccidendole con le sue proprie mani e il suo biografo racconta che arriva a trapassare con una lancia un elefante da parte a parte.

A mezzogiorno, cessato l'ingresso in pista di bestie e ripulita la sabbia dell'arena, entra nell'anfiteatro il corteo dei gladiatori. Tra costoro ci sono prigionieri, delinquenti, schiavi puniti e persino uomini liberi, gente finanziariamente dissestata, che combatte per compenso ed è preferita dalla plebe che affolla le gradinate ai damnati ad gladium. I gladiatori sfoggiano nomi che alludono alla loro forza, come Leone e Tigre oppure mitici come Ercole e Icaro.

La loro età va dai 18 ai 48 anni. Il loro abbigliamento ed armamento è quello degli antichi nemici di Roma, ma tra essi ci sono anche degli effeminati che duellano indossando preziose tuniche. Con il corteo entrano nell'arena i musicanti, che si sistemeranno sulla pista e suoneranno strumenti a fiato, persino l'organo, durante tutto lo spettacolo, rimarcandone le fasi salienti.

Il duello inizia con scambio di assalti nel clamore assordante del pubblico, talvolta organizzato in claque, che applaude, fischia e, se insoddisfatto, arriva addirittura a lanciare pietre all'organizzatore. Apprezzati i combattenti mancini, che per questa loro caratteristica disorientano l'avversario. I gladiatori poco aggressivi o quelli in fuga per l'arena sono frustati o ustionati dagli inservienti.

Le immagini ci dicono della gestualità del vinto e del vincitore nella scena finale del duello, quando si attende solo il verdetto del magistrato. La sentenza verrà pronunciata su indicazione del pubblico e delle sacerdotesse Vestali. Al gladiatore soccombente nel momento in cui nell'anfiteatro sta entrando l'imperatore viene per questo solo fatto accordata la grazia.
Il magistrato accorda o rifiuta la grazia con gesti convenzionali. Un questore la rifiuta soffiandosi il naso.
Non sempre si ha riguardo per il giudizio del pubblico, quanto del costo dei gladiatori, che, se elevato, finisce col favorire la grazia. Questa è raramente accordata a chi è caduto anche incidentalmente in terra durante il duello. La grazia è preferibilmente accordata a chi ha combattuto valorosamente, finendo il duello in piedi. Se la grazia è rifiutata il vinto deve essere sgozzato dal vincitore, al quale in epoca tarda è addirittura rimesso il verdetto. I cadaveri verranno trascinati via da addetti mascherati da divinità infernali. Un editto dell'imperatore cristiano Costantino abolirà i duelli di gladiatori.

L'ANFITEATRO DI LECCE

I PIU' GRANDI ANFITEATRI

 Il Colosseo resta anche quello con le dimensioni maggiori (diametri esterni: 188 x 156 m, arena: 86 x 54 m).
- Il secondo è l'anfiteatro di Capua (I-II sec, 170 x 140 m).
- Il terzo è quello di Milano ( I sec. 155 x 125). Fino a qualche tempo fa l'arena pareva eccessiva (90 x 60 m), ma solo di recente si è scoperta la presenza di un anello interno che la porta a dimensioni più ragionevoli (71 x 40,5 m).
- Vi è poi l'anfiteatro di Verona (chiamato impropriamente Arena) con diametri esterni 152 e 123 m e arena di 75,68 x 44,43 m.
- A seguire l'Anfiteatro Flavio di Pozzuoli (147 x 117),
- Poi quello di El Jem (tardo e mai ultimato ma in buono stato di conservazione) 148 x 122 m,
- Arles 136 m x 107,
- Nimes 133 x 101,
- Tarragona 109,50 per 86,50 m (l'arena era di 62,50 m per 38,50).

MARCO PETREIO

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Nome: Marcus Petreius
Nascita: 110 a.c.
Morte: 46 a.c.
Professione: militare



LE ORIGINI

Marco Petreio, ovvero  Marcus Petreius nacque nel 110 a.c. e morì nell'aprile del 46 a.c.. Fu un valoroso militare romano, vissuto ai tempi di Cesare, figlio di Gneo Petreio. Secondo Plinio il Vecchio (Naturalis historia) Marco era figlio di quel centurione, tal Gneo Petreio, che nel 102 a.c. salvò una legione dalla distruzione.

Durante una spedizione contro i Cimbri nelle foreste svizzere Petreius aveva avvertito il comandante della sua legione che stavano andando verso un'imboscata nemica, ma il comandante non gli diede credito. Allora Petreio, certo della sua intuizione, uccise il comandante e prese il comando della legione, riuscendo appena in tempo a farla schierare e a tenerla pronta per l'attacco dei Cimbri che arrivò poco dopo. 

Grazie alla sua prontezza e al suo coraggio la legione sconfisse i nemici e Petreio, anzichè essere punito con la morte per le sue azioni, venne decorato con la corona di gramigna, il massimo simbolo di valore militare che spettava al comandante che avesse salvato un esercito assediato o a chi avesse, salvato un esercito dalla sicura distruzione.

La cosa notevole è che mentre suo padre fu valoroso e fedele cesariano, suo figlio fu accanito avversario del dittatore.



IL CURSUS HONORUM

Petreio, figlio di cotanto padre, si gettò a capofitto nella carriera militare per dimostrare il suo coraggio e le sue capacità, e nel 90 a.c. cominciò la sua carriera militare diventando in poco tempo prima tribuno militare, (eletto dalle assemblee del popolo, detto tribunus militum a populo) poi prefetto (ufficiale di ambito sia militare che civile).

CATILINA
Divenne poi legato del proconsole Antonio Ibrida, il che dimostra che aveva già ottenuto la carica di senatore, perchè il legato doveva avere obbligatoriamente già assunto tale carica. Marco fu il primo senatore della sua gens.

Nel 62 a.c. condusse come legato (comandante in seconda dopo il console) del proconsole Gaio Antonio Ibrida l'armata senatoriale. Antonio fu accusato di partecipazione alla congiura di Catilina, ma tuttavia, è noto che i catilinarii festeggiarono tale condanna, poiché Antonio li avrebbe traditi, assumendo il comando dell'esercito nella battaglia di Pistoia.

Petreio sconfisse il rivoluzionario Lucio Sergio Catilina presso Pistoia, mentre lo stesso Ibrida rimase lontano dalla battaglia, forse per non affrontare i suoi ex complici. Sallustio ci dà una descrizione della la battaglia in cui perse la vita Catilina (Gaio Sallustio Crispo, Bellum Catilinae) in cui definisce Petreio:

"Homo militaris, quod amplius annos triginta tribunus aut praefectus aut legatus aut praetor cum magna gloria in exercitu fuerat"

Uomo che svolse con somma gloria per trenta anni le mansioni di tribuno, di prefetto e di pretore.
Incalzando i congiurati costretti a ritirarsi, Petreio, aiutato dal questore Publio Sestio, riuscì a costringerli in un passaggio angusto tra due montagne che conduceva ad una rupe, intrappolandoli insieme a Catilina.

POMPEO MAGNO
Tuttavia le forze catilinarie resistettero disperatamente all'impeto dei legionari, per cui Petreio fu costretto a raggiungere le prime file assieme ad una cohors praetoria (coorte a protezione del condottiero). 

Al suo arrivo la battaglia finì in poche ore. La vittoria di Petreio fu schiacciante, le perdite romane di un centinaio di uomini, mentre per i congiurati non ci fu nessun superstite: compresi Catilina e Manlio, braccio destro del cospiratore..

Dopo questa grande vittoria, Petreio si alleò con Porcio Catone l'Uticense, che contrastava il primo triumvirato, composto da PompeoCrasso e Cesare del 59 a.c. Nel 55 a.c. venne nominato amministratore in Spagna insieme a Lucio Afranio, mentre il governatore ufficiale, Pompeo, rimase a Roma.

Nel 49 a.c. era divampata la guerra civile e Cesare, dopo aver preso il controllo di Roma si diresse verso la Spagna prima di scontrarsi in Grecia con Pompeo. Afranio e Petreio si erano schierati con Pompeo e la Repubblica, pertanto contro Cesare. 

La Campagna di Lerida del giugno - agosto del 49 a.c., fu svolta dalle legioni di Giulio Cesare contro l'armata spagnola di Pompeo, guidata dai suoi legati Lucio Afranio e Marco Petreio. Si trattò di una campagna di guerra, con assedi, inseguimenti e scaramucce, piuttosto che di una battaglia campale.

CESARE
Dopo una serie di piccoli scontri furono circondati e su decisione di Afranio si arresero il 2 agosto del 49 a.c. presso Lerida. 

Petreio chiese di essere ucciso, per la vergogna della sconfitta, ma Cesare, che a volte era più che clemente, decise di risparmiarli entrambi ben sapendo che li avrebbe avuti di nuovo nemici. Ci si chiede perchè lo fece: secondo alcuni per divulgare la sua fama di dictator clemente e pietoso affinchè le città da conquistare si arrendessero più facilmente a lui, secondo altri perchè si identificava nei buoni e capaci combattenti. Forse per entrambe le ragioni.

Come previsto i legati si diressero in Grecia per unirsi alle forze pompeiane. Dopo la battaglia di Farsalo nell'agosto del 48 a.c., Petreio e il suo amico e alleato Catone si rifugiarono prima in Peloponneso e poi in Nord Africa, dove riorganizzarono la resistenza contro Cesare. Dopo la morte di Pompeo fu tra i migliori generali che organizzarono la difesa in Africa e vinse, al comando della cavalleria numida, la battaglia di Ruspina sull'esercito cesariano (gennaio 46 a. c.)

Petreio e Tito Labieno (già ex generale di Giulio Cesare, passato poi dalla parte di Pompeo) riuscirono a vincere varie volte contro l'esercito di Cesare, essendo entrambi abilissimi generali,. Ma nella grande battaglia di Tapso, l'inarrestabile Giulio Cesare sconfisse l'esercito pompeiano guidato da Metello Scipione e Petreio fuggì insieme al re numida Giuba I.

In una situazione disperata nei pressi di Zama, i due vollero suicidarsi, ma prima decisero di cercare la morte in un duello. Nello scontro concordato Petreio uccise il re numida con una certa facilità, e poi si suicidò con l'aiuto di uno schiavo. Si concluse così amaramente la vita di un uomo coraggioso, intelligente e generoso, grande stratega e grande ingegnere.

PONTE PETRINO
Non ebbe mai paura di combattere o di morire, e morì solo per aver scelto la parte sbagliata. Cesare lo apprezzò e lo graziò, come fece per tanti uomini valorosi suoi avversari, ma questo non bastò a fargli apprezzare il dittatore, e fu un peccato, perchè era uomo di grandi principi e fedeltà, ai suoi capi e alle sue idee.


Curiosità:

L’antico ponte Petrino sul Bisenzio, affluente di destra dell' Arno, in Toscana, è attribuito a Marco Petreio, detto "Petrino" (fine del II sec. a.c. - 46 a.c.). 

Petrino fu un grande generale romano, nonchè geniere e costruttore di ponti. 

L’opera venne restaurata nel Medioevo, poi semidistrutta da crolli e piene del fiume, e non è stata ancora restaurata.


SCHOLA CASSII

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SANTA MARIA IN COSMEDIN

SCHOLA CASSII

"L'edificio antico di cui restano alcune colonne al loro luogo entro la basilica di S. Maria in Cosmedin, viene ora detto da molti la Scuola di Cassio, e si crede esser stato un edificio preceduto ad un portico eretto da un personaggio di tal nome, da uso di scuola pubblica. Alcuni vollero che gli avvanzi appartenessero al tempio della Pudicizia Patrizia, altri a quello della Fortuna o di Matuta, ed altri finalmente a quello di Cerere e di Proserpina. 

Tutte queste opinioni però sono dubbie poichè non si ha certezza del vero nome e destinazione del monumento. Soltanto può dirsi che la configurazione di quegli avvanzi li fa credere appartenuti piuttosto ad un portico che ad un tempio, e siccome ivi fu poi una scuola di lettere greche dove vuolsi che S. Agostino insegnasse rettorica, qual luogo fece dire il nome di S. Maria in Scuola Graeca alla chiesa attuale, così può congetturarsi che ivi rimanesse sempre una scuola, la quale cambiasse soltanto di denominazione.


Restano ancora eli avvanzi di parte della costruzione, fabbricata a grandi massi di travertini, ed otto colonne del peristilio, cinque delle quali sono nella parte inferiore della chiesa all'intorno, due a sinistra entrando, e due altre nella sagristia. Sono esse di marmo bianco scanalate d'ordine composito, con capitelli di finissimo intaglio, ed hanno 7 piedi di circonferenza. Il buon gusto di questi marmi e le belle proporzioni fanno decidere a credere l'edificio dell'epoca imperiale."



SANTA MARIA IN COSMEDIN

L'area della chiesa è vicina al Tevere, al Foro Boario e al Circo Massimo, e qui era collocata l'Ara Massima di Ercole, santuario "internazionale" deputato a garantire i commerci e i mercanti che in quella zona trafficavano e vivevano. Insomma era una zona di porto sul Tevere e in nome di Ercole si trattava e si giurava.

I RESTI DELLA SCHOLA
Ancora nel I sec. a.c., Vitruvio cita un tempio a pianta rettangolare posto all'ingresso del Circo Massimo e dedicato ad Ercole Invitto o Pompeiano, che dovrebbe senz'altro rispondere all'edificio.
Secondo alcuni venne edificata su un tempio di Cerere, e infatti nelle mura della chiesa restano incastrate alcune delle colonne corintie che appartenevano al peristilio del tempio.  Secondo altri sorgeva sopra il tempio della Fortuna.

Nei suoi giardini vi è sotterrato l'AEDES HERCVLIS INVICTI  "Post muros aedificìorum scolae Grecae statini non longe fuit templum Herculis", scavati e risotterrati, quindi non nello stesso posto ma accanto, e un'ara di Ercole è posta nella cripta.

Vittore registra una SCHOLA CASSII nell'VIII regione, in Aventino che in seguito, ospitò una colonia di monaci greci. In epoca imperiale però la struttura debitamente ampliata divenne la Statio Annonae, dedicato alla Dea Annona, poi assimilata a Giunone, il cui servizio pubblico gestiva l'approvvigionamento e la distribuzione di cibo, soprattutto di grano, al popolo romano.

Il fatto che fosse stata chiusa la schola publica non deve meravigliare. il cristianesimo chiuse tutte le scuole, sia pubbliche che private. Per questo la gente non sapeva più leggere nè scrivere. Si dimenticò il latino e si praticarono un'infinità di dialetti.

I RESTI DEL TEMPIO DI ERCOLE NELLA CRIPTA
La lingua italiana nacque così, da una elaborata distorsione della lingua latina, esaltata da Dante nella Divina Commedia che terrorizzava non poco i credenti con la minaccia delle pene eterne. Piacque tanto alla chiesa che fece dichiarare il dialetto in cui era scritta, il dialetto toscano, lingua nazionale.

Verso la fine del VI sec. l'edificio venne trasformato in diaconia, un centro assistenziale che dal IV sec. operava come ente morale, entrando in possesso di beni immobili, ricevendo contributi, con operazioni commerciali, ospedali, centri di accoglienza e formazione. La prima vera e propria chiesa, anche se di piccole dimensioni, fu fatta costruire da papa Gregorio I, la cui famiglia aveva grandi possedimenti nella zona, attorno all'inizio del VII sec..

Papa Adriano I la fece ricostruire ampliandola come una basilica alla fine dell'VIII secolo, conservandone la struttura dell'antica sede dell'Annona, di cui la chiesa incorporò la struttura e il colonnato, dividendola in tre navate e abbellendola di pregiate decorazioni.

La chiesa e i suoi beni furono affidati ad una colonia di monaci greci che si erano rifugiati a Roma per sottrarsi alle persecuzioni degli iconoclasti e si erano stabiliti su questa riva del Tevere, dove era già insediata la comunità greca ed era perciò nota come Ripa Greca.

LA SCHOLA NEI SOTTERRANEI
Da questi la chiesa prese il nome di Santa Maria in Schola Greca, e divenne poi nota come Santa Maria in Cosmedin, dalla parola greca kosmidion (ornamento).

La diaconia di Santa Maria in Cosmedin fu eretta, secondo alcuni, da papa Stefano II nella chiesa fatta costruire intorno al 600 da papa Gregorio I sul Tempio della Fortuna.

Ma in tempi più antichi era conosciuta anche con il nome di Santa Maria in Schola Græca. In realtà lo spazio era occupato soprattutto dalla Scuola Greca. All'inizio era solo una piccola chiesa nella loggia dei mercanti, ma, in seguito, papa Adriano I la trasformò in una vera basilica.

- 1516. Girolamo Graziano de' Pierleoni, caporione di s. Angelo, apre una cava di pietra presso s. Maria in Cosmedin. Not. de Messis prot. 1121, e. 15, A. S. Indovinare da dove volesse cavare le pietre non è difficile.

Diversamente dalla gran parte delle chiese romane del periodo, questa non era sorta sulla tomba di un martire. Tuttavia ebbe anch'essa la sua cripta, scavata nel podio della stessa Ara Massima.

COLONNE IN GRANITO ROSSO DI EPOCA IMPERIALE


DESCRIZIONE

La facciata a forma di capanna della chiesa presenta un portico con sette arcate, cui si sovrappongono sette finestre; in posizione decentrata, sulla destra dell'osservatore, si erge il bel campanile romanico risalente al XII secolo che si eleva dal tetto per sette piani, con bifore e trifore, e decorato da maioliche colorate.

Sotto il portico, il monumento di Alfano che curò per conto del papa Callisto II i restauri della chiesa. Nel muro sotto il portico, oltre alla famosa Bocca della Verità (un chiusino di età romana, posto qui nel 1632), sono murate alcune iscrizioni con atti di donazione:

IL PAVIMENTO IN OPUS SECTILE ROMANO
1) un’epigrafe del X secolo con l’elenco dei doni fatti da un certo Teubaldo (case, orti, vigne, oggetti liturgici) alla chiesa di S. Valentino sulla Via Flaminia;
2) un’iscrizione dell’VIII secolo da cui risulta la donazione da parte di un certo Eustazio e di suo fratello (Giorgio o Gregorio) di alcuni vigneti …qui sunt in Testacio;
3) una scultura con un’epigrafe mutila letta completamente nel XV secolo: Honoris Dei et Sancte Dei Genitricis Marie, pontificatus Domini Adriani pape, ego Gregorius notarius.
4) la tomba di Alfano, con l’iscrizione:
Vir probus Alfanus cernens quia cuncta perirent /
hoc sibi sarcofagum statuit ne totus obiret / 
fabrica delectat pollet quia penitus extra /
sed monet interius quia post haec tristia restant

L'iscrizione è in latino perchè gli unici che studiavano erano gli ecclesiastici che la usavano tra loro, perchè il popolo ascoltava ma non capiva più la lingua dimenticata.

L'interno della chiesa è a tre navate, separate da pilastri e da diciotto colonne di recupero. Il soffitto è ligneo, costituito da capriate, mentre il pavimento è arricchito dagli smalti e dagli ori dei mosaici cosmateschi, oltre che dalle rotonde superfici marmoree antiche prelevate dai resti romani, levigate dal corso del tempo.

L'altare di granito rosso posto sul fondo dell'abside è dichiarato risalente al 1123, ed è esatto perchè in tale data  Callisto II collocò una vasca di granito orientale in s. M. in Cosmedin. Il Marangoni, descritta la conca porfiretica, già nel battistero lateranense, aggiunge:

"questa più non si vede a cagione delle desolazioni patite da Roma. Bensì nel medesimo battistero fu ed è collocata una bellissima urna di basalto che rassembra metallo, una di quelle che adoperavansi da' gentili nelle loro terme".



I TRIUNVIRI

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TRIUNVIRI
Nella repubblica romana la base necessaria per iniziare il cursus honorum, era quella di aver già rivestito cariche minori che facevano parte del Vigintisexvirato che quindi serviva da primo scalino ai figli dei senatori per iniziare la carriera politica. Il Vigintisexvirato era un collegio di magistrati minori della Repubblica romana; (letteralmente Ventisei uomini). Due dei gruppi che nell'insieme formavano il Vigintisexvirato erano costituiti da tre persone.


Triunviri Capitales

Triumviri Capitales, che aiutavano il pretore nelle cause penali, provvedevano alle esecuzioni di pene capitali nonché alla sorveglianza delle carceri ove prendevano il nome di "triumviri carceris lautumiarum"


Triunviri Carceris Latumiarum

"Fu Roma nel timore che fosse questa una macchinazione degli ostaggi e de prigionieri Cartaginesi Pertanto furono poste guardie per le contrade della città, e i magistrati minori ebber ordine di andar girando per esse, e i triumviri delle Carceri delle Lautomie (triumviri carceris lautumiarum) di custodirle più gelosamente, e il pretore prescrisse che, nelle città di nome latino, gli ostaggi custoditi fossero nelle case private nè si lasciassero uscire in pubblico e che i carichi di catene nelle prigioni non pesassero meno di dieci libbre e si custodissero solo nella pubblica prigione"
(Tito Livio - Ab Urbe Condita)



Triunviri Monetales

I Triumviri Monetales che erano preposti al funzionamento ed al controllo della zecca, (l'officina romana che batteva moneta), in qualità di magistrati monetari erano i responsabili, nei riguardi dello stato, della regolarità nella emissione delle monete, di cui dovevano controllare il peso e la lega. Si trattava di incarichi di minore responsabilità che permettevano di accedere ai successivi gradi del cursus honorum e vi si accedeva verso i 25 anni.

La denominazione ufficiale era Triunviri monetales aere argento auro flando feriundo (III VIR AAAFF), cioè "triumviri monetari per fondere (flando) e battere (feriundo) bronzo (aere), argento ed oro (auro)."
Su un denario di Manio Aquilio, senatore nel 74 a.c., troviamo al dritto l'iscrizione "III VIR". Erano responsabili della fusione dei lingotti d'oro, della lega, del peso e dell'incisione delle monete battute, nonché dei conti della zecca.

Erano ancora triunviri:


I Tresviri Agris Dandis Assignandis

Erano Triunviri Agrari che erano incaricati dell'assegnazione delle terre ai coloni; ne verificavano pertanto i titoli, controllavano le misure dei territori, segnavano i confini e ne iscrivevano la famiglia.


I Triumviri Coloniae Deducendae

Questi erano incaricati della fondazione di una colonia; ne controllavano le dimensioni dell'abitato e dei terreni, stabilendone le dimensioni degli edifici pubblici esistenti o da edificare, controllandone le vie e l'accesso alle acque, nonchè il sistema di fognature.


I Triumviri Numulari

I Triunviri Numularii era il nome dei banchieri pubblici di Roma, nominati dallo Stato che supervisionavano le imprese statali che prestavano o depositavano denaro. Non ha nulla a che vedere con gli Argentari che erano banchieri privati e che pertanto facevano affari per conto proprio.


I Triumviri Epulones

O Triumviri Epuloni, erano dei sacerdoti che sovrintendevano ai banchetti sacrificali; stabilendo gli animali da sacrificare, scegliendoli affinché fossero atti al sacrificio, altresì controllando gli arnesi e il personale di servizio per la cerimonia.


I Triunviri Mensari

I triumviri Mensarii erano triumviri tesorieri, incaricati di pagamenti per conto dello Stato, creati nel 216 a.c. I primi furono Lucio Emilio Papo, Marco Atilio Regolo e il tribuno della plebe, Lucio Scribonio Libone; essi dovevano anche elencare le rendite dello stato, cioè quanto lo stato incassasse dai beni del demanio


I Triunviri Nocturni

I Triumviri Nocturni, cioè notturni, erano triumviri addetti alla vigilanza notturna. Stabilivano i turni delle ronde notturne da parte dei Vigilantes (i vigili), riferivano alla milizia in caso di disturbi maggiori o addirittura al senato quando si temeva una rivolta. 


I Triumviri Salutis

I Triunviri della Salubrità, o della salute, erano magistrati che dovevano rispondere della salubrità delle acque e dei cibi, i quali controllavano l'Annona con le sue provviste di grano, ma in genere riguardanti gli approvvigionamenti militari degli eserciti romani.


I Triunvirati

In vari municipi, sempre sotto il governo di Roma, anche durante il principato, i magistrati che amministravano la città, se facevano parte di un collegio composto da tre persone prendevano il nome di triumviri.

Per due volte verso la fine della repubblica romana, poco prima dell'età imperiale, il potere si concentrò nelle mani di tre persone, conosciute come triumvirato. Però l'alleanza durò poco e sopravvenne la guerra civile:

- Primo triumvirato (Cesare, Pompeo, Crasso)
- Secondo triumvirato (Ottaviano, Antonio, Lepido)

Il titolo fu utilizzato nuovamente per 'magistrature' politiche, per lo più di breve durata.

CARNUNTUM (Austria)

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Il nome Carnuntum è illirico ed era un centro dei Boi indipendente fino al 6 d.c., quando fu scelta da Tiberio come base delle operazioni contro Maroboduo. Con il suo passaggio alla provincia Pannonia vi fu acquartierata la legio XV Apollinaris e la fortezza, ricostruita di pietra a partire dall’età traianea, divenne uno dei capisaldi del limes danubiano.

Infatti nel 6 d.c., in Pannonia, in una zona sul Danubio attualmente appartenente all'Austria, viene eretto dai romani un accampamento invernale, in muratura, edificato, come al solito, a tempo di record.



46 anni dopo, nel 50 d.c. vi alloggia l'intera Legio XV Apollinaris, si stanzia in tutta la zona edificando ogni occorrenza, dalle terme ai templi, dalla basilica al Campidoglio. Nasce così la città romana di Carnuntum.

Il centro si estende e acquista importanza. I mercanti vi stabiliscono le proprie botteghe. Vi sorgono un teatro e un anfiteatro.
E' qui che Settimio Severo viene proclamato imperatore dal suo esercito.
E' qui che nel 308 avviene una riunione dei tetrarchi per tentare di ristabilire la tetrarchia.

Petronell-Carnuntum, fino al 1963 Petronell,  ha riacquisito però il suo glorioso nome romano,  è un comune austriaco del distretto di Bruck an der Leitha, in Bassa Austria. Nel territorio comunale sorge,  grazie alla lungimiranza dei suoi amministratori, il parco archeologico che custodisce i resti della città romana di Carnunto. Ma non solo, perchè vi è stato riedificato un villaggio romano.

Questo centro, che si rifà a un antico villaggetto di capanne di origine celtica, si trasformò in un'importante fortezza legionaria dell'Impero romano a partire dal 50 e sede della Flotta Pannonica, diventando anche sede, prima del governatore della Pannonia e poi (nel 103/106) della Pannonia superior, nel comune di Petronell-Carnuntum.

Presso la fortezza si formarono due centri urbani, il primo dalle canabae, abitazioni provvisorie per operatori civili di vario genere che seguivano l’esercito, nell’area di Bad Deutsch Altenburg, l'altro più a ovest, dove era stata trasferita la popolazione indigena dopo l’evacuazione dell’oppidum, localizzato sul Braunsberg (punta orientale del massiccio di Hainburg).

RICOSTRUZIONE DELL'ACCAMPAMENTO INVERNALE
Il centro aveva dimensioni notevoli, misurava infatti  nelle suoi lati m 480 × 368, per una superficie complessiva di circa 17,6 ha, totalmente protetto da mura con torri e porte d'accesso. A circa 2 km dal museo si trova l'Heidentor (o "porta dei pagani"), un edificio a quattro archi posto al di fuori delle mura dell'antica città, che un tempo doveva contenere la statua di Costanzo II imperatore (354/361 d.c.). Ora rimane solo un arco dell'antico monumento che esaltava la grandezza di Roma.

CUCINA DI LUCIUS
Per dar vita al villaggio si è edificato, oltre all'accampamento invernale dei legionari, tutto in muratura e provvisto di portico, di stalle, di dormitori e cucine, una casa privata tipo, che è stata denominata la "casa di Lucius".

E' un'abitazione media, ricostruita sul modello dell'epoca, ed essendo garantita dalla presenza dei legionari, ha le finestre sulla strada, anche perchè manca di impluvio e compluvio. Non dimentichiamo che qui c'è un clima rigido per cui le case devono ricevere più sole possibile.

L'abitazione è circondata da un muretto basso che delimita il suo giardino esterno sul fronte casa, una specie di giardino all'inglese con rari alberi. L'abitazione è rettangolare e coperta da un tetto romano con quattro spioventi ma senza giardino centrale.

C'è poi la cucina di Lucius, dotata di una cucina economica in muratura che funziona a legna, come si vede dalle cataste accantonate presso il piano di cottura. In alto dei tondini di ferro attaccati al muro sorreggono le pentole e i mestoli.

CAMERA DA LETTO DI LUCIUS
Qui sotto segue la camera da letto con un letto munito di lato rialzato, un tavolinetto per i lari, un altro tondo fa da salottino della camera, accostato da due sedie in vimini. Non mancano i soliti tendaggi rossi, in velluto o in tela, a seconda delle possibilità.

Nella riproduzione della stanza interna si nota che la stanza da letto è molto ampia, ed accoglie, oltre ai mobili suddetti, un secondo ambiente, separato appunto dalla tenda rossa, che comprende un divano, un tavolinetto rettangolare basso, quello che oggi chiameremmo tavolino da salotto, e una seggiola del tipo savonarola, che non fu inventata all'epoca di Savonarola, bensì è prettamente romana.

Nei lati più bassi della casa, ricavati dagli spioventi del tetto, la casa ha delle stanze che servono da ripostigli e da magazzini, privi del controsoffitto di cui gode il resto della casa, e al contrario dei pavimenti in pietra o in marmo delle altre stanze, sono pavimentate in cocciopesto, isolante ma più economico.

Come si vede le pareti sono in sassi di fiume e malta, e nei magazzini mancano ovviamente di rivestimento e di decorazioni. Nei depositi o magazzini si poneva la legna tagliata, gli otri di olio o di vino, il grano da macinare, o la farina, o le gallette, nonchè la carne secca, il sale, i legumi secchi, la frutta secca. le mele.

Nella camera di Lucius poi c'è il larario, quello che abbiamo visto in camera da letto, e che adesso osserviamo in dettaglio. Un tavolinetto rettangolare di legno con sovrapposta un'edicoletta, anch'essa di legno, al cui interno sono raffigurati i Lari con la Dea Lara e l'immancabile serpente. Vi sono posti accanto vasi e vasetti contenenti erbe, essenze e varie cose da bruciare in onore dei Lari.

La casa di Lucio ha pure un cortile interno, ma non al centro della casa bensì a lato, circondato da un muro esterno e in parte riparato dal tetto. 
Nell'ambito del cortile è stata pure ricavata una parte delimitata da una parete di legno. probabilmente un altro magazzino.

Come si vede questa parte ha un grazioso pergolato.

IL MUSEO
LA STORIA

A Carmentum vi presenziarono diverse legioni:

Truppe ausiliarie (località Bad Deutsch-Altenburg):
- Ala I Thracum
- Cohors I Alpinorum (equitata)

MAGAZZINO DI LUCIUS
legioni:
- la legio XV Apollinaris dal 50 al al 113, anno in cui fu inviata in Oriente per le campagne di Traiano contro i Parti, per poi rimanere in Cappadocia;
- la X Gemina dal 63 al 70, che sostituì temporaneamente la XV Apollinaris, partita per le campagne di Corbulone e di Tito in Armenia e Giudea
- la XV Apollinaris dal 50 al 113
- per un breve periodo la legio I Adiutrix (ex Belgica forse in sostituzione provvisoria della legio XV)
- la XIIII Gemina dal 113 al IV sec.

Sotto il principato di Augusto, Carnuntum fu base delle operazioni di Tiberio durante la sua campagna contro Maroboduo, re dei Marcomanni del 6 d.c..

Carnuntum cominciò a subire l'influenza latina a partire da un primo insediamento di un forte alla fine del regno di Augusto o agli inizi del regno di Tiberio attorno al 17-19, in coincidenza con la sconfitta subita da Maroboduo, in lotta con il principe dei Cherusci, Arminio. Dopo questi avvenimenti Maroboduo chiedeva asilo politico a Tiberio e veniva confinato a Ravenna.

Come narra Tacito, nel 50 una legione, la XV Apollinaris, venne inviata ad affiancare il forte ausiliario di truppe di cavalleria in zona, quando l'imperatore Claudio, pur rifiutando di intervenire direttamente in una nuova contesa tra i popoli germanici (si trattava di Quadi e Marcomanni, relativamente alla caduta del loro re Vannio), ordinò al governatore della Pannonia «di disporre una legione con un corpo scelto di ausiliari sulla riva del Danubio».

CORTILE INTERNO
Questa aveva il compito di proteggere i perdenti e dissuadere la parte di barbari vittoriosi dalla tentazione di invadere la provincia pannonica. A questo periodo apparterrebbe un castrum ausiliario di ala quingenaria di cavalleria a 1,2 miglia a sud-ovest della fortezza legionaria.


La città, già fortezza legionaria, con la divisione della Pannonia in Inferiore e Superiore operata da Traiano nel 103-104, divenne la capitale di quest'ultima provincia, al centro di un sistema di fortificazioni, che da Vindobona (Vienna) a Brigetio (Szőny) controllava l'intero corso del medio Danubio.


Elevata allo status di municipio da Adriano, ricevette il nome di Aelium Carnuntum, essendo "Elia" il nome della gens dell'imperatore. L'importanza della città, sede anche di un fiorente mercato dell'ambra destinata all'Italia, è attestata anche dalla presenza di due imperatori:

RESTI DI PORTA DEI PAGANI
- Marco Aurelio che qui soggiornò per tre anni (dal 171 al 173) in occasione delle sue campagne contro Marcomanni e Naristi (Guerre marcomanniche), ed ancora nel 178 come attestato nel secondo libro dei suoi "Colloqui con se stesso";
- Settimio Severo che qui fu governatore della provincia Superiore quando, nel 193, fu proclamato imperatore dalle sue truppe.

Sotto i Severi (193-235), Carnuntum ebbe un momento di vero boom economico, raggiungendo le dimensioni massime del suo abitato (canabae) intorno alla fortezza legionaria. Con l'avvento di Caracalla, fu elevato a colonia il centro civile di Carnuntum (Colonia Septimia Aurelia Antoniana) insieme a quello di Brigetio.

Nel 260, durante il regno dell'imperatore Gallieno, le armate pannoniche si ribellarono al potere centrale eleggendo l'usurpatore Regaliano, il quale istituì una zecca che coniò monete raffiguranti lo stesso e la moglie Sulpicia Dryantilla. Fu poco dopo ucciso dai suoi stessi soldati probabilmente a Carnuntum.

Nel novembre del 308 la città fu sede del cosiddetto Convegno di Carnunto, a cui parteciparono l'allora Augusto Galerio, Massimiano e Diocleziano, i due precedenti Augusti, nel tentativo di risolvere la crisi in cui versava l'istituto della Tetrarchia, come testimonia un'iscrizione di quell'anno qui rinvenuta che recita:

RICOSTRUZIONE
« D(eo) S(oli) I(nvicto) M(ithrae) fautori imperii sui Iovii et Herculii religiosissimi Augusti et Caesares sacrarium restituerunt »

« Al Dio Sole invitto Mitra, sostenitore del loro impero, gli Augusti ed i Cesari, Iovii ed Herculii, devotissimi, restaurarono il suo santuario »La città subì una pesante distruzione nel 374, a causa di una nuova incursione di Quadi e Iazigi, costringendo l'imperatore Valentiniano I, a intervenire in territorio germanico, proprio dalla fortezza legionaria di Carnuntum, con una spedizione dimostrativa che si rivelò assai felice. 

Nel corso di questa campagna militare, entrambe le fortezze legionarie di Brigetio e Carnuntim furono rinnovate per l'ultima volta, pur non tornando più agli antichi splendori, tanto che Carnuntum perse le proprie funzioni di centro militare a favore della vicina Vindobona. 

LA CASA RICOSTRUITA ED I RESTI ROMANI
Valentiniano I morì, al termine delle sue campagne militari contro i Quadi nel 375, come ci racconta Ammiano Marcellino, ma la città era in completa decadenza; alla dominazione romana misero fine le invasioni germaniche del 395.

Sono state, infine, individuate tracce di antichi insediamenti databili alla prima metà del V sec., all'interno dell'ex campo militare dove probabilmente si era ritirata la maggior parte della popolazione civile, che potrebbe aver abbandonato questo nuovo sito solo nella seconda parte del secolo.



IL CASTRUM

Il castrum aveva un perimetro irregolare a losanga, in parte determinato dalla configurazione del terreno. Non corrisponde a quello di Tiberio (non identificabile, mentre è localizzato un castello ausiliario a Petronell) poiché la prima fase di terra e legno è di epoca flavia. 

Le mura furono innalzate ai primi del II sec. d.c., le porte rifatte dopo le guerre marcomanne; di quella pretoria non rimangono tracce, le altre erano fiancheggiate da doppie torri e provviste di due passaggi. All’interno sono stati identificati i principia (quartier generale), il pretorio e altri edifici, ma la cronologia è complicata dalle numerose ricostruzioni susseguitesi fino al IV secolo. 

La via principalis proseguiva all’esterno seguendo il tracciato della strada federale odierna, lungo la quale restano tracce di un’insula suddivisa in diversi ambienti, già interpretata come pretorio, più di recente come santuario di Epona.

LE TERME RICOSTRUITE

LE CANABEE

Delle canabae sono noti:
- un edificio termale dalla pianta singolarmente complessa,
- un foro-mercato con due corti precedute da un portico e provviste di peristilio e fontane, - una grotta di Mitra.
- un grosso santuario di divinità orientali in località Mühläckern, all’estremità occidentale di Bad Deutsch Altenburg.

Di questo complesso, sovrapposto ad alcune case dopo la metà del II sec. d.c., facevano parte:

- un tempio principale a tre navate, con banchi sui lati lunghi (forse di Giove Eliopolitano), - un Mitreo
- altri tempietti e cappelle,
- un piccolo edificio termale.

Non è stato rintracciato il foro del municipio: l’edificio più importante fra quelli finora scavati a Petronell è il cosiddetto “palazzo”, a nord del Tiergarten, grande complesso con due cortili di diversa ampiezza, con portici continui sui lati sud ed est. La fronte porticata, a sud, dava accesso a una prima corte bordata da 16 piccoli ambienti, al centro della quale si allineavano trasversalmente tre padiglioni, uno rotondo e due ottagonali.

Si pensa che quest’ala del fabbricato, dove è stata rinvenuta la dedica di un collegium, fosse adibita a edificio commerciale e sede di corporazioni. La corte retrostante, molto più vasta, era in gran parte occupata da un complesso termale, con piscine e ninfei sul lato est e numerose stanze raccolte intorno a un’aula absidata. La fondazione del complesso risale alla fine del II sec. d.c., le terme sono state ristrutturate agli inizi del IV.

VILLA URBANA RICOSTRUITA
A sud del “palazzo”, sui due lati della Schlosstrasse (Spaziergarten), sono stati rinvenuti:
- tre insulae di un quartiere artigiano, in gran parte ricostruito dopo le guerre marcomanne.
- case del tipo provinciale a T, presente anche in altre località della Pannonia, con vestibolo trasversale affacciato su una corte e doppia serie di stanze lungo un corridoio centrale; il vestibolo poteva essere adibito a bottega.
- Alcune case hanno pitture parietali e pavimenti musivi policromi con motivi ornamentali e geometrici. Immediatamente a nord di questo quartiere si trova un vasto edificio termale, pure decorato da pitture e mosaici.
- alcuni Mitrei (uno accertato) e un dolicheno con probabile sala da banchetti annessa, che hanno restituito notevoli sculture.
- un santuario di Silvano
- delle Quadrivie
- un battistero cristiano del IV secolo, ubicato nell’accesso sud dell’anfiteatro municipale.
- due anfiteatri, uno castrense, a est della fortezza, rifatto di pietra alla fine del II sec. d.c.; vi si conservano per l’intero perimetro le fondazioni della cavea, con la loggia del legato riconoscibile nel settore sud, un sacello absidato di Diana- Nemesi a lato dell’accesso ovest, un bacino al centro dell’arena.
- l’altro, più ampio, di età adrianea, con una capienza di circa 13.000 posti, nel settore meridionale del municipio.

- a sud dell’anfiteatro municipale sono visibili i ruderi dell’unico monumento conservatosi parzialmente in alzato, la cosiddetta Porta dei Pagani (Heidentor), grandioso tetrapilo di cui rimangono due pilastri troncopiramidali con angoli aggettanti a lesena, collegati da una volta.
Doveva trovarsi lungo una via suburbana, sicuramente senza relazione con un incrocio, essendo l’interno occupato da una grande base rotonda. L’altezza della parte superstite al di sopra del fornice autorizza la proposta ricostruttiva di una struttura turriforme, forse con un piano superiore articolato da nicchie per statue.

Nella Heidentor si è voluto vedere l’unico arco superstite fra quelli pannonici di Costanzo II; o come monumento funerario, oppure come monumento commemorativo del convegno tetrarchico.

Fuori dalla città, sul Pfaffenberg (punta occidentale dello Hainburg), sorgeva un grande santuario della religione di stato e del culto imperiale, il maggiore della Pannonia; fondato in età adrianea, comprendeva:
- un tempio di Giove con portico antistante fiancheggiato da sale di riunione,
- un altro tempio più piccolo,
- un anfiteatro circolare per feste e cerimonie.

Il sito ha restituito frammenti di statue e altro materiale scultoreo ed epigrafico. I ritrovamenti sono conservati in massima parte all’Archäologisches Museum Carnuntinum di Bad Deutsch-Altenburg; di particolare rilievo alcuni ritratti imperiali, fra i quali una testa di bronzo di Gordiano III.
 
IL MUSEO

IL MUSEO ALL'APERTO

Nell'attuale Petronell, dopo anni di scavi, è sorto un museo all'aperto dove, accanto ai ritrovamenti della città di Carnuntum, un parco tematico ha ricostruito, con tecniche di archeologia sperimentale, la casa del mercante di stoffe Lucius, una Villa Urbana e le Terme Pubbliche.

La ricostruzione, eseguita con materiali e strumenti di costruzione dell'epoca romana hanno tenuto conto dei minimi particolari per creare questo museo didattico, dove toccare con mano la vita degli antichi romani.

La così chiamata "casa di Lucius", propone la ricostruzione dell'abitazione e della bottega di un mercante di stoffe, con gli ambienti privati, tra i quali i cubicula, ovvero le camera da letto, lo studio e una sala dove è presente il lararium, l'altare per gli Dei protettori della casa. 

Anche i locali di servizio, la cucina, l'atrio con anche la ricostruzioni di giochi-passatempo e il giardino, con piante che realmente potevano essere coltivate 2000 anni fa, costituiscono l'ambientazione.

VILLA URBANA

VILLA URBANA

Un altro complesso di ricostruzioni sorge dal lato opposto della strada in basalto: la Villa Urbana e le Terme. La villa urbana è la villa di città, un po' più impegnativa di quella di Lucio, ne osserviamo qui la sagoma semplice ed elegante.

La villa urbana è stata perfettamente ricostruita e arredata, con patio esterno, con sale di rappresentanza, cucine, cubicula e sale usate come studi. Suggestive sono anche le cucine e le locande dell'epoca, i termopolium, dotate di frutta, verdura e salsicce fresche. Non manca neppure la ricostruzione delle latrine pubbliche, dove si sedeva uno accanto all'altro.

SALA DEL BANCHETTO DELLA VILLA URBANA

Questa villa, sia pure elegante, appare alquanto spoglia nella vegetazione, pur disponendo di un vasto spazio. Ed ecco la cucina della villa cittadina.

Segue la stanza di rappresentanza della villa urbana. Qui non è il classico triclinio, trattandosi di una cittadina sorta su un fortilizio, risente dello stile severo dei soldati, infatti mancano totalmente i triclinii e si mangia su lunghe tavole approntate per l'occasione.

CUCINA DELLA VILLA ROMANA
La camera da letto padronale prevede qui un letto matrimoniale, che però era raramente usato presso i romani, che preferivano dormire, anche se coniugi, ciascuno nel suo letto, se non addirittura in due camere separate.

Le Terme presentano i tre ambienti che le costituivano: il tepidarium, il calidarium e il frigidarium.
Hanno costruito l'hypocaustum, l'impianto di riscaldamento usato dai romani per riscaldare gli ambienti, che faceva circolare aria calda tra i pilastrini sotterranei che reggevano il pavimento.
Così, passando da un ambiente ad un altro si avverte veramente la differenza della temperatura.

Non sono particolarmente apprezzabili le decorazioni parietali, ma nel IV sec. in una colonia dell'impero romano, non erano così ricche e particolari come quelle di Roma, sia per il costo sia per la difficoltà di trovare le maestranze.


Tuttavia non manca nulla, nemmeno il secchio per rovesciarsi l'acqua sui capelli, o lo strigile o gli olii profumati da applicarsi dopo il bagno.

C'è pure la sala di ritrovo delle terme, con la stigliatura dove poggiare gli abiti, dove sdraiarsi per riposare dopo una nuotata, o sedersi con un amico per fare quattro chiacchiere, e pure una piccola biblioteca per una erudita lettura.

Infine si può visitare il museo archeologico inaugurato dall'imperatore austriaco Francesco Giuseppe, costruito in stile di una villa romana di campagna.
Al suo interno trovano posto i reperti trovati nella zona, soprattutto quelli legati ai culti pagani e in particolare del Dio Mitra.
Ricordiamo ancora che tutti i materiali usati sono precisi a quelli utilizzati nell'antica Carnuntum, e altrettanto dicasi per le tecniche di costruzione e per lo stile del luogo e dell'epoca.



L'ANFITEATRO

Anfiteatro di Carnuntum, posto lungo il Danubio, a una sessantina di chilometri da Vienna (Austria), accoglieva in epoca romana un'imponente scuola di gladiatori. Soprattutto a questo era deputato l'antico anfiteatro di Carnuntum, tondato intorno al III sec. d.c. in quello che era stato un semplice villaggio celtico, trasformato poi in un imponente centro romano.

RICOSTRUZIONE
L'anfiteatro, di forma ogivale e di grandezza media, misurava 100 metri nel suo lato lungo 80 nel lato più stretto, e di esso oggi ne rimangono solo le fondamenta. Infatti rimane solo la forma dell'anfiteatro, visto che le gradinate sono quasi del tutto scomparse.

L'anfiteatro civile presenta all'esterno di entrambe le entrate assiali due recinti da interpretare come vivaria. 

Nelle entrate assiali attualmente non sono visibili gli elementi presenti nei rilievi, che 
possono essere interpretati come pilastri di una transennatura atta a creare due piccoli corridoi ai lati delle due entrate assiali.  



IL LUDUS DEI GLADIATORI

La città dell'accampamento e la città civile avevano ciascuna un anfiteatro, Le dimensioni di queste costruzioni non permettono solo di trarre delle conclusioni sul numero degli abitanti. ma anche della necessità di attività di svago e divertimento degli abitanti di Carnuntum nel periodo imperiale. Dell'anfiteatro della città civile, all'esterno. molto al di fuori della cinta muraria, è stata rimessa in luce solo l'arena e i due ingressi nord e sud. Sopra i muri delle tribune degli spettatori è Stato accumulato il terreno di risulta degli antichi scavi dell'arena. In base alle dimensioni dello spazio riservato agli spettatori è stata calcolata questo anfiteatro una capacità di circa 13.000 persone.

La storia edilizia di questo teatro risale al momento in cui Carnuntum fu elevata al rango di città autonoma (municipium) ovvero nella prima metà Il secolo, tuttavia i dettagli cronologici e la forma architettonica non sono stati sufficientemente indagati.

RICOSTRUZIONE DEL LUDUS DEI GLADIATORI

A cura di Monia Sangermano
3 aprile 2017 - 11:33


"Taverne, bar e negozi di souvenir dove comprare, ad esempio, la figura di un gladiatore. Un team austriaco di archeologi hanno scoperto una “zona di svago” vicino ad un ‘colosseo’ che permette di conoscere meglio l’importanza degli spettacoli nell’antico impero romano. La scoperta ha avuto luogo nell’antica città romana di Carnuntum, a circa 40 chilometri ad est di Vienna, grazie alle ricerche dell’Istituto Ludwig-Boltzmann di ricognizione archeologica e archeologia virtuale (lbi archpro).

Già si era a conoscenza dell’esistenza di queste zone ricreative nell’antica Roma, ma finora non erano mai state documentate con una precisione tale. “Una scoperta del genere non era mai avvenuta perché anche se si gli anfiteatri di molte antiche città romane si mantengono bene, nelle zone vicine si è edificato“, ha spiegato Neubauer.

Nella ricerca sono state utilizzate tecniche “non invasive” come il georadar o il magnetometro, che consentono di ricreare con un margine di errore di pochi centimetri un’immagine in tre dimensioni delle rovine ritrovate nel sottosuolo. A Carnuntum hanno vissuto fino a 50.000 persone prima che la città fosse distrutta nel IV secolo da un terremoto. L’anfiteatro di Carnuntum è il quarto più grande del mondo, secondo Torrejón, e aveva una capacità di oltre 13.000 persone, che arrivavano anche da regioni lontane per assistere alle battaglie tra gladiatori. Nel 2011, sempre nella stessa località, fu rinvenuta una scuola di gladiatori che ha permesso di conoscere alcuni particolari della vita di quei guerrieri, che all’epoca erano figure molto popolari.

Questo Colosseo, secondo le ultime scoperte, non era l’unico presente in città, visto che con la stessa tecnologia è stato trovato un secondo anfiteatro molto più antico, che può essere datato al II secolo.

Prima di costruire un muro o un altro tipo di infrastruttura importante, è stato costruito un anfiteatro per intrattenere la gente“, racconta Torrejón, come a sottolineare l’importanza dello svago per i Romani. Questa costruzione era inoltre situata in una posizione strategica, a un crocevia, così da risultare facilmente accessibile. L’elevato livello di precisione del georadar permette di riconoscere la struttura degli edifici del complesso e, dunque, di chiarire il ruolo che svolgevano nella società. In questo modo si è potuto scoprire a poca distanza dall’anfiteatro principale un’area urbana sconosciuta e che era destinata esclusivamente al tempo libero. La folla che andava al Colosseo trascorreva l’attesa in taverne, cantine, negozi di souvenir e altre di cibo, che insieme avevano una capacità di migliaia di persone.

Inoltre, grazie al segnale termico che rileva alcune delle infrastrutture, è stato possibile trovare luoghi come un grande forno, dove si cuoceva il pane con cui sfamare i partecipanti allo spettacolo. Il divertimento delle masse, sintetizzato nel motto “Panem et circenses“, era così importante a Roma come a Carnuntum, una città situata ai confini dell’impero romano, spiegano i ricercatori.

I turisti che si recano in questo luogo non potranno vedere a occhio nudo queste nuove scoperte, poiché l’Istituto Archeologico non intende fare scavi, ma l’intenzione è si “proteggerle per le generazioni future“, afferma l’esperto spagnolo. “Scavare potrebbe comportare la distruzione del sito“, spiegano gli archeologi. Per questo, la cosa più importante è proteggere quello che finora è stato scoperto e attendere che vengano creati altri metodi per analizzare meglio i resti archeologici senza danneggiarli."

GEOLOGIA DI ROMA

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E' vero, ed è bene che si sappia, che la conoscenza e lo studio degli ambienti e delle strutture geologiche è determinante per comprendere gli effetti degli eventi naturali sulla città che, al contrario di ciò che si crede. sono, se non prevedibili, almeno controllabili.

Ma è anche vero che la particolare storia geologica dell’area romana va studiata in quanto fu determinante per la storia sociale di Roma. Ognuno può osservare lo sviluppo di una civiltà, perchè questo fu Roma, prima ancora che una città, inserendo la griglia che più gli aggrada, e tutte le griglie possono essere utili: quella economica, religiosa, migratoria, floreale e faunistica, ma non si può prescindere da quella climatica e geologica che sono alla base della vivibilità del territorio.

I romani credevano che gli Dei avessero destinato Roma al suo compito di Caput Mundi ed Urbis Aeterna, e se il lavoro della natura è assegnato dagli Dei, in un certo senso era vero.




LA CAMPAGNA ROMANA

IMMAGINE INGRANDIBILE (FIG.1)
La storia della campagna romana  la fanno i resti fossili esposti oggi nel Museo di Paleontologia per offrire una panoramica degli ambienti che si sono susseguiti tra circa 5 milioni e 10.000 anni fa. Stupitevi pure perchè all'epoca la futura Roma era abitata carnivori, elefanti, rinoceronti, ippopotami, cervi giganti e non, bisonti, uri e così via.

Si può osservare così il mutare degli antichi  ambienti terrestri nell’area geografica oggi occupata dalla media e bassa valle del Tevere e nel bacino di Roma a partire dal Pliocene superiore, quando il gioco della tettonica, ovvero il modo in cui le placche che compongono lo strato esterno della Terra interagiscono tra loro a mo' di fisarmonica, aveva portato il mare a ritirarsi e raggiungere le pendici della nuova catena appenninica, quando il clima era ancora caldo e umido, e ricche foreste si estendevano presso zone paludose abitate da tapiri ed elefanti primitivi.

Poi il mare si ritirò ancora scoprendo le terre, e vennero i fiumi, i vulcani, il Tevere cambiò il suo corso, nuovi mammiferi, giunti man mano dall’Asia, dall’Africa e dal subcontinente indiano popolarono questi territori a causa dell’evolversi del clima e del paesaggio fino a raggiungere la configurazione odierna (Figura 1 e 2).

FIG. 2

4 MILIONI d'anni fa

Quattro milioni di anni fa, nella Campagna Romana, si estendeva dunque un mare poco profondo, che lambiva le pendici della catena appenninica e da cui emergevano piccole isole allungate in direzione appenninica, che oggi, del tutto emerse, costituiscono i modesti rilievi del Monte Soratte e dei Cornicolani.

Il mare, tuttavia, era già in progressivo ritiro anche in conseguenza del sollevamento generale dell’area causato da movimenti tettonici. Come si vede, la zona in cui sorgerà Roma è ancora sott'acqua, mentre cominciano ad emergere le terre sabine. (Figura 2).

Così si può dire che la storia di Roma sia iniziata quattro milioni di anni fa. Passa il tempo e il paesaggio cambia: dove c’era il mare emergono terre fertili, solcate da corsi d’acqua, da foreste e da praterie. I dati che ci permettono di ricostruire la successione e la dinamica degli eventi sono registrati nelle rocce, nelle sequenze e successioni sedimentarie che affiorano in quest’area.

Figura 3

Nel corso del tempo nuovi strati si accumulavano gli uni sopra gli altri, così osservando gli strati possiamo leggere “notizie”, trovare informazioni che ci consentono di dedurre e ricostruire una “storia” a volte complessa, ma tale da permetterci di mettere in relazione con il tempo geologico eventi climatici, paleomagnetici, di deposizione di successioni sedimentarie, attività vulcanica, variazioni della flora e della fauna. E' lo stesso procedimento che si segue nell'archeologia, dove il recupero dei reperti avviene strato per strato, per definire gli stili e le epoche.

Il Pleistocene è la prima delle due epoche in cui è suddiviso il periodo Quaternario, il periodo geologico più recente, quello in cui viviamo. È compreso tra 2,58 milioni di anni fa e 11.700 anni fa. E' suddiviso in Pleistocene Inferiore, Medio e Superiore (figura 3).

Il Pleistocene inferiore e medio corrispondono al periodo del paleolitico inferiore (Homo habilis e Homo erectus), mentre il Pleistocene Superiore ai periodi del paleolitico medio e superiore (Homo neanderthalensis, Homo sapiens).


GLI DEI VOLLERO ROMA

Roma deve i suoi sette colli all’esistenza di modesti rilievi di prodotti vulcanici (cioè il tufo) affiancati da una vasta area pianeggiante, costituita da un deposito vulcanico di prodotti acidi emessi dal cratere durante eruzioni esplosive.

Il tutto con abbondanti acque sorgive, la vicinanza del Mar Tirreno che ne addolciva e ne addolcisce il clima, e la presenza di un’importante fiume come il Tevere, fiume navigabile fino al mare che costituiva una grande via di comunicazione per i commerci.

La natura vulcanica del suolo ha prodotto l’abbondanza di materie prime da costruzione nelle vicinanze della città, e pure sotto la città, almeno nei primi periodi, determinando fattori primari per la crescita, lo sviluppo e l’affermarsi dell'Urbe cara agli Dei.

RICOSTRUZIONE DI UN PAESAGGIO DI 3 MILIONI DI ANNI FA
ALLE PENDICI DEI CORNICOLANI (S. Maugeri) (FIG.5)

3 MILIONI DI ANNI FA

Tre milioni di anni fa sulle coste laziali si estendevano piccoli bacini lacustri dove il clima caldo e umido favoriva una vegetazione fitta di tipo subtropicale, con predominanza, tra gli alberi delle Taxodiacee tra cui le sequoie. Stupitevi pure: Nella zona della futura Roma svettavano le gigantesche sequoia.

Intanto la linea di costa, con la retrocessione del mare, era giunta a circa 240 metri di quota presso Palombara Sabina (Roma).

Nelle zone paludose a ridosso della costa (Figura 5), l’accumulo dei resti vegetali ha dato luogo a depositi di lignite nei quali sono stati trovati, due secoli fa, i resti di alcuni degli animali che popolavano il territorio, fra questi tapiri ormai estinti (Tapirus arvernensis) e proboscidati primitivi (Anancus arvernensis).

Stupitevi pure: nella zona della futura Roma c'erano gli elefanti, ma non quelli di oggi, perchè erano molto più grossi, si tratta dell'elefante antico, esattamente l'Elephans Primigenius. Se volete avere un'idea delle dimensioni ce n'è uno al museo dell'Aquila, o almeno c'era. Nel Lazio meridionale a presso Anagni, sono stati rinvenuti mammuth meridionali, mastodonti, tigri dai denti a sciabola, iene rinoceronti e grandi cervi.

ERA GLACIALE (figura 6)

2 MILIONI E MEZZO di anni fa
2,6-2,5 Milioni di anni fa avvenne un forte cambiamento del clima che interessò tutta la superficie terrestre, è l’inizio del periodo Quaternario, la cosiddetta “Era Glaciale” (fig. 6). Ciò comportò grossi cambiamenti sia nella flora che nella fauna, con l’arrivo di forme adattate a climi più freddi, più aridi e a spazi aperti, come il Mammuthus e i cavalli stenonoidi che, dall’Asia scendono piana piano a sud. Compaiono diverse specie di canidi, di felidi simili ai giaguari ed una iena, la Pachycrocuta brevirostris, di grande taglia, dal muso raccorciato e dalla dentatura in grado di spezzare ossa di grandi mammiferi.

Per l'uomo corrisponde alla preistoria in cui si sviluppò la prima tecnologia umana con l'introduzione dei primi strumenti in pietra da parte di diverse specie di ominidi, e infine con l'introduzione dell'agricoltura, con il passaggio al Mesolitico. Tra le epoche geologiche corrisponde a quella del Pleistocene (da 2,58 milioni a 10000 - 11000 anni fa).



COMPOSIZIONE DEL SUOLO ROMANO

Roma è costruita in buona parte su colline costituite da rocce di origine vulcanica - al di sotto delle quali sono presenti rocce compatte ghiaiose e argillose - e in parte su terreni poco compatti: ghiaie, sabbie e torbe di origine alluvionale, presenti nelle valli fluviali del Tevere e dell'Aniene.

Pleistocene Inferiore
- Sabbie grigie e sabbie gialle marine del Pleistocene Inferiore
- Sabbie Quarzose e Ghiaie del Pleistocene Inferiore
- Argille Marine del Pleistocene Inferiore
- Depositi Fluvio-Lacustri, Sabbie Ghiaiose e non.

Pleistocene  Medio  (fig.7)
- Argille, Sabbie e Ghiaie del Pleistocene Medio
- Piroclastiti, Lave e Tufi del Pleistocene Medio
- Formazione Fluvio-Palustre del Pleistocene Medio

Pleistocene Superiore- Formazioni Piroclastiche e Lavice del Pleistocene Superiore
- Complesso delle Pozzolane Inferiori ( Pozzolane Rosse, Lave, Pozzolane Nere ) del Pleistocene Medio-Superiore)

FIG. 7

 1 MILIONE E MEZZO di anni fa

Le antiche linee di costa ben preservate e osservabili lungo il margine occidentale del Pre-appennino Umbro-Sabino, vale a dire le dorsali montuose dei:
- Monti Amerini, rocce calcaree della successione pelasgica umbro-marchigiana
- Monti di Narni, monti umbri
- Monti Sabini, monti laziali
- Monti Lucretili, laziali, propaggini dei monti sabini
- Monti Cornicolani, modesti rilievi che sorgono nella valle del Tevere, 20 km a Nord Est di Roma,
indicano come sia ancora in atto il progressivo ritiro del mare, mentre l’alto strutturale di Monte Mario è in sollevamento  L’antico corso del Tevere passa a Ovest del M. Soratte e raggiunge la costa con un ampio delta nell’attuale area di Magliana-Ponte Galeria (Fig. 8).

(FIG. 8)
Il continuo alternarsi di fasi climatiche, umide ed aride, e una tendenza a un clima un po' più freddo, fecero sparire da un lato e mutare dall'altro i grandi mammiferi (Fig. 8) ovvero ricostruzione di un ipotetico paesaggio della valle del Tevere di circa 1,4-1,0 milioni di anni fa.

(FIG.9)
Territorio popolato da mammut dalle zanne moderatamente ricurve (Mammuthus meridionalis), equidi ad arti snelli (Equus altidens), cervidi di media taglia (Pseudodama eurygonos) e bisonti primitivi (Bison degiulii). (disegno di S. Maugeri)

Nella Campagna Romana, un dente di Mammuthus meridionalis è stato trovato nelle sabbie di origine marina affioranti a Monte Mario, e sono segnalati per la prima volta un bisonte primitivo di taglia piuttosto piccola (Bison degiulii) (Capena).

Sono stati ritrovati anche cavalli stenonoidi ad arti snelli (Equus altidens), rinoceronti (Stephanorhinus hundsheimensis) e grandi ippopotami (Hippopotamus antiquus) trovati, ad esempio, negli anni ’50 nelle ghiaie della cava Redicicoli (Roma).



OTTOCENTOMILA anni fa

Con la fine del Pleistocene Inferiore, inizia una nuova fase climatica: le oscillazioni glaciali/integlaciali si fanno più prolungate e intense, la ciclicità passa da circa 41.000 anni a circa 100-125.000 anni. 

Intorno agli 850.000 anni fa, la diminuzione delle temperature medie e l’aumento dell’aridità segnano un nuovo cambiamento delle faune a mammiferi, ma anche la paleogeografia dell’area della Campagna Romana subisce grandi cambiamenti.


FIG. 10

Si accentua il sollevamento dell’alto strutturale di Monte Mario e, probabilmente di Cesano, che fanno deviare verso Sud-Sud Est l’antico corso del Tevere. Il fiume con il nuovo percorso, riorganizza i reticoli fluviali dell’ampia fascia pedemontana, mentre più a Sud, la valle del Paleo-Sacco si apre dai Simbruini –Ernici verso Nord-Ovest. Già a partire da circa 0,8 milioni di anni, la progressiva messa in posto dell’apparato vulcanico dei Sabatini e, successivamente l’attività vulcanica del vulcano dei Colli Albani, determinano una variazione del corso del Tevere e del Sacco.






FINE DEL PLEISTOCENE

Con la fine del Pleistocene Inferiore appaiono nuovi mammiferi (Figura 8). Il clima, più fresco e arido specie nelle fasi glaciali, consente la diffusione fino all’attuale zona costiera di roditori boreali simili agli attuali lemming dell’artico (Dicrostonyx) e delle steppe (Prolagurus). 

Con il passaggio al Pleistocene Medio inferiore, fecero la loro comparsa nella Campagna Romana, tra gli altri, grandi carnivori:
- la iena macchiata (Crocuta crocuta), 
- i primi veri cinghiali (Sus scrofa priscus), 
- poderosi bufali dalle corna carenate (“Hemibos” galerianus), 
- argali (Ovis ammon antiqua) 
- cervidi di grande taglia, (Praemegaceros verticornis, Megaloceros savini) 
- daini di grande taglia dalle corna palmate (Dama clactoniana) 
- antenati del cervo nobile (Cervus elaphus acoronatus) 
- antenati del capriolo (Capreolus capreolus suessenbornensis). 
- il proboscidato Mammuthus trogontherii, abitatore di steppa-prateria
- il proboscidato Palaeoloxodon antiquus che raggiunse l’Europa meridionale e l’area mediterranea dall’Africa. E sarà proprio l’elefante antico, una della specie più diffuse nella nostra regione dove sopravviverà per oltre 700.000 anni, fino alle fasi fredde dell’ultimo glaciale.

Durante il paleolitico sono avvenute una serie di glaciazioni, in cui i ghiacci avevano coperto gran parte dell'Europa settentrionale e centrale, spingendosi fin quasi sulle coste del Mar Mediterraneo e provocando l'abbassamento del livello del mare di oltre 100 metri. Avvenivano quindi contatti tra gli abitanti della penisola iberica e di quella italica. Con la fine dell'ultima glaciazione, tra 15000 e 10000 anni fa, e il conseguente aumento delle temperature, i ghiacciai ripresero a sciogliersi, e il livello dei mari si rialzò nuovamente.



IL CAVALLO DEL MEDIO PLEISTOCENE

Una più precisa storia del cavallo è stata ottenuta da un gruppo internazionale di ricercatori grazie al sequenziamento del genoma di un equino vissuto circa 700.000 anni fa. Il risultato, che dimostra la possibilità di recuperare frazioni di genoma molto antico: si avvicina al limite teorico di sopravvivenza del DNA, che in ambienti molto freddi sarebbe attorno al milione di anni.

CAVALLO PLEISTOCENICO  (FIG.11)
Il genoma è estratto da un frammento osseo recuperato dal permafrost artico a Thistle Creek, nello Yukon, in Canada, attribuito a un cavallo vissuto nel Medio Pleistocene, Equus lambei (FIG.11). Dopo il sequenziamento, per la ricostruzione filogenetica i ricercatori hanno confrontato i dati ottenuti con quelli relativi a un cavallo del Tardo Pleistocene, risalente a circa 43.000 anni fa, di un cavallo di Przewalski (Equus ferus przewalskii), che è considerato l'unico membro del genere Equus ancora veramente selvaggio, di cinque razze del cavallo domestico (Equus ferus caballus) e di un asino (Equus asinus). 

Le analisi hanno indicato che il lignaggio di Equus ha dato origine a tutti i cavalli contemporanei, alle zebre e agli asini fra i quattro e i 4,5 milioni di anni fa. La divergenza fra gli equini attuali e il cavallo di Przewalski è comparsa invece fra i 38.000 e i 72.000 anni fa, senza traccia di contaminazione fra i due. Secondo i ricercatori i genoma dei cavalli domestici sono stati sottoposti a una forte selezione positiva, dimostrata da cambiamenti troppo rapidi per essere avvenuti in natura.


RESTI DI MAMMUT RINVENUTO VICINO AL COLOSSEO  (FIG 12)


L'ELEPHANS ANTICUS CHE VIVEVA A ROMA E' UN FOSSILE di 300mila anni fa

E' comparso sulla Terra 800.000 anni fa e si è estinto 37.500 anni fa. Il Palaeoloxodon antiquus, ben più grande dei pachidermi attuali, era fra le specie più diffuse in Europa meridionale. E' stato rinvenuto nel sito de La Polledrara di Cecanibbio, il giacimento paleontologico databile a 300mila anni fa scoperto nel 1984 a 20 chilometri da Roma, tra le vie Aurelia e Boccea, dove è stato riportato alla luce, nella campagna di scavo avviata nel 2011 dalla Soprintendenza ai beni archeologici di Roma un esemplare straordinario di "Elephas", completo e con tutte le ossa in connessione" (FIG 12)

(FIG 13)
Il giacimento de La Polledrara, identificato nel 1984, rappresenta uno dei più ricchi depositi paleontologici esistenti. Il sito è ubicato sulle pendici periferiche dell'apparato vulcanico Sabatino, a circa 20 km a nord ovest da Roma ed alla quota di 83 m s.l.m.

Una struttura museale di 900 mq protegge un vasto settore del giacimento. All’interno il visitatore, attraverso una passerella sospesa, può visitare lo scavo archeologico che comprende sia un tratto dell’antico alveo fluviale sia l’area ad ambiente palustre, in cui si sono conservati numerosi reperti faunistici. L’alveo del corso d’acqua misura circa 35-40 m in larghezza e 1,5 in profondità.

La scoperta di numerosi resti fossili attribuibili per la maggior parte all’Elefante antico ed al Bue primigenio ha permesso di ipotizzare un’intensa presenza umana ed animale nell'ambiente palustre. In particolare, è stato portato alla luce lo scheletro di un elefante rimasto intrappolato nel fango, tra le cui vertebre è stato rinvenuto il cranio di un lupo.

(FIG. 14)

ROMA, CITTA' DEGLI ELEFANTI

C'era una volta, prima di Romolo e Saturno, un esercito di giganti... La capitale custodisce un sorprendente patrimonio di resti di pachidermi preistorici

Un gruppo di studenti osserva da una passerella sopraelevata l'area musealizzata de La Polledrara di Cecanibbio, ampia 900 metri quadrati, ricavata sull'alveo di un antico fiume risalente a 320 mila anni fa. Gli elefanti rinvenuti nel sito, a partire dal 1985, sono almeno 30. (fig. 12)

Quello di Rebibbia (FIG. 14) è l’unico superstite tra i numerosi giacimenti pleistocenici individuati tra Salaria e Tiburtina, lungo gli ultimi chilometri di corso prima che l’Aniene sfoci nel Tevere. Qui, alla fine dell’Ottocento, era ancora aperta campagna, terreno fertile per paleontologi che seppero trarre profitto dalle intense attività estrattive di tufo e pozzolana di origine vulcanica, sabbie e ghiaie depositate dal fiume.

(FIG. 15)
I siti di Sedia del Diavolo, presso l’attuale piazza Addis Abeba, di Monte delle Gioie, all’altezza di Ponte Salario, e di Saccopastore, appena prima di piazza Sempione, furono tuttavia sacrificati all’urbanizzazione selvaggia del Novecento. Sorte migliore è toccata a quei vasti campi attraversati, a ovest della metropoli, dalla via Aurelia e mantenuti ininterrottamente a uso agricolo: fino al 1978, quando la proprietà passò al Comune, appartennero al Pio Istituto del Santo Spirito, il quale alimentava gli ospedali romani con la produzione delle sue tenute, salvate per tale buona causa dalla cementificazione. 

In questa zona, dove sono ancora visibili i siti di Torre in Pietra e di La Polledrara di Cecanibbio, si concentra, insieme alla bassa valle dell’Aniene, la maggior parte dei 140 giacimenti con fossili di proboscidati tornati alla luce a Roma e nelle campagne circostanti. Un curioso primato che nessun’altra capitale europea può vantare.

La fotografia apparsa sui giornali italiani nel maggio del 1932: un cranio e una zanna di Elephas primigenius erano stati ritrovati a pochi metri dal Colosseo, durante i lavori di sbancamento della collina della Velia voluti da Mussolini per la realizzazione della via dell'Impero (oggi via dei Fori imperiali). Fotografia tratta dall'Archivio X ripartizione Comune di Roma

Gli antichi lo sapevano, che c’era un prima. Già Svetonio, narrando la vita di Augusto, ricorda la passione con cui l’imperatore raccoglieva grandi ossa fossili, attribuendole a favolosi giganti di età mitiche.

(FIG. 16)

ED ORA I VULCANI DEL LAZIO
In buona parte del territorio i terreni in affioramento sono di origine vulcanica e nella maggior parte dei casi hanno un'età medio pleistocenica (da 600.000 a 125.000 anni fa) in misura minore sono del pleistocene superiore (fino a 20.000 anni fa). Le vulcaniti sono state prodotte dalla attività del Vulcano Sabatino a NW e da quella del Vulcano Laziale a SE.


APPARATO VULCANICO SABATINO

L'apparato Sabatino (con attività eruttiva da circa 600.000 a 40.000 anni fa) non ha un cono alto bensì ha rilievi modesti e vaste depressioni per lo sprofondamento, dopo le copiose eruzione di flussi piroclastici), dagli ampi crateri detti "caldere".
Queste depressioni sono oggi occupate da laghi:
- Bracciano (lacus Sabatinus)
- Martignano originariamente chiamato Lago Alsietino (Lacus Alsietinus),
- Stracciacappe (lacus Papyrianus, prosciugato a partire dal 1828 da papa Leone XII
- Baccano, prosciugato nel 1715 dal principe Augusto Chigi
Oppure hanno lasciato ampie superfici pianeggianti con una modesta cinta di rilievi a forma circolare (la Caldara di Manziana, la Valle del Baccano ecc.) che talvolta ospitano acquitrini.
In associazione alle vulcaniti si trovano quindi anche sedimenti fluvio lacustri come il deposito di diatomite di Riano Flaminio (farina fossile dell'intervallo Mindel Riss circa 280.000 anni fa) dove si rinvengono fossili di pesci, gamberetti foglie ed altri frammenti vegetali ben conservati.


APPARATO VULCANICO DEI COLLI ALBANI o "VULCANO LAZIALE"

L'attività del vulcano inizia successivamente a quella sabatina (circa 500.000 anni fa) e si conclude circa 20.000 anni fa. 
Le ultime fasi eruttive di attività di questo vulcano:
- fase idromagmatica finale (da 200.000 anni fa) 
- fase dell'edificio dei Campi d'Annibale (a partire da circa 300.000 anni fa) con violentissime eruzioni freatomagmatiche (interazione tra acqua di falda e magma in risalita).


Apparato Vulcanico: 

il più antico Edificio dei Campi d'Annibale:
- Rocca di Papa 
- Monte Cavo 949 m 
- Colle Iano 
- Monte delle Faete
La caldera di Ariccia, 
L'Apparato di Nemi 
L''Apparato di Albano.
- Castel Gandolfo
- Albano. 

Disseminati tutt'intorno all'apparato vulcanico vi sono numerosi altri centri d'emissione collegati alle fasi eruttive più antiche: 
- Fase dell'Edificio Tuscolano Artemisio in attività da 500.000 a 350.000 anni fa. Su questi piccoli coni vulcanici dal lato nord che si affaccia verso Roma sono sorti numerosi centri abitati come: 
- Frascati, 
- Monte Porzio Catone, 
- Colonna.

Ci sono gli studi sul Vulcano Laziale e sulle possibilità che la crisi idrica del lago di Albano (soggetto a un prelievo forsennato) possa scoprire sacche di anidride carbonica e monossido di carbonio, giacimento di gas in pressione ad alta temperatura (400°C) che venendo in contatto con il lago potrebbe portare a violente esplosioni con risalite di gas letali.

Si parla di un'esplosione avvenuta in età romana con conseguente effetto lahr: colata di fango che fuoriuscì dalla caldera e si riversò nella piana di Ciampino. Non è un caso che ai tempi dei romani era noto che non fosse cosa buono risiedere all'interno del cratere del lago di Albano.



LAVA LEUCITICA - LAPIS SPECULARIS

Diverse colate di lava leucititica tipiche del distretto laziale come la colata di Capo di Bove (lava leucititico-augitica) che da Santa maria delle Mole si è diffusa verso valle con una lunga lingua che arriva fin alle porte di Roma:
- Tor Marancia 
- San Sebastiano 
e sulla quale i romani costruirono la via Appia utilizzando blocchi di essa: "basolato romano". 
Dalla stessa lava in tempi successivi sono stati ricavati i sampietrini: blocchetti di lava di colore grigio molto scuro che sono ancora oggi utilizzati per pavimentare le strade del centro storico di Roma.

Ma c'è un altro tipo di Leucite che è stato ampiamente usato come vetro e specchio, e Plinio ne indica le principali cave di lapis nel bacino del Mediterraneo: Turchia, Tunisia, Cipro, Italia (vicino a Bologna e in Sicilia), Spagna (Spagna Citerior, nell’area che circonda la città di Segóbriga).

Diafano come il ghiaccio, trasparente come l’aria più pura, "lapis duritia marmoris, candidus atque translucens," per usare le parole di Plinio nella Naturalis Historia, il lapis specularis è un derivato del gesso, ha la caratteristica di sfogliarsi in strati abbastanza sottili da far passare la luce, con aspetto simile al vetro.

I Romani ne facevano ampio uso per le terme, le domus e per gli edifici pubblici in genere. A Ercolano e a Pompei è ancora possibile vedere delle finestre chiuse da lastre di leucocite. 



TUFO DI ALBANO

Successivamente all’attività centrale del vulcano dei Colli Albani, si è esplicata una attività cosidetta “eccentrica” cioè alimentata dallo stesso magma ma non collegata direttamente e/o indirettamente con il condotto vulcanico centrale. Questa attività eccentrica a portato alla formazione di un tufo granulare, a grana da fine a grossolana di colore generalmente grigio. 

Il Tufo di Albano si presenta ben coerente lapideo ed è conosciuto come il tufo grigio da costruzione, comunemente chiamato “peperino”. Il peperino di Albano, (lapis albanus dei romani) presenta una varietà ricca di minerali frammenti di rocce sedimentarie immersi nelle ceneri della pasta di fondo. 

Esso è geneticamente connesso all’esplosione che ha dato origine all’attuale conca del lago di Albano. Le sue caratteristiche meccaniche sono relativamente elevate, fin dal tempo dei romani era apprezzata la proprietà di questi peperini che si scalpellano con facilità all’atto della estrazione mentre induriscono quando perdono l’acqua di cava.

Il peperino di Albano è particolarmente resistente se protetto dagli agenti esterni, impiegati all’esterno risultano gelivi e facilmente corrosi dalla salsedine. Il Tufo di Albano è stato impiegato in epoca romana come pietra decorativa.



ALTRE MODIFICHE DEL SUOLO ROMANO

1) INONDAZIONI
- Almeno 15 inondazioni nell'Evo a.c.
- Nell'Evo d.c., fino al 411 d.c., 31 inondazioni.
- Dal 411 al 1476 si ebbero 18 inondazioni.
- Dal 1467 al XIX secolo, si ebbero 17 inondazioni.

2) INCENDI
Nell’antichità gli incendi erano frequenti per l'alto uso del legno. Le macerie non venivano alienate, ma vi si costruiva sopra innalzando così il livello del terreno per proteggersi di più dalle acque ma anche perché costava meno.

3) RIFIUTI E MACERIE
Costava meno anche edificare sui rifiuti dovuti ad altre cause, crollo dei palazzi, anfore rotte, marmi spezzati, edifici ricostruiti ex novo. Il suolo di Roma antica giace dai 6 ai 12 m (ma pure 15) sotto il livello del manto stradale. Ne fanno fede:- Il Monte dei Cocci a Testaccio,
- Il Monte Citorio, edificato su un sepolcro degli Antonini,
- Il Monte dei Cenci sui resti del teatro di Balbo,
- Il Monte Savello sopra il teatro di Marcello,
- Monte della Farina sulle rovine del teatro di Pompeo.

4) TERREMOTI
La sismicità di Roma anche scarsa nell'attività e modesta come intensità, risente a volte gli effetti dei movimenti sismici vicini, soprattutto quelli dell’Appennino centrale. L'attuale conformazione della catena appenninica è il risultato di un lungo e complesso processo geologico legato alla collisione fra la placca Africana e quella Euroasiatica. 
La zona è come se fosse stretta in una morsa, con una compressione prevalente nel Sud. L'area del Lazio, in particolare Roma, è chiusa fra queste due zone con una parte pianeggiante nella quale sono cresciuti gli apparati vulcanici, e una parte montana formata dal rilievo appenninico con rocce di natura sedimentaria.
Al contrario la zona dei Colli Albani da origine a terremoti frequenti ma difficilmente importanti.
I danni maggiori ovviamente si ritrovano in quelle aree poste sopra le alluvioni oloceniche, mentre le zone dove affiorano i prodotti vulcanici ne risentono pochissimo.

5) CAVITA' SOTTERRANEE
Cave: I romani scavavano sotto Roma per procurarsi i materiali dell'edilizia, ma anche successivamente ai romani. A causa delle caratteristiche necessarie per le malte e per i cementi, i terreni interessati dalle gallerie di cava sono - per il 60% le Piroclastiti sabatine,
- per il 32% le Pozzolane rosse,
- per il 3% il Tufo litoide lionato,
- per il 3% l’unità di Valle Giulia (sabbie, travertini e ghiaie),
- per l’1% il Paleotevere 2 (ghiaie ed argille),
- per l’1% l’unità di Monte Mario (sabbie limose e sabbie). 

Le zone più a rischio sono:
- Cessati Spiriti
- Grottaperfetta
- via XX Settembre
- quartiere Tiburtino e Prenestino
- Tre Fontane
- Trionfale e Boccea
- Tuscolano
- zona di Vigna Pia

Un esempio per tutti il mausoleo de "il Monte del Grano".
In via Monte del Grano e nell’adiacente piazza dei Tribuni esiste una cava di pozzolana in sotterraneo. tutta la zona è interessata da gallerie e cavità, completamente obsolete nonostante la presenza della camera funeraria detta Monte del Grano. L’intero complesso era decorato da blocchi di travertino utilizzati nel 1387 per produrre calce (sig!), alcuni blocchi di travertino furono rinvenuti negli anni settanta durante la sistemazione della zona in giardino pubblico.

Cunicoli: Scavati dai romani per opere idrauliche, tipo acquedotti, condotte termali e fognature, posti in genere a meno di 5 m di profondità. A volte queste strutture venivano incontrate durante lo scavo di gallerie sepolcrali ed utilizzate per ricavarne loculi e per disperdere le acque infiltranti.

Catacombe: Catacombe (scavate ma volte parti delle vecchie cave), colombari ed ipogei in genere
Le catacombe sono limitrofe alle grandi vie di comunicazione:
- Flaminia Salaria (antica e nuova), Nomentana
- Tiburtina. Labicana (Casilina), Latina
- Ardeatina Appia (Antica e Pignatelli), Ostiense
- Portuense, Aurelia antica, Cornelia



L'UOMO PREISTORICO TECNOLOGICO

Ci è sempre stato dipinto come un essere inferiore che per un milione di anni sa solo scheggiare pietre, ma non è così. L'uomo preistorico è addirittura tecnologico: l'otturazione dentaria più antica risale a 13mila anni fa e a farla fu un dentista del futuro suolo italico. Il più antico dente 'riparato' con un composto a base di bitume è stato, infatti, rinvenuto nel sito Riparo Fredian, vicino Lucca, e risale all'era Glaciale. I denti, due incisivi centrali superiori di una persona anziana del Paleolitico Superioire, presentano entrambi un foro centrale.

I segni sono simili a quelli dei denti risalenti a 14.000 anni fa trovati in un altro sito in Italia. Tuttavia gli ultimi due incisivi ritrovati, "presentano un'innovativa procedura. I fori contengono tracce di bitume, incorporate con fibre vegetali e peli, pensiamo che sia la prova di preistoriche otturazioni dentali". 
Come nella moderna odontoiatria, il dentista del paleolitico avrebbe forato e riempito i buchi per ridurre il dolore e tenere il cibo fuori dalla camera pulpare. "Il bitume, inoltre, insieme con alcune piante medicinali, potrebbe essere stato utilizzato come antisettico".



IL PALEOLITICO A ROMA

All’Acheuleano superiore appartengono numerosi siti esplorati poco a Nord di Roma lungo la via Aurelia: Malagrotta, Torre in Pietra (livello m), Castel di Guido; gli ultimi due insediamenti, topograficamente e cronologicamente poco distanti tra loro (intorno a 300.000 anni fa), sono presenti nell'esposizione.

Ai manufatti litici – le caratteristiche amigdale, choppers (strumenti su ciottolo) e strumenti su scheggia in calcare e selce – si affiancano, a Castel di Guido, bifacciali e altri strumenti in osso, che testimoniano l’utilizzazione di questo materiale, documentata anche in altri siti laziali. Da Castel di Guido provengono anche resti scheletrici degli uomini che frequentarono il sito. Questi sono riferibili a Homo erectus con alcuni caratteri evoluti in senso neandertaliano.

Il popolamento del Lazio è ben documentato anche da altri ritrovamenti di fossili nei quali è possibile seguire l’evoluzione del genere Homo. Ai Neandertaliani “arcaici” sono riconducibili i due celebri crani rinvenuti a Roma nella cava di Saccopastore (ca. 100.000 anni); le loro particolarità morfologiche li differenziano dai Neandertaliani “classici” di età würmiana ben rappresentati dal cranio, eccezionalmente conservato, rinvenuto sulla paleosuperficie della Grotta Guattari sigillata da un crollo intorno a 50.000 anni fa, una delle più note grotte del promontorio del Circeo.

All’uomo di Neandertal è associato il Musteriano, un complesso di industrie su scheggia del Paleolitico medio. Nella produzione litica si sviluppa la tecnica Levallois, che permetteva di predeterminare la forma delle schegge, e la realizzazione di strumenti tipologicamente meglio definiti tra i quali particolarmente frequenti sono i raschiatoi. Una facies del Musteriano, diffusa nel Lazio costiero e ben documentata nelle grotte del Monte Circeo, è il Pontiniano caratterizzato dall'utilizzazione, come materia prima, di ciottoli silicei di piccole dimensioni.

Le industrie litiche evidenziano l’abilità tecnica raggiunta nella produzione di lame per un migliore sfruttamento della materia prima e nella lavorazione di numerosi tipi di strumenti destinati a diverse attività (bulini, grattatoi, strumenti a dorso) mentre l’osso viene utilizzato per realizzare punteruoli, zagaglie, arponi ed aghi di accurata fattura. Il culto dei morti è testimoniato da sepolture con corredi costituiti da strumenti e, a volte, da oggetti di ornamento personale, che denotano l’esistenza di un mondo concettuale e simbolico e di un gusto estetico ben documentato anche dalla comparsa e dallo sviluppo delle manifestazioni artistiche.

MUSEO DEL PLEISTOCENE - CASAL DEI PAZZI (Roma)  (FIG. 17)

ELEFANTE A REBIBBIA

Aperto a Roma il nuovo Museo di Casal de’ Pazzi creato con i ritrovamenti risalenti all’era del Pleistocene. Un museo totalmente inedito per Roma, un nuovo allestimento che contiene e ordina i resti di 200mila anni fa, scoperti sul posto nel 1981, come zanna d’elefante rinvenuta durante i lavori di urbanizzazione della zona di Rebibbia.

Un’importante scoperta che diede il via ad un’indagine archeologica su un’area di oltre 1.200 mq e portò alla luce il tratto di un antico alveo fluviale. Nel giacimento vennero scoperti più di 2000 fossili animali , appartenenti a specie impensabili oggi nella campagna romana (l’elefante antico, l’uro, l’ippopotamo, il rinoceronte), ma anche un frammento di cranio e oltre 1.500 manufatti in selce che testimoniano la contemporanea presenza di uomini.

E’ il Lazio preistorico, quando tra le deserte estensioni della campagna romana si aggiravano rinoceronti, uri, mammut; e i primi uomini sopravvivevano cacciando e lavorando la selce sulle sponde del fiume.

(FIG. 18)




L'OLOCENE

L'Olocene è l'epoca geologica più recente, quella in cui ci troviamo e che ha avuto il suo inizio convenzionalmente circa 11 700 anni fa.
È l'epoca del definitivo sviluppo dell'Homo sapiens, l'unico sopravvissuto del genere Homo, e destinato a diventare in breve tempo con la sottospecie Homo sapiens sapiens l'essere dominante del pianeta.

I cambiamenti climatici provocarono una serie di rapidi progressi nell'evoluzione umana che fecero passare i nostri antenati da un'economia di caccia e raccolta a quella stanziale di coltivazione e allevamento. I piccoli gruppi nomadi cominciarono ad utilizzare dapprima i ripari naturali come grotte o caverne, poi a costruirsi un riparo artificiale di rami e foglie, di pelli, poi di legno, fango e pietre fino ad arrivare alle successive case.



L'OLOCENE A ROMA

L'Olocene è un' Era Glaciale, Il riscaldamento dell'Olocene è pertanto un periodo interglaciale e non c'è ragione di credere che esso rappresenti la fine permanente dell'attuale era glaciale.
Da uno studio effettuato dall'Università di Brema risulta che nel periodo che va dal 60 a.c. al 200 d.c., la temperatura dell’aria e quella della superficie marina dell’Italia centro-meridionale non erano molto diverse da quelle attuali. Anzi, tra il 60 a.c. ed il 90 d.c. esse erano più alte di quelle di oggi. Dopo il 90 d.c. le temperature cominciarono a scendere raggiungendo, intorno al 200 d.c., valori simili a quelli piuttosto fredde del 1800.


CRIPTA NEAPOLITANA

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INGRESSO AL TUNNEL
"Mantua me genuit, Calabri rapuere, tenet nunc Parthenope; cecini pascua, rura, duces."
"Mantova mi generò, la Calabria mi rapì, e ora mi tiene Napoli; cantai i pascoli, i campi, i condottieri" 
(Virgilio)

A Napoli ci sono due parchi intitolati a Virglio Marone: il Parco Vergiliano a Piedigrotta, anche conosciuto come “Parco della Tomba di Virgilio”, e il Parco Virgiliano di Posillipo
Tra i due si apre la Crypta Neapolitana (o Grotta di Posillipo o Grotta di Virgilio): una galleria lunga circa 711 m scavata nel tufo della collina di Posillipo, tra Mergellina (salita della Grotta) e Fuorigrotta (via della Grotta Vecchia), a Napoli.


Parco di Piedigrotta

Il Parco Vergiliano a Piedigrotta, si trova ai piedi del costone di Posillipo e accoglie le spoglie di Virgilio, purtroppo disperse in epoca medievale, all’interno di un colombario romano. Quest'ultimo è situato nel punto più alto del parco vicino all’apertura della Crypta Neapolitana, una grotta lunga poco più di 700 metri scavata all’interno della collina di Posillipo e che aveva la funzione di collegare velocemente Neapolis a Pozzuoli. 

A Virgilio erano attribuiti grandi poteri magici e secondo una leggenda la galleria fu aperta dal poeta latino in una sola notte, ma in realtà oggi sappiamo che fu costruita in età romana dall’architetto Cocceio. 

SBOCCO DEL TUNNEL
È anche interessante aggiungere che sempre secondo le leggende Virgilio fece vari incantesimi a protezione di Napoli, al punto che in età medievale il poeta era considerato il patrono della città dai suoi abitanti.

La tradizione vuole che la galleria sia stata realizzata da Virgilio in una sola notte, con il ricorso alla sua potente arte magica. 

Contrariamente a ciò che si pensa, il Cristianesimo per quanto proclamata religione di stato, e per quanto la religione pagana fosse stata bandita pena la confisca dei beni e la morte, in gran segreto proseguiva vivissima, nelle campagne più liberamente, più in segreto nelle città.

In pratica il paganesimo sopravvisse fin circa il 1500, quando la Chiesa, per condannare il paganesimo residuo ideò la stregoneria e l'eresia e cominciò i processi della Santa Inquisizione, finendo col mettere a morte, torturare e ardere vivi un gran numero di persone. si che il panico e la follia dilagarono nell'evo buio.

La mente collettiva vacillò e gli stessi popolani furono presi dall'horror del diavolo e dei malefici, cominciando a denunciare spontaneamente tutti quelli che avevano un comportamento un po' strano, specie i malati di mente, o quelli che per qualche motivo avevano in odio per rancore o per invidia, o gli amanti respinti, o le donne che facevano intrugli di erboristeria, la spagiria, con cui curavano i familiari, anzichè ricorrere ai salassi e alla preghiera.

Fino ad allora la gente si era aggrappata, per far rivivere l'antica religione, alla devozione per tutti i monumenti e personaggi che era lecito visitare, visto che tutti i templi pagani erano stati distrutti, vale a dire le tombe di imperatori, di scrittori eminenti o personaggi famosi che fino ad allora la chiesa aveva tollerato. Nacquero infatti dei veri culti con pellegrinaggi alle ceneri di Giulio Cesare, alla tomba di Nerone, al mausoleo di Ottaviano, alla Colonna Traiana, alla Colonna Antonina, alla statua di Ottaviano e pure alla tomba di Publio Virgilio Marone.

"Ibant obscuri sola sub nocte per umbram...
quale per incertam Lunam sub luce maligna est iter in silvis
»
"Andavano oscuri nell’ombra della notte solitaria .... com'è il cammino per boschi sotto una luce maligna per l’incerta luna".(Virgilio)

La chiesa reagì come potè: fece aprire la famosa palla delle ceneri di Cesare dichiarandola vuota, fece spostare la tomba di Nerone fuori Roma,  piazzò statue cristiane sopra le due colonne, trasformò in chiese o in cappelle i templi rimasti, i residui delle terme, delle aree archeologiche e pure delle mura romane. Per Ottaviano dichiarò che era mezzo cristiano perchè aveva avuto la visione della Madonna.

PALAZZO IMPERIALE DI POSILLIPO
Parco di Posillipo

Dopo la battaglia di Azio (31 a.c.), l'equite e liberto Publio Vedio Pollione decise di trascorrere gli ultimi suoi giorni in quello splendido scorcio situato tra la Gaiola e la baia di Trentaremi, cioè il Pausilypon, Posillipo, “il sollievo dal dolore”. Accanto alla villa, fece costruire anche un teatro di 2000 posti, un odeon per piccoli spettacoli, un ninfeo e un complesso termale.

Le strutture dell'imponente Villa si estendono fin sotto la superficie del mare e sono dal 2002 tutelate dall'istituzione della limitrofa Area marina protetta Parco Sommerso di Gaiola che interessa tutto lo specchio acqueo ai piedi del promontorio di Trentaremi ed intorno alle Isole della Gaiola.

PARCO VIRGILIANO PIEDIGROTTA

IL TUNNEL

In realtà, come ci narra Strabone, il tunnell fu realizzato, intorno al 37 a.c., dal grande architetto romano Lucio Cocceio Aucto (L. Cocceio Aucto, liberto di Lucio Cocceio e di Caio Postumio Pollione, pure lui architetto), per volere di Marco Vipsanio Agrippa, il genero di Augusto, che ne volle la realizzazione per motivi militari, come il Portus Iulius e altre gallerie simili (Grotta di Cocceio e Crypta Romana).

Secondo un'altra leggenda invece, Cocceio avrebbe utilizzato centomila uomini per scavare la galleria in soli quindici giorni. Secondo Strabone, Cocceio avrebbe continuato la tradizione dei Cimmeri che, sulle rive del lago d’Averno, avrebbero abitato in case sotterranee dette argillae

Al celebre architetto Cocceio, si devono attribuire la non meno famosa, ma più angusta ed ormai rovinata Crypta Neapolitana che congiunge Neapolis con Puteoli, e pure il prolungamento della galleria d’Averno sotto il Monte di Cuma.

I Romani, per esigenze militari, viarie ed idrauliche, tanto più che la roccia era di tufo vulcanico di facile lavorazione, scavarono enormi gallerie, gigantesche cisterne, emissari e ipogei in zona, e di tutte le opere militari fatte eseguire da Agrippa durante il periodo delle guerre civili. la più famosa e imponente fu la Crypta sotterranea che, a traverso il Monte Grillo, metteva in comunicazione il Lago d’Averno con Cuma. 
  Certamente era importante collegare Cuma, fortificazione e punto di vedetta sul litorale domizio-flegreo, con il Portus Iulius, strategica infrastruttura militare sui bacini del lago d'Averno e del lago Lucrino, che canali artificiali progettati dallo stesso Cocceio collegavano tra loro e al golfo di Pozzuoli.

INGRESSO DELLA DISCESA DI COROGLIO
La Grotta di Cocceio, o Grotta della Pace, è l’opera più grandiosa di ingegneria militare e civile che i Romani abbiano compiuto come viabilità sotterranea. Perfettamente rettilinea e lunga circa un Km, larga da permettere il transito per opposte direzioni di due carri, con piano leggermente risalente verso occidente, veniva a sboccare da un lato su quella che fu posteriormente la Via Domiziana sull’estremo limite orientale dell’area della città, dall’altro sulle rive del Lago d’Averno. 

Nonostante la notevole lunghezza, era rischiarata di luce naturale in ogni suo punto, grazie a sei spiragli o pozzi di luce, aperti a luce verticale od obliqua, che illuminavano i tratti intermedi. 

Iniziandosi il cammino dall’ingresso occidentale verso Cuma, s’incontrano prima due spiragli obliqui per opposti direzioni che proiettano, a ventaglio, un lungo fascio di luce sulle pareti e sulla volta della galleria, con un fantastico effetto di luci e di ombre; poi un terzo spiraglio, aperto di lato sul fianco del monte (dove un altro braccio di galleria, ancora interrato, sembra risalire verso il sommo della collina); ed in seguito tre pozzi verticali, a taglio quadrato, svasati a campana in basso, rivestiti in alto di reticolato, che perforano tutta l’altezza della collina, venendo il maggiore di essi a raggiungere l’altezza di 30 e più metri. 

Ora l’ultimo tratto del percorso verso il Lago d’Averno appare ora buio, nonostante il taglio obliquo della volta della galleria che doveva diffondere la luce, a causa del bradisismo, e cioè dell’abbassamento del livello della grotta rispetto alle acque del lago e all’interramento prodotto dal deflusso delle acque alluvionali lungo il ripido pendio della collina, non più protetto dalla selva come all'epoca.

Solo un breve tratto della Crypta dal lato di Cuma, presenta una volta a tutto sesto in opus cementicia a scheggioni di tufo e cortina a reticolato, e da questo lato, sul fregio dell’arco, un’iscrizione commemorativa ricordava l’opera e il suo architetto. Tutto il resto della galleria è scavato nel banco tufaceo, con un'arte così precisa che rivela una tradizione secolare di tecniche e di maestranze.

Notevolissimi poi gli artifici impiegati per consentire l'illuminazione e l'aerazione dell'interno. Nella volta si aprono sei pozzi di luce: gli ultimi due verso Cuma erano tagliati obliquamente, un terzo lateralmente e gli altri verticalmente, il più alto dei quali giunge fino alla sommità del monte. Tagliati a quadrato ma svasati a campana verso la volta, i pozzi sono rivestiti in alto in opera reticolata. Giungendo dall'Averno, prima degli ultimi pozzi di luce si incontra a sinistra una diramazione della Crypta, mai scavata, che probabilmente risale sino alla vetta del monte.

A completamento del capolavoro c'è lo scavo di un acquedotto sotterraneo, che corre lungo il lato settentrionale della Crypta e che costituisce una galleria dentro un'altra galleria; munita anch’essa di nicchie e di pozzi di areazione di discesa, doveva servire a convogliare le acque potabili per i bisogni della flotta e del cantiere dell’antico Portus Julius.

Lo scopo militare di questa via sotterranea è evidente, se si considera che, essendo stato trasformato da Agrippa l’Averno in porto militare e in cantiere navale, la galleria agevolava le comunicazioni con Cuma, punto di vedetta e fortificazione di sommo valore strategico lungo tutto il litorale da Sinuessa a Miseno.

A differenza delle altre gallerie flegree, che al termine della battaglia di Azio persero di importanza strategica e caddero progressivamente in disuso, la Crypta Neapolitana continuò ad essere utilizzata come infrastruttura civile. Tuttavia, come risulta da una testimonianza di Seneca, era angusta, buia, polverosa e opprimente.




GLI SCAVI

La "Grotta di Cocceio" fu scavata negli ultimi tempi del regime borbonico come opera di bonifica della regione cumana ed è ancora percorribile, per quanto erosa e dallo scorrimento delle acque e dell’antico e nuovo traffico dei carri. Ma per sentirne tutta la profonda suggestione, gioverà rileggere le impressioni provate da un dotto napoletano, lo studioso Scherillo; che verso il 1844, quando era ancora interrata, la esplorò:

"Poche cose valgono ad eccitare quei sentimenti che io provai per la prima volta sotto le paurose volte di quell’antro. Imperocchè la sua lunghezza, l’altezza, quelle pareti levigate come il marmo, le grandi feritoie, cento nicchie sulla faccia a sinistra, come bocche di pozzi, uno stuolo incredibile di grandi pipistrelli che battevan l’ali strepitando dinanzi alla mia fiaccola, le tenebre dense e profonde, in mezzo a cui quella luce sembrava passare senza rischiararle….. le ombre fantastiche che proiettavano i sassi rotolati dalle feritoie e quelle nicchie; tutte queste cose insieme e la novità del luogo e del caso ti facevano trasognare, come se avessi lasciata la terra dei viventi…..".


OGGI

Oggi chiusa dopo i seri danni subiti nella seconda guerra mondiale per l’esplosione delle munizioni depositatevi, la crypta, già conosciuta, come "Grotta di Cocceio", attualmente non è visitabile, in quanto rischiosa la percorribilità.

La carrozzabile lungo la sponda occidentale del lago termina in un piazzale ove si apre l’ingresso (ora ostruito), della grotta di Cocceio, che aveva dalla parte del lago un vestibolo ornato di colonne e, data la sua disposizione in leggera salita, ben sei pozzi di luce, di cui i primi quattro verticali e gli altri due strombati, per superare la pendenza del monte di Cuma. La galleria sboccava in prossimità dell’Arco Felice, che peraltro fu aperto più tardi, nell’età di Domiziano


I DINTORNI

Uscendo su Cuma, dalla fine del I sec. d.c. ci si immetteva direttamente sulla Via Domitiana, ampi tratti della quale sono ancora visibili presso l'Arco Felice.

BUSTO DI VIRGILIO A PIEDIGROTTA
Tornati al viale d'accesso all'Averno, seguiamo la strada del lungo lago Lucrino fino all'incrocio con via Scalandrone. Qui sulla destra, sulle pendici del Monte della Ginestra, vi sono i resti di una villa romana, ormai sommersi da una fitta vegetazione. L'ambiente più grande, affrescato, è coperto da una volta a botte e presenta, nella parete di fondo, una grande nicchia centrale sormontata da tre nicchiette quadrate.

Tutta l'area che circonda il Lucrino è piena di resti romani di età tardo-repubblicana e imperiale ormai inaccessibili perché inglobate in proprietà private. Nel primo tratto di via Scalandrone ci sono sulla sinistra tre ambienti, tagliati dalla strada (sig!) ed in parte occultati dalla vegetazione.

Sul lato opposto, in proprietà Maddauno, sono conservati, poco al di sotto del piano stradale, due grandi vani affiancati, coperti da una volta a botte e una grande sala ottagonale del diametro di m. 12,, forse delle terme e oggi parte di una masseria.

Coperta da una cupola a ombrello in conglomerato cementizio, essa presenta, lungo il perimetro interno, otto lunette separate tra loro dai pennacchi della cupola.

La zona del Lucrino era collegata a quella della Sella di Baia da una galleria, probabilmente utilizzata come transito pedonale, il cui ingresso moderno si può intravedere lungo via Scalandrone, risalente all'età augustea, come dimostra un'iscrizione nella parete N databile al 30 dicembre del 10 d.c.


Le leggende

Dalla parte di Cuma vi è una grotta, che si dice di Pietro di Pace, che vogliono terminasse all’Averno, cavata per facilitare la Strada da Cuma ad Averno, in gran parte otturata dalla terra. Vicino al Lago suddetto vi è il Monte di Cristo.

Alla grotta di Cocceio è associata una leggenda popolare, riportata da storiografi cinquecenteschi che vorrebbe spiegarne l'origine e il nome, tutt'oggi in uso. Si vuole dunque che la crypta sia opera di un cavaliere spagnolo, Pietro di Pace, il quale fu convinto che all'interno del Monte Grillo era stato celato un tesoro; assistito da maghi e negromanti, egli avrebbe speso tutta la sua fortuna per consentire a scavatori di perforare il monte, senza risultato. 

Certe leggende miravano a trasformare tutto ciò che restava dei monumenti romani o diaboliche o di età molto più recenti, al punto che, abolite le scuole e quindi nella più totale ignoranza, gli abitanti del suolo italico nel medioevo ignoravano perfino che fosse esistito un impero romano.
Solo il Rinascimento riportò in parte in vita i resti dell'antico splendore mai superato fino ad oggi.

CULTO DEGLI EROTI (AMORINI)

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Il termine angelo deriva dal latino angelus, che risale al greco anghelos, e ancor prima al miceneo del XIV/XII sec. a.c. akero, del XIV/XII sec. a.c. con il significato di inviato, messaggero. Il presupposto è che il messaggero abbia le ali per correre spedito, così il Dio Hermes è messaggero degli Dei e ha due ali ai piedi o sul cappello.

Ma il culto degli angeli si manifesta in Egitto e in Asia Minore tra il II e III sec. d.c. come accompagnatore dell'anima da cielo a terra, durante la vita come guida e protezione, e nel dopomorte, quando gli angeli recidono i vincoli dell'anima dal corpo. Del resto anche Hermes è psicopompo, perchè accompagna le anime nell'Ade.

In area mesopotamica gli angeli, detti sukkal (o sukol). nel mito babilonese sono i messaggeri del Dio: il sukkal di Marduk è Nabu, quello di Anu è Papsukkal e quello di Inanna è Mummu, ogni divinità ha i suoi.

Il culto babilonese prevede gli angeli-custodi degli uomini raffigurati all'ingresso delle case a protezione degli abitanti, accompagnandoli pure quando escono.

Il karibu da cui il nome "cherubino", ha le mani protese al cielo per intercedere presso gli Dei. E' antropomorfo o zoomorfo, ma sempre munito di ali, adottato poi nelle iconografie delle religioni abramitiche: cristianesimo ebraismo e islamismo.

Ma pure lo Zoroastrismo (o Mazdeismo), la religione fondata dal profeta iranico Zarathuštra tra il X e l'VIII sec. a.c. e che influenzerà sia l'Ebraismo che il Cristianesimo, presuppone un unico Dio, due spiriti superiori e una serie di spiriti secondari. 

Uno dei due spiriti superiori, lo Spirito del male, si ribellò al Dio unico trascinando con sé una moltitudine di esseri celesti mentre l'altro spirito, lo Spirito del bene, unitamente ad altri spiriti restarono fedeli al Dio, avviando uno scontro cosmico tra il Bene e il Male. 

Poi c'erano gli angeli denominati Fravašay (o Fravaši) come "angeli custodi" o "spiriti guardiani benefici" degli uomini vivi, delle loro famiglie e comunità e delle loro anime dopo la morte.

Anche nella letteratura ebraica il termine "angelo"è usato con il significato di "inviato", "messaggero"; infatti sulla nozione dell'"angelo" biblico si osservano influenze semitiche, cananee e zoroastriane.

In un testo del V sec. a.c.detto il Libro dei Vigilanti, inserito nel I Libro di Enoch e proibito nell'Halakhah ebraica, degli angeli prendono forma umana per accompagnarsi alle donne, cadendo quindi dal loro stato celestiale:

« Ed accadde, da che aumentarono i figli degli uomini, in quei tempi nacquero, ad essi, ragazze belle di aspetto. E gli angeli, figli del cielo, le videro, se ne innamorarono, e dissero fra loro: "Venite, scegliamoci delle donne fra gli uomini e generiamoci dei figli"» 
(Enoc, VI. Apocrifi dell'Antico Testamento - UTET, 2006)

« i figli di Dio videro le figlie dell'uomo che erano belle e si presero delle mogli (donne) fra tutte quelle che scelsero. » 
(Bereshit (Genesi) VI - Bibbia ebraica, Torino, 2010)

Dunque gli angeli in questo caso avevano un corpo e pure delle passioni. Sembra che insegnassero alle donne ad usare dei contraccettivi, a truccarsi, a studiare l'astronomia, la geografia, la medicina ed altro.

Il Cristianesimo dal suo canto ha ereditato la nozione degli angeli dalla cultura religiosa biblico-ebraica, ma con molti distinguo.
A Paolo di Tarso per esempio gli angeli non piacciono:
« Nessuno vi squalifichi compiacendosi in pratiche di umiltà e nel culto degli angeli, prendendo in considerazione le sue visioni, lasciandosi vanamente gonfiare dalla sua mente carnale»
(San Paolo. Lettere ai Colossesi II - Milano - Rizzoli, 2009)
Anzi nel 336, il Concilio di Laodicea proibirà l'adorazione degli angeli. che del resto verranno raffigurati con le ali solo a partire dal IV sec., onde evitare confusione con le divinità pagane come Nike.


Origene sostenne che gli angeli fossero precedenti agli uomini nella creazione, considerando le anime degli uomini come angeli decaduti.

Giustino, Ireneo, Lattanzio ed Ambrogio, seguendo il Libro di Enoch considerato canonico dalle chiese cristiane dei primi secoli, considerarono "angeli" i figli di Dio che peccarono con le figlie degli uomini. Pertanto Tertulliano ritenne che gli angeli disponessero di un corpo, visibile solo al loro creatore, capace di prendere la forma umana

A partire dal IV secolo la Chiesa cristiana rigettò la canonicità del Libro di Enoch e quindi negò la corporeità degli angeli, strano, visto che nel Medioevo fu ammesso il commercio sessuale col demonio commesso dalle streghe.

Secondo Agostino di Ippona, agli angeli fu concessa da Dio la libertà di scegliere fra il bene e il male, scelta definitiva e irreversibile. Così essi si divisero fra quanti servono Dio e quanti seguono il demonio.

Per gli angeli non è possibile il pentimento, possibile invece della natura imperfetta e limitata degli esseri umani. ambiare idea è patrimonio degli uomini e di tutte le creature che fanno esperienza. Gli angeli non fanno esperienza, gli viene concessa l'intelligenza una sola volta per la scelta poi la spina si stacca, non elaborano più.
LASE ETRUSCHE

L'ANGELO ITALICO

Ce ne sono diversi, a cominciare dagli angeli etruschi, le cosiddette Lase. 

"- L’anima etrusca era femmina, Lasa alata che scortava il defunto nell’oltretomba, in Grecia era la Nike alata, in Babilonia Lilith, alata anch’essa; in Persia a tre giorni dalla morte compariva al defunto la “Daena”, divina fanciulla alata che accompagnava il pio mazdeo alla dimora dei beati.

- Nella Chiesa cattolica diventa angelo, ma le tolgono il sesso. Non è bisessuale, non è gay, non è trans, sarà castrato? Ma i preti come hanno fatto a decidere che non ha sesso, gli hanno guardato nelle mutande? 

- No hanno fatto un Concilio.
- E durante il Concilio li hanno guardati nelle mutande?
- Non si sa."

La Lasa etrusca, secondo alcuni una Dea, era in effetti un angelo personale, un angelo custode. Quest'angelo fu per gli antichi Greci la Nike, la protettrice del popolo, divenuta poi premiatrice dei vittoriosi, ma prima era lei che assicurava la vittoria.


La Nike è una Dea titanide, della antica schiera di Dei che vennero soppiantati poi dagli Dei Olimpici governati da Zeus. Nella ceramica greca, molte delle figure alate, molto simili alle Lase etrusche, chiamate Nikai, costituiscono da un lato un elemento decorativo, dall'altro rappresentano come le Lase etrusche e le Ninfe italiche, il mondo invisibile e animato che ci circonda, insomma sono i cosiddetti Geni.

I geni più diffusi nel mondo italico furono gli eroti, o amorini, bambini alati e non, che convivono spesso con gli uomini ma quasi sempre invisibili ad essi.

Il mondo romano è pieno di genietti lavoratori e inventori, un po' come la favola del ciabattino cui gli gnomi cuciono le scarpe durante la notte. Insomma i genii possono aiutare l'uomo, ma sono anche ludici e hanno una vita autonoma. 

Ed ecco allora le pitture romane (in particolare le pompeiane perchè il resto è stato furiosamente distrutto) empirsi di geni profumieri, simili ad amorini, maschi e femmine, i maschi con ali di piume e le femmine con ali di farfalla.


Ci sono poi i geni che battono moneta, i geni coniatori che sono, come tutti i geni, ispiratori, inventori ed esecutori in un invisibile mondo che in qualche modo influenza quello dei mortali. Compaiono anche i geni orefici, che pesano, fondono, usano i vari strumenti di cesello e battitura, o quelli della vendemmia e del vino.

Ma ci sono amorini, ovvero genii prettamente ludici, che cavalcano un delfino, o si fanno trainare da un granchio, o da cigni, o da animali selvatici, che cavalcano o di cui hanno le redini. Questa visione della natura animata e ludica era una visione sacra che si è potentemente modificata col cristianesimo dove la natura è inanimata e al servizio dell'uomo come un balocco che l'essere umano può usare a suo piacimento in quanto autorizzato dalla divinità.



GLI AMORINI

Detti propriamente Eroti, da Eros, figlio di Afrodite, (o Cupido figlio di Venere), costituiscono il corteo della Dea e sono i geni più primitivi. Non sono nè buoni nè cattivi, sono bambini giocosi e come tali talvolta dispettosi, ma solo per il gusto del gioco.

Come mai fanno parte del corteo di Venere? Perchè Venere-Afrodite è la ex Grande Madre, colei che tutto crea ovvero partorisce, dagli uomini agli animali e alle piante, ma lo fa, si noti bene, senza l'ausilio del maschio. Lei crea per partenogenesi.

La partenogenesi (o nascita verginale) è un modo di riproduzione di alcune piante e animali in cui lo sviluppo dell'uovo avviene senza che questo sia stato fecondato. È la modalità che non richiede fecondazione.

La Grande Madre come forma originale, ovvero la Natura, non ha marito, lei è senza tempo e nessuno è come lei. Pertanto produce le creature senza bisogno di essere fecondata da maschi, nè uomo nè Dio.

Lei partorisce bambini divini, giocosi e indipendenti anche se a volte seguono la Dea nei suoi viaggi amorosi. Sono detti Eroti, da Eros, Amore, perchè amano la natura, la vita e tutte le sue manifestazioni "erotiche". Infatti quando Afrodite si accoppia loro svolazzano felici intorno a lei e ai suoi numerosi amanti.

Amano la natura e gli istinti, volano nudi e liberi e non hanno restrizioni. Somigliano ad Eros, il figlio di Afrodite, ma al contrario di lui non crescono, restano degli eterni bambini.

Eros al contrario di loro cresce ma resta per sempre adolescente, armato delle divine frecce con cui colpisce il cuore dei mortali nella malia d'amore.


Gli Eroti invece non fanno innamorare ma sono parte essi stessi dell'amore, in un eterno gioco di svolazzi e scherzi, che investono tanto i mortali quanto gli dei o i Semidei.

A volte compiono pure atti cruenti, per esempio nell'iconografia di Mitra dove si accingono a sgozzare il toro, ma senza malizia o serietà. In questo caso sono i chierichetti di Mitra e fanno il suo lavoro.

A volte lavorano ma il divertimento è molto evidente, è una libera scelta. oppure giocano, a rincorrersi, a nascondarella, a cogliere fiori e fare ghirlande con cui ornano se stessi e le fanciulle.

In ogni caso hanno affinità con le fanciulle, seguono Afrodite, come qualsiasi Dea o Ninfa o donna innamorata. Sono attratti dagli innamoramenti e dalle nozze ma pure dagli animali e dalle piante.

Insomma sono affini a tutto ciò che esalta l'istinto creativo, che è poi l'istinto della natura e degli uomini. L'istinto creativo per eccellenza è il sesso esaltato senza falsi pudori.

Il culto degli eroti non è eseguito dallo stato romano ma è molto seguito nelle campagne, dove era importantissimo per la fecondazione, tanto degli uomini che degli animali.

In qualità di geni nel pagus avevano il loro angolino con l'immagine di un erote o di un gruppo di essi, considerati portatori di gioia e fertilità.


Ad essi si dedicavano, come a tutti i geni, offerte incruente, di vino, di focacce e di erbe odorose. Nelle feste si usava dedicare loro, ovvero alle loro immagini, nastri e ghirlande. Questo culto rimase intatto anche a cristianesimo inoltrato, si che la chiesa ritenne di doverlo inglobare non potendolo sconfiggere.

Così ordinò ai pittori dell'epoca di creare gli angioletti, non austeri o adulti come quelli ebraici, ma dei veri e propri eroti, con tanto di alucce. Era necessario che la gente andasse in chiesa a onorare gli amorini, e che rientrassero nella liturgia e nel mito cristiano. Ecco perchè San Paolo non li vede di buon occhio, perchè sa che le visioni che gli erti mandano agli uomini non riguardano il culto di Cristo con gli angeli, ma il vecchio culto pagano con gli eroti.

Non solo se ne copiarono i bassorilievi ma pure le splendide pitture. Ne fa testo questa meravigliosa tempera del Canova fatta con tanta perfezione e similitudine da poter essere scambiata per romana.

Tanto venne percepito e apprezzato lo spirito delle iconografie, perlopiù pompeiane, di questi amorini che moltissimi pittori del Rinascimento ne fecero largo uso nelle loro produzioni pittoriche.

Ma il bello è che tali amorini personificarono sia le figure sacre che quelle profane.

Infatti vennero ripresi sia con le ali che senza, anche se spesso dovettero coprire con un panno o un velo le nudità dei bimbi.

La ragione per cui gli amorini ebbero tanto successo dalle antiche epoche preromane e romane, fino al Rinascimento e diversi secoli oltre, risiede nel fatto che questa iconografia corrisponde a una precisa sensazione del nostro inconscio.

Dentro di noi sappiamo che esistono energie naturali, dentro di noi e fuori di noi che amano la vita e la natura, che vorrebbero giocare e sorridere alla vita, e che spesso questa gioia di vivere ci viene soffocata dall'educazione familiare e scolastica.

Abbiamo una parte ludica compressa da una mente che ci vuole efficienti, pratici e sacrificali. Questa stessa mente ci presenta un mondo cosifizzato in un funzionamento a livello molecolare e cellulare, insomma scientifico e descrittivo ma privo di anima. Questo mondo che agli antichi appariva pieno di invisibili presenze liete e pure burlone, oggi alla nostra mente appare assolutamente vuoto.

VENDITRICE DI AMORINI (Pompei)
ORIGINALE E RICOSTRUZIONE

AMORINI ED ANGELI

E' evidente che la Chiesa Cattolica attinse, nella costruzione della sua dottrina, molto più dalla religione ebraica che non dai Vangeli di Cristo. La presenza degli angeli era si prevista dall'ebraismo ma non era prevista la loro rappresentazione perchè per gli ebrei, come poi per i musulmani, erano proibite le rappresentazioni sacre.

Fece eccezione la costruzione del tempio di Gerusalemme con la cosiddetta Arca dell'Alleanza, un cofano con raffigurati due angeli alati, probabilmente di derivazione cananea ed egizia. Gli angeli erano adulti e con lunghe ali. La Chiesa Cristiana non poteva passare dalla infinita produzione di immagini della civiltà romana alle ridottissime raffigurazioni ebraiche, per cui dovette adattarsi a copiare le sue nuove rappresentazioni, sostituendo Dei, semidei e geni con Dio, Cristo, Madonne, angeli e santi.

Così fece redigere la Bibbia ebraica con le icone degli angeli limitate a facce di amorini dotate di varie serie di ali. Ma a Roma, per ornare i templi, dovette copiare gli amorini per intero, ali comprese, con il compito di rappresentare gli angeli cristiani. Fu così che gli eroti divennero angeli nel primo cristianesimo e anche putti nel Rinascimento.

TEMPIO DI MINERVA CAPTA

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MINERVA DI AREZZO

"Coelius ex alto qua mons descendit in aequum, Hic ubi non plana est, sed prope plana via est; Parva licet videas Captae delubra Minervae, Quae Dea natali coepit habere suo. Nominis in dubio causa est: capitale vocamus Ingenium sollers: ingeniosa Dea est."

«Là dove il monte Celio discende dall’alto nel piano, e la via, se non del tutto, v’è press’a poco piana, puoi vedere il piccolo tempio di Minerva Capta, che fu consacrato alla Dea nel suo giorno natale. L’origine di quel nome è incerta. Capitale definiamo un fervido ingegno: e la Dea è certo ingegnosa. Oppure perché si dice che, priva di madre, balzasse dal capo del padre, già imbracciando il suo scudo? O perché dopo aver domato i Falisci venne a noi prigioniera, come attesta un’antica iscrizione? O perché la legge del suo santuario impone che i furti compiuti in quel luogo si paghino con la pena capitale? O Pallade, da qualunque origine tu tragga quel nome, imbraccia sempre l’ègida in difesa dei nostri prìncipi!».

A questi studi miei se tanto io merto
Ove dall'alto il monte Celio al piano
Scende ivi dove il sentier si offre a noi
Piano non già ma poco men che piano
Di Capita Minerva osservar puoi
La prima ch ebbe in don sacra
Cappella Nel giorno stesso dei natali suoi
Del nome è dubbia la cagion si appella
Capitale un industre e ben felice Ingegno
Dea di grande ingegno è quella
Ovver perchè col suo brocchier si dice
Del patrio capo dalla cima uscita
Senza alcun uopo aver di genitrice
O sia perchè cattiva fu rapita
Ai domati Falisci ea noi recata
E appunto ciò la prisca lettra addita
O perchè questa vuol legge osservata
Che pena capital di quel si prenda
Che roba da quel loco abbia involata
Da qualunque cagion Palla discenda
Tua nominanza deh lo scudo ognora
Tieni che i nostri Cesari difenda
Delle cinque ne impon l ultima aurora
Far sacrifizio a questa Dea guerriera
E qualunque espiar tromba canora


( I Fasti libro III)


Un ‘Minervium’, o tempio di Minerva, "l'Ingeniosa Dea", è menzionato da Varrone, che lo colloca su una strada che conduce al Celio (Ling. 5.47), e un tempio o santuario di Minerva Capta è menzionato pure da Ovidio, che lo pone sulla cima della stessa collina (Fast. 3.835-38: Captae delubra Minervae). Si pensa che i due autori alludano allo stesso tempio.
A seguito di una scoperta della statua di Minerva e di una iscrizione che riporta una dedica a Minerva (CIL VI 524) sulle pendici settentrionali del colle Celio, il sopraddetto tempio viene generalmente collocato sulla Via "Tusculana” nell'area dei SS. Quattro Coronati (Colini, Coarelli).

La Dea Minerva non è, probabilmente, né latina, né etrusca. Infatti Ovidio ritiene che provenga da Faleri (Fasti, iii, 843 s.), a causa del tempio di Minerva Capta esistente sul Celio, nel quale dopo la presa di quella città (nel 211) sarebbe stato portato un antichissimo simulacro della Dea. Ed effettivamente a Faleri il culto è attestato da iscrizioni arcaiche.

RESTI DEL TEMPIO FALISCO

FALERII

Falerii, è il nome una città dell'Etruria, che faceva parte della Dodecapoli, che venne distrutta dai romani e poi riedificata in altro sito. La città distrutta è nota come Falerii Veteres, mentre quella ricostruita dai romani prese il nome di Falerii Novi. La città più antica città va oggi identificata con l’odierna Civita Castellana.

Il sito di Civita Castellana è posto su di uno sperone tufaceo che si leva sulle valli del Treia e di altri corsi d’acqua che vi confluiscono, più o meno due km a ovest dell'antico tracciato della via Flaminia, a circa 50 km a nord di Roma.  Falerii combattè due volte contro Roma e per due volte perse la battaglia. 
PARTE DEL RIVESTIMENTO DEL TEMPIO FALISCO

Il sito originale di Falerii è un plateau, di circa 1100 metri per 400, alto 140 m. s.l.m., ma separato da esso da gole profonde più di 60 m e collegato solo dal lato occidentale, che era fortemente fortificato con un terrapieno ed un fossato; il resto della città era difeso da pareti costruite con blocchi rettangolari di tufo, di cui ancora esistono dei resti. I resti di un tempio sono stati trovati allo Scasato, il punto più alto della città antica, nel 1888; altri ne sono stati trovati in altri scavi.

L'attribuzione di uno di questi a Giunone è incerta, potendo attribuirsi anche a Minerva. Queste costruzioni erano di legno, con fini decorazioni di terracotta colorata. La presenza di un tempio dedicato a Giunone, di epoca molto antica, è comunque attestata da fonti documentali di epoca romana.

Sulla collina del Celio furono eretti soprattutto santuari stranieri, ovvero templi dedicati agli Dei "evocati", cioè "chiamati", "convinti a trasferirsi" a Roma mediante riti particolari, dai loro luoghi d'origine, come quelli dedicati ad Ercole Vincitore e a Minerva Capta (Minerva Captiva = Prigioniera) evocata da Falerii nel 241 a.c., all'epoca della conquista della città, e situato nell'area dove oggi sorge la Chiesa dei Quattro Coronati.

Uno dei templi più antichi dedicato a Minerva a Roma fu infatti fu quello eretto sul Celio dove, si racconta, si stabili un gruppo armato di soldati etruschi comandati da Celio Vibenna, giunti sul posto per soccorrere Romolo in una delle tante guerre contro le popolazioni limitrofe. Questo tempio aveva il nome di Minerva capta (Minerva catturata) perché la statua proveniva dalla città di Faleria conquistata dai Romani.

Minerva Capta, giunse a Roma da Falerii nel 241 a.c. assieme a Iuno Curitis Ianus Quadrifrons. Ora nei Fasti Ovidio fa derivare capta da capere. La statua della Dea era stata portata a Roma dopo la conquista della sua città, pertanto era «prigioniera», e qualcuno ha ipotizzato che avesse rifiutato di farsi evocare, ma come può un Dio rifiutare l'evocazione?

MINERVA ROMANO CAMPANA
Il termine capta non ha lo stesso significato per gli studiosi:
- Ludwig Preller ritiene, con altri, che l’epiteto derivi dal fatto che la testa caput è la sede del pensiero, per cui Capta  fosse il vero nome e Minerva l’epiteto della divinità.
- Thomas Köves-Zulauf, ritiene che Capta significasse «l’accogliente».
- Georg Philipp Eduard Huschke deduce dal fatto che nel 241 a.c. Falerii si sia arresa e consegnata "in fidem", non "in potestatem", per cui non poteva aver avuto luogo alcuna cattura divina. La resa in battaglia a seguito di una fiducia sulla pietas del vincitore "in fidem", o di un trattato regolarmente stipulato tra vincitori e vinti non cambia a nostro avviso l'effetto sulla sottrazione della divinità.

I romani tenevano in considerazione tutte le divinità straniere, specie se la città che le ospitava fosse forte e ricca, segno della protezione divina, oppure che si trattasse di un santuario molto prestigioso e molto ricco, segno che avesse compiuto molti miracoli.

Non era infrequente perciò che qualche divinità straniera, ovvero la sua statua e il suo culto venissero importati a Roma, volenti o nolenti che fossero le città che la ospitava. Nolenti come Falerii per Minerva e Giunone, o volenti come Cerere di Pyrgi, ovvero la sua immagine aniconica.

Pertanto se decidevano di appropriarsi della divinità o lo mettevano nel contratto della resa o se ne appropriavano senza complimenti, dunque per la resa della città "in fidem" o per la resa "in potestatem" la cosa non cambiava.

Tenendo conto per giunta che sul Celio si ospitassero le divinità straniere sottratte in guerra, viene logico desumere che Minerva Capta fosse proprio l'antica statua Falisca sottratta nel santuario di Falerri Veteres.



I SERVIZI POSTALI ROMANI

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CURSORES

PERSIANI E ROMANI

La Via Reale di Persia era un'antica strada fatta costruire dal Re dei Re persiano Dario I nel V sec. a.c., per consentire rapide comunicazioni attraverso il vasto impero. Lo storico greco Erodoto scrisse: "Non c'è nulla al mondo che viaggi più veloce di questi corrieri persiani.. Né la neve né la pioggia, il caldo o il buio della notte impediscono loro di portare a termine il loro compito con la massima velocità".

Però fu Ciro II di Persia che organizzò un vero e proprio servizio di posta pubblica, come narra Senofonte, basato sull'ipotesi di percorrenza di un cavallo nell'arco di 24 ore ed in base a cui vennero costruite le scuderie di sosta. Lungo tutto il percorso viario si contavano 111 stazioni ed i messaggeri riuscivano a coprire tutta la distanza in 9 giorni.

RESTI DELLA STRADA REALE PERSIANA
Augusto ne rimase colpito e si occupò personalmente della riorganizzazione  del servizio di posta che divenne così: “Cursus publicus” ovvero “posta statale”.
I messaggeri erano chiamati “tabellari” e custodivano i messaggi scritti su tavolette d'osso o di metallo spalmate di cera. Ma presto, per rendere il trasporto più agevole, le tavolette vennero sostituite con rotoli di papiro scritte con un inchiostro vegetale detto “Atramentum”. 

Il percorso tra una città e l'altra era su carri ed organizzato in stazioni di cambio dei cavalli chiamate “Statio Posita” da cui derivò il nome “stazione di posta”. Per riconoscere gli originali proprietari, i carri erano provvisti di vere e proprie targhe composte da “bulla” ovvero borchie circolari di metallo. Secondo la ricostruzione ad opera della Tavola Peutingeriana (XII - XIII sec.) la rete postale e viaria romana era formata da 200.000 km di strade che consentivano un inoltro rapidissimo di tutte le informazioni. Per consegnare una missiva i “cursores” ossia i “corrieri” potevano percorrere 270 km in 24 ore.



LE STRADE

Plinio il Vecchio:
I Romani posero ogni cura in tre cose soprattutto, che furono dai Greci neglette, cioè nell'aprire le strade, nel costruire acquedotti e nel disporre nel sottosuolo le cloache"

L'immenso complesso di strade realizzate dai Romani rappresentano un'opera di straordinaria ingegneria che, con complessivi 200.000 Km di lastricato, hanno contribuito allo sviluppo della civiltà romana in tutto il mondo allora conosciuto.

A Roma si ebbero circa 100.000 km di strade lastricate e sicure ed altri 150.000 chilometri di strade in terra battuta, ma sufficientemente larghe e adatte per i carri. La larghezza di ogni strada era di circa 5 m, in modo che potessero affiancarsi due carri.

Gli antichi romani erano anche in grado di misurare le strade con una specie di contachilometri Si trattava dell'Odometro.

Descritto da Vitruvio e da Erone Alessandrino, era un piccolo strumento che si applicava a uno degli assi di un carro. Regolato in base alla circonferenza della ruota, che secondo Vitruvio doveva compiere 400 giri per percorrere un miglio, lo strumento era costituito da un congegno di ingranaggi dentati.. Ad ogni giro della ruota i denti azionavano un dispositivo che lasciava cadere un sassolino in un recipiente per ogni miglio percorso. Alla fine del viaggio, contando i sassolini, si poteva sapere quante miglia era lungo il tragitto, come un contachilometri.

Esistevano presso i Romani vari tipi di strade: di tronchi, scavate nel tufo come fecero gli etruschi, in acciottolato (galeratum), o in basolato romano, le più resistenti in assoluto. Con il nome di  Viae, venivano indicate le strade extraurbane che partivano da Roma, mentre le strade, Strata, (cioè fatte a strati) erano quelle all'interno di un centro abitato.



LE PIETRE MILIARI

La pietra miliare, o miliarum, era una colonna circolare su una base rettangolare, detta cippus, infissa nel terreno, alta 1,50 m, con 50 cm di diametro e del peso di oltre 2 tonnellate. 

PIETRA MILIARE
Alla base recava scritto il numero di miglio della strada e più in alto la distanza dal Foro di Roma nonchè gli ufficiali che avevano costruito o riparato la strada, o le caratteristiche (se era lastricata o solo in ghiaia e in terriccio).

Fu Augusto, divenuto Commissario permanente alle strade del 20 a.c., che pose il Miliarum Aureum (la pietra miliare aurea) nel Foro di Roma, una colonna di bronzo dorato e tutte le strade iniziavano idealmente da questo monumento.

Su di esso erano riportata la lista delle maggiori città dell'Impero, e le loro distanze da Roma. Tutte le distanze erano pertanto calcolate dalla colonna aurea al limite estremo di ogni strada.

Ovviamente quando un cursore postale si poneva in viaggio, per calcolare il tempo occorrente doveva tener conto della composizione della strada. Una strada in basolato andava bene per i carri ma rovinava gli zoccoli dei cavalli che vennero ferrati solo più tardi, anche se si annota il ritrovamento all'interno dei resti di una villa romana vicino a Neupotz, in Germania, datati all'anno 294. Comunque mentre per le missioni ufficiali si seguivano le vie principali con cambio sovente di cavalli, per i servizi segreti si preferivano vie alternative, spesso non lastricate.



GLI ITINERARI

Giulio Cesaree fu il primo, nel 44 a.c., a commissionarono la compilazione di un itinerario maestro, che comprendesse tutte le strade dell'impero. Vennero ingaggiati tre geografi greci, Zenodoxus, Teodoto e Policlito, per supervisionare il lavoro e compilare l'itinerario. Il lavoro richiese 25 anni, e produsse un itinerario scolpito nella pietra che venne collocato vicino al Pantheon, da cui i viaggiatori e i venditori di itinerari potevano liberamente copiare le parti che li interessavano.



LA DIFESA MILITARE

Costruire una strada era una responsabilità militare, quindi ricadeva sotto la giurisdizione di un console, viam munire, come se la strada fosse una sorta di difesa militare e lo era, perchè attraverso queste le legioni potevano spostarsi velocemente o i postali portare messaggi, o passavano i carri per i vettovagliamenti.

Spesso le strade erano il mezzo per conquistare un popolo. Lo sapeva bene Giulio Cesare, che si portava appresso soldati esperti ed esperti ingegneri. L'esercito si accampava e i costruttori facevano un tratto di strada. Quando era pronto vi transitavano i carri con le scorte di cibo e le armi d'assedio.

Così in caso di ritirata questa si eseguiva velocemente, o si poteva inviare un veloce messaggero. L'alternativa era trainare i carri faticosamente su territori impervi, col rischio di spezzare assi o ruote, o falciando erba e arbusti, e di procedere quindi con lentezza consumando tempo, cibo e dando al nemico il modo di prepararsi.



GLI OSTELLI
  • Una legione in marcia non aveva bisogno di un punto di sosta, perché portava con sé un intero convoglio di bagagli e costruiva il proprio campo ogni sera accanto a una strada. Ma dignitari e i viaggiatori comuni ne avevano bisogno, perciò il governo manteneva delle stazioni di sosta, le mansiones, per usi ufficiali e con documenti ufficiali. Le mansiones si trovavano a 15-18 miglia l'una dall'altra ed erano di lusso, trattandosi di alti gradi militari, o ambasciatori, o uomini politici. Spesso attorno alle mansiones sorsero campi militari permanenti o addirittura città.
  • I viaggiatori privati invece avevano lei cauponae, spesso vicine alle mansiones, ma più umili e mal frequentate.
  • Se però i viaggiatori erano patrizi c'erano le le tabernae, più lussuose delle caupones ma meno delle mansiones. Uno degli ostelli migliori era la Tabernae Caediciae a Sinuessa, sulla via Appia, con un grande magazzino fornito di otri di vino, formaggio e prosciutti.
  • Un sistema di "stazioni di servizio" funzionava per veicoli e animali: le mutationes, praticamente stazioni di cambio a intervalli di 12-18 miglia. Qui si trovavano carrettieri, maniscalchi e di equarii medici (veterinari x cavalli). 
  • Usando queste stazioni per una staffetta di carri, l'imperatore Tiberio riuscì a coprire 500 miglia in sole 24 ore, per accorrere al capezzale del fratello Drusus Germanicus morente.


I POSTALI

Al fondatore dell'impero romano, Ottaviano Augusto (63 a.c. - 14 d.c.) non sfuggì l'importanza strategica della "via Regia" persiana, ma soprattutto, grande fan di Cesare si basò sul modello da questi creato e sperimentato in Gallia, per lanciare il nuovo "cursus publico" romano. Dal termine Cursus proviene il nome Corso per le vie più importanti delle città a tutt'oggi.

Si trattava del primo sistema di posta pubblica lungo la rete stradale romana. Circa 200.000 km di rete che si irradiava dal "miliario aureo" del Foro Romano fino alla Scozia e all'Etiopia, dalle sponde dell'Atlantico fino all'Arabia e al Golfo Persico.



CURSUS PUBLICUS

Il cursus publicus era organizzato, a spese dello stato, in stazioni di sosta e di cambio di cavalli, riservato a chi viaggiava per ragioni di stato, soprattutto per le operazioni militari. I corrieri a cavallo, detti Cursores percorrevano circa 270 km in 24 ore. I messaggi venivano incisi su tavolette di legno, o di osso, o di metallo spalmate di cera. In seguito, grazie all'Egitto, su fogli di papiro scritti con inchiostri vegetali.

I rapporti continui tra il governo centrale e le periferie dell'impero si svolgevano attraverso un servizio statale che per via terrestre e anche via mare. Il Cursus si suddivideva in:
  1. Cursus Celer o Velox, per trasmettere le informazioni e la posta, che utilizzava vetture leggere redhae 
  2. Cursus Tardus o Clabularis, per il trasporto di persone e beni d'interesse pubblico che utilizzava carri pesanti destinati a trasportare le merci. 
Il servizio si svolgeva utilizzando una organizzazione estesa su tutto il territorio dell'impero imperniata su:
- Palatia
- Praetoria 
- Mansiones 
- Mutationes 
- Episcopia
per fornire un'assistenza capillare lungo i percorsi.

Augusto approfondì il geniale progetto di Cesare già nei primi anni del suo regno. Cesare aveva organizzato un sistema di soldati a cavallo, detti "Dispositi Equites", che, stanziati ad una certa distanza l'uno dall'altro, facevano pervenire in tempi rapidi. Forse un sistema di corriere già esisteva ma con Cesare prima e soprattutto con Augusto poi, i Cursores (corrieri a cavallo) divennero più numerosi.
Con Augusto si chiamarono Iuvenes, in contrasto con quelli di Cesare che a guerre finite erano spesso militari a cavallo in pensione. Gli Iuvenes avevano, più che il semplice recapito della corrispondenza, il compito di informare il principe di quanto accadeva nelle province. Le vie principali vennero attrezzate attraverso la creazione di stationes, luoghi di sosta e di ricambio di cavallo e di animali da tiro, il cui costo ricadeva però sulle popolazioni locali. 
Ovvero gli alti personaggi, generali, ambasciatori, legati, senatori ecc. dimoravano gratuitamente in stationes di lusso a spese dello stato che provvedeva anche alla costruzione delle stationes meno ricche, gestite però da privati.
Secondo l'editto di Sesto Sotidio ad utilizzare il servizio erano viaggiatori per ragioni di stato in possesso di un apposito permesso, detto "Diploma", una autorizzazione scritta munita del sigillo imperiale.



GLI 007
 
Sempre sull'esempio di Cesare, Augusto aveva organizzato tramite i postali, un servizio segreto di agenti particolarmente giovani, intelligenti, bravi a correre, a combattere, a rischiare e conoscitori delle lingue altrui: insomma degli antichi 007
A questi personaggi, elencati in ordine gerarchico nell'editto, le città ed i villaggi avevano l'obbligo di fornire fino ad un massimo di dieci carri ed altrettanti muli (raddoppiabili nel caso fossero stati invece forniti asini). 

Ma anche i servizi segreti usufruivano di alloggi e cavalli o carri gratuiti, naturalmente non presso le zone da sorvegliare per non destare sospetti. Spesso infatti questi 007 si travestivano da persone del luogo, in territorio nemico, usandone le vesti, i costumi e la lingua. Il tutto per carpire informazioni o per diffonderne di false ad un determinato scopo.

Gli utenti dovevano pagare la prestazione per una tratta definita (che nell'editto non superava comunque i 40 stadi) nella misura di dieci assi per ogni carro e quattro per ogni mulo (o nel caso per due asini). Nessuno poteva usufruire di veicoli gratuiti. 

Ai privati, specie se mercanti che trasportavano merci per uso privato non doveva essere fornito alcunché. I membri del comitatus, coloro che prestavano servizio nelle province, insieme ai liberti, ai servi dell'imperatore ed agli animali, potevano usufruire dell'alloggio gratuito nella mansio.



ETA' IMPERIALE

In età imperiale la concessione di questi permessi, detti Evectiones, venne ampliata ai militari ed a mogli e figli, provocando anche un allargarsi degli abusi e soprusi ai danni delle comunità locali che avevano gravosi obblighi nella conduzione del servizio, tanto che imperatori come Traiano, dovettero intervenire pesantemente. 

- All'inizio la direzione fu assunta da Augusto (63 a.c. - 14 d.c.) che delegò due prefetti del pretorio incaricando anche dei liberti di funzioni ispettive e di controllo.
- Con Nerva (30 - 98 d.c.) le spese per il funzionamento furono assunte dal fisco imperiale. 
- Anche il futuro imperatore Pertinace (126 - 193 d.c) quando era ancora comandante di una corte, fu costretto a continuare il suo viaggio a piedi essendo stato scoperto sprovvisto di permesso. 
- Con Adriano il cursus publicus divenne una situazione diffusa in tutto l'impero. Qui appare la figura del praefectus vehiculorum che vigila sull'andamento complessivo del servizio, le condizioni delle strade e quelle delle stationes. 
- Con Costantino (274 - 337), i clerici dell'ecclesia cattolica, parificati a funzionari statali, iniziarono, in un quadro di crescenti privilegi ed esenzioni, ad utilizzare il cursus publicus per i concili, i sinodi, le consacrazioni e tutte le manifestazioni ufficiali. Anche qui l'ottenimento di evectiones e tractoriae, il vitto durante il viaggio, degenerarono in abusi. 
- A caterve, nota Ammiano Marcellino (330 - 397 d.c.), i clerici viaggiano con la scusa dei concili a spese dello stato da una parte all'altra dell'impero. 

LE STAZIONI POSTALI

Le stazioni postali, mutationes e mansiones, erano essenziali per l'efficienza del servizio. Esse si articolavano in locali destinati all'alloggio, in stalle e in magazzini. Molto spesso erano presenti anche degli impianti termali. La loro gestione era affidata nel periodo tardo repubblicano e durante il principato ai titolari di imprese di trasporto vincitori di aste.. 
Risultati immagini per mansiones romaneNei primi tre secoli dell'impero a gestire le stationes erano appaltatori mentre dall'età costantiniana il compito è ricoperto da un manceps o praepositus mansionum, in genere un curiale (addetto alle curie), particolarmente ricco e per questo tenuto ad adempiere obblighi verso la città e lo stato. 
Tra i compiti del praepositus: il reperimento degli animali, la loro custodia e cura e la ricerca in caso di sottrazione, l'obbligo di fornirli ai viaggiatori autorizzati, l'ordine di non farne uscire giornalmente dalla mansio più di cinque, ovvero l'ottava parte della dotazione di ciascuna statio. 
A recapitare le missive custodite in borse di cuoio erano i tabellarii, cui si affiancavano cursores, speculatores, veredarii, corrieri che a cavallo recavano i dispacci più urgenti. Mansioni analoghe disimpegnavano in questo settore dell'amministrazione imperiale i frumentarii e, con Costantino, gli agentes, che trasmettevano gli autografi imperiali, e i principes agentium, che svolgevano attività ispettiva e di controllo. 


IL PERSONALE

- Mancipes o Curiales erano i responsabili delle stationes
- Unitamente ai Preposti Mansionis che si avvalevano di stationarii.
- La cura degli animali da trasporto era demandata agli Stratores ed ai Muliones.
- Ad accompagnare i viaggiatori da una statio all'altra ed a riportare indietro i veicoli erano poi gli Hippocomi (tra i soggetti più vessati).
- Accanto ad essi i Carpentari conducenti di carri.
- Erano detti Bastagarii gli addetti alla cura ed al trasporto dei bagagli,
- Per i compiti più gravosi c'erano i Catabolenses.
- Apposite scorte difendevano i viaggiatori dai latrones e grassatores che insidiavano le strade.

I privati utilizzavano invece propri corrieri, tabellari e cursores o ricorrevano ai flussi commerciali per inoltrare merci e corrispondenza.

COLONNA DELLA PACE

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E' la colonna di Santa Maria Maggiore a Roma, una colossale colonna corinzia scanalata di marmo proconnesio, alta 14 m e 30 cm, posta sulla piazza davanti alla facciata della basilica, che fu fatta innalzare nel 1614 dal pontefice Paolo V Borghese (1605-1621), nobile e con molte cariche tra cui quella prestigiosa di Segretario della Santa Inquisizione, in contrapposizione all’obelisco sistino che Domenico Fontana aveva posto all’altro capo di via Merulana.

Forse fu eretto anche in contrapposizione a Sisto V (1521 - 1590) che tante opere aveva fatto erigere a Roma pur provenendo da umili origini.

RICOSTRUZIONE DELLA BASILICA DI MASSENZIO CON LE COLONNE CORINZIE
La colonna viene detta "della Pace", perché è l’unica rimasta integra delle otto che sorreggevano l’enorme volta centrale della Basilica di Massenzio, quindi una colonna romana, chiamato nel Medioevo, per l’appunto, "Tempio della Pace" e legato a una curiosa leggenda.

Secondo una profezia, questo Tempio pagano sarebbe crollato se una vergine avesse partorito, così alla nascita di Gesù sarebbe venuto giù con grande fragore e ancora oggi, ogni notte di Natale se ne staccherebbe qualche pezzo.

IL CAPITELLO
Però la leggenda commette degli errori:

- Primo perchè la Basilica di Massenzio non era un tempio pagano bensì una basilica, quindi un luogo di giustizia e burocrazia.
- Secondo perchè fu costruita più di tre secoli dopo la nascita di Cristo.
- Terzo perchè finchè la manutenzione è efficiente, non se ne stacca e non se ne staccherà alcun pezzo.

Della erezione della colonna fu incaricato Carlo Maderno, che la dotò di una base in marmo e travertino, con la parte superiore ornata agli angoli da aquile e draghi alati in bronzo, quelli dello stemma dei Borghese.

Il Pontefice, contento dell’efficienza con cui erano stati portati a termine i lavori, elargì forti somme di denaro a tutti gli operai che vi avevano partecipato, e fece collocare poi alla sommità della colonna una statua bronzea della Vergine con il Bambino di Guillaume Berthélot, fusa da Orazio Censore.

La enorme colonna, posta ancora oggi al centro della piazza di Santa Maria Maggiore, si può vedere presso la fontana di Paolo V, essa è l'unica colonna superstite della Basilica di Massenzio, portata nella piazza nel 1613; si tratta di una colonna in marmo proconnesio scanalata con capitello corinzio, il tutto di squisita fattura..

La Colonna piacque molto a Charles De Brosses, che soggiornò a Roma nel 1739 e la definì:
" la più bella cosa che, nell’architettura, esista in tutto l’Universo; essa mi dà alla vista altrettanto, e forse ancora maggior piacere, di qualsiasi altro edificio completo, antico e moderno, fornendomi l’idea del più alto grado di perfezione a cui l’arte sia mai arrivata".

Anche noi la troviamo molto bella, ma onestamente non riusciamo a capire le ragioni di tanto smisurato entusiasmo. Sappiamo però che spesso le cose piacciono a seconda del momento di vita che stiamo vivendo.

FOTOGRAFIA DEL 1870 IN CUI SONO VISIBILE 2 COLONNE, QUELLA DELLA PACE
E QUELLA DELL'ABIURA DEL 1596 CHE OGGI NON C'E' PIU'
Il De Brosses riferisce anche di un fulmine caduto 15 giorni prima sulla colonna, che aveva
"infranto di netto un angolo del capitello a foglia d’acanto".
Ma per questo evento mancano il miracolo o le profezie.

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