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VILLA DI POPPEA (Oplontis - Campania)

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VILLA DI POPPEA

OPLONTIS 

Gli scavi di Oplontis si trovano al centro della moderna città di Torre Annunziata. Il nome Oplontis è attestato unicamente nella Tabula Peutingeriana, copia medioevale di un'antica mappa delle strade italiane dell'Impero Romano, in cui Oplontis indica alcune strutture posizionate tra Pompei ed Ercolano.

PLANIMETRIA DELLA VILLA (clicca per ingrandire)
Pertanto è stata attribuita ad Oplontis una serie di rinvenimenti archeologici, in realtà relativi ad una zona suburbana di Pompei:
- una villa residenziale, la villa di " Poppea ";
- una villa rustica attribuita a L. Crassius Tertius, nella quale, accanto a numerosi corpi di vittime dell'eruzione, è stata rinvenuta una notevole quantità di monete in oro e argento, assieme a numerosi pezzi di finissima oreficeria;
- una struttura termale, presso l' Oncino, sotto le attuali Terme Nunziante, attribuito da A. Maiuri al console M. Crassus Frugi.

Il monumento principale, unico visitabile, è la villa di Poppea inserita tra i beni che l'UNESCO ha definito "Patrimonio dell'Umanità". Edificata verso la metà del I sec. a.c., venne  ampliata in età imperiale, ed era già in corso di restauro al momento dell'eruzione. La sua proprietà è attribuita a Poppea Sabina, seconda moglie dell'imperatore Nerone, ma in ogni caso appartenente al patrimonio della famiglia imperiale.

INGRESSO ALLA VILLA (sullo sfondo lo sconcio edilizio)

LA VILLA DI POPPEA

La villa, di grandi dimensioni, di pregevoli qualità negli affreschi e nelle sculture, venne costruita intorno alla metà del I sec. a.c. e poi ampliata in età claudia. Essa è stata attribuita a Poppea Sabina, seconda moglie dell'imperatore Nerone, per la presenza di un'iscrizione dipinta su di un'anfora, indirizzata a Secundus, liberto di Poppea.

Comunque la villa doveva appartenere al ricchissimo patrimonio della famiglia imperiale che, come molti patrizi romani, amava la costa campana, decantata per la salubrità del clima e la bellezza del mare, ricercatissima pertanto per edificarvi le ville di otium, cioè le magnifiche ville per le vacanze.

La Villa di Poppea era disabitata al momento dell'eruzione: non c'erano infatti suppellettili nelle stanze, né vasellame nella cucina. Molti oggetti rinvenuti, come colonne e lucerne, erano accantonati in poche stanze. Vi erano invece accumulati dei materiali edili, per cui nella Villa si stavano riparando i danni di uno dei numerosi terremoti dell'area vesuviana.

RICOSTRUZIONE DELLA VILLA DI POPPEA
L'edificio eretto lungo un asse est - ovest, consta di un nucleo sopraelevato che sporge nel giardino ed è affiancato da portici. L'ingresso originario e il prospetto anteriore, non scavato, si trovano oltre il cinquecentesco canale artificiale Conte di Sarno, sotto l'abitato moderno.

La villa, oltre ad essere dotata di ampi giardini, aveva pure un quartiere termale; ma aveva pure un suo aspetto agricolo, avendo riservato alcuni ambienti alla pigiatura dell'uva per la produzione del vino. La decorazione pittorica, con finte porte e colonne, si inserisce mirabilmente nell'architettura reale, sconfinando spesso tra il reale e l'immaginario.

I numerosi e pregevolissimi affreschi prevedono maschere, cesti di frutta, tralci, colonne, fiaccole, alberi e uccelli. La villa era adornata di numerose e pregevoli sculture, soprattutto copie romane di originali ellenici del III-II sec. a.c. La zona orientale è quasi interamente scavata, ma non altrettanto quella occidentale per la presenza della strada moderna e di un edificio militare, l' antica Real Fabbrica d'Armi.



GLI SCAVI

Il primo scavo di Torre Annunziata avvenne nel Settecento, in modo accidentale, scavando un cunicolo dal canale Conte di Sarno, tuttora visibile a sud dell'area archeologica.
Lo scavo venne abbandonato e chiuso a causa dell'aria mefitica, ma nel 1839 vi fu un secondo scavo, stavolta a cielo aperto, nel peristilio della villa, rinvenendo la fontana del giardino. Da qui vennero scavati  dei cunicoli che rivelarono le panche in muratura e un porticato. Nel 1840 gli scavi furono sospesi, per mancanza di fondi, ma venne acquisito dallo Stato.

Gli scavi sistematici e scientifici cominciarono nel 1964, con la progressiva ricostruzione degli alzati e dei tetti e il restauro immediato di pitture e pavimenti. Nel 1974, ad est della villa di Poppea, durante i lavori di costruzione di una scuola, emersero i resti di un altro edificio a due livelli, la villa di L. Crassius Tertius, alle cui spalle emersero altre costruzioni e una strada.
Gli scavi delle due ville non sono ancora conclusi, impediti anche dal contesto urbano moderno, purtroppo frutto di speculazione edilizia mai contestata.

L'ATRIO

DESCRIZIONE

L'Atrio era il centro della parte più antica della villa, e risale alla metà del I sec. a.c.. All'epoca era l'ambiente principale della casa, dove la famiglia trascorreva la maggior parte della giornata, soprattutto nella stagione calda, essendo luogo aperto e fresco.

L'atrio, con un soffitto ricostruito in legno, era di tipo tuscanico, e pertanto munito di apertura centrale (il compluvium), per la raccolta dell'acqua piovana, e con una vasca sottostante (l'impluvium), che la serbava per gli usi domestici.

Il pavimento, mosaicato in tessere bianche, diventava policromo attorno all'impluvium. Quest'ultimo, anch'esso in tessere bianche aveva una modestissima profondità.

Le pareti, tra i migliori esempi di II stile pompeiano, di fattura pregiata, gioca su un raffinato illusionismo prospettico con colonnati, soffitti, vedute di santuari, paesaggi, città, che s'intravedono dietro porte spalancate e porticati.

L'OECUS
L'Oecus, sala per banchetti, è uno degli ambienti più maestosi ed eleganti della Villa, decorato da affreschi e con una splendida vista sul mare, anticamente visibile e più vicino di oggi.
Il pavimento musivo in tessere bianche ha una fascia nera lungo le pareti e inserzioni di tasselli marmorei policromi.

Gli affreschi, di elegante esecuzione e sobrio cromatismo, accentuano l'illusionistico allargamento delle reali dimensioni della stanza.

IL TRICLINIO
Il Triclinio era una grande e sontuosa sala da pranzo, alle sue pareti erano dislocati i triclinii (letti) su cui ci si stendeva per consumare i pasti, mentre al centro della stanza era la mensa, cioè un tavolino da cui i commensali prendevano il cibo.

Il mosaico pavimentale, a fondo bianco, divide visualmente il vestibolo; le pareti sono affrescate in II stile, con colonnati prospettici, tempietti circolari a cuspide, passaggi chiusi da porte, un cancello oltre il quale compare uno splendido giardino.

LA CUCINA
La Cucina, piuttosto grande ma poco illuminata, è pavimentata in cocciopesto: sul lato nord è un ampio bancone con ripiano d'appoggio, dove erano cotti i cibi, e tre piccoli vani sottostanti ad apertura semicircolare, per riporre la legna tagliata.
Sul lato est è una vasca circolare forse usata per lo scarico dei liquidi; sul lato sud due muretti dovevano sorreggere tavole per la preparazione delle pietanze.

IL SALONE
Il grande Salone I costituisce il nucleo principale del gruppo di ambienti aperti sul lato ovest della piscina. Sul lato est , nel pavimento, resta traccia delle basi di due alte colonne, che, con la loro imponenza, davano all'ambiente un aspetto monumentale.

Le pareti erano rivestite, alla base, da marmi colorati, mentre la parte superiore era a fondo bianco.
Il pavimento, parzialmente conservato, presenta un bell'esempio di opus sectile, formato da piastrelle in marmo di vario tipo e colore.

Ai lati nord e sud di esso son disposti ambienti perfettamente simmetrici ed uguali tra loro, con la medesima decorazione parietale e pavimentale: è probabile che fossero appartamenti destinati agli ospiti.

Questo II Salone, probabilmente un salone da pranzo, interrompe il porticato nord della villa costituendo una specie di corpo avanzato verso il giardino.
L' oecos, edificato insieme al porticato in una fase edilizia successiva rispetto al più antico nucleo dell'atrio, forse in età augustea, si presenta sotto forma di propylon, con due altissime colonne scanalate e rivestite di intonaco bianco. Lo spazio tra le colonne doveva essere chiuso da cancelli.
Il pavimento a mosaico del salone è realizzato a fondo in tessere bianche e doppia striscia nera lungo le pareti, con la presenza, negli spazi tra le colonne, di motivi vegetali stilizzati.
Questa soluzione architettonica, dal carattere fortemente monumentale, fu adottata nelle ville delle regioni a nord dell'Impero e a modello per le ville di otium, come si evince da alcune decorazioni parietali.

IL CALIDARIUM
Il Calidarium delle Terme della Villa, sala da bagno riscaldata ad aria calda proveniente dalle pareti e dal pavimento.
Presentava sul fondo un pregevole affresco di Ercole nel giardino delle Esperidi, quando dovette rubare i fatidici pomi. Tutto l'ambiente però era affrescato.

LA LATRINA
La Latrinaera in comune, come dimostrano gli scoli muniti di acqua corrente cheportava via i rifiuti in esecuzione, un lusso che solo i più ricchi potevano permettersi, non per l'ambiente ma per il servizio di acqua corrente di diretta derivazione sorgiva.
Si nota da un lato una grossa vasca che sicuramente non serviva per il bagno, in quanto la villa possedeva le sue terme, ma evidentemente veniva usata per lavare i panni e quant'altro.


Il Viridarium, era l'ambiente interno al giardino, con decorazioni pittoriche di vegetali e vasche, e pure una grande aiuola, dove si coltivavano alberi da frutto, circondata da una canaletta in cocciopesto per lo scolo dell'acqua.

IL VIRIDARIUM
Sulle tegole alla sommità delle pareti sono state ripristinate le originali cassette di gronda in terracotta (sime) con girali e gocciolatoi a testa silenica.

Al di sotto vi è una fascia in stucco con ovoli.
Le pareti accolgono decorazioni da giardino a fondo nero e rosso, con piante e uccelli.

In particolare nel registro inferiore, in un gioco di dilatazione prospettica, si alternano vasche ed alberi..

Il Corridoio fungeva da raccordo tra il nucleo centrale della villa ed il settore della piscina: pavimentato in cocciopesto presenta panche in muratura lungo la parete e finestroni in alto, tra campiture affrescate di IV stile .
Molto interessante il soffitto, ricostruito fedelmente, diviso da travature in pannelli che, nella ricca sintassi figurativa, richiamano simili decorazioni presenti nella Domus Aurea di Nerone a Roma: si può immaginare come all'epoca questo ambiente, nella sua sontuosità, ben introducesse chi lo percorreva alla vista della grande piscina.


La Piscina, una grande vasca (metri 61x17) è pavimentata in cocciopesto e vi si accede mediante gradini presso l'angolo sud-est: le pareti sono decorate a riquadri rettangolari in stucco bianco.
La piscina era inserita in un lussureggiante ambiente naturale: attorno il prato e (come dimostrano indagini paleobotaniche) platani, oleandri, limoni tra pilastrini sorreggenti sculture in marmo.
Sul lato ovest, un porticato si estende parallelo alla vasca, per quasi tutta la sua lunghezza: luogo adatto al passeggio, è elemento di collegamento tra la piscina e i vari ambienti che su di esso si affacciano.
Il colore chiaro della decorazione parietale, col fondo bianco di IV stile ed i particolari di calligrafica precisione, le eleganti colonne con capitelli corinzieggianti in marmo, il pavimento a mosaico di tessere bianche con file nere e tasselli di marmo colorato danno un'impressione di grande, ariosa luminosità, accentuata dai riflessi di luce provenienti dalla piscina e dal giardino circostante.

CUBICULA
I Cubicula sono le stanze da letto e nella villa erano numerosi: sui lati del cubiculum qui rappresentato si notano nicchie, con volte a botte, dove erano alloggiati i letti. Pitture di II stile e stucchi ornano con sobria eleganza le pareti e il soffitto.

Nella zona ovest è inoltre presente un cubicolo dove è stato possibile ottenere i calchi della porta in legno e della finestra ed un piccolo peristilio le cui pareti sono decorate con fasce grigie e nere e dove è presente il larario decorato in quarto stile e con la trave di sostegno originale posta sopra la nicchia seppur carbonizzata.

Il I Peristilio presenta colonne lisce unite ad un muretto: all'interno, in una grande aiuola, vi è una fontana decorata come il muro all'interno, a fondo rosso con piante ed uccelli.

Il pavimento è in cocciopesto con inserti di marmo. Del controsoffitto è ricostruito il supporto ad incannucciata, così come era fatto in antico. Su questo peristilio affacciavano vari ambienti, alcuni dei quali destinati alla servitù: per tale motivo esso è stato definito "servile".

In uno di tali porticati furono rinvenute le quattro statue dei Centauri e la statuetta del fanciullo con l'anatra, qui depositate in attesa di ricollocazione.

Il II Peristilioè un grande portico a tre bracci (porticus triplex) raccorda un ampio spazio aperto, un altro viridarium, appartato e contrapposto col giardino a nord della villa.

Le colonne, dipinte in bianco, sono lisce nella parte inferiore, scanalate in quella superiore; le pareti affrescate sono attribuibili al IV stile.

Lo spazio è ampio e adibito ad aiuole con erbe odorose, fiori e fontane, con sedie e tavolini per l'otium.

Ai piedi delle colonne, nel terreno, corre la canaletta di scolo dell'acqua in cocciopesto. Il pavimento del porticato è a mosaico con tessere bianche, con striscia nera lungo le pareti.
La decorazione parietale è in IV stile: la zona inferiore è a fondo nero con decorazioni di piante con uccelli o vasellame; la zona mediana alterna pannelli rossi e gialli e decorazioni di strutture architettoniche prospettiche; la fascia superiore,a fondo bianco, presenta edicole e partizioni decorate con cornicette.

PARTI PRIVATO CON CENA NELLA VILLA

TORRE ANNUNZIATA - LA VERGOGNA

Una festa privata in giardino sponsorizzata da una nota azienda con tanto di catering di un famoso ristorante di Pompei, e oltre duemila invitati in rigoroso abito da sera. In attesa di un serio piano di rilancio e di promozione del sito, mortificato da degrado e da abbandono, la villa di Poppea, esclusa dalle visite serali, si trasforma con la benedizione del direttore Lorenzo Fergola e della Soprintendenza di Pompei, per una sera, in una location elegante e suggestiva.

Per l'affitto del locale, nelle casse della Soprintendenza vanno cinquemila euro (soltanto?!!). La miccia che innesca la deflagrazione della rabbia di cittadini, associazioni, commercianti, che ieri fin dal tardo pomeriggio si sono dati appuntamento all'esterno della villa con tanto di striscioni per manifestare tutto il proprio dissenso: « Non è possibile una cosa del genere– attacca Ciro Maresca presidente della Pro-loco Oplonti – Non si può affittare un patrimonio dell'umanità per feste private. È assurdo. È una vergogna».

A dar man forte il presidente del centro studi culturale « Nicolò D'Alagno» Vincenzo Marasco, che tra l'altro, è anche uno studioso della villa: “ Non ho parole. Il sito archeologico di Torre Annunziata si trasforma in un ristorante chic ad uso esclusivo della Soprintendenza. Siamo oltre i limiti di sopportazione. Oplontis è trattata come uno oggetto d'asta, vittima di politiche affaristiche poco accorte ai bisogni e al bene di Torre Annunziata. Non lo permetteremo mai. Siamo stanchi. Oplontis deve essere valorizzata e restaurata e non affittata come una casa d'appuntamenti. Oplontis è nostra, Oplontis è Torre Annunziata, Oplontis è dell'umanità intera ».

Sul piede di guerra anche i commercianti: « Ormai questo luogo– dice Antonio Balzano titolare di una vera e propria salumeria turistica a pochi passi dagli scavi –è deserto. Stiamo ore ad aspettare che passi qualche turista. Contavamo sulle aperture serali e neanche è stato possibile. Se poi invece di valorizzare, si organizzano feste private nel sito, allora è davvero la fine».


VILLE DI STABIA. SCANDALO: SET FOTOGRAFICI E TACCHI A SPILLO

La fruizione delle Ville per set fotografici matrimoniali sta conoscendo una preoccupante diffusione, favorita dal lassismo delle Istituzioni e dalla mancanza assoluta di vigilanza.

COMMENTO: 
I Beni Culturali Italiani si sfruttano e tanto, molto spesso anche in modo poco dignitoso, e pure poco rispettoso per il rischio di deturpazione, ma oltre a tutto ciò, questi soldi non vanno a proteggere questo patrimonio culturale che non solo è abbandonato a se stesso, ma che viene privato della possibilità di dare ad altri molto lavoro e sollevare così la disoccupazione locale. Evidentemente questi soldi vanno in "altre tasche".


FAUSTINA MINORE

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Nome: Annia Galeria Faustina Minor
Nascita: 130
Morte: Monte Tauro 175
Padre: Antonino Pio
Madre: Faustina Maggiore
Marito: Marco Aurelio
Figli: Commodo, Tito Elio Aurelio, Marco Annio Vero Cesare, Tito Elio Antonino, Annia Aurelia Galeria Lucilla, Cornificia, Domizia Faustina, Vibia Aurelia Sabina, Annia Aurelia Galeria Faustina, Adriano, Gemellus Lucillae, Tito Aurelio Fulvio Antonino, Fadilla.
Dinastia: Antoniana


I giudizi sulle donne attive e potenti come le Auguste del II secolo d.c. furono spesso malevoli e tutt'altro che veritieri, perchè la società romana mentre gradiva la donna solerte madre e moglie, non gradiva che si immischiasse negli affari dello stato. La società romana era piuttosto misogina, e non solo non permetteva cariche pubbliche alle donne, ma non consentiva neppure che si occupassero dello stato. La chiesa cristiana, più misogina della società romana, fece il resto demonizzando ogni donna di potere.

Annia Galeria Faustina, ovvero Faustina minore (130 circa – 175), fu imperatrice romana della dinastia degli Antonini, in quanto figlia dell'imperatore Antonino Pio e di Faustina maggiore; moglie dell'imperatore Marco Aurelio nonchè madre dell'imperatore Commodo.

Veramente Faustina era promessa a Lucio Vero, fratello adottivo di Marco Aurelio (Antonino li aveva adottati entrambi designandoli suoi successori), uomo però alquanto irresponsabile e dissoluto. L'aveva deciso per lei l'imperatore Adriano, ma nel 139 (a nove anni di età) fu data in fidanzamento al proprio cugino Marco Aurelio. Questi a sua volta aveva rotto il suo precedente fidanzamento per obbedire al volere di Antonino e poter diventare suo successore, cosa che avvenne nel 161. Ma anche il precedente fidanzamento era voluto dal genitore perchè al tempo solo gli orfani potevano scegliere i propri coniugi.

RICOSTRUZIONE DEL VOLTO
Faustina sposò quindi Marco Aurelio nel 145 (a 15 anni di età), alle loro nozze furono emesse monete in oro, argento e bronzo e nel 147 fu elevata al rango di Augusta. Il suo ritratto ci è noto da molte monete, e da una serie di teste marmoree, nelle quali prevale un'acconciatura con capelli bipartiti in molli ondulazioni discendenti, con bassa crocchia di trecce.

La tarda e inaffidabile Historia Augusta racconta di sue relazioni con marinai e gladiatori ospitati spesso nella sua splendida villa di Gaeta, per cui Commodo sarebbe stato figlio di un gladiatore e per questo avrebbe amato l'arena (come se i gusti fossero ereditabili), o addirittura che Faustina l'avesse concepito da Marco Aurelio dopo aver fatto il bagno nel sangue di un gladiatore giustiziato.

La storia di Marco Aurelio sembrerebbe secondo alcuni scritta da Eutropio, quindi alla fine del IV secolo, secondo Theodor Mommsen invece l'opera venne inquinata da vari interpolatori che avrebbero modificato, nel V secolo, mentre la prima redazione dell'opera, risalirebbe, a suo avviso, al 330. Di certo è piena di falsi storici e di pregiudizi. Nella biografia dell’imperatore scritta da Giulio Capitolino, uno degli autori della “Storia Augusta” è Marco Aurelio stesso ad affermare che la fanciulla gli “aveva portato in dote l’Impero”.

Comunque Faustina dette al marito ben 13 figli (di cui solo un maschio e cinque femmine sopravvissero ai genitori), e immaginare una vita di libidine con 13 anni di gravidanza resta un po' difficile, anche perchè nel migliore dei modi occorre almeno un anno per riprendere il fisico dal parto, sia come forze che come aspetto.

I figli furono:
- Annia Aurelia Galeria Faustina, una delle mogli di Eliogabalo
- Gemellus Lucillae, fratello gemello di Lucilla
- Annia Aurelia Galeria Lucilla, sposa di Lucio Vero, co-imperatore di Marco Aurelio
- Tito Elio Antonino
- Adriano
- Tito Elio Aurelio
- Domizia Faustina
- Fadilla
- Cornificia
- Tito Aurelio Fulvio Antonino, fratello gemello di Commodo (morto a 4 anni)
- Commodo (31 agosto 161-192), imperatore
- Marco Annio Vero Cesare
- Vibia Aurelia Sabina

Cinque femmine raggiunsero l’età adulta, dei maschi sopravvisse soltanto Commodo, il futuro imperatore (il suo gemello era morto all’età di quattro anni).
E' lo stesso marco aurelio a definire sua moglie (nei suoi scritti "Pensieri") “Dolce, amorevole, semplice” tanto più che la volle al suo fianco anche durante le battaglie, di certo lei non avrebbe potuto seguirlo se egli non avesse voluto.

Fu in occasione della nascita della primogenita che a Faustina fu riconosciuto il titolo di“Augusta”, che non le attribuiva un ruolo politico, ma tuttavia un onore di grande prestigio. La sua fecondità fu poi da tutti lodata e ammirata. Il matrimonio di Marco Aurelio con Faustina, così come quello di Antonino Pio con la madre di lei, fu lungo e solido.

Faustina per aver accompagnato il marito in campagne di guerra, ricevette il titolo di “mater castrorum”, cioè “madre degli accampamenti militari”, con il quale compare su iscrizioni e monete, titolo che rappresentava un ruolo pubblico accanto all’imperatore, anche se Marco Aurelio lodò sempre le sue qualità domestiche. 

Il ruolo di materna protettrice dei luoghi militari, ruolo che ben era compatibile con la sua immagine di madre perenne in quanto perennemente incinta, dava ai soldati un impegno ulteriore alla loro lealtà nella protezione delle frontiere dell’Impero. Ella era la Madre Terra che non si può tradire e per cui si può dare anche la vita.

Marco Aurelio, uomo saggio e riflessivo, divise il potere, come stabilito dal padre, con il fratello adottivo Lucio Vero che, piuttosto dissoluto, durante la guerra contro i Parti si abbandonò a una vita di divertimenti mentre i suoi luogotenenti si occupavano della guerra. Marco Aurelio tollerava le leggerezze del fratello, ma quando questi morì, nel 169, egli poté governare liberamente senza dover nascondere le nefandezze del fratello. Sebbene amasse la pace fu costretto a sostenere molte guerre: contro i Parti, contro i Quadi e i Marcomanni, popolazioni germaniche che abitavano a nord del Danubio, viaggi in cui fu accompagnato dalla moglie.

Gli scrittori della “Storia Augusta”, la accusarono però di dissolutezza e di fedeltà coniugale.
Edward Gibbon, storico inglese del XVIII secolo, scrive di lei:
“Faustina non è meno famosa per le sue disonestà che per la sua bellezza. La grave semplicità di quel Principe filosofo non era capace di fermare la licenziosa incostanza di lei, o di frenare quella sfrenata passione che le faceva spesso trovare un merito personale nel più vile degli uomini. Marco Aurelio pareva o insensibile ai disordini di Faustina, o il solo in tutto l’Impero che l’ignorasse. Ciò gli procurò disonore. Egli promosse molti degli amanti di lei a cariche onorevoli e lucrose, ma per trent’anni continui le diede prove invariabili della più tenera confidenza e di un rispetto che non terminò se non con la di lei vita.”
Secondo Cassio Dione Faustina era coinvolta nell’usurpazione del 175 di Avidio Cassio. un generale di origine siriana, che aveva combattuto contro i Parti. 

Poiché Marco Aurelio era gravemente malato, Faustina avrebbe indotto segretamente Avidio Cassio a prepararsi per l’usurpazione sposandola alla morte del marito. 
Diffusasi la falsa notizia della morte di Marco, Avidio Cassio si era proclamato imperatore. Quando si scoprì che la notizia era falsa questi fu ucciso dai suoi stessi soldati. 

Si dice che Marco Aurelio si fosse rifiutato di leggere i documenti che avrebbero dimostrato la colpevolezza della moglie, ma non era gravemente malato? Cassio Dione riporta la notizia che Faustina poteva essere morta anche a causa del suo coinvolgimento nell’usurpazione del 175 d.c. e che si fosse suicidata.

Ma la complicità di Faustina nella rivolta di Avidio Cassio per gli studiosi moderni non è credibile, come non lo è la presunta relazione con il genero Lucio Vero e che lo avesse poi avvelenato per vendicarsi di lui che aveva rivelato la loro relazione alla moglie Lucilla. Anche nelle lettere scambiate tra Frontone, scrittore e oratore, e Marco Aurelio, Faustina appare essere stata una buona madre, premurosa e attenta alla salute dei figli e una buona e virtuosa moglie di un imperatore filosofo.

Ettore Paratore, illustre studioso della latinità così la difende: “Le accuse di dissolutezza appaiono assurde fino al ridicolo e all’irriverenza dinanzi alla romana fecondità di questa imperatrice che sembra in ciò rinnovare le matrone degli antichi templi.” ricordando inoltre un medaglione in cui Faustina è rappresentata con due suoi figlioli e un terzo sulle ginocchia. 
Sul retro è inciso “Fecunditas Augustae” alludendo alla prolificità dell’Augusta Faustina. Ma Faustina compare pure su un’antica moneta raffigurante la “Concordia”, ed è la prima volta che, in luogo di due uomini, vengono raffigurati un uomo e una donna (Faustina) che si stringono la mano.

Faustina seguì infatti Marco Aurelio nella sua campagna nel nord (170 - 174) come pure nel viaggio in Oriente a seguito della usurpazione di Avidio Cassio (120 – 175), durante il quale morì, all'età di 56 anni, per malattia, lungo una sosta in Cilicia (Asia Minore), alla fine del 175. Faustina morì ad Halala, ai piedi della catena del Monte Tauro, che sarà ribattezzata Faustinopoli in suo onore. 

Marco Aurelio fu molto provato dalla sua morte. Il Senato la dichiarò Dea, la sua immagine fu rappresentata nei templi a lei dedicati con gli attributi di Giunone, di Venere e di Cerere, e fu decretato che i giovani sposi andassero nel giorno nuziale a porgere voti dinanzi all’altare della “diva Faustina”, protettrice delle nozze che si auspicavano prolifiche come quelle di lei. Non solo fu divinizzata, ma in suo onore furono istituite dal senato sacerdotesse per il suo culto.

Nel luogo della morte, come è stato confermato dagli scavi, l'imperatore istituì la nuova colonia di Faustinopolis. Marco Aurelio così facendo la divinizzò, e in suo onore fu costruito un tempio a Roma e fondato un nuovo alimenta o sussidio per fanciulle bisognose, il secondo Puellae Faustinae dopo quello dedicato da Antonino Pio a Faustina maggiore. I Bagni di Faustina a Mileto vennero dedicati a lei. Il che dimostra quanto fosse4 amata dall'imperatore, dal senato e dal popolo, dimostrando inventate tutte le accuse contro di lei.


VOLTERRA - VELATHRI (Toscana)

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La città di Volterra, circondata da mura, sorge sulla sommità di una collina posta sullo spartiacque fra le valli dei fiumi Era (a Nord) e Cecina (a Sud). 
Il piano su cui è stata edificata ha una direzione NO-SE ed è posta a m. 541 s.l.m.

Il territorio circostante è delimitato dal massiccio del Montevaso, dai cordoni dei Cornocchi e delle Colline Metallifere, tanto apprezzate in quanto usate sia da etruschi che romani.

Nella zona a NO ha un forte movimento franoso, che ha dato origine al fenomeno delle “Balze”, pareti verticali generate dai crolli che danno luogo alla tipica morfologia a balze, con calanchi sottostanti, uno spettacolo scenografico e in altri tempi allarmante.



LA STORIA

- Nel VII sec. a.c. vi sorse, ad opera degli etruschi, la città di Velathri e nel IV sec. a.c. e si assistette a un notevole sviluppo economico della città, con aumento delle esportazioni, emissione di una propria moneta e ricchi complessi tombali, a cui si aggiunsero la grande cinta muraria con un perimetro di oltre sette km.

- Nel III sec. a.c. ebbe una intensa attività edilizia, creando un quartiere con edifici a destinazione religiosa. In una prima fase, databile agli inizi del III sec. a.c., fu costruito il Tempio chiamato “B”.Infatti, Volterra, divenne una delle dodici lucomonie della nazione etrusca, con un territorio che si estendeva dal fiume Pesa al mar Tirreno e dall'Arno al bacino del fiume Cornia.

- Sempre nel III sec., con la battaglia del lago Vadimone (283 a.c.) Volterra dovette sottomettersi ai Romani verso il 260, entrando a far parte, insieme ad altre città, della confederazione italica.

- Livio ci informa, a proposito degli approvvigionamenti che l'esercito di Scipione ricevette da alcune città etrusche, durante la II guerra punica nel 205 a.c., che Volterra contribuì con legnami per le navi ma soprattutto con frumento, prodotto che evidentemente era alla base della sua economia.

- Nel 90 a.c.. con la Lex Julia de Civitate, Volterra ottenne la cittadinanza romana, fu iscritta alla tribù Sabatina e costituì un florido municipio. Tuttavia lo schieramento della sua popolazione a favore di Gaio Mario durante la guerra civile fu la causa di un lungo assedio da parte delle truppe fedeli a Silla, che, dopo un lungo assedio, conquistarono la città nell’80 a.c. A causa della sconfitta la città perse la cittadinanza romana, come sappiamo dalla requisitoria di Cicerone in difesa degli interessi di un membro della famiglia volterrana dei Cecina.
- Durante l’età augustea la città conobbe invece una fase di intensa attività edilizia pubblica e privata, documentata dai resti di numerosi edifici pubblici e privati costruiti in base a un nuovo piano regolatore basato sull’allineamento di strade e case.

L'ACROPOLI
 Lo spazio antistante i due santuari fu allargato e sistemato intorno al 20 d.c., quando il terreno fu livellato e portato all’altezza della piazza antistante il tempio B.

- Nei primi decenni del I sec. d.c. fu realizzata anche la più grande opera edilizia pubblica di epoca romana della città. Grazie alla munificenza di alcuni membri di una famiglia patrizia di Volterra, i Caecinae, venne costruito un teatro nella valle di Vallebuona, sulle pendici Nord della collina, per cui le nuove costruzioni furono realizzate orientandole in base ad esso, seguendo un nuovo criterio di programmazione edilizia.

Seguì poi la realizzazione di una Porticus Post Scaenam, che inquadrava il teatro in una scenografia architettonica immediatamente visibile per chi giungeva alla città da Nord.
Nel III sec. costruite le terme di S. Felice e quelle di Vallebuona, ma finisce di essere frequentata l’area templare dell’Acropoli; cominciano a essere effettuate sepolture all’interno della città, chiude il teatro di Vallebuona verso la fine del III sec. forse a causa di un terremoto.
LA CISTERNA

AREA ARCHEOLOGICA DELL'ACROPOLI


LA I CISTERNA

Le indagini sul piano dell’Acropoli si sono concentrate soprattutto nella zona occidentale, in cui era conosciuta l’esistenza di alcune strutture antiche già nel Settecento. La sommità della collina di Volterra era priva di sorgenti naturali, Prima di entrare nella zona archeologica vera e propria troviamo sulla nostra destra un rialzo del terreno, che costituisce la copertura di una grande cisterna sotterranea, realizzata in opus caementicium, che doveva rifornire d’acqua l’intera zona dell’Acropoli; è formata dal una grande camera rettangolare divisa in tre navate coperte con una volta a botte da sei pilastri in blocchi di pietra. L’intera costruzione è databile al I sec. d.c. e per la sua capacità, che è di circa 1000 metri cubi, deve essere stata costruita con denaro pubblico.



LA II CISTERNA

Entrando nella zona aperta ai visitatori notiamo sulla sinistra i resti di un’altra cisterna in opera cementizia, che in origine dovette essere parzialmente costruita anche in elevato; è contemporanea alla precedente e costituiva con essa un unico sistema idraulico destinato ad approvvigionare in epoca romana l’intera zona dell’Acropoli.
In epoca romana le due cisterne vennero mantenute in funzione e a esse si affiancarono altre due, costruite poco lontano dalla zona sacra, e destinate alle necessità della popolazione. Queste cisterne cessarono di essere utilizzate contemporaneamente all’area sacra, intorno alla metà del III sec. d.c.

I TEMPLI DELL'ACROPOLI

I TEMPLI  A e B  DELL'ACROPOLI

Sono emersi i resti della decorazione architettonica di un tempio della prima metà del IV sec. a.c., destinato a sostituire quello più antico. La fase edilizia meglio conservata è quella di età ellenistica (III-II sec. a.c.). Si compone di due edifici di culto, denominati convenzionalmente tempio A e tempio B, e di altri edifici di servizio che si trovavano nelle vicinanze.

Il tempio più antico (tempio B), è quello più a Ovest, databile alla II metà del III sec. a.c.; invece il tempio A, di fronte all’ingresso, è della metà del II sec. a.c. Si ignora a chi fossero dedicati.

Il tempio B, conservato solo a livello di fondazione, era un edificio di tipo tuscanico, quindi di tradizione etrusca. Si componeva di due parti uguali: la parte posteriore era una cella chiusa che è quasi del tutto perduta; quella anteriore era costituita da un colonnato di tre file di quattro colonne. Il tempio si ergeva su un podio, di cui non si è conservato nessun blocco del rivestimento, e vi si accedeva tramite una scalinata di cui si conserva solo un gradino. La copertura dell’edificio includeva terrecotte modellate a mano e a stampo che in parte sono conservate al Museo Guarnacci.

Contemporanee sono: una serie di vasche in cocciopesto attualmente coperte dallo stradello basolato che corre fra i due templi, la cisterna inglobata nel podio del tempio A e alcune strutture di servizio, fra cui un’altra cisterna che possiamo vedere sulla sinistra del tempio B se ci poniamo con le spalle alla fronte. La maggior parte di queste strutture fu cancellata con la costruzione del nuovo tempio; furono anche costruiti lo stradello intertemplare e parte del muro di cinta che racchiudeva l’area sacra (temenos).

Il tempio A non è di tipologia etrusca, ma deriva dai templi di tipo greco; l’unico elemento della tradizione italica è l’alto podio su cui fu costruito. L’edificio era orientato NO-SO, la muratura era in opera isodoma a blocchi squadrati parallelepipedi di eguale misura; il settore NO non si è conservato. Era costituito da una cella chiusa, circondata sul retro e ai fianchi da colonne di cui nulla rimane;la parte frontale aveva una scalinata di accesso. Si sono conservati alcuni blocchi del rivestimento del podio in pietra arenaria grigia modanata e alcuni elementi della decorazione architettonica. In questa fu ritrovato un bronzetto votivo del VI sec. a.c.

Contemporaneamente al tempio A fu completato il muro di temenos che recingeva l’intera area sacra e venne costruito presso il margine occidentale del pianoro un edificio con un vano rivestito di un ricco affresco di pannelli di diversi colori: verde, rosso, nero, giallo, bianco, i cui frammenti sono in corso di restauro, e che è attribuibile a maestranze greche.

Questi due templi continuarono ad essere utilizzati anche in epoca romana. Nel corso del I sec. a.c. nell’area sacra furono compiuti alcuni interventi, fra cui la costruzione delle nuove cisterne in opus caementicium e la sistemazione dello spiazzo antistante il tempio B, ma gli edifici non subirono sostanziali modifiche. La zona cessò di essere frequentata nella prima metà del III sec..

PORTA DELL'ARCO

PORTA DELL'ARCO

Ridiscesi dall'acropoli si incontra la Porta all’Arco a Sud e il Portone a Nord. La strada antica si troverebbe circa un m sotto a quella moderna e buona parte del suo tracciato coincide con quello di via Matteotti. Il cardo antico cittadino terminava in corrispondenza della Porta all’Arco, presso cui arrivava la via che collegava Volterra con la valle del Cecina e il mare.

La Porta dell'Arco è il principale monumento architettonico della Volterra etrusca. Questa si apriva nel lato Sud delle mura, con una copertura formata da un arco in conci di pietra decorato da tre teste. La porta è realizzata con materiali e tecniche diversi, segno dei numerosi rimaneggiamenti subiti nel corso dei secoli.

I piedritti, ovvero gli elementi verticali che sorreggono l’arco, sono stati realizzati con grandi blocchi di tufo sovrapposti, e sono le uniche parti della porta che sopravvivono dal tempo degli etruschi (IV secolo a.c., epoca a cui risalgono le mura etrusche), perché l’arco è più tardo, siamo già in epoca romana, forse nel II sec, a.c.. A quest’epoca risalgono, probabilmente, anche le tre teste che ornano l’arco. Dato il deterioramento non sappiamo cosa rappresentino, forse i numi protettori della città, forse al centro Giove e ai lati i Dioscuri, Castore e Polluce, oppure la Triade Capitolina (Giove, Giunone e Minerva).  

Gli stipiti sono in blocchi di pietra arenaria detta Panchino, di notevoli dimensioni, le tre teste e l’arco sono realizzati con altri due tipi di pietra; i conci dell’arco sono di “tufo di Pignano”, una pietra calcarea che si ricava nei pressi di Volterra, mentre le teste sono scolpite nella selagite, una roccia della zona di Montecatini Val di Cecina.

In un’urna del museo Guarnacci del I sec. a.c., raffigurante una scena di assedio, si nota una porta decorata da tre teste (Dia 22) ed è la raffigurazione più antica della Porta all’Arco. Le mura contemporanee alla porta vennero sostituite da quelle comunali nella I metà del XIII secolo; in questo tratto le mura medievali ricalcano il percorso di quelle antiche.

PORTA DIANA

PORTA DIANA o PORTONE

Superato il cimitero moderno troviamo un’altra porta etrusca, chiamata Porta Diana o Portone (Dia 28). 

Questa porta è molto simile, come costruzione, alla Porta all’Arco, che abbiamo visitato all’inizio del percorso; anche le dimensioni in massima parte vi coincidono. 
A differenza però della Porta all’Arco quest’ultima non conserva la copertura.



IL FORO

Più oltre, nei pressi della chiesa di S. Michele, in epoca romana vi era il Foro. Non conosciamo  la sua area, ma si trovava in questa zona visto che la chiesa di S. Michele è ricordata in un documento del 987 come “ecclesia S. Michaeli in foro”. Inoltre la presenza di numerosi resti murari inglobati negli edifici di questa via fa pensare che in zona si trovassero importanti costruzioni romane.

Nella stessa via, nella facciata del n° 22 , è incastonata una lapide marmorea funeraria di epoca romana (C.I.L., 1784)(Dia 6): A. PERSIUS A.F. SEVERUS V. ANN. VIII M. III D. XIX. Traduzione: Aulo Persio figlio di Aulo Severo, visse 8 anni, 3 mesi e 19 giorni.
La lapide funeraria di un giovanissimo membro della gens Persia, un’importante famiglia volterrana il cui più illustre membro fu il poeta satirico Aulo Persio Flacco.

Nella facciata del n° 26 sono invece incastonate alcune urne cinerarie in calcare e alabastro e vasi in terracotta (Dia 7,8,9). L’uso di decorare le facciate dei palazzi con materiali antichi fu tipico dell’architettura Settecentesca in Toscana.

IL TEATRO

AREA ARCHEOLOGICA DI VALLEBUONA

Oltrepassata la Porta Fiorentina, che si trova alla fine della strada, sulla nostra sinistra troviamo l’ingresso per l’area archeologica di Vallebuona, comprendente un teatro e un impianto termale racchiuso da un grande colonnato, edificati in epoche diverse.

A Nord dell’area archeologica, dove oggi è un quartiere moderno, sono stati trovati parecchi resti di abitazioni signorili romane; importanti i due mosaici trovati durante la costruzione del Macelli Pubblici nel 1969 e conservati al Museo Guarnacci (Dia 10). 


COME APPARIVA IL TEATRO


IL TEATRO

Vi sono i resti di una struttura muraria di età ellenistica ma il monumento più imponente è il teatro, databile all’età augustea che venne scavato negli anni ‘50, ma alcuni ritrovamenti occasionali avevano già segnalato la sua presenza (Fig. 5, 6). Fu grazie all’intervento dell’archeologo volterrano Enrico Fiumi che il teatro venne portato alla luce. Egli utilizzò come operai una squadra di malati di mente ricoverati presso l’Ospedale Psichiatrico di Volterra, come ricorda la targa posta all’ingresso dell’edificio a ricordo del loro contributo.
Durante gli scavi è stata trovata buona parte dell’epigrafe dedicatoria del teatro, oggi conservata al Museo Guarnacci (Dia 11), dove si enunciano i due membri della famiglia Cecina, Aulo Cecina Largo e Aulo Cecina Severo, come costruttori a loro spese del teatro (evergetismo).

I due Cecina facevano parte di una delle famiglie volterrane più ricche e influenti i cui membri durante il I sec. a.c. si trasferirono a Roma per partecipare alla vita politica dello stato; infatti ambedue vennero nominati furono consoli, e molti loro consanguinei ebbero importanti cariche a Roma. Durante gli scavi sono infatti stati rinvenuti vari sedili, con ancora incisi i vari nomi dei rappresentanti delle famiglie più influenti della Volterra romana quali i Caecinae, i Persii e i Laelii.

RICOSTRUZIONE
Scendendo dall’ingresso si trova una galleria coperta (cripta) per facilitare l’accesso del pubblico alla cavea, la zona destinata agli spettatori; oggi la galleria è quasi completamente franata, ma nei tratti superstiti si individuano i resti dell’intonaco che in origine ricopriva pareti e soffitto. La cavea si appoggia alla collina e si compone di due ordini di gradinate di nove (media cavea) e dieci (ima cavea) file di sedili separati da uno stretto passaggio semicircolare.

I sedili, solo parzialmente conservati, erano in calcare locale; alcune scalette di accesso ai posti sono disposte a raggiera confluendo verso il basso; nell’ordine superiore sono 11, mentre in quello inferiore sono sei; le scale di accesso sono realizzate in pietra di Montecatini Val di Cecina di colore nero che, con le gradinate bianche. creavano un effetto cromatico decorativo.

Il teatro, di medie dimensioni, conteneva circa 1300-1700 posti, le ultime due file di gradini recavano incisi i nomi di molte famiglie volterrane, insomma dei posti riservati alle persone importanti. Al di sopra della cripta si trova una grande terrazza ornata al centro da tre esedre, che contenevano statue dell’imperatore, a cui era evidentemente dedicato il teatro, e che dovevano servire per il culto imperiale. Delle teste di statua raffiguranti Augusto, Livia e Tiberio (Dia 12,13,14), sono state trovate durante gli scavi e sono evidentemente i resti superstiti delle tre statue che si trovavano nelle esedre.

RICOSTRUZIONE
Grazie all’impulso dato da Augusto che molte opere pubbliche furono realizzate a spese di ricchi mecenati che, insieme al ricordo della loro donazione, che comunque fa loro pubblicità, pubblicizzano anche l’imperatore e alla sua famiglia.
In origine l’ingresso al teatro avveniva da Sud e questa terrazza era la parte del teatro più vicina all’ingresso, che però non si è conservato. Alla terrazza si accedeva tramite scalinate che portavano poi alla galleria sottostante. Ai piedi della cavea vi è un semicerchio del diametro di 17,60 m., l’orchestra, delimitata da un muretto (pulpitum), dietro la quale vi è il proscenio, uno spazio rettangolare coperto da un pavimento ligneo sul quale si muovevano gli attori.

Tra il proscenio ed il pulpitum vi è un canale (aulaeum), che conteneva il sipario che si ripiegava al momento dello spettacolo. Al contrario dei teatri moderni in quelli antichi il sipario durante gli spettacoli era abbassato ed era contenuto in questo canale scavato nel terreno e rivestito di lastre di pietra. Ai lati del proscenio vi sono i paraskenia e sul fondo la scaena, lunga 36,10 m.


(1) La cripta, (2) la cavea, (3) l'orchestra, (4) il tavolato del proscenio (5) il fronte-scena (6) le terme

La scena era costituita da una parete con aperture ed esedre inscritte fra colonne disposte su due piani; la parte sinistra di questa struttura è stata rialzata con un intervento di restauro compiuto dalla Sovrintendenza Archeologica della Toscana alla fine degli anni ‘70 (Dia 15). Questo restauro fa vedere con chiarezza come si sviluppasse l’intera scena; considerando che tutta la struttura era rivestita di marmo e che le nicchie erano ornate da statue, come dimostra una testa di Augusto rinvenuta all’interno del canale dell’aulaeum.

Gli ambienti dietro la scaena dovevano essere magazzini e spogliatoi per gli artisti. Fra le gradinate della cavea e i parasceni vi sono due gallerie chiamate pàrodoi che dalle estremità del semicerchio immettono nell’orchestra; sono due gallerie coperte da una volta a botte in conglomerato cementizio, su cui si conservano delle tracce di intonaco. Mediante due porte le gallerie sono collegate con i vestiboli che fiancheggiano i parasceni. I vestiboli erano frequentati dagli spettatori per poter accedere al portico retrostante la scena.

In epoca più tarda (fine II d.c.) il teatro venne restaurato, ma cessò definitivamente la sua attività verso la fine del III sec. d.c.; secondo i primi scavatori la causa fu un terremoto che fece crollare parte della struttura.

Alle spalle della scaena si trova un porticato (la Porticus Post Scaenam), costruito in più fasi. La sezione più antica e contemporanea al teatro era costituita solo dal fitto colonnato ionico in calcare di Pignano posto dietro la scena (Dia 16); successivamente venne realizzata la perimetrazione dell’area antistante il primitivo porticato. 

In età Claudia (41-54 d.c.) vennero edificati due bracci est ed ovest, con colonne marmoree di stile corinzio, provvisti, al centro, di un’esedra in ciascun braccio. Un terzo braccio, di cui non conosciamo la struttura, si dovrebbe trovare al di sotto della strada moderna che chiude la zona archeologica di Vallebuona. Vi era anche un velarium, un telo sostenuto da corde che copriva l'intera area del teatro, poiché rimangono tracce della struttura che lo sosteneva.

TERME DI VALLEBUONA

LE TERME DI VALLEBUONA

Al centro dell’area racchiusa del porticato venne costruito nella prima metà del IV sec. d.c. un grande impianto termale di cui si è conservata soltanto la parte inferiore ed alcuni pavimenti a mosaico. Probabilmente con l'abbandono del teatro si utilizzarono materiali di reimpiego, infatti per la soglia dell’abside della prima stanza furono utilizzate due spalliere dei sedili dell’orchestra (oggi sostituiti con calchi).

Si entrava dal lato più vicino al teatro e la prima sala era adibita a spogliatoio (apodyterium), da qui si passava in un’ambiente quadrangolare provvisto di due nicchie absidate che costituivano le vasche per l’immersione in acqua fredda (frigidarium). Seguiva una stanza ellittica di passaggio che immetteva nelle stanze destinate ai bagni caldi; tale ambiente era pavimentato con un mosaico che è ancora visibile sul posto (Dia 17, 18).

La stanza aveva due porte ai due lati, per impedire la dispersione del calore dalle stanza calde a quelle fredde. Le stanze successive sono il tepidarium, il calidarium e il laconicum. In questi ambienti i pavimenti sono sopraelevati dal suolo per mezzo di pilastrini in terracotta (suspensurae) dove l’aria calda proveniente dai forni circolava nello spazio vuoto sotto il pavimento e si irradiava nelle pareti fino alla volta.

Le stanze conservano parte della decorazione in marmo delle pareti e alcuni mosaici, i quali permettono di datare l'impianto termale, non anteriore al III sec. d.c. Inoltre furono utilizzati alcune parti della decorazione marmorea del teatro, evidentemente già distrutto.



FONTI  DI  SAN  FELICE

Le fonti di san Felice sono state costruite nel 1319 ma, durante i lavori di restauro compiuti nel 1979, sono venuti alla luce numerosi resti più antichi. Presso la fonte è stato trovato un bronzetto etrusco evidentemente di un luogo di culto dedicato a divinità collegate all’acqua; inoltre da qui doveva partire una delle vie di comunicazione con il territorio.

FONTI DI SAN FELICE
Vicino alla porta nelle mura medievali vi sono pure alcuni blocchi squadrati che facevano parte della cinta muraria etrusca e, inglobata in questa struttura, una porzione di cloaca per il drenaggio delle acque, che attraversava le mura proprio in questo punto. La sorgente venne usata anche in epoca romana, e da qui partiva una conduttura che riforniva una cisterna che serviva da riserva d’acqua per un impianto termale posto più in basso; seguendo il sentiero che parte dalla postierla medievale troviamo prima la cisterna, trasformata oggi in magazzino per attrezzi agricoli, e poi le terme romane di S. Felice.

Presso S. Felice. Infatti proprio nelle immediate vicinanze della fonte medievale, è stata trovata una stipe che conteneva numerosi bronzetti votivi connessi con il culto delle acque; si tratta, in particolare, di raffigurazioni di portatori e portatrici d’acqua (Dia 39). Questa sorgente è stata quindi utilizzata fin dall’antichità, anche se non risulta così evidente e completa come nel caso di S. Felice.



TERME DI SAN FELICE

Le terme di S. Felice sono l’unica grande struttura conosciuta che si trovi al di fuori delle mura della città, forse per accogliere gli stranieri di passaggio e pure per il vicino approvvigionamento dell’acqua. Fra il 1874 e il 1884 il direttore del museo, Annibale Cinci, compì altri scavi nella zona e scoprì altri ambienti che conservavano i mosaici pavimentali, asportati e conservati nel Museo.

Le terme hanno stanze disposte radialmente; sono identificabili le zone destinate ai bagni caldi perché i pavimenti sostenuti dalle suspensurae sono abbastanza conservati. Sul lato nord è anche visibile una delle vasche per i bagni in acqua calda accanto a cui si trova il forno per il riscaldamento (praefurnium). Tutte le stanze erano rivestite di marmo e avevano pavimenti a mosaico; due di questi mosaici furono trasferiti al museo Guarnacci.

Una vasca di forma absidale lunga 3 m. e profonda 1,85 m. fu scoperta nel 1894 e venne quindi smontata e trasferita nel giardino del museo Guarnacci, in cui è tuttora visibile. Non sappiamo con esattezza quando l’edificio fu costruito, una iscrizione frammentaria oggi perduta non è sufficiente per la datazione, ma in base ai mosaici possiamo attribuirne la costruzione a non prima del III sec. d.c.

MURA ETRUSCHE DI VOLTERRA

LE MURA

Nel centro urbano di Volterra si conservano alcuni resti murari di età precedente a quella ellenistica; il pianoro dell’Acropoli fu infatti protetto con un muro in pietra nel V sec. a.c. Questa prima cerchia muraria, del perimetro di circa 1,5 Km serviva a proteggere solo la cima della collina e parte del pianoro sottostante.

Sono tuttora conservati imponenti resti di mura etrusche sia sotto il vecchio ospedale civile (presso Piazza S. Giovanni), che nelle strutture di alcuni edifici moderni in via Matteotti e in via della Porta all’Arco (Fig. 1). Nella prima metà del III sec. a.c. fu invece costruita una grande cerchia muraria che circondava la collina con un perimetro di circa 7 km racchiudendo al suo interno una superficie di 116 ha.
Le mura sono formate da grandi blocchi quadrangolari di arenaria locale rozzamente squadrati e giuntati a secco. Si conservano ancora due porte di epoca etrusca: la Porta all’Arco e la Porta Diana.

Le mura contemporanee alla porta non esistono più poichè furono sostituite da quelle comunali nella prima metà del XIII secolo; in questo tratto le mura medievali ricalcano il percorso di quelle antiche. 

ANFITEATRO RECENTEMENTE SCOPERTO

Un anfiteatro romano aspetta di venire alla luce 
(Fonte)

" Il ritrovamento casuale durante alcuni lavori è avvenuto un mese fa ed è stato presentato oggi ufficialmente: nei pressi dell'attuale cimitero una cinta muraria di forma ellittica che lascerebbe pensare ad una anfiteatro di epoca romana.

Un ulteriore gioiello che è ancora celato, da secoli, sotto terra. Adesso, infatti, andranno finanziati i lavori di scavo, una "scoperta archeologica molto importante che conferma il ruolo di Volterra anche in epoca romana". Dunque si dovrà lavorare per riportare alla luce questa meraviglia, trovando i fondi con la collaborazione di Regione e governo.

L'anfiteatro mancava a Volterra - ha spiegato la dottoressa Elena Sorge funzionario della Soprintendenza - e nella fonti non era proprio citato, dal 1400 in poi se n'era persa memoria e si confondeva con il teatro, ma quando abbiamo trovato 40 metri di mura con quella forma ci siamo dovuti arrendere all'evidenza".

Una scoperta, dunque, che se possibile, sorprende anche gli stessi archeologi: la particolarità è che il ritrovamento dei resti dell'anfiteatro è avvenuto in maniera casuale e di questa struttura si ignorava l'esistenza fino a quel momento. Accanto all'anfiteatro, nella zona, forse potrebbero esserci anche resti di ville risalenti alla stessa epoca e che farebbero pensare ad un insediamento romano importante che va ad aggiungersi al teatro di Vallebona scoperto negli anni 50.

La struttura trovata, dai primi studi e secondo quanto descritto stamani dalla dottoressa Sorge, parrebbe avere analogie con gli anfiteatri di Cagliari e Sutri. La parte ritrovata finora sarebbe quella dei passaggi da dove accedeva il pubblico; ciò significherebbe che sono la parte più alta della struttura e quindi l'anfiteatro sarebbe ancora interrato molti metri sottoterra. "



PROVOCATIO AD POPULO

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La provocatio ad populum è un istituto del diritto pubblico romano, introdotto dalla Lex Valeria de provocatione del 509 a.c. (rogata dal console Publio Valerio Publicola) e applicato in particolare nel periodo repubblicano. Il condannato rimetteva così la sentenza ai comizi, nella loro veste di tribunale supremo.

Gli studiosi sono incerti o contrastanti su una provocatio ad populum o istituti simili in età regia, quando il re aveva pieni poteri giurisdizionali, ma in cui è possibile che per i reati più gravi si riunisse l'assemblea dei patrizi.

L'opinione prevalente degli scrittori in età repubblicana, dunque le fonti primarie, sosteneva esistesse tale istituto anche in età regia: Cicerone, un autore molto accorto e documentato, infatti scrive: "I libri dei pontefici dicono che la provocatio c'era anche sotto i re, e lo dicono anche gli scritti degli auguri"« provocationem autem etiam a regibus fuisse declarant pontificii libri, significant nostri etiam augurales».

L'istituto della provocatio introdusse un diritto del condannato a morte a richiedere che la pena irrogatagli fosse riconsiderata da un'assemblea cittadina solo dopo l'approvazione della Lex Valeria, mentre per il periodo precedente la tradizione riferisce soltanto di una facoltà del rex nei casi in cui, a sua discrezione, sembrasse più opportuno rimettere la decisione a una assemblea cittadina.

L'ASSASSINIO DI ORAZIO

L'ORAZIO SORORICIDA

Controverso è il passo di Tito Livio sull'Orazio superstite dal duello contro i Curiazi, uccisore della sorella:

"Orazio procedeva portando davanti a sè le triplici spoglie dei Curiazi. La giovane sorella, che era stata fidanzata di uno dei Curiazi, va incontro a lui davanti alla porta Capena,e riconosciuto sopra le amate spalle il mantello dello sposo, che lei stessa aveva fatto, scioglie i capelli e invoca flebilmente il nome del fidanzato ucciso. Il pianto della sorella durante la sua vittoria e in una così grande gioia pubblica turba l'animo dell'arrogante giovane. 
E così sguainata la spada, schernendo nello stesso tempo con le parole, trafigge la fanciulla: "Raggiungi quindi il fidanzato, incurante dei fratelli uccisi e di quello vivo, incurante della patria. La stessa sorte tocchi a ogni donna romana, chiunque piangerà un nemico".
Subito fu mandato a chiamare per il sommo giudizio capitale davanti al re Tullio Ostilio, che, incerto su cosa fare, disse:

"Nomino i duumviri che giudicheranno Orazio secondo la legge".
Allora i giudici, esaminata la causa, secondo la severissima legge di alto tradimento, giudicarono Orazio colpevole e lo condannarono a morte."(Tito Livio)

Viene da chiedersi cosa c'entrasse l'alto tradimento, reato che riguarda la patria, con l'assassinio della sorella. Comunque qui il re si rimette ai duumviri, ma per sua decisione.

Invece Floro lo fa assolvere, per intercessione del padre e del popolo:

« Incerto e glorioso fu lo scontro e mirabile il suo esito finale. Poiché da una parte tre erano stati feriti, dall'altra due uccisi, l'Orazio che era rimasto vivo, aggiunse al valore l'inganno, e per separare i nemici finse la fuga e li vinse, battendoli separatamente, nell'ordine in cui lo raggiungevano. Così si ebbe una vittoria per mano di uno solo, cosa assai rara, il quale però si macchiò di un assassinio contro il proprio sangue. Aveva visto la sorella piangere sulle spoglie del fidanzato nemico. Vendicò questo amore di una vergine con la spada. Le leggi romane lo accusarono per il delitto, ma il valore [della sua vittoria] lo sottrassero alla pena, e il delitto fu inferiore alla gloria. »
(Annio Floro - Epitoma de Tito Livio bellorum omnium annorum)

Nè in Livio nè in Floro il re accorda la grazia, il che confermerebbe Cicerone, e cioè che la grazia spettasse al popolo.

VALERIO PUBLICOLA

PUBLIO VALERIO PUBLICOLA

La tradizione sottolinea che uno dei primi provvedimenti dello Stato repubblicano è quello di aver stabilito la provocatio ad populum, legata al nome di Publio Valerio Publicola, eletto nel 509 a.c., al primo rinnovo delle cariche consolari.

Si dice che quando Lucrezia convocò il padre dall'accampamento, dopo che Sesto Tarquinio ebbe commesso l'atto ignominioso, Publio Valerio accompagnò Lucrezio da sua figlia ed era a fianco di Lucrezia quando questa rivelò l'oltraggio di Sesto e si trafisse il cuore. Valerio, assieme a tutti gli altri presenti, giurò vendetta per quella morte e immediatamente la compirono scacciando i Tarquini dalla città.

Giunio Bruto e Lucio Tarquinio Collatino furono eletti per primi come consoli nel 509 a.c., ma poiché il nome Tarquinio rendeva Collatino oggetto di sospetti, fu obbligato a dimettersi ed a lasciare la città: Valerio fu eletto al suo posto. Poco tempo dopo le città di Veio e di Tarquinia  marciarono con loro contro Roma. I romani vinsero e Valerio poté rientrare a Roma e celebrare il primo trionfo di un condottiero romano.

Valerio fu ora lasciato senza collega; e quando cominciò nello stesso tempo a costruire una casa sulla parte superiore della collina Velia, che si affacciava sul foro, il popolo temette volesse diventare re. Conosciuti i sospetti Valerio demolì la costruzione in una sola notte così che il giorno dopo il popolo, imbarazzato del proprio comportamento, gli assegnò un pezzo di terra ai piedi della Velia, con il privilegio di avere la porta della casa aperta nella via.

Quando Valerio comparve davanti al popolo, ordinò ai littori di abbassare i fasci davanti al popolo, come riconoscimento che il loro potere era superiore al suo. Promulgò quindi una legge che chiunque avesse tentato di farsi re sarebbe stato consacrato agli Dei e chiunque voleva avrebbe potuto ucciderlo.

"Dichiarò un'altra legge che ogni cittadino che fosse stato condannato da un magistrato alla pena capitale avrebbe avuto il diritto di appellarsi al popolo" (provocatio ad populum); ora poiché i patrizi avevano avuto questo diritto sotto i re, è probabile che la legge di Valerio abbia conferito lo stesso privilegio ai plebei. Da ultimo permise la nomina di due questori da parte del popolo.



I COMIZI

Il popolo romano, per guidare la politica dello Stato, soleva raccogliersi  in varie assemblee dette:
- Comitia Curiata,
- Comitia Centuriata
- Comitia tributi
- Concilia plebis


I Comizi Curiati

I comizi curiati erano la più antica assemblea romana, secondo alcuni solo patrizia, per altri anche plebea ma con poteri minori. I Romani usavano una forma di democrazia diretta, per cui i cittadini-elettori votavano le decisioni in assemblea. Ogni assemblea era presieduta da un magistrato che decretava su questioni sia procedurali che legali. Decidevano sulla "provocatio ad populum".

L'unico modo per controllare il potere del magistrato era quello di porre il veto da parte di altri magistrati:, vale a dire o i tribuni della plebe o dei magistrati di rango superiore. In una prima fase il popolo si esprimesse 'attraverso' i comizi curiati, poi in seguito alla legge delle XII tavole la "provocatio ad populum" si svolse 'davanti' ai comizi centuriati.


I Comizi Centuriati

Era l'unica basata su un criterio censitario timocratico (in base al possedimento dei beni), e gerontocratico (gli anziani tra i 46 e i 60 anni, avevano maggiore dignità politica rispetto agli iuvenes, i giovani tra i 18 e i 45 anni). Tramite i comizi ceturiati il popolo nominava censori, consoli e pretori, inoltre interveniva nella legislazione (spesso in comunione col senato) e nella dichiarazione di guerre. 

Ma funzionavano come tribunale nelle condanne alla pena capitale, nel giudizio del reato di alto tradimento e, almeno nel periodo repubblicano, fino alla fine del II sec. a.c., poteva sottrarre l'imputato, condannato a morte dal magistrato, che lo richiedesse sottoponendolo al giudizio popolare. Appellandosi al popolo, l'imputato insinuava il sospetto che fosse in atto, ai suoi danni, una persecuzione motivata da ragioni politiche. 
Decidevano pertanto sulla "provocatio ad populum".


I Comizi Tributi

Accoglievano sia patrizi che plebei, ed eleggevano i questori, gli edili curuli, le cariche ausiliarie e, da un certo periodo, anche il pontefice massimo ed altre cariche sacerdotali. In epoca tardo repubblicana, condussero gran parte dei processi. Non decidevano sulla "provocatio ad populum".


I Concilii della Plebe

Si formarono in seguito alla secessione della plebe sul Monte Sacro nel 494 a.c. per rivendicare il diritto della plebe di partecipare alla vita politica. Vennero così creati i tribuni della plebe e gli edili. Le delibere della plebe raccolta nell'assemblea convocata dal tribuno della plebe prenderanno il nome di plebiscita (plebisciti). Da queste assemblee, naturalmente, saranno esclusi i patrizi. Non decidevano sulla "provocatio ad populum".

In età repubblicana il diritto alla provocatio fu poi sottoposto a diverse restrizioni da parte del senato e dei magistrati, gelosi delle loro prerogative giurisdizionali, ma purtuttavia rimase. In età imperiale, tale istituto scomparve, sostituito dall'appello all'imperatore.

Questa interpretazione è confutata da altri studiosi, in quanto sarebbe erroneo qualificare la provocatio come «appello al popolo», poiché l'appello presuppone il precedente giudizio di un magistrato, giudizio che qui manca: in quella fase del diritto romano, il popolo è infatti già titolare di una sua giurisdizione, la funzione di iudicatio, che convive insieme con la coercitio del re.

In questa interpretazione, quindi, la provocatio ha sì la funzione di "tamponare" gli eventuali eccessi di imperium, prima del re e poi dei magistrati, ma il ruolo dell'assemblea non è quello di appello, ma di vero e proprio giudizio, in quanto l'atto del magistrato è un atto di amministrazione, non un atto di giurisdizione.



I LITTORI

In una prima fase la provocatio fu applicabile solo per condannati a morte della classe patrizia, venne poi esteso anche ai plebei. Come segno esterno della provocatio ad populum i littori che precedevano i magistrati (consoli e dittatori), quando erano nella città di Roma, portavano i fasci littori privi di scure, a indicare che il magistrato era privo del potere di erogare pene capitali. Fuori Roma, come accadeva nelle campagne militari, il potere era in genere pieno, e i littori portavano i fasci con le scuri.

SCOPERTA DEL CORPO DI CATILINA

LA CONGIURA DI CATILINA

Cicerone, durante la congiura di Catilina, mise a morte nel carcere Tullianum cittadini romani complici di Catilina senza concedere la provocatio. Publio Clodio Pulcro, suo avversario politico, fece allora votare una legge che stabiliva la pena dell'esilio a chi avesse deliberato una condanna a morte senza concedere la provocatio.

La Lex Clodia de capite civis Romani (Legge Clodia sulla condanna a morte di un cittadino romano) fu una legge fatta approvare tramite gli scita plebis (plebiscito) cioè deliberazione della sola plebe riunita nei concilia plebis, da Publio Clodio Pulcro, avversario politico di Cicerone, che stabiliva la pena dell'esilio per chi avesse deliberato una condanna a morte senza concedere la provocatio ad populum, cioè la facoltà per ciascun cittadino romano di ricorrere in appello al popolo per evitare la condanna.

Nel 58 a.c. Clodio propose la legge clodia, per garantire i "diritti fondamentali" del cittadino, limitando il potere del senato e degli ottimati nel corso dei processi: e proponeva di concedere ai condannati la facoltà di appello al popolo, la provocatio ad populum, con valore retroattivo a tutti coloro che avevano ratificato l'uccisione di un cittadino romano senza concedergli tale diritto. Il provvedimento era diretto contro Cicerone, che nel 63 a.c. aveva permesso la condanna dei Catilinari senza appello al popolo.

La proposta accolta dalle fasce più basse della popolazione e dai sostenitori di Catilina, nonchè da Gaio Giulio Cesare, che in occasione del processo ai Catilinari si era battuto perché si scegliesse il confino come condanna di Catilina, e pure per allontanare Cicerone dalla scena politica, e dei triumviri, che avrebbero così visto diminuire il potere del senato

Visto il generale consenso alla proposta di Clodio, alla vigilia della sua approvazione Cicerone lasciò Roma, sostenendo di essere stato invitato a farlo da Pompeo e dagli ottimati, che speravano così di evitare disordini.



LA PROVOCATIO IN ETA' IMPERIALE

In età imperiale la provocatio è ancora attestata, ma ormai il populus è sostituito dall'imperator. Ma una nuova figura si impone: il cittadino romano pronunciando le parole "Caesarem appello" si sottraeva alla giurisdizione del magistrato provinciale e la causa era trasferita a Roma. San Paolo si sottrasse per due anni alla condanna grazie a questo appello e venne condotto a Roma. Augusto amò trasferirsi i diversi poteri, e i suoi successori lo imitarono.

Il Giurista Paolo in "Sententiarum Receptarum libri quinque" scrive:
« Iulia de vi publica damnatur qui… civem Romanum antea ad populum provocationem nunc imperatorem appellantem necaverit necarive iusserit.»
(Lex Iulia De Vi Publica, sia condannato colui che uccide o ordina di uccidere un cittadino romano che si sia appellato, davanti al popolo o davanti all'imperatore.

Cronologia delle leggi sulla provocatio ad populum:

- 509 a.c. Lex Valeria
- I magistrati non potevano sottoporre a fustigazione o condannare a morte il cittadino romano che avesse esercitato la provocatio ad populum
- 454 Lex Aternia erpeia
- 452 Lex Menenia Sestia
- Il limite delle multe per i cittadini romani, oltrepassato il quale era possibile invocare la provocatio era fissato in 3.020 assi, pari al valore di 30 buoi più due pecore.
- La stessa provocatio ad populum veniva esercitata, in certi casi, dai sacerdoti sottoposti al pontefice massimo, i quali fossero stati da questo multati.
- 450 Leges XII Tab.
- La condanna a morte del cittadino doveva essere pronunciata dai Comizi centuriati.
- 449 Lex Valeria Horatia
- Non potevano essere istituite nuove magistrature che fossero esenti dal rispetto della provocatio
- 300 Lex Valeria
- ascritta al console M. Valerio Corvo, la quale dichiarava come "meritevole di riprovazione" l'atto del magistrato che avesse fatto fustigare e uccidere un cittadino in mancanza di provocatio.
- 199 a.c. Lex Porcia I, detta Lex Porcia de capite civium.
- Estende il diritto di provocatio oltre i 1000 passi da Roma, quindi in favore dei cittadini romani residenti nelle province e dei soldati nei confronti del loro comandante.
- 195 a.c. Lex Porcia II, detta Lex Porcia de tergo civium.
- Estese la facoltà di provocatio ad populum contro la fustigazione.
- 184 a.c. Lex Porcia III.
- Prevedeva una sanzione molto severa (forse la pena capitale) per il magistrato che non avesse concesso la provocatio.

Come si legge, la Provocatio ad Populum non solo poteva salvare dalla pena di morte, ma pure dalla fustigazione e dalle multe. Se perfino i pontefici potevano appellarsi al popolo perchè il sommo pontefice li aveva multati, visto il grande ascendente che la più alta carica religiosa aveva sul popolo e perfino sul senato, si comprende quanto fosse vasto in epoca romana il potere del popolo.

MAGNI CIRCENSES

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« [Populus romanus] duas tantum res anxius optat:  panem et circenses »
( [Il popolo romano] due sole cose ansiosamente desidera: il pane e i giochi circensi )
(Giovenale - Satira X)



I LUDI

I latini chiamavano "lusus" i giochì privati, generalmente istituiti per celebrare grandi eventi della familia, come matrimoni o importanti promozioni militari o politiche, mentre appellavano ludi i giochi pubblici indetti dallo stato. 

C'erano poi i ludi funebres privati, celebrati in onore di defunti di alta posizione sociale e cioè di magistrati e di ottimati. Come presso gli Etruschi e i Greci, le cerimonie di culto per i Romani, fin dai tempi antichissimi, erano associati a spettacoli pubblici. Spesso infatti i teatri venivano usati per celebrazioni religiose che includevano i combattimenti tra i nemici vinti e fatti schiavi.

Soprattutto in tempo di guerra o temendo una guerra, o preparando una guerra, i romani facevano agli Dei voto di pubblici spettacoli. Emesso il voto, si stabiliva la somma necessaria da prelevarsi dal pubblico tesoro per l'allestimento dei giochi e, se necessario, si destinava ad essi anche una parte dello sperato bottino di guerra. I ludi stabiliti con questa procedura si dicevano Ludi Votivi, e potevano essere promessi per una sola volta.

In taluni casi, affinchè il voto fosse più grande e più gradito agli Dei, si prometteva l'annuale ripetizione di essi in un determinato giorno o serie di giorni. In tal caso si dicevano Ludi Stati o LudiAnnui, e venivano registrati nel calendario romano.



MAGNI CIRCENSES SATURNALIA 

Sembra che i ludi più antichi fossero quelli istituiti nell'età di Saturno, la mitica età dell'oro dei romani, quando tutto era armonia e allegria, e quando la giustizia regnava sovrana. Da qui si pensa siano nati i Magni Circenses, giochi in onore del grande Dio che precedette Giove.

Secondo Varrone Saturno, ovvero Saturnus, fu così chiamato dai termini "ab satu" cioè da "generare, quindi colui che genera animali e piante sulla terra. Oppure sat deriverebbe dal sanscrito "vero""eterno""che non cambia", i termini riservati al divino assoluto. Saturno comunque è il Dio romano derivato in parte dal Dio greco Crono, spodestato da Giove.

"Saturnus Romanorum deus erat, oppidumque magna cum benevolentia regebat ac protegebat. Sed poetae de Saturno miram fabulam sic narrabant. Olim filius Iuppiter Saturnum, deum dominum, regno expellit; tum Saturnus ex Olympo in Italiam venit, ibique Latinorum regnum obtinet. 
Sub Saturnum inter paeninsulae incolas concordia atque benevolentia vigebant, quia Saturnus regni fundamentum in iustitia ac temperantia ponebat. 
Ideo Romani Saturni regnum etiam nunc grata memoria celebrant, semperque celebrabunt: appellant aureum Saturni aevum, et Saturniam Italie terram; Romae incolae, denique , quotannis Saturnalia ludis iocisque celebrant."

"Saturno era il Dio dei Romani e governava e proteggeva le città con benevolenza. Ma i poeti su Saturno narravano una storia. Un tempo, il figlio di Saturno, Giove, cacciò il Dio fuori dal suo regno; per cui Saturno scese in Italia dalle altezze dell'Olimpo, e qui ottenne il regno dei Latini.
Sotto Saturno fiorì l'armonia e la concordia tra gli abitanti della penisola, perché il regno di Saturno poneva come fondamento la giustizia e la temperanza.

Pertanto, il regno di Saturno i romani ancora celebrano con grata memoria, e sempre celebreranno: lo chiamano l'età d'oro di Saturno, e Saturno terra d'Italia; Gli abitanti di Roma, pertanto, ogni anno celebrano i Saturnalia con i suoi Ludi"

Saturno era rappresentato con la falce in mano e coi piedi avvolti in bende di lana, che si svolgevano pian piano durante il mese di dicembre, simboleggiando lo scioglimento dei vincoli che impedivano al seme di diventare germoglio. Se però Saturno era il Dio che faceva germogliare il seme, Conso era il Dio che proteggeva il seme sotto terra affinchè potesse poi germogliare sotto l'influenza di Saturno. 



MAGNI CIRCENSES CONSUALIA

Pertanto poco prima dei Saturnalia i romani celebravano i Consualia, per invocare la protezione sui semi posti a dimora dentro la terra arata. A Conso era pertanto dedicato un altare ipogeo al centro del circo Massimo, l'Ara Consi, e soprattutto erano dedicati i Magni Circenses, i primi ludi romani.

Sembra che anticamente (come riscontrato nel calendario di Amiterno) dal giorno 12 al 15 di dicembre si svolgessero le celebrazioni in onore del Dio: il 12 col nome "Conso in Aventino" dove evidentemente aveva il suo tempio, ed il 15 c'erano le "Feriae Conso" che inauguravano anche i giochi nel Circo Massimo, vicino alla cappella del Dio "Aedes Consi".

I « Magni Circenses » finirono per esser dedicati al Dio Conso ed a Saturno, forse, nelle tradizioni dell'antico Lazio, unica e identica divinità. L'appellativo di Magni passò poi alla forma veramente nazionale di giochi: i ludi romani, per molto tempo unico tipo di queste manifestazioni di culto, seguita poi dai Ludi Plebei, sdoppiamento di quel primitivo tipo in seguito alle lotte di classe fra patrizi e plebei, e quindi dai Ceriali, dagli Apollinares, dai Megalensi, dai Floreali.

Comunque i primi Magni Circenses, o giochi gladiatorii che dir si voglia, sembra siano stati istituiti dal re Tarquinio Prisco, e a parere dello storico Quinto Asconio Pediano (9 a.c. - 76 d.c.) vennero detti "Magni" per la grande spesa che costarono la prima volta, vale a dire di ben 200 scudi. Secondo lo storico però i Ludi sarebbero stati dedicati ai Lari.

Però altri autori lo smentiscono, perchè sembra che Tarquinio non istituì i primi giochi gladiatori, cioè i Ludi Circenses, ma istituì i Ludi scenici, cioè di teatro, che semplicemente aggiunse a quelli gladiatori. Detti giochi durarono prima uno, poi due, poi tre giorni, e poi ancora di più. soprattutto per celebrare i trionfi, cioè anche otto giorni o ancora di più, secondo i casi.



D'altronde, per significare l'importanza e la sacralità dei giochi, Plutarco ( Quaest Rorn., 66) narra di un antico Flaminio, il quale avrebbe lasciato al popolo i suoi campi stabilendo che, con una parte del reddito, si celebrassero giochi equestri e col resto si aprisse la via, che per tal ragione insieme col Circo, sorto poi su quei campi, si sarebbe chiamata Flaminia.

I Giochi pubblici si distinguevano poi, a seconda del luogo ove venivano celebrati, in: 
- Circenses, se nel circo, 
- Scaenici o theatrales, se in un teatro stabile o posticcio, 
- Compitalicii, se rappresentati nelle pubbliche piazze. 
I ludi gladiatorii e i combattimenti con le fiere, di carattere cruento, furono in origine dati soltanto da privati in occasioni di solenni funerali, nei novendiali.

"Se si eccettuino le Equine, ο corse di cavalli in onore di Marte nella Campus Martius, che rappresentano le lontanissime origini delle cosidette corse dei barbari, che i nostri vecchi ancora ricordano, gli antichissimi Magni Circenses, e poi tutti gli altri: i Romani, i Plebei, gli Apollinari, ecc. si celebravano nella grande valle, interposta tra il Palatino e l'Aventino, la celebre Vallis Murcia, sede delle primitive leggende di Roma e che, per la sua configurazione geografica, era già di per sè stessa l'ippodromo naturale, offerto ai primitivi abitatori del Palatino, dell'Aventino e dei finitimi colli. 
In mezzo alla valle un'antichissima ara di Conso, protettore dei cavalli e dei muli, che, durante tali feste, venivano inghirlandati di fiori, era il centro di tali cerimonie, ed in quei giorni di dicembre, nei quali celebravansi appunto le Consualia, scoprivasi, essendo nel resto dell'anno interrata, per simboleggiare il seme, che si confida in grembo alla terra, mentre al simulacro di Saturno, Dio della generazione, identificato con Conso, scioglievansi le bende di lana."
(Marchetti Longo 1922)

I Magna Circenses dunque, i più antichi di tutti i ludi romani, ricollegavano la loro origine con le gare mitiche di Enomao e Tantalo nell'Elide, e con quelle cui partecipò Ercole. Ma la tradizione dei popoli latini stabilì che fossero stati istituiti da Romolo, subito dopo la fondazione di Roma, in onore di Nettuno, nella festività dei Consualia. Questi ludi detti Consuales o Magni, si celebravano solennemente nella valle Murcia, tra il Palatino e l'Aventino, con corse di carri e di cavalli.




MAGNI CIRCENSES MEGALESI

I Magni Circenses rimasero però come denominazione legati ai ludi degli antichi, poi attribuiti anche ai Circenses Megalesi (o Megalensi). Le Megalesia o Megalensia erano una festività romana celebrata a Roma antica nel mese di aprile in onore della Grande Madre Cibele.

Trattavasi di un'antica divinità anatolica, venerata come Grande Madre Idea, dal monte Ida presso Troia, Dea della natura, degli animali (potnia theron) e dei luoghi selvaggi. La più antica collezione di profezie sibilline, i Libri sibillini, sembra essere stata prodotta sul monte Ida; attribuiti alla Sibilla ellesponitina. 

E furono proprio i Libri sibillini, consultati dai pontefici romani, che stabilirono, onde salvare Roma dalla guerra cartaginese, di portare nell'Urbe il simulacro della Dea Madre, cosa che i romani fecero festeggiando la Dea con tutti gli onori, compresi i Magni Circenses Megalesi, che durarono diversi giorni con grande dispendio di denaro e grande spettacolo, perchè fortissima era la paura di veder cadere Roma ad opera dei Cartaginesi.

La pietra nera di Cibele fu portata a Roma da Pessinunte nel 204 a.c., quando venne introdotto a Roma il Culto della Magna Mater, e il giorno del suo arrivo una grande processione ebbe luogo dal punto dell'approdo della nave fino al Campidoglio. 

Era l'anno in cui si giocavano i destini di Roma e di Cartagine. In quell'anno infatti Scipione ottenne la carica di proconsole in Africa, potendo finalmente portare avanti il progetto che aveva in mente già dagli anni delle campagne in Spagna: portare la guerra contro Cartagine sul suo stesso suolo, in Africa.

La celebrazione abituale del Megalesia, tuttavia, non cominciò fino a dodici anni più tardi (191 a.c.), quando il tempio della Magna Mater, fatto costruire nel 203 a.c., fu completato e dedicato dal pretore Marco Giunio Bruto. Anche se da un altro passo di Livio sembra che i Megalesia fossero già celebrati nel 193 a.c.

Nel 193 a.c. il re berbero Massinissa occupò Emporia e il Senato romano inviò a Cartagine una delegazione per tranquillizzarla, ma Catone, che fa parte della spedizione, porta con sè un cesto di fichi cartaginesi e li mostra ancora freschi al senato, per far comprendere quanto Cartagine fosse pericolosamente vicina. Risuona il "Carthago delenda est".

La guerra è ancora una volta all'orizzonte. Per propiziarsi la Dea i romani indicono ancora i Magni Circenses Megalesi. Grande paura. grandi giochi.

Mentre nei tempi più antichi gli spettatori assistevano in piedi allo spettacolo, vennero poi disposti sedili per maggior comodo degli spettatori. Del resto anche la loro durata aumentò nel tempo; soprattutto i Magni Circenses che s'iniziavano in varie ore del giorno, talvolta dalla mattina, e si protraevano sino a sera.

Complessivamente i ludi dati in giorni fissi, al tempo di Cesare, occupavano ben 65 giorni dell'anno; ma nel. IV sec. il popolo romano impiegava nell'assistere ai giochi ben 175 giorni, cioè poco meno della metà dell'intero anno. Da qui si comprende perchè i romani per metà dell'anno fossero in Feriae, cioè non lavorassero. Beati loro.

CULTO DI ALERNO

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DEA CON ARBUSTO PREPOSTA A NASCITE E CRESCITE, COME CAMA
Alernus o Elernus o Avernus, ma pure Helernus (Helemo), un Dio arcaico il cui sacro boschetto (lucus) era vicino al fiume Tevere. È chiamato definitivamente solo da Ovidio.  Il boschetto era il luogo in cui era nata la ninfa Cranea e, nonostante l'oscurità del Dio, i sacerdoti dello stato avevano ancora riti sacri nel tempo di Augusto.

Cranae sembra assumesse vari nomi a seconda dei pagus in cui era venerata: Cardea, Cama e Carmenta sono su per giù la medesima Dea (o ninfa). Cama era una misteriosa Dea dei fagioli, figlia del Dio Alerno (o Averno) che aveva dei Sacri Misteri e veniva festeggiata il I di luglio con una cerimonia detta Camival. Da Camival a Carnival il passo è breve, tanto più che Cama e Cardea (ma pure Cranae) erano la stessa Dea.

Alernus deve essere stato un Dio ctonio, visto che in suo onore veniva sacrificato un bue nero, dato che le vittime scure furono offerte alle divinità del mundus, cioè del mondo del sottosuolo. Dumézil ne ha trovato accenno come a un Dio dei fagioli. Qualcosa di simile doveva essere perchè i legumi avendo un seme nascosto venivano associati spesso agli inferi.

Sappiamo però che i fagioli erano connessi alla Dea italica Mellona o Mellonia che era ritenuta appunto Dea dei fagioli ma la religione romana variava, si sa, a seconda dei pagus.

IL CARNIVAL
Ovidio scrive di Alerno: "I pontefici ancora vi portano sacrifici. Lì era nata una ninfa (gli antichi la chiamavano Cranaë), spesso bramata da diversi pretendenti. La sua abitudine era di correre per le campagne e cacciare le bestie selvagge con i suoi dardi, e nelle vallate stendere le reti nodose. Non conosceva la paura, e si pensava fosse la sorella di Febo; e di certo Febo non doveva vergognarsi di lei."

Ovidio assimila la ninfa Cranea a un'altra Dea arcaica di nome Cardea, di cui ricordò alcune tradizioni. Ancora i sacerdoti le facevano sacrifici al tempo di Augusto. Cardea era l'antica Dea romana del cardine della porta. 

I Romani usavano una cerniera su un perno ancora oggi comunemente usata e numerose cerniere romane sono ancora conservate all'interno di musei e rovine romane. 

Cardea era spesso associata a due altri Dei minori conosciuti come Forculus, Dio delle porte (lat. fores)) e da Limentinus, (lat. limes - soglia).

Gli scrittori cristiani come Sant'Agostino provarono orrore verso il politeismo che aveva sostenuto tanti popoli per millenni prima di Cristo, condannando la debolezza e la trivialità di questi Dei dicendo che:
"evidentemente Forculus non può guardare contemporaneamente la cerniera e la soglia" (avendo bisogno di Limentinus e di Cardea).

Dunque Cranea era una Diana locale, Dea per antonomasia, della terra (la caccia), del cielo (la luna) e degli inferi (Ecate).

Pertanto non deve stupire che sia collegata con la porta degli inferi (con cerniera e soglia che dividevano il mondo dei vivi dal mondo dei morti). I fagioli, cibo inestinguibile che si adatta ad ogni terreno e ad ogni clima, è stato da sempre il cibo dei poveri ma pure degli inferi.
Infatti le Feste Parentalia che venivano celebrate per onorare i parenti defunti si svolgevano nella settimana che va dal 13 al 21 febbraio, e in quest’ultimo giorno si credeva che le anime dei defunti potessero girare liberamente tra i vivi.

Così in quest'occasione ogni pater familias si aggirava nel cuore della notte a piedi nudi per la casa, lanciando fave tutto intorno, per liberarla appunto dai lemures. Oppure poneva in bocca dei fagioli e li sputava intorno recitando una formula.

Dunque Alerno o Averno doveva inoltrare i vivi al mondo dei morti, attraverso la Dea Cardea o Carnea o Cranea, quindi era uno Dio psicopompo, che doveva avere un aedes e un bosco sacro accanto al Tevere, dove probabilmente i romani invocavano i loro defunti affinchè li proteggessero.


Lucus Helerni

- È ricordato soltanto da Ovidio nei due passi seguenti:
"Adiacet antiquus Tiberino lucus Helerni / 
Pontifices illuc nunc quoque sacra ferunt"
e
"Tunc quoque vicini lucus celehratur Helerni / 
Qua petit aequoreas advena Tybris aquas"

La maggior parte dei topografi, fondandosi sul "qua petit aequoreas", collocano il bosco alla foce del Tevere. Ma è possibile che il verso non indichi il gettarsi delle acque del fiume nel mare, ma il loro procedere verso il mare, per cui non si alluda alla foce, ma ad un sito qualunque nelle vicinanze del Tevere.

E poichè nel bosco venivano celebrate due feste l'anno, è probabile che esso fosse situato molto distante da Roma, anzi rende probabile fosse nei pressi della città. La tradizione narra che Romolo non permise che l' Aventino fosse abitato, perchè lo volle sacro alla memoria del fratello Remo, usque ad Hilernam, ma in parecchi manoscritti si legge asyli od averni invece di Helerni.

Per cui l'ubicazione sulle rive del Tevere presso l'Aventino non è certa. Ancora ai tempi di Ovidio si celebravano nel lucus le feste in onore della Dea Carnea il 1° giugno, e feste a Giunone il 1° febbraio di ogni anno. Secondo Svetonio il lucus era nel Campus tiberinus che stava accanto al Campo Marzio. Helerno era comunque un'antica divinità di cui nulla si sa se non che veniva festeggiato il I di febbraio, come spiega Ovidio nei Fasti.

AREA APOLLINIS

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FRONTE DEL TEMPLUM APOLLINIS SUL PALATINO

Occorre anzitutto riconoscere due aree ambedue dedicate ad Apollo ma molto diverse tra loro: una è l'Area di Apollo e Spleni, l'altra è detta solo Area di Apollo.

AREA APOLLINIS

AREA APOLLINIS ET SPLENIS

L'Area Apollinis et Splenis ("Area di Apollo e Splenio") era un'area sacra, di cui non è rimasto assolutamente nulla, che si trovava nella Regio I Porta Capena, la prima delle 14 regioni di Roma augustea, riportata poi dai Cataloghi regionari, che occupava la valle tra Celio e Palatino. Splenio potrebbe essere una divinità antica poi assimilata ad Apollo col significato di splendido, cioè luminoso, epiteto che ben si adatta al Dio del sole.

L'area prese il nome dalla porta delle mura serviane da cui entrava la via Appia e si estendeva nella valle da questa percorsa a sud del Celio lungo la via Latina, fino oltre il successivo percorso delle mura aureliane. Qui si estendeva dalla Porta Appia, fino alla Porta Metronia, includendo la Porta Latina, ed oltre le mura il fiume Almone. 

Quest'area è citata nei Cataloghi regionari, redatti all'epoca di Costantino nel IV sec. e si ritiene oggi che sopra l'Area Apollinis et Splenis, sorse successivamente la Basilica di San Saba. Un tempo, a causa dell'erronea attribuzione di un frammento marmoreo della Forma Urbis Romae severiana su cui si legge [A]REA APO[LLINIS] (ora attribuita all'area sul Palatino), si riteneva che potesse essere costituita da un'ampia superficie scoperta al cui centro sorgeva un altare o una statua su podio.



AREA APOLLINIS

Il luogo su cui sorse il Themplum Apollinis faceva parte della Domus Augustana, un'area di proprietà di Augusto, acquistata a sue spese.  Infatti la casa di Ottaviano era collegata alla vastissima Area Apollinis, cioè alla grande terrazza del santuario per mezzo di corridoi voltati e affrescati, secondo le usanze regali ellenistiche, dove la dinastia era legata agli Dei.

L'area Apollinis, cioè l'area antistante il tempio, era una terrazza artificiale (70x30 m), poggiante su costruzioni in opera quadrata (opus quadratum). Nella parte settentrionale di tale terrazza il tempio si elevava su un alto podio, costruito in blocchi interamente rivestiti di travertino nelle parti portanti e con i tratti intermedi riempiti in cementizio.

TEMPLUM APOLLINIS
Nell'area Apolinis, ai piedi del tempio, doveva trovarsi l'ara sacrificale. Tutt'intorno al resto dell'area si doveva levare un porticato con botteghe e tabernae. Al centro e lungo i portici i mosaici pavimentali antistanti il tempio, e poi giardini, gli immancabili cipressi, colonne, viali, fontane e statue del Dio, nonchè le immancabili statue di Augusto.

Il podio fu ritrovato quasi completamente spogliato del rivestimento. Nulla si conserva dell'alzato del tempio sopra il podio. Il vandalismo cattolico e l'avidità dei posteri ha spianato totalmente questa superba bellezza monumentale dell'antica Roma.



CARNARIA (1 Giugno)

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CARNARIA

- 1 giugno festa in onore di Carna, Dea romana protettrice degli organi interni e della buona digestione, soprattutto dei bambini. Si offriva alla Dea un piatto di farro, fave e lardo. Aveva un tempio sul Caelius, costruito da Marcus Iunius Brutus primo console di Roma.


CARNEIO

- In tempi remoti Carneio era una divinità dei Dori, fusa in seguito con Apollo creando la divinità dell'Apollo Carneo, molto seguito nelle città doriche tanto che durante le sue feste ci si asteneva dalla guerra.

Carneo in alcune città, tuttavia, restò la divinità protettrice delle greggi, Il sacrificio solenne delle feste carnee era appunto quello d'un capro; probabilmente le sembianze del Dio erano rappresentate con testa, o almeno con corna di capro. Insomma simile a un fauno.


CARNEO

- La festa nazionale di tutti i Dori in Grecia, le Carnee, furono istituite per espiare l'uccisione dell'indovino Carneo, feste dunque di carattere naturalistico ed espiatorio, certamente derivate alla religione greca da un culto preellenico. 

Le due cerimonie principali che si sono tramandate per le feste carnee ci confermano il carattere originario del culto; una è la festa di corsa di giovani, che, sorreggendo grappoli d'uva, si lanciavano all'inseguimento di un corridore, partito per primo, tutto incoronato di bende; l'altra cerimonia era quella delle tende: si drizzavano nella campagna nove tende, o pergole, entro ciascuna delle quali prendevano posto nove cittadini che banchettavano in onore del Dio. 


CRANEA

Il sacro boschetto del Dio Alerno, per il quale, sostiene Ovidio, i pontefici ancora sotto Augusto eseguivano i riti sacri, era il luogo di nascita della ninfa Cranea, figlia di Alerno, che doveva essere un Dio ctonio, visto che gli si immolava un bue nero, e le vittime scure si offrivano agli Dei inferi.
 
La ninfa Cranaë era una cacciatrice, spesso scambiata con Diana, tranne che usava giavellotti e reti piuttosto che arco e frecce. Quando i suoi innumerevoli aspiranti tentarono di sedurla, lei si giocò di ognuno: "Apriti la strada verso una caverna isolata, e io seguirò". Invece Cranaë si nascondeva tra i cespugli (6.105-118).

Non potè fare la stessa cosa col Dio Giano, anch'egli preso da lei. perchè Giano con una faccia guardava anche dietro. Così il Dio la possiede ma "In cambio del nostro rapporto , il diritto del cardine sarà tuo, prendilo come pagamento per la verginità perduta"(6.119-128). Come pegno, le dette il biancospino, che protegge le case da influenze negative. 


A ROMA

Ovidio inizia osservando che il primo giorno del mese è dedicato a Carna, che identifica come la Dea della cerniera, altrove conosciuta come Cardea, e Ovidio specifica che: 
"Per mezzo della sua presenza divina apre le cose che sono state chiuse e chiude le cose che sono state aperte ". 
La fonte dei suoi poteri è oscurata dal tempo, ma Ovidio li svelerà. E' chiaro che si tratta di un'antica Dea Madre.

A Roma Cardea era anche Dea della salute, chiamata anche Carnea, che proteggeva la salute dei bambini come aveva protetto, nel mito, in qualità di maga, il bimbo Proco dalle Arpie. Era anche Dea dei cardini, delle soglie, delle porte e delle maniglie. Per lei si appendevano maschere, palline e figurine agli usci o agli alberi, per favorire la crescita del grano, il che la designa pure come Dea delle messi. Quindi Dea triforme

Suoi aiutanti erano altri due Dei: Forculus e Limentinus (o Limentinum). Forculus proteggeva l'integrità delle porte per la parte lignea e Limentium proteggeva la soglia della casa.

Poichè la Dea: "può aprire ciò che è chiuso; può chiudere ciò che è aperto." apriva l'anno nuovo e chiudeva l'anno vecchio, ed era la Dea del principio e della fine, della nascita e della morte. Le era sacra la pianta del biancospino e del corbezzolo, ambedue con fiori candidi.

Secondo altre fonti, tra cui Servio Onorato, Cardea era la Dea del cardine, Forculus del battente e Portunus della chiave. Per altri ancora Forculus custodiva le imposte; Limentinus la soglia e l'architrave e Cardea i cardini.

Le due cerimonie principali che si sono tramandate per le feste carnee doriche ci confermano íl carattere originario del culto; una è la festa di corsa di giovani, che, sorreggendo grappoli d'uva, si lanciavano all'inseguimento di un corridore, partito per primo, tutto incoronato di bende; l'altra cerimonia era quella delle tende: si drizzavano nella campagna nove tende, o pergole, entro ciascuna delle quali prendevano posto nove cittadini che banchettavano in onore del Dio. 


GENS IUNIA

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I LITTORI PORTANO A BRUTO I CORPI DEI SUOI DUE FIGLI

La gens Junia fu una delle più celebri e celebrate gens di Roma, con origini patrizie fin dalla notte dei tempi, e tra le più importanti verso la fine della monarchia.  Da ricordare che Lucius Junius Brutus fu il nipote di Lucius Tarquinius Superbus, il VII e ultimo re di Roma, e alla cacciata di Tarquinio nel 509 a.c., divenne uno dei primi consoli della repubblica.

I membri della gens Iunia  però sono spesso citati come plebei, sembra però inconcepibile che il nipote di un re fosse plebeo, per questo la faccenda è dibattuta. I patrizi erano così gelosi delle loro prerogative che nel 450 a.c., nel II anno del Decemvirato, emisero una legge che proibiva il matrimonio tra patrizi e plebei, includendola nelle XII Tavole.

Poi con la lex Licinia Sextia del 367 a.c. i plebei vennero ammessi al consolato. Tuttavia, si pensa che le divisioni tra i due ordini non fossero fermamente stabilite durante i primi decenni della Repubblica e che ben un terzo dei consoli eletti prima del 450 potrebbe essere effettivamente plebei.

Anche se non fosse così, i consoli scelti alla nascita della Repubblica Romana potrebbero essere stati eccezioni. Questa idea dei consoli plebei in quell'epoca non è affatto convincente.
Piuttosto accadeva che genti patrizie a volte avessero dei rami plebei, in quanto erano caduti in disgrazia per condanne o per debiti, o per matrimoni misti, per cui erano state ripudiate e declassate.

Che i Junii fossero in un primo momento patrizi e che poi passarono ai plebei non avrebbe invece molto senso. Alla fine della Repubblica, i Junii Silani sembrano essere stati patrizi, o almeno furono tra i rami che conservarono il patriziato e uno di loro persino tenne l'ufficio di Flamen Martialis.

Ma questo può essere dovuto all'adozione di uno della gens patrizia Manlia da parte di uno dei Silani. Se così fosse però i successivi Junii Silani erano effettivamente discendenti dal Manlii e non dei Junii. Comunque è poco probabile perchè l'adottato prendeva il nome dell'adottante o almeno lo aggiungeva al suo.

Questa ipotesi è sostenuta dal cognome Torquatus, nome di una grande famiglia dei geni Manlia, sopportata da molti dei Silani. Junius, il nomi dei geni, può essere etimologicamente connesso con la Dea Juno, dopo di che è stato anche nominato il mese conosciuto come Junius.

JUNIO BRUTO PRIMO CONSOLE DELLA REPUBBLICA

PRAENOMINA USATI DALLA GENS IUNIA 

I praenomina favoriti dai primi Junii erano:
Marcus, Lucius, e Decimus.

Eccetto che per i Bruti Bubulci, che può essere stato un ramo cadetto della famiglia, e che favorì il prenome Gaius, gli Junii Bruti usarono esclusivamente questi tre nomi. Molti delle altre famiglie degli Junii usarono ugualmente questi nomi, soprattutto Gaius ma altri Quintus.

Gli Junii Silani usarono anche il prenome Appius, ma il prenome più frequente fu Decimus. Invece i nomi Titus e Tiberio furono scrupolosamente evitati dagli Junii per tutta la loro storia. Secondo la tradizione, questi erano i nomi dei figli di Lucio Giunio Bruto, il primo console, che si unì in un complotto con i loro zii, i Vitellii, per ripristinare i Tarquini al potere.

Vennero condannati ed eseguiti per ordine del proprio padre, e questa disgrazia ha portato all'abbandono dei loro nomi dalle generazioni future. L'unica eccezione degna di nota è l'oratore Titus Junius, che visse nel secolo finale della Repubblica.



RAMI E COGNOMINA DEGLI IUNII

I nomi e i soprannomi che gli Junii usarono al tempo della Repubblica sono:
Brutus, Bubulcus, Gracchanus, Paciaecus, Pennus, Pera, Pullus, and Silanus.

Norbanus viene talvolta considerato un soprannome della gens Junia, ma sembra fosse un nome pagano. Pochi Junii sono menzionati senza cognome. Molti Junii compaiono durante l'Impero con altri soprannomi, ma molti di loro non fecero parte della gens iunia. Questi comprendevano molti discendenti di liberti e di cittadini iscritti durante le magistrature dei vari Junii.

- Brutus
era il nome di una famiglia plebea della gens Junia, che si affermava discendente di Lucius Junius Brutus. Questa possibilità è stata negata da alcune autorità antiche, poiché il primo console era patrizio e perché i suoi due figli lo precedono in morte. Tuttavia, alcuni affermano che c'era un terzo figlio, da cui discesero i successivi Bruti.

Non è impossibile che ci fossero figli più giovani, o che i figli più anziani avessero figli propri. Brutus è anche noto per aver avuto un fratello, che è stato messo a morte da suo zio il re, e ci possono essere stati altri parenti. In ogni caso, non è del tutto certo che Brutus fosse un patrizio. Se fosse, i suoi discendenti potrebbero essere allora passati ai plebei.

Si dice che il nome di Brutus fosse stato dato a Lucio perché fece un'idiozia dopo l'esecuzione del fratello, nella speranza di evitare lo stesso destino. Tuttavia non è esatto, perchè il padre era chiamato Bruto dalle antiche autorità ed è possibile che il cognome fosse già stato portato dalla famiglia per qualche tempo.

Secondo Festo, il significato più vecchio dell'aggettivo brutus era "grave" o "grave", nel qual caso il cognome è molto simile a Severus. Una spiegazione meno probabile suggerisce un'origine comune con il nome di quella del Bruttii, un popolo dell'Italia meridionale che fu spezzato dai Sanniti nel IV sec. a.c. e il cui nome si dice significasse "schiavi fuggiti".

- Bubulcus
si riferisce a chi coltiva con bue. Le uniche persone che avevano conosciuto questa cognomen portavano anche quelle di Brutus e quindi potrebbero essere appartenute a quella famiglia, piuttosto che a distinte stirpi della gens Junia. Se è così, i Bubulci erano gli unici membri della famiglia a usare il praenomen Gaius. Essi appaiono nella storia durante la II Guerra Sannita, allo stesso tempo in cui gli altri Junii Bruti emergono da due secoli di oscurità, con l'agnomen Scaeva. Ciò suggerisce che la famiglia potrebbe essersi divisa in due rami distinti in questo momento.

- Pennus
che era anche un cognome della gens Quinctia, è probabilmente derivato da un aggettivo latino che significa "forte". Questa famiglia fiorì durante il III e II sec. a.c..

- Gracchanus
è stato assunto da uno degli Junii per la sua amicizia con Gaius Sempronius Gracchus.

- Paciaecus o Paciacus
era il cognomen di un altro membro della gens, non sembra essere di origine romana, anche se può essere che Paccianus o Paciano sia la forma corretta.

- Silano 
sembra essere una forma allungata di Silus, "naso camuso", che si presenta come un cognomen nelle gentis Sergia e Terentia, e non è collegata al nome greco Silano. Nei manoscritti si trovano le varianti Syllanus e Sillanus. Gli Junii Silani appaiono per la prima volta nella storia durante la II Guerra Punica e per i prossimi 400 anni occupano gli uffici più alti dello Stato.
Sembrano essere patrici, a differenza degli altri Junii, ma un membro anziano della famiglia venne adottato dal patrizio Manlii, da cui alcuni dei Silani hanno ricevuto il cognome aggiuntivo Torquatus.
Inoltre, l'imperatore Augusto sollevò Marcus Junius Silano al Patriciato nel 30 a.c. Molti di questa famiglia erano connessi o discendenti da Augusto e dagli imperatori della dinastia Julio-Claudia.


MEMBRI DELLA GENS IUNIA

Junii Bruti:

- Marco Giunio Bruto
padre del console 509 a.c., sposò Tarquinia, sorella di Lucius Tarquinius Superbus.

- Marco Giunio Bruto
messo a morte da suo zio il re.

- Lucio Giunio Bruto
uno dei primi consoli, nel 509 a.c. fu, a detta dei suoi contemporanei, pari per gloria a Romolo, perché l’uno fondò la città, l’altro la libertà di Roma, si tolse le vesti del padre per vestire quelle del console, e preferì vivere senza famiglia piuttosto che sottrarsi al dovere di compiere la pubblica vendetta.
L’aristocrazia romana, che voleva riaccogliere i Tarquini, organizzò una congiura, a cui presero parte anche i figli di Lucio Giunio Bruto, Tito e Tiberio. Il padre, quando aveva il potere supremo fece arrestare, frustare davanti alla sua tenda, legare al palo e uccidere con la scure i suoi figli che cercavano di reintrodurre in Roma il dominio dei Tarquini da lui cacciati.

- Tito Giunio Bruto
figlio del console del 509 a.c, messo a morte per tradimento.

- Tiberio Giunio Bruto
figlio del console del 509 a.c., messo a morte per tradimento.

- Lucio Giunio Bruto
secondo Dioniso, uno dei primi tribuni della plebe nel 493 a.c., un plebeo che assunse il soprannome di Brutus in onore del primo console.

- Decimo Giunio BrutoScaeva
Fu magister equitum nel 339 sotto il comando del dittatore Quinto Publilio Filone e venne eletto console nel 325 a.c..con Lucio Furio Camillo. Mentre a Decimo fu affidata la campagna contro i Vestini, a Lucio fu affidata quella contro i Sanniti, che però non fu in grado di condurre, in quanto gravemente malato.
Decimo saccheggiò le campagne dei Vestini, costringendoli ad un scontro in campo aperto, dove i romani, seppur con molte perdite, ebbero la meglio. Non pago del successo ottenuto, il console espugnò le città di Cutina e Cingilia, concedendo il bottino ai soldati. Fu eletto console una seconda volta nel 292 a.c. con Quinto Fabio Massimo Gurgite

- Decimo Giunio Bruto
con suo fratello Marcus, esibì il primo combattimento tra gladiatori a Roma nel 264 a.c..
Fu il primo munus svolto a Roma e avvenne presso il Foro Boario, organizzato dai due nobili fratelli per commemorare la morte del padre, Giunio Bruto Pera.

- Marco Giunio Bruto
con suo fratello, Decimus, esibì il primo combattimento tra gladiatori a Roma nel 264 a.c.. Da allora i munera ebbero un enorme successo tanto che pochi decenni dopo, nel 216 a.c., in occasione dei funerali di un importante uomo politico, furono più di 40 i gladiatori che si affrontarono in combattimento, mentre furono più di cento a scendere in arena per le esequie di Publio Licinio nel 183 a.c..

- Lucio Giunio Bruto
nonno del console del 178 a.c..

- Marco Giunio Bruto
pretore nel 191 a.c..

- Publio Giunio Bruto
pretore nel 190 a.c..

- Decimo Giunio Bruto
uno dei triunviri che fondarono una colonia nel territorio di Sipontum, nel 194 a.c..

- Marco Giunio Bruto
console nel 178 a.c. Figlio probabilmente del tribuno della plebe del 195 a.c., e nipote di Lucio Iunio Bruto. Fu eletto console nel 178 a.c. con Aulo Manlio Vulsone; gli fu affidato il comando della campagna contro gli Istri, che riuscì a sconfiggere e sottomettere definitivamente l'anno successivo.
Fu uno degli ambasciatori inviati in Asia nel 171 a.c. per chiedere aiuti agli alleati di Roma per la guerra contro Perseo di Macedonia. Nel 169 a.c. si presentò candidato alla censura, ma non fu eletto.

- Marco Giunio Bruto
eminente giurista del II sec. a.c. Figlio, forse, del console omonimo del 178-6 a.c., fu pretore in un anno imprecisato (Pomp., Dig., I, 2, de origine iuris, 2, 39). Ebbe possedimenti in Albano, Priverno, Tivoli. Fu uno dei fondatori della scienza giuridica romana, cui contribuì con l'opera De iure civili libri tres, redatta in forma di dialoghi col figlio Marco, in cui erano esposti pareri da lui dati a persone che glieli richiedevano e, forse, riassunte e combattute opinioni altrui. È lodato indirettamente da Cicerone come iuris civilis in primis peritus (De off., II, 50), iuris civilis peritissimus (Brut., 130).

- Decimo Giunio Bruto Callaico
(185 -129 a.c.) fu console della repubblica romana nel 138 a.c.. Era figlio di Marco Giunio Bruto, che era stato console nel 178 a.c., e fratello del pretore Marco Giunio Bruto. Ebbe come figlio Decimo Giunio Bruto e fu nonno di Decimo Giunio Bruto Albino. Fu probabilmente sposato con una donna di nome Clodia. Nel 138 a.c. divenne console assieme a Publio Cornelio Scipione Nasica. Deciso sostenitore della causa degli optimates, fu in contrasto con i tribuni della plebe; quando il senato propose di acquistare del grano per il popolo, egli rifiutò ma, allorché non concesse di congedare dieci soldati che ne avevano il diritto, il tribuno Gaio Curiazio lo fece imprigionare assieme al collega.
Più tardi ricevette la provincia dell'Hispania Ulterior, dove stroncò la rivolta di Tantalo; in seguito fondò nell'Hispania Citerior la città di Valentia Edetanorum, l'odierna Valencia, nella quale trasferì i soldati di Viriato, sconfitto nel 139 a.c.

- Decimo Giunio Bruto
console nel 77 a.c. Figlio di Decimo Giunio Bruto Callaico, fu eletto console con Mamerco Emilio Lepido Liviano.

- Marco Giunio Bruto
pretore nell'88 a.c..

- Lucio Giunio Bruto Damasippus
un seguace di Mario, ucciso nell'82 a.c.

BRUTO IL CESARICIDA
- Marco Giunio Bruto
tribuno della plebe nell' 83 a.c.. Dedusse la colonia di Capua. Fu anche il primo marito di Servilia Cepione, dalla quale ebbe Marco Giunio Bruto, uno degli assassini di Giulio Cesare.
Seguace di Marco Emilio Lepido, partecipò alla rivolta democratica promossa da quest'ultimo nel 77 a.c. e occupò con le sue truppe la Gallia Cisalpina; assediato a Modena da Gneo Pompeo, venne costretto alla resa e quindi ucciso su ordine di Pompeo.

Marco Giunio Bruto
figlio del tribuno dell'83 (85 - 42 a.c.) il cesaricida, pretore urbano nel 44 a.c.. più noto dopo la sua adozione come Quinto Servilio Cepione Bruto (Quintus Servilius Caepio Brutus).
E' stato un politico, oratore, filosofo e studioso romano, senatore della tarda Repubblica romana e uno degli assassini di Giulio Cesare.
Fu difatti una delle figure preminenti della congiura delle Idi di Marzo assieme a Gaio Cassio Longino e a Decimo Bruto.

- Decimo Giunio Bruto Albino
(80 - 43) uno dei cospiratori contro Cesare nel 44 a.c.. Fu pretore nel 45 a.c.
Fu legato di Cesare nel 53 e combattè come suo generale per terra e per mare.



Junii Bubulci:

Gaio Giunio Bruto Bubulco
console nel 317, 313, 311 a.c., mag. equitum nel 312, censore nel 309, e dictator nel 302 a.c..
Durante il consolato Teano in Apulia ottenne un trattato di alleanza con Roma. Tre volte nominato dittatore o magister equitum e censurato nel 307 a.c.. Nel 311, fece un voto alla Dea Salus che adempì, diventando il primo plebeo a costruire un tempio, uno dei primi dedicati a una divinità astratta, e fu uno dei primi generali a promuovere un tempio e poi sovrintendere alla sua costruzione e dedizione
Rieletto console nel 313 a.c. insieme al suo collega elesse Gaio Petelio Libone Visolo dittatore per la campagna contro i Sanniti. Fu eletto magister equitum nel 312 a.c., dal dittatore Sulpicio Longo, per una campagna contro gli Etruschi. Rieletto console, nel 311 a.c., gli toccò in sorte la spedizione contro i Sanniti. Dopo aver ripreso Cluvie, dove in precedenza era stata massacrata la guarnigione romana, riuscirono a sopraffare i Sanniti in uno scontro campale, dove erano stati attratti con l'inganno dai Sanniti.« Vennero uccisi circa 20.000 uomini, e i Romani reduci dal trionfo si sparsero nei dintorni a fare razzia del bestiame offerto loro dal nemico in persona.»
(Tito Livio, Ab Urbe condita, IX, 31.)
Nel 302 a.c.,, fu nominato dittatore, per far fronte agli Equi, insorti per la costituzione della colonia romana ad Alba Fucens, nel loro territorio. Vinse ed ottenne il trionfo a Roma.

- Gaio Giunio Bruto Bubulco
console nel 291 e 277 a.c., trionfò su i Lucani e i Bruttii. Durante il II consolato entrambi i consoli vennero inviati nel Sannio, respinti però dai Sanniti. La sconfitta portò ad un contrasto tra i due consoli, a Bubulco fu dato il comando delle operazioni in Bruzio ed in Lucania, mentre Rufino rimase nel Sannio. Nei Fasti capitolini è riportato il trionfo di Bubulco sui bruzi e sui lucani.


Juni Perae: 

Decimo Giunio Pera
nonno di Decimus Junius Pera console nel 266 a.c,

Decimo Giunio Pera
padre di Decimus Junius Pera console nel 266 a.c,

- Decimo Giunio Pera 
console nel 266 a.c, censore nel 253, trionfò sui Sassinates, e una seconda volta sui Sallentini e sui Messapii. Ebbe un padre e il nonno omonimo.
Decimus Junius e il suo sconosciuto fratello Marcus in occasione della morte di suo padre istituirono per la prima volta a Roma i giochi gladiatori, come giochi funebri.
Avendo come collega il console del 262 Lucio Postumio Megello, ed essendo questi deceduto durante il suo mandato, Pera dovette dimettersi a causa di questo segno infausto, come stabilì l'ufficio censori.


- Marco Giunio Pera 
fratello di Decimo Iunio Pera, in occasione della morte di suo padre istituì con il fratello per la prima volta a Roma i giochi gladiatori, come giochi funebri.

- Marco Giunio Pera
figlio di Decimus Junius Pera, console nel 230, censore nel 225 e dictator nel 216 a.c., dopo la battaglia di Canne.


Juni Penni:

Marco Giunio Penno
edile curule nel 205 a.c. e pretore urbano nel 201 a.c..

Marco Giunio Penno
Figlio del precedente, fu nominato pretore nel 172 a.c. e gli fu affidata la provincia della Spagna Citeriore. La sua presenza fu caratterizzata dalla inattività, perché i rinforzi da lui richiesti con urgenza al Senato giunsero solo dopo che egli aveva passato la provincia al suo successore.
Fu eletto console nel 167 a.c. e gli fu affidata la regione di Pisa come provincia.

- Marco Giunio Penno
tribuno della plebe nel 126 a.c.. Fece passare una legge che bandiva tutti gli stranieri da Roma


Junii Silani:

GENS IUNIA 54 A.C. -
IUNIO BRUTO E SERVILIUS AHALA
- Marco Giunio Silano
pretore nel 210 a.c., durante la II Guerra Punica.

- Decimo Giunio Silano
incaricato dal senato nel 146 a.c. di tradurre in latino gli scritti sull'agricoltura di Mago.

- Decimo Giunio Silano Manliano
pretore nel 141 a.c., ottenne come sua provincia la Macedonia.
Tito Manlio Torquato, uomo di straordinario prestigio per le sue molte imprese, espertissimo di diritto civile e religioso, in una circostanza simile non ritenne neppure di aver bisogno del consiglio dei parenti. Poiché la Macedonia aveva sollevato al senato tramite ambasceria lagnanze contro suo figlio Decimo Silano, che ne era stato governatore, chiese ai senatori di non deliberare niente su quell’argomento prima che lui stesso avesse studiato la causa tra suo figlio e i Macedoni.
Assunta l’istruttoria con il consenso sia dell’augusta assemblea, sia di quelli che sollevavano le lagnanze, per due giorni, solo giudice nella sua casa, diede ascolto alle due parti; al terzo, dopo aver sentito i testimoni con la massima diligenza, pronunziò questa sentenza:
 “Essendo per me provato che mio figlio Silano ha ricevuto denaro dagli alleati, lo giudico indegno dello stato e della mia casa e gli ordino di uscire immediatamente dalla mia vista”.
Colpito da una così dura sentenza del padre, Silano non sopportò più di vivere e la notte successiva si impiccò. Torquato aveva già adempiuto ai compiti di giudice severo e scrupoloso, lo stato aveva avuto giustizia, la Macedonia vendetta, e a quel punto con il suicidio per vergogna del figlio, avrebbe potuto piegare il rigore paterno; ma lui non volle neppure partecipare alle esequie del giovane e proprio mentre venivano celebrate diede udienza a chi voleva interpellarlo. Sapeva di sedere in quello stesso atrio dove spiccava l’immagine di quel Torquato famoso per la sua severità.

- Marco Giunio Silano
console nel 109 a.c., sconfitto dai Cimbri.

- Gunia
a moglie di Gaius Claudius Marcellus, e madre di Gaius Claudius Marcellus, console nel 50 a.c.

- Decimo Giunio Silano
console nel 62 a.c., patrigno di Marcus Junius Brutus, il cesaricida.

- Marco Giunio Silano
console nel 25 a.c..

- Gunia 
moglie di Marcus Aemilius Lepidus, il triunviro.

- Gunia  Tertia
moglie di Gaius Cassius Longinus, il cesaricida.

- Gaio Giunio Silano
console nel 19 a.c..

- Marco Giunio Silano
figlio del console del 25 a.c. e padre del console del 19 d.c..

Gaio Giunio Silano
padre dei consoli del 10 e del 15 d.c..

- Gaio Giunio Silano
console del 10 d.c., con Flamine Marziale. Subito dopo fu nominato proconsole dell'Asia. Nel 22 d.c. fu accusato di malversazione nonchè di tradimento (maestà) e sacrilegio alla divinità di Augusto.
Tacitus suggerisce che la carica di tradimento è stata aggiunta alle sue accuse per intimorire gli amici di Silano a difenderlo. Silano, abbandonato dai suoi amici e senza esperienza oratoria, abbandonò la sua difesa.
Era stato proposto di bandire e bandirlo all'isola di Gyarus. Tiberio cambiò il luogo dell'esilio con l'isola di Cynthus che sua sorella Torquata aveva pregato come luogo di punizione. Aveva almeno tre figli: Appius Junius Silano , console del 28, Decimus Junius Silano che era in una relazione con Julia Minore e Marcus Junius Silano, console suffettivo nel 15 d.c..

- Marco Giunio Silano
Sotto Tiberio venne nominato console suffetto nel 15 d.c.. Fu nipote di Marco Giunio Silano, (console nel 25 a.c.), e figlio di un Gaio Giunio Silano; aveva due fratelli e una sorella: Decimo Giunio Silano, Gaio Giunio Silano, console nel 10, e Giunia Torquata. Il fratello Decimo era un senatore condannato all'esilio durante il regno di Augusto per una relazione colla nipote dell'imperatore, e fu il padre adottivo di Decimo Giunio Silano Getulico. Il fratello Gaio era invece padre di Appio Giunio Silano, console nel 28, marito di Domizia Lepida. Marco ebbe una figlia, Giunia Claudia, che fu la prima moglie di Caligola".

Gli storici antichi ebbero un'ottima opinione di lui e pure Tiberio, se qualcuno criticava una decisione giuridica di Silano, Tiberio la respingeva sempre. Inoltre Silano aveva l'onore di votare per primo in Senato e riuscì, grazie alla sua influenza sull'imperatore, a far tornare il fratello Decimo dall'esilio.
Nel 33 la figlia Claudia sposò Caligola ma morì nel 36, Silano però continuò a trattare Caligola come un figlio. Alla fine del 37, però, Caligola lo fece giustiziare per ragioni poco chiare. Svetonio dice che fu a causa di un complotto mentre secondo altri semplicemente lo infastidiva

- Decimo Giunio Silano
esiliato nell' 8 d.c. per il suo rapporto con Julia, la nipote di Augusto.

- Gunia Torquata
una vergine vestale, intercedette per salvare suo fratello, Gaius Junius Silanus, il console del 10 d.c., dopo che venne condannato per tradimento.

- Marco Giunio 
Silanus, console nel 19.

- Gunia Claudilla
prima moglie dell'imperatore Caligola. Figlia di Marco Giunio Silano, console e collaboratore e amico di Tiberio, morì di parto pochi anni dopo il matrimonio,

- Gunia Silana
la moglie di Gaius Silius.

- Appio Giunio Silano
console nel 28, fu accusato di crimen maiestatis nel 32, ma venne salvato da Celso, uno degli informatori. Poco dopo l'ascesa di Claudio, nel 41, mentre Silano era governatore della Hispania Tarraconensis, fu richiamato a Roma e si sposò con Domizia Lepida, madre dell'imperatrice Valeria Messalina e membro della dinastia giulio-claudia. Venne trattato con la massima distinzione da tutta la corte imperiale, ma dopo aver rifiutato le avances di Messalina, fu presto messo a morte dall'imperatore. Messalina e Narciso, liberto imperiale, lo accusarono di aver complottato per assassinare il Princeps e dichiararono di aver visto Silano tentare l'assassinio dell'imperatore nei loro sogni.

- Marco Giunio Silano
console nel 46, e più tardi avvelenato da Agrippina.

- Lucio Giunio Silano
pretore nel 48.

- Decimo Giunio Silano
soprannominato Torquatus, console nel 53.

- Gunia Calvina
sposò Lucius Vitellius.

- Gunia Lepida
sposò Gaius Cassius Longinus, console suffetto nel 30.

- Lucio Giunio Torquato Silano
Torquato servì come console ordinario nel 53, insieme a Quinto Aterio Antonino. Nel 54 sposò Giulia Africana, figlia dell'oratore Giulio Africano, e da lei ebbe una figlia nel 55, Giunia Silana Torquata. Nel 64 fu obbligato al suicidio dall' imperatore Nerone, che perseguitava in quanto nipote di Augusto.

- Gaius Junius Silanus
console suffetto nel 92.

Giunio Silano
console nel 189.

Giunio Silano
console suffetto nel 237.


Junii Blaesi:

- Quinto Giunio Blaeso
console suffetto nel 28, trionfò su Tacfarinas. un novus homo romano ("nuovo uomo", cioè il primo membro della sua famiglia ad accedere alla nobiltà romana ) che ha vissuto durante i regni di Augusto e Tiberio. Era lo zio materno di Lucius Aelius Sejanus, prefetto pretorio dell'imperatore Tiberio.
Nel 10 servì come console suffetto e fu poi comandante degli eserciti situati in Pannonia. Tacito narra che dopo il servizio militare nella Grande Rivolta Ilirica, i soldati si ribellarono per il loro scarso pagamento in terre paludose. Blaesus chiese di suicidarsi, ma la sua richiesta fu ignorata. Secondo lo storico romano Cassius Dio, i soldati arrestarono e torturarono i suoi schiavi, e poi tentarono di uccidere Blaesus che li convinse però a rinviare la cosa al Senato romano. In risposta, Tiberio mandò suo figlio Druso a sedare la ribellione, accompagnato da Sejano e da due coorte pretoriane.
Blaesus venne poi nominato proconsole dell'Africa dal 21 al 23 sembra grazie al nipote Sejano
Come governatore in Africa, Blaesus soffocò una rivolta dal Tacfarinas, il guerriero Numidio , vittoria per la quale ottenne il trionfo.
La carriera di Blaesus si concluse nel 31, quando suo nipote Sejanus è stato accusato di tradimento e giustiziato per ordine di Tiberio. Come risultato della sua connessione a Sejanus, Blaesus fu infatti giudicato suo complice. Tuttavia, invece di attendere l'esecuzione, scelse di suicidarsi.
Blaesus ebbe almeno due figli, ognuno dei quali divenuto console: Quintus Junius Blaesus (suffettivo console 26) e Lucius Junius Blaesus (suffettivo console 28).
Ambedue si suicidarono nel 36 quando Tiberius trasferì ad altri i sacerdozi precedentemente promessi agli Blaesi durante l'ascesa della loro famiglia, prevedendo la loro fine.
L'ultimo discendente di questo Quintus Junius Blaesus era un nipote, Junius Blaesus, ucciso nel 69 dall'imperatore Vitellius

Giunio Quinto Blaeso
Console suffetto nel 26, servì sotto suo padre durante la guerra contro Tacfarinas e si suicidò poi nel 36.

Giunio Blaeso
governatore della Gallia Lugdunensis nel 69, seguace dell'imperatore Vitellio, che lo fece avvelenare.


Junii Rustici:

QUINTO GIUNIO RUSTICO
Giunio Rustico
nominato per elaborare l'acta del senato nel 29, durante il regno di Tiberio.

- Lucio Giunio Aruleno Rustico
pretore nel 69, un pupillo di Publius Clodius Thrasea Paetus, messo a morte da Domiziano.

- Quinto Giunio Rustico
console nel 119 con l'imperatore Adriano.

- Quinto Giunio Rustico 
(100 – 170) fu un filosofo e politico romano, esponente dello stoicismo.
Nipote di Aruleno Rustico (allievo di Seneca, fatto uccidere da Domiziano), fu uno dei maestri dell'imperatore Marco Aurelio, che lo trattò con rispetto e onore.
Fu anche console nel 133 e nel 162, e membro del consiglio urbano di Roma. Dal 163 al 167 fu prefetto dell'Urbe, per cui dovette presiedere il processo dei teologi cristiani martiri, come Giustino, che venne decapitato.
"Quando noi diciamo che il Logos, che è il primogenito di Dio, Gesù Cristo, è stato generato senza connubio, ha risanato zoppi e paralitici ed infelici dalla nascita,  è stato crocifisso ed è morto e, risorto, è salito al cielo, non portiamo alcuna novità rispetto ai figli di Zeus. Ermete fu detto il Logos ed era il messaggero di Zeus; Dioniso fu dilaniato; Eracle si gettò nel fuoco, Bellerofonte, ascese al cielo con il cavallo Pegaso, Perseo fu generato da una vergine, Asclepio fece miracoli con cui guarì i malati e gli storpi ed ascese in cielo» (Giustino - Apologia Prima, XX-XXII)

- Quinto Giunio Rustico
console suffetto nel 133, e console nel 162.


Altri:

- Quinto Giunio
tribuno della plebe nel 439 a.c., che tentò di sobillare il popolo contro gli uccisori di Spurius Maelius.

- Lucio Giunio Pullo
console nel 249 a.c. durante la I guerra Punica.

- Decimo Giunio
Stazionato con un esercito alla foce del Volturnus dal console Appio Claudio Pulcro, nel 212 a.c., durante la II Guerra Punica.

- Marco Giunio Graccano
un ottimo storico legale studioso della costituzione romana e delle magistrature.

- Titus Giunio Lucio
grande oratore al tempo si Silla, ottenne la condanna di Publio Sestio, pretore designato, per la corruzione alle elezioni.

- Marco Giunio
il primo difensore di Publio Quinzio, la cui difesa fu poi assunta da Cicerone.

- Gaio Giunio
uno dei giudici del caso contro Oppianicus, (Oratio pro A, Cluentio - Cicerone) accusato di corruzione e condannato a ritirarsi dalla vita pubblica.

- Gaio Giunio Caio 
figlio del giudice di cui sopra.

- Marco Giunio
pretore, prima di Cicerone difese Decimo Matrinio.

Giunio Saturnino
storico del tempo di Augusto, apprezzato da  Suetonio.

Giunio Otho
retorico e pretore nel 22.

- Giunio Otho
tribuno della plebe nel 37, esiliato da Tiberio per aver intercesso sulla ricompensa che doveva essere data all'accusatore di Acutia, la moglie Publio Vitellio.

COLUMELLA
- Lucio Giunio Moderato
soprannominato Columella, uno storico importante, autore del De Re Rustica. Dopo la carriera nell'esercito, n cui giunse al grado di tribuno in Siria nel 34 d.c., iniziò l'attività di fattore. Il suo trattato Res rustica, in dodici volumi, ci è pervenuto integro, e rappresenta la maggiore fonte di conoscenza circa l'agricoltura romana, insieme ai lavori di Catone il Vecchio e Varrone, che cita entrambi occasionalmente. Il libro X, in onore di Virgilio, è in esametri.

- Lucius Junius Gallio
retorico e amico di Lucio Annaeo Seneca, il vecchio, di cui aveva adottato il figlio.

- Lucio Giunio Anneo Gallione
Lucio Iunio Anneio Novato detto Gallione (Cordova, 3 a.c. – 66 circa) figlio di Seneca il vecchio, adottato dall'amico del padre, il retorico Lucius Junius Gallio. Fu politico e retore, fratello maggiore di Lucio Anneo Seneca e di Marco Anneo Mela, a sua volta padre del poeta Lucano.
A lui, il fratello Lucio dedica il componimento "De ira" e il "De vita beata": (Vivere, Gallio frater, omnes beate volunt...). Seneca lo cita nelle Quaestiones Naturales (IV, Praef. 9 ss.) elogiandone le qualità umane e descrivendolo come una persona dolce e universalmente amata.
Favorito in quanto figlio adottivo del senatore Iunio Gallione, divenne senatore e proconsole della provincia di Acaia, con capitale Corinto, sotto l'imperatore Claudio.
A Corinto dovette giudicare Paolo di Tarso, portato in tribunale da Sostene, capo della comunità israelitica locale, ma Gallione, per la tolleranza romana nelle questioni religiose, si rifiutò di emettere una sentenza. La sua presenza a Corinto viene provata dalla Iscrizione di Delfi, tavola ridotta in frammenti rinvenuta a Delfi negli scavi condotti dalla Scuola Francese di Atene fra il 1892 e il 1905.
L'imperatore Claudio in un epigrafe:
« Tiberio Claudio Cesare Augusto Germanico, Sommo Pontefice, investito dell'autorità tribunizia per dodici volte, Da lungo tempo sono ben disposto verso la città di Delphi e anche attento alla sua prosperità e ho sempre protetto il culto di Apollo. Ma poiché è povera di cittadini, come recentemente mi riporta Lucio Giunio Gallione, mio amico e proconsole.. »
Secondo Seneca (Epist. 104) dovette ritornare a Roma a causa di forti febbri.
La morte dell'imperatore Claudio e la salita al trono di Nerone mutarono la sua vita. Insieme al fratello, nominato precettore dell'imperatore, fu implicato nella congiura dei Pisoni. Tacito riporta
« ...Salieno Clemente si scagliò con violenza contro Giunio Gallione che era atterrito per la morte del fratello Seneca e che implorava per la propria incolumità e lo ingiuriò chiamandolo nemico della patria e parricida... »
(Tacito, Annali, XV)
Probabilmente si suicidò fra il 65 e il 66.

- Giunio Cilo
prefetto di Bitinia e Ponto durante il regno di Claudio, portò Mithridates dal Bosforo a Roma.

- Giunio Massimo
contemporaneo del poeta Stazio, da cui apprendiamo che egli scrisse l'episodio delle storie di Sallustio e Livio.

- Tito Giunio Montano
console con Lucio Vestio Paolo, Ex Kal. Mai. nell'81.

- Giunio Maurico (o Mauro)
un senatore, amico di Gaio Plinio il giovane, che in una lettera gli propone un buon partito per la figlia. Offrì una statua o un tempio al Dio Marte che poi sua figlia Giunia Marina dedicò.

- Decimo Giunio Giovenale
poeta fine del I sec. e inizio II sec. (Aquino, tra il 50 e il 60 – Roma, dopo il 127), è stato un notevole poeta e retore romano.

- Kanus Junius Niger
console nel 138.

- Giunio Mauriziano
giurista del tempo di Antonino Pio.

- Aulo Giunio Rufino
console alto imperiale, nel 153.

- Marco Giunio Rufino Sabiniano
console nel 155.

- Gaio Giunio Faustino Postumiano
governatore della Britannia Superior durante la I metà del III sec..

- Gaio Giunio Donato
Nominato console suffetto nel 257 e nel 260 d.c., durante la crisi del III sec. .Fu di famiglia nobile e forse di origine nord africana. Fu Prefetto urbano di Roma, quindi coinvolto nella condanna dei cristiani e venne appellato come "nostro amico" nella corrispondenza dagli imperatori Valeriano e Gallieno.
Nel 260 d.c. Donatus fu nominato console posteriore accanto a Publius Cornelius Saecularis, durante il periodo tumultuoso che ha visto la cattura dell'imperatore Valeriano ad est e la ribellione di Postumo in Gallia.

- Marco Giunio Massimo
(240 - 287), Figlio di Gallienus Concesso (182 - 240), marito di Valeria Paulla e padre di Junia Junia. Maximus fu eletto console nel 282.

- Giunio Quarto Palladio
(408-421) politico dell'Impero Romano Occidentale che per sei anni tenne la prefettura pretoriana d'Italia, Illyricum ed Africa e fu anche console nel 416.
Di nobile famiglia ebbe un fratello, che creò una statua in suo onore vicino alla sua casa sul colle dell'Aventino. L'epigrafe narra sulla base la carriera di Palladio. Fu questore e pretorato, notaio e tribuno presso la corte imperiale, e divenne sacrarum largitionum (probabilmente nel 408/409).
Nel 416 Palladius fu nominato console posteriore, con l'imperatore orientale Teodosio II come collega. Nello stesso anno divenne prefetto pretorio dell'Italia, Illyricum e Africa, ufficio tenuto almeno per sette anni. 
Nel 418 ricevette una legge da Honorius, che espelleva i Pelagiani da Roma. Poi lui e gli altri prefetti emanarono una legge pretoriana contro i Pelagiani. Pelagio insegnava che la volontà umana, creata con le sue capacità da Dio, era sufficiente a vivere una vita senza peccato, anche se credeva che la grazia di Dio aiutasse ogni buon lavoro.
A Roma nel 408, durante il primo assedio di Alarico, cercò tra gli aristocratici romani i gioielli necessari per pagare il tributo di Alarico, ma non trovando abbastanza procedette alla spoliatura delle decorazioni residue dei templi pagani della città.
In quattro occasioni fu nominato inviato dal Senato romano.
La statua è stata trovata nel 1926 sulla collina di Aventino a Roma, vicino al monastero di Sant'Anselmo, a est di via Santa Sabina, vicino ai resti di una casa romana. La base è ora presso i Musei Capitolini, la statua invece è (come al solito) misteriosamente scomparsa.

- Giunio Filargirio
Del V sec. d.c.uno dei primi commentatori di Virgilio. I suoi commenti sulle Bucoliche e le Georgiche sono una riduzione del commento di Servio, derivato da quello di Elio Donato: se ne conserva l'Explanatio in Bucolica

MAUSOLEO DI FIANO ROMANO

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BASSORILIEVI DEL MAUSOLEO AL MUSEO DI FIANO ROMANO
Marziale narra di un combattimento avvenuto il primo giorno dei giochi che Tito tenne nell’80 d.c. per l’inaugurazione del Colosseo tra due famosi gladiatori che ormai avevano raggiunto una notorietà e una popolarità enorme.
“Poiché sia Prisco che Vero prolungavano il combattimento, e l’esito della lotta restava per lungo tempo incerto per entrambi, venne chiesta la liberazione dei valorosi lottatori con potenti e frequenti grida. Ma Cesare rimase fedele alla legge del combattimento da lui stesso stabilita – essa imponeva che si combattesse finché uno dei due, deposto lo scudo, sollevasse il dito – fece però ciò che poté, mandò cioè varie volte piatti e doni. Tuttavia venne trovato un esito per l’incerto combattimento: parimenti combatterono e parimenti caddero. Ad entrambi Cesare donò la spada di legno e la palma della vittoria: questo fu il premio riportato dal coraggio e dalla bravura. Questo non era mai successo con nessun imperatore tranne te, o Cesare, che due uomini combattessero e due uomini vincessero entrambi.”



IL RINVENIMENTO

E di rappresentazioni scultoree di gladiatori si tratta infatti nel ritrovamento presso Fiano Romano, una piccola cittadina presso l’antico centro italico-etrusco e poi romano di Capena, una trentina di km a nord di Roma. Fiano, oggi come 2000 anni fa, vive sui prodotti dell’allevamento e della terra, con campi coltivati, fattorie e uliveti.

RICOSTRUZIONE DEL MAUSOLEO
Proprio all’interno di uno di questi appezzamenti a ulivi, all’inizio del 2007 gli uomini del Gruppo Tutela Patrimonio Archeologico della Guardia di Finanza intervengono, affiancati da addetti e funzionari della Soprintendenza per i Beni archeologici dell’Etruria Meridionale, a rimuovere un cumulo di materiale inerte: terra, pietrame, tavole di legno, vecchi attrezzi per lavori agricoli, accumulati in un campo coltivato a ulivi.

In effetti l'indagine della procura di Roma, partita in modo fortuito da una serie di intercettazioni, andava avanti da tre anni. Secondo la soprintendente Annamaria Moretti, deve trattarsi di un importante monumento funebre a edicola, un genere allora molto diffuso e di cui già si conosceva un esempio anche nella zona di Capena.

L’attività di intelligence della GdF, teso a smantellare il commercio clandestino delle opere d’arte, ha prodotto una serie di informazioni, secondo cui fra gli ulivi di Fiano Romano si trovavano reperti di grande valore scientifico ed economico, scavati e trafugati dalla non lontana località Monte Bove, in attesa di essere venduti al meglio a qualche antiquario o col sensale di un museo estero. I beni italiani venduti illegalmente all'estero sono infiniti, e costituiscono spesso la base dei musei stranieri.

Secondo altri invece il rinvenimento invece sarebbe del tutto casuale, avvenuto durante gli scavi per costruire una villetta abusiva nelle campagne di Colle Forno, vicino a Fiano Romano ed è rimasto sottoterra per ben 16 anni mentre le trattative per trovare un compratore andavano per le lunghe.

Sono state denunciate due persone a piede libero ma gli investigatori hanno già individuato i due intermediari che avrebbero portato il monumento in Svizzera prima di fargli intraprendere il viaggio per la destinazione definitiva: Cina o Giappone dove i nuovi capitalisti fanno incetta di opere d' arte o reperti archeologici rubati. Il prezzo iniziale era di 10 miliardi tondi, una cifra che dovrebbe essersi abbassata col passare del tempo e chi indaga è assolutamente certo che il mausoleo sia stato visto ed esaminato da diversi esperti, debitamente compensati.

Le lastre erano nascoste in un maggese poco distante dal luogo dove, nel 1991, gli operai le avevano trovate durante gli scavi, non lontano dal "Lucus Feroniae", il bosco sacro della Dea Feronia, depredato da Annibale nel 211 a.c. e rimasto attivo fino al V secolo. Gli scavi della soprintendenza sono iniziati il 13 gennaio e si sono conclusi il giorno successivo con la scoperta di un dodicesimo "pezzo". 

Si è immediatamente compresa l'importanza del ritrovamento che restituisce ampie porzioni di un pregiatissimo fregio narrativo con scene di combattimenti gladiatori. Al momento sono stati recuperati dodici blocchi di marmo di circa m 0,60 x 1,00 x 0,30 che, in origine disposti su due assise, decoravano tre lati di un imponente monumento funerario, il cui basamento è stato rivenuto negli scavi del 2007.

Alla luce sono venute anche trabeazioni, sezioni scultoree, cornici policrome, steli epigrafate, colonne e capitelli pertinenti alla sepoltura del magistrato. All' inchiesta si sono "affacciati" anche i carabinieri del comando tutela patrimonio artistico che avevano scoperto, in passato, un' altra trattativa, poi andata a monte, con un collezionista canadese. «Se chi ha trovato quest' opera le avesse consegnate alla soprintendenza - sottolinea il pm Paolo Giorgio Ferri - avrebbe guadagnato un quarto del suo valore commerciale. Invece dovrà accontentarsi di un processo».



LA PROMESSA DI RICOSTRUZIONE DEL MAUSOLEO

Comunque sono stati recuperati dodici grandi blocchi di marmo lunense decorati a rilievo, la parte inferiore di una statua di togato, resti di un'iscrizione e numerosi elementi di cornici e decorazioni architettoniche, ma molti frammenti mancano all'appello, il fregio ritrovato è solo una parte di quello che originariamente decorava il monumento funebre.

A differenza della maggior parte dei pezzi che, frammisti a terra e a massi di travertino, risultavano disposti senz'ordine a formare un grande cumulo, gli elementi decorati, occultati sotto un basso strato di vegetazione, si presentavano ben protetti e ordinati, gli uni accanto agli altri.

«Un ritrovamento straordinario - sottolineò all'epoca il ministro dei beni culturali Francesco Rutelli - è un monumento sepolcrale di grande bellezza che l' arte italiana riconquista. Ora sarà oggetto di studio e di restauro e, in futuro, verrà esposto nell' area in cui è stato ritrovato. Oggi - ha aggiunto il ministro - è molto difficile smerciare all' estero reperti archeologici "clandestini". Il cerchio si sta stringendo attorno ai trafficanti d' arte».

Magari fosse vero che sia diventato difficile smerciare i beni culturali italiani, molti musei non hanno neppure un catalogo dei beni ospitati, e i direttori dei musei spesso sono nominati dai politici, il che non tranquillizza. Comunque a tutt'oggi il monumento non è stato ricostruito, come volevasi dimostrare.

Gli archeologi della soprintendenza sono riusciti intanto a identificare l’area su cui sorgeva l’antico monumento funerario, un sepolcro a torre di cui è stato rinvenuto in loco il basamento della struttura, eretto sul ciglio di una strada, come consuetudine presso i romani. 

All' appello mancano ancora alcune sezioni del monumento e, probabilmente, anche un' ara funebre. I reperti potrebbero trovarsi ancora in mano ad alcuni complici dell' organizzazione o, presumibilmente, essere stati già venduti "a pezzi" per clienti meno esigenti o meno facoltosi.



I GLADIATORI

In genere i gladiatori venivano reclutati verso i 17-18 anni, come i soldati, e difficilmente vivevano oltre i 30 anni, che era comunque anche la speranza di vita media di un Romano in età imperiale.
Una volta reclutato, il gladiatore si sottometteva al lanista e gli prestava giuramento; a quel punto il lanista, per il periodo della durata del contratto, acquisiva potere di vita e morte sul gladiatore, anche se nato libero.

Il valore di un combattente veniva misurato dal numero di incontri sostenuti: da un minimo di tre ad un massimo di quaranta. Al gladiatore che riusciva a sopravvivere a più gare veniva consegnata la rudis, una spada di legno che era utilizzata per gli addestramenti e significava per il gladiatore il ritorno alla libertà e il congedo dalle arene. C’è da dire comunque che i veterani in genere, una volta congedati, preferivano continuare a fare il mestiere che ormai conoscevano divenendo a loro volta istruttori o arbitri durante i combattimenti.



IL COMMITTENTE

Secondo gli esperti della soprintendenza per l' Etruria meridionale, il committente doveva essere un ricco esponente della magistratura dell' Età repubblicana che aveva organizzato i giochi e ordinato il sepolcro per celebrare degnamente i suoi funerali.

Il mausoleo sarebbe dunque appartenuto ad un magistrato capenate, come informano i resti dell'iscrizione i cui frammenti sono stati recuperati in diverse occasioni tra 2006 e il 2007, che sicuramente era un grande appassionato di ludi gladiatori, tanto da preferire la loro rappresentazione a scene che invece magnificassero il padrone del mausoleo e la sua famiglia, come spesso è accaduto nei mausolei più importanti, come ad esempio nel Sepolcro di Eurisace a Roma, anch'esso della fine del I sec, a.c.



DESCRIZIONE

Sulla base dei caratteri stilistici e dei dati antiquari il rilievo sembra potersi collocare verso la fine del I sec. a.c., in un'epoca densa di colpi di scena, poco prima del principato di Augusto.

La scena figurata ha un andamento continuo, su modello della colonna Traiana, e propone, secondo modelli ormai consueti, episodi successivi di un combattimento tra gladiatori, con ben sei coppie di combattenti. A queste si alternano, sul fondo, figure di suonatori dei quali si conserva un suonatore di tromba ricurva (cornicen) all'estremità del lato destro e due suonatori di lunghe trombe (tubicines) all'estremità destra del quadro centrale.

Anche nelle parti più rovinate emergono alcuni personaggi, con resti di figure in tunica corta poste in secondo piano, in corrispondenza della coppia di gladiatori posta al centro del lato principale del fregio e di quella impegnata in combattimento al centro del lato sinistro.

Le ampie lacune che interessano il lato sinistro e quasi per intero quello centrale impediscono, tuttavia, una completa lettura delle scene, anche se il soggetto è il medesimo, come confermano resti delle vesti e delle armi da offesa e da difesa.

Fortunatamente si è conservato in buona parte il rilievo all'estremità del lato centrale del fregio, il più ricco di drammaticità narrativa e di minuziosi particolari, nel quale è rappresentata una coppia di gladiatori in combattimento.

Uno dei gladiatori, ormai caduto a terra, è sopraffatto dall'avversario il quale calca il piede sopra la mano del nemico che ancora stringe una corta spada ricurva, con l'evidente intenzione di fargli abbandonare l'arma. comunque quest'ultimo, che ha già abbandonato lo scudo, alza il braccio sinistro nel gesto della missio, cioè della domanda di grazia. Normalmente, nelle scene gladiatorie, il gladiatore vincente preme il piede su quello dell'avversario vinto, mentre in questo caso ne calca la mano.


Nell'immagine posta sul lato destro del mausoleo arrende anche il gladiatore della prima coppia di combattenti  con un ginocchio a terra egli abbassa lo scudo stringendo ancora la spada nella mano destra arretrata, mentre l'avversario lo blocca e rivolge lo sguardo in attesa del verdetto finale dell'editor.

Nell'ultima scena posta all'estremità del lato destro, è rappresentato un gladiatore morente, caduto a terra e con lo scudo oblungo ormai definitivamente abbandonato. E' rappresentato con grande maestria, lo sguardo obnubilato e le labbra leggermente piegate all'ingiù, che esala ansimando gli ultimi respiri.

Si tratta di una rappresentazione caratterizzata da un intenso dinamismo, sebbene le figure dei gladiatori appaiano saldamente impostate e siano rese con notevole plasticismo.

Un gusto quasi calligrafico manifestano, invece, le figure dei suonatori nei quali l'accurata resa dei panneggi concorre ad esaltare i delicati lineamenti dei volti incorniciati da una corta capigliatura, che nel caso dei tubicines appare resa a ciocche sottili, una vera e propria anticipazione dei modelli di gusto classicistico.

 Il fregio narrativo nel suo complesso si rivela di altissima qualità, prodotto forse da una bottega di primo piano, capace di impegnarsi in una narrazione densa di contenuti, ma anche attenta ai dettagli minori. Questa testimonianza proveniente dal territorio capenate non costituisce un episodio isolato: sono note, infatti, altre attestazioni dell'importanza artistica dell'antica Capena.

I monumenti funerario del tipo a edicola, molto diffuso in quest'epoca e ben attestato anche in area capenate, d'altronde i resti dell'iscrizione, la parte inferiore di una statua di togato, come pure i numerosi blocchi di cornici e altri elementi architettonici confermano la qualità e l'importanza del monumento.

I mausolei più antichi del tipo a edicola prevedono del resto una notevole ricchezza e fantasia di schemi. Frequentemente come nella ricostruzione proposta per il nostro monumento è presente sull'attico un tempietto o un'edicola porticata.

Avvalora l'ipotesi ricostruttiva il rinvenimento, tra gli altri elementi architettonici, di una colonna liscia di marmo lunense. Il monumento è esposto con allestimento temporaneo nel Museo di Lucus Feroniae.

MAUSOLEO DEI VALERII

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GENS VALERIA

La gens Valeria era una gens patrizia romana di origine sabina, facente parte delle cento gentes originarie citate dallo storico Tito Livio.

La Gens Valeria avrebbe avuto come capostipite un Volusus o Valesus, venuto dalla Sabina (Dione Halicarnasso) assieme a Tito Tazio.
Il praenomen Valesus divenne il nomen Valesius, trasformatosi successivamente in Valerius.

SOL INVICTUS
Nel 509 a.c. un discendente di Valesus, Publio Valerio Publicola fu protagonista assieme a Lucio Giunio Bruto della cacciata di Tarquinio il Superbo, dando inizio alla Repubblica Romana e ricoprendo per primo la magistratura consolare con Lucio Giunio Bruto.

I Valerii furono una delle famiglie romane più illustri ed influenti, e ricoprirono numerose 74 volte la carica di Console. Politicamente furono molto attivi per il riconoscimento dei diritti dei plebei, durante il primo periodo della repubblica.

I Valerii risiedevano sulla sommità della collina Velia, e godettero a Roma di straordinari privilegi.

Tra questi quello di essere gli unici le cui porte si aprivano direttamente sulla strada; nel circo avevano un seggio speciale a loro riservato.

Inoltre potevano seppellire i loro defunti all'interno delle mura della città, privilegio riservato a pochissime famiglie, che mantennero anche quando passarono dall'uso dell'inumazione a quello della cremazione.

Sembra inoltre che durante il periodo di transizione dalla monarchia alla repubblica, i membri della Gens Valeria avessero il privilegio di esercitare i poteri regi, in virtù della loro origine sabina e quindi della loro appartenenza alla tribù dei Tities.

Diversi membri della Gens Valeria ebbero diritto di coniare monete, sulle quali troviamo incisi i cognomen Acisculus, Barbatus, Catullus e Flaccus.



LA NECROPOLI VATICANA SOTTO S. PIETRO

La profondità della necropoli varia dai 12 ai 5 m rispetto al livello del pavimento dell'attuale basilica. Gli scavi non hanno portato alla luce tutta la necropoli: parte di essa è ancora interrata ed inesplorata. I mausolei che furono rinvenuti appartenevano a famiglie di ricchi liberti, ed erano costituiti da grandi stanze coperte a volta, spesso con un recinto antistante, e dotati di terrazzo, a cui si accedeva tramite scala esterna.

Gli scavi vennero condotti su un'area complessiva di metri 69x18. Il cimitero che venne riportato alla luce era "a cielo aperto". 
Un'angusta stradina risaliva il colle vaticano, e ai suoi lati si trovano gli edifici dalle eleganti facciate in laterizio.

PARETE NORD


IL MAUSOLEO DEI VALERII

Conclusi, dopo 10 mesi, i restauri del mausoleo dei Valeri, gioiello dell'arte romana nascosto nei sotterranei del Vaticano. Il mausoleo e' situato al centro del percorso che porta alla tomba di San Pietro (Fonte Ansa-Cultura). 

E' stata infine realizzata una moderna teca di cristallo per osservare dall'esterno la camera funeraria senza alterarne il delicato equilibrio microclimatico, costantemente controllato da un sistema di monitoraggio computerizzato di alta precisione. Inoltre gli affreschi hanno ricevuto interventi consolidanti agli intonaci, e i pigmenti sono stati riancorati al loro substrato.

Grazie a una nuova e suggestiva illuminazione a fibre ottiche si possono oggi apprezzare i vivaci colori delle superfici, affrescate a finti marmi policromi e le bianche decorazioni a stucco, modellate ad imitazione del marmo statuario.

Il Mausoleo, risalente al II sec. d.c., situato al centro del percorso di visita che conduce alla sepoltura di Pietro, è noto per l'importanza delle decorazioni a stucco, opere d'arte di straordinario valore che da tempo attendevano di essere sottoposte a un meticoloso restauro perché danneggiate in passato dalle instabili condizioni microclimatiche e da risarcimenti realizzati con materiali impropri.

Hypnos, il sonno, è raffigurato con ali di pipistrello da uno stucco del mausoleo "H", "dei Valerii". Altri stucchi, ai margini e dentro le nicchie, rappresentano antenati della famiglia dei Valerii e personaggi- mitologici: Oceano, Minerva, Iside, Satiri, Menadi ed altri elementi che sembrano ispirati soprattutto ai culti misterici di Iside e di Dioniso.


La Repubblica:
Il Mausoleo dei Valeri
(Fonte)

"E' un mondo sterminato, oscuro. Forse tra i più densi di storia a Roma, considerata la stratigrafia complessiva, l' imponenza di ciò che lo sovrasta, il valore simbolico. Nella necropoli distesa al di sotto della basilica di San Pietro c'è qualcosa di nuovo. 

Sono i volti di Caio Valerio, con la moglie Flavia Olympia e i due figli Olimpiano e Valeria Massima, di 4 e 12 anni, incastonati nel mausoleo che porta il nome della loro famiglia. Pagani, a pochi passi dalla Tomba di Pietro, sotto la volta centrale della Basilica emblema della cristianità. è stato un restauro rapido e intenso a rimettere sotto nuova luce il monumento che, nemmeno due secoli dopo la nascita di Cristo, un liberto - un ex schiavo - della famiglia dei Valerii, uomo colto e padre di famiglia, si fece costruire sotto forma di sontuoso mausoleo pagano. 

Duecentomila euro, un pugno di sponsor, un cantiere che ha comunque consentito nei dodici mesi di lavori le visite, pur molto sorvegliate, alla necropoli vaticana; i restauratori Adele Cecchini e Franco Adamo, scelti dalla Fabbrica di San Pietro, hanno utilizzato per la pulitura di zone particolarmente delicate del monumento il raggio laser. 

Tecnica che ha portato a qualche ulteriore piccola scoperta, quelle piccole sorprese che accompagnano sempre interventi di recupero accurati. Come le scritte ritrovate in una nicchia poco distante e attribuite agli operai che lavorarono all'antica basilica costantiniana, inneggianti a Cristo. 

Nella città sotterranea del Vaticano, si alternano sepolcri restaurati e altri che sono ancora coperti dall' interramento costantiniano, le facciate maestose costruite con raffinati criteri architettonici e i decori scolpiti nella terracotta tinta in vari colori, mosaici e finti marmi seguono altre zone da recuperare. Il Mausoleo dei Valeri si staglia chiaro, con la sua nicchia semicircolare in cui è custodita l' impronta di una perduta statua di un Dio, probabilmente trafugata già in tempi antichi. Ai lati le statue di Minerva e una Diana o forse Giunone. 

Accanto alla triade divina, i componenti della famiglia dei Valeri atteggiati come antichi filosofi e circondati da simboli della sapienza. A sorvegliare il sonno dei fratellini Olimpiano e Valeria, uccisi da un' epidemia di peste nel 166, la statua di Hypnos, il dio del sonno. La sovrastano da due amorini che reggono una cornucopia di semi di papavero."


Da: Fondazionepromusicaeartesacra

"Su proposta della Fabbrica di San Pietro in Vaticano, la Fondazione Pro Musica e Arte Sacra ha sostenuto il costo del restauro del Mausoleo dei Valeri, il più grande e lussuoso sepolcro di tutta la Necropoli.

Fu costruito poco dopo la metà del II secolo, all’epoca dell’imperatore Marco Aurelio, da un  liberto della importante famiglia dei Valeri. 

Solo in parte la visione interna dell'edificio lascia oggi immaginare la raffinata eleganza delle decorazioni in candido stucco che ornavano in antico il sepolcro. 

Con una composizione scenografica di grande effetto nicchie per le olle cinerarie, adorne di bassorilievi con figure di menadi e satiri, si alternano a vani più grandi con sculture maschili e femminili, più alte di un metro, raffiguranti divinità e defunti di questa facoltosa famiglia di diciotto secoli fa. 

Questa tomba fu scoperta nel 1943 e sottoposta a parziali interventi conservativi tra il 1957 e il 1958.

Danneggiata in passato dalle instabili condizioni microclimatiche e da precedenti interventi eseguiti con materiali impropri, la tomba è stata finalmente sottoposta a una meticolosa e completa opera di risanamento, che ha impegnato, per la durata di circa dieci mesi, una equipe di restauratori. 

Avvalendosi delle più idonee e innovative tecnologie, il restauro è stato eseguito con bisturi, microtrapani e, per le parti più delicate, con sofisticate apparecchiature laser.

Per non compromettere eventuali ricerche future sono state volutamente risparmiate dalla pulitura limitate porzioni di intonaco con labili iscrizioni a carboncino e disegni pittorici (pareti est e nord). 

Inoltre lo studio dei frammenti di stucco custoditi nei depositi della Fabbrica di San Pietro ha reso possibile la ricomposizione di tre magnifiche erme e la ricollocazione di alcuni frammenti erratici di importanti bassorilievi. 

Il restauro ha infine offerto l'opportunità di riscoprire inediti graffiti sepolcrali e interessanti tracce di lavorazione (impronte di stampi per l'esecuzione degli elementi decorativi ripetitivi e uso del pigmento ocra nell'impasto dello stucco di calce e polvere di marmo).

Al termine dei lavori è stata realizzata una moderna teca di cristallo per osservare dall'esterno la camera funeraria senza alterarne il delicato equilibrio microclimatico, costantemente controllato da un sistema di monitoraggio computerizzato di alta precisione. 

É stata infine realizzata una nuova e suggestiva illuminazione a fibre ottiche per illuminare in maniera discreta e rispettosa le straordinarie e rarissime decorazioni artistiche di questa tomba.

In questo progetto la Fondazione Pro Musica e Arte Sacra ha potuto contare sul contributo del suo mecenate Dr. h.c. Hans Urrigshardt e delle società LGT Bank in Liechtenstein AG, Mercedes-Benz Italia S.p.A., Pedrollo S.p.A. e Courtial Viaggi srl."

Neanche due secoli dopo la nascita di Cristo, un liberto della famiglia dei Valeri, uomo colto e padre di famiglia, si fece costruire un sontuoso mausoleo pagano nella necropoli vaticana, senza sapere di doverci seppellire per primi i due figli, di 4 e 12 anni, morti prematuramente per la peste che infuriava a Roma nel 166.

I volti di Caio Valerio, della moglie Flavia Olympia e dei due figli Caio Valerio Olimpiano e Valeria Massima, sono riemersi con una bellezza ed espressività indenne alla scure del tempo, insieme a quelli di presunte divinità e altre figure, nello splendido mausoleo dei Valeri nei sotterranei del Vaticano, a due passi dalla Tomba di Pietro, grazie ad accurati restauri durati quasi un anno, costati circa 200 mila euro e appena conclusi.

In una nicchia, anche alcune scritte attribuite agli operai che lavoravano all’antica basilica costantiniana, inneggianti a Cristo e al trono di Pietro, poco lontano, prova ulteriore, secondo la Fabbrica di San Pietro, della veridicità del sepolcro del fondatore della Chiesa.

«I ritrovamenti della necropoli, anche quelli pagani, provano che la Basilica non sorge qui per capriccio - ha detto il presidente della Fabbrica di San Pietro, cardinale Angelo Comastri, presentando il mausoleo rimesso a nuovo - ma perchè sotto c’è una storia, che è stata conservata e tutelata con estremo scrupolo, ed è la storia dell’apostolo Pietro.

Pietro - ha aggiunto - arrivato a Roma, morto durante le persecuzioni di Nerone, raccolto dai cristiani dopo la crocifissione, e portato nel punto dove attualmente sorge l’altare.

Ora possiamo dire - ha proseguito il cardinale - che quel punto non è solo una calamita che attira il mondo, ma anche la giustificazione della presenza del Papa accanto alla tomba di Pietro».

E così, secondo la lettura vaticana, anche le statue di Giove e Giunone finiscono per raccontare un percorso cristiano pur mantenendo, per l’occhio dell’archeologo e del restauratore, una loro bellezza che sembra sfuggire ad ogni attribuzione.

Nella necropoli si alternano sepolcri restaurati ad altri ancora coperti dall’interramento costantiniano, facciate maestose costruite con raffinati criteri architettonici, decori scolpiti nella terracotta tinta in vari colori, mosaici e finti marmi.

Nel mausoleo dei Valeri spicca una grande nicchia semicircolare con l’impronta di una perduta statua di un Dio, probabilmente trafugata già in tempi antichi.

Ai lati altre due nicchie, con le statue di Minerva e un’altra dea, forse Diana o Giunone.

Accanto alla triade divina, componenti della famiglia dei Valeri atteggiati come antichi filosofi e circondati da simboli di sapienza.

Sulla statua di Hypnos, dio del sonno, due amorini con le stesse ali che reggono una cornucopia di semi di papavero. Il merito del restauro, svolto in ambiente sotterraneo con la poca aria incanalata dalle grotte vaticane e in spazi tanto ristretti da richiedere uno speciale tipo di laser, è di Franco Adamo e di Adele Cecchini, scelti per l’impresa dalla Fabbrica di San Pietro grazie all’interessamento della Fondazione pro musica e arte sacra, che ha ottenuto fondi da varie società tra le quali la Mercedes Benz.

La necropoli vaticana, ancora in gran parte interrata e inesplorata, si può visitare, in piccoli gruppi di persone adulte, chiedendo una apposita autorizzazione alla Fabbrica di San Pietro.



IL MATRIMONIO ROMANO

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IL FIDANZAMENTO

Chi desiderava prendere moglie chiedeva a chi aveva la tutela della donna una formale promessa ed a sua volta prometteva. Questa contrattazione si chiamava "sponsalia" (fidanzamento). Se le promesse venivano rotte senza giusta causa un giudice condannava la parte inadempiente ad una pena pecuniaria. Questi ordinamenti rimasero in vigore fino alla legge Giulia del 90 a.c.

Quindi il fidanzamento avveniva secondo le forme della "stipulazio" in base alla quale sia il pater della donna sia il fidanzo si impegnano a garantire il compimento delle nozze. Presi gli accordi i
due fidanzati si scambiavano un bacio casto definito "bacio di religione" che non offendeva le antiche tradizioni. In tal caso la cerimonia degli sponsali era definita "osculo interveniente" (cioè è avvenuto lo scambio del bacio) a cui seguiva lo scambio dei doni, di solito stoffe pregiate, tappeti, tendaggi o cuscini per l'arredamento o per le vesti, dopodiché l'uomo donava alla donna l'"Anulus Pronubus" cioè l'anello di fidanzamento.

Questo consisteva in un anello di ferro rivestito d'oro, oppure interamente d'oro, che veniva infilato durante la cerimonia all'anulare o come dice Giovenale «nel dito vicino al mignolo della mano sinistra» Cosa che accade anche oggi.

L'uso dell'anello all'anulare (anularius) lo spiega Aulo Gellio: « Quando si apre il corpo umano, come fanno gli Egiziani, e si operano le dissezioni, ἁνατομαί, per parlare come i Greci, si trova un nervo molto sottile, che parte dall'anulare e arriva al cuore. Si ritiene opportuno dare l'onore di portare l'anello a questo dito piuttosto che ad altri, per la stretta connessione, per quel certo legame che lo unisce all'organo principale ». In effetti ancora oggi la mano sinistra è considerata la mano del cuore.

Fino all'epoca imperiale sono i genitori a decidere le nozze dei figli, dopodichè il costume si modifica e i genitori non decidono tanto sui figli quanto sulle figlie. Nel senso che i genitori propongono un matrimonio al figlio che può rifiutare ma che in genere accetta la proposta di frequentare la fanciulla, o perchè è gradevole o perchè è ricca.

L'accondiscendenza dei figli verso i genitori sul matrimonio è tanto più dovuta quanto più la classe sociale è alta, perchè in taluni casi il matrimonio stipula una specie di alleanza tra due famiglie che si sosterranno pertanto sia in battaglia che in tempo di pace per aiutare le carriere dei figli o altro.

Il fidanzamento era così diffuso che Plinio il Giovane si lamenta del fatto che i Romani, invece di dedicarsi a cose più costruttive, perdano tempo a celebrare questa cerimonia che secondo i suoi severi costumi, che ricopiavano molto quelli del suo padre adottivo Plinio il Vecchio, si riduceva a una chiassosa festa tra parenti ed amici, interessati più al banchetto che agli sposi stessi.



IL CORTEGGIAMENTO 

La frequentazione tra i fidanzati diventa imprescindibile in età imperiale, l'uomo corteggia la fanciulla portandole fiori e pensierini e se la cosa procede anche regali più sostanziosi. Lei accetta di vederlo in casa sorvegliata alla distanza dalla nutrice o dalla madre, perchè la sua verginità va preservata, e se le aggrada può accettare l'invito a uscire con lui e farsi vedere insieme dalla gente, che è già un atteggiamento compromissorio, ma questo avviene quando si comprende che i due si piacciono, per la divulgazione degli "sponsalia", cioè il fidanzamento, dove tutti vedono i promessi in giro per il foro e pure i gioielli che lui le ha donato, gioielli che lei sfoggerà sempre in pubblico.

Le romane vanno pazze per i gioielli, li indossano fin da bambine, iniziando con quelli in bronzo o in ferro o in argento a seconda delle possibilità familiari. Non viene reputato sconveniente che un'adolescente si abbigli con i gioielli, anzi ne esistono per questi anche anelli di ambra, di avorio o di pasta vitrea, ma non indossati frequentemente perchè delicati, diciamo che si sfoggiano durante le feste o le visite tra parenti.

Non dimentichiamo che le romane indossano un anello per dito, talvolta anche alle dita dei piedi, e che oltre a orecchini e collane portano le cavigliere e che i bracciali non li indossano solo tra il gomito e i polsi come li portiamo noi ma pure tra la spalla e il gomito, le cosiddette serpentine. Ma come non bastasse sfoggiano diademi e collane pure sui capelli, per non parlare delle preziose fibule o bottoni che ornano le loro vesti, le loro borsette e le loro cinture, talvolta anche le scarpe.

Nel fidanzamento la donna ha il suo peso, perchè lui deve conquistarla non solo coi regali ma pure coi madrigali, scritti da lui o da altri che egli le recita dopo averle scritte sul papiro, in modo che ella possa conservarli e magari riguardarli. Inoltre sarà sua premura portarle dolci prelibati e olii profumati per la pelle e i capelli.

Se i due fidanzati sono invitati alla medesima cena essi non avranno il diritto di giacere l'uno accanto all'altro nel triclinium, ma potranno alzarsi e sedersi ogni tanto sul triclinio dell'altro per scambiare parole e scherzi. Nessuno dei due però scherzerà con altri nè siederà presso i triclini altrui perchè offenderebbe il partner.



LE NUPTIAE

Nel Lazio antico invece tra le gentes e le altre tribù doveva essere frequente «il passaggio dallo scambio (in seguito mercificato) al ratto e viceversa». La legge dell'esogamia appartiene ad ogni luogo, la donna doveva sposandosi uscire di casa e dalla tribù per seguire la tribù del marito portandosi appresso una dote tanto più ingente quanto meno ella fosse ambita. Infatti la dote era frutto di contrattazione e generava in genere legami tra le varie tribù con alleanze in caso di guerra.

Con sparizione delle tribù e l'allargamento della comunità subentrò invece una esogamia familiare che vietava il matrimonio con parenti entro un certo grado. I due divieti si riferiscono per i romani, in successione di tempo, alle tribù, alle gentes e alle familiae.

Nel regime patrimoniale della famiglia c'è una progressiva attenuazione dell’incapacità patrimoniale del figlio e della donna tramite la dote e i peculia, ed una corrispondente diminuzione della signoria del pater.

Poiché l'uso del denaro era raro tra i Romani, ma la loro ricchezza nel bestiame era grande; nei contratti vocali del fidanzamento si prometteva la consegna di peculia, da pecus, bestiame (in realtà il primo bestiame furono le pecorema per estensione il nome riguardò tutti gli animali da allevamento). E avevano stampato sui loro soldi più antichi un bue, una pecora o un maiale; E soprannominarono i figli a seconda degli animali che custodivano Suillii (che allevavano suini), e Bubulci (che allevavano buoi).



MATRIMONIUM IUSTUM

Secondo i requisiti dell’istituto, elencati nei "Tituli ex corpore Ulpiani": il "Matrimonium Iustum" (cioè legale) era la capacità a sposarsi ("conubium"), l’età pubere, il consenso dei nubendi se "sui iuris", o degli ascendenti qualora fossero alieni iuris. Nelle fonti antiche il termine nuptiae indica più frequentemente le cerimonie celebrative mentre il termine "matrimonium" suggerisce piuttosto uno status, una causa o uno scopo.

« Il matrimonio è legittimo se tra coloro che contraggono le nozze abbiano lo "ius connubii", e che tanto il maschio che la femmina siano in grado di generare figli, e che ambedue siano consenzienti, se siano responsabili di sé giuridicamente, o che lo siano i loro genitori se ancora sono sotto la loro tutela»

La sussistenza di questi elementi, tuttavia, non basta perché si abbiano "iustae nuptiae", vi deve essere concretamente la convivenza che inizia con la "deductio in domum" (trasferimento nella casa) della donna nella casa del marito. La "deductio" non è una formalità costitutiva del matrimonio ma la prova del suo inizio, ancorché accompagnata da cerimonie e feste a seconda dello stato socioeconomico degli sposi.

Perché esista realmente il matrimonio è necessaria poi non una manifestazione iniziale di volontà ma il continuo esercizio della volontà di condurre il matrimonio: la cosiddetta "affectio maritalis" senza la quale l'unione dei due soggetti era considerata concubinato.



IL CONUBIUM

Anticamente con il "Conubium" si accede allo scambio matrimoniale con riti di fertilità in un periodo precivico. Le fonti sul Lazio antico dichiarano « la consapevolezza che il fondamento arcaico del conubium risiedeva su una convenzione espressa o tacita della comunità - passibile di rottura violenta e di pacifico rinnovo - la cui attuazione nel caso concreto non subiva mediazioni mercantili ma era garantita da cerimonie religiose ».

La funzionalità del conubium per la riproduzione umana fa dipendere l’interesse dal ruolo dei gruppi di parentela. Se prima il conubium era lasciato ai rapporti tra gruppi precivici, in seguito viene regolamentato dello stato per allargare, restringere o rimuovere l’area di scambio matrimoniale.

La famiglia in età arcaica gestisce le strategie riproduttive, per cui la prole rappresenta il patrimonio della famiglia e non del singolo. In tale contesto la dote risulta essere un «fattore di funzionalità», che agevolava i matrimoni.

L'integrazione della moglie nella familia del marito, usus, confarreatio e coemptio, sono stati elaborati su base consuetudinaria e per offrire modelli alle famiglie con ampio margine di scelta per controllare i conflitti di potere. Integrata attraverso la conventio in manum nella famiglia del marito, l’uxor fin dal periodo arcaico partecipava di fatto all’economia domestica. Anche gli aspetti patrimoniali erano in partecipazione con la moglie, tanto è vero che esisteva fin da allora il divieto di donazione tra i coniugi.

Lo ius civile, partendo dal conubium, perviene al matrimonium iustum. Fu la giurisprudenza pontificale a regolare l’antico matrimonio in quanto presupposto per riconoscere la legittimità della prole e il riconoscimento all’interno della famiglia del marito come suus heres. Ma quando con l’andare del tempo le nuptiae religiose non rappresentano più una garanzia della stabilità e continuità della famiglia, intervengono le leggi.



MATRIMONIO CUM MANU E SINE MANU

Quello di cui si è parlato fino ad ora è una forma di matrimonio sine manu, ossia priva del potere di manus del marito sulla moglie. Questo tipo di matrimonio non concedeva al marito alcun tipo di potere sulla donna, che restava legata alla propria famiglia di origine e, quindi, non poteva avere nessuna aspettativa ereditaria dalla famiglia del marito.

Il marito poteva acquisire la manus sulla moglie a seguito della celebrazione di particolari cerimonie nuziali (la confarreatio o la coemptio) o comunque se sussistevano determinate condizioni (questo è il caso dell'usus).

I poteri della manus arrivavano a comprendere il diritto di uccidere la propria moglie, come stabilito da una legge attribuita a Romolo, nel caso in cui avesse commesso adulterio o avesse bevuto vino.



CONFERREATIO

Tra i riti nuziali con i quali il marito acquisiva la manus, la confarreatio, così chiamata perché gli sposi facevano offerta di una focaccia di farro a Giove Capitolino, è sicuramente il più antico, che la tradizione faceva risalire a Romolo.

Gli sposi operavano un sacrificio bruciando poi la carne dell'animale sacrificato. Dalla fiamma traevano gli auspici del matrimonio: se essa si innalzava pura e risplendente verso il cielo, l’unione sarebbe stata fortunata; altrimenti la felicità era breve.

Gli sposi giravano attorno all’Ara, da destra a sinistra. pronunciando le parole rituali, preceduti dal giovane figlio di un Sacerdote e di una Sacerdotessa che portava in un vaso i granelli di farro che dovevano essere gettati nel fuoco, e con la focaccia di farro, che doveva essere assaggiata dagli Sposi e poi bruciata.

Dopodichè il matrimonio era concluso. Allora la sposa, seduta sopra una pelle di agnello, riceveva i complimenti e gli auguri dei parenti. Seguiva poi il banchetto nuziale, alla fine del quale venivano distribuite piccole Focacce di Farro.

Il rito apparteneva solo alle classi sociali più elevate e richiedeva la presenza del Pontifex Maximus e del Flamen Dialis. Per questi motivi la confarreatio entrò presto in disuso, sostituita da altri rituali più pratici come la coemptio. La confarreatio era così caduta in disuso tanto che al tempo di Tiberio risultavano solo tre patrizi nati da un matrimonio di questa forma.



COEMPTIO

La coemptio era un adattamento della mancipatio, il negozio anticamente usato per l'acquisto delle cose di maggior valore (res mancipi).

In origine era una celebrazione del matrimonio per compera, (coemptio deriva da cum emptio, "con la compera"). Il padre plebeo metteva in atto una vendita fittizia della figlia, così emancipandola, al marito. La coemptio era quindi accessibile anche ai plebei, ai quali la confarreatio era invece preclusa.

Nel corso della cerimonia la futura sposa esattamente come un oggetto, veniva venduta dal pater familias allo sposo che reggeva una bilancia (stadera) su cui gettava il prezzo per comprare la moglie.

La donna sposata con questo rito non veniva chiamata "matrona" come nella confarreatio, ma semplicemente "uxor".

Tuttavia, quando la confarreatio cadde in disuso, la coemptio venne spesso usata anche dai patrizi. L'ultimo esempio di matrimonio secondo la coemptio risale all'epoca del secondo triumvirato (43 a.c.), dopodichè scomparve.



USUS

L'usus, invece, era una forma di matrimonio per usucapione. Nelle XII tavole si stabiliva che le cose mobili potessero essere usucapite dopo un anno. Così, dopo un anno di convivenza, il marito "usucapiva" la manus sulla moglie.

La coabitazione ininterrotta di un anno ad esempio di un plebeo con una patrizia era considerata un matrimonio legale. L'usus fu abolito da Augusto.



TRINOCTIUM

Nei casi in cui si volesse contrarre matrimonio senza acquisire la manus, si ricorreva all'istituto della trinoctis usurpatio (o semplicemente trinoctium). La donna si allontanava ogni anno per tre notti dalla casa coniugale prima che scadesse il termine dell'usus così da impedire che l'usucapione si compisse. 



LA CERIMONIA

La cerimonia del matrimonio si svolgeva in varie tappe:

- Il giorno prima delle nozze la fanciulla consacrava in un tempio ad una divinità di sua scelta i balocchi della sua infanzia, poi si toglieva la toga pretexta (con le due strisce di porpora che la rendeva inviolabile) e la donava alla Fortuna Virginalis.

- Il giorno delle nozze, la fidanzata, che la sera prima aveva raccolto i capelli in una reticella rossa, indossava una tunica senza orli (tunica recta), fissata con una cintura di lana con un nodo doppio (cingulum herculeum), e un mantello (palla) color zafferano, ai piedi sandali dello stesso colore, al collo una collana di metallo e sulla testa un'acconciatura, come quella delle Vestali, formata da sei cercini posticci separati da piccole fasce (seni crines), avvolta in un velo dal color arancio al rosso (flammeum) che copre la parte superiore del viso; sul velo una corona intrecciata di maggiorana e verbena, al tempo di Cesare e d'Augusto, più tardi di mirto e fiori d'arancio. 

- Le nozze si svolgono in casa della sposa, infatti, quando ha finito di vestirsi la fidanzata riceve il fidanzato, la famiglia e gli amici di lui: tutti assieme poi sacrificano agli Dei nell'atrium della casa o presso un tempio vicino. Durante il sacrificio della pecora o di un bue, più frequentemente di un maiale, l'auspex, che non è un sacerdote né un funzionario, esamina le interiora per vedere se gli Dei gradiscano quanto è stato celebrato: se così non fosse il matrimonio sarebbe annullato. 

- Infine l'auspex, nel religioso silenzio degli astanti, annunzia (se c'è) il favore degli Dei, e solo allora l'auspex e i testimoni, solitamente una decina, pongono il loro sigillo sull'atto di matrimonio (che però può anche non esserci). Nel corso della cerimonia, lo sposo solleva il velo della sposa, il flemmum, che viene poi sollevato e teso anche sul capo dello sposo. A questo punto i due giovani a volto scoperto, suggellando il momento con una stretta di mano, che era un segno molto intimo, visto che i romani nei saluti non si toccavano mai, con una regola diciamo molto più igienica e piacevole di quella dei tempi nostri.

- L'atto di unire le mani è un gesto importante nel matrimonio romano, infatti compare più volte nei bassorilievi soprattutto funebri o semplicemente commemorativi, come gesto nuziale e pure affettivo, ed è il gesto preciso che usiamo oggi per stringere la mano a qualcuno. Giustamente i romani lo consideravano un gesto molto intimo, visto che c'è un contatto reciproco di pelle e che riguarda i palmi della mano. Infatti i romani usavano il gesto solo per il matrimonio e, curiosamente, veniva usato tra i seguaci di Mitra che si riconoscevano tramite questo gesto.

- Il matrimonio è ufficialmente legale quando gli sposi pronunciano la formula di rito: "Ubi tu Gaius, ego Gaia". (Ovunque tu sarai Gaio ci sarò anch'io Gaia)
Ora la cerimonia è conclusa e gli invitati e i parenti festeggiano gli sposi innalzando grida augurali: feliciter («Felicità!») o Talasius ("Talasio!" antico Dio Italico del matrimonio) e la sposa viene condotta a casa dello sposo con una processione aperta da suonatori di flauto e cinque tedofori mentre si levano canzoni licenziose e gioiose. 

- Durante il cammino la sposa lancia ai ragazzini accorsi delle noci come quelle con cui giocava da bambina. Alla testa del corteo sono tre amici dello sposo, uno il pronubus, porta una torcia intrecciata di biancospini, e gli altri due prendono la sposa e senza farle toccare i piedi in terra la sollevano al di là della soglia della casa ornata con paramenti bianchi e verdi fronde. 

- Tre amiche della novella sposa entrano anche loro in casa, una porta la conocchia, un'altra il fuso, chiari simboli di quelle che saranno le sue attività casalinghe, mentre la terza, la più importante, accompagna la sposa al letto nuziale dov'è il marito che le toglie il mantello e le scioglie il triplice nodo della cintura che ferma la tunica mentre tutti gli invitati si defilano lasciandoli soli.



IL VELO DELLA SPOSA

Il velo della sposa era rosso, arancione o giallo, a simboleggiare i colori del fuoco, come del resto i colori di Roma più usati nell'edilizia furono il rosso e il giallo. Questo perchè la donna romana, in tempi molto arcaici, rappresentava nelle cerimonie sacerdotali al Dea in terra, e cioè Estia, la Dea del fuoco, che cambiò poi il suo nome in Vesta, da cui le sacerdotesse vestali.

Solo che le sacerdotesse di Estia vestivano di rosso e non avevano alcun obbligo alla verginità, anzi, come in tutti gli antichi templi mediterranei e oltre, esercitavano la prostituzione sacra. All'epoca il sesso non era peccato e mettere al mondo figli era un aiuto alla comunità piuttosto esigua.

Fino all'ultimo la donna romana indossò nel matrimonio il "Flammeum" la fiamma, ma la religione cristiana pensò di togliere anche quest'ultimo attributo obbligando le donne a indossare un abito e un velo bianco, simbolo di quella verginità che avevano obbligato le donne a rispettare fino al matrimonio.

Oggi il velo è bianco come l'abito della sposa, in segno della su verginità, a cui peraltro la donna non è più disumanamente obbligata. Al tempo dei romani invece era molto importante per cui i romani, specie patrizi, e pure di età avanzata, prendevano in moglie le ragazzine dai 12 ai 15 anni, praticamente delle bambine, che sicuramente non erano affatto liete di accompagnarsi ad uomini attempati.



L'EMANCIPAZIONE DELLA DONNA

Le spose romane venivano promesse spesso da bambine, per poi essere consegnate al fidanzato quando raggiungevano i 12-13 anni. In età repubblicana, la moglie romana non si differenziava molto da quella greca in quanto passava dall’autorità del padre a quella del marito, ma a differenza della donna greca, la matrona romana veniva istruita e in età imperiale si emancipò, riuscendo ad ottenere notevoli diritti giuridici e libertà personali.

Per gli antichi la donna era considerata una creatura per natura irresponsabile da tenere continuamente sotto tutela.  Nel matrimonio cum manu essa si liberava dalla soggezione dei parenti per cadere sotto quella del marito, in quello sine manu restava sottoposta al tutore "legittimo", designato dalla legge, scelto tra i suoi agnati, alla morte dell'ultimo ascendente in linea diretta. In seguito però, anche in quella sine manu la tutela legittima decadde. Bastava infatti che una donna prendesse a pretesto una disattenzione del tutore legittimo che il pretore compiacente ne indicasse un altro più gradito. 

Quando poi s'instaurò il programma demografico di Augusto, con una normativa della legislazione sociale (Ius trium liberorum, "diritto dei tre figli") che puntava a rendere più numerose le famiglie, ogni donna che avesse già avuto tre figli veniva esentata dalla tutela, anche avesse abortito involontariamente o comunque uno o più figli non fossero nati. 

Naturalmente questo andò insieme al diritto delle donne di divorziare, cosa in cui ebbe peso significativo di Livia che fece il possibile per liberare le donne dall'oppressione maschile. 
Prima di allora solo l'uomo poteva "ripudiare la moglie" per cause previste dalla legge ma che era molto facile evitare, ma la moglie non poteva lasciare il marito. 

Insomma sotto Augusto erano sufficienti tre parti per liberarsi dell'autorità maritale, autorità patriarcale rimessa immediatamente dalla Chiesa che si affrettò anche a togliere il divorzio, e solo due millenni dopo la civiltà legale tornò in Italia, esattamente nel 1970, quando venne reintrodotto il divorzio in Italia, e nel 1975 quando la legge italiana fece decadere la podestà maritale sulla moglie. 

Al tempo di Adriano questo processo di liberazione giuridica della donna prevede che essa non abbia più bisogno del tutore per redigere il suo testamento e i padri hanno perso ogni capacità d'imporre alle figlie il matrimonio o di contrastare la loro volontà di sposarsi perché, come dice il grande giureconsulto Salvio Giuliano, nel matrimonio conta il libero consenso della donna e non la costrizione: « nuptiae consensu contrahentium fiunt; nuptis filiam familias consentire oportet».

LILYBAEUM - MARSALA (Sicilia)

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Lilibeo fu un'antica città, posta all'estremo ovest della Sicilia, precisamente sotto l'attuale Marsala, situata sul Capo Boeo, che segna il confine marittimo fra il mar Tirreno e il mar Mediterraneo, essendo l'estrema punta occidentale dell'isola.

Oggi fa parte dell'area archeologica di Capo Boeo, che si estende per ben 28 ettari, e fa parte delle coste e delle isole dello Stagnone, una laguna diventata riserva naturale perché habitat ideale di riproduzione e di ristoro per tantissime specie animali.

Tra queste i fenicotteri rosa che sempre più spesso – e in gruppi sempre più numerosi – scelgono lo stagnone ed in particolare l'Isola Grande (comunemente conosciuta come Isola Lunga) come luogo di riposo. 

Lo stagnone è uno dei pochissimi habitat naturali al mondo per la Posidonia, una rara qualità di pianta marina, simile all'erbetta da giardino.

Nei momenti di bassa marea, lo stagnone si trasforma in una immensa prateria, quasi come un campo di calcio in mezzo al mare.

Diodoro (90 - 27 a.c.) riporta che Lilibeo fu fondata dai punici esuli, fuggiti da Mothia, distrutta da Dionisio di Siracusa nel 397 a.c.

« (Mothia) Era situata su un'isola che dista sei stadi dalla Sicilia ed era abbellita artisticamente in sommo grado con numerose belle case, grazie alla prosperità degli abitanti. »
(Diodoro Siculo)
SCAVI DEL 2008
Lilibeo, grazie alla sua posizione di guardia tra Mediterraneo e Tirreno, fu inizialmente un avamposto cartaginese. Assunse poi grande importanza sotto il dominio romano quando vi ebbe sede uno dei due questori che Roma inviava in Sicilia (l'altro aveva sede a Siracusa).

A Lilibeo, tra gli altri, fu questore Cicerone (106 - 43 a.c.), evidentemente molto apprezzato visto che poi i siciliani gli affidarono la causa contro Verre. La città divenne così il centro più grande e più importante della Sicilia occidentale.


DECUMANO

LA STORIA

Nell'anno 397 a.c., la città di Mozia, ubicata sull'isola di San Pantaleo, nella laguna detta dello Stagnone, venne distrutta da Dionisio I, tiranno di Siracusa. I superstiti si rifugiarono sulla costa siciliana e qui fondarono la città che chiamarono Lilibeo. La città venne cinta di mura e da due profondi fossati a nord e a sud di esse, di cui oggi, a Marsala, sono visibili alcuni tratti.
Le fortificazioni dovevano essere molto poderose, tanto da consentire alla città di resistere all'assedio dionisiano del 368 a.c., "mentre le triremi erano dentro il porto di Drepana, i Cartaginesi le attaccarono, le imbarcazioni siracusane furono distrutte e l'assedio fu rotto". 

PAVIMENTO IN MARMO BIANCO E COLONNA A SAN  BOEO
Dovettero.poi resistere all'assedio di Pirro avvenuto nel 277 a.c.che durò ben due mesi. Si narra che il sovrano, abbandonando Lilibeo e la Sicilia, rivolgendosi ad alcuni compagni esclamasse: 
"Che meraviglioso campo di battaglia stiamo lasciando, amici miei, a Cartaginesi e Romani!"
Infatti anche i Romani, durante la I guerra punica, (264 - 261 a.c.) attaccarono Lilibeo ma non riuscirono ad espugnarla. Fu solo nel 241 a.c., con gli accordi di pace, che Cartagine cedette a Roma tutti i propri possedimenti in Sicilia.

Diventata romana, Lilibeo diventò presto un vivissimo centro commerciale, grazie al suo porto e agli intensi traffici marittimi nel Mediterraneo. Si arricchì di splendide ville ed edifici pubblici, tanto che Cicerone, già questore di Lilibeo, la definì splendidissima civitas nell'anno 75 a.c.

La città prosperò fin tanto che durò l'impero romano, alcuni romani vi si trasferirono per il clima caldo e il mare azzurro, edificando splendide ville sulle coste o all'interno. Ma pure i locali si romanizzarono, imparando ad apprezzare le comodità e i lussi dei romani, a cominciare dalle terme, e poi le biblioteche, i portici, i parchi, le fontane, le basiliche, i templi e così via.

Alla caduta dell'Impero Romano, Lilibeo venne devastata dai Vandali all'inizio del V sec., passando sotto il potere del re dei Vandali Trasamondo (450 – 523) che la governò fino alla morte nonostante i successivi accordi con Odoacre che occupò il resto della Sicilia.

IL NOME

Il nome potrebbe derivare dal greco Lilýbaion ("che guarda la Libia", nome che indicava tutta la costa settentrionale dell'Africa) oppure avere origine da una fonte così chiamata, oggi incorporata dalla chiesa di San Giovanni al Boeo. 

LA GROTTA DELLA SIBILLA

LA GROTTA DELLA SIBILLA

Sotto la chiesa si trova la cosiddetta "Grotta della Sibilla", che la tradizione collega quale sepolcro o dimora alla Sibilla Cumana o alla Sibilla Sicula o Sibilla Lillybetana. La Grotta, che si trova a - 4,80 m, è costituita sostanzialmente da un vano centrale, di forma circolare, è scavato nella roccia fino ad una certa altezza, ed è coperto da una cupola bassa, costruita in muratura, con lucernario collegato con il pavimento della chiesa.

Il vano centrale è occupato da una vasca quadrata, non molto profonda. ed è connesso con due ambienti, uno orientato a Nord, l'altro ad Ovest. L'ambiente settentrionale, interamente scavato nella roccia, è semicircolare ed absidato. A livello del pavimento, sgorga una sorgente che alimenta la vasca dell'ambiente centrale. 

La tradizione tramanda che la grotta fosse una delle dimore dove la Sibilla Cumana avesse esercitato la sua attività oracolare, e/o che fosse anche stato il suo sepolcro. 

Gli studiosi sostengono che non vi sia alcuna conferma in merito all'antro della Sibilla, mentre ritengono che in tempi antichi probabilmente non del tutto ipogeico, vi fosse un ambiente termale di pertinenza di una ricca dimora romana.

Però invece le prove ci sono e le fonti ne parlano:

1) Diodoro Siculo, per primo, ce ne dà notizia nella sua “Biblioteca storica”. Narrando lo sbarco di Annibale, che si accingeva a porre sotto assedio Selinunte, sul promontorio del Boeo nel 409 a.c., lo storico così scrive: “… Annibale cartaginese portava le sue truppe sul promontorio di fronte la Libia e poneva l’accampamento accanto a quel pozzo chiamato Lilibeo…”.

2) G. Pitrè nel suo “Feste patronali in Sicilia” ricorda come la popolazione marsalese attribuiva al pozzo d’acqua una serie di poteri salvifici e come ancora nel 1900 nei giorni della festa di San Giovanni in molti vi si facevano salassare e “li salassi erano in tanto numero che talvolta se ne contarono sopra 400”.

LA GROTTA DELLA SIBILLA
3) Altra fonte storica, nella quale si accenna chiaramente a un culto oracolare legato al Pozzo, la troviamo in Solino che, tra il III e IV secolo, nella sua opera “Collectanae rerum memorabilium” testimonia che “Lilybetano Lilybeum oppidum decus est Sibillae sepulcro” ovvero che sul promontorio lilibetano, la città di Lilibeo si onora del sepolcro della Sibilla.

4) Inoltre E. Ciaceri, nella sua opera “Coins of ancient Sicily”, scrive di una moneta proveniente da Lilybeo, ove al dritto è raffigurata una testa velata, normalmente interpretata come una divinità femminile, ed al rovescio un tripode avvolto da un serpente; secondo lo studioso essa raffigurerebbe proprio la nostra Sibilla messa in relazione con Apollo Pitico, del quale essa stessa era sacerdotessa.

Tale tradizione sembrerebbe trovare qualche conferma nel recentissimo ritrovamento (gennaio 2005), 
durante gli scavi nell’area contigua alla chiesa di San Giovanni Battista, di una statua mutila a grandezza naturale, identificata come Venere Callipige databile, forse, al II secolo d.c.

Non c'è meraviglia che un luogo così sacro non fosse poi stato benedetto dall'erezione di un santuario o di un'edicola, e sul fatto che Venere fosse legata alle acque non c'è alcun dubbio. così come se la chiesa ha edificato proprio là sopra significa che doveva, come spesso accadeva, far dimenticare un luogo pagano piuttosto venerato. 

La chiesa vi ha collocato il San Giovanni Battista collocato sull'altare arcaico e collegato al battesimo, per cui doveva far dimenticare ai fedeli l'acqua miracolosa, il santuario venereo e la Sibilla Cumana.


Descrizione:

Alla Grotta si accede da due aperture praticate nel pavimento della navata della chiesa, l’accesso più antico ha due rampe di scale collegate ad un corridoio; il secondo accesso è costituito da un corridoio collegato a tre rampe di scale realizzate nel XVII secolo.

Al centro dello spazio circolare è una vasca quadrata nella quale una canaletta convoglia l’acqua che sgorga da una fonte, situata nel pavimento di un ambiente contiguo; connessi con quest’ultimo sono due vani, in uno interamente scavato nella roccia ed absidato, è alloggiato, davanti alla sorgente, un altare in pietra con una scultura marmorea ad alto rilievo, che raffigura San Giovanni Battista, opera del XV sec.; l’altro, pur esso scavato nella roccia, è di forma irregolare, presenta infatti tre pareti rette ed una absidata.

Non meraviglia pertanto la croce latina scolpita a basso rilievo sul soffitto del più antico ingresso alla Grotta, databile tra V e VI sec.. La tradizione non poteva essere cancellata ma solo sostituita. Certamente la tradizione della Sibilla che oracolava vivendo reclusa volontariamente in una grotta e che riceveva la venerazione del popolo fa una certa impressione oggi, dove una donna che viva solitaria e per giunta famosa non passerebbe indenne a stupri, offese o omicidio. Se non avesse dato oracoli verificati la gente sicuramente non l'avrebbe onorata tanto e per tanti secoli.

LA VENERE CALLIPIGIA DI MARSALA

LA VENERE CALLIPIGIA

Il 14 gennaio 2005 durante i lavori di scavo archeologico nell'area di pertinenza della Chiesa di San Giovanni Battista al Boeo in Marsala è stata rinvenuta una statua marmorea raffigurante Venere Callipigia (o Venere dal bel sedere), databile alla seconda metà del II sec. 
La statua è acefala e manchevole della metà del braccio destro, che copriva o indicava il seno, di più della metà del braccio sinistro, che reggeva l'himation (indumento greco che si portava sopra una spalla, ma, a differenza della clamide, non richiedeva di essere fissato tramite una fibula), di metà circa della gamba destra e di parte della gamba sinistra.
L'opera, scolpita in un unico blocco di marmo pario, molto probabilmente di provenienza greca, è di bellissima fattura: la rotondità dei seni e del fondoschiena scoperto dall'himation, voluttuoso e morbido, evocano il significato mitologico di Afrodite, simbolo dell'istinto e della forza vitale della fecondità e della generazione.
Tante e tali amputazioni fu dovuto dall'odio cristiano per gli Dei pagani che indusse alla distruzione di un patrimonio artistico che è stato incomparato e incomparabile nella sua straordinaria bellezza. Solo artisti come Michelangelo potevano competere con tanta bravura e stile ma di Michelangelo ce n'è stato uno solo, e l'arte greco-romana è rimasta ineguagliata. Non è la religione che distrugge l'arte ma solo l'ignoranza.
VILLA ROMANA

GLI SCAVI

I resti dell'antica Lilibeo si trovano nell'attuale centro urbano di Marsala e, insieme all' isola di Mozia che la fronteggia dal mare (purtroppo di proprietà privata e inglese), costituiscono una cava di sorprese archeologiche soprattutto  fenicio-puniche ma pure romane. 

L'area è stata completamente abbandonata in epoca medievale, ma ancora oggi, facendo una passeggiata all'interno, è impossibile non calpestare pezzi di terracotta antica, o per i più appassionati non notare cinte murarie che escono dal terreno.

Nel 1939 è stato messo in luce un grande edificio romano provvisto di ambienti spaziosi, distribuiti attorno ad un atrio tetrastilo e ad un peristilio. L’insula è fiancheggiata da strade parzialmente lastricate. 

Nel 1972 una breve campagna di scavi ha consentito di accertare la presenza di due fasi edilizie diverse: la più antica del II-I secolo a.c.; la più recente della fine del II-III sec. d.c. Dal 2002 ad oggi è in corso la realizzazione del Parco Archeologico di Marsala, dove gli archeologi lavorano in una distesa di verde in mezzo alla città, scoprendo via via nuovi tesori. 

La campagna di scavo degli anni 2000 ha portato alla luce strutture murarie, lastricati in marmo, reperti di rilevante interesse come la Statua in marmo di Venere Callipigia del II secolo d.c., il timpano in pietra con un'iscrizione latina, oggetti ornamentali come spille, monete, ecc.

Sono riemersi (per ora non visitabili per lavori pubblici) resti dell'abitato (una intera insula con due ricche residenze di età imperiale romana, con pavimentazioni a mosaico e impianti termali privati), delle fortificazioni puniche (mura e fossato) e delle ricche necropoli di età ellenistica e romana. 

Molto importante l'ipogeo di Crispia Salvia (1996) con una camera sotterranea (visitabile con prenotazione) dedicata da un marito alla moglie "Crispia Salvia" in uso dal II sec. d.c., con le pareti interamente decorate da scene dipinte in una vivace policromia (una flautista con danzatori, un banchetto funebre, eroti fra ghirlande, cesti colmi di fiori e frutta).

IPOGEO DI CRISPIA SALVIA

IPOGEO DI CRISPIA SALVIA 

Situato nella necropoli di Lilibeo, oggi in via Massimo D'Azeglio a Marsala, come testimonia l'epigrafe latina risalente al II sec. d.c., venne dedicato a Crispia Salvia dal marito Iulius Demetrius. La donna è stata sposata per 15 anni ed è morta a circa 45 anni. 

L'importanza di attribuire l'età alla donna e di specificare gli anni di matrimonio potrebbe voler dire secondo alcuni studiosi che la donna sia stata già sposata, ma si è trovata la stessa cosa in diversi epigrafi destinate alle mogli ai mariti e pure i figli, dove i congiunti inconsolabili ricordavano gli anni, i mesi e addirittura i giorni, per cui è un'interpretazione che suscita dubbi. 

I nomi della donna rivelano le sue nobili origini, appartenendo a due gens i Crispius, che svolgevano delle attività economiche nella Sicilia occidentale, visti i ritrovamenti di utensili e tegole con bollo A. C. Crispi a Segesta, ed i Salvii anch'essi riconducibili a Lilibeo.

Del marito Iulius Demetrius non si possono facilmente conoscere le origini dato che il nome era diffuso in tutte le città della Sicilia, sia da personaggi di alto rango che da liberti ma non si esclude l'origine nobile. 

L'affresco riporta varie scene tra cui cinque danzatori ed una donna seduta. Ciascuno dei danzatori poggia un braccio sulla spalla di quello che lo precede, il primo a destra ha in mano un fiore, l'ultimo una corona. La donna suona un “aulos” a canne doppie. Nella scena sono cosparsi dei fiori rossi.

Ed ecco l'epigrafe dell'ipogeo di Crispia Salvia.



La foto che la ritrae è una ricostruzione dell'epigrafe intera, in quanto la parte a sinistra è conservata all'interno del Museo archeologico Baglio Anselmi di Marsala, la parte a destra invece si trova nell'Ipogeo stesso. Facciamo fatica a comprendere come mai tutta l'epigrafe non sia stata portata al museo lasciando magari una copia di essa nell'ipogeo.

CRISPIA SALVIA
VIXIT ANNOS
PLUS MINUS XLV
UXORI DULCISSIMAE
IULIUS DEMETRI
US QUAE
VIXIT CUM SUO
MARITO ANN XV
LIBENTI ANIMO

Nel resto della scena alcuni commensali siedono o sono sdraiati sui triclini, attorno ad un tavolino a
tre gambe di puro stile pompeiano, ovvero romano, su cui è poggiato un bicchiere di vetro mezzo pieno, che brindano col vino in calici anch'essi di vetro, sempre attorniati di fiori rossi.

Nella parte alta della scena due pavoni reggono una ghirlanda e un Kalathos, un vaso greco in ceramica con pareti quasi verticali svasato in cima, a volte con bordo molto largo.


In un'altra parete dell'ipogeo, sovrastante la fossa di sepoltura scavata nel tufo e dipinta di ocra, evidentemente una fossa per l'inumazione della salma, troneggiano due amorini in volo che sorreggono una ghirlanda sorreggendola con dei nastri verdi.

Ai lati della tomba l'affresco rappresenta due uccelli che sembrerebbero due colombi, il che sottolineerebbe il rapporto d'amore tra i due coniugi, visto che anche all'epoca le colombe erano simbolo d'amore e infatti erano considerati tra gli attributi di Venere.

Del resto tutto l'ipogeo sembra testimoniare un rapporto d'amore e anche qui i fiori rossi sono sparsi ovunque, in memoria della felicità della coppia quando era ancora in vita. Probabilmente è per questo che il marito ha contato gli anni di convivenza, in segno di rimpianto per ciò che fu e che non potrà più avere.

L'ipogeo è stato scoperto nel 1994 a seguito della demolizione di un edificio. Consta di una camera funeraria di forma trapezoidale di circa 25 m² cui si accede da un dromos ricavato nella roccia, mentre oggi si trova al di sotto dell'edificio di cinque piani che vi è stato riedificato (sig!) e che si trova in via Massimo D'Azeglio a Marsala.

NAVE PUNICA

Museo "Baglio Anselmi"


Gli scavi in corso (2007) stanno riportando in luce il tracciato dell'antico decumano massimo, la principale arteria stradale dell'antica Lilibeo. 
E' stata inoltre rimessa in luce negli scavi dell'area della chiesa di San Giovanni al Boeo (Giglio, 2005) un'importante statua di marmo raffigurante Venere Callipigia ("dal bel sedere"), oggi esposta al Museo Archeologico Regionale "Bagli Anselmi". 
Il Museo Archeologico "Baglio Anselmi", sito sul promontorio di Capo Boeo, espone molti altri importanti reperti preistorici e romani provenienti dagli scavi archeologici del territorio.
Attualmente, nel Museo Baglio Anselmi, è conservata una nave punica. Fu usata durante la Battaglia delle Isole Egadi, che concluse la Prima guerra punica, ed è un esemplare unico al mondo di nave da guerra cartaginese. 
Le particolari alghe della Riserva naturale regionale delle Isole dello Stagnone di Marsala (dove era concentrata l'attività marittima della città), con un effetto-nylon, tramite un processo simile alla conservazione sottovuoto, hanno protetto la nave fino a conservare anche i chiodi utilizzati per la sua costruzione.
La nave è eccezionale perché ha permesso di documentare il sistema di costruzione navale dei Cartaginesi, che aveva suscitato meraviglie nell'antichità (Plinio, Polibio) per la velocità costruttiva della prefabbricazione in cantiere. Naturalmente i romani studiarono e copiarono ampiamente il sistema, tanto da dotarsi in pochissimo tempo di una potentissima flotta navale che dominò sul Mediterraneo e oltre.

Ogni asse della nave punica di Marsala reca inciso un simbolo dell'alfabeto fenicio-punico utile ai carpentieri per il rapido assemblaggio dello scafo. Sono presenti anche un gran numero di anfore trasportate dalla nave e alcuni equipaggiamenti come lance, un ceppo di legno utile forse per alimentare il fuoco dei cuochi sulla nave, alcuni ossi di olive, delle foglie vegetali e una corda ottimamente conservate.

SCAVI DELL'INSULA

LA VILLA ROMANA (O INSULA ROMANA)

Nel parco archeologico a Capo Boeo si trovano i resti di una grande villa romana, gli scavi hanno rivelato una prima struttura del I-II sec a.c ed una successiva del I-II sec d.c.
Una intera insula, delimitata da due strade lastricate, è stato scoperta poco prima del 1939. 

Si tratta di un’unica lussuosa abitazione, provvista di ambienti spaziosi, distribuiti intorno ad un atrio tetrastilo ed a un vasto peristilio.

La domus presenta al suo interno un complesso termale di vaste dimensioni, abbellito da splendidi mosaici policromi, tra i quali spiccano le scene di caccia della palestra.

La casa, infatti, è frutto di accorpamenti di isolati più antichi, di trasformazioni edilizie dovute all’inglobamento di alcune importanti arterie cittadine, privatizzate o deviate, come spesso accade quando non c'è uno stato forte a far valere le sue leggi, o quando opera diffusamente la corruzione. 

La domus presenta al suo interno un complesso termale di vaste dimensioni, abbellito da splendidi mosaici policromi, tra i quali spiccano le scene di caccia della palestra
Recentemente è stato invece scoperto l’imponente decumano maximus, che rappresenta senza dubbio il rinvenimento più eccezionale della città antica. Orientato in direzione E-W, era interdetto ai carri e terminava verso il mare con una grande scalinata. Lungo l’asse viario riscoperto è visibile un’iscrizione pubblica relativa al magistrato che contribuì alla realizzazione del grande asse viario che, per inciso, è esattamente in linea con la via XI Maggio, in città. Da notare l’eccellente sistema di canalizzazione delle acque piovane.

Interessanti sono, tra le altre, due sepolture rinvenute sul decumano maximus, tombe a cassa congiunte da una parete in comune, ove sono riportate delle scritte in greco di colore rosse precedute e seguite dal simbolo della croce, oltre ad una grande croce sotto ogni scritta. Le tombe sono databili a cavallo del VI e VII sec. e sono importanti per il rituale che le scritte descrivono, quasi un vero esorcismo per benedire le anime dei due morti.



VILLA ARIANNA (Stabiae - Campania)

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Villa Arianna è la villa d'otium più antica di Stabia, risalente al II secolo a.c., e insieme a Villa San Marco, fa parte del complesso archeologico dell’antica Stabiae, che è l’antico nome dell’insediamento sito nella parte più interna e meridionale del Golfo di Napoli, oggi assimilabile con la moderna città di Castellammare di Stabia.

FLORA
Gli Scavi Archeologici di Stabiae (Villa San Marco, Villa Arianna, Secondo Complesso) si trovano a Castellammare di Stabia in via Passeggiata Archeologica 11.

Dal I sec. a.c., a Stabia sorgono numerosi complessi edilizi, sia di tipo rurale che di tipo residenziale. A quest’ultimo tipo, fanno parte le lussuose ville, come Villa San Marco e Villa Arianna, che nel 79 d.c. vennero sepolte dall’eruzione del Vesuvio.

Questa villa d’otium occupa l’estremità ovest della collina di Varano, e venne individuata ed indagata negli anni compresi tra il 1757 e il 1762, durante la campagna di scavi condotta dall’ingegnere svizzero Karl Weber, un accurato archeologo che riportò alla luce la Villa dei Papiri e il Teatro ad Ercolano, la Villa di Giulia Felice a Pompei e alcune ville a Stabia tra cui appunto Villa Arianna. A quest'ultima dette all'inizio il nome di I Complesso.

La collocazione della villa era in un’area strategica che collegava l’abitato sia al mare che all’entroterra. Sembra che all'epoca Stabiae avesse un importante emporio etrusco, testimoniato dalla prevalenza di ceramica etrusca e locale rinvenuta negli scavi. Nei vari secoli Stabiae seguì gli eventi storici della Campania, subendo dapprima la sannitica dell’area e poi la sua romanizzazione.

IL GRANDE PERISTILIO

GLI SCAVI

La villa subì lo stesso destino di Villa San Marco: dopo essere stata, anche se in minima parte, razziata degli affreschi e dei mosaici e pure deliberatamente danneggiata, venne rinterrata. 

La villa, così denominata per la grande pittura a soggetto mitologico rinvenuta sulla parete di fondo del triclinio, fu scavata quasi interamente tra il 1757 e il 1762, sotto la direzione dell'ingegnere svizzero Karl Weber. 

Lo scavo a quei tempi era condotto attraverso esplorazioni sotterranee che prevedevano solo il recupero degli oggetti e non l'indagine del contesto architettonico: per cui le suppellettili e gli affreschi meglio conservati vennero prelevati e inviati al Museo Borbonico presso il Palazzo Reale di Portici.

AFFRESCO DI NETTUNO AMIMONE

Il resto venne distrutto o reinterrato o venduto a privati. Le pitture di scarso pregio o rovinate, invece, venivano lasciate sul posto e spesso ulteriormente danneggiate dagli stessi scavatori. 

Venne poi portato in luce durante gli scavi degli anni ’50, fortemente voluti dall'illuminato preside Libero D’Orsi. Questi effettuò gli scavi di ambienti della villa che si affacciavano sul ciglio della collina, alcuni dei quali andati perduti a seguito di eventi franosi

Dell'edificio, di cui una gran parte risulta ancora interrata, conosciamo la pianta redatta in epoca borbonica attraverso i rilievi fatti nei cunicoli scavati e successivamente ricolmati. La villa occupa un'area di circa undicimila mq ma l'area scavata si estende per circa 2500 mq, con una pianta piuttosto complessa, sia perchè frutto di successivi ampliamenti, sia perché si adatta alla conformazione della collina di cui segue l'andamento.

DECORAZIONE PARIETALE

DESCRIZIONE

La villa è collegata con la pianura sottostante attraverso una serie di rampe su sei livelli, ed è articolata in vari nuclei:

- atrio e ambienti circostanti di età tardo-repubblicana; di tipo “tuscanico”, cioè senza colonne, con “impluvium”, pavimento a mosaico e pareti affrescate, oltre a due cubicula decorati in II Stile;

- ambienti di servizio e termali; con la classica sequenza di calidarium – tiepidarium – frigidarium, e ambienti di servizio tra cui una stalla e persino una peschiera;

- ambienti ai lati del triclinio estivo, di età neroniana, adiacenti ad ambienti panoramici terrazzati. Nella parte del “triclinium è affrescata l'Epifania di Dioniso ad Arianna e in quella destra Ganimede rapito dall'aquila.

- Da qui si accede a un quartiere di quattro ambienti con un corridoio dalle pareti dipinte di rosso; la prima stanza presenta due ritratti di giovani sullo sfondo di prospettive architettoniche, mentre il delicato ritratto di una fanciulla all'interno di un tondo è in attesa di collocazione nel nuovo Antiquarium.

ATRIO
- la grande palestra annessa in età flavia, un grande peristilio ovvero uno spazio di grosse dimensioni (180 x 81 m) con oltre cento colonne rivestite di stucco bianco, che vennero seriamente danneggiate dal terremoto dell’Irpinia del 1980.

- Una lunga galleria, inoltre, partendo dalle rampe sottopassava gli ambienti residenziali per giungere nella parte rustica dove vi era l'accesso alla 'villa' dal pianoro di Varano. Il corridoio porta a due"cubicula” con vista sui monti, decorati e pavimentati con mosaico a tessere bianche e nere.

- La quarta stanza, di soggiorno, presenta piastrelle dipinte al di sopra di una zoccolatura rossa. I due ambienti successivi hanno pavimento a mosaico, zoccolature e decorazioni alle pareti, con finestre che si aprono sul mare e sul monte Faìto.

Negli ultimi anni, la villa è stata interessata da nuove indagini archeologiche che hanno permesso il rinvenimento di numerosi ambienti della zona dell’atrio e un giardino di grosse dimensioni (110 x 55 mt).

AFFRESCO DI ARIANNA
Le decorazioni sono, non solo ricche, ma anche raffinate, nei piccoli ambienti di soggiorno prevale, il gusto per una decorazione miniaturistica, con piccole figure volanti, amorini, personaggi mitologici, quadretti di paesaggi, maschere, busti di personaggi entro medaglioni.

Villa Arianna ha fornito gli affreschi più belli e conosciuti dell’arte antica, tra cui Leda e il Cigno, Medea, Diana, la famosissima Flora o Primavera e la Venditrice di Amorini, rinvenuta nel 1759.

Questa venne presa a modello dal gusto neoclassico dell’epoca e riprodotta quasi in serie come soggetto decorativo su porcellane, quadri e stampe, tanto che gli artisti di allora attirarono le critiche di Charles Boudelaire per la “mancanza di originalità”, forse con una punta di invidia.

AFFRESCO A FIGURE NERE
Negli ambienti di maggiori dimensioni e nei saloni, invece, sono rappresentati prevalentemente temi mitologici con figure quasi a grandezza naturale ispirati a Dioniso, come il quadro raffigurante 'Arianna abbandonata da Teseo' nella parete di fondo del triclinio. I pavimenti sono decorati con bei mosaici, a tessere bianche e nere sviluppantesi in vari motivi.

Nel 2007 è stato scoperto un grande giardino all'interno della palestra. Nel corso del 2009 l'intera area del giardino è stato liberata dai detriti vulcanici e la superficie reticolata per consentire il tracciamento di aiuole, arbusti e alberi, e pure di mobili da giardino, con pozzi, cisterne e recinzioni varie. Lo studio è in corso e si spera che nel tempo si sia in grado di identificare le piante e gli alberi che crescevano al momento dell'eruzione, in modo da poter ricostituire il giardino come era 2000 anni fa.

Ci sono anche numerose aree di servizio comprendenti stalle e fabbricati agricoli, posti al limite sud-est della proprietà. Come la maggior parte delle ville dell'ozio, essa si valeva pure di una parte coltivata e redditizia, data la straordinaria fertilità del suolo e la straordinaria qualità dei prodotti.


GENS ATILIA

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ATTILIO REGOLO TORNA DA CARTAGINE

LE ORIGINI

La gens Atilia nasce dal popolo dei Volsci (popolazione osco-umbra da sempre nemica di Roma), che combatterono per lunghi anni contro l'Urbe, poi vinti e inglobati nello stato romano dal 345 a.c. dopo la spartizione dei territori tra Roma e i Sanniti (popoli di Abruzzo, Molise e Campania). Il primo Atilius che venne onorato con la carica di console fu Marcus Atilius Regulus Calenus nel 335 a.c., dieci anni dopo la pace con Roma.

Gli Atilius Reguli erano cugini dell'altro famoso Atilii, l'Atilii Calatinii. Le origini degli Atilii sono alquanto incerte, sebbene sia indicata una connessione calabrese. Gli Atilii infatti erano la principale famiglia della Campania al momento della loro acquisizione della cittadinanza romana, e il cognome Regulus poteva riferirsi alla loro posizione regale in quella società.

Calatinus è chiaramente un cognomen che si riferisce a Calatia, sei miglia a sud-ovest di Capua. Questa regione fu conquistata durante il consolato del primo Atilio, Marco Atilio Regolo Caleno, nel 335 a.c.. Poiché il suo collega, il patrizio Marco Valerio Corvo, in realtà conquistò Cales, è probabile che Atilio provenisse da lì. 

La gens Atilia offrì per 19 volte dei consoli al servizio di Roma, di cui ben 12 in tempi piuttosto pericolosi, ricordando che i consoli guidavano l'esercito, durante le tre guerre puniche (III-II sec. a.c.). In età imperiale invece si ebbero solo 3 consoli della gens Atilia. In età repubblicana la gens utilizzava prevalentemente i praenomina Marco, Gaio, Lucio, Aulo e Sesto, e pure l'agnomen "Serranus". Anche il praenomen Attilius deriva dal nomen di questa gens.



IL NOMEN

Secondo Virgilio (Eneide, libro IX) il nome atilio deriverebbe dal nome di uno dei giovani guerrieri rutuli sorpresi nel sonno da Eurialo e Niso (durante la guerra fra italici e troiani) che nella sua aristìa (celebrazione di un eroe) irrompe nel padiglione del condottiero Remo (condottiero alla testa di un contingente di Rutuli, popolo delle coste del Lazio), uccidendo lui, i suoi compagni e alcuni guerrieri tra cui un adolescente chiamato Serrano, di "insignis facie" (bellissimo). 

La decapitazione di Remo, Serrano, Lamiro e Lamo, sarà di grande lutto per l'esercito rutulo. Virgilio questa gens nel libro sesto, quando Anchise mostra al figlio Enea nei Campi Elisi i futuri protagonisti di Roma, tra i quali anche uno degli Atilii caratterizzati dall'agnomen.

" Uccide vicini tre incauti schiavetti distesi in mezzo alle armi
e lo scudiero di Remo; uccide anche l'auriga, sotto i cavalli
scovatolo; con la spada gli recide la gola riversa.
Poi tronca la testa al loro signore, e lascia che il corpo
rantoli in grosso fiotto; caldo di sangue nerastro
si imbibisce a terra il giaciglio. E ancora Lamiro e Lamo
e il giovinetto Serrano, che in quell'ultima notte a lungo
aveva giocato, bello d'aspetto; le membra domate dal dio
gravemente, stava disteso; fortunato, se ancora avesse prolungato
il gioco per tutta la notte, fino a che non spuntasse la luce
"

(Virgilio, Eneide, IX, traduzione di Francesco Della Corte)


Attilio Regolo fu soprannominato Serrano in quanto egli stava seminando quando apprese di aver ricevuto il comando del popolo romano. Sebbene Virgilio non ci dica nulla sulla famiglia del giovinetto rutulo, si pensa che essa possa essere collocata in ambiente agricolo, che impone ai figli un nome che è di augurio a buoni raccolti. 

"Chi te, o grande Catone, potrà passare sotto silenzio, e te, o Cosso? 
Chi la stirpe di Gracco o la coppia - due fulmini in guerra - 
degli Scipiadi, rovina della Libia, e la frugale forza di Fabrizio, 
o te, che nel solco, Serrano, affondi i semi?"

(Virgilio, Eneide, VI, traduzione in prosa di Carlo Carena)

Alcuni esponenti della Gens Atilia portavano l'agnomen "Serranus". lo testimonia Virgilio, nel libro VI, quando Anchise mostra al figlio Enea nei Campi Elisi i futuri protagonisti di Roma, tra i quali anche uno degli Atilii.

MONETA DELLA GENS ATILIA

MEMBRI ILLUSTRI DELLA GENS ATILIA:


 Marco Atilio Regolo Caleno, (Marcus Atilius Regolus Calenus)

- 335 a.c. - Console nel 335 a.c.(con Marcus Valerius Corvus IV, console per la IV volta). Durante il consolato si concluse la guerra contro Ausoni e Sidicini (centro e sud Italia), che il Senato voleva affidare solo a Valerio Corvo. Invece, dopo che Valerio Corvo ebbe conseguito la vittoria a Cales (presso Capua), chiese ed ottenne che il comando dell'esercito fosse affidato ad entrambi i consoli. Ebbe come figlio Marco Atilio Regolo.


Marco Atilio Regolo (Marcus Atilius Regulus) 

- 294 a.c. - (Marco Atilio Regolo), figlio del precedente, venne eletto console nel 294 a.c. e pertanto fu il secondo membro della gens Atilia a venire eletto a Roma. Succedette all'illustre console plebeo Publio Decio Mure che effettuò la "devotio" agli Dei sacrificando la sua vita per la patria nella battaglia contro i Sanniti.

Ebbe come collega nel 294 Lucio Postumio, entrambi capi dell'esercito romano nel Sannio, perché si riteneva che i Sanniti stessero armando tre eserciti: uno da inviare in Etruria, un secondo in Campania ed il terzo per la difesa del loro territorio. Postumio, prima si diresse a Sora, e da lì nella Marsicae nel Sannio, dove prima prese Milionia e poi Feritro, abbandonata dagli abitanti ai romani.
Atilio combattè nel Sannio e nell'Apulia sconfiggendoli ad Interamna, ma, come narra Livio, il trionfo gli fu rifiutato. Secondo i Fasti Triumphales, gli venne invece accordato.

Regulus è meglio conosciuto come padre dello sfortunato console Marco Atilio Regolo (console 267 a.c e console suffetto nel 256 a.c.) e probabilmente padre di Gaio Atilio M.f. Regolo, che fu console nel 257 a.c. e nel 250 a.c. Almeno due dei suoi nipoti erano anche consoli. Aulus Atilius A.f. Calatinus, un parente di Rullianus, per parte di padre.


Marco Atilio Regolo (Marcus Atilius Regulus) 

- 267 a.c. - Nominato console nel 267 a.c. VEDI


Aulo Atilio Calatino (Aulus Atilius Calatinus)

- 258 a.c.
- Nominato Console nel 258 a.c. , ebbe come collega Gaio Sulpicio Patercolo con il quale, come narra Polibio, combattè in Sicilia, secondo invece il comando venne affidato interamente a lui.. Attaccò infatti Panormus (Palermo), dove si erano accampate le truppe cartaginesi per l'inverno; ma queste non scesero in campo aperto per la battaglia, preferendo restare nella città. Pertanto Calatino andò a conquistare la città di Hippana (Montagna dei cavalli), poi, ricongiuntosi coll'esercito del proconsole Gaio Aquilio Floro, distrusse e incendiò la fortezza di Mytistratum (Mistretta), che venne completamente distrutta e data alle fiamme. Per tutto ciò l'anno successivo celebrò un trionfo come pretore.

Eletto di nuovo console nel 254 a.c., insieme a Gneo Cornelio Scipione Asina, conquistò Panormio , ma solo Asina ottenne il trionfo. Dopo la disfatta della battaglia navale di Trapani venne eletto dittatore per fronteggiare la grave situazione e combattè col suo esercito in Sicilia riportando diverse vittorie. A causa di ciò nel 247 a.c. fu eletto censore.

Per ringraziare gli Dei eresse, onde ottemperare ai suoi voti, un tempio alla Dea Spes nel Foro Olitorio e uno alla Dea Fides sul Campidoglio. Parte del suo epitaffio viene citato da Marco Tullio Cicerone, "Cato maior de senectute",


Caio Atilio Regolo (Caius Atilius Regulus)

IL SUPPLIZIO DI ATTILIO REGOLO
- 257 a.c. - venne nominato console nel 257 a.c., insieme al suo collega Gneo Cornelio Blasio. Di nobili origini, visto che suo nonno era stato console nel 294 a.c.; suo padre era stato il glorioso console della Prima guerra punica e pure suo fratello maggiore fu console per ben due volte. Fu rieletto console nel 250 a.c., durante la Prima guerra punica. Guidò la flotta romana durante la battaglia di Tindari. La flotta punica era numerosa perché Polibio ci dice che i cartaginesi "circondarono" le navi romane e le distrussero. Mancarono però di catturare la nave del console e il suo equipaggio; la nave "veloce nella navigazione" con marinai "ottimi", come sostiene Polibio.

Quando però giunse il resto della flotta romana i romani si ricomposero, si disposero in linea, in formazione di battaglia. Il risultato fu la cattura di dieci navi cartaginesi complete di equipaggio e l'affondamento di altre otto. Il resto della flotta cartaginese riuscì a fuggire e a riparare alle isole Lipari.


Caio Atilio Bulbo (Caius Atilius bulbus)

- 245 a.c. - venne nominato console insieme al suo collega Marco Fabio Buteo, nel 245 a.c.
Nel 235 a.c. venne eletto console per la seconda volta, insieme al collega Tito. Manlio Torquato,  nell'anno stesso il tempio di Giano fu chiuso per la prima volta dai tempi del re Numa Pompilio.
L'anno seguente, nel 234 a.c. fu eletto censore.


Marco Atilio Regolo (Marcus Atilius Regolus)

- 227 a.c.figlio di Marco Atilio Regolo, il console catturato durante la Prima Guerra Punica e nipote di un altro Marco Atilio Regolo già console nel 294 a.c.venne nominato console nel 227 a.c., insieme al collega Publio Valerio Flacco.



Fu poi nominato console suffetto dal Senato nel 217 a.c. per sostituire Gaio Flaminio Nepote, trucidato nella battaglia del Lago Trasimeno. Con il collega Gneo Servilio Gemino, continuò la guerra contro Annibale come proconsole, seguendo i principi di Fabio Massimo il Temporeggiatore. Alla fine dell'anno, il loro incarico venne prolungato, poiché i nuovi consoli non erano ancora stati eletti.
Quando i nuovi consoli Lucio Emilio Paolo e Gaio Terenzio Varrone giunsero al campo, a Regolo fu concesso di tornare a Roma, vista anche la sua età avanzata, e al suo posto fu inviato il magister equitum Marco Minucio Rufo, che insieme a Servilio Gemino, rimasto nell'esercito, perì nella battaglia di Canne (216 a,c,).
Nel 216 a.c., insieme a Lucio Emilio Papo e il tribuno della plebe, Lucio Scribonio Libone, fu uno dei triumviri mensarii nominati a causa della scarsità di denaro. Nel 214 a.c. fu nominato censore insieme a Publio Furio Filo.
Con l'entrata in carica dei nuovi tribuni della plebe, nel 213 a.c., venne accusato davanti al popolo, insieme al collega censore, da Lucio Cecilio Metello, appena eletto tribuno. L'anno precedente, mentre era questore, i censori avevano portato via a Metello il cavallo, lo avevano allontanato dalla tribù urbana e lo avevano fatto diventare "aerario", con l'accusa di aver cospirato dopo la battaglia di Canne per abbandonare l'Italia.

L'intervento degli altri tribuni vietò ai censori di difendersi durante il loro mandato, fino almeno a quando non avessero cessato l'incarico assunto con questa magistratura (5 anni). La morte prematura di P. Furio impedì di adempiere l'incarico, per cui Marco Atilio rinunciò alla carica.
Caio Atilio Regolo (Caius Atilius Regolus)

- 225 a.c. - Venne nominato console insieme al suo collega Lucio Emilio Papirio o Pappo nel 225 a.c.. Fu inviato dal Senato a sedare una rivolta in Sardegna, che riuscì a sedare rapidamente. Successivamente fu richiamato ad unirsi insieme a Papo per fronteggiare la rivolta dei Galli. Cadde in combattimento nella battaglia di Talamone, in località Campo Regio, 225 a.c.


Aulo Atilio Serrano (Aulus Atilius Serranus)

- 170 a.c. - Figlio di Caio Attilio Serrano, venne eletto pretore nel 192 a.c. e gli fu assegnata come provincia la Macedonia. Gli venne anche affidato il comando della flotta che mantenne anche l'anno successivo in cui, essendo stata dichiarata le guerra contro Antioco, catturò una vasta flotta seleucida che trasportava rifornimenti per Antioco e la portò al Pireo.

Fu eletto pretore una seconda volta nel 173 a.c. ottenendo una pretura urbana. Nel 171 a.c. fu inviato insieme a Quinto Marcio Filippo come ambasciatore in Grecia per cercare di limitare le ambizioni del re Perseo di Macedonia. Nel 170 a.c. fu eletto console insieme ad Aulo Ostilio Mancino.


Sesto Atilio Serrano (Sextus Atilius Serranus)

- 136 a.c. - venne eletto nel 136 a.c. console insieme al collega Lucio Furio Filo, venne ricordato da Cicerone nel De officiis e nelle epistole ad Attico. L'anno dopo fu nominato proconsole della Gallia Cisalpina; e in tale veste fissò i confini tra le città venete di Vicenza ed Ateste (Este).


Caio Atilio Serrano (Caius Atilius Serranus)

- 106 a.c. - Venne nominato console nel 106 a.c. insieme al collega Quinto Servilio Cepio. sconfiggendo il suo competitore Quinto Lutazio Catulo, anche se Cicerone lo definì stultissimus homo. Nel 100 a.c., durante la rivolta del tribuno della plebe Saturnino, Serrano, con altri favorevoli alla linea dei consoli, prese le armi per la difesa dello stato contro le mire del tribuno.


Marco Atilio Metilio Bradua (Marcus Atilius Metilius Bradua)

STELE DELLA LIBERTA ATILIA FELICIA
- 108 d.c. - venne nominato console nel 108 d.c. insieme al collega Appio Annio Trebonio Gallo. Era il figlio di Marco Atilio Póstumo Bradua, proconsole dell'Asia sotto Domiziano. Il suo secondo nome indica che sua madre avrebbe potuto essere una Methylia, in tal caso Bradua in quanto nipote del governatore Publio Metilio Nepote.

Essendo patrizio fece la carriera di questore, pretore e console durante l'impero di Traiano. Venne anche investito della carica di pontefice. Nel 115 ebbe il governo della provincia della Britannia di cui resta un'iscrizione in pietra a Gwynedd (Galles). In questo mandato non si verificarono conflitti armati. Più tardi governò una delle province della Germania.

Dopo l'ascesa di Adriano (agosto del 117), fu chiamato nel 118 a Roma e sostituito dal Quinto Pompeo Falcone. Accompagnò Adriano in molti dei suoi viaggi, a parte quando l'imperatore visitò la Gran Bretagna nel 122, perché quell'anno era proconsole dell'Africa (Tunisia).


Tito Atilio Rufo Tiziano (Titus Atilius Rufus Titianus)

- 127 d.c. - venne nominato console con il collega M. Gavius Squilla Gallicanus. Il suo nome si trova anche su un tubo di piombo di Antium CIL X 6688 ( T. Atili Rufi Titiani ). Si pensa sia l'Atilio Titiano che fu condannato a morte dall'imperatore Antonino Pio per "Affectatis imperii" cioè per aspirazione al potere.


Tiberio Claudio Marco Appio Atilio Bradua Regillo Attico 
(Tiberius Claudius Marcus Appius Atilius Bradua Regillus Atticus)

-160 d.c. -  detto semplicemente Atilius Bradua, fratello di quell'Annia Regilla che fu moglie di Erode Attico, morta in circostanze sospette. Infatti accusò Erode di aver assassinato sua sorella. Fu nominato console nel 160 d.c.
Il biografo Filostrato:
- Fu rivolta contro Erode anche un'accusa di omicidio concepita in questi termini. Sua moglie Regilla, resa gravida da lui, era all'ottavo mese, quando egli per un futile motivo aveva ordinato al suo liberto Alcimedonte di percuoterla; colpita al ventre, la donna aveva abortito ed era morta. Per questo fatto, come se fosse vero, lo accusa di omicidio Bradua, fratello di Regilla, uno dei più stimati fra i consolari, che portava attaccato ai sandali il segno della sua nobiltà, consistente in una fibbia d'avorio lunata.
Presentatosi dunque Bradua in tribunale a Roma, senza portare alcuna prova convincente circa la causa da lui intentata, ma profondendo una grande quantità di parole sulla sua nobiltà, Erode schernendolo disse:
«Tu hai la tua nobiltà nei talloni». E vantandosi ancora l'accusatore per i benefici da lui arrecati ad una città dell'Italia, Erode con molta dignità aggiunse:
«Anch'io potrei dire molte cose simili sul mio conto, in qualsiasi parte della terra dovessi essere giudicato». 



I SETTE COLLI DI ROMA

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La Notitia dignitatum et administrationum omnium tam civilium quam militarium ("Notizia di tutte le dignità ed amministrazioni sia civili sia militari") è un documento anonimo ( fine IV sec. - inizio regno di Valentiniano III - 425) importante per la conoscenza amministrativa del tardo Impero con qualche incertezza sulle fonti. Così essa riporta i sette colli, anzi monti, di Roma.

Septem montes urbis Romae:

- Caelius,
- Aventinus,
- Palatinus (inter quos duos circus est in valle Murcia),
- Tarpeius,
- Esquilinus,
- Vaticanus
- Ianiculensis.

Ora in genere si intende per collina un'altitudine di 500-600 m sul livello del mare, e monte un'altitudine di 1000 m sul livello del mare. E' chiaro che qui non è lo stesso valore, basti pensare che il Campidoglio (Capitolium) è a 40 m s.l.m. e gli altri colli si attestano per lo più intorno ai 50 m s.l.m. Pertanto colli o monti significano "alture".



SEPTIMONTIUM

« Dove adesso si trova Roma c'era un tempo il Septimontium così chiamato per il numero di montes che in seguito la città incluse all'interno delle sue mura. »
(Varrone, De lingua latina, V, 41.)

Il primo centro "proto urbano" di Roma tuttavia nacque unendo alcuni villaggi pre-urbani nella I metà del IX sec. a.c. Secondo Theodor Mommsen, l'attestazione in epoca storica di una festa religiosa, prova inequivocabilmente l'esistenza di un centro proto-urbano, successivo a quello identificato dalla Roma quadrata.
Il Septimontium propriamente detto era formato dalle seguenti alture, dette montes:

- il Palatium (Palatino)
- il Cermalus (Palatino)
- il Fagutal (Esquilino)
- l'Oppius (Esquilino)
- il Cispius (Esquilino)
- la Velia, che collegava Palatino ed Esquilino
- la Subura
- il Caelius o Querquetulanus

Il comune romano identificato dal Septimontium, inizialmente ristretto ai soli montes, fu allargato in seguito anche ai colles del Quirinale e del Viminale (Latiaris, Mucialis, Salutaris, Quirinalis e Viminalis), come veniva identificato il comune urbano che sorgeva su queste alture.


I sette colli facevano parte del nucleo originario della città: la Roma Quadrata, e la lista più antica riporta: 

- il Palatino, dove avvenne la fondazione della città,
- il Germalo (una propaggine dello stesso Palatino verso il Tevere),
- la Velia (verso l'Esquilino),
- il Fagutale (oggi compreso nell'Esquilino)
- l'Oppio (oggi compreso nell'Esquilino)
- il Cispio (oggi compreso nell'Esquilino)
- la Suburra (in direzione del Quirinale).


Sia Cicerone che Plutarco riportano così i sette colli:

- l'Aventino
- il Campidoglio 
- il Celio
- l'Esquilino
- il Palatino
- Quirinale
- il Viminale

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Un'altra sella montuosa collegava le pendici del Campidoglio con quelle del Quirinale; ma venne spianata nel II sec. per poter edificare il complesso del Foro di Traiano: il mons che compare nell'iscrizione della Colonna di Traiano, di cui questa mostrerebbe l'altezza originaria, si riferirebbe appunto a questa altura.Nel periodo imperiale vi fu una espansione della città ed ai 7 colli si aggiunsero il Vaticano (Mons Vaticanus)

Ai tempi di Costantino i sette colli non erano più gli stessi:

- il Palatino, dove avvenne la fondazione della città,
- il Germalo,
- la Velia
- l'Esquilino
- la Suburra
- il Vaticano
- il Gianicolo



IN GIRO A PIEDI TRA I COLLI


CELIO

Partendo dal Celio, un lungo promontorio dal quale si possono osservare meravigliosi scorci del Palatino e del Colosseo, e dove la Villa Celimontana conserva statue, tracce di santuari e antiche are.

Il Monte Celio,  è costituito da una lunga dorsale di circa 2 km che dalla zona di Porta Maggiore giunge fino a Porta Capena e al Colosseo, e dalla porta Capena (s. Gregorio) a porta Caelimontana.

Fu così denominato dal nome dell'etrusco Celio Vibenna, di Vulci, che secondo le fonti etrusche, aiutò con suo fratello il re Servio Tullio, nella conquista del monte Celio e successivamente nell’occupazione di Roma.

Interessanti monumenti:
- Colosseo
- arco di Costantino
- l'arco di Dolabella
- tempio del divo claudio
- case romane sul celio

COME APPARIVA IL PALATINO CON IL CAMPO BOARIO SOTTO
E L'ISOLA TIBERINA A SINISTRA

PALATINO

Da qui si può proseguire verso il Colle Palatino, il Palatium, secondo alcuni il nome deriverebbe da Pallantion, città arcadica da cui emigrarono il principe Evandro ed i suoi. Per altri da Pallante, antenato o figlio di Evandro. Per altri ancora deriverebbe da Pales, Dea dei pastori, o da Palatium, mitica città della Sabina. 

Fatto sta che in età imperiale il termine Palatium iniziò ad indicare il palazzo imperiale. Qui sorge oggi la grande area archeologica dove nacquero i primi abitati primitivi e gli agglomerati urbani nel I millennio a.c..

Di questi primitivi abitanti si possono ancora osservare i resti appunto sul colle, ma insieme alle vestigia dei palazzi imperiali e soprattutto della casa di Augusto.

Da qui si può raggiungere il Campidoglio, che è al centro della città e da cui si misuravano le miglia delle innumerevoli vie consolari, perchè se tutte le strade portano a Roma è anche vero che tutte le strade partono da Roma. 

Qui troneggia la statua equestre (in copia) di Marco Aurelio, e da qui si può ammirare tutto il centro di Roma coi suoi splendidi monumenti:
- i Fori romani, 
- i Fori imperiali, 
- il Colosseo, 
- l'arco di Tito



IL VIMINALE
Si scende da un colle per risalire ad un altro, Roma è tutta un saliscendi, per cui abbandonando la discesa del Campidoglio si può risalire sul colle più piccolo dei sette, quello del Viminale. così chiamato per i vimini che si trovavano anticamente alle pendici del colle. 

Qui si trovano le Terme di Diocleziano e Santa maria degli Angeli che fu edificata su di esse riportando però alcuni ambienti originali. 

Il Viminale è il più piccolo dei sette colli, si trova tra l'Esquilino a sud-est e il Quirinale a nord e nord-ovest. In epoca romana era delimitato dal Vicus Longus (attuale Via Nazionale), dalla Suburra, e dal Vicus Patricius (attuale Via Urbana).

VEDUTA DEI SETTE COLLI DALL'AVENTINO

IL QUIRINALE

Il Quirinale, col Viminale, era anticamente detti collis, in contrapposizione con gli altri montes. Vi si riconoscevano alcune sommità, quali il Collis Latiaris (a sud, vicino ai Fori Imperiali), il Mucialis (o Sanqualis, dalla Porta Sanqualis in Largo Magnanapoli) e il Salutaris (dal tempio della Salus, a ovest dell'attuale palazzo del Quirinale). 

Il Quirinale vero e proprio era l'estremità orientale della collina, dove si trovavano il tempio di Quirino (Dio dei romani detti pertanto Quiriti) e la porta nelle mura serviane. Qui si dice che anticamente si trovava un piccolo villaggio dei Sabini; in età romana invece vennero realizzate le Terme di Costantino, il Capitolium Vetus e il Tempio di Serapide.
Monumenti:

Sepolcro dei Sempronii
Ara dell'incendio neroniano
Magazzini di Lucio Nevio Clemente
Mitreo Barberini
Horti Sallustiani
Ipogeo di via Livenza


L'AVENTINO VISTO DAL PALATINO

L'AVENTINO

Il più a sud tra i colli di Roma è l'Aventino, anticamente il più difficile da raggiungere, di forma trapezoidale e molto ripido. Fu tradizionalmente sede dei plebei, contrapposta al Palatino sede del patriziato.

E' collegato ad un altro piccolo colle, detto Piccolo Aventino (attualmente "collina di San Saba"). il nome potrebbe deriverebbe da un re di Albalonga, figlio di Ercole, che qui sarebbe sepolto, o dalle locuzioni "ab adventu hominum" (dalla venuta degli uomini) che era la denominazione di un tempio dedicato a Diana, o "ab advectu" per le paludi che lo circondavano, o, secondo Plutarco, da "ab avibus" per gli uccelli che vi si dirigevano dal Tevere da cui trarre auspici.

In età repubblicana entrambi i settori all'interno delle Mura serviane sembrano essere stati compresi nella denominazione "Aventino", ma con la suddivisione augustea furono suddivisi tra le regioni XIII (poi Aventinus) e XII (Piscina Publica). Qui si trovavano importanti monumenti di Roma, come il Tempio della Luna, il Tempio di Minerva, alcune Terme, e molte residenze di aristocratici romani. Da qui si può ammirare ammirare l'intero Circo Massimo.

Vi sono interessanti monumenti:
- Le terme di Caracalla
- il Circo Massimo
- i mitrei in corrispondenza delle chiese di Santa Prisca e di Santa Balbina (mitreo di Santa Prisca e mitreo di Santa Balbina).
- la Domus Cilonis
- la Domus Bellezza



L'ESQUILINO

Infine si può raggiungere l'Esquilino, o Esquiliae (esterno alle mura), formato dalle alture del Cispio (a nord) e del colle Oppio (a sud). Secondo la tradizione, il colle venne integrato nella città verso la metà del VI sec. a.c. dal re Servio Tullio. 

Vi albergano molti importanti monumenti:

- l'obelisco di Piazza dell'Esquilino
- la Colonna di piazza Santa Maria Maggiore
- l'Ara di Mercurio
- l'Arco di Gallieno
- gli Horti di Mecenate
- l'Auditorium di Mecenate
- i Trofei di Mario
- il Tempio di Minerva Medica
- l'Ipogeo degli Aureli
- il Sepolcreto di via Statilia

DOMUS LICINII SURAE

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MITREO SOTTO SANTA PRISCA
Il mitreo sottostante la Chiesa di S. Prisca fu scoperto nel 1934 a seguito di lavori di scavo intrapresi per loro conto dai Padri Agostiniani.
Successivamente negli anni ebbe luogo dal 1953 al 1966 l’indagine archeologica condotta dagli archeologi olandesi M.J. Vermaseren e C.C. van Essen.

Come spesso avveniva, il mitreo si impiantò in una preesistente casa privata, adiacente alle terme, che si estendeva nell’area sottostante la parte settentrionale della chiesa e del cortile circostante.

RESTI DI AFFRESCHI
La domus, dotata ad est di un quadriportico che circondava un giardino, risaliva alla fine del I sec. d.c. con alcune trasformazioni nel corso del II sec. che ne cambiarono la pianta.

Sembra trattarsi della domus di Lucius Licinio Sura, generale e intimo amico dell’imperatore Traiano, anche se questa identificazione, accettata dai più non soddisfa tutti; alcuni studiosi vi riconoscerebbero i privata Traiani, cioè la casa che l’imperatore Traiano abitò prima di ascendere al trono.

Alla fine del II sec. d.c. sopra ad un’estesa parte del complesso fu costruito un edificio a due navate (forse il titulus paleocristiano) su cui sorge l’attuale chiesa.

Più o meno contemporaneamente fu edificato il mitreo, costituito da più ambienti sotterranei coperti con volta a botte.

Alla luce di studi più recenti si ritiene invece che si tratti proprio della Domus e delle Terme di Lucio Licinio Sura, politico e generale molto influente sotto Traiano, di cui era amico e consigliere. Ciò sarebbe anche confermato dalla Forma Urbis Severiana, che in quest’area, adiacente al Tempio di Diana, indica la presenza delle Terme Surane

Alcuni bolli laterizi fanno risalire la costruzione dell’edificio, dotato anche di un quadriportico, al 95 d.c.. All’incirca intorno al 110 d.c. quest’ultimo fu chiuso e trasformato in abitazione.

Nello stesso periodo un’altra casa posta subito a sud di questa venne invece ingrandita con la costruzione di un ninfeo.

TRAIANO A COLLOQUIO COL GENERALE LICINIO SURA
(Colonna Traiana)
Alla fine del II secolo fu realizzata un’ulteriore abitazione a due navate sulla quale si impiantò l’attuale chiesa.

La tradizione vuole far risalire quest’ultima casa all’abitazione dei coniugi ebrei Aquila e Prisca, che qui accolsero i Santi Pietro e Paolo; all’interno di essa sarebbe nata una ecclesia domestica e successivamente il vero e proprio titulus paleocristiano.

Sempre alla fine del II secolo si fa risalire la realizzazione del mitreo, che si impiantò all’interno del quadriportico, a suo tempo già trasformato in abitazione, e che si trova nel sottosuolo subito dietro l’abside dell’attuale chiesa.

Il mitreo rimase in funzione fino al IV secolo, quando subì una devastazione violenta, con tutta probabilità da ascriversi agli stessi cristiani che eressero S.Prisca.


L’accesso ai sotterranei avviene dal giardino posto a destra della chiesa. Scendendo delle scale si entra in un primo ambiente, nel quale sono visibili i resti del ninfeo a emiciclo di una delle abitazioni del complesso.

Nel secondo ambiente, inglobati nelle murature, sono visibili degli imponenti rocchi di colonne in peperino del diametro di 90 centimetri, provenienti, con tutta probabilità, dal vicino Tempio di Diana.

Licinio Sura, patrono di Barcellona, dove probabilmente nacque, fu uno dei più intimi e moderati consiglieri militari di Traiano. Divenne governatore della Germania inferiore nel 98/99, dove rimase fino a poco prima di partire per la Dacia nel 101.

Egli fu infatti presente in entrambe le guerre daciche condotte dall'imperatore nel 101-102 e 105-106.

Fu console per tre volte: nel 97, nel 102. e nel 107.  Forse il suo merito maggiore fu quello di segnalare a Traiano il futuro imperatore Adriano come successore.

Di lui si narra di un possibile complotto contro Traiano, ma l'imperatore, evidentemente incurante del pericolo, giunto a conoscenza del mormorato complotto, non reagì in alcun modo, ma anzi andò a pranzo presso lo stesso Sura, e non solo mangiò tutto quello che gli venne servito, ma offrì perfino la gola al rasoio del barbiere personale di Sura per farsi radere.

CHIESA DI SANTA PRISCA
Alla sua morte, l'amico fraterno Traiano ordinò in suo onore un funerale di stato oltre ad ordinare che una sua statua fosse posta nello stesso Foro

La sua figura è, peraltro, immortalata nel marmo della Colonna Traiana in Roma (scolpita tra il 107 ed il 113), mentre discute con il suo imperatore.

Altri scavi realizzati alla fine degli anni ’60 del ‘900 per la costruzione di un nuovo edificio ad uso dell’ospedale di S Giovanni, hanno portato alla luce i resti di molti edifici, costruiti fra il I a.c. ed il IV d.c..

In uno di essi si è identificata un'altra villa di Licinio Sura, un suo discendente, amico dell’Imperatore Tiberio ed esperto idraulico.

In effetti tutti gli edifici della zona fecero largo uso di acqua, grazie soprattutto all’esistenza di molti acquedotti, fra cui il Celimontano, i cui archi sono ancora visibili inglobati fra i palazzi sulla Piazza.


RODOLFO LANCIANI

"1555 o poco prima. Una statua simile a quella eretta in onore di Cornelio Palma nel foro Augusto, fu dedicata a Licinio Sura per s. e. ed a pubbliche spese in luogo a lui appartenente, horti o domus che fossero. 

Il Metello e il Morillon ne descrivono il piedistallo {CIL. VI, 1444) siccome scoperto fra gli anni 1550-55 « in coelio monte non procul a Lateranensi basilica, prope formas Claudii aquaeductus « . 

Neil' istesso luogo e nell' istessa occasione deve essere stato recuperato il frammento di un secondo piedistallo n. 1548, spettante, credo, al medesimo personaggio. 1560. 29 luglio. Scoperta di colonna d'alabastro nella vigna Risdomino. di sito incerto. 1563-1566."

Annibal Caro ebbe altri possedimenti sulla via da Roma a Frascati « Fuori della porta di s. Giovanni« dice il Vacca, Mem. 48, nella vigna del sig. Annibal Caro, essendovi un grosso massiccio dagli antichi fabbricato, e dando noia alla vigna, il detto sig. Annibale si risolse spianarlo.

Vi trovò dentro murati molti ritratti d' imperatori, oltre tutti i dodici, ed un pilo di marmo, nel quale erano scolpite tutte le fatiche di Ercole, e molti altri frammenti di statue di maniera greca. statue di marmo " valde pulcherrimae " offerte in vendita da un Ottavio Caro al S.P.Q.R. nel mese di febbraio del 1570.

Il Caro allude alla scoperta dei tubi di piombo, recanti il cognome del fondatore della villa, che fu di casa Licinia.

INTERNI DELLA CHIESA DI SANTA PRISCA

LA CHIESA

E' evidentemente creata in parte con materiali di recupero, come la trabeazione che conserva mal cancellate le tracce di una diversa epigrafe. Anche le colonne dell'interno, seppur inglobate nei pilastri consolidare la struttura, sono degli edifici preesistenti, e nella prima cappella di sinistra si trova il fonte battesimale, costituito da un antico capitello romano riadattato.



IL MOSAICO

Un mosaico di  cm 74,6, ancj'esso del II sec. d.c., venne trovato nel 1824 nella Vigna dei Gesuiti sull'Aventino, di fronte alla chiesa di Santa Prisca, sul luogo delle terme costruite dall'imperatore Traiano, acquistato e asportato da papa Leone XII (1823-1829).

Lo splendido mosaico raffigura due maschere poggiate sullo zoccolo aggettante di due pareti disposte ad angolo, viste in prospettiva; a una parete sono appoggiati due flauti, che proiettano su di essa la loro ombra.

La maschera femminile ritrae una donna con grandi occhi e bocca spalancata; tra i capelli, arricciati a lunghi boccoli, è legato un nastro, annodato a fiocco sopra il centro della fronte.

Nell'uomo i tratti fisionomici sono caricaturizzati: la bocca enorme, il naso largo e schiacciato, gli occhi sporgenti, le guance raggrinzite, sulla testa una corona di edera e bacche, legata al culto dionisiaco e al teatro greco.

Le maschere appartangono a due "tipi" della Commedia Nuova, sviluppatasi con l'età ellenistica: la giovane donna, tavolta triste per le sue sciagure, e lo schiavo, pauroso e beffardo.
L'opera, realizzata con tessere marmoree policrome da un artista attento ai valori prospettici e ai giochi di luce e ombra, fungeva probabilmente da émblema pavimentale in un edificio imperiale sull'Aventino, ma non si esclude possa provenire dalla domus del ricco Licinio Sura.



LE BATTAGLIE DI ZELA

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LA I BATTAGLIA DI ZELA (68 a.c.)

« Molte volte [Mitridate] mise in campo più di 400 navi, 50.000 cavalieri e 250.000 fanti, con macchine d'assedio in proporzione. Tra i suoi alleati vi fu il re di Armenia, i principi delle tribù degli Scitiche si trovano intorno al Ponto Eusino ed al mare di Azov e oltre fino al Bosforo tracio. Tenne comunicazioni con i generali delle guerre civili romane, che combatterono molto ferocemente, e con quelli che si erano ribellati in Spagna. 

Stabilì rapporti di amicizia con i Galli a scopo di invadere l'Italia. Dalla Cilicia alle Colonne d'Ercole riempì il mare con i pirati, che provocarono la cessazione di ogni commercio e navigazione tra le città del Mediterraneo e causarono gravi carestie per lungo tempo. In breve, non lasciò nulla nel potere di qualunque uomo, che potesse iniziare un qualsiasi movimento possibile, da Oriente a Occidente, vessando, per così dire, il mondo intero, combattendo aggrovigliato nelle alleanze, molestato dai pirati, o infastidito dalla vicinanza della guerra. 

Tale e così diversificata fu questa guerra, ma alla fine portò i maggiori benefici ai Romani, che spinsero i confini del loro dominio, dal tramonto del sole al fiume Eufrate. Fu impossibile distinguere tutti questi avvenimenti da parte delle popolazioni coinvolte, da quando iniziarono in contemporanea, e si intersecarono in modo complicato con altri avvenimenti. »

(Appiano, Guerre mitridatiche, 119.)

LUCIO LICINIO LUCULLO
La battaglia di Zela fu combattuta tra il legatus di Lucio Licinio Lucullo, Gaio Valerio Triario, della Repubblica romana contro le forze del regno del Ponto, comandate da Mitridate VI nel 68 a.c., con la sconfitta dei romani.
Mitridate dopo la vittoria su Lucio Licinio Murena volle tornare a sottomettere tutte le popolazioni libere attorno al Ponto Eusino. Nominato generale suo figlio Macare, si spinse alla conquista delle colonie greche al di là della Colchide. Ma la campagna fu disastrosa e dovette chiedere la pace a Roma.

Mitridate poi, venuto a conoscenza della morte di Silla, persuase il genero, Tigrane II d'Armenia, ad invadere la Cappadocia. Intanto Sertorio, il governatore della Spagna, sobillava la provincia e tutte le vicine popolazioni contro Roma, alleandosi poi con Mitridate.
MITRIDATE VI

Nell 74 a.c., Mitridate marciò contro la Paflagonia per poi di invadere a Bitinia, da poco provincia romana, il cui governatore provinciale, Marco Aurelio Cotta fuggì. Mitridate assediò Cizico ma fu sconfitto dal console Lucio Licinio Lucullo (73 a.c.).

Fuggito con la sua flotta, Mitridate, fu colpito da una terribile tempesta perdendo 10.000 uomini e sessanta navi, mentre il resto della flotta fu dispersa. Lucullo, secondo Plutarco, fu costretto a chiedere aiuto al regno di Galazia, che gli fornì approvvigionamenti di grano, poi sconfisse le truppe di Mitridate presso Cabira.

Appio Claudio, inviato da Tigrane II ad Antiochia, per chiedere la consegna del suocero, Mitridate VI, tornò da Lucullo senza successo. Contemporaneamente Mitridate e Tigrane stabilirono di invadere Cilicia e Licaonia, fino all'Asia, precorrendo una dichiarazione di guerra.

Nel 69 a.c. Lucullo, si diresse con sole due legioni e 500 cavalieri contro Tigrane, ma l'esercito era riluttante.

Infine Lucullo attraversò l'Eufrate, poi il Tigri ai confini dell'Armenia, e giunse nei pressi della capitale, Tigranocerta (Turchia). Sestilio assediò la città e Lucullo sconfisse Tigrane.

Plutarco racconta che 100.000 furono i morti tra gli Armeni, quasi tutti fanti, solo cinque tra i Romani ed un centinaio rimasti feriti.

Per Tito Livio mai i Romani erano risultati vincitori con forze pari a solo un ventesimo dei nemici, con Lucullo che aveva sconfitto Mitridate "temporeggiando", e Tigrane con la rapidità.

Conquistata Tigranocerta dai romani. molti sovrani orientali chiesero alleanza a Lucullo. Col nuovo anno Tigrane II e Mitridate VI chiesero aiuto al re dei Parti, ma Lucullo, accortosi dell'alleanza, voleva marciare contro di lui ma dovette rinunciare temendo l'ammutinamento dell'esercito in guerra da troppi anni. Puntò allora sulla seconda capitale, Artaxata.

Tigrane si accampò di fronte all'armata romana, sulla riva opposta del fiume Arsania, a protezione della città, e Lucullo, secondo Plutarco, traversò il fiume con 12 coorti, mentre le restanti rimanevano a protezione dei fianchi. Contro di loro fu lanciata la cavalleria armena, composta da arcieri a cavallo che però cedettero alla fanteria romana, infine fuggendo inseguiti dalla cavalleria romana.

I Romani fecero grande strage dei nemici per tutta la notte, infine stanchi di uccidere, di fare prigionieri e di accumulare bottino. A causa del freddo e del gelo Lucullo fu costretto a tornare indietro, però assediando e conquistando Nisibis. Intanto il senato romano decise di sostituire il proconsole Lucullo nel comando della sua provincia, e di mandare in congedo buona parte dei suoi soldati.

Frattanto Tigrane e Mitridate riguadagnarono alcuni dei loro territori. Poi fu Mitridate ad attaccare i Romani, contro un legatus di Lucullo, di nome Fabio, che per poco non fu massacrato insieme al suo esercito, se durante la battaglia Mitridate non fosse stato colpito da una pietra ad un ginocchio e da un dardo sotto l'occhio, costringendolo ad allontanarsi dal campo di battaglia e sospendere i combattimenti, permettendo così a Fabio ed ai Romani di salvarsi.

TOMBA DEI RE DEL PONTO
Poi Fabio fu chiuso ed assediato in Cabira e liberato da un secondo legato, Gaio Valerio Triario, che si trovava casualmente da quelle parti nella sua marcia dall'Asia verso Lucullo.
Fu, quindi, la volta del secondo legatus di Lucullo, Triario, che era venuto in soccorso a Fabio, con il suo esercito. Triario, deciso ad inseguire Mitridate, riuscì a battere il sovrano del Ponto nel corso di questo primo scontro, presso Comana. Poi giunse l'inverno, che interruppe ogni operazione militare da entrambe le parti.

Mitridate si accampò poi presso Gaziura di fronte all'esercito romano, sperando di attirarlo in battaglia prima che giungesse Lucullo, infine mandò alcuni suoi reparti a conquistare Dadasa, una fortezza dove erano ammassati i bagagli dei Romani, sperando che i romani corressero a difendere il luogo. Narra Dione:

« ....quando Triario seppe dell'assedio di Dadasa, ed i soldati preoccupati per quella piazzaforte cominciarono a lamentarsi, minacciando che, se nessuno li avesse guidati, essi sarebbero corsi a difenderla di propria iniziativa, si mosse, si pure contro voglia. I Pontici lo aggredirono, ora che si era messo in marcia, e con la preponderanza del loro numero lo circondarono e massacrarono quelli che si trovavano a loro contatto. Inoltre correvano tutto intorno con la cavalleria, ed uccisero tutti quelli che avevano cercato la fuga nella pianura, senza sapere che su quella era stato deviato un fiume.»
(Cassio Dione Cocceiano, Storia romana, XXXVI, 12.3-4.)


Appiano narra invece che durante questo scontro, si scatenò una terribile tempesta di vento, e Triario, attaccò Mitridate durante la notte. La battaglia si svolse presso Zela, dapprima con esito incerto ma infine Mitridate sfondò il fronte romano, massacrando tutto l'esercito.

Cassio Dione e Appiano narrano di un centurione romano procurò a Mitridate una grave ferita alla coscia. Il centurione fu ucciso ma molti Romani riuscirono a trovare scampo miracolosamente nel subbuglio. Mitridate fu allora portato nelle retrovie, poi venne richiamato l'esercito che fraintese pensando a un'altra battaglia. Infine si strinsero intorno al loro re nella grande pianura, fino a quando Timoteo, il suo medico, riuscì a fermare l'emorragia e sollevò il re in modo che tutti potessero vedere che stava bene, esattamente come era accaduto ad Alessandro Magno in India. 

Non appena Mitridate si riprese, rimproverò coloro che avevano richiamato l'esercito dalla lotta, e condusse immediatamente i suoi uomini di nuovo, contro l'accampamento romano che era già fuggito. Nello spogliare i morti, furono trovati, tra i 7.000 legionari romani, ben 24 tribuni e 150 centurioni. Una delle più terribili sconfitte subite dai Romani.

Mitridate si ritirò nella piccola Armenia (sulle alture nei pressi Talauro), distruggendo tutto ciò che non era in grado di trasportare, in modo da evitare di essere raggiunto da Lucullo nella sua marcia. E mentre Lucullo era ormai accampato non distante da Mitridate, Roma lo esautorò dal comando e le legioni vennero sciolte. 

LA COLONNA CON L'ISCRIZIONE "VENI, VIDI, VICI"

II BATTAGLIA DI ZELA - VENI VIDI VICI - (4/ a.c.)

La battaglia di Zela, che prende il nome dall'omonima città (odierna Zile, nella Turchia orientale), si svolse nel 47 a.c. tra i Romani e i Pontici, guidati rispettivamente da Giulio Cesare e Farnace II, figlio di Mitridate VI e re del Ponto.

Ai romani bruciava ancora la sconfitta di quasi vent'anni prima sofferta dall'esercito romano di Triario ad opera di Mitridate. I romani non sopportavano di essere battuti, tutti i popoli che ritenevano i romani imbattibili potevano ribellarsi, e per giunta Roma aveva un grande orgoglio, occorreva vendetta. 

Quando Mitridate fu sconfitto da Pompeo, Farnace si ribellò al padre, che fu costretto a darsi la morte (63 a.c.). Quindi cedette il Ponto a Roma che ne fece una provincia romana, ottenendo in cambio il piccolo regno bosporano nel Bosforo Cimmerio.

Approfittando della guerra civile, Farnace, già prima della battaglia di Farsalo, aveva occupato Sinope; quindi invase la Colchide e occupò la piccola Armenia e la Cappadocia. I re scacciati si rivolsero per aiuto al luogotenente di Cesare in Asia Minore, che però fu battuto da Farnace presso Nicopoli (dicembre 48 a.c.) e dovette ritirarsi nella provincia d'Asia. Farnace allora invase il Ponto, la Paflagonia, la Cappadocia e la Bitinia. 

Era troppo, Cesare dovette intervenire personalmente in Asia. Si recò prima ad Antiochia (giugno 47 a.c.), sottomise la Siria, passò in Cilicia e poi in Cappadocia, dirigendosi contro Farnace, a cui intanto si era ribellato il suo governatore nel regno bosporano, per cui tentò di trattare la pace con Cesare. Ma questi non era giunto in Asia Minore per nulla, per cui continuò la sua avanzata e sconfisse Farnace a Zela nella Cappadocia (2 agosto 47 a. c.) in una battaglia che durò appena 4 ore, quindi annunziò la sua vittoria a Roma col famoso "VENI, VIDI, VICI."



LA BATTAGLIA

L'esercito di Farnace occupava la collina dominata da Zela, mentre Cesare recò il suo esercito in un'altura vicina. Mentre i Romani stavano ultimando la postazione, i nemici partirono improvvisamente contro di loro, cogliendoli alla sprovvista poiché i Romani reputavano illogico abbandonare una posizione vantaggiosa come quella di Zela per attaccare un accampamento in salita.

Dopo i primi momenti di confusione, nei quali i Romani ricevettero le maggiori perdite di uomini, Cesare riuscì a organizzare l'esercito (più addestrato ed esperto di quello nemico) in una linea di difesa, per poi passare al contrattacco.

Schierò le sue quattro legioni, la VI a destra, poi la legione Pontica, la legione di Deiotaro e infine la XXXVI legione sulla sinistra. L'esercito di Farnace fu costretto a retrocedere disordinatamente dalla collina, per poi essere completamente sconfitto. 

Fu uno scontro sanguinoso, durato quattro o cinque ore: le legioni cesariane soffrirono molte perdite, ma l'esercito di Farnace, di 20.000 uomini, fu annientato completamente. Dopo la vittoria, Cesare si recò a Zela e da lì inviò a Roma il famoso messaggio "Veni, vidi, vici" (letteralmente Venni, vidi, vinsi). Queste sue parole furono incise su un cilindro di marmo,



CESARE A ZELA (Fonte)

“Alea iacta est”, “Veni, vidi, vici”...: sono le frasi di chi fu il protagonista assoluto di eventi epocali, e che non nutrì mai alcun dubbio circa l'iniziativa da intraprendere a corpo morto, con ardore e vigoria senza pari.

Zela, 47 a.c.: qui ebbe luogo la battaglia nella quale rifulsero, una volta di più, le sublimi doti militari di Cesare, che investì il nemico sorpreso dalla fulmineità dell'azione. Il generale proveniva dall'Egitto dove, assieme a Cleopatra, aveva sostenuto un assedio alla reggia alessandrina portato dalla fazione cittadina ostile alla regina.

TERRITORI DEL PONTO DOPO LA BATTAGLIA DI ZELA IN VIOLA SCURO.
IN VIOLA CHIARO IL TERRITORIO CONQUISTATO DA ROMA
(cartina ingrandibile)
Ma, pur non stornando lo sguardo dal Mediterraneo, Cesare veniva spinto dagli eventi in Asia Minore, non lontano dalle sponde del Mar Nero. A Zela già avevano cozzato le armi, nel 67 a.C., quando l'esercito pontico del re Mitridate, uno dei più fieri nemici che mai osteggiarono Roma, sbaragliò le legioni di Lucullo.

Mitridate, provato dagli anni e da una guerra ultra-trentennale contro la Respublica, ritenne giunto il momento di porre fine ai suoi giorni. Il Ponto divenne allora provincia romana, e il rispetto mostrato a Roma da parte dell'imbelle Farnace gli valse l'assegnazione di un piccolo regno, il Bosforo Cimmerio, l'odierna penisola di Crimea.

Da qui, formalmente alleato dell'Urbe, egli assistette da spettatore interessato al cruento evolversi della guerra civile tra Cesare e Pompeo, non intervenendo a fianco né dell'uno né dell'altro. Ma, sfortunatamente, Farsalo non arrise alla scelta di campo pompeiana dei due...Farnace, da parte sua, non poté che ringalluzzirsi, in segreto: i Romani se le davano di santa ragione tra loro, mentre i re vicini, impegnati in Tessaglia al fianco di Pompeo, avevano privato i propri reami delle migliori truppe per condurle in battaglia. Grazie a ciò, Farnace aveva rioccupato l'antico dominio del padre e mirava a nuovi possessi, appunto quelli di Deiotaro e Ariobarzane, lasciati pressoché incustoditi.

Domizio Calvino aveva tentato inutilmente, con le sue scarse truppe di stanza nel Ponto, di contrastare le mire del “vassallo-ribelle”: a Nicopoli il legatus era stato duramente sconfitto, e non pochi cives romani, commercianti per la maggior parte, ormai indifesi erano stati trucidati dai Pontici.

Urgeva l'intervento deciso di Cesare; ci rifacciamo, per la ricostruzione dei fatti, al “Bellum Alexandrinum”, un testo che, pur appartenendo al Corpus caesarianum, quasi sicuramente non fu scritto dal dittatore, ma da chi fu comunque testimone diretto delle vicende descritte: si fa il nome, al proposito, del fidato (ma quanto fide degno...?) luogotenente Aulo Irzio, che seguì il suo generale in tutte le principali campagne.

Cesare, riportano le pagine del “Bellum”, giunto a ritmi forzati in Anatolia dall'Egitto cleopatreo, incontrò al suo arrivo l'anziano Deiotaro che, in veste di supplice, chiese perdono per esser sceso in campo dalla parte sbagliata, quella di Pompeo e dei senatori conservatori.

Adesso, battuto con gli alleati a Farsalo, si inchinava al vincitore mettendosi nelle sue mani pietose: e anche stavolta Cesare non venne meno alla sua proverbiale clemenza, riaffidando al suo legittimo re la Galazia, minacciata dappresso da Farnace; chiese tuttavia al vassallo la consegna della Legio deioterana che, unita alle sue VI e XXXVI e agli scampati della Legio Ponticare reduce dalla disfatta di Nicopoli, poteva permettere una risistemazione delle cose d'Anatolia in favore della Respublica.

CESARE
Lasciato il vecchio re dei Galati, Cesare si vide stavolta venire incontro gli ambasciatori di Farnace, incaricati di ammansire il grande condottiero, invero poco incline a un facile perdono: rifiutò da subito, infatti, la corona d'oro che gli venne mellifluamente offerta.

Parve inflessibile a prescindere, e niente affatto malleabile: il non aver Farnace preso le parti pompeiane non significava, ai suoi occhi, essersi emendato dalla colpa; il rampollo della casata mitridatica, infatti, aveva disatteso agli ordini partiti da Roma nel bel mezzo del caos legato alla guerra civile, e il suo conseguente, calcolato non-intervento sembrava al generale romano una mossa ben studiata in vista di un futuro rendiconto.

Cesare non offrì alternative ai messaggeri di Farnace: innanzitutto, il Ponto doveva esser sgombrato e tornare provincia romana; dopodiché, tutti i beni violentemente sottratti nella regione ai cives e agli alleati dovevano venir restituiti.

Farnace, appresa la risoluta risposta del Romano, tergiversò, riponendo silente la propria fiducia nel fatto che Cesare dovesse comunque lasciare l'Anatolia a giorni, per recarsi prontamente nella Capitale dove si esigeva la sua presenza per sbrogliare la caotica emergenza politico-istituzionale.

Ma il nuovo signore di Roma subodorò le intenzioni proditorie del re, e decise di agire di conseguenza, con impareggiabile efficacia e sollecitudine. In un luminoso giorno d'Agosto, a Zela, due colline poste l'una di fronte all'altra furono teatro di uno scontro protrattosi per poche ore, ma sanguinosissimo.

L'esercito pontico, forte di ventimila uomini, si era accampato su un'altura in cima alla quale si ergeva la cittadina di Zela; di fronte al nemico, Cesare, improvvisamente sopraggiunto, fece occupare dalle sue quattro legioni una collina della stessa altezza circa.

Pur sorpreso dall'improvviso arrivo delle armi romane, il figlio di Mitridate diede l'ordine ai suoi di scaraventarsi giù dalle proprie posizioni e di assalire repentinamente le linee legionarie, per quanto ciò richiedesse alle schiere pontiche un attacco tanto impetuoso quanto fiaccante: solo una poderosa ascesa dell'altura tenuta da Cesare poteva permettere di scontrarsi coi milites appena giunti, e dunque non ancora allineati.

I ruoli parvero così ribaltarsi: i Romani si smarrirono a loro volta per l'inattesa mossa avversaria, ritenendo un attacco ascendente da parte dei Pontici troppo dispendioso e per forza di cose destinato all'insuccesso. Le prime fasi della battaglia furono devastanti per i cesariani: le coorti, colte impreparate, non ebbero la prontezza di predisporre da subito una efficace reazione, e cominciarono a cedere il passo con gravi perdite.

Ma il genio tattico di Caio Giulio Cesare vegliava splendente e protettivo sopra i vexilla delle legioni: niente affatto persosi d'animo, il condottiero piazzò a destra la Legio VI, poi la Pontica, la Deioterana e, infine, la XXXVI sull'estrema sinistra. In breve tempo le parti si invertirono nuovamente: i Pontici, spossati dalla salita e dal non aver fatto crollare la resistenza romana al primo assalto (che avrebbe dovuto essere necessariamente anche quello decisivo), cominciarono a indietreggiare decimati.

In un baleno, la ritirata pontica si trasformò in una vera e propria rotta, con le schiere di Farnace incalzate senza pietà dai legionari: ben pochi furono quelli che riuscirono a guadagnare le posizioni di partenza, rifugiandosi nel campo posto alle porte di Zela.

Fu una salvezza solo momentanea, giacché i Romani penetrarono oltre il vallo facendo strage: Farnace riuscì comunque a salvar la pelle, galoppando spedito verso il proprio regnucolo, accompagnato da qualche centinaio di cavalieri.

Seppe mantenere la sovranità sui suoi limitati possessi per circa tre lustri, prima che un suo generale, Asandro, lo facesse fuori per sostituirlo sul trono. Non ancora soddisfatto, il regicida consolidò il nuovo assetto dinastico sposando la figlia dell'assassinato: per quieto vivere, ad ogni modo, Asandro giurò piena fedeltà a Roma, facendosene un vassallo su cui riporre piena fiducia.

Tenersi buona Roma, la padrona del mondo, risultava a quei tempi la terapia migliore per sopravvivere serenamente assiso su uno scranno regale. Cessato a Zela il clangore delle armi, Cesare spedì (pare al caro amico Gaio Mazio) il leggendario messaggio, tanto breve quanto significativo; fu eretto sul luogo della battaglia anche un cippo commemorativo, riportante le tre fatidiche parole: di recente, purtroppo, è misteriosamente scomparso nel nulla.

La battaglia di Zela non assunse i contorni storici che fecero di quella viennese una delle più importanti mai combattute: anzi, si tenne in una regione in fondo periferica dei domini romani, ben lontana da Roma e dal cuore del Mediterraneo.

Tuttavia, la perentorietà con cui Giulio Cesare intervenne ai confini della Respublica e l'acume con il quale, ancora una volta, seppe volgere a proprio favore una situazione tatticamente sfavorevole, si pongono a lode del suo leggendario genio bellico.

Dal messaggio“Veni, vidi, vici”spedito a Roma per annunciare la vittoria, traspaiono l'orgoglio smisurato e l'autoconsiderazione sublimata di Cesare: i tre bisillabi furono una testimonianza, fredda ed essenziale nella forma ma in realtà intensa e piena, della assoluta consapevolezza, da parte del grande Romano, di una personale superiorità rispetto a tutti i contemporanei.

(CARLO CIULLINI)




La frase di Cesare «Veni, vidi, vici» brevettata a sorpresa da un comune in Turchia

(di Vittorio Da Rold16 aprile 2012)
Siamo certi che il sindaco di Roma non la prenderà bene. Un comune turco, a sorpresa, si è appropriato, brevettandolo, del copyright di una delle frasi più famose dell'imperatore romano, Giulio Cesare: «Veni, vidi, vici».

La mossa è sorprendente perché la Turchia moderna ha sempre cercato di prendere le distanze dalla storia antica romana e di privilegiare le vicende dell'impero ottomano. Ma ora, evidentemente, le cose stanno cambiando.

Ci sono voluti due anni e mezzo per acquisire il brevetto, ha detto il sindaco di Zile, Lutfi Vidinel. «Ora il copyright della frase appartiene al nostro Comune per i prossimi 10 anni e stiamo progettando di rinnovarlo ogni decennio. Una multinazionale del tabacco sta usando questa frase come parte del suo logo del marchio e stiamo pensando di contattarli e chiedere la nostra quota di diritti d'autore per l'uso della frase». «I fondi che otterremo verranno usati per la lotta contro il tabagismo», ha detto Vidinel dando così prova di una certa sensibilità sociale.

I MALEFICI MAGICI

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Gli uomini hanno da sempre tentato di agire, aldilà delle azioni pratiche, e soprattutto quando queste non erano possibili, in un modo invisibile e magico per frenare o colpire i propri nemici. Queste furono vere e proprie operazioni magiche che sopravvissero per tutto l'impero romano e anche oltre.

La magia destava tra i romani, che peraltro vi ricorrevano non di rado, riprovazione e sospetto, specie se poteva condurre alla morte di qualcuno, ma l'accanimento  dei cristiani contro la magia superò di gran lunga quella romana, giungendo a chiamarla stregoneria e patto col diavolo, e condannandone i presunti attori con la tortura e il rogo in un delirio paranoico di purificazione.



TESTI EGIZI DI ESECRAZIONE

I testi di esecrazione erano frasi rituali con cui, fin dall'antico Egitto, si intendeva allontanare, danneggiare o eliminare il nemico o il concittadino, o il parente, o il consorte, o il vicino di casa diventato dannoso o pericoloso. Generalmente venivano scritti su vetri o su cocci di argilla o ceramica che venivano poi o infranti e dispersi o destinati a riti magico-religiosi.

TESTO DI ESECRAZIONE
Il fare a pezzi il testo scritto aveva diverse funzioni:
- la prima era che nessuno potesse incidere di nuovo sopra al materiale usato, cosa che avrebbe cancellato la maledizione e per giunta l'avrebbe fatta ricadere sul mandante.
- la seconda era di ordine pratico, il testo fatto a pezzi poteva difficilmente essere rinvenuto evitando non solo l'incanto ma pure la vendetta sull'incantatore.
- la terza è che la maledizione non poteva venire cancellata neppure dal mandante, cosicchè occorreva pensarci bene prima di lanciare una maledizione a qualcuno.

In Egitto sono stati rinvenuti diversi gruppi di tali testi, databili soprattutto alla XII dinastia (XIX secolo a.c.). I testi ad esempio lanciano scongiuri ed esecrazioni contro gli asiatici del Medio Oriente con i quali gli egizi erano frequentemente in guerra. Infatti esistevano pure le maledizioni ufficiali che compivano i sacerdoti, ma soprattutto le fattucchiere di un paese contro un paese nemico.

Un primo gruppo (detto ‘testi di Berlino') venne pubblicato da Kurt Sethe nel 1926. Essi contengono circa 20 nomi di località di Canaan e Fenicia, e nomi di circa 30 persone investite di autorità di quei popoli, contro cui erano state scagliate maledizioni potenti.

Georges Posener ne pubblicò un secondo gruppo (detto ‘testi di Bruxelles') nel 1957. Un terzo gruppo (detto ‘testi di Margissa') apparve nel 1990 per opera di Yvan Koenig. (Testi di esecrazione - Medio Regno - Saqqara).

Naturalmente i potenti non erano così ingenui da ignorare la situazione, per cui a loro volta erano oggetto da parte dei loro sacerdoti, di riti di protezione, mentre d'altro canto lanciavano maledizioni a loro volta.



MALEDIZIONI BIBLICHE

Non ci si meravigli che gli ebrei si servissero delle maledizioni, perchè, seppure la magia venne proibita nei periodi tardi, anticamente era largamente praticata. In antico la vera magia era eseguita soprattutto dalle donne, mentre era molto meno congeniale ai maschi, per cui rabbini e preti la condannarono in quanto femminile e diabolica.

TAVOLETTE RECANTI MALEDIZIONI
Tracce di testi di esecrazione si riscontrano anche e soprattutto nella Bibbia, come ad esempio, nel salmo 136/137, 8-9. Al tempo di Nabucodonosor II gli Edomiti collaborarono a saccheggiare Gerusalemme e sterminarono gli Ebrei (Sal137,7;Abd11-14).
" Ricordati, o Eterno, dei figli di Edom, che nel giorno di Gerusalemme dicevano: «Demolitela, demolitela fin dalle fondamenta» "
Ed ecco la esecratio:
Figlia di Babilonia devastatrice,
beato chi ti renderà quanto ci hai fatto.

Beato chi afferrerà i tuoi piccoli
e li sbatterà contro la pietra.
"
E poi:
"Tutto Israele ha trasgredito la tua legge, s'è allontanato per non ascoltare la tua voce; così si è riversata su di noi l'esecrazione scritta nella legge di Mosè, servo di Dio, perché abbiamo peccato contro di lui
E ancora:
"Dio fece anche ricadere sul capo della gente di Sichem tutto il male che essa aveva fatto; così si avverò su di loro la maledizione di Iotam, figlio di Ierub-Baal" 

Ecclesiaste cap. III:
" La benedizione del padre consolida le case dei fìgli; la maledizione della madre ne sradica le fondamenta".



I ROMANI CREDEVANO NELLA SFORTUNA E NELLA MAGIA

Gli antichi Romani, famosi per essere un popolo pragmatico e concreto, avevano invece un debole per il magico, l'occulto, il mistero ed erano piuttosto superstiziosi.

Per i romani portava sfortuna:

- rovesciare vino, olio e acqua
- incontrare per strada muli con un carico di ipposelino (dal greco ippos = cavallo e sélinon = sedano, una pianta che ornava i sepolcri);
- un cane nero che entrava in casa, 
- un topo che faceva un buco in un sacco di farina,
- una trave della casa che si spaccava senza motivo.

Tanti ricorrevano a scongiuri contro la jella, anche degli insospettabili come Giulio Cesare: ci dice Plinio il Vecchio che il conquistatore, dopo che il suo carro si era rotto durante la celebrazione del Trionfo, recitava sempre uno scongiuro che ripeteva tre volte per garantirsi la sicurezza del viaggio (Caesarem dictatorem, post unum ancipitem vehiculi casum, ferunt semper, ut primum consedisset, id quod plerosque nunc facere scimus, carmine ter repetito securitatem itinerum aucupari solitum),

«Riportano che il dittatore Cesare, dopo una pericolosa caduta da un carro, non appena vi fosse montato sopra, usava sempre ripetere per tre volte un certo scongiuro, per allontanare da se tale pericolo; cosa che vediamo ancora oggi fare da molti», Naturalis Historia, XXVIII 16). 

Una cosa diversa era però considerata la magia, che sempre Plinio definisce "una scienza temibile e perversa", e che era condannata dalla legge romana. Nelle Dodici Tavole (451-450 a.c.) si prevedevano sanzioni per chi recitava incantesimi allo scopo di nuocere (malum carmen incantassit). La "Lex Cornelia de sicariis et veneficiis", opera del dittatore Silla (81 a.c.), prevedeva la pena di morte per gli omicidi e per chi praticava riti malefici (mala sacrificia). 


Catullo

Gaio Valerio Catullo, innamorato pieno di dubbi e insicurezze della fascinosa vedova Clodia, di dieci anni più vecchia ed esperta di lui, mentre compone uno dei più celebri inni all’amore dell’antichità, conclude con una formula di scongiuro, nella speranza che nessun invidioso voglia lanciare il malocchio a due persone che paiono così felici.

Vivamus, mea Lesbia, atque amemus,
rumoresque senum severiorum
omnes unius aestimemus assis.
Soles occidere et redire possunt:
nobis, cum semel occidit brevis lux,
nox est perpetua una dormienda.
Da mi basia mille, deinde centum,
dein mille altera, dein secunda centum,
deinde usque altera mille, deinde centum.
Dein, cum milia multa fecerimus,
conturbabimus illa, ne sciamus,
aut nequis malus invidere possit,
cum tantum sciat esse basiorum. 

v.11 "ne sciamus" cioè “per non sapere (quanti sono)”. Il numero dei baci potrebbe scatenare l’invidia degli Dei: essere all’oscuro della quantità dei tutela dalla loro vendetta.
vv.12-13 "aut nequis malus invidere possit" Invidere ha un significato che oltrepassa l'“invidiare”, esso comporta l’azione negativa del “gettare il malocchio”,  (in + video: “guardo contro”). 

La felicità di Lesbia e Catullo appare al poeta una felicità insidiata. C'è un'ombra sull’ardore degli amanti, ombra che il bacio infinitamente ripetuto vuole in qualche modo scongiurare. E la felicità presente è insidiata non solo dalla morte, ma anche dalla malevolenza del destino, degli Dei, della avversa fortuna, degli invidiosi. C'è la consapevolezza che una felicità così grande non può essere duratura, e va salvaguardata in tutti i modi. 




ESECRATIO ROMANA

L'esecratio era l'atto di imprecare praticato dagli antichi onde richiamare le divinità infernali contro i propri nemici (latino: "exsecratio-onis"; verbo "exsecrari": giurare con formule d'imprecazione)

Documenti significativi delle usanze magiche degli antichi romani erano le "defixiones", maledizioni ai danni degli avversari, oggi le chiameremmo "fatture", di solito incise su laminette di piombo, arrotolate e inserite in una tomba, in modo che i nemici fossero più direttamente votati agli Dei inferi.

Il piombo andava bene un po' per tutto nei rituali magici, talvolta però le lamine erano in rame, molto indicata per le "fatture d'amore", lo stagno, molto meno usato, invece era per attaccare un potere, tipo un concorrente nelle pubbliche lezioni. Per un potere più forte invece occorreva una lamina d'oro. Non risulta invece l'argento per incidere maledizioni.



ANTICA TAVOLETTA DI ANTIOCHIA CON LA MALEDIZIONE A UN FRUTTIVENDOLO 

Dopo quasi 80 anni dalla sua scoperta all'interno di un'antica fonte della città di Antiochia, è stata decifrata interamente una tavoletta di piombo di 1.700 anni fa. L'iscrizione è una maledizione rivolta a un semplice fruttivendolo.

Scritto in greco su una lamina di piombo, il testo maledice un uomo di nome Babylas, figlio di Dionysia. L'iscrizione scoperta in un pozzo di Antiochia intorno agli anni '30 del secolo scorso, è stata tradotta solo ora e recita:
" O Iao che scagli lampi e saette, colpisci, colpisci e abbatti Babylas il venditore di frutta. Come hai colpito il carro del faraone, colpisci la sua offesa. O Iao che scagli lampi e saette, come uccidesti il primogenito d'Egitto, uccidi il suo bestiame... ".

La tavoletta è molto simile alle "tavole di maledizione" greche, incise nel piombo a piccole lettere e sepolte nei pressi di tombe o santuari per ottenere l'aiuto delle entità sovrannaturali. Il piombo era molto usato anche perchè costava poco e tutti potevano permetterselo.

Nelle tavolette greche si citano divinità come Ermes, Caronte, Ecate e Persefone, oltre che i nomi dei cari estinti o degli antenati, per infondere potenza nella maledizione. Il riferimento a Yahweh (volgarizzato in Iao, il nome di un suo attributo) nella tavoletta di Antiochia, quindi, potrebbe
essere soltanto l'evocazione dell'entità divina più potente della regione.


IMPRECAZIONE - MALEDIZIONE - ESECRAZIONE (testo del 1893)


- Imprecare è pregar del male a qualcheduno, e può essere uno sfogo d'ira irriflessivo e procedente da un primo moto;
- La maledizione è atto più solenne; parte da cuore profondamente ulcerato, è pensata, è risoluta, è pronunziata in faccia a Dio e agli uomini: guai al figlio che si avesse meritata e tirata addosso la maledizione de' genitori! (Ma guai anche al genitore che abbia meritato la maledizione di un figlio, aggiungiamo noi)
- Maledire è dare la maledizione propria per quanto vale, e quasi invocare che quella di Dio l'accompagni.
- Esecrare è aborrire massimamente, è sentire avversione invincibile, ripugnanza, come verso cosa scomunicata o messa a buon diritto fuori della legge. L'esecrazione è un orrore legittimo, specialmente verso persona o atto sacrilego.

MALEDICTIO RICHIESTA AD ECATE SU LAMINA DI PIOMBO (V sec.)

LA MALEDIZIONE

Per gli antichi romani la "maledictio" era il corrispondente di una fattura, operante nella magia oscura, che poteva comportare anche la morte della persona.

In età imperiale, da Tiberio in poi, era prevista la pena di morte per chi esercitava arti magiche finalizzate a delitti. Già nelle XII tavole (451-450) erano previste sanzioni per chi pronunciava incantesimi allo scopo di nuocere a qualcuno.

Con la "Legge Cornelia de sicariis et veneficiis", voluta dal dittatore Silla, era prevista la pena capitale per le fatture a morte. Insomma tutti ne avevano paura e nessuno ne dubitava.

Anche la Chiesa cattolica condannò sia la stregoneria sia i riti magici ad essa connessi e molte pseudostreghe pagarono sui roghi le loro reminiscenze pagane. Oggi la Chiesa non ha più tale potere giuridico, però la condanna morale per certe pratiche è rimasta, soprattutto perchè ritenuta superstizione.

CONTENITORE DI PIOMBO
E STATUETTA DI CERA
Oggi la superstizione è ritenuta un'insieme di credenze o pratiche rituali proprie di società antiche, soprattutto pagane, o di ambienti attuali ma culturalmente arretrati, fondate su presupposti magici e soprannaturali. Dal punto di vista delle grandi religioni, ogni credenza o pratica che sia in disaccordo con la religione costituita è superstizione, soprattutto la credenza nell'influsso di fattori sovrannaturali o magici sulle vicende umane.

Strano, perchè le grandi religioni ci credono, credono ai miracoli sulle persone, agli interventi divini per punire o salvare, alle acque miracolose, all'intervento dei santi, alle novene o preghiere varie per ottenere vantaggi o scongiurare svantaggi. Si prega oggi per far rientrare le piene dei fiumi come mezzo secolo fa si pregava per fermare un'epidemia. Qual'è la differenza?

Forse che la religione cristiana, ad esempio, è vera e l'altra è falsa? Ma se la superstizione è falsa non c'è da temerla, e non dovrebbe costituire un peccato, come non lo costituisce credere a Babbo Natale o alla Befana. Insomma una favola non può far male.



MALEDETTI UN SENATORE E UN VETERINARIO ROMANI

Una ricercatrice spagnola ha decifrato due maledizioni lanciate contro un senatore romano e un veterinario, ambedue con la raffigurazione di una divinità con serpenti come capelli, forse Medusa, oppure la Dea greca Ecate, molto invocata da maghi e stregoni. Entrambe incise in latino con invocazioni in greco, su tavolette di piombo, da persone diverse durante il tardo Impero Romano, circa 1600 anni fa.

Sono state scoperte nel 2009 presso il Museo Civico Archeologico di Bologna: sebbene gli studiosi non conoscano con certezza la loro provenienza, sanno chi erano le vittime delle maledizioni. Una delle maledizioni riguarda il senatore romano Fistus, l’altra riguarda un veterinario di nome Porcello.


CONTENITORI DI PIOMBO APPOSITI

MALEDIZIONI NASCOSTE

Spesso le defixiones venivano affisse e nascoste nei colombari e pure nelle tombe etrusche, per il vantaggio di poter affiggere le lamine sulla roccia con appositi chiodi di bronzo, di modo che fosse molto difficile estrarle, come abbiamo constatato noi stessi in una tomba etrusca da poco scavata e col soffitto parzialmente crollato.

I motivi che scatenavano tali exsecrationes erano torti subiti, sottrazioni di beni, truffe di cui si era vittime, rivalità in amore, rivalità nella carriera pubblica, in tribunale, e pure nelle corse dei cavalli. Le più antiche, rinvenute a Selinunte, risalgono al VI sec. a.c., mentre l’uso continua nel tardo impero romano, quando ormai si era ampiamente affermato il cristianesimo.

Ma il fenomeno proseguì nel medioevo e praticamente non si è mai estinto, visto che ancora oggi prosperano maghi e fattucchiere. Sono gli equivalenti dei riti "voodoo" spesso descritti nei documentari sui vari popoli dell'Africa e dell'America latina. Anche a Roma 2000 anni fa esisteva questa usanza di lasciare messaggi nella fontana destinati a chiedere favori alla divinità o invocarla per nuocere a determinate persone. Le prove le ha fornite la famosa fontana consacrata ad Anna Perenna.

RITROVAMENTO DI UNA MALEDICTIO NELLA TOMBA DI UN  BAMBINO ROMANO (Ostia)

IL RITROVAMENTO

In Roma a piazza Euclide, scavando nel 1999 delle fondamenta di un parcheggio interrato, a 10 m di profondità venne rinvenuta una fontana rettangolare, con un altare, due basi e delle iscrizioni di magia nera.

Si trattava di 22 piccole lamine di piombo, appunto delle "defixiones" strettamente avvolte in rotoli, con su incise maledizioni a lettere sbalzate e capovolte. Il tutto sigillato in 14 contenitori in piombo, contenenti inoltre delle figurine antropomorfe fatte di materiale organico e infilate a testa in giù.

Sulla fontana che accoglieva le fatture magiche c'era una dedica e una data: "nimphis sacratis Annae Perennae" cioè "alle ninfe consacrate ad Anna Perenna" con la data del 156 d.c. La fontana sembra attestata almeno dal IV secolo a.c. e utilizzata fino al VI d.c.

ESECRATIONES
Nella fontana sono stati reperiti, oltre alle "defixiones" che si buttavano nella fontana perchè, attraverso i canali di scolo arrivassero nell'aldilà. :
- 550 monete che si gettavano lì per buon augurio,
- gusci d'uovo simbolo di fertilità
- pigne,
- rametti
- tavolette di legno»
- 70 lucerne
- un paiolo in rame.

Molti anni di restauro e ricerche ci sono voluti per srotolare le defixiones in piombo e per aprire i coperchi sigillati dei contenitori. La prima iscrizione era facile, e ben riconoscibile il nome "Antonius", il personaggio da maledire, a volte, oltre al nome della vittima, c'è anche quello della madre, perchè l'unica identificazione certa era quella materna (mater semper certa est, pater nunquam)

Ma restavano da decrittare tutte le altre: « Ho capito subito che in Italia non c'era nessuno all'altezza» , ricorda Marina Piranomonte. Che ha quindi deciso di rivolgersi a Christopher Faraone dell'Università di Chicago, massima autorità in fatto di magia antica. Già un tempo gli archeologi italiani insegnarono la ricerca archeologica al mondo, ma oggi non ci sono più scuole, non si scava, non si dà lavoro e si caccia chi il lavoro ce l'ha già, o si sostituisce con novellini di nessuna esperienza perchè costa meno.

Com'è andata lo racconta lei stessa: « Ho preso il suo indirizzo da Internet e gli ho mandato una mail, comunicando la mia scoperta e allegando una foto delle defixiones. Dopo un'ora mi ha telefonato: Terrific, Marina! Quando posso venire a trovarti?».

Proprio come avviene qui in Italia (ironia). Faraone è dunque venuto a Roma e nel 2003 ha indetto - lui, americano - una giornata di studi sulla magia antica in cui è stata data la notizia del ritrovamento della fontana di Anna Perenna. Tra gli studiosi invitati, il filologo tedesco Jürgen Blänsdorf dell'Università di Mainz, «un mostro di bravura» lo definisce Piranomonte, che in due anni ha decrittato tutte le epigrafi, e verrà a illustrarle nel Convegno di Roma del 3 febbraio.

Vediamole, dunque, e leggiamole queste tavolette di maledizioni, che si deponevano sottoterra in luoghi segreti come tombe, fontane e boschetti fuori da Roma, dove la magia nera era vietata.

Una maledizione molto nota perchè articolata, è stata soprannominata "Snakes", cioè serpenti, perché il testo è circondato dal disegno di quattro serpenti.

Al centro un rombo, attinente al mondo dei vivi e al mondo dei morti, che è lo specchio dell'altro, cioè due triangoli legati alla base, che una volta uniti senza distinzione diventano un rombo, come dire che il mondo dei vivi comunica con il mondo dei morti, o degli inferi.

In effetti la fattura si serviva, o almeno così credeva, del supporto delle anime dei defunti, e questa è pure la ragione perchè alcune maledizioni venivano affisse nelle tombe.

Al centro del rombo c'è la Dea, regina del manifesto e dell'occulto. Inciso vi è un testo che recita:
«Strappate l'occhio destro e sinistro dell'arbitro Sura, che è nato da una vagina maledetta (qui natus est de vulva maledicta) ».



I GLIFI MAGICI

La cosa più notevole però, a nostro avviso, è quella più in basso, e cioè i "glifi magici". I segni aldisotto dell'immagine non hanno una traduzione nè un significato, ma sono dei segni evocatori di entità magiche. Sono caratteristiche dei glifi l'inizio e la fine con un tondino. L'estrapolazione di queste entità si otteneva attraverso rituali segreti che derivavano dal sistema dei quadrati magici, sistemi che troverà la loro esplicazione soprattutto nella magia del medioevo. Ma, straordinario, esisteva già al tempo dei romani!

Il sistema funzionava attraverso un reticolato di quadretti su cui venivano iscritte o lettere o numeri. Poi si dava un nome composito al genio che si voleva evocare, ad esempio, "Il vendicatore" oppure "che fa innamorare" ecc, a seconda dell'incantesimo.

Si cercava, ad esempio ne " Il vendicatore", di segnare la prima lettera, in questo caso I, con un tondino posto sul numero che corrispondeva alla lettera alfabetica (ad es. nell'alfabeto italiano la "I"è la n° 8)

Poi dal tondino seguiva un segmento che andava sulla lettera "l", cioè (se seguiamo l'alfabeto italiano il quadratino col n° 9).
A questo punto si è scritto in  lingua magica la parola "Il" e pertanto viene conclusa con un altro tondino.

La parola seguente, che è "vendicatore" inizierà con un tondino sulla lettera "v" che andrà sul 20° quadratino (esempio di alfabeto italiano) e per ogni lettera si sposterà nelle varie direzioni, fino alla lettera "e" su cui si porrà il tondino finale.
Ora le regole erano molteplici, come spezzare il segmento tra una lettera e l'altra, o usare delle curve per indicare lettere doppie ecc.

I segni sotto all'immagine sono dunque segni magici, come dire i nomi dei geni preposti all'incantesimo che venivano scritti e pronunciati durante il rito chiedendo esplicitamente ciò che veniva inciso nel piombo.

Nel caso in questione si tratta di una defixio di accecamento, per un certo arbitro che ha mancato a una sua promessa, o ha danneggiato qualcuno, o ha arbitrato a sfavore di qualcuno. Ma i pezzi importanti del ritrovamento sono i contenitori in piombo, perchè ognuno ne contiene altri due, tutti sigillati con resine. Il contenitore più esterno non ha segni grafici, ne riporta invece quello mediano, mentre il più piccolo contiene la fattura scritta e una figurina antropomorfa impastata di miele, acqua e farina, infilata a testa in giù.

I materiali di Anna Perenna si sono salvati, nonostante il clima umido di Roma, grazie alla triplice sigillatura dei contenitori. Dalle antiche fonti sappiamo che Anna Perenna veniva venerata fuori porta il giorno di Capodanno, il 15 marzo. Nel bosco sacro ad Anna Perenna i romani montavano capanne improvvisate, con pali e frasche, danzavano e bevevano, lasciandosi inebriare dall'estasi per la Dea. Un specie di estasi menadica, movimentata e selvaggia.



LA DEA TERRA

La Dea Terra, o Madre Terra, aveva come sacerdotesse le Pitie, o Pitonesse, o Sibille, insomma le sue sacerdotesse avevano a che fare col mondo sotterraneo e non solo traeavno energie dal sottosuolo ma ne traevano pure presagi.

Naturalmente erano Maghe, niente di strano, tutte le antiche Dee erano maghe e così le sacerdotesse, ma i sacerdoti che le sostituirono non accettarono la magia, perchè mistero profondissimo che faceva paura. Si dice che i riti della Madre Terra, ovvero i riti ctonii, facessero terrifici, strano perchè in genere non sacrificavano nè persone nè animali. Ma non era il sacrificio a fare paura, bensì il mondo ctonio, ovvero il mondo dei morti, che del resto fa paura tutt'oggi.

La chiesa cattolica comunque non ha mai negato il possibile rapporto col mondo dei defunti, ma l'ha proibito perchè, anche se si tratta di anime buone, il chiamarle su questa terra potrebbe dar loro dolore. Viene da chiedersi, ma se provoca dolore forse non si presenterebbero, però si dà per scontato che possiamo obbligarle.

Un messaggio abbastanza inquietante perchè se è vero, potremmo obbligarle al nostro desiderio, cioè anche di aiutarci in vita, o aiutare altri.. o nuocere ad altri... ma questo confermerebbe la esecratio per mezzo dei defunti, come credevano i pagani... mistero.



LA DEA DELLE STREGHE

Ecate, divinità originaria della Tracia o dell’Anatolia è una divinità pre-indoeuropea, poi inserita nel pantheon greco dalla fusione tra i vari popoli, e infine inserita nel panteon romano. Dea triadica, o Triforme, o Trinitaria, o Trinità, viene spesso rappresentata con tre corpi e magari accompagnata da cani ululanti.
Ella è regina dei daemones, esseri invisibili che fanno da tramite tra regno umano e divino, era pertanto addetta alla magia. 

ECATE
Come Dea triforme aveva la sua manifestazione in cielo come luna, in terra come Signora degli Animali, e negli Inferi come regina dei morti che ella consente alle streghe di evocare nei crocicchi o nelle are dei boschi.

Ella ha diversi attributi che tiene saldi nelle sue mani divine

- la torcia con cui rischiara il cammino sia dei vivi che dei morti
- il coltello con cui recide il cordone ombelicale dell'infante, ma anche come colei che recide il cordone che lega l'anima al corpo all'istante della morte
- una chiave, per la sua qualità di “guardiana delle soglie”, che può socchiudere le porte tra i mondi
- il serpente, simbolo della terra e di saggezza aldilà della mente dei comuni mortali.

Apollodoro (III sec. d.c.) ci informa che ad Ecate venivano offerti dei banchetti rituali, denominati hekataia, tradizione confermata anche da Plutarco. Nei banchetti avveniva il sacrificio rituale del pesce, sacro alla Dea. A volte il solo simbolo del pesce diventava simbolo della Dea. Simbolo che poi passerà ai cristiani.

Sacro alla Dea era pure lo IUGX, chiamato pure "la trottola di Ecate, una sfera dorata costruita attorno a uno zaffiro e fatta girare tramite una cinghia di cuoio, con sopra dei caratteri incisi. Facendola girare si operavano le invocazioni.

A lei si rivolgevano pertanto le streghe per chiedere favori o gettare esecrationes, per se stesse o per coloro che pagando le incaricavano di eseguire l'incanto magico. Naturalmente i pupazzi con gli spilloni non l'ha inventato il vodoo, perchè i romani le conoscevano perfettamente, in genere intagliate grossolanamente nella cera e magari con un fazzoletto, o una stoffa, o dei capelli appartenuti alla vittima designata. 

Anche l'uso dei nodi, delle trecce di capelli, o di erbe secche, o di vimini legavano strettamente la fattura alla vittima, soprattutto se l'oggetto veniva nascosto in  luoghi cimiteriali, o sacri, o almeno sotterranei. Non molto diverso da come si fa oggi.

VICUS IUGARIUS

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VICUS IUGARIUS A SINISTRA DEL TEMPIO DI SATURNO
"Assai più frequenti le fasi di ristrutturazione di una strada come il  vicus Iugarius, situata nella città ancora abitata, seppure ai suoi margini: v. MAETZKE 1988 comprovato dal rinvenimento di tratti di pavimentazione in basolato (COLINI 1944, tav. XVI), ed è stato ora confermato dal segmento individuato nel corso degli scavi di  Piazza Celimontana l'abbandono e rinterro dei Castra Peregrinorum, cioè della caserma che occupava in precedenza l'area della  chiesa, possono ora venir datati con maggior precisione  agli inizi del V secolo grazie ai materiali, cronologicamente molto omogenei, provenienti da alcuni sondaggi eseguiti sia all'esterno che all'interno della basilica.

E’interessante notare che al momento della colmata le strutture dei castra erano state spogliate da ogni  decorazione, ma  non  erano crollate, ne  tanto meno  erano state  bruciate:  questo potrebbe suonare conferma di quel che si diceva all'inizio a proposito del sacco di Alarico. Ad  una parziale  rioccupazione del sito dei castra sembrerebbe riferirsi  l'interessante, ma mal documentata e tutt'altro che chiara fase edilizia che Ceschi.

Le rozze  strutture in  questione, che si fondavano  nella colmata di cui s'è detto e avevano un livello di spiccato fino a 2 m. più alto di  quelle di età  classica, occuparono solo il settore Sud-Ovest della futura chiesa;  erano realizzate  in tufelli o in  una curiosa tecnica a blocchetti di  conglomerato.


Ceschi le  interpreta ipoteticamente come un primo riutilizzo dell'area in funzione religiosa (le ex caserme passerebbero dai beni imperiali alla  chiesa: è da notare che le nuove murature mantengono approssimativamente lo stesso orientamento dei castra). Tutto ciò, evidentemente, non può essere avvenuto che attorno alla prima metà del V sec. Quel che è certo è che queste strane strutture, se pure erano ancora in  piedi,  furono  distrutte all'atto della fondazione della basilica nel 468-483.

Il terzo, e il maggiore, sito di scavo cui accennerò è quello dell'Ospedale Militare, nel quale sono in corso ininterrottamente dal 1987 indagini che precedono e accompagnano i lavori di ristrutturazione edilizia del nosocomio di età umbertina.

I dati di scavo delineano un  quadro di decadenza tutto sommato rapida dell'area (fino al IV sec. intensamente urbanizzata): un quadro tuttavia articolato, con tempi di abbandono differenziati per i singoli complessi. Molti di questi appaiono già del tutto fuori uso e interrati nel corso del V secolo, o al massimo a partire dalla seconda metà o dalla fine di questo. E’ il caso dell'edificio commerciale nel settore Nord-Est, dell'edificio  con cisterne nel saggio fra i  padiglioni 17 e  19, della fullonica  e della  grande domus nel settore centrale dell'Ospedale.

Nell'attuate giardino (in  parte corrispondente all'originario anello esterno della chiesa) sono stati effettuati tré approfondimenti di scavo in punti  diversi. All'interno  del monumento sono state invece svuotate alcune fosse nella cappella dei SS. Primo e Feliciano, nel  corso della documentazione dei pavimenti marmorei di V o VI secolo dovuta al  prof. H.  Brandenburg e a S. Storz; sui contesti ceramici, v. MARTIN 1989.

MOSAICO DELLA BASILICA HILARIANA

Sui  precedenti rinvenimenti  nell'area

Essa risale ad età antonina, ma  ebbe nel IV secolo una fase di fioritura decorativa (pavimenti in opus sectile) tale da autorizzare l'ipotesi di un'identificazione con la domus Symmachorum, situata in questa zona. Per alcuni altri complessi, invece, il V secolo corrisponde  alla fase in  cui  non vi è ancora  totale abbandono, ma le strutture subiscono un mutamento d'uso: vengono sì conservate, ma a prezzo di una riduzione degli spazi e di un netto degrado delle modalità di occupazione.

TEGOLA DELLA DOMUS DI
GAUDENZIO CON IL BOLLO
"GAUDENTIUS"
La cronologia della crisi definitiva della zona dell'Ospedale Militare nel suo insieme slitterebbe quindi leggermente verso il basso, e precisamente verso il VI secolo, rispetto al settore del Caput Africae, deserto forse già nel V. A ben vedere la cosa  non stupisce,  considerata la posizione privilegiata del quartiere corrispondente all'Ospedale, attestato sulla sommità del colle: in particolare, forse non a caso gli edifici che mostrano ancora segni di vita  nel pieno V secolo sono situati  nella fascia  attigua ad un'arteria importante come la “via Caelemontana”, attuale Via di S. Stefano Rotondo.

Sorge in questo settore la Basilica Hilariana, santuario di  Cibele e  Attis e sede  collegiale dei
dendrophori,  risalente  all'età  antonina; era sopravvissuta almeno fino al IV,  forse  anche grazie  alla
protezione accordata al culto dalle famiglie dell'aristocrazia pagana che sappiamo insediate nella zona, prima fra tutte quella dei Simmaci.

Nel V secolo, in concomitanza con i provvedimenti imperiali che confiscano i beni  dei  dendrophori, la  basilica  cessa di funzionare come  tale e viene  poveramente riadattata: la quota di calpestio è rialzata con strati di terra, alcuni spazi fra gli  originari pilastri del portico sono tamponati, la scala diretta al primo piano viene chiusa. I  vani ancora occupati sono ora utilizzati per una piccola fullonica.

Non  lontana  dalla Basilica  Hilariana è la  Domus di Gaudentius, di  medie dimensioni ma riccamente ornata, che era sorta, sembra già in età antonina, dalla fusione di due insulae e della via che le divideva, e aveva poi subito interventi nel III e  nel IV secolo. L'edificio non è più utilizzato come residenza di lusso a partire dalla metà circa del V secolo; non c'è distruzione violenta, ma la quasi totalità dei vani della parte signorile sono interrati; i quartieri servili continuano invece ad essere abitati.

Gaudenzio, Vicarius Africae, ovvero Gaudentius (398-409 – ...) è stato un senatore e governatore romano amico dell'influente Quinto Aurelio Simmaco, che lo raccomandò presso Minervio e Cecina Decio Albino (due alti funzionari della corte imperiale) nel 398/399.

ANTINOO CASALI
Nel 409  ricoprì la carica di vicarius Africae, diocesi del tardo Impero romano, che si estendeva sulle province del Nord Africa, escluso l'Egitto, e in tale qualità ricevette un rescritto imperiale, conservatosi nel Codice teodosiano.

Il proprietario della Domus Gaudentii è stato dunque identificato con il Gaudentius che possedette una villa sul Celio, eretta tra la Basilica Hilariana e la domus dei Simmaci, dove si suppone venne rinvenuto anche l'Antinoo Casali.
Il definitivo abbandono della domus potrebbe risalire al 480-550, ma potrebbe essere stato chiuso attorno alla fine del VI- inizi del VII sec.

Ma pur sopravvivendo qualche attività dalla calata barbarica dei Visigoti e forse dai Vandali, nel VI secolo termina l'urbanizzazione  ed anche la Basilica Hilariana e la Domus di Gaudentius  risultano  definitivamente
abbandonate e interrate.

Il successivo crollo  delle  strutture  che ancora si elevavano  sopra il  livello  del  suolo fu forse
determinato,  almeno in parte e in alcuni settori, da terremoti: qualche indizio stratigrafico farebbe
propendere per il sisma del 618.

Alla  vicenda  della  progressiva destrutturazione  dell'abitato nell'area dell'Ospedale Militare si
intreccia il fenomeno dell'utilizzo della stessa area come necropoli. Le tombe, almeno 13 di
cui almeno 3 infantili, sono locate nell'ex edificio commerciale del settore Nord-Est e in una delle insulae prospicienti, tagliano in genere interri  del V o VI secolo.
                                           
II nome latino, che non  ci è stato tramandato dalle fonti, risale ad un'ipotesi di Colini (COLINI 1944, p. 75 ss.), tuttavia verosimile, poiché questa strada, che percorreva la spianata sommitale del colle, può essere stata considerata in antico la più importante del Celio. Per una sintesi su quanto è noto finora (la Basilica, già scoperta alla fine dell'800, è stata più estesamente scavata fra il 1987 e il 1989, ma non scoperta per intero), v. PAVOLINI 1990.

In uno strato di abbandono della basilica si è rinvenuto un frammento di vaso vitreo con iscrizioni nella tecnica a sfoglia d'oro, in cui è chiaramente leggibile il nome SYMMACHVS. Cod. Theod., XVI, 10, 20, 2. II nome del proprietario ci è conservato da una tabella a mosaico databile nel IV secolo: probabilmente il Gaudentius amico di Simmaco e  vicarius  Africae nel 409.

Ma importante soprattutto un mattone bollato SYM[MACHI] forse dovuto a fasi tarde di restauro della residenza eseguite utilizzando anche laterizi usciti da fornaci di proprietà della potente famiglia con la quale i Gaudentii avevano rapporti di vicinato e di amicizia."

(PACETTI-SFRECOLA 1989)

VICUS IUGARIUS
Quanto alle tipologie tombali, si va dalle fosse semplici a quelle rivestite di laterizi, dalle sepolture entro anfore, già citate, al singolare caso di una tomba che sfrutta un'intercapedine preesistente 21, e che viene utilizzata prima per l'inumazione di due individui adulti, poi per una famiglia composta da due adulti e da un bambino, evidentemente uccisi insieme, dalla guerra o da un'epidemia. Di qui venivano tre ampolline vitree, databili alla fine del V o al VI secolo.

La quasi totalità delle tombe si inserisce all'interno di complessi abbandonati disposti lungo tre direttrici viarie. Una di queste è una parallela della “via Caelemontana”, le altre due sono l'arteria che attraversa il saggio nel settore Nord-Est e la strada che delimita a Ovest il saggio nel settore centrale. Sembra che, mentre la rete stradale "minore" cadeva in abbandono contemporaneamente al tessuto delle insulae, qualche percorso più importante restava in uso, almeno per il momento. In tal senso, alle vie citate vanno aggiunte senza dubbio la “Caelemontana” stessa (conservatasi fino ad oggi come Via di S. Stefano Rotondo) e il vicus Capitis Africae, come già sappiamo.

Con l'andar del tempo questo processo di selezione viaria si fece più drastico. Infatti, dal momento in cui cessano le attestazioni della fase di necropoli sopra descritta, i settori interni del quartiere, con le vie destinate a servirli, non sembrano più in alcun modo frequentati, neanche a scopi di seppellimento. All'interno della cinta dell'Ospedale Militare l'unica eccezione è la strada che attraversa il saggio nel settore Nord-Est: della sua possibile funzione urbanistica in età alto-medievale diremo fra poco; dal punto di vista archeologico constatiamo intanto che la via venne ciclicamente rialzata, con interventi di rifacimento che segnano il trapasso dalla tecnica basolata (ancora in uso nella fase databile al IV-V secolo) a quella degli acciottolati (impiegata per la prima volta nella ristrutturazione dell'VIII secolo.  

Anche dai settori  attigui  alla carreggiata stradale  vengono  alcune conferme della continuità di frequentazione di questa parte del quartiere: rimpianto di una calcara e le tracce di precarie attrezzature forse per il ricovero del bestiame, che tagliano gli strati di VI-VII secolo. In effetti è probabile che  una  limitata attività pastorale fosse,  nei secoli  dell'alto Medioevo, fra i pochi segni di vita avvertibili in quest'area che faceva  ormai parte dell'immediato suburbio di Roma, non diversamente dal vicino sito di Piazza Celimontana, del cui stato di totale abbandono abbiamo già detto.

Si può immaginare che la zona ricadesse, in forme che rimangono però tutte da indagare, nella sfera d'influenza degli enti ecclesiastici, i soli attivi e in crescita in questa parte del "disabitato" in  tal  caso la persistenza di frequentazione  della località  corrispondente al settore Nord-Est dell'Ospedale potrebbe essere ipoteticamente  spiegata  con la vicinanza di un  polo come quello rappresentato dai SS. Quattro.

Se ora, dalle aree di recente indagine, allarghiamo il discorso al più vasto contesto celimontano, ci accorgiamo che lo stesso processo di "riduzione" del tessuto viario che abbiamo riscontrato trattando dei settori di scavo dell'Ospedale Militare può valere per l'insieme del paesaggio urbanistico del colle in età alto-medievale. Del resto, ciò che abbiamo appena detto circa le condizioni del Celio in quest'epoca spiega come mai la sua rete stradale, assai ramificata nella fase di  massima urbanizzazione in età romana, si  presentasse ora ristretta a pochi camminamenti,  peraltro  tutti di origine classica.
                                         
Quella fra la fontana d'ingresso della grande domus nel settore centrale e il  muro esterno del sottoscala dello stesso edificio, verso la strada.

La durata d'uso delle pavimentazioni romane in basolato nelle città tardo-antiche sembra essere stata considerevolmente diversa da luogo a luogo. Vi sono  esempi (Luni, Ravenna, ecc.) di una loro sostituzione con battuti di terra  già nei secoli IV-VI (PAVOLINI c.s. b). Secondo B. Ward-Perkins, tuttavia, a Milano e a Verona nel'VIII sec. vi  erano ancora strade selciate in blocchi, benché in cattivo stato (WARD-PERKINS 1984, p. 185 s.), e ciò potrebbe essere in  accordo con la documentazione proveniente dai siti di scavo del Celio, che indicherebbe l'VIII-IX sec. come l'epoca in cui per la prima volta si sostituiscono i basolati con pavimenti in  tecniche diverse: si  veda, oltre  al dato del saggio  nel settore Nord-Est dell'Ospedale Militare, anche quello menzionato sopra e riguardante la prima fase di massicciata  del  vicus Capitis Africae post-classico.


Impossibile  riassumere qui le  complesse problematiche e la ricca  bibliografia  concernenti  ciascuna delle grandi fondazioni paleocristiane che citeremo, necessariamente di sfuggita, negli ultimi paragrafi di questo contributo. Dei SS. Quattro sarà sufficiente dire che il luogo di culto è noto, come titulus Aemilianae, fin dalla fine del V secolo, e che un momento centrale della sua vicenda fu la costruzione o ricostruzione della basilica da parte di Onorio I nel 625-638 (v., per la più recente sintesi sulla storia del complesso, BARBERINI 1989). planimetria ricostruttiva relativa ad un'epoca molto più tarda di quella in esame, cioè agli anni attorno al 1300: non si tratta di una forzatura, poiché una serie di dati di fatto e di indizi sembra mostrare che, nei suoi elementi di fondo, la situazione stabilizzatasi attorno all'VIII secolo non subì sostanziali mutamenti per tutto il corso del Medioevo.

I tracciati superstiti appaiono ora finalizzati ad assicurare le connessioni fra le principali strutture ecclesiastiche. Il nome di via Maior indica chiaramente che la priorità era accordata all'asse stradale di fondovalle che collegava il centro della città e il Vaticano al nuovo polo urbanistico rappresentato dai palazzi lateranensi; esso venne valorizzato anche con la costruzione della basilica inferiore di S. Clemente. Da tale località la Strada Maggiore si biforcava, dando luogo, a destra,  alla via, un tratto della Tusculana romana, diretta ai SS. Quattro, e di qui a S. Giovanni.

Per la ricostruzione della rimanente viabilità ci sono in parte di aiuto le attestazioni archeologiche, ormai disponibili in più punti e sopra elencate. Al centro della pendice Nord del colle individuiamo ipoteticamente un incrocio fra il vicus Capitis Africae e una strada Est-Ovest, forse destinata a collegare la Basilica dei SS. Giovanni e Paolo con l'area dei SS. Quattro: non è altro, infatti, che la prosecuzione ideale della via documentata nel settore Nord-Est dell'Ospedale Militare.

Un indubbio centro di interesse urbanistico sopravviveva sulla sommità del Celio, dove il nodo stradale romano della Navicella manteneva la sua funzione. Qui, il vicus Capitis Africae confluiva nell'antica arteria, più volte menzionata, costituita dalla “ via Caelìmontana ” e dalla sua prosecuzione denominata clivus Scauri, che collegava il Laterano con i complessi dei SS. Giovanni e Paolo dei SS. Andrea e Gregorio. Questo percorso potè essere  conservato anche perché  coincideva in parte con quello dell'Acquedotto Claudio-Neroniano, ancora funzionante e a lungo restaurato nel Medioevo.

La  creazione di S.  Stefano Rotondo  alla fine del V secolo era stato un momento importante
nell'opera di potenziamento di questo asse viario. E’ carica di suggestioni la proposta di Krautheimer, che la fondazione di questa chiesa facesse parte di un programma  volto a rafforzare il fulcro del
Laterano quale nuovo cuore del governo cittadino: il programma si sarebbe articolato nell'istituzione ex novo, entro un miglio di distanza dai palazzi pontifici, di una corona di grandi basiliche nelle quali il papa compiva periodicamente solenni funzioni liturgiche, per richiamarvi il popolo.
                                           
Questa, secondo il recentissimo e dettagliato riesame di F. Guidobaldi, è databile preferibilmente nei primi due decenni del V secolo, anche se una cronologia attorno all'ultimo decennio del IV non può essere del tutto esclusa (GUIDOBALDI 1992, p. 156). L'importanza attribuita alla basilica  traspare  dal  fatto  che nelle fasi cronologiche  immediatamente successive, e anche in periodi, come il VI sec., molto difficili per la vita cittadina, i pontefici non cessarono di dotare la chiesa e i suoi annessi di nuovi e preziosi arredi e decorazioni, in  ispecie  pavimentali: cfr. ibid., p. 159 ss., per la basilica propriamente detta, e p.  261 ss. per il pavimento in opus sectile di VI secolo recentemente rinvenuto in una delle attuali cantine del convento (vano attribuito da Guidobaldi a un possibile secretarium, utilizzato dal papa allorché si recava in processione liturgica a S. Clemente).

Che il toponimo si  fosse conservato almeno  fino  all'VIII-IX secolo è attestato dalla menzione dell'Anonimo di Einsiedeln (VALENTINI-ZUCCHETTI 1940-1953,  II, p. 196 s.), il  quale  annovera il  Caput Affricae fra le realtà urbane poste a destra del percorso dall'Arco di Severo al Laterano.

In quest'epoca il  toponimo doveva indicare, più che la zona in generale, soprattutto la via:  sulle prove  archeologiche della persistenza di quest'ultima dopo l'età romana, v. supra.

L'esistenza di tale incrocio è un  elemento importante della ricostruzione  che della topografia dell'area fa G.  Gatti nell'articolo già citato (GATTI 1882), con una complessa argomentazione che non può essere qui ripresa, anche perché relativa ad un'epoca più tarda (la fine del sec. XIII). Ma mentre il ragionamento dello studioso della fine dell'800, basato sulle sole fonti  d'archivio, era totalmente ipotetico,  ora un  primo possibile indizio della sua veridicità è emerso  dagli scavi dell'Ospedale Militare: appunto il tratto di strada del settore Nord-Est. La pianta, in sostanza, é quella delineata da Gatti (GATTI  1882, Tav.  d'agg. X);  la rielaborazione tiene conto di questo e di altri  dati  provenienti dalle recenti indagini, e dell'insieme delle informazioni di varia fonte che si sono rese disponibili nel frattempo.

VICUS IUGARIUS
II "problema critico" costituito da questo monumento è dibattutissimo: sulla fase di  fondazione v. comunque, fra l'altro, KRAUTHEIMER et al. 1937-1975, IV, p. 199 ss.; CESCHI 1982, p. 18 ss., e, con una diversa interpretazione, DAVIS-WEYER 1989. KRAUTHEIMER 1980, p. 56 ss.; KRAUTHEIMER 1987, p. 184 ss.Ma, se mai ebbe davvero  luogo, il  tentativo di suscitare attorno alla sede lateranense un  "borgo ecclesiastico" in grado di competere con quello vaticano non riuscì. Per quel che riguarda il Celio, a partire dal VI-VII secolo, come l'archeologia documenta ormai largamente, e lo si è visto, il nostro colle è ormai separato sia dalla città propriamente detta, sia dal Laterano, ridotto ad un piccolo nucleo di case stretto attorno al  palazzo pontificio.

Il paesaggio è  dominato da poche emergenze, monumentali ma isolate (a prescindere, forse, da qualche altro limitato gruppo di abitazioni nelle adiacenze delle chiese o dei conventi, come nel caso di S. Erasmo: v. nota 34). Al massimo, col tempo, nuove strutture ecclesiastiche si aggiungono a quelle già esistenti. Si data nel VII o tutt'al più nell'VIII secolo la fondazione dell'unica diaconia nota sul Celio, quella di S. Maria in Domnica, che non a caso sceglie per il proprio insediamento il sito della Navicella, dove fra l'altro può utilizzare l'acqua Claudia.

Farei l'ipotesi che i servizi assistenziali costituenti il fine precipuo delle diaconie fossero in questo caso rivolti non tanto ai poveri della zona (per la verità scarsa di abitanti), quanto ai  pellegrini,  che, provenendo da S.Giovanni o  da fuori Roma,  potevano convergere per vie diverse nella zona della Navicella, per poi dirigersi in città attraverso il clivus Scauri.

Le chiese, di origine ormai antica o  di  nuova fondazione, sono  insomma i soli organismi  vivi e operanti nel nostro territorio, ma non senza momenti di grave difficoltà,  uno  dei quali  va  certamente posto attorno all'VIII secolo: solo  una situazione di generale deterioramento  può infatti spiegare la campagna di restauri cui gran parte delle chiese del Celio viene sottoposta su impulso  dei papi  della cosiddetta "rinascita carolingia", fra la fine dell'VIII e la prima metà del IX secolo (da San Clemente ai SS. Quattro, da S. Stefano Rotondo a S. Maria in Domnica e ai SS. Giovanni e Paolo).

Anche durante o subito dopo l'età carolingia nuove strutture ecclesiastiche si vengono insediando nella parte del Celio sulla quale abbiamo concentrato la nostra attenzione. In alcuni casi si tratta di piccoli edifici, successivamente scomparsi e di incerta ubicazione e identificazione, quali un oratorio sanctae Agathae martyris qui ponitur in Capud Africi, citato una sola volta in relazione al pontificato di Leone III, o l'enigmatico oratorio affrescato di Papa Formoso, per il quale ho proposto un'ubicazione sulla pendice digradante dalla terrazza del Templum Divi Claudii verso l'Anfiteatro, all'interno della struttura romana nota come “ rudero dell'Orto Botanico ”.

Dimensioni ben maggiori ha fin  dall'inizio, o assumerà  col tempo, l'ultima  fondazione religiosa
probabilmente alto-medievale sul Celio, che è poi, in assoluto, anche l'ultima istituzione ecclesiastica
importante ad insediarsi sul  colle o ai suoi  margini: il monastero di S. Tommaso  in  Formis.  Non
fortuitamente si installa anch'esso in quel sito centrale nel corso di tutta la storia del Celio che coincide con il nodo orografico e viario della Navicella.

L'ipotesi che questo organismo ecclesiastico esistesse già nel VII sec. si trova fra l'altro in COLINI 1944, p. 231 s. Comunque S. Maria in Domnica è citata dall'Anonimo di Einsiedeln e certamente attestata all'epoca di Leone III: v. anche KRAUTHEIMER et al. 1937-1975, II, p. 311 ss. .

Poiché di questo oratorio non si ha più notizia dopo l'alto Medioevo, mentre dal 1050 si comincia a parlare di un S. Stephanus in Capite Africae, ha forse ragione il Duchesne (in Lib. Pont, /oc. cit.) allorché suppone che possa esservi stato un cambio di nome, o che la seconda struttura possa essersi sostituita alla prima. Quanto alla ipotetica ubicazione di S. Stephanus in Capite Africae, chiesetta anch'essa scomparsa, (si sarebbe trovata all'incrocio, già citato, fra il  vicus omonimo e la traversa in  direzione dei SS. Quattro: v. GATTI 1882, e la rielaborazione di tutta la problematica in PAVOLINI c.s.a).

Scoperto nel 1689 dal Ciampini, ma in seguito non più rinvenuto, e oggetto, da parte di molti studiosi, di erronee localizzazioni, delle quali fa giustizia in  parte COLINI 1944, p. 141 s. Per i motivi, v. PAVOLINI c.s.a, e una comunicazione da me tenuta nella sede dei Seminari di Archeologia Cristiana nell'aprile 1992, il cui riassunto è in corso di stampa nella “Rivista di Archeologia Cristiana”.

COLINI 1944, p. 155 ss.vantaggioso in primo luogo per la possibilità di approvvigionarsi di acqua: un problema  cruciale nel Medioevo. Il nome stesso del nuovo luogo di culto significa “ presso l'acquedotto ” (Forma Claudio o  Claudiana nell'Età di Mezzo, mentre  formae,  al plurale,  sono le arcate dell'acquedotto  stesso, incorporate nei fabbricati del convento). Ed è indubbio che tale vicinanza fu una delle premesse della crescita di S. Tommaso, come era già avvenuto per le chiese attigue di S.  Stefano Rotondo e di S. Maria in Domnica.

Quanto  alla cronologia  delle  origini del  monastero, è  vero  che  una menzione esplicita di quest'ultimo si ha solo alla fine dell'XI secolo, ma un documento del 1050 nomina già un Abbas Sancii Thomae, che  non può  venir riferito a nessun'altra  abbazia romana:  e  che vi fosse  qui un abate è indizio di un organismo già strutturato e di una certa importanza anche economica, il che ha autorizzato alcuni studiosi a formulare l'ipotesi di un'origine del convento nella prima metà dell'XI secolo, se non addirittura nel X

La sua nascita, in un momento oscuro, per il quale abbiamo scarse notizie sulle altre chiese del Celio, o ne abbiamo di negative, può comunque essere interpretata, in "controtendenza", come un segnale di  vitalità. Anche per la posizione tipicamente dominante di S. Tommaso nel contesto celimontano, l'esistenza dell'abbazia (poi convento- ospedale dei Trinitari) dovette riflettersi positivamente fin dall'inizio, e con sicurezza si riflette nei secoli successivi, sulla vita economica del colle nel suo insieme.

 ( CARLO PAVOLINI)



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