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COLONNE ONORARIE

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COLONNA DI TRAIANO
A Roma, specie nel Foro Romano sin dall’età arcaica furono eretti edifici e monumenti, soprattutto per celebrare le glorie di guerra, tanto che si diceva che già nel I secolo a.c. per potervi costruire qualcosa si doveva demolire dell’altro.

Per celebrare le vittorie romane sui nemici si usava dedicare ai generali vittoriosi un trionfo con archi celebrativi e colonne onorarie, innalzate nel foro o in luoghi di importanza simbolica allo scopo di celebrare e di lasciare memoria ai posteri del glorioso evento. A volte le colonne erano interamente rivestite da rilievi scolpiti con scene che raccontavano le gesta militari, oppure erano più semplici ma sormontate dalla statua del vincitore.

Secondo Plinio, questa pratica era in voga già nel terzo secolo a.c., al tempo delle prime conquiste di Roma. Le imponenti colonne di Traiano e di Marco Aurelio a Roma, sono un esempio del grande livello artistico e celebrativo che raggiunse la civiltà romana.


PILA ORATIA

Secondo la leggenda tuttavia Rea Silvia rimase incinta del Dio Marte da cui partorì i gemelli Romolo e Remo. Amulio ordinò che i gemelli venissero uccisi, ma questi furono invece abbandonati nel Tevere e si salvarono venendo allattati da una lupa.

Divenuti grandi e conosciuta la propria origine scacciarono Amulio dal trono, restituendolo al nonno Numitore e da questi ottennero poi il permesso di fondare una nuova città, Roma. Con il crescere della potenza di Roma, sotto il re Tullo Ostilio, nella metà del VII sec. a.c., le due città vennero a contrasto e ci fu la guerra.

Era re di Alba Longa, secondo Tito Livio, Mezio Fufezio che, per evitare l'eccidio tra fratelli, in quanto le due popolazioni erano entrambe discendenti da Romolo. Altri invece pensano, per evitare che la guerra indebolisse entrambe le città, finendo per favorire i comuni nemici Etruschi, propose il duello tra tre fratelli Orazi e tre fratelli Curiazi, per risolvere il conflitto. La sfida fu vinta dai Romani e Alba Longa si sottomise:

"La contesa sembrò sfavorevole ai Romani, infatti due di loro morirono subito e il terzo Orazio si trovò a sostenere da solo tre Curiazi. Allora escogitò un espediente. Si dette alla fuga correndo verso Roma, e corse così a lungo e così energicamente che gli inseguitori si distanziano tra loro. Così li finì uno ad uno."

In ricordo e in ringraziamento di ciò il senato romano innalzò una colonna onoraria all'Orazio superstite, che venne denominata la Pila Orazia. Era in realtà più che una colonna un pilastro, eretto nel Foro, sul quale per trofeo furono poste da Orazio le spoglie de' Curiazi da lui uccisi. Si ha menzione di loro nel primo libro di Livio, e più ampiamente nel terzo di Dionigi; da cui vi si aggiunge, che al suo tempo vi durava ancora il pilastro, ma non le spoglie .



COLONNA MENIA E DUILIA

Più colonne furono erette nel Foro in Trofei, l'uso delle quali essere stato più antico delle statue,
scrive Plinio nel quinto del libro 34. raccontando della Menia, e della Duilia:

COLONNA MENIA
"Antiquior columnarum sicut Caius Menio, qui devicerat priscos Latinos, quibus exfœdere tertias pradep Romani Populi preestabat, eodemque in Consulatu in sua erectu rostra devictis Antiatibus fixerat anno Vrbis Item C. Duellio, - qui primus navalem Triumphum egit de Pœnis, luce est etiam nunc in Foro";

Dalle cui parole ultime si può supporre, che la Colonna eretta a Menio, in tempo di Plinio non vi era più.

Vi era bene altra colonna di un altro Menio nel vedere la sua casa a Catone si riservò, come già dissi. Vicino a questa solevansi da' Triumviri Capitali castigare i ladri, e i servi cattivi. Asconio nella Divinazione c. 16. "Ut fures, et servos nequa, apud Triunvviros Capitales apud Columnam Meniam puniri solent";

Di che veggasi il Polleto nel V del Romano Foro al cap. XIV ivi da Nerone esservi fatto morire Plauzio Laterano, sembra a me, che dica Tacito nel 15. c. 60. "Raptus in locum servilibus pœnis sepositum" etc. , e non, come gli altri credono, nel Campo Esquilino; ove essere stato 
solito far giustizia, non de' servi soli si legge, ed avervi Tiberio fatto morire Publio Marcio, scrive 
Tacito, Come nella Regione quinta toccai.

(Plinio il Vecchio)



COLONNA CLAUDIA

E della Colonna dirizzta a Claudio il secondo scrive Trebellio Pollione 
"Illi totius orbis judicio in gostris posita est columna cuni palmata Statua superfixa librarum ti mille uingentarum" . Ancorchè Santo Isidoro nel principio della Cronica de' Goti dica essergli stato posto nel Foro uno scudo, e nel Campidoglio statua d'oro; ed Orosio nel settimo al cap. 25. Cui a Senatu Clipeus aureus in Curia; et Capitolio Statua teque aurea decreta est. 

Sopra una colonna presso i Rostri essere stato un oriuolo da Sole scrive Plinio nell' ultimo del settimo libro: "M. Varro primum statutum in publico secundum Rostra in columna tradit, bello Punico 
primo a M. Valerio Messala Consule Catana capta in Sicilia: deportatum inde post XXX. annos , 
nam de Papiriano Horologio traditur, anno Urbis CCCCLXXIII., nec congruebant ad horas eius 
linete . Paruerunt tamen eis annis undecentum, donec Q. Marcius Philippus, qui cum L. Paulo fuit 
ordinatum posuit ".



COLONNE ROSTRATE

Nel 260 a.c. il generale Caio Duilio vince i cartaginesi a Milazzo, cattura 31 navi e ne affonda 14.
Ne seguì a Roma il trionfo navale del console sulla Sicilia e sulla flotta punica, e una colonna rostrata elevata in suo onore, a cui vennero appesi i rostri bronzei delle navi vinte.
Da allora vennero in voga le colonne rostrate per le battaglie vinte in 
mare da parte dei generali romani.

Ma non dimentichiamo però che altri seppero supplire con la fantasia ad alcune incapacità marinare, e in particolare con Gaio Giulio Cesare.

"Cesare decise di portar guerra al Veneti. L'impresa era difficilissima poichè i Veneti erano superiori per la flotta:

La nostra flotta negli scontri poteva risultare superiore solo per rapidità e impeto dei rematori, ma per il resto le navi nemiche erano ben più adatte alla natura del luogo e alla violenza delle tempeste.

In effetti, le nostre non potevano danneggiare con i rostri le navi dei Veneti, tanto erano robuste, né i dardi andavano facilmente a segno, perché erano troppo alte; per l'identica ragione risultava arduo trattenerle con gli arpioni.

Inoltre, quando il vento cominciava a infuriare e le navi si abbandonavano alle raffiche, le loro riuscivano con maggior facilità a sopportare le tempeste e a navigare nelle secche, senza temere massi o scogli lasciati scoperti dalla bassa marea, tutti pericoli che le nostre navi dovevano paventare."


(De Bello Gallico)





BASE DELLA COLONNA CESAREA
COLONNA CESAREA

Cesare fece costruire una specie di arpioni che vennero lanciati sulle vele dei Veneti squarciandole, di modo che le navi del nemico non riusciva più a navigare e potevano essere arrembate. Non a caso anche a lui venne eretta una colonna.

Della rizzata a Giulio Cesare fa menzione Svetonio nell' 85.

" Postea solidam columnam prope viginti pedum (che fanno quasi ventotto palmi nostrali) lapidis Numidi. qui in Foro statuit scripsitque PATER PATRIAE.

Apua eam longo tempore sacrificare, l'Ota suscipere, controversias quasdam interposito per C. Cesarem jurejurando distrahere perseveravit."


COLONNA TRAIANA (110-113 d.c.) VEDI
COLONNA DI ANTONINO PIO (161 d.c.) VEDI
COLONNA DI MARCO AURELIO (180 d.c.) VEDI
COLONNA DI FOCA (602-610 d.c.) VEDI



I SEI BASAMENTI

Situate sul lato meridionale della piazza dove si trova la colonna di Foca, si possono vedere sei alti basamenti in laterizio destinate a sostenere delle Colonne Onorarie di età tardo-antica. Di queste, due sono state rimontate con le colonne di granito grigio e di marmo bianco ritrovate intorno, operazione svolta verso la fine del XIX secolo. La scomparsa di tutte le iscrizione ha reso impossibile sapere a chi furono dedicate le colonne.



BASAMENTO DI MASSENZIO

Presso il Lapis niger si leva una base marmorea con la dedica a Massenzio (278- 312), a Marte e a Romolo e remo. Il nome dell'imperatore fu scalpellato via dopo la sua sconfitta e morte nella battaglia di Ponte Milvio contro Costantino I (312).

COLONNE ONORARIE NEL FORO

BASAMENTO DELLA VITTORIA SUI GOTI

Si tratta del basamento della colonna onoraria posta accanto all'Arco di Settimio Severo e dedicata alla vittoria di Arcadio, Onorio e Teodosio I contro i Goti di Alarico nel 403 o contro quelli di Radagaiso nel 406.

« ...Alarico divenne ribelle e disobbediente alle leggi, in quanto contrariato per non aver ricevuto il comando di altre forze militari al di fuori dei Barbari, che Teodosio gli aveva assegnato quando lo assistette nella deposizione dell'usurpatore Eugenio. Rufino, pertanto, comunicò privatamente con lui, esortandolo a condurre i suoi Barbari, e ausiliari di ogni altra nazione, [in Grecia] in modo che potesse agevolmente insignorirsi dell'intera nazione. Alarico allora abbandonò la Tracia per marciare in Macedonia e Tessaglia, commettendo le più grandi devastazioni lungo la via. »
(Zosimo, Storia Nuova, V,5.)

Anche qui un nome è stato cancellato, quello di Stilicone, ucciso nel 408. Il monumento era stato eretto dal praefectus urbi Pisidio Romolo.

Zosimo, V,34, sostiene che Stilicone fu giustiziato «dieci giorni prima delle calende di settembre» , che corrisponde al 23 agosto (cfr. Zosimo, Storia Nuova, a cura di Fabrizio Conca, BUR, p. 577). Secondo la continuazione di Copenhagen della Cronaca di Prospero Tirone, invece, Stilicone fu ucciso a Ravenna «l'undicesimo giorno prima delle calende di settembre», corrispondente al 22 agosto.

BASE DEL DECENNALIA

BASAMENTO DEI DECENNALIA

Presso il Basamento della Vittoria sui Goti si erge un altro basamento scolpito su quattro facce che un tempo reggeva una colonna onoraria. Sulla facciata principale c'è un'iscrizione posta su uno scudo clipeo retto da due vittorie alate che cita:

CAESARVM DECENNALIA FELICITER (CIL VI, 1187 e CIL VI, 31256), e ricorda i Decennalia (decimo anniversario) della Tetrarchia di Costanzo Cloro e Galerio nel 303 (con riferimento ai due Cesari che affiancavano i due Augusti nel governo dell'impero). Probabilmente la colonna è dovuta alla visita di Diocleziano a Roma che si svolse in quello stesso anno:

IMPERATORIBUS INVICTISSIMIS FELICISSIMISQUE
Dominis Nostris ARCADIO ET HONORIO FRATRIBUS
SENATUS POPULUSQUE ROMANUS
VINDICATA REBELLIONE
ET AFRICAE RESTITUTIONE LAETUS
aRMIPOTENS LIBYcUM DEFENDIT HONORIUs
DI
IUS
NINA
RUS
pareNTES

DECENNALIA- LATO SINISTRO

Le altre facce rappresentano:

- il sacrificio solenne della scrofa, la pecora e il bue (suovetaurilia);
- la libazione dell'imperatore coronato della vittoria al dio Marte, ambientata probabilmente al Campo Marzio dove era l'altare del dio; accanto alla divinità è presente un sacerdote col tipico copricapo del Flamine martialis, un ragazzo con la cassetta dell'incenso, un flautista, un personaggio togato (che simboleggia il Senato stesso), la dea Roma seduta e la testa radiata del sole;
- la processione dei senatori.

Le Vittorie e il sacrificio dell'imperatore sono caratterizzati dal forte chiaroscuro, tipico del III secolo, dato dal frequente uso del trapano, mentre gli altri due lati hanno un tono più plebeo e provinciale, della nuova corrente che si manifesterà nei rilievi dell'arco di Costantino.

In un rilievo dell'arco di Costantino questa colonna onoraria appare assieme ad altre quattro colonne dietro ai Rostri. Di questo gruppo vennero trovate due basi con iscrizioni nel Rinascimento, che andarono poi perdute:

- una ricordava il ventesimo anniversario degli Augusti (Augustorum vicennalia feliciter),

- l'altra il ventesimo anniversario degli imperatori (Vicennalia Imperatorum), probabilmente era la colonna centrale che reggeva una statua di Giove, mentre le altre reggevano statue degli imperatori.

RICOSTRUZIONE DELLE SETTE COLONNE DEL FORO

SETTE BASAMENTI IN MATTONI

Sul lato meridionale della piazza si allineano sette grandi basamenti in laterizio, che reggevano altrettante colonne onorarie. Due di esse sono state rialzate ricollocando i loro fusti, tuttora allineati nel Foro Romano davanti alla “basilica Iulia”. Grazie ai bolli sui mattoni si sono potuti datare questi monumenti all'epoca della tetrarchia (inizio del IV secolo).

Huelsen, che all'inizio del Novecento lavorò con Giacomo Boni agli scavi nel Foro, riporta come su alcuni dei “sette grandi basamenti di mattoni, un tempo incrostati di marmo” che furono rinvenuti sul lato della piazza del Foro che fronteggia la Basilica Giulia si procedette all'anastilosi dei frammenti di colonna che erano stati ritrovati nei pressi. Questi basamenti che reggevano delle colonne alla cui sommità erano poste probabilmente delle statue, furono costruiti dopo il grande incendio del 283 al tempo dell'imperatore e secondo Huelsen potevano avere anche la funzione di coprire in parte la facciata della Basilica Julia che era stata danneggiata dall'incendio e non restaurata.


TEMPIO DI QUIRINO

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TEMPIO DI QUIRINO ( http://atlasofancientrome.com/ )
Secondo le fonti, il Tempio di Quirino venne edificato sulla sommità del Quirinalis, colle lungo e stretto in cui si distinguevano ben quattro alture: il collis Latiaris (a sud, vicino ai Fori imperiali), il collis Mucialis detto anche Sanqualis dalla porta omonima (in Largo Magnanapoli) e il collis Salutaris denominato dalla presenza del templum Salutis (a ovest dell’attuale palazzo del Quirinale).

Il Quirinale era quindi solo l’estremità orientale dell’intera collina, proprio dove si trovavano il tempio di Quirino e la porta nelle mura serviane. L’altezza massima del colle (circa 57 metri) si raggiunge presso il quadrivio delle Quattro Fontane dove il suolo attuale è praticamente allo stesso livello di quello antico.

Il culto di Quirino si diffuse in epoca repubblicana e si fuse con quello del fondatore Romolo. Nel 290 a.c., il console Lucio Papirio Cursore, per aver conseguito la vittoria sui Sanniti del ottenne dal Senato di celebrare il suo trionfo, e, per ottemperare al suo voto, fece edificare un tempio dedicato al Dio Quirino, che si presume venne innalzato sui resti della tomba di Quirino che doveva già essere stata sacralizzata con l’erezione di un altare.

Alcuni suppongono vi fosse già un vero e proprio santuario, ma a noi sembra meno probabile, nessuno avrebbe osato distruggere un santuario a meno che le sue condizioni non lo richiedessero per la sua stabilità. Tuttavia essendo semmai il santuario molto antico non è una possibilità da escludere, fatto sta che il tempio venne edificato e dette il nome al colle stesso, già nella fase arcaica durante la quale l’area era occupata da popolazioni sabine. Dopo un incendio fu ricostruito e restaurato da Augusto. 

Nella sua prefazione al libro dedicato al "nuovo Quirinale" Godart racconta che tra il 1998 e il 1999 dagli scavi per la posa di impianti tecnologici emersero varie strutture abitative del I secolo a.c. 

Cinque anni dopo un altro scavo condotto nei giardini del Quirinale facesse riaffiorare un complesso termale e una statua femminile.

RICOSTRUZIONE DEL TEMPIO DI QUIRINO
Disponiamo di un'immagine del tempio arcaico grazie alla raffigurazione su un rilievo in marmo del II sec. rinvenuto a piazza Esedra nel 1901 e oggi conservato nei depositi di Palazzo Massimo alle terme dove è raffigurato come un edificio tuscanico con frontone decorato con la scena di Romolo e Remo che prendono gli auspici per la fondazione di Roma. 

Nel De architectura di Vitruvio, inoltre, troviamo la descrizione del tempio della fine del I a.c., dopo il restauro augusteo compiuto nel 16 a.c., come di un tempio prostilo ottastilo periptero di ordine dorico con doppio ordine di colonne sui lati, circondato da un grande portico ad U. 

Ignoriamo invece la sua posizione esatta. Il nome del Dio e del colle, derivavano da "Cures" che era il nome della città dei Sabini, da qui Dio Quirinus, forse divinità unitaria delle Cures ovvero delle città sabine, fino ad arrivare al termine Quirinalis. Comunque Il giorno dell’inaugurazione del tempio, il 29 giugno, divenne la nuova festa di Quirino.

QUIRINO
Nel 2007 Andrea Carandini, presentando i risultati delle indagini del georadar condotte nei giardini del Quirinale, collocava la presenza del tempio esattamente sotto il palazzo presidenziale, ma il Prof. Filippo Coarelli, archeologo e studioso di storia romana, sostiene che questi resti siano in realtà parte del palazzo di proprietà di Plauziano, suocero dell’imperatore Caracalla, già in parte emerso negli scavi del traforo sotto il Quirinale compiuti nel 1901 che produssero il rinvenimento dei tubi con iscrizioni del proprietario del palazzo.

Secondo Coarelli invece il tempio del Dio Quirino giacerebbe sotto Palazzo Barberini, ovvero nella zona tra via Barberini e via delle Quattro Fontane, non solo in considerazione del fatto che il mons Quirinalis primitivo non arrivava oltre l’odierna Via delle IV Fontane, ma anche perché durante i lavori dell’ingresso alla galleria d’arte di Palazzo Barberini, sono state riportate alla luce potenti murature, oltre ad ambienti in parte affrescati, identificabili con le sostruzioni del grande podio-platea del tempio che sorgeva sul colle primitivo del Quirinale, mentre sul lato di Via Barberini sono state individuate porzioni delle imponenti fondamenta del tempio.

QUINTO FULVIO NOBILIORE - Q. FULVIUS NOBILIOR

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CALENDARIO ROMANO

Nome: Quintus Fulvius Nobilior
Nascita: Roma
Morte: Roma
Gens: Fulvia
Consolato: 153 a.C.
Padre: Marco Fulvio Nobiliore
Fratelli: Marco Fulvio Nobiliore
Nonno: Servio Fulvio Petino Nobiliore
Bisnonno: Marco Fulvio Petino


Quinto Fulvio Nobiliore, fu il console del 153 a.c. a cui si deve la riforma del calendario che persiste ancor oggi nel mondo occidentale. Prima di lui il capodanno, infatti, iniziava con le idi di marzo. Da quel momento, invece, l'anno cominciò il primo di gennaio.


IL PADRE

Era figlio di un generale molto stimato, tale Marco Fulvio Nobiliore, grande estimatore della cultura e delle arti greche che importò a Roma, dopo la presa di Ambracia, un celebre dipinto delle Muse a opera di Zeusi, un grande pittore greco antico vissuto nella seconda metà del V sec. a.c.;. A Marco si deve l'edificazione del Tempio di Ercole e le Muse nei pressi del Circo Flaminio.

Marco era a sua volta il nipote di Servio Fulvio Petino Nobiliore, console nel 255 a.c. che aveva celebrato un trionfo, ed ebbe due figli: Marco Fulvio Nobiliore, console nel 159 a.c. e Quinto Fulvio Nobiliore, console nel 153 a.c.

Marco Fulvio Nobiliore nel 193 a.c., in qualità di pretore in Spagna aveva combattuto contro le tribù di Galli Celtiberi contro le quali aveva riportato importanti vittorie.

QUINTO ENNIO

IL FIGLIO

Con un padre e dei parenti così, Quinto Fulvio non poteva che cercare la gloria in battaglia. Nel 184 Fulvio Nobiliore, in qualità di "triumvir coloniae deducendae", aveva dedotto una colonia, che sembra fosse Pesaro. 

Un fatto importante perchè in quell'occasione egli concesse degli appezzamenti di terreno e quindi la cittadinanza romana al grande poeta e drammaturgo Ennio, ovvero Quintus Ennius (Rudiae-Lecce, 239 a.c. – Roma, 169 a.c.).

Nel 153 a.c. Fulvio fu eletto console, ma a quel tempo i consoli venivano eletti a dicembre, con qualche mese di anticipo rispetto alla data in cui sarebbero entrati ufficialmente in carica, cioè le idi di marzo (il mese con cui si apriva l'anno nel vecchio calendario lunare). Ma dato che il suo incarico consisteva nel reprimere la rivolta dei Celtiberi in Spagna, dove già aveva operato con grande successo suo padre, si permise di chiede al senato di poter entrare in carica immediatamente per difendere gli interessi di Roma. 

Il senato non poteva violare le regole, però poteva cambiare le date, ovvero chiese al futuro console di riformare il calendario, cosa che questi fece ponendo l'inizio dell'anno al primo gennaio.

I Celtiberi erano popolazioni celtiche della Penisola iberica. Dal nucleo originario, collocato nell'odierna Spagna centro-settentrionale, si erano estesi in seguito verso sud, nell'attuale Andalusia, e verso occidente, lungo le coste atlantiche della penisola, attuale Galizia. Come tutti i Celti erano divisi in numerose tribù che si combattevano tra loro. Vennero sottomessi da Roma fin dal II sec. a.c. (Guerre celtibere), assimilandosi poi velocemente alla nuova cultura latina, finendo per dissolversi come popolo autonomo già a partire dall'Età augustea.

NUMANTIA
Dunque venne concesso a Quinto Nobiliore di entrare in carica anticipatamente e, da quel momento, divenne la prassi. Infatti i consoli neoeletti trovarono molto più conveniente entrare in carica immediatamente, piuttosto che aspettare la scadenza del mandato dei predecessori, tutti affamati di gloria e bottini. Da allora l'anno cominciò per tutti il primo di gennaio.

Nel 154 a.c. nella città di Segeda, uno dei più importanti centri urbani dei celtiberi Belli, si iniziano a costruire nuove fortificazioni e una più poderosa cinta muraria. Roma ritiene che in tal modo siano stati violati gli accordi del 179 a.c. e intima l'arresto dei lavori che invece proseguono fino alla primavera del 153 a.c.. 

Dunque Quinto, in qualità di console, al comando di un esercito regolare, andò in Spagna, dove la città di Segeda, un antico oppidum preromano situato nei pressi di Saragozza che apparteneva ad una tribù celtibera, i Belli, che l'avevano chiamata Sekeida, stava fortificando le proprie mura, in contrasto con i trattati precedentemente stipulati coi Romani.

Quando giunge Quinto Fulvio Nobiliore, alla testa di un esercito romano, sconfigge, non lontano da Segeda, un forte contingente reclutato sia fra i Belli che fra i Titti, loro alleati.

Così avvenne che nel 153 a.c. Segeda fu assediata e conquistata dalle truppe romane comandate dal console Quinto Fulvio Nobiliore. 

Poco tempo dopo un nuovo centro sorse nella vicinanze del precedente e con lo stesso nome. 
La nuova città aveva strade rettilinee, tipiche delle città romane, dimostrando così l'avvenuta occupazione del territorio circostante.
Segeda viene abbandonata, e i suoi abitanti si rifugiano a Numanzia, capitale del popolo celtibero degli Arevaci. 

I ribelli però chiedono di negoziare con Roma, ma soprattutto c'è la rivolta anti romana scoppiata in Lusitania, che rischia di coinvolgere anche l'estremo sud dell'Hispania Ulterior e e che potrebbe unirsi alla guerra che Publio Nobiliore sta combattendo contro i Celtiberi nell'Hispania centrale.

L'esercito romano si scontra con l'esercito ispanico, composto in prevalenza da Belli e Titti, e lo sconfigge. Nobiliore rientra a Roma e viene eletto censore nel 136.

A quel punto la sorte di Segeda è segnata e infatti la maggior parte dei suoi abitanti la abbandona per rifugiarsi a Numantia, dove la ribellione ai Romani continuerà fino al 133 a.c.

IL TESORO DI NORFOLK (Inghilterra)

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 TESORO DI MONETE ROMANE TROVATO IN UNA FATTORIA NEL NORFOLK 

L’hobby di setacciare le campagne inglesi muniti di metal detector, alla ricerca di monete e oggetti preziosi è molto diffuso nel Regno Unito e anche recentemente ha dato buoni frutti. Una coppia di Norwich,appassionata di archeologia,  Damon Pye e sua moglie Denise, ha scoperto recentemente delle preziose monete romane in una fattoria nel Norfolk.

Non è escluso che la fattoria possa riservare altri tesori, ma l'ubicazione del sito attualmente è segreta. Il tesoro scoperto comprende finora 52 monete romane in rame e ottone, sei aurei d’oro di Augusto e una moneta d’oro coniata dalla tribù britannica degli Iceni.

Le monete d’oro risalgono al periodo compreso tra il 4 a.c. e il 7 d.c.. Mr Pye, che è il vicepresidente del Norwich Detectors Club, ha dichiarato di aver effettuato la scoperta nel corso di un mese in una fattoria a 15 miglia da Norwich e che “le monete d’oro romane sono estremamente rare; solo una manciata ne sono state trovate finora nella East Anglia, quindi averne trovate addirittura sei è piuttosto fuori dal comune”.

E' la migliore scoperta fatta dalla coppia fino ad oggi; ma ora bisogna aspettare la fine dell’estate, dopo il raccolto, per poter riprendere le ricerche nel campo. “Potremmo aver scoperto un sito romano sconosciuto, forse un santuario, e potrebbe esserci ancora dell’altro." ha dichiarato la coppia.

Ma la cosa non dovrebbe essere così facile, perchè potrebbe essere necessario l’intervento di una squadra di archeologi per scavare ulteriormente e in modo scientifico per determinare innanzi tutto se si tratta di un oggetto isolato o vi sia interrata una villa romana, o un tempio o un santuario.

A parere del sig. Pye, gli aurei di Augusto sarebbero monete di grande valore, per “migliaia di sterline”. Il British Museum di Londra avrebbe espresso un certo interesse nell’acquisto delle monete.

Se la vendita al Museo londinese non andasse a buon fine, secondo le leggi vigenti in materia nel Regno Unito, il tesoro verrebbe restituito alla coppia di scopritori ed al proprietario del terreno, che sarebbero liberi di metterlo all’asta e spartirsi il ricavato a metà.

AUXIMUM - OSIMO (Marche)

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GROTTE DI OSIMO

Osimo, città situata nella parte centrale delle Marche, della prov. di Ancona, a soli 15 km dal mare, venne fondata dai romani con il nome di Auximum nel 157 a.c. su un pianoro piuttosto importante per il controllo delle valli dell’Aspio e del Musone, attraverso le vie di transito fra l’entroterra e il mare. Fu l'unica enclave in territorio piceno, cioè un centro con sovranità propria completamente circondato da territori stranieri e senza sbocco sul mare.

Gli storici locali del Sei-Settecento hanno tentato una ricostruzione dotta del termine, collegandolo al verbo greco αὐξάνω (lat.augeo), dandogli quindi accezione di “accrescimento”. Secondo Gino Vinicio Gentili alla base del nome si trova la radice ac, che indica acutezza, e che è diffusa nella toponomastica mediterranea perindoeuropea, col significato anche di altezza. 

Il suffisso -moè un suffisso primario italico che si trova sia nei nomi di luogo (v. Sul-mo, Sulmona) sia nei nomi propri (v. Poue-mo, Pomonio). In sostanza lo studioso fa derivare il toponimo Auximum-Oximum dal sostrato umbro-sabino della gente picena prima dell'arrivo dei Senoni.
Il nome di Osimo, potrebbe anche derivare dalla radice celtica uxama, città elevata, anche se in realtà è poco elevata, raggiungendo solo i  265 m slm.

La sua esistenza vine menzionata da diversi autori:
Plinio (Naturalis Historia III, XIII. 112)
"...intus Auximates"
all'interno stanno gli Auximati.

Strabone (Storia Universale 5, 4.2)
"Αὔξουμον πόλις μικρὸν ὑπερ τῆς θαλάττης"
La città di Osimo, un pò all'interno della linea di costa.

OSIMO ROMANA (INGRANDIBILE)
Lucano (Pharsalia, Bellum Civile II, 466-468)

"Varus, ut admotae pulsarunt Auximon alae, per diversa ruens neglecto moenia tergo qua silvae qua saxa, fugit..."

Varo, non appena gli squadroni di cavalleria si mossero ed attaccarono Osimo, attraversando sconsideratamente diverse città senza neanche curarsi di proteggersi le spalle, fugge per boschi e luoghi rocciosi.



LA STORIA

RITRATTO DI UN ROMANO
L'area su cui sorge la cittadina fu contesa nel tempo da diversi popoli: dai Piceni, dai Greco-Siculi, dai Galli Senoni e infine dai Romani.

Ma sul colle doveva già esistere un oppidum anteriore al centro romano di Auximum, che si sviluppò dal IV secolo a.c. in poi, per proteggere le popolazioni picene sud-orientali e quelle della costa di Numana dall'invasione dei terribili Galli Senoni. 

Fu un'importante presidio delle arterie stradali, che passavano all'interno della città: la Ancona-Nucerina, che a partire da qui si collegava con la via Flaminia che conduceva a Roma, e la Ancona-Urbs Salvia, che si agganciava ad Asculum ed alla via Salaria.

L'abitato piceno risale al V sec. a.c., ma parte del territorio cadde soggetto ai Galli Senoni nel IV secolo a.c., quando questi invasero il Piceno settentrionale occupandolo fino al fiume Esino. Poi si spinsero a sud fino al bacino del Musone.

I Galli rimasero così ad una distanza di 5-6 km da Osimo, occupando con i loro villaggi le colline di nord-ovest.



CONTATTI CON ROMA

- 299 a.c. - I primi contatti con i Romani delle popolazioni picene nel territorio di Osimo si farebbero risalire al 299 a.c., quando Roma, temendo la prossima guerra con Etruschi e Galli, si alleò ai Piceni.

- 295 a.c. - La vittoria di Sentinum nel 295 a.c. liberò il Piceno dalla preoccupazione dei Senoni ma attirò le mire di Roma, che si rivolse alla conquista della regione, che venne conseguita al Asculum dal console Sempronio Sofo ricoprì il consolato nel 268 a.c. con Appio Claudio Russo e con il collega guidò i Romani alla sottomissione definitiva dei Piceni nella Guerra Picentina.

La carriera di un notabile di Osimo - il testo dell’iscrizione:

Q(uinto) Plotio Maximo /
 Col(lina tribu) Trebellio Peli/diano, equo p(ublico), /
 trib(uno) leg(ionis) II Traian(ae) Fort(is), /
 trib(uno) coh(ortis) XXXII Volunt(ariorum), /
 trib(uno) leg(ionis) VI Victricis, /
 proc(uratori) Aug(usti) pro magistro /
 XX hereditatium, /
 praef(ecto) vehiculor(um), /
 q(uin)q(uennali), p(atrono) c(oloniae) et suo, pont(ifici). /
 Colleg(ium) cent(onariorum) Auximat(ium) /
 ob eximium in muni/cipes suos amorem. /
 L(ocus) d(atus) d(ecreto) d(ecurionum).

A Quinto Plozio Massimo Trebellio Pelidiano, membro dell'ordine equestre con cavallo pubblico, ufficiale nella II legione Traiana Valorosa, comandante della coorte XXXII dei Volontari, ufficiale nella legione VI Vincitrice, funzionario per la riscossione della tassa del 5% sulle successioni ereditarie, funzionario ai trasporti, magistrato supremo, patrono della colonia e proprio. L'associazione dei fabbricanti di coperte di Osimo per lo straordinario amore dimostrato da Pelidiano nei confronti dei suoi concittadini. Luogo concesso per decreto del consiglio municipale.



LA GUERRA PICENTINA

- 283 a.c..La Guerra Picentina fu combattuta dai Romani per domare la rivolta del popolo piceno contro Roma che stava circondando il suol territorio. I Romani infatti nel 290 a.c. avevano già occupato il territorio dei Pretuzi, a sud del Piceno e nello stesso periodo sconfissero i Senoni, con l'aiuto degli stessi Piceni. Nel 283 avevano dichiarato Auximum municipio.

Poi, nel 283 a.c., sui territori sottratti ai senoni i romani avevano fondato la colonia marittima di Sena Gallica, l'attuale Senigallia, e stavano progettando la fondazione di un'altra colonia poco più a nord. I Piceni si resero conto di avere appoggiato una potenza troppo grande dalla quale si sentirono circondati; ruppero così l'alleanza con i Romani e reagirono scatenando una rivolta. 

- 269 a.c. - Il Senato romano nel 269 a.c. inviò nel Piceno i consoli Quinto Ogulnio Gallo e Gaio Fabio Pittore che non ottennero il successo sperato. Allora successivamente, nel 268 a.c., inviarono i consoli Appio Claudio Russo e Publio Sempronio Sofo, che durante due anni di guerra, sconfissero definitivamente la resistenza picena.

- 218-202 a.c. - Durante la seconda Guerra Punica, il Piceno, ricco di prodotti del suolo, venne percorso dagli eserciti di Annibale, che proveniva dall'Umbria. Molte città si allearono con il condottiero cartaginese, città che, a guerra finita, vennero punite dai Romani con la deportazione presso Salerno e con l'uccisione degli uomini validi alle armi. 
Molto probabilmente l'invasione interessò il territorio di Auximum, visto che gli eserciti seguirono l'itinerario su cui venne stabilita la strada romana Nuceria Camellaria-Ancona (che terminava ad Ancona passando per Osimo). Non sappiamo come si comportò Auximum.

- 174 - 172 a.c. - Abbiamo notizie di Auximum già prima prima della deduzione colonica romana, essendo accaduti, come riporta Livio, due allarmanti prodigi: nel 174 a.c. era nata una bambina con i denti e nel 172 a.c. era caduta una pioggia di sabbia. 

Ambedue i prodigi erano nefasti, e sappiamo che i romani uccidevano con particolari rituali i bambini nati con inusuali deformità. Il prodigio nefasto indicava la collera degli Dei e doveva essere placato con sacrifici e riti di espiazione onde placarne l'ira.

Alla collera degli Dei poteva seguire una qualche calamità, e la più temuta era quella delle invasioni barbariche. Fu infatti proprio nel 174 a.c. che i censori fecero costruire le mura urbane e alcune opere pubbliche nel foro onde accogliere templi e strutture difensive.  

- 157 a.c. - Basandosi sulla testimonianza di Velleio Patercolo nel 157 a.c. venne istituita la colonia romana di Auximum, l'ultima delle colonie maritimae, in posizione interna a praesidium del tratto di costa a sud del Conero, separando così il territorio piceno a nord di Firmum, prova ne sia che la guerra sociale riguardò solo la parte meridionale del Picenum.

REPERTO DEL LAPIDARIUM

LA COLONIA

Fu durante le conquiste di Roma che in territorio piceno vennero dedotte due colonie di cittadini romani: la prima fu Potentia (184 a.c., odierna Porto Recanati), la seconda fu Auximum, a circa trent'anni dalla prima.

Le colonie venivano donate ai legionari veterani che andavano in pensione, dopo aver concluso 20 anni (solo successivamente passarono a 16) di onorato servizio militare. Pertanto gli antenati degli osimati furono i gloriosi legionari di Roma. 

Dalla posizione isolata che le consentiva di dominare molta parte del territorio circostante, Osimo trasse molti vantaggi, offrendo ai viaggiatori tutti i servizi necessari, dalle caupone alle mansio, ai rifornimenti di cibo e ai prodotti manifatturieri locali. 
Auximum è l'ultima delle colonie romane lungo la costa adriatica nel II sec. a.c., e fa seguito a Potentia e Pisaurum. 

- 83 a.c. - Nell'83 a.c. Pompeo, che da piccolo soggiornava nel Piceno, quando scoppiò la guerra tra Silla e Carbone, si schierò dalla parte di Silla e da Osimo raccolse volontari per tutto il territorio, riuscendo a mettere insieme ben tre legioni.

- 49 a.c. - Anche Cesare (100 a.c. - 44 a.c.) individuò l'importanza strategica dell'oppidum, che espugnò nel 49 a.c. dopo aver passato il Rubicone per non lasciarlo in mano ai pompeiani. Pompeo vi sostò e vi reclutò i suoi soldati.

63 a.c. - 14 d.c. - Fu con Augusto che questo importante scalo entrò a far parte della V regio, cioè del Piceno. In età augustea il territorio di Osimo darà parte della V Regio e testimonianze epigrafiche ne attestano l’appartenenza alla tribù Velina.  

- V sec. d.c. - Nel V secolo Osimo toccò l'apogeo del suo splendore, tanto che Procopio la considera capitale della regione e chiama Ancona suo porto. Pertanto intorno alle sue mura si accanisce la lotta tra Bizantini e Goti, che si contenderanno la città prima che questa diventi Ducato longobardo.

- 535-553 - L’importanza di Osimo si protrasse oltre la fine dell’Impero romano, quando divenne teatro di vicende militari durante la guerra greco-gotica.



IL CASTRUM

Nel centro storico è facilmente riconoscibile lo schema del castrum, caratterizzato dall’asse viario detto cardo e dal decumano (oggi corso Mazzini), ma il principale monumento cittadino è la cinta muraria della città romana, databile al II secolo a.c. 

Sul Gòmero si elevava invece la cittadella fortificata detta arx a proteggere il Capitolium. Numerose e varie sono le testimonianze di età romana: monete, oreficeria, mosaici pavimentali 

LE MURA ROMANE

LE MURA

I censori romani Q. Fulvius Flaccus ed A. Postumius Albinus ebbero l’appalto per la costruzione di “mura urbiche” che inglobarono le due colline di arenaria: il Gomero, situata a 265 m s.l.m. (zona cattedrale) e l’altra riferibile all’odierna Piazza Dante.

L’opera fu realizzata con grandi blocchi rettangolari di tufo secondo la tecnica costruttiva dell’opus quadratum di cui rimangono resti in corrispondenza dell’attuale porta, sulla strada per Cingulum, Aesis e Trea e una porta per Potentia, oggi non visibile.

Osimo è una delle poche città delle Marche che conserva ancora un tratto (200 metri) di mura romane, soprattutto sotto il Convento di S. Francesco. In origine si estendevano per una lunghezza complessiva di 2 km. Alte tra i sei e gli otto metri, in epoca romana e anche dopo la fine dell’Impero dovevano raggiungere i dieci, e ciò spiega la forte resistenza che la città oppose a ogni assedio.

Le mura sono state realizzate con grandi blocchi di arenaria proveniente dai colli vicini con la tecnica dell’opus quadratum. Tale cortina muraria presenta una larghezza di 2 m e un’altezza di almeno 10 m; tre sono le porte individuate.

Lo storico Livio riporta, infatti la notizia che furono i censori Q. Fulvius Flaccus e A. Postumius Albinus, in carica nel 174 a.c., ad appaltare i lavori di costruzione dell’opera e delle tabernae intorno al foro, grazie al ricavato della vendita dei terreni pubblici.



PORTA VETUS AUXIMUM

Sulla strada che porta ad Ancona Ancona,


PORTA S:GIACOMO

PORTA SAN GIACOMO 

Detta anche Porta Borgo, era la porta romana sul tratto settentrionale delle mura, da dove usciva la via per Ancona.

Tra il 1487 e il 1488 vi venne costruita la porta attuale.
Oggi resta ancora l’arco quattrocentesco con l’iscrizione Vetus Auximum sui cunei bugnati.



PORTA MUSONE 

Porta romana a sud dell’antica cerchia muraria, per la quale entrava in città la Via Nuceria che proseguiva poi per Ancona. 

Di originale rimane il piedritto di sinistra, mentre il resto è medievale. 
Notevole è la casa di guardia dietro il muro di difesa. 
Situata nel quartiere di Borgo Guarnieri, anticamente detto Filello, fu detta nel Medioevo porta Caldarara per la presenza dei calderai che lavoravano nei pressi.



PORTA VACCARO

Si apre sulla parte est delle mura. Originariamente con un solo arco e poi nel 1937 venne ampliata con due passaggi pedonali. Per questo motivo oggi é chiamata "Porta dei tre Archi". Porta Vaccaro sostituì la Portarella, antica porta romana detta Vaccaro perché da questa porta si usciva per raggiungere il Vaccaro nella zona di San Sabino (un'area archeologica identificata probabilmente come "sportiva " o " ludica").

FONTE MAGNA

LA FONTE MAGNA

Di particolare rilievo è la fontana monumentale chiamata Fonte Magna, posta sotto lo strapiombo delle mura romane. Secondo la leggenda, Pompeo Magno, durante la guerra contro Cesare, avrebbe fatto sosta qui per abbeverare i cavalli e arruolare nuovi soldati. Ma la denominazione deriverebbe dall’essere una delle più importanti risorse idriche della città a tutt'oggi ancora attiva. 

Questa fonte, costruita per uso pubblico tra I e il II d.c. ed oggi conservata per una altezza di quasi 6 m, è uno dei pochi monumenti antichi delle Marche di cui ci narrano la fonti storiche. Scendendo le scale in pietra dalla via Fonte Magna si giunge ad un posto che sembrerebbe dell'antica Arcadia. 

Immersa nel verde dei muschi e delle piccole felci, qui si trova l’antica Fonte Magna, un ninfeo romano risalente al I secolo a.c. chiamato così per le sue dimensioni e perché principale acqua sorgiva della zona. Si narra che Pompeo Magno fece abbeverare qui i suoi cavalli durante una breve sosta nella città per reclutare soldati da impiegare contro Cesare durante le guerre civili.

Questa fontana risulta essere uno dei rari monumenti antichi delle Marche citati in testimonianze scritte, come il De Bello Gothico di Procopio di Cesarea, storico al seguito del condottiero bizantino Belisario, dove viene descritta nel dettaglio e sottolineata la sua importanza strategica nell’espugnazione della città occupata al tempo dagli Ostrogoti di Vitige.

Il ninfeo aveva una forma ad esedra semicircolare e si pensa che in origine fosse protetto da una copertura a volta decorata, in modo da poter permettere l’accesso all’acqua anche in caso di assedio.
La struttura, di cui rimangono alcuni resti, corrisponderebbe ad un ninfeo databile tra I sec. a.c. e II sec. d.c., realizzato in opera cementizia e blocchi in opera quadrata, appartenente ad una delle tipologie più frequenti di fontane monumentali, quelle ad esedra semicircolare.

Servivano non solo per il rifornimento idrico per gli abitanti della città e delle zone periferiche, ma anche come lavatoi, dato che in molti casi si riconoscono ancora, oltre alle vasche, i ripiani in pietra per lavare i panni o le tettoie per proteggere le lavandaie dal sole e dalla pioggia.



L'AREA ARCHEOLOGICA

L’area archeologica di Montetorto di Casenuove conserva una delle più interessanti testimonianze di villa rustica romana, cioè una azienda agricola. L’invasione dei Romani comportò la spartizione del terreno agricolo tra i nuovi arrivati; la fattoria di Monte Torto s’inserisce nel contesto della centuriazione della media valle del Musone. 

E' un raro esempio di fattoria agricola, datata I sec. d.c., utilizzato per la produzione 
di vino ed olio che si articola in una serie di ambienti: frantoi, cantine e magazzino, collegati fra loro e disposti intorno ad un ampio cortile porticato. Di grande interesse per lo stato di conservazione sono i due ambienti con frantoi, ovvero i torcularia, destinati rispettivamente alla lavorazione del vino e dell’olio. I materiali archeologici raccolti durante gli scavi condotti negli anni 1982-1995 suggeriscono che la fattoria fosse attiva tra la fine del I secolo a.c. e il I d.c.

La sezione archeologica del Museo Civico di Osimo, sita in un’ala del piano nobile di Palazzo Campana, comprende materiali di proprietà statale, comunale e privata. Qui sono stati raccolti materiali rinvenuti nell’area di Monte Torto, in cui si distingue la preziosa “testa di Vecchio” della prima metà del I secolo a.c., alta 31 cm, che ritrae molto realisticamente un patrizio romano, e la stele funeraria con una coppia di sposi scolpita su pietra calcarea e risalente al I secolo a.c. Sono da segnalare le dodici statue marmoree acefale (decapitate) del I-II secolo d.c. visibili nell’atrio del palazzo comunale che hanno dato agli osimani il nomignolo di “senza testa”.

I SENZA TESTA

I SENZA TESTA

Entrando nell’atrio d’ingresso del Palazzo Comunale si incontrano dodici statue romane, tutte prive del capo. L’appellativo di “Senza Testa” dato ai cittadini osimani deriva proprio da queste statue acefale sul cui fenomeno si sono fatte diverse e anche strane supposizioni:

1) per alcuni si tratterebbe semplicemente di statue incompiute. 
2) a tagliare le teste come atto di sfregio sarebbe stato il generale milanese Giangiacomo Trivulzio che per conto del papa nel 1487 cacciò il tiranno Boccolino da Guzzone dalla città, perché aveva osato pretendere l’indipendenza dallo Stato Pontificio. 
3) le teste sarebbero cadute nel corso di altre vicende belliche, come la guerra greco-gotica.

Ora, le statue incompiute non sono senza testa, gli scultori sbozzano tutto il corpo di una statua, testa compresa, e come si può vedere ovunque, la testa non gliela attaccano successivamente, altrimenti tutte le statue avrebbero una frattura all'altezza del collo.

Che sia una ritorsione del Pontefice è ugualmente assurdo, il papato le statue o le faceva a pezzi perchè pagane o, più tardi se le teneva perchè di grande valore, oppure le cedeva in cambio di favori.
In quanto alle vicende belliche i militari non si preoccupavano di decapitare le statue ma le persone, anche perchè una statua non si decapita con la spada ma occorre una potentissima mazza, spesso tenuta da due persone.

Oltre metà delle statue romane sono decapitate, e se non sono decapitate sono mutilate alle braccia e alle gambe, oppure sformate dai colpi di mazza sul viso, ad opera dei vari vescovi, santi o militari cristiani che dovevano cancellare secoli di paganesimo per instaurare, in modo non pacifico, la nuova religione.

IL LAPIDARIUM

IL LAPIDARIUM

Nel Lapidarium sono inoltre conservati numerosi reperti, in gran parte steli e fregi architettonici. Fra questi, si può apprezzare il rilievo raffigurante una processione di magistrati con littore, una stele con la figura del dio Attis e una pietra sepolcrale con una curiosa figura anguipede.

Il pezzo forte della collezione è senza dubbio il frammento che riporta la più antica iscrizione finora ritrovata con il nome di Pompeo Magno (52 a.c.), il famoso triumviro che proprio ad Auximum, antico nome latino di Osimo, cominciò la sua carriera politica e militare.

LE GROTTE

LE GROTTE

Il sottosuolo di Osimo è attraversato in ogni direzione da camminamenti di vario tipo e dimensione.
Utilizzate come cantine dei Palazzi padronali da cui avevano accesso, sono stata censite in epoca relativamente recente e sarebbero circa un centinaio per 9 km di grotte disposte su 5 livelli di profondità.

Questo labirinto di cunicoli a misura d’uomo, che sfociano in volte a botte, nascono forse come cave per ricavarne l’arenaria per costruire le case della città ma vennero poi usate come grotte sepolcrali, come rifugi o a scopo di culto pagano.

MODELLO CISTERNA ROMANA DI OSIMO

GLI ACQUEDOTTI

Gli acquedotti di Osimo rivelano una tecnologia del passato che è davvero incredibile. Infatti sono stati realizzati per portare l’acqua in città direttamente dal Monte Crescia percorrendo, tramite gallerie sotterranee, un percorso di dieci chilometri! Il percorso è studiato nei minimi dettagli e sfrutta pendenze, profondi pozzi, condotte a pressione con la tecnica del sifone. Una tecnologia sorprendente che permetteva all’acqua di percorrere non solo discese, ma anche alcune salite.

In seguito ai lavori di restauro del loggiato comunale sono riaffiorati importanti reperti archeologici. Riferendosi a costruzioni e luoghi succedutisi nel corso dei secoli, essi rappresentano un’ulteriore testimonianza di quanto sia ricco il passato della nostra città, dall’insediamento piceno all’Ottocento, attraversando la fase romana, il Medioevo, il Rinascimento e il Barocco.
Ma il rinvenimento più importante è stato senza dubbio quello di una statua femminile, anche se solo la parte inferiore, realizzata con grande maestria in pregiato marmo greco. Basta osservare il delicato panneggio che simula sosfisticate trasparenze. Tale opera è confrontabile con una statua ritrovata in Tunisia che sembra ritraesse Plotina, la moglie di Traiano. Il modello si riferisce ad originari greci di fine IV sec a.c. riconducibili alla tipologia della pudicizia, per raffigurare personaggi della famiglia imperiale o personaggi di alto rango."
VILLA ROMANA DI MONTETORTO

GLI SCAVI

XV sec.: - L'anconetano Ciriaco de' Pizzicolli, agli inizi del XV sec., per primo trascrisse quattro epigrafi conservate in diversi luoghi della città. Negli anni successivi i lavori d'edilizia pubblica nell'antica area forense, portarono al  rinvenimento nel sottosuolo di dieci basi, con epigrafi dedicate nella prima metà del II sec. d.c. a patroni della città. Queste, raccolte nell'atrio del palazzo comunale, costituirono il primo nucleo del Lapidario, arricchito poi da nuovi rinvenimenti, e in seguito utilizzate dal Mommsen nel IX volume del CIL.

XVII sec. - Agli inizi del 1600 per la prima volta si fa riferimento a otto statue acefale di calcare e di marmo, recuperate durante lavori nel sito corrispondente all'antica area forense e depositate nella locale Lapidario.

XVIII sec. - Dal 1700 il Lapidario ricevette delle raccolte private della nobiltà locale (come le collezioni Briganti-Bellini e Cesare Leopardi)

XIX sec. - Nella seconda metà dell'ottocento iniziarono le prime campagne di scavo, portando alla luce numerose tombe in località Monte S. Pietro, a circa 4 km dal centro urbano, e una seconda necropoli lungo il pendio o del colle. Successivamente furono recuperati corredi funerari dalla necropoli di S. Filippo. 

XX sec. - Solo a partire dal 1957 sono stati condotti saggi di scavo nell'area urbana, dove al di sotto del mercato coperto si è identificata l'area dell'abitato piceno con la successiva città romana. Lo scavo eseguito con metodi innovativi evidenziò una complessa stratigrafia di ben dodici livelli. 

Non vennero recuperati materiali di abitazioni, ma solo resti di intonaco relativi all'accentramento capannicolo suburbano di Monte S. Pietro. Nell'abitato di Osimo, come anche in quello di Monte S. Pietro, è pervenuta una notevole produzione vascolare locale, costituita da vasi d'impasto e buccheroidi con forme tipiche della civiltà picena, insieme a ceramica daunia, e in seguito vasellame attico.

SARCOFAGO DI SAN LEOPARDO
Tra i vasi attici a figure nere si segnala:
- uno skỳphos, proveniente dall'abitato piceno; 
- una kỳlix, dalla necropoli, con uomo barbato e fanciullo, viene riferita al Pittore dello Splanchnòptes. 
- uno skỳphos a figure rosse molto frammentario con scena dionisiaca, databile alla fine del V sec. a.c., 
- ceramica attica di V sec. è stata rinvenuta nell'abitato piceno e nell'adiacente necropoli, 
- un frammento di una presunta kỳlix a vernice nera lucente rinvenuto a Monte S. Pietro. 
- dal sepolcreto dell'area Fornace Giardinieri, una kỳlix con medaglione a figure rosse, attribuita alla scuola del Pittore di Pentesilea o del Pittore di Calliope, 
- due kỳlikes a vernice nera lucente
- dal sepolcreto piceno in area ex Fornace Giardinieri, un gruppo di frammenti di vasellame a vernice nera delle ceramiche protocampana e campana,  metà  IV e metà  III sec. a.c. 
- da vari punti della città, frammenti di ceramica a vernice nera della seconda metà del ΙΙΙ-inizi del I sec. a.c.
-  al IV sec. viene fatto risalire lo splendido sarcofago dei Ss. Martiri, conservato nella cripta del Duomo, che racchiude le reliquie dei santi Sisinio, Fiorenzo, Dioclezio e Massimo.

A partire dalla fine del VI sec. a.c. si diffusero insediamenti sia nella zona subappenninica sia in quella costiera, per una rotta di cabotaggio dei naviganti greci che risalivano l'Adriatico occidentale, soprattutto in relazione al porto di Numana, e per le vie commerciali che dalla costa, seguendo le vie di fondovalle, raggiungevano attraverso i valichi appenninici il versante tirrenico.

Si segnalano gli insediamenti rurali di Villa Egidi, Fornace Fagioli, Grugneto, S. Stefano, Montetorto, le necropoli a Case Bellini, Osteriola, la tomba a camera di Casenuove, il grosso complesso per la produzione dell'olio individuato sempre a Casenuove di Osimo.

La frequenza e l'ubicazione degli insediamenti sembrano delineare numerosi percorsi viari minori di collegamento con i centri urbani più vicini. 

Già nel 2014 la Giunta aveva dato il via libera ad un mandato esplorativo, che aveva poi confermato la presenza della cisterna romana a circa 7 metri di profondità, tra Piazza Don Minzoni e Piazza Boccolino, in parte coperta da detriti e in parte sommersa dall’acqua.



I LEMURI ROMANI - LEMURES

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LEMURES
I Lemuri, in latino Lemures, erano entità o spiriti temuti dai romani appartenenti ad un defunto inquieto o malvagio, e sono probabilmente affini alle cosiddette larve (dal latino larva, "maschera") come inquietanti o terrificanti, dette anche "Bucce di morto". La parola lemures può essere ricondotta al termine indoeuropeo lem, riconducibile forse anche al nome del mostro greco Lamia. I Lemuri erano informi e liminari, dove il limen era il confine tra i vivi e i morti, associati all'oscurità e al suo terrore.

Lamia, nella mitologia greca, era una donna che divenne un mostro mangia-bambino dopo che i suoi figli furono distrutti da Hera, quando seppe che Giove l'aveva sedotta. Inoltre Hera affliggeva Lamia con insonnia, così da angosciarsi costantemente, ma Zeus le dava la capacità di rimuovere i propri occhi, con una chiara allusione a una seconda vista, non a caso gli indovini mitici greci erano sempre ciechi.

Nelle successive tradizioni e narrazioni, i lamiai divennero un tipo di fantasma, sinonimo delle greche "Empusai" che seducevano i giovani per soddisfare il loro appetito sessuale e nutrirsi poi della loro carne. Empusa o Empousa era un fantasma femminile capace di mutare la sua forma, che si diceva possedesse una singola gamba di rame. Ella faceva parte del corteo di Ecate Dea dell'oltretomba, della magia, equiparate ai " lamiai e mormolykeia", "lamie" e "mormo" (la variante mormolyce si traduce in "lupi terribili"), create per sedurre e nutrirsi di giovani uomini.

LA LAMIA
La lamia venne descritta simile a un serpente, quindi riconducibile alla natura della Madre Terra, il cui simbolo fu, in epoca antichissima e a tutte le latitudini, sempre il serpente. Si narra infatti di un mostro metà donna e metà serpente nel "mito libico" narrato da Dio Crisostomo, il filosofo e storico greco detto anche "Cocceiano", e il mostro inviato ad Argo da Apollo per vendicare Psamathe (Crotopus).

Come il serpente fu sacro nel matriarcato, divenne mostruoso e malvagio nel patriarcato. La Dea Serpente ricorre anche nel panteon egizio, con testa umana e corpo di serpente o viceversa con testa di serpente e corpo di donna.

Lemure è il termine letterario più comune per definire il fantasma, ma tra i romani ha un uso raro, ne scrivono i poeti di epoca augustea Orazio e Ovidio, quest'ultimo nei suoi Fasti, il poema calendariale di sei libri sulle feste romane e relative usanze religiose.

Verrà invece ripreso ampiamente nel medioevo, dove i sentimenti e gli istinti, relegati nell'inconscio dalla severa religione cattolica, usciranno fuori sotto forma di mostri che popoleranno soprattutto, strano a dirsi, le chiese.

Orazio nella sua Ars Poetica mette in guardia contro l'eccessivamente fantastico e spaventoso: "..né dovrebbe una storia dare l'immagine di un ragazzo vivo dal ventre di Lamia".

Ovidio descrive i Lemuri come spiriti vaganti e vendicativi per non aver ricevuto sepoltura, o riti funebri, o non essere stati ricordati e pregati dai vivi, o che non abbiano ricevuto iscrizioni nè su una tomba nè su una lapide. Il poeta li ravvisa nei Dei Manes, oppure dei genitori defunti con i figli ingrati, o antenati o spiriti degli Inferi. Sa che i Lemuri sono divinità o semidei del mondo rurale più antico, una tradizione magica dimenticata.


Nella Roma repubblicana e imperiale, il 9, l'11 e il 13 maggio si eseguivano le pratiche familiari dei Lemuralia o Lemuria. Il capofamiglia (pater familias) si alzava a mezzanotte e gettava fagioli neri dietro di lui con lo sguardo distolto, proferendo alcune formule di scongiuro; cibo per i Lemuri affinchè risparmiassero i membri della "familia", quindi servi e schiavi compresi. Il nero era il colore appropriato per le offerte alle divinità ctonie. 

William Warde Fowler interpreta il dono dei fagioli come un'offerta di vita, e sottolinea che si trattava di un procedimento rituale per i sacerdoti di Giove. Per convincere i lemuri a non infestare la casa, qualora non bastassero i fagioli offerti dal pater familias, si passavano a percuotere con possenti colpi dei vasi di bronzo, sembra che i Lemuri ne fossero terrorizzati.

Sull'offerta di vita dei fagioli ci sarebbe da dire, basti ricordare che le fave erano severamente vietate da Pitagora che preferì, si dice, farsi uccidere dai suoi nemici pur di non attraversare un campo di fave.

Queste erano considerate piante magiche, dotate di una potenza misteriosa e cosmica, sede di esseri soprannaturali in grado di influenzare negativamente o positivamente la vita degli uomini.
Erano un cibo sacro agli Dei dell’oltretomba o un cibo caro ai morti e per questo oggetto di tabù. Pertanto infrangere il divieto significava mettersi contro i morti o le potenze infernali.

Sappiamo però che i fagioli erano sacri per le antiche Dee Madri e tra l'altro connessi alla Dea italica Mellona o Mellonia che era ritenuta appunto Dea dei fagioli. I fagioli neri, una varietà da tempo esportata nella penisola italica, erano la pianta leguminosa più usata dai romani per la facilità della sua coltivazione, perchè era molto nutriente e perchè i suoi semi si potevano conservarsi molto a lungo.

Ma la ragione della sua sacralità risiedeva nel baccello, per arrivare al seme occorreva aprire il baccello, come per il culto di Diana Caria, per nutrirsi della noce occorreva spaccare il suo guscio.


Per le religioni di tipo femminile-matriarcale era basilare l'apertura della mente per contemplare il mondo altero, dei morti e degli Dei, e non si giungeva agli Dei se non attraverso i morti, e non si giungeva ai morti se non guardando nel buio di se stessi. "Nosce te ipsum" era scritto sul tempio della Madre Terra.

Il 24 agosto, 5 ottobre e 8 novembre, veniva aperto con l'annuncio ufficiale " mundus patet " (il mundus è stato aperto), il mondo ctonio dei morti e si facevano offerte per le divinità agricole e ctonie, tra cui Cerere come Dea del terra fertile ma pure degli Inferi. In particolare i sacerdoti di Cerere offrivano ai Mani un toro nero, simbolo della Luna Nera per le loro corna arcuate e per il colore del suo mantello.

In queste occasioni i morti circolavano liberamente nel mondo dei vivi e mentre i padri gettavano fagioli neri recitando litanie, le donne, ponevano ai crocicchi nel cuore della notte dei dolcetti fatti da loro come offerta allettanti per attirare i morti. La cerimonia permetteva loro di fare domande ai morti e di riceverne responsi per passato, presente e futuro.

Insomma mentre nei tempi più antichi il popolo italico conviveva col mondo dei morti, coi romani il mondo infero veniva allontanato e tappato, però non veniva allontanata così tanto l'idea della morte. Essendo un popolo di guerrieri ne erano spesso a contatto. Vedevano i compagni cadere nelle battaglie e ringraziavano la Fortuna Redux ogni volta che ritornavano sani e salvi. Non temevano tanto la morte quanto i fantasmi, non sapendo che in genere sono dentro di noi.

LUCIO FURIO MEDULINO

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GUERRA CONTRO I VOLSCI

Nome: Lucius Furius Medulinus
Nascita: -
Morte: -
Consolato: 413 a.c.


Lucio Furio Medulino fu un uomo politico e militare romano del V e IV secolo a.c. che ricoprì più volte la posizione di tribuno consolare, essendo con Servio Cornelio Maluginense che fu eletto ancora più volte.

Medulino fu membro dei Furii Medulini, una delle massime antiche familiae patrizie della gens Furia.
- Era figlio di Lucio Furio Medulino,
- fratello di Marco Furio Camillo,
- fratello di Espurio Furio Medulino,
- padre di Espurio Furio,
tutti loro furono eletti tribuni consulari.

RESTI DI CARVENTO

PUBLIO POSTUMIO ALBINO REGILENSE

Membro della gens Postumia, una volta ottenuto il suo primo consolato nell'anno 413 a.c. insieme al collega Aulo Cornelio Cosso, si occupò di investigare la morte, nell'anno passato, del tribuno consolare Publio Postumio Albino Regilense.

Questi aveva negato ai suoi soldati il ​​bottino che aveva loro promesso quando conquistò la città di Bolae, e quando Marco Sextio, tribuno della plebe, propose che il territorio dei bolanos fosse dato ai soldati che lo avevano conquistato, Albino lo minacciò con la tortura se avesse sostenuto la proposta in senato.

Divenuto tribuno consolare, annunciò che avrebbe punito gli istigatori di cui sopra. Mentre procedeva a un'orribile esecuzione, i soldati si ammutinarono e scoppiò un nuovo tumulto in cui Albino fu lapidato.


LA GUERRA CONTRO I VOLSCI

Quando si seppe che i Volsci stavano saccheggiando il territorio degli Ernici, egli si impegnò a condurre la guerra. Medulino andò a Ferentino, dove i Volsci si erano rifugiati, una città che prese senza resistenza perché i Volsci l'avevano abbandonata con il loro bottino la sera prima. Dato che il bottino era scarso e il console lo consegnò interamente agli ernici.

TRIBUNO CONSOLARE
Durante il secondo consolato, nell'anno 409 a.c., i plebei vennero eletti per la prima volta, e i tribuni della plebe, cercando di ottenere voti alle elezioni della tribuna consolare del senato e guidati da diversi membri delle gentes Iciliae, bloccarono il reclutamento dell'esercito fino a un accordo sancito dal Senato attraverso un Senatoconsulto.

Volsci ed Equi avevano invaso le terre dei Latini e degli Ernici. Medulino e il suo collega, Cneo Cornelio Cosso, iniziarono la campagna assediando senza successo Carvento, una città precedentemente occupata dagli Equi, per cui si dedicarono a saccheggiare i beni volsci ed equi, ottenendo un enorme bottino e prendendo la volsca fortezza di Verrugo. Livio dice anche che uno dei due consoli rimase a Roma per tenere le elezioni.

Medulino conseguì la dignità della tribuna consolare per ben sette volte.

- Il primo, due anni dopo il suo secondo consolato, coincise con la perdita della guarnigione di Verrugo e la fine della tregua con i Veii, anche se nessuna azione fu intrapresa contro la città di Veio.

- Nell'anno 405 a.c. fu tribuno consolare per la seconda volta, e dette inizio alla campagna contro Veio.

- Durante la sua terza tribuna consolare, nell'anno 398 a.c., vari prodigi indussero il Senato a inviare un'ambasciata all'oracolo di Delfi e un veggente predisse che, finchè non venisse svuotato il Lago Albano, i Romani non avrebbero preso Veio (quindi mai).

- L'anno seguente, prima che gli ambasciatori tornassero, Lucio Furio venne rieletto come tribuno consolare, l'anno in cui i tarquiniani attaccarono per la prima volta il territorio dei romani e, dopo aver ascoltato la risposta dell'oracolo di Delfi, dovette dimettersi insieme ai suoi colleghi perché aveva trascurato i doveri religiosi del luogo.​

- Nell'anno 395 a.c. fu eletto per la quinta volta ​ per l'anno seguente.

- ​Il suo ultimo tribunato consolare, nell'anno 391 a.c., coincise con l'esilio di suo fratello Marco Furio Camillo.

AQUA VEGETIANA

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I RESTI DELLE TERME ROMANE DI BACUCCO DOVE AFFLUIVA L'AQUA VEGETIANA

Autore dell'acquedotto:
  Lucius Mummius Niger Valerius Vegetus
Nascita: Iliberri (Granada), 70-72
Morte: -
Madre: Cornelia Severina
Moglie: Etrilia Afra
Consolato: nel 112


MUMMIO NIGRO VALERIO VEGETO, DI RANGO CONSOLARE, HA CONDOTTO LA SUA ACQUA VEGEZIANA DALLA FONTE, CHE NASCE NEL FONDO ANTONIANO MAGGIORE  DI PUBLIO TULLIO VARRONE, AVENDOLA ACQUISTATA IN PIENA LIBERTÀ INSIEME  CON IL LUOGO DA CUI SCATURISCE, PER 5950 PASSI VERSO LA SUA VILLA CALVISIANA, CHE SI TROVA PRESSO LE SUE ACQUE PASSERIANE, DOPO AVER ACQUISTATO E AFFRANCATO I LUOGHI E I PERCORSI DI QUELL’ACQUA DAI POSSESSORI DI CIASCUN FONDO ATTRAVERSO CUI L’ACQUA STESSA VIENE CONDOTTA, CON UN’AREA DI DIECI  PIEDI PER LE STRUTTURE MURARIE E DI SEI PIEDI PER LE TUBATURE, ATTRAVERSO I  FONDI ANTONIANO MAGGIORE E ANTONIANO MINORE DI PUBLIO TULLIO VARRONE,  I FONDI BEBIANO E FELINIANO DI AVILEO COMMODO, IL FONDO PETRONIANO DI  PUBLIO TULLIO VARRONE, IL FONDO VOLSONIANO DI ERENNIO POLIBIO, IL FONDO  FUNDANIANO DI CETENNIO PROCULO, IL FONDO CUTTOLONIANO DI CORNELIO  LATINO, IL FONDO SERRANO INFERIORE DI QUENTINNO VERECUNDO, IL FONDO  CAPITONIANO DI PISTRANO CELSO, E PER IL LATO SINISTRO DELLA VIA PUBBLICA  FERENTIENSE E PER IL FONDO SCIRPIANO DI PISTRANIA LEPIDA, LUNGO LA VIA  CASSIA E LA SUA VILLA CALVISIANA, NONCHE’ PER ALTRI CONFINI PUBBLICI  AVENDONE OTTENUTO IL PERMESSO IN BASE AD UN DECRETO SENATORIALE

Il testo testimoniava la costruzione di un grandioso acquedotto privato romano, la cosiddetta Aqua  Vegetiana, la cui realizzazione viene fatta risalire alla fine dell’impero di Adriano (117-138) se non  addirittura all’età di Antonino Pio (138-161). Probabilmente posizionate lungo tutto il tracciato del manufatto, le epigrafi erano una sorta di  “segnaletica” che certificava la proprietà dell’acquedotto e il suo legittimo passaggio attraverso terreni privati e pubbliche strade.



UN ACQUEDOTTO PRIVATO

Il proprietario dell’acquedotto, Mummio Nigro Valerio Vegeto, apparteneva alla famiglia senatoriale
romana dei Valerii Vegeti, Originari della Betica (Andalusia), i Vegeti beneficiavano di vastissime
proprietà nel sud della penisola spagnola e nel territorio pugliese; la loro ricchezza era legata alla
produzione e commercio dell’olio nonché al prestito di denaro ad interesse, attività quest’ultima
documentata dal Kalendarium Vegetianum, una sorta di registro dei crediti che l’impero acquisì
dalla famiglia, per confisca o donazione, durante i primi anni del governo di Marco Aurelio  (161-180 d.c.).

Alcuni esponenti dei Vegeti ricoprirono importanti cariche pubbliche; per far fronte ai loro impegni politici presso la capitale dell’Impero fecero costruire sul colle del Quirinale una fastosa domus della
quale si suppose di aver trovato le tracce nel corso di scavi archeologici eseguiti nel XVII secolo.
Il capostipite della famiglia fu un Quinto Valerius Vegetus che rivestì la carica di console nell’anno
91 d.c. sotto l’imperatore Domiziano; ma si ritiene che la sua ascesa all’ordine senatoriale avvenne già all’epoca di Vespasiano.

La sua città di provenienza era Florentia Iliberritana, l’attuale Granada; due epigrafi rinvenute
presso quest’importante municipio betico attestano che egli era figlio della sacerdotessa (flaminica)
Cornelia Severina e marito di una certa Etrilia Afra, membro di una famiglia originaria della colonia
spagnola di Tucci.

Oltre all’epigrafe dell’Aqua Vegetiana, esistono altre fonti sopravvissute a quasi duemila anni di storia che documentano l’esistenza di una chiara discendenza di questo Valerio Vegeto “granadino”.
I Fasti Consulares citano un Q.[uinto] Valerius Vegetus console suffetto (sostituto) nell’anno 112 d.c.,
sotto l’imperatore Traiano; gli storici lo considerano unanimemente il figlio dell’omonimo e precedente console iberico.

Ad Aecae, l’odierna Troia in provincia di Foggia, è stata ritrovata una lapide dedicatoria a Iuppiter
Dolichenus Exuperantissimus che reca il nome di un L. Mummius Niger Q. Valerius Vegetus Seuerinus C. Aucidius Tertullus.

Le evidenti discrepanze onomastiche possono essere spiegate ammettendo l’intervento di un’adozione, istituto piuttosto diffuso tra i romani. Alcuni autori ritengono che i due predetti personaggi siano, in realtà, la stessa persona e che questa coincida con il Mummio Nigro Valerio Vegeto dell’acquedotto viterbese.

Dopo il consolato del 112, Quinto Valerio Vegeto fu, dunque, adottato da un L. Mummius  Niger, forse padre o fratello della Mummia Nigrina cantata da Marziale. Alla morte del padre putativo, Quinto Valerio Vegeto ne ereditò il patrimonio, in particolare  concentrato in Puglia, che riunì a quello già posseduto in Spagna e in Etruria.

Per effetto della successione, aggiunse ai cognomi originari quelli che attestavano l’adesione alla gens Mummia, da cui il nome Mummio Nigro Valerio Vegeto delle iscrizioni viterbesi. Quanto al sintagma “Seuerinus C. Aucidius Tertullus” dell’iscrizione pugliese, assente nelle altre fonti, richiamava semplicemente ascendenti iberici.

Tuttavia, l’ipotesi appena descritta presuppone che questo «unico» Valerio Vegeto abbia avuto una
vita particolarmente lunga per l’epoca. L’epigrafe di Aecae, infatti, viene generalmente fatta risalire  alla fine dell’impero di Antonino Pio (138-161) se non all’età di Marco Aurelio (161-180), periodi nei  quali Valerio Vegeto, console nel 112, doveva avere un’ottantina d’anni, atteso che la carica consolare  si acquisiva, solitamente, intorno ai 40 anni.

Altri studiosi forniscono una diversa lettura delle testimonianze archeologiche di cui disponiamo e
suggeriscono di attribuirle a personaggi distinti, seppure legati da parentela diretta, e appartenenti a
tre successive generazioni.

Il Mummio Nigro Valerio Vegeto dell’Aqua Vegetiana sarebbe stato il figlio di una Valeria sorella del
Valerio Vegeto console nell’anno 112 e di un Mummius Niger, membro dei Mummi originari della  Spagna meridionale.

Alcuni studi dimostrerebbero che Mummio Nigro Valerio Vegeto, alla pari dello zio, rivestì la carica
consolare; viene, infatti, identificato con il Niger che in un diploma militare datato 125 viene
indicato quale console assieme a P. Lucius Cosconianus.

Mummio Nigro Valerio Vegeto si sarebbe quindi sposato con una aristocratica legata, per parentela
o adozione, alla famiglia degli Atilii Branduae, importante gens romana cui apparteneva Atilia  Caucidia Tertulla, moglie del senatore Appio Annio Gallo e madre di Appia Annia Regilla.

Dal matrimonio nacque il L. Mummius Niger Q. Valerius Vegetus Seuerinus Caucidius Tertullus
menzionato nella lapide dedicatoria di Aecae, figura che sarebbe vissuta sotto l’impero di Marco  Aurelio (161-180). Egli ereditò i possedimenti materni in Puglia e aggiunse al polinomio paterno i  cognomi  “Severinus”, relativo all’ava spagnola Cornelia Severina, e “Caucidius Tertullus”, che
richiamava con evidenza le ascendenze della madre.

Non mancano, in fine, ipotesi intermedie che si limitano ad identificare il Mummio Nigro Valerio 
Vegeto “viterbese” con quello “pugliese”; dunque, un unico personaggio vissuto sotto Adriano e  Antonino Pio, figlio del console Valerio Vegeto ricordato dai Fasti e di una donna della casa
dei Mummii, a sua volta collegata in qualche modo ad un ramo degli Atilii Branduae con interessi  nella Regio II.



DA:  L’ACQUEDOTTO DI MUMMIO NIGRO VALERIO VEGETO

IL BOTTINO DI S. MARIA IN GRADI

"Ridottosi alquanto il flusso d’acqua della Fontana Grande, il 18 gennaio 1640 i conservatori comunali Bernardino Carelli e Pierfrancesco Bussi si diedero a sondare la condotta di alimentazione sotterranea che aveva il proprio capo presso il convento di S. Maria in Gradi. Secondo quanto riportato dal Libro delle Riforme del Comune di Viterbo, si scavò presso un oliveto confinante con il muro dei domenicani e la torre del Citerno e si rivenne un antico muro sotto il quale si apriva un bottino per la raccolta delle acque.

Quel collettore era servito da cinque cunicoli, di cui due asciutti; nel primo di questi, i conservatori trovarono due epigrafi su peperino, assai corrose, dalle quali trascrissero, male interpretandole, queste poche parole: “Mummius Niger Valerius Vichiu Consules Civitatis Viterbii Acquam Collis Quintiani … Anno DCCCCLI”[2], ovverosia “Mummio Nigro Valerio Vico (?) console della città di Viterbo – Acqua del colle Quinzano – Anno 951”.

Nel 1824, una spedizione di studiosi locali scese di nuovo nel bottino presso il terreno di S. Maria in Gradi, stavolta coltivato come vigneto. Il gruppo di ricercatori era composto da Pio Semeria, Luigi Anselmi, Stefano Camilli e Francesco Orioli; quest’ultimo così racconta quell’esplorazione:

“la trovai (la lapide) tuttora murata nell' antico suo posto sotto una vigna presso il convento di S. Maria ad Gradus, e dopo tre giorni di continuate comuni ispezioni, cosi potei finalmente copiarla con qualche speranza d' essere stato fedelissimo trascrittore.


MVMMIVS NIGER
EPIGRAFE RINVENUTA A S. MARIA IN
GRADI (Ingrandibile)
VALERIVS VIGELVS [VEGETUS] CONSVLAR
AQVAM SVAM VIGEILAINAM [VEGETIANAM] QVAE
NASCITVR IN FVNDO ANIONIANO [ANTONIANO]
MAIORE P. IVLII [TULLI] VARRONIS CVM EO LOCO
IN QVO IS FONS EST EMANCIPATVS DUXIT
PER MILLIA PASSVVM VDCCCCL IN VIL
LAM SVAM CALVISIANAM QVAE EST
AD AQVAS PASSERIANAS SVAS COMPARA
TIS ET EMANCIPATIS SIBI LOCIS ITINERI
BVSQVE EIVS AQVAE A POSSESSORIBVS
SVI CVIVSQVE FVNDI PER QVAE AQVA
SUB [SUPRA SCRIPTA] DVCTA EST PER LATITVDINEM STRVCTV
RIS PEDES DECEM FISTVLIS PER LATITVDI
NEM PEDES SEX PER FVNDOS ANIONIAN [ANTONIANO)
MAIOREM ET ANIONIANVM [ANTONIANO] MINOR
P.IVLII [TULLII] VARRONIS ET BALBIANVM [BAEBIANUM] ET
PHELINIANVM [PHILIANUM] AVLCEI [AVILEI] COMMODI
ET PETRONIANVM P.IVLII [TULLI] VARRONIS
ET VOLSONIANVM HERENNI POLYBI
ET FVNDANIANVM CAETENNI PROCULI
ET CVTTOLONIANVM CORNELI LATIALIS
ET SERRANVM INFERIOREM QVINTINI
VERECVNDI ET CAPITONIANVM PISTRANI
CELSI ET PER CREPIDINEM SINISTERIOR [SINISTRIOREM]
VIAE PVBLICAE FERENTIENSES ET SCIRPI
ANVM PISTRANIAE LEPIDAE ET PER VIAM
CASSIAM IN VILLAM CALV1SIANAM SVAM
ITEM PER VIAS LIMITESQVE PVBLICOS
EX PERMISSV S.C.

Poco lungi dal primo sasso è un secondo uguale, contenente la stessa epigrafe, o almeno analoga, ma notabilmente più danneggiata dal tempo, giacché vi si legge solamente:

… ALISET …
SIS ET SCIRPI … STRANIAE LEPIDAE
ET PER VIAM CASSIM IN VILLAM SVAM
CALVISIANAM ITEM PERVIAS LIMIT...
QUE PVBLICO SEX PERMISSV ”

Questa seconda e mal conservata lapide andò irrimediabilmente perduta nel tempo, anche se fu possibile catalogarla nel XIX secolo grazie all’opera dell’epigrafista Eugen Bormann.

La prima e completa iscrizione venne, invece, asportata dal bottino e trasportata al Museo Civico di Viterbo dove fu oggetto di schedatura e di varie traduzioni; purtroppo, andò in frantumi durante i bombardamenti aerei che colpirono il complesso museale durante la II Guerra Mondiale. Di essa non resta che una scheggia con sole quattro righe, grande 26x22 centimetri, oggi visibile presso l’ingresso del Museo, incassata nel muro di destra.

Nel 1934, durante i lavori di apertura dell’attuale via Ascenzi, non lontano dalla chiesa di S. Maria della Salute, fu ritrovata un terzo esemplare dell’epigrafe, stavolta su marmo bianco, riutilizzato nei secoli successivi come lastra pavimentale. Oggi è conservato nel Museo della Rocca Albornoz e si presenta in quattro frammenti che compongono un parallelepipedo di 44x60 cm. dai contorni mutilati. Il testo superstite è pressappoco la metà di quello della lastra rinvenuta nel bottino di S. Maria in Gradi.

FRAMMENTO MARMOREO RINVENUTO IN VIA ASCENZI

Ecco la traduzione completa dell’iscrizione:

MUMMIO NIGRO VALERIO VEGETO, DI RANGO CONSOLARE, HA CONDOTTO LA SUA ACQUA VEGEZIANA DALLA FONTE, CHE NASCE NEL FONDO ANTONIANO MAGGIORE DI PUBLIO TULLIO VARRONE, AVENDOLA ACQUISTATA IN PIENA LIBERTÀ INSIEME CON IL LUOGO DA CUI SCATURISCE, PER 5950 PASSI VERSO LA SUA VILLA CALVISIANA, CHE SI TROVA PRESSO LE SUE ACQUE PASSERIANE, DOPO AVER ACQUISTATO E AFFRANCATO I LUOGHI E I PERCORSI DI QUELL’ACQUA DAI POSSESSORI DI CIASCUN FONDO ATTRAVERSO CUI L’ACQUA STESSA VIENE CONDOTTA, CON UN’AREA DI DIECI PIEDI PER LE STRUTTURE MURARIE E DI SEI PIEDI PER LE TUBATURE, ATTRAVERSO I FONDI ANTONIANO MAGGIORE E ANTONIANO MINORE DI PUBLIO TULLIO VARRONE, I FONDI BEBIANO E FELINIANO DI AVILEO COMMODO, IL FONDO PETRONIANO DI PUBLIO TULLIO VARRONE, IL FONDO VOLSONIANO DI ERENNIO POLIBIO, IL FONDO FUNDANIANO DI CETENNIO PROCULO, IL FONDO CUTTOLONIANO DI CORNELIO LATINO, IL FONDO SERRANO INFERIORE DI QUENTINNO VERECUNDO, IL FONDO CAPITONIANO DI PISTRANO CELSO, E PER IL LATO SINISTRO DELLA VIA PUBBLICA FERENTIENSE E PER IL FONDO SCIRPIANO DI PISTRANIA LEPIDA, LUNGO LA VIA CASSIA E LA SUA VILLA CALVISIANA, NONCHE’ PER ALTRI CONFINI PUBBLICI AVENDONE OTTENUTO IL PERMESSO IN BASE AD UN DECRETO SENATORIALE.

Il testo testimoniava la costruzione di un grandioso acquedotto privato romano, la cosiddetta Aqua Vegetiana, la cui realizzazione viene fatta risalire alla fine dell’impero di Adriano (117-138) se non addirittura all’età di Antonino Pio (138-161).

Probabilmente posizionate lungo tutto il tracciato del manufatto, le epigrafi erano una sorta di “segnaletica” che certificava la proprietà dell’acquedotto e il suo legittimo passaggio attraverso terreni privati e pubbliche strade.



UN PADRONE D’ORIGINE ISPANICA

Il proprietario dell’acquedotto, Mummio Nigro Valerio Vegeto, apparteneva alla famiglia senatoriale romana dei Valerii Vegeti.

Alcuni esponenti dei Vegeti ricoprirono importanti cariche pubbliche; per far fronte ai loro impegni politici presso la capitale dell’Impero fecero costruire sul colle del Quirinale una fastosa domus della quale si suppose di aver trovato le tracce nel corso di scavi archeologici eseguiti nel XVII secolo.

Oltre all’epigrafe dell’Aqua Vegetiana, esistono altre fonti sopravvissute a quasi duemila anni di storia che documentano l’esistenza di una chiara discendenza di questo Valerio Vegeto “granadino”.
I Fasti Consulares citano un Q.[uinto] Valerius Vegetus console suffetto (sostituto) nell’anno 112 d.c., sotto l’imperatore Traiano; gli storici lo considerano unanimemente il figlio dell’omonimo e precedente console iberico.

Ad Aecae, l’odierna Troia in provincia di Foggia, è stata ritrovata una lapide dedicatoria a Iuppiter Dolichenus Exuperantissimus che reca il nomedi un L. Mummius Niger Q. Valerius Vegetus Seuerinus C. Aucidius Tertullus.

Alcuni autori ritengono che i due predetti personaggi siano, in realtà, la stessa persona e che questa coincida con il Mummio Nigro Valerio Vegeto dell’acquedotto viterbese. Le evidenti discrepanze onomastiche possono essere spiegate ammettendo l’intervento di un’adozione, istituto piuttosto diffuso tra i romani.

Dopo il consolato del 112, Quinto Valerio Vegeto fu, dunque, adottato da un L. Mummius Niger, forse padre o fratello della Mummia Nigrina cantata da Marziale. Alla morte del padre putativo, Quinto Valerio Vegeto ne ereditò il patrimonio, in particolare concentrato in Puglia, che riunì a quello già posseduto in Spagna e in Etruria.

Per effetto della successione, aggiunse ai cognomi originari quelli che attestavano l’adesione alla gens Mummia, da cui il nome Mummio Nigro Valerio Vegeto delle iscrizioni viterbesi. Quanto al sintagma “Seuerinus C. Aucidius Tertullus” dell’iscrizione pugliese, assente nelle altre fonti, richiamava semplicemente ascendenti iberici.

Altri studiosi forniscono una diversa lettura delle testimonianze archeologiche di cui disponiamo e suggeriscono di attribuirle a personaggi distinti, seppure legati da parentela diretta, e appartenenti a tre successive generazioni.

Il Mummio Nigro Valerio Vegeto dell’Aqua Vegetiana sarebbe stato il figlio di una Valeria sorella del Valerio Vegeto console nell’anno 112 e di un Mummius Niger, membro dei Mummi originari della Spagna meridionale.

Alcuni studi dimostrerebbero che Mummio Nigro Valerio Vegeto, alla pari dello zio, rivestì la carica consolare; viene, infatti, identificato con il Niger che in un diploma militare datato 125 viene indicato quale console assieme a P. Lucius Cosconianus.

Mummio Nigro Valerio Vegeto si sarebbe quindi sposato con una aristocratica legata, per parentela o adozione, alla famiglia degli Atilii Branduae, importante gens romana cui apparteneva Atilia Caucidia Tertulla, moglie del senatore Appio Annio Gallo e madre di Appia Annia Regilla.

Dal matrimonio nacque il L. Mummius Niger Q. Valerius Vegetus Seuerinus Caucidius Tertullus menzionato nella lapide dedicatoria di Aecae, figura che sarebbe vissuta sotto l’impero di Marco Aurelio (161-180). Egli ereditò i possedimenti materni in Puglia e aggiunse al polinomio paterno i cognomi “Severinus”, relativo all’ava spagnola Cornelia Severina, e “Caucidius Tertullus”, che richiamava con evidenza le ascendenze della madre.

Non mancano, in fine, ipotesi intermedie che si limitano adidentificare il Mummio Nigro Valerio Vegeto “viterbese” con quello “pugliese”; dunque, un unico personaggio vissuto sotto Adriano e Antonino Pio, figlio del console Valerio Vegeto ricordato dai Fasti e di una donna della casa dei Mummii, a sua volta collegata in qualche modo ad un ramo degli Atilii Branduae con interessi nella Regio II.



UN POTENTE CONSOLE TARQUINIESE

Le epigrafi dell’Aqua Vegetiana sono un’interessante testimonianza sia delle tecniche costruttive degli acquedotti romani (latitudinem structuris pedes decem fistulis per latitudinem pedes sex) che della pratica di acquistare la sorgente e la striscia di terreno sulla quale realizzare il manufatto privato (comparatis et emancipatis sibi locis itineribusque eius aquae a possessoribus sui cuiusque fundi, per quae aqua supra scripta, ducta est).

Ma, soprattutto, forniscono un minuzioso quadro dei fondi che venivano attraversati dal condotto, che si dice essere lungo 5.950 passi, vale a dire quasi 9 kilometri. Per ciascuna tenuta viene indicato il nome del relativo proprietario.

Tra tutti spicca quello di tal Corneli Latialis, proprietario del fondo Cuttoloniano, da alcuni identificato con Cornelius Latinus medico nominato sotto Antonino Pio. Herenni Polybi del fondo Volsoniano potrebbe, invece, essere legato ad una gens, gli Herenni o Hereni, più volte attestata in Etruria soprattutto in epoca repubblicana. Il “Proculo” della tenuta Fundaniano doveva appartenere ai Caetennii di Volsinii (Bolsena), una famiglia di cui non si conoscono personaggi di alto lignaggio, ma che doveva la sua ricchezza al commercio e alle attività artigianali.



UNA VERA E PROPRIA MAPPA FONDIARIA

Considerata la scomparsa di qualsiasi emergenza architettonica dell’acquedotto, la ricostruzione del suo percorso sulla base della moderna topografia non è agevole. Si può, comunque, azzardare un’ipotesi costruita su qualche suggestiva corrispondenza onomastica e sui pochi dettagli topografici certi. Uno di questi è il caput acquae che, come detto, era presso il convento di S. Maria in Gradi, la cui area corrisponde grossomodo con una parte del «fondo Antoniano Maggiore» (aquam quae nascitur in fundo antoniano maiore).

L’acquedotto scendeva lungo la direttrice dell’odierna via S. Maria in Gradi dove, in epoca medievale, fu intercettato dalla condotta che portava l’acqua a Fontana Grande; in un manoscritto di fine Ottocento, si legge che il «fontanaro» Settimio Piacentini aveva individuato il punto dell’innesto all’altezza dello spiazzo che anticipa i gradini e la facciata della chiesa di Gradi.

RAFFIGURAZIONE DI UNA SEPIA
L’area di S. Sisto fino a Fontana Grande, e forse oltre, costituivano il «fondo Antoniano Minore»; un’eco di questo possedimento varroniano è verosimilmente rimasta nel vico o casale Antoniano attestato nel IX secolo, la cui pieve, S. Pietro, era situata lungo l’attuale via La Fontaine.

Giunto nei pressi del giardino di Villa Gentili, l’acquedotto Vegetiano piegava piuttosto repentinamente verso nord ed iniziava a correva lungo il terrapieno che accompagnava le mura medievali dalla Porta di S. Sisto fino a quella che, ancora nel Cinquecento, era una cava di pietrame.

Si può azzardare l’ipotesi che all’altezza dell’odierna Porta Romana il naturale scorrimento dell’acquedotto venisse deviato da una barriera che assolveva anche alla funzione di chiusa. La Fontana del Sepale, pertanto, era forse così chiamata per aver tratto le sue acque da quell’antica cateratta, una «sepia» appunto.

Dopo questa parentesi, torniamo alla descrizione del percorso compiuto dall’acquedotto romano. Questo continuava verso settentrione, lungo un pendio che, in sostanza, ricalcava la direttrice della cinta muraria fino a Porta della Verità e alla successiva costa che ospita i ruderi del palazzo di Federico II; di quest’antica struttura ancora oggi è visibile un pozzo circolare che attingeva ad un cunicolo dove nel Duecento doveva scorrere un rivo d’acqua, probabile retaggio dell’Aqua Vegetiana.

Buona parte dell’acquedotto era infatti sotterranea e si svolgeva attraverso canali coperti scavati nella roccia o costruiti in muratura che venivano impermeabilizzati attraverso un rivestimento in cocciopesto (opus signinum) composto da frammenti di laterizi e malta; di tratto in tratto, per la necessaria areazione o per le operazioni di pulizia, si apriva nella copertura uno spiramen che assumeva l’aspetto di un vero e proprio pozzo. Da quanto indicato nelle epigrafi sappiamo, tuttavia, che erano presenti lunghe sezioni realizzate con tubi di piombo o di peperino innestati tra loro con una maschiettatura.

A ridosso dell’attuale Porta S. Marco iniziava un forte dislivello che anticipava il vallone tagliato dal torrente Urcionio, che qui formava addirittura delle cascatelle. Per valicare il salto e consentire al dotto di raggiungere il lato opposto fu necessario costruire un piccolo ponte con delle arcate.

Poiché l’acquedotto attraversava 12 fondi (incluso quello d’arrivo) su una distanza complessiva di circa 8,800 kilometri, si può sommariamente affermare che in media vi doveva essere una tenuta ogni 800 metri; di conseguenza, le proprietà di Avileo Commodo, cioè i fondi Bebiano e Feliniano, e il fundus petronianum dei Varroni dovevano costituire le ultime tenute ricadenti nel circuito dell’odierna città.

La condotta procedeva in linea con il tratto urbano della moderna Cassia, come dimostrerebbero alcuni tubi in peperino rinvenuti nel 1931 presso Prato Giardino. Quindi muoveva verso nord, in direzione dell’area termale del Bagnaccio, seguendo grossomodo la direttrice della strada vicinale Piazza d’Armi.

Dopo aver tagliato i fondi di Erennio Polibio, Cetennio Proculo, Cornelio Latino, Quentino Verecundo e Pistrani Celsi, l’acquedotto raggiungeva la sostruzione sinistra della strada Ferentana che, provenendo dall’odierna contrada Pian di Giorgio, scendeva fino a Valle Palombella.

DETTAGLIO DELLE ACQUE PASSERIS - TAVOLA PEUNTIGERIANA
(Ingrandibile)
In questo segmento la strada attraversava le proprietà di Pistrania Lepida, ovverosia il fondo Scirpiano, la cui denominazione derivava dalla fitta presenza di scirpis, cioè erbe palustri, giunchi; la tenuta ricomprendeva le terme di Prato Vecchio e quelle del Bacucco, quest’ultime alimentate dalla sorgente delle Serpi, il cui nome potrebbe essere anch’esso un’alterazione del fitonimo «scirpi».

L’acquedotto costeggiava la Ferentana fino al punto in cui questa intersecava la via consolare Cassia, quindi terminava il suo percorso nei pressi della Villa Calvisiana di Mummio Nigro Valerio Vigeto situata nel territorio delle Acquae Passeris.

L’Acqua Passeriana era un’importante stazione di posta (mansio) della Cassia situata nei pressi dei Bagni del Bacucco. Vi dovevano essere un edificio principale destinato all’ospitalità dei viaggiatori, gli alloggiamenti per i postiglioni, i magazzini e le scuderie nonché gli insediamenti per i residenti e le immancabili piscine alimentate dalle sorgenti ipotermali; il tutto sotto la sovrintendenza di un ufficiale governativo, il mansionarius.

Le Acquae Passeris sono chiaramente raffigurate nella Tavola Peutingeriana come una grande struttura quadrangolare avente un’area scoperta al centro. In questa sorta di mappa stradale dell’impero romano, la stazione è indicata a cavallo di una linea rossa che rappresenta la Cassia, a metà distanza tra Volsinis (Bolsena) eForum Cassii (Vetralla).

Il fatto che nelle epigrafi viterbesi si attesti l’appartenenza dell’Acqua Passeriana a Mummio Nigro Valerio Vigeto (aquas passerianas suas) lascia supporre che nel II secolo d.c.  fosse stata inglobata nei vasti possedimenti del ricco aristocratico romano divenendo una sorta di porto viario privato.

Centro dell’intera tenuta era la Villa Calvisiana, la cui esatta ubicazione è sconosciuta; doveva ergersi in un’area compresa tra le falde di Monte Jugo e i Bagni della Colonnella, in una posizione in cui la vista poteva agevolmente intercettare l’intera pianura tagliata dalla Cassia e chiudersi a meridione sulle rotonde linee dei monti Cimini.

Di questo sontuoso edificio, così come del suo acquedotto tratto dalle falde dei Cimini, non rimane più nulla; di tanto in tanto un frammento ceramico, qualche tessera musiva o resti di tubature plumbee riaffiorano tra i solchi della terra arata dei campi, ma niente altro.

Di Ser Marcus de Montfort
Disegni di Marco Serafinelli de Castro Celleni


CARMENTALIA (1/15 Gennaio)

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CARMENTALIA
Carmenta (detta anche Nicostrata), antica Dea Indigens, cioè indigena, primitiva, venne onorata prima sul suolo italico e poi a Roma, nel I giorno di Gennaio. Gli Di indigetes erano un gruppo di divinità e spiriti della religione e della mitologia romana precedenti l'influenza etrusca a greca, non adottati da altre religioni. Successivamente vi si aggiunse la festa del 15 gennaio (14 secondo altri autori).

Originariamente chiamata Nicostraté o Nicostrata (Plutarco, Vita di Romolo, 21, 2) e, poi, alternativamente, Thémis, Tissandra o Telpousa, avrebbe avuto una segreta relazione con Hermès o Mercurio (il messaggero degli Dei), da cui sarebbe nato Evandro, un personaggio della mitologia romana che ritroveremo nell’VIII libro dell’Eneide.

I suoi miti però non sono concordi, alcuni la dissero Madre di Evandro, avuto da Mercurio (o da Pallante). Consigliò infatti il figlio Evandro, dopo che era approdato in Italia fuggendo da Troia, di fondare una città su un colle che chiamò in onore del padre Pallante: "Palatino".

Plutarco riferisce che altri la ritenessero invece una profetessa che si pronunciava in versi (infatti i Romani chiamano Carmina i componimenti poetici in versi, da Carmenta), in realtà chiamata Nicostrata.

Sempre Plutarco informa che alcuni ritenevano che Carmenta fosse la Moira addetta alla procreazione degli uomini, e che per questo la venerano soprattutto le madri. Comunque la versione che a Plutarco sembra più plausibile, è che il termine Carmenta significhi, priva di senno, a causa dei deliri provocati dall'essere posseduta dagli Dei. Carere in latino significa infatti essere privo, mentre per mentem si intende l'intelletto.

Fu comunque Dea maga e profetessa, protettrice della donne, della gravidanza e della nascita, patrona delle levatrici. 



IL TEMPIO

Presso la Porta Carmentale, nelle vicinanze del Campidoglio, le venne infatti eretto un tempio con un antico oracolo, istituiti fin dai tempi di Romolo e Tito Tazio dove si svolgeva il suo culto pubblico e si consultava un oracolo.

Diede il nome alla porta Carmentale ed alle feste in Roma dette Carmentalia, che erano celebrate soprattutto dalle donne l'11 e il 14 gennaio.

Nel suo tempio era proibito indossare abiti ed oggetti di pelle, in quanto erano le parti cadaveriche dell'animale ucciso. Anche se il nutrimento attraverso gli animali era tollerato, era proibito sacrificare animali e portare resti di animali uccisi. Le sacerdotesse si astenevano dai prodotti animali.

Il 14 gennaio era la seconda festa in onore di Carmenta, voluta dalle matrone romane per onorare la Dea che le aveva favorite nella battaglia contro il Senato che aveva proibito loro l'uso delle carrozze.

Per non essere costrette a casa o ad estenuanti camminate, le donne si coalizzarono negando ai mariti il piacere dei sensi finché non costrinsero il Senato a togliere il divieto.



LA DEA

Carmenta era anche Dea della musica e della danza e veniva rappresentata con sul capo una corona di fave (il frutto proibito da Pitagora, ritenuto da alcuno sacro ai morti) il frutto che nasconde i suoi semi per cui doveva possedere anticamente i Sacri Misteri.

Altro suo attributo era un'arpa con cui intonava le melodie dell'universo, attributo passato poi al Dio Apollo. Quando nasceva un bambino veniva portato al tempio perchè gli si profetizzasse il futuro. Al culto pubblico della Dea a Roma era preposto il Flamen Carmentalis, il flamine carmentale, ma gli oracoli li facevano solo le sacerdotesse.

Infatti, Carmenta o Carmentis per altri sarebbe stata solo una sacerdotessa oracolante, particolarmente reputata e stimata nella Roma arcaica, per i suoi infallibili oracoli e la precisa conoscenza che ella sarebbe stata in grado di dimostrare nel campo del destino degli uomini.

Morta, all’eccezionale età di all’incirca 110 anni, Carmenta sarebbe stata sepolta alle falde Sud-Est del Campidoglio, presso la porta Carmentale, edificata già all’epoca di Romolo e di Tito Tazio (Plutarco, Vita di Romolo 21, 1), ed immediatamente divinizzata ed accolta a furor di popolo tra gli Di Indigetes (Dei ed Eroi primitivi e nazionali).

Ella era rappresentata come una giovane e leggiadra donna dai lunghi capelli ondulati, a loro volta decorati, sul giro fronte/tempie/nuca, con un vegetale e rigoglioso diadema di foglie pennate, fiori (bianchi, macchiati di nero) e baccelli di fave (Vicia faba), ed avente ai suoi piedi un’arpa, simbolo del carattere profetico e divinatorio che era attribuito a quest’antica veggente.

I FLAMEN CARMENTALIS

Le Carmentalia a Roma si fusero poi con le sibille, delle quali molto famosa fu quella di Cuma.
Ambedue le Dee erano considerate divinità oracolari. La prima conosceva il passato e s'invocava per riparare i mali incorsi. La seconda prediceva l'avvenire e s'invocava per prevenire i mali venturi ed erano comunque ambedue invocate nei parti. Da lei tutte le donne che profetavano si dissero Carmente.

Secondo un'altra tradizione invece era una festività osservata principalmente dalle donne; e, in epoche più antiche, solo femminile, anche se non sono noti particolari della celebrazione.

Carmenta sarebbe stata invocata con gli epiteti di Postvorta e Antevorta, in riferimento alla sua capacità di guardare indietro al passato e in avanti al futuro. Sicuramente questo riguardava il mito più antico, nel mito successivo Postvorta e Antevorta vennero sostituite dalle sibille.

In realtà sembra che le Carmemtae fossero quattro:

- Egeria, l’ispiratrice del secondo re di Roma, Numa Pompilio, di stirpe sabina e promotore della concordia fra le prime tribù romane (dopo il ratto delle sabine ce n'era bisogno). 

- Carmenta (Carmentis), da cui il termine "carme" la poesia.

- Antevorta e Postvorta, che sarebbero anch'esse personificazioni legate al parto, in quanto Dee Indigetes, invocate perché il feto si presentasse nella giusta posizione (con la testa in basso), e fosse salvato se si fosse presentato al contrario. A loro venivano talvolta attribuite facoltà profetiche e più generalmente “ispiratrici”.

Sempre secondo le antiche fonti tradizionali, la medesima Temi o Thémis, per la sua audace relazione, sarebbe stata costretta ad abbandonare l’Arcadia ed a rifugiarsi con suo figlio Evandro in Italia, dove Faunus, mitico re del Lazio (Latium), li avrebbe entrambi benevolmente.
Quella che i Romani, da lì a poco, inizieranno a chiamare Carmenta o Carmentis (da Carmen = ‘canto magico’ o ‘formula prodigiosa’ o ‘incantesimo’ o ‘oracolo’), nel corso della sua attività pubblica e dei suoi spostamenti – secondo la mitologia – sarebbe stata costantemente accompagnata, da due Ninfe delle sorgenti e dei boschi o Camènes:
– Antevorta (o Anteverta) una specie di ‘spirito/genio del passato’;
– Postvorta (o Postverta) una specie di ‘spirito/genio dell’avvenire’.



LA FESTA

Durante la festa più antica era proibito l'uso delle carni, ma successivamente nel banchetto festivo questo uso venne tollerato. Però era proibito sacrificare animali. C'erano canti e danze e processioni eseguite dalle stesse sacerdotesse a cui si univa la popolazione.

La festa durava dal mattino al tramonto. Sembra che anticamente proseguisse anche di notte e che alle danze e alle libagioni per la Dea seguissero anche accoppiamenti sessuali rituali, usanza poi severamente proibita.

TERME DI BATH (Inghilterra)

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Le terme romane di Bath furono costruite ai tempi dell'imperatore Vespasiano, nel 75 d.c., nella città allora chiamata Aquae Sulis. Pare infatti che in questa zona, fin dal 10000 a.c., dal sottosuolo fuoriuscisse acqua termale, ancor oggi visibile.

Erano conosciute in tutto l'Impero Romano e frequentate da gente di ogni classe sociale. Il complesso comprendeva anche un tempio dedicato all'antica dea celtica dell'acqua e alla Dea romana Minerva.

Nel 410, con l'abbandono della Britannia da parte delle legioni romane, le terme vennero abbandonate e l'Inghilterra fu invasa dai Sassoni, che conquistarono la città nel 577. La struttura cadde in sfacelo e si allagò. Per arginare l'acqua si mise del pietrisco negli ambienti, che con l'acqua si trasformò in fango nerastro che sommerse le terme.


L'acqua che alimenta le terme di Bath cade dapprima sotto forma di pioggia sulle vicine Mendip Hills, poi grazie ad una serie di cunicoli sotterranei, l'acqua percola (cioè attraversa un materiale poroso) fino a una profondità compresa tra i 2,700 e i 4,300 m, dove viene raggiunta una temperatura fra i 69 e i 96 ° a causa dell'energia geotermale.

RICOSTRUZIONE DI AQUAE SULIS CON LE RINOMINATE
TERME DI BATH AL CENTRO (INGRANDIBILE)
Le terme di Bath, quindi, captano 1,17 milioni di litri di acqua calda ogni giorno, che sgorga dal suolo ad una temperatura di 46 °. Delle vere terme naturali.

I primi ad usufruire delle terme furono i Celti, che sul sito costruirono un santuario dedicato alla Dea Sulis, adorata dai Romani sotto il nome di Minerva. La leggenda racconta che il fondatore di Bath fu un re Celta chiamato Bladud, che aveva contratto la lebbra e che guarì bagnandosi nelle acque fangose delle sorgenti (che allora sgorgavano in una palude).

Bladud avrebbe creato il primo nucleo della città in quel luogo dopo la sua guarigione miracolosa, attorno al IX secolo a.c.. Diversi ritrovamenti archeologici fanno ritenere che la zona delle fonti fosse già abitata circa 10.000 anni fa. La storia ci dice che effettivamente i Celti conoscevano già le proprietà curative di quelle acque e che ritenendole d'origine soprannaturale le avevano consacrate alla loro Dea chiamata Sul, o Sulis.


In epoca imperiale, quando la Britannia era sotto dominio romano, il nome di Sulis continuò ad essere utilizzato anche dopo il tramonto della civiltà celtica, tanto che i Romani, che rispettavano tutte le divinità straniere, decisero di battezzare la città come Aquae Sulis («le acque di Sulis»). I Romani, infatti, conobbero le sorgenti termali nel 44 d.c.; la costruzione delle terme ebbe luogo nel 60-70, anche se i vari rimaneggiamenti si conclusero solo nei trecento anni successivi.

Durante l'occupazione romana della Britannia, e possibilmente su suggerimento dell'imperatore Claudio, vennero costruite delle strutture lignee sotterranee per evitare che l'edificio sprofondasse nel fango. La fonte venne inoltre fatta cingere da un muro alto 2 metri rivestito da lamine di piombo.

Nel III sec., le terme vennero rinchiuse in un'enorme sala voltata, che comprendeva un modesto "calidarium" disposto a ovest, un "tepidarium" e un "frigidarium" collocato a sud. Il rifacimento del tetto, inoltre, rese necessario anche il rafforzamento delle mura con contrafforti di laterizio, insomma tutto fu ripristinato al meglio dai romani. L'intero complesso rimase in uso fino al declino del dominio romano, dopo il quale venne insabbiato ed eventualmente allagato; la Cronaca anglosassone ne data l'abbandono nel VI secolo.

Presso il sito sono state rinvenute 130 tessere plumbee con esecrazioni: le cosiddette defixiones. Le maledizioni, scritte in romano britannico, ( lingua neolatina che si sviluppò nella Britannia romana nel V e VI secolo d.c., dopo il ritiro delle legioni romane dalle isole britannicheerano principalmente rivolte ai ladri di indumenti, che venivano lasciati sul ciglio della vasca mentre il proprietario si immergeva nelle acque termali.



LA RINASCITA

Mentre la città di Bath prosperava grazie al commercio della lana, le Terme caddero nell'oblio fino al 1755, quando il dandy Beau Nash ne fece l'elegante ritrovo dell'aristocrazia londinese. La fonte è oggi ospitata in un edificio ottocentesco in stile neoclassico, frutto della matita di John Wood il Vecchio e del figlio John Wood il Giovane.

Vari sono gli interventi che hanno restituito le Terme così come le possiamo vedere oggi: fra questi, degni di nota sono la Grand Pump Room di Thomas Baldwin (1789-99) e il colonnato settentrionale, sempre del Baldwin.




IL MUSEO

Il museo conserva una superba raccolta di manufatti romani, rinvenuti prevalentemente nelle Sorgenti Sacre, dato che sta ad indicare la natura votiva dei reperti. Nella collezione spiccano la testa di bronzo dorato di una statua di Minerva, restituita dalle indagini archeologiche del 1727, e una collezione di 12,000 monete romane.

Il tempio romano dedicato a Sulis-Minerva è contemporaneo alle adiacenti Terme. In origine, il complesso era caratterizzato da una struttura tetrastila di ordine corinzio e si ergeva su un podio elevato di due metri dall'area pavimentata a mosaico; a circondare il tutto, vi era un portico colonnato. Il tempio presentava numerose caratteristiche inusuali per l'architettura della Britannia: fra queste, di spicco era l'elaborato frontone con al centro una testa di Gorgone, sostenuta da due creature alate in un clipeo.

Varie sono le controversie sorte per determinare l'identità della Gorgone: infatti, nonostante abbia ali sopra gli orecchi e serpenti intrecciati nella barba, il volto raffigurato è maschile, mentre la tradizione vuole che le Gorgoni siano tre sorelle. Un'altra teoria suggerisce che la Gorgone sia stata assimilata a Oceano, oppure a una divinità celtica del Sole. Nel museo, vengono custodite anche le vestigia dell'ipocausto, utilizzato per riscaldare il calidarium delle terme.


Le statue novecentesche degli imperatori romani che adornano i corridoi aperti della struttura sono particolarmente suscettibili agli effetti della pioggia acida; per questo motivo, viene applicata con cadenza regolare una speciale patina protettiva. Analogamente, le mostre allestite all'interno della struttura sono compromesse dall'aria calda, che separa i sali corrosivi dalle murature romane; per limitare questo fenomeno, nel 2006 venne installato un nuovo sistema di ventilazione.

I bagni romani di Bath, sono una delle attrazioni storiche più belle del nord Europa e una delle più popolari del mondo. Un grande complesso derivato dai tempi romani e che è simbolo della potenza e dello stile di vita un tempo presente in questa parte del Regno Unito.

FONTE DELLE ACQUE TERMALI DI BATH
Il monumento non è solo di alto valore storico ed architettonico, ma anche ad un sistema ingegneristico unico e tra i meglio conservati in Europa; nonostante le acque che scorrono lungo gli antichi bagni non siano più adatte alla funzione tipica svolta dalle terme.
Il complesso si posiziona proprio al centro della città di Bath, Somerset, Inghilterra, e si divide in quattro parti principali:

- una parte è chiamata Sacred Spring (sorgenti sacre),
- quindi l'antico tempio romano (Roman Temple),
- l'edificio vero e proprio delle terme (Roman Bath House)
- e il museo, nel cui interno si possono apprezzare diversi reperti antichi di millenni.

I bagni termali di Bath furono rimaneggiati modificati in diverse occasioni nel tempo. Così accadde nel XI] secolo e nel XVI secolo infine nei due secoli più vicini a noi. La sorgente era ricca di acque minerali e attirava gran massa di visitatori. Il sistema idraulico e quello di drenaggio sono ancora in gran parte funzionanti, a testimonianza della ingegnosità dei Romani.

In Britannia un luogo come quello utilizzato a Bath, offriva al visitatore un bagno freddo (frigidarium), un bagno tiepido (tepidarium) e un bagno caldo (caldarium) e oltretutto molto ben organizzato e con ottimi servizi come una palestra, dove poter fare esercizi per il buon mantenimento del corpo.

Dai suoi oggetti votivi si è capito che era considerata la Grande Madre donatrice di vita, ma anche fonte di maledizioni. Nel museo infatti si conserva e credo si conservi a tutt'oggi la figura arcaica di una Dea che ha tre teste, anzi tre volti a forma perfettamente rotonda, come si trattasse di tre lune piene.

TESTA DELLA DEA MINERVA SULIS
Con la complicità di un amico potetti vedere il sotterraneo da cui sgorgava l'acqua: un ponticello ad arco pavimentato da sassi e pietre completamente coperti di giallo, il che faceva capire che si trattava di acque sulfuree, usate già in tempo antico per la cura di tante malattie.

Le tavolette votive erano spesso scritte in codice, grazie a lettere o parole scritte al contrario. L'ordine delle parole poteva essere invertito, e le righe scritte in direzione alternata. Anche se molti testi sono in latino, occasionalmente si possono trovare in lingua celtica.

Solitamente le tavolette facevano riferimento a furti di oggetti per Sulis, piccole quantità di denaro o abiti dai bagni delle terme. In linguaggio legale, le tavolette sembrano preghiere rivolte alla Dea di punire i noti o ignoti autori dei furti. 

A Sulis si chiedeva solitamente di nuocere alla salute mentale e fisica del colpevole, mediante la negazione del sonno o addirittura con la morte. Una delle tavolette riportava un messaggio che diceva: "Dodimedis ha perso due guanti. Egli chiede che la persona che li ha rubati possa perdere la memoria e la vista nel tempio in cui prega".

Il suffisso Spa (che non a caso si riferisce al latino Salus Per Aquam) caratterizza molte città europee dotate di fonti termali, abilmente scavate dai Romani nel loro cammino verso il nord, ma Bath Spa è stato elevato a patrimonio dell'umanità dall'Unesco.



FORNICALIA (19-20 Gennaio)

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LA DEA DEL FUOCO
Nel III millennio a.c. gli Egiziani inventarono un forno costituito da mattoni d’argilla disposti a forma di cilindro, alla cui base si accendeva il fuoco che veniva coperto da una lastra di pietra, sopra cui si sistemavano dei pani. Gli etruschi vi ponevano sopra invece delle pietre delle piastre tonde di argilla cotta. I Greci crearono il forno a cupola e successivamente la camera unica.

In epoca romana si migliorò ancora la costruzione dei forni a cupola. Grazie a Numa Pompilio venne introdotta una festa propiziatoria in onore della Dea Fornace, protettrice dei forni per il pane.
Il forno costruito con mattoni pieni che si riscaldavano molto lentamente e si raffreddavano con altrettanta lentezza permetteva dopo aver cotto il pane, di cucinare arrosti, verdure e dolci. 

Fornace (dal latino fornax) era dunque la Dea del forno in cui si cuoce il pane. In suo nome si festeggiavano le Fornacalia (19-20 e 21 gennaio), feste di ringraziamento per la tostatura del farro nei forni dei panificatori, infatti nel periodo più arcaico in territorio romano si coltivava il farro, solo successivamente si coltivò il grano, che era più nutriente e di sapore migliore. La divinità sarebbe di origine, secondo alcuni umbro-sabina, perché il latino fornax sarebbe di origine sabina.

Mentre anticamente si abbrustoliva il cereale all'aria aperta ovvero in mezzo alle capanne, accendendo dei fuochi, accadeva che a volte si raccoglieva solo cenere o addirittura si appiccava fuoco alla capanna. L'invenzione dei forni pose a tali inconvenienti.




OVIDIO

- Provarono per isperienza che il farro seccato al forno era il migliore ma non sapevano ancora bene il modo di farlo seccare e perciò ne ebbero danno. "Dea Fornax facta est" et coloni laeti Fornace orant ut illa temperet suas fruges" Ed ecco fatta la Dea Fornace e i contadini lieti la pregano per temperare il suo calore e trattar bene le loro messi. Lattanzio invece ride di questa falsa Religione, di questa Dea e de sagrifizj a lei istituiti da Numa affinchè i grani li secchi e non li abbruci.

Ora il Massimo Curione con parole ordinate dalla legge intima le ferie Fornacali le quali non si fanno in un giorno fisso. Il Curio Maximus presiedeva questo a tutti i Curioni cioè a coloro ch'erano preposti a ciascuna Curia, perciocchè Romolo divise il popolo in tre Tribù e ciascuna Tribù in dieci Curie, e coloro che presiedevano alle Tribù eran detti Tribuni, e Curioni quelli che presiedevano alle Curie.

Questo Curione detto altresì "Abbreviator Curiae" fino all'anno di Roma 544 fu eletto dal ceto de Patrizj, e dopo da quello della plebei (V Liv l 27:).  Faceva questo Curione i sagrifizj per la Curia e volle Romolo che il popolo insieme con lui avesse cura della res publica. La Curia si prendeva ancora come tempio sacro "ubi curahantur sacra"
.

E ciascuna Curia viene anche segnata sulla piazza con certe cifre su molte tavolette che colà intorno stanno pendenti e affiggevano nella piazza tavolette colle quali indicavano a quale Curia spettasse per turno (turnum) fare le feste Fornacali.

FORNO ROMANO

(OVIDIO - FASTI)

19 gennaio  - FORNICALIA - I festa in onore della Dea Fornix.
In nome della Dea Fornace, si cuoceva e si offriva la mola salsa alla Dea e il pane di farro (e poi di grano) alla gente. La festa si protraeva nelle varie zone dell'Urbe fino a fine gennaio ma i giorni più densi erano dal 19 al 21 del mese. L'usanza di donare il pane si ripeteva anche per la feste di Cerere. Sembra che anticamente avvenissero anche accoppiamenti in nome della divinità (fornicare).

20 gennaio -  FORNICALIA - II festa in onore della Dea Fornix.
Ancora si cuoceva e si offriva la mola  salsa alla Dea e il pane alla gente, dopo avervi impresso i segno del sole, un punto centrale coi raggi intorno.

21 gennaio  - FORNICALIA - II giorno di festa in onore della Dea Fornix, Fornace.
Di nuovo si cuoceva e si offriva la mola  salsa alla Dea Fornix (Fornace) e il pane alla gente. Soprattutto i poveri si giovavano di queste elargizioni festive pagate dallo stato. Si organizzava la processione con pane vino e latte che veniva offerto ai cittadini.

La Dea Fornace era una divinità preromana antichissima, colei che presiedeva alla cottura dei cibi e alla sessualità. Si ritiene che da lei venga il termine fornicare, cioè esercitare la sessualità, anch'essa collegata col calore.

LE ALAE ROMANE

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EQUITES ROMANI
Mentre i cittadini romani venivano reclutati nelle legioni, i latini e i gli alleati italici venivano reclutati nelle alae (ali), un corpo sia a piedi che a cavallo che faceva da ala a quello dei legionari, affiancandolo da entrambi i lati.

Le truppe ausiliarie (auxilia) erano  di supporto ai legionari e si dividevano in: 
- alae (cavalleria), 
- cohortes (fanteria) 
- cohortes equitatae (miste cavalleria e fanteria)

Gli ausiliari non si limitavamo ad affiancare le legioni, ma presidiavano molte aree dell'Impero, controllando le zone di confine grazie ai numerosi forti, ed effettuando servizi di pattugliamento e scorta. Gli ausiliari non erano cittadini romani, tranne alcuni rari reparti. Ai reparti ausiliari si aggiunsero nel basso impero i numerus, sorta di unità etniche che conservavano caratteristiche e peculiarità di combattimento proprie.
Dai tempi delle guerre sannitiche l'esercito consolare era costituito da 20.000 legionari e 2700 equites (cavalieri), vale a dire due legioni e due alae. In caso di emergenza le legioni venivano raddoppiate ma le ali restavano quasi sempre identiche. Le alae si chiamavano "ala laeva" (ala sinistra) e "ala dextra" (ala destra).

Se ogni legione di cittadini romani era formata da 4.200 fanti (portati fino a 5.000, in caso di massimo pericolo) e da 300 cavalieri, le unità alleate di socii, chiamate alae, poiché erano poste alle "ali" dello schieramento romano, erano, invece, costituite da 4200 fanti, ma ben 900 cavalieri.
Esisteva però anche la cavalleria dei cittadini romani, gli equites, che era posta alla destra dell'ala dextra, mentre quella dei socii (alleati) italici, tre volte più numerosa dell'ala destra, veniva posta a sinistra. I cavalieri usavano briglie e morsi, ma non conoscevano nè le staffe nè la sella.

La Alae erano sottoposte ad un praefectus equitum (almeno fino a Tiberio) poi ad un praefectus alae. Erano divise in 16 turmae da 32 uomini, comandate ciascuna da 16 decurioni, tra cui un decurione princeps, per un totale di 512 cavalieri. Fornivano alle legioni truppe di ricognizione e di inseguimento, oltre a costituire elemento d'urto sui fianchi dello schieramento nemico.
Conosciamo a tutt'oggi oltre 170 ale attraverso le iscrizioni, i diplomi, la Notitia dignitatum e le menzioni occasionali degli scrittori. Un riassunto della storia di questi alae è mancato finora.

STELE DI UN VETERANO DI ALA ASTURUM - TOMI, ROMANIA


LA STORIA

La cavalleria venne istituita da Romolo, che creò un contingente di 300 equites che divennero 600 con l'annessione dei sabini. Servio Tullio aggiunse altre 12 centurie di cavalieri. In epoca repubblicana i cavalieri tornarono ad essere 300.

Dopo la guerra sociale degli anni 91-88 a.c., che aveva portato ad accordare a tutte le popolazioni italiche la cittadinanza romana, si eliminarono le alae dei socii (costituite da fanti e cavalieri), per cui si supplirono alle ali dello schieramento romano, con le ali di cavalleria di stati clienti alleati, tanto più che con la riforma di Gaio Mario gli equites legionis erano stati soppressi, e la cavalleria divenne solo ausiliaria o alleata.

Giulio Cesare fu il primo ad utilizzare contingenti di cavalieri di popolazioni alleate durante la conquista della Gallia, reclutando soprattutto Galli e Germani, dotandoli del "sagum", l'armatura di maglia, oltre all'elmo e a un piccolo scudo rotondo (clipeus). Ora avevano la sella di tipo gallico, a quattro pomi e i cavalli ferrati, ma non le staffe. inquadrò poi le ale sotto i decurioni romani, con grado pari a quello dei centurioni legionari e ad un praefectus equitum.

Appiano di Alessandria narra che durante la successiva guerra civile nata dopo la morte di Cesare, poco prima dello scontro decisivo di Filippi del 42 a.c., Marco Giunio Bruto disponeva di 4.000 cavalieri tra Galli e Lusitani, oltre a 2.000 traci, illirici, parti e tessali; mentre l'alleato Gaio Cassio Longino di altri 4.000 arcieri a cavallo tra Arabi, Medi e Parti.

Sotto Augusto i cavalieri si ridussero a 120, con uno scudo più piccolo e tondo, e si suddivideva in:
- cavalleria pesante, detta "catafratti" dove cavallo e cavaliere erano coperti di armatura (lorica squamata) e dotati di una lunghissima lancia.

Le prime unità di catafratti introdotte nell'esercito romano, furono create da Adriano. Si trattava ad esempio dell'Ala I Gallorum et Pannoniorum catafractaria, formata da Sarmati Roxolani.
- cavalleria leggera, con un clipeus, una lunga spada e una lancia più corta, e talvolta con una "lorica hamata" (fatta ad anelli).
- cavalleria sagittaria, con arcieri Traci o comunque orientali che tiravano da cavallo.
- cavalleria mista, composta di cavalieri e di fanti.

Gallieno invece creò dei reparti di cavalleria pesante mobili, cioè che si spostavano da una zona all'altra per soccorrere gli attacchi ai limes romani. Sotto Costantino la cavalleria mista cessò e i cavalieri operavano separati dai fanti.

Le truppe ausiliarie, come le legioni, avevano i loro nomi e numeri. Erano composte fin dall'inizio del principato di Augusto, fino a Nerone-Vespasiano, da circa 500 uomini (quingenarie). Solo in seguito queste unità cominciarono ad raddoppiare il numero degli effettivi fino ai 1.000 armati (milliarie).

Le coorti miste o equitatae (fanteria + cavalleria), erano anch'esse inizialmente solo quingenarie. Di loro abbiamo notizia fin dal principato di Augusto, da un'iscrizione rinvenuta a Venafro nel Sannio. Erano formate da 6 centurie di 80 fanti ciascuna e 4 turmae di cavalleria di 32 cavalieri ciascuna, per un totale di 480 fanti e 128 cavalieri. L'origine risalirebbe al tipico modo di combattere dei Germani, descritto da Cesare nel suo De bello Gallico.

Fino al 200 a.c. le armature erano di bronzo, quindi molto pesanti, ma da tale data divennero di ferro (la lorca hamata e poi squamata). I cavalieri romani provenivano dai nobili, in seguito da nobili o da famiglie plebee di ottimo livello.

Le alae di cavalleria inizialmente furono solo quingenarie (composte cioè da 500 armati circa). Furono sottoposte fino a Tiberio ad un praefectus equitum soppiantato poi da poi un praefectus alae. 

Erano divise in 16 turmae da 32 uomini, comandate ciascuna da 16 decurioni (con carica sia amministrativa che militare), tra cui un decurione princeps, per un totale di 512 cavalieri. Le alae fornivano alle legioni truppe di ricognizione e di inseguimento, oltre a costituire elemento d'urto sui fianchi dello schieramento nemico.

Si dividevano in quattro gruppi:



ALAE NON NUMERATE:

- Ala Afrorum 
Ala Allactica
Ala Antoniniana 
Ala Apriana 
Ala Atectorum 
Ala Augusta 
Ala Augusta Gallorum Petriana bis torquata miliaria civum Romanorum
Ala Augusta Gallorum Proculeiana civium Romanorum 
Ala Augusta Germanica 
Ala Augusta ob virtutem appellata 
- Ala Augusta Sebosiana 
Ala Augusta Vocontiorum 
Ala Batavorum 
Ala (?) Brauconum 
Ala Britannica Veterana 
Ala Celerum 
Ala Classiana civium Romanorum 
Ala Commagenorum 
- Ala Claudia Gallorum -
Ala Claudia Nova 
Ala Exploratorum Pomariensium
Ala Felix Moesica Pia Fidelis Torquata 
Ala Fida Vindex 
Ala Flavia .
Ala Flavia Gallorum
Ala Gaetulorum Veterana 
Ala Gallorum et Thracum Antiana 
Ala Gallorum et Thracum Classiana civium Romanorum 
Ala Gallorum et Thracum Classiana civium Romanorum 
Ala Gallorum Flaviana 
Ala Gallorum Indiana
- Ala Gallorum Petriana
Ala Gallorum Picentiana 
Ala Gallorum Proculeana 
Ala Gallorum Sebosiana 
- Ala Gallorum Veterana 
Ala Hispanorum Vettonum 
Ala Lemavorum 
Ala Longiniana
Ala Miliaria
Ala Mauretana Tibiscensium 
Ala Nerviana, o Ala Nerviorum 
Ala Noricorum 
Ala Nova Firma Miliaria Catafractaria
Ala Numidica
Ala Pannoniorum 
Ala Parthorum et Araborum 
Ala Patrui 
Ala Phrygum 
- Ala Picentiana 
Ala Pomponiani 
Ala Praetoria 
Ala Rusonis 
Ala Sabiniana
Ala Scubulorum 
- Ala Sulpicia civium Romanorum
Ala Scaevae
Ala Sebastena 
Ala Sebastenorum Gemina 
Ala Siliana
Ala Siliana torquata civium Romanorum 
Ala Sulpicia singular civium Romanorum 
Ala Tautorum victrix civium Romanarum
Ala Thracum Herculania
Ala Thracum Mauretana
Ala Treverorum
Ala Valeria Drumedariorum 
Ala Vallensium 
Ala Veterana 



ALAE PRIME


Ala I Asturum
Ala I Augusta Parthorum 
Ala I Augusta Gallorum civium Romanorum
Ala I Augusta Gallorum Proculeiana 
Ala I Augusta Gemina colonorum
Ala I Augusta "ob virtutem" 
STELE DI CLUNIA
Ala I Augusta Thracum 
Ala I Afrorum 
Ala I Agrippiana Flavia 
Ala I Asturum 
Ala I Batavorum milliaria 
Ala I Bosporanorum 
Ala I Britannica Flavia milliaria civium Romanorum 
Ala I de Campani
Ala I Cananefatium (o Cannenefatium) civium romanorum 
Ala I Civium Romanorum 
- Ala I Claudia Gallorum 
Ala I Colonorum Augusta 
- Ala I Commagenorum milliaria sagittaria 
Ala I Communaorum  
Ala I Contariorum Ulpia milliaria 
Ala I Dacorum Ulpia 
Ala I Flavia Augusta Britannica miliaria civum Romanorum bis torquata ob virtutem 
Ala I Flavia Gallorum Tauriana 
Ala I Flavia Gemina
Ala I Gaetulorum Flavia
Ala I Gallorum Atectorigiana 
Ala I Gallorum et Bosporanorum 
Ala I Gallorum Claudia
Ala I Gallorum et Pannoniorum catafractaria 
Ala I Gallorum Flaviana - era posizionata in Mesia Superiore nel 160.
Ala I Gallorum Indiana 
Ala I Gallorum Picentiana 
Ala I Gallorum Tauriana civium Romanorum torquata victrix Flavia
Ala I Gallorum Veterana
Ala I Gemelliana
Ala I Flavia Gaetulorum
Ala I Flavia Gemelliana 
Ala I Flavia Singularium civium Romanorum pia felix
Ala I Hamiorum Syrorum sagittaria 
Ala I Herculaea 
 Ala I Hispanorum
Ala I Hispanorum Asturum
Ala I Hispanorum Aravacorum (o Arevacorum)
Ala I Hispanorum Asturum quingenaria 
Ala I Hispanorum Auriana
Ala I Hispanorum Campagonum 
Ala I Illyricorum 
Ala I Ituraeorum Augusta sagittaria 
Ala I Pannoniorum Sabiniana 
Ala I Pannoniorum Tampiana milliaria 
Ala I Pannoniorum Tampiana 
Ala I Praetoria civium Romanorum
Ala I Sarmatarum
Ala I Scubulorum 
Ala I Thracum
- Ala I Thracum Classiana c.R. Victrix 
Ala I Thracum et Gallorum 
Ala I Thracum Augusta
Ala I Thracum Mauretana 
Ala I Thracum Classiana civium Romanorum torquata Victrix 
Ala I Thracum Sagittaria Veterana
Ala I Thracum milliaria 
Ala I Thracum Veteranorum Sagittariorum civium Romanorum
Ala I Thracum Victrix
Ala I Tungrorum
Ala I Tungrorum Frontoniana 
Ala I Ulpia Contariorum Civium Romanorum 
Ala I Ulpia Dacorum 
Ala I Ulpia Dromedariorum Miliaria
Ala I Ulpia Singularium 
Ala I Vespasiana Dardanorum




ALAE SECONDE

Ala II Agrippiana Miniata 
Ala II Asturum
Ala II Augusta Thracum pia felix 
Ala II Flavia Agrippiana
Ala II Flavia Hispanorum civium romanorum 
Ala II Flavia Gemina 
Ala II Flavia milliaria
Ala II Flavia pia felix miliaria 
Ala II Gallorum Petriana Treverorum milliaria civium Romanorum bis torquata 
Ala II Gallorum Picentiana 
Ala II Gallorum Sebosiana
Ala II Hispanorum 
Ala II Hispanorum et Arevacorum 
Ala II Hispanorum Vettonum civium romanorum
Ala II Nerviana Augusta fidelis militaria
Ala II Pannnoniorum
Ala II Gallorum Augusta Proculeiana 
Ala II Gallorum et Thracum Classiana civium romanorum 
Ala II Ulpia Afrorum 
Ala II Ulpia Auriana 
Ala II Valeria singularis
Ala II Vocontiorum Augusta civium Romanorum



ALAE TERZE


Ala III Asturum Pia Fidelis civium Romanorum 
Ala III Augusta Victrix Thracum sagittaria 
Ala III Augusta Thracum sagittariorum 
Ala III Thracum

COLONNE ROSTRATE

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RIPRODUZIONE DELLA COLONNA DI CAIO DUILIO
La colonna rostrale o rostrata, prendeva nome dal rostrum, lo sperone delle navi, un oggetto da sfondamento che veniva montato sulla prua per affondare le navi nemiche. In genere il rostro era costituito da un unico pezzo fuso in bronzo inserito nella congiunzione tra la parte finale della chiglia e la parte più bassa della prora, sopra il tagliamare.

La colonna rostrale è una colonna commemorativa di tradizione greca e romana, eretta per commemorare una vittoria navale. Questa ha il fusto adorno di prue rostrate; la prua, ovvero la prora, termine più appropriato perchè più arcaico, è l'insieme delle strutture sporgenti della parte anteriore dello scafo di un'imbarcazione.

La parte anteriore del rostro era costituita da un potente fendente verticale rafforzato da fendenti laminari orizzontali. Con questo micidiale strumento le navi venivano lanciate a tutta velocità contro le fiancate delle navi nemiche per procurare falle e affondarle. Secondo Plinio il Vecchio (Nat. Hist. VII, 57 VIII, 209) il rostro sarebbe stato inventato dall'etrusco Piseo figlio di Tirreno, figlio del re di Lidia.
ARCO TRIONFALE DI TRAIANO CON I FORI DEI ROSTRI STRAPPATI (ANCONA)
I più antichi Rostra, detti Rostra vetera, facevano parte del Comizio, la piazza circolare delle assemblee politiche pubbliche, occupavando le gradinate ad arco sul lato sud-orientale, con la concavità rivolta a nord. Essi rimasero in uso finché non vennero demoliti per far spazio al Foro di Cesare.

Dei Rostra repubblicani resta solo un basamento ad arco di cerchio, tra l'altare del Lapis niger e la facciata della Curia Iulia, visibile oggi attraverso una botola che si apre nel pavimento in travertino di età augustea.

QUEL CHE RESTA DEI ROSTRI VICINO AL LAPIS NIGER
I rostri vennero usati anche come decorazioni architettoniche, non solo sulle colonne ma anche sugli archi trionfali, come quello di Traiano collocato ad Ancona, cui i vandali nostrani hanno strappato i rostri per recuperarne il bronzo, senza alcun rispetto per l'antico monumento.

I Rostri (in latino Rostra) erano infatti le tribune nel Foro Romano dalle quali i magistrati tenevano le orazioni. I primi rostri, strappati dalle prue delle navi nemiche dai Romani, risalivano alla vittoriosa battaglia di Anzio, città italica che sorgeva sulla costa dell'antico Lazio, a sud di Roma, già capitale dei Volsci, e vennero qui collocati nel 338 a.c.

I Romani avevano già fondato una colonia latina ad Anzio nel 467 a.c. ma riuscirono a sottomettere definitivamente la città solo nel 338 a.c grazie alla battaglia del fiume Astura; in cui venne occupata anche la rocca portuale, Cenone. Così i rostri delle navi della flotta volsca furono portati nel Foro Romano a ornare le tribune degli oratori (dette da allora Rostri).

TRIBUNA DEI ROSTRI

ANZIO

Anzio, città volsca tra le più potenti, con un porto famoso e importante, aveva ben presto parte attiva alle lotte dei Volsci contro Roma che era piuttosto desiderosa invece di impossessarsi del suo porto, distante solo 32 miglia da Roma  cioè km. 58, pertanto pericoloso, ma soprattutto per compensare almeno in parte le difficoltà dell'estuario tiberino, piuttosto angusto e non sempre utilizzabile per le navi da carico.

Cenone era una cittadella che sorgeva sulla costa a sud di Roma e che ungeva da porto ed emporio della città di Anzio. Vero è che gli Anziati partivano da qui per le loro scorrerie piratesche fin dal III sec. a.c., spingendosi fino al Mare Egeo. ma soprattutto osando colpire anche il territorio di Roma. 

Nel 469 a.c. la rocca di Cenone fu attaccata dai Romani guidati dal console Tito Numicio Prisco, l'unico membro della gens plebea Numicia ad essere eletto console. Infatti Numicio nel 469 a.c. era stato eletto console e con il collega Aulo Verginio Tricosto Celiomontano era stato inviato dal Senato a combattere contro gli Equi ed i Volsci, che avevano bruciato delle fattorie nei pressi di Roma.

Numicio marciò allora verso Anzio, distrusse le installazioni del piccolo porto di Cenone, incendiò le case e riportò come bottino; bestiame, schiavi, mercanzie e ventidue navi da guerra. Ma solo nel 338 a.c., dopo la battaglia del fiume Astura avvenne la definitiva capitolazione di Anzio, Cenone venne distrutta e i rostri delle navi della flotta volsca furono portati nel Foro Romano a ornare le tribune degli oratori.

ISCRIZIONE DELLA BASE DELLA COLONNA DUILIA

LA COLONNA DUILIA

La Colonna Duilia, ovvero Columna Rostrata Gaii Duilii, (Colonna rostrata di Gaio Duilio) era un'antica colonna rostrale, la prima di cui abbiamo menzione, che si ergeva nel Foro Romano.

La colonna si trovava accanto ai Rostra imperiali, pur essendo molto più antica, verso il Volcanale, l'antichissimo santuario dedicato al Dio Vulcano collocato nel Foro Romano, sopra il Comitium. Venne eretta durante il trionfo del generale Gaio Duilio, un antico trionfo romano per una vittoria navale, la battaglia di Milazzo contro i Cartaginesi del 260 a.c., ed era costruita con i rostri delle navi nemiche, da cui derivò lo stesso nome della tribuna dei Rostri, in origine eretta, come poi le altre, nei Comitia.


Gaio Duilio

Gaio Duilio, ovvero Gaius Duilius; (260 a.c. – ...) fu un politico e militare della Repubblica romana, un homo novus, non appartenendo all'aristocrazia romana. Divenne console nel 260 a.c., giusto allo scoppio della guerra con Cartagine. Al suo collega, il patrizio Gneo Cornelio Scipione Asina (310 - 245 a.c.), Duilio diede il comando della flotta. Ma, peccando d'ingenuità, Asina fu catturato dai cartaginesi nella Battaglia delle Isole Lipari. Duilio rimase solo al comando della guerra.

Allora Duilio fece costruire una flotta di 120 navi, e poiché i romani erano abituati a combattere solo sulla terraferma fece collocare su ogni nave un ponte mobile con uncini, detto corvo. La battaglia navale avvenne in quello stesso anno a Milazzo. 

Quando le navi nemiche furono sufficientemente vicine, i corvi furono calati contro le navi nemiche, ancorandovisi saldamente e consentendo un vero e proprio arrembaggio. Nel combattimento corpo a corpo i romani avevano un'indubbia superiorità e i cartaginesi furono sconfitti. Con questa vittoria i romani divennero i nuovi padroni del Mediterraneo occidentale.

Così, come primo romano a vincere in mare, Duilio fu onorato con un trionfo e con l'erezione nel Foro di una colonna costruita con i rostri delle navi nemiche. Nell'iscrizione (260 a.c.) della base rinvenuta era inciso:
EODEM MACistratud bene rEM NAVEBOS MARID CONSOL
PRIMOS Ceset copiasque Clasesque NAVALES
PRIMOS ORNAVET PAravetque
CVMQVE EIS NAVEBOS CLASEIS POENICAS OMNis
item maxVMAS COPIAS CARTACINIENSIS
PRAESENTEd hanibaled DICTATORED OLorOM
INALTOD MARID PVCNandod vicet
VIQVE NAVEis cepeT CVM SOCIEIS SEPTEResmom I,
quinqueresmOSQVE TRIRESMOSQVE NAVEIS Xxx
merset XIII. aurOM CAPTOM: NVMEI MMMDC
ARCENTOM CAPTOM PRAEDA NVMEI …
oimne CAPTOM AES …
primos quoOQVE NAVALED PRAEDAD POPLOM donavet
primosque CARTACINIEnsIS inceNVOS
Duxit in Triunphod EIS CAPT

Per il trionfo del console Caio Duilio, sulla Sicilia e sulla flotta punica venne inciso:

C. DVILIVS M.F. M.N. COS.
PRIMVS NAVALEM DE SICVLeis
ET CLASSE POENICA EGIT
K. INTERCALAR. AN. CDXCIII

COLONNE ROSTRATE DI ISPIRAZIONE ROMANA A PIETROBURGO

Per ringraziamento agli Dei delle sue vittorie Gaio Duilio fece erigere a sue spese il Tempio di Giano nel Foro Olitorio, attiguo al porto Tiberino.

Parte principale di quanto resta dell’iscrizione incisa sulla base della colonna rostrata di Caio Duilio (CIL I, 00025): "da console, primo fra i Romani, si illustrò con le navi in mare; egli fu il primo ad armare ed addestrare equipaggi e flotte di navi combattenti; e con queste navi sconfisse in una battaglia nell'alto mare le flotte puniche e parimenti le più possenti truppe dei Cartaginesi, in presenza di Annibale, il loro comandante in capo. E con la forza egli catturò le seguenti navi con i rispettivi equipaggi: una settereme, 30 quinqueremi e triremi; mentre 13 ne affondò. Oro catturato: più di 3600 monete" [I.L.7]. …
"E fu anche il primo a donare al popolo una preda navale, nonché il primo a condurre in trionfo dei cittadini Cartaginesi catturati" [I.L.2]



ALTRE COLONNE

Vennero erette varie altre colonne rostrate, di cui alcune citate dalle fonti antiche: 

MARCHIO INCROCIATORE INTITOLATO A GAIO DUILIO
- una esistente ancora nel IV secolo "vicino al Circo, sul lato delle porte", come riferito dal grammatico Servio che l'attribuisce erroneamente a Caio Duilio (oltre a quella nel Foro) e che sicuramente era dedicata a qualcun altro, 

- una eretta in Campidoglio in onore del console Marco Emilio Paolo per la vittoria navale ch'egli conseguì nelle acque dell'odierno Capo Bon (255 a.c.).

Console nel 255 a.c. con Servio Fulvio Nobiliore, Emilio Paolo con lui vinse i Cartaginesi al Capo Ermeo (Capo Bon); sbarcato a Clupea, salvò i resti dell'esercito di Regolo, ma perdette poi la flotta in uno scontro.

Celebrò comunque il trionfo.

- quattro colonne rostrate vennero erette, nel 29 a.c. e non sappiamo dove, in onore di Cesare Ottaviano e Marco Agrippa. 

Vi furono comunque diversi trionfi navali:

- Caio Attilio Regolo (257 a.c.),
- Lucio Manlio Vulsone Longo (256 a.c.),
- Servio Fulvio Petino Nobiliore (254 a.c.)
- Marco Emilio Paolo (254 a.c.),
- Caio Lutazio Catulo (241 a.c.)
- Quinto Valerio Faltone (241 a.c.).
- Lucio Emilio Regillo (189 a.c.)
Quinto Fabio Labeone (188 a.c.)
- Gneo Ottavio (167 a.c.)  
- Quinto Cecilio Metello Balearico (121 a.c.)
- Marco Antonio (102 a.c.)
- Publio Servilio Vatia Isaurico (74 a.c.)
- Lucio Licinio Lucullo (63 a.c.)
- Quinto Cecilio Metello Cretico (62 a.c.)
- Gneo Pompeo Magno (61 a.c.)
- Giulio Cesare Ottaviano (21 a.c.)
- Imperatore Claudio (44 d.c.)



OGGI

Uno dei primi crest araldici dell'incrociatore lanciamissili intitolato a "caio duilio" della marina militare italiana, fusione in bronzo su base di legno.


La colonna oggi

La base della colonna duilia venne rifatta all'epoca di Augusto, copiando esattamente l'antica iscrizione. Dispersa la colonna dal vandalismo, la base venne rinvenuta nel XVI secolo presso l'arco di Settimio Severo, nella collocazione originaria. Oggi si trova nel Museo Nuovo Capitolino.

CANI DA GUERRA ROMANI

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CANE CORSO DERIVAZIONE DEL CANIS PUGNAX ROMANO USATO NELLE GUERRE

Le origini del cane da guerra sono antichissime. Nei tempi antichi, i cani venivano legati con armature o colli a spillo e inviati in battaglia per attaccare il nemico. Questa strategia fu usata da varie civiltà, come egiziani, greci, persiani, sarmati, alani, slavi, britannici e romani.

Uno dei primi usi militari era che i cani fossero messi in servizio di sentinella. Proprio come oggi, i cani sarebbero utilizzati per difendere campi o altre aree prioritarie giorno e notte. I cani abbaiavano o ringhiavano per allertare le guardie della presenza di uno sconosciuto. Naturalmente servirono molto per allertare dai nemici negli accampamenti notturni.

Gli archeologi sospettano che gli umani abbiano usato cani in guerra dal momento che gli animali sono stati addomesticati per la prima volta più di 15.000 anni fa. Con il progredire della guerra, gli scopi dei cani sono cambiati notevolmente.

- Si sa che nel 4000 a.c. gli egizi usavano i cani in guerra, e comunque è certo che vennero impiegati nel XVIII secolo a.c. dagli hyksos durante l'invasione dell'Egitto. Approfittando delle lotte intestine egiziane, gli hyksos invasero il regno grazie alla loro superiorità militare, portatori del cavallo da guerra, del carro da guerra, e pure del cane da guerra.

- Dall XVI al V sec. a.c., cani discendenti da quelli degli Hyksos, popolo ormai sconfitto e debellato, furono impiegati in guerra degli Egizi.

- Tiglat-Pileser I, il fondatore del vero potente impero assiro, nel 1115 a.c., traversò l'Eufrate, conquistò il Karkemish, arrivò fino al lago Van (Anatolia) e raggiunta l'area Mediterranea, conquistò la Fenicia.
Visto che gli assiri usavano grandi cani da guerra, sicuramente li adottarono anche i fenici, che poi li trasportarono e distribuirono in tutte le località toccate dai loro commerci navali e nelle varie guerre.
Infatti dall' XI al VI sec. a.c., cani mesopotamici e indiani furono costantemente usati in battaglia dal popolo assiro (o siriaco che dir si voglia).

- Un forte utilizzo di cani da guerra in una battaglia riportata da fonti classiche fu da parte di Alyattes ore di Lydia (591–560 ac.) contro i Cimmeri. I cani da attacco della Lidia erano particolarmente efficaci contro la cavalleria nemica

- Dal VI al IV sec. a.c., i Persiani usarono in guerra cani caucasici, mesopotamici, pakistani, afgani, tibetani e indiani tra cui le razze alangu, sindh, hyrcani, mastino tibetano, mazandaran, discendenti da accoppiamenti con razze locali quali bully kutta, akbash e kangal.

Secondo Erodoto, la spedizione di Serse, re dei persiani, era formata da  centinaia di migliaia di soldati:

"Il numero totale delle donne addette alle cucine, delle concubine e degli eunuchi non si poteva contare. Il numero totale delle bardature, dei capi di bestiame e dei cani indiani non poteva essere determinato perché erano troppi. Non è quindi sorprendente che alcuni fiumi fossero prosciugati, anzi, è straordinario che essi riuscissero a trovare cibo a sufficienza (...) E non calcolo il cibo per le donne, gli eunuchi, i capi di bestiame e i cani, cani da caccia e da protezione che furono presi in India a quel tempo".
Solo per sfamare i cani da guerra dell'Assiria, divenuta una satrapia, ossia una provincia persiana, si ricorreva alla produzione delle terre di quattro interi villaggi, che per questo erano esentati dalle tasse.

MOLOSSO DA GUARDIA ROMANO
- Dal V al II sec. a.c., popolazioni greche e balcaniche usarono in guerra cani da pastore e da caccia tra cui le razze "molosso lacone", hellenikos poimenikos, skilos tou Pyrrou, skilos tou Alexandrou, molosso d'Epiro, metchkar, qen ghedje, sylvan e in seguito il discendente charplanina.

- Nella "De Natura Animalium" Claudio Eliano narra come nella battaglia di Maratona (490 a.c.) alcuni greci abbiano combattuto eroicamente a fianco dei loro cani, come nel caso di un ateniese che venne ricompensato insieme al suo cane per il valore dimostrato, venendo anche raffigurati nello Stoà Pecile, i colonnati dell'Agorà di Atene decorati con dipinti che celebravano le Guerre Persiane.
Dalla Grecia a Roma il passo è breve.

- Nel III sec. a.c. Alessandro Magno invece utilizzò i Molossi nelle battaglie campali per seminare il panico tra i ranghi nemici. Fu così che “Periles”, il suo Molosso favorito, morì combattendo. Un altro compito del Molosso presso diversi popoli antichi, fu quello di giustiziare i nemici od i colpevoli di particolari reati che venivano buttati in fosse dove i cani, tenuti affamati, li sbranavano.

- Nel 281 a.c., Lisimaco (uno dei successori di Alessandro Magno) fu ucciso durante la battaglia di Corupedium e il suo corpo fu scoperto sul campo di battaglia, sorvegliato vigilmente dal suo fedele cane.

- Poi, nel 231 a.c., il console romano Marco Pomponio Matho guidò la Legio Romano attraverso l'isola di Sardegna. Usando "cani dall'Italia" per dare la caccia ai nativi, i Romani furono in grado di conquistare i sardi che combatterono attraverso la guerriglia.

- Nel 120 a.c., Bituito, re degli Arvernii, attaccò una piccola forza di Romani guidata dal Console Quinto Fabio Massimo Allobrogico usando solo i cani che aveva nel suo esercito.

L’espressione “gettato in pasto ai cani” discende appunto da questa terribile pratica. C'era infatti la terribile usanza di procurare carne umana ai cani per far loro superare la paura dell’uomo stimolandone l’istinto predatorio.

A volte i cani prestavano servizio come staffette per inviare messaggi: i cani ingerivano un tubo di rame contenente al suo interno un messaggio. Purtroppo questi cani dovevano essere sacrificati per poter estrarre il messaggio contenuto nel tubo.

Noi abbiamo parecchi dubbi su tale pratica, perchè il cane si sarebbe ribellato a strangolarsi col cilindro, perchè ammesso fosse possibile questo sarebbe stato in breve vomitato, e se non lo fosse stato avrebbe ferito l'animale impedendogli la corsa fino a portarlo alla morte.
I messaggi venivano invece inseriti nel collare, infilati tra il cuoio e il metallo dello stesso.

- L'anno 55 ac vide Giulio Cesare sbarcare in Britannia contrapposto ai guerrieri celtici e ai loro cani. Ciò rende il mastino inglese una delle più antiche razze registrate secondo la descrizione di Cesare nei suoi racconti di guerra.

- Lo storico Claudio Erriano (165-235 d.c.) scrisse che "Gli abitanti di Magnesia sul Meandro combattendo contro gli abitanti di Efeso, ciascuno dei cavalieri recava seco un cane da caccia che lo coadiuvasse in combattimento, ed un servo che lanciasse giavellotti. Quando era il momento della mischia i cani, lanciandosi in avanti portavano scompiglio nelle schiere, oltre che terribili e feroci si dimostravano anche implacabili.".

MOLOSSI DA GUERRA


I CANI DA GUERRA ROMANI

I romani copiavano tutto da tutti, cercando sempre di migliorare le prestazioni di cose, uomini e animali. Impararono così ad usare i cani da guerra, ma non solo, perchè li incrociarono per migliorarli e soprattutto li addestrarono in modo particolare.

Del resto la predominanza dei romani nei combattimenti  era dovuto sostanzialmente al loro straordinario addestramento, così anche con i cani usarono lo stesso accorgimento. Per giunta i cani erano lieti di collaborare, essendo animali da branco ansiosi di muoversi e di essere guidati. Alcuni hanno scritto che i romani usassero poco i cani da guerra, non è così, i romani usavano di tutto quando occorreva, con una strategia finissima e sempre in rinnovamento.

Occorre ricordare che l'addestramento da guerra non era così semplice, perchè il cane doveva vivere con tutta la coorte, abituandosi a distinguere amici da nemici, attraverso l'odore e pure attraverso vesti ed armature. Ciò che li guidava era innanzi tutto l'olfatto, quindi era importante che nei castri girasse e urinasse lungo la palizzata sentendola come confine proprio, ma che accettasse pure cibo da tutti i legionari della guarnigione, per cui non solo occorreva l'allenamento capuano ma pure quello nel castro e durante la marcia.

Doveva poi imparare gli ordini verbali, per cui se si presentava un estraneo all'accampamento a un preciso ordine non doveva saltargli addosso come faceva con tutti gli altri. Era fondamentale che rispettassero l'ordine di attacco in battaglia ma pure i vari richiami e l'ordine di fermarsi o di tornare indietro quando occorreva. Al contrario dei cani da guerra barbari che assalivano qualunque intervento straniero, i cani romani obbedivano agli ordini come fossero soldati.

Il molosso romano o canis pugnax è il progenitore dell'odierno mastino napoletano. Tuttavia, il canis pugnax era meno pesante e grande di quest'ultimo e rassomigliava maggiormente all'attuale cane corso. Infatti Cane Corso deriva, come il Mastino Napoletano ed in parte il Mastino Abruzzese, dal mitico Canis Pugnax, il Molosso che dagli antichi romani venne utilizzato massicciamente per la guerra.

Il canis pugnax, diffuso in tutta Europa, ma in parte in Asia ed Africa, nei territori facenti parti dell’Impero Romano, venne incrociato e in parte si incrociò da solo, con tante razze, si che diede vita alla maggior parte delle razze canine che conosciamo. I romani portarono tutto da per tutto, la loro mobilità e le loro conquiste dettero luogo a un fenomeno incredibile di globalizzazione, delle piante,  degli animali e delle razze umane.

Il canis pugnax era potente, combattivo, coraggioso ma anche agile, veloce e in grado di percorrere giornalmente distanze notevoli, sia in pianura che in montagna e di sopportare climi di tutti i tipi.
La legione romana detiene a tutt'oggi il record di spostamento a piedi, 35 km. al giorno, con un pesante carico sulla schiena, dalle 6 del mattino alle 3 del pomeriggio, durante il quale i soldati avevano pure il tempo di spianare un ampio terreno e costruire dal nulla un castrum per passarvi la notte, e nel frattempo i cani, oltre alle sentinelle, badavano a che nessuno si avvicinasse al campo.

La costruzione del campo era il momento più pericoloso per i legionari, e se fossero stati spiati, sicuramente quello era il momento opportuno per attaccarli, così come era pericoloso lo smontaggio del castrum, dove occorreva smontare le tende, le are e lo steccato, imballare tutto, caricare i carri, e nutrire le bestie e le persone perchè era impossibile farlo strada facendo, se non mangiando qualche galletta o focaccia mentre si marciava.

Era anche pratica comune per i romani legare secchi di olio fiammeggiante sulle spalle dei loro cani da guerra e mandarli nelle prime linee del nemico per distruggere la cavalleria nemica. Questi cani erano chiamati piriferi o portatori di fuoco.

LUDI CIRCENSI ETRUSCHI

LE SCUOLE DEI CANI

Durante l’Impero Romano a Capua (Campania) esistevano le principali “scuole” ove persone di tutto il mondo conosciuto si allenavano per diventare Gladiatori. Però i romani tenevano conto di tutto e non perdevano un'occasione sia per migliorare le loro capacità guerriere, sia per fare un prospero business. Pertanto a Capua esistevano allevamenti di cani da guerra e da combattimento (arena) da cui i cani così allenati venivano venduti in tutto l’Impero.

Era il centro di addestramento cani più importante del mondo, perchè lì confluivano cani di tutte le razze, che venivano non solo addestrati ma incrociati tra loro per migliorare le prestazioni. Si studiava altresì il cibo più adatto ad essi, e le armature per proteggerli o per danneggiare gli avversari.

I romani usarono copiosamente i cani da guerra, utilizzandoli a branchi contro la fanteria e la cavalleria nemiche. I cani erano in genere protetti da armature in cuoio e a volte con lamelle metalliche protettive, ed avevano la funzione di atterramento e sbranamento dell'avversario.

Pertanto erano esemplari di grandi dimensioni, anche per sostenere il peso dell'armatura, selezionati in base all'aggressività e all'insensibilità alle ferite. I romani ne fecero largo uso:

- dal VII sec. a.c. al V sec. d.c. i romani impiegavano in guerra "canis pugnaces " tra cui il molosso d'epiro, discendenti del cane corso, il mastino napoletano, i perros da presa iberici, i vucciriscu, il dogo sardesco e il mastino fonnese. Altre razze come il maremmano-abruzzese furono usate in attività di supporto.

Abbiamo notizia di canis pugnax:
- Nel 231 a.c., nella repressione romana dei Peliti in Sardegna, bande di ribelli rifugiatisi in zone montagnose.  
- Nel 123 a.c., nell'invasione romana e guerre in Gallia contro gli Alverni di Bituito che i romani sconfissero, per cui il loro capo e i suoi ambasciatori si presentarono chiedendo la pace accompagnati da enormi cani da guerra che furono devoluti ai romani. Diverse centinaia di questi cani costituivano una sorta di cavalleria di sfondamento, con il vantaggio di essere difficilmente raggiungibili da frecce e giavellotti a causa dell'agilità e della mobilità, e pure per le dimensioni ridotte rispetto a un cavallo.
- Nel 101 a.c, nella battaglia di Vercelli fra Romani e Cimbri;
- Nel I secolo, con l'invasione e la conquista romana della Britannia.

Sono invece del V sec. d.c.i "pugnaces Britanniae", dei feroci britanni che misero in difficoltà le legioni romane utilizzando in battaglia i loro cani, detti pugnaces Britanniae, progenitori degli attuali irish wolfhound e deerhound. Naturalmente detti cani vennero poi adottati dai romani.

CANE CORSO

CANIS PUGNAX

Erano i Canis Pugnax scolpiti nel marmo e dipinti negli affreschi del tempo; erano i Cave Canem dei mosaici di Pompei; erano i cani da guardia delle ville patrizie. Questi ultimi, i Pugnaces, erano particolarmente temuti per la loro grande aggressività. Il più grande e pesante molosso da guardia romano veniva usato infatti per le abitazioni, simile al mastino napoletano odierno, ma poco mobile sulla lunga distanza.

All’ingresso della villa bastava la targa con scritto “Cave Canem” per scoraggiare qualsiasi ladro. Anche il colore degli occhi aveva la sua importanza. Veniva privilegiato il color giallo anche se i più terrificanti erano quelli color argento.


Molossi nella caccia all’orso

IL MOLOSSO ROMANO
Il suo peso doveva essere sufficientemente pesante per bloccare e non essere sollevato dall’avversario ed i reni così potenti da mettere la vittima a terra dopo aver ben assicurato la presa. 

Questi cani molto intelligenti e molto allenati sapevano che se si lasciavano prendere, si esponevano a grave ferite, e pure se attaccavano in un punto non valido, la reazione cadeva immediatamente con pesanti ferite.

Già all'epoca le orecchie e la coda di questi cani da combattimento venivano tagliate per offrire poca presa all’avversario, e il suo collo possedeva un strato adiposo molto abbondante e non aderente al muscolo in modo tale che i morsi di bestie feroci o dei cinghiali scivolavano sull’epidermide senza raggiungere gli organi vitali.

Questi cani, bene allenati e ben nutriti, venivano utilizzati per la caccia al cinghiale, al lupo, all’orso nonchè al cervo e agli atri grossi ungulati nelle battute di caccia con le reti.


Molossi nelle arene contro le fiere

La poderosa testa dell'animale, molto adatta alla presa, aveva delle caratteristiche che consentivano di mantenere una buona respirazione durante il movimento, per cui potevano restare attivi molto a lungo.

L’iconografia che li rappresenta permette di identificare un corpo massiccio e robusto associato ad una canna nasale piuttosto lunga per una migliore ventilazione, un cranio grosso e piuttosto piatto, e dei denti duri e sviluppati, impiantati profondamente nell’osso.

Il tutto per sostenere una forte presa, con una forza muscolare necessaria a questo lavoro, caratteristiche ancestrale presenti ancora oggi in certi molossi come i Cani da Presa Meridionali.

LOTTA CIRCENSE TRA BESTIE FEROCI E MOLOSSI
L’esercito della Roma Imperiale tenne in grande considerazione il cane; in particolare, il “procurator cinegeti” (o zooarco), l'esperto professionista di cani da combattimento, selezionò i cani delle varie razze in base alle qualità dimostrate nell’arena ed in battaglia, traendone così quel molosso che fu impiegato per diversi scopi, quali:

- combattente in battaglia;
- accompagnare le avanguardie per percepire la presenza di eventuali nemici appostati;
- fare la guardia insieme alle sentinelle per evitare incursioni nemiche e attacchi ai castrum;
- combattente nelle arene contro belve
- combattente nelle arene contro gladiatori;
- dare la caccia a fuggitivi;
- fungere da portaordini;
- fungere da guardiano di edifici pubblici,
- fungere da guardiano di case e di ville patrizie;
- ausiliario nella caccia grossa.

La difesa del castrum era molto importante per i legionari, che quando si trovavano in terre ostili costruivano sempre, a ogni tappa, i castra, grandi fortificazioni complesse seppur temporanee nelle quali durante la notte potevano rilassarsi sapendo di essere ben protetti. Protezione garantita anche dai canis pugnaces di guardia, selezionati di colore nero o molto scuro per non essere visibili di notte, che non solo avvisavano abbaiando, ma, una volta sguinzagliati, attaccavano ferocemente i nemici.

MASTINO NAPOLETANO DERIVAZIONE DEL MOLOSSO ROMANO


MOLOSSO ROMANO

Il Molosso Romano, (Canis pugnax), pertanto, era un cane funzionalmente completo e nelle terre conquistate dalle Legioni Romane di cui era al seguito, dette origine a cani che poi vennero utilizzati per funzioni similari: ad esempio, in Spagna originò il Perro da presa spagnolo e in Francia il Dogue de Bordeaux.

Questi cani venivano usati nelle battaglie affiancando l'esercito in guerra. Il loro nome deriva dalla tribù illirica " i molossi" e vennero usati nelle battaglie per:
- terrorizzare i nemici
- attaccare i cavalli facendoli imbizzarrire
- attaccare gli uomini e morderli 
- introdursi tra le file nemiche con recipienti in cui era stato appiccato fuoco, per provocare un incendio;
- introdursi tra le file nemiche con corazze munite di lame taglienti di lame per ferire soldati e cavalli.

Il Molosso da guerra fu un efficace strumento di morte; molto aggressivo, bardato con un collare irto di punte di ferro, addestrato ad attaccare il nemico e ad ucciderlo azzannandolo alla gola.
Per ottenere una simile “macchina bellica”, i Romani utilizzarono il materiale genetico del luogo, quello del “lupo nella sua forma addomesticata” il cui modo di fare si avvicinava alla loro indole: come loro combatteva per la conquista del territorio, come loro razziava e uccideva.

La storia evidenzia la parentela simbolica tra i lupi ed alcuni popoli guerrieri: ad esempio, nella penisola italica la tribù dei Lucani traeva il proprio nome da “Aukol”, ovvero dal lupo.

La leggenda della fondazione di Roma assunse la forma che conosciamo solo in tarda epoca, quando ormai i Romani avevano esteso la loro egemonia su tutta la penisola; non abbandonando l’originaria similitudine comportamentale, ed essi scelsero “la lupa”, come animale totemico.

A simbolo della sua combattività e di Roma tutta, ne fecero campeggiare l’immagine sulle insegne dei legionari. A questa popolazione canina di estrazione lupoide, man mano si affiancavano nella selezione cani diversi, con taglia e combattività sempre maggiore, a pelo raso per offrire meno presa e con caratteristiche  “molossoidi”.

GLADIATORE CON MOLOSSI
Questi animali si estesero in tutto l’Impero attraverso i primi centri di allevamento, in particolare a Capua, vera e propria “fabbrica” di mezzi, animali e uomini “da guerra e arena” a seguito di attività commerciali e conquiste da territori stranieri.

Non mancavano però le razze dei territori locali, in particolare nella Campania Felix, dove alcuni esemplari di questo tipo vivevano già, probabilmente importati dai Fenici e quindi allevati dagli Etruschi che già da tempo innumerevole li usavano per la guerra.

Il coraggio, la forza e la conbattività di questi cani dava loro l'appellativo di “Bellator” o “Pugnator” o “Pugnaces”, come Strabone definisce i cani che combattevano al fianco dei soldati, che ne vegliavano il sonno costituendo un'ottima guardia anche notturna, per udito e per olfatto superiori agli uomini, si che, debitamente addestrati, erano impiegati anche nelle comunicazioni, recando messaggi contenuti nei loro copricollo in metallo e cuoio, abilissimi nella corsa e nel nascondersi al nemico.

I Legionari Romani li consideravano sempre più indispensabile usarli in battaglia, cosìcchè prosperarono i “domini factionum”, allevatori e impresari, che li selezionavano e preparavano per affiancarli alle fiere e ai gladiatori nelle esibizioni pubbliche sempre più richieste (i “Ludi Gladiatori”) e per le quali ricevevano lauti compensi, a volte astronomici.

Questi cani avevano soprattutto attinenza con il “Molosso” dell’Epiro, notoriamente combattente senza rivali, e gli antichi documenti ne fecero risalire l’inizio dell’impiego come cani in battaglia a più di tremila anni fa.

Inquadrati in piccoli gruppi di combattimento, nelle azioni belliche i cani venivano impiegati in gran numero; erano anche utilizzati come coraggiosi scudieri e guardia spalle per sostenere l’azione di un singolo cavaliere. Essi, pertanto, sono stati da sempre e inevitabilmente coinvolti nelle guerre; del resto gli antichi Molossi furono creati quasi esclusivamente per questo scopo.

Plinio il Vecchio riporta che i cani “erano gli ausiliari più fedeli e più economici”. Nel 231 a.c.. con il loro aiuto i legionari di M. Pomponio Matone risolsero il problema dei Peliti (o Pelasgi) in Sardegna (Zonata VIII, 19 P.I. 401). I “Mastini Fonnesi” sono i discendenti di questi cani, frutto di antiche e ripetute selezioni tra veltri e cani mastini, secondo altri un incrocio tra i cani, forse segugi, utilizzati da Marco Pomponio Matone ed il cane locale, forse un levrieroide.


Molti imperatori Romani sono rimasti famosi per la crudeltà con cui facevano svolgere i giochi circensi. Negli anfiteatri romani, durante i “ludi gladiatori”, si affrontavano in combattimenti all’ultimo sangue belve, molossi e gladiatori. Migliaia di orsi furono catturati ed impiegati nelle arene. L’imperatore Caligola, nel I sec. d.c. organizzò un feroce combattimento tra ben ben 400 orsi e un manipolo di gladiatori affiancati dai loro cani da combattimento.

Strabone scrive che per fronteggiare un leone occorrevano quattro molossi. Le doti di combattente del molosso emergevano anche negli spettacoli di tauromachia in cui i tori combattevano fra di loro, contro altri animali od anche contro gli uomini. Diffuse in tutta l’area mediterranea, a Roma alle “cacce” (venationes) taurine era destinato il Theatrum Tauri.

Da “Vita e costumi dei Romani Antichi” di Danila Mancioli: “ C’erano poi le lotte fra uomini e animali, durante le quali, in genere, erano questi ultimi a soccombere; i ‘venatores’ o i ‘bestiari’, che venivano addestrati in scuole simili a quelle dei gladiatori, ma a differenza di questi ultimi non erano tenuti in gran considerazione dagli spettatori, vestivano una corta tunica con maniche, portavano fasce alle gambe, avevano come armi da offesa una lancia a punta larga e una frusta di cuoio, erano spesso accompagnati da una muta di cani ”.

I Romani impiegarono diffusamente i cani da guardia negli edifici pubblici e nelle case private (specie in quelle patrizie). Erano tenuti per tutto il giorno legati alla catena entro una nicchia all’ingresso dell’edificio e di notte venivano liberati. Spesso la loro aggressività provocò incidenti tali da richiedere l’istituzione di apposite leggi. Da ciò prese origine la consuetudine di sostituire in molti casi la presenza del cane con un suo simulacro recante la nota iscrizione “Cave canem”.

A seguito dei movimenti di conquista delle legioni romane, il Molosso contribuì alla formazione di altri cani che ora fanno parte d’altre razze europee, quali il Komondor, l’Old English Mastiff, il San Bernardo, il cane dei Pirenei, il Bovaro Svizzero ecc.

Gli Alauni o Alani, pastori e nomadi sarmati, erano grandi arcieri a cavallo, già conosciuti dai romani con cui più volte si scontrarono. Una parte di essi invasero la Gallia romana, affrontati e bloccati dai legionari di Ezio (390 - 454), ma fatta la pace ottennero il permesso di stabilirvisi e da loro i romani presero i cani alani, o alaunt, da cui discende l'odierno alano.



I CANI DA CACCIA

I Romani sono stati i primi a classificare i cani secondo il loro impiego nella caccia: Seguges: (segugi) che grazie al sensibilissimo olfatto seguivano le tracce della selvaggina; Celeres: (levrieri) che la inseguivano velocemente; Pugnaces: (molossoidi) che l’attaccavano.

SCENA DI CACCIA
Quanto grande fosse l’amore per i cani lo dimostra un epigramma di Marziale:

Allevata in mezzo agli addestratori degli anfiteatri, cacciatrice feroce nelle foreste, dolce in casa; mi chiamavo Lidia, fedelissima, non mi uccisero né i lunghi giorni né l’inutile vecchiaia, come toccò ad Argo, il cane di Ulisse Itacese, mi uccise la rapida zanna di un cinghiale bavoso, grande come il cinghiale di Calidono o quello d’Erimanto. Giovane giunsi alle ombre infernali, ma non provo rancore. Non avrei potuto morire di una sorte migliore”.

La caccia preferita dai romani erano le “battute”, possibilmente a cavallo. I Molossi, una volta circondata la preda, scovata dai “seguges” ed inseguita dai “celeres”, le venivano aizzati contro e la bloccavano fino all’arrivo dei cacciatori che, richiamati i cani, per dimostrare il loro coraggio l’affrontavano con il giavellotto o con la daga a distanza ravvicinata.

La diffusione della caccia è documentata ampiamente nei sarcofagi scolpiti con scene mitologiche che, da Adriano in poi, diventarono monumenti funebri pregiati per i romani benestanti. Il simbolismo delle decorazioni sta a significare l’analogia del successo nella caccia con la vittoria in guerra.

Il cane da gregge invece fu prodotto dall’incrocio tra il feroce cane dei legionari ed alcune razze da pastore locali di tipo lupoide (anche levrieroide); è così che lo ritroviamo nel mastino abruzzese, nel mastino siciliano o "cane da mannera", nel mastino silano e in quello fonnese. Questo tipo di cane (sempre un molossoide) fu selezionato secondo un’assoluta assenza di istinto predatorio nei confronti del gregge, pur mantenendo un’elevata aggressività e combattività contro i predatori.

Quando, cioè, occorreva combattere il “lupo” e difendere il gregge, i romani gli contrapposero “il lupo domestico”, quando occorreva una combattività rivolta a scopi di altro genere impiegarono “il Pugnaces”. La capacità organizzativa dei romani emerse alla grande anche in questo campo.

    VENAFRUM - VENAFRO (Molise)

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    L'ANFITEATRO DI VENAFRO
    Si pensa che l'origine dell’insediamento sulle pendici del monte S. Croce sia molto antico, anche per la presenza di un santuario frequentato almeno a partire dal IV secolo a.c., che essendo meta di pellegrini, deve aver attirato ambulanti e poi botteghe con conseguenti abitazioni, insomma un centro turistico che deve aver influito non poco sullo sviluppo del centro.

    Infatti, benché la sua fondazione sia leggendariamente attribuita a Diomede (eroe acheo ed omerico della guerra di Troia e quindi di origine greca, che non va però confuso con Diomede figlio di Ares), nella mitologia greca è figlio di Tideo e di Deipile, ma piuttosto la città nell'antico nome di Venafrum mostra le sue origini sannitiche

    Di questo luogo di culto è visibile solo parte di un terrazzamento in opera poligonale, individuato a monte della città moderna, in una fortunata posizione che dominava la piana. Il centro risale senza dubbio al fiero popolo italico dei Sanniti, dove nel IV secolo a.c. combatterono aspramente contro Roma durante le Guerre Sannitiche.

    All’inizio del III secolo a.c., finite le guerre, Venafro si presenta come il centro principale di questo settore della valle del Volturno ed entra nel sistema amministrativo romano, come praefectura, intorno alla metà del secolo.
    PLANIMETRIA DELL'ANTICA VENAFRO
    La città si romanizza con difficoltà, data l'avversione dei sanniti non solo verso i romani ma verso qualsiasi popolo straniero che tenti di averne il dominio. Infatti nell'89 a.c. Venafrum fu di nuovo teatro di uno scontro decisivo contro Roma dove guerreggiò il gruppo dei popoli della "Lega italica", nella cosiddetta "Guerra dei Socii" o "Guerra sociale". 

    Qui, durante la guerra suddetta, il frentano Mario Egnazio, generale dei Sanniti, attaccò Venafro e sterminò l'esercito del console Lucio Giulio Cesare in un'imboscata presso Teano dei Sidicini, vicino Caserta, nel 90 a.c., la espugnò a tradimento e fece strage di sei coorti romane.   


    Ma la vendetta di Roma non tardò, l'anno seguente l'esercito sannita venne attaccato dai romani che vinsero e uccisero il loro generale. Successivamente la città venne coinvolta nella guerra tra Gaio Mario e Lucio Silla, ma avendo parteggiato per il primo subì la distruzione da parte del secondo. 

    SCALA DI ACCESSO AL TRIBUNAL DEL TEATRO
    Con Giulio Cesare però Venafro venne ricostruita dai romani, e continuò a crescere e svilupparsi nel corso del I secolo a.c., raggiungendo  il momento di massimo splendore con la deduzione della colonia augustea, probabilmente nel 14 a.c., dove ai veterani romani vennero cedute le terre prossime alla città e i patrizi romani presero le più alte cariche del centro abitato.

    La presenza dei romani fu decisiva per i costumi e l'assetto urbanistico della città. Si ebbe infatti una ristrutturazione urbanistica secondo l'antico sistema romano di assi stradali ortogonali e la costruzione dei più importanti edifici pubblici.  

    Di conseguenza sorsero anche splendidi edifici privati con decorazioni e pavimenti musivi molto articolati.  Un cambiamento profondo si ebbe a partire dalla metà del IV secolo, a causa del terremoto che sconvolse il Sannio e la Campania.

    La popolazione di Venafro abbandonò la cittadina e si spostò sull’altura orientale dell'area urbana dando vita al borgo medievale, abbandonando invece il settore occidentale del centro.

    Grazie a ciò il centro sannita-romano non venne cancellato del tutto dagli edifici successivi.
    Il tempo agì da copertura ricoprendo le antiche vestigia, si che oggi godono di una discreta conservazione e possono essere scavate con le moderne tecniche di ricerca archeologica.

    LE MURA CICLOPICHE

    LE MURA

    La città disponeva di una notevole cinta muraria, costruita in opera incerta e visibile ancora in alcuni tratti. La cinta racchiudeva Venafro inglobando all’interno anche un settore del monte S. Croce. L’epigrafia conserva il nome di Caius Aclutius Gallus testimoniando il suo ruolo di magistrato straordinario preposto alla costruzione delle mura urbane, probabilmente intorno al 40 a.c.

    Ma oltre alle mura romane vi sono le mura ciclopiche: 
    "Assolutamente non si conosce nulla dell'origine e della funzione svolta nel passato dalle cosiddette mura ciclopiche. Chiunque abbia cercato di darne un'interpretazione si è smarrito in descrizioni fantasiose. Tra le ipotesi più valide troviamo quella che suppone si tratti di una villa o di un luogo di culto di epoca sillana (I secolo a.c.). 

    I terrazzamenti ai vari livelli sono costituiti da muratura poligonale ad andamento rettilineo e nel ripiano più elevato sono di notevole grandezza mentre quelli inferiori sono costituiti da elementi anch'essi poligonali ma più rozzi. Il fatto che oggi tale luogo sia dedicato alla Madonna della Libera ci fa ritenere probabile che nel luogo vi fosse situato un tempio forse, dedicato alla dea Libera.

    L'importanza di tale edificio dovette essere tale che quando al culto pagano si sostituì quello cristiano si volle conservare il ricordo della primitiva religione. A monte delle mura ciclopiche vi è una vasca di raccolta delle acque. Nessun cunicolo si intravede ad essa collegato, ma non è da escludere che la cisterna fosse collegata all'acquedotto romano."

    (Remo di Chiaro)

    E' più che probabile che la Madonna Libera derivi da un santuario dedicato alla Dea Libera, così come la cisterna può essere di origine romana. Riguardo alle mura ciclopiche però oggi vengono per lo più ricollegate al popolo dei Pelasgi, popolo ritenuto dai più preellenico e risalente al VII fino al V secolo a.c. Da notare il complesso che sorgeva sulle mura poligonali, riconducibile con tutta probabilità ad un antico santuario.

    IL TEATRO ANCORA DA SCAVARE

    IL TEATRO

    Il teatro di Venafro venne edificato in età augustea sulle pendici del monte S. Croce, sulla stessa linea del terrazzamento dell’antico santuario repubblicano, che di per sè ripeteva lo stesso spettacolo scenografico dei più grandi santuari del passato, soprattutto laziali (vedi il tempio della Fortuna Primigenia a Palestrina). 

    Il teatro comprende originariamente l’ima e la media cavea, separate da un passaggio semicircolare; la summa cavea viene costruita successivamente utilizzando un robusto sistema di sostruzioni che avevano anche lo scopo di contenere il terreno alle spalle. Come solitamente avveniva, nelle cavità delle sostruzioni trovavano posto le botteghe che vendevano cibo, bevande e souvenir.


    Nel II secolo d.c. viene costruito ad ovest del teatro un grande ninfeo e successivamente dei complessi impianti idraulici finalizzati all’allestimento di raffinati giochi d’acqua nell’orchestra. I romani a avevano il vezzo, tanto nelle sontuose ville private che nei luoghi pubblici, di ospitare negli splendidi giardini dei giochi di zampilli che verranno poi copiati dalle meravigliose ville rinascimentali come ad esempio si vede tutt'oggi a Villa d'Este nel Lazio.


    Il teatro, a differenza degli altri teatri dell'epoca, sfrutta la pendenza naturale del terreno, in un'area particolarmente protetta dai venti. Il fronte della scena è di circa 60 metri con una cavea capace di 3.500 spettatori.

    le gradinate erano in pietra, purtroppo scomparsa essendo stato il teatro proibito, come tutti i teatri, dal culto cristiano che li riteneva diabolici. Pertanto utilizzato come cava naturale di pietre già lavorate usate per realizzare gli edifici di età successiva. Al livello dell'orchestra si è ritrovato un pavimento di lastre irregolari. 

    Il terremoto del 346 d.c. porta all’abbandono del teatro e allo smantellamento di parte della decorazione architettonica e scultorea che viene raccolta all’interno di un ambiente del ninfeo stesso, probabilmente in vista di un successivo restauro che non avvenne mai. Già nel V secolo, infatti, alcune parti del monumento vengono utilizzate come ricovero e abitazioni private.

    L'ANFITEATRO

    L'ANFITEATRO

    L’anfiteatro (il cosiddetto Verlascio o Verlasce) viene costruito nel corso del I secolo d.c. ponendolo, come d'uso, immediatamente all’esterno della città e si conserva grazie alla sovrapposizione di case rurali ai ruderi romani avvenuta nel corso del 1600. 

    Si è così realizzata la caratteristica struttura ovale, interrotta in tre punti dalle vie di accesso allo spazio centrale, che dell’anfiteatro conserva la forma e tratti di muratura in opera mista. È stata inoltre rinvenuta l’iscrizione che caratterizzava ciascun ingresso del teatro e che ricordava il finanziamento di un membro della gens Vibia, una delle famiglie più importanti della Venafro di età imperiale.

    Le necropoli della città romana si individuano lungo le vie che escono dalla città in direzione di Cassino, Teano e Isernia. Lungo la strada per Cassino, in particolare, sono visibili diversi monumenti funerari di particolare interesse. 

    Si segnala inoltre la diffusione di resti di monumenti funerari isolati, al di fuori delle aree di necropoli, attestanti ancora l’uso di costruire il sepolcro all’interno dei propri terreni, ma solo per le grandi ville private.

    L'ANFITEATRO

    LE STRUTTURE DI VIA LICINIO

    Le strutture di via Licinio appartengono probabilmente ad edifici privati di età imperiale. Alcuni ambienti conservano resti di pavimento in marmo e a mosaico; tra questi si segnalano alcune pavimentazioni in mosaico nero con tasselli di marmi policromi della seconda metà del I secolo a.c. Si ritrovano inoltre, come in via Carmine, terrecotte architettoniche con raffigurazioni di grifi affrontati.



    L'EDIFICIO DI VIA CARMINE

    L’edificio in via Carmine 10 ha restituito alcuni vasti ambienti pertinenti ad una ricca domus o ad un edificio pubblico con pavimenti musivi di particolare bellezza e pareti decorate con affreschi di III stile pompeiano, databili intorno alla metà del I secolo d.c. 

    Il complesso, riportato in luce finora solo in parte, ha avuto una prima fase di vita in età tardo-repubblicana seguita da una ristrutturazione nel corso del I secolo d.c. Si individua un grande ambiente rettangolare con un’abside, forse originariamente rivestita di marmo, al centro della parete occidentale e due cisterne ai lati che servivano ad alimentare la fontana posta la centro dell’abside.

    Il vano era pavimentato in mosaico nero punteggiato di bianco, con emblema centrale in opus sectile, realizzato con mattonelle quadrate di marmo, databile nella prima metà del I secolo d.c. Presso l’ingresso, sui due lati, il salone si allarga in due spazi rettangolari, dove i colori del mosaico si invertono.

    A nord-ovest di questo vano si rinvengono altri due ambienti, uno con pavimento in cocciopesto e l’altro in opus spicatum. Alle spalle di quest’ultimo si conserva una latrina che ha restituito su tre lati il canale di spurgo in pietra calcarea bianca e il pavimento in opus spicatum.

    A nord-est è stato invece riportato in luce un vano di forma rettangolare con pavimentazione a mosaico composta da due parti distinte, divise da una soglia decorata con una fila di esagoni adiacenti che includono una rosetta a sei petali. La prima parte presenta una zona a fondo bianco con, al centro, rosone prospettico bianco e nero, mentre la seconda è a fondo nero con fascia di raccordo bianca. 

    Il pavimento è databile verso la metà del I secolo d.c. La stanza contigua ha un pavimento in cocciopesto con crustae marmoree di forma triangolare di diversi colori che insiste sul pavimento di una fase precedente, visibile in sezione.

    Si possono così individuare tre fasi di vita dell’edificio: la prima, più antica, legata all’uso di blocchi di tufo sparsi nell’area ed utilizzati anche successivamente; la seconda individuabile negli apparati decorativi di III stile della sala absidata e la terza, infine, di poco successiva, che, mantenendo inalterata la sala absidata, realizza la pavimentazione di ambienti contigui ad essa, innalzandone il livello del calpestio. 

    Le difficoltà di lettura e lo stato di conservazione dell’edificio sono dovuti ad interventi che iniziano già nel medioevo, quando, come al solito, la struttura viene utilizzata come cava per il recupero di materiale da costruzione.



    RESTI DELL'ACQUEDOTTO
    L'ACQUEDOTTO

    Dell’acquedotto conosciamo numerosi tratti e possediamo l’editto che ne stabiliva le regole d’uso.

    Costruito probabilmente tra il 17 e l’11 a.c. è lungo circa trenta chilometri e supera un dislivello di più di 300 m dalla captazione, alle sorgenti del Volturno, fino al punto di arrivo nella parte alta della città in corrispondenza di un castellum aquae (serbatoio), non individuato con precisione. 

    La struttura è quasi completamente sotterranea, esce allo scoperto solo per attraversare corsi d’acqua o valloni per mezzo di ponti.

    È in parte costruito in opera cementizia e in parte scavato nella roccia, con pavimento in laterizi, volta a tutto sesto e pareti rivestite con malta idraulica.

    Lungo il percorso sono collocati dei cippi riportanti la prescrizione di lasciare liberi due percorsi di servizio ai lati della conduttura.



    IL TEMPIO DELLA MAGNA MATER

    Il tempio di Magna Mater non è stato ancora individuato con certezza perchè molto è ancora da scavare, ma doveva essere di una certa importanza viste le concessioni di terre fatte da Augusto e testimoniate dalle fonti e da documenti epigrafici.

    Il culto era stato inizialmente collegato ad una sorgente di acque sulfuree lungo il corso del Volturno esistente, ma i resti individuati si riferiscono ad un complesso termale di età imperiale. Ciò lo fa escludere visto l'enorme rispetto di Augusto per gli antichi templi che fece sempre ricostituire e abbellire.

    Successivamente si è pensato potesse sorgere dove è ora la cappella di Monte Vergine, al di sopra del castello. Qui è stato infatti individuato un grande terrazzamento, realizzato in opera cementizia, su cui doveva essere costruito un edificio pubblico, molto probabilmente un tempio. 

    Se da un lato mancano elementi che possano rendere certa questa attribuzione dall’altro ne sostengono l’ipotesi la posizione elevata e la continuità del culto femminile. Peraltro ogni santuario cristiano veniva in genere impiantato su uno di culto pagano onde cancellarne l'esistenza.
    OPUS SECTILE DELLA VILLA PRIVATA

    LE VILLE RUSTICHE 

    Il territorio di Venafro è caratterizzato dalla presenza di ville rustiche connesse allo sfruttamento agricolo con la produzione di grano, vino e soprattutto olio. Il complesso di Madonna della Libera è esemplificativo a tale riguardo, restituisce infatti una serie di terrazzamenti in opera poligonale con resti probabilmente pertinenti ad una villa della fine del II secolo a.c. 

    Un’altra testimonianza importante proviene dal comune di Pozzilli, località Cerqueto, in cui è stata identificata una villa rustica sorta in epoca repubblicana, in uso per tutta l’età imperiale. Ha una parte destinata alle attività produttive con magazzini, ambienti di servizio, in cui erano collocati la macina per i cereali e il frantoio per la spremitura delle olive (trapetum) ed una parte residenziale decorata con pavimenti musivi e stucchi alle pareti.


    PAGANALIA (24 - 26 Gennaio)

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    "Gli agricoltori e gli animali da lavoro riposano. Gli animali vengono incoronati con ghirlande e vengono appesi agli alberi gli oscilla (maschere di Bacco), a prendere il vento che soffia la fertilità dei vigneti guardati a vista"
    (Ovidio - Fasti)

    Le feste Paganalia furono dette erroneamente da alcuni Sementivae, come si trattasse della medesima festività, perchè le feste Sementive si celebravano alla Dea Tellus a Roma, al tempio che aveva sul colle Esquilino, mentre le Paganalia si celebravano nei pagi (pagus = villaggio), cioè nei villaggi e nelle campagne. 
    Le due feste cadevano negli stessi giorni e per tre giorni consecutivi, ma mentre le Sementive erano una festa mobile, le Paganalia erano una festa fissa, per cui a volte non coincidevano.

    Il termine pagano anticamente non indicava una religione, ma l'essere abitanti di un pagus, cioè un villaggio. Ma nel linguaggio corrente indicava la condizione di civili, di non militari, di origine campagnola o urbana che fossero, tanto che veniva usato per rimproverare i soldati di scarso rendimento.

    La ragione della mobilità delle sementive risiedeva nel fatto che la festa si faceva per la semina avvenuta, onde assicurare vita e rigoglio ai semi, ma la semina non avveniva negli stessi periodi, bensì variava con le condizioni del tempo e le zone geografiche. In città questa preoccupazione non c'era perchè nessuno faceva il contadino, o almeno non direttamente, la campagna era lontana ma gli Dei erano pur sempre vicini.

    DEA TELLUS
    "Con l’acqua e con Cerere a le mense gli aurati vasi e i nitidi canestri eran comparsi
    (Lucrezio Caro)

    Durante i Paganali venivano onorate due divinità principali e 12 minori. La prima divinità era la Dea Tellus, la Terra, colei il cui ventre era stato ingravidato dai semi. Ma questa inseminazione riguardava anche uomini ed animali, affinchè le donne e le femmine degli animali  rimanessero incinte e potesse accrescere la popolazione umana, animale e vegetale.

    Alla Dea Tellus veniva sacrificata nel primo giorno, cioè il 24, una scrofa gravida, perchè in tempi antichissimi la Terra era anche rappresentata come una scrofa che allatta. La città di Ilio, o Troia richiamava infatti alla Dea Scrofa a cui la città doveva essere stata dedicata. Un po' come Roma aveva la Dea Roma. 

    L'indomani, cioè il 25, si sacrificava a Cerere, Dea della fertilità e dell’agricoltura, di origine Etrusca secondo alcuni, di origine Greca secondo altri e corrispondente della greca Demetra, di origine Sicula secondo altri. Ella era la responsabile della 'forza vitale' del seme, e veniva onorata con l'offerta incruenta di torte di farro, il cereale più usato dagli antichi.

    DEA CERERE
    Cerere è ipostasi della Madre Terra, ma mentre Tellus protegge i semi nel suo grembo, colei che porta dal buio alla luce, che fa nascere, Cecere è quella che compie la trasformazione da seme in spiga, quindi che fa crescere. Sarà Proserpina, la Regina dei morti, a incarnare il terzo aspetto della Dea, quello della morte. Nascita crescita e morte erano gli aspetti trinitari della Dea. Il cattolicesimo poi riprodurrà la trinità ma al maschile.

    Dionigi di Alicarnasso attribuisce l'istituzione della festa al re Servio Tullio (578 - 535 a.c.che riorganizzò amministrativamente tutti i villaggi rurali, vale a dire i pagi. Altri invece l'attribuiscono a Numa Pompilio, che riformò la religione romana sull'impronta di quella sabina. Anticamente la festa durava due giorni, con distanza di una settimana l'una dall'altra, poi fu estesa a tre giorni ma di seguito, ogni 24, 25 e 26 di gennaio.

    Cerere era dunque la Dea delle messi, di farro o di grano che fossero. La tradizione narra che fu Demetra che insegnò ai contadini della Sicilia a seminare il grano. Da lì l'uso si estese alla Grecia e a tutto il suolo italico, dove la Dea venne assimilata alla divinità italica Cerere. 

    In effetti in Sicilia in primavera si festeggiavano le Tesmoforie, feste in onore di Demetra e di Persefone, dove i Siciliani, oltre a piangere la Dea giovinetta rapita, offrivano a sua madre grossi canestri di mylloi, focacce con miele e sesamo raffiguranti una vagina. E accompagnavano le offerte con gesti osceni e linguaggio licenzioso, allo scopo di far ridere la Dea addolorata. Suscitare il riso equivaleva a far sorgere la vita, «la vita vegetale», preziosa per animali ed umani.

    La festività dei campi era anche utile, almeno in tempi molto arcaici, a dare quella spinta emotiva per compire tutte quelle operazioni che servivano alla produzione del cereale. Pertanto si riteneva che Cerere avesse con sè dodici aiutanti, una sorta di divinità minori addette a fasi precise della coltivazione del cereale, che erano:

    - Vervactor il Dio della prima aratura,
    - Reparator Dio della seconda aratura,
    - Obarator per l'aratura in genere,
    - Occator per l'erpicatura,
    - Imporcitor per i solchi profondi,
    - Insitor per l'innesto,
    - Sarritor per la zappatura,
    - Subruncinator per il diserbo,
    - Messor per la vendemmia,
    - Convector per la raccolta,
    - Conditor per immagazzinare,
    - Promitor per portare fuori (i prodotti) per l'uso.

    Nel terzo giorno di festa a ognuna di queste divinità il sacerdote addetto, il flamine ceriale, faceva un'invocazione, chiamando nell'ordine i dodici numi che aiutavano Cerere nella coltivazione del cereale e ad ognuno di loro offriva una libagione di vino che veniva versata sull'altare. La festa nei villaggi comportava danze e canti sull'aia, i templi e le case venivano ornati di ghirlande verdi che propiziavano la primavera.

    I contadini si cingevano il capo con un berretto di lana inghirlandato e danzavano e banchettavano nelle case con parenti e amici. Di notte giacevano con le mogli per inseminarle con la benedizione di Cerere che avrebbe favorito la gravidanza della moglie.

    LIMES POROLISSENSIS (Moesia)

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    PORTA PRETORIA DI POROLISSUM

    «Un popolo che valuta le situazioni prima di passare all'azione e che, dopo aver deciso, dispone di un esercito tanto efficiente: non meraviglia se i confini del suo impero sono individuati, ad Oriente dall'Eufrate, dall'oceano ad occidente, a settentrione dal Danubio e dal Reno? Senza compiere esagerazioni, potremmo dire che le loro conquiste sono inferiori ai conquistatori

    (Giuseppe Flavio, Guerra giudaica, III)



    OCCUPAZIONE DEL BASSO DANUBIO

    Sotto Augusto, iniziò l'occupazione graduale del basso Danubio, soprattutto grazie a suo figlio Tiberio, tra il 6 ed il 9, e in seguito grazie ai suoi successori, costituendo il distretto militare di Mesia e Macedonia, guardato da un paio di legioni. La Tracia invece continuò ad essere indipendente, cliente e alleato di Roma. Sotto Claudio anche la Tracia perderà, nel 46, la sua indipendenza mentre nuove basi legionarie presidiarono il Danubio in Mesia.

    Ma sul fronte del basso Danubio, nell'85, i Daci, uniti sotto il comando del re Decebalo (87-106), passarono il fiume, distrussero l'esercito romano e lo stesso governatore di Mesia. Roma non poteva permetterlo, tutte le nazioni sotto il suo dominio dovevano reputare i romani invincibili. L'onta andava lavata nel sangue, tanto che dovette intervenire lo stesso imperatore Domiziano (tra l'86 e l'88). Dopo una serie di campagne contro i popoli suebo-sarmatici negli anni 89-97, di cui alcune con pesanti sconfitte, si firmò un trattato di pace che durò per oltre sessant'anni.



    DACIA CAPTA

    L'imperatore Traiano però non fu dello stesso avviso, egli voleva vendicare le sconfitte subite dai romani sotto l'imperatore Domiziano (51-96), per cui avanzò nel territorio dei Daci a scopo intimidatorio, ma pure di eventuale conquista. 

    Successivamente, con il venir meno da parte del re dei Daci agli accordi siglati due anni prima, Traiano decise infatti di entrare in guerra: secondo alcuni fu lui e non Decebalo a stracciare il vecchio trattato tra Domiziano e il re danubiano, conquistando il regno dacico che comprendeva tutti i territori all'interno della catena dei monti Carpazi.

    Secondo degli studiosi Traiano aveva bisogno di soldi perchè l'erario era spoglio, e lo era senz'altro, visto che lui stesso per risanare le finanze di Roma aveva posto all'asta i beni di famiglia, per cui gli faceva gola il famoso tesoro di Decebalo che avrebbe rimpinguato, ed in effetti rimpinguò, le casse dell'Impero Romano.

    «Dopo aver trascorso del tempo a Roma, [Traiano] mosse contro i Daci, avendo riflettuto sui loro recenti comportamenti, poiché era contrariato a causa del tributo a loro versato annualmente ed aveva notato che era aumentata non solo la loro forza militare, ma anche la loro insolenza.»

    (Cassio Dione, LVIII)

    DISPOSIZIONE DEL CASTRUM

    Ma ci fu un'altra ragione che spinse Traiano ad entrare in guerra con la Dacia, ed era la stessa ragione per cui Giulio Cesare mosse guerra a tutta la Gallia restando in territorio straniero per quasi 9 anni (Traiano ne restò fuori per 6 anni): A Traiano, come a Giulio Cesare, piaceva fare la guerra! Il successore di Traiano, Adriano, fece la stessa cosa, viaggiando e combattendo, perchè amava ambedue le cose. 

    Traiano era un militare e amava stare coi militari (tra l'altro era gay), apprezzava la sana vita dell'accampamento senza tutti i fronzoli della reggia, inoltre amava imbastire strategie tattiche di combattimento, conscio della propria abilità e intelligenza. Traiano amava più i suoi soldati che non i suoi cortigiani, perchè col pericolo della morte davanti agli occhi ogni giorno, il legame che si stabiliva tra i legionari era forte e generoso. in più c'era l'adrenalina del rischio totale e la conseguente sfida contro la morte.

    "105 d.c. Per la seconda volta, Roma si trova a difendere i confini a nord del Danubio e fronteggiare i Daci, e questa volta è Traiano a guidare le legioni. Mosso dal desiderio di espandere il dominio dell'impero, ma anche di punire Decebalo, re dei Daci reo di non aver rispettato gli accordi con Roma, alleandosi con le altre popolazioni di confine per tornare ad attaccare le postazioni romane, Traiano organizza una spedizione senza precedenti. Una nuova guerra da cui non può che tornare vincitore, perché in gioco ci sono le redini dell'impero e la sua stessa esistenza."

    Il suo successore a sua volta, conclusa la pace con le genti sarmatiche degli Iazigi ad ovest, e dei Roxolani ad est, cioè Adriano, divise la nuova provincia dacica in Superior ed Inferior.

    I RESTI DELL'ANFITEATRO

    L'ANFITEATRO

    L'anfiteatro sorgeva, come è d'uso, aldifuori del campo militare. L'edificio, le cui vestigia sono state restaurate e musealizzate, aveva una capacità di circa 5.500 spettatori, che hanno goduto i combattimenti dei gladiatori (munera) o animali da caccia (venatio) nonchè, tra l'altro, di vari spettacoli che si svolgono normalmente nell'arena. 

    L'anfiteatro aveva anche un santuario dedicato a Nemesi, una divinità di grande seguito tra soldati e gladiatori, Dea del destino, della giustizia e della vendetta. La costruzione dell'anfiteatro, in pietra locale, fu eseguita nel 157 d.c, come dimostra un'iscrizione trovata nel sito. 




    IL LIMES

    Il Limes Porolissensis, o Limen del basso Danubio, era situato nella provincia romana della Dacia, l'attuale Romania, ed era una linea difensiva organizzata nel II secolo d.c. dopo la conquista della Dacia, con torri di osservazione, fortificazioni a breve distanza, sparsi sulle colline e le foreste che li circondavano.

    C'è un progetto di finanziamento Salaj County Council, che è finalizzato a sviluppare infrastrutture moderne in un circuito dei forti romani in Romania, ma è in fase di stallo da diversi anni. A Vindolanda, su una tavoletta, fu decifrata la riga 473 del libro IX dell'Eneide di Virgilio, ma pure in Dacia venne rinvenuta un'altra strofa dell'Eneide su una tavoletta per scrivere. Ciò dimostra che anche in Dacia i prefetti ausiliari si sarebbero preoccupati dell'istruzione dei loro figli, sicuramente affidata a colti schiavi domestici.

    Il Limes Porolissensis integrava i seguenti castra:


     - Castrum Negreni -

    Il romano Castrum Negreni, realizzato in pietra, è situato nella "Fortezza di Turcian", Negreni (Transilvania), nella contea di Cluj, è elencato nei monumenti storici nella contea di Cluj, redatto dal Ministero della Cultura e del patrimonio nazionale in Romania nel 2010.

    CASTRUM BUCIUMI

    - Castrum Buciumi -

    Il castra di Buciumi era un forte nella provincia romana della Dacia nel II e III sec. d.c. I resti del vicus circostante furono anche portati alla luce. Le rovine del castra si trovano a Buciumi (Romania). Il castrum di pietra fu costruito nel 114 d.c. ed era la sede della coorte Augusta Brittonum II.


    -  Castrum di Largiana -

    un forte in pietra  di 130 m x 157 che ricopriva 2 ha e una parte di legno e terra di 125 m x 153 che  copriva una zona di ha 1,9. Funzionò dal 30 a.c. al 300 d.c. Vi risiedettero le coorti di I Hispanorum Pia Fidelis e la VI Thracum equitis.


    -  Castrum di Certinae -

    conosciuto anche come Castra di Romita, edificato in pietra e fondato nel II sec. d.c.



     - Castrum di Porolissum -

    conosciuto anche come Castra di Molgrad. Nata come campo militare romano fondato nel 106 durante le guerre Daci di Traiano, divenne ben presto città e crebbe rapidamente attraverso il commercio con i nativi Daci.

    Divenne poi la capitale della provincia Dacia Porolissensis nel 124. Il sito archeologico è uno dei più grandi e meglio conservati della Romania.

    Dista 8 km dalla moderna città di Zalău, nel villaggio di Moigrad-Porolissum, Comune di Mirsid, contea di Sălaj. Nella Dacia romana, nella parte occidentale, di fronte a Porolissum, sono stati scavati circa 4 km. di una muraglia molto simile al Vallo di Adriano.


    - Castrum di Jac -

    Era un forte fatto di terra eretto nel II secolo d.c. Non lontano dal forte, sono stati rinvenuti i resti di una precedente fortificazione (del I secolo ac) e di una torre di avvistamento romana. Il forte e la torre di guardia furono abbandonati nel III secolo. Tracce di castra possono essere identificate su Citera Hill a Jac (comune di Creaca, Romania). Vi stanziò la Legio VII Gemina Felix.


    - Castrum di Tihău -

    E' stato chiamato così dalla "cittadella del Tuhutum" del XVIII secolo. Le rovine dell'altopiano "Grădişte" mostrano che il Castra di Tihău era un forte romano di truppe ausiliarie, appartenente al settore nordoccidentale dei tigli di Dacic.

    Ripetute scoperte di materiali archeologici romani (ceramiche, piastrelle e mattoni, armi, utensili, oggetti diversi, francobolli tegolari, monete, persino iscrizioni in pietra ecc.),

    Conoscenze avanzate nel regno della storia e archeologia della Dacia romana, confermano la natura, la collocazione cronologica, l'appartenenza e il ruolo militare-difensivo romano del "forte" che un tempo era stato eretto in questo luogo dalla confluenza di Almaş e del fiume Someş.


    Gli scavi

    I primi scavi, solo indagini informative, furono eseguiti nel 1958, all'interno del sito archeologico di Porolissum, con un ampio gruppo di ricercatori, guidati dal professore Mihail Macrea. Della sua commissione e dei modesti fondi forniti dal Museo di Zalău, iniziarono gli scavi ai castra che finirono nel 1958, a quello che potevano fare allora, per non essere ripresi. Invece gli scavi da Porolissum furono interrotti l'anno successivo, dopo ben 36 anni, le ricerche sono state riprese e proseguite, attraverso una collaborazione tra l'Istituto di Archeologia e Storia dell'Arte di Cluj-Napoca e il Museo di Storia e Arte di Zalău.

    Il castrum si trova su un altopiano chiamato dagli abitanti del villaggio "Grădişte" o "Cetate", posto a sinistra del fiume Someş, prima della sua confluenza con il fiume Almaş a circa 120 m sulla sinistra della strada Jibou-Dej. Dall'altopiano, il cui appezzamento apparteneva agli abitanti di Tihău (comune di Surduc), il castrum godeva di un'ampia vista costituendo un punto strategico nodale, ottimamente scelto sulla frontiera della Dacia Porolissensis (provincia del 124 d.c.), per bloccare eventuali attacchi esterni alla Dacia romana nord-occidentale.



    - Castrum di Samum -


    Fondato nel 106 sotto Traiano e abbandonato nel III sec..
    Conosciuto anche come Castra di Casei.
    Aveva una struttura in pietra di 165 m × 165 m.
    Venne scavato nel:
    1926–1929
    1989
    1995–2000
    2004
    ma ne rimangono pochi resti.

    Vi stanziarono:
    - la Legio I Britannica Milliaria Equitata,
    - la Legio II Britannica Milliaria,
    - la Legio I Falavia (alae)


    - Castrum di Arcobara -

    Era un forte nella provincia romana di Dacia nel II e III sec. d.c.  Venne scavato e dissotterrato nel villaggio di Ilişua (comune di Uriu, Romania) nel 1978.  Il forte in pietra aveva le dimensioni di 182x182 m (ha 3,3), la struttura in legno era invece di 14ox135 m (ha 1,8)

    Il forte fu edificato dalla Ala I Tungrorum Frontoniana. Sul sito è stato scoperto un numero significativo di proiettili balistici: 27 proiettili in pietra con diametro compreso tra 7 e 13,5 cm e peso fino a 2 kg.

    L'artiglieria era usata come difesa, probabilmente situata nelle torri del forte. Questi artefatti indicano la presenza di ballistari in questo forte.

    Vi stazionarono:
    - delle vessillazioni della Legio XIII Gemina
    - la coorte II Britannica
    - l'ala I Tungrorum Frontoniana


    - Castrum di Livezile -

    Era situato nella parte nord del moderno comune di Livezile nella regione storica della Transilvania, in Romania. Il forte fu eretto e circondato da un fossato nel II sec. d.c.. Il castrum fu abbandonato nel III sec. e le sue rovine sono ancora visibili. Le proporzioni del castrum in legno e terra erano di 166x120 m (ha 2)


      - Castrum di Orheiu Bistriței -

      Fu edificato nel II sec. d.c..La ricerca archeologica ha anche identificato il vicus vicino. I castra e il vicino insediamento furono entrambi abbandonati nel III secolo d.c. Le rovine del forte si trovano a Orheiu Bistritei (comune di Cetate, Romania).

      ESEMPIO DELLE TERME DI UN CASTRUM
      (INGRANDIBILE)
      Vi alloggiarono le Coorti:
      - I Flavia Ulpia Hispanorum milliaria equitata civium Romanorum (I cavalleria pesante Flavia e Ulpia coorte di cittadini Romani Hispani) era un reggimento romano ausiliario contenente contingenti di cavalleria. La coorte stazionò in Dacia nel castrum di Orheiu Bistriței e nel castrum Napoca,
      -  I Alpinorum (Cohorte della Pannonia Inferiore)
      - come alae, la I Illyricorum (vexillatio equitum Illyricorum basato in Dacia all'inizio del II sec. e gli equites promoti)


      - Castrum di Brâncovenești -

      venne fondato nel II sec. e perdurò per il III sec. d.c. Venne costruito su un'alta terrazza sopra il fiume Mures, vicino all'attuale castello. Accanto a questo castrum romano c'era un insediamento romano dove veniva arruolata la popolazione che serviva come esercito.

      Secondo una recente ricerca la fortificazione aveva abbastanza spazio per un esercito di diverse centinaia di soldati per fermare l'invasione dei barbari e per informare le legioni all'interno del paese sulla situazione del forte.

      Per iniziativa reale fu costruita nel XIII secolo una fortezza con fossati dalle rovine della fortificazione romana, che nel 1228 fu completata, perché da questo periodo arriva la prima menzione scritta della fortezza sotto forma di un diploma reale. Si suppone che questa fortezza fu distrutta dalla grande invasione mongola del 1242.

      CASA DEI DIOSCURI (Pompei)

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      CASA DI CASTORE E POLLUCE

      Deve il suo nome ad una pittura ubicata all'ingresso, raffigurante i Dioscuri Castore e Polluce, figli di Giove e Leda, oggi conservata al museo archeologico nazionale di Napoli; questa casa è il risultato dell’unione, avvenuta non prima del periodo augusteo, di tre case più antiche, ancora in parte riconoscibili.

      Questo è uno dei rari esempi a Pompei di una casa con un atrio corinzio, circondato da dodici colonne in tufo coperte di stucco.
      Pitture murali con immagini di soggetti mitologici sono state affrescate sui muri delle stanze ai lati del tablino. Molti di loro sono stati staccati e ora si trovano nel Museo Archeologico di Napoli e nel British Museum di Londra.


      Un primo cortile porticato con colonne doriche è situato oltre il tablinum e ha un ampio larario sulla parete di fondo, protetto da una tettoia sostenuta da due colonne scanalate con capitelli tuscanici. Il secondo peristilio si presenta con un grande bacino al centro che però è stato aggiunto più tardi e viene raggiunto dal lato destro dell'atrio.

      Le colonne del peristilio sono per metà lisce e dipinte di rosso, mentre nella parte superiore sono scanalate e dipinte di bianco. La maggior parte delle pitture murali in stile IV è ancora presente e dipinge tappeti sospesi in ambienti architettonici immaginari, alternati a pannelli di nature morte.

      L’atrio corinzio, corrispondente all’ingresso principale, è uno tra i più begli esempi esistenti a Pompei, con decorazione pittorica eseguita dalla stessa preziosa bottega della Casa dei Vettii.

      PLANIMETRIA 3D DELLA VILLA
      Nella stanza a destra del tablino troviamo quadretti raffiguranti la ‘Nascita di Adone’ e ‘Scilla che consegna a Minosse il capello  fatato del padre Niso’.

      Nella stanza a sinistra, invece ‘Apollo e Dafne’ e ‘Sileno e Ninfa con Bacco infante’. Dietro il tablino vi è un bel portico a colonne doriche e, in fondo, il sacello del Larario. A destra dell’atrio si apre un secondo peristilio, con un grande bacino d’acqua al centro e con le pareti ancora in parte decorate in IV stile.

      I dipinti più importanti sono ora al Museo Nazionale di Napoli; restano comunque alcune pitture nelle stanze del tablino e la bella decorazione in IV stile del peristilio.

      CASTORE E POLLUCE

      IL MITO

      L'immagine tradizionale dei due gemelli divini è di due atletici giovani nudi con un mantello rosso porpora sulle spalle, armati di lancia o spada, con due cavalli. Sul capo hanno un cappello a punta e una stella tra i capelli. A volte è presente un'anfora chiusa colma di sementi oppure un serpente.

      Nei miti greci alcuni autori fecero nascere i Dioscuri da Zeus e Leda, per altri i due gemelli sarebbero nati da Tindaro, re di Sparta, fratelli di Elena, oggetto della contesa a Troia. Altri ancora affermano che solamente Polluce e la sorella Elena fossero figli di Zeus, e dunque immortali; Castore sarebbe stato dunque figlio di Tindaro e destinato alla morte.

      Castore e Polluce fecero parte degli Argonauti, gli eroi che parteciparono con Giasone e Medea alla ricerca del Vello d'oro. Per aver placato una tempesta in quella circostanza, furono considerati protettori dei naviganti.


      Polluce, celebrato come grande pugile, sconfisse in una gara di pugilato il re dei Bebrici, Amico.
      Poco tempo dopo i gemelli fondarono la città a loro dedicata di Dioscuria, in Colchide. I gemelli parteciparono inoltre alla caccia al cinghiale Calidonio, inviato da Artemide a devastare le terre del re Oineo, che l’aveva trascurata in un sacrificio in onore degli Dei.

      Inoltre presero parte alla lotta contro l'ateniese Teseo, che aveva rapito la loro sorella Elena nascondendola ad Afidne; per premio Zeus concesse loro l'immortalità. Sul suolo italico presero parte alla Battaglia della Sagra tra le file dei locresi (Locri Epizephiri) in battaglia contro gli abitanti di Crotone.

      PERSEO E ANDROMEDA
      Nel mito originario però Zeus si invaghì di Leda, moglie di Tindaro, re di Lacedemone, e si unì a lei sotto forma di cigno, ma Leda che non badava a spese nella stessa notte si unì anche a suo marito Tindaro, il re di Sparta. Così partorì due uova da cui uscirono le due coppie di gemelli.

      Da uno nacquero, presso Sparta, i gemelli Polluce ed Elena, dall'altro Castore e Clitennestra. Questi ultimi, tuttavia, erano figli di Tindaro, che si unì a Leda dopo gli amori di questa con Zeus. Dal che si deduce che anche Elena era una Dea o semidea. Infatti Elena significa Luna che era la divinità maggiore di Sparta.


      Il fratello di re Tindaro, Afareo, era a sua volta padre di due gemelli: Ida e Linceo. Castore e Polluce rapirono le promesse spose dei cugini e nella lotta che ne seguì, Castore fu ferito a morte. Polluce, volendo seguire il destino del fratello, chiese e ottenne di vivere come Castore un giorno sull'Olimpo e uno nell'Ade. Il Dio Ade accettò perchè la faccenda pareggiava i conti sul tempo di abitazione negli inferi, metà tempo ma con due persone anzichè una.

      In un altro mito, riportato da Euripide nell'opera Elena, Zeus concesse, visto il loro profondo legame, ad ambedue di vivere per sempre nel cielo, sotto forma di costellazione.

      IL GIARDINO DEL POMPEIANUS

      IL POMPEIANUM - RICOSTRUZIONE DELLA CASA DEI DIOSCURI

      C'è un edificio sulla sponda alta del fiume Meno a Aschaffenburg, non lontano dal palazzo di Johannisburg, che spicca nei suoi dintorni grazie alla sua architettura dall'aspetto mediterraneo e allo stesso tempo piuttosto semplice.

      Il Pompejanum è una replica ideale di una villa romana. Si erge sulle sponde alte del Meno a Aschaffenburg ed è una replica di una casa di Pompei, la Casa di Castore e Polluce, ovvero la Casa dei Dioscuri.

      Il Pompejanum fu commissionato dal re Ludwig I , costruito tra il 1840 e il 1848 secondo i piani dell'architetto di corte Friedrich von Gärtner. Il Pompejanum non dovrebbe servire come una villa reale, ma come un oggetto di intuizione, che dovrebbe consentire agli amanti dell'arte in Germania, lo studio della cultura antica.L'edificio è la testimonianza dell'entusiasmo dell'antichità del XIX secolo.


      Lo schema cromatico esterno dell'edificio, comprese le colonne ioniche, segue la tradizione toscana con un piedistallo "Pompei rosso" e una facciata gialla di mais. I parapetti bianchi sottolineano la struttura dell'edificio. La struttura dipinta della facciata, che trasmette l'impressione di grandi blocchi di pietra, crea una vivida immagine complessiva del muro esterno senza finestre.

      I soffitti sono a cassettoni come l'originale e le colonne, in numero di dodici sono rosse e bianche
      anch'esse come l'originale.

      Attaccato al lato principale è un belvedere simile a un tempio con tetto a due spioventi. Le parti restanti dell'edificio hanno un tetto piano. Il cancello principale dell'edificio si trova nell'ala longitudinale di fronte al castello Johannisburg.

      L'ATRIO CON IMPLUVIUM
      Ed ecco l'impluvium con la statuina in bronzo del piccolo fauno. Da qui si intravede il giardino interno. Per la magnifica pittura degli interni e dei pavimenti a mosaico, i modelli antichi sono stati copiati o modellati dai pittori Christoph Friedrich Nilson, Joseph Schlotthauer e Joseph Schwarzmann.

      La "culina", cioè la cucina, non aveva un vero e proprio camino, ma in realtà un piano di cottura come usava nella Roma antica, con sotto il vano per riporre la legna. Questa cucina è attrezzata di tutto, dalle varie anfore e olle poste nell'angolo ai fornelli, alle padelle alle pentole e pentolini di bronzo, ai vari mestoli, calderone e braciere.

      L'IMPLUVIUM
      Durante la seconda guerra mondiale, il Pompejanum fu gravemente danneggiato e solo nel 1960 restaurato e completato in più fasi. Dal 1994 qui si possono ammirare opere d'arte originali romane provenienti dalle collezioni di Staatliche Antikensammlung e Glyptothek di Monaco. 

      Oltre alle sculture in marmo di epoca romana, piccoli bronzi e vetri contano due rare dee marmoree delle opere più preziose. Ed ecco il triclinio, a tre letti come d'usuale, con il tavolinetto centrale, il pavimento di marmo e le pareti molto decorate. Le stanze della casa sono situate attorno ad un atrio centrale, un cortile interno aperto. 

      Oltre alle camere da letto e alla sala da pranzo al piano terra ci sono anche un'imponente sala di ricevimento, la cucina, un bagno e numerose stanze per il personale, che in genere consistevano in schiavi.

      Al piano superiore, utensili in stile romano, che possono essere visti in vetrine, danno un'idea della vita di una famiglia romana. Da luglio 2014, la Collezione di antichità dello Stato di Monaco ha emesso un diploma militare romano composto da due lastre di bronzo. Le tavole testimoniano il riconoscimento dei diritti civili romani nel 78 d.c. al soldato Ottavio dal Cohors I Cantabrorum di stanza in Mesia.

      IL TRICLINIUM
      Al piano superiore erano i salotti e le camere da letto della famiglia che possedeva la villa. Sotto la sala accoglieva i magnifici tripodi, figure e scene mitologiche alle pareti decorate anche a finto marmo e una preziosa fontanella in marmo la cui coppa è sorretta da leoncini alati.

      Il Pompejanum fu costruito per ordine di Ludovico I tra il 1840 e il 1850 modellato sulla Casa dei Dioscuri a Pompei, come sua ricostruzione.
      È stato restaurato in seguito al danno durante la seconda guerra mondiale e aperto al pubblico nel 1994.

      Il giardino esterno della villa è ornato di statue e terrazze, da un giardino pensile e da sostruzioni e fontane con mascheroni che gettano acqua dalla bocca riversandola in vaschette di marmo che si riversano poi in una grande vasca rettangolare.


      Il Pompejanum è oggi sostenuto dallo Staatliche Antikensammlungen e dalla Gliptoteca Monaco come museo delle succursali.

      Le opere d'arte antiche esposte qui in modo permanente provengono per la maggior parte dalle Collezioni statali di antichità e dalla Gliptoteca di Monaco, che intende supervisionare il Pompejanum come museo delle filiali.

      Dal 2009 le collezioni di antichità e la gliptoteca hanno anche presentato mostre speciali che cambiano ogni anno.



      L. EMILIO PAOLO MACEDONICO - AEMILIUS PAULLUS

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      TRIONFO DI LUCIO EMILIO PAOLO

      Nome: Lucius Aemilius Paullus
      Nascita: 229 a.c. Roma
      Morte: 160 a.c. Roma
      Gens: Emilia
      Consolato: 182 a.c., 168 a.c.
      Professione: Politico


      Lucio Emilio Paolo, politico e militare romano, eletto per due volte console, venne detto Macedonico per la sua famosa vittoria nella III guerra macedonica, (229 a.c. – 160 a.c.).

      Nelle Vite parallele di Plutarco venne paragonato al condottiero corinzio Timoleonte, un politico e militare siceliota che fece uccidere il proprio fratello che voleva farsi tiranno.



      LE ORIGINI

      Lucio Emilio Paolo, membro di un'illustre famiglia patrizia, e per giunta figlio del console Lucio Emilio Paolo (246 – 216 a.c.) morto a Canne, nacque verso il 229 a.c., ebbe un'istruzione molto accurata ed ebbe il cursum honorum assicurato per il nobile casato e per il famoso padre. 

      STATUA BRONZEA DI EMILIO PAOLO MACEDONICO

      IL CURSUM HONORUM

      - 194 a.c. - La prima notizia certamente datata che abbiamo su di lui è del 194 a.c., quando fu scelto come uno dei triumviri incaricati di fondare una colonia a Crotone deducendovi un corpo di legionari romani.

      192 a.c. - venne eletto edile curule e questa sua magistratura fu ricordata per la severità con cui multò molti allevatori che usavano indebitamente dei terreni del demanio, il che lo fece odiare non poco. 

      191 a.c.- venne eletto pretore e fu incaricato dell'amministrazione della provincia della Spagna Ulteriore, dove guidò la guerra contro i Lusitani (odierno Portogallo), che dopo alterne vicende concluse vittoriosamente celebrandone (forse) il trionfo. 

      BIBLIOTECA DI EMILIO PAOLO
      - 182 a.c. - Venne eletto console dopo vari e vani tentativi degli anni precedenti, probabilmente per l'ombra del fraticidio, ottenne il consolato, avendo come collega Gneo Bebio Tamfilo. Unitamente al collega Tamfilo, combatté vittoriosamente contro i Liguri e rimase in loco come proconsole anche l'anno successivo.

      - 183 a.c. - L'anno successivo fu incaricato di condurre la guerra contro i Liguri Ingauni, che esercitavano la pirateria nel Mediterraneo Occidentale. Lucio Emilio Paolo li sottomise catturandone l'intera flotta e per questo ottenne il trionfo.

      Ebbe quattro figli, due dei quali diede in adozione; uno, Publio Cornelio Scipione Emiliano, fu adottato dal figlio di Publio Cornelio Scipione l'Africano, e l'altro, Quinto Fabio Massimo Emiliano, fu adottato dai Fabii. 

      Fu membro del collegio degli auguri, ruolo che svolse da attento conoscitore e custode delle antiche tradizioni romane. Negli anni seguenti si ritirò a vita privata, occupandosi soprattutto dell'educazione dei figli, che introdusse anche allo studio della cultura greca.

      - 168 a.c. - Era ultra sessantenne quando dovette di nuovo partecipare alla vita pubblica, ma fu chiamato a salvare la patria presentandosi alle elezioni per il nuovo consolato. Memore del suo passato valore il popolo romano lo elesse nuovamente console, come collega di Gaio Licinio Crasso, durante la III guerra macedonica, per inviarlo contro il re Perseo di Macedonia che sembrava ormai imbattibile. Paolo sconfisse totalmente Perseo nella battaglia di Pidna; il re si arrese e la monarchia macedone fu abolita.


      - 167 a.c. - L'anno successivo Paolo rimase in Macedonia come proconsole. Prima di tornare a Roma, per ordine del senato, fece saccheggiare dal suo esercito settanta città dell'Epiro che avevano combattuto a fianco di Perseo. 

      Inoltre furono mandati a Roma 1000 ostaggi achei tra i quali si trovava il famoso storico di Megalopoli (la capitale dell'Arcadia) Polibio, sospettato per la sua neutralità in guerra. Lo scrittore greco fu però accolto a Roma con tutti gli onori e liberato dopo solo un anno.

      Il bottino che Paolo versò interamente all'erario (tenendo per i suoi figli, si dice, solo la biblioteca di Perseo di Macedonia) era di tale valore che permise l'abolizione del tributum, cioè della tassa sulla proprietà che i cittadini romani avevano pagato fino ad allora.

      I soldati furono però così insoddisfatti della misera parte loro riservata che crearono qualche problema al riconoscimento a Paolo dell'onore del trionfo, che però gli fu infine accordato e si svolse nell'arco di tre giorni, con una magnificenza senza precedenti a Roma.

      - 164 a.c. - Emilio Paolo venne eletto censore.

      - 160 a.c. - morì dopo una lunga malattia.

      BATTAGLIA DI PIDNA CONTRO I MACEDONI

      Dedica di Emilio Paolo nel santuario di Apollo delfico 
      (CIL I² 622 = ILS 8884):

       L. Aimilius L. f. inperator de rege Perse Macedonibusque cepet. 67
      « Lucio Emilio, figlio di Lucio, imperator, prese come bottino della sua vittoria sul re Perses e sui Macedoni ».

      L’epigrafe accompagnava la dedica di un grosso pilastro quadrangolare di marmo sulla cui sommità erano scolpite scene della battaglia di Pidna vinta nel 168 da Lucio Emilio Paolo.

      Come riferisce Plutarco (Aem. 28, 4), il pilastro era stato preparato nel santuario di Delfi per commissione di Perseo, il quale si proponeva di destinarlo a reggere una sua statua.
      Nella sua visita al santuario l’imperator romano notò il pilastro e dispose che fosse invece sormontato da una sua statua.

      È da rilevare che fra gli elementi nominali del dedicante non si fa ancora la menzione del suo cognomen, e che egli si qualifica col titolo di imperator senza alcun cenno alla sua carica di console (a. 168) o di proconsole (a. 167).

      SOLDATO ROMANO (SINISTRA) E MACEDONE (DESTRA)


      MASSIMO BLASI

      PREMESSA

      Lucio Emilio Paolo riportò tre vittorie tra il 189 e il 168: sui Lusitani (189), sui Liguri (183)e sui Macedoni (168). La questione, più volte discussa, è stata accettata per altrettanti trionfi, oppure se è stata data alcuna prova per la vittoria sui Liguri e sui Macedoni, essendo messa in dubbio l'effettiva esistenza del trionfo sui Lusitani. Solo una parte dei documenti relativi ai trionfi dall'Emilio fa cenno anche del trionfo ispanico: si tratta di un'iscrizione del fornice

      POLIBIO
      Fabianus, di un denario e di un passo di Velleio Patercolo
      1. Un'altra parte della documentazione, invece, non ne fa menzione
      2. Di questo secondo gruppo fanno parte anche i Fasti Capitolini
      (L. Aimilius L. f. M. n. Paullus II professionista co(n)S(ULE), un. DXXC [VI ]/
      ex Macedon(ia) et rege Perse per triduum / 
      IIII, II, pridie K. Decem.) Fasti Urbisalviense 
      ([L. Aimil]ius Paullus II pro co(n)S(ULE), ex Maced(onia) et rege Perse per trid (uum)/ 
      IIII, III, prid. K. Decem.).

      Credo sia eloquente il silenzio dell 'elogium Arretinum di Lucio Emilio Paolo (di età augustea): in essa l'intera vicenda spagnola di Emilio Paolo è passata sotto silenzio. Nell'elogio, lacunoso nell'ultima parte, per la quale si riesce comunque a come un riferimento alla vittoria macedonica, viene ripercorsa per tappe la carriera del personaggio, ma nella prima parte, integra e ben leggibile, manca ogni accenno alla vittoria o al trionfo sui lusitani, pur essendo ricordata nel cursus honorum la pretura, magistratura che Paolo ricoprì durante le campagne spagnole. Nonostante la "falsità" del trionfo spagnolo di Emilio Paolo sia stata riconosciuta, la genesi di questa tradizione è stata poco (se non affatto) indagata. Essa sarà oggetto della riflessione che segue.

      Il primo documento con i tre trionfi di Emilio Paolo è un'iscrizione posta sulla base di una sua statua che decorava l'attico del Fornix Fabianus, lungo la strada la via Sacra, nel punto d'ingresso orientale nel Foro Romano. Essa fu aggiunta sull'arco in occasione del restauro del 57 a.c., ad opera di Q. Fabio Massimo edile curule di quell'anno.

      Q. Fabio Massimo Allobrogico (che nel 121 aveva trionfato sulla popolazione celtica degli Allobrogi), il restauratore fece aggiungere anche quella di P. Cornelio Scipione Africano e, con buone probabilità, anche quella del costruttore dell'arco (120 ac). L'iscrizione sulla base della statua non lascia adito a dubbi d'interpretazione:

      L(uciusAem[I l]ius L(uci) f (Ilius)Paullus/
      co(n)[S(ul)II ], CENS(o),augure /
      TR [ia]umphavit ter

      DENARIO DI LUCIO EMILIO

      IL DENARIO

      Il secondo documento in ordine di tempo è un denario battuto a Roma nel 62 o nel 54 a.c. sul D / si legge PAVLLVS LEPIDVS CONCORDIA e sul R / ITER PAVLLVS (sul D è raffigurata una testa velata della Dea Concordia; sul R un trofeo militare: a sinistra vi sono tre figure per le quali è stata proposta una identificazione con il re Perseo e i suoi due figli; a destra del trofeo è un uomo in toga e con la mano destra alzata, identificato con il trionfatore Lucio Emilio Paolo: sopra e sotto il trofeo si legge TER e PAVLLVS. Ernest Babelon identificava la moneta con Paolo Emilio Lepido console suffetto del 34 ac basandosi sullo studio di Borghesi.

      Lo studioso osservava che "la leggenda Paullus ter ricorda tre trionfi di L. Emilio Paullus, dopo le brillanti vittorie in Spagna, 564 (190 a.c.), Liguria, 573 (181 a.c.) e Macedonia 586 (168 a.c.) "; poco più che altro si può aggiungere "che per la vita" Paullus ter, era stato omesso l'imperator; si trova con lo stesso significato nelle monete di Sylla, "imperator iterum". "Babelon spiegava l'errore dell'avverbio per le tre volte in cui Paolo ricevette le acclamazioni imperatorie. La moneta raffigurerebbe il trionfo macedonico di Paolo (uno dei più celebri della storia romana), ricordando però allo stesso tempo anche le altre vittorie e le relative acclamazioni imperatorie. 

      Il secondo ad affrontare la questione dell'avverbio numerale nel denario fu Theodor Mommsen, il quale, sempre sulla base del confronto con le monete d'epoca, nelle quali all'immagine del trofeo è associata la legenda IMPERATOR ITERVM, sosteneva che nel caso del nostro denario il numerale alludesse alle acclamazioni imperatorie, che furono senza dubbio tre di cui la prima datata al 190-189 (anno della vittoria-rivincita spagnola).

      Di diversa opinione era Ettore Pais, il quale lo intese come il numero delle volte in cui Emilio Paolo trionfò. Come sostegno della sua ipotesi, Pais offriva la testimonianza letteraria di Velleio Patercolo, che attestava per l'Emilio trionfi "da pretore e da proconsole" (dunque, i trionfi nel 189 e nel 181, mentre su quello macedonico del 167 si soffermava in Vel. Patercolo 9, 4-5), e l'iscrizione sulla base di una statua onoraria del Fornix Fabianus dedicato all'Emilio.

      L'assenza nei Fasti Capitolini e Urbisalvienses della menzione del trionfo spagnolo, il primo dei tre in ordine di tempo, era spiegabile per il fatto che Emilio Paolo celebri il trionfo sul monte Albano e non a Roma. L'ipotesi di Pais non regge, poiché esiste almeno un caso sicuro di trionfo celebrato sul monte Albano nei Fasti di Roma. Inoltre, come si è visto, non solo il silenzio dei Fasti ma anche quello dell'èlogium sembrerebbero escludere la proposta di Pais, non tanto per l'idea che il denario facesse riferimento ai trionfi invece che alle acclamazioni imperatorie, quanto per la difficoltà di ammettere l'esistenza storica di un trionfo sui lusitani. 

      Come Münzer e Syme hanno osservato, la forte competizione tra gentes alla metà del I secolo ac, aveva portato a termine le famiglie ad approfittare delle magistrature che ricoprivano, per fare mostra delle imprese e del prestigio di sé e delle proprie gentes, attraverso i nomi dei loro grandi antenati. Il restauro del Fornix Fabianus e la coniazione del denario riflettono proprio questa tendenza gentilizia. Senza escludere questa ipotesi anche per il passo di Vell. Pat. l, 9, 3, è possibile, in via del tutto ipotetica, pensare che la notizia del trionfo di Emilio Paolo venga pretesa in base ad un errore che Velleio Patercolo ha commesso nel riassumere una parte di LIV., 37, tanto più che le Historiae di Velleio vennero composte, come è stato appurato, in maniera piuttosto frettolosa.

      CULTO DI GOBANNUS

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      IL DIO COBANNUS

      Cobannus o Gobannus, in gallico Gobannos, era una divinità romana importata appunto dalle Gallie, un Dio Fabbro come poteva essere grosso modo Vulcano. Tuttavia i romani, che importavano i culti stranieri con grande liberalità, non lo associarono a vulcano ma a Marte, chiamandolo Mars-Cobannus.

      Si trattava probabilmente di un Dio della guerra che forgiava le armi, ma siccome i romani si consideravano figli di Marte, onoravano questo Dio in particolar modo i legionari, che vivevano in perenni battaglie. Per Roma la pace era l'eccezione e non la regola.
      Essendo i Galli un popolo guerriero, i fabbri erano importanti per forgiare armi e armature. I Galli infatti più volte invasero Roma e dai romani erano definiti il "Metus gallicus", il terrore dei Galli", terrore che scomparve con Giulio Cesare che in nove anni di guerre sottomise tutta la Gallia.

      Sembra che il nome di questa divinità appartenga al linguaggio Proto-Celtico, o Celtico Comune, un linguaggio proveniente da quello Proto-Indo-Europeo. In questo linguaggio il nome del Dio significava appunto "Il Fabbro".
      Alcune statue a lui dedicate sono ritrovate insieme a un calderone di bronzo dedicato a Deus Cobannos, alla fine degli anni '80, ed esportate illegalmente negli Stati Uniti, ora nel Getty Museum nel Getty Center, in California. Divinità mai restituita come moltissime statue romane che sono in giro per il mondo.

      Il Dio è menzionato in un'iscrizione trovata negli anni '70 a Fontenay-près-Vézelay Francia centro settentrionale), dove si legge:

      AVGusto SACrum deO COBANNO, cioè dedicata ad Augusto e al Dio Cobannus.

      LA TAVOLETTA DI BERNA
      Importante fu soprattutto il ritrovamento della tavoletta di zinco di Berna o "Tavoletta Gobannus", una lastra metallica trovata nel 1984 a Berna, in Svizzera, analizzata solo dopo la morte dell'operaio che aveva trovato e rimosso la tavoletta dal suo sito. 

      Poiché l'iscrizione consiste di quattro nomi propri, può essere considerata una lingua gallico-latina. 

      L'epigrafe appare scritta in gallico, ed è composta da quattro parole, formate da piccoli punti impressi sul metallo:

      ΔΟΒΝΟΡΗΔΟ ΓΟΒΑΝΟ ΒΡΕΝΟΔΩΡ ΝΑΝΤΑΡΩΡ ( Dobnoredo Gobano Brenodor Nantaror )

      La mescolanza di lettere greche e latine è attestata anche da un certo numero di monete gallo-romane. 

      La dedica è a Gobannus, Brenodor è probabilmente un toponimo, Brenno-duro "città di Brenno (Brenin deriva dal celtico brigantinos, che significa "preminente, eccezionale"), come Salodurum (oggi Soletta, che ospitava un distaccamento della XXII Legione, di stanza a Magonza, in Germania. Secondo le iscrizioni, vi era un tempio di Giove, un tempio di Apollo Augusto e un altare alla Dea dei cavalli Epona), e come Vitudurum (oggi Winterthur, dove fu trovata l'iscrizione:

      IMPerator) CAESar Gaius AURElius VALerius DIOCLETIANUS PONTifex MAXimus
      GERmanicus MAXimus SARmaticus MAXimus PERSicus MAXimus 
      TRIBunicia POTestate XI IMPerator x COnSul V Pater Patriae PROCOnSul ET
      IMPerator CAESar) Marcus AURelius VALerius MAXIMIANus PONTifex MAXimus 
      GERmanicus MAXimus SARmaticu MAXimus PERSicus MAXimus TRIBunicia POTestate X 
      IMPerator VIIII COnSul IIII Pater Patriae PROCOnSul Pii Felices INVicti AUGusti ET 
      VALerius CONSTANTIU ET GALerius VALerius MAXSIMIANUS NOBILISSimi CAESariS MURUM VITUDURENSEM A SOLO SUMPTU SUO FECERunt AURELIO PROCULO 
      Viro Perfectissimo PRAESidie PROVinciae CURANTE

      L'imperatore Gaio Aurelio Valerio Diocleziano, Germanico Massimo, Sarmatico Massimo, Persiano Massimo, proclamato nell'XI anno della sua potestà tribunicia, per la X volta insieme alla moglie, console per la V volta, padre della patria, proconsole, pio, felice, vittorioso imperatore, 
      e Valerio Costanzo e Galerio Valerio Massimiano, nobilissimi Cesari, costruirono il ​​muro del forte di Vitudurum unicamente a loro spese sotto la supervisione di Aurelius Proculus, il perfettissimo curatore e governatore provinciale).

      La tavoletta è fatta di zinco, per cui all'inizio venne considerata un falso, dato che la produzione di zinco non è attestata in questa regione prima del XVI sec.. 

      La lega però era diversa dallo zinco moderno, contenente piombo e ferro, oltre a tracce di rame, stagno e cadmio. Venne raccolto da una fornace, dove il metallo veniva aggregato, una lega che Strabone (64 a.c. - 24 d.c.) chiama pseudoarguros "finto argento".

      Nel 1546, Georg Agricola scoprì che un metallo bianco poteva essere raschiato via dalle pareti di una fornace quando i minerali di zinco venivano fusi), ma si ritiene che di solito fosse gettato via come inutile. 

      Poiché la tavoletta è dedicata al Dio dei fabbri, è improbabile che tali resti di zinco venissero raschiati da una fornace e raccolti dai fabbri considerandoli particolarmente legati alla divinità, visto che la tavoletta è dedicata al Dio dei Fabbri.

      STRABONE
      Secondo le scarse informazioni a disposizione dell'archeologo Rudolf Fellmann (1925-2013 - membro della Archeologia Provinciale Romana che si occupa dei ritrovamenti romani nelle province romane), è stato trovato nella foresta di Thormenboden in un contesto gallo-romano, con tegole romane reperite a una profondità di circa 30 cm. 

      Ora noi sappiamo che i romani amavano onorare anche gli Dei stranieri, ma non sappiamo come e dove fosse onorato questo Dio un po' Marte e un po' Cobanno. Di certo la statua reperita che vediamo sopra (di circa 53 cm) è di squisita fattura romana e non gallica, assimilabile un po' alle romane figure dei Lari come stile di bronzistica, quindi del I sec. d.c., e certamente doveva avere in mano una lancia, e magari uno scudo dall'altro lato, simile un po' alle Minerve romane senza armature ma con lancia e scudo.

      Tutto ciò per dire che questa divinità doveva essere divenuta romana a tutti gli effetti, probabilmente reperita nell'Italia settentrionale, la zona gallica di più antica conquista e romanizzazione. 
      Giulio Cesare assoldò parecchi galli mercenari per la sua Guerra Gallica (la prima volta che i romani assoldavano militari stranieri), perchè anche se totalmente inferiori come razionalità, pertanto poco capaci di disciplina e organizzazione, avevano un grande coraggio in battaglia nell'affrontare la morte. Questo coraggio i romani lo apprezzarono e onorarono di conseguenza il Dio che glielo infondeva.


      BIBL.
      - Rudolf Fellmann - La Svizzera in epoca romana.
      - Rudolf Fellmann - Die Zinktafel von Bern - Thormebodenwald und ihre Inschrift. In: Archäologie Schweiz 14/4 (1991). S. 270-273
      Rehren Th. (1996) A Roman zinc tablet from Bern, Switzerland: Reconstruction of the Manufacture, in Archaeometry 94

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