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I LIBRI SIBILLINI 2/2

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LA SIBILLA APPENNINICA

LA SIBILLA APPENNINICA

La Sibilla Appenninica o Picena, conosciuta in Europa anche come Sibilla di Norcia, ha goduto in passato di molta considerazione e massima stima tanto da essere chiamata “Sapientissima Sibilla”.
Prevedeva il futuro ascoltando il fruscio dei rami della quercia,  e i suoi vaticini furono richiesti, addirittura, dagli imperatori romani. Claudio II nel 268 consultò l’oracolo dell’Appennino sulla sua sorte e nella “Vita di Vitellio” Svetonio riporta “ L’anno 271 morì Claudio conforme a quello che l’Oracolo dell’Appennino gli aveva risposto, che con ciò, fosse per caso o per congettura, incontrò a predire quel che avvenne”.

Non tutti però erano in grado di capire i responsi profetici della Sibilla e poteva capitare, come in effetti capitò ad un generale romano, di travisarne il significato. La Profetessa nel merito gli aveva “chiaramente” detto “IBIS REDIBIS NON MORIERIS IN BELLO” e lui, avendo capito “non morirai in guerra”, partì per la battaglia e morì. Non sapeva, il poveretto, che spostando una virgola il significato sarebbe stato “morirai in guerra”.


217 a.c. /b - Gli errori di Caio Flaminio, la disfatta del Trasimeno e i remedia di Fabio Massimo

La successiva consultazione è ancora nel 217 a.c. I prodigi collegati alla pesante sconfitta romana presso il lago Trasimeno in giugno, dove l’esercito romano aveva subito un duro attacco dall’esercito cartaginese subendo numerose perdite, fra cui quella dello stesso console Caio Flaminio. Fu eletto dittatore, Q. Fabio Massimo Rulliano che, attribuendo la sconfitta di Flaminio al fatto che questi .avesse tralasciato di osservare i sacri riti e gli auspicia, richiese la consultazione dei libri Sibillini.

Quinto Fabio Massimo convocò il senato il giorno stesso in cui entrò in carica e illustrò ai senatori come il console C.Flaminio avesse sbagliato più per noncuranza dei sacri riti e degli auspici che per temerarietà e incapacità, e che bisognava consultare gli dei stessi su quali fossero i mezzi per placare la loro ira. Riuscì ad ottenere la consultazione dei libri Sibillini, di solito non deliberata se non per terribili prodigi.

I decemviri, esaminati i libri, riferirono ai senatori che il voto fatto a Marte per quella guerra, non essendo stato fatto secondo i riti, doveva essere fatto daccapo e più solennemente, con voto di grandi giochi a Giove e di templi a Venere Erycina e a Mente e si dovevano tenere una supplicazione e un lettisternio, e si doveva far voto di una primavera sacra, se si fosse combattuto con successo.

Il senato ordinò al pretore M.Emilio di attuare quelle prescrizioni, secondo il volere del collegio dei pontefici. Il Pontefice Massimo L.Cornelio Lentulo, suggerì di consultare il popolo circa la primavera sacra che non poteva essere offerta in voto senza l’autorizzazione del popolo.

"La proposta fu fatta al popolo secondo questa formula: "volete e ordinate che questi riti avvengano in questo modo? Se la repubblica del popolo romano dei Quiriti nei prossimi 5 anni si salverà, come io vorrei che si salvasse, da queste guerre, dalla guerra che il popolo romano ha con quello cartaginese, dalla guerra con i Galli che sono al di qua delle Alpi, allora il popolo romano dei Quiriti dia in dono: tutto ciò che la primavera produrrà di suini, pecore, capre, buoi, tutto ciò che di solito non si consacra agli dei sia sacrificato a Giove, dal giorno che il senato e il popolo Romano avranno fissato"
  1. Per il medesimo scopo furono votati i grandi giochi per la somma di 333.000 assi e un terzo, con inoltre 300 buoi a Giove, molti buoi bianchi e le altre vittime ad altri dei. 
  2. Pronunciati i voti secondo i riti, fu indetta la supplicazione; e si recarono in gran folla a supplicare con le mogli ed i figli non solo gli abitanti della città, ma anche i contadini.
  3. Si celebrò per 3 giorni il lettisternio, per cura dei decemviri addetti al culto. Sei furono i letti sacri pubblicamente esposti: uno a Giove e a Giunone, un altro a Nettuno e a Minerva, un terzo a Marte e a Venere, un quarto a Apollo e a Diana, un quinto a Vulcano e a Vesta, un sesto a Mercurio e a Cerere. 
  4. Poi furono promessi in voto i templi: il tempio a Venere Ericina fu offerto in voto dal dittatore Q. Fabio Massimo, poiché era stato ordinato dai libri fatali che a farne voto fosse colui il quale aveva nella città il supremo potere; 
  5. il tempio a Mente fu offerto in voto dal pretore T.Otacilio. "
  6. Si procedette poi all’introduzione di una nuova divinità, Mens, per rimediare alla ‘carenza di mente’ con la quale Flaminio aveva affrontato il nemico. 
Livio, per descrivere il comportamento di Fabio sugli Appennini, usa numerose parole come cautus, consilia, sollertia, che si ricollegano alla sfera di Mens a cui contrappone temeraritas. Il calcolato comportamento di Fabio contrappone anche la nuova Dea del dittatore, la ‘previdente’ Mens alla improvvida e imprevedibile Fortuna, la divinità del console Flaminio. Possiamo osservare che il piano dei libri Fatales è presentato come un disegno lungimirante e cautelato rispetto all’improvvisazione sottintesa alla sfera di Fortuna.

Passiamo ora ad analizzare il particolare piaculum del Ver Sacrum. Il rito consisteva nella consacrazione agli Dei, di tutti i ‘nati’ della primavera seguente al voto, fra cui i prodotti della terra, la prole animale e quella umana, quest’ultima però non veniva immolata, ma inviata ad insediarsi altrove; il rito è presente nei miti di fondazione di molte etnie italiche che si presentavano appunto come ‘germinate’ da altre popolazioni in seguito ad una ‘primavera sacra’, "ver sacrum".

La richiesta di una celebrazione di questo rito è unica nei Sibillini e coinvolgeva unicamente la prole animale, la quale sarebbe stata sacrificata nei cinque anni consecutivi a Giove. Anche la dedica è stata eccezionale, in quanto le primavere sacre appartenevano principalmente a Marte. Ma Iuppiter può ritenersi la divinità maggiormente offesa dal comportamento empio di Flaminio, e per cui la principale da onorare.

L'VII lettisternio, alle dodici divinità del pantheon: Liv. 22.10. 9-10: "Tum lectisternium per triduum habitumdecemviris sacrorum curantibus: sed pulvinaria in cospectu fuerunt: Iovi ac Iunoni unum, alterum Neptuno ac Minervae, tertium Marti ac Veneri, quartum Apollini ac Dianae, quintum Volcano ac Vestae, sextum Mercurio et Cereri."
Si tratta di un momento cruciale della guerra contro Annibale e, pertanto, è necessario ripristinare la pax con gli Dei. Vengono consultati i Libri per ordine del Senato.
C'è uno stato di preoccupazione per lo più maschile in seguito alla crisi demografica dovuta alla guerra ed alla pestilenza. Mancano i combattenti e mancano gli agricoltori. Ancora nella primavera del 217 molti prodigi affliggono la città e la situazione sembra peggiorare: Roma si avvia alla disfatta del Trasimeno. Livio serba memoria della celebrazione in questo contesto di un lectisternium alle dodici divinità del pantheon (Giove, Giunone,Nettuno, Minerva, Marte, Venere, Apollo, Diana, Vulcano, Vesta,Mercurio e Cerere) e della dedica di un tempio a Venus Ericina ed a Mens.

Tra le cerimonie prescritte dai decemviri in caso di pestilenze Livio cita a fianco della più usuale rogativa pubblica il lectisternium, che appare in essa integrato. Come nel caso delle supplicationes, infatti, questo “banchetto” è pervaso da un atteggiamento di colloquialità tra Dei e uomini: esso verrà ritenuto efficace e pertanto ripetuto sovente soprattutto negli anni 364-326, per i quali tuttavia non sempre le fonti menzionano espressamente la consultazione dei Libri.



216 a.c. - Il baratro di Canne: l’orrore della fine, lo stuprum della vestali e il secondo ‘delitto rituale'

La sconfitta romana a Canne del 216 a.c. segna il momento più drammatico della seconda guerra Punica, e si decreta che i decemviri consultino i libri Sibillini. Il prodigium è lo stuprum, inteso come violazione dell’obbligo di castità, da parte di due vestali. La gente già angosciata si spaventò anche per il fatto che in quell’anno due vestali, Opimia e Floronia, furono riconosciute colpevoli di stuprum (violazione del obbligo di castità): l’esecuzione di una delle due vestali era avvenuta seppellendola viva, l’altra si era suicidata, mentre Lucio Cantilio, segretario dei pontefici che aveva avuto una relazione con Floronia, era stato bastonato a morte dal pontefice massimo nel comizio.

Quinto Fabio Pittore fu mandato a Delfi per chiedere con quali preghiere e suppliche i Romani potessero placare gli Dei. E intanto, seguendo le indicazioni dei libri Fatali, furono tenuti alcuni sacrifici straordinari: tra questi un uomo e una donna di origine gallica insieme ad un uomo ed a una donna di origine greca furono sepolti vivi nel foro Boario, in un luogo recintato da pietre che già in precedenza era stato impegnato dal sangue di vittime umane, con un rito non romano.

"Il tempio a Venus Verticordia fu eretto dopo un singolare incidente particolarmente grave che vide 1'«incesto» di tre vestali con tre cavalieri romani. L'atto scandaloso era stato commesso da fanciulle di nobili famiglie: Aemília, Licínia e Marcia. Una volta scoperto il crimine esse divennero lo sciagurato bersaglio della collera popolare; l'intervento di Crasso riuscì a salvare soltanto due delle malcapitate giovani, per una di loro il verdetto fu inesorabile. In quel periodo, malauguratamente alcune disgrazie avevano colpito la cittadinanza e furono interpretate come segnali dell'ira dei numi per la troppa clemenza di cui avevano usufruito le indegne vestali.

Il processo fu riaperto e alle due infelici sopravvissute furono negati speranza e ulteriore appello. Dopo la consultazione dei Libri Sibillini, fu deciso di erigere un tempio a Venus Verticordia, «colei che volge i femminili cuori al pudore». Onde fosse anche visivamente impresso il distacco dai piaceri della voluttà, la statua della Dea fu scolpita a modello di Sulpìcìa, moglie di Q. Fulvius Flaccus, la più casta e pura fra le matrone romane."


212 e 208 a.c. - Le profezie del misterioso Marcio e i ludi Apollinares

Nel 212 a.c. su indicazione dei decemviri vengono istituiti i Ludi Apollinares, giochi in onore di Apollo, la cui esecuzione era affidata ai decemviri. Sappiamo da Livio che nell’anno precedente, il 213 a.c., il pretore M. Emilio era stato incaricato dal senato di compiere un’ indagine (conquisitio) sui libri profetici, forse per controllare la circolazione non ufficiale di profezie, e il pretore era venuto così in possesso di due profezie attribuite ed un misterioso ‘Marcio’.

Una dichiarava di aver previsto la battaglia di Canne, l’altra prometteva ai Romani di vincere la guerra sui Cartaginesi e gloria imperitura in cambio della celebrazione di giochi ad Apollo. I giochi vennero di fatto celebrati nel 212 dopo un attento esame dei testi profetici, e dopo la consultazione dei libri Sibillini.

Questo Marcio era stato un vate famoso, e, mentre l’anno precedente sulla base di un senatoconsulto si procedeva alla ricerca di libri di tal genere, le sue profezie, rinvenute dal pretore urbano M. Emilio, vennero consegnate al nuovo pretore Silla. Delle due profezie l’una, divulgata dopo il verificarsi del contenuto, ed essendosi avverata, apportava credibilità anche all’altra, di cui non era ancora giunto il tempo.

Dalla prima profezia era stata preannunciata la sconfitta di Canne pressappoco in questi termini:
O discendenti dei nati a Troia, fuggi il fiume Canna, perché gente nata altrove (alienigenae) non ti costringa a venire a battaglia nella pianura di Diomede. E tuttavia non mi crederai tu, fino al momento in cui avrai inondato di sangue la pianura, e molte migliaia di tuoi uccisi il fiume trascinerà giù dalla terra feconda nel grande mare; per i pesi, e inoltre per gli uccelli e per le bestie che abitano le terre , deve diventare cibo la tua carne. Così infatti mi ha detto Giove”.

Fu data in seguito lettura della seconda profezia, più difficile da capire non solo per il fatto che più indefiniti sono gli avvenimenti futuri di quelli passati, ma più enigmatica anche per il modo in cui era scritta:

LA SIBILLA
Romani, se volete strappar via i nemici, tumore che è venuto da molto lontano, ritengo che si debbano promettere in voto ad Apollo dei giochi, i quali ogni anno con gioia in onore di Apollo siano celebrati, dopo che la cittadinanza abbia accordato (per le spese) una parte da trarsi dalle casse dello stato, in modo che sia data in contribuzione dei dai privati cittadini, per se e per i loro. Alla celebrazione di tali giochi presiederà quel pretore che al più alto grado amministrerà la giustizia per la cittadinanza e per la plebe. I decemviri compiano dei sacrifici con vittime secondo il rito greco. Se farete ciò come si deve, sarete contenti sempre e la vostra situazione migliorerà; annienterà, infatti, i nemici di guerra vostri quel dio che mite impingua i vostri campi”.

S’impiegò un giorno per interpretare la profezia. Il giorni dopo con un senatoconsulto si stabilì che i decemviri esaminassero i libri Sibillini circa i giochi in onore di Apollo e la celebrazione del sacrificio secondo il rito greco. Poi i senatori espressero il parere che si dovessero promettere in voto ad Apollo e celebrare dei giochi e che si dovessero dare al pretore dodicimila assi per la sacra celebrazione, nonché due vittime adulte.

Con un secondo senatoconsulto si stabilì che i decemviri compissero un sacrificio secondo il rito greco e con queste vittime:
- ad Apollo, con un bue ornato d’oro e con due capre bianche ornate d’oro;
- a Latona, con una vacca ornata d’oro.
Il pretore ordinò con un editto che il popolo durante quei giochi contribuisse con un’offerta ad Apollo, commisurata alle possibilità. Questa è l’origine dei giochi Apollinari, offerti in voto e celebrati a motivo di una vittoria, non di una malattia come i più ritengono.
Il popolo assisté ad essi con corone di alloro in capo le matrone supplicarono gli Dei, si banchettò dappertutto, a porte aperte, nei cortili, e il giorno fu solenne per ogni tipo di cerimonie.

Mentre a Roma si celebravano i giochi in onore di Apollo, secondo il vaticinio dell’indovino Marcio e la profezia della Sibilla, la plebe fu chiamata alle armi per un improvviso attacco nemico e corse incontro agli assalitori; in quel momento si vide muovere contro gli avversari una nuvola di frecce che mise in fuga il nemico e permise ai Romani vincitori di ritornare agli spettacoli del Dio salutare. Di qui si capisce che i giochi furono istituiti in seguito ad una battaglia, non a una pestilenza, come ritengono certuni.

"208 a.c, quando a causa di una serie di prodigia e di una pestilenza per i quali non si riusciva ad ottenere rimedio, non facile litabant, si decise di tenere i ludi Apollinares annualmente. I pretori partirono per le loro provincie; i consoli erano trattenuti da scrupoli religiosi perchè, per alquanti prodigi di cui era giunta notizia, non si ottenevano presagi favorevoli.
Infatti dalla Campania si era annunziato:
- che due templi, quello della fortuna e quello di Marte, erano stati colpiti dal fulmine a Capua, insieme con alcune tombe;
- che a Cuma, tanto la mal intesa religione immischia anche nelle cose minime gli Dei, i topi avevano rosicchiato l’oro nel tempio di Giove;
- a Casino si diceva che un grosso sciame di api era andato a posarsi nel foro.
- a Ostia le mura e la porta della città erano stati colpiti dal fulmine;
- che a Cere un avvoltoio era volato nel tempio di Giove;
- che a Vulsini vicino al lago di Bolsena il lago aveva riversato sangue.
Per questi prodigi si fece una supplicazione pubblica di una giornata.

I ludi Apollinari erano stati celebrati la prima volta dal pretore urbano Publio Cornelio Silla, durante il consolato di Q.Fulvio e di Appio Claudio; in seguito, li avevano celebrati tutti i pretori urbani ma li votavano solo per quell'anno e li indicevano per un giorno variabile. Quell’anno una grave pestilenzia infierì sulla città e sulle campagne, ma si manifestò in malattie lunghe piuttosto che mortali.

Per quell’epidemia si fecero preghiere pubbliche in tutti i trivi dell’Urbe, e il pretore urbano P. Licinio Varro fu invitato a proporre al popolo una legge la quale stabiliva che quei ludi si celebrassero ogni anno in un giorno determinato. Così egli per primo li votò, e li indisse per il terzo giorno prima delle None del mese Quintile. E quel giorno rimase ad essi consacrato."



207 a.c. - La nascita dell’androgino

"Gli animi furono turbati dalla notizia che a Frosinone era nato un infante grosso come uno di quattro anni, né causa di meraviglia era tanto la grossezza, quanto il fatto che di questo era incerto se fosse nato maschio o femmina, come già quello di Sinuessa due anni prima.
Questo fu dichiarato prodigio turpe e funesto, dagli aruspici fatti venire dall’ Etruria; doveva essere escluso dal territorio romano, fuori da ogni contatto con la terra, e immerso in mare. Venne chiuso vivo in una cassa di legno e andarono a gettarlo in mare. I pontefici ordinarono poi che tre gruppi di nove fanciulle attraversassero la città cantando un inno.
Mentre esse, nel tempio di Giove Statore, studiavano quell’inno composto dal poeta Livio, fu colpito da un fulmine il tempio di giunone Regina sull’ Aventino; e poichè gli aruspici sentenziavano che quel prodigio riguardava le matrone e che si doveva placare la Dea con un’offerta, furono convocate sul Campidoglio le matrone domiciliate a Roma ed entro il raggio di dieci miglia dalla città, ed esse, fra loro stesse, ne scelsero venticinque, alle quali ciascuna diede un’ offerta di denaro preso dalla propria dote.

Con quel denaro fu foggiato e portato sull’ Aventino un catino d’oro, e le matrone, pure e caste, celebrarono un rituale. Immediatamente dopo i decemviri indissero un giorno per un altro sacrificio alla stessa Dea, e l’ordine della cerimonia fu il seguente. Dal tempio di Apollo furono condotte nell’Urbe, attraverso la porta Carmentale, due candide giovenche; dietro queste erano portate due statue di Giunone Regina, in legno di cipresso; seguivano in lunghe vesti le ventisette fanciulle, cantando l’inno a Giunone Regina, […]; alla schiera delle fanciulle seguivano i decemviri, in toga pretesta e coronati d’alloro. Dalla porta, per via Giogaria, pervennero nel Foro.

Qui il corteo si fermò e le fanciulle, facendo scorrere una fune tra le mani, avanzarono, modulando il loro canto con il battere dei piedi. Quindi, per il vico Tusco ed il Velabro, attraverso il Foro Boario proseguirono su per il Clivo Publicio fino al tempio di Giunone Regina. Qui i decemviri immolarono le due vittime, e le statue di cipresso vennero introdotte nel tempio."

LA GRANDE MADRE ASIATICA

205 a.c. - Un aiuto sibillino: la ‘Grande Madre’ asiatica a Roma

Al 205 a.c. per indicazione dei Sibillini si ordina di portare a Roma la Magna Madre Idaea, la Cibele asiatica. La consultazione dei libri è provocata da frequenti piogge di pietre e i Sibillini avvertono che un nemico esterno può essere vinto solamente con l’introduzione a Roma della Mater Idaea di Pessinunte.

Nei libri Sibillini si era trovato un vaticinio secondo il quale, quando un nemico venuto da fuori avesse portato guerra alla terra d’Italia, esso sarebbe potuto essere vinto e cacciato dall’Italia se da Pessinunte fosse stata portata a Roma la Grande Madre Idea.
La festa in onore della Magna Mater, la Grande Madre frigia, commemorava l'arrivo a Roma, il 4 aprile del 204 a.C.,della Megalesia, la statua aniconica della dea Cibele prelevata dal suo luogo di culto a Pessinunte (Pergamo) in Asia Minore, per ordine dei Libri Sibillini al fine di stornare il pericolo costituito dalla guerra con Annibale. Giunta a Roma, la statua venne provvisoriamente collocata nel tempio della Vittoria (Aedes Victoriae) sul Palatino finché, il 10 aprile del 191 a.C., non le venne dedicato un tempio tutto suo. Insieme alla statua furono importati a Roma anche una misteriosa pietra nera (Shub-Niggurath) e i relativi culti misterici...

"Intorno scrosciano i tesi tamburi e i concavi cembali alle palmate: col rauco suono minacciano i corni, e con la frigia cadenza eccita gli animi il cavo flauto, ed in pugno, ad inizio del violento furore, portan falcetti che possano, con il rispetto che incute la maestà della dea, sbigottir gli animi ingrati e gli empi cuori del volgo... Qui sono, armato manipolo, quelli che in Grecia si chiamano Cureti Frigi, pel fatto, forse, che a volte tra loro, giostran con l'armi, e in cadenza ballan godendo del sangue..."

Tito Lucrezio Caro, La Natura delle Cose

LA SIBILLA DI MICHELANGELO


CONSULTAZIONI E SOLUZIONI SIBILLINE NEL II SECOLO A.C.

Il II sec. a.c. è il periodo in cui risulta il maggior numero di consultazioni sibilline, testimoniate infatti ben 32. L’espiazione rituale coinvolge sempre divinità femminili ed in genere prevede un coro di vergini. Androgini espiati in conformità a rituali suggeriti dai libri Sibillini sono registrati per gli anni 200, 186, 142, 133, 125, 122, e 119 a.c.


200 a.c. - Monstrum ricorrente degli androgini. - Un androgino neonato, uno di sedici anni e altri mostri

Dicevano che in Lucania il cielo si era infiammato, che a Priverno, col cielo sereno, il sole era stato rosso per un giorno intero, che a Lanuvio, nel tempio di Giunone Sospita, di notte si era udito un grande strepito. In diversi luoghi si annunziava la nascita di esseri osceni: tra i Sabini era nato un bambino che non si capiva bene se fosse maschio o femmina ed un altro ne era stato trovato, già di sedici anni di sesso parimenti incerto; a Frosinone era nato un agnello con la testa di maiale, a Sinuessa un maiale con la testa d’uomo, in Lucania,
nell’ager publicus, un puledro a cinque zampe.

Sopra tutti aborriti erano gli ermafroditi, che si ordinò subito di gettare in mare, come poco prima sotto i consoli Caio Claudio e Marco Livio, nondimeno si ordinò ai decemviri di consultare i Libri e questi ordinarono che si compissero i medesimi riti che si erano celebrati dopo il secondo prodigio di quel genere.

Inoltre ordinarono a 3 cori di 9 vergini di percorrere la città cantando un carme religioso e di portare un dono a Giunone Regina. Il console Caio Aurelio curò l’attuazione di quei provvedimenti secondo il responso dei decemviri. Il carme venne composto da Publio Licinio Tegula; l’altro, secondo la tradizione, era stato composto da Livio [Andronico].


196 a.c. - Terremoti: la terra in crisi

All’inizio del consolato di Lucio Cornelio e di Quinto Minucio giunsero così frequenti notizie di terremoti che la gente si stancò delle tante cerimonie religiose indette al riguardo. Non si poteva riunire il senato né compiere un atto di governo dato che i consoli erano impegnati nei sacrifici e nelle cerimonie espiatorie. In ultimo i decemviri ebbero l’ordine di consultare i Libri e in seguito al loro responso furono indetti tre giorni di supplicazioni.
Il popolo si recò a pregare in tutti i templi, col capo coperto di una ghirlanda, e si stabilì che i membri di una stessa famiglia pregassero insieme. Inoltre per decisione del senato i consoli proibirono a chiunque di annunziare un nuovo terremoto il giorno in cui fosse stata fissata una cerimonia propiziatoria per l’annunzio di un altro terremoto.


193 a.c. - Alluvioni, fulmini e altri prodigi

Nel 193 Livio riporta numerosi prodigi per cui si rende necessaria una consultazione dei Sibillini, sconvolgimenti di tipi meteorologico o comportamenti straordinari di animali, come lo sciame di vespe che si insedia nel tempo di Marte nel foro.
In quell’anno si ebbero grandi alluvioni; il Tevere allagò le parti basse della città; nei dintorni della porta Flumentana alcuni edifici crollarono. E la porta Celimontana fu colpita dal fulmine, e così pure le mura in parecchi punti; ad Ariccia, a Lanuvio, sull’Aventino piovvero pietre; da Capua si seppe che un grosso sciame di api era andato a posarsi sul tempio di Marte: esse erano state catturate con cura e bruciate. Per questi prodigi fu dato ordine ai decemviri di consultare i libri Sibillini, si compì un novendiale, furono indette supplicazioni e si eseguì una lustrazione.


191 a.c. - Il malaugurato passeggio dei bovi sul tetto, i fulmini e lo Ieiunium Cereri

Quando Manio Acilo era già partito per la guerra e P. Cornelio si trovava ancora a Roma: nel quartiere delle Carine, due buoi aggiogati salirono su per una scala e giunsero sino alle tegole di un edificio. Per ordine degli aruspici furono bruciati vivi e le loro ceneri gettate nel Tevere. Giunse notizia che a Terracina e ad Amiterno si erano avute alquante piogge di pietre, che a Minturno il tempio di Giove e le botteghe intorno al Foro erano state colpite dal fulmine, che a Volturno alla foce del fiume due navi pure colpite dal fulmine si erano incendiate.

I decemviri, consultati per ordine del senato i libri Sibillini a proposito di tali prodigi, indissero un digiuno in onore di Cerere, da osservarsi ogni quattro anni, un novendiale sacro e un giorno di supplicazioni nelle quali si pregasse con una corona sul capo: il console P. Cornelio offrisse un sacrificio a quelle divinità e con quelle vittime che i decemviri avevano designato.


190 a.c. - Ancora fulmini ed altri prodigi

Nel 190 i fulmini caddero a Roma sul tempio di Iuno Lucina, a Pozzuoli sulle mura, a Norcia sulla città, con uccisione di due uomini, altri prodigi occorsero a Tuscolo e a Rieti. A Roma il tempio di Giunone Lucina era stato colpito da un fulmine in modo che ne rimasero danneggiati il frontone ed i battenti; a Pozzuoli, le mura ed una porta erano stati colpiti dal fulmine in più punti ed erano rimaste uccise due persone; a Norcia era scoppiato un uragano a cielo sereno; anche là due uomini liberi erano rimasti uccisi; a Tuscolo c’era stata una pioggia di terra, e a Rieti una mula aveva partorito.

Quando questi prodigi furono procurati, vennero rinnovate le Ferie Latine, perché ai Laurenti non era stata assegnata la porzione di carne che spettava a loro. Per gli stessi scopi religiosi si tennero anche supplicazioni nei giorni indicati dai decemviri in base ai libri Sibillini. Dieci fanciulli liberi e dieci vergini, tutti ‘patrimi’ e ‘matrimi’, furono assunti per quel sacrificio; ed i decemviri celebrarono il rito di notte sacrificando animali da latte.

ANTRO DELLA SIBILLA CUMANA

189 a.c. - Manlio Vulsone ed il divieto di superare il Tauro

Secondo Livio, il console Manlio Vulsone che, dopo la sconfitta del, re di Siria, era stato incaricato di prendere possesso del territorio d’Asia Minore, al suo ritorno a Roma, nell’anno 189 a.c, era stato accusato di aver tentato l’attraversamento del Tauro, rischiando così la disastrosa sconfitta predetta da un ‘carmen’ sibillino.

Il tema del divieto di superare i confini della catena dei monti Tauri rientra nella serie di profezie antiromane circolanti in Anatolia agli inizi del II sec. a.c.; è molto probabile che il carmen non facesse parte
della raccolta ufficiale del Campidoglio ma fosse un annuncio profetico ‘sciolto’, della produzione profetica che fiorì nel Mediterraneo di lingua greca fin dal III sec. a.c. Qualunque sia stata la provenienza del vaticinio, esso venne utilizzato da magistrati romani in un dibattito pubblico, dunque accolto ‘ufficialmente’ a Roma e pertanto considerato come ’autentico’ sibillino.


188 a.c. - Pietre dai cieli, fuochi dalla terra

L’anno 188 a.c., che doveva segnalare con la pace tra Antioco e Roma, è segnato da eventi prodigiosi tra cui un’eclisse, seguita da una piogge di pietre:
Prima che i nuovi magistrati partissero per le province, fu ordinata a nome del collegio dei decemviri una supplicazione per 3 giorni in tutti i crocevia, perché in pieno giorno, fra la III ora e la IV, erano spuntate le tenebre. Fu ancora indetto un sacrificio novendiale in seguito ad una pioggia di pietre caduta sull’Aventino.
Fu fatto un novendiale sacro, perchè nel Piceno si era avuta una pioggia di pietre; in molti luoghi comparvero dei fuochi celesti, dalle cui fiamme, le vesti di molte persone furono leggermente bruciacchiate.


187 a.c. - Pestilenza e supplicatio

186 a.c. - Pioggia di pietre, fulmini, ermafroditi: la destabilizzazione a Roma e in Italia

Il 186 a.c., è l’anno del famoso senatus consultum bacchannalibus, un provvedimento eccezionale per limitare una religio ritenuta destabilizzante. Livio segnala per l’anno in questione numerosi prodigia di caos atmosferico; la solita pioggia di lapides ma anche ‘ignes celestes’ non meglio identificabili, che sfiorano e infiammano le vesti di molte persone. Si aggiunge, per il Piceno, la scoperta di un semimas, un ermafrodito dodicenne.


183 a.c. - Piove sangue e nasce un’isola nuova

Dobbiamo passare all’anno 183 a.c., per un’esplosione di prodigia ed interventi di espiazione. Livio riporta una pioggia di sangue che cade sull'aria del tempio di Vulcanus e del tempio di Concordia. Si aggiunge, il fenomeno vulcanico riguardante l’emersione di un’isola dinnanzi alla Sicilia.
"Nell’area di Vulcano piovve sangue per due giorni, e nell’area di Concordia per altrettanti
giorni. In Sicilia comparve una nuova isola nel mare"

Per area di Vulcano‚ ’area Volcani’ si deve intendere il Vulcanal, zona situata nel Comizio, antichissimo luogo di culto del dio Vulcano. L’area Concordiae era la zona in cui sorgeva il tempio della dea a cui erano dedicati due santuari, uno nel Foro e uno sopra il Campidoglio.


181 a.c. - Piove sangue, la statua di Iuno piange, la peste uccide

L’area Vulcani et Concordiae è nuovamente coinvolta nel 181 a.c., in concomitanza di una pestilenza e della lacrimatio del simulacro della Iuno Sospita a Lanuvio. Livio descrive l’apertio dei libri Sibillini come una delle iniziative prese dal senato, assieme all’ordine dato ai consoli di procedere al sacrificio di 20 vittime maggiori. Si provvede inoltre ad indire una supplicatio di 3 giorni, coinvolgente l’intera Italia romana.
La grandiosità dell’espiatio è richiesta dalla grave pestilenza, con una innovazione del rituale, in quanto, per la prima volta, l’espiazione di un fenomeno occorso fuori Roma non viene attuata nell’Urbs, ma nel luogo in cui si verifica la crisi.


180 a.c. - Continua la pestilenza

L’anno 180 a.c. è segnato dalla continuzione della pestilenza che miete molte vittime. La situazione induce il senato ad ordinare al Pontifex Maximus, C. Servilius, di cercare mezzi espiatori, al console di votare doni e statue dorate ad Apollon, Aesculapius e Salus e ai decemviri di esaminare i libri Sibillini.
I decemviri dispongono una supplicatio per la salute di Roma, da tenersi in tutti i fori e mercati italici.


179 a.c. - Una tempesta e un mulo con tre zampe

L’anno 179 a.c., con un inverno particolarmente rigido, prodigia meterologici avvengono a Roma, a Terracina ed ad Alba, città del Lazio e a Capua, in Campania; inoltre una tempesta si abbatte sul monte Albano durante la celebrazione delle Ferie Latine. Si registra anche la nascita di un mulo con tre zampe a Rieti. Per questi prodigia i decemviri consulatano i libri, per sapere a quali dei e con quali vittime sacrificare.

I prodigia sembrerebbero indicare, con il coinvolgimento del Campidoglio e di Terracina, dove sorgeva il santuario di Iuppiter Anxur, e la tempesta che interrompe le Ferie Latine, dedicate al dio, un problema con Giove. I riti espiatori sono la supplicatio rivolta a Iuppiter.


174 a.c. - Prodigi, pestilenza e mostri

Nel 174 a.c., il senato decretò una consultazione dei libri Sibillini per allontanare una pestilenza, già iniziata l’anno precedente. Come remedium la supplicatio di un giorno, accompagnata dal voto di un'altra supplicatio e di feriae, per la durata di due giorni, una volta ristabilita la normalità. Nello stesso anno diversi prodigia: la nascita di un bambino con due teste, con una mano sola, una bambina con i denti, un arcobaleno a ciel sereno, tre soli in cielo, un bue parlante, temibili segni di sovvertimento totale del cosmo.


173 a.c - Una flotta in cielo e pesci in terra: prodigia e supplicatio

Il 173 a.c., è l’anno precedente all’inizio della terza guerra Macedonica, (172.-178 a.c.), contro Perseo, figlio di Filippo IV, che aveva aumentato pericolosamente il suo potere

Nell’attesa della guerra, i libri vengono interrogati per espiare alcuni prodigia e per sapere a quali dei rivolgere le precationes. Tra i prodigia, l’apparizione in cielo di una grande flotta, mentre nell’agrum gallicum, l’aratro mette alla luce, sotto le zolle, dei pesci. I provvedimenti riguardano soprattutto le supplicationes.


172 a.c. - La colonna fulminata

Nell’anno 172 a.c., secondo Livio, una collonna rostrata, ricordo della vittoria del console Marco Emilio su Cartagine durante la I guerra Punica, venne abbattuta da un fulmine. Per espiare il prodigio si ricorse sia al collegio decemvirale che agli aruspici.

SIBILLA DI ERCOLANO
I due corpi infatti hanno distinte funzioni: i decemviri si occupano di proporre rituali espiatori, mentre gli aruspici offrono l’interpretazione del prodigio. Il prodigio, interpretato come favorevole a Roma e all’espansione del suo dominio dagli aruspici, viene comunque trattato come un dirum prodigium dai decemviri, i quali si occupano appunto di prescrivere rituali considerati ‘straordinari’, a sottolineare la gravità del fenomeno.

In tal senso c'è l’ordine di indire ludi di 10 giorni in onore di Iuppiter Optimum Maximus, garante dell’ imperium romano, il cui tempio sul Campidoglio era il simbolo stesso dello stato, della res publica, la cui nascita era stata segnata dall’erezione del tempio e dalla sostituzione della triade pre-Capitolina, formata da Iuppiter-Mars-Quirino con la triade Iuppiter-Iuno-Minerva.

I ludi dovevano scongiurare possibili pericoli inerenti alla solidità dello stato e dell’egemonia romana. Per quanto riguarda i sacrifici rivolti a Minerva, essi certamente erano indirizzati allo stesso scopo, in quanto Minerva era divinità costituente la triade capitolina. I riti dovevano svolgersi in Capitolio, ma anche ‘in Campania ad Minervae promontorium’, cioè a Punta Campanella, presso Sorrento, in territorio greco, e dunque rivolti alla Minerva locale; le suppliche erano dunque indirizzate a propiziarsi la divinità del nemico, in un momento cui Roma si preparava alla guerra contro Perseo.


169 a. c. - Prodigi che coinvolgono Fortuna

L’anno 169 a.c. vede Roma impegnata nella terza guerra Macedonica che si concluderà l’anno dopo, con la battaglia di Pidna. Livio annota molti prodigia, in diverse località, che, coinvolgono tutti la dea Fortuna e due dei suoi tanti templi sparsi nella città, in particolare quello della Fortuna Primigenia in colle (il Quirinale), detto anche della Fortuna Publica. Il tempio, dedicato nel 194 a.c., stabiliva, con una scelta significante, l’inserimento al centro della città del culto della Fortuna Primigenia, che già aveva un culto a Preneste.

Dai libri Sibillini è proposto un remedium coinvolgente l’intera popolazione, in un rituale collettivo. A celebrare i sacrifici vennero chiamati “tutti” i magistrati, e che per espiare una crisi nella sfera di Fortuna fosse indicato di fare supplicationes in “tutti” i templi delle altre divinità: i prodigi riguardano la dea Fortuna, ma sembrano richiedere un coinvolgimento di tutti gli dei.


162 a.c. - La pestilenza e il tempio

Quell’anno una pestilenza si abbattè sull'Urbe, per cui si votò ad Apollo un tempio per la salute del popolo. Molte cose fecero i duumviri, seguendo i libri Sibillini, per placare l’ira degli Dei e per allontanare l’epidemia dal popolo. A Roma, il Dio era venerato soprattutto come “salvatore” a garantire non solo la salvezza dalla peste, ma anche la ‘salus’ della repubblica, preservandola dai mali della discordia.


149/146 a.c. - Celebrazione dei Ludi Saeculares

All'inizio della III guerra Punica, il 149 a.c., Livio ricorda la celebrazione dei ludi Saeculares, in onore di Dis Pater. Per Livio, i ludi Saeculares del 149/46 a.c. non sono legati all’insorgere di prodigia, come i precedenti, ma vengono reiterati per stabilire una tradizione. Nell’imminenza dell’ultimo scontro con Cartagine, viene dunque riproposto un modello rituale che rassicuri cittadini e stato.


144 a.c. - Acqua contestata: la politica degli acquedotti ed i Marcii

Nel 144 a.c. il senato affida al pretore urbano Q. Marcius Rex la costruzione di un nuovo acquedotto che avrebbe dovuto raggiungere il Campidoglio. L’anno dopo, i decemviri, consultati i libri Sibillini a causa di
alcuni prodigia, riferiscono di aver trovato un oracolo che impediva la costruzione della nuova opera. Ma l'indicazione sibillina potrebbe essere stata creata dall’opposizione di una parte dei patrizi contrari alla gens Marcia.
Il divieto oracolare sarebbe un raggiro politico, o una qualche tradizione riguardante l’Anio e le sue acque, riguardanti la propiziazione di entità legate alle fonti. Comunque il divieto dei decemviri non fu rispettato e l’aqua Marcia venne costruita qualche anno più tardi.

L’azione dei decemviri è da considerarsi uno sconfinamento del collegio dal proprio ambito di competenza: i decemviri erano preposti ai prodigia e non a responsi oracolari per influenzare le scelte della città; ma ciò sembra ripetersi nell’anno successivo.


143 a.c. - Una sconfitta militare ed una prescrizione sibillina

Secondo Obsequens nel 143 a.c., dai decemviri, probabilmente consultati per espiare alcuni prodigia avvenuti ad Amiterno e a Caure, venne trovato un oracolo Sibillino che prescriveva un sacrificio sulla frontiera col territorio gallico, prima di una invasione di quest’ultimo. La prescrizione è da ricollegarsi alla sconfitta subita dal console Appio Claudio Pulchro che, spinto dall’odio contro il collega Quinto Metello, aveva mosso guerra contro i Galli Salassi, per ottenere una facile vittoria e celebrare da solo il trionfo; finì invece col subire molte perdite. Due decemviri furono inviati a celebrare il sacrificio dell’oracolo, e la guerra finì favorevolmente per i Romani. Come nel 189 a.c. i libri Sibillini sono collegati al superamento di confini; lì stabilivano un limite da non oltrepassare, ora forniscono precise indicazioni per superare il confine evitando pesanti conseguenze.


142 a.c. - Fame, peste e un androgino

Per la peste viene indicato il remedium della supplicazione, si suppone vi fossero coinvolti i decemviri.


133 a.c - Un assassinio sacrilego e la richiesta di aiuto all’antiquissima Ceres

I libri Sibillini vennero riconsultati nel 133 in seguito ai molti prodigi: comparsa del sole di notte, un bue parlante, pioggia di sangue, fuochi che non bruciano, pianti di bambino nel tempio di Giunone Regina e, il più grave, la presenza di un androgino. Tutti in concomitanza dell'assassinio politico di Tiberio Gracco, ucciso mentre ancora ricopriva la carica di tribuno della plebe.

Tiberio voleva riformare la distribuzione terriera in favore della piccola proprietà, il cui decadimento aveva compromesso l’equilibrio della società e dell’economia. A partire dalle grandi conquiste seguite alle Guerre Puniche, l’aumento del terreno di proprietà statale, frutto di vittorie su suolo italico, non aveva comportato un miglioramento per i piccoli proprietari, perché lo stato preferiva vendere o affittare ai più ricchi, a favore dei latifondisti. La decadenza dei piccoli contadini minacciava le basi della potenza romana, in quanto rendeva sempre più difficile il reclutamento, poiché solo i proprietari di terra erano soggetti al servizio militare.

Tiberio Gracco intendeva recuperare allo stato i terreni dei grandi latifondi, per redistribuirli fra i piccoli contadini, suscitando ostruzionismo e disordine pubblico, fino all’uccisione, nel 133 a.c., del tribuno stesso e di molti suoi sostenitori, in occasione delle votazioni per l’elezione del tribuno per l'anno successivo, carica a cui Tiberio si era nuovamente candidato.

La morte di Tiberio Gracco fu un atto sacrilego; dopo essere stato ucciso, il corpo del tribuno, negato al fratello Caio che lo reclamava per la sepoltura, viene gettato nel Tevere. Allorché si era ricandidato alla carica di tribuno, Tiberio era stato accusato di aspirare alla monarchia, e attraverso la privazione della sepoltura e l’abbandono alle acque, viene segnata l’esclusione dalla città della persona e della azione politica del tribuno, considerato come un monstrum da eliminare. Ma la carica di tribuno dava diritto ad una sacra inviolabilità che era stata infranta.

Coma cerimonia di espiazione è indicata una lustratio, che con il coro delle 27 fanciulle rimanda alla cerimonia approntata per la prima volta nel 207 a.c. e ricorrente nell’espiazione di androgini. Forse le cerimonie furono indirizzate a Iuno Regina, anche in connessione con le grida di un bambino udite nel suo tempio.
Secondo altre fonti, in seguito ai molti prodigi occorsi dopo la morte di Tiberio i libri Sibillini avevano suggerito di placare l’antichissima Cerere, la Ceres siciliana di Enna, a cui venne inviata la delegazione dei decemviri.
Con l’uccisione di Tiberio Gracco si era colpito un tribuno della plebe, protetto dalla sacrosanctitas, che sanciva la inviolabilità della persona dei tribuni della plebe, in base alla lex sacrata del 449 a.c., anno della creazione della carica plebea. Ai violatori della sacrosanctitas era imposta la vendita dei propri beni in favore di Ceres, Liber e Libera, nonché la sacratio capitis a Iuppiter (chiunque poteva ucciderlo impunemente). La scelta di onorare la Ceres/Demeter di Enna, anziché quella dell’Aventino, è per la dea “titolare” della famosa triade plebea, investita in prima persona della tutela della carica stessa.


125 a.c. - L’abominio dell’androgino e il carme sibillino di Flegonte da Tralles

SIBILLA DELFICA
Flegonte da Tralles, liberto di età adrianea, ha tramandato due oracoli Sibillini che fanno riferimento ad un prodigio del 125 a.c., la nascita di un androgino.

L’oracolo di Flegonte è l’unico oracolo sibillino ‘romano’ di una certa lunghezza e riguardante prescrizioni rituali a noi pervenuto.

I due oracoli prescrivono rituali diversi; il primo indica come divinità da onorare Demetra e Persefone e forse Zeus ed Hera, a partecipazione femminile, sia anziane che fanciulle.

Il secondo oracolo è rivolto a Demetra, Persefone, Plutone, Febo ed Era. I carmi sono di origine cumana e nel pantheon cumano Apollo, Era, Demetra e Persefone avevano un ruolo importante.

L’oracolo potrebbe confermare quelle fonti antiche che attribuivano i libri Fatales alla Sibilla Cumana, oppure che nei sibillini potè confluire anche materiale sibillino cumano.


122 a.c. - L’operato di Caio Gracco, la sua uccisione e un androgino

Anche per il 122 a.c. c'è la presenza di un androgino, in un anno che vede culminare un altro momento tragico della battaglia riformistica dei fratelli Gracchi.

Dopo dieci anni Caio Gracco aveva ripreso la politica agraria redistributiva delle terre cominciata dal fratello; nel 122 a.c., rieletto tribuno della plebe, aveva proposto una riforma per estendere la cittadinanza romana a tutti i popoli italici alleati e per fronteggiare il problema dell’esurimento delle terre da distribuire, una legge che approvasse la costituzione di nuove colonie latine sul suolo italico e anche estero; una colonia, dal nome Iunonia Cartagho, avrebbe dovuto ad esempio sorgere nel territorio di Cartagine.

Ma la proposta sulla concessione della cittadinanza non venne accolta dalla plebe urbana, cosa che permise all'opposizione di organizzare disordini. Alla fine del 122 venne dato l’ordine ai consoli di smantellare la nascente colonia di Iunonia Carthago e a Roma vi furono scontri che terminarono con l'omicidio di Caio Gracco e di numerosissimi popolari.
La testa di Caio venne gettata nel Tevere, secondo il modello di eliminazione dalla città che abbiamo visto. Sorge allora una serie di prodigia in cui compare anche un androgino, segno del caos cosmico e politico.


119 a.c. - Un androgino gettato in mare

Il 119 a.c. segna la fine definitiva delle riforme agrarie con lo smantellamento della commissione che doveva occuparsi degli aspetti tecnici della redistribuzione. Anche per quest’anno è ricordata la presenza di un androgino monstrum che segnala la situazione di caos.


118 a.c. - Un fegato incompleto, una pioggia di latte ed altri fenomeni

Mentre veniva fatto un sacrificio dal console Catone, le interiora delle vittime si corruppero subito; non venne trovata la parte superiore del fegato; piovve del latte; la terra tremò e si udirono muggiti; uno sciame di api si pose nel foro. In base ai libri Sibillini venne fatto un sacrificio. E’ la prima volta che viene compreso fra i prodigia da espiare la particolare formazione del fegato di una vittima sacrificale; ciò è dovuto forse all’importanza sempre più grande data agli aruspici. Per questo e per altri prodigia vennero comunque consultati i decemviri.


117 a.c. - Vari prodigi e un androgino a Saturnia

Per il 117 a.c. sono ricordati prodigia sia a Roma che in altri municipi, Preneste e Priverno; a Saturnia in particolare venne trovato un androgino; è nuovamente predisposta la cerimonia comprendente il coro di 27 vergini, non sono però specificate le divinità che vennero così onorate.


114 a.c. - Uno stupro fulmineo

Anche Plutarco riporta il passo riguardante il prodigio, ponendo in relazione la vicenda riguardante Elvia e la scoperta della colpa delle vestali, che considera nefasta. L’incestum delle vestali e il prodigium riguardante Elvia, che si presenta come stuprum celeste di un corpo virginale oscenamente violato richiamano l’attenzione sul significato dell’obbligo alla castitas, valore fondante il senso stesso della salvezza dell’Urbs. Nella città, l’integrità femminile garantisce l’integrità del ‘centro simbolico’, la verginità femminile, che si rispecchia nell’integrità della Dea e delle sue sacerdotesse, diviene simbolo della imprendibilità della città stessa.

Secondo Plutarco, per stornare entrambi gli eventi, i libri prescrissero il seppellimento di due coppie formate da greci e galli. Mentre Pompeio Elvio, cavaliere romano, stava ritornando in Puglia, dopo i ludi romani, e stava attraversando il territorio stellate, sua figlia, una vergine, che procedeva a cavallo, venne colpita dal fulmine e morì. Quando le si tolsero i vestiti si vide che la lingua usciva dall’inguine, attraverso le parti inferiori, come se vi fosse uscito il fuoco, entrato per la bocca.

Il responso fu che ciò significava disonore per le vergini e per l’ordine equestre, in quanto gli ornamenti del cavallo si erano dispersi. Nello stesso tempo tre vergini vestali di nobilissima famiglia con altrettanti cavalieri romani subirono la pena per aver commesso incesto. Venne fatto un tempio a Venere Verticordia teso a preservare sul piano pubblico la virtù delle donne romane; Venus doveva cioè ‘cambiare i cuori’ volgendoli alla castità intesa come virtù femminile civica.


108 a.c. - Un caso di cannibalismo

Nel passo, particolare interesse suscita il fatto avvenuto nelle Latomie, cave a cielo aperto; le più famose erano quelle di Siracusa che servivano da prigione. A Roma fu visto un uccello infuocato ed un allocco. Nelle Latomie un uomo venne divorato da un altro uomo; fu dato ordine, dai Sibillini, che trenta fanciulli e altrettante vergini, di condizione libera, patrimi e matrimi, facessero sacrifici sull’isola Cimolia.



CONSULTAZIONI E SOLUZIONI SIBILLINE NEL I SECOLO A.C.

Nel I sec. a.c. si credeva che i libri erano stati portati a Roma, durante la fine della monarchia, dalla Sibilla Cumana. Varrone, secondo Lattanzio, nella sua lista di Sibille, aveva descritto la Cumana come colei che aveva venduto i libri Sibillini a Tarquinio Prisco:

"Septimam Cumanam nomine Amaltheam,
quae ab aliis Herophile vel Demophile nominetur,
eamque novem libros atulisse ad regem Tarquinium Priscum
ac pro iis trecentos philippeos postulasse regemque aspernatur
pretii magnitudinem derisisse mulieris imsaniam;
illam in conspectu regis tris combussisse
ac pro reliquis idem pretium poposcisse;
Tarquinium multo magis insanire mulierem putavisse:
quae denuo tribus aliis exustis cum in
eodem pretio perseveraret,
motum esse regem ac residuos trecentis aureis emisse;
quorum postea numerus sit auctus, capitolio refecto,
quod ex omnibus civitatibus et Italicis et Graecis
praecipueque Erythris coacti adlatique sunt Romam
cuiuscuque Sybillae nomine fuerunt."

Dionigi non identificava la venditrice dei libri con la sibilla Cumana ma con una vecchia straniera, e non lega l’episodio a Tarquinio Prisco, ma al Superbo. Dionigi e Aulo Gellio riportano lo stesso episodio.
Virgilio nell’Eneide, descrive i libri Sibillini conservati a Roma come rivelati dalla Sibilla Cumana e contenenti gli arcana fata della città.


98 a.c. - Un fegato anormale

Nel 98 a.c. mentre i decemviri sacrificavano nel tempio di Apollo, il fegato di una delle vittime venne trovato senza la parte superiore. Il prodigium, si accompagna al ritrovamento di un serpente nell’altare. Altri prodigia i fulmini e tuoni a ciel sereno, la presenza dell’allocco ‘bubus’, prodigio ricorrente, considerato di malaugurio, la pioggia di gesso, l’alterazione del fegato, l’androgino. Non è esplicitata la espiazione per mezzo del collegio decemvirale, ma questo può essere sottointeso all’espiazione dell’androgino.


97 a.c. - Ancora androgini a Roma

Nell’anno seguente, nel 97 a.c., è registrato nuovamente da Obsequens un altro caso di nascita di un androgino. Il dato, secondo cui 27 vergini onorarono Iuno Regina, mira a espiare il monstrum: possiamo supporre che nell’ordinare le espiazioni fossero nuovamente coinvolti i decemviri insieme agli aruspici.


95 a.c. - Un androgino ad Urbino

Non c’è citazione diretta dell’azione decemvirale, ma può essere implicita nella espiazione dell’androgino.

"Si tennero delle supplicazioni nell’Urbe, poichè, era stato trovato un androgino che era
stato gettato in mare... Statue di cipresso vennero portate a Giunone Regina da ventisette
vergini, che fecero una lustrazione nella città."
"Un androgino, nato ad Urbino, fu gettato in mare"


92 a.c. - Due androgini ad Arezzo e altri mostri

Due androgini nascono nel 92 a.c. ad Arezzo, una vacca che parla, l’acqua che diventa sangue, un bambino senza ano, una donna con doppio sesso. Per espiare tali fenomeni, si onorarono Ceres e Proserpina con un inno cantato da 27 vergini.
L’alta frequenza dei prodigi, costituiti dalla presenza di androgini e altri mostra e le relative procedure di espiazione, sottintendono il rischio alla quale la res pubblica era sottoposta nei primi anni del secolo soprattutto per pericoli esterni.

SIBILLA ERITREA
Un allocco, catturato nel tempio di Fortuna Equestre morì nelle mani di chi lo aveva preso, a Fesoli venne udito un boato sotterraneo, una schiava partorì un bambino in cui mancava l’orifizio degli umori del corpo. Fu trovata una donna che aveva i genitali doppi. Fu vista una torcia nel cielo. Un bue parlò. Uno sciame d’api andò a posarsi sul tetto di una casa privata. A Volterra nel fiume scorsero rivi di sangue. A Roma piovve latte.
Ad Arezzo furono trovati due androgini. Nacque un pulcino con quattro zampe. Il fulmine colpì molti luoghi. Si tenne una supplicazione. Il popolo portò a Cerere e Proserpina. Ventisette vergini, cantando un inno, fecero una lustrazione nella città.

Dopo il I decennio del secolo, i libri Sibillini vengono comunque consultati raramente, per un silenzio delle fonti o per un declino dell’uso istituzionale dei libri Sibillini, forse corrispondente ad un declino dell’autorità del collegio decemvirale sulla espiazione dei prodigia, forse per la crescente importanza degli aruspici.

Il diradarsi del ricorso ai Sibillini coincide con un aumento della manipolazione di frammenti oracolari da parte di singole personalità, al fine di sfruttare il pubblico immaginario a fini personali. Infatti, le fonti attestano numerosi casi di divulgazione di ‘oracoli Sibillini’, di cui risulta arduo stabilire l’appartenenza alla raccolta ufficiale romana.


87 a.c. - Il pericolo della monarchia

Nell’anno 87 a.c. i libri Sibillini furono usati in modo atipico. L’episodio va inserito nella situazione politica e partitica delle Guerre Civili; nell’anno in questione, il console Ottavio, fautore di Silla, aveva ottenuto l’allontanamento del collega Lucio Cornelio Cinna, di parte democratica, accusato di aspirare alla monarchia.

Nella perorazione della sua causa davanti al popolo, aveva .tenuto una pubblica lettura di un oracolo che sarebbe stato ‘trovato’ nei libri. L’episodio è riportato da Granio Liciniano, autore del IV sec. d.c. La profezia porta riferimenti precisi alla situazione dell’anno ed alla persona di Cinna, probabilmente un falso, collegato al largo utilizzo di oracoli e profezie nell’ambito delle lotte partitiche dell’epoca, sia da parte di Silla che di Mario

In un passo del Liber prodigiorum di Obsequens, per l’anno 83 a.c. dà un elenco di numerosi prodigi e cita l’inizio delle coscrizione sillane. I prodigia potrebbero essere stati in seguito facilmente interpretati come annuncianti l’inizio della dittatura di Silla In tal caso si volle colpire un rappresentante della parte democratica, il quale aveva promosso, durante il suo consolato la distribuzione dei nuovi cittadini italici nelle 38 tribù.
Ricorrendo ad un intervento sibillino si voleva .forse indicare Cinna come monstrum, foriero di conseguenze deleterie, se non espiato, per la città.

Ai tempi di Silla venne udito tra Capua e Volturno un gran rumore di armi ed insegne, accompagnato da un orribile clamore, come se due eserciti si stessero combattendo, che durò per molti giorni. Alcuni vollero interpretate il prodigio, considerando le tracce di uomini e cavalli nell'erba recentemente schiacciata, come presagi di una grande guerra. In Etruria, nella città di Chiusi una madre di famiglia partorì un serpente vivo, che fu gettato nel fiume per ordine degli aruspici e annegò contro la corrente. Una notte prese fuoco il tempio Capitolino, per colpa del custode. A causa della crudeltà di Silla, ci fu una feroce proscrizione dei più importanti cittadini di Roma. Centomila uomini, si dice, morirono nella guerra Italica e nella guerra Civile


63 a.c. - La profezia dei tre Cornelii

Nel 63 a.c. un’esponente della gens Cornelia, il catilinario Publio Lentulo Sura, fu condotto in senato con l’accusa di aver cospirato contro la repubblica. Sallustio che riporta l’episodio, ci informa che, secondo i Galli Allobrogi, con cui Lentulo si era alleato, questi si era vantato di essere destinato a regnare su Roma, sulla base di una profezia sibillina. La profezia diceva che regnum Romae tribus Corneliis portendi, a tre Cornelii era destinato il ‘regnum’ di Roma; la profezia si era avverata per Cinna e Silla, e lo stesso Lentulo si vedeva come il terzo destinatario della profezia.

I Galli confermarono e e dimostrarono che Lentulo era un mentitore, facendo presenti le lettere ed i discorsi che era solito tenere: diceva che era scritto nei libri Sibillini che a tre Cornelii sarebbe passato il regno di Roma; e che egli era il terzo, dopo Cinna e Silla, destinato ad impadronirsi della città; che erano passati esattamente venti anni dall’incendio del Campidoglio, quindi – secondo le previsioni degli aruspici – in quell’anno si sarebbe sparso sangue in una guerra civile.

E’ difficile dire in base al passo in questione se la profezia dei tre Cornelii facesse parte dei libri Sibillini e sia poi venuta a conoscenza di Lentulo grazie ad una fuga di notizie dal Campidoglio, o se si trattasse di una profezia non compresa nella raccolta ufficiale romana.

SIBILLA CUMANA
Si può anche ipotizzare che la profezia fosse stata inserita nei libri Sibillini dopo la ricostruzione del 76 a.c., tenendo conto che la commissione della raccolta era stata istituita immediatamente dopo la dittatura sillana. Plutarco asserisce che l’oracolo dei tre Cornelii era una falsificazione di ciarlatani al servizio di Lentulo.

Anche Cicerone riporta l’episodio nella terza orazione contro Catilina. Egli scrive che la profezia proveniva ex fatis Sibyllinis.

Ed inoltre, che quello in corso era l'anno 'fatale' di Roma, la preoccupazione attorno alla durata della città di Roma non era nuova.

Nel racconto sono implicati sia i libri Sibillini che gli aruspici, più volte coinvolti in procedimenti di consultazione dei Sibillini.

Forse a loro toccava di stabilire un tempo per il verificarsi della profezia, considerando i calcoli etruschi per determinare la precisa durata dei saecula.


58 a.c. - Il re d’Egitto

Tolomeo Auletes, monarca egiziano, alla fine del 58 a.c., messo in fuga dall’ira dei suoi sudditi, in Alessandria, si rifugiò a Roma.

Qui chiese a Pompeo di essere reinsediato, e Pompeo acconsentì.
Ma dopo che nel 56 a.c. un fulmine colpì la statua di Giove sul colle Albano, si consultarono i libri sibillini, dai quali emerse che si doveva evitare la restaurazione di un re egiziano.

Il divieto sibillino venne comunque disatteso dallo stesso Pompeo, il quale nel 55 a.c. scrisse al suo vecchio compagno, Gabinio, proconsole della Siria, incitandolo a rimettere sul trono Tolomeo, cosa che egli fece con la forza delle armi. Gabinio, a causa di questa azione venne messo in accusa. In quell'occasione, Cicerone chiese al senato una lettura completa dell’oracolo, confidando nel fatto che contenesse la punizioni per i trasgressori; pare invece che ciò non fosse contemplato nell’oracolo. Inoltre i fautori di Gabinio risposero sostenendo che l’oracolo del 56 a.c. era stato male interpretato, e si doveva in realtà riferire ad un’altra occasione.


44 a.c. - Il re di Roma

Secondo una breve notizia di Svetonio, poco prima della morte di Cesare, nel 44 a.c., il quindecemviro Lucio Cotta, avrebbe presentato al senato la proposta di dare a Cesare il titolo di rex, in quanto si era trovata nei Fatales libri una profezia secondo cui soltanto un re avrebbe potuto vincere i Parti:
"L.Cottam, quindecemvirum, sententiam dicturum, ut quoniam fatalibus libris contineretur Parthos nisi a rege non posse vinci, Caesar lex appellaretur".

Svetonio indica tale proposta come determinante nella preparazione della congiura contro Cesare e sostiene che i congiurati avevano stretto i tempi perché temevano una approvazione della proposta. Secondo Plutarco l’oracolo era stato fatto circolare da coloro che desideravano conferire il titolo regio al dittatore.

Dopo l’epoca repubblicana l’uso dei libri Sibillini divenne sporadico; la storia delle profezie attribuite alla Sibilla sempre meno si lega alla raccolta conservata nel tempio di Apollo e sempre più riguarda oracoli di diversa provenienza spesso concernenti la persona dell’imperatore.


18/17 a.c. L’ imperium sine fine

Nel 17 a.c. vennero celebrati i ludi Saeculares. Augusto nel 18 a.c. ordinò ad Ateio Capitone, capo di una grande scuola giuridica e aderente entusiasta al regime, di consultare i libri sibillini, affinchè facesse coincidere l’inizio dell’età dell’oro, tanto attesa dai romani, con l’anno 17 a.c.

Per accedere a questi libri oltre al consenso dei senatori occorreva un vero e proprio rito di iniziazione: innanzi tutto bisognava essere puri nel corpo, nell’animo e negli abiti, quindi si doveva salire al tempio deorum omnium in cui erano custoditi, provvedere ad adornare di lauro i seggi, e solo allora si potevano srotolare gli scritti sacri, ma non certo a mani nude, bensì accuratamente coperte.
I libri Sibillini, che dovevano per definizione contenere la conoscenza allargata di tutto il tempo della storia, diventano parte integrante del sistema divinatorio romano e vengono consultati come un oracolo.

Alla loro custodia e consultazione era preposto un apposito collegio, il quale poteva leggervi il contenuto solo e quando il senato ne avesse dato ordine, come avveniva in quelle occasioni di crisi per la comunità intera evidenziate dalla comparsa di un prodigio, per la ricerca dei mezzi attraverso cui ristabilire l'ordine delle cose.

Questa ‘doppia valenza’ dei libri Sibillini, sia depositari della storia di Roma, che fonte a cui ricorrere in occasioni di crisi, era ben presente agli scrittori latini. Secondo Varrone, la Sibilla non solamente aveva
vaticinato i pericoli agli uomini mentre era in vita, ma aveva altresì provveduto a lasciare attraverso le fonti scritte un mezzo che permettesse di conoscere ciò che si doveva fare nel caso della comparsa di un prodigio.

Durante l’epoca imperiale i libri Sibillini continuarono ad essere consultati tramite il collegio dei quindecemviri, anche se abbiamo scarse notizie, forse per un’effettiva decadenza del collegio causata dalla concentrazione di autorità nella figura del princeps, inaugurata da Augusto. Emblematico l’atteggiamento di Tiberio nel 15 d.c. che, secondo Tacito, si oppose alla proposta di Asinio Gallo, che a seguito di un’inondazione del Tevere aveva chiesto di consultare i Sibillini presumibilmente alla ricerca di un rituale espiatorio.

L’atteggiamento dell’imperatore poteva rispondere alla volontà di evitare manipolazioni politiche della materia religiosa da parte di gruppi avversi. In ogni caso Tiberio si assunse con questa decisione la responsabilità di interpretare il segno straordinario, sottraendo all’avvenimento il carattere di prodigium; infatti si preoccupa di affidare ad una commissione tecnica la cura idrografica del Tevere. In realtà, i rituali introdotti dai Sibillini .rispondevano ad esigenze che tenevano conto delle diverse culture e culti. Fin dal sec. VI a.c. Roma si presentava come ‘città aperta’ pronta ad accogliere altri elementi religiosi. I sistemi ‘politici - politeisti’ si dimostrano infatti molto adatti all’integrazione dell’altro.

La Sibilla, originariamente greca, dovette subire dei cambiamenti passando alla cultura romana, per cui i libri Sibillini diventano un prodotto originale romano. Un esempio, il fatto che nei libri Sibillini furono inserite le cosiddette ‘profezie marciane’ – scritte in latino - e le profezie della etrusca ninfa Vegoia. La religio era funzionale alle esigenze dello stato, non era cioè rivolta al singolo in quanto tale, ma in quanto cittadino.

Alla lettura di questi era preposto uno specifico collegio, quello dei duumviri, poi decemviri e infine, sotto Silla, quindecemviri sacris faciundi. Solamente i componenti del collegio potevano avere visione degli oracoli contenuti nei libri. Il collegio aveva la funzione di conservare e consultare – ma solo sotto richiesta del senato ai viri sacris faciundi, ai quali veniva ordinato di ‘adire ad libros’, ossia recarsi ad interpretare il contenuto dei libri Sibillini per stabilire il rito espiatorio da applicare.

La pratica divinatoria romana non affidava ai decemviri la valutazione della qualità di un prodigio, ma era il senato a stabilire se un dato evento avesse bisogno di un’espiazione e fosse da considerarsi perciò un prodigio nefasto. Quando il senato affidava ai decemviri l’espiazione di un prodigio questo era già stato considerato 'pericoloso'. Ai decemviri dunque non spettava l’interpretazione ‘esegetica’ del prodigio, ma solamente il compito di ricercare l’adeguato rituale espiatorio nei libri Sibillini.

I componenti di questo collegio, che agiva quando e solo se il senato ne dava ordine, non erano considerati individui ‘carismatici’, ma agivano come ‘funzionari’ e non quali depositari di una conoscenza particolare, come gli auguri e gli aruspici. In questo senso i viri sacris faciundi erano interpretes dei Sibillini, in quanto dovevano applicare ai vari prodigia i remedia adeguata.

A Roma, dunque, la mantica ispirata non era del tutto esclusa ma era fissata su un supporto, ossia il libro, ritenuto contenere le parole scritte espressione di un sapere ‘naturalis’. La mantica ispirata non era la voce di una persona fisica, (che rivela il messaggio ‘al momento‘ come la Pizia a Delfi), ma era fissata nella scrittura istituzionalizzata con un testo.

SIBILLA ERITREA
Augusto stesso proclama la sua partecipazione ai giochi, come magister del collegio dei quindecemviri sacris faciundis.

L’attenzione posta da Augusto sulla celebrazione dei ludi Saeculares è riscontrabile nella risistemazione della cronologia relativa, che prevedeva saecula di 110 anni, in modo che il Princeps avesse modo di celebrarli nel corso della sua vita.

"….Ma quando giunga il tempo ultimo della vita umana ed esso avrà raggiunto il ciclo dei 110 anni, ricordati, o romano (e non scordare queste cose), ricorda bene queste moniti: agli dei immortali versa nel Campo Marzio presso la tomba della Timbride acqua lustrale, nella stagione più secca, quando la notte scenderà sulla terra ed il sole avrà nascosto la sua luce.

Ed alle Moire che tutto sanno, sacrifica agnelle e capre nere, e sugli altari di Ilizia che protegge i parti, sacrifica. 

E a Gea s’immoli una scrofa nera con i suoi tre porcellini. E siano condotti, di giorno e non di notte, tori tutti bianchi presso l’ara di Zeus, che agli dei Urani del sacrificio, il rito avvenga di giorno; in tal modo si compia il sacrificio.

Nel tempio di Era da te sia poi condotta una giovenca bella nel corpo; e Febo Apollo, chiamato anche Helios, il figlio di Latona, uguali sacrifici riceva. E i Latini, cantando peani con fanciulli e fanciulle vadano al tempio degli Immortali. A parte abbiano le fanciulle un coro, ed a parte si scelga il fiore dei fanciulli, e tutti nati da genitori viventi, ai quali è chiara la stirpe.

Le matrone fedeli al legame del matrimonio, in quel giorno, preghino le divinità in ginocchio protese presso l’ara di Era, perché diano assenso lieto agli uomini ed alle donne ed alle altre creature. Tutti da casa rechino in offerta rituale le vivande necessarie alla vita mortale dell’essere umano, e vittime agli dei benevoli ed ai beati Urani. Siano ben conservate tutte quante le offerte; ed alle matrone ed agli uomini che stanno seduti là ricordalo attento.

E sia di giorno, sia di notte, stia la gente affollata con compostezza ed esultanza, accalcandosi fitta, su splendidi scanni seduta. Quest’oracolo sia sempre fisso nella tua mente, così tutta la terra italica e tutta la terra latina, a te staranno strette e salde sotto lo scettro."

Nell’ambito della propaganda di Augusto, i ludi dovevano celebrare il periodo di pace e prosperità iniziato dopo la vittoria di Azio, ma soprattutto riprendevano il messaggio di rinnovamento già auspicato nel 40-41 a.c. dalla famosa quarta Ecloga virgiliana, in cui la Sibilla Cumana annunciava il rinnovo dell'ordo saeclorum e la reintegrazone dell’età dell'oro, dei Saturnia Regna, vale a dire il ritorno ai meravigliosi tempi degli inizi, caratterizzati da mancanza di conflitti e prosperità.

Nei versi 791-795 del libro VI dell’Eneide è possibile scorgere una identificazione fra Saturno e Augusto, quest’ultimo come colui in grado di riattualizzare gli aurea saecula delle origini.
L’idea dell’eternità di Roma, probabilmente formatasi all’inizio del II sec. a.c. e ben presente in Cicerone, proprio a partire dal principato di Augusto assume particolare importanza.

I preziosi testi dopo essere stati acquistati, sarebbero stati sistemati entro un contenitore di pietra nascosto nei sotterranei del tempio capitolino sino all’incendio di questo avvenuto nel corso della guerra civile dell’83 (Dionisio di Alicarnasso IV 62). Dopo l’incendio per far ricostruire tale patrimonio Augusto inviò un’ambasceria nei luoghi celebri di dimora della Sibilla. Questa ritornò con un migliaio di versi che nel 76 vennero depositati nel ricostituito tempio capitolino, essi da questo momento sanciranno il potere divino di Giulio Cesare, di Antonio e di Ottaviano.

Poiché in progresso di tempo si erano infiltrate falsificazioni di carattere politico, Augusto fece sottoporre ad una rigorosa revisione questi versi e li collocò nel nuovo tempio da lui dedicato ad Apollo Palatino (Svetonio). Ordinando che le falsificazioni che circolavano privatamente fossero consegnate al pretore urbano, egli fece in modo che tutti gli scritti potenzialmente sovversivi fossero distrutti tra le fiamme, furono bruciati oltre duemila volumi e si risparmiarono solo i libri sibillini (Svetonio).

Augusto e l’autorità statale in genere volevano che non si compromettesse il loro contenuto sacrale. Molto difficile fu questo compito basta pensare che ancora nel 32 della nostra era, l’imperatore Tiberio ingiunse con durezza affinchè si indagasse circa l’opportunità di aggiungere un altro scritto ai libri sibillini (Tacito).

Ricostituitosi tale patrimonio divinatorio in altri edifici sacri, a secondo del periodo storico nel tempio di Apollo (Serbio) e precisamente alla base della statua del dio (Svetonio), oppure nel pantheon, il triangolo tra potere, tradizione e religione era ricomposto. Da quel momento l’impero troverà la propria conferma nelle antiche profezie. Ogni loro riapparizione dalla chiusa segretezza del sasso onde essere consultati in occasione di una crisi statale doveva essere, come si è visto, autorizzata dal senato, altrimenti sarebbe stata ascritta a colpa dei custodi e punita duramente, alla stregua del parricidio.

Anche Valerio Massimo racconta che M. Tullio duumviro, per aver permesso a Petronio Sabino di farne una copia, fu punito con il supplizio destinato ai parricidi, cioè cucito vivo in un sacco di cuoio e gettato in mare, onde le diverse componenti dell’universo non ne restassero contaminate. Gli storici testimoniano che essi furono consultati per tutta l’età repubblicana e imperiale almeno fino all’imperatore Giuliano l’Apostata.

Gli oracoli rimasero comunque al loro posto, sino a quando Il generale Stilicone, in una Roma ormai completamente cristianizzata (pena la perdita dei beni e pure la morte) per ordine dell’Editto di Teodosio, del 381 d.c., ordinò che la raccolta venisse distrutta, quale vestigia delle antiche superstizioni pagane.


TOMBE DELLA DRUGSTORE GALLERY

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Costruita nella prima metà del I sec. d.c., la via romana metteva in comunicazione Roma con la città di Portus, l'attuale Fiumicino, e i porti di Claudio e Traiano. Prima di essa ci si affidava alla antichissima Via Campana, legata al trasporto del sale indispensabile per i commerci e la sopravvivenza.
Il tracciato della Via Portuense ricalcava per un tratto, dall'uscita della città fino a Pozzo Pantaleo, la Via Campana. Qui le due strade si biforcavano: la Campana proseguendo lungo la sponda destra del Tevere, la Portuense passando sulle colline, proseguiva verso Portus. Il paesaggio dell'area era caratterizzato dalle cave di tufo lionato, attive già in epoca repubblicana, per il materiale da costruzione.
Furono le gallerie di estrazione abbandonate, a favorire l'impianto di una vasta necropoli, con semplici tombe individuali, colombari o edifici funerari in mattoni per sepolture multiple, ipogei monumentali, in parte ricavati nel banco di tufo.



IL COLOMBARIO

Il colombario è una costruzione funeraria ad uso collettivo, suddivisa in file orizzontali con nicchie contenenti le urne cinerarie dei defunti. I colombari si diffusero soprattutto tra metà I sec. a.c. e il I sec. d.c., cioè il periodo della pratica della cremazione. Infatti il Colombario Portuense è una grande camera sepolcrale ad uso collettivo, in uso tra fine I sec. d.c. - inizio II e primi decenni del III sec. Ma venne usato con modalità diverse fino al IV sec. d.c.

Il 14 aprile 1966 Emanuele Gatti scrive... 
"Nel cantiere e' in corso uno sbancamento con mezzi meccanici, per la costruzione di 4 villette. Si nota, ai piedi della parete tufacea... la parte superiore di un colombario scavato nel tufo, e quasi completamente interrato. Si vede la volta a sesto ribassato, dalla quale l'intonaco e' quasi completamente caduto... Nella parete di fondo si notano resti di intonaco dipinto (fondo grigio, fiori paonazzi). Sulla parete di sinistra si vede appena la parte superiore di una porta o arcosolio. Una parte del colombario e' stata certamente demolita durante l'attuale sterro". 

Il colombario giace oggi sotto il Drugstore, un locale di 400 mq che custodisce, aldisotto di un edificio degli anni '60, i monumentali sepolcri romani risalenti ad un periodo che va dalla II metà del I sec. al IV sec. d.c.  Questo tipo di sepoltura infatti - estremamente funzionale ed economico, potendo contenere in spazi limitati le ceneri di molte persone - è tipico dei contesti urbani in rapida espansione ed incremento demografico, come lo era in effetti il Suburbium del I-II sec. d.c.




LE TOMBE DELLA DRUGSTORE GALLERY

- Scoperta nel 1966, la porzione di necropoli musealizzata, è stata per anni condannata alle più disparate destinazioni, da salone per autovetture a drugstore, fin quando è stata acquisita dalla Soprintendenza Archeologica di Roma che ne ha avviato il lento ma incessante recupero. 

Il sito ha cinque ambienti sepolcrali, due dei quali preceduti da un recinto e affreschi con motivi geometrici alle pareti. "Il sito archeologico del Drugstore Portuense di Roma apre gratuitamente per tutti i fine settimana. Uno spazio che sorge accanto ai reperti di un vasto impianto termale individuato a pochi m, sotto l'attuale cavalcavia, nel corso dei lavori di raddoppio stradale conclusi nel 2015."

Il colombario del Drugstore è decorato in basso da uno zoccolo color porpora, ed è organizzato in quattro file di nicchie, ciascuna delle quali è contornata, nell’archetto, da una fascia anch’essa di color porpora. Sull’intonaco sono spesso graffiti i nomi dei defunti. Nella fila inferiore, sopra l’arco dell’ottava nicchia, si trova l’epigrafe di Ianuaria («Ianuariae») e, poco prima, sopra la quarta, l’epigrafe curvilinea di Brigantina (senza genitivo).



GLI SCAVI

Durante gli anni Ottanta è iniziato lo scavo archeologico, recuperando tutta l'area monumentale. Sono emersi così 5 ambienti sepolcrali, due dei quali preceduti da un recinto. In origine occupavano parte della collina tufacea utilizzata come cava sin dall'età repubblicana. 

La prima scoperta fu di una tomba a camera ricavata nel tufo con nicchie destinate al contenimento delle urne cinerarie e successivi lavori di adattamento per passare al rito cristiano dell'inumazione. Nel 1983, nel corso dei lavori di sistemazione del sepolcro stesso, sono stati individuati altri quattro edifici sepolcrali, in parte ricavati nel tufo ed in parte edificati in laterizio, un complesso databile fra la fine del I - inizi II sec. d.c. e poi del III sec. d.c.

Emersero così cinque ambienti sepolcrali, due dei quali preceduti da un recinto, affreschi con motivi geometrici alle pareti, mentre sulla volta a botte sono motivi floreali, decorazioni di stucco a forma di conchiglia, mosaici pavimentali con satiri vendemmianti. 

I primi insediamenti sono della metà del I sec. d.c. fino al IV-V sec. d.c. A partire dalla metà del I sec. d.c. fino al termine del III sec. d.c., infatti, la necropoli appare in piena espansione, poi le nicchie dei colombari diverranno loculi per gli inumati, mentre si realizzeranno nuovi arcosoli, si amplieranno i vecchi, si distruggeranno i pavimenti per creare nuove fosse sepolcrali. 



I QUATTRO SARCOFAGI
La parete in muratura, lunga circa otto m, si presenta oggi, all’esterno, priva di finiture, con i resti di un piccolo avancorpo per proteggere l’ingresso. Lo studioso Nibby, che visita il colombario nel 1827, attesta invece che all’epoca era ancora inpiedi una «facciata di colonne, architrave, fregio e cornice, tutto di terracotta ».
Dal piccolo avancorpo, scesi tre gradini, si accede all’ambiente sepolcrale, parzialmente ipogeo. La facciata interna, intonacata di colore giallo chiaro, ha una struttura a columbarium (colombario).
Nel Colombario Portuense sono stati ritrovati, in tutto, quattro sarcofagi.


LA TOMBA A
- La tomba A, la prima ad essere individuata, è una tomba a camera quadrangolare addetta ad accogliere le spoglie di un unico nucleo familiare: presenta resti di affreschi con motivi geometrici alle pareti, mentre sulla volta a botte sono motivi floreali, mentre all'interno delle nicchie vi sono nature morte.

Decorazioni in stucco, come quella della volta della nicchia centrale a forma di conchiglia, arricchivano il sepolcro. Il pavimento, in mosaico a tessere bianche e nere, è ben conservato: al centro di ogni lato sono satiri vendemmianti, mentre agli angoli quattro kantharoi (grandi vasi) dai quali si dipartono dei tralci di vite.

Al centro la figura maschile che brandisce un'ascia è stata identificata con Licurgo, personaggio del mito di Dioniso, il quale assale la ninfa Ambrosia che, per difendersi, si trasforma in un ramo di vite.

Sul un lato dell’ingresso venne rinvenuto un sarcofago in marmo, poggiato sopra un bancone in muratura addossato alla parete d’ingresso, sulla sinistra. Il marmo, sprovvisto di coperchio e datato alla stessa epoca del sarcofago di Selene, presenta al centro un occhiello con il clipeo e una dedica per una donna che aveva superato i 40 ma non ancora raggiunto i 50 anni. Il dedicante è il marito.Il sarcofago è stato datato ai primi decenni del III sec. d.c. È oggi conservato al Museo Nazionale Romano.




LA TOMBA B
La tomba B, la seconda ritrovata, è in parte ricavata nel tufo ed in parte in muratura, presenta nicchie per l'alloggiamento delle olle cinerarie. Anch'essa conserva tracce di affreschi con motivi geometrici e floreali.
Il sarcofago in esso rinvenuto si trovava anch’esso su un bancone, simmetrico a quello del sarcofago n. 1 rispetto all’ingresso. È anch’esso in marmo, senza coperchio e datato ai primi decenni del III sec. d.c. È decorato a lenos, con due clipeicon all’interno, due bassorilievi dei busti delle divinità Helios e Selene, sole e luna.

Nel sarcofago gli archeologi hanno rinvenuto lo scheletro di una bambina di dieci anni con il suo corredo: un braccialetto d’oro e due orecchini, anch’essi in oro. Sia il sarcofago n. 2 che il corredo si trovano oggi al Museo Nazionale Romano.

LA TOMBA C

- in marmo, senza decorazioni, si trovava accanto al n. 2. Gli archeologi vi hanno rinvenuto, all’interno, i resti di un bimbo di 7 anni, senza corredo. Il sarcofago è ancora conservato nel Drugstore.

LA TOMBA D

La tomba D, un colombario a pianta rettangolare, presenta un lato in muratura in opera mista: su questa parete si aprono quattro file di 10-13 nicchie ciascuna con foro rettangolare per la deposizione delle ceneri dei defunti.

Addossati alla parete, su un bancone in muratura, sono stati ritrovati due sarcofagi in marmo decorati con bassorilievi (conservati presso il Museo Nazionale Romano), uno di marmo senza decorazioni ed un quarto in terracotta, e anch’esso privo di decorazioni. Gli archeologi vi hanno rinvenuto due scheletri di età adulta, privi di corredo. Ambedue questi sarcofagi sono stati lasciati nel Drugstore.

La camera è di forma rettangolare (stretta e lunga), con tre lati intagliati nel tufo. La tomba è stata danneggiata dall’edificazione dell’edificio sovrastante e dal passaggio di una conduttura fognaria: si conserva integra la parete d’ingresso in muratura, con la facciata interna organizzata a columbarium, con nicchiette per le urne cinerarie disposte in file ordinate.

Successivamente vi vennero ricavati loculi per l’inumazione e banconi per i sarcofagi. Esternamente è stato individuato un focolare (con resti di ossa animali e frammenti ceramici) per i banchetti in onore dei defunti.


LA FAMIGLIA

Si pensa che i defunti del Colombario Portuense siano i componenti di un’unica famiglia allargata (clan familiare), compresi affini, schiavi, liberti, clientes (persone in rapporti d’affari) e persino amici sprovvisti di una tomba propria. Nei colombari, come nella vita dell'epoca, non si badava tanto al legame di sangue quanto ai rapporti di cooperazione e affettività avuti in vita.

Altre volte il vincolo è dato dall’appartenenza della medesima corporazione (anche se non sembra questo il caso), e infine, soprattutto nei contesti extraurbani, talvolta i colombari finivano per andare oltre i confini del clan, aprendosi a tutti i componenti della comunità locale (ipotesi che al Drugstore potrebbe anche essere verosimile). Infatti sembrerebbero tombe di individui di un ceto medio e basso, legati al Transtiberim, XIV Regio Augustea, per lo più da artigiani e commercianti soprattutto liberti, fra cui molti stranieri, ma anche barcaioli, scaricatori di porto, pescivendoli, mugnai coi mulini posti lungo il fiume.


LA TOMBA  PIU' ANTICA
Ma c'è un'altra sorpresa: il pezzo più antico, risalente al neolitico, tra il 3700 e il 2300 a.c. , la sepoltura di un giovane guerriero ritrovato alla Muratella e qui accolto insieme alla zolla che raccoglieva le sue armi, delle quali si conservano le punte delle frecce allineate accanto alla salma.

Ristoratore danneggia e incendia la Necropoli Portuense

TOMBA DEL GUERRIERO
"La sepoltura è intatta nel suo scheletro e nel suo corredo di frecce, che non ha riscontri con nessun altro ritrovamento. Sepolto con le gambe flesse, aveva 25 anni al momento della morte. 

La tomba venne trovata nel corso di indagini archeologiche preventive nel 2006 nel territorio esteso sul poggio della Muratella, in località Casale Somaini, nei pressi di Via della Magliana. Era una sepoltura isolata a grotticella scavata nel locale strato argilloso. L'inumato era un individuo adulto, deposto supino con gli arti superiori flessi, le mani sul pube e gli arti inferiori piegati verso destra.
LE PUNTA DI FRECCIA ACCANTO AL DEFUNTO
«Dalla posizione dei femori e delle tibie si deduce che l’individuo è stato deposto con le gambe flesse. Il corredo funebre è composto da punte di freccia di differenti dimensioni ed utensili sia in selce che in rame; tra questi ultimi è presente una lama d’accetta».

L’aspetto straordinario di tale rinvenimento è che il cadavere «era stato deposto sopra una struttura in materiale deperibile di cui si è conservato solo il calco di forma rettangolare, che potrebbe essere interpretata come una sorta di “lettiga” funebre in legno». Data l’importanza del rinvenimento, la sepoltura è conservata all’interno di una teca climatizzata.

Le gambe flesse erano un aspetto simbolico del ritorno dell'adulto che ritorna bambino al grembo della madre terra, che l'accoglie nella morte per ridargli vita in qualche forma.


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FONTANA DEI DIOSCURI (Piazza del Quirinale)

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Nel 1818 Pio VII (1800-1823) fece sostituire la precedente fontana, di cui si è persa traccia, con la conca di granito recuperata a Campo Vaccino, dove fungeva da abbeveratoio presso il tempio di Castore e Polluce.

Campo Vaccino era il nome con cui nel XVI-XVIII sec. venivano chiamati l'area in cui erano sorti gli antichi Fori Imperiali. Il nome, attestato in una bolla pontificia di papa Sisto V del 1589, derivava dal mercato delle vacche che vi si teneva, regolato dal "governatore della dogana di Campo Vaccino".

Qui si trovava una fontana-abbeveratoio, costituita da una vasca in granito e da un mascherone: fatto scolpire da da Giacomo Della Porta (1532 – 1602) per ornare la fontana. Smantellata nel XIX sec., la vasca venne spostata sotto l'obelisco del Quirinale in piazza del Quirinale, mentre il mascherone si trova oggi in una fontana moderna a piazza Pietro d'Illiria.

La vasca era stata ritrovata nel 1587, probabilmente proprio durante i lavori per la costruzione del condotto secondario "dell'Acqua Felice", e si trattava di un'antica fontana in granito di epoca romana, recuperata nell'area posta tra il Circo Massimo ed il Tevere. 

Sebbene anche in quella zona, che all'epoca ancora ospitava il mercato del bestiame, fosse prevista la realizzazione di una fontana, papa Sisto V ritenne più utile la costruzione di un abbeveratoio per gli animali e ne affidò la realizzazione a Giacomo Della Porta, il quale si limitò ad ornare la vasca-abbeveratoio di un semplice mascherone dal quale fuoriusciva l'acqua. 

Nell'arco di pochi anni, a causa dell'incuria del monumento di cui nessuno aveva l'incarico di occuparsi, nonchè dell'uso che ne veniva fatto, la vasca si riempì di rifiuti e di melma, e cessò di essere utilizzata, rimanendo di nuovo semisepolta. Pio VI pensò dunque di recuperarla e di sostituire la fontana in piazza del Quirinale, il cui originale di Domenico Fontana venne eliminato e andò purtroppo definitivamente perduto.


In realtà l'opera di trasformazione della fontana, che già si trascinava per le lunghe, dovette essere sospesa per alcuni anni, perché proprio durante il trasferimento della vasca di Campo Vaccino le truppe napoleoniche presero Roma, nel 1798, una ulteriore tragedia che depauperò, come non fossero bastati il cristianesimo e i vandali, il patrimonio artistico e archeologico nazionale. 

La piazza rimase senza fontana fino alla sconfitta di Napoleone a Waterloo, nel 1815, dopodiché, con la fine dell'occupazione francese, fu possibile riprendere e, nel 1818, completare i lavori, che l'architetto italiano Raffaele Stern (1774 -1820) concluse con la sistemazione definitiva dell'intero gruppo come appare oggi: una grande vasca circolare al cui centro un balaustro sorregge la fontana romana di granito proveniente dai Fori imperiali.

MARCO ACILIO GLABRIONE

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Nome: Marcus Acilius Glabrio
Nascita: -
Morte: -
Professione: politico


Homo novus, ammesso a far parte del ceto nobiliare grazie all’aiuto di Scipione, Marco Acilio Glabrione aveva fatto una brillante carriera:
- tribuno della plebe nel 201 a.c.,
- decemvir sacrorum nel 200 a.c., quindi anche esperto di usanze e tradizioni religiose greche.
- edile nel 197 a.c.
- pretore nel 196 a.c.;
- candidatosi senza successo alle elezioni consolari del 193 a.c., riuscì a farsi eleggere due anni dopo, insieme con un cugino dello stesso Africano.
- Pose nel 190 a.c. la candidatura alla censura; ma due tribuni lo accusarono di peculato, e contro di lui testimoniò M. Porcio Catone; Acilio Glabrione, protestando contro la falsa testimonianza, ritirò la sua candidatura, ma fece fallire anche quella di Catone. 

Nominato tribuno della plebe nel 201 a.c. , si oppose alla richiesta di Cn. Corn. Lentulus, uno dei consoli dell'anno, per la provincia d'Africa, che un voto unanime delle tribù aveva già attribuito a Publio Scipione l'Africano I. (Liv. 30.40.)
Venne nominato pretore nel 196 a.c., dopo aver presieduto i Giochi Plebei nel Circo Flaminio; e dalle multe per l' invasione sulle terre dismesse consacrò statue di bronzo a Cerere e alla sua prole Liber e Libera (33.25, comp. 3.55; Cic. de Nat. Deor. 2.24) alla fine del 197 a.c..

(ingrandibile)
Glabrio era praetor peregrinus (Liv. 33.24,26) e placò un' insurrezione degli schiavi praediali in Etruria, così formidabile da richiedere la presenza di una delle legioni della città. (Aiv. 33,36.) Nel 193 a.c. non ottenne il consolato, che raggiunse invece nel 191 a.c..

In quest'anno Roma dichiarò guerra contro Antioco il Grande, re di Siria, e si pensava che l' inizio delle ostilità con il monarca più potente dell' Asia richiedesse insoliti costumi religiosi.

Si dovette a lui la legge con cui nel 191 a.c. si dettarono disposizioni in materia di intercalazione, destinate ad incidere sull’attività pontificale di aggiornamento del calendario (cfr. Macr.).

Nell' assegnazione delle province, la Grecia, sede della guerra, toccò a Glabrio; ma prima di prendere il campo fu incaricato dal senato di sovrintendere alle sacre cerimonie e processioni, e di giurare, se la campagna fosse prospera, giochi straordinari a Giove e offerte a tutti i santuari di Roma. (Aiv. 36,1,2.)



LA BATTAGLIA DELLE TERMOPILI

La battaglia ebbe luogo nell'aprile del 191 a.c. tra l'esercito seleucide di Antioco III il Grande (241 - 187) e quello romano comandato da Manio Acilio Glabrione. Antioco III avanzò in Acarnania (regione greca sul mar ionio), dove pose sotto assedio molte città. Venuto però a sapere che le truppe romane avevano passato l'Adriatico e che il sovrano macedone, Filippo V, accompagnato dal pretore romano Marco Bebio Tamfilo (nominato triumviro per la fondazione di nuove colonie nel 194 a.c.) si stava dirigendo in Tessaglia, decise di far ritorno a Calcide.

CATONE IL CENSORE
All'inizio della primavera, anche l'esercito consolare di Acilio Glabrione, con due legioni romane e due di alleati italici, per un totale di 20.000 fanti, 2.000 cavalieri ed alcuni elefanti, sbarcato ad Apollonia in Illiria, si unì all'armata dell'alleato macedone. 

La convergenza delle tre armate su Pelinna, dettero successo dell'assedio del re macedone e il re Amynandro, re dell'Atamania (regione dell'Epiro) fuggì ad Ambracia (capitale dell'Epiro).
Amynandro, già alleato di Filippo V di Macedonia (208 a.c.), poi si alleò con i Romani. Nel 192 a.c. però si alleò con Antioco III di Siria, ma Filippo V di Macedonia invase l'Atamania ed egli fuggì in Etolia (costa settentrionale del Golfo di Corinto). Nel.189 a.c., nuovamente alleato dei romani potè tornare in patria. Allora Acilio Glabrione assunse il comando dell'esercito e si diresse, d'accordo col re macedone, verso il sud della Tessaglia, dove rimanevano pochi presidi seleucidi da conquistare.

Antioco, terrorizzato, ricordò improvvisamente ciò che Annibale gli aveva predetto:
"Tu non hai voluto combattere i Romani in casa loro,fra poco sarai costretto a combatterli  in Asia e per l'Asia." Allora inviò messaggeri in Asia per sollecitare l'arrivo di Polissenida, comandante della flotta siriaca, mentre egli si attestava con 10.000 fanti, 500 cavalieri oltre agli alleati a guardia del passo delle Termopili (già luogo di una famosa battaglia tra Greci e Persiani), per impedire al nemico di penetrare più a sud, e qui attendere l'arrivo dei rinforzi.

Quindi Antioco fece costruire un doppio vallo su cui pose le sue macchine d'assedio, facendo presidiare a 1.000 Etoli la cima delle montagne vicine, ed altri pose a Eraclea Trachinia, ai piedi del Monte Eta, nella Malide, ad impedire impedire che i romani li prendessero alle spalle. Acilio Glabrione, che conosceva la storia greca, si ricordò dell'esistenza di un percorso diverso per superare il passo delle Termopili già utilizzato secoli prima dai Persiani per sorprendere i Greci.

CONSIGLIO DI GUERRA
Un reparto romano guidato da Marco Porcio Catone (234 - 149 a.c.) sorprese un avamposto nemico, da cui si fece rivelare la posizione della forza principale di Antioco e seppero la guarnigione posta a difesa del percorso ammontava a 600 armati Etoli, che i Romani sgominarono immediatamente.Nel frattempo il grosso dell'esercito romano attaccò l'esercito principale di Antioco. 

Ad un certo punto, durante la battaglia si videro apparire gli Etoli in fuga da Catone e poi Catone stesso, l'esercito di Antioco quindi ebbe molto timore a tale vista, avendo sentito parlare del micidiale metodo di combattimento dei romani e, preso tra due fronti, cercò di fuggire nel proprio accampamento, dove entrarono però anche i romani..I romani persero solo circa 200 armati, mentre la maggior parte dell'esercito di Antioco fu distrutto o fatto schiavo. Antioco in Asia, ad Efeso, con soli 500 armati. Si narra che Antioco colpito alla bocca da una pietra perse alcuni denti.

Glabrio, a cui il senato aveva assegnato, oltre alle due legioni, le truppe in Grecia e Macedonia, stabilì il mese di maggio e la citta' di Brundisium come appuntamento. Così traversò fino ad Apollonia, alla testa di 10.000 fanti, 2.000 cavalieri e 15 elefanti, e con il potere, se necessario, di prelevare in Grecia altri 5000 uomini.

Fa di Larissa in Tessaglia la sua sede, e da lì, insieme al suo alleato Filippo II di Macedonia, conquista tutto il distretto tra la catena montuosa cambunese e il monte Oeta. Limnaea, Pellinaeum, Pharsalus, Ferae e Scotussa espulsero le guarnigioni di Antioco e i suoi alleati, gli Athamanes; Filippo di Megalopoli, pretendente alla corona della Macedonia, fu mandato in catene a Roma; e Aminandro, re degli Athamanes, fu cacciato dal suo regno.

 una resa incondizionata della loro nazione "alla fede di Roma". 
ANTIOCO III
Antioco aspettava alle Thermopylae; ma seppure i suoi alleati etoliani occupavano i passi del monte Oeta, i Romani li dispersero. La Boeozia l'Eubea si sottomisero e così Lamia ed Eracleia, dove venne fatto prigioniero il Damocrito etoloico, che l' anno prima aveva minacciato di portare la guerra alle rive del Tevere. Gli Etoliani inviarono a Glabrione i loro ambasciatori che proposero


Il termine era ambiguo e Glabrione minaccoiò gli ambasciatori di metterli in catene e gettarli nei sotterranei, ma suoi ufficiali ricordarono a Glabrione che gli ambasciatori erano sacri, per cui acconsentì a concedere agli Etoliani una tregua di dieci giorni. Gli Etoliani seppero però che Antioco stava preparando di nuovo la guerra, per cui si concentrarono su Naupactus, nel golfo corinzio, e Glabrione marciò verso di esso.

La sua marcia da Lamia a Naupactus si trovava sul crinale più alto di Oeta; una manciata di uomini avrebbe potuto trattenere l' intero esercito consolare, ma non incontrò difficoltà. Naupactus era sul punto di arrendersi a Glabrione, ma fu salvato dall' intercessione del proconsole Tito Quinto Flamininio, e agli assediati fu permesso di inviare un' ambasciata a Roma.

Glabrione tornò a Phocis e assediò Amphissa, ma giunse intanto da Roma il suo successore, Lucio Cornelio Scipione, e dovette cedergli il comando. Il senato a Roma gli concesse all'unanimità il trionfo. Acilio era un seguace del pontefice massimo P. Licinio Crasso, che di certo l'avrebbe immesso nel collegio sacerdotale, ma nel 200, all’epoca in cui la questione si pose, non avesse  perso la maggioranza dei consensi.

Si candidò alla censura nel 189 a.c.. ma i patrizi che, nel 192, lo avevano escluso dal consolato, lo esclusero anche da quella. Si disse che una parte del ricco bottino del campo siriano, che non era stato esposto al suo trionfo, poteva essere trovato a casa sua. Acilio Glabrione, protestando contro la falsa testimonianza, ritirò la sua candidatura, ma fece fallire anche quella di Catone.

LA DEVOTIO

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LA DEVOTIO
Nella religione romana esisteva una pratica magico-religiosa particolare, chiamata Devotio, il cui termine deriva da De Vovere, dove il termine "de" significa "da" e il termine "vovere" significa consacrare, che aveva a che fare sia col "promettere in voto" sia coi termini "De Vocare" cioè "chiamare da".

La Devotio infatti si rivolgeva nei casi più gravi e importanti agli Dei Mani (per cui"chiamare dall'oltretombe, dal Mundus"), nei meno gravi anche ad altri Dei, per cui la persona "devota" non aveva il senso attuale (di dedica particolare alla Madonna, ai Santi ecc.), ma indicava esclusivamente chi si era prefisso di chiamare delle divinità per ottenere un beneficio offrendo in cambio qualcosa di prezioso, equiparato nel valore a ciò che era stato richiesto.

E' da distinguersi dal voto, in cui si chiedeva qualcosa di importante agli Dei, ma la cui offerta era subordinata all'esaudimento della richiesta, e non prima. Nella Devotio invece il richiedente offriva qualcosa senza aver ottenuto, e senza la certezza di ottenere qualcosa in cambio.

RITUALE DELLA DEVOTIO

DEVOTIO E FIORETTO

La Chiesa Cattolica l'ha rieditato cambiandogli nome, nel cosiddetto "fioretto", dove il fedele fa una rinuncia dolorosa (altrimenti non ha senso) chiedendo alla divinità di ottenere un risultato in cambio.
In genere i romani non ritenevano di doversi sacrificare agli Dei, il senso della rinuncia era sconosciuto ai romani che non erano affatto sacrificali, perchè quando sacrificavano, lo facevano sugli altri: gli animali o i nemici in battaglia.

I loro Dei, nella religione romana, non godevano delle sofferenze dei seguaci, nè delle loro rinunce, i romani erano molto razionali e così immaginavano i loro Dei, che non volevano sofferenza ma la devoluzione, o consacrazione, di beni preziosi.

C'era inoltre la credenza che se qualcosa veniva spezzato, distrutto, in modo che nessuno potesse più farne uso, poteva essere utilizzato dagli Dei. Quando i romani sacrificavano un animale non era l'uccisione ad appagare gli Dei, ma la carne che veniva bruciata, perchè solo quella arrivava fino al regno dei divini. Infatti solitamente si bruciavano le viscere e gli organi interni in generale, mentre il resto veniva distribuito e mangiato come cibo benedetto, ma che non arrivava agli Dei.

Infatti solo in casi molto gravi l'animale sacrificato veniva bruciato completamente, quindi regalato per intero agli Dei, perchè per il resto le carni del sacrificato venivano mangiate dai sacerdoti, se il sacrificio implicava un piccolo animale, come un piccione, un coniglio ecc. ma se l'animale era grande, tipo un bovino, la carne veniva distribuita (ovviamente cotta) al popolo che assisteva al sacrificio, insieme a focacce e vino se il rito era pubblico e importante.

I romani da un lato credevano che gli atti sacrificali attirassero la benevolenza divina sulle vicende umane; dall'altro, ritenevano i sacrifici indispensabili per la stessa sopravvivenza degli Dei. Insomma gli Dei dovevano essere nutriti. Con tutti gli Dei e i relativi templi che c'erano a Roma, facendosi un  po' di giri, un romano poteva quasi ogni giorno ottenere un pasto gratuito.

LARI E PENATI

PII E DEVOTI

Il romano ideale aveva dei doveri fondamentali a cui doveva ottemperare:

- Roma, cioè la patria, quindi combattere per essa o fare tutto ciò che si poteva per aiutare i combattenti.

- Gli Dei, quindi andare una volta all'anno nei templi delle maggiori divinità di Roma e fare offerte per i sacrifici. In casa poi attendere al culto dei Lari e dei Penati.
Se si faceva qualcosa in più per una o più divinità a cui si era particolarmente affezionati, o che servivano in quel momento o in quella particolare circostanza (guerra, affari, matrimonio ecc.) il cittadino in questione era senz'altro un uomo pio.

- La famiglia, cui doveva ottemperare nell'educazione e il sostentamento dei figli, con il sostentamento e il rispetto della moglie e con la cura dei servi e degli schiavi con i quali ugualmente occorreva esse dei buoni "pater familias"

Al contrario però, se un cittadino romano si dedicava oltre al dovuto ai templi e alle preghiere, veniva considerato di carattere strambo e poco stabile, insomma uno che aveva problemi, e veniva giudicato un "fanaticus", appunto un fanatico, quindi un tipo poco serio e affidabile. Il culto di Iside venne più volte abrogato a Roma perchè i suoi accoliti erano eccessivamente fanatici.

Pertanto il concetto di Pio era ben lungi dall'odierno concetto di devoto, dove non c'è limite alla dedizione del seguace alla divinità. per il Dio monoteista la dedizione non ha limite, più ci si sacrifica e meglio è. Il Pio cercava di essere equilibrato e per lui un devoto odierno sarebbe stato definito un "fanaticus".



I TIPI DI DEVOTIO

Esistevano vari tipi di devotio:


DEVOTIO DUCIS

- la Devotio come sacrificio supremo di se stessi per la vittoria in battaglia e quindi per il bene di Roma, detta Devotio Dux.
« In questo momento di smarrimento, il console Decio chiamò Marco Valerio a gran voce e gli gridò: «Abbiamo bisogno dell'aiuto degli dèi, Marco Valerio. Avanti, pubblico pontefice del popolo romano, dettami le parole di rito con le quali devo offrire la mia vita in sacrificio per salvare le legioni» »
(Tito Livio, Ab Urbe condita, VIII, 9)

- la Devotio Ducis come sacrificio del comandante supremo, più raro ma molto spettacolare. Il dux, che doveva essere un "magistratus cum imperium" cioè un console, un pretore o un dittatore, si votava agli Dei Ctonii e alla Dea Terra (Diis manes e Tellus Mater), da un lato perchè si offriva come "piaculum omnis Deorum irae", dall'altro offriva agli Dei un dono prezioso perchè un eroico soldato romano, come disse decio mure, era di quanto più prezioso avesse la sua patria.

Quando un rito coinvolgeva la morte spesso di ricorreva agli Dei Mani, ma i romani non amavano rivolgersi a questi riti per il non confessato timore che, una volte scatenati, questi Dei andassero un po' oltre coinvolgendo nella morte qualcun'altro, magari lo stesso richiedente. non a caso nei due giorni in cui a Roma veniva aperto il mundus tutte le attività pubbliche venivano bloccate, trattandosi di un giorno nefas (non-fare - nefasto).

In alcuni casi il Dux poteva chiedere a un certo cives di sacrificare se stesso, ma questi doveva farlo di sua spontanea volontà senza pressione alcuna, bensì solo per amor di patria. Se il cives non moriva nonostante le buone intenzioni (non veniva ucciso dai nemici per puro caso) era sufficiente il rito di espiazione del piaculum e il cives era salvo. non andava così per il Dux, egli non poteva più compiere cerimonie religiose agli Dei, (perchè sacer o execratus), ma poteva solo consacrare le sue armi e preferibilmente a Vulcano.

La Devotio Ducis comunque non poteva prescindere dall'auto "consecrazio" del "magistratus cum imperium", dalla "Devotio Hostium", per la quale si sacrificavano tre pecore nere (ai mani), e dalla richiesta invece di salvezza sia per l'esercito che per il popolo romano. Si trattava pertanto di un voto particolare, in cui l'offerta anticipava la soddisfazione della richiesta, con l'idea che essendo l'offerta agli Dei assolutamente eccezionale, questi non potessero praticamente rifiutarla. Era come mettere le divinità in questione davanti al fatto compiuto.

STELE DI DECIO MURE

Decio Mure

E’ il nome di tre comandanti romani che si consacrarono agli Dei infernali, Dei Manes, per assicurare la vittoria ai loro eserciti. Era il rito della devotio, in cui si offriva la propria vita cercando la morte in battaglia, per la salvezza della patria.
Il primo fu Publio, nel 340 a.c., durante una battaglia contro i Latini alle falde del Vesuvio.
Il secondo fu suo figlio a Sentino, ove, insieme a Fabio Rulliano, vinse i Sanniti, i Galli, gli Etruschi e gli Umbri coalizzati contro Roma.
Il terzo Decio Mure, figlio di questo, secondo una tradizione piuttosto discussa, si sarebbe sacrificato nella battaglia d'Ascoli Satriano del 279 a.c., durante la quale però i Romani furono sconfitti da Pirro.

IL SACRIFICIO DI DECIO MURE
Quindi Publio Decio Mure, vestita la toga pretesta, montò a cavallo tutto bardato per la battaglia, gridò le parole di rito e si lanciò furioso tra i nemici, bene in vista di fronte ad entrambi gli schieramenti combattenti. Dopo aver ucciso molti nemici, cadde a terra, abbattuto dai dardi e dalle schiere latine. Ma questo gesto, che i Romani consideravano rituale, diede ai suoi una tale fiducia ed un tale vigore che essi si gettarono tutti assieme nella battaglia ottenendo la vittoria.

Fu così che Decio si sacrificò per la vittoria, uno dei migliori della gioventù romana, dal momento che la sua schiera era incalzata maggiormente dai nemici. Pagando il prezzo della sua giovane vita lasciò la vittoria e la vita ai suoi compagni.

"Iane, Iuppiter, Mars pater, Quirine, Bellona, Lares, Diui Nouensiles, Di Indigetes, Diui, quorum est potestam nostrorum hostiumque, Dique Manes, uos precor ueneror, ueniam peto feroque, uti populo Romano Quiritium uim uictoriam prosperetis hostesque populi Romani Quiritium terrore formidine morteque adficiatis. Sicut uerbis nuncupaui, ita pro re publica populi Romani Quiritium, exercitu, legionibus, auxiliis populi Romani Quiritium, legiones auxiliaque hostium mecum Deis Manibus Tellurique deuoueo."

Traduzione:

"Oh Giano, Giove, Marte padre, Quirino, Bellona, Lari, Divi Novensili, Dei Indigeti, Dei che avete potestà su noi e i nemici, Dèi Mani, vi prego, vi supplico, vi chiedo e mi riprometto la grazia che voi accordiate propizi al popolo romano dei Quiriti potenza e vittoria, e rechiate terrore, spavento e morte ai nemici del popolo romano dei Quiriti. Così come ho espressamente dichiarato, io immolo insieme con me agli dèi Mani e alla Terra, per la Repubblica del popolo romano dei Quiriti, per l'esercito per le legioni, per le milizie ausiliarie del popolo romano dei Quiriti, le legioni e le milizie ausiliarie dei nemici."

Il poeta Accio lo fece protagonista di una sua "pretesta" che contribuì ad immortalarne la fama. La Pretexta era una tragedia in cui l'attore, data la solennità dell'argomento, indossava, al posto della solita toga, una toga paetexta, cioè bordata di porpora, come indossavano i re o i senatori, ma in realtà il protagonista della Dux Devotio indossava realmente una praetexta, la toga dei senatori, nessuno più di lui ne avrebbe avuto diritto.

DELENDA CARTHAGO

DEVOTIO HOSTIUM

- la Devotio Hostium come sacrificio del territorio nemico, in genere una città, con beni mobili e immobili, civili e militari compresi. In genere si procedeva prima con una Evocatio, cioè un rito in cui si invitava la divinità che proteggeva il territorio nemico ad acconsentire ad essere trasferita nella città di Roma, dove sarebbe stata locata in un tempio degno ed onorata come e più di prima. La Devotio Hostium di solito prescindeva dalla Devotio Ducis.

Offrire una città significava una grande perdita per i romani, perchè la città conquistata:
- avrebbe devoluto a Roma delle tasse annuali,
- avrebbe fornito un grande bottino tratto dall'erario di quel popolo,
- avrebbe fornito i "thesauri" suoi templi, in gioielli e monete,
- avrebbe poi fornito le proprie migliori opere d'arte per adornare Roma nonchè le case dei generali, - in più avrebbe fornito soldati in ausilio delle legioni romane in caso di guerra,
- inoltre avrebbe dato una parte dei suoi cittadini come schiavi da vendere al mercato di Roma.
- infine c'era l'ingrata operazione (in genere i romani non erano molto crudeli) di dover uccidere tutti i capi della città e chiunque avesse avuto mansioni di rilievo che potessero dargli un seguito tra i concittadini mettendogli in testa una qualche riscossa di tipo guerriero. Era una vera e propria carneficina.

Quindi consacrando alla devotio una città i romani rinunciavano a molto per cui dovevano avere buone ragioni per farlo:
- la prima di queste ragioni doveva essere che questo popolo aveva mosso più volte guerra ai romani mettendo l'urbe in serio pericolo,
- la seconda di queste ragioni era che la città avversaria era una potente concorrente nel commercio togliendo quindi a Roma molti guadagni,
- la terza era che trattandosi di un popolo coraggioso e bellicoso, per quanto venisse punito poteva sempre risollevarsi e costituire un problema per Roma.
Non a caso sia Cartagine che Veio vennero sottoposte alla Devotio e vennero cosparse di sale perchè non venissero ricostruite.

LA DEVOTIO DI CARTAGO

DEVOTIONES

- Un altro tipo di Devotio, ma in chiave minore, erano le devotiones, definite in genere come pratiche magiche affini alle defixiones, con cui un offerente si rivolgeva ad una divinità, non necessariamente infera, per domandare, in forma di preghiera, giustizia per qualche torto subito o che supponeva di subire.

Nel rito il patto includeva:
- il nome della divinità,
- il nome del questuante,
- l'esposizione del fatto,
- la promessa di una ricompensa alla divinità.
Si trattava in realtà di chiamare gli Dei ad intervenire su un grave torto subito o che si stava per subire, un torto che nè le autorità giudiziarie nè altri erano in gradi di ricomporre. Si chiedeva alla divinità, non necessariamente ma in genere infera, di ricomporre la giustizia turbata da un uomo sommamente ingiusto.

L'idea era che il questuante fosse ben certo della sua innocenza ed ingiusta persecuzione, perchè se così non era gli Dei potevano ripiegare la loro collera sullo stesso questuante. Naturalmente l'offerta doveva essere congrua, non tanto di per se stessa, quanto rapportata alle possibilità del richiedente. Pertanto la richiesta era, ed era sentita, anche per questo, molto impegnativa e non veniva usata con leggerezza.

IPOGEO DEGLI OTTAVI

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In via della Stazione di Ottavia n. 73, sotto il Villino Cardani, si conserva l’Ipogeo degli Ottavi, scoperto intorno al 1920, assieme ad altre tombe, durante la costruzione delle prime case della nuova zona residenziale. circa al km. 9 della via Trionfale.

Il nuovo quartiere fu chiamato Ottavia in memoria dei personaggi di cui erano state rinvenute le sepolture all’interno dell’Ipogeo e i cui nomi erano incisi sui rispettivi sarcofagi: Octavia Paolina, suo padre Octavius Felix, ed altre due congiunte.

L’ipogeo fu costruito intorno ai primi del III sec. d.c., asservito ad alcune ville rustiche del circondario, caratterizzato da una monumentalità che si addiceva alla posizione sociale del proprietario.

Entrando ci si accorge immediatamente della qualità del monumento, del perché fu edificato e a chi fu dedicato. Occorre risalire ai primi decenni del III secolo d.c, dove un padre, Octavius Felix, vir clarissimus, piange la morte della sua amatissima figlia di soli sei anni, Octavia Paulina. Prende quindi una dolorosa decisione, ma allo stesso tempo piena di speranza, di dedicarle appunto l'ipogeo situato nel suo foedus, posto fuori dal confine di Roma.

La stanza sepolcrale era preceduta da un vestibolo affrescato con motivi geometrici, a cui era collegato un lungo dromos (corridoio) d’accesso scavato nel tufo, di cui si conserva ancora il pavimento in mattoncini ad opus spicatum.

Il suo messaggio di amore, ma soprattutto di augurio di un futuro migliore nell'aldilà, che solo un padre auspica per una figlia perduta, guida il pennello dell'artista decoratore. 

Il tema pittorico infatti vede una presenza omogenea della rosa, legata ai Rosalia, antica festività in onore della fioritura delle rose, in onore dei defunti. Su entrambi i lati vi erano dei quadretti, ormai andati perduti, dove piccoli amorini giocavano tra di loro.


I Rosaria, o Rosalia, erano a Roma delle feste commemorative dedicate ai defunti ed erano legate alla stagionalità della fioritura delle rose, la data di celebrazione infatti variava localmente a seconda del tempo di fioritura. 

In tale occasione le famiglie si recavano in visita alle tombe, portando corone di rose e le sportulae, i panieri con il necessario per una merenda da consumare presso il cimitero. 

Così tra un uovo ed un bicchiere di vino si ricordavano i cari estinti con preghiere, ma anche aneddoti e qualche risata. Qui però il clima è dolce e drammatico insieme.

Sotto l'arcosolio di sinistra giacevano i due sepolcri appartenenti a donne di alto rango, forse familiari della bambina, finemente decorati con scene e figure marine, i quali a breve saranno ricollocati nel luogo d'origine, dopo aver sostato a lungo, uno nel Museo Nazionale Romano di palazzo Massimo, mentre l'altro presso un corridoio del Ministero della Pubblica Istruzione (chissà poi perchè). 

Al centro della stanza era collocato invece il sarcofago strigilato di Octavius Felix, una volontà di riconciliazione nel riposo eterno, l'unico oggi ancora presente in loco. Il posto d'onore, sotto l'arcosolio centrale ospitava il sarcofago della fanciulla, altamente decorato con scene di giochi agonistici fra bambini, oggi conservato in una collezione privata a Milano. 

Al di sopra dell'arcosolio centrale troviamo un affresco, dove a destra vi è la giovane Octavia che sta per essere consegnata da un amorino ad Ermes, il traghettatore di anime nei Campi Elisi, rappresentati a sinistra da giovani figure intente a cogliere le rose.


Contrariamente alle aspettative di Octavius, che sicuramente pensava di seppellire i familiari in ordine di anzianità, l’ipogeo accolse per prima la sua “dolcissima” e “carissima” figlioletta, tanto che la decorazione interna della tomba era un vero e proprio inno alla bimba, morta a soli sei anni.

Octavia Paolina fu deposta nella nicchia in asse con l’ingresso, in un sarcofago con la cassa decorata da scene di competizioni agonistiche fra bambini.

Al mondo infantile è ispirato anche l’affresco dell’arcosolio, conservato oggi al Museo Nazionale Romano, su cui campeggia uno scorcio dei Campi Elisi popolato da bimbi intenti a giocare e a cogliere rose gigantesche, al cospetto di Ermes (Dio dei morti).


Il motivo delle rose ricorre anche sulla parte alta delle pareti, a cui si contrappongono, inferiormente, la zoccolatura dipinta a finto marmo ed il mosaico pavimentale bianco, circoscritto da una doppia banda nera.

 Altre due spoglie femminili furono accolte nelle nicchie laterali, entro raffinati sarcofagi decorati con scene marine: un’allusione al viaggio verso l’aldilà. Octavius Felix fu sepolto al centro della stanza ipogea, in un semplice sarcofago strigliato con tabella che riporta il suo nome e quello del liberto che pietosamente si occupò dell’inumazione.

Si tratta dell’unico sarcofago ancora conservato nell’ipogeo; quello di Paolina si trova oggi a Milano, in una collezione privata; uno dei due sarcofagi con scene marine è al Museo Nazionale Romano di Palazzo Massimo, mentre l’altro si trova in un corridoio presso il Ministero della Pubblica Istruzione.

Lo scorso venerdì 20 maggio 2016, alle ore 17 e 30, è avvenuta la restituzione al pubblico dell'Ipogeo degli Ottavi, dopo un lungo restauro voluto dall'Assessore alla Cultura del Municipio XIV,Marco Della Porta, e dal funzionario responsabile della Soprintendenza, la Dott.ssa Daniela Rossi.


Dott. Silvia Ripà:

"Attualmente il sito risulta interamente visitabile in via della Stazione d’Ottavia 73, sotto il villino Cardani, ma un’unica sepoltura è ancora presente al suo interno, quella di Octavius Felix, situata in posizione centrale per enfatizzare il ruolo di paterfamilias rivestito dal defunto. 

La stanza sepolcrale era originariamente preceduta da un vestibolo affrescato da rigidi motivi geometrici ellenizzanti, a cui era collegato un corridoio d’accesso, di cui resta tuttora visibile il pavimento in mattoncini disposti a spiga di grano. 

Nell’Ipogeo, nonostante l’autorità emanata dall’elevato status sociale del defunto, la paternità e l’umanità dei sentimenti assumono un ruolo fondamentale, contrastante con la formalità dell’apparato architettonico, tipico nei contesti funerari degli alti esponenti dell’aristocrazia romana del III d.c. 

Nonostante la disposizione delle tombe, la sepoltura che emerge per l’intensità e l’accortezza delle decorazioni, è quella di Octavia Paolina, una bimba di sei anni definita dall’epigrafe “dolcissima e carissima”. 



 La piccola, fu presumibilmente la prima ad essere sepolta nell’Ipogeo di famiglia, in quanto anche le strutture funerarie attribuibili ad altre due donne , situate originariamente nelle nicchie laterali, sono da ritenersi successive.

Il sarcofago di Paolina, oggi a Milano, presenta l’intera cassa decorata con scene di competizioni agonistiche tra bambini.

Anche l’affresco dell’arcosolio evoca il mondo infantile, raffigurando uno scorcio dei Campi Elisi popolato da ragazzi privi di caratterizzazione sessuale, intenti in attività gioiose, in un ambientazione dagli echi bucolici virgiliani.

Questi elementi decorativi, non devono richiamare l’attenzione dello spettatore unicamente allo scopo di godere di un estatico piacere artistico, poiché possono fornire importanti notizie sulla concezione dell’arte romana, da secoli avvolta dai pregiudizi che la declassavano a mera imitazione dell’arte greca.

La mancanza di perizia artistica, nel senso più moderno del termine, viene qui compensata dal ricorso ad espedienti pratici, come la sfumatura con il bianco degli elementi posti in secondo piano, o il tentativo di rendere la prospettiva giocando con le dimensioni degli oggetti. 

L’astrazione del paesaggio suggerisce temi paradisiaci in un ottica non ancora cristiana. In realtà non sembrerebbero troppo distanti da un’esatta interpretazione alcune associazioni iconografiche, ad esempio tra i bambini e i putti o nelle scene marine, la presenza del pesce in corrispondenza di ancore, rispettivamente simbolo cristologico e richiamo alla salvezza.

Queste considerazioni potrebbero indurci a ritenere Octavius, un uomo dalla mentalità sincretista, aperta a nuovi stimoli e mode, oppure semplicemente un’amante dell’espressione artistica. In che misura poi egli s’inserisse o si discostasse dalla sua epoca, è un argomento ancora da indagare.

Nonostante l’indubbia eccezionalità di un rinvenimento simile, occorre spendere qualche parola per tutte le altre sepolture coeve portate alla luce dai medesimi scavi, nonché quei i reperti che nella migliore delle ipotesi si trovano completamente decontestualizzati, quando non ancora sotto la ferrovia che ha assunto il nome dell’Ipogeo, quasi a suggerire sarcasticamente un’ipocrita amore per la ricerca archeologica, che poi ha trovato ben poco riscontro nei fatti.

Nel descrivere la grandiosità dei resti dell’Ipogeo degli Ottavi, la tenerezza dell’affetto paterno espressa dall’epigrafe di Paolina, non possiamo evitare di pensare anche alle mancanze, a tutto quel potenziale informativo che stava per essere espresso dagli altri rinvenimenti, a cui uno studio stratigrafico avrebbe potuto restituire dignità: di tutte le altre vite e dei frammenti di quotidianità che giacciono sotto i nostri piedi, sotto le strade che percorriamo abitudinariamente, abbiamo deciso volontariamente di non sapere più nulla.

"Se il pubblico della cultura è scarso, il messaggio è chiarissimo per la politica, che, infatti in cultura investe poco sapendo di non dover pagare nessun prezzo in termini di consenso elettorale. Insomma il nostro problema è il pubblico della cultura: crearlo, allargarlo, arricchirlo, renderlo più consapevole ed esigente". 

(Marino Sinibaldi)


"Il solo fatto di essere decentrati da tutte le grandi bellezze presenti nelle aree centrali, come nel caso di Roma con il Colosseo ed altri monumenti ed aree archeologiche rilevanti, ha collocato i beni culturali periferici in una posizione di svantaggio. Il quadro finale è quello di una casa la quale possiede un fantastico giardino ed un bellissimo salone, mentre le altre stanze risultano essere poco gradevoli. 

Muovendoci su fatti concreti, possiamo prendere in considerazione il progetto di rivalutazione e fruizione delle due aree archeologiche del quartiere Ottavia, il quale ha portato particolari attenzioni, non solo da parte dei media, ma soprattutto dei cittadini locali, ignari di tali presenze. 

Bisogna tuttavia sottolineare come, l'Ipogeo degli Ottavi ed il Ninfeo della Lucchina, non sono in grado di ottenere proficui profitti sul piano economico, come molti altri beni archeologici fuori dal centro città, viste le loro capacità limitate, ma possono far crescere nei locali la sensibilità e l'appartenenza a quel territorio. 

La carta d'identità delle periferie quindi sarà così ricca di nuove caratteristiche, le quali non dovranno essere separate, onde evitare decontestualizzazioni, ma unite in modo tale da comprendere quella stratificazione, così complessa ma così affascinante, creatasi nei territori circostanti la città nel corso della storia e renderla fruibile ai cittadini in modo chiaro e diretto.

Di fronte ad una riforma delle Soprintendenze in atto, si dovrebbe cercare quindi di prendere in considerazione l’opportunità di sviluppare una vera e propria “archeologia delle periferie”, cercando di convogliare fondi ed iniziative nelle zone circostanti, allontanandoci da una posizione privilegiata dei monumenti centrali.

L’Ipogeo degli Ottavi, o altri monumenti decentrati, non possono forse apparire agli occhi dei cittadini come un loro Colosseo da difendere e far conoscere al mondo?
"

(Andrea Ricchioni)

L'ESTERNO

OTTAVIA UN PATRIMONIO DI REPERTI SOMMERSO DAL CEMENTO
Il pungolo
Gabriele Cantarella

- "Se fosse ancora in vita, stenterebbe a credere a tutto ciò sta capitando intorno al suo Ipogeo (sepolcro), ma senza dubbio si starà rivoltando nella tomba, in questo caso sarcofago, nella tediosità della solitudine a cui è stato condannato. Stiamo parlando di Octavius Felix, e del suo Ipogeo risalente al III secolo d.c., scoperto intorno agli anni venti del secolo scorso, che cedette il nome alla zona residenziale che successivamente vi nacque.

Pater Familias di un’ importante stirpe romana, decise molti anni or sono, di edificare la sua tomba proprio al centro di quella che oggi è diventata una delle aree più densamente popolate della periferia romana. Il primo di una lunga serie di ritrovamenti archeologici nell’area, che avrebbe potuto trasformare Ottavia in uno dei quartieri romani (ad esclusione delle zone centrali) tra i più ricchi di patrimoni artistici.

Esso presentava quattro sarcofagi, quello di Octavius Felix che contrariamente alla tradizione era il più povero e semplice di tutti, quello di due congiunte con stupendi affreschi di scene marine e infine quello della figlia Paolina di soli sei anni, il più sfarzoso di tutti.

Contrariamente a quanto sarebbe lecito pensare, praticamente nulla di questo patrimonio artistico è rimasto alla fruizione della cittadinanza del luogo: uno dei due sarcofagi con scene marine si trova in un corridoio del Ministero della Pubblica Istruzione, mentre l’altro al Museo Nazionale di Palazzo Massimo, infine Paolina si trova a Milano in una collezione privata.

L’unico rimasto nella sua sede originale è il Pater Familias, il meno pregiato dal punto di vista artistico. Il primo di una lunga serie di reperti ritrovati nella zona di Ottavia e puntualmente oscurati da una colata di cemento, oppure immediatamente trasferiti in musei o collezioni private.

Non fanno eccezione le venti tombe etrusche ritrovate a Poggio Verde, e immediatamente prelevate e trasportate via dal luogo. Oppure, la strada romana scoperta pochi mesi fa nel consorzio Palmarolina, o quella vicino la stazione Ottavia, o il Ninfeo della Lucchina situato vicino l’area di servizio Selva Candida Interna.

Non c’è un progetto per un museo, non c’è un piano per la rivalutazione della zona in funzione dell’importanza artistica che essa ricopre, senza considerare il potenziale inespresso che ancora giace nel sottosuolo.

Ora la sovraintendenza sta scavando nei pressi dell’area interessata dal nuovo complesso abitativo “monumentale” (75.000 mq - oltre 2000 abitanti), derivante dalla compensazione di diritti edificatori provenienti da Tor Marancia e Tor Cervara, e nonostante sia trascorso poco tempo dall’inizio degli scavi, già sono venuti alla luce nuovi reperti di interesse storico.

Il rischio che anche questi nuovi ritrovamenti finiscano sommersi dai “polveroni” dei cantieri è molto alto, sopratutto perché risiedono in un area che dovrà diventare la fonte di un grande arricchimento economico per le ditte appaltatrici, le quali oltretutto hanno già subito rallentamenti dovuti a precedenti problemi riscontrati ad edificare a Tor Marancia e Tor Cervara.

Ogni nuovo intralcio all’avanzamento dei lavori comporterà una perdita di tempo, che oggi significa denaro. Quale costruttore vuole perdere del denaro? Con la Deliberazione N. 3 del 2012 del Municipio XIX, il Consiglio ha mosso i primi passi verso una retta via, e ha autorizzato il presidente del Municipio a chiedere alla Sovraintendenza di prevedere l’apertura al pubblico e l’affidamento della gestione del Ninfeo ad una O.N.L.U.S. che si occuperà della pulizia e dell’organizzazione di
visite guidate al suo interno.

Ci auguriamo tutti che questa goccia di speranza in un oceano di anni di non curanza, sia la prima di una lunga serie. Per far capire appieno quanto stiamo tralasciando nel sottosuolo, mi sembra lecito concludere con le parole della Dott.ssa Silvia Ripà, esperta in storia e conservazione del patrimonio artistico e archeologico:

Nel descrivere la grandiosità dei resti dell’Ipogeo degli Ottavi, la tenerezza dell’affetto paterno espressa dall’epigrafe di Paolina, non possiamo evitare di pensare anche alle mancanze, a tutto quel potenziale informativo che stava per essere espresso dagli altri rinvenimenti, a cui uno studio stratigrafico avrebbe potuto restituire dignità: di tutte le altre vite e dei frammenti di quotidianità che giacciono sotto i nostri piedi, sotto le strade che percorriamo abitudinariamente, abbiamo deciso volontariamente di non sapere più nulla.” -


Commento

Viene da pensare alla ferrovia, che ha assunto ipocritamente il nome dell'Ipogeo, un ipogeo spoliato e poi seppellito, perchè della ricerca archeologica se ne sono totalmente lavati le mani, fino ad alienare un bene pubblico nelle mani dei privati, il che è un reato, ma un reato che non denuncia nessuno. Perchè se io non denuncio te tu non denunci me, un'omertà di stampo molto oscuro.

- Aggiungiamo noi che la più grande ricchezza di una nazione è la cultura. Da essa discende tutto ciò che di buono può avere un popolo: civiltà, sensibilità, arte, invenzione, curiosità, ricerca, rispetto per la legge, rispetto per gli altri, rispetto per la natura, rispetto per i diversi, protezione dei deboli e amore per il lavoro.

La cultura rende la gente più piacevole e dà lavoro a tutti. -



CASA DELLA PROCESSIONE DIONISIACA

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Le feste di Dioniso non solo stringono il legame tra uomo e uomo, ma riconciliano anche uomo e natura. Spontaneamente la terra offre i suoi doni e gli animali più feroci si avvicinano pacificamente: il carro di Dioniso, incoronato di fiori, è tirato da pantere e da tigri. 
Tutte le divisioni di casta, stabilite tra gli uomini dalla necessità e dall’arbitrio, scompaiono: lo schiavo è uomo libero, il nobile e l’uomo di basse origini si riuniscono nei medesimi cori bacchici.
Il vangelo dell’ «armonia universale» si aggira da un luogo a un altro in schiere sempre più numerose: cantando e danzando, 
l’uomo si manifesta come membro di una comunità superiore e più ideale; ha disimparato a camminare e a parlare. C’è di più: egli si sente preda di un incantesimo ed è realmente diventato qualcosa di differente.
Come gli animali parlano e la terra dà latte e miele, così anche risuona da lui qualcosa di soprannaturale. Egli sente se stesso come dio, e quello che altrimenti viveva solo nella sua immaginazione, ora egli lo sente in se stesso.


(F. NIETZSCHE, “La visione dionisiaca del mondo”)


La “Maison de la procession dionysiaque”, ovvero la Domus della Processione Dionisiaca, è un ampia casa a peristilio, tra le maggiori scavate ad El Jem, e risalente all'età antonina: un'epoca di grande sviluppo e ricchezza per tutto l'impero romano, Africa compresa.

I romani attraverso cisterne, dighe e pozzi erano riusciti a rendere almeno in parte fertili zone che non lo erano prima e che non lo furono dopo (la caduta dell'impero), producendo ricche colture e grandi scambi commerciali tra sud e nord, e tra occidente e oriente.

« [Dal 98. al 180.] tutta la potenza esecutiva del Governo. Nel felice corso di più d'ottant'anni, la pubblica amministrazione fu regolata dalla virtù e dalla abilità di Nerva, di Traiano, di Adriano, e dei due Antonini. In questo e nei due seguenti capitoli, descriveremo il prospero stato del loro Impero, ed esporremo le più importanti circostanze della sua decadenza e rovina, dopo la morte di Marco Antonino (cioè Marco Aurelio 121 - 180); rivoluzione che sarà rammentata mai sempre, e della quale le nazioni della terra tuttor si risentono. »
(Edward Gibbon - Storia della decadenza e rovina dell'Impero romano)


Le immagini del grande mosaico famoso in tutto il mondo prevedono (da sin. verso dex):

1) - un piccolo altare con festoni e contenitore metallico in oro posto sopra di esso
2) - una Menade, cioè una seguace di Dioniso,  discinta, in possesso di un tamburello e incoronata da un serto di foglie di vite e uva. Questa donna era sia danzatrice e musicista; si può immaginare che bevendo e danzando entrasse in trance durante le processioni.
3) - un albero senza foglie, simile a una vite (la caducità della vita?)
4) - un personaggio maschile (satiro), a torso nudo, in possesso di un sorta di flauto di Pan.
5) - Dioniso / Bacco, raffigurato come un bambino, in sella a un leone, che egli conduce con le redini. La testa di leone è china in segno di sottomissione, il Dio aveva il potere di addomesticare gli animali selvatici, incoronato con una corona di foglie di vite e grappoli d'uva. Aveva in suo possesso un grande vaso d'oro (cratere). Sotto i piedi di leone c'è un'altro tamburello.
6) - un monumento colonnare su cui è attaccato un tamburello.
7) - un personaggio maschile (satiro), a torso nudo, con una sorta di grande corona di foglie di vite intorno al collo e una corona di verdure in testa.
8) - Sileno, il vecchio, completamente nudo, seduto su un cammello. Ci viene mostrata una sorta di cestino sotto il braccio destro e una cornucopia sotto il braccio sinistro.
9) - una pantera, animale comune nelle rappresentazioni di Bacco, posta aldisotto del cammello.
10) - Mystis, la donna che chiude la processione e che ha cresciuto Bacco. Ella porta sulla sua testa un grande cesto, che aveva servito come la culla a Bacco bambino e contiene varie offerte (frutta e un fallo, cioè i simboli di fertilità).

IL CORTEO DIONISIACO (Museo di Sousse)
Nel mosaico della processione dionisiaca: Dioniso, un bambino che guida un leone, è circondato da un ballo Bacchante che batte su un tamburello, due satiri, Silenus appollaiato su un dromedario, una pantera (assimilata ai bacchantes) e la sua nutrice Mystis. Quest'ultima porta sulla testa il liknon, la prima culla del dio in cui vengono offerte offerte di fuits e un fallo che è coperto da un velo.

Questo tipo di scena è chiamato "thiasos Bacchus", cioè una processione rituale del Dio Bacco. Sappiamo che molti mosaici in Africa hanno lo stesso tema; ci sono diverse altre copie di questa scena di El Jem soprattutto. 

C'è anche un bellissimo mosaico con lo stesso tema presso il Museo di Sousse (Bacco è mostrato su un carro trainato da quattro tigri). 

C'è anche un bellissimo mosaico con lo stesso tema presso il Museo di Sousse (Bacco è mostrato su un carro trainato da quattro tigri). 

RESTI DELLA VILLA

LA DOMUS

La Domus romana ha rivelato un ricchissimo complesso musivo, tra i più significativi di tutta l’Africa romana. L’entrata della casa è posta nell’angolo sud est dell'edificio. Al vano d’ingresso segue un atrium piuttosto stretto, ambedue ornati da un semplice zoccolo musivo. Volgendosi a destra si entra nell’ampio peristilium, sul quale si aprono gran parte delle stanze che compongono l’edificio.

Il peristilio presenta una decorazione geometrica, in opus tessellatum; il lato ovest, quello sul quale si aprono il triclinium ed una piccola esedra, decorata da pampini di vite, presenta un disegno più minuto e una tecnica più curata.

La planimetria dell’edificio presenta alcune significative particolarità: il giardino è l’unico noto in città, insieme a quello della “Maison du Paon”, ad essere trasformato in un autentico viridarium, mentre in genere prevalevano cortili battuti, con poche piante, vista la scarsità d’acqua della regione. 


Un muretto, decorato con simboli dionisiaci, separa il cortile dai corridoi di raccordo, isolando i due spazi e schermando la luce proveniente dall’esterno. L’area dell'atrium, per quanto esso sia angusto, presenta una insolita grandezza e complessità, per la presenza di numerosi vani di servizio non pavimentati affiancati all’atrio vero e proprio, decorato con un mosaico geometrico in bianco e nero. 

Il triclinium, come stanza di rappresentanza e di allegra sosta conviviale, possiede una finissima e ricca decorazione figurata, formata da un pannello rettangolare, disposto sulla soglia, con la raffigurazione del trionfo di Dioniso, e da un ampio campo rettangolare con ghirlande floreali che circondano busti di stagioni e figure dionisiache.

La decorazione figurata caratterizza, più complessa e costosa di quella geometrica, anche le stanze collocate a nord est, in un’area ancora solo parzialmente scavata, architettonicamente separata dal resto dell’edificio.

Queste stanze infatti non si aprono direttamente sul peristilio, ma su un corridoio che lo separa dalle stanze di quest’ala dell’edificio, e che presenta la decorazione di un mosaico geometrico analogo a quello del peristilio. 

DIONISO BAMBINO SUL LEONE
I mosaici di queste stanze, realizzati in opus tessellatum, e caratterizzati da una decorazione prevalentemente figurativa, si distinguono per l’altissima cura con cui sono realizzati, e per la preziosità dei materiali. Ma anche tra i più problematici per quanto riguarda la loro interpretazione.

I mosaici figurati sono destinati invece alla decorazione degli ambienti di rappresentanza, triclinium (J) e oeci (A, C), mentre le altre stanze hanno solo motivi decorativi. Le stanze di servizio, come la grande cucina (M), hanno come pavimento una semplice gettata di materiale cementizio.

Decisamente insolita l’organizzazione di tutto il lato sud ovest, ove si apre una serie di piccoli vani affiancati che farebbero pensare a cubicula se non fosse per la completa assenza di rifiniture pavimentali che li definisce come stanze per la servitù o comunque vani di servizio.

Le decorazioni della “Maison de la Procession dionysiaque” sono legate alle funzioni dei singoli vani, nonché al percorso che doveva essere svolto dal visitatore dell'epoca, con una progressione verso vani decorati da mosaici sempre più complessi, qualitativamente superiori, e materialmente più preziosi, man mano che si procede verso l’interno della casa, e quindi verso le zone private.

I primi vani dell’edificio (atrium e peristilum) hanno decorazione solo geometrica; a partire dalla piccola esedra che chiude il lato sud del peristilio, si incontrano le raffigurazioni dionisiache, che divengono dominanti nel triclinio.


A venir evocato è soprattutto il thyasos dionisiaco, il passaggio del Dio sulla terra, accompagnato dai suoi seguaci, apportatore di felicità ed abbondanza, simboleggiata dalle stagioni. Il thyasos è espressamente rappresentato nel pannello orizzontale, posto sulla soglia dell’edificio, ed evocato dalle singole figure che ricorrono nel pannello centrale.

Il motivo del thyasos dionisiaco ritorna, ma in forma abbreviata, in un altro mosaico dell’edificio: quello che decora la stanza dove è raffigurato Dioniso fanciullo, cavalcante una tigre, circondato dalle piante stagionali. Nella stessa sala un pannello orizzontale posto al di sopra di detto mosaico mostra i busti delle quattro stagioni circondati di pampini.

In entrambi questi mosaici si trova la raffigurazione di Dioniso intento a versare del vino da un contenitore: rispettivamente un kantharos e uno skyphos; il gesto rappresenta il potere rigeneratore del Dio, signore delle forze vitali della natura.

L’ultimo mosaico figurato proveniente dalla “Maison de la procession dionysiaque” introduce un nuovo elemento iconografico: l’associazione fra le stagioni e Annus. Il mosaico decorava un oecus, posto nell’ala N-E dell’edificio, quella maggiormente caratterizzata in chiave di prestigio sociale.

L’importanza del vano è, inoltre, evidenziata dal fatto che esso immette nell’unica stanza (B) che ha restituito tracce di una pavimentazione in opus sectile. La figura di Annus è accompagnata da numerosi simboli dionisiaci, mentre personaggi del corteggio del Dio sono collocati all’interno della ricca decorazione vegetale.

IL PERISTILIO
Annus è quindi visto in stretta relazione con Dioniso, ipostasi stessa del Dio. Annus è inoltre colui che guida il corteo delle stagioni, connesso idealmente al thyasos dionisiaco, secondo una tradizione che risale all’età ellenistica.

La particolarità del tema iconografico, con i continui richiami alle stagioni e al mondo dionisiaco, ha portato L. Foucher ad interpretare l’edificio come sede di un collegio dionisiaco, analogo alla “Villa dei Misteri” di Pompei.

Questa ipotesi si basa su tre elementi: la coerenza del programma decorativo, con il sistematico richiamo a Dioniso e al suo mondo; le ampie dimensioni del triclinium e, soprattutto, della cucina, vengono connesse allo svolgimenti di banchetti corporativi all’interno dell’edificio; e infine, dalla presenza di un piccolo vano, collocato nell’ala nord est dell’edificio, decorato a grottesche, interpretato dallo scavatore come un sacello.

L’edificio ha restituito numerosi frammenti di affresco, tutti di soggetto dionisiaco, piedi di letti triclinari in bronzo, ed una corona di foglie sempre in bronzo.



FOUCHER E L'IPOTESI INIZIATICA

L. Foucher propone una lettura della planimetria dell’edificio secondo lo svolgimento delle cerimonie iniziatiche, più o meno in questa sequenza:

1) Il candidato, dopo dieci giorni di astinenza sessuale cominciava il suo percorso iniziatico entrando dal vestibolo nella galleria di sud ovest.

2) Al termine del corridoio si trovava di fronte ad un piccolo vano absidato il cui mosaico presentava un vaso da cui fuoriescono pampini di vite, prima immagine simbolica della presenza.

3) Entrava poi nel grande triclinium, trovandosi subito di fronte la processione trionfale del Dio, la cui potenza è espressa dal dominio sulle fiere. Il vano era probabilmente destinato ad un pasto preiniziatico.

4) Seguiva il percorso negli ambienti dei possibili oeci, decorati con motivi decorativi ed apotropaici (piume di pavone).

5) Qui doveva ascoltare gli I)eroi/ lo/goi, i discorsi sacri che narravano della morte e della resurrezione di Dioniso.

6) Infine subire la triplice purificazione attraverso il fuoco (fumigazioni con torce), l’acqua (abluzioni) e l’aria (ventilazioni).

7) poichè, secondo Foucher, la funzione dei riti iniziatici era di coinvolgere emotivamente piuttosto che di insegnare, seguiva a questo un'atmosfera misterica. Il vano F apparentemente privo di fonti di luce e a livello interrato rievocherebbe la grotta di Nysa, dove il giovane Dioniso era stato allevato dalle ninfe.
Sicuramente il candidato non si limitava ad ascoltare, ma partecipava pronunciando formule rituali che sottolineavano una rappresentazione mistica della morte e della resurrezione del Dio, partecipando alla sua passione e alla sua rinascita.

8) Il momento più importante era dato dal disvelamento del fallo sacro contenuto nel liknon, in quel momento gli veniva rivelato il suo contenuto e la sua valenza simbolica: come la terra diveniva fertile grazie alle sementi purificate contenute nel liknon così il mystes riconosceva il germe della rigenerazione che gli consentiva una seconda nascita.

9) La cerimonia poteva comprendere una flagellazione rituale (!) che lo liberava completamente dalla sua natura passata e dalla realizzazione di un tatuaggio che identificava gli iniziati.

10) L’iniziato passava poi attraverso nella sala E decorata con un mosaico a piume di pavone, animale simbolo di immortalità perché le sue carni era considerate immarcescibili, nella sala dove gli veniva mostrata l’immagine di Dioniso bambino a cavallo di una tigre, non più sostenuto dagli aiutanti e perfettamente capace di dominare la fiera, simbolo dell’iniziato ormai capace di dominare sulle forze malvagie grazie alla protezione del Dio.

11) Infine veniva condotto nella sala A dove gli veniva rivelato l’ultimo aspetto del Dio, quello di Cosmocrator, signore del mondo e garante della vita, signore delle stagioni apportatrici di fecondità e quindi identificato con il genio dell’anno.

C'è da obiettare che la pianta dell’edificio, impostata sull’ampio peristilio, con l’ingresso diagonalmente collocato rispetto ad una grande sala da pranzo, si ritrova in altre ricche domus africane. Poi il tema dionisiaco, come quello stagionale, sono particolarmente diffusi ad El Jem, a partire dalla metà del II sec. fino a tutta l’età severiana.

Per D. Parrish invece non vi sono elementi certi per considerare la “Maison de la procession dionysiaque” sede di un collegio religioso, anche se non si può escluderlo. I mosaici non vanno letti solo come esaltazione della ricchezza del proprietario della casa. Si poteva essere ricchi ma pure molto religiosi.

CULTO DI CARMENTA

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PORTA CARMENTALIS A ROMA

Carmenta (Carmentis) ebbe il suo culto in Roma come Madre di Evandro, avuto da Mercurio (o da Pallante). Fu Dea maga e profetessa, protettrice della donne, della gravidanza e della nascita, patrona delle levatrici. Fu proprio sotto il consiglio materno che Evendro, dopo che era approdato in Italia fuggendo da Troia, fondò una città su un colle e la chiamò in onore del padre Pallante: il colle sarà il Palatino. 

Fu detta anche Nicostrata, o Nicostrate, ritenuta la moglie di Hermes (Mercurio) ed era compresa nel gruppo dei Di indigetes. Gli Di indigetes ("dei indigeni") erano un gruppo di divinità e spiriti della religione e della mitologia romana precedenti l'influenza etrusca a greca, non adottati da altre religioni. 

Si trattava di una religione di tipo animistico, con una Grande Madre personificazione della natura e molte creature semidivine abitanti delle acque, dei prati, degli alberi, dei fiumi e delle fonti che ne costituivano l'anima. 
NICOSTRATA

Si oppongono ai Di novensides ("dei nuovi arrivati") nella terminologia dello storiografo tedesco della religione romana Georg Wissowa.
Secondo una tradizione diversa fu invece una celebre profetessa dell' Arcadia che oracolava in versi. 

Dopo la sua morte fu fatta Dea e diede il nome alla porta Carmentale ed alle feste in Roma dette Carmentalia, che erano celebrate soprattutto dalle donne l'11 e il 15 febbraio. 

Presso la Porta Carmentale, nelle vicinanze del Campidoglio,  le venne infatti eretto un tempio dove si svolgeva il suo culto pubblico. Le carmentali a Roma si fusero poi con le sibille, delle quali molto famosa fu quella di Cuma.

Sembra che a Roma, secondo alcuni autori, non vi fosse una sola Dea Carmenta ma due Dee Carmente, a cui vennero dedicati due altari perchè portassero aiuto dei parti. La Dea dal parto retto (cioè corretto) fu detta Prosa o Porrima, la Dea dal parto obliquo (quando il neonato si poneva di traverso nel ventre) fu detta invece Postverta o Postvorta (volta indietro). In realtà questi sono miti più tardi, la Dea Carmenta era unica ma possedeva due facce, una rivolta al passato ed una al futuro, ed erano dette Antevorta (rivolta al prima) e Postvorta (rivolta al dopo).

Ambedue le Dee erano considerate divinità oracolari. La prima conosceva il passato e s'invocava per riparare i mali incorsi. La seconda prediceva l'avvenire e s'invocava per prevenire i mali venturi ed erano comunque ambedue invocate nei parti. Da lei tutte le donne che profetavano si dissero Carmente. Dice Plutarco che Carmenta presso i Greci era la stessa Dea Temi.

La Dea era venerata anche come l'inventrice dell'alfabeto latino e del calendario, perchè anticamente il suo tempio era retto unicamente da sacerdotesse che determinavano anche la cultura del popolo. Nel suo tempio era proibito indossare abiti ed oggetti di pelle, in quanto erano le parti cadaveriche dell'animale ucciso. Anche se il nutrimento attraverso gli animali era tollerato, era proibito sacrificare animali e portare resti di animali uccisi. Le sacerdotesse si astenevano dai prodotti animali.

SIBILLA CUMANA
Carmenta era anche Dea della musica e della danza e veniva rappresentata con sul capo una corona di fave, il frutto che nasconde i suoi semi per cui doveva possedere i Sacri Misteri. Altro suo attributo era un'arpa con cui intonava le melodie dell'universo, attributo passato poi al Dio Apollo. Quando nasceva un bambino veniva portato al tempio perchè gli si profetizzasse il futuro. Al culto pubblico della Dea a Roma era preposto il Flamen Carmentalis, il flamine carmentale.

La Dea Carmenta veniva festeggiata l'11 gennaio, nei Carmentalia a cui, successivamente, si aggiunse il 15 gennaio come secondo giorno di festa voluto dalle matrone romane per onorare la dea che le aveva favorite nella loro battaglia contro il Senato che aveva proibito loro l'uso delle carrozze. Per non essere costrette a casa o ad estenuanti camminate, le donne si coalizzarono negando ai propri mariti il piacere dei sensi finché le agitazioni e le proteste costrinsero il Senato a tornare sulle sue decisioni.


Biblio

- Dumézil  - La religione romana arcaica. Miti, leggende, realtà della vita religiosa romana - Milano, Rizzoli, 2001-
- Dionigi di Alicarnasso - Antichità romane


Q. MARCIO TURBONE - QUINTUS MARCIUS TURBO

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Nome: Quintus Marcius Turbo Fronto Publicius Severu
Nascita: -
Morte: -
Professione: Generale, Ammiraglio, Prefetto, etc.


[Q. MARCIO] C. F. TRO(mentina) FRONTONI TURBONI PUBLICIO SEVERO,
DOMO EPIDAURO, P(rimo) P(ilo) BIS,
PRAEF(ecto) VEHIC(ulorum),
TRIB(uno) COH(ortis) VII vigil(um),
TRIB(uno) EQU(itum) SING(ularium) AUG(usti),
TRIB(uno) PRAET(oriano),
PROC(uratori) LUDI MAGNI,
PRAEF(ecto) CLASS(is) PR(aetoriae) MISENENSIS,
P. VA(le)RIUS P. F. QUIR(ina) VALENS O(b m)ERITIS.

Questa iscrizione, venuta alla luce nel 1952 a Cyrrhus, località della Siria sita a nord - est di Antiochia, è stata pubblicata per la prima volta da E. Frézouls in “Syria” XXX (1953) p. 247 e sgg. (cfr. “Ann. Épigr.” 1955, n. 225). Essa è importante non solo perché ci ha trasmesso un’interessante carriera equestre (o almeno in parte equestre), ma anche perché tale carriera venne percorsa da un personaggio molto particolare, che sotto Adriano raggiunse la prefettura del pretorio.

Si tratta di Q. Marcio Turbone, ovvero "Quintus Marcius Turbo Fronto Publicius Severus", personaggio famoso, intelligentissimo, valoroso e di eccezionali capacità strategiche in varie situazioni militari ma pure civili. Di lui ci sono state conservate sia nelle fonti letterarie (Frontone, di Cassio Dione, di Eusebio di Cesarea, della Historia Augusta), sia in altri documenti epigrafici: cfr. PIR II, p. 339 sg. n. 179; A. Passerini, Le coorti pretorie, Roma 1939, p. 298 sg.

Prima della scoperta dell’iscrizione di Cyrrhus non si conosceva né il suo patronimico, né la sua patria d’origine (domo Epidauro, l’od. Zaptat in Dalmazia), e quanto agli sviluppi della sua carriera si sapeva solo che egli, prima di diventare prefetto del pretorio circa il 119, era stato centurione nella legione II Adiutrix in una data non precisabile fra il 103 e il 107 (cfr. CIL III 14349²), che intorno al 113 aveva ottenuto il comando della flotta del Miseno (cfr. CIL XIV 60), e che nel 118 aveva ricoperto la carica di governatore dell’Egitto.

Ora invece la nuova iscrizione ci permette di seguire quegli sviluppi con assai maggior copia di particolari, anche se alcuni punti debbono ancora restare nel campo delle ipotesi. Per prima cosa, si deve cominciare col sottolineare la rapidità con cui Turbone percorse le varie tappe del suo cursus: in meno di una decina d’anni due centurionati primipilari, la praefectura vehiculorum, il tribunato di una coorte dei vigiles, il tribunato degli equites singulares, il tribunato di una coorte pretoria, la procuratela del ludus magnus e la prefettura della flotta del Miseno.

Su una simile rapidità ad un certo momento dovette influire la considerazione in cui (come sappiamo per altra via) Turbone fu tenuto da Adriano, che lo raccomandò a Traiano per più di una promozione e poi lo promosse egli stesso fino alla prefettura del pretorio. Ma, indipendentemente dall’appoggio che Adriano gli dette a partire dagli ultimi anni di Traiano, è un fatto che anche prima la carriera di Turbone presenta uno sviluppo notevolmente rapido.



IL CENTURIONE

La sua carriera non cominciò infatti con i gradi delle militiae equestres, come solitamente facevano gli appartenenti alla classe dei cavalieri prima di passare alla procuratele inferiori, ma cominciò con il grado di centurione, la bassa ufficialità che nelle legioni viveva a contatto immediato con la truppa e doveva assicurarne la disciplina e l’efficienza.

Al centurionato di solito si arrivava dopo lunghi anni di servizio in caliga (dal nome dei sandali dei soldati semplici, le caligae, cioè dalla gavetta), anni che si riducevano un poco per chi proveniva non dalle legioni, ma da qualche milizia scelta, p. es. quella dei pretoriani. Per Marcio Turbone invece il caso fu diverso e piuttosto insolito.

È probabile cioè che egli, pur appartenendo per nascita all’ordine equestre e potendo iniziare la carriera con le più comode militiae equestres, abbia rinunciato volontariamente alle prerogative che gli spettavano per la sua classe sociale e abbia chiesto di servire come centurione. "Ad astra per aspera" dicevano i romani, cioè per arrivare in alto occorre perseguire vie impervie, e così fu per Turbone.

Era un grosso sacrificio, a cui peraltro era connesso il beneficio di non dover poi, nel seguito della carriera, indugiare nelle procuratele inferiori, come fare la guardia, la ronda, curare le amministrazioni, occuparsi delle vettovaglie, della parola d'ordine ecc.. Così Marcio Turbone non sarebbe entrato nell’ordine equestre dopo una lunga e faticosa vita militare, ma ne avrebbe fatto parte fin da subito, uscendone solo per gli anni passati da centurione, compito non solo duro ma molto pericoloso, sì da poter raggiungere il grado di centurione primipilo non sui 45 anni (come di norma per i militari provenienti dai ranghi) ma sui 35 anni circa.

In realtà non sappiamo se il suo centurionato trascorso nella legione II Adiutrix, attestato in data non precisabile fra il 103 e il 107 dall’iscrizione 106 CIL III 14349², è da identificare con uno dei centurionati primipilari menzionati nel documento di Cyrrhus, oppure se va considerato come una tappa più bassa della sua carriera, ma tutto fa pensare alla prima ipotesi.



IL PRIMOPILO

Per maggior chiarezza, si ricorderà brevemente che di centurioni ve n’erano 60 in ogni legione, 6 per ciascuna delle 10 coorti in cui quella si articolava, e che i 60 posti di centurione formavano una gerarchia che aveva alla base il VI posto di centurione della X coorte e al vertice il I posto di centurione della I coorte, quest’ultimo designato col titolo di primipilus o primus pilus.

La rapidità con cui si svolse la carriera di Turbone fa supporre che nella legione II Adiutrix egli esercitasse già il grado di primipilo, all’incirca fra gli anni 104 e 105. Ma Turbone fu anche primus pilus bis, conseguì cioè la distinzione di esercitare una II volta il grado del primipilato, il che si faceva a qualche anno di distanza dal primo, e comportava l’aggregazione allo stato maggiore del comandante della legione con possibilità di distinguersi e aprirsi la strada a successive promozioni; un'occasione unica.

A giudicare dagli elementi offerti dalle carriere più o meno analoghe, si può ritenere che Turbone esercitò il grado di primipilus bis (non si sa in quale legione) all’incirca nel 111, dopo essere stato, tra il 104 e il 110:
- praefectus vehiculorum,
- tribuno dei vigiles,
- tribuno degli equites singulares
- tribuno dei pretoriani.



PRAEFECTO VEHICULORUM

Tra questi uffici c'è da notare la praefectura vehiculorum, cioè la direzione del servizio postale nell’impero, un'organizzazione complessa e perfetta, degna di uno stato moderno.

Quella dell’iscrizione di Cyrrhus è la più antica menzione del Praefectus Vehiculorum, il quale deve ora considerarsi istituito da Traiano, mentre prima veniva considerato una creazione di Adriano. Fino ai primi anni del suo regno infatti Traiano aveva continuato a lasciare il servizio delle poste nelle mani di liberti imperiali, come già sotto i Flavi; poi, anche per le necessità della sua politica di conquiste nelle terre oltre il Danubio, egli fece potenziare il servizio postale, riorganizzandone su nuove basi l’amministrazione e creando la praefectura vehiculorum, di cui Marcio Turbone fu probabilmente il primo titolare.

Un servizio postale efficiente e ultraveloce era la garanzia di un contatto continuo e sicuro tra madrepatria e terre di conquista, una capacità inimmaginabile per l'epoca di mandare e ottenere richieste da Roma, di ordini, di vettovagliamenti, uomini e armi. Insomma le basi per vincere una guerra.

L’ufficio, che in seguito acquistò maggior rilievo nella gerarchia burocratica, sulle prime fu di rango inferiore, e infatti vediamo che Turbone ne fu investito subito dopo aver esercitato il grado di primipilo. Assolto brillantemente l’incarico alla direzione della poste, Turbone entrò nell’ufficialità dei corpi speciali di Roma: questi costituivano una truppa scelta di condizione e di paga più elevate rispetto ai semplici milites legionarii, e in genere venivano acquartierati nella città mentre le legioni venivano stanziate nelle province periferiche a presidio dei lontani confini dell’impero.



TRIBUNO DEI VIGILES

Marcio Turbone esercitò tutti e tre i comandi nei corpi speciali di Roma,  all’incirca nel triennio dal 108 al 110, iniziando col rivestire il tribunato di una coorte dei vigiles. Questo corpo era stato organizzato nel 6 d.c. da Augusto, con svariate funzioni che andavano dalla vigilanza notturna al servizio antincendio, e si articolava in 7 coorti di un migliaio di uomini ciascuna. Comandante di ogni coorte era un tribunus, mentre il comando generale era nelle mani del praefectus vigilum, che prendeva gli ordini direttamente dall’imperatore.

I vigiles avevano un'organizzazione paramilitare; vi potevano essere arruolati ex-schiavi e liberti, tanto che venivano chiamati libertini milites. Il loro comandante era il praefectus vigilum, scelto dall'imperatore nell'ordine equestre. Il nome ufficiale del corpo era Militia Vigilum Regime, poi diventò Cohortes Vigilum. Il loro motto era Ubi dolor ibi vigiles (Dove c'è il dolore ci sono i vigili). Il praefectus vigilum era affiancato da un tribuno e sette centurioni per singola coorte.



TRIBUNO DEGLI EQUITES SINGULARES

Dal tribunato della VII coorte dei vigiles Turbone passò a quello degli "equites singulares Augusti", che costituivano un reparto a cavallo della guardia imperiale ed erano reclutati nelle province tra gli elementi fisicamente più dotati, più forti e rozzi, per assicurarne l'assoluta devozione alla persona del principe.

Il loro numero si aggirava all'incirca sul migliaio, ed erano subordinati al pretorio, essendo comandati da un tribunus che dipendeva a sua volta dal medesimo comandante in capo delle coorti pretorie, cioè il "prefetto del pretorio".



TRIBUNO DEI PRETORIANI

Ma la sua carriera non finì lì, perchè Turbone lasciò il comando degli equites singulares, venendo promosso al grado di tribuno dei pretoriani, il corpo scelto anch’esso organizzato da Augusto per assolvere soprattutto, ma non solo, ai compiti della guardia imperiale.

Esso fu articolato dapprima in 9 coorti, composta da volontari provenienti da famiglie che da più generazioni facevano parte della cittadinanza romana (scelti dunque, con un criterio opposto a quello con cui si reclutavano i semi-barbari equites singulares).

Le 9 coorti, raccolte nei castra praetoria che Tiberio fece costruire intorno al 23 d.c., furono portate a 16 sotto Vitellio, ma poi il loro numero discese di nuovo venendo fissato a 10. Ciascuna coorte aveva alla testa un tribuno, il grado appunto ricoperto da Turbone e indicato nel testo dell'epigrafe come TRIB(unus) PRAET(orianus).

Di solito questo titolo veniva accompagnato dal nome della coorte in cui veniva esercitato il comando (p. es., tribunus cohortis V praetoriae), per cui si è ipotizzato che la formula inconsueta usata nella iscrizione di Cyrrhus (dove invece la menzione del tribunato dei vigiles contiene la specificazione della coorte) riguardi una situazione speciale.

Vale a dire che Turbone avrebbe ottenuto il grado, ma non l'avrebbe mai esercitato alla testa di una della coorti, bensì, data la sua particolare capacità e affidabilità, avrebbe svolto incarichi speciali: una possibilità ben rispondente alla rapidità della carriera di Turbone, ma che peraltro non avrebbe un'altra spiegazione.



PRIMUS PILUS BIS

Terminato il servizio come tribuno nei corpi di stanza a Roma, Turbone venne promosso primus pilus bis per cui si recò ad esercitarne le funzioni in qualche provincia, ma non si sa presso quale legione. Come al solito Quinto Marcio seppe distinguersi ancora una volta tanto che, finito l'incarico fece un'ulteriore carriera.



PROCURATOR LUDI MAGNI

Tornato a Roma, egli ottenne poco dopo da Traiano (fra il 111 e il 112) la nomina a Procurator ludi magni. Questo era stato probabilmente istituito da Domiziano in luogo del precedente Procurator ludi creato da Claudio, e aveva l’incarico di sovrintendente all’istruzione dei gladiatori accantonati nelle caserme costruite in vicinanza del Colosseo e di organizzarvi i loro combattimenti.

Nel campo dei pubblici spettacoli non v’era in Roma funzionario di maggior rilievo, e la sua importanza era sempre aumentata col crescente favore del pubblico verso i combattimenti dei gladiatori ma soprattutto perchè piacevano a Nerone, ai Flavi e, soprattutto a Traiano. Questi, tra l’altro, nel 109, per festeggiare la conquista dacica, offrì spettacoli con combattimenti di 5.000 coppie di gladiatori; e spettacoli altrettanto grandiosi vennero allestiti nel 112 e nel 113, quando l’ufficio di procurator ludi magni venne affidato a Turbone.



AMMIRAGLIO DELLA FLOTTA DI MISENO

Fu nell’estate, circa, di quell’anno 113 che Turbone, sempre più favorito dalla considerazione in cui lo teneva Adriano, dovette ottenere da Traiano la promozione ad ammiraglio della flotta del Miseno; infatti nell’ottobre del 113 Traiano s’imbarcava a Brindisi per compiere quel viaggio in Oriente che precedé la campagna partica, ed è probabile che l’imperatore avesse già provveduto in precedenza ai mutamenti nell’alto comando della flotta che ora era impegnata a seguirlo in Oriente.

La Classis Praetoria Misenensis Pia Vindex, era la flotta imperiale romana istituita da Augusto intorno al 27 a.c., era di stanza a Miseno ed era la prima flotta dell'Impero per importanza, con il compito di sorvegliare la parte occidentale del Mediterraneo. Nell’anno successivo, quando ebbero inizio le ostilità contro i Parti, furono le navi agli ordini di Turbone a trasportare in Oriente Traiano, che arrivò ad Antiochia nel gennaio del 114.



ALTRE EPIGRAFI

Sotto Traiano: Quinto Marcio Fronto Turbo Publicio Severo dal 119
ISCRIZIONE XI 214
Comandante di una flotta non conosciuta: Quinto Marcio Turbone. 114 d.c.

"Traiano, una volta raggiunta Antiochia nel gennaio di quest'anno (con le monete che ne celebrarono la Profectio), radunò le legioni ed i suoi migliori generali, tra cui Lusio Quieto (a capo della cavalleria maura) e Quinto Marcio Turbone, allora praefectus classis Misenis".


TRAIANO
L’imperatore trattenne al suo seguito l’ammiraglio (che gli poteva essere utile, fra l’altro, per l’eventuale costruzione di flottiglie fluviali, per l’attraversamento di fiumi, per l’esperienza nel campo delle comunicazioni acquistata a suo tempo come praefectus vehiculorum) e nacque allora la circostanza per la dedica gratulatoria: circostanza a noi ignota come ignota rimane la figura del dedicante P. Valerio Valente.

"Traiano pose a capo della Dacia Superiore Quinto Marcio Turbone 
comandante della Legione XIII Gemina stanziata ad Apulum" 

"Zucca 2()()4, p. 367, avanza l'ipotesi che tra gli antenati di Cornelia Gallonia ci siano Tiberio Flavio Prisco, Gallonio Frontone, figlio adottivo dell'amico dell'imperatore Adriano, Quinto Marcio Turbone Frontone Publicio Severo, e Gaio Gallonio Frontone" 

"Aveavi allora Quinto Marcio Turbone prefetto del pretorio ossia ministro intimo e supremo al fianco dell imperadore (Traiano). Costui rigidissimo nell'ufficio e d'altronde di quella vita buona e semplice dei nostri avi solea aprire in palazzo sue giudicature talvolta prima di mezzanotte allorchè dice lo scrittore alcuni cominciano a darsi al sonno. Una notte e una notte profonda tornando Turbone nostro da cena fu avvertito per un amico cui prometteva che avesse un'opera e patrocinio suo che Turbone già rendesse ragione. 
Così stava con la veste da convito lui entra in avanti quel ferrato Masurio e gli dà non già il saluto che doveva della mattina, ma quello della sera, il quale appena dovette bastare a muovere un sorriso sul volto dell'uomo severissimo. Niuna maraviglia ci prenda di una tale confidenza tra questi due personaggi. 
Eglino erano agnati o affini e stretti a tutti i seguenti di cui parleremo con quei vincoli di sangue o di fattizia cognazione legale che producono effetti ereditare nuove nomenclature e tante patrie agli antichi nobili quanto i moderni non hanno titoli di feudi. 
Conosconsi le loro arrogazioni adozioni uomo cipazioni e manumissioni ma tutti insieme le conseguenze non sono state finora bene schiarite dagli interpreti più dotti delle romane leggi o delle antichità. Scuopriamo questo arcano dalle collezioni inestimabili delle iscrizioni quali a chi le sappia fornito di lumi e della esperienza dovuta porti infallibilmente ogni più recondita e inattesa cognizione. porgono ogni più e inattesa cognizione Muova per prima la bella (guerra) dacica muratoriana 
MCX XU 1 vera onoraria al nostro grande governatore di armi e di giustizia 
Q MARCIO TVRBONI FRONTONI PVBLTCIO SEVERO 
Questa corregge la gruteriana (dedica gratulatoria) CCCXXXVII."



LO STERMINIO DEGLI EBREI

Nel bacino orientale del Mediterraneo nell’anno XVIII e IXX del regno di Traiano esplose una violenta rivolta delle popolazioni giudaiche, che lottarono non solo contro l’autorità romana, ma anche contro la popolazione greca che abitava in Egitto, in Cirenaica, nell’isola di Cipro, in Mesopotamia (provincia recentemente conquistata dai romani per mezzo delle campagne partiche traianee) e forse anche nella stessa Giudea, molto turbolenta e ribelle quaranta anni prima, quando Tito distrusse il tempio di Gerusalemme.

" La repressione ordinata da Traiano fu orrenda. Inviò in Egitto con pieni poteri Rutilio Lupo coadiuvato da Quinto Marcio Turbone. Con l'appoggio dei greci, entrambi i generali perpetrarono un vero e proprio sterminio di ebrei. La stessa cosa avvenne in altre regioni, tanto che gli ebrei superstiti corsero a rifugiarsi nelle zone interne dell'Africa."

Marcio Turbone fu poi, nel 116, inviato da Traiano a reprimere l’insurrezione giudaica scoppiata in Egitto e in Cirenaica. "L'eminente generale Quiinto Marcio Turbone, inviato con una potente armata a sedare i tumulti, dovette affrontare anche una fiera sollevazione a Cipro, dove gli Ebrei, al comando di un certo Artemione, avevano devastato Salamina". Come premio per il successo dell’operazione ottenne il governo della provincia di Mauratania e quindi (ormai siamo già sotto Adriano) un comando straordinario nella Pannonia e nella Dacia e la prefettura dell’Egitto.

Durante il 116 vi fu anche uno scontro tra gli ebrei e i legionari romani, comandati dal prefetto d’Egitto Rutilio Lupo. La battaglia si svolse nei pressi di Narmuthis, ma non si capì bene chi vinse. Comunque i Giudei attaccarono le fortezze romane e tentarono di assumere il controllo via mare del paese, impossessandosi di alcune navi. Ciò preoccupò molto i romani poiché poteva minacciare i rifornimenti diretti verso l’Oriente.

I romani reagirono prontamente e al prefetto Rutilio Lupo fu affiancato, come riporta Eusebio nella Storia Ecclesiastica (IV,2,3) e da fonti ebraiche come il Talmud di Gerusalemme, l’abile generale Quinto Marcio Turbone Frontone Publicio Severo, (fino a qualche anno prima prefetto della flotta di Miseno) che, fornito di truppe terrestri, tra cui forze di cavalleria, e forze navali, arrivò dall’Oriente nel 116 d.c. o forse nella primavera del 117 d.c.. 

La Cohors I Ulpia Afrorum Equitata e la Cohors I Augusta Pretoria Lusitanorum Equitata (unità ausiliarie di cavalleria e fanteria) giunsero in oriente capeggiate da Turbone  per la repressione della rivolta, forse insieme alla Cohors I Hispanorum Equitata. Numerose battaglie sono documentate da Eusebio ma soprattutto da Appiano, testimone oculare della rivolta, il quale riferisce che al suo tempo l’imperatore Traiano sterminò la popolazione ebraica del paese.

Una delle battaglie si sarebbe svolta nelle vicinanze di Menfi, centro strategico della regione, come riferisce il papiro: CPJ II 439, proveniente sempre dall’archivio di Apollonio, in cui un suo schiavo chiamato Aphrodisios, scrivendo ad Herakleios, riferisce che alcuni schiavi provenienti dal villaggio di Ibion gli hanno comunicato che il suo padrone ha ottenuto una vittoria sui ribelli. 

Dopo questa battaglia l’importante città, posta nel punto di passaggio tra il nord e il sud del paese, fu quindi riconquistata. È stato anche affermato che tra romani ed ebrei si svolsero alcune battaglie navali, visto che Turbone era fornito di una flotta e nel Mediterraneo orientale era presente la classis Augusta Alexandrina.

L’abile generale operò con altrettanto successo anche in Cirenaica, anche se è praticamente impossibile ricostruire i suoi interventi e anche capire quali distaccamenti legionari lo seguirono nella provincia. È comunque sicuro che entro la metà di agosto del 117 d.c. o al massimo nell’autunno del medesimo anno, riuscì a restaurare la pace in entrambe le provincie. 

Questo è possibile dedurlo ancora tramite Apollonio, il quale il 28 novembre chiede al prefetto il permesso di potersi occupare della sistemazioni dei suoi possedimenti ad Ermopoli, che erano stati pesantemente danneggiati degli ebrei. Dopo questi ottimi risultati pare che Turbone sia stato nominato prefetto d’Egitto in luogo di Rufo poco dopo il 5 gennaio del 117 d.c., ma fu sostituito entro l’agosto del medesimo anno da Rammio Marziale e inviato da Adriano in Mauretania per sedare una rivolta.

Alla morte di Traiano, Adriano aveva avuto difficoltà a mantenere intatti i confini dell'impero come era riuscito pienamente col suo padre adottante (Traiano) e rischiava una disfatta. Fu proprio Marcio Turbone e risolvere la questione. Uomo capacissimo e grande generale, riportò come al solito la vittoria.

"Adriano, benché provvide a potenziare le fortificazioni lungo questo nuovo tratto di limes, con la costruzione di torri e nuovi forti a Rapidum, Praesidium Sulfative e a Thanaramusa, le popolazioni berbere della Tingitania si spinsero ad Oriente e pare che i Baquati abbiano assediato la città costiera della Caesariensis, Cartenna. Per questo Adriano fu costretto ad inviare Quinto Marcio Turbone, già testato nella Guerra Giudaica. Turbone fu capace anche qui d’imporsi e di domare le rivolte dei Mauri"



PREFETTO DEL PRETORIO

Nel 119, come già s’è detto, egli raggiunse l’apice della carriera equestre con la nomina a prefetto del pretorio: una carica che rivestì per molti e molti anni, pare fino al 137, quando cadde in disgrazia di Adriano e fu sostituito nell’ufficio. Le ragioni del suo declino sono assolutamente ignote.

ARCO DI DOMIZIANO

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ECCO COME DOVEVA APPARIRE L'ARCO DI DOMIZIANO A ROMA

Dai cataloghi regionari, sappiamo dell’esistenza di 36 archi trionfali nella sola Roma; anche se la maggior parte di essi è andata distrutta, tuttavia quelli rimasti sono più che sufficienti per darci modo di valutare l’importanza estetica ed architettonica di questo elemento urbanistico, simbolo dell’arte e della storia stessa di Roma.”

Un arco quadrifronte, forse coincidente con quello ricordato in un epigramma di Marziale (VIII, 65) datato al 93 d.c., è documentato da alcune monete di Domiziano (51-96).

Le arcate sono contenute da coppie di colonne libere in aggetto, mentre l’attico appare sormontato da due quadrighe trainate da elefanti.

Tutto lascia pensare che si tratti di una Porta Triumphalis di età flavia posta lungo il percorso ufficiale dei cortei, il che spiegherebbe la sopravvivenza alle demolizioni conseguenti alla damnatio memoriae dell’imperatore Flavio Domiziano.


Arcus Domitiani

1)
Come ci informano Svetonio (Dom. 13) e Cassius Dio (LXVIII.1), Domiziano (51-96) eresse diversi archi in suo onore in varie parti dell'urbe. Uno di questi è stato riconosciuto attraverso una recente teoria (PBS III.259‑262) che per certo identifica l'arco riferito da Marziale (VIII.65) con l'Arcus Manus Carneae delle Mirabilia e Ordo Benedicti (ap. Giordano II.666). Quest'arco stava vicino a Piazza Venezia, e forse stava con la congiunzione alla via Lata e al Vicus Pallacinae.

ESEMPIO DI ARCO QUADRIFRONTE (LEPTIS MAGNA)
Comunque gli archi di Domiziano sono di solito rappresentati sulle monete come quadrifrontali, simili al tempio della Fortuna Redux. L'imperatore Domiziano era un megalomane e volle fossero poste in Campidoglio statue di lui, solo d'oro e d'argento e di peso determinato. Fece erigere per i vari quartieri dell'urbe un tale numero di volte e archi enormi con quadrighe e insegne trionfali, che, si dice, su uno di essi si trovò scritto in greco: "basta!"

2) Un secondo arco, le cui fondazioni sul clivus Palatinus che dalla via Sacra, nei pressi dell'Arco di Tito sale fino alla piazza antistante i palazzi imperiali sul Palatino, attribuito a Domiziano dal Boni, è stato recentemente scoperto, appunto nel clivus Palatino, non lontano dagli appartamenti della domus Augustiana (CJ XV 1919‑20) (Boni in Illustrazione Italiana, 1918, I.373‑375).

Restano solo le fondazioni di due arcate (che erano abbastanza ampie da ammettere aperture laterali), il pavimento della strada che passava attraverso l'arco centrale, ed alcuni superbi frammenti architettonici; e sembra naturale supporre sia stato distrutto dopo la morte dell'imperatore (cf. Equus Domitiani).

Tuttavia l'arco dovrebbe essere di periodo augusteo (AJA 1923, 400; Mem. Am. Acad. V.120), in effetti la posizione dell'arco, che blocca l'entrata a quello che Hülsen crede essere l'atrio del tempio di Apollo, sconfessa la sua identificazione (cf.p168). Si può anche notare che la strada attraverso cui è bloccato da mura di mattoni del periodo di Domiziano è solo a breve distanza a sud di esso, così che appare chiaro non essere stato costruito da Domiziano.

3) Un altro arco di discussa collocazione fu costruito nel 92 dall'imperatore in relazione al rifacimento del tempio della Fortuna Redux, secondo alcuni in relazione alla porta Triumphalis da cui entravano i cortei dei trionfatori. Si sa d'altronde che Domiziano costruì numerosi archi in suo onore, ma si sa pure che vennero tutti distrutti in seguito alla damnatio memoriae dopo la sua morte.

FRAMMENTO DELL'ARCO DI DOMIZIANO DAL FONDACO MARRAMARRA (Napoli)

DA RITA VOLPE ED ERSILIA MARIA LORETI

"Tra i non numerosi monumenti raffigurati nella monetazione di Domiziano ne risalta uno che compare per ben tre volte, su sesterzi dell’85, del 90 e del 95 d.c. (BMC II, Dom. n. 303† : 364; n. 443*: 399 e n. 476† : 407); si tratta di un arco, anzi un giano, sormontato da due quadrighe di elefanti, il cui studio e la cui interpretazione sono stati sempre fortemente condizionati dall’identificazione con l’arco ricordato da Marziale come porta "digna tuis triumphis", cioè come Porta Trionfale.

L’interesse che quest’ultimo monumento ha sempre creato intorno a sé, sul problema della sua localizzazione e della definizione del percorso della pompa triumphalis, ha un po’ deviato l’attenzione dall’arco raffigurato sulle monete, che vengono quindi utilizzate solo come fondamento documentario ormai certo ed acquisito. 



2. L’ARCO DELLE MONETE 

"Molti dati si possono ricavare da un’attenta analisi del monumento raffigurato sul rovescio delle monete, definito tra le lettere S(enatus) e C(onsulto). Soprattutto alcuni esemplari del 90 e del 95 d.c. offrono una descrizione piuttosto precisa: non sembrano esserci dubbi sul fatto che si tratti di un Giano, vista la precisa resa dell’angolo tra i due fornici; il fornice su ciascuno dei lati è affiancato da due coppie di colonne su alto podio, che giungono fino all’attico; negli estradossi, sopra i fornici, è una cornice circolare che pare contenere un ritratto. Soprattutto nel medaglione di sinistra, meglio visibile, si riconosce la parte superiore di una figura umana, facendo quindi individuare il motivo delle "imagines clipeatae".
Sull’attico, piuttosto alto, sono dei pannelli rettangolari a rilievo, in corrispondenza con i fornici, raffiguranti quello di sinistra forse una scena di sacrificio, con due figure stanti ai lati di un altare sul quale brucia la fiamma. Nel pannello di destra è una scena di più difficile lettura, sempre con due figure, una di fronte all’altra, quella più a destra sicuramente seduta.

Nei diversi lati le scene sembrano sempre le stesse, per cui o l’arco veniva raffigurato sempre dallo stesso punto di vista oppure le scene si ripetevano uguali sulle facciate corrispondenti. Ai due lati di ciascun rilievo è una figura umana stante, sembra a tutto tondo, forse un trofeo. Sopra l’attico sono poi due quadrighe volte in direzioni opposte, ciascuna guidata da un suo auriga, trainate da quattro elefanti."
Il giano Cioè l'arco a 4 porte, è stato identificato dagli studiosi sulla scorta di un epigramma di Marziale (VIII, 65, datato al 93 ca.), il quale, riferendosi ad un trionfo di Domiziano, descrive un arco trionfale sormontato da due quadrighe di elefanti e lo associa topograficamente al tempio di Fortuna Redux, divinità posta a tutela del ritorno (adventus) e del trionfo dell’imperatore.

Lo stesso monumento è stato riconosciuto sul rilievo aureliano dell’arco di Costantino con scena di profectio (Koeppel 1986: 56-58, fig.31, n.26) e, in associazione con il tempio della Fortuna Redux, su monete di Marco Aurelio del 173- 174 d.c. con scena di adventus (Gnecchi 1912: 27, nn.2-3, tav.59,5), sul rilievo aureliano dell’arco di Costantino ancora con scena di adventus (Angelicoussis 1984: 151, tav. 66,1; Koeppel 1986; 70-72, figg.37-38) e sul rilievo di Marco Aurelio al Palazzo dei Conservatori con rappresentazione di trionfo (Angelicoussis 1984: 152-154, tav.66,2; Koeppel 1986: 50-52, tav.28).

Secondo alcuni studiosi (Stuart Jones 1906: 260-263; Hommel 1954: 45; Champeaux 1982: 267, n.92), l’arco citato da Marziale va identificato con la Porta Triumphalis, che Domiziano, in occasione di uno dei suoi trionfi, avrebbe ricostruito nel Campo Marzio dopo l’incendio dell’80, innalzando nello stesso tempo un tempio dedicato a Fortuna Redux; gli stessi studiosi ipotizzano inoltre per i due edifici una ubicazione nel Campo Marzio centrale

Filippo Coarelli (Coarelli 1968: 57-69 e 1988: 381, 400-401, 456-459) ha invece propone per la Porta Triumphalis una ubicazione nel Foro Boario, nei pressi della Porta Carmentalis, che sorgeva sotto le pendici meridionali del Campidoglio in corrispondenza del vicus Iugarius; Coarelli ritiene inoltre che, come già ipotizzato dal Colini (Colini 1940: 75-76), il tempio di Fortuna Redux vada identificato con quello più occidentale dei templi gemelli dell’area sacra di S. Omobono, da sempre attribuito a Fortuna, senza altri attributi. 
Lo studio di un rilievo storico dell’Antiquarium Comunale con rappresentazione del frontone del tempio di Fortuna Redux, rinvenuto nei pressi dei templi di S. Omobono nel 1938, sembra confermare l’identificazione del tempio stesso, e quindi l’ubicazione della Porta Triumphalis in una zona molto vicina (Loreti 1996), anche se ancora non sicuramente identificabile.

La proposta di identificazione di G. Ioppolo in Coarelli 1988: 439-442, che, utilizzando alcune strutture in cementizio rinvenute al centro dell’area sacra di S. Omobono, ricostruisce un doppio giano molto allungato, sembra poco somigliante all’arco delle monete.
L’identificazione con la Porta Triumphalis e la sua collocazione, relativi all'immagine del giano rappresentato sulle monete di Domiziano non hanno ancora posto la giusta attenzione allo studio del monumento ricostruibile da monete e rilievi relativi. 

La sua decorazione appare molto ricca, con elementi non del tutto usuali per un arco (come ad esempio le imagines clipeatae), ai quali si deve quindi sicuramente attribuire un significato simbolico importante, visto che vennero segnalati pure nelle monete. Importante la presenza sull’attico di ben due quadrighe trainate da elefanti, un soggetto piuttosto raro, e per il tipo di animale prescelto e per il raddoppiamento delle quadrighe.

A partire dal ricordo del ritorno di Alessandro Magno in Egitto su un carro tirato da elefanti, che richiama l’analogo ritorno dall’India di Dioniso, l’elefante come animale da traino appare soprattutto in età imperiale a partire da Augusto, sempre riservato all’imperatore o ai suoi stretti familiari.



Oltre la biga trainata da elefanti su cui è Augusto in un denario del 18 a.c. (BMC I, Aug. n. 52-4) e in un aureus dl 17-16 a.c. (BMC I, Aug. n. 432 QUOD VIAS MUN[ITAE] SVNT), la prima quadriga tirata da elefanti compare su un sesterzio di Tiberio del 34 (BMC I, Tib., nn. 102, 108. 125) riferita ai ludi circentes, quando venivano fatti sfilare carri trainati da elefanti che portavano le immagini degli imperatori defunti e divinizzati.

Questo onore è attestato anche per Livia (Suet., Claud. 11,2), per Augusto e Claudio in monete neroniane (BMC I, Ner., nn. 7-8), per Vespasiano su sesterzi di Tito (BMC II, Tito, nn. 221-223) e per Giulia, figlia di Tito, su aurei domizianei (BMC II, Dom., n. 250†). E’ evidente quindi la connessione dell’elefante con la figura dell’imperatore, (Juv. Sat. XII, 106), soprattutto se divinizzato, con l’apoteosi imperiale.

Che una quadriga di elefanti fosse un fastigio insolito per un arco ma non un caso eccezionale è confermato dalle raffigurazioni di archi simili sia nel famoso rilievo Torlonia, che rappresenta il porto di Ostia, sia in un sarcofago dei Musei Vaticani con veduta di porti (Meiggs 1973: 158ss.).

La duplicazione delle quadrighe sull’arco delle monete appare comunque inconsueta, e non si può certo spiegare con un duplice trionfo di Domiziano, visto che ogni quadriga ha il suo guidatore; sembra invece più probabile pensare ad un trionfo di due persone: l’immediato richiamo è quello del trionfo più noto e reclamizzato dell’epoca, quello di Vespasiano e Tito sui Giudei.

Il ricordo del trionfo sui Giudei, al quale anche Domiziano aveva partecipato, si può forse vedere anche nel rilievo con scena di sacrificio nell’attico dell’arco, che potrebbe ricordare quello offerto da Vespasiano e Tito agli Dei della Porta Trionfale (ricordato da Flavio Giuseppe, B.Jud. VII, 5,4). 3.
Pertanto le decorazioni dell’arco raffigurato sulle monete, con valenze onorarie e funerarie (1. imagines clipeatae = ritratti degli avi distintisi per valore; 2. trofei= simbolo di vittoria militare; 3. quadrighe di elefanti = apoteosi imperiale) fa pensare che la Porta Trionfale di Domiziano, di cui è nota la diffusione dell culto di padre e fratello divinizzati, sia dedicata anche a Vespasiano e Tito divinizzati e trionfanti. Il che spiegherebbe anche la sopravvivenza dell’arco, identificabile con la Porta Trionfale, alla damnatio memoriae di Domiziano.



GENS VETURIA

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DENARIO DELLA GENS VETURIA CON DUE ASTATI E UN SACERDOTE CHE SACRIFICA UN MAIALINO

La gens Veturia (in latino arcaico Voturia, e anche Votusia) è una delle più antiche famiglie patrizie romane, appartenendo alle cento gentes originarie citate da Tito Livio. Aveva tuttavia diversi rami plebei. Varrone sosatiene che i Veturii ottennero il cognomen del loro stato d'animo tranquillo e amante della casa (Cicur). Cicurinus sembra essere stato il nome più antico dei Veturi, con due diverse famiglie, ambedue patrizie, chiamate rispettivamente Crassi Cicurini e Gemini Cicurini.

Lo studioso Theodor Mommsen cita la gens Veturia come una delle più antiche famiglie romane in quanto dette il proprio nome ad una delle Tribù rustiche, la Tribù Veturia, proprietaria dei territori di Ostia, Cere, Piacenza e Bergomum. D'altronde il nome Veturia viene dall'aggettivo vetus, cioè "antico", "vecchio".

Tradizionalmente la gens Veturia avrebbe avuto origine nell'area dell'Aniene, quindi vicinissima ai Sabini, e probabilmente originaria da questi. Secondo una leggenda, Mamurio Veturio, abilissimo fabbro, venne incaricato da re Numa Pompilio di realizzare undici perfette copie dello scudo sacro provenutogli dal cielo, il sacro ancile, per rendere più difficile il suo furto.

La ninfa Egeria aveva rivelato a Numa che finché l'ancile fosse rimasto a Roma, questa avrebbe sempre vinto i suoi nemici. I dodici scudi sacri (tra i quali il vero ancile) vennero poi affidati ad un collegio, istituito dallo stesso Numa, di dodici sacerdoti detti Salii. Mamurio Veturio non volle accettare alcuna ricompensa per il suo lavoro, ma chiese a Numa Pompilio l'onore di essere ricordato nel canto dei Salii, il Carmen Saliare, e così fu fatto.

Così durante i rituali i Salii invocavano questo Mamurio, ed in suo onore la festa del 14 marzo (corrispondente al capodanno dell'antico calendario romano), già chiamata Equirria, prese il nome di Mamuralia. Durante la festa Mamurio Veturio, rappresentato come un vecchio vestito di pelli impersonava l'anno ormai trascorso, che veniva cacciato dalla folla a colpi di bastone per far posto all'anno nuovo.

Sembra evidente che il nome di Mamurio Veturio, per la presenza del cognome che i romani in età arcaica ancora non avevano, sia di origine sabina. D'altronde Numa era sabino e certamente aveva favorito il bravo artigiano anche perchè famoso conterraneo. Le monete della gens Veturia non riportano alcun cognome.

Sembra inoltre che i Veturii abbiano abitato in parte la città di Praeneste (Palestrina), dove si trova una tomba del VII secolo a.c., detta Tomba Bernardini, in cui è stata rinvenuta una coppa d'argento con l'iscrizione etrusca "Votusia", forma arcaica per Voturia. I praenomina comunemente usati dai membri della gens Veturia furono: Lucio, Gaio, Publio, Tito, Spurio e Tiberio.

La gens Veturia si divise in diversi rami:


VETURI CRASSI 
  • Gaio Veturio Crasso Cicurino
  • Veturia
  • Tito Veturio Crasso Cicurino
  • Spurio Veturio Crasso Cicurino
  • Marco Veturio Crasso Cicurino
  • Gaio Veturio Crasso Cicurino
  • Lucio Veturio Crasso Cicurino

- VETURI GEMINI
  • Gaio Veturio Gemino Cicurino
  • Tito Veturio Gemino Cicurino

- VETURI CICURINI
  • Gaio Veturio Cicurino

- VETURI CALVINI
  • Tiberio Veturio Calvino

- VETURI FILONI
  • Lucio Veturio Filone
  • Lucio Veturio Filone
molti dei quali ricoprirono importanti magistrature, dal V sec. a.c. in poi.


- MAMERIO VETURIO



PERSONAGGI

Gaio Veturio Gemino Cicurino

- console nel 499 con Tito Ebuzio Helva, era il fratello del console del 494 a.c. Tito Veturio Gemino Cicurino. Il nome Vetusio citato da Livio è diventato Veturio per la regola del rotacismo latino (modificazione che trasforma un fonema in r). Con il collega Tito Ebuzio fu console nell'anno dell'assedio romano di Fidenae e la presa di Crustumerium, quando Preneste lasciò i Latini per allearsi con Roma.

I rapporti con i Latini, che aveva portato nel 501 a.c. alla nomina di Tito Larcio Flavo a dittatore, il primo nella storia romana, stavano portando a uno scontro inevitabile, per cui, in situazione di pericolo  Aulo Postumio fu eletto dittatore, e Tito Ebuzio Magister equitum, ma non abbiamo informazione da Livio sul ruolo di Gaio Veturio nella situazione.


Tito Veturio Gemino Cicurino

- console nel 494 con Aulo Verginio Tricosto Celiomontano. Sicuramente gemello di Gaio Veturio Gemino Cicurino, console nel 499 a.c., e padre di Tito Veturio Gemino Cicurino, console nel 462 a.c.
I due consoli, come narra Tito Livio, dovettero affrontare una situazione impervia; alle frontiere i Sabini, gli Equi ed i Volsci, effettuavano scorrerie in territorio romano e degli alleati latini, mentre a Roma i plebei, adirati per le promesse disattese degli editti di Publio Servilio Prisco Strutto, si ritirarono sull'Esquilino e sull'Aventino, rifiutando di andare in guerra se non fossero state accolte le richieste, soprattutto riguardo alla riduzione in schiavitù dei debitori.

I due consoli si rivolsero al Senato che ordinò la leva militare con la forza. Le pesanti reazioni indussero alla nomina di un dittatore, Manio Valerio Massimo, che riuscì a convincere i plebei con la promessa che ciò che era stato stabilio da Publio Servilio sarebbe stato mantenuto.


Tito Veturio Gemino Cicurino

- Figlio del precedente, eletto console nell'anno 462 a.c., con Lucio Lucrezio Tricipitino
Quando gli Ernici vennero a chiedere aiuto contro le razzie dei Volsci, Roma approntò due eserciti da inviare in loro aiuto, uno affidato a Veturio nel territorio dei Volsci, e uno a Lucrezio contro gli Equi.
Veturio ebbe subito la meglio. « Veturio sbaraglia e mette in fuga i nemici al primo scontro.»
(Tito Livio, Ab Urbe Condita)

Il collega intanto inflisse gravi perdite ai Volsci, poi i due eserciti uniti, sconfissero insieme Volsci ed Equi, alleatisi tra loro contro i romani. Al loro ritorno però mentre a Lucrezio fu concesso il trionfo, Veturio ottenne una semplice ovazione che lo fece soffrire non poco.


VETURIA
Veturia

- madre di Coriolano, (V sec. a.c.), che insieme alla nuora Volumnia convinse il condottiero della gens Marcia, già conquistatore dei Volsci, a deporre le armi contro Roma, dissuadendolo dalla vendetta contro la patria che lo aveva esiliato.


Gaio Veturio Cicurino

- console nel 455 a.c. con Tito Romilio Roco Vaticano, della gens Romilia, eletto assieme a Tito Romilio Roco Vaticano. Il consolato iniziò col forte dissenso tra i Consoli e i Tribuni della plebe, sulla necessità della leva militare, che i tribuni vedevano come un diversivo  per non votare la distribuzione delle terre pubbliche. 
I plebei riuscirono a giungere alla votazione, ma i Patrizi si opposero, impedendo che si formassero le tribù per le votazioni, od ostacolando gli addetti alle votazioni. Citarono perfino in giudizio i plebei più facinorosi condannandoli a pene pecuniarie, ma questi vennero rifusi dagli altri plebei. La notizia delle razzie portata dagli Equi a danno dalla città alleata di Tusculum pose momentaneamente fine alla lotta.

I Tuscolani chiesero l'aiuto dei Romani contro gli Equi, che i due consoli affrontarono e sconfissero in battaglia nei pressi del monte Algido. Romilio e Cicurino vendettero il bottino per rimpinguare le vuote casse dell'erario, ma così si inimicarono i plebei, che costituivano la gran parte dell'esercito, e che avevano sperato almeno di spartirsi quel bottino.

L'anno dopo, nel 454 a.c., convocato in giudizio dal tribuno della plebe Gaio Calvo Cicerone, con l'accusa di aver illecitamente impedito che il bottino fosse diviso tra i soldati, e riconosciuto colpevole, Cicurino dovette pagare una pesante multa di 10.000 assi di bronzo.


Tito Veturio Crasso Cicurino

- Tito Veturio (indicato da Dionigi col praenomen di Tito e da Livio di Lucio) fu scelto nel 451 a.c. come membro del gruppo dei primo decemvirato, i decemviri legibus scribundis, che stilarono le leggi delle X tavole, completate dal successivo decemvirato e diventate le XII tavole, destinate a regolare i rapporti tra il patriziato e la plebe. Alla scadenza della carica, dopo un anno, non rinnovò la sua partecipazione alla vita politica.


Spurio Veturio Crasso Cicurino

- Nel 417 a.c. fu eletto tribuno consolare con Agrippa Menenio Lanato, Gaio Servilio Axilla e Publio Lucrezio Tricipitino. Il tribuno consolare fu nominato durante il cosiddetto "conflitto degli ordini" (cioè al desiderio della plebe di raggiungere le più alte cariche governative e la parità politica) che si scatenò nella Repubblica romana nell'anno 444 a.c. e poi si riaccese dall'anno 398 al 394 a.c. e, e poi dall'anno 391 al 367 a.c. L'anno, come il successivo, fu caratterizzato da rapporti esterni tranquilli, ma interni problematici a causa della questione agraria sollevata dai tribuni della plebe.


Marco Veturio Crasso Cicurino

- Nel 399 a.c. Marco fu eletto tribuno consolare con Lucio Atilio Prisco, Marco Pomponio Rufo, Gaio Duilio Longo, Gneo Genucio Augurino e Volero Publilio Filone. Durante l'assedio contro Veio un folto gruppo di Capenati e Falisci presero di sorpresa gli assedianti, che però organizzarono prontamente una controffensiva che mise in fuga i nemici.


Gaio Veturio Crasso Cicurino

- Nel 377 a.c. fu eletto tribuno consolare con Lucio Emilio Mamercino, Lucio Quinzio Cincinnato Capitolino, Publio Valerio Potito Publicola, Servio Sulpicio Pretestato e Gaio Quinzio Cincinnato.

Quando Roma venne quell'anno minacciata dai Volsci e Latini congiunti, venne organizzata la leva e l'esercito fu diviso in tre parti, uno a difesa della città, uno della campagna romana, e il grosso contro i nemici, guidato da Lucio Emilio e Publio Valerio.

Lo scontro avvenne nei pressi di Satricum e fu favorevole ai romani, nonostante la forte resistenza dei Latini, che dai romani avevano adottato le tecniche di battaglia. I Volsci si ritirarono e trattarono la resa, consegnando la città e le campagne ai romani, ma i Latini diedero fuoco a Satrico, e attaccarono Tuscolo, perché città latina che aveva ottenuto la cittadinanza romana e pertanto nemica. I Tuscolani si ritirarono nella rocca, e chiesero aiuto ai romani che inviarono subito un esercito agli ordini di Lucio Quinzio e Servio Sulpicio, che sconfissero i Latini liberando la città alleata.

II tribunato consolare

Nel 369 a.c. Gaio fu di nuovo eletto tribuno consolare con Quinto Servilio Fidenate, Quinto Quinzio Cincinnato, Marco Cornelio Maluginense, Marco Fabio Ambusto e Aulo Cornelio Cosso. I romani assediarono di nuovo Velletri, ma senza successo. I tribuni della plebe, Gaio Licinio Calvo Stolone e Lucio Sestio Laterano, continuavano a portare proposte a favore della plebe, ed i patrizi iniziavano a perdere il controllo degli altri tribuni, tramite il quale erano riusciti a bloccare le iniziative di Licinio e Sestio.
« E nessuno poteva ritenere sufficiente il fatto che i plebei fossero ammessi come candidati nelle elezioni consolari: nessuno di essi avrebbe mai ottenuto la nomina fino a quando non fosse stato stabilito per legge che uno dei due consoli dovesse comunque essere plebeo.»
(Tito Livio, Ab Urbe condita)


Lucio Veturio Crasso Cicurino

- Nel 368 a.c. fu eletto tribuno consolare con Servio Sulpicio Pretestato, Lucio Papirio Crasso, Servio Cornelio Maluginense, Tito Quinzio Cincinnato Capitolino, Spurio Servilio Strutto. Quando i tribuni della plebe Gaio Licinio Calvo Stolone e Lucio Sestio Laterano portarono le tribù a votare sulle proprie proposte di legge a favore dei plebei, nonostante il veto espresso dagli altri tribuni della plebe, controllati dai patrizi, il Senato nominò Marco Furio Camillo dittatore per la quarta volta, allo scopo di impedire la votazione delle leggi proposte da Licinio e Sestio.

II tribunato consolare

Nel 367 a.c. Lucio fu eletto tribuno consolare con Marco Geganio Macerino, Aulo Cornelio Cosso, Marco Cornelio Maluginense, Publio Manlio Capitolino e Publio Valerio Potito Publicola. Alla notizia dell'avvicinarsi dei Galli, Marco Furio Camillo fu nominato dittatore per la quinta volta.

FORCHE CAUDINE

Tiberio Veturio Calvino

- Eletto console nel 334 a.c. con Spurio Postumio Albino Caudino. Inviati per combattere i Sidicini, non potettero battersi, per paura che i Sanniti entrassero in guerra contro Roma. Eletto di nuovo console nel 321 a.c. e di nuovo con Spurio Postumio Albino Caudino, condussero l'esercito in territorio sannita, fino all'imboscata presso Caudio, passata alla storia c come la battaglia delle Forche Caudine. I Romani vennero attirati da finti pastori verso un passo che i Sanniti avevano fortificato, e i Romani vennero obbligati a passare nudi sotto un giogo di lance per aver salva la vita.

Eletti i due nuovi consoli, Lucio Papirio Cursore e Quinto Publilio Filone, il Senato discusse delle condizioni di pace accettata dai consoli Romani, Tiberio Veturio e Spurio Postumio, alle Forche caudine. Fu il console Spurio a parlare perché le condizioni fossero rigettate, e che lui e Tiberio fossero consegnati ai Sanniti. Condotti nei pressi di Caudio per essere consegnati ai Sanniti, furono rimandati indietro liberi dal generale sannita Gaio Ponzio:

« Né io accetterò questa consegna, né i Sanniti la riterranno valida. Perché tu, Spurio Postumio, se credi che gli Dei esistano, non consideri nullo l'intero accordo, oppure non ti attieni ai patti? Al popolo sannita vanno consegnati quelli che sono stati in suo potere, o al posto loro va riconosciuta la pace. Ma perché dovrei rivolgermi a te, che ti consegni nelle mani del vincitore, mantenendo, per quel che è in tuo potere, la parola data? È al popolo romano che mi appello: se è pentito della promessa fatta alle Forche Caudine, allora deve riconsegnarci le legioni all'interno della gola dove sono state accerchiate» (Livio, Ab Urbe condita)
La figura di Tiberio Veturio Calvino non venne mai riabilitata, e la gens Veturia, a causa della sua sconfitta, non ebbe più il consolato per cento anni, e subì una forte decadenza.
Caudino Lucio Veturio Filone
- console suffetto nel 220 a.c.


Lucio Veturio Filone

- Fu nominato console suffetto nel 220 a.c. insieme a Gaio Lutazio Catulo per sostituire i consoli eletti Marco Valerio Levino e Quinto Mucio Scevola. Era passato circa un secolo dall'ignominia delle Forche gaudine e finalmente un altro membro della gens Veturia si fece distinguere per valore e saggezza, ma fu anche lui piuttosto sfortunato.

Ebbe tale seguito e stima che in seguito venne eletto dittatore per la convocazione dei comizi consolari, e alla fine dell'estate del 210 a.c. ottenne la censura insieme Publio Licinio Crasso Divite, ma morì senza aver partecipato all'elezione del senato, e non poté compiere alcun atto pubblico.


Lucio Veturio Filone

- Si distinse per il valore militare nell'assedio di Capua in qualità di legato di Appio Claudio Pulcro, per cui alcuni anni dopo, nel 210 - 209 a.c., venne eletto pretore peregrino, cioè il pretore che giudicava le controversie tra gli stranieri e tra gli stranieri e Roma.

Contribuì a fare uscire Roma da un lungo periodo di decadenza politica che durava sin dalla sconfitta di Caudio patita da Tiberio Veturio Calvino. Ottenne come legato anche la Gallia Cisalpina, e qui di nuovo si distinse per la sua abilità militare per cui gli venne prorogato il comando.
Per tutti questi meriti ottenne il consolato nel 206 a.c. con Quinto Cecilio Metello, e ancora venne nominato magister equitum del dittatore Quinto Cecilio Metello nel 206 a.c.
Da ultimo andò al seguito di Publio Cornelio Scipione Africano in Africa e da questi venne rimandato a Roma con gli ambasciatori Punici ed informò il Senato circa la situazione in Africa.

Dopo di lui la gens Veturia non ebbe più cariche e cadde nell'oblio.

MAMURALIA

Mamurio Veturio

- Fu un personaggio semi-mitico romano della gens Veturia, probabilmente di origine sabina.

Narra la tradizione che il II re di Roma, il sabino Numa Pompilio (754. – 673 a.c.ricevette dal Dio Marte l'Ancile, uno scudo sacro che discese dal cielo. Il re, come era solito fare, chiese consiglio alla sua musa ispiratrice, la ninfa Egeria, che gli spiegò la preziosità inestimabile del dono, perché costituiva il pegno dell'eterna invincibilità di Roma, uno dei cosiddetti "pignora imperii" finché fosse rimasto presso l'Urbe. 

Allora Numa per paura che potesse essere trafugato, chiamò il miglior fabbro che conoscesse, tal Mamurio Veturio, dell'antica gens Veturia, del quale si fidava e per l'abilità e per l'onestà, e gli affidò l'Ancile, affinché ne producesse undici copie identiche.

Concluso il lavoro, Mamurio consegnò i dodici gli scudi a Numa Pompilio, che li affidò in custodia ad un collegio di dodici sacerdoti scelti fra i membri delle gentes originarie, le più antiche e nobili famiglie di Roma.

Venne così istituito il prestigioso collegio dei Salii, che nei mesi di marzo e di ottobre, sacri al Dio Marte, portavano solennemente in processione i dodici scudi sacri, saltando (da cui il nome) ed intonando il Carmen Saliare, del quale ci sono pervenuti alcuni frammenti.

Numa Pompilio voleva ricompensare Mamurio per il suo ottimo lavoro, ma questi non volle essere pagato in denaro, chiedendo invece di essere ricordato dal popolo Romano, e Numa lo accontentò, disponendo che i Salii lo invocassero nel loro canto, inneggiando anche a Mamurio. Sembra che a Mamurio venne anche dato l'incarico per la sostituzione di una statua lignea di Vertumno, portata a Roma ai tempi di Romolo, con una fatta di bronzo.

Mamurio Veturio venne ricordato anche in altri modi dai Romani: in suo onore la festa del 14 marzo, detta degli Equirria e corrispondente al nostro capodanno, venne chiamata Mamuralia. In realtà il calendario romano originariamente iniziava a Marzo, per cui i Mamuralia, sicuramente festività di origine sabina, che sancivano il passaggio dal vecchio al nuovo anno. Infatti nella festa Mamurio Veturio, impersonato da un vecchio vestito di pelli rappresentava l'anno vecchio, e veniva scacciato tra grandi risate dai bambini con piccole verghe, per far posto all'anno nuovo.  

Nel più antico calendario Romano, redatto da Romolo, l'anno era di 10 mesi e cominciava proprio col mese dedicato a Marte, ma il Dio, detto anche Mavor, era associato alle attività agricole e alla primavera, per cui era collegato all'avvento del nuovo anno.
Il numero degli scudi commissionati a Mamurio corrispondono inoltre ai 12 mesi del nuovo calendario voluto da Numa Pompilio.

VIENNE (Francia)

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VIENNE IN EPOCA ROMANA

" Lo stesso incendio che devastò Pompei quasi duemila anni fa distrusse e paradossalmente preservò un'altra " piccola Pompei " che si trova ora nel sud - est della Francia . Così hanno battezzato gli archeologi che hanno scoperto l'antica enclave romana sulle rive del Rodano . La "petite Pompée" ospita i resti di case lussuose e edifici pubblici che sono ben conservati nonostante le devastazioni delle fiamme.

Ville, forum, piazze e mercati in cui i romani vivevano, fornicarono, filosofarono e commerciarono trovati in una degustazione archeologica prima della costruzione di un complesso residenziale nel sobborgo di Sainte-Colombe, sulla riva destra del fiume.

LA VENERE DI VIENNE (LOUVRE - PARIGI)
Le vestigia facevano parte della Vienna romana, la francese Vienne, una città che sotto la dominazione romana della Gallia si estendeva su entrambi i lati del Rodano. "È senza dubbio la scoperta più eccezionale di un sito romano negli ultimi 40 o 50 anni: siamo molto fortunati", ha assicurato un entusiasta Benjamin Clément , l'archeologo che dirige lo scavo del sito a circa 30 chilometri da Lione.

Clément evidenzia sia le dimensioni insolite del sito - quasi 7.000 metri quadrati - sia la diversità dei resti e il loro buono stato di conservazione. Il sito fu abitato per quasi tre secoli "prima di essere abbandonata a causa degli incendi successivi che hanno permesso di preservare la città dopo che i suoi abitanti sono fuggiti, trasformandola in una piccola Pompei viennese", ha detto Clement, aver individuato rimane risalente al primo secolo .

Le parti sopravvissute di una casa lussuosa sono sopravvissute battezzato come "la casa dei baccanti" dal suo pavimento con un mosaico che rappresenta una processione di Baccanti - seguaci di Bacco, il dio del vino - e satiri - creature mitiche metà uomo e metà capra.

Le fiamme consumavano il primo piano, il tetto e la terrazza della sontuosa villa che aveva balaustre, mattonelle di marmo, grandi giardini e un sistema idrico, ma resisteva alle parti della struttura.

"Possiamo ripristinarlo dal pavimento al soffitto come a Pompei o Ercolano", ha detto Clément, che crede che la villa appartenesse a un ricco mercante. In un'altra casa un raffinato mosaico raffigura una Talia seminuda, musa del teatro e della commedia, rapita da Pan, il lussurioso semidio pastorale.

MOSAICO GEOMETRICO CON EMBLEMATA
Un enorme edificio pubblico è stato anche situato sul sito di un vecchio mercato con una fontana monumentale ornata da una statua di Ercole. Clément crede di essere stato in grado di ospitare una scuola di filosofia. "Sappiamo che a Vienna c'era una scuola molto importante e forse l'abbiamo situata", ha detto con ottimismo.

Situata sulle rive del Rodano, la Vienne era già famosa per il suo teatro e tempio dedicato ad Augusto e Livia. La città divenne una colonia romana intorno al 47 a.c. e fiorì sotto i Cesari, come era sulla strada che da Lione, allora la capitale della Gallia, ad Arles. "Era l'autostrada A-7 dell'antichità", dice Clément, paragonandola alla moderna "autostrada del sole" che collega Lione a Marsiglia.

Gli scavi sono iniziati in aprile e dovevano essere completati in settembre, ma il Ministero della Cultura francese ha deciso di prorogarli fino a dicembre in considerazione dei risultati eccezionali. Una ventina di archeologi scaverà nelle aree più antiche del sito ed esplorerà un'area con laboratori. "Scavando di più, probabilmente scopriremo altre strutture eccezionali", dice Clément. "

Vienne è un comune nel sud - est francese, situato a 35 chilometri (22 miglia) a sud di Lione, adagiata su un gruppo di colline che si bagnano nel Rodano, anticamente un vasto insediamento celtico, dei Galli Allobroges, che venne occupato nel I secolo a.c. da Giulio Cesare e le sue legioni romane. Prima dell'arrivo dei romani, Vienne era la capitale del popolo gallico degli Allobrogi.

GENIO ALATO

Giulio Cesare dopo averla sconfitta ottenne dagli Allobrogi il giuramento di fedeltà a Roma durante tutta la guerra gallica, tanto è vero che Cesare, riconoscendone il valore in combattimento, li assoldò nel suo esercito come ausiliares (aiutanti).

Poichè Vienne restò fedele al giuramento Cesare per riconoscenza trasformò la città in colonia romana nel 47 a.c. facendone un importante centro urbano, soprattutto perchè situato lungo il Rodano che era una potente via di comunicazione. Dapprima fu un semplice castro, poi diventò un importante centro commerciale, religioso e civile.

Terminata la conquista della Gallia i Romani vi svilupparono una colonia che prosperò rapidamente per diventare uno dei importanti porti commerciali della valle del Rodano.

Attorno al II secolo d.c., la città conteneva circa 30.000 persone e si arricchì di splendidi monumenti, in particolare del teatro e del tempio imperiale.
Il resto fu oggetto di distruzione e di spolio, soprattutto per l'edificazione delle sue chiese.

Vienne fu edificata su entrambe le rive del fiume, con il nome di Iulia Augusta Florentia Vienna, e grazie ai commerci operati da Roma, per terra ma soprattutto per mare, si arricchì dando vita a superbi edifici pubblici e splendide dimore private.
A quel periodo, risale la leggenda relativa a Ponzio Pilato.

Dopo il processo a Gesù, il procuratore della Giudea, sarebbe caduto in disgrazia e secondo tradizione, avrebbe trovato rifugio proprio a Vienne, dove sarebbe poi morto e il suo corpo fu gettato nel Rodano o in un pozzo sul colle Pipet.

Si dice pure che fu a Vienne, nel 7 a.c., che Augusto bandì il re Erode Archelao, figlio di Erode il Grande, per cui si suppone che la famiglia erodiana avrebbe potuto avere lì i suoi possedimenti.
Il tutto però non ha alcuno fondamento probante, anche se si sa che dietro le tradizioni spesso qualcosa di vero c'è.




IL TEATRO ROMANO

Vicino al monte Pipet, sorge il maestoso Teatro Romano, risalente alla metà del I secolo d.c. e riemerso dagli scavi del 1922. Esso è il più grande teatro della Gallia romana, con 42 ordini di gradini e numerose gallerie con volte a botte, molto ben conservate. Ha un diametro di 130 metri e poteva contenere fino a 13.000 spettatori.

Restaurato sapientemente nel 1938, a distanza di circa 19 secoli ha felicemente ritrovato la sua funzione originaria, diventando oggi cornice ideale di rappresentazioni ed eventi artistici, come il seguito Festival del Jazz.

La sua ricostruzione, seppure molto accurata, è rimasta priva se non per pochissimi tratti del rivestimento in pietra calcarea che lo impreziosiva, nonchè di tutte le magnifiche decorazioni con cui i romani rifinivano ogni teatro, in qualsiasi parte dell'impero si trovasse.

Quando si parla di città gallico romana, la dicitura non è del tutto propria per due valide ragioni. La prima è che i galli erano allo stato tribale e, pur avendo un ottimo artigianato, non edificavano in pietra, per cui non c'era niente di gallico che potesse restare nel tempo.

La seconda ragione è che i romani rifacevano tutte le città conquistate per romanizzare il popolo donandogli luoghi di piacere come terme, circo e teatro, oltre ai templi e agli edifici pubblici. Per cui la città diventava totalmente romana, anche nelle strade, nelle edicole e nelle fontane.

SPINA DEL CIRCO

IL CIRCO ROMANO

Il circo romano di Vienne fu un'antica struttura struttura costruita agli inizi del IV secolo durante il tardo periodo tetrarchico. La tetrarchia romana, un comando a quattro, fu voluta da Diocleziano, imperatore romano dal 284 al 305. Dal 1852 è classificato come Monumento storico di Francia. L'obelisco, che oggi sorge presso la piazza della Piramide di Vienne si trovava al centro dell'antica "spina" del circo di epoca romana.

Il circo venne edificato probabilmente su una preesistente struttura del I secolo. Questa struttura fu edificata in questo periodo poiché la città era seconda, al tempo della tetrarchia di Diocleziano, solo all'importantissima Augusta Treverorum, locata sulle sponde del fiume Mosella nel territorio della tribù gallica dei Treveri della Gallia Belgica (oggi Treviri, in Germania). considerata la più grande città a nord delle Alpi.

Ma anche Vienne era molto importante, per le sue bellezze, per la ricchezza dei suoi traffici e per l'importanza del suo castro, tanto che numerosi Imperatori romani vi soggiornarono, come Costantino I (tra il 307 ed il 312), Flavio Claudio Giuliano (nel 360/361) e Valentiniano II nel 392.

POSIZIONE CHE RICOPRIVA IL CIRCO
Il Circus era posizionato nella parte sud dell'antica città di Vienna Allobrogum, non molto distante dal fiume Rodano. L'impianto misurava attorno ai 455 m di lunghezza e 118 di larghezza. L'arena interna, lo spazio centrale dell'anfiteatro, in cui si svolgevano gli spettacoli in genere cruenti, misurava invece 441 m di lunghezza e 101 di larghezza.

La distanza tra i carceres e la "spina centrale" era di 138 metri, mentre quest'ultima misurava 262 metri di lunghezza complessiva (larga invece 7,8 metri). Dalla parte finale della "spina" poi alla "curva" vi erano 41 m di distanza. La piramide egizia oggi visibile al centro della piazza (alta 15,5 metri, con base 23,35, era fatta di granito delle cave di Aswan in Egitto), si trovava una volta lungo l'antica "spina" del circo. 

La cavea, cioè l'insieme delle gradinate in cui prendevano posto gli spettatori, era invece profonda 8,5 metri circa da entrambe le parti. La capienza complessiva dell'intera struttura sembra potesse ospitare almeno una decina di migliaia di spettatori lungo le sue gradinate.

I primi scavi si ebbero nel XIX secolo, esattamente nel 1853. Scavi ulteriori vennero ripresi 1903-1907 per constatare le reali dimensioni dell'impianto. Ma poi purtroppo venne tutto risotterrato. Le sole rovine oggi visibili appartengono all'obelisco a forma di piramide noto presso la località di Vienne semplicemente come "La Piramide".

TEMPIO DI AUGUSTO E LIVIA

TEMPIO DI AUGUSTO E LIVIA

Altro capolavoro di epoca romana è il Tempio di Augusto e Livia, dedicato alla gloria dell’imperatore e della sua sposa. Risale al periodo compreso tra il 20 e il 10 a.c., quando Augusto faceva propaganda elettorale per sè e sua moglie non solo a Roma ma in tutto l'impero. Pensò che per evitare la misera fine del suo padre adottante doveva accattivarsi la simpatia del popolo e comprese che nulla poteva farlo meglio di opere d'arte che ricordassero al popolo gallico la sua benevolenza di creatura quasi divina.

Il tempio deve l’ottimo stato di conservazione, alla trasformazione in chiesa durante il Medioevo. Infatti anzichè essere stato abbattuto come tutti gli altri templi pagani, ebbe la fortuna di ospitare una chiesa sfuggendo alla devastazione di un mondo bellissimo e pieno di opere d'arte che aveva la colpa di ricordare il paganesimo.

GIARDINI DI CIBELE

I GIARDINI DI CIBELE

Le splendide vestigia romane, si ammirano oggi al Jardin archéolocique de Cybéle, una vasta area verde ed archeologica. Qui si conservano i superbi  resti delle mura e delle grandi arcate, che testimoniano l'antico splendore della città gallo-romana. La sua denominazione fa presumere che quest'area fosse, in origine, consacrata a Cibele, una divinità anatolica venerata come Grande Madre (Magna Mater, per i Romani), Dea della natura, delle belve e dei luoghi selvatici.

Ciò che conta è che il culto di questa dea, introdotto a Roma nel 204 a.c., per soccorrerla dal pericolo cartaginese, aveva anche un carattere misterico e ctonio. Infatti le sue cerimonie si svolgevano sempre in luoghi sotterranei, nascosti e poco accessibili, e secondo alcuni avevano un aspetto orgiastico. Di questo aspetto però non esistono prove, anche perchè non dimentichiamo che per la cultura cattolica ciò che è segreto e vietato riguarda sicuramente il sesso.

Ma i culti misterici occidentali non avevano niente di sessuale, dovevano solo essere capiti attraverso un'apertura mentale che donava un'illuminazione e toglieva la paura della morte. Il percorso però era riservato solo a pochi, perchè pochi avevano la forza e il coraggio per essere costanti in tutto il cammino necessario per giungere alla verità.

Le rovine archeologiche sono state portate alla luce quando il vecchio ospedale di Vienne è stato demolito. Probabilmente i giardini di Cibele sono resti di case e di un luogo di riunione del consiglio che risiedeva accanto al Foro romano con i suoi portici, decorati con bassorilievi, colonne, volute di capitelli corinzi, motivi floreali, teste di leone e di Medusa o altro.

Di certo questo era il cuore della città e il nome della Dea Cibele può designare un tempio che le era dedicato ma non un complesso così vasto che doveva essere il cuore stesso della città forse con una cinta muraria più precisa cui seguiva magari la cinta più esterna probabilmente più spessa.


Costruito sulla pista di declivio naturale rimodellata con declivi artificiali, muretti e scalinate o scalette, si possono qui identificare diversi insiemi monumentali gallo-romani, ma c'è ancora polemica su come debbano essere interpretati.

Purtroppo la spoliazione di questi luoghi è stata devastante e sicuramente molte pietre e molti travi o trabeazioni sono stati calcinati per tirarne fuori, come è accaduto abbondantemente nel suolo italico e soprattutto a Roma, la calce per le tinteggiature delle pareti.

Travi così finemente scolpiti come quello della figura sottostante avrebbero potuto rimanere al loro posto accogliendo una cultura e un contenuto diversi, oppure potevano essere smontati e rimontati per abbellire un altro edificio.

Ma la nuova religione aveva molta fretta di smontare l'antica e mentre non è troppo difficile sostituire un Dio con un altro, gli stessi Dei Galli furono assimilati a divinità romane, è invece difficilissimo abolire una miriade di divinità per rimpiazzarle con una sola. 

L'animo della gente non poteva comprendere come questo Dio unico potesse essere un Dio della caccia, della guerra, dei matrimoni, del sole e della luna, del parto e della morte, della natura, dei guardini, dei campi, degli animali e del mare.

Pertanto la Chiesa cattolica fu costretta a ricorrere ai santi per ricreare dei simil - semidei più vicini alle richieste e alle speranze degli uomini. Ma non bastava per cui per cancellare il paganesimo dalla mente degli uomini dovette cancellarne l'esistenza, con un lavoro intenso e continuo di distruzione che annientò il ricordo di ciò che la civiltà e l'arte romana erano state.

Fu solo nel Rinascimento che venne in luce l'arte romana che fa dire a Raffaello, scoprendo gli affreschi della Domus Aurea, all'epoca sotterranei, : "Ora capisco lo splendore dell'arte degli antichi romani!"


ARCATE DEL PORTICO DEL FORO

IL FORO ROMANO

Ed ecco le arcate del portico del Foro in candida pietra calcarea. Ed ecco i dettagli del portico del Foro. Le strutture appaiono imponenti, con colonne, capitelli, frontoni decorati e architravi modanati con bassorilievi stupendi.

Purtroppo ne resta poco in quanto tutto un mondo romano venne accanitamente demolito e cancellato dal nuovo cristianesimo, molto meno tollerante del vecchio paganesimo che consentiva entrassero nelle loro città i templi e gli Dei stranieri, spesso adottandone i riti.

RESTI DEL CAMPO MILITARE

IL CASTRUM

Non dimentichiamo che Vienne all'inizio dell'invasione romana divenne un castro con legionari stanziati per difendere la postazione e e per soccorrere castri più lontani. Qui sicuramente i soldati romani si addestravano tra loro e insegnavano alle nuove reclute.

Vienne ebbe un castrum molto importante si che spesso generali e pure imperatori si recavano qui per organizzare le difese militari per il vasto possedimento di quella parte dell'impero.



BATTAGLIA DEL LAGO VADIMONE

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GLI ETRUSCHI
Questa fu la più grande battaglia che i romani nel 309 a.c. combatterono contro gli etruschi affermando la loro completa egemonia sull'Etruria.

311 a.c. - Essendo scaduti i 40 anni di tregua tra romani ed etruschi, furono questi ultimi a riprendere la guerra con Roma, per riconquistare finalmente il territorio veiente e la città di Sutrium (Sutri). Tutte le città stato settentrionali partecipano alla liberazione di Sutrium, comprese Volsinii, Perugia, e Cortona tranne Arezzo (controllata dalla potente famiglia dei Cilnii di cui fece parte poi Mecenate), mentre le città stato dell'Etruria meridionale Tarquinii, Vulci e Caere si astengono.

L'errore delle città etrusche fu di non formare mai un unico esercito che muovesse in soccorso di qualunque città etrusca venisse attaccata. Se così fosse stato forse non avremmo avuto l'egemonia di Roma nel mondo antico.

A Roma fu eletto console Quinto Emilio Barbula  nel 317 e di nuovo, avendo dato prova di essere un valido generale, per la seconda volta, nel 311 a.c., insieme al collega Gaio Giunio Bubulco Bruto. Il pericolo era grave, Roma si trovava attaccata su due fronti, così mentre a Giunio toccò in sorte la spedizione contro i Sanniti, ad Emilio toccò quella contro gli Etruschi. Spesso Roma si trovò in grave pericolo con i popoli vicini che miravano o alla conquista o alla ribellione se già conquistati.

Era importante che Roma fosse considerata invincibile perchè in caso di sconfitta c'era il rischio di diverse sollevazioni dei popoli già assoggettati.

« ormai tutti i popoli dell'Etruria - fatta eccezione per gli abitanti di Arezzo - erano corsi alle armi, scatenando, con l'assedio di Sutri, città alleata dei Romani e sorta di ingresso dell'Etruria, una guerra di grosse proporzioni »
(Tito Livio, Ab Urbe condita, IX, 32.)

Lo scontro si svolse davanti alle mura di Sutri, e la battaglia fu lunga e violenta, ma come riporta Livio (ab Urbe condita), alla fine la vittoria toccò ai romani.

I ROMANI

QUINTO FABIO MASSIMO RULLIANO

310 a.c. - L'anno successivo fu la volta del console romano Quinto Fabio Massimo Rulliano, figlio di un altro eroe nazionale e dittatore Marco Fabio Ambusto, della generosa e sfortunata gens patrizia dei Fabii di Roma antica, che nel 477 nella battaglia del Cremera sarebbe stata distrutta totalmente, ad eccezione di un fanciullo, Q. Fabio Vibulano. 

Fabio massimo fu cinque volte console e un eroe delle guerre sannitiche, insomma un eroe nazionale. I romani adoravano e onoravano il coraggio di questa gens e i superstiti cercavano di essere all'altezza di tale considerazione.

A lui la storia addebitò un fatto gravissimo, quando era magister equitum del dictator Lucio Papirio Cursore , nel 324 a.c., disobbedendo agli ordini che l'obbligavano a non muoversi, ottenne una brillante vittoria contro i Sanniti a Imbrinium. Tuttavia aveva agito contro l'autorità del dittatore, che, partendo per Roma, gli aveva ordinato di non attaccare il nemico in sua assenza.

Il dittatore tornò e l'accusò, Fabio chiese la protezione dell'esercito ma non l'ottenne. La disobbedienza agli ordini era punibile con la morte, Fabio fuggì a Roma, chiedendo la protezione dal Senato. Sempre più adirato Papirio lo seguì e chiese di punire Fabio per disobbedienza agli ordini, sia al senato che davanti all'assemblea popolare, invocata dal padre di Fabio con la procedura della provocatio.

QUINTO FABIO MASSIMO RULLIANO
Suo padre, il valoroso Marco Fabio Ambusto (che era stato tre volte console e dittatore) perorò la causa del figlio con grande passione, ma il reato era gravissimo, e in passato già un paio di padri avevano fatto uccidere i propri figli per lo stesso motivo di disobbedienza.

Fabio fu costretto a gettarsi ai piedi del dittatore e chiedere il suo perdono, appoggiato dai tribuni, dal Senato e dal popolo. Papirio, avendo tutti dalla parte di Quinto, dovette accordare la grazia suo malgrado. Il popolo è sempre con Fabio, e così il senato, infatti diviene console nel 322 a.c., viene poi nominato dittatore nel 315 a.c. e sconfigge i Sanniti e ancora viene eletto console nel 310 a.c., con Gaio Marcio Rutilo Censorino. A Fabio tocca in sorte la campagna militare contro gli Etruschi, mentre a Gaio Marcio quella contro i Sanniti.

Mentre porta soccorso a Sutri, assediata dagli Etruschi, sulle pendici dei monti Cimini, Fabio si imbatte nell'esercito etrusco e lo distrugge. Le città Etrusche chiedono e ottengono una tregua trentennale. Intanto, la sconfitta in una battaglia campale contro i Sanniti, in cui era rimasto ferito il suo collega, spinge il Senato a volere la nomina a dittatore di Lucio Papirio Cursore, nemico giurato di Quinto Fabio, ma vogliono ottenere il consenso di Fabio.

« Quando gli ambasciatori arrivati al cospetto di Fabio gli ebbero comunicato la decisione del senato, descrivendola con parole all'altezza dell'incarico ricevuto, il console abbassò gli occhi a terra e si allontanò silenzioso dai delegati, che non avevano idea di che decisione avrebbe potuto prendere. Poi, nel silenzio della notte (come tradizione vuole), nominò dittatore Lucio Papirio. Quando gli inviati lo ringraziarono per aver piegato al meglio la propria disposizione d'animo, Fabio rimase ostinatamente in silenzio, e senza fornire risposta o commenti al suo gesto, licenziò gli inviati, perché fosse chiaro che grande dolore il suo animo stesse soffocando. »
(Tito Livio, Ab urbe condita libri, IX, 38.)

Questo è Quinto Massimo, che ha nel cuore tanta rabbia per le umiliazioni sofferte da Papirio che lo ha sempre odiato proprio per quanto il popolo lo amava. Ma soprattutto nel cuore aveva il benessere di Roma, che fu grande finchè ebbe uomini del genere, ma ora Fabio ha gli occhi solo per la sua battaglia, dietro di lui ha 300 antenati che chiedono di essere ricordati tramite il suo valore, e Fabio non li delude; col suo esercito valica la Selva Cimina, invade il territorio al di là dei monti Cimini e attacca gli etruschi sconfiggendoli in campo aperto.

Ora l'Etruria si sente in pericolo e ritrova la sua unità politica, decide di unire tutte le sue forze e le manda di nuovo contro Roma. Le forze romane ed etrusche si scontrano ancora una volta sotto la città di Sutri, dove i romani ottengono una schiacciante vittoria. Perugia e Cortona chiedono ed ottengono da Roma una pace separata, i restanti combattenti etruschi si ritirano.



LA BATTAGLIA

La battaglia si svolge nel 309 a.c., presso il lago di Vadimone, un laghetto di acqua sulfurea nella campagna di Bassano in Teverina, nella valle del Tevere vicino a Horta (Orte), nel territorio della città stato di Volsinii, durante la dittatura di Lucio Papirio Cursore.

Gli Etruschi invocano la lex sacrata. Tutti gli uomini abili devono arruolarsi per salvare la patria, chi viola questa lex si espone alla vendetta degli Dei, diventa sacer (maledetto) ed è passibile della pena di morte.

Questo sistema di arruolamento prevede che il comandante scelga i soldati più valorosi, obbligandoli con giuramento all'adempimento del dovere fino al sacrificio della vita. Ognuno di essi poi si sceglie un compagno di pari valore, questi un altro e così via fino a che si raggiunge il numero richiesto. Si avrà un corpo di combattenti eccezionale per valore e per abilità.

Così avrà luogo la più grande battaglia della storia mai avvenuta tra Etruschi e Romani. Qui si determina la storia dell'Etruria e di Roma, uno dei due dovrà essere distrutto. Tutti combattono per vincere o morire.

« Anche gli Etruschi, arruolato con una legge sacrata un esercito, nel quale ogni uomo si sceglieva un altro uomo, si scontrarono presso il lago di Vadimone, con uno spiegamento di forze e un accanimento mai visti in passato. »
(Tito Livio, Ab Urbe condita, IX, 39.)

IL LAGO VADIMONE

IL LAGO

Il lago è sacro per gli etruschi che vi immergono ritualmente le loro armi, sacro a Giano e forse anche Marte, che ebbe qui un suo tempio, poiché una località prossima al lago è ancora oggi chiamata Mavorrano (da Mavor, nome antico di Marte).
Ancora Livio narra che gli Etruschi celebravano qui, riti, feste e sacrifici in periodi particolari dell’anno.


LA POSIZIONE
Nel ‘500, il poeta Orfeo Marchese:
…Sopra di quelle chiare, e limpid’onde
giurar solean gli antichi soldati
lì fuord’intorno vicino alle sponde,
vi stavan quattro Tempij edificati,
ornati di colonne alte e profonde
di molti vasi nobili adornati
ove solean drendo i vasi lisci
sacrificare i populi fallisci.
Era dei quattro tempij un di Nettunno l’altro di Giove, il terzo di Marte, il quarto delle Ninfe che lì funno e già vergate di ciò son più carte…

Alla fine del ‘700 il Bussi, nella Storia di Viterbo, scrive: 
«…Vedendosi circa questo lago gli vestigi di molti antichi edifici, fra gli altri di alcuni Templi, ritrovandosi altresì quivi molte antichitate».
Come al solito saranno state depredati e distrutti.



LA VITTORIA

LO STATO DI ABBANDONO DEL SITO
La battaglia è incerta per moltissimo tempo, entrambi valorosi e determinati cadono da entrambe le parti, poi i Romani prendono il sopravvento, anche grazie all'intervento diretto nello scontro dei loro cavalieri, e infliggono ai nemici una disfatta.

"La battaglia fu così cruenta che le acque del Tevere si tinsero di rosso, per il tanto sangue versato".

« Quel giorno venne spezzata per la prima volta la potenza etrusca, in auge dai tempi antichi. Il fiore delle loro truppe venne massacrato sul campo, e con quello stesso attacco i Romani ne catturarono l'accampamento saccheggiandolo.»
(Tito Livio, Ab Urbe condita, IX, 39.)

Fabio fu nominato princeps senatus, ma anche i suoi tre trionfi, i suoi cinque consolati, il passaggio della Selva Ciminia, le vittorie di Perugia e di Sentino, mostrano che fu uno dei più eminenti uomini di guerra dell'età in cui Roma unificò l'Italia peninsulare e uno di quelli che si resero più benemeriti di tale unificazione. Ebbe una stretta amicizia col plebeo Decio Mure, anche lui di una famiglia che era pronta a sacrificare la sua vita per la patria. Di certo si sentirono simili.

TEMPIO DI MARTE ULTORE

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LA STORIA

Marte Ultore era il Marte Vendicatore, "Colui che dalla sconfitta risolleva", era il riscatto dai gravi torti subiti da un popolo, naturalmente dal popolo romano, il popolo prediletto dagli Dei. Il grande torto subito dai romani nel 44 a.c. fu l'assassinio del più grande condottiero della storia: Giulio Cesare, l'uomo di cui il mondo non si dimenticherà mai più.

« E' opera di Cesare se, dalla passata grandezza dell'Ellade e dell'Italia un ponte conduce all'edificio più magnifico della moderna storia del mondo, se l'Europa occidentale è romanza, se l'Europa germanica è classica... l'edificio di Cesare è durato oltre le migliaia d'anni che hanno cambiato religione e Stato al genere umano e che hanno mutato perfino il centro di gravità della Civiltà e continua ad esistere per quella che noi chiamiamo eternità. »
(Theodor Mommsen, La storia di Roma, V, 7.)

Ottaviano aveva promesso di erigere a Roma un tempio dedicato a Marte Ultore alla battaglia di Filippi del 42 a.c., in cui con Marco Antonio aveva sconfitto gli uccisori di Cesare.

Il grande tempio sostituiva un'edicola provvisoria nel Campidoglio.

Venne finanziato con il bottino di guerra ottenuto con le proprie vittorie, ossia su un terreno acquistato a proprie spese, alle pendici del Quirinale, a ridosso della Suburra.

Il Foro di Augusto, col tempio di Marte Ultore, venne inaugurato nel 2 a.c. Con l'edificazione del tempio si concludeva la vendetta contro gli assassini di Cesare, il più grande "imperator" di tutti i tempi.

"Così egli operò e creò, come mai nessun altro mortale prima e dopo di lui, e come operatore e creatore Cesare vive ancora, dopo tanti secoli, nel pensiero delle nazioni, il primo e veramente unico imperatore"

(Theodor Mommsen, Storia di Roma antica - Libro V .. XI)

ECCO COME APPARIVA NEL MEDIOEVO

LE DEMOLIZIONI

Il tempio fu quasi totalmente demolito, tranne le tre colonne esterne ancora in piedi e il basamento, per recuperare marmi e altri materiali da costruzione già all’epoca del regno del re ostrogoto Teoderico (493-526). Tra IX e X secolo sul basamento si insediò il primissimo nucleo del monastero di San Basilio, ingranditosi con il tempo a sua volta demolendo e ricostruendo secondo i bisogni del nuovo edificio.

La costruzione venne ceduta tra il XII e XIII secolo ai Cavalieri di San Giovanni di Gerusalemme (detti poi di Rodi, oggi di Malta), con successive altre demolizioni.

Nel 1566 il complesso fu donato da papa Pio V (1566-1572) a un gruppo di monache domenicane. Al fine di cancellare totalmente il ricordo del tempio (ricordo ancora troppo vivo tra i romani) furono costruiti un nuovo monastero e una nuova chiesa, che occupò l’intera area del Tempio di Marte e che fu dedicata alla Vergine Annunziata.

Queste strutture cristiane vennero demolite tra 1924 e 1932 per liberare i resti monumentali di epoca romana che erano resistiti in loco. Molti frammenti marmorei rinvenuti all’epoca sono visibili presso il Museo dei Fori Imperiali.

IL TEMPIO OGGI

LA DESCRIZIONE

Il tempio aveva due ingressi, uno a tre archi e uno ad arco singolo, quello che fu chiamato poi Arco "dei Pantani". Il portico settentrionale terminava nell’Aula del Colosso, un vano ricchissimo di opere d’arte, che doveva ospitare la statua colossale dedicata al Genio di Augusto, i cui giganteschi resti sono oggi presso le Terme di Diocleziano. Dopo la morte di Augusto furono aggiunti ai piedi delle scalinate due archi monumentali, dedicati a Germanico e a Druso Minore.

L'edificio si innalzava su un podio di 3,5 m., con una superficie di 40 m x 30, quindi di ben 1200 mq, costituito da fondazioni in opera cementizia e in blocchi di tufo, a sostenere i muri, e in tufo e travertino, a sostenere i colonnati che avevano naturalmente un peso maggiore; le fondazioni erano rivestite interamente da blocchi di marmo.


Il podio dunque sorreggeva, oltre alla cella, otto colonne corinzie in facciata e altrettante su ogni fianco, pertanto 22 colonne, terminando sul muro di fondo con una lesena. Di queste colonne corinzie in marmo di Luni ne rimangono alzate solo tre del lato destro del Tempio, insieme ad un pilastro, a parte dell'architrave e a parte del muro della cella.

Si accedeva al tempio con una scalinata frontale di 17 gradini in marmo, con al centro un altare ornato da bassorilievi.

Su questo altare celebravano i sacrifici i governatori per propiziarsi gli Dei prima di partire per le province, mentre due fontane a vasca ne decoravano le estremità.
Sulla fronte aveva otto gigantesche colonne corinzie e altre otto su ciascuno dei fianchi.


I colonnati e le pareti esterne della cella erano realizzati in prezioso marmo lunense.

PIEDE DELLA VITTORIA ALATA
DEL TEMPIO
Augusto fece inoltre deporre davanti al tempio due cariatidi in bronzo provenienti dalla tenda di Alessandro Magno.
L'ordine architettonico del tempio ha rappresentato un modello per l'evoluzione della decorazione architettonica romana.

La cella aveva sulle pareti interne due ordini di colonne staccate dalla parete, cui corrispondevano sulla parete altrettante lesene. Le colonne erano sormontate da elaborati capitelli corinzi in marmo, decorati da pegasi alati.

Inoltre aveva un'abside sul fondo, curvata mediante un'intercapedine, con un podio per le statue di culto, e una breve scalinata rivestita da lastre di alabastro.

Le statue erano di Marte e Venere, ritenuti i progenitori dei Romani e della Gens Iulia, la famiglia di Cesare e di Ottaviano Augusto. Altre statue erano collocate nelle nicchie sulle pareti, incorniciate tra le colonne. Sopra il frontone erano collocati gli acroteri dorati di Nike (Vittorie alate).

IL PREGEVOLE COLONNATO
Il gruppo statuario trasmetteva un messaggio di legittimazione del potere imperiale assunto dalla Gens Iulia (a partire da Augusto), che, secondo la leggenda, discendeva da Iulo Ascanio, figlio di Enea, a sua volta figlio di Venere. Da Iulo Ascanio discendeva anche Rea Silvia, che concepì Romolo con il Dio Marte.

Nel Foro è stato ritrovato davanti al Tempio, durante gli scavi degli anni '30 del Novecento un piede destro in bronzo appartenuto ad una statua femminile (una Vittoria), nell'atto di spiccare il volo.

Probabilmente l'immagine bronzea della Vittoria era inserita nel gruppo della quadriga trionfale del centro della piazza e con tutta probabilità apparteneva ad uno degli acroteri del Tempio, come usava all'epoca, sulla sommità del frontone.

Augusto fece inoltre deporre davanti al tempio due cariatidi in bronzo provenienti dalla tenda di Alessandro Magno.



IL FRONTONE

La decorazione frontonale del tempio, andata distrutta dall'iconoclastia perpetrata attraverso i secoli, è peraltro nota attraverso un rilievo di età claudia, l’Ara Pietatis Augustae, mentre il gruppo statuario della cella è stato ricostruito sulla base di un altro rilievo, raffigurante appunto Marte, Venere e il Divo Giulio, rinvenuto a Cartagine e conservato nel museo di Algeri.

Abbondanti fonti epigrafiche e letterarie, tra cui la biografia dell’imperatore Augusto (Res Gestae Divi Augusti) hanno fornito ulteriori preziosi dati, utili alla ricostruzione del monumento.

Esistono infine alcuni disegni di artisti rinascimentali, come il Palladio, il Sangallo e il Peruzzi, che riproducono particolari architettonici del tempio. Della pavimentazione e dei capitelli esistono i resti archeologici ancora in sito.

Il frontone era ornato da una scena sacra: al centro Marte poggiato ad una lancia, alla sua destra Venere e poi Eros, seguiti da Romolo in atto di prendere gli auspici, alla sua sinistra la Dea Fortuna con la cornucopia, seguita dalla Dea Roma tutta armata. Alle estremità erano le personificazioni del Palatino e del Tevere. Dietro il basamento era il penetrale, nel quale erano conservate le insegne legionarie sottratte a Crasso e ad Antonio dai Parti e restituite ad Augusto.

INGRESSO A TRE FORNICI SUL LATO DEL TEMPIO

IL SIGNIFICATO

Questo tempio, secondo la volontà di Augusto, ebbe un ruolo estremamente importante nella vita pubblica, tanto è vero che vi veniva conservata come una reliquia la spada di Cesare. Il senso era che l'assassinio di Cesare era stato un atto criminosamente iniquo per tutti i romani, che gli Dei avevano esecrato questo atto e avevano appoggiato la guerra di Ottaviano contro Bruto e Crasso per vendicare Cesare e ristabilire la giustizia a Roma.

Affinchè poi i membri della famiglia imperiale non dimenticassero chi era stato Cesare, in questo stesso tempio essi ricevevano la toga virile, cerimonia che segnava il passaggio dall'infanzia all'età adulta, intorno ai 17 anni, perchè Cesare rimaneva per tutti il più grande esempio di romano, guerriero, giusto e perfetto.


Inoltre i magistrati inviati nelle province venivano qui investiti del comando, l'imperium, e al loro ritorno vi riportavano i trofei delle vittorie conseguite. Marte era del resto il padre di tutti i romani, ma in particolar modo dei soldati romani. Romolo e Remo erano figli di Marte e di Rea Silvia, e tutti i legionari sacrificavano a Marte sia i nemici uccisi sia le vittime animali al ritorno in patria.

Marte pertanto significava la forza per combattere e  conseguire la vittoria, ma se questo aveva un impedimento il Dio tornava sui suoi passi a guidare l'indomito spirito romano per combattere e vendicare le offese fatte a Roma. Del resto l'offesa a Cesare era stata offesa agli Dei che ben altro si aspettavano da parte di Cesare, l'uomo del destino, colui che aveva spezzato ogni regola e ogni indugio per ottemperare al suo grande destino:

"Andiamo là, dove i prodigi del cielo e l'ira dei miei nemici mi chiamano: il dado è tratto"
(Cesare)

CESONIO BASSO - CAESONIUS BASSUS

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Nome: Caesonius Bassus
Nascita: -
Morte: -
Professione: Politico


Cursus honorum di Lucio Cesonio Ovinio Manlio Rufiniano Basso (dagli “Atti del IV Congresso Internazionale di Epigrafia Greca e Latina”, Vienna 1964). AE 1964, 223 (EDCS-ID: EDCS-11500627)

L. CAESONIO OVINIO MANLIO RUFINIANO BASSO
C(larissimo) V(iro), COS. II, PONTIF(ici) MAIORI,
PONTIF(ici) DEI SOLISSALIO PALATINO, PRAEFECTO URBIS,
COMITI AUGG(ustorum), IUDICI SACRARUM COGNITIONUM 
VICE CAESARIS SINE APPELLATIONEM (sic) COGNOSCENDI 
INTER (sic) FISCUM ET PRIVATIS, ITEM INTER (sic) PRIVATOS
ROMA ET IN PROVINC(ia) (sic) AFRICA,
ELECTO A DIVO PROBO AD PRAE[side]NDUM IUD(icio) MAG(no),
(sic) PROCOS. PROVINC AFRIC(ae) TERTIUM,
CURAT(ori) COL(oniae) CARTHAG(iniensium),
LEG. PROVINC. AFRIC(ae) CARTHAG(iniensis),
CURAT(ori) (sic) ALBEI TIBERII(s) ET CLUACARUM (sic) SAC(rae) URB(is),
CURAT(ori) R(ei) P(ublicae)  VENEVENT(anorum), (sic) PRAET(ori) CAND(idato),
QUAEST(ori) CAND(idato), SEVIRO TURMAE DEDUCENDAE,
TRIUNVIRO KAPITALI, PATRONO PRAESTANTISSIMO,
CAESONIUS ACHILLEUS LIB[ert]US POS(uit).

EPIGRAFE DI SAN PIETRO
La straordinaria carriera di Rufiniano Basso è nota attraverso delle iscrizioni, come quella di cui sopra ritrovata ad Aversa, ma proveniente da Atella, nella corte del convento dei monaci Benedettini, attaccato alla chiesa di San Biagio. CIL X, 1687 (ritrovata a Pozzuoli) e AE1945, 21 (ritrovata a Roma, sotto la basilica di San Pietro). L'Année épigraphique (abbreviata in AE di cui sopra) pubblica sistematicamente tutte le iscrizioni scoperte ogni anno riguardanti il mondo romano, in latino o in greco, nonché tutte le nuove edizioni di testi già conosciuti.


L(ucio) CAESONIO L(uci) F(ilio) QUIRINA
OVINIO RUFINO MANLIO
BASSO CLARISSIMO VIRO
SALIO PALATINO PONTIFICI
MAIORI PRAETORI
QUAESTORI L(ucius) / 
CAESONIUS HEDYLUS
PROC(urator) PATRIS


BASE STATUA CON DEDICA A CESONIO
Nel cortile della Biblioteca civica di Latina, di fronte al cancello che dà sulla strada, si trova una base di statua in marmo bianco notevolmente danneggiata, con la faccia anteriore iscritta. 

Nell'attuale stato di conservazione, le sue misure sono cm 103 cm in altezza e cm 46,5 di larghezza.  

Sul pano superiore è ancora evidente uno degli incassi per un piede della statua bronzea, l’incasso per il piede sinistro (lungo cm 32) che si presenta leggermente rivolto a sinistra, in posizione avanzata rispetto al destro di cui non resta traccia e mostra un'epigrafe di 4 righe leggibili o quasi, in realtà di sette righe totali. 

Una parte è andata perduta con gli angoli superiore ed inferiore sinistro, parte per delle scheggiature, soprattutto la parte destra del campo iscritto al di sotto della quinta riga. 

Una scheggiatura particolarmente grave verso la fine della settima riga ha causato la perdita totale di circa otto lettere. 

IL TESTO: 

LU(cio Caeonio LC/fi} LIO
(Ovinio Manlio Basso, 
clarissimo) V(iro), 
CURATORI ALBEI(sta per alvei)
TIBERIS ET BENEBENTANORUM(sta per beneventanorum)
PONTIFICI MAIORI  
QUESTOR KANDIDATO. 
TRIUNVIRO PR(...)ONES (provisiones? approvvigionamenti)
TRACTO PICENO 
CURATOR LAVINIENSIUM 
LEGATO CARTAGINENSIUM, 
CURATORI EIUSDEM DIOCESIS CARTAGINENSIUM, 
DOMINO PATRONO PRAESTANTISSIMO
(..)ACTYS LIBERTUS 
ACTOR CUM SUIS 


Il cursus honorum, che ci è stato trasmesso da un’epigrafe recentemente scoperta ad Aversa ed ora conservata nel Museo Nazionale di Napoli, si riporta un personaggio che fu figlio di Lucio Cesonio Lucillo Macro Rufiniano e nipote di Caio Cesonio Macro Rufiniano, nonchè padre di Cesonio Basso, console nel 317, nonchè praefectus urbi e proconsole d'Africa. Insomma una famiglia di tutto rispetto.

Il cursus è interessante per il gran numero di cariche che elenca (non se ne trova un altro ugualmente lungo relativo allo stesso periodo, cioè alla seconda metà del III sec.); inoltre esso è venuto a completare il quadro delle fortune di una famiglia senatoria attraverso tre generazioni, e lungo un arco di tempo che abbraccia tutto il III secolo.

Sebbene l’epigrafe non sia di carattere sepolcrale, ma si tratti di una dedica, è difficile ritenere che Cesonio Basso abbia rivestito ancora qualche altra carica dopo quelle che qui furono elencate (in ordine inverso) a cura del suo liberto Caesonius Achilleus (notare la mancanza del praenomen), e pertanto questo cursus possiamo considerarlo completo.

Non mancano esempi di cursus in cui alcune cariche appaiono omesse, anche per maggiore brevità, ma non pare che Achilleo abbia avuta una preoccupazione del genere nel redigere questa dedica al suo generosissimo  patrono, "patronus praestantissimus".



LE CARICHE PUBBLICHE CIVILI

Cesonio Ovino, essendo aristocratico, dovette giungere abbastanza presto al consolato, probabilmente intorno al 265, e pertanto si può ritenere che cominciò a risalire per i vari gradini degli honores non prima della metà del secolo (a. 250), quando appunto rivestì le varie cariche di:

- "triumvir capitalis" - triunviro di un collegio che aveva responsabilità in relazione alle pene capitali.

- "sevir turmae deducendae" -  titolo equivalente a quello di "sevir equitum Romanorum", un ufficio onorifico nell’organizzazione dell’ordine equestre ("equitum romanorum"), comandante di uno dei sei squadroni (turmae) degli equites  inoltre organizzatore dei Ludi. Era la carica necessaria a chi ambisse alle due successive, cioè questore e pretore.

- "quaestuor" - questore, magistrato minore, all'inizio con giurisdizione criminale, in seguito competenze amministrative sul tesoro e le finanze.

- "praetor" - pretore, magistrato dotato di imperium e iurisdictio. Disponeva dell'actio, con cui si permetteva ad un cittadino romano che chiedeva tutela, nel caso in cui non ci fosse una lex che prevedesse la tutela, di agire in giudizio dinanzi al magistrato.
Le due ultime magistrature le ottenne come candidatus dell’imperatore, avendo il privilegio della "commendatio principis", cioè un raccomandato dell’imperatore, cosa che, oltre ad assicurare la nomina, costituiva una distinzione nei cursus honorum. Non era facile entrare nelle grazie dell'imperatore ma Cesonio aveva una vivissima intelligenza e i modi giusti.

- "curator rei publicae Veneventanorum" - (osservare lo scambio b-v; Veneventum pe Beneventum, come poco  albei per alvei), cioè successivamente Cesonio Basso ebbe l’incarico di controllare le finanze comunali di Benevento.

- "curator albei Tiberis et riparum et cloacarum sacrae urbis" - successivamente ottenne l'incarico di responsabile del letto del Tevere, delle sue rive contro possibili esondazioni e delle fognature della città. Si trattava senza dubbio di una carica di rango consolare, è da ritenere che il nostro personaggio abbia raggiunto il primo consolato (come suffectus) dopo l’ufficio di "curator rei publicae" a Benevento e prima di quella di "curator albei Tiberis et cluacarum sacrae urbis".
L’urbs è detta sacra secondo l'attuale teocrazia imperiale: come è sacra la maestà dell’imperatore, così è sacra la città in cui egli ha sede, e sono sacrae pure le cognitiones vice Caesaris.

- "legatus provinciae Africae Carthaginiensis" - legato del proconsole d’Africa con giurisdizione nella diocesi, o distretto, di Cartagine. Probabilmente a questo punto il cursus honorum non segue più l’ordine cronologico, per  l’intento di raggruppare insieme tutte le cariche rivestite in Africa, perché la carica di "legatus provinciae Africae Carthaginiensis" sarebbe stata ottenuta non dopo il consolato, ma dopo la pretura.
QUESTORE ROMANO
Dopo aver assolto la legazione del proconsole d’Africa e, successivamente, l’ufficio di controllore della finanza locale a Cartagine furono inviati coloni sia da Cesare sia da Augusto, e pertanto essa si chiamò "Colonia Iulia Carthago".

- "proconsul provinciae Africae" - Cesonio Basso ottenne poi il proconsolato della provincia di Africa, che di solito durava un anno, ma qui fu prolungata per tre anni consecutivi (PROCOS. PROVINC. AFRICAE TERTIUM).

- "Divo Probo ad praesidendum iudicio magno" - Tornato dal governo dell’Africa, Cesonio ottenne altri incarichi nell’amministrazione della giustizia, dopo essere stato eletto a "DIVO PROBO AD PRE[side]NDUM IUD(icio) MAG(no)".
L’imperatore Probo, che al momento in cui fu posta la dedica era già morto (divus), regnò dal 276 al 282, e quindi fu in questi anni che Cesonio Basso ebbe l’incarico di presiedere in iudicium magnum, cioè ad un tribunale di superiore istanza, probabilmente giudizi d’appello in materia civile.

- "sacrae cognitiones vice Caesaris" - Gli venne infatti affidata (pare ancora da Probo) la potestà di decidere mediante l’emanazione di sentenze inappellabili le cause di materia fiscale, sia tra il fisco e i privati, sia tra privati, con una competenza territoriale che comprendeva Roma e la provincia d’Africa. Questi poteri giuduziari venivano delegati dall’imperatore, per questo dette "sacrae cognitiones vice Caesaris".

- "comes Augustorum duorum" - Cesonio venne nominato facente parte del seguito imperiale, (generalmente in occasione di una spedizione militare), ma dopo la morte di Probo, quando l’impero venne governato da due correggenti: Caro e Carino, nel 283, o Carino e Numeriano, nel 283 – 284.

-"praefectus urbanus" - Subito dopo ottenne la carica di prefetto urbano, la più importante fra quelle che un senatore potesse rivestire in Roma, alla quale per maggiore distinzione l’imperatore faceva seguire quella di prefetto (che già doveva essere stato console) e di un secondo consolato.

- Consul II - Infatti Cesonio divenne consul II verso il 286 (e ancora una volta suffectus, anche se per vecchia consuetudine, si raggiungeva il II consolato come consul ordinarius).



LE CARICHE PUBBLICHE SACERDOTALI

All’inizio del cursus honorum, subito dopo la menzione del consolato, sono raggruppate insieme tutte le cariche sacerdotali di Cesonio Basso. Nell'ordine fece parte:

- " pontificex maior" - del collegio dei pontifices, che da un certo momento si dissero, come qui, pontifices maiores. Ma un’altra dedica posta a Cesonio molti anni prima, quando non era ancora stato console, era stato già eletto salius Palatinus e pontifex maior. Probabilmente i pontefici continuavano a dirsi pontifices maiores per distinguersi dai pontefices minores, appartenenti all’ordine equestre.

-"Pontifex Dei Solis" - del collegio dei
DEO SOLIS
 suddetti pontifices Dei Solis.

- "Salio Palatino" - del collegio dei salii Palitini, l’antichissimo sacerdozio cui spettava (con quello dei salii Collini) la celebrazione degli arcaici riti in onore del Dio Marte, una delle primissime divinità protettrici di Roma.
L’accesso a questi due sacerdozi rimase sempre riservato ai soli membri delle famiglie patrizie, e tale era Cesonio Basso perché a suo tempo il padre Cesonio Lucillo, che era di famiglia plebea, era stato “electus in familiam patriciam” (CIL XIV 3902 = ILS 1186) cioè trasfetito nel patriziato per concessione dell’imperatore.

Curiosamente nella sua lunga carriera Cesonio Basso, a differenza del padre e dell’avo, non esercitò mai un comando militare, né come comandante di legione né come governatore di province ove fossero stanziate guarnigioni militari, forse per il provvedimento con cui Gallieno (253 – 268) escluse i senatori dai comandi militari. Fu un vero peccato, perchè con la sua acutezza, tenacia e capacità di mediare e pure di organizzare in qualsiasi campo, sicuramente sarebbe diventato un grande generale.


PONTE LUPO

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PONTE LUPO
Ponte Lupo è per molti autori il più famoso ed interessante ponte degli Acquedotti romani; é alto più di 30 metri e lungo oltre 100 m. e giusto sulla sua sommità, correva una strada che congiungeva le due alture che lo delimitano.
Il ponte romano portava l'acqua marcia dalla Valle dell'Aniene a Roma (l'acquedotto marcio prese il nome dal suo costruttore il pretore Quinto Marcio Re, 144 a.c.)

Il Ponte Lupo è situato nella tenuta "San Giovanni in Campo Orazio", dove secondo la leggenda e secondo diversi autori, si svolse la battaglia tra gli Orazi e i Curiazi, ma oggi si presenta molto rovinato essendo la sua area deturpata da varie cause:
- cementificazione selvaggia e abusiva,
- discariche
- prostituzione.

Chi vuol salire, facendo attenzione essendo il tratto scivolo ed esposto, fin su detta sommità per ammirare la sottostante vallata, può utilizzare il piccolo sentiero che si inerpica ripidamente.

Così lo descrive A. NIBBY nel suo libro "I dintorni di Roma:

"E' in questo punto che i tre acquedotti, della Marcia, Claudia, ed Aniene nuovo traversavano la
ultima falda degli appennini, quindi fu d' uopo costruire nelle valli ponti magnifici. o stupende
arcuazioni, delle quali rimangono ancora avanzi , che tanto più sorprendono, quanto meno son
noti. E nella vallata di s. Antonio un poco di sotto al ponte dl questo nome veggonsi ancora le
tracce del ponte, sul quale passava la Marcia: come nell'alto vallone della Mola si ammira ancora
l'arenazione di 20 fornici, pel tratto di 750 piedi, costrutta di tegole e mattoni, e che chiamansi gli
Archi della Mola. 


Quello della Claudia, e dell' Aniene Nuova, essendo di livello molto più alto, fu d'uopo costruire ponti ancora più alti: le due acque sovrannotate passavano sopra quello di s. Antonio, ponte che ha sette archi, e 120 piedi di altezza verticale; e dopo quel punto, dividendosi, la Claudia traversava il vallone meridionale sopra il ponte s. Pietro, dirigendosi di là al ponte Lupo.


L'Anienc volgendosi verso oriente traversava il vallone pel ponte denominato le Forme Rotte, sotto il villaggio diruto di Castel s. Angelo, e di là da esso, sotto lo stesso villaggio, ed in vista di Villa Catena, traversava una altra valle profonda, che perciò dicesi dell'inferno, onde i l ponte, e Parcuazolone ha lo stesso nome: e poscia andava a congiungersi coll' acquedotto della Claudia al ponte Lupo ricordato di sopra. "




AAA ACQUEDOTTO ROMANO VENDESI A 1€, PONTE LUPO MESSO IN VENDITA DAL PRINCIPE BARBERINI 

Il Principe Urbano Barberini fa la sua boutade ai microfoni di Adnkronos ed al Messaggero «Vendo ponte romano del 144 a.c. a 1 euro» e subito parte lo scandalo, cosa ci fa un ponte romano del 147 a.c. nelle mani di un principe? Ma lo può vendere a chi vuole? E poi perché vuole i soldi dallo Stato se il ponte è suo?



IL FUNZIONARIO DOTT. STEFANO MUSCO 

Il funzionario dell’XIII Municipio della Soprintendenza Speciale per i Beni archeologici di Roma, il Dott. Stefano Musco subito commenta 
«Sono grato a Urbano Barberini per la dichiarazione che ha reso alla stampa. Lo conosco e posso dire che è realmente preoccupato per lo stato in cui versa i ponte». 

La proprietà di San Giovanni in Campo Orazio è una tenuta agricola situata nei pressi della Prenestina e tagliata a metà dalla Via Polense, che appartiene alla famiglia Barberini dal 1600 circa, all’interno della quale si trova Ponte Lupo, portato alle luci della ribalta dalle dichiarazioni al vetriolo del Principe. 

Ponte Lupo è un acquedotto romano costruito nel 147 a.c. che portava acqua potabile da Subiaco a Roma, voluto dal console Marcio e collegato al vicino Ponte delle Forme Rotte per tenere l’acqua in quota ed evitare che questa giungesse nella città di Roma con forza eccessiva.

Il ponte-acquedotto è alto 30 metri e largo 80, scavalca la vallata chiamata Fosso delle Acque Rosse o Valle dei Morti, così battezzata nel XIX secolo per l’abbondanza di reperti umani ed archeologici allora rinvenuti. Oggi il ponte versa in condizioni di estremo degrado ed abbandono, il funzionario dichiara che è quasi interamente ricoperto dalla vegetazione.

«I monumenti del suburbio di Roma sono un pò i “fratellini” di quelli della capitale, cui viene data maggior importanza essendo più rappresentativi per la città. Ma non per questo devono essere destinati all’abbandono, intendiamoci. Le potrei fare un elenco lunghissimo di altrettanti monumenti e siti che versano in stato di abbandono. Da una nostra prima stima servirebbero dai 3 ai 5 milioni di euro per il restauro del ponte, ma non siamo in grado di dirlo con certezza» spiega il Dott. Musco, «perché dobbiamo effettuare un sopralluogo con un’intera squadra di esperti che comprendono più figure, dal geologo all’archeologo all’esperto di botanica perché occorre valutare anche quali sono le piante da estirpare e quali invece le essenze da lasciare perché rendono l’architettura ancor più affascinante, senza recar danno chiaramente alla struttura. I soldi per le indagini ci sono, quelli li abbiamo trovati».

La legge vuole che il Principe Barberini sia responsabile della conservazione e del restauro del ponte e che le spese siano interamente a suo carico. Non solo, trattandosi di un bene appartenente al patrimonio culturale italiano, egli è tenuto per legge a farlo visitare ai privati cittadini che ne fanno richiesta almeno un giorno al mese, ci sottolinea il Dott. Musco, benché nemmeno noi della redazione di House siamo riusciti a trovare un recapito telefonico pubblico per prenotare una visita.


Il funzionario Dott. Musco fa notare quanto sia difficile raggiungere il ponte: «Serve una guida esperta» perché non esiste una strada asfaltata che conduca all’acquedotto. Inoltre la zona, a 30 km dalla città ma ancora all’interno del Comune di Roma, quasi sul confine con Gallicano, è malservita dai mezzi pubblici tanto che ci si può arrivare comodamente solo in macchina.

Lo Stato può intervenire nel restauro sostituendosi completamente al legittimo proprietario se questi non è in grado o non vuole provvedere. A quel punto lo Stato potrebbe disporre completamente del bene per renderlo accessibile al grande pubblico.

Il funzionario della Soprintendenza Speciale è molto chiaro anche in relazione all’alienazione del bene. «Quando si decide di vendere un bene di pubblico interesse, all’atto del compromesso il notaio stesso procede per legge ad informare la Soprintendenza, la quale verifica la congruità del prezzo e dichiara o meno l’interesse da parte dello Stato all’acquisto del bene al prezzo dichiarato nell’atto. In caso d’interesse, lo Stato ha sempre diritto di prelazione

- E se il principe si accordasse per Ponte Lupo, che so… con Sarkozy a 2 euro? -
«Lo Stato potrebbe decidere di acquistarlo sempre a quel prezzo, se ritenesse il bene interessante, dopodiché prenderebbe accordi con la proprietà per l’occupazione temporanea del suolo per lo svolgimento dei lavori di restauro. Pagando.», e stabilire ulteriori concessioni per la fruizione del pubblico tramite servitù di passaggio o ulteriori occupazioni temporanee che possono durare mesi o anni.





IL PRINCIPE URBANO SFORZA BARBERINI 

Abbiamo raccolto la testimonianza del principe Urbano Sforza Barberini «La mia è una provocazione, venuta fuori per la disperazione di vedere un bene di straordinaria importanza e bellezza completamente degradato e nell’impossibilità di tutelarlo. Il mio è un moto di disperazione». 

«Dopo la lettera del 2007, si sono fermati.» il principe parla della lettera ricevuta dal Mibac che annunciava i sopralluoghi per le indagini sullo stato di conservazione del bene e che la Soprintendenza dichiara di essere economicamente in grado di effettuare. «Per Ponte Lupo ho riscontrato una grande attenzione da parte del British Institute of Culture, dei Francesi… da poco ho accompagnato di persona dei giovani archeologi australiani… Invece lo Stato italiano non investe, anzi, taglia senza capire che per ogni euro investito nei beni culturali, ne entrano altri 3, addirittura 10 nell’indotto! Le faccio un esempio, noi abitiamo vicino a Villa Adriana che è un luogo strepitoso, dove spesso però vediamo fuggire i turisti perché non sanno dove andare, a chi chiedere… perché non ci sono collegamenti, infrastrutture e servizi… Quel che dico io è fermiamoci, tuteliamo quello che è il nostro patrimonio che stiamo distruggendo con condoni edilizi, abusivismo, spazzatura… La mia è una provocazione, cos’altro posso fare?»

- Pagare lei la ristrutturazione? -
(ride con amarezza) «Questo ponte è tutelato dalla Soprintendenza perché è un monumento storico nazionale. Se io avessi 10 milioni di euro per restaurarlo lo avrei già fatto, prendendomene il merito… Non abbiamo i fondi per tutelare un bene di questa importanza (ricordiamo che Ponte Lupo è alto 30 metri e largo 80). Abbiamo ripreso in mano la proprietà nel 2003, da allora ci siamo occupati di ripulirla dalla spazzatura e dalla prostituzione dilagante sulla via Polense. Lei pensi che è dai tempi di Diocleziano (Salona, 22 dicembre 244 – Spalato, 3 dicembre 311) che Ponte Lupo non è stato mai restaurato, e questo fa del ponte uno straordinario manifesto delle capacità architettoniche ed ingegneristiche dei Romani, dato che non è mai crollato dopo oltre 1800 anni senza manutenzione. E’ un vero tesoro!«



PLASTICO DEL PONTE
Ponte Lupo è accessibile a piedi dal km 30 della strada Polense, sulla destra in direzione sud. Nonostante sia all’interno di una proprietà privata il cancello pedonale è aperto, quello automobilistico è invece chiuso, occorre contrattare la proprietà per concordare l’accesso. Di quando in quando i Barberini installano cartelli per la corretta localizzazione del ponte, per indicare i numeri di telefono per le visite e per segnalare la presenza della zona archeologica ed anche il pericolo, perché nella loro proprietà San Giovanni in Campo Orazio sono presenti numerosi pozzi costruiti dagli stessi romani, ma i cartelli vengono puntualmente divelti o vandalizzati.

«La strada di accesso a Ponte Lupo è stata messa a dura prova dalle intemperie. Io stesso di quando in quando vado a piedi oppure con un 4×4, perché è molto dissestata. È ricavata nel tufo, per cui richiederebbe anch’essa grandi investimenti».

- Cosa ha fatto in questi anni per la manutenzione della proprietà? -
«Abbiamo messo delle recinzioni e ripulito le discariche lungo la strada, effetto della prostituzione molto diffusa in via Polense. Le discariche erano dovute alla presenza stessa di queste povere ragazze che bevono, mangiano, portano materassi, vestiti… ma noi passavamo le estati, le domeniche nel tentativo di ripulire le piazzole, i boschi, i fiumi! Nella periferia di Roma ci sentiamo un pò nel “far west”…
Al momento però sconsiglio l’accesso al turista, perché la zona è ricca di pozzi d’ispezione profondi circa 15 m. Di solito ospitiamo associazioni culturali che arrivano con archeologi, esperti e guide in grado di orientarsi e muoversi con circospezione, e poi sono assicurati.
» 


La disponibilità di Urbano è manifesta «Se lo Stato decidesse di fare un investimento, io sono favorevole a rendere Ponte Lupo pubblico e visitabile. Sarebbe bello vedere le persone visitare il ponte a piedi, in bici o a cavallo. Il senso dell’appello è proprio questo. È chiaro che se si richiedesse alla proprietà la manutenzione, la pulizia, la potatura eccetera… è anche giusto riconoscerlo economicamente. Lo spirito della provocazione è di dire “Abbiamo un bene pubblico, tuteliamolo”!»

- Se domani lei venisse preso in parola e si presentasse un acquirente straniero, cosa farebbe? -
«A volte ci si rende conto che altri paesi che hanno meno, fanno più tesoro di ciò che hanno. Il senso è questo e non vuole andare oltre questo. Se cade la Domus Aurea o Ponte Lupo, il fatto è irrimediabile. Sono tesori preziosissimi, unici. Lo Stato si deve render conto che i Beni Culturali sono la cosa più preziosa che ha e Ponte Lupo è il più importante degli acquedotti romani. Inoltre tutta la periferia di Roma è una risorsa, l’Agro Romano è strepitoso è deve essere valorizzato.»


Per visitare Ponte Lupo anche noi di House living and business vi sconsigliamo di avventurarvi da soli e senza preavviso nella proprietà del Principe Barberini, ma contattatelo direttamente a questo indirizzo di posta elettronica: pontelupo@gmail.com

Pubblicato da Daniela Paola Aglione 


DOMUS DI GIULIO POLIBIO (Pompei)

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PERISTILIO DOMUS POLIBII
La casa di Caio Giulio Polibio è una delle più antiche dimore pompeiane del II sec. a.c., anche se l'impianto originario della casa risale alla fine del III secolo a.c. quindi del periodo sannitico di Pompei,  ed è una domus del tipo a doppio atrio, uno coperto e l'altro scoperto con compluvio ed impluvio ma privo di colonne.

ORIGINALE E RICOSTRUZIONE IN CG
L'atrio, la prima stanza che si incontra passando per le "Fauces" ha le pareti decorate nel primo stile e presenta una singolare "falsa porta" dipinta. Ciò rientrava nell'uso egizio ma pure nell'uso etrusco,  comunque la porta dipinta aveva in genere un riferimento con la porta dell'Ade, che agli etruschi non faceva così paura. 

Ma l'ambiente chiuso e decorato in 'primo stile' accoglie la finta porta dipinta, di 'secondo stile', solo per mascherare la chiusura di una porta preesistente. Almeno così dicono gli esperti. Ma non costava meno chiudere a mattoni e rasare tutto? Evidentemente no, oppure fu una travata o un capriccio di Giulio Polibio, del resto l'effetto è ottimo.

L'atrio conserva resti di una decorazione pittorica che nella parte alta risale al II sec. a.c., e in quella bassa al I sec. a.c. Infatti la domus reca i segni delle modifiche apportate dopo i danni del pesante terremoto dell'anno 62 d.c. In realtà la casa ha due ingressi, uno padronale e uno di servizio, ambedue aperti su Via dell'Abbondanza.

È stato rinvenuto nel triclinio un importante deposito di oggetti in bronzo che dovevano decorarlo, sicuramente messo da parte per i lavori di restauro, ma pure, nel primo atrio, un mucchio di calce destinato anch'esso al restauro.

RICOSTRUZIONE DEL PERISTILIO
Nell'area di servizio sono locati la cucina e il larario dipinto, per il culto familiare dei Lares, raffigurati in alto, con il serpente Agathodemone e il Genius, protettore della familia. I suoi pavimenti in marmi bianchi e colorati, provengono dalla Grecia, dall'Asia Minore e dall'Africa settentrionale, distinguendo l'agiatezza della famiglia.

PLANIMETRIA DELLA VILLA
I due accessi adiacenti della strada, che conducono a parti apparentemente separate della casa, danno l'idea di una domus di gran lusso. Si è pensato così che fosse originariamente di una vecchia famiglia patrizia della famiglia gens Iulia, ma che fosse stato nelle mani di uno dei loro liberti al momento dell'eruzione. Il sigillo di Caius Julius Phillippus trovato nel giardino e graffito con il suo nome nella sala fa pensare che potrebbe essere stato l'ultimo residente e che era stato un liberto di C. Julius Polybius.

Nell'ultima stanza, al momento dell'eruzione, cercarono rifugio i familiari della domus: "La domus accoglieva tre maschi adulti, tre femmine adulte di varie età, quattro ragazzi, uno ragazza, un bambino e un feto nell'ultimo mese di vita intrauterina. Il feto era associato allo scheletro di una femmina giovane (dai 16 ai 18 anni). "

Sembra che i residenti abbiano voluto restare all'interno della casa durante il periodo dell'eruzione nel tentativo di proteggere la donna incinta di 8-9 mesi. Le robuste pareti della casa di Giulio Polibio erano probabilmente più adatte ad una protezione iniziale, a differenza delle strade in cui molti morivano, mentre cercavano di fuggire, per i tetti e le struttura che crollavano. Tuttavia, alla fine, fu il fumo e la cenere che emanavano dall'eruzione che lasciarono la loro scia omicida - elementi che non potevano essere schermati dai muri rinforzati della domus. 

La posizione di alcuni scheletri sul deposito vulcanico indica che alcuni individui giacevano sul letto al momento della morte. Le prime correnti piroclastiche arrivarono da nord e sovrastarono la parte posteriore della casa. Le correnti si spostarono nel giardino e avanzarono verso la parte anteriore della casa. Nessuna fuga era possibile per le persone lì. La cenere ha raggiunto ogni angolo della casa e ha soffocato i suoi abitanti.




CANDIDATURA AD EDILE

Di Giulio Polibio sono state trovate molte scritte elettorali in cui invitava i pompeiani a votarlo come edile. Il suo nome compare infatti nei famosi "manifesti" di propaganda elettorale, che ci informano della sua candidatura all'edilità, insieme a A. Rustio Vero, e al duumvirato, con M. Lucrezio Frontone. Sembra che Caio Giulio Polibio sia stato eletto all'edilità nel 73 d.c., mentre nel 78 d.c. non ottenne il duumvirato. 

Sappiamo anche che alcune donne si schierarono in suo favore: Specula, una dipendente di uno stabilimento di follatori, e le due prostitute Cuculla e Zmirina, che espressero il loro augurio con iscrizioni murali che Caio Giulio Polibio si affrettò a far cancellare con la calce perché compromettevano la sua reputazione.

Aveva un discreto seguito femminile visto che diverse donne hanno invitato a votare per lui e tra queste anche due prostitute, cosa non gradita al candidato dovette farle nascondere buttandoci della calce. Nel peristilio vengono mostrati ai visitatori i calchi in gesso degli armadi in legno e delle porte di casa.

La ricca abitazione ha diversi affreschi tra cui nel triclino un quadro che rappresenta il supplizio di Dirce inflitto da parte di Anfione e Zeto, in quanto colpevole d'aver maltrattato la loro madre, e quindi legata a un toro inferocito. In questa stanza fu recuperata ammassata, forse per i lavori in corso in casa, una preziosa suppellettile da mensa (l'hidria) e una statua in bronzo di Apollo, che regge sulle braccia forse un vassoio.

Alcuni studiosi sostennero che i soldi trovati con lo scheletro 2 nella stanza HH e nell'armadio IV dell'ambulatorio indicavano uno scarso tesoro della famiglia al momento dell'eruzione, ma Castiglione Morelli di Franco (1982: 790) lo attribuì a circostanze di angustia a causa dei dispendiosi lavori di restauro post anno 62 o saccheggi post-eruzione.

Secondo de Franciscis (1988: 27), vi erano due lararia nelle sale N e O come se vi fosse una doppia abitazione, ma non è affatto certo che ci fosse stato un larario nella sala O. De Franciscis sostenne anche (1988: 32) che il terremoto del 62 d.c. aveva reso necessario stabilizzare e ridecorare il lavoro della casa, lavoro che era ancora in corso nel 79 d.c., ma che la casa aveva continuato ad essere occupata. 

Molte delle stanze nella casa anteriore e intorno alla sala O, che un tempo erano state riccamente decorate, principalmente nel primo e nel secondo stile, ma alcune nella terza o quarta (ad esempio, la stanza Y), sembrano essere state successivamente declassate, coperte con intonaco bianco grezzo e utilizzato per attività commerciali / industriali. 


Molte delle stanze nella casa anteriore e intorno alla sala O, che un tempo erano state riccamente decorate, principalmente nel primo e nel secondo stile, ma alcune nella terza o quarta (ad esempio, la stanza Y), sembrano essere state successivamente declassate, coperte con intonaco bianco grezzo e utilizzato per attività commerciali / industriali. 

Le stanze lungo il lato est della sala O erano state trasformate per la conservazione, principalmente per le anfore e il loro contenuto. Le stanze in questa zona che avevano una decorazione di Quarta in buona qualità e non erano state successivamente intonacate grossolanamente (cioè le stanze S, U e I) sembrano essere state vuote al momento dell'eruzione.

Molto materiale frammentario, in particolare ceramica e vetro, ma con scarsità di bronzo, è stato trovato nei livelli superiori del deposito. Non è chiaro se questo sia stato lasciato agli intrusi dopo che hanno rimosso oggetti di valore o fosse derivato dalle suppellettili delle stanze del piano superiore.

Le attività domestiche sembrano essere state in gran parte limitate alla zona giardino della casa, ma anche in prossimità del padiglione N. Colpiscono i mobili di lusso contro la decorazione murale incompiuta, e letti rustici in camere finemente decorate, insieme a un rimessaggio agricolo, nonostante la mancanza di strumenti. 

Ci deve essere stato un cambiamento di piano dopo la decorazione di questa zona, che è per lo più nel Quarto Stile. Pertanto, o tutta la decorazione del Quarto stile della casa era stata antecedente al 62 d.c. o questa casa aveva subito ulteriori disagi per la sua occupazione dopo quel terremoto. Il suggerimento che la casa era stata occupata da un liberto potrebbe giustificare questa occupazione industriale e commerciale insieme.



L'ERUZIONE

Plinio il Giovane, che aveva perso suo padre proprio nell'eruzione del Vesuvio, descrisse la scena del disastro in lettere scritte a Cornelio Tacito, suo amico. Scritto alcuni anni dopo l'evento, uno dei passaggi di una seconda lettera si legge così:
"Le ceneri stavano già cadendo, non ancora molto spesso. Mi guardai attorno: una densa nube nera stava spuntando dietro di noi, espandendosi sulla terra come un'alluvione. "Lasciamo la strada mentre possiamo ancora vedere", dissi, "altrimenti saremo buttati giù e calpestati oscuro dalla folla alle spalle. "
Ci eravamo appena seduti a riposare quando calava l'oscurità, non il buio di una notte senza luna o nuvoloso, ma come se la lampada fosse stata spenta in una stanza chiusa.

Potevi sentire le grida delle donne, il lamento dei bambini e il gridare degli uomini; alcuni chiamavano i loro genitori, altri i loro figli o le loro mogli, cercando di riconoscerli con le loro voci.

Le persone si lamentavano del proprio destino o di quello dei loro parenti, e c'erano alcuni che pregavano per la morte nel loro terrore di morire. Molti supplicarono l'aiuto degli dei, ma ancora più immaginavano che non ci fossero divinità e che l'universo fosse immerso nell'eternità per sempre."




GLI SCAVI

La facciata della domus di Giulio Polibio fu valorizzata da Vittorio Spinazzola (1863 – 1943), insieme agli altri edifici di Via dell'Abbondanza, fra il 1910 e il 1923. Lo Spinazzola teneva alla maggiore conservazione possibile delle facciate e dei piani superiori, cosa inedita fino ad allora.
A questo scopo procedeva dai piani superiori a quelli inferiori, attraverso scavi orizzontali, consolidando le strutture con impalcature o colate in cemento armato, man mano che procedeva verso il basso. La facciata presentava due ingressi, con porte alte e decorate da cornici in stile ionico.

Una terza porta venne aggiunta in secondo momento, che portava alla bottega. Il prospetto era invece decorato da blocchi bugnati in stucco, che ne provava l'identità preromana del III sec. a.c. Lo scavo estensivo e la sua documentazione furono diretti da Alfonso De Franciscis, Soprintendente delle Province di Napoli e Caserta, fra il 1968 e il 1977. 
Contemporaneamente si eseguirono il restauro della domus e una prima parziale ricostruzione. La documentazione della fase di scavo fu affidata alla dott.ssa Maria Oliva Auricchio, disegnatrice presso gli scavi di Pompei. 

La documentazione dello scavo si basava sui "diari di scavo", in cui venivano descritti quotidianamente gli scavi e i rinvenimenti. La dott.ssa Oliva Auricchio ne ricavò ben nove quaderni di scavo, con bellissimi acquerelli.


Qualcuno notò che le relazioni di Maria Oliva Auricchio indicavano che, anche negli scavi più recenti a Pompei, le preoccupazioni per il restauro del sito hanno spesso superato considerazioni archeologiche. Gran parte della struttura in gesso e muratura è stata restaurata senza un'attenta documentazione. 

Tuttavia, le relazioni di Oliva Auricchio danno notevole attenzione alla stratigrafia e al materiale frammentario, fornendo informazioni per questa casa che è mancante o estremamente scarsa nelle precedenti relazioni di altre case: ad esempio, la profondità dei reperti dal moderno livello del terreno. In molti casi, tuttavia, è ancora difficile accertare i punti di ricerca precisi a meno che non venga indicato anche il livello della pavimentazione della stanza.

Lo scavo fu dovuto ai fondi stanziati dall'associazione "Amici di Pompei", svuotando progressivamente gli ambienti e spostandosi poi in punti diversi, consolidando le strutture man mano che venivano liberate dai lapilli. Inoltre. Grazie alla tecnica introdotta da Giuseppe Fiorelli della colata in gesso entro gli spazi lasciati vuoti dalla decomposizione di resti organici, fu possibile recuperare i calchi grazie ai vuoti lasciati dal legno carbonizzato di porte, armadi e mensole.

(Maria Oliva Auricchio, La Casa di Giulio Polibio: diario di scavo 1966 -1978, Tokyo)



TESTO DI ANTONIO FERRARA

"Tra dicembre 2009 e febbraio 2010 nella Domus di Giulio Polibio, a Pompei, il commissariato straordinario per l'emergenza scavi guidato da Marcello Fiori finanziò lavori urgenti per la manutenzione, il recupero e la conservazione di affreschi e pavimenti: spesa totale 343 mila euro. Ma non è bastato per impedire che la forza dell'acqua provocasse il sollevamento del pavimento a mosaico del triclinio della casa.

Sempre su via dell'Abbondanza nel novembre del 2010 si verificò per analoghi motivi il crollo della Schola armaturarum. Il soprintendente archeologo di Pompei, Massimo Osanna, e una squadra di restauratori della soprintendenza hanno effettuato in mattinata un nuovo sopralluogo nella casa che si apre lungo via dell'Abbondanza.

Il triclinio si trova in fondo al peristilio, nell'ultima sezione scavata dell'isolato: alle spalle la zona non scavata, con il materiale vulcanico e il terreno di copertura.Un prima ipotesi sulle cause dell'innalzamento del pavimento fa riferimento al fatto che dietro il triclinio l'acqua piovana ha continuato a spingere, fino a quando non ha trovato una strada al di sotto del pavimento, facendolo sollevare.


"La stanza - spiegano i tecnici della soprintendenza - è al margine di una porzione di area non scavata dell'area archeologica dove è insistente il problema del dissesto idrogeologico che vede i terreni soprastanti riempirsi di acqua e premere pericolosamente sulle strutture sottostanti. A ciò si aggiunge la presenza di cisterne sotterranee pertinenti a domus non ancora portate alla luce poste lungo i fronti di scavo, che determinano vuoti di terreno". 

Nel corso del sopralluogo archeologi, restauratori e vigili del fuoco hanno verificato l'assenza di ulteriori rischi per le strutture. Si è ipotizzato un intervento di restauro che prevede la rimozione del pavimento, la risoluzione dei problemi nel piano sottostante e la successiva ricollocazione. La Protezione civile di Fiori spese 163 mila euro per sistemare le coperture e sostituire le strutture degradate e le tegole rotte e altri 180 mila euro per restauro degli affreschi e dei pavimenti.

Con altri 955 mila euro, la Domus di Giulio Polibio ospitò un percorso di visita multimediale con ologramma, ricostruzioni virtuali e riposizionamento di copie degli arredi antichi. Sull'area colpita dal danno la soprintendenza ha il progetto di mitigazione del rischio idrogeologico previsto dal Grande Progetto Pompei e ha appaltato due opere: il progetto di intervento diretto sui fronti di scavo e l'intervento di recupero e restauro di tutta l'adiacente insula dei Casti Amanti. 
(testo antonio ferrara - foto stefano renna)

CALCHI DEGLI ARREDI RINVENUTI NELLA VILLA

LA VISITA GUIDATA

Così da oggi, nel 1910, i visitatori nella «domus» di Giulio Polibio vengono accolti ed eruditi dall'ologramma del padrone di casa, un ricco liberto, le cui sembianze sono state ricostruite sulla base di calchi e studi scientifici.

Il personaggio funge da guida narrativa per circa un'ora, con lo scopo di fornire agli spettatori non solo l'illustrazione dei resti della domus, ma pure le sequenze di vita quotidiana, i rumori e i silenzi, gli affetti e il lavoro nella dimora pochi istanti prima della tragedia dell'eruzione.

Particolarmente interessanti, negli ambienti più importanti della “domus”, la ricostruzione e ricollocazione di numerosi arredi e oggetti d'uso domestico (armadi, tavoli, triclini ecc.) rinvenuti tra le ceneri eruttive.





Pompei, la domus di Giulio Polibio in 3D grazie agli svedesi

Una ricostruzione dettaglia in 3D della domus di Giulio Polibio, a Pompei. Il Dipartimento di archeologia e storia antica dell’università di Lund, in Svezia, all’interno del Progetto svedese per Pompei, partito nel 2000 sotto la guida di Anne-Marie Leander Touati, ha ampliato le sue attività all’archeologia digitale avanzata. 

Un quartiere di Pompei è stato scansionato durante il lavoro sul campo nel 2011-2012 e i ricercatori svedesi sono anche riusciti a completare una ricostruzione dettagliata della casa del banchiere Cecilio Giocondo. "Combinando le nuove tecnologie con i metodi più tradizionali, possiamo descrivere Pompei con maggior dettaglio e precisione di quanto non fosse possibile in precedenza", dice Nicolò Dell'Unto, archeologo digitale presso l'Università di Lund.

La casa di rivive oggi grazie alla messa in video di un grande studio interdisciplinare coordinato dal Laboratorio di Ricerche Applicate della Soprintendenza Archeologica di Pompei sulla base dei diari di scavo della casa, stilati negli anni ’70, e di altri dati analitici e sperimentali.

L’opera, voluta e commissionata dall’Università di Tokyo nella persona del Prof. Masanori Aoyagi, coaudiuvato dalla dott.ssa Annamaria Ciarallo, responsabile del laboratorio, ha comportato una lunga ed elaborata operazione di restituzione virtuale che ha impegnato 12 fra ricercatori, modellatori e grafici tridimensionali dell’Altair 4, per un totale di oltre 10.000 ore lavoro.

Per l’elaborazione del video è stato effettuato il restauro digitale di decine di affreschi, la ricostruzione virtuale di tutta l’abitazione, l’animazione dell’eruzione e del suo impatto sulla casa.

La complessa opera ricostruttiva è stata visualizzata con un’elaborazione tridimensionale che accompagna lo spettatore alla scoperta degli ambienti della casa, ricostruita fin nei minimi particolari, compreso il puntuale posizionamento degli oggetti di uso quotidiano, così come sono stati ritrovati. Il filmato vuole restituire al visitatore una casa ancora ‘viva’, un attimo prima della catastrofe, illustrandone poi la distruzione ed il ritrovamento; raccontando, cioè, una storia che si può considerare esemplare per l’ intera città antica.



FLAMINE - FLAMEN

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FLAMEN CHE GUIDA IL SACRIFICIO IN PROCESSIONE

« Roma era una città di recente fondazione, nata e cresciuta grazie alla forza delle armi: Numa, divenutone re, si prepara a dotarla di un sistema giuridico e di un codice morale di cui fino a quel momento era stata priva. Ma rendendosi conto che chi passa la vita tra una guerra e l'altra non riesce ad abituarsi facilmente a queste cose perché l'atmosfera militare inselvatichisce i caratteri, pensò che fosse opportuno mitigare la ferocia del suo popolo disabituandolo all'uso delle armi. 

Per questo motivo fece costruire ai piedi dell'Argileto un tempio in onore di Giano elevandolo a simbolo della pace e della guerra: da aperto avrebbe indicato che la città era in stato di guerra, da chiuso che la pace regnava presso tutti i popoli dei dintorni...
Così facendo, però, si correva il rischio che animi resi vigili dalla disciplina militare e dalla continua paura del nemico si rammollissero in un ozio pericoloso. Per evitarlo, egli pensò che la prima cosa da fare fosse instillare in essi il timore reverenziale per gli Dei, espediente efficacissimo nei confronti di una massa ignorante e ancora rozza in quei primi anni. Dato che non poteva penetrare nelle loro menti senza far ricorso a qualche racconto prodigioso, si inventò di avere degli incontri notturni con la Dea Egeria e riferì che quest'ultima lo aveva esortato a istituire dei rituali sacri particolarmente graditi agli Dei, nonché a preporre a ciascuno di essi certi officianti specifici....

Pertanto rivolse la sua attenzione ai sacerdoti: bisognava nominarli, nonostante egli stesso fosse preposto a parecchi riti sacri, soprattutto quelli che oggi sono di competenza del flamine Diale. Ma poiché riteneva che in un paese bellicoso i re del futuro sarebbero stati più simili a Romolo che non a Numa e sarebbero andati di persona a combattere, non voleva che passassero in secondo piano le attribuzioni sacerdotali del re. 

Quindi designò un flamine a sacerdote unico e perpetuo di Giove, dotandolo di una veste speciale e della sedia curule, simbolo dell'autorità regale. A lui aggiunse altri due flamini, uno per Marte e uno per Quirino. Inoltre scelse delle vergini da porre al servizio di Vesta, sacerdozio di origine albana e connesso con la famiglia del fondatore...

Subordinò all'autorità del pontefice tutte le altre cerimonie di natura pubblica e privata, in modo tale che la gente comune avesse un qualche punto di riferimento e che nessun elemento della sfera religiosa dovesse subire alterazioni dovute a negligenze dei riti nazionali o all'adozione di culti di importazione. 

Inoltre il pontefice doveva diventare un esperto e attento interprete non solo delle cerimonie legate alle divinità celesti, ma anche delle pratiche funerarie, di quelle di propiziazione dei Mani e dell'interpretazione dei presagi legati ai fulmini o ad altre manifestazioni.»

(Tito Livio - Ab Urbe Condita)




FLAMINE

I Flamini erano sacerdoti che avevano il compito-privilegio di accendere il fuoco sull'Ara dei sacrifici, preposti al culto di una specifica divinità da cui prendeva il nome e di cui celebrava il rito e le festività. Appartenevano all'ordine senatorio. Erano in tutto 15 flamines, 3 maiores e 12 minores. Ma secondo altre fonti i Flamines minori erano di più.


Flamen Maiores
  • Flamen Dialis,
  • Flamen Martialis
  • Flamen Quirinalis.
Flamines minores:
  • Flamen Carmentalis, della Dea Carmenta.
  • Flamen Cerialis, della Dea Cerere.
  • Flamen Falacer, del Dio Falacer
  • Flamen Floralis, della Dea Flora.
  • Flamen Furrinalis, della Dea Furrina.
  • Flamen Palatualis, della Dea Palatua
  • Flamen Pomonalis, della Dea Pomona.
  • Flamen Portunalis, del Dio Portunno.
  • Flamen Salacer, della Dea Salacia.
  • Flamen Volcanalis, del Dio Vulcano.
  • Flamen Volturnalis, del Dio Volturno
FLAMINE DIALE

FLAMINE DIALE

Di ordine senatorio, era il sacerdote preposto al culto di Giove Capitolino, l'unico tra i sacerdoti che poteva presenziare nel Senato con il diritto alla sedia curule ed alla toga pretesta. Presenziava al rito della confarreatio (matrimonio romano arcaico) ed egli stesso doveva essere sposato con questo rito.

Il flamine diale doveva portare sempre un copricapo di cuoio bianco dalla strana foggia, l'apex o albogalerus. In cima all'apex era fissato un ramoscello di ulivo dalla cui base si dipartiva in filo di lana. Solo i Flamen Dialis e le virgines Vestales avevano l'accompagno di un lictor (littore) a testa.

La sua persona, inviolabile e sacra, richiedeva che al suo passaggio doveva cessare ogni attività lavorativa ed essere rispettato il silenzio per non disturbare il suo costante contatto con Giove di cui era l'emissario in terra. Durante le epiclesi (lat. invocatio - invocazione), e ogni qual volta pronunciava il nome di Giove, doveva alzare le braccia al cielo.

Secondo Aulo Gellio il Flamine dialis aveva le seguenti limitazioni:

- non doveva viaggiare a cavallo
- non doveva vedere eserciti in armi
- non poteva prestare giuramento
- poteva portare solo anelli spezzati
- non si poteva prelevare del fuoco dalla casa del flamine diale se non per usi sacri
- se si introduceva in casa del flamine diale qualcuno che era legato, i legami gli dovevano essere tolti, portati sul tetto attraverso l'impluvio e da lì gettati in strada
- non doveva avere nodi sul berretto né alla cintura né in altra parte del corpo
- se qualcuno condannato alla fustigazione si gettava ai pedi del flamine diale, per quel giorno non poteva essere fustigato
- i suoi capelli potevano essere tagliati solo da un uomo libero
- non poteva nominare né toccare capre, carne cruda, fave, edera
- non poteva passare sotto tralci di vite legati (propagines e vitibus altius praetentas non succedit);
- doveva dormire in un letto i cui piedi erano ricoperti di uno strato sottile di fango
- non poteva dormire fuori dal proprio letto per più di tre notti
- nessuno poteva dormire nel suo letto
- doveva tenere presso il letto una cassetta contenente delle focacce sacrificali
- capelli e unghie tagliati del flamine diale dovevano essere sepolti sotto un albero "felice"
- ogni giorno per lui era festivo
- doveva stare sempre a capo coperto, tranne che in casa
- non doveva toccare la farina contenente lievito
- poteva togliersi la tunica intima solo in luoghi coperti per non rimanere nudo all'aperto, come fosse sotto gli occhi di Giove
- a tavola nessuno poteva sedere in posizione più elevata del flamine diale, ad eccezione del rex sacrorum
- Non poteva udire il suono delle tibie usate nei funerali, (quindi non poteva assistere a un funerale)  "locum in quo bustum est nunquam ingreditur" (Aulo Gellio)
- doveva lasciare la carica di flamine se perdeva la moglie
- il suo matrimonio si scioglieva solo con la morte del coniuge
- non poteva entrare nel luogo della pira funebre, né toccare cadaveri, ma poteva assistere ai funerali
- non poteva abbandonare o lasciare l'Italia per qualsiasi motivo

Anche la Flaminica diale aveva divieti simili, oltre ad altri particolari:
- doveva portare una veste colorata
- doveva mettere un germoglio di albero "felice" nello scialle 
- non doveva salire più di tre scalini se non si trattava di una scala "greca" cioè coperta da entrambi i lati
- quando partecipava alla processione degli Argei non si doveva ornare la testa, né pettinare i capelli.



FLAMINE MARZIALE

Il flamine marziale (Flamen Martialis), di ordine senatorio, non aveva tutte le regole del flamine diale né era obbligato a partecipare ad alcuna cerimonia, se non all'Equus october, una corsa di bighe che si teneva alle Idi di ottobre nel Campo Marzio.
Cassio Dione narra di un'esecuzione ordinata da Giulio Cesare dei due capi di un ammutinamento. Tale esecuzione, dice Dione, fu eseguita dai pontefici e dal "sacerdote di Marte" (cioè il flamine Marziale) sul modello di una cerimonia religiosa, in Campo Marzio, e le loro teste furono appese vicino alla Regia. 

Entrambi i particolari (soprattutto l'ultimo) sono identici a quelli dell'Equus october, nel quale è la testa del cavallo vincitore della corsa ad essere appesa vicino alla Regia, e ciò appunto ha fatto pensare a Georges Dumézil che il flamine Marziale dovesse officiare i riti dell'Equus october.

Nel 242 a.c. il flamine Marziale Aulo Postumio Albino fu nominato console e avrebbe voluto partire per l'Africa per svolgere le operazioni di guerra, ma il pontefice massimo Lucio Cecilio Metello gli impedì di partire per non trascurare i suoi impegni religiosi.

Alfred Ernout, grande latinista pensò che il flamine Marziale avesse anche l'ufficio di pronunciare la formula dei Meditrinalia, la festa del vino, forse equivocando un passo di Varrone in cui afferma che il flamine marziale Flacco è la fonte della formula, che enunciava:
"vetus novum vinum bibo
veteri novo morbo medeor" 
(bevo vino vecchio e nuovo
pongo rimedio ad un male vecchio e nuovo)

"Che la famiglia di Ottaviano fosse la più insigne a Velitrae, è reso evidente da molte circostanze. Nella parte più frequentata della città, c'era da tempo, una strada consacrata ad un Ottavio; ed un altare era stato consacrato a un Ottavio, che venne scelto come generale in una guerra con alcune popoli vicini.
Mentre (Ottavio, che era flamine marziale) stava sacrificando a Marte, il nemico facendo un attacco improvviso, egli immediatamente strappò le viscere della vittima togliendola dal fuoco fuoco, offrendole mezze crude sull'altare; dopo di che, in marcia a combattere, ed è tornato vittorioso. Questo incidente dette luogo a una legge, con cui si emanò che in tutti i tempi futuri le viscere dovrebbero essere offerti a Marte nella stessa maniera; e il resto della vittima doveva essere portata agli Ottavi".
(Svetonio - Il Divino Augusto)



FLAMINE QUIRINALE

Il flamine Quirinale (latino Flamen Quirinalis) era preposto al culto di Quirino e celebrava i riti delle festività dei Quirinalia, dei Consualia estivi, dei Robigalia e dei Larentalia.

Nel 189 a.c. il flamine Quirinale Quinto Fabio Pittore fu nominato pretore e gli fu assegnata la provincia di Sardegna, ma il pontefice massimo Publio Licinio gli impedì di raggiungere la provincia per non dover trascurare i suoi impegni religiosi, cosicché il flamine fu costretto a rinunciare all'incarico militare e a rimanere a Roma dove gli fu assegnata la pretura peregrina.

Consualia
La partecipazione ai Consualia del 21 agosto è citata da Tertulliano per cui il sacrificio sull'altare sotterraneo di Conso, nel Circo Massimo, viene celebrato dal flamine Quirinale e dalle Vestali. Secondo Kurt Latte la testimonianza non è attendibile essendosi Tertulliano confuso tra le Consualia e le Opeconsiva del 25 agosto. Georges Dumézil invece conferma Tertulliano.

Robigalia
La presenza del flamine Quirinale ai Robigalia è testimoniata da Ovidio:
"edidit haec flamen verba, Quirine, tuus", "il tuo flamine, o Quirino, pronunciò queste parole".
Anche questo però è contestato dal Latte perché Ovidio chiama la divinità Robigo anziché Robigus, e il luogo della cerimonia sulla via Nomentana, anziché al V miglio della via Claudia (come emerge dai Fasti Prenestini); Dumézil invece conferma Ovidio.

Larentalia
La presenza del flamine Quirinale ai Larentalia è testimoniata da Gellio:
« Ob id meritum a flamine Quirinali sacrificium ei publice fit ... »
« Per questo favore le era offerto un sacrificio dal flamine Quirinale ... »
(Aulo Gellio, Notti attiche)
Secondo Dumézil, la menzione del flamine Quirinale ai riti di Larentalia non può essere un errore di Gellio perché il suo passo sui Larentalia è troppo dettagliato e preciso per non essere considerato attendibile.



FLAMINI MINORI

« Ad haec consultanda procurandaque multitudine omni a vi et armis conversa, et animi aliquid agendo occupati erant, et deorum adsidua insidens cura, cum interesse rebus humanis caeleste numen videretur, ea pietate omnium pectora imbuerat ut fides ac ius iurandum [proximo] legum ac poenarum metu civitatem regerent. »

« L'attenzione per questi fenomeni celesti e la loro continua ricerca avevano distolto il popolo intero dalla violenza delle armi, fornendogli sempre qualcosa con cui tenere occupata la mente: il pensiero incessante della presenza divina e l'impressione che le potenze ultraterrene partecipassero dei casi umani avevano permeato di pietà religiosa gli animi così profondamente che la città era governata più dal rispetto per la solennità della fede che dalla paura suscitata dalle leggi e dalle pene. »
(Tito Livio, Ab urbe condita, I, XXI)

Nacquero così anche i Flamini minori, affinchè si occupassero di ogni fenomeno altrimenti imprevedibile e pericoloso. L'idea che esistessero sacerdoti con riti, sacrifici e formule speciali per garantire il favore degli Dei, dava tranquillità per i raccolti e per la vita del popolo in generale.

I flamini minori (latino Flamines minores) erano dodici, ma solo di dieci si ha certezza dei relativi nomi e divinità attese:
Flamen Carmentalis, preposto al culto della Dea Carmenta -
Flamen Cerealis, preposto al culto della Dea Cerere -
Flamen Falacer, attendeva al culto del Dio Falacer.
Flamen Florealis, preposto al culto della Dea Flora.
Flamen Furrinalis, preposto al culto della Dea Furrina.
Flamen Palatualis, preposto al culto della Dea Palatua.
Flamen Pomonalis, preposto al culto della Dea Pomona.
Flamen Portunalis, preposto al culto del Dio Portuno.
Flamen Salacer, preposto al culto della Dea Salacia
Flamen Volcanalis, preposto al culto del Dio Vulcano.
Flamen Volturnalis, preposto al culto del Dio Volturno.

A questi si devono aggiungere:
Flamen Virbialis, o flamine Virbiale proveniente da Napoli
Flamen Lucularis, o flamine Luculare proveniente da Lavinio

Varronme ci fornisce, a suo dire, l'ordine gerarchico degli ultimi sei:
- Volturnalem,
- Palatualem,
- Furinalem,
- Floralemque,
- Falacem
- Pomonalem

TESTA DI FLAMINE

FlAMINE CARMENTALE

Ne conosciamo l'esistenza da una citazione del Bruto di Cicerone. Erano i sacerdoti addetti al culto di Carmenta, di cui festeggiavano i Carmentalia alla metà di gennaio, festa dedicata oltre che alla Dea, alle madri di famiglia che la Dea proteggeva.

La Dea Carmenta era compresa nel gruppo degli Dei indigetes ("dei indigeni") un gruppo di divinità e spiriti della religione preromana, non adottati da altre religioni, dove il numero delle Dee supera di molto quello degli Dei. Protettrice della gravidanza e della nascita e patrona delle levatrici, ma soprattutto Dea dei Vaticinii.
E' testimoniato da un'epigrafe Tiberio Claudio Pollione flamine Carmentale e, nel 359 a.c., come narra Cicerone del console plebeo Marco Popilio Lenate che, con la sua oratoria, e la sua qualità di flamen carmentale, riuscì a sedare una rivolta della plebe contro i patrizi.

Il ciclo festivo principale di Tellus e Cerere cade ad aprile; attraverso il rito dei Fordicidia (15 aprile), durante il quale ogni curia sacrifica una vacca pregna (forda), Tellus facilita il parto della terra seminata; mentre il 19 aprile, Cerere assicura con l’aiuto di Fortuna il raccolto.

La festa dei Fordicidia, fu istituita da Numa, e Ovidio, narra che vi concorrono Fauno, nelle vesti di un vate, e il Sogno, l’«incubo» rivelatore, durante il quale il sacerdote, che è lo stesso Numa, viene istruito per eseguire correttamente gli atti del rito. Egli, non contaminato da rapporti sessuali e dal contatto con le carni, privo di anelli e libero da costrizioni o legami, si bagna il capo intonso con acqua di fonte e si cinge le tempie con fronde di faggio. Sebbene Ovidio riconosca a Numa la funzione di pontefice, il rituale sembra officiato da un sacerdote flaminico.



FLAMINE CERIALE

Conosciamo il Flamine Ceriale (o Cereale) da Servio che, con tutta probabilità, dovrebbe essere quello che, secondo Fabio Pittore, sacrifica sia Ceres che a Tellus. E' di ordine senatorio ed è addetto al culto di Cerere, figlia di Saturno e di Rea, Dea del frumento e dell'agricoltura, inoltre protettrice dell'annona e della pace. Il culto era inizialmente associato a quello delle antiche divinità rustiche di Liber e Libera e presentava delle similitudini con i riti celebrati a Eleusi in onore di Demetra (alla quale venne presto assimilata), Persefone e Iacco (uno dei nomi di Dioniso).

Tale culto è attestato anche dal santuario dei 13 altari di Lavinio grazie al ritrovamento di una lamina metallica sulla quale vi è l'iscrizione Cerere(m) auliquoquibus, interpretata come offerta alla Dea di interiora dell'animale sacrificato, bollite in pentola

Cerere, che era rappresentata con una corona di spighe e con una fiaccola ed un cesto di frutta nelle mani, si festeggiava con le Cerealia, festività romana, celebrata il 12 aprile per il tempio di Cerere sull'Aventino seguita da giochi che duravano fino al 19 aprile, e dedicati a Cerere. cui presiedeva il flamine cereale.

L’avvio alla festa era dato dal sacrificio, compito dal flamine, di un bue ed un maiale e dalle offerte di miele e frutta. Seguiva la solenne processione cui partecipavano gli ausiliari del flamine, il flamine stesso e la popolazione che recava in mano una spiga di grano.
Alla processione seguivano i Giochi di Cerere, che si distinguevano in Ludi circenses e Ludi scaenici, gestiti dagli edili plebei. La parte più importante si svolgeva il 19 aprile: il grande giorno delle solennità rituali e delle attività ludiche spettacolari, che comprendevano la corsa delle volpi nel Circo Massimo. E' testimoniato da un'epigrafe Sesto Cesio Properziano flamine Ceriale,

Del flamine Ceriale ci è noto l'elenco delle divinità che egli invocava quando celebrava i sacrifici a Cerere e Tellus. Tale elenco si trovava nel perduto De iure pontificio di Quinto Fabio Pittore, copiato da Varrone e da Servio e arrivato a noi tramite Agostino d'Ippona che lo cita in "La città di Dio".



FLAMINE FALACER

Il Flamine Falacio, o Flamen Falacer, di ordine senatorio,  era il penultimo flamine in ordine di importanza. e attendeva al culto del Dio Falacer. In entrambe le citazioni che ne fa Varrone, il Dio viene chiamato con l'appellativo pater, e secondo lo studioso Andrea Carandini sarebbe una divinità arcaica protettrice delle palizzate elevate a difesa del primitivo insediamento sul Palatino.


Il Dio Falacer sarebbe pertanto il patrono del Cermalus (un'altura del Palatino), insieme alla Dea Pales. La coppia divina sarebbe comparsa all'epoca dei primi insediamenti protourbani, nella prima età del ferro (900 a.c.) grosso modo quando Numitore genera Rea Silvia.

Sempre per l'archeologo Carandini, Falacer sarebbe stato il corrispettivo maschile della Dea Pales, difensori del bestiame e degli abitanti dalle minacce esterne. Il nome di Falacer deriverebbe sa falisca, un tipo di asta bellica che forse era un suo attributo.

L'appellativo di pater fu comune ad altre divinità patrone, come Quirinus, Semo, Reatinus, Soranus ecc. ma i Dio avrebbe poi perso d'importanza a causa di Quirino, soprattutto con l'assimilazione di questo a Romolo. Carandini suppone che il santuario di Falacer e la residenza del suo flamine dovessero trovarsi sul Cermalus, in corrispondenza della Curia VII, in cima alle Scalae Caci.

Secondo il filologo e storico Georges Dumézil, le divinità a cui erano preposti i flamini minori (e quindi anche Falacer) appartengono alla cosiddetta "terza funzione", cioè all'ambito produttivo della Roma arcaica, pertanto agro-pastorale.

Si suppone che non esistesse una festa fissa per il Dio cui era dedicata evidentemente una festa mobile esistendo un flamine al Dio preposto.

SACRIFICIO A FLORA

FLAMINE FLOREALE

Il flamine floreale o florale, o Flamen Florealis, di ordine senatorio, era preposto al culto della Dea Flora, di origine sabina, Dea dei fiori e della primavera, e pure delle prostitute. Una processione veniva dedicata alla Dea, con le donne, in particolare le prostitute, ben vestite ma scollate, colme di serti di fiori, preceduta dal Flamine Floreale.

La sua festa, Floralia, si celebrava dal 28 aprile al 3 maggio, e durante la festa i romani si lanciavano delle fave in segno augurale. La festa era particolarmente allegra, gioiosa ed anche licenziosa. Alle floralie partecipavano, fra gli altri, mimi, artiste discinte e prostitute, A lei era dedicato un tempio presso il Circo Massimo.

Le Floralia erano dedicate a propiziare l'annata agricola, avevano quindi connotazioni sessuali e paniche che allegre nelle campagne divenivano licenziose in città. Nei festeggiamenti avevano una parte di rilievo prostitute e mime, e lo storico Valerio Massimo racconta di un'occasione nella quale si trovò a presenziare ai giochi anche il severo Catone Uticense, la cui presenza impediva alle partecipanti di denudarsi, come tradizionalmente accadeva.

Avvertito da un amico di questa fase della rappresentazione, l'Uticense decise allora di ritirarsi discretamente, per non privare il popolo del suo divertimento, e se stesso della propria dignità, e se ne andò accompagnato dall'applauso riconoscente di tutto il circo.

E' testimoniato da un'epigrafe marmorea Marco Numisio Quinziano flamine Florale a Lavinio.



FLAMINE FURRINALE

Il Flamimne Furrinale, o Flamen Furrinalis, di ordine senatorio, era preposto al culto della Dea Furrina. Conosciamo il flamine Furrinale da Varrone, come sacerdotr preposto al culto di Furina.

Furina era una Dea misteriosa corrispondente ad una delle Erinni (Aletto, Tesifone e Megera), ovvero le Furie, a cui venne assimilata solo per assonanza del nome (Furia - Furina).
« ... Quae si deae sunt, quarum et Athenis fanumst et apud nos, ut ego interpretor, lucus Furinae, Furiae deae sunt, speculatrices, credo, et vindices facinorum et sceleris.»
(Cicerone - De natura deorum, Libro III, XLVI)

Le era dedicato un bosco sacro presso Pons Suplicius (Ponte Sublicio). e la sua festa, le Furinalia, o Furrinalia, era celebrata il 25 luglio, ed era una festa pubblica, ma sia la celebrazione che la Dea avevano dei punti oscuri anche ai Romani dell'epoca.

Varrone, che visse nella prima metà del I secolo a.c., riferisce che al suo tempo pochi ne conoscessero anche solo il nome. Le era preposto dallo stato il flamine furrinale, il che indica la sua importanza in epoca arcaica, ed un boschetto sacro, il Lucus Furrinae, posto ai piedi del Gianicolo, dove si dovevano tenere i culti, quel lucus del Gianicolo dove trovò la morte Caio Gracco

Secondo Dumézil la Dea sarebbe stata la patrona delle acque sotterranee e dei pozzi, poi decaduta sostituita da Nettuno, divenuto in età storica il patrono di tutte le acque, sia di superficie che profonde. Dal momento che Furrina era associata con l'acqua e che i Furrinalia seguivano i Lucaria (festa dei boschi), tenuti dal 19 al 21 luglio ed i Neptunalia del 23 luglio, si può ipotizzare che le festività servissero a scongiurare la siccità.



FLAMINE PALATUALE

Il Flamine palatuale, o Flamen Palatualis, di ordine senatoriale, era il sacerdote preposto al culto di Palatua, un'antica Dea che proteggeva il Palatino e pure i palazzi degli Imperatori, e che presiedeva la Palatualia, la sua festa celebrata il 21 aprile. La Dea Palatua aveva uno splendido tempio sul Palatino per il quale si facevano feste alla sua dedica.

Si dice che il nome palatium, palazzo, derivasse dal nome di Palazia. o Palatia, o Palatho, la moglie del re Latino e figlia di Evandro. La leggenda dice che fu lei a dare il nome al monte palatino, o forse era un a Dea locale trasformata in regina.

La cerimonia costituiva, in coincidenza con gli Agonalia dell’11 dicembre, la ritualizzazione dell’ultima semina. Columella (II, 10, 8) parla espressamente di una septimontialis satio. Essa sembra contrapporsi alla prima semina delle ferie sementive di gennaio, e, nelle due azioni rituali, sarebbero idealmente congiunti, in una sorta di contrappunto, i «pagani» del Tevere e i «montani» del Cermalus e del Palatino.
Conosciamo anche l'esistenza del pontefice (anziché flamine) palatuale Lucio Egnatuleio Sabino. Il culto di Palatua andò diminuendo fino a scomparire con l'avvento dell'Impero romano.



FLAMINE POMONALE

Flamen Pomonalis, preposto al culto della Dea Pomona. moglie di Vertumno, Dio delle stagioni di origine etrusca, era di ordine senatoriale, ed è testimoniato in un'epigrafe marmorea Gaio Giulio Silvano Melanione flamine Pomonale. L'antica Dea, esperta nella arte della potatura e degli innesti degli alberi, era protettrice degli alberi da frutto e della loro cura, ma era anche associata ai frutti autunnali e all'abbondanza.

« ... accipe Vertumni signa paterna dei.
Tuscus ego Tuscis orior, nec paenitet 
inter proelia Volsinios deseruisse focos. »
(Properzio - Elegie, Libro 4)

Vertunno, a detta di properzio, non è affatto scontento della distruzione della Volsinii etrusca, la terra che lo venerava, in quanto riedificata ancor più bella dai romani che onorano tanto lui quanto la sua paredra Pomona.
Importante centro politico e religioso, Volsinii venne infatti distrutto dai romani nel 264 a.c. che poi lo riedificarono col nome di Volsinii novi, attuale Bolsena. I romani importarono a Roma entrambi gli Dei etruschi, ma a Pomona dedicarono addirittura un flamine per i riti a lei dedicati.

SACRIFICIO SACERDOTALE DI ENEA

FLAMINE PORTUNALE

Il flamine Portunale (Flamen Portunalis), di ordine senatoriale, era preposto al culto del Dio Portuno (Portumnus), protettore dei porti e del commercio marino.

Di lui sappiamo che in occasione dei Portunalia del 17 agosto svolgeva la funzione di ungere le armi (cioè l'asta di legno) della statua di culto di Quirino nel suo tempio sul Quirinale.
Festo:

"Persillum vocant sacerdotes rudusculum picatum quo unguine flamen Portunalis arma Quirini unguet". 

"Persillum chiamano i sacerdoti il vaso impeciato di terracotta nel quale era conservato l'unguento usato per ungere l'arma di Quirino".

Kurt Latte aveva escluso che potesse trattarsi del flamine Portunale sostenendo trattarsi invece del flamine Quirinale, ma Georges Dumézil si oppone, facendo osservare che l'operazione di mantenere in efficienza delle armi di Quirino, che rispecchia qui il suo carattere di Mars tranquillus, mentre la funzione di Portuno di guardiano delle porte e dei porti si accorda con la cura del suo flamine per le armi di Quirino. In effetti il Dio Portuno viene raffigurato in genere con le chiavi in mano e Quirino viene definito Custos, cioè custode. 


La festa dei Quirinalia del 17 febbraio, e quella dei Portunalia del 17 agosto, erano due feste divise da sei mesi esatti, e servivano a scadenzare il momento in cui il farro, immagazzinato ad agosto, veniva immesso al consumo in febbraio. Quirino/Romolo distribuisce al suo popolo il cibo; Portuno lo conserva e garantisce che gli attrezzi agricoli, le «armi di Quirino» che sono serviti a produrlo non abbiano a soffrire nei mesi invernali. Dunque, quando il flamen, come abbiamo visto, unge le «armi di Quirino» non fa che seguire i precetti dell’economia agricola.

Il Dio Portunno, figlio della Dea Leucotea, aveva una sua festività denominata Portunalia che si celebrava il 17 agosto, che venne in seguito chiamata Tiberinalia, in quanto celebrata al Porto Tiberino, dove si trova il tempio di Portunno.
Sembra che una statua della Dea Leucotea con figlioletto Portunus in braccio fosse stata deposta proprio nel tempio di Portunus, che a Roma venne dedicato proprio il giorno dei Portunalia, secondo quanto riferito da Varrone.

Nella tradizione cattolica, la madre con figlio in braccio divenne poi la Madonna col figlio e le chiavi passarono a San pietro come custode delle porte del paradiso.



FLAMEN SALACER

Non si è affatto certi dell'esistenza di questo flamine, perchè è incerta la lettura tra la parola Falacer e Salacer, come è citata da Varrone. Da un lato esiste il Dio Falacer mentre non si ha notizia alcuna del Dio Salacer. Però alcuni fanno osservare che di solito non si dava lo stesso nome al Dio e al flamine, cosa che avviene esclusivamente per il flamine falacer. I

noltre osservano che il flamine salacer poteva essere dedicato alla Dea Salacia, nome dell'Afitrite greca e pertanto Dea del mare. Il suo flamine, a detta di Varrone, si sarebbe chiamato flamen Salacris, il che rende più difficile confonderlo col flamine falacer. Slacia era d'altronde la moglie di Nettuno e Dea romana del mare. Ma non si può nemmeno escudere la presenza di entrambi i flamini, il falacer e il salacer.



FLAMINE VOLCANALE

Il flamine Volcanale ci viene testimoniato da Varrone, e pure da Macrobio (secondo il quale egli sacrifica a Maia alle calende di maggio) e da un'epigrafe proveniente da Roma.
Macrobio lo cita nel punto in cui Vettio Agorio Pretestato, su invito di Simmaco, sta discettando sul calendario e in particolare sul nome del mese di Maggio (Cingius mensem nominatum putat a Maia, quam Vulcani dicit uxorem, argumentoque utitur quod flamen Vulcanalis kalendis Maiis huic deae rem divinam facit) e da un frammento epigrafico urbano, rotto da tutte le parti, ove tuttavia è conservata chiaramente la menzione della funzione sacerdotale.

Macrob., 1 12, 18: « Cingio ritiene che questo mese (maggio) tragga il suo nome da Maia, da lui detta moglie di Vulcano, e ciò sarebbe la prova nel sacrificio che il flamine di Vulcano celebra ogni primo maggio in onore della Dea». Macrobio si riferisce qui all’opera "De fastis" del giurista e antiquario Lucio Cincio

Cincio giurista sarebbe vissuto sotto Augusto; il che spiegherebbe l’interesse di un contemporaneo alla riforma religiosa di Augusto, per un sacerdote ed un rito che erano stati probabilmente reintrodotti da poco nella religione ufficiale. Si sa che Augusto rinverdì praticamente tutti gli antichi culti edificandone o restaurandone i templi, e dedicando ad essi i relativi sacerdoti.

Vulcano aveva un’ara di culto nel comizio, il Volcanal, ma anche un tempio nel Campo Marzio, nel luogo dove poi sorse la porticus Minucia, destinata alle distribuzioni frumentarie. Secondo il calendario degli Arvali nel giorno di Vulcano, il 23 agosto, si onoravano con feste e sacrifici a Vulcano e alle Ninfe nel Campo Marzio; a Opi Opifera sul Campidoglio, a Hora, sposa di Quirino, sul Quirinale, e infine a Vulcano e Maia nel santuario del Comizio. Tutti questi dei, compreso Vulcano, appartengono al ciclo produttivo, e pure la presenza di Quirino avvalora la connotazione agraria della festa.

Vulcano, padre di re (Caeculus-Servio Tullio) è anche padre di Caco che nella tradizione etrusca, rappresentata dal famoso specchio di Bolsena, è vate e pronuncia oracoli, per cui nel suo tempio vi doveva essere, almeno all'inizio, un responso oracolare, ma non sappiamo se tenuto dal flamine stesso, perchè il vaticinio era quasi sempre una prerogativa femminile.

Tra l'altro è documentato anche un pontifex Volca[nalis] (AE 1953, 73) analogo al pontifex Palatualis su cui vd. infra. A tal proposito Scheid, Sacerdoces, 1999, p. 82 ritiene che questi pontifices con epiteto aggettivale vadano inseriti tra i flamines, e cioè in sostanza che il termine pontifex in questi casi sostituisca quello di flamen. In realtà, almeno per quanto riguarda Svetonio, è stato autorevolmente affermato (S. Mazzarino, Il pensiero storico classico, Roma-Bari 1966, 2, 2, p. 150) che il suo pontificato era proprio quello di Vulcano ad Ostia, dove il sacerdozio è documentato nella forma pontifex Volcani.

In una famosa lettera Plinio il Giovane (III 5, 8) parlando di suo zio e del momento in cui iniziava ad elaborare una nuova opera dice che egli "Lucubrare Vulcanalibus incipiebat, non auspicandi causa, sed studendi, statim a nocte multa". Dunque anche Plinio Il Vcchio iniziava il suo lavoro in agosto, durante le feste in onore di Vulcano, per sfruttare le ore di luce, anche se l'espressione "non auspicandi causa" mostra lo scetticismo verso il detto per cui “dar principio all’arte” nel giorno dedicato al Dio più operoso dell’Olimpo fosse di buon auspicio.



FLAMINE VOLTURNALE

Il flamine volturnale, sempre di rango senatorio, ci è testimoniato da Paolo e da Festo, come sacerdote dedicato al Dio Volturno, che aveva a Roma un tempio
« Volturnalia: Volturno suo deo sacra faciebant, cuius sacerdotem Vulturnalem vocabant. »
« Nei Volturnalia si celebravano cerimonie al Dio Volturno, a cui la festa era dedicata, il cui sacerdote chiamavano Volturnale »

Dunque il Dio Volturno aveva un flamen e una festa il 27 agosto. Non sappiamo se avesse a che fare con Vertumnus o Vortumnus, Dio proteiforme che aveva in mano una falce e che Ovidio associa a Pomona. Secondo alcuni studiosi il Dio sarebbe la riedizione romana del Dio federale degli Etruschi Voltumna. In effetti le due divinità, semanticamente affini (volvere/vertere), erano ambedue connesse alla fertilità agraria. Secondo autorevoli studiosi, Volturnus è il nome etrusco del Tevere, o almeno del tratto etrusco del Tevere.

Il Dio proteiforme con la falce in mano è evidente che rappresenti il figlio-vegetazione della grande Dea che nasce e muore ogni anno, infatti è proteiforme perchè assume qualsiasi forma vegetale, dall'albero, al frutto e al filo d'erba, e inoltre è insignito dalla falce, simbolo della morte annuale  per il raccolto delle piante.



FLAMINE VIRBIALE

Proveniente da Napoli, non  tramandato da fonti classiche ma testimoniato da varie epigrafi e dallo storico e archeologo francese Camille Jullian:

I Epigrafe:

DIANAE SACRUM
M. NUMISIUS
PHILIPPUS FAMEN VIRBIALIS
ET ARICINAE DIANAE VESTAE DICTAE CUSTOS
XVII. CAL. IUNII. EPULUM. VIRBIAL. PUB. DEDIT.
N. SIGNUM DEAE CONLOCAVIT
IMP. M. ANTONINO COMMODO
AUG. V
ET VALERIO AURELIO GALABRIONE COSS.

II Epigrafe:

VESTAE DIANAE DICTAE
P. TURPILIUS POLILAUS
SACERDOS DIVAE DIANAE
ET FLAMEN VIRBIALIS PATR. COLL. CORP.
LUTOR. ARIC...
QUINQUEN INTERUM DD

III Epigrafe:

L. FABIO FLAVIANO
PRAETEXTAO FL. VALER
PROB. AUG. CANDIDATO
..................................
PRAEF. IVVENT
EQUO PUBLICO
ADLECTO IN V DECUR
ORNATO MILITIAE
PRAEF. COHOR I. PROV: AFRIC. PR.
FLAMINI VIRBIALI
AUCURI. AEDILI. CURULI IIIIII. VIRO
AUGUSTALI QQ: IVVENUM

Queste lapidi però vennero copiate dal Ligorio, sulla cui attendibilità vi sono sempre e giustamente molti dubbi. Tuttavia Diana era venerata in Ariccia dove aveva un suo tempio, con dei sacerdoti chiamati flamini virbiali, e dove era istituito il collegio dei Lautori. Un flamen Virbialis è ricordato in una iscrizione di Napoli (Corpus Inscriptionum Latinarum, X, 1493)

Il Dio Virbio, che alcuni pretendono si tratti dell'eroe greco Ippolito, ma per i più fu un'antica e oscura divinità italica, collegata al culto di Diana ad Aricia nel tempio sui Monti Albani, raffigurato, come un uomo anziano e la sua statua non doveva esser toccata da nessuno, nemmeno dai raggi del sole.
E' evidente che il Dio, evidentemente figlio di Diana in veste di Grande Madre, era il figlio vegetazione che nasce e muore ogni anno. Il fatto che sia anziano è l'emblema della sua caducità, che divenne poi un Sacro Mistero, in quanto riguardava pure la caducità dell'uomo. Insomma affrontare il Dio oscuro era pure affrontare la morte di ogni essere umano, da parte proprio dell'essere umano.

DIVINITA' ETRUSCA

FLAMINE LUCULARE

Flamen Lucularis, o flamine Luculare proveniente da Lavinio, non  tramandato da fonti classiche ma testimoniato da un'epigrafe e dallo storico e archeologo francese Camille Jullian:
FLAMEN LUCULARI. LAURENT. LAVINAT.
PATRONO. ET. DECURIONI.
COLONIAE. APPLESIUM.

Qui si allude ad un flamine luculare dei Laurenti lavinati, certo Publio Elio, in cui si alluderebbe a Lauro Lavinio, città italica fondata da Enea, chiamata poi da Servio Laurentum.

Sembra che nella Selva Laurentina esistesse un oracolo e il luco di fauno, di cui era custode, insieme al boschetto dedicato a Pico, un Flamine Luculare. In effetti il culto dei lucus era antichissimo e sentitissimo.

Lista dei santuari federali con boschi sacri collegati ad un’azione comune dei Latini, quindi federale:
- Il santuario di Diana Nemorense nel territorio di Aricia;
- Il lucus Feroniae, presso la via Appia, sotto il Albanus;
- Il lucus di Diana presso Tusculum, attestato da un’unica fonte (Plin., h., XVI, 242), secondo altri ubicata nel sito di Frascati.

Il Lucus di Diana Nemorense, molto antico e famoso, ebbe un carattere “federale” solo per un periodo; il realtà fu connesso soprattutto connesso al nomen Latinum, ed è rimasto tale anche dopo il 338 a.c., quando dopo la vittoria dei Romani sulla lega latina i culti vennero da essi assimilati.
Il lucus di Ferentina, nulla sappiamo di esso dopo la fine della lega latina nel 338 a.c. , se non che servì per lungo tempo come luogo dei raduni politico-militari della lega. Esso appare quindi come un vero e proprio santuario federale con lucus.

Del Lucus di Diana presso Tusculum ne abbiamo un’unica testimonianza, fornitaci da Plinio il Vecchio:(Plin. XVI, 91. 242):

« Est in suburbano Tusculani agri colle, qui Come appellatur, lucus antiqua religione Dianae sacratus a Latio, velut arte tonsili coma fagei nemoris. In hoc arborem eximiam aetate nostra amavit Passienus Crispus bis cos., orator, Agrippinae matrimonio et Nerone privigno clarior postea, osculari complectique earn solitus, non modo cubare sub ea vinumque illi adfundere. »

« Nel territorio di Tuscolo, su di un colle posto nel suburbio, chiamato Corne, vi è un bosco per antica devozione consacrato dal Lazio a Diana; la chioma dei faggi del bosco sembra quasi tagliata ad arte. Un albero magnifico che vi si trovava, che amò ai nostri tempi Passieno Crispo, due volte console, oratore, più famoso in seguito come marito di Agrippinae patrigno di Nerone. Era solito baciarlo ed abbracciarlo, non contento di dormire sotto di esso e di versargli vino. » 
L'innamoramento di Passieno per l'albero no n passò inosservato, ma non fu affatto criticato, in quanto dimostrava il suo impulso religioso verso la Dea Diana.

TEMPIO DELLA DEA FEBRUA

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TEMPIO DELLA DEA FEBRIS (O FEBRUA) TRASFORMATO
NELLA CHIESA DI SANTA MARIA DELLA FEBBRE (1629)
L'immagine di cui sopra è una pittura del 1629 di Pieter Jansz Saenredam, Denominata anche Rotonda di Sant'Andrea, ma il suo nome ufficiale fu chiesa di Santa Maria della Febbre che doveva preservare o guarire dalle febbri malariche. Siccome però le febbri malariche erano diventate rare a Roma, venne dedicata ufficiosamente a sant'Andrea. era uno dei due edifici a pianta centrale (che hanno simmetria centrale) e rotonda posti sul fianco meridionale della grande costruzione paleocristiana, sorti in origine come mausolei funebri di epoca imperiale.

Secondo alcuni autori si trattava di un tempio arcaico dismesso e trasformato in mausoleo pagano. Viene da pensare che questa sia la giusta interpretazione perchè il mausoleo rotondo sembra costruito intorno ad un edificio templare, eretto su un alto podio, che ne rimane poi coperto almeno per metà della sua altezza.

Il tempio rotondo come tutti i templi arcaici, soprattutto di divinità femminili o almeno ctonie, doveva essere aperto e circondato da colonne poi inglobate da pilastri per chiuderlo a mo' di fortezza, un po' come venne chiuso con le pareti il cosiddetto tempio di Vesta per farne una chiesa cattolica.

Ne è conferma anche il nome della chiesa che fu dedicata a Santa Maria della Febbre, che sembra effettivamente una riedizione, come spesso all'epoca si usava, di una divinità più antica da soppiantare nel culto dei fedeli, e cioè la Dea Februa o Febris.

La cappella di Santa Maria della Febbre sopravvisse durante tutte le fasi costruttive della nuova basilica tra il XVI ed il XVII secolo e fu adibita a sacrestia della grande chiesa.

Tuttavia, si dice per esigenze di culto, tra il 1776 ed il 1784, durante il pontificato di papa Pio VI, la costruzione venne distrutta per far posto alla nuova sacrestia. Ne fa fede anche la sacrestia vaticana ricavata dalla chiesa abbattuta, perchè il suo pavimento è con evidenza ricavato dai rivestimenti di un edificio demolito.

Infatti il pavimento della nuova sacrestia è ricavato da un altra pavimentazione fatta a pezzi, cosa insolita per le strutture vaticane. In genere i marmi dei vecchi templi vennero si fatti a pezzi ma rieditati con i pavimenti cosiddetti cosmateschi, veri ricami ricavati dai marmi romani antichi.

Come si vede nell'immagine, forse perchè la sacrestia non era così preziosa come la chiesa aperta ai fedeli, oppure perchè si è andati di fretta, fattostà che il pavimento è eseguito con pezzi di marmi diversissimi tra loro, tra i quali non manca il famoso porfido rosso, il prezioso marmo che solo gli imperatori romani potevano usare per i loro palazzi o per i templi pubblici.

Il porfido rosso è tanto prezioso che nei pavimenti di Piazza Vittorio a Roma, sotto le arcate, dove è stato restaurato stranamente è totalmente sparito e sostituito con marmi di poco conto. Anzi aggiungiamo che sotto i portici di piazza Vittorio c'erano sia il porfido rosso che il serpentino, marmi ormai impossibili da ritrovare se non riciclandone altri, perchè le loro miniere sono state esaurite già in epoca imperiale.

Questo confermerebbe trattarsi di un antico tempio restaurato in età augustea (Augusto restaurò tutti i più antichi templi romani) e magari anche successivamente da altri imperatori e a Roma restaurare i templi significava soprattutto coprirli di marmi pregiati.

GLI INTERNI DELLA SACRESTIA

DEA FEBRIS O FEBRUA

DEA FEBRIS
Nella Mitologia romana Februa (Febris) era la Dea della Febbre, associata alla guarigione dalla malaria, derivata secondo alcuni dall'etrusco Februus, Dio della morte e della purificazione. Passato nella mitologia romana, il nome venne modificato in Febris e associato alla guarigione dalla malaria.

Numa Pompilio aveva dedicato questo mese al Dio Februus ma nelle feste che cadevano nella seconda quindicina di gennaio, era ricordata anche la Dea Februa ovvero Iunio Februata, Giunone Purificata, e Iuno Sospita, Giunone Salvatrice.

Per la purificazione della città le donne giravano per le strade portando fiaccole accese, festa antesignana della Candelora in cui un tempo si portavano candele accese nelle chiese cristiane.

La Dea riceveva offerte da suoi fedeli, nella speranza di evitare la malattia ma soprattutto di ottenerne la guarigione. Febris poteva dunque portare o scacciare le malattie. Il suo nome significa proprio questo: "Fever" o "attacco di febbre".

Una Dea della malaria, prevalente nel suolo italico, soprattutto nelle regioni paludose dove la malattia era trasmessa dalle zanzare, ma non solo, perchè ogni Dea della morte era anche portatrice di vita.



SANTA FEBRONIA

SANTA FEBRONIA
Già nel IV sec. si parla di un tempio attribuito alla santa il cui culto si estende nel VII - VII sec. Come da copione la santa viene:

- legata ad un palo,
- flagellata fino allo sfinimento,
- raschiata con pettini di ferro facendola sanguinare da capo a piedi,
- posta sull’eculeo, (un antico cavalletto, sul quale le membra della vittima venivano a forza tratte in opposte direzioni e disarticolate)
- le vengono strappati a forza i denti con delle tenaglie,
- tagliate le mammelle,
- quindi le vengono tagliati con la sega le mani ed i piedi.

Con un terzo di questi supplizi (supplizi che i romani non usavano anche perchè non avevano tempo da perdere) morirebbe chiunque ma la santa ha una tempra eccezionale per cui alla fine per farla morire devono decapitarla.

RAVENNA (Emilia Romagna)

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RAVENNA ROMANA

- «In questa località non sapresti dire se la via di Cesare, che l'attraversa, congiunga o separi la città vecchia e il porto nuovo. Inoltre un ramo del Po attraversa questa città doppia, mentre all'esterno la bagna un altro ramo di quel fiume che, deviato dall'alveo principale mediante dighe pubbliche e per mezzo di queste immesso in rami derivati, divide le sue acque in modo che offrano difesa alle mura circondandole e, penetrando in città, procurino facilità di commercio».
(Sidonio Apollinare - Epistole)

La pianta dell'ontano, che fuori dalla terra non può durare che poco, posto sott'acqua dura per sempre. Si può osservare ciò soprattutto a Ravenna dove tutti gli edifici hanno sotto le fondamenta pali di quel genere. Lo stesso "legname larigneo" o di larice è trasportato dal Po a Ravenna e si vende nelle colonie di Fano, Pesaro, Ancona e negli altri municipi della regione.
(Vitruvio - De Architectura)

«Tra le paludi, la città più grande è Ravenna, interamente costruita su palafitte e attraversata da canali, … Durante l’alta marea è inondata da una considerevole quantità d’acqua del mare e così le acque stagnanti sono condotte via e l’aria che è nel mezzo delle paludi è perfettamente salubre. Ma è motivo di stupore anche il fenomeno della vite, che le paludi producono e fanno crescere rapidamente con abbondanza di frutto, e poi si estingue in quattro o cinque anni.»
(Strabone - Geographia)

MAUSOLEO DI GALLA PLACIDIA

ROBERTO LANCIANI

- Il direttore del Museo Nazionale comm. E. Pazzi riferì, che dal sig. ingegnere Carlo Poletti fu donato por le raccolte pubbliche del detto Museo un frammento epigrafico, in marmo greco, di m. 0,25 x 0,30 x 0,08, recuperato presso Classe Fuori, in occasione dai lavori per la via ferrata Ravenna-Rimini. Vi si legge la parte inferiore di un titolo funebre:
PAl K CTiNTa V \^^ L I C I N I A • PRIMIGENIA

- Presso la parrocchia di Godo fu rinvenuto un mattone nel quale leggesi in belle lettere il bollo rettangolare: ^-4v\L-T-lASI-EiOt
Il fittile fu aggiunto alla raccolta pubblica del Museo nazionale ravennate per dono dell'arciprete della parrocchia ove la scoperta avvenne.

IMPERATRICE TEODORA (Ravenna)


DESCRIZIONE

Sembra che il nome di Ravenna derivi da un prelatino "rava", di origine umbra, "dirupo prodotto da acqua che scorre" e successivamente "canale, palude, bassura, fanghiglia", unito ad un suffisso "enna", di origine etrusca.

Fin dalla preistoria il tratto della Val Padana su cui sorse Ravenna subì frequenti esondazioni da fiumicelli e torrenti che scendono dall'Appennino verso il mare Adriatico. Si formarono così ampie zone lagunari, che da Ravenna si estendevano fino al Po, formando la insalubre Valle Padusa.

Ravenna è al centro di una laguna costiera che si prolunga per alcuni km a nord e a sud. Dista solo 17 km dalla foce del ramo meridionale del Po, cui è collegata tramite il Padenna, (Padus Messanicus). Il Padenna, prima di gettarsi in laguna, riceve, a sua volta, le acque del Lamone.

Il castrum militare romano fu impiantato nell'isola centrale, ed era di forma retangolare, con lati di poche centinaia di m di lunghezza. Come ogni oppidum romano, era traversato dal decumano, ( nord-sud), e il cardo che congiungeva le porte est ed ovest della città. La via principale terminava alla confluenza dei due fiumi cittadini.

I romani chiamarono il tratto cittadino del Lamone flumisellum Padennae, considerandolo un affluente del Padenna. Il Foro non è stato individuato con sicurezza, ma è probabile che coincidesse all'area delimitata dalle attuali vie D'Azeglio, Garatoni, Oberdan e Agnello. Il confine sud dell'abitato corrisponde alle attuali vie Ercolana-Guidarelli.

La città è circondata da mura solo su tre lati (ovest-sud-est): a nord è lambita dal flumisellum e dal fiume Padenna, che segue il tratto di mura est scorrendogli a fianco.


Le mura si sviluppano per una lunghezza di 2,5 km.
Oltre la cinta muraria, qualche centinaio di metri più a sud vi erano l'anfiteatro e il tempio di Apollo.

Più a sud scorreva il canale Candiano antico, collettore tra la valle omonima e il mare. Era attraversato dal Pons Candidanus.

Nei pressi vi è una necropoli romana.

Tra l'abitato e la linea di costa scorreva la via Popilia, strada consolare che iniziava a Rimini e terminava ad Adria. La strada che collegava Ravenna alla via Popilia era detta Via Caesaris; fu costruita nel I secolo a.c.

Di Ravenna repubblicana si è rinvenuto un muro fine del III sec. a.c., eretto sull'isola centrale probabilmente per resistere ad un eventuale attacco di Annibale. Sono stati rinvenuti i resti di due strade basolate che si incrociano sotto le attuali via Morigia e via D'Azeglio (fine del III-inizio del II secolo a.c.). Qui sono emersi i resti della più antica abitazione di Ravenna, risalente al II sec.a.c.

RICOSTRUZIONE GRAFICA DI RAVENNA ( https://design.tre.digital )

LA STORIA

Nel II sec. a.c.  Ravenna prese contatto con Roma, consentendo l'avanzata del suo esercito nella campagna contro la Gallia Cisalpina. Dopo la vittoria definitiva sui Galli Boi (191 a.c.), i romani la accettarono come "città alleata latina" (civitas fœderata), ciò che le consentì a lungo una relativa autonomia da Roma.


GIULIO CESARE

Nell'89 a.c. ottenne lo status di municipium all'interno della Repubblica romana. Durante la guerra civile degli inizi del I sec. a.c. Ravenna si schierò con Mario, lo zio di Giulio Cesare, per cui venne occupata, insieme al suo porto dal generale di Lucio Cornelio Silla, Quinto Cecilio Metello Pio.

Durante l'inverno del 53-52 a.c., nel pieno della conquista della Gallia, Giulio Cesare fece una leva proprio a Ravenna, per la campagna militare contro Vercingetorige. Pochi anni dopo, nel 49 a.c., Cesare riunì il suo esercito a Ravenna prima di attraversare il Rubicone:

« Cesare cercò di patteggiare con gli avversari, offrendo di lasciare la Gallia Transalpina e di congedare otto legioni, a condizione che gli rimanessero, fino a quando non fosse stato eletto console, la Gallia Cisalpina con due legioni, oppure anche solo l'Illyricum con una sola legione. Ma poiché il Senato rimaneva inerte, mentre i suoi avversari si rifiutavano di negoziare con lui qualsiasi cosa riguardasse la Repubblica, passò nella Gallia Citeriore e si fermò a Ravenna, pronto a vendicarsi con le armi, nel caso il Senato avesse preso una qualche grave decisione contro i tribuni della plebe che erano a suo favore. »
(Svetonio, Vita di Cesare, 29-30.)

IL PORTO DI CLASSE BASE DELLA CLASSIS RAVENNATIS

OTTAVIANO AUGUSTO

- Nel 44 a.c., dopo l'assassinio di Cesare che scatenò la guerra civile, Ottaviano fece la leva a Ravenna e nei suoi dintorni, memore delle simpatie che Cesare aveva sempre raccolto in quella città, poi inviò le nuove leve ad Arretium (Arezzo).

Dopo la sconfitta di Marco Giunio Bruto e Gaio Cassio Longino a Filippi ad opera di Marco Antonio ed Ottaviano, quest'ultimo dovette sistemare circa 170.000 veterani, per cui, nel 41 a.c., operò delle confische territoriali  in Italia, soprattutto in Etruria, si che la gente iniziò a ribellarsi stringendosi intorno a  Fulvia e Lucio Antonio, rispettivamente moglie e fratello del triumviro Marco.

- Per tutta risposta Ottaviano assedia Lucio a Perusia, nel 41/40 a.c.. mentre Marco Antonio si mantenne neutrale. Lucio dovette arrendersi ad Ottaviano che lo perdonò grazie al fratello Marco, mentre Perusia ebbe molte ritorsioni per essersi ribellata.

- Nel 39 a.c. alcune navi da guerra di Ottaviano, partirono dal porto di Ravenna per Brundisium, in vista di un accordo con l'altro triumviro Marco Antonio, per la guerra contro Sesto Pompeo, terminata tre anni più tardim nel 36 a.c., con la vittoria di Ottaviano nella battaglia di Nauloco.

RICOSTRUZIONE GRAFICA DEL PORTO ( https://design.tre.digital )


IL PORTO MILITARE

- Civitas Classis era all'interno di una delle lagune interne che circondavano Ravenna e nel 27 a.c. Augusto vi fece costruire un porto militare,  in un'ampia baia vicina alla foce del Padenna, realizzando  il collegamento fluviale tra Classis e Ravenna.

LA STRADA DEL PORTO
Il porto doveva ospitare la flotta che sorvegliava la parte orientale del mare Mediterraneo.

Poichè le lagune intorno a Ravenna non comunicavano col mare, vi costruirono un canale artificiale per collegare il porto con il mare Adriatico.

Un secondo canale, la Fossa Augusta, congiunse Classe con Ravenna, con la laguna veneta e col sistema portuale di Aquileia. Si poteva così navigare da Classe ad Aquileia (per 250 km).

Classe era collegata a Ravenna anche da una strada, la Via Caesaris, edificata nel I sec. a.c., che iniziava a Ravenna da Porta Cesarea, traversava Classe e terminava nella via Popilia. Ma poichè il Padenna non era più adatto alla navigazione, Augusto fece costruire un ampio canale artificiale parallelo al fiume (e alla via Popilia).

Fu poi realizzato il collegamento verso il ramo meridionale del Po. La Fossa Augusta, attraverso canali artificiali posti all'interno delle lagune, portava fino alla laguna veneta e poi al porto di Aquileia. Inoltre nel 27 a.c. Augusto fece realizzare, 5 km a sud di Ravenna, un porto militare dove stanziò la Classis Ravennatis, la flotta militare che pattugliava l'Adriatico e il Mediterraneo orientale e che procurò intensi rapporti commerciali tra Ravenna e l'Oriente.



ARCO DI TRIONFO DI CLAUDIO

In epoca imperiale Ravenna si espanse raggiungendo un'estensione circa quattro volte superiore all'età repubblicana. Ad Est, oltre il Padenna, è realizzato un grande sobborgo tra la città e il mare, denominato "Cæsarum". Il fiume Padenna, che un tempo si trova ai confini della città, ora scorreva all'interno dell'abitato.

DISEGNO DEL PALLADIO DELLA PORTA AUREA
Anche a Nord vengono costruiti nuovi edifici al di là delle mura. Sorge così la  regio Domus Augusta, la zona imperiale di Ravenna, comprendente un foro, un Capitolium (presso via Cavour), la basilica Herculis (presso piazza Kennedy) ed il miliarium aureum (punto di riferimento per il posizionamento delle pietre miliari lungo le strade consolari). Nella Regio Pontis Coperti è ubicato l'antico macello cittadino.

Al tempo dell'imperatore Claudio viene costruita nel 43 d.c. una porta monumentale a doppio arco nel punto in cui la via Popilia entra in città, che dopo il 425 si chiamerà Porta Aurea a causa delle decorazioni in bronzo dorato. La costruzione non nasce come porta, piuttosto come Arco di Trionfo per accogliere l'imperatore Claudio al ritorno dalla vittoriosa campagna di Britannia.

Viene edificata nella zona detta oggi Prati di S. Vitale, alcune decine di m oltre le mura repubblicane. L'Arco di Claudio era costituito da due grandi fornici, per permettere il passaggio contemporaneamente nei due sensi. Rimarrà l'ingresso principale di Ravenna per tutto il periodo romano.


TRAIANO

- Al tempo dell'imperatore Traiano viene costruito un grande acquedotto che attingeva le acque dal fiume Bidente-Ronco recandole in città dopo un percorso di circa 50 km.
Fuori dalla città, l'area oltre le mura in direzione del mare continuò ad essere utilizzata come necropoli. I cimiteri furono attivi fino al IV sec.

COLONNE BIXANTINE, CHIESA S. AGNESE

MASSIMINO TRACE

- Nel 238, quando Massimino Trace, marciando contro l'Italia, giunse in vista di Aquileia, deposito dei viveri e dell'equipaggiamento necessari ai soldati, la città chiuse le porte all'imperatore, guidata da due senatori incaricati dal Senato, Rutilio Pudente Crispino e Tullio Menofilo. Massimino, invece di scendere rapidamente sulla capitale con un contingente, assediò Aquileia, permettendo ai suoi avversari di organizzarsi e poi di farlo uccidere.

- Dal 258 al 260, Quadi, Marcomanni, Iazigi e Roxolani varcarono il limes pannonico devastando le terre e uccidendo la popolazione, cosa che provocò lo spopolamento delle campagne dell'intera provincia. Inoltre, come narra Eutropio,una nuova incursione germanica raggiunse Ravenna mentre l'imperatore Valeriano era impegnato sul fronte orientale contro i Sasanidi di Sapore I.


COSTANTINO

- Alla fine del IV sec. la corte imperiale cominciò a sentirsi poco sicura a Mediolanum, e volle trasferirsi a Roma, con Ravenna come sede temporanea. A causa della subsidenza, cioè lo sprofondamento del fondo del bacino in cui sorgeva il porto di Classe, nel 330 l'imperatore Costantino I trasferì la base della flotta nella nuova capitale dell'impero, Costantinopoli. Per Ravenna si aprì una breve fase di decadenza.

SERENA COL MARITO STILICONE ED IL FIGLIO EUCHERIO - DITTICO DI STILICONE

ONORIO

- Il Dittico di Stilicone è un dittico consolare del 400 circa, realizzato per Stilicone, magister militum dell'imperatore Onorio. Serena era la cugina di Galla, figlia del fratello di Teodosio I. Galla visse e fu educata dalla cugina e fu fidanzata al figlio Eucherio, ma dopo la caduta di Stilicone, firmò il decreto del Senato romano che mise a morte Serena.

- Nel 402, l'imperatore Onorio, figlio di Teodosio I, si trasferì con la corte a Ravenna, che divenne nuova capitale e sede della prefettura del pretorio d'Italia e che divenne una città imperiale con grandiose costruzioni civili e religiose che imitavano lo stile bizantino di Costantinopoli. Fece costruire il palazzo imperiale sul praetorium del praefectus classis che si affacciava sulla Fossa Augusta.

MAUSOLEO DI TEODORICO IN ORIGINE
Questa  fu completamente interrato, diventando la Platea maior, l’arteria principale della città. Il palazzo racchiudeva diversi edifici: palazzo pubblico, residenze private, caserma, chiesa palatina, giardini e corti porticate e, sull'altro lato della Plateia maior, l'ippodromo. . 
Fece inoltre restaurare la cinta muraria, aggiungendovi la nuova area a nord del fiumicello Padenna e a sud l'area dei prati, con una lunghezza complessiva di 5 km. Si ritiene che le mura fossero alte tra i 4 e i 5 metri. 
MAUSOLEO DI TEODORICO OGGI
- Nel 408, il re dei Visigoti Alarico I chiese ad Onorio il permesso di portare il proprio esercito dal Norico alla Pannonia,  ma Onorio si rifiutò di trattare e i Visigoti andarono a Roma ed estorsero ai cittadini più in vista 5.000 libbre d'oro, 30.000 libbre d'argento, 4.000 tuniche di seta, 3.000 panni porpora e 3.000 libbre di pepe, mentre Onorio non mosse un dito. Due anni più tardi Alarico tornò a Roma e la saccheggiò, per cui Ravenna divenne per sempre la sede imperiale.

I Visigoti di Alarico lasciando Roma, presero come ostaggio Galla Placidia, la sorella dell'Imperatore Onorio, che per diversi anni restò prigioniera a soli diciotto anni. Ad Alarico succedette Ataulfo, che condusse i Visigoti e Galla Placidia in Puglia, Sannio, Piceno e poi  in Gallia, dove, nel 412, fu prima alleato e poi nemico dell'usurpatore Giovino, che catturò e consegnò ai Romani: Ataulfo sperava nel riconoscimento della corte ravennate, ma Onorio gli richiese Galla Placidia.



In seguito all'insediamento della corte imperiale in città, il vescovo Orso trasferì la sede episcopale da Classe a Ravenna, dove fece costruire la cattedrale, dedicandola alla Hagìa Anástasis, ovvero alla Santa Resurrezione. Appartiene allo stesso periodo la basilica di San Lorenzo in Cesarea. Localizzata a meridione della città, all'esterno dell'area urbana, l'edificio religioso sostituì presumibilmente un santuario legato all'area cimiteriale. Questo edificio fu voluto dall'imperatore Onorio, così come l'Apostoleion, ovvero una chiesa dedicata ai Dodici apostoli.

 Nello stesso periodo fu restaurata la cinta muraria. Fu poi aggiunto un nuovo tratto: essa incluse, per la prima volta, la nuova area a nord del fiumicello Padenna; inoltre, a sud racchiuse l'area dei prati, che fino ad allora si era trovata per la maggior parte fuori del perimetro difensivo. La lunghezza complessiva della cinta raggiunse i 5 km. Si ritiene che le mura fossero alte tra i 4 e i 5 metri.

Vicino alla chiesa di Santa Croce fu edificato un sacello oggi chiamato «mausoleo di Galla Placidia». La sovrana fece costruire il mausoleo per sé, per il marito Costanzo e per il fratello Onorio, ma non vi trovò sepoltura. Morì infatti a Roma nel450 e qui fu sepolta.

MOSAIO GALLA PLACIDIA
Dopo il 425 l'Arco di Claudio venne chiamato Porta Aurea per commemorare la vittoria di Teodosio II sul tiranno usurpato. Poi la cattedrale venne  ristrutturata e affiancata dal Palazzo episcopale e dal battistero. Successivamente, la chiesa prese il nome di Basilica Ursiana, dal vescovo Orso. Risale allo stesso periodo, la scomparsa basilica petriana, fatta edificare a Classe dal vescovo San Pietro Crisologo.

Il successore di Ataulfo, Sigerico, fu ucciso sette giorni dopo essere salito al trono: gli successe Vallia, che negoziò con i Romani e nel 416, incontrò i messaggeri di Costanzo, e in cambio di un grosso quantitativo di grano, accettò di combattere per i Romani i Vandali e gli Svevi, popolazioni barbare stanziatesi in Spagna, e di restituire Galla Placidia. Onorio premiò Costanzo per la liberazione di Galla da una prigionia di sei anni con il consolato per il 417; portò con sé la sorella a Roma per celebrare il trionfo sui nemici dello stato e poi tornò con lei a Ravenna.

I FAVORITI DELL'IMPERATORE ONOFRIO
Onorio, spesso in contrasto con il fratello imperatore d'Oriente, cercò l'alleanza con la Chiesa cattolica eliminando quel che restava del paganesimo come i monumenti sacri e i giochi gladiatorii. Poi nel 417 diede in moglie a Flavio Costanzo la sorella Galla Placidia e lo associò al trono nel 421, come Costanzo III. Ma nello stesso anno Flavio Costanzo morì e Onorio tornò a Ravenna, dove morì nell'anno 423.

Alla morte di Onorio la sorella Galla Placidia, vedova dell'imperatore Costanzo III, riuscì ad ottenere la reggenza dell'Impero in nome del figlio Valentiniano III, di soli 6 anni. Giunta a Ravenna nel 424 e continuò la monumentalizzazione della città fino al 450. fece costruire la Basilica di San Giovanni Evangelista (chiesa palatina fondata da Galla Placidia presso il porto), e, ad ovest del Padenna, fece costruire la chiesa di Santa Croce, una Domus (oggi chiamata "Domus di Galla Placidia") e un palazzo dedicato al figlio Valentiniano. 

Non avendo Onorio lasciato eredi la corte di Ravenna e il Senato romano scelsero come successore Giovanni Primicerio, un alto funzionario imperiale, ma la corte di Costantinopoli non riconobbe l'elezione, che rompeva la continuità dinastica dei sovrani d'Occidente. I Visigoti invece riconobbero legittimi successori di Onorio la loro regina Galla Placidia e Valentiniano III.
La corte d'Oriente invece non riconobbe Galla e Valentiniano, ma dovette riconoscere che la figlia di Teodosio I aveva molti sostenitori in Occidente e che era comunque meglio di un imperatore non dinastico; inoltre Teodosio II aveva avuto solo due figlie, mentre il figlio di Galla garantiva la continuità della casata di Teodosio. L'imperatore d'Oriente decise allora di porre il cugino sul trono d'Occidente e organizzò una spedizione per rovesciare Giovanni.

GALLA PLACIDIA CON I FIGLI VALENTINIANO III E GIUSTA GRATA ONORIA
Galla e Valentiniano videro riconosciuti i loro titoli, mentre nel 424 Valentiniano fu nominato cesare d'Occidente. L'esercito romano d'Oriente si divise in tre gruppi, con Galla e Valentiniano a seguito del contingente terrestre comandato dal generale Aspare, il quale che occupò Aquileia, dove si insediarono il Cesare d'Occidente con la sua augusta madre.
Aspare, invece, andò a Ravenna, catturò Giovanni e lo inviò ad Aquileia da Galla, la quale ordinò che gli fosse tagliata la mano destra, che fosse legato ad un asino ed esposto per le strade di Ravenna al pubblico ludibrio e che fosse infine decapitato nel circo nel 425.

Al tempo del re goto Teoderico (493-526) la Fossa Augusta, interratasi per l'apporto continuo di materiale dal Po, fu definitivamente seppellita. La Porta Aurea rimase in piedi fino al XVI secolo, e le sue colonne vennero sparpagliate come trofei tra le varie chiese di Ravenna; una parte giunse addirittura a Venezia. Sculture di epoca romana decorano ancora la chiesa di San Giovanni in Fonte.


TEODORICO E LA CORTE


BONIFACIO 

Mentre il generale Ezio contrastava con successo i Visigoti e i Franchi in Gallia, aumentava a corte l'influenza di Felice, nominato console da Galla nel 428 e patricius nel 429. Galla Placidia sottrasse a Ezio il titolo di magister utriusque militiae per darlo a Bonifacio, che elevò anche al rango di patricius per metterlo al di sopra di Ezio, che sarebbe stato console per il 432.

Ebbe così inizio una guerra civile tra Bonifacio ed Ezio, vinta da Bonifacio che sconfisse Ezio nella battaglia di Ravenna del 432, facendolo rifugiare tra gli Unni; Bonifacio morì per le ferite e gli successe come magister utriusque militiae, il genero Sebastiano, non riuscì ad opporsi a Ezio e ai suoi alleati unni.
Galla si trovò costretta a restituire ad Ezio la carica di magister utriusque militiae e a conferirgli il patriziato. Ezio concluse la pace con i Vandali nel 435, finchè nel 437 Valentiniano compì diciotto anni e terminò la reggenza di Galla..

MAUSOLEO DI GALLA PLACIDIA
Con la scomparsa di Valentiniano III nel 455, cinque anni dopo la morte della madre Galla Placidia, si chiuse la dinastia teodosiana e Ravenna si avviò al declino.
Nel 474, durante il regno di Zenone a Costantinopoli, il patrizio Giulio Nepote reclamò il trono d'Occidente,  depose l'Imperatore Glicerio e lo costrinse a farsi vescovo, mentre egli si fece incoronare imperatore a Roma. Però dopo pochi mesi, fu costretto da una rivolta dell'esercito capitanata dal patrizio Oreste ad abbandonare il trono e a fuggire in Dalmazia, dove nel 480 venne ucciso dai suoi stessi uomini.

Intanto l'esercito d'Italia nominò imperatore il giovane Romolo Augusto, figlio del patrizio Oreste, ma Odoacre nel 476 si rivoltò, reclamando per sé e per le sue truppe un terzo dell'Italia, e fece uccidere il Oreste e suo fratello. Entrato a Ravenna, depose Romolo Augusto dal trono, ma avendo pietà di lui, vista la sua giovane età, lo risparmiò, permettendogli di vivere in esilio in Campania con i suoi parenti garantendogli addirittura una rendita di sei mila solidi d'oro.

L'imperatore d'oriente Zenone accettò Odoacre come patrizio, ma a patto che quest'ultimo accettasse come suo imperatore d'Occidente Giulio Nepote, in esilio in Dalmazia che però fu assassinato a Salona dai suoi stessi uomini. L'Impero romano d'Occidente era caduto, anche se per una rivolta interna, l'usurpazione di Odoacre che tuttavia, seppur di origini barbariche, faceva parte dell'esercito romano.


PARTICOLARE DI UNO DEI PAVIMENTI MUSIVI DI EPOCA IMPERIALE ROMANA
DURANTE GLI SCAVI HERA IN PIAZZA ANITA GARIBALDI A RAVENNA

Il restauro in diretta dei mosaici ritrovati durante gli scavi da Hera 
Dopo quasi due millenni, i mosaici ritornano a vivere, sotto le mani esperte dei restauratori. Si tratta dell’ultimo ritrovamento di epoca imperiale romana avvenuto a Ravenna, in piazza Anita Garibaldi, durante la realizzazione dell’isola ecologica interrata di Hera.
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Il ritrovamento dei mosaici, risalenti al II secolo d.C. circa, avvenne casualmente, nel corso dei lavori di scavo effettuati nel 2011 dal Gruppo Hera. Venne in luce il settore di una residenza di epoca imperiale romana, con pavimenti a mosaico bianco e nero che si aprivano intorno a un’area cortiliva.
Il Gruppo Hera ha quindi sostenuto integralmente le spese dello scavo archeologico, del distacco dei mosaici, delle murature e del loro trasporto ai laboratori di restauro, seguendo le indicazioni della Soprintendenza per i Beni Archeologici dell’Emilia-Romagna, e sosterrà l’investimento per le spese di restauro e di allocazione dei reperti.
I mosaici ritrovati in piazza Anita Garibaldi presentano diverse tipologie decorative e fanno riferimento a schemi diffusi nell’Italia settentrionale. Questi schemi trovano confronti con pavimentazioni scoperte in passato a Ravenna e nella vicina villa romana di Russi.
I dati emersi dalle indagini archeologiche permettono, quindi, di aggiungere nuove informazioni alle conoscenze storiche sulla città e di avere una nuova percezione dell’aspetto urbano antico di Ravenna.



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