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META AUGUSTEA

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RICOSTRUZIONE DELLA META AUGUSTEA

Citata da Seneca in "Lettere a Lucilio", 56, la meta sudans augustea era una fontana dell'era augustea, fatta costruire proprio da Augusto, che prendeva il nome dalle mete del circo. Si dicevano mete, in un anfiteatro, le due estremità della spina centrale dell’arena, costituite da un identico elemento architettonico in forma di cippo conico o di obelisco, arricchito talora di sculture e altri ornamenti. Nelle gare di corsa i carri trainati da cavalli dovevano percorrere l’arena lungo un lato della spina avendo superato la meta, per poi percorrerla in senso inverso sull’altro lato fino all'altra meta.

Nelle mete (metae) dei circhi la parte terminale dei coni era sempre sormontata da un elemento decorativo, spesso un uovo, oppure un delfino, come dimostrano alcuni mosaici o bassorilievi, sul valore simbolico della forma, l'uovo rimanderebbe al culto dei Dioscuri, e i delfini al culto di Venere.In era augustea questa meta era un punto di riferimento per i cortei trionfali, i quali risalivano la valle tra il Celio e il Palatino per poi piegare, in sua corrispondenza, lungo il percorso della Via Sacra.

Si tratta dei risultati delle indagini condotte nell’area tra il 1986 e il 2003 dal Dipartimento di Scienze dell’Antichità dell’Università di Roma “Sapienza” dirette da Clementina Panella. 

IN ROSSO IL LUOGO ESATTO IN CUI RISIEDEVA LA META AUGUSTEA VICINO ALLA
SUCCESSIVA META SUDANS O META FLAVIA


LA LOCAZIONE

La Meta Sudans, costruita in età Flavia, si ergeva fra il Colosseo e l'arco di Costantino, fino alla demolizione fascista, ma dagli scavi del 1986, diretti da Clementina Panella, sono stati ritrovati resti di una Meta di età Augustea antecedente la Meta Sudans, tale monumento è la Meta Augustea. L'indagine archeologica, condotta dal dipartimento di Scienze storiche, archeologiche e antropologiche dell' Università «La Sapienza», con finanziamento della Bnc e sponsor il Rotary Club, ha reperito i pezzi antichi della "meta" crollati per le attività di spoliazione avvenute in epoca medievale e moderna.

La Meta, alta dai 14 ai 16 m, era il crocevia più simbolico della città, dove si incrociavano le vie principali di Roma e dove passavano le più solenni processioni dirette al colle Palatino, ove giacevano le fondazioni di Roma e dove era omaggiato il primo re Romolo, divinizzato Quirino.

Le due importanti strade che qui convergevano erano la via valle-Foro e via Circo Massimo- Esquilino, a cui si erano aggiunte, convergendo sull'incrocio, ad Est la via Tusculana e a SE una strada proveniente da Porta Capena che costeggiava a ovest il Celio. Qui esplose l’attività edilizia, con basolati stradali di età augustea, tiberiana e claudia, e con fognature in cementizio, in travertino, e in laterizio, ma soprattutto con le domus, prima in opera reticolata e poi in laterizio. 

In zona il recinto delle Curiae Veteres appare riedificato in laterizio ed accoglie al suo interno una platea e un’ampia gradinata in travertino verso il Palatino. In quest’area sacra e di fronte ad essa nella valle si registrano i più importanti rinvenimenti.


EDICOLA DEI SUONATORI DI STRUMENTI DI BRONZO: AENATORES,
TUBICINES, LITICINES E CORNICINES CON DEDICHE AD AUGUSTO,
NERONE, CLAUDIO E AGRIPPINA (clicca per ingrandire)
All’interno delle Curiae:

- dediche da parte dei suonatori di strumenti in bronzo di statue ad Augusto e ai suoi familiari prima sulla platea (dal 12 a.c.), poi (nel 42 d.c.), e poi in un’edicola.
- ricostruzione da parte dell’imperatore Claudio di un tempio bruciato tra il 51 e il 54 d.c., forse il sacrario del Divo Augusto dedicato, a detta delle fonti letterarie, dalla moglie Livia nel 26 d.c nella casa natale del principe;


Di fronte all’ingresso delle Curiae:

- la prima Meta Sudans, alta 16 metri e con vasca rettangolare che accoglieva un'esedra su ciascuno dei lati lunghi. La forma del saliente ricorda le mete del circo. Il monumento è sul vertice di quattro (o cinque), delle 14 regiones in cui Augusto aveva diviso nel 7 a.c. e dovrebbe risalire a questa data. Danneggiata dallo stesso incendio che aveva distrutto tra il 51 e il 54 d.c. il tempio nelle Curiae Veteres, la Meta venne completamente ricostruita in età claudia;
- costruzione di un piccolo podio attribuibile ad un compitum (edicole dedicate ai Lari poste sui crocicchi a protezione dei quartieri), addossato alla vasca della fontana (forse il compitum Fabricium noto dalle fonti epigrafiche).


Gli edifici che occupavano le pendici del Palatino verso la valle nella loro sistemazione di età claudia (51-54): all’interno del recinto le Curiae Veteres il tempio restaurato da Claudio, la base in bronzo della statua di Tiberio e l’edicola dedicata ad Augusto e agli imperatori giulio-claudi; di fronte agli ingressi del santuario la Meta augustea e il piccolo compitum.  

CAVE ROMANE DI TUFO A MONTEVERDE

IL PROTOTIPO

La meta di età augustea diventò da allora il prototipo di una serie di fontane monumentali che avrà nella più nota Meta Sudans di età flavia il suo esempio più rappresentativo e ispirerà fontane simili anche nell’Africa Settentrionale, come a Thougga e a Cuicul. 
Le fontane provviste di alta meta venivano di solito poste all'incrocio di strade importanti; non solo a Roma ma in tutto l'Impero, come testimoniano diverse monete a Nicopoli e a Corinto, anche se ivi non sono state rinvenute tali fontane, che del resto potrebbero essere state del tutto distrutte. Le fontane-meta però, oltre ad essere edificazioni reali, erano simbolo dei monumenti dell’Urbe. 
 
LA FONTANA AUGUSTEA

Si tratta di una costruzione circolare di 3,20 m di diametro, con altezza  di circa m. 16; costituita da conci di tufo litoide rosso legati con grappe in piombo, di cui si vede oggi soltanto una porzione: il resto è ancora coperto dalle terre di riempimento di un cunicolo altomedievale e di una fossa rinascimentale. I due pavimenti sovrapposti testimoniano la fase augustea ed un completo restauro di età claudia, conseguente ad un incendio che distrusse questa parte della città tra il 51 e il 54 d.c.
I resti attuali della fontana appartengono al restauro dell’età di Claudio, una fontana molto più grande della precedente, la cui trasformazione riguardò anche il piano stradale, che venne rialzato di m 0.80, affossando completamente la vasca. Per  la fontana, vennero sostituiti i blocchi più danneggiati dall’incendio,  riutilizzando gli elementi della fontana originale. 
La fontana non era di grandi dimensioni: i lati paralleli del bacino con i marmi dovevano essere rispettivamente di m 4.40 x 5.40. La forma irregolare del bacino è data dalle costruzioni vicine. Essa disponeva di una vasca rettangolare, con pavimentazione in cocciopesto rivestito di marmi, leggermente allargata, a metà dei lati lunghi, da due esedre contrapposte, in origine rivestita da lastre di marmo. 

Il primo pavimento, visibile in sezione in diversi punti, viene gettato su un massetto in cementizio che si appoggia ai blocchi del I filare del saliente e alle lastre del parapetto. Il nuovo rivestimento del fondo della vasca, sempre in opus signinum, realizzato in età claudia, rialza ulteriormente la quota pavimentale di una decina di centimetri. Quest’ultimo strato pavimentale, perfettamente conservato, presenta lungo i bordi un cordolo per  l’impermeabilizzazione al raccordo con il rivestimento verticale dei parapetti, sempre realizzato in cocciopesto. Un cordolo analogo impermeabilizza il contatto tra il fondo della vasca e i blocchi emergenti del saliente.

Un incasso rettangolare praticato ad Est nello strato di cocciopesto (cm 60 x 40, profondità cm 12), con un perno metallico al centro, fissava probabilmente un elemento decorativo, perduto. Il bordo esterno della vasca, tutto in travertino, poggia su una fondazione in conglomerato che ne ricalca il disegno. Di codesto bordo restano due grossi blocchi, una lastra e un piedritto, entrambi appartenenti alla costruzione di epoca augustea, sul lato breve occidentale. La lastra emergeva di circa un metro dal basolato stradale, col rialzamento di livello successivo all’incendio del 50 d.c.  si rese necessaria una sopraelevazione del parapetto, sovrapponendo un altro filare di pietre, alto cm 30.

Al centro del lato breve ovest, sulla linea del parapetto si trova un piccolo pilastro in travertino di sostegno di una fistula in piombo che alimentava una fontanella accessibile dalla strada. Il pilastrino (cm 62 x 46, h cm 170), è più alto di cm 18 rispetto alle lastre che lo affiancavano ed è saldato a queste da una colatura di piombo impermeabilizzante che riempie un’apposita canaletta verticale.

Accanto alla Meta, resta un piccolo vano di distribuzione dell' acqua, di cui sono rimasti due blocchi sovrapposti di travertino con tracce dell' incasso di una «fistula» in piombo, fissata con grappe di ferro. Della vasca rettangolare due pavimenti sovrapposti testimoniano la fase augustea ed un restauro di età claudia, dopo un incendio che distrusse questa parte della città e il monumento tra il 51 e il 54 d.c. Il bordo in travertino, quasi del tutto asportato nel Medioevo, si componeva di lastroni alti circa 1 m. alternati a pilastri più alti con fistulae verticali e bocche di fontana bronzee da cui uscivano zampilli che ricadevano nella vasca.


IL SALIENTE

Del saliente (saliente è una successione di spioventi posti a differenti altezze), posto al centro della vasca, rimane oggi un tamburo in conci di tufo litoide lionato, il tufo generato dal vulcano dei Colli Albani, in opera quadrata, con fondazione a piattaforma circolare e nucleo interno in cementizio a protezione del sistema idraulico, cioè una grande tubatura proveniente da Nord sotto la vasca e connessa al tubo verticale che portava l’acqua alla cima del monumento.

Grazie ad alcuni elementi architettonici in marmo bianco di Carrara possiamo ricostruire l’immagine del saliente, che doveva essere rivestito con blocchetti rettangolari a imitazione dell’opera isodoma e suddiviso in tre parti:

- il tamburo cilindrico, più alto di quanto sia oggi conservato, del diametro di m 3.55 (12 piedi), è coronato da un fregio dorico con fascia a singoli fiori e metope imitanti le lastre in terracotta, sormontato da una cornice non decorata; 

- l'elemento tronco-conico, cioè un elemento di diametro inferiore collocato sopra ad esso, con una cornice analoga alla precedente; Il saliente cilindrico,  è realizzato da una corona circolare in opera quadrata di blocchi lapidei con riempimento in conglomerato cementizio.. Le superfici esterne non sono mai state rivestite né da lastre né da intonaco o cocciopesto; sono lavorate a scalpello e i bordi sono trattati più finemente a subbia. 

- un terzo elemento a pianta dodecagonale, sui cui lati scorreva l’acqua fino a ricadere nella vasca.

- sulla sommità doveva esserci un fiore, una palla o un altro elemento decorativo. 

Una lastra curvilinea di epoca augustea, probabilmente appartenente al parapetto dell’esedra meridionale, molto danneggiata dall’incendio, è stata riusata nell’età di Claudio come tombino di chiusura di un pozzetto fognario posto all’esterno della vasca, sul lato meridionale.

I RESTI DELLA META AUGUSTEA

IL COMPITUM

A sud della vasca sono stati rinvenuti i resti di una struttura a pianta rettangolare: un basamento o podio di m 3.30 x 2.70, realizzato con blocchi di tufo rosso lionato, tutti di riuso. La costruzione si conserva solamente per tre dei quattro lati. Il basamento poggia direttamente sul basolato stradale, che è successivo alle lastre del parapetto. La strada in questo punto è in forte pendenza si che il primo filare che compone il podio è inzeppato con piccole pietre, per ristabilire un piano orizzontale.

La struttura del compitum è costituita da una cassaforma con i 4 lati realizzati da 2 filari in opera quadrata e riempimento misto di terra e scaglie di marmo; la pavimentazione superiore era costituita da lastroni di travertino. Il rivestimento orizzontale era formato da tre lastre, accostate tra loro e poggianti sui lati contrapposti del podio. Il piano superiore del basamento era recintato da una transenna, probabilmente in travertino, i cui pilastrini si incuneavano nello spessore delle stesse lastre pavimentali. La presenza della transenna è confermata dal ritrovamento di una delle borchie in pietra scura che dovevano decorarla.

I blocchi sono montati a secco, e il nucleo della struttura è composto da terra e scaglie di marmo e travertino; al di sopra poggiava una pavimentazione in lastre di travertino. Una scaletta, anch’essa in travertino, addossata al lato ovest, consentiva l’accesso al piano superiore del podio.

Un elemento determinante per la ricostruzione del piccolo podio accostato al parapetto della vasca è, un frammento di lastra pavimentale in travertino con incassi, rinvenuta sulla sommità del compitum, di cm 58 x 62, h cm 19. Presenta due notevoli incassi sui lati integri, adatti ad ospitare transenne in pietra. La superficie piana è liscia, mentre le parti verticali sono lavorate a scalpello in modo molto grossolano.


Durante le campagne di scavo del 2002/2003 sono stati rinvenuti diversi elementi architettonici appartenenti al rivestimento marmoreo della fontana e al parapetto della vasca.

- La trabeazione, comprendente architrave e fregio a triglifi, appartiene alla lastra di rivestimento terminale del tamburo cilindrico della fontana. Ricomposto da 8 frammenti, è lungo cm 60.2, e alto cm 28..
L’architrave reca decorazioni a bassorilievo rappresentanti fiori di diversa foggia; inoltre, è coronato da una taenia liscia, alta cm 1.5, sotto alla quale e in corrispondenza dei triglifi, vi sono regulae con guttae sovradimensionate (h 1.5 cm, come la taenia) e di forma troncoconica, di tradizione tardo ellenistica.

- Il fregio, alto cm 16.5 compreso il capitello del triglifo, comprende 2 triglifi interi, ampi cm 13.5, una metopa intera (cm 17.3 x 14.3) e le due laterali non complete. Anche le lastre delle metope recano un’elaborata decorazione con fiori a quattro petali inquadrati da girali vegetali e palmette. Il diametro esterno del blocco (m 3.56) è perfettamente compatibile con quello del tamburo in tufo in situ. Le dimensioni dei triglifi e quelle delle metope consentono di ricostruire il perimetro della fontana con una fascia decorativa costituita da 36 metope e 36 triglifi.  La lavorazione, non molto accurata, è a scalpello; l’anathyrosis è presente solo su uno dei lati brevi.

- Le Cornici
Il gruppo più consistente è quello delle cornici (2 blocchi interi e 2 frammenti) la cui successione degli ornati è quella consueta: listello, gola diritta, fascia, cavetto, con esecuzione poco accurata. I blocchi interi e il frammento sono in marmo di Luni, rifiniti a gradina e scalpello con anathyrosis sui lati brevi.

La cornice è alta cm 11.5 per un diametro alla base di m 3.25. La finitura del piano superiore dei blocchi suggerisce che al di sopra di questi poggiasse una struttura poligonale, che lasciava a vista la fascia liscia periferica delle cornici. Gli elementi rinvenuti sono pertinenti ad un rivestimento in lastre marmoree che doveva ricoprire il settore troncoconico della fontana, simulando un’opera isodoma.

- La Scala di accesso
Delle superfici verticali del podio del compitum augusteo, una era a contatto con le strutture adiacenti, un’altra era occupata dalla scalinata di accesso; pertanto solo due dovevano essere visibili dalla strada e quindi quasi certamente rivestite da lastre marmoree. Con il restauro di Claudio e il relativo rialzamento del basolato stradale, anche il podio del compitum venne in gran parte interrato, emergendo soltanto di cm 30-35 dal nuovo piano di calpestio.

RESTI MARMOREI DELLA META AUGUSTEA

I RESTI

Gli otto elementi architettonici della fontana sono tutti in marmo di Luni, con lavorazione poco accurata con incassi per grappe e con una leggera scialbatura bianca (calce e polvere di marmo) per coprire i segni delle bruciatura e di calcificazioni provocati dall’esposizione al fuoco.

Pertanto, gli elementi, pur appartenendo tutti al rivestimento della fontana ripristinata in età claudia, provengono da quella di età augustea. A questi elementi si aggiunge però un ulteriore frammento, rinvenuto riutilizzato nel restauro di età claudia come tombino di un pozzetto di ispezione di un condotto fognario precedente la costruzione della fontana.


Grande lastra marmorea 

La lastra, in travertino, alta m 1.43, si conserva per una lunghezza massima di cm 69. La superficie esterna, perfettamente liscia, è superiormente rifinita da una cornice di coronamento, alta cm 20, costituita da fascia, gola diritta, ovolo, tondino. La specchiatura al di sotto presenta un occhio apotropaico. Sulla faccia verticale di contatto del lato finito è presente un lungo incasso verticale, una sorta di canaletta nella quale veniva colato il piombo che saldava fra loro due lastroni contigui, rendendo la giunzione  stagna. Riguardava sicuramente il parapetto della vasca di età augustea che, essendo troppo rovinato, venne reimpiegato come lastra di copertura del condotto fognario.

Per l’elevato i resti conservati sono una corona circolare in blocchi di tufo con un riempimento in conglomerato cementizio. La parte inferiore, all’interno della vasca, non doveva essere visibile e non necessitava quindi di decorazione marmorea, ma quella emergente dell’acqua prevedeva un rivestimento.

Su tutti i blocchi recuperati sono stati riscontrati, nel lato posteriore, gli incassi, anche di notevole dimensione, per le grappe a Π che dovevano collegarli alla struttura del saliente. L’elevato continuava con un’opera a blocchi di tufo, sfalsata rispetto al filo del saliente.

Il nucleo interno doveva avere una parte vuota centrale per il passaggio delle condutture idrauliche atte a portare l’acqua sulla sommità della fontana, ma è possibile che  la meta più antica non prevedesse un passaggio d’acqua.

Il bordo del lacus, conservato per un lungo tratto a Nord-Ovest, è costruito con grosse lastre in travertino legate fra loro, all’esterno  decorate con  modanature sul bordo superiore. Dopo l’incendio  le lastre rovinate vennero sostituite e sopra queste fu collocato un cordolo in travertino. Uno di questi lastroni orizzontali è stato trovato accanto al pilastrino al centro del lato corto ovest.



LECTISTERNIO

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VENERE E MARTE SUL TRICLINIO (Pompei)
Il Lectisternio era un convito sacro a cui venivano invitate le divinità sotto forma di statue che venivano fatte poggiare su dei "pulvinar" , con il braccio sinistro appoggiato su un cuscino (pulvinus), da cui il nome del letto: "pulvinar", una sorta di triclini.

Era dunque detto "pulvinar" il letto su cui si ponevano le immagini degli Dei nelle cerimonie religiose perché partecipassero ai banchetti e ai giochi sacri, ma, per estensione, il nome fu dato al letto imperiale e soprattutto al palco da dove l’imperatore assisteva agli spettacoli nei circhi e negli anfiteatri.



LE STATUE

Le statue del lettisternio ovviamente non erano in marmo ma in materiale molto più leggero, secondo la maggior parte degli autori era in legno, secondo altri in giunco rivestito di fango, secondo altri ancora fatti di paglia con forma vagamente umana.

Non si può onestamente pensare che i romani, che pitturavano il prezioso marmo per rendere verosimili gli Dei, e che li vestivano con vesti preziose, in una ricorrenza così importante e vitale usassero dei meri fantocci.

Le statue erano sicuramente di legno leggero, ricoperto a calce e dipinto con maestria si che sembrassero vivi. Completavano l'opera le vesti di ogni divinità, in questo caso non seminude ma vestite con stoffe pregiate e intessute d'oro e d'argento, con tanto di nastri, ghirlande e soprattutto gioielli, il tutto accuratamente profumato coi vari incensi.

Poichè la posizione era allungata e coricata su un fianco, e si poggiavano tutti sul fianco sinistro, viene da chiedersi se le statue fossero state scolpite proprio in quella posizione, o fossero fornite di braccia e mani, e magari anche di gambe snodabili. Sicuramente anche le statue delle processioni dovevano essere di legno, ma sarebbe stato difficile usare le stesse immagini che avrebbero potuto reggere male durante le scosse del carro o delle spalle delle persone da cui venivano portate.

I romani, ovvero lo stato romano, non badava a spese e sicuramente le statue erano diverse. Non sappiamo però se le icone del lettisternio fossero snodabili o meno, ma supponiamo che per una maggiore resistenza delle statue non lo fossero e che quindi dette immagini, tenute nelle celle dei templi, fossero riservate solo ai lettisternii.

Stava ai sacerdoti e ai loro assistenti prendersi cura delle immagini e tutto ciò che le concerneva per conservarle totalmente integre. Spesso le statue venivano ornate con le elargizioni preziose dei cittadini che volevano cooperare alla buona riuscita del lettisternio.
 La postura della divinità era indicata dal verbo "accubare" (coricare): dinnanzi alla divinità "accubans" si poneva una tavola con sopra delle vivande precedentemente consacrate dai sacerdoti mediante formule cerimoniali e aspersioni (tipo quelle che usano oggi i preti nella benedizione delle case a Pasqua). Il cibo basilare era la carne, che però nei lettisternii sembra venisse accompagnata da altri cibi, come verdure e frutta insieme al vino.

Il tutto, precedentemente consacrato. L'aspersione si effettuava con acqua di mare o in mancanza con acqua salata che veniva contenuta in un secchio d'argento.




ASPERSIONE

L'aspersione avveniva anticamente tramite un rametto di alloro o olivo, detto appunto aspergillum, immerso nell'acqua consacrata e spruzzato sia sui letti che sul cibo. Di solito la purificazione si effettuava prima di un sacrificio agli Dei inferi, ma poi si estese un po' a tutti o quasi tutti i riti che comportassero un pasto sacro, almeno nelle campagne.

In realtà l'aspersione si faceva a Roma con una palla traforata, aspergillum, tenuta da un manico e un secchio d'argento che conteneva l'acqua lustrale. Sembra che il secchio d'argento fosse quello della antica Dea Veritas che garantiva l'esclusione degli inganni, e la palla d'argento fosse la Terra, evidentemente con riferimento alla Dea Tellus.

Sull'origine dei lectisterni, secondo alcuni sono greche e vennero introdotte a Roma con il culto delle divinità greche, secondo altri vennero introdotti dai libri sibillini. In effetti il primo lettisternio di cui si ha notizia ebbe luogo nell'anno 399 a. c. per ordine dei libri sibillini. Ci sarebbe però da chiedersi chi abbia introdotto i triclinii a Roma, perchè di triclinii si tratta.

I letti triclinari sono un uso prettamente orientale, adottato in pieno dagli etruschi che tutto sommato sono più orientali che occidentali, soprattutto nei lineamenti. Non è da escludere che questa ritualità non sia derivata dagli etruschi.

Livio ed altre fonti spiegano che venivano allestiti tre letti in ciascuno dei quali prendeva posto una coppia di divinità, e cioè Apollo con Latona, Eracle con Artemis, Ermes con Poseidone, divinità più greche che romane.



399 a.c. - 
Lo scopo del primo lettisternio sarebbe stato di placare l'ira degli Dei che avevano inviato ai romani un inverno rigidissimo, cui era seguita nell'estate una pestilenza. Il lettisternio fu celebrato dai "duumviri sacris faciundis ed ebbe la durata di otto giorni". Ai santuari con i letti delle divinità sfilarono in venerazione i senatori e patrizi con rispettivi mogli e i figli, poi tutte le tribù e gli ordini con alla testa il pontefice massimo, e poi in fondo i giovani non sposati.

Durante il lettisternio, come da prescrizione e per fede religiosa. cessarono le liti e le private competizioni, e vennero liberati molti prigionieri.


217 a.c. -
Il 24 giugno: Annibale distrugge l'esercito Romano comandato dal console C. Flaminio nella Battaglia del Lago Trasimeno. Inoltre l'etruria è scossa da un forte terremoto. La paura è tanta e viene indetto un secondo lettisternio ancora più sontuoso celebrato stavolta in onore dei dodici Dei consenti, divisi in sei coppie. Agli Dei già onorati nel primo lettisternio furono associati, oltre Giove e Giunone, Mercurio e Cerere, Venere e Marte.

A questo lettisternio parteciparono anche i servi che poterono prendere parte al banchetto insieme alle alte classi sociali, agl'ingenui (nati liberi) e ai liberti (liberati). I lettisterni che seguirono furono celebrati in onore di divinità secondarie, ma in essi non dovevano mai mancare le divinità della triade capitolina, Giove, Giunone e Minerva.


215 a.c. -
un lettisternio, sempre per indicazione dei libri sibillini, fu celebrato in onore di Iuventas; non dimentichiamo che incombe la II guerra punica, anche se i romani sconfiggono infine presso Decimomannu in Sardegna i cartaginesi e gli alleati nuragici.


204 a.c. - 
un lettisternio ebbe luogo nel 204 a.c. in onore della Mater Magna. Gli oracoli della Sibilla a Delfi avevano predetto che Annibale poteva essere sconfitto solo se la Madre degli Dei (Cibele) fosse trasportata da Pessinunte a Roma. Il suo simulacro era un grande meteorite di ferro, quindi aniconico e nero, di oltre 16 m di altezza e pesante diverse centinaia di tonnellate.

Un'ambasciata composta da cinque senatori romani, con M. Valerio Levino a capo della delegazione, fu inviato a Pessinunte, dal sovrano Attalo I, re di Pergamo, alleato di Roma. Attalo inizialmente rifiutò la richiesta ma un terremoto che si verificò durante i negoziati fu recepito quale presagio di Cibele per essere trasferita a Roma.
Arrivata a Roma venne accolta da un numeroso gruppo di sacerdoti in festa e fu trasferita su decisione del senato romano sul colle Palatino. Quindi fu indetto il lettisternio.


167 d.c. -
In seguito a una pestilenza l'imperatore Marco Aurelio indice un lettisternio.

LEGIO X FRETENSIS

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La decima legione “Fretensis” venne creata dall’Imperatore Augusto attorno al 40 a.c., per contrastare Sesto Pompeo, figlio di Pompeo Magno, che in quel periodo controllava la Sicilia, mettendo seriamente a rischio le forniture di grano per Roma.

Augusto, che per esempio di vita aveva Giulio Cesare, scelse il numero dieci in onore della valorosa X legione appartenuta a Cesare anni prima, con la speranza che questa legione potesse rinnovarne le gesta, e soprattutto la fedeltà assoluta.

Non venne deluso, durante il conflitto contro Pompeo, la Legio X presidiò lo stretto di Messina, prendendo parte alla battaglia di Mylae e a quella di Nauloco nel 36 a.c.; dal nome latino dello stretto, Fretum Siculum, la legione derivò poi il cognomen Fretensis, divenendo pertanto una legione siciliana e il suo simbolo fu il verro.

"Sappiamo, tuttavia, di un pensionamento dei legionari della "decima" in quegli anni e, grazie ad un censimento voluto da Cesare Augusto nell' anno 4 d.c., della sua presenza in Siria. è possibile ipotizzare, dunque, una rifondazione della X Legio, alcuni anni prima della guerra giudaica. Quanti legionari furono reclutati in Sicilia? Augusto fece dell' Isola una provincia senatoriale, conferendo in tal modo ai siciliani il diritto di accedere alle cariche pubbliche e di assumere ruoli di comando nelle legioni. Porte aperte, dunque, anche nei gradi più alti della gerarchia militare. Alcuni popoli, come i Mamertini, sin dal tempo delle guerre civili, erano obbligati a fornire una nave alla flotta romana. Che ci fossero siciliani nella Legione romana sin dalla sua nascita appare perciò assai probabile."
Dopo aver sconfitto Sesto Pompeo, scoppiò la guerra civile che vide in contrasto Augusto da una parte e Marco Antonio con Cleopatra dall’altra. Nel 31 a.c., la X legione, proprio perchè valorosa e fidata, fu impegnata nella famosa battaglia di Azio. Anche qui la X dimostrò il suo valore, tanto che per il prezioso impiego della X in questa grande battaglia navale, il simbolo della legione, oltre al verro, divenne la trireme.

Dopo la battaglia di Azio che segnò la fine della guerra civile, Ottaviano divenne Imperatore di Roma, assumendo anche il titolo di Augusto. Egli subito congedò molti veterani della X, e altri furono insediati a Cremona, che da quel periodo prese il nome di Colonia Veneria, in riferimento alla Dea genitrix della gens Iulia.

Sembra che alcuni legionari della LXFR (questa era la sua abbreviazione) venissero stanziati a Brixia, odierna Brescia, e che altri, insieme ad alcuni della XII Fulminata colonizzarono insieme la città greca di Patrasso, che sotto augusto era diventata una colonia imperiale. Dopo essere stata di stanza nei Balcani, la X legione fu trasferita in Siria; alcune sue vessillazioni sono attestate dal 6 a.c. a Cirro, nel nord della Siria, mentre l’intera legione era certamente presente nel 6 d.c.


Tra le due date vi fu la campagna condotta da Publio Quintilio Varo contro i ribelli giudei, sollevatisi a seguito della morte di Erode il Grande nel 4 a.c.; Varo, che pochi anni dopo divenne il malaugurato protagonista nella tragedia di Teutoburgo, ebbe certamente a disposizione le altre legioni siriane, ovvero la III Gallica, la VI Ferrata e la XII Fulminata, e quasi certamente anche la X Fretensis.

Al tempo dell’imperatore Nerone, nel 58 d.c., la X Fretensis partecipò attivamente alla campagna militare di Gneo Domizio Corbulone contro i Parti, ma soprattutto la X giocò un ruolo fondamentale nella I guerra giudaica (66 - 73 d.c.) sotto il comando supremo del futuro imperatore Vespasiano. Nel 66 d.c. questa legione si diresse insieme alla V Macedonica ad Alessandria d’Egitto per un’invasione dell’Etiopia, programmata da Nerone, ma furono invece impiegate nella soppressione della rivolta giudaica.

Dopo aver passato l’inverno ad Acri, la X Fretensis e la V Macedonica furono acquartierate nella città costiera di Caesarea Maritima. Nel 69 d.c., il famoso anno dei quattro imperatori, Vespasiano rientrò a Roma per diventarne il nuovo Imperatore, le legioni rimasero sotto il comando del figlio Tito, e la Fretensis, prima di spostarsi agli accampamenti invernali di Gerico, si distinse per aver distrutto il monastero di Qumran.

Nel 67 d.c., la rivolta giudaica si restrinse all’area di Gerusalemme e a poche altre zone, come la famosa rocca di Masada, in questo stesso anno la X Fretensis, insieme alla V Macedonica, alla XII Fulminata e alla XV Apollinaris, assediò Gerusalemme, vero fulcro della rivolta.

RESTI DEL CAMPO DELLA X AI PIEDI DI MASADA

MASADA

Masada nel 66 d.c. era stata conquistata da un migliaio di persone della tribù dei Sicarii che vi si insediarono con donne e bambini; nel 70 d.c., caduta la città di Gerusalemme, vi si aggiunsero gli ultimi strenui ribelli israeliti.
I disordini erano iniziati nel 66 d.c., e Nerone ordinò a Vespasiano, militare esperto, di recarsi sul posto e riportare l’ordine. Nel 67 d.c., Vespasiano con due legioni si recò in Giudea. Nerone, dichiarato dal Senato, nemico del popolo, si tolse la vita, e si succedettero 3 Imperatori in meno di un anno, finchè Vespasiano, acclamato dalle sue legioni, fece ritorno a Roma per diventare il quarto e definitivo Imperatore.
La X si accampò sul Monte degli olivi e durante l’assedio di Gerusalemme divenne famosa per la sua abilità nelle macchine da guerra. Dopo cinque mesi di aspro assedio, Gerusalemme cadde e fu saccheggiata. La legio X Fretensis venne lasciata a guardia permanente nella parte occidentale della città.
LEG X FR
Tito, figlio di Vespasiano, aveva conquistato Gerusalemme, ma ora toccava a Masada, presidiata da una fazione chiamata “Sicarii”, a capo dei quali vi era Eleazar Ben Yair, e toccava pure alla X Fretensis.

La fortezza era attrezzata per un lungo assedio, provvista di magazzini, di aree coltivabili e cisterne per l’acqua piovana. Il percorso per raggiungere la rocca di Masada era impervio, tortuoso e ripido.

Nel 73 il governatore della Giudea, Flavio Silva, condusse la X legione “fretensis” più alcuni reparti di ausiliari ai piedi di Masada, per costringere i difensori alla resa. Allora Flavio Silva, ingegnoso come la maggior parte dei generali romani, fece costruire una gigantesca rampa fin sotto le mura, una volta ultimata, i militari costruirono una imponente torre d’assedio, munita di ariete.

La rampa d’assedio, chiamata dai romani “agger”, era costruita dai legionari con tronchi di legno, pietre e terra e serviva per ridurre la distanza dell’apice delle mura nemiche dal terreno, per consentire agli altri mezzi d’assedio di raggiungere l’altezza necessaria.

Una volta fatta salire la torre d’assedio lungo la rampa, i romani riuscirono ad aprire una breccia nelle mura, ma i difensori, dopo aver bruciato quasi tutto, decisero di togliersi la vita per mano propria piuttosto che per mano romana.

L’episodio rimarrà uno dei più conosciuti nella storia romana, per la strenua resistenza dei ribelli giudei all’interno della fortezza, e per l’incredibile lavoro di preparazione all’assedio che i legionari dovettero affrontare in un territorio assolutamente ostile.

Dopo la definitiva soppressione della rivolta, la legione fu collocata a Gerusalemme. In questo periodo fu la sola acquartierata in Giudea con il compito di mantenere la pace nella regione. Essa era alle dirette dipendenze del governatore provinciale, che aveva quindi anche la funzione di legatus legionis che, in questo caso, era il futuro imperatore Traiano.



TRAIANO

Mentre Vespasiano si dirige verso Roma per condurre i suoi eserciti contro Vitellius, lascia il figlio Titus incaricato dell'assedio di Gerusalemme. A questo punto, le truppe di LXF potrebbero aver avuto dubbi, non solo sul loro nuovo comandante generale Tito, ma anche sul nuovo secondo comandante dell'assedio di Gerusalemme. Questo nuovo comandante, secondo solo a Titus, era che egli stesso era un ebreo. 

Era Tiberio Giulio Alessandro, un ebreo di Alessandria che si era distinto nelle file dell'esercito romano.  Alessandro,  il cui padre aveva donato l'oro e l'argento per i cancelli del tempio, ora si trovava in una posizione di comando contro i suoi ex fratelli in quel santuario dopo che le mura di Gerusalemme cadevano. Ma sia Tito che tiberio Giulio furono all'altezza della situazione, anzi furono brillanti.

Nessun edificio rimase in piedi, e anche il tempio fu totalmente distrutto. Venne saccheggiato tanto oro dai soldati romani a Gerusalemme che per un certo tempo dopo perse il 1/3 del suo valore. La stazione della X legione segnò l'inizio della colonizzazione romana della città e costruì diverse colonne trionfali. Sono state trovate due di queste iscrizioni. La legione ha anche iniziato qui il proprio programma di costruzione per la sua guarnigione.

È stata trovata una colonna trionfale dedicata a Tito e in basso le sigle LEG X FRE sono ancora visibili, ed è stata trovata incorporata nelle fondamenta di un palazzo musulmano a sud del monte del Tempio. Anche se molte colonne trionfali sarebbero state fatte nel corso degli anni, ne è stata trovata solo un'altra, dedicata ad un emissario della decima legione. "A Marco Junio Maximo, legato, per conto degli imperatori, della decima Legione Fretensis Antonini"

Il nome legionario aggiunto di Antonini deve significare che i due imperatori sono Carracalla e Geta che hanno governato insieme per un breve periodo, così il nome della x divenne "Legione X Fretensis Antonini" e dopo l'omicidio di Geta, il nome cambiò in forma singolare (Antonina)

Sebbene una piccola parte della X Legione fosse impiantata a Gerusalemme, la maggior parte della decima Legione fu accampata a Cesarea. Durante la guerra ebraica (67-68), la X Fretensis era stata comandata da un uomo di nome Marcus Ulpius Traiano, il padre del futuro imperatore Traiano. Dopo la guerra, Marcus Ulpius Traiano divenne console, nel 73-74 fu fatto patrizio, poi governatore della Siria 73-76 e proconsole dell'Asia 79-80.

Quando Nerva divenne imperatore dopo l'assassinio di Domitiano, temeva i Praetoriani e decise di difendersi adottando Traiano come suo figlio. All'epoca, Traiano era il governatore della Germania superiore e comandante delle legioni settentrionali. Quando Nerva morì venne divinizzato, ma pure il suo vero padre (Marcus Ulpius Traianus) venne divinizzato, pur non essendo mai stato imperatore. Così Traiano divenne contemporaneamente imperatore e figlio di due Dei.

Sotto Traiano la decima Fretensis venne trasferita da Gerusalemme fino alla parte antica di Aila, (Elat), sul Mar Rosso, per fornire una guarnigione alla nuova provincia. Traiano invase la Mesopotamia, i Parti non avevano sufficienti forze per opporsi all'invasione romana in quanto Osroe era impegnato in una guerra civile in oriente contro Vologase III. 

Traiano trascorse l'inverno del 115–116 ad Antiochia, ma riprese la campagna in primavera. Scendendo lungo l'Eufrate, espugnò Dura-Europos, la capitale Ctesifonte e Seleucia, giungendo persino a sottomettere Characene, dove assistette alla partenza delle navi verso l'India dal Golfo Persico. Negli ultimi mesi del 116, Traiano espugnò Susa. Sembra che in tutte queste battaglie fu coinvolta la X legione.    




ADRIANO

Dopo aver partecipato alla campagna militare di Traiano contro i Parti, la Fretensis fu coinvolta nella rivolta di Bar Kochba (132-135), che era scoppiata a seguito della decisione dell'imperatore Adriano di costruire un tempio pagano in onore di Giove a Gerusalemme.

Simon Bar Kokheba diede vita alla rivolta, occupando Gerusalemme e infliggendo molte perdite ai romani. La guerra terminò quando l'esercito romano, compresa la X Fretensis e truppe provenienti dal confine danubiano, sotto il comando di Sesto Giulio Severo, riconquistarono Gerusalemme e assediarono con successo l'ultima fortezza giudaica, Betar. Visto il malcontento che serpeggiava nella regione, la Fretensis fu affiancata dalla VI Ferrata, accampata a Lejjun.



SUCCESSIVAMENTE

Una vexillatio della Fretensis combatté contro i Marcomanni al tempo di Marco Aurelio (121 - 180). Nel 193, la legione si schierò con Pescennio Nigro (140 - 194) contro Settimio Severo (146 - 211) e fu forse coinvolta nella lotta tra Giudei e Samaritani.
Si trovava ancora a Gerusalemme al tempo di Erennio Etrusco (250), mentre all'epoca di Gallieno (218-268) fu impiegata nella guerra contro l'Impero delle Gallie (la crisi del III sec.), in Europa.

Fu poi spostata ad Aila (vicino all'odierna Aqaba in Giordania), forse all'epoca della riforma di Diocleziano (244 - 313) e si trovava ancora là quando fu redatta la Notitia Dignitatum (inizi del V sec.).


Legati della Legio X Fretensis:

C. Julius Caesar Octavianus
M. Licinius Crassus - 30-27 a.c.
G. Sentius Saturninus - 10-7 a.c.
Quintilius Varus - 7-4 a.c.
P. Sulpicius Quirinius 6 d.c.
L. Pomponius Flaccus
A. Vitellius  - 35-39
P. Petronius Turpilianus  - 39-42
C. Vibius MArsus -  42-45
C. Cassius Longinus -  45-?
Ummidius Quadratus -  51-60
Cn. Domitius Corbulo -  60-66
Ti. Julius Alexander  -  66-67
T. Flavius Vespasianus  - 67-69
Titus -  69-70
Cerealis Vettulenis -  70-71
Lucilius Bassus -  71-73
Flavius Silva -  73-?

Archeologia, scoperte a Gerusalemme le terme della legione che distrusse il tempio
il Giornale.it 12/12/2010

« Siamo rimasti sorpresi nello scoprire un'antica struttura termale proprio sotto al punto in cui sarà costruito un mikve », ha detto Ofer Sion, direttore degli scavi per conto della Israel Antiquities Authority.
« Le mattonelle della struttura termale, su cui sono incisi i simboli della X Legio Fretensis, (Leg X Fr), sono state rinvenute in situ e sembra che fossero usate per coprire un canale idrico scavato nella roccia, posto sul fondo della piscina. Le centinaia di tegole in terracotta del tetto che sono state trovate sul pavimento della piscina indicano che si trattava di una struttura coperta». 

« A quanto pare - ha continuato Sion - la piscina veniva usata dai soldati che erano di guarnigione nella città dopo aver soffocato la rivolta ebraica di Bar Kochba nel 135 d.c., quando appunto fu fondata la città romana di Aelia Capitolina. 
Sappiamo che l'accampamento della X Legione era situato entro i limiti di quella che è oggi la Città Vecchia, probabilmente nella zona dell'attuale quartiere armeno. Questa ipotesi è avvalorata dalla scoperta della piscina nell'adiacente quartiere ebraico, il che dimostra che una gran quantità di soldati si sparpagliava ed era attiva anche al di fuori dell'accampamento, in altre parti della Città Vecchia ».
« Un'altra interessante scoperta che ha suscitato emozione durante gli scavi - ha raccontato Sion - è l'impronta della zampa di un cane che probabilmente apparteneva a uno dei soldati. L'impronta della zampa è impressa sul simbolo della Legione su una delle tegole: la cosa potrebbe essere accaduta accidentalmente o essere stata fatta per scherzo».

TERME NOVATIANE

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LE TERME NOVATIANE
Le Terme Novatiane (leggi Novaziane) o Timotine, non erano racchiuse nella casa di Pudente al Viminale "come idearono li moderni antiquarj, ma sull'Esquilino dove è Santa Prassede". Questo afferma Alberto Cassio Corso nel suo libro sulle antiche acque del 1757.

I RESTI DELLE TERME NOVAZIANE SOTTO S. PUDENZIANA
Ma nell'anno 1441, fu il celebre storico Flavio Biondo a tener per vera l'asserzione del Libro Pontificale (corrente allora sotto il nome di S. Damaso Papa) "che le terme di Novatio fossero nel Vico Patrizio, dove la chiesa di S. Pudentiana, senza cercar maggior lume da codici antichi, dei quali non è stata mai scarsa la Vaticana".

Il vicus Patricius era un'antica via di Roma che aveva inizio dove l'Argileto (la via che collegava il quartiere della suburra al foro romano, corrispondente alle attuali via Leonina e via della Madonna dei Monti) si divideva in clivus Suburanus (una via della Subura, che saliva tra il colle Oppio e il Cispio fino alla porta Esquilina nelle Mura serviane, corrispondente alle via di Santa Lucia in Selci, via di San Martino e via di San Vito). e in vicus Patricius, attraversava il Cispio e il Viminale, e raggiungeva la porta Viminale nelle Mura serviane.

Probabilmente era il confine tra le regioni IV (regio augusta Templum Pacis) e VI (regio augusta di Exquiliae) di Roma, e il suo percorso corrisponde a quello della moderna via Urbana.

Lungo il suo corso esisteva l'unico tempio di Diana al quale non potevano accedere gli uomini.

Sulla via dava una domus, poi demolita all'inizio del regno di Antonino Pio per erigervi le Terme di Novato (Thermae Novati) o Novaziane (Novatianae), poi convertite, non prima del IV secolo, nella basilica di Santa Pudenziana.

"Nella parte postica della chiesa restano ancora antichissime costruzioni di bella opera laterizia probabilmente avanzo delle terme di Timoteo". (Mariano Armellini 1891)

SEZIONE DI SANTA PUDENZIANA CON I RESTI DELLE TERME


EFEMERIDI LETTERARIE DI ROMA 1779

"... l'opinione che le medesime fossero erette da Novato e Timoteo fratelli di S. Pudenziana e S. Prassede, epprò posteriormente al tempo in cui si pretende che la loro avola S. Priscilla seniore ne convertisse i sotterranei ad uso di cimiterio sacro... ma all'epoca della costruzione delle terme Novaziane ove dall'esame stesso dell iscrizione sopra di cui si pretende di stabilire il cimiterio controverso, riguardo alle terme egli rende molto verisimile l'opinione che le medesime fossero erette da Novato e Timoteo fratelli di S Pudenziana e S Prassede epperò posteriormente al tempo in cui si pretende che la loro avola S Priscilla seniore ne convertisse i sotterranei ad uso di cimiterio sacro.

I RESTI DELLE TERME SOTTO LA CHIESA
Venendo poi all'iscrizione la quale fa menzione di 3000 martiri fatti sepellire da S. Pudenziana nel cimiterio di Priscilla a tempi dell'Imperatore Antonino fa egli vedere che atteso il tempo della morte di S Pudenziana, accaduta l anno del Signore 150 ed attesa l'età di 16 anni in cui morì, di altro Imperatore non può parlare l'iscrizione che di Antonino Pio. 

I RESTI DELLE TERME
Ora egli è certo, dice il nostro Autore, che regnando questo Imperatore i Cristiani non soffrirono veruna persecuzione e sicuramente veruna tale da somministrare 3000 martiri ad una verginella di 16 anni.

Conclude da tutto ciò il Sig de Levis che solamente dopo le irruzioni de Barbari in quella totale sovversione delle antiche a leggi e costumanze le terme Novaziane, derelitte e dimenticate siano state convertite ad uso di cimiterio de martiri, e che solo per errore, e per l'ignoranza de' tempi siasi potuto dire nell'iscrizione, che il cimiterio fosse stato eretto da Priscilla, e che contenesse le reliquie di 3000 cristiani martirizzati sotto l'impero di Antonino."

E' possibile che il "Titolo di S. Pudenziana" della nostra Basilica, istituito dal Papa Damaso alla fine del IV secolo, istituzione di cui esistono indubbi documenti storici, le derivi dalla corruzione del nome della originaria domus ecclesiae posta in quel luogo - cioè una delle prime "chiese domestiche"istituite nelle case di famiglie cristiane delle origini -, nota come Titulus Pudentis. 

Essa sarebbe stata eretta da Papa Pio I nel 145 d.c., per volontà delle figlie Pudenziana e Prassede, nella casa lasciata loro in eredità dal padre Pudente, membro della potente famiglia degli Acilii Glabriones, in ricordo dell'ospitalità che ivi fu data a San Pietro, intorno al 70 d.c per diversi anni, e a San Paolo,che cita Pudente al termine della sua II Lettera a Timoteo. 

CHIESA DI SANTA PUDENZIANA
Ciò che è certo è che gli scavi archeologici, e i loro anche recentissimi e approfonditi studi, hanno confermato la presenza di due domus romane sotto le fondamenta della Basilica, una di età repubblicana (II sec. a.c.) ed una di età imperiale (I-II sec. d.c.), che coinciderebbe così con la tradizione del Titulus Pudentis.

Speriamo di poter rendere fruibili a tutti quanto prima questi scavi con l'apporto del Governo Italiano e di altri generosi sponsor.

Commento: 
fermo restando che il governo italiano mantiene e restaura tutte le chiese cattoliche di Italia, resta il fatto che la Chiesa quando va bene rende possibile la fruizione degli scavi una volta all'anno (V. sotto S. Giovanni) e se va male non le fa vedere mai (v. il circo e i magnifici resti del palazzo sosario dietro S. Croce in Gerusalemme), fermo restando ciò:

- la chiesa di S. Pudenziana, una delle chiese più antiche di Roma, così antica da risiedere almeno sei metri sotto il livello stradale, tanto che bisogna scendere una lunga gradinata per arrivarci, è stata affittata dalla chiesa ai filippini che tra l'altro la domenica la adibiscono a mercato - .



VILLA ARMIRA (Bulgaria)

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RICOSTRUZIONE DELLA VILLA

Villa Armira (in lingua baulgara: Вила “Армира”) è una villa suburbana romana posta nella parte sud-est della Bulgaria, nei pressi della provincia di Ivaylovgrad, esattamente a 4 km a ovest di Ivailovgrad Haskovo. Villa "Armira"è uno dei più belli e accurati complessi dei limes romani, che siano stati rinvenuti e studiati in Bulgaria. La villa risale agli anni 50-70 del I sec. d.c.

La villa prende il nome dal vicino fiume Armira, che scorre lungo le pendici orientali dei monti Rodopi, una catena montuosa nell'Europa meridionale. I suoi resti furono scavati nel 1964, durante i lavori di costruzione della diga.

Gli scavi archeologici sono stati condotti sotto la direzione scientifica del Prof. Dr. Janka Mladenova e successivamente dal Prof. Dr. Gergana Kabakchieva dell'Istituto Archeologico Nazionale e del Museo di BAN. recuperando strutture destinate in parte alla produzione agricola e in parte di tipo residenziale, per un'area di quasi 3600 kmq.



Splendidi paesaggi, terreni fertili e clima mite hanno creato ottime condizioni di vita hanno spinto a edificare i n questo sito la splendida villa, di proprietà di un nobile trace, che venne edificata nella seconda metà del I sec.

Il nome della villa, derivato dal fiume, significa: "Villa Rinforzata". In età adrianea (76 - 130) la villa venne arricchita di decorazioni marmoree.

Durante il regno di Antonino Pio (86 - 161) venne ampliata con diversi ambienti di rappresentanza, tra cui una sala triclinare (sala da pranzo) sul lato orientale.

La villa venne utilizzata fino al terzo quarto del IV sec, finchè non venne probabilmente distrutta dalle devastazioni dell'esercito goto dopo la vittoria sull'imperatore Valente (328 - 368) nella battaglia di Adrianopoli con l'annientamento dell'esercito romano guidato dall'imperatore d'Oriente Valente ad opera dei Visigoti di Fritigerno nel 368.

Secondo alcuni studiosi potrebbe trattarsi della villa, citata dalle fonti, in cui l'imperatore romano ferito si sarebbe rifugiato dopo la battaglia, e che in seguito venne incendiata dai Goti.

Gli scavi del tumulo nei pressi del villaggio di Great Svirachi nel 2001-2002 hanno contribuito notevolmente alla prova della origine traciana della fondazione della villa il suo governatore era il successore di un re traciano (bazilevs), che ricevette, per servizio reso al potere romano, il privilegio di diventare cittadino romano, con il diritto di creare una fattoria di villeggiatura ben organizzata nei 50-70 anni del I sec. d.c. Questo solo venti anni dopo la conquista finale di Tracia di Roma.


Ciò dimostra la romanizzazione della Bulgaria, un mondo tribale dove nelle guerre difficilmente si facevano prigionieri in quanto i nemici venivano spesso torturati e poi uccisi. I romani invece rendevano schiavi i prigionieri facendoli fruttare nelle case e nelle tenute che potevano essere così ampie e splendide proprio grazie al lavoro degli schiavi.

Romanizzarsi significava non solo imparare la lingua e le leggi romane, ma poter godere di una bella domus con relativi giardini o poderi, di avere un riscaldamento, i bagni e le terme, e di godere dell'artigianato artistico per ornare la propria casa.

Gli archeologi hanno appurato che la villa deve essere costruita non sulla strada, ma su una stradina laterale a quella trafficata, in una bella zona, vicino all'acqua, con rapporti di buon vicinato con le ville adiacenti, sicuramente di altri nobili traci.

Lo stile romano dell'edificio e l'uso dell'architettura dei palazzi romani del Mediterraneo non contrasta con l'origine traciana dei suoi governanti e la loro appartenenza all'aristocrazia traciana. Le leggi locali e gli usi locali vennero rispettati, ma il desiderio di possedere una villa residenziale e rustica insieme permetteva di guadagnare bene e di vivere meglio, lontani dal caos delle città.




DESCRIZIONE

La parte residenziale della villa si articola, secondo l'uso romano, intorno ad un vasto peristilio ( il portico che cingeva il giardino interno posto al centro della casa) che, porticato su tre lati, alloggia una vasca centrale, e su cui si aprono su due piani gli ambienti, di cui alcuni dotati di ipocausto con mosaici e pitture parietali. Infatti parte dell'edificio ha un sistema di riscaldamento a pavimento, in cui il pavimento si trova su colonne in mattoni o tubi in ceramica, con aria calda circolante proveniente da camini appositamente costruiti.

L'imponente edificio a due piani è composto da un gran numero di locali - stanze da letto, camere di ricevimento, sala per feste, saloni per le donne, bagni, ecc. in cui le camere circondano da tre lati una grande piscina aperta, chiamata impluvium.

Il mosaico della camera da letto principale reca una raffigurazione del proprietario con i due figli. Elementi della decorazione della villa sono conservati presso il Museo Archeologico di Sofia (la capitale della Bulgaria) e si chiama in bulgaro l'"Arheologiceski Muzej":

Villa Armira è famosa per il suo rivestimento in marmo raramente trovato nelle province dell'impero romano, e il marmo bianco utilizzato venne cavato nelle vicinanze del sito e furono chiamati per la realizzazione i maestri artigiani provenienti da Afrodisia (Turchia).Grazie a loro, la villa acquisì gradualmente la lussuosa e brillante immagine di un palazzo.



Nella prima metà del II sec. la villa ha sviluppato dunque un laboratorio per la decorazione artistica del marmo bianco che giaceva nei suoi pressi. I maestri della città di Aphrodisias (Asia Minore), conosciuti con la più grande scuola di scultura in quel periodo, sono stati invitati a lavorare lì.

L'intero primo piano aveva lastre di marmo e rivestimenti in pannelli. I pavimenti di tutte le camere e i corridoi erano ricoperti di mosaici con elementi tradizionali tipici dell'antica arte, tutti di alto valore artistico. Di eccezionale valore sono considerati i mosaici del salotto, alla cui estremità nord è stato raffigurato il ritratto del proprietario insieme ai suoi due figli, nella prima metà del II sec.

Interessanti sono anche i più tardi mosaici della stanza degli ospiti con l'immagine della Medusa o Gorgone, un simbolo ripetuto costantemente per tutta la decorazione della villa. Considerando l'ambito, la varietà e la qualità delle decorazioni e la villa d'ornamento in marmo Armira rimane l'unico sito simile all'interno dei confini delle ex province romane dell'Europa sudorientale.


L'antica Villa venne eretta su una superficie di 3600 metri quadrati in una zona di proprietari di edifici residenziali e giardini per il relax e le passeggiate. Nell'angolo sud-est dell'edificio è stato costruito e un balcone da cui i residenti della villa e i loro ospiti hanno goduto del bellissimo paesaggio e del fiume. Con la guerra gotica la casa fu bruciata dopo la battaglia di Handrianopol (moderno Edirne, Turchia) il 9 agosto 378. 

L'imperatore romano Valente venne trovato morto dalle ferite in battaglia, da qualche parte vicino a Adrianopoli.La ricchezza economica dei proprietari dello spazio di casa nella Valle del fiume Armira era basata sulla produzione agricola ma pure il laboratorio di marmi. All'inizio del marmo è stato usato per decorare la casa stessa insieme ai mosaici nei corridoi attorno alla piscina e al fondo, poi se ne fece un commercio. La villa venne ancora ornata con squisite basi di colonnato, colonne e capitelli dello stile romano corinzio nel peristilio.



FESTA DI FORS FORTUNA (24 Giugno)

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 « ...nam si a me regnum Fortuna atque opes eripere quivit, at virtutem non quiit.»
« ...di regno e di ricchezze la Fortuna poté privarmi, non del mio valore »
(Accio 170-84, Telefo, framm. 625)

Fortuna era una antica divinità italica, più tardi identificata con la greca Dea Tiche, il cui culto era praticato anche presso i Romani. Servio Tullio, (... – Roma, 539 a.c.) il sesto re di Roma, che le era particolarmente devoto, dedicò alla Dea ben 26 templi nell'Urbe, ciascuno dedicato ad una sua particolare valenza.

Il 24 giugno si svolgeva la festa in onore di Fors Fortuna. Fors non era il Dio maschile equivalente alla Dea Fortuna, come alcuni hanno interpretato, anche perchè molte fonti latine attestano sulla riva destra del Tevere il culto della Dea Fortuna, la forte, "Fors, huius aedes Transtiberim est", che veniva praticato in due templi a lei dedicati. Ne sono noti però altri tre templi: uno a Pietra Papa, uno al complesso arvalico della Magliana e uno agli Orti di Cesare. Un santuario di Fors Fortuna era inoltre posto al primo miglio della via Campana.


DEA FORTUNA


La Dea Fortuna aveva diverse valenze:
- la Fortuna Primigenia o Pubblica veniva festeggiata il 5 aprile e il 25 maggio;
- la Fortuna virilis festeggiata l’11 giugno in un tempio al Foro Boario;
- la Fortuna Muliebris venne eretto sulla Via Latina nel 487 a.c., quando Coriolano, persuaso dalle sue donne, si ritirò dalla battaglia contro Roma;
- la Fortuna Huiusce Diei, la fortuna del presente;
- la Fortuna Redux, per il ritiro di Augusto sano e salvo con le sue truppe dalle province il 19 a.c., che divenne così la Fortuna che riporta in patria i reduci dei combattimenti;
- la Fortuna Dubia, soprattutto quando è dubbio l'esito di una battaglia;
- la Fortuna Stata, cioè costante, quella che non tradisce la sua protezione;
- la Fortuna Averrunca, colei che allontana le sciagure; 
- la Fortuna Comes, colei che accompagna nel viaggio allontanandone i pericoli. 

A Preneste, presso il grande tempio della Fortuna Primigenia, come testimonia Cicerone, la Dea era rappresentata nell’atto di allattare Giove e a Giunone bambini; quindi Dea Grande Madre che divenne però, una volta spodestata, figlia dello stesso Giove. 

Ella era festeggiata l’11 e il 12 aprile e nel suo tempio i pronunciavano vaticini (le sortes Praenestinae). I suoi attributi erano il timone, il globo, la ruota, la cornucopia, talvolta il caduceo.

Il 24 giugno, giorno del solstizio d'estate, però in particolare si festeggiava la Grande Dea, madre di tutti ma soprattutto della povera gente, che si recava nei templi a invocare la Dea come oggi si prega la Madonna e si festeggiava tutta la notte bevendo e divertendosi, sopratutto sul Tevere con barche inghirlandate di fiori, dove durante la notte ci si poteva appartare a fare l'amore.

Il solstizio d'estate segna l’inizio del periodo estivo nel nostro emisfero, quello settentrionale, determinando il giorno di più lunga durata durante l'intero anno solare. L'estate qui iniziata durerà fino al 23 settembre, data dell’equinozio d’autunno, che per l'appunto segnerà l'inizio dell'autunno.

Secondo Vittorio Lanternari (Antropologia religiosa, Etnologia, storia, folklore, Edizioni Dedalo, Bari, 1997), ma pure secondo tanti altri,  questi festeggiamenti sarebbero poi passati alla festa cristiana di S.Giovanni, visto che la Dea era patrona dei culti agrari e quindi della raccolta del grano che si svolgeva in questi giorni, cioè alla fine di giugno.

Nel rito più arcaico, essendo la Dea simbolo della Natura e quindi della proliferazione, durante la notte si accendevano i falò nella campagna e a quella suggestiva luce le sacerdotesse si accoppiavano, imitate dalle coppiette dei contadini. Era una generale esplosione di sesso, incentivata dalla lauta cena e dal buon vino, accompagnati da musica e danze. 

In molti luoghi d'Europa e altrove si festeggiava il culto più antico della terra, quello del Solstizio d'Estate, quando i contadini raccolgono il frutto del loro lavoro e festeggiano l'estate che muore nei campi dorati dalle spighe recise che giacciono in terra sotto il sole cocente.


Gli accoppiamenti duravano tutta la notte e la campagna, che ormai aveva mietuto i suoi campi, si illuminava di fuochi scoppiettanti senza pericolo. Tutto ciò decadde quando venne tolta l'autonomia femminile, cioè già in epoca romana repubblicana, ma nelle campagne perdurò nei secoli, con grande scorno della chiesa cristiana che sessuofoba e misogina, cercò di evitare il rito in tutti i modi, fino a ricorrere alla condanna di stregoneria e a porre le disgraziate sui roghi.

Infatti in diversi paesi, soprattutto del Lazio, quella festa diventò la festa dei roghi delle streghe, con fantocci di paglia che venivano e vengono ancora bruciati nelle campagne. La Chiesa cattolica cambiò la festa trasformandola in quella di S. Giovanni, che si trasformò infatti nella Notte delle Streghe.



Durante la notte tra il 23 e 24 giugno, giorno in cui si festeggia San Giovanni Battista, si credeva, o almeno la chiesa aveva fatto credere, che le streghe si dessero appuntamento nei pressi della basilica di San Giovanni a Roma per un grande Sabba e andassero in giro per la città a catturare le anime. Le streghe venivano chiamate a raccolta dai fantasmi di Erodiade e Salomè, ormai anime dannate per aver causato la decapitazione di san Giovanni, il precursore del Cristo.

Così la festa orgiastica divenne festa puritana e punitiva nei confronti del sesso e soprattutto delle donne, torturate e bruciate vive, soprattutto nel 1500 con l'inizio della Santa Inquisizione che di santo non aveva nulla.


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SERVIZI SEGRETI ROMANI

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ILLUSTRAZIONE DI JOAN FRANCESC OLIVERAS PALLEROIS

La notizia più antica dei servizi segreti romani sono le spie usate da Scipione l'Africano, quando scoprì che il suo nemico Annibale ne usava ovunque, onde combatterlo con le stesse sue armi. Scipione l'Africano, generale di grande valore e intelligenza, come poi farà Cesare, usava addestrare gli uomini a lungo prima di coinvolgerli in una battaglia, e così addestrò anche le spie che divennero contemporaneamente le sue guide.

Gli orientali non erano digiuni dell'arte dello spionaggio, sembra che il re dei persiani avesse, tramite le spie, occhi e orecchie dappertutto ma anche Annibale nella sua invasione italica attraverso le Alpi aveva spie ovunque che lo informavano e lo aiutavano nella sua avanzata, trattando pure con i vari centri urbani per cercare alleati contro Roma, sobillando e pagando i rivoltosi o magari solo promettendo varie ricompense, per cui Scipione decise di annientare il suo avversario con gli stessi metodi. Tanto più che si era valso anche dell'aiuto di combattenti stranieri, sovvertendo le regole antiche per cui l'esercito romano doveva essere solo romano.

Successivamente Gaio Mario (157 - 86 a.c.) riformò l'esercito romano e stabilì che tutte le forze straniere, qualunque fosse la loro condizione, divenissero auxilia, ovvero truppe sussidiare ai cittadini legionari. Gli auxilia venivano pagati circa la metà dei legionari romani, in quanto si utili ma non preparati come i milites romani.

CESARE

CESARE

Cesare (100 - 44 a.c.) scrisse che "E’ dovere di un Capo vincere non meno col senno che con la spada” e in effetti la sua bravura era tanto nelle strategie militari quanto nella sua ingegnosa inventiva nelle circostanze più disparate. Così Cesare fu il primo ideatore dei SERVIZI SEGRETI ROMANI in senso ampio. Egli fu il primo che arruolò gli Ausiliares, guerrieri stranieri, cioè barbari, al soldo dell'esercito romano, equiparandoli alla paga romana.

Egli iniziò infatti ad utilizzare contingenti di cavalieri di popolazioni alleate nel corso della conquista della Gallia, ma pure nella guerra contro Pompeo (Guerra Civile) degli anni 49 - 45 a.c., soprattutto Galli e Germani, inquadrandoli come decurioni romani, con grado pari a quello dei centurioni legionari ed un praefectus equitum.

Gli ausiliari del tardo periodo Repubblicano erano però arruolati solo per la durata delle varie campagne, non essendo addestrabili. Essendo poco avvezzi alla disciplina potevano essere utilizzati solo per un combattimento alla spicciolata, mentre i legionari romani combattevano continuamente e se non combattevano si allenavano duramente.

Tuttavia Cesare ne arruolò alcuni per farne delle spie, scegliendoli tra i più abili a cavalcare, facendogli imparare a mappare le strade, spingendoli ogni volta in zone più lontane, insegnando loro a reperire da soli il loro cibo, a nascondersi ed a procurarsi armi di fortuna.

La differenza tra Cesare e gli imperatori che seguirono fu che Cesare usò i servizi segreti solo per scopi di guerra mentre gli altri anche per eventuali cospirazioni o controllo di amministratori, o di popoli amici e alleati, un po' in tutto l'impero. Non li usò invece per sventare cospirazioni contro la sua persona, anzi, addirittura in senato rinunciò alla sua scorta personale che gli avrebbe sicuramente salvato la vita. Molto ardito dunque ma poco cauto.

Cesare addestrava i suoi 007 per insinuarli nell'esercito nemico con immagini di copertura, in genere come approvvigionatori, o mercanti di oggetti svariati, o procuratori di prostitute o generi rari, armi comprese. Queste spie dovevano parlare adeguatamente la lingua, che quasi sempre era la loro o quella di una tribù vicina e amica, dovevano saper correre a cavallo con grande sveltezza e perizia, non dovevano dare nell'occhio con aspetto imponente ma contemporaneamente dovevano saper combattere per difendersi o fuggire in modo scaltro e adeguato. Soprattutto dovevano conoscere benissimo il territorio.

Gli ausiliari erano piuttosto scarsi in battaglia tranne però che per la guerriglia, cioè con frecce, fionde, frombole e così via, per cui valevano meno dei legionari ma svolgevano un ruolo a tira e fuggi che i legionari non erano in grado di compiere.

Pertanto gli ausiliari erano adattissimi a fare le spie tanto più che non brillavano per amor di patria, anche perchè ogni tribù era in genere in lotta con le altre tribù. Spesso le spie andavano a vivere per un certo periodo nel luogo che i romani avrebbero poi dovuto combattere, in modo da fare amicizie, visitare i luoghi più importanti, reperendo notizie sia di persona che attraverso indiscrezioni del luogo.

Il sistema di Cesare tuttavia era estremamente organizzato, perchè egli mise in campo gli esploratores che ispezionavano il territorio fornendone poi le mappe, in cui venivano evidenziati non solo i villaggi e gli accampamenti, ma pure le strade, i fiumi o altre acque per dissetarsi, nonchè le fattorie per rifornirsi di cibo e altro.

Pertanto egli aveva delle spie-battitori che esploravano le strade in avanti affinchè non vi fossero nemici in agguato, per fare le mappe e per conoscere i luoghi da cui attingere acqua, cibo e legna, quindi per capire anche in che luoghi potersi accampare.

AUGUSTO

AUGUSTO

Ottaviano aveva un'enorme ammirazione per il suo padre adottante Cesare, per cui appena giunto al potere cercò non solo di eseguire le opere che Cesare aveva intrapreso, ma di continuare quanto dall'altro già organizzato. Così, sull'esempio di Cesare, Augusto aveva migliorato lo spionaggio romano organizzando tramite i postali, un servizio di agenti particolarmente giovani, intelligenti, bravi a correre, a combattere, a rischiare e conoscitori delle lingue altrui: insomma degli antichi 007.

Questi agenti si confondevano a volte coi postali, a volte erano in piccoli gruppi e a volte erano assolutamente singoli, con o senza figure di copertura. Erano spesso militari ma non necessariamente, erano comunque persone che si erano guadagnata la fiducia o per la specchiata famiglia o per gli eroismi militari.

Augusto fece tesoro del tradimento contro Cesare per cui non solo si circondò di pretoriani ma mise spie ovunque. Si dice che in senato indossasse un'armatura sotto la toga, al contrario di Cesare poco ardito ma molto cauto.
Con la dinastia giulio – claudia sono i liberti a diventare spie, soprattutto i liberti imperiali, che sventano gli attentati agli imperatori.

C'erano comunque :

- Gli informatores -
Scelti in genere tra la guardia pretoriana e, in particolare, tra i suoi centurioni e i tribuni, perché svolgessero le funzioni di agenti "in borghese" e arrestassero chi tramava tradimenti verso l'imperatore o lo stato. Alcune volte, per ottenere informazioni riservate, si rivolgevano ai liberti di corte oppure ai procuratori provinciali di alto livello.

- Gli speculatores
Erano squadre di esploratori e ricognitori presi dall'esercito, molto spesso a cavallo. Potevano operare sia di giorno che di notte, sia nei campi delle legioni che in quelli dei pretoriani. Gli speculatores ebbero all'inizio solo la funzione di semplici ricognitori, ma in seguito divennero guardie del corpo anche degli Imperatori, messaggeri e a volte carnefici. Erano organizzati sotto un centurione e un optio (assistente del centurione).

Seguivano l'Imperatore durante le campagne militari, organizzati sotto il comando di un "centurio speculatorum Augustorum", nell'ambito della guardia pretoriana. Gli speculatores rappresentavano la 'sicurezza interna', cioè dell'imperatore e della sua famiglia. A Roma il termine "exploratio" veniva usato per designare l’attività di indagine in materie riservate compiuta con una certa segretezza, ma "non necessariamente coincidente con la nozione moderna di spionaggio perché chi la esercitava non sempre agiva clandestinamente” (Liberati - Silverio, 2010, pp. 55-56); quanto al vocabolo speculatio, esso indica invece un’attività clandestina di raccolta delle informazioni, ma diversa dall’exploratio e decisamente definibile come spionaggio.

SPIA ROMANA TRAVESTITA DA POSTALE

- Gli exploratores
Anche questi erano squadre di esploratori e ricognitori dell'esercito, molto spesso a cavallo. Potevano operare sia di giorno, sia di notte, ma il loro compito era di osservare i movimenti nemici in tutto il territorio, accampamento nemico compreso. Venivano organizzati in unità ausiliarie come:
- i numeri (es. il Numerus Germanicianorum exploratorum),
- le coorti equitate (la Cohors VIII Batavorum equitata milliaria exploratorum)
- le ali di cavalleria.
Agivano sempre in abiti borghesi, per cui erano vere e proprie spie (Occulta speculator/speculatrix). Gli exploratores rappresentavano la 'sicurezza esterna' cioè dello stato.

- I Beneficiarii - in genere veterani di grande rispetto, bravissimi nel risolvere le situazioni più impervie, grandi conoscitori di luoghi e strategie, di generali nemici e di tattiche nemiche di guerra, conoscitori di risorse del terreno e capaci di grandi improvvisazioni. Erano pagatissimi nell'esercito e coadiuvavano in genere gli speculatores.

- I Provocatores - "Un soldato vestito in abiti civili siede vicino a te e inizia ad accusare l’imperatore. Poi, credendo nella sua buona fede poiché è stato lui ad iniziare ad offendere il
Princeps, anche tu inizi a dire ciò che pensi … e vieni trascinato subito in prigione"
(Epitteto, Diatribe, IV 13, 5).
Esiste infine la locuzione indicium, la delazione, un mezzo per procacciarsi notizie da parte dello Stato o dei privati, abbondantemente impiegato e profumatamente retribuito.


GLI ARCANI

"Arcanos genus hominum a veteribus institutum, super quibus aliqua in actibus Constantis rettulimus, paulatim prolapsos in vitia a stationibus suis removit: aperte convictos, acceptarum promissarumque magnitudine praedarum allectos, quae apud nos agebantur, aliquotiens barbaris prodidisse. id enim illis erat officium, ut ultro citroque [per longa spatia] discurrentes, vicinarum gentium strepitus nostris ducibus intimarent"

Ammiano Marcellino (IV sec. - Storie (XXVIII, 3,8), ci informa che l'unità degli Arcani (o areani, o angariani), era un antico ordine romano paramilitare di spie straniere, che veniva utilizzato per operazioni aldifuori delle linee nemiche. Il comes rei militaris Teodosio (340 - 376), padre del futuro imperatore Teodosio I, in una vittoriosa campagna militare per la liberazione della Britannia dagli invasori barbari, cacciò dai loro accampamenti gli Arcani, (" uomini di antica istituzione che a poco a poco si erano corrotti"), accusati di collaborazionismo col nemico. Ammiano asserisce che dette spie esistevano sotto Costante (320 - 350), ma che erano state già "stabilite in tempi antichi".

Dalle informazioni di Ammiano Marcellino questi costituivano una sorta di polizia segreta, tipo quella degli agentes in rebus, forse specifica della Britannia, con il compito di «sparpagliarsi in tutte le direzioni per riferire poi ai nostri generali le voci riguardanti i popoli vicini». Sembra che Ammiano avesse fornito ulteriori informazioni sugli arcani durante le vicende relative all'augusto Costante I, ma il libro è andato perduto.
I FRUMENTARII

I PRIVILEGI E GLI STRUMENTI

Ai personaggi militari o politici romani più importanti, elencati in ordine gerarchico  in apposito editto, le città ed i villaggi dell'impero romano avevano l'obbligo di fornire fino ad un massimo di dieci carri ed altrettanti muli (raddoppiabili nel caso fossero stati invece forniti asini). 

Ma anche i servizi segreti usufruivano di alloggi e cavalli o carri gratuiti, naturalmente non presso le zone da sorvegliare per non destare sospetti. Spesso infatti questi 007 si travestivano da persone del luogo, in territorio nemico, usandone le vesti, i costumi e la lingua. Il tutto per carpire informazioni o per diffonderne di false ad un determinato scopo.

Le spie comunque dovevano pagare la prestazione per una tratta definita (che nell'editto non superava comunque i 40 stadi) nella misura di dieci assi per ogni carro e quattro per ogni mulo (o nel caso per due asini). Nessuno poteva usufruire di veicoli gratuiti. 

Ai privati, specie se mercanti che trasportavano merci per uso privato, non doveva essere fornito alcunché. I membri del comitatus, coloro che prestavano servizio nelle province, insieme ai liberti, ai servi dell'imperatore ed agli animali, potevano usufruire dell'alloggio gratuito nella mansio.



DOMIZIANO

- Domiziano (51 - 96),  istituì il "G-4", o sezione di rifornimento della scorta imperiale, il "Praetorium", di cui facevano parte i sottufficiali ed alcuni centurioni. In poche parole, il personale del servizio segreto romano era composto da sergenti le cui funzioni originarie erano l'approvvigionamento e la distribuzione alle truppe di grano (frumentum). Da qui la denominazione di frumentarii.

I frumentarii o "mensores frumentarii" (misuratori del frumento) o mensores tritici (misuratori del grano) erano soldati specializzati incaricati di approvvigionare l'esercito romano in modo, e in qualsiasi modo, che non mancasse il cibo ai combattenti, in particolare il frumento. L'esercito se non ben nutrito non solo non combatteva ma si ribellava, e non amava tanto la carne o il pesce o i formaggi quanto i cereali, in particolare il frumento.

Per ottemperare al rifornimento questi militari ricorrevano a tutti i mezzi, sequestravano i raccolti altrui (in genere pagandoli), obbligavano gli stranieri all'esportazione verso Roma, controllavano che il grano promesso non venisse dichiarato perduto quando magari era stato dirottato verso altri territori per ragioni di ulteriori guadagni, o per ragioni politiche o di carestie.

A furia di viaggi e controlli i frumentari divennero vere e proprie spie cui vennero dati incarichi delle specie più diverse. Essi erano pressappoco dei furieri, ordinati per ogni legione in un numerus (distaccamento) dipendente da centuriones frumentarii o da praefectus frumentarium e con la sede centrale nei castra peregrina, così chiamati proprio perché di origini provinciali.

ADRIANO

ADRIANO

Sotto Adriano  (76 - 138) aumentarono di potere e di prestigio i malaugurati frumentarii che  vennero ad assumere il ruolo di "corrieri" o di agenti della polizia segreta.
Essi, sia a Roma e nelle province d'Italia  "scrutavano nei segreti di tutti", ossia erano addetti al controllo interno e quindi alla sicurezza delle istituzioni quali il Senato e l'Imperatore. Un'iscrizione riporta infatti che potevano anche essere addetti al carcere:

I tre compiti principali dei membri del servizio segreto erano di:
- corrieri,
- agenti delle tasse,
- poliziotti
- e perfino carcerieri come è stato rinvenuto da un'epigrafe.

EXPLORATORES
I frumentarii, in qualità di corrieri di ogni sorta di messaggi destinati e provenienti dal Governo centrale, erano tra i più importanti utenti delle strade statali. Potevano infatti requisire cavalli, carrozze, alloggi, e rifornimenti a disposizione dei funzionari in missione di stato. In qualità di corrieri, ricordavano vagamente "gli occhi e le orecchie" del Grande Re di Persia.

Adriano se ne servì soprattutto per spiare la corte imperiale. Le prove attestanti il loro ruolo di spie sono numerose e datano dalla fine del II all'inizio del III secolo.

Avevano carta bianca su tutto e nessuna classe, per quanto superiore alla loro, poteva sfuggire al loro esame. Generali,  Senatori, o ricchi proprietari terrieri o commercianti non potevano sfuggire ai frumentarii. Sembra tra l'altro che lavorassero a stretto contatto con le forze di polizia dell'Urbe instaurando un regime di paura visto che potevano non solo indagare e arrestare, ma pure compiere assassinii politici. In qualità di investigatori, probabilmente a partire dal 200 d.c. venne loro attribuito l'epiteto ufficioso di curiosi o "ficcanasi".

Non sappiamo come investigassero, ma sappiamo che i Romani erano soliti servirsi di agenti "in borghese" e agents provocatores; anche se non si sa se in tale ruolo venissero impiegati i frumentarii, che si dissero per lo più analfabeti, difficile da credere visto che dovevano continuamente mandare, ricevere o intercettare messaggi.

I Frumentarii erano comandati dal princeps peregrinorum, deputato alla sicurezza globale dello Stato, che, nelle sue funzioni, riferiva direttamente all'Imperatore. In alcuni casi, dopo aver ricoperto questo ruolo, erano promossi al grado di beneficiarius.
Istituiti nel 200 a.c., furono aboliti sotto Diocleziano ( 244 – 313) che li sostituì con gli "Agentes in rebus".



AGENTES IN REBUS

Gli agentes in rebus venivano formati in una vera e propria accademia di palazzo (schola) e venivano considerati una militia. Gli agentes erano divisi in cinque categorie, ed erano tratti dagli ufficiali minori della cavalleria:

- equites,
- circitores,
- biarchi,
- centenarii
- ducenarii.

Ne venivano nominati due per ogni provincia nel 357, tre nel 395 fino ai quattro dopo il 412. Ogni membro degli agentes  al termine del mandato veniva promosso in altri rami del governo: gli agentes anziani venivano regolarmente nominati alla carica di officii princeps delle prefetture pretoriane, delle prefetture urbane e delle diocesi, esercitando così il controllo sulla burocrazia di questi dipartimenti e riducendo così la loro indipendenza. Il Codice di Giustiniano stabilì inoltre  che godessero dell’immunità dai procedimenti giudiziari, sia civili che penali, se non diversamente sancito dal magister officiorum.

Procopio di Cesarea (storico di VI sec.) narra nella sua Storia Segreta:

"Gli imperatori precedenti, per informazioni veloci sui movimenti del nemico in ogni territorio, sedizioni o incidenti imprevisti nelle singole città, e le azioni dei governatori e altri funzionari di tutte le parti dell’Impero, e anche al fine di sapere che coloro avevano trasmesso il tributo annuale in ritardo, aveva stabilito un rapido servizio di corrieri pubblici."

Vennero addetti a:
  1. gestione di sistemi di comunicazione e alle comunicazioni di servizio all’interno dell’impero, 
  2. alla sorveglianza delle strade e delle locande del cursus publicus (sistema postale pubblico), 
  3. trasporto di lettere, 
  4. verifica che un destinatario nell’utilizzo del cursus non avesse un mandato di cattura
  5. come funzionari doganali, 
  6. nella direzione dei lavori pubblici 
  7. nell’acquartieramento dei soldati
  8. per sorvegliare l’arresto di alti funzionari
  9. per scortare anziani romani in esilio 
  10. per far obbedire alla regolamentazione nel governo della Chiesa
  11. fungevano anche da corrieri tra la corte (comitatus) e le province
  12. la supervisione del cursus publicus e dei porti ( curiosi litorum )
  13. controllo delle fabricae soggette al magister officiorum
  14. dovevano registrare tutte le denunce e, così facendo, controllare le negligenze degli amministratori locali. 
  15. avevano il compito di defensores dell'imperatore e dello stato
  16. come defensores avevano anche autorità giudiziaria in casi minori (Giustiniano I, nov.15.3.2, 4)
  17. diventati anziani, prestavano servizio come curiosi alla supervisione della carica pubblica
  18. infine diventavano capi di staff (principes) ai prefetti del pretorio e ai perfetti urbani.
Essendo fuori dal controllo dei governatori provinciali, alcuni agenti, detti “curiosi” (in greco diatrechontes) svolsero la funzione di ispettori divenendo una sorta di servizi segreti. Essi segnalavano ai tribunali tutto ciò che avevano visto o sentito nelle loro missioni varie, il che li rese molto temuti: il filosofo IV secolo Libiano li accusò di gravi colpe, per il fatto di terrorizzare e estorcere i provinciali, definendoli “pastori che avevano aderito al branco di lupi”.

I numeri degli agentes tendevano ad aumentare dimostrando sempre aumentati bisogni, il che era visto con una certa diffidenza dagli imperatori, che ne regolamentarono le promozioni (per anzianità, a parte due ufficiali, che potevano avanzare annualmente per volere dell’imperatore) e le dimensioni, ad esempio  1.174 nell’anno 430 (secondo una legge di Teodosio II), e 1.248 sotto Leone I (457-474).

Gli agenti in rebus erano esentati dalla giurisdizione dei governatori provinciali e potevano essere licenziati, in origine, dal magister officiorum, ma dopo il 415 ( in Oriente) solo dall'imperatore.

L'attività di informatori e delatori, l'abuso dei loro vastissimi poteri  e la corruzione dell'AIR (Agentes In Rebus), suscitarono l'odio e le rivolte del popolo, tanto che vennero pian piano esautorati fino a scomparire del tutto verso gli anni 776-79.
(Aur. Vitt. 39,44; Amm. Marc. 15,3,8; 16,8,9)

FONTANA DI VIA DEGLI STADERARI

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La fontana, costituita da una gigantesca vasca in granito egizio di Assuan, poggiata su una base in marmo di Carrara posta al centro di un grande bacino in peperino, fu rinvenuta nel 1985 durante gli scavi eseguiti nel cortile "della Palma", tra Palazzo Madama e Palazzo Carpegna.

Avendo circa 2000 anni, ed essendo stata realizzata da unico blocco, enorme per dimensioni e per peso, ha infatti un diametro di m. 5.30, ed un peso di circa 25 tonnellate, escluso il basamento, che è stato realizzato ex novo, essa è una delle fontane più preziose di Roma.
La fontana proviene delle terme costruite da Nerone intorno al 62 d.c. e restaurate da Alessandro Severo nel 227, per cui presero il nome di Terme Alessandrine, localizzate sotto il palazzo del Senato. La vasca che proviene dunque dalle terme di Nerone, che si trovano nel sottosuolo della zona, e che funzionarono dal I al V secolo d.c., faceva parte esattamente del Calidarium delle stesse.

Nelle guide medievali, questa vasca era ancora conosciuta e denominata concha Sancti Eustachii solo che con l'incuria assoluta di chi governava Roma, col tempo finì per essere ricoperta dalla terra e se ne dimenticò pure l'esistenza.

La fontana, che al momento del ritrovamento si presentava composta da otto frammenti, venne accuratamente restaurata e in un primo momento si pensò di trattenerla in senato, tanto è vero che venne restaurata a spese del senato, poi invece si cambiò idea e venne trasferita in Largo della Costituente, lungo Via degli Staderari verso Piazza S. Eustachio.



LA DONAZIONE

Si dice che la vasca sia stata donata dal Senato alla città di Roma, affermazione impropria perchè il senato non è un'associazione privata, ma appartiene come complesso monumentale al popolo italiano, e sorge sul suolo di Roma.

Poichè se a Roma, come in tutta Italia, si scava per qualsiasi ragione: edificare, aggiustare tubature, saggiare il sottosuolo ecc, e si rinviene qualsiasi pezzo antico, da un muro a un coccio romano, immediatamente si devono sospendere i lavori e devono intervenire le Belle Arti a tutela del patrimonio archeologico. 

Dopo di che se si tratta di un bene asportabile, questo viene posto in area pubblica o in un museo, se non è trasportabile si lascia in loco creandogli intorno un'area consona alla bellezza del reperto, se invece si trova sotto un edificio lì resta con obbligo del proprietario di porsi in qualche modo a disposizione affinchè il bene sia visitabile.

Ora il senato, ovvero i senatori, sicuramente non volevano visitatori nel loro palazzo, anche perchè avrebbero dovuto mettere a disposizione anche altre parti del palazzo, in quanto non si poteva far accorrere un pubblico solo per una vasca romana, anche se bellissima. per questa ragione si è deciso di trasferirla all'esterno del senato, a due passi da questo. 

Dunque il senato ha fatto quello che qualsiasi italiano avrebbe fatto se voleva ottemperare alla legge, in quanto tutto ciò che di arcaico si trova nel sottosuolo italiano non appartiene a chi ci sta sopra, neppure se ci abita, ma appartiene al popolo italiano. Trovandosi inoltre nel comune di Roma non poteva essergli tolto e trasferito in altro comune. Dunque il senato non ha regalato il manufatto romano ma l'ha solo e giustamente restituito agli italiani.

L’inaugurazione della fontana avvenne il 22 dicembre del 1987, in occasione del 40° anniversario della Costituzione Italiana, come ricorda una lapide posta di fronte alla vasca, sul Palazzo Madama.


GAIO DUILIO

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Nome: Gaius Duilius
Nascita: 260-258 a.c.
Morte: ?
Gens: Duilia
Consolato: 260 a.c.
Professione: Generale


Delle origini di Gaio Duilio (Gaius Duilius; 260-258 a.c. ... – ...) si sa poco e pure del suo cursus honorum. Era un homo novus, era della gens Duilia e non apparteneva cioè all'aristocrazia degli optimates romani. Divenne comunque console per l'anno 260 a.c., all'inizio della guerra con Cartagine. Il senato affidò, per tradizionale sorteggio onde non permettere parzialità, al console suo collega, il patrizio Gneo Cornelio Scipione Asina, il comando della flotta navale e a Duilio l'esercito di terra.



BATTAGLIA DELLE ISOLE LIPARI

Il senato di Roma aveva compreso che per l'espansione sul mare occorresse dotarsi di una potente flotta navale senza dover noleggiare navi dai Greci e dagli Etruschi per spostare le truppe di terra.
Narra Polibio che nel 264 a.c venne catturata una nave cartaginese durante il trasporto delle truppe in Sicilia prima della battaglia di Messina. « ...una loro nave coperta, nello slancio si spinse avanti fino a incagliarsi e cadere nelle mani dei Romani. Essi allora, usando questa come modello, sulla base di essa costruirono tutta la flotta. »
(Polibio, Storie, BUR. Milano, 2001)
Vennero costruite cento quinquiremi e venti triremi, i marinai vennero addestrati a vogare riproducendo a terra i banchi dei rematori e facendo delle prove di navigazione "virtuale". Sembra però che l'addestramento in mare durò molto meno.

RIPRODUZIONE DELLA COLONNA DI CAIO DUILIO
Gneo Scipione, dopo aver ordinato ai capitani delle navi di partire per Messina appena pronti, era partito in anticipo con 17 navi diretto allo Stretto. Passando vicino all'isola di Lipari, controllata da Cartagine, gli venne in mente di conquistarle, e così fece occupando città e porto. Avutane notizia Annibale inviò un membro del Senato cartaginese con venti navi.

« Questi, compiuta la navigazione di notte, bloccò nel porto Gneo e i suoi. Quando sopraggiunse il giorno, gli equipaggi si dettero alla fuga nella terraferma e Gneo, che era terrorizzato e non poteva fare nulla, alla fine si arrese ai nemici. »
(Polibio, Storie, BUR. Milano, 2001)
Le navi cartaginesi, avendo catturato la flottiglia nemica e il console  romano tornarono a Palermo.

Ora Gaio Duilio era rimasto solo a comandare sia terra che mare. Allora fece costruire una flotta di 120 navi, e poiché i romani sapevano combattere solo sulla terraferma fece collocare su ogni nave un ponte mobile con uncini, detto "corvo". In quello stesso anno le due flotte si scontrarono nella battaglia di Milazzo: quando le navi furono abbastanza vicine, i corvi furono calati contro i vascelli nemici, ancorandosi saldamente a questi.

In pratica il corvo era una passerella che fissata alla nave avversaria, permetteva a soldati abituati a combattere sulla terraferma di passare da una nave all'altra senza evoluzioni sulle funi e quindi di combattere come erano addestrati a fare.

Una volta abbordate le navi cartaginesi non poterono più manovrare e i romani, passando attraversando i ponti, trasformarono la battaglia navale in un corpo a corpo come  fossero a terra. Essendo molto più abili in battaglia i romani vinsero e divennero i nuovi padroni del Mediterraneo occidentale.
« Durante il quinto anno della guerra punica, che continuava contro gli Africani, i Romani combatterono per la prima volta sul mare. Nel consolato di Caio Duilio e di Cneo Cornelio Asina si fornirono di vascelli rostrati che vengono dette liburne. Il console Cornelio cadde vittima di un tranello. Duilio, si unì alla battaglia, sconfisse il comandante dei cartaginesi, catturò trentuno delle loro navi, affondandone quattordici, prese settemila prigionieri nemici e ne uccise tremila; Nessun'altra vittoria riuscì mai ai Romani più gradita di questa, dato che ora erano non soltanto invincibili per terra, ma anche potenti in mare»
(Eutropio, Breviarium ab Urbe condita)

Duilio fu pertanto il primo romano a vincere in mare, e venne onorato con un trionfo e con l'erezione nel Foro di una colonna costruita con i rostri delle navi nemiche.

ISCRIZIONE DELLA BASE DELLA COLONNA DUILIA (260 a.c.):

EODEM MAGistratud bene rEM NAVEBOS MARID CONSOL
PRIMOS Ceset copiasque Clasesque NAVALES
PRIMOS ORNAVET PAravetque
CVMQVE EIS NAVEBOS CLASEIS POENICAS OMNis
item maxVMAS COPIAS CARTACINIENSIS
PRAESENTEd hanibaled DICTATORED OLorOM
INALTOD MARID PVCNandod vicet
VIQVE NAVEis cepeT CVM SOCIEIS SEPTEResmom I,
quinqueresmOSQVE TRIRESMOSQVE NAVEIS Xxx
merset XIII. aurOM CAPTOM: NVMEI MMMDC
ARCENTOM CAPTOM PRAEDA NVMEI …
oimne CAPTOM AES …
primos quoOQVE NAVALED PRAEDAD POPLOM donavet
primosque CARTACINIEnsIS inceNVOS
Duxit in Triunphod EIS CAPT

ISCRIZIONE DELLA BASE DELLA COLONNA DUILIA
Per il trionfo del console Caio Duilio, sulla Sicilia e sulla flotta punica venne inciso:

C. DVILIVS M.F. M.N. COS.
PRIMVS NAVALEM DE SICVLeis
ET CLASSE POENICA EGIT
K. INTERCALAR. AN. CDXCIII

Parte principale di quanto resta dell’iscrizione incisa sulla base della colonna rostrata di Caio Duilio (CIL I, 00025): "da console, primo fra i Romani, si illustrò con le navi in mare; egli fu il primo ad armare ed addestrare equipaggi e flotte di navi combattenti; e con queste navi sconfisse in una battaglia nell'alto mare le flotte puniche e parimenti le più possenti truppe dei Cartaginesi, in presenza di Annibale, il loro comandante in capo. E con la forza egli catturò le seguenti navi con i rispettivi equipaggi: una settereme, 30 quinqueremi e triremi; mentre 13 ne affondò. Oro catturato: più di 3600 monete" [I.L.7]. …
"E fu anche il primo a donare al popolo una preda navale, nonché il primo a condurre in trionfo dei cittadini Cartaginesi catturati" [I.L.2]

Nel 258 a.c., Duilio divenne censore con Lucio Cornelio Scipione. Successivamente divenne Princeps Senatus dal 236 al 230 a.c.

Le fonti riportano che Duilio, digiuno di navigazione dovette porsi alla testa della flotta, la dovette riorganizzare, con grandi doti di comando e soprattutto di grande inventiva, fino ad inventarsi 
un nuovo sistema d'arma: il corvo, Alcuni mettono in dubbio che tanta genialità potesse appartenere ad un generale di fanteria, dato che anche se il console avesse avuto un'esperienza navale, l'invenzione richiedeva una mentalità da ingegnere-matematico greco. Pertanto si è pensato che l'idea fosse venuta ad un greco che l'avrebbe suggerita a Duilio.

GIULIO CESARE

Giulio Cesare

Ma non dimentichiamo però che altri seppero supplire con la fantasia ad alcune incapacità marinare, e in particolare con Gaio Giulio Cesare. "Cesare decise dl portar guerra al Veneti. L'impresa era difficilissima poichè i Veneti erano superiori per la flotta:

"La nostra flotta negli scontri poteva risultare superiore solo per rapidità e impeto dei rematori, ma per il resto le navi nemiche erano ben più adatte alla natura del luogo e alla violenza delle tempeste. In effetti, le nostre non potevano danneggiare con i rostri le navi dei Veneti, tanto erano robuste, né i dardi andavano facilmente a segno, perché erano troppo alte; per l'identica ragione risultava arduo trattenerle con gli arpioni. Inoltre, quando il vento cominciava a infuriare e le navi si abbandonavano alle raffiche, le loro riuscivano con maggior facilità a sopportare le tempeste e a navigare nelle secche, senza temere massi o scogli lasciati scoperti dalla bassa marea, tutti pericoli che le nostre navi dovevano paventare." (De Bello Gallico)

Cesare fece costruire una specie di arpioni che vennero lanciati sulle vele dei Veneti squarciandole, di modo che le navi del nemico non riusciva più a navigare e potevano essere arrembate.




LA BATTAGLIA DI MILAZZO

Gaio Duilio venne a sapere da messaggeri che le truppe cartaginesi stavano saccheggiando la zona attorno a Milazzo (Sicilia), per cui, dopo aver affidato ai tribuni la gestione delle truppe e delle operazioni a terra, diresse la sua flotta verso la città siciliana. Intanto però, Annibale di Giscone, informato di questo spostamento delle navi di Duilio, salpò da Palermo al comando di 130 navi.
Il generale cartaginese era convinto di poter vincere come era accaduto alla battaglia di Lipari, data la sua capacità operativa in mare, decisamente superiore a quella romana. Annibale ignorava però la capacità ideativa dei romani, che mutava di anno in anno, così incrociò la flotta nemica nel golfo di Milazzo.
I Cartaginesi, vedendo i corvi sulle tolde delle navi nemiche,
« ...restarono incerti, stupiti dal modo in cui gli attrezzi erano congegnati; tuttavia, avendo una pessima opinione dei nemici, quelli che navigavano davanti a tutti si gettarono audacemente all'attacco.»
(Polibio, Storie, I, 23, BUR. Milano, 2001)

Il corvo fu invece decisivo per le sorti della battaglia: le navi ormai legate e immobilizzate tra di loro permisero ai Romani di scontrarsi sui ponti delle navi e la battaglia da navale divenne simile a una terrestre, dove i Romani vincevano da secoli.
Le navi della flotta punica, vedendo il pessimo risultato, cercarono di manovrare per evitare l'aggancio dei corvi, solo in questo modo sarebbero rimasti avvantaggiati dalla superiore qualità delle loro navi e dalla migliore esperienza degli equipaggi.
« Confidando nella loro velocità speravano di portare gli assalti a colpo sicuro, gli uni dai fianchi, gli altri da poppa. »
(Polibio, Storie, I, 23, BUR. Milano, 2001)
 
I corvi però, essendo imperniati verticalmente, potevano essere diretti quasi in ogni direzione e le navi cartaginesi finivano immobilizzate, assalite e catturate. Alla fine cinquanta navi puniche restarono nelle mani dei Romani mentre altre, virarono di bordo e fuggirono. I Cartaginesi in parte vennero uccisi e in parte si arresero; trenta navi vennero catturate e con queste anche la nave di Annibale che però riuscì a sfuggire tramite una una scialuppa.
Il senato e il popolo di Roma esultarono: la battaglia di Milazzo aveva segnato l'ingresso di Roma nel Mediterraneo.



Scipione trionfante

Si sa che Scipione Asina, lo sconfitto di Lipari poi liberato dai cartaginesi venne rieletto console nel 254,  ottenendo in seguito un trionfo, ma proprio per questo non si riesce a capire la  marginalizzazione operativa di Duilio, seppure coperto di grandi onori. 
A meno che, senatore consolare di enorme prestigio, non abbia partecipato e presieduto alle commissioni che i padri coscritti crearono per dirigere le complesse operazioni belliche: o per investigare sui tanti guai che colpirono la flotta romana nel ventennio 
Resta da capire perché a Duilio non siano stati affidati altri comandi, come console o proconsole: gli ammiragli esperti erano importantissimi nel conflitto che vide diverse flotte di Roma distrutte dalle navi nemiche. Eppure il console, uscito vittorioso dalla prima grande prova navale affrontata da Roma, non avrà altri incarichi di comando sul mare e per quanto se ne sappia, nemmeno sulla terra. 
Eppure doveva godere di buona salute: nel 231 era infatti ancora vivo e vegeto, poiché, ultrasettantenne, presiedette a un turno elettorale straordinario quale dittatore. Per giunta il senato gli aveva fatto tributare grandi onori dopo la battaglia di Milazzo. Duilio infatti non solo ottenne il trionfo, ma venne eretta in suo onore nel Foro una splendida colonna adornata coi rostri delle unità puniche catturate, e un tempio a Giano, pagato col bottino di guerra. 
Inoltre, nel 258 il Senato decretò la nomina dell'ammiraglio a censore (onore straordinario, visto che Duilio era un homo novus, quindi plebeo) e in più l'accompagnamento a vita, nelle cerimonie pubbliche, da parte di musici e torce,

Erano tributi davvero eccezionali, per una città sempre pronta a far abbassare la cresta ai suoi cittadini troppo ambiziosi o fortunati, come avrebbe di li a poco sperimentato sulla sua pelle Scipione Africano, che da bambino ebbe modo di veder passare il vecchio console col suo corteo trionfale.


Cosa ne resta oggi:

Navi intitolate a Gaio Duilio dalla Regia Marina e dalla Marina Militare Italiana:

- Caio Duilio - corazzata classe Caio Duilio varata nel 1876, considerata a quel tempo tra le più potenti al mondo.
- Caio Duilio - nave da battaglia classe Caio Duilio, varata nel 1913; ricostruita tra il 1937-1940, prestò servizio fino al 1956
- Caio Duilio - incrociatore lanciamissili/portaelicotteri classe Andrea Doria, varata nel 1962
- Caio Duilio - cacciatorpediniere/fregata lanciamissili classe Orizzonte varato a Riva Trigoso (GE) il 23 ottobre 2007

IPOGEO DI VIBIA

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Vibia era sepolta, insieme al marito Vincenzo, in un arcosolio del cimitero sotterraneo che da lei stessa ha preso il nome. All’ipogeo si accede oggi direttamente dalla via Appia Antica, al numero civico 101, dove nel Medioevo fu costruito un casale, detto “Casale della Torretta”.
All’interno del cimitero, costituito da diverse gallerie, si conservano alcuni arcosoli dipinti e un cubicolo monumentale.

Il rinvenimento, del tutto casuale, risale al XVIII secolo, quando lo scopritore, Giovanni Gaetano Bottari, ritenne erroneamente di essersi imbattuto in gallerie pertinenti al complesso di Callisto, ubicato nelle immediate vicinanze. in realtà, anche se l'archeologo non specifica quando, venne scavato anche in precedenza; egli si limitò a pubblicare, nella sua opera Sculture e pitture sagre estratte dai cimiteri di Roma del 1754, alcune particolari pitture con chiare allusioni a culti orientali non-cristiani legati al dio Sabazio e al dio Mitra.

Per circa un secolo della catacomba si perse memoria, finché alla metà dell’Ottocento essa fu riscoperta dal padre gesuita Giuseppe Marchi, il quale si convinse invece che l’ipogeo dovesse essere identificato con il cimitero comunitario di Pretestato.

Da qui prese il via un ampio dibattito sulla presenza in un cimitero cristiano di sepolture pagane; solo alla metà del XX secolo dopo ulteriori scavi, ci si rese conto che l'intero complesso sotterraneo era composto da più ipogei privati, collegati tra loro in epoche diverse.

Il nome dell'ipogeo deriva appunto da Vibia, il personaggio sepolto nella tomba più famosa e meglio conservata dell'intero complesso, e per un certo periodo è stato anche conosciuto come “ipogeo delle monachelle” per la presenza di una pittura con sei personaggi velati.

Questa catacomba di diritto privato, costituita da otto distinti ipogei, è databile alla seconda metà del IV secolo e fu usata per circa un cinquantennio.



DESCRIZIONE

Il complesso è composto da tre livelli, scavati in momenti successivi; il più antico, e anche meglio conservato, è quello che si trova più in profondità, dove è situato l'ipogeo di Vibia.

L'attuale ingresso è posto lungo la via Appia antica, quello originale era collocato più all'interno, alla fine di un viottolo. 

La scala, molto ripida, scende fino ad un livello di 6 metri rispetto al piano stradale e conduce ad una galleria che nel corso degli anni, per esigenze di spazio, venne ulteriormente proseguita e ampliata.

In fondo alla galleria venne scavata una scala da pozzo che scende per ulteriori 12 m fino ad intercettare la falda freatica.

La falda acquifera albergò in un bacino circolare profondo tre m e largo due di cui nessuno parla.

Ben si sa invece che i pozzi avevano tra i pagani un grande senso sacrale, tanto che dentro di essi si ponevano speso immagini di divinità che venivano così a proteggere il luogo in questione senza che l'immagine fosse visibile e pertanto priva di rischi di trafugamento.

Sempre a partire dalle scale d'ingresso, si sviluppa un'altra galleria che, attraverso undici alti gradini, scende fino a nove m di profondità dove appunto si trova l'ipogeo di Vibia. 

Qui si trova il famoso arcosolio con le magnifiche e misteriose pitture, dove il primo affresco raffigura il ratto di Proserpina da parte di Plutone sulla quadriga, molti vorrebbero però riconoscere nella fanciulla rapita Vibia, rapita appunto alla luce e come la Dea portata nelle tenebre degli inferi.

Nel sotto arco compare l'immagine di Mercurio nuntius (o psicopompo) che accompagna Vibia per essere giudicata mentre viene tenuta per mano da Alcesti (la donna che Ercole trasse dal buio degli inferi).

Nella scena centrale invece dominano le due divinità Dispater (Plutone), con la testa coronata di fiori e Aeracura (Proserpina), vestita con una tunica color acqua marina, seduti su un alto podio e sulla sinistra le tre Parche, le Dee del Fato, che presiedono al destino dell'uomo. 

Nell'immagine della lunetta Vibia, preceduta dall'angelus bonus, che la tiene per mano, viene introdotta al convito dei beati e, subito dopo, sul lato destro, è rappresentata mentre in un campo di fiori banchetta tra i bonorum iudicio iudicati, tra brocche di vino e vivande.

In un'iscrizione dipinta con lettere rosse, suo marito Vincenzo, sacerdote di Sabazio, un culto molto simile ai Misteri Dionisiaci, esorta tutti a vivere una vita gioiosa. Strano però con una moglie morta, perchè sua moglie non ne può usufruire dell'esortazione. 

Dunque a destra sta Vibia accompagnata da due figure, identificabili grazie alle iscrizioni di Alcestis e Mercurius nuntius, al cospetto di due personaggi imponenti che siedono su un podio, Dispatere e una figura femminile indicata col nome di Aeracura, nella quale si deve sicuramente riconoscere Proserpina, in qualità di consorte di Plutone

Ora Erecura (o Herecura, Aerecura, Eracura) era una Dea preromana (forse di derivazione celtica), rappresentata con gli attributi di Proserpina e associata al Dis Pater. Lei appare con quest'ultimo in Svizzera, Germania, Italia, Gran Bretagna e Francia e in molti testi magici austriaci, una volta in compagnia di Cerbero.

Altre donne sono in piedi a sinistra, come coro o sfondo alla scena principale.
Poco più avanti altri due arcosoli fanno riferimento a culti non cristiani, precisamente a quelli Mitraici: nel primo il defunto, non identificato, è raffigurato nei panni del miles, il soldato, che nel culto di Mitra rappresenta il terzo grado dei riti d'iniziazione.


Sull'altro, dove sono sepolti un certo Caricus e un altro personaggio sconosciuto, è riportata un'iscrizione: M. Aurelio sacerdos dei Solis Invicti Mithrae.

Nell'ipogeo sono presenti altri due ambienti importanti, il primo è un vasto cubicolo quadrato con una volta a crociera ribassata; ai quattro lati quattro colonne con capitello,  scolpite a tutto tondo nel tufo e che sorreggono gli archi. Intorno una ventina di loculi ancora chiusi con materiale laterizio ma privi di epigrafi, non è presente pavimentazione e le pareti non sono intonacate. 

Il secondo ambiente, da collocare nell'ultimo periodo di vita della struttura, è il cosiddetto arcosolio dei vinai: dipinto in modo grossolano, che rappresenta scene tratte dalla vita dei vignaioli, con riferimento ad attività di acquisto e vendita del vino, probabilmente l'attività del defunto.

Le gallerie, molte delle quali sono crollate, continuano in altre direzioni e vanno a intercettare altre piccole necropoli sotterranee e cave di tufo scavate in tempi più recenti.

In realtà l’ipogeo di Vibia non è che uno dei cimiteri di diritto privato che si incontrano, uscendo da Roma, lungo il lato sinistro della via Appia Antica. Esso, inoltre, non è isolato ma fa parte di un più ampio complesso, chiamato anch’esso “di Vibia”, comprendente ben sette ipogei, collegati tra loro soltanto in epoca tarda. Dopo il Padre Marchi diversi studiosi si sono pronunciati circa la possibile interpretazione del cimitero di Vibia, come Raffaele Garrucci, Enrico Stevenson, Franz Cumont e Carlo Cecchelli. Fu infine Padre Antonio Ferrua ad effettuare gli ultimi scavi, negli anni ’50 del XX secolo.

Anticamente non si accedeva come oggi dalla via Appia, bensì da un viottolo che si dipartiva dalla stessa. Della scala che conduceva a un primo pianerottolo si conservano soltanto alcuni gradini, in quanto essa, così come altri settori della catacomba, fu tagliata dalle moderne gallerie realizzate per lo sfruttamento della cava di pozzolana.

Dal pianerottolo si diramava verso nord una galleria che conduceva a un pozzo realizzato per poter attingere l’acqua, necessaria ai riti in onore dei defunti all’interno della catacomba.

Verso ovest partiva invece una seconda galleria, da cui si diramavano a loro volta altre due gallerie.
L’arcosolio in cui erano sepolti Vibia e Vincenzo è databile all’ultimo approfondimento della stessa, quindi alla seconda metà del IV secolo d.c.



Le pitture che lo decorano raffigurano nell’ordine:

- il rapimento di Vibia da parte di Plutone che la conduce all’Ade sulla sua quadriga, 

- il giudizio a cui essa è sottoposta una volta giunta negli Inferi e, nella lunetta di fondo, 

- l’angelus bonus che fa entrare Vibia nei Campi Elisi, dove la defunta, che è stata ben giudicata, può finalmente godere delle gioie del banchetto, al quale prende posto in posizione centrale.

 Mentre il nome di Vibia è indicato nelle didascalie delle pitture, quello del marito lo si legge anche in un’iscrizione posta presso la tomba, dove è scritto che Vincenzo, sacerdote del Dio orientale Sabazio, invita tutti a godersi la vita.
Sulla parete di fronte, sempre nella stessa galleria si trovano altri due arcosoli di cui il primo è  detto “dei misteri”, per via delle raffigurazioni di soldati che hanno fatto pensare a un legame con i riti iniziatici legati al culto del dio Mitra.

L’iniziazione prevedeva infatti diversi gradi, uno dei quali era per l’appunto quello del miles (soldato). Secondo tale interpretazione, a questo arcosolio si legherebbe quello adiacente in cui era sepolto un certo Caricus, probabilmente un maestro di scuola, come ci dice l’iscrizione nella quale è menzionato, tra l’altro, proprio il dio Mitra.




GLI STUDIOSI

La presenza di queste tre sepolture, legate da una parte al culto di Sabazio e dall’altra alla religione mitraica, provocò un notevole trambusto al momento della scoperta, in quanto si trattava di prove certe dell’esistenza all’interno dell’ipogeo di sepolture di pagani, che coesistevano con quelle dei cristiani.

E perchè mai non avrebbero dovuto? Solo i cristiani successivi trovarono scandaloso coabitare da morti coi pagani, ma il fato si è che a volte si trovavano credo religiosi diversi nell'ambito della stessa famiglia.

A quei tempi infatti però si rifiutava l’idea che pagani e cristiani potessero trovare sepoltura in uno stesso cimitero, come fosse una contaminazione, poi si appurò che perfino la tomba di San Pitreo (presunta) condivideva la locazione coi pagani.

Gli studiosi si divisero dunque tra chi, come il Bottari, si arrampicava sugli specchi pur di difendere ad ogni costo la cristianità della catacomba e chi invece, come il Padre Marchi, accettando l’evidenza di fronte a delle sepolture indiscutibilmente pagane, immaginò l’originaria esistenza di due muri che sarebbero stati eretti proprio per dividere queste tombe da quelle cristiane. 

I muri, di cui egli sosteneva di aver addirittura rinvenuto dei blocchi, sarebbero venuti a trovarsi proprio nella galleria V3, l’uno prima dell’arcosolio “dei misteri” e l’altro immediatamente dopo l’arcosolio del seguace di Mitra Caricus.

In realtà la galleria non era affatto interrotta, ma continuava verso sud con ulteriori sepolture, alcune pagane e altre cristiane. Sulla destra si apriva l’ingresso a un cubicolo monumentale (Va), interamente scavato nel tufo, a pianta quadrata e con un soffitto alto circa 3 m. Per accedervi è tuttora necessario scendere alcuni gradini, in quanto il suo piano pavimentale è leggermente più basso rispetto a quello della galleria V3.

Ai lati del cubicolo, sempre ricavate nel tufo,si levavano quattro colonne sormontate da capitelli appena abbozzati con delle fogliette, come sorreggessero idealmente la volta a crociera che lo copre. Numerosi sono i loculi scavati sulle quattro pareti e in alcuni casi le iscrizioni evidenziano trattarsi di sepolture cristiane.

Un ultimo arcosolio degno di nota per la sua decorazione dipinta si trova all’interno della più recente galleria del cimitero, cioè la galleria V6, un proseguimento di V2 scavato alla fine del IV secolo.

L’arcosolio, proprio per via delle sue pitture, che presentano scene legate al trasporto dei vini, è detto “dei vinai”. Nel sottarco, sulla destra, sono infatti raffigurate delle botti, mentre al centro della lunetta di fondo è dipinta una nave che trasporta anfore e che, con le vele alzate, sta arrivando al porto.

Se è evidente dunque che in questa catacomba fossero presenti sepolture sia cristiane che pagane, ciò non desta più meraviglia come un tempo. È questa infatti una tipica caratteristica dei cimiteri di diritto privato, quale è appunto l’ipogeo di Vibia. Il che significa che spesso gli antichi romani fossero più civili degli studiosi moderni.



CRIMINALITA' ROMANA

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ROMA SECURITY

I problemi di sicurezza a Roma furono sempre una nota dolente dell’Impero, con emergenze più gravi di qualsiasi altra grande città dell'epoca per il semplice fatto che era molto più grande e trafficata di qualsiasi città dell'epoca.
Marziale scrive ironicamente che solo un pazzo può uscire di notte a Roma senza aver fatto testamento. Se pensiamo per un attimo a una città con un milione e pure con un milione e mezzo di abitanti senza una luce notturna comprendiamo quanto potesse far paura di notte.

C'erano le ronde notturne munite di fiaccole e armate ma rarissime da incontrare. Rarissimi erano anche i viandanti, a parte gli ospiti di un ricco banchetto che dovevano circondarsi di schiavi muniti di fiaccole e di armi per non essere assaliti dalla malavita locale.

A guardia dei malintenzionati a Roma c'era la Celere, truppe formate da 300 uomini a cavallo che accorrevano in caso di sommossa o altro e i vigilantes che spegnevano gli incendi e le risse, nonchè attaccavano i malviventi. Ma rispetto alle dimensioni della città erano ben poca cosa, per cui difficilmente le gente si azzardava a girare per strada al buio, tranne vagabondi, ubriachi e malintenzionati.

Le strade di Roma di notte erano anche un luogo prediletto dai ladri per rubare ai passanti oggetti di valore. Per questo era importante non portare con sé ricchezze o per lo meno procurarsi un gruppo di accompagnatori, ma questo era possibile solo ai benestanti. Nelle altre città del vasto Impero Romano la situazione non era diversa, anzi, forse era peggiore, visto che almeno a Roma erano presenti le coorti cittadine e i vigili del fuoco che di tanto in tanto potevano intervenire contro i criminali.

Ma c'era una delinquenza più nascosta e insidiosa. Oggetto di particolare attenzione erano le coppie benestanti senza figli. Queste ricevevano molte lusinghe, erano invitate ai banchetti, ricevevano doni preziosi, offerte di ospitalità e assistenza legale gratuita. Alcuni si dedicavano a questa attività in modo professionale e poteva accadere che si ricorresse anche a pratiche criminali come l’avvelenamento per conquistare l’eredità. In ogni caso i cacciatori di eredità erano delle persone intraprendenti e riuscivano a conquistare grandi ricchezze.

A volte succedeva invece che fossero le supposte vittime ad approfittare delle situazioni, per sfruttare le cure e le attenzioni di coloro che aspiravano alla loro eredità. Per questo fingevano di essere deboli e malate, modificavano continuamente il loro testamento o minacciavano di farlo, se non ricevevano quello che volevano.

Chi doveva spostarsi a lunga distanza in genere ricorreva alle carrozze, sia di giorno che di notte, anche perchè nelle vie solitarie Roma era pericolosa anche di giorno. Ma questo non fu appannaggio solo dell'antica Roma, perchè perdurò per tutto il medioevo e molto oltre. La prima illuminazione notturna a Roma, quella a gas, fu introdotta molti secoli dopo, solo dopo la nomina di papa Pio IX, nel 1846.



SUOLO ITALICO SECURITY

Strutture criminali organizzate o associazioni gerarchizzate tipo mafia sembra non esistessero a Roma, ma abbondavano i furti e le aggressioni. Pur senza gerarchia sembra però che alcuni ladri formassero una specie di corporazione, ad esempio alla Verna, il cui nome richiama gli inferi (Averno).

Risulta infatti che la zona umbra della Verna, sacra poi a san Francesco, si chiamasse prima Lavernia, perchè il bosco era, prima che al santo, sacro alla Dea dei ladri, nonchè Dea infera, Laverna, i quali ladri in quel bosco avevano rifugio e riunioni segrete nonchè ricettazioni varie. Chi non era un ladro non si azzardava ad avventurarsi in quei luoghi.

Per la maggior parte della storia è stato il mondo rurale a dar adito alla criminalità organizzata, esportando nell’ambiente urbano le azioni delle principali organizzazioni criminali. Pirati, banditi e briganti attaccavano le vie commerciali, incidendo in maniera pesante sull’aumento dei costi dei beni, dei tassi assicurativi e dei prezzi al consumatore.

Comunque dalle fonti antiche, non viene mai menzionata una banda o un gruppo di criminali specifico, con una identità autonoma e ben definita, in grado di sopravvivere alla morte o cattura del proprio capo.
Eccettuati i fenomeni di ribellione contro il potere romano (azioni con un fine politico, non mirate alla rapina), la storiografia dell'epoca ci presenta il quadro di una criminalità su piccola scala, di bande che controllavano zone ristrette, per lo più impervie o di confine, senza essere radicate nel tessuto sociale o urbano, e prive al contempo di una rete di conniventi e fiancheggiatori.

In quanto ai conquistatori barbari, sia vandali, che goti, normanni, o le orde turche e mongole, non sono normalmente considerate gruppi criminali organizzati, ma hanno in comune con le organizzazioni criminali di successo molte caratteristiche. Essi non avevano, per la maggior parte, una base ideologica o etnica predominante, facevano uso di violenza e intimidazione, e rispettavano codici di legge propri.



I BRIGANTI

Però le più grandi preoccupazioni di Roma non furono i ladri,  ma i pirati e i banditi, o briganti che dir si voglia. Mentre il termine "bandito" equivale a "fuorilegge" o "bandito dalla società", il termine Brigante deriva dalla Dea celtica Brigantia, un'antica Dea trinitaria che riguardava i tre aspetti della vita: la nascita, la crescita e la morte. Brigantia personificava il terzo aspetto della Dea, era la Dea della morte e quindi della guerra. A lei si rivolgevano i soldati ma pure i rivoltosi o i ribelli, e si rivolsero a lei i Britanni per combattere l'occupazione romana.

BRIGANTIA, DEA CELTICA
Il brigantaggio si valeva di bande armate che assalivano i gruppi solitari, cioè i viaggiatori, i contadini e i pastori, tutta gente che si trovava fuori città senza la protezione della polizia locale, cioè dei vigilantes.

Giovenale, poeta e scrittore del II sec. d.c., descrive un padre romano che esorta il figlio a conquistarsi la gloria distruggendo le fortezze dei Briganti, una serie di tribù che erano state una spina nel fianco per i romani in Britannia. Non potendo competere con la supremazia romana i briganti facevano scorrerie e agguati, depredando e uccidendo tutto ciò che era possibile.

BRIGANTIA DEA CELTICA Ma il brigantaggio era già un vecchio problema nell'antica Roma, quando a Taranto intorno al 185 a.c. avvenne un'insurrezione sociale composta perlopiù da pastori, stanchi di essere oppressi da tasse così gravose, che arrivarono a formare vere e proprie bande. A volte il brigantaggio era una risposta alle ingiustizie dello stato.

Per risolvere la questione, il pretore Lucio Postumio Tempsano attuò una dura repressione in cui furono condannati circa 7.000 rivoltosi, alcuni dei quali furono giustiziati mentre altri riuscirono ad evadere.

Anche Lucio Cornelio Silla prese provvedimenti contro i briganti, anche detti sicari o latrones, con la  Lex Cornelia de sicariis nell'81 a.c., che prevedeva pene capitali durissime come la crocifissione e l'esposizione alle belve (ad bestias).

Giulio Cesare affidò nel 45 a.c. al pretore Gaio Calvisio Sabino, uno che gli restò fedele fino alla morte e oltre, il compito di combattere il brigantaggio che imperversava un po' su tutto il suolo italico.

Qualche brigante lasciò il segno o le gesta delle proprie avventure, ed eccone qualcuno:



SELEURO

Strabone ricorda la figura di Seleuro, allevatore, chiamato figlio dell'Etna, che messosi a capo di una banda armata, per molto tempo razziò le città dell'area etnea.  Catturato, fu portato a Roma, nel Foro e con la scusa di farlo assistere a un combattimento di gladiatori, fu posto su di un palco che rappresentava il vulcano Etna, posizionato sopra gabbie contenenti bestie feroci. Come una trappola, il palco si aprì, Seleuro cadde giù e morì sbranato.



COROCOTTA 

Plinio il Vecchio narra del brigante Corocotta (dal nome di un animale mitico generato dalla leonessa etiopica con il maschio della iena) in Cantabria (Spagna), con al seguito parecchi uomini, per sedare i quali Ottaviano Augusto, nel 26 a.c. fu costretto ad impegnare una delle migliori legioni. I briganti furono uccisi e le loro teste esposte sui pali a monito di altri eventuali ribelli.
Secondo una tradizione invece Corocotta, saputo che Augusto aveva posto una taglia sulla sua testa, si presentò a riscuoterla. Ammirato da tanto coraggio l'imperatore non solo gli consegnò la taglia ma gli comminò pure tutti reati passati. Naturalmente è di pura invenzione.



AI TEMPI DI AUGUSTO

Verso la fine della Repubblica, data la grande insicurezza, moltissimi portavano sempre con sè armi da usare alla prima occasione, ma quando la situazione divenne più tranquilla, con la fine delle guerre civili, Augusto emanò la Lex iulia de vi publica et privata che vietava il possesso di armi.

Essere sorpresi a girare armati senza poterlo giustificare era grave reato, per cui vi fu una drastica diminuzione delle armi in circolazione per cui le risse si facevano a pugni, bastoni o sassi, con danni minori.
Analizzando i circa 300 morti dell’eruzione di Ercolano, si è osservato che uno solo di loro era armato, ed era un militare, ossia autorizzato a portare armi.

Tiberio invece preferì prevenire le ribellioni, per cui trasferì 4.000 ebrei in Sardegna, nel timore che le loro bande si trasformassero in insorgenze, istigate da rivali politici.

BULLA FELIX

BULLA FELIX

Bulla Felix (la bulla era un amuleto portato dai bambini) fu attivo tra il 205 e il 207 a.c. sotto l'imperatore Settimio Severo. Egli disponeva di una banda di 600 uomini, soprattutto schiavi fuggiti e liberti imperiali, e riuscì ad eludere la cattura per due anni.Cassio Dio presenta le imprese di Bulla Felix come un affronto a Settimio Severo che mentre stava vincendo le guerre in Gran Bretagna, un fuorilegge in Italia lo eludeva.

AUTENTICA BULLA ROMANA
Bulla figurò come oppositore un'autorità ingiusta e alla disuguaglianza sociale, e la sua storia fu narrata da Cassio Dio (155-235), che disse di lui, tanto era leggendario "mai realmente visto quando è stato visto, mai trovato quando è stato trovato, mai catturato quando è stato catturato."

Il bandito è un modello sovrano, che prende solo una parte equa ai ricchi per distribuire alla comunità, e che sostiene i membri creativi della società. Si è lanciato come vendicatore di coloro che hanno sofferto dalle guerre civili e per la pesante tassazione. Cassio Dio racchiude la sua percezione di Severo per contrasto con un aneddoto sul letto di morte, in cui si suppone che l'imperatore abbia detto ai suoi figli di "arricchire i soldati, e di nutrire disprezzo per tutti gli altri uomini".

Felix era un cognomen adottato da generali romani e capi di stato dal tempo del dittatore Silla, ed era stato utilizzato anche da Commodo. Felix indicava un leader dotato di Felicitas, fortuna che porta al successo a sé, e a coloro che lo circondano. "Bulla" ricorda l'amuleto a bulbo (bulla) indossati dai bambini e generali trionfa come un fascino protettivo.

Bulla Felix operava sui trasporti per terra e per mare tra il porto di Brundisium e le campagne presso Roma. Valendosi di una nutrita banda e di una fine organizzazione conosceva ogni carico ed ogni contenuto del carico che venisse spedito a Roma. I liberti imperiali che componevano la sua banda probabilmente erano stati estromessi da posizioni privilegiate a causa delle guerre civili in seguito alla morte di Commodo, e all'ascesa di Settimio Severo (193-211).

Cassio suppose che una banda di briganti con tale capacità organizzativa poteva valersi di uomini degradati della guardia pretoriana, dei seguaci di usurpatori, di quelli che avevano perso le proprietà >confiscate durante le guerre civili. Sembra che Bulla non avesse mai ucciso nessuno ma solo rubato, e se assaliva degli artigiani si serviva del loro lavoro e poi li lasciava andare con un generoso dono.

Su di lui corsero parecchi aneddoti. In uno due dei suoi uomini erano stati condannati alle bestie nell'arena, Bulla, vestito come un governatore provinciale, fa visita al direttore del carcere. Dice che ha bisogno di alcuni uomini per un duro lavoro, come usava tra gli uomini condannati, e mostra tali esigenze che il direttore sceglie proprio i banditi di Bulla e glieli consegna.In un altro aneddoto gli si avvicina un centurione al comando della forza romana inviato a catturarlo, Bulla finge di essere qualcun altro, e si offre di rivelare la posizione del covo dei banditi. Il centurione va con lui, e cade in un'imboscata.

Bulla convoca un tribunale finto, si veste da magistrato e ordina che la testa del centurione venga parzialmente rasata alla maniera degli schiavi. Poi lo lascia andare, a condizione che egli consegni un messaggio ai suoi "maestri": "Alimenta bene i tuoi schiavi, così non si daranno al brigantaggio"

La storia potrebbe essere inventata, ma la preoccupazione per l'alimentazione e l'abbigliamento degli schiavi venne espressa dal giurista Ulpiano, che servì come assessore allo stesso prefetto del pretorio che alla fine portò Bulla Felix a processo.

Dopo due anni, Bulla viene catturato attraverso un tradimento disonorevole piuttosto che con il confronto diretto. Un tribuno militare a cui è stato affidato un gruppo di cavalieri per catturare Bulla Felix vivo. Il tribuno appreso che Bulla aveva una relazione con una donna sposata, la mette sotto pressione, promettendole l'immunità in cambio di informazioni. Così il tribuno catturò Bulla mentre dormiva in una caverna usata come nascondiglio.

Bulla viene condotto dinanzi al prefetto del pretorio Papiniano, che gli chiede perché fosse un bandito. "Be ', perché sei un prefetto?" risponde Bulla ha risposto, equiparando i due lavori.
Ricorda l'aneddoto in cui Alessandro Magno chiede a un pirata catturato cosa lo ha spinto a molestare il mare; l'uomo ha risposto: "La stessa cosa che richiede a molestare il mondo lo faccio con una piccola barca e sono chiamato un bandito, lo fai con una grande flotta, e sei chiamato imperatore."

Una storia simile su Clemens schiavo fuggitivo, spacciatosi da Agrippa Postumo e portato davanti Tiberio: l'imperatore ha chiesto come si era trasformato in Agrippa, e l'impostore rispose"Allo stesso modo in cui si diventa Cesare".

VIGILES IN AZIONE

LOCUSTA

Nata in un luogo imprecisato della Gallia, nel 69 d.c. si trasferì adolescente a Roma. Possedeva un emporio sul colle Palatino, dove vendeva veleni ed elisir di ogni tipo; aveva una buona conoscenza sulla farmacologia ed era molto popolare come avvelenatrice. Era molto richiesta soprattutto dalle classi ricche per sbarazzarsi di parenti o amanti, ma talvolta usò le sue conoscenze per diletto personale.

Venne chiamata da Agrippina Minore per uccidere l'Imperatore Claudio, forse avvelenato con un piatto di funghi. Nel 55 fu condannata a morte per questo omicidio, ma Nerone, venutone a conoscenza, mandò un tribuno del pretorio per salvarla dall'esecuzione. In cambio di ciò, le fu ordinato di avvelenare Britannico. Riuscita nel suo obiettivo, ebbe da Nerone il perdono e perfino possedimenti terrieri. Quando scoppiò l'ultima rivolta contro Nerone, fornì del veleno all'imperatore, probabilmente perché lo usasse per suicidarsi.

Sette mesi dopo il suicidio di Nerone, Locusta fu condannata a morte dall'imperatore Galba, condotta in catene per tutta Roma e giustiziata durante le Agonalia dedicate a Giano. Non si sa di preciso con quale metodo venne giustiziata: la leggenda vuole che sia stata violentata da una giraffa e poi fatta a pezzi da vari animali feroci, ma è evidentemente una leggenda. Un'altra ipotesi vuole che sia stata strangolata e il suo cadavere dato successivamente alle fiamme, il che appare molto più probabile.

C'è fa aggiungere che tutto ciò sa molto di caccia alle streghe, i romani temevano molto sia la magia che le streghe, non a caso vigeva ancora la pena di morte per le fatture che re4cassero danno, e questo ancora ai tempi di Augusto. Pertanto una donna che vendesse pubblicamente veleni era inammissibile, probabilmente questa fu l'accusa che le venne rivolta perchè aveva un negozio di erboristeria, così come nel medioevo le donne che praticavano con le erbe furono accusate di stregoneria e messe al rogo.

Anche il fatto che Agrippina avesse avvelenato il marito e si fosse servita di Locusta era sicuramente un'invenzione, Nerone era già stato nominato successore di Claudio per cui l'imperatrice non aveva ragione di correre un rischio così grave.

L'imperatore era stato avvelenato con un'amannite falloide, un fingo velenoso molto frequente in ogni zona e molto conosciuto sia nell'aspetto che nei sintomi una volta ingerito. Nell'avvelenamento doveva essere implicato qualcuno di alto rango perchè neppure l'imperatrice sarebbe stata salvata da un'accusa del genere.

Il fatto che Nerone si sia servito di Locusta appare un'ennesima invenzione, un qualsiasi contadino ma pure un qualsiasi soldato era in grado di fornirgli un fungo così diffuso e noto, che poi Locusta avesse fornito il veleno a Nerone, sappiamo che morì di spada e non di veleno.
Viene da pensare che Locusta abbia fatto da capro espiatorio alla paura degli uomini delle donne con una certa scienza e indipendenza che non erano ben viste dagli uomini.



CLODIO

Secondo James Finckenauer, il primo vero “Padrino” di un’organizzazione criminale fu Clodio,che operò nell’antica Roma, in particolare tra gli anni 59 e 50 a.c. Il suo principale rivale era Milo, ex gladiatore che aveva come guardiaspalle un gruppo di schiavi armati.

Esponente dell'importante gens aristocratica dei Claudii, venne naturalmente accusato dagli optimates di sovversione e corruzione. In occasione della congiura di Catilina, nel 63 a.c., collaborò con Cicerone, che tuttavia ebbe la memoria corta e testimoniò contro di lui nel 61 a.c., durante il processo per lo scandalo della Bona Dea, processo nel quale fu tuttavia assolto perché i giurati furono corrotti da Crasso e Cesare non si pose tra gli accusatori.

Fu causa di parecchi tumulti a Roma anche perchè i plebei erano in tumulto e comunque durante la repubblica erano stati uccisi due tribuni inviolabili e cioè i Gracchi, pe giunta uccisi dagli optimates. Milone del resto assassinò Clodio soverchiandolo con numero stragrande di seguaci armati, perloppiù ex gliadiatori. Però nel processo di Cicerone il bandito sembra l'ucciso mentre l'uccisore appare un'ottima peresona. Diciamo che Cicerone che infangò di molto l'immagine di Clodio, fu tutt'altro che obiettivo.



VIRIATUS

Fu il leader più importante del popolo lusitano che si oppose a Roma nella sua espansione verso la Spagna occidentale, per questo venne molto idealizzato nella letteratura che li definì: "Perfetti esecutori, in base alla fedeltà incondizionata dei seguaci ai loro capi e caratterizzati da disciplina assoluta".

Sant'Agostino avrebbe poi affermare che un gruppo di banditi (latrocinium), come esemplificato dalla comunità organizzata sotto Spartacus nella terza guerra servile, non poteva essere distinto strutturalmente da un regnum legittimo ("regola, regno»), e una regola poteva essere considerata solo se i suoi benefici venivano condivisi nella comunità.

Tuttavia S. Agostino non era così imparziale vedendo nei romani pagani i demoni da combattere per cui chi era contro Roma era nel giusto. Dimenticò invece che i compagni di Spartacus non si limitarono a derubare i paesi rurali, ma sgozzarono uomini donne e bambini con stupri di ogni genere.
Il fenomeno si ripresenta nella metà del IV sec. sotto il regno di Costanzo, durante l'invasione degli Alemanni. Sebbene il controllo imperiale era stato ristabilito dal generale Silvano, i rivali di corte annullarono il suo lavoro.

ROMA MUOVE GUERRA ALLA PIRATERIA

I PIRATI

Il termine “pirata”deriva dal greco "peiran" che significa "attentare", "attaccare". Per pirateria si intende l’esercizio della navigazione al fine di attaccare e depredare navi mercantili per appropriarsi del bottino, per un proprio guadagno.

In effetti i Pirati furono per Roma il male più grande, più del banditismo e della rivolta di Spartaco. Nessuna città della costa fu salva ma tutte più o meno caddero in mani loro. Ormai i cittadini nemmeno combattevano con la speranza di avere salva la vita. Razziarono i templi e gli erari, i tesori e i gioielli, arricchendosi sproporzionatamente e aumentando così le navi e la pirateria.

BELLUM PIRATICUM DI POMPEO 67 A.C. (immagine ingrandibile)
Plutarco attorno all’anno 100 descrisse i pirati come coloro che attaccavano senza autorità legale, non soltanto le navi mercantili, ma anche le città marittime. L'Egeo era un luogo ideale per i pirati, che si nascondevano con facilità tra le migliaia di isole e fiordi, dai quali potevano aggredire di sorpresa e depredare le navi mercantili di passaggio.

Le azioni di pirateria erano inoltre facilitate dal fatto che le navi mercantili navigavano all'epoca vicino alla costa e mai in mare aperto. Man mano che le città-stato della Grecia crebbero in potenza, attrezzarono delle navi scorta per difendersi dalle azioni di pirateria e iniziarono ad esercitare, a loro volta, la pirateria: erano una vera e propria minaccia soprattutto per le navi fenice che trasportavano materie pregiate come ambra, argento e rame.

« I pirati non navigavano più a piccoli gruppi, ma in grosse schiere, e avevano i loro comandanti, che accrebbero la loro fama. Depredavano e saccheggiavano prima di tutto coloro che navigavano, non lasciandolo in pace neppure d'inverno; poi anche coloro che stavano nei porti. E se uno osava sfidarli in mare aperto, di solito era vinto e distrutto. Se poi riusciva a batterli, non era in grado di catturarli, a causa della velocità delle loro navi. Così i pirati tornavano subito indietro a saccheggiare e bruciare non solo villaggi e fattorie, ma intere città, mentre altre le rendevano alleate, tanto da svernarvi e creare basi per nuove operazioni, come si trattasse di un paese amico. »
(Cassio Dione Cocceiano, Storia romana)

Con l'estendersi del dominio di Roma in occidente e in oriente e con l’intensificarsi dei traffici commerciali, i pirati attaccarono le navi romane tanto che il senato romano incaricò Pompeo Magno, di liberare i mari dal terribile flagello. Pompeo fece irruzione nel porto dell'isola di Skiathos, covo di pirati, dove crocifisse gli schiavi e tagliò le mani dei liberti che lì si erano rifugiati (87 a.c.).

In Asia numerose bande di pirati con flotte agguerrite, erano state allestite da Mitridate VI, per devastare tutte le coste romane, pensando di non poter tenere a lungo queste regioni.
POMPEO MAGNO

Vi erano continui attacchi di porti, fortezze e città, tra cui Iassus, Samo, Clazomene, ed anche Samotracia, nei pressi della quale lo stesso Silla si trovava in quel momento, e si diceva che riuscirono a derubare il tempio che sorgeva in quel luogo, degli ornamenti del valore di 1.000 talenti attici.

Plutarco aggiunge che le navi dei pirati erano più di 1.000 e le città catturate almeno 400, avendo attaccato e saccheggiato luoghi mai violati come santuari, come quelli di Claros, Didyma, Samotracia; il tempio di Ctonia Terra a Hermione e di Asclepio ad Epidauro; quelli di Poseidone a Isthmus, Taenarum e Calauria; quelli di Apollo ad Azio e Leucade; quelle di Hera a Samo, Argo e Lacinium.

Tra il 78  ed il 75 a.c. fu la volta del proconsole di Cilicia, Publio Servilio Vatia, il quale sconfisse più volte  i pirati, costringendoli a rifugiarsi nell'entroterra isaurico.Qui Vatia conquistò la città di Olympus in Licia, strappandola al capo dei pirati, Zeniceto, morto per difenderla. Poi in Pamphilia, conquistò Phaselis, ed  in Cilicia la fortezza costale di Corico. Avendo strappato ai ribelli tutte le città costiere, fece traversare all'esercito il Tauro pe conquistare la capitale degli Isauri, Isaura, cosa che ottenne facendo deviare il corso di un fiume e prendendo la città per sete.

A seguito di ciò, fu acclamato imperatore dalle truppe e ricevette il titolo di Isaurico. Tornato a Roma, nel 74 a.c. celebrò il trionfo. A queste campagne prese parte anche il giovane Gaio Giulio Cesare in qualità di tribuno militare.

Poco dopo nuove incursioni piratiche videro prendere d'assalto la città di Brindisi, le coste dell'Etruria, oltre al sequestro di alcune donne di nobili famiglie romane e addirittura un paio di pretori. Allora fu la volta di Marco Antonio Cretico, padre di Marco Antonio, che condusse una spedizione attorno a Creta, ma venne sconfitto e il suo soprannome gli fu dato in senso derisorio e sprezzante.

Sempre nello stesso anno una nuova spedizione venne affidata a Quinto Cecilio Metello Cretico, e portò alla conquista graduale dei principali centri della resistenza antiromana (Cydonia, Cnosso, Eleutera, Lappa, Lytto e Hierapytna), e assunse il cognome di "Cretico", ma stavolta con onore. 

La pirateria comunque non era debellata tanto che il giovane Giulio Cesare, sempre nel 74 a.c., mentre si recava a Rodi,  meta di pellegrinaggio per i giovani romani delle classi più elevate, desiderosi di apprendere la cultura e la filosofia greca, venne fatto prigioniero dai pirati che lo portarono sull'isola di Farmacussa, una delle Sporadi meridionali a sud di Mileto.
Quando gli chiesero di pagare venti talenti, Cesare rispose che ne avrebbe pagati cinquanta e mandò i suoi compagni a Mileto perché ottenessero la somma di denaro con cui pagare il riscatto, mentre lui sarebbe rimasto a Farmacussa con due schiavi ed il medico personale.
Dopo trentotto giorni di prigionia nell’isola di Pharmacusa e il pagamento di un riscatto, una volta liberato, Cesare con quattro galere da guerra e cinquecento soldati, attaccò il rifugio dei pirati, recuperò i cinquanta talenti del riscatto e fece centinaia di prigionieri.

Nel 70 a.c. il pretore Cecilio Metello sconfisse i pirati che infestavano i mari della Sicilia e della Campania, i quali si erano spinti a saccheggiare Gaeta, Ostia (69-68 a.c.) e rapito a Miseno la figlia di Marco Antonio Oratore.

Nel 67 a.c., due anni dopo il suo consolato, Pompeo fu nominato comandante di una flotta speciale per condurre una campagna contro i pirati che infestavano il Mar Mediterraneo per tre anni,con il controllo assoluto sul mare ed anche sulle coste per 400 stadi all'interno (70 km circa), ponendolo al di sopra di ogni capo militare in oriente. Poteva inoltre scegliere 15 legati dal Senato, da distribuire nelle principali zone di mare, prendere il denaro che desiderava dal Tesoro pubblico e dagli esattori delle tasse, 200 navi armate ed equipaggiate.

« In principio [i pirati] si aggiravano con un paio di piccole imbarcazioni, preoccupando gli abitanti della zona come ladri. Protraendosi la guerra, divennero sempre più numerosi e costruirono navi più grandi. Il fatto di avere grandi guadagni, non smisero quando Mitridate fu sconfitto e chiese la pace, e poi si ritirò. Avendo perso sia i mezzi di sussistenza sia il paese a causa della guerra, caduti in miseria estrema, utilizzarono il mare al posto della terra-ferma; in un primo momento utilizzando imbarcazioni come le pinnaces e le hemiolie, poi con biremi e triremi, che navigavano in vere e proprie squadre sotto dei capi-pirata, che erano come i generali di un esercito. Occuparono una città non-fortificata. 
Abbatterono le mura delle altre, catturate dopo un regolare assedio, saccheggiandole. Poi portarono via i cittadini più ricchi presso le loro sedi nascoste, tenendoli in ostaggio e chiedendone il riscatto. Disprezzavano l'appellativo di ladri, definendo le loro prede quali premi di guerra. Avevano incatenato artigiani a svolgere per loro dei lavori, e portando loro continuamente materiali di legno, ottone e ferro.»
(Appiano di Alessandria, Guerre mitridatiche)

Pompeo distrusse il nucleo piratico occidentale, riducendolo completamente all'obbedienza, dal Mar Tirreno, a quello libico, di Sardegna, Corsica e Sicilia in soli quaranta giorni, poi passò per Roma e proseguì per Brindisi, procedendo quindi contro i nuclei dei pirati orientali, certamente più "importanti" per numero, navi ed armamenti.

« Alcune delle bande dei pirati che erano ancora libere, ma che chiesero perdono, furono trattate umanamente, tanto che, dopo il sequestro delle loro navi e la consegna delle persone, non gli fu fatto alcun male ulteriore; gli altri ebbero allora la speranza di essere perdonati, cercarono di scappare dagli altri comandanti e si recarono da Pompeo con le loro mogli e figli, arrendendosi a lui. Tutti questi furono risparmiati e, grazie al loro aiuto, furono rintracciati, sequestrato e puniti tutti coloro che erano ancora liberi nei loro nascondigli, poiché consapevoli di aver commesso crimini imperdonabili. »
(Plutarco, Vita di Pompeo,)

Le bande dei pirati più numerose e potenti, che si erano rifugiate in cittadelle fortificate presso i monti del Tauro, si arresero insieme alle città ribelli e le isole sotto il loro controllo. La guerra alla piraterie si era così conclusa in meno di tre mesi con la consegna di tutte le navi (71 catturate e 306 consegnate), tra le quali una novantina con la prua d'ottone. I pirati catturati erano più di 20.000, altri 10.000 erano stati uccisi.

Frattanto Metello si trovava a Creta per debellare anch'egli i pirati dell'isola, da prima che la guerra contro i pirati fosse affidata a Pompeo. Egli era parente di quel Metello che era stato collega, sempre di Pompeo, in Spagna. Del resto Creta era una specie di seconda base dei pirati per importanza, accanto alla Cilicia. Metello, pur avendone uccisi molti di loro, non era riuscito ancora a distruggerli completamente.

Plutarco racconta che quelli che ancora sono sopravvissuti ed erano sotto assedio da parte dei Romani, inviarono messaggi supplicando Pompeo di recarsi da loro. Il proconsole romano accettò l'invito e scrisse a Metello di sospendere l'assedio, inviando poi un suo legato, Lucio Ottavio, il quale entrò in tre roccaforti dei pirati e combatté al loro fianco, rendendo così Pompeo non solo odioso, ma in una situazione ridicola, per invidia e gelosia nei confronti di Metello. Metello, tuttavia, non cedette ed alla fine riuscì a catturare punire i pirati, rimandando indietro Ottavio, dopo averlo insultato e picchiato davanti all'esercito.





BANDITISMO BEL TARDO ROMANO IMPERO 


LATRONES

Gli storici imperiali romani usano la parola latina latro (plurale latrones) o la parola greca leistes (plurale leistai) per più di 80 individui, non "banditi" o "ladri" ma "ribelli, rivoltosi, vendicatori" . La burocrazia imperiale collezionava ormai crimini da record. Banditi appaiono frequentemente nella narrativa della tarda antichità, come ad esempio romanzi greci e le Metamorfosi di Apuleio.

I Latrones in letteratura sono di due tipi di carattere: comuni e spregevoli, o nobile e giusto. Il bandito nobile, come Bulla Felix, di solito può essere catturato solo attraverso il tradimento; Dio scrive su diversi banditi idealisti, come Corocotta, attivi in ​​Spagna romana sotto Augusto e un Claudio in Giudea pochi anni prima Bulla Felix. In Palestina romana, banditi ebrei divennero simboli della resistenza contadina.


LE BAGAUDAE 

Nel tardo impero, Bagaudae erano i gruppi di insorti contadini che emerse durante la crisi del III secolo, e continuò fino alla fine dell'Impero d'Occidente, in particolare nelle aree meno romanizzate di Gallia e Hispania, dove sono stati "esposti alle depredazioni dello stato tardo-romana, ei grandi proprietari terrieri e chierici che erano i suoi servi". 

Le invasioni e l'anarchia militare del III secolo produssero un degrado caotico, all'interno di un impero in declino in cui le Bagaudae raggiunsero alcuni successi temporanei e sparsi, sotto la guida dei membri del sottoproletariato, nonché di ex membri di classi dirigenti locali. 

Quando le Bagaudae divennero un serio problema nel 284, il ripristino dell'ordine sociale avvenne in modo rapido e duro: i contadini insorti vennero schiacciati nel 286 da Cesare Massimiano e il suo subordinato Carausio, sotto l'egida di Diocleziano. 

I loro leader sono citati come Amandus e Eliano, anche se EM Wightman, nella sua "Gallia Belgica" propone che i due appartenessero alla classe dei proprietari terrieri gallo-romana locale che poi divennero "tiranni" e molto probabilmente ribelli contro la tassa della macinazione e sulle loro terre, sui raccolti e sulla forza lavoro da parte degli agenti predatori dello stato. 

Il panegirico di Massimiano, risalente al 289 e attribuito a Claudio Mamertino, riferisce che durante le rivolte Bagaudae del 284-285 nei distretti intorno Lugdunum (Lione), "semplici agricoltori cercarono un abito militare, il contadino imitò il fante, il pastore il cavaliere, il rustico mietitore della propria produzione il nemico barbaro". Infatti condivisero caratteristiche simili con la gente germanica degli Eruli. Mamertino li chiamò "mostri biformi", perchè mentre erano agricoltori imperiali e cittadini, erano anche saccheggiatori ladri e nemici per l'Impero.

ALLIANOI (Turchia)

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L' antico centro termale ha resti risalenti principalmente dal II sec. d.c. e si trova vicino alla città di Bergama (antica Pergamo ) in Turchia 's Izmir Province. Il sito è a una distanza di 18 km a nord-est di Bergama, sulla strada per la vicina città di Distretto di İvrindi. Allianoi è direttamente all'interno del serbatoio della diga Yortanli, costruita dall'agenzia di stato organizzata sotto il Ministero dell'Ambiente e delle Foreste della Turchia.

Ecco (immagine sotto) una splendida Dea o Ninfa trovata nelle terme romane di Allianoi, in Turchia. Il fatto interessante è che l'acqua curativa che si riversa nel bacino termale fluisca dal suo grembo. Ovviamente una ragione c'è, la statua originale recava un vasca e non aveva buchi, così l'hanno trapanata, con poco rispetto della Dea e dell'arte romana.

LA NINFA DELLE TERME

La statua della Ninfa di Allianoi diventò il simbolo per i manifestanti contro la sommersione di Allianoi sotto le acque della diga di Yortanli. Purtroppo senza risultati.

L'antica Spa è stata utilizzata all'epoca come centro di terapia e idromassaggio con acque termali curative. C'è una piscina, una sala da pranzo, e uno spogliatoio all'interno. La piscina è ancora piena di acque termali che ancora sgorgano e può ancora essere utilizzata.

Tante persone hanno vissuto qui e utilizzato le acque termali. Queste acque curative raggiungono i 40-50 gradi. Ci sono così belle colonne ancora in piedi, mura di pietra bianca squadrata, statue e statuine, manufatti, mosaici e dipinti murali e altro da scoprire.

E 'un paradiso termale che può attrarre un'infinità di turisti, ma sta per essere distrutto per una diga che, come è avvenuto in tanti altri luoghi, porterà più danni che benefici.



Il sito preistorico

Nel sito non manca neppure la preistoria con tracce e manufatti di grande interesse.. 

Durante gli scavi condotti nella foresta a ovest di Allianoi, è stata ritrovata nientemeno che una nave del tipo noto come Yortan (risalente agli inizi del Bronzo II). 
Sulle colline di Çakmaktepe (Flint Hill) nelle vicinanze, una elevata quantità di Flintstones sono stati trovati durante le indagini.

Le Flintstones sono pietre criptocristalline sedimentarie, una forma del minerale di quarzo, classificato come una varietà di selce; in pratica la pietra focaia. Da un riempimento di terra sono emerse invece due asce di pietra, il che presuppone una forma di insediamento preistorico nei pressi o Allianoi. Ma anche questo sta per essere sommerso.



PERIODO GRECO 

A parte qualche indizio archeologico e numismatico non si hanno architetture del periodo ellenico
anche se, a causa della presenza di sorgenti di acqua calda, si ritiene che ci deve essere stato un complesso termale già nel periodo ellenistico, ma probabilmente a un livello inferiore rispetto al sito tardo romano.

LA PISCINA

PERIODO ROMANO

Durante il periodo romano imperiale e soprattutto nel 2 ° secolo d.c, in linea con l'emergere di un gran numero di centri urbani in Anatolia e anche con la costruzione del famoso Asklepion della vicina Pergamo, vennero ampliate le opere pubbliche ad Allianoi. 
Molti degli edifici datano infatti da questo periodo. Oltre alle terme, i ponti, le strade, la insulae, l'edificio di collegamento, il propileo e il ninfeo, sono state tutte progettate e costruite durante questo periodo.

QUI ERA LA STATUA DELLA NINFA

PERIODO BIZANTINO

Allianoi era ancora densamente popolata durante il periodo bizantino. Tuttavia, come è avvenuto con la vicina Pergamon, il tessuto socio-economico dell'insediamento aveva perduto il suo splendore. Così alcuni elementi architettonici del periodo romano vennero riutilizzati dai coloni bizantini. Usufruendo delle strade lastricate delle stoas e strade di epoca romana, le successive popolazioni bizantine costruirono abitazioni più semplici.

Gli edifici più importanti della Allianoi, vale a dire le terme e il ninfeo, rimasero in uso per un lungo periodo di tempo, con alcune piccole modifiche. Venne edificata una grande chiesa che ricorda una basilica, mentre le cappelle sono state costruite dentro e intorno all'insediamento. Manufatti in metallo, laboratori di ceramica e vetro sono stati tutti riconducibili a questo periodo.

I PAVIMENTI TERMALI
E 'diventato una questione politica e il governo sta cercando di sbarazzarsi di Allianoi. "Vogliamo evitare un massacro", ha detto Güven Eken, capo del gruppo di conservazione Doga Dernegi. 

Il mese scorso Eken e una manciata di attivisti si sono incatenati alle gru in cantiere per attirare l'attenzione su"un massacro della natura e una violazione di la legge".

I manifestanti dicono che lo strato di sabbia, che si suppone debba proteggere le rovine, mal si adatta al lavoro, e che verrà utilizzato cemento contenente polvere di mattone. 

La fattibilità del progetto stesso, che prevede la costruzione di una diga e serbatoio per l'irrigazione delle aziende agricole locali, è aperto al dubbio. Purtroppo difficilmente dove alberga tanto denaro, c'è il rispetto per la cultura e l'arte. 

 "Il fiume è spesso asciutto,"è stato osservato "e non vi è alcuna certezza che ci sarà abbastanza acqua per riempire il serbatoio." e si è aggiunto: "Il governo si rifiuta di ammettere che Allianoi è un sito eccezionale e che il problema dell'acqua per gli agricoltori può essere risolto senza distruggere il nostro patrimonio".

Finora il sito è stato scavato solo per un quarto o un quinto e vi sono stati trovati mosaici, sculture e un complesso termale ben preservato del II secolo d.c.

Ottobre 2010 - Nonostante la sua importanza, però, tutta l’area verrà presto completamente sommersa in seguito all’apertura della diga di Yortanli.

Con grande costernazione di archeologi e società civile, il governo turco ha deciso che andrà avanti nel progetto di inondare la valle in cui il sito giace per alimentare la nuova diga di Yortanli, capace di irrigare 8000 ettari di terreni coltivati. 

Il lavoro attualmente in corso è uno sforzo per preservare il complesso per le future generazioni: l’ordine di allagare la valle verrà dato entro la fine di quest’anno.

Presto il bagno termale del II secolo d.c. – un asclepeio (o asklepieion, un tempio curativo) coi suoi muri alti 5 metri e una vasca ancora alimentata da una sorgente calda – scomparirà sotto la sabbia, dopo essere stato coperto con un rivestimento protettivo. La stessa sorte toccherà agli altri edifici, al colonnato, ai mosaici e alle strade lastricate qui scoperti.

Il complesso termale di Allianoi è importante tanto quanto quelli di Baden-Baden in Germania, di Bath in Inghilterra, e alcuni grandi bagni in Italia, ma solo questo si è preservato così bene. Non riusciamo a far capire al governo la sua importanza”, dice Ahmet Yaras, l’archeologo che era a capo degli scavi di Allianoi.



ALLIANOI E' PERDUTA

Un lutto per la cultura mondiale. Dopo la rivolta in Turchia per la conservazione delle rovine di Allianoi, per tutta risposta il sito è stato coperto con la sabbia e la diga è stata attivata, con conseguente inondazione completa di Allianoi e distruzione nel febbraio 2011. 

Tutto questo nonostante Allianoi sia stata una recente scoperta archeologica. Eppure il mondo ha taciuto, il sito è stato menzionato solo una volta nel II secolo dall'oratore e scrittore di medicina Elio Aristide nella sua "Hieroi Logos" (Tales sacri), una delle principali fonti per la conoscenza sulla scienza della guarigione di quel tempo. Nessun altro scrittore dell'antichità né epigrafi che siano state avevano fatto riferimento a Allianoi.

Però lo schema Yortanli, iniziato 15 anni fa, ignora la legge turca in materia di protezione del patrimonio naturale e storico. La società cura i suoi interessi e ignora quelli dell'arte e della cultura che appartengono al popolo turco.

Una decina di sentenze dei tribunali hanno già cercato di fermare la costruzione. Le rovine Allianoi, se adeguatamente sfruttato, avrebbero potuto attirare centinaia di migliaia di visitatori ogni anno.

Il ministro della cultura e del turismo, Ertugrul Günay, ha detto che le chiamate allarmistiche per salvare le rovine erano "esagerate". Egli sosteneva che il patrimonio storico non sarebbe stato danneggiato in alcun modo con il lavoro. 

Il suo omologo presso il Ministero dell'Ambiente, Veysel Eroglu, è stato meno diplomatico nel suo trattamento del popolare cantante Tarkan, che hanno fatto campagna per salvare le terme romane. "Non dovrebbe ficcare il naso in questioni che non capisce", ha detto Eroglu.

"Allianoi è stato sacrificato per il bene della politica di Eroglu," ha dichiarato Eken, attirando però l'attenzione ai numerosi conflitti di interesse coinvolti. Il ministro, in precedenza capo delle opere idrauliche di stato, che è responsabile della supervisione costruzione di dighe, ha lanciato un gran numero di progetti di irrigazione e di energia idroelettrica dalla sua nomina nel 2007.

Una donna visita, nella foto qua sopra, una delle fonti che alimentavano le terme romane di Allianoi in un'immagine del 2008. Anche se le strutture dovessero resistere all'inondazione, affreschi e pitture verrebbero distrutti; inoltre, una volta coperto d'acqua, non sarebbe più possibile studiare il sito. 

Un altro serbatoio, da costruire sul Tigri a sud-Ilisu nell'est della Turchia, ha suscitato vasta opposizione. E minaccia di inghiottire l'antica città di Hasankeyf. 

In un periodo in cui il mondo fa un passo indietro rispetto alle grandi opere idroelettriche, giudicate troppo costose e invadenti, e costose non solo nell'edificazione ma pure bella manutenzione, questa invasione di bacini idroelettrici fa pensare più ad interessi personali che al bene del paese.



AL FINE DI SALVARE IL SITO SI E' FATTO DI TUTTO

Ma questo paesaggio archeologico che vedete nella foto qua sopra è sparito, inghiottito dagli interessi delle multinazionali e dei governanti. E' un lutto per il mondo intero.

- L'acqua è un bisogno importante, ma non così importante visto che una diga dura al massimo 50 anni. Le dighe possono essere fatte altrove, non devono distruggere la storia e l'archeologia, è disastroso e irrispettoso per le generazioni future.

"Il consiglio ha superato la propria giurisdizione"
Zhang, ha detto:
"Hanno fretta di ricoprirla di sabbia. La decisione del Consiglio supremo per la Protezione dei Beni Culturali e Naturali della decisione politica presa nel 1988, è stata violata. I membri del Consiglio hanno superato il limite consentito. Dopo di che arriva l' abuso d'ufficio. Se l'acqua invaderà il sito, questi reati saranno oggetto di procedimenti penali ".

(Il Direttore Provinciale della Cultura e Turismo)


Diversi metri di sabbia ora coprono le terme romane del II sec. a Allianoi, le più grandi di tutta l'Asia Minore. Le pitture murali e le colonne, a pochi km dalla città di Pergamo in Turchia occidentale, sono stati sepolte e potrebbe presto essere sommerse sotto 17 m d'acqua.
-

I 17 m di acqua hanno coperto il sito che è sparito nella voragine dell'egoismo e dell'ignoranza umana.

Civiltà addio, vince la speculazione delle multinazionali che foraggiano i governi.



VIA CLAUDIA NOVA

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SANT'EUSANIO STRADA DERIVATA DALLA CLAUDIA
La via Claudia Nova è un'antica strada romana, costruita nel 47 d.c. dall'imperatore Claudio (10 a.c. - 54 d.c.), nell’ambito di un vasto programma di ristrutturazione della rete viaria nelle aree Sabine e Vestine, per congiungere la via Cecilia (via romana che staccandosi dalla Via Salaria al XXXV miglio da Roma raggiungeva la costa adriatica) e la via Claudia Valeria (via consolare Tiburtina Valeriache congiungeva Roma a Tibur, Tivoli, e che prendeva nome dal console che ne dispose la pavimentazione in pietra, e che si innestava alla confluenza dei fiumi Aterno e Tirino.

Questa via veniva così ad assumere una notevole importanza strategica ed economica, sia per il collegamento fra queste due arterie, ma sopratutto per l’agevole attraversamento dei centri Sabini e Vestini.

Le informazioni sul suo percorso sono però talvolta discordanti; alcune fonti la fanno partire dalla sabina Amiternum, altre la fanno partire da Civitatomassa, frazione di Scoppito costruita sui ruderi del pago romano di Foruli. Il punto di arrivo è la via Claudia Valeria (o Tiburtina Valeria) nei pressi di Popoli, alla confluenza dei fiumi Tirino e Aterno.

PERCORSO DELLA CLAUDIA NOVA (Immagine ingrandibile)
Il suo percorso, nell'attraversamento della Piana di Navelli, riguarda i primi insediamenti dei Vestini nel VI sec. a.c., col sottostante vicus Incerulae; di cui si ha un'iscrizione in vestino del III sec. a.c., conservata nel Museo Archeologico di Napoli, che cita un tempio italico dedicato a Hercules Iovius nel sito dell'attuale Chiesa di Santa Maria in Cerulis. 

Su tale percorso si sovrapponeva il tratturo L'Aquila-Foggia, e poi il Tratturo Centurelle-Montesecco fino a Collepietro.
Tra i centri attraversati, c'era Peltuinum, antica città italica dei Vestini, antichissimo popolo italico di lingua osco-umbra, il cui sito archeologico si trova nel comune di Prata d'Ansidonia, il cui borgo primitivo risale appunto alla città romana di Peltuinum. 

Dopo la guerra sociale (I sec. a.c.), Peltuinum divenne municipio romano e grande centro economico per la transumanza che si svolgeva sulla via Claudia Nova.in provincia dell'Aquila. 

Peltinum, i cui resti risultano ancora visibili nei pressi di Prata d'Ansidonia, il cui borgo primitivo risale appunto alla città romana di Peltuinum, governata dai Vestini, è stato dichiarato dichiarato monumento nazionale nel 1902. 

Il borgo romano, di cui rimangono importanti resti: come il teatro, e un tempio (forse di Apollo) provvisto di colonnato, e la porta cittadina sulla via Claudia Nova, utilizzò la via anche come dogana per la conta ed il pedaggio delle pecore da avviare alla transumanza.

PELTINUM SULLA CLAUDIA NOVA
Altri resti della Via Claudia Nova sono conservati a Ocriticum, villaggio sviluppatosi soprattutto in epoca romana luogo di sosta per i viandanti poichè, in corrispondenza della via romana sorse e si sviluppò un'area templare nota al tempo come Iovis Larene che fu segnata, tanto era importante, sulla Tavola Peutingeriana. I resti di Ocriticum sono tuttora visitabili nei pressi di Cansano, noto per la scoperta archeologica del villaggio romano di Ocriticum, ora parco archeologico.

Collocato appena fuori da Cansano, in zona Tavuto - Pantano, il parco è stato inaugurato assieme all'omonimo centro di documentazione, che si trova in paese, il 10 gennaio 2004. I primi scavi, effettuati nel 1992, hanno portato alla luce i resti di un antico centro romano, abbastanza importante soprattutto in ambito religioso.

L'area archeologica comprende due templi, uno romano consacrato a Giove e uno italico consacrato ad Ercole, ed un sacello delle divinità femminili Cerere e Venere. Inoltre, nell'area sono presenti anche le rimanenze di un centro abitato e di un impianto per la produzione della calce. Si è risaliti al nome Ocriticum mediante una stele funeraria ritrovata nei pressi della zona templare, su cui leggiamo SEX(TO) PACCIO ARGYNNO CULTORES IOVIS OCRITICANI P(OSUERUNT) (i sacerdoti ocriticani di Giove posero a Sesto Paccio Arginno).

Numerosi gli ex voto rinvenuti, conservati presso il Museo Archeologico di Chieti e presso il Centro di documentazione Ocriticum, appartenenti all'area sacra. Gli ex voto sono fittili e anatomici, maschere votive, ampolle e balsamari, ma pure statuine rappresentanti divinità: fra le più interessanti, una raffinata Venere e una statuetta raffigurante due dee intente a salutarsi con un bacio, identificate con Cerere e Proserpina al momento del loro congedo o dell'incontro; dal deposito votivo, pure fibbie in bronzo e uno strigile particolarmente raffinato.

ARA DELL'ANTICA PELTINUM

RINVENUTO TRATTO DELLA VIA CLAUDIA NOVA

Fossa, 15 giugno 2017 - Grandi basoli calcarei accostati gli uni agli altri con tecnica accurata e raffinata, nei quali si vedono ancora chiaramente le profonde incisioni dovute all'intenso traffico dei carri (a dimostrazione della sua rilevanza nel territorio e nella rete degli scambi): è la strada monumentale - riconducibile all'antica via Claudia Nova, di cui non si avevano finora tracce certe nella conca aquilana - scoperta nell'ambito dei lavori di ricostruzione post sisma. 

Un tratto integro della lunghezza di circa 30 m e della larghezza stimata di 4-5 m (la via Appia antica è larga poco più di 4 m) affiancato da un marciapiede porticato largo oltre 2 m e dalle adiacenti costruzioni monumentali andate distrutte.

E' così che doveva mostrarsi nel I sec. a.c. il cardo maximus della perduta città di Aveia, punto di cerniera e contatto tra la "città alta" (di cui sopravvivono resti nel cosiddetto "torrione" del borgo medioevale) e la "città bassa" (delimitata dalle mura oggi ancora visibili nelle campagne di Osteria), tratto urbano di quell'asse stradale di rilevanza territoriale, voluto dall'Imperatore Claudio per dotare di adeguate infrastrutture l'area delle conche amiternina e forconese, già interessate da imponenti e monumentali presenze insediative, da Foruli ad Amiternum, da Forcona a Peltuinum e oltre.

Della perduta città di Aveia scompare ogni traccia dal VII-VIII sec. d.c., probabilmente per i danni dovuti a catastrofi naturali (allagamenti, frane della montagna o terremoti). Nulla resta di visibile fuori terra oltre alle porzioni di mura urbiche nelle campagne e ai pochi resti sulle pendici del colle e inglobati nel borgo. 

IL BASOLATO E IL CIGLIO DELLA CLAUDIA NOVA
La scoperta della monumentale strada, effettuata nei primi mesi dello scorso anno in via S. Eusanio - a seguito delle indagini archeologiche svolte dalla Soprintendenza Archeologia, Belle Arti e Paesaggio dell’Aquila, grazie ai fondi messi a disposizione dall’Ufficio Speciale per la Ricostruzione dei Comuni del Cratere (USRC), offre nuove e inedite certezze alle ipotesi di ricostruzione storica dell'importante centro romano.

E’ stata dunque attivata, fin dal primo momento, una forte sensibilizzazione ai fini della valorizzazione dei resti monumentali che muterebbero, d’improvviso, immagine e vocazione del centro di Fossa e della sua area, dalle risorse ambientali e culturali davvero straordinarie, forse uniche. 

Risorse così straordinarie che obbligano gli enti, le amministrazioni, le associazioni culturali e i cittadini tutti, ad un forte impegno affinché tesori d’arte e della cultura possano assurgere a ben altri livelli di fruizione. Il Parco archeologico della Necropoli Vestina, benché aperto al pubblico saltuariamente, a solo qualche anno dalla scoperta era già conosciuto con ammirazione e stupore in ogni parte del mondo, e continue sono le richieste di informazioni e di visita.

Aveia è ubicata, nella vallata del medio Aterno, alle pendici nord-orientali di Monte Circolo e del borgo fortificato di Fossa, a soli 10 km dall’Aquila. La città romana era strutturata su terrazze urbane degradanti sul versante montano e caratterizzata da una città alta, probabilmente monumentale, e da una città bassa che lambiva il corso del fiume Aterno, legata alle attività commerciali e di servizio del tratturo. 

Il percorso della Mura è ancora leggibile, con il tratto monumentale meridionale che risale il versante fino al cosiddetto “Torrione” del borgo medievale. Una città romana che sembrava quasi completamente perduta, che viveva nella memoria di pochi, torna così a rivivere. 

Dal 1773, allorquando l’Abate archeologo e filosofo Vito Maria Giovenazzi ebbe l’intuizione e il merito di riconoscere e identificare i monumenti di Fossa come quelli di Aveia, mai erano tornate alla luce resti monumentali così importanti.

Nuovo incontro, questa mattina, tra la Soprintendenza Archeologia, Belle Arti e Paesaggio dell'Aquila e cratere, l'Ufficio Speciale per la Ricostruzione dei Comuni del Cratere USRC, il Comune di Fossa e la Provincia dell'Aquila per verificare congiuntamente le concrete possibilità di rivedere le progettazioni pregresse (interventi edilizi, rete stradale locale e rete provinciale) adeguandone le previsioni al mutato quadro della situazione e i possibili scenari di recupero e valorizzazione.

"Siamo da mesi impegnati in una attenta valutazione condivisa della situazione, con l'obiettivo di individuare gli strumenti e le procedure più idonee a garantire la salvaguardia e la valorizzazione di un contesto archeologico di straordinaria importanza per il territorio e il corretto svolgimento del processo di ricostruzione pubblica e privata. All'impegno congiunto profuso nella prima fase di conoscenza e indagine archeologica si è aggiunto da diversi mesi il lavoro sui tavoli tecnici interistituzionali, in cooperazione con tutti gli enti e i soggetti coinvolti. Confidiamo nella collaborazione di tutti per una celere definizione dei programmi futuri."



VIA FRUSTENIA - CERFENNIA

EPIGRAFE DELLA CLAUDIA NOVA
Dati oggettivi ci consentono di ipotizzare un antico collegamento, che potrebbe essere considerato un ramo secondario della via Claudia Nova, fra l’area di Aveia (Fossa), Marruvium (l’attuale S.Benedetto dei Marsi nel Fucino) e Alba Fucens attraverso l’altopiano delle Rocche (La Tabula Peutingeriana pone Aveia a poche miglia da Frustenias e da qui, dopo altre 18 miglia, Alba Fucens; non sappiamo collocare Frustenias, che potrebbe anche essere stato il nome dell’insediamento romano che in epoca medioevale prese il nome di Forcona (Civita di Bagno, dove sono stati fatti importanti ritrovamenti archeologici - Complesso monumentale e archeologico di Forcona).

La strada di collegamento doveva partire da Frustenias e seguendo l’andamento dell’attuale SS 5 bis doveva salire a S.Martino D’Ocre, poi passare a valle di Rocca di Cambio, quindi per Rocca di Mezzo, Rovere, e lambire le falde del Monte Magnola in prossimità delle Sterpare, nel cuore dell’attuale Parco Naturale Velino-Sirente. La strada proseguiva, come l’attuale, per Ovindoli e S.Potito, poi superava il bivio per S. Iona e lambendo le falde della Serra di Celano raggiungeva, nei pressi di Collarmele (Cerfennia), la via Valeria-Claudia.

INTERREX

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ETA' REGIA

L'Interrex era una istituzione del diritto romano, ma comune ad altri popoli latini e italici, nata in età regia (753 al 509 a.c.) ed evolutasi in età repubblicana, per la quale, quando veniva a mancare il potere supremo dello Stato romano, questo veniva esercitato da un Interrex per un periodo limitato di tempo. L'istituto non è specificamente romano, ma di origine antichissima, e perdurò sino alla fine della costituzione repubblicana: l'ultima traccia sicura è del 43 a. c.

Specificatamente, nel diritto romano arcaico, ogni qualvolta il rex veniva a mancare, il potere veniva attribuito ai patres, cioè ai membri del Senatus che però lo esercitavano a turno ogni cinque giorni. Così i membri del Regium Consilium, cioè il senato, suddiviso per l'occasione in dieci decurie, si intercambiavano ogni 5 giorni per evitare che qualcuno di loro si affezionasse troppo alla carica e vi restasse impigliato tentando un colpo di stato. L’interregnum poteva nel complesso avere una durata varia da 5 a 500 giorni, entro i quali si doveva nominare un nuovo re.

L'interrex romano era un magistrato che esercitava le sue funzioni provvisoriamente, in caso di vacatio della magistratura suprema; cioè in caso di morte del re, o nel caso in cui, pur non essendo morto avesse cessato dalla carica senza designare il suo successore. Il trono romano infatti non era ereditario ma veniva eletto dal popolo o designato dall'ultimo re.



GLI AUSPICIA

L'istituto, sorto nel periodo monarchico, fu applicato nel periodo repubblicano soltanto alle magistrature patrizie: esso non fu mai esteso ai magistrati plebei né ai promagistrati, tanto più che
l'imperium era connesso con gli auspicia, i quali spettavano solo ai magistrati patrizi. 

Caduti i reggenti, auspicia ad patres redeunt, cioè all'insieme dei senatori patrizi che esercitano collegialmente imperium e auspicium, finché non abbiano designato di tra essi chi debba esercitare l'interregnum.

Gli interreges riunivano nelle loro mani la somma dei poteri, quali spettavano al re nel periodo primitivo o ai consoli nella prima fase repubblicana, anteriormente alla creazione della pretura e delle altre magistrature. L'interrex poteva quindi esercitare il comando militare e la giurisdizione, convocare i comizi e il senato, e aveva quindi per insegne i dodici fasci del console.

E' interessante riflettere sulle matrici delle parole. Il re è il rex, cioè colui che regge, ma la rex è "la Cosa Pubblica" sorretta dal re. La Cosa è l'insieme delle cose cui il re provvede, cioè il potere amministrativo, legislativo ed esecutivo, coadiuvato nella cosa religiosa dal Rex Sacrorum, cioè colui che si occupa (regge) delle cose sacre. 

La parola reggente deriva da rex, come pure la Repubblica è la Rex Publica, indicando un legame privilegiato e indissolubile tra il re e il benessere pubblico. Questo concetto sarà molto chiaro nelle prima monarchia, almeno finchè il potere non degenerò con i re etruschi, tanto che i romani, abituati a monarchi molto attenti alla salute del popolo, di fronte alle brame di potere dei re si ribellarono e li scacciarono.

Cicerone (106-43 a.c.) in un famoso passo del "De natura deorum", del 45 a.c., aveva definito i "religiosi ex relegendo", essendo costoro "qui autem omnia, quae ad cultum deorum pertinerent, diligenter retractarent et tamquam relegerent" («coloro che riconsideravano con cura e, per così dire, ripercorrevano tutto ciò che riguarda il culto degli Dei furono detti religiosi da relegere», De nat. deor. II 28, 72). Il culto degli Dei e pertanto il modo di rivolgersi a loro e ottenere la loro benevolenza o i loro responsi è basilare per i romani, senza "auspicia" non si fa nulla, pena calamità e sconfitte provenienti dalle divinità adirate.

LA RACCOLTA DEGLI AUSPICI

LA DESIGNAZIONE DELL'INTERREX
 
La designazione (prodere interregem) avveniva in seguito ad accordo tra i patres (secondo altri accenni della tradizione sarebbe stata fatta per estrazione a sorte), ma, in ogni modo, pare da escludere che la scelta del primo interrex avvenisse auspicato, e ciò spiegherebbe la ragione per cui il primo interrex non poteva procedere all'elezione dei magistrati. 

Invece sembra che il primo interrex, che non poteva durare più di cinque giorni, si affrettasse a designare, dopo aver preso gli auspicia su di lui, il suo successore, il quale, essendo nominato auspicato (cioè ascoltati gli auspici), poteva scegliere i consoli o il dittatore. 

L'interrex aveva ricevuto pertanto un mandatum, cioè un contratto consensuale che obbligava un soggetto (mandatàrius) ad eseguire uno o più atti giuridici per conto di un altro soggetto (mandàtor), dove il mandatarius era l'interrex e i mandatores erano i senatori, ma dove l'interrex uscente diventava mandator del successivi interrex che diveniva mandatarius. 

L'interregnum cessa non appena sia avvenuta la renuntiatio, cioè il recesso unilaterale dell'interrex, non appena abbia luogo l'annuncio dell'esito della votazione comiziale intorno ai nomi proposti. Pertanto il ripristino della magistratura ordinaria provoca la renuntiatio dell'interrex con impossibilità di coesistenza tra le due istituzioni.

Ma l'interregnum cessa quando si sia riusciti a far nominare anche un solo console, in quanto la nomina del secondo avviene per opera del console nominato, e non già per opera dell'interrex.



ETA' REPUBBLICANA

Durante la repubblica, anche dopo la creazione della pretura, l'interregno venne applicato anche quando ambedue i consoli fossero mancati. È vero che, essendo coperta la pretura, non si trattava di vacatio della magistratura suprema, ma, siccome il pretore non poteva né disporre per la nomina dei consoli né procedere alla nomina di un dittatore, e quindi in ogni caso al termine della carica del pretore si sarebbe dovuto procedere all'interregnum, invalse l'uso che, venuti meno i consoli, anche il pretore deponesse la carica e si procedesse all'interregnum.

Nella Roma repubblicana l'interrex,serviva dunque unicamente per convocare i comitia centuriata, le assemblee popolari della Res Publica Romana, col fine di eleggere i nuovi consoli o i nuovi tribuni consolari, quando i loro predecessori non avevano potuto provvedere essi stessi durante il loro mandato. 

L'eletto riceveva l’imperium, che gli dava diritto di verificare se gli auspicia fossero favorevoli. E del resto l’interregnum si fondava proprio sul principio che, anche in caso di morte del sovrano, ci fosse continuità negli auspicia, i quali "redeunt ad patres" (tornano ai patres del Senato), i soli che abbiano il diritto di contattare gli Dei per la salus di Roma. 

Insieme agli auspicia tornava ai "padri" anche l’auctoritas patrum. Con il termine autorità (auctoritas, da augeo, accrescere) si intende quell'insieme di qualità proprie di una istituzione o di una singola persona alle quali gli individui si assoggettano volontariamente per realizzare degli scopi comuni.

Spesso è usato come sinonimo di potere, che però si riferisce all'abilità nel raggiungere determinati scopi mentre il concetto di "autorità" comprende la legittimazione, la giustificazione ed il diritto di esercitare quel potere.



LO SCAMBIO DEGLI INTERREGES

Ogni interrex manteneva l'incarico per soli cinque giorni, come durante il periodo regio (753 - 509 a.c.); qualora, passati i cinque giorni, l'elezione non si fosse ancora tenuta, l’interrex designava il suo successore, al quale trasmetteva il suo imperium e si dimetteva. Gli interreges si succedevano in questo modo finché i nuovi magistrati non venivano eletti. 

I comitia per eleggere i primi consoli, Lucio Giuinio Bruto e Lucio Tarquinio Collatino, consoli nel 509 a.c., vennero presieduti da Spurio Lucrezio (padre della sventurata Lucrezia), nominato interrex per l'occasione.

A partire dal 482 a.c. gli interreges vennero scelti tra l'intero corpo senatoriale e non solo tra i decem primi, i dieci senatori più autorevoli, come accadeva nel periodo regio. Tuttavia, poiché i plebei non erano ammessi a questa carica, l'elezione veniva decisa dai soli senatori patrizi che si riunivano senza i plebei; per cui, considerando l'influenza che l’interrex esercitava per l'elezione dei nuovi magistrati, i tribuni della plebe si opponevano fieramente alla nomina dell’interrex.



GLI INTERREGES

- Si hanno notizie di interreges fino alla II guerra punica;
- Vennero poi usati al tempo di Silla quando il Senato nominò un interrex per presiedere i comitia per la sua nomina a dittatore, nell'82 a.c..
- Un altro interrex fu nominato nel 55 a.c. per presiedere i comitia in cui furono eletti consoli Pompeo e Crasso.
- L'ultimo interrex di cui si ha notizia è Marco Emilio Lepido nel 52 a.c., l'anno in cui Pompeo venne eletto console unico.

CLIVUS SCAURI

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CLIVUS SCAURI

La via romana del Clivus Scauri (la salita di Scauro) conserva l'antico nome originario, con un percorso che ricalca esattamente quello antico, come testimoniato alcune fonti medioevali a partire dall'VIII sec., e pure un'iscrizione imperiale.

Si può dire che il Clivo di Scauro è l'unica strada antica ancora riconoscibile per la maggior parte del suo tracciato.

CORNICIONI ROMANI
Nei pressi della chiesa di San Gregorio si vedono i resti di un criptoportico (sotto la casa del portiere della chiesa), di un'abitazione del III secolo a più piani (sotto la Cappella di Santa Barbara) e un tratto di muro un'opera quadrata tufacea su un nucleo di cementizio, resto di un edificio di epoca repubblicana (a destra dell'oratorio di Santa Silvia).

Dietro l'oratorio di Sant'Andrea si vede un'aula basilicale identificata con la biblioteca di papa Agapito I. Un po' più avanti si vede un altro edificio appartenente forse allo stesso complesso; sulla facciata in laterizio si vedono le tracce di tre porte tamponate.

Sulla destra, in piazza Santi Giovanni e Paolo, si vede un edificio di laterizio del III secolo, consistente in una fila di tabernae appoggiate al muro di fondo, con tracce di un secondo piano.

Sulla piazza affacciano anche l'ingresso (un tempo principale) di Villa Celimontana, e il podio del Tempio del Divo Claudio. La strada, il cui tratto successivo è oggi intitolato a San Giovanni della Croce, usciva dalla porta Celimontana sotto l'arco di Dolabella, dove incontrava il proseguimento neroniano dell'Acquedotto Claudio.



MARCO EMILIO SCAURO

M. EMILIO SCAURO
La costruzione della strada fu dovuta a un membro della famiglia degli Aemilii Scauri, appartenente alla ricca gens Aemilia, e sembrerebbe proprio il patrizio Marco Emilio Scauro ( 163 - 89 a.c.), della fazione degli optimates, ottimo generale romano, console nel 115 e nel 107 a.c. e censore nel 109 a.c.. 

A lui si deve la costruzione della via Emilia Scauri, nell'anno 109 a.c. e altre vie tra cui il Clivus Scauri di Roma. 

Di questo princeps senatus ci resta parte della sua domus situata vicino all'Arco di Tito, una tettoia moderna protegge i resti di una antichissima abitazione privata di epoca repubblicana che appartenne a Marco Emilio Scauro, celebre personaggio della Roma del I secolo a.c. 

Della casa è stato ritrovato un settore sotterraneo che comprende una stanzetta con larario e alcuni ambienti molto piccoli costruiti in opera reticolata e con pavimentazioni semplici a scaglie di travertino; tali stanze dovevano molto probabilmente essere adibite ad alloggiamenti per gli schiavi. 

 Al settore delle terme molto probabilmente appartengono alcune stanze con pavimenti in mosaico bianco e nero.



IL CLIVO DI ETA' IMPERIALE

Sul lato Ovest del Celio, a poca distanza dal Colosseo e dal Palatino, sul lato meridionale la Basilica dei SS. Giovanni e Paolo, sale una strada sovrastata da contrafforti medievali.

La via, che ha conservato nell'insieme il suo aspetto assunto nella tarda età imperiale, è affiancata, lungo la parete adiacente alla Basilica, dalla facciata di un'antica insula del II secolo d.c..

Se la costruzione della chiesa è databile al V secolo, essa fu però edificata al primo piano di uno straordinario complesso di edifici antichi. 

Scoperti nel 1886 dal Padre Rettore della sovrastante Basilica, è stato riaperto al pubblico dal 2002, dopo 14 anni di restauro.

EDIFICI DI CLIVIO SCAURO

L'EDIFICIO ABITATIVO

Trattasi di un palazzo con portico e botteghe al pianterreno e appartamenti ai piani superiori, come si può dedurre dalle due file di finestre che si affacciano sulla via.

Di tali ambienti si è fatto una specie di museo comprendente gli ambienti e gli oggetti più diversi, come età e come abitazioni. L’accesso all’area archeologica è dato da un ingresso creato appositamente sul Clivo di Scauro. 

L'attuale muro della basilica che si affaccia sul Clivo, ha inglobato la facciata dell'antica insula, della quale si riconoscono il portico ad archi lungo il Clivo e le finestre di due dei piani superiori.

L’area visitabile si snoda in oltre 20 ambienti ipogei su vari livelli, in parte affrescati con pitture databili tra il III secolo d.c. e l'età medievale. Una straordinaria stratificazione archeologica, ben studiata e mantenuta nonostante l'impegnativo aspetto labirintico dell'edificio.

TEMPIO DEL DIVO CLAUDIO
Diverse stanze, trovandosi al di sotto della navata destra della chiesa, sono state purtroppo tagliate dai muri di fondazione del colonnato che separa questa navata da quella centrale.

L'insula, formata da tre case per abitazione privata del II sec d.c., venne trasformata, nella prima metà del III secolo, in una grande costruzione in laterizio con porticato e botteghe a livello strada, retrobotteghe che affacciavano su un cortile ed appartamenti per abitazione ai piani superiori.

Di tutto ciò però resta solamente una parte del piano terreno formato da una fila di botteghe situate dietro un porticato.

Ma non finisce qui, perchè tra la fine del III e l’inizio del IV secolo queste unità abitative popolari subirono uno stravolgimento.

Evidentemente acquisito da un unico proprietario molto abbiente, l'edificio venne ristrutturato e trasformato in una un’elegante domus signorile, con ambienti di rappresentanza decorati da affreschi di pregio.

Nella seconda metà del IV secolo, in seguito alla traslazione di reliquie di santi, venne realizzata la confessio, una nicchia su un pianerottolo rialzato affrescata con storie di martiri cristiani. Sulla nicchia si apre una fenestella confessionis e nel tufo naturale al di sotto di questa nicchia si aprono tre cavità, corrispondenti probabilmente a tre tombe.

Il primo piano della casa fu probabilmente utilizzato come luogo di riunione, e come forma e dimensioni ricalca quelle della basilica, che incorporò quindi il titulus e gli edifici adiacenti.

VILLA D'ESTE
Il nucleo principale è costituito da una domus su due livelli, del II sec. d.c., occupata da un impianto termale privato (balneum) al piano inferiore e da un'insula con un portico e taberne al livello stradale ed abitazioni ai piani superiori, costruita all'inizio del III secolo d.c. lungo il Clivo di Scauro.

La domus aveva due ingressi in corrispondenza dei due fornici centrali: uno che portava al pianterreno ed uno ai piani superiori.  Le finestre erano disposte in due gruppi quasi simmetrici ai lati di un asse centrale, 13 al primo piano, 12 al secondo. 

Sul portico del pianterreno si aprivano alcune tabernae. Sotto la chiesa sono state portate alla luce, verso la fine del secolo scorso, due grandi case di abitazione a più piani separate da un cortile, poi trasformato in un ninfeo.

La casa a nord-est si affacciava sulla via parallela al clivus Scauri e sulla via che l'incrociava e che costeggiava il Tempio di Claudio. Un'altra facciata della casa si apriva invece sul Clivus Scauri. Dai bolli laterizi scoperti nelle murature, essa risale all'epoca di Adriano, ma con parti più antiche, risalenti all'età flavia.

Il pianterreno era costituito da sontuose sale decorate con stucchi, pitture e mosaici parietali policromi. Verso nord invece il terreno degradava in ambienti sotterranei rispetto ai precedenti ma al pianterreno verso la valle.

Qui si trovava un piccolo ma prezioso edificio termale privato a due sale con una vasca nell'una e un labrum di terracotta nell'altra. Le due stanze davano su un cortile che fu trasformato, successivamente, in un ricco ninfeo. 


Qui diverse fontane, secondo l'uso romano, zampillavano creando giochi d'acqua. Di questo tipo di giardini o ninfei ne possiamo avere un'idea visitando Villa d'Este (Tivoli - Lazio), dove la villa rinascimentale copia con successo il giardino romano.

LE TERME
Il pavimento è costituito da un mosaico policromo a grandi tessere. Si nota anche, al centro, un grande pozzo, che poi fu prolungato in alto, fino al pavimento della chiesa. Una ricca decorazione dipinta rivestiva le pareti dell'ambiente: sulla destra si vedono ancora tracce di un corteo di eroti su mostri marini. 

Ma soprattutto e molto ben conservato, un grandioso affresco del II secolo, lungo 5 m ed alto 3, che rappresenta forse il ritorno dall'Ade di Proserpina o, secondo altri, Venere con Bacco. 

Siamo propensi per la prima in quanto Proserpina che torna nuda dall'Ade ci sta, che la figura maschile sia Dioniso pure, e coinciderebbe anche la figura ammantata a lato di Proserpina che è Demetra con la corona.

Probabilmente si allude ai Misteri di Samotracia istituiti proprio su queste tre divinità, con rapimento di Proserpina da parte di Ade, ricerca disperata della figlia da parte di Demetra, risalita sulla terra di Proserpina e matrimonio di questa con Ade che si è trasformato in Dioniso.

La casa meglio conservata è quella sulla quale si sono impiantate la navata centrale e quella sinistra della basilica. C'era una certa ostinata invadenza del cristianesimo a impiantare quante più chiese possibili in ogni dove, specialmente a Roma. Gli antichi romani avevano diversi templi ma non si sarebbero mai sognati di occupare ogni piazza e ogni strada come ha poi fatto il cattolicesimo. 


Oggi la maggior parte di queste chiese sono chiuse perchè nessuno ci va più, ma all'epoca invadevano ogni angolo di Roma cancellando templi, case ed edifici pubblici.

INGRESSO ALLE DOMUS
All’altro capo del cortile (oltre il muro di fondazione del portico della chiesa) c'è una scalinata che poggia sul muro nord della casa. Questa conduce a un'insula a più piani suddivisa in appartamenti, che subì profonde trasformazioni verso la metà del III secolo. 

Esso fu notevolmente abbassato e trasformato in domus. Il ninfeo del cortile appartiene evidentemente a questa. Dal cortile del ninfeo si accede agli ambienti del pianterreno, alcuni dei quali erano in origine tabernae che si aprivano sul portico esterno. 

Questo in epoca tarda venne chiuso con tramezzi per costituire ambienti ulteriori.

Altre stanze davano invece accesso al cortile e da qui alla casa più a nord, mentre un piccolo andito costituisce la base della scala che portava agli ambienti superiori. 

Vicino al ninfeo affrescato con le tre divinità, e con il quale in origine comunicava, mentre ora il muro di fondazione della chiesa obbliga a un grande giro per accedervi, colpisce una bellissima decorazione a fondo bianco, con efebi che sostengono un festone vegetale, oltre a bellissimi pavoni ed altri grandi uccelli.

La volta è decorata a tralci e girali, tra i quali svolazzano eroti e uccelli. Il pavimento era rivestito di lastre di marmo, asportate già all'epoca, ma delle quali restano le impronte. 

Questa notevole decorazione sembra contemporanea a quella del vicino ninfeo.

Una decorazione più tarda, della prima metà del IV sec. d.c., si trova in altri ambienti.

Si tratta per lo più dell'imitazione in pittura di ricche incrostazioni di marmo policromo.

Nella cosiddetta "aula dell'orante" la decorazione pittorica, sempre del IV secolo, è meglio conservata (tranne la parte centrale della volta, che è perduta). 

Sopra la decorazione che imita le crustae marmoree (lastrine marmoree sagomate, da cui il nome incrustationes per intarsi sia pavimentali sia parietali), si snoda un pesante fregio di girali di acanto, mentre sopra a questi la volta è ricoperta da un motivo circolare, diviso in 12 settori.

Qui sono rappresentati personaggi maschili che reggono rotuli, coppie di pecore, in una lunetta un orante con le braccia aperte, che testimonia il carattere cristiano dell'abitazione. 
Il tutto in uno stile un po' carico e già decadente. 

STANZA DELL'ORANTE


LA CASA DEI SS. PIETRO E PAOLO

Nell'area della basilica dei SS Giovanni e Paolo sorgeva un tempo il Monte delle Querce (Mons Querquetulanus), dove era locata la famosa grotta delle Camene ove Egeria incontrava Numa Pompilio.

CASE SU CLIVUS SCAURI


DEA VITTORIA DEI SIMMACI

Qui venne posta in origine la Porta Caelimontana delle Mura Serviane, e il tempio del divo Claudio, trasformato da Nerone in ninfeo e riportato a tempio da Vespasiano, su un angolo del quale venne eretto il convento dei SS Giovanni e Paolo.

Nella zona dell’attuale Ospedale Celio sorgevano le case dei Simmaci, il più celebre dei quali era Quinto Aurelio Simmaco, il senatore di Roma che nella seconda metà del V sec. d.c. contrastò la diffusione del cristianesimo e la decadenza dei costumi romani causata dalla diffusione della nuova religione, ancora non religione di stato.

Egli è ricordato nei Saturnalia di Microbio, il quale lo pone a capo di un cenacolo al quale erano partecipi i più illustri difensori della romanità.
I Simmaci abitavano in una bella domus che si affacciava nel Clivus Scauri.

DEA VITTORIA DEI SIMMACI RINVENUTA
« Dobbiamo riconoscere che tutti i culti hanno un unico fondamento. Tutti contemplano le stesse stelle, un solo cielo ci è comune, un solo universo ci circonda. Che importa se ognuno cerca la verità a suo modo? Non si può seguire una sola strada per raggiungere un mistero così grande.»
(Quinto Aurelio Simmaco, Relatio de ara Victoriae)

Ma tanta tolleranza religiosa non venne apprezzata e la Vittoria che aveva salutato tutte le vittorie di Roma per tanti secoli fu tolta e distrutta.
In marmo bigio antico, di circa 2 m, acefala e mutila degli arti superiori. 

Ricomposta da numerosi frammenti e con diverse integrazioni. 

Ora a Palazzo dei Conservatori.

La statua venne scoperta durante gli sterri della Villa Casali eseguiti sul Celio nel 1885 per la costruzione dell’Ospedale Militare, inglobata a pezzi, in una struttura medievale di fronte alla chiesa di S. Tommaso in Formis.

Il Lanciani la identificò come “Vittoria dei Simmaci” prendendo spunto dalla strenua difesa del culto della Vittoria , portata avanti da Quinto Aurelio Simmaco nel Senato. 

I 151 frammenti in cui essa fu rinvenuta, potrebbero derivare dal particolare significato di questa statua. 

La fazione cristiana di fine IV secolo d.c. si dovette accanire fieramente contro questa statua, ultimo baluardo della religione pagana, capeggiata da Aurelio Simmaco la cui residenza sul Celio è indicata dalle fonti.

In seguito questa identificazione venne messa in dubbio perchè la maggior parte delle statue pagane furono fatte a pezzi e inglobate nei muri o sepolte, quando non furono calcinate.
Sia la testa sia gli arti dovevano essere in marmo bianco come a contrasto del colore nero dei vestiti. 
In genere veniva usato per Afrodite, Fortuna e Vittoria, sempre che non si tratti di una divinità orientale.

Effettivamente non vi sono indizi per identificare la statua tranne forse quell'accanimento che le fece sparire le braccia e il volto, probabilmente calcinati perchè mai ritrovati, e riducendo in resto in pezzi minuti affinchè la statua non potesse essere ricostituita. 

Tanto accanimento forse riguardava proprio la Vittoria di Simmaco.




LA DOMUS DEI MARTIRI GIOVANNI E PAOLO

Nella domus che giace sotto la chiesa intitolata ai suddetti santi, che non sono bada bene gli omonimi apostoli, vivevano due fratelli cristiani che vennero qui assassinati e, successivamente, di tre loro conoscenti che avevano scoperto il luogo della sepoltura.

Queste dette l'occasione per fabbricarvi un culto e una chiesa.

Gli Atti della Passio collegano la loro uccisione all’Imperatore Giuliano per opera di un suo ufficiale: “Terenziano ritornò nella loro casa e dopo tre ore di inutili minacce e lusinghe, li fece decapitare e seppellire in una fossa scavata nella stessa casa, spargendo la voce che erano stati esiliati”.

C'è da dire qualcosa sugli Atti dei Martiri, o Atti della Passione, che si dividono in tre categorie:
I) - Rapporti ufficiali degli interrogatori. Quelli importanti sono pochi, e in edizioni preparate allo scopo di edificare i fedeli.
II) - Resoconti non ufficiali redatti da testimoni oculari o da contemporanei che pongono per iscritto testimonianze di testimoni oculari. In gran parte è 'immaginazione.
III) - Documenti tardivi rispetto alla data del martirio, redatti sugli Acta del I o II tipo. Un documento letterario rimaneggiato secondo i propri scopi.

Sono chiamati anche Acta Martyrum, ma la loro storicità è minima o nulla. Sono romanzi, a volte costruiti su fatti riportati dalla tradizione popolare o letteraria, altri di sola immaginazione.Infatti l'Imperatore Giuliano non fece mai perseguitare i cristiani, anzi dette a tutti totale libertà di culto, solo tolse ai sacerdoti cristiani i privilegi economici loro accordati da Costantino in poi, parificandoli nei rimborsi spese ai culti pagani.

CASE SU CLIVUS SCAURI

Inoltre il fatto che i cadaveri dei due fratelli fossero stati nascosti in una fossa ( “nel tufo naturale del sottoscala, al di sotto di questa nicchia, si aprono tre cavità, che sono state interpretate come tombe”, che si dice fossero dei due fratelli e di tre loro conoscenti. E da qui fin dal IV sec. si localizzò il loro culto) rende più evidente che la loro morte non fosse voluta da Giuliano che ovviamente non doveva nascondere il suo operato.

Più facile pensare, visto che i fratelli erano ricchi, si sia trattato di una banda di ladri che li abbiano uccisi
insieme ad altre tre persone che avrebbero potuto testimoniare o addirittura difenderli.
In più, i due santi vennero fatti morire il 26 giugno, data precisa in cui nell’anno successivo morirà Giuliano, come fosse la vendetta divina sul loro assassino.

Fra l'altro nel 1725 il cardinale Paolucci fece racchiudere le salme (davvero c'era rimasto qualcosa dopo 1300 anni?!) in un’urna di porfido, ricavata da un’antica vasca termale, che ancora oggi forma la base dell’altare. La vasca apparteneva naturalmente alle terme private di cui sopra..



BIBLIOTECA DI AGAPITO

Scendendo lungo il clivo e superati gli archi di sostegno che scavalcano la strada, sulla sinistra sono visibili i resti di una grande aula absidata a pianta basilicale databile intorno al IV - V secolo d.c. Dovrebbe trattarsi della biblioteca fondata dal papa Agapito (535 - 536).
Approfondimento: BIBLIOTECA DI AGAPITO




LEGIONI IN MARCIA

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I TERMINI LATINI

I romani avevano 3 parole per definire l'esercito:
- Agmen quando era in marcia,
- Exercitus se volevano indicare un'armata ordinata e disciplinata,
- Acies se si riferivano all'armata schierata in ordine di battaglia.

Inoltre:
- Agmen justum era l'armata che si muoveva in ordine serrato
- Agmen pilatum era l'armata che procedeva senza troppe precauzioni in un territorio dove non si prevedeva nemico.
- Agmen incauto era l'armata che procedeva senza troppe precauzioni in un territorio pericoloso, come il console Caio Flaminio nella battaglia del lago Trasimeno.

Inoltre:
- Agmen o Acies "primun" era l'avanguardia,
- Agmen o Acies "primun""medium" era il centro,
- Agmen o Acies "extremum" o "novum" era la retroguardia, distinzione già presente in epoca repubblicana,
- Agmen "quadratum", era l'avanzata di un esercito in quadrato con il bagaglio al centro, cioè in formazione di battaglia,
- Acies "triplex" era l'esercito che marciava già schierato per affrontare il combattimento, nelle consuete tre linee romane.



I TEMPI DI MARCIA

La giornata di marcia dell'esercito romano durava circa 6 ore, qualche cosa di più se la luce lo permetteva. Le velocità di marcia che ci sono state tramandate (soprattutto da Renato Vegezio e da Cesare) sono sostanzialmente due:
- l'iter justum di 30 km. al giorno
- l'iter magnum di 36 km. al giorno.

Tuttavia Cesare (nella campagna contro Vercingetorige) guida 20.000 legionari in una marcia di andata e ritorno di 75 km, in poco più di 27 ore durante le quali riesce persino ad affrontare gli Edui e a disarmarli: in pratica muovendosi al doppio della massima velocità giornaliera prevista dall'iter magnum.

Invece Cesare condusse il suo esercito per 465 km. da Corfinium a Brundisium in 17 giorni, dal 21 febbraio al 9 marzo del 49 a.c.: ovvero 15 giorni di marcia e 2 di riposo alla velocità dell'iter justum, o 13 giorni di marcia e 4 di riposo in caso di iter magnus.



I BAGAGLI

I soldati romani, anche quando portavano con sé solo ciò che serviva per il combattimento, avevano un carico di circa  20 kg. come bagaglio normale: per il cibo, le pentole, le bevande, i ricambi del vestito, qualche arnese e il palo da campo per allestirlo in fretta. Poi c'era l’armamento individuale (armi e corazza, altri 15 kg), in tutto circa 35 kg.

Con questo peso un legionario doveva poter percorrere 30 km in 5-6 ore al cosiddetto "passo militare" e 36 km nello stesso tempo al "passo veloce", Giulio Cesare, che considerava essenziale la velocità del suo esercito, per abituare i suoi al peso dei bagagli, faceva loro vangare e zappare la terra, con il doppio vantaggio di avere fossati profondi intorno agli accampamenti e di rinforzare le spalle dei legionari. Non c'era esercizio migliore.

C'erano, è vero, i bagagli che stavano sui carri, ovvero i grossi rifornimenti dei viveri, però il miles se doveva scappare doveva avere dietro la sopravvivenza di 15 giorni, di cibo e di acqua. Sul carro c'erano poi dei ricambi in generale per le armature ammaccate, per le fasce dei piedi, i sandali, i mantelli per il freddo e le armi di ricambio, ma ogni legionario doveva badare a se stesso.



LE COLONNE DI MARCIA

Le colonne di marcia romane sono state ampiamente descritte da Polibio, Cesare, Vegezio, Giuseppe Flavio, Sallustio, Arriano. Quel che colpisce è l'enorme lunghezza occupata da un esercito romano in marcia: una legione romana completa dei propri bagagli occupava almeno 4 km. di strada e poteva allungarsi fino ai 20 km.: in pratica quando l'avanguardia era giunta a destinazione, alla fine del giorno e iniziava a montare il campo, la retroguardia aveva appena iniziato la sua marcia.

Infatti l'avanguardia iniziava immediatamente, già munita con gli attrezzi adatti, a montare il campo e i soldati che venivano subito dopo si affrettavano a coprirli in caso venissero attaccati. In caso di attacco infatti le file più vicine dovevano correre mentre l'avanguardia doveva continuare a montare il campo. Ovviamente se la situazione era disperata si mollava il campo e si combatteva, ma era difficile che accadesse perchè i romani sapevano sempre cosa accadeva dietro di loro, davanti a loro e ai loro lati.

ORDINE DI MARCIA (ingrandibile)
Abbondavano infatti di battitori e di spie che avevano già da giorni perlustrato il territorio e che continuavano a farlo mandando continuamente messaggeri per informare i comandanti. Se i capi erano accorti non potevano esserci sorprese.


ORDINE DI MARCIA

L'esercito romano consolare, informa Polibio, era formato da due legioni romane e due di alleati (socii- o ausiliarii).
- In testa alla "colonna" (agmen pilatum) si trovava un'avanguardia di soldati scelti tra le truppe alleate (socii delecti), 
- poi seguiva l'ala dextra sociorum, 
- poi i bagagli alleati (impedimenta sociorum alae dextrae), 
- la legio I consolare, 
- i bagagli legionari (impedimenta legionis I), 
- la legio II consolare, i bagagli legionari (impedimenta legionis II), 
- poi i bagagli alleati (impedimenta sociorum alae sinistrae) 
- poi l'ala sinistra sociorum.



Temendo in caso un attacco alla retroguardia, si ponevano gli alleati extraordinarii  in coda alla colonna. Le due legioni e le due ali marciavano alternativamente un giorno in testa e un giorno in coda alla colonna, in modo che tutti potessero, a turno, usufruire di acqua pura e campi di foraggio ancora integri.


Un ordine particolare è citato da Polibio per la II Guerra Punica, da Floro per le Guerre Cimbriche (113 e 101 a.c.) e da Giulio Cesare per la conquista della Gallia, chiamato Agmen Tripartitum o Acie Triplici Instituita.
Questo ordine prevedeva tre differenti "colonne" o "linee", ciascuna costituita rispettivamente da manipoli di:

- hastati - 1º colonna, la più esposta agli attacchi nemici, primi nello scontro "corpo a corpo" con il nemico.
- principes  - 2º colonna 
- triarii - 3º colonna, 

intervallati con i rispettivi bagagli (impedimenta). In caso di necessità i bagagli sfilavano sul retro della terza colonna di triarii, mentre l'esercito romano si trovava già schierato in modo adeguato (triplex agmen).

« In un altro caso gli hastati, i principes e i triarii formano tre colonne parallele, i bagagli di ogni singolo manipolo davanti a loro, quelli dei secondi manipoli dietro i primi manipoli, quelli del terzo manipolo dietro il secondo, e così via, con i bagagli sempre intercalati tra i corpi di truppa. Con questo ordine di marcia, quando la colonna è minacciata, possono affrontare il nemico sia a sinistra sia a destra, e appare evidente che il bagaglio può essere protetto dal nemico da qualunque parte egli appaia. Così che molto rapidamente, e con un movimento della fanteria, si forma l'ordine di battaglia (tranne forse che gli hastati possono ruotare attorno agli altri), mentre animali, bagagli e loro accompagnatori, vengono a trovarsi alle spalle dalla linea di truppe e occupano la posizione ideale contro rischi di qualsiasi genere. »
(Polibio, Storie, VI, 40.11-14.)


Ordine di marcia per l'accampamento

Un altro accorgimento importante per la velocità del montaggio dell'accampamento, era che i soldati che primi giungevano al luogo in cui ci si doveva accampare, armati di zappe e vanghe scavavano tutte le buche su cui si dovevano infilare i pali. Seguivano poi i legionari che scaricavano dalle spalle ognuno il suo palo e lo conficcava nel terreno con altri legionari che battevano immediatamente con le mazze i pali, mentre i legionari successivi univano i pali con le funi e le travi traverse. Naturalmente senza uso di chiodi che avrebbero costituito troppo peso.

Essendo importantissima la velocità degli spostamenti i romani avevano studiato accuratamente come riporre le merci sui carri. Tutto era organizzato in modo da costituire minor peso possibile. Si sa ad esempio che Cesare, nella guerra gallica scriveva ogni sera il resoconto della giornata e aveva trovato il modo di legare i fogli di papiro formando l'odierno libro, evitando così il peso del legno che sosteneva i rotoli.


ESERCITO ROMANO DEL IV SECOLO

IL VETTOVAGLIAMENTO

Un esercito romano di 25.000 uomini (una classica armata consolare) consumava circa 23 tonnellate di derrate alimentare al giorno, senza contare il foraggio degli animali, con i quali la cifra più o meno raddoppiava.

L'alimentazione del soldato poi non era eccezionale: pane o polenta, verdura, più raramente formaggi duri o carni salate, sempre a disposizione invece vino agro (una specie di aceto) e tanto aglio. A tal punto ci si abituava che i soldati di Giulio Cesare si lamentavano quando erano costretti a mangiare carne fresca.

Il pane era un tipo speciale, detto pure "pane militare" perchè si manteneva a lungo, poi c'erano le gallette vere e proprie, ma soprattutto i semi di grano che erano i preferiti da portare in spalla perchè erano i più leggeri. Erano i soldati durante le soste a macinare i semi e far bollire la farina per farne delle minestre cui aggiungevano carne o verdure. Di solito il cibo vegetale si acquistava lungo la strada, o si razziava se si era in territorio nemico, dato il suo rapido decadimento. Altrettanto dicasi per la frutta. Da Roma provenivano in genere i rifornimenti di grano, di legumi secchi di cui si faceva largo uso, soprattutto ceci), di carni salate, di vino agro e aglio in quantità, ritenuto essenziale per evitare le malattie.

Quando si macellava un animale si cucinavano prima le parti più corruttibili, poi se il clima era caldo si tagliavano le carni in fette sottili e si appendevano a dei fili come panni stesi, si che il sole le disseccasse, dopodichè si ponevano nei barili, oppure si salavano e si ponevano sempre nei barili. Anche i pesci potevano essere salati e posti nei barili.

MONS VATICANUS - VATICANO

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GIARDINI DEL VATICANO

I SETTE COLLI

Roma fu costruita sopra sette colli, la cui identificazione più antica riporta il Palatino, il Germalo. la propaggine del Palatino verso il Tevere, la Velia (verso l'Esquilino), il Fagutale, l'Oppio ed il Cispio (oggi tutti compresi nell'Esquilino) e la Subura (in direzione del Quirinale).

Con l'espansione di Roma l'urbanistica mutò ed ecco i sette colli riportati da Cicerone e Plutarco:
Aventino Campidoglio Celio Esquilino Palatino Quirinale Viminale.
Un'altra sella montuosa collegava le pendici del Campidoglio con quelle del Quirinale e venne asportata nel II sec. per edificare il complesso del Foro di Traiano: il mons che compare nell'iscrizione della Colonna di Traiano e di cui questa mostrerebbe l'altezza originaria, sembra riferito a questa altura. Invece ai tempi di Costantino i sette colli comprendevano il Vaticano ed il Gianicolo, ma non il Quirinale ed il Viminale.



MONS VATICANUS

"Et Vaticano fragiles monte patellae" scrive Giovenale, in quanto anticamente nella zona del Vaticano vi erano fornaci che usavano l'argilla locale per farne vasi di diverso genere. Dell'area si sa infatti che vi abbondava argilla ottima per la fabbricazione di laterizi, ma che il terreno era inadatto alle coltivazioni agricole, tanto che Marziale ne lamenta la pessima qualità dei vini lì prodotti.

L’area oggi denominata Vaticano era inclusa nella XIV regione augustea, ma non fu mai parte vera e propria della città, ed anticamente era chiamata Vaticanus, seguito da ager o da mons. Col Vaticanus ager si indicava tutto il territorio che si estendeva per circa 13 km dal Gianicolo verso nord, procedendo lungo la riva destra del Tevere fino all’altezza di Fidene, in area originariamente etrusca.

L’espressione Vaticanus Mons compare nel IV sec. d.c. in riferimento alle colline dell’odierno Vaticano e di Monte Mario. Il nome sembra doversi collegare al Dio Vaticanus, venerato in quel luogo, che apriva la bocca ai neonati assistendoli alla nascita, facendogli così emettere il primo vagito. Vaticanus era peraltro un Dio oracolare ed aveva appunto, come riferisce Sesto Pomponio, un tempio a lui dedicato sul colle omonimo.

Le comunicazioni viarie erano costituite dai tratti iniziali delle vie Cornelia, Trionfale e da uno dei due rami dell’Aurelia. Il percorso più antico era quello della Trionfale, che collegava Roma a Veio fin dall’epoca protostorica e che correva lungo la riva destra del fiume alle falde del Gianicolo. Anche il tracciato originario della Cornelia era molto antico e collegava la città a Caere. Il tracciato della via Aurelia nell’area vaticana doveva coincidere con la via Cornelia, seguendo poi un percorso costiero, la Salaria Vetus, e quello più interno della Salaria Nova.

FORMA URBIS E COSTRUZIONI SUCCESSIVE (ingrandibile)
I tratti superstiti di basolato di queste vie sono stati riconosciuti a più riprese in vari punti dell’area vaticana e portano a identificare in particolare un percorso iniziale comune a Cornelia e Trionfale. La prima poi costeggiava il lato sud della necropoli sotto S. Pietro, la seconda pure adiacente ad altre necropoli (del Prato di Belvedere, dell’Annona, dell’Autoparco, ecc.) era orientata in direzione nord. Il crocevia tra queste e altre strade attestate in maniera frammentaria, dovette comunque essere proprio nell’area di piazza di S. Pietro. 

Ci fu un progetto, ideato ma mai realizzato da Cesare, di deviare il fiume e ricongiungere il Vaticano al Campo Marzio; stranamente Ottaviano, che realizzò ogni progetto di Cesare, non lo attuò, segno che l'impresa rasentasse l'impossibile.

I numerosi testi del martirio e la sepoltura di San Pietro sono quasi tutti posteriori al V sec. d.c., pertanto non proprio sicuri. Rispetto alle abitazioni, dopo un periodo in cui l’area divenne residenziale, passò la proprietà agli imperatori costituendo gli horti imperiali, gravitanti intorno al circo di Gaio e di Nerone.

Poi, nel III sec. d.c. vi fu un cambiamento radicale come centro religioso del nuovo culto di stato, con il sorgere di grandi necropoli e con la costruzione del Phrygianum ed eventuali annessi cultuali, e la monumentalizzazione della tomba di S. Pietro.



GLI HORTI

Sul carattere residenziale del Vaticano, abbiamo notizie e testimonianze sugli Horti Agrippinae, Cai et Neronis ovvero i giardini di proprietà di Agrippa ed ereditati da Agrippina Maggiore, madre di Caligola: passati al figlio di lei, Caligola, che vi fece costruire il suo circo,  ereditati poi da Nerone. Erano situati tra S. Pietro e Borgo e collegati al Campo Marzio mediante il pons Neronianus. Vari ruderi, visti durante il Medioevo, furono ricollegati alla parte architettonica vera e propria, così come i resti scoperti sotto l’ospedale di Santo Spirito, ma non si hanno notizie certe.

Sempre in area vaticana, nella zona circostante il Mausoleo di Adriano e il palazzo di Giustizia si estendevano originariamente gli Horti di Domizia, cioè di Domizia Longina, moglie di Domiziano, nonchè gli Horti sallustiani. A nord del mausoleo di Adriano, tra le vie Alberico II e Cola di Rienzo, furono portati alla luce e poi ricoperti i resti di un grandioso edificio, lungo almeno 300 m, probabilmente la Naumachia Vaticana, fatta edificare da Traiano in sostituzione di quella di Augusto nell’area trasteverina.

NECROPOLI VATICANA SOTTO SAN PIETRO

LE NECROPOLI

Anche di recente sono state scoperte frequenti e rilevanti testimonianze archeologiche delle necropoli che si svilupparono progressivamente lungo le sopracitate arterie stradali e alle pendici dei colli vaticani già dalla metà del I secolo d.c., anche a discapito delle strutture residenziali precedenti: la più eminente era quella vaticana, estendentesi a est e a ovest della basilica, presso la via Cornelia.

Tra le tombe, parecchie delle quali di altissimo livello, si ha il ricordo del cosiddetto Terebintus Neronis conosciuto anche erroneamente come «obelisco di Nerone». Si trattava di un monumento sepolcrale costituito da due elementi cilindrici sovrapposti, situato presso il Mausoleo di Adriano e la Meta Romuli.
Quest’ultima era una tomba di forma piramidale, visibile nella zona di Borgo fino al XVI secolo, quando fu fatta distruggere da Alessandro VI.

BASILICA COSTANTINIANA

I TEMPLI

Quanto ai templi dell’area vaticana, bisogna citare, ricordiamo lo sviluppo dell’importante culto della Dea frigia Cibele, praticato presso il santuario noto come Phrygianum: alcune testimonianze epigrafiche ne collocano la fondazione in epoca anteriore almeno alla metà del II secolo d.c. e il declino in seguito all’inizio dei lavori per erigere la basilica di S. Pietro. La zona occupata dal complesso, da considerare, analogamente ad altri dedicati a questa divinità, come costituito da un sacello e da un campus, era probabilmente a nord o a ovest della basilica.

Più antico della stessa Roma era il culto della Dea Ilice, (Ilizia) come si trovò menzionato in etrusco, e due templi, uno dedicato ad Apollo ed uno dedicato a Marte, giusto nell'area dove sorse la Basilica Vaticana. Si sa che sopra il tempio di Marte venne edificato l'Oratorio di Santa Maria della Febre, mentre sul tempio di Apollo sorse la cappella di Santa Petronilla.

Un altro luogo di culto praticato nell’area, ma di cui si hanno ancor più scarse notizie, era quello che un recente studio ha ipotizzato dedicato a Gaia, divinità greca associata a Cibele. Il santuario, detto Gaianum doveva essere situato a ovest di Castel Sant’Angelo, ma probabilmente non vi era una vera e propria monumentalizzazione dell’area cultuale, il che spiegherebbe forse la mancanza di resti e di notizie più precise.

Narra Plinio che sotto Claudio fu veduto in Vaticano uno smisurato serpente boa, così grande che dentro al suo corpo aveva ingoiato un fanciullino intero. Il culto del serpente appartiene proprio alla Grande Madre, non a caso le sue sacerdotesse erano chiamate le Pitie o Pitonesse. Probabilmente la storia allude al culto più antico del serpente sacro.

IL CIRCO DI NERONE

I CIRCHI

Nella valle vaticana inoltre. come riferisce Tacito, Nerone fece un circo per il maneggio dei cavalli, e fece eseguire, come già aveva fatto Claudio, i giochi circensi. e dove Eliogabalo fece gareggiare le quadrighe con gli elefanti.

La zona del Vaticano dove si trova il Circo di Caligola, fu occupata da una vasta zona di necropoli i cui numerosi resti sono venuti alla luce nel corso dei secoli: colombari, fosse per inumazione, tombe a cappuccina, deposizioni in anfora, dal I al III sec. d.c.

Acrone narra vi fosse posto il mausoleo degli Scipioni, a forma di piramide, che però a noi non risulta lì posto, e che fosse locato in modo da guardare verso Cartagine, a monito dei Cartaginesi, secondo un antico oracolo che così si espresse:

"Deruicta Cartagine, virtute Scipionis Aphricani, cum Aybri adversus Romam denuò rebellarent, consulto oraculo respondum est: ut sepulchrum Scipioni fieret, quod Carthaginem respiceret. Tunc levati cineres eius fuerunt,Piramide in Vaticano constituta, et bumati in sepulchro eius in porta Carthagine respiciente."

Sotto la navata centrale della Basilica di San Pietro vi sono gli edifici sepolcrali di ricchi plebei, disposti in una doppia fila e orientati in senso est-ovest, paralleli al Circo di Caligola. I sepolcri della fila settentrionale attestano una prevalenza del rito della cremazione mentre in quella meridionale è attestata l’inumazione. All’esterno presentano la facciata in cotto mentre all’interno hanno ricche decorazioni in stucco, affreschi, pavimenti in mosaico e sarcofagi preziosi.



I MAUSOLEI
MAUSOLEO DEGLI AELII
  • Nel Mausoleo A è presente un’iscrizione di G. Pompilius Heraclea in cui il defunto esprime il desiderio di essere sepolto «in Vaticano presso il Circo». 
  • Il Mausoleo E della famiglia degli Aelii presenta un affresco con due pavoni affrontati posti ai lati di un cesto di frutta. 
  • Il Mausoleo F dei Caetemnii e dei Tulli, è decorato con stucchi e pitture parietali tra cui la nascita di Venere dal mare. 
  • Nel Mausoleo H, della famiglia dei Valerii, oltre alla decorazione in stucco di erme e rilievi anche divinità varie. Nel sepolcro si ricorda un’iscrizione in cui è menzionato l’Apostolo Pietro e un affresco raffigurante due teste, del Cristo e di Pietro, ora perduto. 
  • Il Mausoleo I mostra un pavimento in mosaico in bianco in cui è raffigurato il ratto di Proserpina alla presenza di Mercurio. 
  • Nel Mausoleo M, appartenente agli Iulii, le decorazioni musive sono riferibili a temi cristiani pur risentendo fortemente dell’influsso dell’iconografia classica. Sulla parete di fondo si riconosce un pescatore, su quella est Giona in mare; a ovest la raffigurazione del Buon Pastore mentre sulla volta è visibile un Cristo con corona di raggi stante su una quadriga. 
  • Nel Mausoleo T, detto di Trebellena Flaccilla, era conservata l’urna con le ceneri della defunta del 318 d. c. per la presenza di una moneta costantiniana.
    MAUSOLEO T DELLA TOMBA VALERII
  • Il «campo T», in corrispondenza dell’altare maggiore della Basilica, ha tomba di s. Pietro, una piazzola rettangolare di 7 m x 4, chiusa sul fondo da un muro con intonaco rosso, a cui è addossato un monumento a edicola con due nicchie sovrapposte e divise da una lastra in travertino sorretta da due colonne; un muro di altezza limitata si addossa perpendicolarmente al «muro rosso». Alla base del muro è visibile una nicchia. Circa un secolo più tardi la sepoltura fu monumentalizzata con l’edificazione del monumento a edicola definito «Trofeo di Gaio». 
Non si hanno prove sulla tumulazione di S. Pietro se non per una tarda leggenda popolare.

GROTTE DI CATULLO (Lombardia)

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"Paene insularum, Sirmio, insularumque
ocelle, quascumque in liquentibus stagnis
marique vasto fert uterque Neptunus,
quam te libenter quamque laetus inviso,
vix mi ipse credens Thyniam atque Bithynos
liquisse campos et videre te in tuto...."


Sirmione, gioiello delle penisole e delle isole,
e di tutte quelle, sulla distesa di un lago trasparente o del mare
senza confini, offre il Nettuno delle acque dolci e  salate,
quanto volentieri, e con quale gioia torno a rivederti;
a stento credo d'avere lasciato la Tinia e le terre di Bitinta,
e di poterti guardare in pace.
Ma c'è cosa più felice dell'essersi liberato dagli affanni,
quando la mente depone il fardello e stanchi
di un viaggio in terre straniere torniamo al nostro focolare
e ci stendiamo nel letto tanto desiderato?
Questa, in cambio di tante fatiche, è l'unica soddisfazione.
Salve, amabile Sirmione, festeggia il tuo signore,
e festeggiatelo anche voi, onde del lago di Lidia:
ridete e risuoni di risa tutta la casa.

(Caio Valerio Catullo)

Sirmione è posta lungo la penisola omonima che si protende all'interno del lago di Garda per circa quattro km e che divide in due parti la riva lacuale meridionale. Parte del territorio comunale si estende ad est rispetto alla penisola per includere quella di Punta Grò.

In quest'oasi di pura bellezza sorge uno dei siti più belli rispetto alle ville romane dell'Italia settentrionale, e cioè le cosiddette "Grotte di Catullo".

Per Grotte di Catullo si intendono i resti di una villa romana edificata tra la fine del I sec. a.c. e il I sec. d.c. a Sirmione,  sulla riva meridionale del Lago di Garda.

Essa godeva di una posizione eccezionale, sulla punta della penisola di Sirmione, dominante dall'alto dello sperone roccioso l'intero bacino del Lago.

La denominazione di "Grotte di Catullo" risale al Quattrocento, quando la riscoperta delle liriche di Catullo, fra cui il Carme 31, in cui il poeta descrive il suo ritorno nell'amata casa di Sirmione, fece associare i grandiosi resti ancora visibili anche se quasi tutti interrati e coperti da vegetazione.

Per questa ragione vennero denominate grotte. Il primo ad attribuire la villa a Gaio Valerio Catullo fu, nel 1483, il giovane studioso Marin Sanudo il giovane. Oggi si giudica del tutto improbabile che la villa sia quella di Catullo visto che sembra sia stata edificata successivamente alla sua morte.

Vero è però che una struttura del I sec. a.c. giace sotto quella riedificata nel I sec. d.c. Essendo Catullo del I sec. a.c. (morto nel 56 o 54 a.c.) avrebbe ben potuto essere il proprietario del primo edificio.

I resti  attualmente conservati si trovano oggi su livelli diversi. Del settore settentrionale ad esempio sono rimaste solo le grandi sostruzioni, mentre nulla è conservato dei vani residenziali, crollati già in epoca antica.

RICOSTRUZIONE

IL GIOVANE POETA

Catullo fu forse il più grande poeta dell'antichità, spumeggiante, tragico, passionale, delicato, spregiudicato e fondamentalmente triste.

"Nobis com semel occidit brevis lux
nox est perpetua una dormienda"


"- Una breve luce, per una volta, ci tocca ricevere,
  - per poi dormire una lunga notte senza fine"

Se della villa del poeta si tratta, questa era della sua agiata famiglia residente appunto a Sirmione, unico posto in cui Catullo troverà ogni tanto, nelle sue vacanze dalla caotica e meravigliosa Roma, un certa pace dell'anima.

Ma una pace parziale perchè il ricordo dell'amata e lontana Lesbia lo perseguiterà fino alla morte, purtroppo precoce, che porrà una triste fine a una vita tormentata da dissidi interiori non ben compresi ma divinamente illustrati.

RICOSTRUZIONE

LE VICENDE

Sembra che presso Sirmione, vi fosse  una "mansio" (locanda) per i viaggiatori che percorressero la strada che univa le città romane di Verona e Brescia, documentata nell'Itinerario Antonino (III secolo d.c.).

Ma questa non aveva a che fare con le "grotte", essendo locata probabilmente nella zona di Lugana Vecchia.

Comunque la villa doveva essere in stato di abbandono già nel III secolo d.c. quando parte della sua decorazione architettonica venne reimpiegata nell'altra villa romana di Sirmione, quella di Via Antiche Mura.

Infatti alla fine del I sec. a.c. - inizi I sec. d.c. risale anche la villa rinvenuta in anni recenti fra piazzetta Mosaici-via Vittorio Emanuele-via Antiche Mura che si è giovata delle decorazioni dell'altra.

Il reimpiego di alcuni capitelli dei portici nella Villa di Via Antiche Mura  risale alla fine del III sec. d.c. il che fa pensare che quel periodo la villa era sicuramente già abbandonata, forse a seguito di un incendio che ne aveva danneggiato le strutture.


Fra il IV e il V sec. le imponenti strutture superstiti della villa vennero incluse nelle fortificazioni che recingevano la penisola di Sirmione e all'interno dei resti dell'edificio romano vennero realizzate delle sepolture.

Nel corso dei secoli, come si è detto, diversi cronisti e viaggiatori visitarono le rovine, ma i primi studi concreti su di esse furono effettuati solamente nel 1801 dal generale La Combe St. Michel, comandante d'artiglieria dell'esercito di Napoleone Bonaparte. Successivamente, il conte veronese Giovanni Girolamo Orti Manara eseguì scavi e rilievi, ancor oggi fondamentali, che pubblicò nel 1856.

Nel 1939 la Soprintendenza dei Beni Archeologici avviò un programma di scavi e restauri, acquisendo finalmente nel 1948 l'intera area.

Durante gli anni novanta del Novecento ulteriori studi hanno confermato che la costruzione fu realizzata attraverso un progetto unitario, che ne definì l'orientamento e la distribuzione degli spazi interni, con una capacità architettonica di tutto valore, per le qualità sia tecniche che per l'inserimento pregevole nell'incantevole paesaggio.




DESCRIZIONE

Il complesso archeologico, ancora oggi portato alla luce solo parzialmente, copre un'area di circa due ettari ed è circondata da uno storico uliveto composto da oltre 1500 piante. Essa ha una pianta rettangolare, di 167 x 105 metri, con due avancorpi sui lati corti nord e sud.

Per la sua realizzazione fu necessario rimodellare il banco roccioso della punta della penisola di Sirmione. I dislivelli e l'affaccio settentrionale a picco sul lago, richiesero delle sostruzioni su due piani,  ben visibili sul lato ovest (Grande Criptoportico) e sul lato orientale dell'avancorpo settentrionale.

La villa si estendeva su due piani intorno a un grande giardino-peristilio di circa 4.000 mq, con le zone residenziali ubicate a nord e a sud.

I vani inferiori non si sa se venissero utilizzati come locali di servizio, come in genere si usava, riservando il piano alto ai proprietari, perchè alcuni di essi, dotati di spettacolari viste sul lago, potevano benissimo far parte degli spazi destinati al proprietario e alla sua famiglia.

Allo stesso modo era riservato al dominus il doppio criptoportico, parzialmente scavato nel banco roccioso, che corre lungo tutto il lato occidentale della villa e che consentiva di disporre di un ambiente per passeggiate al riparo dal caldo e dalla pioggia.


Questi lunghi portici con terrazze correvano sui lati est, ovest e nord dove si collegavano a una terrazza belvedere di circa 1.400 mq..

L'ingresso principale si trovava nell'avancorpo meridionale ed immetteva al livello superiore, adibito ad abitazione, che è quello meno conservato, mentre altri due ingressi a nord e a ovest immettevano nel livello intermedio e in quello inferiore. 

Il piano nobile, cioè quello superiore, corrispondente agli ambienti di abitazione del proprietario, è il più danneggiato, sia perché più esposto alle intemperie, ma soprattutto perché la villa, dopo il suo abbandono, è stata per secoli una cava di materiali.

Meglio conservati sono infatti il piano intermedio e quello inferiore.

 La villa, con lunghi porticati e terrazze aperti sul lago lungo i lati est e ovest, sviluppava a nord  un'ampia terrazza belvedere, munita di velarium, dove convergevano i porticati.

Qui d'estate, il poeta e i suoi ospiti, potevano oziare ammirando un paesaggio lacustre di straordinaria bellezza, discutendo di poesia e filosofia, e pure di politica, che il poeta non disdegnava.


Le parti residenziali dell'edificio erano situate nelle zone nord e sud, mentre la parte centrale, costituita oggi dal Grande Oliveto, era occupata da un esteso giardino, mentre sul lato meridionale, sotto un pavimento in opus spicatum, si trova una grande cisterna lunga quasi 43 m, che raccoglieva l'acqua necessaria per la villa e per il giardino.

Nel settore meridionale del piano superiore c'era una zona destinata alle terme, dotata di ampia piscina riscaldata, realizzata fra la fine del I e gli inizi del II sec. d.c.

Essa beneficiava di diversi vani situati nella zona sud occidentale, ricavati probabilmente all'inizio del II sec. Lungo il lato occidentale, oggi è visitabile il criptoportico, una lunga passeggiata un tempo coperta.

I vari ambienti della villa hanno oggi nomi suggestivi del tutto inventati: l'Aula a tre pilastri, il Lungo corridoio, la Trifora del Paradiso, il Grande Pilone, la Grotta del Cavallo, il Grande Oliveto prima citato e l'Aula dei Giganti.


I resti della villa constano di:
- 2 corridoi;
- 2 ambienti di sostegno per il piano superiore ("botteghe");
- una cisterna per l'acqua ("bagno");
- un ingresso, fiancheggiato da nicchie per fontane;
- una grande cisterna sotterranea per l'acqua;
- un pavimento in mattoncini sopra la grande cisterna;
- un ambiente con pavimento a mosaico;
- un vano di sostegno per il piano superiore ("criptoportico degli stucchi");
- 4 ambienti termali (tra cui la "piscina");
- 2 cisterne;
- una terrazza orientale con colonnato;
- una passeggiata coperta ("doppio criptoportico");
- una terrazza occidentale con colonnato;
- un vano sottostante ambiente di soggiorno ("aula a tre pilastri"),
- un "lungo corridoio";
- un vano di soggiorno (con "trifora del paradiso");
- un vano con resti del pilastro angolare nord-occidentale ("grande pilone");
- una cantina o vano di servizio ("grotta del cavallo");
- un cortile centrale della villa ("grande oliveto");
- 2 ambienti sottostanti terrazza-belvedere ("aula dei giganti").

A destra dell'ingresso, è possibile visitare il Museo che raccoglie le testimonianze della storia più antica di Sirmione, dagli oggetti recuperati nelle palafitte sommerse lungo le coste della penisola e dalle Grotte di Catullo. A queste ultime appartengono gli splendidi frammenti della decorazione ad affresco che, insieme agli stucchi e alla decorazione architettonica, arricchiva gli ambienti residenziali.  

MAUSOLEO DI LUCULLO (Frascati)

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RESTI DEL MAUSOLEO OGGI

"Il Mausoleo si presenta come una torre quasi completamente integra. Alcuni marmi e colonne sono già stati smontati per la costruzione dell'altare maggiore della chiesa di San Pietro, mentre altri pezzi di cornici e colonne sono in terra semicoperti".



LA SPOLIAZIONE

Il fenomeno delle spoliazioni dei monumenti antichi romani è purtroppo la più grande vergogna del bel suolo italico. Alla decadenza dell'Impero Romano i patrizi si accorsero che non era più possibile arricchirsi diventando generali e guidando eserciti di legionari. La capacità guerriera con l'avvento del cristianesimo era tramontata, i romani non combattevano perchè era peccato, ma siccome occorreva combattere si fece uso dei soldati stranieri mercenari per difendere la patria.

Purtroppo questi soldati non avevano assolutamente nè il valore nè l'abilità dei legionari romani per cui le invasioni straniere non poterono essere più bloccate. Il nuovo potere fu invece quello ecclesiastico per cui i vecchi patrizi fecero la scalata al vescovato, al cardinalato e pure al papato. Il mondo si rinnovava cercando nuove forme di espressione artistica, senza però riconoscere il valore del vecchio che era di incomparabile e incomparata bellezza.

Così i nuovi palazzi e monumenti vennero edificati spogliando i bei monumenti romani delle loro bellezze: blocchi di marmo, architravi lavorati, colonne, capitelli, statue e bassorilievi. Tutto fu asportato senza un rimpianto, condannando all'oblio tanti bei monumenti. tra questi il Mausoleo di Lucullo a Frascati.

"Il prof. Mattei attribuisce all'anno 1598 la distruzione del cosiddetto mausoleo di Lucullo « massiccio in figura conica, vicino le mura della città di Frascati, nel Borgo, alla parte destra della Porta Nuova per la strada che conduce a' Cappuccini; e fu spogliato de suoi ornamenti circa l'anno 1598 de quali si servì la città nella fabrica della nuova catedrale; ma le cose migliori e più rare furono prese da diversi cavallieri Romani per adornarne le loro gallerie: ne si sa che vi fusse trovata alcuna iscrizzione . . . bensì nel farvi alcune cave ne tempi nostri, poco lungi si sono trovate molte tegole di terracotta, che servivano per coprire alcune ossa » . Mem. dell'antico Tusculo pp. 61-62.



Il MAUSOLEO 

"Si passa sopra il ramo della Marrana, sopra un ponte, che si chiama di Vermicino da una osteria, che ivi dappresso trovavasi. Si trova poi un bivio, la strada a sinistra continua ad essere la moderna via di Frascati, quella a destra porta a Grotta Ferrata. Deviando un poco per questa seconda strada, si vede subito un magnifico mausoleo di forma rotonda, coperto di massi quadrati di pietra albana, o peperino, ben conservato, e di perfetta costruzione. Questo, mentre mostra l'epoca repubblicana per la sodezza, e la semplicità sua, può ancora attribuirsi a Lucullo con qualche verosimiglianza, giacchè si trova dentro i limiti delle possessioni Lucullane."

Sul principio della via Cappuccini a Frascati c'è un magnifico mausoleo di forma rotonda, privo di base quadra, detto Sepolcro di Lucullo, che morì nel 56 a.c., come informa Plutarco, narrando inoltre che il funerale fu eseguito a spesa pubblica e che il popolo romano, desideroso di onorarlo, avrebbe voluto seppellirlo a Campo Marzio, ma la famiglia, ed esattamente fratello e figlio, non accettarono avendo già un mausoleo che attendeva la spoglia.

Secondo alcuni la famiglia non voleva farsi carico di una cerimonia così impegnativa, ma secondo Plutarco la sepoltura probabilmente sarebbe stata predisposta dallo stesso Lucullo. Infatti il fratello Marco insisté molto per ottenere il permesso di seppellire Licinio nella sua tenuta.
LUCULLO

FLAMINIO VACCA

"Ma ciò, che merita maggiormente di essere in questo luogo osservato, è un grandioso avanzo di villa Romana antica, chiamato le grotte di Lucullo, e consistente, secondo il solito delle ville antiche, in lunghi portici a più piani, con molte camere, ed inoltre ha un piano sotterraneo forse per ergastulo degli schiavi, il quale ricevea la luce dalle volte, come in altre fabbriche di questa natura si osserva. 

Queste rovine occupano un lungo tratto, e per la loro situazione possono avere appartenuto alla villa di Lucullo, come il nome volgare le chiama. Che la sua villa si estendesse da questa parte, Frontino lo accenna. 

E siccome da Frontino stesso rilevasi, che l'agro Lucullano si estendeva fino alle sei miglia lungi da Roma, sulla via Prenestina: "concipitur Appia in Agro Lucullano via Praenestina inter miliarium VI., et VIII", e le rovine indicate si trovano fra le otto, e le nove miglia distanti da Roma, sulla via Latina, e per conseguenza fra i due limiti accennati da Frontino, perciò con ogni probabilità alla sua villa sontuosissima appartengono, la cui grandezza cosi ci viene descritta da Plutarco nella sua vita, cap. 39.



LA VILLA A FRASCATI

Sembra dunque che Lucullo possedesse una villa a Frascati dove si rifugiava all'epoca del gran caldo romano, quando abbandonava i suoi splendidi Horti per rifugiarsi ai Castelli romani. Evidentemente, come scrive Plutarco, era abitazione di famiglia da lui ereditata.

Plutarco:

- (Lucullo) ...avea presso Tusculo abitazioni patrie, ed altissime vedette, e fabbriche di camere, e passeggi aperti. Nelle quali portatosi Pompeo, rimproverò a Lucullo, che avendo disposto molto bene la villa per l'estate, l'avea resa inabitabile l'inverno: al che colui sorridendo, disse; Così ti sembro di avere meno intendimento delle gru, e delle cicogne, che non cangi insieme colle stagioni anche le case? -


FOTO D'EPOCA DEL MAUSOLEO (PRIMI 900)

FLAMINIO VACCA

Un solo dubbio può farlo la costruzione, la quale sembra piuttosto appartenere ai secoli della decadenza. Ma chi può conoscere le vicende di una delizia così estesa, e cosi magnifica? Forse ella fu ristaurata in tempi meno remoti, ma il piano generale è ben degno de' tempi Romani. 

Dietro, cioè verso settentrione, si veggono addossati alla villa degli avanzi di fortificazione de' tempi bassi; ciò mostra, che questo edificio, come tanti altri, fu ne' tempi della barbarie ridotto a fortezza, e forse in quella epoca fu risarcito tutto, e rivestito di selci di una forma quasi quadrangolare, che lo fanno comparire come fabbricato intieramente in quella epoca. -

Il grande mausoleo a tamburo sulla Tuscolana, chiamato un tempo Torre di Micara, è stato da lungi identificato come mausoleo di Lucullo.

E' la più antica tomba a tamburo di grandi dimensioni, con un diametro di 29 m, probabilmente ispirato alle tombe ellenistiche che Lucullo aveva visto nei suoi viaggi in Cirenaica e ad Alessandria.

Sembra che da allora sorgesse la moda architettonica di erigere mausolei di forma rotonda. Tuttavia poi il mausoleo rotondo verrà posto su una base quadra, come nella Mole Adriana o il monumento funebre di Cecilia Metella.

Il perchè Lucullo avesse scelto come collocazione il suolo della sua villa sulla Tuscolana anzichè sui magnifici Horti del Pincio ha dato luogo ad alcune congetture, tra cui il fatto che un mausoleo di tipo orientale non sarebbe stato gradito ai romani.

Di certo è poco credibile perchè i romani avevano già visto sull'Appia diversissimi modelli di tombe e mausolei, e ben accettarono pure le tombe a piramide, come quella di Caio Cestio. Roma era una metropoli internazionale e difficilmente si scandalizzava.

Purtroppo il bellissimo monumento venne depredato privandolo del travertino e dei marmi preziosi, infatti si sa che nella chiesa di San Pietro a Frascati l'altare maggiore fu realizzato con colonne in porfido e marmi preziosi provenienti dal Mausoleo di Lucullo.

GAIO CORNELIO GALLO

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CORNELIO GALLO

Nome: Gaius Cornelius Gallus
Nascita: Forum Iulii 69 a.c.
Morte: 26 a.c.
Mestiere: Poeta e politico romano


Gaio Cornelio Gallo è stato un poeta e politico romano. Nacque, secondo un'antica tradizione, a Forum Livii (Forlì), o, secondo altri, in un'imprecisata Forum Iulii, nel 69 a.c. e morì nel 26 a.c.

Secondo alcuni di umili origini, e in effetti pur appartenendo alla gloriosa gens Cornelia, una delle più potenti di Roma, era del ramo plebeo dei Galli. Comunque appartenne all'ordine equestre, seguace e amico di Ottaviano, fu il primo prefetto di Alessandria d'Egitto.

Faceva parte del circolo letterario di Virgilio e Ovidio e fu amico di Virgilio che lo celebrò nella VI ecloga, gli dedicò la X e, secondo Servio, ne avrebbe fatto il panegirico alla fine delle Georgiche, e che aiutò anche a conservare le proprietà mantovane al tempo delle distribuzioni ai veterani, dopo Filippi.

Fu ammiratore di Euforione di Calcide di cui tradusse o ridusse degli epilli; amico di Partenio di Nicea, che gli dedicò le sue Passioni d'amore, e di Virgilio, In 4 libri di elegie (Amores), di cui resta un solo verso.

Cantò col nome di Licorida, nome inventato per discrezione, la mima Citeride (nome d'arte della liberta Volumnia, che fu amante anche di Bruto e di Antonio). Durante questo periodo Gallo ricoprì la carica di praefectus fabrum di Ottaviano, come cita l'iscrizione posta sull'obelisco del Vaticano, che continuava a fargli fare carriera per la stima e l'amicizia.

Dopo aver compiuto missioni delicate per incarico dei Triumviri, partecipò al fianco d'Ottaviano alla battaglia d'Azio, segnalandosi nelle operazioni di ricognizione e di strategia.
Dopo la battaglia di Azio, Gallo fu a capo, per volontà di Ottaviano, dell'armata occidentale del princeps, che attaccò l'Egitto dalla costa libica.

Dopo la vittoria di Ottaviano e la morte di Marco Antonio e Cleopatra, essendo stata acquisita la nuova provincia d'Egitto, fu nominato Praefectus Alexandreae et Aegypti, una carica altissima. Incarico innovativo che vedeva per la prima volta un governatore di rango equestre, non un
magistrato, alla guida di una provincia.

CLEOPATRA

L'ACCUSA

Ricoprì, secondo una versione non da tutti accettata, questa carica con eccessiva indipendenza (giungendo a stampare moneta), spingendosi a celebrare i propri successi pubblicamente con attributi propri dell'imperatore, spingendosi a parlare con scarso riguardo dello stesso Augusto, si che cadde in disgrazia perdendo l'appoggio di Augusto e del senato. Pertanto venne accusato e processato.

« Ad ogni modo, quando Gallo era prefetto dell'Egitto, lo accompagnai risalendo il Nilo fino a Syene ed alle frontiere dell'Etiopia, ed appresi che fino a 120 vascelli stavano salpando da Myos Hormos verso l'India, quando in precedenza, sotto i Tolomei, solo in pochi si avventuravano nel viaggio intrattenendo commerci con l'India »
(Strabone, Geografia, II.5.12.)

Così Strabone illustra come sotto Gaio Cornelio l'Egitto avesse moltiplicato i suoi affari e i suoi interessi, arricchendo di sponda ancor più Roma. Ma sembra che Augusto dovesse tenersi buoni i senatori togliendo la carica più importante di governatore a un semplice equis.

L'accusa era di congiurare contro il principe, ovvero l'appropriazione da parte di Gallo, che senatore non era, di alcune clausole trionfali tipiche del ceto senatoriale, come è possibile ricostruire attraverso l'iscrizione di Philae.

Il testo, redatto in latino, greco e in geroglifico, cita:

 « Caius  CORNELIUS  CNaei  Filius  GALLUs
eqUES  ROMANUS  POST  REGEs A CAESARE
DIVI  Filio  DEVICTOS  PRAEFECTus
AlexANDREAE  ET  AEGYPTI  PRIMUS  DEFECTIONis
THEBAIDIS  INTRA  DIES  XV  QUIBUS  HOSTEM
Vicit  bis  aCIE  VICTOR  VURBIUM  EXPUGNATOR
BOREseOS  COPTI  CERAMICES
DIOSPOLEOS  MEGales  OpHIEU DUCIBUS
EARUM  DEFECTIONUM  INTERcePTIS  EXERCITU
ULTRA  NILI  CATARHACTEn  transdUCTO
IN QUEM LOCUM  NEQUE POPULO ROMANO
NEQUE  REGIBUS AEGYPTI  arma  ante  sUNT  PROLATA
THEBAIDE  COMMUNI  OMNiUM  REGUM  FORMIDINE
SUBACTa  LEGatisque  reGIS
AETHIOPUM  AD PHILAS  AUDITIS  EOQue  REGE
IN TUTELAM  RECEPTO  TYRANNo  TriacontasCHOENu
UNDE  AETHIOPIAE  CONSTITUTO  DIe  is  PATRICIS
ET  NILo  AdiutORI  Donun   Dederunt »

NEFERTITI
« Gaio Cornelio Gallo figlio di Gneo, cavaliere romano,
primo prefetto di Alessandria e d'Egitto,
dopo la sconfitta dei re ad opera di Cesare figlio del divino,
vittorioso in due battaglie campali nei quindici giorni
durante i quali soppresse la rivolta della Tebaide,
espugnando cinque città
(Boresis, Coptus, Ceramice, Diopolis Magna e Ophileum)
e imprigionando i capi rivoltosi;
avendo condotto il suo esercito oltre le cateratte del Nilo,
regione nella quale mai in passato
erano state portate truppe dal popolo romano
o da monarchi egiziani; avendo soggiogato la Tebaide,
terrore comune di tutti i re;
avendo ricevuto a File ambasciatori del re degli etiopi,
accolto e protetto quel re, e insediato un principe nel
Triacontaschoenus, un distretto dell'Etiopia;
dedicò questa offerta di ringraziamento
alle sue divinità ancestrali e al Nilo suo compagno »
(AE 1992, 01725)

Si era montato la testa? Forse un pochino, perchè a Roma solo Augusto poteva incensarsi e farsi incensare. Il princeps aveva le sue debolezze, d'altronde fu uno dei migliori imperatori di Roma, se non il migliore.

Una ricostruzione critica dell'operato di Cornelio Gallo in Egitto e delle accuse rivolte a suo carico ha tuttavia evidenziato come la sua condanna scaturì, più che da un complotto di Gallo, dallo scontro in atto, nell'instaurazione del regime augusteo, fra il nuovo ordine equestre, di cui Gallo era autorevole rappresentante, e il ceto senatoriale vistosi espropriato del controllo sulla provincia d'Egitto.

In questo senso è significativo il fatto che Augusto, contrariamente a quanto sarebbe stato ovvio aspettarsi in caso di una congiura a suo danno, si limitò a colpire Gallo con un mero provvedimento di rinuncia all'amicizia, lasciando poi al senato l'iniziativa di procedere a carico del prefetto fino alla condanna ed all'esilio.

In questo modo Augusto poté presentarsi, in una fase particolarmente delicata come quella dell'instaurazione del principato, come difensore delle istituzioni e della libertà senatoriale anche nei casi in cui questa fosse (apparentemente) minacciata dai suoi stessi amici.

Va considerata però una seconda ragione, che probabilmente influì sulla caduta in disgrazia di Gallo: tutto avvenne dopo la seduta del gennaio 27 a.c., quando il Senato ratificò il nuovo assetto provinciale voluto da Augusto.



LA MORTE

Una diversa visione della soluzione di come distribuire i poteri ebbe probabilmente il suo peso nelle scelte del primo imperatore di Roma. Caduto in disgrazia fino ad essere accusato di una vera e propria congiura contro il principe, fu condannato all'esilio e alla confisca dei beni, così che si suicidò nel 26 a.c.

L'Egitto portò male ad Antonio e pure a Gallo, era una provincia troppo ricca e affascinante per non restarne irretiti, il suo caldo torrido e le sue bellezze misteriose davano alla testa. Forse non fu un caso che poi Ottaviano riservò quella provincia a se stesso, per timore che qualcun altro facesse il bis di Antonio incontrando magari un'altra Cleopatra.

La "damnatio memoriae" che il princeps volle del suo prefetto indusse, come sembra, Virgilio, che pure era stato legato a G. da intensa amicizia, a sostituire il finale del IV libro delle "Georgiche", che si chiudevano con le sue lodi, con la favola di Orfeo, ma non impedì che Properzio lo celebrasse come insigne poeta d'amore e Ovidio vedesse in lui l'iniziatore dell'elegia latina.



LO SCRITTORE E IL POETA

Erudito in cultura ellenistica, Gallo cercò di unire la poesia neoterica e l'elegia augustea. La poesia neoterica era un movimento letterario che si sviluppa a Roma nell'età di Cesare. Questo tipo di poesia era composta dai neoteroi (o poetae novi), così chiamati con ironia spregiativa da Cicerone. La poesia neoterica si basa su 4 principi:

Brevitas: Componimenti brevi, per farne un'opera veramente curata e raffinata;
Labor limae: Componimenti "leggeri e disimpegnati" ma raffinati nella forma, attraverso una continua ed accurata revisione dei componimenti;
Doctrina: Conoscenza del patrimonio mitologico, letterario, geografico, linguistico del mondo greco.
Individualismo: I neoterici tendono ad astrarsi dalla vita politica e a concentrarsi su se stessi.
Subì pure l'influenza della "difficile" poesia, di carattere mitico e astrusamente erudito, del greco Euforione di Calcide (III secolo).



LE OPERE

-  Amores, elegie in cui cantava il suo amore sfortunato per la giovane Licorideː tuttavia, l'esiguità dei frammenti non permette una ricostruzione precisa della sua poetica. Sappiamo però che aderì alla poesia neoterica. Gallo amò, sotto lo pseudonimo di Licoride, una donna seducente e spregiudicata. Da schiava, Licoride era riuscita a diventare "mima", idoleggiata attricetta, col nome di Citeride (ma si chiamava solo Volumnia...). Amante di Bruto e di Antonio, dovette fare irresistibile presa sull'animo sognante - cosi ce lo descrive Virgilio nella X ecloga - di Gallo, che tuttavia abbandonò nel più profondo sconforto per seguire un ufficiale tra le nevi delle Alpi e i freddi del Reno. Capricciosa e leggera, la "pulchra Lycoris" fu tuttavia 1'ingenium di G. (cosi Marziale in 8, 73, 6) ed ebbe gli onori della poesia nei 4 libri di elegie che il poeta compose e riunì forse col nome di "Amores" (o proprio col nome di lei, "Lycoris").
- Nel campo dell'oratoria scrisse: 
- "In Pollionem", orazione, 
-  "In Alfenum Varum, orazione, ambedue andate perdute
- "Erotika pathemata" raccolta in prosa di dolorose vicende d'amore, dedicata a Partenio di Nicea, il poeta greco che molto contribuì alla diffusione dell'alessandrinismo presso i "neoteroi".

Sino a pochi anni fa, di Gallo, posto da Quintiliano (10,1, 93) tra i massimi poeti elegiaci, si aveva soltanto un pentametro, contenente una nota erudita su un fiume della Scizia. Tutto ciò ci rimaneva del corpus attestato, invece, dalla tradizione: 4 libri di elegie, "Amores" ed epilli. 

Nel 1979 un papiro egiziano ci ha restituito una decina di versi, nel primo dei quali è presente il nome di Licoride. Se questi versi sono autentici, resta confermata l'importanza che gli antichi assegnavano a Gallo: vi sono contenute le note soggettive tipiche dell'elegia latina, la dedizione d'amore intesa come "servitium" nei confronti della "domina", l'accenno alla "nequitia", alla dissolutezza, un concetto caratteristico del mondo elegiaco.

Probabilmente nella poesia di G. dovevano essere presenti i motivi e la struttura compositiva della grande elegia augustea. In particolare, le note mitiche ed erudite dovevano fondersi con la diretta esperienza sentimentale del poeta amante.

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