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CARISTIA - CARA COGNATORUM (22 Febbraio)

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OFFERTE AI DEFUNTI

LE FESTE DEI VIVI E DEI MORTI

Il 13 febbraio comincia la serie di nove giorni dedicati ai morti che comprende:
- le feste Parentalia (feste funebri per i parenti defunti), 
- le feste Feralia (feste per i defunti in genere). 
- le feste Caristia o Cara cognatorum che si celebra il 22 febbraio e che è anch'essa una festa di famiglia.

La festa Caristia, detta pure Cara Cognatorum è del tutto privata e familiare e Ovidio parla di semplici offerte di sale e vino che ciascuno fa sul sepolcro di famiglia, perché "parva petunt Manes". Le Caristia sono dunque celebrate dopo i Feralia. La cerimonia si conclude poi nei Parentalia in onore degli antenati morti e le famiglie si riuniscono in una festa comune. 

In questi giorni i riti sono celebrati tra parenti e sono interdette tutte le normali attività della vita quotidiana (cessano gli affari, non ci si può sposare, i templi sono chiusi). Si tratta in tutto di nove giorni, alcuni sostengono che la ragione risiedesse nel fatto che nove erano anche i giorni che intercorrevano ordinariamente tra la morte e la sepoltura. 

Naturalmente è errato, se non altro perchè massimo dopo due giorni il cadavere avrebbe puzzato... come un cadavere. Invece il nove era il numero sacro per i riti più arcaici della Grande Madre nei suoi aspetti sia vivificanti che mortiferi.

I riti per i morti secondo la tradizione romana risalirebbero a Enea, personaggio particolarmente devoto nei confronti dei genitori. Naturalmente ciò veniva sostenuto perchè i romani sostenevano di discendere dai gloriosi troiani e pertanto la figura del capostipite era particolarmente venerato.
(Ov. Fast. 2, 657)

Il 22 febbraio, giorno delle Caristia, i parenti si riuniscono per ricordare i morti della famiglia e ne approfittano per rinsaldare i legami di parentela: si cerca di sanare eventuali discordie, si fa un censimento dei familiari vicini e lontani ancora in vita. Durante questa riunione di famiglia si mangia tutti insieme e si fanno offerte di grano, uva, favi, focacce, vino e incenso ai Lari, ai Penati ed ai defunti. In questo giorno non sono ammessi estranei in famiglia.

CARISTIA CON L'IMMAGINE DEL DEFUNTO
Sebbene sia una festa ufficiale, essendo la festa delle famiglie, viene tenuta in ambito privato il 22 febbraio di ogni anno con banchetti e scambi di doni. Le famiglie si riuniscono per cenare insieme ed offrire incenso ai Lari, le divinità domestiche. 

E' anche un giorno di riconciliazione, perchè in tale data i disaccordi vanno superati e sci si riconcilia, anche il poeta Ovidio nota satiricamente che ciò poteva ottenersi solo escludendo i membri della famiglia che davano disturbo.

In questo giorno si fanno distribuzioni di pane, vino e sportulae (piccole somme di denaro, pegni o buoni), ai clientes e pure agli schiavi, perchè i clientes e gli schiavi sono considerati un po' come familiari.

Il poeta Marziale scrisse due composizioni sullo scambio di doni per l'occasione; in uno si scusa scherzosamente con i familiari Stella e Flacco, avvertendoli che non avrebbe inviato loro nulla perché non voleva offendere coloro che si aspettavano regali dalla sua parte ma che non ne avrebbero ricevuti.

Il desco familiare è assimilato all’ara sacrificale e alla terra feconda, in quanto offre i cibi e tale prerogativa lo rende in grado di riunificare le forze spirituali che rischiano di disperdersi o che si contrastano. "Convivium etiam sollemne maiores instituerunt idque Caristia appellaverunt" (Valerio Massimo, Factorum et dictorum memorabilium libri, II, 1, 8)


Diversamente dalle feste pubbliche, i Caristia, in qualità di feste osservate privatamente potevano eseguirsi nei giorni con numeri pari sul calendario romano. La Cara Cognatio restò nel calendario anche quando l'impero romano era divenuto cristiano. Nel calendario dello scrittore romano Polemio Silvio del 449 d.c. alla festa viene aggiunta la commemorazione del seppellimento dei santi Pietro e Paolo. 

Fino al VI secolo si proseguì a fare banchetti familiari offrendo cibo ai defunti, in alcune zone si lasciava un posto libero nel banchetto dedicato all'ultimo defunto della famiglia (oppure al defunto più caro o all'avo ritenuto più protettivo), apparecchiandogli il piatto come commensale invisibile a cui venivano dedicati anche dei brindisi.

La Chiesa però mal tollerava i residui delle feste pagane ritenute peccaminose e diaboliche, per cui con il Concilio di Tours nel 567 venne considerata profanazione la festa della Cara Cognatio in quanto si sovrapponeva a quella che era diventata la festa di san Pietro, quando in realtà era avvenuta la sovrapposizione della festa cristiana sulla pagana.

Il vescovo Cesario di Arles condannò l'usanza come una scusa per l'ebbrezza, la danza, i canti ed altri comportamenti indecenti, dimenticando che la festa evocava solo dei defunti e non c'erano giochi nè attori, ma solo feste familiari e commemorazione di morti. Il termine "profanazione" che nulla aveva a che vedere fu però quello che fece decadere la festa immediatamente, perchè di per sè era un reato che comportava la pena di morte. Naturalmente per la sua intransigenza il vescovo fu fatto santo.


TERMINALIA (23 Febbraio)

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LA FESTA DELL'ERMA

IL DIO TERMINE

Plutarco ci tramanda che Termine era l’unica divinità romana che rifiutava i sacrifici cruenti e accettava in dono solo foglie e petali di fiori per ornare i suoi simulacri. La realtà è che Termine era un Dio antichissimo e che in quei tempi arcaici gli animali non venivano sacrificati agli Dei che erano percepiti tutto sommato più benigni.

Termine era il figlio della grande Madre Aer, da cui l'appellativo di Aeris dato a Giunone, La Dea aerea o celeste era spazio e tempo illimitati, eterna e infinita come il cielo, ma partorì, naturalmente da vergine, il figlio Termine, relativo quindi ai cicli stagionali poiché era il figlio-vegetazione della Madre Natura, ma in qualità di termine poneva limiti e confini, alle proprietà terriere ma pure alla vita. Del resto anche le stagioni avevano limiti che incidevano sull'agricoltura e sulla vita di uomini ed animali.

Il Dio poneva dunque un termine, ovvero dei confino alla Dea del cielo infinito, per cui doveva avere i suoi simulacri sotto al cielo. In qualità di Dio che stabilisce i confini si può comprendere l''importanza che avesse nella antica vita agricola dei latini e dei romani. Il rispetto dei limiti era dunque rispetto tanto delle leggi che dei confini, che venivano posti ritualmente in nome della divinità.

TUTTO HA UN TERMINE
Il re Numa Pompilio, come narra Dionigi di Alicarnasso, ordinò a tutti i cittadini di delimitare i confini dei propri campi ponendovi delle pietre e consacrandole a Zeus Horios (Giove Terminus), e stabilì che "se qualcuno avesse tolto o spostato i confini divenisse Sacer", cioè consacrato al Dio come vittima sacrificale. Chiunque lo incontrava poteva ucciderlo impunemente.

Ne dà conferma Festo: "Colui che, arando, abbia sconfinato nel terreno altrui sia sacro, insieme ai buoi che conducevano l'aratro ("eum, qui terminum exarasset, et ipsum et boves sacros esse"). Per giunta chi non rispettava i confini veniva perseguitato dalle Furie.

Re Numa Pompilio nelle sue leggi dichiarò che il Dio Termine vegliava sulla conservazione dei limiti e dei confini, e dopo aver distribuito la terra al popolo fissandone i confini, fece edificare un tempio dedicato al Dio sul colle della Rupe Tarpea.

Il Dio venne rappresentato nel tempio come una pietra squadrata, ma in seguito assunse sembianze umane, ma senza braccia o gambe, un'erma insomma, come quelle che si pongono sui confini, come a simboleggiare la loro inamovibilità, e che in seguito spesso raffigurarono Hermes, da cui deriva appunto la parola erma. Ma il culto sembra precedente e antichissimo.

Gellio a proposito del Dio Termine riporta un enigma tratto da Varrone: "Se una o due volte sia minore o entrambe non so, eppure mi si è detto che neppure a Giove volle far posto."
La soluzione era il Dio Termine, riferendosi ad un episodio narrato anche da Livio, secondo cui non si riuscì a rimuovere un cippo dedicato a Termine, ovvero il Dio Terminus, durante la costruzione del tempio di Giove sul Campidoglio.

Secondo Tito Livio durante la costruzione del tempio le divinità dei sacelli avevano accettato di ritirarsi, per lasciare il posto a Giove Capitolino, solo il Dio Termine rifiutò di andarsene e per quanto gli operai si adoperarono non riuscirono a svellerlo dal terreno. Allora i sacerdoti compresero che il Dio non intendeva spostarsi per cui gli fecero costruire un'edicola all'interno del tempio. Dato però che la sua effigie doveva stare a cielo aperto, fu praticata una apertura sul tetto del tempio a suo uso e consumo.

Poiché poi il Dio Termine era stato in grado di opporsi persino all'autorità di Giove, alcuni auguri predissero che i confini dello stato romano non sarebbero mai receduti. Termine fu dunque una divinità indipendente che vegliava sui confini dei poderi e sulle pietre terminali, ma non solo di ogni terreno, bensì pure sui limes dell'Impero Romano.

Termine divenne così un epiteto di Giove, come protettore di ogni diritto e di ogni impegno, ma non fu così all'inizio del culto, come molti pensano, bensì fu una sua evoluzione che non ebbe però molto seguito.

FESTE TERMINALIA

LE TERMINALIA

La festività dei Terminalia era celebrata il giorno prima del Regifugium, l'ultimo giorno dell'antico anno romano, termine dell'anno romano e, anche quando fu aggiunto il mese intercalare di Mercedonius, gli ultimi cinque giorni di febbraio furono aggiunti al mese intercalare, rendendo il 23 febbraio l'ultimo giorno dell'anno.

Quando Cicerone in una lettera ad Attico dice: Accepi tuas litteras a.d. V Terminalia ("ricevetti la tua lettera il 19 febbraio), egli definisce così la data, poiché, trovandosi in Cilicia, non sapeva se in quell'anno fosse stato inserito il mese intercalare.

Il 23 febbraio, ultimo mese dell'anno nell'antico calendario, si celebravano le feste Terminalia,  cioè delle pietre terminali, su cui si ponevano una corona e una focaccia offerta al Dio.
La festa chiudeva infatti l'anno permettendo l'arrivo dell'anno nuovo, ma pure ribadiva i vecchi confini sia dello stato romano sia del privato possessore di terre.

Durante le feste Terminalia si consacravano ritualmente le pietre di confine, e i sacerdoti ne prendevano nota riportando il tutto negli archivi. Durante la festa i partecipanti ponevano corone e offerte presso i cippi che delimitano i confini. Come già si è detto, non venivano eseguiti sacrifici cruenti perchè in era primitiva e matriarcale non se ne facevano, come fa notare lo stesso Erodoto.

Mentre anticamente gli venivano offerte, durante le feste, di frutta, di latte e di vino, in seguito però gli vennero offerti agnelli o porcellini da latte. Per santificare il confine si strofinava sul cippo il sangue della vittima sacrificata. I proprietari di terreni limitrofi ponevano ghirlande sul cippo, vi ponevano un altarino su cui accendevano un fuoco che veniva poi spento col vino bruciandovi una piccola parte del cibo della festa.

Durante la festività, tutti i proprietari di due terreni adiacenti incoronavano la statua che separava le loro proprietà con ghirlande e innalzavano un altare grezzo, in genere di pietre sovrapposte o in legno, sul quale offrivano grano, miele e vino e sacrificavano un agnello o un lattonzolo (cucciolo del maiale). La cerimonia si concludeva con il canto delle preghiere al Dio. Ciò contribuiva pure a rinsaldare i rapporti tra i confinanti.



LA FESTA PUBBLICA

Una festa pubblica in onore di Termine, a spese dello stato, veniva celebrata presso la pietra miliare del VI miglio sulla via Laurentina (via che portava a Laurentum), limite originario dell'estensione del territorio di Roma in quella direzione, dove sorgeva il tempio dedicato alla divinità.

Le libagioni sacrali e pubbliche per il Dio Termine si erano usate anche indipendentemente da ogni altro sacrificio, e consistevano in vino non mescolato, ma anche latte, miele e melassa diluiti con acqua, che venivano offerti alla folla che ne riempiva i propri bicchieri per partecipare alla libagione pubblica. Nei tempi più antichi si bruciavano vari tipi di legno profumato, come cedro, fico, vite e legno di mirto, sugli altari del Dio. Successivamente a questi profumi si usò bruciare anche gli incensi provenienti dall'oriente.

Nella festa pubblica non mancavano le danze e le musiche con le bancarelle cariche di cibi e dolci. Anche il tempio del Dio e gli incensieri ai sue lati sopra la scalinata venivano addobbati con ghirlande, festoni e nastri con scritte augurali.

FALERII VETERES E NOVI (Lazio)

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FALERII NOVI - IL MUSEO
Falerii Veteres, era il nome una città dell'Etruria, appartenente alla cosiddetta Dodecapoli Etrusca. In seguito alla sua distruzione ad opera dei Romani, fu nuovamente ricostruita da questi in altro sito, con il nuovo nome di Falerii Novi.

Falerii o Falerii Veteres (ora Civita Castellana) era una delle dodici città principali dell'Etruria, situata a circa due km a occidente dell'antico tracciato della via Flaminia, ca. 50 km a nord di Roma. Secondo una leggenda, era stata fondata da coloni provenienti da Argo, infatti, come affermava Strabone, erano Falisci, una stirpe ben diversa dagli Etruschi come è stato dimostrato dalla lingua delle iscrizioni reperite in loco.

Secondo la leggenda fu il greco Halaesus o Aleso il fondatore di Falerii Veteres. Figlio di Agamennone, re di Micene, e della bella schiava di guerra Briseide, già profondamente amata da Achille ed a lui sottratta con forza per Agamennone, fuggì dopo l'uccisione del padre, approdò sulle coste tirreniche e risalì il Tevere sino a Falerii Veteres.
«Halaesus a quo se dictam terra falisca putat»
(Ovidio, Fasti (IV,73))

FALERII - TERRACOTTA DI ALESSANDRO MAGNO
Secondo lo storico Dionigi di Alicarnasso Falerii fu fondata dai Siculi, a cui successero i Pelasgi, la gente misteriosa venuta dal mare che vi si insediò amalgamandosi pian piano con gli oriundi.
E' probabile però che Falerii, trovandosi per secoli sotto l'influenza etrusca, abbia fatto parte, in epoca tarda, della lega etrusca, quando le prime locumonie dell'Etruria meridionale caddero contro Roma.

Le guerre fra Roma e i Falisci furono frequenti. Secondo una leggenda un maestro di scuola falisco voleva consegnare i suoi ragazzi a Marco Furio Camillo (446 a.c. circa – 365 a.c.) come ostaggi; ma questi rifiutò, e subito dopo gli abitanti della città, vista l'onestà e la sensibilità di Camillo, si arresero.  

Tuttavia i Faleriani non dovevano essere molto convinti della dominazione romana, perchè alla fine della prima guerra punica si sollevarono, ma la città fu subito riconquistata (241 a.c.) dai romani che per punizione le tolsero metà del loro territorio.


LA PORTA DI GIOVE
Ci furono ancora due guerre tra Falerii e Roma, vinte ovviamente dalle legioni romane. A seguito dell'ultima guerra, Falerii fu distrutta, ricostruita in pianura e battezzata Falerii Novi.

La ragione della sua ricostruzione stava nel fatto che i romani desideravano sempre, dopo aver sconfitto il nemico, dargli nuove e migliori possibilità di sopravvivenza e romanizzarli.

Pertanto la ricostruirono in pianura, dove gli scambi commerciali erano più facili e dove non c'era più bisogno di rifugiarsi sulle alture per difendersi dai nemici, perchè i nemici non riuscivano ad arrivare così addentro al suolo italico, e per giunta erano proprio le strade in pianura che permettevano un facile e più celere spostamento degli eserciti.

STATUA DI ARIANNA
Il perimetro della città era di 2.108 km, la sua forma è approssimativamente triangolare e le mura sono un esemplare notevolmente fine e ben conservato di architettura militare romana.
Secoli dopo si tornò al sito sull'altura, quando era caduto l'Impero Romano d'occidente e stava arrivando il buio e pericoloso medioevo.

Dopo questi eventi Falerii appare raramente nella storia. Divenne una colonia (Junonia Faliscorum) forse sotto Augusto. Ci furono vescovi di Falerii fino al 1033, quando cominciò la desertificazione del posto a favore del sito attuale e l'ultima menzione data al 1064.

Giovanni Zonara, uno studioso bizantino del XII secolo afferma che la città antica, costruita su una collina ripida, fosse stata distrutta ed un'altra costruita su un luogo più accessibile in pianura. La descrizione dei due luoghi concorda bene con la teoria diffusa che la città originale occupasse il sito dell'attuale ''Civita Castellana e che le rovine di Falerii Novi siano quelle della città romana che era stata così trasferita di ca. 5 km a nord-ovest".

RESTI DEL TEATRO DI FALERII NOVI

IL SITO

Il sito originale di Falerii è un pianoro, di circa 1100 metri x 400, a ca. 140 m s.l.m. come il territorio circostante, ma separato da gole profonde più di 60 m e collegato solo dal lato occidentale, fortemente fortificato con un terrapieno ed un fossato.

Il resto della città era difeso da mura costruite in grandi blocchi rettangolari di tufo, di cui ancora esistono dei resti. Nel punto più alto della città antica, detta Scasato, sono stati trovati i resti di un tempio nel 1888; altri ne sono stati trovati nel tempo.

Falerii aveva infatti una serie di sacri complessi, il più antico dei quali è rappresentato dal santuario di Celle, sorto in un luogo di più remota venerazione e che ebbe un lungo arco di vita dal periodo Orientalizzante sino ad epoca ellenistica.

Il tempio, che si innalzava su un podio e montava un ricco apparato di copertura costituito da terrecotte architettoniche policrome, presentava sul fondo una cella a pianta tripartita destinata alle statue di culto. Si ritenne di poterlo identificare con il tempio di Giunone Curite, detto tempio Celle, che della città era la somma Dea.

Altri santuari urbani si trovavano in località Vignale e Scasato: in contrada Vignale i templi dovevano essere addirittura due (tempio "grande" e tempio "piccolo"), costruiti in epoca arcaica (fine VI secolo a.c.) sopra un'altura nella quale sorgeva la città dalle origini elleniche.

LE ANTICHE MURA
Gli scavi del XIX secolo guidati dal Mengarelli e dal Pasqui scoprirono numerose terracotte architettoniche che potevano appartenere a una coppia di sacelli, oppure a un solo edificio più volte ridecorato nel corso del tempo. 

Sull'altura furono anche rinvenute due cisterne, una delle quali fu impiegata come scarico per le terrecotte templari cadute in disuso in concomitanza con l'abbandono del sito in epoca ellenistica. Dai depositi votivi provengono invece ex voto fittili per lo più a testa umana, sia maschile che femminile, nonchè parti anatoliche offerte in ringraziamento per l'avvenuta guarigione.

La divinità doveva anche proteggere le nascite, visti i piccoli votivi di infanti in fasce, mentre una coppa attica con iscrizione dedicatoria ad Apollo potrebbe indicare anche la presenza del culto al Dio. 

Una splendida decorazione ornava abbelliva anche il frontone del tempio cosiddetto dello Scasato (IV-III secolo a.c.), situato sul pianoro di Civita Castellana.


Il tempio di Giunone di cui ignoriamo la pianta, doveva comunque presentare una fronte con colonne a fusto scanalato stuccate e colorate. Aveva poi il suo bel frontone con terracotte policrome.

Fra le sculture in terracotta spicca l'immagine di Apollo, il quale occupava con la sua apparizione divina una delle placche frontonali che nel modello di tempio tuscanico nascondevano l'estremità, altrimenti a vista, dei travi angolari del tetto. La figura divina, con almeno altri sette personaggi, era protagonista di un episodio legato a un mito non identificato. 

L'elevato livello delle maestranze artefici del programma decorativo risente dell'ellenismo greco e dei suoi massimi rappresentanti nella scultura a tutto tondo (Lisippo, Skopas e Prassitele). 

Tali maestri si scorgono pure nei frammenti frontonali di un secondo tempio che sorgeva poco distante (in particolare una testa fittile di Zeus).

Queste costruzioni erano di legno, in genere misto a fango col tetto in argilla e con fini decorazioni di terracotta colorata. Anche se l'attribuzione è dibattuta, la presenza del tempio dedicato a Giunone, di epoca arcaica, è attestata da fonti documentali di epoca romana.


Durante il IV secolo a.c. l'imponenza del tempio di Giunone Celle si rivela anche attraverso il grandioso basamento sul quale era impostato l'alzato, articolato secondo la consueta tripartizione spaziale nel lato posteriore. Della decorazione frontonale, che forse riguardava entrambi i lati brevi dell'edificio, rimangono parti di alcune figure in terracotta. Anche l'altro santuario, quello dei Sassi Caduti, dedicato a Mercurio, per il quale fu scelto come luogo un terrazzamento naturale nei pressi del Rio Maggiore, fu al pari degli altri oggetto di cure continue, come documenta il fatto che il suo apparato di rivestimento in terracotta venne più volte sostituito. Frequentato almeno a partire dal principio del V secolo a.C. e fors'anche in precedenza, esso fu a lungo visitato sino ad epoca ellenistico-romana.

Numerose tombe tagliate nella roccia sono visibili da tutti i lati della città e vi sono state fatte scoperte importanti; molti oggetti provenienti sia dai tempi che dalle tombe sono nel Museo di Villa Giulia a Roma. Ritrovamenti simili inoltre sono stati fatti a Calcata, una decina di km a sud ed a Corchiano, una decina di chilometri a nord-ovest.

La via Flaminia non attraversava Falerii Veteres ma aveva due stazioni di posta nelle vicinanze, una ad Aquaviva, a circa 5 km a sud est ed una a Aequum Faliscum, ca. 6 km a nord-nord-est.

L'Aequum Falisco è molto probabilmente lo stesso sito Etrusco che G. Dennis (Cities and Cemeteries of Etruria) identificava con Fescennium, un'antica città falisca al confine tra Etruria e Lazio, forse vicina all'attuale Corchiano in provincia di Viterbo dove sono stati rinvenuti reperti dell'VIII secolo a.c.

Secondo lo storico Dionigi di Alicarnasso Fescennium fu fondata dai Siculi, vi si insediarono poi i Pelasgi ed infine i Falisci.

Fu a lungo la capitale dei Falisci, fiorì maggiormente nel VI secolo a.c. per una forte ellenizzazione, soprattutto dei coroplasti, gli artigiani produttori di oggetti o statue in terracotta. 

La città fu alleata degli Etruschi contro i Romani che ne occuparono il territorio nel 241 a.c. I suoi abitanti insieme a quelli della vicina Falerii Veteres (attuale Civita Castellana) furono trasferiti nella colonia di Falerii Novi.

A essa fa riferimento il grammatico Festo quando ci fornisce una delle possibili etimologie dello stile poetico dei versi fescennini in base alla quale essi fossero chiamati così perché nati proprio nella città falisca.



Durante il IV secolo a.c. l'imponenza del tempio di Celle si comprende anche per il grandioso basamento sul quale sorge l'alzato, con la consueta tripartizione sul lato posteriore. Della decorazione frontonale, che forse riguardava entrambi i lati brevi dell'edificio, rimangono parti di alcune figure in terracotta.
Anche l'altro santuario, quello dei Sassi Caduti, dedicato a Mercurio, per il quale fu scelto come luogo un terrazzamento naturale nei pressi del Rio Maggiore, fu più volte restaurato e rimaneggiato, come documenta il fatto che il suo rivestimento in terracotta venne più volte sostituito. Frequentato almeno a partire dal principio del V secolo a.c., se non prima, fu a lungo venerato fin oltre l'epoca romana.
Il sito archeologico della città etrusca dipende ora dalla Soprintendenza per i Beni Archeologici per l'Etruria meridionale. È su una strada che forse potrebbe essere la via Annia (cfr. H Nissen, Italische Landeskunde, ii. 361), una deviazione della via Cassia; questa strada si avvicina da sud venendo da Nepet (Nepi), mentre il suo proseguimento a nord certamente prende il nome di via Amerina, la via che conduceva ad Amelia. 

VICUS CYPRIUS - VICUS SCELERATUS

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TULLIA E SERVIO TULLIO - PIRANESI
Il vicus Sceleratus, già vicus Urbius, sarebbe la prosecuzione del Vicus Cyprius, come testimoniano diverse fonti degli antichi tra cui Tito Livio e Varrone, su questo tutti concordano, ma vi è discordia sulla locazione dei due vicus.


CLIVUS CYPRIUS - LE INTERPRETAZIONI LOGISTICHE

Strada NO/SE che dalla valle del Colosseo porta alla Subura (via del Cardello-via del Colosseo
-Jordan, Hülsen 1907 
- Platner, Ashby 1929 
- Lugli 1946 
- Pisani Sartorio 1993 
- Coarelli 1999, 2001, 2003

Strada NO/SE, che dall’area del Foro porta alle pendici dell’altura di S. Pietro in Vincoli 
- Rodrìguez Almeida 1993

Strada NE/SO che dal Tigillo Sororio porta all’altura di S. Pietro inVincoli (via della Polveriera)
- Carandini 1990 
- Terrenato 1992 
- Nostra ipotesi

Strada NE/SO alle pendici SE della Velia, che porta dalla Sacra via al Compito Acilio.
- Palombi 1997

Strada SO/NE che dalla Subura porta all’altura di S. Pietro in Vincoli (via del Tempio della Pace-via Frangipane
- Ziolkowski 1992, 1996

VIA LEONINA

CLIVUS ORBIUS-URBIUS / SCELERATUS

Strada NE/SO che dalla Velia porta all’altura di S. Pietro in Vincoli (via di S. Pietro in Vincoli = via Frangipane)
- Stara Tedde 1907 
- Jordan, Hülsen 1907
- Platner , Ashby 1929 

Strada basolata rinvenuta in corrispondenza di via di S. Pietro in Vincoli (via di S. Pietro in Vincoli =via Frangipane)
- A. Carandini 1990
- Terrenato 1992

Strada NO/SE che dalla valle del Colosseo porta all’Oppio (via del Fagutale)
- Ziolkowski 1992, 1996, 2004

Strada E/O che conduce dal Compito Acilio all’Oppio
- Palombi 1997

Strada NE/SO che dal Templum Pacis portaall’altura di S. Pietro in Vincoli (via del Tempio della Pace)
- Coarelli 2000

VICUS SCELERATUS (SCALINATA DEI BORGIA)

IL NOME

Varrone chiarisce il motivo della presenza di tale nome nella Roma antica: "Vicus Cyprius a cipro, quod ibi Sabini cives additi consederunt, qui a bono omine id appellantur: nam cyprum Sabine bonum..." (Varr. L. L. 5, § 159 Mull.; cf. Liv. 1, 48, 6.).
"Quello che chiamano Cyprius viene da cyprum, parola sabina che significa 'di buon auspicio', perchè i Sabini, dopo l'unione dei due popoli, si stabilirono in quel quartiere e gli dettero questo nome, come di felice augurio. Appresso sta il Vicus Sceleratus, il cui nome ricorda l'empia Tullia che ordinò al cocchiere di passare sul cadavere del padre".

La denominazione del vicus Cyprius, secondo Calderini, è da ricondurre invece al nome della Dea Cupra. La denominazione, secondo Giovanni Colonna, che scaturisce dalla nota interpretativa di Varrone, risulterebbe confermata dalle iscrizioni sud-picene.



LA LOCAZIONE

"La piazza della Suburra è all'incrocio di due antiche e nobili vie romane, l'antico vicus Praticius che oggi è la via Urbana e il vicus Cyprius che è l'attuale via Leonina, nel vicus Patricius vi erano le abitazioni dei senatori, dei nobili, e di ricchi signori, mentre nel vicus Cyprius, vi era il quartiere dei librai, delle biblioteche, della gente colta".
Via Leonina (R. I – Monti) (da via dei Serpenti a Piazza della Suburra)
"da varie marmoree teste di leone molto antiche esistenti in diversi punti della medesima via” (?)  È l’antico “Vicus Cyprius”. (Alessandro Rufini - 1847).

La scalinata dei Borgia, nel Rione Monti, area del colle Oppio, inizia dalla via Leonina presso piazza della Suburra con pochi gradini, viene interrotta da via Cavour e prosegue con la scalinata di via San Francesco di Paola, contenuta da alti muraglioni. A metà della scalinata la via è sovrastata dal palazzo dei Borgia, oltrepassato il quale si arriva a piazza San Pietro in Vincoli e alla Basilica di San Pietro in Vincoli. Il primo tratto della scalinata sarebbe il "Vicus Cyprius". Il secondo tratto della scalinata di via San Francesco di Paola ricalcherebbe l'antico "Vicus Sceleratus" ricordato per la figlia di Servio Tullio che con il cocchio passò sul cadavere del padre, prima della scala dell'arco dei Borgia.


La Leggenda, oppure La Storia

Servio Tullio, VI Re di Roma, fece sposare le due figlie entrambe di nome Tullia con i figli del suo predecessore Tarquinio Prisco, Aronte e Lucio Tarquinio, pacifico il primo, ambizioso e prepotente il secondo. Anche le due figlie di Servio Tullio erano una mite, l'altra ribelle. Quest'ultima, stanca del marito Arunte, che considerava inetto ed incapace, conquistò il cognato Lucio Tarquinio, più coraggioso e violento. La malsana coppia decise di uccidere i rispettivi cognati e quindi si sposarono, ma dopo il duplice delitto vollero uccidere anche Servio Tullio. 

Lucio Tarquinio colpì Servio Tullio che ruzzolò per i gradini della curia, finito poi dai sicari di Tarquinio. Tullia, arrivata nei pressi del Senato chiamò Lucio Tarquinio che le intimò di allontanarsi. Tullia obbedì risalendo con il cocchio il vicus Cyprius, però alla curva dell'imbocco l'auriga si arrestò davanti al cadavere di Servio Tullio, ma la donna prese le redini e passò sul cadavere del padre.

VIA DEL COLOSSEO
- Sant'Andrea de Portogallo era una Chiesa del Rione Monti situata dove oggi sorge Santa Maria della Neve, lungo Via del Colosseo. Questa zona era detta "ad Busta Gallica", perché qui nel 390 a.c. vennero cremati i corpi dei soldati Galli (bustum = crematorio), e fu qui che Papa Innocenzo III Conti di Segni (1198-1216) realizzò un monastero dedicato a Sant'Andrea, che presto venne chiamato "de Portogallo" come corruzione di Ad Busta Gallica.

Nel 1607 Papa Paolo V Borghese (1605-1621) concesse la Chiesa di Sant'Andrea de Portogallo all'Università dei Rigattieri che, tra la fine del XVII e l'inizio del XVIII Secolo decisero di rifare la Chiesa, ce la facciata che era su Via del Colosseo, venne spostata all'incrocio con Via del Cardello.
Nel 1798, il nuovo edificio passò alla Confraternita del Santissimo Sacramento di Santo Stefano e Santa Maria della Neve, e per questa ragione ha preso il titolo di Santa Maria della Neve al Colosseo.


ALESSANDRO DONATI E SOCIETATE JESU - ROMA VETUS

"Jam in ascensu Esquiliarum occurrunt CYPRIUS & SCELERATUS vicus. Ille a Ciprus dictus; quod teste Varrone:  'ibi Sabini Cives additi consederunt, qui a bono omine id appellarunt. Nam Cyprum sabine bonum. Propre hunc Vicus Sceleratus a Tullia Tarquinii superbi uxore, quod ibi cum iaceret pater occisus, supra eum ut mitteret carpentum mulio iussit." 
LIVIUS: "Cum se domum Tullia reciperet, pervenissetque ad summum Cyprian Vicus ubi Dianium nuper fuit siedente carpentiam dextra in urbian clivum, ut in Colle Esquiliarum eveheretur, resistit pavidus is, qui jumenta agebas jacentemque domine Servium trucidatum ostendit: soediam inumanunque inde tradetur scelus, nomamentoque locus es.
Sceleratjum Vicum vocant, quo amens agitantibus furiis sororis ac viri Tullia per patris corpus carpentum egisse fertur. Livius quidem suboscuret Vicum eundem Cyprium & Sceleratum videtur facere".


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Il quartiere del Compitum Acili deve aver corrisposto al Vicus Cyprius, attraverso la sella tra il Velia e l'Oppio al Compitum Acili (circa 150 metri). Il bivio del quartiere e il santuario si trovava quindi alla fine del vicus, dove incontrava una grande arteria in città.

VIA DEL CARDELLO
La parte di questo tragitto immediatamente precedente S. Pietro in Vincoli è stata identificata da alcuni come il clivus Orbius o Urbius o Scelerarus, che le fonti antiche fanno risalire all'età regia: mentre per un secondo tratto, da S. Pietro in Vincoli alla porticus Liviae. si è proposto il nome del clivus Pullius. Dalla parte meridionale della porticus doveva poi dirigersi alla porta Esquilina un'altra strada, identificabile forse con il vicus Sabuci di epoca imperiale.

Per le fonti antiche il clivus Orbius viene classificato alla regione III augustea. mentre In tutte le piante ricostruttive della topografia antica è indicato nella regio IV

In base alle parole di Varrone e soprattutto di Livio: "cum pervenisset ad summum Cyprium, 
uhi Dianium nuper fuit, flectenti carpentum dcxtra in Urbium clivum. ut in collem Esquiliarum eveheretur" si viene a conoscenza di un Vicus Cyprius, trasversale al Clivus orbius. In Platner Ashby 1929, il Vicus Cyprius viene fatto coincidere con la via del Cardello e la fine della via Colosseo. nella pianta di Lugli Gisrnondi è invece più ovest. mentre in corrispondenza di Via del Cardellus è il Vicus Sandalarius."

"Tullia, comandata dal marito di lasciare il Forum, seguì la traccia del vecchio; e quando
aveva raggiunto la cima del Vicus Cyprius, e fu qui che volgendo a destra, nel Clivus Urbius, per ascendere il Colle dell'Esquilino, il cocchiere si fermò nello scorgere il cadavere
del re."


NARDINI

So che il Vico Ciprio tiensi comunemente essere stato presso la salita, che di là dal Tempio della Pace, e dal Giardino de' Pii porta a S. Pietro in Vincula. Ma in contrario essere la verità, tre ragioni a me persuadono. 

- La prima si è, che la Regia di Servio Tullio, cui il Vico Ciprio, poi per lo Scelerato si andava dal Foro, non fu, siccome nella Regione quinta spero far apparire, presso San Pietro in Vincula, ma sopra il Vico Patrizio, non lungi molto da Santa Prassede; a cui non poteva più dirittamente, e più brevemente dal Foro salirsi, che per la moderna Suburra, e la spiaggia di S. Lucia In Selce. 

- Secondariamente se a quello, che nel quarto della lingua Latina c. 3a. Varrone insegna,  si dà fede, Ciprio fu antichissimamente detto Vico a Cipro, quod ibi Sabini cives additi consederunt, qui a bono omine id appellarunt, nam Cyprum Sabine bonum.

E se l'abitarono la prima volta i Sabini aggregati a Roma con Tito Tazio, ovvero dopo con Numa, o almeno così credettero Varrone ed altri, non poterono altrimenti star sotto l'Esquilie, che al tempo di Roma e di Tazio erano ben disgiunte da Roma, e l'Esquilino fu il colle ultimo che a Roma poi si aggiungesse; nè si legge mai che i Sabini gli abitassero la falda, come ben si legge aver abitato il Quirinale con Tazio.

Così scrive Dioniso nel secondo, ed avervi abitato anche Numa, (che fu pur sabino) scrive il medesimo: la quale opinione da Varrone apportata al Vico Cipro, vera o falsa che ella siasi,  in sostanza potè a Varrone e ad altri far credere, che a piè del Quirinale, essendo stato abitato dai Sabini, fosse da' medesimi chiamato così.

- La terza è che Tullia, per relazione di Livio, dal Vico Cipro per andare al Clivo Urbio piegò a destra, e se dal Foro fosse andata verso S. Pietro in Vincula, avrebbe presso la salita piegato a sinistra. Si aggiunga quello che dal Sigillo Sororio scrive Dioniso nel terzo: "Et est in angiportu, qui a Carinis deorsum ducit ad Vicum Cyprum"; il quale angiporto, o strada se dalle Carine a Cypro andava all'ingiù, non poteva esser drizzato verso l'Esquilie, dov'è certo essere stato più alto delle Carine; dunque la parte più vicina all'Esquilie, tenendo al basso verso Torre de' Conti calava, dov'era il Vico ed oggi è la strada confinante co' Pantani, in parte delle antiche Carine la più bassa di tutte.

VIA FRANGIPANE
Così l'angiporto o strada, che dalle Carine calava al Ciprio, e con essa il Sigillo Sororio può facilmente ritrovarsi. Confinava il Vico Cipro con le Carine presso Tor de' Conti, siccome già si è affermato. Il Vico dunque, che dalle Carine tendeva al Cipro, di necessità partendosi da un capo delle Carine, per allontanarsi da esse formava un triangolo, come per appunto formasi per la strada, che oggi dal Giardino de' Pii, e dalla diritta de' Pantani va a Tor de' Conti.

Non lungi, o diversa molto da questa fu la via, o angiporto, descritto da Dioniso. Fa questa il triangolo ed imbocca nella strada della Madonna de' Monti: e se questa in parte scende, molto più scese anticamente, quando tra colle e colle i fondi erano assai più bassi, riempiti ed appianati dopo dalle rovine.

Noi però dobbiamo in ciò dar più fede a Varrone, come assai più pratico de' luoghi di Roma, ed a Livio, che brevemente si, ma distintamente in tal fatto porta la notizia di ogni luogo particolare. Ma il bivio dove potè essere ci si manifesta dal sito. Fin presso la Madonna, la strada, che anticamente fu Vico Ciprio, va sempre colle radici del Quirinale, ma ivi poi se ne allontana, addirizzata, credo io, acciò avanti alla Chiesa passasse.

Or posto, che col colle anticamente torcendo camminasse dietro alla Chiesa, ed è certo, perchè altrimenti al Clivo Urbio non avrebbe Tullia piegato a destra, ma tirato diritto, come vi si va oggi, ivi proprio incontrandosi la curva del Viminale, si offrivano due imbocchi 
di strade da una parte e l'altra del colle. 

La sinistra era quella per cui si va oggi dalla Madonna de' Monti verso s. Vitale ed a Monte Cavallo, la destra per cui si andava e si va alla moderna Suburra, ed al Clivo Urbio dell' Esquilie. Qui dunque poco lungi dal sito della Chiesa fu l' antico Dianio, che Sacello, o Tempio a Diana dedicato può giudicarsi; ed il capo del Vico Scelerato, dove Tullio dalle genti di Tarquinio cadde ucciso, e dopo dalla scelerata figlia propria calpestato, non potè essere lungi molto dalla moderna fontana, ch'è a lato della Chiesa.

VIA DELLA POLVERIERA

ANDREA CARANDINI - EMANUELE GRECO

La valle tra Velia e Fagutal era occupata da una località detta Carinae, originariamente nella
regio serviana Suburana, così definita probabilmente per il suo aspetto a carena di nave.
Poteva essere limitata dal vicus Cyprius (via della Polveriera), dalla «stradina che scende al vico Cuprio», dalla «scorciatoia per le Carinae» e dalla sua prosecuzione, che nella nostra ricostruzione corrisponde al clivus Pullius.

Il vecchio re cerca riparo nella sua casa sulle Esquilie, ma prima di guadagnarne la cima è raggiunto ed ucciso dai sicari di Tarquinio. Tullia raggiunge la sommità del vicus Cyprius. Voltando a destra in direzione del clivus Urbius, ove era il Dianium, per giungere all’Esquilino, il cocchiere mostra a Tullia il corpo di Servio e lei ordina di passarci sopra, macchiando se stessa e il carro con il sangue del padre. Il gesto nefando sarà ricordato dal nome del vicus, chiamato da allora Sceleratus.


Vicus Cyprius

Le fonti letterarie consentono di associare questo vicus al tigillum Sororium, del quale è nota l’ubicazione in quanto i Fastidegli Arvales lo menzionano «ad compitum Acili».
Il Tigillo era sulla «stradina che conduce dalle Carine verso il basso, per coloro che sono diretti al vico Cuprio».
E' verosimile ipotizzare che il punto di vista sia quello di chi si dirige dal Foro verso le Carine.
Filippo Coarelli, rifacendosi a studi dei primi del ’900, ritiene che il percorso più coerente con quanto tramandato dalle fonti letterarie sia quello di via del Cardello-via del Colosseo (vicus Cyprius) e di via Frangipane (clivus Orbius/Sceleratus), che porta al rilievo di S. Pietro in Vincoli (Oppius), ove andrebbe ricercata la residenza di Servio Tullio. 

Ma in questo caso l’incrocio tra vicus Cuprius e vicus Orbius/Sceleratus, ove Tullia avrebbe calpestato il corpo di Servio, non corrisponderebbe alla sommità del vicus Cyprius. Inoltre questo non è il tragitto più breve tra quelli che Servio avrebbe potuto percorrere dalla Curia verso la sua dimora. Se la domus privata di Servio Tullio fosse stata in cima alla collina di S. Pietro in Vincoli, il tragitto più breve sarebbe stato quello che dall’Argiletum (via della Madonna de’ Monti) portava alla sommità del rilievo di San Pietro in Vincoli attraverso il clivus Orbius – Pullius (nella nostra ricostruzione via Frangipane).



P. CORNELIO SCIPIO NASICA SERAPIO

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TOMBA DEGLI SCIPIONI

Nome: Publius Cornelius Scipio Nasica Serapio
Nascita: 183 a.c.
Morte: 132 a.c. Pergamum
Figli: Publio Cornelio Scipione Nasica Serapione
Gens: Cornelia
Consolato: 138 a.C.


- (183 – 132 a.c. Pergamum, Asia Minore), Figlio di Publius Cornelius Scipio Nasica Corculum e sua moglie Cornelia Africana Maggiore. Fu il III membro della sua famiglia ad assumere il soprannome Nasica (grande naso) e fu un apprezzato oratore. Succedette a suo padre come Pontifex Maximus nel 141 a.c., data la grande reputazione della sua familia, una delle majores e più gloriose. Fu nipote materno di Publius Cornelius Scipio Africanus.

Fu console nel 138 a.c. insieme a Decimo Giunio Bruto Callaico. Importanti figure di questa familia furono Scipio Africanus, il I conquistatore di Cartagine e molti oppositori di Tiberius Gracchus. Ma Gracco stesso era cugino di primo grado di Scipio Nasica.

Probabilmente il suo ramo della gens Scipione venne allontanato dalla maggior parte della famiglia, a causa di visioni politiche opposte sulla III Guerra Punica. Corculum si oppose all'invasione di Cartagine, mentre Scipione Emiliano era per il suo assedio. Lo storico Appiano riferisce di un misterioso "Cornelius" che sarebbe stato sconfitto dai Pannoni, riferendosi a Publio Cornelio Scipione Nasica Serapio, che nel 141 ac fu il pretore di Macedonia. I "Pannoni" dovevano essere della regione dell'Illiria, appena a sud della Pannonia.

Nello stesso anno Scipio Nasica ebbe il titolo di Pontifex Maximus, inerente alla morte del padre nello stesso anno, a causa del nome illustre della sua potente familia ma pure a causa della ottima reputazione di suo padre. Scipio Nasica Serapio fu il III membro della familia a ottenere l'agnomen Nasica (nasone).

Nel 138 ac, Nasica ebbe il consolato per rimediare alle recenti sconfitte all'estero.  Scipione Nasica per vendicare la sua sconfitta come pretore, volle aumentare le tasse, sollevando un'opposizione accanita dal tribuno Curiatius che arrestò Nasica a cui venne dato il soprannome di "Serapio" (come dire "nasone")

LA MADRE DEI GRACCHI
Scipione Nasica si fece coinvolgere nell'omicidio di Tiberio Gracco, sembra che se ne fosse vantato, nonostante fosse suo cugino, quando l'agricoltura perse di valore. Tiberio Gracco come tribuno fece leggi per sollevare la plebe dalla povertà, ma anche se la sua legislazione è stata approvata, la maggior parte del Senato essendo patrizi si allinearono con Scipione Nasica e suo cugino Scipione Emiliano, che avrebbero sobillato l'opposizione fino ad assassinare Gracco durante le elezioni in 133 a.c.

Scipione Nasica aveva riunito i senatori per porre a morte cruenta Gracco, sostenendo che il tribuno desiderava diventare re di Roma. Per commettere l'assassinio Scipione Nasica coprì la testa con il cappuccio della sua veste pontifex maximus, come ad indicare l'uccisione come un sacrificio rituale per il bene di Roma. Dopo il suo assassinio, Scipione avrebbe eliminato tutti i membri gracchiani sopravvissuti.

I popolari ritennero Scipione responsabile di omicidio, anche se gli studiosi moderni ritengono che la maggior parte del Senato sostenne entrambi gli uomini Scipio nella controversia. Finalmente il senato mandò Nasica in missione a Pergamon (Pergamo). Era un illecito, perchè un Pontifex Maximus non poteva essere mandato via da Roma. ma egli stesso volle andarsene temendo per la sua vita dai sosteniori di Gracco.

Morì poco dopo a Pergamo, forse avvelenato da agenti del partito graccano. Il figlio che ebbe nel 170 a.c. da Cecilia Metella, figlia di Quinto Cecilio Metello Macedonico e che si chiamava come lui, Publio Cornelio Scipione Nasica Serapione, diverrà console nel 111 a.c.

EQUIRRIA (27 Febbraio - 14 Marzo)

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I romani erano un popolo di guerrieri tanto è vero che la maggior parte delle loro feste erano dedicate a Marte Dio della guerra e all'arte bellica. Ben quindici festività nell'Urbe erano dedicate alla guerra, ma sarebbe da aggiungerne altre, come la Fortuna Reduce, Ercole Vincitore e così via, non a caso i romani si ritenevano i figli di Marte. Ed ecco le feste:

- 27 Febbraio - Le Equirria (anche dette Ecurria, dal latino equicurria, cioè corse dei cavalli) erano una festività romana in onore di Marte che aveva luogo il 27 febbraioe il 14 marzo di ogni anno.
Gli studiosi non sanno perché ci fossero due equirrie annuali a poco più di due settimane l'una dall'altra, ma una teoria è che queste erano le occasioni per iniziare pubblicamente ad addestrare cavalli e uomini per le escursioni militari che i soldati romani iniziavano in primavera.

- 9 Marzo - Saliorum Processio. Queste feste si ripetevano il 9 marzo, nel Saliorum Processio, la festa dei Salii, un collegio sacerdotale consacrato al culto di Marte, che facevano processioni, canti, danze e suoni guerreschi per aprire ufficialmente il periodo della guerra, che sarebbe stato chiuso con analoghe cerimonie in ottobre (October equus, Armilustrium e Ancilia condere). 

- 14 Marzo - Equirria, si ripeteva la festa delle Equirria, sempre dedicata a Marte con la corsa dei cavalli, la gara più amata dall'esercito e dai romani.

- 15 Marzo - Mamuralia. Seguivano poi, il 14 o il 15 marzo, le Mamuralia quando, secondo la leggenda, Mamurio fu incaricato da Numa Pompilio di fabbricare undici scudi identici all'Ancile, lo scudo caduto dal cielo, inviato da Marte per sancire il suo destino di Roma come caput mundi. L'Ancile era uno dei sette Pignora imperii, e le repliche servivano a prevenire il furto dello scudo originale.

AURIGA E CAVALLO
- 17 Marzo -  Agonalia Martis, in onore del Dio Marte. Corse di cavalli presso il Tevere e sul Monte Celio.

- 19 Marzo - Armilustrium, festeggiato pure il 19 ottobre in onore del Dio Mars, con la consacrazione e la purificazione delle armi. In primavera si preparava la guerra e in autunno si riponevano le armi.

- 23 Marzo - Tubilustrium, cerimonia eseguita il 23 marzo e il 23 maggio, con la quale si inaugurava la stagione dedicata alle campagne militari, con il lavaggio sacro delle trombe da guerra (tubae). La cerimonia era dedicata al Dio Marte; la seconda celebrazione avveniva il 23 maggio, ed era dedicata a Vulcano, fabbro divino, in quanto artefice delle tubae.

- 18 Aprile Ludi Martiales Circenses corse dei cavalli nel Circo Massimo in onore di Marte.

- 12 Maggio Ludi Martiales Circenses  corse dei cavalli nel Circo Massimo in onore di Marte.

- 23 Maggio - Tubilustrium, la festa era dedicata a Vulcano, forgiatore delle tubae da guerra, come dei fulmini di Giove, e come ispiratore dei fabbri che forgiavano le armi dei romani.

- 3 giugno -Templum Bellonae ad Circum Flaminium -  in onore di Bellona, Dea della guerra. Dedicatio del tempio fatto costruire nel 296 a.c. presso il Circus Flaminius, in Campus Martius, da Appius Claudius Caecus.

- 13 14 e 15 GiugnoQuinquatrus Minores -  in onore di Minerva Dea della guerra.

- 1 Agosto, Templum Martis Ultoris in Foro Augusti -  Dedicatio del tempio di Mars Ultor, Marte Vendicatore, nel Forum Augusti, costruito da Augusto dopo la battaglia di Philippi.

- 15 Ottobre - October Equus, quando si svolgeva il sacrificio equino in onore di Marte, che si celebrava  in coincidenza con la fine della stagione agricola e delle attività militari.

- 19 Ottobre - Armilustrium, In questo giorno le armi dei soldati subivano una purificazione rituale e riposte per l'inverno. La cerimonia della lustratio, si svolgeva sul colle Aventino. In questo luogo la tradizione vuole che sia stato sepolto il re sabino che regnò insieme a Romolo.

Si festeggiava pertanto il giorno dell'uscita dell'esercito romano, l'inizio della stagione delle campagne militari annuali. Lo stato romano sentiva che era importante celebrare il dio della guerra per sostenere l'esercito anche moralmente.

EQUIRRIA

LA LUSTRATIO

Nelle Equirria del 27 febbraio i sacerdoti tenevano i riti di purificazione dell'esercito, detti lustratio.
"Tutti gli eserciti romani prima di scendere in campo furono lustrati" ( Dion Cass. XLVII .38 ; Appian, Hisp. C19, Civil. IV .89), e poiché questa solennità era connessa con la revisione delle truppe, la parola lustratio è anche usata nel senso moderno della revisione (Cic. ad Att. V .20 §2). I riti abituali in tali occasioni non sono menzionati, ma probabilmente somigliavano a quelli con cui una flotta fu lustrata prima di salpare e che sono descritti da Appian ( Civil. V .96). 

"Gli altari furono eretti sulla riva e le navi con le loro truppe si radunarono in ordine vicino alla costa. Ogni corpo manteneva un profondo silenzio, e i sacerdoti in piedi vicino all'acqua uccidevano le vittime e portavano i sacrifici purificatori in piccole imbarcazioni tre volte attorno alla flotta. In questi giri erano accompagnati dai generali, ciò che pregava gli Dei per preservare l'armamento da tutti i pericoli. Allora i sacerdoti divisero i sacrifici in due parti, una delle quali fu gettata in mare, e l'altra bruciata sugli altari, mentre la moltitudine attorno pregava gli Dei" (Liv. XXXVI .42  e XXIX .27).

CORSA DELLE BIGHE

LA CORSA DEI CAVALLI

Seguivano poi le tanto attese corse dei cavalli dove fiorivano le scommesse: i romani adoravano scommettere e la mania del gioco fino alla rovina era una malattia esistente anche all'epoca, Augusto ne fu una notevole testimonianza. Le corse si tenevano probabilmente nel Trigarium, terreno di allenamento delle gare equestri posto a sud dell'ansa del Tevere, vicino all'attuale Via Giulia. Naturalmente era posto fuori dal Pomerium, i confini sacri di Roma dove appunto l'esercito in armi non poteva entrare.

Secondo altri questi ludi si tenevano nel Tarentum, luogo dove originariamente si tenevano i Ludi Tarentini, che più tardi diventeranno i Ludi Saeculares, oppure vicini all'Altare di Marte. Comunque in seguito gli Equirria vennero trasferiti nel Campo Marzio, sul Celio, al riparo dalle inondazioni del Tevere. La corsa dei cavalli avveniva con gli auriga sulle bighe (a due cavalli), con le trighe (a tre cavalli) e con le quadrighe (a quattro cavalli). Queste ultime erano piuttosto rare perchè quattro cavalli erano molto difficili da guidare, le più frequenti erano comunque le bighe.

La gente urlava e si dimenava sui sedili e sui palchi dell'anfiteatro, senatori e plebe allo stesso modo, e pure le caste vestali a cui veniva concesso il posto in prima fila. Degli schiavi giravano tra le file vendendo cuscini, vino, lupini, focacce, datteri e dolciumi.

La leggenda vuole che gli Equirria furono indetti per la prima volta da Romolo, il primo re di Roma, in onore del proprio padre, il Dio Marte, fatto testimoniato dal ritrovamento di antichi calendari romani, incisi nella pietra, dove entrambi erano raffigurati.

Ma per l'Equirria tutta la città era in festa, perchè i romani amavano le corse dei cavalli e amavano i militari, soprattutto quando vincevano, ma i legionari vincevano sempre, o quasi sempre. Roma apriva tutte le sue tabernae e si riempiva di bancarelle con cibo e souvenir, perchè all'Equirria venivano da ogni parte del suolo italico o dell'Impero, era la corsa di cavalli più spettacolare che il mondo di allora potesse offrire. Inoltre era un'occasione per ammirare la favolosa Urbe, così bella e imponente come non ne furono costruite, nè prima di Lei, nè dopo la sua distruzione.

ELEFANTI DA GUERRA

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ELEFANTI IN ORIENTE

Gli elefanti da guerra erano esclusivamente animali maschi, scelti perché più veloci, più pesanti e più aggressivi delle femmine. La capacità di domare gli elefanti nacque nella Valle dell'Indo (Pakistan) circa 4.000 anni fa. In realtà venivano catturati selvatici e poi domati e addestrati per vari usi, soprattutto gli elefanti asiatici per le attività agricole.
Per quel che si sa l'uso degli elefanti per la guerra iniziò attorno al 1100 a.c., come è menzionato in diversi inni in sanscrito. Sicuramente vennero introdotti nell'esercito persiano da Dario I (550 - 486 a.c.), proprio perchè aveva conquistato la valle dell'Indo e scoperto il loro uso.

Il I ottobre del 331 a.c. Alessandro Magno (365 - 323 a.c.) dovette scontrasi con gli elefanti da guerra nella battaglia di Gaugamela, contro l'impero achemenide di Dario III (380-330 ac.). I quindici elefanti delle linee persiane fecero tremare le truppe macedoni si che Alessandro compì un sacrificio al dio della "Paura" (Phobos) la notte prima dell'attacco. Alessandro vinse la battaglia ma non se ne hanno i particolari, ma sicuramente tenne la cavalleria lontano dagli elefanti. 

Passando alla conquista della Persia, Alessandro ormai conosceva talmente gli elefanti da usarne lui stesso nel suo esercito.
Arrivato ai confini dell'India, Alessandro si scontrò con il re Poro nella battaglia del fiume Idaspe e si ritrovò ad affrontare una schiera di un centinaio di elefanti, che terrorizzò i soldati di Alessandro. Il re Poro dispose gli elefanti molto distanti l'uno dall'altro ma Alessandro fece allentare i ranghi dei suoi, permettendo agli elefanti di passare senza calpestarli, per poi colpirli con giavellotti e frecce quando cercarono di rigirarsi. 

Molti conducenti di elefanti vennero uccisi dai giavellotti e in preda al panico gli elefanti scapparono, calpestando anche alcuni soldati indiani. Anche se Alessandro riuscì a vincere e a conquistare la zona, perse un gran numero di soldati ed il suo fidato cavallo Bucefalo, ma per l'attaccamento dell'elefante al re indiano, il re macedone risparmiò la vita a Poro e ai suoi 200 elefanti (che sopravvissero tutti).

Alessandro venne a sapere in seguito, che i re dell'Impero indiano Magadha e Gangaridai avrebbero potuto schierare fra i 3000 e i 6000 elefanti da guerra, per cui interruppe l'avanzata in India. Al suo ritorno a Babilonia, Alessandro Magno istituì una forza di elefanti di guardia al suo palazzo e creò la posizione di "elefantarca", al quale fu affidato il compito di guidare le sue unità di elefanti durante le battaglie. I successori di Alessandro, i Diadochi usarono centinaia di elefanti indiani nelle loro guerre.

I Seleuicidi fecero un largo uso degli elefanti da guerra, in particolare nel conflitto contro i Murya, conclusosi con un patto con cui l'impero Seleuicide cedette vasti territori orientali in cambio di 500 elefanti da guerra.



ELEFANTI DA GUERRA IN OCCIDENTE

Il successo dei questi animali in guerra si propagò ovunque. Egizi, Cartaginesi e Numidi iniziarono ad addomesticare gli elefanti, soprattutto un elefante nordafricano più piccolo di quello asiatico che si estinguerà a causa dell'eccessivo sfruttamento. Questa sottospecie, usata dagli eserciti punici, numidi e dagli egiziani tolemaici, non era equipaggiati con torrette perchè probabilmente più deboli. Si sa invece che l'esercito di Giuba I di Numidia pose le torrette sugli elefanti nel 46 a.c. 

Plinio il Vecchio riporta come "gli elefanti vengano spaventati dal più piccolo stridio di un maiale" (VIII, 1.27). Si ricorda inoltre come un assedio di Megara sia stato infranto dopo che i Megaresi avevano imbrattato di olio dei maiali, dato loro fuoco e spinti verso la massa degli elefanti da guerra del nemico. Gli elefanti da guerra si imbizzarrirono per il terrore dei maiali incendiati e stridenti. In alcuni casi il problema veniva prevenuto allevando gli elefanti insieme a dei maiali, in modo da abituarli al loro stridio.
Lo scrittore romano Vegezio nella Epitoma rei militaris (III libro) riporta, esempi, attrezzi e stratagemmi contro gli elefanti: per esempio uccidere i conducenti utilizzando i frombolieri o spaventarli col fuoco. Inoltre gli elefanti si muovono in maniera assai impacciata su un terreno sconnesso o montagnoso.

- 280 a.c. - Molti elefanti da guerra furono usati contro le legioni di Roma, a cominciare dalla Battaglia di Heraclea, guidate dal console Publio Valerio Levino, contro gli eserciti della coalizione greca che univa Epiro, Taras (Taranto), Thurii, Metaponto ed Eraclea, sotto il comando del re Pirro d'Epiro.

Pirro, accorso in aiuto di Taranto con 25000 uomini e 20 elefanti da guerra determinò il primo scontro tra il mondo ellenistico e quello romano, vinto dai Tarantino-Epiroti proprio grazie all'uso degli elefanti, che terrorizzarono i legionari. Ma i romani riuscirono ben presto a trovare il modo per sconfiggere gli elefanti, si che anche se persero nuovamente contro Pirro gli distrussero quasi tutto l'esercito. 

- 279 a.c. - L’utilizzo di elefanti da guerra è attestato anche nella battaglia di Ascoli Satriano, nella quale, ci riferisce Dionigi di Alicarnasso (Antichità romane, XX, 12, 3 e 1, 6-8), i diciannove elefanti indiani di Pirro erano guidati da Indiani. In quest’occasione lo spavento che gli animali avevano suscitato in precedenza si era dissipato, come dimostra l’aneddoto riportato da Floro su Caius Minucidus, astato della IV Legione: avendo questi reciso la proboscide di un elefante ne aveva causato la morte, dimostrando come tali animali non fossero invincibili.

- 275 a.c. - I Romani avevano ormai imparato a conoscere gli elefanti: infatti, nella battaglia di Benevento riuscirono ad avere la meglio sulle truppe epirote e tarantine (Floro, Bellorum omnium annorum DCC), facendo scagliare dai propri arcieri frecce infuocate e torce contro le torri montate dagli elefanti, in modo da farli imbizzarrire scompigliando le loro stesse truppe. Non solo i romani uccisero degli elefanti ma ne portarono vivi a Roma, dove suscitarono grande curiosità tra il popolo.

MONETA CARTAGINESE

- 262 a.c. - Nella battaglia di Agrigento (I guerra punica) quando i Cartaginesi assediati ricevettero tra i rinforzi sessanta elefanti (Diodoro, Op. cit., XXIII, 8), i Romani li catturarono e li inviarono a Roma. 

- 255 a.c. - Ma i Cartaginesi vinsero poi grazie all’utilizzo di cento elefanti nella battaglia di Tunisi, combattuta contro Marco Atilio Regolo (Frontino, Stratagemmi).

- 254 a.c. - Nella prima battaglia di Palermo, dove i romani conquistarono la città, Polibio narra che Cartagine mandò in Sicilia centoquaranta elefanti comandati dal generale Asdrubale.
 
- 251 a.c. - Plinio il Vecchio (Storia naturale, VIII) e Floro (Bellorum omnium annorum DCC)) narrano che dopo il secondo assedio della città i Romani di Lucio Cecilio Metello, dopo la vittoria ottenuta sui Cartaginesi, catturarono centoquarantadue o centoventi elefanti. Frontino nei suoi Stratagemmata ci riferisce che dieci di questi elefanti furono catturati con gli stessi conducenti indiani e trasportati a Roma utilizzando delle file di botti unite fra loro.

Plinio il Vecchio ci riferisce che Metello fu il primo a portare a Roma degli elefanti (Storia naturale, VII), ma sappiamo che già Manio Curio Dentato, in occasione delle guerre sannitiche, aveva portato per primo a Roma quattro elefanti.

- 218 a.c. - Annibale Barca valicò le Alpi, giungendo in Italia con ventuno elefanti superstiti e durante la battaglia della Trebbia, a destra e a sinistra dello schieramento, pose davanti alle ali di cavalleria gli elefanti, e vinse la battaglia. I romani tuttavia imparavano a difendersi dagli elefanti.
« I velites infatti, predisposti per questo, riuscirono a mettere in fuga i pachidermi con il lancio di dardi. E quelli che fuggivano erano colpiti sotto la coda, dove la pelle è meno spessa e possono essere colpiti»
(Livio, XXI)
Come narra Polibio, alla fine però gli elefanti, non abituati al freddo della Pianura Padana, essendo di origine nordafricana, morirono tutti eccetto Surus, il leggendario elefante di Annibale, passato alla storia come il più valoroso elefante di tutte le guerre puniche, che sopravvisse ma morì di malaria poco dopo. Alla sua morte Annibale costruì una città in suo onore.



217 a.c. - Anche gli elefanti egiziani di Tolomeo IV (244-204 a.c.) nella battaglia di Raphia avevano delle torrette, e altrettanto gli elefanti cartaginesi. L'elefante della savana africana, molto più grande e aggressivo di quelli asiatici e nordafricani, non era facile da domare per cui raramente venne usato nelle battaglie.

- 216 a.c. - Dopo Cartagine fece sbarcare a Locri circa quaranta elefanti in aiuto all’esercito di Annibale. Con la sconfitta di Asdrubale però gli altri venti elefanti che dovevano essere inviati ad Annibale fossero inviati in Spagna.

- 207 a.c. - Asdrubale riuscì a portare attraverso le Alpi dieci elefanti addestrati in Spagna, che utilizzò poi nella battaglia del Metauro. 

- 204 a.c. - Sette pachidermi furono mandati da Cartagine a Magone Barca in Liguria in aiuto di Annibale in Calabria.

- 202 a.c. - Nella battaglia di Zama Annibale ebbe con sè ottanta elefanti, undici dei quali furono poi portati a Roma, ma la carica degli elefanti cartaginesi risultò inefficace. Annibale lanciò la carica degli elefanti ma ormai i Romani avevano imparato come trattare quelle enormi bestie; con trombe acute e alte grida spaventarono i bestioni che, imbizzarriti, si volsero contro la cavalleria numidica dell'ala sinistra cartaginese.
Massinissa, che era posto di fronte a questa con i suoi cavalieri, approfittò della disorganizzazione per sbaragliare totalmente gli avversari diretti. Qualche elefante che non si era spaventato si avventò contro la fanteria romana. I manipoli degli hastati romani, utilizzando lo spazio libero, semplicemente si fecero da parte lasciando passare i bestioni lasciandoli alla mercé di princepes e velites che colpendoli di fianco e davanti li costrinsero alla fuga. Questi elefanti si avventarono contro l'altra ala della cavalleria cartaginese. Tra le condizioni di pace imposte ai Cartaginesi, Polibio riferisce che i romani richiesero la consegna di tutti gli elefanti.



ELEFANTI ROMANI

Dopo le guerre puniche, Roma riportò molti elefanti come premio e furono usati ampiamente nelle sue campagne militari per molti anni dopo.

- 197 a.c. -  Nella II guerra macedonica (200-196 a.c.) Filippo V di Macedonia si alleò con il re di Siria Antioco III conquistando possedimenti egiziani nell'Egeo, ma anche minacciando flotte e città greche che si rivolsero a Roma, che, sebbene reduce dalla guerra contro Cartagine, decise di intervenire.

I romani, già stremati dalla guerra si rivolsero allora agli stati greci, ma poté poi contare solo su pochi aiuti. Dopo inutili battaglie Roma affidò il comando a Tito Quinzio Flaminino che sconfisse Filippo nel 197 a.c. nella battaglia di Cinocefale (Tessaglia). Il ruolo degli elefanti a Cinocefale fu particolarmente determinante, in quanto la loro carica rapida mandò in frantumi la fascia sinistra Macedone, permettendo così ai romani di circondare e distruggere l'ala destra Macedone. Soltanto una anno dopo, nel 196 a.c. Flaminino proclamò la libertà della Grecia e nel 194 a.c. lasciò la Grecia insieme alle legioni.

191 a.c. - Gli elefanti furono presenti anche negli schieramenti romani, nella battaglia delle Termopili  tra l'esercito seleucide di Antioco III il Grande e quello romano comandato da Manio Acilio Glabrione.

- 190 a.c. - Per la battaglia di Magnesia Eumene II di Pergamo mise a servizio degli alleati romani sedici elefanti ma le forze seleucidi che ne avevano cinquantaquattro. Narra Tito Livio che nella Battaglia di Magnesia le truppe della Repubblica romana e della Dinastia seleucide di Siria (provincia romana) si affrontarono con un divario fra i 54 elefanti di Antioco, e i soli 16 elefanti romani. 
«Quando Publio Scipione era in Lidia [poco prima dell'inizio della battaglia di Magnesia], osservò che l'esercito di Antioco era demoralizzato dalla pioggia, che cadeva giorno e notte senza interruzione, che sia i soldati sia i cavalli erano esausti, che anche gli archi erano stati resi inutili dagli effetti dell'umidità sulle loro corde, invitò il fratello ad iniziare la battaglia il giorno successivo, anche se era consacrata a feste religiose. L'adozione di questo piano portò infatti alla vittoria
(Frontino, Stratagemata, IV, 7.30.)



- 168 a.c. - Nella III guerra macedonica (171-168 a.c.) i romani guidati del console Lucio Emilio Paolo, si servirono di trentaquattro elefanti (secondo altri 22) e sconfissero la falange macedone di Perseo nella battaglia di Pidna. I romani ottennero gran successo nonostante secoli prima fu proprio Pirro a schierare gli elefanti in battaglia. La Macedonia fu divisa in quattro repubbliche, ognuna delle quali amministrate da un'assemblea composta dai rappresentanti di città e villaggi.

- 134 a.c. - Viene richiamato in Hispania Publio Cornelio Scipione Emiliano, console per la seconda volta, con Gaio Mario, allora ventitreenne, e il greco Polibio, consigliere e amico personale del vincitore di Cartagine. C'è anche, alleato dei romani, il principe numida Giugurta che porta con sé dodici elefanti e si distingue per il proprio valore. Dopo quasi un anno di strenua resistenza, Numanzia capitola, Roma impone la sua signoria sulla massima parte della penisola iberica.

- 46 a.c. - Nella battaglia di Tapso, Quinto Cecilio Metello si servì di centoventi elefanti, ai quali se ne aggiunsero poi sessanta di Giuba I (Cesare, La guerra d’Africa). La V Alaudae o V Gallica di Cesare, fu arruolata tra i nativi Galli e partecipò alle guerre galliche fino al 49 a.c., dando prova di essere una delle legioni più coraggiose di Cesare. Si racconta, infatti, che Giulio Cesare armò la sua Legio V (Alaudae - Allodole) con delle assi e comandò ai legionari di colpire le zampe degli elefanti. Così nella battaglia di Tapso nel 46 a.c., dopo aver sostenuto e respinto con grande coraggio una carica di grandi pachidermi africani, alla stessa fu dato come simbolo l'elefante.

Floro (Op. cit., IV, II) riporta che gli elefanti di Giuba, da poco catturati dalle foreste e, quindi, non ancora addestrati al combattimento, si spaventarono al suono delle trombe, rivoltandosi contro le linee amiche. 

Secondo Appiano gli elefanti erano trenta, ai quali poi se ne aggiunsero sessanta del re numida. A causa  di questo scontro l’elefante divenne l’emblema delle insegne della V Legione dei cesariani (Alaudae), poiché aveva resistito alla carica dei pachidermi (Appiano, Op. cit., II, 96). Cesare non fece mai uso di elefanti, basandosi soprattutto sulle strategie e la velocità delle sue truppe.

- 43 d.c. - Gli Elefanti vennero usati nuovamente in Gran Bretagna, e lo stesso imperatore Claudio, si presentò ai celti britannici, sopra un elefante. Lo scrittore Pollieno riferisce che "Cesare aveva un grande elefante che era dotato di armatura con arcieri e frombolieri, effettuati nella sua torre. Quando questa creatura sconosciuta entrò nel fiume i britannici e i loro cavalli fuggirono, permettendo così ai romani di attraversare il fiume indisturbati.
 
Da allora i Romani non utilizzarono più gli elefanti per scopi bellici, ma li impiegarono per i giochi da circo.

CULTO DI MARICAE

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LA DEA MARICA

La Dea Marica è una divinità italica, una Grande Madre, dell'acqua e delle paludi, signora degli animali, protettrice di neonati e bambini e Dea della fecondità. Ricorda Diana, la triplice Dea della vita, della crescita e della morte. Il suo nome deriva probabilmente dalla base mediterranea "mara" che significa "palude".

Nella fase primitiva c'era solo un lucus, privo di edificio templare, probabilmente con un altare graminaceo degli inizi del VII sec.a.c.. Seguirono poi i templi in muratura.

PINETA DI BAIA DOMITIA - LUCUS MARICAE


TEMPIO DI MARICA A MINTURNAE

Il tempio più antico, edificato dagli Aurunci (Ausonui) tramite maestranze etrusche presso Minturno, nel VII - VI sec. a.c. sulla riva destra del fiume, era orientato ad ovest (dove all'epoca doveva scorrere il Garigliano), a circa 400 m dalla foce, ed il primo gradino della scala d'accesso doveva trovarsi a livello dell'acqua, così che si accedeva solo per mezzo di imbarcazioni.

STATUINA ARCAICA DELLA DEA MARICA
Sulla sponda sinistra-Sud si estendeva invece il bosco sacro, il Lucus Maricae a lei dedicato, oggi la pineta di Baia Domizia. Il tempio era costruito con blocchi di tufo grigio provenienti dalle cave a sud del monte Massico (prov. Caserta in Campania)..
La finalità del tempio, collegata alla navigabilità del suo corso, ha condizionato tanto il suo orientamento originale quanto quello di epoca romana e, da questo punto di vista, definisce il tempio di Marìca come anomalo rispetto agli altri edifici templari italici.

Infatti verso la fine del I sec. i Romani dovettero riedificarlo su un podio in opera cementizia eretto sull'antica platea del VI sec. ma con orientamento opposto, cioè verso il fiume, il cui corso, presso la foce, era evidentemente cambiato. Infatti il materiale più antico è in tufo nero, mentre quello romano è un conglomerato cementizio rivestito da mattoni con zoccolo in travertino.
Il tempio venne edificato in antis (mura laterali fino all'altezza delle colonne), con due colonne sul fronte, cella quadrata ed opistòdomo (con cella davanti e tesoreria dietro, ambedue colonnate sui fronti).

«Questo bosco sacro nessuno profani, né alcuno asporti su carro o a braccia ciò che al bosco sacro appartenga, né lo tagli, se non nel giorno in cui sarà fatto il sacrificio annuo; in quel giorno sia lecito tagliarlo senza commettere azione illegale in quanto lo si faccia per il sacrificio. Se qualcuno [contro queste disposizioni] lo profanerà, faccia espiazione offrendo un bue a Giove ed inoltre paghi 300 assi di multa. Il compito di far rispettare l'obbligo tanto dell'espiazione quanto della multa sia svolto dal dicator.»

RESTI DEL TEMPIO DI MARICA PRESSO LA FOCE DEL GARIGLIANO A 500 M DALLA RIVA
Questa epigrafe è della lex spoletina relativa al lucus di Spoleto, ma era anche relativa a qualsiasi lucus, o bosco sacro. Infatti il bosco non poteva essere tagliato e se un ramo cadeva si lasciava a terra, nessun frutto, nessuna bacca poteva essere colta, nè si poteva uccidere o togliere qualsiasi animale dal bosco perchè in quanto abitatore del lucus era anch'esso sacro. 

Si facevano eccezioni per la festa della divinità del lucus, in cui i sacerdoti tagliavano ritualmente dei rami (in genere con un falcetto d'argento) e li donavano ai fedeli che li portavano prima in processione con la statua della Dea e infine alle proprie case, dove il ramo veniva cosparso di olii profumati e infine bruciato ritualmente.

Come si vede nella figura sopra, ancora oggi qualcuno accorre ai resti del santuario della Dea Marica facendola oggetto del proprio culto e offrendole candele rituali. Certi culti restati da sempre nelle campagne furono la causa della Santa Inquisizione che vide la stregoneria in queste manifestazioni.

AFRODITE PONTIA ED ARTEMIDE, SANTUARIO EMPORICO DEA MARICA
ANTIQUARIUM DI FRAGELLAE
Di certo le religioni politeiste furono molto più poetiche, suggestive e mitiche delle severe e cupe religioni monoteiste basate sui doveri e sull'obbedienza. Nelle politeiste i fedele poteva scegliere la divinità che più gradiva e sentiva affine. Le guerre di religione non si fecero mai per le religioni politeiste, ma solo per le monoteiste, piuttosto cupe, intransigenti e molto tese all'acquisizione del potere. A volte però le religioni dovevano la loro durezza non al culto originario ma alla loro interpretazione successiva.

Il poeta Claudius Claudianus (370 – 404) in un suo panegirico, ci informa che il bosco in questione era un querceto (querceta Maricae), probabilmente costituito da Lecci ed alloro. Plutarco ribadisce che qualsiasi oggetto rituale venisse introdotto nel bosco non potesse essere asportato, ed era assolutamente vietato tagliare gli alberi. I romani portavano le offerte nel bosco in genere costituite da primizie, vino ed altri frutti della terra, e piccole statuette votive in terracotta.

Si appendevano ai rami o si poggiavano sulle are, oltre ai nastri votivi, i "satura lanx", cioè le ciotole con il misto di primizie della terra destinate all'offerta per la Dea. Le offerte per La Grande Madre non erano mai cruente perchè anche gli animali erano figli della Dea.

A 26 SECOLI DI DISTANZA LA PIETAS POPOLARE
OFFRE ANCORA CERI ALLA DEA MARICA
I riti per onorare la Dea erano pertanto molto semplici, bruciare un'erba odorosa su un'ara o sugli altri altari improvvisati con rami d'albero, o gettare nell'acqua del fiume o della palude coroncine di fiori oppure le statuette votive in terracotta. Nel bosco i luoghi più sacri erano le sorgenti, le radure, i massi di roccia, le caverne naturali, le cascatelle dei fiumi, gli stagni, gli alberi, una zona satura di funghi, o piante acquatiche, o piante medicamentose. 

Nel traversare un bosco, dopo aver ottenuto il consenso dei sacerdoti, nel raccogliere erbe curative o mangerecce selvatiche, nell'attingere acque a una fonte o nel bagnarsi in un fiume, ci si rivolgeva alla divinità del luogo e le si faceva una preghiera e un'offerta.

Il Lucus era allora circondato da un'estesa e profonda palude, la cosiddetta "palus maricae" che si estendeva su entrambe le sponde del fiume, traversata dal fiume Liri prima di allargarsi alla foce. La palude aveva un significato di morte e di resurrezione, in quanto il suo fondo era limaccioso e pericoloso come il mondo infero. nella palude si nascondeva infatti il lato infero della Dea, a cui era associata sia la vita che la morte, ma anche il ciclo della rinascita.

A Marica vennero associate dai greci campani, cioè della Magna Grecia, Afrodite pontia e Artemide, come si vede dale statuine reperite nel santuario dell'emporio campano.


AMPHIPOLIS (Grecia)

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ALESSANDRO MAGNO
Amphipolites, o Amphipolitanus fu una città Macedone, originariamente una città dei Traci dal nome di Ennea Hodoi, "Nove strade", situata su un'altura sulla riva sinistra del fiume Strymon lungo la via che costeggiava il fiume. La sua posizione era importante perchè posta sul passaggio che attraversava le montagne fino al golfo Strimonikos, che permetteva le comunicazioni tra la costa e le grandi pianure macedoni.

Nei pressi di Anfipoli c’erano le ricche miniere d'oro e d'argento del Monte Pangaeus, una ricchezza che spinse Aristagora di Mileto a tentare per primo di colonizzare l’ area, ma fu sconfitto dagli abitanti del luogo, gli Edoni (Traci), nel 497 a.c.. Poi furono gli Ateniesi a tentare la colonizzazione del territorio, con 10.000 uomini e alleati vari, ma vennero annientati dai Traci nella battaglia di Drabescus nel 465 a.c..

La fondazione di Anfipoli, infine, nel 438/437 a.c., al tempo di Pericle, dal generale Hagnon, figlio di Nicia, che, aiutato ora dai Traci, vi fondò una città, a cui diede il nome di Amphipolis, la città dalle nove strade. Fu un grande successo per gli Ateniesi, il cui scopo principale era quello di assicurare il controllo del ricco entroterra di Strymon e delle miniere di Pangaion.



Il loro successo, tuttavia, fu di nuovo breve, perché alla fine del primo decennio della guerra del Peloponneso (442 a.c.) Anfipoli si staccò dalla sua città madre, Atene, e rimase indipendente fino alla sua incorporazione nel regno di Macedonia da parte di Filippo II (357 a.c.).

Su tre lati la città era difesa dal fiume Strymon, e dall'altro Agnon fece costruire un muro che si estendeva da una parte all'altra del fiume. A sud della città c’ era un ponte che metteva in comunicazione la Macedonia e la Tracia.

Amphipolis divenne ben presto una città importante ma nel 424 a.c. si arrese al generale spartano Brasida che la invase senza praticamente combattere. Lo storico Tucidide, che comandava la flotta ateniese, accorso per fermare gli spartani, cercò di salvare il porto di Amphipolis, ma non vi riuscì.

LEONE DI ANFIPOLIS
Atene indignata cacciò Tucidide e nel 422 a.c. inviò un grande esercito sotto il comando del generale Cleone per riprendersi la città. Il tentativo però non riuscì, gli Ateniesi furono sconfitti con notevoli perdite, ma sia Brasida che Cleone, i due generali nemici, caddero in battaglia.

"Non appena vediamo il movimento degli Ateniesi",  i Brasidi si staccarono dalle alture di Kerdylion e tornarono ad Anfipoli. Cleon, avanzando in segno di riconoscimento, apprende quindi che c'è chiaramente nella città tutto l'esercito nemico  ma, ha deciso di rifiutare la lotta prima di ricevere rinforzi, [...] diede il segnale di ritirarsi. [... Brasidas] inizia a correre, proprio di fronte a lui, sulla strada, verso il punto più ripido dove c'è attualmente un trofeo. 


ORESTE ED ELETTRA
Spinge il centro degli ateniesi, spaventato dal loro disordine e stupefatto dalla sua audacia. Li mette in fuga [...]. Brasidas avanza verso l'ala destra, ma è ferito, cade, senza che gli ateniesi se ne accorgano.[...] Brasidas era stato allevato e trasportato, ancora vivo, dal campo di battaglia alla città. 


Ha avuto il tempo di imparare la vittoria delle sue truppe, ma quasi subito dopo lo ha abbandonato il suo fantasma. Il resto del suo esercito tornò dall'inseguimento con Kle'aridas, spogliò i morti e sollevò un trofeo. Gli alleati seguirono in armi i resti di Brasidas, che fu sepolto a spese dello stato all'interno della città stessa, all'ingresso dell'attuale piazza pubblica. Nella suite, il monumento era protetto da un rivestimento in pietra. 

Gli anfipolitani gli dedicarono una temerarietà come eroe e stabilirono in suo onore giochi e sacrifici annuali. Considerandolo il loro vero fondatore, gli dedicarono la colonia, rase al suolo i monumenti eretti in onore di Hagnôn e fecero sparire tutto ciò che poteva ricordare che la colonia era stata fondata da quest'ultimo ".
(Tucidide)

Amphipolis  mantenne così la sua indipendenza ma nel 421 a.c. gli Ateniesi strinsero un patto con gli Spartani, per riprendersi la città, però i cittadini si ribellarono. Poi si allearono con Olinto, città greca della Calcidica, e con il suo aiuto riuscirono a respingere definitivamente Atene.

Siamo nel 359 a.c., Filippo il macedone dichiarò Amphipolis città libera, ma l'anno successivo, nel 358, la prese d'assalto e la conquistò. Appartenne così ai Macedoni fino alla conquista Romana nel 168 a.c.. I Romani la resero invece una città libera, e divenne la capitale del primo dei quattro distretti in cui divisero la Macedonia.

VILLA ROMANA DI AMPHIPOLIS


I RESTI

La divinità principalmente venerata ad Anfipoli era Artemide Tauropolos o Brauronia (Diod. XVIII. 4;.. Liv XIV 44), la cui testa appare frequentemente sulle monete della città e delle rovine del suo tempio. Altri scavi hanno portato alla luce parti di abitazioni del IV sec. del periodo ellenistico e romano. In una casa di epoca romana, un mosaico raffigura il Ratto di Europa.

Durante le guerre balcaniche del 1912-13, frammenti di una grande statua furono scoperti sulla sponda Ovest del fiume Strymon nei pressi dell’attuale ponte. Lo scavo del sito ha rivelato fondamenta di una struttura che ha effettuato una base a forma di piramide per un leone.

HIDRIA IN CERAMICA VETRIFICATA IV SEC.
La statua fu ricostruita nel 1936 su una base moderna ma con materiale antico. Si ricostruì così il leone di Anfipoli, che appartiene ad un grande monumento funebre che si pensò essere dell’Ammiraglio di Alessandro il grande, Laomedonte, dell'ultimo quarto del IV secolo a.c..

Una vastissima e ricca necropoli di epoca ellenistica fu scavata infatti a Nord della città, circa 440 tombe di vario tipo: a pozzo, a tetto di tegole, a scatola, a sotterranei scolpiti. Nel mezzo del sito, c'è un grande spazio vuoto, una sorta di bacino, i cui scavi ancora molto parziali non hanno chiaramente definito l'uso.

Sembrerebbe che una piccola struttura arrotondata nell'angolo nord-ovest fosse un'officina. Nel sud-ovest, ci sono tre compartimenti rettangolari. Poiché le loro pareti e il loro fondo sono rivestiti con malta impermeabile e impermeabile, si pensa che siano delle cisterne.

Tre tombe "macedoni" costruiti con pietra calcare e con tetti a volta, vennero scoperte a Nord e a Est della città, costituite da un ingresso, una camera mortuaria, e da un'anticamera. Nelle tombe sono state trovate statuine di terracotta, vasi, lapidi, e gioielli in oro modellati in ghirlande di rovere o di olivo, foglie, diademi, orecchini, anelli, collane e ciondoli. Le lapidi coprono il periodo che va dalla fine del V sec. a.c. all'età romana imperiale.

Altri scavi hanno portato alla luce parti di abitazioni del IV sec. del periodo ellenistico e romano. In una casa di epoca romana, un mosaico raffigura il Ratto di Europa. Sul bordo della collina, nei resti di un edificio, un'iscrizione ricorda che si trattava del Tempio di Clio.

Delle fortificazioni menzionate dallo storico Tucidide, fu scoperta nella parte più a ovest della città, una grande sezione del muro di cinta. Infatti grossi blocchi di pietra di un lungo muro diretto verso il fiume, si sono conservati, allineati lungo il crinale della collina, a Sud Est delle città.




AMPHIPOLIS ROMANA

Dopo la conquista romana della Macedonia nella battaglia di Pidna, (168 a.c.) da parte di Lucio Emilio Paolo (229-160 a.c.) divenne la capitale di uno dei quattro distretti amministrativi nei quali fu divisa la Macedonia, ed esattamente della Macedonia Prima, una delle quattro divisioni in cui era divisa. 

Il periodo romano fu un periodo di grande prosperità. Nell'82 a.c. Anfipoli venne presa da Mitridate VI del Ponto, alleato di Lucio Cornelio Silla. Gneo Pompeo Magno vi cercò rifugio dopo la sconfitta subita ad opera di Cesare nei pressi di Farsàlo nel 48 a.c.

Dopo la battaglia di Filippi del 42 a.c. la città ebbe lo statuto di civitas libera, che non doveva pertanto versare tributi a Roma, ed emise monete che commemoravano l'evento. Nel 31 a.c. fu la base per la flotta romano-tolemaica di Marco Antonio (83-30 a.c.) e Cleopatra regina d'Egitto (70-30 a.c.), prima della loro sconfitta ad Azio.

NETTUNO
Crebbe ancora di prosperità in epoca augustea e nei primi tre secoli dell'impero romano, come attesta una ricca emissione di monete, divenendo un faro di cultura e uno snodo di commerci.

Come stazione sulla Via Egnatia e come capitale di un ricco entroterra, la città è crebbe economicamente e culturalmente. In effetti subì poi devastazioni e saccheggi, ma con il sostegno degli imperatori romani, in particolare di Augusto e di Adriano, rimase uno dei centri urbani più importanti della Macedonia fino alla tarda antichità. 

La prosperità della città si riflette nei suoi edifici monumentali con pavimenti a mosaico complessi e policromi e variegati dipinti murali, nonché i reperti archeologici portati alla luce negli scavi.

Dopo le invasioni degli slavi nel tardo VI sec. d.c., l'Amfipolis gradualmente si spopolò fino a essere completamente abbandonata nell'VIII secolo. Nella zona sono state rinvenute diverse lapidi, rilievi votivi e statue, oltre a numerosi vasi che testimoniano un intenso traffico commerciale.

LE MURA

LE MURA

Amphipolis negli scavi del 1971 e degli anni successivi è stata scoperta la sua cinta muraria per una larga estensione, c.a 7450. La fase più antica delle mura si fa risalire all'epoca della fondazione coloniale da parte dello stratega ateniese Agnone (438-437 a.c.), ma si distinguono successivi rifacimenti che si datano in epoca ellenistica.

Lungo questa cinta muraria sono state individuate cinque porte (Α-E). Le ricerche condotte da D. Lazaridis hanno rilevato che il muro έκ ποταμού ές ποταμόν di cui parla Tucidide (IV, 102) non aveva l'andamento della corda di un arco, come si credeva precedentemente, ma costituiva il braccio meridionale dell'enorme cinta muraria della città antica. Del perimetro esterno i tratti meglio conservati si trovano lungo il braccio occidentale e lungo quello settentrionale, dove gli scavi hanno messo in luce tre porte (A-C).

Ma la città ebbe due cinte murarie: una più esterna, detto il "lungo muro" di 7,5 km di perimetro, che circondava anche aree esterne alla città, cioè i campi coltivati con le case dei contadini che assicuravano la sopravvivenza, e una più interna, di 2.200 m di lunghezza, che difendeva il centro urbano vero e proprio.

TETRADACMA DI ANFIPOLI
In alcune parti le mura sono tuttora conservate per un'altezza di 7–8 m. La cinta era dotata di torri, alcune a pianta quadrangolare, altre a pianta circolare, costruite in blocchi di poros ed era provvista di aperture per un sistema di scolo delle acque piovane.

Alla prima età imperiale appartengono, rinvenute nella porta D del braccio meridionale della cinta, le basi onorarie, con iscrizioni, delle statue bronzee di Augusto, «fondatore della città» e del proconsole Calpurnio Pisone, indicato come «patrono e benefattore della città».

La porta E, individuata lungo il tratto orientale della cinta, appartiene al muro della fase romana, ma occupa il posto di una porta più antica di epoca classica. Entro il grande peribolo esterno è stata localizzata, e in parte scavata, l'acropoli interna, la cui ultima fase risale a epoca romana e paleocristiana.

IL PONTE LIGNEO

IL PONTE LIGNEO

L'antico ponte che ha svolto un ruolo molto importante nel flusso della storia dell'antica Anfipoli, e che è stato menzionato da Tucidide, viene rivendicato dall'archeologo Dimitris Lazaridis. Il ponte di Amphipolis è stato un importante esempio di progetto di ingegneria antica, ed è stato un elemento chiave di trasporto.

"Sono stati rinvenuti infatti circa 1250 pali e tronchi di alberi appartenenti alla fortificazione e l'infrastruttura del ponte. Ne sono stati tirati verso la superficie 220, e la vista è impressionante, ma non possiamo andare alla scoperta della restante prima risolvere tutti i problemi di manutenzione del legno", ha scritto sulla scoperta Martedì 19 settembre 1978 Dimitris Lazaridis.

"Queste incredibili fortificazioni di legno appartenenti all'era classica, hanno tenuto perfettamente nell'umidità, ma rischiano di essere distrutte se cambiano ambiente. Certamente non possiamo spostarli all'interno, dove avremmo condizioni di temperatura e umidità costanti ma perderemmo il loro significato. Ora con i 220 poli, che sono sotto il capannone, stiamo facendo la prima manutenzione con l'aiuto degli specialisti. "

GLI SCAVI

PALESTRA E GINNASIO

Tra gli edifici pubblici sono stati scavati in parte la palestra e il ginnasio, che risiedono nel settore SE della città. La palestra è dotata di varie stanze organizzate intorno a un cortile centrale con peristilio di colonne doriche e all'angolo NE possedeva delle vasche per lavarsi.

Sul lato E si apre un ingresso con scalinata monumentale, mentre un secondo ingresso si trova sul lato O, fiancheggiato da una strada lastricata. A S dell'ingresso E è stato scoperto un piccolo sacello probabilmente dedicato a Hermes e a Eracle, il cui culto nel ginnasio è documentato da iscrizioni votive recuperate all'interno dell'edificio.

Interessante il brano di una lettera di Filippo V 183 a.c. ai curatori del ginnasio, e un testo di legge sui ginnasi, del 23/22 a.c. L'edificio probabilmente distrutto dai Traci in rivolta, poi però restaurato da Augusto agli inizi del I sec. d.c. che vi fece aggiungere il propileo ionico di ingresso, aperto sul lato Ν dell'edificio, che conduce al grande cortile del ginnasio.

Sul lato O. del cortile alcuni edifici con la cisterna che forniva l'acqua per le terme delle palestra, mentre sul lato Ν è stato localizzato e scavato la sala di esercizi del ginnasio con al centro un grande altare. Il tutto sembra risalire addirittura al IV sec. a.c. Cadde in rovina a causa di un incendio nella prima metà del I sec. d.c. e venne abbandonato.



I SANTUARI

I santuari maggiori non sono stati localizzati ma solo testimoniati dalle iscrizioni (Artemide Tauropòlos, Eracle, Asclepio, ecc.) e dai doni votivi conservati (statue, rilievi, figurine).

CORONA D'ORO
Il Santuario di Artemide Tauropòlos, Dea protettrice di Αnfipoli, noto dalle fonti antiche, dovrebbe essere localizzato sull'acropoli, nella zona delle basiliche paleocristiane che ne dovrebbero aver causato la distruzione.

In effetti Anfipoli è piena di basiliche cristiane sorte sulle rovine o con i materiali degli antichi santuari, come fu in uso dalla accanita iconoclastia cristiana.

Dagli scavi sono emersi dei piccoli santuari, come quello di Clio, uno dei più antichi di Αnfipoli, dove secondo le fonti si venerava anche Ressos, il figlio della musa. L'iscrizione più antica del santuario si data nel IV sec. a.c. Un altro santuario, dedicato probabilmente a una ninfa, da cui provengono materiali che risalgono alla fine del V sec. a.c., è stato scavato all'esterno del muro Ν di Amphipolis. 

Un Santuario di Attis, nel settore NO della città, all'interno delle mura, è invece di epoca romana. All'esterno della cinta, è stato scavato un santuario ipetrale (scoperto del tetto sul centro) di Cibele e di Attis, di età tardo-ellenistica e romana.



LE ABITAZIONI

Tra gli edifici di abitazione, si notano una casa di età classica (IV sec. a.c.) e una casa ellenistica, quest'ultima con pregevoli pitture murali a motivi ornamentali, che costituiscono un nuovo anello di collegamento tra la pittura romana e la grande pittura della Macedonia.

Di epoca romana un notevole complesso edilizio, denominato "Villa Romana" con pavimenti a mosaico, con un emblema con il ratto di Europa, una raffigurazione di Hylas rapito dalle ninfe e una con il mito di Posidone e Amymone. L'edificio farebbe parte di un complesso più grande, di cui farebbe parte un'altra costruzione, sempre romana, situata a breve distanza, dell'altra. Avendovi reperito una statua di ginnasiarca con iscrizione, il complesso potrebbe identificarsi con il ginnasio di età imperiale.




LA TOMBA DI ANFIPOLI

Il sito era già noto agli archeologi fin dagli anni ’60 quando gli scavi nella enorme tomba a tumulo della collina di Kasta furono avviati dal grande archeologo greco Lazaridis; interrotti per lungo tempo, sono ripresi negli ultimi tre anni, nonostante i pochi fondi a disposizione, grazie all’impegno della Soprintendenza alle Antichità Preistoriche e Classiche, mentre solo da pochi mesi l’area archeologica è diventata accessibile ai media.

Gli archeologi e gli storici hanno confermato che la tomba scoperta presso la collina di Casta di Anfipoli appartiene all'era di Alessandro Magno. In effetti un fregio dettagliato che raffigura un guerriero che indossa un caratteristico imbrago macedone e le armi dei morti che guidano una processione funebre costituirebbe una chiara indicazione dell'epoca. La scoperta è stata fatta circa 20 mesi dopo aver dissotterrato la tomba.

Il guerriero assomiglia ad altre raffigurazioni di Alessandro Magno. Lo stile del rilievo corrisponde alla data stimata del monumento, che secondo il capo degli scavi Katerina Peristeri dovrebbe appartenere all'ultimo quarto del IV secolo. Il fregio deriva probabilmente dalla base della famosa statua del leone.

INTERNI DELLA TOMBA
Questa scoperta,  secondo gli esperti, collegherebbe la tomba ad Alessandro Magno. Infatti, solo alcuni mesi fa, l'architetto Michalis Lefantzis ha affermato che la persona sepolta nella tomba di Anfipoli sarebbe Efestione, il migliore amico e compagno guerriero di Alessandro Magno.

Il capo degli scavi a Nicosia afferma che la tomografia scannerizzata ha rivelato che
"Si vedono le armi di un guerriero. C'è la forma di un carro. Si vede un toro al centro mentre a destra e a sinistra ci sono due centauri. C'è una vittoria alata sul ponte di una nave che appare chiaramente. Poi altre forme alate  tipo sfingi in quello che sembra essere un raduno di Dei. È qui che viene trasferito il defunto, a un raduno di Dei".

Abbiamo monete in bronzo di Alessandro III (336-323 a.c.) di Anfipoli che recano il monogramma di Alessandro. C'erano anche monete di Cassandro, re di Macedonia dal 305-297 a.c., oltre a monete di bronzo della regione di Anfipoli."



Gli archeologi hanno tratto conclusioni riguardo alla Tomba di Anfipoli.
Dichiarano che è stato commissionato e finanziato da Alessandro Magno in onore del suo amatissimo amico Efestione.

Fu progettato dall'architetto Dinokrates o Stesikrates e fu costruito alla fine del IV sec. a.c. da Antigono I Monoftalmo.
I risultati sono basati su nuovi reperti dopo la decodifica di tre iscrizioni trovate di recente intorno all'area in cui è stato trovato il Leone di Anfipoli, a pochi km a sud della tomba.

Le nuove scoperte sono state presentate ad un evento presso l'Università Aristotele di Salonicco, intitolato "Searching Kasta Hill in Amphipolis 2012-2014". Questo è stato il primo evento aperto in cui ha parlato l'archeologa Katerina Peristeri, guida dell'Anfipoli.


"Il segreto della costruzione del monumento di Anfipoli si trova sulla cima del monumento dove è stato posizionato un palo di legno per sostenere il leone", ha detto Michalis Lefantzis, l'architetto responsabile dello scavo.

Le complesse iscrizioni che informavano del nome "Efestione", specificavano che "Antigono ricevette materiale da costruzione per l'erezione di un monumento in onore di Efestione ..."
La Peristeri, dopo aver presentato i reperti accumulati finora, ha dichiarato di non essersi mai spostata dal suo punto di vista iniziale che il memoriale era stato costruito alla fine del IV sec. a.c.

Nei giorni scorsi il Ministero della Cultura greco ha diffuso le immagini di due grandi cariatidi a mezzo busto, di mezza tonnellata ciascuna, che vanno ad aggiungersi alla coppia di straordinarie e monumentali sfingi acefale ed alate che presidiano l’ingresso all’interno del tumulo, ed al leone alto cinque metri simbolo di Alessandro il Grande che campeggiava in cima.

RATTO D'EUROPA
Continuano così a inseguirsi cautamente le ipotesi degli studiosi intorno alla possibilità che si tratti davvero della ormai leggendaria tomba del grande Macedone, sebbene non si escluda possa appartenere a qualcuno a lui molto vicino, come la moglie, un figlio o anche qualche alto funzionario di corte.

Certo è che la costruzione è dieci volte più grande della tomba del padre di Alessandro, Filippo II di Macedonia. Molto probabilmente il mistero si chiarirà appena gli archeologi saranno riusciti ad entrare nella camera funeraria.

PRIMA CARIATIDE DELLA TOMBA
La tomba si colloca tra il 325 e il 300 a.c.. ed è all’interno di un tumulo circondato da un recinto di 497 metri, un cerchio realizzato in marmo di Thassos che, come emerso nel corso del ventisettesimo sinedrio archeologico svoltosi lo scorso marzo all’Università Aristotele, risulta realizzato con impressionante precisione geometrica.
Dopo le ultime scoperte lo stesso premier greco Antonis Samaras si è voluto personalmente recare sul sito insieme al ministro della Cultura Costas Tasoulas dicendosi commosso per come quel “grande mosaico che è la storia greca” sia capace di “continuare a sorprenderci rivelando tesori inestimabili”.

I nuovi ritrovamenti giungono in un momento delicato della storia nazionale greca per cui essi assumono un significato storico ed ideale molto forte: “in questo periodo di crisi la nostra Storia ci viene in soccorso”, ha concluso il premier.
Secondo i testi storici, Alessandro Magno morì a Babilonia nel 323 a.c., forse in seguito a un attacco di malaria o di febbre tifoide. Il corpo sarebbe stato poi conservato nel miele e posto su un carro funebre destinato, secondo alcuni resoconti, verso la Macedonia, la sua terra natale. Ma durante il viaggio, racconta Worthington, Tolomeo, uno dei generali preferiti da Alessandro, “rapì il cadavere del re per seppellirlo da qualche parte in Egitto. Scommetto che Alessandro Magno non è nella tomba di Anfipoli!

Altri archeologi ritengono invece che la tomba conservi i resti di un membro della famiglia del re: forse della madre Olimpia, della moglie Rossane o del figlio bambino che portava il nome del padre. Infatti alla morte di Alessandro Magno, i suoi generali si spartirono l’Impero, ma uno di loro, Cassandro, per assicurarsi il trono di Macedonia fece assassinare gli eredi diretti del re, compreso il figlio illegittimo Eracle. Ma è possibile che i ricchi seguaci di Alessandro avessero fatto costruire il maestoso tumulo funerario per almeno uno di loro.

Si tratta di una tomba enorme, e si presume che sia stata costruita per una persona ricca e prestigiosa”, commenta Hector Williams, archeologo della University of British Columbia di Vancouver. Perciò, se la tomba risultasse del tutto intatta e inviolata, e ci fossero chiari indizi sull’identità del proprietario, alcuni appassionati di storia potrebbero presto riscuotere le vincite delle loro scommesse.

SECONDA  CARIATIDE DELLA TOMBA
La nuova scoperta di una tomba fatta di pietra calcarea contiene una bara di legno con uno scheletro umano integrale. La tomba è stata trovata a 1,60 metri sotto il pavimento della terza camera. Le dimensioni esterne sono di 3,23 metri per 1,56 metri e all'interno della tomba c'è una parte cava larga 0,54 metri e lunga 2,35 metri. Si stima che l'altezza della tomba fosse di 1,80 metri. Inoltre, l'altezza totale dal basso al soffitto è di 8,90 metri.

Gli archeologi hanno informato i giornalisti che all'interno della tomba c'era una bara di legno contenente un intero scheletro umano. L'implicazione della bara deriva dal fatto che all'interno della tomba c'erano circa 20 chiodi di ferro e rame e diverse decorazioni a forma di bara fatte di ossa e vetro. All'interno della tomba, lo scheletro umano trovato era quasi intatto. Lo scheletro sarà trasferito in un laboratorio per un test del DNA per determinare il sesso e l'età dei morti.



CASA DEL BRACCIALE D'ORO - (Pompei)

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La casa del bracciale d'oro, una delle più ricche ville urbane dell’Insula Occidentalis di Pompei, detta pure Domus di Marco Fabio Rufo, prende il nome dal ritrovamento di un bracciale d'oro dell'incredibile peso di 610 g composto da un laccio che termina con due teste di serpente, i cui occhi sono rappresentati con pietre preziose, che reggono con la bocca una medaglia con la rappresentazione di Selene.

Un bracciale di peso eccezionale e di ottima fattura, che dimostra anche che la sua proprietaria fosse particolarmente seguace del culto di Selene, un culto più orientale che italico, anche se poi venne assimilato a Diana. Molti sono gli affreschi ritrovati anche se in parte sono stati staccati per ragioni di conservazione.

IL BRACCIALE D'ORO CHE DA IL NOME ALLA VILLA

IL BRACCIALE D'ORO
 
L'armilla, ora al Museo Archeologico Nazionale di Napoli, è costituita da una verga che termina con due teste di serpente i cui occhi sono composti da pietre preziose. Le teste tengono nelle fauci un disco sul cui è rappresentato un busto di Selene, sormontata da un crescente lunare e da sette stelle, che regge un velo rigonfio a forma di nimbo. 

Questo fu rinvenuto in un sottoscala della domus dove si erano rifugiati due adulti con un bambino in tenera età il giorno dell'eruzione del Vesuvio. Evidentemente uno dei due adulti aveva tentato di salvare il prezioso bracciale, un altro fuggiasco portava invece con sé una cassettina in legno e bronzo con 40 monete d’oro e 175 in argento. Ma naturalmente tutti vi trovarono la morte e i loro calchi sono tutt'ora esposti al museo. 

CASA DEL BRACCIALE D'ORO VISTA DALL'ESTERNO


GLI SCAVI

La casa venne esplorata in epoca borbonica tra il 1758 e il 1763 e di conseguenza senza metodicità e con grande asporto di oggetti. 

Il pianoterra, che ha ingresso dal vico del Farmacista, presenta l’impianto della domus con l’atrio tuscanico fiancheggiato da cubicoli e, sul lato nord, un triclinio dai pavimenti asportati e un’ala che subì almeno tre trasformazioni.

Da cubicolo, con decorazione pavimentale databile in età repubblicana, fu infatti trasformato in ala alla fine del I secolo a.c. come mostra la decorazione in III stile a candelabri. Forse agli inizi del I secolo d.c. divenne un’apotheca e vi fu collocato un armadio sostenuto da una base in mattoni.


Per quanto riguarda il cubicolo, dai tondi spicconati, l’ambiente dovrebbe essere la “picciola camera” ricordata dal Paderni in cui nel 1759 fu rinvenuta una cassetta di legno con 11 denari d’oro tra i quali il noto medaglione di Augusto come provato secondo R. Cantilena dalla descrizione del pavimento in opus sectile di marmo giallo e africano. (“…ci sembra degno di essere qui rammentato un medaglione d’oro di Augusto” da Le Antichità di ercolano, II, Napoli 1760). 

Gli ambienti più esterni del piano erano i tre triclinia, con terrazza a vista panoramica sul golfo, edificati poggiandosi alle mura e sopravanzandole, cosicchè il terrapieno tra le due cortine murarie venne sfruttato per lussuosi ambienti di rappresentanza fin dagli inizi del I sec. d.c.. 

Dopo l'occupazione della città da parte dei veterani di Silla avvennero dei mutamenti. Fatta eccezione per l’ala, gli ambienti mostrano una decorazione in IV stile ma lo sviluppo planimetrico e le decorazioni di II stile del I piano sottostante lasciano supporre che, già in età repubblicana, la Villa fosse articolata almeno su due piani.



LA VILLA

Era dotata di un ingresso di servizio al n. 44 con una scala, posta lungo il muro di confine meridionale, che collegava il pianterreno al primo piano sottostante, poggiato sulle mura. Infatti parte della cortina muraria della città era stata utilizzata come appoggio per il I piano sottostante della casa e dall’altro era stata sfruttata come parete di una ampia cisterna che alimentava il triclinio-ninfeo.

Il I piano sottostante riceveva luce solo dalle finestre degli ambienti termali e dell’ambiente aperto verso occidente, ed è organizzato in triclini, un cubicolo, un altro ambiente e il settore termale. Alcuni di essi conservano le più antiche decorazioni in II stile. 



LE FINESTRE

Per il triclinio, il cubicolo, l’ambiente e la cucina c'erano dunque finestre interne mentre gli ambienti di servizio rimanevano bui per una temperatura costante in tutte le stagioni, visto che erano adibiti a magazzini. Il cubicolo decorato in II stile finale mostra un consistente restauro in IV stile sulla parete nord e nella volta dipinta con cerchi concentrici allacciati.

In origine la cucina e il cubicolo dovevano essere un unico ambiente come si evince dalla volta che è divisa in due tra la cucina e il cubicolo. Forse divisione avvenne in età neroniana, quando tutta la casa venne ristrutturata.

Sulla parete sud della cucina è ancora visibile una porta che conduceva all’ambiente della Casa di Marco Fabio Rufo, decorato in IV stile e attribuito alla cd. Bottega dei Vettii, che comunque  doveva essere stata parte della Casa del Bracciale d’Oro.

Al I secolo d.c. risale l’impianto termale costituito da un tepidarium, un calidarium e un frigidarium con una terrazza affacciata a mare. Tutti gli ambienti del lato ovest subirono consistenti restauri negli anni tra il 1974 e il 1978 a seguito dei quali sono stati fortemente rimaneggiati ma almeno i suddetti ambienti sono riconosciuti dalle suspensurae. 

Nei primi due piani manca una fase giulio claudia che è invece attestata invece nel II piano sottostante. Interessante è la decorazione del triclinio realizzata probabilmente dalla cosiddetta Bottega dei Vettii i cui quadri centrali e i medaglioni laterali sono stati distaccati per ragioni di sicurezza e conservazione.

MATRIMONIO DI ALESSANDRO MAGNO

IL MATRIMONIO DI ALESSANDRO MAGNO

La parete sud mostra al centro il quadro famoso con Alessandro e Rossane, figlia del satrapo di Bactra, da cui all'inizio la villa veniva chiamata “Casa delle Nozze di Alessandro”.  Secondo la tradizione le nozze con Rossane sarebbero state “d’amore” mentre quelle con Statira “politiche”, in quanto Alessandro avrebbe ricevuto con la fanciulla tutta la regione tra l’Ellesponto e il fiume Halys.

Il Moreno l'ha invece letta come il matrimonio tra Alessandro e Statira, figlia di Dario III di Persia, per lo scettro nelle di lei mani. Inoltre l’abito persiano è proprio dei guerrieri che costituivano la scorta dei sovrani achemenidi, i melophóroi, ricostituita da Alessandro non prima del 324 a.c., escludendo così la possibilità che si tratti di Rossane sposata nel 327 a.c. Inoltre i pilastri e le arcate dello sfondo potrebbero essere del padiglione innalzato per la festa nuziale a Susa.

Sulla parete nord dove sono rappresentati, insieme ad un satiro, Dioniso ed Arianna, il Moreno riconosce ancora una volta le nozze regali di Alessandro, questa volta con Parisatide, figlia di Artaserse III Oco, predecessore di Dario.


Tutta la decorazione della triclinio sarebbe dunque l’apoteosi di Alessandro attraverso la rappresentazione delle sue seconde e terze nozze celebrate a Susa nel 324 a.c. Al centro del soffitto, la Nike con trofeo avrebbe sottolineato le infinite vittorie di Alessandro. Tuttavia nella seconda raffigurazione (detta di Dioniso e Arianna) c'è una figura maschile in partenza su una nave che potrebbe invece alludere all’abbandono di Arianna da parte di Teseo.

D'altronde i personaggi principali sono stati abbondantemente assimilati anche ad Afrodite e Ares la cui iconografia si ritrova nello Zeus in trono dipinto nella zona superiore dell’oecus della Casa dei Vettii e nel quale si è riconosciuto l’Alessandro kerauno - phóros di Apelle. (Lagi De Caro, Alessandro e Rossane come Ares e Afrodite in un dipinto della casa Regio VI).

Nel piano più basso della casa e ad essa collegato per mezzo di una seconda scala, sempre posta lungo il muro perimetrale meridionale, si sviluppava un’area verde, sulla quale nel I sec. d.c. vennero aperti degli oeci tricliniari. Questi vennero ricavati sfruttando gli archi sostegno del piano superiore e decorati in III stile con pitture raffiguranti dei giardini dipinti e un ninfeo a mosaico.

Non risultano fasi abitative precedenti l’età imperiale documentata dalle decorazioni in III stile anche se il confronto con le adiacenti case di M. Fabio Rufo e M. Castricio lasciano presupporre che i piani più bassi di tutta l’insula furono, in precedenza utilizzate come aree verdi. 



L'ACQUEDOTTO DEL SERINO

L'acquedotto romano del Serino, detto anche acquedotto augusteo, fu costruito intorno al 10 d.c. per risolvere l'approvvigionamento idrico della città di Napoli. Il percorso della grandiosa opera partiva dalla sorgente del Serino, sull'altopiano irpino nei pressi del monte Terminio, per giungere fino alla Piscina mirabilis, a Miseno, dopo 96 Km. Era una vera e propria rete regionale, che riforniva 8 città e svariate villae: su dieci diramazioni, sette rifornivano le città e tre portavano l'acqua alle villae.

La moda dei giardini si stabilì proprio grazie a questo notevolissimo apporto d'acqua che permetteva non solo di irrigare i giardini ma pure di alimentarne le fontane con acqua corrente. Come detto, anche le ville potevano usufruire tramite pagamento (forse) oppure tramite raccomandazioni (che all'epoca non mancavano).

Infatti il grande triclinio della Villa del Bracciale presenta alle pareti pitture di giardino su uno zoccolo in opus sectile e sul fondo una nicchia-fontana rivestita di mosaici policromi in pasta vitrea e di schiuma di lava per dare l’effetto di una grotta dove scorre davvero e continuamente un getto d'acqua frastagliato dalle escrescenze naturali.

RICOSTRUZIONE DEL NINFEO

IL NINFEO

Durante la stagione estiva i banchetti si svolgevano al piano inferiore della villa, in un lussuoso triclinio aperto su un grande spazio verde rinfrescato dalle acque di un monumentale ninfeo. Questo è bordato da una cornice in aggetto al centro della quale si trova una scaletta di 12 gradini dipinti di azzurro dalla cui sommità scendeva l’acqua che si raccoglieva nella vasca posta nel giardino. 

Le pareti della cascata sono rivestite di “schiuma di lava” che aveva lo scopo di imitare una grotta naturale dalla quale sgorgava l’acqua, in realtà fornita dalla retrostante cisterna che era stata costruita sfruttando l’intercapedine tra le due cortine murarie della città.

Le pitture ed il ninfeo sono state asportate in seguito allo scavo dell’ambiente per cui ne è emerso il disegno preparatorio utilizzato dai decoratori come guida durante l’esecuzione del mosaico del ninfeo. 

La sinopia era una traccia di colore rossastro d'incerta composizione, usato un tempo dai pittori di affreschi per i disegni preparatori, e qui una sinopia mostra alcuni elementi come ad esempio il catino a conchiglia al quale furono aggiunti pendenti terminanti in fiori stilizzati.

Inoltre furono modificate la fascia decorativa ad archetti, che nella sinopia non compare, e la ghirlanda che si arricchisce, nella realizzazione finale, di foglie, fiori e frutti. Lo schema della decorazione pittorica presenta una tripartizione con un settore centrale con nicchia a fondo azzurro e due settori laterali simmetrici. 

I pannelli sono spesso separati tra loro da sottili colonne ornate da nastri e interrotte da medaglioni a fondo nero con figurine volanti o amorini. Essa dava l’illusione di trovarsi sotto un pergolato dal quale si poteva vedere un giardino lussureggiante con uccelli, statue egittizzanti, fontane, maschere, pinakes ed oscilla racchiusi tutt’intorno da un graticcio di canne che in alto forma un timpano e in basso una balaustra. 

Sullo sfondo di uno dei pannelli laterali è dipinta una vasca su alto piede, piena di acqua, ai cui lati si trovano statuine egizie mentre sull’altra sono raffigurate due sfingi di marmo bianco su una base di pavonazzetto poste ai lati di un pinax con il toro Apis. Le piante del giardino dipinto sono realizzate mediante una serie di sfumature cromatiche che rendono profondità e volume. 

Varie tonalità di verde sono infatti utilizzate per dare profondità ai cespugli. La decorazione è stata ricomposta per le pareti sud ed est, mentre della parete nord, schiacciata dal crollo della volta, si è salvata solo la parte inferiore.


Il ninfeo costituiva quindi il fulcro scenografico di uno straordinario triclinio estivo con letti in muratura dietro ai quali si scorge la decorazione pittorica di IV stile. Come è stato già osservato per la decorazione del ninfeo a mosaico anche le pitture in III stile, danneggiate dal terremoto del 62 d.c., furono in parte riparate e in parte sostituite. 

Lo zoccolo e il tratto ovest delle pareti sud e nord mostrano infatti tracce evidenti di un restauro particolarmente evidente nelle sfingi che appaiono goffe e tozze se confrontate con quelle della parete est. Si suppone che i letti in muratura venissero appoggiati allo zoccolo in finto rivestimento marmoreo in IV stile. 

Dinnanzi al triclinio con ninfeo si trova anche una fontana centrale semicircolare con pergola ed è stato possibile grazie ad analisi paleobotaniche ricostruire l’andamento delle aiuole del giardino nonché la tipologia delle piante presenti. Si tratta di due grandi aiuole con un viale centrale mentre sul muro nord le cavità lasciate dalle radici lasciano ritenere probabile la fitta presenza di vite rampicante. 

Le piante reali trovavano quindi una suggestiva continuità in quelle dipinte sulle pareti dell’oecus del triclinio, decorato da bellissime pitture di giardino che, per l’ottimo stato di conservazione dei colori dell’intonaco, nonostante le condizioni di frammentarietà, cui si è ovviato con una attenta e curatissima opera di distacco e ricomposizione realizzata tra il 1979 e il 1983, si pongono al primo posto fra quelle ritrovate nelle città vesuviane.



IL GIARDINO DIPINTO

La decorazione, rinvenuta negli anni ‘70 in numerosi frammenti sotto il crollo della volta, è stata minuziosamente recuperata e ne è riemerso un bellissimo viridarium con diversi tipi di piante, con erme di marmo, muretti elaborati, graticci di vimini ed uccelli di varia specie. Le pareti si aprono così illusoriamente in un giardino colto attraverso una grande finestra che si apre per tutta la sua larghezza.

La fauna e la flora sono rappresentate con grande perizia. Tra gli uccelli si riconoscono l’alzavola che si leva in volo, l’usignolo, la cornacchia grigia, la garzetta; tra le piante gli oleandri, i corbezzoli, il pino e le rose. 

Si pensa che dette piante avessero significato simbolico, ad esempio la palma da datteri, simbolo di vittoria e immortalità; l’alloro, sacro ad Apollo; il corbezzolo, simbolo di eternità; il papavero, attributo di Demetra; il pino, simbolo di fecondità e sacro ad Attis e Cibele; il viburno, consacrato nei trionfi; l’oleandro velenoso simbolo di morte, e la rosa, simbolo di amore e sacra a Venere. 

Anche negli uccelli raffigurati si è riscontrato un significato simbolico, come nel caso della colomba sacra a Venere simbolo della fedeltà coniugale o della coturnice simbolo dell’amore. A noi questa necessità di simbolizzazione non appare così frequente presso i romani, che nelle domus cercavano più la bellezza e la natura, senza ossessioni riguardo ai simboli.

A sinistra di un bacino di fontana zampillante si riconosce l’usignolo poggiato su di una canna utilizzata come sostegno alle rose. Dall’alto pendono degli oscilla con maschere dionisiache. La zona superiore a fondo nero è decorata con paraste rosse dinnanzi alle quali stanno anfore marmoree a rilievo poggiate su alti pilastrini, attraverso i quali si vedono padiglioni a graticcio separati da oscilla o da un pinax a fondo rosso con mascherine di Gorgone o di leone a rilievo.

La parete di fondo presenta una lunetta a fondo nero con quattro colombe presso un bacino dorato colmo d’acqua. La volta conserva tracce della decorazione di III stile imitante un pergolato di rose ed altri fiori dei quali rimangono solo scarsissime tracce visibili nella parte più interna dell’ambiente.

La datazione del dipinto si basa sull’acconciatura giulio-claudia dell’erma di fanciulla con una treccina sul capo, di moda nella prima metà del I secolo d.c. A seguito del terremoto del 62 d.c. la casa venne ridecorata in buona parte in IV stile. Infatti nel 1983 vennero rinvenuti molti frammenti dipinti appartenenti alla decorazione di un ambiente dei piani superiori spicconata e gettata in giardino. Dai frammenti si ricomposero quattro pannelli di una raffinatissima parete del III stile.




LA PARETE DEL III STILE

La parete ricomposta misura 3,10 m con uno zoccolo a fondo nero con piccoli riquadri e una predella con infiniti dettagli decorativi. Sormontata da una fascia decorativa delimitata superiormente da una banda a cuori, quest’ultima presenta al centro personaggi del tiaso dionisiaco che si dilettano con la musica: un vecchio Sileno suona il doppio flauto e una Menade suona la lyra alla presenza di altre due.

Un secondo gruppo presenta una Menade che guarda un satiro che corre portando sul dorso un’altra Menade. Il registro mediano presenta un quadro centrale, su fondo nero, con un personaggio maschile nel quale si riconoscerebbe il poeta Euforione. L'interpretazione però è confutata dalla presenza, a destra, di una figura femminile con tavoletta cerata riflessa in uno specchio di ossidiana o d’argento con cornice d’oro.

Il tratto della parete a sinistra del quadro, dipinto a fondo rosso, mostra uno splendido giardino composto da edere, racemi di vite, bianche rose selvatiche, oleandri, pomi e pigne; dalla fitta vegetazione emergono una testa di Sileno, un flauto di Pan, una situla d’argento e altri oggetti legati al mondo dionisiaco.

In alto è invece stato ricomposto uno scorcio architettonico con esili colonne ioniche oltre le quali svettano porticati che sostengono un architrave decorato con maschere, pantere, grifi, sirene, una figura femminile con cornucopia e colonne alle quali si arrampicano lucertole, lumache e campanule.

Il pannello del registro superiore a fondo giallo era costituito al centro da un quadretto a forma di ghianda a fondo nero con satiro e Menade. Nei pannelli laterali vi erano quadri con ritratti; si conserva quello di destra, nel quale appaiono in primo piano, come affacciati ad una finestra, due personaggi accompagnati da una fanciulla posta in secondo piano.

La giovane matrona indossa un diadema sul capo ed un dittico nella mano, mentre il coniuge veste una clamide rossa e una corona d’edera sul capo. I restanti pannelli presentano un secondo ovale e un frammento della predella di grande raffinatezza dove su fondo nero delimitato in alto da una fascia con motivo cuoriforme spicca al centro un kantharos ai cui lati vi sono cespi vegetali con lepri.



LE LASTRE FITTILI

Sempre in giardino furono inoltre rinvenute una serie di lastre fittili a rilievo, con tracce di policromia, decorate con divinità, girali ed eroti facenti parte di un fregio architettonico. Esse erano state reimpiegate nel muro perimetrale ovest, in parte come riempimento della parete, in parte come ornamento di una parete nel giardino della casa e in parte come copertura della canaletta di scarico del giardino.

Originariamente esse dovevano costituire la decorazione di un piccolo edificio sacro in un fregio raffigurante il mito di Apollo e Marsia oppure una scena dionisiaca. Le lastre avevano una vivace policromia databili al II secolo a.c.

La domus in età repubblicana risalente ai primi decenni del I secolo a.c.. già fruivano di un tratto esterno alle mura in relazione all’utilizzo dell’accesso esterno alle mura (Porta Occidentalis) e ai materiali di carattere sacro riferibili ad un edificio religioso extra moenia dedicato ad una divinità femminile (Minerva Italica).
Tra il 30-35 d.c. e il terremoto del 62 d.c., la dimora fu abbellita  e dotata di ambienti termali. In particolare l’atrio, i triclinia e il cubiculum furono completamente ridipinti e le murature furono ampiamente restaurate in opera vittata.

Nel primo piano sottostante furono realizzati alcuni restauri integrativi mentre nel piano più basso, probabilmente più solido in quanto addossato alle pendici della collina, fu necessario apportare solo qualche riparazione.

Non appaiono in alcun modo modificati, invece, l’ala e l’oecus che conservano la decorazione in III stile. La domus denota quindi un notevole livello di ricchezza e raffinatezza soprattutto nelle pitture di III stile che presuppongono preziosi artigiani.

La ricca famiglia non si impoverì con il disastroso terremoto del 62 d.c., come dimostra il cospicuo nucleo di monete e gioielli fra cui quaranta aurei e centosettanta denari d’argento rinvenuti sparsi, evidentemente in quanto caduti dalla teca di legno nella quale erano custoditi e portata da uno dei quattro fuggiaschi rinvenuti ai piedi della scala che conduceva al giardino.

Proprio uno dei denari d’argento appartenenti al tesoretto ha consentito di stabilire una nuova datazione per l’eruzione del 79 d.c. Infatti l’indicazione del titulus “IMP XV” impresso sulla moneta e ricevuto da Tito non prima del settembre 79 dà l'esatta data della distruzione della città.



Biblio

R. Cantilena - Le Antichità di ercolano (II, Napoli 1760)
R. Ciardiello - Alcune riflessioni sulla Casa del Bracciale d’Oro a Pompei
C. Paderni -  Monumenti antichi rinvenuti ne reali scavi di Ercolano e Pompei delineati e spiegati da D. Camillo Paderni Romano (Napoli - 2000)



MARCO VERRIO FLACCO - M. VERRIUS FLACCUS

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MARCO VERRIO FLACCO

Nome: Marcus Verrius Flaccus
Nascita: 50 a.c. circa
Morte: 20 d.c.
Professione: Grammatico Romano


"In primis miraculo sunt atque frequenti mortes repentinae, hoc est vitae summa felicitas, quas esse naturales docebimus. Plurimas prodidit Verrius, nos cum delectu modum servabimus. (Sequuntur exempla". Plinius, H.N, VII, 53, § 180.)

Marco Verrio Flacco, ovvero Marcus Verrius Flaccus, è stato un grammatico romano, vissuto tra la fine del I sec. a.c. e l'inizio del I dc. (circa 50 ac. – 20 dc). In realtà fu il più grande filologo e grammatico del suo tempo. Verrio era un liberto, anche se non si conosce il nome del suo patronus.

Fonte prima per ricostruirne la vita e l'opera è il De grammaticis et rhetoribus di Svetonio. Come altri grammatici era un liberto, ma non si conosce il nome del suo patronus. Secondo altri invece fu Veranius Flaccus, uno scrittore di augurii, e secondo altri ancora Verrius Flaccus, un'autorità sulle leggi pontificali.

Ignota è anche la sua terra di origine, ma si suppone però che fosse di Preneste. Svetonio infatti afferma che, non solo in quella città gli furono tributati onori e gli fu dedicata una statua, ma fu lo stesso Verrio Flacco a riordinare i Fasti praenestini.

Come insegnante, egli introdusse un nuovo sistema educativo. A differenza dei suoi colleghi, che prediligevano il solito passivo degli studenti, Verrio Flacco ne utilizzava uno basato sulla competizione e la promessa di un premio (di solito un libro di valore) per il vincitore. Questo sistema, per i tempi certo innovativo, gli valse grande fama, tanto che lo stesso Augusto lo scelse come precettore dei suoi nipoti, Gaio e Lucio.  Morì in età avanzata durante il regno di Tiberio (Svetonio, De Grammaticis, 17), e una statua in suo onore fu effettivamente eretta a Preneste, in una nicchia di marmo, con iscrizioni tratte dal suo Fasti.



LE OPERE


Scrisse diverse opere filologiche (purtroppo perdute) Nulla dice Svetonio sulle opere di Verrio Flacco. Soltanto un accenno indiretto permette di stabilire che scrisse dei libri sull'ortografia: nel paragrafo 19, infatti, è ricordato che Scribonio Afrodisio [Verrii Flacci] libris de orthographia rescripsit ("replicò ai libri sull'ortografia di Verrio Flacco").

GAIO NIPOTE ED EREDE DI AUGUSTO
In realtà si conoscono i titoli e si possiedono frammenti di altri suoi scritti:
- Res memoria dignae, un'opera antiquaria citata dallo scrittore romano Aulo Gellio;
- Saturnus, altra opera antiquaria sulle feste Saturnalia e in genere sui rituali romani;
- Res Etruscae; probabilmente sull'arte divinatoria degli auguri
- De obscuris Catonis, di argomento filologico.

Da Aulo Gellio - LIBRI RERUM MEMORIA DIGNARUM
"Tunc igitur quod in Etruscos aruspices male consulentes animadversum, vindicatumque fuerat versus hic [senarius] scite factus, cantatusque esse a pueris urbe tota fertur: “Malum consilium consultori pessimum est.” Ea historia de haruspicibus ac de versu isto senario scripta est in Annalibus Maximis libro undecimo, et in Verrii Flacci libro primo Rerum memoria dignarum."
"Poichè andò che nel consiglio degli indovini etruschi alcuni indovini erano avversi, e il reclamo era stato trasformato in versi, si dice che hanno cantato i ragazzi in tutta la città: "Il mal consiglio dei consulenti è il peggiore." La sua storia degli indovini, e il senario di questo versetto è stato scritto negli Annali Massimi nel libro undicesimo, e nel primo libro di Flacco Verrii Rerum memoria dignarum (di cose degne di essere ricordate).

L'opera più importante è però il De verborum significatu, il prodotto più completo ed erudito dell'antica lessicografia latina, una specie di vocabolario dove le parole erano spiegate nel valore etimologico, storico e giuridico.

Il testo, vastissimo, ci è noto attraverso il compendio che ne fece Festo Sesto Pompeo nel II sec. in 20 libri e il successivo compendio di Festo operato da Paolo Diacono, il famoso storico dei longobardi del sec. VIII. Da entrambi è possibile apprendere il carattere e la struttura dell'originaria opera di Verrio Flacco.

LUCIO NIPOTE ED EREDE DI AUGUSTO
Si trattava di un "vocabolario" di termini rari e eruditi, ordinati alfabeticamente e corredati di citazioni di autori precedenti utili a capirne contesto e significato. A furia di compendi, l'opera di Verrio Flacco ci è giunta molto lacunosa, poiché, mentre la prima parte rispetta rigorosamente il criterio alfabetico, la seconda contiene termini in ordine sparso, inseriti dall'autore via via che li incontrava nelle sue letture: è questo il segnale rivelatore che Verrio Flacco non ebbe il tempo di procedere ad una completa revisione del suo testo.

In ogni caso, le informazioni trasmesse sono molte preziose. Verrio Flacco fu anche autore dei Fasti Prenestini, un'opera in cui illustrava, mese per mese (come nei Fasti di Ovidio) gli avvenimenti di Preneste, sua città natale. L'opera però è andata totalmente perduta.

Grazie a Verrio Flacco sappiamo, ad esempio, che il mese di febbraio, februarius in latino, deve il suo nome all'antichissimo rito delle februa - espiazioni, purificazioni, dal verbo februo = io purifico - che avvenivano alla fine dell'anno del vecchio calendario romano. Nel calendario romano arcaico, febbraio era l'ultimo mese dell'anno.
Con il 23 di febbraio (festa dei Terminalia in onore del dio Termine) e con il giorno successivo (Regifugium, la festa per la cacciata dei re), a esso sacralmente legato, terminava ufficialmente l'anno.

I giorni seguenti, fino a marzo con cui incominciava il nuovo anno sacro, erano considerati quasi fuori del tempo: erano i giorni intercalari che si aggiungevano di volta in volta per far coincidere l'anno calendariale con l'anno solare.

FASTI PRENESTINI

FASTI PRENESTINI

Il calendario di Numa Pompilio era:

secondo Macrobio e Plutarco:

- Ianuarius (29)                                  
- Februarius (28)
- Martius (31)
- Aprilis (29)
- Maius (31)
- Iunius (29)
- Quintilis (31)
- Sextilis (29)
- September (29)
- October (31)
- November (29) 
- December (29)

secondo Ovidio:  

- Ianuarius (23)
- Martius (23)
- Aprilis  (23)
- Maius  (23)
- Iunius  (23)
- Quintilis (23)
- Sextilis  (23)
- September (25)
- October  (25)
- November  (25)
- December   (25)
- Februarius (25)

Febbraio fu diviso in due parti, ciascuna con un numero dispari di giorni: la I parte finiva il giorno 23 con la Terminalia, mentre i restanti cinque giorni formavano la II parte.

Per allineare l'anno del calendario con quello solare, venne aggiunto un mese intercalare, il mercedonio (Mensis Intercalaris, anche noto come Mercedonius o Mercedinus), tra la I e la II parte di febbraio. Il mercedonio finiva con l'assorbire i cinque giorni della seconda parte di febbraio: in questo modo, non si verificavano cambiamenti nelle date e nelle festività. 

L'anno intercalare, con l'aggiunta del mercedonio, risultava di 377 o 378 giorni, a seconda che iniziasse il giorno dopo o due giorni dopo la Terminalia. Il mercedonio aveva 27 giorni: le none cadevano il quinto giorno e le idi il tredicesimo giorno. La decisione di inserire il mese intercalare spettava al pontefice massimo e in genere veniva inserito ad anni alterni.

Del calendario delle feste romane (Fasti Praenestini) incise su marmo e impostate nel forum a Preneste, sono stati scoperti alcuni frammenti (1771) ad una certa distanza dalla città stessa in un edificio cristiano di data successiva, e un po 'di Fasti consolari nel forum stesso (1778). La collezione è stata successivamente aumentata di due nuovi frammenti.

FASTI PRENESTINI



FASTI PRENESTINI


GENNAIO

... denominato nel Lazio . . . sacrifici con la libagione che è chiamata Janual.

A
Calende di Gennaio. Affari in Tribunale. A Aesculapius e Vediovis sull'isola. Questo giorno, come nelle altre calende, si chiama così perchè è il primo dei giorni in cui il pontefice minore chiama sul Campidoglio nella casa del senato calabra, ogni mese, fino ad ogni Nona. Il nuovo anno inizia perchè in questo giorno prendono il loro ufficio i nuovi magistrati; ciò iniziò nel 601 ab Urbe condita.
B
Affari in Tribunale. Questo giorno è fausto. Questi giorni sono chiamati fastus perchè su loro è permesso alla presenza dei magistrati del popolo romano di pronunciare queste parole, senza che alcun affare legale possa aver luogo. è un giorno sacro, come sono tutti i giorni che seguono le calende, e nessun sacrificio può essere fatto in questi giorni.
C
Affari in Assemblea. Questi giorni sono chiamati comitialis, quando ai romani è permesso di venire insieme, assemblearsi e incontrarsi, e gli affari legali possono aver luogo . . . dalla cui legge . . . nessun affare legale può aver luogo.
D
Affari in Assemblea.
[ V ]
E
None . . .
F
Affari in Tribunale. Questo giorno è un giorno sacro, come tutti i giorni che seguono le none, per la stessa ragione di tutti i giorni che seguono le calende.
G
Affari in Assemblea. Cesare Augusto per primo prese i fasci, quando Hirtius e Pansa erano consoli.
Tiberio Cesare fu nominato nel consiglio dei sette epuloni.
H
Affari in Assemblea. Tiberio Cesare dedica la statua della Giustizia Augusta . . . quando Plancus e Silius erano consoli.
A
Nessun Affare; Festa Pubblica. Agonalia . . . Agonia . . . o perchè . . .
[ X ]
B
Mercidonio. Questa parola [endotercisus] significa che il giorno è dimezzato perchè nei tempi antichi la parola era usata per "in". Su un giorno dimezzato, esso è illegale nel mattino . . . prima che la vittima sia sacrificata, e dopo che le interiora sono state disposte . . . di nuovo è illegale. Pertanto spesso il responso è dato . . . che a mezzogiorno gli affari possono aver luogo. Tiberio Cesare . . .
C
Nessun Affare; Festa Pubblica. Carmentalia . . . Carmentis guarda dopo la nascita dei bambini e tutti gli eventi futuri, e pertanto dentro il santuario non consentono oggetti di cuoio o qualsiasi presagio associato ad animali morti.
L'Imp. Cesare Augusto pone fine alle guerre, per la terza volta da Romulus, e chiuse il cancello di Giano, quando era console per la V volta, con Sextus Appuleius.
Augusto . . . Tiberio Cesare
D
Affari in Assemblea.
E
Idi. Nessun Affare; Festa Pubblica . . .
Il senato decretò che una corona di quercia doveva essere posta sopra la porta della casa di Cesare Augusto, perché aveva restaurato la repubblica al popolo romano.
F
Mezzo giorno. Giorno sfavorevole per decreto del senato: compleanno di Antonio.
Questo giorno è un giorno sacro, per la stessa ragione di tutti gli altri giorni che seguono le Calende e le None.
[ XV ]
G
Nessun Affare; Festa Pubblica Carmentalia. Festa di Carmenta, per la stessa ragione come l'XI giorno. Questa festa si dice che fu stabilita da Romolo perchè egli catturò Fidene in questo giorno.
H
Affari in Assemblea. L'Imperatore Cesare fu chiamato Augusto, quando fu console per la III volta e Agrippa fu console per la III volta.
Il tempio della Concordia Augusta fu dedicato quando Publio Dolabella e Caio Silvano erano consoli. Tiberio Cesare lo dedicò quando tornò dalla Pannonia.
A
Affari in Assemblea. I Pontefici, gli auguri, i quindecimviri sacris faciundis, e i septemviri epulonum sacrificavano vittime alla testa del Dio Augusto sull'altare che Tiberio Cesare aveva dedicato.
B
CARDEA
Affari in Assemblea.
C
Affari in Assemblea.
[ XX ]
D
Affari in Assemblea.
E
Affari in Assemblea.
F
Affari in Assemblea.
G
Affari in Assemblea.
H
Affari in Assemblea.
[ XXV ]
A
Affari in Assemblea.
B
Affari in Assemblea.
C
Affari in Assemblea. Il Tempio di Castore e Polluce fu dedicato in questo giorno.
D
Affari in Assemblea.
E
Affari in Tribunale. Festa Pubblica. per decreto del senato, poichè in questo giorno . . . dall'Imp. Cesare Augusto il Pontefice Massimo . . . del mare . . . Il divinizzato Cesare aggiunse questo ai giorni seguenti per incrementare il numero dei giorni nell'anno.
[ XXX ]
F
Nessun Affare; Festa Pubblica. Festa Pubblica per decreto del senato, poichè in questo giorno l'Ara Pacis Augustae fu dedicata in Campo Marzio, quando Druso e Crispino erano consoli..
G
Affari in Assemblea.
31 [giorni di Gennaio]



FEBBRAIO
* * *
[ V ]
D
None. Nessun Affare; Festa Pubblica. A Concordia sul Campidoglio.
Festa Pubblica., per decreto del senato, perchè in questo giorno Cesare Augusto il pontefice Massimo, quando ottenne il potere tribunizio per la XXI volta e fu console per la XIII volta, gli venne dato il titolo di pater patriae dal senato e dal popolo di Roma.
* * *
[ XVII ]
H
Nessun Affare; Festa Pubblica.. Quirinalia.
A Quirino sul Colle . . . il nome sabino per una lancia nella curia . . . i Sabini chiamano Marte dal nome di Quirino . . . la festa dei folli . . .
* * *



MARZO

Marzo è chiamato così da Marte, il Dio latino della guerra, e aveva questo nome tra il popolo di Alba e più di altri popoli del Lazio, anche prima della fondazione di Roma. Comunque alcuni pensano che avesse questo nome perchè i sacrifici venivano offerti a Marte durante questo mese.
D
Calende di Marzo. Nessun Affare; Festa Pubblica. Festa di Marte e di Giunone Lucina sull'Esquilino, perchè in questo giorno un tempio fu dedicato a lei dalla moglie o figlia di Albino, perchè giunone proteggesse la madre e il suo bambino.
E
FESTA DELLE DONNE ALLE
CALENDE DI MARZO
Affari in Tribunale.
F
Affari in Assemblea.
G
Affari in Assemblea.
[ V ]
H
Affari in Assemblea.
A
Nessun Affare; Festa Pubblica. Festa Pubblica per decreto del senato perchè in questo giorno, l'Imp. Caesar Augustus fu eletto pontefice massimo, quando Quirino e Valgio erano consoli. I duumviri offrono un sacrificio per ricordare l'occasione; il popolo indossa ghirlande e la considera come una festa.
B
None. Affari in Tribunale. A Veiove sul Campidoglio e Vediovis tra i due boschetti.
C
Affari in Tribunale..
D
Affari in Assemblea.
[  ]
E
Affari in Assemblea. Festa Pubblica per decreto del senato perchè in questo giorno Tiberio Cesare fu nominato Pontefice Massimo, quando Druso e Norbano erano consoli.
* * *
. . . del nuovo anno . . .
C
Affari in Tribunale..
D
Nessun Affare; Festa Pubblica. Liberalia.
E
Affari in Assemblea.
F
Nessun Affare; Festa Pubblica Quinquatrus [V giorno] . . . comunque altri più probabilmente pensano gli fu dato quel nome perchè era il V giorno dopo le Idi, come i giorni dopo le Idi sono numerate in questo modo nel Lazio.
Giorno sacro per gli artigiani, perchè in questo giorno fu dedicato un Tempio a Minerva sull'Aventino.
I Salii eseguono una danza nel Comizio alla presenza dei pontefici e i tribuni dei celeres.
[ XX ]
G
Affari in Assemblea.
H
Affari in Assemblea.
A
Nessun Affare.
B
Nessun Affare; Festa Pubblica  Tubilustrium. la festa di Marte in questo giorno fu dato questo nome perchè nell'Atrium Sutorium essi puliscono le trombe che vengono usate nei riti sacri. Infatti Lutazio dice che è la clava con cui Romolo inaugurò la città di Roma, e che si è trovata tra le rovine del Palatino dopo che fu bruciata dai Galli.
C
"Legale quando il re era nel Comizio". Molti erroneamente supposero che a questo giorno fu dato il suo nome perchè fu in questo giorno che il re fuggì dal Comizio. Ma Tarquinio non fuggì dal Comizio per andare in esilio, e vi sono altri giorni del mese con lo stesso titolo. Perciò noi pensiamo che sia più probabile che questo titolo significhi che dopo che i sacrifici siano eseguiti, gli Affari possano avere luogo nel Tribunale. 
[ XXV ]
D
Affari in Assemblea.
* * *
[ XXX ]
A
Affari in Assemblea.
B
Affari in Assemblea. Al tempio della Luna sul colle Aventino.
31 [giorni di Marzo]



APRILE


Aprile è chiamato dopo Venere, perchè ella si accoppiò con Anchise  e divenne madre di Enea il re dei Latini, da cui è sorta la razza di Roma. Altri pensano fu chiamata così dopo l'apertura del monte, poichè poi nascono fiori frutti e animali, sia di mare che di terra.
C
Calende di Aprile. Affari in Tribunale. Le donne si riuniscono insieme per fare suppliche a Fortuna Virile. Le donne umili anche fanno supplica nei bagni, perché in loro, come gli uomini, appaiono nude in quella parte del corpo, con cui si attraggono gli uomini nella loro femminilità.
D
Affari in Tribunale.
E
Affari in Assemblea.
F
Affari in Assemblea. I giochi della Magna Idaean Madre degli Dei. Erano chiamati Megalensia, poichè il nome della Dea è Megale[grande]. Di solito ci sono molte offerte reciproche di splendidi banchetti, perché la Grande Madre, quando fu evocata dai Libri Sibillini, trasferì la sua casa da Frigia a Roma.
[ V ]
E
None. Nessun Affare. Giochi. Alla Fortuna Publica Citeriore, La Fortuna più vicina dello Stato.
H
Nessun Affare; Festa Pubblica. Giochi. Festa Pubblica  perchè in questo giorno Gaio Cesare, figlio di Gaio, sconfisse re Juba in Africa.
* * *
[ X ]
D
Nessun Affare. Durante due giorni, un grande sacrificio viene offerto alla Fortuna Primigenia.In ognuno di questi giorni è aperto l'oracolo. I duumviri sacrificano un vitello. I giochi si svolgevano nel circo per la Grande Idaean Madre degli Dei sul Palatino, perchè in questo giorno le fu dedicato un Tempio.
E
Nessun Affare.
F
Nessun Affare. Giochi per Cerere.
G
Idi. Nessun Affare; Festa Pubblica.. Giochi.
H
Nessun Affare. Giochi.
[ XV ]
A
Nessun Affare; Festa Pubblica. Fordicidia. Sacrificio di vacche o vitelli. Giochi . . . un Osco e Sabino.
Aulus Hirtius, con C. Caesar {come suo collega nel comando, vinse at Mutina. Da qui fino al momento attuale, si è soliti fare suppliche a augustea Vittoria. 
B
VENERE E FAUNI
Nessun Affare. Giochi . . .
C
Nessun Affare. Giochi.
D
Nessun Affare. Giochi.
E
Nessun Affare; Nessun Affare. Cerealia. Giochi nel Circo.
[ XX ]
F
Nessun Affare.
G
Nessun Affare; Festa Pubblica. Parilia . . . i fuochi saltano. . . all'inizio dell'anno pastorale . . .
H
Nessun Affare.
A
Affari in Tribunale. Vinalia. A Jupiter. Una libagione di ciascun vino nuovo è offerta a Jupiter, perchè quando i Latini furono fortemente pressati dai Rutuli in guerra, Mezentio il re degli Etruschi gradì venire in loro aiuto se essi gli avessero dato la produzione dei loro vini ogni anno.
Julia Augusta e Tiberio Augustus dedicarono una statua al divino padre Augusto vicino al Teatro di  Marcello.
B
Affari in Assemblea. Tiberio indossa la toga virile, mentre erano consoli l'Imp. Cesare, per la settima volta, e Marco Agrippa, per la terza volta.
[ XXV ]
C
Nessun Affare; Festa Pubblica. Robigalia. Festa di Robiga al V miglio della via Appia. Per evitare che la muffa danneggi i raccolti, un sacrificio viene offerto, e giochi con corse maggiori e minori.
Questo giorno è una festa per i ragazzi protettori, perché il giorno precedente è una festa per le prostitute.
D
Affari in Tribunale. Questo giorno fu aggiunto dalla deificazione di Cesare.
E
Affari in Assemblea.
F
Nessun Affare; Festa Pubblica.. Games for Flora.
Festa Pubblic., per decreto del senato, perché in questo giorno il santuario e l'altare di Vesta sono state dedicate in casa dell' imp. Cesare Augusto, il pontefice massimo, quando Quirino e Valgius erano consoli.
In questo giorno un tempio era dedicato a Flora, che cura la fioritura delle piante, e cura la sterilità delle colture ..
D
Affari in Assemblea. Giochi.
E
Affari in Assemblea. Giochi.
30 [giorni in Aprile]

* * *



AGOSTO

In questo mese, l'Egitto passò sotto il controllo del popolo romano.
[ I ]
G
Calende di Augusto. Nessun affare; Festa pubblica. A Vittoria. A Vittoria la Vergine sul Palatino. A Spes nel Foro Olitorio.
Festa Pubblica., per decreto del senato, poichè in questo giorno l'Imp. Cesare Augusto salvò la repubblica da un pericolo terribile.
H
Affari in Assemblea . . . di Sol e Luna ... Marte . . .
* * *



SETTEMBRE

* * *
[ XXVI ]
E
Affari in Assemblea. A Venere Genetrice nel Foro di Cesare.
* * *



OTTOBRE

* * *
[ XX ]
E
Affari in Assemblea . . . precedentemente essi spesso usavano gustare il sangue. . .
F
Affari in Assemblea.
G
Affari in Assemblea.
H
Affari in Assemblea. Imp. Cesare Augusto vince la II battaglia a Philippi, e Bruto venne ucciso.
Tiberio guida un carro in trionfo per l'Illyricum.
A
Affari in Assemblea. Un favore. A Venere Ericina fuori di Porta Collina.
* * *



DICEMBRE

* * *
F
Affari in Assemblea.
G
Affari in Assemblea.
H
Affari in Assemblea.
[ X ]
H
BONA DEA
Affari in Assemblea. I tribuni della plebe entrano in officio..
A
Nessun Affare; Festa Pubblica: Agonalia.
B
Mezzo giorno.
C
Idi. Nessun Affare; Festa Pubblica.
A Tellus. Un lectisternium a Cereres "in Carinis" . . . gli edili . . . ed essi fanno un lectisternium da divani  . . . che il contraente provvede.
D
Affari in Tribunale.
[ XV ]
E
Nessun Affare; Festa Pubblica. Consualia. Festa di Consus. Muli e cavalli sono decorati con fiori perchè sotto la sua protezione . . . e così il re viene portato su un cavallo.
F
Affari in Assemblea.
G
Nessun Affare; Festa pubblica.
* * *
C
Nessun Affare; Festa pubblica. Divalia. Festa della Dea Angerona, che prese nome dal disagio della fastidiosa angina poichè ella un tempo rivelò un rimedio per essa. Hanno posto la statua di lei con la bocca imbavagliata sull'altare di Volupia, per mettere in guardia la gente a non proferire il nome segreto della città.
D
Affari in Assemblea. Ai Lari Permarini nel portico Minucio.
E
Nessun Affare; Festa Pubblica. Larentalia. La festa dei Parentalia per Jupiter e Acca Larentina. Si dice che ella fosse la nutrice di Romolo e Remo; altri dicono che ella fosse una prostituta, la ministra di Hercules. Le venivano fatte offerte pubbliche, perchè ella lasciò in eredità al popolo romano un grande ammontare di denaro, che fu lasciato a lei per volontà di Tarutilus (o Tarvilius), il suo amante.
F
Affari in Assemblea.
[ XXV ]
G
Affari in Assemblea.
H
Affari in Assemblea.
A
Affari in Assemblea.
B
Affari in Assemblea.
C
Affari in Tribunale.
[ XXX ]
D
Affari in Tribunale.
E
Affari in Assemblea.

31 [giorni in Dicembre]

BATTAGLIA DI SENTINO

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«Guida le schiere contro i Galli e lava col sangue dei nemici il sangue nostro
(Accio, Eneadi framm. 3)


I PERSONAGGI: 

- Publio Decio Mure (puntò su una tattica offensiva impegnando tutte le sue forze)
- Fabio Massimo Rolliano Quinto (convinto che Galli e Sanniti non fossero avvezzi alle battaglie prolungate, puntò su una tattica difensiva)
- Lucio Cornelio Scipione Barbato (Conquistò la Taurasia, Cisauna, il Sannio, soggiogò tutta la Lucania e liberò gli ostaggi)
- Gellio Egnazio (grande condottiero Sannita)
- Vel Lathites  (grande condottiero Etrusco)

Questi gli uomini che ebbero in mano il destino di Roma. L'Urbe sopportò una delle battaglie più rischiose e cruente della sua storia. In questa battaglia si sarebbe definito il suo destino, perchè come non mai Roma fu qui sola contro tutti, ovvero contro tutte le nazioni.

La battaglia del Sentino, detta anche delle nazioni, si svolse nel 295 a.c., durante la III guerra sannitica, ed ebbe l'esercito romano, con unici alleati i Piceni, contro un'alleanza di popolazioni, composta da Etruschi, Sanniti, Galli Senoni ed Umbri, che una volta per tutte volevano distruggere l'esercito e la città di Roma. Si chiamò "Battaglia delle Nazioni dell'antichità": perchè tutte le popolazioni (o nazioni) del centro Italia furono coinvolte nello scontro, che decise le sorti di tutto quel territorio. Era in gioco il dominio dell'Italia centrale e l'esistenza stessa del popolo Romano.

All'inizio del III secolo a.c. l'Italia centrale era divisa nelle "Nazioni" dei Sanniti nel Sannio, dei Romani nel Latium, degli Etruschi nell'Etruria, dei Piceni e dei Galli Senoni nel Picenum, degli Umbri nel territorio fra il Tevere e il Sannio settentrionale, dei Greci nel sud Italia.

Tra questi stati c'era un certo equilibrio ma Roma grazie alle vittorie sui Latini (340 - 338 a.c.), sui Sanniti nella I guerra sannitica (343 - 341 a.c.), e nella II guerra sannitica (326 - 304 a.c.), e sugli Etruschi (310 - 309 a.c.) lo stava distruggendo a proprio favore.

Allora i Sanniti, impegnati nella III guerra sannitica (296 a.c.) chiesero e ottennero l'alleanza di Etruschi, Umbri e Galli per distruggere Roma. Si formò una coalizione di quattro popoli, che radunò un grosso esercito nel territorio di Sentino. I Piceni, invece, che avevano subito l'invasione dei Galli, si allearono con i Romani fin dal 299 a.c..



L'ACCAMPAMENTO DEI ROMANI

L'accampamento dei romani per la battaglia è descritto sempre da T. Livio:
"I consoli valicato l'Appennino raggiunsero il nemico nel territorio di Sentino; ivi, a circa quattro miglia di distanza, fu posto l'accampamento. L'esercito Romano percorse tale via e giunse nei pressi della pianura dell'odierna Fabriano."

La via di collegamento toccava le località di Civita-Tuficum-Aesis-Sextia e raggiungeva Anconam. Un insediamento romano con alcune ceramiche e reperti preromani sono emersi nei pressi di S.Maria in Campo. Secondo la tradizione nel trivio di S.Croce esisteva un tempio dedicato ad Apollo, quindi si può ipotizzare che la via di comunicazione che l'attraversava era molto antica.



L'ACCAMPAMENTO DEI GALLI

Gli Umbri, gli Etruschi arrivarono sul luogo della battaglia attraverso i passi di Croce d’Appennino, Scheggia e Cagli e potrebbero aver posto gli accampamenti nella piane di S.Cassiano, Molinaccio, Pegliole e Marischio. A questi venne affidato il compito di attaccare l'accampamento romano.

I Sanniti potrebbero essere arrivati dal Molise attraversando i territori dei Peligni, Prestini, Pretuzzi e Piceni e tramite la Via gallica di Firmium, Urbs Salvia, Helvia Recina, Auximum, Aesis, penetrarono nell’area della battaglia. Essi raggiunsero i loro alleati attraverso le valli del Misa, del Cesano o Esino.

I Senoni, già padroni del territorio Sentinate, si schierarono a fianco dei Sanniti, nella stessa area, seguendo le medesime strade sicuramente adatte al transito di carri da combattimento. Ai Sanniti ed ai Galli fu affidato il compito di dare battaglia ai romani sul campo di guerra.


LA I MOSSA ROMANA

Venuti a sapere dei piani dei nemici grazie a dei delatori, i consoli romani fecero attaccare Chiusi da un loro distaccamento che era rimasto presso Roma, ottenendo che gli Etruschi si allontanassero da Sentino, per proteggere la loro città. Un nemico in meno.



PERSONAGGI DELLA BATTAGLIA

DEVOTIO DI DECIO MURE

PUBLIO DECIO MURE

La devotio per la battaglia di Sentino, eseguita dal secondo Publio Decio Mure, viene narrata da Tito Livio, con la formula che il pontefice Marco Valerio suggerisce al console Publio Decio Mure:

"Iane, Iuppiter, Mars pater, Quirine, Bellona, Lares, Diui Nouensiles, Di Indigetes, Diui, quorum est potestam nostrorum hostiumque, Dique Manes, uos precor ueneror, ueniam peto feroque, uti populo Romano Quiritium uim uictoriam prosperetis hostesque populi Romani Quiritium terrore formidine morteque adficiatis. Sicut uerbis nuncupaui, ita pro re publica populi Romani Quiritium, exercitu, legionibus, auxiliis populi Romani Quiritium, legiones auxiliaque hostium mecum Deis Manibus Tellurique deuoueo."

Traduzione:

"Oh Giano, Giove, Marte padre, Quirino, Bellona, Lari, Divi Novensili, Dei Indigeti, Dei che avete potestà su noi e i nemici, Dei Mani, vi prego, vi supplico, vi chiedo e mi riprometto la grazia che voi accordiate propizi al popolo romano dei Quiriti potenza e vittoria, e rechiate terrore, spavento e morte ai nemici del popolo romano dei Quiriti. Così come ho espressamente dichiarato, io immolo insieme con me agli Dei Mani e alla Terra, per la Repubblica del popolo romano dei Quiriti, per l'esercito per le legioni, per le milizie ausiliarie del popolo romano dei Quiriti, le legioni e le milizie ausiliarie dei nemici."



FABIO MASSIMO RULLIANO (QUINTO)

Fu uomo politico e generale romano durante le guerre sannitiche, cinque volte console (322, 310, 308, 297, 295 a.c.) e dittatore nel 315, nonchè figlio di M. Fabio Ambusto. Quand'era ancora assai giovane, nominato magister equitum dal dittatore Lucio Papirio Cursore (325), attaccò battaglia, contro il suo divieto, riportando sui Sanniti una splendida vittoria.

Condannato a morte dal dittatore, sfuggì al supplizio grazie alle minacce dell'esercito e alle suppliche del popolo e del vecchio padre. Trionfatore dei Sanniti nel 322 a.c., fu da loro sconfitto durante la dittatura del 315 al passo di Lautule, presso Terracina; ma, rieletto console, sorprese gli Etruschi con un'ardita marcia attraverso la Selva Ciminia e li costrinsero a ritirarsi dalla guerra, dando così inizio alla fase offensiva della II guerra sannitica, cui partecipò, come console, nel 308 a.c.

Censore nel 304, limitò la riforma d’Appio Claudio sulle iscrizioni dei cittadini alle tribù; negli ultimi due consolati combatté validamente la grande lega antiromana dei coalizzati della III guerra sannitica e, insieme con Decio Mure, vinse la decisiva battaglia di Sentino. Ebbe gli onori del trionfo e, primo dei Fabi, ricevette il soprannome di Massimo.



LUCIO CORNELIO SCIPIONE BARBATO

Console nel 298 a.c., guidò l'esercito di Roma alla vittoria contro gli Etruschi nei pressi di Chiusi e Volterra. Membro della nobile famiglia romana degli Corneli, fu padre di Lucio Cornelio Scipione e di Gneo Cornelio Scipione.
Il suo sarcofago, che ora si trova nei Musei Vaticani, mantiene intatta il epitaffio, scritto in latino arcaico:

CORNELIVS• LVCIVS• SCIPIO• BARBATVS• GNAIVOD• PATRE
PROGNATVS• FORTIS• VIR• SAPIENSQVE—QVOIVS• FORMA•
VIRTVTEI•PARISVMA.FVIT.CONSOL .CENSOR•AIDILIS•QVEI
•FVIT• APVD• VOS — TAVRASIA• CISAVNA . SAMNIO• CEPIT.
SVBIGIT•OMNE.•LOVCANA•OPSIDESQVE•ABDOVCIT.

"Cornelio Lucio Scipione Barbato, generato da Gnaeus suo padre, uomo forte e saggio, la cui apparenza era in armonia con la sua virtù, che fu console, censore e edile fra voi. Conquistò la Taurasia, Cisauna, il Sannio, soggiogò tutta la Lucania e liberò ostaggi."

Il suo titolo di censore del 280 a.c. è il primo di cui abbiamo una testimonianza affidabile, malgrado tale magistratura fosse già da molto tempo in vigore.



GELLIO EGNAZIO

Condottiero Sannita, fu l’ideatore della lega Italica, un’alleanza armata contro Roma. Non era facile riunire Etruschi, Umbri, Sanniti e  Galli, inoltre i Galli Senoni erano mercenari pronti a combattere per chi li pagava meglio. L’idea di G.Egnazio fu di spostare il conflitto dal Sannio, ormai accerchiato dai Romani, nell'Italia centrale e affrontare il nemico con un forte esercito Italico.

Tito Livio narra: “Mentre si conducevano diverse operazioni nel Sannio,una grossa guerra viene scatenata contro i Romani in Etruria da molte popolazioni,per istigazione del sannita G.Egnazio. Alla guerra si erano rivolti tutti i Tusci, i vicini popoli dell’Umbria e con la promessa d’un compenso si sollecitavano aiuti dai Galli.Tutta quella moltitudine si era radunata presso il campo dei Sanniti”.


Con una stupefacente marcia dal Sannio, Gellio Egnazio, con l'aiuto di un altro abile Comandante Sannita Minazio Staio, riuscì ad eludere la sorveglianza dei romani e raggiungere gli alleati, stanziati in Umbria. Si ebbe subito una clamorosa sconfitta dei romani guidati da Cornelio Scipione Barbato ad opera dei Galli e solo lo scoordinamento italico impedì a Gellio di sfruttare la situazione

Mario Egnazio, generale sannita durante la guerra sociale sconfisse presso Camerino la legione romana del propretore L. Cornelio Scipione Barbato. Dopo aver sconfitto presso Teanum Sùlicinum il console L. Giulio Cesare, prese per tradimento Venafro uccidendo due manipoli di soldati romani. Ma nell'89 a.c. Gaio Cosconio, dopo aver devastato i territori di Larinum, Asclum (Ausculum) e Venusia uccise il condottiero sannita.




VEL LATHITES

Durante la III guerra sannitica, nel corso di scontri tra gli eserciti romani e quelli della coalizione etrusco-umbro-gallo-sannita (298-295 a.c.),Tito Livio si sofferma sulla grave sconfitta subita dai Romani presso Chiusi (nel 295 a.c.): l'intera legione comandata dal propretore Lucio Cornelio Scipione (console del 298 e bisnonno di Publio Cornelio Scipione, il vincitore d’Annibale) fu annientata dai mercenari galli al soldo degli Etruschi. È probabile i Galli abbiano agito sotto il comando etrusco; del resto lo scontro si svolse in piena Etruria.

Tuttavia, poco dopo, un altro contingente romano, con abile mossa diversiva, prese a saccheggiare gravemente il territorio chiusino, costringendo l'esercito della lega etrusca a muoversi «dal territorio di Sentino per difendere il loro paese” abbandonando le schiere gallo-umbro-sannitiche poco prima dello scontro decisivo. Grazie a questa mossa i Romani ottennero la clamorosa vittoria sui Sanniti, nella battaglia di Sentino in Umbria (295 a.c.).

Gli Etruschi, pur non avendo "partecipato" all'eccidio di Sentino, furono indotti, dopo altri scontri di secondaria importanza, alla stipulazione di una tregua quarantennale (294 a.c.), implicante la clausola del pagamento (a Roma) di una penale di cinquecentomila assi per ciascuna città della lega (Livio, 10,37). Nella battaglia di Sentino, Vel Lathites potrebbe, come capo della lega etrusca, aver comandato l'esercito etrusco “nella battaglia romana” de1 298-295 a.c.

Helmut Rix ha correttamente riconosciuto in Vel Lathites un appartenente alla famiglia Leinies di Volsinii; il suo gentilizio "Lathites" indica verosimilmente che egli fu adottato dai Lathites (scritto anche Latithes o Latites) di Chiusi. Dunque Vel Lathites era, di nascita, un Leinies: ecco perchè il suo elogio funebre si trova scritto nel sepolcro gentilizio di quest'ultima famiglia, a Volsinii (la Tomba Golini I). In etrusco Lars significava 'capo militare', 'guerriero', 'coraggioso' (infatti Laran è il nome etrusco del Dio Marte; sulla radice lar- si formano i prenomi etruschi Larth e Laris).




LE AZIONI DIPLOMATICHE ETRUSCO ROMANE

L’operazione dei Romani nel devastare i territori nemici fu un segnale di avvertimento alle classi sociali etrusche filo romane che dovevano disimpegnarsi dalla Lega e collaborare con la politica di Roma per non perdere i poteri acquisiti nel territorio etrusco.

Narra Tito Livio che nel 311 a.c. tutti i popoli d'Etruria, tranne gli Aretini, presero le armi e posero l'assedio a Sutri, già città etrusca, ma allora colonia romana (dal 383 a.c.) e "ingresso dell'Etruria". Nel 310 i Romani inflissero una pesante sconfitta alle truppe etrusche con 60.000 nemici uccisi o fatti prigionieri.

Subito dopo da Perugia, Cortona e Arezzo, che a quel tempo erano come le capitali dei popoli d'Etruria, furono inviati ambasciatori a Roma con richieste di pace, ottenendo una tregua trentennale.

Nel 294 a.c., alla fine di una serie di scontri tra Roma e la coalizione gallo-etrusco-sannita di Volsinii, Perugia e Arezzo, ottennero una tregua quarantennale e un trattato di alleanza, essendo però comminata a ciascuna di loro un'ammenda di 500.000 assi, per la parte che avevano avuto nella recente guerra.




LA BATTAGLIA

La battaglia di Sentino è narrata dalle fonti antiche dagli storici Polibio II,19,6; Tito Livio X, 17-30 e Frontino Strat. 1, 8, 3. Il più dettagliato è quello di Tito Livio che descrive il conflitto con toni drammatici:

Si tennero quindi delle consultazioni fra gli alleati, e si convenne di non congiungere tutte le forze in un solo accampamento e di non scendere a battaglia contemporaneamente; i Galli si unirono ai Sanniti, gli Etruschi agli Umbri. Venne fissato il giorno del combattimento; alla battaglia furono destinati i Sanniti e i Galli; gli Etruschi e gli Umbri ebbero l'incarico di assalire il campo romano proprio nel mezzo del combattimento.

Guastarono questi piani tre disertori di Chiusi, i quali durante la notte passarono al console Fabio e gli rivelarono i progetti dei nemici; essi furono quindi congedati con dei doni, perché continuassero a spiare e riferissero qualunque nuova decisione venisse presa. I consoli scrivono a Fulvio e a Postumio di fare avanzare i loro eserciti, rispettivamente dal territorio dei Falisci e dall'Agro Vaticano, verso Chiusi e di devastare con estrema violenza il paese dei nemici. La notizia di tale devastazione indusse gli Etruschi ed Umbri ad allontanarsi dal territorio di Sentino per difendere il loro paese”.

SCHIERAMENTO
Lo scontro fu molto violento, tanto che nella prima fase della battaglia i Romani ripiegarono verso i loro accampamenti essendo stati sorpresi dalle forti urla dei Galli e dalla veloce avanzata dei loro carri da guerra. La cavalleria Romana si spaventò, indietreggiò disordinatamente, fino a travolgere la stessa fanteria che volgeva all'attacco. I carri dei Galli fecero una strage della fanteria avversaria presa di sorpresa.

Il console D. Mure tentò invano di fermare i suoi militi in fuga e visto che la situazione volgeva al peggio, decise di sacrificarsi facendo voto di morte gettandosi nella mischia, dove rimase ucciso. Questo sacrificio arrestò la ritirata dei Romani e la furia dei Galli fu contenuta. In realtà, a fermare gli avversari non fu il sacrificio di D. Mure, ma la stanchezza sopraggiunta ai Galli dovuta al clima estivo; infatti, la battaglia si svolse nel mese d’Agosto.

L'impeto dei barbari si attenuò: essi cominciarono a retrocedere travolgendo con i loro carri i propri guerrieri che battevano in ritirata. In quel difficile momento vi fu anche una forte resistenza da parte dei legionari Triari che erano molto esperti nel superare situazioni critiche. Essi entrarono in combattimento in un secondo momento ed essendo freschi ed esperti, spezzarono lo slancio degli alleati.

PRIMA FASE
I romani presero il sopravvento e spinsero i nemici verso i loro accampamenti. Incalzati da Fabio e dalle sue legioni, con una travolgente avanzata esse arrivarono fino agli accampamenti dei Sanniti e dei Galli. Nonostante una resistenza disperata, il campo dei Sanniti fu espugnato. Il loro duce Gellio Egnazio cadde nella difesa.

I Galli furono assaliti alle spalle e sterminati prima di arrivare al loro accampamento. I Romani ottennero una strepitosa vittoria che ebbe i dolorosi costi di 25.000 morti fra i Galli e i Sanniti, 8000 prigionieri e circa 8700 caduti Romani.

A dimostrare che questa può essere annoverata fra le più grandi battaglie dell'epoca, le spoglie dell'eroe Romano D.Mure furono ritrovate dopo due giorni di faticose ricerche come ci fa sapere T. Livio. In considerazione dei caduti d’entrambi i fronti, dei prigionieri da parte Romana si può presumere che le forze in campo fossero molto elevate. Infatti, fu una battaglia dove scesero in campo notevoli forze di fanteria,cavalleria e carri che richiedevano una pianura molto vasta e quella
di Fabriano era la più idonea per tali manovre militari.

«In quella giornata vennero uccisi 25.000 nemici, mentre i prigionieri catturati ammontarono a 8.000. Ma la vittoria non fu certo priva di perdite, visto che tra gli uomini di Decio vi furono 7.000 caduti, tra quelli di Fabio più di 1.700
(Livio, Ab Urbe condita libri, X, 29.)

SECONDA FASE

I BUSTA GALLORUM

Nel luogo del massacro si ritrovarono un numero così elevato di morti che per i Galli fu necessario innalzare delle pire. I cumuli di ceneri (Busta Gallorum) furono talmente numerosi che lasciarono traccia nei secoli, forse con varie esagerazioni.

Si usava nelle battaglie, dopo aver spogliato i cadaveri, di ammucchiarli a centinaia dentro le fosse naturali o artificiali, poi si riempivano le fosse di legname e gli si dava fuoco. Per personaggi particolari d’alto grado era utilizzata la cremazione diretta o indiretta. Una volta istituita la sepoltura monumentale sul posto c'era la deposizione del corredo, connessa al rito di sepoltura, entro la fossa e diversificato in base alla ricchezza del defunto.

Fra i vari oggetti della sepoltura v'erano, vasellame di diverso tipo, la moneta, quale “obolo di Caronte”; la lucerna per illuminare il viaggio nell'aldilà; il balsamario in vetro per gli unguenti. Oggetti più personali, potevano invece essere indossati dal defunto fin dal momento del funerale.

FASE FINALE

GOTI E BIZANTINI

Procopio, nel racconto sullo scontro decisivo tra i Goti e Bizantini avvenuto nel 552 d.c. riporta che le parti si affrontarono nei pressi dei " Busta Gallorum", nel crematoio dei Galli:

"Le forze romane al comando di Narsete misero poco dopo anche loro il campo sull'Appennino: Stavano ad una distanza di circa 100 stadi da quell’avversario, in una posizione pianeggiante ma circondata da molte alture assai vicine, dove si narra che una volta Camillo, generale romano, vinse e distrusse in battaglia una moltitudine di Galli.

Di questo fatto la località porta tuttora la testimonianza nel nome, serbando memoria del rovescio dei Galli: si chiama Busta Gallorum. Busta è il nome che i Latini danno ai resti della cremazione. E ci sono moltissimi tumuli, in cui furono sepolti i cadaveri."

Lo storico fa riferimento all’offensiva di Camillo del 390 a.c. quando secondo alcune fonti inseguì i Galli fino alle vicinanze di Pesaro. Questa affermazione fa presumere ad un errore di Procopio che non era informato sull’accaduto della battaglia di Sentino avvenuta proprio nelle vicinanze di Tagina, e combattuta dai consoli Decio e Fabio nel 295 a.c.

Nel conflitto del 390 a.c. secondo T. Livio i Galli furono massacrati, vicino alla capitale, in una località chiamata Carinae, situata a nord ovest dell'Esquilino. Servio invece scrive che Camillo, giunto a Roma dopo che i Galli erano partiti, li inseguì e dopo averli raggiunti presso Pesaro, li attaccò, li sconfisse e recuperò l'oro del riscatto. A quale fonte aveva attinto Procopio?

In ogni caso la sconfitta dell’Allia e il saccheggio del Campidoglio fu catastrofico: l'esercito romano dovette essere travolto in campo aperto e subire perdite gravissime. Di questo disastro narrarono diversi storici greci del IV secolo: Filisto, Eraclide, Pontico, Teopompo e perfino Aristotele.
La località secondo Varrone è definita Busta Gallorum (De Lingua latina, V,157), l’ossario dei Galli, ammassati dai Romani. Secondo altri, i morti furono ammucchiati dagli stessi Galli durante la pestilenza.

A Roma nelle vicinanze di Tor de' Conti sul Vicus Cyprius s'incontra la piccola Chiesa di S. Andrea detta in Portogallo. Nome corrotto e si vuole che fosse il luogo, che i romani chiamarono Busta Gallica da quando Furio Camillo ordinò, che i corpi dei Galli Senoni uccisi sotto il Campidoglio fossero in questo luogo bruciati. Però tra Portogallo e Busta Gallorum ce ne corre parecchio e la cosa
appare poco credibile.

Procopio descrivendo i tumuli dei sepolcreti dei Galli, ancora visibili al tempo del confronto tra Totila e Narsete, cosa poco probabile per i secoli trascorsi (800 anni!) potrebbe aver scambiato tali cumuli con le tombe picene a tumulo, che erano numerose nella piana di S.Maria, nella stazione ferroviaria e in altre aree.



IL TEMPIO DI GIOVE

Il console Fabio, dopo la battaglia, bruciò in voto a Giove vincitore le spoglie nemiche ed eresse in suo onore un tempio. Di fronte a Bastia - nella località Molinaccio - al disopra dell'odierno bivio della strada diretta a Roma, esiste un'altura chiamata "Campo della Vittoria" dove negli anni passati sono stati ritrovati resti di capitelli, colonne e altri ruderi di un tempio. Purtroppo tali reperti sono andati perduti.

Altri ritrovamenti perduti erano nei pressi della chiesa di S.Maria in Campo, ma il tempio potrebbe essere stato eretto sopra al monte Civita, un monte sacro per gli Umbri. Anche qui sono stati rinvenuti reperti archeologici oltre a due cisterne d’acqua scavate sulla roccia.



LE ALTRE PIANURE

SOLDATO SANNITA
La città romana di Sentino si trovava nel pianoro roccioso di S. Lucia di Sassoferrato, circondato da dirupi naturali nel cui fondo scorrevano i fiumi Sentino e Marena.

Essa rappresentava un passaggio obbligato per chi proveniva da ovest (Scheggia) o sud ovest (Fabriano) diretto verso la costa adriatica.

I Romani per arrivare a Sentino potevano percorrere la via della Scheggia che s’inoltrava nell'impervia gola del Corno, via pericolosa, poiché  attraversava i confini della Senonia.
Un’alternativa poteva essere la via di Camerino ovvero l’antico tracciato Piceno (futura Protoflaminia).

Un esercito, trovandosi alle porte di una città difesa dai Celti e dagli Umbri con una struttura fortificata ed in assetto di guerra doveva necessariamente assediarla, ma per quanto riguarda Sentino, non è minimamente accennato da Tito Livio.

Supponendo la posizione della città umbra vicina alla piana della Tovaglia, di S. Croce e Serragualdo, situate nel cuore del territorio gallico, sarebbe stata sicuramente attaccata e distrutta.

Non avendo alcuna notizia da T. Livio sull'assedio della città, si può dedurre o che la città umbra non era a S. Lucia o i Romani hanno affrontato gli alleati lontano dalla città ovvero a sud dell'Agro Sentinate, nella piana di Fabriano, senza coinvolgere Sentino.

Esaminate le aree pianeggianti esistenti nel territorio Sentinate, le pianure fabrianesi di S.Maria e del Maragone potrebbero essere state per la loro ampiezza e la natura del terreno le più idonee per il confronto tra i due eserciti.

(tratto da Federico Uncini)


L'ESPANSIONE ROMANA POST BATTAGLIA

I FASTI CONSOLARI

Roma celebrò la vittoria di Sentino con i fasti consolari a Roma il giorno 4 Settembre 295 a.c. come riporta T. Livio: “Quinto Fabio, lasciato a Decio il compito di presidiare l'Etruria col proprio esercito, riportò a Roma le sue legioni e ottenne il trionfo su Galli, Etruschi e Sanniti.
I soldati lo seguivano nella sfilata, e nei rozzi canti militari la valorosa morte di Decio fu celebrata non meno della vittoria di Fabio, e tra le lodi rivolte al figlio fu richiamata la memoria del padre, il cui sacrificio e i cui successi in campo pubblico erano stati adesso eguagliati. Dal bottino raccolto in guerra ogni soldato ricevette ottantadue assi di rame, un mantello e una tunica, che in quel tempo erano riconoscimenti militari non certo disprezzabili”.

Un frammento in un dei Fasti capitolini, custodito al Palazzo dei Conservatori, Sala della Lupa Capitolina di Roma, riporta i trionfi di Marco Fulvio Pitino, Gneo Fulvio Centumalo, Quinto Fabio Rulliano (avvenuto il 4 Settembre dell’anno CDLIIX 295 a.c., sui Sanniti, Etruschi e Galli..)
Nelle iscrizioni dei Fasti consolari (Museo della Civiltà Romana, Roma EUR) si notano le nomine dei censori partecipi allo scontro:

CENS.•O.FABIUS•. M.F.N.N. MAXIM. RULLIANUS. P. DECIUS. P.F.O.N.MUS. XXVIII
Rulliano e Decio sono nominati Censori (304 a.c.). A Rolliano viene dato l'appellativo di "Massimo".

O.FABIUS.M.F.N.N.MAXIM.RULLIANUS.IIII. P.DECIUS. P.F.O.N. MUS.III.
Q. Fabio Rullianoe P. Decio Mure, Consoli nel 297 a.c., rispettivamente per la IV e III volta.

O. FAB I US.M.F.N.N.MAXIM.RULLIANUS.V. P.DECIUS O.P.F.O.N.MUS. IIII.OUI.SE.DEVQVIT.

Nell'anno 295 a.c., vengono nuovamente nominati Consoli e vicino al nome di Publio Decio figura che egli si è sacrificato nella battaglia di Sentino.

Per l’evento di Sentino si coniò intorno al 289 a.c. una moneta tramite la zecca del Campidoglio e ripetuta nel 95 a.c. dal personaggio Sentius a ricordo dei duecento anni di quanto avvenuto nella terra delle sue genti.

Francesco Parvini Rosati, professore di numismatica greca e romana all'Università "La Sapienza" di Roma scrive su Archeo:

"Le ultime emissioni sono costituite da dracme e didracme che presentano al dritto un' effigie bifronte laureata giovanile e al rovescio Giove con lo scettro in atto di lanciare il fulmine, in quadriga al galoppo guidata dalla Vittoria. Sotto la quadriga, in una tavoletta, v'è la legenda Roma.
Gli eventi storici ricordati dai due gruppi di emissione sono probabilmente, la grande vittoria riportata dai Romani a Sentinum nel 295 a.c. cui si riferisce la figurazione di Giove che lancia il fulmine su una quadriga guidata dalla Vittoria e la pace tra Roma e i Sanniti nel 290, ricordata dalla scena del "giuramento".

(tratto da Federico Uncini)



LE CONSEGUENZE

Roma dette una terribile lezione agli avversari si che la coalizione sconfitta non venne mai più ripristinata. Dopo Sentino, le città etrusche e quelle umbre stipularono patti federativi, mentre con Celti e Sanniti perdurò lo stato di guerra.

Roma era ormai superiore militarmente alle altre potenze della penisola, anche se pur vincendo, non conquistò dei territori, ma proseguì la sua politica di egemonia sul resto della penisola.

I Piceni, alleati dei Romani vennero liberati della presenza nel nord delle Marche dei Galli Senoni. Successivamente, però, quando videro che i Romani cominciarono a fondare colonie nel loro territorio, cominciarono anch'essi a temere per la propria indipendenza. Quanto ai Galli Senoni, i romani si impossessarono dopo pochi decenni, di metà del loro territorio.

GENS HARRIA

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MONETA INTITOLATA A TITUS E A HIRRIUS FRONTONE NERATUS PANSA

La gensa Harria era una delle tante gens minori, compare alla fine della Repubblica e in epoca imperiale. Di questa famiglia plebea ma ricca, con dei rami però aristocratici, si ricordano quattro nomi: Hirrius, Gaius Hirrius, Gaius Hirrius Postumius, e Marcus Hirrius Frontone Neratius Pansa.


- Hirrius
Fu pretore nell'88 a.c.

Gaius Hirrius Postumius 
Un epicureo citato da Cicerone; Epicuro credeva che il fine dell'uomo fosse quello di perseguire il piacere, ma che il modo per ottenerlo fosse quello di vivere modestamente, acquisire conoscenza del funzionamento del mondo, e limitare i propri desideri. Ciò porterebbe a raggiungere uno stato di tranquillità, la libertà dalla paura e l'assenza di dolore fisico. Secondo alcuni Gaius potrebbe essere identico all'allevatore delle lamprede.

- Gaius Hirrius
Fu il primo allevatore di lamprede negli stagni di acqua marina. La lampreda è un pesce simile all'anguilla in alcune specie carnivora in altre erbivora delle piante marine. La lampreda non ha denti, per cui la specie carnivora ha una bocca che succhia il sangue delle vittime fino alla morte. Comunque, a meno che non sia molto affamata, in natura non attacca l'uomo.
Sembra comunque che questo pesce sia molto intelligente e riesca a porsi in contatto con la specie umana. Lo conferma Plutarco nel suo libro "l'intelligenza degli animali".

Nel suo autocentrismo l'essere umano spesso dimentica che anche gli animali sono dotati di ragione, e che sono in grado di provare sentimenti ed emozioni simili a quelli dell'uomo. Per farlo capire Plutarco immagina un dialogo surreale tra Ulisse e il suo compagno di viaggio Grillo, trasformato in maiale dalla maga Circe, il quale spiega non solo che gli animali sono intelligenti, ma che in molti casi siano da preferirsi ai presuntuosi umani.

Si dice che Gaius Hirrius abbia speso non meno di un milione di sesterzi per esca, usando l'affitto delle sue case, ma è pure ricordato per aver venduto una piccola fattoria rurale, fornita di allevamento delle lamprede, per quattrocentomila sesterzi. Anche se le sue lamprede gli erano così care che Hirrius spesso si rifiutava di venderle, tuttavia si dice che, appassionato fan di Cesare gliene avesse inviato diverse migliaia per i suoi banchetti trionfali nel 46 e nel 45 a.c.

ALLEVAMENTO ITTICO ROMANO

Marcus Hirrius Frontone Neratius Pansa
Marcus è conosciuto principalmente attraverso iscrizioni epigrafiche. Fu un senatore romano che divenne console suffetto nel 73 o nel 74. La gens Neratia è originaria di Saepinum sannita. Il nome del padre di Pansa, oltre al gentilicum Neratius, non è noto, sebbene gli esperti ritengano che Lucio Nerazio Prisco fosse suo fratello. Si pensa Pansa avrebbe acquisito il nome "Marcus Hirrius" dal suo padre adottivo, un membro della gens Hirria; questa adozione avvenne prima dell'iscrizione ritrovata che portava nome di Marcus Hirrius.

Si sa che compì i suoi primi studi in Lycia (Turchia) dal 70 al 72. Un'iscrizione frammentaria recuperata da Saepinum ci informa della sua nomina a patrizio intorno al 73/74. Poi, dopo il suo consolato, Pansa fu incaricato nel 74/75 di amministrare un censimento in un luogo chiamato regio X. Mario Torelli riteneva  si riferisse a una parte della provincia della Cappadocia (Turchia), ma secondo i redattori di L'Année Epigraphique potrebbe riferirsi anche alla Regio X Venetia et Histria, dove egli nacque.

Venne poi incaricato di condurre una campagna contro un nemico, del cui nome resta solo la lettera iniziale A. Si pensa o in Armenia Major, o contro gli Alani, campagna  eseguita nel 75 o 76. Evidentemente vinse, poiché l'iscrizione riporta che Pansa ricevette dona militaria o onori militari, tra cui la corona murale e la corona del campo.

Pansa ottenne poi un seggio tra i "Quindecimviri sacris faciundis", poi venne nominato curatore aedium sacrarum, e puree governatore della Cappadocia e della Galazia dal 77 all'80 mentre erano ancora una provincia mista. In seguito Pansa, forse perchè non avesse avuto figli, adottò il nipote Lucio Nerazio Marcello, a cui si fa riferimento in alcune iscrizioni come Marcello Nerazio Marcello.

CULTO DI ALEMONIA

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LUCILLA SORELLA DELL'IMPERATORE COMMODO IN VESTE DI CERERE ALEMONIA

Alemonia o Alemona è una Dea della fertilità per cui le si dedicavano dei sacrifici per avere figli, ma era anche responsabile della salute del bimbo nel ventre materno. Era infatti lei che si occupava del suo nutrimento mentre viveva nel corpo della madre, garantendo quindi altresì la salute del corpo della madre.

Alcuni studiosi pensano che il suo nome fosse in relazione al greco ἀλήμων (ălēmon) "vagabondo", il che riporterebbe alla Dea Vacuna, ma per altri deriverebbe da λειμωνιά "prato", ovvero ninfa del prato. In realtà Alemona deriverebbe dal verbo "alere" cioè nutrire e la Dea non è greca ma italica e addirittura è una degli Dei Indigetes, cioè delle divinità primitive della penisola.

Di questa Dea ci parla il cristiano Tertulliano (150- 220), che sembra riferirsi a Terenzio Varrone che cita la divinità, nella sua opera "Antiquitates rerum humanarum et divinarum"  ("Antiche cose umane e divine", in 41 libri) descrivendola come una Dea delle fertilità che in particolare favoriva la crescita dei bimbi nei grembi delle donne gravide.

Le Dee della fertilità sono sempre uno degli aspetti principali dell'archetipo della madre, connaturati al nascere, crescere e morire. Il crescere sarebbe quindi legato al nutrire. Ma il nutrire il bimbo nel segreto del grembo materno è come nutrire i semi affinchè escano dal grembo della terra per divenire
pianta.

Pertanto questa Dea doveva essere legata all'Equinozio di primavera, che equivale al parto della Madre Terra che fa germogliare le piante. Molti autori hanno asserito che gli Dei Indigetes sono personificazioni dei fatti inerenti la natura, ma sarebbe come dire che Gesù Cristo che muore in inverno e risorge in primavera rappresenti il Dio Vegetazione, cioè la vegetazione annuale. O è vero per tutti o per nessuno.


La Dea veniva pertanto festeggiata all'Equinozio di Primavera, perchè era colei che nutriva i prodotti dei semi dalla terra, e i piccoli degli animali e delle donne nel loro grembo per portarli poi alla luce.
Era pertanto la Dea del buio che precede la luce, della vittoria della vita sulla morte e della luce sulle tenebre.

A lei si offrivano i tuberi del sottosuolo e le primizie dell'equinozio. A lei si dedicavano banchetti con ghirlande e libagioni di vino e di latte in onore delle puerpere. Ma per tutto il tempo della gravidanza le venivano offerte libagioni di latte e di vino (usanza abolita poi dai romani che non consentivano alle donne di bere alcolici) da parte della donna gravida, supponendo che il vino fosse il latte della Madre Terra.

Il culto di origine italica venne accolto dai romani che rispettavano tutte le divinità locali ma pure estere, senza razzismi nè contro gli uomini nè contro gli Dei. In particolare si accoglievano gli Dei Indigetes come culto dei mos maiorum, o culto trasmesso dai propri antenati.

AEDES ROMANI

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AEDES GENI AUGUSTI

Gli Aedes furono a Roma i luoghi sacri più arcaici insieme ai lucus e alle aedicula. Il lucus, cioè il bosco sacro, soprattutto per l'estendersi veloce dell'Urbe verso cui confluiva gente di tutto il mondo conosciuto, divenne un preziosissimo terreno su cui edificare. Venne ristretto pertanto ad un luogo recintato, a volte con steccati ma soprattutto con pietra a secco, ponendovi un'ara con dedica e statua della divinità.

Anche l'aedicula, in fondo diminutivo di aedes, venne soppiantata dai templi, di più ampio respiro, restando però ancorata agli incroci e ai bivii, per cui da un lato si trasformò ma dall'altro si moltiplicò essendosi moltiplicate le vie, lastricate e non, dei romani.

Per indicare un luogo sacro i romani usavano il termine Aedes cioè "la dimora della divinità", ma anche se il termine veniva usato anche per indicare un tempio, tra aedes e templum c'erano delle diversità.

Il templum veniva tracciato in aria dall'augure, con il bastone da cerimonia detto lituo, con il quale veniva ricavata una porzione sacra di cielo, che veniva quindi orientata e ripartita in regioni fas e nefas (cioè gradite o sgradite agli dei) per trarne presagi dal volo degli uccelli.

A tale spazio in cielo ne corrispondeva uno in terra per l'esecuzione di sacrifici e il culto degli Dei, che veniva munito di un'ara o un aedes, le vere dimore del Dio. Il templum dunque derivava dall'inauguratio compiuta dall’augure, mentre la aedes non è inaugurata, ma consacrata dal pontefice e dedicata dal magistrato; sono questi due atti che consegnano la proprietà del sito alla divinità cui è dedicata.

Ne consegue che può essere templum anche un sito o un edificio di uso civile, come il Comizio e la Curia, mentre la aedes è sempre un edificio di culto. Se invece un edificio è inaugurato, consacrato e dedicato, acquista il doppio carattere di templum e di aedes; è adibito al culto, ma può essere adibito anche a funzioni civili, come ad esempio le riunioni del Senato nel Tempio di Bellona o di Apollo Palatino.

Ogni aedes ha un suo statuto (lex aedis) e un suo patrimonio. In quanto sacra è inviolabile e non è commerciabile; il suo patrimonio è invece commerciabile, purché risponda allo scopo per il quale viene costituito. La cura della aedes è dunque affidata allo stato, ed è tutelata dallo ius sacrum. La custodisce l'aedituus, che non è né sacerdote né magistrato (una specie di "sacrestano").

L'aedes poteva essere a pianta rettangolare o circolare e il giorno della dedicatio è il dies natalis della aedes, la cui celebrazione ricorre ogni anno. Le aedes publicae sono quelle costituite per iniziativa dello stato e adibite al culto pubblico, ma vi sono anche aedes private, a cura di sodalizî, di corpi militari, di privati, e non sono consacrate dal pontefice né dedicate dal magistrato.

AUGURE
Nel Foro Romano e sul Palatino era locato circa un terzo delle aedes romane. Ne ricordiamo, di antichissimo culto:

- Aedes Vestae, di forma tonda come i templi più antichi, si suppone fosse dapprima un recinto, poi un colonnato con un tetto, munito di focolare e di impluvio. Il focolare però non era sotto l'impluvio altrimenti la pioggia avrebbe spento il fuoco. 

- Aedes Larum, - Il 27 giugno era dedicato alla festa degli Aedes Larium in via Sacra, festività già esistente ma che Augusto spostò nella Via Sacra. Se le altre divinità dovevano occuparsi di tutti, i Lari, come i Penati, si occupavano solo dei pronipoti della propria gens..
Probabilmente Augusto volle riunire due feste in un’unica processione: la festa dei Lari e la festa in onore del Tempio di Iupiter Stator, anch’esso costruito sulla Via Sacra.
L’aedes Larum, secondo una recente ricostruzione archeologica, venne probabilmente edificato tra la Domus Regis Sacrorum, e l’atrium-aedes Vestae, zona dedicata alla dea Vesta, anch’ella protettrice del focolare e delle donne. All’interno si accedeva a dei “sotterranei” in linea con l’oltretomba dei Lari. Prima dello spostamento nella Via Sacra, il luogo di culto era un unico edificio che riuniva un focolare dedicato a Marte, e un focolare ai Lari, separati dall’edificio col focolare di Vesta, collegati solo da un unico passaggio.

Aedes Lari Permarini - Rientrato a Roma, Lucio Emilio Regillo poté riferire le azioni compiute direttamente al Senato, che gli decretò l’onore del trionfo navale sul re Antioco. Egli stesso volle poi erigere nell’Urbe il tempio dei Lari Permarini, per onorare un voto da lui formulato durante la battaglia navale di Mionneso. Sul portale del tempio venne apposta la seguente iscrizione, di cui una copia fu anche affissa sulla porta del tempio di Giove Ottimo Massimo in Campidoglio:
"Volendo concludere una grande guerra, sottometterne i re e pervenire alla pace, Lucio Emilio, figlio di Marco, venne inviato a combattere quella battaglia navale. Sotto i suoi auspici, sotto il suo comando e sotto la sua condotta fortunata, tra Efeso, Samo e Chio, la flotta - fino allora invitta - del re Antioco, davanti agli occhi dello stesso Antioco, di tutto il suo esercito, della cavalleria e degli elefanti, venne sbaragliata, schiacciata e messa in fuga; in quel solo giorno le furono catturate quarantadue navi con tutti gli equipaggi. Dopo quella battaglia il re Antioco ed il suo regno …. In seguito a questo grande successo fece voto di un tempio ai Lari Permarini". (Liv., XL, 52, 5-6).

- Aedes Saturni  

- Aedes di Bellona presso il circo Flaminio, - le fonti riportano le aedes di Hercules Custos e di Bellona ai due lati opposti del Circo Flaminio, sui lati brevi. Quello di Bellona ebbe vita intensa
non solo nei tre secoli successivi alla sua fondazione ma anche dopo la sua quasi totale riedificazione in età augustea. Bellona era una divinità guerriera di antica origine italica, nota anche come 
Duellona o Duelona, e al Suo culto era legata la cerimonia della dichiarazione di guerra da parte dei Feziali. Fu fondato nel 296 a.c. da Pius Claudius in voto a seguito di una vittoria. 

- Aedes di Quirino sul Quirinale, - Presso la via delle Quattro Fontane sul collis Quirinalis nel 290 a..c. fu eretto dal console Lucio Papirio Cursore per celebrare la vittoria della III guerra sannitica, una divinità sabina, che diede il nome anche al colle, "Cures" era il nome della città dei Sabini, da qui Dio Quirinus, forse divinità unitaria delle Cures ovvero delle città sabine, fino ad arrivare al termine Quirinalis. 

- Aedes della Vittoria sul Palatino, - Il tempio della Vittoria (latino: aedes Victoria) era un tempio romano edificato nella parte sud ovest del Palatino, a Roma, dedicato alla dea Vittoria. Era adiacente al tempio della Magna Mater e al santuario di Victoria Virgo (Livio 29.14.13: in aedem Victoriae). 

- Aedes di Ercole nel Foro Boario, - Ora le fonti antiche parlano di un tempio di Hercules Victor, secondo altri Hercules Invictus, fuori dalla Porta Trigemina, risalente al 120 a.c., commissionato da un ricco mercante romano, Marco Ottavio Erennio (Marcus Octavius Hersennus), che lo dedicò ad Ercole protettore degli oleari, corporazione a cui il mercante apparteneva. 

- Aedes di Diana sull'Aventino, - Il tempio di Diana Aventina nel Lauretum sull'Aventino, il principale santuario della Dea, venne fondato da Servius Tullius, il VI re di Roma nato da schiavi, che non poteva ignorare le istanze plebee. 

- Aedes di Giunone Moneta sul Campidoglio,  

FORS FORTUNA

- Aedes della Fors Fortuna, - Le fonti latine attestano in Riva destra il culto pagano della Dea Fortuna («Fors, huius aedes Transtiberim est»). Ne sono noti tre templi: uno a Pietra Papa, uno al complesso arvalico della Magliana e uno agli Orti di Cesare. 

- Aedes Mentis - di essa non rimane alcuna traccia, era situata sul Campidoglio, a fianco del tempio di Venere Erycina, dal quale era separato da uno stretto passaggio. La dea era invocata nei momenti di grave pericolo per lo Stato. Tito Livio, narra che, come indicato dai Libri Sibillini, nel 217 a.c., a seguito della sconfitta subita dai romani sul Lago Trasimeno, il dittatore Quinto Fabio Massimo Verrucoso fece voto di erigere un tempio dedicato a Venere Ericina, mentre il pretore Tito Otacilio Crasso fece voto di erigere un tempio dedicato alla dea Mens. 
Entrambi i templi furono dedicati nel 215 a.c. dai duumviri incaricati: Fabio Massimo dedicò quello di Venere, mentre Otacilio dedicò quello a Mens. Il tempio fu dedicato il giorno 8 giugno e fu probabilmente restaurato da Marco Emilio Scauro, console nel 115 a.c., in quell'anno o dopo la campagna da lui condotta nel 107 a.c. contro i Cimbri. Nel 193 d.c., l'imperatore Pertinace fece coniare una moneta raffigurante Mens in piedi con la corona di Laetitia e lo scettro di Giunone, a rappresentare l'intelligenza politica e militare, e riportante il testo Menti Laudandae.
Il tempio sorgeva sul Campidoglio nell'angolo sudorientale sovrastante la Rupe Tarpea, in un'area densamente edificata con edifici religiosi. Sorgeva a fianco del tempio di Venere Erycina, anch'esso votato da Quinto Fabio Massimo.
I templi di Venere e Mens erano separati da un canale fognario.

- Aedes Mefitis


Edificati per voti fatti da condottieri sul campo di battaglia: 

- Aedes Iovis Statoris, - "Il luogo del primo culto di Giove Statore si trovava sul Palatino in un contesto di monumenti ed edifici significativi per la più antica storia dell'Urbe..."  Oggi si può affermare che il culto nacque dalla parte del Colle Palatino ed in seguito fu spostato sulla Velia. 

- Aedes Castoris, - Aedes Castoris in Circo Flaminio, era un tempio dell'antica Roma, dedicato a Castore e Polluce, situato in prossimità del Circo Flaminio, nella IX regione augustea. Il tempio è citato da Vitruvio per la particolarità del pronao e della cella rettangolare trasversale.  

- Aedes Apollinis in Palatio - Fu promesso in voto da Ottaviano per la vittoria ottenuta sul Nauloco contro Sesto Pompeo nel 36 a.c. e venne costruito nel luogo in cui era caduto un fulmine all'interno delle proprietà di Augusto sul Palatino. Il tempio venne dedicato il 9 ottobre del 28 a.c. e in seguito ceduto allo Stato; celebra anche la vittoria ottenuta ad Azio su Marco Antonio. 

AEDES CONCORDIA

- Aedes Concordiae - come l'Aedes Castoris aveva il pronao e la cella rettangolare trasversale. 

- Aedes Matris Magnae sul Palatino, importata da terre straniere, cioè la Dea Cibele, venerata in Asia Minore, a Pessinunte, come deciso nel 204 a.c. dopo la consultazione del libri sibillini.
La Dea era simboleggiata da una pietra nera conica, forse un pezzo di meteorite. Venne inviata un'ambasceria al santuario e il simulacro venne inviato a Roma, tramite nave, dove fu temporaneamente alloggiato nel tempio della Vittoria sul Palatino. Poiché la Dea era originaria della Troade, mitica patria dei Romani, il culto poté essere instaurato direttamente nel pomerio cittadino. L'11 aprile del 191 a.c. il tempio venne finalmente dedicato. 

- Aedes Aesculapii nell'isola Tiberina, -  Il suo culto fu introdotto a Roma sull'Isola Tiberina nel 293 a.c., quando la popolazione di Roma fu colpita dalla peste. Consultato i Libri sibillini, il Senato decise di costruire un tempio dedicato al Dio, e fu inviata una delegazione in Grecia a Epidauro per ottenerne la statua. Però i sacerdoti di Epidauro consegnarono solo l'effigie del serpente sacro, attributo di Esculapio. Onde associarlo a una divinità preesistente si stabilì di costruire il tempio di Esculapio sull'isola Tiberina accanto all'aedes di Veiovis, e di festeggiare i due Dei insieme. 

AEDES DIVI IULII

Raramente furono dedicati aedes agli imperatori divinizzati a cui si dedicarono templi, a parte:

- aedes divi Iulii nel Foro, - Giulio Cesare fu divinizzato nel 42 a.c.: primo caso di divinizzazione post mortem conosciuto a Roma, secondo un uso tipico dei sovrani ellenistici. L'aedes fu iniziata da Ottaviano solo nel 31 a.c., anno della vittoria di Azio e venne da lui dedicata il 18 agosto del 29 a.c. al Divo Giulio, esattamente nel punto dove si trovava l'altare.
Tra le colonne si vede la statua di Giulio Cesare e sul frontone appare la scritta DIVO IVL sormontata da una stella, il Sidus Iulium: si tratta probabilmente della cometa che apparve nel luglio del 44 a.c. 

- aedes Caesarum sul Palatino - il tempio Quirino giace sotto il Quirinale,  di forma rettangolare, 122 m X 77, e sorge su un antichissimo sacellum, a cui si sovrappose un primo edificio a metà del III secolo e uno più grande, voluto da Giulio Cesare, dopo un incendio scoppiato nel 49 a.c. Venne completato da Augusto nel 16 a.c.. Il Tempio giace da un m fino a 4,6 m sotto al giardino. Era circondato da due file di colonne, per cui visibile da tutti i lati. Dei gradini conducevano dal livello più alto dei portici alla corte più bassa, al centro della quale si ergeva su un podio l' aedes Quirini, la stanza di Quirino, l'aedes primitiva. Qui c' era un sacellum dedicato a Quirino, Dio venerato sulle sponde del Tevere prima ancora della fondazione di Roma, a metà dell' VIII sec. a.c., quando il territorio era occupato da diversi insediamenti: Romolo, secondo Carandini, oltre ad essere un personaggio storico e non solo mitologico, è anche l' artefice della leggenda di sé, un po' come Augusto. Ma il mito narra che, al momento della sua uccisione da parte dei seniores, insofferenti del fatto che Roma avesse un governo centrale, Romolo si trasfigura in Quirino, muore e rinasce nel Dio, un po' come molti Dei e come il Cristo. Una statua di Cesare, anche se ancora in vita, venne eretta nel tempio davanti a quella di Quirino, recando la dicitura Deo invicto, al Dio mai vinto. Poco dopo, però, Cesare venne ucciso con 23 coltellate, accusato di aver accumulato un potere immenso e il suo omicidio, annota Carandini, venne interpretato «come un' attualizzazione del mito di morte del fondatore. Mentre Augusto, che morì tranquillo nel suo letto, decise di andare ad abitare sul Palatino, accanto alla casa di Romolo.


I LUSITANI (I nemici di Roma)

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CAVALIERI LUSITANI CONTRO UN EQUITES ROMANO NEL BASSO

LA GUERRA LUSITANA (155- 139 a.c.)

Comandanti romani

Servio Sulpicio Galba (console 144 a.c.)
Caio Vetilio
Caio Plancio
Caius Nigidius
Fabio Massimo Emiliano
Quinto Fabio Massimo Servilianus (console 142 a.c.)
Servilius Cipianus
Marcus Popillius Laenas

Comandanti lusitani 

Viriathus (assassinato)

Caesarus
Caucenus
Tautalus
Curio Apuleio
Punicus


GALBA

In Macedonia Galba era stato tribuno militare nella II legione, sotto Lucio Emilio Paullus Macedonicus che sconfisse Perseo nel 167 a.c, ma Galba tentò di impedire il suo trionfo, senza riuscirci. Gli fu assegnata la provincia di Hispania dove si stava combattendo una guerra contro i celtiberi, Galba respinse i lusitani, ma col suo esercito indisciplinato decise di non inseguire il nemico, che si voltò e uccise 7.000 romani.

Galba condusse quindi i resti del suo esercito e dei suoi alleati nei suoi quartieri invernali a Conistorgis. Nella primavera del 150 a.c, i lusitani si scusarono e richiesero di ornare al trattato stipulato con Atilio. Galba suggerì che i lusitani diventassero alleati di Roma e ricevessero terra fertile colonizzare, dividendoli in tre fazioni per marciare verso le terre, ma quando arrivarono, furono attaccati dalle forze di Galba e massacrati. Tra i pochi sopravvissuti c'era Viriathus, destinato a vendicare il torto fatto ai suoi compatrioti.

L'anno seguente il tribuno Lucio Scribonio Libo lo accusò di oltraggio sui lusitani e Catone il Vecchio, allora di 85 anni, lo attaccò nell'assemblea del popolo, Galba fece affidamento sulla corruzione di molti, poi portò i suoi figli, e il figlio orfano di un parente, davanti al popolo. Implorando pietà, e venne assolto. Nonostante le sue atrocità, Galba fu nominato console nel 144 a.c, con Lucio Aurelio Cotta.

I due consoli combatterono su chi avrebbe preso il comando militare in un conflitto contro Viriathus in Hispania e il senato scelse Quinto Fabio Massimo Emilio, console dell'anno precedente, per continuare a comandare l'esercito in Hispania.

HISPANIA

LA CONQUISTA DELLA LUSITANIA 

Nel III secolo a.c., Roma aveva iniziato la conquista della penisola iberica, durante la II Guerra Punica, quando il senato vi mandò un esercito per bloccare i rinforzi cartaginesi ad Annibale che voleva invadere il suolo italico. Da qui seguirono 250 anni di combattimenti terminati nel 19 a.c., con la fine delle guerre della Cantabria. 

Nel 197 a.c., Roma divise la costa sud-orientale dell'Iberia in due province, Hispania Citerior e Hispania Ulterior, e vennero eletti due pretori a comando delle legioni. Agli abitanti dei castra lusitani, o delle cittadine, sarebbero stati concessi stipendiaria peregrina (pagamento come mercenari al soldo di Roma, i peregrini erano gli abitanti che non avevano cittadinanza romana), lasciando però il paese autonomo.


La Tassazione

Ma i Romani caricarono le tribù native con pesanti tasse: una tassa fondiaria, il tributum e una certa quantità di cereali. C'era poi lo sfruttamento delle miniere e i trattati di pace erano una fonte di denaro, oltre a bottino di guerra e prigionieri di guerra venduti come schiavi. Le città indigene dovevano consegnare i loro tesori ai Romani, che li lasciavano solo con i loro guadagni annuali a pagare le tasse. Tra il 209 e il 169 a.c., l'esercito romano raccolse 4 tonnellate di oro e 800 tonnellate di argento saccheggiando le tribù native della penisola iberica.

Nel 174 a.c., quando Publio Furio Filo fu accusato di pagare pochissimo per i cereali che l'Iberia era costretta a consegnare a Roma, e Catone difese gli interessi delle tribù native. Lo sfruttamento e l'estorsione crebbero talmente nelle province che Roma dovette creare un tribunale e leggi speciali, come la Lex Calpurnia creata nel 149 a.c.. 

La lex Calpurnia (anche lex Calpurnia de repetundis ) era la legge del 149 a.c. del tribuno Lucio Calpurnio Pisone, secondo cui un tribunale permanente, presieduto da un pretore, doveva perseguire l'estorsione commessa da magistrati e governatori. I governatori provinciali cercarono di compensare il loro precedente servizio a Roma, che non era stato pagato, imponendo tasse estremamente alte e estorcendo la popolazione. Le pene erano probabilmente solo pecuniarie come risarcimento e non includevano l'esilio. Altre leggi resero le sanzioni più pesanti, come la lex Junia (126 ac), lex Acilia repetundarum (123 ac), lex Servilia Glaucia (100 ac), lex Cornelia de maiestate (81 ac) e lex Iulia de repetundis (59 ac).

GUERRIERI ISPANICI

LA RIVOLTA

I lusitani si ribellarono nel 194 a.c. contro i Romani, ma l'Iberia era divisa tra tribù che sostenevano il dominio romano e tribù che lo rifiutavano. Si tentarono diversi trattati sia dei generali che del senato che vennero però disattesi. Finalmente nel 152 a.c. i lusitani stipularono un accordo di pace con Marco Atilio, dopo che egli aveva conquistato Oxthracae, la città più grande della Lusitania. Essi vennero trattati come "peregrini dediticii" cioè stranieri che si erano arresi dopo aver preso le armi contro i Romani, ma i termini offerti erano tali che, non appena Atilio tornò a Roma, si ribellarono e ruppero il trattato. Quindi attaccarono le tribù schierate con i Romani per attaccare e saccheggiare le città lusitane. Nel 151 a.c i Celtiberi, che erano diventati alleati romani, temendo la vendetta dei rivoltosi che li consideravano traditori, chiesero ai romani di punire le tribù ribelli.



LUCIO LICINIO LUCULLO 

Nel 151, Lucio Licinio Lucullo fu nominato governatore della Hispania Citerior e comandante di un esercito quando il senato respinse una proposta di trattato di pace con i Celtiberi da parte di Marco Claudio Marcello per porre fine alla guerra numerica (154-152 a.c.). Ma Marcello concluse rapidamente un trattato prima che arrivasse Lucullo e questi, deluso, "essendo avido di fama e bisognoso di denaro perché era in circostanze difficili", attaccò i Vaccaei (una tribù celtiberica del nord) che non erano in guerra con Roma e senza l'autorizzazione del Senato.

Si accampò vicino alla città di Cauca e quando i suoi abitanti chiesero trattati di pace, richiese che una sua guarnigione fosse collocata nella città. Ottenutolo fece uccidere tutti i maschi adulti. Solo pochi su 20.000 riuscirono a fuggire. Lucullo quindi andò nella città di Intercatia (Villanueva del Campo) i cui abitanti però, avendo sentito parlare di Cauca, rifiutarono di chiedere i termini. Lottò per impossessarsi della città, e il suo luogotenente, Scipione Africano il Giovane, promise agli Inercati che se avessero fatto un trattato non si sarebbe rotto. Si fidavano di lui e si arresero.

Lucullo fu consigliato di non attaccare Pallantia (Palencia), che aveva ospitato molti rifugiati ma poiché era una città ricca, si accampò lì. La cavalleria Pallantiana attaccò continuamente i suoi foraggieri finché Lucullo dovette ritirarsi per mancanza di cibo e allestì un campo invernale nella terra dei Turdetani (Andalusia). Lucullo non dovette mai rispondere delle sue azioni, come era tipico dell'impunità delle élite della Repubblica romana.

Mentre era in Turdetania, i Lusitani compirono delle incursioni nella zona, allora Lucullo invase la Lusitania e la saccheggiò. Pur essendo sotto la giurisdizione di Servius Sulpicius Galba, il pretore di Hispania Ulterior e Lucullo stava svernando nella sua provincia, tuttavia Galba lo lasciò fare e fece lo stesso dall'altra parte della Lusitania. Anche Galba era in cerca di bottino e massacrò un gran numero di lusitani a tradimento. Anche lui non era tenuto a rispondere.

Lucullo costruì un tempio dedicato a Fortuna nel Velabrum per autocelebrarsi. Lo adornò con statue che Lucius Mummius Achaicus, vincitore della lega acheo in Grecia, gli aveva prestato. Più tardi, Mummio chiese di riavere le sue statue, ma Lucullo rifiutò. Cassius Dio scrisse che Mummio gli prestò le sue statue per via della sua natura amabile e caritatevole.



GALBA E LUCULLO

Servio Sulpicio Galba unì le forze con Lucio Licinio Lucullo e insieme iniziarono a saccheggiare la Lusitania. Mentre Lucullo invadeva il paese da est, Galba lo attaccò da sud. Incapaci di sostenere una guerra su due fronti, le truppe lusitane subirono diverse perdite negli scontri con i romani.

GUERRIERO LUSITANO
Temendo un lungo assedio e la distruzione che i motori d'assedio romani avrebbero causato nelle loro città, i lusitani mandarono un'ambasciata a Galba per negoziare un trattato di pace, anche se per i romani sarebbe stata considerata una resa.

I lusitani speravano di poter almeno rinnovare l'ex trattato fatto con Atilio. Galba ricevette educatamente l'ambasciata lusitana e fu concordato un trattato di pace sui termini da lui proposti. Ordinò loro di lasciare le loro case e rimanere in aperta campagna. I lusitani probabilmente avrebbero perso la loro città e i loro possedimenti e la loro terra sarebbe diventata Ager Publicus. Il trattato si rivelò una trappola, come quella che Lucullo aveva preparato per i Caucaei. Quando i lusitani disarmati, tra cui Viriathus, furono riuniti insieme da Galba per consegnare le loro armi e per essere divisi in tre gruppi e assegnati a nuove terre, scattò la trappola.

Con la promessa che avrebbero ricevuto nuove terre, attesero mentre l'esercito di Galba li circondava di un fossato, per impedire loro di fuggire. Successivamente, i soldati romani furono inviati e iniziarono a massacrare tutti i maschi in età militare. Si dice che i sopravvissuti siano stati venduti in schiavitù in Gallia. Galba distribuì un parte del bottino all'esercito e un po' alle tribù native che si schierarono con lui, e mantenne il resto.

Ciò sarebbe stato in seguito dimostrato un errore costoso in quanto i lusitani si esacerbarono e iniziarono una guerra aperta contro Roma e i suoi alleati. Non solo, ma il futuro capo lusitano Viriathus era fuggito vivo dal massacro, giurando vendetta contro Roma.

L'intera tribù lusitana per tre anni combattè contro Roma, incontrando però molti fallimenti. Tre anni dopo il massacro, la ribellione fu sull'orlo della sconfitta quando Viriathus apparve e si offrì come leader. Attraverso la sua comprensione dei metodi militari romani salvò i ribelli lusitani con un piano di fuga semplice ma intelligente. Viriathus divenne il capo dei Lusitani e causò molto dolore ai Romani a vendetta per il massacro del suo popolo.



PUNICUS

Punicus divenne il primo capo militare durante la guerra lusitana e portò le loro prime vittorie importanti contro Roma. Nel 155 a.c., istigò la rivolta lusitana e iniziò a saccheggiare i territori romani. Per annientare la ribellione, Roma inviò il Pretore Calpurnio Pisone e il Proconsole Maniozio con 15.000 legionari, ma Punicus li sconfisse, infliggendo perdite a circa 6000 uomini. Questa vittoria permise a Punicus di allearsi con i vicini Vettoni, andò a sud e saccheggiò l'Hispania Baetica e i territori dei Blastophoenicians, un popolo vassallo di Roma. Nella sua campagna morì il Questore romano Terenzio Varrone. Tuttavia, la leadership di Punicus terminò bruscamente nel 153 a.c quando fu ucciso da un fionda, ma fu sostituito dal suo luogotenente Caesarus, che continuò la sua campagna.



CAESARUS 

Luogotenente di Punicus, ebbe la sua prima grande battaglia in Hispania Baetica contro le forze del Pretore romano Lucius Mummio. Sebbene all'inizio i Lusitani dovettero ritirarsi, data la disorganizzazione del nemico tornarono al contrattacco, sconfiggendo Mummio, uccidendo 9000 romani, riacquistarono il loro bottino catturando anche molte armi e delle insegne romane.
Le forze di Cesarea affrontarono nuovamente Mummio, dopo che quest'ultimo era rimasto in posizioni fortificate addestrando il suo esercito. Questa volta vinse Mummio, recuperando parte del bottino e non si sa che fine fece Caesarus, ma di certo morì.



CAUCENUS

Poco dopo, un altro contingente lusitano si unì alla rivolta, guidato dal signore della guerra Caucenus, che fece guerra ai Romani nella regione a sud del Tago, fino al Nord Africa.

VIRIATE

VIRIATE

Ma Viriate fu il leader più importante del popolo lusitano che resistette all'espansione romana nelle regioni della Hispania dove si estendeva la provincia romana che comprendeva la maggior parte del Portogallo. l'Estremadura e la provincia di Salamanca. Nel 146 a.c., i lusitani elessero il loro capo Viriathus, dopo aver salvato un gran numero di guerrieri lusitani inchiodati da una legione romana dopo aver ricordato loro il tradimento di Roma tre anni prima e convincendoli a non accettare alcuna offerta romana. Preoccupandosi della riluttanza delle Legioni a spezzare la formazione, riuscì a salvare l'intera banda dal massacro o dalla cattura, un'impresa incredibile.

Viriathus avrebbe guadagnato fama in tutto il mondo romano come guerrigliero alleandosi con altri gruppi iberici, anche di territori lontani. Guidò il suo esercito, sostenuto dalla maggior parte delle tribù lusitane e da altri alleati celtiberi, a varie vittorie sui Romani tra il 147 e il 139 a.c., prima di essere tradito e assassinato nel sonno.

Theodor Mommsen disse: "Sembrava che, in quell'epoca completamente prosaica, uno degli eroi omerici fosse riapparso". Perché era, come concordato da tutti, "valoroso nei pericoli, prudente e attento nel fornire tutto ciò che era necessario, e ciò che era più considerevole di tutte era che, mentre comandava, era più amato che mai prima di lui". (Diodoro Siculo)

Era conosciuto dai Romani come il dux dell'esercito lusitano, come l'adsorbitore (protettore) di Hispania, o come l'imperatore, probabilmente delle tribù confederate lusitane e celtiberiche, Livio lo descrisse come un pastore che divenne un cacciatore, poi un soldato, seguendo così il percorso della maggior parte dei giovani guerrieri. Secondo Appiano Viriatus fu uno dei pochi a fuggire quando Servio Sulpicio Galba (console 144 a.c.), il governatore romano, massacrò il fiore dei giovani guerrieri lusitani, nel 150 a.c.

Due anni dopo il massacro, nel 148 a.c., Viriatus divenne il capo di un esercito lusitano. Era un uomo di grande forza fisica, un eccellente stratega e una mente brillante, ma anche onesto e corretto, fedele alla parola e ai trattati, non perseguì il potere o la ricchezza, ma la gloria e la libertà. I Lusitani onorarono Viriatus come loro Benefattore e Salvatore. Viriatus è considerato il primo eroe nazionale portoghese, dato che era il capo delle tribù confederate di Iberia che resistevano a Roma.
Nel 145, il generale Quinto Fabio Massimo Emilio fece una campagna con successo contro i lusitani, ma fallì nei suoi tentativi di arrestare Viriathus.

Due tipi di guerra furono portati avanti da Viriatus: bellum, quando usò un esercito regolare, e il latrocinio, quando praticò la guerriglia. Viriatus nel 149 a.c. era con un esercito di diecimila uomini che invasero la Turdetania meridionale quando Roma mandò il pretore Caio Vetilio a combattere la ribellione e attaccò un gruppo di guerrieri lusitani che erano fuori a cercare cibo, e dopo aver ucciso diversi di loro, i sopravvissuti si sono rifugiati in un posto che era circondato dall'esercito romano.

Stavano per stringere un nuovo accordo con i Romani quando Viriatus, diffidando dei romani, propose un piano di fuga. I lusitani infiammati dal suo discorso lo resero il loro nuovo comandante. Il suo primo atto fu quello di salvare i lusitani resistenti attualmente intrappolati. Per prima cosa schierandosi in battaglia con i Romani, poi si dispersero mentre caricavano, fuggendo in direzioni diverse per incontrarsi in un luogo successivo. Viriatus con 1.000 uomini scelti teneva sotto controllo l'esercito di 10.000 romani essendo in grado di attaccare. Una volta che il resto dell'esercito era fuggito, anche lui e i mille uomini scapparono.

Avendo effettivamente salvato tutti i soldati lusitani immediatamente rafforzò la lealtà del popolo attorno a Viriatus, che organizzò un attacco contro Caio Vetilio Poiché i romani erano meglio armati, organizzò tattiche di guerriglia e scatenò imboscate fantasiose. Caricando con lance di ferro, tridenti e ruggiti, i lusitani sconfissero Vetilio uccidendo 4.000 su 10.000 truppe incluso Vetilio stesso.

Come risposta, i Celtiberi furono assoldati per attaccare i lusitani, ma furono distrutti. Dopo quell'episodio, i lusitani si scontrarono con gli eserciti di Caio Plauzio, Claudio Unimano e Gaio Negidio, tutti sconfitti. Durante questo periodo Viriatus ispirò e convinse i Numantini e alcuni Galli a ribellarsi contro il dominio romano.

Allora Roma inviò Quinto Fabio Massimo ad Emiliano, con 15.000 cavalieri per rafforzare Gaius Laelius Sapiens che era un amico personale di Scipione Emiliano Africano. I Romani persero la maggior parte di questi rinforzi in Ossuma. Quando Quinto Fabio ha rischiato di nuovo il combattimento, è stato completamente sconfitto vicino a quella che è oggi la città di Beja Alentejo. Questa sconfitta ha dato ai lusitani l'accesso al territorio spagnolo di oggi, la moderna Granada. I risultati degli effetti di Viriatus e quelli della guerra numerica hanno causato molti problemi a Roma, il più notevole dei quali è un calo dei tassi di reclutamento della Legione.

Allora Roma inviò uno dei suoi migliori generali, Quinto Fabio Massimo Servilianus (console 142 a.c) in Iberia. A Sierra Morena, i Romani caddero in un'imboscata lusitana. Viriatus lasciò andare i soldati e Servilianus, con cui fece un termine di pace che riconobbe il dominio lusitano sulla terra che avevano conquistato.

Questo accordo fu ratificato dal Senato romano e Viriathus fu dichiarato "amicus populi Romani" alleato del popolo romano. Ma il trattato dispiacque a Quinto Servilio Caepio (console 140 a.c.), che si fece nominare successore di suo fratello, Q. Fabio Massimo Serviliano, al comando dell'esercito. Nelle sue relazioni al Senato romano sostenne che il trattato era nel più alto grado disonorevole di Roma. Livio sostenne che era una macchia nella carriera militare di Servilianus ma disse che il trattato era giusto.

Il senato autorizzò Q. Servilio Caepio, su sua richiesta, a tormentare Viriathus ma segretamente. Il trattato era in vigore per un anno, dopodichè dichiarò la guerra. Sapendo che la resistenza lusitana era in gran parte dovuta alla guida di Viriathus, Quinto Servilio Caepio corruppe Audax, Ditalcus e Minurus, che erano stati inviati da Viriathus come ambasciatori per stabilire la pace.  Questi tornarono al loro campo e uccisero Viriathus mentre stava dormendo.

Eutropio narra che quando gli assassini di Viriathus chiesero a Q. Servilius Caepio il loro pagamento, egli rispose che "non è mai stato piacevole per i Romani, che un generale debba essere ucciso dai suoi stessi soldati", o in un'altra versione  "Roma non paga i traditori che uccidono il loro capo". A Q. Servilio Caepio venne rifiutato il suo trionfo dal Senato.

Dopo la morte di Viriato, i lusitani continuarono a combattere sotto la guida di Tautalus per dare ai lusitani la terra che avevano originariamente chiesto prima del massacro. Tuttavia, la pacificazione totale di Lusitania fu raggiunta solo sotto Augusto.  La Lusitania e il suo popolo acquisirono gradualmente la cultura e la lingua romane.

Viriathus è il leader di maggior successo in Iberia che si sia mai opposto alla conquista romana, sconfitto in battaglia solo una volta, ed è stato uno dei generali di maggior successo ad essersi mai opposto all'espansione di Roma. Circa cinquanta anni dopo, il generale romano rinnegato Quinto Sertorio, a capo di un'altra insurrezione in Iberia, avrebbe incontrato un destino simile.

Viriathus divenne simbolo della nazionalità e dell'indipendenza portoghese. Nel 1572, il poema epico di Luís Vaz de Camões , l'opera più importante della letteratura portoghese, paragonata all'Eneide di Virgilio, esaltò le grandi imprese di Viriathus. La bandiera della provincia spagnola di Zamora ha 8 strisce rosse che onorano le otto vittorie di Viriathus sui Romani. C'è una strada a Madrid che prende il suo nome nel quartiere di Chamberí.

MORTE DI VIRIATE

OLYNDICO

Olyndico (? -170 a.c.), noto anche come Olonico, era un capo di guerra celtibero che guidò una ribellione contro Roma, combattendo contro il pretore Lucio Canulo e le sue truppe, nella provincia di Hispania Ulterior. Secondo Florus, era un grande capo e un guerriero astuto e audace. Si diceva che Olyndico si fosse comportato come un profeta e che avesse condotto le sue truppe a brandire una magica lancia d'argento, inviata a lui dagli dei dal cielo.



CONCLUSIONI

A volte il comportamento ignobile di taluni generali senza onore offuscò momentaneamente la gloria di Roma, che del resto prese seri provvedimenti con leggi sempre più dure contro tali reati. Roma governò per secoli anche perchè rispettava i costumi, la religione e le abitudini dei suoi domini, che sempre si arricchirono sotto l'egida romana.

Ricordiamo quindi che l'Hispania divenne poi la più leale delle province, romanizzandosi al massimo, al punto da sentirsi e comportarsi come popolo romano. Ancora oggi il legame forte che unisce la Spagna con l'Italia testimonia questa similarità di lingue e di carattere. La Spagna è tutt'oggi grande ammiratrice della romanità che fa rivivere nella sua terra con molte feste ed eventi alla memoria di questo glorioso passato.

VILLA DEI DIOSCURI (Pompei)

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PRIMO DIOSCURO
La Villa o Domus dei Dioscuri è una delle abitazioni più vaste e meglio decorate della città di Pompei e deve il suo nome ad un affresco collocato all'ingresso, raffigurante i Dioscuri Castore e Polluce, oggi conservato al museo archeologico nazionale di Napoli. La rappresentazione dei Dioscuri, stanti con clamide e cavallo, costituisce un esplicito riferimento all’ordine equestre cui apparteneva, grazie alla sua enorme disponibilità finanziaria, il proprietario della domus, esponente dell’élite municipale.

La Villa dei Dioscuri (VI 9, 6-9) è ubicata nel quartiere residenziale prediletto dall’aristocrazia sannitica grazie alla sua vicinanza al foro. Essa è un insieme di tre abitazioni, unite tra loro durante l'età augustea, che venne sepolta dall'eruzione del 79 del Vesuvio, finchè non venne scoperta e esplorata tra il 1828 ed il 1829.

SECONDO DIOSCURO

La casa è una delle più importanti dell’ultima fase di Pompei, sia per l’estensione e per l’articolazione della superficie (1500 mq ottenuti dall’unione di tre differenti abitazioni), sia per l’eccezionalità delle pitture. E' evidente che solo un personaggio molto ricco potesse permettersi una villa di tali proporzioni e di tale bellezza. Purtroppo non conosciamo il nome di tale proprietario.

Di lui però desumiamo che fosse uomo colto e magari pio, perchè fece raffigurare molti miti e molti personaggi mitici nella sua splendida villa. I due Dioscuri, detti anche ambedue Castori, nonostante uno si chiami Castore e uno Polluce, rappresentati nella villa romana, nell'affresco non sono riconoscibili tra loro, perchè ambedue sono raffigurati come tradizione con i propri cavalli, ambedue sono armati di lancia ed ambedue indossano i tradizionali mantelli.

PERISTILIO
Castore è grande domatore di cavalli, Polluce valente nel pugilato, ma qui non sono distinguibili, del resto sono gemelli. Sono figli di Zeus e di Leda e stanno sempre insieme si che quando Castore vuole morire anche Polluce, che è immortale, ma Giove consente loro di vivere un giorno sull'Ade e un giorno sulla terra.

Soccorsero i romani contro i Latini nella battaglia del Lago Regillo (499 a.c.), poi si recarono a Roma abbeverando i cavalli alla fonte di Giuturna per dare la lieta notizia della vittoria. Roma innalzò loro diversi templi.

IL PORTICO CON I MOSAICI IN TERRA

DESCRIZIONE

La casa gira tutta intorno all'atrio, lo spazio aperto collocato all'interno di un edificio, che in questo caso funge anche da ingresso, e che è di tipo corinzio, che, in suolo italico, venne diffuso in età repubblicana, con capitelli a volute ed elici che nascono dietro delle foglie d'acanto. 

Questo atrio è uno dei quattro unici rinvenuti a Pompei in stile corinzio, con dodici colonne in tufo che sorreggono il tetto. 

L'uso del tufo è prettamente sannita, perchè i romani usavano il marmo o al limite i pilastri di mattoni cotti, oppure le colonne in mattoni cotti triangolari sovrapposti con lato esterno ricurvo. Questi ultimi sono adoperati nella villa dei Castori.

Sulla destra dell'atrio si apre il peristilio, il portico che cingeva il giardino interno posto al centro della casa, con una vasca per l'acqua e dei pannelli decorativi tutto intorno, effigiati in quarto stile, che raffigurano architetture e nature morte.

DONNA OFFRE ACQUA A UN VIANDANTE
L’ampia vasca al centro, dove doveva trovarsi una fontana, mostra ancora i segni dei bombardamenti che colpirono gli scavi nel 1943. In terra si notano dei mosaici a tessere bianche e nere. Da notare inoltre che le colonne del peristilio che ora sono scanalate nella parte superiore e lisce nella parte inferiore, non sono di marmo ma di terracotta e la scanalatura è di stucco.

Infatti, seguendo la moda romana del rosso da noi detto pompeiano, ma che sarebbe più corretto chiamare "rosso Romano". la parte inferiore delle colonne è stata rivestita di malta che è stata poi lisciata e pitturata di rosso.

Lo stile della decorazione rivela che sono state realizzate dallo stesso formidabile artista che ha lavorato anche alla casa dei Vettii, nel Tempio di Iside e nel Macellum. Molti quadri figurati furono staccati all’epoca dello scavo e conservati al Museo Archeologico di Napoli. 

COPPIA DI MENADE E GIOVANE LAUREATO
L'affresco della donna che offre l'acqua al viandante è di squisita fattura, si nota lo strano copricapo della donna che ricorda lo stile cinese e la fattura avveniristica che potrebbe essere tranquillamente moderna. Notare come i personaggi sono resi con pochi e semplici tratti, specie il cane.

La casa presenta inoltre un tablino, ambiente posto fra l'atrio e il peristilio, con due stanze che si aprono ai suoi lati: in quella a destra sono stati ritrovati gli affreschi raffiguranti la nascita di Adone (figura di origine semitica, oggetto di un importante culto nelle varie religioni legate ai riti misterici) e Scilla che, figlia sconsiderata, consegna all'invasore Minosse il capello fatato del padre e re Niso.

Due affreschi sono dedicati a due menadi, una con satiro ed una con giovane laureato che non si sa bene chi sia, la menade qua sopra, bellissima e quasi ieratica, impugna una ferula mentre il giovane porta, probabilmente in offerta, una quantità di frutta che sembrerebbero fichi.

Nella stanza di sinistra invece si trovano gli affreschi di Apollo e Dafne trasformata in albero di alloro per sfuggire alle brame del Dio, e Sileno (creatura selvaggia e lasciva dei boschi) con una Ninfa che reca con sè un Bacco infante. 

SATIRO E MENADE IN VOLO
Alle spalle del tablino si apre un portico con colonne doriche, sulla cui parete di fondo è posto il larario, la piccola edicola dove si veneravano i lari familiari e divinità a piacere. Molti di questi affreschi vennero staccati all’epoca dello scavo e conservati al Museo Archeologico di Napoli.

ACHILLE TRAVESTITO DA DONNA
Nella seconda coppia in volo è il satiro a portare la menade seminuda che ha un'aria compiacente. L'ampia veste le svolazza elegantemente intorno al corpo formandole quasi un nembo intorno alla testa.

Nell'affresco di Ulisse che cerca Achille per portarlo con sè in guerra si allude al mito omerico per cui il giovane figlio di Peleo e della Dea Teti, saputo da un oracolo che sarebbe perito in quella battaglia si era nascosto vestendosi da donna. Per altro si riporta che la madre l'avesse reso immortale bagnandolo in un fiume sacro quando era un bambino, ma tenendolo per un piede questo non era stato immerso per cui era una parte vulnerabile.

E' Ulisse a svelare il sesso del travestito ponendogli accanto giochi da donna e armi, naturalmente Achille scelse le armi e a quel punto venne smascherato e imbarcato nella nave achea per andare a combattere la città di Troia. Come tristemente fu predetto Achille vi trovò la morte ma al fato non si può sfuggire.

Un superbo Giove in trono adorna una stanza triclinare della villa, munito di scettro e di lancia, con ai suoi piedi da un lato il pianeta terra e dall'altro l'inseparabile aquila. Sullo stesso trono sono del resto effigiate due aquile.

Alle sue spalle, ormai semicancellata, c'è una donna in piedi che sembra tenergli la testa tra le sue mani. E' difficile interpretarne la figura, che potrebbe probabilmente riferirsi a giunone, che in miti molto più antichi, prima di essere sua moglie gli fu madre. In uno specchio c'è la figura di giunone che allatta Giove bambino.

GIOVE
Nella rappresentazione delle scene di tragedia due figure riccamente addobbate e munite di ampi cappelli recano in mano rispettivamente una brocca di bronzo e un bambino in fasce. La donna di destra sembra incedere alzando il braccio destro mentre tiene sul sinistro il bambinetto in fasce.

È una figura di donna matura, se non vecchia, con una maschera ad alto ónkos, che non è quella della giovane pallida dall’aspetto doloroso, dato dal convergere delle sopracciglia inclinate verso il centro della fronte; ma non è neppure quella della vecchia canuta, perché le sue chiome sono nere. 

È invece una maschera caratterizzata dalle sopracciglia ad accento circonflesso che danno un’espressione dura, arrogante. Una maschera, cioè, che non rientra nel catalogo di Polluce, ma ricorre abbastanza frequentemente nelle figurazioni pittoriche della Campania. Dinanzi a lei è un altro personaggio stante, che sembra vivacemente rivolgersi a lei, protendendo la mano sinistra e che tiene nella destra una oinochoe.

SCENE DI TRAGEDIA
Nonostante il dipinto sia poco conservato, si riconosce nella maschera il colore rosso del volto. Trattasi pertanto di una figura maschile, senza barba, ma con alto ónkos. Elementi, tutti, che consentono di riconoscere in essa uno dei messaggeri, in particolare l’anásimos, di cui anche il naso rincagnato sembra abbastanza riconoscibile.

Le due figure stanno recitando un'opera tragica e indossano anche una sorta di tacchi, come usavano spesso gli attori, per avere una maggiore visibilità  nello scenario, e una presenza più imponente. La loro visibilità era così assicurata sia dall'altezza che da grandi maschere e parrucche complicate e vistose. 


ENDIMIONE E SELENE
Un altro affresco propone l'amore tra Endimione e la Dea Selene. Endimione per alcuni è un pastore dell’Anatolia che porta spesso a pascolare il suo gregge nelle valli ai piedi del monte Latmio nella Caria; o un condottiero di origine carica ed eolico di razza, che usava spesso addormentarsi ai piedi di un monte nelle fresche notti d’estate; o un figlio di Zeus e della ninfa Calice da cui ereditò un’incredibile bellezza.

In una serena notte d’estate, mentre Endimione dormiva in un boschetto del monte Latmio, riparato dagl’alberi, un raggio di luce lunare illuminò il suo volto, e la Dea Semele, colpita da tanta bellezza s’innamorò perdutamente e ogni notte scese dal cielo per dormire accanto a lui. Selene poi chiese a Zeus di poter sposare Endimione e di renderlo immortale. Zeus accettò, malignamente consapevole che la dea si era dimenticata di chiedere per il suo promesso anche l’eterna giovinezza.

Ai primi capelli bianchi, Selene addolorata fece un accordo con Ipnos, che accettò di baciare le palpebre di Endimione così da farlo dormire per sempre evitandogli l'invecchiamento. Da allora Selene si recò ogni notte di “luna nuova” sul Latmio, nella grotta di Endimione addormentato, che la rese, per quanto dormiente, madre di ben cinquanta figlie.

In questo affresco, sempre della grandiosa villa, è illustrato il mito di Andromeda e Perseo, dove la fanciulla ha una mano incatenata a una roccia mentre Perseo, fornito di ali ai piedi come Mercurio, brandisce la testa di medusa già sconfitta e la spada con cui uccidere il mostro, peraltro, come i Dioscuri, totalmente nudo ma munito di ampio mantello.

La madre di Andromeda sostenne di essere più bella delle ninfe marine Nereidi, che offesissime chiesero a Poseidone, il Dio del mare, di punirla, Poseidone le accontentò e mandò un mostro terribile a razziare le coste del territorio del re Cefeo, che si rivolse all'Oracolo di Ammone, il quale suggerì per placare il mostro, di sacrificare sua figlia, la vergine Andromeda.

PERSEO E ANDROMEDA
Andromeda venne incatenata a una costa rocciosa in attesa di essere sbranata ma l'eroe Perseo, le chiese la ragione della punizione. Perseo fa appena in tempo a chiedere la mano della principessa, che uccise il mostro e sposò Andromeda. Più tardi Andromeda gli diede sei figli, compreso Perse, progenitore dei Persiani, e Gorgofone, madre di Tindaro e Icario, entrambi re di Sparta.

Quella di Bellerofonte è una triste storia, che i proprietari della villa vollero però effigiata nella lussuosissima dimora. Bellerofonte di Corinto, resosi colpevole dell'involontario omicidio di Bellero re di Corinto giunse ospite presso Preto, re di Tirinto, in grado di purificare le anime. Però la moglie di Preto, lo concupì ma, rifiutata, narrò al marito che il giovane l'avesse violentata.
Tuttavia le leggi greche dell'ospitalità vietavano l'uccisione di un commensale; pertanto il re inviò Bellerofonte da suo suocero Lobate, re di Licia per consegnargli una lettera che richiedeva l'assassinio del giovane. Ma anche Lobate non si sentì di uccidere un ospite, per cui gli richiese di eliminare Chimera, un mostro che sputava fiamme, con testa di leone, corpo di caprone e coda di serpente.

BELLEROFONTE E PEGASO
Bellerofonte però avrebbe avuto bisogno di Pegaso, il cavallo alato, per cui dormì presso il tempio di Atena che nel sogno mise una briglia d'oro con cui avrebbe catturato il magico destriero mentre beveva da una fonte. Così Bellerofonte rubò Pegaso a Zeus, e grazie a Pegaso, riuscì a gettare del piombo nella gola della Chimera, che, fondendosi, la soffocò.

Non contento però Lobate chiese a Bellerofonte di combattere contro i Solimi e le alleate Amazzoni che Pegaso mise facilmente in fuga lanciando loro dei sassi. Lobate ammirato da tanto valore gli mostrò il messaggio di Preto e Bellerofonte gli raccontò la verità. Il re convinto gli diede in sposa l'altra figlia, Filinoe, e ne fece l'erede al trono.

Però Bellerofonte si montò la testa e tentò raggiungere l'Olimpo, ma gli Dei infastiditi mandarono un tafano a pungere Pegaso che lo disarcionò. Bellerofonte sopravvisse alla grave caduta, ma rimase solo e infermo fino alla morte.

MEDEA
Il mito di Medea, figlia della maga Circe e nipote del Dio Sole, è anch'esso rappresentato nella splendida villa. Ella si innamora di Giasone che arriva nella Colchide con gli Argonauti alla ricerca del Vello d'oro custodito da un drago. Medea per aiutarlo uccide il fratellino Apsirto, spargendone i resti dietro di sé dopo essersi imbarcata sulla insieme a Giasone, ormai suo sposo. Il padre, così, per raccogliere le membra del figlio, non riesce a raggiungerli, e gli Argonauti tornano a Jolco con il Vello d'Oro. 

Lo zio di Giasone, Pelia, rifiuta tuttavia di concedere il trono al nipote, come aveva già promesso in cambio del Vello: Medea allora convince infatti le figlie di Pelia a somministrare al padre un "pharmakón", che dopo averlo fatto a pezzi e bollito il padre, lo avrebbe ringiovanito. Le figlie si lasciano ingannare e provocano così la morte del padre.  Medea e Giasone che si rifugiano a Corinto, dove si sposano.

Nella Medea di Euripide, dieci anni dopo, Creonte, re della città di Corinto, vuole dare la sua giovane figlia Glauce in sposa a Giasone, offrendogli così la successione al trono. Giasone accetta ma Medea manda come dono nuziale un mantello alla giovane sposa, facendola morire fra dolori strazianti. Il padre Creonte, corso in aiuto, tocca anch'egli il mantello, e muore.

Ma la vendetta di Medea giunge fino ad uccidere i figli avuti da Giasone, e fuggita ad Atene, a bordo del carro del Sole trainato da draghi alati, Medea sposa Egeo, dal quale ha un figlio, Medo; Egeo aveva già un figlio, Teseo, che Medea vuole venga ucciso. Ma Egeo riconosce Teseo come suo figlio e Medea è costretta a fuggire di nuovo e torna nella Colchide, dove si riappacifica con il padre Eeta.

PAN ED ERMAFRODITO CHE LO TENTA
L'affresco ha un precedente nel gruppo scultoreo di Satiro ed Ermafrodito proveniente da Oplontis, Torre Annunziata, derivato dalla tradizione ellenistica, in cui il giovane Ermafrodito tenta di difendersi dall’aggressione di un satiro. Solo girando attorno alla scultura lo spettatore potrà scoprire la reale natura della vittima. Ermafrodito veste i panni di una ninfa, con corpo seducente e profilo femmineo.

Ma in questa pittura invece Pan, dopo aver scoperto che Ermafrodito non è una donna fugge rapidamente orripilato dal sesso del giovane che aveva seducenti sembianze femminili. Viene da pensare che forse gli stessi committenti abbiano voluto salvare il mito della virilità di Pan, a meno che non ne esistessero versioni opposte, cosa da non escludere.

Comunque solo nel 2000, dopo secoli di censure e alterne vicende, venne riaperto il Gabinetto Segreto del Museo Archeologico Nazionale di Napoli, rivelando al pubblico duecentocinquanta opere, tra sculture, affreschi, mosaici raffinati, bronzetti, lucerne e un vasto repertorio di oggetti d’uso comune, il tutto a sfondo prettamente erotico.

E' la più grande collezione al mondo di oggetti e immagini dipinte a tema esclusivamente erotico, provenienti proprio dalle antiche città della cinta vesuviana. Furono i reali Borboni a creare queste sale e disposero che “avessero unicamente ingresso le persone di matura età e di conosciuta morale”, al fine di salvaguardare la buona reputazione della casa reale.

Al tempo dei romani si era più liberi di fronte alla sessualità ed evidentemente il tema non dispiacque ai signori della villa che vollero fosse immortalato quel mito, che da un lato ristabiliva la presunta virilità di Pan ma dall'altro l'attraente bellezza dello splendido ermafrodito.


LE ALAE II E III (SECUNDAE ET TERTIAE)

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ALA II

Ala II Agrippiana Miniata sembra fosse originaria della tribù dei Treviri (come l'ala I Agrippiana),la troviamo in Britannia nel 122.

Ala II Asturum - La seconda ala di Astures, attestata in Gran Bretagna nel 122 ( CIL XVI.69), e registrata a Ribchester su un altare non datato dedicato alle Matres o Dee Madri, che è probabilmente del II secolo. Nel 181 erano di stanza a Chesters sul Vallo di Adriano , e lì rimasero, fino alla fine dell'occupazione romana in Gran Bretagna. Il ritrovamento di una lapide del terzo secolo di un veterano a Lincoln non prova che l'unità sia mai stata posta lì.

Ala II Augusta Thracum pia felix - Rimase ininterrottamente in Mauretania Caesariensis, dove è ora designato anche dal Diploma XXXVI appena trovato per il 107, e dove numerose iscrizioni lo menzionano. La posizione della truppa era temporaneamente a Cesarea, dove si trovano non meno di nove iscrizioni.
Tra queste sei lapidi di cavalieri del I secolo. (CIL VIII 9380. 9390. Ef. Ep. V 988. 1306. 1007, così come tre pietre di decurioni attive e adottate da epoche successive (CIL VIII 9358. 9370. 9378). Venne originariamente situata nella capitale provinciale, poi nel II secolo. più a sud verso la linea del deserto, forse nel Castell Rapidum, dove si trova la lapide di un cavaliere, 9203, mentre vicino al luogo si trova l'iscrizione di un Decurio. Si dice che abbia combattuto in numerose battaglie contro le tribù berbere, che si svolgevano in quella zona.

Ala II Flavia Agrippiana - Prende il nome da un Agrippa; con nomi completi elencati solo nel Cursus honorum CIG 3497.Probabilmente è lo stessa Ala Agrippiana, che, come mostra la tomba di Worms CIRh 893, che si ergeva sul Reno. L'iscrizione di un subpraefectus dell' Ala della Gallia Narbonensis, CIL XII 2231 risale probabilmente a questo periodo: forse in occasione della guerra partica di Traiano.
L'Ala venne poi in Oriente, comandata da M. Valerio Lolliano in questa guerra, solo i membri dell'equipaggio composti da squadre di truppe orientali avevano l' ala. Dall'importante iscrizione disegnata da Mommsen si può concludere che l'Ala apparteneva all'esercito siriano.

Ala II Flavia Hispanorum civium romanorum - Reclutata nell'Hispania sotto la dinastia dei Flavi, probabilmente sotto Vespasiano. Il soprannome, Hispanorum indica che fu assoldata da tutte le province romane della penisola. Venne destinata al limes del basso Danubio, in una delle due Moesiae dove, sotto Domiziano, combatté contro i Daci e ottenne gli epiteti di civium romanorum (conquistò in premio la cittadinanza romana).
Trasferito in Hispania, in sostituzione dell'Ala Parthorum, destinata al Nord Africa, si installò nella provincia Tarraconensis nel castellum di Petavonium, costruito sul vecchio campo della Legio X Gemina, dove rimase fino ai tempi di Aureliano. L'ala mandò poi in Africa proconsolare un distaccamento che accompagnava la Legio VII Gemina per combattere il mauri sotto Antonino Pio, sotto il comando di T. Varius Clemens.
Sotto Marco Aurelio, insieme alla Legio VII Gemina, combattè ancora i mauri che avevano attaccato la provincia di Bética. Nel corso del II secolo inviò distaccamenti permanenti a estrarre l'oro in El Bierzo, e anche nel nord del Portogallo, presso Aquae Flaviae (Chaves). Nel Petavonium edificarono alcuni bagni termali e una serie di cappelle dedicate a Ercole. Nel 193 si proclamò partigiana di Clodio Albino, ma nel 196, passò a Settimio Severo, a cui eresse una statua nel Petavonium.
Giurò poi fedeltà a Treboniano Gallo e a suo figlio Volusiano nel 253, ma poco dopo, nel tempo di Gallieno, passò all'impero gallico di Postumo, Victorino e Tétrico. Con Aureliano tornò fedele all'impero, e venne trasferito in Oriente partecipando alla battaglia di Emesa.
In Petavonium, i soldati trasferiti ad Est da Aureliano vennero trasformati in fanteria formando la Cohors II Flavia Pacatiana al tempo di Costantino I, scomparendo poi, tra il 406 e il 409, quando l'usupazione di Costantino III, le manovre di Geronzio e l'invasione dei Vandali, Svevi e Alani fecero sparire l'esercito romano dall'Hispania.
Invece le truppe inviate a East Wing, secondo la Notitia Dignitatum, erano di stanza in Egitto, in Tebaide, con il nome di Ala II Hispanorum, scomparendo sotto Giustiniano nel VI secolo.

Ala II Flavia Gemina si trovava in Germania superiore nel 74 e nell'82. Da non confondere con Ala II (?) Gallorum Picentiana (vedi sopra). Presumibilmente Vespasiano la fondò dai resti di una vecchia ala. Fu di stanza in Germania superiore senza interruzione, dove può essere trovata ancora nel II secolo. 

Ala II Flavia milliaria, dislocata in Rezia (Raetia) tra il 70 ed il III secolo, prima ad Heidenheim, poi con Antonino Pio a Aalen. Sotto Domiziano la attesta l'iscrizione CIL XIV 2287 = VI 3255, un eques singularis lectus ex exercitu Raetico ex ala Flavia pia fidel. miliaria, anche se il numero manca. 

Ala II Flavia pia felix miliaria - testimoniata alla fine del I secolo, fu a Rhaetea, trasferita poi nel Norico all'epoca di Antonino Pio. Dovrebbe essere stata nominata pia felix in Germania nell'88 quando andò a reprimere la rivolta di Antonio Saturnino.


Ala II Gallorum Petriana Treverorum milliaria civium Romanorum bis torquata - era posizionata ad Argentoratae (odierna Strasburgo). Nel 56 la troviamo a Mogontiacum. Nel 122 la troviamo dislocata in Britannia, con possibili sedi nel corso degli anni successivi a Vindolandia, Stanwix, Luguvalium, Corstopitum (Corbridge), Lanercost Priory e Voreda (Penrith).

Ala II Gallorum Picentiana - era formata in origine nella Gallia Lugdunense, integrata con cavalieri provenienti dal Piceno, dislocata in Germania superiore probabilmente nei pressi di Mogontiacum in appoggio alla vicina fortezza legionaria (diploma del 74). Nell'82 la troviamo dislocata in Mesia. In seguito venne trasferita in Britannia (diploma del 122 e 124) con possibile sede a Derventio (oggi Malton).

Ala II Gallorum Sebosiana - menzionato per la prima volta in Tacitus hist. III 5, era dislocata inizialmente in Germania superiore. Poi fu trasferita in Britannia come attestano i diplomi del 105 e del 122.

Ala II Hispanorum - tutti i legionari senza aggettivi appaiono su un'iscrizione in Egitto all'inizio del V secolo.

Ala II Hispanorum et Arevacorum - Creata da Augusto o Tiberio, era un'unità quingenaria attestata da diplomi e iscrizioni militari. Nei diplomi viene anche indicato come Ala II Aravacorum mentre nelle iscrizioni è usato solo Aravacorum. Hispanorum per ispanico.e Aravacorum per Aravacer. I soldati dell'Ala furono reclutati tra gli ispanici e tra le tribù degli Aravacer nella provincia romana Hispania Tarraconensis.
L'Ala era inizialmente di stanza in Hispania, poi nell'Illirico, e nella Pannonia e della Mesia inferiore. È elencato sui diplomi militari per gli anni dal 61 al 159/160.
La prima prova dell' unità in Pannonia si basa su diplomi risalenti all'80, elencata come parte delle truppe di stanza nella provincia.
L'Ala probabilmente partecipò alle Guerre Daciane di Domiziano (81-96). Tra l'85 e il 97 venne trasferita in Mesia inferiore, dove è documentata da un diploma datato al 97. Il diploma del 152/153 indica che una vessillazione dell'Ala era stata temporaneamente trasferita in Mauritania Tingitana, per partecipare alla soppressione di una rivolta.
L'ultima prova dell'Ala è basata sull'iscrizione datata al 199/200. Le posizioni dell'Ala in Pannonia: Mursa (Osijek): qui è stata trovata la tomba del Niger Sveltrius, Teutoburgium (Erdut): qui fu rinvenuta la lapide di Tiberio Claudio Valerio. Le posizioni dell'Ala in Mesia: Carsium (Hârşova): la lapide di Gaio Valerio Erculano.
Membri noti: - Comandanti M. Fortunatus, Lucius Fabius Fabullus, Lucius Marcius Sabula, Sessotus Gavius ​​Gallus; Acuto, un duplicario; Aelius Longinus, Aurelius Cotus, Tiberius Claudius Victor, Lupus: veterani; Atrectus, Taurinus: soldati, Aurelius Firmus, un veterano ed ex decurione; Caius Julius Primus, Tiberius Claudius Flaccus, Tiberius Claudius Valerius, decurioni; Crispinianus, Niger Sveltrius, Marcus Velius Felix: guide, Gaaius Valerius Herculanus, un veterano ed ex Stator, Laccaius e Titinius Severinus: sesquiplicariis.

Ala II Hispanorum Vettonum civium romanorum - è attestata in Britannia già dal 50/70 ad Aquae Sulis (Bath).
Alla fine del I secolo è a Cicucium (Brecon Gaer). Nel 103 si trovava forse ad Isca Silurum.
Ancora un diploma del 122 attesta la sua presenza in Britannia.
Si trovava probabilmente al tempo di Marco Aurelio a Vinovia (Binchester).
Nel 197-198 a Lavatris (Bowes nel Durham). Agli inizi del III secolo a Vinovium (Binchester nel Durham).

Ala II Nerviana Augusta fidelis militaria -  Nota solo attraverso il diploma appena scoperto di Cesarea (XXXVI) .
Successivamente, l'Ala partecipò nell'anno 107 alla campagna di occupazione della Mauretania Caesariensis.

Ala II Pannnoniorum - partecipò alla guerra dacica sotto Traiano.

Ala II Gallorum Augusta Proculeiana - era in Britannia nel 122, 135, 156 e nel 158.

Ala II Gallorum et Thracum Classiana civium romanorum fu formata nella Gallia Lugdunense e posizionata subito in Germania inferiore, e probabilmente identificabile con quella posizionata ad Ara Ubiorum (Colonia). Troviamo una sua prima iscrizione del tempo di Tiberio. Successivamente è trasferita in Britannia dagli inizi del II secolo, pur essendo la sua sede sconosciuta, come da diplomi del 105 e del 122.

Ala II Ulpia Afrorum - Fu reclutata in Egitto sotto il regno di Traiano. Non ha a che vedere con l'Ala Afrorum, o Ala Afrorum Veterana.

Ala II Ulpia Auriana - unità quingenaria, Il nome onorario si riferisce all'imperatore Traiano, il cui nome completo è Marco Ulpio Traiano; Auriana da Aurius. Fu creata da Traiano (98-117), forse con il residuo dell'dell'Ala I Hispanorum Auriana. fu trasferita poi nella provincia della Cappadocia, probabilmente per la guerra partica di Traiano.
L'unità faceva parte delle forze che Arriano aveva mobilitato per la sua campagna contro gli Alani fino al 135. L'unità è citata per ultima nella Notitia dignitatum come Ala Auriana per il sito di Dascusa in Cappadocia. Faceva parte delle truppe sotto il comando della Dux Armeniae. Conosciamo i nomi del: Comandante, Marcus Ulpio Andromacho, Marius, un decurione  e Iulius Philippus, un Duplicarius.

Ala II Valeria singularis, del prefetto del Duca delle due Rezie.

Ala II Vocontiorum Augusta civium Romanorum si trovava nella Gallia Belgica, in seguito in Germania inferiore a Burginatium (oggi Kalkar) o nella vicina Xanten probabilmente nel I secolo. Nell'86 in Giudea. Poi viene trasferita per la costruzione del vallo di Adriano in Britannia nel 122. Nel 124 era in Egitto sotto il prefetto Tito Aterio Nepote. Ancora in Egitto si trovava sotto Commodo.



ALA III

- Ala III Asturum Pia Fidelis civium Romanorum era quinquagenaria e originaria della Spagna romana. Venne posizionata in Mauretania Tingitana come dimostrano i diplomi degli anni 109, 122, 135, 153, 161. Potrebbe essere solo un altro modo di riferirsi al coiors III Asturum civium romanorum. Un'iscrizione la colloca nell'anno 109 con le caserme a Thamusida , l'attuale Sidi Ali ben Ahmed in Marocco.

Ala III Augusta Victrix Thracum sagittaria potrebbe essere stata posizionata a Carnuntum, al tempo di Antonino Pio, come sembrano attestare i diplomi del 133, 139, 151, 154 e 161.

Ala III Augusta Thracum sagittariorum - rilevabile solo nell'Alta Pannonia, diploma LX per il 148, il diploma LXI per il 149 e il diploma LXV (XXXIX) per il 154, con numerose iscrizioni che danno il nome alla compagnia.
La pietra CIL III 4270 di J. 252 in onore di Gallo dimostra che il campo delle truppe si trovava allora a Castell Adiaum, a est di Brigetio, e abbiamo non meno di sette pietre miliari dalla strada che passa da Brigetio-Aquincum. La lapide di un veterano CIL III 4321 si trova nel Brigetio adiacente al presidio, e l'Ala è ancora menzionata su una pietra di Arrabona, III 4380.

Ala III Thracum -  è menzionata nel Cursus honorum del M. Valerio Propilio CIL II 4251, che cade sotto uno degli imperatori Flaviani, in Siria.

L. AURELIO SIMMACO - L. AURELIUS SYMMACHUS

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LA NIKE GRECA

Nome: Lucius Aurelius Avianius Symmachus
Nascita: -
Morte: 376, Roma
Padre: Aurelio Valerio Tulliano Simmaco
Figlio: Quinto Aurelio SimmacoProfessione: Politico


Figlio di Aurelio Valerio Tulliano Simmaco, console del 330, e padre di Quinto Aurelio Simmaco autore della famosa relazione sulla controversia riguardante l'altare della Vittoria.  

VITTORIA
Simmaco sosteneva la necessità di non abbandonare una tradizione che aveva dimostrato di saper proteggere così a lungo lo Stato, come quando un tempo aveva respinto Annibale dalle porte di Roma e i Galli Senoni dal Campidoglio, e il cui abbandono avrebbe favorito ora le invasioni dei barbari che premevano ai confini.

Ma il ripristino del culto della Vittoria, per Simmaco, sarebbe stato anche una manifestazione di tolleranza e della possibilità di convivenza di due culture che, pur diverse, esprimevano tuttavia la comune volontà di ricercare la verità nel grande mistero dell'universo:

«È giusto credere in un unico essere, quale che sia. Osserviamo gli stessi astri, ci è comune il cielo, ci circonda il medesimo universo: cosa importa se ciascuno cerca la verità a suo modo? Non c'è una sola strada per raggiungere un mistero così grande».

Ma la Vittoria fu spostata e in seguito distrutta.

Ebbe anche una figlia e altri tre figli, tra cui Celsino Tiziano, vicarius Africae. Fu un senatore pagano, e fu membro di diversi collegi sacerdotali, come i Pontefices Vestae e i Quindecemviri sacris faciundi (dal 351 al 375).



LA PERSONA

Aviano Simmaco venne descritto dal figlio come un appassionato lettore di ogni genere di letteratura. Fu infatti un uomo colto, equilibrato e onesto. Si rese conto che l'impero romano era giunto a una svolta che l'avrebbe fatto irrimediabilmente decadere, e ciò lo addolorava moltissimo.

Vide i segni  negativi delle nuove generazioni. Il poco amor di patria e di studio, il servilismo e la corruzione dilagante, l'ignoranza e l'avidità. Nel suo lavoro fu apprezzato ed elogiato per la sua intelligenza e il suo scrupolo, ma suscitò pure tante invidie e ingiustizie che lo amareggiarono non poco.

L'IMPERATORE GIULIANO
Compose anche un numero limitato di epigrammi di non eccelsa qualità stilistica e letteraria sui membri dell'epoca di Costantino I, tra i quali quelli dedicati ad Amnio Anicio Giuliano, console del 322 e Lucio Aradio Valerio Proculo, console nel 340.

Tra i suoi corrispondenti ebbe Vettio Agorio Pretestato, come Simmaco esponente dell'aristocrazia senatoriale pagana, e uno degli ultimi esponenti di rilievo della religione romana, che cercò di proteggere e custodire dall'avanzata del Cristianesimo; fu sacerdote e iniziato di molti culti, oltre che studioso di letteratura e filosofia.

- Lucio venne nominato Prefetto dell'Annona, cioè un funzionario equestre preposto alla supervisione dei rifornimenti di grano fino al gennaio 350.

- successivamente divenne vicarius urbis Romae.

- Nel 361 venne inviato dall'imperatore Costanzo II (317-361) ad Antiochia di Siria dove sembra conobbe l'oratore Libanio, filosofo pagano.

Probabilmente il Senato romano aveva voluto assicurare all'imperatore la propria fedeltà dopo aver ricevuto la lettera del cugino, l'imperatore Giuliano membro della dinastia costantiniana, che, Cesare in Gallia dal 355, un pronunciamento militare nel 361 e la contemporanea morte del cugino Costanzo II lo resero immediatamente imperatore.  Simmaco e il collega Valerio Massimo ritornarono dalla missione passando per Nassus, dove Giuliano li accolse con tutti gli onori.

- Nel 364-365 divenne praefectus urbi di Roma, sotto l'imperatore Valentiniano I. Da prefetto restaurò l'antico pons Agrippae sul Tevere (dove oggi è ponte Sisto), che prese il nome di pons Valentiniani; Simmaco finanziò anche una sontuosa festa pubblica per l'inaugurazione del ponte. Una iscrizione che celebra il restauro è ancora presente sul ponte. Lo storico Ammiano Marcellino dà un ottimo giudizio sul suo mandato.

VALENTINIANO I
La sua casa si trovava sulla riva destra del Tevere, a Trastevere, e venne bruciata dalla plebe durante una sommossa nel 377.  Ammiano Marcellino racconta che la causa della rivolta fu la diceria, messa in giro da un plebeo, che Simmaco avesse affermato, durante il proprio mandato di prefetto, che avrebbe preferito piuttosto «estinguere col suo vino le fornaci di calce, anziché venderla al prezzo che la plebe sperava»; la folla inferocita, dimenticando la prosperità avuta sotto la prefettura di Simmaco, gli mise a fuoco la casa trasteverina.

Aviano, offeso e demotivato, abbandonò la città a seguito di questa violenta aggressione causata dall'«invidia», che cercò di superare componendo un'opera letteraria. In seguito, però, i plebei, informati della realtà dei fatti, cambiarono idea, si ricredettero e fecero di tutto per riabilitarlo e sostenerlo, chiedendo la punizione dei facinorosi che avevano operato in malafede.

Anche il senato insistette per riaverlo e Simmaco alla fine dovette tornare a Roma dietro insistenza del Senato romano, il 1º gennaio 376; i senatori, anche quelli cristiani, lo proposero al nuovo imperatore Graziano come console e prefetto del pretorio per il 377.

Ma Aviano Simmaco non assistè alla sua riabilitazione perchè morì nel 376, da console designato; l'anno successivo venne onorato di una statua dorata, eretta per decreto imperiale dietro richiesta del Senato, il 29 aprile.

LIBERALIA (17 Marzo)

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ISPIRATA A LIBER PATER

«I giochi di Cerere vengono celebrati in aprile, dodici giorni prima delle calende di maggio, tre giorni prima dell'anniversario della fondazione di Roma, che è anche la festa dei pastori e degli agnelli appena nati. Indicano il momento in cui tutto si crea.

Cerere non è per eccellenza la Creatrice, in quanto dea del grano che crea in noi la carne e il sangue? Insieme a lei, festeggiamo due divinità che le sono associate, Liber e Libera, talvolta considerate come i figli di Cerere.

Liber e Libera hanno dei giochi, o almeno una loro festa. Sono i Liberalia, nel mese di marzo, diciassette giorni prima delle calende di aprile. Il costume vuole, lo sai, che quel giorno gli adolescenti giunti all'età matura abbandonino la toga dell'infanzia e prendano la toga virile, quella degli uomini, bianca e di un solo pezzo, privata della fascia color porpora che sino ad allora li proteggeva contro i sortilegi del "malocchio".

Essi sono allora considerati come capaci di chiamare alla vita dei bambini (dei liben) che li perpetueranno. Sono diventati uomini. Ma tu stesso hai vissuto questo importante momento della tua vita. Sai che cosa significa.

Il giorno dei Liberalia di certo hai visto nelle strade anziane donne coronate di edera (la pianta sacra di Dionysos- Liber), le quali vendono a tutti i presenti delle gallette che fanno cuocere su un fornello portatile. Hai anche potuto Stupirti del loro daffare. Quando un passante ne acquista una, la vecchia donna ne stacca un pezzo e lo fa bruciare sulla brace del fornello.

È un'offerta agli Dei per «portar bene" al suo cliente. Quella sera, molti Romani cenano all'aria aperta. Ma il tempo non è sempre bello. Sai che a Roma, all'equinozio di primavera si possono temere tempeste e burrasche».

«Lo so bene», dice Marco. «Ma qualsiasi tempo vi faccia, quella sera c'è sempre folla nelle strade, ed è difficile circolare. E poi tutte queste persone fanno molto rumore. Non si può dormire; le canzoni e le grida si prolungano fino a tarda notte».

«Che vuoi», risponde Frontone, «la gioia di vivere chiama le canzoni e le grida. L'inverno è finito, il tempo della vita è ritornato. Non c'è di che rallegrarsi? Non possiamo volerne a quelli che, nella loro semplicità, pensano di vivere davvero solo imponendo agli altri la loro chiassosa presenza e le loro
canzoni. È la stagione in cui nei boschi anche gli uccelli fanno molto rumore. E poi non dimenticare che quella sera si beve molto. È anche la festa del Liber Pater!»

(PIERRE GRIMAL - L'ANIMA ROMANA)

ALTARE DI LIBER PATER E SILVANUS

I Liberalia erano delle celebrazioni romane in onore di Liber Pater e Libera. La festa si teneva il 17 marzo in occasione del sedicesimo anno di età di un ragazzo, quando cioè si deponevano la bulla e la toga praetexta (o libera) e si prendeva la toga virilis. A questo punto il ragazzo passava dallo stato di puer a quello di adulto, con tutti i diritti ed i doveri del cittadino romano. In epoca tardo repubblicana Libero presiedeva ai ragazzi e Libera alle ragazze, per cui in qualche modo venivano festeggiati entrambi, ma in modo diverso.

"Quel Libero che i nostri antenati venerarono con solennità e devozione accanto a Cetere e a Libera la cui importanza cultuale è ravvisabile nelle pratiche misteriche. In base alla considerazione che è nostra consuetudine chiamare " liberi " i figli nati da noi, Libero e Libera furono considerati figli di Cerere; il che vale per Líbera ma non certo per Libero!."
(Cicerone)



LA FESTA

Il festeggiamento prevedeva sia una parte pubblica che una parte privata. La parte privata avveniva a casa, dove il giovane deponeva sull'altare dei Lari la propria bulla, una collana (d'oro per i più ricchi ed in cuoio per i meno abbienti) datagli quando era ancora in fasce, insieme alla barba ottenuta dalla sua prima rasatura. 

In seguito abbandonava la toga pretesta (che era decorata con una sottile striscia di porpora), indossata da ragazzino, e gli veniva consegnata la toga virile; se il giovane era di rango senatorio la toga presentava una striscia di porpora più larga (laticlavia), se era di rango equestre una striscia più stretta (angusticlavia), altrimenti la toga era in tinta unita. 

La mattina la famiglia consumava una abbondante colazione sull'orlo della strada, per mostrare a tutti che avevano un figlio ormai adulto e in grado di servire la patria. Era un orgoglio e una festa, anche perchè esisteva una notevole mortalità di bambini a Roma, sia nel parto che nella prima infanzia. Non ultimo per mostrare  a tutti che avevano un figlio maschio, molto più importante della figlia femmina, anche perchè non poteva andare in guerra.

Poi tutta la famiglia usciva per strada, dove le sacerdotesse di Libero, incoronate di edera, vendevano torte a base di olio e miele, di cui staccavano una parte per porla su di un altare in favore di chi le comprava. Successivamente si formava per le strade la processione davanti a cui era posto un fallo in cima ad una pertica. Solo al termine della cerimonia una matrona considerata la più virtuosa poteva coprire l'attributo con un piccolo covone di grano.

Le Vestali quel giorno si recavano in un luogo in cui c'erano ventiquattro piccoli edifici sacri dal tetto di giunchi chiamati Argei (secondo Varrone erano i principi giunti nella penisola italiana al seguito di Ercole e si erano stabiliti nel villaggio) fondato dal Dio Saturno sul Campidoglio. Invece i sacerdoti Salii compivano dei giochi chiamati Agonalia dedicati a Marte, la cui celebrazione, istituita da Numa Pompilio, consistente nel sacrificio di un ariete nero nella Regia dal re dei sacrifici, che in origine doveva essere lo stesso re di Roma.

ISPIRATA ALLA DEA LIBERA
 Liber, Dio di carattere agreste, era associato alla fecondità e al seme maschile, mentre Libera alla componente umida femminile, e quindi alla terra in cui gettare il seme, dalla cui unione si genera la vita [August. C. D. IV, 11; VI, 9; 16]. Si pensava che la donna non ponesse un proprio seme ma che fosse solo la terra fertile in cui il seme potesse prosperare.

Liber e Libera erano preposti alla pigiatura dell'uva che si trasformava in mosto e poi in vino. Anche nel momento di spostare il mosto dai recipienti di fermentazione a quelli in cui sarebbe diventato vino o mosto dolce, si offriva una libagione a Liber. Considerando che si trattava di un’offerta di primizie, e che generalmente nei riti più antichi si faceva alla Grande madre, è logico pensare che il culto primigenio di Libera divenne il culto della coppia Liber-Libera. Libero venne comunque associato a Bacco che spesso prevalse nel culto.

I festeggiamenti romani riguardavano soprattutto il santuario di Cerere, Libero e Libera, un tempio dell'antica Roma, situato sul colle Aventino, dedicato alla triade di origine dionisiaca di Libero, Libera e Cerere, trasposizione latina di Demetra, Dioniso e Core. Qui i giorni seguenti il 17 marzo si festeggiavano i Liberalia, con feste, banchetti e divertimenti. Il lavoro dei campi era sospeso, in quanto Liber era un Dio agreste, e pertanto celebrato in tutte le campagne, [Tert. Spect. V] solo in seguito il culto venne trasferito anche in città. 

In realtà si trattava di una triade, composta da Cerere, Libero e Libera, che attingevano alla triade greca di Demetra, Persefone e Dioniso, che non hanno un posto di preminenza tra loro ma sono tre in uno, preposti al culto dei Sacri Misteri. In epoca tarda la figlia di Cerere, Persefone, prese per i romani il posto di Libera, e la festa del 17 marzo era una festa propiziatoria nella quale si offrivano al Dio delle focacce di olio e miele.

Nelle Georgiche, Virgilio scrive che nella festa di Bacco-Liber che si svolgeva nelle zone rurali: si rideva e si facevano scherzi grossolani, si indossavano maschere mostruose fatte di cortecce e si appendevano oscilla ai rami degli alberi. Si cantavano antiche canzoni festose in onore del Dio e gli si sacrificavano focacce ed un capro [Verg. Georg. II, 385 – 396]. La festa più importante era comunque a Lavinium (Lavinio), dove si tenevano le processioni destinate al suo culto consacrando a Liber un mese intero con i festeggiamenti per ben 30 giorni.

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