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LA SUBURA (Suburra)

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HORTI STROZZIANI IN EXQVILIIS

« Nel monte di s. Maria Maggiore verso la Suburra, facendovi cavare il sig. Leone Strozzi, vi trovò sette statue due volte maggiori del naturale, le quali furono date in dono a Ferdinando gran duca di Toscana, a quel tempo cardinale in Roma. La più bella di esse era un Apollo, che restauratoglisi da me. fu collocato nell"ingresso del suo palazzo alla Trinità do' Monti, nel primo piano delle scale a lumaca"
(Vacca, Mem. 42.)

La Suburra o Subura dal latino sub-urbe, "sotto la città", da cui subburbio e sobborgo, sta ad indicare la parte bassa della città rispetto al nucleo originario posto sopra il Palatino: infatti all’epoca il livello stradale era molto più basso di quello attuale e quindi il dislivello tra la “Subura” ed il Palatino era ancora più accentuato rispetto ad oggi.
Essa era un vasto e popoloso quartiere dell'antica Roma situato sulle pendici dei colli Quirinale e Viminale fino alle propaggini dell'Esquilino, composto a sua volta dalle aree del'Oppio, del Cispio e del Fagutale, le tre alture del quartiere romano.

Poiché la popolazione della parte bassa del quartiere era costituita da sottoproletariato urbano che viveva in condizioni miserabili, benché affacciata su un'area monumentale e di servizi pubblici, il termine suburra ha ancora, nel linguaggio comune, il significato generico di luogo malfamato, teatro di crimini e immoralità.,

Mentre le abitazioni più lussuose, di senatori e cavalieri, si svilupparono nelle parti più elevate (resti sotto le odierne chiese di San Pietro in Vincoli, sul Fagutale, e di Santa Pudenziana, sul Viminale), nel fondovalle, dove si sviluppava la parte più popolare e malfamata, era occupato da grandi insulae (palazzi di abitazione a più piani, vedi i  resti ritrovati durante i restauri del convento di San Martino ai Monti). Nel quartiere abitarono Giulio Cesare e il poeta Marziale.



L'OPPIO

Secondo la tradizione i sette colli romani furono il Palatino, il luogo della leggenda sulla fondazione della città, il Germalo, una propaggine dello stesso Palatino verso il Tevere, la Velia, verso l'Esquilino, il Fagutale, l'Oppio e il Cispio (oggi tutti compresi nell'Esquilino) e la Suburra (in direzione del Quirinale).
Il Mons Oppius, o Colle Oppio, uno dei sette colli di Roma, che, nella suddivisione augustea dell'Urbe, fu compreso nella Regio III, denominata Isis et Serapis dal grande tempio che sorgeva alle sue pendici sudorientali, tra le odierne via Labicana e via Merulana.



IL CISPIO

Il colle Cispio, una propaggine dell'Esquilino, sarebbe stato così chiamato in quanto fu difeso dal condottiero Levio Cispio che capeggiava gli Anagnini, alleati di Roma, contro Equi, Volsci, Marzi e Latini. Naturalmente la vittoria fu romana.



IL FAGUTALE

Fu uno dei colli del Septimontium di Roma, che prendeva nome da un bosco di faggi e su cui sorgeva il tempio di Giove Fagutale. Corrispondeva alla parte dell'Esquilino, vicina al colle Oppio, dove oggi si trova la chiesa di San Pietro in Vincoli.

LE MURA ODIERNE DELLA SUBURA

LA STORIA

In origine fece parte del cosiddetto Septimontium nell'ambito di una processione religiosa che ogni anno si festeggiava l'11 gennaio fin dal regno di Numa Pompilio. Il Septimontium, cioè i "sette monti" non corrispondono ai tradizionali "sette colli" e si riferiscono ad una fase più antica della città.

Infatti il quartiere all'inizio era percorso dall’Argileto che in corrispondenza del Cispio, la propaggine del colle Esquilino, si divideva nel vicus Patricius che andava in direzione della porta Viminale, delle mura repubblicane, e nel clivus Suburanus , in direzione della porta Esquilina. Quest’ultima via segnava il confine tra la regione IV e la regione V della suddivisione fatta da Augusto nel 29 a.c..

« Dove adesso si trova Roma c'era un tempo il Septimontium così chiamato per il numero di montes che in seguito la città incluse all'interno delle sue mura.»
(Varrone, De lingua latina, V, 41.)

La Suburra entra a far parte dell’area urbana della Roma Antica quando il Re di origine etrusca Servio Tullio la sceglie per la propria residenza. E’ la zona più autentica e popolare dell’Urbe, il luogo delle contraddizioni sociali e umane, affollatissima, sporca, rumorosa e soprattutto pericolosa, anche a causa dei numerosi incendi e crolli che coinvolgono le insulae, edifici alti fino a cinque piani dove un numero illimitato di famiglie plebee vivevano ammassate in appartamenti in affitto.

L'ARCO DEI PANTANI IN UNA STAMPA DEL XVIII SEC.
Nella Suburra si trovavano i bordelli più malfamati, le bettole e le locande più insicure. Anche Giulio Cesare vide i natali nella Suburra, e secondo la tradizione vi si recava Nerone travestito per captare gli umori del popolo, e Messalina, in incognito, alla ricerca di ogni trasgressione.

Qui sorsero  il quartiere delle Carinae, posto su di un'altura e di natura aristocratica e residenziale, e quello della Subura, situata più in basso e spiccatamente popolare. A metà del VI secolo l'area venne inclusa da Servio Tullio tra le quattro regioni cittadine: Palatina, Collina, Suburana ed Esquilina.

ARCO DELLA SUBURRA 1880
Il quartiere era percorso dall'Argileto che collegava il quartiere della suburra al foro romano (attuali via Leonina e via della Madonna dei Monti) che all'altezza del Cispio si divideva nel vicus Patricius (attuale via Urbana) in direzione della porta Viminale delle mura repubblicane, e nel clivus Suburanus (attuale via in Selci), in direzione della porta Esquilina. Quest'ultima via segnava il confine tra la regione IV e la V della suddivisione augustea.

La parte bassa della valle fu occupata, a partire dal I sec. a.c., prima dal Foro di Cesare, inaugurato nel 46 a.c., sotto la pendice orientale del Campidoglio, poi dal Foro di Augusto, inaugurato nel 2 a.c.

Proseguendo verso la valle del Colosseo, vi fu edificato, nel 75 d.c., il Tempio della Pace, e, nel 97, il Foro di Nerva. Grazie poi allo sbancamento della sella collinare tra il Colle Quirinale e il Campidoglio, vi venne edificato, nel 112 d.c., il Foro di Traiano.

Poichè a Roma gli incendi erano di casa, ma soprattutto alla Suburra dove non mancavano le case corredate da ambienti o tralicci di legno, si dovette porre rimedio costruendo già al tempo di Augusto la gigantesca muraglia che ancor oggi si vede, da un lato confine e dall'altro unica vestigia  dell'antica Suburra.

Sulle rovine della Suburra e dei Fori sorsero nel Medioevo case e torri di famiglie aristocratiche, alcune delle quali tuttora conservate anche se assai modificate, come la Torre dei Conti e la Torre del Grillo. Il quartiere, che oggi fa parte del rione Monti, fu pesantemente rimaneggiato all'apertura di via Cavour e di via degli Annibaldi alla fine del XIX secolo.



IL MURO

Al tempo della sua costruzione, il muro adempiva a diverse funzioni: protezione antifuoco, separazione dello spazio residenziale meno lussuoso dallo spazio monumentale e pubblico della città, e fondale scenico del Tempio di Marte Ultore, dato che il bianco candido del tempio spiccava sulla pietra scura del muro.
L'accesso al Foro avveniva a fianco del tempio di Marte Ultore, attraverso l'arco in conci di travertino ancora esistente, denominato in epoca medioevale, per l'impaludamento della zona dei Fori, "Arco dei Pantani".
Edificato in pietra gabina, un tufo litoide simile al peperino, ma con grana meno fine e maggiori intrusioni di scorie, una lava consolidata fuoriuscita dal cratere, è molto resistente al fuoco, il muro è alto 33 metri dal piano di calpestio del Foro e costruito a struttura isodoma (cioè a fila sfalsata rispetto a quella su cui si appoggia). 
I massi che lo compongono, in piani di posa di ammirabile precisione, non sono legati da malta, ma solo da incastri di quercia a coda di rondine, cosicchè il muro, con tre ricorsi di travertino, si regge da oltre 2000 anni solo attraverso il proprio stesso peso.




PORTA SCALAE CACI (Roma Quadrata)

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( Fonte )


SCALAE CACI

Le Scale Caci, in tempi remoti, prima che divenisse residenza imperiale, mettevano in comunicazione il Palatino con il Foro Boario per mezzo di una porta detta appunto Porta Scalae Caci, una porta della Roma quadrata.
Dunque la Porta Scalae Caci era una delle tre o quattro porte, per altri anche di più, che si aprivano nella cinta muraria della Roma Quadrata fondata da Romolo, la cinta originaria di mura romane.

La storia narra che Cassio Longino, Pretore nel 174, Console nel 171, e Censore nel 154 a.c., iniziò la costruzione di un teatro, che fu però impedita dal senato, ovvero da quel Nasica che si oppose sia alla distruzione di Cartagine che alla costruzione del teatro, perchè luogo poco adatto ai rudi romani che dovevano occuparsi solo di guerra e non di spettacolo o di letteratura.

Fatto sta che il teatro, ormai ultimato, venne fatto distruggere, e comunque ne rimasero i resti, giusto presso il luogo ove c'era la reggia di Romolo. Accanto a questi resti, che risalgono al 154 a.c., salivano le scale Caci, di cui permangono scarsi resti, posti nel sito delle Capanne del Palatino su uno strato repubblicano.



CACO, DIO E DEMONE

Originariamente Caco, in latino Cacus (genit. Caci) era un Dio pre-romano del fuoco, che però, proprio perchè era Dio del fuoco, proteggeva dagli incendi, ma pure Dio dei numerosi vulcani del Lazio. Il Dio, soppiantato gradualmente dai nuovi Dei greco-romani, perse il suo lato protettivo e divenne un demone che emetteva fuoco.

RESTI DELLA SCALAE CACI
Il suo aspetto era scimmiesco, dato che il suo corpo era coperto di un manto peloso, e secondo la descrizione tramandataci da Properzio, il demone possedeva tre teste, il che ci rimanda alla Dea Madre triforme, ad Ecate col suo Cerbero.

Cacus viveva in una grotta sul monte Aventino da dove terrorizzava le campagne. Quando Ercole tornò con il bestiame di Gerione, superò la grotta di Cacus e si addormentò nelle vicinanze.

Di notte Cacus trascinò alcuni dei bovini alla sua caverna all'indietro per le code, in modo che le loro tracce puntino nella direzione opposta.

Ercole, che non brillava per intelligenza, vide le orme e non capì, tuttavia, il muggito degli animali tradiva la loro presenza nella grotta, così Ercole, che aveva rubato i buoi, uccise Cacus per aver rubato i buoi, cioè per aver fatto la stessa cosa che aveva fatto lui, e recuperò il bestiame.

Altre fonti sostengono che fu la sorella di Cacus a svelare ad Ercole la posizione della sua grotta, o perchè era molto affezionata al fratello o perchè era molto affezionata ai buoi, d'altronde all'epoca un armento era una grande ricchezza.

RESTI DELLA SCALAE CACI
Sul posto, dove Ercole aveva ucciso Cacus, questa sorella fece costruire un altare, forse per ingraziare gli Dei per aver salvato il fratello, oppure per aver salvato i buoi.

Dove venne innalzato l'altare più tardi si tenne il Forum Boario, il mercato del bestiame, che infatti ebbe come emblema un bue..

Il mito fa pensare alla solita invasione Argea che cambiò culti e usanze nel Lazio, e ai 25 manichini che venivano gettati nel fiume ogni anno per la festa degli Arghei.

Evidentemente l'invasione finì male perchè la popolazione dopo un certo periodo si ribellò e gli Arghei se ne tornarono in Grecia.


LA PORTA

Non ci sono tracce della porta, però le fonti riportano l'esistenza della porta su cui terminava la scala.
Essendo molto arcaica, anche qui si presume fosse eseguita in travi di legno. Di solito per le porte gli antichi usavano la quercia perchè inattaccabile dalle tarme e resistentissima all'acqua; infatti la sua particolarità è che lo strato superficiale che si deteriora fa da copertura allo strato sottostante donandogli una certa impermeabilizzazione.

TEMPIO DI MARTE FLAMINIO

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TEMPIO DI MARTE FLAMINIO

Il Tempio di Marte Flaminio è un tempio di epoca repubblicana dedicato a Marte e situato vicino al Circo Flaminius, eretto "ex manubiis", cioè finanziato con un bottino di guerra, da Decimus Brutus Callaicus tra il 135 e il 130 a.c, dopo il suo trionfo spagnolo (Val Max. 8.14.2; Coarelli 1997, 493). Il generale Callaicus, ricevuta la provincia dell'Hispania Ulterior, vi stroncò la rivolta di Tantalo; in seguito fondò nell'Hispania Citerior la città di Valentia Edetanorum, l'odierna Valencia, nella quale trasferì i soldati di Viriato, sconfitto nel 139 a.c.

Il tempio era stato progettato da Hermodorus di Salamis (Mais in Nepal in Priscl, Gramm. 8.17.4 = Nn. Fr. 26 Peter: aedes Martis ... in circo Flaminio) e conteneva le statue di culto di Marte e Venere (Plinio, NH 36,26). Ermodoro di Salamina, che lavorò accanto allo scultore Scopa Minore, fu l'artefice del primo edificio marmoreo di Roma, il tempio di Giove Statore (nel portico di Metello nel Circo Flaminio), su incarico di Quinto Cecilio Metello Macedonico. Realizzò inoltre il tempio di Marte in Circo e i Navalia. Gli vengono inoltre attribuiti il tempio di Nettuno e il tempio di Ercole Vincitore nel Foro Olitorio.

Nel vestibolo del tempio erano iscritti alcuni versi del poeta Accio in versi saturni. Il tempio conteneva una statua colossale di Marte realizzata da Scopas e una statua di Venere, anch'essa realizzata da Scopas, che era considerata superiore a quella di Prassitele.
(Samuel Ball Platner, completato e rivisto da Thomas Ashby, A Topographical Dictionary of Ancient Rome, Oxford University Press, Londra, 1929, pp. 327‑330)

LA POSIZIONE
I resti di un tempio peripterale esastilico presso la chiesa di S. Salvatore in Campo (nel Circus N. Flaminius) furono identificati per la prima volta nel 1838 (Vespignani). I suoi elementi architettonici sono assegnati al primo periodo repubblicano per la loro miscela di caratteri naturali corsivo e greco ellenistico (Zevi, LTUR 228, id. 1976, 1055).

Un frammento della Forma Urbis Severiana (Rodríguez Almeida, Forma pl 42, 37) che raffigura parte di un tempio peripterale con una lunga e stretta cella e un aditon, proprio come Cicero (Arch. 11.27) descrive l'aedes Martis, è situato nella zona di S. Salvatore in Campo.

Inoltre, i documenti d'archivio ritrovati da Tortorici riportano la scoperta di S. Salvatore di frammenti di una statua colossale raffigurante una Dea, forse la statua culto di Venere descritta da Plinio. In effetti c'è un solo tempio di Marte, nelle vicinanze del Circo Flaminius, con un periodo di costruzione coerente con le caratteristiche architettoniche dei resti di S. Salvatore in Campo.

La chiesa di S. Salvatore in Campo fu a lungo posseduta dall'abbazia di Farfa, come sostenne il sacerdote incaricato di una visita nel 1566, lo stesso che ne scrisse un'osservazione scoraggiante sui parrocchiani, e soprattutto per i principi di Cristo, trascritta da Armellini nel 1891:
Mi disse che in quella parrocchia vi sono 200 case, con gente assai vile e bassa e disonesta, poiché vi sono assai meretrice e vi sono mescolati i giudei.

Tuttavia fra via degli Specchi e Piazza S. Salvatore in Campo, viene generalmente collocato quel Tempio di Nettuno cui i vincitori di battaglie navali dedicavano i cimeli delle loro vittorie.
L'edificio sacro, che figura la prima volta in una moneta di Cn. Domizio Ahenobarbo tra i 42 il 38 a.c. come tetrastilo, potrebbe essere la medesima "Ara Nepyuni", che nel 206 a.c. emanò sudore.

Le sei colonne scanalate di marmo greco, con base attica, del diametro di metri 1,15, trovate sotto l'isolato di fronte alla chiesa di S. Salvatore in Campo, sono attribuite al suddetto Tempio, dove Plinio colloca un gruppo famoso di Skopas che rappresentava Nettuno, Tetide ed Achille con tutto il loro corteo di Tritoni, Nereidi e mostri marini.

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ARA DOMIZIO AHENOBARBO - CALCO
Anche quell'altare, detto di Domizio Ahenobarbo, diviso adesso fra il museo di Monaco e del Louvre, che era, nel XVIII secolo, conservato nel palazzo Santacroce, prossimo alla chiesa di S. Salvatore in Campo, è attribuito al tempio di Nettuno.

Si ignora dunque l'esatta posizione del tempio, che doveva però sorgere a sud del teatro di Pompeo; secondo alcuni è identificabile su un frammento della pianta marmorea severiana, che rappresenta resti che esistono sotto la chiesa di S. Nicola ai Cesarini.

Ultimamente si pensa che il Tempio di Nettuno, presso il Circo Flaminio, altri non sia che il Tempio di Marte, edificato dal console Brutus Callaicus nel 138 a.c. Nell'immagine ha un tetto bianco, circondato da un portico.

LEGIO I ADIUTRIX

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DIVISA DELLA LEGIO I ADIUTRIX

Chiamata inizialmente LEGIO I CLASSICA, perché formata eccezionalmente con i marinai (classari) della flotta di Misenum.

Sembra che fu Nerone ad arruolare i legionari nella marina di Misenum, ma pare che non avesse ancora stabilito lo status della legione come iusta legio (legione ufficiale), mentre Cassio Diodoro riferisce Galba come fondatore della Legio I Adiutrix.

Lo comprovano anche tre certificati romani di incarichi onorevoli a veterani che servirono la Legio I Adiutrix con data 22 dicembre del 68 dc. in cui si sancì l’emblema alla legione: l’Aquila.

Ne furono comandanti o legati : Orfidio Benigno, nel 69 ; T. Statilio Massimo, negli anni 136-137; P. Elvio Pertinace, il futuro imperatore, nel 171; Claudio Pisone, nel 207.

L'emblema della legione era un capricorno insieme col cavallo alato Pegaso, e pure una nave da guerra (Galea), mentre sugli elmi il simbolo utilizzato da I Adiutrix legionari era un delfino. Si sa che erano armati con lancia e gladio.

La Legio I Adiutrix dal 90-97 operò in modo discontinuo fino al 118/119 e poi fino al IV sec.. a Komárom-Brigetio (forte ausiliario); 


IL PEGASO E' UNO DEI SIMBOLI
SOTTO NERONE

Legio prima Adiutrix (prima ausiliatrice), venne creata nei primi del 68, forse da Galba agli ordini di Nerone, arruolando i marinai della flotta di Miseno.

Le ultime notizie dell' Adiutrix si hanno nel 444, quando fu di stanza a Brigetio (Szöny), nella provincia romana della Pannonia.


SOTTO GALBA

Si sa che la legione stazionava all'inizio presso Roma, ma prima base conosciuta della legione è la città di Magonza (Mogontiacum) dove stazionava pure la Legio XIV Gemina.


SOTTO VITELLIO

Nell'Anno dei quattro imperatori, la legione combatté nell'esercito di Otone nella battaglia di Bedriacum, dove l'imperatore fu sconfitto da Vitellio che ordinò alla legione di trasferirsi in Spagna, ma entro l'anno 70 si combattè nella ribellione Batava. La battaglia, all'inizio fu un disastro, come predetto dalla sacerdotessa Velleda, sollecitatrice della rivolta, ma poi i Romani ebbero la meglio.


SACERDOTESSA VALLEDA
SOTTO VESPASIANO

Inviata per un breve periodo in Spagna (dove si dichiarò per Vespasiano nel frattempo oppostosi a Vitellio), nell’aprile del 70 viene trasferita in Germania Inferior per reprimere la rivolta dei Gallo-Germani (Batavi) di Giulio Civile, che, montatosi la testa, si dichiarava discendente di Giulio Cesare per parte di nonna.

In quello stesso anno in Germania Superior con base a Mogontiacum, dove insieme alla Legio XIV Gemina, partecipa alla ricostruzione della città gravemente danneggiata durante la rivolta batava.

Ancora la I Adiutrix nel 73-74 partecipa alle operazioni sul Reno (Agri Decumates), e invia una vexillatio ad Augusta Raurica.


SOTTO DOMIZIANO

Qui le due legioni si occupavano principalmente di difendere la nuova provincia della Germania superiore.
Nell'83 parteciparono alle campagne germaniche di Domiziano contro il popolo dei Catti, una tribù germanica che viveva oltre il Reno a nord del fiume Meno.

Alcune sue vexillationes (unità di cavalleria) sembra furono inviate nel vicino castrum di Mirebeau come riserva strategica dell'imperatore Domiziano.
Poco più tardi nell'85-86 la legione prese parte infatti con sue vexillationes alla nuova guerra contro i Daci, intrapresa da Domiziano. 

Nell'89 prese parte anche alle campagne suebo-sarmatiche di Domiziano (concluse da Traiano nel 97), durante le quali venne forse trasferita in Pannonia, a seguito alla distruzione di un'intera legione ad opera dei sarmati Iazigi, secondo altri vennero inviati per un paio d'anni a Burnumin in Dalmazia.
Il primo castrum pannonico dovette essere stato quello di Mursa (90 circa), vista la vicinanza con quello di Sirmio, dove era dislocata la legio II Adiutrix.



SOTTO NERVA

Dopo l'assassinio di Domiziano nel 96, l'Adiutrix, insieme con l'esercito del Danubio, si intromise di prepotenza nella politica romana, costringendo Nerva ad adottare Traiano come suo successore. Avevano capito il valore e la grandezza di questo generale, utile a loro e a Roma.


SOTTO TRAIANO

Quando Traiano divenne imperatore, dette alala legione il cognomen Pia Fidelis ("leale e fedele") di riconoscere il loro sostegno.

ONESTA MISSIONE DI UN VETERANO
Tra il 101 e il 106, sotto il comando di Traiano, l'Adiutrix, insieme a IV Flavia Felix e XIII Gemina, conquistò la Dacia e ne occupò la provincia.

L’imperatore Traiano si servì di questa legione anche durante la vittoriosa campagna contro i Parti (115–117), trasferendola poi a Satala (Cappadocia).


SOTTO ADRIANO

Traiano usò la sua Pia Fidelis nella campagna contro i Parti, ma furono poi rispediti in Pannonia dal suo successore l'imperatore Adriano, con base in Brigetio.

Durante i decenni successivi, la I Adiutrix rimase lungo la frontiera danubiana, a parte un soggiorno delle sue vexillationes (cavalleria) nel Ponto per una campagna contro gli Alani lungo i confini della Cappadocia. Questo sempre al tempo dell'imperatore Adriano.


SOTTO MARCO AURELIO

Sotto Marco Aurelio,  la Adiutrix combattè la guerra contro i Marcomanni comandata da Marco Valerio Massimiano.


SOTTO PERTINACE

Tra il 171 e il 175, il comandante era Pertinace, imperatore per un breve periodo nel 193.
Nel corso dei decenni, la Adiutrix rimase sulla frontiera del Danubio.


SOTTO SETTIMIO SEVERO

Quando Settimio Severo, allora governatore della Pannonia superiore, divenne imperatore, la Adiutrix fu tra i suoi sostenitori, e lo seguì in marcia per Roma, durante la guerra civile degli anni 193-197, fino all'ottenimento del trono imperiale. 

Alcuni soldati della legione rilevano i pretoriani, divenuti inaffidabili negli ultimi periodi, dai loro compiti.

In seguito, parte della legione non tornò subito al Danubio, ma fu prima impiegata nella guerra contro Pescennio Nigro (pretendente al trono - battaglia di Lugdunum febbraio 197). 

Nei decenni successivi la legione partecipò con sue vexillationes a diverse campagne contro i Parti, a partire da quelle degli anni 195 e 197-198.


SOTTO CARACALLA

Successivamente, la base principale fu di nuovo Pannonia, nella guerra del  215-217 guidata da Caracalla. Sembra che l'imperatore fosse molto soddisfatto della legione perchè la fregiò del nome "Pia Fidelis bis", cioè due volte devota e fedele per i notevoli servizi prestati.


SOTTO ELIOGABALO

Sembra che anche questo imperatore fu molto soddisfatto da questa legione, tanto che le aggiunse il nome di Constans, cioè costante, affidabile.



SOTTO GALLIENO

Risultò fedele a Gallieno che aveva istituito una sorta di esercito di manovra di stanza a Poetovio (Pannonia Superior), formato da vexillationes di varie legioni tra cui una della Legio I Adiutrix. 

Agli inizi del III secolo era sempre stanziata nella Pannonia inferiore.


SOTTO MASSIMINO

Vi sarebbe, poi, un'iscrizione rinvenuta nel castrum di Brigetio, secondo la quale un certo Gaio Giulio Massimino (173-238), sicuramente il futuro imperatore, era a quel tempo custos armorum della legio I Adiutrix. 
E così Massimino cominciò ad addestrare i legionari con grande coscienziosità, ordinando manovre, ispezionando le loro armi, il loro abbigliamento militare, dando esempio di coraggio, in modo da presentarsi più come un padre, che come un comandante.
Nel 238 la Legio I Adiutrix segue l’imperatore Massimino nello scontro contro il Senato, mentre le truppe imperiali pongono l’assedio ad Aquileia, assedio che si risolve con la morte dell’imperatore.


SOTTO GOTDIANO III

Ebbero ancora un ruolo in Pannonia nella guerra del 244 guidata da Gordiano III.


SOTTO DECIO

Nel 249 la legio appoggia la salita di Decio al trono imperiale, e nel 251 una vexillatio combatte nella sfortunata campagna contro i Goti in Moesia, con la sconfitta romana nella battaglia di Abrittus e la morte dell’imperatore Decio.


SOTTO VALERIO

La I Adiutrix spedisce nel 260 una vexillatio contro i Persiani, e partecipa alla disastrosa battaglia di Edesa dove è catturato l’imperatore Valerio. La legio nel 299 è permanentemente di guarnigione ad Aquileia.


SOTTO VALENTINIANO

Nel 353 viene chiamata a combattere la rivolta di Magnenzio, e Nel corso di questa campagna militare, la fortezza legionaria di Brigetio fu rinnovata per l'ultima volta.

Nel 358 partecipa alla campagna contro Quadi e Sarmati in Valeria-Pannonia, che si ripete nel 374-375, quando a Brigetio muore l’imperatore Valentiniano I,  al termine delle sue campagne militari contro i Quadi nel 375, come narra Ammiano Marcellino.



LA FINE

Il limes danubiano resse ancora per alcuni decenni alle devastazioni barbariche, tanto che al tempo della Notitia Dignitatum nel 400, la legio I Adiutrix si trovava ancora nell'antico castrum.

Cadde sotto i colpi delle armate degli Unni di Attila, il quale riuscì ad occupare tutta la Pannonia nel 433. Dunque la fortezza legionaria di Brigetio, dopo la strage della legio fu rinnovata per l'ultima volta.
Infatti l'Adiutrix è menzionata per l’ultima volta nel 444, comandata dal Dux Valeriae, con base a Brigetio (Valeria), come appartenente all'Impero Romano d’Occidente.

Il Dux Valeriae ripensis era il comandante delle truppe dell'esercito romano stanziate nella provincia della Pannonia Valeria, anche detta Valeria ripensis, e facenti parte dell'armata imperiale del Numerus intra Illyricum.

LUCIO ICILIO

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ICILIO, NUMITORIO E VIRGINIA
Nome: Lucius Icilius
Nascita: Roma, -
Morte: -
Professione: Politico e militare Romano
Carica pubblica: Tribuno (dal 456 a.c. al 449 a.c.)


Lucio Icilio (Roma, ... – ...), politico e militare romano, fidanzato di Verginia, uccisa dal padre Lucio Verginio nel 449 a.c., per impedire il suo disonore a causa del decemviro Appio Claudio.

Lucio Icilio fu il tribuno che nel 456 a.c., mentre erano consoli Marco Valerio Massimo Lettuca e Spurio Verginio Tricosto Celiomontano, e fu promotore della questione sulla distribuzione delle terre pubbliche sull'Aventino, ai Plebei. La Repubblica romana sorta con la cacciata dei re etruschi (509 a.c.) aveva un carattere molto classista. Consoli, senatori e sacerdoti potevano essere solo patrizi, e solo loro, o i loro clienti, potevano occupare la terra.
Tra Consoli e Tribuni vi furono quindi forti contrasti, per due ragioni, una era che i consoli all'epoca erano aristocratici e poco amavano la plebe, e l'altra era che gli aristocratici, cioè gli ottimati, poichè le ricchezze non erano mai sufficienti, miravano sempre ad accaparrarsi il demanio pubblico.

I tribuni però erano talmente esasperati e determinati che giunsero a minacciare di gettare i Littori dalla rupe Tarpea se la legge non venisse approvata, Infine la "Lex Icilia de Aventino publicando", che consentiva ai plebei di costruire sull'Aventino, tramite l'assegnazione dei terreni pubblici sul colle Aventino in proprietà privata, venne approvata Così i plebei potettero costruirvi le loro abitazioni, dando luogo a un quartiere plebeo compatto e unitario, centro della lotta di classe plebea nei decenni successivi.

Lucio Icilio era fidanzato a Virginia, una giovane particolarmente bella di famiglia plebea, di cui si incapricciò però il decemviro Appio Claudio, durante il secondo decemvirato. Appio Claudio, dopo aver tentato inutilmente con denaro e promesse di corrompere la fidanzata di Icilio, convinse e costrinse un suo cliente, Marco Claudio, a sostenere che Verginia fosse una sua schiava, tanto più che il padre di lei, Lucio Verginio, in quel momento era impegnato nella campagna contro gli Equi sul monte Algido.

MORTE DI VIRGINIA
Marco Claudio, mentre la ragazza era nel foro, cercò di rapirla sostenendo che fosse una sua schiava, ma la gente, che conosceva lei e il padre di integerrima fama, non gli credette e protesse la giovane. Allora Marco portò la causa in tribunale, presieduto proprio da Appio Claudio.

I difensori della ragazza testimoniarono la paternità romana di Verginia, e chiesero che ogni decisione fosse sospesa fine al ritorno del padre. In un primo tempo Appio Claudio acconsentì, poi però pretese che Virginia avrebbe dovuto seguire Marco Claudio fino a sentenza definitiva.

Icilio disperato arringò la folla e minacciò pure i littori, sostenuto anche dall'intervento di suo zio Publio Numitorio, anch'egli conosciuto come persona degna di stima. Allora la folla cominciò a ribellarsi all'ingiustizia e a difendere la fanciulla permettendole così di tornare a casa, prima di ripresentarsi in giudizio per il giorno successivo, quando Claudio avrebbe emesso la sentenza definitiva.

NUMITORIO ARRINGA LA FOLLA
« Se vuoi cacciarmi via di qua, o Appio, sperando di far passare sotto silenzio ciò che non vuoi venga alla luce,» gridò Icilio, «dovrai ricorrere alle armi. Questa ragazza diventerà mia moglie e per ciò io voglio che sia pura il giorno delle nozze. Dunque chiama pure tutti i littori, anche quelli dei colleghi, ordina che si tengano pronti con le verghe e con le scuri, ma stai pur sicuro che la promessa sposa di Icilio non passerà la notte fuori dalla casa di suo padre. » (Tito Livio, Ab urbe condita, II, 45)

Immediatamente il fratello di Icilio e il figlio di Numitorio furono mandati ad avvertire il padre di Virginia di tornare a Roma entro il giorno successivo, e i due furono così veloci, che Virginio ottenne dal proprio comandante il permesso di tornare a Roma per difendere sua figlia, prima che allo stesso comandante arrivasse l'ignobile ordine di Appio Claudio di trattenerlo sul campo.

Il giorno dopo mentre la folla si accalcava per assistere al processo, e il padre cercava di sobillarla per ottenerne l'aiuto, la giovane arrivò nel foro, accompagnata dalle matrone.
« Ma il pianto silenzioso delle donne che li accompagnavano commuoveva più di qualsiasi discorso» (Tito Livio, Ab urbe condita, II, 47)

Il processo iniziò con le dichiarazioni del padre Verginio, ma Appio Claudio lo interruppe immediatamente, confermando la sentenza del giorno prima e accordando la schiavitù provvisoria a Marco. Virginio si indignò e gridò:
« Mia figlia, Appio, l'ho promessa a Icilio e non a te, e l'ho allevata per le nozze, non per lo stupro. A te piace fare come le bestie e gli animali selvatici che si accoppiano a caso? Se questa gente lo permetterà, non lo so: ma spero che non lo permetteranno quelli che possiedono le armi!.»
(Tito Livio, Ab urbe condita, II, 47)

Appio Claudio intimò allora ai Littori di intervenire per sedare la rivolta, e all'intervento piuttosto brutale dei littori la folla si disperse, lasciando sola la ragazza con suo padre. Allora Verginio, ottenuto il permesso di appartarsi nel tempio di Venere Cloacina con la figlia, la uccise.
« Così, figlia mia, io rivendico la tua libertà nell'unico modo a mia disposizione!»
(Tito Livio, Ab urbe condita, II, 48)

Immediatamente poi fuggì dal foro prima dell'intervento dei Littori richiamati dal decemviro, quindi Icillo e Numitorio, sobillavano i presenti, prima di fuggire a loro volta
« Icilio e Numitorio sollevarono il corpo esanime della ragazza e lo mostrarono al popolo, lamentando la scelleratezza di Appio, la bellezza funesta di Verginia e la necessità che aveva portato il padre a un simile gesto. »
(Tito Livio, Ab urbe condita, II, 48)
Mentre Verginio, raggiungeva il campo sul monte Algido cui era stato assegnato, per raccontare il crimine di Appio ai suoi compagni d'arme, Icilio raggiungeva il campo allestito contro i Sabini, sobillando i militi a sua volta.
« Anche lì, su istigazione di Icilio e Numitorio, scoppiò una rivolta contro i decemviri: infiammò gli animi il ricordo dell'assassinio di Siccio, inasprito dalla recente notizia della ragazza così vergognosamente disonorata per soddisfare la libidine»
(Tito Livio, Ab urbe condita, II, 52)

Così quando nel campo si seppe della sollevazione in atto a Roma, anche il commilitoni di Icilio si posero in marcia su Roma contro i decemviri. Soldati e civili plebei riunti si mossero dall'Aventino raggiungendo il monte Sacro per abbandonare la città. Sotto la minaccia di una nuova secessione, i Senatori intervennero, per transare con i secessionisti, inviando Marco Orazio e Lucio Valerio, posti a capo della rivolta popolare, sul Monte Sacro, mentre i decemviri, molto impopolari tra la plebe, cominciavano a temere per la propria vita.

Al termine dei negoziati, i decemviri dovettero rinunciare al proprio magistrato, il tribunato della plebe venne ripristinato, furono indette le elezione dei tribuni popolari, e dopo un breve interregno, anche quelli dei consoli. Icilio, come Verginio, fu elettro tribuno della plebe nel 450 a.c.. con Publio Numitorio, Caio Sicinio, Marco Duilio, Marco Titinio, Marco Pomponio, Caio Apronio, Publio Villio e Caio Oppio.
Marco Orazio e Lucio Valerio, eletti consoli, rafforzarono i diritti della plebe promulgando le Leges Valeriae Horatiae, tre provvedimenti legislativi favorevoli alla plebe che, tra gli altri diritti, stabilivano l'inviolabilità dei tribuni della plebe e le modalità delle loro elezioni e riconoscevano valore giuridico ai plebisciti. Appio Claudio e Spurio Oppio Cornicene si suicidarono in carcere, mentre gli altri ex-decemviri vennero condannati all'esilio.

Nel frattempo Equi, Volsci e Sabini si erano uniti contro Roma, ma prima di partire per la guerra, i due consoli fanno incidere nel bronzo le leggi delle XII tavole. Marco Orazio si occupò dei Sabini mentre il suo collega marciò contro Volsci ed Equi e li vinse, nonostante un esercito demoralizzato e sconfitto sotto i decemviri. Marco Orazio, dalla sua, dopo una fase incerta, riuscì a sconfiggere i sabini.

Lucio Icilio chiese allora al Senato il trionfo per i due consoli, ma il senato, avverso ai due per aver difeso il popolo, lo negò. Icilio allora si rivolse ai Comizi Tributi che l'approvarono. Per la prima volta nella storia di Roma, ignorando la volontà del Senato, il popolo romano decretò il trionfo per i due consoli, e Icilio venne glorificato come amico del popolo. Un altro grande passo in favore della democrazia.

PORTA COLLINA (Porte Severiane)

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La Porta Collina era una delle porte nelle Mura serviane di Roma. La struttura della porta, almeno nella forma più antica, era molto semplice, costruita in blocchi di tufo squadrati e con l'arco che caratterizzava lo stile etrusco, inserita in un alto muraglione e con una torre di avvistamento e difesa.

La Porta Collina il cui nome si deve al sostantivo "collis", poiché il Quirinale era considerato il Colle per antonomasia, si trovava a Roma appunto sul Quirinale, grosso modo all'incrocio tra le attuali via Goito e via XX Settembre, sotto l'angolo del Palazzo delle Finanze, per la cui costruzione, nel 1872, si rinvennero scavando le sue fondamenta e di tracce delle mura che la fiancheggiavano. Dopo il loro rinvenimento vennero però barbaramente demoliti quei preziosi resti romani.

Amareggiato il Lanciani, testimone dei pesanti interventi urbanistici attuati per la nuova Capitale, così scrisse:
“Per quanto importanti possano essere questi lavori non potranno mai compensare la distruzione seguita contemporaneamente delle mura di Servio: rovina venerabile la quale dopo sfidata per 25 secoli l'azione devastatrice del tempo e degli uomini, costringe ora i demolitori a ricorrere alla forza della polvere da sparo”.

La porta Collina, come le altre porte cittadine principali e cioè quella Viminale, l'Esquilina e la Querquetulana, risalgono quindi ad un periodo molto antico, circa un paio di secoli precedente a quello della costruzione delle mura serviane. 

Questa porta fu fatale a Roma; poiché per essa i Galli entrarono l’anno 365 dopo la sua fondazione, 388 [o 390] avanti l’era volgare. Imperciocché essendo questa porta quasi in piano, e più scoperta delle atre, era anche più esposta ad essere espugnata, e dalla storia di Roma si vede, che gli assalti de’ suoi nemici furono sempre diretti contro questa parte: in Livio ne abbiamo parecchie memorie, come quella quando i Sabini nel 284 dalla fondazione di Roma vollero assalirla; e i Fidenati, e i Vejenti presso questa si accamparono nel 319; e Annibale vi si presento per batterla l’anno 543
(Antonio Nibby, Le mura di Roma, Roma 1820).



LA STORIA

In  effetti, la porta Collina, registrata nelle fonti antiche dal 508 a.c., era stata testimone, nei secoli, di moltissimi degli eventi che hanno segnato la storia militare e politica di Roma. Si ritiene infatti che le quattro porte originarie si possano far risalire all'ampliamento della città operato dal re Servio Tullio (.. - Roma, 539 a.c.), che comprese nel territorio dell'Urbe, oltre alle alture dei sette colli, anche il Quirinale, il Viminale, l'Esquilino e il Celio (Querquetulanus, cioè coperto di boschi di querce). Della stessa epoca è ovviamente anche il primo baluardo difensivo che le collegava tra di loro: un fossato con una palizzata in legno sostituita poi con la pietra.

Del resto tutta la parte nord dell'antica Roma, essendo completamente pianeggiante, era la più esposta ai nemici per cui si era dovuto provvedere, fin dai tempi della monarchia, a proteggerla con la costruzione dell’agger per circa 1.300 m dalla Porta Collina all'Esquilina. Un indizio dell'antichità di queste porte è fornito, secondo gli studiosi, anche dal loro nome, che deriva direttamente da quello dell'altura cui davano accesso,

Dalla porta Collina nel 449 a.c. entrò l'esercito plebeo in rivolta che, attraversata tutta l'Urbe, arrivò fino all'Aventino dove già si era radunato l'altro esercito plebeo, nella “II  secessione plebea” in cui si lottava per i diritti del popolo, contro i decemviri e per vendetta contro le offese di Appio Claudio.

I plebei poi, costituenti circa metà della popolazione, uscirono poi di nuovo dalla porta Collina per asserragliarsi sul Monte Sacro (sul quale si erano già rifugiati nel 494 durante la prima secessione), dove aspettarono che il Senato ristabilisse finalmente l'istituto del tribunato della plebe ed abolisse l'odiato strapotere dei decemviri.

Da questa porta erano anche passati, nel 390 a.c., quei Galli che, saccheggiata Roma, si erano spinti fin sul Campidoglio. E ancora prima, nel 508 a.c., durante le guerre etrusche dell'ultimo periodo monarchico, Porsenna, re di Chiusi, aveva posto in questa zona l'assedio alla città, e vi si combatté prima che l'eroico atto più o meno leggendario di Muzio Scevola convincesse il nemico a chiudere le ostilità.

LA PORTA IN UNA PUBBLICAZIONE DEL 1820
Qui erano arrivati i Sabini nel 284 a.c., i Fidenati e i Veienti nel 319 a.c., e i Prenestini nel 376 a.c.. Questa porta fu teatro di battaglie di antiche guerre contro Galli ed Etruschi. Soprattutto qui avvenne un episodio del 217 a.c., nel pieno della II guerra punica, che fece tremare Roma.
Annibale, posto l'accampamento a 3 miglia di distanza dall'Urbe, sull'Aniene, si avvicinò con 2.000 cavalieri numidi alla porta e arrivato fino al “punto più vicino che poteva raggiungere, contemplava a cavallo le mura e il sito della città”.

Presso questa porta, nell'82 a.c., si combatté la battaglia di Porta Collina, ultimo capitolo della guerra civile romana, in cui Silla annientò completamente l'ultima fazione dei populares di Mario, in uno degli scontri più sanguinosi della Roma repubblicana. La vittoria degli optimates del generale Silla, fece di lui il "dictator legibus scribundis et rei publicae constituendae" che accentrò tutto il potere nel Senato.

"Dopo aver difeso egregiamente la nobiltà, allagò di sangue civile tutta Roma ed ogni regione d'Italia -ordinò che quattro legioni della fazione a lui contraria che si erano fidate della sua parola venissero massacrate nell'edificio pubblico limitrofo al campo Marzio, malgrado implorassero invano la pietà della sua destra ingannatrice. Le loro pietose grida di soccorso giunsero alle orecchie della citta' terrorizzata e il Tevere, sovraccarico di tanto peso, fu costretto a trasportarne sulle acque insanguinate i corpi fatti a pezzi. Cinquemila Prenestini, che si erano arresi tramite Publio Cetego sperando di aver salva la vita, furono fatti uscire dalle mura del loro municipio, pur dopo aver gettate via le armi ed essersi prostrati a terra, e per suo ordine immediatamente uccisi; i loro cadaveri vennero gettati qua e lì per la campagna. Di quattromilasettecento persone fatte uccidere con l'editto della terribile proscrizione, redasse una pubblica lista, naturalmente perché non svanisse il ricordo di un fatto cosi glorioso."
(Valerio Massimo - La violenza di Silla)

Dalla Porta Collina uscivano le vie Salaria e Nomentana, in prosecuzione del vicus Portae Collinae che scendeva direttamente dal colle Quirinale. Questo vicus era la prosecuzione dell’antico percorso viario Alta Semita (oggi via del Quirinale-via XX Settembre), e subito al di fuori della porta si ergeva il santuario dedicato a Venus Erycina, o Venere di Erice, il cui culto si diffuse a Roma a partire dalla Sicilia durante la I guerra punica (264-241 a.c.)

Tutta l'area intorno costituiva il “campus sceleratus”, dove venivano sepolti i condannati a morte e le Vestali che non avevano osservato il voto di castità.



GLI SCAVI

Nel 1996 sono stati effettuati nuovi scavi archeologici nell'area posta all'incrocio tra via Goito e via XX Settembre, dove si trovano le tracce di ciò che rimane della porta Collina. La ristrettezza del saggio di scavo non ha potuto mettere in luce le fondazioni della porta e del tratto di mura ad essa connesso; inoltre, la parte inferiore delle mura è risultata coperta da uno strato composto da limo, ghiaia, frammenti ceramici sporadici e frammenti di tufo, che ricopriva anche la trincea di fondazione.

Questo strato poteva avere una funzione di piccolo contrafforte interno alle mura stesse, una sorta di ridotto aggere di contenimento. Sono anche state messe in luce due strutture quadrangolari all’interno del cortile , dentro il Ministero , ma purtroppo chi non vi lavora non puo’ entrare , ne’ si puo’ fotografare. Questi resti sono stati interpretati dagli archeologi come bastioni ad ulteriore difesa della porta, al centro dei quali passava il Vicus Portae Collinae. Comunque si tratta ancora di interpretazioni, anche la congettura della porta poggia basi ormai abbastanza solide.

IULIA DOMNA

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IULIA DOMNA

Nome: Iulia Domna
Nascita: 170, Emesa (Siria)
Morte: 217, Antiochia
Marito: Settimio Severo
Padre: Giulio Bassiano
Figli: Caracalla, Geta.



Giulia Domna, ovvero Iulia Domna, (Emesa 170 – Antiochia 217) fu la moglie dell'imperatore Settimio Severo, e pertanto imperatrice e augusta dell'Impero romano con un potere mai ottenuto prima dalle imperatrici romane.
Ella era figlia di Giulio Bassiano, gran sacerdote della divinità solare siriaca El-Gabal (Elio Gabalo) nonché membro della casa reale di Emesa, un regno cliente dell'Impero romano, e nacque ad Emesa, attuale Homs, in Siria. 
Mentre si trovava in quelle regioni, nel periodo compreso tra il 183 e il 187, il futuro imperatore Lucio Settimio Severo, allora proconsole della Gallia Lugdunensis e già comandante della Legio IIII Scythica (179), si innamorò della giovane e la richiese in sposa, tra l'altro anche a causa di un responso oracolare, in base a cui Settimio avrebbe trovato moglie in Siria.

Secondo altre fonti però Settimio, grande appassionato di astrologia, aveva avuto una predizione in base al suo oroscopo, per cui avrebbe ottenuto grandi poteri se si fosse unito ad una donna dedita ai culti del dio Sole.

Dalla loro unione nacquero due figli maschi, Lucio Settimio Bassiano, che dal 195 prese il nome di Marco Aurelio Antonino Caracalla e Publio Settimio Geta. Nella stessa data, venendo Settimio severo incoronato imperatore, essendo già stato acclamato dalle truppe di stanza in Pannonia, venne conferito a Giulia Domna il titolo di Augusta con emissione di monete in suo nome.

Ella fu costantemente al fianco del marito, anche sul fronte, e questo le valse il titolo di "mater castrorum" (madre degli accampamenti), che fino ad allora era stato concesso soltanto a Faustina Minore nel 174. Numerose iscrizioni, monete e basi di statue attestano inoltre che venne venerata con le sembianze di varie divinità, in parte perchè dotata di un forte carisma, in parte perchè lo stesso Severo si era autoproclamato, sul modello dei sovrani ellenistici, "dominus ac deus", con un ruolo molto diverso da quello dei precedenti imperatori (i princeps), cosa che gli valse la grande ostilità del Senato, che si vide defraudato del suo ruolo e dei suoi diritti.

RICOSTRUZIONE DEL VISO
Spesso influenzò le scelte del marito, occupandosi anche dell'amministrazione dell'impero, pur non comparendo nella scena politica nel pieno rispetto del mos maiorum romano, che non ammetteva incarichi ufficiali alle donne.

La sua influenza nelle decisioni di Settimio Severo non era però ben vista e questo portò allo scontro con Plauziano, consigliere dell’imperatore, notizia riportata da Cassio Dione (Hist. LXXV, 15, 6 e LXXVIII, 24, 1) ed anche da Elio Sparziano, lo stesso, ma l'unico, che ci informa della bellezza dell'imperatrice (Hist. Aug. XXII).

Infine, tra il 202 e il 205, essendo aumentato il contrasto con Plauziano, prefetto del pretorio e consigliere sempre più influente di Settimio Severo, che ottenne che il figlio ed erede dell'imperatore, Caracalla, si fidanzasse e poi sposasse (202) la propria figlia, Fulvia Plautilla, determinò il temporaneo e parziale ritiro dell'Augusta dalla vita pubblica. Ciò consentì a Giulia Domna di dedicarsi agli studi filosofici e religiosi costituendo intorno a lei un circolo di intellettuali, tra i quali si annoverano il medico Galeno e il filosofo Flavio Filostrato.

Alla morte di Settimio Severo, nel 211, succedete al potere Caracalla (211-217) che però non si interessava molto degli affari di stato e questo diede la possibilità all’Augusta di tornare ad occuparsi della gestione del potere, cercando di evitare lo scontro tra i suoi figli.Caracalla la scelse come garante per un incontro durante con suo fratello con lo scopo di riconciliarsi nella stessa abitazione della madre ma i soldati di Caracalla entrarono e uccisero Geta, mentre Iulia Domna cercava di difenderlo, restando ferita ad una mano.

Questo fatto però sembrò non incidere più di tanto sull'imperatrice che continuò a sostenere Caracalla, conquistando il titolo di "Iulia pia felix Augusta mater Augusti nostri et castrorum et senatus et patriae", attestata con certezza a partire dal 211.
Ottenne inoltre. come informa Cassio Dione (Hist., LXXVII, 18, 2; LXXVIII, 4, 2 3) l’incarico ufficiale di sovrintendere alla corrispondenza imperiale mentre Caracalla era impegnato nella spedizione contro i Parthi.

Caracalla, si dimostrò un monarca crudele e dissennato: divorziò dalla moglie Fulvia Plautilla dopo soli tre anni di matrimonio e senza aver avuto un erede; poi nell’anno 212 la confinò in esilio e la fece uccidere, dopo aver già fatto giustiziare suo padre Plauziano nel 202.

Nel 217, mentre si trovava ad Antiochia, Giulia apprese la notizia dell’assassinio di Caracalla e dell’elezione di Macrino al soglio imperiale. L’Augusta, che aveva ben sopportato l'assassinio di Geta per mano del fratello, non sopportò quello di Caracalla a cui era evidentemente legata da un affetto molto maggiore, tanto che si lasciò allora morire di fame.

Alla sua morte, venne sepolta nel Mausoleo di Augusto. Durante l’impero di Eliogabalo venne divinizzata e la sua salma venne traslata nel Mausoleo di Adriano.


IULIA DOMNA

LA RITRATTISTICA

Dalle monete e dalle statue di Iulia si ricavano due tipi diversi di acconciature; quella del periodo giovanile manteneva la pettinatura di Didia Clara: capelli divisi nel mezzo e leggermente ondulati, coprenti le orecchie, e uniti sulla nuca da una treccia particolare detta alla “tartaruga”.

Nel periodo in cui venne realizzato l’arco degli Argentari a Roma (203 – 204 d.c.) compare un'altra immagine un po' idealizzata, con capelli ondulati artificialmente, e grandi trecce ripiegate ad incorniciare il volto, divenendo più sottili verso le tempie. Ella mostra un volto paffuto, anche se meno nelle immagini più mature, e folte sopracciglia riunite alla radice del naso.

BRIGETIO (Limes Pannonico)

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Brigetio (odierna Komárom) era una località nel territorio della moderna Ungheria. appartenente all'antica tribù degli Azali, di origine illirica, ma con connotazioni celtiche, infatti il suo nome deriverebbe dal celtico "brig" cioè "fortezza".

Venne conquistata dai romani alla fine del regno di Augusto o l'inizio di quello di Tiberio, e dotata in un fortino di unità ausiliarie, a partire dalla fine del regno di Claudio (49-50), quando furono costruite numerose vie di comunicazione in Pannonia (Ungheria occidentale), ad esempio la strada che collegava Brigetio con Sirmium/Singidunum (attuale Sremska Mitrovica in Serbia).

Brigetio venne edificata quando Vannio (19 - 50), re dei Quadi e dei Marcomanni, fu cacciato dai suoi sudditi, per cui l'imperatore Claudio, preoccupato dai disordini a nord del fiume Danubio, ordinò al governatore della Pannonia “di disporre una legione con un corpo scelto di milizie ausiliarie sulla riva del Danubio per proteggere i perdenti e dissuadere i barbari vittoriosi dalla tentazione di invadere la provincia".

LE FONDAZIONI
Vennero così resi disponibili i forti ausiliari di Aquincum e Brigetio e la fortezza legionaria di Carnuntum lungo il limes danubiano, dove si stanziò la cohors I Thracum civium Romanorum.
Al termine delle guerre condotte da Adriano in Sarmatia contro gli Iazigi ed in Moldavia e Valacchia contro i Roxolani, fu installata in modo definitivo la Legio I Adiutrix a Brigetio e qui rimase fino al IV secolo.

Questa fortezza legionaria fu coinvolta poi nella guerra che sia Adriano che Antonino Pio negli anni 136-142. Alla fine delle guerre venne celebrato il "Rex Quadis datus", di cui non si hanno notizie precise ma che fa pensare all'imposizione alla grande tribù germanica dei Quadi, che risiede al di là del Danubio a nord della Pannonia, di un sovrano amico di Roma, nella continuazione della diplomazia traianea di appoggiarsi, in Germania, ad alcune tribù contro altre per conservare la pace. Ma vi fu poi una guerra ben più devastante, che scoppiò sotto Marco Aurelio contro i Quadi (a nord, in Slovacchia) e i Sarmati degli Iazigi, tra il 167 ed il 182.


Pertanto Brigetio, nei cui pressi sono stati trovati i resti di una ventina di castrum, fu al centro delle operazioni militari romane in territorio germanico tra il 172 ed il 180. Lo stesso Marco Aurelio avrebbe stazionato in questa importante fortezza nel 179, come riporta nel suo primo libro dei Colloqui con se stesso, intitolato "Sulla Granua" (fiume della Slovacchia a nord di Brigetio).

Infatti sia Marco Aurelio che suo figlio Commodo (161 - 192), combatterono una devaswtante guerra contro i barbari, vincendoli:
- nel 167 nella zona di Brigetio ed Arrabona; 
- nel 170 quando erano giunti fino ad Aquileia, lungo la via dell'Ambra), 
- poi nei territori di Gallia cisalpina, Norico e Rezia (170-171), 
- infine in territorio germanico e sarmatico, fino al 175. 


In quel periodo l'imperatore dovette risiedere per vari anni lungo il fronte pannonico, senza mai, con suo sommo rincrescimento, dato che non amava la guerra, poter far ritorno a Roma. Ma la tregua con queste popolazioni, tra cui Marcomanni, Quadi e Iazigi, durò però solo un paio d'anni.

Alla fine del 178 l'imperatore Marco Aurelio dovette tornare nel castrum di Brigetio, da cui nel 179, condusse l'ultima campagna. La morte dell'imperatore nel 180 pose fine ai piani espansionistici romani e determinò l'abbandono dei territori occupati della Marcomannia, sebbene il figlio Commodo, continuò a combattere a fasi alterne nella piana del Tibisco fino al 188/189.

Alcune epigrafi del 213, rinvenute a Brigetio, alluderebbero a spedizioni punitive contro i Daci liberi del Banato, compresi tra la Pannonia inferiore ad occidente e la Dacia ad oriente.

L'anno successivo Caracalla, partì per la Pannonia, dove si erano verificate nuove incursioni tra Brigetio ed Aquincum da parte di Quadi e sarmati Iazigi. Caracalla ottenne l'alleanza dei Marcomanni, contro i vicini Vandali, ora nemici dell'Impero romano, giustiziò il re dei Quadi, Gabiomaro, che aveva invaso le due Pannonie e sconfisse anche gli Iazigi, assumendo così l'appellativo di "Sarmaticus".

Così la Pannonia inferiore fu ampliata, includendo ora anche la fortezza legionaria di Brigetio, in modo che ognuna delle due Pannonie potesse disporre di due legioni ciascuna, mentre i centri civili di Carnuntum (Colonia Septimia Aurelia Antoniana) e della stessa Brigetio furono elevati al rango di colonie.

Il limes pannonico venne attaccato di nuovo nel 245 dai Quadi, tanto che l'anno successivo dovette intervenire l'imperatore Filippo l'Arabo, il quale riportò grandi vittorie per cui gli fu attribuito l'appellativo di "Germanicus maximus". Tuttavia nel 252 i Quadi tornarono ad attaccare il limes pannonico, nella zona di fronte alla fortezza legionaria di Brigetio.

Nel 282, alla morte dell'imperatore, gli Iazigi, da pochi anni sottomessi, si unirono ai Quadi e ripresero le battaglie, sfondando il limes pannonico e mettendo in pericolo l'intero Illirico, la Tracia e il suolo italico. L'anno successivo, il nuovo imperatore, Marco Aurelio Caro (230 - 283), affidò la parte occidentale dell'impero al figlio maggiore, Marco Aurelio Carino (257 - 285), il quale, intervenuto con prontezza e determinazione, riuscì ad intercettare le bande di armati germano-sarmatici che avevano sfondato ancora una volta il limes in Pannonia e ne fece grande strage.


« In pochissimi giorni [l'imperatore Caro] poté restituire sicurezza alla Pannonia, uccidendo sedicimila Sarmati e catturandone ventimila di ambo i sessi. »
(Historia Augusta - Caro Carino Numeriano)

Per la vittoria, l'imperatore nel 284 ricevette l'appellativo di "Germanicus maximus", celebrò un trionfo a Roma e batté moneta dove coi prigionieri barbari e la dicitura "Triumfus Quadorum". L'anno successivo i popoli furono nuovamente e pesantemente sconfitti dal nuovo imperatore, Diocleziano, che il titolo di "Germanicus maximus" e "Sarmaticus maximus".
Nel 357 Quadi, nella loro Marcomanni e sarmati Iazigi invasero e saccheggiarono le province di Rezia, Pannonia e Mesia. Costanzo II in parte combattè e in parte assegnò nuove aree d'insediamento ad alcune tribù della coalizione. Ammiano narra che l'imperatore pose i propri quartieri generali a Brigentio. 

Il capo dei Quadi, Vitrodoro, ed il vassallo Agilimundo, oltre ad altri capi nobili, all'apparire dell'esercito nel loro regno, si gettarono ai piedi dei soldati romani ed ottennero il perdono, consegnando i loro figli come ostaggi e promettendo che sarebbero rimasti fedeli ai patti.

Nel 374, una nuova incursione di Quadi e Iazigi, mosse l'imperatore Valentiniano I (321 - 375) in territorio germanico in territorio germanico, dalla fortezza legionaria di Carnuntum, per una spedizione punitiva, in questa occasione la fortezza legionaria di Brigetio fu restaurata per l'ultima volta.

Qui morì Valentiniano I, al termine delle campagne militari contro i Quadi, nel 375, come ci racconta Ammiano Marcellino. Il limes danubiano tenne ancora per alcuni decenni alle devastazioni barbariche, tanto che al tempo della Notitia Dignitatum nel 400, la legio I Adiutrix si trovava ancora nell'antico castrum. Cadde sotto i colpi delle armate degli Unni di Attila, il quale riuscì ad occupare tutta la Pannonia nel 433.


IL SITO ARCHEOLOGICO

Di Brigetio possiamo oggi ammirare il castrum legionario, ad est del villaggio di Szőny, dove sono state scoperte nel corso degli scavi:

- la porta praetoria,
- la porta decumana,
- una parte del praetorium,
- varie opere difensive (torri delle porte, torri laterali, camminamento di ronda, ecc.);
- una necropoli,
- numerose abitazioni civili riccamente dipinte nella regione della canabae,
- le terme,
- alcuni templi,
- un anfiteatro (un ovale di 166x97 metri),
- un foro
- un acquedotto (che portava l'acqua da Tata).


DA
I tesori dell'antica Brigetio sono esplorati dagli archeologi di ELTE
2011.06.28. 08:05 Peter Bernát

Brigetio, uno dei più grandi insediamenti nella provincia romana della Pannonia con antichi tesori archeologici presso il cui Dipartimento ELTE dei ricercatori hanno iniziato la loro ventesima stagione di scavo. Secondo la sua descrizione, la formazione di Brigetio fu determinata da oltre a 6-10 mila familiari di soldati in servizio nelle artigiani legione e artigiani, e la popolazione indigena romanizzata che viveva nella parte della città una certa distanza. Durante il regno di Settimio Severo.

Ammiano Marcellino (330-400), narra che l'imperatore è venuto a Pannonia a causa della campagna contro i Quadi. Secondo la sua descrizione, l'imperatore trovava difficile trovare un alloggio per sé. Carnuntum (oggi Bassa Austria) era allora una città devastata. " Brigetio è stata la scelta come luogo in cui gli inviati Quadi parlarono di condizioni di pace. "eperti archeologici indicano che la vita romana poi lentamente scomparve.

Dall'inizio del XX secolo sono state scoperte varie opere e sono state conservate collezioni ricche in varie collezioni in Ungheria e all'estero. Le esplorazioni per la ricerca scientifica sono iniziate solo nella prima metà degli anni '40, che è esplosa dopo la guerra, e in seguito sono stati effettuati solo scavi relativi ai lavori di costruzione. 

Su richiesta del comune di Komárom, l'antico dipartimento archeologico di ELTE ha iniziato gli scavi nel 1992 a Brigetio. Negli ultimi 19 anni, sono emersi gli edifici residenziali e gli edifici agricoli associati decorati in modo molto ricco nel presunto centro della città.

Come risultato degli scavi, la struttura di una città ha cominciato ad emergere, in forma di insulae "Per quanto ne sappiamo, gli isolati erano di 50 metri, 50 metri di larghezza e 3 metri di larghezza, lcon strade lastricate, reciprocamente parallele e rettangolari."
Il riscaldamento a pavimento negli edifici del soggiorno serviva il comfort dei residenti e gli archeologi sono riusciti a trovare una parte della rete fognaria.

Tra i ritrovamenti, i dipinti murali, molti dei quali sono stati prodotti negli ultimi due decenni. Uno dei più significativi è un affresco del soffitto, raffigurante le costellazioni delle costellazioni di Andromeda e Pegaso. Ai quattro angoli del soffitto le quattro stagioni. C'è anche una raffigurazione di una festa: nelle grandi aree di immagine con "pelli di animali", dove gente di pelle nera offre i pasti. "Gli abiti dei servi hanno fatto scalpore tra gli specialisti nei costumi romani, l'affresco sarà centrale per l'anno prossimo alla mostra internazionale mannhim dedicata ai costumi antichi", ha detto László Borhy.


DOMUS DI FRONTO (Pompei)

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L'ATRIO

Pompei

Si stima che poco prima dell'eruzione del Vesuvio del 24 agosto del 79 d.c., Pompei avesse circa 1.500 case, dove vivevano tra le 8.000 e le 10.000 persone, il 40 per cento di loro schiavi. Naturalmente, non tutte le residenze erano dello stesso tipo. I più poveri vivevano in piccole stanze installate nel retrobottega di un negozio o di lavoro, o su un piano rialzato (pergula) che non superavano i 50 mq. 

Le case dei piccoli commercianti, artigiani e liberti erano comprese tra 120 e 350 mq ed erano costituite da una serie di camere disposte intorno ad un atrio coperto, un giardino interno (Xystus) o un corridoio. Poi c'erano le case signorili, occupate dalla nobiltà locale, ricchi mercanti e alta borghesia pompeiana, ma pure le ville d'ozio dei ricchi romani, sicuramente le più famose e attraenti per i visitatori e gli studiosi. 
Una delle ville meglio conservate è:



LA VILLA DI MARCO LUCREZIO FRONTONE

Come altre ville di lusso di Pompei, la facciata del Fronto Lucrezio era semplice, ma era sufficiente attraversare la porta per cogliere i segni della ricchezza del proprietario. La sua struttura originaria risale al II secolo a.c., quando la popolazione italica che vive ancora a Pompei, ormai pienamente romanizzata, ha aperto alle influenze dell'ellenizzato Oriente, che penetravano attraverso il porto di Puteolum (Pozzuoli) nelle vicinanze.

Da quel momento, gli alloggi italici tradizionali, con atrio coperto e camere raggruppate intorno ad esso, si accentrano su un atrio aperto, l'impluvium (una piccola fontana, dove l'acqua piovana viene raccolta in una cisterna sotterranea, e con un giardino colonnato sul retro della casa (peristylium, nucleo della casa ellenistica, al posto dell'atrio).

La facciata della villa, lungo il vicolo perpendicolare a Via di Nola, piuttosto semplice, non lasciava prevedere al suo interno una delle più raffinate case ad atrio di Pompei, il cui impianto originario risale al II sec. a.c., ma che a partire dall’età augustea (fine I sec. a.c. - inizi I sec. d.c.) fu abitata da una delle famiglie più importanti della città.

L'ingresso principale della casa di Marco Lucrezio Frontone si trova lungo una traversa di via di Nola, nel vicolo di Marco Lucrezio Frontone, in parte ancora da scavare, mentre un secondo ingresso, di servizio, è posto lungo il vicolo dei Gladiatori.

Le iscrizioni elettorali rinvenute sulla facciata della villa durante gli scavi ci consentono di conoscere il nome del proprietario: Marcus Lucretius Fronto, cioè Marco Lucrezio Frontone, che aveva intrapreso una certa carriera politica, candidandosi alle principali cariche pubbliche.

La villa non è di enormi dimensioni, perchè copre una superficie di circa 460 m²,  però vanta un gusto molto ricercato nelle decorazioni e nei mosaici pavimentali. Il tutto riconducibile per la maggior parte al III stile finale, con rimandi ai miti e alla cultura degna di nota del raffinato proprietario. Le stanze che troneggiano nella villa sia per la collocazione che per la bellezza delle ricche decorazioni sono il tablino e l’atrio.

NOZZE DI VENERE E MARTE

Le Fauci

Le fauci d'ingresso presentano alle pareti decorazioni in III stile con zoccolatura in nero, una zona centrale rossa divisa in pannelli scanditi da fasce ornamentali bianche, e una parte superiore con decorazioni architettoniche e ghirlande; il pavimento è in cocciopesto con pezzi di marmo sparso.



L'ATRIO

PARADEISOS
Il bellissimo atrio è di tipo tuscanico, e su di esso si aprono stanze su ogni lato, eccetto lungo il lato nord, e al centro ha un impluvium con vasca in marmo, bordata da un mosaico con tessere bianche e nero, mentre il resto dell'ambiente è pavimentato in lavapesta con pezzi di marmi colorati.
Le pareti sono decorate:

- in basso con una zoccolatura rossa,
- nella zona mediana con pannelli neri che accolgono al centro scene di caccia, separati tra di loro con strisce gialle,
- nella zona superiore ancora a fondo nero con motivi architettonici e geometrici.



IL I CUBICOLO 

Sul lato ovest, accanto all'ingresso, sulla destra, si apre un cubicolo, (cioè una stanza da letto, in genere molto piccola e dislocata attorno all'atrio), con il segno dell'incavo per il letto e decorazioni in III stile con:
- in basso uno zoccolo nero, 
- la zona centrale è bianca 
- la zona superiore è decorata a ghirlande e architetture, 
- la pavimentazione è in parte a mosaico disposto a stella, con tessere in bianco e nero. e in parte a cocciopesto;

MERCURIO GIOVINETTO
Sul lato orientale è visibile il cartibulum marmoreo con eleganti zampe leonine che tutto l'occidente ammirato copierà abbondantemente nel XVIII sec. Marco Terenzio Varrone asserisce nella sua "De lingua latina" che sopra al cartibulum si disponeva la pentola di rame in ricordo dei tempi antichi, quando si cucinava nell'atrio.

Dal cubicolo si accede ad un altro ambiente il quale conteneva una scala in legno per il piano superiore, con le pareti intonacate in rosa.

Sul lato sinistro dell'ingresso un'altra stanza, era probabilmente adibita a deposito o utilizzata dal portiere, che fu ristrutturata a seguito del terremoto del 62, quando venne aperte anche una finestra.

La parete est è semplicemente intonaca in bianco, forse per dare più luce all'ambiente, mentre quella ovest ha uno zoccolo nero e la zona mediana in rosso, con i pannelli separati da fasce bianche con rombi e decorazioni di cani da caccia e ornamenti miniaturistici.

Questa parete e quella nord avevano anche degli scaffali; mentre la pavimentazione è in cocciopesto.

TABLINUM

IL TABLINIO

Nel tablino, da un lato aperto sull'atrio e dall'altro sul giardino, presenta affreschi in III stile:

- la raffinata decorazione dello zoccolo è a fondo nero, con la raffigurazione di un hortus conclusus, con esedra e fontane tra due piante, un pluteo, uccelli e giardino spoglio, la predella con simboli cari ad Apollo, come lire e cigni, e a Dioniso, come anfore e pantere, disposte sotto una ghirlanda filiforme
- nella zona mediana sono raffigurati quadretti con varie ville marittime, i pannelli sono a fondo rosso e nero, separati tra loro da elementi architettonici fantasiosi decorati con corde di frutta e fiori.
Alcuni candelabri affiancano i quadri principali raffiguranti:
- il trionfo di Bacco e Arianna (lato destro) 
- gli amori di Venere e Marte (lato sinistro) che ritraggono il dio mollemente chino su Venere mentre le accarezza un seno al cospetto di Cupido.
All'interno del tablinio sono stati rinvenuti alcuni oggetti in bronzo e un mortaio in marmo.


Corridoio

Un corridoio si presenta intonacato in bianco e unisce l'atrio con la zona di servizio.



IL II CUBICOLO

A fianco del tablino si apre un piccolo cubicolo sulle cui pareti, di colore giallo ocra intenso, amorini in volo fanno da contorno a due scene moraleggianti:
- Narciso colto nell’attimo in cui ammira la sua immagine riflessa nell’acqua,
- Perona che allatta in prigione il vecchio padre Micone salvandolo dalla morte a cui era stato condannato.

L’esempio di amore filiale illustrato nell'affresco è ulteriormente sottolineato dai distici elegiaci dipinti nell’angolo superiore sinistro della composizione che recitano: “triste pudore fuso con pietà”.

Qui se la pietà c'entra non c'entra il pudore, ma piuttosto l'istinto che va contro natura.
La scena non ci lascia molto entusiasti, sia perchè la premurosa figlia sta allattando un genitore, togliendo tuttavia il latte al suo figlio neonato.

Sia perchè la vecchiaia dovrebbe avere un decoro che in certi casi dovrebbe contemplare al possibilità di morire anzichè sopravvivere in modo indegno.

Completa la decorazione una coppia di medaglioni con ritratti di fanciulli posti ai lati dell’ingresso che forse allude alla camera dei figli del proprietario, sperando non ci fossero femmine.

La parte superiore è decorata con raffigurazioni di ghirlande e frutta. L'ambiente è illuminato da una finestra rotonda nella quale sono stati ritrovati pezzi di vetro, mentre il pavimento è cocciopesto con un tappeto di rombi e ottagoni; al suo interno sono state ritrovate cinque brocche e un piatto.



IL III CUBICOLO

Sul lato sud dell’atrio si apre un III cubicolo forse di pertinenza della domina per l’atmosfera tipicamente femminile dei soggetti rappresentati.
Sul quadro della parete destra Arianna porge a Teseo il filo che gli consentirà di uscire dal labirinto visibile sullo sfondo.
Sul lato opposto è raffigurata una scena di toelette di Venere che seduta seminuda davanti ad uno specchio si fa acconciare i capelli.



IL TRICLINIO

Nella sala triclinare, attualmente in restauro, si conserva il quadro con l’episodio dell’uccisione di Neottolemo per mano di Oreste davanti al tempio di Apollo a Delfi.

Nella parete sinistra del triclinio che si affaccia sul portico, si riconosce Dioniso appoggiato al Sileno con la lira.



CUCINA, LATRINA E VIRIDIARIO

Oggi noi evitiamo di porre la cucina accanto al bagno, ma i romani la pensavano diversamente, e collocavano la cucina quasi sempre accanto alla latrina.

OECUS
La parte posteriore della casa è occupata infatti a sinistra dalla cucina con latrina, dal viridario e da un portico con tre colonne su cui si affacciano diversi ambienti di soggiorno.

In un'altra stanza sono stati reperiti gli scheletri di cinque adulti e tre bambini schiacciati dal crollo del tetto durante l’eruzione che distrusse la città nel 79 d.c. 


Il Giardino

Sulle pareti del giardino è ancora visibile l’affresco con scena di paradeisos in cui si articolano episodi di caccia tra belve (leoni, pantere e orsi) e animali domestici (tori, buoi, cavalli), oggi protetta da una tettoia, ma originariamente scoperta.
Il che fa pensare a quanto fossero bravi i pittori pompeiani se riuscivano a far durare nel tempo degli affreschi all'aperto.

Ovviamente la conservazione nei secoli è dovuta all'eruzione e seppellimento della domus, ma poichè usava molto fare affreschi all'aperto significa che questi si conservavano a lungo. 
Sul lato sud del dipinto l’animale contro cui si avventa il leone, forse un orso, vi è stato un danneggiamento provocato dal foro praticato dagli scavatori antichi detti cunicolari. 

Gli affreschi e i pavimenti di questo settore della casa, di IV stile, sono probabilmente riconducibili ai lavori di ristrutturazione eseguiti dopo il terremoto del 62 d.c. e in parte ancora in corso al momento dell’eruzione, come dimostra il rinvenimento nella zona di servizio (20a) di un’anfora contenente della calce e conservata in sito.

CUBICULUM

POMPEI, TORNANO A SPLENDERE GLI AFFRESCHI DELLA DOMUS DI M. L. FRONTONE
Fonte )


Da oggi sono di nuovo visitabili 50mila metri quadri dell'area archeologica di Pompei. Assieme al piccolo Lupanare, alla casa di Obellio Firmo e alla villa di Marco Lucrezio Frontone, infatti, oggi tocca a un ultimo scavo di un ambiente totalmente nascosto dal terreno. Un'immensa area archeologica che riapre all'interno della più importante area archeologica del mondo, oltre alle Regio V e IX riaperte al termine del lavoro di completamento degli interventi di messa in sicurezza previsti dal Grande Progetto Pompei.

Nella Regio V sorge proprio la domus di Marco Lucrezio Frontone, dove sono conservate alcune delle pitture parietali più significative e di qualità artistica dell’antica Pompei. M. Lucretius Fronto, infatti, era il rampollo di una delle famiglie più note della città romana, giunta in età augustea. Anche questa domus era in corso di restauro al momento dell’eruzione del Vesuvio che, nel 79 dopo Cristo, distrusse Pompei, Ercolano e Stabiae. Al suo interno vi sono diversi affreschi con scene di paesaggio, di giardino e di animali.

Il proprietario era un politico pompeiano, la sua domus era una delle più belle della città, con stanze affrescate e pitture di grande qualità, che permettono di comprendere fino in fondo come venivano decorate le case di un ricco romano. In una delle stanze furono trovati gli scheletri di ben otto persone, tra cui cinque adulti e tre bambini che probabilmente furono schiacciati dal crollo del tetto durante l’eruzione.

MARCO EMILIO LEPIDO

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MARCO EMILIO LEPIDO
Nome: Marcus Aemilius Lepidus
Nascita: -
Morte: 152 a.c.
Professione: Generale e magistrato


Marco Emilio Lepido (in latino: Marcus Aemilius Lepidus; ... – 152 a.c.), di stirpe patrizia, fu un importante esponente dei Lepidi, un ramo della gens Aemilia, nonchè un buon politico e un ottimo generale della Repubblica romana. Si tratta di una delle più grandi personalità del II sec. a.c., apprezzato grandemente nella sua vita e dopo la sua morte.



IL CURSUM HONORUM


Edile
- Lepido fu nominato edile nel 193 a.c. insieme a L. Emilio Paolo, promuovendo la costruzione del nuovo porto fluviale a sud del colle Aventino. Questa nuova costruzione, chiamata Emporium, prevedeva una banchina di circa 500 m e un grosso edificio di 50 vani, i Navalia.
Lo spazio retrostante i Navalia era occupato da diversi horrea, magazzini per lo stoccaggio delle merci, di cui i più noti sono gli horrea Galbana.


Pontefice
- Divenne pontefice dal 199 a.c. (cfr. Liv. 32,7,15).


Pretore
- Venne anche eletto pretore nel 191 a.c..


Console
- Divenne console romano nel 187 a.c.,  in cui ebbe come collega Gaio Flaminio, ucciso dall'esercito di Annibale nella battaglia del Trasimeno, e in quell'anno riportò la vittoria sui Liguri, facendo voto di erigere un tempio a Giunone.
È noto per aver dato il nome alla via Emilia,  che venne costruita dal 189 al 187 a.c., per 177 miglia romane in meno di due anni.

La via doveva collegare collegare Piacenza con Rimini, e il suo nome dette nome all'Emilia che a sua volta ha dato nome alla regione Emilia-Romagna. La città di Reggio Emilia si chiamava in età
romana Regium Lepidi in suo onore.

Con l'invasione dell'Italia da parte dei cartaginesi guidati da Annibale (218-203 a.c.) Roma perse il controllo della Pianura Padana; molte tribù già sottomesse (come i Boi e gli Insubri) si ribellarono e si unirono ad Annibale per riacquisire la loro indipendenza.
Solo nel 189 a.c. l'ultima resistenza dei Galli fu vinta con la conquista di Bona, l'odierna Bologna, e nello stesso anno Roma avviò la costruzione della strategica via Emilia, che venne completata nel 187 a.c.

- La gens cui apparteneva era tradizionalmente vicina alle posizioni politiche dei Cornelii: egli fu sempre ostile al conservatorismo catoniano, oltre che avversario personale di M. Fulvio Nobiliore, l'eroe di Ambracia, che Emilio nel 187, l’anno appunto del suo consolato, cercò di ostacolare in ogni modo, circa la grave opposizione in precedenza fatta dal Nobiliore all’elezione a console di Lepido.

- Nel 180 a.c. dovette però scendere a patti con i Fulvii e con lo stesso Nobiliore per conseguire i suoi obiettivi politici, tra i quali il pontificato massimo. (Liv. 40,42,11-12).

TEMPIO DI LARGO ARGENTINA

Censore
- Divenne censore nel 179 a.c, e dedicò (23 dicembre) il tempio di Giunone Regina al Campo Marzio. Dedicò inoltre, sempre durante la censura, il tempio D dell'Area sacra di Largo Argentina ai Lari Permarini.
Il tempio di Giunone Regina (in latino: templum o aedes Iuno Regina) era un tempio dedicato alla Dea Giunone nel Circo Flaminio, nella zona meridionale del Campo Marzio.

Il console Marco Emilio Lepido aveva fatto voto di costruire un tempio nel 187 a.c., durante la sua ultima battaglia contro i Liguri, e lo dedicò nel 179 a.c., mentre era censore, il 23 dicembre.
Un portico metteva in comunicazione il tempio di Giunone Regina e un tempio della Fortuna, forse il tempio della Fortuna Equestre. Si trovava probabilmente a sud del portico di Pompeo, sul lato orientale del circo Flaminio.

Il tempio D dell'area sacra di Largo Argentina è il più grande dei quattro templi di quest'area e il terzo in ordine cronologico. Si fa risalire al II sec. a.c. e si presume fosse dedicato ai Lares Permarini, votato nel 190 a.c. da Lucio Emilio Regillo, venne dedicato nel 179 a.c. dal censore Marco Emilio Lepido.
Secondo i Fasti Prenestini il tempio dei Lari Permarini si trovava infatti presso la Porticus Minucia.
Solo una parte di questo tempio è stata scoperta, restando la maggior parte di questo sotto il piano stradale di via Florida.

La parte più antica del tempio è in opera cementizia e venne rifatta nel I sec. a.c. in travertino. La pianta è piuttosto arcaica, con una grande cella rettangolare preceduta da un pronao esastilo (a sei colonne), che è profondo quanto tre moduli intercolumni. Oggi si vede solo il podio di travertino del I sec., con le sagome taglienti e non molto sporgenti, per un'altezza di circa tre m.

PORTO AVENTINO CON L'HORREA

Princeps senatus
- Sempre nel 179 a.c. venne nominato princeps senatus (cfr. Liv. 40,45,6; Per. 48), era colui che aveva la prima parola in senato ed era il più influente tra tutti i senatori.


Console per la II volta
- Venne ancora eletto console nel 175 a.c..



LA MORTE

- Negli ultimi decenni di vita, che furono i più luminosi della sua carriera, Marco Emilio Lepido esercitò ininterrottamente la carica di princeps senatus. Fino alla fine restò anche Pontefice Massimo (180-152). Quando morì, probabilmente nel 152, dispose che i figli gli celebrassero un funerale il più semplice possibile, perché, diceva, "i grandi uomini si riconoscono dalla fama dei loro antenati e non dallo sfarzo".

LA PIETAS ROMANA

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SACRIFICIO AGLI DEI

LA SALVAGUARDIA DELLA RES PUBLICA

Il senso religioso romano o "pietas romana" ha come base non il sentimento verso gli Dei ma la volontà e la possibilità di garantire il successo alla respublica mediante la scrupolosa osservanza della religio, dei suoi culti, dei suoi riti, della sua tradizione, osservanza che consente di ottenere il favore degli Dei e garantire la pax deum (pax deorum).

Gli esecutori e garanti di questa possibilità sono i sacerdoti che eseguono scrupolosamente quanto è necessario in riti e  cerimonie per l'ottenimento della salvaguardia e della vittoria di Roma.
La benevolentia degli Dei viene dunque determinata dalla scrupolosa osservanza della religio e dei suoi riti, ed è testimoniata infatti dal successo di Roma nei confronti delle altre città e nel Mondo.

Dunque i romani non hanno alcun obbligo di amare gli Dei, obbligo precipuo del cristianesimo, nessun romano pensa che si possa amare un Dio che domina con premi e punizioni, nè pensa che gli Dei possano amarlo, ma crede ad un "do ut des" tra uomo e Dei. Donando agli Dei onori, preghiere e templi essi riconoscenti accorderanno la loro protezione.

« ... ma è nel sentimento religioso e nell'osservanza del culto e pure in questa saggezza eccezionale che ci ha fatto intendere appieno che tutto è retto e governato dalla volontà divina, che noi abbiamo superato tutti i popoli e tutte le nazioni.»
(Cicerone, De haruspicum responso)

La possibilità di ingraziarsi gli Dei sia come stato che individualmente si rafforza sotto i Tarquinii, che sostituiscono una triade esclusivamente maschile con una triade mista.
« Sotto la dominazione etrusca perde di attualità la vecchia triade costituita da Giove, Marte e Quirino, che viene sostituita dalla triade formata da Giove, Giunone e Minerva, istituita all'epoca dei Tarquini. È evidente l'influenza etrusco-latina, che del resto apporta alcuni elementi greci. Le divinità hanno ora delle statue: Juppiter Optimus Maximus, come d'ora innanzi sarà chiamato, è presentato ai Romani sotto l'immagine etruschizzata dello Zeus greco.»
(Mircea Eliade, Storia delle idee e delle credenze religiose)

PROCESSIONE DELL'ARA PACIS
La presenza di due Dee sicuramente ingentiliva l'aspetto esclusivamente guerriero del popolo romano, tanto è vero che Marte, Dio della guerra, viene sostituito con Minerva, Dea della guerra che è però contemporaneamente Dea dell'intelligenza operosa.

La benevolenza degli Dei si poteva ottenere con vari sistemi:

- la Supplicatio
- l'Obsecratio
- il Piaculum
- la Propitiatio
- la Precatio
- il Votum
- l'Exvotum
- il Lectisternio
- il Sacrificium
- la Libatio
- i Ludi Votivi

La Supplicatio, l'Obsecratio, il Piaculum, la Propitiatio e la Precatio potevano essere usate in parte unitamente o divise, ma includevano sempre un sacrificio animale e una libatio (libagione di vino), e spesso una processione.


La Processione

Nelle processioni in genere sfilavano i sacerdoti coi loro "camilli" (addetti subalterni) che portavano a spalla una statua di legno della divinità, pitturata, vestita e ingioiellata. Seguivano  i suonatori con i loro strumenti musicali che a volte erano gli stessi sacerdoti, oppure i sacerdoti scandivano i tempi con dei sonagli o tamburelli

Le donne usavano velarsi il capo con un lembo del mantello o della veste, come alcuni sacerdoti e il sommo pontefice. Sembra che in talune processioni eseguite per togliere l'ira degli Dei o supposte maledizioni nemiche, fosse proibito indossare cinture sulle vesti.

PROCESSIONE ISIACA

SUPPLICATIO

La supplicatio, come rito greco, si affermò nel III secolo. Prescritta per lo più dal collegio dei "decemviri sacris faciundis", essa si formalizzava attraverso invocazioni  rivolte agli Dei dall’intera popolazione che, riunita in processione, faceva il giro dei santuari, aperti per l’occasione al pubblico.
Si supplicavano gli Dei per concedere un beneficio o allontanare un pericolo.

Nell'occasione venivano adagiate nei templi le statue recumbenti degli Dei su dei divani muniti di cuscini (come nei lettisternia). e i fedeli vi si soffermavano per recitare le giaculatorie (frasi ripetute sempre uguali).

La Supplicatio ha come caratteristica principale la partecipazione di tutto il popolo, anche con vecchi e bambini. E' la massa che determina l'importanza della richiesta. Inoltre i fedeli per l'occasione gettano fiori alle statue, ma pure nastri e ghirlande, o vesti preziose o addirittura gioielli.



OBSECRATIO

L'obsecratio (pronuncia obsecrazio) aveva un carattere di austerità e di penitenza in espiazione di colpe sconosciute ma da emendare, per allontanare gli effetti dell'ira divina sul popolo. Ovviamente non prevedeva festeggiamenti ed era eseguita da tutto il popolo con a capo i magistrati. 

Ad esempio se cadeva un fulmine su un tempio o sul capitolium di sicuro una divinità era in collera per qualche ragione. I romani non cercavano mai i colpevoli di tali 'incidenti divini' nè se li inventava, ma si preoccupavano invece di ovviare ai danni. Nell'occasione le romane usavano
indossare abiti severi ed evitavano i gioielli.

L'obsecratio intesa come solenne supplica e umiliazione della città intera, quasi una preghiera o la richiesta di una grazia, fu talvolta decretata in occasione di pubblico pericolo o calamità e in seguito a prodigi (omina) che facevano scorgere l'ira degli Dei.



PIACULUM

Riguardavano atti colpevoli avvenuti senza volontà di offendere gli Dei, o atti necessari che non potevano essere ovviati ma che offendevano gli Dei.

SACERDOTE CHE SACRIFICA A CIBELE
Tanto l'atto da espiare, quanto l'espiazione, ossia l'atto con il quale si espiava, si diceva piaculum. La più lieve infrazione alle norme precise che regolavano le cerimonie religiose, e quelle di carattere sacro, costituiva un piaculum.

Erano piacula:
  • - ricominciare da capo la cerimonia o l'atto. Plutarco (Coriol., 25) afferma che ai suoi tempi si ricominciò un sacrificio fino a trenta volte. Secondo Livio (XXXII, 1; XXXVII, 3) le ferie latine, negli anni 190 e 189 a. c., furono rinnovate. Il più comune degli atti espiatori consisteva in un sacrificio, in genere d'un maiale o d'una troia. 
    • - Alcuni sacrifici espiatori avevano un carattere desecratorio: così il sacrificio d'una troia che ogni anno si offriva a Cerere prima di mettere mano alle primizie, aveva lo scopo di espiare e riscattare la proprietà sacra della messe adibendola all'uso profano. 
      La competenza del giudizio della procedura dei piacula riferentesi alla religione nazionale era del collegio dei pontefici, quella concernente i culti non latini spettava ai XV viri sacris faciundis.



      PROPITIATIO

      Era una ritualità propiziatoria, non riparatoria ma preventiva; s'indicevano dal senato o dai pontefici le pubbliche preghiere di espiazione per ottenere dalla divinità che si dileguasse la minaccia di un imminente disastro.

      Per esempio una minaccia di guerra che si riteneva pericolosa, o un prodigio (omen) negativo, come un vitello che nasce con due teste, o un'inondazione temuta, o una prolungata siccità che poteva provocare disastri, o la malattia di un imperatore amato e così via.



      GRATULATIO

      La ritualità  gratulatoria, con cui si ringraziavano gli Dei per la riuscita di un'impresa, si compiva con feste e sacrifici rituali in occasione di trionfi celebrati da condottieri romani reduci da fortunate imprese belliche, oppure per essere riusciti a far rientrare una sollevazione popolare attraverso un accordo, o per la stipula vantaggiosa di un trattato di alleanza, o per altri vantaggi ottenuti, sperati o insperati.

      Come ringraziamento in occasione di un'importante vittoria bellica: era in genere decretata nel momento in cui il Senato riceveva da un generale (imperator) il rapporto ufficiale sull'esito vittorioso del combattimento, e la durata della supplicatio-gratulatio era proporzionata all'importanza della vittoria. Talvolta era decretata per un solo giorno, ma più comunemente per tre o cinque giorni.

      - Una supplicatio-gratulatio di dieci giorni fu decretata per la prima volta in onore di Pompeo alla conclusione della guerra contro Mitridate, re del Ponto
      - una di quindici giorni dopo la vittoria contro i Belgi da parte di Giulio Cesare, un onore che, come sottolineò lo stesso Cesare nel De bello Gallico, non era stato mai tributato prima ad alcuno. 
      - In seguito una di venti giorni fu decretata dopo la vittoria cesariana su Vercingetorige. 

      Dopo di allora sembra che il Senato abbia progressivamente aumentato la durata delle supplicationes per ingraziarsi i generali. Si trova menzione di supplicationes di quaranta, cinquanta, perfino sessanta giorni. Una supplicatio era in genere considerata il preludio di un trionfo, ma non sempre era seguita da esso. 

      UN SIMIL-LECTISTERNIO

      PRECATIO

      La precatio (preghiera) veniva formulata in casi importanti, in genere in previsione di una guerra, ma poteva essere usata anche per un altro pericolo temuto, come  per evitare la tempesta sulle navi che portassero il grano a Roma o sulle navi romane da guerra che andavano a combattere.

      Nella precatio a volte si fa menzione della guerra che si stava per combattere, ma non dell’avversario contro il quale ci si voleva cautelare, per il carattere predefinito attinto dagli archivi religiosi; identiche espressioni, proprie del linguaggio sacerdotale formale, si usano in casi molto diversi, come quella dell'"ordinatio comitiorum bene ac feliciter eveniret rei publicae"

      Mentre però nel 200 furono i consoli ad indicare ai sacerdoti gli Dei (del lettisternio) a cui rivolgere la preghiera, nel 191 è il senato ad indicare direttamente ai consoli gli Dei a cui rivolgere l’invocazione. Il responso degli aruspici, come in parte quello della precatio, sembra essere sempre uguale, a prescindere dalla situazione contingente.
      Sono però riscontrabili talune differenze nei rituali delle due date, dato che qui come beneficiario dell’invocazione figura il solo senatus populusque, non anche, oltre al populus, i socii ed il nomen Latinum.

      L'onore di una Precatio venne conferito a Cicerone, in seguito alla repressione della congiura di Catilina; naturalmente senza trionfo, in quanto non aveva vinto una guerra nè si poteva gioire in occasione di una guerra civile. Comunque in seguito pagò caro la repressione a seguito della quale venne invece esiliato.

      TEMPIO DI FLORA AVENTINA

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      FESTA DELLA FLORALIA

      FLORA

      Flora era una divinità osco-sabina per cui un tempio a lei dedicato sul colle Aventino confermerebbe sarebbe la leggenda che indica i Sabini come i primi abitanti del colle. Si trattava di un'antica Dea prima italica e poi romana, Dea della fioritura dei cereali e delle altre piante utili all'alimentazione, compresi vigneti e alberi da frutto. Col tempo venne intesa come Dea della primavera.

      Il culto di Flora si disse però fosse stato introdotto già nel VII secolo a.c. dal re Numa Pompilio ( 754 – 673 a.c.), ma il primo tempio a lei consacrato, secondo le fonti ufficiali, risaliva al III secolo a.c..

      COLLE AVENTINO


      TEMPIO DI FLORA

      Un famoso Tempio di Flora romano-sannita si trovava a Cerreto Sannita ma vi venne edificata sopra la chiesa della Madonna della Libera del cui tempio resta solo una parte del basamento e altri reperti lapidei come colonne e capitelli. Alcuni blocchi del basamento sono stati usati nel XVIII secolo per costruire una vicina fontana. Il nome originario della Chiesa era infatti "Santa Maria della Libera in Campo de fiore" dove il campo de' fiore era l'Aedes Florae.

      Il tempio di Flora sorgeva sull'Aventino, di fronte al Circo Massimo, in quanto quest'ultimo era il luogo dove dal 28 aprile fino ai primi giorni di maggio si tenevano ogni anno le celebrazioni dedicate alla Dea, inizialmente chiamate Floralia, poi Ludi Florales, un'usanza che ebbe inizio nel 241 a.c. (il tempio era stato dedicato nel 240 a.c.). Oggi di tale tempio non rimane traccia.

      Invece  il tempio e il circo a lei dedicati sono citati nei Cataloghi Regionari (IV sec. d.c.) sul colle Quirinale, nella Regio VI presso il Capitolium Vetus. Il tempio si trovava in fondo all'attuale via delle Quattro Fontane, fuori dalla Porta Quirinalis, nella valle tra le propaggini del colle Pincio (il Collis Hortulorum) e il colle Quirinale, dove oggi si trovano il palazzo e la piazza Barberini.

      Secondo alcuni studiosi, il tempio di Flora stava invece presso il tempio di Cerere, Libero e Libera, forse sulla pendice nord del colle, verso la Bocca della verità. Secondo altri stava dove si trova oggi il Roseto del Comune di Roma.

      Il Tempio di Flora, a detta invece di Ovidio, si trovava sull'"Aventinus" dalla parte del "Circus Maximus" (Fast. Allif.: FLOR[AE] AD C(IRCVM) MAXIMVM, in Degrassi, Inscr. Ital. 13.2, 181), e al culto della Dea, ma soprattutto ai Ludi Floreali, presiedeva un Flamen Floreale, un flamine minore di ordine senatorio.

       Il colle Aventino, detto anche Mons Murcius, venne scelto come dimora da numerosi commercianti stranieri (e pertanto plebei) che realizzarono proprio qui un grande quartiere mercantile, vicino al porto Tiberino (il Tevere scorre proprio ai piedi del colle) e iniziarono a edificare diversi luoghi di culto, come per il tempio di Diana, il tempio della Dea Iside, di Giunone Regina e della Dea Flora.

      Il santuario di Flora, caratterizzato infatti da un culto decisamente plebeo (Ov., Fast. 5.352: volt sua plebeio sacra patere choro), venne fondato dagli aedes plebei Lucio e Marco Publicio Malleolo (Tac., Ann. 2.49: aedem Florae), probabilmente in concomitanza con le istituzioni delle Floralia (Ov., Velo 5.352: suo patrono choro plebeio sacra) del 240 a.c.. (Vell. Pat. 1.14.8, Pliny, NH 18.286) e la costruzione del Clivus Publicius, principale accesso dell'Aventino dal Nord.

      Il tempio non ha resti identificati e la sua collocazione sul piano di Coarelli è certamente troppo dettagliata. Ma poiché si trovava "sullo stesso sito" del Tempio di Cerere (Tac., Loc. Cit .: eodemia in loco), risulta certo che il suo posto fosse nelle immediate vicinanze dell' Aedes di Cerere. (Ziolkowski 31; Papi 254).

      Pertanto il tempio di Flora può essere situato sulla pendenza della punta Nord aventina, appena sopra la testa del Circo Massimo. Come il Tempio di Ceres (e il tempio di Ianus al Forum Holitorium), il tempio di Flora era piuttosto decadente quando Augusto cominciò a ripristinarlo o a ricostruirlo anche se la sua ridedicazione non avvenne prima dei primi anni del regno di Tiberio (Tac., Loc. Cit.).

      Probabilmente esisteva a Roma un tempio della Dea Flora sul Quirinale ed uno sull'Aventino. Certamente quello dell'Aventino fu il più antico e il più seguito, in quanto tempio di culto plebeo, pertanto molto libero e godereccio. Era diventato infatti il tempio delle prostitute che presso il tempio ma soprattutto nel circo si mostravano in tutto il loro splendore. La prostituzione non fa male a nessuno se non è oggetto di sfruttamento.

      LANUVIUM - LANUVIO ( Lazio )

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      TEMPIO DI GIUNONE SOSPITA

      LE ORIGINI

      I primi dati certi la inseriscono fra i trenta populi della Lega Latina, populi che si riunivano nel lucus di Diana Nemorense. Lanuvium insorse, insieme ad altre città latine, contro Roma, nella battaglia presso Aricia (504 a.c.), in quella del lago Regillo (496 a.c.), nel 383 a.c., e nel 341 a.c., con esiti quasi sempre catastrofici.

      In seguito all'ultima e definitiva sconfitta avvenuta nel 338 a.c., perse, insieme alle altre cittadine del Latium vetus, l'indipendenza, ma già nel 332 a.c. ottenne un trattamento di privilegio e la Civitas cum suffragio da parte di Roma, in cambio di ammettere il popolo romano ad amministrare la metà dei proventi del santuario di Giunone Sospita.

      Diomedes Glyptothek Munich 304 n2.jpg
      DIOMEDE
      Tuttavia c'è discordanza tra le fonti antiche, che riporterebbero la fondazione della cittadina agli anni immediatamente successivi alla guerra di Troia (1180-1170 a.c.), e le testimonianze archeologiche i cui reperti più antichi, rinvenuti sul colle San Lorenzo, si datano al più presto agli inizi del IX secolo a.c.

      La prima storia delle origini che si rifà al filone greco-argivo ed è narrata da Appiano, secondo cui la fondazione di Lanuvio fu dovuta a Diomede figlio di Tideo, signore di Argo. 

      La seconda storia, che si rifà al filone troiano, è emersa grazie al ritrovamento di frammenti di intonaco rinvenuti nel 1969 a Taormina e appartenenti al ginnasio dell'antica Tauromenion. 

      Qui si parla di Fabio Pittore (260 - 190 a.c.), primo annalista romano, che narra dell'arrivo in Italia, in seguito alla guerra di Troia, di un certo Lanoios, fondatore nel Lazio di una cittadina, che avrebbe preso da lui il nome. Da Lanoios a Lanuvio effettivamente il passo è breve.

      Il museo civico Lanuvino ospita i reperti archeologici rivenuti all'interno della Stipe Votiva dei Pantanacci, i resti del Teatro romano dell’antica Lanuvium e il Santuario di Giunone Sospita (cioè la Salvatrice ) nell’area di Villa sforza Cesarini.




      STIPE VOTIVA DEI PANTANACCI

      DA - Archeologia Viva n. 159 – maggio/giugno 2013 (Fonte) :

      "Estate 2012 in Lazio. L’intervento del Gruppo Tutela Patrimonio Archeologico della Guardia di Finanza interrompe uno scavo clandestino in località Pantanacci e recupera una grande quantità di antico materiale votivo destinato al mercato antiquario internazionale.

      Data la situazione di emergenza, si avvia subito una prima campagna di scavo sotto la direzione scientifica di Luca Attenni, direttore del Museo Civico Lanuvino, di Fausto Zevi, ordinario di Archeologia e Storia dell’Arte greca e romana all’Università di Roma “La Sapienza” e, quale responsabile unico dell’intervento, di Giuseppina Ghini, funzionario della Soprintendenza per i Beni archeologici del Lazio.


      L’eccezionalità del sito di Pantanacci, in mezzo ai rigogliosi boschi dell’antico Ager Lanuvinus, non lontano dal celebre santuario di Giunone Sospita consiste in una stipe votiva all’interno di un antro naturale, in parte già modificato in antico e adattato alle necessità di culto.Nel costone roccioso si aprono diverse cavità una accanto all’altra, probabilmente comunicanti, dalle cui pareti di fondo tutt’oggi sgorgano acque sorgive. Acque certamente ritenute terapeutiche e salutari, che quindi favorirono lo sviluppo di un culto di divinità ad esse correlato."

      Gli oggetti donati vano dal IV al III secolo a.c.., con ceramiche a impasto e ceramica a vernice nera; riguardo i votivi anatomici, raffigurano mani, piedi, gambe, braccia, figurine intere (maschili, femminili e di infanti fasciati), busti con intestino, vesciche, mammelle, uteri, falli, vulve, orecchie, mascherine con occhi, teste maschili e femminili e, soprattutto, l’inedita tipologia dei cavi orali.

      TEATRO ROMANO

      RESTI DEL TEATRO
      L’angolo N-W del Castello medioevale di Lanuvio poggia sui resti dell’Antico Teatro romano.Essi vennero alla luce nel 1831, in occasione dei lavori effettuati dai proprietari. Si scoprì che quelle rovine appartenevano al Teatro dell’antica Lanuvium.

      In Via A. De Gasperi  è visibile per circa 8, 5 m il muro di fondo della scaena che risulta in perfetto allineamento con il muro della fortificazione medioevale. Nel suo sviluppo a semicerchio, con la scaena, il postscaenium e la cavea, il Teatro, di età augustea ma di dimensioni modeste, riguarda tutto l’angolo della fortificazione.

      Il tratto esterno del muro della scaena è conservato per 5 filari, mentre ne restano ben 9 interrati; il tutto per un’altezza di quasi 10 m.

      Sono stati rinvenuti numerosi frammenti in marmo di trabeazioni e di cornici frontonali e parte terminale di una transenna in marmo con un grifo alato.

      Nel 1865 furono rinvenuti due frammenti epigrafici di cui quello più completo, sebbene mutilo, attesta molto bene l’attaccamento degli antichi lanuvini a questo monumento, che avevano voluto restaurare a proprie spese.

      ACHELAO TRA DUE DIVINITA' AGRESTI


      LA FONDAZIONE SECONDO FABIO PITTORE

      Si riporta di Fabio Pittore (260 - 190 a.c.), autore degli Annales (fine III secolo a.c.) dove narrò la storia di Roma dal tempo di Enea fino al 217, anno precedente la battaglia di Canne. Egli raccontò dell'arrivo in Italia, in seguito alla guerra di Troia, di un certo Lanoios, fondatore nel Lazio di una cittadina, che avrebbe preso da lui il nome. Da Lanois a Lanuvio il passo è breve.

      Le antiche fonti riferiscono effettivamente la fondazione di Lanuvio a pochi anni dalla guerra di Troia (1180-1170 a.c.), fondazione avvenuta d'estate, esattamente due anni dopo la distruzione di Troia. Il nome della città però, secondo la tradizione deriverebbe da Lavinia, figlia di Latino re dei Latini che divenne sposa di Enea. Ma in tal caso la città avrebbe dovuto chiamarsi Lavinio (che è un'altra città del Lazio) e non Lanuvio.

      In realtà abbiamo notizie di Lanuvio verso la fine del VI sec. a.c., come partecipe dei trenta populi della lega latina, che si riunivano nel lucus di Diana Nemorense.
      Le origini della cittadina furono senz'altro greche, tanto più che c'era il culto non solo delle divinità greche ma pure del fiume Achelao, strettamente collegato a Ercole.
      RESTI DEL TEATRO (Lanuvio)

      ACHELAO

      Achelao o Acheloo, figlio del titano Oceano e della titanide Teti, si presentava spesso in forma di toro. Nelle fatiche di Eracle: egli desiderava Deianira, però chiesta in moglie da Eracle; durante la lotta fra i due, Acheloo si trasformò in toro, poi in un drago iridescente ed infine in un uomo dalla testa di bue, a cui Eracle  strappò un corno.

      Acheloo sconfitto gli concesse Deianira, ma gli richiese il corno, dandogli in cambio un corno della capra Amaltea, cioè la cornucopia. E' chiaro che il corno della Grande Madre, simbolo del corno lunare, venne passato in èra patriarcale ai vari Dei e Dee.



      LE BATTAGLIE

      - VI sec. a.c. - Verso la fine del VI secolo a.c., Lanuvio faceva parte dei trenta populi della lega latina, che si riunivano nel lucus di Diana Nemorense. 
      TETI II SEC. D.C.
      - 504 a.c. - Mosse guerra a Roma, insieme ad altre città latine, e fu sconfitta nella battaglia di Aricia - - 496 a.c. - Perse ancora con Roma nella battaglia del lago Regillo.
      - 383 a.c. - Ancora sconfitta da Roma 
      - 341 a.c - Ulteriore sconfitta.
      - 338 a.c. - Definitiva sconfitta in cui perse, insieme alle altre cittadine del Latium Vetus, l'indipendenza. 
      - 332 a.c. - ottenne da Roma il privilegio di divenire "Civitas cum suffragio", (municipio con diritto di voto). Il municipio fu governato da un dictator, da due aediles, da un quaestor, da un praetor e da un senatus, esattamente come accadeva a Roma.

      Così, al termine della guerra latina, Lavinio rinnovò un foedus di tipo sacro con Roma, e la città divenne municipio.in cambio di ammettere il popolo romano ad amministrare la metà dei ricchi proventi del santuario di Giunone Sospita.

      - Dal 332 a.c., fino allo scoppio della prima guerra civile, mantenne un elevato benessere, ma parteggiando per Silia, venne ridotta da Mario a colonia militare. Quando però il partito mariano cadde in rovina, in poco tempo rifiorì. 

      A partire dall'età tardo-repubblicana, Lanuvio divenne meta dei personaggi più in vista della politica romana, vi ebbero dimora: M. Emilio Lepido, M. Giunio Bruto, Augusto e Marco Aurelio.

      Diede poi i natali al console dell'anno 62 a.c. L. Licinio Murena e agli imperatori Antonino Pio e Commodo. 

      Con l'editto di Teodosio del 391 d.c., che sanciva il cristianesimo come unica religione dell'impero romano, iniziò la decadenza e l'inesorabile abbandono dell'antica Lanuvio. L'editto comportò obbligò l'immediata chiusura di tutti i templi pagani tra cui quello di Giunone Sospita, funzionante fin dal VI secolo a.c., e che era stato l'elemento propulsore della cittadina per dieci secoli.

      Città natale degli imperatori Antonino Pio e Commodo, dopo la crisi dell’età barbarica, la cittadina rinacque nel secolo XII con il nome di Civita o Civita Lavinia, nome attribuitagli erroneamente dai frati benedettini che la scambiarono per Lavinio, e così si chiamò fino al 1914, quando, per rimediare all'errore, venne cambiato in quello attuale di Lanuvio



      PORTALE DEL TEMPIO DI GIUNONE
      IL MUSEO

      Tra i reperti esposti nel museo locale si segnalano uno splendido affresco di età augustea che raffigura delle tematiche dionisiache, alcuni frammenti marmorei pertinenti al gruppo di Licinio Murena (I sec. a.c.), un parapetto marmoreo raffigurante un grifone alato di età antonina proveniente dal teatro, ed una serie di lastre architettoniche e votivi di età arcaica ed ellenistica che provengono dall'area del Santuario di Giunone Sospita. 



      MONUMENTI

      Numerosi sono gli avanzi di antichi monumenti che si trovano sparsi nella città e nel territorio: oltre il tempio suddetto di Giunone, che pare debba identificarsi con i notevoli avanzi esistenti nella proprietà Sforza.

      Vanno ricordati un altro tempio arcaico con le pareti a blocchi ben squadrati di tufo, subito fuori della città, a fianco della via di Astura, detto Tempio delle XIII Are.

      Inoltre notevoli resti delle mura cittadine, di un vasto teatro, di terme, presso il cimitero, di numerose ville e di ponte Loreto. . 

      VILLA DETTA DI ANTONINO (Lanuvio)


      TEMPIO GIUNONE SOSPITA


      Il principale centro di culto di Giunone Sospita, che aveva un tempio anche a Roma, era il santuario di Lanuvio. Cicerone (106 - 43 a.c.) narra che Lanuvio avesse molti edifici religiosi, ma che tra questi il più importante fosse quello di Giunone Sospita Lanuvina (così chiamata per la pelle di capra con la quale era rivestita la sua statua), Per altri trattasi di Giunone Caprotina, e vine il sospetto che non si chiamasse Lanuvina per via della lana ma perchè avesse il suo santuario più importante a Lanuvio.

      GIUNONE SOSPITA
      Il culto della Dea risaliva a tempi molto antichi e il suo santuario venne edificato sull'acropoli dell' antica città latino-etrusca, un grande tempio in stile tuscanico, costituito da una serie di strutture monumentali.

      Fu quasi completamente distrutto nel V sec. d.c., ma le porzioni ancora esistenti e gli scavi archeologici, hanno permesso di individuare cinque fasi edilizie che si susseguirono dalla fine del VII alla metà del I sec. a.c. Molto probabilmente il portico del tempio era a due piani con volte rivestite di mosaici preziosi. In fondo al portico c'era una porta che conduceva ad una serie di cunicoli sotterranei, che alcuni ritengono fossero la grotta dov'era custodito il serpente sacro a Giunone Sospita.

      Properzio narra infatti che nel santuario si svolgesse ogni primavera un particolarissimo rito propiziatorio per l'agricoltura, durante il quale un gruppo di fanciulle vergini doveva offrire focacce ad un grosso serpente, che si trovava dentro un antro. Se il serpente accettava il dono, si prospettavano raccolti fruttuosi; se lo rifiutava, una fanciulla impura, cioè colei che aveva perduto la verginità, veniva sacrificata per scongiurare la carestia. 

      Abbiamo qualche obiezione sulla narrazione di Properzio, perchè i serpenti sono creature prettamente carnivore e non mangiano pertanto focacce. Viceversa l'usanza di offrire focacce nei tempi dedicati alla Madre Terra dove veniva allevato il serpente pitone era consuetudine sacra e pure accompagnata dall'offerta del vino. 

      Le sacerdotesse stesse ne mangiavano e ne offrivano ai fedeli per rinnovare il rito sacro della comunione con i fedeli. Il rito passerà pari pari nella Chiesa Cattolica tanto è vero che a San Nilo nei castelli romani si offre ancora pane e vino. Nelle altre chiese la focaccia invece è stata trasformata in ostia, che è pur sempre acqua e farina come la focaccia..

      Il tempio di Giunone Sospita Regina, che sorgeva sull'acropoli, custodiva infatti grandi tesori, tra cui l'ex-voto di 40 libbre d'oro offerto dai Romani durante la II guerra punica.

      Il santuario risalente alla metà del I sec. a.c. fu probabilmente edificato da L. Licinius Murena, personaggio lanuviano, console nel 62 a.c., ed era famosissimo non solo nel Lazio, ma nell'intera area mediterranea. Esso fu testimone di grandissimi prodigi (miracoli, tra cui la statua di Giunone che trasuda sangue ecc.), narrati da Livio, Cicerone, Giulio Ossequiente ed altri autori classici.

      Nella sua edificazione si distinguono tre fasi edilizie.
      - Nella I fase il tempio era tetrastilo.
      -  Nella II fase, del periodo Medio-Repubblicano (IV-III a.c.) con la sconfitta della lega latina (quindi di Lanuvio) del 338 a.c., ebbe inizio la cogestione romana del culto.
      - La datazione della terza fase ancora è incerta: si ritiene che essa vada fatto risalire alla metà del I sec. a.c.. e messa in relazione alla famiglia Murena di Lanuvio.

      Un particolare: la testa di Murena in marmo pentelico, eseguita a Civita Lavinia, venne conservata fino al 1914 presso il  Museo Civico Lanuvino, poi dispersa nella distruzione del Museo per i bombardamenti anglo-americani del 1944.

      Nel 1998 una porzione della testa è stata rinvenuta all’interno di una tamponatura di un arco ottocentesco utilizzata, insieme ad altri oggetti scultorei, come materiale di riempimento. Ecco come l'Italia distrugge i suoi beni.

      AMALTEA

      GIUNONE CAPROTINA

      Nei Musei Capitolini di Roma, tra le varie opere scultoree romane trovate a Lanuvio, è conservata una statua di Giunone Sospita (la salvatrice), detta pure Giunone caprotina per la pelle di capra che l'ammanta. Filippo Titi nel volume del 1763 Descrizione delle Pitture, Sculture e Architetture esposte in Roma così la descrive:

      «Vi sono ancora due nicchie laterali, in una delle quelli sta collocata la celebre statua di Giunone Sospita, che si venerava nell’antico temple di Lanuvio, ora Civita Lavinia, essendovi nella base l’antica iscrizione IVNO LANVVINA. Ha questa la testa ornata di una pelle caprina, e i calcei lunati, essendo appunto, come viene da Cicerone descritta: “Cum pelle caprina, cum hasta, cum scutulo, cum calceolis repandis, raccontando Livio: Lanuvio simulacrum Junonis Sospita lacrymasse.”».

      Una statua di Giunone con gli stivaletti con la punta all’insù (calceolis repandis), secondo l'uso etrusco,  e coperta di una pelle di capra, fa pensare a un'antichissima Dea italica: una Grande Madre. La capra o caprone era un potente simbolo di lussuria che contrasterebbe con la continenza e fedeltà di Giunone, se però non tenessimo conto che le divinità italiche vennero quasi sempre assimilate a quelle romane, a loro volta assimilate alle greche o alle etrusche.

      Nel libro VIII della Storia di Roma di Tito Livio, quando i Lanuvini furono sconfitti presso Astura insieme ad altre città latine che si erano sollevate contro Roma nel 341 a.c., il senato romano decise tuttavia di accogliere la città di Lanuvium nella civitas romana, lasciandole i culti religiosi di appartenenza. Si richiese tuttavia che il tempio e il bosco sacro a Giunone Sospita divenissero patrimonio comune anche ai romani.

      PONTE LORETO

      LE FESTE

      I Caprotinia erano festeggiati il 7 luglio di ogni anno in onore delle schiave; durante le celebrazioni esse correvano colpendosi con pugni e verghe, e solo alle donne era concesso prendere parte ai sacrifici.

      Le origini delle festività dei Caprotinia e dei Poplifugia risalgono secondo Plutarco a due tradizioni; la prima sostiene che quando Romolo scomparve, durante un'assemblea alle Palus Caprae ("palude della capra"), giunse un'improvvisa tempesta con tuoni e fulmini. La gente fuggì, ma alla fine del temporale il re Romolo non fu più trovato e si disse che fosse stato assunto in cielo.

      L'assunzione in cielo senza trasformazione in stelle varie fu piuttosto rara. Originò in Grecia con la donna-Dea Semele assunta in cielo con anima e corpo, (per alcuni anche Ercole fu assunto ma il suo corpo bruciò), a Roma ebbe seguito unicamente con Romolo e più tardi con il culto cristiano della Madonna, però assunta da vecchia.

      La seconda narra che durante l'assedio gallico di Roma (390 a.c.), una giovane prigioniera romana di nome Tutela accese, come convenuto in un piano precedente, una torcia sopra un fico selvatico (caprificus) dando il segnale ai Romani di precipitarsi sull'accampamento nemico. L'attacco ebbe successo e consentì ad una grande vittoria.

      In realtà a Giunone vennero assimilate molte antiche Dee italiche, tra cui la Dea Capra, Dea Madre simbolo della proliferazione e del calore sessuale. I suoi attributi vennero poi devoluti a Pan ed ai satiri, immagini della natura eternamente prolifera (nella religione cristiana al diavolo, portatore di ogni male).

      SCUDO DI LANUVIO

      DESCRIZIONE

      Il terrazzamento del Santuario di Giunone Sospita è composto da:
      - un grandioso portico che seguiva le linee naturali del colle,
      - una porzione di muro a nicchie in opera reticolata con porta che dava accesso a una serie di cunicoli (metà I sec. a.c.),
      - una struttura in opus quadratum,
      - forse il pilone di un arco monumentale (II sec. a.c.),
      - una struttura in opus incertum (fine II- inizi I sec. a.c.),
      - un Ninfeo in opus reticulatum e con rivestimento in pietra pomice
      - una cisterna annessa al Ninfeo (metà I sec. a.c.).

      Il portico partiva dal pilone in opera quadrata con direzione ovest e, dopo una piccola deviazione verso sud, seguiva per 120 m il lato della collina arrestandosi di fronte al muro a nicchie.
      Il portico in opus reticulatum è costituito da una serie di semicolonne doriche che presentano, alla stessa altezza, dei ricorsi in mattoni.

      ANTEFISSA DEL TEMPIO ARCAICO
      Era originariamente a due piani come dimostrato dagli scavi condotti sul finire dell’800, per il rinvenimento della parte superiore delle volte crollate con tracce di mosaico. Probabilmente anche il secondo piano del portico aveva semicolonne di ordine dorico.
       
      In fondo al portico c’è una porticina da dove si diparte una serie di cunicoli che alcuni identificano con la grotta in cui era custodito il serpente sacro a Giunone Sospita.

      Infatti sappiamo sia da Properzio  che da Eliano sappiamo che, nel Santuario, ogni anno all’approssimarsi della primavera, si svolgeva una cerimonia in cui si dava una focaccia a un serpente e al suo logico rifiuto veniva sacrificata una fanciulla vergine.

      Nella parte opposta, rispetto al Portico, si trovano i resti di una struttura in opera quadrata di peperino, secondo alcuni pertinente probabilmente a un arco di ingresso che immetteva nell’Acropoli, ma poteva anche immettere agli altari collocati esternamente al Tempio.

       Accanto al santuario si rinvennero i resti di un gruppo marmoreo di statue equestri con lorica, oggi conservate al British Museum di Londra e al museo di Leeds, ad eccezione di un torso e di una testa con altri frammenti che si trovano invece al Museo Civico Lanuvino.

      Tali sculture sono state interpretate da Filippo Coarelli come una trasposizione marmorea di un gruppo bronzeo  realizzato dallo scultore greco Lisippo, rappresentante Alessandro e i cavalieri caduti nella battaglia del Granico (334 a.c.)
      .
      Dopo la battaglia del Granico vinta da Alessandro Magno e per suo incarico, Lisippo eresse le statue equestri dei venticinque archi macedoni caduti nella battaglia (Arriano - Anabasi). Quinto Cecilio Metello nel 146 a.c. portò a Roma questo famosissimo gruppo (Velleio Patercolo) celebrando il trionfo che gli conferì il titolo di Macedonico.

      Per commemorare l'avvenimento fece costruire nella zona del Circo Flaminio un tempio dedicato a Giove Statore che sorgeva accanto al tempio di Giunone Regina; i due templi vennero circondati dal Porticus Metelli, (ricostruito da Ottaviano come Portico di Ottavia) ornato con le statue bronzee dei generali di Alessandro Magno (turma Alexandri), opera dello scultore Lisippo, portate a Roma dopo le guerre in Grecia.

      L’opera si trovava, fino alla metà del II sec. a.c., nel Santuario di Dion in Macedonia, da dove Cecilio  Metello la trasferì a Roma, dopo la conquista  della Macedonia. Secondo lo studioso, la copia in marmo e la ricostruzione di tutto il santuario siano da attribuire a quel L. Licinius Murena console nel 62 a.c. e vittorioso, insieme a Lucullo, in Oriente contro Mitridate, in prossimità del Granico.

      L’opera dovrebbe quindi raffigurare Licinio Murena o Lucullo in qualità di “novelli” Alessandro Magno  e, al posto dei generali macedoni, gli ufficiali romani, per essere letta, quindi, come una imitatio Alexandri.

      ELMO DI LANUVIO
      Le strutture del II sec. a.c.
      Attorno al 90 a.c. venne edificata, ad Ovest del Tempio, una struttura in opus incertum collocata alle spalle delle sei arcate del portico tardo-repubblicano ricostruite agli inizi del ‘900.

      Le strutture del I sec a.c.
      Le strutture murarie situate nel Parco della Rimembranza, pertinenti a tre fasi edilizie di epoca romana, risalgono alla metà del I sec. a.c.
      La I fase è costituita da un muro di contenimento in opera quasi reticolata di cui rimangono poche tracce, coperto un altro muro in opera quasi reticolare (II fase) e con speroni di rinforzo, con la stessa funzione di contenimento.
      La terza fase è costituita da un allungamento degli speroni del muro di contenimento. II fase con muri in opera reticolata e  copertura a volta del soffitto. Si viene così a formare una serie di ambienti simili, probabilmente adibiti alla vendita degli ex voto.



      TEMPIO DI MINERVA

      Ormai si è certi dell’esistenza di un tempio dedicato a Minerva a poca distanza dal museo di Pratica di Mare Lanuvio).

      TEMPIO DEL PALLADIO
      Molti reperti lo testimoniano, ma in particolare, la copia di un originale in legno, alta circa un metro, (96 cm equivalenti a tre piedi romani, altezza standard per le sculture più arcaiche).

      La figura è priva di braccia ma s'indovina che sostenessero lancia e scudo, mentre la veste è ornata di serpenti, che non è il richiamo ai Lari, ma è il simbolo della Grande Madre, cioè della Madre Terra.
      Enea, fuggendo da Troia in fiamme, si porta dietro il Palladio, perchè nessuna terra è legittima senza la Madre Terra.

      Dopo la fondazione della città di Albalonga le immagini dei Penati insieme al Palladio vennero portate nella nuova città; dato che queste venivano sempre ritrovate misteriosamente a Lavinium, il sacerdote Egeste, seguito da seicento padri di famiglia, andò da Alba a Lanuvio per assicurare il culto della Dea nel luogo in cui ella stessa voleva restare, cioè a Lanuvio.

      Nel VI sec. d.c.. invece Procopio narra che il Palladio l'aveva portato via Diomede e non Enea, e se lo teneva a casa sua nel Gargano; però si era ammalato e un oracolo gli dice che guarirà solo se restituisce il Palladio ad Enea.

      Così restituisce la statua che i romani custodiranno gelosamente finchè non venne bruciata dall'ultima sacerdotessa per non farla cadere in mani cristiane che l'avrebbero deturpata, mutilata e irrisa.

      RESTI DEL TEMPIO DI ERCOLE CHIANINA 

      TEMPIO DI ERCOLE

      Del tempio d'Ercole, collocato sul primo terrazzamento dell’antica Lanuvium, rimane allo stato attuale soltanto la sostruzione, di mt. 33 di lunghezza x 9,35 di altezza. La precisione e la tecnica dei blocchi che la compongono sono testimonianza inequivocabile dell’importanza del complesso religioso che come importanza era secondo soltanto al Santuario di Giunone Sospita.

      I dati attuali non ci permettono di stabilire l’esatta localizzazione del tempio vero e proprio e per la sua ubicazione approssimativa dobbiamo utilizzare alcuni elementi preziosi dati dai ritrovamenti archeologici della zona.

      MENADI E SILENO
      Dal 1903 al 1907, durante dei lavori di sbancamento, all’interno della proprietà Seratrice, venne asportata la parte superiore di una cisterna in disuso e piena di macerie.

      La cisterna, a 25 mt. dai resti del tempio restituì frammenti architettonici, capitelli, la vera di un pozzo in marmo, cippi sacri, dediche votive in relazione ad Ercole, che permisero l’attribuzione del Tempio.

      Ma il ritrovamento più importante fu un altorilievo in frammenti che venne ricostituito e collocato nel 1968 al Museo Civico di Albano. Esso è m 0,66 di larghezza x mt. 0,54 di altezza ed è datato al 330 a.c..

      Il tiaso bacchico è frequente sui templi etruschi e latini già dall'età tardo-arcaica, ma si pone solo sulle antefisse. Oppure allude all'impresa per cui Ercole avrebbe salvato Ino-Leucotea, perseguitata dalle menadi aizzate da Giunone. Nel rilievo lanuvino, quindi, vi sarebbe rappresentato lo scontro tra Ino-Leucotea e le menadi selvagge avvenuto nel foro Boario, dove Ercole era venerato come garante dell'incolumità dello straniero.

      Pertanto l'altorilievo di Lanuvio, datato a poco dopo l'annessione di Lanuvium alla civitas romana (338 a.c.), è da mettere in relazione al tempio d'Ercole, eroe romano, dopo l'annessione di Lanuvio a Roma, per bilanciare un po' il culto di Giunone Sospita, prettamente lanuvino.

      I Santuari d’Ercole avevano anche un forte carattere emporico; Eracle era considerato Dio dei mercanti, e di solito i suoi templi venivano edificati lungo vie transitate da mercanti, così come accade a Lanuvio dove l’impianto religioso è collocato lungo la via Astura che metteva in contatto, soprattutto per i commerci, Antium e Satricum alla latina Lanuvium.



      GLI SCAVI

      Molto si dedicò afli scavi di Lanuvio Ligorio (1513 – 1583), architetto, pittore e antiquario italiano. Oltre che come "insigne studioso", è noto però anche come "abile falsario" di iscrizioni latine.

      Nella parte centrale della città si è individuata la piazza del foro, già intuita dal Lanciani. Sul lato ovest si trova un tempio in opera incerta, a tre celle, o ad ali, e podio con cornici di peperino rivestite di intonaco e stucco; scarsissime le tracce dell'alzato.

      MINERVA TRITONIA
      I dati di scavo non consentono ancora di precisare la data di costruzione; è ascrivibile forse a età augustea la realizzazione di due avancorpi ai lati della scalinata, mentre a un edificio di culto precedente potrebbero essere pertinenti le strutture in opera quadrata inglobate nelle fondazioni in cementizio.

      Lungo il lato sud della piazza sono emersi degli ambienti aperti su un portico, di cui un vano, identificabile con l'Augusteo, ha restituito statue frammentarie di marmo maschili, una femminile e le teste di Augusto, Tiberio e Claudio.

      Reperite anche  le lastre Campana, decorative del portico, di diversi tipi (nìkai tauroctone, ciclo dionisiaco, motivi vegetali), il tutto in frammenti facenti parte di strati di riempimento.

      Alle spalle delle strutture di età imperiale, vi sono due complessi di età arcaica, di cui uno pubblico, dotato di portico, costruito nel VI sec. e ampliato nel V, fu distrutto intorno alla fine del IV o inizi del III sec. a.c. e non più ricostruito.

      Le strutture, dal VI al III sec. a.c., sono realizzate con zoccolo di blocchi o scheggioni di tufo giallo o cappellaccio, alzato a intelaiatura lignea e tamponature di bozze di cappellaccio o tufo.

      Negli zoccoli e negli alzati si faceva largo impiego di tegole, un impasto di terracotta, utilizzate anche per i pavimenti; questi, nel IV sec. a.c., con schegge di tufo giallo accostate e livellate.

      Vicino al Foro si estendeva un vasto complesso termale di età imperiale su due piani, che dopo l'abbandono, prima dei crolli delle coperture e delle volte, ha subito una totale opera di spoglio.

      Fuori del perimetro urbano, due fornaci e un portico, di epoca incerta, a nord del complesso delle Tredici Are. A sud-ovest delle Tredici Are invece una grande villa con impianto termale, di età imperiale.

      TEMPIO DI DONNA O DEA V SEC. A.C.
       l tempio orientale dedicato a Minerva, scavato nel 1977, ha portato alla luce il deposito votivo che testimonia, con le sue due fasi, continuità di culto dall'Orientalizzante Recente ai primi decenni del III sec. a.c., quando il santuario venne distrutto.

      Nella fase più antica del deposito, fine VII-prima metà VI sec. a.c., abbondante ceramica d'imitazione corinzia. L'imponente scarico di materiale votivo, ceramiche e terrecotte, seconda fase del deposito, copre l'arco cronologico compreso tra la seconda metà del VI sec. e i primi decenni del III a.c. con numerose statuette di bambini in fasce, statuine di madri allattanti, ex voto anatomici quali uteri e mammelle, mentre è irrilevante la presenza di arti.

      Le oltre cento statue di offerenti di ambo i sessi, ma in prevalenza femminili, molte a grandezza naturale che offrono melegrane, conigli, colombe, danno l'idea della fama miracolistica della Dea.

      Particolare interessante, tra le offerte votive c'erano i giocattoli (trottole, astragali, palle), evidentemente secondo l'usanza romana per cui le fanciulle prima delle nozze offrivano i loro giocattoli di ragazzine al tempio della Dea, a indicare la fase di passaggio tra ragazza e adulta in vista delle nozze.

      L'abbandono dei giochi spensierati per diventare moglie, madre e domina della casa di cui si assumevano tutte le responsabilità.

      Moltissima anche la ceramica votiva, soprattutto in vernice nera sovradipinta, ma pure ceramica attica attica a figure nere e rosse, oltre che ceramica d'impasto (olle, coperchi, bacili), pochi i bronzetti di fabbricazione laziale (kouroi e korai) e di tipo umbro-sabellico.

      CRISTO DOCENTE IV SEC. D.C. - STATUA GRECA
      Tra le statue della Dea notevole quella alta quasi due metri tutta armata, affiancata da un Tritone che sorregge lo scudo, che ricorda il mito beotico della nascita di Atena presso il fiume Tritone, non lontano da Alalcomene in Beozia, sede di un antichissimo e famoso santuario della Dea..

      Per altri studiosi la statua sarebbe l’Athena Iliàs ricordata da Strabone, e il santuario quello di Atena ricordato da Licofrone; i due passi potrebbero tuttavia alludere piuttosto al Palladio, conservato nel Tempio dei Penati a Lanuvio.

      Notevole anche il cosiddetto "Cristo docente" rinvenuto a Lanuvio, eseguito su marmo greco, che mostra un giovane fanciullo seduto su su una sedia curule che tiene in mano un rotolo, simbolo all'epoca di cultura e soprattutto di saggezza filosofica.

      La statua è datata al IV sec. d.c. ma noi abbiamo forti dubbi sulla datazione e sulla attribuzione. Il giovane ha i capelli lunghi e inanellati alla foggia greca, e porta traccia di colorazione, soprattutto nei capelli decisamente biondi. assolutamente lontana dalle immagini romane e lanuvine, se non di ispirazione greca (probabilmente una copia) e riservata alle divinità.

      I capelli assolutamente biondi erano per i greci appannaggio degli Dei, forse perchè sembravano più luminosi oltre che inusuali rispetto ai greci e pure rispetto ai romani.

      Prova ne sia che le romane si tingevano spesso i capelli con polvere dorata per avere sembianze più avvenenti.

      Ci colpisce inoltre la mutilazione della statua, vandalismo riservato solo alle divinità pagane e non certo al giovane Gesù che avrebbe dovuto essere ospitato in una chiesa cristiana.
      Sicuramente la statua è relativa a una divinità greca antecedente, prima mutilata e poi, con ripensamento, spacciata per cristiana. Accadde spesso che certe statue greche o romane venissero identificate come figure di culto del cristianesimo.

      Da segnalare ancora una rappresentazione a grandezza quasi naturale della Dea armata di spada con a fianco un'oca sorreggente lo scudo. L'esistenza, agli inizi del V sec. a.c., dell'edificio di culto è al momento provata solo da antefisse a testa di Sileno e di Iuno Sospita.

      Consente, infine, di localizzare la necropoli di età arcaica la scoperta (1993), fuori della porta sud-est, all'incrocio della via per Ardea con quella mare-Colli Albani, di una tomba a tumulo, con  quattro sarcofagi, di cui due violati.

      Il più antico, di cappellaccio, a cassa con zampe leonine e coperchio a doppio spiovente, conteneva i resti di un incinerato.

      Il corredo è databile nella prima metà del VI sec. a.c., e si compone di un'anfora tirrenica con amazzonomachia di Eracle, un'anfora di bucchero, una placca di bronzo con pantere monocefale.

      Le altre tombe sono della prima metà del V sec. a.c. (attica a figure rosse), all'ultimo quarto del V sec. a.c. (attica a figure rosse) e alla seconda metà del IV sec. a.c.

      L'abbandono dei santuari extra-urbani, la disattivazione di alcuni impianti produttivi, la rarefazione dei materiali di superficie indicano che già nella prima metà del III sec. a.c. inizia la decadenza che riduce e spopola progressivamente il centro urbano, ridotto in età imperiale alla sola area centrale e a impianti isolati nella zona urbana e nel suburbio.

      Sotto il Regno d’Italia, oltre alla restituzione al paese nel 1914 del suo antico nome di Lanuvio, si ebbero scavi archeologici che scopersero un tempio del VI sec. a.c., poi reinterrato, presso i blocchi del tempio di Giunone Sospita che ancora si possono visitare nell’orto dell’Istituto Salesiano.

      Gran parte dei reperti archeologici tuttavia si trovano oggi sparsi in vari musei del mondo: il Museo di Valle Giulia a Roma, il Museo Capitolino, il British Museum di Londra e il Museo di Leeds.

      VILLA DI MECENATE

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      RICOSTRUZIONE

      VILLA DI MECENATE

      "Qua si ammirano le rovine di una superba Villa, i vasti edifizi della quale erano situati a destra, e a sinistra della via Consolare. Pirro Ligorio, celebre architetto avendone fatto un'ampia descrizione, mi restringerò a indicarne soltanto le parti principali.
      Questa Villa consisteva in due grandi pianure, di un quadrato perfetto, situate una sopra l'altra in forma di anfiteatro; dalla parte verso Roma, erano aperte, ma sopra gli altri tre lati erano contornate da edifizj, che si veggono anche in oggi; consistenti in piccole camere, in mezzo delle quali s'inalzava un portico d'ordine Jonico, la di cui parte interna corrispondeva sulla pianura, e l'altra sopra la Villa e la campagna.


      I RESTI IN UN QUADRO DEL XIX SEC.
      Il portico interno era a livello del piano degli appartamenti, e sostenuto da un altro portico di ordine Dorico. Le mezze colonne, che si veggono sulla pianura più elevata, sono gli avanzi del portico inferiore, di pietre riquadrate, che sono situate appunto in dirittura de' pilastri delle arcate. L'osservatore istruito, nel vedere gli avanzi di questa Villa, potrà facilmente concluderne quale dovette essere la di lei antica magnificenza."

      "Se si creda agli autori i più accreditati questo è il primo Tempio, che è stato aperto in Tivoli alla venerazione del publico; io sono di questo sentimento. La remota antichità di tal tempio, ed il desiderio di sodisfare alla curiosità del viaggiatore sono stati i motivi, che mi hanno determinato a far menzione di questo rudere."

      I RESTI

      Secondo Ilaria Morini x Associazione Culturale Ercole Vincitore, la cosiddetta villa di Mecenate altro non sarebbe che il tempio di Ercole Vincitore:

      "Il tempio dominava il centro dell’area sacra, era di dimensioni straordinarie, giacché innalzato su un alto basamento (65x40 metri) e raggiungeva l’altezza complessiva di 25 metri: una sorta di faro per i mercanti provenienti dalla pianura romana in carovana diretti verso il Sannio. Sulla fronte, una scalinata doppia con due fontane decorate da piccole statue di Ercole, permetteva l’accesso sull’alto podio del tempio arricchito da colonne solo su tre lati (otto sulla fronte e dieci sui fianchi).

      La cella maestosa con colonne addossate alle pareti aveva una nicchia sul fondo per la statua di culto (rappresentata seduta) ed ambienti laterali per arredi sacri. 

      Da una scaletta, si poteva scendere in un ambiente sotterraneo, rispetto alla cella, dove probabilmente si collocava l’oracolo di cui parlano le fonti." inoltre conteneva un teatro per "Tremila e seicento spettatori, comidamente seduti sulle gradinate della cavea, potevano assistere alle rappresentazioni collegate all’epopea di Ercole, nel teatro del santuario. Riportato alla luce negli anni Ottanta, si conservano la cavea che misura 65 metri di diametro con gradinate suddivise in settori, i due accessi laterali e il proscenio. In età augustea fu ingrandito e dotato di nuove decorazioni."

      (Andrea Manazzale - 1817)

      RICOSTRUZIONE DEL TEMPIO DI ERCOLE VINCITORE

      TEMPIO DI ERCOLE VINCITORE

      I muraglioni di Villa d'Este a Tivoli, verso la valle dell'Aniene e la Campagna Romana, confinano con un vasto terreno agricolo, dette vigne di "Pizzutello",  che accolgono diversi e importanti nonchè imponenti resti romani. Qui si riteneva sorgesse l'antica Villa di Mecenate, qui fra antichi portici e sostruzioni, impronte di una scalinata e di un teatro, sono sorti degli edifici industriali in cemento, insieme a un canale ottocentesco sopraelevato con una torretta-pinnacolo.

      Solo dal 1849 la "Villa di Mecenate" venne identificata come Tempio di Ercole e dal 1861 come Santuario di Ercole Vincitore. La maggiore superficie è occupata da terreno di riporto accanto ai resti antichi. L'equivoco è comprensibile: Tivoli, con la sua altura che assicurava aria salubre e con le abbondanti dell'acqua dell'Aniene, accoglieva dimore fastose di ricchi personaggi di Roma e Lazio che venivano qua per abbandonarsi ai famosi "otii". Ne contava circa trecento fra ville lussuose e rustiche, compresa quella di Augusto. D'altronde l'enorme dimensione era inusuale per un tempio ma usuale per una villa d'ozio.

      Il tempio non offre pavimenti dai marmi policromi nè mosaici, né statue importanti, un po' come il tempio della Fortuna Primigenia, anch'esso famosissimo e visitatissimo ma privo di opere d'arte pavimentali o pittoriche o statuarie. Del resto anche quello di Ercole Vincitore più che un Tempio è un Santuario, che sorge su un sito arditissimo e unico. Le sue sostruzioni infatti si erigono fino a 50 metri, creando un vastissimo pianoro di tre ettari nonostante lo strapiombo della forra dell'Aniene.



      LA STORIA

      Il tempio fu fiorente fino al IV sec. d.c., ma iniziò il suo declino quando i Goti di Totila conquistarono Tivoli. Dal 978 troviamo citata la Via Tecta come Porta Oscura, usata per l'impianto di diversi mulini.

      Nel medioevo il tempio fu suddiviso tra diversi ordini religiosi e il comune di Tivoli. Nel 1227 vi furono edificati le chiese di S. Maria del Passo dei Frati Minori e la chiesa di S. Giovanni Molano delle Clarisse con annesso Monastero di cui restarono proprietarie fino al XIV sec.

      Il Santuario molto tempo prima era già stato usato come cava per materiali dall'insediamento del Cristianesimo in poi, anzi il massimo della depredazione avvenne nella prima metà del VI sec. d.c..Davanti alla base del tempio sono state scoperte infatti due profonde e vaste buche, le caldare medievali usate per sciogliere i marmi e farne calce, di un tipo raro perché con due camere di combustione. Vi si fusero non solo marmi lavorati, ma pure colonne, marmi pregiati e statue.

      PLASTICO DEL COMPLESSO (www.fluidodesign.it)
      Successivamente  fu ricoperto di terra ed usato per vigne ed orti. Fra i sampietrini restano ancora delle mini rotaie per vagoncini, un residuo del 1616 quando la Camera Apostolica vaticana usa tutto quello spazio e quella acqua per una fabbrica di armi, e di polvere da sparo.  Ma non finì lì, perchè dopo la fabbrica d'armi vi fu impiantata una manifattura della lana e ancora, una fonderia per cannoni voluta nel 1802 da Luciano Bonaparte, fratello di Napoleone.

      Nel 1846 sul santuario vine impiantato un edificio per la lavorazione del ferro da parte della Società Romana delle Miniere. Nel 1884 fu acquistato dalla Società delle Forze Idrauliche che usò i canali di raccolta degli antichi acquedotti per alimentare una centrale idroelettrica alla base di Tivoli, grazie alla quale, nell'agosto 1886, Tivoli è la prima città italiana ad essere illuminata dall'energia elettrica che arriva anche a Roma.

      Segue poi la cartiera che dura fino al 1960 costruendo padiglioni e tettoie che coprono i portici dell'area sacra. La metà meridionale del complesso subisce poderosi interri e venne adibita ad uso agricolo, mentre nella parte settentrionale le fabbriche industriali proseguirono con la Cartiera Mecenate di Giuseppe Segré, della quale ancora restano i padiglioni in cemento e le tettoie che coprono i portici dell’area sacra.

      Poi l'Enel rinuncia ad utilizzare il "salto Mecenate" per la produzione di energia elettrica, come testimonia una lapide, per consentire il "completamento del recupero" del Santuario. naturalmente per un lunghissimo tempo non se ne fece nulla. La produzione è cessata solo negli anni Cinquanta con l’acquisizione dei resti del santuario da parte del demanio.

      IL PORTICO

      LA VISITA

      Il Santuario di Tivoli è il più grande e imponente dei santuari laziali a terrazze con teatro in asse col tempio (Gabii lungo la via Prenestina, Palestrina, Lanuvio, Nemi, Terracina), cioè di quei santuari che si svilupparono dopo la distruzione di Cartagine.

      Ci si immette oggi nel santuario mediante una galleria in muratura che è un pezzo della via Tiburtina Valeria, detta "Via tecta", "via coperta", poichè il Santuario è stato costruito nell'unico punto in cui l'Aniene poteva essere attraversato, diventando il "principale raccordo" fra l'Abruzzo (e l'Adriatico) e il Lazio.

      Un modo ingegnoso per convogliare a sè tutto il traffico, di commerci e passaggi fra Roma e il Sannio, attirando un numero enorme di fedeli. Il sito fu edificato dalla fine del II sec. a.c. per essere terminato all'inizio dell'età di Augusto.

      Il passaggio riguarda un ampio "clivus" sotterraneo in leggera discesa, lungo oggi una ottantina di m mentre quello originale era di 150 m, a causa del crollo della volta.
      A sinistravi erano le "tabernae", con depositi di merci e per il bestiame.
      A destra i grandi archi delle sostruzioni hanno superato la cascata dell'Aniene che si intravede sullo sfondo.
      Filippo Coarelli, è il supervisore scientifico del programma di recupero.



      ERCOLE VINCITORE

      L'Ercole Vincitore di Tivoli era protettore dei commerci, del mercato dei buoi, del sale e della transumanza, ma per Tivoli anche il Dio a cui si doveva l'antica vittoria dei tiburtini sui volsci. Il Santuario di Tivoli era una potenza religiosa, economica e finanziaria, usufruendo infatti di pedaggi, delle offerte di mercanti e generali.

      Infatti il santuario disponeva di un "thesaurus Herculis et Augusti", a cui si aggiungevano le offerte quotidiane di chi transitava per la "Via tecta" dove si ristorava e riposava e si assicurava la protezione di Ercole. In tutto il santuario erano distribuiti i "Thesaurus", dei piloncini in calcare che funzionavano da "cassette per le offerte" di cui ne è stato rinvenuto uno davanti al basamento del tempio.

      Il santuario era di dimensioni imponenti, m 186 per 140, con l'area sacra circondata su tre lati da portici a due ordini, adornati da statue e sculture onorarie di personaggi romani e del Lazio, nonchè di iscrizioni da parte di evergetisti, cioè chi aveva fatto eseguire lavori a proprie spese, a beneficio del santuario. Ad esempio la lastra dei "Quattruoviri", ora nei musei Vaticani, che avevano curato la copertura della "Via tecta" .

      LA GALLERIA INTERNA

      Le Statue

       "L'Antiquarium" si trova alla fine della "Via tecta" nella antica cartiera, costruita su parte delle antiche sostruzioni evidenziate dal pavimento trasparente, con affaccio sulla "Via tecta".
      -  Nel 1925 fu scavato nel Santuario il cosiddetto "Generale di Tivoli", statua in marmo greco in "nudità eroica", alta 188 cm, frammentaria, considerata fra le più importanti della fase finale repubblicana e ora a Roma, nel Museo nazionale romano di Palazzo Massimo. Nell'antiquarium se ne conserva il calco.
      - Diverse basi di statue e di donari sono invece conservati nel Museo nazionale romano alle terme di Diocleziano.
      - Una statua maschile nuda celebrativa, di dimensioni colossali (acefala, frammentaria) in marmo greco, di un "artista ellenistico di grande rilievo", di inizio del I sec. a.c.
      - La statua di una figura femminile, tipo "Venere Genetrix", dalla tunica aderente al corpo come fosse bagnata.
      - Un pluteo in marmo (parte di una balaustra) decorato sui due lati con un "ricamo" leggerissimo e un motivo vegetale dalle larghe foglie.
      - Un minuscolo frammento di clava in marmo, di pochi cm, scavato nel 2009.
      - I depositi sono colmi dal pavimento al soffitto di migliaia di cassette con catalogate decine di migliaia di frammenti di statue, decorazioni, colonne e parti architettoniche, tutto da identificare e ricomporre.



      IL TEATRO

      Oltre la "Via tecta" si prende a sinistra e si incontra il teatro, dal quale si sale in asse alla scalinata del tempio e al fondale dipinto con l'ipotesi di ricostruzione della facciata del tempio con otto colonne.
      Il teatro aveva in origine 3.600 posti, un numero che dà l'idea dell'importanza delle cerimonie collegate al culto di Ercole.

      Sono state ricomposte le gradinate della cavea per 1.200 posti utilizzando un materiale a base di graniglia con una intonazione rosata onde distinguerla dai pezzi originali. Per il pavimento della scena è stato usato un legno di colore marrone. Davanti la scena è stata reperita una vasca che, pulita dalle incrostazioni calcaree ha mostrato un intenso intonaco azzurro delle pareti. Le incrostazioni derivano dall'acqua che accoglieva, forse con piante e pesci.

      Alle spalle della cavea i gradoni del podio del tempio, probabilmente fra i primi elementi ad essere saccheggiati dai cacciatori di materiali per il travertino ottimamente sagomato, e di cui è rimasta solo l'impronta.
      Alla destra della gradinata è la struttura di una delle due fontane monumentali con cascata e varie vasche circolari.

      I RESTI
      L'alta parete in "opus reticulatum" nasconde uno dei tanti canali dell'Aniene che portava l'acqua alle fontane.  Superata la gradinata si va a sinistra e prima di prendere una passerella metallica moderna si scopre il maggiore ritrovamento dell'antico tempio: quattro elementi del basamento in travertino, il più semplice, liscio, lungo fino a 24 m e quello superiore modanato come una cornice. Sono dimensioni che fanno capire le dimensioni megalitiche del tempio segnate sul terreno da un fondale dipinto al limitare del braccio sud del portico.

      Lì davanti, per terra, una base d'altare e uno dei "Thesaurus" per ricevere le offerte, una specie di cassaforte, infatti aveva una copertura metallica, dove i fedeli infilavano le monete senza poterci infilare le braccia per prelevarle.

      Il "Thesaurus" era provvisto ai lati da robusti maniglioni metallici (di cui è rimasta l'impronta), per metterlo nella posizione giusta per permettere agli addetti del tempio di svuotare le offerte. Sempre qui sono state individuate le due "bocche" della "caldara". La passerella metallica permette di superare i massi e la parte crollata del portico settentrionale dell'area sacra.

      Del portico sopravvivono circa 120 metri con la lunghissima teoria delle arcate sulla sinistra, e un ambiente che evoca altre atmosfere. In mezzo a statue onorarie e iscrizioni, qui erano concentrate le attività civili del Santuario e Svetonio ci ricorda che fra questa arcate Augusto (ed anche Claudio) presiedevano i processi.

      Questo significa che il Santuario, per un tempo ora indefinibile, vivrà della contemporanea situazione di sito aperto al pubblico (con limitazioni) e di cantiere (con limitazioni di sicurezza). E man mano che il cantiere si estende si aggiungeranno parti al tragitto del sito.

      Si intende aprire al pubblico l'ala settentrionale dell'area sacra, le architetture del triportico e la traccia del tempio in una zona profondamente modificata dall'industria. Ed anche un "orto botanico" denominato obbligatoriamente "Giardino delle esperidi" (piante e arbusti collegati al mito di Ercole). Per anni l'impresa del Santuario è andata avanti stancamente e faticosamente quanto ai finanziamenti, poi negli ultimi tre anni la direzione regionale ha potuto disporre di 15 milioni e mezzo di euro.

      Il teatro non è un semplice recupero del monumento, ma avrà attrezzature e impianti "leggeri" e mobili, per tornare funzionante, nell'estate 2012, per spettacoli (teatro, danza, musica). In contemporanea col rinomato festival internazionale di Villa Adriana. 

      VENTA SILURUM - CAERWENT (Inghilterra)

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      Venta Silurum fu una città nella provincia romana di Britannia. Oggi se ne conservano dei resti nel villaggio di Caerwent nel Monmouthshire, nel sud-est del Galles. Gran parte del villaggio è stato oggetto di scavi archeologici ed è esposto al pubblico.
      Si trova a circa cinque miglia ad ovest di Chepstow e undici miglia a est di Newport. Fu fondata dai Romani nel 75 d.c. come città di mercato dell'insediamento della tribù dei Siluri Brythonic. Il villaggio moderno è costruito intorno alle rovine romane, che sono alcuni dei meglio preservati in Europa. È rimasta prominente attraverso l'epoca romana e il primo medioevo come luogo di attraversamento stradale tra diversi importanti centri civici.

      COME DOVEVA APPARIRE VENTA SILURUM
      Dopo interminabili battaglie e scaramucce, Venta venne completamente vinta da Sesto Giulio Frontino in una serie di campagne che finirono intorno al 78 d.c.

      Tacito scrisse dei Siluri: 
      "Non atrocito, non clementia mutabatur
      cioè la tribù 
      "non è stata cambiata né dalla crudeltà né dalla clemenza".

      IL FORO
      Secondo la Biografia di Tacito di Agricola, i Siluri avevano normalmente una carnagione scura e capelli ricci. A causa del loro aspetto, Tacito credeva venissero in precedenza dalla Spagna.
      "... i volti scuri dei Siluri, la qualità riccioluta, in generale, dei loro capelli e la posizione della Spagna, di fronte alle loro sponde, attestano il passaggio degli Iberi nei vecchi tempi e l'occupazione da parte di questi distretti; .. "

      (Tacitus Annales Xi.ii, tradotto da M. Hutton)

      Venne eletto dai romani a centro amministrativo per la tribù dei Siluri nel Galles romano, in realtà l'unica città fondata dai romani nel Galles, una zona molto ricca di minerali, si che i romani hanno utilizzato la loro raffinata ingegneria per estrarre grandi quantità di oro, rame e piombo, ma pure modeste quantità di altri metalli come lo zinco e l'argento.
       
      Venta Silurum sembra significare "Città Mercato dei Siluri" ( Venta Belgarum e Venta Icenorum ). Ciò è confermato dalle iscrizioni sulla pietra "Civitas Silurum", ora esposta nella chiesa parrocchiale. La città, situata sulla strada romana tra Isca Augusta ( Caerleon ) e Glevum ( Gloucester ) e vicino all'estuario Severn, era, al contrario della vicina Isca, fondata più per l'amministrazione civile che per le forze militari.

      TEMENOS

      DESCRIZIONE

      All'epoca della fondazione Venta dispose di un forum e di una basilica. Però all'inizio di II sec., durante il regno di Adriano, i cittadini avevano iniziato la costruzione in un mercato e di un centro di sviluppo locale. Sorsero contemporaneamente bagni pubblici e negozi, tra i quali è stato riconosciuto un fabbro.

      Sono stati scavati anche resti di aziende agricole e abitazioni, alcune con cortili. E' stato inoltre rinvenuto un tempio romano, forse dedicato a Marte e al Dio celtico Ocelus, dato che spesso i romani assimilavano gli dei locali ai loro Dei conservandoli affiancati nel culto dei templi.. Una ciotola con un cristogramma mostra che il primo culto cristiano iniziò alla fine del III sec.  

      Dopo il ritiro delle legioni romane dalla Gran Bretagna, la città rimase occupata almeno fino alla metà del V sec. Il nome Venta dette il suo nome al regno medievale gallese di Gwent (chiamato inizialmente "il Regno di Guenta"), e la città stessa divenne nota come Caer- go o "castra / forte di Venta / Gwent".



      GLI SCAVI

      Nel 1881 venne portata alla luce, dagli scavi nel giardino di un cottage, una parte di un mosaico pavimentale colorato, fortemente intricato e tessellato, raffigurante diversi tipi di pesci. 

      EPIGRAFE DELLA CIVITAS SILURUM
      La tassellatura era una piastrellatura di materiali come quadrati o esagoni di ceramica cementata.

      Gli scavi del 1971 hanno datato la torre angolare poligonale di nord-ovest alla metà degli anni '30. 

      Ulteriori scavi sono stati eseguiti nel 2008 dalla società Wessex Archeology e lo scavo è stato descritto e seguito nel Channel 4 TV Time Team.  

      Le case moderne sono costruite sulla parte superiore del vecchio mercato romano. Sono ancora visibili le rovine di numerosi edifici romani, tra cui le basi di un tempio romano del IV secolo.  

      Il fatto che la maggior parte delle case non dispongono di pavimenti mosaici o ipocausti , tuttavia, suggerisce che, nonostante le sue dimensioni, Caerwent non ha mai raggiunto il livello culturale di altre capitali tribali romano-britanniche. 

      Per contro alcune ville periferiche hanno dimostrato, per le loro ricche decorazioni, che alcuni potenti personaggi preferivano ritirarsi in campagna anzichè vivere in città. Segno comunque che ritenevano le campagne molto sicure, confermato dal fatto che fino al IV sec. la città non venne dotata di mura.

      LA BASILICA ROMANA

      Dal Time Team di Channel 4

      - Una casa da bagno, una villa e manufatti con un coltellino sono stati trovati a Caerwent, Monmouthshire.
      - Durante gli scavi effettuati da un team di 50 persone sono emersi dei negozi su una strada principale romana
      I RESTI DEL TEMPIO DI MARTE
      - Lo scavo di tre giorni presso il sito romano, vicino al villaggio moderno di oggi, ha coinvolto Wessex Archeology e volontari della local Chepstow Archeology Society.
      - Sette diverse trincee sono state scavate in tre diverse posizioni, volte a scoprire di più su parti della città che non erano state mai state scavate.
      - Un tempio, bagni e foro nel centro della città e un'altra trama a nord ovest sono stati scoperti. In alcuni luoghi si sono rinvenuti edifici lunghi e sottili, come palazzi di negozi sulla sommità della strada.
      - Nel nord della città, si è scoperta una villa romana con muri dipinti e mosaici sul pavimento mostrando che i ricchi vissero nelle periferie.Nelle vicinanze si trovava una casa con un bagno, probabilmente appartenente alla villa.
      - Il copri coltello era fatto di osso intagliato raffigurante due gladiatori che si affrontano in combattimento.
      - Altri artefatti scoperti comprendevano monete, vetro, ceramiche, ossa umane e animali, patch di piombo utilizzati per la riparazione e pezzi di mosaico.
      - Gli archeologi ora riprenderanno la terra e copriranno tutte le pareti e tutti i reperti andranno al Museo Nazionale del Galles e sarà pubblicata una relazione archeologica.



      LE MURA

      La città mancava difese efficaci fino alla metà del IV sec. quando vennero costruite le poderose mura di pietra, e sicuramente venne trasferita a Venta una piccola guarnigione. Grandi sezioni delle pareti difensive sono ancora in atto, che raggiungono fino a 5 m di altezza. Le mura sono state descritte come "la più imponente difesa della città per sopravvivere alla Gran Bretagna Romana, con la possibilità di ricostruire una delle più perfettamente conservate nell'Europa settentrionale".

      Gli scavi nel 1971 datano la torre angolare poligonale nord-ovest alla metà del IV sec. Nel 2010 è stato realizzato un programma di lavori archeologici, da parte della Monmouth Archeology, nell'ambito della costruzione di un nuovo garage, presso il Museo Cottage. Sono stati rinvenuti nell'occasione numerosi reperti.

      La misura delle mura dimostra che Venta fu il più grande insediamento romano-civile nel Galles, coprendo circa 44 acri di terreno. Venta venne creato nel tentativo di pacificare la tribù Silures che aveva combattuto ferocemente e coraggiosamente i Romani per circa 25 anni, naturalmente con la vittoria dei romani..

      La città romana aveva un disegno di sistema a griglia basato su un cardo e un decumano, mentre inizialmente consisteva di un insediamento sparso di edifici che si ampliò e si chiuse nel 200 d.c.. Un'ulteriore evoluzione si verificò fino al 350 d.c..
      Il sito è oggi il moderno villaggio di Caerwent con molte delle case che si trovano intorno e sopra ai resti romani.


      VICUS CAPUT AFRICAE

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      FONTANA DELLA NAVICELLA
      Via della Navicella è una via storica di Roma che sul lato sinistro va verso via Santo Stefano Rotondo, mentre sul lato destro diventava largo della Sanità Militare a piazza di Porta Metronia. Il suo nome deriva dalla fontana della Navicella a forma di barca che si trova sul largo davanti alla chiesa di Santa Maria in Domnica, il largo anticamente era chiamato piazza, e ne è rimasta la tradizione, anche se è una via.

      Questa venne sistemata tra il 1930 e il 1931, perdendo l'aspetto di piazza vera e propria che aveva in origine, quando era delimitata sui quattro lati dalla vigna del Collegio Germanico, dalla Chiesa, dal vicolo della Ferratella (attuale via Amba Aradam) e dalla strada che portava alla chiesa di Santo Stefano Rotondo, e alla Chiesa dei SS Giovanni e Paolo. La parte aperta sulla via Claudia, venne denominata Largo della Sanità Militare, ma un tempo tutta la regione era chiamata della Navicella.

      Santa Maria in Domnica fu costruita in tempi remoti, nei pressi della caserma della V coorte dei Vigiles di Roma. La chiesa è ricordata negli atti del sinodo di papa Simmaco, nel 499. Papa Pasquale I ricostruì la basilica nell'818-822, dotandola di un notevole apparato musivo, ricavato sicuramente dal tempio che sorgeva prima della chiesa cristiana. Sul nome di Santa Maria in Domnica si sono fatte varie congetture, ma l'unica evidenza è che la chiesa cristiana sorge su un tempio pagano dedicato a una divinità femminile, detta La Signora. cioè la Domina.

      "Da Cancellieri si ricava che il titolo 'Domina è di origine pagana. come attestano varie iscrizioni tra cui quella espressamente citata dallo studioso DOMINAE ISIDI VICTRICI. e Domina è chiamata anche la Vergine Maria: sta oscuro il motivo dell'uso della forrna Domnica. quale toponimo relativo ad una chiesa mariana. in un già dedicato al culto di un'altra Domina, dalla quale Maria ha ereditato il titolo.
      Per la navicella risulta più immediato il trapasso da attributo isiaco a attributo mariano essendo Maria / Chiesa. assimilata alla nase che conduce il credente al sicuro della salvezza c come la dea egiziana sovrintende alla navigazione. cosi la Vergine cristiana protegge e guida la .navigazione. terrena del cristiano." Dunque il toponimo 'navicella'. che ha fiancato fino quasi a sostituire l'antica denominazione Domnica. alla luce di quanto precede, risulta correlato alla prima e più antica titolazione e invece di essere sostitutivo, diviene integrativo di quello originario, entrambi giustificati dalla presenza di un tempio di Iside Domina. Regina Coeli e protettrice della navigazione. sul quale, o vicino al quale, è stato edificato il tempio cristiano dedicato alla Vergine Domina Regina Coeli e Stella Maris.. "

      DETTAGLIO DELLA NAVICELLA
      Un tempo la domenica era la festa del Sol Invictus che restò in auge fino al celebre editto di Tessalonica di Teodosio I del 27 febbraio 380, in cui l'imperatore stabilì che l'unica religione di Stato era il Cristianesimo, bandendo e perseguitando ogni altro culto.

      Per tale ragione, il 3 novembre 383 il dies Solis venne rinominato dies dominica (Giorno del Signore) e in tale forma è giunto fino a noi. Ma è proprio così? Dominica. è in latino un termine nominativo femminile singolare di dominicus, se era il giorno del Signore doveva chiamarsi Dies Dominici.

      Fino a qualche decennio fa nell'interno della chiesa di Santa Maria in Domnica, era situato un bassorilievo romano raffigurante un nave dove si celebrava il Navigium Isisdis. Il Navigium Isidis, (festa della nave di Iside) era un rito in maschera rievocante la vicenda della Dea Iside, che fece risorgere il suo sposo Osiride dopo aver ritrovato, viaggiando per mari, tutte le parti del suo corpo smembrato. La celebrazione della vicenda di Iside venne diffusa nella religione romana in tutto l'impero verso il 150 d.c. Guarda caso quel bassorilievo è sparito.

      La festa, che si teneva nella prima luna piena dopo l'equinozio di primavera, consisteva in un corteo in maschera in cui un'imbarcazione di legno veniva ornata di omaggi floreali. Con la tradizione cattolica il Navigium Isidis è stato diviso in Pasqua (resurrezione dello smembrato dopo l'equinozio di primavera), e Carnevale (carrus navalis, la processione delle maschere).

      FOTO D'EPOCA
      La Fontana della Navicella, posta in via della Navicella, è una piccola nave, di chiara fattura romana, posta su un piedistallo e probabilmente doveva essere stato un ex voto pagano dedicato alla Dea Iside, protettrice dei navigatori, di qualche marinaio scampato ad un naufragio. Fu rinvenuta nel Colosseo, restaurata interamente per volere di Papa Leone X, che tra il 1513 e il 1520, che si occupò di sistemare l'intera zona della Navicella, sulla fontana è infatti inciso il suo stemma e ordinò di collocarla nel luogo ove anche oggi si trova.

      Solo dal 1931 fu utilizzata come fontana, con l'acqua che sgorga da un unico zampillo centrale della navicella e da qui deborda cadendo nella sottostante vasca.
      Qui anticamente sorgevano i "Castra Peregrina" le caserme per i militari romani non di stanza a Roma, ma solo di transito verso i presidi romani, ed era anche la zona punto di appoggio dei marinai stranieri di passaggio a Roma, o di quelli che erano addetti alle manovre del velarium del Colosseo e che qui avevano la residenza.

      VIA CAPO D'AFRICA OGGI
      "L'unico elemento che, nello scavo di Piazza Celimontana, costituisce un ininterrotto trait d’union
      fra l'epoca romana e l'età medievale e moderna è il percorso stradale del vicus Capitis Africae, che dal'400, senza mai subire sostanziali alterazioni, cambierà nome in Via della Navicella, e sarà abolito solo nel 1880. In un settore dello scavo la sequenza stratigrafica stradale post-antica è stata recuperata pressoché per intero.

      La  più  antica operazione documentata dall'indagine è  qui la distruzione  del  basolato  romano,
      basolato che infatti non è stato trovato in situ: lo scavo ha raggiunto direttamente, senza incontrarlo, la volta della fogna romana che vi correva sotto (US 331). La via venne rifatta, forse contestualmente, ma con una carreggiata  più ristretta e con la  nuova tecnica della massicciata in terra battuta (US 236), destinata a prevalere da questo momento in poi: la ceramica data questa prima fase di battuto al tardo VIII o al IX sec.

      Prende l'avvio di qui una minuta serie di attività di riparazione e  di rappezzo, alternate a fasi di
      scarsa manutenzione e di insabbiamento, e ad episodi di generale e più o meno accurato rifacimento del manto stradale. Piuttosto rari, questi ultimi, dal momento che ne abbiamo contati una decina appena nel corso del millennio di vita documentata del  vicus Capitis Africae - Via  della Navicella: ciò è evidentemente in rapporto con il carattere di stradina campestre, non molto importante, che la via aveva ormai assunto."

      Dalle indagini a S. Stefano Rotondo si è tratta la conferma che la crisi colpisce, nel V sec., le
      strutture pubbliche e di servizio sparse sul Celio non meno che le insulae di abitazione intensiva o le
      domus aristocratiche. In particolare, lo studio di GATTI  1882 è tuttora  fondamentale per  la topografia  della  zona anche nel  Medioevo, e, in  tale contesto,  per la ricostruzione dell'andamento Sud-Nord  della strada (che  avrebbe  unito il  vertice dell'altura del Celio, cioè la regione della Navicella con la valle del Colosseo, seguendo l'avvallamento naturale  che solcava in antico la pendice Nord del colle). L'orientamento del vicus fu ben  presto confermato dal segmento individuato nel  corso degli scavi di Piazza Celimontana a Roma.



      TORRI DI AVVISTAMENTO ROMANE

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      Le torri romane, già presenti a Roma nel VII sec. a.c. non erano una novità sul suolo italico, visto che furono già usate dagli etruschi e dai greci. Il Genio militare in epoca romana era formato da ingegneri, architetti, geometri, falegnami, fabbri, sotto il comando nelle singole legioni di un Praefectus fabrum, almeno fino al II secolo a.c., e spesso i generali stessi erano architetti e ingegneri.

      Lo scopo era dare un supporto tecnico all'esercito, nel dirigere i lavori durante la costruzione di opere di ingegneria militare.

      I soldati d'altro canto erano ottimi esecutori di tali opere e ognuno conosceva e svolgeva il suo compito con velocità e perizia, sia che toccasse lastricare un strada, o costruire un ponte o una torre di vedetta.

      La conquista della Gallia da parte di Giulio Cesare fu ottenuta attraverso una serie di assedi che culminò con quello di Alesia che determinò la definitiva resa di Vercingetorige nel 52 a.c.

      Fondamentali furono i doppi ordini di fortificazioni in legno munite di torri. sempre in legno, che lui ogni volta ideò e fece edificare.

      TORRI DI ALESIA

      LE TORRI PREROMANE

      Gli etruschi non usavano spesso le torri, limitandosi a dei contrafforti nei punti più deboli delle mura, anche perchè di solito edificavano le loro città su alture di tufo a strapiombo sulla vallata, con una sola via praticabile e quindi facilmente difendibile.

      Ma non fu sempre così, ad esempio Cosa, cittadina etrusca, conserva quattordici torri, in parte rettangolari e in parte semicircolari, poste a distanze variabili.

      Il primo esempio di una disposizione regolare delle torri in suolo etrusco-italico si ha in Falerii Novi (S. Maria di Falleri), che risale alla metà del sec. III a.c.. Essa ebbe ben cinquanta torri, poste alla distanza quasi costante di 100 piedi romani.
      A detta di Appiano, a Cartagine le mura avevano torri sporgenti, di quattro piani in altezza, e poste alla distanza di circa 60 m l'una dall'altra.

      Omero descrisse torri mobili di legno utilizzate dai Greci per salire sulle mura nemiche, e più di rado di torri stabili nelle mura di Troia. Gli scavi di Hissarlik hanno rivelato la presenza di almeno tre torri, con camera interna e scala per un secondo piano, nel sesto strato della città, ma queste torri appaiono aggiunte dopo e hanno piuttosto la forma di bastioni di rinforzo. La stessa situazione venne riscontrata nelle torri di Micene e dell'acropoli di Tirinto.

      Nelle primitive città greche le torri si trovano solo per eccezione. Il perfezionamento dei mezzi di offesa ellenici sorti fra iI sec. V e il IV portò a rinforzare con torri le troppo estese cinte murarie delle città. Troviamo pertanto torri numerose a Mantinea, a Messene, nelle città della Locride, della Sicilia e della Magna Grecia: Selinunte, Megara Iblea e Pesto, solo per dirne alcune.

      Nella Gallia meridionale e nella Spagna si trovano resti di torri anteromane, che proteggevano i terreni più lontani dei centri abitati. D'altronde si ritiene che i nuraghi della Sardegna, come anche i talayot delle isole Baleari e i trulli dell'Italia meridionale siano piccole fortificazioni dell'età del bronzo.

      Comunque l'uso di torri poste a distanze regolari lungo le mura della città risale all'età ellenistica, perchè prima le torri si ponevano solo vicino alle porte, negli angoli e nei punti più deboli della cinta muraria.

      Infatti le torri nascono per difendere le mura della città e quindi stanno a guardia anzitutto delle porte di entrata ed uscita. Ma furono edificate molte torri sulle coste per avvistare le incursioni dei pirati che fin dai tempi più antichi devastavano i territori sul mare della penisola italica. Molte altre invece furono edificate per guardare i confini dell'impero e avvisare in tempo le invasioni dei barbari.

      PORTA LATINA (Roma)

      L'ASPETTO DELLA TORRE

      A Messene (370 a.c.) la torre acquista la forma classica che conserverà poi per tutto l'evo antico, composta di un basamento di grosse pietre, bene squadrate, sporgente dal muro per una metà circa della lunghezza, e di una o due stanze, sopra ad esso, comunicanti per mezzo di scale interne, e fornite di feritoie a tiro incrociato. Al disopra poggia una terrazza scoperta per le vedette, riparate dietro una linea di merli.

      A Pergamo, a Megalopoli, a Pednelissós e altrove si aggiungono piccole cornici, o fasce sporgenti, nella linea di separazione dei vari piani, per interrompere la monotonia dell'alta parete.

      Pompei riproduce in Italia questo tipo ellenistico, che fu seguito più tardi nei restauri sillani delle mura di Cori, dell'acropoli di Terracina (in ambedue, si hanno torri di pianta circolare), di Fondi, e altrove.

      Nella fortificazione greca e romana l'uso più comune della torre è quello di rinsaldare la difesa delle mura delle città, in modo da portare in avanti il tiro delle macchine belliche e degli arcieri, e nello stesso tempo di fornire agli assediati una visione più ampia sui movimenti del nemico.

      Perciò le torri sono di solito sporgenti dal muro, più alte del muro stesso e fornite di camere di manovra su due o tre piani. Scalette interne di legno o di muratura le collegano con i cammini di ronda, e spesso piccole porte, come per esempio vediamo in Pompei, permettono di uscire direttamente all'esterno della città.

      Le torri sono a pianta rettangolare o circolare (Vitruvio, De architettura), o piuttosto semicircolari; non vi è norma costante nell'adoperare un tipo a preferenza dell'altro. Le città greche prediligono le torri rettangolari o quadrate, che più si prestano al sistema di muratura in opera poligonale e isodoma (a file di pietre sfalsate tra loro); le città ellenistiche usano ambedue le forme, come anche le città italiche, quantunque la prima sia prevalente. Nelle città galliche, in Africa e nei castra del limes imperiale prevalgono invece le torri rotonde. Queste poi si collocano quasi sempre ai lati delle porte, spesso rialzate su zoccoli parallelepipedi. 

      È il caso specialmente delle mura di Aureliano in Roma (porte Appia, Latina, Salaria, Ostiense, ecc.). Nella monumentale porta di Treviri le torri sono fuse con le spalle della porta stessa, formando una camera unica di difesa; in quella di Colonia due torri esattamente quadrate sostituiscono il muro presso l'innesto coi fornici laterali della triplice apertura. Oltre che a Spalato, a Costantinopoli e in qualche altra città dell'Oriente si trova l'anomalia di torri ottagonali o esagonali, fornite di feritoie nei lati esterni. Esistono altresì casi di torri nella cui parte inferiore è aperta la porta della città; ma tali casi sono rari.

      Pertanto la grande innovazione romana stava nella disposizione ravvicinata delle torri a guardia della cortina muraria ed in rilievo rispetto ad essa. La torre, interna o unica, sulla porta, o le molte a filo di cortina appartengono a disposizioni rare ed antecedenti.

      PORTA AUGUSTA TAURINORUM (Torino)

      Augusta Taurinorum - I secolo d.c

      La storia dell'edificio al centro di piazza Castello comincia in età romana. Sulle fondamenta dell'odierno palazzo si apriva uno degli antichi accessi alla città di Augusta Taurinorum: la porta orientale, formata da due torri di sedici lati, che incorniciavano quattro ingressi ad arco, due centrali per i carri e due laterali per i pedoni. Le sue dimensioni e la sua forma erano simili a quelle della Porta Palatina a nord della città. Avviandosi verso la Libreria e l'uscita, i visitatori del museo passano attraverso i resti ancora visibili del muro romano.

      PORTA ASINARA (Roma)

      LE TORRI DELLE MURA

      Le porte delle città romane vengono disposte all’uso greco, cioè in modo da costringere l’assalitore a costeggiare un tratto delle mura rimanendo sotto il tiro di frecce o baliste, oppure sono aperte direttamente al nemico con uno o più fornici fiancheggiati da doppie torri sporgenti di varia forma (quadrata, pentagonale, poligonale, circolare, rettangolare), poste a cavallo delle mura o addossate esternamente alla cortina oppure distaccate mediante un avancorpo.

      In alcuni casi le stesse torri si fondono con il retrostante cortile d’arme, o corte, creato per ragioni di sicurezza, tra una porta della cinta muraria ed un suo successivo raddoppio verso l’interno della fortificazione.

      Il tutto però in un unico corpo di fabbrica con doppie torri e con fronte esterno articolato sporgente o rientrante. I fornici sono chiusi da apposite saracinesche (cataracta) per lo più rivestite di ferro, mosse da funi rivestite di cuoio e avvolte su rulli.


      PORTA ROMANA DI SUSA
      I Romani procedono alla recinzione del terreno, poi alla realizzazione di un sistema di torri circolari o poligonali alte, adatte ad avvistare in tempo il nemico, ed infine alla edificazione di mura rettilinee, con pochi vertici verso il campo nemico e collaboranti tra loro, in quanto difese solo dal tiro frontale di pochi arcieri e non soccorribili dai tiri fiancheggianti provenienti dalle torri vicine.

      Ogni azione di sortita romana all’esterno richiedeva almeno una parte dei soldati responsabili della incolumità delle mura, per cui il castrum aveva diverse uscite. Nei tratti più deboli sai ponevano maggiori difese difese e viceversa in caso di mura a strapiombo o difficilmente raggiungibili. 

      Comunque le fortificazioni romane sui luoghi alti erano rare, perché i romani preferivano uscire dalle mura e attaccare, in quanto la loro forza era nella bravura e organizzazione dell'esercito.

      In età augustea si dette maggior importanza alle torri per la difesa delle porte e per le segnalazioni: Aosta è munita di torri alla distanza di 170 m sui lati lunghi e 130 sui lati corti, alte poco più del muro di cinta e di forma larga e massiccia; Perugia ha due alte torri ai lati della porta nord, sporgenti a scarpa fuori del muro perimetrale; Spello, Spoleto, Fano presentano invece poche torri, che sono più che altro bastioni di rinforzo presso le porte o negli angoli.

      Le mura costruite da Aureliano a Roma sono l'esempio più perfetto dell'applicazione delle torri nella fortificazione di una città. Le torri sono in tutto 383, disposte alla distanza regolare di m. 29,60 (100 piedi) una dall'altra, di pianta rettangolare (salvo rare eccezioni) e fornite di una camera superiore coperta, al livello del cammino di ronda, entro cui si ponevano le artiglierie (arcuballistae),  due per ogni torre e poste negli angoli per avere un largo giro di azione. A questo scopo la camera fu fornita di quattro finestre larghe e basse, due sul fronte e due sui fianchi. L'attico fu decorato con una cornice di mattoni, e spesso la copertura fu fatta con un tetto in luogo della terrazza scoperta.
      TORRE DEL VALLO DI ADRIANO

      LE TORRI DEI LIMES

      Dal I sec. d.c le legioni romane ebbero legioni e distaccamenti nelle province periferiche per proteggere le frontiere dell'impero romano. Ben trenta legioni erano di stanza tra gli estuari del Reno e del Danubio, lungo la frontiera settentrionale dell'impero tra Rheinbrohl (presso Bonn) e Kelheim sul Danubio. Era la protezione dei Limes imperiali.

      Ogni tratto di frontiera era seguita da una strada presidiata a intervalli regolari, da forti (castella), fortini (burgi) di unità ausiliarie, oltre a torrette (turris) e postazioni di avvistamento/controllo (stationes), dove erano distaccate unità di truppe ausiliarie o fortezze legionarie.

      Raffigurazioni del limes romano compaiono nei fregi della Colonna Traiana e in quella di Marco Aurelio, dove compare la riva destra del Danubio, con posti di guardia, forti, fortezze, difesi da palizzate, cataste di legna e covoni di paglia che, se incendiati, servivano come postazioni di segnalazione avanzata.

      INTERNI DI UNA TORRE DI GUARDIA
      I Romani costruirono un gran numero di torri lungo il limes dell'impero, per collegamento fra i diversi castra e castella, talvolta circondandole con un muro e rafforzandole con spalti, come veri fortini. Erano situate a breve distanza (un miglio o un miglio e mezzo), in modo da poter vedere facilmente i segnali ottici fra una e l'altra. In Africa si trovano in qualche punto riunite in gruppi di tre, e hanno la forma rotonda; in Dacia e in Germania sono invece quadrate e assai robuste; la parte superiore era quasi sempre costruita in legno, con copertura a tetto.

      Le parti più antiche del Limes erano costituite da una palizzata con un fossato e bastioni. In altri luoghi considerati più pericolosi si ergevano mura di quasi 3 m di altezza e 1 m di larghezza. Lungo i 548 km di lunghezza dei Limes germanico-retici c'erano molte torri di guardia.

      Le torri di legno più vecchie vennero sostituite da torri di pietra verso la metà del II sec. d.c.. I resti delle fondazioni sono spesso ancora visibili e visitabili. Le torri di avvistamento in pietra erano per lo più rotonde, diverranno quasi esclusivamente quadrate nel XVI sec. accanto ad altre rotonde o di diversa foggia.

      Un esempio di ricostruzione di Limes e di torre di guardia può essere visto nel Saalburg vicino a Francoforte. La piattaforma della torre era raggiunta da scale all'interno della torre, e queste potevano essere rapidamente sollevato nel caso di un attacco. Negli anni sorsero insediamenti presso le torri di guardia motivati inizialmente dai mercanti che fornivano merci ai legionari. Molti dei nomi di questi luoghi ricordano ancora le loro origini romane.

      L'impero romano costruì numerose torri, facenti parte di un grande sistema di comunicazione, come ad esempio le torri lungo il Vallo Adriano in Bretagna. In questo caso ogni torre era in linea con la torre successiva, con cui comunicava attraverso un sistema "telegrafico" o "semaforico", nel senso che dalle torri venivano fatti segnali con fuochi, fumo, specchi ed anche segnali sonori, trasmessi da ogni torre a quella vicina per enormi distanze.

      Aureliano fece iniziare le nuove mura nel 270, e finirono dopo pochi anni, sotto l'imperatore Probo. Furono costruite in mattoni, alte circa 6 m. e spesse 3,50, dotate ogni cento piedi (circa m 29,60) di una torre quadrata, con attico per le baliste. Le porte più importanti erano costituite di due ingressi gemelli, coperti ad arco, con paramento in travertino ed inquadrati da due torri semicircolari, mentre le porte secondarie avevano un solo arco senza rivestimento tra due torri quadrate.

       Una frontiera simile fortificata come le Limes è stata costruito in Gran Bretagna - il Vallo di Adriano - delimitando l'area a nord del paese.

      TORRE FLAVIA

      LE TORRI COSTIERE

      I primi esempi di torre costiera risalgono appunto all'epoca romana, quando il ruolo centrale dell'impero, in rapporto all'intera area mediterranea, diventa garanzia di difesa anche per i popoli da esso dominati.

      Torre Flavia a Ladispoli nè è un triste esempio, triste perchè pur essendo una torre di avvistamento romana nessuno se ne occupa ed è destinata al crollo per l'ignoranza e la negligenza di chi dovrebbe occuparsene.

      Comunque aumentando le incursioni nemiche, nel VI secolo d.c., dopo la conquista bizantina del nord-Africa, venne eseguita una graduale fortificazione delle aree litoranee centro-meridionali del suolo italico con un sistema organico di torri di vedetta e di avvistamento, spesso edificate in prossimità di antiche torri romane ripristinate e riarmate, il che permise anche la loro conservazione.

      L'accesso alla torre avveniva mediante una scala volante o fissa ed un piccolo ponte levatoio collocati entrambi sulla parete a monte, poiché la parete rivolta verso il mare è cieca (dal momento che è la più esposta al pericolo) e le due laterali sono munite solo di feritoie, mentre l'accesso al terrazzo è sempre ricavato nello spessore della muratura, solitamente sopra la porta d'ingresso.

      Spesso disponevano di caditoie, delle aperture grigliate  realizzate quasi sempre negli sporti e nei ballatoi della "controscarpa", che servivano a riversare sugli assalitori sassi, liquidi bollenti e materiale infiammato.

      RICOSTRUZIONE DI UNA TORRE DI VEDETTA

      LA TORRE OLANDESE 

      Il 1° gennaio 2003 in Olanda sono state rinvenute delle fondazioni di una vedetta, costruita dai soldati romani sulle rive del Reno circa 2000 anni fa. Si crede che la vedetta dovesse essere parte di una catena di postazioni d'osservazione a guardia del fiume, che delimitava i confini dell'Impero Romano alle sue propaggini più estreme.

      Si ritiene che le torri fossero usate per monitorare gli sbarchi lungo il fiume e per far risuonare gli allarmi se tribù germaniche ostili avessero minacciato un attacco.

      TORRE OLANDESE
      Le torri erano costruite ad intervalli compresi tra i 500 ed i 1500 metri di distanza, abbastanza ravvicinati da consentire ad ogni guardia di fare segnali all'altra, ed allertare i soldati che stazionavano nelle basi più vicine per qualsiasi pericolo o evenienza lungo le rive del fiume.

      Gli archeologi datano la torre a circa il 50 d.c., regno dell'Imperatore Claudio.
      La torre dovrebbe essere stata quadrata, 3 m. su ogni lato e 5 di altezza. Distaccamenti di tre o quattro soldati venivano probabilmente inviati alla torre dalle più vicine basi militari, tracce delle quali ancora sopravvivono.

      I soldati incaricati dei controlli alle torri dovevano probabilmente essere un misto di legionari romani e truppe ausiliarie, reclutate presso altre regioni di frontiera dell'impero.

      "I Romani arrivarono per la prima volta in quest'area ai tempi di Cesare", attorno al 53 a.c., l'occupazione romana non fu pesante, ma sufficiente a portare l'ordine... Usavano forti di legno molto funzionali, che venivano montati e smantellati a seconda delle necessità".

      Il fiume era utilizzato per scopi commerciali dai romani e dalle tribù germaniche locali, conosciute ai romani come "Batavi"; ed i punti di osservazione possono avere giocato un ruolo anche nell'assicurare il pagamento dei pedaggi alle imbarcazioni di passaggio.

      Ma il soldo, si sa, lo intascavano sempre i Romani.


      Da un punto di vista tecnico la torre costiera non è tanto dissimile da quelle precedenti latine ed etrusche, ma la novità sta nell'efficacia della funzione, grazie a una perfetta organizzazione che permette di garantire un ottimo sistema di difesa in qualunque momento si verifichi l'attacco nemico.

      L'avvicinamento di navi sospette è, infatti, annunciato di giorno con l'elevazione di colonne di fumo, di notte con l'accensione di fiaccole, il cui numero di fuochi deve essere pari al numero delle imbarcazioni nemiche avvistate.

      È a tale periodo, pertanto, che risalgono le cosiddette torri "semaforiche", utilizzate quotidianamente - e per un intervallo di tempo che copre l'arco dell'intera giornata - per dare l'allarme in caso di avvistamento del nemico.

      MURA E TORRI ROMANE (Spello)

      LE TORRI PRIVATE

      Infine vanno ricordate le torri che si innalzavano spesso nelle ville, come quella famosa degli Horti di Mecenate in Roma, e quella della villa toscana di Plinio, per godere un ampio panorama al disopra della massa verde dei parchi.

      Lì i due personaggi facevano porre le comode sedie di vimini mentre uno schiavo gli porgeva un calice di vino e un altro pizzicava leggermente una lira. Erano le "tranquille dimore degli Dei" ammirate dall'alto delle torri.

      LUCIO PLOZIO GALLO

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      Nome: Lucius Plotius Gallus
      Nascita: II - I sec. A.C.
      Morte: I sec. A.C.
      Professione: Maestro di retorica



      SCUOLE DI RETORICA:

      - ASIANESIMO
      - ATTICISMO
      - LE POLEMICHE RETORICHE: Apollodoro di Pergamo, Teodoro di Gadara
      - SCUOLA RETORICA LATINA DI L. PLOZIO GALLO


      "Svetonio, sulla testimonianza di Cicerone (AV. c.c. 94), in una lettera che più non esiste, ci narra che Lucio Plozio Gallo fu il primo ad insegnare in Roma la rettorica in lingua latina. Lo fece con molta fortuna, ed ebbe un gran concorso di uditori."

      (Carlo Rollin - Storia antica e romana)

      Occorre anzitutto, per bene intendersi, distinguere l’oratoria, cioè l’eloquenza praticata, dalla retorica che è la scienza del bel parlare e delle regole teoriche che la competono.
      In età repubblicana, in assenza di una scuola specifica di questa disciplina, la formazione dei giovani venne dall’esempio concreto degli oratori e dalla stesura di alcuni manuali. Ogni riferimento retorico sembrava però appannaggio esclusivamente greco.

      Nell'86-82 a.c., ma secondo altri nel 90 a.c., comparve la Rhetorica ad Herennium, il più antico trattato di retorica in latino a noi pervenuto, nonché una delle più importanti opere sulla struttura e gli usi dell'arte della persuasione. Venne attribuito talvolta ed erroneamente a Cicerone, ma l'autore è sconosciuto.
      Viceversa Cicerone scrisse De inventione (Sul ritrovamento), tra l'85 e l'80 a.c., il primo di due libri di una descrizione globale della retorica, tuttavia mai completata. Cicerone preferì dedicarsi al De oratore, un'opera che servì, nonostante il carattere frammentario, come testo d'insegnamento fino al Medioevo. 

      In effetti Lucio Gallo fu il primo che aprì a Roma una scuola di retorica latina, si ritiene nel 91 a.c., e che venne frequentata da molti alunni, nonostante l'editto di Licinio Crasso (nel 92 a.c. censore con Domizio Enobarbo) e appunto di Domizio Enobarbo, contrario alle scuole latine, aperte da appena un anno a Roma, perché, contrapponendosi a quelle greche, degeneravano in "fucine di impudenza e di audacia". 

      La loro censura fu però piena di screzi: Domizio era favorevole al mantenimento degli antichi costumi romani, basati sul rigore e la semplicità, mentre Crasso amava l'arte ed i lussi, tanto che disse del collega che aveva la barba di rame, una bocca di ferro ed un cuore di piombo.
      Cicerone (106-43 a.c.) scrisse che Domizio non fu un grande oratore, ma che era sufficientemente abile da riuscire comunque a mantenere una buona fama.

      INSTITUTIO ORATORIA

      LA CENSURA

      Tale censura derivava da un tema squisitamente politico poichè il principale requisito per accedere alle cariche politiche era possedere un'istruzione retorica in greco, come tutti i giovani dell'aristocrazia romana. Ciò si otteneva solo tramite un insegnamento privato tenuto da maestri greci, come si svolgevano in casa dello stesso censore Licinio Crasso per un pubblico esclusivamente aristocratico. Le 'nuove' scuole di retorica latina invece erano pubbliche come i loro corsi, e i giovani vi accedevano liberamente. 

      Svetonio parla infatti di un nuovo genere di istruzione, fuori dalla consuetudine e dal mos maiorum, pertanto Licinio Crasso, insieme al collega Domizio Enobarbo, impose la chiusura di scuole che destabilizzavano l’ordine costituito, tanto più che l’arte della retorica poteva consentire l’accesso al cursus honorum anche a fasce sociali inferiori.

      Catone il censore aveva aveva già contrapposto fieramente i mores Romani all'ellenismo, tanto più che c'era stato l’allargamento della cittadinanza agli Italici e pertanto l’accesso di questi notabili alle magistrature. In più, il versamento di una retta, e la caduta necessità del bilinguismo, apriva dette scuole anche ai membri del ceto equestre atto a istituire, nei tribunali, un controllo politico sull’operato dei senatori.

      Comunque la censura del 92 ebbe breve durata: il retore Plozio risulta nuovamente attivo tra l’88 e l’87 a.c. come primus Romae Latinam rhetoricam docuit,
      Principale fonte sull'editto di censura è Svetonio, in un passo del de grammaticis et rhetoribus, posto poi nelle Noctes Atticae di Aulo Gellio, e pure le riflessioni di Cicerone nel De oratore e, fra l'altro, espresse proprio dal censore del 92 Licinio Crasso, principale protagonista del dialogo.
      Lucio fu secondo alcune fonti maestro di Cicerone, a cui insegnò per l'appunto la buona retorica, in contrasto però con una lettera di Cicerone inviata ad un certo Marco Titinnio, in cui si rammarica di non aver potuto frequentare da giovane la scuola di Plozio Gallo.

      Plozio Gallo compose però, per il console romano Lucio Sempronio Atratino, l'accusa "De vi" contro Marco Celio Rufo, difeso da Cicerone, di cui tra l'altro era stato discepolo, il che potrebbe anche supporre che il rapporto tra Lucio e Cicerone si fosse guastato (o non ci fosse mai stato). Celio Rufo venne infatti accusato di brogli elettorali da Lucio Sempronio per istigazione di Clodia, di cui era stato l'amante, venne difeso da Cicerone (con l'orazione Pro Caelio del 56 a.c.) e assolto.

      "Il primo tra' retori latini fu Lucio Plozio Gallo. I dotti autori della Storia Letteraria di Francia I hanno annoverato tra'loro uomini illustri solo pel soprannome di Gallo ( t. 1 ; p. 83 ). Ma già si è mostrato altrove che argomento troppo debole è questo a provarlo nativo della Gallia transalpina. 

      Svetonio ci ha Conservata ( De Cl. Rhet. 2 ) parte di una lettera di Cicerone a Marco Titinnio, in cui cosi gli scrive "Io certo ricordomi che nella mia fanciullezza prima di ogni altro prese a insegnare latinamente un cotal Lucio Plozio, a cui facendosi gran concorso, poichè innanzi a lui si venivano esercitando, io dolevami che a me non fosse permesso, Ma me ne tratteneva l'autorità di dottissimi uomini i quali pensavano che da' Retori Greci era meglio si esercitassero gli ingegni.

      E convien dire, che uomo colto ed eloquente fosse creduto Plozio perchè Cicerone stesso altrove narra (Pro Archia c 9), che il celebre Mario amavalo e coltivava!o assai, perchè egli potesse un giorno narrare le cose da lui operate. Quintiliano dice che tra i Retori Latini, che negli ultimi anni di Crasso tennero, fu singolarmente insigne Plozio; e altrove dice, che egli scrisse un libro intorno al Gesto.
      "
      (Storia della letteratura italiana dell'Abate Girolamo Tiraboschi - 1887)

      SEPOLCRETO DI S. URBANO

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      MAUSOLEO DI S. URBANO

      DA :VANDALI SULL'APPIA ANTICA
      Muore la regina delle strade (Fonte)
      Nell'ex essiccatoio c'è da anni una concessionaria: scelta anche da Provincia e Viminale
      di ALBERTO CUSTODERO

      Abusivismo edilizio selvaggio incentivato da tre condoni: 55 anni dopo le accuse che Antonio Cederna scagliava ai "Gangster dell'Appia Antica", nulla è cambiato. Le ville dei vip sono diventati centri di catering senza licenze commerciali per feste con tanto di fuochi artificiali. Il degrado della regina viarum, e l'impotenza dello Stato nel perseguirne lo scempio, proseguono fra l'indifferenza generale che fa sì che una concessionaria automobilistica occupi da anni, abusivamente, un pezzo del parco accanto alla tomba di Priscilla.

      Proprio nei giorni scorsi il degrado dell'Appia Antica è stato denunciato dal "New York Times", che ha addirittura evocato la violenza dei "vandali" per descrivere lo stato di abbandono in cui versa la queen of roads. Simbolo dell'incapacità della pubblica amministrazione laziale di affrontare il fenomeno dell'abusivismo, in una delle aree di più alto interesse archeologico e storico al mondo è, oggi, il "Centro motoristico Appia Antica snc" ricavato nell'ex essiccatoio Tabacchi.

      IL FORNO ABUSIVO COSTRUITO SUL MONUMENTO
      Mentre perfino i quotidiani Usa denunciano il degrado dell'Appia Antica, nessuno - politici, poliziotti, funzionari ministeriali e della Provincia, magistrati - sembra essersi mai accorto di questo scandalo ambientale e storico: il parco dell'Appia Antica deturpato da una concessionaria Hyundai che occupa senza titolo - non avendo mai firmato un contratto di affitto - un immobile del Comune.

      Questa espone le auto su un'area di 10000 m espropriata dal municipio, nel marzo scorso, perché utilizzata abusivamente. E che non ha mai ottenuto l'autorizzazione di inizio attività perché ha sempre avuto i pareri negativi dall'Ente Parco, dalla Soprintendenza archeologica e dai vari uffici comunali. Con in mezzo due sentenze, del Tar e poi del Consiglio di Stato, che le hanno sempre dato torto. In una situazione igienico-ambientale del tutto fuorilegge: manca il permesso della Provincia per gli scarichi e l'emissione fumi, mentre l'allacciamento all'acqua è "di fortuna", grazie al parroco della chiesetta del Domine Quo Vadis (Di fortuna? Che interessi ha il parroco? Nota nostra).

      Eppure, da 10 anni, il centro motoristico di Salvatore Bonanno, fra il sepolcro di Geta e la sede del Parco, nel cuore della valle della Caffarella sulle rive dell'Almone e a breve distanza dalle catacombe di San Sebastiano, non solo è sempre là, ma incredibilmente, nell'aprile scorso, ha ottenuto dalla Provincia e senza bando pubblico (grazie a una scrittura privata), l'appalto della manutenzione delle auto della polizia provinciale.

      La polizia della Provincia che dovrebbe perseguire "le violazioni urbanistiche edilizie" e provvedere alla "tutela dei vincoli archeologici e paesaggistici", invece di inviare i propri agenti a far rispettare al centro le leggi in materia ambientale e commerciale, si è convenzionata con quella concessionaria con un contratto esclusivo per riparare le proprie jeep.




      IL MAUSOLEO DI SANT'URBANO

      Il mausoleo di Sant'Urbano, posto al IV miglio della via Appia Antica, non lungi dalla tomba di Cecilia Metella, è fronteggiato dai resti del tempio di Giove, un monumento in laterizio del II sec. d.c., eretto su podio e con cella tricora absidata preceduta da un quadriportico.

      Il mausoleo, anch'esso del II sec. d.c., è eseguito in opera laterizia, con gradinata frontale. Sotto la direzione di Rodolfo Lanciani, gli scavi, condotti dai proprietari Lugari alla fine dell'800, rinvennero i resti di una grande villa, la Domus Marmeniae, della matrona romana Marmenia, che, convertitasi al cristianesimo,avrebbe accolto le spoglie di Sant'Urbano, vescovo e martire, già custodite nelle Catacombe di Pretestato, anch'esso posto sull'Appia Antica. 

      "A circa 300 m dall'Appia antica. vennero messe luce le Strutture di una villa rustica, conservate per un di poche decine di centimetri di elevato. Il diverticolo scoperto nel 1880 conduceva direttamente dalla via Appia antica all'ingresso della villa (chiamata dai Lugari "domus"). dove un vasto atrio precedeva un grande peristilio su cui si affacciavano a NE un piccolo impianto termale, a NW una serie di cinque stanze a SW la pars rustica con magazzini ed un granaio con circa trenta grandi dolia interrati, infine a SE un ampio giardino rettangolare. Per l'approvvigionamento idrico vi erano due cisterne poste a S e a W della villa."


      Vorremmo sapere che fine ha fatto la villa di Marmenia, tanto più che nel 1950 sull'Appia Antica venne concesso il permesso di costruire dei villini, con tutto che i vincoli già esistevano ampiamente all'epoca!

      Comunque alla morte di Marmenia, la Domus divenne proprietà della Chiesa che ne fece un cimitero, infatti vi sono ancora frammenti di sarcofaghi. Il monumento è costituito da un ipogeo a due porte con un vasto ambiente quadrato con tre absidi, una semicircolare e due rettangolari. e da una sala superiore, dove si effettuavano i riti religiosi. 

      Originariamente vi si accedeva con una scalinata all'interno del vestibolo, che fu demolita durante le persecuzioni di Diocleziano, per distruggere i luoghi di riunione dei cristiani, non risulta però che i cristiani si riunissero nè nei mausolei nè nelle catacombe, come erroneamente è stato diffuso nei tempi passati. Sembra che alla facciata venisse invece aggiunto poi un portico a 4 colonne, di cui restano frammenti di basi e la trabeazione. Semmai avrebbero demolito la villa, ma a questa non si fa cenno.

      Nel XIII secolo il sepolcro fu trasformato dai Borgiani in una torre fortificata, di cui si notano de resti nella parte superiore del monumento. nei pressi sono stati rinvenuti una grande vasca e una grossa cisterna ambedue romane.

      STRADA ROMANA CHE PORTA AL MONUMENTO


      L'ACQUISTO DEL MAUSOLEO

      Oggi la proprietà che include il Mausoleo e la villa Marmenia, ma anche una strada in basolato coeva dell'Appia, rappresenta un sito archeologico di eccezionale importanza, scavato nel corso dell'Ottocento dal Lugari cui è intitolata la strada di accesso presso la via Appia.

      Già nel 1965 (quando non era ancora di Anzalone), Paese Sera, a proposito di quelle speculazioni edilizie, titolava così: "Stanno costruendo una casa nel rudere". Da allora, però, gli abusi sono proseguiti pressoché indisturbati, nonostante dal 1970 la pubblica amministrazione avesse tentato di fermarli. L' area storica che comprende il sepolcro, sulle cui mura romane è addossato un barbecue, è diventata un giardino privato: all'interno della cella funeraria è stato ricavato un piccolo spazio per feste, con tanto di tinello moquettato e cucinetta.

      Per costruire una piccola piscina sono stati rimossi preziosi pezzi di basolato. Per quegli abusi, il proprietario dell' epoca, Gianfranco Anzalone, fu denunciato in procura dai carabinieri. Il processo, però - l' accusa fu sostenuta dall' allora pm Giovanni Ferrara - finì con un nulla di fatto: il pretore Roberto Mendoza, nel 1987, assolse Anzalone: una parte dei reati si estinse grazie a un condono, un'altra per un'amnistia. Il lunghissimo contenzioso con la Soprintendenza si concluse con un nulla di fatto. Strano anche questo, perchè le edificazioni sull'Appia Antica, sia pure di una piscina, non prevedono nè condono nè amnistia.



      STORIA DEL SEPOLCRO DI SANT'URBANO, MARTIRE CRISTIANO

      In via dei Lugari 3 - spiega la Soprintendenza - si erge un edificio funerario di età imperiale romana generalmente attribuito all’età antonina (o del IV secolo come sostenuto da un’indagine archeologica del 1978-1979 condotta dall’Istituto di Norvegia a Roma) e definito Sepolcro di Sant'Urbano perchè considerata la sepoltura del martire cristiano che fu papa dal 222 al 230.

      Si tratta di un sepolcro in cortina laterizia la cui parte più importante è un’aula quasi quadrata, provvista sui lati di due profonde nicchie quadrangolari e sul fondo di un’abside. Ad essa si accedeva da un pronao e da una gradinata. Sotto il pronao una porta dà accesso ad una camera inferiore. Sul fronte e sul retro della struttura è stato ritrovato un asse stradale in basoli che si distaccava dalla via Appia.



      STORIA DEI PROPRIETARI DALLA FINE DELL'OTTOCENTO A OGGI

      Il primo proprietario di cui si è certi scavando all'indietro nel tempo negli archivi catastali di Roma fu nel 1870 il principe Alessandro Torlonia (sposo dell'infanta Beatrice di Borbone-Spagna, zia del futuro re Juan Carlos I e nipote della regina Vittoria). Nel 1879 i fratelli Giambattista e Bernardo Lugari acquistarono dai Torlonia un vasto appezzamento di terreno su una parte del quale condussero, a scopo filantropico, indagini archeologiche per circa quindici anni a partire dal 1880.

      Il cardinale Lugari muore nel 1914 e lascia la proprietà in eredità ai suoi cinque nipoti i quali, dopo diversi passaggi, vendono il sepolcro nel 1981 all'avvocato Anzalone. Attualmente il monumento è della vedova Anzalone, Marisa Antonietta Gigantino, senza figli, che ha deciso di venderlo alla Soprintendenza di Roma. Il mausoleo di Sant'Urbano è stato ora acquistato dal Parco Archeologico Appia Antica (Mibact) dalla proprietaria, Marisa Antonietta Gigantino, vedova dell'avvocato Gianfranco Anzalone ed erede del monumento.

      Il monumento venne studiato dall'archeologo di Oslo Johann Rasmus Brandt (direttore del Norwegian Institute of Rome dal 1996 al 2002). il monumento, secondo per importanza solo a quello di Cecilia Metella, è completamente nascosto dalla boscaglia. Per questo non esistono foto ad eccezione di una risalente a molti anni fa dell'Archivio Alinari. Per la prima volta Repubblica, invitata dalla proprietà, è entrata con la telecamera nell'area ed è in grado di documentare splendore e degrado del sito archeologico che risale all'Età Costantiniana (306-363 d.c.).

      In questi dieci anni l'imponente edificio è stato abbandonato e versa in grande degrado. E' la seconda volta che si ricorre, per recuperare un bene archeologico, alla trattativa privata anzichè il diritto di prelazione - essendo l'area vincolata - o l'esproprio (e vorremmo ci spiegassero perchè). La prima volta si trattò del complesso di Santa Maria Nova, al V miglio dell'Appia Antica. 

      Il mausoleo farà da monumentale ingresso alla Villa dei Quintili. Si parla di 4 ettari di verde, un casale medievale costruito su un'antica cisterna romana, ambienti termali romani dai preziosi mosaici, con scene di gladiatori e di giochi circensi. 

      La prima offerta della proprietaria del mausoleo di Sant'Urbano è stata di 1.200.000 euro. 
      Alla fine il prezzo concordato è stato di 491 mila euro.



      LO STUDIO DELL'ARCHEOLOGO NORVEGESE 

      Johann Rasmus Brandt diresse gli scavi nel sito archeologico. "La scoperta del monumento avvenne per caso durante una passeggiata sull'Appia Antica cominciata dai Colli Romani. Ottenemmo i permessi, allora, da un nipote del cardinal Lugari che ci disse che un custode si era rubato preziosi oggetti. Scavammo e studiammo l'area in due fasi nel '78 e nel '79.

      Scoprimmo che il monumento era stato costruito come sepolcro in Età costantiniana nel passaggio tra paganesimo e cristianesimo. Aveva poi avuto una modifica nel Medioevo, diventando casa-fortezza, per poi essere trasformato in una casa agricola con rimessa per carrozze e magazzino in epoca più recente. La terza fase di studio, tuttavia, ci fu negata dalla figlia del nipote del cardinale in quanto stava perfezionando la vendita dell'edificio ad Anzalone. E così lo studio rimase incompiuto e non fu mai pubblicato.

      Il professor Brandt cominciò gli studi sul mausoleo la domenica delle Palme del 1978. "Ero entrato nella proprietà con un gruppo di studenti norvegesi e danesi per cominciare a tagliare cespugli e boscaglia. Ma dopo poche ore fummo circondati da carabinieri armati di mitra con l'ausilio di cani giunti a bordo di Giuliette e atterrati con un elicottero. Avevano avuto la spiata che fossimo le Brigate Rosse che avevano appena rapito Aldo Moro. Ci volle poco per chiarire l'equivoco". 



      AVENTICUM (Svizzera)

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      AVENTICUM

      GLI ELVEZI

      Aventicum, situata nell'altipiano svizzero, fu in età romana la capitale dell'Elvezia, nonchè suo centro politico, religioso ed economico. Gli Elvezi erano un popolo celtico costituito a centri tribali che, nel 61 a.c. decisero, si suppone perchè attaccati dalle tribù germaniche, di migrare dall’Altipiano svizzero (tra la zona alpina e il massiccio del Giura) alla Saintonge (antica provincia francese), per cui si prepararono ad attraversare il territorio del popolo celtico dei Sequani.

      Così le tribù galliche dei Sequani chiamarono Cesare, allora governatore della provincia romana della Gallia Narbonense, per difenderle dagli Elvezi.

      Cesare, lasciato il suo luogotenente Tito Labieno a presidiare Ginevra, disponendo in quel periodo solo di una legione, tornò nella vicina provincia della Gallia cisalpina, dove recuperò le tre legioni di stanza ad Aquileia, ed arruolate altre due nuove legioni (la XI e XII), tornò in Gallia a marce forzate.

      In realtà Cesare disponeva di soli 29.000 uomini mentre gli Elvezi ne avevano ben 368.000 uomini di cui 92.000 abili alle armi. Ma si diceva che un soldato romano valesse 10 barbari e poi Cesare era un geniale stratega, per cui incoraggiò i suoi uomini e si preparò alla battaglia.

      Nonostante fosse intervenuta la morte di Orgetorige, organizzatore e capo della migrazione, gli Elvezi decisero di intraprendere ugualmente il lungo viaggio, distruggendo prima tutti i loro villaggi e i loro beni, per non aver la tentazione o la possibilità di tornare indietro. E non fu un'iniziativa felice. Questa era una delle differenze tra romani e barbari, un romano non doveva costringersi a fare qualcosa, se un romano decideva la sua volontà lo portava sino in fondo.

      Scontratisi con l'esercito romano nel territorio degli Edui, gli Elvezi vennero sconfitti nella Battaglia di Bibracte e i superstiti, circa 110.000 (su 368000) furono costretti a tornare sull’Altopiano, dove avevano distrutto i loro villaggi e i loro beni.

      Cesare scrisse che nel 52 a.c. circa 8.000 Elvezi partirono poi, con tutte le altre popolazioni celtiche della Gallia) in soccorso di Vercingetorige assediato dai Romani, guidati ancora da Cesare, ad Alesia, per essere però di nuovo sconfitti.

      MARCO AURELIO


      AVENTICUM

      La città antica sorgeva nell'attuale area dell'Avenches, (Distretto Canton Vaud), a sud del lago di Morat, nella pianura della Broye, a un'altitudine di circa 445 m. Aventicum fu fondata ex novo nei pressi di una zona sacra, frequentata fin dall'età del Ferro. A partire dall'inizio della nostra era e attuato in questo luogo un eccezionale programma di sviluppo urbano, destinato a durare per più di due secoli e incentrato su due poli che si completano a vicenda: il foro e la zona occidentale dei santuari. Concepito secondo il modello della città di Roma, questo progetto e iniziativa dell'elite locale che detiene il potere politico e sarà realizzato in tutta la sua ampiezza dopo l'elevazione d'Aventicum al rango di colonia romana nel 71 d.c.

      Aveva una superficie di circa 120000 mq con 20000 abitanti, e si trovava in un sito strategico posto sulla strada che collegava le rive del lago Lemano alle città romane di Vindonissa (ex campo legionario romano), e Augusta Raurica. Essa era anche collegata per via fluviale, tramite un canale, al lago di Morat.

      Il lago Lemano, nome di origine greca, fu reso celebre da Giulio Cesare quando, nel 58 a.c., partì da Genava e dal lacus Lemanus per combattere gli Elvezi. Genava (Ginevra) viene citata da Cesare appunto per il suo passaggio in questa città nel De bello gallico. Volendo impedire il passaggio degli Elvetici, Cesare rese inagibile il ponte sul Rodano. Con l'insediamento provvisorio delle truppe romane nel 58 a.c., l'oppidum si espanse pian piano diventando prima un vicus e poi una città romana

      I numerosi reperti rinvenuti nel corso degli scavi archeologici sono esposti presso il Musée romain d'Avenches, collocato nella torre dell'anfiteatro romano. Tra i reperti spiccano un organo idraulico antico quasi completo e soprattutto il celebre busto di Marco Aurelio (121 - 180), realizzato attorno al 180 d.c., scoperto nel 1939 all'interno della rete fognaria di un tempio.

      EPIGRAFI ROMANE


      LE VIE DI COMUNICAZIONE

      La città fu un importante nodo stradale dell'epoca, perchè la via svizzera passava per Avenches (parte di Aventicum e ospitante l'anfiteatro romano), Morat (oggi comune del Canton Friburgo), Chiètres (Cantone Friburgo) e Kallnach (nel cantone di Berna), e si dirigeva verso Soletta (capitale del Cantone omonimo) e verso Windisch (comune del Canton Argovia), estendendosi lungo il margine orientale del Seeland (Svizzera nord-occidentale)..

      Una seconda strada romana traversava il Seeland verso Witzwil, tra i laghi di Neuchâtel e di Morat. Dopo Petinesca (sito archeologico romano), una biforcazione, passando per le Gole del Taubenloch, attraversava il Giura verso l'Europa settentrionale, oltre Augusta Raurica (odierna Augst).



      GLI EDIFICI

      Aventicum si accrescerà per quasi tre secoli secondo il piano stabilito all'epoca della sua fondazione nel primo decennio d.c, presenta un reticolo ortogonale di strade che suddividono il territorio in isolati di dimensioni regolari. L'orientamento generale di questo piano e dettato da due vie principali perpendicolari, nel cui punto d'intersezione si trova il foro. La creazione di un muro di cinta verso il 70 d.c. determinerà i limiti del territorio cittadino per i secoli a venire. A partire dall'epoca tiberiana (20-30 d.c),
      Avenches conosce un intenso sviluppo dell'edilizia monumentale, in particolare nella zona del foro. Alla metà del I sec. risale la costruzione delle prime grandi dimore urbane, le domus, mentre l'occupazione dei quartieri periferici s'intensifica con la creazione di zone artigianali. Nel II sec, la realizzazione di vasti programmi edilizi trasformerà profondamente il paesaggio urbano: a quest'epoca appartengono i principali monumenti pubblici (teatro, anfiteatro) e religiosi (santuario di
      Cigognier, tempio di Grange des Dimes, tempio di Lavoex).

      Alla fine di questo stesso secolo, lo sviluppo monumentale della città raggiunge il suo apogeo. Il III sec. non vede che poche nuove realizzazioni, ma le trasformazioni apportate a determinati
      monumenti sono comunque indice di un certo livello di vita. Aventicum denota chiari segni
      di declino a partire dal IV sec.

      DESCRIZIONE

      La città romana confinava a sud ovest con una zona sacra gallica, che continuò a servire da piazza per i comizi del popolo. Essa venne costruita su modello romano con un decumanus maximus che intersecava ortogonalmente un cardus maximus.
      Da queste due vie si dipartivano diverse strade parallele ma più strette, che formavano una scacchiera di insulae, (calcolando che dovessero esserci 48 insulae, ne sono state rinvenute 42), ciascuna di m 75 x 110 m, che seguivano l'orientamento del decumano e quello del cardo, invece notevolmente larghi 9 m ciascuno.

      Il foro era posto al centro della rete urbana e venne ristrutturato all'epoca di Tiberio. Un portico posto sopra una galleria seminterrata fiancheggiava l'area sacra, che ospitava le statue della familia giulio-claudia e un tempio. L'area publica, edificata fra il 40 e il 70 d.c., era delimitata a sud da una basilica e una curia.

      A partire dall'80 d.c. l'area subì notevoli trasformazioni e la zona pubblica ospitò un vasto palazzo, forse residenza di un alto funzionario. Altri edifici pubblici, delle terme, le sedi di corporazioni professionali e diversi monumenti onorifici arricchirono, fino al III sec., i dintorni del foro.

      Ancora oggi vi si individuano enormi edifici, come la Porta orientale e una torre della cinta muraria, le terme del Foro, l'Anfiteatro, che poteva contenere fino a 16.000 persone, rovine di templi e il santuario detto del "Cigognier" (Cicognaia).

      Il Museo ospita i reperti più importanti, come la copia del busto aureo dell'Imperatore Marco Aurelio, alta 33 centimetri e pesante circa 1,6 km, mosaici, iscrizioni su pietra e numerosi oggetti della vita quotidiana dei Romani.

      MOSAICO DOMUS


      LA STORIA

      Dopo esser stati sconfitti a Bibracte da Giulio Cesare (100-44 a.c.) nel 58 a.c., gli Elvezi fecero ritorno ai loro territori di origine nell'altipiano svizzero, che furono annessi dai Romani nel 15 a.c..
      Secondo alcuni, Aventicum fu fondata, si dice exnovo, all'inizio del I sec. d.c. come capitale del territorio degli Elvezi appena conquistato, lungo la strada costruita al tempo dell'imperatore Claudio che collegava l'Italia alla Britannia.

      PORTA EST
      Secondo altri era preesistente e questo sembra molto probabile, considerando la preesistenza del monumentale santuario. Inoltre a sud di Aventicum,  sul monte del Bois de Châtel, è attestato, nella seconda metà del I sec. a.c., un oppidum elvetico che doveva costituire la residenza del capo Vatico, del quale si sono ritrovati due quinari d'argento.

      La creazione di Aventicum sarebbe da attribuire al soggiorno di Augusto a Lione tra il 15 e il 13 a.c., per l'organizzazione delle tre Gallie, ma ciò nonostante, gli scavi non consentono di risalire oltre il 5 d.c., datazione del primo porto di Αventicum.

      Esso prevedeva una banchina trapezoidale di 100 m di lunghezza e di 30-35 di larghezza, circondata da un muro per l'alaggio. Una strada lunga c.a 1 km lo collegava alla città. 

      Nel 72 d.c., sotto l'imperatore Vespasiano (9-79), che secondo alcuni studiosi vi soggiornò a lungo (ma la cosa è controversa), la città fu elevata al rango di colonia di diritto romano. Gli abitanti di una colonia romana erano cittadini di Roma con il riconoscimento di tutti i diritti e l'amministrazione veniva controllata direttamente da Roma.

      Nel II e nel III secolo d.c. la città continuò a fiorire, fino a quando, verso il 275/277 gli Alemanni, tribù barbara del sud est della Germania, invasero il territorio, impoverendo ed involvendo la civiltà della città e di tutta l'area, che comunque continuò a essere abitata. Nel IV sec. però Ammiano Marcellino descrive la città come deserta e semidistrutta,. I resti della tarda antichità sono molto rari.



      LA RELIGIONE

      Aventicum trae il nome dalla divinità indigena delle acque Aventia, sicuramente un'antica Dea Madre e si conoscono nell'area, almeno fino ad oggi, una dozzina d'edifici a carattere sacro. Sicuramente iniziò in epoca molto antica come santuario miracoloso con acque salutari, un centro di attrattiva intorno a cui si formò, si presume, la città gallica poi romana.

      SANTUARIO DI CIGOGNER
      Diverse epigrafi mostrano infatti la gratitudine di personaggi romani per la Dea che ha loro concesso una grazia. La Dea, molto diffusa in varie aree, sembra del resto essere stata adorata anche nell'Italia settentrionale in diverse valli, come la Val Camonica. 

      Con il nuovo imperatore Vitellio viene chiesta la morte del padre di tale Iulia Alpinula, sacerdotessa della Dea Aventia, che pur intercedendo per lui, non riuscì a salvare la vita al genitore. Ce ne informa un'epigrafe fatta incidere dalla sacerdotessa inconsolabile.

      Il sito archeologico della città di Aventicum comprende:
      - Le  mura;
      - Tempio della Grange-des-Dîmes;
      - Tempio di Giove Ottimo Massimo;
      - Terme del foro;
      - Il teatro;
      - Il santuario del Cigognier;
      - L''anfiteatro.
      - La torre de la Tornallaz 
      L'insieme della città è tutelato come "bene culturale svizzero d'importanza nazionale.



      LE MURA 

      Sotto Vespasiano la colonia si dotò di una cinta muraria merlata, che racchiudeva 140 ha, lunga  5,5 km, alta 7 m e larga 2,4 m nella parte alta di modo che potessero passarci dei carri.

      Essa era munita di un fossato continuo e comprendeva 73 torri che davano accesso al cammino di ronda, con due porte monumentali a ovest e a est, una porta secondaria a nord est e sicuramente una anche a sud. La porta ad est, che si osserva qua a fianco, è, come si vede, elegante e perfettamente conservata.

      I pali di fondazione del tratto di mura situato in pianura risalgono al 72-77 d.c. La cinta delimitava nel suo insieme un territorio almeno quattro volte più vasto di quello della città e dei suoi sobborghi nella loro più grande estensione. Evidentemente accoglieva territori ancora da scavare.

      LA TORRE CON LE MURA

      LA TORRE 

      Qui sopra invece la celebre Tour de la Tornallaz, l'unica delle 73 torri delle mura romane di Aventicum ad essere scampata alla distruzione.

      La torre rotonda è stata perfettamente restaurata, come del resto le mura. I reperti trovati ad Aventicum sono esposti nel museo romano, situato nella torre medievale che sovrasta l'anfiteatro.


      I SANTUARI

      Ad Aventicum, il cui nome deriva dalla divinità indigena delle acque Aventia, si conoscono ad oggi una dozzina d'edifici a carattere sacrocon due poli distinti: il foro da una parte e il quartiere occidentale dall'altra. Quest'ultimo e a sua volta suddiviso in due zone dalla via principale est-ovest: nella prima si ergono tre templi (Grange des Dimes, tempio rotondo, Derriere la Tour) e il muro di cinta di un quarto edificio sacro, situato all'altezza dell'arena; nella seconda zona, corrispondente alla piana paludosa di Lavoex, I'attivitä edilizia ebbe inizio poco piü tardi, con l'edificazione, verso la fine del I sec. d.c, dell'insieme monumentale costituito dal tempio classico di Cigognier e dal teatro.

      Sui margini di questo complesso sorgeranno nella seconda metà del II sec. due nuovi templi di tipo indigeno. Nel quartiere occidentale, i santuari gallo-romani vengono a sovrapporsi a vestigia sepolcrali d'epoca celtica, alle quali e forse da ricondurre la scelta del luogo di fondazione della futura capitale degli Elvezi.

      A qualche centinaio di metri dalle mura cittadine vi e il luogo di culto di En Chaplix, comprendente
      due mausolei posti di fronte a due santuari di tipo indigeno. Uno di essi venne a rimpiazzare, verso
      la metà del I sec, una struttura a carattere funerario (culto familiare), datata del 15-10 a.c.
      Numerose iscrizioni e rappresentazioni iconografiche testimoniano della devozione degli abitanti


      TEMPIO DI GRANGE-DES-DIMES

      Il tempio risale all'inizio del II sec., versione monumentale del tempio celtico, con un alto podio, una scala frontale e un'alta cella quadrata circondata da un portico, la cui facciata era decorata da un pronaos a frontone tipicamente romano.

      Esso sorgeva al centro di un temenos che si apriva sulla strada diretta verso l'Altopiano. Questa zona sacra era delimitata a nord da un portico e comprendeva altre costruzioni, tra le quali un pozzo.

      Gli cavi più recenti hanno rivelato diverse fasi costruttive anteriori del santuario, tra cui opere in muratura che risalgono alla fine del I sec.; le strutture più antiche, della prima metà del I sec., si presentano sotto forma di fossati paralleli, testimonianze di un recinto di tradizione celtica.



      SANTUARIO DEL CIGOGNER

      SANTUARIO DEL CIGOGNER
      In un temenos (spazio aperto adibito al culto), non lontano dal tempio di Grange-Des-Dimes, a sud ovest, vi era un altro tempio gallo-romano.

      Questo era a cella circolare con 12 colonne e con portico inserito nella facciata.

      Venne edificato poco dopo la metà del I sec., probabilmente eretto sulle rovine di un altro santuario eretto all'inizio dello stesso secolo.

      Forse un tempio eretto alla medesima divinità del precedente santuario oppure, ed è molto probabile, un tempio romano che riproponeva l'antica divinità associandola a una divinità romana con caratteristiche analoghe.



      TEMPIO DI GIOVE OTTIMO MASSIMO

      Due recinti sacri situati a un livello inferiore rispetto all'anfiteatro si svilupparono forse fin dall'epoca augustea; su uno di essi venne in seguito edificato un tempio con caratteristiche simili a quello della Grange-des-Dîmes. Su entrambi i lati della strada costruita sotto Vespasiano, che collegava le porte a ovest e a est ed evitava i quartieri urbani passando a sud, a partire dal 98 d.c., fu edificato un grande complesso monumentale.

      Esso si componeva a nord del santuario detto del "Cigognier" (Cicognaia), cui corrispondeva a sud il teatro. Destinato probabilmente alla celebrazione del culto dell'imperatore da parte di tutti gli abitanti, ma dedicato forse a Jupiter Optimus Maximus e ad altre divinità indigene romanizzate. La cicognaia fa pensare a un'antica Dea Cicogna di origine orientale poi trasposta in Greacia, come la tebana Pelarge, dove la cicogna rappresenta la Dea Madre, o la natura che tutto partorisce.

      Non appare strano quindi che alla Dea Madre i romani opponessero un Dio Padre, re degli Dei. Il santuario (112 x 117 m), che ricalcava la pianta del Tempio della Pace di Roma, comprendeva un tempio di tipo romano, preceduto da un cortile-giardino fiancheggiato su tre lati da portici sopraelevati, accessibili dal pronao con gradinata centrale.

      IL TEATRO

      IL TEATRO
       
      Situato di fronte al santuario, 140 m più a sud, c'era il teatro, con un palcoscenico di dimensioni ridotte come si usava nei teatri gallo-romani, dove le scene erano praticamente inesistenti. Probabilmente anche questo edificio era adibito ad alcune cerimonie del culto imperiale, ma non solo.

      Esso è, ma solo in alcuni punti, molto ben conservato, come si evince da questa foto che mostra parte della facciata, i vomitatoria, alcuni gradini ecc.. Il teatro appare edificato in pietra locale e marmi, questi ultimi oramai asportati quasi totalmente.

      RICOSTRUZIONE DEL TEATRO

      IL CAMPIDOGLIO

      Il cosiddetto Campidoglio, che potrebbe essere una curia, una biblioteca o un tempio dedicato a Minerva, occupava il terzo occidentale dell'insula 23. Venne edificato sotto Traiano sul sito di un bagno pubblico costruito sotto Claudio e poi sostituito dai Flavii con le terme dell'insula 29.

      Gli scavi degli anni '70 hanno riportato alla luce le fondamenta di una cella a nicchia assiale affiancata da due locali  con un atrio ciascuno. Sul lato ovest un deposito sacro, o favissa, a forma di tomba conteneva elementi in marmo provenienti da una statua di Minerva.

      L'ANFITEATRO

      L'ANFITEATRO 

      Restaurato di recente, l'anfiteatro sorge sul fianco est della collina di Avenches, e si ritiene sia stato edificato all'inizio del II sec.. Venne costruito in modo particolare, cioè a struttura piena (per questo si è mantenuto), e contava in origine 20 gradini in terra battuta, sostenuti da assi, ai quali si accedeva mediante 12 rampe di scale in muratura.

      DETTAGLIO DELL'ANFITEATRO
      A est un portale centrale si apriva sull'arena; era affiancato da due entrate collegate alla base delle gradinate da scale. A ovest un passaggio assiale dotato di rampe e di scale conduceva dall'arena al livello della città attuale. A sud l'arena era fiancheggiata da un corridoio di servizio.

      Verso la fine II sec. inizio III sec., l'anfiteatro fu ampliato: il muro perimetrale fu rinforzato mediante un anello in muratura dotato di nicchie esterne; ciò permise di installare 30 gradini di pietra ornati da un portico e resi accessibili da scale e da 18 vomitori. Le entrate orientali furono allora arricchite con una facciata monumentale a tre arcate composta da grosse lastre di arenaria.



      LE TERME

      Le terme, elemento indispensabile di ogni città romana, erano ubicate nelle insulae 18, 19, 23 e 29. Ne sono ancora visibili i resti del frigidario, del tepidario e di una parte del calidario delle terme dell'insula 29 (in località En Perruet); costruite sotto i Flavii. Le terme sono parte integrante del paesaggio architettonico d'Aventicum a partire dall'epoca tiberiana (29 d.c, terme dell'insula 19).

      Le prime terme del foro (insula 23) risalgono alla metà del I sec d.c. Esse comprendevano anche una stanza per bagni di vapore, una piscina scoperta e una palestra. Già sotto Tiberio le terme dell'insula 19, del 29 d.c., erano dotate di attrezzature balneari destinate a chi si recava al contiguo santuario della Granges-des-Dîmes.

      L'architettura termale raggiunge il suo apogeo negli importanti lavori di ristrutturazione degli stabilimenti delle insulae 19 e 29 durante la prima metà del II sec, quando la città si doterà dei maggiori monumenti pubblici. Altri grandi complessi balneari sono stati rilevati nelle insulae 16 e 18. Trattandosi di scoperte di vecchia data, non e a tutt'oggi possibile stabilire se queste strutture fossero installazioni pubbliche o se appartenessero a sontuose domus.



      LE INSULE

      Le prime insule, dell'epoca di Tiberio, erano costruite con armature in legno a traliccio riempito e c'era anche un macello. Fra il 40 e il 70 d.c. le abitazioni vennero ricostruite in pietra. Alcune avevano pavimenti sopraelevati, muri costruiti in legno e mattoni crudi e intonacati con materiali di qualità, con soglie e colonne spesso in pietra.

      Le domus avevano botteghe sul lato della strada e, talvolta un giardino con peristilio. I quartieri iniziarono a svilupparsi anche ai piedi della collina dell'anfiteatro; i pavimenti, di calcestruzzo di calce, erano sopraelevati, i muri erano rivestiti e avevano fondamenta profonde.

      Verso la fine del II sec. e durante il III sec. le domus aumentarono il numero dei locali ma a discapito della loro grandezza. Apparvero i riscaldamenti a ipocausto e le decorazioni a mosaico. Alla fine del I sec. l'aumento della popolazione fece spostare le attività artigianali più inquinanti ai margini della città: ceramisti, fabbricanti di laterizi, conciatori, soffiatori, fabbri, bronzisti, fonditori si insediarono nei sobborghi a nord.

      I cittadini più ricchi occuparono poi anche le zone periferiche, con grandi e lussuose case e giardini, mentre nella seconda metà del III sec. tornarono al centro urbano gli artigiani, ricostituendo una specie di city artigianale commerciale.

      TOMBA GALLO-ROMANA DEDICATA AD ARTIO-DIANA

      NECROPOLI

      Subito oltre le mura, come accadeva in genere nelle città romane, le strade erano affiancate da necropoli con tombe a inumazione e a incinerazione a seconda dei periodi. La città ha un importante ruolo di centro religioso con due poli distinti: il foro da una parte e il quartiere occidentale suddiviso in due zone dalla via principale est-ovest.

      Nella prima zona si ergono tre templi (Grange des Dimes, Tempio rotondo, Derriere la Tour) e il muro di cinta di un quarto edificio sacro, situato all'altezza dell'arena.Nella seconda zona, nella piana di Lavoex, verso la fine del I sec. d.c, sorgono il tempio classico di Cigognier e il teatro. Accanto a questi sorgeranno verso la fine del II sec.due nuovi templi di tipo celtico.

      Nel quartiere occidentale, i santuari gallo-romani vengono a sovrapporsi a vestigia sepolcrali d'epoca celtica. Le sepolture erano di vario tipo: dal cumulo di pietre ai mausolei monumentali scoperti sul sito di In Chaplix, a poche centinaia di metri dalla Porta nordest Aventicum durante la costruzione dell'autostrada.

      Durante il regno di Augusto (27 a.c. 14 d.c), venne edificato il primo santuario romano. Al centro di uno spazio quadrato aperto limitato da un fossato, un santuario di legno del 15-10 a.c. accolse i resti della cremazione di una donna con il suo bambino. Questa tomba fu oggetto di culto, viste le offerte monetarie.

      Sotto il regno di Tiberio (14 a.c.-37 d.c.), il sito di Chaplix aumentò velocemente. sostituendo il santuario con un piccolo tempio gallo-romano e una cappella. La costruzione era in legno, su basi in muratura. La venerazione del santuario va dal I sec. al IV sec. d.c.
       
      Dalla fine del I secolo d.c.. sorge qui una necropoli, delimitata da fossati, nelle vicinanze dei monumenti.
      Dalla metà del I all'inizio del III sec. predomina il rito dell'incinerazione, per cedere poi all'inumazione, che sarà di regola nel tardo impero. 

      La deposizione d'offerte in cibo, d'effetti personali e d'amuleti nelle tombe testimonia della credenza in una certa forma di vita dopo la morte Le tombe per lo più risalgono al II secolo d.c., dopo di che decadde.  Verso la fine del III sec., i monumenti sono stati smantellati per il recupero delle pietre, essendo un sepolcreto pagano non c'erano remore.


      IL MUSEO DI AVENCHES

      "Nel 2013, Christophe Claret ha deciso di realizzare un film 3D in collaborazione con Philippe Nicolet e la sua società di produzione NVP3D, per documentare gli incredibili reperti ora di proprietà del Museo romano di Avenches e della città di Avenches. Il vantaggio di utilizzare il 3D per un film di questo tipo risulta evidente sul grande schermo. Visualizzare gli antichi reperti in tre dimensioni fornisce dettagli impareggiabili anche degli oggetti più piccoli, offrendo al pubblico e ai ricercatori la possibilità di riscoprire la ricca storia di Aventicum. 

      Tra gli oggetti rinvenuti si trova un reperto di inestimabile valore: un busto in oro massiccio dell'imperatore Marco Aurelio, che venne scoperto nel 1939, durante la pulizia di una vecchia tubatura. Questa preziosa scoperta è uno dei soli tre busti romani di questo stile conosciuti in tutto il mondo. Altre statue simili sono state molto probabilmente fuse e trasformate in altri oggetti nel corso dei secoli. A causa del limitato spazio espositivo del museo, molti degli oggetti rinvenuti dell'antica capitale romana non possono essere esposti al pubblico. 

      Christophe Claret spera che il suo segnatempo ispirato ad Aventicum contribuirà a far conoscere gli enormi sforzi compiuti dal Museo romano di Avenches per preservare le vestigia di questa antica civiltà. Desidera inoltre ottenere il supporto del governo svizzero per la costruzione di un nuovo edificio che tuteli ed esponga questo incredibile patrimonio. La storia dell'antica capitale e il film in 3D sono serviti da ispirazione per il segnatempo Aventicum. 

      Al centro del quadrante si trova una replica in oro microincisa del busto di Marco Aurelio. Grazie a una tecnica senza precedenti nell'orologeria, la riproduzione fedele dell'imperatore su scala ridotta, alta meno di tre millimetri, viene ingrandita tramite un'intelligente invenzione chiamata mirascope. Il mirascope è composto da due specchi parabolici identici disposti uno sopra l'altro fino a creare una forma ellittica. 

      Lo specchio convesso sulla parte superiore presenta un foro al centro. Quando si colloca un oggetto al centro dello specchio concavo inferiore, il riflesso dallo specchio superiore crea un ologramma dell'oggetto stesso, che appare quasi due volte più grande di quanto è in realtà. Grazie all'effetto ottico, sembra che il busto di Marco Aurelio si proietti in avanti uscendo dal centro dell'orologio. L'illusione ottica è così realistica che è difficile non cercare di toccare la scultura in oro attraverso il vetro zaffiro, ma è inutile.

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