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TIBERINALIA (8 Dicembre)

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ISOLA TIBERINA

TIBER PATER

Tito Livio, nel Libro II, riporta la preghiera rivolta da Orazio Coclite prima che si getti nel fiume nella battaglia contro gli etruschi sul ponte Sublicio: "Tiberine pater te sante precor", O Tiberino, a te indirizzo le mie preghiere, padre santo. Nell’Eneide compare una formula simile: "Tuque, o Tybri, tuo genitor cum flumine sancto", "O padre Tevere, con il tuo santo corso". E' l’invocazione per Enea in guerra con Latino per la conquista del Lazio.

Dunque il Tevere è padre e il termine Pater è molto arcaico riservato agli Dii Indigetes, ovvero "divinità indigene", non importate da altri culti o religioni, delle quali, in quanto proprie, non è consentito divulgare il nome, tanto che la formula invocativa completa non viene scritta ma solo tramandata oralmente tra i sacerdoti. Il Pater era di solito un Dio Padre che si univa con una Dea Madre, che in questo caso sembra fosse Gea, almeno secondo alcune tradizioni.

Egli appare nell'iconografia come un uomo adulto, barbuto, robusto, incoronato dall’intreccio di foglie acquatiche mentre, mollemente adagiato, porta con sé una cornucopia e spesso un remo. A volte accanto a lui stanno la lupa e i gemelli o la prua di una nave. In suo onore il Dio Tevere aveva un antico santuario sull'isola Tiberina. Orazio, ricordando uno straripamento del fiume dopo la morte di Cesare, chiama Tiberino sposo di Ilia o Rea Silvia, che egli avrebbe accolto nelle sue acque, cacciata da Amulio.

TIBER PATER
Secondo i vari autori poi il Dio era fratello di Fonto, Dio delle sorgenti, e figlio di Giano e di Giuturna, signora delle acque, ma questo quando non fu più Pater. Nel libro VIII dell'Eneide il Dio Tiberino, in forma di vecchio avvolto da un velo verde grigio e coronato di canne, appare in sogno ad Enea e gli suggerisce di risalire la corrente del fiume fino al Palatino, ove sorge il Pallanteo di Evandro. Successivamente diventa un Dio a sè stante con la sua festa e i suoi riti, tanto è vero che aveva un flamine addetto esclusivamente al suo culto.

In tempi arcaici c'era la festa delle Portunalia, la festa del porto dedicata al Dio Portunus o Portunnus, che secondo alcuni era solo Dio delle porte esteso poi a Dio dei porti, un po' opinabile visto che gli Dei delle porte furono Ianua e successivamente Giano (da Ianuus). E' vero che ogni pagus aveva i suoi Dei ma Ianua (poi Giunone) e Giano (da cui Gianicolo) furono divinità importanti per i romani.

Per Portunus c'era la festa delle Portunalia, che vennero poi assimilate alle Tiberinalia (o Tibernalia), ma non perchè si trattasse della stessa divinità anche se lo suppone Theodor Momsen.

Semplicemente il Tevere era la base di tutti i traffici di Roma, quindi fiume navigatissimo e invocatissimo dai marinai e dai commercianti, ma pure dai soldati seppur avessero porti più attrezzati per loro, come quello di Miseno. Il Tevere ebbe tra i suoi appellativi quello di "colubrum", serpente, per la tortuosità delle sue anse viste dall’auguraculum, il punto di osservazione degli auguri sulla rocca capitolina.



LE FESTE

Al Dio Tevere vennero dedicate da sempre delle feste importanti romane:
- i Ludi Saeculares (Ludi Tarentini) ad Tiberim, presso il Tevere, ovvero sacrifici devoluti a Dite e Proserpina,
- i Ludi Piscatorii dove la prima pesca veniva sacrificata al dio Vulcano,
- La Tiberina Descensio, la Discesa al Tevere, che vedeva il popolo in festa sulle barche in onore alla Diva Fortuna.
- La festa degli "Argei" consisteva nel gettare fantocci di vimini nel fiume si dice forse per scongiurare le inondazioni provocate dal Dio Tiberino.
- infine c'erano le Tiberinalia che sembra si svolgessero anticamente in primavera, per l'inizio della navigazione, ma furono invece più seguite quelle di dicembre, esattamente dell'8 dicembre, nell'anniversario della fondazione del tempio dedicato al Dio sull’Isola Tiberina, feste che si vogliono istituite dallo stesso Romolo, il fondatore di Roma.




TIBERINALIA

Nel giorno della festa la gente doveva nutrirsi solo del cibo fornito dal padre fiume, per cui all'alba i pescatori erano usciti con le barche per pescare il pesce che sarebbe servito per il banchetto da consumare nella festa delle Taberinalia.

In questo giorno di festa, a cui sembra partecipassero pure le Vestali, si allestivano barche ornate di stoffe, nastri e fiori che scorrevano nel fiume rilasciando ghirlande sui cippi posti ai lati del Tevere. Si versavano in acqua anche offerte di vino recitando apposite formule.

Fatto il giro dei 12 cippi si cucinava il pesce e si allestivano banchetti i cui resti venivano gettati nel fiume come offerta alla divinità. La sera si accendevano torce sulle rive e i sacerdoti aspergevano le imbarcazioni e le reti per la purificazione, infine le torce venivano gettate nel Tevere.


TEMPLUM SOLIS INDIGETIS (9 Dicembre)

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SOL INDIGES

IL TEMPIO DEL SOLE

Il tempio del Sole venne dedicato a Roma dall'imperatore Aureliano (214 - 275) al Dio Sol Invictus nel 275, per sciogliere il voto fatto per la sua conquista di Palmira del 272. Per questo culto venne istituito un collegio di pontifices (Dei) Solis e pur dei Ludi o giochi annuali con corse nel circo, oltre ai giochi quadriennali (Agon Solis) da tenersi al termine dei Saturnalia, feste per l'insediamento nel tempio di Saturno e alla mitica età dell'oro. In epoca imperiale si svolgevano dal 17 al 23 dicembre, come fissato da Domiziano (51 - 96).
Dalle fonti sappiamo che il tempio si trovava nella regio VII "Via Lata", nel Campus Agrippae, e che venne ornato con il bottino di guerra preso a Palmira. L'edificio era circondato da portici, dove aveva sede il deposito dei vina fiscalia, il vino venduto a prezzo ridotto alla plebe di Roma a partire dall'epoca di Aureliano. La localizzazione coincide con l'attuale piazza di San Silvestro, presso la chiesa di San Silvestro in Capite.



DESCRIZIONE

Non si conosce esattamente l'orientamento del Tempio rispetto alla via Lata, oggi via del Corso. Sappiamo però che aveva due ingressi, uno dei quali era l'Arco di Portogallo, demolito nel 1662. Aveva due cortili, di cui il primo di 55 m x 75 m con sui lati brevi due emicicli con le le pareti ornate da due ordini di colonne che inquadravano nicchie; mentre gli ingressi ad arco erano inquadrati da colonne giganti per l'intera altezza.

Un piccolo ambiente quadrato di 15 m x 15 lo immetteva in un secondo cortile più ampio di 130 m x 90 , posto sullo stesso asse, con tre nicchie rettangolari sui lati lunghi. Di queste le due laterali, più ampie, avevano due colonne e una piccola abside, mentre c'erano altre tre nicchie sul lato breve di fondo, quella centrale semicircolare e quelle laterali anch'esse rettangolari, tutte con ingresso a due colonne. 

Al centro del secondo portico il Palladio disegnò un tempio circolare, privo tuttavia di misure a differenza delle altre strutture e probabile invenzione dell'architetto sul modello del tempio di Ercole a Tivoli.

SANTUARIO DI TORVAIANICA


TEMPLUM SOLIS INDIGETIS

Era una festa che si svolgeva il 9 dicembre, la seconda festa dell'anno in onore del Dio Sol Indiges, ossia il Sole Progenitore di tutte le cose. 


Il Tempio di Torvaianica

Sono stati scoperti a Torvaianica, presso Roma, i resti del santuario del Sol Indiges e quelli di due altari dove Enea fece il primo sacrificio per ringraziare gli Dei dell'approdo su una terra ricca d'acqua e cibo. L’area compresa tra l’aeroporto militare di Pratica di Mare ed il litorale di Torvaianica in età antica era occupata da un’ampia laguna che fu bonificata solo nel XVI sec. 

Qui le indagini archeologiche dell’Università di Roma “La Sapienza”, hanno portato alla luce i resti di un santuario che sorgeva presso lo scalo portuale della città e dove gli autori antichi ambientavano il leggendario sbarco di Enea. Sono visibili le fondazioni in blocchi di tufo pertinenti ad un tempio rettangolare su basso podio. 

La cella era addossata al fondo ed è possibile ricostruire l’alzato del tempio, che era circondato da colonne su tutti i lati eccetto quello di fondo. L’edificio era delimitato da un ampio recinto murario quadrangolare composto da blocchi di tufo di diverse varietà e completato da una porta d’accesso e due torri difensive (non troppo strane vista l'esistenza del porto e della pirateria).

RICOSTRUZIONE DEL TEMPIO SOL INDIGES SUL QUIRINALE

Il Tempio sul Quirinale
In quel giorno cadeva l'anniversario della dedicatio del tempio del Dio Sole Indigete, dove in realtà si festeggiarono poi il Deus Sol Invictus, Helios, El-Gabal e Mitra che finirono per essere assimilati nel periodo della dinastia dei Severi.
Al contrario del precedente culto agreste di Sol Indiges ("Sole nativo" o "Sole invocato" o Sole Progenitore" l'etimologia e il significato del termine indiges sono dubbie), il titolo Deus Sol Invictus fu formato per analogia con la titolatura imperiale Pius, Felix, Invictus (Devoto, Fortunato, Invitto).
In realtà il Sol Indiges era un equivalente di Sol Pater, ovvero una specie di monoteismo che ammetteva però tanti altri Dei ma di rango inferiore, un po' come la Fortuna Primigenia o più in generale la Grande Madre Mediterranea.

Qui sotto l'imperatore Marco Aurelio Probo (ca. 280), con la corona radiata del Sol e nel retro il Sol Invictus alla guida di una quadriga.

Fu l'imperatore Eliogabalo a introdurre il culto  a Roma facendo erigere un tempio dedicato alla nuova divinità sul colle Palatino. Con la morte violenta dell’imperatore nel 222 d.c., il culto cessò a Roma, anche se molti imperatori continuarono ad essere ritratti sulle monete con l’iconografia della corona radiata solare per quasi un secolo; ma non cessò nelle province e neppure in zone italiche, solo che il culto da pubblico divenne privato.


AURELIO PROBO E SOL INVICTUS


CULTO PAGANO - CRISTIANO

Questo culto ha origine in oriente. Ad esempio le celebrazioni del rito della nascita del Sole in Siria ed Egitto erano di grande solennità e prevedevano che i celebranti ritiratisi in appositi santuari ne uscissero a mezzanotte, annunciando che la Vergine aveva partorito il Sole, raffigurato come un infante.


Con tutta probabilità la data venne fissata (nel 440 d.c.) al 25 dicembre per sostituire la festa del Natalis Solis Invicti con la celebrazione della nascita di Cristo, indicato nel Libro di Malachia come nuovo “sole di Giustizia” (cfr. Malachia III,20). Per cui il Natale costituirebbe la cristianizzazione di una preesistente festa pagana.

RESTI DELLE COLONNE DEL TEMPIO NEL CORTILE DELLA
CHIESA DI SAN SILVESTRO
La data coincide infatti con le antiche celebrazioni per il solstizio d’inverno e alle feste dei saturnali romani (dal 17 al 23 dicembre). Senza notare che il termine Natalis veniva impiegato già per il Natalis Romae (21 aprile), che commemorava la nascita dell’Urbe e il Dies Natalis Solis Invicti, la festa dedicata alla nascita del Sole (Mitra), introdotta a Roma da Eliogabalo (imperatore dal 218 al 222) e ufficializzato per la prima volta da Aureliano nel 274 d.c. con la data del 25 dicembre.

Il greco Dioniso veniva considerato come il divino bambino nato miracolosamente da una vergine celeste. Dioniso era stato latinizzato col nome di Mithra di cui in oriente si celebrava la festa la sera del 24 dicembre. Era il Dio iraniano dei misteri, dell’amicizia e dell’ordine cosmico, nato dalla pietra e portatore della nuova luce “Genitor luminis”.

L’imperatore Costantino (280-337) risolse così la riunificazione del culto del sole, di cui egli era grande seguace, con il culto del dio Mithra e con il cristianesimo, ed è proprio sotto il suo regno che compare la festa del Natale. Da Roma il Natale si diffonde in Africa, in Spagna e nel Nord Italia, ma è solo sotto l’imperatore Giustiniano (527- 565 d.c.) che il Natale viene riconosciuto come festa legale per l’Occidente.

Il Sol Invictus nasceva in una grotta come il bambino Gesù, ma Mitra nasceva si in una grotta ma da una pietra che era molto simile all'omphalos, cioè una pietra un conica e bombata percorsa da linee trasversale a imitare la pelle del serpente, rimando alla Madre Terra, al pitone a lei sacro e alle Pitie o Pizie divinatrici sui tripodi sacri.

Siamo di fronte infatti ad una festa antichissima, quando si festeggiava il 25 dicembre la rinascita del Padre Solare, il Grande Dio che dopo il solstizio (Sol stat) d'inverno vince le tenebre, perchè il sole sorge più alto dall'orizzonte e le giornate tornano ad allungarsi, e la luce vince le tenebre. Secondo le notizie che ci fornisce Marco Terenzio Varrone e poi supportato da Dionigi di Alicarnasso, il culto di Sol Indiges fu introdotto a Roma già dal Re Tito Tazio, quindi un culto anche sabino.

LA TRINITA' PERSIANA

LA FESTA

Durante i Saturnali che andavano dal 17 al 21 di dicembre e la festa del Sol Invictus del 25, ma pure per la festa del Templum Sol Indigetis si usavano gli stessi simboli dell’eterna giovinezza di Dioniso: mirto, lauro, edera. Pertanto i templi e le processioni abbondavano di rami di mirto, di corone di alloro e di tirsi avvolti di edera. 

Secondo alcuni la festa del Sol Indiges avveniva l'11 Dicembre con l'inizio degli agonalia che in realtà però iniziavano il 10 Dicembre. Al Sol Indiges, che ebbe un santuario sul Quirinale, si offrivano sacrifici in occasione del 9 di agosto, sembra gli si immolasse una capra che rimandava ai sacrifici sia di Dioniso-Bacco che della Madre Terra.

La processione partiva dal Quirinale dove era il tempio e si snodava per il foro seguendo la Via Sacra fino al Campidoglio, ripercorrendo la Via dei Trionfi seguita dai generali romani vittoriosi, perchè il Sol era a sua volta Invictus, cioè Vittorioso sulle tenebre.

Durante la festa i sacerdoti offrivano al popolo i "Vini fiscalia", cioè coppe di vino per libare agli Dei. Sembra che dapprima il vino venisse offerto a basso costo, ma poichè il popolo era restio a spendere, seppure in modica quantità, le libagioni non avvenivano e il Dio poteva offendersene. Pertanto per rallegrare Il Sole Invitto si offrì il vino gratuitamente e così il popolo romano libava generosamente, forse anche troppo.

Per l'occasione il popolo banchettava nelle case o attraverso le bancarelle numerose che offrivano pizze con le olive e il formaggio, lupini, carni secche e pesce salato, il tutto accompagnato dai "Vini fiscalia" offerti dallo stato. Non mancavano musici e danze, ma soprattutto le corse dei cavalli al circo massimo.

IL TEREBINTO DI NERONE

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IL TIREBINTHUS NERONIS

Il Terebinthus, anche noto come obeliscus neronis, era un mausoleo descritto come più alto della Mole Adriana, secondo altri alto "come" la mole di Adriano, di forma circolare con più tamburi sovrapposti di diametro decrescente interamente ricoperto di travertini.

Esso venne distrutto da papa Dono o Domno nel 675, tre anni prima della sua morte, e con i suoi travertini venne realizzato il pavimento del "paradiso" di San Pietro (o quadriportico di S. Pietro). Viene rappresentato anche nel martirio di San Pietro del Filarete, al centro fra le due piramidi. 

L'area interna del quadriportico era in origine un giardino (Paradisus) con all'interno un fontana per abluzioni purificatrici. Con l'aumento dei pellegrini l'area fu pavimentata nel VII secolo e vi fu posta al centro il Pignone, una scultura in bronzo di epoca romana, oggi nel cortile della Pigna nei Musei Vaticani. Secondo altri fu rimossa da papa Borgia nel 1499, ma il Paradiso era anteriore di 800 anni circa.

La piramide presso il colle Vaticano era detta Meta Romuli (cioè Meta di Romolo), perché la sua forma richiamava in qualche modo le colonne rastremate dette metae che negli stadi romani segnavano le estremità della pista, ma le piramidi edificate a Roma avevano un angolo più acuto di quelle egiziane, cioè erano più strette.

PORTA IN BRONZO DI S. PIETRO - DI FILARETE
"Una tradizione o leggenda romana narra che S. Pietro fu giustiziato tra le DUAS METAS, che è, in linea della spina o nel mezzo del circo di Nerone, a uguale distanza dai due obiettivi finali, in altre parole, fu giustiziato ai piedi dell'obelisco che ora troneggia davanti alla sua grande chiesa."
(Rodolfo Lanciani)

Ed ecco il portale bronzeo della basilica di San Pietro, realizzato nel 1445 dal famoso scultore Filarete; nel riquadro che mostra il martirio di San Pietro, la Meta è chiaramente riconoscibile in primo piano nell'angolo in basso a sinistra. Ma nell'angolo opposto dello stesso pannello una struttura analoga a forma di piramide è senz'altro il misterioso Terebinto di cui fanno menzione le fonti medievali. Quindi forse quando si narra che "S. Pietro fu giustiziato tra le DUAS METAS" non si parla delle meta di una spina ma di due monumenti a piramide (uno dei quali però a cono).

Di sicuro sappiamo solo che al tempo in cui il Terebinto fu descritto dalle fonti medievali non era già più lì, mentre la Meta Romuli rimase fisicamente presente fino alla metà del Cinquecento.

Nel plastico di Gismondi al lato, presso il mausoleo di Adriano (A), 
sorgono la Meta Romuli (B) e un monumento rotondo (C)
di pari altezza che potrebbe rappresentare il misterioso Terebinto.

Diverse fonti sostengono che il materiale di cui erano rivestiti i due monumenti suddetti fu usato per la costruzione della primitiva basilica di San Pietro (terminata attorno al 335). Se l'edificio è realmente esistito, secondo le fonti letterarie potrebbe essere crollato o essere stato distrutto già nell'età classica, in quanto tutti i testi vi si riferiscono in termini di "un tempo sorgeva...".

Tuttavia della sua esistenza doveva esserne convinto l'archeologo Italo Gismondi, l'autore del famoso plastico della Roma imperiale, che inserì accanto alla Meta Romuli un edificio cilindrico di pari altezza.

COME VIENE RAPPRESENTATO
NELLA PORTA DI BRONZO DI S. PIETRO
Altri nomi con cui la piramide veniva indicata erano Meta di Borgo, dal nome del quartiere che nel corso del medioevo era sorto sull'area suburbana del Vaticano, ed anche Meta di San Pietro, dalla vicina basilica edificata sulla tomba dell'apostolo Pietro, il primo papa.

Molte delle fonti medievali che descrivono la Meta Romuli citano anche un secondo alto edificio (o monumento) che apparentemente sorgeva assai vicino alla Meta Romuli, più spesso indicato come Terebinto di Nerone, ma in alcuni casi la sua grafia era Terabinto, oppure Tiburtino (cioè fatto di travertino, in latino marmor tiburtinum), il cui scopo e la cui età sono rimasti sconosciuti.

Secondo una credenza popolare nella piramide era sepolto Romolo, tanto che alcune fonti si riferiscono esplicitamente al monumento in termini di "sepolcro di Romolo". Questa era chiaramente una leggenda.

Ma il nome Meta Romuli divenne così comune che nel medioevo la piramide tutt'oggi esistente di Gaio Cestio, nonostante abbia un'iscrizione col suo nome, era conosciuta come Meta Remi (la meta di Remo), o come "sepolcro di Remo", in contrapposizione a quella nell'area del Vaticano, nonostante i due monumenti distassero tra loro circa 4 km.

IV. sul Terebinto di Nerone.
"Di lato alla Meta sorgeva il Terebinto di Nerone, alto tanto quanto il Castello Adriano. Esso fu rivestito di grandi lastre marmoree. Ed aveva due gironi come il Castello. E i gironi erano coperti nella parte superiore di grandi tavole di marmo per l'acqua. E tale Terebinto sorgeva a lato di dove fu crocefisso il santo apostolo Pietro, là dov'è ora Santa Maria in Trasbedina."
 (dove si può leggere Santa Maria in Traspontina, chiesa del XVI fatta ricostruire dal Papa perchè ostacolava le bombarde di Castel S. Angelo, e che si trova in via della Conciliazione, appunto nel Rione Borgo).

META ROMULI E PROBABILE TEREBINTO

Da: Tractatus de rebus antiquis et situ urbis Romae
(trattato delle antichità e del sito della città di Roma),

di Anonimo Magliabechiano, XV sec.

Nell'Almachia (Naumachia), cioè presso Santa Maria in Traspontina, si trova la meta che, si dice, fosse il sepolcro di Remolo, ucciso sul Giano (Gianicolo) per ordine di Romolo; e riguardo a tale meta ho il dubbio che non fosse stata eretta da Romolo per Remolo, perché a quei tempi Romolo e i suoi non erano così tanto potenti. Non trovo altra origine di cui possa fidarmi: ma in ogni modo fu di grande bellezza, rivestita com'era di lastre di marmo, con le quali lastre l'imperatore Costantino fece ornare e costruire il pavimento di San Pietro. L'anzidetta meta aveva attorno a sé un giro di venti gradini, alto dieci piedi, con una platea di travertino, una cloaca e uno scarico. Di fronte ad essa sorgeva il Terabinto di Nerone, che fu eretto sopra le vestigia di un tempio di Giove: da esso proviene la conca della piazza, in cui i sacerdoti parassiti predicavano al tempo in cui il Terabinto esisteva. Dopo la sua distruzione, fu costruito un tempio di Diana e la mole Adriana col ponte, che oggi è chiamato Castel Sant'Angelo, come verrà detto in seguito, secondo quanto si legge nelle iscrizioni, fino all'imperatore Crescenzio, che mutò l'anzidetto nome in Castello di Crescenzio; e tale nome Castel Sant'Angelo, così scelto dal santo papa Gregorio, è stato tramandato sino ai nostri giorni.

Il Therebinto, o Terebinto , o Terabinto, viene descritta come una piramide a cono più larga della piramide di Cestio e di grande bellezza. A Roma l'Egitto andava di moda, soprattutto dopo la sua conquista  ad opera di Giulio Cesare prima e di Augusto dopo (I secolo ac.), ma soprattutto da quando venne a Roma la bellissima Cleopatra portando in dono obelischi, sfingi e statue, senza contare tutto quello che fece costruire.

Tuttavia lo storico dell'arte Umberto Gnoli, in un'opera sulla topografia di Roma (1939) sosteneva che in latino medievale questo vocabolo aveva un significato di "ostello", per cui il monumento potrebbe essere stato chiamato meta dopo essere stato trasformato in una struttura di ricovero per pellegrini, alquanto numerosi nella zona. Infatti nel medioevo molti palazzi e case-fortezza incorporarono antiche rovine superstiti allo scopo di rendere il fabbricato più stabile, dato che le tecniche edilizie dell'epoca erano abbastanza primitive. Ma visto le numerose citazioni sul Terebinto, la cosa sembra poco probabile.



I CAMPI ELISI

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I CAMPI ELISI NE "IL GLADIATORE"

I Campi Elisi, o Eliseo erano, nella mitologia greca e romana, il luogo beato in cui dimoravano, terminata la loro esistenza, le anime di coloro che si erano dimostrati degni di tale ricompensa. Era insomma un equivalente del Paradiso cattolico, non beatificato da una presuntuosa presenza divina che non era ritenuta così appagante, ma da un territorio ideale, con paesaggio e clima splendido.



IN GRECIA

I Campi Elisi non sono sempre segati al merito, e soprattutto il merito è un concetto che cambia secondo le epoche e i punti di vista. Per esempio nell'Odissea, Omero annuncia che Menelao è destinato ai Campi Elisi, in quanto marito di Elena figlia di Zeus, pertanto l'aver sopportato di buon animo il tradimento della moglie diventa un merito agli occhi degli Dei. Una specie di nepotismo, che nulla ha a che fare con i meriti.

In realtà si tratta di un retaggio matriarcale per cui la regina sacerdotessa è più importante del re guerriero, in quanto la regalità è appannaggio della donna e l'uomo può acquisirla solo mediante matrimonio. Ne fa fede Egisto che diventa re perchè ha sposato la regina Clitennestra. Dunque tempo che vivi usi che trovi. I guerrieri morti in battaglia vanno nei Campi Elisi ma pure i filosofi, almeno in Grecia.

Omero, pone i Campi Elisi ai confini del mondo, facendone la sede di eroi sottratti al fato di morte per speciale privilegio, da identificare con le Isole dei Beati di cui parla Esiodo. Omero li descrive (Odissea -  libro IV 702-712) come un susseguirsi di prati fioriti, senza mai freddo, o pioggia, o neve, ma con eterni soffi di zefiro,  mandati da Oceano a rinfrescare gli uomini. Lì non ci sono malattie, nè sofferenze, nè morte.




ODISSEA

A te poi è stabilito, o Menelao prole di Zeus,
che in Argo patria di cavalli tu non compia il destino di morte.
Gli dei immortali invece nella pianura Elisia ti manderanno
e ai confini estremi della terra, dove è il biondo Radamanto,
e dove per gli uomini il vivere è agevole e senza fatica.
Non c’è mai neve né il crudo inverno né pioggia,
ma sempre l’Oceano manda soffi di Zefiro
dall’acuto sibilo per dare refrigerio agli uomini.
La tua sposa è Elena e per loro sei genero di Zeus
.

(Omero - Odissea - libro IV, 561-570)

Nella tradizione greca più antica, non c'è nel dopo-morte un concetto di premio e punizione. Solo in seguito si farà una distinzione tra il Tartaro, destinato a tutti gli uomini, e i Campi Elisi, luogo di bellezza e serenità per gli eroi e per gli uomini emeriti.

Esiodo fa sopravvivere gli uomini alla morte come demoni, dispensatori di buona o cattiva sorte, gli uomini dell’età dell’oro e dell’argento, probabile segno che nei tempi più antichi gli avi proteggevano o avversavano i loro eredi, probabilmente in base agli onori ricevuti.

Agli eroi invece Zeus destina una dimora ai confini del mondo (le Isole dei Beati) dove vivono una vita senza dolori, ma senza ingerenze nel mondo dei vivi. La visione omerica della morte coincide con una situazione di non-esistenza: dopo la vita data e tolta dalla Moira, ogni vita rientra nel nulla da cui è uscita. Naturalmente fanno eccezione gli eroi.

In un’altra prospettiva, si indica con Elisi un luogo dell’Ade riservato a coloro che ben operarono in vita, mentre agli empi, che avversarono Dei ed eroi, sono destinate le sofferenze del Tartaro, corrispondente dell'Ade. Ovidio, nelle Metamorfosi, descrive il regno dove dimorano gli uomini indegni:

“C’è una via che in declivio si perde fra il fosco di tassi funerei; attraverso muti silenzi conduce agli inferi. Lo Stige pigro esala nebbie, e per lì discendono le nuove ombre, i fantasmi di coloro che sono stati onorati di sepoltura. Pallore e freddo ristagnano dappertutto su quegli orridi luoghi, e i morti appena arrivati non sanno dove sia la strada, da dove si passi per giungere alla città infernale, dove sia il tremendo palazzo del nero Plutone.
La capace città ha mille entrate, ha porte aperte dovunque; e come il mare accoglie i fiumi di tutta la terra, così quel luogo accoglie tutte le anime, non è piccolo per nessun popolo, non sente l’arrivo di nessuna folla. Errano esangui le ombre, senza corpo e senza ossa, e in parte si accalcano nella piazza, in parte nella reggia del sovrano dell’abisso, in parte esercitano qualche attività, a imitazione della vita di un tempo, altre ancora sono costrette a scontare una pena.”

(Ovidio - Metamorfosi - libro IV: 431-446)




A ROMA

Anchise, eroe troiano della stirpe di Dardano, fu sposo di Afrodite e padre di Enea. Reso storpio, o cieco, da Zeus per essersi vantato delle nozze divine, scampò alla rovina di Troia portato a spalla da Enea. Morto poi di vecchiaia in Sicilia, Enea risale lo stivale e arriva in Campania, al lago d'Averno, per consultare la Sibilla; ella lo accompagna fino ai Campi Elisi, dove incontra il suo defunto padre Anchise, che gli predice il suo futuro.

Per i greci dunque i Campi Elisi erano collocati sotto terra, dove i "beati" vi conservavano le loro spoglie mortali e si dedicavano alle occupazioni più gradite, soprattutto di filosofia e letteratura.
Anche nella religione romana ricorre spesso la descrizione di questi luoghi, come quella contenuta nell'Eneide, Virgilio però, a differenza di Omero, colloca l'Elisio all'estremo confine occidentale della Terra, in un luogo non sotterraneo, nei pressi dell'Oceano. Virgilio del resto immagina l'Elisio sulla scorta di Platone, il quale per primo lo pensò con un suo proprio sole, più splendente del nostro.

Nel libro V dell'Eneide, Enea dopo la sua fuga da Troia, arriva a Cuma per consultare la Sibilla, la quale lo accompagna nell'Elisio, dove incontra il padre Anchise morto da poco tempo, nel libro VI invece è la Sibilla che parla all'eroe troiano.



ENEIDE

"… mentre s'alternavano questi discorsi, l'Aurora sulla rosea quadriga
aveva attraversatola metà del cielo con etereo cammino;
e forse trascorrerebbero in essi tutto il tempo concesso,
ma la guida ammonì e brevemente parlò la Sibilla:
la notte precipita, Enea, e noi protraiamo le ore piangendo.
Qui la vita si divide in due parti:
la destra si dirige alle mura del grande Dite,
per essa il nostro viaggio in Eliso; la sinistra
esercita il castigo delle colpe e conduce all'empio Tartaro".

(libro VI, 535 - 544)


Poter penetrare nell'aldilà e uscirne vivi è un grande privilegio, pochissimi coloro che poterono accedere agli Elisi, si ricordano: Anchise, Dardano, Assaraco, Museo, Orfeo, Menelao e Cadmo e Armonia, trasformati in dragoni. Enea è fra costoro.
Secondo alcuni autori nei Campi Elisi vi scorre il Lete, il fiume dell'oblio: le anime che bevono la sua acqua - e dunque solo quelle dei virtuosi - possono reincarnarsi in un nuovo corpo, avendo cancellato ogni ricordo della vita precedente.

"… tuttavia recati prima nelle inferne sedi di Dite;
nel profondo Averno, figlio, vieni all'incontro con me.
Non m'accoglie l'empio Tartaro, tristi ombre;
mi trovo nelle amene adunanze dei pii e nell'Eliso.
La casta Sibilla ti condurrà qui per molto sangue di nere vittime.
Allora apprenderai tutta la tua discendenza e le mura assegnate ".

(libro V, 731 - 737)


E infatti la Sibilla lo guida, e l'ammonisce:

E’ facile la discesa in Averno;
la porta dell’oscuro Dite è aperta notte e giorno;
ma ritirare il passo e uscire all’aria superna,
questa è l’impresa e la fatica. Pochi, che l’equo
Giove dilesse, o l’ardente valore sollevò all’etere,
generati da Dei lo poterono. Selve occupano tutto
il centro, e Cocito scorrendo con oscure sinuosità lo circonda
.”

(Eneide, VI, vv. 126-132)




LA VITA FELICE DEI CAMPI ELISI

Però Omero segretamente pensa che chi è morto resta morto, cioè resta un'ombra di ciò che fu da vivo, senza un corpo che possa dargli piacere e vita. Infatti quando Ulisse, giunto nel paese dei Cimmeri  scende nell’Ade e incontra Achille: « Ma di te, Achille, nessun eroe, né prima, né poi, più felice; prima da vivo t'onoravamo come gli Dei noi Argivi, e adesso tu signoreggi tra i morti, quaggiù; perciò d’esser morto non t’affliggere, Achille ».

Ma Achille risponde: “Non lodarmi la morte, splendido Odisseo. Vorrei esser bifolco, servire un padrone, un diseredato, che non avesse ricchezza, piuttosto che dominare su tutte l’ombre consunte» E ancora Ulisse incontra sua madre nell’Ade e tenta di abbracciarla: «Così parlava: e io volevo – e in cuore l’andavo agitando – stringere l’anima della madre mia morta. 

E mi slanciai tre volte, il cuore mi obbligava ad abbracciarla; tre volte dalle mie mani, all’ombra simile e al sogno, volò via: strazio acuto mi scese più in fondo, e a lei rivolto parole fugaci dicevo: Madre mia, perché fuggi mentre voglio abbracciarti, che anche nell’Ade, buttandoci al collo le braccia, tutti e due ci saziamo di gelido pianto? O questo è un fantasma che la lucente Persefone manda perché io soffra e singhiozzi di più? 

Così dicevo e subito mi rispondeva la madre sovrana: Ahi figlio mio, fra gli uomini tutti il più misero... non t’inganna Persefone figlia di Zeus; questa è la sorte degli uomini, quando uno muore: i nervi non reggono più l’ossa e la carne, ma la forza gagliarda del fuoco fiammante li annienta, dopo che l’ossa bianche ha lasciato la vita; e l’anima, come un sogno fuggendone, vaga volando




IL MITO

Nel mito, presente nella letteratura greca almeno da Esiodo, ma probabilmente derivato da precedenti racconti dei Fenici grandi navigatori, c'erano le Isole dei Beati, a volte identificate con i Campi Elisi, splendide isole dal clima dolce nelle quali la vegetazione rigogliosa fornisce cibo senza che gli uomini abbiano bisogno di lavorare la terra. 

Gli Dei destinano alcuni eroi a vivervi un'eterna vita felice. Insomma somiglia moltissimo al Paradiso Terrestre, solo che non è a tempo come quello e nessuno li scaccia. Del resto nelle isole beate vanno quelli che gli Dei li hanno onorati, anche se la religiosità degli antichi era solo una parte della vita quotidiana, e solo una parte della loro etica. 

Molto influiva infatti l'aver difeso la patria, o aver conseguito la sapienza, o la filosofia, o la poesia, o la letteratura. La religione presso i romani non era mai fanatica, un buon romano stava coi piedi per terra e non sperava che fossero gli Dei a risolvergli i problemi. Meritarsi i Campi Elisi non era poi così difficile, e non c'era bisogno di sacrificarsi.

Così dopo la morte ci si ritrovava a passeggiare su morbida erba sotto un cielo terso che nessuna nuvola offuscava, con placide colline e valli ombrose, rocce variegate e boschi profumati. La natura veniva qui riproposta nei suoi aspetti più miti, ma pure rigogliosa di frutti e di fiori, miracolosamente tenuti in vita senza una goccia d'acqua.

Virgilio  invece, presuppone per le anime dei meritevoli un mondo meraviglioso ma sotterraneo. Egli mostra ad Enea sulla sua sinistra il Tartaro, dove sono condannati quanti hanno tradito la patria, o i valori romani (fides, honus e pietas) e quanti si sono resi colpevoli di gravi delitti verso i loro parenti.

Sulla destra, invece, si trovano i meravigliosi Campi Elisi.che pur trovandosi sotto terra «conoscono un loro sole e stelle loro». Qui abbondano i prati e i boschi prati e boschi irrigati «dal corso copioso dell’Erìdano» (in realtà un fiume greco), dove i beati, senza fissa dimora, (cioè che possono andare dove vogliono, continuano a esercitarsi nelle attività che svolgevano in vita, la ginnastica, la cura delle armi, la danza, il canto, la poesia. Pertanto sono destinati agli Elisi: 

- « il manipolo di quanti han patito ferite combattendo
- per la patria, e sacerdoti puri per quanto han vissuto,
- e poeti sacri che hanno cantato cose degne di Febo,
- e chi ha reso più bella la vita scoprendo saperi, o comunque
- si è meritato di lasciare negli altri memoria di sé ». 

Mescolando fonti filosofiche differenti, Virgilio descrive qui anime di grandi personaggi che ritorneranno in vita reincarnandosi in futuri eroi della storia romana. Virgilio resuscita la dottrina della reincarnazione di derivazione orfica e pitagorica per il suo panegirico augustano. Nei pressi del fiume Lete le molte anime che bevono dell’acqua per dimenticare tutto il passato e per reincarnarsi in altri corpi.

Così i grandi eroi del passato si sono reincarnati nel suolo romano per sostenere non solo la propria familia e la propria gens, ma il popolo romano tutto. Il poeta sancisce la grandezza di Roma destinata da lungi dagli Dei con una storia gloriosa che va dalla fine di Troia alla fondazione dell'Urbe, fino all’età di Augusto.



LA COLLOCAZIONE DEI CAMPI ELISI

Dette anche Insulae Fortunatae, le Isole dei Beati, o campi Elisi che dir si voglia, vengono descritte come isole dell'Oceano Atlantico presenti nella letteratura classica sia in contesti mitici sia in opere storiche e geografiche. Da Claudio Tolomeo (100 d.c. - 175 d.c.) in poi si è sempre sostenuto che coincidessero con le isole Canarie. Cicerone invece ha rappresentato la sede dei beati nella Via Lattea nell’opera Somnium Scipionis.

Per Diodoro Siculo si tratta di un'unica isola che non accoglierebbe nè divinità né beati, si troverebbe in mezzo all'Oceano, a molti giorni di navigazione al di là delle Colonne d'Ercole (Stretto di Gibilterra), e sarebbe stato un antico possedimento cartaginese.

Secondo Plutarco i Campi Elisi, ovvero delle mitiche Isole beate, disterebbero dall'Africa sarebbe di 10.000 stadi (circa 1.600 km).

Per Plinio il Vecchio le cosiddette Isole Fortunate sarebbero le Isole Canarie e Tolomeo II secolo d.c.), che nella sua Geografia (Geographike Hyphegesis) ne dà conferma facendovi pure passare il meridiano di riferimento. D'altronde il nome Isole Fortunate fu sempre usato fino all'età moderna per indicare le Isole Canarie.

Tuttavia l'identificazione delle Isole Fortunate con le Isole Canarie, operata da Plinio il Vecchio, Tolomeo e altri autori, non spiega l'origine del mito, che si pensa derivi da racconti di isole caraibiche visitate da Fenici o Cartaginesi. Un'ipotesi, basata sull'analisi delle testimonianze di Diodoro Siculo, Plutarco e altri autori, a fatto pensare ad alcuni studiosi che i Campi Elisi potessero riferirsi a terre più occidentali delle Canarie, forse la stessa Cartagine.

L'assenza del ciclo stagionale, congiunta alla ricchezza della vegetazione, avrebbe giustificato la felicità dei luoghi, perchè non si soffre il caldo, ma neppure il freddo che costringe a ripararsi con le vesti. Non essendovi freddo, nè pioggia nè neve non occorre fabbricarsi capanne nè case.

Se non si deve badare alle vesti nè alla casa e se i frutti della terra vi germogliano spontaneamente evidentemente non si deve lavorare per sopravvivere. Nell'idea del non lavorare c'è anche l'idea dell'assenza della morte, che è la fonte di tutte le paure e di tutti i mali.


BIBLIO

- Esiodo, Le opere e i giorni, 166-173
- Pindaro, Olimpica II, 61-76
- Plutarco, Vite parallele
- Ovidio - Metamorfosi - IV: 431-446
- Claudio Tolomeo, Geografia
- Diodoro Siculo, Bibliotheca historica, V, 19-20
- Pomponio Mela, Chorographia, III, 102.
- Plinio il Vecchio, Naturalis Historia, VI, 202-205
- Pseudo-Aristotele, De mirabilibus Auscultationibus, 84

SEMENTIVE A TELLUS (13 Dicembre)

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TELLUS NELL'ARA PACIS

Dei documenti greci, il più antico è l'Inno alla Terra, uno degli inni cosiddetti «omerici», anche se databile posteriormente, agli inizi del secolo VI a.c. :

"Mi accingo a cantare alla Terra, Madre universale dalle solide fondamenta,
vecchia venerabile, che nutre quanto si trova sulla superficie di essa.
Da te procede la fecondità e la fertilità, o Sovrana!,
e da te proviene dare e togliere la vita agli uomini mortali.
Beato colui al quale tu, benevola, rendi onori;
questi ha tutto in abbondanza... dea augusta, generosa divinità!
Salve, Madre degli Dei, sposa del Cielo stellato!
Concedimi una vita felice come premio al mio canto!
D'ora in poi mi ricorderò di te nei rimanenti canti."

Tellus è spesso identificata come la figura centrale sul cosiddetto: “pannello del sollievo dell’Italia” nell’ Ara Pacis, che appare qui sopra, e che è incorniciato da bucrani (teste di bue ornamentali) e motivi di vegetazione, di abbondanza e di fertilità animale.

Gli attributi di Tellus erano la cornucopia, o mazzi di fiori o frutta. La parola Tellus, Telluris, in latino indica la terra, il territorio, e lo stesso pianeta Terra. Da questa divinità sembra derivi la formula "tellus  tersa", che significa "terra ferma".



ETIMOLOGIA

L' etimologia di Tellus è incerta; è forse legato al sanscrito Talam, "terra pianura". Nel IV secolo d.c. il commentatore Servio distingue tra Tellus e Terra in uso. Terra, dice, è correttamente utilizzato come Elementum, uno dei quattro elementi classici con l'aria (Ventus), acqua (Aqua), e il fuoco (Ignis); Tellus invece è la dea, il cui nome può essere sostituito (ponimus ... pro) per la sua sfera funzionale della terra, proprio come il nome Vulcanus viene utilizzato per il fuoco, Cerere per i prodotti, e Liber per il vino.  

Tellus si riferisce quindi alla divinità custode di Terra e, per estensione, il mondo stesso. Tellus può essere un aspetto del nume chiamato "Dea Dia" dai sacerdoti Arvali, o almeno una stretta collaboratrice come "divinità del cielo sereno."

DEA TELLUS

LA CERIMONIA

La festa era inaugurata dal Flamine dei Cereali e dalle Vestali addette al Fuoco Sacro, che offrivano in olocausto una vacca (o una scrofa) gravida, in onore della Madre Terra che aveva accolto i semi. Nell’antica religione romana, la credenza ed il mito di Tellus Mater o Terra Mater ("Madre Terra") dovevano racchiudere diverse divinità della terra. Anche se Tellus, il nome della dea della terra originale nelle pratiche religiose della Repubblica e Terra sono difficilmente distinguibili durante l' epoca imperiale. 

Marco Terenzio Varrone (116 – 27 a.c.) letterato, grammatico, militare e agronomo romano, elenca Tellus come una dei Selecti, una delle venti principali divinità di Roma, e una delle dodici divinità agricole. Dell'autore dice Cicerone:
«Tu ci hai fatto luce su ogni epoca della patria, sulle fasi della sua cronologia, sulle norme dei suoi rituali, sulle sue cariche sacerdotali, sugli istituti civili e militari, sulla dislocazione dei suoi quartieri e vari punti, su nomi, generi, su doveri e cause dei nostri affari, sia divini che umani

In seguito la Dea venne associata a Ceres (Cerere), nei rituali relativi alla terra ed alla fertilità agricola. In genere viene raffigurata reclinata su un fianco, come distesa sulla “sua” terra. In questo ricorda un po' la Dea neolitica di Malta, che però sembra sdraiata su un piatto, come a significare non solo la Terra ma anche il cibo, visto che gli umani e gli animali si nutrono del suo corpo. 

DEA MALTESE
- Varrone identifica Terra Mater con Ceres:
“Non senza causa era la Terra chiamata Mater e Cerere. Si credeva che chi la coltivava conduceva una vita pia e utile ( piam et utilem vitam), e che i contadini erano gli unici sopravvissuti dalla linea di re Saturno.”

- Ovidio distingue tra Tellus come il "luogo della crescita", e Cerere come "la sua causa agente".

Mater, "la madre", è spesso usato come un titolo onorifico per alcune Dee, tra cui Vesta, pur essendo una vergine. "Madre" esprime quindi il rispetto che si deve a colei che ci ha generato, anche se Tellus e Terra sono entrambi considerate anche come madri in senso genealogico.

Le feste dedicate a Tellus riguardavano soprattutto l'agricoltura ed erano spesso connesse con Ceres, onorate a gennaio come "madri dei prodotti " nella festa mobile (conceptivae Feriae) delle sementivae, la festa della semina. Il suo omologo greco è Gea (GE Mater) 

SACRIFICIO BOVINO

IL TEMPIO DI TELLUS

Il 13 dicembre era in realtà l'anniversario del Tempio di Tellus e veniva celebrato con un lectisternio (banchetto) per Ceres, che incarnava il potere riproduttivo della terra. Nel lectisternio una statua della Dea, si presuppone di legno, veniva sdraiata su un triclinio posto nel tempio e le veniva offerto il banchetto a cui partecipavano i sacerdoti e i dignitari invitati. 

Alla Dea, la cui statua era vestita e addobbata a festa, con nastri e gioielli offerti dalla pietas popolare, veniva posto il cibo nel piatto e la bevanda nel bicchiere. Alla fine del banchetto il cibo della Dea veniva bruciato e il vino sparso in terra insieme alle ceneri ottenute, giustamente un'offerta alla Dea Terra. In questa occasione si sacrificava una vacca incinta, per favorire la rinascita dei semi di grano già piantati.

Il Tempio di Tellus è stato il punto di riferimento più importante della Carinae, un quartiere alla moda sul Colle Oppio, vicino alle domus  appartenenti a Pompeo e alla famiglia di Cicerone. Il tempio era il risultato di un votum realizzato nel 268 a.c. da Publio Sempronio Sophus, quando un terremoto colpì nel corso di una battaglia contro i Piceni. Occupava l'ex sito di una casa di proprietà di Spurio Cassio, demolita quando lui fu giustiziato, nel 485 a.c., (pochi anni dall’inizio della Repubblica, nata nel 509) per aver tentato di farsi re.

Il tempio costruito da Sophus aveva per anniversario (dies natalis) cioè del suo impegno e molto probabilmente dell’apertura, la giornata di oggi: il 13 dicembre. Un oggetto misterioso chiamato "magmentarium" si trovava nel tempio,  conosciuto anche per una rappresentazione del suolo italico sul muro, o una mappa o una allegoria. Era il territorio di Roma. Non a caso quel terremoto, (scossa tellurica), aveva fatto nascere il voto del condottiero durante una battaglia di conquista sull’Adriatico.

Una statua di Quinto Cicerone, istituito da suo fratello Marcus, si trovava nel recinto del tempio. E Cicerone stesso scrive che la vicinanza della sua proprietà ha spinto alcuni romani a credere che la sua famiglia avesse la responsabilità di aiutare a mantenere il tempio.

TELLUS NELL'IPOGEO DI VIA DINO COMPAGNI


LE FORDICIDIA

Ma Tellus riceveva il sacrificio di una mucca incinta alla festa del Fordicidia, festa attribuita a Numa Pompilio, il Sabino, secondo re di Roma: una festa di fertilità e zootecnia che si teneva il 15 aprile, a metà del Cerialia (aprile 12-19).

Si narrava che durante un periodo in cui Roma era alle prese con condizioni agricole difficili, Numa fosse stato incaricato dal rustico Dio Fauno, in sogno, di un sacrificio a Tellus. Come spesso accade con gli oracoli, il messaggio richiedeva una certa interpretazione:
"Con la morte del bestiame, Re, Tellus deve essere placata: due mucche, ma una singola giovenca che possieda due vite (animae) per il sacrificio."

Numa risolse l'enigma istituendo il sacrificio di una mucca incinta. Lo scopo del sacrificio, come suggerito da Ovidio, era quello di assicurare la fertilità del grano piantato e già in crescita nel grembo della Madre Terra in veste di Tellus.

Questo sacrificio pubblico si era poi trasformato in olocausto (dal greco holòkaustos, "bruciato interamente") che veniva celebrato per conto dello stato, e per ciascuna delle trenta curie, le più antiche divisioni della città fatta da Romolo dalle tre tribù originarie.

Il sacrificio di stato veniva presieduto dalle Vestali, che useranno la cenere dell'olocausto per preparare il suffimen, una sostanza rituale usata più avanti nel mese di aprile per le Parilia. In realtà solo gli embrioni dei vitelli venivano bruciati dalle vestali, che ne usavano le ceneri per purificare il popolo nei Parilia, il 21 aprile. Il resto, cioè la mucca, veniva bruciata dai sacerdoti.

CERERE - TELLUS

NATALE DI ROMA

Il 21 aprile, il giorno di fondazione (dies natalis) di Roma era anch'essa una festa di Tellus:
celebrazione della terra “posseduta”, propria: e quindi del pomerium, cioè la città.


I GIOCHI SECOLARI

Durante i Giochi secolari tenuti da Augusto nel 17 a.c., la Terra Mater fu tra le divinità onorate nel Tarentum del Campo Marzio, con cerimonie condotte secondo il  "rito greco" ( Ritus Graecus ), (la distinzione dal Tellus romana il cui tempio era all'interno del pomerio) e ci fu l'olocausto di una scrofa incinta.  

I Giochi secolari di 249 a.c. furono dedicati agli inferi divinità Dis Pater e Proserpina, il cui altare sotterraneo era in Tarentum. Il seme sotto terra, riporta sempre agli dei inferi. Sotto Augusto, i Giochi (ludi) sono stati dedicati ad altre sette divinità, invocate come Moerae , Iuppiter, Ilithyia , Giunone, Terra Mater, Apollo e Diana. 


IL CERIALE SACRO

Il Ceriale sacro ("il rito  dei cereali ") era celebrato in onore di Tellus e Cerere, da un flamen, sicuramente il Flamen Ceriale, che procedeva all'invocazione assieme a dodici aiutanti. Secondo Varrone, le due dee ricevevano congiuntamente il "praecidanea porca", un maiale sacrificato in anticipo del raccolto. Alcuni riti originariamente di pertinenza Tellus potrebbero essere stati trasferiti a Ceres, o condivisi con lei, come risultato della sua identificazione con greca Demetra.


I RITI DI PASSAGGIO

Tellus è ritenuta essere comunque presente durante tutti i riti di passaggio, in modo implicito, o invocata. Era coinvolta nelle cerimonie alla nascita di un bambino, quando il neonato era posato a terra, immediatamente dopo la nascita e veniva invocata anche in occasione dei matrimoni romani.

TELLUS- CERERE
Iscrizioni dedicatorie però a Tellus o Terra sono relativamente poche. Si trovano epitaffi durante il periodo imperiale, che a volte contengono espressioni formulari, come: "Terra Mater, mi ricevi."

Nella zona mineraria della Pannonia, si trovano iscrizioni votive e dediche a Terra Mater da villici, sorveglianti di schiavi imperiali che gestivano le operazioni negli stabilimenti del minerale di fusione (Ferrariae). 

E qui bisogna pensare al materiale che viene fuori dalle viscere della terra. 

L'imperatore Settimio Severo restaurerà un tempio della Terra Mater a Rudnik, una zona mineraria d'argento della Mesia Superiore: un tempio di 30 per 20 metri, che si trovava situato apposta, all'ingresso della zona di lavoro. 


IL PAREDRO DI TELLUS

Il suo complemento maschile era un dio del cielo, come Caelus ( Urano ), o una forma di Giove e tra gli Etruschi, ma è anche menzionato un certo Tellumo o Tellurus, menzionato però raramente e del quale sappiamo troppo poco.

AULO ATILIO CALATINO - A. ATILIUS CALATINUS

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SCUTA RES PUBLICA

Nome: Aulus Atilius Calatinus
Nascita: Caiazzo
Morte: 216 a.c.
Gens: Atilia
Consolato: 258 a.c., 254 a.c.
Dittatura: 249 a.c.


Aulo Atilio Calatino, ovvero Aulus Atilius Calatinus (i fasti capitolini danno Caiatinus) apparteneva alla gloriosa gens Atilia, che trasse origine dal popolo tirrenico dei Volsci, grandi nemici di Roma prima, e diventati del tutto romani dal 345 a.c. dopo la spartizione economica e politica della zona fra Roma e i Sanniti.

Da ricordare che il primo Atilius a diventare console fu l'eroe Marcus Atilius Regulus Calenus nel 335 a.c., dieci anni dopo. La gens Atilia ebbe 19 consoli al servizio di Roma, di cui ben 12 nell'arco delle tre guerre puniche e solo tre in età imperiale, epoca in cui evidentemente questa gens divenne meno influente.

GENS ATILIA
Aulo Atilio nacque a Caiazzo non si sa in quale data e morì, ma non se ne conosce la località, nel 216 a.c. Fu un politico e generale romano che combatté durante la I Guerra Punica.

- 259 a.c. - Aulo Atilio Calatino era succeduto nella conduzione della I guerra punica al console del 259 a.c., Gaio Aquillio Floro: dopo avere attaccato Palermo espugnò Mistretta (Mytistratus) ed altre città, ma non le isole Lipari.

- 258 a.c. - Fu eletto console per la prima volta nel 258 a.c., durante la I guerra punica, e condusse vittoriose operazioni di guerra in Sicilia, ma, sorpreso in una stretta dal nemico, il suo esercito fu salvo solo per il sacrificio di un eroico tribuno militare (chiamato Quintus Caedicius in Gellio, III, 7, Laberius o Lucius o Marcus Calpurnius Flamma da altri) e di 400 uomini (secondo altri autori 300). Il tribuno, vedendo l'esercito consolare accerchiato, trascinò con sé alla morte 400 volontari per aprire alla legione una via di scampo. Atilio prese tuttavia Camarina, Enna e altre città, ma fu l'anno successivo che celebrò il trionfo come pretore.

- 257 a.c. - Infatti secondo i fasti trionfali nel 257 a.c. celebrò il trionfo come pretore, e in maniera splendida. Si giustifica il rango pretorio del trionfo con il fatto che Aulo Atilio, pur essendo stato console nel 258 a.c., era pretore al momento della celebrazione.

- 256 a.c. - Rimase in Sicilia l'anno seguente come proconsole, e trionfò de Poenis nel gennaio 256. 

- 254 a.c - Fu poi (di nuovo) console nel 254 a.c., insieme a Gneo Cornelio Scipione Asina (310 - 245 a.c.), con cui espugnò Palermo, ma solo Asina ottenne il trionfo. Strano, visto che precedentemente Scipione era stato sconfitto alle isole Lipari dai cartaginesi.

- 249 a.c. - - Doveva tuttavia avere un grande prestigio perchè dopo il disastro della battaglia di Trapani fu eletto dittatore e guidò un esercito in Sicilia. Venne infatti nominato "dictator rei gerundae causa" cioè per governare lo Stato in situazioni di difficoltà, essendo così il "primus dictator extra Italiam exercitum duxit", cioè il primo dittatore che guidò un esercito. 

- 247 a.c. - Divenne censore con A. Manlius Torquatus nell'anno 247 a.c.. Non sappiamo esattamente quando (e se in relazione al trionfo) abbia dedicato il tempio della Fides e votato quello della Spes.

- Eresse un tempio a Spes nel Foro Olitorio e uno alla Fides sul Campidoglio. Cfr. LA ROCCA 1990: 327: "... il tempio di Fides sul Campidoglio, probabilmente votato da A. Atilio Calatino nel 258 a.c., è dedicato dopo il trionfo sui Cartaginesi del 257 a.c.

"Fides è la personificazione in un primo momento dell'attitudine benevola degli Dei nei confronti degli uomini.

Essa divenne molto presto una virtù, il patto sacro che lega tra loro le popolazioni, forse in opposizione alla fides Punica ed in riferimento, secondo una suggestiva ma non verificabile ipotesi, alla tragica e disumana sorte del parente di Calatino, Marco Atilio Regolo, preso prigioniero nel 255 a.c. ed ucciso dopo l'ambasciata a Roma del 250 a.c."

- Parte del suo epitaffio viene citato da Cicerone nel suo Cato maior de senectute.

Cicerone
- E quanta ve ne fu in Lucio Cecilio Metello, quanta in Aulo Attilio Calatino! Per il quale (fu scritto) quel famoso epitaffio: "La maggior parte degli uomini concorda che quest'uomo fu il primo del suo popolo."È noto l'intero carme inciso sul suo sepolcro. Dunque (era) a buon diritto autorevole lui, sulle cui lodi era concorde l'opinione di tutti -

SEPOLCRO ARIETI

II SEPOLCRO DI ATILIO CALATINO PRESSO PORTA ESQUILINA

Il Museo Montemartini di Roma conserva alcuni affreschi di tombe aristocratiche a camera di età medio repubblicana, tra cui delle pitture con scene di combattimento e di corteo trionfale provenienti dalla cd. Tomba Arieti.

Purtroppo del sepolcreto esquilino non è rimasta neppure una pianta con le posizioni  delle sepolture rinvenute anche dopo il 1882, data della scoperta della necropoli, a parte la Forma Urbis Romae del Lanciani (tavv. 23 e 24) e le piante successive di Giovanni Pinza.

Presso la Porta Esquilina erano stai rinvenuti nel 1875 i resti di un sepolcro affrescato, a pianta rettangolare, edificato in blocchi di peperino, detto 'Arieti' dal nome dello scopritore. Sulle pareti c'erano scene di battaglia e una processione trionfale, che fu copiato ad acquarello. Vi è effigiata una quadriga che traina un carro trionfale, preceduta da sei littori che indossano il caratteristico "sagum", l'abito portato in guerra e nel trionfo, con in mano il fascio delle verghe.

Inoltre i littori sono sei e non dodici, e i fasci littori sono rivolti verso l'alto per cui non è una processione funebre, perchè i fasci sarebbero rivolti verso il basso. Insomma tutto fa pensare che il personaggio sepolto nella tomba del campo Esquilino celebrasse un trionfo come pretore.
Sembra si tratti della tomba di Atilio Calatino, console nel 258 a.c., anche per la vicinanza con la tomba dei Fabii, ritenuta di Quinto Fabio Massimo Rulliano, di cui Calatino era nipote diretto.

La tomba dovrebbe essere anteriore alla fine del III sec. a.c.
                                                   
SEPOLCRO ARIETI
COARELLI 1976: 28 ha collegato lo stile delle figure del sepolcro Arieti a quel che ci viene detto della sommaria tecnica del pittore Theodotos, attivo a Roma nella seconda metà del III secolo a.c., il quale con un nerbo di bue dipingeva sulle are per le feste Compitali figure di Lari danzanti (FESTUS, p. 260 L, s.v. penis = NAEVIUS, fr. 99:
Theodotus qui aras Compitalibus
sedens in cella circumtectus tegetibus
Lares ludentes peni pinxit bubulo).

In realtà infatti lo scudo oblungo, che in seguito venne sostituito dallo scudo a tegola, viene rappresentato anche a Delfi  in tutt'altro registro stilistico  sul monumento di  L. Aemilius Paulus, vincitore della battaglia di Pidna. (Cfr.  COARELLI  1976: 27;  LA ROCCA 1984: 44).

Nei Fasti triumphales coloro che celebrarono il trionfo con rango pretorio furono due:

1) A. Atilius A.f. C.n. Calatinus: console nel 258 a.c., secondo i fasti trionfali nel 257 a.c. celebrò il trionfo come pretore

2) Q. Valerius Q.f. P.n. Falto: pretore urbano per il 242 a.c., mandato in Sicilia con il console Caius Lutatius Catulus. A causa della inabilità di Lutazio il ruolo avuto da Valerius Falto nella vittoria del 242 a.c. presso le isole Egadi fu decisivo, per cui richiese per sé un trionfo come quello del console. Come arbitro venne scelto Aulo Calatino che, fatta riconoscere a Quinto Valerio Faltone la sua inferiorità rispetto all'auctoritas del console, aggiudicò il trionfo a Lutazio.                                 


L'Epigrafe:

ATILIUS A.F. C.N. CAIATINUS PR(aetor) AN(no) CDXCVI EX SICILIA DE POENIS XIIII K. F[ebr.].
C. AATILIUS M.F. M.N. REGULUS COS. AN(no) CDXCVI DE POENEIS NAVALEM EGIT VIII k[ -   -   -  ].

Si ricorda l'aneddoto del tribuno Calpurnius Flamma, il quale, vedendo l'esercito consolare accerchiato, trascinò con sé alla morte 300 volontari per aprire alla legione una via di scampo, cfr. ad es.  [AURELIUS VICTOR], de viris illustribus 39,
1 -  Atilius Calatinus ...
2 -  Panormum cepit. Totamque Siciliam pervagatus paucis navibus magnam hostium classem duce Hamilcare superavit.
3 -  Sed cum ad Catinam ab hostibus obsessam festinaret, a Poenis in angustiis clausus est, ubi tribunus militum Calpurnius Flamma acceptis trecentis sociis in superiorem locum evasit, consulem liberavit; ipse cum trecentis pugnans cecidit. Postea ab Atilio semianimis inventus et sanatus magno postea terrori hostibus fuit. Atilius gloriose triumphavit.

D'altronde il campus Esquilinus, sul lato opposto della via Prenestina rispetto alle fosse comuni dette puticuli, rimase destinato, sino alla fine della repubblica, a tombe di prestigio, per personaggi meritevoli nei confronti dello stato. Sia  A. Atilius Calatinus che  Q. Valerius Falto avevano meriti nei confronti della repubblica,  ma mentre Calatinus veniva trasmesso come un esempio di eroe, Valerius Falto  venne quasi dimenticato. Anche per questo si ritiene appartenesse ad Aulo Atilio Calatino.   

MEDUSA ROMANA SU PASTA VITREA


MARCO CALPURNIO FLAMMA

Marcus Calpurnius Flamma fu un grande eroe della I Guerra Punica (264 - 241 a.c.). Flamma era un tribuno militare che condusse 300 volontari in missione suicida per liberare un esercito consolare da una trappola in cui erano stati chiusi dai cartaginesi. Flamma, alla fine del combattimento, venne trovato gravemente ferito sotto una pila di corpi, ma sopravvisse.

Secondo Livio, fu il console Atileo Atilio Calatinus che "condusse le sue truppe in un luogo dove vennero circondati da cartaginesi". Flamma chiese allora 300 volontari per un attacco che deviasse l'attenzione dalla legione consolare. Il bello fu che 300 legionari risposero all'invito di immolarsi per l'esercito romano, ovvero per Roma. Il senso della patria e dell'onore era vivissimo all'epoca, e morire per Roma era grande lustro per la propria famiglia e grande onore che non verrebbe mai dimenticato.

Livio scrive:

" Calpurnius Flamma, nella prima guerra punica, questo accadde quando eravamo giovani, parlò ai suoi trecento volontari che stava conducendo alla cattura di un' altezza situata al centro stesso della posizione del nemico: "Noi andiamo a morire, miei compagni d'arme, noi moriamo e con la nostra morte salviamo le legioni bloccate dal loro pericoloso nemico".


Scrive Frontinus:

"Questo uomo, visto che l' esercito era entrato in una valle, i lati e tutte le parti dominanti di cui il nemico aveva occupato, chiese di ricevere dal console trecento soldati volontari. Dopo aver esortato a salvare l' esercito per il loro valore, si affrettò al centro della valle. Per schiacciare lui e i suoi seguaci, il nemico discendeva da tutte le parti, ma, essendo tenuto sotto scacco in una lunga e feroce battaglia, offrirono così al console l' opportunità di liberare il suo esercito".

Plinio il Vecchio dichiara che Marco Calpurnio Fiamma venne insignito della corona d'erba. La corona ossidionale (corona obsidionalis), ovvero la corona d'erba (corona graminea), era una onorificenza romana usata nella Repubblica e nell'Impero. Era il massimo simbolo di valore militare elargibile ad un eroe e spettava al comandante che avesse salvato un esercito assediato o a colui che
avesse, con il proprio intervento, salvato un esercito dalla sicura distruzione.

Plinio il Vecchio, Naturalis Historia, Liber XXII, 11.
"Praeter hos contigit eius coronae honos Marcus Calpurnio Flammae tribuno militum in Sicilia, centurioni vero uni ad hoc tempus Cneo Petreio Atinati Cimbrico bello. primum pilum is capessens sub Catulo exclusam ab hoste legionem suam hortatus tribunum suum dubitantem per castra hostium erumpere interfecit legionemque eduxit. invenio apud auctores eundem praeter hunc honorem adstantibus Mario et Catulo coss. praetextatum immolasse ad tibicinem foculo posito"

"Ne scamparono per la virtù segnalata di Calpurnio Flamma tribuno de soldati il quale con schiera scelta di trecento occupò l'altura infesta e cinta da nemici dandone briga ad essi finchè l'esercito intero si liberasse. E con tale uscita bellissima uguagliò la fama di Leonida e delle Termopile ma fu di questo il nostro più illustre sopravanzando e sopravvivendo a tanta spedizione quantunque niente avesse scritto col sangue.
Ed essendo la Sicilia già divenuta suburbana provincia del popolo Romano e serpeggiando la guerra via via più da largo egli passa con Lucio Cornelio Scipione in Sardegna e nella Corsica annessa e là spaventò gli abitanti con le rovine di Olbia e qui della città di Aleria e sconfisse in tal modo per terra e per mare tutti i Cartaginesi che non altro restava se non l'Africa alla vittoria." 

La corona graminacea veniva realizzata da un serto d'erba o fiori selvatici intrecciati, colti nei pressi del campo di battaglia, secondo la consuetudine arcaica di premiare il vincitore nelle gare atletiche con una manciata d'erba del terreno di gara.

Plinio il Vecchio ci fornisce una lista di persone cui venne tributata la corona d'erba:
- Lucio Siccio Dentato
- Publio Decio Mure (con due corone: una dal suo stesso esercito ed una dalle truppe che salvò quando circondate)
- Fabio Massimo (dopo l'espulsione dall'Italia di Annibale)
- Marco Calpurnio Flamma
- Scipione Emiliano
- Gneo Petreio di Atina (centurione primus pilus durante la Guerra Cimbrica)
- Lucio Cornelio Silla (a Nola, durante la Guerra Sociale)
- Quinto Sertorio, parente di Mario,
- Augusto (al quale la corona venne presentata dal Senato romano come omaggio politico, più che militare)
                                                                                                                                     

LEGIO XXX ULPIA VICTRIX

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TRAIANO

La XXXma legione Ulpia e la II Traiana Fortis vennero fondate nel 105 dall'imperatore Traiano, per le sue campagne in Dacia (moderna Romania). Il suo nome deriva dall'imperatore in quanto membro della famiglia Ulpia. I legionari della XXX, sottoposti dall'imperatore ad un allenamento durissimo, erano soprannominati "i muli di Traiano", a rievocare le estreme esercitazioni dei soldati di Mario, lo zio di Giulio Cesare, che vennero chiamati "i muli di Mario" . Il numero riguardava il numero della legione essendo ora arrivate a trenta.

La legione stazionò prima a Brigetio (Szöny) nella Pannonia Superiore, che al termine delle guerre suebo-sarmatiche, iniziate sotto Domiziano e terminate da Traiano (53 - 117), non ancora imperatore romano nel 97, fu trasformata in fortezza legionaria in pietra.  Essa misurava 540 x 430 metri, pari a circa 23,0 ettari, una vera e propria città, che divenne poi uno dei principali centri della Pannonia superiore in seguito alla suddivisione operata da Traiano nel 103.

Qui risiedette inizialmente la legio XI Claudia, che fui fu inviata in Mesia inferiore al termine delle campagne di Traiano contro i Daci, dove lì rimase. Le subentrò la Legio XXX Ulpia Victrix, che qui rimase invece fino al 118-119, quando partì definitivamente per la Germania inferiore, al termine delle guerre contro gli Iazigi di Adriano (76 - 138).


ADRIANO

Negli anni successivi al 118, la legione fu comandata da Quinto Marcio Turbo Fronto, un amico personale dell'imperatore Adriano, che si segnalò nella guerra partica, contro gli Ebrei in Cirenaica e in Egitto e soffocò la rivolta della Mauretania, fu prefetto del pretorio.

DEDICA A GIOVE DI UN LEGIONARIO DELLA III ULPIA
A lui Adriano affidò il compito di pacificare Dacia, divenuta inquieta dopo la morte di Traiano. Almeno alcune sottounità, vessillazioni, parteciparono alla guerra contro i Daci. Poiché si comportavano coraggiosamente, la legione Trenta Ulpia ricevette il cognome Victrix, "vincitrice". Inoltre sembra XXX Ulpia Victrix abbia svolto qui un po' di lavoro di polizia.

Forse la legione partecipò anche alla campagna traianea contro l'impero dei Parti, ma si ritiene che solo una vessillazione sia stata aggiunta alla XV Apollinaris, che certamente ha combattuto in Mesopotamia. Il resto della legione potrebbe essere stato attivo nei lavori di costruzione lungo il Danubio. Molte iscrizioni sono testimoni di questa attività.

Dopo il 122, la legione fu inviata a Xanten - ovvero la Colonia Ulpia Traiana - nella Germania Inferiore, che era stato il campo della VI Victrix fino al suo trasferimento in Gran Bretagna. Essendo la fortezza più importante della Germania inferiore, assunse la funzione di Vetera II, come campo della Legio XXX Ulpia Victrix.

Xanten si trovava alla confluenza del Reno con il Lippe, un fiume spesso utilizzato dai Romani per invadere la Germania "libera". La Trentesima legione rimase a Xanten per secoli; era ancora lì nel 400 circa e l'insediamento civile vicino alla base militare fu per qualche tempo chiamato semplicemente Tricensimae, un'espressione dialettale che significa "trentesimo". Tra compiti della XXX, la costruzione di edifici pubblici e operazioni di polizia.

La Germania inferiore è difficilmente menzionata nelle nostre fonti, e le iscrizioni sono l'unica prova per le attività della legione. Non risultano battaglie dalle epigrafi, mentre un'iscrizione indica che un centurione ricostruì il santuario di Giove Dolichenus a Colonia; lo stesso uomo eresse due santuari per Mercurio e le Matres Paternae ("madri paterne"). Altre iscrizioni dimostrano che il governatore della Germania Inferiore usava soldati del Trenta come impiegati. Una sottounità di 50 soldati ha operato sei forni a Iversheim. Una vessillazione era stazionata con I Minervia a Bonn.

Altre sottounità del Trenta sembrano essere rimaste a Remagen e al confine con la Germania Superiore, luoghi sono più vicini a Bonn che a Xanten. Le due legioni operavano spesso insieme. Le iscrizioni provenienti dall'area fluviale olandese dimostrano che a volte lavoravano insieme a progetti edilizi, e molte di esse menzionano semplicemente "l'esercito di Germania Inferiore" (exercitus Germaniae Inferioris, spesso abbreviato EXGERINF).


SETTIMIO SEVERO

DEDICA ALLA TRIADE CAPITOLINA DA XANTEN,
DALLA XXX LEGIONE
Durante il regno di Lucio Settimio Severo (198-211), le sottounità di queste due legioni e le due legioni del Superiore di Germania (VIII Augusta e XXII Primigenia) servirono da guarnigione di Lione, capitale delle province galliche.

Il numero di iscrizioni di XXX Ulpia Victrix è notevolmente alto, e continuano fino al regno di Alessandro Severo (222-235). Altre iscrizioni suggeriscono che i soldati del Trenta fossero ricercati in tutta la Gallia: si trovano a Châlons, Parigi, Bourges, Auch (vicino ai Pirenei) e vicino al Col du Gran San Bernardo.


ANTONINO PIO

Sembra che la XXX Ulpia Victrix fosse un'impresa di costruzioni oltre che un'arma militare. Durante il regno di Antonino Pio (138-161), una subunità fu stazionata in Mauretania, dove dovette combattere contro i Mauri.

Quando Minervia partecipò alla campagna contro l'impero partigiano di Lucio Vero (162-166), erano presenti anche soldati del Trenta. È probabile che altre unità siano state coinvolte nelle guerre di Marco Aurelio contro i Marcomanni (165-175 e 178-180), e nella campagna del governatore di Gallia Belgica, Didius Julianus, contro i Chauci nel 173.

Nel 193 scoppiò la guerra civile. Le monete dimostrano che la legione Trenta Ulpiano immediatamente schierato con Lucio Settimio Severo. E' stato un gesto coraggioso, perché un altro pretendente, Clodius Albinus, era più vicino. Nel 196/197, la legione deve essere stata coinvolta nei combattimenti veri e propri. Severo fu vittorioso e premiò la legione di Xanten con il titolo di Pia Fidelis ("fedele e leale").


ALESSANDRO SEVERO

Dopo 208, probabilmente ha preso parte alla sua campagna scozzese, e in 235 sottounità erano attive durante la campagna persiana di Severo Alessandro.

DEDICA A DOLICHENO DA COLONIA (211D.C.)
Ora da ritrovamenti archeologici che hanno fatto crollare la frontiera del Basso Reno per circa 240 anni, e dobbiamo supporre che la XXX Ulpia Victrix abbia subito una sconfitta, ma che sia stata anche in grado di riconquistare l'area fluviale olandese.

Questo fu ripetuto nel 256-258, quando i Franchi invasero la Gallia. L'imperatore Gallio riuscì a buttarli indietro, e doveva aver usato l'EXGERINF.


AURELIANO

Nel 260 i Franchi tornarono, e questa volta furono sconfitti dal generale Postumus, che fu immediatamente proclamato imperatore e fondò l'Impero Gallo.

TEGOLA DA TETTO SU CUI SONO INCISI I MARCHI DELLA
XXX ULPIA VICTRIX. (Da sinistra) IL NUMERO 30, IL CORNO
DI CAPRICORNO, IL TRIDENTE DI NETTUNO E IL FULMINE
DI GIOVE
XXX Ulpia Victrix si schierò dalla parte dell'usurpatore, che era in grado di offrire la pace nella regione. Tuttavia, dopo il 274, l'imperatore romano Aureliano riconquistò la Gallia, e portò via molte truppe. Immediatamente, i Franchi attraversarono di nuovo il Reno e l'area fluviale olandese e le Fiandre andarono perse. Per quasi un quarto di secolo, Xanten fu la guarnigione romana più settentrionale.

Quando venne riportato l'ordine dal generale Costanzo I Cloro, i nuovi eserciti di cavalleria mobile nell'entroterra erano diventati la spina dorsale dell'esercito romano, per cui le legioni lungo il Reno divennero meno importanti a favore del comitatus (soldati di fanteria pesante del tardo esercito imperiale romano). 

Erano di stanza nelle fortezze, per avvistare il nemico, e aspettare l'arrivo della cavalleria. La XXX Ulpia Victrix rimase a Xanten, probabilmente nell'ex insediamento civile, e scompare dalla storia quando la frontiera del Reno crollò nel 407.

I CLIPEI

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Il Clipeus o Clypeus era il termine che in latino indicava il grande scudo cavo dell'oplita greco. Nella terminologia dell'arte romana, il termine clipeus passò poi a indicare una decorazione rotonda, a forma di medaglione in rilievo, con un ritratto iscritto in esso, in genere con immagini sacre o di personaggi illustri. Fu una decorazione molto usata nell'architettura romana, con applicazioni sui templi, sui circhi e sugli edifici pubblici in genere.

L'imago clipeata, cioè raffigurata su scudi tondi derivò a Roma dal culto degli antenati, in un uso prettamente patrizio, che prevedeva la conservazione delle maschere funerarie di cera dei membri della gens, che venivano portati nelle processioni funerarie.

Con l'aumento delle possibilità finanziarie e soprattutto con l'aumento delle botteghe degli scultori romani e greci nell'Urbe, la cera venne sostituita con il bassorilievo dell'immagine su marmo o pietra. Da lì si trasferì l'uso di mostrare in queste occasioni dei ritratti all'interno di scudi tondi, le imagines clipeatae.


Questo uso derivò dalla religione romana che era molto attaccata al culto degli antenati. Il membro di una gens riteneva che gli antenati, debitamente curati e omaggiati con riti consoni, proteggessero il loro pronipote, ed essendo i romani un popolo di combattenti, finirono per effigiare dietro gli scudi  il ritratto dell'antenato più caro, si che potesse portarlo con sè in battaglia. Imbracciare uno scudo diventava perciò farsi scudo della protezione dell'antenato.

Il clipeus fu abbandonato verso la fine del V sec. a.c., con l'abbandono dello schieramento a falange di tipo ellenico, sostituito dallo scutum ovale, ma restò in uso nelle cerimonie dei patrizi o dei cittadini romani più abbienti che ne richiesero la fabbricazione in metallo pregiato, in genere argento dorato con ricche decorazioni. 

C'era una tecnica particolare che i romani usavano per dorare piatti, scudi e vasi, in cui l'oggetto d'argento non avveniva per immersione in bagno d'oro, ma veniva ribattuto con grande leggerezza e maestria, con un martelletto leggero, finchè l'oro non penetrasse nell'argento formando uno spesso strato dorato.

RESTI DI BUSTO LORICATO E INCORNICIATURA DI UN CLIPEO SUI PORTICI DEL FORO
Da non confondere con l'elettro, cioè la lega di oro e argento talvolta anche presente in natura, dove la proporzione di oro è molto alta. Plinio il giovane riferisce che la percentuale d'argento nell'elettro è di un quinto dell'oro, il che gli conferiva un colore un po' più pallido dell'oro.

CLIPEI SUL COLOSSEO
L'immagine clipeata venne da allora largamente usata, nei sarcofagi, nei pannelli decorativi, nelle domus ma soprattutto nei monumenti.

Sul Colosseo ad esempio, sul suo quarto livello (attico) c'è una parete piena, scandita da lesene dove si aprono 40 piccole finestre quadrangolari, una ogni due riquadri all'interno dei quali erano collocati enormi clipei di bronzo, dedicati soprattutto alla testa di Giove, ma alternata ad altre divinità.

Questa tipologia di ritratto entrò a far parte dell'iconografia privata nonchè nella propaganda imperiale (con l'inserimento della imago clipeata dell'imperatore o del magistrato nei dittici consolari). 

Queste maestranze poterono così esercitarsi in molteplici botteghe che svilupparono un'arte a sè stante, molto raffinata in quanto cominciò a basarsi sulla ritrattistica che divenne così realistica come in Grecia non era mai stata. Tale arte si trasferì poi alle sculture dei busti dei vari personaggi ritratti con impressionante realismo.

Così nel ritratto romano si diffuse in epoca tardo-repubblicana il tipo dell'imago clipeata, con l'effigie compresa entro un cerchio con la forma dello scudo.

L'origine del ritratto clipeato è greca, con documenti del 100 a.c. nel Santuario degli Dei di Samotracia. A Roma fu molto usata, in sculture, rilievi e dipinti. Si sa di immagini clipeate collocate da un certo Appio Claudio (forse Pulcro), nella propria casa romana nell'80 a.c.


CLIPEUS VIRTUTIS

CLIPEUS VIRTUTIS

Tra i massimi esempi di clipei votivi figura il clipeus virtutis augusteo, ritrovato nel santuario di Ottaviano Augusto ad Arelate (Arles) e conservato al Museo di arte antica della medesima città. 

Eccone l'iscrizione:

« SENATVS
POPVLVSQVE ROMANVS
IMP CAESARI DIVI F AVGVSTO
COS VIII DEDIT CLVPEVM
VIRTVTIS CLEMENTIAE
IVSTITIAE-PIETATIS-ERGA
DEOS PATRIAMQVE »

CLIPEI VARI

« Il Senato e il Popolo di Roma ha conferito 
all'imperatore Augusto, figlio del Divo Cesare, 
nell'anno dell'ottavo consolato, 
questo clipeo segno di valore, clemenza, giustizia e pietà, 
di fronte agli Dei e alla patria. »
(Clipeus virtutis)

Il disco marmoreo, che riprende quello di tradizione ellenistica, è riproduzione del clipeo aureo affisso nella Curia. Riprodotto anche su monete e cammei (di solito associato alla Dea Vittoria, che lo sorregge in una mano, secondo la disposizione nella Curia, che lo vedeva accanto alla statua della divinità), riporta l'elenco delle virtù del principe (valore, giustizia, pietà e clemenza).

Lo scudo onorario fu dedicato dal Senato ad Augusto nel 26 a.c., come ricorda Augusto nelle Res Gestae (le imprese del Divino Augusto incise nel bronzo davanti al suo mausoleo),

PORTICO DEL FORO TRAIANO DECORATO A CLIPEI
« 34. QUO  PRO  MERITO  MEO  SENATUs  consulto  auGUSTus
appeLLATUS  SUM  ET  LAUREIS  POSTES  AEDIUM  MEARUM 
VESTITI  PUBLICE  CORONAQUE  CIVICA  SUPER I ANUAM  MEAM 
FIXA  EST  ET  CLUPEUS  ARCUS  IN  CURIA  IULIA  POSITUS, 
QUEM  MIHI  SENATUM  POPulumqUE  ROManuM  DARE 
VIRTUTIS   CLEMENTIAEQUE  IUSTITIAE  ET PIETAtis  causSA 
TESTATUm  EST  PEr eIUS  CUPEI inscriptionEM. 
POST ID TEMPUS  AUTORICTATE  OMNIBUS  PRAESTITI, 
POTESTatis  AUtem  nIHILO  AMPLIUs  habuI  QUAM  CETeri 
qui mIHI QUOQUE IN MAGISTRATU CONLEGAE FUERUNT. »

« 34. [...] Per i miei meriti, in segno di riconoscenza, mi fu dato il titolo di Augusto 
per delibera del senato e la porta della mia casa per ordine dello Stato 
fu ornata con rami d'alloro, e una corona civica fu affissa alla mia porta, 
e nella Curia Giulia fu posto uno scudo d'oro, la cui iscrizione attestava 
che il senato e il popolo romano me lo davano a motivo del mio valore 
e della mia clemenza, della mia giustizia e della mia pietà. 
Dopo di che, sovrastai tutti per autorità, ma non ebbi potere più ampio 
di quelli che mi furono colleghi in ogni magistratura. »




I CLIPEI E LE DIVINITA'

Per onorare ulteriormente gli Dei oltre che adornare la città Caput Mundi, venne in uso di scolpire nei clipei dei visi di divinità in modo abbastanza semplificato, data l'enorme mole di clipei con cui fu ornata Roma, si pensi solo ai numerosi portici, al Colosseo, ai circhi, agli archi e ai numerosissimi edifici pubblici.

Pertanto le divinità dai bei volti ma molto somiglianti tra loro, vennero fornite di un attributo che li definisse, che poteva essere: una colomba per Venere, un fulmine per Giove, una civetta per Minerva, un caduceo per Mercurio e così via.

Porre molte immagini degli Dei serviva da un lato a contribuire allo splendore della città eterna che tutti gli stranieri guardavano con stupore e ammirazione, dall'altro a ricordare ai romani di onorare nel dovuto modo gli Dei affinché fossero propizi ai singoli e al popolo tutto, e dall'altro a onorare gli stessi Dei con molte e splendide immagini affinché le divinità conservassero quella Pax Deorum e quella benevolenza sulla città che ne faceva la più bella e potente del mondo.




PORTICI DELLA PIAZZA DEL FORO DI AUGUSTO

Gli splendidi portici del Foro di Augusto si affacciavano sulla piazza, sopraelevati di alcuni gradini, con fusti scanalati in marmo pavonazzetto e fregio con decorazioni vegetali. L’attico al di sopra del colonnato riprende la decorazione presente sull’attico dei portici del Foro di Augusto, cioè con sculture gigantesche che visivamente sostengono una trabeazione sporgente in funzione di cariatidi.

Mentre le cariatidi sono poste in corrispondenza delle colonne sottostanti, tra una cariatide e l'altra sono collocati una serie di clipei che occupano i vari spazi intermedi, incorniciati in tondi riccamente lavorati, qui con ritratti di personaggi della famiglia imperiale, forse in ideale prosecuzione delle gallerie presenti nei portici del Foro di Augusto che aveva largamente riprodotto sé e la sua famiglia imperiale.

I molti frammenti di cornici dei clipei hanno permesso di identificarne tre tipi diversi, nei quali vengono utilizzati motivi decorativi ricorrenti anche in altri contesti del Foro. In un tipo molto frequente, il clipeo presenta, dall'esterno in successione, la treccia continua, che ricorre anche negli altri due tipi, e un motivo di corte baccellature riempite; a coronare la testa troviamo un motivo di foglie lanceolate disposte a squame. Gli altri due tipi avevano cornici con baccellature lunghe o con cornice ad arthemision.


IL PATER FAMILIAS

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Il padre romano era il custode delle memorie degli antenati, nonché del fuoco domestico, accanto al quale si veneravano gli dei della famiglia o lares; l'unico che poteva disporre del patrimonio della gens (bestiame, casa, schiavitù, campi). Tuttavia nell'antica storia di Roma il valore assegnato al padre gli dava un potere enorme che era il fondamento però dell'autorità cui si doveva obbedienza assoluta.

Questo perchè gli antichi Romani erano, più dei Greci, sensibilissimi al valore civile e a quello militare, ma molto meno al valore dei figli. Quindi nell’antica Roma il rapporto padre figlio era alquanto rilevante e si fondava sul concetto di pater familias e di patria potestas, dove la familia era intesa come “società familiare” e comprendeva tutti coloro che vivevano sotto la tutela del pater familias nella stessa casa, comprendendo quindi anche ascendenti, discendenti, parenti e schiavi.

I diritti del pater familias, nei primi secoli della storia di Roma, erano molto ampi, dall’aspetto economico e politico a quello educativo e religioso. Il pater familias aveva il diritto di esercitare la legge all’interno della sua familia come un magistrato, infliggendo sanzioni non solo per reati che avevano attinenza con la famiglia ma anche per crimini pubblici.

Sulla patria potestas si esprime il giurista Gaio (II secolo d.c.)
"Non vi sono altri uomini al mondo che hanno sui figli lo stesso potere che abbiamo noi".

Mentre in Grecia terminava con la maggiore età dei figli, a Roma perdurava fino alla morte dei padri. Il pater familias esercitava il potere giuridico in quattro diritti fondamentali: 
- lo ius exponendi, cioè il diritto di esporre i figli neonati;
- lo ius vendendi, ovvero il diritto di vendere come schiavo il figlio all’estero per mero lucro;
- lo ius noxae dandi, che consisteva nel cedere ad altri un figlio per liberarsi delle conseguenze giudiziarie di un atto illecito commesso dal padre,
- lo ius vitae et necis, il diritto di vita e di morte sul figlio che riguardava però i figli grandi.

Il padre era poi un sacerdote all’interno della familia in quanto compiva sacrifici agli Dei della casa per assicurare la loro protezione sull’ambiente domestico. Anche il riconoscimento del figlio spettava al padre che in segno di gradimento sollevava il figlio da terra, già deposto dalla balia davanti al pater familias.

Intorno ai sette anni il padre cominciava a occuparsi personalmente della sua educazione, dell’addestramento e della sua istruzione. Il figlio, non ancora adolescente, seguiva il padre nella vita pubblica osservandone i comportamenti e studiandone le relazioni. A diciassette anni il ragazzo romano abbandonava la toga praetexta per indossare quella virilis. Questo avveniva con una cerimonia che segnava la fine dell’età dei giochi e l’inizio dell’età adulta. 

Plinio il Giovane ricorda che "Ciascuno aveva come maestro il proprio padre" (ma egli fu fortunato col saggio e generoso Plinio il Vecchio), e in segno di riconoscimento per l’educazione ricevuta, il primo compito che il figlio adulto si assumeva era di attaccare in tribunale uno dei nemici del padre. 

Pertanto il filius familias non aveva alcuna autonomia e il padre era vissuto dal figlio come opprimente e duro, come colui che poteva decidere sulla sua vita o sulla sua morte e per questo a volte accadeva che il rapporto si complicasse così tanto da sfociare in delitto e in particolare in parricidio, un reato a quel tempo non insolito. 

Un giovane orfano aveva infatti molta più libertà rispetto a un filius familias che non poteva  concludere un contratto, né affrancare uno schiavo, né fare testamento, né possedere nulla oltre il suo peculio, proprio come uno schiavo. In più correva anche il rischio di essere diseredato. 

Se il padre moriva per cause naturali il ragazzo poteva diventare capofamiglia anche all’età di vent’anni ma se ciò non accadeva restava minore fino alla morte del padre. Questa situazione veniva vissuta dai figli, ormai divenuti adulti, come ingiusta e frustrante. Naturalmente esistevano padri buoni e generosi e padri severi fino alla crudeltà. 
Cicerone al contrario sottolineò il rapporto padre-figlio in termini di reciprocità: padre e figlio sono orgogliosi delle gesta positive compiute dall’altro ma entrambi subiscono anche le conseguenze delle azioni disdicevoli.

I figli pertanto diventavano uomini adulti senza autonomia economica né diritti giuridici finché era in vita il padre. Pertanto la morte del padre sovente diventava desiderio. “Sexagenarii de ponte” (I sessantenni giù dal ponte), recita un vecchio detto romano alludendo alla pratica di buttare dal ponte Sublicio statuette di giunco modellate in forma umana nel Tevere, in una società in cui i sessant'anni erano considerati estrema vecchiaia. Pratica che in età Imperiale venne dismessa.

Dalla realtà giuridica è anche facile capirne i motivi: padri unici titolari dei diritti e figli adulti costretti ancora a dipendere. Figli che, se maschi e se maggiorenni, godevano tuttavia di diritti minori, quale il diritto a partecipare alle assemblee, o a ricoprire cariche pubbliche, incongruenza che generava non pochi equivoci.

Ci è di esempio Caio Flaminio, tribuno, che promulga una legge agraria nonostante l'opposizione del Senato il quale minaccia di scatenargli contro l'esercito, ma lui non cambia idea. Coraggioso, temerario, Caio Flaminio porta avanti la legge. Un giorno però, proprio quando sta riferendo in assemblea, arriva il padre che lo trascina giù dai rostri e lo porta via come un qualsiasi bambino bizzoso. E il figlio senza protestare deve rimettersi alla volontà paterna.

Da una legge attribuita a Romolo veniamo a sapere che a Roma i padri sui figli avevano diritto di: incarcerarli, percuoterli, costringerli a lavorare nel proprio fondo, venderli e ucciderli.



VARI PADRI

- Cicerone - A Roma si legava la riuscita del primogenito maschio alla reputazione dell’intera famiglia. Pertanto i padri seguivano molto da vicino l'educazione del figlio. Cicerone, per esempio, non solo affida suo figlio Marco a insegnanti di prim’ordine, ma controlla personalmente il suo apprendimento,  e l’operato dei maestri, dedicando poi al figlio l’opera De Officiis, in cui gli fornisce consigli e insegnamenti di ordine morale, etico e civico. 

Marco, unico figlio e ventenne, aveva già militato nell’esercito di Pompeo, comandando un piccolo reparto di cavalleria e facendosi onore. In seguito avrebbe voluto seguire Cesare in Spagna ma il padre che non aveva simpatia per Cesare, si oppose e lo mandò ad Atene a studiare eloquenza con Gorgia e filosofia con Cratippo. «Se non che Gorgia, più bisognoso di guida che capace di far da guida, trascinava l’alunno ai piaceri e al bere più che al bello scrivere e all’ornato parlare. Il padre, sgomento, a gran fatica distaccò da lui il figliolo, e l’affidò tutto alle cure di Cratippo, valoroso e intemerato maestro. Marco non era d’indole cattiva: era volubile, leggero, più inclinato allo spendere e al godere che alla moderazione e allo studio. Sicché nell’animo di Cicerone, le afflizioni del cittadino si confondevano con le inquietudini del padre»

Di certo il rapporto del padre con le femmine era assai meno conflittuale, e quindi, forse, più affettivo; tuttavia non si possono ignorare alcuni episodi famosi di spietata durezza da parte del padre nei confronti della figlia. Cicerone si mostra invece molto tenero non solo nei confronti del figlio maschio ma anche in quelli della femmina, l’adorata Tulliola, l’unica persona che lui non criticò mai ed amò svisceratamente.

- Orazio, nelle sue Satire, ricorda il suo rapporto con il padre: "Se nessuno in buona fede può rinfacciarmi avidità, sordidezza o pratica di bordelli; se io vivo, tanto da darmi lode, immune da colpe e caro agli amici; di tutto questo ha merito mio padre che, pur con le magre risorse di un piccolo podere, non solo non volle mandarmi alla scuola di Flavio, che frequentavano, con borse e taccuini sotto il braccio, i figli illustri dei più illustri centurioni, pagando otto assi alle Idi di ogni mese, ma ebbe il coraggio di portarmi a Roma, poco più che fanciullo, per farmi impartire quell’istruzione, che cavalieri e senatori fanno impartire ai propri figli.

 - Seneca ci informa sul diverso atteggiamento del padre e della madre verso i fanciulli: "Non vedi quanto siano diversamente accondiscendenti i padri e le madri? I padri pretendono che i figli si sveglino presto per attendere ai loro doveri, non permettono ad essi di starsene oziosi neanche nei giorni di festa, e ne strappano sudore e talvolta lacrime; invece le madri vogliono riscaldarserli al seno, coccolarli nell’ombra, desiderano che non siano mai tristi, non piangano mai, non si affatichino mai.

- Quintiliano parla delle cure che fin dai primi anni dell’infanzia, ad un fanciullo di buona famiglia e destinato a diventare oratore. Il bambino deve essere circondato da persone che parlino bene e usino un linguaggio corretto e la moralità dei fanciulli va salvaguardata attraverso una cura attenta e costante da parte dei genitori. 

- Giovenale dedica la XIV Satira all’educazione paterna e rammenta i vizi che i genitori attraverso l’esempio trasmettono ai figli. Se il pernicioso gioco dei dadi piace ad un vecchio, gioca anche l’erede ancora bambino. E non lascerà sperare meglio di sé ai parenti un giovane che da suo padre, sfaticato e goloso di vecchia data, ha appreso a raschiare i tartufi, a condire i funghi e a far nuotare nella salsa i beccafichi. Quando il fanciullo compirà sette anni e non avrà ancora messo i denti definitivi, già sarà inutile mettergli accanto mille maestri che gli insegnino la morigeratezza: egli pretenderà sempre di cenare nel lusso e non si staccherà mai dall’abitudine di una grassa cucina.

E come ci si può aspettare che in una casa dove il pater familias fa frustare gli schiavi o li marchia a fuoco per ogni minima mancanza, i suoi figli crescano con un’indole sensibile e tollerante?  Per cui «Nulla che sia turpe a dirsi o a vedersi entri nella casa dove ci sia un padre», perché «al fanciullo è dovuto il massimo rispetto».
«Quando a un giovane dici che è sciocco chi fa un dono a un amico, chi dà conforto e sollievo alla povertà di un parente, tu gli insegni a rubare, a ingannare e a procurar la ricchezza con ogni delitto». 
Inoltre «Le donne romane, fiere educatrici dei loro figli, e fiere di ogni affermazione della virilità di questi (…), trasmettevano ai figli mentalità, principi e modelli di comportamento di un mondo pensato dagli uomini». 

- Claudia Vergine - "Grandi effetti di pietà son questi veramente, ma io non so già se io mi debba dire, che quello, che fece Claudia Vergine avanzi di valore o di animosità tutto quello che feron i sopraddetti, costei vedendo, i Tribuni della plebe, violentemente si sforzarono di tirare a terra il carro, il suo padre, trionfante con meravigliosa prestezza, cacciandosi in mezzo tra il padre e i Tribuni, ributtò quel magistrato, che era di tanta autorità a Roma, e intanto acceso contro di quello, per gli Iddi, o per le inimicizie che erano tra loro. In questo modo adunque il padre, li condusse in Campidoglio, e la figliuola se ne tornò nel Tempio della Dea Vesta, col medesimo honore, e malagevole a giudicare, quale dei due meritasse maggior lode, o il padre, che ebbe in compagnia la vittoria, o la figliuola che dalla pietà fu accompagnata".



Esempi di crudeltà verso i figli

Questi esempi di inflessibilità da parte di magistrati romani hanno vittime particolari, i loro stessi familiari. Nella tradizione romana l’istituzione dello stato era più importante di quella della famiglia, e quindi il dovere del magistrato prevaleva sul comportamento del padre.

Valerio Massimo, a quell’uomo saggio veniva in mente che si usa mettere le effigie degli antenati nella parte frontale della casa perché i posteri non solo leggano, ma imitino le loro virtù.

Lucio Bruto, pari per gloria a Romolo, perché l’uno fondò la città, l’altro la libertà di Roma, quando aveva il potere supremo fece arrestare, frustare davanti alla sua tenda, legare al palo e uccidere con la scure i suoi figli che cercavano di reintrodurre in Roma il dominio dei Tarquini da lui cacciati. Si tolse le vesti del padre per vestire quelle del console, e preferì vivere senza famiglia piuttosto che sottrarsi al dovere di compiere la pubblica vendetta.

Emulò il suo esempio Cassio nei confronti del figlio Spurio Cassio che da tribuno della plebe era stato il primo a proporre una legge agraria e con molti altri interventi popolari teneva avvinti gli uomini a sé. Dopo che questi era uscito di carica si consigliò con parenti e amici e lo condannò in un processo casalingo per l’accusa di aspirare alla tirannide, lo fece frustare e uccidere e consacrò la sua eredità a Cerere.

Tito Manlio Torquato, uomo di straordinario prestigio per le sue molte imprese, espertissimo di diritto civile e religioso, in una circostanza simile non ritenne neppure di aver bisogno del consiglio dei parenti. Poiché la Macedonia aveva sollevato al senato tramite ambasceria lagnanze contro suo figlio Decimo Silano, che ne era stato governatore, chiese ai senatori di non deliberare niente su quell’argomento prima che lui stesso avesse studiato la causa tra suo figlio e i Macedoni.

Assunta l’istruttoria con il consenso sia dell’augusta assemblea, sia di quelli che sollevavano le lagnanze, per due giorni, solo giudice nella sua casa, diede ascolto alle due parti; al terzo, dopo aver sentito i testimoni con la massima diligenza, pronunziò questa sentenza:
 “Essendo per me provato che mio figlio Silano ha ricevuto denaro dagli alleati, lo giudico indegno dello stato e della mia casa e gli ordino di uscire immediatamente dalla mia vista”.

Colpito da una così dura sentenza del padre, Silano non sopportò più di vivere e la notte successiva si impiccò. Torquato aveva già adempiuto ai compiti di giudice severo e scrupoloso, lo stato aveva avuto giustizia, la Macedonia vendetta, e a quel punto con il suicidio per vergogna del figlio, avrebbe potuto piegare il rigore paterno; ma lui non volle neppure partecipare alle esequie del giovane e proprio mentre venivano celebrate diede udienza a chi voleva interpellarlo. Sapeva di sedere in quello stesso atrio dove spiccava l’immagine di quel Torquato famoso per la sua severità.

Lucio Bruto fu il primo console della repubblica romana insieme a Lucio Tarquinio Collatino dopo la cacciata di Tarquinio il Superbo (509 a.c.). L’aristocrazia romana, che voleva riaccogliere i Tarquini, organizzò una congiura, a cui presero parte anche i figli di Lucio Giunio Bruto, Tito e Tiberio. Il padre quindi fece uccidere i propri figli.

Tito Manlio Torquato, già console nel 347 a.c., nel 340, di nuovo console, condannò a morte il figlio Tito Manlio Torquato per la vittoria contro il suo sfidante latino, conseguita senza il suo permesso (Tito Livio, Ab urbe condita VIII, 7, 13-22). 10 Copyright © 2010 Zanichelli editore S.p.A., Bologna [9308]
La cosa andò così: nella guerra latina era stato proclamato dai consoli che i soldati non combattessero contro il nemico senza l'ordine. Per caso Manlio, figlio dell'altro console, giovan di esimio aspetto e virtù, uscendo dall'accampamento con i compagni, fu chiamato dal prefetto dei cavalieri e fu sfidato ad un singolare duello. Era vergognoso allora rifiutare il duello, e così Manlio, spinto dal pudore e dall'ira, immemore dell'editto dei consoli, lottò con il nemico e lo sconfisse. Il giovane vincitore, pieno delle spoglie del nemico ucciso, tornò all'accampamento con i compagni che esultavano, essendo stato il padre informato di quello che era successo, convocò l'assemblea dei soldati e verso tutti disse: tu, Manlio, hai combattuto il nemico senza l'ordine dei consoli, e hai infranto la disciplina romana, devi pagare la pena con la morte. Saremo un triste esempio ma molto utile e sano ai posteri. Così (nutu) del console percosse il giovane con la scure.

Marco Scauro, luce e gloria della patria, quando le truppe di cavalleria respinte dai Cimbri sull’Adige si diressero vilmente verso la città abbandonando il console Catulo, mandò a dire a suo figlio, anche lui partecipe di quella fuga, che avrebbe visto più volentieri le ossa di un figlio morto in battaglia che non lui stesso reo di una fuga così vergognosa, e dunque se gli restava in petto un po’ di pudore, evitasse la vista di un padre da cui tanto tralignava: il ricordo della sua giovinezza gli insegnava chi dovesse considerare figlio e chi disprezzare. Ricevuta notizia di ciò, il giovane si trovò costretto a usare contro se stesso la spada in modo più valoroso di come l’aveva usata contro il nemico.

Non meno coraggiosamente di quanto Scauro rimproverò il figlio che fuggiva dalla battaglia, Aulo Fulvio, membro del senato, trattenne il figlio che invece vi andava. Questo giovane che spiccava tra i suoi coetanei per ingegno, cultura, bellezza, aveva preso il pessimo consiglio di seguire Catilina, ma mentre con temerario impeto si stava precipitando verso il suo accampamento, il padre lo fece intercettare nel percorso e uccidere dicendo che non l’aveva generato per Catilina contro la patria ma per la patria contro Catilina. Eppure avrebbe potuto tenerlo chiuso finché non fosse passata la rabbia della guerra civile: la storia avrebbe parlato di lui come di un padre prudente, mentre così ne parla come di un padre severo.

Viene da pensare che questa non fosse severità ma odio verso i figli. Nessun padre, degno di tale nome farebbe ciò a un figlio. Il cosiddetto conflitto generazionale, che si esplica soprattutto tra padre e figli maschi, è l'invidia per le capacità e la giovinezza dell'altro. Pertanto può essere esempio di mancata paternità e di efferata crudeltà, non di giustizia.



IL BUON PATER FAMILIAS

Nel diritto romano, il pater familias era l'uomo libero e cittadino, che non avesse più in vita alcun ascendente diretto in linea maschile, o che fosse stato emancipato da chi aveva su di lui la patria potestas, e che non fosse assoggettato alla potestà di un estraneo, in qualità di figlio adottivo. Egli riuniva in sé tre poteri: la patria potestà nei riguardi dei figli e dei nipoti; la manus maritalis nei riguardi della moglie e delle nuore; la dominica potestas nei riguardi dei servi e delle cose appartenenti alla familia.

Vi era però a Roma il mito della Clementia, correlata alla Benevolentia e alla Magnitudo animi. È il comportamento dell'uomo di potere, come nel caso del padre coi figli, che non si fa dominare dall'ira e dalla crudeltà ma dalla benevolenza, è il rapporto del buon pater familias nei confronti dei figli alieni iuris subiectae, che sono assoggettati per legge.

- Catone - Diceva che chi batte moglie o figlio alza le mani sulle cose più sacre. Dopo la nascita del figlio nessun affare era cosi urgente, ad eccezione di qualcuno di ordine politico, da impedirgli di assistere la moglie quando lavava o fasciava il bambino. Appena il ragazzo cominciò a capire, Catone lo prese con sé e gli insegnò a leggere e scrivere. Perciò si trasformò in maestro di grammatica, di diritto, di ginnastica e insegnò al figlio la scherma, l'equitazione, persino il pugilato, a resistere al caldo e al freddo, ad attraversare a nuoto agevolmente le onde vorticose e impetuose del Tevere.
Narra egli stesso di avere composto e trascritto di propria mano, a grossi caratteri, la storia di Roma, affinché il fanciullo trovasse in casa un aiuto per conoscere il passato della sua patria; dice poi di essersi sempre guardato dal pronunziare frasi sconvenienti in presenza del figlio non meno che in presenza delle Vestali e di non essersi mai lavato con lui.
Catone svolse il nobile compito di plasmare e guidare il figlio verso l'acquisizione della virtù; il ragazzo da parte sua ebbe grande desiderio di imparare, e un'indole docile, ma il corpo appariva troppo delicato per sostenere le fatiche eccessive, e pertanto Catone allentò per lui la tensione e il rigore del metodo educativo. Ma, pur stando cosi le cose, divenne ugualmente un buon soldato.

- Plutarco - Siccome Plutarco adempi esattamente a tutti i doveri della vita civile, e fu del pari
buon figliuolo, buon fratello, buon padre, buon marito, buon padrone, e buon cittadino; così ebbe eziandio la consolazione di trovare in casa, e nell'interno di sua famiglia tutta la pace e la soddisfazione che poteva desiderare.

- Cesezio - Il cavaliere Cesezio osò contrapporsi a Cesare in difesa del proprio figlio. Cesare gli aveva ordinato di ripudiarlo, perché questi, in qualità di tribuno della plebe, lo aveva accusato di mirare alla tirannide. Ma Cesezio, coraggiosamente, rispose: «Mi strapperai tutti i miei figli, o Cesare, prima che io ne cancelli uno solo dalla mia lista». 

- Plinio il Giovane - «Un tale rimproverava aspramente suo figlio perché spendeva troppo per comprare cavalli e cani. Quando il ragazzo fu uscito, io dissi al padre: «Ma tu non hai mai fatto niente che potesse esserti rimproverato da tuo padre?». 

APPIO CLAUDIO PULCRO - A. CLAUDIUS PULCHER (Console 212 a.c.)

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PROCESSIONE DELLA GENS CLAUDIA

Nome: Appius Claudius Pulcher
Nascita: 252 a.c. 
Morte: Capua, 211 a.c.
Gens: Claudia
Professione: Politico
Consolato: 212 a.c.


Di Appio Claudio Pulcro abbiamo le prime notizie quando venne eletto a Roma edile curule nel 217 a.c. L'anno successivo fu tribuno militare e combatté a Canne assieme a Publio Cornelio Scipione (236-183) si rifugiò con le poche truppe rimaste in Canusio (Canosa di Puglia che accolse i Romani anche nel 216 a.c. dopo la disfatta di Canne) ed assieme all'Africano ne assunse il comando.

In seguito, nel 215 a.c., fu eletto pretore per la Sicilia, dove fece condurre le legioni reduci da Canne, che lo avevano implorato di farli combattere per riabilitarli dalla sconfitta, e tentò di attaccare Locri, occupata da Annibale (247-183), ma fallì. Mandò allora ambasciatori a Geronimo (231-214), tiranno di Siracusa, per convincerlo a rompere l'alleanza con Cartagine; siccome Geronimo rifiutò, Pulcro fece occupare le terre intorno a Siracusa bloccandone almeno in parte i rifornimenti. 

«Non vi fu un altro momento della guerra nel quale Cartaginesi e Romani si trovarono maggiormente in dubbio tra speranza e timore. Infatti, da parte dei Romani, nelle province, da un lato in seguito alle sconfitte in Spagna, dall'altro per l'esito delle operazioni in Sicilia (212-211 a.c.), vi fu un alternarsi di gioie e dolori. In Italia, la perdita di Taranto generò danno e paura, ma l'aver conservato il presidio nella fortezza contro ogni speranza, generò grande soddisfazione (212 a.c.).

L'improvviso sgomento ed il terrore che Roma fosse assediata ed assalita, dopo pochi giorni svanì per far posto alla gioia per la resa di Capua (211 a.c.). Anche la guerra d'oltre mare era come in pari tra le parti: [se da una parte] Filippo divenne nemico di Roma in un momento tutt'altro che favorevole (215 a.c.), nuovi alleati erano accolti, come gli Etoli ed Attalo, re dell'Asia, quasi che la fortuna già promettesse ai Romani l'impero d'oriente.

MONETE GENS CLAUDIA
Anche da parte dei Cartaginesi si contrapponeva alla perdita di Capua, la presa di Taranto e, se era motivo per loro di gloria l'essere giunti fin sotto le mura di Roma senza che nessuno li fermasse, sentivano d'altro canto il rammarico dell'impresa vana e la vergogna che, mentre si trovavano sotto le mura di Roma, da un'altra porta un esercito romano si incamminava per la Spagna.

La stessa Spagna, quando i Cartaginesi avevano sperato di portarvi a termine la guerra e cacciare i Romani dopo aver distrutto due grandi generali (Publio e Gneo Scipione) e i loro eserciti, la loro vittoria era stata resa inutile da un generale improvvisato, Lucio Marcio.
E così, grazie all'azione equilibratrice della fortuna, da entrambe le parti restavano intatte le speranze ed il timore, come se da quel preciso momento dovesse incominciare per la prima volta l'intera guerra.
»

(Livio, XXVI, 37.)
Appio Claudio si trovò ancora impegnato in Sicilia come legato di Claudio Marcello, detto "La Spada di Roma" (268-208), per otto mesi durante l'assedio di Siracusa, poi ottenne il comando della flotta romana, nata dalla Guerra Punica e composta da 100 quinqueremi. Successivamente espugnò Leontini, odierna Lentini, ancora insieme a Marco Claudio Marcello. Inviati in licenza tornò a Roma e si candidò come console.
Ottenne la carica di console con Quinto Fulvio Flacco (277-209) nel 212 a.c. e insieme al collega istituì i ludi Apollinari come ci riferisce Tito Livio. Affrontò ancora altre battaglie con successo, insieme al collega contro Annone, comandante dei Cartaginesi, e pose sotto assedio Capua nel 211 a.c. rimanendo ferito.
ANNIBALE DOPO LA BATTAGLIA DI CANNE
Alla fine del 212 a.c., il senato stabilì che il pretore Publio Cornelio Silla inviasse a Capua una lettera indirizzata ai due consoli, dove si disponeva che, fino a quando Annibale fosse stato assente e intorno a Capua non vi fossero pericoli immediati, uno dei due consoli raggiungesse Roma, per procedere all'elezione dei nuovi magistrati. In ottemperanza alla lettera, i consoli decisero che fosse Appio Claudio a radunare i comizi, mentre Fulvio Flacco avrebbe proseguito l'assedio presso Capua.
A Quinto Fulvio e Appio Claudio, i consoli nel 212 a.c., fu prorogato il comando come proconsoli per l'anno successivo, nel 211 a.c. confermandogli gli eserciti che già comandavano. L'ordine era di non allontanarsi dall'assedio di Capua prima di aver conquistato la città.
Appio Claudio si oppose al collega troppo crudele con i ribelli campani, finchè il dissidio sempre più insanabile portò a scrivere al senato, non solo per la decisione da prendere, ma anche per dare la possibilità di interrogare i prigionieri. E poiché Fulvio non voleva che i senatori campani fossero ascoltati, per evitare delazioni nei confronti degli alleati di stirpe latina e mettere a repentaglio alleanze consolidate, decise di partire per Teanum con 2.000 cavalieri all'alba.

Qui giunto fece massacrare a colpi di verga e decapitare con la scure tutti i prigionieri. Poi si precipitò a Cales, dove fece trucidare gli altri prigionieri Campani. Sembra che da Roma fosse giunto il messo con la risposta del Senato, ma Fulvio non la lesse e fece uccidere tutti i prigionieri rimasti. Non sappiamo il seguito di questa storia, sappiamo invece da alcune fonti che Appio Claudio Pulcro sarebbe morto al momento della resa di Capua, ma ne ignoriamo le cause della morte.

INSULA PORTUENSIS - ISOLA SACRA (Lazio)

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LA NECROPOLI

L'Isola Sacra è un'isola di circa 12 kmq sorta presso la foce del Tevere, di formazione artificiale a causa dell'allungamento della Fossa Traiana, un canale navigabile scavato al tempo dell'imperatore Traiano, per collegare il fiume al porto Imperiale. 

Traiano infatti nel II sec. d.c. aveva riprogettato il porto di Claudio, scavando un bacino interno esagonale di circa 32 ettari, collegato con quello di Claudio ancora in funzione, attraverso un ampio canale, e realizzando a sud-est del nuovo porto un altro canale che consentiva di migliorare il sistema di collegamento con il Tevere.

L'isola era bagnata a sud-est dal fiume Tevere, a nord dal canale di Fiumicino e a ovest dal mare Tirreno, ed era attraversata da una importante strada, la Via Flavia Severiana, che metteva in comunicazione la città di Porto con l'antica Ostia. Pertanto era ricca di comunicazioni via terra e via mare.

Nel IV secolo è da identificare con la "Insulam quae dicitur Assis inter Portum et Hostia" che l'imperatore Costantino donò alla basilica dei Santi Pietro, Paolo e Giovanni Battista da lui edificata ad Ostia. Visto il numero preponderante di cristiani che l'abitava proprio in questo periodo prese il nome di Isola Sacra.



Comunque in età romana venne chiamata Insula Portus o Insula Portuensis e occupava circa i tre quarti della superficie attuale, il resto venne aggiunto nei secoli, per l'apporto dei materiali alluvionali depositati dal Tevere. 

La città di Porto, intorno al I secolo a.c. raggiunse un grande sviluppo e soprattutto grazie alla vicinanza al Porto di Claudio andò gradualmente a sostituire l'antica città di Ostia, divenendo il principale appoggio alle attività marittime. 

Le navi da carico che attraccavano in questo porto erano imbarcazioni esclusivamente a vela nel periodo che va da marzo ad ottobre. Tutte le merci che trasportavano erano contenute dentro anfore sigillate, di cui rimangono alcuni esempi, sistemate accuratamente nella stiva su più piani con le punte infilate nella zavorra e con gli interstizi riempiti di materiale non deteriorabile.

Molto fertile proprio grazie a questo apporto, fu coltivata nell'antichità, poi abbandonata nel Medioevo, divenne zona malarica, per essere poi bonificata alla fine del XIX secolo da coloni di Ravenna. Oggi fa parte del comune di Fiumicino.



I RESTI
L'asse viario della "via Flavia" costruita nel I secolo per unire Ostia al nuovo porto traianeo, corre parallela all'antica linea di costa ed è affiancata da una necropoli romana, con un tratto su via Redipuglia, detta la Necropoli di Porto, e un tratto su via Pal Piccolo, una necropoli del I-IV sec. d.c.
Oggi l'antica Necropoli di Porto è un suggestivo sito archeologico che sorge a due passi dall'Aeroporto di Fiumicino Leonardo Da Vinci e ne sono attualmente visibili un centinaio di tombe monumentali. 
La necropoli presentava tombe monumentali a camera, con o senza recinto, sia a rito di incinerazione, sia a rito di inumazione, oltre a 600 tombe più povere (a cappuccina, in sarcofagi di terracotta, in fosse, in olle), ritrovate inizialmente nell'area che ha preso il nome di "campo dei poveri", ma che in realtà sono sparse in tutta l'area occupata dal sepolcreto. 
Le tombe sono allineate parallele alla strada principale che conserva ancora il suo basolato. Nelle file più vicine alla strada si ergono tombe del III sec. d.c., spesso edificate sopra preesistenti sepolcri del I sec.; dietro ad esse si ergono le tombe del II sec..


Le tombe oltre che ad onorare il morto servivano a manifestare la posizione di questi e della sua famiglia nell'ambito della società per cui si affacciavano sulla strada e venivano decorate con stucchi, pitture e mosaici. 
Infatti su molte tombe sono presenti delle formelle in terracotta che ne raffiguravano le attività: sulla tomba n.100 compaiono ad esempio ai due lati della porta il chirurgo Marco Ulpio Amerimno intento sulla gamba di un paziente e l'ostetrica Scribonia Attice china davanti alla partoriente sulla sedia ostetricia, sorretta per le spalle da una terza donna.
Altre formelle, ma pure mosaici raffigurano le attività di acquaioli, fabbri e mietitori. Il mosaico della tomba n.43 mostra un faro con due navi, in riferimento al porto, con la scritta in greco "Qui cessa ogni affanno", con la quale il porto reale diventa simbolo del raggiungimento dell'aldilà.


Le iscrizioni riportano le dimensioni del sepolcro e la sua proprietà; possono anche testimoniare la volontà di mantenere le usanze più antiche, vietando le inumazioni, o riportare le vicende ereditarie per le quali una tomba viene suddivisa (tombe nn. 75 e 76).  
La Necropoli venne edificata al lato della strada, subito fuori città come era l'usanza dei romani, dagli stessi abitanti dell'Isola. Le piene del Tevere e il conseguente insabbiamento dell'intera area hanno consentito un'ottima conservazione delle tombe, dal caratteristico colore rosato.
La Necropoli fu scoperta nel 1925 dopo l'opera di bonifica dell’Isola Sacra. Altri scavi condotti negli anni successivi hanno portato alla luce l’intera necropoli, estesa per 400 metri e composta da circa 150 sepolcri.
Gli edifici sono raggruppati in piccoli isolati, separati da aree verdi, piazzette e stradine di passaggio. La tipologia più diffusa è quella delle Tombe Familiari a grande camera quadrata ma non mancano nemmeno le tombe povere sparse ovunque.
TEMPIO DI PORTUNUS

TEMPIO DI PORTUNUS (anche detto Portumnus)

Era un'antica divinità romana e preromana raffigurata come un ragazzo con barba cerulea ed ispida. Egli era figlio della Dea italica Mater Matuta, nell'aspetto di Dea marina, una delle qualità della Dea, col nome di Portunus o Portumnus. A lui si offrivano sacrifici e riti.
La tradizione vuole che la divinità venisse invocata prima di attraversare il Tevere che all’epoca presentava numerose insidie, ed era venerato da tutti coloro che facevano affari lungo il fiume. Dunque un vero e proprio Dio dei fiumi e dei porti, ma secondo alcuni anche Dio delle porte, un po' come Giano.

LA STATIO


LA STATIO PRESSO BASILICA DI S. IPPOLITO

Sulla prosecuzione della strada, presso la basilica di Sant'Ippolito, sono emerse tracce di una statio di pertinenza del porto. Su molte di queste preesistenze romane insistono edifici dovuti al riuso in epoche successive, compresi quelli legati alla bonifica agraria. 

La statio doveva essere legata ai pagamenti daziari, dovuti per l’attraversamento del ponte collocato lì appresso e per il vasto traffico fluviale che si svolgeva lungo le rive. Contemporaneamente serviva da alloggio ai forestieri e alla cura di carri e cavalli.
A partire dagli anni settanta  l'abitato ha subito molte modificazioni edilizie, legate soprattutto alla costruzione selvaggia e distruttiva e allo sviluppo anch'esso incontrollato dell'Aeroporto di Fiumicino. Ciò ha compromesso parecchio il sito archeologico come spesso avviene per la incompetenza a volte, ma soprattutto per la corruzione degli addetti ai lavori.

LE TERME DI MATIDIA


LE TERME DI MATIDIA

Trattasi di un complesso di ambienti disposti ai lati del tratto della via Severiana, in coincidenza dei resti del ponte che, scavalcando il canale artificiale traianeo, collegava l’Isola Sacra con Porto, detto appunto ponte di Matidia. 
Dati epigrafici attribuiscono appunto l’edificazione di queste terme su via Rombon a Matidia ( 68-119 d.c.) nipote di Traiano e amatissima suocera di Adriano. Mentre però gli ambienti disposti lungo la sponda sinistra risalgono alla prima metà del II secolo d.c. e sembrerebbe trattarsi di una statio, come abbiamo già visto, quelle sulla riva destra riguarderebbe le terme suddette.
TERME DI MATIDIA
Un primo periodo costruttivo risale alla metà del II secolo d.c., ma diversi ampliamenti successivi portarono l’edificio ad assumere, nel corso del III-IV secolo d.c. più o meno l’aspetto attuale.

Le Terme, di impianto adrianeo ma utilizzate perlomeno fino al VI secolo, si organizzano intorno ad un vasto salone sui lati del quale si affacciano ambienti con diverse funzioni.

Sul lato settentrionale le botteghe (tabernae), su quello meridionale un magazzino con anfore (dolia) adibite alla conservazione di olio e vino, mentre su quello occidentale si dispongono gli ambienti termali veri e propri ed il sottostante corridoio di servizio.

L’impianto delle terme è essenziale, articolato secondo lo schema di base calidario - tepidario -frigidario, con le vasche prevalentemente absidate a movimentare il complesso sia all’interno sia all’esterno.

Di interesse risulta il sistema idraulico e dei servizi, con l’alloggiamento della noria per il rifornimento dell’acqua alle spalle della vasca nord del frigidario, più vicina al canale.

TESTA DI MEDUSA


TEMPIO DI ISIDE


Risultati immagini per statua di iside acefala
STATUA DI ISIDE CAMPANA

Trattasi di un Iseo del IV secolo, locato in via Redipuglia, edificato dal praefectus annonae Sempronio Fausto intorno al 376.

Nel 1954 durante il dragaggio della Fossa Traiana vicino alla spiaggia, è stato trovato un architrave di marmo, appartenente a un tempio di Iside, divinità protettrice della navigazione. Del tempio sono rimaste solo alcune sale di diverse dimensioni. che possono avere fatto parte della sede di una corporazione legati al culto di Iside, e il suo tempio potrebbe essere stato vicino.

Sul lato est dei ritrovamenti sono stati trovati i bagni. Sul lato ovest sono camere che circondano un cortile trapezoidale con un portico. A nord è una grande cisterna con due grandi pilastri interni.

Tra le stanze è una grande sala rettangolare, con pilastri addossati alle pareti lunghe, a sostegno del soffitto. Nella parete posteriore sono quattro nicchie semicircolari e rettangolari per le piccole statue. 

Alla stanza si accedeva attraverso un portico monumentale fiancheggiato da due colonne. Una piccola stanza in un angolo del cortile si trova una piccola abside nella parete di fondo, al cui interno è un podio in mattoni che potrebbe avere sostenuto una statua di Iside. Vi è inoltre una latrina con diversi seggi.

Nelle stanze sono stati trovati: una statua di una divinità femminile, forse Iside Pelagia o Pharia, una statua di un serpente barbuto, un ritratto di Settimio Severo, come Serapide, un altro ritratto di questo imperatore era già stato trovato in questa area nel 1941, su un' erma di alabastro. La statua di Isis è di marmo scuro chiamato bigio dorato, un marmo che è stato spesso utilizzato per le statue di divinità egizie. Le braccia, la testa e le gambe sono mancanti. Probabilmente erano in marmo bianco. La dea è raffigurata in movimento, datata alla seconda metà del II secolo d.c.. Potrebbe essere stata in piedi sulla prua di una nave.

Nell’impero romano il culto di Iside fu molto allegro e ricco, con processioni e feste in onore della Dea, con sacerdotesse vestite di bianco bianco e adornate di fiori. Ella aveva anche dei Sacri Misteri ed era anche Dea del mare e dei naviganti.



ROTTE NAVALI ROMANE NEL MONDO

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ROTTE ROMANE FUORI DELL'IMPERO

I Romani utilizzarono fin da subito le vie d’acqua naturali: il Tevere, per le comunicazioni fra la città ed il porto di Ostia, e il Mediterraneo per i commerci marittimi necessari ai rifornimenti dell’Urbe. Nello stesso anno in cui vene iniziata la Via Appia (312 a.c.), il Senato istituì due “duumviri navali”, responsabili della manutenzione e della gestione della flotta. Solo per via marittima Roma poteva ricevere le derrate e le materie prime di cui aveva bisogno, poiché il territorio da essa controllato era ancora molto limitato e circondato da popolazioni ostili.

L’approvvigionamento dipese dall’organizzazione dell’annona, che utilizzando quasi esclusivamente il trasporto navale, forniva al popolo romano anzitutto il fabbisogno di grano. Lo storico greco Aristobulo (IV sec. a.c.), citato da Plutarco, riferisce che Romolo, sul finire del suo regno, si adirò con il Senato perchè aveva abolito la distribuzione di grano al popolo. Sembra venisse assassinato proprio per questo dai senatori, facendone sparire il corpo e raccontandone l'ascensione fra gli Dei.

I Romani avevano acquisito una certa familiarità con i mezzi navali fin dalle origini poichè i colli dei primi insediamenti, Palatino, Campidoglio e Aventino, erano lambiti dalle acque del Tevere, fino alle paludi del Velabro che costituiva un ottimo ancoraggio per le navi che risalivano il fiume provenendo dal mare. I Romani poterono utilizzare queste navi in sicurezza da quando Anco Marzio giunse fino alla foce del Tevere e vi fondò la colonia di Ostia.

Le paludi del Velabro invece furono bonificate dai Tarquini, ma per diversi secoli il fiume in quell’area presentava una profonda insenatura che costituì il Portus Tiberinus, sulla cui banchina meridionale fu eretto il Tempio di Portunno, Dio dei porti, ancora esistente. Questo fu il primo porto fluviale di Roma, mentre Ostia ne divenne il primo porto marittimo.

Ma le vie di mare dovettero essere protette dalle proprie navi da guerra, con alti e bassi fino alla prima Guerra Punica, quando dovettero con grandi spese, sacrifici di uomini e di denaro allestire una potente flotta che fosse in grado di battere i grandi navigatori e militari Cartaginesi.

Riuscirono alla fine a acquisire il dominio del mare nel bacino occidentale del Mediterraneo: prima in Sicilia, in Sardegna ed in Corsica, poi al di là dell’Adriatico e del canale d’Otranto, quindi sui litorali della Spagna e del nord-Africa, per poi proiettarsi sulle coste e le isole del Mediterraneo orientale, ad iniziare dalla Grecia e dall’Asia minore. Con la diffusione della Civiltà romana le provincie aumentarono le loro qualità di vita e i loro traffici mercantili, per fiume e per mare, fino ai confini del mondo.


ITINERARIUM MARITIMUM (DA UN PORTO ALL'ALTRO)


QUALI LOCALITÀ DEVI TOCCARE NELLA NAVIGAZIONE
DALLA PROVINCIA ACAIA PER LA SICILIA E FINO ALL'AFRICA


"Quae loca tangere debeas cum navigare coeperis ex provincia Achaia per Siciliam ad Africam usque".


- Un miglio nautico equivale a 1852 m
- Abbreviazione miglio nautico = m.n.

Dall'Istmo [di Corinto] fino a Naupatto [Lepanto], nella provincia Acaia: 750 stadi (72 miglia nautiche = 133,344 km); "Ab Isthmo Naupactum usque provinciae Achaiae stadia DCCL";

da Naupatto ad Oxea [isolotto a nord dell'imboccatura del golfo di Patrasso], nella provincia dell'antico Epiro: 400 stadi (38,4 m. n. = 71.1km)
"a Naupacto Oxeas provinciae Epiri veteris stadia CCCC";

da Oxea a Nicopoli Aziaca [Paleopreveza], in predetta provincia: 700 stadi (67 m. n. = 124,084 km)
"ab Oxeis Nicopoli provinciae supra scriptae stadia DCC";

da Nicopoli a Butroto [Butrinto], nella predetta provincia: 500 stadi (48 m. n. = 88,96 km)
"a Nicopoli Buthroto provinciae supra scriptae stadia D";

da Butroto all'isola di Saseno, nella predetta provincia oltre il promontorio Acroceraunio [Capo Linguetta], e lasciando Aulona [Valona] più internamente sul lato destro: ...100 stadi (..10 m. n. = 18,52 km)
"a Buthroto Sasonis insula provinciae supra scriptae super Acroceraunia, et relinquit Aulonam in dextro interius, stadia .. C";

- dall'isola di Saseno, traversata fino a Idrunte [Otranto], nella provincia [d'Italia], in Calabria [odierna Puglia]: 400 stadi (8,4 m. n. = 15,5 km)
"a Sasonis insula traiectus Hydrunto provinciae Calabriae stadia CCCC";

ROTTE ROMANE NELL'IMPERO (INGRANDIBILE) 
da Idrunte [Otranto], costeggiando fino a Leuca, nella predetta provincia: 300 stadi (28,8 m. n. = 53,3 km)
"ab Hydrunto litoraria Leucas provinciae supra scriptae stadia CCC";

da Leuca a Crotone, nella predetta provincia: 800 stadi [76,7 m. n.];
"a Leucis Crotona provinciae supra scriptae stadia DCCC";

da Crotone a Naus [località prossima a capo Rizzuto], nella predetta provincia: 100 stadi [9,6 m. n.];
"a Crotona Naus provinciae supra scriptae stadia C";

- da Naus a Stilida [località prossima a punta Stilo], nella predetta provincia: 600 stadi [57,5 m. n.];
"a Naus Stilida provinciae supra scriptae stadia DC";

da Stilida a Zeffiro [località prossima a capo Spartivento], nella predetta provincia: 400 stadi [38,4 m. n.];
"ab Stilida Zephyrio provinciae supra scriptae stadia CCCC";

da Zeffiro alla città di Reggio, nella predetta provincia: 420 stadi [40,3 m. n.];
"a Zephyrio Regio civitas provinciae supra scriptae stadia CCCCXX";

- da Reggio, traversata per la Sicilia, alla città di Messina: 70 stadi [6,7 m. n.];
"a Regio traiectus in Siciliam, civitas Messana stadia LXX";

da Messina alla città di Taormina, nella predetta provincia: 250 stadi [24 m. n.];
"a Messana Tauromenio civitas provinciae supra scriptae stadia CCL";

- da Taormina alla città di Catania, nella predetta provincia: 300 stadi [28,8 m. n.];
"a Tauromenio Catina civitas provinciae supra scriptae stadia CCC";

- da Catania alla città di Siracusa, nella predetta provincia: 800 stadi [76,7 m.n.];
"a Catina Syracusas civitas provinciae supra scriptae stadia DCCC";

da Siracusa a Pachino, nella predetta provincia: 400 stadi [38,4 m. n.];
"a Syracusis Pachyno provinciae supra scriptae stadia CCCC";

da Pachino alla città di Agrigento, nella predetta provincia: 400 stadi [38,4 m. n.];
"a Pachyno Agrigentum civitas provinciae supra scriptae stadia CCCC";

- da Agrigento alla città di Lilibeo [Marsala], nella predetta provincia: 750 stadi [72 m. n.];
"ab Agrigento Lilybaeum civitas provinciae supra scriptae stadia DCCL";

ROTTE COMMERCIALI ROMANE 180 D.C. (INGRANDIBILE)
da Lilibeo [Marsala] all'isola che viene chiamata Marettimo, nella predetta provincia: 300 stadi [28,8 m. n.];
"a Lilybaeo insula quae appellatur Maritima provinciae supra scriptae stadia CCC";

- dall'isola di Marettimo, traversata per l'Africa: vi sono 900 stadi [86,3 m. n.];
"a Maritima insula traiectus in Africam, id est [stadia DCCCC]";

se vuoi recarti all'isola di Egimuro [Zembra], nella predetta provincia: 900 stadi [86,3 m. n.];
"si Aegimurum insulam volueris provinciae supra scriptae stadia DCCCC";

se [ti rechi] alla città di Missua, nella predetta provincia: 1000 stadi [96 m. n.];
"si Missuam civitatem provinciae supra scriptae stadia M";

da Missua a Carpo: 300 stadi [28,8 m. n.];
"a Missua Carpos stadia CCC";

da Carpo a Cartagine: 150 stadi [14,4 m. n.];
"a Carpos Carthagine stadia CL";

- qualora invece tu volessi dirigere non a Cartagine, ma verso la Libia, devi venire dalla Sicilia, passando dall'isola di Marettimo, al promontorio di Mercurio [capo Bon]: 700 stadi [67 m.n.];
"si autem non Carthagine sed superius ad Libyam versus volueris adplicare, debes venire de Sicilia ab insula Maritima in promontorium Mercuri stadia DCC";

- per Clupea [Chelibia]: 700 stadi [67 m. n.];
"si Clipea stadia DCC";

per Curubi [Curba]: 900 stadi [86,3 m. n.];
"si Curubi stadia DCCCC";

per Neapoli [Nabeul]: 1100 stadi [105,5 m. n.];
"si Neapoli stadia MC";

per Adrumeto [Susa]: 1540 stadi [147,7 m. n.].
"si Hadrumetum stadia MDXL".

- Dal Porto Augusto di Roma, traversata per l'Africa, a Cartagine: 5250 stadi [503,5 m. n.];
"Item a portu Augusti Urbis traiectus in Africam Carthaginem stadia VCCL";

da Lilibeo [Marsala] di Sicilia a Cartagine: 1500 stadi [143,8 m. n.];
"a Lilybaeo de Sicilia in Carthaginem stadia MD";

da Cagliari di Sardegna, traversata per il Porto Augusto: 3000 stadi [287,7 m. n.];
"a Caralis de Sardinia traiectus in portum Augusti stadia III";

da Cagliari, traversata per l'Africa, a Cartagine: 1500 stadi [143,8 m. n.];
"a Caralis traiectus in Africam Carthaginem stadia MD";

da Cagliari fino all'isola di Galata [La Galite]: 990 stadi [95 m. n.];
"a Caralis Galatam usque insulam stadia DCCCCXC";

- da Galata [La Galite] in Africa a Tabarca: 300 stadi [28,8 m. n.];
"a Galata Tabracam in Africam stadia CCC";

fra la Corsica e la Sardegna, nello Stretto Gallico [Bocche di Bonifacio]: 90 stadi [8,6 m.n.].
"inter Corsicam et Sardiniam fretum Gallicum stadia XC".



DALLE SPAGNE:
"De Hispaniis"

- Da Belo [sulla costa a sud di Cadice], traversata per Tingi [Tangeri] in Mauretania: 220 stadi [21,1 m. n.];
"A Belone traiectus in Tingi Mauretaniam stadia CCXX";

da Cartagine Spartaria [Cartagena], traversata per Cesarea [Cherchel] di Mauretania: 3000 stadi [287,7 m. n.].
"a Carthagine Spartaria traiectus Caesarea Mauretaniae stadia III".



DALLE GALLIE:
"De Galliis"

- Dal porto di Gesoriaco [Boulogne] al porto di Rutupie [Richborough]: 450 stadi [43,2 m. n.].
"A portu Gessoriacensi ad portum Ritupium stadia CCCCL".



DALL'ISTRIA:
"De Istria"

Da Pola a Iadera [Zara] in Dalmazia: 450 stadi [43,2 miglia nautiche].
"A Pola Iader in Dalmatia stadia CCCCL".

ENEA A DELO

DALL'ITALIA:
"De Italia"

- Da Ancona a Iadera [Zara] in Dalmazia: 850 stadi [81,5 miglia nautiche];
"Ab Ancona Iader in Dalmatia stadia DCCCL";

- da Aterno [Pescara] a Salona in Dalmazia: 1500 stadi [143,8 miglia nautiche];
"Ab Aterno Salonas in Dalmatia stadia MD";

- da Brindisi di Calabria [odierna Puglia] o da Idrunte [Otranto] ad Aulona [Valona]: 1000 stadi [96 miglia nautiche];
"a Brundisio de Calabria sive ab Hydrunte Aulona stadia M";

da Brindisi a Dirrachio [Durazzo] in Macedonia: 1000 stadi [96 m. n.];
"a Brundisio Dyrrachium in Macedonia stadia M";

- da Salona a Siponto: 1500 stadi [143,8 m. n.].
"a Salona Sipunte stadia MD".

IL PORTO SUL DANUBIO (Colonna Traiana)

NAVIGAZIONE DA ROMA ALLA PROVENZA

ITINERARIO DEI PORTI O APPRODI DALL'URBE AD ARELATE [ARLES]
"Itinerarium portuum vel positionum navium ab Urbe Arelato usque"

Da Porto Augusto a Pirgi [S. Severa], approdo: 28 miglia [22,4 m. n.];
"A portu Augusti Pyrgos, positio, mpm XXVIII";

da Pirgi [S. Severa] a Panapio, approdo: 3 miglia [2,4 m. n.];
"a Pyrgis Panapione, positio, mpm III";

- da Panapio a Castro Nuovo [S. Marinella], approdo: 7 miglia [5,6 m. n.];
"a Panapione Castro novo, positio, mpm VII";

- da Castro Nuovo a Centocelle [Civitavecchia], approdo: 5 miglia [4 m. n.];
"a Castro novo Centum cellis, positio, mpm V";

- da Centocelle ad Alga [località prossima a Scaglia], approdo: 3 miglia [2,4 m. n.];
"a Centum cellis Algas, positio, mpm III";

- da Alga a Rapinio [località prossima a Torre S. Agostino], approdo: 3 miglia [2,4 m. n.];
"ab Algis Rapinio, positio, mpm III";

da Rapinio a Gravisca [Porto Clementino, attiguo a Tarquinia Lido]approdo: 6 miglia [4,8 m. n.];
"a Rapinio Graviscas, positio, mpm VI";

da Gravisca a Maltano, approdo: 3 miglia [2,4 m. n.];
"a Graviscis Maltano, positio, mpm III";

- da Maltano a Quintiano, approdo: 3 miglia [2,4 m. n.];
"a Maltano Quintiano, positio, mpm III";

- da Quintiano a Rega, approdo: 6 miglia [4,8 m. n];"a Quintiano Regas, positio, mpm VI";

- da Rega a Arnine [Montalto Marina], approdo nel fiume [Fiora]: 3 miglia [2,4 m n];
"a Regis Arnine, fluvius habet positionem, mpm III";

- da Arnine a Porto Ercole: 25 miglia [20 m. n.];
"ab Arnine portu Herculis mpm XXV";

- da Porto Ercole a Incitaria [sull'Argentario], porto: 9 miglia [7,2 m. n.];"a portu Herculis Incitaria, portus, mpm VIIII";

- da Incitaria a Domiziana [sull'Argentario], approdo: 3 miglia [2,4 m. n.];"ab Incitaria Domitiana, positio, mpm III";

- da Domiziana a Alminia [Albinia], approdo nel fiume [Albegna]: 9 miglia [7,2 m. n.];"a Domitiana Alminia, fluvius habet positionem, mpm VIIII";

- da Alminia al porto di Talamone: .. miglia;"ab Alminia portu Talamonis mpm ...";

- dal porto di Talamone al fiume Ombrone [foce 15 km a SO di Grosseto]: 12 miglia [9,6 m.n.];"a portu Talamonis fluvium Umbronis mpm XII";

- dal fiume Ombrone a Lago Aprile [Castiglione della Pescaia], approdo: 18 miglia [14,4 m. n.];"a fluvio Umbronis Lacu Aprile, positio, mpm XVIII";

da Lago Aprile al fosso d'Alma [foce presso Torre Civette, nel golfo di Follonica], che ha un approdo: 18 miglia [14,4 m. n.];
"a Lacu Aprile in Alma flumen, habet positionem, mpm XVIII";

- dal fosso d'Alma a Scabrio [in prossimità di Follonica], porto: 6 miglia [4,8 m. n.];"ab Alma flumine Scabris, portus, mpm VI";

- da Scabrio a Falesia [Piombino], porto: 18 miglia [14,4 m. n.];"a Scabris Falesia, portus, mpm XVIII";

- da Falesia a Populonia, porto: 12 miglia [9,6 m. n.];"a Falesia Polulonio, portus, mpm XII";

- da Populonia a Vada, porto: 30 miglia [24 m. n.];"a Polulonio Vadis, portus, mpm XXX";

- da Vada a Porto Pisano [Livorno]: 18 miglia [14,4 m. n.];"a Vadis portu Pisano mpm XVIII";

- da Porto Pisano a Pisa, sul fiume [Arno]: 9 miglia [7,2 m. n.];"a portu Pisano Pisis, fluvius, mpm VIIII";

- da Pisa a Luni, sul fiume Magra: 30 miglia [24 m. n.];"a Pisis Lune, fluvius Macra, mpm XXX";

- da Luni a Porto Venere [Portovenere]: ... miglia;"a Lune  portu Veneris mpm ...";   

- da Porto Venere a Segesta [Tigulliorum] [Sestri Levante], approdo: 30 miglia [24 m. n.];"a portu Veneris Segesta, positio, mpm XXX"; ;   

FARO ROMANO DI DOVER (Inghilterra)
- da Segesta a Porto Delfino [Portofino]: 18 miglia [14,4 miglia nautiche];
"a Segesta portu Delphini mpm XVIII"; ;   

- da Porto Delfino a Genova, porto: 16 miglia [12,8 m. n.];"a portu Delphini Genua, portus, mpm XVI";

- da Genova a Vado [Vado Ligure], porto: 30 miglia [24 m. n.];"a Genua Vadis Savadis, portus, mpm XXX";

- da Vado ad Albingauno [Albenga], porto: 18 miglia [14,4 m. n.];"a Vadis Savadis Albingauno, portus, mpm XVIII";

- da Albingauno a Porto Maurizio [Imperia]: 25 miglia [20 m. n.];"ab Albingauno portu Maurici mpm XXV";

- da Porto Maurizio al Taggia, fiume: 12 miglia [9,6 m. n.];
"a portu Maurici Tavia, fluvius, mpm XII";

- dal Taggia a Ventimiglia, spiaggia: 12 miglia [9,6 m. n.];
"a Tavia Vintimilio, plagia, mpm XII";

- da Ventimiglia a Ercole Monaco [Monaco], porto: 16 miglia [12,8 m. n.];"a Vintimilio Hercle Manico, portus, mpm XVI";

- da Ercole Monaco a Avisione [Eza], porto: 22 miglia [17,6 m. n.];"ab Hercle Manico Avisione, portus, mpm XXII";

- da Avisione a Anaone [Beaulieu], porto: 4 miglia [3,2 m. n.];"ab Avisione Anaone, portus, mpm IIII";

- da Anaone ad Olivoli [Villafranca], porto: 12 miglia [9,6 m. n.];"ab Anaone ad Olivulam, portus, mpm XII";

- da Olivoli a Nicea [Nizza], spiaggia: 5 miglia [4 m. n.];"ab Olivula Nicia, plagia, mpm V";

- da Nicea ad Antipoli [Antibes], porto: 16 miglia [12,8 m. n.];"a Nicia Antipoli, portus, mpm XVI";

da Antipoli a Lera [Sainte Marguerite] e Lerina [Saint-Honorat], isole [odierne îles de Lérins, davanti a Cannes]: 11 miglia [8,8 m. n.];
"ab Antipoli Lero et Lerino, insulae, mpm XI";

- da Lera e Lerina a Foro Giulio [Fréjus], porto: 24 miglia [19,2 m. n.];
"a Lero et Lerino Foro Iuli, portus, mpm XXIIII";

- da Foro Giulio al golfo Sambracitano [golfo di St. Tropez], spiaggia: 25 miglia [20 m. n.];
"a Foro Iuli sinus Sambracitanus, plagia, mpm XXV";

- dal golfo Sambracitano a Caccabaria di Ercole [St. Tropez], porto: 16 miglia [12,8 m. n.];"a sino Sambracitano Heraclia Caccabaria, portus, mpm XVI";
"ab Heraclia Caccabaria Alconis ... mpm XII";

- da Alcone a Pomponiana [presso Olbia, odierna Almanarre, sud di Hyères], porto: 30 miglia [24 m. n.];
"ab Alconis Pomponianis, portus, mpm XXX";

- da Pomponiana a Telone Marzio [Tolone], porto: 15 miglia [12 m. n.];
"a Pomponianis Telone Martio, portus, mpm XV";

- da Telone Marzio a Taurento [La Madrague de Saint-Cyr de Provence?], porto: 12 miglia [9,6 m. n.];
"a Telone Martio Taurento, portus, mpm XII";

- da Taurento a Carsice [La Ciotat], porto: 12 miglia [9,6 m. n.];
"a Taurento Carsicis, portus, mpm XII";

- da Carsice a Citarista [capo di S. Sigo], porto: 18 miglia [14,4 m. n.];
"a Carsicis Citharista, portus, mpm XVIII";

da Citarista a Porto Emina [nei pressi di Cassis], approdo: 6 miglia [4,8 m. n.];
"a Citharista portu Aemines, positio, mpm VI";

da Porto Emina a Immandra [nei pressi di Cap Croisette], approdo: 12 miglia [9,6 m. n.];
"a portu Aemines Immandras, positio, mpm XII";

- da Immandra a Marsiglia dei Greci, porto: 12 miglia [9,6 m. n.];
"ab Immandris Massilia Graecorum, portus, mpm XII";

- da Marsiglia dei Greci a Incaro [Cari], approdo: 12 miglia [9,6 m. n.];
"a Massilia Graecorum Incaro, positio, mpm XII";

da Incaro a Dili, approdo: 8 miglia [6,4 m. n.];
"ab Incaro Dilis, positio, mpm VIII";

- da Dili a Fossa Mariana [Fos-sur-Mer: bocca del canale scavato da Caio Mario, e che forma il braccio orientale del delta del Rodano], porto: 20 miglia [16 m. n.];
"a Dilis Fossis Marianis, portus, mpm XX";

- da Fossa Mariana a Grado Marsigliese, fiume Rodano: 16 miglia [12,8 m. n.];
"a Fossis ad Gradum Massilitanorum, fluvius Rhodanus, mpm XVI";

da Grado Marsigliese, per il fiume Rodano fino ad Arelate [Arles]: 30 miglia [24 m. n.].
"a Gradu per fluvium Rhodanum Arelatum mpm XXX".

CASTELLAMMARE DI STABIA

FRA LE SPAGNE E TINGI [TANGERI] DI MAURETANIA
"Inter Hispanias et Tingi Mauretaniam"

- dall'Isola Diana, Lesbo o Ebuso [Ibiza] fino a a Cartagine Spartaria [Cartagena]: 400 stadi [38,4 m.n]
"Ab Insula Diana, Lesbos, Ebusosab hac insula Carthagine Spartaria   stadia CCCC",

- dall'Isola Diana, Lesbo o Ebuso [Ibiza] alle Baleari: 300 stadi [28,8 m. n].
"et a supra scripta insula ad Baleares   stadia CCC".

- Tra l'isola Colomba, la Baleare maggiore [Maiorca] e l'isola Nuora, la Baleare minore [Minorca]; 600 stadi [57,5 m. n.].
"Inter Insula Columba, Balearis maior et insula Nura, Balearis minor: stadia DC";



FRA CARTAGINE SPARTARIA E CESAREA DI MAURETANIA
"Item inter Carthaginem Spartariam et Caesaream Mauretaniam"

Isole Errore [Alboran] e Tauria; fra di esse vi sono: 75 stadi [7,2 m. n.].
"Insula Erroris et Tauria: inter se habent stadia LXXV".

- da Calama [penisola di Melilla?] di Mauretania alle suddette isole: 85 stadi [8,2 m. n.].
"Ad has supra scriptas insulas a Calama de Mauretania amecas stadia LXXXV".

PORTO DI MISENO

FRA LA SARDEGNA E LA PENISOLA ITALIANA
"Item inter Sardiniam et Italiam"

- Isola d'Elba; da Populonia in Toscana: 600 stadi [57,5 m. n.].
"Insula Ilva: de Tuscia a Populonio stadia DC".

- fra l'Elba e Isola di Pianosa 90 stadi [8,6 miglia nautiche].
"Insula Planasia: inter Ilvam et Planasiam sunt stadia XC"

- da Cosa a Isola del Giglio: 90 stadi [8,6 m. n.].
"Insula Igilium: a Cosa stadia XC".



FRA LA SARDEGNA E L'AFRICA
"Item inter Sardiniam et Africam"

- da Cagliari di Sardegna a Isola Galata [La Galite]; 730 stadi [70 m. n.];
"Insula Galata: a Caralis de Sardinia   stadia DCCXXX";

da Isola Palmaria [vicino a La Galite] a Galata [La Galite]: 45 stadi [4,3 m. n.].
"Insula Palmaria: inter hanc et Galatam   stadia XLV".

- da Cartagine, all'isola di Egimuro [Zembra]:  230 stadi [22,1 m. n.].
"Ante promontorium Apollinis Aegimurum insula: a Carthagine  stadia CCXXX".



FRA LA PENISOLA ITALIANA E LA SICILIA
"Inter Italiam et Siciliam"

- Tra isole Pontine [Ponza, Palmarola e Zannone] a Terracina, 300 stadi [28,8 m. n.].
"Insulae numero III Pontiae: a Terracina   stadia CCC".

- da TerracinaIsola Pandataria [Ventotene]: 300 stadi [28,8 m. n.].
"Insula Pandateria: a Terracina   stadia CCC".

da Cuma, della Campania a Isola Enaria [Ischia]; 45 stadi [4,3 m. n.].
"Insula Aenaria: a Cumis de Campania   stadia XLV".

- da Miseno, della Campania a Isola di Procida: 30 stadi [2,9 m. n.].
"Insula Procita: a Miseno de Campania   stadia XXX".

- da Pozzuoli a Isola Capraria [Capri]: 300 stadi [28,8 m. n.].
"Insula Capraria: a Puteolis   stadia CCC".

 da Messina a Isola Stromboli: 320 stadi [30,1 m. n.].
"Insula Strongilos: a Messana   stadia CCCXX".

- da Stromboli a Isola Lipari: 300 stadi [28,8 m. n.].
"Insula Liparos: a Strongilos Liparis sunt   stadia CCC".

- da Megara,  fortezza dei Siracusani, alle Isole Aretusa [isola Ortigia, a Siracusa] e Tapso [penisola Magnisi, nel golfo di Augusta]: 11 stadi [poco più di un m. n.].
"Insulae Arethusa et Tapsus: distat ab oppido Megera, id est castello Syracusanorum,   stadia XI".

PORTO DI VENTOTENE

FRA LA SICILIA E L'AFRICA
"Item inter Siciliam et Africam"

da Lilibeo di Sicilia a Isola di Cossura [Pantelleria]; vi sono: 180 stadi [17,3 m. n.].
"Insula Cossura: a Lilybaeo de Sicilia sunt stadia CLXXX".

da Isola di Cercina [Cherchenna] a Tacape [Gabes]: 622 stadi [59,6 m. n.].
"Insula Cercenna: haec a Tacapis distat   stadia DCXXII".

- da Giti di Tripoli a Isola di Gerba; : 90 stadi [8,6 m. n.].
"Insula Girba: a Giti de Tripoli   stadia XC".



FRA LA DALMAZIA E L'ISTRIA
"Inter Dalmatiam et Istriam"

- da Melita ad Epitauro [Ragusa Vecchia; in Croato: Cavtat]: 200 stadi [19,2 m. n.].
"A Melta Epidauros   stadia CC".

da Dirrachio [Durazzo] a Isola di Saseno : 300 stadi [28,8 m. n.].
"Insula Saso: a Dyrrachio   stadia CCC".

- da Idrunte [Otranto] a Isola di Cassopo [forse Fano] e isola Goreiro [forse Corfù, nota come Corcira]; : 1000 stadi (96 m. n.).
"Insula Cassiope, insula Goreiro: ab Hydrunte Cassiope insula   stadia M".



NEL MARE EGEO, FRA LA TRACIA E CRETA
"In mari quod Thraciam et Cretam interluit"

- Icaria: da Micono dista 3000 stadi [287,7 m. n.].
"Icasia: a Mycono distat   stadia CCC".



TROVATO L'ANTICO FARO DEL PORTO IMPERIALE DI ROMA

"Si è appreso solo ora, dalla pubblicazione di uno studio scientifico, che le ricerche archeologiche condotte negli anni 2001-2007 nell’area anticamente occupata dal bacino portuale costruito dall’imperatore Claudio (dall’aeroporto di Fiumicino al Tevere) hanno consentito di localizzare la posizione dell’isola artificiale sulla quale era stato eretto l’imponente faro monumentale che segnalava l’ingresso dell’antico porto imperiale.

La grande mole di dati acquisiti dai ricercatori, mediante scavi e carotaggi, ha anche permesso di individuare l’intero percorso dei due lunghi moli che delimitavano a nord (molo lungo 1.600 m) ed a sud (1.320 m) il vasto bacino del porto, la cui complessiva superficie è stata calcolata di oltre 200 ettari. 

E’ noto dalle fonti antiche che l’isola sulla quale sorgeva il faro era stata costruita utilizzando, quale nucleo sul quale aggregare l’intera struttura, la gigantesca nave che l’imperatore Caligola aveva fatto costruire per portare da Alessandria il grande obelisco destinato ad abbellire il suo circo, ai piedi del monte Vaticano (obelisco successivamente spostato di poche decine di metri, per porlo al centro della Piazza S.Pietro, ove si trova tutt’ora). 

Quella nave venne dunque riempita di cassoni di cemento idraulico (la cosiddetta pozzolana), caricati a Pozzuoli, e venne poi affondata davanti all’imboccatura del nuovo porto di Claudio per costruirvi sopra l’intera isola.



SCOPERTI DUE PORTI ROMANI IN LIBIA

Sul primo porto, nei pressi del villaggio agricolo di Hamama si è particolarmente accentrata l’attenzione degli studiosi italiani date le consistenti tracce di strutture in pietra emergenti tra la sabbia sia sulla costa che in mare. E’ probabile che si tratti di uno degli antichi porti utilizzati dalla non lontana Cirene per i suoi contatti mediterranei e, soprattutto, con Roma ai tempi dell’impero. Il sito potrebbe essere identificato con Phykous, menzionato da Strabone proprio nella zona in questione.

Nel corso di questa missione si è attuata una ricognizione analitica e sistematica del sito sia dal punto di vista tradizionale che applicando le più aggiornate e moderne tecnologie di rilevamento nel campo archeologico. In particolare il sito è stato percorso totalmente e sistematicamente a piedi mediante assi paralleli distanti tra loro circa m 5. 

Durante tali percorsi sono stati raccolti gli elementi ceramici, litici e metallici più diagnostici al fine di individuare le dinamiche occupazionali del sito. Sono stati raccolti circa 500 oggetti che sono stati posizionati mediante GPS, fotografati e disegnati al fine di potere procedere alla loro identificazione crono-tipologica. In tal modo si è ottenuto un quadro dinamico dell’occupazione del sito attraverso la dislocazione dei vari reperti.

La squadra addetta alla scansione laser ha effettuato la completa scansione del sito mettendo in evidenza sia l’altimetria esatta che tutte le strutture murarie emergenti. I prodotto finale di tale ricognizione è il modello tridimensionale del sito e la collocazione esatta di tutte le strutture e gli elementi visibili in superficie.

VILLA OLMEDA (Spagna)

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La villa romana La Olmeda è posta nel comune spagnolo di Pedrosa de la Vega, in provincia di Palencia, nella Castilla y León. Il sito è stato dichiarato patrimonio di interesse culturale il 3 aprile 1996, e la rivista National Geographic lo considera (2016) una delle dodici principali scoperte dell'archeologia moderna.

La villa o domus romana si trova nella pianura fluviale del fiume Carrión, a circa 888 m slm, in un'area attraversata da diversi corsi d'acqua in direzione nord-sud, tra la valle del Carrión e il Páramos de las Rañas.

La villa è divisa in due parti, una edificata nel I sec. secolo che durò fino alla fine del III sec., e l' altra ricostruita sulla precedente nel IV sec. in un periodo di ripresa tra i governi di Costantino e Teodosio il Grande, finchè fu distrutto e abbandonato nel VI sec..

La villa venne scoperta nel 1968, durante alcuni lavori sul terreno di proprietà di Javier Cortes, che iniziò il suo scavo privatamente. Nel 1980 il sito richiedeva più di quanto il proprietario potesse permettersi, per cui si accordò con il Consiglio Provinciale di Palencia creando una Fondazione a due, che perdura a tutt'oggi. Nell'aprile 1984 vene realizzata una copertura sui resti della villa per la sua conservazione.

Una selezione dei materiali trovati negli scavi è esposta nel museo monografico di La Olmeda, che nel 1984 è stato installato nella chiesa di San Pedro de Saldaña . L'accesso ai archeologico viene eseguita attraverso una deviazione al chilometro 55 della strada regionale CL-615 ( Palencia - Riaño), fino alla città Gañinas de la Vega.




LE VICENDE STORICHE

Nel III sec. le lotte continue per il potere, le incursioni di tribù germaniche sul Reno e del Danubio, la guerra in l' Oriente o l'epidemia di peste ha causato una crisi del romano sia politica che militare, sociale ed economica.

A causa della scarsità di materie prime e di disastri politici, la popolazione è diminuita, influenzando le attività produttive. Ciò ha comportato un minor reddito per lo stato, i cui tentativi di compensarlo, aumentando le tasse, hanno ulteriormente aggravato la crisi.

Il risultato di tutto ciò fu la scomparsa del commercio internazionale che esisteva fino ad allora; le rotte con l'Oriente erano influenzate dai Persiani e dalle rotte europee dai movimenti dei Germani. Anche il commercio interno ha risentito di questa mancanza di sicurezza, di un'elevata tassazione e di una perdita di fiducia nello Stato.

Nell'era sub-imperiale furono intraprese una serie di riforme per affrontare i problemi precedenti e quindi, sotto Diocleziano , il sistema fiscale venne riorganizzato in vista di un aumento della raccolta finale, a causa del costo del numero crescente di truppe e funzionari necessari per garantire l'amministrazione dell'impero.

Allo stesso modo, l'editto di pretiis rerum venalium, del 301, mirava a stabilire prezzi massimi per i beni come misura contro l' inflazione e l'aumento dei prezzi. Regolamentato il prezzo dei prodotti agricoli, artigianale e le tasse da ricevere per ciascuna delle attività professionali. si è trasformato in scambi basati sul baratto e l'economia ha subito una ruralizzazione, tornando a prendere la terra come l'unico valore sicuro della ricchezza.

PLASTICO DELLA VILLA
I raccolti agricoli crollarono a causa dei disordini sociali esistenti e il commercio fu ridotto esclusivamente agli oggetti di lusso acquistati dai grandi proprietari.
Le città subirono un significativo declino demografico e della vita civile e i curiales e l'aristocrazia municipale preferirono andare a vivere nei loro villaggi nel campo in cui avevano grandi proprietà agricole e laboratori per le proprie esigenze, cioè diventavano autosufficienti nella produzione e nel consumo.

L'interno della Hispania era una delle zone più favorevoli per questi latifondi. Da un lato, c'era un villaggio che durò dal I al III secolo, e dall'altra, la ricostruzione della città, una nuova pianta e in un luogo diverso, durante il secolo IV , che dura fino alla metà del V secolo , distrutto e forse abbandonato nel VI secolo .

Questa seconda fase è inserita nel contesto della ripresa iniziata nel tempo di Diocleziano e del suo sistema di Tetrarchia , che ha vissuto al meglio durante il governo di Costantino I e i suoi figli, all'inizio del IV secolo, e sotto il governo di Teodosio I , alla fine dello stesso secolo. In questo momento costantiniano-teodosiano appartiene il più grande splendore della città.

Non si conosce il nome dei diversi proprietari che si succedettero l'un l'altro durante il IV e V secolo, ma si è supposto il generale Asturio, duca di Tarraconense tra il 441 e il 443. Tuttavia, nonostante le iscrizioni trovate, l'anonimato della città continua.



GLI SCAVI

L'Olmeda fu scoperto nell'estate del 1968, nel corso di alcuni lavori per ridurre una collinetta in un terreno di proprietà di Javier Cortes, rinvenendo i resti di una serie di edifici e scavando fino a 65 piedi di profondità dove si è raggiunta la pavimentazione a mosaico.

Prima della sua scoperta, venne pianificato uno scavo archeologico privato ma con la direzione di un archeologo professionista, professore di archeologia all'Università di Valladolid, Pedro de Palole.

Nei primi anni si pensò al consolidamento dei mosaici e lo stesso Javier Cortes realizzò la costruzione dei primi edifici e delle visite protettive. Nel 1980, l'estensione del sito ha travolto le possibilità del proprietario del sito per cui questi ha raggiunto un accordo con la Delegazione Provinciale di Palencia, creando una Fondazione che, da quel momento, è responsabile della gestione e del finanziamento delle opere.

Tra il 1981 e il 1984, anno di inaugurazione della Villa, sono stati effettuati lavori di costruzione su una copertura per il sito e una passerella che ha permesso la visita, mentre il futuro sito del museo era in restauro.

Questo, all'inizio fu locato nella casa dello scopritore, per mettere a disposizione dei ricercatori i materiali trovati, ma, quando fu creata la Fondazione, venne trasferito nella vecchia chiesa di San Pedro, a Saldaña, dove è rimasto dal 1984. Nel 1988, José Antonio Abásolo Álvarez, professore all'Università di Valladolid, e Miguel Nozal, archeologo di Saldaña, assunsero la direzione degli scavi, espandendo sia il recinto che la passerella.

Nel 2004, le terme sono state aperte al pubblico con gara d'appalto vinta dagli architetti Paredes e Pedrosa. Il 3 nell'aprile di 2009 Dopo quasi quattro anni di costruzione, la Villa è stata riaperta al pubblico con il nuovo edificio.
Accanto alla villa si conservano anche le terme e tre cimiteri di cui sono stati portati alla luce solo due. In essi sono stati rinvenuti resti di corredi funebri e utensili romani.

(Pedro de Palol Salellas - La villa romana de La Olmeda de Pedrosa de la Vega (Palencia) - Guía de las excavaciones - 1982)

LE TERME

DESCRIZIONE

L'edificio principale della villa ha una pianta quadrata con quattro torri angolari, ottagonali sulla facciata sud e quadrate a nord. La domus è edificata intorno a un cortile, cioè un patio che in origine era un peristilio, le cui colonne sul lato sud sono state sostituite da un porticato in mattoni e i lati rimanenti sono stati chiusi da mura.

Il cortile è munito di quattro gallerie decorate con mosaici. Due di queste danno accesso alla villa attraverso porte fiancheggiate da colonne in marmo bianco. Delle 27 camere 12 sono dotate di ipocausto (sistema di riscaldamento sotterraneo). All'esterno spicca un grande portico di ingresso.

Lo spazio dell'intero complesso archeologico è così articolato attorno ad un asse nord-sud, di circa 1700 m di lunghezza, il cui nucleo centrale è costituito dalla villa basso-imperiale composta da residenza, i bagni e due corpi laterali come ali. L'estremità meridionale si troverebbe in un edificio situato nel cosiddetto Alto del Caballo e nella parte settentrionale della necropoli settentrionale.

La villa era costituita da due parti indipendenti ma unite tramite un corridoio:

- la villa residenziale (la parte scavata), utilizzata come abitazione dai proprietari, di quasi 3000 mq, regolare e simmetrica attorno ad un asse nord-sud. Questo asse nord sud, su cui si snodava una strada, collegava le diverse aree del complesso e pure la rete di strade secondarie necessarie per l'agricoltura. Il territorio sotto l' influenza della villa è stata determinata dopo le indagini condotte tra il 1986 e il 1991, in cui un certo numero di campi, di diversi tipi, sono stati trovati  vicino alle città di:

- Saldaña,
- Relea de la Loma,
- Villarmienzo,
- Velillas di Duke,
- Quintanilla de Onsoña,
- Villaproviano,
- La Serna,
- Villamoronta,
- Villarrobejo
- Villapún.

La parte residenziale ha una pianta quadrata con un grande patio centrale circondato da gallerie che accedono alle diverse stanze e d'altra parte, a ovest, i bagni. La costruzione dei bagni, collegati alla casa attraverso un corridoio, ha due aree: da una parte una grande stanza circolare, il cui uso è sconosciuto, e dall'altra l' armadio, attraverso il quale accesso alle diverse sale da bagno: frigidarium, tepidarium e caldarium.

- la villa rustica, residenza dei lavoratori, sia schiavi che i coloni, come pure magazzini e stalle. Questa seconda parte non si trova e potrebbe già essere distrutta a causa della precarietà della sua costruzione. Socialmente, era un nucleo aristocratico che costituiva una dinastia di proprietari terrieri, i cui ritratti sono osservati nel mosaico principale.




LA PARTE RESIDENZIALE

L'edificio principale presentava, sia sulle facciate nord e sud, un portico alle cui estremità erano erette torri, ottagonali sulla facciata sud e quadrate a nord. Il portico meridionale potrebbe essere a colonne o di muro su cui si innalzerebbero le colonne nella pianta alta dell'edificio.

Questo schema, a pianta quadrata con torri angolari, è comune nell'architettura rurale di quel tempo, soprattutto in Gallia e in Germania. Il cortile centrale era originariamente un peristilio con colonne su tutti e quattro i lati che separavano l'area del giardino dalle gallerie che lo circondavano. Successivamente le colonne sul lato sud sono state sostituite da archi in mattoni e i lati rimanenti sono stati chiusi con pareti in cui sono state aperte le finestre.

L'accesso principale all'interno dell'edificio era attraverso il portico sud, attraverso una stanza sullo sfondo della quale si ergevano due colonne che segnavano il passaggio dal vestibolo alla galleria del peristilio. Questi, quattro in totale, ordinarono la circolazione dell'edificio, e quelli del nord e del sud erano più ampi di quelli dell'est e dell'ovest.

La galleria sud appariva in cattive condizioni a causa di un fossato che distrusse parte della galleria ovest, la galleria sud e diverse stanze sul lato est. Fu realizzato prima della distruzione del complesso e divenne un cassonetto dove furono trovati una moltitudine di materiali come corna di cervo, ceramiche del V e VI sec. o contenitori di metallo.




Le stanze

- n° 24 - Sul lato sud, accanto all'ingresso, c'è la stanza 24, con pavimento in oro e platino e quattro fori uniti da canali che fungevano da sede per vasi , quindi è interpretata come una dispensa.

- n° 23 - La stanza attigua è identificata come una cucina e sul suo muro esterno sono stati trovati resti di pittura , come in altre stanze della casa, soprattutto sul lato nord. Costeggiando è l'inizio di una scala che portava al piano superiore. Questo esisteva sia su questo lato sud che sul lato nord, con le ali est e ovest del piano terra.

- n° 21 - All'estremità orientale della galleria sud si trova la stanza n. 21, lastricata di opus signinum e che fa da anticamera alla stanza n. 20,

- n° 20 - un'alcova che presenta uno dei mosaici geometrici più straordinari della città.

- n° 13 -  Sul lato est, e partendo da sud, c'è prima una piccola stanza con l' opus signinum, che funge da anticamera del n. 14-15, pavimentata con mosaico e considerata una delle sale da pranzo o triclinios della casa.

MOSAICO DELL'OECUS

- n°3 - A contatto con il lato nord è una stanza absidale, n. 3, dalla quale è possibile accedere ad altre due stanze
- n° 2 - 4 - poste su entrambi i lati (n. 2 e 4). Tutti e tre erano pavimentati con mosaici e avevano un ipocausto o un riscaldamento sotterraneo.

Sul lato nord, le camere hanno pavimenti in opus signinum,
- n° 7 - 8 - ad eccezione delle stanze 7 e 8, che hanno pavimenti battuti.
- n° 7 - Tranne che per il n. 7, che è l'entrata nord dell'edificio,
- n° 9 - e il n. 9, che è il buco di un'altra scala per il piano superiore, non si sa quale uso abbiano avuto.
- n° 10 - 11 - 12 - Nell'estremità occidentale, e simmetriche a quelle sul lato est, ci sono tre stanze (n. 10, 11 e 12), anch'esse pavimentate a mosaico ma senza ipocausto.

LE TERME

- n° 30 - Sul lato ovest, c'è il corridoio che collega l'area delle terme (n. 30)
- n° 29 - 31 - 32 - e pure un insieme di stanze (n. 29, 31 e 32) che forse costituiscono il triclinio o la sala da pranzo principale della casa. Questo, il n. 29, era inizialmente più piccolo, ma subì una riforma che allargò la stanza e rese l'abside della stanza fuori centro rispetto all'asse della stanza.
- n° 32 - Sia la sala da pranzo che la sua hall (n. 32), avevano pavimenti a mosaico.
- n° 31 - la stanza n. 31, che serviva per la sala da pranzo, aveva un pavimento in opus signinum.
I MAGAZZINI (26)
- n* 27 - 28 - 33 - Di nuovo in contatto con il lato sud, c'è un piccolo corridoio (n. 28) che fungeva da uscita dall'edificio ad ovest e permetteva l'accesso alle stanze n. 27 e 33, pavimentate con opus signinum e terra battuta rispettivamente.
- n° 26 - La camera n. 26, anch'essa con pavimento battuto, e in cui appariva un gran numero di resti di anfore - alcune delle quali di origine orientale come Gaza o Cartagine - che permettevano di identificarlo come magazzino.

- Infine, il giardino del peristilio aveva al centro una fontana, di cui non sono stati trovati resti, circondato da un mosaico.

- Dalla stessa parte, in direzione nord, uno scarico di mattoni che si riversava in un ruscello e scompariva.

- Le due porte del giardino, situate nelle gallerie est e ovest, erano unite da una pergola con otto archi, i cui fori di supporto sono stati trovati durante gli scavi.

TERME E IPOCAUSTO
- L'edificio delle terme si trova a ovest della casa, a cui è collegato da un corridoio (n ° 30). Questo le divide in due parti: il sud è una camera circolare 170 mq, il cui uso è sconosciuto, con pavimentazione cocciopesto con un mosaico sovrapposto. Aveva un ipocausto e subì un saccheggio che distrusse la maggior parte del terreno alla ricerca dei mattoni che coprivano i condotti sotto il mosaico.

- Quattro piccole sale pavimentate a mosaico si aprono a ovest di questa stanza circolare.

- A Nord del corridoio, camera fronte circolare è l'apodyterium o vestibolo, che aveva una corsa sulla sua panchina parete est e una piccola vasca ovale, con gradini, all'angolo nord-ovest e una pavimentazione cocciopesto sovrapposto ad un altro mosaico.

- A sud-est della stanza c'è una stanza identificata come laetrinae, con pavimenti in piastrelle e pavé di fango, diversa dal resto della villa.

- Dal spogliatoio centro si accede tramite una scala, un frigidarium così lobate, con pavimentazione di cocciopesto e ad ovest erano le camere del caldarium e tepidarium, con un'abside e pavimentazione a mosaico.

- Infine, all'estremità occidentale del muro dei bagni si trova il propnigeum, dove è stato conservato il combustibile e il forno è stato posizionato per riscaldare i bagni; è un'aggiunta all'edificio principale dei bagni termali e ha le stesse misure delle latrine.



I MOSAICI

Forse l'attrazione principale della città è l'insieme di mosaici che pavimentano i loro pavimenti, considerato uno dei più importanti in Spagna.

- Partendo all'ingresso sud della casa, pavimentata con un mosaico in piazze e alternati ottagoni ed è delimitato da un fregio di cerchi intersecanti, le quattro gallerie del peristilio sono pavimentate; nord e sud del design è semplice, di carattere geometrico, e quindi nello spazio corridoio settentrionale è suddivisa in frame o cassoni in cui motivi alternati come nodi di Salomone, svastiche o croci circondato da un bordo di motivi floreali, mentre nel corridoio sud, molto distrutto a causa del fossato, appaiono cerchi secanti con bordo di triangoli incatenati (guiloches).

- D'altra parte, a est e a ovest, lo stesso tema è ripetuto con coppie di esagoni irregolari che, quando tagliati, lasciano un ottagono al centro e, quando si uniscono ad altre coppie di esagoni, formano quadrati e diamanti.

- n° 20 - Nell'angolo sud è su l' un lato, camera  20, che ha uno dei disegni geometrici più importanti della villa: un ottagono centrale cui lati sono posti piazze, e tra questi apparire diamanti allungate, tutti È circondato da un bordo a treccia e una linea a zig-zag.

- n° 14 - 15 - Su l' altra parte, il triclinio che rendono fino le camere  14 e 15 ha, nella sua abside, nodi di Solomone nei circoli mentre il resto della camera include un alloro al centro e circa otto rettangoli entro cui Hanno cerchi con fiori a otto petali. Sia nell'angolo nord-est che nord-ovest, le camere tripartite presentano pavimenti a mosaico.

- Nord-est, la cabina principale, con un disegno di esagoni alternati a quadrato, presenta immagini separate da corde e entro quattro peltas alternativamente rosso e nero, e la 4 Ha un design basato su quadrati ed esagoni, separati da corde, all'interno dei quali ci sono motivi geometrici e floreali, e tutti con due bordi, uno di fiori con tre petali e un altro di fiori a quattro petali.


- n° 11 - D'altra parte, a nord-ovest, la stanza absidale (nº 11) ha un disegno di ottagoni e quadrati, con fiori di otto petali e croci all'interno, il tutto bordato da un bordo di tulipani nell'abside e con triangoli incatenati (guiloches) nella parte inferiore.

- n° 10 - Adiacente, la stanza n. 10 ha un centro di quattro fiori separati da corde e attorno a pannelli di diverse dimensioni.

- n° 12 - Il mosaico della stanza n. 12 mostra un disegno di cerchi di asciugatura e un bordo di triangoli isosceli. 

Nell'angolo sud-ovest, il triclinio principale della casa e la sua lobby hanno anche pavimenti a mosaico. Il mosaico della parte più antica della sala da pranzo mostra un disegno di fiori legati dai loro steli su cui si uniscono cerchi ed è circondato da un bordo di ghirlande. Da parte sua, il mosaico della zona allargata ha linee rette su cui ci sono cerchi con fiori all'interno e un bordo di merli.

- n° 32 - La sua hall, sala 32, offre una decorazione di ciocche di capelli separate da corde. Per quanto riguarda la costruzione dei bagni, molte delle stanze sono pavimentate con mosaici. Così, la grande stanza circolare presenta un disegno simile a quello delle gallerie est e ovest del peristilio, con un quadrato al centro in cui due bordi di ghirlande circondano una stella a otto punte.

Nelle quattro sale adiacenti, le due a sud hanno un design di cassettoni con motivi cruciformi all'interno, e le due a nord, uno presenta un disegno di quadrati ed esagoni,

- n° 4 - Un disegno simile a quadrati ed esagoni è quello della stanza n. 4 e alle altre coppie di scale frontali o doppi assi.

Infine, il pavimento del camerino presentava un disegno di quadrati, ottagoni e croci, con bordo di cerchi di asciugatura, che fu poi ricoperto di opus signinum.

- n° 15 - Il pavimento più eccezionale della villa è quello situato nell'oecum (stanza nº 15), il salone principale della casa, di 175 mq, dove si trova l'unico mosaico figurativo conservato. Si compone di una scena figurativa centrale circondata da un bordo che ha un disegno simile a quello della galleria orientale del peristilio con corone di alloro sovrapposte e accanto al muro un altro bordo di nastri ondulati che circondano i tulipani.


La parte figurativa centrale è composta da tre temi diversi: L'area più vicina all'ingresso della stanza rappresenta sette scene di caccia, in cinque delle quali diversi animali combattono con i cacciatori a piedi o a cavallo, armati di lancia o giavellotto.

Un'altra scena mostra un leone dell'Atlante (specie già scomparsa) ferito e un altro l'attacco di un leone a diverse antilopi africane. Al centro della stanza è rappresentato un tema mitologico molto comune nell'antichità, sia nel mondo greco e romano, sia nel Rinascimento. Si tratta della leggenda della scoperta di Achille da parte di Ulisse, quando Achille era nascosto nell'abito di una donna sull'isola di Skyros, nel palazzo del re Licomede.

Nella scena, Ulisse indica ad Aquiles la direzione di Troia e le principesse, figlie del re, cercano di impedire la sua marcia sapendo che morirà in guerra. I personaggi rappresentati, ad una dimensione superiore a quella naturale, sono i seguenti: Achille, nudo e con orecchini femminili. Ulisse, brandendo una spada con la testa di un'aquila. Rea, Regina di Skyros, con cintura diadema e mantello.

Sei principesse, tra cui l'amante di Achille, Deidamia. Albina, l'amante di Deidamia, che offre a Rea un fuso che indica che la scena si svolge nel gineceo del palazzo. Agirtes e Diomede, che accompagnano Ulisse e suonano le trombe facendo scoprire ad Achille se stesso prendendo le armi con cui ha cercato di difendersi. Per le dimensioni si tenga conto che le figure sono alte più di 2 m.

Il terzo tema figurativo, il più eccezionale per la sua unicità, è il confine che circonda la scena di Achille e Ulisse. È composto da numerosi medaglioni ovali appesi alle ali di anatre, che si fissano con le cime di anfore che poggiano sulle piante, la cui coda finisce trasformandosi in un delfino. In ogni medaglione appare un volto, alternando maschile e femminile, di personaggi la maggior parte giovani, realizzati con tessere di piccole dimensioni che si alternano con pasta vitrea.

- Dei diciotto ritratti originali, quattordici sono conservati e la loro interpretazione è complicata. Tra le varie teorie proposte, Dimas Fernández-Galiano ha identificato i medaglioni come strumenti liturgici legati a qualche tipo di culto pagano, mentre altri postulano che sono ritratti di famiglia.
Nei quattro angoli del mantovano sono rappresentate le quattro stagioni, di cui tutte sono conservate tranne l'estate, elaborate in modo classico: primavera con fiori, autunno con uva e inverno con velo. La forma di rappresentazione degli occhi, grande e con certa inespressività, è comune nell'Impero Basso e nell'era bizantina.

LA STRUTTURA CHE CONTIENE LA VILLA

Necropolis - Materiali dalla necropoli

Tra i reperti rimanenti, vale la pena menzionare le tre necropoli ritrovate, che hanno fornito più di 700 tombe appartenenti a periodi diversi e materiale archeologico abbondante grazie ai corredi .

Sono stati identificati tre diversi complessi funerari intorno alla villa:
- 40 tombe della necropoli settentrionale, scoperte nella primavera del 1974 a circa 700 m a nord della casa, per il primo periodo della villa (tra secoli I e III ) e che ha continuato sepolture dal IV sec. Le sepolture sono sia incenerimento che sepoltura. In totale fornì 111 sepolture di cui  il 70% erano fornite di corredi funebri, tra cui vasi di terra sigillata ispanica e ceramica comune, piccoli vasi in bronzo, fibbie per cinture, strumenti di ferro e collane e bracciali di ambra e vetro.
- Tra il 1986 e il 1990 si scavarono 100 sepolture con vetro, terra sigillata ispanica, bracieri di rame, utensili in ferro e oggetti di ornamento personale.

La necropoli meridionale è la più grande e la più importante di quelle trovate finora. Si trovava a circa 400 metri a sud del villaggio, occupando un'area di 5000 mq. Scoperto nel 1972 e scavato nel suo complesso, sono stati trovati 526 tombe, di cui 59 aree di incinerazione con ceramica artigianale fin dal VI sec. a.c..

C'erano tre tipi di tombe:

- I gruppo, una cassa di legno in una fossa, senza copertura, il gruppo più abbondante e con i più ricchi corredi, in totale 451 sepolture.

- Il secondo gruppo, di  54 tombe, una tomba coperta di muri di mattoni e ricoperta di falsa volta a mattoni, nel cui interno sarebbe presente una cassa di legno.

- III gruppo, mattoni o tegole ricoperte con tetto a due falde,  21 tombe con  meno abbondante corredo funerario.

Nei corredi maschili: coltelli in metallo, borchie di cintura o bottoni, nelle donne: collane di perle di vetro o pasta di vetro, bracciali in bronzo o argento, orecchini, osculatorios e bicchieri e bottiglie di vetro.



GENS LIVIA

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LIVIA DRUSILLA

La gens Livia fu un'illustre famiglia plebea. Il primo dei Livii a ottenere il consolato fu Marcus Livius Denter nel 302 a.c., da allora i Livii fornirono alla Repubblica otto consoli, due censori, un dittatore e un magister equitum. I membri di questa gens furono onorati con tre trionfi. Durante il regno di Augusto, Livia Drusilla fu imperatrice romana, e suo figlio fu l'imperatore Tiberio.



LE ORIGINI

La storia non conserva tradizioni riguardanti l'origine della gens Livia. Anche se i suoi membri non compaiono nei primi due secoli della Repubblica, nulla suggerisce un'origine straniera. Il cognomen regolare dei Livii è latino. Il nomen Livius dovrebbe generalmente derivare dalla stessa radice di liveo, lividus e livor, che potrebbe significare grigio-bluastro, ma non ve n'è certezza. Pokorny ha invece ipotizzato un'origine etrusca per i Livii.

Il console M. Livio Salinatore è uno dei vincitori della battaglia del Metauro; Livius è il gentilizio del liberto italiota che corona la sua carriera politica componendo, per la cerimonia, un pubblico carme in onore di Giunone Regina. Ma alla medesima gens appartiene anche il Drusus che nell'ager Gallicus avrebbe ritolto ai Senoni l'oro del riscatto romano, secondo una tradizione forse più antica ancora della leggenda pesarese di Camillo. La gens Livia, cui si deve la grandiosa cerimonia espiatoria del 207 a.c. è dunque strettamente connessa sia all'ager Gallicus sia alla tradizione del recupero dell'oro romano in quest'area.

A parere degli studiosi, sempre alla medesima gens si dovrebbe riconnettere anche la matrona Pola Livia, il cui nome è attestato in una dedica del bosco sacro pesarese. In tal caso avremmo un elemento concreto per riallacciare, per altra via, il lucus alla leggenda dell'oro del tributo romano. Jean Gagé ipotizza che ciò che Pola Livia dona alla divinità sia un oggetto d'oro, additandoci la possibilità di una suggestiva sovrapposizione nel bosco sacro del duplice motivo dell'oro gallico e
dell'oro delle matrone che qui si riuniscono a Scopo cultuale.

Se egli ha colto nel segno, alla luce della tradizione dei prodigi, potremmo pensare che nel bosco, nel contesto di cerimonie espiatorie, si perpetuasse anche il rito di una riconsacrazione dell'oro gallico per liberarne il territorio dalla contaminazione e dal sortilegio.

Il più sconcertante prodigio verificatosi in Pesaro è senza dubbio quello del 97 a.c., allorché i merli della cinta muraria precipitati al suolo sono presagio delle guerre civili; queste si scatenano di lì a pochi anni, quando a Roma, nel 91 a.c. viene assassinato il tribuno della plebe M. Livio Druso: ancora un personaggio della gens Livia e in particolare di quella famiglia dei Livi Drusi, cui, più determinatamente, si lega la tradizione del recupero dell'oro romano nell'agro gallico.

Ma v'è di più: M. Livio Druso muore, con ogni probabilità, dopo aver adottato un Pesarese, nientemeno che un rampollo della gens Claudia, M. Livio Druso Claudiano, destinato a divenire padre della più celebre matrona, di nome Livia, che conosca la tradizione romana: Livia Giulia Augusta.

La sua provenienza claudia (famiglia dei Claudi Pulchri) e la sua adozione nella gens Livia (famiglia dei Livi Drusi) ci sono testimoniati da Svetonio (Tih., 3, 1) e Tacito (Ann., 6, 51), in contesti relativi all'ascendenza femminile dell'imperatore Tiberio. La sua adozione, in particolare, a opera del celebre tribuno della plebe M. Livio Druso è convincente congettura del testo di cerimonie espiatorie, si perpetuasse anche il rito di una riconsacrazione dell'oro gallico per liberarne il territorio dalla contaminazione e dal sortilegio.

TITO LIVIO

I COGNOMINA

I cognomina dei Livii durante la Republica furono: Denter, Drusus, Libo, Macatus, e Salinator. 

- Denter fu un soprannome comune che indicava in genere qualcuno con denti prominenti. 

- Macatus significa "macchiato", stessa derivazione di macula.

- Druso probabilmente significa "rigido", anche se Svetonio riporta una tradizione che il primo con quel nome lo ricevette dopo aver ucciso un capo gallico di nome Drausus. Se questa è la vera origine del nome, probabilmente la data risale al 283 a.c., quando i senoni, il popolo gallico di cui Drausus era il capo, furono sconfitti e dispersi, liberando la parte settentrionale Italia. 

- Libo, derivato da libero, designava un versatore di libagione ed entrò nella famiglia dalla gens di Scribonia, di cui un membro venne adottato dal Livii Drusi.

- Salinator, che significa mercante di sale, venne dato per derisione a Marcus Livius, che come censore nel 204 a.c., impose un'imposta sul sale piuttosto impopolare. C'è qualche dubbio sul fatto che il padre di Marcus viene anche chiamato anch'esso Salinatore, ma gli storici potrebbero aver applicato il cognomen in modo retroattivo.



MEMBRI FAMOSI

I LIVII

-Gaius Livius Denter, nonno del console del 302 a.c., deve essere stato il magister equitum del 348.

- Marcus Livius Denter, console nel 302 a.c.. Precedentemente era stato uno dei pontefici scelti dai plebei per aumentare il numero di quel collegio.



    LIVII DRUSI

    - Livio Druso, secondo Svetonio, un propretore in Gallia, che sconfisse il capo Drausus in combattimento singolo, guadagnando così il suo cognome. Riportò l'oro preso dai Senoni come prezzo per lasciare Roma nel 390 a.c., vendicando così il sacco gallico della città. Pighio congettura che fosse il figlio di Marco Livio Denter, console nel 302 a.c., che sarebbe d'accordo con la probabile data della sua lotta con Drausus, nel 283.

    - Marco Livio Druso, nonno del console del 147

    - Marco Livio Druso Emiliano o Mamiliano, padre del console del 147. Il suo agnomen suggerisce, ma non dimostra, che fu adottato dagli Emilii o dai Mamili.

    - Gaio Livio Druso, console nel 147 a.c. O lui o suo figlio Gaio dovrebbero probabilmente essere identificati con l'omonimo giurista.

    - Marco Livio Druso, tribuno della plebe nel 122 a.c., si oppose alle misure del suo collega, Gaio Gracco, e minò la sua autorità proponendo misure simili per le quali gli ottimati, il partito aristocratico del Senato, se ne presero il merito. Fu console nel 112 e trionfò sugli Scordisci l'anno successivo. È probabilmente il censore del 109 a.c., morto durante il suo anno di ufficio.

    - Gaio Livio Druso, noto per la sua cordialità, cortesia e persuasività, che ha condiviso con suo fratello. Alcuni lo identificano, anziché suo padre, come il giurista di questo nome.

    - Marco Livio Druso, una delle figure più influenti della politica romana prima della guerra civile romana. Fece di tutto per conquistare il Senato, sposando la parte degli ottimati, ma poi come tribuno della plebe nel 91 a.c., ha cercato di conciliare il popolo ed ha conquistato i federati promettendo loro la cittadinanza romana e approvò una legge per far entrare gli equites nel Senato. Si attirò, tuttavia, le inimicizie del console Lucio Marzio Filippo e, in seguito, Druso venne assassinato nella sua casa proprio mentre la guerra civile stava scoppiando.

    - Livia, sorella del tribuno, sposò Quinto Servilio Cepio, la cui sorella, Servilia, sposò Druso. Caepio divenne l'avversario di suo fratello e ripudiò sua moglie, la quale sposò Catone il Censore. I suoi figli furono Quinto Servilio Cepio, Catone l'Uticense, Servilia Maggiore, madre di Marco Giunio Bruto e suocera di Gaio Cassio Longino, assassini di Cesare; la figlia Servilia Minore fu la moglie di Lucio Licinio Lucullo.

    Marco Livio Druso Claudiano, nato nella gens Claudia, fu adottato da uno dei Livii Drusi, probabilmente il tribuno Marco. Si alleò con Bruto e Cassio. Proscritto dai triumviri, si tolse la vita dopo la battaglia di Filippi. Era il padre di Livia Drusilla e nonno di Tiberio.

    -Marco Livio Druso Libo - probabilmente nato nella gens Scribonia Libones, fu adottato da uno dei Livii Drusi, in genere doveva essere Claudiano, sebbene ci siano molti dettagli incerti nelle sue relazioni con gli altri Livii Drusi e Scribonii. Fu edile della plebe nel 28 a.c. circa e console nel 15 a.c..

    - Livia Drusilla - sposata prima a Tiberio Claudio Nerone, e poi a Gaio Cesare Ottaviano, il futuro imperatore Augusto. Fu madre dell'imperatore Tiberio, e di Druso il Vecchio.

    - Lucio Scribonio Libo Druso - generalmente considerato figlio di Marco Livio Druso Libo, 
    indotto dal senatore e delatore Firmius Catus a consultare indovini sulle possibilità di raggiungere l' impero. All'inizio le accuse furono ignorate da Tiberio, ma poi venne processato e condannato, si crede ingiustamente. Era un uomo debole, malato e fatuo. Si suicidò accoltellandosi due volte allo stomaco.

    DRUSO MAGGIORE

    LIVII SALINATORI

    Marco Livio - Salinatore, padre del console, era decemvir sacris faciundis nel 236 a.c. Lui o forse suo figlio comprò un greco colto, chiamato Livio Andronico, come tutore per i suoi figli. Fondò la città di Forlì in Emilia-Romagna, che si chiamava infatti Forum Livii.


    - Marco Livio - proavo del console del 219 e del 207 a.c..

    - Marco Livio - nonno del console.

    - Marco Livio - membro del consiglio plenipotenziario inviato a Cartagine dopo la caduta di Saguntum nel 219 a.c. per chiedere se l' attacco di Annibale fosse stato autorizzato e dichiarare guerra se Annibale non rispondesse alla giustizia. Fu sposato con la figlia di Pacuvius Calavius, capo magistrato di Capua nel 217 a.c., un patrizio che aveva sposato una figlia di Appio Claudio.

    - Marco Livio Salinatore -  fu console durante la II guerra illirica, e nonostante trionfasse sul nemico, venne accusato di appropriarsi indebitamente del bottino della guerra, e mandato in esilio. Durante la II guerra punica fu indotto a tornare e riprendere il suo seggio al Senato, anche se raramente parlò, se non per parlare a nome del suo parente, Marco Livius Macatus. Console per la seconda volta nel 207, lui e il suo collega, Gaius Claudius Nero, sconfissero e uccisero Hasdrubal, il fratello di Annibale, ma prima che i due potessero unire le loro forze, trionfò per la seconda volta. Venne nominato dittatore l'anno successivo per ospitare le elezioni e censurato nel 204, ma lui e il suo collega litigarono duramente.

    - Gaio Livio Salinatore - pretore nel 202 a.c., e di nuovo nel 191 a.c., quando ebbe il comando della flotta nella guerra contro Antioco. Fu console nel 188 a.c.

    LIVIO ANDRONICO

    ALTRI

    - Lucio Livio - tribuno della plebe nel 320 a.c., l'anno dopo il disastro alle Battaglia delle Forche Caudine. Il console Spurio Postumio Albino Caudino aveva impegnato se stesso e gli altri magistrati romani come garanti della pace, al fine di preservare la vita dell'esercito romano. Livio e uno dei suoi colleghi rifiutarono la richiesta di consegnarsi ai Sanniti come ostaggi, poiché non avevano a che fare con l' accordo, e inoltre erano sacrosanti come tribuni, il popolo romano li difese; ma Postumius li perseguitò fino a quando non accettarono di diventare ostaggi. Tuttavia, i sanniti rifiutarono gli ostaggi, quando si resero conto che i romani avrebbero continuato la guerra con o senza di loro.

    - Lucio Livio Andronico - originariamente un greco istruito, in seguito reso schiavo e acquistato da Marco Livio Salinatore come tutore per i suoi figli. Alla sua manomissio, assunse il nome di Lucio Livio Andronico. Fu un poeta rinomato e fondatore del dramma romano.

    - Marco Livio - legato inviato a Cartagine dopo la caduta di Saguntum nel 219 a.c. Era sposato con la figlia di Pacuvio Calavio, magistrato di Capua nel 217 a.c. Pacuvio era un patrizio che aveva sposato una figlia di Appio Claudio.

    - Marco Livio Macato -  collocato dal propretore Marco Valerio Laevinus responsabile della guarnigione di Taranto nel 214 a.c., durante la II guerra punica. Quando la città fu persa a sorpresa nel 212, Livius e i suoi soldati si ritirarono alla cittadella, dove resistettero fino a quando la città fu ripresa da Quinto Fabio Massimo nel 209. Fabio riconobbe che non avrebbe potuto riconquistare Tarentum, se non per le azioni di Livio.

    Gaius Livius Salinator - pretore nel 202 a.c, e di nuovo nel 191, quando ebbe il comando della flotta nella Guerra contro Antioco, e sconfisse l'ammiraglio Seleucide Polyxenidas. Fu di nuovo console nel 188.

    Gaio Livio Druso - console nel 147 a.c.

    - Marco Livio Druso tribuno della plebe (122 a.c.), console (112 a.c.) e censore (109 a.c.)

    Marco Livio Druso - figlio omonimo del precedente, tribuno nel 91 a.c.

      - Mamerco Emilio Lepido Liviano - console nel 77 a.c., era originariamente un Livio, ma fu adottato dagli Emili Lepidii. Era un sostenitore del partito di Silla, gli ottimati, ma fu uno di quelli che persuasero Silla a risparmiare la vita del futuro dittatore, Gaio Giulio Cesare.

      Tito Livio - (59 a.c. - 17 d.c.), storico e autore del libro Ab Urbe Condita, fine Repubblica e impero di Augusto. Non scrisse nulla della sua famiglia, e altri storici hanno riferito che era nato a Patavium (Padova), e che aveva un figlio e una figlia, la quale sposò un certo Lucio Magio. Si ritiene che due iscrizioni di Patavium nel Corpus Inscriptionum Latinarum segnino il luogo di morte di Livio e diversi membri della sua famiglia.

      - Gaio Livio  - forse il padre dello storico.

      - Tito Livio Prisco - probabilmente il primogenito dello storico.

      - Tito Livio Longo - forse il figlio minore dello storico.

      - Livia Quarta - forse una figlia dello storico, se è la stessa figlia che ha sposato Lucio Magio, non è menzionato sull'epigrafe.

      - Tito Livio Liviae Quartae - l. Halys, liberato di Livia Quarta. La sua iscrizione funebre fu dissotterrata nel monastero di Santa Giustina a Padova nel 1360, seguita nel 1413 dallo scavo di una bara di piombo nella stessa posizione, contenente uno scheletro umano. A causa di un fraintendimento dell'iscrizione della tavoletta, i resti avrebbero dovuto appartenere allo storico, piuttosto che a un liberto, fino a quando ulteriori scavi a Padova spiegarono il vero significato dell'iscrizione.

      AEDES MEFITIS

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      TESTE DI MEFITE
      L'aedes Mefitis si sovrappose al Lucus Mefitis, anche per la ragione dell'estendersi dell'area abitativa che pian piano invase i vari boschi, sacri e non.

      Varrone menziona il bosco di Mefite prima di quello di Giunone Lucina: ora siccome quest'ultimo bosco deve certamente collocarsi sul Cispio dopo il lucus Poetelius, cosi è molto probabile che il bosco di Mefite stesse tra il Poetelio ed il lucus di Giunone Lucina, precisamente dove ora comincia la via Urbana.

      La Dea Mefite era un antichissimo culto legato alla Dea delle acque sulfuree, soprattutto venerata nell'Italia centrale, dove rappresentava il lato mortifero della Dea, come colei che fa nascere, nutre e fa morire.

      Spesso le acque solfuree con i loro densi vapori e l'assenza di vegetazione all'intorno, venivano considerate l'ingresso al mondo dei morti, pertanto la Mefite era Dea della morte e dell'oltretomba, anche come protettrice del viaggio nel mondo degli inferi. Si suppone fosse un bosco di mirto perchè sovente era consacrato alla Dea Venere ma pure a Mefitis, uno degli antichi lati mortiferi della Dea.

      IN ROSSO L'AREA IN CUI RISIEDEVA PRESUMIBILMENTE L'AEDES MEFITIS
      L'Aedes Mefitis era dunque l'Aedes del Tempio di Mefite sul Cispian, ovvero sul Mons Cispius che domina il Vicus Patricius (Festus 476: aedis Mefitis; Varro, Ling. 5.49: lacus Mefitis). Si pensa fosse locata sull'altura del lato Sud del Vicus Patricius, dove la valle è più profonda (Richardson), piuttosto che più a nord sul terreno più pianeggiante vicino a Piazzale Esquilino (Rodríguez Almeida).

      Coarelli suggerisce che una domus appartenente ai Papirii sorgesse ancora in questa zona, sul sito di Vigna Santarelli (per ubicazione, vedi Lanciani, FUR 23), e che questo potrebbe essere appartenuto a un ramo repubblicano della famiglia, o Papirii Cursore o Papirii Carbones. Sostiene altresì anche che un membro di questa famiglia avesse fondato il culto di Mefitis. La teoria di Coarelli è plausibile ma non ancora accertata.

      In origine Mefitis era una Dea italica ctonia protettrice delle sorgenti, ma anche degli armenti che del resto alle sorgenti si abbeveravano, ma pure dei campi e della fecondità, anche questi favoriti dalle acque irrigue.

      MEFITE
      Proprio in quanto divinità agreste la sua influenza si estendeva alla protezione e prosperità anche del mercato e dello scambio, detta pertanto La Mediatrice, e proprio nell'aedes dei suoi santuari, luogo di incontro  tra venerazione e commercio degli armenti e delle mercanzie.

      In seguito Mefite assicurò pure i benefici derivanti dall'utilizzo delle acque termali e quindi solforose connesse alla valenza di "sanatio", dal momento che le acque ed i fanghi solforosi, per il loro alto contenuto di zolfo, potevano essere adoperati per la cura di malattie umane ed animali.

      Servio, il commentatore di Virgilio che nell'Eneide ne parla a proposito della Valle
      d'Ansanto sostiene che: "Mefite è propriamente il puzzo della terra che esala dalle acque solforose e
      nei boschi è reso più pungente per la densità delle selve... "

      Sempre Servio racconta che le vittime sacrificali dedicate alla divinità non venivano immolate ma uccise espondendole abbastanza a lungo all'odore soffocante:
      "Ideo autem ibi aditus esse dicitur inferorum, quod gravis odor iuxta 
      accedentes necat, adeo ut victimae circa hunc /
      ocum non immolarentur, sed odore perirent ad aquam adp/
      icatae, et hoc erat genus litationis"

      (SERV., Ad Aen., VII, 563 ss.)

      "La situazione del tempio di Minerva Medica, sull'altura es luilina dell'Oppio, viene in certo modo a ribattere il luco e tempio di MeJite che erano sul Cispio; luoghi anticamente riguardati zone insalubri, per la prossitnità dei puticuli che funestavano molta parte dell'Esquilino. "
      (Topografia di Roma antica - Luigi Borsari)

      La localizzazione dei due edifici religiosi non è conosciuta, ma sappiamo dalle fonti che il tempio di Mefite sorgeva in una zona bassa del versante del Cispio rivolta verso il vicus Patricius, individuato nell'attuale via Urbana, che lo divideva dall'altura del Viminale (eam partem Esqui/iarum, quae iacer ad vicum Patricium versus, in qua regione est aedis Mefitis; Fest. 476 L). 

      TESTA DI MEFITE
      Anche il tempio di luno Lucina fu eretto sulle pendici del Cispio considerando la testimonianza di Ovidio riguardante il bosco sacro (monte sub Esquilio), ma non sappiamo se in posizione più elevata rispetto al tempio di Mefite. 

      La presenza però di un'iscrizione menzionante l'esistenza di un murus costruito nel 41 a.c. ad opera 
      del questore Q. Pedius (C.I.L. VI 358- I.L.S. 3102 - I.LL.R.P 160) ha fatto pensare alla sua funzione quale semplice recinzione per il bosco e il tempio, ma anche che facesse da sostruzione a una platea artificiale evidentemente costruita per la pendenza del terreno sulla quale fu costruito il tempio, in una posizione quindi più alta rispetto a quello di Mefite. 

      Viene citata però Giunone Dea del Fetore, o Giunone Mefite, adorata e supplicata dallo stesso re Servio Tullio affinchè risparmiasse la città da tale fetore mortifero. Come Venere aveva il suo lato oscuro così doveva averne la regina Giunone. Alcuni hanno così sostenuto che l'aedes Mefitis e quello Iunonis fossero la stessa area. 

      Comunque l'aedes era una zona recintata, a volte con steccati di legno o con muretti a secco di pietra, al cui centro c'era un altare a volte istoriato e in genere con un'iscrizione che riportava la dedica alla statua della divinità riposta sul piedistallo. Ai suoi piedi i sacerdoti compivano i sacrifici rituali e i cittadini assistevano spesso bruciando rami dell'albero sacro alla Dea, in questo caso, il mirto, recitando preghiere rituali.




      BATTAGLIA DI ASCOLI SATRIANO

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      La battaglia di Ascoli Satriano (provincia di Foggia) è avvenuta in Puglia, nel subappennino dauno, nel 279 a.c. tra i Romani, agli ordini dei consoli Publio Decio Mure e Publio Sulpicio Saverrione, e le forze unite tarantine, sannite ed epirote, sotto il comando di Pirro re dell'Epiro. Il subappennino dauno faceva parte della Daunia, un distretto della Puglia settentrionale che corrisponde approssimativamente all'attuale provincia di Foggia.

      Lo scopo del conflitto era il controllo della Magna Grecia e la battaglia fu combattuta tra il torrente Carapelle ed i monti Carpinelli, in una piana non abbastanza capiente sia per la cavalleria che per lo schieramento dei 19 elefanti di Pirro aveva recato.


      L'ANTEFATTO

      Pirro pensava che una volta attraversato l'Appennino, contava di piombare sul basso Lazio e di prendere Roma di sorpresa. 

      PIRRO
      Ma i servizi segreti di Roma erano efficientissimi e sempre in azione, così allertarono i generali romani che attirarono l'esercito nemico tra il torrente Carapelle ed i monti Carpinelli, in una piana non vasta abbastanza per la cavalleria avversaria e per lo schieramento dei 19 elefanti. 

      Anche la falange macedone richiedeva ampi spazi per poter agire al massimo, mentre le compatte legioni romane richiedevano spazi di manovra più ridotti.
      Avendo dunque Pirro assediato Ausculum, l'esercito romano comandato dai consoli Publio Sulpicio Saverrione e Publio Decio Mure, corse in aiuto della città. Accanto ai legionari romani si erano allineati:

      - gli Umbri,
      - i Marrucini,
      - i Peligni,
      - i Frentani
      - gli Arpani,

      Di questi 20.000 erano cittadini romani e 8.000 cavalieri, quindi i combattenti migliori, ma con gli altri contavano oltre 70.000 uomini.

      Pirro, contando su una gloriosa battaglia per far insorgere con lui tutta l'Italia meridionale, subito si schierò in battaglia, raccogliendo nel suo esercito:

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      - truppe epirote e macedoni,
      - mercenari tarantini,
      - reparti di re Tolomeo Cerauno di Macedonia,
      - fanti e cavalieri mercenari dell'Etolia,
      - mercenari della Acarnania,
      - mercenari dell'Atamania,
      - fanti Lucani,
      - fanti Bruzi
      - fanti Sanniti,
      - oltre a disertori oschi e sanniti.
      In tutto erano ben 70.000 fanti; 16.000 dei quali erano greci ed epiroti, oltre 8.000 cavalieri e 19 elefanti.

      Conoscendo la composizione consueta delle fanterie romane di epoca repubblicana - per una metà cittadini e per l'altra socii - ed accostandovi il dato offerto da Frontino - che parla di circa 40.000 uomini per parte - è plausibile pensare ai 70.000 fanti e 8.000 cavalieri come al totale dei combattenti scesi in campo: con una leggera superiorità numerica di Pirro nei cavalieri, e una più consistente di Roma nella fanteria (come riferisce Dionigi).
      La battaglia durò due giorni, interrotta solo al tramonto.



      I GIORNO

      L'esercito romano iniziò a fare la guerriglia contro gli Epiroti, e quando un manipolo di legionari veniva sgominato, un altro prendeva il suo posto. così i Greci ebbero nel primo giorno la peggio, poiché non riuscirono né a distendere la loro fanteria sulle sponde scoscese e paludose dei fiumi, dove furono costretti ad accettare la battaglia, né a spingere nella mischia la cavalleria e gli elefanti.

      Infine la I legione indietreggiò pressata dall'ala sinistra epirota dotata di elefanti, ma il centro di questo schieramento dove si battevano i mercenari tarantini, gli oschi ed i sanniti, fu spazzato via dalla III e dalla IV legione romana. Intanto i Dauni andarono a saccheggiare il campo di Pirro assieme alla I legione romana, ma vennero ricacciati dalla cavalleria epirota. Rifugiati però nei boschi, sfuggirono agli Epiroti. La cavalleria greca venne, a sua volta, attaccata e dispersa da quella romana.



      II GIORNO

      Nel secondo giorno invece Pirro prevenne i Romani nell'occupazione del colle e del bosco dove si erano rifugiati i romani, e raggiunse così senza perdite la pianura, dove egli poté con agio dispiegare la falange. In questo scontro sanguinario ciò che animò il coraggio dei Romani, fu il Console Publio Decio Mure, che vista la possibilità della sconfitta, spiega le sue legioni e non esita a sacrificarsi, come aveva fatto suo padre e il suo avo.

      Intanto i Greci avevano la meglio ma Pirro, nel più forte della mischia venne ferito e costretto a ritirarsi nella sua tenda. Questo incidente cambiò le sorti della battaglia, pur lasciando immutato l'esito finale.
      Nel secondo giorno Pirro, all'alba, fece occupare il Secondo Frontino, il re schierò a destra i Sanniti (con gli ipaspisti, corpo macedone); al centro la falange epirota appoggiata dai Tarantini; a sinistra gli ausiliari Lucani, Bruzi e Messapi. I romani dovettero scontrarsi in campo aperto con gli Epiroti, ma la falange, su un terreno accidentato, non riusciva ad assicurare la compattezza indispensabile a sopraffare le legioni romane.


      IL SACRIFICIO DI DECIO MURE

      DECIO MURE

      In questa battaglia morì il console Publio Decio Mure immolandosi con una Devotio. Già nella Battaglia di Sentino nel 295, un altro Decio Mure avrebbe pronunciato queste parole quale rito magico prima di immolarsi per la salvezza di Roma:

      « Perché ritardo il destino della mia famiglia? È questa la sorte data alla nostra stirpe, di esser vittime espiatorie nei pericoli dello Stato. Ora offrirò con me le legioni nemiche in sacrificio alla Terra e agli dei Mani!". 

      Pronunciate queste parole, ordinò al pontefice Marco Livio, al quale aveva ingiunto di non allontanarsi da lui mentre scendevano in campo, di recitargli la formula con cui offrire sé stesso e le legioni nemiche per l'esercito romano dei Quiriti. 

      Si consacrò in voto recitando la stessa preghiera, indossando lo stesso abbigliamento con cui presso il fiume Vesseri si era consacrato il padre Publio Decio durante la guerra contro i Latini,  avendo aggiunto alla formula di rito il suo intento di gettare di fronte a sé la paura, la fuga, il massacro, il sangue, il risentimento degli Dei celesti e di quelli infernali, e quella di funestare con imprecazioni di morte le insegne, le armi e le difese dei nemici. 

      Aggiunse che lo stesso luogo avrebbe unito la sua rovina e quella di Galli e Sanniti, lanciate dunque tutte queste maledizioni sulla propria persona e sui nemici, spronò il cavallo là dove vedeva che le schiere dei Galli erano più compatte, e trovò la morte offrendo il proprio corpo alle frecce nemiche »


      L'ESERCITO DI PIRRO

      GLI ELEFANTI

      Allora Pirro decise di far intervenire gli elefanti per sfondare le linee romane, e vi riuscì, inutilmente i romani tentarono di fermarli con carri speciali di loro invenzione.

      Però ci riuscirono bombardandoli di dardi e giavellotti, tanto che Pirro stesso fu colpito da un giavellotto alla fine della battaglia.

      I romani si ritirarono asserragliandosi nel loro campo, mentre gli Epiroti dovettero faticare non poco a calmare gli elefanti impazziti dal dolore per le ferite di frecce e lance.


      Breviario di storia romana II, VIII

      "L’utilizzo di elefanti da guerra è attestato anche nella battaglia di Ascoli Satriano (279 a.c.), nella quale, ci riferisce Dionigi di Alicarnasso (Antichità romane, XX, 12, 3 e 1, 6-8), i diciannove elefanti indiani di Pirro erano guidati da Indiani. In quest’occasione lo spavento che gli animali avevano suscitato in precedenza si era dissipato, come dimostra l’aneddoto riportato da Floro (Op. cit., I, XVIII, 46) su Caius Minucidus, astato della IV Legione: avendo questi reciso la proboscide di un elefante ne aveva causato la morte, dimostrando come tali animali non fossero invincibili."
      (Rodolfo Lanciani)



      LA SCONFITTA

      La battaglia fu vinta dalla lega tarantina ma con forti perdite.

      « Gli eserciti si separarono; e, da quel che si dice, Pirro rispose a uno che gli esternava la gioia per la vittoria che "un'altra vittoria così e si sarebbe rovinato".
      Questo perché aveva perso gran parte delle forze che aveva portato con sé, quasi tutti i suoi migliori amici e i suoi principali comandanti; non c'erano altri che potessero essere arruolati, e i confederati italici non collaboravano. 
      Dall'altra parte, come una fontana che scorresse fuori dalla città, il campo romano veniva riempito rapidamente e a completezza di uomini freschi, per niente abbattuti dalle perdite sostenute, ma dalla loro stessa rabbia capaci di raccogliere nuove forze, e nuova risolutezza per continuare la guerra. »

      Ci fu anche un'altra frase celebre pronunciata da Pirro: "Se avessi avuto io soldati come quelli romani, io avrei dominato il mondo."
      (Plutarco)



      L'EPILOGO

      Gli epiroti vinsero ma inutilmente, perchè né i Sanniti, nè i Latini, nè gli Etruschi, nè gli altri popoli italici si ribellarono ai Romani. I Greci di Napoli e di Cuma rimasero alleati ai Romani. Roma stessa non poté esser assalita da Pirro ormai senza esercito. I Romani definirono "Vittoria di Pirro" quella ottenuta a caro prezzo e senza vantaggi.

      VIA AMERINA

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      La via Amerina prendeva il suo nome dalla prima città umbra che raggiungeva, Ameria, ma fu detta anche via Veientana perchè partiva da Veio. Essa fu un'importante via di collegamento tra Roma e i principali centri dell'Umbria, edificata nel 241-240 a.c., pavimentando tutto il percorso con un basolato di selce basaltica e in parte trachite (roccia magmatica).

      Infatti fu edificata  seguendo vari tracciati di  antiche piste etrusche che collegavano Veio con Ameria (Amelia) attraverso tutto il territorio falisco e toccando i suoi principali centri: Nepet (Nepi), Falerii (Civita Castellana), Fescennium (Corchiano), Gallese, Vasanello e Hortae (Orte).

      Anche a nord di Ameria la via riprese altri antichi collegamenti che toccavano Tuder (Todi), Vettonae (Bettona) e Perusia (Perugia), poi dirottava verso l'Adriatico attraverso i territori Umbri. Falisci, Veienti e Capenati. A partire dal IV secolo a.c. tutte queste zone vennero romanizzate con le leggi, l'organizzazione politica, religiosa e militare romana.

      STRADA IN TRACHITE
      La via Armerina, come riferisce Cicerone nell'Orazione Pro Sexto Roscio Amerino (80 a.c.), aveva una lunghezza di circa 56 miglia. La Tavola Peutingeriana (composta da varie sezioni che vanno dal II sec. a.c. - IV sec. d.c.) ne registra 55: 21 da Roma alla mansio ad Vacanas sulla Cassia e altre 34 fino ad Ameria, informando che la strada proseguiva verso Todi, Bettona e Perugia per poi confluire sulla Cassia a Chiusi.

      All'uscita di Perugia l'Armerina si biforcava: un ramo andava verso ovest a Chiusi ed un altro invece raggiungeva Gubbio e a Luceoli (Cantiano) attraverso il passo di Scheggia si congiungeva con la via Flaminia.

      Il tracciato della via Amerina, che prima del 241 iniziava da Veio, distrutta dai romani intorno al 396 a.c., venne poi collegato con Roma partendo presumibilmente da ponte Milvio. Poi la Cassia  inglobò il primo tratto della via Amerina fino alla mansio ad Vacanas (valle di Baccano), vicino all'attuale Campagnano di Roma, da dove poi la Cassia proseguiva verso la Tuscia, mentre l'Amerina si dirigeva verso Ameria.

      NECROPOLI ROMANA DI TRE PONTI

      MANSIO AD VACANAS

      La Mansio ad Vacanas era una stazione di posta del I sec. d.c. al XX miglio della Via Cassia, (comune di Campagnano di Roma) su strutture di epoca repubblicana, per viaggiatori che andavano da e verso l'Etruria settentrionale.

      La attrezzatissima mansio disponeva di camere, impianti termali, botteghe, stalle e rimesse per i cavalli, una caserma per i soldati, la piazza del mercato, e un portico con fontana. Era una specie di paesino (pagus) abitato da varie persone che lì lavoravano tenendo efficienti molteplici servizi.  Cadde in disuso con la caduta dell'impero e venne spogliata di tutti gli ornamenti e i rivestimenti marmorei. 

      La mansio venne scoperta nel novembre del 1979, durante i lavori di ampliamento della Via Cassia e soprattutto nel Cavo degli Zucchi si può ammirare il basolato romano in ottimo stato. Vi restano antichi ponti crollati ed altri miracolosamente ancora eretti su profonde gole, nonché piccoli colombari a cielo aperto e resti di sepolture monumentali.

      LA NECROPOLI

      I BARBARI

      Con la calata dei barbari gli Ostrogoti di Teodorico e Totila nel 548, dopo Perugia, devastarono anche Amelia, e i Longobardi crearono il loro regno spezzando l'unità politica della penisola. Su questa via si svolsero anche diversi scontri, sia durante la Guerra gotica (che devastò il territorio umbro), che durante la guerra tra Longobardi e Bizantini.

      In questo periodo caddero pertanto le istituzioni ereditate dall'Impero d'Occidente come il magister militum (equivalente romano del Generale) e il Praefectus urbi (il prefetto di Roma), cariche che i pontefici romani si assunsero ampliando notevolmente il loro potere temporale.

      PONTE ROMANO

      IL CORRIDOIO BIZANTINO

      I regno longobardo, che comprendeva tutta l'Italia settentrionale, la Tuscia (Langobardia Maior), il ducato di Spoleto e quello di Benevento (Langobardia Minor), aveva al suo centro dei possedimenti Bizantini, collegati tra loro da uno stretto lembo di terra che costeggiava il Tevere con la via Amerina. 

      TRAPEZOFORO
      MARMOREO
      I Bizantini difesero questa via per oltre duecento anni, con un sistema di torri e castra (fortificazioni) posti tra le principali città, dando luogo al cosiddetto "Corridoio Bizantino". 

      Nel 742 il re longobardo Liutprando fece dono a Papa Zaccaria del suddetto corridoio, che interessava le città di Ameria, Orte, Gallese, Bomarzo e Blera, ma già pochi decenni prima era avvenuta la donazione al papa di Nepi e Sutri, altre città gravitanti sulla via Amerina. 

      La strada, che partiva da Roma, proseguiva in linea retta verso nord toccando Nepi ed Orte, sulla sponda sinistra del Tevere. Attraversata Orte si portava sul lato destro del fiume, passando per Todi e di nuovo sul lato sinistro toccando Perugia.

      Snodandosi accanto alla Flaminia che durante il crollo dell’impero romano per circa tre secoli e mezzo diventò insicura, la Via Amerina le subentrò come strada maestra per dirigersi verso Roma per chi fosse venuto dall’Est europeo o dalla nostra riviera Adriatica.

      Dopo la sottomissione dei longobardi al Regno franco (a opera di Carlo Magno, nel 774), l'importanza strategica della via Amerina venne a cadere. Ne rimangono comunque imponenti resti, soprattutto nel tratto che attraversa le tombe del Cavo degli Zucchi e costeggia le mura di Falerii Novi.


      MANSIO AD VACANAS

      VIA VEIENTANA ( Fonte )

      Nel 2008, durante i lavori di ampliamento del Grande Raccordo Anulare per la realizzazione del nuovo viadotto, all’altezza del fosso della Crescenza, la Soprintendenza Archeologica di Roma realizzò dei sondaggi per permettere all’ANAS il posizionamento dei piloni d’appoggio senza che questi interferissero con eventuali strutture antiche presenti.

      Nel 1962 il Prof. Ward Perkins della British School at Rome eseguì delle indagini in quel punto, mettendo in luce resti di costruzioni quali il ponte dell’antica Via Veientana Vetus sul Fosso della Crescenza e un mausoleo di prima età imperiale.

      Per 5 secoli Veio controllò il territorio che arrivava al Tevere e di lì fino al mare il cosiddetto Ager Veientanus attraverso una serie di strade di collegamento, la più importante delle quali fu la via Veientana.

      Il tracciato etrusco del tratto più meridionale ricalcava il percorso che dal II sec.d.c. sarà poi quello della via Cassia.

      All’altezza della tomba cosiddetta di Nerone deviava quindi verso oriente per raggiungere la città di Veio.

      Nella Valle del Baccano, questo toponimo nasce perché sulla vetta più alta del vicino Monte Razzano era presente un’area sacra dedicata a Bacco, da cui deriverebbe il toponimo di ad Baccanas-Baccano, sorgeva un vero complesso alberghiero con tutte le comodità: ristoranti, terme, negozi, rimessa per i carri e stalle per i cavalli.

      Anche il complesso ritrovato sulla Via Veientana ha una serie di ambienti differenziati che suggerirebbero appunto l’esistenza di una Mansio. Proprio in uno di questi ambienti termali è stato scoperto un mosaico pavimentale perfettamente conservato.

      COMPITALIA (2-5 Gennaio)

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      CASA DEI VETTII (POMPEI)

      I "compita" (al singolare "compitum") erano gli incroci stradali suddivisi in:
      - bivii,
      - trivii
      - crocicchi
      dove fin dai tempi più antichi a Roma venivano consacrati spesso degli altari dedicati ai Lares Compitales, protettori di chi percorreva le strade. Inoltre spesso davano il nome alle strade partendo da una particolare edicola compitale, e spesso i romani passando gli dedicavano un saluto o una frase come possono fare dei cattolici alle cosiddette Madonnine.

      Edicole e altari, che nelle strade rurali segnalavano e proteggevano i confini fra i campi, all'interno della città segnavano a volte il confine fra i diversi quartieri, ed erano il fulcro di cerimonie officiate dai magistri vici, magistrati preposti al decoro ed al controllo urbano.



      I LARES COMPITALES

      I Lares Compitales all'interno dell'Urbe, erano divinità protettrici delle strade ed edifici limitrofi all'incrocio stradale su cui era stato elevato un Compito (Compitum), cioè una edicola a foggia di tempietto. Pertanto il compito era l'edicola cittadina, da cui la chiesa cattolica ha ereditato le edicole delle madonnine, solo che l'edicola romana era più grande e spesso fornita di due colonne.

      I Lares erano divinità protettrici della famiglia, costituita anche da liberi e schiavi. Infatti era una festa a cui partecipavano principalmente gli schiavi e gli affrancati. In onore di queste divinità erano stati istituiti i Compitalia (Ludi Compitalicii o Ludi Compitali), una festività preromana e romana che prevedeva anche dei ludi, celebrata una volta all'anno in onore dei Lares Compitales.


      GENIUS AUGUSTUS

      I LUDI COMPITALIA

      I ludi compitalia consistevano in gare di lotta, corse dei cavalli e gare di poesia e recitazione, ma vennero aboliti insieme a tutta la festa nel 64 a.c., durante il periodo delle guerre civili. Ripristinati alcuni anni dopo, furono di nuovo soppressi da Giulio Cesare.

      Ma Augusto le ripristinò e anzi insieme ai lares compitales fece porre delle edicole con l'immagine del Geniu Augustalis, il genio di Augusto che proteggeva il popolo romano. Poichè appariva a tutti i crocicchi era una pubblicità molto efficace:

      « [Augusto] ripristinò alcune antiche tradizioni religiose che erano cadute in disuso, come i Ludi Saeculares e quelli Compitali. Stabilì che i Lari Compitali fossero adornati di fiori due volte all'anno, in primavera ed estate. »
      (Svetonio, Augustus, 31.)

      Ma la festa venne poi ripetuta e poi spostata in inverno, mantenendo al caratteristica dell'infiorata, non nelle strade ma sulle edicole dei crocicchi e nei templi. Dionigi di Alicarnasso  riferisce che venivano celebrati pochi giorni dopo i Saturnali e Cicerone che cadevano sulle calende di gennaio, ma in una delle sue lettere a Tito Pomponio Attico precisa che la festa cadeva quattro giorni prima delle Nonae di gennaio (il 2 gennaio).

      LA PROCESSIONE

      LA FESTA

      Dionigi di Alicarnasso narra che la festività fosse etrusca e istituita da Servio Tullio, della nazione Etrusca di Vulci, il cui vero nome latinizzato era Mastarna, Macstrna in lingua Etrusca. Infatti i Magistri Vicii che la celebravano indossavano l'abito cerimoniale di Roma e degli Etruschi, la Toga Praetexta (bianca con le due fasce di porpora).
      Dionigi narra ancora che Augusto non solo la ripristinò ma ordinò le infiorate per le strade e pertanto festeggiati in primavera-estate, con processioni, riti e sacrifici. Ma la festa venne però spostata in inverno e le infiorate si fecero nei templi con i fiori di nocciolo ma soprattutto di calendule, fiori che derivarono il nome dalle calende per il periodo della fioritura.

      Alle cerimonie erano addettii magistri vici, o vicomagistri, magistrati preposti al decoro ed al controllo urbano, che non solo organizzavano i ludi ma pure la festa dove si portavano in processione le statuette dei Lari e si compivano sacrifici e libagioni da parte dei vicomagistri.

      Macrobio e pure Aulo Gellio ci tramandano la formula con cui la festa veniva annunciata: “Die noni popolo romano quiritibus compitalia erunt".

      Dionigi di Alicarnasso narra che  in quell'occasione si offrivano come sacrifici dolci di miele che venivano in realtà benedetti e poi offerti in ogni casa. Gli officianti del rito non sarebbero stati uomini liberi ma schiavi, per volere stesso dei Lari. Peraltro durante i Compitalia gli schiavi perdevano i loro doveri verso i loro padroni.

      Durante la celebrazione della festività ogni famiglia appendeva al portone della propria casa, una statuetta della Dea Mania. Inoltre sui portoni i romani appendevano figure fatte col filo di lana a effigie di uomini e donne, accompagnante da richieste e protezioni ai Lari. Per quanto riguarda gli schiavi anziché figure di uomini, appendevano sfere o i panni di lana.

      EDICOLA COMPITALE
      Secondo Macrobio invece le Compitalia sarebbero state ristabilite da Tarquinio il Superbo, in seguito ad un oracolo che gli chiese in cambio della pace e della prosperità una testa per salvare una testa, così ordinò che si sarebbe dovuto sacrificare dei bambini a Mania, madre dei Lari. Ma Lucio Giunio Bruto, dopo l'espulsione dei Tarquini, sostituì le teste di bambino con quelle di aglio e dei papaveri, così soddisfacendo l'oracolo che avevano richiesto soltanto delle teste, in latino "capita", non specificando di che tipo.

      Sono necessarie delle spiegazioni su diversi fatti:
      - perchè gli officianti erano schiavi
      - perchè si poneva Mania sulla porta
      - perchè si appendevano figure di lana sulla porta
      - perchè gli schiavi invece non appendevano figure
      - se è vero che Tarquinio il Superbo sacrificasse i bambini.

      I Compitalia erano antiche feste preromane che riguardavano una Dea che nel suo aspetto di portatrice di morte era detta Mania. In quel giorno si rendeva omaggio alla Dea dell'Oltretomba con cui i sacerdoti poco avevano piacere di celebrare da un verso, e dall'altro verso il celebrare l'oltretomba sovvertiva parecchio i costumi umani. Pertanto erano gli schiavi ad avere a che fare con la morte e nel sovvertimento delle cose erano liberi, almeno in parte.

      Infatti l'effigie della Dea Mania aveva lo scopo di allontanare la morte dai propri cari, ma in tal caso di augurarne un po' ai meno cari. Infatti la ragione per cui non veniva concesso agli schiavi di fare le figure di lana sta nel fatto che si trattava di malefici, e gli schiavi avrebbero in quella notte potuto farne ai propri padroni.

      La Dea Mania era infatti la madre dei Lares, cioè dei geni dei crocicchi, e i malefici si facevano appunto nei crocicchi. Come infatti Venere era Trivia e dominava i postriboli sacri, l'antica Ecate era Quadrivia e dominava i quadrivi, cioè la stregoneria. L'antica Ecate e l'antica Mania, la Dea che produceva la follia, erano l'identica divinità, la Dea Maga.

      In quanto ai sacrifici umani si sa che è stato detto di tutti i nemici, compresi i cartaginesi, i sumeri,  e pure i cristiani. I romani giudicavano barbari i sacrifici umani che a Roma, in tutta la sua durata, vennero fatti solo due volte, e in momenti di tragica follia. Gli etruschi poi non sacrificarono mai i bambini, e nemmeno gli adulti.



      3-4-5 GENNAIO - COMPITALIA PER LA DEA PAX

      La religione dei romani era fortemente legata alla sfera civile, familiare e socio-politica. Il culto verso gli Dei era un dovere morale e civico, in quanto solamente la pietas, quindi l'homo pius, ovvero il rispetto per il sacro e l'adempimento dei riti, poteva assicurare la Pax Deorum per il bene della città, della famiglia e dell'individuo.

      La Dea Pax provvedeva pertanto alla tutela dei romani e delle loro istituzioni, a iniziare da quella degli schiavi, la manodopera a buon mercato che tanta ricchezza portò si romani. Per questo di festeggiarono le Compitalia per la Dea Pax, a sottolineare la protezione della Dea per tutti, non solo per i romani, ma pure per gli schiavi. Insomma una Dea Madre a cui ricorrere.

      Si facevano inoltre riti e voti alla Dea Salus per la salute del princeps. La Pax Romana, la salute e la fortuna dello stato dipendeva dal suo princeps, pertanto officiare in suo favore ovvero per la sua salute significava pregare per la protezione non solo del princeps ma del suo Genius, a cominciare da quello di Augusto che assicurava il popolo e la Pax Romana.

      Si faceva la processione, si officiava davanti al tempio e veniva offerto un bue che, cotto e mangiato, veniva distribuito al popolo insieme a delle focacce.

      CAMPANE E CAMPANELLI ROMANI

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      TINTINNABULA
      "Strumento di metallo fatto a guisa di vaso arrovesciato il quale con un battaglio di ferro sospesovi entro si suona a diversi effetti come per adunare il popolo e i magistrati o per chiamare ai divini ufficj et simili cose"

      Sull'origine delle campane sono state fatte diverse ricerche e molte ipotesi. Lo studioso Athanasius Kircher ne fa risalire l'invenzione agli antichi Egizi ma non vi sono prove sufficienti per accettarlo.

      Naturalmente rientrano nella categoria anche i campanelli o le campanelle che sembra venissero adoperati anche dagli antichi ebrei  i cui sacerdoti li appendevano alle loro vesti, anzi il gran sacerdote si guarniva la veste addirittura con campanelle d'oro.

      D'altronde Giuseppe Ebreo narra nel suo libro "Antichità giudaiche", che si usavano le campanelle per le sacre cerimonie già nel tempio di Salomone. Naturalmente dall'Egitto al regno di Israele il passo è breve, se l'oggetto era conosciuto dall'uno sicuramente lo era anche dall'altro.

      In quanto ai Greci sappiamo che ad Atene i sacerdoti di Proserpina chiamavano il popolo ad assistere ai Sacri Misteri suonando una campana, ma pure i mercanti di pesci chiamavano i compratori ai mercati con un campanello.
      D'altronde i sacerdoti di Cibele, i cosiddetti "Galli", si servivano di campanelle e di sonagli nelle loro cerimonie sacre, per creare suoni un po' caotici che accompagnassero le loro danze ispirate e selvagge.

      Dobbiamo però pensare che le campanelle esistessero in tempi preromani anche nel suolo italico, innanzi tutto per greggi e armenti, come unico modo di impedire ai pastori di perdersi gli animali durante il pascolo.

      FASCINUS
      Infatti l'uso di mettere campanelli al collo degli animali da allevamento, soprattutto delle pecore, le ha fatte chiamare da Sidonio "greges tintinnibulatos". Ma tali tintinnabuli venivano posti dai romani anche sui cavalli e sui muli. In genere il capogregge e il capomandria portavano la campana più grande per fare riferimento al branco che lo seguiva.

      Ma le campane, ovvero i campanacci, vennero attaccati anche agli elefanti di Annibale prima e dei romani poi. Comunque Persiani, Greci e Romani conoscessero l'uso delle campane e delle campanelle, come ci riportano sia Tibullo che Polibio e pure Strabone le cita nella sua "Geografia".

      Eschilo infatti dichiara che Tideo portava campanelli attaccati al manico del suo scudo onde fare più schiamazzo e terrorizzare i nemici, ed Euripide ne ha adornato lo scudo di Reso re di Tracia e il pettorale dei suoi cavalli. Gli etruschi conoscevano molto bene l'uso delle campanelle sugli animali.
      La chiesa narrò che verso l'anno 400 d.c. fu San Paolino, vescovo di Nola, in Campania, ad introdurre nella sua chiesa l'uso delle campane per chiamare i fedeli alle varie cerimonie e per distinguere tra di loro le ore canoniche.

      FASCINUS
      Il nome latino  "aes campanum", da cui derivò il nome italiano di campana, dimostra però che l'uso fu antecedente ai tempi di San Paolino, e dimostra altresì che lo strumento proveniva dalla Campania ma non necessariamente da Nola.

      Ora sappiamo che i romani facevano largo uso di campanelle, ad esempio nella celebrazione dei Baccanali, infatti in un bassorilievo del Campidoglio rappresentante il trionfo di Bacco si mostra un baccante alla cui tunica sono attaccati dinanzi e di dietro parecchi campanelli per produrre vari suoni e tintinnii mentre danza.

      Inoltre il soldato incaricato di far la ronda di notte nelle fortezze e negli accampamenti passava suonando un campanello. L'usanza riguardò anche l'Urbe, ma in seguito fu soppressa per non infastidire i dormienti.

      Gli iniziati ai misteri di Bacco facevano scolpire le campanelle nelle loro sepolture insieme ai simboli e agli altri attributi del Dio. Infatti molto spesso sui sarcofagi baccanali o trionfi di Bacco insieme al tirso e alla corba mistica compaiono i campanelli.

      L'asino di Sileno infatti porta in genere un campanello appeso al collo e con questo tintinnio introduceva il corteo di Bacco.

      I tintinnaboli romani, quasi sempre in bronzo, erano soprattutto dei portafortuna "I campanelli d'un Priapo di Portici sono di bronzo damaschinati d'argento." 

      Il tintinnabulum, che nel VI secolo d.c. divennnero tintinnum) era un sonaglio azionato dal vento e composto da più campanelle legate ad un'unica struttura, un po' come quelli orientali che si pongono nelle case o nei templi buddisti.


      Spesso il tintinnabulum riguardava il Fascinus, una figura magico-religiosa che aveva il compito di allontanare il malocchio e portare fortuna e prosperità. Plinio il Vecchio, è lui a chiamarlo in questo modo, afferma che l'amuleto fascinus funziona da medicus invidiae, ossia un rimedio per l'invidia ed il malocchio.

      Sovente il Fascinus era dotato di gambe animalesche che ne aumentavano l'efficacia. I tintinnabula erano appesi sull'uscio delle abitazioni e davanti ai negozii assieme ad una lampada. Si pensa che sia la figura fallica che il suono provocato dal vento fossero considerati come elementi apotropaici.
      Presso gli etruschi i tintinnabula erano molto decorati. Nel Museo civico archeologico di Bologna se ne conserva uno su cui sono rappresentate donne che filano, tessono e cardano la lana.

      Talvolta il tintinnabulum era o argentato oppure direttamente d'argento, per il valore ma soprattutto per il suono argentino che produceva quando veniva percosso. Era il gesto della percussione, secondo i credo romani, a portare fortuna.

      PRIAPO FASCINUS
      Nei funerali romani si portavano pure alcuni campanelli per avvertirne il Flamine di Giove, talvolta fosse a passare di là, temendo che il pontefice non contraesse una impurità religiosa e legale se udisse il suono dei flauti dei funerali. I campanelli, udibili da lungi e posti all'inizio del corteo avvertivano il sacerdote affinchè cambiasse strada. 

      Evidentemente per lo stesso motivo si attaccavano campanelli al collo del delinquenti che venivano tratti al supplizio Per lo stesso motivo forse si attaccavano campanelli al collo del delinquenti che venivano tratti al supplizio.

      L'apertura dei bagni e delle terme a Roma venivano annunciati al suono di campanello, e altrettanto la loro chiusura. Orsino narra che se ne trovò uno di bronzo nelle rovine delle Terme di Diocleziano sul quale erano scritte queste parole "firmi balneatoris"

      Un campanello svegliava gli schiavi e li chiamava al lavoro, ma pure nelle scuole pubbliche l'orario di entrata veniva annunciato con un agitazione del campanello. In quanto ai campanelli d uso domestico, se ne usavano per dirigere gli schiavi soprattutto nei banchetti. 

      Anche le donne romane usarono dei campanellini d'argento come scaccia malefici, appendendoli però alle orecchie e trasformandole in graziosi orecchini che tintinnavano al passo delle donne come piacevole arma di seduzione oltre che di scaramanzia.

      VOLSINII NOVI - BOLSENA (Lazio)

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      CASA DELLE PITTURE

      VELZNA E VOLSINII VETERES

      La città stato di Velzna sorgeva su una rupe abitata per la prima volta dagli Etruschi tra il IX e l'VIII sec. a.c..

      Attualmente si identifica l'antico centro dal nome etrusco di Velzna con quello indicato con il nome latino di Volsinii Veteres (o Urbs Vetus) e quindi con Orvieto, secondo la proposta avanzata dalla studioso tedesco Muller nel corso del XIX secolo.

      La popolazione di Velzna era molto abile nella produzione del bucchero e nella lavorazione del bronzo si che dagli inizi del VI sec. a.c., esportò manufatti di alto pregio. La città prosperò e gli autori romani, contemporanei e non, la esaltarono nei loro scritti.

      Velzna fu uno dei dodici centri riuniti nella Dodecapoli Etrusca (una coalizione di città, su un'alleanza di tipo economico, religioso e militare tra i centri etruschi delle attuali Umbria, Toscana e Lazio settentrionale) e fu in molte circostanze nemica di Roma.



      LA GUERRA CON ROMA
      CASA DELLE PITTURE

      I romani davano in genere diverse possibilità di adeguarsi allo stile e al potere romano, proponendo alleanze, tregue e altro.

      Ma gli etruschi erano un popolo molto indipendente per potersi adattare a uno stile subalterno, per cui, dopo numerosi scontri, avvenuti nel corso del IV sec. e agli inizi del III, la città di Velzna venne distrutta dai romani, agli ordini del console Fulvio Flacco, nel 264 a.c..

      Probabilmente la causa dello scontro finale fu l'avvento a Velzna di un'amministrazione popolare al posto di un precedente governo oligarchico e filo romano.



      VOLSINII NOVI

      Gli abitanti di Velzna, dopo la tremenda sconfitta, furono costretti ad abbandonare ciò che restava della loro città, ed a trasferirsi sulle alture che sovrastano il lago di Bolsena sulla sponda orientale, fondando Volsinii Novi (da non confondere con Volsinii Veteres), divenuta in seguito alla Guerra Sociale municipio romano, nei pressi del lago di Bolsena.

      Il trasferimento venne imposto dai romani ai superstiti di Velzna che avevano osato estromettere dal governo le classi oligarchiche filo romane di Velzna, e pure per allontanare i nemici vinti dalla principale via di comunicazione tra l'Italia centrale e quella settentrionale, rappresentata dal Tevere e dal sistema idrografico Paglia/Chiani/medio e alto Arno. La nuova comunità era dedita alla cerealicoltura, alla produzione di ceramiche e alla lavorazione del bronzo.

      La città, inoltre, occupava una posizione strategica poichè controllava gli itinerari che collegavano le città etrusche, come Caere e Veio, a città dell'entroterra umbro, quali Chiusi e Perugia, e alle città sorte sul delta del Po.



      I ROMANI

      I vincitori, terminata la guerra e eliminati i restanti motivi di pericolo, tornarono indietro e portarono a Roma un ricco bottino, sembra addirittura di duemila statue, in parte offerto agli Dei romani introducendole nei templi.

      Infatti i romani edificarono sull'Aventino un tempio dedicato al Dio Voltumna/ Vortumnus/ Vertumnus/ Vertunno, la principale divinità etrusca venerata a Velzna, trasferendone in tal modo il culto nell'Urbe. Il Santuario di Voltunna, o Fanum Voltumnae, ospitava l'assemblea della Dodecapoli etrusca e sorgeva, forse, nel territorio della distrutta Velzna.

      La fiorente città era protetta da una cinta muraria realizzata in opus quadratum ed estesa, per più di quattro km, su quattro colli, fornita di anfiteatro (in loc. Mercatello), di un teatro, di una biblioteca pubblica (menzionati da un'iscrizione), di un odeon, oltre ai numerosi spazi riservati ai commerci, alle officine, ai magazzini ed agli edifici sacri (la cui presenza è testimoniata da scavi e iscrizioni).

      In età imperiale, la città divenne una località di villeggiatura e ospitò esponenti di grandi famiglie quali i Canulei, i Cominii, i Larcii, i Nonii, i Pomepii, i Seii, i Rufii e gli Aconii. Comunque la nuova Volsinii si svilupperà nuovamente grazie ai commeri, che si concluderà negli ultimi decenni del III sec. d.c.; l'invasione dei Visigoti (410 d.c.) e, successivamente, l'occupazione dei Longobardi tra il 570 e il 575 d.c. causarono il definitivo declino della città.



      GLI SCAVI

      I resti monumentali della città romana furono riportati alla luce per lo più in età moderna, nel corso di una serie di campagne di ricerche e scavi, condotti dalla Scuola Francese di Roma sotto la direzione di R. Bloch, durante l'arco di quarant'anni (1946-1986).

      A partire dagli anni '50 del secolo scorso gli scavi furono concentrati sul pianoro di Poggio Moscini, dove furono messi in luce il Foro, la Basilica, edifici pubblici e i resti di due domus: Domus delle pitture e Domus del Ninfeo. Divenuta di proprietà statale, l'area archeologica è oggi aperta al pubblico in forma gratuita.

      RESTI DELLE TERME

      LE TERME DI STRABONE

      Percorrendo l'area archeologica di Poggio Moscini si oltrepassa, a poca distanza dall'ingresso, ciò che resta delle Terme di Seio Strabone (edificate su due livelli durante l'età imperiale a spese del prefetto d'Egitto, della madre Terenzia e della moglie Cosconia Gallitta per la popolazione di Volsinii circa nel 20 d.c. che svolgevano le loro funzioni insieme alle terme di Tusciano). Lucio Seio Strabone fu prefetto del pretorio in Egitto all'epoca di Tiberio e padre del più noto Lucio Elio Seiano.

      Ad oggi gran parte dell'area delle terme è da scavare sotto via Orvieto e zone adiacenti, mentre è già emersa una cisterna monumentale, con una capacità di ben 2300 mc. che alimentava l'area della terme e gli altri edifici dell'area del foro. Le parti "scoperte" delle terme sono composte da un'aula absidata (13 x 8 mt), un criptoportico ed un praefurnum.

      Sono emersi invece i resti del grande piazzale lastricato del foro, risalente all'età dei Flavi, delimitato a ponente e a levante da due strade lastricate; sulla piazza affacciavano numerosi edifici pubblici e privati, in particolare sul margine meridionale si trovava una basilica di 25,70x57 metri, divisa in tre navate e la cui funzione in epoca romana era legata a questioni civili e amministrative.

      ENTRATA AL FORO

      IL FORO

      Il Foro fu realizzato sul pianoro di Poggio Moscini in età flavia: nella prima fase della Volsinii romana (età repubblicana) l'area forense con tutte le sue strutture era situata nella non lontana area del Mercatello.

      Il corridoio di accesso alla spianata del foro lascia ancora intuire la sua copertura "a volta" giungendo alla grande piazza lastricata di circa m71 x m106, delimitata su tre lati dal sistema viario e, a sud, in vista lago, dalla basilica civile.

      Qui alloggiavano piccoli monumenti (altari, epigrafi onorarie, statue) dei quali restano le impronte sulle lastre pavimentali superstiti, oggetto di spoliazione durante i secoli come le altre strutture. La presenza di numerose colonne di nenfro e di granito fanno pensare all'esistenza di due edifici colonnati.

      LE BOTTEGHE

      LA BASILICA

      La basilica civile, impiantata sul decumanus romano, è a pianta rettangolare (m 27,70x57), era suddivisa in tre navate da un colonnato e occupava tutto il lato meridionale del Foro. La basilica civile fu trasformata in chiesa paleocristiana nel corso del IV sec. d.c. con l'aggiunta di un'abside all'estremità nord-occidentale della navata centrale.

      La presenza di sepolture nelle navate laterali ci consente di ipotizzare che la superficie occupata dall'edificio cristiano era limitata alla navata centrale. L'area a nord-est della basilica è occupata da una serie di botteghe ed altre strutture: cisterne, vasche, canali, una latrina ed un vasto ambiente interpretato come horreum (magazzino).

      Questo complesso subisce profonde ristrutturazioni dalla seconda metà del III sec. a.c. fino agli inizi del IV sec. d.c., quando cessa la sua funzione commerciale per far posto a una necropoli cristiana, di cui restano abbastanza integre solo due tombe a cassa.

      La città romana occupa solo la parte più bassa della città etrusca, il Mercatello, dove case e ville romane hanno soppiantato i resti dell'abitato più antico. Si possono riconoscere le terme, l'anfiteatro, resti di edifici privati, ponti e strade. Dalle scoperte fatte fin dalla fine del secolo scorso e all'inizio di questo, si sapeva che sul Poggio Moscini si trovavano resti della città romana di Volsinii.

      CASA DELLE PITTURE

      LE DOMUS

      A destra della basilica e del foro, oltrepassando il passaggio coperto originariamente da una volta a botte, si incontrano i resti di alcune botteghe di età repubblicana e flavia e alcuni antichi edifici privati:

      - la Domus delle Pitture (con una sala sotterranea adibita, fino alla fine del II° secolo ac., al culto di Bacco)
      - e la Domus del Ninfeo.

      Le due dimore, separate dai resti di un tempietto e da quelli di un portico, un tempo ospitavano numerosi ambienti, alcuni dei quali oggi recuperati (un atrio con impluvium, i triclini e un ninfeo).



      LA CASA DELLE PITTURE

      La Casa delle Pitture, così chiamata per le diverse pitture rinvenute, è del tipo ad atrio, risalente alla prima metà del II sec. a.c., in un'area nella quale esisteva una sala sotterranea che, in base al rinvenimento di un gruppo di terrecotte a soggetto dionisiaco, tra cui il celebre "trono delle pantere", è stata interpretata come tempio sotterraneo, distrutto in seguito alla repressione dei Baccanalia, voluta dal senato romano nel 186 a.c.

      Il fatto che il tempio fosse sotterraneo fa ipotizzare un culto misterico, visto che i culti dionisiaci non si avvalevano di templi sotterranei. La sala sotterranea venne in seguito integrata nell'abitazione come "cantina".

      In età imperiale la domus, debitamente ampliata, venne decorata con pavimenti a mosaico e le pareti ornate con decorazioni pittoriche databili, su base stilistica, al III sec. d.c.

      CASA DEL NINFEO

      CASA DEL NINFEO

      È stata dapprima rinvenuta una domus le cui prime installazioni risalgono alla fine del II sec. a.c., e per la quale furono riutilizzate alcune strutture della seconda metà del III sec. a.c. e dell'inizio del II sec. a.c. Le strutture del III sec. sono muri di pietre a secco, che formavano ambienti disposti su due terrazze orientate a NO SE; quelle dell'inizio del II sec. sono di opera quadrata di tufo giallo apparecchiata "a scacchiera".

      La domus, a differenza di questi ambienti di epoca precedente, aveva la facciata orientata non verso SO (cioè verso il lago), ma verso NO, forse in seguito alla costruzione della Via Cassia, che attraversava la città da SO a NE.

      In epoca tardo-repubblicana ed augustea, la domus venne sottoposta a diversi rifacimenti che l'hanno trasformata in una piacevole residenza con ricchi pavimenti in opus sectile di marmo e un grande ninfeo che comunicava con un fastoso triclinium.

      La Casa del Ninfeo, come è stata denominata dagli archeologi, verso la fine del II sec. a.c., venne affiancata da un piccolo tempio probabilmente dedicato ad un culto di tipo salutare.

      La domus è dotata di un grande atrio tuscanico, provvisto di impluvium e di cisterna per la raccolta dell'acqua piovana. Intorno alla metà del I sec. a.c. il tempietto risulta abbandonato e, poco dopo, (40-30 a.c.) la casa assume l'aspetto di una residenza lussuosa con pavimenti in marmo e mosaici.

      A questa fase dovrebbe risalire l'edificazione del ninfeo, luogo di culto per le divinità preposte alle acque, le cui pareti accolgono diverse nicchie preposte sicuramente a dette divinità.
      È stata dapprima rinvenuta una domus le cui prime installazioni risalgono alla fine del II sec. a.c., e per la quale furono riutilizzate alcune strutture della seconda metà del III sec. a.c. e dell'inizio del II sec. a.c.

      Le strutture del III sec. sono muri di pietre a secco, che formavano ambienti disposti su due terrazze orientate a NO SE; quelle dell'inizio del II sec. sono di opera quadrata di tufo giallo apparecchiata "a scacchiera".

      CASA DEL NINFEO
      La domus, a differenza di questi ambienti di epoca precedente, aveva la facciata orientata non verso SO (cioè verso il lago), ma verso NO, forse in seguito alla costruzione della Via Cassia, che attraversava la città da SO a NE.

      In epoca tardo-repubblicana ed augustea, la domus venne sottoposta a diversi rifacimenti che l'hanno trasformata in una piacevole residenza con ricchi pavimenti in opus sectile di marmo e un grande ninfeo che comunicava con un fastoso triclinium.

      Si realizzò così che il materiale di ceramica più antico, trovato abbondantemente sul sito risaliva alla seconda metà del III sec. a.c., cioè all'epoca successiva alla creazione della Volsinii romana (264 a.c.). Infatti niente, né abitato né materiale, è stato scoperto finora che si possa datare precedentemente.

      L'abbandono definitivo della struttura abitativa si colloca tra la fine del III e l'inizio del IV sec. d.c.; nel VI sec. d.c. una sepoltura occupa quello che era stato un lussuoso triclinio.

      La sala sotterranea venne in seguito integrata nell'abitazione come "cantina". In età imperiale la domus, debitamente ampliata, venne decorata con pavimenti a mosaico e le pareti ornate con decorazioni pittoriche databili, su base stilistica, al III sec. d.c.

      Un tesoro di 707 monete di bronzo della fine della Repubblica romana e dell'inizio dell'Impero è stato portato alla luce nel 1961, nella località detta del Pozzarello.

      Dietro al ninfeo della domus, è stata messa in luce una zona pubblica, occupata da un piccolo portico, di cui restano basi di pilastri, da un altare e dall'ingresso del dròmos di una cisterna sotterranea. In questa zona furono ritrovati numerosi frammenti di ceramica aretina che, suddivisi in strati attribuibili dall sec. a.c. al I sec. d.c., hanno permesso di precisare molti aspetti della tipologia e della cronologia di questo tipo di ceramica.

      CASA DEL NINFEO
      Poco più si della domus, a SE, è stato scoperto un complesso monumentale, di inizio inizio II sec. a.c. con cinque pilastri, basi di colonne, in opera quadrata di tufo giallo e rossastro, su due dei quali gravano ancora fusti rozzi di colonne in pietra basaltica. Inoltre nel 1967 si è dato l'avvio allo scavo di due altri settori, non ancora completamente messi in luce.

      Nei paraggi è emersa pure una sala sotterranea, scavata nel tufo e preceduta da un dròmos edificato con molta cura in opera quadrata di tufo, che serviva da cisterna. A pochi metri dai pilastri, verso SE, è stato rinvenuto un muro di opera quadrata di tufo, di fattura accuratissima; conservato per un'altezza di più di 2 m, con uno spessore da m 1,60 a 2,20. I pilastri, la cisterna e il muro, risultano contemporanei. Si ignora la destinazione del complesso.

      A SO di questa zona dei pilastri di tufo fu incominciato nel 1967 lo scavo di un'abitazione d'epoca imperiale, attribuibile, in base al suo stato attuale, al III sec. d.c., e abbandonata nel IV sec. d.c. 
      A causa del terreno in pendio, la sua parte NE (cioè la parte posteriore) è conservata molto meglio della parte SO, che tuttavia non è ancora completamente sgomberata. Sembra che l'abitazione desse su una strada che passava lungo il suo lato SO.


      La parte NE dell'abitazione è composta da cinque stanze, tra cui due piccole, e da un corridoio, tutt'intorno ad un cortile interno. In tre di queste stanze, sono stati ritrovati intonaci dipinti in buono stato di conservazione. La prima fase risale al III sec. d.c., e, nella parte bassa di due stanze, accoglie rettangoli di fondo bianco, al cui centro sono dipinti vari motivi, quali uccelli e coppe di frutta, separati da strisce verticali che imitano la colonna. La parte alta delle pareti è decorata da rettangoli e da volute. 

      La seconda fase della decorazione, posteriore, consiste essenzialmente in un'imitazione dipinta di marmo giallo e bruno-chiaro. La metà SO della parte scavata dell'abitazione ha una scala che scende in una sala sotterranea con volta a campana e resti di intonaci dipinti sulla volta, sembrerebbe del II sec. a.c., riutilizzata nell'abitazione di età imperiale. Inoltre, lungo uno dei muri interni dell'abitazione, sotto il livello del suolo d'epoca imperiale, è stato scoperto un cumulo di frammenti di tegole e di terrecotte architettoniche, teste, nasi, busti maschili, busto di Minerva con l'egida, modanature e frammenti di cornicioni, con tracce di policromia, probabilmente il contenuto di una favissa.

      Al di fuori del terreno di scavo, lungo l'attuale Via del Crocefisso, alcuni sondaggi eseguiti nel 1969 hanno permesso di mettere in luce i resti di una via romana di direzione SO-NE, e dell'incrocio con un'altra via, che le è perpendicolare.

      Alcuni sondaggi effettuati nel 1968 dalla Soprintendenza alle Antichità dell'Etruria Meridionale hanno messo in luce, nei pressi del Foro, i resti di fondazioni di un colossale edificio pubblico.



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