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LEGIO I MINERVIA

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La Legio I Menervia era una legione che si pose sotto la speciale protezione di Minerva. Secondo Cassius Dio (164 - 235), la I Minervia venne fondata dall'imperatore Domiziano (51 - 96) nell'anno 82, tanto è vero che nella primavera successiva, Domiziano scatenò una guerra contro il popolo Germanico dei Chatti.

Infatti si può ricollegare collegare il reclutamento di questa legione con il trasferimento della XXI Rapax da Bonna (moderna Bonn) a Mogontiacum (Mainz) nel 83.

La nuova legione venne stanziata a Bonn, nella provincia della Germania Inferiore, una marcia di un giorno a sud della sua capitale Colonia. Il nome completo della legione sembra essere stato I Flavia Minervia: Flavia è il nome di famiglia di Domiziano, Minerva era la divinità a cui era particolarmente devoto. 

Secondo le monete del III secolo, l' emblema era una statua di questa Dea guerriera. Un altro emblema era il Capricorno, il segno dello zodiaco che è governato da Minerva.

Poco tempo dopo la sua fondazione, la legio ricevette un nuovo nome. Nel 89 il governatore della Germania Superiore, Lucio Antonio Saturnino, si ribellò e l' esercito della Germania Inferiore (I Minervia, VI Victrix, X Gemina, XXII Primigenia) corse a sud, a Magonza, e sconfisse il ribelle. Per questo ad ogni legione che partecipò al combattimento venne assegnato il titolo di Pia Fidelis Domitiana (fedele a Domiziano). 

Quando l'imperatore venne assassinato nel 96, il termine domitiana venne abbandonato, e così il nome Flavia. Pertanto il nome completo della legione divenne I Minervia Pia Fidelis. 

Durante il regno di Traiano, la I Minervia combatté contro i Daci (101-106) e una iscrizione ritrovata ci informa che fece parte di un esercito formato dalla VI Victrix e dalla X Gemina di Neuss e Nijmegen. 

TOMBA DI MATERNUS VETERANO DELLA I MINERVIA
Negli ultimi anni della guerra, I Minervia fu comandata dal futuro imperatore Adriano.
L' emblema della legione è visibile sulla famosa colonna di Traiano a Roma, il monumento alla vittoria eretto dopo la conquista di Dacia.

La legione ritornò sul Reno al termine della guerra, perché il suo comandante (di cui ignoriamo il nome) stazionò nella Germania Inferiore nell' anno 112.

Dobbiamo al geografo greco Tolomeo di Alessandria un'interessante notizia sulla legione, perchè cita "Bonn della I legione minerviana", divenuta un importante insediamento civile a causa della presenza di una grande unità militare. Altri esempi di questo periodo sono Léon nella Hispania Tarraconensis, che deriva dalla parola "legione", e Xanten, che è stata chiamato semplicemente "la trentesima", dopo la XXX Ulpia Victrix.

La XXX Ulpia Victrix,  fondata nel 105 dall'imperatore Traiano, divenne la I legione gemella della Minervia. Le due unità spesso funzionavano insieme. Le iscrizioni dell'area fluviale olandese dimostrano che talvolta hanno lavorato insieme a progetti di costruzione, e diverse iscrizioni menzionano semplicemente "l'esercito della Germania Inferior" (exercitus Germanicus Inferior, spesso abbreviato in EXGERINF).

Diverse iscrizioni attestano la loro attività. Molti legionari avevano compiti militari, come il centurione responsabile della guarnigione di Divitia (Deutz), il forte sulla riva orientale del Reno. Alcuni legionari della I Minervia erano beneficarii, il che significa che un ufficiale (o il governatore) li aveva liberati dei loro doveri ordinari dando uno stipendio maggiore e un compito speciale, di solito burocratico.

LEGIFM (LEGIO I FLAVIA MINERVIA)
Potrebbero essere stati inviati in diverse parti della Germania Inferiore, e almeno uno di loro è noto per aver visitato il Cananefates, popolo tribale della zona ovest della Germania Inferiore che viveva vicino alla foce del Reno a Voorburg.

Alcune vessillazioni della I legione mineraria vennero utilizzate nelle cave di pietra, il che è molto interessante perché questa attività era solitamente riservata agli schiavi.

Un'altra vessillazione edificò un forno a calce nelle montagne dell' Eifel. Queste attività non erano certo rare, ma è degno di nota che i legionari di I Minervia servissero così frequentemente come operai. I loro compagni-soldanti della XXX Ulpia Victrix vennero invece usati soprattutto in compiti burocratici. Potrebbe derivare da una semplice divisione del lavoro, soprattutto dal momento che altri forni della I Minervia sono localizzati vicino Nijmegen, che è vicino a Xanten e lontano da Bonn.

Secondo alcuni il tipo di lavoro seguiva i meriti, ma nulla lo prova e nemmeno era nel costume romano questo tipo di punizione. 


MINERVA GIUSTINIANI
Le legioni facevano tutto ciò che occorreva  e quindi lavori di qualsiasi tipo. Inoltre il lavoro pesante li teneva in allenamento. 

A volte, le vessillazioni venivano inviate all'estero. Si pensa vennero usate in Britannia, e certamente in Mauretania. 

Durante il regno di Lucio Vero, l'intera legione I Minervia servì nella campagna contro l'Impero dei Parti (162-166). 

Per rafforzare questa unità furono aggiunti i soldati della XXX Ulpia Victrix. 

Una iscrizione afferma che una vessillazione abbia combattuto nelle regioni del Caucaso e in Albania vicino al Mar Caspio. 

Comunque Bonn rimase la base di questa legione fino all' inizio del III secolo e secondo la colonna di Marco Aurelio, le sottounità furono coinvolte nelle guerre contro i Marcomanni (165-175 e 178-180). 

Altre vessillazioni possono aver preso parte alla campagna del governatore di Gallia Belgica, Didius Julianus, contro il Chauci nel 173. Nel 193 scoppiò una guerra civile nell' impero romano. La I legione Minervia si schierò subito con Lucio Settimio Severo (145 - 211), con un atto davvero coraggioso perché un altro pretendente, Clodio Albino (147-197), era più a portata di mano.

Nel 196/197, la legione fu coinvolta nella lotta tra questi due uomini. Vinse Settimio Severo e sicuramente premiò la legione, anche se non sappiamo in che modo. Durante il suo regno (198-211), vessillazioni delle due legioni dell' EXGERINF e delle due legioni della Germania Superior (VIII Augusta e la XXII Primigenia) servivano da guarnigione di Lione, capitale delle tre province galliche.



Tra il 211 e il 222 la legione venne titolata con un altro nome: Antoniniana, che era il nome di due imperatori: Caracalla (211-217) e Heliogabalus (218-222).

Il secondo candidato è più plausibile, perché il cognome sembra essere stato abbandonato quando è stato assassinato.
Su un altare dedicato nel 231, la legione si chiama I Minervia Pia Fidelis Severiana Alexandriana, che dimostra che l' imperatore Severo Alessandro dovette una certa gratitudine a questa unità.

I MINERVIA COL TITOLO "MAXIMIANA" ERASO
Severo Alessandro fu ucciso nel 235 e il suo trono fu preso da Massimino Trace. Probabilmente, la legio I ebbe un ruolo durante la successione, perché prese il titolo di I Minervia Maximiniana Pia Fidelis Antoniniana. Quindi di nuovo Antoniniana e in più il titolo di Maximiniana, titolo però defalcato quando Massimino venne ucciso nel 238.

La legione deve aver preso parte alle guerre civili del III secolo e fu nota per la sua fedeltà all' Impero gallico, che esisteva tra il 260 e il 274. Un' iscrizione di Sirmio dimostra che una vessillazione si trovava in quella città intorno al 260.

Nel IV secolo, la I legione Minerviana si trovava ancora a Bonn. Nel 351/353 la legione venne sconfitta dai Franchi e la guarnigione di Bonn venne distrutta, ma la legione tornò qualche anno dopo, quando il generale Giuliano (il futuro imperatore) ripristinò la frontiera del Reno. In quel momento, c' era un' altra unità con lo stesso nome, ma questo faceva parte delle forze mobili e non era di stanza vicino al Reno.
Nel 383 appoggia, insieme al resto delle guarnigioni della Germania e a quelle della Britannia, l’usurpatore Massimo (Comes Britanniarum), contro Graziano e Teodosio I, e non si esclude abbia anche appoggiato nel 407 l’ennesimo usurpatore proveniente dalla Britannia, Constantino III. Forse ritirata in Italia abbandonando le difese sul Reno, combatte le invasioni gotiche nel 401-402.


TERME STABIANE (Pompei)

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Le Terme Stabiane sono bagni termali che prendono il nome dalla Via Stabiana che le corre accanto e vennero scoperte i primi dell'ottocento, e poi scavate tra il 1853 e il 1858. Nelle terme i romani non solo si prendevano bagni, ma si discuteva di politica, di processi, di battaglie, di donne, di gladiatori e di teatro, ma soprattutto era il salotto cittadino dove si commentavano i fatti del giorno.

Negli scavi colpì immediatamente l’assenza dei pregiati rivestimenti marmorei, forse asportati nei giorni seguenti all’eruzione dai sopravvissuti tanto più che i pezzi marmorei vennero usati per pavimenti fatti a spezzoni, e ne dettarono la moda, o vennero macinati per fare stucchi marmorini, anch'essi molto di moda.  

Sembra però che l’imperatore Tito avesse nominato dei Curatores Restituendae Campaniae per il recupero dei materiali pregiati rimasti sotto le macerie, per cui anche questi avrebbero potuto effettuare la spoliazione, che in ogni caso non fu postuma come per gli infiniti marmi romani ma coeva, e quindi effettuata dagli stessi antichi.

Queste terme sono le più antiche di tutta Pompei, in quanto il nucleo più antico risale all'età sannitica, vale a dire al IV sec. a.c., ed era in origine costituito dalla palestra porticata collocata nel cortile, da celle con bagni singoli e da un pozzo quadrangolare, che sembra essere il pozzo più antico della città.

Codesto pozzo era molto profondo, per cui l’acqua veniva attinta per mezzo di una ruota idraulica azionata a mano da uno schiavo. L’acqua veniva raccolta poi in un serbatoio e successivamente incanalata nelle vasche e nelle caldaie delle Terme Stabiane.
Le terme attuali, così come le vediamo oggi, non sono in realtà quelle originali, perchè divennero oggetto di un totale rifacimento nel II sec. a.c., per ordine dei duumviri Caius Iulius e Publius Aninius che,  come era in uso tra i romani, monumentalizzarono la città all'uso romano, ricostruendo la palestra, il triportico e aggiungendovi un laconicum e un destrictarium. Perfino le colonne doriche in tufo del triportico, dopo il 62 d.c. , furono pesantemente stuccate tanto da apparire piuttosto tozze.




LE FASI DELLA COSTRUZIONE

- I - II - III - Fase: l’edificio era più piccolo di quello oggi visibile. Le due principali strutture erano una piccola palestra sulla quale affacciavano poche stanze con un corridoio antistante, e una casa privata nel lato sud-occidentale, aggiunta alle terme in età repubblicana e dove poi sorgerà la piscina.
- IV - Fase (seconda metà II sec a.c.): viene costruito il peristilio e gli impianti termali divisi tra uomini e donne. Il tepidarium maschile venne utilizzato come apodyterium (spogliatoio) e vi fu messo un orologio solare.
- V - Fase (deduzione coloniale): furono aggiunti il laconicum e un destrictarium (sala per detersione).
- VI - Fase (fine I sec. a.c.): il destrictarium fu tolto, fu aggiunta una vasca per bagni freddi nel settore dello spogliatoio femminile e il laconicum maschile fu convertito in frigidarium.




DESCRIZIONE
E' nell’80 a.c., quando la città divenne colonia romana, che le Terme Stabiane ebbero comunque l'assetto attuale, con una forma trapezoidale per la presenza di una casa vicina di cui restano le tracce di un muro divisorio nella zona della piscina.

Solo nel II secolo a.c. però vi furono introdotte le intercapedini per il riscaldamento dei locali, attraverso un livello inferiore che aveva delle suspensurae che sostenevano il piano di calpestio. Il riscaldamento delle pareti avveniva invece tramite la concameratio, ovvero un’intercapedine composta da tegulae mammate che distanziava la parete interna dal muro esterno.

Le tegule mammate (Plinio il Vecchio) erano delle piastre con protuberanze usate come isolante per impedire che l'umidità si sviluppi sulle pareti. Le piastre dovevano coprire il muro in tutta la loro altezza, impermeabilizzate con pece all'interno. Inoltre venivano lasciati gli sfiati nella parte superiore e inferiore della parete per garantire il rinnovo dell'aria.

LO SPOGLIATOIO
L’ingresso alla struttura affaccia su via dell’Abbondanza, nei pressi del monumento, il tetrastilo degli Holconii, dedicato dai due fratelli (che avevano restaurato il teatro). Sul lato ovest della palestra vi è una grande piscina separata dalla palestra attraverso un piccolo muro. La natatio è affiancata da due ambienti, dove, come usava del resto pure tra gli etruschi, la gente si spogliava e si lavava  con acqua raccolta in bacini per non sporcare la piscina.

Questi due vani sono decorati con stucchi eseguiti dopo il terremoto del 62 d.c., quando si sviluppò l’ultima fase edilizia di Pompei, e sopra la volta d’ingresso ai due ambienti è effigiato Giove assiso in trono con lo scettro e un’aquila poggiata su un pilastrino.

Nell'ingresso e nella palestra si conservano infatti raffinate decorazioni in stucco policromo, di poco anteriori all'eruzione del 79, con soggetti figurati e mitologici di 'quarto stile': fatto di calce e calcite, lo stucco resisteva all'umidità.

NELLE TECHE LE VITTIME DEL TERREMOTO
L’impianto termale vero e proprio era diviso nel settore maschile e in quello femminile, assolutamente non comunicanti e separati da un praefurnium formato da tre caldaie. Il settore maschile occupa tutto il lato sud delle terme e vi si accedeva attraverso una porta sul lato sud-est del portico. Dopo l’ingresso vi era un vano coperto da volta a botte finemente stuccata, alla destra del quale si aprivano delle piccole stanze che in origine dovevano avere un’uscita, poi murata, su Via dell’Abbondanza.

Il settore femminile è più piccolo come dimensioni rispetto a quello maschile e non absidato. Tra il settore femminile e l’uscita di Via del Lupanare si hanno dei piccoli ambienti, alcuni dei quali sotterranei, che svolgevano la funzione di servizio o erano gli ambienti ristretti dell’impianto primitivo.
I clienti potevano spogliarsi nell’apodyterium (spogliatoio) e lasciare gli abiti in apposite nicchie situate alle pareti. Il frigidarium aveva invece una forma circolare e una volta a cupola dipinta di blu che mimava un cielo stellato. Le pareti erano affrescate con scene di giardini verdeggianti. Al centro del vano era allocata una vasca dove l’acqua cadeva da un'altra fontana più in alto, posta in una nicchia sulla parete. Si pensa che in età sillana ci fosse un laconicum per i bagni d’aria calda prodotta dalla presenza di bracieri.

I MERAVIGLIOSI STUCCHI DELLA VOLTA
Sia l’apodyterium sia il frigidarium che il tiepidarium non erano ancora in funzione al momento dell’eruzione, forse a causa dello sciame sismico precedente il 24 agosto del 79 d.c.,  mentre il calidarium disponeva di una vasca per il bagno caldo e tutto l’ambiente era illuminato da un foro situato in un’abside. 
Viceversa la sezione femminile, locata sul lato nord, era in buono stato. Essa mancava del frigidarium sostituito da una vasca per i bagni freddi. Un corridoio potrebbe essere il destrictarium (dove ci si detergeva) sillano di questo settore. 
Il primo ambiente che però s’incontrava era l’apodyterium cui in origine si accedeva solo attraverso due stretti corridoi che collegavano le terme con Via del Lupanare e Via Stabiana. L’apodyterium è sicuramente l’ambiente meglio conservato di tutto il settore femminile con un’elegante e semplice decorazione parietale.

Il calidarium aveva un bacino di marmo, detto labrum, ritrovato in ottimo stato di conservazione. Qui l’aria calda arrivava attraverso un piccolo spazio su cui vi è un semicilindro di bronzo il cui piano base è più basso, anche se di poco, di quello del bacino.
Le terme avevano anche un sovraintendente che occupava un ambiente a nord-est dell’area della palestra sulla quale si affacciava attraverso una finestra. Per difendersi dal freddo il sovraintendente usava un braciere donato da Marcus Nigidius Vaccula discendente da una ricca famiglia che possedeva un’industria del bronzo nella città di Capua.

C'era anche una latrina situata nei pressi dei primi piccoli bagni, fornita di fognatura a cui era allacciata. Sotto la piscina è ancora possibile vedere un vano scavato nel tufo che in molti ritengono essere una tomba arcaica. Qui vi passava anche una strada che metteva in comunicazione con il Foro e Via Marina.
A nord di questa strada si costruirono delle abitazioni in una zona extra pomerium, fuori della zona sacra, visto anche la presenza della tomba. La strada poi scomparve nel IV sec. a.c. quando furono costruiti i primi spazi della finestra e la tomba fu trasformata in un deposito il cui pavimento fu rifatto nel III sec. a.c., conseguenza dello sviluppo urbanistico di Pompei intorno al Foro.

All’uscita dalle terme, all’incrocio tra Via Stabiana e Via dell’Abbondanza, era situato un arco quadrifronte in laterizio con base un pilastro a sorreggere la statua loricata di Marcus Holconius Rufus, ora conservata al Museo Archeologico Nazionale di Napoli. 

L'epigrafe ricorda:

M(arco) Holconio M(arci) f(ilio) Rufo
trib(uno) mil(itum) a popul(o) IIvir(o) i(ure) d(icundo) V
quinq(uennali) iter(um)
Augusti Caesaris sacerd(oti)
patrono coloniae [CIL X 830]

Marcus Holconius Rufus fu sicuramente il personaggio più importante della storia di Pompei. Vissuto in età augustea, fu, infatti, duumviro, quinquennale, patronus coloniae, tribunus militum a populo sacerdos Augusti.

MARCO VALERIO LEVINO

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Nome: Marcus Valerius Laevinus
Nascita: 260 a.C. 
Morte: 200 a.C.
Professione: politico e generale

La moneta di cui sopra è un Denario raffigurante Numa Pompilio al dritto e una prua di nave al rovescio. E' un simbolo della marina militare romana. Venne coniata intorno al 48/49 a.c. dopo la fuga di Pompeo da Roma. La moneta esalta la marina militare romana protetta da Giove, marina che viene considerata attiva per i romani a partire dal IV sec. a.c., ma in realtà iniziò con la I Guerra Punica (264 a.c. - 241 a.c.) che fu innanzi tutto una guerra navale.

Tutto nacque dalla richiesta di soccorso dei Mamertini contro Siracusa, dapprima ignorate da Roma, ma non da Cartagine che invece inviò subito una squadra navale. Cartagine mirava a conquistare anche il settore orientale della Sicilia. Sapere che Cartagine era a poche miglia dalle coste del
Bruttium appena conquistato preoccupò non poco il Senato romano, che inviò aiuti a Messina, violando il trattato del 300 a.c. che vietava interventi di Roma in Sicilia. Cartagine dichiarò guerra alleandosi con Siracusa, contro Roma ed i Mamertini.

La maggior parte della I guerra punica, comprese le battaglie più decisive, fu combattuta in mare, dove i cartaginesi, al contrario di Roma erano esperti. All'inizio della guerra Roma non aveva nessuna esperienza di guerra navale. Le sue legioni vittoriose si battevano solo via terra. Roma dovette allestire una flotta basandosi sulle triremi e quinqueremi cartaginesi. Per compensare la mancanza di esperienza navale, Roma equipaggiò le navi con un congegno d'abbordaggio: il corvo, che agganciava la nave nemica e permetteva alla fanteria, trasportata, di combattere come sapeva fare egregiamente. In almeno tre occasioni (255 a.c.), (253 a.c.) e (249 a.c.), intere flotte furono distrutte dal maltempo. Forse il peso dei corvi sulle prore poteva entrarci.
IL CORVO
In queste battaglie della I Guerra Punica brillò un astro non sufficientemente apprezzato dalla storia:

MARCO VALERIO LEVINO, un capitano e un eroe.

Marco Valerio Levino, ovvero Marcus Valerius Laevinus; (... – 200 a.c.) è stato un politico e generale della Repubblica Romana durante la I guerra punica. Sappiamo poco delle sue origini, sappiamo però che era patrizio poichè:

"XXXI V. Guardando intorno i Padri, chi avessero a creare consoli, avanzava tutti gli altri 
Caio Claudio Nerone (cons. nel 207). Gli si cercava un collega, e Io stimavano bensì uomo egregio, ma pronto e fiero alquanto più che non esigevano le circostanze di quella guerra con Annibale per nemico, pensavano che si dovesse temperare quell'indole ardente coll'aggiungergli a collega un uomo moderato e prudente. Ci era Marco Livio molti anni innanzi poiché uscì dal consolato condannato dal popolo. 

La quale ignominia aveva egli di sì malanimo sopportata ch'era andato a dimorare in villa e per parecchi anni s'era astenuto dalla città e dal conversare con chi che sia. L'anno VIII a un dipresso dopo la sua condanna i consoli Marco Claudio Marcello e Marco Valerio Levino lo aveano ritratto alla città ma usava veste logora capelli e barba lunga attestando chiaramente nel volto e nel culto della persona la memoria dell'onta ricevuta. 

I censori Lucio Veturio e Publio Licinio l'obbligarono a radersi a depor lo squallore a venire in senato e a sostenere ogni altro pubblico incarico. Anche allora però o assentiva con una semplice parola o da luogo a luogo per dare il suo voto.
Allora udito a parlare dopo tanto trasse a sè gli sguardi di tutti e diè motivo ai discorsi avergli il popolo fatta ingiustizia ed esser venuto gran danno dal non aver usato la repubblica in sì grossa dell'opera e del consiglio di tal uomo potersi dare a Caio Nerone collega nè Quinto nè Marco Valerio Levino perchè non è creare due consoli patrizii."

Levino sembra fosse il nipote di Publio Valerio Levino, console nel 280 a.c. che venne sconfitto però nella battaglia di Eraclea dalle truppe epirote/tarentine comandate dal re Pirro d'Epiro. Un precedente familiare poco brillante, ma questo non offuscò la carriera  del geniale Marco Valerio, cui forse la storia non ha riservato il giusto posto che meriterebbe per la sua assoluta genialità come generale sia di terra che di mare, tenendo conto che all'epoca le battaglie navali erano ai primordi per i romani.
Comunque Levino venne eletto console nel 220 a.c. e ancora una volta nel 210 a.c.

Levino, fu di sicuro uno dei migliori generali e governatori romani di tutti i tempi, insignito del consolato nel 211-210 a.c. pur senza aver avanzato la propria candidatura. A causa di alcuni contrasti con il Senato, Levino non venne mai onorato di quel Trionfo, anzi di quei Trionfi, che avrebbe invece ampiamente meritato.

ANNIBALE CONTRO ROMA

GLI EVENTI

227 a.c. - Ignoriamo la data di nascita di Valerio Levino, ma sappiamo che, nominato  Pretore due volte, nel 227 a.c. governò la Sardegna. 

215 a.c. - Nel 215 a.c., l'anno successivo alla devastante sconfitta romana nella battaglia di Canne ad opera di Annibale, era già stato nominato "praetor peregrinorum", una magistratura dotata di imperium e iurisdictio, e che si occupava degli affari riguardanti gli stranieri presenti a Roma.

All'epoca i pretori ottenevano facilmente un esercito. Non c'è da stupirsi perchè per la Repubblica era un periodo di grande emergenza: Roma era in pericolo e tutti i magistrati civili ricevettero comandi militari. Infatti in breve Levino ricevette delle legioni appena tornate dalla Sicilia e una flotta di venticinque navi per controllare la Puglia e la costa tra Brindisi e Taranto.



L'INGANNO

- Mentre era accampato nei pressi di Lucera (in Puglia), gli uomini di avanguardia gli portarono degli ambasciatori di Filippo V di Macedonia (238 – 179 a.c.); l'ambasciata era indirizzata ad Annibale, ma il capo della delegazione macedone ingannò Levino sullo scopo della missione, sostenendo di volersi recare presso il senato romano per offrire alleanza a Roma.
L'ambasciatore convinse l'ingenuo Valerio, non solo a fornirgli delle guide e una scorta per recarsi a Roma, ma anche ad informarlo sui luoghi e sui passaggi occupati dai Romani e dai Cartaginesi.

FILIPPO V DI MACEDONIA
- Levino era un uomo tutto d'un pezzo, sceso in campo con il grado di propretore in seguito alla disfatta di Canne. Egli aveva dimostrato fermezza e coraggio nell'impedire agli Irpini di ribellarsi a Roma e passare nel campo cartaginese. Era un uomo autorevole, molto intelligente e lungimirante. I pericoli non lo spaventavano ma anzi gli acuivano l'ingegno. Ora lo attendeva una nuova sfida, ovvero bloccare l'invasione macedone. 

- Stranamente questo evento non squalificò il condottiero, nè gli venne tolto il comando perchè anzi, nell'autunno di quello stesso anno, combattè e riprese tre città degli Irpini, una delle quattro tribù che costituivano il popolo dei Sanniti, che si erano ribellate e passate dalla parte di Annibale dopo la sconfitta romana a Canne.

- In gran segreto gli ambasciatori di Filippo V intanto erano sbarcati in Italia e avevano  raggiunto Annibale nei pressi di Canne, firmando con lui un patto di alleanza. Ma furono catturati dai romani, che sguinzagliavano pattuglie ovunque, sulla via del ritorno. Il Senato si spaventò non poco alla notizia delle intenzioni belliche di Filippo V. 

- Dopo aver lasciato il necessario presidio a Taranto e a Reggio, Levino si acquartierò per l'inverno in Apulia (Puglia) con una legione. Il console Tiberio Sempronio Gracco (255 – 212 a.c.), avendo condotto le sue legioni da Cuma a Lucera, inviò Valerio Levino a Brundisium insieme al proprio esercito di Lucera, incaricandolo di difendere le coste dell'agro salentino e sorvegliare i movimenti di Filippo V di Macedonia ( 238 – 179 a.c.) che sembra si apprestasse alla guerra. Per Levino, come per Scipione e per Cesare, le stagioni non contavano. Se necessario si combatteva anche in inverno.

- Intanto Filippo diresse la flotta verso Apollonia, in Illiria. Sbarcò e pose d'assedio la città dopo essersi preso anche la città di Orico. Ma la squadra navale romana era comandata da Marco Valerio Levino, subentrato da poco a Valerio Flacco e il vento girò immediatamente in favore dei romani. Come un fulmine Valerio piombò su Orico liberandola, poi concordando un piano con il suo secondo, Quinto Nevio Crista, ruppe l'assedio di Apollonia, sorprendendo i macedoni nel proprio campo. Fu un massacro, dal quale si salvò per miracolo il re Filippo, riparando in Macedonia. Era stata una vittoria piena e fulminante: Roma esultò.



I GUERRA MACEDONICA (214-210 a.c.)

215 a.c. - Nel 215, dopo varie operazioni fortunate in Apulia, dove sconfisse i ribelli contro Roma in battaglie fulminee, il senato, e pure il popolo romano, si erano convinti che Levino era l'uomo del giorno, quello che poteva risolvere la situazione pericolosa di Roma. Così egli ebbe l'incarico dal senato di combattere Filippo V di Macedonia, alleato di Annibale. Il generale romano doveva impedirgli assolutamente l'invio di truppe in Italia.

TRIREME ROMANA
- Naturalmente Marco Valerio non poteva guardare tutte le coste italiche, ma fece del suo meglio sguinzagliando le sue navi con capacità e destrezza. Avendo fama di valentissimo generale, a lui si rivolsero alcuni inviati di Oricum, in Epiro, avvisandolo che la loro città era stata conquistata da Filippo e che ora sarebbe toccato ad Apollonia. 
- Levino anzi tutto assolse brillantemente il suo incarico di salvaguardia delle coste, difendendo Taranto da Annibale, poi  attraversò immediatamente l'Adriatico, passando in Grecia, ove conseguì ottimi successi militari ma pure politici, per le sue ottime capacità diplomatiche e persuasive, concludendo un'alleanza con i Pergameni e altri nemici della Macedonia.
- Immediatamente Levino riconquistò Oricum e Apollonia, e Filippo,  non fu solo sconfitto ma costretto a riparare in Macedonia. Il generale romano concluse anche un accordo con la Lega etolica, una confederazione delle città della regione greca dell'Etolia, nata nel IV sec. a.c. per opporsi alla Macedonia, comandata da uno stratego, eletto da tutti i cittadini sopra i 30 anni.
- Visti i grandissimi successi la propretura di Levino (una carica di epoca repubblicana per cui un pretore che, esercitata per un anno questa carica, era destinato al comando di un esercito o di una provincia) fu prorogata per quattro volte, dal 214 al 211 a.c.

214 a.c. - Nel 214 dopo aver ripreso la città con una battaglia via mare, insolita per i romani, e poi via terra, si acquartierò ad Oricum, poi dal 213 al 211 controllò con la flotta romana di cinquanta navi, i movimenti di Filippo in Etolia ed Acaia. Fu un clamoroso successo navale contro Filippo, impedendo la fuga del re per mare.

211 a.c. - Agli inizi 211 a.c., a Marco Valerio fu destinata nuovamente la difesa dei litorali di Grecia con 50 navi ed una legione. Alla fine del 211 a.c. fu eletto console per la II volta, senza essersi candidato, mentre era ancora lontano da Roma.

Il popolo seguiva le sue notizie e sapeva dell'ottimo contributo fornito nella guerra macedonica. Infatti, nel corso di quell'anno di guerra riuscì a cacciare i Macedoni dall'isola di Zacinto, da Eniade e da Nasus in Acarnania. Fu un susseguirsi incessante di vittorie. Quindi svernò con le sue legioni a a Corcira (isola di Corfù) riorganizzando e addestrando le sue truppe.

210 a.c. - nella primavera dell'anno successivo, il propretore Marco Valerio Levino prese per mare Anticyra (nella Focide) che lasciò però agli Etoli vista l'alleanza, però secondo i patti il bottino di guerra andò ai Romani.
Durante questo assedio a Levino era stata consegnata la lettera in cui gli si annunciava di essere stato fatto console e che stava per arrivare il suo successore Publio Sulpicio.

- Divenuto console nel 210, tenne quattro anni come provincia la Sicilia, prendendo Agrigento ai Cartaginesi e compiendo audaci scorrerie nell'Africa. Sappiamo però che Levino, impedito da una lunga malattia, giunse a Roma molto più tardi del previsto.

- Alla sua permanenza a Corcira viene ascritta una serie di monete composta da un vittoriato (moneta d'argento repubblicana con Giove e Vittoria).e da un quinario (una piccola moneta romana d'argento che valeva metà denario).



LEVINO A ROMA

- A causa della malattia (non sappiamo quale), Levino non poté tornare a Roma fino all'inizio dell'estate. Sbarcato in Italia, passò da Capua, dove ricevette una gran folla di Campani che piangendo lo scongiurava di permettere loro di raggiungere Roma a pregare i senatori, affinché non li conducessero all'estrema rovina a causa del proconsole Quinto Fulvio Flacco (cons. 237 a.c.).

- Questi interpellato da Levino dichiarò di non avere nulla contro i Campani, ma che erano essi stessi ad odiare il popolo romano. Tito Livio: « Nessuna gente vi era sulla terra, infatti, nessun popolo più ostile al nome romano [come i Campani]. »
(Livio, XXVI, 27.12.)

- Quindi Flacco li teneva chiusi nelle mura della città impedendo loro i commerci con Roma e altre città, per evitare che potessero vagare nelle campagne a massacrare chiunque incontrassero, riferì inoltre che alcuni di loro si erano rifugiati da Annibale, mentre altri avevano incendiato il foro romano a Roma. 

- Il console Levino, infatti, avrebbe trovato il Foro mezzo bruciato da alcuni Campani, denunciati e poi messi a morte dopo regolare processo davanti al senato. Flacco affermò di non ritenere sicuro, permettere ai Campani di entrare nelle mura di Roma, ma Levino, dopo che i Campani giurarono a Flacco che sarebbero ritornati a Capua cinque giorni dopo aver ricevuto la risposta del senato, ordinò che lo seguissero fino a Roma. La sua autorevolezza e il mito che si era creato su di lui gli consentiva qualsiasi manovra, di guerra e di pace.

- Circondato dai campani ma pure dai Siciliani che, udito il buon esito delle rimostranze capuane, si erano similmente lamentati delle vessazioni del console Marco Claudio Marcello, Levino che pur essendo molto severo era generoso con i vinti, si dispiacque molto dell'ingiusto sterminio di due famosissime città, per cui guidò a Roma, come accusatori, quelli che erano stati vinti in battaglia dai due illustri generali Flacco e Marcello, facendosi ovviamente due nemici.

- Entrò quindi a Roma accompagnato non solo dai rappresentanti di Capua e Siracusa, ma anche con molti della Lega etolica. Espose davanti al senato la situazione in Macedonia, Grecia, Etolia, Acarnania e nella Locride (regione greca), e quali fossero state le sue imprese per terra e per mare. 

- Aggiunse che il re Filippo, quando portò guerra agli Etoli, venne da lui ricacciato indietro in Macedonia, rifugiandosi fin nelle regioni più interne del regno. Sarebbe stato così possibile richiamare da quell'area una legione, poiché bastava la flotta a tenere il re lontano dall'Italia.

- Il senato ne fu contentissimo e il popolo romano lo osannò, ma stranamente il generale non ricevette alcun trionfo, probabilmente per l'opposizione dei due generali Flacco e Marcello e delle rispettive gentes che occupavano i seggi senatori. Non risulta comunque che Levino ne abbia mai fatto richiesta.

I GUERRA PUNICA

GOVERNATORE DELLA SICILIA

- Avendo fatto rapporto al Senato romano dei suoi tre anni di guerra contro il regno di Macedonia, nel sorteggio delle province, ricevette l'Italia con l'incarico di condurre la guerra contro Annibale, ma stranamente fece scambio col collega Marcello, ottenendo alla fine la Sicilia.

- Era incredibile che rinunciasse a un incarico così importante e glorioso come quello di combattere Annibale, ma, come si è detto, Levino aveva un carattere molto generoso, e non era rimasto insensibile ai lamenti dei Siracusani sulla nomina di Marcello, che era animato da una certa crudeltà,  era stato nominato governatore dell'isola.


Marco Cornelio Cetego

- A Levino toccò poi il compito, affidatogli dal senato, di congedare l'esercito che era stato comandato da Marco Cornelio Cetego, personaggio di grande importanza, pretore per la Regio II Apulia et Calabria nel 211 a.c., censore nel 209 a.c., e che sarà fatto console nel 204 a.c.

- Con il ritorno di Marcello a Roma, a Cornelio Cetego venne data disposizione di eseguire gli ordini che il senato romano aveva decretato in Sicilia e cioè:

- a Soside, che aveva fatto entrare i Romani in Siracusa di notte, e a Merico, che aveva consegnato Naso ed il suo presidio, vennero concessi il diritto di cittadinanza insieme a cinquecento iugeri di terra.

- A Soside venne donato il terreno nei pressi di Siracusa, che in passato era appartenuto ai re cittadini, oltre a una casa in città che egli scelse tra quelle confiscate per diritto di guerra.

- A Merico ed agli Spagnoli, che con lui erano passati dalla parte dei Romani, venne deliberato di donare loro una città con il suo territorio in Sicilia, fra quelle che avevano abbandonato l'alleanza con i Romani.

- A Belligene, che aveva spinto Merico alla defezione, vennero donati quattrocento iugeri.

- Dopo la partenza di Marcello dalla Sicilia, la flotta cartaginese sbarcò 8.000 fanti e 3.000 cavalieri numidi. Le città di Morgantina (Murgentia) e di Ergentium passarono dalla parte dei Cartaginesi, seguite poi da Ibla (Hybla) e Macella, oltre ad altre città minori.

- I Numidi si erano dati a saccheggiare ed incendiare i campi degli alleati del popolo romano, vagando per tutta la Sicilia. Contemporaneamente l'esercito romano, indignato sia perché non aveva potuto seguire Marcello a Roma, sia perché gli era stato proibito di svernare in città, trascurava il servizio militare al punto che, poco mancava che non si ribellasse, se solo avesse trovato un comandante all'altezza per prendere l'iniziativa.

- Cetego cercò di calmare l'animo dei soldati, a volte confortandoli, altre punendoli. Alla fine ridusse all'obbedienza tutte le città e per questo ottenne il comando in Sicilia dopo Marcello per il 210 a.c., come propretore. Tito Livio narra che Cetego protestò contro il suo avversario Marcello riempiendolo di false denunce e affermando che la guerra in Sicilia durava ancora, sempre per gettare discredito su Marcello. Questi però riuscì a discolparsi. 

- Un esercito così poco fedele e disciplinato non poteva sussistere per i romani, per cui Marco Valerio ottenne la provincia di Sicilia con il compito, assegnatogli dal senato, di congedare l'esercito di Cetego. Mandare a casa un esercito era un compito pericoloso perchè questi poteva ribellarsi, ma Levino naturalmente eseguì l'incarico senza disordini.


I fondi per la guerra

- La Repubblica aveva bisogno di fondi per rifornire la flotta, ma un editto in tal senso aveva preoccupato il popolo romano e gli alleati italici, già oppressi da una forte tassazione per finanziare la guerra in Italia.

- Levino, con il suo grande senso di giustizia, propose allora che tutti coloro che avevano ricoperto magistrature curuli e tutti i membri del Senato portassero volontariamente al tesoro tutto il loro oro, argento e bronzo, sia coniato che in lingotti, ad eccezione di quanto necessario per i sacrifici di famiglia, per gli anelli degli equites, per le bulle dei ragazzi o per alcuni ornamenti femminili. La proposta fu accolta per acclamazione popolare e messa in pratica, sedando il malcontento del popolo e permettendo a Levino di partire per la Sicilia.


L'elezione dei consoli

- Giunta ormai l'estate del 210 a.c., era ormai prossimo il periodo per tenere i comizi per l'elezione dei consoli. Al console Marco Claudio Marcello spettava il compito di indire le nuove elezione, in qualità di console anziano, ma egli con una lettera aveva risposto al Senato che lo richiamava, ritenendo che fosse dannoso alla repubblica allontanarsi da Annibale, ora che gli era appresso e lo incalzava costantemente, mentre il Cartaginese si ritraeva e rifiutava la battaglia.

- Il Senato, una volta ricevuta la missiva, si trovò di fronte a un dilemma, o richiamare dalla guerra un console impegnato in un'impresa tanto importante e difficile oppure  rinunciare ad avere dei nuovi consoli per l'anno 209 a.c., provvedimento che andava contro la democrazia e le pressioni degli aspiranti consoli. Alla fine la miglior soluzione parve quella di richiamare dalla Sicilia il console Valerio Levino, anche se si trovava fuori dell'Italia. 

- Il Senato ordinò al pretore urbano Lucio Manlio di inviare una lettera a Valerio, unitamente a quella inviata da Marcello al Senato, per informarlo sulle ragioni che avevano portato a richiamarlo dalla provincia al posto del collega più anziano.

- Valerio Levino con dieci navi partì per Roma e vi arrivò felicemente, dopo aver affidato il governo della provincia ed il comando dell'esercito al pretore Lucio Cincio Alimento, oltre ad aver inviato il comandante della flotta, Marco Valerio Messalla con una parte delle navi in Africa a spiare i preparativi dei Cartaginesi ed a predare quelle terre.

- L'escursione africana dette buoni frutti perchè, qualche tempo più tardi, una volta rientrato dalla campagna militare africana, Valerio Messalla fece un'inchiesta fra i prigionieri africani, venendo a conoscere tutta una serie di dati che si affrettò a comunicare per iscritto al console Levino, affinché fosse informato sulla reale situazione in Africa.

MASSINISSA
- Aveva scoperto che a Cartagine si trovavano 5.000 Numidi con Massinissa, (229 – 148 a.c.) valente figlio di Galae. Vi erano poi altri soldati mercenari arruolati in tutta l'Africa per essere condotti in Spagna agli ordini di Asdrubale, il quale si sarebbe ricongiunto col fratello Annibale in Italia, con un grande esercito. 

- Levino allora, che si trovava a Roma, convocò il Senato e lo informò di aver espulso definitivamente i Cartaginesi dall'isola e di aver domato l'intera isola, dove per quasi sessant'anni si era combattuto per terra e per mare e dove gli stessi Romani avevano subìto anche grandi sconfitte.

- Tutti quei Siciliani che erano fuggiti per timore della guerra, erano ormai ritornati nelle città ad arare e a seminare i loro campi, mentre la terra era tornata di nuovo produttiva, tanto da costituire un sicuro contributo per il vettovagliamento in pace e in guerra per le armate romane.

- Le porte di Agrigento gli erano state aperte da Muttine, un capo numida scontento dei Cartaginesi. che Levino portò in senato, insieme a tutti coloro che si erano dimostrati favorevoli ai Romani. A questi furono tributati onori secondo le promesse del console. Muttine divenne cittadino romano sulla base di un preciso disegno di legge di uno dei tribuni della plebe, sottoposto all'approvazione del popolo ed all'autorizzazione del Senato.

- Dalla relazione emerse poi che Levino, di ben sessantasei città, sei le conquistò per assalto, venti caddero per tradimento e quaranta gli si arresero volontariamente. Trovati, infine, ad Agathyrna (Sicilia) una moltitudine composta da criminali, disertori e schiavi fuggiaschi, che costituiva una minaccia per la sicurezza pubblica, li inviò a Reggio, dove svolsero un ruolo utile alla Repubblica attuando incursioni nel Bruzio contro Annibale. Il che dimostrò ancora un volta il fine ingegno di Marco Valerio, che spesso riusciva a capovolgere situazioni negative in positivo. Poco incline ai provvedimenti drastici cercava di utilizzare la gente anziché punirla, per loro e per il bene di Roma

- Frattanto giunse a Levino una lettera del prefetto Messalla che lo informava di aver saputo della costruzione di una grande flotta da parte dei Cartaginesi per tentare di riprendersi la Sicilia. Messalla era convinto che questa flotta sarebbe salpata a breve. Levino radunò il Senato e lesse la lettera che sgomentò l'assemblea, tanto che i senatori deliberarono immediatamente che il console non dovesse attendere i comizi, ma che, non appena nominato un dittatore per la loro convocazione, ritornasse immediatamente nella sua provincia.

- Però Levino non fu d'accordo, pur facendo il nome del prefetto della flotta siciliana, Valerio Messalla, come dittatore, insistette nel fare la scelta con le varie procedure, una volta tornato in Sicilia. Temeva che qualsiasi ritardo si ritorcesse a favore degli invasori cartaginesi. Questo era però in contrasto con la consuetudine che voleva che la nomina fosse fatta entro in confini dell'Italia.

- Inoltre il tribuno della plebe Marco Lucrezio sollevò la questione in Senato, per cui si deliberò che il console, prima di partire da Roma, chiedesse al popolo quale dittatore volesse scegliere, in quanto quello che il popolo avesse indicato, e non altri, Levino sarebbe stato obbligato ad eleggere. Nel caso poi che il console non avesse accettato la proposta, sarebbe stato il pretore ad interpellare il popolo; se anche quest'ultimo non avesse consentito a farlo, allora i tribuni si sarebbero appellati direttamente al popolo.

- Levino, per nulla d'accordo nè con la decisione nè con la lungaggine della procedura, sosteneva che fosse di sua competenza la nomina del dittatore e che non spettasse né al pretore, né ai tribuni. Alla fine il popolo scelse come dittatore Quinto Fulvio (cons. 237 a.c.) che si trovava presso Capua.

- Levino allora, il giorno stesso in cui si tenne l'assemblea della plebe, partì di nascosto nottetempo per la Sicilia. I senatori delusi per il comportamento del console, decisero di inviare una lettera a Claudio Marcello affinché venisse in soccorso della repubblica per eleggere come dittatore chi era stato scelto dal popolo. Alla fine Marcello creò dittatore Quinto Fulvio, il quale a sua volta, per delibera della plebe, nominò come magister equitum il pontefice massimo Publio Licinio Crasso (... - 183 a.c.)

- Levino continuò a governare la Sicilia come proconsole per tutto il 209 a.c., insieme al propretore Lucio Cincio. ( 249 a.c. – ...). Il suo esercito era composto dai resti delle legioni di Gaio Terenzio Varrone e Gneo Fulvio Centumalo Massimo, le quali, per le sconfitte riportate rispettivamente a Canne (216) e nella battaglia di Herdonia (212), erano state condannate a restare all'estero fino alla fine della guerra.

- Intanto il Senato che venissero inviate trenta quinqueremi dell'esercito navale di Levino a Taranto dalla Sicilia al console Quinto Fabio Massimo (275 – 203 a.c.), dell'antica gens Fabia, colui che verrà detto il Cunctator, ovvero il Temporeggiatore. Con il resto della flotta ormai ridotta, Valerio Levino poteva o condurre una campagne in Africa per depredare quei territori, oppure inviarvi, a sua discrezione, i suoi luogotenenti, il propretore Lucio Cincio Alimento o Marco Valerio Messalla.

Infatti il console Fabio Massimo ordinò al figlio, Quinto Massimo (... – 206 a.c.), di recuperare i resti dell'esercito di Fulvio Centumalo (... - 210 a.c.), appena 4.334 soldati, e di condurli al proconsole Marco Valerio, ricevendo in cambio da questi due legioni e trenta quiqueremi.


Gneo Fulvio Centumalo Massimo

Eletto console nel 211 a.c., insieme all'altro console, Sulpicio Galba, venne richiamato a Roma per tenere i comizi centuriati ed eleggere i nuovi consoli per il 210 a.c.. Vennero eletti T. Manlio Torquato e T. Otacilio, che era assente; Manlio Torquato rifiutò la carica, adducendo motivi salute. Si dovette procedere allora ad una nuova votazione e vennero eletti Marco Claudio Marcello e Marco Valerio Levino.

L'anno successivo il comando gli fu prorogato sempre in Apulia, dove rimase a capo di 2 legioni e 2 alae di alleati, ma fu affrontato e sconfitto da Annibale nella II battaglia di Erdonia, dove lo stesso proconsole perì sul campo di battaglia assieme a dieci tribuni militari.


Lungimiranza di Levino

- Marco Valerio, con la sua lungimiranza aveva previsto la manovra e non si fece cogliere impreparato, perchè già da tempo aveva assunto presso di sè e addestrato una grande quantità di disertori Numidi, sia  fanti che cavalieri. Inoltre aveva reclutato delle forze indigene nell'isola, uomini che in passato avevano militato nell'esercito di Epicide o in quello dei Cartaginesi. tutti militari che aggiunse alle due vecchie legioni a pieni ranghi. Il suo esercito era comunque al completo.

- Levino riuscì a mantenere con l'aggiunta di queste milizie straniere le forze pari a due eserciti; comandò quindi a Lucio Cincio di difendere con uno di questi la parte dell'isola orientale, dove una volta sorgeva il regno di Gerone di Siracusa, mentre lui stesso avrebbe presidiato con l'altro esercito la parte dell'isola ad Occidente. Anche la flotta di settanta navi fu spartita in modo da difendere l'intero litorale dell'isola.

- Lo stesso Levino perlustrò la provincia con la cavalleria di Muttine, in modo da prendere nota delle terre coltivate e di quelle incolte, lodando o punendo i proprietari terrieri. E così grazie a questa particolare vigilanza, si ebbe una tale produzione di grano da inviare l'eccedenza a Roma e in parte a Catania, in modo da poter rifornire anche l'esercito che avrebbe dato l'assalto durante l'estate alla città di Taranto.

208 a.c. - Nel 208 a.c., mentre era ancora proconsole, Levino attraversò il canale di Sicilia con cento navi e sbarcò in Africa, saccheggiando i dintorni di Clupea (Tunisia), sbaragliando una flotta punica e ritornando col bottino a Lilibeo (Sicilia). 18 navi puniche vennero catturate dal proconsole Marco Valerio. Le incursioni navali in Africa del proconsole andarono dal 210 al 207 a.c., sempre coronate da vittorie navali.

207 a.c. - L'anno successivo ripeté l'azione con uguale successo, inviando i propri rifornitori intorno alle mura di Utica (Tunisia) e respingendo uno squadrone nemico inviato a tagliargli la via del ritorno. Vittoria navale di Utica conseguita dal proconsole Marco Valerio Levino (17 navi puniche catturate, 4 affondate). Ma non gli fu mai tributato un trionfo.



ULTERIORI MISSIONI (206-204 a.c.)

206 a.c. - Nel 206 a.c. tornò in Italia con i propri contingenti coincidendo con l'arrivo di Magone (219. – 203 a.c.) condottiero cartaginese, il più giovane dei tre figli di Amilcare Barca,.

ATTALO I
205 a.c. - l'anno successivo fu inviato a presidiare Arretium (Arezzo) in Etruria con due legioni cittadine. 

204 a.c. - Venne inviato a Delfi e poi alla corte di Pergamo da Attalo I, assieme ad altri quattro ambasciatori; il loro compito fu quello di portare in Italia la Magna Mater. La "Pietra sacra" di Pessinunte che rappresentava appunto la Grande Madre, Cibele (Kybèle), che dava importantissimi oracoli. 

La missione navale in Asia Minore per prelevare il simulacro della Madre degli Dei, dove Levino fu a capo della legazione inviata in Asia, è riportata anche da Girolamo, Chron., a. A. 1809 (PL XXVII, coll. 475-96), opera di cui si conserva un esemplare postillato da Petrarca. 
Questi cita sempre incidentalmente Levino (cfr. Afr.VI 739-41; Sen. XIV 1, p. 800), eccetto che in TF I 73-75, dove compare in un gruppo di Romani che si distinsero nelle conquiste d'Oriente: Lucio Mummio, Manio Acilio Glabrione e Tito Quinzio Flaminino.

La frigia Pessinunte faceva parte del regno di Galazia: lì si recò un'ambasceria romana nel 204 a.c. inviata dal Senato dopo il consulto dei Libri Sibillini. Il risultato fu il trasferimento del presumibile meteorite a Roma e l'avvio dell'importante culto (anche se la sua piena adozione avvenne sotto l'imperatore Claudio), che aprì Roma ai riti orientali.

204 a.c. - Ancora nel 204 a.c. sostenne in Senato il rimborso dei prestiti volontari al tesoro fatti durante il suo consolato, sei anni prima, come era giusto che fosse.

203 a.c. -  Nel 203, nel dibattito sui termini del trattato da concedere a Cartagine, Levino sostenne la proposta di respingere senza ascoltarli gli ambasciatori e di continuare la guerra, consiglio che fu accettato: questa posizione lo identifica come un appartenente alla fazione guidata dagli Scipioni.

201 a.c. - All'inizio della II guerra macedonica nel 201-200 a.c., Levino fu inviato ancora una volta in qualità di propretore, con una flotta e un esercito, in Grecia settentrionale. Il suo rapporto sulle preparazioni di Filippo diede un nuovo impulso agli sforzi della Repubblica.



LA MORTE

Morì nel 200 a.c.; i figli Publio e Marco ne onorarono la memoria con giochi funebri e combattimenti gladiatorii, celebrati per quattro giorni consecutivi nel foro. Dal 227, quando fu nominato propretore, al 200 a.c. la sua vita fu in guerra, per terra e per mare, senza mai essere sconfitto, senza un attimo di respiro. Ma Roma non dette mai il degno tributo a questo onesto e capacissimo eroe romano.

SUASA (Marche)

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L'antico centro di Suasa, collocato nella valle del fiume Cesano, nell’entroterra di Senigallia, nelle Marche, al confine tra le province di Ancona e Pesaro Urbino. Venne fondata dai Galli Senoni, e venne distrutta dai Goti di Alarico nel 409. Ma non tutti gli autori sono d'accordo sulla distruzione della città, nonostante la sicura incursione gotica.

Castellone di Suasa è il paese sorto all' indomani del definitivo abbandono della città romana di Suasa, situata a poca distanza nella vallata del Cesano. La paura delle devastazioni barbare nelle città del nord convinse i suoi antichi abitanti, tra il VI e VII secolo d.c., a cercare un luogo più sicuro per vivere e scelsero l' attuale colle. 

Tanto più che Suasa si trovava su un itinerario alternativo alla via Flaminia (facilmente controllabile all’altezza della galleria del Furlo) e quindi battuto ora da uno e ora dall’altro esercito. Questa fase durò decenni e le antiche pietre di Suasa vennero recuperate per l' edificazione di altri edifici, soprattutto di culto (come testimoniano le colonne e i capitelli delle vicine chiese di San Lorenzo in Campo e Madonna del Piano).


Suasa venne dunque abbandonata quando la difficile situazione politica e militare colpì le antiche città sorte sui bassi terrazzi di fondovalle, e quindi difficilmente difendibili, portando alla nascita di nuovi centri arroccati sulle alture, lungo i crinali spartiacque delle vallate. 

Nel corso del VI secolo, gli abitanti di Suasa, così come quelli di altri centri lasciarono la città non più difendibile e si rifugiarono sulle vicine colline per sfuggire alle continue incursioni dei barbari o di delinquenti organizzati. 

Si trattò, con ogni probabilità, non di un esodo avvenuto in un unico momento, ma piuttosto di un lento processo e ad una fase di parziale abbandono, e quindi di restringimento dell’area urbana, vanno riferite le due tombe costruite con materiale architettonico di reimpiego, rinvenute nel 1987 nella strada provinciale in una zona intensamente urbanizzata in età romana.

IL DECUMANO MASSIMO
La città romana si trova sul fondovalle del Cesano, tra la costa adriatica e il monte Catria. La sua nascita va posta in relazione con il processo di romanizzazione della valle, legato alla Lex Flaminia de Agro Gallico et Piceno viritim dividundo (232 a.c.).
In seguito a questa legge l'organizzazione del territorio cambiò radicalmente. Le terre che prima erano di proprietà dei Galli Senoni, conquistate dopo una serie di battaglie il culmine delle quali fu quella di Sentinum (Sassoferrato, 295 a.c.), vennero divise in lotti ed assegnate a coloni romani.

L'arrivo di questi ultimi fu notevolmente facilitato dalla presenza, lungo la valle, di un antico percorso di transito che collegava l'interno appenninico con l'area adriatica ancor prima della costruzione della via Flaminia, nel 220 a.c., che arrivava a Fano.

Le fonti letterarie non illuminano molto sulle origini di Suasa. Sia la topografia che l'epigrafia portano a credere che la città era già ben strutturata nel III secolo a.c. come praefectura, centro di coordinamento di una vasta e popolata area rurale. Dopo il 49 a.c. la città si ampliò e venne "promossa" a municipium retto da due magistrati, i duoviri.

La città di Suasa era l'unica situata nella valle del Cesano, a circa 30 chilometri dalla foce del fiume. Non sono state ritrovate le mura di cinta della città. La strada che divide Suasa è delimitata, fuori dal centro abitato, da due necropoli di I e IV secolo d.c..




IL PARCO ARCHEOLOGICO DI SUASA

Il Parco Archeologico di Suasa è posto lungo la Valle del Cesano, ai lati della strada di fondovalle che collega la costa agli Appennini, che costituiva anche in epoca romana l’arteria principale della città romana. Il municipium di Suasa, poco conosciuto mediante le fonti antiche, costituiva tuttavia un centro importante della valle, a vocazione soprattutto commerciale a servizio di un grande territorio a vocazione agricola.

Di particolare interesse anche le fasi pre-municipali dell’abitato, che offrono dati importanti sulla romanizzazione dell’ager Gallicus fra III e II sec. a.c.e testimoniano una consistente presenza romana già in pieno III secolo a.c., in parallelo con la deduzione della colonia di Sena Gallica (Senigallia).

L'antico abitato non è ancora scavato nella sua completezza, ma sappiamo che era stretto e lungo, chiuso ai margini fra il corso del fiume Cesano a ovest e le basse colline a est. Sappiamo pure che può ancora riservarci molte sorprese.




GLI SCAVI

Il Dipartimento Archeologico dell'Università di Bologna opera allo scavo della città romana di Suasa. Gli scavi sono in corso dal 1987, con la direzione di Pier Luigi Dall’Aglio e Sandro De Maria, ai quali si sono affiancati in anni recenti Enrico Giorgi e Giuseppe Lepore.

Nel 2011, grazie a un importante finanziamento europeo gestito dalla regione Marche, l'area archeologica è stata sostanzialmente ampliata grazie alla rimozione della strada che la divideva a metà e allo scavo archeologico della sottostante via basolata romana definita Via del Foro.

Finalmente la parte della città con le abitazioni (Domus dei Coiedii e Casa del Primo stile) e gli edifici per spettacolo (Teatro e Anfiteatro), fu nuovamente congiunta alla grande piazza del Foro posta sull'altro lato dell'antica via romana. 

Suasa, fiorente fino alla tarda antichità, declinò e fu abbandonata in seguito alla guerra greco-gotica (535-553). I marmi e le pietre che la componevano furono in seguito utilizzate per costruire gli abitati medioevali che sorsero nelle vicinanze.

L'Università di Bologna, nei suoi scavi, ha riportato alla luce due settori di Suasa, divisi dal moderno percorso viario che ricalca l'antico tracciato del decumano massimo. Da un lato della strada vi era la grande piazza del foro contornata da portici su tre lati e aperta verso l'arteria principale; dall'altro lato sono stati riconosciuti degli edifici di utilità pubblica, tra cui il teatro e l'anfiteatro, e abitazioni private, comprese le case repubblicane precedenti la fase municipale (II-I sec. a.c.),




IL FORO

Lungo la strada principale della città si allungava per circa 100 metri, con forma rettangolare, il Foro commerciale, che sorse nel I secolo d.c., occultando due templi di epoca precedente (II-I secolo a.c.). Di età giulio-claudia, era preceduto da un’area sacra di età repubblicana, era pavimentato con lastre di pietra e conservava numerose basi di monumenti onorari. 

Di esso è stata scavata meno della metà, ma la struttura originaria è già comprensibile: una grande piazza, delimitata da strade ortogonali, e fiancheggiata su tre lati da vaste botteghe e laboratori bordati da portici a pilastri. Se i resti degli edifici pubblici non sono numerosissimi, più completo è il panorama sull’edilizia privata: sono attestate strutture abitative sin dalla metà del II sec. a.c.

Oltre ai tre ingressi di fronte alla strada, ne è presente uno che collegava la piazza con un decumano secondario. Molto probabilmente la struttura aveva anche un piano superiore: ciò testimonia dunque una pianificazione urbanistica e di conseguenza permette di collocare le sue origini romane attorno al I secolo d.c.




VILLA COIEDII

Ha suscitato molto interesse un’estesa domus di età imperiale del II sec. d.c. appartenuta alla famiglia senatoria dei Coiedii, che ha restituito importanti mosaici e pitture del II-III sec. d.c. Oggi fa parte del Parco Archeologico di Castelleone di Suasa e fu costruita in posizione centrale tra la zona del Foro e dell’Anfiteatro, affacciata sull’importante asse viario dell’antica città di Suasa.

Essa presenta importanti pavimenti in mosaico e tarsie marmoree, pitture alle pareti, impianti termali e settore di rappresentanza, che si estende su oltre 3.000 mq di estensione.
L'ambiente più prestigioso della casa è l'oecus tricliniare, ad est del quale fu sistemato il grande giardino con porticato, vasche con fontane, ambienti di soggiorno estivo.

La domus dei Coiedii è una casa aristocratica di notevole qualità. L'edificio che è possibile ammirare oggi è il frutto di numerosi cambiamenti avvenuti nel corso dei secoli.

Una prima fase appartiene al I sec. a.c. ed è caratterizzata da una piccola casa ad atrio con hortus interno. A questa seguì un fastoso ampliamento agli inizi del II secolo d.c., quando la domus divenne una grande villa suburbana.

In questa fase alla casa antecedente vennero aggiunti molti ambienti pavimentati con splendidi mosaici e pareti decorate. Oltre la metà del complesso era occupata da un peristilio con al centro un vero e proprio quartiere termale. La domus aveva anche un secondo ambiente termale, più interno, con una piccola piscina.

MOSAICO DELLA VILLA COIEDII
Contemporanei al periodo di maggior splendore della domus sono gli splendidi mosaici figurativi, come quelli a soggetto erotico di Leda e il Cigno, Eros e Pan o quello policromo di Tritoni e Nereidi. Al Museo Archeologico sono custoditi, invece, alcuni affreschi, eleganti esempi di pittura parietale del II sec. d.c. insieme ad alcuni rari esempi pittorici del II sec. a.c., di gusto molto simile al primo stile della pittura pompeiana.

Gli archeologi hanno attribuito la proprietà della domus ai Coiedii partendo da una base in calcare con un'iscrizione che ricorda Lucius Coiedus Candidus, cavaliere originario di Suasa, senatore al tempo di Caligola (37-41 d.c.) o Claudio (41-54 d.c.). Questa base doveva sorreggere una statua di bronzo che si trovava all'interno della domus e che raffigurava lo stesso proprietario. A far costruire la splendida e lussuosa dimora deve essere, probabilmente, stato un nipote di Lucius Coiedius Candidus.

La famiglia dei Coiedii mantenne questa residenza fin, forse, al IV secolo d.c.. Poi, in seguito, forse, al passaggio di proprietà o al trasferimento della gens, la domus andò decadendo lentamente. Nella seconda metà del IV secolo il giardino della domus era già utilizzato come area di sepoltura. L'abbandono della villa coincise con l'abbandono della città di Suasa, intorno al VI secolo d.c., quando oramai la casa era ridotta ad un rudere frequentato soltanto occasionalmente da viandanti in cerca di riparo temporaneo.

Lo studio del vasellame ceramico recuperato durante lo scavo della domus ha evidenziato una fase di frequentazione e di insediamento già in epoca repubblicana. E' stata ritrovata ceramica a vernice nera che mostra interessanti analogie con produzioni di area centroitalica e laziale, oltre che lucerne repubblicane del tipo biconico e cilindrico, anfore rodie e paste vitree a testimonianza di un tenore di vita piuttosto elevato.

L'ANFITEATRO

L'ANFITEATRO

Non lontano da questa domus è stato riportato alla luce un altro edificio della fine del I e inizio II secolo d.c. anch'esso, trattasi probabilmente di terme pubbliche, in cui si conserva un mosaico con la testa di Oceano.

Nel 2003 l'indagine attraverso fotografie aeree, pallone aerostatico e aereo, ha portato alla scoperta di un anfiteatro e di un altro edificio a sud della città. L'anfiteatro, posto ai piedi delle colline, fu costruito, alla fine del I sec., in vaste dimensioni (m 98 x 77), uno dei più grandi della regione, capace di accogliere diverse migliaia di spettatori.

Sulla parete esterna della cavea si trova un ampliamento successivo del perimetro esterno della cavea stessa, impostato su uno spesso strato ricco di anfore frammentarie con funzione drenante, databili al II-III secolo d.c., che a sua volta poggia sul resto della cavea. Sulla base di queste indagini, la costruzione del teatro è stata datata al II secolo d.c., in epoca alto-imperiale. Un successivo ampliamento pare poter essere collocato al III secolo d.c.. Il diametro della cavea è stato stimato a 50 metri.





LA NECROPOLI

Recente la scoperta di un sepolcreto di II sec. a.c. a est dell’area urbana. Nella necropoli settentrionale vi sono sepolture a inumazione; in quella meridionale sono state indagate oltre 50 inumazione e due fosse (ustrinae) scavate per l'incinerazione delle salme. Sono stati anche ritrovati e recuperati i resti di un letto funebre decorato in osso di epoca imperiale.  

Gli scavi sono iniziati nel 1993, per riempire un vuoto tra l'antica Suasa e le due tombe tardo antiche ritrovate nel 1987. Complessivamente sono state ritrovate 39 sepolture ad inumazione, oltre al fondo dell'urna di una tomba ad incinerazione ed i resti di 4 tombe monumentali. Le tombe a inumazione sono rivestite da tegole o mattoni, ma in alcuni casi i corpi sono stati deposti a contatto diretto con il terreno.

Cinque inumazioni presentavano come offerte olle e ciotole deposte all'esterno della tomba. Due sepolture ritrovate nella zona settentrionale di Suasa custodivano una lo scheletro di un adulto, un anello d'oro e un grano d'ambra.

L'altra era la sepoltura di una donna adulta, arricchita da un corredo di balsamari vitrei, tredici spilloni in osso e parte dell'astuccio che li conteneva. Tutte le sepolture indagate si trovavano in una stretta fascia di terreno ad est della strada romana lungo la quale sorgeva Suasa.




ARCO DI MALBORGHETTO

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ARCO-CASALE DI MALBORGHETTO
Poco oltre il XIII miglio della Flaminia antica, si staglia la massa imponente del Casale di Malborghetto, un edificio che ha inglobato un arco quadrifronte del IV sec. d.c., posto a segnacolo dell’incrocio tra la Via Flamina e una strada di collegamento tra Veio e la Tiberina.

Oggi quella via che collegava Capena con Veio non esiste più, ma qui fu eretto l'arco quasi sicuramente per celebrare la vittoria di Costantino nella battaglia di Ponte Milvio del 313 d.c., la battaglia che iniziò a Prima Porta e finì con la rotta di Massenzio a Ponte Milvio.


È difficile oggi riconoscere nella struttura della fortezza medievale, l’anima dell’antico monumento romano, di proporzioni imponenti, di m 14,86 x m 11,87 x m 7, come del resto il più celebre Arco di Giano al Velabro, citato nei Cataloghi Regionarii del IV sec. come Arcus Divi Costantini, probabilmente edificato contemporaneamente a quello di Malborghetto, costruito nello stesso posto dove, secondo la leggenda, c’era l’accampamento di Costantino che qui ebbe la visione della croce.

RESTI
Il monumento viene datato al III-IV se. d.c. sia perchè la tecnica edilizia è simile a quella Basilica di Massenzio, sia perché una mattonella della volta porta un bollo con l’iscrizione OF CR AUG ET CAES NOS cioè dell’officina di CR Augustorum et Caesarorum nostrorum quindi del periodo tetrarchico che durò solo 10 anni dal 295 al 305.

L’arco era quadrifonte ed è stato costruito su quattro pilastri in opera cementizia che formano all’interno una volta a crociera, le fondazioni sono in blocchi di travertino, le mura all’esterno in laterizio con bipedali divisi in due sulla diagonale e disposti con la punta all’interno; l’arco era poi ricoperto con lastre di marmo o travertino ed ornato con statue e colonne; aveva una pianta rettangolare con i lati più lunghi dalla parte della Via Flaminia.

GLI INTERNI DELL'ARCO
Il tetrapylon, a pianta rettangolare, era coronato da un attico a copertura piana. La presenza di un arco onorario sulla Via Flaminia, databile al IV sec. d.c., venne relazionata alla discesa delle truppe di Costantino lungo questa strada per opporsi a quelle dell’imperatore Massenzio. La tradizione cristiana vuole che Costantino, accampatosi in questo luogo, abbia visto al tramonto nel cielo il segno della croce e che “durante il sonno viene avvertito di far segnare sugli scudi il celeste segno di Dio e di dar battaglia”. 

Il giorno dopo, il 28 ottobre del 312, Costantino sbaragliava a Saxa Rubra l’esercito del rivale e lo stesso Massenzio perse la vita nelle acque del Tevere. A seguito della vittoria, nel 315, il Senato Romano fece erigere nell’Urbe l’arco bifronte presso il Colosseo e forse nel Suburbium quello di Malborghetto. 
RICOSTRUZIONE DEI PROF. ALBERTO E MARCO CARPICECI

I Cambiamenti della struttura nei secoli

- dovette rimanere invariato per secoli, invariato ma abbandonato alle erbacce e ai vandalismi,
- nell' XI sec., l'arco fu trasformato in chiesa a croce greca con la chiusura dei quattro fornici e la costruzione di un'abside sul lato orientale.Il basolato stradale fu deviato all'esterno.
- le prime notizie ufficiali risalgono al 1256 come atto di compravendita in una divisione di beni di proprietà della famiglia Orsini, dove viene citato come un piccolo borgo protetto da una doppia cinta muraria.
RICOSTRUZIONE DELL'ARCO
TRASFORMATO IN CHIESA
- nel 1263 viene inserito nella cinta muraria di un castrum, denominato dalle fonti Burgus S. Nicolai de arcu Virginis.
- nel XV sec. fu trasformato in fortino con una cinta di mura intorno,
- nel XVI sec. diventò una taberna con ospitium per i pellegrini e come tale è indicato nelle mappe per arrivare a Roma, 
- nell’ XI sec. diventa chiesa fortificata dedicata alla Madonna,
- nel XVII sec. venne abbandonato per un periodo ed occupato dai briganti e da allora viene indicato come Malborghetto. Così si dice, ma in realtà il toponimo Malborghetto è molto più antico e si riferisce alla devastazione subita ad opera degli Orsini nel 1485 per scacciare i Colonna, che ne avevano preso possesso con l'appoggio del papa. Distrutto durante le lotte tra gli Orsini e i Sacrofanesi. venne trasformato in casale e circondato dalle rovine del Borgo, col nome di Malborghetto o Borghettaccio.
- divenne parte delle difese dello Stato Pontificio sino al XV sec.
- nel XVIII sec. il Capitolo di San Pietro, proprietario del fondo, lo affittò alle Poste Pontificie che ne
fecero una stazione di posta tra Prima Porta e Castelnuovo di Porto. Mantenne questa funzione sino a quando Pio VI, collegando Civita Castellana alla via Cassia, soppresse il servizio postale lungo il tratto suburbano della via Flaminia.
- L'edificio cadde in completo abbandono fino alla metà del Cinquecento quando fu preso in affitto da un aromatarius (erborista) milanese che risiedeva a Roma, un certo Costantino Pietrasanta, che lo ristrutturò completamente.
- nel 1892 venne finalmente acquistato dallo Stato Italiano e restaurato, ora è sede di un Museo. Interessante la sala al piano terreno dove sono esposte le statue acefale provenienti dalla zona di Grottarossa ed un’ara funeraria ritrovata a Tor di Quinto nei pressi di Ponte Milvio.
- l'aspetto attuale è simile a quello conferitogli dal Pietrasanta. Senza la muratura dei fornici e le aggiunte di epoche successive doveva apparire molto simile nella ricostruzione grafica che fu realizzata nel XVI secolo da Giuliano da Sangallo.
- tornato ad essere un semplice casale, solo nel 1982 entrò a far parte dei Beni del Demanio. Dopo un attenta opera di restauro ospita un Antiquarium con i ritrovamenti pertinenti alla Via Flaminia.

RICOSTRUZIONE DI FRITZ TOEBELMANN

FRITZ TOEBELMANN

Una svolta importante alla comprensione delle origini di questa costruzione fu data agli inizi Novecento dal giovane archeologo tedesco Fritz Toebelmann che lo studiò per cinque anni arrivando alla conclusione che fosse stato edificato prima della fine del IV sec.

Il Toebelmann ispezionando accuratamente l'edificio scoprì infatti, su di un mattone posto sotto l'intonaco della volta centrale dell'arco, un bollo laterizio di età Dioclezianea. Questo gli permise di datare il monumento. L'archeologo tedesco morì però prematuramente durante la prima guerra mondiale, lasciando però interessanti spunti ai futuri studiosi. Il Toebelmann fu il primo a sostenere che tale monumento fosse stato eretto nel luogo dove le truppe di Costantino I si accamparono in attesa dello scontro con Massenzio in quanto, se avesse dovuto commemorare la vittoria, sarebbe stato collocato nel punto di inizio della battaglia e cioè in località Saxa Rubra o nel punto della sua conclusione cioè al ponte Milvio. 

Poichè il monumento era collocato presso i castra aestiva costantiniani, si è supposto, ma senza fonti, che potesse essere legato alla leggendaria "visione" che Costantino riferì di aver avuto alla vigilia dello scontro con Massenzio. Gli studi più recenti svolti dal prof. Gaetano Messineo hanno però confermato le deduzioni del Toebelmann.

RICOSTRUZIONE DEL SANGALLO

DESCRIZIONE

Dall’esterno si vedono sulle facciate i quattro archi in laterizio, i marcapiani in travertino e poche decorazioni. Si entra dal lato opposto alla strada, lato est, con una scala in legno in un ambiente piano rialzato sotto la crociera la cui struttura è ancora quella romana senza rivestimento. Una scala a sinistra scende al piano terreno leggermente più alto rispetto alla Flaminia della quale è stato scoperto un tratto basolato a nord. 

Gli storici sapevano che l'arco era stato eretto per ricordare un evento molto importante nella storia cristiana, ma senza individuarlo; ci provò anche Stendhal che in Passeggiate Romane, ricorda l’episodio:
“... siamo usciti da Porta del Popolo per arrivare, dopo due miglia di strada a ponte Molle. Su questo ponte, oggi chiamato Milvio, Cicerone fece fermare gli ambasciatori allobrogi, che avevano cospirato con Catilina allo scopo di liberare la loro patria, dal giogo di Roma ... Fra Ponte Milvio e la località chiamata Saxa Rubra, Costantino mise in rotta il rivale Massenzio. Abbiamo cercato di individuare il paesaggio che compare nell’affresco della grande battaglia dipinto da Raffaello in Vaticano”

A noi viene da aggiungere che se l'evento commemorato dall'arco fosse stato quello del fatale segno apparso in cielo a Costantino, sicuramente la Chiesa l'avrebbe protetto all'epoca come cimelio cristiano, come d'altronde ha protetto in simil modo l'arco di Costantino presso il Colosseo. Anche perchè nonostante fosse un crudele assassino che fece uccidere suo figlio e cuocere sua moglie nell'acqua bollente, la chiesa lo ha fatto santo in qualità di suo difensore. Ci chiediamo pertanto cosa avesse impedito all'epoca di osservarne le immagini relative al detto cattolicissimo evento.

CULTO DI PHANES

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DIO PHANES
Phanes, o Fanes (luce) era un Dio ancestrale greco, chiamato anche Protogonos ("il primo nato") e Erikepaios ("donatore di vita"), era una divinità primigenia della procreazione e dell'origine della vita nella cosmogonia orfica, un movimento religioso sorto in Grecia verso il VI sec. a.c. intorno alla figura di Orfeo. Nella tradizione italica Phanes era invece legato al Saturno romano delle origini.

Emerso agli albori dell'universo dall'uovo cosmico deposto da Chronos (il Tempo) e Ananke (il Destino, o Fatum italico, contro nulla possono nemmeno gli Dei), quale principio primo ed unico, era ermafrodito e da esso si generò il tutto.

L'UOVO COSMICO
Secondo un'altra tradizione orfica orfica però, si narra di un uovo d'argento, deposto dalla Dea Notte nell'oscurità dell'Erebo e fecondato da un soffio di vento del Nord, contenente il cosmo, sia nato Eros, il primo tra gli Dei.

Nel mito pelasgico invece la Dea Eurinome (il cui nome significherebbe "vagante in ampi spazi") all'inizio della creazione volteggiava nello spazio vuoto e con la sua danza creò il vento Borea.

Eccitandosi all'ebbrezza della sua danza, la Dea trasformò il vento nel serpente Ofione, e si accoppiò con lui.

In realtà nei miti greci più antichi Ofione era il nome di uno dei Titani, che insieme ad Eurinome regnò sul mondo prima di Crono, spodestato poi da quest'ultimo.

Sempre nel mito pelasgico l'accoppiamento però produsse anche in Eurinome una trasformazione, mutandola in una colomba bianca (attributo di tutte le Dee Madri avrebbe deposto l'uovo cosmico, dal quale uscirono tutte le cose.

Nella tradizione orfica però Ofione si vantò di aver creato da solo il mondo, Eurinome offesa con un calcio gli spezzò tutti i denti. Eurinome rappresentava un aspetto della Grande Madre delle origini, che col passare dei secoli e delle civiltà si differenziò in una moltitudine di divinità femminili.

EROS ( V SEC A.C. )


Phanes, il dio splendente
di Stefano Arcella

(Fonte)


Le iscrizioni mitriache in lingua greca

Rilievo con Phanes, II sec. ca. Modena, Galleria Estense Nel 1931, alle falde dell’Aventino, in via della Marmorata, fu scoperto un gruppo d’iscrizioni in lingua greca, forse appartenenti a un mitreo da porsi in relazione col vicino Emporio che, in età imperiale romana, era frequentato da mercanti stranieri e da schiavi di lingua greca. Tra queste iscrizioni, ve n’è una che richiama la mia attenzione per i significati di religiosità misterica che ne emergono sulla connessione fra mithraismo romano di età imperiale e orfismo.

Dii Elio Mitra
iereus kai pater
benoustos sun tois
uperetais teou aneteke

In questa epigrafe si evince che il dio Mithra, in questo centro di culto in Roma, nella prima metà del II secolo d.c., è assimilato a Zeus e ad Eelios, ma anche a Phanes, divinità greca legata alla religiosità orfica (tale testimonianza di un sincretismo orfico-mitriaco non è isolata ma essa si colloca in un complesso di evidenze archeologiche, di rilievo storico-religioso, che vanno esaminate per l’universo di significati simbolici e mitici che ci rimandano.


Il rilievo di Modena

Nel rilievo mitriaco conservato nel museo di Modena il giovane Mithra nasce da un uovo in fiamme. Il suo corpo è avvolto da un serpente, figura costantemente presente nella tauromachia, mentre sul suo petto si notano, da sinistra a destra: una testa di leone, l’ariete e il capro, figure dense di significati simbolici ed anche astrologici.

L’ariete è stato letto dal Merkelbach come una variante del lupo mentre il capro come una variante del cane, simboli che questo studioso collega rispettivamente al passato e del futuro. Torniamo quindi alla presenza di un’assimilazione di Mithra a Chronos, che tale si evince dal rilievo di Emerita, e dalle figure leontocefale che compaiono in altri scritture mitriache.

MITRA PETROGENITO CHE ESCE DALL'UOVO

IL FIGLIO DELL'UOVO COSMICO

Genio dalle ali d’oro, egli nasce dall’uovo cosmico, "avvolto tra le spire del serpente dell’eternità, sul petto ha l'immagine del leone, indicatore dell’era remota, mistica e solare; la sinistra si poggia su un alto scettro, mentre la destra regge una folgore, tutt’attorno si snodano i segni zodiacali, sotto gli sguardi di quattro volti maschili".

PHANES XVI SEC.
Il serpente più che con l'eternità ha a che vedere coi cicli, per questo è rappresentato attorcigliato.
Tuttavia di per sè il serpente è la Madre Terra, simboleggiata appunto dall'animale che più aderisce alla terra, infatti striscia, e che cambia pelle come le stagioni sulla terra. Le sacerdotesse della Dea Terra erano infatti le Pitonesse che allevavano il pitone sacro nel tempio.

Inoltre l'omphalos della Grande Madre (l'ombelico del mondo) attorno a cui veniva eretto il tempio era una pietra retinata a rombi a riprodurre le squame del serpente. Diversi furono i figli dell'uovo cosmico, a seconda dei miti e delle civiltà, in comune avevano la propria figura umana (o umanoide), avvolta nelle spire del serpente.

A questo Dio si accosta Zurvan, Dio leontocefalo iranico di derivazione zoroastriana, dotato di quattro ali, i piedi posano su un globo, rappresentazione del mondo e dell’universo, mentre la chiave nella destra indica la totale sovranità sul tempo. Non dimentichiamo che la sfinge egizia era una leonessa e che la Dea degli eserciti egizia, prima ancora del Dio ebraico, era Sakmeth, la Dea dal corpo di donna e la testa di leone.

Il leone è il sole mortifero, del deserto dove insidia la vita, e quindi alleato del faraone contro i popoli nemici, non a caso Sakmet veniva chiamata "Dea degli eserciti", titolo mutuato poi dagli ebrei per il Dio Javhè.

Nelle feste romane la figura di Fanes, personificata da un giovane, veniva dotata di un mascherone, un oscilla colorato, ed ogni suo ordine e comando doveva essere eseguito per tutta la durata della festa, ovviamente nel buono spirito d’allegrezza e di giocosità conviviale, come fece Nerone in gioventù secondo gli Annales di Tacito.

Ma c'è un'immagine in cui Mitra primogenito esce dall'uovo, in un universo popolato da animali, amorini, e figure umani e animali forniti di code serpentine. E' il caos primigenio che depone l'uovo, ovvero la Grande Madre primigenia che depone l'uovo da cui nasce l'architetto dell'universo. colui che creerà il mondo, ovvero colui che usando le energie della Grande Dea darà forma agli esseri animati e non.

Mitra è il sole invitto e di sicuro nasce al solstizio di inverno e in una grotta, dal mito prende spunto la nascita del Cristo, però qui il figlio non crea, invece muore e rinasce come il Dio Vegetazione annuale, figlio della Grande Madre, tanto il filo d'erba quanto la spiga di grano, nutrendo quindi animali ed umani, che nasce e muore ogni anno. Ovviamente muore in inverno e rinasce in primavera, da cui il Natale e la Pasqua.

Naturalmente anche l'omphalos è l'uovo cosmico, infatti è il centro del mondo, quello da cui tutto nasce, quindi un uovo. In genere pertanto l'ombelicus mundi ha la forma arrotondata di un uovo, che rievoca poi la pelle del serpente.

Nella religione cattolica il serpente è divenuto simbolo del male, cioè del diavolo e la donna pertanto è "instrumentum diaboli", pur avendo copiato l'immagine dell'angelo dalla donna alata, Lasa etrusca e Nike greca, o Vittoria romana che sia.

Diciamo che dal mondo arcaico molte figure di antiche Dee diventano maschili, riproponendo talvolta i Sacri Misteri arcaici.

L'immagine di Phanes contiene uno dei maggiori temi sacri e pure oscuri dell'antichità, quello della morte e della rinascita, negli eterni cicli della Natura.

Del resto l'immagine del leone che è apposta sul suo torace altro non è che la qualità ferina della Grande Madre Terra, la Potnia Teron, la Signora delle belve.

In questo senso misterico continuò la sua esistenza a Roma come culto riservato però solo a una certa parte della popolazione, specie tra quella di origine greco-orientale, che gli dedicò un tempio e un sontuoso culto sull'aventino.

Nell'immaginazione popolare questo culto greco-italico divenne propiziatorio ai raccolti e alla fertilità del bestiame, per cui gli si dedicavano sacrifici incruenti, danze, banchetti e libagioni.

COLOMBARIO DI VIGNA CODINI

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Su Via di Porta Latina e Via di Porta San Sebastiano si trovano gli ingressi all’area archeologica dei Colombari di Vigna Codini. I monumenti sono all’interno di una proprietà privata, che forse dovrebbe essere espropriata almeno per il passaggio alle tombe, ma in mancanza di ciò vi si può accedere facendone richiesta alla Soprintendenza Speciale per i Beni Archeologici di Roma.

Sappiamo la differenza tra un bene fruibile anche un solo giorno al mese, ma fisso e senza prenotazione, e un bene di cui occorra fare richiesta; il fatto che a volte si risponda che occorra richiamare in una certa data perchè se non si è raggiunto il numero l'accesso non viene concesso, fa si che le persone rinuncino quasi sempre alla visita al monumento.


Per questo esistono le agenzie sul territorio che dislocano i custodi ai piccoli musei con accessi relativi, il costo pertanto sarebbe molto contenuto, in quanto un museo aperto un giorno al mese costerebbe un custode pagato un giorno al mese, ma forse ci sono ragioni che ci sfuggono per la mancanza di fruibilità di tantissimi monumenti in Italia e soprattutto a Roma.

I tre colombari, sepolcri ipogei costituiti da numerose cellette in cui erano riposte le urne cinerarie dei defunti, avevano diverse capienze. Si tratta di tre grandi edifici funerari distinti, ognuno dei quali ospita centinaia di loculi e nicchie per urne cinerarie.

Gli affreschi e gli stucchi colorati che decorano le pareti sono straordinariamente ben conservati, così come le tabelle con i nomi dipinti e graffiti dei defunti e le numerose epigrafi marmoree.


I colombari sono di età imperiale ubicati a Roma all'interno della Vigna Codini, tra il Parco degli Scipioni e le Mura Aureliane, nei pressi della Porta San Sebastiano, in un'area un tempo dedicata alle sepolture.

Essi furono scoperti e scavati a partire dal 1840 dall'antiquario e collezionista marchese Giampiero Campana nella vigna di Pietro Codini, da cui i colombari presero il nome. Realizzati in età augustea/giulio-claudia, essi furono utilizzati fino al II secolo d.c.. 

Dopodichè vennero interrati, non dalla pietà dei parenti, ma dalla necessità di coltivare la vigna aldisopra, cosa che avvenne praticamente in tutta Roma che divenne una grande vigna.



IL I  COLOMBARIO

Il "Primo Colombario"è costituito da una camera quadrangolare, realizzata in laterizio su un podio in opera reticolata, con copertura a volta, sorretta da un pilastro centrale. 

In esso sono presenti su tutte le pareti, incluso il pilastro centrale, circa 500 cellette costituite da nicchie arcuate. 

Il pilastro centrale, straordinariamente alto come del resto tutte le pareti, è formato da un parallelepipedo sormontato da un altro parallelepipedo più stretto, il tutto non edificato ma scavato nella roccia.

A sua volta dispone di molte nicchie scavate, ma il tutto poi ricoperto di stucco e dipinto, con sportelli di chiusura in marmo, dove alloggiavano i vasetti con le ossa cremate dei defunti, a volte con i ritratti dei defunti che lì giacciono, o almeno i loro resti incinerati

In parecchie cellette si è conservata infatti la tabella di chiusura, su cui era dipinto o inciso il nome del defunto. 

Sulle pareti stuccate del pilastro, così come sul soffitto stuccato, sono raffigurate anche pitture di soggetto dionisiaco, come pantere, pampini e fiori.



IL II COLOMBARIO

Anche il "Secondo Colombario" ha pianta quadrangolare ed è realizzato in opera reticolata, ma è più piccolo: le cellette, realizzate ad arco, sono infatti solo 300. 

Sulle pareti sono ancora visibili tracce di decorazioni pittoriche e a stucchi policromi, raffiguranti tralci di vite, maschere e corni potori. Una delle cellette è incorniciata da una piccola edicola realizzata in stucco policromo. Nelle cellette erano alloggiate due olle cinerarie. 

L'iscrizione di dedica del colombario effettuata da due membri del collegio funerario è presente sotto forma di mosaico pavimentale all'interno del pavimento realizzato in cocciopesto con inserti marmorei.



IL III  COLOMBARIO

Il "Terzo Colombario", meno noto dei primi due, ma più ricco, era verosimilmente rivestito da lastre marmoree e decorato da pitture, nonché dotato di mensole in travertino che sostenevano il soppalco ligneo di accesso alle cellette superiori. Il colombario ha pianta a U.

Associato ad esso, vi era anche un ustrino, in cui si cremavano i corpi dei defunti. Rispetto ai primi due colombari, le celle sono più ampie e hanno forma rettangolare, idonee ad alloggiare urne marmoree e busti. Sono più frequenti edicole, arcosoli e lastre marmoree con il nome del defunto. 

POSIZIONE DEI COLOMBARI
Compare anche un avviso per i visitatori: "Ne tangito, o mortalis, revere Mane deos" (non toccare, mortale, rispetta gli dei Mani).

FIDES ET HONOR (1 Ottobre)

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DEA FIDES

Iam Fides et Pax et Honor Pudorque
priscus et neglecta redire Virtus
audet apparetque beata pleno
cornu.

(Orazio - Carme secolare)

Il primo di ottobre si festeggiava Fides, Dea della lealtà e fedeltà, che aveva un tempio sul Campidoglio e il Dio Honor, dell'Onore in battaglia.

Nell'immagine: Denario dell'imperatore romano Eliogabalo (218-222), raffigurante al rovescio la Dea Fede tra due stendardi dell'esercito romano e la legenda FIDES EXERCITVS, "lealtà dell'esercito"

Conosciuta come Fides Publica e Fides Publica Populi Romani è la più antica virtù in veste di Dea onorata a Roma. Fides era la Dea romana della lealtà e della fedeltà, soprattutto del cittadino, civile o militare, verso Roma come suolo patrio e al suo ordinamento, sia gerarchico che legislativo. I giuramenti presi nel nome di questa Dea erano considerati i più inviolabili tra tutti.

Della Dea si hanno le prime notizie nel III secolo a.c. quando le viene dedicato un tempio sul Campidoglio dal console Aulo Atilio Calatino, un politico e generale romano che dopo il disastro della battaglia di Trapani venne eletto dittatore e guidò un esercito in Sicilia. Forse in questa occasione votò, e fece erigere un tempio alla Speranza nel Foro Olitorio e uno alla Fede sul Campidoglio.

Si suppone però che il tempio fosse ricostruito su un più antico santuario dedicato alla Dea medesima, e il fatto che fronteggiasse il tempio di Giove fa ritenere che il suo culto fosse più arcaico oltre che importantissimo.

Tra gli antichi la fedeltà veniva di solito rappresentata da due mani congiunte o da due figure umane che si tenevano l’un l’altra per la mano destra. Orazio dice che la Fedeltà incorruttibile è sorella di Giustizia, mentre per Cicerone i due concetti sono identici.

Secondo la tradizione il suo culto fu stabilito dal re Numa Pompilio, il secondo re di Roma.
Nel suo tempio sul Campidoglio venivano custoditi i trattati stipulati dal Senato romano con i regni stranieri in modo che la Dea potesse proteggerli, ma soprattutto dava un senso di sacralità ai contratti stipulati da Roma, nel rispettarli e nel farli rispettare.
Nel tempio, eretto in area Capitolina, sulla sommità del colle,  c'era la statua di culto della Dea, in piedi, un colosso di sei metri circa di altezza, Fides era la Dea della mano destra, e di tutto ciò che era connesso alla gestualità e le azioni di questa mano.

ELIOGABALO E SUL RETRO LA DEA FIDES
Honos era un Dio particolarmente adorato dai soldati, considerato il Dio dell'onore militare e della moralità. Spesso era accompagnato alla Dea Virtus, identificata con lealtà e coraggio e in genere era raffigurato come un giovane guerriero, nudo o togato, che porta una lancia o un ramo d'ulivo ed una cornucopia. Il culto fiorì particolarmente nella Roma repubblicana, dove erano presenti almeno due tempi dedicati ad Honos; il primo sulla via Appia, subito dopo porta Capena, il secondo accanto a quello di Fides.

Per la Dea Fides non venivano compiuti sacrifici di animali, e nessun sangue era versato. I sacerdoti celebranti erano vestiti in bianco, e venivano condotti in pompa magna, su carri, al luogo del sacrificio, con l’intero corpo e le mani avvolte negli ampi mantelli.

I sacerdoti addetti al suo culto, erano due flamini, vi si recavano su di un carro coperto, tirato da due cavalli, con le mani coperte da un panno bianco che copriva anche le dita, come simbolo della custodia della fede. Era un momento di straordinaria unità del popolo romano e di esso con i suoi Dei: tutti erano assolutamente certi che ognuno stesse svolgendo la sua funzione nel miglior modo possibile.

DIO HONOS NEL NUMMO
DI MARCO AURELIO
"COLLEZIONE SANTACROCE.  Girolamo Santacroce, marito di Ortensia Mattei, aveva in casa, secondo il racconto del Knibbio Berlin. A. 61, e. f. 20 « un centauro di mezzo rilievo, e questo simulacro della Fede col suo medius fidius (in fede mia)». Vi era pure l' iscriz. Kircheriana dell'Amor, Honor, Veritas, e un frammento di Cariatide di mezzo rilievo."

(R. LANCIANI - Storia degli scavi di Roma)

Il Dio Honos rappresentava soprattutto l'onore in battaglia, e per i romani era tutto. Il giovane romano quando andava in guerra per la prima volta sognava di battersi con onore per il prestigio della sua famiglia e della sua gens, cosicchè i suoi genitori e i suoi parenti tutti fossero fieri di lui.

Il nome della gens era tutto per il nobile romano, ma anche per gli audaci plebei, che potevano anch'essi distinguersi e fare carriera fino a diventare generali. Anche il nome della legione era importante, una legione che aveva acquisito benemerenze in battaglia era onorata da tutti.

Insomma chi si era distinto nell'onore a Roma veniva ringraziato e onorato da tutti. I negozianti gli facevano omaggi, la gente lo fermava per strada, lo favoriva negli inviti e nei regali. I suoi familiari venivano più rispettati grazie a lui. A Roma l'onore era tutto.

Pertanto la Fede era il buon comportamento nel mondo civile e l'Onore era il buon comportamento in battaglia. Pertanto questa festa raccoglieva in sè i principali doveri e virtù dei romani. La festa iniziava dai due templi dedicati a Fides e ad Honos, ambedue sul Campidoglio coi sacerdoti di ambedue le divinità che compivano sacrifici animali per Honos ed incruenti per Fides.

Il popolo partecipava ma soprattutto i legionari che pregavano per le onorificenze da mostrare alla famiglia e al pubblico, infatti insieme ai sacerdoti, in file successive, sfilavano i militi con le falere e le onorificenze ottenute sul campo di battaglia. Dietro le famiglie di cotanti eroi che agitavano rami di alloro per i vivi e di mirto per i soldati caduti.

La festa terminava con un lauto banchetto intorno ai due templi dove si cucinavano le carni arrostite degli animali sacrificati, innaffiati come al solito di abbondante vino.


IL RITRATTO ROMANO

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RITRATTO DI AGRIPPA

LA RITRATTISTICA GRECA

I romani appresero l'arte di ritrarre le persone, in particolare i visi e i busti, sia dagli etruschi che dai greci. Il ritratto ellenistico fu un grande successo dell'arte greca, in cui si riuscì a realizzare ritratti fisionomici non solo molto reali, cioè somiglianti, ma pure dotati anche di forti valenze psichiche ed espressive. Conosciamo la ritrattistica greca solo attraverso le sculture, ma sicuramente fu altrettanto pregiata anche nella pittura.

ANTIOCO III - RITRATTO GRECO
Fino al IV secolo a.c. infatti la ritrattistica si era valsa di tratti somatici idealizzati, con caratteristiche precise a seconda della categoria degli individui.
Per la morale greca non era da buon cittadino esporre le proprie immagini o comunque immagini "private" in luoghi pubblici, a meno che l'immagine non riguardasse quella di uomini illustri che potevano servire da esempio e da modello alla popolazione.

Tutta la filosofia greca inneggiava al perseguimento delle virtù, un fine che doveva coinvolgere tutti i cittadini. Dovendo appunto perseguire tali fini la statuaria greca usò solo figure intere o tutt'al più, in epoca tarda o area periferica, la mezza figura, soprattutto in ambito funerario. Le teste greche che conosciamo oggi sono frutto delle innumerevoli e infinite copie romane. Anche le teste su erme furono copiate dai romani a partire da sculture intere.

Il ritratto di Antioco III è uno dei massimi esempi di questa ritrattistica. Dichiarandosi egli "campione della libertà ellenistica contro il dominio di Roma", si fece fare e gli venne fatto uno splendido ritratto in cui il volto del sovrano riflette fierezza, nobiltà, idealismo e determinazione. E' la statua dell'eroe per antonomasia.

I romani appresero la scultura prevalentemente dai greci, applicandovi però un proprio stile, che rispecchia un po' le caratteristiche dei due popoli. Le figure romane, rispetto a quelle greche sono meno snelle fino ad essere anche un po' tozze. I romani idealizzavano poco, i greci idealizzavano molto, non a caso furono i maestri della filosofia.

Le statue greche del IV sec. a.c. sono impareggiabili, di una bellezza ineguagliata, si che tutte sembrano Dei o simili agli Dei.

Gli Dei romani, al contrario, erano più corposi e terrestri, perchè i romani erano a loro volta razionali e terrestri, anche se raffinati quel tanto da capire che le statue greche erano da copiare e conservare, e le copiarono infatti all'infinito. Praticamente noi conosciamo la statuaria greca attraverso quella copiata dai romani.

Ma un posto importante ebbe per i romani la ritrattistica, in cui in un certo senso superarono i greci. Non che questi ultimi non fossero abilissimi nei ritratti, ma i romani avevano qualcosa di speciale.

Imperatori o generali o politici, subivano tutti una stessa sorte: erano assolutamente somiglianti all'originale... e assolutamente impietosi. Se erano brutti nella realtà erano brutti anche nel ritratto, nessun accorgimento per migliorane sia pur minimamente l'aspetto. Ma non ne miglioravano neppure l'espressione, che anzi sembra presa in un momento di collera o insofferenza.

STATUA ETRUSCA

LA RITRATTISTICA ETRUSCA

Si ritiene da alcuni che la ritrattistica etrusca sia stata di poco interesse per i romani e non l'abbia influenzata granchè rispetto a quella greca. Non siamo dello stesso avviso.

STATUA IN TERRACOTTA ETRUSCA
Ora noi conosciamo l'arte etrusca solo attraverso le loro tombe affrescate e forse certi autori si confondono con i volti tipicizzati dei personaggi mitici rappresentati in alcune tombe.

Gli etruschi non potevano ritrarre gli eroi che non conoscevano (vedi Mastarna ecc.) ma nei conviti spesso riportati nelle tombe i personaggi si capisce che sono reali.

Nelle tombe a inumazione poi la ritrattistica è di diverso valore a seconda della ricchezza dei proprietari.

Si andava infatti dalle statue di terracotta in serie con applicazione della testa-ritratto del defunto alle statue intere dei defunti dove la ritrattistica è superba, sia per le forme che per le espressioni.

Ne fa fede il ritratto in terracotta riportato qua sopra e la pittura riportata qui di fianco.

Me ne fa fede pure la composizione di terracotta, vero capolavoro nell'esecuzione e nell'anima, di questa coppia di sposi che si è fatta mirabilmente ritrarre per il reciproco e unico letto funebre.

SARCOFAGO ETRUSCO
Il sentimento d'amore che lega queste due figure è stato raramente eguagliato nell'arte raffigurativa sia scultorea che pittorica, nei visi, nelle espressioni, nei gesti e nella posa.

Si tratta del sarcofago di Larth Tetnies e della moglie Thanchvil Tarnai,

Luogo della scoperta: Vulci necropoli di Ponte Rotto, tomba dei Tetnies.

Epoca: Terzo quarto del IV secolo a.c.

Conservazione nel Museum of fine Arts, Boston.

Sul coperchio del sarcofago è raffigurata una coppia di sposi distesi e abbracciati, avvolti sotto un manto che ricopre la kline, ovvero il letto conviviale.

Sul lato lungo della cassa un combattimento tra Greci e Amazzoni, sui due lati brevi combattimenti tra animali, reali e fantastici.

Pensiamo che gli etruschi avessero poco da invidiare alla scultura greca, solo che ne abbiamo pochi esemplari, anche perchè, pur essendo una cultura appartenente al solo suolo italico, l'arte etrusca sta più nel resto del mondo che nel suolo italico, tra predature di guerra e vendite illegali.



I RITRATTI DI MARMO

Gli scultori romani erano assolutamente impietosi, raffiguravano tutti, imperatori e generali compresi, con il massimo della veridicità, anzi sembrerebbe che, probabilmente, per dargli più carattere, li cogliessero nelle loro espressioni peggiori. 

(1) IMP. COMMODO
C'era è vero il fatto che i potenti si presentavano sempre con le sopracciglia aggrottate per fare timore, ma i ritrattisti non si limitavano a questo, perchè ne evidenziavano ogni ruga ed ogni espressione ostile o rabbiosa o stizzosa.

Evidenziavano anche le verruche, le borse sotto gli occhi, la pinguedine, le guance cascanti, il cranio bitorzoluto, le rughe profonde della pelle pendula.

I romani non avevano pietà nè negli aspetti fisognomici, nè nelle espressioni: per esempio Commodo, fig (1), ha
gli occhi sporgenti come un pesce e lo sguardo spento per l'appunto di un pesce, ma di un pesce morto.

L'imperatore non ha le rughe sulla fronte, nè quelle della preoccupazione (rughe orizzontali), nè quelle dell'ira (verticali tra gli occhi).

Non le ha un po' perchè nel ritratto è giovane, ma pure perchè è inespressivo, senza nessuna emotività, chiuso come un'ostrica.

Il personaggio dell'immagine (2)è designato come Marco Agrippa, ma non gli somiglia affatto, inoltre porta il  capo velato come un sacerdote, e Agrippa non è mai stato sacerdote.

(2) (falso) AGRIPPA
Però ha tutto l'aspetto di un iracondo, con le rughe orizzontali sulla fronte e quelle verticali tra gli occhi. In più ha gli angoli della bocca tirati in basso in senso di schifo e disprezzo.

Ha il collo taurino con il collo lungo e la testa alta, quindi è atletico e giovane, ma, chiunque sia, ha un pessimo carattere.

Bruttino ma decisamente simpatica è invece la testa di Vespasiano, fig. (3), che più che un imperatore e un generale, appare come il norcino che vende il salame sotto casa.

Ha la pelle incartapecorita dal sole, gli occhi piccoli con le palpebre un po' calate, ma pure sono penetranti, rilevano capacità di osservazione e intelligenza.

E' basso, con il collo corto, è tozzo e tarchiato, ma un po' perchè fu un ottimo imperatore e un grande generale, un pò perchè ha un mezzo sorriso che sa di spontaneo, quest'uomo dall'aspetto contadino ci piace.

RITRATTO DI TRAIANO

LA STORIA

Per il diritto allo "ius imaginum", solo i patrizi potevano esporre le immagini dei propri avi, conservandole dentro armadietti e tirandole fuori soprattutto nei funerali. Le prime immagini furono di cera, successivamente divennero in marmo ed in bronzo.

(3) IMP. VESPASIANO
Questo perchè, essendo l'antenato il protettore e il riferimento della sua gens, divenne per i romani la prova del valore e dell'importanza di una "gens" e di una "familia". A seguito di ciò acquistò una rilevanza artistica in quanto il buon ritratto metteva in evidenza le possibilità economiche, ma anche politica e sociale.

L’importanza del ritratto, come espressione del patriziato, si accentuò nell’età sillana, per il semplice fatto che Silla era patrizio ed esaltava lo ius imaginis di sè e della sua gloriosa gens Cornelia.

Ma il bello fu che il ritrattismo si caratterizzò di un grande un realismo, attento ai più piccoli particolari, spesso con tratti contadineschi e rozzi, esaltazione dello stile sia contadino che militare romano, che raccoglievano in sè la severità dei costumi antichi così spesso esaltati, insomma il "Mos Maiorum" tanto caro a Cicerone e ad Augusto.

Nell’età augustea, il mondo romano risentì maggiormente della cultura ellenistica anche grazie a Mecenate e al suo circolo. Il ritratto di età sillana si estese nelle stele funebri dei liberti e dei piccoli commercianti che potevano permettersi questa nuova categoria di ritratto, come bassorilievo sulla propria tomba.

(4) MASSIMINO IL TRACE
Ma data la lungimiranza di Augusto, abilissimo nella propaganda politica, il ritratto divenne una delle maggiori forme di espressione artistica e ufficiale di propaganda.

Le statue raffiguranti Augusto ebbero (ritrovati fino ad ora) ben 120 pose e una quantità infinita di copie. Un altro grande veicolo di propaganda furono le monete con l'effigie dell'imperator da una parte e la deificazione di una sua qualità dall'altra.

Così l'immagine di Augusto, al diritto della moneta, venne affiancata nel retro della stessa dalle immagini divine delle:

- Pax Augusta,
- Equitas Augusta
- Aeternitas augusta
- Concordia Augusta
- Salus Augusta
- Spes Augusta
- Pietas Augusta

Nelle statue venne abbandonata non la posa, ma la raffigurazione ideale dei corpi statuari ellenistici, comunque la posa è meno molle e il busto più eretto, secondo il modello non dell'atleta ma del soldato romano. Ma più ancora nella raffigurazione della testa si è attenti in modo molto particolareggiato al ritratto fedele.

Tra l’età di Tito e quella di Traiano, le figure femminili si dotarono di complesse e ricche capigliature, ciò che distingueva maggiormente i ricchi dai poveri, i patrizi dai plebei. La raffinatezza della scultura divenne così realistica da rappresentare verosimilmente una elaborata capigliatura, cosa non facile da eseguire.


Il ritratto sullo scudo

(5) GAIO MARIO
Trionfarono la statua ufficiale e il busto a carattere privato. In più, nell’età imperiale, si afferma un altro tipo di ritratto: la raffigurazione dentro uno scudo.

Si dicevano:

"clypeus" lo scudo di guerra,
"clupeum" lo scudo con il ritratto al centro nel suo interno.
"clupea" i ritratti degli imperatori che si attaccavano alle insegne militari, dalla cima alla metà dell'asta,
"clupea" erano anche detti i piccoli busti degli imperatori che venivano attaccati ad uno scudo rotondo mediante un uncino che li fissava al muro di un tempio o di un qualsiasi altro monumento (ad esempio il Colosseo)
"clupea" erano anche detti i bassorilievi delle immagini degli Dei (in genere Giove) che venivano attaccati ad uno scudo rotondo mediante un uncino che li fissava al muro di un tempio o di un qualsiasi altro monumento.

Sembra fosse di origine greca l'uso di appendere ai templi i clipei dei nemici uccisi, i romani più sbrigativi li fondevano e li appiccicavano ovunque.

La raffigurazione all’interno dello scudo, detta "imago clipeata" fu usata anche per scopi funerari e anche nella pittura, sempre con connotazioni estremamente realistiche.

Il senato decretò a Caligola e a Claudio Gotico (213-270) uno scudo d'oro su cui venne posto il loro ritratto, invece a Marco Bebio i decurioni ordinarono il suo ritratto su uno scudo d'argento.



LA GRANDE BRUTTEZZA

(6) GETA
Massimino Trace (4), Gaio Mario (5) e Geta (6) non sono certo belli

Geta, il figlio di Settimio Severo, è nel ritratto qua a fianco piuttosto giovane e piuttosto obeso.

Ha molto evidenti le rughe della preoccupazione, molto meno evidenti, ma ci sono, quelle dell'ira. Sembra deluso e inquieto.

Del resto ne ha ben donde, con il fratello Caracalla che deve avergliene fatte passare di tutti i colori prima di averlo infine fatto assassinare.

Ha il doppio mento, la fronte bassa, il volto piatto e tozzo.

Ha tutto sommato uno sguardo discretamente intelligente, un po' addolorato e un po' volitivo e adirato, ma pure spaventato.

Il ritratto di Calpurnio Piso (7) ci colpisce non per la bruttezza ma per l'espressione preoccupatissima e infelice.

Ha le labbra sottili, ha le rughe della tensione e della preoccupazione, è teso fino allo spasimo, ha pure le rughe della rabbia ma non molto accennate.

CALPURNIO PISO (7)
Ha invece gli angoli della bocca tirati all'ingiù di chi ha subito cocenti delusioni.

Fu un grande collaboratore di Augusto, che, profondo conoscitore di uomini, lo spremette come un limone facendolo combattere ovunque.

Meritò il trionfo e grandi lodi, per le sue capacità di generale ma pure di onesto amministratore di denaro pubblico e di persone, dimostrandosi equo e generoso con i popoli sottomessi.

Forse tutte queste virtù gli pesarono un  pochino, anche perchè girò il mondo e non fece più ritorno a casa.

Giulio Cesare (8) era un bell'uomo, morì ancora nel pieno dell'età, a 46 anni, eppure in un suo ritratto sembra dimostrare molto più della sua età.

Forse era negli ultimissimi anni della sua vita, e forse la sua salute non andava tanto bene.

Di certo non aveva l'epilessia come è stato scritto su di lui perchè un epilettico non potrebbe sopportare le guerre e morirebbe giovane.
(8) GIULIO CESARE
Anche perchè all'epoca non esistevano le cure per l'epilessia.

Però sembra un uomo dimagrito repentinamente, con molte rughe di preoccupazione, quelle orizzontali sulla fronte, e le poche tra gli occhi fanno pensare più a rughe di concentrazione che di ira.

Pensiamo però che un po' della sua immagine sia stata guastata dal naso.

Poichè infatti gli iconoclasti cristiani si industriavano per demolire le immagini romane, soprattutto se famose, perchè avevano seguito, non riuscendo a farle tutte a pezzi, si contentavano a volte di sfigurarle, prendendole a mazzate sulla faccia.

Naturalmente la prima parte che si rompeva era il naso e quello di Cesare appare evidente che sia stato aggiunto da altri.

Purtroppo però è un naso sbagliato, Cesare aveva un naso adunco e sottile e non a patata come quello che gli è stato appiccicato.

SILLA (9)
Ma neppure la faccia di Silla, fig. (9), era un granchè, una faccia decisamente collerica e pure sprezzante anche se molto determinata.

Di certo però aveva un viso virile, tanto che nessuno suppose mai fosse gay, se non lo avesse confessato lui stesso, e con infinito gusto, il giorno della sua abdicazione.

Da notare che gli scultori non facevano distinzioni tra giovani e vecchi, o fra uomini e donne, o fra grandi e fanciulli o bambini.

Venivano tutti ritratti con grande somiglianza, ma soprattutto con grande evidenza del carattere.

Cosa che i romani dovevano accettare volentieri, altrimenti gli scultori avrebbero cambiato metodo.

Il bello dell'antica Roma era che l'arte era di casa, le botteghe di scultura fiorirono con maestri ed allievi che divennero maestri a loro volta.

L'arte non era un'eccezione, era la norma, era un prodotto artigianale che molti potevano permettersi. Diceva Cicerone che a Roma c'erano più statue che abitanti e Augusto dovette spostare le statue in periferia perchè il Foro ne era stracolmo.

FAUSTINA MINORE

LA GRANDE BELLEZZA

Ma i romani erano maestri del bello e del brutto e il ritratto di Faustina Minore che qui riportiamo dimostra quanta attenzione avessero anche alla pura bellezza, in questo caso unita a una giovanile grazia e ingenuità.

Più matura nello sguardo questa sia pur giovane donna dal volto regolare e il portamento elegantemente composto.


I romani appresero l'arte della scultura (e anche della pittura) dai greci, ma pure dagli etruschi che furono purtroppo demoliti molto presto dai romani, e che dai greci avevano poco da invidiare. Era fatale che tra nord e sud, circondati dall'arte, i romani non l'apprezzassero e la apprendessero insieme alla capacità di leggere e scrivere, come uno dei sommi piaceri della vita.

L'ANEMOSCOPIO ROMANO

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I VENTI ROMANI

LODOVICO POLLAK

Ludwig Pollak, nato a Praga nel 1868, morì nel 1943 nel campo di concentramento di Auschwitz. Fu un archeologo classico austriaco-cecoslovacco e un commerciante d'arte che visse a lungo a Roma.

Dopo aver studiato archeologia classica e storia dell'arte viaggiò in Grecia e in Italia con una borsa di studio austriaca e nel 1895 si stabilì come studioso privato e commerciante d'arte a Roma.

ANEMOSCOPIO DI LEONARDO DA VINCI
Nel 1904 divenne custode onorario del nuovo Museo Romano d'Arte Antica Museo Barracco. A Roma, Pollak individuò il braccio mancante del Laocoonte nel bacino di marmo di un laboratorio di pietra a scalpello nel 1905. Pollak fu nominato Commendatore dell'Ordine Pontificio di Gregorio.

Durante la I guerra mondiale Pollak dovette lasciare l'Italia nel maggio 1915 e tornare nel maggio 1919. Nel 1934 il Reich ribattezzò la Bibliotheca Hertziana per ragioni antisemitiche e Leo Bruhns, il nuovo reggente direttore negò l'accesso a Pollak dal 1935 in poi.

All'arresto degli ebrei romani il 16 ottobre 1943 Ludwig Pollak fu arrestato con tutta la famiglia. Benché gli venisse offerto rifugio dal Vaticano attraverso l'invio di amici tedeschi, si rifiutò di accettare il destino del suo popolo. Il destino di Pollak e quello della sua famiglia dopo la deportazione degli ebrei romani non è noto, morì comunque nel campo di concentramento di Auschwitz.

L'eredità di arte di Pollak, libri di 2000 e collezione di autografi è stata donata dalla sua cognata Margarete Süssmann Nicod († 1966) nel 1951 e nel 1958 alla città di Roma ed è ora conservata nella biblioteca del Museo Barracco.



ANEMOSCOPIO DI SAN LAZZARO
di LODOVICO POLLAK 

Purtroppo nella notte dopo la scoperta questa rosa dei venti sparì misteriosamente. Un caso felice rese possibile per mera combinazione al sottoscritto di ritrovarla sette mesi più tardi presso un privato, il quale, appena saputane la vera provenienza, si affrettò, seguendo il mio consiglio, a restituirla al legittimo proprietario, il Governatorato di Roma, per cura del quale fu collocata nella prima sala dell'Antiquarium sul Celio.

Il disco, di marmo greco a grana grossa di colore leggermente azzurro è alto 17 cm. e si restringe un po verso il piano superiore. Il diametro del piano inferiore è 65 cm., quello del piano superiore 59 cm. La circonferenza media misura 1 m. 85 cm. Tutti e due i piani sono lasciati ruvidi e sono lavorati col subbiolo. Nel mezzo del piano superiore è visibile un buco tondo di 9 cm. di diametro e 16 cm. profondo. Il buco è da sopra in giù un po' obliquo. Dal buco corre verso l'orlo del piano superiore ma non fin al bordo un canale di 20 cm. di lunghezza, 2 cm. di profondità e 3 cm. di larghezza. 

Non si vedono resti del piombo col quale era ivi fissata l'asta metallica - un dettaglio importante, di cui si parlerà più in giù. Il giro del disco è da semplici costole diviso in sedici riparti che si restringono un po' in alto. Ogni riparto porta una erma veduta di faccia. Le teste di queste erme sono assai rozze. Soltanto due di esse sono barbute. Tutte le teste sono fra loro differenti nel lavoro dei capelli, nella formazione dei visi e nella espressione delle bocche, qui dritte, là storte.

Queste sedici erme, di cui sono appena accennate le spalle, ed in alcune poche addirittura soppresse, sono divise in quattro sene di tre erme ognuna portanti delle iscrizioni. Ognuna di queste quattro sene è poi divisa, non si sa perchè, dalla seguente da una erma senza iscrizione. Il rilievo è rotto nella parte inferiore per circa 35 cm. di lunghezza. Visibili sono pure delle piccole abrasioni. Queste mancanze non sono da attribuirsi agli scopritori, ma esse sono già antiche, perchè la vecchia patina copre pure le rotture. I venti sono:

L'ANEMOSCOPIO

I. - BOREAS.
I capelli piuttosto corti sono divisi - e questo vale per tutti ι sedici venti — in tre parti. Nel mezzo della fronte essi si rizzano in tante strisele, mentre ai lati ricadono agitati dal soffio. Il collo non è visibile e la testa è semplicemente messa sull'erma. Il viso è tondo, le guance paiono soffiare. Gli occhi a globo sporgente sono senza indicazione di pupille. Gli angoli della bocca vanno melanconicamente in giù.

II. - Erma senza iscrizione. La parte inferiore manca, ma si vede che non portava un nome

III. - Erma che portava certamente una iscrizione, ma questa parte ora manca. Testa paffuta, guance piene, la bocca soffia.

IV. - CIRCI(V)S.
Erma barbata. Occhi assai sporgenti, le ciglia sono indicate, le guance pienissime, l'orecchio sinistro
è rozzamente accennato, bocca aperta, barbetta a pizzo.

V. - CHORVS.
Mento molto accentuato.

VI. - Erma senza iscrizione. Forse la più brutta fra le brutte. Essa ricorda quella del Circius. Le guance sono assai gonfie, la bocca è semiaperta. Sul mento pochi colpi di scalpello per indicare una barbetta.

VII. - EAONIVS
erroneamente invece di Favonius. La testa pare giovanile. Collo relativamente alto. Bocca storta ed aperta.

VIII. - AFRICVS.
Collo basso. La testa è un po' inclinata verso la sua sinistra. Sopracciglia. L'occhio destro è più alto dell occhio sinistro.

IX. - AUSTROF(ICV)S
invece di Austroafricus. Si vedono tanti piccoli colpi che indicano una barba che copre tutto il viso. Bocca stretta.



X. - Erma senza iscrizione. Guance piene, bocca stretta.

XI. - AVSTER.
Naso rotto. Rughe e sopracciglia. Nella bocca stretta un piccolo buco non profondo.

XII. - EVRVS.
Viso annoiato, naso sottile, bocca un po' storta.

XIII. - Simile al precedente ma col collo più alto. L'iscrizione è di diffìcile lettura e mancante VVLIV forse Vulturnusì = Volturnus, ma Volturnus è identico colR /V YEurusgik personificato nel η. XII. L'iscrizione pare intenzionalmente ο per sbaglio deteriorata.

XIV. - Erma senza iscrizione.

XV. - SOLANVS.
Faccia tonda e « fresca ». La più regolare e più simpatica fra tutte. Ombra di ingenuità.

XVI. - AQVILONICE.
La parte superiore della testa è brasa. Bocca storta.

Gli anemoscopi antichi finora conosciuti sono ι seguenti sette:

1) La celebre torre dei Venti ad Atene (Daremberg e Saglio, dict. V, pag. 720, fig. 7380). Mostra otto venti.

2) Quello del Vaticano nel Museo Pio dementino. Amelung Katalog II, pag. 32, n. 9-a (senza illustrazione). Colagrossi, L'anfiteatro Flavio 1913, pag. 92 e 94, fig. 5-a. Fu trovato nel 1779 presso San Pietro in Vincoli, poi si trovava nella Villa Albani, da dove passò al Vaticano. Pistoiesi, Il Vaticano, IV, tav. 83,2. C. I. Gr. Ili 6180 = Kaibel Inscript., n. 1308. Dodici venti sono elencati. Secondo l Hiilsen tutte le iscrizioni latine sono false e perciò non furono incluse nel sesto volume del Corpus. Ma un esame più accurato mi convinse della loro autenticità.

3) Quello di Gaeta. Ora sparito. Kaibel, /. c. 906. L'anemoscopio in parte inserito in un muro mostrava nelle parti visibili sette venti. Completo ne contava certamente dodici.

4) Il più grande trovato da L. Poinssot nel 1905 a Dugga (Tunisi). Bulletin des antiquaires, 1906, pag. 368 sg. C. I. L. Vili , pag. 2646, n. 26652. Dodici venti. Non va perfettamente d'accordo con b e c. e)

5) Quello trovato ad Aquileia. Gregorutti Bull. Ist. 1879, pag. 28. Mitt. der Zentralcommission 1880 pag. 7. fig. 7 (riprodotto dal Rehm, Sitzungsberichte der bayr. Akademie 1916 pag. 68. Fig. 10) Conta otto venti. L'artista si è firmato: M. Antist Euporus fecit.

6) L'anemoscopio " Boscovich" trovato nel 1759 «extra portam Capenam», poi sparito. Pubbl. dal Paciaudi, Mon. Peloponnesiaca, I, pag. 115 sg. e da questa incisione riprodotto dal Rehm, l. c., pag. 66. Manca nel C. I. L. Anche questo anemoscopio è firmato: Eutropius fecit. Elenca dodici venti.

7) Già da Lodovico Pollale a Roma. Pubbl. Bull. Com. 1928, pag. 303, fig. 10. Cfr. Biedl. Philologus, 1930, pag. 199 Sg. Elencati erano otto venti, di cui soltanto ι nomi di due (Ζέφυρος ed Έργάστης) sono conservati.



A questi sette va adesso aggiunto come ottavo il nostro anemoscopio.

Esso è certamente fra tutti il più recente ed ha col più antico, cioè colla Torre dei venti in comunanza la rappresentazione dei venti stessi. Ma purtroppo, mentre ι rilievi della torre appartengono alle sculture più belle del I sec. d.c., le sculture dell anemoscopio dell'arco di San Lazzaro sono di infima inaudita qualità.

Dove rimangono le gentili e nobili facce della torre, dove le giovanili muscolose figure dei venti personificati sulla base di Carnuntum? (Arch. epig. Mitt., 1895, pag. 184 sg.). Visi contorti, capelli irti, facce mostruose vediamo qui. L arte delle proporzioni è addirittura straniera allo scalpellino del nostro anemoscopio, che per sua fortuna è rimasto anonimo. Possiamo, malgrado le iscrizioni latine, vedendo la insuperabile bruttezza e brutalità delle teste, che collima con caricature non volute, pronunziare ancora la sacrosanta parola di antichità classica ?

Le iscrizioni non prive di scorrettezze, ι caratteri davvero non belli di esse rivelano subito una epoca bassissima. L'esame più accurato di esse ci porta,

A questi vanno aggiunti tre altri, dì cui ognuno mostra 12 venti, conservatici su mappe del mondo (vedi Bull, des Antiquaires, 1906, pag. 368 sg.). Il più vecchio data dall'VIII o X sec. d.c.., gli altri due datano dal XIII sec.

Essi hanno certamente la loro origine in originali di antichità classica e vanno d'accordo coi nomi dei venti riferiti da Seneca e Plinio e pure coll'anemoscopio di Dugga. Cfr. pure la rosa dei venti moderna (verso la fine del Settecento) sulla Casina destra della Piazza di Siena della Villa Borghese a Roma, che certamente è ispirata da prototipi classici. Essa elenca otto venti. 

Confrontandole con iscrizioni datate (Cfr. Diehls, Inscriptiones tab. 35) al V sec. d.c.. Si tratta certamente di un lavoro fatto a Roma stessa. Per ragioni a noi sconosciute - forse contribuiva la sfaldatura già rimarcata del marmo - è rimasto incompiuto. La superficie superiore della lastra non mostra le linee indispensabili per constatare la direzione dei venti e pure la mancanza assoluta dell'impiombatura per un asta corrobora questa ipotesi.

Vorrei quasi supporre che giustamente nel punto del ritrovamento cioè alle falde nord-ovest dell Aventino esisteva uno studio, nel quale furono scolpiti questi anemoscopi. Il sito è vicinissimo all'Emporium, dove furono caricati sui bastimenti questi anemoscopi per provvederne le province.

Scolpire e specialmente mettere a posto un anemoscopio era ed è tuttora un mestiere non facile e ben a ragione ι fabbricanti di questi strumenti delicati erano orgogliosi del loro lavoro. Su otto di questi anemoscopi non meno di due portano ι nomi degli artisti, mentre i molti orologi solari antichi non portano mai le iscrizioni dei maestri. Tutti gli anemoscopi antichi conservatici non vanno con nostra massima meraviglia mai perfettamente d'accordo, anzi differiscono spesso assai.



Vedi il quadro sinottico più giù. Pare, che secondo i luoghi anche i nomi dei venti cambiassero e che certe regioni del vasto Impero Romano avessero certe predilezioni per questi od altri nomi dei venti, che dominavano presso di loro. Stilisticamente le teste del nostro anemoscopio rappresentano il punto più basso di tutta la scultura romana.

Esse sono veramente la « barbarisirte Antike » e non trovo paragoni per questo record di bruttezza. Quanto più belli sono per esempio i rilievi dell'obelisco di Teodosio a Costantinopoli scolpiti verso il 390, dunque poco anteriori! Non possiamo, dato il ritrovamento dell'anemoscopio a Roma stessa, nemmeno parlare di arte soldatesca, qualche volta una facile e gratuita scusa per mascherare deficienze artistiche.

Noi dobbiamo avere il coraggio di constatare senz altro la decadenza infima dell'arte romana di quell'epoca e di deplorarla. Non posso partecipare al convegno di quei scienziati futuristi che erigono un altare al « volere » nell'arte e che mettono questo cosidetto " volere " perfino sopra 1'arte stessa. Io, convinto passatista, vedo in queste sculture il punto più basso toccato mai dall'arte romana. In questo senso esse sono veramente insuperabili e pure assai istruttive.

È quasi incredibile che questi mostri provengano dalla stessa " Urbs " che vide nascere i miracoli dell'Ara Pacis ο ι rilievi traianei dell arco di Costantino. Siamo con queste teste dell' anemoscopio dell' arco di San Lazzaro ad una svolta assai importante nella storia dell'arte. Non si può andare più in giù. Dopo tanto regresso deve per eterno destino delle cose venire il progresso, progresso lento ma evidente e continuo. Già per esempio le figure dell'arte longobarda mostrano questi lenti progressi.

Si confrontino la lastra d'oro di Agilulfo (Preuss. Jahrb., 1903, pag. 208, fig. 1) conservata nel Bargello e le transenne della badia di Pietro e Paolo a Ferentillo (Toesca, storia I, pag.279, fig. 171) ed i rilievi dell'altare di Pemmone a Cividale (Fogolari, Cividale, pag. 47 sg.). L'arte ha già ripreso e porta più tardi al romanticismo dell'arte romanica, al primo cauto e prudente rinascimento dei Pisani ed infine al definitivo divino e glorioso rinascimento toscano del Quattrocento.

GLI OBELISCHI DI ROMA

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Roma è la città ornata dal maggior numero di obelischi al mondo, in gran parte di origine egiziana e trasportati nell'Urbe a partire dall'epoca di Augusto, dopo la conquista dell'Egitto avvenuta con la battaglia di Azio del 31 a.c. Neanche in Egitto ne esistono così tanti, dato poi che la maggior parte li hanno presi i romani come bottino di guerra.

Data la moda egizia portata a Roma da Cleopatra, anche gli obelischi vennero ambiti come ornamenti ma, anche se del medesimo granito utilizzato dagli Egizi, alcuni furono realizzarti a Roma in epoca imperiale. In questo caso il monolite era privo di iscrizioni, oppure vi venivano copiati dei geroglifici egizi, ma non essendo ancora compresi nel significato, contenevano errori e fraintendimenti.

Il più antico in assoluto è l'obelisco che si trova ora in Piazza San Giovanni in Laterano: l’obelisco Lateranense. E’ di origine egizia, è stato eretto nel XV secolo a.c. e non solo è il più antico, ma è anche il più alto obelisco monolitico al mondo, interamente ricoperto da geroglifici.


I romani solevano adornare la cuspide dell'obelisco con una sfera dorata ed interporre tra basamento marmoreo ed obelisco gli astragali, 4 cubi di bronzo.

Per primo Augusto fece rimuovere da Eliopoli due grandiosi obelischi e con zattere sul Nilo e poi per mare fino ad Ostia e quindi passando per il Tevere furono portati a Roma poco prima del 10 a.c. ed eretti uno sulla spina del Circo Massimo e l'altro in Campo Marzio, come gnomone per il Solarium Augusti, una enorme meridiana incisa su una platea presso l'Ara Pacis, dove oggi è San Lorenzo in Lucina.

Erano lunghi 22 metri (obelisco di montecitorio) e 24 metri (obelisco flaminio) e i Romani per trasportarli costruirono navi di grandezza straordinaria per l'epoca; la prima suscitò tale meraviglia che Augusto volle che venisse conservata nell'arsenale di Pozzuoli dove poi un incendio la distrusse.
 
LE 7 CHIESE ED I 4 OBELISCHI INNALZATI DA SISTO V (1589)
Successivamente Caligola fece portare un altro obelisco, lasciato senza iscrizioni geroglifiche e la cui datazione di realizzazione appare difficile, eretto nel circo Vaticano nel 40 d.c. (obelisco vaticano).
Domiziano fece tagliare l'obelisco ora in piazza Navona.

Adriano ne fece realizzare due, quello del Pincio e quello di Benevento, ad eterno ricordo del divinizzato Antinoo, il suo puer delicatus favorito. L'ultimo obelisco egizio giunto a Roma è quello lateranense, arrivato nel 357 d.c. quando era Imperatore Costanzo, figlio di Costantino.

I vari papi, nella demolizione della Roma imperiale e ricostruzione della Roma rinascimentale e barocca, hanno fatto  trasportare i pesantissimi monumenti nelle varie piazze di Roma e fuori di essa; Il primo fu Sisto V (1585-1590), con l'ausilio dell'architetto Domenico Fontana, che fece trasformare Roma in un luogo di pellegrinaggio, perchè ormai l'esistenza doveva trascorrere totalmente dedicata a una religione molto esigente.

Fece pertanto costruire grandi strade rettilinee per collegare le basiliche che ogni pellegrino doveva visitare (il famoso "giro delle sette chiese") onde ottenere "l'indulgenza plenaria" (valida tutt'oggi) e salvarsi dalle fiamme dell'inferno. Le chiese di Roma erano tutte un gioco di indulgenze e il devoto doveva farsi i conti di quanti giorni, mesi o anni poteva guadagnare attraverso le varie visite e preghiere, ma la visita delle sette chiese nell'anno santo salvava i fedeli dall'inferno.

Allo scopo della salvezza dell'anima c'è tutt'oggi l'associazione "Le chiese di Roma - visite guidate e i Percorsi Giubilari della Misericordia", per la remissione dei propri peccati.

Come punti di riferimento fece trasportare, e collocare, quattro obelischi: a Piazza San Pietro, sull'Esquilino, a San Giovanni in Laterano e a Piazza del Popolo. A Roma esistono ancora 13 obelischi originali, che però erano almeno 17.



Nel XVIII secolo:
- un obelisco è stato portato a Firenze, nel Giardino di Boboli a Palazzo Pitti;
- due sono stati portati ad Urbino, davanti alla chiesa di San Domenico;
- un altro obelisco si trovava sull'isola tiberina: è crollato a terra nel XVI secolo e nessuno si è preso briga di rimetterlo in piedi e restaurarlo; alcuni frammenti sono conservati al Museo Nazionale di Napoli e nel museo di Monaco di Baviera, perchè  non si è dato abbastanza valore a un obelisco ma i suoi pezzi, come una larga parte dei nostri monumenti, sono stati venduti all'estero per fare moneta.

Ecco l'elenco degli obelischi romani ancora visibili:


OBELISCO VATICANO

1) - Piazza San Pietro. Alto 25,5 metri, opera di Nencoreo (XII dinastia, 1991-1786 a.c.). Portato a Roma da Caligola da Alessandria d’Egitto nel 37 d.c. e collocato nel Circo di Caligola e Nerone. E’ fatto da granito rosa e non ha geroglifici incisi sopra, inoltre è l’unico degli obelischi di Roma a non essere mai caduto. Infatti tutti gli altri hanno subito degli “incidenti” ed hanno subito delle restaurazioni e delle sistemazioni nel corso dei secoli.


OBELISCO FLAMINIO

2) - Collocato al centro di Piazza del Popolo. Alto 24 metri, opera di Ramses II (1279-1213 a.c.), Tempio del Sole a Heliopolis. Portato nel 10 a.c. da Augusto e collocato nel Circo Massimo. Originariamente sistemato nel Tempio di Iside, il Senato lo donò nel 1582 a Ciriaco Mattei dopo essere stato per molto tempo alla base della scalinata dell'Ara Coeli a partire dal XIV secolo. 

Fu portato a Roma per volere dell’imperatore Ottaviano Augusto, insieme all’obelisco di Montecitorio. Venne poi sistemato e ricomposto a seguito della rottura in 3 pezzi, per volere di papa Sisto V.  Nel 1817 fu spostato a piazza del Popolo. 



 OBELISCO LATERANENSE

3) - Piazza San Giovanni in Laterano. Alto 32 metri, opera di Tutmosis III (XV secolo a.c.), a Karnak. Portato da Costanzo II nel 357 e collocato nel Circo Massimo Si disse che nel suo globo dorato erano le ceneri di Cesare e nel Mirabilia viene riferito che sulla sfera si fosse ritrovata la seguente epigrafe:
Caesar, tantus eras quantus et orbis,
sed nunc in modico clauderis antro

Cesare, tu sei stato una volta grande come il mondo,
ma ora sei chiuso in un piccolo antro.


OBELISCO MONTECITORIO

4) - Piazza Montecitorio: obelisco alto 22 metri, opera di Psammetico II (594-589 a.c.), a Heliopolis. Portato da Augusto e collocato come gnomone nell'Orologio solare in Campo Marzio dove le sole lettere in bronzo misuravano di lunghezza tre metri ciascuna. Venne portato a Roma insieme all’obelisco Flaminio, con uguale storia alle spalle. 

La sua sistemazione in questa piazza è di epoca recentissima, cioè nel 1998 ed è stato collocato in modo da formare una grande meridiana, proprio perchè inizialmente era stato pensato essere come l’ago di una meridiana in Campo Marzio, voluta da Augusto.


OBELISCO DEL MAUSOLEO

5) - Piazza del Quirinale: obelisco alto 15 metri. Collocato originariamente davanti al Mausoleo di Augusto. fa parte della fontana dei Dioscuri. Ha un'altezza 14,63 metri e con il basamento raggiunge 28,94 metri.

Realizzato in Egitto con granito rosso di Assuan, fu trasportato a Roma nel I sec. d.c., probabilmente all'epoca di Domiziano. Fu collocato insieme all'obelisco Esquilino all'ingresso del Mausoleo di Augusto. Il fatto di non avere iscrizioni fa presumere che la sua costruzione non sia così antica come la maggior parte degli obelischi egizi. Venne ritrovato nel 1527 insieme al gemello, ma fu eretto solo nel 1786, per volere di papa Pio VI, accanto alle statue dei Dioscuri provenienti dalle vicine terme di Costantino.


 OBELISCO ESQUILINO

6) - Piazza dell'Esquilino. Collocato davanti al Mausoleo di Augusto alle spalle dell'abside della Basilica di Santa Maria Maggiore, centro del rione Esquilino dal quale prende il nome. Ha un'altezza di 14,75 metri e con il basamento e la croce raggiunge i 25,53 metri.

Fu realizzato probabilmente all'epoca di Domiziano ad imitazione degli obelischi egiziani e collocato insieme all'obelisco del Quirinale, all'ingresso del Mausoleo di Augusto. Qui venne ritrovato nel 1527 insieme al gemello e fu eretto nel 1587 per ordine di papa Sisto V e ad opera di Domenico Fontana.


OBELISCO DELLA FONTANA DEI FIUMI

7) - Piazza Navona. Detto pure obelisco Agonale. Opera romana dell'età di Domiziano, proviene dal Circo di Massenzio sull'Appia antica, ma in origine era collocato forse nel Tempio di Iside in Campo Marzio (Iseo campense) o nel Tempio di Serapide (Serapeo) sul Quirinale. Secondo altri invece sarebbe una riproduzione di un obelisco egizio, risalente all’epoca di Domiziano.

Una curiosità: papa Innocenzo X incaricò il Bernini di realizzare il suo progetto della fontana dei Fiumi, proprio per l’idea che l’artista ebbe di porre nel centro questo obelisco, togliendo così l’incarico al Borromini e agli altri candidati per la progettazione della piazza.


OBELISCO DEL PANTEON

8) - Piazza della Rotonda. Sulla fontana davanti al Pantheon. Alto 6 metri, opera di Ramses II (1279-1213 a.c.), proveniente da Heliopolis, e portato a Roma da Domiziano, che lo collocò come decorazione dell'Iseo Campense (tempio dedicato a Iside) Venne posizionato sulla fontana antistante il Pantheon per volere di Clemente XI. Fu portato a Roma da Domiziano che amava molto gli obelischi.




OBELISCO DEL MONUMENTO AI CADUTI DI DOGALI

9) - Dall'Iseo campense, oggi in Piazza dei Cinquecento. E' in granito rosso e fu eretto a Heliopolis da Ramsete II nel XIII secolo a.c. (1279-1213 a.c.), a Heliopolis, e fu trasportato a Roma nel I secolo d.c. dall'imperatore Domiziano per ornare (insieme a quelli oggi situati in piazza della Minerva, in piazza della Rotonda ed a Villa Celimontana), il "Tempio di Iside". 

Alto metri 6,34 (con il basamento e la stella raggiunge m 16,92), ne fu rinvenuta casualmente la sommità nel 1719 in via di S.Ignazio durante i lavori di ristrutturazione della Biblioteca Casanatense, ma soltanto nel 1883 fu completamente dissotterrato dall'archeologo Rodolfo Lanciani. L'obelisco venne dedicato come Monumento ai caduti di Dogali.


OBELISCO DELL'ELEFANTE

10) - Detto pure obelisco della Minerva, proveniente dall'Iseo campense. Oggi in Piazza della Minerva: obelisco del berniniano Elefante obeliscoforo (portatore di obelisco). Alto 6 metri, opera del faraone Apries (VI secolo a.c.). è di origine egiziana ed il suo posizionamento sull’elefante fu per opera del Bernini. Questo obelisco sorge di fronte alla chiesa di Santa Maria sopra Minerva, dove fu celebrato il processo contro Galileo Galilei.


OBELISCO DI TRINITA' DEI MONTI

11) - Detto anche obelisco sallustiano, proviene dal Circo degli Horti Sallustiani (villa di Sallustio), posto in cima alla scalinata di Trinità de Monti, a Piazza di Spagna da Pio VI, nel 1789. È alto 13 metri ed è una imitazione romana, dell'epoca dell'imperatore Aureliano, degli obelischi egizi dell'età di Ramses II (1279-1213 a.c.)

Nato senza epigrafe venne inciso con la copia di un’iscrizione di età faraonica.In granito rosso, alto 13,91 metri, recava le iscrizioni di Seti I e Ramses II letteralmente ricopiate dall’obelisco di Augusto in Piazza del Popolo. Alcuni segni erano errati, altri addirittura capovolti.



OBELISCO DI VILLA CELIMONTANA

12) - Il piccolo obelisco matteiano su cui è scolpito il nome di Ramses II (1279-1213 a.c.); proveniente da Heliopolis. Inizialmente decorava un piccolo Tempio di Iside sul Campidoglio, dono dell'imperatore Domiziano.Nel XVI secolo è stato spostato in quanto non era contemplato nella nuova piazza michelangiolesca del Campidoglio. 

Il Senato Romano lo ha donato, nel 1582, a Ciriaco Mattei, che lo ha sistemato nella sua villa sul Celio.  E’ costituito da due blocchi di due epoche differenti, la superiore è egiziana, come dicevamo, mentre l’inferiore è più recente, ma di epoca romana.


OBELISCO DEL PINCIO

13) Obelisco di epoca egiziana, realizzato per volere di Adriano, collocato inizialmente per decorare un monumento dedicato al giovane Antinoo dopo la sua morte avvenuta nel Nilo in circostanze rimaste in parte oscure. Ha avuto diverse collocazione nel corso dei secoli, fino a quando nel 1800 venne posizionato sulla terrazza del Pincio.

AQUINCUM (Ungheria)

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AQUINCUM
Aquincum fu un'antica città romana alla periferia di Budapest, odierna capitale dell'Ungheria, nella zona di Óbuda (ovvero: antica Buda). Qui in epoca romana, esattamente nel I sec. sorgeva Aquincum, la capitale della provincia della Pannonia inferiore sin dal tempo di Traiano (53 - 117).

A partire dal principato dell'imperatore Domiziano (51 - 96), qui sorse una fortezza legionaria per fronteggiare le popolazioni germaniche (dette anche Teutoni o Goti) dei Quadi, popolo di origine suebica (del Mar baltico), che si trovava al principio del I sec. a.c.. nell'alta valle del fiume Meno in Germania e degli Iazigi, popolo di origine sarmata che, in origine vivevano nei pressi del Mar d'Azov, a sud del Volga. Attorno al 20 migrarono dietro indicazione dell'imperatore romano Tiberio, nella piana del Tisza (Ungheria orientale), dove rimasero fino all'arrivo degli Unni.

Aquincum divenne la capitale della nuova provincia della Pannonia inferiore, secondo alcuni dalla divisione che fece Traiano nel 103 (secondo altri la capitale fu invece Sirmio in Serbia sul fiume Sava), o forse dopo la nuova suddivisione operata da Caracalla nel 212-214, fino alla riorganizzazione provinciale operata da Diocleziano.


RICOSTRUZIONE DELLE TERME

LA STORIA

- In seguito alle campagne condotte per volontà di Augusto da Druso Maggiore nel 10 - 9 a.c. i Quadi migrarono, insieme ai Marcomanni, in Moravia. 

- Dopo la campagna di Tiberio del 6 d.c. diventarono popolo Cliente dei Romani, per cui si spostarono ancora più ad est in Slovacchia.

- Tacito narra che il loro re Vannio (19-50), che era re anche dei Marcomanni. fu cacciato dagli stessi Suebi, per cui l'imperatore Claudio, pur rifiutando di intervenire, ordinò al governatore della Pannonia “di disporre una legione con un corpo scelto di milizie ausiliarie sulla riva del Danubio” per proteggere i perdenti e dissuadere i barbari vittoriosi dalla tentazione di invadere la provincia.
Qui divenne la sede di un importante forte ausiliario di un'ala di cavalleria (190 x 250 m), installato nei pressi dell'attuale quartiere di Víziváros (49-50), su un precedente sito celtico.

RICOSTRUZIONE DEL PALAZZO GOVERNATIVO
- I figli della sorella di Vannio si spartirono il grande regno dei Suebi (Quadi e Marcomanni), mantenendo verso Roma assoluta lealtà, mentre Vannio con le sue genti furono sistemati in Pannonia.

- Quadi e Marcomanni, come narra Tacito, aiutarono Vespasiano contro Vitellio, aiuto per cui ricevettero il loro riconoscimento ed appoggio politico-militare da parte di Roma, ma anche un aiuto in denaro ed armi. 

- Negli anni 89-97 vennero invece attaccati dall'imperatore Domiziano per il mancato aiuto contro i Daci di Decebalo (87 - 106). 

- La guerra durò dall'89 al 97 ma solo Traiano (53 - 117) riuscì a batterli, ottenendo il titolo di Germanicus, il trionfo e l'adozione imperiale da parte di Nerva.

- Le popolazioni suebe di Quadi e Marcomanni, tornati alleati dei romani, si sollevarono nel 135, per cui l'imperatore Adriano inviò là il suo erede designato, Lucio Vero (101 - 138), per combatterle nelle campagne 136-137, in cui furono vinte e tornarono popoli "clienti".



- Antonino Pio (86 - 161) pose sul trono dei Quadi, un nuovo re filo-romano, ma verso la fine del II sec. si ribellarono di nuovo a Roma dando luogo alle "Guerre marcomanniche", dove assediarono Aquileia e distrussero Opitergium nel 170 sotto Marco Aurelio (121 - 180).

Il loro re, favorevole a Roma, e scelto dallo stesso Marco Aurelio, venne sostituito con uno ostile nel 173 per cui L'imperatore indisse una nuova guerra, catturò Ariogeso che non fu messo a morte grazie alla clemenza di Marco Aurelio, ma fu mandato in esilio ad Alessandria d'Egitto.


FORTEZZA LEGIONARIA DI OBUDA

LA FORTEZZA

Vennero pertanto installate per ordine di Claudio i forti:
1) - Aquincum. forte ausiliario
2) - Brigetio (zona dell'antica tribù degli Azali) forte ausiliario
3) - Carnuntum (centro di origine celtica) forte legionario
tutti lungo il limes danubiano.
- Nel 73 la cohors I Tungrorum Frontoniana venne dislocata nella Germania Inferiore. Con Adriano venne trasferita lungo il Vallo di Adriano. Sotto Antonino Pio è a Castlecary.
Nel III sec. andò a a Housesteads, sempre sul vallo adrianeo, dove rimarrà fino al IV sec. 
Secondo la Notitia Dignitatum.costruì un nuovo forte a Óbuda, distrutto poi durante la guerra suebo-sarmatica nel 92-93. In seguito a questi eventi venne dislocata un'unità di equites singulares, che qui rimasero almeno fino al III sec.

LE TERME
- Per diversi secoli Aquincum svolse la funzione di base legionaria (415 x 415 m, pari a circa 16,6 ha), presumibilmente a partire dall'89, durante la prima fase della guerra suebo-sarmatica, iniziata da Domiziano e conclusa da Traiano nel 97.

- Vi si acquartierarono, dall'89 al 92,  la legio V Alaudae o la legio XXI Rapax, una delle quali fu completamente distrutta in seguito ad un'invasione dei Sarmati Iazigi. Venne quindi inviata in sostituzione la II Adiutrix, che qui rimase fino al V sec. Quest'ultima unità partecipò in toto o anche solo con alcune sue vexillationes a numerose campagne militari dei secoli successivi.

LE TERME
- La fortezza fu poi ricostruita ed ampliata agli inizi del regno di Adriano, nel 118/199, al termine della crisi sarmatica: le sue dimensioni all'epoca erano di 520 x 460 m.

- Sia Marco Aurelio, sia il figlio Commodo, combatterono una lunga ed estenuante guerra  "ripulendo" i territori della Gallia cisalpina, Norico e Rezia (170–171), poi contrattaccando con una massiccia offensiva in territorio germanico, che richiese diversi anni di scontri, fino al 175.

- Nel 178 Marco Aurelio fu costretto a tornare nel castrum di Brigetio da dove venne condotta l'ultima campagna. La morte dell'imperatore determinò l'abbandono dei territori occupati della Marcomannia.

LA VIA PRINCIPALE
- Aquincum costituì un'importante base strategica per condurre attacchi contro le popolazioni degli Iazigi da occidente, anche con la costruzione in questi anni dei forti ausiliari di Transaquincum e Contra Aquincum, sulla sponda sinistra del Danubio, opposta alla fortezza legionaria.

- Sotto Settimio Severo ottenne lo status di colonia, che oggi corrisponde al quartiere di Óbuda (nell'odierna Budapest).

- Nel 214 Caracalla dovette battersi per le incursioni tra Brigetio ed Aquincum da parte di Quadi e Iazigi. Caracalla vinse assumendo l'appellativo di "Sarmaticus", e la Pannonia inferiore incluse anche la fortezza legionaria di Brigetio, oltre a quella di Aquincum (che divenne capitale), in modo che ognuna delle due Pannonie potesse disporre di due legioni.
- Nel 228, sotto Alessandro Severo, gli Iazigi attaccarono il limes della Pannonia inferiore, ma furono respinti dal futuro imperatore Marco Clodio Pupieno Massimo che ottenne il titolo di "Sarmaticus maximus".

PERISTILIO DELLA DOMUS DI AQUINCUM
- Nel 236–237, Massimino Trace, condusse nuove campagne contro i sarmati Iazigi. Tra il 258 e 262 il fronte della Pannonia inferiore fu posto sotto continuo assedio da parte di Iazigi e Vandali.

- Sotto Gallieno vi fu una nuova invasione di Sarmati in Pannonia, al punto che sia Aquincum, sia Intercisa furono saccheggiate.
- Nel 270, sotto Aureliano, i Vandali e alcune bande di Iazigi attaccarono i forti Aureliano li sconfisse e ottenne l'appellativo di Sarmaticus maximus.
- Nel 278, l'imperatore Marco Aurelio Probo battè gli Iazigi ed i Vandali, ma alla morte di Probo, gli Iazigi si unirono ai Quadi e attaccarono il limes pannonico, la Tracia la stessa Italia.

IL MACELLUM
- Nel 283, l'imperatore Marco Aurelio Caro affidò la parte occidentale dell'impero al figlio maggiore, Marco Aurelio Carino, che sterminò i Sasanidi. ricevendo il titolo di "Germanicus maximus",
- Nel 285 Diocleziano dovette respingere nuove invasioni germano-sarmatiche sia in Mesia sia in Pannonia, vinse e ricevette il titolo di "Germanicus maximus" e "Sarmaticus maximus" Nel 293, sconfisse nuovamente le tribù sarmatiche, tanto da essere riacclamato "Sarmaticus maximus"

- Costantino I combattè e vinse nel 322 - 334 gli Iazigi, coinvolgendo la stessa fortezza di Aquincum (le cui dimensioni ora furono di 720 x 300 m, con mura il cui spessore fu raddoppiato a quasi 3 m).
 
- Il limes danubiano resse ancora per alcuni decenni alle devastazioni barbariche, tanto che al tempo della Notitia dignitatum nel 400, la legio II Adiutrix si trovava ancora nell'antico castrum. Nel 409 però cadde sotto i colpi delle armate degli Unni di Attila, che riuscì ad occupare poi tutta la Pannonia nel 433. Nel sec. IV la città fu abbandonata e le pietre degli edifici romani furono poi usate per alzare le nuove case.

IL FORUM
Nel 1241 Pest si battè contro i tartari. Dopo aver perso la battaglia in campo si ritirarono per tre giorni in città e vennero assediati dai Mongoli. Il loro ultimo rifugio fu la chiesa domenicana, che aveva pareti in pietra. Quasi 10.000 persone vi rimasero intrappolate, soprattutto donne e bambini e i tartari bruciarono il monastero con le loro frecce incendiarie, si che tutti morirono bruciati nel rogo. 

Poi i mongoli attraversarono il fiume ghiacciato durante l'inverno del 1241-1242, e Óbuda venne distrutta. Essi uccisero l'intera popolazione delle due città. Pest e Buda. Quelli che si rifugiarono nelle foreste e nelle grotte, vennero cacciati e abbattuti come selvaggina.

L'impero romano, che aveva fatto da scudo alla crudeltà dei barbari, al suo crollo cedette il passo a nuove crudeltà e nuove inciviltà per secoli e secoli. Il Faro di Roma si era spento.

RICOSTRUZIONE DI CONTRANQUINUM

IL SITO DEL LIMES

Di Aquincum restano oggi il castrum, alcuni forti di cavalleria nelle sue vicinanze, come:
- Albertfalva (in legno di 167 x 190 m, sotto i Flavi; in pietra di 186x210 m, sotto Traiano/Adriano), un fortino romano di truppe ausiliarie che faceva parte della catena di postazioni militari presenti lungo il limes danubiano nel settore pannonico. Si trova a 13 km a sud della capitale dell'Ungheria, Budapest, l'antica Aquincum.

- Víziváros,

FONTANA ROMANA

- Campona (in pietra di 178 x 200 metri, dove risiedette a partire da Antonino Pio, l'Ala I Thracum veterana sagittaria), un fortino romano di truppe ausiliarie che faceva parte della catena di postazioni militari presenti lungo il limes danubiano nel settore pannonico. Si trova in località Nagytétény, poco a sud della capitale dell'Ungheria, Budapest, l'antica Aquincum.

Pest (sito dell'antico forte romano di Contra Aquincum, fondato durante le guerre marcomanniche di Marco Aurelio e Commodo) e numerose infrastrutture civili quali terme, anfiteatro, foro ed un acquedotto.

IL MITREO
Resti di edifici romani sono tuttora presenti e visitabili sul territorio di Budapest. Vi è anche un museo, il Museum Aquicense. È uno dei siti archeologici in cui è stato rinvenuto un quadrato del Sator sul cui significato non c'è ancora accordo tra gli studiosi.
Il quadrato del Sator è una ricorrente iscrizione latina, in forma di quadrato magico, composta dalle cinque seguenti parole: SATOR, AREPO, TENET, OPERA, ROTAS. La loro giustapposizione, nell'ordine indicato, dà luogo a un palindromo, vale a dire una frase che rimane identica se letta da sinistra a destra o viceversa.
L'uso era prettamente magico, cioè attraverso esso si creavano dei glifi da adoperare durante le cerimonie di magia. I quadrati magici, già operativi in epoca romana vennero poi sostituiti con i quadrati di numeri, usatissimi anche tra gli ebrei (la cabala) e ovunque nel medioevo. Il sistema era molto mentale e matematico, mirato ad astrarre l'operatore magico attraverso la complessità dei calcoli, e non era difficile astrarsi dalla realtà in modo anche pericoloso.

L'ANFITEATRO

DESCRIZIONE
Aquincum era tra le città più sviluppate del continente, con sontuose dimore, fontane e cortili.
In essa c'erano due abitati: quello civile e quello militare. Il castrum era sorto nella regione dello odierno cantiere navale, mentre la porta decumana si trova allo sbocco della via Vòròsi sulla piazza Florian; la porta principale destra pare che si trovi verso la via Lajos. Il praetorium della città era verso la via Fò. 

Gli scavi hanno fatto emergere:

- le terme del castrum di grandi dimensioni 

- il valetudinarium (ospedale romano)

- la schola vigilum,


- un anfiteatro nella città militare, in pietra arenaria, di dimensioni assai grandi (m 130 × 107), ma purtroppo della sua disposizione si conosce assai poco, dato lo stato di devastazione in cui si trova. I muri dei settori esterni sono di uno spessore di m 10, con massicci speroni; la cavea era ricavata dal materiale ottenuto dalla sistemazione della vastissima arena (m 88 × 66,40).

-  un altro anfiteatro risiede nella parte civile, a poca distanza dalla ferrovia che si dirige verso Esztergo, costruito prima del 162. Ha una pianta ellittica, di cui il diametro più lungo misurava m 55, e pare che la cavea sia stata interamente ricavata dallo scavo del terreno. La copertura era molto probabilmente in legno, le dimensioni sull'asse erano m 86 × 75. Il podium dell'arena era formato da grandi conci, mentre tra i sedili solamente pochi erano in pietra; gli altri erano in legno ed infissi nella terra. 

- le terme, di cui si conservano assai bene: tepidarium, calidarium, frigidarium e l'apodyterium. 

- il Foro, a sud delle terme, con al centro una statua. 

- il macellum, ancora più a sud del foro, circondato da ogni lato da tabernae e con in mezzo un edificio rotondo che ci fa pensare ad un santuario. 

- un mitrhraeum (di m 13,50 × 6); 

- una curia cioè una grande sala a colonne, 

- la fabbrica di un figlinus (vasaio). 

Non si conosce ancora il posto dove si potrebbe trovare la Fabrica Acincensis Scutaria di cui si parla in Not. dign. Occ., 9, 19. 

- Per l'alimentazione idrica della città si conoscono finora due acquedotti, di cui uno a tre piani, ma non è affatto escluso che ve ne fossero anche altri.

Il sito vero e proprio, è composto dalle fondazioni e alcuni muri dei vari edifici, alcuni dei quali mantengono ancora quasi intatti i mosaici del pavimento che sono protetti dalle intemperie con pareti in vetro e tettoie. Qui sembra ci sia tutta la città. Si può passeggiare per quelle che furono le vie di quella città, che non è grandissima (saranno circa 200 m x 150 m) però bella e interessante.





IL SITO ARCHEOLOGICO

I primi scavi vennero effettuati grazie alla scoperta fortuita di alcuni resti da parte di un vinaio, nel 1778. Da allora dell'antica città romana sono venuti fuori numerosi resti, tra cui un anfiteatro, il foro, un acquedotto, alcune terme, nonché numerosi altari votivi, sarcofagi, stele funerarie e statue religiose. 
Il sito archeologico, che all'epoca della massima espansione copriva un'area pari a circa 23 ettari, oggi (2014) risulta ancora in corso di scavi. Infatti si può visitare il campo di scavi. che si estende presso la ferrovia. Entrando, si hanno a sinistra i ruderi del foro e della basilica, a destra i resti delle terme, ove sono leggibili la stanza del custode e tutte le attrezzature del sistema di riscaldamento centrale. 

Si individuano anche coperture di scarico di calcare del sistema fognario. Aquincum copriva aveva un tipico stile romano con una griglia rettangolare e un forum al centro. La città era racchiusa da un muro con quattro porte.

Circa un quarto della città ex è ora aperto ai visitatori. Le attrazioni del sito includono anche la Casa del Pittore, una dimora romana ricostruita, e il Cronoscopio, una visualizzazione digitale che consente ai visitatori di vedere la città ricostruita. 

Appena sulla sinistra si scorgono a destra case di abitazione e le grandi terme, con bacino centrale di : m 6 x 4.5; dietro alle terme è la grande casa, di stile italiano, con cortile e peristilio, bagno e mosaici pavimentali; inoltre sono i resti dei templi di Mitra. 

Dietro le terme si nota una strada lastricata e fiancheggiata, in origine, da arcate. Appena dopo le terme si trovavano diversi negozi con al centro il macellum, cortile ad arcate con pozzo centrale. 
Al di là del ponte, si possono osservare sulla sinistra le costruzioni dell'anfiteatro civile, ampio circa 50 metri, con una capienza stimata in 5-6 mila posti, e davanti all'anfiteatro, i resti dell'acquedotto.



IL MUSEO 

Il Museo di Aquincum cerca di offrire un quadro orientativo di tutto lo splendido periodo romano, purtroppo solo in ungherese. Tuttavia, si possono ammirare l'organo ad acqua del III secolo, donato ai pompieri locali all'edile Gaio Giulio Viatorino, gli stampi per le ceramiche e i pavimenti a mosaico con paesaggio marino, oltre a sculture e sarcofagi in pietra all'esterno. 



G. LICINIO MACRO - C. LICINIUS MACER

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CAIUS LICINIUS MACER - 84 A.C. (DENARIO)


Nome: Caius Licinius Macer
Nascita: 108 - 107 a.c.
Morte: intorno al 66 a.c.
Professione: Politico e Storico Romano


LE ORIGINI

La data di nascita di Gaio Licinio Macro, ovvero di Caius Licinius Macer, è sconosciuta, ma la lex Villia annalis, un plebiscito del 180 a.c. del tribuno Lucio Villio, sanciva un'età minima per l'accesso alle magistrature e un intervallo di due anni tra due cariche. Pertanto, poichè si poteva diventare pretore a 39 o 40 anni,.essendo Licinio stato nominato pretore nel 68 a.c., se ne desume che debba essere nato nel 108 o 107 a.c. circa.

Di lui sappiamo che discendeva da una nobilitas, cioè da un'aristocrazia che aveva raggiunto la fama avendo ricoperto cariche nei pubblici uffici, anche se la Gens Licinia fu peraltro una famosa gens plebea originaria della città etrusca di Lanuvio, ma all'epoca si poteva essere optimati pur discendendo da una gens plebea oppure il contrario. 



IL CURSUM HONORUM

Sappiamo inoltre che venne eletto, pure essendo aristocratico ma molto vicino ai plebei nell'ideale di giustizia, "tribunus plebis" (tribuno della plebe) nel 73 a.c. e rivestì poi una carica pro magistratus, che risalirebbe al 68 a.c., di praetor. Quest'ultimo incarico dovrebbe corrispondere a un governo di una provincia, di cui però non è stata tramandata alcuna testimonianza. 

In qualità di tribunus plebis, si batté per la restaurazione della tribunicia potestas, che includeva il diritto di veto su qualsiasi decreto del Senato, il diritto di intercessio (l'intervento di un soggetto in occasione di un atto compiuto da un altro soggetto, in genere un magistrato, arginandone perciò i poteri), l'immunità personale e la possibilità di comminare condanne capitali. Non dimentichiamo che Macro era un popularis, legato a Mario, per cui volle difendere la città etrusca di Etruria, che sostenne Mario e subì gravi danni a opera di Silla, tanto più che la gens Licinia aveva origini etrusche.

Macro ebbe come figlio il famoso poeta neoterico ed eccellente oratore atticista (gli atticisti sostenevano un'imitazione dei classici molto austera e un po' aulica), Gaius Licinius Calvus, amico di Catullo e ostile, come oratore, di Cicerone. Nel 66 a.c., quando Cicerone era pretor, secondo la lex repetundarum fu condannato. Morì poco dopo la condanna, accusato di peculato perchè si uccise nel 66. 

GENS LICINIA


IL DISCORSO AI ROMANI

Questo discorso di Gaio Licinio Macro fu pronunciato nel 73, quando ricopriva la carica di tribuno della plebe. Egli rivendicava la restituzione alla plebe di tutti i diritti di cui era stata privata da Silla, e che erano stati riconcessi solo in parte sotto il consolato di Cotta nel 75.

(1)“Se voi, Quiriti, non valutaste a sufficienza la differenza tra i diritti ereditati dai vostri antenati e la schiavitù apprestatavi da Silla, dovrei lungamente parlare e spiegarvi quante volte e in seguito a quali offese la plebe attuò una secessione in armi dal senato, e creò i tribuni della plebe come per rivendicare i propri diritti.
(2) Ora mi resta soltanto da esortarvi e da guidarvi sulla strada che credo sia quella giusta per conquistare la libertà.
(3) Non mi sfugge quanta sia la potenza della nobiltà, che da solo, senza potere, con un simulacro di magistratura, cerco di spodestare dal suo dominio, né quanto più liberamente agisca una banda di criminali rispetto agli onesti isolati.
(4) Ma oltre alla speranza che nutro in voi e che ha sconfitto la mia paura, credo che per un uomo valoroso sia preferibile una battaglia per la libertà con esito sfavorevole che non aver combattuto affatto.
(5) Tutti gli altri magistrati nominati per tutelare i vostri diritti hanno rivolto contro di voi la loro forza e il loro potere, allettati da favori, speranze, compensi, e preferiscono delinquere a pagamento che non comportarsi bene gratuitamente.
(6) Così tutti sono caduti in potere di pochi, i quali con la scusa delle necessità militari si sono impadroniti dell’erario, degli eserciti, dei regni, delle province, e si sono fatti un baluardo delle vostre spoglie, mentre voi, moltitudine, come bestie offrite voi stessi al dominio e allo sfruttamento dei singoli, spogliati di tutto quello che vi hanno lasciato i vostri antenati, tranne il diritto di voto, attraverso il quale una volta nominavate dei difensori, adesso nominate dei padroni.
(7) Così tutti hanno cambiato campo; ma presto, se riconquisterete i vostri diritti, la maggior parte torneranno da voi. È ben raro, infatti, il coraggio di difendere le proprie idee: tutti gli altri appartengono al più forte.
(8) Dubitate forse di trovare ostacoli se vi muovete con impeto concorde, quando hanno avuto paura di voi anche quando eravate pigri e sonnacchiosi? Non è forse vero che Gaio Cotta, console uscito dal seno stesso della nobiltà, per nessun altro motivo che per paura ha restituito ai tribuni della plebe una parte dei loro diritti? E sebbene Lucio Sicinio, il primo che osò parlare del potere dei tribuni mentre voi bofonchiavate in silenzio, sia stato sopraffatto, tuttavia i vostri nemici ebbero paura dell’impopolarità ben prima che voi aveste nausea delle offese ricevute.
(9) Di questo non mi meraviglierò mai abbastanza, Quiriti: avete ben capito che le vostre speranze sono vane. Dopo la morte di Silla, che vi aveva imposto una schiavitù feroce, credevate finiti i vostri mali, ma ecco che è spuntato Catulo, molto più feroce.
(10) Poi scoppiò un tumulto durante il consolato di Bruto e Mamerco. Poi Gaio Curione spinse il suo potere fino a uccidere un tribuno innocente.
(11) Avete visto l’anno scorso con quanta violenza Lucullo attaccò Lucio Quinzio e quanti disordini si vanno adesso sollevando contro di me! Ma tutto sarebbe stato inutile se loro avessero avuto intenzione di mettere fine al loro dominio prima che voi alla vostra schiavitù: tanto più che in queste guerre civili, sia pure con altre parole, le due parti si sono contese il dominio su di voi.
(12) Per questo motivo furono limitati nel tempo gli altri conflitti, divampati dalla licenza, dall’odio, dall’ingordigia, mentre è rimasto costante l’obiettivo perseguito dalle due parti e strappato a voi per il futuro: il potere dei tribuni, l’arma che i nostri padri avevano allestito in difesa della libertà.
(13) Io dunque vi esorto e vi prego di riflettere, e di non cambiare per ignavia il senso delle parole, chiamando tranquillità la schiavitù. E del resto, di questa tranquillità non c’è modo di godere se il delitto sconfiggerà la giustizia e l’onore; ci sarebbe stato solo se voi foste rimasti totalmente acquiescenti. Ma adesso se ne sono accorti, e se non vincerete vi terranno in servitù più stretta, perché ogni offesa è tanto più sicura dell’impunità quanto più è grave.
(14) Qual è dunque la tua proposta? Chiederà qualcuno di voi. Per prima cosa, che abbandoniate questo modo di comportarvi con l’animo pigro e la lingua svelta, pensando alla libertà solo finché siete in assemblea.
(15) Poi – non vi invito a quelle azioni virili grazie alle quali i vostri antenati ottennero i tribuni della plebe, l’accesso alle magistrature patrizie, votazioni libere non sottoposte alla ratifica dei patrizi9 – dal momento che tutta la forza sta in voi, Quiriti, e sta nella vostra facoltà compiere o no a vostro vantaggio gli ordini che adesso subite a vantaggio di altri, aspettate forse consiglio da Giove o da qualche altro Dio?
(16) I grandi ordini dei consoli e i decreti del Senato, siete voi a ratificarli obbedendo, Quiriti; e siete voi di vostra iniziativa a favorire e aumentare l’arbitrio perpetrato contro di voi.
(17) Io non vi esorto a vendicarvi delle offese, ma a desiderare la pace, e, volendo non la discordia civile come loro mi calunniano, ma la fine di essa, richiedo ciò che ci appartiene secondo il diritto delle genti, e se vorranno ostinarsi a trattenerlo, vi propongo non la guerra né la secessione, ma semplicemente che smettiate di offrire il vostro sangue.
(18) Detengano e amministrino le cariche a modo loro, cerchino il trionfo, affrontino pure Mitridate, Sertorio e il resto degli esiliati con i ritratti dei loro antenati: chi non ha parte dei frutti, resti fuori anche dalle fatiche e dai pericoli.
(19) Ma forse con questa improvvisa legge frumentaria si vogliono ripagare i vostri carichi. Con essa hanno valutato a cinque moggi la libertà di tutti voi, non più della razione di un carcerato. Allo stesso modo che quelli con una razione così povera sono sì tenuti in vita, ma le loro forze si infiacchiscono, concessioni così piccole ingannano con esili speranze l’ignavia di ciascuno, senza liberarvi dalle preoccupazioni familiari.
(20) E anche se fosse un’offerta ampia, dal momento che ve la darebbero come prezzo della schiavitù, quale viltà non sarebbe cadere nell’inganno, e dover ringraziare l’offensore di ciò che è vostro?
(21) Attenti agli inganni: in nessun altro modo possono avere la meglio contro tutti voi, e nemmeno lo tenteranno. Per questo, da un lato vi apprestano delle lusinghe, dall’altro vi rimandano all’arrivo di Gneo Pompeo – colui che un giorno, quando la loro paura era al massimo, portarono a spalla in trionfo, e adesso che non hanno più paura lo calunniano.
(22) E non si vergognano, questi presunti vindici della libertà, di non avere il coraggio di far cessare l’ingiustizia ovvero di difendere i loro diritti, solo perché, tanti come sono, gli manca un uomo.
(23) E io credo per certo che Pompeo, quel giovane pieno di gloria, preferisca arrivare al potere col vostro sostegno piuttosto che complice della loro tirannide, e sarà tra i primi a difendere il potere dei tribuni.
(24) Un tempo, Quiriti, i singoli cittadini trovavano difesa nella collettività; adesso tutti la trovate in un uomo solo, e nessun uomo da solo poteva dare o togliere questi diritti.
(25) Ho detto abbastanza, e del resto, non è l’ignoranza che vi inceppa.
(26) Piuttosto vi ha preso una specie di torpore, per cui restate insensibili alla gloria come all’infamia, e avete dato tutto in cambio dell’attuale bonaccia, pensando di avere libertà più che sufficiente, solo perché la frusta risparmia le vostre schiene e siete liberi di muovervi, per concessione dei vostri ricchi padroni.
(27) Diritti che i contadini neppure hanno: vengono uccisi nelle lotte fra i potenti, o mandati nelle province come dono ai magistrati.
(28) Si combatte dunque e si vince a vantaggio di pochi, e qualunque sia l’esito, la plebe è sconfitta e lo sarà ogni giorno di più, se avranno maggiore impegno loro nel mantenere la tirannide che voi nel reclamare la libertà”.



LICINIO MACRO L'ORATORE

Macro aveva ottime capacità retoriche, come si capire dal discorso riportato da Sallustio e dalle dichiarazione di un personaggio a lui ostile, come Cicerone, che nel Brutus ha scritto:
« Gaio Macro ebbe sempre poca autorità, ma fu avvocato dalla diligenza pressoché ineguagliabile. Se la sua condotta di vita, i suoi costumi, infine la sua stessa fisionomia non avessero completamente guastato la reputazione che doveva al suo talento, avrebbe goduto di maggiore rinomanza tra gli avvocati. Senza aveva grande ricchezza di eloquio, non era tuttavia misero; lo stile non era particolarmente forbito, ma neppure trasandato; la voce, il gestire, e tutta l'azione non aveva grazia; ma nell'invenzione e nella composizione era di una accuratezza straordinaria: difficilmente saprei indicare, in altri, una maggiore, o più scrupolosa: ma era tale, che l'avresti detta piuttosto da mestierante che da oratore. Egli anche se si faceva apprezzare nei processi penali, aveva tuttavia un ruolo più in vista nelle cause private ». 

Cicerone riconosce le capacità oratorie e di patronus (colui che esercitava il patrocinio avvocatizio) nelle cause private, ne apprezza l'oratoria, con uno stile vivace e colorito e che riusciva a organizzare perfettamente le cinque parti dell'arte retorica - inventio, ordo, elocutio, memoria e actio - nei suoi discorsi, e come i fatti nei suoi discorsi siano precisi, ma queste capacità sarebbero rovinate da un comportamento e dall'astuzia di un “mestierante”.



L'OPERA STORICA

L'opera storica di Macro fu compresa in sedici o ventuno libri, considerata nei secoli successivi «un'autorità per la parte in cui trattava dalle origini fino al III secolo a.c.».

Ma Cicerone scrive nel I libro di De legibus:
«A che infatti dovrei citare un Macro? la cui garrulità presenta qualche arguzia, ma non già derivante dalla colta facondia dei Greci, ma dai copisti latini, e nei pezzi oratori vi è certo molto elevatezza, ma fuor di proposito, ed esagerata audacia».

Macro è quindi uno storico abile ma si riferirebbe più alla tradizione patrizia latina, che a quella greca. Dell'opera "Annales" o Historiae, possediamo oggi solo dei frammenti, ma sappiamo che venne adoperata come fonte attendibile da Livio e Dionigi di Alicarnasso, forse per le ricerche approfondite e per il ricorso ai libri lintei (antiche liste di magistrati romani, registrate su teli di lino e conservati nel tempio in onore della dea Giunone Moneta, sul Campidoglio). 

I libri lintei sono testimoniati da varie fonti italiche. Anche Livio riferisce che Macro citava questi documenti e ne utilizza l'opera anche se Macro, come altri annalisti, enfatizzava le glorie familiari; ma a parte questo ne rispettava l'opera.

GENS LICINIA


ORAZIONE PER LA LIBERTAS

Uno dei discorsi delle Historiae di Sallustio (86 - 34 a.c.) che elaborano il concetto di libertas e quindi di democrazia, che a Roma corrispondeva alla iura o res publica, è l'orazione di Macro nel 73 a.c., quando il ruolo della magistratura a lui attribuita era stata esautorata, con le riforme del dittatore Silla, negli anni 81-80 a.c.

Macro si rivolge al popolo romano e ricordando le lotte patrizio-plebee, rammenta che i costumi degli antenati devono essere mantenuti, si devono tutelare i diritti conquistati. L'uomo deve combattere per la libertà, anche a costo di soccombere, piuttosto che rinunciare alla lotta. Macro vuole in effetti recuperare il ruolo di garante del tribunus plebis per tutelare i diritti dei plebei. 
« In una democrazia invece deve governare la maggioranza, che deve potere esprimere liberamente i propri suffragia. Bisogna contrastare coloro che assoggettano il potere e che vogliono sottrarre al popolo la:«la potestà tribunizia, arma forgiata dagli avi a difesa della libertà »

È necessario recuperare il ruolo di tutti i magistrati di tutela e garanzia. Non si può abbandonare la res publica nelle mani corruttrici di pochi senza reagire, ora che i romani sono stati privati « di tutto ciò che avete ereditato dagli antenati».

Viene menzionato Lucio Sicinio (il tribuno della plebe del 76 a.c. vittima di Curione), il primo che ardì di ricordare della potestà tribunizia, mentre i plebei si limitavano a borbottare. Ma questi fu rovesciato. Bisogna lottare non solo con le parole, anche se la contio è il locus libertatis, in cui si partecipa al vero spazio della democrazia e della partecipazione politica comunitaria.

- Gaio Aurelio Cotta (console nel 75 a.c.) aveva fatto abolire il diritto di assumere altre cariche magistratuali
- Nel 73 a.c. i consoli Gaio Cassio Longino e Margo Terenzio Varrone Lucullo avevano proposto che ogni proposta legislativa doveva avere in prima istanza l'avallo del senato; il tribunato della plebe veniva depotenziato del suo ius intercessionis e non poteva continuare il cursus honorum.
I plebisciti dunque non devono essere ratificati dalla classe patrizia; e non c'è alcuna divinità che possa scegliere per i Quiriti (i responsi oracolari). . 
Tuttavia per Macro non si deve rispondere al sopruso con la violenza, perché nella res publica non si deve creare attrito, il quale scompagina l'assetto societario. È necessario riconquistare gli iura. Se i patrizi si ostineranno nei loro interessi, non è necessario prendere le armi e compiere una ennesima secessione, si può invece non partecipare più alla vita militare («travagli e pericoli non tocchino chi non avrà parte dei frutti»).

Le avversità e i rischi di combattere quindi non devono più essere un interesse dei plebei, che non hanno alcun diritto («di non mettere più oltre a repentaglio la vostra via») come nel 73 a.c., in cui con la legge Terentia Cassia frummentaria si ripristinavano le frumentazioni. Con l'elargizione del frumento non si aiuta, dichiara Macro, nessuno, neanche nella cura familiare.


LA MORTE

Della morte di Macro scrive Plutarco nella Vita di Cicerone scrive:
« Licino Macro, uomo già potente nella città di per sé e per di più appoggiato da Crasso. Un'inchiesta per peculato fu condotta a suo carico da Cicerone. Licino Macro, confidando nel proprio potere e nei propri appoggi, quando ancora i giudici non avevano deciso il verdetto, tornò a casa, si fece tagliare i capelli e indossò in fretta un mantello bianco, per andare nel foro di nuovo, da vincitore. Sotto casa, però, incontrò Crasso, venuto a dirgli che era stato condannato all'unanimità. Tornò quindi indietro, si mise a letto e morì ».
Cicerone, nella "Pro Rabirio perduellionis" reo (del 63 a.c.), orazione tenuta davanti al popolo in difesa di Rabirio, condannato a morte per l'uccisione del tribuno Saturnino nel 100 a.c., considerato delitto contro lo Stato, Cicerone scrive:

« A meno che tu non ritenga per caso che la tua accusa concernente la profanazione di luoghi e boschi sacri meriti una lunga confutazione, visto che a questo proposito ti sei limitato a dire che si tratta di un'imputazione formulata con Rabirio da Licinio Macro; ma sempre a questo proposito io mi meraviglio che tu, mentre hai ricordato l'accusa rivolta a Rabirio da Macro, suo nemico hai invece dimenticato la sentenza pronunciata da giudici imparziali e sotto il vincolo del giuramento ».

Valerio Massimo (I sec. ac. - 31 d.c.) invece nel Factorum et dictorum memorabilium libri IX descrive le morti di uomini illustri tra cui quella di Gaio Licinio Macro che salì sulla balconata della Basilica, durante il conteggio dei voti per l'accusa "de repetundis" (di concussione) e si uccise.
Cicerone, che presiedeva il tribunale, saputo che Macro si stava soffocando con un fazzoletto, avrebbe deciso di non pronunciare la condanna.

Però Cicerone in una lettera ad Attico dichiara:
« Qui a Roma ho condotto a buon fine il processo di Gaio Macro, trovandomi sorretto dallo sbalorditivo consenso popolare, che proprio non mi aspettavo. Io, a dire il vero, mi ero comportato con ragionevole indulgenza nei riguardi dell'imputato, tuttavia la sua condanna mi ha fruttato, per quel che ne pensa la gente, prestigio molto maggiore di quello che ne avrei ottenuto dalla sua riconoscenza, se egli fosse stato assolto».

RUPE TARPEA

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LA RUPE TARPEA

La Rupe Tarpea costituiva il lato meridionale della rocca del Campidoglio dalla quale veniva gettato nel Foro sottostante chiunque fosse stato condannato a morte per tradimento alla patria. 

- Fu il caso di Spurio Cassio Vecellino, console tre volte nel 502, 493, e 486 a.c., che venne portato in giudizio dai due questori Cesone Fabio Vibulano e Lucio Valerio Potito, con l’accusa di aspirare a diventare Re di Roma.

Una volta processato e giudicato colpevole venne gettato dalla Rupe dagli stessi questori.

I membri della famiglia Manlia decretarono allora che in futuro nessuno portasse più il nome di Marco Manlio. Ma dopo un po' il popolo, ora che Manlio non era più un pericolo, cominciò a rimpiangerlo ricordandone soltanto le qualità.

Poco dopo scoppiò una feroce pestilenza che alla maggior parte della gente sembrò una conseguenza dell'esecuzione di Manlio: si pensava infatti che il Campidoglio fosse stato contaminato dal sangue del suo salvatore e che gli Dei non avessero gradito che fosse stato punito quasi di fronte ai loro stessi occhi l'uomo che aveva strappato i loro templi dalle mani del nemico.

- Marco Manlio Capitolino, 384 a.c.
- I ribelli di Tarentum, 212 a.c.
- Lucio Cornelio Crisogono, 80 a.c.
- Sesto Mario, 33 d.c.
- Simone Bar Giora, 70 d.c.

La rupe di Tarpea veniva usata per punire anche le persone che si rifiutavano di testimoniare, visto che erano le uniche fonti di prova avendo i contratti unicamente forma orale. 
Questa condanna a morte attraverso la rupe si mantenne fino a tutto il I sec. d.c..



TARPEIA

"I Romani si erano rifugiati al Campidoglio che i Sabini attaccavano. Il custode del Campidoglio era Spurio Tarpeio. Il re dei Sabini corruppe con oro la figlia di questo, di nome Tarpea, affinché li lasciasse entrare armati nella rocca. La vergine aveva chiesto come premio del tradimento ciò che i Sabini portavano nelle mani sinistre; il re promise e la fanciulla, la quale non temeva alcun tranello, aprì la porta ai nemici per introdurli nella roccaforte. Ma subito pagò le pene del tradimento: infatti i Sabini non solo portavano braccialetti ed anelli che Tarpea aveva denunciato ma anche gli scudi , con i quali abbatterono la ragazza e la uccisero". (Tito Livio)




LA I STORIA

"Tarpeia era una vergine vestale, figlia del guardiano della rocca del Campidoglio, Spurio Tarpeio. Dopo il ratto delle Sabine il popolo dei Sabini mosse in armi contro Roma e assediò la città.

IL SUPPLIZIO DI TARPEA
Gli attaccanti  compresero però che sarebbe stato impossibile prendere la città con la forza, così cercarono una diversa soluzione, e vennero in contatto con la vestale che ingolosita dalle armille (preziosi bracciali) che i Sabini portavano al braccio sinistro scelse di venire a patti con il loro Re, Tito Tazio."

Ora la storia fa un po' ridere, perchè la città è sotto assedio però la sacerdotessa di Vesta entra e esce dall'Urbe a fare due passi e due chiacchiere con gli assalitori.
Inoltre una vestale che porta un'armilla non si era mai vista, le vestali vestivano, si addobbavano e si pettinavano con un modo prescritto e preciso. E' come se una monaca si lasciasse tentare da un bracciale. E quando se lo mette, quando non la vede nessuno?

"Tarpeia, in cambio dei preziosi monili accettò di aprire di nascosto agli invasori le porte della città, di modo che i Sabini entrarono e conquistarono il Campidoglio, e si incontrarono nuovamente con la giovane che reclamava i bracciali. Ma i Sabini ingrati tolte le armille dai loro avambracci le gettarono sulla ragazza insieme anche ai loro scudi di bronzo schiacciandola sotto l’enorme peso."

Ma le porte della città non avevano sentinelle? Bastava solo una chiave per aprirle e per giunta tra i sabini non ce n'era uno che sapesse scassinare una porta? E' evidente che il mito non ha capo nè coda ma ha le sue ragioni.

SUPPLIZIO DI TARPEIA

LA II STORIA

Tutto come sopra solo che Tarpeia non morì sotto il peso degli scudi, ma venne catturata dai romani che si erano accorti del suo tradimento, e per punizione la gettarono giù dalla rupe del Campidoglio, che da quel giorno prese il suo nome. Stessa sorte toccò probabilmente anche al padre Spurio, accusato anch’esso di tradimento.

La rupe da quel giorno si chiamò così, ma prima un nome non lo aveva? La indicavano solo col dito? Anche questa storia sembra una favola.



LA III STORIA

Plutarco fornisce un'altra versione. Tarpeia era in realtà la figlia dello stesso Tito Tazio, il comandante dei Sabini, la quale fu costretta a vivere con Romolo ed ebbe questa sorte per volontà del padre. Ma Tito Tazio era un comandante e non il re dei sabini?




LA IV STORIA

Ce la racconta ancora Plutarco anche se la ritiene poco verosimile, il racconto proverrebbe da un certo Similo, secondo il quale Tarpeia avrebbe consegnato la rocca capitolina ai Celti Boi, non ai Sabini, poiché si era innamorata del loro re.


TARPEIA COPERTA DAGLI SCUDI (19 A.C.)

V STORIA

"Romani et Sabini bellum parabant ; Sabini castra in capitolii radici bus ponebant ; Romulus Capitolium tarpeio in custodiam tradebat . Tarpeio filia erat , tarpeia . Titum Tatium , Sabinorum regem , puella amabat , eiquie promittebat : “Viam ad oppi dum tibi aperiam , si me in matrimonium deces ”. Annuit tatius, sed , cum in capitolium venit , suis multibus dicit : “clipeis vestris Tarpeiam necabitis ”. Sic vita puellam privant."

"I romani e i sabini preparano la guerra; i sabini ponevano l'accampamento ai piedi del campidoglio, Romolo dava a Tarpeo la custodia del Campidoglio. A Tarpeo era una figlia, Tarpea. La fanciulla amava Tito Tazio, re dei sabini, e a quello prometteva: ti aprirò la strada della città se mi sposerai.
Tazio acconsentì ma quando venne in campidoglio disse ai suoi: ucciderete con i vostri scudi Tarpea. Così la fanciulla perse la vita." (Floro)

INTERNO DELLA RUPE EX TAVERNA (1950)

OGGI


Dal punto di vista geologico la rupe è fatta prevalentemente di tufo ed è stata scava nell'antichità per ricavare rifugi, depositi e abitazioni.

Nonostante i continui restauri e lavori di sistemazione rimane una delle zone della Capitale soggette a frane e a crolli. 
Di norma non è visitabile. 
Che dalla Rupe venissero gettati i bambini deformi è pure diceria, probabilmente ci si confonde con Sparta.


INTERNI DELLA RUPE, EX TAVERNA NEGLI ANNI 50

LA VERA STORIA

La Rupe Tarpea era anticamente detta Mons Tarpeum, dove il termine "mons" indicava semplicemente un'altura anche minima, tant'è vero che alcuni dei sette colli di Roma erano chiamati anch'essi Mons, come Mons Palatium, Mons Cispius, Mons Cermalus ecc., che erano minime alture.

Però era anche detta Saxum Tarpeius, letteralmente Rupe Tarpea, e la leggenda della sabina schiacciata dagli scudi nacque dalla divinità che aveva il suo santuario sull'altura, e cioè la Dea Tarpeia, raffigurata mentre emergeva da un cumulo di trofei dei nemici abbattuti.

Tarpeia è colei che estirpa, che taglia, tanto è vero che ne deriva il verbo tarpare, chiara allusione alla Dea Trina nella terza veste di colei che porta la morte tagliando il filo della vita. Le antiche Dee Madri avevano tre prerogative:
1) davano la vita
2) nutrivano
3) toglievano la vita

Si trattava ovviamente della Natura divinizzata. Nella veste di colei che toglie la vita era anzitutto Dea della guerra, che nell'età del Ferro, quando iniziarono le guerre, divenne il ruolo preponderante. La Dea mortifera pertanto difendeva la terra dei nativi e colpiva i nemici in battaglia, ma era anche colei che puniva coloro che avevano offeso la vita dei concittadini, con i delitti o il tradimento.

Pertanto fin dall'antichità la Dea aveva un lato mortifero in nome del quale si gettavano dalla rupe i rei di tradimento, sicuramente non i neonati deformi perchè la Dea era madre di tutti (e poi non ve ne è citazione).

Il detto: "Ab Capitolium ad Tarpea" era riservato a coloro che pur avendo avuto alte cariche (celebrate nel Campidoglio), finivano per morire sulla rupe, come dire "Dalle stelle alle stalle", ma riguardava appunto ed esclusivamente i maschi adulti e in carriera.

VILLA DI CICERONE (Formia)

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STAMPA D'EPOCA DEL NINFEO MAGGIORE
Lo storico francese Carcopino (Les secrets correspondence de Cicéron, Paris 1947 , I, p. 73 sgg.) attribuisce all'oratore il possesso da un minimo di otto ville rustiche ad un massimo di undici. Il russo V.l. Kuziscin (La grande proprietà agraria nell'ltalia romana, cit., p. 83 sgg.) calcola che Cicerone abbia posseduto otto tenute rustiche.

CICERONE
Un elenco abbastanza attendibile delle proprietà rustiche di Cicerone è il seguente:

- il podere di Arpino, ricevuto in eredità dal padre;
- le proprietà acquistate prima dell'esilio:
         - la villa di Formia,
         - la villa di Tuscolo,
         - la villa di Pompei;
- le proprietà acquistate dopo l'esilio:
         - la villa di Cuma,
         - la villa di Pozzuoli,
         - la villa di Astura.

L'attuale Villa Rubino è la residenza sotto la quale si stendono i resti che molti studiosi identificano con il celebre Formianum, ossia la villa estiva di Cicerone.

In questa villa l'oratore si ritirò durante il I° triumvirato di Cesare, Pompeo e Crasso essendo venuto meno il suo peso politico. Di questo suo soggiorno se ne ha notizia grazie all'intensa corrispondenza tra Cicerone e l'amico Tito Pomponio Attico.

Quest'ultimo legò la sua vita e la sua fama a quella di Cicerone, attraverso ben 16 libri di lettere che il grande avvocato gli indirizzò, e pure alle opere che da quello gli erano state interamente dedicate, (De amicitia e De senectute), per esserne stato l’editore, ma soprattutto un grande amico.

L'ENTRATA
In questo luogo luogo da lui prediletto, Cicerone continuò i suoi studi e a seguire le vicende politiche di Roma. Seneca riprendendo gli scritti di Tito Livio racconta che in questo luogo l'arpinate fu raggiunto dai sicari di Antonio e ucciso il 7 dicembre del 43 a.c.

Profonde modifiche hanno stravolto la struttura originaria, ma si può ancora vedere l'impianto organizzato da ambienti rettangolari a Nord e da un settore residenziale a Est.

Il tutto si sviluppa su tre terrazze degradanti verso il mare, e ancora si possono scorgere l'ampia peschiera, il porticciolo privato e il grande edifico con cortile centrale, caratteri peculiari delle nobili residenze d'otium del litorale campano-laziale.

IL NINFEO MAGGIORE
La struttura originaria, che sopravvive nella sua organizzazione su tre grandi terrazze affacciate verso il mare dell’antico Sinus formianus, oggi Golfo di Gaeta, era dominata dal fabbricato posto nel livello più alto, edificato sui resti della originaria domus con i sottostanti ninfei, bagni e la fonte d’acqua proveniente dai vicinissimi monti Aurunci; l’ampia peschiera, il porticciolo edificato dai Borboni.

Quando Francesco II acquistò la proprietà dal principe di Capossele, facendone la sua ultima villa al mare pochi anni prima del crollo del Regno di Napoli, rese questo luogo un autentico gioiello, oggi sopravvissuto al massiccio e disordinato assetto urbano di Formia.

LA VOLTA DEL NINFEO MAGGIORE
Compongono la villa vari ambienti rettangolari a nord e un settore residenziale a est, organizzato su tre terrazze; al centro sono due ninfei di età repubblicana. Il livello inferiore conserva una serie di ambienti tra i quali spiccano i cosiddetti ninfei maggiore e minore, riccamente decorati.

Fu restaurata dai Borboni, poi dal principe di Caposele e la villa Rubino così carica di storia venne frequentata come albergo di lusso da colti personaggi che la resero famosa in tutta Europa. Un grande e pregiato patrimonio oggi chiuso al pubblico e in via di degrado che necessita di urgenti interventi di recupero.

"E' cominciata cosi, nel maggio 2011, con l'invito a sostenere la pagina ... 
sono ormai passati 5 anni, ma la Villa di Cicerone resta li , inaccessibile e soggetta a processi di degrado cui il privato proprietario non fa fronte (non può far fronte..)... 

la proprietà tuttavia comporta anche una responsabilità di qualche tipo cui si sopperisce con propri mezzi oppure cercando l'accordo di "altri" interessati (praticamente o teoricamente) alla sopravvivenza del bene perchè di evidente interesse pubblico e generale .... 

tuttavia questi altri ( Comune, Soprintendenza Archeologica per il Lazio e l'Etruria, Regione ...) 

sembra che non abbiano altre vie che l'esproprio che però non praticano 
(...che non possono pagare ..evidentemente).

"...Ci sarebbe una terza via per la gestione e l'accessibilità del bene che però non viene praticata dai citati enti competenti: 

l'accordo pubblico- privato, volontario (con reciproca soddisfazione ) oppure imposto (come la legge consentirebbe..) .... . 


LA VOLTA DEL NINFEO MINORE

Perchè no? Non ci sembra siano venute risposte... e qui, nonostante i Successi Conseguiti, sorgono molti dubbi circa le scelte e il comportamento degli Enti Competenti rappresentanti dell'interesse generale dei cittadini. 

Che riguardano il rapporto fra estensione della città archeologica, gestione dei valori della città storica (che va non oltre la città archeologica) , e città contemporanea. ..."

Che la villa cosiddetta di Cicerone stia ancora in un vergognoso stato di abbandono lo testimonia il video shock di Formia, con villa romana abbandonata tra i rifiuti, che qui riportiamo:


"Non sappiamo se la Villa sia di proprietà pubblica o privata. Nessun cartello inibisce all'entrata. 

I stucchi rinvenuti sul soffitto a cassettoni, di una della quattro stanze della villa, sono ancora intatti, è incredibile!!! Il pavimento è pieno di rifiuti, di ogni genere, quello che 2000 anni di storia non hanno distrutto si riduce così in discarica ai nostri giorni..."




ARCHEONIGHT 2014 

Appartiene all'ottobre del 2014, ma è ancora attualissimo:

"Doveva essere l’evento principe dell’intera manifestazione “Archeonight 2014 – le notti dell’arecheologia” di Formia, ma all’ultimo momento è saltata la visita alla villa Rubino, meglio nota come Villa di Cicerone, per i circa 120 visitatori già prenotati grazie all’organizzazione dell’associazione Terraurunca. Una pessima comunicazione, forse mai come ora ai minimi storici tra Comune di Formia e famiglia Rubino, proprietaria dell’area, sarebbe all’origine delle disdetta.

Un momento unico per far conoscere a tanti un vero e proprio gioiello della città, ancora inaccessibile e a molti sconosciuto. Un patrimonio di tutti che però è nelle mani dei privati, come detto la famiglia Rubino. Eppure in questo momento storico, sin dalla campagna elettorale, l’acquisizione al patrimonio comunale della villa, che fu residenza di Marco Tullio di Cicerone.

FORMIANUM
La campagna del fondo ambientale italiano sta cercando con una raccolta firme in tutta Italia, per restituire alla collettività, un bene nelle mani di privati. Perciò la visita per circa un centinaio di persone, forse di più, era un momento particolarmente significativo per l’opinione pubblica, che poteva finalmente rendersi conto di cosa si trattasse.

Ma cosa è successo? La famiglia Rubino fa sapere di aver appreso dalle locandine della manifestazione, che il Comune aveva organizzato una visita nella villa, quindi senza essere stata messa minimamente a conoscenza dell’evento dall’associazione Terraurunca. 

Diversamente da quanto sostenuto da questi ultimi che riportano invece i contenuti degli accordi con la famiglia Rubino, come quello di circoscrivere le visite a scaglioni di piccoli gruppi di persone.

Insomma, qualcuno mente, dato che le due versioni sono totalmente discordanti, sta di fatto che la fase è delicata, e può determinare il destino imminente che attende il bene. In conclusione la manifestazione ha perso uno degli eventi cardine, e molti formiani l’opportunità di visitare un angolo della città dalla rara bellezza, ancora praticamente sconosciuto."

TOMBA DI CICERONE

TOMBA DI CICERONE

La Tomba di Cicerone è un mausoleo monumentale di età imperiale attribuito tradizionalmente alla sepoltura del grande oratore. La vicinanza al sito in cui ancora la tradizione (ma pure alcuni accenni nelle sue lettere  ad Attico) colloca la sontuosa villa che l'oratore abitò frequentemente, si accorda pure con le fonti storiche.

Queste riferiscono infatti che la sua decapitazione sia avvenuta proprio nei pressi della villa romana, e la grandezza dell'edificio, che senz'altro dovevano accogliere le spoglie di un personaggio illustre, fanno dedurre che esso sia proprio il monumento funerario dell'arpinate. Sulla collina vicina, un sepolcro più piccolo è, dalla tradizione, ritenuto la tomba dell'amatissima figlia Tulliola, morta di parto. 

Però, mentre si sa con certezza che le spoglie di Cicerone non giacciono a Formia, bensì a Roma, come è logico per un personaggio di tale notorietà, è noto che le spoglie della figlia si trovano effettivamente nel mausoleo a lei dedicato. La zona in cui si trova il Mausoleo di Tulliola prende infatti il nome di Acerbara con riferimento proprio alla ragazza (acerbam in quanto morì molto giovane e ara per indicare il luogo effettivo.)




MONS AVENTINUS

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PANORAMICA DELL'AVENTINO

L'Aventino è uno dei sette colli su cui venne fondata Roma, ed è il colle posto più a sud,  tra il Circo Massimo e le Terme di Caracalla. Originariamente il colle si chiamava "Mons Murcius", dai mirti che lo ricoprivano e solo successivamente assunse il nome attuale. La collina ha una forma più o meno trapezoidale, con pendici piuttosto ripide, che arriva a sfiorare il Tevere. Tra i sette colli era quello più isolato e di accesso più difficile. Dalla parte orientale, mediante una sella, è collegato a un altro piccolo colle, chiamato "Piccolo Aventino". La sua altezza massima è di 46,6 m s.l.m. (misurato davanti alla chiesa dei SS. Bonifacio e Alessio).

Secondo gli storici gli abitanti dell’Aventino erano plebei, e in gran parte artigiani e commercianti, per cui usarono come strumento di lotta politica uno sciopero chiamato “secessio plebis”, ovvero “secessione della plebe”. Così, per salvarsi dalla prepotenza dei patrizi, più volte organizzarono una rivolta non violenta ritirandosi sull’Aventino e rifiutandosi di partecipare alla vita politica ed economica della città fin quando le loro richieste non venivano accettate. Vi furono diverse “secessioni” nei primi secoli della Repubblica, tra il V e il III sec. a.c., quasi tutte vinte dai plebei. Nella prima “secessione” infatti i plebei ottennero la creazione dei Tribuni della plebe, carica politica riservata solo a loro.



ETIMOLOGIA

- Secondo alcuni autori il nome potrebbe derivare da un certo re di Albalonga (città del Latium vetus), tale Aventinus figlio di Ercole, che fu colpito dal fulmine ed ivi sepolto,
- oppure da "ab adventu hominum" che era la denominazione di un tempio dedicato a Diana (dove inutilmente cercarono rifugio Gaio Gracco e i suoi sostenitori) dove si recavano gli uomini con le barche,
- o da "ab advectu", ossia trasportato su acqua a causa delle paludi che lo circondavano,
- o ancora, secondo Nevio (275 - 201 a.c.), da "ab avibus" per gli uccelli che vi si dirigevano dal Tevere per fornire gli auguri a Remo,
- o per l'avena che vi si coltivava e di cui si faceva commercio nel mercato della valle sottostante,
- o secondo Varrone dal fiume sabino Avente che lo lambiva.

In seguito il colle diventò un quartiere soprattutto artigianale e mercantile, frequentato da stranieri ed esterno al pomerio, anche se le Mura Serviane lo recingevano già nel VI secolo: solo all'epoca di Claudio la collina venne inclusa nel pomerio.

La zona si divideva in un "Aventino" vero e proprio, tra il fiume Tevere e la valle in cui sorse il Circo Massimo, e "Aventino minore" (attuale "San Saba"). In età repubblicana entrambi i settori si chiamarono "Aventino", ma con la suddivisione augustea della città in 14 regioni furono suddivisi tra le regioni XIII (Aventinus) e XII (Piscina Publica).

MITREO PRESSO IL PALAZZO PANTANELLA
VICINO AL CIRCO MASSIMO
L'Aventino nella fondazione di Roma è legato alla leggenda di Ercole e Caco. che viveva nell'Aventino e terrorizzava i vicini con i furti, tra cui parte della mandria dei buoi che Ercole aveva a sua volta rapito al mostro Gerione, mentre Ercole li portava ad Argo.

Caco aveva portato le bestie nella sua grotta trascinandole per la coda, in modo che le orme rovesciate indicassero la direzione opposta, ma una delle bestie rispose al richiamo di Ercole, permettendogli di scoprire la grotta puntellata da Caco con un masso. Ercole, con una rupe aguzza, si aprì un varco nella spelonca. Il mostro vomitò fuoco; ma Ercole afferrò Caco strizzandolo da fargli uscire gli occhi dalle orbite, e lo uccise.

Remo scelse l'Aventino per avvistare gli uccelli in volo nella disputa con il fratello Romolo per la scelta del luogo di fondazione. Il colle fu poi inserito nella città da Anco Marzio, che l'avrebbe popolato con le città conquistate (Ficana, Medullia, Tellenae e Politorium) e per questo venne circondata di mura. Il colle infatti non era difficile da espugnare, in quanto era basso e largo, aveva un perimetro di 18 stadi, ed era coperto da una fitta selva di diverse specie di alberi, tra i quali l'alloro.

Più tardi venne inserito nella prima cinta muraria (VI secolo) e successivamente nelle repubblicane mura serviane, pur restando fuori del pomerio fino all'età di Claudio (regno 41 - 54). Grazie alla sua posizione rispetto al porto fluviale (Emporium), l'Aventino divenne una colonia mercantile di stranieri.

RESTI ROMANI ALLE PENDICI DELL'AVENTINO

EPOCA REPUBBLICANA

Fu tradizionalmente sede dei plebei, contrapposta al Palatino sede del patriziato: nel 456 a.c. la legge Icilia ne dette infatti la proprietà del colle ai plebei, che cominciarono così a costruirvi le loro abitazioni abbandonandone le capanne. Furono edificati altri templi, come quello dedicato a "Giunone Regina" dedicato da Camillo dopo la distruzione di Veio nel 396 a.c., il "Tempio di Vertumnus", fondato da M. Fulvio Flacco e quelli di "Luna", "Iuppiter Liber" e "Libertas".

Il colle ebbe quindi il carattere di quartiere popolare e mercantile (anche per la sua posizione privilegiata presso l'antico porto fluviale dell'Emporium), ma anche di una certa cultura visto che in questa epoca vissero qui i poeti Ennio e Nevio. Sia il porto tiberino che i santuari circostanti di Fortuna et Mater Matuta e di Portunus, la divinità tutelare del porto, vennero edificati nel VI secolo a.c. da Servio Tullio, come testimoniano alcuni scavi avvenuti sotto i primi due santuari.

Intanto gli aventinesi avevano occupato il piccolo Foro Boario alla pianura a sud dell'Aventino, dove nel II secolo a.c. vennero costruiti il nuovo porto fluviale (Emporium), il più capiente Porticus Aemilia e i grandi magazzini e depositi degli Horrea Galbana, Lolliana, Aniciana, Seiana e Fabaria, oltre al Forum Pistorium, il mercato del pane ubicato nella XIII Regione augustea.

Nel 1931, durante i lavori di ristrutturazione del Museo ex edificio Pantanella, si rinvenne, ad una profondità di 14 metri, un edificio pubblico del II secolo d.c. con un mitreo del secolo successivo, costituito da quattro ambienti. Sotto un grande arcone in laterizio, si è rinvenuta una grossa anfora interrata.

Qui si trovava la via Marmorata, dove si rinvennero inoltre tracce del transito dei marmi. Alle spalle di questi edifici si strutturò il famoso Monte Testaccio, detto Monte Dei Cocci, una collina artificiale alta 30 metri, creata dall'accumulo dei cocci delle anfore colme di vini e di oli portate a Roma come tributi pagati da tutte le province dell'Impero, nel corso di tre secoli tra il I e il III d.c., soprattutto per i cocci di anfore d’olio provenienti dalla Spagna.

RESTI DEL PORTICUS AEMILIA (TESTACCIO)


EPOCA IMPERIALE

In età imperiale, invece, con lo spostamento del porto Tiberino e delle sue attività commerciali, i plebei si trasferirono presso l'Emporium, e dall'altra parte del fiume, in Trastevere. Qui la zona ebbe toni più aristocratici e crebbero dimore di lusso. Qui nacquero e in parte vissero i Vitelli, i Pollioni, Traiano, Decio e Adriano.

Questo nuovo carattere di quartiere aristocratico fu probabilmente la causa della sua totale distruzione durante il sacco di Roma di Alarico I nel 410. Tra le residenze aristocratiche, tra le quali le case private di Traiano e di Adriano prima che divenissero imperatori (privata Traiani e privata Hadriani) e di Lucio Licinio Sura, amico di Traiano. Vi vissero inoltre l'imperatore Vitellio e il praefectus urbis Lucio Fabio Cilone, al tempo di Settimio Severo.

Sono state scavate delle domus sotto Santa Sabina e Santa Prisca. Nel "Piccolo Aventino" si è rinvenuta la Domus Cilonis, casa di Lucio Fabio Cilone, praefectus urbi nel 203 e console nel 204, che l'aveva ricevuta in dono da Settimio Severo e che è stata individuata sotto la chiesa di Santa Balbina.

Nel 1958 venne rinvenuta la cosiddetta Domus Bellezza (in Largo Arrigo VII, non distante dal mitreo di S.Prisca) di epoca tardo repubblicana. La parte scavata della domus, detta talora anche "Picta" ed a 12 metri di profondità, è formata da due stanze (quella delle colonne ioniche e quella con gli affreschi in giallo) e da un criptoportico. Gli affreschi sono in genere del IV stile, i pavimenti ben conservati sono su fondo di "cocciopesto". 

Tra le case demolite per far posto alle terme di Caracalla ce n'era una scavata nel 1858 sotto la vigna Guidi, che presentava numerosi ambienti ricchi di mosaici, pitture e sculture: durante un saggio successivo (1970) sono stati ritrovati i resti ben conservati e ricostruibili di un soffitto dipinto e si è riusciti a datare il complesso al 130-138 a.c.

Come edifici pubblici vi erano le Termae Suranae, di epoca traianea, edificate da Lucio Licinio Surae, le Termae Decianae, edificate dall'imperatore Decio nel 249 e le Terme di Caracalla, dalla clientela più popolare, costruite tra il 212 e il 216, sulle sue pendici del monte verso la via Appia. Vi sorgeva inoltre la caserma (statio) della IV coorte dei vigili. La popolazione più povera si era nel frattempo spostata più a sud, nella pianura vicina all'Emporium e sull'altra riva del Tevere.



I TEMPLI

Come già detto l'Aventino fu sede del tempio della Luna una divinità straniera di importazione, ma accolse pure il tempio di Diana, un santuario federale eretto da Servio Tullio e il tempio di Minerva.

Vi vennero anche trasferiti, soprattutto dai ricchi commercianti navali, i culti delle città conquistate e distrutte con il rito dell'evocatio (ossia il trasferimento a Roma della divinità protettrice della città sconfitta), come il tempio di Giunone Regina (da Veio) e quello di Vertumno (da Volsinii, oggi Bolsena).

Altri santuari erano quelli di Iuppiter Liber e della Libertas mentre verso il Circo Massimo fu costruito nel 495 a.c. un tempio di Mercurio e nel 493 a.c., ad opera del dittatore nel 499 a.c. Aulo Postumio, e in seguito al responso dei Libri sibillini, venne edificato il santuario dedicato a Cerere, Libero e Libera (corrispondenti a Demetra, Dioniso e Kore). 
Verso la valle, non distante dalla Porta Trigemina, si trovava un altare dedicato al semi-Dio Evandro, capo degli Arcadi provenienti da Argo. E non mancò, di derivazione orientale, il tempio dedicato a Giove Dolicheno, del 138; un Iseum (santuario della dea egiziana Iside Athenodoria) che sorgeva dove ora vi è impiantata sopra la basilica di Santa Sabina.
Diversi  mitrei venero poi cancellati dalle chiese di Santa Prisca e di Santa Balbina (mitreo di Santa Prisca e mitreo di Santa Balbina). Sul Piccolo Aventino aveva sede il tempio della Bona Dea, detto anche della Bona Dea Subsaxana.



LE VIE DELL'AVENTINO

Il Vicus Piscinae Publicae (oggi viale Aventino) segnava il confine tra le due Regio augustee del colle. Il suo prolungamento oltre le mura serviane si chiamava Vicus Portae Raudusculanae (oggi viale della Piramide Cestia).

La via che salì sulla collina ebbe il nome di Clivus Publicius (Clivo dei Publici), che saliva dal Foro Boario fino alla via di Santa Prisca e al Vicus Piscinae Publicae. Da esso si staccava il Vicus Armilustri (attuale via di Santa Sabina), che andava verso sud fino alla Porta Lavernalis nelle mura. Un'altra via usciva dalla Porta Trigemina lungo una strettoia tra Aventino e Tevere, per poi seguire il percorso dell'attuale via Marmorata e dare infine origine alla via Ostiense.




GLI SCAVI


VIGNA CIAMPONI 

Patti per una cava di pietra nella vigna di Jacopo Ciampoui, con riserva per gli oggetti di antichità.

« 1565. In mei coustituti d. Jacobus ciampouiis ex una, et Johannes q. Genesij de pesola comitatus placentie cavator pretariarum habitator in regione S. angeli ad Sanctam Hanastasiam in domo baptiste de fossambrono hospitis ex alia partibus, qui sponte contraxerunt societatem ad invicem super quadam cava pretarie cum infraptis Capitulis. Imprimis detto me. Jacobo promette mettere la vigna sua posta in luogo detto monte aventino per far cava di pietre et cominciare nel luogo designato per dicto Johanni et seguire con l'infpti Capituli sin tanto durara detta Cava.

Item che nel cavare dedetta cava de pretara trovandosi Trivertini, marmo, peperini et altre robbe, essetto figure et oro et argento, sia et dividere se "debbia in questo modo cioè, delle quattro parte una parte al d.° Giovanni, e l'altre tre quarte per esso me. Jacomo, et desse figure et oro et argento siano libere d'esso me. Jacovo. (Seguono i patti sulle spese).

Actum Home in domo mei notarij regionis pince presentibus Ibidem detto Hieronimo Macharano ac detto paulo angelo Junense de Spoleto "
[Not. Stefano Maccarani, prot. 973, e. 471].



VIGNA DI FABIO E FLAMINIO GALGANO


« Flaminio Galgano padrone di una vigna incontro santo Savo, dove si cavano li tufi per far le mura della città, essendo tutto quel monte nelle radici dell'Aventino, mi raccontò che, cavandosi nel tufo, si trovò uno stanzino molto adorno col pavimento fatto di agata e corniola, e li muri foderati di rame dorato con alcune medaglie commesse, con piatti e boccali di rame ... ma ogni cosa aveva patito fuoco. Il detto stanzino non aveva ne porto ne finestre " (Vacca, Mem. 101). 

Flaminio ha legato il suo nome anche agli scavi celeberrimi della Moneta, dei quali sarà parlato in appresso. Fabio Galgano, fratello del suddetto " nella medesima vigna vi trovò un vaso d'alabastro cotognino, che nella panza era largo quattro palmi e mezzo, e sei palmi alto col coperchio, così sottilmente lavorato che . . . mettendovi dentro un lume traspariva mirabilmente, ed era pieno di cenere. Dopo la morte di esso Fabio parmi l'avesse il granduca Cosimo on altre belle anticaglie dal suddetto adunate " (Vacca, Mem. 102).

Dalle cave di san Saba dei Galgano furono pure tratte le 4167 some di pietra messe in opera da Pio IV nella fabbrica della Madonna degli Angeli. Vedi tomo preced. p. 137.




VIGNA Dì GIUSEPPE GRILLO

« Nelle radici del monte Aventino verso santo Savo, nella vigna che oggi è del sig. Giuseppe Grillo, fu scoperto: 
- un Fauno di marmo a sedere, di grandezza naturale e di eccellente maestro, 
- con altri frammenti di statue,
- un caldaio di rame pieno di medaglie di metallo di grandezza quanto un quattrino, tutte ricoperte dalla terra che non ho mai potuto chiarirmi di chi siano: 
- certi manichi di socchietti di rame
- un paio di forbici di ferro lunghe da due palmi e mezzo di quella sorte che usano gli stagnari, e quelli che tagliano il rame . . . 
Questo trovò l'anno passato (1593), e cavando non è dubbio che si troveranno della altre cose ». 

(Vacca, Mem. 118.)


VIGNA MACCARANI


La sua giacitura e i confini possono riconoscersi nella pianta del Novi ; ma l'aspetto del luogo è oggi cambiato dopo l'apertura del viale del Testaceo e del viale di porta s. Paolo. Vi furono trovati i piedistalli dedicati da varie persone a C. Caerellius "Fufidius Annius Ravius Pollittianus CIL. 1360 (1305-1367) indici del sito della sua casa. 


VIGNA PERINI 

« Facciamo fede Noi depositari della Depositeria del Venerabile sacro monte della Pietà di Roma qualmente a di 16 di Marzo 1577 è stata venduta et deliberata publicamente al incanto la vigna del quondam messer Giulio peri no posta dentro di Roma presso la chiesa di Santo Savo confina da una banda con li beni del signore Curtio Cenei dall'altra delli heredi di messer Lutio boccabella dietro messer Fabio Galgano et avanti la via publica, senza casa ma solo un pò di Vasca et certe altre anticaglie et con altri più veri confini etc. a messer Alessio Cipriani per prezzo di scuti ducente et cinque di moneta con dechiaratione che di detta summa si habbino a pagare le risposte di detta vigna decorse.
Questo di 21 di Marzo 1577 in Roma »
[Not. Jacopo Gerardi, prot. 8573, e. 466]. 



GIARDINO DI S. SABINA


« Fu nel colle Aventino la gran casa de' Petronii . . . nell'hortulo dela chiesa di s. Sabina, à sinistra della parte di dietro di essa chiesa, ove sono trovate molte rovine d'ornamenti di marmo di colonne et imbasamenti et dell'architettura », e la base inscritta dedicata a M. Petronius M. f. Honoratus dai negotiatores olearii ex Baetica CIL. VI, 1625. Il Ligorìo aggiunge essere stato ritrovato nella stessa occasione un secondo piedistallo dedicato « Genio Horreorum Petronianorum » CIL. Vr\ 288, la quale cosa è di sua pretta invenzione; e prosegue: « Vicino alla casa Petronia era quella di Lolliani verso la chiesa di santo Alexio . . . quivi ancora cavandosi le rovine antiche, furono scoperte molto colonne di marmi peregrini et cose de Bagni et alcune inscrittioni » fra le quali il piedistallo dedicato a Q. Flavius Maesius Egnatius Lollianus, CIL. VI, 1723.

« Nel pontificato di Gregorio XIII nel medesimo monte Aventino, negli orti di s. Sabina, vi furono trovati una gran quantità di mulini, ovvero macinelli da macinare a mano, fatti di quella pietra rossa che si trova a Bracciano. Si crede che in quel luogo vi fosse qualche fortezza (il palazzo fortificato di Onorio III Savelli) . . .
vi erano anche molti muri di case plebee, e perchè detto Aventino è fortissimo dalla parte del Tevere sino a Testacelo, mi do a credere se ne servissero per fortezza ». 

(Vacca, Mem. 80).




VIGNA SANGES (Sanchez?) o ZANES


Nicolao Florent racconta essere state scoperte « in vinca Hannibalis Zanesii advocati . . . mense martio » le tre basi, CIL. VI, 396-398, dedicate a Giove « et Genio Venalici ». Il sito preciso di questa vigna è indicato da Ligorio Torin, XV, 68: « Cavandosi a questi giorni nel spatio dell'ultime parti del monte Aventino, fra la parte di dietro della chiesa di Santo Savo et le mura di Roma, nella vigna di Hanniballe Sanges sono scoperti muri rovinati et di case private et d'altre cose ».


VIGNA SANTACROCE


« Nella vigna di M. Valerio S. Croce sul monte Aventino presso a s. Prisca. Qui nel giardino si vede 
- un Consolo vestito con la pretesta, e con un bastócello in mano, nella guisa che i consoli andavano. - un altro Consolo picciolo nel medesimo liabito e gesto
- una Venere assai bella, ignuda dalla metà in giù. 
- un torso d'huomo posto sopra una colonna antica
- statua d'una donna vestita, e collocata in capo della strada » 
(Aldovrandi, ed. Mauro, p. 232.) 

BATTAGLIA DEL METAURO

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La battaglia del Metauro fu uno scontro decisivo della II guerra punica tra Roma e Cartagine, combattuto il 22 giugno del 207 a.c. presso il fiume Metauro, nelle Marche.



LE FORZE CARTAGINESI


I Cartaginesi
Gran parte delle truppe degli eserciti cartaginesi era composta da mercenari e da contingenti di nazioni clienti o alleate. Solo una parte dei soldati era reclutata direttamente tra i punici.
ASDRUBALE BARCA

Gli alti ufficiali appartenevano alle più nobili famiglie di Cartagine, di origine fenicia, il grosso dei soldati erano invece i “Libofenici”, figli di coppie miste libiche e fenice, ma anche fenici delle colonie minori del Nord Africa o Libici dell’entroterra, di origine greca, etrusca, lucana, bruzia, elima, sarda o iberica inseriti e integrati culturalmente e giuridicamente nello stato cartaginese.

Erano comandate da Asdrubale Barca, (Cartagine 245 – Metauro 207 a.c.) fratello di Annibale (Cartagine 247 – Lybissa 183 a.c.), che doveva supportare il fratello per l'assedio di Roma.

Asdrubale, on l'aiuto di Massinissa (229 – 148 a.c.), re dei Numidi, aveva sconfitto nel 212 a.c. i due Scipioni, Publio Cornelio Scipione e suo fratello Gneo Cornelio Scipione Calvo. La Spagna sarebbe caduta allora nelle mani dei Cartaginesi se un cavaliere romano di nome Lucio Marzio Settimo non avesse colto due vittorie contro i capi cartaginesi, figli di Asdrubale Giscone e Magone.

« Quando parevano perduti gli eserciti e perdute le Spagne, un uomo solo risollevò la disperata situazione. Era nell'esercito Lucio Marcio figlio di Settimo, cavaliere romano, giovane animoso e di spirito e di ingegno assai maggiori della condizione in cui era nato. »


I Galli

Durante la sua marcia attraverso la Gallia Comata, le Alpi e la Gallia Cisalpina, Asdrubale ricevette l’appoggio di diverse popolazioni celtiche, che gli fornirono numerosi contingenti militari, per l’odio che nutrivano contro i romani e per la smania di saccheggio.

Combattendo contro Annibale avevano imparato a temere e ad ammirare i guerrieri cartaginesi, coraggiosi come loro ma molto più organizzati e capaci dei galli. Per questo non esitarono ad arruolarsi, anche perchè ad essi piaceva immensamente combattere.

Sebbene i galli fossero guerrieri temuti per la loro ferocia, erano altrettanto noti per essere incostanti, caotici e indisciplinati, e se Annibale era riuscito a trasformarli in una milizia affidabile, con Asdrubale non andò nello stesso modo. Il carisma e l'intelligenza di Annibale non apparteneva ad Asdrubale, e in seguito solo Cesare riuscirà ad ottenere lo stesso rispetto dal popolo dei galli.


Gli Ispanici

Asdrubale teneva questi soldati in gran conto: per affidabilità ed esperienza erano la punta di diamante del suo esercito. Polibio accenna al fatto che Annibale, prima di partire per l’Italia, aveva lasciato al fratello dei contingenti di Ilergeti, una popolazione del nord-est della Spagna, ma sicuramente gli ispanici di Asdrubale non appartenevano solo a quel contingente.

Col termine di “ispanici” si soleva intendere tanto truppe alleate o ausiliarie di iberici quanto mercenari celtiberi (di origine celtica)  e lusitani (di origine indoeuropea, stanziati all'incirca nell'attuale Portogallo).


I Liguri

Feroci guerrieri e coraggiosi mercenari, i liguri giocarono un ruolo importante alla Battaglia del Metauro: molto combattivi erano di solito affiancati dalle donne anch'esse valenti guerriere, ma naturalmente solo gli uomini facevano i mercenari al soldo degli stranieri.

Asdrubale li dispose al centro dello schieramento, e benché di solito erano più abituati alla schermaglia e all’imboscata che alla battaglia campale, ressero ottimamente l’urto dei legionari e vennero messi in rotta solo dall’attacco sul fianco e alle spalle delle forze di Nerone.




LE FORZE ROMANE

Gli eserciti romani che affrontarono Asdrubale al Metauro furono tre:

- un'armata consolare guidata Marco Livio Salinatore (254 – 204 a.c.), uno dei più valenti generali romani di ogni epoca, soprattutto per mare.

- un'armata consolare guidata da Gaio Claudio Nerone (247 – post 201 a.c.), che aveva già combattuto, e senza troppa fortuna, contro Annibale a Grumento, qualche centinaio di Km a sud del Metauro. Tuttavia Nero compì un'azione molto difficile e altamente meritoria.

"Il console Nero, fu colui che fece una marcia ineguagliabile che ingannò Annibale e ingannò Asdrubale, realizzando così un risultato quasi senza pari negli annali militari. Al suo ritorno, ad Annibale, apparve la scena sconvolgente della testa di Asdrubale gettato nel suo campo. Annibale però non si sconvolse, ma esclamò, con un sospiro, che "Roma sarebbe ora la padrona del mondo". Forse per questa vittoria di Nerone fu dovuto poi il nome omonimo di Nerone imperatore (Nero). Ma l'infamia dell'uno ha eclissato la gloria dell'altro. Quando si sente il nome di Nerone, chi pensa al console? Ma queste sono cose umane. ".

(Lord Byron 1788 – 1824)

- una piccola armata guidata dal pretore Licinio, che aveva tallonato da presso Asdrubale, tormentandone la marcia ma sempre evitando lo scontro frontale, fin da quando il condottiero cartaginese aveva cominciato a muoversi dalla Gallia Cisalpina verso il Piceno.



L'IMPRESA EPICA

Asdrubale era certamente a conoscenza delle forze di Salinatore e di Licinio, ma del tutto ignaro che ad esse si fossero unite quelle di Nerone, che a tappe forzate e in gran segreto erano giunte dal Sannio.

ANNIBALE
Asdrubale nella sua traversata italica in aiuto di suo fratello non aveva trovato intoppi. Era riuscito ad eludere in Spagna l'inseguimento di Publio Cornelio Scipione che voleva sbarrargli la strada, ma non potette riprendere lo stesso percorso seguito dieci anni prima prima da Annibale, perché il Passo Sommo Pireneo (oggi Perthus) era controllato dai Romani. Pertanto aveva preso la strada dei  Pirenei più a nord, verso Roncisvalle, per poi convergere a sud lungo il corso del fiume Isère e ricollegarsi così al vecchio itinerario di Annibale.
Nella primavera del 207 a.c. Asdrubale valicò rapidamente le Alpi, muovendosi più rapidamente di Annibale dieci anni prima, per le costruzioni lasciate dall'armata di suo fratello e perché i galli, che avevano tormentato Annibale nella spedizione precedente, non erano più avversari. per cui, non solo lasciarono passare Asdrubale indenne, ma parecchi si arruolarono nel suo esercito. Asdrubale, come suo fratello, ebbe anche successo nel condurre i suoi elefanti da guerra, raccolti e addestrati in Spagna, attraverso le Alpi.

Roma era stata decimata nella I guerra Punica sia negli uomini che nelle finanze, e ora vedeva con terrore lo scontro coi due generali cartaginesi. I nuovi consoli Nerone e Salinatore furono inviati a combattere, rispettivamente, Annibale e Asdrubale, ma inizialmente nessuno dei due attaccò battaglia: i 40.000 uomini di Nerone furono impegnati in piccole battaglie in Abruzzo e Salinatore, nonostante l'aggiunta degli effettivi di due delle molte legioni romane distribuite attraverso l'Italia, si avvicinò cautamente ad Asdrubale, consentendogli così di ritirarsi oltre il Metauro e a sud di Senigallia.
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Intanto Asdrubale mandò messaggeri ad Annibale, voleva congiungere i due eserciti nel sud dell'Umbria e da lì attaccare Roma cingendola di assedio. I romani però avevano grandi strategie di pattugliamenti con battitori e spie, si che catturarono gli inviati di Asdrubale venendo a conoscenza dei piani del nemico. Subito Nerone pose in marcia il suo esercito verso nord con 6.000 fanti e 1.000 cavalieri per incontrarsi con Salinatore.

Nerone comprese l'enorme minaccia che incombeva su Roma avvertì il senato affinchè arruolasse nuovi soldati. Lasciò invece uno piccolo contingente di truppe a fronteggiare Annibale, con l'ordine di addestrarsi quotidianamente per non indurlo a sospettare il ritiro delle forze migliori. 
A marce forzate notturne, in modo da occultare i propri movimenti ad eventuali spie cartaginesi, e profittando della frescura della notte per attenuare la fatica, seguendo i sentieri più impervii e sconosciuti, facendo marciare i soldati e gli animali con piedi e zampe fasciate onde evitare qualsiasi rumore, senza soste e sbocconcellando le focacce per per via, si spostò verso nord di circa 500–600 km.

Ancora oggi sarebbe un'impresa eccezionale: i romani, infatti, seppur senza zaini e salmerie perché riforniti dagli alleati delle regioni che attraversavano, percorsero comunque circa 63 km al giorno.



I DUE CONSOLI

Nerone raggiunse l'accampamento di Salinatore, a Senigallia assieme al pretore Porcio, durante la notte. L'esercito stremato di Nerone fece un breve sonno, ma all'alba venne schierato per la battaglia. L'esercito di Asdrubale si trovava circa mezzo miglio a nord, una distanza breve, che permise al generale cartaginese di notare quanto fosse aumentato l'esercito nemico, soprattutto nella cavalleria. 

Asdrubale si ricordò di aver sentito una tromba nel campo romano, la notte precedente, segnalare l'arrivo di un personaggio importante, l'aveva appreso con i romani in Spagna, e comprese l'arrivo del secondo console romano, naturalmente col suo esercito.

Lasciò il campo e tornò alle sue fortificazioni, nessuno attaccava per primo, ma di notte Asdrubale portò in silenzio la sua armata fuori dal campo con l'intenzione di guadare il Metauro e ritirarsi in Gallia, dove avrebbe potuto comunicare con Annibale senza pericolo. Ma poco dopo l'inizio della marcia, le guide di Asdrubale lo tradirono, abbandonandolo al buio lungo le rive del Metauro, alla ricerca di un guado, senza poter accendere una torcia.

Al mattino successivo Asdrubale trovò la sua armata disorganizzata e con una gran quantità di truppe galliche ubriache e tuttavia costretto ad affrontare tutti e tre i contingenti nemici in campo aperto. Furono i legionari di Nerone, per nulla fiaccati dalle marce forzate, ad essere la chiave di volta dello scontro, con la loro celebre manovra di aggiramento che li portò ad abbattersi sul fianco destro e alle spalle dei punici.




LA BATTAGLIA

Non conosciamo nè l'esatto numero dei soldati di entrambe le parti nè il luogo reale dove si svolse il combattimento. La tradizione degli storici antichi e alcuni reperti tombali identificherebbero la zona della battaglia nel guado di Serrungarina (prov. Pesaro-Urbino nelle Marche), come risulta anche da una carta geografica in Vaticano.

Comunque dalle stime degli studiosi l'armata di Asdrubale doveva avvalersi di circa 30.000 uomini, mentre quella di Salinatore ne doveva contare almeno 40.000 (tra cui i 7.000 che avevano accompagnato Claudio Nerone). Asdrubale era in minoranza e non disponeva della superba cavalleria dell'esercito romano.


GLI SCHIERAMENTI

- Le migliori truppe di Asdrubale erano gli spagnoli, armati di spade e di scudi, e queste truppe furono piazzate sull'ala destra assieme alle poche truppe africane che aveva, armati di lancia, e poco avvezzi al combattimento in campo.

- Al centro, davanti ai 10 elefanti che era riuscito a portare, schierò una formidabile forza di Liguri Apuani sul fianco destro, che tuttavia, abituati alla guerriglia, non erano neppure loro avvezzi alle battaglie "di schieramento".

- Per ultimi, sulla sinistra, piazzò i Galli, valorosi ma disordinati, che sperò sarebbero stati coperti dal terreno avvallato davanti a loro.

- I romani avanzarono verso Asdrubale in modo molto ordinato come al solito. Nerone ebbe il comando del fianco destro, per affrontare gli inaccessibili Galli.

- Asdrubale aprì la battaglia, inviando il suo centro e l'ala destra contro le truppe di Livio, che tenevano la sinistra nello schieramento romano.

- All'inizio il combattimento fu favorevole ad Asdrubale, i cui elefanti riuscirono a rompere le linee romane e a seminare confusione tra le truppe di Salinatore.

- L'ala destra di Asdrubale resse all'assalto e anche i Liguri riuscirono a tenere la posizione.

- Nerone faticò non poco per superare il terreno dissestato che lo separava dai Galli sul fianco sinistro di Asdrubale, infine desistette e invece, prese parte dei suoi uomini e li guidò all'estrema sinistra dello schieramento romano, facendo girare intorno le sue truppe e scontrandosi con gli Spagnoli con una tale intensità e violenza, che gli Spagnoli furono presi dal panico e dalla confusione, finendo tra i Liguri Apuani che continuarono a combattere fino a che non furono sopraffatti. Fu una manovra dirompente e straordinaria.
- Così le forze rimanenti ad Asdrubale, i Galli, assolutamente impreparati a combattere a causa dei bagordi della notte precedente, non erano più protette sui fianchi dai loro compagni. I romani li attaccarono e li sterminarono.

Asdrubale, vedendo ormai la sconfitta e non volendo essere preso prigioniero, si lanciò nel mezzo della battaglia, incontrando una fine gloriosa. 

Nerone sembrò non apprezzare il gesto, ma in realtà aveva bisogno di fiaccare l'animo del grande nemico ancora da abbattere.
Fece tagliare la testa di Asdrubale e la fece lanciare nel campo di Annibale per fargli capire la sorte che sarebbe toccata anche a lui.

Lo scontro del Metauro vide Roma, per la prima volta, vincere una battaglia campale in Italia dall'inizio della guerra. Il tentativo di inviare rinforzi ad Annibale era fallito e Roma poteva rialzare la testa anche di fronte agli alleati italici. Il Metauro «fu un evento decisivo nella storia mondiale e una vera benedizione per Roma», come sostiene lo Scullard nel suo testo "Storia del mondo romano".
Il console Nerone, a cui la storia non dà il giusto merito, vinse una battaglia che salvò Roma dalla distruzione cartaginese. Difendendo la repubblica romana, infranse il sogno di Annibale di distruggere l'esercito romano e di bruciare la città eterna. Vero è che Nerone aveva da farsi perdonare un grosso errore.



L'ERRORE DI NERONE

Nel 210 a.c., Claudio Nerone partì in marcia contro Asdrubale e, giunto in prossimità dell'esercito nemico, occupò l'imboccatura del passo dove era stanziato. Il comandante cartaginese, essendogli stata chiusa la via per la ritirata, inviò degli ambasciatori promettendo che, se Nerone gli avesse permesso di andarsene, egli avrebbe portato via dalla Spagna tutto l'esercito cartaginese. 

Nerone ingenuamente accettò, ma Asdrubale, mentre trattava con il comandante romano, mise in salvo l'intero esercito dalla stretta gola, durante le notti successive e lungo ogni via possibile, nel silenzio più totale attraverso strette ed impervie vie.

Così una mattina, anche Asdrubale, profittando di una fitta nebbia, uscì dal campo con la cavalleria e gli elefanti e si mise in salvo. Claudio Nerone, riconoscendo finalmente l'inganno, inseguì il nemico per combatterlo. Riuscì solo a procurare brevi scontri tra la retroguardia dei Cartaginesi e l'avanguardia dei Romani, ma nulla di definitivo. 



IL SEGUITO

Asdrubale restò in Italia fino al 203 a.c., relegato nel Bruzio (Calabria) da Roma, finchè Scipione l'africano condusse una campagna in Africa contro Cartagine.

I due generali si affrontarono nel 202 a.c. nella Battaglia di Zama, in cui Annibale, pur schierando 80 elefanti in combattimento ed essendo superiore numericamente a Scipione per fanteria (ma inferiore per cavalleria), e pur combattendo  valorosamente e con buone tattiche, fu definitivamente sconfitto.
Se Asdrubale fosse riuscito a riunirsi al fratello, le sorti della II guerra punica avrebbero potuto essere diverse per cui l'importanza della battaglia del Metauro è riconosciuta da tutti gli storici.

È inclusa in "Le quindici decisive battaglie del Mondo" di Edward Creasy (1851), per il fatto che effettivamente rimosse la minaccia cartaginese all'ascesa romana verso il dominio globale, lasciando Annibale isolato in Italia.

La battaglia del Metauro è passata in secondo piano rispetto all'incredibile vittoria di Annibale nella Battaglia di Canne (2 agosto del 216 a.c.) o la sua definitiva sconfitta a Zama (19 ottobre 202 a.c.). Nonostante ciò, gli effetti fatali della vittoria di Nerone e Salinatore al Metauro sono stati riconosciuti da tutti gli storici storici, non solo nella storia di Roma, ma in quella di tutto il mondo.
La vittoria, considerata la svolta definitiva nella guerra e che probabilmente salvò Roma, diede grande lustro al nome di Nerone e lo consacrò tra i salvatori dell'Urbe:

« Quid debeas o Roma Neronibus Testis 
Metaurum flumen et Hasdrubal Devictus 
et pulcher fugatis Ille dies Latio tenebris 
Qui primus alma risit adorea Dirus per urbes 
Aser ut Italas Ceu flamma per la das vel Eurus 
Per Siculas equitavit undas 
Post hoc secundis usque laboribus 
Romana pubes crevit et impio 
Vastata Paenorum tumultu 
Fana Deos habuere rectos »
(Orazio, Carmina, IV)

"Il tuo debito con la stirpe di Nerone
lo testimonia, Roma, il giorno del Metauro,
bello per il Lazio, quando fugate
le tenebre Asdrubale fu debellato,
il giorno in cui ci arrise infine la vittoria, 
dopo che per le nostre città cavalcarono
gli africani, come il fuoco tra i pini
o lo scirocco sul mare di Sicilia.
Allora in cimenti sempre più favorevoli
crebbe la gioventù romana e i nostri templi,
devastati dai sacrileghi assalti
dei fenici, riebbero i loro Dei."

VEIO - VEII (Lazio)

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PONTE SODO

Veio, ovvero Veii, fu un'importante città etrusca, le cui rovine sono situate presso il borgo medievale di Isola Farnese, circa 15 km a nord-ovest di Roma, all'interno dei confini del Parco regionale di Veio.

Essendo la città più meridionale d'Etruria, tradizionale rivale di Roma, controllava un vasto territorio (Agro Veientano) che si estendeva dalla riva destra del Tevere sino oltre il lago di Bracciano.

La città, fornita di acropoli, era comunque cinta da possenti mura, lungo le quali si aprivano numerose porte, ed era attraversata da una strada principale che fu lastricata dai romani e che collegava i principali spazi urbani.



SEPTEM PAGI

Edificata presso la riva destra del Tevere verso il IX sec. a.c., entrò fin dall'VIII sec. a.c. in conflitto con Roma per il controllo dei "septem pagi" e delle saline alla foce del fiume, "campus salinarum", da cui dipendeva parte della sua prosperità.

Il sale era all'epoca molto gradito ai paesi dell'entroterra, per salare i cibi e per la loro conservazione.

I Septem pagi per Plutarco significava "le sette parti", ma in realtà significa "sette villaggi", da pagus, vale a dire i territori ad ovest dell'isola Tiberina che Romolo ottenne dai Veienti dopo averne sbaragliato l'esercito ed averlo inseguito fin sotto le mura di Veio.

« La guerra fidenate finì per propagarsi ai Veienti, spinti dalla consanguineità per la comune appartenenza al popolo etrusco.. Il re romano dal canto suo, non avendo incontrato il nemico nei campi, esortato e determinato ad ottenere una vittoria decisiva, attraversò il Tevere. 
Dopo aver saputo che i nemici avevano posto un accampamento e stavano per avvicinarsi alla città, i Veienti andarono loro incontro per condurre lo scontro in campo aperto piuttosto che trovandosi rinchiusi a combattere dai tetti e dalle mura. 


POSIZIONE DI VEIO
Qui, senza far ricorso a nessuna strategia, il re romano sbaragliò l'esercito grazie alla grande esperienza dei suoi veterani; inseguiti i nemici allo sbando fino alle mura, evitò di attaccare la città difesa dai possenti bastioni e dalla stessa conformazione del sito e tornando indietro devastò le campagne... piegati da quella devastazione non meno che dalla sconfitta militare, i Veienti mandarono a Roma ambasciatori per chiedere la pace. Persero parte del territorio ma ottennero una tregua di cento anni.»
(Tito Livio - Ab Urbe Condita)

Romolo ottenne i territori dei Septem pagi e delle Saline, in cambio di una tregua della durata di cento anni. Questi patti vennero incisi su una stele, come ci tramanda Dionigi di Alicarnasso. E' evidente che un tempo i patti tra popoli venivano rispettati perchè per cento anni non vi furono guerre.



MUNICIPIUM AUGUSTUM VEIENS

Fu conquistata dai Romani dopo un lungo assedio all'inizio del IV sec. a.c. da parte di Marco Furio Camillo. Veio venne totalmente saccheggiata, e il culto di Giunone Regina venne trasferito dall'arx di Veio a Roma (Tempio di Giunone Regina sull'Aventino). La tradizione narra che il generale romano abbia risolto la guerra grazie ad un astuto stratagemma: fece scavare un cunicolo sotterraneo per superare la cinta muraria e introdurre i soldati direttamente in città.

LA LUPA DI ROMA DALLE ORIGINI ETRUSCHE
Comunque gli abitanti vennero deportati e il territorio (ager Veientanus) fu suddiviso tra i cittadini romani. Negli anni successivi all'incendio gallico di Roma del 390 a.c., che ridusse gran parte dell'Urbe ad un cumulo di cenere, si aprì un dibattito sulla possibilità di costruire una nuova Roma nel sito dell'antica Veio, fertile e meglio difeso naturalmente. La proposta fu tuttavia rigettata dallo stesso Marco Furio Camillo. 

Nel 396 a.c., Veio venne rifondata come colonia romana durante il I sec. a.c., poi trasformata in municipio da Augusto (Municipium Augustum Veiens) per arrestarne la decadenza, che però fu inevitabile. L'estensione e l'importanza della città romana furono infatti assai minori rispetto al periodo etrusco, finchè venne definitivamente abbandonata, in base a quanto evidenziano i dati archeologici ed epigrafici, durante il IV sec. d.c.

La città etrusca venne definita "pulcherrima urbs" (città splendida) da Tito Livio, considerata da Dionigi di Alicarnasso "la più potente città dei Tirreni" al tempo di Romolo e "grande quanto Atene", fu tra i maggiori centri politici e culturali dell'Italia centrale, in particolare tra il VII e il VI sec. a.c., epoca in cui, dopo Caere (Cerveteri) era la più popolosa città dell'Etruria meridionale.

Sede di fiorenti botteghe artigiane già in epoca orientalizzante, sviluppò durante l'età arcaica una rinomata scuola di coroplastica (scultura in terracotta) il cui più celebre esponente fu l'etrusco Vulca, chiamato a realizzare in era monarchica le sculture del Tempio di Giove Capitolino a Roma.

Non dimentichiamo che gli etruschi insegnarono molto, nel campo dell'arte, della cultura, dell'ingegneria idraulica, nell'architettura, della gioielleria e perfino nella moda, ai romani.

Stando alle attuali conoscenze archeologiche fu anche la città che introdusse in Italia l'uso di decorare con pitture le pareti delle tombe a camera: la Tomba dei Leoni Ruggenti (circa 690 a.c.) e la Tomba delle Anatre (circa 670 a.c.), rinvenute nelle necropoli poste attorno all'altopiano, sono considerati gli esempi più antichi dell'intera penisola.

L'APOLLO DI VEIO

VEIO ETRUSCA

I resti dell’antica città etrusca di Veio, si trovano in prossimità del Borgo di Isola Farnese (Roma), poco fuori il Raccordo Anulare di Roma, su un ampio pianoro delimitato dai fossi del Piordo e della Valchetta (antico Crèmera). La Veio etrusca conserva monumenti di rilievo come il Santuario di Portonaccio, e le più antiche tombe dipinte d’Etruria: la Tomba dei Leoni Ruggenti e la Tomba delle Anatre.

La città si estendeva su un altopiano pressoché triangolare issato su un'altura di tufo con una superficie di circa 190 ettari, delimitato a sud dal Fosso Piordo e a nord dal Torrente Valchetta, ovvero l'antico fiume Cremera. Anche se oggi è un torrente, il Cremera aveva allora una portata d'acqua maggiore che soddisfaceva a tutti i bisogni della città. Venne poi prosciugato nel XIX sec.

Presso il punto più a nord del pianoro il percorso del fiume fu alterato mediante un'importante opera di ingegneria idraulica, di cui gli etruschi erano maestri e da cui molto appresero i romani, realizzata appunto in epoca etrusca.

Si tratta del Ponte Sodo, una galleria artificiale lunga 70 m e larga 3, scavata nella roccia per canalizzare il percorso delle acque del Cremera, evitando così un'ampia ansa naturale del fiume che poteva esondare.

Inoltre forniva un più comodo attraversamento del corso d'acqua in corrispondenza di una delle porte della città attraverso un "ponte di roccia". Poco più a valle del fiume s'incontrano i resti della strada romana che usciva dalla città in direzione di Capena e, ancora oltre, le rovine di un impianto termale romano di età augustea tiberiana, i Bagni della Regina, con una sorgente di acque termali calde.

Il più modesto corso d'acqua del Fosso Piordo, che lambisce la città sul lato meridionale separando il pianoro di Veio dall'altura di Isola Farnese, forma in prossimità di un vecchio mulino la Cascata della Mola, da cui inizia la visita all'area archeologica.

CASCATELLA DELLE MOLE

LE PORTE

I bordi molto scoscesi del pianoro erano un'ottima difesa naturale contro i nemici, in particolare in corrispondenza della propaggine meridionale oggi detta Piazza d'Armi, dove fu posta l'acropoli della città con i suoi antichi templi. La città disponeva comunque di una cinta muraria in opera quadrata, più volte restaurata; alla base le mura avevano uno spessore di oltre 2 m e si assottigliavano verso l'alto, raggiungendo un'altezza tra i 5 e gli 8 m. per un percorso di oltre 8 km e se ne conservano tuttora alcuni tratti.

 La città era collegata a Roma tramite la via Veientana (che collegava Veio con il Tevere) e la via consolare Trionfale. La via Cassia invece transitava, come oggi, oltre un km ad ovest del pianoro, poiché posteriore alla distruzione della città e anteriore alla colonia romana. Nel tratto in cui la via Veientana scendeva nella valle del Cremera, poco a sud di Piazza d'Armi, è ancora visibile una breve galleria scavata nella roccia dagli Etruschi (oggi Arco del Pino) per rendere esemplificare il percorso della strada.

1) - La via Veientana proseguiva fino alla base di Piazza d'Armi e piegando a destra saliva alla cittadella attraverso la Porta Dypilon,

2) - quindi la via Veientana proseguiva fino alla porta meridionale del pianoro di Veio, detta Porta Romana.

3) - Poco più a nord alla base di una tagliata con orientamento sud-est si apriva la Porta Fidene, da aveva inizio la strada che attraversava la valle del Cremera in direzione della confluenza del fiume nel Tevere (oggi presso Labaro) ove, sulla sponda opposta del fiume, raggiungibile con un traghetto, sorgeva la città etrusca di Fidene.

4) - Un'altra strada che costeggiando il Tumulo della Vaccareccia si inoltrava tra le colline in direzione del Tevere e appunto dell'abitato latino di Crustumerium (Settebagni), iniziava il suo percorso dalla porta est di Veio, detta appunto Porta Crustumerium.

5) - onde dirigersi a Capena invece si usciva da Veio tramite la porta di nord-est, detta Porta Capena. Il tratto di basolato romano che dall'antico ponte sul Cremera sale all'abitato è ancora visibile e in ottimo stato di conservazione.

6) - La strada per Falerii (Civita Castellana), capoluogo dei Falisci si raggiungeva invece dalla porta nord, detta appunto Porta Falerii.

7) - La Porta nord-ovest (oggi vicolo Formellese), Porta Formellese, era uno dei più trafficati accessi alla città e metteva in comunicazione Veio con l'area dei laghi di Bracciano, Martignano, Baccano e con le importanti città etrusche di Blera e Tuscania.

8) - La Porta Caere, o porta ovest, avviava la strada che conduceva a Careiae (Galeria) e Caere (Cerveteri).

9) - La Porta di Portonaccio, o porta di sud-ovest, dava inizio alla strada per "Campus salinarum", le saline alla foce del Tevere e collegava la città al santuario di Portonaccio alla base del pianoro.

10) - Dalla porta di sud - sud ovest, detta Porta trionfale, usciva la via Trionfale in direzione del Campidoglio. Altre postierle erano probabilmente presenti.



LE TERME

Al di sopra della Cascata della Mola, in località Campetti presso la "Porta di Portonaccio", una serie di indagini archeologiche susseguitesi a partire dal 1940 hanno messo in luce un vastissimo complesso termale di età romana (circa 10.000 m2) connesso allo sfruttamento di acque salutari.

- L'abitato risale nientemeno che all'IX sec. a.c., con tracce di capanne e materiali vari.
- Dalla fine del VII sec. a.c. vennero eretti edifici con muri in opera quadrata di tufo, a carattere abitativo e  religioso.
- Al principio del IV sec., il sito è devastato e abbandonato.
- Verso la fine del II sec. a.c. si ha una nuova fase edilizia monumentale.
- Dagli ultimi decenni del I sec. a.c. il complesso viene ristrutturato e ingrandito, con due livelli separati da un terrazzamento, ambienti coperti e ampie vasche alimentate da cisterne, insomma un grande santuario-sanatorio per cure idrotermali.
- Alla fine del I secolo d.c. il complesso viene di nuovo restaurato con impianti per il riscaldamento dell'acqua.
- Successivamente al V sec. d.c. sulle rovine del complesso si impianta un'abitazione privata che riutilizza parte dei materiali delle fasi precedenti.
- Nell'alto medioevo vi si attesta una calcara che devasta e distrugge decorazioni, statue e colonne per farne calce.




VEIO ROMANA

L'ager Veientanus fu oggetto di una intensa colonizzazione a seguito della conquista romana: piccole fattorie repubblicane si diffusero capillarmente sul territorio mentre il pianoro della città rimase disabitato, ad eccezione di alcuni santuari, durante tutta l'età ellenistica. Nel I secolo a.c. con una lex Iulia Giulio Cesare assegnò ai suoi veterani parte dei terreni e dedusse sull'altipiano una colonia romana.

Il nuovo abitato fu impegnato in uno scontro militare durante la guerra di Perugia (41-40 a.c.) e fu trasformato in municipio con l'immissione di veterani augustei (Municipium Augustum Veiens).

TIBERIO IN TRONO
La nuova città romana rimase di limitata estensione, con un piccolo foro dal quale furono asportate le 11 grandi colonne ioniche reimpiegate a Palazzo Wedekind in Piazza Colonna a Roma, oltre a una gran quantità di statue e di iscrizioni integre e frammentarie.

Nella gola formata dal Torrente Valchetta, a nord di Piazza d'Armi, si individuano i resti di un complesso termale di età augustea o tiberiana (i Bagni della Regina) sorto in corrispondenza di una sorgente di acque termali calde.

Un più importante e vasto complesso, con evidenti finalità curative, è stato messo in luce in località Campetti. In vari tratti si conservano porzioni di basolato delle antiche vie romane. Piccole necropoli ad incinerazione del periodo romano e resti di alcuni mausolei sono attestati rispettivamente all'esterno dell'antica porta nord-est e nei pressi di Isola Farnese.

Per l'approvvigionamento della città l'aqua Traiana transitava a poca distanza e presso Isola Farnese furono rinvenute tre fistulae di piombo, naturalmente romane con l'indicazione "[rei]public(ae) Veientanorum" (CIL XI, 3817; 3818).
L'ultima testimonianza epigrafica riferibile alla città romana è datata al periodo compreso tra il 293 e 305 d.c., quando il senato locale dedicò una statua a Costanzo Cloro (CIL XI, 3796). Il centro abitato risulta ancora presente sulla Tabula Peutingeriana con il nome di Veios, 6 miglia oltre la località ad Sextum (oggi Tomba di Nerone sulla via Cassia) provenendo da Roma e a 9 miglia di distanza da  Vacanas (Baccano).

Gli scavi del XIX sec. comportarono non solo che vennero asportate le 11 grandi colonne ioniche reimpiegate nel Palazzo Wedekind a Roma, ma anche l'acquisizione di varie iscrizioni e una statua di Tiberio in trono.

IX sec. a.c. - Nel 1996 L'Università di Roma La Sapienza ha riportato alla luce una piazza lastricata, quindi il foro dell'epoca, di 40 x 80 m, risalente alla metà del IX sec. a.c., con resti di capanne rette da pali.

VII sec. a.c. - Verso la metà del VII sec. a.c. c'è una grossa novità: una capanna di pali e fango viene abbattuta e sostituita con un edificio in blocchi di opera quadrata di tufo rosso.

COLONNE ROMANE DEL FORO DI VEIO PORTATE A ROMA PER EDIFICARE
IL PALAZZO WEDEKIND DI PIAZZA COLONNA
VI sec. a.c. - Nel VI sec. a.c. la moda è dilagata e tutte le altre capanne vengono riedificate in tufo (però grigio) con pianta rettangolare e orientate secondo una griglia ortogonale, antesignana dei cardo e decumano romani.
Risale al secolo precedente invece l'edificio religioso corredato di un pozzo rinvenuto ricolmo di frammenti ceramici che giungono fino al V secolo a.c. Tale area di culto prosegue fino al II sec. a.c.

Nel settore privato l'impianto della casa è la domus romana con atrio e cisterna circondata da un hortus che si protrae ovviamente anche nel municipium augusteo. Il settore pubblico è invece composto dalla piazza del foro circondata su tutti i lati da un portico colonnato su cui si affacciano un sacello e altri edifici pubblici; alle spalle del sacello si ergeva l'impianto termale.

IV sec. d.c. - Nel IV secolo d.c. l'intera area è in abbandono e occupata da sepolture; poco dopo viene realizzata una calcara per ottenere calce pregiata dalla cottura dei marmi spoliati. Un patrimonio preziosissimo e vastissimo viene bruciato dall'ignoranza medievale.



L'ACROPOLI

- La propaggine meridionale dell'altopiano, oggi denominata Piazza d'Armi, costituiva l'arx della città, il forte in cui erano collocati gli antichi edifici sacri della città. Le capanne arcaiche sono a pianta circolare con tetto conico sorretto da palo centrale o a pianta ellittica e fondo ribassato, con una tettoia poggiata sul muro di confine fatto di terra e scaglie di tufo.

- All'interno della città, eccezionalmente, perchè era proibito come a Roma seppellire in città, si è rinvenuta una sepoltura: un maschio inumato di circa 25-30 anni del 940-810 a.c., sepolto in un heroon, un sacello destinato al culto di un eroe o al fondatore della città.

- Nella seconda metà del VII sec. a.c., si abbandona la capanna circolare o ellittica per la casa quadrata con vicoli e strade ortogonali. Inizia la pavimentazione delle strade, l'erezione di edifici pubblici e di piccoli templi; si individuano anche abitazioni aristocratiche decorate da terrecotte architettoniche.

- Nel VI sec. a.c.c'è un primo rifacimento della pavimentazione stradale e l'erezione di una imponente cinta muraria che comprende un grande varco a dypilon (doppia porta) in corrispondenza dell'unico punto di accesso all'acropoli.
- Nel IV sec. a.c. le mura vengono ulteriormente rafforzate in vista del conflitto con Roma, e sull'acropoli sorgono alcune attività artigianali.
- Alla fine del IV sec. a.c. ha inizio l'attività agricola sul suolo dove sorgeva la città ormai scomparsa.

IL TEMPIO

SANTUARIO DI PORTONACCIO

Della vasta area archeologica di Veio purtroppo solo una parte è emersa con gli scavi archeologici. Un vero peccato perchè potrebbe diventare un grande polo di attrazione turistica.

Il monumento più prestigioso è a tutt'oggi il santuario extraurbano di Portonaccio, noto per il rinvenimento della celebre statua di Apollo, un capolavoro unico al mondo.

Portonaccio era sede di un santuario, fra i più venerati di tutta l'Etruria, dedicato alla Dea Menerva (Minerva), alla quale era dedicato un tempio eretto nel 510 a.c. Esso si ergeva accanto a una sorgente di acqua sulfurea, il che fa prevedere un luogo di cura miracoloso.

Negli scavi del santuario fu ritrovata la famosa statua fittile dell'Apollo di Veio, attribuito allo scultore etrusco Vulca, oggi esposta presso il Museo nazionale etrusco di Villa Giulia.

Del tempio sono state ritrovate alcune parti issate sullo scheletro di un tempio delle dimensioni dell'epoca, ma le grandi pietre di tufo che giacciono in terra sono ancora vergognosamente lasciate alla rinfusa.




L'INGEGNERIA IDRICA

Nella zona di Formello (il cui nome deriverebbe proprio dalla parola latina forma, con cui si indicavano gli acquedotti), è stata rinvenuta una vasta rete di cunicoli idrici, di cui rimangono attualmente circa 50 km di percorso, tutti di epoca etrusca, per il drenaggio dei terreni collinari soprastanti, controllando così il flusso delle acque torrentizie sia in piena che nei periodi siccità. Il complesso sistema, oltre che i cunicoli, usava chiuse, canalizzazioni, dighe e laghetti artificiali. Tra questi:

CUNICOLO DEGLI ELMETTI
- il Cunicolo degli Olmetti, in località La Selvotta, scavato in epoca etrusca e tuttora funzionante, fuoriesce dal banco tufaceo formando una piccola cascata. Esso garantisce una ricca portata d'acqua tutto l'anno e terminava in un grande bacino idrico che fungeva da vasca di decantazione e da serbatoio di testata di un successivo impianto di distribuzione attraverso canali, uno dei quali era diretto proprio a Veio. 

Scavato completamente nel tufo, aveva una pendenza quasi costante per consentire all'acqua di scorrere "a pelo libero" (per gravità) fino al punto terminale, per un percorso di circa 4 Km. Il cunicolo sfocia nel torrente Cremera con una cascata di circa quattro metri. Nelle vicinanze alcuni blocchi tufacei sparsi sono ciò che rimane della muratura di un vecchio sbarramento etrusco, che delimitava un bacino artificiale ottenuto chiudendo una profonda gola con una diga larga circa 30 metri, di cui restano in sito alcuni blocchi.

- il Cunicolo Formellese, una galleria di circa seicento m scavata nella roccia, alta circa tre metri e della larghezza di circa un metro che metteva in collegamento il fiume Cremera con il Fosso Piordo.

Nella narrazione di Tito Livio, fu appunto attraverso i cunicoli sotterranei che si aprivano alla base del pianoro di Veio che Furio Camillo, dopo un assedio di dieci anni, riuscì a penetrare nella città e a conquistarla.

RESTI DI UN COLOMBARIO ROMANO

LE NECROPOLI

La gran parte di queste necropoli sono state identificate e scavate durante il XIX e il XX secolo, dato che già nel IX e nell'VIII sec. a.c. Veio aveva raggiunto una notevole popolazione, ma occorre anche tener presente che gli etruschi non utilizzavano le stesse sepolture. Una volta che la tomba era colma veniva chiusa, sigillata e mai più riaperta.

la necropoli dei Quattro Fontanili si trova  sull'altura immediatamente a nord della Porta Capena. scavata nel 1838 e poi tra il 1963 ed il 1976, periodo in cui furono rinvenute circa 2000 tombe in parte gravemente danneggiate dalle arature.

- la necropoli di Monte Michele situata appena all’esterno della Porta Capena.

Tra le tombe più significative di quest’area troviamo la Tomba Campana rinvenuta nel 1843 databile gli ultimi decenni del VII secolo a.c. mentre il corredo della tomba risale tra il 670 e il 650 a.c., oggi conservato presso il Museo Nazionale Etrusco di Villa Giulia a Roma.

Nell'immagine a fianco è rappresentato appunto l'ingresso della Tomba Campana, in un'incisione di Luigi Canina. Da notare la coppia di felini disposti simmetricamente ai lati della porta arcuata e a guardia della stessa. In alto i loculi sepolcrali,  sicuramente di età romana, ricavati in alto nel dromos, quando questo era quasi interamente interrato.
TOMBA ETRUSCA

Altre sepolture furono messe in luce nel settore occidentale della collina tra il 1900 e il 1901 dai fratelli Benedetti e nel settore orientale con gli scavi della Soprintendenza del 1980 in cui furono individuate 6 tombe a camera datate tra il 670 e la fine del VII sec. a.c., tutte disposte lungo l'antica strada che da Veio raggiungeva Capena. 

La tomba n. 5, in particolare, si connotava come una sepoltura principesca per una coppia, un infante e un giovane adulto, contenente, oltre al corredo ceramico e metallico, un carro a 4 ruote e un'urna funeraria bronzea su cui era incisa la rappresentazione del volto di una Gorgone; l'intero corredo della tomba, databile tra il 670 e il 650 a.c., è esposto al Museo nazionale etrusco di Villa Giulia a Roma.

La necropoli della Vaccareccia, estesa sulle colline che guardavano la parte orientale della città. Fu scavata da Rodolfo Lanciani nel 1889 per conto dell'imperatrice del Brasile, i materiali sono ora al Museo Pigorini a Roma. 

- La necropoli “Valle la Fata”, unica necropoli di Veio posta nel fondovalle, precisamente nel Fosso Piordo a S-E di Isola Farnese. 

- La necropoli Riserva del Bagno nota per il rinvenimento della Tomba delle Anatre, datata intorno il 670 a.c. e dipinta con immagini di anatre policrome in volo. 

- Le Necropoli di Casale del Fosso e Grotta Gramiccia scavate tra il 1913 e il 1916, sotto la direzione di Ettore Gabrici e Giuseppe Antonio Colini, e dove furono portate alla luce ben 1200 tombe a camera, a fossa e a pozzo, e la Tomba dei Leoni Ruggenti, situata nella parte settentrionale del sito, risalente al 690 a.c., considerata la più antica tomba etrusca dipinta, con mostri dalle ampie fauci spalancate, di aspetto vagamente felino, sovrastati da un volo di uccelli.

- La Necropoli Quarto di campetti. Situata sull'altura a nord-ovest della Porta Falerii. Scavata inizialmente nel 1840 sotto la direzione di Luigi Canina.

- La Necropoli Picazzano. Situata sull'altura a nord della Porta Falerii. Scavata inizialmente nel 1841 sotto la direzione di Luigi Canina.



    CLIVUS PUBLICIUS

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    PERCORSO DEL CLIVUS PUBLICIUS VICINO AL CIRCO MASSIMO

    Il Clivus Publicius, o Clivo Publicio, era una strada in salita della XIII regione augustea, corrispondente all'odierno Clivo dei Publicii. Fu la prima strada edificata per salire il Colle Aventino, impresa notevole perchè il colle era abitato interamente da plebei.

    IN ROSSO IL CLIVUS PUNLICIUS
    "La salita più celebre di questo Colle Aventino era quella che dicevasi Clivo Pubblicio. Ovidio narra che i due Pubblicii Edili della Plebe col danaro cavato dalle Multe di coloro che danneggiavano i pubblici pascoli fecero tale strada e gli diedero il nome vicino al Tempio di Flora, situato prossimo alle Saline, del quale fa ricordanza Vittore e Frontino o lo situa vicino alli condotti dell'Appia, onde non doveva esser lontano, se non è forse il medesimo, che oggi si sale per andare al Colle di S. Maria in Cosmedin.

    Salendosi oggi per cotal via si vede il sentiero su la metà dividersi, la parte sinistra, costeggiando la metà del Colle potendosi ancora ascendere dietro al Circo Massimo, conduce a S Prisca e l'altro a S. Sabina e al Priorato."

    (Ridolfino Venuti Cortonese 1763)

    Il clivo fu realizzato tra il 241 a.c. e il 238 a.c., rendendo agevole e lastricata una strada  che da Roma si estendeva al monte aventino, dagli edili plebei Lucio Publicio Malleolo e Marco Publicio Malleolo.

    I due fratelli vennero eletti edili nel 240 a.c. e fecero costruire un tempio dedicato alla Dea Flora, istituirono i Ludi florales ( la prima celebrazione dei giochi risale al 238 a.c., con la dedica del santuario del Circo) e costruirono il Publicus clivus, con il denaro ricavato dalle sanzioni per appropriazione indebita, pagate da quelli che aveano portato gli armenti a danneggiare i pascoli del fisco.

    L'ODIERNO CLIVO DI ROCCA SAVELLA ANTICAMENTE PARTE DEL CLIVUS PUBLICIUS
    Così il clivus portò il nome degli autori chiamandosi Clivus Publicius, un'opera cosi importante che il servigio dei due fratelli venne conservato nella memoria degli uomini immortalandolo in una medaglia avente da un lato il genio del popolo romano e dall'altro una pecorella, simbolo delle multe pecuniarie che aveano consentito l'edificazione di tali monumenti. E' Festo a darci il nome di questi edili: Lucio Publicio e Marco Publicio Malleolo.

    Il clivus iniziava dal Foro Boario, posto presso l'attuale Monte Testaccio, lungo la riva sinistra del fiume Tevere, tra Campidoglio e Aventino, e più precisamente nei pressi della Porta Trigemina e del margine occidentale del Circo Massimo.

    Si estendeva poi lungo l'attuale via di Santa Prisca fino al Vicus Piscinae Publicae, che collegava l'angolo sudorientale del Circo Massimo alla Porta Raudusculana. Dal clivo si staccava sulla destra un'altra strada antica, chiamata Vicus Armilustri (attuale via di Santa Sabina), che andava verso sud fino alla Porta Lavernalis delle mura Serviane.

    Lungo il clivo sorgeva il Tempio di Diana, che si trovava tra via San Domenico e l'omonima chiesa, e che fu costruito come un santuario federale dei Latini da Servio Tullio. Il tempio, splendido e ricco, era circondato da un vasto portico a due ordini di colonne.

    Il clivo doveva comunque costituire una Via sacra perchè il Tempio di Diana, peraltro famosissimo santuario conosciuto anche in terra straniera, non era l'unico che si trovasse sul clivus. Vi si allocavano infatti un tempio non si sa bene se di Ercole o di Bacco (molti protendono per il secondo) e il Tempio di Flora.

    L'ODIERNO CLIVO DEI PUBLICII SEGUE IN BUONA PARTE IL PERCORSO ORIGINARIO
    Sullo stesso clivo dovevano sorgere il tempio della Luna (templum o aedes Lunae), Dea italica e preromana, e il Tempio del Sole che probabilmente le sorgeva accanto, anch'esso di culto italico, dedicato al Dio Elios, importato dalla Grecia.

    Secondo Tacito (Annales, xv.41), il tempio della Luna fu costruito dal re Servio Tullio, ma la prima menzione del tempio della Luna è di un prodigio del 182 a.c., quando un turbine d'aria scardinò una delle sue porte e la mandò a sbattere contro il retro del tempio di Cerere. Il che fa capire, che vi sorgeva anche questo Tempio in onore della Dea delle messi.

    Questo susseguirsi di templi derivava dal vasto e fecondo traffico dei commercianti che sbarcati sull'Aventino percorrevano il Clivus per onorare e raccomandarsi alle divinità predilette che potevano accordargli protezione e prosperità. Il clivo fu interessato dall'incendio che scoppiò nel 203 a.c.

    Oggi la scalata del clivo non è ardita come nei tempi antichi: l´Aventino è alto 47 metri sul livello del mare, ma supera di soli 25 metri la quota della sua base, all´altezza della Bocca della verità. Oggi il clivo dei Publicii, parte dal roseto comunale, alle pendici della Valle Murcia, ripercorrendo il tracciato del clivus Publicius, con giardini ed alberi ai suoi lati, o la visione del palatino dall'alto, e ricordando che fu la prima grande strada lastricata della zona plebea dell'Urbe.


    PLUTARCO - PLUTARCHUS

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    Nome: Lucius Mestrius Plutarchus
    Nascita: Cheronea 46-48 d.c.
    Morte: Delfi 125-127 d.c.
    Professione: Scrittore, biografo, filosofo e sacerdote


    "Tutte queste considerazioni mettile a confronto con le cose dette dagli altri; e se esse avranno un grado né maggiore né minore di probabilità, manda a quel paese le opinioni, ritenendo più degno di un vero filosofo sospendere il giudizio sulle questioni poco chiare, piuttosto che darvi il proprio assenso" (De primo frigido).

    Plutarco, ovvero Plutarchus,  fu uno scrittore e filosofo greco, che nacque a Cheronea di Beozia, in Grecia nel 46 e morì a Delfi nel 120 d.c.; il filosofo tedesco Eduard von Hartmann ritiene che risiedette a Roma tra il 72 e il 92. Visse sotto l'Impero Romano, di cui ebbe anche la cittadinanza e ricoprì incarichi amministrativi.

    Di famiglia benestante studiò ad Atene e fu fortemente influenzato dalla filosofia di Platone. Non si oppose mai al potere romano ma apprezzò grandemente e fece apprezzare la cultura greca. Plutarco non approva i nuovi culti, quali l'ebraismo e il cristianesimo, ma non li cita appositamente forse intuendo che ogni opposizione sarà inutile, e che con queste religioni avanzanti cadranno civiltà, arte e onore.

    Aveva un forte scetticismo religioso, per altro ben occultato, scrisse infatti che "Gli uomini son più forti degli Dei, perchè gli Dei non possono creare gli uomini, mentre gli uomini possono creare gli Dei" Dal che si evince che riteneva gli Dei un'invenzione degli uomini.

    Ciò è confermato anche dalla dichiarazione della divinità di Eros:

    Tu vuoi rimuovere gli inamovibili fondamenti della nostra fede negli dei, quando chiedi per ciascuno di loro una dimostrazione razionale. La fede ancestrale dei nostri padri si fonda su se stessa, non si può trovare ed escogitare prova più chiara di essa...  Questa convinzione è una base, un fondamento comune posto all’origine della pietà religiosa; se in un solo punto viene messa in discussione la sua solidità e risulta scossa la convinzione generale, essa diventa tutta quanta instabile e sospetta” (Amatorius, 13, 756 B)
    Come dire che la divinità si fonda su un castello di carte, ne togli una crollano tutte.

    Seguendo le concezioni aristoteliche, distingue nell'anima tre aspetti e pone il canone della condotta nella medietà delle passioni dominate e controllate dalla parte razionale. Da ciò deriva la tranquillità spirituale ambita e perseguibile come virtù suprema. Lo stesso principio deve ispirare anche la politica che è l'arte di placare le folle e conservare la pace. Perciò egli accetta il dominio romano, in cui vede adempiute le esigenze di una politica di pace. 

    Delle cariche prestigiose che ottenne a Roma Plutarco non non ne menziona nei suoi scritti, probabilmente per la sua fierezza di greco, e per tutta la vita non volle vantarsi di cariche esercitate in favore dei romani. Infatti nei suoi scritti viceversa elenca tutte le cariche da lui rivestite in Beozia (arconte eponimo, sovrintendente all’edilizia pubblica, telearco), ma soprattutto quello di sacerdote delfico, che detenne per circa un ventennio fino alla sua morte.

    Il padre secondo alcuni è identificabile con uno degli interlocutori del De sollertia animalium, un certo Autobulo, secondo altri con un tale Nicarco; si suppone comunque che non avesse un buon rapporto con il figlio, il quale però più volte ne cita i consigli, e che non fosse molto colto. Ricordava con stima invece il fratello, un certo Lampria, e il bisnonno Nicarco.

    - Nel 60 d.c Plutarco si stabilì per lo studio ad Atene dove conobbe e frequentò il filosofo platonico Ammonio, di cui divenne il più brillante discepolo. Studiò retorica, matematica e la filosofia platonica.

    - Nel 66 d.c. conobbe Nerone, verso il quale fu benevolo, probabilmente poiché l'imperatore aveva un vero culto per la Grecia e l'aveva esentata dai tributi. Nello stesso periodo, si pensa abbia acquisito la cittadinanza ateniese e che sia entrato a far parte della tribù Leontide. Visitò poi Sparta, Tespie, Tanagra, Patrie e Delfi.

    - Nel 70 sposò Timossena, una donna di Cheronea colta e di buona famiglia, il cui nome è stato ricavato da una nota occasionale di Plutarco stesso nella quale sostenne di aver chiamato la figlia come la madre.
    Da lei ebbe cinque figli, che sostenne di aver allevato personalmente: Soclaro e Cherone (che morirono in tenera età), Autobulo, Plutarco e Timossena, l'unica femmina (anche lei morta giovanissima, a due anni: si legga la bellissima lettera che Plutarco indirizzò alla moglie, per consolarla della perdita, contenuta nei Moralia).

    Si dice che Timossena fosse una donna forte e di grande virtù, molto legata al marito.
    Pare che abbia scritto un breve trattato sull'amore per il lusso, indirizzandolo all'amica Aristilla.

    - Tornato ad Atene, fu nominato arconte eponimo, sovrintendente all'edilizia e ambasciatore presso Acaia. Istituì inoltre nella sua casa una specie di Accademia impostata sul modello ateniese.
    Poi Plutarco visitò poi l'Asia, tenne conferenze a Sardi e ad Efeso, fece frequenti viaggi in Italia e soggiornò anche a Roma, presso la corte imperiale.

    - A Roma, nonostante non avesse mai imparato bene il latino, tenne molte lezioni ed ebbe il sostegno delle autorità in quanto divenne presto un convinto sostenitore della politica estera romana. Si sa che conobbe l'imperatore Vespasiano, come racconta nel "De solertia animalium".

    - Durante questo soggiorno, gli venne concessa la cittadinanza romana e assunse quindi il nomen di Mestrio, in onore del suo amico Mestrio Floro. Successivamente, ebbe da Traiano la dignità consolare. A Roma conobbe il filosofo e retore greco Favorino di Arelate.

    - Terminata l'esperienza romana, tornò a Cheronea, dove fu arconte eponimo, sovrintendente all'edilizia pubblica e telearco.

    90 d.c. - Intorno al 90 d.c. fu eletto sacerdote nel santuario di Apollo a Delfi dove fu affiancato dalla moglie nelle pratiche liturgiche che il suo ruolo di sacerdote gli imponeva.

    - Nel 117 d.c. l'imperatore Adriano gli conferì la carica di procuratore.
    119 d.c. - Eusebio, vescovo e scrittore greco 265 – 340) racconta che morì forse in questa data, ma molti oggi indicano date che vanno oltre il 120-125.



    LE OPERE


    LE VITE PARALLELE

    La sua opera più famosa sono le "Vite parallele" (scritte dal 96 al 120 d.c. circa), biografie dei più famosi personaggi dell'antichità, dedicate a Quinto Sosio Senecione, suo amico e confidente. In esse si accoppiano la biografia di un personaggio greco e quella di un romano, ad esempio Alessandro Magno e Giulio Cesare.

    Le sue biografie, ricche di materiale storico, sono abbastanza fedeli anche se interpretate secondo la sua morale. La sua narrazione è avvincente e drammatica secondo lo stile greco.

    Quasi tutte le biografie sono a confronto, e tendono a trovare similitudini o divergenze. Alle coppie suddette si devono aggiungere 4 Vite singole, Scipione Africano, le vite dei gloriosi cittadini beotici Eracle, Esiodo, Pindaro, Cratete, Daifanto e le vite a parte del messenio Aristomene e del poeta Arato:

    Epaminonda e Scipione l'Africano
    Teseo e Romolo
    Licurgo e Numa
    Temistocle e Camillo
    Solone e Publicola
    Pericle e Fabio Massimo
    Alcibiade e Marco Coriolano
    Focione e Catone l'Uticense
    Agide e Cleomene - Tiberio e Gaio Gracco
    Timoleonte e Paolo Emilio
    Eumene e Sertorio
    Aristide e Catone Censore
    Pelopida e Marcello
    Lisandro e Silla
    Pirro e Mario
    Filopemene e Tito Flaminino
    Nicia e Crasso
    Cimone e Lucullo
    Dione e Bruto
    Agesilao e Pompeo
    Alessandro e Cesare
    Demostene e Cicerone
    Demetrio e Antonio



    MORALIA

    Riguarda una serie di trattati in cui l'autore spazia dalla filosofia alla storia, dalla religione alle scienze naturali, dall'arte alla critica letteraria. Fra gli scritti più famosi dei Moralia, ricordiamo: 
    - Sulla tranquillità dell'animo, 
    - Sull'amore, 
    - Sulla superstizione, 
    - Ritardi della punizione divina, 
    - Demone di Socrate, 
    - Sulla E di Delfi, 
    - Sugli oracoli della Pizia, 
    - Sul tramonto degli oracoli, 
    - Precetti politici, 
    - Contro Colote, 
    - Sulle contraddizioni degli stoici, 
    - Sulla malignità di Erodoto, 
    - Confronto fra Aristofane e Menandro, 
    - Faccia sul disco della luna, 
    - Sulla musica, 
    - Iside e Osiride.

    In Iside e Osiride: 
    Osiride è il Dio buono, amato dagli uomini perché ha portato loro la civiltà e odiato dal fratello Seth che spinge il fratello a entrare in un'arca costruita sulle sue misure; ma, quando Osiride vi si distende, l'arca viene serrata ermeticamente e gettata nel Nilo, divenendo la sua bara. Iside, disperata lo cerca di giorno e di notte. Quando lo ritrova e vede il corpo di Osiride senza vita, gli si getta sopra piangendo e lo riscalda con un amore così forte, che concepisce con lui il figlio Horos. Seth, però, fa a pezzi il corpo del fratello. Iside, allora, raccoglie le membra del marito, disperse per le paludi, e lo richiama in vita. 
    Il mito adombra il mistero della vita e della morte con l'energia cosmica che si fraziona e ricompone per mezzo dell'anima.

    Ne " Il volto della luna "di Plutarco, si cita un'isola di " Crono" situata nell'Oceano Atlantico:
    "Stavo finendo di parlare quando Silla mi interruppe: Fermati, Lampria, e sbarra la porta della tua eloquenza. Senza avvedertene rischi di far arenare il mito e di sconvolgere il mio dramma, che ha un altro scenario e diverso sfondo. 
    Io ne sono solo l'attore, ma ricorderò anzitutto che il suo autore cominciò per noi, se possibile, con una citazione da Omero: "lungi nel mare giace un'isola, Ogigia," a cinque giorni di navigazione dalla Britannia in direzione occidente. 
    Più in là si trovano altre isole, equidistanti tra loro e da questa, di fatto in linea col tramonto estivo. In una di queste, secondo il racconto degli indigeni, si trova Crono imprigionato da Zeus e accanto a lui risiede l'antico Briareo, guardiano delle isole e del mare chiamato Cronio. 
    Il grande continente che circonda l'oceano dista da Ogigia qualcosa come 5000 stadi, un po' meno delle altre isole; vi si giunge navigando a remi con una traversata resa lenta dal fango scaricato dai fiumi. 
    Questi sgorgano dalla massa continentale e con le loro alluvioni riempiono a tal punto il mare di terriccio da aver fatto credere che fosse ghiacciato. [...] Quando ogni trent'anni entra nella costellazione del Toro l'astro di Crono, che noi chiamiamo Fenonte e loro - a quanto mi disse - Nitturo, essi preparano con largo anticipo un sacrificio e una missione sul mare.[...] 
    Quanti scampano al mare approdano anzitutto alle isole esterne, abitate da Greci, e lì hanno modo di osservare il sole su un arco di trenta giorni scomparire alla vista per meno di un'ora - notte, anche se con tenebra breve, mentre un crepuscolo balugina a occidente."



    DIALOGHI DELFICI,

    Opera con profonde riflessioni sul cambiamento delle religioni e sulla consapevolezza dell'anima. Il tutto esaminato in modo molto pacato e riflessivo.


    LE VIRTU' DI SPARTA

    Plutarco: "Sentendo che gli alleati erano scontenti di combattere agli ordini di Sparta e dicevano che il comando sarebbe spettato a loro poiché essi erano in numero superiore agli Spartani, Agesilao riunì l'intero esercito e fece raggruppare i soldati a seconda del loro mestiere. Gli alleati si divisero tra vasai, fabbri, contadini etc..., mentre solo gli Spartani rimasero da parte essendo soldati professionisti. In questo modo Agesilao mostrò agli alleati che Sparta meritava il comando poiché metteva a disposizione il più alto numero di soldati".


    Frasi celebri:

    - "Vedi, straniero: se è una rondine a parlare su questo tema, mi viene da ridere; ma se fosse un’aquila, ascolterei con la massima attenzione"
    - Un comandante deve distinguersi dai soldati semplici, non per il lusso e le comodità, ma per resistenza e coraggio.
    - Vantaggio degli spartani: disprezzare il piacere
    - Amico è questo stile di vita che ci frutta la libertà.
    - Gli uomini liberi non devono correre dietro a ciò che piace agli schiavi
    - Agli amici (Licurgo) diceva che dovevano tentare di arricchirsi di virtù e coraggio, non di denaro.- Disse: il coraggio non serviva a niente in assenza della giustizia; d’altra parte se tutti fossero stati giusti non ci sarebbe stato nessun bisogno del coraggio.
    - Diceva che un comandante doveva dar prova di coraggio con in nemici, di bontà con i subordinati e di sangue freddo nei momenti difficili.
    - Un tale gli fece notare che, pur avendo un discreto patrimonio, viveva modestamente; egli ribatté: "Per chi ha molto è bello vivere secondo ragione, senza correre dietro alle passioni."
    - "Non c’è nessuna differenza fra te e noi, tranne per il fatto che tu sei re" egli ribatté: "Ma non sarei re, se non ci fosse una differenza fra me e voi"
    - Un ateniese gli fece osservare: "Voi spartani siete rigidissimi nel rifiutare ogni occupazione fissa, Nicandro". Egli ribatté: "E’ vero; ma il fatto è che non vogliamo sprecare il nostro tempo in qualsiasi sciocchezza, come voi"
    - "Sono le leggi che devono governare gli uomini, non gli uomini le leggi"
    - "Prima prendete possesso di voi stessi, e poi potrete chiedere di controllare gli altri"

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