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BATTAGLIA DI VADIMONE

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BATTAGLIA DEL LAGO VALDIMONE (309 A.C.) ROMANI CONTRO ETRUSCHI

La guerra romano-etrusca che si svolse negli anni 311-309 a.c. avvenne presso il lago Vadimone (Lacus Vadimo), vicino Horta (Orte), nel territorio della città stato di Volsinii, accanto al lago che oggi è parzialmente prosciugato.

Livio narra che gli Etruschi (Tarquinia e Vulci) erano comandanti dal generale Elbio Vulturreno, ma non dice chi fosse il comandante dell'esercito romano.

Egli riporta che il dittatore si reca immediatamente a Longula per prendere il comando degli uomini agli ordini del console (ormai decaduto) Gaio Marcio Rutilo Censorino, ma con i Sanniti non si arriva subito allo scontro, per cui si suppone che sia stato il dittatore Lucio Papirio Cursore a guidare l'esercito alla vittoria nella battaglia del lago Vadimone.

Infatti la distanza tra il lago Vadimone e Longula, l'importanza di queste due campagne militari e il fatto che Quinto Fabio Massimo Rulliano, nello stesso anno della dittatura, sconfigga il resto dell'esercito etrusco nei pressi di Perugia, potrebbe significare che il dittatore abbia lasciato il comando delle operazioni in Etruria a Fabio, e che questi abbia guidato i romani nella battaglia del lago Vadimone.

Livio pone la battaglia con i Sanniti sicuramente dopo quella contro gli Etruschi.
 « Poco tempo dopo (della battaglia con gli Etruschi) i Romani corsero un pericolo analogo (con i Sanniti) »
(Tito Livio, Ab Urbe condita, IX,40)

IL LAGO OGGI, NOTEVOLMENTE PIU' PICCOLO
Nel 311 a.c. erano scaduti i 40 anni di tregua per cui la nazione etrusca riprende la guerra con Roma. L'obiettivo è sempre quello di riconquistare il territorio veiente il cui principale caposaldo è la città di Sutrium. La Lega etrusca non è più guidata dai tarquinii, ma da Volsinii, Perugia e Cortona alleate.

Tutte le città stato settentrionali partecipano alla guerra per liberare Sutrium, considerata la chiave d'accesso dell'Etruria, tranne le filoromana Arezzo, controllata dalla potente famiglia dei Cilnii, da cui discese lo stesso Mecenate.

Invece l'Etruria meridionale non partecipa, Tarquinii, Vulci e Caere sono legate a Roma da un patto di non belligeranza. Lo scontro vicino alla città fortificata di Sutrium e a capo dell'esercito romano c'è Quinto Emilio Barbula.



QUINTO EMILIO BARBULA

Eletto console per la seconda volta, nel 311 a.c., insieme al collega Gaio Giunio Bubulco Bruto, deve difendere Roma attaccata su due fronti; così a Giunio tocca la spedizione contro i Sanniti, e ad Emilio contro gli Etruschi.

Emilio si trovò a fronteggiare una rivolta di tutti i popoli Etruschi.
« ormai tutti i popoli dell'Etruria, fatta eccezione per gli abitanti di Arezzo, erano corsi alle armi, scatenando, con l'assedio di Sutri, città alleata dei Romani e sorta di ingresso dell'Etruria, una guerra di grosse proporzioni»
(Tito Livio, Ab Urbe condita, IX, 32.)

Si scontrano davanti le mura di Sutri e, come riporta Livio, i romani vinsero.



QUINTO FABIO MASSIMO RULLIANO

L'anno successivo, nel 310 a.c il console romano Quinto Fabio Massimo Rulliano valica la Selva Cimina, invade e porta distruzione al territorio al di là dei monti Cimini, dove ottiene una importante vittoria in campo aperto.

GUERRIERO ETRUSCO
Ora l'Etruria ha veramente paura dei romani per cui ritrova l'unità politica, unisce i suoi eserciti e li muove contro Roma.

Le forze romane ed etrusche si scontrano ancora una volta sotto la città di Sutri, dove i romani ottengono un'altra vittoria, stavolta schiacciante.
La sconfitta fa si che il partito filoromano al potere ad Arezzo, Perugia e Cortona chiedano a Roma un occhio di riguardo, insomma una pace separata che Roma concede.

Le altre forze della Lega si ritirano, ma si preparano a una nuova battaglia: gli Etruschi sono troppo fieri per sottostare a Roma. La battaglia si svolge nel 309 a.c., durante la dittatura di Lucio Papirio Cursore.

Gli Etruschi (con Tarquinii e Volsinii) radunano un esercito in forza della lex sacrata.

E' un'antica legge, ovvero un antico giuramento in cui si invocano gli Dei infernali.

Chi viola questa lex si espone alla vendetta degli Dei, diventa sacer (maledetto) ed è passibile della pena di morte. La ebbero molti poli antichi, tra cui: romani, sanniti, apuli ed etruschi. Con questo sistema di arruolamento il comandante designava i soldati più valorosi, obbligandoli con giuramento all'adempimento del dovere fino al sacrificio della vita.

Ognuno dei militi si sceglieva poi un compagno di pari valore, quello con cui avrebbero corso i peggiori pericoli, quello in cui confidavano, questi ne avrebbe a sua volta scelto un altro e così via fino a raggiungere il numero occorrente. Con questo sistema si otteneva un corpo scelto di combattenti molto determinati, molto coraggiosi e disposti a tutto. Lo scontro con i Romani viene ricordato come la più grande battaglia della storia avvenuta tra Etruschi e Romani.

« Anche gli Etruschi, arruolato con una legge sacrata un esercito, nel quale ogni uomo si sceglieva un altro uomo, si scontrarono presso il lago di Vadimone, con uno spiegamento di forze e un accanimento mai visti in passato. » (Tito Livio, Ab Urbe condita, IX, 39.)

ETRUSCHI (sinistra) CONTRO ROMANI (destra)

LA BATTAGLIA

La battaglia venne combattuta con un furore tale, che nessuno dei due contendenti arrivò a scagliare le armi da lancio. Lo scontro iniziato con le spade divenne via via sempre più duro e incerto, tanto che i Romani non avevano l'impressione di combattere contro gli Etruschi già sconfitti tante altre volte, ma contro un popolo nuovo.

Nessuna delle due parti accennava alla fuga: gli uomini della prima linea crollarono e, per evitare che i reparti restassero privi di copertura, la seconda fila rimpiazzò la prima. Poi vennero chiamati allo scontro anche gli ultimi riservisti. E la situazione arrivò a essere talmente critica, che i cavalieri romani, scendendo da cavallo, raggiunsero le prime file di fanti avanzando tra le armi e i corpi dei caduti.

Entrati in campo, come un esercito fresco, in mezzo a uomini stanchi, gettarono lo scompiglio tra le linee etrusche. Seguendo poi il loro slancio, il resto delle truppe, pur allo stremo delle forze, riuscì finalmente a prevalere sullo schieramento nemico. Allora la tenacia degli Etruschi cominciò a cedere e alcuni manipoli presero a indietreggiare, dandosi poi alla fuga. Quel giorno venne spezzata per la prima volta la potenza etrusca, in auge dai tempi antichi. Il fiore delle loro truppe venne massacrato sul campo, e con quello stesso attacco i Romani ne catturarono l'accampamento saccheggiandolo.

« Quel giorno venne spezzata per la prima volta la potenza etrusca, in auge dai tempi antichi. Il fiore delle loro truppe venne massacrato sul campo, e con quello stesso attacco i Romani ne catturarono l'accampamento saccheggiandolo. »
(Tito Livio, Ab Urbe condita)

L'Etruria è militarmente vinta ma le sue città sono ancora tutte libere. Di fatto salvo consistenti concessioni territoriali a Roma l'Etruria ha intatte le sue libertà politiche, amministrative, commerciali e religiose.

Ma con la battaglia del lacus Vadimo, dopo un secolo di lotte contro Roma, l'Etruria capisce che da sola non ce la può fare, per cui cominciano a contattare i nemici di Roma, i più forti e accaniti: i Galli ed i Sanniti, con cui allearsi contro Roma, ma la città eterna resistette e vinse. La battaglia del lago Vadimone  fu la più grande battaglia che questi due popoli combatterono l'uno contro l'altro. I Romani vinsero, e fu la definitiva consacrazione della loro egemonia sull'Etruria.


LIBARNA (Liguria)

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LA CITTA'

Libarna divenne così una vera e propria città romana della odierna Liguria, posta sulla riva sinistra del fiume Scrivia, e sul tratto della via Postumia tra Genua e Dertona, presso l'odierna Serravalle Scrivia.

All'interno della divisione della penisola italica in undici regioni decisa da Augusto, Libarna venne compresa nella Regio IX — la Liguria — estesa, a sud del Po, dalle Alpi Marittime a quelle Apuane. Oggi il vicino centro abitato è una frazione di Serravalle Scrivia.

È citata in varie fonti letterarie latine e greche come Plinio, Claudio Tolemeo, il geografo Guido, nell'"Itinerarium Antonini" e nella "Tabula Peutingeriana", l'unica carta topografica dell'antichità romana pervenutaci e databile intorno al IV sec.d.c.

La tradizione manoscritta presenta alcune varianti del toponimo come Libarium, Libarnum, Lavarie e Levarnis. Il termine Libarna viene posto in relazione con i Liguri, per il radicale Lib derivato dal popolo dei Libui, anticamente stanziato nelle zone di Brescia e di Verona. Oppure il nome della città potrebbe alludere al termine "pianura", dove appunto sorse il villaggio originario.

L'attuale area archeologica di Libarna è solo una piccola parte dell'antica città, che occupava una superficie molto più vasta di quella attuale. Ne sono stati scavati:
- l'anfiteatro,
- il teatro,
- due quartieri di abitazioni
- alcune strade urbane,
Ne sono stati invece reinterrati:
-  le terme
- il foro

Il foro si trovava invece al di fuori dell'attuale perimetro dell'area archeologica, lungo il decumano massimo in direzione opposta all'anfiteatro.

ABITAZIONI E ANFITEATRO

LA STORIA

L'origine del popolamento della piana di Libarna risale al VI-V sec. a.c., quando la creazione di un emporio etrusco a Genova nella prima metà del VI sec. a.c. fece creare lungo la valle della Scrivia una via commerciale verso la pianura padana e le aree transalpine. A controllo del percorso, sulla collina del castello sorse un villaggio di Liguri, attivo ancora nel III-II sec. a.c., mentre l'area dei sepolcreti si estendeva in pianura lungo il rio della Pieve.

Il villaggio fu fondato dai Liguri Dectunini, forse uno dei quindici oppida che, secondo Livio, si arresero al console Q. Minucio Rufo nel 191 a.c. I Liguri, la più antica popolazione dell'Italia settentrionale, senza scrittura e con riti funebri che prevedevano l'incinerazione, erano quel popolo bellicoso e forte di cui parla Cicerone, dichiarando che le donne di quel popolo combattono insieme agli uomini con identico coraggio e valore.

Comunque Libarna menzionata per la prima volta nel II secolo a.c., come un capoluogo autonomo di un vasto territorio che confinava a Est con Velleia, a Sud con Genua, a Ovest con Aquae Statiellae e a Nord con Derthona.  

L'apertura della via Postumia nel 148 a.c. ne favorì senza dubbio la crescita, favorendone i commerci.
A seguito della concessione, nell'89 a.c., del diritto latino ai popoli della Transpadana e a quelli a sud del Po alleati ai Romani, anche Libarna divenne una colonia latina e al suo interno furono probabilmente riuniti diversi gruppi tribali.

Le antiche forme giuridiche sulle terre furono adattate al nuovo contesto latino e fu avviata anche la catastazione del territorio. Il centro cittadino era collegato a un fitto sistema di borghi e di villaggi rurali, con proprietà private e agro pubblico del popolo romano affidato alla comunità dietro pagamento di un tributo.

Anche alla giurisdizione di Libarna l'alleanza con Roma imponeva la fornitura di contingenti militari su richiesta del governo centrale, tanto più che nel I secolo d.c. fu eretta a colonia, raggiungendo ricchezza e bellezze architettoniche. 

RICOSTRUZIONE DELLE PORTE DELLA CITTA' ( by http://linelab.com/PROVE/libarna/ )

IL MUNICIPIUM

Il nome Libarna compare in diversi fonti antiche, quali Plinio, l'Itinerarium Antonini e la Tabula Peutingeriana che ne testimoniano l'origine preromana. In epoca romana mantiene la funzione di punto strategico lungo la via Postumia, con un movimenti di merci da Genova ad Aquileia.

LIBARNA
Tra il II ed il I sec. a.c., l'apertura della via Postumia, che collegava il porto di Genova con la pianura padana, e la concessione della cittadinanza, prima latina e poi romana a municipium, dettero luogo ad una pianificazione urbanistica programmata, come l'attuale e ancora riconoscibile impianto urbano, che segue l'orientamento della via consolare. Le prime testimonianze archeologiche dell'urbe Libarna sono tra la metà e la fine del I sec. a.c.

Nel 49 a.c. la città divenne municipium e fu iscritta nella tribù Maecia. Il potere decisionale passò nelle mani del senato locale costituito dai decuriones, proprietari terrieri aristocratici, che dovevano un'età non inferiore ai 25 anni e un censo di almeno 100.000 sesterzi. I principali magistrati erano i quattuorviri, eletti annualmente e distinti in due coppie: i "duumviri iure dicundo" con poteri giurisdicenti, competenze amministrative, e giudizi in ambito penale; i "duumviri aediles", invece, si occupavano dell'approvvigionamento cittadino, al controllo dei commerci, manutenzione di strade ed edifici, e all'allestimento di giochi pubblici. Le attività finanziarie erano affidate ai quaestores. Ogni magistrato era coadiuvato da funzionari, segretari e scribi.

Nell'età romana imperiale  Libarna raggiunse il massimo splendore e la massima densità urbanistica.
Pur mancando notizie certe sugli edifici di culto nella città, e non avendo ancora scavato abbastanza nel sito, dalle iscrizioni votive ritrovate si desume che i cittadini di Libarna erano devoti a Giove, Diana, Ercole. Di certo a Libarna esistevano templi, altari e sacella dedicati a varie divinità, maggiori o minori, il cui culto si affiancava a quello imperiale che peraltro è attestato..

L'intenso scambio commerciale fa supporre la presenza in città di strutture ricettive come alberghi e locande provvisti di adeguati stallaggi. Non saranno mancate nemmeno officine per bardature e finimenti in metallo e altre di sellai e di carradori.

LA STRADA ACCANTO L'ABITATO

L'ECONOMIA

Situata in una zona molto fertile, la zona praticava la viticoltura e la produzione del vino, il taglio e il mantenimento dei boschi per lo sfruttamento del legno, e l'allevamento del bestiame. Tra le altre attività vi troviamo la produzione della ceramica e l'industria laterizia. 



 IL SISTEMA IDRAULICO 

L'approvvigionamento idrico della città derivò all'inizio da pozzi e fontane, come è emerso dagli scavi archeologici, anche se attualmente non sono tutti visibili. Con l'espansione della città e la costruzione di edifici pubblici, quali il teatro e l'anfiteatro, l'approvvigionamento non fu più sufficiente per cui si edificò un acquedotto che, dalla valle del rio Borlasca, seguendo la valle Scrivia, portava acqua in città.
 
I Romani avevano una grande, anche se empirica, conoscenza dei sistemi idraulici, Infatti l'acquedotto di Libarna presenta uno dei più lunghi tracciati in Piemonte, tanto più complesso per la morfologia del terreno e per l'ubicazione delle sorgenti. Il condotto sorgeva dalla vallata del rio Borlasca, in località Pietra Bissara, zona ricchissima di sorgenti, in un percorso discendente che costeggiava la parete montuosa sino al torrente Scrivia, da dove, seguendo la sponda sinistra del fiume, giungeva a Libarna.

L'utilizzo pubblico dell'acqua si riguardava principalmente le fontane pubbliche e gli impianti termali forniti dallo stato a disposizione dell'intera cittadinanza, che ne poteva fruire liberamente e a titolo del tutto gratuito.

In età repubblicana, solamente l'acqua in eccedenza sulle necessità pubbliche veniva destinata all'impiego da parte dei privati. Di solito soltanto le abitazioni appartenenti agli esponenti dei ceti più ricchi erano dotate di impianti di acqua corrente: i cittadini comuni si rifornivano invece presso le fontane pubbliche, in genere una in ogni piazza o angolo di via e pure da vari pozzi scavati nel cortile al centro di vari isolati.

Libarna godeva inoltre di una vera rete fognaria basata su di un sistema di collettori interrati che raccoglievano le acque reflue per scaricarle nel torrente Scrivia: nei pavimenti di molte stanze si può osservare la canaletta che raccoglieva le acque di scarico per riversarle nella condotta fognaria.

Con la decadenza dell'impero romano, e soprattutto in seguito alle invasioni barbariche, i commerci decrebbero a partire dal III sec. d.c., e altrettanto la popolazione. Venne definitivamente abbandonata nel 452 del IV sec., quando gli abitanti lasciarono le case ormai insicure, rifugiandosi sulle colline circostanti, aggregandosi alle comunità esistenti o fondandone di nuove, quali Precipiano, Serravalle e Arquata.

Ne resta però un piccolo villaggio che perdura nell'alto medioevo nell'area del rio della Pieve come si evince da sepolture a inumazione del VII-VIII sec., ma forse era solo un cimitero, da resti di arredo liturgico della II metà VIII sec., provenienti dall'antica pieve, il che presuppone un centro, forse ricostituito, e da una fornace per ceramica del IX-X sec..

Ricordata ancora in alcuni documenti del Monastero di Precipiano e del catasto di Varinella del 1544, se ne perdette ogni memoria, divenendo incerto perfino il luogo della sua ubicazione. Venne peraltro identificata dal Settecento con varie località del bobbiese e del tortonese

Libarna venne riscoperta nel XIX secolo in occasione dei lavori per la costruzione della Strada Regia dei Giovi (1820-1823) e della ferrovia Torino-Genova (1846-1854). Le indagini archeologiche hanno in seguito riportato alla luce resti di edifici monumentali e quartieri di abitazioni, grazie ai quali è stato possibile ricostruire l'assetto urbano del sito.



GLI SCAVI

La scoperta dell'antica Libarna avvenne casualmente, durante i lavori della cosiddetta strada regia (odierna Strada statale 35 dei Giovi) destinata a collegare Genova, da poco entrata nel Regno di Sardegna, con la capitale Torino, a partire dal 1820, quando scavando emersero diversi reperti romani.

Sono stati riportati alla luce due quartieri in prossimità dell'anfiteatro, di 60x65m di lato, l'anfiteatro e il teatro. I reperti di scavo sono stati accolti nel Museo di Antichità di Torino, con pregevoli pavimenti musivi, marmi, bronzi e ambre figurate.

La città sorgeva su un terreno pianeggiante, ricco di sorgenti e circondato da colline. Oltre alla via Postumia, altro asse principale era il decumano che, orientato da Sud-Ovest a Nord-Est, conduceva all'anfiteatro. Le strade dividevano la città in tanti spazi quadrati, ma di dimensioni differenti. Esse erano lastricate, rettilinee con collettori di scarico convogliati verso l'odierno Rio della Pieve.

Nel punto di incontro tra le due principali vie, sorgeva il foro, grande piazza lastricata su cui sorgevano portici ed edifici, ed è stato, finora, solo parzialmente esplorato. Le terme erano situate nell'estremo settore Nord-Est e verso il limite settentrionale sorgeva il teatro.

Il cardine massimo della città aveva orientamento nord-sud e il decumano massimo ovviamente est-ovest, affiancati parallelamente da cardini e decumani minori. Il tracciato del cardine massimo coincideva con la via Postumia. L'ampiezza e la pavimentazione della carreggiata variavano conl'importanza della strada, così i due assi principali erano ampi circa 14 m il cardine massimo e 10 m il decumano massimo, mentre la larghezza delle vie secondarie era compresa tra 9 e 5 m.

Le strade principali, destinate anche al traffico pesante, erano selciate a larghi blocchi, o lastricate con blocchi di arenaria di Serravalle, le altre ad acciottolato di fiume; la sede stradale era lievemente convessa. Le strade principali erano fiancheggiate da canalette per far defluire l'acqua piovana.
Sulla carreggiata sono ancora visibili i solchi lasciati dai carri. Lungo le strade urbane erano disposti pozzi e fontane ad uso pubblico, latrine ed edicole votive, dei quali si sono trovate numerose tracce e resti.

Il decumano massimo, largo circa 10 m, collegava l'anfiteatro con il foro, nel punto di incontro con il cardine massimo. Il decumano era lastricato in basoli di pietra e dotato di marciapiedi. Lungo questo tratto del decumano, che traversava gli isolati del quartiere dell'anfiteatro, si apriva un quartiere con abitazioni e botteghe.

Anche se le successive indagini archeologiche, condotte dalla Soprintendenza del Piemonte sotto la guida di Pietro Barocelli, hanno messo in luce buona parte dell’impianto urbano con edifici pubblici e privati, l’attuale area archeologica, protetta fin dal 1924 dal vincolo archeologico, coincide solo con una minima parte della città antica.

IL TEATRO

IL TEATRO

Nel settore nord-orientale di Libarna sorgeva il teatro, edificato fra il I e il II sec. d.c.. secondo le prescrizioni vitruviane, connesse al fenomeno della propagazione dei suoni, di cui si teneva massimamente conto nella scelta del sito, con una cavea che poteva ospitare sino 3.800 spettatori.

Il teatro venne costruito in parte su un terrapieno di riporto, con una muratura a sacco, rivestita da un paramento murario di tipologie differenti. L'elevato aveva sicuramente, come usava all'epoca, un duplice ordine architettonico, per un'altezza di circa 15 m.

RICOSTRUZIONE
L'ambulacro porticato esterno era costituito da 22 arcate con basi in arenaria su cui poggiavano i pilastri. All'interno si aprivano l'ingresso principale, in linea con l'orchestra, e 6 ingressi laterali. Quattro erano in corrispondenza dei corridoi di accesso che conducevano alle gradinate del secondo ordine di posti (vomitoria) e 2 ai lati dell'ingresso principale, che si allargava centralmente, creando uno spazio circolare.

Caratteristiche del teatro di Libarna sono la cavea e l'orchestra, che presentano dimensioni leggermente maggiori rispetto a quelle ordinarie, considerando le proporzioni posti a sedere e capacità ospitative. La cavea aveva infatti un diametro di 35 m. I corridoi d'ingresso laterali (parodoi), tendevano a restringersi verso l'interno.

Le fondazioni della scena, appaiono evidenti così come erano all'epoca. Si notano i fori di alloggiamento dei meccanismi di movimento del sipario e un sostegno, ancora in sito, di uno dei travi che sostenevano l'impalcato.

Il portico, che delineava una vasta area rettangolare che si sviluppava dietro la scena (porticus post-scaenam) era destinato al passeggio degli spettatori, ed è stato cancellato dall'ignoranza e dalla costruzione dei binari ferroviari. Sono visibili resti delle fondazioni nella parte sud dell'edificio.

La cavea, sormontata dal settore di galleria, era suddivisa in ventisei file di gradoni, ripartiti in due ordini di posti. La scena, di altezza pari a quella della cavea per ottenere una resa acustica ottimale, doveva essere costituita da vari ordini di colonne e decorata da marmi pregiati, rinvenuti in grande quantità nei pressi dell'edificio.

Il portico aveva un'ampiezza di 7 m ed era intervallato da esedre. Gli spazi colonnati adiacenti alla scena avevano la funzione di riparo per gli spettatori e il giardino centrale, decorato da piante ed alberi, aveva al centro uno spazio pavimentato a ciottoli, forse la base di una fontana, come si riscontra di frequente nei teatri romani.

Il teatro era destinato alla rappresentazione di tragedie, spettacoli di mimi e commedie. Nel corso degli scavi sono stati rinvenuti elementi architettonici decorativi, marmi preziosi di rivestimento e intonaci dipinti, che fanno supporre un elevato livello artistico dell'edificio, nonchè il lavoro di artigiani qualificati come maestranze e come manodopera. 


Il teatro fu purtroppo soggetto ad anni di spogliazioni e scavi incontrollati e l''attuale collocazione tra due linee ferroviarie (che l'hanno pure mutilata) impedisce di apprezzarne appieno la monumentalità. Della struttura originaria manca il portico post scenam, cancellato dalla sede dei binari ferroviari.

Sono visibili le fondazioni degli ingressi, uno centrale principale, affiancato da sei secondari. Davanti all’orchestra, dotata di tre ingressi, si notano ancora i resti delle fondazioni della scena, un avancorpo rettilineo con sei pozzetti quadrati in mattoni sesquipedali in cui alloggiavano i meccanismi per tendere il sipario.

L'ANFITEATRO PRIMA DEI SCAVI SOTTERRANEI

L'ANFITEATRO

L'anfiteatro di Libarna è databile alla metà del I sec. d.c., e sarà in uso fino alla I metà del IV sec. d.c., quando il cristianesimo proibì gli spettacoli forieri di peccato. Stranamente non sorgeva in area extra-urbana, come nella maggior parte delle città romane, ma al limite orientale dell'urbe, in asse con il decumano massimo e con il foro. Di forma ellittica leggermente schiacciata venne costruito a terrapieno (accumulo di terreno e pietrame realizzato artificialmente) per questioni di economia.

L'anfiteatro, all’interno del perimetro cittadino, ma ai margini dell’abitato ed in posizione scenografica al termine del decumano massimo, occupava lo spazio di due interi isolati. Anche se è conservato al solo livello di fondazione, è percepibile la sua monumentalità dalle dimensioni dell’ellisse, in origine contenuta entro un recinto rettangolare delimitato da portici.

I SOTTERRANEI DELL'ANFITEATRO
Oltre alla porta monumentale di accesso, in corrispondenza del decumano massimo, un agevole accesso degli spettatori alle gradinate interne era consentito da dodici corridoi secondari. Si è ipotizzato che l’elevato comprendesse due ordini, uno ospitante le gradinate per i posti a sedere, l’altro un loggiato con posti in piedi. Nel restauro eseguito tra il 1968 ed il 1972, vennero messi in luce l’ambulacro e la sala ipogea, ambienti di servizio sotterranei all’arena.

Risalente all'età di Claudio (41-54), accoglieva i giochi pubblici: ludi gladiatori e  venationes (spettacoli di caccia piuttosto cruenti). L'anfiteatro doveva attirare molta gente dei territori vicini, dal momento che le gradinate dell'anfiteatro, oggi scomparse, potevano ospitare circa 8.000 spettatori.

Infatti all'epoca del suo massimo splendore, la città fu probabilmente popolata da un numero consistente di abitanti, che potrebbe oscillare dai quattro ai settemila, ma certamente non abbastanza per riempire almeno una congrua parte dell'anfiteatro.

La cavea, come già scritto, poggiava su un terrapieno di riporto, ottenuto dallo scavo dell'arena e sorretto da muri di contenimento radiali. Tutto materiale reperito sul posto e quindi di spesa limitata.
L'accesso ai vari ordini di posti avveniva tramite corridoi di accesso (vomitoria) e scale, oggetto di spoglio come quasi tutte le opere romane antiche, per cui ne restano solo le fondazioni.


L'arena (66,40 x 38,20 m) era delimitata da un podio, alto circa due m, che poggiava su uno zoccolo in arenaria ed era rivestito da lastre di marmo. L'accesso dall'esterno avveniva sul lato occidentale, in corrispondenza del decumano massimo, attraverso una porta monumentale probabilmente incorniciata da colonne corinzie.

I quattro accessi all'arena si aprivano in corrispondenza degli assi dell'ellisse, e di alcuni di essi sono ancora visibili i gradoni in pietra. Sotto l'arena erano stati ricavati gli ambulacri e i vani ipogei, coperti da volte a botte, mentre l'ambiente centrale era costituito da una grande sala con esedre.


L'anfiteatro occupava lo spazio di due isolati ed era inserito all'interno di una piazza recintata (platea), quasi tangente all'edificio sui lati lunghi; sembra che il lato settentrionale fosse aperto e porticato, per collegare la piazza con le terme.

La muratura perimetrale era ornata sul lato esterno da lesene, mentre il cornicione e le basi delle colonne erano in arenaria.  La facciata dell'edificio non aveva un ambulacro esterno porticato e si sviluppava in due ordini, per un'altezza di oltre 9 m.

La cavea era suddivisa in due ordini di posti, con undici gradinate in arenaria per posti a sedere e da un loggiato per i posti in piedi, coperto da un tetto a doppio spiovente. Il podio e il muro che delimitavano l'arena erano lastricati in marmo bianco, come dimostrano i frammenti di lastroni superstiti. In base ai rapporti dimensionali tra lo sviluppo dell'edificio e l'altezza dei gradoni, è stata ipotizzata una capienza di oltre 7.000-8000 spettatori.

Come nelle altre città romane, a Libarna nell'anfiteatro si svolgevano ludi gladiatori, raffigurati anche su una lastra decorata di piombo ritrovata nella vicina Arquata Scrivia, che attiravano spettatori dalle campagne e dalle valli circostanti.

RICOSTRUZIONE DELLA VIA CHE PORTAVA ALL'ANFITEATRO CON LE ABITAZIONI

LE ABITAZIONI

Gli isolati del quartiere dell'anfiteatro vanno dalla fine del I sec. a.c. e gli inizi del IV sec. d.c., con diversi interventi che in parte modificano la planimetria e l'articolazione interna degli ambienti.

All'impianto originario (fine I sec. a.c.) degli isolati libarnesi, dopo la costruzione dell'anfiteatro, a partire dalla II metà del I sec. d.c., seguono diverse fasi di ristrutturazione durante le quali le abitazioni (domus) di maggiori dimensioni sono frazionate in più unità abitative e vengono arricchite da nuovi mosaici di notevole livello estetico ed esecutivo.

In molte case si aprono delle botteghe (tabernae), indizio di un nuovo impulso commerciale e produttivo di questo quartiere della città.  Le abitazioni, separate dal passaggio del decumano massimo, documentano differenti tipologie di domus: ad atrio, ad atrio e peristilio e a cortile.

Le abitazioni private (domus), sono costruite a partire dalla fine del I secolo a.c., in genere costituite da diversi ambienti disposti attorno ad un cortile porticato (peristilio) centrale, su cui si affacciano la sala da banchetto (triclinium), l’atrio e le stanze da letto (cubicula). E’ stato ipotizzato che questi isolati facessero parte di un quartiere periferico e popolare, molto vivace in quanto legato alla vita dell’anfiteatro. Una conferma giunge dalle molte botteghe poste lungo la strada e anche da una locanda (taberna o coupona).

Alcune domus, invece, hanno una grande planimetria e ricchezza degli apparati decorativi. Si sono rinvenuti frammenti di pavimenti in lastre di marmo (opus sectile), oltre ad un mosaico di grandi dimensioni rappresentante il mito di Licurgo e Ambrosia. I più significativi tra i materiali archeologi recuperati sono attualmente esposti presso l’Area Museale di Libarna, ospitata nel Palazzo comunale di Serravalle Scrivia.

Dei 40 isolati (insulae), di cui si componeva il tessuto urbanistico, attualmente sono visibili solo i resti di due, all’angolo nord- orientale ai lati del decumano massimo. Il percorso del decumano si conclude in corrispondenza del più imponente degli edifici pubblici messi in luce, l’anfiteatro. Anche il teatro occupa una posizione periferica rispetto al centro abitato come spesso accade nelle città romane dove gli edifici per spettacoli, fonte di rumore e disturbo, erano spesso collocati ai margini del perimetro cittadino.

Nell’isolato a Nord esistevano presumibilmente due abitazioni piuttosto grandi, a pianta pressoché quadrata (61 x 59,20 metri), che hanno subito diversi rimaneggiamenti, compresa la trasformazione del lato nord in ambienti termali.

Tuttavia si è potuta ricostruire la posizione del triclinium (la stanza da pranzo) e riposizionarvi il bellissimo pavimento decorato: tra due fasce di mosaici a disegno geometrico in bianco e nero campeggia un mosaico del II secolo d.c. di grandi dimensioni che rappresenta Ambrosia aggredita dal re Licurgo e trasformata in vite da Dioniso che la vuole porre in salvo.

MOSAICO DEL TRICLINIUM

Mosaico del triclinio

Un esempio dell'elevato livello di finitura delle abitazioni edificate a Libarna è fornito dal mosaico del triclinium (seconda metà del II sec. d.c.), presente nel primo isolato, oggi riposizionato nella sua sede originaria dopo un complesso intervento di restauro.

Incorniciato da due fasce a tessere di colore nero, è composto da una scena figurata compresa tra due tappeti a decorazione geometrica, una a spigoli, inferiore e una a tondi, nella parte superiore. La scena centrale, policroma, rappresenta il mito di Licurgo e Ambrosia, chiaro riferimento simbolico alla funzione del triclinio: la ninfa, aggredita da Licurgo, viene salvata da Dioniso che la trasforma in vite, i cui tralci soffocheranno il re.


La raffigurazione superiore a cerchi è incorniciata da un motivo a treccia che prosegue la parte superiore del mosaico, in tessere policrome, con una decorazione geometrica intorno a un tondo centrale, collegato ad esagoni a lati curvilinei e a stelle a quattro punte ogivali.

La parte inferiore del mosaico, a tessere bianche e nere, è costituita da motivi a quadrati e triangoli posti in fasce verticali alternate e intersecantesi. Il mosaico è realizzato con tessere molto piccole che permettono precisi particolari e sfumature di colore. Un pavimento pregiato per il triclinium di una grande domus ad atrio e peristilio.




LE TERME

Ubicate tra il quartiere dell'anfiteatro e il teatro sono stati rinvenuti i resti di una costruzione identificata con le terme. che occupavano la superficie di quattro isolati.
Nello stesso quartiere vi era una fullonica dove si tinteggiavano le stoffe.



EPIGRAFIA

La maggior parte delle iscrizioni di Libarna si colloca fra il I e il II secolo.

- Nell'iscrizione (CIL V 7427) è ricordato tale Caius Atilius Bradua, appartenente alla famiglia degli Atilii, una delle più influenti a Libarna, che a proprie spese, "pecunia sua", finanziò la lastricatura del foro e fece costruire un edificio, forse il teatro.
 - Alla medesima famiglia apparteneva anche Cnaeus Atilius Serranus, che fu flamine augustale e forse anche patrono della colonia.
- Considerato il suo cognome greco, era probabilmente un liberto della stessa gens il Marcus Atilius Eros, che rivestì la carica sacerdotale di sèviro augustale a Dertona e a Libarna. Per essere ammessi nel collegio dei seviri occorreva versare una tassa, il che sarebbe indizio del possesso da parte di Marco Atilio Eros di capacità economiche non trascurabili.
- L'eques Quintus Attius Priscus (CIL V 7425), esponente dell'aristocrazia locale che ricoprì svariate magistrature e cariche religiose di prestigio. Appartenente alla tribù Maecia, egli fu edile, duumviro quinquennale, flàmine augustale, pontefice e prefetto dei fabbri, ossia comandante del genio. Fu inoltre prefetto di coorti ausiliarie di leva locale: la I Hispanoum, la I Montanorum e la I Lusitanorum.
In seguito al Bellum Suebicum ("guerra contro gli Svevi") del 97 voluto da Nerva, cui prese parte in qualità di tribunus militum della Legio I Adiutrix, l'imperatore gli conferì prestigiosi dona militaria: corona aurea, hasta pura, vexillum. La sua notevole carriera equestre culminò nel comando, in veste di prefetto, dell'Ala I Augusta Thracum, un reggimento di cavalleria ausiliaria.
- Materiale epigrafico relativo a Libarna è stato rinvenuto anche in val Borbera: in una lapide tombale ritrovata nel 1850 a Borghetto (CIL V 7432) è attestata la presenza in città della gens Iulia e della gens Livia.
- Un'ara rinvenuta a Roccaforte Ligure nel 1822 (CIL V 7423) testimonia invece il culto delle Matrone, divinità di origine gallica venerate ancora in età romana, alle quali l'altare fu dedicato libens merito: oggi si direbbe "per grazia ricevuta".



NUMISMATICA

Vari reperti numismatici che documentano una continuità vitale della città in epoca imperiale, monete emesse col nome di personaggi diversi dall'imperatore, in base alla consuetudine del princeps, iniziata con Augusto, di celebrare i propri familiari. Oltre a molti nominali di Augusto (fra il 23 a.c. e il 17 d.c.), molte monete dell'età giulio-claudia (14-54) attesterebbe un periodo di intensi scambi commerciali per il centro urbano, mentre scarsi sono gli esemplari di epoca repubblicana.



SCULTURA

- Frammentari esempi di statuaria di piccole dimensioni destinati alla decorazione, soprattutto di carattere privato,
- Alcuni bronzetti ritraenti figure sacre.
- Molti gli oggetti ornamentali in ambra, agata e diaspro, con significati religiosi e apotropaici per i loro poteri magici, protettivi e curativi,
- Svariato il vasellame in ceramica, vetro e bronzo,
- Molte lucerne per l'illuminazione domestica e dei luoghi di culto, ma anche come corredo funebre.
- Chiavi in ferro,
- Vari tintinnabula (campanelli metallici legati a credenze magico-apotropaiche),
- Ami e arpioni da pesca.
- Orcioli,
- Piatti,
- Pentole da cucina,
- Parti di anfore d'importazione ispanica da vino,
- Turibula, bracieri o incensieri per cerimonie propiziatorie.
- Vari tipi di sonde, spatole atte a mescolare unguenti,
- Aghi per la sutura e pinze di attrezzatura chirurgica,
- Una trottola di legno con inserti in bronzo, pedine e dadi,
- Fusi in legno e in osso per la filatura e frammenti di telaio,
- Decorazioni in pasta vitrea e in perle; spilloni in argento, osso o bronzo usati per trattenere i capelli; - Piccoli contenitori in vetro,
- Alcuni specchi,
- Fibulae in bronzo, fibbie per lo più del tipo a cerniera d'epoca augustea e tiberiana.



SALA ESPOSITIVA DI SERRAVALLE SCRIVIA

I reperti archeologici provenienti dagli scavi di Libarna sono in parte conservati in collezioni private ed in parte custoditi presso il Museo di Antichità di Torino e il Museo di Archeologia Ligure di Genova Pegli.

Soltanto alcuni reperti sono rimasti a Serravalle Scrivia e sono oggi esposti nella Sala Espositiva che ha sede al piano terreno del Palazzo Municipale, in via Berthoud 49.

Una visita a questo spazio espositivo, allestito nel 2006 e corredato da precise didascalie, si rivela di grande interesse per chi abbia visitato la zona archeologica e voglia arricchire la sua conoscenza della vita quotidiana nell'antica città romana.

I frammenti architettonici consentono infatti di figurarsi gli edifici di cui si sono conservati i resti completi del loro apparato decorativo. Del resto la fontana fa riflettere sul ruolo fondamentale che l'acqua doveva avere nel II secolo d.c. Gli oggetti d'uso quali vasellame da mensa e lucerne permettono di immaginare come doveva essere la vita di ogni giorno in quel tempo lontano.

Le vetrine della prima parte della sala contengono i circa 60 pezzi della collezione raccolta dal canonico novese Giovanni Francesco Capurro e oggi proprietà dell'Accademia Filarmonica Artistico Letteraria di Novi Ligure, concessi in comodato d'uso al Comune di Serravalle Scrivia, il quale dopo averli restaurati ne ha curato l'allestimento.

La Collezione raccoglie materiali di pregio, databili ai primi secoli dell’Impero, testimoni della ricchezza della città romana di Libarna.

Di notevole interesse, tra i reperti proposti al visitatore, si segnalano la grande epigrafe dello scrivano Catius Martialis, datata al II secolo d.c., e la parte centrale di un pinax: il termine, che deriva dal greco πίναξ, che significa tavoletta dipinta, appesa come ex voto alle statue delle divinità, alle pareti dei santuari o agli alberi sacri, indica una lastra di ma rmo decorata su un lato con la testa di Pan e sull'altro con quella della Gorgone.

Insieme ai numerosi frammenti lapidei e fittili di capitelli, fregi decorativi, cornici e partiture architettoniche sono esposte anche due anfore integre e un'ansa contrassegnata da un bollo ancora non identificato.v

Nella seconda parte della sala trovano posto i reperti di proprietà Statale, concessi in deposito temporaneo, dalla Soprintendenza per i Beni Archeologici del Piemonte, al Comune di Serravalle Scrivia. Nelle vetrine sono esposti alcuni esempi di vasellame da mensa in ceramica, lucerne fittili, una fontana decorata con motivi marini e due piccole erme.

Notevole è poi il frammento di pavimentazione in opus sectile realizzato nel II secolo d.c., con pregiati materiali marmorei: l'emblema costituiva certamente la decorazione della parte centrale di una raffinata sala.

Nella visita allo spazio espositivo, l'ospite è accompagnato da una serie di pannelli informativi e tavole illustrate, relative alla descrizione dei reperti esposti ed alla vita quotidiana degli antichi abitanti di Libarna. Un viaggio reso ancora più coinvolgente da una suggestiva illuminazione delle sale e delle teche, e dalla audio diffusione dei "suoni" senza tempo dell'antica città.

VILLA DEL PAUSILYPON (Posillipo - Campania)

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LA VILLA DI POLLIONE

PUBLIO VEDIO POLLIONE

Narra la leggenda che Pollione avesse allevato in una piscina interna alla villa delle murene giganti, cui dava in pasto chiunque contravvenisse ai suoi voleri. In realtà le fonti non dicono questo, perchè in molte ville si usava l'allevamento ittico di acqua di mare o di acqua dolce, secondo il sito, (persino a Nemi ne fu scoperto uno molto grande accanto al tempio di Diana, probabilmente ad uso dei sacerdoti) ed essendo la murena un pesce particolarmente gradito, si riservavano diverse vasche a questo uso.

Cassio Dione, Seneca e Plinio raccontano però che nella villa Pausilypon (Posillipo), di cui era ospite onoratissimo l'imperatore Augusto, il coppiere di Pollione aveva rotto un prezioso calice murrino e il padrone aveva dato ordine di gettarlo in pasto alle murene allevate appunto nelle peschiere della villa.Augusto intervenne decisamente, non solo salvando la vita allo schiavo, ma anche ordinando di infrangere l'intera collezione di vetri preziosi sotto gli occhi di Pollione per punirlo dell'estrema crudeltà.

MONETA RAFFIGURANTE VEDIUS POLLIO (POLLIONE)
Come è noto dalle fonti, Publio Vedio Pollione, appartenente alla ricca famiglia dei Vedii di Benevento, e figlio di un liberto, fu uno degli uomini più ricchi della tarda repubblica, tanto che riuscì a raggiungere il rango equestre e, dopo la battaglia di Azio, ad assumere il governo dell' Asia, una delle più ricche province romane, dal 27 al 24 a.c., prima che fosse istituito il normale posto di proconsole di rango senatorio. Ma anche dopo seppe essere un ottimo consigliere economico per l'imperatore.

Doveva essere sicuramente un uomo di scarsissima moralità, tanto è vero che Cicerone, dopo un incontro con lui in Cilicia, affermò 'nunquam vidi hominem nequiorem' ('mai ho visto un uomo più iniquo') e sicuramente tanta ricchezza non l'aveva conquistata onestamente. Ma ciò che gli venne maggiormente rimproverato fu che nel suo bagaglio, finito in mani diverse dalle sue a causa della morte del liberto cui era stato affidato, furono trovati cinque medaglioni dipinti, con i ritratti di altrettante signore della migliore società di Roma, che gli avevano incautamente donato tali pegni d'amore. Francamente questo ci scandalizza molto meno dell'episodio dello schiavo e delle murene, ma Augusto era un seguace dei buoni costumi e del buon comportamento, non a caso scelse come moglie la quieta e dedita Livia, ancor più castigata di lui.

Dopo la battaglia di Azio (31 a.c.), l'equite Publio Vedio Pollione decise di trascorrere gli ultimi suoi giorni nel paradiso di quella villa situata tra la Gaiola e la baia di Trentaremi, il Pausilypon cioè “sollievo dal dolore”. Accanto alla villa, fece costruire anche un teatro di 2000 posti, un odeon per piccoli spettacoli, un ninfeo e un complesso termale.



L'EREDITA' DI AUGUSTO

LA GROTTA DI SEIANO
Anche se dopo il governo d'Asia non ricoprì alcuna magistratura, Pollione per tutta la vita restò partigiano fedele di Augusto, in onore del quale, come aveva fatto già in Asia, a Tralles, fece costruire a Benevento, sua città natale, un tempio, il Cesareo. Ma Augusto, dopo Azio, aveva dato inizio a un nuovo modello culturale e politico, teso al ritorno degli antichi ideali: la patria, la religione, la famiglia. Narra Tacito che seppur allontanatosi da Pollione, e seppur poi si circondò di gente colta e di grande valore, ad Augusto quell'amicizia venne rimproverata fin dopo la morte di Vedio.

Quando infatti nel 15 a.c. Vedio Pollione morì lasciando tutti i suoi beni ad Augusto, con la clausola che gli fosse eretto a spese pubbliche un monumento funerario, Augusto si prese l'eredità ma non concesse il funerale pubblico. Non contento fece radere al suolo il magnifico palazzo che Pollione aveva eretto a Roma sull'Esquilino, nonostante la bellezza che doveva avere, essendo Pollione di ottimi gusti, e vi costruì sopra un edificio pubblico, il Portico di Livia, che faceva piacere al popolo e onorava sua moglie. Tenne invece il Pausylipon, per la sua bellezza e la sua posizione molto ambita, a metà sul mare con vista sulla parte restante di Napoli, sulla Penisola Sorrentina, sul Vesuvio e Capri, divenendo residenza imperiale di Augusto, e di tutti i suoi successori. 

LA VILLA DI POLLIONE


LA VILLA

La grandiosa villa del Pausilypon copriva un'area di quasi nove ettari, un paradiso di edifici sontuosi, porticati, giardini, colonne, boschetti, viali, statue, terrazze, ringhiere di marmo, panchine, fontane e vigneti. Più volte venne restaurata e riornata o ampliata, dal I sec a.c. sino al IV sec. d.c.. L'edificio si inseriva con grande cura architettonica nelle variazioni del paesaggio, fatto di mare, di terrazze e di grotte, di roccia e di verde, esposto al caldo del sole, al fresco dei venti e all'incanto del panorama. La zona  padronale era posta al centro dell'area, mentre tutto intorno si stendeva una serie di strutture monumentali oggi solo in parte identificate, quali il grandioso teatro, l'odeion e le terme.

Alla morte di Vedio Pollione anche il Pausilypon entrò a far parte del demanio imperiale, ma questo Augusto non lo demolì anzi lo migliorò per farne una alternativa residenza imperiale.
Si tratta di uno dei primi esempi di villa costruita adeguando l'architettura alla natura dei luoghi, disponendo di varie funzioni residenziali, di accoglienza, ludiche, termali, non più in un unico edificio, bensì in vari nuclei disposti scenograficamente in tutti gli spazi di un paesaggio stupendo. Un modello già adottato nei Campi Flegrei e a Capri, e in futuro in altre ville imperiali, prima fra tutte la villa Adriana di Tivoli. Il complesso edilizio veniva amministrato da procuratori, come attestato da alcune epigrafi, e ancora nel II secolo d.c. il era di proprietà imperiale, come attestato da un tubo di piombo coll'iscrizione dell'imperatore Adriano, ritrovato nelle cosiddette Terme Superiori. 

La villa restò in auge per tutto il periodo dell'impero fino ad epoca tardo antica, finchè decadde e fu abbandonata. L'ultimo ad abitarla fu Publio Elio Traiano AdrianoCon la decadenza dell'impero le strutture della villa scomparvero ricoperte dalla vegetazione e dal terreno, mentre gli edifici sul mare sprofondarono in acqua a causa del bradisismo; restò di esse solo il ricordo dei toponimi Mons Posillipensis, Villa Posilipi, Casale Posilipi.
PALAZZO DEGLI SPIRITI

L'area venne ripopolata nei secoli XV-XVII, quando ormai al sicuro dai pirati saraceni, la bellezza dei luoghi indusse molti signori napoletani e stranieri a costruire a Posillipo: e alcuni studiosi, come il Pontano e Fabio Giordano, menzionarono gli avanzi dell'antica villa. Dalla II metà del XVIII sec. l'area comincia ad essere visitata da studiosi come il Winckelmann, e alcuni dei ruderi, specialmente quelli visibili dal mare, come la cosiddetta Scuola di Virgilio, sono rilevati e riprodotti in splendide acqueforti.

Nel 1820 l'antiquario Guglielmo Bechi diede inizio a scavi nella zona; ma soprattutto fu rinvenuta casualmente, durante i lavori per una nuova strada nel 1841, l'imboccatura orientale della cosiddetta Grotta di Seiano e subito riportata alla luce e resa percorribile per volontà di Ferdinando II di Borbone, diventando meta di turisti. Vennero così alla luce alcuni dei più significativi edifici del complesso, come il teatro, l'odeon, il cosiddetto Tempio, per la maggior parte tuttora visibili e recuperati importanti reperti come la statua delle Nereidi su pistrice, acquistata dal Museo Archeologico Nazionale di Napoli.
Sul terrazzamento più alto, in una zona sovrastante la baia di Trentaremi, si estendeva la pars publica del complesso, caratterizzata soprattutto da due edifici per spettacoli, un teatro e un odeion, che indicano come la villa, divenuta dimora imperiale, fosse stata concepita come una piccola città.

Nella II guerra mondiale fu utilizzata come rifugio antiaereo per gli abitanti di Bagnoli; gli eventi bellici ed alcune frane nel corso degli anni '50 la riportarono in uno stato di abbandono.



IL PARCO ARCHEOLOGICO

Oggi il parco archeologico-ambientale di Posillipo o del Pausilypon è un'area archeologica nel quartiere Posillipo in Napoli aperta nel 2009. Qui si possono ammirare i resti dell'imponente teatro dell'Odeon e di alcune sale di rappresentanza della villa, le cui strutture marittime fanno oggi parte del limitrofo Parco sommerso di Gaiola, su cui si affacciano i belvedere a picco sul mare del Pausilypon.




LA GROTTA DI SEIANO 

ENTRATA DELLA GROTTA
La villa disponeva di un proprio porto nell'insenatura della "Cala dei lampi", e di vie di collegamento con la viabilità esterna ad essa, soprattutto attraverso l'imponente grotta di Seiano, un traforo lungo più di 700 m che congiunge la piana di Bagnoli con il vallone della Gaiola, racchiudendo parte delle antiche vestigia della villa del Pausilypon. 

La galleria sotterranea, scavata nella pietra tufacea della collina di Posillipo, unisce via Coroglio alla Gaiola, passando per la baia di Trentaremi.


Fu l'umanista napoletano Pontano a darle tale nome, secondo alcuni erroneamente, risalendola a Lucio Elio Seiano, prefetto di Tiberio, che nel I sec. d.c ne commissionò l'allargamento e la sistemazione. 

Pontano non sbagliò, solo che un precedente traforo era stato realizzato una cinquantina di anni prima dall'architetto Lucio Cocceio Aucto per volere di Marco Vipsanio Agrippa, genero di Augusto, per collegare la villa di Publio Vedio Pollione e le altre ville patrizie di Pausilypon ai porti di Puteoli e Cumae.


Si tratta di un'opera grandiosa, come le altre simili che furono realizzate tra la fine della repubblica e la prima età imperiale per sistemare la viabilità in tutta la zona napoletana-flegrea, come la Crypta Neapolitana tra Fuorigrotta e Piedigrotta e il traforo tra Cuma e il lago d'Averno, anche queste attribuite al grande Cocceio, e che dimostrano le grandi capacità costruttive e progettuali e le tecniche avanzate di rilevamento e misurazione raggiunte dall'ingegneria romana.


La galleria, orientata in direzione est-ovest, è un capolavoro architettonico e ingegneristico, con un tracciato rettilineo ma con sezione variabile sia in altezza che in larghezza; dalla parete sud si dipartono tre cunicoli secondari, terminanti con aperture a strapiombo sulla baia, che forniscono luce ed aerazione.


Il ritrovamento della galleria, di cui dopo il XVI secolo si era perso il ricordo, avvenne nel 1840 nel corso del tracciamento di una strada che poi non fu più realizzata. Re Ferdinando II di Borbone fece riattivare l'antico passaggio rinforzando il traforo con dei magnifici archi in tufo. I lavori, lunghi, difficili e pericolosi a causa delle frane e dell'esalazione di gas mefitici furono terminati nel 1841. Da allora la Grotta di Seiano fu inclusa negli itinerari frequentati dai turisti colti in visita a Napoli.
Nella II guerra mondiale l'area archeologica fu sequestrata dai comandi militari e adibita a rifugio per gli abitanti della zona industriale di Bagnoli, soggetta per lunghi giorni ai pesanti bombardamenti delle truppe alleate.


IL PALAZZO DEGLI SPIRITI

Il palazzo degli Spiriti (o villa degli Spiriti) è un complesso archeologico che si estende lungo la costa di Posillipo, nei pressi di Marechiaro, come parte di un ninfeo della villa di  Pollione.


PARCO SOMMERSO DI GAIOLA

Le escursioni in mare consentono di ammirare i resti della villa imperiale nonché l'ambiente naturale marino. esse avvengono a 25 m di profondità e con decreto interministeriale del 2002, il parco sommerso della Gaiola viene dichiarata area marina protetta
.

IL TEATRO

Il teatro venne costruito con assoluta originalità, sfruttando il pendio naturale della collina secondo la tecnica costruttiva tipica dei greci, con la cavea aperta verso sud. La sua capienza è di circa duemila posti, enorme per una villa privata.

L'orchestra, del diametro di circa 11 m, doveva essere in origine pavimentata in marmo e dal suo centro si diparte verso l'odeion una grande vasca; una grande natatio con fontana, in origine adorna di marmi, destinata forse a quegli spettacoli coreografici nell'acqua, che si diffusero nel mondo romano soprattutto nel periodo tardo-antico.


LA PESCHIERA
LO STADIO

Sul lato occidentale del teatro sorgono i resti di un edificio a pianta rettangolare con un lato breve arcuato. Identificato tradizionalmente con un ninfeo, si tende oggi a considerarlo, come del resto la forma suggerisce, tenendo conto anche della funzione degli altri edifici e la consolidata tradizione di gare atletiche che si svolgevano sia a Neapolis che a Puteoli, di un piccolo stadio.


L'ODEION

Circa 45 m a sud del teatro, a picco sulla baia di Trentaremi, con un panorama mozzafiato, sorge l' odeion, ovvero un theatrum tectum destinato ad audizioni di poesia, di retorica o di musica.

CULTO DI VIRPLACA

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NEMESI
Viriplaca era la Dea romana che "placa la rabbia dell'uomo"; si trattava di un attributo di Giunone, e ne descriveva la capacità di riportare la pace tra marito e moglie. Vittore narra del tempio della Dea sul Palatino, mentre Valerio Massimo la indica come conciliatrice nei litigi tra coniugi.


Valerio Massimo Littera Litterae 2

GIUNONE
L'uso del vino era, un tempo, ignoto alle donne romane, naturalmente ad evitare che si lasciassero andare a qualche gesto indecoroso, perché il grado successivo dell'intemperanza che si deve al padre Libero si risolve generalmente nell'amore illecito.

Del resto, perché la loro pudicizia non fosse uggiosa e repellente, ma si accompagnasse ad un moderato fascino femminile - col permesso dei loro mariti usavano gioielli d'oro e porpora a profusione -, per rendere più grazioso il loro aspetto si tingevano accuratamente i capelli di rosso: infatti allora non si temevano gli sguardi dei seduttori delle mogli altrui, ma c'era reciproco rispetto e pudore tra gli uomini nel guardare le donne e tra le donne nell'essere guardate.

Tutte le volte, poi, che ci fosse un litigio tra marito e moglie, ambedue si recavano nel tempietto della dea Viriplaca, sito sul Palatino e, dopo aver ivi esposto quanto volevano, mettevano da parte ogni ostilità e se ne tornavano a casa d'amore e d'accordo.

Si dice che questa dea, indubbiamente veneranda e non so se degna di particolari e scelti sacrifici quale custode della pace quotidiana e domestica, abbia preso nome da tale sua funzione: certo essendo che col suo stesso appellativo essa rende all'autorità dei mariti, nello spirito di un reciproco affetto, l'onore dovuto dalle mogli.

(Valerio Massimo)


L'antica Dea Laziale

In realtà l'antica Dea, Sicuramente Laziale ma forse anche italica, era colei che placava gli istinti dell'uomo, in modo che questi li potesse gestire.

L'antichissima Dea era anticamente addetta alla cura dei semi di cereale. Mentre l'istinto non mediato dalla ragione spingeva l'essere umano a nutrirsi di tutti i semi di farro e di orzo ecc., la Dea dell'armonia tra mente e istinti suggeriva di riporre parte dei semi per la futura semina del cereale.

La sopravvivenza del mondo contadino dipendeva dalla costanza di lasciare intatti i semi della semina anche quando il raccolto era stato scarso. Per ottenere ciò si riponevano i semi da semina in un magazzino del tempio di Virplaca, che placando ogni istinto eccessivi placava, almeno in parte, anche la fame.

Il fatto che i semi venissero conservati nel tempio comportava che solo i sacerdoti potessero averne l'accesso, e che, in caso di violazione, si peccava fortemente contro la Dea che si sarebbe sicuramente vendicata.



LA DEA GIUSTIZIA

Successivamente la Dea estese il suo aspetto nella vita dei cittadini, perchè per vivere in un branco allargato occorre poter temperare il proprio carattere. La Dea pertanto divenne garante della convivenza nella civitas, garantendone la sicurezza tramite l'esercizio della giustizia che le persone preposte esercitavano in suo nome.

Tuttavia questo aspetto della Dea venne sostituito dalla Dea Temi di origine greca e poi ancora dal Dio Giove sommo amministratore di giustizia, sul cui nome si facevano i giuramenti.
In epoca ancora più tarda ella venne assimilata a Giunone, per passare al ruolo di conciliatrice domestica, in particolare per placare il potere a volte ingiusto che il marito esercitava sulla moglie.

Pertanto il tempio che le venne dedicato sul Palatino era associato a Giunone e pertanto sostenuto a spese dello stato, con un suo sacerdote e relativo custode. Trattavasi comunque di un piccolo tempio, in realtà un sacello, ma piuttosto frequentato o dalle donne infelici o dalle coppie che non riuscivano ad intendersi. Insomma una specie di terapia familiare senza terapeuta.

VINDONISSA (Svizzera)

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VINDONISSA

L'OPPIDUM CELTICO 

Vindonissa, nella Provincia romana Germania superiore, era un oppidum celtico trasformato dai romani in un campo legionario. Gli oppida sono i primi insediamenti a nord del Mar Mediterraneo che costituiscono delle città. Cesare racconta che ogni tribù gallica aveva numerosi oppida ciascuno di diversa importanza, ipotizzandone pertanto una gerarchia.

I romani utilizzavano gli oppida come centri amministrativi per i territori conquistati, e molti divennero poi città romane, in genere spostandole dalla collina alla pianura. Questo campo legionario romano, nei pressi della moderna Windisch, in Svizzera, ebbe una notevole importanza per la sua posizione, alla confluenza del Reuss e dell'Aar, a soli 15 km dal Reno.

RICOSTRUZIONE VIRTUALE DELLA PORTA PRAETORIANA

IL CASTRUM ROMANO

Vindonissa venne fondata probabilmente tra il 9 ed il 13, in seguito alla disfatta di Teutoburgo e la conseguente riorganizzazione della frontiera operata da Tiberio e Germanico. Nel 21 ebbe una prima espansione edilizia verso ovest, ma fu ancora ampliata nel 30 risale con la costruzione delle terme e del valetudinarium.

La Legio XIII Gemina occupò il campo fino al 44 o 45, quando venne sostituita dalla XXI Rapax, fino alla rivolta dei Batavi del 69-70, che venne installata in un nuovo campo, stavolta edificato in pietra, insomma una città romana vera e propria.

La XXI venne disciolta in occasione della Rivolta batava del 69-70 e sostituita dalla XI Claudia, che rimase fino all'anno 100, quando le truppe vennero inviate sul Danubio in preparazione della campagna contro i Daci.

RICOSTRUZIONE DEL CAMPO MILITARE
Nel 298 vi si svolse la battaglia di Vindonissa combattuta tra l'esercito romano comandato dal Cesare Costanzo Cloro e quello degli Alemanni. Lo scontro fu vinto dai romani che rafforzarono la frontiera del Reno.

Da più di 100 anni si conducono scavi a Vindonissa, con la ricostruzione degli edifici romani dell'accampamento, con un nuovo percorso legionario che illustra la vita dei legionari. Gli scavi hanno fatto comprendere molte cose, ad esempio che l'espansione del campo militare di pietre dalla ultima legione, di stanza a Vindonissa, venne fatta qualche anno più tardi, di quanto si pensasse, e  il muro portante non venne ricostruito nella tarda antichità, una tesi che aveva erroneamente prevalso a lungo.

RIEDIFICAZIONE DELLA CASERMA ROMANA
Nella vicina città di Brugg, un piccolo museo romano mostra tutti i reperti romani rinvenuti a Vindonissa nel campo legionario, ma mostra anche interessanti ricostruzioni degli ambienti e degli oggetti romani illustrando la vita dei legionari.

A Vindonissa numerosi resti di opere pubbliche ospitano le epigrafi di ringraziamento degli Elvezi verso l'imperatore Vespasiano che ne ordinò l'esecuzione. Vi si eresse anche un arco di trionfo offerto dai locali ancora in ringraziamento per il generoso imperatore. L'anfiteatro sorse, per volontà dell'imperatore, su un teatro precedente che venne ampliato e abbellito.

Gli Elvezi, sia sotto Vespasiano che sotto marco Aurelio, goderono di pace e prosperità. Quando si dipartì la IX Claudia a Vidonissa non giunse altra legione e la città divenne un centro civile, non più militare.

RIEDIFICAZIONE DEL DORMITORIO MILITARE

CENTRO CIVILE

In seguito Vindonissa rimase un insediamento civile, che venne fortificato con una cinta di mura nel IV secolo. Oltre al forte legionario sono ancora presenti l'anfiteatro e l'acquedotto del I secolo, di 2,4 Km, che è ancora in uso, quattro cimiteri, una mansio e una collina di detriti.


Durante gli scavi, all'inizio del XX secolo fu rinvenuta a Vindonissa una grande quantità di lucerne romane.
Il loro numero e la loro diversità consentirono allo studioso e archeologo Siegfried Loeschke di compilare una tabella delle varie tipologie di lucerne romane.

Detta compilazione è ancor oggi utilizzata nel mondo accademico, come la più completa ed esaustiva di cui si abbiano i relativi reperti, e come tale è stata spesso copiata e riprodotta nei libri di archeologia.

( Lampade da Vindonissa. Un contributo alla storia della Vindonissa e antiquariato sistema di illuminazione, Birra / Baer, ​​Zurigo / Francoforte 1919)

Una preziosa epigrafe romana avverte che a Vindonissa era stato aperto un pubblico collegio, quindi una scuola pubblica, ove si insegnavano la medicina e le arti liberali. L'epigrafe sembra essere del II sec. e pertinente all'imperatore Adriano. Ed ecco l'iscrizione:

NUMINIB AUG. E GENIO COLL. HELL. APOLLONI
SACR. POSTUM. HYGINUS, Q. POSTUM HERMES LIB.
MEDICIS PROFESSORIBUS D. S. D.
 
RESTI DELLA VILLA DI SEEB

LA VILLA RUSTICA DI SEEB 

Uno scavo importante presso la città è stato quello della tenuta agricola romana di Seeb, non l'unica, ma una delle maggiori della Svizzera settentrionale,impiantate dopo la fondazione di Vindonissa e che godettero successivamente di un grande sviluppo fino alla distruzione intorno al 260 d.c.

La tenuta è circondata da mura su tre lati e divisa internamente in un parco e una parte agraria: all'interno delle mura di cinta sorgevano un'ampia casa padronale, un edificio col pozzo, un edificio con i bagni, sei altri edifici e due grandi recinti per accogliere il bestiame.

Nel I sec. d.c. la villa consisteva di un semplice ambiente rettangolare, il quale venne esteso aggiungendo varie ali, una delle quali ospitava un bagno termale (oggi scavato e conservato sotto una tettoia). Questa villa era parte di un complesso più ampio, il quale era delimitato da diversi muri.

Diversi fabbricati di fronte alla villa vera e propria erano adibiti a fienili o magazzini, ma anche a edifici residenziali per il personale. Di fronte all'edificio si trovava un pozzo coperto da una torre, dove l'acqua veniva pompata utilizzando un asino. Il palazzo era decorato con affreschi e in parte con mosaici.

I resti della villa erano già noti almeno dal XIX secolo. Alcune parti del complesso sono state scavate sistematicamente dal 1963 al 1970. Il complesso oggi è un museo a cielo aperto, ed è stato dichiarato monumento di importanza nazionale.

L'ANFITEATRO

IL CD SUI ROMANI IN SVIZZERA

In Svizzera si annuncia un Il CD illustrativo dell'epoca romana in Svizzera, contenente tre tipi di animazione: video clip, panorami e oggetti in 3D. Il CD sarà dotato di testi, di parlato e di video. 


L'ANFITEATRO
Verrà illustrata prima l'epoca pre-romana e poi l'espansione dell'insediamento romano n fino al III sec. d.c.. 

I filmati più lunghi saranno dedicati alla fortezza legionaria e ai suoi edifici, con l'alloggio dei Tribuni, l'Horreum e le caserme delle truppe. 

E' contemplato anche l'insediamento imperiale a Vindobona e nei film per la legione romana vi saranno i dettagli tecnici sulla progettazione e costruzione di strade romane, navi, mezzi di trasporto e tipi di legno usati, con tutti i cambiamenti storici soprattutto in periodo tardo-romano.



CANTON TICINO (giornale scolastico)

ACQUEDOTTO DI VINDONISSA
"In una regione di lingua e cultura italiane, come il Cantone Ticino, con una storia legata in modo preponderante alla romanizzazione, che forti impronte ha lasciato pure su tutto il territorio che forma oggi la Svizzera, anche una moderna SMU non può trascurare una pur limitata formazione di base, comune a tutti, sugli aspetti più importanti di quella civiltà romana che ha determinato non solo la lingua, ma la cultura e la vita delle nostre popolazioni."

Nemmeno in Italia ci si preoccupa tanto del latino e della civiltà romana.
 

PORTA VIMINALIS (Porte Severiane)

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ECCO COME DOVEVA APPARIRE LA PORTA VIMINALIS
"Porta Pia prossima all'antica Nomentana così detta perché conduceva una nomina in Sabina detto volgarmente Lomentona come la firada che conduce E dubbioso se la Viminale sia la medesima credendosi che fosse piùttosto verso la parte che riguarda l'Aggere di Servio Tullio.  


Prese nome dal Colle Viminale così chiamato secondo Pesio per esservi stato un Boschetto di Viminí e in altri luoghi più alti. Topograsi situano la Porta Viminale avanti Aureliano come dicemmo tutti Aggere di Servio tra Porta Pia e Porta di Lorenzo più dentro Roma".

(Francesco Schinardi 1750)

Invece Strabone indica la Porta Viminalis al centro delle mura serviane che stanno tra la Porta Collina e quella Esquilina, corrispondente alla località in cui è stata eretta la Stazione Termini di Roma.

Strabone: «Servio aggiunse alle altre colline l'Esquilino e il Viminale, facili ad attaccare dall'esterno: per questo fu scavata una fossa profonda e rigettata la terra verso l'interno, formando così un terrapieno di sei stadi [almeno sette, in realtà], sul margine interno della fossa. Su questo innalzarono un muro con torri dalla porta Collina fino a quella Esquilina. 

Al centro del terrapieno è una terza porta, che ha lo stesso nome del Viminale».



LA STAZIONE TERMINI

Nel 1865 venne edificata a Roma una grande stazione ferroviaria e l'esproprio dei terreni fruttò ai Massimo, proprietari della bellissima Villa Montalto, la bella somma di 62.485 scudi. Il primo fabbricato venne realizzato nel 1867 ma alla fine degli anni '30, divenne insufficiente e il nuovo progetto, firmato Angiolo Mazzoni, venne ripreso nel dopoguerra da una équipe coordinata dagli architetti Montuori e Vitellozzi, che rinunciarono, però, al gigantesco colonnato d'ingresso di quel progetto, per sostituirlo con un fabbricato frontale.

BOTTINO ROMANO E MURA SERVIANE (STAZIONE TERMINI)
Per l'occasione l'obelisco egiziano dedicato ai soldati italiani caduti a Dogali, situato all'ingresso principale della stazione, venne spostato nel giardino di via delle Terme di Diocleziano.

La stazione oggi, sicuramente molto più ampia e moderna, ma molto meno bella di quella antica, purtroppo abbattuta, conserva aldifuori un tratto delle Mura Serviane.

Queste subirono forti rifacimenti e rafforzamenti nel IV secolo a.c. quando la cinta più antica in cappellaccio fu sostituita con quella in opera quadrata di blocchi di tufo giallo, di cui restano ancora alcuni tratti.

Il tratto serviano della stazione, conservato fino ad oggi, è lungo circa 94 m, con un'altezza di 10 ed uno spessore di 4 m, per un totale di 17 filari di blocchi di tufo di Grotta Oscura, che recano incisi i segni di cava; conservando le linee di sutura tra i vari segmenti eseguiti da cantieri diversi. I blocchi della facciata interna sono lavorati grossolanamente poiché su questo lato vi si addossava il terrapieno. 

La porta Viminalis prendeva il nome dal colle sul quale si aprivano i resti imponenti di un lungo tratto di mura, relativi a rifacimenti di età repubblicana, sono visibili a piazza dei Cinquecento sul lato di via Marsala. A nord della porta Viminalis, all’interno della città, giungevano anche gli acquedotti dell’Aqua Iulia, Tepula e Marcia, di cui si serbava il bottino come i n foto.

La fortificazione in questo tratto comprendeva un terrapieno retrostante le mura e dotato di un fossato (agger), che correva per 1300 m da Porta Collina a Porta Querquetulana, nella parte meno difesa in modo naturale, della città. Parte del muro di contenimento del terrapieno è ancora visibile nel piano sotterraneo della Stazione Termini. Un altro tratto dell’agger è stato messo in luce a piazza Manfredo Fanti.

L'immagine al la è l'edificio denominato "bottino di presa" nel quale sono contenute tutte le vasche e le apparecchiature che danno origine ad un acquedotto. Questa immagine, di Rodolfo Lanciani riproduce appunto il bottino situiato presso la Porta Viminale.



LA DATAZIONE 

La Porta Viminalis risale a circa un paio di secoli prima della costruzione delle mura repubblicane nel 378 a.c. Le quattro porte originarie risalgono all'ampliamento della città operato da Servio Tullio, che incluse nel territorio dell'Urbe, oltre agli iniziali sette colli, anche il Quirinale, il Viminale, l'Esquilino e il Celio.

MURA SEVERIANE SOTTO LA STAZIONE TERMINI
D'altronde il nome delle porte, che deriva direttamente dall'altura cui davano accesso, non può che essere successiva all'inglobamento dell'area nel perimetro urbano.

Le strade a cui davano accesso sembra fossero la via Collatina, o la via Tiburtina. Le distruzioni operate in epoca imperiale per l'edificazione delle Terme di Diocleziano, poi da papa Sisto V che spazzò la zona di ogni resto romano, e per ultimo per la costruzione della stazione di Roma. Sembra ci fosse ancora la Porta Collatina nei pressi di via del Castro Pretorio o nell'area della stazione ferroviaria, e delle strade originarie in tutto il perimetro adiacente.

La porta Viminalis si apriva all'incirca al centro del lungo tratto di mura tuttora esistente in piazza dei Cinquecento, a destra di chi esce dalla Stazione Termini. Il giardino che contorna le mura copre il terrapieno dell'antico aggere, il cui muro di sostegno è ancora visibile nel piano sotterraneo della stazione, di fronte al ristorante McDonald's.

VILLA ZLITEN - (Tripolitania)

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MOSAICO VILLA ZLITEN (1)

AFRICA ROMANA - LA STORIA

146 a.c. - La provincia d'Africa venne conquistata nel 146 a.c. con la III Guerra Punica, combattuta tra Cartagine e Roma.
149 a.c. - Il console Scipione Emiliano sbarcò sul territorio di Cartagine, prese la città, la distrusse e il suo sito consacrato agli dei inferi mediante una cerimonia di execratio. Il territorio della città, venne annesso all'ager publicus di Roma e venne istituita una nuova provincia, nella quale sette città rimasero città libere (civitates liberae).
122 a.c. - Il tribuno della plebe Gaio Sempronio Gracco, capo del partito dei populares, dedusse una colonia sul territorio dell'antica Cartagine per 300.000 ettari.
107 a.c. - Il console Mario, tramite il suo luogotenente Silla, e grazie all'alleanza col re di Mauretania, riuscì a catturare Giugurta nel 105 a.c. La Numidia non venne annessa interamente alla provincia. La città di Leptis Magna, situata in questa regione, rimase libera per essersi schierata a fianco di Roma in questo conflitto. Il regno numida, inizialmente nuovamente suddiviso, divenne protettorato romano.
103 a.c. - Una legge romana concesse ad ogni veterano 252 ettari di terreno africano, pur non venendo fondata alcuna colonia.
48 a.c. - Dopo la sconfitta di Pompeo a Farsalo, i pompeiani si rifugiarono in Africa, dove Cesare sbarcò e vinse l'anno dopo con sei legioni, contando inoltre sull'alleanza col re di Mauretania.
Continuando la linea politica di Mario, Cesare riprese la fondazione di colonie in Africa inviando veterani italici, ma anche gallici o africani, a fondare nuove città sulla costa africana.
40  a.c. - L''Africa riunita venne affidata a Lepido, che ne venne tuttavia privato nel 36 a.c., a causa dei contratti con Ottaviano. 

PARTICOLARE DEL MOSAICO

27 a.c. - Ottaviano riorganizzò le province; le due province dell'Africa Vetus e Nova vennero unificate e classificate come provincia senatoria, retta da un proconsole, con il nome di Africa Proconsolare. Augusto riprese la politica di fondazioni coloniali di Cesare. Il territorio viene organizzato attraverso una rete di città di diversa condizione: municipi e città peregrine. 
17/24 a.c. - Un ex appartenente alle truppe ausiliarie romane, Tacfarinas, riunì intorno a sé una confederazione tribale, i Musulami,con i Getuli, i Cinithii, i Mauretani e i Garamanti, giungendo a circondare completamente i possedimenti romani in Africa. Il conflitto terminò solo quando il proconsole d'Africa riconobbe i diritti di passaggio delle tribù getule sul territorio romano.
69/96 d.c. - La dinastia dei Flavi rilanciò in Africa la politica di promozione del modello urbano, già avviata da Augusto, spostandola tuttavia per lo più in direzione della promozione delle città indigene. 
100 d.c. - L'ultima colonia si ebbe nel 100, al momento in cui la pax romana sembrava ormai estendersi all'intera provincia, con l'arresto delle scorrerie di tribù getule, maure o sahariane. Lo statuto di colonia divenne quindi in Africa puramente onorifico, costituendo un riconoscimento per le città che si fossero più completamente assimilate al modello romano. Per tutto l'alto impero le città d'Africa beneficiarono di un contesto economico particolarmente florido.

PIANTA DELLA VILLA


LA VILLA DI ZLITEN

Zliten è una città posta nel Murqub District della Libia, sulla costa orientale di Leptis Magna. Il sito archeologico della villa, chiamata Villa Dar Buc Ammera, giace a 3 Km dalla città di Zliten. Di questa villa sono noti ritrovamenti di pitture e soprattutto di mosaici, ed è variamente datata tra la fine del I sec. d.c. e la fine del III sec. d.c.

La villa venne scavata ed esplorata nel 1913-1914 e poi nel 1923 da S. Aurigemma. I mosaici della villa sono attualmente conservati al museo di Tripoli.
Gli occhi marcati però riporterebbero alla fine del II sec. d.c. - inizio III sec. d.c. E' anche vero che in Africa i tratti delle figure hanno segni iconografici meno raffinati e molto più tendenti al tardoantico rispetto alla Grecia e all’Asia Minore, in quanto questa aveva maggiori contatti con il mondo ellenistico.

Il mosaico è articolatissimo, molto movimentato, e nulla ha a che fare con lo staticismo dello stile bizantino, per cui anche se le pitture sono state spesso datate al tardoantico, è possibile che siano molto più antiche. A nostro avviso dovrebbero risalire al I sec. d.c., o al più agli inizi del II sec. d.c.

MOSAICO (1) CORNICi
Il mosaico (1) venne scoperto dall'archeologo italiano Salvatore Aurigemma nel 1913 ed ora è conservato nel Museo Archeologico di Tripoli. Vi sono illustrati vari contesti gladiatori, cacce di animali, nonchè scene di vita quotidiana.

Successivamente in questo sito hanno scavato i militari italiani che erano sul luogo, registrando una serie di realtà con l’aggiunta di una planimetria. Si tratta di un tipo di villa di grande impegno decorativo che si rifa in parte alla religione e ai miti, in parte alle attrattive del circo e in parte al quotidiano.

La pianta mostra una serie di ambienti aperti o chiusi verso il mare, a seconda dell'uso e oltre alla parte residenziale c’è una parte destinata ad ambienti termali.  Come tutte le ville della zona, si apre sul mare che si trova a nord.

Dal piano della villa si scende al piano inferiore dove c’è un criptoportico, un disbrigo di servizio oppure un portico sotterraneo; forse come protezione contro il caldo o il freddo, decorato comunque magnificamente. Nel belvedere vi è invece una struttura semi-circolare che riprende motivo di tradizione italica bicolore che si adatta bene ad ambienti circolari.

L’oggetto più famoso della villa, ed anche il più discusso, è il cosiddetto “mosaico dei gladiatori“, realizzato con un mix di tecnica a mosaico e opus sectile (mosaico 1).

Questo mosaico è formato da decorazione geometrica su alcuni lati e da una grande struttura centrale che unisce mattonelle in opus sectile a medaglioni che contengono emblémata (prodotti su base di terracotta e poi inseriti).

MOSAICO (1) - LOTTA CON GLI STRUZZI
Questo è il più famoso dei mosaici della Villa Buc Ammera, detto il Mosaico dei Gladiatori, che consiste essenzialmente di una serie di sedici campi quadrati decorati con disegni geometrici o rappresentazioni di diversi tipi di pesci, con un bordo decorato con immagini di ludi gladiatori.

Le immagini dell'esecuzione di criminali da parte degli animali, che come si vede fanno parte della cornice del mosaico, sono state un tema comune nell'arte antica, che viene anche mostrato negli affreschi di Mérida. E' anche un monito di come l'impero romano si prenda cura della giustizia.

L'uomo che viene ucciso sulla scena raffigurata a destra ha una pelle scura e può essere uno dei Garamantes nativi, forse uno dei prigionieri del generale Valerius Festus nel 70 d.c, all'inizio del regno di Vespasiano, ed eseguito nell'Anfiteatro di Lepcis Magna, come sostenuto da alcuni studiosi..

PARTE DEL MOSAICO DELLE STAGIONI (2)
Questi Garamantes si erano schierati con gli abitanti di Oea, che avevano preso l'occasione offerta dalla guerra civile del 69 a.c. per risolvere alcuni problemi con il popolo di Lepcis Magna.

Il mosaico costituiva il pavimento di una sala da pranzo (triclinium) e offre importanti testimonianze visive per il modo in cui gli antichi Romani organizzavano concorsi nel circo. Le scene rappresentate sono di teatro, di supplizio in senso teatrale e diversi tipi di caccia.

La presenza di queste scene di supplizio risalirebbero alla fine del I sec. d.c., una tematica romana che però noi conosciamo almeno un secolo dopo. Le testimonianze più antiche sono datate quindi al II sec. d.c. ed è allora più probabile che questo oggetto appartenga più a questo periodo che al I secolo d.c. Ciò non toglie che lo stile rimandi al I sec. d.c.

Il lato sinistro mostra una lotta contro gli struzzi. Gli animali uccisi al mattino erano preferibilmente quelli esotici, ed è noto che negli anni '70 del primo secolo un uomo di Lepcis percorreva tutta la Sahara per cercare animali africani insoliti che potrebbero essere uccisi nell'arena (Di Più...). Forse hanno incontrato la loro fine nell'anfiteatro di Lepcis, ma hanno anche avuto un ruolo durante i primi spettacoli del Colosseo di Roma.
Nella cornice del mosaico (1), in alto a sinistra, c’è una barella. Questa, insieme ad altre immagini, riporta al tema dell’anfiteatro. Il tema è rappresentativo della posizione sociale ed economica del dominus che, in conseguenza di questa posizione, è in grado di offrire ai suoi concittadini i giochi. 

CORNICE DEL MOSAICO DELLE STAGIONI (2)
Ci troviamo in un periodo in cui il personaggio di classe sociale più elevata può offrire i giochi alle persone, come fece ad esempio Giulio Cesare, e dopo di lui molti altri, come promozione alla candidatura del personaggio in fase di elezioni amministrative.

Qui sono rappresentate le stagioni. Al centro c'è un insieme di opus sectile e medaglioni a mosaico, e lateralmente vi sono tre emblémata con tematica particolare. Gli emblémata sono fatti su cassette di terracotta che permette il posizionamento di tessere di dimensioni molto sottili.

Le stagioni sono riconoscibili dagli elementi che tengono in mano, come ad esempio la primavera con le ricottine, meno connesse invece al tema dei miti e della religiosità.

È straordinaria la capacità dell’artista di rendere il mosaico dettagliato ed espressivo come una pittura. Sono molto sottolineati gli occhi per dare vitalità alle figure. Anche nel tardoantico sono molto sottolineati gli occhi, ma gli sguardi non sono intensi, anzi sono spenti e inespressivi.

Del resto l'arte esprime l'anima di un popolo in quell'epoca, e lo stato d'animo nel periodo del cristianesimo era tutt'altro che allegro, per il pericolo di invasioni barbariche che non miravano tanto a sottomettere quanto a razziare, distruggere e uccidere, ma pure per una religione che come rifugio offriva solo la rinuncia e l'espiazione.

PARTICOLARE DEL MOSAICO
DELLE STAGIONI (2)
Le figure si presentano tondeggianti, con un mento molto pesante, spalle scese. occhi che sembrano bistrati ma con il bianco che scende aldisotto dell'iride, il che toglie molta forza all'intensità di questo. Del resto tale caratteristica appartenne ancor più allo stile bizantino.

Le due fasce di emblémata laterali rappresentano pesci vivi e stilizzazioni di onde marine → nature vive. È natura viva ma non è osservazione della natura, ma ha a che fare con la tenuta: animali che vivono nel microcosmo della villa.

Poi viene riprodotto un po' ovunque il cosiddetto stile nilotico, come un mondo fantastico costellato di creature sia della fauna che antropomorfe fantastiche.

Si tratta di un mondo ideale, che troveremo in tutto l'impero romano, e di cui le massime manifestazioni sono emerse a Pompei, con creature che personificano le forze della natura, creature soprattutto gioiose, talvolta anche lavoratrici, ma sempre con un tocco d'allegria.

Pur essendo nella parte occidentale della Tripolitania, la tradizione è molto più vicina ad Alessandria e quindi all’Egitto, ma non è per questo che impera il nilotico, quanto per dare all'ambiente un tocco di mondo invisibile allegro e benevolo, costellato di genietti giocosi e industriosi.

Talvolta i temi sono anche caricaturali, compaiono infatti i pigmei, esserini piccoli come bambini ma adulti nelle fattezze, con volti non belli ma buffi, a volte con copricapi strani, tipo la corolla rovesciata di un fiore o la cupoletta di una ghianda.

MOSAICO DELLE STAGIONI (2)
Non mancano scene un po' assurde o un po' comiche, come quella di un pigmeo che combatte contro un airone come se fosse un mostro gigante.

Del resto ricordano gli eroti di Pompei: come l'erote che cavalca le onde in piedi su un granchio di cui tiene le redini, o gli eroti che fanno gli orafi, o pigiano l'uva per produrre il vino, o gli eroti della Villa del Casale che pescano, o i pigmei pompeiani che cavalcano ippopotami e coccodrilli tenuti con le redini.
Per la datazione delle ville romane, negli anni '50, si usò raggruppare alcuni temi di argomenti, raggruppati sotto “ciclo dei latifondi”. Questi temi riguardavano:

- la tenuta (la villa),
- i lavori nella villa (conseguenza dell’importanza accordata alla villa come microcosmo),
- i giochi (circo, teatro, gladiatori)
- le stagioni (perché il ciclo dell’agricoltura si basa sulle stagioni).

MOSAICO CURVO (3)
Tutti questi temi o soggetti sembrano caratteristici del II secolo d.c., come ad esempio appare nella Villa di piazza Armerina che è però databile a 150 anni dopo (325 e 350).

Come a Pompei, nelle ville tripolitane non ci sono solo i miti religiosi ma c'è il gusto della fantasia, della bellezza e del divertimento. La religione perde un po' della sua importanza a favore del quotidiano e del fantastico. Non dimentichiamo che il mito pagano è religione, come per noi la vita di Cristo e dei Santi sono religione.
Come se dicessimo che nel Rinascimento non vi siano quasi esclusivamente affreschi di soggetto religioso (oltre ai ritratti di potenti) ma comincino a fiorire affreschi profani con temi dilettevoli o di fantasia.

Così nella predominanza delle decorazioni naturali e fantasiose, nonchè fantastiche, nei mosaici delle ville romane, nasce una nuova libertà e liberalità, che apprezza la vita per ciò che è, anche se, come la natura, non è esente dai suoi lati crudeli, come i ludi gladiatori o la caccia.
Del resto la natura stessa ha un lato produttivo, fantasioso e stupendo, unito a un lato crudele connesso alle creature carnivore su quelle erbivore. Ciò comporta che nonostante questo lato drammatico dell'esistenza, la vita possa avere dei lati molto belli e godibili, connessi ai giochi e all'eros, che d'altronde la religione pagana non ha mai penalizzato.

Liberato il mito, esso si rende disponibile per rappresentare temi altrettanto importanti nel contesto funerario. Infatti nel corso del II secolo d.c. le tombe si caricano di mosaici, pittura parietale e sarcofagi figurati. La morte fa meno paura, perchè in qualche modo il ricordo dei morti si perpetua fra i vivi. Ma ciò in quanto i morti continuano a vivere e in qualche modo a proteggere i vivi, da qui il culto degli antenati.
Il mito viene utilizzato in ambito funerario in II e III sec. d.c. e contemporaneamente alla caduta del mito, sale questa nuova tematica del tutto profana come immagini, ma in realtà più religiosa della religione, perchè si rifà alla bellezza e alla proliferazione della natura, eterna Venere che affascina, produce e abbandona in un ciclo senza fine.
DIONISO

IL CRIPTOPORTICO
E' un portico sotterraneo che introduceva all'interno della villa. Era la prima impressione del visitatore, ovvero dell'ospite, che da questo comprendeva il gusto, la magnificenza, la ricchezza e il potere del proprietario della villa.
I suoi soffitti ricurvi sono costituiti da grandi campi rettangolari dove ci sono campi ottagonali e lateralmente medaglioni con teste di gorgòne e paesaggi. Al centro vi è Dioniso sulla pantera.

PAESAGGIO RURALE DEL CRIPTOPORTICO
I corpi sono flessuosi, i volti hanno naso greco e labbra piccole e carnose, gli occhi sembrano bistrati, soprattutto nella parte inferiore, i capelli sono morbidi e fluttuanti. Viene da pensare al cinema degli anni venti che in parte, nei suoi eroi cinematografici, si rifece a questo stile.

Ai lati sono visibili capanne ed un paesaggio rurale; vi è una netta differenziazione fra quelle in primo piano e quelle in secondo piano. Sia le costruzioni che le ambientazioni richiamano abbastanza l’Egitto, il paese mitico di cui si favoleggiava a Roma, paese non barbaro, anzi tutt'altro che barbaro, ma con un'arte e dei costumi tanto suggestivi ma così diversi da quelli romani.

Il paesaggio è su fondo bianco, delicatamente accennato, scarno eppure pieno di elegante tranquillità.
Interessante è notare che alcuni di questi elementi come le barche, o le barche sul mare, o i personaggi sulla campagna, con le rocce, o le case o i templi isolati, rimandino un po' al fregio della Farnesina 

FREGIO DELLA FARNESINA
Sembrerebbe che i committenti della villa Farnesina siano vicini a quelli di questa villa. Probabilmente non hanno a che fare, ma ha a che fare la moda romana che detta stile al mondo. Non dimentichiamo che all'epoca Cleopatra portò molto dello stile egizio a Roma, attraverso le sue sfingi, i templi isiaci e serapei decorati secondo l'uso egizio. 

Come al solito i romani prendevano il meglio, mediandolo con lo stile e lo spirito romano, che sul serio prendeva la patria e un po' gli Dei, ma sul resto era fantasioso e godereccio.

Talvolta, o quasi sempre, a seconda della complessità del mosaico, era un pittore a creare il cartone del mosaico, e a volte si firmava perchè ad essere famosi si veniva pagati meglio. Pittore e mosaicista erano due arti totalmente differenti eseguiti da artigiani, ovvero artisti diversi, però ambedue avevano piani di accuratezza e di ispirazione e bravura molto diversi.

MOSAICO DELL'AMBIENTE TERMALE
La ricchezza del committente, ma pure il buon gusto, dettava la scelta della qualità degli esecutori, di certo però la minutezza delle tessere consentiva un mosaico, naturalmente policromo, molto più simile ad una pittura, permettendo infinitesimali sfumature di colori.
Ai limiti dello scavo ci sono degli ambienti termali il cui mosaico è formato da un grande medaglione che occupa quasi tutta la parte dell’ambiente. Il mosaico rappresenta mostri ellenistici, tralci animati con amorini o uccelli, pesci e altri molteplici dettagli naturali.

Naturalmente gli scavi non sono ancora completati, considerando che la sabbia ne costituisce il grande ostacolo perchè il vento tramite essa ricopre in continuazione il suolo già scavato. D'altronde la sabbia asciutta ha consentito la grande conservazione di mosaici e pitture fino ai giorni nostri.

IL ROMANO IDEALE

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"SI FUERIS ROMAE, ROMANO VIVITO MORE"

Citava un famoso detto dell'antica Roma.
Letteralmente significava, se stai a Roma comportati secondo gli usi e i costumi romani.

Ma non era una frase generica, perchè Roma non era una qualsiasi città, ma era la Caput Mundi.
Pertanto erano gli stranieri a doversi integrare a Roma, e non solo dentro l'Urbe, perchè l'Impero romano era l'impero di Roma.

A Roma il 74 % dei cittadini era nato aldifuori della capitale, la più grande città multirazziale del mondo.

Roma era il paese delle opportunità, era l'America di altri tempi, dove chi sapeva fare qualcosa, qualsiasi cosa, aveva la possibilità di lavorare e vivere.

Ma soprattutto Roma è stato il faro della civiltà che ha illuminato il mondo.

Ma quali erano gli usi e i costumi di Roma che tanto li distinguevano dai barbari? Ovvero qual'era il comportamento ideale di un vero cittadino romano?

Doveva essere al massimo, ma senza strafare. Uno dei codici non scritti ma massimamente considerati dai romani era la continenza. godere di tutto ma senza lasciarsi prendere dalla cupidigia.

Un vero romano non ostentava, non si vantava, non gridava, non si ubriacava, non trascurava la famiglia nè i propri beni. Un vero romano aveva un portamento tranquillo e dignitoso, basta guardare una statua romana per comprenderlo. Perfino gli oratori che dovevano affascinare gli uditori lo facevano con modi eleganti, con voce chiara e contenuta e con gesti sobri ma evidenti. Un vero romano doveva saper parlare bene, la retorica, ma doveva pure saper gesticolare bene, cioè con eleganza.

Le età successive hanno abolito la gestualità, fino al 'novecento, e ancora oggi, gesticolare è considerato disdicevole, in realtà il bel gesto ha un grande potere comunicativo, purchè sia misurato e armonioso. Le emozioni, in linea generale, sono piacevoli ed anzi indispensabili, purchè consapevoli e quindi gestite. Questo era l'optimum per i romani. Questo li distingueva dai barbari.



L'UOMO ROMANO IDEALE

LAVARSI E RADERSI

L'uomo ideale romano doveva lavarsi e radersi. Il romano si radeva tutti i giorni, anche negli accampamenti militari, anche in guerra. Radersi significava ricordarsi di essere romani. Mentre gli ausiliari dell'esercito potevano far crescere capelli e barba, i legionari non potevano, perchè loro erano "romani", cioè un popolo superiore. Un romano con pidocchi e cimici era inammissibile, sarebbe stato respinto dai suoi stessi compagni.

Cesare diceva: "I miei soldati si profumano ma combattono bene." Lo stesso Cesare, oltre a sbarbarsi e farsi i capelli si depilava le gambe, e Augusto, che faceva tutto ciò che aveva fatto Cesare, si depilava a sua volta.


IN PALESTRA

Nelle palestre doveva dare il massimo dal che si deduce che i romani fossero abbastanza "palestrati", ma con muscoli veri, dovuti alle varie forme di allenamento, dalla corsa al lancio del giavellotto, dal cesto (pugilato) al pancrazio (la lotta), dal lancio dei pesi al lancio del disco.

Pertanto l'uomo ideale romano doveva essere muscoloso e col ventre piatto, anche perchè poi, divenuto in età di combattere, si allenava nei campus esercitando la corsa, l'arrampicata, il salto, i pesi e doveva pure saper nuotare perchè se occorreva traversare un torrente non si poteva perdere tempo a costruire barche.

Non solo, ma il buon romano doveva saper fare di tutto, perchè in guerra imparava a fare di tutto: lastricare strade, costruire forti e fortini, ponti, case, acquedotti ecc. ecc. L'uomo romano doveva cavarsela in ogni occasione e soprattutto non doveva aver paura di affrontare i pericoli. Cesare ai suoi legionari insegnò pure ad andare a cavallo, e naturalmente Augusto proseguì la tradizione.


LE TERME

I romani andavano alle terme tutti i giorni, uomini e donne, e perfino gli schiavi quando avevano tempo libero. Essendoci acqua corrente non si diffondevano malattie e tutti si lavavano. I romani non usavano il sapone ma avevano degli equivalenti. Uno di questi era: un misto di equiseto in polvere, argilla e olio di oliva, oppure farina di fave, polvere di pomice e olio d'oliva. Si spalmava sul corpo, si lavava e poi si tirava via con lo strigile.

Nelle terme i romani si lavavano, mangiavano e si acculturavano in biblioteca. Ma soprattutto nuotavano, perchè il nuoto era anch'esso una palestra. Ogni soldato romano, anche se proveniva da una zona lontana dal mare, doveva saper nuotare. Frequentemente i legionari traversavano fiumi e mari, e saper nuotare significava sopravvivere. Naturalmente nelle terme c'era anche la palestra, per cui i romani erano si bassini ma pittosto muscolosi.



I VALORI MORALI

Sull'ordine dei valori morali non c'erano dubbi:

1) La Patria. Questo comportava:
- Combattere se la patria chiama.
- L'obbedienza all'Imperatore o al generale
- Dare la vita se la patria lo richiedeva.

Per un romano combattere o almeno aver combattuto per la patria era un dovere indiscutibile. Non solo non era possibile fare carriera pubblica senza il cursum honorum delle armi, ma anche per fare una carriera privata come ad esempio un avvocato o un medico, non ci si fidava di lui se non aveva combattuto onorevolmente.

Era meno grave che fosse un letterato o un poeta ad aver evitato i combattimenti, ma anche su questo delle critiche rimanevano, come si rammarica ad esempio Orazio, che purtuttavia deve seguire in guerra Mecenate.

Ma in famiglia poi madri, suocere e mogli volevano un figlio, o un genero, o un marito di cui andare fiere in pubblico. Non a caso le donne si recavano al tempio di Giunone Lucina a supplicare che il consorte si coprisse di gloria nel combattimento.

2) Onorare gli Dei. Questo comportava:
- Onorare ogni giorno gli antenati e gli Dei preferiti posti nel larario. Un'operazione spettante al padrone di casa che però occupava pochissimi minuti.
- Partecipare alla commemorazione della dedica dei templi del suo quartiere. Non a tutti però, ma solo agli Dei che aveva scelto di onorare. D'altronde la dedica si faceva una volta all'anno per ogni tempio. Certamente non poteva esimersi dalla triade Capitolina, da Marte se era un soldato, da Minerva se era un generale (la Minerva della triade era a parte). Se aveva poderi doveva pure ingraziarsi Cerere, e se cercava l'amore si rivolgeva a Venere.
- Poi c'erano le varie cerimonie: per la deposizione della barba, per il suo primo lavoro nel pubblico impiego, per il matrimonio, per ogni gradino in più della sua carriera, per i funerali, per avere un figlio, per vincere una battaglia e per tornare vivo da essa. Il romano faceva poche cerimonie però partecipava a molte, nel senso che pagava i sacerdoti che le facessero, lui al massimo assisteva, oppure faceva assistere la moglie o i figli o addirittura nessuno. L'importante era aver pagato i sacerdoti per la cerimonia.
- Ottemperare ai voti fatti. I romani facevano spesso voti agli Dei
- Esagerare nel pregare gli Dei era giudicato poco virile e pure ridicolo, proprio per il famoso principio della continenza. Al contrario ignorare gli Dei era pericoloso e poco romano.

3) Essere un buon "Pater familiae". Proteggere la "familia" (famiglia) era il compito del romano ideale, il che significava rispettare moglie e figli. Pur essendo il "comandante della nave", egli doveva rispettare proteggere tutti i suoi sottoposti, servi e schiavi compresi. Ciò significava che il buon padre provvedeva a tutti i bisogni finanziari della famiglia, compresa l'educazione dei figli che poteva avvenire con un pedagogo personale, o in una scuola privata o in una scuola pubblica. Naturalmente il pedagogo costava più della scuola privata mentre quella pubblica era gratuita. In genere a questa andavano gli schiavi. La scuola elementare riguardava maschi e femmine, mentre quelle superiori, di retorica e filosofia riguardavano solo i maschi. Tuttavia nelle famiglie agiate anche le figlie ricevevano un'educazione superiore mediante i pedagoghi.

Essere un buon padre di famiglia non riguardava solo la famiglia stretta ma pure i parenti. Era usanza che se il figlio di un parente rimaneva orfano di ambedue i genitori, oppure di solo padre, il pater familiae se ne faceva carico, badando alla sua istruzione e a volte anche adottandolo.
Infatti Fu Gaio Mario ad occuparsi dell'addestramento in palestra del nipote Giulio Cesare, dandogli anche l'orgoglio della razza e il valore dell'addestramento estremo e continuo, cosa che Cesare riverserà sui propri legionari.

Il buon pater era clemente coi suoi schiavi, evitando di essere troppo severo con loro e dando loro la libertà quando a suo avviso lo meritavano. Sono stati rinvenuti a Roma i colombari dei liberti di Augusto e di Livia, duemila di Augusto e 400 della moglie. Da notare che aveva provveduto anche ai loro funerali e alla collocazione nei colombari di sua proprietà.



LA DONNA IDEALE ROMANA

La donna ideale romana fu per lunghi secoli una schiava, in effetti badava alla casa e ai figli, cioè filava la lana, cuciva, cucinava e teneva la casa pulita. In più onorava e pregava gli Dei e lasciava al marito ogni idea politica. La madre dei Gracchi che si dedicò strenuamente alla vita dei suoi figli fu un esempio per i romani, anche se purtroppo le vennero uccisi ambedue, e vien da pensare che avesse loro insegnato l'onestà e la fierezza ma un po' meno la prudenza.

Già verso la fine della repubblica il suo ruolo era cambiato, e vi erano donne che lavoravano in proprio, con un negozio o un banchetto, o facevano le sarte, o dirigevano i lavori della terra, o svolgevano una professione, ad esempio il medico.

Ma fu con l'impero romano che la donna si emancipò, ottenendo il divorzio e la possibilità di scegliere di sposarsi senza riconoscere l'autorità maritale. Naturalmente nelle classi più povere si tendeva di più ad esercitare il potere sulla donna, ma man mano che si saliva di ceto le donne ebbero sempre più occasioni.

Anche se non andavano nelle scuole pubbliche se non in quelle elementari, le donne delle famiglie abbienti avevano un precettore e studiavano. Vale a dire che il precettore del figlio maschio insegnava pure alle figlie femmine, per cui le romane divennero istruite, accolsero scrittori e poeti nei loro banchetti e gareggiarono con loro.


La caduta della civiltà e dei valori

Con l'avvento della chiesa cristiana la cultura decadde e divenne peccato, le donne poi dovevano essere totalmente ignoranti per venire asservite più facilmente. per la stessa ragione vennero bruciati i libri in generale e soprattutto gli scritti delle donne.

I manoscritti della poetessa Sulpicia, ad esempio, si salvarono perchè furono ritenuti scritti da Tibullo, della donna la chiesa si chiedeva se avesse un'anima, figuriamoci se la ritenevano intelligente. Così tutti valori morali dei romani decaddero facendo posto al servilismo indiscusso rispetto ai dettami della religione che invase ogni attimo della giornata.

Con la caduta dell'Impero romano d'Occidente cadde in effetti la grande civiltà romana, quella della tolleranza religiosa, del riconoscimento dei diritti delle donne, dell'istruzione  e dell'arte. Il mondo bizantino non produsse le belle opere letterarie dei latini, e pure l'arte decadde, divenendo nelle decorazioni labirintica e contorta come la mente dei bizantini. Basta guardarne i volti negli affreschi o nei mosaici per accorgersi degli sguardi vuoti privi di sentimenti e di emozioni.

L'avvento della Chiesa produsse così l'evo oscuro, il Medioevo.


OBELISCO DI ANTINOO

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Obelisco del Pincio a Roma, ovvero l' obelisco di Antinoo. Alto 9 metri, risale all'epoca dell'imperatore Adriano (118-138), che lo aveva collocato davanti al cenotafio (tomba vuota) del suo amante Antinoo.
Si trova sul Pincio dal 1822, per volere di Pio VII. Scoperto nel XVI secolo fuori Porta Maggiore, proviene forse dal vicino Circo Variano, che faceva parte del Sessorium (villa imperiale di Eliogabalo)

Uno dei monumenti più interessanti del parco del Pincio è l'obelisco egizio conosciuto come obelisco Pinciano ma in realtà obelisco di Antinoo, perchè dedicato dall'imperatore Adriano al suo giovane amico annegato nel Nilo nel 130 d.c., forse per salvare l'imperatore stesso o sacrificandosi agli Dei per lui.

Il Pincio in era romana era chiamato Collis Hortolorum, e già durante la repubblica era stato scelto per le dimore residenziali delle famiglie romane più importanti, quali gli Horti di Lucullo e gli Horti degli Acili. Gli ultimi ad abitare il colle furono i "Pinci" che diedero il nome ai giardini, si insediarono qui nel IV secolo in una ricca domus il cui terrapieno noto oggi come il Muro Torto, faceva da muraglione di terrazzamento e di contenimento dei fianchi del colle, sul quale c'erano giardini e padiglioni vari.

Adriano aveva un grande interesse per l'Egitto e per i suoi monumenti che aveva replicato nella sua villa a Tivoli. Dopo la sua morte, Antinoo venne divinizzato ed in suo onore vennero costruiti templi in Egitto e a Roma. In Egitto gli venne anche dedicata una città, Antinopoli. A Roma gli venne dedicato un tempio, che conteneva anche l'obelisco, tra il 130 e il 138, ma di cui purtroppo non si dove fosse ubicato. Secondo una recente ipotesi però, sarebbe stato collocato all'interno degli Adonea sul Palatino. Secondo altri, era stato innalzato nei pressi nel Mausoleo di Augusto.

Questo obelisco, a differenza degli altri obelischi, ad eccezione dell'Obelisco Agonale e dell'Obelisco Sallustiano, era stato portato a Roma dall'Egitto, quando era già diventato provincia Romana. Infatti l'imperatore aveva fatto tagliare la pietra in Egitto con l'intenzione di trasportare l'opera terminata a Roma per porla davanti al monumento eretto in onore di Antinoo.  

I geroglifici però non furono scolpiti in Egitto, ma furono copiati dal monolito dell'Iseo Capitolino e intagliati dagli artigiani locali, che non avevano familiarità con la scrittura egizia per cui le iscrizioni risultarono incerte e con contorni modificati. 

L'obelisco, tagliato in granito rosa, alto 9,24 m ma, ma con basamento e stella compresi, alto 17,26 m, riporta scolpiti dei geroglifici che narrano la triste storia di Antinoo, venne trasferito poi da Eliogabalo, che risiedeva nella villa del Sessorium, nel III sec. d.c., nel Circo Variano, dove costituiva l'elemento principale della spina. e dove fu ritrovato nel XVI sec.

Dopo la morte di Adriano il culto di Antinoo non terminò, ma anzi proseguì fino al trionfo del cristianesimo, che condannò il nome del giovane amante di Adriano alla " damnatio memoriae "; ma dal momento che l'obelisco era stato inciso con geroglifici, nessuno potè decifrarli nè accostarli alla memoria di Antinoo. La lingua egizia e soprattutto i geroglifici, un tempo decifrabili a Roma, a seguito della chiusura delle scuole voluta dai papi cristiani, e alla soppressione di tutti i circoli intellettuali pagani, divenne un grande mistero.

Così mentre i santuari di Antinoo vennero distrutti con statue, affreschi e bassorilievi, come del resto il 90% dei monumenti pagani, l'obelisco potè sopravvivere alla distruzione operata dalla nuova religione emergente.



LE ISCRIZIONI

I geroglifici che lo adornano in tutti e quattro i suoi lati raccontano  la drammatica morte di Antinoo, la sua apoteosi, deificazione ed installazione accanto agli altri Dei, oltre alle notizie sulla creazione della città di Antinopoli in suo onore e all'istituzione di un culto specifico dedicato ad Osiride-Antinoo.

Sul lato sud si chiede che Antinoo venga assimilato con Osiris, equiparato al Dio egizio Amon-Ra per la salvezza futura di Adriano e come premio concesso all'imperatore, che ha costruito questo obelisco.

Sul lato nord è segnalato tra varie altre cose, che una città di nome Antinopolis è stata fondata come un luogo di culto e giochi dedicati al nuovo Dio sul luogo esatto dove Antinoo annegò.

Della fondazione della città e della costruzione ed allestimento di un tempio per Antinoo-Osiride è riportato anche sul lato ovest.

Sul lato est è scolpito un elogio di Antinoo-Osiride con la richiesta rivolta a Thot, il Dio egizio dalla testa di ibis, affinchè conceda ad Antinoo la salvezza della sua anima.



IL RINASCIMENTO

Antonio da Sangallo nel 1525, lo descrisse e lo disegnò, pur essendo ormai crollato e spaccato in due pezzi, dicendo che era posto mezzo miglio fuori Porta Maggiore, nel Circo Navale situato sul lato dell'acquedotto di fronte a San Giovanni, nella vigna di Messer Girolamo Milanese.

L'antiquario Andrea Fulvio, umanista rinascimentale, ricorda l'obelisco di Antinoo nell'Antiquitates Urbis, e lo colloca: "tra la via Labicana e l'Acquedotto Claudio, fuori le mura del monastero di Santa Croce, dove c'era un circo, i cui contorni e le mura si possono ancora oggi vedere nella vicina vigna, con un obelisco rotto in due pezzi abbandonati nel centro".

Pirro Ligorio, nel suo "Libro delle Antichità Romane", del 1553, narra che "l'ottavo circo era quello che oggi senza nome si vede rovinato fuori delle mura moderne, si vedono i segni di questo circo, e vi sono due pezzi dell'obelisco che vi era dedicato, molto bello, e probabilmente eretto qui dall'Imperatore Aureliano ". Per cui il monumento venne chiamato sovente, all'epoca, obelisco Aureliano. 

Nella seconda metà del Cinquecento il Circo e l'area intorno al circo erano di proprietà dei fratelli Saccocci, che nel 1570, scavarono ed estrassero i 3 frammenti dell'obelisco, e felicissimi del ritrovamento, posero una lapide a memoria su uno dei pilastri dell'Acqua Felice, 60 m a sud dove viale Castrense si apre sulla via Casilina.

Nel 1633 l'obelisco venne posto dalla famiglia Barberini nel giardino del loro Palazzo Barberini, senza essere però completare l'opera perchè non venne mai rialzato; venne poi donato al papa Clemente XIV, al soglio tra il 1769 e il 1772, che lo fece trasferire nel Cortile della Pigna in Vaticano.

Infine Papa Pio VII, al soglio dal 1800 al 1823, lo fece trasferire al Pincio, nel viale dell'Obelisco dove si erge a tutt'oggi. L'elemento bronzeo alla sommità dell'obelisco può essere riferito a Clemente XIV quanto a Pio VII, poiché i tre monti e le stelle sono presenti nello stemma di entrambi i papi.

ANTINOO OSIRIDE



In "Beloved and God - The Story of Hadrian and Antinous" di Royston Lambert si trova enunciata un'ipotesi interessante che gli ultimi scavi, condotti nel sito archeologico tiburtino, hanno poi dimostrato essere più di una semplice ipotesi. 

ANTINOO OSIRIDE DI TIVOLI
Considerato il grande amore che univa Adriano al giovane Antinoo (lo storico Elio Sparziano in Vita Hadriani, al capitolo XIV parla della dipartita del giovane e del lutto dell'imperatore affermando testualmente:
"Adriano piange come una donnicciola
ed elencando tutti gli onori che il sovrano volle decretare al giovane amante morto), è facile intuire che l'imperatore non potè o non volle cancellare il ricordo di Antinoo per cui, non potendolo avere in carne ed ossa vicino, fece in modo che ne potesse ammirare le fattezze nelle molte statue e busti a lui dedicati collocandoli nella splendida dimora di Villa Adriana. 

Il grande amore che Adriano nutriva per Antinoo ha indotto a pensare che, come tutti i mortali vogliono piangere sulla tomba dei propri cari defunti seppellendoli in luoghi vicini e facilmente raggiungibili, anche lui probabilmente non avrebbe lasciato il corpo del giovane seppellito chissà dove ma l'avrebbe fatto trasportare lì dove lui poteva averlo vicino: la sua imperiale Villa Adriana.
Ed ecco che i primi scavi condotti nel 2002 hanno permesso di individuare l'Antinoeion.

Solo nel 1896 l'obelisco fu oggetto di studio per decifrarne i segni; la cosa non fu semplice in quanto apparve chiaro subito che non erano stati scritti da scribi egizi "veraci" ma da maestranze (probabilmente romane) che si sforzarono di scrivere in geroglifico. Anche se la traduzione fu impegnativa, si capì che sull'obelisco era riportata tuta la narrazione della biografia di Antinoo e della sua morte.
Fu trovata anche una frase 
"O Antinoo! Il dio che è là che riposa in questo sepolcro, che è all'interno della tenuta agreste del Signore del potere di Roma, egli è conosciuto più di un dio nei luoghi di culto".

Tale frase ha permesso quindi nel 2002 di scoprire l'Antinoeion, all'interno di Villa Adriana, luogo-memoria dove ricordare Antinoo, l'ultimo grande edificio costruito in questa dimora imperiale. L'obelisco quindi inizialmente si trovava nell'Antinoeion poi l'imperatore Elagabalo lo fece rimuovere e trasportare nella sua residenza suburbana per ornare la spina del Circo Variano. 



ANTINEION

L'Antinoeion è uno degli edifici della Villa di recente scoperta. Si tratta di un tempio che aveva la funzione di luogo-memoria dove ricordare Antinoo da vivo, il fanciullo di origine bitinica, divenuto amante dell'imperatore Adriano e morto vicino Besa in Egitto, annegando nel Nilo, nel 130 d.c.

La sua figura fu resa celebre dagli splendidi ritratti antichi e dalla moderna letteratura. Ancora oggi un velo di mistero avvolge la prematura morte del giovane: un incidente, un suicidio, un assassinio o un sacrificio alle divinità? E' comunque certo che, malgrado le circostanze della morte di Antinoo siano ancora oscure, Adriano piombò nella disperazione più cupa.

ISCRIZIONE
Aiuto decisivo per individuare il luogo ove era la tomba di Antinoo, furono gli scavi compiuti sull'accesso a Villa Adriana. Nel 2002 è stato riportato alla luce dalla Soprintendenza per i Beni Archeologici del Lazio un monumento in precedenza completamente interrato situato lungo la strada di accesso al "Grande Vestibolo", davanti le Cento Camerelle.

Si tratta di un vasto edificio costituito da un'ampia esedra semicircolare preceduta da un recinto rettangolare che racchiudeva due templi affrontati. Si conservano solamente le fondazioni in muratura, ma i numerosi elementi architettonici rinvenuti hanno consentito di ricostruire l'alzato dei templi e il portico dell'esedra con colonne tortili in giallo antico. La costruzione del monumento risulta posteriore al 134 d.c., anno del ritorno di Adriano dal viaggio in Egitto.

L'Antinoeion fu pertanto l'ultimo grande edificio realizzato nella Villa; collocato in area marginale e lungo una strada come si conveniva a una tomba, ma anche direttamente visibile dalle stanze del palazzo privato di Adriano (Edificio con Peschiera), per il quale il tempio-sepolcro doveva avere soprattutto la funzione di un luogo-memoria ove ricordare Antinoo da vivo.

Adriano riuscì a far realizzare i due templi, il giardino della tomba e il recinto che li racchiudeva ma non fece in tempo, morendo nel 138, a far edificare la parte monumentale della tomba, la grande esedra (di cui restano le fondazioni), il sacrario di Antinoo-Osiride.

Oltre ai barbari le spoliazioni compiute dalle popolazioni locali per riutilizzare come materiale edile e ornamentale statue, colonne ecc. fecero il resto. Nel giardino per abbellire il monumento funebre dedicato allo sfortunato Antinoo, fu realizzato e collocato anche l'obelisco che ora sta al Pincio


INTERAMNIA PRAETUTTIORUM - TERAMO (Abruzzo)

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INTERAMNIA PREROMANA

« - Roberto Grandini: Ora ditemi, quando questa nostra Patria ebbe principio, e forma di città.
- Giulio de' Fabricii: Già potrei dire aver udito da uomini giudiziosi e di conto, questa città essere più antica di Roma, e che dalli Troiani, che vennero con Antenore fosse edificata, ma non potendo ciò provare con autentiche scritture, ed avendovi Io promesso raccontare le cose, che si possono mettere in vero, per questo il lascio di dire.»
(Mutio De Mutij, Della storia di Teramo dialoghi sette, Teramo, 1893, ma scritto nel 1596)

Già centro dei Pretuzî nella Regione V (Plin., Nat. hist., iii, 110), oggi capoluogo di provincia in Abruzzo, Interamnia si estende sopra una lingua di terra delimitata su tre lati dal fiume Tordino e dal torrente Vezzola confluenti ad E, ed occupa il sito dell'abitato antico. Il suo nome Interamnia dovrebbe derivare dal latino Inter-omnes, cioè "fra tutti", e Praetuttiorum dovrebbe significare "fra i Petruzi"forse ad indicare i vari popoli Petruzi che circondavano la città. In era volgare venne ribattezzata Teramne da cui Teramo.

Era collegata con Roma mediante una strada che, superando il Gran Sasso, attraversava il territorio di Amiternum e si innestava nella via Salaria presso Interocrium. Interamnia era inoltre collegata con Castrum Novum, sulla costa adriatica, con Hadria e con Asculum. La costruzione delle strade consolari, che la collegarono con Roma e il Mar Tirreno, accrebbero la sua importanza strategica e d economica grazie anche agli scambi commerciali.

Da Praetuttii vennero i termini Pretutti, Pretuzzi, Pruzzi. Aprutii, Aprutio, Apruzio e infine Abruzzo, la regione di cui oggi Teramo è capoluogo.



INTERAMNIA ROMANA

Questa è un'iscrizione romana rinvenuta a Interamnia Praetuttiorum - Provincia Picenum - Regio V:

Q(uintus) C(aius) Poppaeei Q(uinti) f(ilii) patron(i) /
municipi(i) et coloniai / 
municipibus coloneis incoleis / 
hospitibus adventoribus / 
lavationem inperpetuom de / 
sua pecunia dant.

Rinvenute nelle Terme di Interamna: due epigrafi con questa stessa iscrizione:
"Quintus Poppaeus e Gaius Poppaeus, figli di Quintus protettore
del municipio e della colonia
a favore dei municipali dei coloni e degli stranieri
per gli ospiti e per i visitatori
pagò di sua tasca delle terme permanenti,"

Era per il cosiddetto "evergetismo romano", un costume per cui un uomo abbiente che mirava a fare carriera politica, acquisiva meriti presso la popolazione, pagando di tasca sua delle opere pubbliche a favore degli elettori. Un costume non pervenuto ai giorni nostri.

TORRE BRUCIATA (Romana e Medievale)
Nel 295 a.c., nella Battaglia di Sentino, i Romani sconfissero la Confederazione italica (Sanniti, Etruschi, Umbri e Galli), ponendo fine alla III guerra sannitica.
Pochi anni dopo, nel 290 a.c. Il territorio Sabino e il territorio Pretuzio furono occupati militarmente dalle legioni comandate dal Console Manio Curio Dentato.
La colonia di Interamnia risale all'età sillana e la sua romanizzazione si colloca agli inizi del III sec. a.c. Durante il I sec. a.c.divenne contemporaneamente municipio e colonia (C.I.L., ix, 5074) godendo pertanto di doppi privilegi.

Frontino (De Controv., 18 s. Lachmann) accenna brevemente alle origini della città: "inter montium Praecutianorum quandam partem oppidi Asculanorum fine circum dari. Sed hoc conciliabulum fuisse et postea fertur in municipii ius relatum."
Secondo Frontino narra l'antica Petrut o Pretut, di origini fenicie, crebbe in dimensioni e importanza fino a divenire la capitale del Praetutium e conciliabulum dei Pretuzi.

L'area dell'antica Interamnia doveva essere delimitata dalla Porta Reale ad est, dalle vie del Baluardo e di Torre Bruciata a nord, da via della Banca ad ovest e da via Stazio a sud.

Il suo perimetro piuttosto rettangolare misurava  circa m 440 × 240, e constava di due nuclei divisi dall'allineamento di via S. Antonio e di Largo Melatini.

Ambedue i nuclei conservano a tutt'oggi le tracce del sistema ortogonale del reticolato stradale, allineato su un cardo e un decumano, confermato tra l'altro dall'orientamento del teatro e dell'anfiteatro nella parte occidentale, e dal rinvenimento di un basolato sotto il Corso De Michetti nella parte orientale.

Il diverso orientamento dei due nuclei è connesso probabilmente con due diverse fasi di sviluppo della città. Sembra che la zona orientale, tra Porta Reale e Largo Melatini, sia da considerarsi il sito originario, mentre nel sito della sua espansione ad ovest dell'abitato, corrispondente alla fondazione della nuova colonia, l'allineamento vertesse su una strada extra-urbana, corrispondente all'attuale Corso Cerulli, che funzionò come cardo del nuovo centro.


Così Interamnia divenne:

Conciliabulum: luogo di riunione e di mercato (cfr Frontino);
- Praefectura iure dicundo; ( funzionario delegato a compiere determinate funzioni dal re, dal magistrato, dal principe o dall'imperatore):
- Dopo la Guerra Sociale venne eletta a Municipium, che perdette tuttavia ad opera di Silla
- Colonia sillana. Perse in quest'epoca lo statuto di Municipio, ad opera di Silla (138-78 a.c.) per la sua partecipazione alla Guerra Sociale (91-88 a.c.), e lo riacquisì in seguito per volontà di Cesare.
- In epoca Augustea, Interamnia fu parte della V regio: il Piceno (la VI regio era l'Umbria e la IV era il Sannio). Il territorio dell'attuale provincia era diviso, da sud a nord, in Ager Hatrianus, Ager Praetutianus, Ager Palmense. 

Del suo passato splendore sono testimoni i resti dell'Anfiteatro, del Teatro e delle Terme, ecc. Il cardo (l'attuale Corso De Michetti) l'attraversava in tutta la sua lunghezza, da largo Madonna delle Grazie e Piazza Martiri della Libertà.

Dopo la caduta dell’Impero Romano, come un po' tutte le città romane, venne saccheggiata e distrutta dai barbari, cioè dai Goti e dai Visigoti. Se la depredazione può venire dal diritto del più forte, la distruzione può venire solo dalla barbarie.

TEATRO

IL TEATRO

Ai margini sud-occidentali dell'abitato antico si trovano i notevoli resti del teatro, databile probabilmente al I sec. a.c., e dell'anfiteatro; il primo compreso certamente nell'area urbana, il secondo situato forse in una zona immediatamente esterna. Esso è uno dei più interessanti e meglio conservati tra gli edifici del Piceno.

Il teatro, locato tra via Teatro Antico e via Luigi Paris, nelle vicinanze del Duomo, nella parte occidentale della città dove giungeva il diverticolo d'ingresso della via Caecilia, seppur utilizzato come cava di materiale lapideo per la costruzione di edifici vicini, in particolare della cattedrale, ha un discreto stato di conservazione, ed è contemporaneo ad altri edifici simili eretti in città limitrofe come: Amiternum, Peltuinum, Hatria ed Asculum.

L’edificio venne scavato nel 1979 dalla Soprintendenza Archeologica a seguito della demolizione di alcune abitazioni private ottocentesche che vi erano addossate. Le parti restanti, relative alle strutture portanti della cavea e che emergono a 3,5 m sotto il livello stradale, testimoniano l’ampiezza dell’edificio che poteva ospitare circa 3000 spettatori. 

Ancora oggi il teatro viene utilizzato per eventi culturali. Alla decorazione scultorea del teatro apparteneva forse una statua femminile panneggiata conservata ora a Chieti, nel Museo Nazionale.

L'ANFITEATRO

L'ANFITEATRO

Collocato ai margini sud-occidentali dell'abitato antico, all'esterno dell'abitato, poi con l'estensione della città inglobato dalle abitazioni che sono avanzate verso ovest. Esso dista solo pochi m ad ovest dal teatro romano e dovrebbe risalire al I sec. dc.; la parte più evidente della residua muratura perimetrale in laterizio dell'anfiteatro è visibile in via San Berardo e nell'area immediatamente a sinistra della Cattedrale.

Non era molto grande, la pianta aveva forma di elicoidale con un perimetro di quasi 300 m, l'asse maggiore misurava 74 metri e l'asse minore 56 metri. Il piano antico è situato a 6 m di profondità rispetto all'attuale livello stradale. Nel perimetro murario si individuano diversi accessi come quello ad arco sull'asse minore dell'ellisse e quello con tre archi affiancati lungo l'asse maggiore. Una serie di passaggi secondari conducevano direttamente alle gradinate per il pubblico, della cui struttura radiale non rimane traccia.

Mons. Giulio Ricci, vescovo e principe di Teramo, nel 1583 scrive che il Vescovo ordinò di rimuovere la terra a fianco del muro degli orti nei pressi della Cattedrale.
- la curva del muro esterno, rinvenuto solo in parte;

RESTI DELL'ANFITEATRO PRESSO
LA CATTEDRALE
Ne emersero:
- l'ingresso originario, con muro radiale al fianco sinistro del Duomo, prolungato verso l'interno dell'Anfiteatro per circa 10 m;
- altro tratto di muro radiale dell'interno dell'edificio, a sostegno alle gradinate fino al centro dell'arena;
- cortina muraria di 12 m;
- tre archi in laterizio dell'ingresso meridionale;
- resti della recinzione esterna con paramento laterizio;
- muri radiali in confluenza al giro esterno dell'edificio;
- sostruzione per le gradinate intorno alla cavità;
- una mano femminile destra di marmo greco che stringe qualcosa.

Fino al 1926 i resti dell'anfiteatro furono confusi con quelli del teatro romano in quanto coperti entrambi da varie costruzioni. Nel 1937 furono eseguiti scavi con l' abbattimento degli edifici addossati lungo la muratura perimetrale del monumento.

Sembra che l'anfiteatro sia stato usato come fortezza perché, nel sottosuolo della struttura, sono stati rinvenuti cunicoli che sembra avessero uno scopo militare. Nel centro storico vi sono vari passaggi sotterranei che collegavano soprattutto le chiese tra loro, come il cunicolo sotto il Duomo rinvenuto nel corso degli ultimi restauri, con il suo proseguimento sotto piazza Martiri della Libertà o come quello nei pressi della chiesa della Madonna delle Grazie.

Nel medioevo l'anfiteatro, come pure il vicino teatro, è stato utilizzato come cava di materiale per la costruzione di vari edifici, in particolare il Duomo del XII sec. sulla parte nord-occidentale dell'anfiteatro. Nella parete destra esterna del Duomo e in alcuni interne, si individuano pietre scolpite asportate dall'anfiteatro.

Attualmente sopra l'anfiteatro è sito il grosso edificio dell'ex Seminario, la cui costruzione nel XVIII sec. devastò le strutture interne.



LE DOMUS ROMANE

DOMUS DI VIA DELL'ANTICA CATTEDRALE


Nel 2007, durante i controlli della Soprintendenza dei Beni Archeologici, sono stati individuati e portati alla luce degli ambienti ambienti di un edificio di età imperiale, scoprendo pavimentazioni musive e una struttura muraria con basi di colonna pertinenti ad un peristilio.

L'edificio, locato nell’area centrale dell’antica città romana, dovrebbe risalire al I sec a.c. Si pensa che le strutture riportate in luce possano appartenere ad un grande edificio privato di cui la domus del leone poteva costituire la parte anteriore e forse la più antica.




DOMUS DI PIAZZA S. ANNA

Il sito archeologico di piazza Sant’Anna, nel centro storico di Teramo, ha restituito, attraverso gli scavi, resti di edifici privati di epoca romana e della successiva cattedrale di Sancta Maria Aprutiensis distrutta da un incendio nel XII sec.

Tali reperti, riportati alla luce per la prima volta da Francesco Savini alla fine del XIX sec., furono oggetto di indagini archeologiche nel secolo scorso, consentendo di ricostruire il quadro storico di tutta l’area che va dall’età imperiale a quella altomedievale del sito in questione

Notevoli i mosaici rinvenuti in tre ambienti di epoca romana, pertinenti ad un edificio privato che fu in uso dal I sec. a.c. al II sec. d.c. con vari rimaneggiamenti. I mosaici si collocano esternamente all’antica cattedrale e si affacciano su un’area scoperta circondata da colonne e con vasca per la raccolta dell’acqua piovana, che altro non può essere se non un peristilio.

Il primo vano ha un pavimento cementizio a base fittile decorato con tessere marmoree bianche che formano un disegno a rombi ed una cornice periferica in tessere bianche.
La sala al centro della domus è decorata con un pavimento cementizio a base litica bianco e nero decorato con un punteggiato di dadi neri in leucocite (selce romana) nel riquadro centrale e con una cornice periferica in mosaico bianco e nero. Un terzo ambiente è rivestito da un pavimento cementizio a base fittile nel quale sono state inserite tessere lapidee bianche e nere senza alcun
disegno decorativo.



DOMUS DI VIA PORTA CARRESE

I recenti scavi archeologici, eseguiti dalla Soprintendenza per i Beni e le Attività Archeologiche dell’Abruzzo, hanno fatto riemergere una domus in via Porta Carrese, nel centro storico di Teramo.
Lo studio delle pavimentazioni musive delle aree di via dei Mille, via del Baluardo, Vico delle Ninfe , unitamente a queste di via Porta Carrese, ha permesso di datare le relative strutture dal II secolo a.c.
al II sec. d.c.

Qui la sovrapposizione degli strati pavimentali raggiunge i cinquanta cm di altezza, con una continua opera costruttiva e ricostruttiva in tutto il tessuto cittadino. I ritrovamenti di via Porta Carrese hanno portato in luce murature italiche e romane di epoche diverse, come la cosiddetta “rosa dei venti”,
realizzata con marmi policromi facente parte di un pavimento in opus sectile.

Si pensa che la domus appartenesse a una struttura pubblica dotata di sistema idraulico, probabilmente una struttura termale o un luogo destinato all’allevamento dei pesci come come spesso usava all'epoca, visto che fino agli anni Settanta, il complesso possedeva una grande vasca, purtroppo ormai demolita nel corso di lavori edili.

Il che vuol dire che per costruire qualcosa, qualcuno ha demolito una vasca romana di duemila anni fa, e che naturalmente non è neppure finito in galera. C'è da meravigliarsi? Non più di tanto, visto che la domus di via Porta Carrese è oggi ignorata e abbandonata da molti anni. Da tanto degrado e incuria delle autorità abbiamo salvato solo due frammenti della decorazione parietale presso il Museo Civico
Archeologico F. Savini di Teramo.



DOMUS DI PIAZZA MADONNA DELLE GRAZIE

Il sito della domus di piazza Madonna delle Grazie è situato tra Via Alfonso de Albertiis e Largo Madonna delle Grazie, nel Parco Ivan Graziani.

L’area archeologica venne a più riprese indagata all’inizio del '900 da Francesco Savini, e dopo recenti scavi condotti dalla Soprintendenza dei Beni Archeologici dell’Abruzzo, sotto la direzione scientifica del Dott. Glauco Angeletti, si è realizzata la destinazione d’uso dell’area.

Si tratta di un grande edificio con tre fasi costruttive:

- una del II sec. a.c.,
- una del I sec. d.c.
- una del III d.c.

Ai primi due periodi corrispondono due abitazioni private, mentre al III periodo si riferisce una grande vasca centrale ad U per la tinteggiatura dei tessuti, della cosiddetta fullonica.

I mosaici presenti appartengono alla prima domus, edificata nel II sec. a.c. Si tratta di un pavimento in cocciopesto con tessere bianche che disegnano all’interno un motivo geometrico rappresentante un rosone composto da rombi. Negli angoli di risulta si trovano quattro caducei (simbolo di Hermes-Mercurio).

L’altro pavimento è ancora in cocciopesto con tessere bianche che disegnano un rosone composto da rombi, mentre negli angoli di risulta si trovano quattro delfini. Nell’ultimo ambiente che risulta essere mosaicato sempre con una pavimentazione in cocciopesto e tessere bianche, è invece rappresentato
un motivo geometrico con un reticolato di rombi.



DOMUS DI BACCO

In occasione dei lavori di costruzione di un edificio civile lungo Via dei Mille sono stati portati alla luce alcuni ambienti di una domus romana databili al I sec. a.c. L’ambiente più grande presenta una pavimentazione in cocciopesto con inserzioni di lastre marmoree.

Un II ambiente conserva un mosaico in bianco e nero: ad un’ampia fascia perimetrale a tessere bianche segue una cornice a tessere nere e al centro una decorazione a motivo a losanghe a
composizione stellare.

Nel III ambiente c'è un mosaico con tessere bianche e fascia perimetrale nera. Al centro spicca un emblema in vermiculatum policromo in cui è
raffigurato Bacco a mezzo busto, realizzato insieme al tappeto musivo.
Il volto del dio è quello di un giovane, egli è coronato da pampini e le sue spalle sono avvolte dalla
pelle ferina.

Il mosaico mostra tessere dai colori luminosi, con differenti sfumature di rosato e d’arancio per il volto, mentre tracce di azzurro e verde per i pampini e la fiera. L’immagine di Bacco è racchiusa da
una doppia cornice a tessere nere e con meandro interno rosato su sfondo bianco. La soglia d’ingresso presenta un mosaico a tessere bianche e nere con motivi geometrici: la cornice rettangolare a doppia fila di tessere nere racchiude losanghe inserite tra due
pelte affrontate.



DOMUS DELLE NINFE

La domus delle Ninfe, e i suoi pavimenti musivi, sono stati rinvenuti all’interno di un edificio del XIX sec. La pavimentazione a mosaico è databile al I sec. a.c. - inizi I d.c., in un ambiente preesistente in signino rosso del II sec. a.c..

La decorazione della soglia, composta da motivi vegetali come cespi e tralci di edera, è inquadrata da una fascia a campi di triangoli. Il mosaico, realizzato in opus tessellatum (tessere di piccole dimensioni) bianco e nero, è costituito da una prima fascia a tessere nere alternata ad una bianca, seguita per tutto il perimetro della pavimentazione, da una decorazione a treccia policroma.

La stessa treccia crea riquadri cassettonati decorati con motivi che si alternano tra loro a mura di città e figure geometriche: triangoli, quadrati posti a 45°,
stelle a quattro punte, tutte con tessere bianche e nere.

Al centro della pavimentazione, riquadri di dimensioni più grandi con decorazioni geometriche di
triangoli e motivi fitomorfi sono realizzati con tessere di colore bianco, verde, rosso e nero.


DOMUS DE LEONE

La domus fu scoperta nel 1891 durante i lavori di ristrutturazione del proprio palazzo dal noto studioso F. Savini, è del tipo ad atrio tetrastilo ovvero con quattro colonne per sorreggere il tetto che faceva confluire le acque piovane nella vasca centrale ( impluvium ).

Il mosaico pavimentale dell’ambiente principale, il tablino, costituisce uno dei più significativi esempi di mosaici di I sec. a.c. in Italia.

Esso è costituito da un tappeto con quaranta cassettoni prospettici dai molteplici colori, campiti al centro da rosoni, fiori e corone di alloro, che incorniciano il quadro centrale composto da una cornice con motivo di treccia a calice policroma, con orlo curvo e divisione verticale.

A questa segue un’altra cornice composta da una ricca ghirlanda di foglie, fiori e frutti (castagne, uva bianca, melograni, susine, pere), popolata da uccelli e retta agli angoli da quattro maschere teatrali (se ne conservano due).
Ma il pezzo più prezioso è il quadro centrale del mosaico, costituito da un emblema che rappresenta un leone, preso leggermente di scorcio, in posizione di attacco mentre artiglia con la zampa un serpente.

L’emblema del Leone è montato su una cassetta quadrata di travertino di piccole dimensioni (cm 54,5×54,5) è stato realizzato in bottega con tessere minutissime ( opus vermiculatum ) che creano un favoloso effetto pittorico, e poi messo in opera nel sito attuale.

Il soggetto dell’ emblema trova confronti stringenti nelle case pompeiane (Casa del Fauno e Casa VIII 2,34), sicché è ragionevole pensare che essi derivino da un originale pittorico comune.



DOMUS DI CIRCONVALLAZIONE SPALATO

Tra 2005 e 2006 sono stati trovati i resti di una domus composta da un ambiente più grande ed uno più piccolo. È difficile ricostruire il sito perché le costruzioni successive ne hanno distrutto buona parte, così la struttura presenta varie fasi che vanno dalla fine del I sec. a.c. al X-XI sec. d.c.

Il settore scavato corrisponde ai vani residenziali o di rappresentanza della domus che non subì cambiamenti nel suo perimetro, ma venne ristrutturata negli spazi interni, in due fasi distinte.
Alla fase più antica appartiene il mosaico a tessere bianche e nere con motivo geometrico ad esagoni, realizzato con una tecnica di esecuzione molto accurata e databile alla prima metà del I sec. d.c.

Tra la fine del II sec. d.c. e il III sec. d.c. la domus subì degli ampliamenti, a questo periodo si rifa il mosaico con decorazione geometrica e tessere bianche e nere, sovrapposto a quello precedente, ma di qualità inferiore. La decorazione geometrica simula la struttura muraria detta isodoma, con file di rettangoli maggiori e minori alternati.
Sul lato Est della stanza si trova un mosaico in bianco e nero composto da quadrati e losanghe adiacenti, esso è incorniciato da una doppia fila di tessere nere che nella fascia più esterna sono posizionate in obliquo, cosa che potrebbe indicare l’esistenza di un ingresso importante ad un ambente esterno.

Nel lato Sud fu costruito un muro divisorio per creare un secondo ambiente nel quale venne rinnovata la pavimentazione con un piano in malta bianca e tessere irregolari, e con una fascia di mosaico a tessere nere lungo il perimetro.


DOMUS PALAZZO MELATINO

Palazzo Melatino, oggi sede della Fondazione Banca Tercas, è una residenza signorile del XIII sec. situata in largo Melatini, nel centro storico di Teramo.
All’interno del palazzo, al di sotto dell’attuale piano di calpestio, si trovano tracce di pavimentazioni antiche relative a differenti fasi di una ricca domus preesistente, che ebbe continuità di vita tra età romana e periodo medievale.

Il pavimento della fase più antica è un mosaico, forse relativo ad un cortile interno aperto (peristilio), in tessere bianche e scaglie di marmo colorate; questo è circondato da una fascia con motivo a scaglie realizzata con piccole tessere di colore rosso, verde e bianco.
Nel III sec. il cortile viene ridotto e tramite la costruzione di un muro divisorio si creano due ambienti distinti; l’ambiente più piccolo viene ripavimentato con un mosaico bianco e nero con motivi vegetali e girali d’acanto.

Tra IV e VI secolo il mosaico dell’ambiente centrale viene ricoperto da un pavimento in lastre di calcare bianco e marmo giallo, rettangolari e quadrate. Ai lati della stanza si trova una fascia decorativa in marmi colorati a motivi geometrici. Sulla soglia di collegamento con il secondo ambiente viene collocato con un mosaico bianco e nero di reimpiego con un motivo a svastica (simbolo che nell’antichità era carico di valore apotropaico).

Una terza stanza alla destra dell’ambiente centrale viene arricchita con un pavimento a base cementizia con frammenti marmorei colorati. Al centro vengono sistemate lastre quadrate marmoree colorate (gialle bianche e nere) in cui viene inserita una lastra circolare di marmo nero.




ALTRI RESTI
MOSAICO DEL TEMPIO LOCALITA' MADONNA DELLA CONA

Il mosaico si trova all’interno del grande tempio di età tardo-repubblicana rinvenuto nel 2000 in località Madonna della Cona, a 3 km dal centro di Teramo, in direzione sud-ovest. La Soprintendenza per i Beni Archeologici dell’Abruzzo hanno riportato alla luce, oltre al tempio, una serie di tombe dell’età del Ferro del popolo dei Pretuzi e sepolture romane d’età repubblicana e imperiale, poste lungo una Via Sacra d’accesso alla Città.

Il tempio, affacciato su questo viale d’ingresso monumentale, occupava una posizione di rilievo lungo la deviazione dell’antica Via Caecilia che, da Roma, conduceva all’odierna Teramo. All’interno dell’edificio di culto, un mosaico a tessere bianche e nere ricopre il pavimento dell’ambiente centrale (cella); è datato della prima metà del I sec. a.c. e risente già del clima di romanizzazione degli stili

Il pavimento della cella (9,20 × 7,45 m), in opus tessellatum, cioè in tessere di pietra di dimensioni piuttosto regolari, disposte su più file a formare una trama omogenea. Le tessere bianche, di 8 mm, sono di calcare, quelle nere di argillite, di provenienza locale. Il pavimento è riquadrato da uno spazio centrale rettangolare delimitato da alcune cornici decorative: una fascia nera, un giro di onde correnti e due ulteriori fasce nere.

Al centro dell’unico lato corto conservatosi, le onde lasciano spazio a una specie di ovale, al cui interno sono raffigurati due piccoli delfini bianchi divergenti. Il sito in località Madonna della Cona, con i suoi ritrovamenti archeologici che vanno dall’Età del Ferro all’epoca romana, è una straordinaria testimonianza del processo di formazione della Città e della progressiva fusione culturale fra la popolazione locale dei Pretuzi e Roma.


SEPOLCRETI

Sepolcreti romani sono stati rinvenuti presso la Stazione Ferroviaria e presso il ponte Messato, a tre km dall'abitato sulla strada statale n. 8o verso il Gran Sasso. Qui si è scoperto un allineamento di monumenti funerari con sepolture a incinerazione del I sec. d.c., lungo un tratto della strada diretta
ad Amiternum.



MUSEO CIVICO

Nel Museo Civico è conservata una piccola ma pregevole raccolta di oggetti antichi; tra questi una serie di ritratti, un gruppo di lastre fittili con rappresentazione di scene teatrali, il cippo di S. Omero con iscrizione sudpicena; nel Municipio una collezione di iscrizioni latine. Proviene inoltre da T. un busto fittile di personaggio virile del I sec. a. C., conservato a Roma nel Museo Nazionale Romano.

TEMPIO DIANA FLAMINIA

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Il Tempio di Diana Flaminia venne promesso durante la guerra ligure nel 187 a.c.. (Livy 39.2.8: aedem Dianae) e dedicato nel 179 a.c. Da Marco Aemiliano Lepido contemporaneamente al suo tempio a  Iuno Regina (poi circondato dal  Porticus Octaviae), entrambi situati presso il circo Flaminio (Livy 40.52.1-3).

Purtroppo, né i resti né l'esatta posizione del Tempio di Diana sono stati identificati, (Richardson 109) e Augusto non menziona il ripristino del santuario emiliano nel suo Res Gestae, anche se avrebbe potuto essere tra gli 82 edifici restaurati ma non nominò singolarmente (RG 19-20).

Dal momento che il tempio non è menzionato nei conti successivi, né nei calendari imperiali, Pietilä-Castrén suppone che sia stato tra i tanti templi e santuari distrutti da Cesare (ad esempio, Tempio e Statua di Pietas, eretti da Marco Acilio Glabrio, Cos. 191 a.c.) per fare spazio al suo teatro (sv. Theatrum Marcelli) nell'area liminale tra il Campus Marzio e il Circo Flaminius (Dio Cass. 43.49.3).

( Fonte )
ESEMPIO DI TEMPIO DISTILO
« Da Spoleto pervenne San Feliciano a Trevi, terra nobile, e solo distante quattro miglia da Fuligno, la quale in latino è detta Trebium o Trevium: nome, tra l'altre ragioni, derivato da Trivia cioè Diana, falsa Dea degli antichi, la quale chiamavano Trivia, ovvero Triforme...

Questa falsa Dea era in quei tempi in questa terra tenuta in gran veneratione che come a Tutelare e 
Protettrice, erasi construtto un gran Tempio e solennizzavasi il culto.

Ma il benedetto prelato, acceso di santo zelo, mandò fuori dal suo petto, abitacolo dello Spirito Santo, parole e concetti tali, e in maniera commosse i Trevani, e sì impetuoso fervore di Spirito li partecipò che loro medesimi demolirono il Tempio; e in quell'istesso sito già dedicato a Diana, in cui dalle cieche e ingannate creature, era stato sì disonorato e offeso il creatore, fu eretta una Chiesa in onore del vero Dio, ove con oblationi immaculate santamente si sacrificasse.
»

Facilmente il santuario deve essere stato distrutto dallo zelo cristiano come la quasi totalità dei templi pagani, ma non all'epoca di Augusto che fu molto pio verso gli Dei e che restaurò tutti gli antichi templi di Roma e altrove. In quanto a Cesare, avrebbe potuto far demolire un tempio ma solo per riedificarlo altrove e più bello e ricco.

Infatti Coarelli postula un restauro augusteo del santuario di Diana basato su degli aurei del 29-27 a.c..che raffigurano nel retro Diana e un piccolo santuario toscano distilo (con due colonne sulla facciata) e prostilo (con un portico di colonne ma solo sulla facciata), con un trofeo navale nella cella sul retro (RIC I2, 273).

Coarelli identifica la rappresentazione numismatica di questo santuario con una delle due piccole sacelle quadrate raffigurate nell'esedra dietro il Teatro Marcelli sulla Tabula Severiana (Rodríguez Almeida, Forma pl 23).

Purtroppo la sua ipotesi è ostacolata dal fatto che la moneta raffigura un trofeo navale e una trinacria nel frontone del tempio, commemorando così l'aspetto navale di Diana (Siciliensis), mentre M. Aemilius Lepidus ha invitato Diana ad assistere le tribù di montagna.

La connessione tra la moneta e il sacello non è sicura, in quanto richiede l'ipotesi che una legittima "restaurazione" del tempio possa incorporare un aspetto diverso della Dea.


Tuttavia, il punto di Coarelli che il santuario di Aemilius a Diana potrebbe essere stato ripristinato in quel punto merita di essere considerato, anche perchè la diversificazione dell'aspetto protettivo della Dea potrebbe attribuirsi ad Augusto che ben doveva rammentarsi e far rammentare al mondo le sue battaglie navali, in particolare quella di Azio.

Sembra che il tempio fosse fatto in mattoni crudi, con due colonne di marmo e una copertura a tetto con tegole cotte. Aveva una cella (secondo alcuni due celle ma non si sa di chi fosse la seconda) e sorgeva accanto al Circo Flaminio che era antecedente (del 221 a.c.).

L'usanza di elevare templi accanto ai circhi era diffusa, sia perchè il tempio diveniva un passaggio obbligato quando il circo era in funzione, e a Roma i circhi funzionavano sovente, sia perchè il piacere non doveva far dimenticare la Pietas verso gli Dei che proteggevano Roma.


CIRCO FLAMINIO

Circo Flaminio

Il circo era situato nella parte più a sud del Campo Marzio, vicino alle rive del Tevere, e secondo Valerio Massimo vi si tenevano i Ludi Plebeii. Per. Tito Livio e Marco Terenzio Varrone vi si tenevano i Ludii Tauri, offerti in onore degli Dei dell'oltretomba. 

Questi giochi si tenevano unicamente nel circo Flaminio, strettamente legati all'area e non potevano essere spostati in un altro circo. Ai Ludii Tauri correvano cavalli e mai carri, però con fantino.

Presso il circo Flaminio sorgevano sei templii:
- il tempio della Pietà nei pressi del Foro Olitorio, distrutto durante la costruzione del teatro di Marcello. 
- il tempio di Marte a nord-ovest del circo,
- il  tempio dedicato ad Apollo, 
- il tempio di Giove Statore,  
- il tempio di Giunone Regina,
- e naturalmente il tempio di Diana Flaminia.

VIA PORTUENSE

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SEPOLCRO DI VIA PORTUENSE
La via Portuense, S.P. 1, è una strada romana costruita alla fine del I secolo d.c. per collegare Roma al Tevere, pertanto al Porto, fatta costruire dall'imperatore Claudio alla foce del Tevere. In epoche precedenti era chiamata via Campana, in quanto destinata a raggiungere il Campus Saliniensis.

ANTICA PORTA PORTUENSIS
La strada partiva da Porta Portese, che sostituisce l'antica Porta Portuensis che era una delle porte meridionali delle Mura aureliane di Roma.

La porta romana si apriva nel primo tratto di mura sulla riva destra del Tevere, proprio dove aveva inizio la via Portuense, all'incirca all'incrocio tra questa e l'attuale via E. Bezzi. e percorrendo il settore sud-occidentale della città fino a uscire dai confini urbani, oltrepassava Ponte Galeria (dove i romani edificarono ponte, acquedotto, strada e necropoli). 

Infine raggiungeva il porto di Fiumicino, dove oggi si erge lo scalo, e dove in epoca romana si insediarono il porto di Claudio ed il porto di Traiano che rifornivano di beni e masserizie la capitale dell'impero.

PORTO DI TRAIANO - NECROPOLIS

1857 - LA VIA PORTUENSE

"Nei primi mesi dello scorso anno 1857 scavandosi, per stabilire la linea della ferrovia che da Roma deve condurre a Civitavecchia, in una delle ultime lacinie di Monte Verde corrispondente sul Tevere a sinistra della salita denominata del Monte delle Piche, poco oltre il V miglio fuori di porta Portese, si incominciarono a rinvenire delle antiche sostruzioni di opera reticolata di egual struttura a quelle che si veggono in questa stessa via circa al II miglio da Roma in prossimità della chiesa di S. Prassede.

Continuandosi pertanto i lavori nel suddetto luogo, si rinvennero una buona quantità di poligoni di selce che per certo servirono all'antica via Portuense, ed, insieme a questi, dei massi squadrati di tufo che ne costituirono i margini, oltre molti pezzi e rottami di anfore e dolii, e qualcuno di questi vasi intero, ma rotto dalla inavvertenza degli stessi cavatori."

(A. Pellegrini)

GLI SCAVI
LA DOMUS

"Col1'inoltrarsi sempre più col taglio delle terre verso il dorso del monte, apparvero delle camere da bagno appoggiate alle menzionate sostruzioni, ma con le pareti rase fino a poca altezza dal suolo. Tuttavia però ciascuna di esse conservava tracce del suo pavimento, ed in alcune vi rimaneva fino alla metà, essendone il resto distrutto forse da quando si misero quelle terre a coltura, poiché fino a questi ultimi giorni vi ci si vedeva piantato un canneto.

I suddetti pavimenti erano di mosaico, ma di quelli i più comuni composti di tasselli di pietra e di lava chiamati bianchi e neri, e con tali colori in un avanzo di essi vedevasi espressa una bella Nereide che fu distrutta il giorno appresso della sua invenzione (sig!) a causa di proseguire i lavori. In queste adiacenze anche si rinvennero molte medaglie per lo più comuni, e vari avanzi di lucerne di metallo, chiavi ed altri utensili.

Nel fine del mese di giugno vennero sospesi i lavori per l'aria malsana che nell'estate è in questi luoghi, ma nel riprendersi questi verso i primi di novembre in continuazione delle menzionate camere altra se ne venne a scoprire col pavimento quasi intero. Esso era degli stessi colori, e disposto ad imitazione di un tappeto a rombi , dove ricorreva intorno un meandro in forma di spina, e quindi una gran linea che ne chiudeva l'opera."

(A. Pellegrini)



SEPOLCRETO

"Verso la fine di aprile s'incominciarono i lavori della ferrovia entro la vigna Ceccarelli non lungi dal descritto luogo, dove cavandosi a poca profondità dirimpetto al casino di detta vigna, si scoprì un sepolcro di forma circolare spogliato del tutto dei suoi ornamenti. Nessun frammento di ornato, né di epigrafi, fu ritrovato presso di esso, eccetto i chiodi di ferro che queste fermarono.


SEPOLCRO TARDO IMPERIALE A CASSONE DIPINTO
Approfondandosi quivi poco più di mezzo palmo dal suo basamento, si rinvenne il loculo rivestito di lastre di pavonazzetto contenente uno scheletro, e poco più oltre di questo monumento altro piccolo sepolcro si rinvenne, in cui il loculo era stato già visitato, poiché vedevasi riempito di terra, spogliato delle lastre e senza ossa.

Proseguendosi quindi i lavori entro la prossima vigna di Molinari, s'incominciò a scoprire un gran basamento di un antico sepolcro rivestito di massi squadrati di tufa, provenienti da cave fattene dagli antichi nei monti qui prossimi. L'interno poi si componeva di un masso solidissimo formato di ciottoli di tufa e di frantumi di mattoni e di selce. Il detto basamento veniva costituito da cinque ordini di pietra formanti ciascuno una risega a misura che saliva, ed era alto in tutto palmi 12 romani, e nell' estremo della sua base era largo palmi 28 per ciascun lato.

L'opera di marmo che sorgeva sopra di esso, venne forse distrutta fino da tempi a noi remoti per servirsi delle pietre che lo adornavano, poiché niun resto di ornato fino al principio di detta base si rinvenne, ma nel proseguirsi lo sterro di essa incominciarono a ritrovarsi i propri cementi; e tra questi sortirono belli avanzi di capitelli di pilastri d'ordine composito, ed un vaso di decorazione scolpito in pietra tiburtina, con rozze sagome, ma di forma elegante. Esso era fatto ad imitazione di un vaso cinerario con quattro manichi, dove in ciascuno era scolpita una maschera, il tutto lavorato in modo da produrre effetto dall'alto in che per certo venne collocato.

Di più si rinvennero vari frammenti delle sue cornici, ed altri avanzi di marmo rastremanti, e perciò da questi e da altri frammenti si puotè discernere essere stato questo uno di quei monumenti di forma molto in uso nel declinare dell'impero degli Antonini, cioè composti con un gran basamento con sopra un riquadro, contenente la camera sepolcrale, con quattro pilastrini negli angoli, e tra essi le protomi ed i titoli dei defunti, e sopra della sua cornice una specie di piramide tronca nell'estremità della cuspide per sorreggere un vaso od altro ornamento.

Tutti questi frammenti furono parte dispersi fra le terre, e parte posti nelle macerie, ad eccezione del vaso, il quale insieme ad altre cose che nominerò in appresso, fu trasportato in Roma al Ministero dei Lavori pubblici, e degli avanzi dei capitelli, i quali ritengo presso di me."

(A. Pellegrini)

SARCOFAGO ROMANO

DUE IPOGEI

"Si vedeva questo monumento attorniato da altri avanzi di sepolcri di epoche posteriori, ed il lato del menzionato basamento che era rivolto al monte, veniva occupato da altra costruzione di opera reticolata, e nel demolirsi questa per estrarre le pietre dal prossimo monumento, vi si scoprì un ipogeo di forma quadrala, largo palmi 10 per ciascun lato, dove all'intorno ricorreva un gradino alto palmo 1, largo 2.

Su questo vedevansi posate cinque olle coi suoi coperchi ripiene di ossette brugiate, e due vasi da libagioni con collo stretto, ma corpulenti, detti dagli antichi gutturnia.
Questi ambedue erano rotti nei loro corpi, e mettendosi le mani entro i fori, si rinvennero pieni di ampolle, o vasi balsamarii di vetro e di terra di varie misure. Vi era pure una lucerna fittile rotta in due pezzi, dove era scolpita un'aquila contornata da una corona di quercia, e varie tazze tinte con vernice nera di quelle dette pocula, e molti altri vasetti per uso delle sacre libagioni.

L'interno di questa cella era rivestito di un semplice intonaco inbiancato, ed in essa penetravasi per mezzo di un foro rotondo nella sua volta del diametro di palmi 4, in cui era ancora la sua pietra che ermeticamente chiudeva, munita da una gran campanella di ferro, per quando occorreva di alzarla. Da detto foro si vidde esservi stato calato un cadavere, del quale ritrovossi la spina dorsale, le costole, ed il femore appoggiato al muro, e con gli ossi dei bracci e delle gambe disposti in modo come vi fosse stato seduto.

Poco più innanzi si rinvenne altra camera consimile, ma già visitata in altri tempi. Erano disposti questi due ipogei tra il basamento del sepolcro e le sostruzioni del prossimo monte, fatte a bella posta, acciò non si dilamassero le terre addosso al descritto monumento. Nelle stesse sostruzioni di opera reticolata si viddero alcuni altri loculi contenenti delle olle con ossa brugiate, ed un'anfora cineraria ripiena di ceneri, oltre di un vaso con un solo manico con piede da posarsi, anch'esso ripieno di ceneri e simile a quelli che gli antichi se ne servivano per portar l'acqua."

(A. Pellegrini)

SEPOLCRO DI VIA PORTUENSE

SEPOLCRETI ALLA MAGLIANA

"A terminare adunque questa relazione non tralascerò di riferire altre lievi scoperte che si fecero presso della tenuta della Magliana. Spianandosi ivi le terre in confine della tenuta della Muratella, si scoprirono molti sepolcri, ma sconvolti in modo da non poterne più tracciare le forme, ad eccezione di alcuni composti di tegoloni che coprivano scheletri. Fra queste rovine però si rinvennero delle anfore cinerarie, e delle tazze fittili da libagioni, oltre di alcuni braccialetti di metallo in forma di serpente, vasetti balsamarì dipinti, anelli di bronzo, qualcuno d'oro, ed infine avanzi di sarcofagi di terra cotta, e molte ampolle di vetro. Molte di queste cose si trasportarono in Roma al Ministero dei Lavori pubblici."

(A. Pellegrini)



IL MESSAGGERO - Giovedì 6 Aprile 2017 -
Roma. affreschi, mosaici e statue: spunta la città sotto la Portuense


Lì dove c’era un drugstore, ora c’è un frammento di città inimmaginabile. Cappelle affrescate, ambienti rivestiti di mosaici e stucchi, colombari intatti, corredi preziosi, ceramiche e statue che echeggiano riti e usi quotidiana di duemila anni fa. Un orizzonte di storia, che racconta la Roma della via Potuense, sorta lungo il tracciato che portava al mare, alle saline (il vero business dell’antichità), a Portus, la ciclopica città portuale dell’impero. 

Siamo in via Portuense 317, al cospetto della Drugstore Gallery. È il progetto ambizioso, quasi una sfida, della Soprintendente per l’Archeologia, Belle Arti e Paesaggio di Roma Margherita Eichberg: riportare alla luce e valorizzare i monumenti di un territorio strategico di Roma a partire dalla sua famosa grandissima Necropoli Portuense. La visita è un tuffo al cuore.

IL PROGETTO. Anni di scavi, studi ed ora il coronamento di un museo speciale che sarà presentato oggi. «Fu l’imperatore Claudio a realizzare la Via Portuensis nella prima metà del I secolo d.C., seguendo il tracciato più antico della Via Campana usato dai romani per gli approvvigionamenti di sale, l’unico elemento con cui conservavano i cibi», racconta Carmelina Ariosto, che con Laura Cianfriglia ha curato il progetto. 
Il sale si raccoglieva al Campus Salinarum, le saline di Maccarese. «Tutta l’occupazione antica utilizza prima la via Campana poi, con Claudio, la Portuense - dice Ariosto - A destra e a sinistra le colline di tufo di Monteverde fungevano da cave con cui è stata costruita mezza Roma. E lungo il tracciato, nei piani più livellati, i romani scelsero di realizzare i luoghi di sepoltura».

IL VIAGGIO. Ed eccola qui raccontata ora la lunga storia ininterrotta della Portuense imperiale. Grandi protagonisti, i mausolei riaffiorati dai sotterranei dell’ex drugstore. Si tratta di tombe di nuclei familiari con resti di affreschi e mosaici, con decorazioni a stucco e nicchie dalle volte a forma di conchiglia. Uno spettacolo. Anche per il sistema di illuminazione che gioca con le sfumature cromatiche ad evocare suggestioni temporale, dal crepuscolo all'alba. «Abbiamo esposto tutto quello che abbiamo ritrovato nel corso degli scavi in quest’area», racconta Ariosto.

IL GUERRIERO. Star del percorso è la tomba del guerriero della Muratella, una sepoltura eneolitico databile fra il 3700 e il 2300 a.C., intatta nel suo scheletro e nel suo corredo di frecce, che non ha riscontri con nessun altro ritrovamento. Sepolto con le gambe flesse, aveva 25 anni al momento della morte. L'inumato era un individuo adulto, deposto supino con gli arti superiori flessi, le mani sul pube e gli arti inferiori piegati verso destra. 

«Dalla posizione dei femori e delle tibie si deduce che l’individuo è stato deposto con le gambe flesse. Il corredo funebre è composto da punte di freccia di differenti dimensioni ed utensili sia in selce che in rame; tra questi ultimi è presente una lama d’accetta». L’aspetto straordinario di tale rinvenimento è che il cadavere «era stato deposto sopra una struttura in materiale deperibile di cui si è conservato solo il calco di forma rettangolare, che potrebbe essere interpretata come una sorta di “lettiga” funebre in legno».

IL RICORDO DI VESPASIANO. Ed ecco un cippo di travertino con un’iscrizione che svela l’intervento dell’imperatore Vespasiano (I sec. d.c.) per il recupero di un’area sacra abusivamente occupata da privati. Il viaggio corre lungo 350 mq, strutturati come spazio polivalente con una biblioteca specialistica per coinvolgere i cittadini del quartiere. 


ROMA XI Municipio
Archeologia, in via Portuense spunta un'antica stazione con terme e sepolcri

La scoperta durante i lavori per il raddoppio della carreggiata. Grazie a un accordo tra soprintendenza  e municipio, l'area risalente a duemila anni fa sarà visitabile su prenotazione.

TERME FEMMINILI
Tra gli ambienti spicca per qualità della conservazione quello che presenta una grande vasca, alta oltre 2 metri, foderata in cocciopesto.

Terme maschili e femminili, una stazione di posta e un luogo di culto. In sostanza, un vero e proprio "hub" risalente a duemila anni fa. Una stazione dotata di strutture di servizio, per il corpo e per lo spirito, destinate a confortare il tragitto di viaggiatori e trasportatori, moltissimi, impegnati a raggiungere i moli di Portus (oggi Fiumicino) o provenienti dai medesimi approdi commerciali per trasferire le merci destinate alla capitale dell'Impero romano.

"I lavori degli ultimi anni confermano la ben nota alta densità di presenze antiche - spiega il Soprintendente Mariarosaria Barbera - attestata dalle fonti scritte e confermata dagli scavi eseguiti negli ultimi decenni. Dopo il restauro le testimonianze restituite dagli scavi, secondo il consolidato orientamento dello Stato, saranno restaurate e esposte al pubblico in una sede della Soprintendenza appartenente al territorio di provenienza".

ARCO AZIACO DI AUGUSTO

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CAPITELLO DELL'ARCO AZIACO DI AUGUSTO
L'immagine qui sopra è tutto ciò che resta dell'Arco di Augusto al Foro. Raccontare, come si fa da secoli, che il crollo dei monumenti romani siano opera di terremoti e di usura, comincia a suonare, oltre falsa, anche ridicola. L'arco venne distrutto con un'opera titanica di demolizione, sicuramente sottoposto a calcinazione, mentre la statua bronzea che la sovrastava venne fusa per quell'opera immane di cancellazione che la Chiesa Cristiana operò sull'intero Impero Romano.

L'arco di Augusto, di cui oggi resta giusto un emblema, era un arco trionfale eretto nel Foro Romano in onore di Augusto. Ci sono stati tramandati due archi in onore di Augusto nel Foro, "l'arco partico" e "l'arco aziaco". Dopo vari studi e saggi archeologici si è infine potuto stabilire che si trattava di due opere distinte, anche se poste a poca distanza l'uno dall'altro.

L'arco di Augusto era simmetrico rispetto al tempio del Divo Giulio all'arco di Gaio e Lucio Cesari, per cui chiudeva con grande impatto scenografico il lato est del Foro Romano, secondo la nuova disposizione dell'età di augusto che aveva escluso alla vista i più antichi monumenti della Regia e del tempio di Vesta.

MONETA RAPPRESENTANTE L'ARCO AZIACO DI AUGUSTO
Questo non perchè Augusto fosse avverso alle antiche vestigia e agli antichi culti che peraltro ravvivò notevolmente, ma perchè doveva anzitutto porre all'attenzione il culto di se stesso, perchè era immensamente ambizioso, e pure perchè temeva grandemente di fare la fine di Cesare, e riteneva che un Dio fosse più difficile da abbattere, prova della sua paura furono gli 800 pretoriani che fece istanziare nel suo palazzo imperiale.

Le fonti antiche ci informano che un arco in onore di Ottaviano venne eretto nel Foro dopo la battaglia di Azio, 31 a.c., e la conquista dell'Egitto l'anno successivo, cioè il 30 a.c., in occasione del suo trionfo celebrato il 29 a.c. Quest'arco è infatti conosciuto come "arco aziaco", cioè per il trionfo dopo la vittoria di Azio, che come narra Dio Cassius, era stato eretto nel Forum per decreto del Senato.
DETTAGLIO DELL'ARCO AZIACO

Una lunga iscrizione, di m. 2,67, scolpita su questo arco venne ritrovata nel 1546, con dedica ad Augusto e la data del 29. Dell'arco ci rimane una rappresentazione monetale. La rappresentazione di un arco di trionfo con quadriga e la scritta IMP CAESAR, eretto per la vittoria di Azio contro Marco Antonio e Cleopatra.

Nella moneta appare da un lato il volto di profilo di un Ottaviano giovanissimo con un naso vistoso che non appare nelle statue, ma si sa che i romani amassero dare un tono caricaturale alle immagini dei potenti sulle monete, il che non dispiaceva ai potenti, perchè quell'ironia consentiva una specie di avvicinamento di una figura così irraggiungibile, il che nascondeva una sorta di benevolenza verso il potente di turno, che il popolo amava e dissacrava.

L'arco a un fornice aveva capitelli di stile dorico, come si vede dall'unico superstite, accoglieva una lunga iscrizione a lettere cubitali dell'impresa di Augusto e faceva da base a una statua di bronzo dorato, come usava all'epoca, dell'Imperator alla guida di una quadriga.

Una sorta di Apollo alla guida del carro solare, tanto più che Ottaviano, che era piuttosto piacevole nell'aspetto, amava identificarsi con questo Dio, come emerse dallo scandalo di un banchetto in cui osò vestirsi con gli attributi del Dio.

RAPPRESENTAZIONE DELL'ARCO PARTICO DI AUGUSTO
Peraltro vicino all'Arco Aziano sono state rinvenute le fondamenta del triplice arco Partico. Per molti anni gli studiosi credettero che questo Arco Aziano, rappresentato sui denarii del 29-27 a.c., fosse stato intenzionalmente demolito per far spazio all'Arco Partiano, ma Nedergaard ebbe seri dubbi sull'esistenza di un arco a singolo fornice in questa locazione.

Si è poi supposto che l'Arco Partiano fosse una rielaborazione dell'Arco Aziano, ma oggi si tende a riconoscere la coesistenza di ambedue gli archi edificati per due diversi trionfi dell'Imperator Augustus.

VILLA DELLE COLONNE (Tolemaide - Cirenaica)

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IL GRANDE PERISTILIO E' DIETRO LA SALA
A QUADRIPARTITO CON LE COLONNE RIALZATE (1)
Tolemaide (Tolmeta in latino) era un antico centro della Cirenaica (una regione storico-geografica della Libia orientale), che sorgeva presso l'attuale città araba di Tolmeita. Il nome della città deriva probabilmente da quello di Tolomeo III Evergete, che sposò Berenice II, figlia di Magas di Cirenaica, ricevendone in dote l'intera regione, annessa all'Egitto.

L'abitato aveva pianta regolare con mura in parte conservate. Gli scavi archeologici hanno rivelato vari edifici ellenistici, tra cui il mausoleo e il cosiddetto Palazzo delle Colonne. Di età romana sono i resti del foro, l'anfiteatro e un arco onorario a tre fornici del sec. IV d.c. Sono state rinvenute anche notevoli sculture di età ellenistica. 

INTERNO STILE TOLEMAICO (2)
Con tale nome sono ricordate altre antiche città dell'Oriente ellenistico che presero nome dai Tolomei: Tolemaide di Palestina, antichissimo centro, subì varie dominazioni e fu colonia romana; una sull'alto Nilo (Tolemaide Hermein), attivo centro culturale; un'altra sul Mar Rosso (Tolemaide Thērón), porto e centro carovaniero.

Nella Tolemaide libica sorgeva il cosiddetto Palazzo delle Colonne, in realtà un'antica domus di Tolemaide, che occupava tutto un isolato del centro cittadino, a nord dell'agorà. 

Alcuni studiosi ritengono risalga all'epoca ellenistica, II - I secolo a.c., altri che risalga al periodo flavio o addirittura traianeo. 

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Venne comunque rimaneggiato nel II secolo d.c, in epoca antonina o severiana. 

Presentandosi come una dimora ricca e articolata si pensa fosse il palazzo dell'autorità locale in epoca tolemaica e poi imperiale romana, fino all'epoca tardo-antica in cui sarebbe stata la sede del governatore della provincia dioclezianea della Libia superiore. 

Sopravvisse nel periodo bizantino, ma con tutt'altro uso, poichè alcuni ambienti furono riutilizzati per attività artigianali.

Alcuni capitelli nel prato indicano il punto dove scavando si possono trovare le rispettive colonne.

Qui la maggior parte del sito archeologico è tuttora sotto terra, ma forse un giorno potrà vedere la luce intatto come venne abbandonato quel giorno del 365 d.c. quando il terremoto che fece scomparire la pentapoli libica, distrusse buona parte della città di Tolemaide.

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LA STORIA

Tolemaide fu una città libica risalente al VII e il VI sec. a.c. e legata alle cinque principali città della Nella Libia orientale c'era la Pentapoli cirenaica di origine greca, con capoluogo Cirene, di cui faceva parte la città di Barca, i cui coloni fondarono all'epoca il porto. 

Poichè il commercio divenne sempre più prosperoso il porto crebbe e richiamò commercianti e residenti, formando un centro che. allargatosi col tempo, finì per formare formare una città a sè stante, a cui fu dato poi il nome di Tolemaide, 

MOSAICO MEDUSA OPUS VERMICULATUM (6)
Nel 331 a.c. la Pentapoli fu sconfitta da Alessandro Magno e, dopo sua la morte, entrò nell'influenza del regno tolemaico, sviluppandosi ancor più In età ellenistica. Nel I sec. d.c. benne conquistata dai romani entrando a far parte della Provincia di Cirene e Creta.

Tolemaide divenne con l’imperatore Diocleziano (244- 313), la capitale della Libya Superior, ma poi a causa delle frequenti incursioni di popolazioni nomadi e l’instabilità della politica spostarono la capitale a Cirene nell’interno del paese.

Subì le invasioni barbariche nel III sec. e nel 365 un terribile terremoto distrusse totalmente la pentapoli e danneggiò Tolemaide che però sopravvisse divenendo capitale della Libya Superior, finchè, nel 428, venne devastata dai Vandali.

A partire dal periodo della dominazione italiana ebbero luogo numerosi scavi, che portarono alla luce il centro e la cinta di mura che lo difendeva. Nel 2001 una missione dell'Istituto di archeologia dell'Università di Varsavia diede corso ad ulteriori scavi archeologici.

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GLI SCAVI DI TOLEMAIDE

Negli scavi sono emersi fino ad ora:

PLANIMETRIA DEI DUE PIANI DELLA VILLA
(clicca per ingrandibili)
- l’anfiteatro databile al III sec. d.c. ricavato in una antica cava di pietra ai margini della città.
- La casa delle quattro stagioni, databile all’inizio del III sec. d.c.. impostata su due peristili intorno ai quali vi sono gli ambienti residenziali. La casa subi’ molte trasformazioni nel V secolo d.c venne aggiunto il mosaico che ha dato il nome al complesso raffigurante le 4 stagioni.
- il teatro. Un edificio a pianta rettangolare e irregolare esterna e semicircolare interna, dovette essere in origine un edificio per riunioni pubbliche e politiche, ma dalla sua forma attuale possiamo riconoscerlo come u teatro acquatico, dove si svolgeva un tipo particolare di spettacolo. 
- la via monumentale dove sorgevano numerosi edifici; 
- le terme pubbliche 
- il tetrasylon 
- l’aula Dorica
- il Palazzo delle Colonne.

CISTERNA DI PALAZZO DELLE COLONNE (11)

DESCRIZIONE

Il Palazzo delle colonne, o Villa delle Colonne, occupa occupa lo spazio di un'insula cittadina, per questo è definito Palazzo, ha la forma di rettangolo allungato e leggermente irregolare, lungo m 164,10 x m 36,45 a nord e 37,60 a sud. 

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E' edificato su un terreno in pendio, che scende da sud verso nord, con ambienti collegati da scale.

L'edificio si snoda intorno all'area monumentale del "Grande peristilio", avente i lati est ed ovest di m 28,90 m e i lati nord e sud di m 24,10, con al centro una piscina, probabilmente aggiunta posteriormente.

La villa deve il nome appunto a questo grande peristilio colonnato a due piani che la ornava e che ospitava un mosaico raffigurante una testa di Medusa in opus vermiculatum (tessere asimmetriche e di varie dimensioni).

Lo spazio a giardino era circondato da colonne ioniche su tre lati e corinzie sul lato nord, tutte con trabeazione dorica. 

L'ingresso a questo settore, posto allo stesso livello, avveniva dal lato est. 

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Su questo spazio aperto confluivano gli ambienti di maggior pregio per riceverne aria e luce. 

Sul lato nord una grande sala a quadriportico con colonne corinzie sorretta da un criptoportico, e sul lato sud due grandi aule, un oecus (salone), con capitelli ornati da teste di Serapide, e un cubicolo (camera da letto).

A nord del "Grande peristilio, ad un livello inferiore, si trovano gli ambienti delle terme private e invece sulla facciata nord, una serie di taberne munite di retrobottega (dove in genere vivevano i proprietari), che si aprivano sulla via.

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Vi è un particolare settore, come un appartamentino a sè stante, che si sviluppa sul lato ovest del settore centrale, ma ad un livello inferiore. con un piccolo atrio con impluvio, dotato di ingresso separato, e un piccolo cortile a nord di esso.

In quest'area un ambiente sotterraneo ha restituito degli scheletri umani e una grande quantità di frammenti ceramici: potrebbe essere stata una prigione oppure forse una tomba familiare, ma è più probabile la seconda ipotesi.

Tutti questi nuclei apparentemente isolati formano in realtà un unico complesso abitativo e sono collegati tra loro da corridoi e scale. Altri ambienti separati si trovano tra il muro che chiude a sud il complesso del Grande peristilio e la facciata meridionale dell'edificio.

I lussuosi ambienti, esterni e interni, avevano numerose colonne con fini lavorazioni, ed erano spesso dipinti e mosaicati. Dei pavimenti restano diversi esemplari conservati al museo di Tolemaide e che riportiamo qui sopra.

A seguito dell'imponente cataclisma del 365 d.c., gran parte del litorale sprofondò di alcuni metri, e, nella foto di cui sotto, si vede una strada che entra nel mare in direzione dell’isolotto sul quale si intravedono delle colonne.



IL TESORO DI BENGASI (tra cui i reperti della Villa delle Colonne)

"Il cosiddetto Tesoro di Bengasi è una raccolta di importanti antichità rinvenute in Cirenaica dopo la I guerra mondiale, durante l’occupazione libica della Libia seguita al crollo dell’impero ottomano.
- Gli oggetti di maggior valore furono trovati nel 1917 nel Tempio di Artemide a Cirene.

- Altro materiale proviene dall’ellenistico Palazzo delle colonne a Tolemaide (tra Cirene e Bengasi), oggetto di scavi a partire dal 1937.
- Un terzo elemento è la collezione Meliu di 2.000 monete. 

In totale il Tesoro di Bengasi comprende 364 monete d’oro, 2.433 d’argento, 4.848 di bronzo, 306 gioielli e 43 altri reperti antichi tra cui figurano anche statue.

Nel 1942, mentre gli Alleati si stavano avvicinando alla Libia, gli archeologi italiani a Bengasi impacchettarono il tesoro che l’anno seguente fu spedito a Roma nei bauli militari. A maggio 1944 i bauli furono trasferiti per ragioni di sicurezza a Cremona e più tardi in Val Brenta, nelle Dolomiti. Dopo la guerra i reperti libici tornarono a Roma dove furono depositati nel Museo Coloniale. Anche se l’Italia non aveva nessun titolo per detenere i reperti, solo nel 1961 la collezione fu finalmente restituita alla Libia. Venne stilato un inventario dattiloscritto, purtroppo senza fotografie. 

Tornato in patria, il tesoro fu collocato nel sotterraneo della banca di Bengasi, situazione che perdurò dopo la salita al potere di Gheddafi otto anni più tardi. Nel 1980 nuovi ritrovamenti archeologici andarono ad arricchire il tesoro.All’inizio di quest’anno, i ribelli hanno istituito a Bengasi il Consiglio nazionale di transizione (Cnt), e Fadel Ali Mohammed è stato nominato presidente del Dipartimento di archeologia. Il 2 giugno ha scritto al procuratore generale, riferendo del furto del Tesoro di Bengasi. Fadel ha anche scritto al ministro italiano degli Esteri Franco Frattini, chiedendo assistenza per la documentazione dei reperti.

Il problema principale è che non esistono tracce fotografiche delle migliaia di reperti, una lacuna che Ensoli descrive come «assolutamente deplorevole» e che renderà difficile, se non impossibile, identificare i pezzi nel caso in cui dovessero apparire sul mercato."
( Fonte )



COMMENTO

PER QUALE RAGIONE IL TESORO NON VENNE MAI FOTOGRAFATO?
Per la stessa ragione per cui non si conosce esattamente la consistenza archeologica e artistica dei maggiori musei italiani:
perchè così questi beni possono venire tranquillamente trafugati.

PUBLIO LICINIO CRASSO DIVITE

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Nome: Publius Licinius Crassus Dives
Nascita: 235
Morte: 183
Gens: Licinia
Professione: Giurista, Generale e Pontefice Massimo
Censore: nel 210,
Pretore: nel 208,
Console: nel 205.


The richest man in Rome, Marcus Licinius Crassus was part of the Triumvirate. He suppressed the spartican revolts, and provided political and financial support for Julius Caesar.
M. LICINIO CRASSO (pronipote 115 - 53 a.c.)
Publio Licinio Crasso (235 - 183) è stato un politico romano appartenente alla gens Licinia (gens plebea originaria dell'etrusca Lanuvio), di provato valore e intelligenza sul campo di battaglia nonchè valente giurista e oratore, e uomo di grande onestà e serietà, tanto da conquistarsi un ampio consenso da parte del popolo.

Venne eletto pontefice massimo nel 212 a.c., succedendo in carica di capo del collegio a L. Cornelio Lentulo Caudino. Secondo quanto riferisce Livio, Crasso dovette concorrere contro due anziani ed illustri esponenti della nobilitas, ricchi di esperienza ed honores: si trattava di Q. Fulvio Flacco, console di quello stesso anno, e di T. Manlio Torquato, e si rivelò all'altezza della carica, malgrado la sua giovane età.

Il fatto che Livio, all’inizio della sua terza decade, non ne dia in alcun modo notizia, esclude, come per tutti gli altri pontefici, che la cooptazione sia avvenuta successivamente. E’ anzi ipotizzabile che essa sia avvenuta diversi anni addietro, considerata la fama di giurista già esperto che certo accompagnava Licinio Crasso al momento della sua elezione a pontefice massimo.

Tra i pontefici molti furono insigniti della carica quando già si erano affermati nella vita politica, fino ad arrivare al consolato. Non è escluso, infatti, che il sacerdozio potesse essere considerato un po’ come il premio da accordarsi a taluno in ragione dei suoi ragguardevoli meriti pubblici. Già da qualche tempo si faceva largo questa inversione di tendenza.

MONETA RAPPRESENTANTE LA GENS LICINIA


La vittoria di Licinio Crasso, alle elezioni del 212, contro i suoi "senes et honorati" avversari, sancì una svolta definitiva: il pontificato non rappresenterà più il coronamento di una carriera politica già percorsa, ma il trampolino di lancio verso di essa, poiché il giovane, sfruttando la sua influenza di sacerdote, poteva offrire favori che gli sarebbero stati restituiti. L'età media dei componenti del collegio pontificale era dunque destinata ad abbassarsi di molto.

Egli indisse per l'occasione splendidi Ludi Votivi, nulla di strano nel carattere sfarzoso di quei ludi allestiti del 212, dal momento che un certo lusso aveva già caratterizzato i giochi edili dei due anni precedenti. Naturalmente era un modo per mettersi in evidenza e farsi eleggere, ma metteva in luce anche le sue capacità di organizzatore.

Crasso riuscì vincitore, nonostante la sua giovane età, divenendo così il terzo pontefice massimo plebeo. Esponente di un'antica gens tornata in auge verso la metà del III sec. grazie all'aiuto dei Cornelii, Publio Licinio Crasso, il primo ad essere insignito dell'epiteto Dives, era nato intorno al 235, e fu cooptato, con ogni probabilità, nel collegio dei pontefici non oltre il 218 (a soli 17 anni quindi di una maturità e intelligenza piuttosto precoci), egli esercitò le funzioni di pontefice massimo dal 212 (a 23 anni) al 183, anno della sua morte.



CURSUS HONORUM

(la sua edilità è discussa)
- censore nel 210,
- pretore nel 208,
- console nel 205.

AUGUSTO SOMMO PONTEFICE
Ebbe la meritata fama di esperto giurista, già fin da giovane, e fu sempre molto legato a Scipione, di cui era anche pressappoco coetaneo: le loro carriere politiche furono parallele, tanto che nel 205 essi occuparono insieme il consolato.

All'epoca dell'elezione di Crasso a pontefice massimo, comunque, Scipione, futuro Africano, era ancora troppo giovane per sostenerlo, ma Crasso poté  contare sull'aiuto di altri esponenti del partito dei Cornelii.

Inoltre, contrariamente ad altri esponenti del partito scipioniano, non venne mai coinvolto in scandali e processi di alcun genere, sempre tenuto nella massima considerazione dall’opinione pubblica, anche per la competenza e la serietà che dimostrò come pontefice massimo.

A conferma della popolarità di cui il giovane pontefice massimo P. Licinio Crasso godeva in quel periodo, lo dimostra il fatto che appena due anni dopo, alla fine del 210, egli è nominato "magister equitum" del "dictator comitiorum habendorum causa", il quale fra l’altro era Q. Fulvio Flacco, il pontefice sconfitto da Crasso alle elezioni del 212, e che certamente non apparteneva al suo stesso partito politico.



IL DIVES

L'appellativo di dives, letteralmente "ricco", gli venne dato dal popolo romano come appellativo di rispetto e considerazione. La parola "dives" infatti, non veniva usata in quel caso col significato di ricco, cosa che non avrebbe costituito alcun apprezzamento, soprattutto dalla plebe, ma nel senso di "prezioso, ricco di qualità". Fu un soprannome usato raramente perchè il popolo romano non era facile ai lunghi entusiasmi, invece Publio fu da tutti apprezzato e rispettato a vita. 



PONTIFEX E CONSOLE

Inoltre la nomina di Licinio Crasso a magister equitum fu imposta dai concilia plebis, segno del favore popolare da cui era sostenuto e, in quello stesso anno, era stato anche investito della carica di censore, quantunque poi avesse preferito non esercitarla, abdicandovi, dato che nel frattempo il collega era morto.

P. Licinio Crasso nel 210, avendo vinto le elezioni, passò direttamente dall'edilità alla censura, senza aver occupato cariche “intermedie” (nec consul nec praetor ante fuerat), bruciando così le tappe della carriera politica, anche qui prova delle sue prestigiose qualità.

Nel 209 venne eletto pontefice massimo e l'anno successivo gli viene inoltre assegnato l'incarico di esercitare la iurisdictio peregrina, unitamente a quello di recarsi là dove il senato avesse eventualmente stabilito.

SCIPIONE L'AFRICANO
Publio Licinio Crasso ebbe modo di avvalersi della sua superiore cultura di giurista, e della competenza acquisita dopo ormai tanti anni di collegio pontificale. Nel 205  raggiunse finalmente il consolato, avendo come collega P. Cornelio Scipione, futuro Africano, reduce dalle imprese di Spagna, grande alleato ed amico personale. P. Licinio Crasso era sì espertissimo in diritto pontificale, ma pure in diritto civile.

All'inizio dell'anno vennero assegnate le province: senza che vi fosse bisogno di procedere alla "sortitio", il pontefice massimo lasciò che a Scipione andasse la Sicilia, e non solo perché l’opinione pubblica faceva pressione in tal senso ma perché la tradizione lo obbligava a non abbandonare l'Italia.

Per questo il pontefice massimo dovette poi subire gli attacchi di Fabio Massimo il Temporeggiatore, ma Scipione parlò pubblicamente, in senato, in sua difesa, spiegando che non avrebbe potuto abbandonare l’Italia, perchè doveva assolvere in patria alle sue incombenze di pontefice massimo, ed illustrandone anche le qualità militari e l'indole coraggiosa, che lo rendevano senz’altro idoneo a restare, per affrontare l’esercito di Annibale.

Publio Licinio Crasso esercitò dunque il suo imperium nel Bruzzio, dove cercò di tenere sotto controllo i movimenti di Annibale; egli non si allontanò dall’Italia neppure l’anno dopo, quando gli fu prorogato il comando che già aveva e in tal proposito Tito Livio ne fece una vera e propria  laudatio. Nei due anni che lo avevano visto impegnato contro Annibale, P. Licinio Crasso si era dunque anche distinto in imprese militari, e ciò segnava il culmine della sua straordinaria carriera.



LA MORTE

P. Licinio Crasso morì nel 183, contemporaneamente al suo grande amico Scipione. Morì quindi a 52 anni, confermato dal fatto che Plut. Cic. 25,3 fa dichiarare dal famoso triumviro Marco Licinio che nessun Crasso prima di lui aveva mai raggiunto la sessantina. Crasso era stato a capo del collegio pontificale per ventinove lunghi anni. In suo onore vennero organizzate grandi celebrazioni funebri, comprendenti una distribuzione di carne, giochi gladiatorii ed un epulum.

Nonostante la magnificenza della cerimonia descritta da Livio, si trattò di un funerale privato, anche perchè la famiglia del defunto pontefice massimo era una delle più facoltose di Roma e poteva permettersi un funerale sontuoso con tanto di ludi gladiatorii.

"M. Licinio Crasso, essendo stato ammalato per molti mesi, morì. Pianse tutta la famiglia e tutte le
ancelle nella stanza da letto compiansero il morto con grande clamore. I servi, avendo allestito l'atrio, posero il defunto nel letto funebre.

Dopo pochi giorni parenti e amici celebrarono il funerale con una grande processione. I servi portavano vecchi ritratti; dietro le serve c'erano le prefiche e i flautisti. Essendosi la processione fermata in piazza, un uomo egregio fece un orazione funebre a Crasso. 

Poi la processione avanzò oltre le mura per porre il cadavere sul rogo funebre. Nella notte i servi davanti agli occhi dei parenti e degli amici bruciarono il morto con il letto funebre. In seguito posero le ceneri nell'urna e l'urna nel sepolcro".

(Tito Livio)


PIANTE SACRE ROMANE

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FICUS RUMINALIS
Qui sopra, nel Foro Romano, le piante sacre di Roma, le più famose, quelle che nel Foro non dovevano mancare mai: il fico, l'ulivo e la vite. Se una di esse moriva veniva immediatamente ripiantata, e se morivano precocemente era segno di sventura.
Ancora oggi queste piante prosperano nel Foro Romano, accanto al Lacus Curtius e all'Arco di Settimio Severo.



FICUS RUMINALIS - Fico Ruminale

La leggenda di Romolo e Remo narra che i due gemelli nacquero da Marte e Rea Silvia dopo che il Dio della guerra aveva posseduto con la forza la giovane vestale di Alba Longa. Essendo prole illegittima, i gemelli vennero quindi strappati alla madre per essere uccisi, ma un servo pietoso li sottrasse a morte sicura adagiandoli piuttosto in una cesta, che fu affidata alle acque del Tevere.

Trasportata dallo straripamento del fiume, la cesta si fermò in una pozza sotto il fico ruminale, nel punto in cui la lupa sarebbe venuta ad allattarli. Secondo alcune fonti, il fico si ergeva alle pendici del colle Palatino, nei pressi della grotta chiamata Lupercale, mentre nell’iconografia è spesso rappresentato con un picchio appollaiato sui suoi rami.

L’etimologia dell’epiteto “ruminale” non è chiara e su di essa fin dall’antichità molti autori classici (tra gli altri Plinio il Vecchio, Tito Livio, Varrone, Plutarco e Dionigi di Alicarnasso) hanno formulato varie interpretazioni. Secondo alcuni deriverebbe dal latino “ruma” (mammella), parola che starebbe all’origine dei nomi di Romolo e Remo (così come, secondo Herbig, del nome della città di Roma, col significato di “prosperosa, generosa, potente”); secondo altri, al contrario, il fico prese il nome da Romolo, tant’è che gli stessi autori latini lo chiamavano talvolta ficus Romularis. Altri infine ipotizzano un’etimologia etrusca.

Ad ogni modo, fin dall'antichità il fico fu collegato alla fondazione di Roma e considerato un albero fausto; era venerato soprattutto dai pastori, che vi si recavano con offerte di latte. Più tardi vennero create due nuove divinità, Jupiter Ruminalis e Rumina.

Sebbene il fico ruminale fosse in origine solamente quello in riva al Tevere presso il quale si era fermata la cesta con i gemelli abbandonati, nel corso dei secoli successivi e fino in epoca imperiale altri alberi di fico furono oggetto di venerazione, talvolta con l'epiteto di "ruminale".

Tra questi il Fico Navio (ficus navia), che secondo la leggenda sorse spontaneo in un luogo colpito da un fulmine (Plinio, Nat. Hist. 15.77) oppure nacque da un virgulto del fico ruminale ivi piantato da Romolo. Lo stesso albero sarebbe poi stato trasferito dal sito originario al Comitium, nei pressi di una statua dell'augure Atto Navio dal quale prese il nome.



ATTO NAVIO

Atto ebbe fin da giovane capacità divinatorie e, dopo aver studiato presso gli Etruschi, divenne il più famoso augure dei suoi tempi. Il re propose di raddoppiare il numero di equites, creando delle nuove centurie e chiamandone tre col suo nome ed altre due con il nome dei suoi sostenitori. Atto Navio, poichè Romolo aveva posto l'ordine equestre sotto l'autorità degli aruspici, negò il consenso ai nomi.

Re Tarquinio allora gli chiese di divinare se le sue intenzioni potessero essere realizzate. Navio, consultato il cielo, dette risposta affermativa. Allora il re fece portare una pietra per affilare ed un rasoio con cui tagliarla: Navio miracolosamente tagliò la pietra e Tarquinio dovette chiamare le centurie Ramnes, Titienses e Luceres posteriores. Una statua di Atto con una pietra da affilare fu posta nel Comizio sulle scale del Senato, proprio da da Tarquinio Prisco.



I GEMELLI E LA LUPA

Se Tito Livio afferma che nel 296 a.c. gli edili Gneo e Quinto Ogulnio avevano eretto "ad ficum ruminalem" un monumento che rappresentava i gemelli e la lupa, Ovidio racconta che alla sua epoca (43 - 18 a.c.) del fico non rimanevano che le vestigia. Plutarco e Plinio (Naturalis Historia 15.77) narrano invece che un fico fu piantato nel Foro Romano in quanto ritenuto di buon auspicio, e che ogni qual volta la pianta moriva veniva prontamente rimpiazzata con una nuova. Tacito aggiunge (Ann. 13.58) che nel 58 d.c. l'albero ruminale iniziò a inaridire: ciò fu visto come un cattivo presagio, ma la pianta risorse con gran sollievo della popolazione.

Il nome di Roma, secondo alcuni deriverebbe da "ruma", cioè mammella, dato che nel mito di Romolo e Remo si narra del loro allattamento da una lupa. In più il fico quando non è maturo secerne una specie di latte. Rumina, la Dea dei poppanti, era venerata in un tempio vicino al ficus ruminalis e a lei si dedicavano libagioni di latte. Inoltre la parola ruma è etrusca, e sembra che gli etruschi non siano stati estranei alla presenza nell'Urbe fin dall'inizio.



ATENA, CHIRONE E L'ULIVO

OLIVUM - Ulivo

I greci antichi consideravano l’olivo una pianta sacra e la usavano per fare delle corone con cui cingevano gli atleti vincitori delle olimpiadi. A quel tempo la pianta non era ancora l’olivo coltivato ma il genere selvatico: l’oleastro.

Secondo il mito ci pensò Atena a trasformare la pianta selvatica in pianta coltivata e da quel momento essa divenne sacra alla Vergine Atena e di conseguenza divenne anche simbolo di castità. Per i Romani venivano dotati di un ramo o meglio di una corona di ulivo gli uomini illustri e a
Roma è una delle tre pante più sacre: Ficus, Olea, Vitis, coltivate nel Foro della  Roma Repubblicana.

Plinio il Vecchio racconta che l’olivo venne introdotto a Roma sotto il regno di Tarquinio Prisco, nel 581 a.c., per diffondersi poi in tutta la Penisola. La prima spremitura, fatta con le olive ancora verdi, e senza rompere i noccioli, dava un prodotto di qualità eccellente. Una seconda spremitura, che schiacciava tutto il resto, forniva un olio ricco di morchia. I residui del frantoio, infine, venivano utilizzati per vari scopi, anche come combustibile per le lucerne, come racconta lo spagnolo Columella.

La tradizione della spremitura a freddo si è conservata inalterata dal mondo romano fino ai tempi nostri e si può trovare ancora, nelle campagne, macine analoghe a quelle descritte da Plinio. In epoca imperiale, Roma importava gran parte dell’olio dalla Spagna e navi cariche di dolia e anfore olearie solcavano il Mare nostrum. Ma i benestanti usavano olio del suolo italico, molto più buono e aromatico.

La cucina romana antica usava come grasso di cottura solo l'olio d'oliva e detestava il burro usato dai popoli nordici barbari e tanto più detestava il grasso di maiale, ambedue caratteristici dei popoli celti.
L'olio era usato anche per le lucerne che venivano accese, oltre che nelle case, nei templi, a onorare le statue degli Dei, ne più ne meno come si accende oggi una lampada a San Gennaro.

Comunque l'ulivo fu simbolo di pace in Grecia perchè la popolazione scelse il dono dell'ulivo di Atena e non il cavallo da guerra di Poseidone, per cui fu una vittoria della pace sulla guerra. Anche a Roma si inneggiava alla pace, soprattutto alla Pax Augusta, tanto che venne eretta anche un'Ara Pacis. Ma, secondo il detto romano: "Si vis pacem para bellum", cioè: Se vuoi la pace preparati alla guerra.

BACCO E L'UVA

VITIS VIVIFERA - Vite

Fin dalla comparsa delle prime civiltà questa pianta ha ricevuto dall’uomo la più grande venerazione, tanto che le fu dedicato uno specifico protettore divino, Dionisio per i Greci e Bacco per i Romani.

La sua coltivazione fu importata nella Magna Grecia dai primi colonizzatori e diffusa in tutta l'Italia probabilmente ad opera degli Etruschi, come testimoniano le raffigurazioni di viti nelle loro tombe, mentre furono poi i Romani a trasferire la coltura della vite a tutte le popolazioni conquistate e fin dove il clima lo permetteva.

BACCO
A Bacco (Bacchus), Dio del vino, della vite e della vendemmia, venne dedicato un culto e una specifica festività: il Baccanale.

Sembra però che non fosse proprio così e che la vite fosse già diffusa in Italia nei popoli preromani, in particolare in Toscana, dove, secondo Giovanni Dalmasso, la vite esisteva da prima della comparsa degli Etruschi; lo proverebbero i reperti di travertino affiorati nella zona di San Vivaldo, dove furono ritrovate impronte fossili (risalenti a circa 3.600.000 anni fa), della "Vitis vinifera" la quale cresceva spontanea.

Era considerata da queste popolazioni simbolo di forza, di capacità di adattamento e di trasformazione, visto che l'uva viene torchiata e distrutta, ma deposta poi nei tini fermenta una nuova vita e crea la bevanda inebriante che consola e rallegra il cuore degli uomini: il vino.

Bacco aveva il capo incoronato di pampini e grappoli, e recava in mano una coppa di vino.

Come spesso accade nei miti, la bevanda che all'inizio veniva usata in modo rituale, dette poi origine all'usanza di bere, ma pure all'alcolismo, in persone o molto fragili o particolarmente colpite dalla sorte. Il vino faceva dimenticare gli affanni.


Altre piante:

Ma c'erano molte altre piante che per gli antichi romani erano sacre, usate nelle cerimonie religiose o civili, ma pure in area più privata, quella che i romani esecravano e temevano, talvolta fosse nociva, ma che parecchi praticavano, in genere le donne: la magia.



LAURUS NOBILIS - Alloro

Considerata in antichità la pianta della metamorfosi e dell’illuminazione, l'alloro è il simbolo della sapienza divina e pertanto consacrata al Dio Apollo. I contadini romani solevano legare tre ramoscelli d’alloro con un cordoncino rosso per propiziare l’abbondanza del raccolto, soprattutto del grano.

Dafne, figlia e sacerdotessa di Gea, la Madre Terra e del fiume Peneo (secondo altri del fiume Lacone), era una giovane ninfa che viveva serena nei boschi correndo e cacciando, ma un giorno Apollo, fiero di avere ucciso a colpi di freccia il gigantesco serpente Pitone alla tenera età di quattro giorni, (naturalmente il Pitone apparteneva alla Dea Terra) incontra Eros intento a forgiare un nuovo arco e si burlò di lui, del fatto che non avesse mai compiuto delle azioni degne di gloria.

Un adulto che si burla di un bimbo lascia perplessi, ma comunque Eros, ferito dalle parole di Apollo, volò in cima al monte Parnaso, prese due frecce, una spuntata e di piombo, destinata a respingere l'amore, che lanciò nel cuore di Dafne ed un'altra ben acuminata e dorata, destinata a far nascere la passione, che scagliò con violenza nel cuore di Apollo.

Da quel giorno Apollo iniziò a vagare disperatamente per i boschi alla ricerca della ninfa, finchè non la trovò ma Dafne appena lo vide, scappò impaurita e a nulla valsero le suppliche del dio che gridava il suo amore e le sue origini divine per cercare di impressionarla.

CESARE LAUREATO
Dafne scappava ma Apollo la incalzava sempre più da vicino, così invocò la Madre Terra che per aiutarla la trasformò in un albero di lauro, un bell'aiuto non c'è che dire.

Nelle Metamorfosi Ovidio racconta in modo un po' diverso la saga di Apollo e Dafne, e cioè che il Dio del sole, innamorato della ninfa Dafne, non era da lei corrisposto.

Questa, esasperata dai tentativi di stupro del Dio, perchè poi questo era in realtà l'innamoramento, e sfinita dalle fughe per sottrarsi alla violenza, chiese l’aiuto di suo padre Penèo, che impietosito decise d’aiutare la figlia trasformandola in una pianta di alloro.

In realtà l'alloro aveva la sua Dea, come il rosmarino, il finocchio selvatico ecc., tutti attributi della Dea Terra che cambiava nome a seconda della zona o del pagus e dell'attributo, come suo attributo era il serpente (che sia Apollo che Ercole ammazzano appena aprono gli occhi), e pure l'omphalos era il suo attributo, che passa sia ad Apollo che a Mitra. La Dea Dafne viene trasformata nei miti prima in ninfa e poi in albero (che poi l'alloro è un cespuglio) e quindi il suo attributo passa ad Apollo e agli uomini potenti o illustri.

Gli antichi romani coltivavano l'alloro ritenendola pianta nobile per eccellenza e ponevano sul capo dei poeti e dei generali vittoriosi un ornamento di forma circolare fatto con ramoscelli di alloro (lauro) come simbolo di gloria e di vittoria. I greci anticamente chiamavano l'Alloro Dafne, in ricordo della Ninfa. Considerata pertanto una pianta nobile per eccellenza era normale coltivarla nei giardini imperiali e gli imperatori romani si cingevano la testa di alloro durante i trionfi e le cerimonie come fosse una corona.

In realtà la corona d'alloro apparteneva alla Musa Clio ( da kleos - gloria) che celebrava la storia delle grandi imprese, cioè l'epica. Poichè però Apollo, ovvero i suoi seguaci, i cosiddetti iperborei, presero il potere in Grecia, le Muse vennero detronizzate ma non cacciate, bensì vennero passate al servizio del Dio Apollo, formandone un corteo artistico.

Ciò dimostra l'antichità dell'usanza, che poi venne assimilata da Roma insieme alle divinità greche e pure al suo glorificante alloro, di cui si cinsero anzitutto i suoi imperatori.

L'alloro veniva masticato dalle pitonesse greche per vaticinare il futuro, in quanto le foglie della pianta sono un po' velenose e un po' inebrianti. Nella magia romana l'alloro non era usato granchè, se non per consacrare corone di alloro benedetto che poi venivano bruciate. Infatti consacrare una corona di alloro a un generale gli auspicava la vittoria, ma dall'altro caso avrebbe portato sventura attirando gli spiriti avversi, per cui veniva consacrata e bruciata subito dopo.

Tale corona, chiamata 'laurea'è rimasta nelle epoche successive come iconografia nella rappresentazione pittorica di poeti ed imperatori, vedi Napoleone che amava farsi ritrarre con l'alloro e ne deriva anche il termine "laurea" e "laureato", cioè cinto di alloro.


PROSERPINA E IL MELOGRANO

MALUM PUNICUM o MALUM GRANATUM - Melograno

Dai tempi più antichi il suo frutto, ricco di semi di un accattivante colore rosso, è considerato simbolo di fertilità ed espressione dell'esuberanza della vita. Il frutto fu chiamato così da malum cioè mela e punicum, cioè cartaginese, perchè così lo chiamò il naturalista romano Plinio il Vecchio, ma solo perchè a Roma venivano importati dalla città di Cartagine, da cui venne prima importata e poi trapiantata sul suolo italico. La sua origine sembra però asiatica.

Nell'antica Grecia la pianta era consacrata ad Era, moglie di Zeus, e ad Afrodite, Dea dell'amore. Ma da Era ad Atena e a Persefone, molte Dee greche e romane portavano in mano questo frutto.
Le spose romane solevano intrecciare tra i capelli rami di melograno, come simbolo di ricchezza e di fertilità.

Il melograno però fu soprattutto legato ai culti dei Sacri Misteri, tanto è vero che nel mito greco arcaico Persefone mangia nell'Ade sette chicchi di melograno, cosa che la obbliga a vivere sei mesi nel mondo dei morti prima di trascorrere altri sei mesi nello splendore dell'Olimpo.

In tutte le antiche religioni la discesa nell'Ade era considerata una presa di coscienza della vita in generale da parte dell'uomo che esplorava così le sue profondità inconsce. Pertanto il significato misterico del melograno era la consapevolezza della vita, e della vita oltre la vita.

In magia erano usatissimi i semi di melograno che avevano funzione di rafforzativo dell'incanto creato, sia per fare guarigioni sia per procurare del male ad altri.



MINTHA - Menta

Ovidio narra nelle sue “Metamorfosi” delle origini della menta. che all'origine era una bellissima ninfa figlia del fiume infernale Cocito. Plutone se ne innamorò ma sua moglie Proserpina, scoperta la storia trasformò la ninfa in una pianta.

NINFA
Come si vede anche se i miti rimaneggiati perdevano il significato originale, qualcosa contengono ancora e qui si comprende il nesso della menta con il mondo dell'aldilà, visto che compaiono gli Dei dell'Ade e che il padre della ninfa era un fiume infernale.

Sempre Ovidio narra che Mercurio e Giove in sembianze umane vagavano attraverso  la Frigia.
chiedendo ospitalità ovunque, ma ogni volta venne negata.

La trovarono in un’umile capanna abitata da Filemone e Bauci, due sposi poverissimi ma innamoratissimi, che strofinarono sulla loro povera tavola foglie di fresca menta per renderla piacevolmente odorosa.

Giove punì i i Frigi per non averlo accolto, ma risparmiò i due coniugi, trasformando la loro povera capanna in un tempio lussuoso e offrendosi di esaudire qualunque loro desiderio. Filemone e Bauci chiesero di diventare sacerdoti del tempio di Gioves e di poter morire insieme.

Quando Filemone e Bauci furono prossimi alla morte, Zeus li trasformò in una quercia e un tiglio uniti per il tronco, ambedue alberi dotati di lunga vita. Questo albero meraviglioso, che si ergeva di fronte al tempio, fu venerato per secoli.

Un’altra leggenda narra che fu Giove a trasformare la ninfa Mintha, che l’aveva rifiutato, nella pianta della menta.

Nell'antica Grecia la menta era dedicata ad Afrodite, però nel suo aspetto ctonio, quindi connessa alla morte.

Era anche dedicata al Dio della guerra Ares e se ne bruciavano mazzetti sulle pire funebri dei soldati caduti in battaglia, ma per donare loro la pace.

I romani la consideravano rilassante e sedativa, tanto che, secondo Seneca, i soldati non dovevano mangiarla perchè gli avrebbe tolto vigore e forze. In effetti la menta era sedativa e tranquillizzante, ottima quindi per placare le passioni e per il mondo dell'aldilà. La menta era usata nella magia per placare le passioni ma soprattutto per connettersi con gli antenati o altri morti che si desiderava contattare.



MYRTUS COMMUNIS - Mirto

Gli antichi greci avevano consacrato il mirto alla Dea Afrodite, infatti durante i Giochi Elei, antichi giochi Olimpici dellVIII sec. a.c., il capo del vincitore veniva cinto da una corona di mirto. Pure nella fatale scelta di Paride, Afrodite vincitrice di bellezza si cinse la testa con una corona di mirto. D'altronde fu un ramo di mirto che coprì le nudità della Dea appena uscita dal mare.

Nell'antica grecia i nomi di molte eroine ed amazzoni avevano tutte la stessa radice: Myrtò, Myrsìne, Myrtìla. Myrtò era un'amazzone che aveva combattuto Teseo come Myrìne era la regina delle Amazzoni, in Libia. Si chiamava Myrsìne una profetessa del santuario di Dodona che per un responso nefasto morì tragicamente.

Il mirto è anche considerata una pianta di buon augurio e di buona fortuna tanto che quando si doveva partire per fondare una nuova colonia ci si cingeva il capo con una corona di mirto come augurio appunto di buona sorte.

Una corona di mirto posta sul capo era anche augurio di buona sorte, in particolare per le persone che si accingevano ad affrontare un lungo viaggio, ma anche i poeti latini che avevano cantato l’amore venivano incoronati con mirto, ma Plinio ricorda che talvolta il mirto sostituiva l’alloro nelle corone offerte ai comandanti vittoriosi. Si presuppone che questa usanza, almeno in Grecia, precedesse quella della corona di alloro.

Il mirto è stato sempre considerato simbolo di fecondità, tanto che Plinio lo aveva soprannominato "Myrtus coniugalis" in quanto si usava nei banchetti di nozze come augurio di una vita serena e ricca di affetti. Secondo la leggenda  romani e sabini, dopo il famoso ratto, si riconciliarono grazie alla forza purificatrice delle fronde di mirto.

Le donne che partecipavano alle feste in onore della Venere Mirtea se ne cingevano le braccia, il capo e le caviglie, ritenendolo un potente afrodisiaco in grado di sollecitare il desiderio e favorire gli incontri.

Tra gli amanti c’era l’uso di cogliere rami di mirto al solstizio d’estate per stringere un patto di reciproca fedeltà, e con una corona di mirto, simbolo dell’unione coniugale, chiamata "coniugalo" si soleva adornare le spose il giorno delle nozze.

Nell’antica Roma era una delle piante simboliche più importanti e secondo Tito Livio l’Urbe era nata nel punto dove era spuntato questo arbusto. Dai romani antichi era considerato una rappresentazione dell’amore

Il mirto però ha anche un significato funebre. Infatti nell'antica Grecia si raccontava che Dioniso, quando era sceso nell'Ade per liberare la madre Semele aveva dovuto lasciare in cambio una pianta di mirto. Da allora il mirto ha rappresentato l'oltretomba ed i defunti. Questa doppia valenza del mirto, esprime l'associazione vita morte che è l'eternarsi dei cicli. La Venere Mirtea era infatti anche Dea dell'Oltretomba.

In magia nell'antica Roma si usava il mirto per placare i morti prima o dopo averli evocati. Il mirto era legato agli antenati, per cui chi doveva intraprendere un viaggio o un'impresa rischiosa invocava col mirto la presenza protettrice degli antenati.



QUERCUUS - Quercia

GIOVE
Nell'antica Grecia era consacrata a Zeus, il padre degli Dei, e secondo alcune leggende un ramo di quercia piantato vicino ad una fonte dell'Arcadia serviva ad evitare i periodi di siccità.

Gli antichi romani la consideravano sacra, inserendola in un elenco di piante "che recano buoni auspici".

Come i greci anche i romani consideravano la quercia sacra a Giove, facendola assurgere simbolo di virtù, forza, coraggio, dignità e perseveranza.

Tanto più che se si stacca un ramo verde di quercia e si appende sui travi, il ramo si conserverà verde molto a lungo, praticamente si seccherà quando le querce, dopo aver perduto totalmente le foglie, le rimetteranno per il nuovo anno.

Inoltre, poichè ha delle radici molto profonde, la quercia se incendiata nel rogo di un bosco, conserva intatte le radici sotterranee, per giunta il suo tronco molto compatto difficilmente brucia troppo, ma si limita a danneggiarsi in superficie.

Pertanto anche ha perso rami e foglie e il suo tronco è tutto nero, l'anno seguente l'albero di quercia rimette le foglie, per cui ha pure il senso dell'indistruttibile, per questo in magia salvaguardava dal fuoco e dalla morte in battaglia.



ROSMARINUS OFFICINALIS - Rosmarino

Rami di questo arbusto erano impiegati nell'antichità nei riti propiziatori ed in quelli funebri (quasi come l'incenso nei giorni attuali), per le caratteristiche che le venivano attribuite di allontanare gli spiriti malvagi.

LEUCOTEA
Nell'antica Grecia era consacrato ad Ares, il Dio della guerra: rami di rosmarino venivano posti tra le braccia dei defunti come simbolo di immortalità dell'anima.

Secondo Ovidio, autore delle Metamorfosi, la prima pianta di rosmarino prese origine dal corpo della principessa persiana
Leucothoe, sedotta da Apollo ed uccisa dal proprio padre per essersi lasciata sedurre (anche se gli Dei difficilmente lasciavano scelta).

Quando i raggi del sole ne lambirono le spoglie lentamente si trasformò in una pianta dalla fragranza intensa, dalle esili foglie e dai fiori viola-azzurro pallido. Da qui l'usanza degli antichi Greci e Romani di coltivare il rosmarino come simbolo d'immortalità dell'anima. In realtà il rosmarino era consacrato alla Dea Leucotea, antica Dea greca e italica, la Dea dell'Alba, detta anche la Dea Bianca (R.Graves - I miti greci).

Il suo nome deriva dal greco rhops myrinos = arbusto profumato. I suoi rametti venivano bruciati nei templi dell’antica Grecia e a Roma, al posto del prezioso incenso arabo.
 
Nell'antica mitologia greca vi si associava Minerva e pure le nove figlie di Mnemosine (la memoria), spesso ritratte con ramoscelli di rosmarino in mano.
Gli studenti greci si coronavano di rosmarino, si dice per la memoria.  Greci e Romani lo bruciavano come l’incenso e ne facevano corone per le feste in onore di Afrodite Dea dell’Amore, finché non fu sostituito più tardi con il Mirto.

Si credeva che questa pianta avesse il potere di allontanare gli spiriti maligni. E' per questo che nelle culle dei neonati si metteva un rametto di rosmarino. Anche gli sposi novelli e i cortei nuziali si addobbavano con il rosmarino.

Nella magia dei romani (ma pure italica) si usava per spazzare il suolo dove si svolgeva l'incantesimo per togliere ogni influenza negativa e l'officiante se ne teneva un rametto in seno come protezione. Alla fine dell'operazione magica il rametto veniva bruciato.



FOENICULUM VULGARE - Finocchio

NINFA
Fu nel fusto cavo del finocchio che Prometeo portò agli uomini dall’Olimpo il fuoco, il dono più prezioso per i mortali.

Plinio sosteneva che il finocchio selvatico potesse curare ben ventidue malattie, tanto era conosciuto tra i romani, sia in cucina che in medicina.

Ma nel suolo italico il suo culto era più antico, perchè c'era la Dea del Finocchio selvatico, le cui sacerdotesse si cingevano il capo con i suoi rametti odorosi danzando nei campi e raccogliendo le erbe estive del finocchio.

Fin da allora usavano bere il vino sacro mescolandolo al finocchio selvatico che ne addolciva e ne migliorava il sapore, per avere infine una visione della Dea.

Da allora spesso gli esperti in vino (sommelier) usano masticare del finocchio tra un assaggio e l'altro. Il sapore del finocchio fa emergere l'autentico sapore del vino e cancella i sapori precedenti.

Però le sacerdotesse della Dea, o ninfa, del finocchio selvatico, maceravano i semi di finocchio nel vino e ne bevevano per inebriarsi e dare responsi, cosa che facevano in rima, perchè era la Dea che parlava in loro.

Tutto questo in ere molto antiche, prima che i romani proibissero il vino alle donne, ma sicuramente certi riti sopravvissero ai romani perchè in segreto si perpetuarono anche nel medioevo, come ben sapeva la chiesa cristiana a caccia di streghe.



VERBENA OFFICINALIS - Verbena

VENERE
Gli antichi Romani consideravano la verbena come pianta sacra per eccellenza, con le cui fronde intrecciavano corone da usare nelle cerimonie religiose.

Però, avverte Servio (nel suo commento all'Eneide di Virgilio, XII 120): "Abusive tamen iam vocamus omnes frondes sacratas" cioè: sbagliamo se chiamiamo verbena tutte le piante con cui si fanno corone sacre, come l'alloro, l'olivo e il mirto.

Insomma, anche per i Romani la verbena era una pianta di cui tutti parlavano, ma la conoscevano in pochi. In realtà la verbena era una pianta sacra che faceva parte del Giardino descritto nelle Argonautiche orfiche.

Ebbe molti nomi tra cui ‘Lacrime di Iside, Lacrime di Giunone, Demetria, Persephonion’; il suo stesso nome la lega a Venere, in quanto 'herba Veneris'.
Santo chiamasi tutto ciò ch'è protetto e difeso contro l'ingiuria degli uomini. La parola santo è derivata dalla voce sagem che significa verbena. Le verbene sono certe erbe che i legati del popolo romano sogliono portare per rendere le loro persone inviolabili, come i legati della Grecia portano quelle si chiamano cerycia."
(Marcianus, lib. 4 Regularum)

Simmaco riferisce che: “quasi alle origini della città di Marte nacque l’uso delle strenne per iniziativa di Tazio, che per primo prese dal boschetto di Strenia delle verbene di arbor felix come auspicio dell’anno nuovo”.

In realtà con ‘verbena’ si indicava ogni ramo di arbor felix usato sia nei sacrifici sia per incoronare gli altari. A Roma si usava per purificare l’altare di Giove (e nelle cerimonie di purificazione in generale) e per le missioni dei Fetiales; tali verbene erano raccolte sulla Rocca Capitolina.

Plinio ci informa che i Druidi la coglievano ritualmente, poichè i druidi ne bevevano un infuso, prima di profetizzare, in grado di facilitare la visione di cose future o nascoste.

Lo studioso romano narra anche che le sue foglie e i suoi rami erano anche usati per purificare e profumare gli ambienti; il decotto di verbena veniva usato per profumare i pavimenti e i divani prima di un simposio, in modo da aumentare la gaiezza dei partecipanti..

Dioscoride, e sulla sua scia moltissimi naturalisti antichi, la riteneva un’erba miracolosa e una panacea in grado di curare tutti i mali. Alcuni fanno derivare il suo nome da Venere, per le sue proprietà afrodisiache, confermate da Ippocrate - che raccomanda il decotto di verbena per curare la sterilità delle donne- .

ARIANNA

TIMO

Sin da tempi antichissimi il timo è una pianta sacra, in quanto legato alla api, dalle quali è ricercatissimo, come già descritto dal poeta latino Virgilio nell'Eneide. L'ape in tempi arcaici era simbolo della Dea Ape che era Dea primigenia della natura. Le api non dipendono dai maschi ed hanno una gerarchia lavorativa tutta femminile.

La capacità del timo di fornire le api per la creazione del miele era visto come capacità di trasformazione quasi miracolosa.

Per gli antichi greci il timo era simbolo di vitalità (da thumos, soffio vitale): essi credevano che la pianta si fosse originata dalle lacrime di Arianna, emesse a causa dell'abbandono dell'amato Teseo.

Il pianto della bella Dea però attrasse le attenzioni di Dioniso che l'amò da subito e la prese in sposa con un sontuosissimo banchetto a cui parteciparono gli Dei tutti. Arianna stessa poi divenne partecipe della reggia dell'Olimpo, entrando a far parte degli dei immortali..

Il timo era usato nei riti delle cerimonie sacre per il suo fumo dalle proprietà ritenute disinfettanti. Le famiglie romane spesso ne cospargevano i pavimenti nei banchetti per profumare la stanza.
Il timo era piuttosto usato in magia per le fatture d'amore, insieme al miele e al vino.



NOCI

L'albero del noce, e pure il suo frutto, la noce, erano sacri al culto di Diana Caria, culto antichissimo ed esclusivamente femminile, tanto che il maschio che osava violare i Sacri Misteri collegati al culto veniva punito con la morte.

ARTEMIDE CARIA
Il culto, di origine greca, aveva tra la Laconia e l'Arcadia un famoso e splendido tempio di Artemide Karya, o Artemide Kariatys o Diana Caria, cui era sacro il noce e il suo frutto, e le fanciulle spartane danzavano e cantavano attorno alla statua di Diana Caria, così come le sacerdotesse cariatidi, danzavano intorno all’albero sacro e facevano le “cose loro” nel tempio.

Il noce ha un tardo frutto autunnale simile a un labirinto, ovvero ai meandri di un cervello, che quindi lo riguardava, avvolto dall’amaro mallo che si secca e muore scoprendo un guscio duro che avvolge il seme.

Il Mistero Sacro prevedeva che anche nell'uomo qualcosa si dovesse seccare e morire per scoprire il prezioso seme che giace in lui, ma questo non lo sapevano gli uomini, bensì lo sapevano le sacerdotesse: appunto le cariatidi.

Il rito era assolutamente proibito ai maschi, pena la morte, tranne un rito pubblico annuale a cui partecipava tutto il popolo, e di fronte a cui le sacerdotesse danzavano e cantavano, ma non facevano le “cose loro”. Anche le spartane danzavano intorno alla statua della Dea, la Dea del noce, che si ergeva in in ampio spazio aperto, il suo aedes sacro.

Il noce è un albero imponente e nodoso, che di per sè ha qualcosa di magico. Non solo fu sacro a Diana, ma pure a Dioniso perchè nei Misteri Dionisiaci le Menadi, o Baccanti che dir si voglia, cioè le sacerdotesse del Dio, danzavano sfrenate attorno ad un albero di noce, che nel frattempo era diventato sacro anche a Dioniso, Dio dell'ebbrezza e delle profondità  dell'anima.

Aveva, ed ha, il suo frutto, la noce, uno stranissimo frutto la cui unica parte commestibile è il seme all'interno. Questo però è ben custodito da una parte legnosa che lo riveste come un sarcofago, durissimo da aprire. A sua volta il guscio è custodito dal mallo, un rivestimento molle color verde brillante, bello a vedersi ma amarissimo nel sapore.

Per nutrirsi del seme, ottimo simbolo dell'essenza dell'anima, occorreva togliere l'amaro mallo e spaccare il guscio ligneo. Un lavoro simile al cosiddetto "Nosce te ipsum" o "Gnothi Seauton" del tempio di Delo, insomma Conosci te stesso.

Il cervello è lo strumento con cui pensiamo, il cuore lo strumento con cui sentiamo. Per giungere al cuore, e magari al ventre, agli organi sessuali e così via occorre partire dal cervello, cioè dalla mente, perchè è l'unico strumento che abbiamo all'inizio, e il gioco inizia quando la mente cessa di occuparsi solo dell'esterno e comincia ad occuparsi del suo dentro, cioè dell'anima.

Quando ci accorgiamo che la mente è uno strumento insufficiente per comprendere l'anima e di conseguenza pure il mondo esterno, inizia una seconda fase, in cui cerchiamo di mettere un po' da parte il cervello per sentire l'anima. A quel punto il cervello, cioè la mente, inizia a trasformarsi.

Questo sapevano le Cariti o Cariatidi, eredi di un'antica saggezza tramandata dagli antichi Greci quando gli Dei stavano in mezzo agli uomini e non nei cieli invisibili. I Titani, gli antichi Dei figli della Terra sapevano che è il femminile a sorreggere il mondo, il femminile come Natura, come Anima Mundi e come donna, per questo raffigurarono figure femminili che sorreggevano i tempi, e l'equilibrio del mondo.

I riti delle giovani Carie o Cariti bianco vestite, che danzavano selvaggiamente intorno al noce alla luna piena, spaventarono gli uomini, che le trasformarono in streghe danzanti attorno al noce di Benevento.

In poche parole il Sabba delle streghe, o rito del fiume Sabat, sabato, o del sabbath, quando emergono le energie della terra, divenne osceno, peccaminoso e infine diabolico. Di qui la magia, le streghe e la Santa Inquisizione.

Pertanto, la noce rimase a lungo un frutto sacro, che nella magia romana si usava quando si dovevano compiere operazioni magiche che riguardassero cervello e psiche, per esempio aiutare chi ha difficoltà psichiche o al contrario procurargli delle difficoltà mentali.

Nel rito il cervello rappresentava quello della persona su cui si operava la magia e spesso si frantumava nel mortaio insieme ad altre sostanze magiche per ottenere l'intruglio da benedire e poi propinare al soggetto,  a scopo terapeutico o al contrario di esso.

VENTOTENE - PANDARIA (Lazio)

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Ventotene è un'isola del Mar Tirreno, posta al confine tra Lazio e Campania. L'isola ha origini vulcaniche, e fa geograficamente parte dell'arcipelago pontino, mentre geologicamente è parte delle isole flegree, insieme a Ischia, Procida e Vivara. L'isola, con forma allungata, misura 3 km x 800 m circa.

L'arcipelago pontino comprende sei isole maggiori, divise in due gruppi principali:
- gruppo di nord-ovest (del comune di Ponza)
Isola di Ponza
Isola Palmarola
Isola di Zannone
Isola di Gavi
- gruppo di sud-est (del comune di Ventotene)
Isola di Ventotene
Isola di Santo Stefano

Denominata dai Greci Pandataria e poi Pandaria dai Romani, l'isola divenne appunto colonia romana, dove villeggiava la famiglia imperiale, e dove poi vennero confinati i membri sgraditi della famiglia imperiale.

ORMEGGI ROMANI
Famosa esiliata fu appunto la figlia unica di Augusto, Giulia (39 a.c.-14 d.c.), per condotta non condivisa dal padre.

Vi sono infatti dei resti di villa Giulia a Punta Eolo. poi l'imperatore Tiberio esiliò la nipote Agrippina nel 29 d.c. e più tardi l'imperatore Nerone esiliò sua moglie Ottavia, dopo averla ripudiata. Aveva appena divorziato da lei con il pretesto che non gli aveva fatto avere figli. Agrippina maggiore morì sull'isola di fame (probabilmente per ordine dell'imperatore Tiberio stesso) nel 33 d.c.

Del periodo romano a Ventotene sono rimaste diverse rovine di ville e acquedotti, il porto antico e le peschiere modellate nelle rocce vulcaniche di tufo. A Ventotene vennero anche confinate: Agrippina Maggiore, Giulia Livilla, Claudia Ottavia e Flavia Domitilla, quest'ultima la santa cristiana .che i giudei dichiarano convertita al giudaismo, ma i cristiani al cristianesimo e pure martirizzata.

Ventotene fin dal tempo dei fenici usufruì di un suo porto, ristrutturato dai romani che fecero dell'isola una loro colonia e in uso a tutt'oggi.



VILLA GIULIA

Nata per essere residenza estiva dell'imperatore Augusto, si estendeva per oltre 300 m di lunghezza e circa 100 di larghezza sul promontorio di Punta Eolo. In effetti fu una delle ville estive di Ottaviano e della sua famiglia, ma poi cambiò destinazione. 

La villa prende il nome da Iulia, l'unica figlia dell'imperatore Augusto esiliata dal padre per malcostume, e forse anche per complotto, onde dare un severo monito a tutti i romani.

Iulia Caesaris filia o Iulia Augusti filia; ottobre 39 a.c. – 14) era la figlia di Augusto, l'unica naturale, e della sua seconda moglie Scribonia. Ottaviano divorziò dalla moglie e ottenne la piena potestà sulla bambina, che tolse alla madre naturale; poi inviata dalla matrigna Livia per ricevere l'educazione di una ragazza romana aristocratica, che Ottaviano volle fosse esemplare.

« Augusto allevò la figlia e le nipoti con tale severità che vennero abituate al lavoro della lana e vietò loro di dire o fare qualcosa se non pubblicamente, perché ogni cosa potesse essere annotata nel diario quotidiano.»
(Svetonio, Augustus, 64.)



La bella e sfortunata Iulia, prende il nome, come tutte le donne romane, dalla "familia" del padre, e cioè la "familia Iulia" e cioè la famiglia del padre adottante di Ottaviano, vale a dire Giulio Cesare.

Ella era figlia di secondo letto di Ottaviano, e in questa isola visse per diversi anni come prigioniera..

Per alcuni a causa della troppa severità e magari maschilismo del padre, a cui ella si ribellò sentitamente, sembra però che addirittura avesse complottato contro il padre, ma secondo alcuni, per i macchinosi intrighi di Livia, la seconda moglie di Augusto, onde assicurare la successione ai propri figli anzichè a quelli di Iulia.

Anche se ambedue i figli di Iulia morirono prematuramente, resta difficile vedere Livia come un'intrigante donna di potere. Livia adorava l'Augusto, o almeno si comportava come se lo adorasse. Per lui tesseva e cuciva le sue vesti e gli cucinava personalmente e diciamocelo, a vedere i suoi ritratti, ha la faccia paciosa di una pia popolana più che di un'audace intrigante.

Anche perchè con Augusto avrebbe rischiato parecchio. Ottaviano, seppure molto incline ad accontentare i desideri di Livia, l'aveva scelta proprio perchè donna molto schiva, remissiva e di castigati costumi, e così ella fu vita-natural-durante. 



Se Ottaviano avesse solo sospettato l'assassinio di un suo nipote, Livia avrebbe rischiato la morte.

Nella villa si possono ancora riconoscere i cortili, le stanze, i corridoi, i giardini, le cisterne e le terme. 

Soprattutto l'area delle terme è ben conservata, dove si possono ammirare le strutture del calidarium, tepidarium, e frigidarium che godono oltre che della splendida vista del mare, della verdeggiante e vicina isola di Ponza.

Come si vede tutto è realizzato in opus reticulatum, con alcune strutture in laterizio fatte di sole tegole: particolare che lo data alla prima età augustea. Tracce di rifacimenti con mattoni, con rozza muratura o addirittura con strutture di recupero si vedranno un pò ovunque, soprattutto in quelle parti più esposte al vento e dei marosi.

RICOSTRUZIONE DELLE CISTERNE

LE CISTERNE

Non potendo contare su sorgenti locali, a Ventotene vennero installati di due enormi serbatoi, capaci di raccogliere direttamente le acque piovane e indirettamente quelle di filtrazione. 

Si crearono così due grandi contenitori nel lato meridionale dell’isola, in modo da accogliere e incanalare le acque di filtrazione dei displuvi a monte e l'acqua delle piogge periodiche. 

Le due cisterne, chiamate oggi la Cisterna di Villa Stefania e quella dei Detenuti si trovano poco distanti da Piazza Castello e si estendono per circa 700 mq la prima e oltre i 1200 mq l’altra. 

Entrambe sono ancora intatte grazie al loro rivestimento in cocciopesto, e furono riutilizzate nei secoli, come si evince anche dalla ricchezza dei segni dell'uomo: dipinti, edicole votive, firme e graffiti.

LA PESCHIERA

LA PESCHIERA

Nella parte centrale del banco roccioso che si protende in mare ai piedi dell’attuale faro, emergono, genialmente attrezzati, i resti di una peschiera  scavata nella roccia, dove i raffinati romani, giusto nel I sec. a.c., iniziano ad apprezzare il pesce marino più pregiato, e le ville marittime imperiali vengono dotate di peschiere sofisticate, mentre il pesce d’acqua dolce continua a essere apprezzato solo dalle classi povere.

Le peschiere avevano canali sul fondo per il ricambio delle acque, congegnati con una sorta di chiusura a saracinesca, per impedire la dispersione in mare dei pesci; con canali di collegamento tra le vasche per passare i pesci da una parte all’altra. In questo modo l'acqua non stagnava, ma si riproduceva un ambiente marino con piccoli scogli coperti da alghe, grotticelle e anfratti ombrosi per proteggerli dal sole estivo.

Il complesso ittico è diviso in tre parti. Sulla costa due vasche coperte ricevevano i condotti di acqua dolce per la miscelazione con quella marina, in cui i pesci erano al riparo dal sole e dal moto ondoso, ideale per la deposizione delle uova. Una banchina ricavata nello scavo del banco tufaceo, oggi a pelo d’acqua ma allora agibile, larga circa 1 m. consentiva i movimenti al personale addetto. 

Questi ambienti erano decorati con intonaci e stucchi colorati. Il settore centrale, scoperto, aveva una grande vasca con banchina, oggi sommersa, larga circa 1,50 m. La vasca era divisa in due da una parete con due saracinesche.

Nel vano meridionale alcune murature circolari che delineavano i percorsi dove i pesci potevano circolare, guidati e obbligati da grate e paratie manovrabili dall’alto, con fori calibrati per consentire il passaggio dell’acqua e impedire la fuga dei pesci.

Il settore più avanzato era un banco tufaceo, che fungeva da frangiflutti per le mareggiate. Dei canali di comunicazione con il mare permettevano il ricambio delle acque e attraverso la miscelazione dell’acqua marina e quella dolce, attiravano i pesci dal mare immettendoli nella peschiera.

PORTO ROMANO

IL PORTO ROMANO

Il Porto Romano di Ventotene è un'opera colossale, in quanto ottenuto da un enorme scavo praticato sul banco tufaceo che degradava a mare, e da cui furono asportati ben 60.000 mc di roccia. Venne così formato un bacino profondo tre m completamente circondato dalla roccia. La trasformazione dell’isola avvenne grosso modo nel passaggio tra Repubblica e Impero, quando Ventotene divenne proprietà imperiale.


L’imboccatura del porto, rivolta a Est, consente l’accesso anche in condizioni di cattivo tempo con venti di Maestrale e Libeccio, e il bacino protegge praticamente da tutti i venti. Era la meta soprattutto di navi onerarie di piccola e media stazza, assicurando i rifornimenti e il collegamento con la terraferma. Ma in casi eccezionali poteva ricoverare anche imbarcazioni fino a 30-35 m di lunghezza.

Dato che le navi da carico utilizzavano esclusivamente la vela quadra e non i remi, è probabile che le grandi bitte, ancor oggi visibili all’imboccatura del porto, servissero oltre che a sbarrare l’accesso con l’aiuto di catene, alloggiate in una retrostante piccola grotta scavata nel tufo, anche a facilitare l’ingresso in caso di necessità, attraverso cime da traino tirate da terra.



LE SALINE

Le saline furono molto importanti per i romani, basti ricordare che la via Salaria fu così chiamata perchè metteva in comunicazione con le saline, dal Campus salinarum a Fiumicino e Maccarese. 

Il sale era indispensabile non solo per gli umani ma anche per gli animali da allevamento.

Tutti gli animali cercano sale, soprattutto nella stagione calda, ma soprattutto gli animali usati per il traino, che sudando perdono tanto sale che non basta l'erba per rimpiazzarlo.

Le saline di Ventotene producevano abbastanza da rifornire tutta l'isola, ma in parte, per quel famoso senso del business romano, veniva esportato anche oltremare, tenendo conto che il salgemma non era facile da reperire.

Infatti Plinio il Vecchio cita come una particolarità la miniera di salgemma di Lungro, in Calabria, che ha rappresentato per millenni la più grande ricchezza di quasi tutta la piana di Sibari. Il sale veniva esportato in tutta la Calabria, in territorio italico e pure europeo.

FONS CAMENARUM

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SANTUARIO DELLA NINFA EGERIA

LE DEE CAMENE


Anticamente sul suolo italico o almeno laziale c'erano quattro Dee Camene: Egeria, Carmenta, Antevorta e Postvorta. Alle Camene Numa Pompilio (754 – 673 a.c.).aveva consacrato il bosco presso la fonte di Egeria, fuori Porta Capena. Qui si celebravano in gennaio, con offerte di latte e acqua, le feste Carmentalia, durante le quali le Vestali venivano ad attingere l'acqua per i loro riti.

Nel II sec. a.c. il loro sacello, colpito da un fulmine e perciò inizialmente ricoverato nel tempio di Onore e Virtù, poco distante, fu trasportato all'interno del tempio di Ercole delle Muse (Aedes Herculis Musarum), stabilendo così la connessione e la futura equivalenza tra le Muse e le Camene.
Le Camene sicuramente dovevano essere legate al carmen, il canto magico vaticinizzante proferito in tempi arcaici dalle sacerdotesse per i fedeli delle Dee.



LA FONTE DELLE CAMENE

Una sorgente e un boschetto sacro, il santuario delle Camene, si trovava dunque vicino, probabilmente al suo esterno, a Porta Capena ai piedi del Colle Caeliano e veniva chiamata per le Dee dell'acqua assimilata alle Muse, che erano adorate insieme ad Egeria, una Dea dell'acqua cara a Numa (Ov., Veloce 3.275-76, conosciuta anche come i fonte Egeria: Rodríguez Almeida).

Quest'acqua pura era consacrata per le Vestali fin dai tempi antichi, e uno dei loro compiti giornalieri era di prendere l'acqua dal Camenarum Fons per portarla al Tempio di Vesta nel Foro, un viaggio di quasi due km. L'acqua veniva utilizzata per cospargere gli altari di Vesta e per altri rituali.

La sorgente si trovava ai piedi dell'estremità meridionale del colle Celio, all'interno dei confini della Villa Mattei, ma è impossibile identificarlo con certezza con una di quelle trovate nelle immediate vicinanze.
Il bosco era intorno alla sorgente, e la valle si estendeva a nord-est da questo punto lungo il lato sud-est del Celio, attraversata dalla vicus Camenarum (Reg. I), che si ricongiungeva alla via Appia. Questa valle è ora segnata dalla Via delle Mole e dal ruscello Marrana. La sorgente era vicino alla via Appia, e, secondo la tradizione, Numa aveva fatto erigere accanto ad essa una piccola edicola di bronzo. (il giorno della dedicazione era ill 13 agosto)

Questa, dopo essere stato colpita da un fulmine e rimossa dal tempio di Honos et Virtus, venne nuovamente trasferita da Fulvio Nobiliore al tempio di Ercole, che allora si chiamava Aedes Herculis et Musarum. Più tardi venne sostituita da un tempio (Aedes, Plin. NH XXXIV. 19). La grotta della sorgente era stata ornata di marmi ai tempi di Giovenale. La sua acqua era eccellente (Vitruvio, Frontino - de Aquis)

Sulla base di Giovenale (Sat. 3.10-20) e pure per gli scritti del Rinascimento e per le scoperte del XIX secolo, che descrissero l'architettura dell'antro delle ninfee, la Fonte delle Camene è stata localizzata nelle colline della Villa Mattei (Rodríguez Almeida, cfr Lanciani, FUR pl 35-36 per la topografia.

Al contrario, Richardson che, dipendente in parte dal suo collocamento del Tempio Di Honos et Virtus, sostiene una sorgente all'interno della Porta Capena vicino S. Gregorio Magno).

Verso la fine del I sec. d.c., Marziale (2.6.16) osserva che il posto ad Camenas è servita come stazione di ricambio per cambiare i cavalli e Giovenale, quando descrive il traffico di una stazione presso la Porta Capena, si rammarica che il boschetto e il santuario della fonte sacra, lasciate agli ebrei e sfruttati per l'erba e il legno, avessero perso il loro antico carattere silvano (Sat. 3.10-20: sacri fontis nemus et delubra), come era il caso più in fondo alla valle, che egli chiama, in parte o nella sua interezza , La "Valle di Egeria" (sv. Vallis: Via Appia, Platner-Ashby).

Inoltre, a questo proposito un vicus Camenarum è attestato sulla base del colle Capitolino (CIL VI 975, linea 6, 136). Seguendo Rodríguez Almeida e gli studiosi precedenti, noi poniamo il santuario delle Camene nella sua locazione ampiamente accettata, fuori dalla Porta Capena ai piedi del Celio, e supponiamo (con Richardson) che il Tempio di Honos e Virtus non fossero lontani da esso.

(Mappin Augustan Rome - Lothae Haselberger)



IL TEMPIO DELLE CAMENE

In una stampa del 1770 è raffigurato un edificio denominato "Tempio delle Camene". Per altri invece è il tempio del Dio Rediculo.

TEMPIO DELLE CAMENE (Stampa del 1770)
L'edificio, di forma rettangolare, è elevato su un alto podio, privo di colonne, con un ampio portale e al piano superiore con due finestrelle e una nicchia per l'immagine sopra al portale.

La nicchia, che evidentemente doveva contenere una statua, è sormontata da una piccola trabeazione, come fosse un'edicola.

Sul fianco ha tre finestre in alto e nella parte del podio, sotto al tempio, ha due porte, i cui ambienti di solito servivano a custodire le attrezzature per le processioni.



EDICOLA DELLE CAMENE

La chiesa di S.Maria in Tempulo è situata sotto le pendici del Celio, in via Valle delle Camene, una strada che ripercorre l'antico tracciato iniziale della via Appia e che ricorda appunto il luogo dove sorgeva la "Fons Camenarum", la fonte sacra alle Muse, ovvero le "Camenae": le cui acque medicamentose, venivano utilizzate dalle Vestali per il loro culto.

"In Tempulo" invece sarebbe dovuto alla vicinanza della chiesa con il "Tempio di Ercole Musagete", costruito nel 187 a.c. da M.Fulvio Nobiliore dopo il suo trionfo sugli Etoli. Il tempio, circolare, sorgeva su un alto podio esteso sia a nord, dove formava un'esedra, sia a sud dove accoglieva un'area aperta dotata di una piccola struttura rotonda che potrebbe essere stata l'Edicola delle Camene, attribuita dalla tradizione al re Numa.

Le Camene erano ninfe profetiche, che derivavano da un antico culto italico. Il loro nome latino era Camnae o Casmenae o Carmenae, ed erano, nella religione romana, ninfe delle sorgenti, ma noi sappiamo che molte divinità femminili arcaiche, le cosiddette Grandi Madri, vennero in seguito declassate a ninfe.

Delle Camene si conoscono solo quattro nomi o più propriamente appellativi: Egeria, Carmenta, Antevorta e Postvorta. A loro venivano talvolta attribuite facoltà profetiche oppure facevano da ispiratrici ai poeti, come le Muse.



SANTA MARIA IN TEMPULO

La chiesa di Santa Maria in Tempulo è una chiesa sconsacrata di Roma, proprio in via Valle delle Camene, alle pendici del Celio, che è sorta su un antico tempio romano come si evince da fuori guardando delle arcate chiuse che appena spuntano dal suolo, mostrando il livello molto più basso, diversi metri tenendo conto del podio, che la denuncia di epoca romana.

Secondo alcuni potrebbe essere il tempio delle Camene in quanto la posizione sembrerebbe corretta.



RODOLFO LANCIANI - Fons Camenarum

Ho nutrito altra volta il dubbio che il fons Camenarum di Frontino, (l'acqua) fontalis ab Camenis di Vitruvio e l'aqua Mcrciirii di Ovidio fossero idraulicamente una cosa sola:
- in primo luogo perchè una sola sorgente copiosa mi era nota in questa zona della prima regione:
- in secondo luogo per la frase "salubritatem aegris coiporibus afferre creditur collima col numen habet" del poeta;
- e da ultimo perchè se la fonte delle Camene è designata da Giovenale "ad veieres arcus madidamque Capenam" anche quella di Mercurio è indicata da Ovidio pure vicina Capenae, vale a dire neir istesso luogo.

Ad onta di questi indizi di identità parmi più saggio partito interpretare i passi degli scrittori nel senso ovvio, e ritenere l'un fonte diverso dall'altro; molto più che dal confronto delle memorie lasciate su questo argomento dai topografi con l'ispezione accurata del terreno da me fatta e ripetuta più volte, credo aver ritrovato il secondo capo d'acqua attribuibile alle Camene.


Perciò che spetta al sito del fonte delle Camene, da Giovenale, dal suo scoliaste, da Simmaco, dai cataloghi si ha :
a) che il boschetto, il delubro, il fonte delle Camene, nemus fons sacer delubra stavano non molto lungi dalla porta capena;
b) e dalla via appia, onde i rumori di questa vi giungevano facilmente; e) che dalla porta capena si discendeva per raggiungere quel sacro gruppo ;
d) che il gruppo stava in una convalle, denominata di Egeria;
e) che la spelonca-ninfeo era artificiale, essendosene rivestito il vivo sasso con incrostature di marmi ecc.;
f) che stava dalla parte sinistra dell' appia;
g) che dava il nome ad un vico della regione.

Questo complesso di indicazioni ci costringe a ricercare il sito del fonte delle Camene nella valle perpendicolare all'Appia che è attraversata dalle vie della Mola di s. Sisto e della Ferratella, ed in parte dalla Marrana mariana.

In questa valle abbiamo un abbondantissimo capo d'acqua presso la villa Ponseca, raccolto nel bacino di un ninfeo artificiale antico: abbiamo memoria di inondazioni e di pantani prodotti dal libero scorrere delle vene, dopo la rovina del loro emissario: abbiamo infine la testimonianza della tradizione medioevale che ha dato origine allo stabilimento di un nuovo ninfeo onde consentire al popolo il facile uso di queste acque salutari. Tutto ciò scioglie il problema topografico in modo netto e preciso.

Il Cassio accenna vagamente alla sorgente prossima alla villa Ponseca. Il Brocchi con maggiore precisione torna sull'argomento scrivendo :
« Cotesta fonte del Celio di cui ragiona il Cassio è forse quella che appare nella vigna Bettini contigua alla villa Fonseca, ove è raccolta nella vasca di un antico ninfeo fatto a foggia di
grotta con sei nicchi nelle muraglie incrostate di pietruzze di vari colori disposte a musaico. Superiormente al ninfeo ed a poca distanza da esso havvi un pozzo di acqua perenne, il quale sembra che si sprofondi al livello della bocca dell'indicata sorgente. Ma altre scaturigini ha il Celio in quei contorni, essendomi stato narrato che nel 1815, scavandosi nella vigna Eustachi il terreno, proruppe una grossa vena che allagò in breve tratto quel suolo».

La vena attuale porta un palmo d'acqua.

NINFA
Se l'iscrizione del Boissard, dedicata NYMPHIS QVAE SVB COLLE SVNT, e che si asserisce trovata presso la porta latina meritasse fede, avremmo documento di altre vene in quell'appendice del Celio che chiamasi Monte d'oro. Infatti cotesta regione naviga, per così dire, sulle acque sotterranee. « Nella china meridionale del Celio, tra la porta Latina, e la Metronia, vi fu ne' trascorsi secoli un ristagno d'acque che dal luogo, il quale per proprio vocabolo era detto Decennia, furono anch'elle nominate decennie. Ugualmente al difuori incontro alla porta Metronia il terreno fu paludoso: sicché dalle carte di quei tempi si ha che vi fosse un pantano, e la campagna circostante... portava il nome di prati di Decio».
Con istromento dell'anno 857, Pipino console e duca concede a Bomano suddiacono un appezzamento di terra con grotte e con sorgente di acqua nella II regione di Roma, presso la « via pubblica quae vadit ad portam Mitrobi », e certe rovine di muri antichi« iuxta decennias».

Onorio III, in una bolla del 1217 ricorda il pantano di porta Metronia come ancora esistente a suo tempo, e questa credo sia l'ultima menzione che se ne abbia nel medio evo. Il Fea, néll' indicazione della pianta del foro romano, dice : « le terre e le macerie che si scaveranno, verranno portate a colmare la valle detta celimontana fuori le mura incontro all'antica piccola porta chiusa, chiamata Metrobia, ove è un grande basso fondo che diventa palude mefitica nei tempi di molte e lunghe pioggie, come nel 1706 e 1707 al tempo di Clemente XI, il quale ordinò al suo archiatro monsig. Lancisi di farla empire, ma non vi riuscì. Le terre del Fea non giunsero alla palude: vi son giunte bensì settant'anni dopo, quando per cura del ministero della publica istruzione furono
ripresi gli scavi del foro.

Nella zona più bassa di villa Mattei-von Hoifmann, presso l'angolo delle vie di porta s. Sebastiano e delle mole di s. Sisto, esiste un grazioso edificio del seicento che ricuopre una sorgente d'acqua purissima e leggermente medicinale. Ne dà la icnografia e la sezione il Parker nel capitolo o parte IV della sua Archaelogy of Rome, Supplementi piate XII, ove lo chiama senz'altro "the fountain of Egeria".

In fondo non ha gran torto: le vene di villa Mattei discendono dalla parte più alta della valle, e molto probabilmente son quelle stesse che prima appariscono nella vigna Bettini. Ora non vorrà negarsi essere questo recente ninfeo una prova non discutibile della perpetuità della tradizione che attribuiva al fonte d'Egeria virtù medicinali. Inoltre, nel capitolo terzo, parlando del ramo Ottaviano dell'Aniene Vetere, dimostrerò che la via delle mole di s. Sisto corrisponde all' antico Vicus Camenarum.

Può darsi però che, come oggi le due sorgenti di vigna Bettini e di villa Mattei appariscono distinte, fossero considerate come tali anche presso gli antichi. In questo caso, serbando il nome di Egeria alle polle superiori, riconoscerei nelle inferiori matteiane il « Fons Apollinis » di Frontino, intorno al sito del quale nulla si conosce di preciso. Un frammento della pianta capitolina, ora perduto, esprime il centro di una piazza ornata di un monumentino quadrato, fontana o puteale che sia, e la piazza vi è chiamata Area Apollinis.

Ora fra le piazze della prima regione i cataloghi pongono 1' Arcum Apollinis et splenis. Questo accoppiamento, il quale sa d'idroterapia, ben s'addice alla virtù del fonte accennata da Frontino. Inoltre quella bassura di villa Mattei, sui confini della prima regione, si presta benissimo al collocamento della piazza nominata nei cataloghi, tracciando la linea dei confini medesimi.

Ho nutrito altra volta il dubbio che il fons Camenarum di Frontino, (l'aqua) fontalis ab Camenis di Vitruvio e l'aqua Mcrciirii di Ovidio fossero idraulicamente una cosa sola: in primo luogo perchè una sola sorgente copiosa mi era nota in questa zona della prima regione: in secondo luogo perchè la frase salubritatem aegris coiporibus afferre creditur collima col numen habet del poeta; e da ultimo perchè se la fonte delle Camene è designata da Giovenale ad veieres arcus madidamque Capenam anche quella di Mercurio è indicata da Ovidio pure vicina Capenae, vale a dire neir istesso luogo. Ad onta di questi indizi di identità parmi più saggio partito interpretare i passi degli scrittori nel senso ovvio, e ritenere l'un fonte diverso dall'altro; molto più che dal confronto delle memorie lasciate su questo argomento dai topografi con l'ispezione accurata del terreno da me fatta e ripetuta più volte, credo aver ritrovato il secondo capo d'acqua attribuibile alle Camene.


Perciò che spetta al sito del fonte delle Camene, da Giovenale, dal suo scoliaste, da Simmaco, dai cataloghi si ha :
a) che il boschetto, il delubro, il fonte delle Camene, nemus fons sacer delubra stavano non molto lungi dalla porta capena;
b) e dalla via appia, onde i rumori di questa vi giungevano facilmente;
e) che dalla porta capena si discendeva per raggiungere quel sacro gruppo ;
d) che il gruppo stava in una convalle, denominata di Egeria;
e) che la spelonca-ninfeo era artificiale, essendosene rivestito il vivo sasso con incrostature di marmi ecc.;
f) che stava dalla parte sinistra dell' appia;
g) che dava il nome ad un vico della regione.

Questo complesso di indicazioni ci costringe a ricercare il sito del fonte delle Camene nella valle perpendicolare all'appia che è attraversata dalle vie della Mola di s. Sisto e della Ferratella, ed in parte dalla Marrana mariana. In questa valle abbiamo un abbondantissimo capo d'acqua presso la villa Ponseca, raccolto nel bacino di un ninfeo artificiale antico: abbiamo memoria di inondazioni e di pantani prodotti dal libero scorrere delle vene, dopo la rovina del loro emissario: abbiamo infine la testimonianza della tradizione medioevale che ha dato origine allo stabilimento di un nuovo ninfeo onde consentire al popolo il facile uso di queste acque salutari. Tutto ciò scioglie il problema topografico in modo netto e preciso.

Il Cassio accenna vagamente alla sorgente prossima alla villa Fonseca. Il Brocchi con maggiore precisione torna sull'argomento scrivendo : « Cotesta fonte del Celio di cui ragiona il Cassio è forse quella che appare nella vigna Bettini contigua alla villa Fonseca, ove è raccolta nella vasca di un antico ninfeo fatto a foggia di grotta con sei nicchi nelle muraglie incrostate di pietruzze di vari colori disposte a mosaico. Superiormente al ninfeo ed a poca distanza da esso havvi un pozzo di acqua perenne, il quale sembra che si sprofondi al livello della bocca dell'indicata sorgente. Ma altre scaturigini ha il Celio in quei contorni, essendomi stato narrato che nel 1815, scavandosi nella vigna Eustachi il terreno, proruppe una grossa vena che allagò in breve tratto quel suolo ». La vena attuale porta un palmo d'acqua.

Se l'iscrizione del Boissard, dedicata NYMPHIS QVAE SVB COLLE SVNT, e che si asserisce trovata presso la porta latina meritasse fede, avremmo documento di altre vene in quell'appendice del Celio che chiamasi Monte d'oro. Infatti cotesta regione naviga, per così dire, sulle acque sotterranee. « Nella china meridionale del Celio, tra la porta Latina, e la Metronia, vi fu ne' trascorsi secoli un ristagno d'acque che dal luogo, il quale per proprio vocabolo era detto Decennia, furono anch'elle nominate decennie. Ugualmente al difuori incontro alla porta Metronia il terreno fu paludoso: sicché dalle carte di quei tempi si ha che vi fosse un pantano, e la campagna circostante... portava il nome di prati di Decio».

Con istromento dell'anno 857, Pipino console e duca concede a Bomano suddiacono un appezzamento di terra con grotte e con sorgente di acqua nella II regione di Roma, presso la « via pubblica quae vadit ad portam Mitrobi », e certe rovine di muri antichi « iuxta decennias ».

Onorio III, in una bolla del 1217 ricorda il pantano di porta Metronia come ancora esistente a suo tempo, e questa credo sia l'ultima menzione che se ne abbia nel medio evo. Il Fea, néll' indicazione della pianta del foro romano, dice : « le terre e le macerie che si scaveranno, verranno portate a colmare la valle detta celimontana fuori le mura incontro all'antica piccola porta chiusa, chiamata Metrobia, ove è un grande basso fondo che diventa palude mefitica nei tempi di molte e lunghe pioggie, come nel 1706 e 1707 al tempo di Clemente XI, il quale ordinò al suo archiatro monsig. Lancisi di farla empire, ma non vi riuscì. Le terre del Fea non giunsero alla palude: vi son giunte bensì settant'anni dopo, quando per cura del ministero della publica istruzione furono
ripresi gli scavi del foro.

Nella zona più bassa di villa Mattei-von Hoifmann, presso l'angolo delle vie di porta s. Sebastiano e delle mole di s. Sisto, esiste un grazioso edificio del seicento che ricuopre una sorgente d'acqua purissima e leggermente medicinale. Ne dà la icnografia e la sezione il Parker nel capitolo o parte IV della sua Archaelogy of Rome,
Supplementi piate XII, ove lo chiama senz'altro "the fountain of Egeria";. In fondo non ha gran torto: le vene di villa Mattei discendono dalla parte più alta della valle, e molto probabilmente son quelle stesse che prima appariscono nella vigna Bettini. Ora non vorrà negarsi essere questo recente ninfeo una prova non discutibile della perpetuità della tradizione che attribuiva al fonte d'Egeria virtù medicinali. Inoltre, nel capitolo terzo, parlando del ramo Ottaviano dell'aniene vetere, dimostrerò che la via delle mole di s. Sisto corrisponde all' antico Vicus Camenarum."

(Rodolfo Lanciani - Fons Camenarum)

TERME DEI 7 SAPIENTI (Ostia Antica)

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TERME DI OSTIA ANTICA

Ad Ostia esistevano, solo in città, 18 impianti termali. Esteticamente molto diversi tra loro avevano in comune un canone costruttivo ben preciso, tutti avevano vasche riscaldate con fornaci a legna, i calidaria, sale con vasche d'acqua fredda, frigidaria, i soggiorni, chiamati tepidari e delle vere proprie saune, le laconiche. 
Completavano il tutto le palestre all'aperto e le foriche (latrine). Le terme potevano essere di proprietà pubblica o privata. 

Alcune appartenevano ai mercanti, agli artigiani, ai marittimi ed erano esclusivamente frequentate dagli appartenenti a queste corporazioni.
Le Terme erano frequentate da ricchi e poveri, giovani e anziani di ambo i sessi, ed erano ammessi anche i bambini.

Tutti le frequentavano perché era un'usanza dell'epoca e luogo abituale per gli incontri e la socializzazione. 
In più servivano a mantenere l'igiene evitando le terribili pestilenze dell'epoca, ed anche ad istruirsi perchè contenevano biblioteche e vi si facevano spettacoli.

Le Terme dei Sette Sapienti sono del periodo di Adriano, 120-125 d.c. servivano principalmente per due palazzi adiacenti, il Caseggiato di Serapide (Dio di probabile origine asiatica), ma sembra accertato che fossero accessibili anche al pubblico.



OSTIA - REGIO III - INSULA X - TERME DEI SETTE SAPIENTI (III,X,2)

Le Terme dei Sette Sapienti furono costruite intorno al 140 d.c. e formano un blocco contiguo con il Caseggiato degli Aurighi e il Caseggiato del Serapide. Questi due edifici si trovano a nord e a sud delle terme che non sono accessibili dalla strada principale. Il vestibolo 2, fornito di panchine, è stato infatti raggiunto dall'edificio di Serapide.

L’edificio prende il nome dagli affreschi di una delle stanze che raffigurano i “sette saggi greci” che vivevano intorno al 600 a.c. I loro nomi e luoghi di provenienza sono scritti in greco accanto agli affreschi. L'edificio è stato nominato dopo i dipinti nella sala 5.

Un arco che ancora mostra i segni di un mosaico policromo introduce nel vestibolo  e in una sala dove sono ben conservati degli affreschi dei sette sapienti, con i relativi nomi e consigli scherzosi per il buon funzionamento dell'intestino.

SALA CIRCOLARE
La maggior parte delle pareti di questa stanza appartengono ad un edificio preesistente dal periodo tardo-flaviano (Domitiano). I dipinti appartengono al periodo Adriano o all'inizio di quello Antonino.

I Sette Saggi sono: 
- SOLÒN ATHÈNAIOS ("Solone di Atene")
- THALÈS MEILÈSIOS ("Thalete di Mileto")
- CHEILÒN LAKEDAIMONIOS ("Chilone di Sparta")
- [Bias] PRIÈNEUS ("[Bias] di Priene")
- CLEOBULO (di Lindos)
- PITTACUS (di Mitylene)
- PERIANDER (di Corinto)
(Cleobulo di Lindos, Pittacus di Mitylene e Periander di Corinto non sono stati conservati).

Nelle terme si accede, a sinistra, in una grande sala circolare (3), che fungeva da frigidarium, anticamente coperta con una cupola di 12 m di diametro, in bianco e nero, della prima metà del II sec. d.c.
La sala si trova nella parte nord-est dell'edificio e il mosaico riporta scene di caccia con motivi vegetali. La fattura del mosaico è notevolissima, con tessere molto piccole e immagini molto in movimento.

Nella parte nord-ovest dell'edificio invece, di fronte alla sala circolare, si trova il frigidario con un affresco della Venere Anadiomène, dove la Dea sorge dalle acque del mare attorniata da amorini, pesci e crostacei.

PORZIONE DEL MOSAICO DELLA SALA CIRCOLARE
L'affresco è piuttosto rovinato, i colori che ancora permangono erano chiari e allegri, la scena non è sontuosa o elegiaca ma tranquilla e riposante.

In realtà il vestibolo precedentemente era una taverna, inglobata poi nelle terme. Si direbbe che il clima della taverna si sia riversato nella sala dei sette sapienti, perchè si irride la saggezza mescolandola alle funzioni corporali.

Sul lato opposto un laconicum e un calidarium; un secondo frigidarium con una vasca, arricchita da affreschi che, come già detto, riproducono Venere, mentre esce strizzandosi i capelli da un mare ricco di pesci e crostacei, nel mentre circondata da allegri amorini (eroti).

BIAS DI PRIENE, UNO DEI SETTE SAGGI

I SETTE SAGGI

I consigli dei saggi sull'evacuazione del corpo mostrano una spontaneità che oggi definiremmo volgare, ma che fu invece un pregio dei romani, meno moralisti e più liberi nell'istintualità di quanto siamo noi oggi, dove il corpo se non è pornografia o attrazione sessuale, non deve essere nominato, come fosse una vergogna. 

I testi umoristici e ironici in latino si riferiscono all'attività della latrina: 

VT BENE CACARET VENTREM PALPAVIT SOLON ("Onde cacare bene Solone si è palpato la pancia per defecare bene")

DVRVM CACANTES MONVIT VT NITANT THALES ("Thalete ha raccomandato che coloro che defecano duro dovrebbero sforzarsi")

VISSIRE TACITE CHILON DOCVIT SVBDOLVS
("L'abile Chilone ha insegnato come scoreggiare senza far rumore")

ENIS BIAS.Sotto Solon è il testo:IVDICI (?) | OR (di) NA (?)e VERGILIVM LEGIS (se) PVERIS (?)

TALETE DI MILETO

Sotto Thales leggiamo:
VERBOSE TIBI | NEMO | DICIT DVM PRISCIANV (s) | (?) (U) TARIS XYLOSPHONGIO NOS | (? A) QVAS ("Nessuno ti dà una lunga conferenza, come Prisciano, fintanto che usa la spugna su un bastone ...").

Sotto i saggi le teste sono state conservate di persone che probabilmente si trovano su una latrina comunale (gesso aggiunto più tardi e una panca che copre la parte inferiore). Possiamo leggere ciò che dicono:

SEDI MVLIONE, PROPERO ("Sto facendo in fretta")
AGITA TE CELERIVS | PERVENIE ("Spingi forte, così finirai più velocemente")
AMICE FVGIT TE PROVERBIVM | BENE CACA ET IRRIMA MEDICOS (Fuggi dai proverbi. caca bene e fotti il medico)
TI FA UNA LUNGA CONFERENZA, PRISCIANO, FINCHE' USA LA SPUGNA SUL BASTONE. .

SOLONE DI ATENE
Sopra i saggi e sulla volta sono dipinti di una figura maschile volante (forse Pan) e di anfore, una con la parola FALERNVM, riferendosi ad un vino campaniano di alta qualità, uno con la lettera M. Questo suggerisce che in origine la stanza era un Bar, ovviamente visitato da persone ben educate.

Nel periodo di Antonino i nuovi dipinti coprono i saggi. La stanza può ora diventare un destrictarium, una stanza in cui gli atleti pulivano il loro corpo cosparso di olio e unguenti con gli strigili (raschiatori).

VENERE EMERGE DALLE ACQUE TRA AMORINI, PESCI E CROSTACEI
- FRIGIDARIUM - (FINE II SEC. INIZI III SEC.)


LE STANZE ADRIANEE E ANTONINE

Nella sala rotonda 7, nelle sale da 26 a 33, nelle camere da 34 a 36, si trovano le opere murarie di epoca adrianea  e antoniniana. Queste stanze possono avere una funzione commerciale. Infatti secondo Heres la grande sala circolare 7 potrebbe essere originariamente un mercato (macellum), che anticamente era coperto da una cupola, in effetti abbiamo diversi esempi di mercati rotondi e dotati di cupole. 

Sul pavimento è un mosaico in bianco e nero con un diametro di 12 m., con immagini vegetali e scene di caccia con quindici cacciatori. Il mosaico è stato datato a c. 130 - 150 d.c, e al periodo severiano. Ad un certo punto la sala divenne un frigidarium, con un bacino nella stanza 4 a nord. Nelle sale ad est della sala 7 sono resti di dipinti con motivi vegetativi. Nella stanza 6 sono resti di un muro di parete policromo.


Le terme più antiche

Le camere 41-44 sono le stanze più antiche di cui è certo che sono state costruite come parte dei bagni, durante il regno di Antonino Pio, all'incirca nel 140 d.c.
Sala 42 era un calidarium, aveva bacini in tre incavi, coperti da volte a botte oltre a una volta a crociera. Le stanze 41, 43 e 44 sono state utilizzate per il riscaldamento dell'aria (ma 43 potrebbe
essere originariamente un calidarium).



Camere costruite all'inizio del III secolo

Le camere 19-24, i bacini 23 e 25, e la sala sotterranea 40 appartengono all'inizio del III secolo. Queste stanze possono aver sostituito le stanze da bagno precedenti. Sul pavimento del vestibolo 19 è un mosaico in bianco e nero con la rappresentazione di un uomo nudo e il testo:

IVLI CARDI H (ic) C (onspicitur) E (ffigies) "Qui vediamo Iulius Cardo".

Qualcuno ha supposto si trattasse del custode dei bagni. Ma il custode era uno schiavo o un liberto, sarebbe più logico che invece fosse il decoratore museale della villa che rappresentò se stesso,e poichè aveva un nome famoso gli fu consentito.

È stato suggerito che la stanza 20 era un apodyterium, ma sulle pareti vi sono dei tubi di riscaldamento. Nel tepidarium 21 c'è un mosaico in bianco e nero con amorini, Nereidi e mostri marini. La stanza 22 era un altro tepidarium, la sala 24 e un caldarium.

A est è il corridoio di servizio 9.A ovest del corridoio 27 è il frigidario 26, con un grande bacino. Sulla parete posteriore è un dipinto di Venus Anadiomene (che emerge dall'acqua), tra amorini, pesci e crostacei. È stato datato al periodo severiano ed è stato probabilmente fatto dagli stessi artisti che hanno dipinto Europa nelle Terme del Faro (IV, II, 1). Ulteriori dipinti Severani si possono vedere nelle sale 28, 29 e nell'apodyterium 30.



GLI SCAVI PER L'ESPOSIZIONE DI ROMA (EUR) 1938 - 1942

Nel 1938 un terzo della città di Ostia antica era già stato scavato. Ma poi gli scavi si estesero e intensificarono fino al 1942. Il tutto per opera di Mussolini, che voleva presentare Ostia antica durante una fiera mondiale, l'Esposizione Universale di Roma (EUR).

L'area scavata era più che raddoppiata. Vennero rimossi oltre 600.000 mc di terra, che raggiunsero un'altezza da 4 a 12 m sopra l'antico livello stradale. Purtroppo mancano molte informazioni di questi questi cinque anni. Per esempio, lo scavo e il restauro delle Terme dei Sette Sapienti e l'adiacente Caseggiato del Serapide, tra il 1935 e il 1940, sono documentati quasi esclusivamente attraverso 137 fotografie. Gli ispettori incaricati degli scavi furono Celestino Levantesi e Berardi. Circa 150 operai hanno lavorato sostanzialmente con l'attrezzatura del primo Novecento. La fiera del mondo oltretutto non è mai avvenuta.

L'attuale museo fu inaugurato nel 1934, alla presenza di Mussolini e ampliato nel 1945. Il Piccolo Mercato, Via Tecta, e le sale sul podio del Capitolio furono utilizzate come stanze. Un secondo ingresso agli scavi venne creato vicino alla Porta Laurentina.

Si poteva accedere da una strada panoramica a sud degli scavi, oggi chiamata da Calza prendendo il nome dal grande archeologo italiano Guido Calza, morto nel 1946. Si era da poco sposato con Raissa Gurievich Kroll, una ballerina russa, ex moglie del pittore italiano De Chirico, che divenne un'esperta nel campo delle sculture.

CIRCO DI FLORA

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Il circo era sede di Ludi dedicati alla Dea (Florales o Florae o Floralia), fissati dal 28 aprile al 3 maggio. Erano feste antiche, che si dicevano celebrate per la prima volta nel 516 di Roma.

Alcuni studiosi hanno ipotizzato che negli Horti Sallustiani vi fosse un ippodromo e che qui si svolgessero i Floralia, le feste in onore di Flora, per altri ancora però sembra che le Floralia fossero celebrate non qui ma al Circo Massimo.

A Flora venne dunque dedicato non solo un tempio ma anche un circo le cui arcate, come si vede in foto, hanno fatto da sostruzioni a Palazzo Barberini a Roma. Entrambe le strutture sono citate nei Cataloghi regionari sul colle Quirinale, nella Regio VI presso il Capitolium Vetus.

PLASTICO DEL CIRCO
Le celebrazioni erano dedicate a propiziare l'annata agricola, dove le persone vi accorrevano vestite di vari colori per simulare i colori dei fiori, oltre che adornate con fiori, ghirlande, nastri e gioielli, il tutto coloratissimo. I ludi che vi si effettuavano avevano caratteristiche sessuali e paniche, con prostitute, comici e attrici.

A questo proposito lo storico Valerio Massimo racconta di un'occasione nella quale si trovò a presenziare ai giochi anche il severo Catone Uticense, la cui presenza impediva alle partecipanti di denudarsi, come tradizionalmente accadeva.

Avvertito da un amico di questa fase della rappresentazione, l'Uticense decise allora di ritirarsi discretamente, per non privare il popolo del suo divertimento, e se stesso della propria dignità, e se ne andò accompagnato dall'applauso riconoscente di tutto il circo.
Il che equivaleva a: "Grazie che ti levi da torno"

I RESTI DEL CIRCO - PALAZZO BARBERINI

Secondo Lattanzio i giochi floreali nel IV sec. vennero storicizzati dal Senato romano come lascito pubblico di una celebre cortigiana di nome Flora.

C'era la mania di trasformare le Dee della sessualità e prolificità in prostitute, accadde altrettanto con la Lupa dei fatidici gemelli e con Acca Larentia.

Flora era invece un'arcaica divinità osco-sabina della natura, pertanto della proliferazione e della sessualità, che all'epoca non era vista così peccaminosa.

Infatti si trattava di feste antiche, che si dicevano celebrate per la prima volta nel 516 di Roma, e poi definitivamente stabilite nel 580 (cioè in piena età repubblicana, nel 173 a.c.).

Antonio Nibby nel 1328 ribadisce l'esistenza del circo di Sallustio in questa zona e riconosce quello di Fora nelle grandiose sostruzioni in opera reticolata che erano in vista già all'inizio del XVII secolo come si vede in un'incisione di Alò Giovannoli (incisore delle "Vedute delle antiche vestigia di Roma") sotto il palazzo degli Sforza, la dove prima sorgeva la residenza del cardinal Pio de Carpi e poi si edificherà Palazzo Barberini.

"E siccome nell'anno 1825 io vidi fare scavi nell'angolo della piazza testé ricordata presso la croce de pp. cappuccini, ed allora furono trovati muri di bella cortina de' tempi imperiali, che poterono essere parte di uno de' lati del circo, mi sembra che la estensione di esso potrebbe essere ad un incirca fra il largo di s. Nicola in Arcione ed il vicolo detto del Basilico che lega insieme le strade di s. Basilio e di s. Nicola di Tolentino, spazio di 1500 piedi: la larghezza poi può determinarsi fra la croce sovraindicata ed il palazzo Barberini cioè di circa 300 piedi. 

DEA FLORA O SAFFO
Il Donati scrivendo circa l'anno 1640 afferma nella sua Roma Vetus ac Recens lib. III c. XV di aver veduto la cavea e le vestigia di questo circo sotto il palazzo Barberini, allorché quella valle venne innalzata coll'edificar quella fabbrica, ed aggiunge che la faccia di quel palazzo rivolta a settentrione fu edificata sopra un'arcuazione, forse quella destinata a reggere i gradini ed a servire di portici esterni: e questa testimonianza conferma tutto quello che è stato indicato di sopra."

(Antonio Nibby)

A detta di Fernando Mariani:
"Per dette ville corre voce comune che qui fossero l'orti di Sallustio e che li suddetti vestigi di muri antichi siano del Circo di Flora, ed in alcuni luoghi di dette antichità si vedono vestigi come di seditori che forse potevano servire per commodo degli spettatori e ciò si osserva verso la villa del Sig. di Acquasparta."

Anche Rodolfo Lanciani posiziona un circo abbozzato dalla natura e perfezionato dall'uomo, nella valle sallustiana, sulla base oltre che della situazione archologica, anche di un  episodio riportato da Livio (XXX 38) che ricorda nel 202 a.c., la celebrazione dei Ludi Apollinares nella zona fuori Porta Collina, vicino al Tempio di Venere Ericina, poichè il Circo Massimo era inondato da una piena del Tevere.

"Sotto la valle, che Piazza Grimana si dice, dal Fulvio se ne additano le mura, che v'erano al suo tempo: "Intra otrumque Collem" (cioè tra l'una e l'altra delle sue sommità) "subest vallis inclusa parietis ubi olim fiebant Floralia", e più modernamente Donati scrive averne visto i vestigi.

FLORA
"Il titolo di Rustica che Marziale si dà a Flora, dal medesimo Donati si interpreta, o perchè ella era Dea dei fiori della campagna, o piuttosto perchè il suo circo era fatto di rozza struttura. Io la direi detta rustica, a distinzione dal teatro, che era nel vico patrizio; perchè ivi si celebravano i giochi Florali cittadineschi, e quivi quelli della campagna, come nella regione antecedente ai discorsi. "
Però il circo di Flora fu definito "Rustica" da Marziale, forse per allusione alla gente delle campagne che interveniva ai ludi del circo.

"Oltre al circo, Vittore e Rufo scrivono il Tempio di Flora il quale (deve) esser stato o congiunto al circo, o appresso dee credersi. Da alcuni si colloca sulla sponda del colle sovrastante, il che sembra non discordar da Ovidio, che nel V de' Fasti nel Clivo Publico, dice esser stato fatto tra i due publici edifizi plebei col denaro cavato di pena da chi danneggiava i publici pascoli e quel Clivo ancora (deve) essere stata opera dei medesimi Publici, iscrive Varrone; il quale non lungi molto dalla salita delle Quattro Fontane potria sospettarli, ma vaglia schiettamente il vero: il Clivo publico con quel Tempio di Flora, che i publici vi fecero, fu altrove, e nella regione decimaterza il vedremo, con tutto che dalla maggior parte degli Antiquari s'additi quivi.... 
...
Verso il declivo della Piazza Grimana alla Fontana di Trevi, facciasi tra tanto conseguenza, che le botteghe del Minio furono nello spazio nella piazza medesima verso quel declivo: a capo delle quali essendo stato il Tempio di Flora, segue che in quel lato, o presso quel lato del Circo fosse, e non in altro, o sul colle come altri pensano."

(Famiano Nardini)



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