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BATTAGLIA DI IDISTAVISO - LA VENDETTA SU TEUTOBURGO - I

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LA VENDETTA DI ROMA

La battaglia di Idistaviso fu la rivincita dell'Impero Romano contro i Germani, dopo la sconfitta subita da Varo, nel 9 d.c., nella Battaglia della Foresta di Teutoburgo, che dette al mondo la certezza che i romani non potevano essere attaccati impunemente, e che prima o poi ogni offesa sarebbe stata ripagata con un'offesa più grande.

Il concetto era molto importante perchè se si usciva impuniti da un'aggressione tanto feroce, basata peraltro sul tradimento, come fu la battaglia di Teutoburgo, i popoli assoggettati potevano cercare di emulare l'esercito di Arminio. 

Nel 16, uno dei più grandi generali della storia romana, il giovanissimo legato imperiale Germanico, fece quello che per 7 anni i romani non erano ancora riusciti a fare: riuscì a battere Arminio in due grandi battaglie: la prima nella piana di Idistaviso, la seconda di fronte al Vallo Angrivariano, entrambe tra la riva destra del fiume Visurgi (Weser), le colline circostanti, la grande foresta germanica e le paludi più a nord.

Dopo la disfatta di Publio Quintilio Varo nella foresta di Teutoburgo, i romani avevano deciso di abbandonare la Germania ad est del Reno. Seguirono due anni di campagne, sotto il comando di Tiberio, a cui Germanico aveva partecipato rendendosi conto dei luoghi, della gente e delle strategie di guerra, nel 10 e 11 d.c.. Tiberio era un ottimo generale ma le battaglie miravano solo a scongiurare un'invasione germanica o rivolte tra le popolazioni galliche. Insomma l'imperatore voleva solo scoraggiarli, affinchè non pensassero di poter rinnovare le gesta di Arminio a Tutoburgo.

«[Tiberio] viene inviato in Germania, rafforza le Gallie, dispone gli eserciti, fortifica i presidi e attraversa il Reno con l'esercito. Passa dunque all'attacco, mentre il padre [Augusto] e la patria si sarebbero accontentati di rimanere sulla difensiva. Avanza verso l'interno, apre nuove strade, devasta campi, brucia villaggi, mette in fuga tutti quanti lo affrontarono e con immensa gloria torna ai quartieri d'inverno senza aver perduto nessun soldato tra quelli che aveva condotto oltre il Reno

(Velleio Patercolo, Historiae Romanae ad M. Vinicium libri duo, II, 120, 1-2.)


Tiberio, al suo ritorno dal suo esilio volontario, poco piacendogli la vita della reggia, era stato adottato da Augusto, che lo aveva costretto però ad adottare a sua volta il nipote Germanico Giulio Cesare, figlio del fratello di Tiberio, Druso Maggiore, sebbene Tiberio avesse già un figlio, concepito dalla prima moglie Vipsania, di nome Druso Minore e più giovane solo di un anno. Augusto preferiva il figlio di Druso al figlio di Tiberio, la cosa non dovette piacere all'erede di Augusto. 

L'adozione fu celebrata il 26 giugno dell'anno 4 con grandi festeggiamenti e Augusto fece distribuire alle truppe oltre un milione di sesterzi. Il ritorno di Tiberio al potere supremo dava stabilità all'impero, ma anche monito all'esterno che ci sarebbe stato sempre un imperatore già designato a regnare e a combattere come capo dell'esercito romano.

Augusto aveva mirato alla Pax Romana, rinunciando alla riconquista della Germania e Tiberio, che pure era un validissimo generale, ne seguì le orme mantenendo i confini al Reno senza toccare la Germania. Del resto anche Giulio Cesare aveva posto il confine sul Reno rinunciando alla conquista, ma sappiamo che proprio nell'ultimo anno di vita aveva progettato l'invasione della Germania che lui avrebbe guidato personalmente, e c'era da giurarci che avrebbe vinto. Con il suo assassinio ciò non avvenne mai.

GERMANICO

GERMANICO

Germanico Giulio Cesare è nato il 15 a.c. ed è stato nominato console il 12, a 27 anni, cinque anni prima di quanto fosse consentito a chiunque, cioè a 33 anni, ma per l'erede di Augusto si poteva fare. In più lo fanno proconsole, in genere la carica veniva data ad un console a cui il senato prorogava il potere per un anno, affidandogli un comando militare o l'amministrazione di una provincia, ma sono passati due anni e Germanico è proconsole, anche questo per l'erede si può fare. Ma perchè mandarlo a sedare una rivolta?


ANNO 14 -  La Rivolta delle Legioni

Ora siamo nel 14, mentre era in corso una grossa rivolta delle legioni in Pannonia, anche gli uomini stanziati lungo il confine germanico si ribellarono ai loro comandanti, dando inizio ad un'efferata serie di violenze e massacri. La rivolta ebbe inizio presso l'esercito "inferiore" dove erano presenti 4 legioni: 
- la legio XXI Rapax, 
- la legio V Alaudae, 
- la legio I Germanica 
- la legio XX Valeria Victrix.
Germanico, allora, che era a capo dell'esercito stanziato in Germania e godeva di grande prestigio, venne incaricato di riportare alla calma ben quattro legioni. Il compito era molto rischioso, perchè doveva confrontarsi personalmente con i soldati in rivolta.

Questi: «...tenevano gli occhi a terra, quasi fossero pentiti. Ma come egli attraversò il fossato, si incominciarono a sentire lamenti confusi, alcuni gli afferravano la mano come per baciarla, si introducevano in bocca le dita per fargli sentire che non avevano più denti, altri gli mostravano le membra curve per l'età.
Quando chiese dove fosse mai l'obbedienza militare, l'antica fierezza della disciplina e chiese ai soldati dove avessero cacciato i tribuni, dove i centurioni, quelli si denudarono tutti per mostrare le cicatrici delle ferite, i segni delle percosse. Poi con grida confuse, denunciarono il prezzo degli esoneri, la pochezza delle paghe, la durezza dei lavori e li citarono uno ad uno: il fossato, le trincee, il trasporto di foraggio e di legna e tutti gli altri lavori richiesti dalle necessità o dal desiderio di non lasciare in ozio le truppe. 
Più veemente si levava il clamore dei veterani, i quali rammentavano i trenta e più anni di servizio e supplicavano che si portasse sollievo alla loro stanchezza, per non morire in quelle stesse fatiche, che quel servizio militare avesse fine, e riposo non volesse dire fame


Germanico decise di concedere loro il congedo dopo venti anni di servizio e di inserire nella riserva tutti i soldati che avevano combattuto per oltre sedici anni, esonerandoli così da ogni obbligo ad eccezione di quello di respingere gli assalti nemici; raddoppiò allo stesso tempo i lasciti a cui, secondo i testamento di Augusto, i militari avevano diritto. 

Le legioni, che avevano da poco appreso della recente morte di Augusto, arrivarono addirittura a garantire il proprio appoggio al generale se avesse desiderato impadronirsi del potere con la forza, ma egli rifiutò dimostrando grande rispetto e grande lealtà per il padre adottivo Tiberio. Questa notizia, che giunse alle orecchie di Tiberio non gli piacque.

La rivolta, che aveva attecchito tra molte delle legioni di stanza in Germania, risultò comunque difficile da reprimere, e si concluse con la strage di molti legionari ribelli. I provvedimenti presi da Germanico per soddisfare le esigenze delle legioni furono poi ufficializzati in un secondo momento da Tiberio, che assegnò le stesse indennità anche ai legionari pannoni.



I GRANDI GENERALI: SILIO E CECINA

Quell'anno c'erano presso la riva sinistra del Reno due eserciti: quello della Germania superiore agli ordini di Gaio Silio, e quello della Germania inferiore di Aulo Cecina Severo, ambedue sotto l'alto comando di Germanico. 

Gaio Silio era stato eletto console nel 13, ma tra i mesi di agosto e settembre venne chiamato in Germania Magna da Germanico e il suo posto come console venne preso dal suffectus Gaio Cecina Largo. Lasciando Roma via mare, Silio raggiunse la Germania nel 14. Aulo Cecina era un grande generale e nello stesso anno venne nominato da Germanico suo legato nella Germania inferior. Germanico sapeva scegliere i suoi uomini.

Però i soldati vennero presi dal rimorso e dalla paura, poiché era giunta un'ambasceria del Senato presso Ara Ubiorum, e temevano che ogni concessione fatta da Germanico fosse stata annullata a causa del loro comportamento. Cominciarono, così, a punire i fomentatori della rivolta, e così accadde anche nella fortezza legionaria di Castra Vetera sessanta miglia a nord (dove svernavano la V e XXI legione). Ancora una volta intervenne Germanico riuscendo a calmare e rassicurare gli animi. Otteneva sempre grande credito e fiducia.

Sedata la rivolta, Cecina poté tornare ad Ara Ubiorum (Colonia) con le legioni I e la XX, mentre Germanico, recatosi presso l'esercito superiore, ricevette il giuramento di fedeltà anche da parte delle altre 4 legioni: legio II Augusta, legio XIII Gemina, legio XVI Gallica e legio XIV Gemina.


MONETA DI GERMANICO VINCITORE SULLA QUADRIGA

Il Censimento

Ora il figlio adottivo di Tiberio, Germanico, era stato inviato come proconsole della Gallia per un censimento, ma di sua iniziativa riprese le azioni militari contro le popolazioni germaniche, invadendo i loro territori. Lo fece certamente di sua iniziativa, perchè lo stesso Tiberio gli aveva dato il proconsolato e quindi l'imperio, e chi ha un imperio è come un imperatore, può fare tutto ciò che vuole, compreso il muovere guerra a chicchessia.

Ma c'è di più, come mai Tiberio per un semplice censimento aveva ricevuto l'imperio? Se era attaccato poteva difendersi e contrattaccare, mentre con l'imperio poteva attaccare chi e quanto voleva senza dover chiedere nulla a Roma. Proconsole era un console a cui il senato prorogava il potere per un anno, affidandogli un comando militare o l'amministrazione di una provincia. Ma erano passati due anni dal consolato di Germanico. E' probabile che Tiberio sperava che Germanico muovesse battaglia e magari ci morisse.

Germanico aveva idee di gloria, ma non di potere, e non avrebbe mai attentato al trono dell'imperatore, questo Tiberio lo sapeva, ma sapeva pure che Germanico era molto, ma molto amato sia dal popolo che dai legionari, mentre lui non era amato affatto, soprattutto dal popolo che un giorno magari poteva ribellarsi.

Basti pensare che una volta Tiberio, invaghitosi di una statua che Giulio Cesare aveva posto nei suoi giardini, lasciati per testamento al popolo romano, se la fece portare nella sua reggia. Ogni volta però che Tiberio compariva in pubblico il popolo gli intimava di restituire la statua, al punto che alla fine fu costretto a farle riporre al suo posto. Tiberio non era amato, Germanico si.



DRUSO MAGGIORE
DRUSO MAGGIORE 

Germanico era il figlio di Druso Maggiore, figlio di Livia e del suo  matrimonio con Tiberio Claudio Nerone, precedente a quello con Augusto, il quale stravedeva per lui come fosse un figlio suo. 

Druso era intelligente, leale e coraggioso, purtroppo morì per una banale caduta da cavallo e tutti lo compiansero e  rimpiansero.

Germanico era molto simile a lui, anche con una notevole somiglianza nel fisico, ma pure più amabile, sapeva farsi valere con modi molto semplici, privo di atteggiamenti e di arroganza o superbia, arrivava al cuore del popolo, tutti lo amavano e stimavano, a cominciare dai soldati. 

Ora Germanico aveva sicuramente chiesto a Tiberio di invadere la Germania, compiendo ciò che suo padre Druso non aveva potuto terminare a causa della sua morte, ma Tiberio non acconsentì, era una terra inospitale, ricoperta da foreste ed acquitrini, non aveva grandi ricchezze e non era opportuno conquistarla.

Ma allora perchè gli concesse l'imperio?



ANNO 15

Tiberio al termine della prima campagna di Germanico, decise di decretargli il Trionfo, mentre ancora si combatteva la guerra. Sperava che Germanico, che stava accumulando troppe vittorie e notorietà, lasciasse la Germania e tornasse a Roma. Ma Germanico pensava alla guerra e aveva studiato con cura la campagna del 15, anticipando le operazioni alla primavera, ed attaccando per primi i Catti (come all'epoca aveva fatto suo padre).

Germanico voleva riuscire, prima di passare il Reno, ad opporre ai nemici capeggiati da Arminio, un partito filoromano, capeggiato dal suocero di Arminio, Segeste, e per questo condusse numerose trattative. Segeste era un nobile germanico, che divenne un leale alleato dei romani e che odiò Arminio, per avergli rapito la figlia Thusnelda per sposarla contro il parere del padre.

Germanico divise l'esercito in due colonne:

- una al comando di Aulo Cecina Severo, che mosse dalla fortezza legionaria di Castra Vetera (Xanten), con vexillationes di quattro legioni della Germania inferiore (circa 12/15.000 legionari), 5.000 ausiliari ed alcune schiere di alleati germani, abitanti sulla riva sinistra del Reno;

- l'altra guidata da Germanico, mosse da Mogontiacum (Magonza), al comando di vexillationes delle quattro legioni della Germania superiore (circa 12/15.000 legionari) e di circa 30000 alleati germani, della riva sinistra del Reno.



CONTRO I CATTI
LA MOGLIE DI ARMINIO

Germanico lasciò Lucio Apronio a protezione della strada e dei passaggi dei fiumi, affidandogli i bagagli dell'esercito per marciare più spedito.

Lucio Apronio ottenne poi gli ornamenta triumphalia per il suo valoroso coraggio durante la rivolta dalmato-pannonica del 6-9 e le guerre germaniche, insieme a Aulo Cecina Severo e Gaio Silio nell'anno 15.

Germanico marciò velocemente nel territorio dei Catti, dove compì orrende stragi di uomini donne e bambini, mentre i più giovani fuggivano e si lanciavano nel fiume Adrana (Eder), sopra il quale i Romani stavano costruendo un ponte per attraversarlo. Germanico si accampò intanto sulle rovine di un precedente forte, costruito dal padre Druso nel 10-9 a.c., che si trovava presso il monte Tauno.

Passati sull'altra sponda i Romani si spinsero fino alla capitale dei Catti, Mattium (nei pressi dell'attuale Niedenstein), che incendiarono e saccheggiarono. Al termine delle operazioni tornarono al fiume Reno, senza che i nemici osassero inseguirlo tanto ne aveva devastato i territori, ora che grande era il timore nei suoi confronti.

Intanto Cecina Severo riusciva, grazie alle sue trattative a dissuadere i Cherusci dall'inviare aiuti ai Catti combattendoli qua e là lungo i confini delle loro terre, in seguito batteva i Marsi facendone strage.

Germanico invece venne informato da alcuni ambasciatori inviati da Segeste (tra cui il suo stesso figlio, Segismondo), di essere assediato dal suo stesso popolo (i Cherusci), che ormai parteggiavano per Arminio, e ne richiedeva con urgenza l'intervento dei Romani. Germanico senza indugi corse a salvare il capo germano filo-romano, mettendo in fuga gli assedianti e tornando subito sul Reno.


ESTATE ANNO 15

Arminio, viene a sapere dell'alleanza di Segeste ai romani, ma soprattutto che sua moglie e suo figlio erano stati consegnati ai romani, per cui cercò più alleanze possibili con tutte le popolazioni germaniche confinanti (tra cui lo stesso zio, Inguiomero), contro l'invasore romano.

Germanico allora divise l'esercito in tre colonne:

- pose Cecina a capo di 40 coorti (20.000 armati, tra cui alcune unità ausiliarie), attraverso il territorio dei Bructeri fino al fiume Amisia (Ems); e Tacito racconta che Camavi ed Angrivari emigrarono nei territori dei Bructeri, dopo averli cacciati e totalmente annientati, in alleanza con altre popolazioni vicine, che lo scrittore latino ringrazia per «offrire diletto allo sguardo romano», senza che Roma dovesse intervenire. Dei Bructeri caddero più di 60.000 uomini.
«Suvvia preghiamo che rimanga e si conservi tra i popoli stranieri, se non l'amore verso di noi, almeno l'odio tra loro, poiché niente risulta di più prezioso che la fortuna possa procurarci, se non la discordia dei nostri nemici tra loro
(Tacito, De origine et situ Germanorum, XXXIII, 3.)

- Al prefetto Pedone affidò invece la cavalleria per recarsi nel paese dei Frisi, alleati, in direzione dello stesso fiume; fu suo padre Druso che:
«... si trovò in pericolo quando le sue imbarcazioni si incagliarono a causa di un riflusso della marea dell'Oceano. In questa circostanza venne salvato dai Frisi, che avevano seguito la sua spedizione con un esercito terrestre, e dopo di ciò si ritirò, dal momento che ormai l'inverno era cominciato...»
(Cassio Dione, LIV, 32.2-3.)

- Poi Germanico, imbarcate 4 legioni ( 20.000 legionari), le guidò verso l'estuario del fiume Amisia, così da potersi trovare tutti insieme e contemporaneamente presso il fiume. Una volta riunitisi, Germanico chiese ai Cauci gli aiuti promessi, rimpinguando con i loro armati le file del suo esercito.

- Poi inviò contro i Bructeri, Lucio Stertinio, con forze armate leggere di fanteria e cavalleria ausialiarie. Quest'ultimo una volta devastati i territori di queste popolazioni, ritrovò l'insegna della XIX Legione, caduta in mano ai Germani sei anni prima, dopo il massacro delle legioni XVII, XVIII e XIX di Varo nella foresta di Teutoburgo.

Il grosso dell'esercito, intanto, procedeva devastando l'intero territorio compreso tra i fiumi Amisia (Ems) e Lupia (Lippe), fino a raggiungere il luogo dell'eccidio delle legioni di Teutoburgo:

«...nel mezzo del campo biancheggiavano le ossa ammucchiate e disperse... sparsi intorno... frammenti di armi e carcasse di cavalli e teschi conficcati sui tronchi degli alberi. Nei vicini boschi sacri si vedevano altari su cui i Germani avevano sacrificato i tribuni ed i centurioni di grado più elevato. 

I superstiti di quella disfatta, sfuggiti alla battaglia od alla prigionia, ricordavano che qui erano caduti i legati e là erano state strappate le Aquile; e mostravano dove Varo ricevette la prima ferita e dove si colpì a morte, suicidandosi; mostravano il rialzo da dove Arminio aveva parlato ai suoi, i numerosi patiboli preparati per i prigionieri, le fosse scavate e con quanta tracotanza Arminio avesse schernito le insegne e le Aquile imperiali...»
(Cornelio Tacito, Annali I, 61)

L'onore di Roma era salvo. La disfatta subita a Teutoburgo era stata riscattata. Ma Arminio era ancora vivo, Germanico non era soddisfatto. I nemici di Roma dovevano morire.

GERMANICO - AMELIA

ANNO 16 - NON PER TERRA MA PER MARE

Giunta nuovamente la primavera, Germanico, che aveva riflettuto tutto l'inverno sulle strategie di guerra, si rese conto che i legionari romani marciavano in interminabili colonne cariche di equipaggiamenti, esposti a continue imboscate e che le Gallie, il cui popolo doveva sostentare con cibo ed armi gli eserciti romani, erano allo stremo avendo esaurito le loro risorse di cavalli.

Allora Germanico decise di avanzare in territorio nemico, via mare. L'occupazione sarebbe risultata più rapida per i Romani ed imprevista per i nemici. L'intero esercito romano, inclusi i necessari rifornimenti sarebbero giunti attraverso le foci ed i corsi dei fiumi nel cuore della Germania, con le forze pressoché intatte.

Qui si esplicò tutta la genialità di Germanico. Anzitutto si liberò del noioso compito del censimento delle Gallie che affidò a Publio Vitellio e a Gaio Anzio, e invece affidò a Silio, Anteio e Cecina la costruzione di una flotta di 1.000 navi, subito messe in cantiere.

Nella sua genialità studiò e disegnò il prospetto delle navi:
- alcune dovevano essere strette a poppa ed a prua, ma larghe ai fianchi, per reggere meglio le onde dell'Oceano;
- altre con la chiglia piatta per fare in modo che l'arenarsi non procurasse danni; dovevano procedere avanti alle altre navi per sondare il fondale e far si che si scegliesse il fondale più adatto. In quei mari c'era un grosso sbalzo delle maree che potevano portare le navi o ad arenarsi o ad essere trascinate a largo;
- poi fornì tutte le navi che dovevano caricare uomini, con timoni alle due estremità, in modo che potessero approdare sia da prua che da poppa, consentendo una discesa rapida delle truppe che avrebbero tenuto a bada eventuali assalitori;
- molte navi vennero inoltre fornite di ponte per poter trasportare macchine da guerra, cavalli e carriaggi;
- infine, tutte le navi vennero predisposte sia alla vela che ai remi, per ottenere il massimo della velocità.
- Decise poi, in gran segreto, che il luogo dove concentrare le navi fosse l'isola dei Batavi: collocata non distante dalla foce del fiume Reno, per i facili approdi onde caricare facilmente uomini, animali, strumenti e salmerie, ma non solo.
Germanico sapeva che quell'isola era già stata usata da suo padre, Druso Maggiore, che vi aveva costruito dei castra, che con rapide riparazioni gli avrebbero servito da quartier generale.



IL PONTE SUL RENO

Germanico decise di gettare un ponte sul fiume Reno, edificato a tempo di record, dove vi passò con vexillationes di quattro legioni (pari a 12.000 armati), 26 coorti di fanteria ausiliaria ed 8 ali di cavalleria, per invadere la Germania. Raggiunto il fiume Visurgi (Weser), trovò i Germani schierati a battaglia sulla sponda destra del fiume. Allora mandò in avanscoperta la cavalleria con i centurioni primipili delle 8 legioni, divisi in due colonne e sufficientemente distanziati, per non essere schiacciati dall'esercito nemico in un sol punto ma dividerne le forze.

Cariovaldo, capo dei Batavi (alleati dei Romani), una volta attraversato il fiume si mise all'inseguimento dei Cherusci senza sospettare l'imboscata. I Germani, infatti, avevano simulato una fuga per attirarlo in una piana lontana dalle legioni e circondata da boschi, dove balzarono fuori travolgendoli. I Batavi tentarono di ritirarsi ma i Cherusci chiusero ogni varco e cominciarono a massacrarli.

Cariovaldo, tentò inutilmente di sfondare l'assedio nemico, ma anche lui cadde insieme a molti nobili della sua tribù. Fu solo per l'intervento della cavalleria di Stertinio ed Emilio che i restanti batavi riuscirono a salvarsi. Varcato il fiume, Germanico venne a sapere da un disertore che Arminio nella notte avrebbe tentato un assalto all'accampamento romano. La notte stessa i romani, armati fino ai denti stettero in perfetto silenzio come se dormissero e poco dopo la mezzanotte, ci fu l'assalto dei germani che però desistettero subito per la dura risposta che ricevettero dai romani.

GERMANICO

LA BATTAGLIA DEL 16 d.c. IDISTAVISO

La mattina dopo i soldati romani erano impazienti di combattere e marciarono suonando le trombe da guerra e inneggiando fino a giungere alla piana di Idistaviso, che si estende tra il fiume Visurgis e le
colline, seguendo la sinuosità delle anse del fiume e dei colli. Alle spalle dei Germani si estendeva una fitta foresta con alberi altissimi e priva di sottobosco.

«Il fiume Visurgi divideva i Romani dai Cherusci. Sulla riva opposta si fermò Arminio con altri capi e domandò se Cesare Germanico era arrivato. Come venne a sapere che c'era, chiese di poter parlare con il fratello, il quale militava nell'esercito romano con il nome di Flavo, soldato di straordinaria fedeltà e privo di un occhio, perduto, in seguito ad una ferita pochi anni prima, sotto il comando di Tiberio. Concessagli l'autorizzazione al colloquio, Flavo avanzò salutato da Arminio, il quale, allontanata la sua scorta, chiese il ritiro dei nostri arcieri schierati lungo la riva del fiume. Dopo che questi si furono ritirati, chiese al fratello l'origine di quello sfregio sul volto. Quest'ultimo gli riferì il luogo e la battaglia. Arminio chiese ancora quale compenso avesse ricevuto. Flavo rammentò lo stipendio accresciuto, la collana, la corona e gli altri doni militari, mentre Arminio irrideva la sua servitù a Roma per quegli insignificanti e vili compensi ricevuti... continuarono a parlare, Flavo esaltando la grandezza di Roma... Arminio ricordando la religione della patria, l'antica libertà... la madre di entrambi, alleata a lui nelle preghiere, perché Flavo non volesse abbandonare parenti, amici e tutta la sua gente... e non preferisse essere traditore piuttosto che capo... A poco a poco passati ad insultarsi, poco mancò che si gettassero l'uno contro l'altro... se Stertinio non avesse trattenuto Flavo...»

(Cornelio Tacito, Annali II, 9-10.)


GLI SCHIERAMENTI

I Germani dettero dunque le spalle alla foresta, pronti a rifugiarvisi in caso di mala partita o per attirare i romani nella guerriglia come avevano fatto con Varo. I Cherusci di Arminio invece si sistemarono sui colli per precipitarsi dall'alto contro il lato destro dello schieramento romano.

I Romani disposero le proprie truppe in modo da conservare lo stesso ordine di marcia:
- lungo la prima linea gli ausiliari galli e germani; dei mercenari che erano i più esposti al pericolo;
- dietro di loro gli arcieri appiedati, in parte coperti dai precedenti;
- seguivano quattro legioni;
- più dietro ancora due coorti di pretoriani che accompagnavano Germanico e ai lati un corpo scelto di cavalleria ausiliaria;
- poi le altre quattro legioni,
- poi ancora la fanteria leggera e gli arcieri a cavallo e le altre coorti alleate.

Insomma i Romani avevano una formazione simmetrica rispetto al fronte d'attacco, per evitare di essere colpiti alle spalle.


TACITO

I primi ad attaccare furono proprio i Cherusci di Arminio, come racconta Tacito:

«Viste le orde dei Cherusci precipitarsi giù con impeto furibondo, Germanico diede ordine ai migliori cavalieri di caricare i nemici sul fianco, ed a Stertinio di aggirarli con gli altri squadroni di cavalleria e di attaccarli alle spalle; egli stesso sarebbe intervenuto al momento opportuno. In quell'istante, come augurio di buona fortuna, otto aquile attirarono l'attenzione di Germanico, che le vide volare verso la foresta per entrarvi. Egli comandò ai suoi di marciare avanti e di seguire gli uccelli simbolo di Roma, protettori delle legioni! 
E subito avanzarono i fanti schierati, mentre i cavalieri, già lanciati all'attacco, investirono le ultime fila ed i fianchi nemici, e cosa strabiliante, accadde che due formazioni nemiche fuggirono in senso opposto: quelli che occupavano la foresta si lanciarono verso la pianura, mentre quelli schierati nella piana si precipitarono verso la foresta. Presi nel mezzo, c'erano i Cherusci, che erano sospinti giù dai colli. Tra questi sovrastava Arminio, il quale a gesti, con le grida e mostrando la ferita, cercava di tenere alte le sorti della battaglia, e si scagliava sugli arcieri e li avrebbe distrutti, se non l'avessero fronteggiato i reparti ausiliari di Reti, Vindelici e Galli. 
Tuttavia grazie alla prestanza fisica, all'impeto del cavallo, ed al fatto che si era imbrattato il volto col proprio sangue per non essere riconosciuto, riuscì a passare. Alcuni sostengono che i Cauci, impegnati tra gli ausiliari romani, pur avendolo riconosciuto, l'abbiano lasciato fuggire. Egual valore o analogo inganno procurò la salvezza ad Inguiomero. Gli altri, ovunque sul campo, furono trucidati, e la maggior parte che tentava di passare a nuoto il Visurgi, furono colpiti e travolti dai dardi o per la violenza della corrente del fiume, oltre alla calca degli uomini che irrompeva, lungo le rive delle sponde del fiume che franavano. 
Alcuni, arrampicatisi con una fuga vergognosa sulle cime degli alberi e nascosti fra i rami, divennero, tra lo scherno, il bersaglio di arcieri che erano stati fatti avanzare; altri furono fatti cadere a terra dagli alberi che venivano abbattuti
(Cornelio Tacito, Annali, ii.17.)

La vittoria romana fu netta, senza grosse perdite per i Romani. Si combatté ininterrottamente dalle undici del mattino fino a notte, mentre i nemici germani uccisi coprivano con i loro cadaveri e le armi la piana per almeno diecimila passi. Infine fra le spoglie furono trovate, cosa strabiliante, anche delle catene per incatenare i Romani prigionieri, sicuri com'erano, i Germani, di poter rinnovare la vittoria di Teutoburgo. I soldati di Germanico, sul campo di battaglia, acclamarono il loro generale Germanico ma pure Tiberio Imperator e innalzarono un tumulo sul quale posero le armi dei vinti, come fosse un trofeo, e una scritta riportante i nomi dei popoli vinti: i Cherusci, i Fosi, i Dulgubini, i Longobardi ed altri. Roma era vendicata! ... ma secondo Germano non del tutto.


L'OSTILITA' DI TIBERIO

«Era quasi sicuro che il nemico germanico stesse per cedere e fosse ormai orientato a chiedere la pace, tanto che, se le operazioni fossero proseguite nell'estate successiva, era possibile portare a termine la guerra. Ma Tiberio, con frequenti lettere, consigliava Germanico di tornare per il trionfo già decretato: tutti quegli avvenimenti, felici o meno felici, potevano bastare. Germanico aveva raccolto numerosi successi in grandi battaglie, ma doveva ricordarsi dei gravi danni provocati, pur senza sua colpa, dal vento e dall'Oceano. Egli (Tiberio) inviato ben 9 volte in Germania dal divo Augusto, aveva compiuto la sua missione più con la prudenza che con la forza. Egli aveva accettato la resa dei Sigambri, costretto alla pace i Suebi ed il re Maroboduo. Anche i Cherusci e gli altri popoli che si erano ribellati, ora i Romani si erano vendicati, si potevano lasciare alle loro discordie interne. E quando Germanico gli chiese ancora un anno per concludere la guerra... gli offrì un secondo consolato... ed aggiungeva che, se fosse stato ancora necessario combattere, Germanico avrebbe dovuto lasciare una possibilità di gloria anche per il fratello Druso. Germanico non indugiò oltre, pur comprendendo che si trattava di finzioni e che per odio Tiberio gli voleva strappare quell'onore che già aveva conseguito.»
(Cornelio Tacito, Annali II, 26.)


BIBLIO

Cornelio Tacito - Annales I II III.
Cassio Dione Cocceiano -  Storia romana, LV, 29, 30, 32.
Velleio Patercolo - Storia di Roma, II 112.
Svetonio - Vite dei Cesari, Tiberio
Livio - Ab Urbe Condita Libri


IL VALLO DEGLI ANGRIVARI - LA VENDETTA SU TEUTOBURGO - II

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La battaglia precedente:
BATTAGLIA DI IDISTAVISO - LA VENDETTA SU TEUTOBURGO - I



PREPARATIVI SULL'ISOLA DEI BATAVI

“… Germaniae populos nullis aliis aliarum nationum conubiis infectos…unde habitus quoque corporum…idem omnibus: truces et caeruli oculi, rutilae comae, magna corpora et tantum ad impetum valida…”
(Tacito, Germania IV)

Il Reno respinge i Germani, ”gente avida di guerra”, e fissa un limite per contenere quelle terre inquiete e arginare l’aggressività delle sue tribù: “…Rhenus Germaniae modem faciat…” 
(Seneca Nat. Questiones, praef. 9)

Mentre si procedeva a costruire le navi ed a raccoglierle nell'isola dei Batavi, negli attuali Paesi Bassi, vicino alla foce del Reno, Germanico ordinò al legato Gaio Silio di attaccare i Catti con alcune unità di truppe ausiliarie, come aveva fatto all'epoca suo padre. Questo ha fatto scrivere a molti che Germanico desiderasse emulare il padre e che fosse ossessionato dall'idea. In realtà egli si basava sulle esperienze di suo padre che era stato un ottimo condottiero. 

Del resto tutti i romani che avessero avuto un padre condottiero avrebbero voluto emularlo e se non era il padre era un parente, o un personaggio famoso. Si sa che Giulio Cesare desiderava emulare lo zio Gaio Mario e lo stesso Alessandro Magno, e ci riuscì perchè oggi il suo nome non è meno famoso del grande condottiero macedone. Giusto Giulio Cesare aveva stretto una forte alleanza col popolo dei Batavi, che non pagavano tributi ma fornivano un contingente ausiliario al popolo romano. Erano coraggiosissimi e abilissimi sui cavalli. 

La flotta era ormai pronta e Germanico, una volta distribuiti i viveri, le legioni e gli ausiliari sulle navi, entrò nel canale fatto scavare da suo padre, la «Fossa Drusi», percorso un tratto dell'Oceano, raggiunse senza intoppi la foce del fiume Amisia. Germanico lasciò la flotta sulla riva sinistra dell'Amisia, e per alcuni autori commise un errore, poiché avrebbe dovuto marciare sulla riva opposta, evitando così di dover costruire un ponte più oltre, dove traghettare le truppe e che richiese alcuni giorni di lavoro. 

Secondo altri fu voluto, ed è molto probabile, primo perchè Germanico non avrebbe commesso un errore così grossolano che chiunque del suo esercito avrebbe potuto fargli notare, secondo perchè in ogni epoca il momento più pericoloso per le milizie è quello dello sbarco delle truppe dalle navi a terra. Un ponte era molto più sicuro anche perchè alle due estremità fece porre delle torrette con armi da lancio in cima.

Germanico intanto, alla notizia che il forte sul fiume Lupia (Aliso o Alisone, oggi Haltern), stava subendo un assedio, decise di guidarvi le sue 6 legioni e di attaccare i Germani. Il generale Silio riuscì a rapire la moglie e la figlia di Arpo, capo dei Catti, ma Germanico non poté battere gli assedianti di Aliso, poiché si dileguarono alla notizia del suo arrivo. Essi avevano distrutto il tumulo da poco eretto alle legioni di Varo e l'antica ara innalzata in memoria di Druso. Germanico, una volta ricostruita l'ara paterna, decise che tutte le zone comprese tra il forte d'Aliso ed il Reno, fossero protette con nuove barriere e terrapieni.



L'ANTEFATTO: TEUTOBURGO

Germanico, una volta seppelliti i resti dei corpi straziati delle legioni di Varo, raccolse tutto ciò che poteva identificarli e poi si diede all'inseguimento di Arminio, lanciandogli la cavalleria alle calcagna. Ma Arminio, rifugiatosi prima in un vecchio accampamento romano, gli preparò un'imboscata, facendo ripiegare parte dei suoi verso le foreste, per poi, improvvisamente, tornare indietro mentre un'altra parte dei suoi uomini, appostata nei pressi, attaccò i cavalieri romani lungo i fianchi. 

La cavalleria romana fu colta dal panico e cominciò ad arretrare disordinatamente; Germanico inviò allora alcune coorti ausiliarie, ma il disordine aumentò e tutti arretravano verso la palude dove ad Arminio sarebbe stato facile annientarli, ma Germanico fece allora avanzare le legioni schierate. Stavolta furono i nemici a cadere nel panico: la vista dei legionari allineati come un sol uomo, totalmente difesi dagli scudi che venivano ritmicamente colpiti col gladio sguainato, era destabilizzante. 

Le sorti cambiarono, i romani si ricompattarono, la battaglia riprese ma alla fine non vi furono nè vinti nè vincitori, però Germanico potè ricompattare il suo esercito e ricondurlo all'accampamento presso il fiume Amisia (Ems), il fiume alla cui foce c'era stata la funesta battaglia di Teutoburgo nell'anno 9, ma dove aveva combattuto Druso maggiore, nel 12-9 a.c., e Tiberio nell' 8-7 a.c. e nel 5 d.c., e ora Germanico (14-16).



I NUOVI PREPARATIVI

Qui, dopo il dovuto riposo, Germanico rifece i suoi piani:
- le legioni, con a capo Germanico, furono caricate nuovamente sulla flotta e percorsero lo stesso itinerario dell'andata, al contrario;
- parte della cavalleria doveva raggiungere il Reno lungo la costa dell'Oceano;
- Aulo Cecina, con le sue 40 coorti, tornò lungo i Pontes Longi, uno stretto passaggio tra foreste e paludi, costruito da Domizio Enobarbo tra il 3 e l'1 a.c..



I PONTES LONGI

I pontes longi erano strade in legno costruite dai Romani su terreni paludosi o acquitrinosi, un tipo di strade che esistevano già nel nord della Germania fin dal VII secolo a.c., e che i Romani avevano subito appreso dalle genti celto-germaniche del nord-europa e utilizzato in Germania. Su questo stretto passaggio però i Germani attaccarono. Arminio aveva preceduto l'esercito romano disponendo i suoi in un'imboscata, e aspettò l'arrivo di Cecina carico di salmerie e di armi. Tuttavia Cecina, da quell'abile generale che era, dislocò parte degli uomini a erigere l'accampamento mentre dispose a guardia il resto dell'esercito.

L'impatto fu durissimo, perchè i Romani si trovavano su un terreno scivoloso e fangoso con addosso il peso dell'armatura, e facevano fatica a calibrare i lanci delle frecce e delle lance, mentre i Cherusci erano abituati alle paludi, e lanciavano i loro lunghi giavellotti, con molta precisione. Per i romani non andò bene ma per fortuna calò il buio e il combattimento cessò. I Germani allora cercarono di convogliare tutti i torrentelli circostanti verso l'accampamento romano, per far crollare i terrapieni costruiti dalle legioni.

Cecina allora dispose i feriti e i carri dietro le fila dei legionari, nell'accampamento che si stava allestendo, disponendo la V Alaudae sul lato destro, la XXI Rapax su quello sinistro, la I Germanica in avanguardia e la XX Valeria Victrix come retroguardia. Poi mentre una parte degli uomini riposavano, altri facevano la guardia in assetto da combattimento e altri proseguivano l'edificazione dell'accampamento.

Tacito, narra del sogno che avrebbe fatto quella notte Aulo Cecina Severo:
«...gli parve di vedere Publio Quintilio Varo uscire dalle paludi, interamente coperto di sangue, e gli sembrò di udirlo come se lo chiamasse, egli invece non lo seguiva e spingeva lontano da sé la mano che Varo gli tendeva....»
(Cornelio Tacito, Annali I, 65)

AGRIPPINA MAGGIORE MOGLIE DI GERMANICO
La mattina dopo però, le legioni che dovevano proteggere i fianchi, erano corse invece ad occupare la zona di terra oltre la palude. Non si sa se fu un errore nel ricevimento degli ordini, o un'iniziativa non autorizzata e dettata dalla paura, tanto che perfino Arminio rimase per un po' perplesso, ma quando vide i carri impantanati coi soldati romani che non sapevano più muoversi e avanzavano disordinatamente, dette l'ordine dell'attacco gridando: «Ecco Varo e le sue legioni, dallo stesso destino sono ormai presi in una morsa!»

I Germani si lanciarono sulla colonna romana, colpendo il ventre dei cavalli dal basso che cadevano disarcionavano i cavalieri, e pure il cavallo di Cecina fu colpito e precipitò a terra travolgendo il generale. I Germani, riconosciuto Cecina accorsero per ucciderlo, ma intanto era accorsa la legio I Germanica che lo salvò e i combattimenti ricominciarono.

Trascorsa l'intera giornata a combattere, le legioni riuscirono a guadagnare un terreno aperto ed asciutto, dove di nuovo iniziarono a costruire un vallo con terrapieno per la notte, anche se gran parte degli attrezzi con cui scavare era andata perduta, mancavano pure le tende e le medicine, ed il morale dei soldati era a terra.


La mattina seguente i Germani attaccarono l'accampamento romano, cercando di colmare il fossato intorno al vallo di recinzione con graticci e provando a sfondare la palizzata, dove erano schierati solo pochi soldati. ma una parte delle legioni aveva riposato, ed ebbe la forza di colpire i Germani alle spalle con una rapidissima manovra di aggiramento. 

Ora la battaglia cominciava ad andare in favore dei romani, sia perchè i Germani erano rimasti svegli tutta la notte, sia perchè Cecina era un validissimo comandante e dette tutti gli ordini appropriati.

Arminio e Inguiomero fuggirono dalla battaglia prevedendone la sconfitta, per giunta Arminio era ferito gravemente, mentre gran parte dei suoi venne massacrata dai Romani. Cecina vinse e la notte stessa, le legioni poterono tornare ai loro accampamenti sulla riva destra del Reno.

Intanto si era sparsa la voce che le legioni erano state accerchiate e che i Germani minacciavano di invadere le Gallie. Ma Agrippina Maggiore, figlia di Giulia figlia a sua volta di Augusto, e valorosa moglie di Germanico che lo seguì in tutte le battaglie, impedì la distruzione del ponte sul Reno, reclamata a gran voce, temendo l'invasione dei germani, ma al contrario, si assunse in quei giorni i doveri di chi comanda distribuendo, ai soldati feriti, vesti e medicine, per poi rendere lodi e ringraziamenti alle legioni che tornavano e tenendo alto il morale delle truppe, insomma una vera Mater Castrorum.

GERMANICUS

L'ALTA MAREA

Publio Vitellio al comando delle legioni II Augusta e XIV Gemina partirono via terra, per alleggerire la flotta così dal navigare costa a costa lungo il Mare del Nord, evitando di arenarsi con la bassa marea. Ma i Romani ignoravano le maree della zona e quando venne la marea alta investì la colonna romana e la trascinò in mare, insieme alle salmerie e agli animali. Vitellio riuscì a portare la colonna di soldati, su una leggera altura salvandone la maggior parte. La mattina dopo, con la bassa marea marciarono speditamente fino a ricongiungersi con la flotta, dove si imbarcarono tornando ai quartieri d'inverno.

Intanto Stertinio, inviato ad accogliere la resa di Segimero, fratello di Segeste, suocero di Arminio, aveva già ricondotto lui e suo figlio nella città degli Ubi, ed a loro fu concesso il perdono, nonostante si dicesse che il figlio di Segimero avesse recato oltraggio alla salma di Publio Quintilio Varo. Al termine delle operazioni militari, vennero decretate le insegne trionfali ad Aulo Cecina Severo, Lucio Apronio ed a Gaio Silio per i meriti acquisiti nelle operazioni compiute sotto il comando di Germanico.

LA SELVA CESIA

I Romani penetrarono nella selva Cesia, dove posero il loro campo (forse ad Anreppen) sui resti di una precedente fortezza legionaria di epoca augustea. Germanico aveva ereditato il suo nome dal soprannome del padre, ma ciò non bastava, il nome di Germanico, cioè di vittorioso sui Germani, lui doveva conquistarselo per suo conto. 

Così sapendo che quella era una notte di festa e celebrazioni per i Germani, dispose che il suo luogotenente, Cecina, si addentrasse nei boschi, portandosi innanzi le coorti leggere, al fine di togliere di mezzo tutto ciò che nel bosco ne ostacolava il cammino, mentre a breve distanza lo avrebbero seguito le sue legioni.

Si giunse, così, ai villaggi dei Marsi, già distesi sulle brande o ancora ubriachi a tavola. Germanico divise le legioni in quattro cunei, per aumentare il raggio di devastazione nell'arco di 50 miglia e mise a ferro e fuoco ogni cosa. Fu un massacro di uomini donne e bambini. Anche il loro massimo tempio di Tanfana, fu dato alle fiamme. Ma per quanto crudele fosse stato quell'eccidio non fu mai come quello di Teutoburgo dove i legionari vennero torturati, cavati gli occhi, strappata la lingua e appesi agli alberi.

All'eccidio però risposero i Bructeri, i Tubanti e gli Usipeti, che si appostarono nelle gole boscose dei loro territori, attraverso i quali l'esercito romano doveva passare, per rientrare ai quartieri invernali. Germanico, avutane notizia dell'imboscata, fece avanzare i soldati in pieno assetto di combattimento: all'avanguardia la cavalleria e le coorti ausiliarie, poi la I legione Germanica, i bagagli al centro, la XXI legione Rapax a sinistra, la V legione Alaudae a destra, ed infine alla retroguardia la XX legione Valeria Vitrix ed il resto degli alleati.

I nemici attesero che le schiere romane si fossero inoltrate nella foresta, poi attaccarono la retroguardia. La fanteria leggera cedette, ma Germanico stesso, che portava sempre le insegne da comandante senza nascondersi ai nemici, andò personalmente nel punto dell'attacco e incitò la XX legione affinché sgominasse l'orda nemica. Il coraggio dei legionari allora si infiammò sgominando il nemico, per poi far ritorno ai quartieri d'inverno.



LA SECONDA BATTAGLIA   IL VALLO DEGLI ANGRIVARI - ANNO 16

Arminio

I Germani, non tanto addolorati per i morti quanto adirati per la gioia dei Romani che innalzavano quel trofeo con le armi dei vinti, decisero di tornare a combattere. Arruolarono tutti quelli che potevano portare le armi: dai giovani agli anziani. Tutte le varie tribù entrarono tra le schiere germane per partecipare all'attacco della colonna romana in marcia.

Arminio ed i capi germani scelsero il nuovo campo di battaglia: un luogo chiuso tra il il Visurgis e le foreste, dove nel mezzo si trovava una pianura stretta ed umida. Tutto attorno c'era una grande palude che circondava, a sua volta, la foresta, tranne che su un lato, dove gli Angrivari (abitanti della attuale Vestfalia) avevano costruito un largo terrapieno, che li divideva dai vicini Cherusci.

I germani dislocarono la fanteria lungo il vallo angrivariano, mentre la cavalleria fu nascosta nei boschi vicini, per trovarsi alle spalle delle legioni, una volta che queste, superata la foresta, si fossero trovate di fronte al vallo.


Germanico

Germanico, che memore delle imprese di Giulio Cesare, aveva appreso l'importanza dello spionaggio e dei delatori, seppe dai suoi informatori i piani e le posizioni del nemico, per cui così dispose le sue truppe:
- Il legato Seio Tuberone doveva occupare la pianura con la cavalleria;
- divise poi le fanterie legionarie in due parti: la prima pronta a penetrare nella foresta per una via piana, la seconda che provasse a dare la scalata al terrapieno dove si trovavano i nemici.

Germanico stava indicando dove tracciare il fossato dell'accampamento, quando gli riferirono che gli Angrivari avevano defezionato. Incaricò prontamente Stertinio, accompagnato da alcuni reparti di cavalleria e di truppe ausiliarie leggere, che vendicasse il tradimento e l'offesa, devastando i loro territori. Successivamente Germanico, accompagnato dall'intero esercito, marciò verso il fiume Visurgi (Weser), dove i due eserciti si trovarono uno di fronte all'altro: i Romani sulla riva sinistra, i Germani, capeggiati da Arminio su quella destra.



LA BATTAGLIA

Iniziati i combattimenti, i romani a cui era toccata la parte pianeggiante avanzarono di slancio, mentre quelli che dovevano attaccare il terrapieno, che sembrava quasi un muro, subivano continue perdite sotto i colpi, dall'alto, dei nemici. Germanico, avendo notato le difficoltà del Vallo Angrivariano, decise di far arretrare le legioni, ed fece avanzare le linee dei frombolieri che portarono grande scompiglio tra le file dei Germani. Poi giunsero le macchine da guerra romane che cominciarono a scagliare dardi ed aste, tanto da provocare una strage tra i difensori del vallo.

Seguì di nuovo l'attacco delle legioni che occuparono il vallo degli Angrivari, poi Germanico, alla testa delle coorti pretorie, guidò personalmente l'attacco nella foresta, dove si combatté ad oltranza. Le paludi alle spalle dei germani intralciavano i ripiegamenti, mentre il fiume e il terreno montuoso rendevano ostica un'eventuale ritirata ai romani; non c'era possibilità di fuga per nessuna delle due fazioni: combattere o morire.

Lo scontro fu infatti molto duro e i germani combatterono coraggiosamente ma la disciplina, la preparazione e la strategia romana unite alla perfezione dello schieramento compatto delle legioni, ebbe la meglio. I legionari, allineati e serrati erano protetti dai grandi scudi, e con i loro gladi inflissero terribili ferite al torace e al volto dei giganteschi germani, che d'altronde, per mancanza di spazio, non poterono usare le loro lunghe aste.

Arminio, ferito e stanco si aggirava sconsolato mentre Germanico si tolse l'elmo per essere riconosciuto da tutti, dai suoi ma pure dai nemici, incitandoli ad insistere nel massacro. Gridava che non servivano prigionieri, solo lo sterminio di quel popolo avrebbe posto fine alla guerra. Verso la fine della giornata, ritirò una legione dal terreno di battaglia per costruire l'accampamento, mentre le altre continuarono la strage del nemico fino a notte, mentre la cavalleria si batté ancora con esito incerto contro quella germanica, ma infine ebbe la meglio.

Germanico, al termine di questa seconda battaglia, fece innalzare in segno di vittoria, un secondo trofeo recante l'iscrizione:
«L'esercito di Tiberio Cesare, vinte le popolazioni tra l'Elba e il Reno, consacrò questo monumento a Marte, a Giove e ad Augusto»
(Cornelio Tacito, Annali II, 22.)

Sopraffatti i Cheruschi, Germanico affidò a Stertinio il compito di portare la guerra contro gli Angrivari, se non si fossero affrettati alla resa; ma questi, supplici senza nulla rifiutare, ricevettero perdono da parte di Germanico e ne divennero suoi alleati.



IL RITORNO AI CASTRA INVERNALI

Poichè si era alla fine dell'estate, Germanico rimandò alcune legioni nei loro castra invernali via terra, mentre la maggior parte salì sulle navi, ma sfortunatamente incappò in una terribile tempesta, che disperse alcune navi fino alle vicine isole di fronte alla costa. Molte navi, per evitare di arenarsi o di affondare, dovettero gettare a mare animali e approvvigionamenti, perchè imbarcavano acqua. 

La trireme di Germanico approdò nella terra dei Cauci:
«Cesare, aggirandosi per tutti quei giorni e quelle notti tra scogli e promontori, gridava di essere il responsabile di un così grave disastro; a stento gli amici lo trattennero dal cercare la morte nelle stesse onde
(Cornelio Tacito, Annali II, 24.)

Terminata la tempesta, alcune navi erano andate a picco, ma la maggior parte tornarono, anche se piuttosto danneggiate. Alcune tra le navi più integre, vennero mandate alle isole, dove recuperarono parecchi dispersi. Altri furono restituiti dagli Angrivari ormai alleati, che avevano riscattato dalle popolazioni dell'interno. Altri ancora giunsero fino in Britannia, ma vennero rimandati sani e salvi.

Giunta ai Germani la notizia della distruzione della flotta, corsero a ringraziare gli Dei che evidentemente stavano dalla loro parte, e ad armarsi di nuovo per una nuova battaglia. Germanico però dette a Silio l'ordine di marciare contro i Catti con 30.000 fanti e 3.000 cavalieri;e per suo conto, attraversato il Reno, attaccò i Marsi, che si arresero subito e che anzi li aiutarono a recuperare la seconda aquila romana di Varo. Vinte ambedue le battaglia Germanico si lanciò all'interno del paese devastando inarrestabile ogni territorio e accampamento nemico:

«(I Germani) Andavano dicendo che i Romani erano invitti, e che nessuna sciagura poteva piegarli, poiché distrutta la flotta, perdute le armi, le spiagge coperte di carcasse di cavalli e di cadaveri, erano tornati ad assalire con lo stesso indomito valore e fierezza, quasi che si fossero persino moltiplicati in numero. La campagna di quest'anno si concluse con una nuova incursione nella regione dei Catti e dei Marsi, i quali però, all'apparire delle legioni, si dispersero nelle foreste.»

(Cornelio Tacito, Annali II, 25.)

Al termine delle operazioni le legioni furono ricondotte nei quartieri invernali, lieti di aver compensato le perdite in mare con gli ultimi successi. La campagna in Germania poteva dirsi conclusa. Ma Arminio era ancora vivo e la Germania poteva essere ancora occupata.

IL TRIONFO DI GERMANICO

La volontà di Tiberio

«Era quasi sicuro che il nemico germanico stesse per cedere e fosse ormai orientato a chiedere la pace, tanto che, se le operazioni fossero proseguite nell'estate successiva, era possibile portare a termine la guerra. Ma Tiberio, con frequenti lettere, consigliava Germanico di tornare per il trionfo già decretato: tutti quegli avvenimenti, felici o meno felici, potevano bastare. Germanico aveva raccolto numerosi successi in grandi battaglie, ma doveva ricordarsi dei gravi danni provocati, pur senza sua colpa, dal vento e dall'Oceano. Egli (Tiberio) inviato ben 9 volte in Germania dal divo Augusto, aveva compiuto la sua missione più con la prudenza che con la forza. Egli aveva accettato la resa dei Sigambri, costretto alla pace i Suebi ed il re Maroboduo. Anche i Cherusci e gli altri popoli che si erano ribellati, ora i Romani si erano vendicati, si potevano lasciare alle loro discordie interne. E quando Germanico gli chiese ancora un anno per concludere la guerra... gli offrì un secondo consolato... ed aggiungeva che, se fosse stato ancora necessario combattere, Germanico avrebbe dovuto lasciare una possibilità di gloria anche per il fratello Druso. Germanico non indugiò oltre, pur comprendendo che si trattava di finzioni e che per odio Tiberio gli voleva strappare quell'onore che già aveva conseguito.»
(Cornelio Tacito, Annali II, 26.)

Ecco i veri sentimenti di Tiberio, Germanico aveva avuto fin troppa gloria, ora il successo spettava al figlio di Tiberio, purtroppo non designato erede. In più addebitò a Germanico non solo la tempesta di cui non aveva certo colpa, ma pure i Pontes Longi che poteva essere una tragedia ma che il valente Silio riuscì a mutare in vittoria. Praticamente lo accusò anche delle imprese andate a buon fine.
E' chiarissimo che il successo di Germanico facesse rabbia allo zio, tanto più che a Roma vennero indetti funerali solenni ai legionari massacrati della disfatta di Varo (ormai solo ossa), ma contemporaneamente vennero portati in Trionfo Germanico e pure Aulo Cecina e Gaio Silio. Roma abbandonò le case per osannare quel giovane generale tanto alla mano, gentile e coraggioso, insomma un eroe.

NECROPOLI DI VIGNA PIA

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Il Colombario Portuense è una grande camera sepolcrale ad uso collettivo, in uso tra fine I sec. d.c. - inizio II e primi decenni del III sec. È il quarto tra gli ambienti del Drugstore, chiamato anche Tomba D. È di forma rettangolare (stretta e lunga), con tre lati intagliati nel tufo. 
La tomba è stata danneggiata dall’edificazione dell’edificio sovrastante e dal passaggio di una conduttura fognaria: si conserva integra la parete d’ingresso in muratura, con la facciata interna organizzata a columbarium, con nicchiette per le urne cinerarie disposte in file ordinate. 
Successivamente vi vengono ricavati loculi per l’inumazione e banconi per i sarcofagi (due di essi si trovano oggi al Museo Nazionale Romano). Esternamente è stato individuato un focolare (con resti di ossa animali e frammenti ceramici) per i banchetti in onore dei defunti.


GLI SCAVI
Nel luglio 1998, durante lavori di sterro per la realizzazione di alcuni box auto nell’area tra le vie Riccardo Bianchi, Ettore Paladini, viale di Vigna Pia e via Portuense, venne alla luce una nuova porzione dell'enorme Necropoli Portuense, di cui sono già conosciute le aree di Pozzo Pantaleo, del Drugstore e di via Ravizza. 
Si affluisce alle quattro aree dall’antica Via Portuensis, Portuense, la direttrice stradale che collegava Roma al Porto. Gli scavi iniziano nel 2000 e continuano per un paio d'anni, ma per la realizzazione di tettoie protettive bisogna attendere il 2006. La necropoli è posta in Via Bianchi, 8 ma vi è un accesso secondario ma notevole attraverso il Ristorante La Carovana.
Entrando nello scenografico ristorante La Carovana, si scende vialetto e si accede al livello inferiore del giardino, dove si trovano gli scavi. Qui, divisa in due piccole aree distinte troviamo la Necropoli di Vigna Pia, anche se nessun cartello ci spiega questo miracolo di apparizione. Gli scavi sono circondati da una cancellata e ricoperti da tettoia, ma è possibile girargli intorno per guardare da vicino.

Roma è così, togli un albero secco e scopri un altro sotterraneo della Domus Aurea, togli le vecchie rotaie del tram e scopri una villa romana, o entri in un ristorante e trovi degli scavi archeologici. Come disse l'archeologo La Regina agli architetti francesi che rimproveravano gli italiani di non edificare abbastanza monumenti moderni:
Noi non abbiamo bisogno di altri monumenti perchè ci basta dare un calcio per terra per trovarne subito uno. - E non aveva esagerato.


La Necropoli di Vigna Pia è un vero e proprio antico cimitero, composto di una tomba collettiva, appunto il Colombario di Vigna Pia, di una tomba familiare, la tomba di Atilia Romana e, tanto per non farci mancare nulla, anche una parte interrata. proprio così a Roma gli scavi non terminano mai, non solo perchè c'è da scavare per secoli, ma pure perchè dopo un po' che si eseguono i lavori qualcuno dice basta che si sono spesi troppi soldi e fa sotterrare tutto. Eppure l'archeologia produce molto turismo, ma ciò non sembra interessare.
Nell’area sono state rinvenute diverse tipologie di strutture:
- a inumazione, con tanto di :
  • sarcofagi, 
  • tombe a cappuccina 
  • fosse scavate nel terreno, a volte senza riguardo dei mosaici altrui,
- a incinerazione:
  • con ollette
  • con urne,
  • con anfore, entrambe atte a conservare le ceneri del defunto.
La Necropoli di Vigna Pia è composta pertanto di tre sezioni:
- il Sepolcro di famiglia,
- l’area del Colombario,
- un’area con murature oggi ricoperta.


IL COLOMBARIO

Il colombario era una camera sepolcrale composta da nicchie in cui venivano conservate le urne o i vasetti contenenti le ceneri dei defunti, così chiamata perchè richiamava appunto l'allevamento dei piccioni. Di solito il colombario dispone di file ordinate di nicchiette e questo non fa eccezione se non per qualche sepoltura intagliata nel pavimento (a mosaico o in opus spicatum) o sepolture poste in arcosoli.

Il Colombario di Vigna Pia presenta pavimenti in mosaico a tessere bianche e nere, con figure ad elemento vegetale, geometrico o simbolico (come il nodo di Salomone). Il colore delle sue pareti è bianco e rosso porpora, il quale delinea anche le nicchie del colombario. Le pareti presentano anche decorazioni a motivo floreale, con tralci e roselline, con uccelli, con ippocampi e pure con figure simboliche di carattere dionisiaco (come la maschera).

Si notano sulle pitture tracce di fumo. Stanno ad indicare l’uso di una cucina funeraria, unica testimonianza nel Territorio Portuense, sebbene sappiamo che l’uso di banchetti per cerimonie e commemorazioni di defunti sia stato molto diffuso nella civiltà romana.


LA TOMBA DI ATILIA ROMANA

Poi c'è la tomba familiare, sul lato sinistro dell’area, che è dedicata ad Atilia Romana, defunta moglie di Atilius Abascantus, raffigurata in un ritratto a mosaico in tessere bianche e nere. Una terza area (oggi ricoperta) ha restituito delle semplici murature.


CIVITALBA (Marche)

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IL FRONTONE

Civitalba è il luogo del ritrovamento di un noto complesso di terrecotte architettoniche. Si trova in un'altura, nel comune di Sassoferrato, nelle Marche, tra Sassoferrato (l'antica Sentinum) e Arcevia, a circa 6 km a nord-est dell'antico municipio di Sentinum, nella pianura in cui sarebbe avvenuta la celebre battaglia del 295 a.. In epoca romana, secondo l'assetto augusteo, appartenne alla VI regio Umbra ed era collegata con Sena Gallica tramite la valle del Misa.



BATTAGLIA DI SENTINO

La battaglia del Sentino, detta anche delle nazioni, scoppiò nel 295 a.c., durante la III Guerra Sannitica, tra i romani e un'alleanza nemica composta da Etruschi, Sanniti, Galli Senoni ed Umbri.

I Romani avevano come alleati i soli Piceni, il che fa capire perchè si chiamò "Battaglia delle Nazioni dell'antichità": perchè parteciparono tutte le popolazioni (nazioni) del centro Italia contro Roma. Vinsero i romani che ottennero così il dominio dell'Italia centrale.
Da qui Roma iniziò a fondare diverse città nel territorio dei Senoni, a cominciare da Sena Gallica, Ariminum, Aesis, Firmium poi Sentinum. Il territorio dei Senoni divenne l'ager Gallicus, e i suoi terreni agricoli furono assegnati in piccoli lotti a cittadini romani.

Nonostante le successive incursioni nemiche, nel 191 a.c. , i Romani riuscirono a sottomettere definitivamente tutta la zona padana, e da allora gli stanziamenti romani poterono svilupparsi con più tranquillità.



BELLUM PERUSIUM

Nel corso del Bellum Perusinum (41 a.c.) Sentinum, che parteggiava per Antonio, fu presa e devastata da Salvidieno Rufo, del partito d’Ottaviano (Cassio Dione XLVIII, 13, 25; Appiano Bell. Civ. V, 30).

IL FRONTONE DI CIVITALBA (INGRANDIBILE)
La città fu rifatta completamente in epoca augustea: è identificata grazie a scavi archeologici che hanno portato alla luce resti d’edifici romani. E’ possibile che si tratti di una località diversa da quella della Sentinum repubblicana. Brizio, che alla fine dell’800 ha eseguito degli scavi sul colle di Civitalba, trovò non solo le terrecotte architettoniche, ma anche resti di mura da lui identificati come edifici di un abitato romano.

Dopo la battaglia del 295 a.c., la città umbra di Sentino rimase un vicus e probabilmente a conclusione della guerra sociale (90 a.c.) fu costruita più a valle e Civitalba rimase un oppidum.
Civitalba nel medioevo prese il nome di Cavalbo o Cavalalbo dove rimane il termine preromano mediterraneo d’Alba, da Alb, ovvero insediamento d’altura, secondo altri dalla Dea Alba, antica Leucotea (la Dea Bianca).



GLI SCAVI A CIVITALBA

Dalle notizie degli scavi pubblicati dall'archeologo Edoardo Brizio nel Luglio 1897 nella rivista Regione VI (Umbria) abbiamo delle importanti informazioni su quanto ritrovato nel sito di Civitalba in quel periodo:

Quasi a metà strada tra Sassoferrato ed Arcevia elavasi il colle detto Civita Alba dal nome di una città, che nei tempi antichi vi sorgeva sulla sommità irregolarmente pianeggiante.
Di questa città si riconosca ancora chiaramente tutto il perimetro delle mura, nascoste qua e là sotto folti boscaglie, e fatte a grossi ciottoloni ovoidali alternati con blocchi squadrati di travertino.
Delle mura si conservano qua e là tratti considerevoli; tutti gli anni però i lavori agricoli ne vanno distruggendo qualche parte.

IL FREGIO DI CIVITALBA (INGRANDIBILE)
Un’elevazione naturale, che domina il declivi pianoro, sembra costituisse l’Acropoli, la quale era alla sua volta cinta e difesa tutta attorno da validissime mura, anch' esse in gran parte ben conservate.
Gli stessi ciottoloni ovoidali servivano alla pavimentazione delle vie, una dalle quali, nel 1890, vidi scoperta per un tratto largo circa sette m. Sembra che attraversasse tutta la città perché la sua lunghezza superava i cento metri, e certo continuava anche, al di là, dei due estremi, dove ne fu allora constatata l'esistenza.

Le vie erano fiancheggiate da case, sul tipo di quelle pompeiane. Nel 1890 in un breve, saggio di scavo da me fatto si scoprì un cubicolo di tre metri per quattro, le, cui pareti, rivestite, d’intonaco dipinto, erano alto, in qualche punto ancora mezzo metro, ed il pavimento ad opus signinum era quasi intatto.

Resti di pavimento a mosaico tornano frequentemente alla luce in occasione di lavori agricoli; ma bene spesso l'aratro li rompe e disgrega. Spesso pure ritrovansi oggetti di bronzo e di altra materia, che dagli avidi ed ignoranti contadini, vengono, non appena trovati, per pochi soldi venduti. Ricordo fra questi un ansa di vaso in bronzo assai caratteristica, cioè simile a quella d’altro vaso, trovato nella ricca tomba gallica di Montefortino e di un secondo proveniente da S. Ginesio.

Nel giugno 1891, scavandosi un fosso per piantamento di viti, scoprirosi varie antichità, di cui ebbi notizia dall’ispettore degli scavi, cav. Anselmi. Fra questa erano: uno stile di bronzo, lungo m. 0,18 ; numerosi frammenti di antefisse ornate di fogliami, e tre grandi frammenti di lastre in terracotta con figure umane a rilievo, in mosse vivaci, ben modellate e dipinte.

Lo scorso anno poi, nel fare similmente uno scassato per piantamento di viti, furono scoperte anche due costruzioni murarie assai importanti. La prima era un condotto di oltre venti m, formato con grandi parallelepipedi di calcare, lunghi ciascuno da sessanta ad ottanta cm, nei quali è scavato un canale, largo circa m. 0,15 ed alto m. 0,25.





LA SCOPERTA DEI FREGI

Il Brizio nella sua relazione riporta i fatti dell’importante scoperta delle terrecotte di Civitalba:

Lo scorso autunno il colono di Civita Alba avea intrapreso, quasi nel mezzo del pianoro, uno scassato, largo circa tre m, e lungo cento, per piantarvi alberi e viti. Giunto alla profondità di un metro e mezzo appena, incontrò varie statuette di terra in frammenti, le quali, a quanto egli mi riferì, erano disposte, parte le une sopra le altre, parte in fila, ed occupavano una lunghezza di circa quattro m.

Alla mia richiesta so dappresso sorgeva qualche muro, rispose di aver notato una specie di stradello, che s'internava sotto le terre, ch’ egli però non credé di seguire. Al di qua ed al di là dei quattro m, ov' erano radunate le statuette, o per quanto era largo il fosso, non ritrovò nessun altro oggetto, non frammenti di tegole, nè di antefisse.

E siccome il giorno avanti io avea osservato nella casa del parroco D. Severini parecchi avanzi di antefisse e di fregi con ovoli, così il colono mi assicurò di aver rinvenuti questi più volte, circa un ottanta. metri, in altra parte del campo, mi condusse, sul sito. E fu convinto ch' egli diceva il vero, perché fra la zolle, smosse da poco, vidi ancora parecchie di quelle terrecotte con rilievi di palmette, simili a quelle posseduto dal parroco.

Per conseguenza non soltanto nel sito, dove eransi trovate le statuette ma anche la dove, furono raccolte le palmette ed i fregi, d' ovoli, dove sorgere qualche cospicuo edificio. La necessità di eseguire esplorazioni vaste e regolari diventa sempre più urgente e giustificata. Pertanto col parroco D. Severini ripresi subito le trattative per, gli scavi, che questa volta, ho fondata speranza, riusciranno a buon fine.

Le statuette scoperte dal colono furono in seguito trasportate alla parrocchia della Costa, circa sei km da Alba. Ivi le osservai la prima volta il 26 febbraio ultimo, e quantunque ne avessi riconosciuto subito l'eccezionale importanza artistica, non potei però farmi un' idea esatta del soggetto che rappresentavano, sopratutto perché di parecchie figure non si erano ancora trovati i pezzi combacianti fra loro.

Da un primo e fuggevole esame avea soltanto potuto comprendere che le statue si doveano dividere in due serie: la prima con figura alta. in, media m. 0,65, rappresentanti una scena del cielo bacchico; la seconda con figure alte appena m. 0,45 che componevano un fregio rappresentante combattimenti contro guerrieri Galli.

Diedi perciò le opportuno disposizioni. affinché fossero, ricercati: e riuniti i pezzi di tutte le statue, per poterlo provvisoriamente ricomporre, ed in seguito fotografare. Ed affidai questo preliminare e difficile incarico ad un impiegato intelligente del museo, al sig. Luciano Proni, il quale in un tempo assai breve eseguì un lavoro per ogni rispetto soddisfacente.

Perché non solo riuscì a ritrovare di quasi tutta le statue i pezzi più importanti, ma a determinare altresì il posto speciale che occupavano la singolo figure, ed i rapporti in cui si trovavano fra loro, formando in questo modo coi frammenti delle statue grandi tre gruppi, due simili fra loro, ed un terzo totalmente diverso da essi quantunque spettante alla medesima serie.

Anche delle statue piccole furono riconosciuti qua e là alcuni pezzi nuovi: ma finora non si poterono determinare le reciproche posizioni, nè i rapporti in cui si trovavano fra loro le diverse figure”.


PARTE DEL FREGIO

I RESTI ANCORA SOTTERRATI

I contadini divelsero i pezzi che impedivano la continuazione del lavoro, e li, trasportarono ed ammucchiarono presso la casa colonica, dove li ho visti. Ma parecchi ne rimangono ancora sotterra, che verranno regolarmente scoperti nella prossima estate, per conoscere la direzione e l' uso del condotto.

La seconda costruzione è una fornace, apparsa a poca distanza dal lato occidentale delle mura; ad è sul tipo delle fornaci romano per terrecotte, scoperte ad Heddernheim presso Francoforte sul Reno, a Nocera umbra ed altrove. Tutti gl' indicati avanzi di mura, di strade, di edifizi, di costruzioni murarie, ed i trovamenti frequenti di piccoli oggetti non lasciano dubbio che a Civita Alba esisteva un' antica ed estesa città. Il vocabolo stesso di Civita lo conferma.

Ma il suo vero e primitivo nome non è conosciuto, perché nè alcuno antico scrittore parla di quella città, nè alcuna iscrizione vi fu ancora scoperta. Il Brandimarte, che trattò di questo argomento nel suo Piceno Annonario volsi riconoscervi l' Alba ricordata da Procopio e da Appiano. Ma i luoghi di questi autori, su cui egli appoggia la sua congettura, non gli danno ragione, perché tanto i primi quanto i secondi si riferiscono ad Alba Fucense. 

Con ciò però non si toglie, anzi rimane sempre molto probabile, che la città, costruita fra Arcevia e Sassoferrato, potesse chiamarsi Alba, come molta altre città d'Italia e della Gallia. Deve escludersi tuttavia che di essa si trovi menzione, negli antichi scrittori. Dall’esame delle ruine, dalla sua posizione sopra un colle e dai trovamenti fatti fuora, si. può soltanto affermare che. quella città esisteva anteriormente all' anno 295 a.c. quando i Romani nell' agro sentinate vinsero i Sanniti ed i Galli uniti insieme,e che, certo essa non é di fondazione romana.

Trovasi difatti in mezzo ai monti, sopra un’altura, mentre i Romani quando conquistarono e colonizzarono quella regione dell' antico Piceno furono soliti costruire le città in piano, e presso corsi di acqua,come dimostrano gli avanzi romani di Sentino, di Ostra, di Suasa ecc. Ma il tempo infine a cui la città rimase in piedi, e fu abitata, è ancora sconosciuto, quantunque già sia molto significativo il fatto che finora non vi si è trovata alcuna lapide romana. Ma su questo punto. ancora così oscuro, soltanto scavi regolari ed ampi potranno gettar luce.

Perciò già da molto tempo io avea concepito l' idea di eseguire esplorazioni metodiche in quel sito. E siccome una vasta zona del suolo di Civita Alba appartiene alla parrocchia detta della Costa presso Arcevia, così un dal 1890 avea iniziato col parroco di quel benefizio, D. Pacifico Severini, la pratiche necessarie per eseguire gli scavi.

Questo però non ebbero allora esito felice, per difficoltà di vario genere. D'altra parte in quell' anno e nei susseguenti avvennero in altre località delle Marche, a Sassoferrato, Numana, Novilara, Castel Trosino, varie ed importanti scoperte archeologiche, che richiesero tutte le cure del Governo.

Perciò gli scavi di Civita Alba furono sempre di anno in anno, e fin ad ora, differiti. Ma talune scoperte casuali e di eccezionale importanza avvenuto di recente in quell'antica città, delle quali debbo pure la notizia al benemerito cav. Anselmi, mi hanno persuaso della necessità di non indugiare più oltre ad iniziare i progettati lavori."

(EDOARDO BRIZIO)

FRONTONE TEMPIO DI TALAMONE - 7 CONTRO TEBE


TEMPIO DI CIVITALBA

Museo Archeologico Nazionale delle Marche di Ancona

A Civitalba, nella valle tra i fiumi Misa ed Esino, tra Arcevia e Sassoferrato, sorge l’area archeologica presso cui è stato rinvenuto un eccezionale complesso di terrecotte architettoniche. Parti del fregio e del frontone, conservati in frammenti, sono databili alla prima metà del II sec. a.c. e appartenevano probabilmente ad un tempio etrusco italico di tradizione ellenistica che faceva parte di un santuario d’altura.

Le scene rappresentate, anche se di difficile lettura hanno comunque permesso di riconoscere una scena di saccheggio del santuario da parte dei Galli e raffigurazioni di Dioniso con satiri, menadi, amori, venti e varie divinità alla scoperta di Arianna dormiente. Lo scopo di questa scelta iconografica era naturalmente quello di fornire un prestigioso riferimento storico alle vicende belliche che avevano segnato la zona un secolo prima.

Dopo essere stato esposto al Museo Civico di Bologna, il complesso di terracotte architettoniche è stato trasferito al Museo Nazionale delle Marche di Ancona dove si trova tuttora.



LA STORIA

Il tempio di Civitalba sorgeva su un colle che sovrastava la piana di Sentinum dove, all’indomani del sacco gallico di Roma del 373 a.c., aveva avuto luogo la storica battaglia vinta dai Romani contro la coalizione di Galli Senoni, Etruschi, Umbri e Sanniti nel 295 a.c.

STRADA ROMANA PRESSO CIVITALBA
A questo episodio, cui seguì la romanizzazione del territorio fino ad allora controllato dai Galli, allude la narrazione del fregio del tempio, dove è raffigurato ad altorilievo lo scontro tra divinità e gruppi di guerrieri, chiaramente riconoscibili come Celti per le loro caratteristiche acconciature (capelli lunghi con creste sollevate, baffi spioventi), gli abiti e le armi (tuniche di pelliccia, scudi quadrangolari oblunghi).

Nella sequenza, dominata dall’intenso dinamismo dei personaggi, impegnati nella lotta o nella fuga, è evidente la disfatta dei Celti che battono ormai in ritirata abbandonando il bottino appena trafugato, travolgendo con il carro i loro stessi compagni e soccombendo infine alla furia delle divinità.

Nella rappresentazione viene identificata la narrazione del mancato saccheggio del santuario di Delfi da parte dei Galli nel 279 a.c., difeso – stando alle fonti - da Apollo e le “vergini bianche”, da Artemide e Athena Pronaia e dagli eroi miracolosamente risorti, tra cui era Pirro-Neottolemo, figlio di Achille, sepolto nello stesso santuario. 

Durante la notte Pan avrebbe assalito con il sacro terrore, il panico, le schiere dei Celti. Il fregio di Civitalba equipara dunque le grandi vittorie sui Galati, celebrate dai sovrani Attalidi, alla vittoria sui Celti avvenuta in suolo italico, conferendole in tal modo un’aura mitica.

Nel frontone del tempio una scena realizzata ad altissimo rilievo ospitava una rappresentazione dionisiaca, dove satiri e ninfe dormienti sono sapientemente disposti in un contesto campestre, e circondano un gruppo centrale, purtroppo perduto, dove forse era narrata la scena del risveglio di Dionysos Lyknites sul monte Parnaso o, secondo altri, la ierogamia di Dioniso e Arianna. 

Il culto di Dioniso a Delfi, già attestato dalla rappresentazione del Dio nel frontone occidentale del tempio del IV sec. a.c., venne ulteriormente rinvigorito dalla celebrazione della dinastia pergamena degli attalidi, che a Dioniso facevano risalire la propria dinastia. E alla tradizione della grande arte pergamena sono riconducibili sia lo stile, sia numerosi modelli iconografici presenti sia nel frontone, sia nel fregio del tempio di Civitalba. 

La scena del frontone si ricollega così alla narrazione del fregio, in un coerente insieme unitario, che fa riferimento al contesto santuariale delfico ed esalta la figura di Dioniso quale divinità affiancata Apollo.

DETTAGLIO DEL FREGIO DI CIVITALBA

LE CELEBRAZIONI DELLE VITTORIE ROMANE SUI GALLI

Sembra che risalga agli inizi del II secolo a.c., vale a dire alla fine della guerra gallica, la famosa illustrazione dei Celti sconfitti, contenuta nel fregio fittile ritrovata a Civitalba.
Si pensa che tale frontone fosse destinato ad un tempio eretto nel territorio di Sentinum, a ricordo della battaglia del 295 a.c., ricordo voluto da Roma per la celebrazione delle vittorie sui Galli.

Primo perchè i romani sapevano apprezzare un capolavoro da qualsiasi parte provenisse, secondo perchè la vittoria sui galli era la più ambita in assoluto, visto il Metus Gallicus, il timor panico che ancora invadeva i romani al ricordo delle invasioni galliche a Roma, Metus che durò fino a quando Gaio Giulio Cesare pose fine a questo timore sconfiggendo irreversibilmente tutti i territori gallici del nord di Roma.

In questo programma celebrativo, in cui sicuramente rientrava l'erezione di monumenti nella stessa Roma, sarebbe incluso anche il tempio di Talamone, di cui rimane il frontone raffigurante un episodio bellico del mito dei sette contro Tebe, evidenziando perciò il rapporto tra questa battaglia e quella combattuta a Talamone nel 225 a.c. tra Romani e Galli. D'altronde non c'è da meravigliarsi, visto che ancora in età augustea le porte eburnee del Tempio di Apollo Palatino erano decorate con rilievi raffiguranti la cacciata dei Galli dal Parnaso (Prop., 28, 17).
Del tempio di Civitalba non conosciamo altro, poichè ne rimane soltanto un frontone e frammenti del fregio, entrambi in terracotta, recuperati nel 1897 da Edoardo Brizio, secondo cui resti furono rinvenuti in uno dei cinque vani della fornace e alcuni si trovavano “parte l’una sopra le altre, parte in fila” in un’area di circa quattro metri di lunghezza.

Le terrecotte, prive di colori, erano disposte in modo molto ordinato, il che conferma che dato il legame dall'evento rappresentato all’evento storico di Sentino, dovessero essere ricollocate in un edificio locale.

Esse con molta probabilità sono state prodotte nella fornace di Civitalba, poi immagazzinate in un deposito nell’attesa di essere collocate in un tempio per celebrare la vittoria dei Romani nella battaglia di Sentino. Le terrecotte non furono mai messe in opera forse a causa di un incendio della fornace come lascia pensare le tracce di cenere rinvenute in mezzo ai materiali decorativi.

L'ispirazione a Pergamo del complesso di terrecotte è riconosciuta in pieno dagli studiosi, ma tanto alla descrizione di due secoli dopo, di Tito Livio. Colpisce soprattutto il capo celtico in corsa sul suo carro che si richiama alla carica dei guerrieri Galli contro la cavalleria delle legioni Romane.

GALATA MORENTE
Il complesso di terrecotte, fissate con chiodi alla parete d'appoggio, ci rimanda anche a una descrizione di Diodoro Siculo: lunghi capelli e baffi spioventi, alcuni completamente nudi, con una collana rigida (torques) al collo e una cintura sui fianchi, da cui pendeva la spada. Si difendono con uno scudo nella sinistra e tengono la spada con la destra. Altri hanno un corto mantello sulle spalle oppure una corta tunica che lascia scoperta una spalla. Uno di loro ha, sotto il mantello, una corta tunica di pelle d'animale, stretta alla vita da una cintura.

I Galli hanno saccheggiato un santuario, ma a difenderlo sono accorsi divinità ed eroi. I Galli tentano di difendersi e sfuggono terrorizzati, mentre il bottino (patere e brocche in metallo prezioso) è in gran parte caduto a terra; il capo dei Galli fugge su un carro trainato da due cavalli, travolgendo un altro guerriero caduto.

La rappresentazione del saccheggio del santuario d’Apollo a Delfi unisce Pergamo a Roma ed a Civitalba, mediante la celebrazione delle vittorie sui Celti. Occorre ricordare che già all'inizio del III sec. a.c. un'altra invasione celtica irruppe nella penisola balcanica, arrivò in Grecia e minacciò uno dei suoi maggiori santuari, Delfi. Da lì Celti dilagarono nell'Asia Minore con rapine, saccheggi e pretese di pagamenti di tributi- o riscatti, che minacciarono continuamente i regni ellenistici nati dallo sgretolamento dell'impero macedone d’Alessandro Magno.

Solo nella seconda metà del III sec. a.c.: Attalo I, divenuto re di Pergamo nel 241 a.c., rifiutò di pagare ai Celti i tributi abituali e scese in guerra contro di loro vincendoli nel 230 a.c.. La battaglia finale avvenne in una regione interna dell’Asia Minore, che, dal nome dato ai Celti dai Greci, si chiamò Galatia.

A queste vittorie furono dedicati monumenti celebrativi a Pergamo, ad Atene, a Delfi, con cui Attalo I divenne il difensore della civiltà greca contro la barbarie, simili alle antiche lotte dei Greci del V sec. a.c. contro i Persiani. A questi modelli s’ispirarono appunto gli artigiani che lavorarono al fregio di Civitalba: anche Roma, dopo Atene e Pergamo, diveniva come il campione della civiltà contro la barbarie.

Del gruppo di sculture di bronzo innalzato sull'acropoli di Pergamo da Attalo I nel santuario d’Atena, rimangono le celebri copie di marmo rinvenute a Roma e conosciute come il «Gallo suicida con la moglie» e il «Gallo morente».

Nella prima è raffigurato un Gallo che, dopo aver ucciso la moglie, di cui con la sinistra regge il corpo inerte, sta per trafiggersi il petto con la spada, per non cadere schiavo nelle mani del nemico. Nella seconda, invece, un guerriero ferito mortalmente è accasciato a terra, sul proprio scudo. Entrambi sono nudi, ma mentre il Gallo suicida ha sulle spalle un corto mantello, il Gallo morente porta al collo l'ornamento tipico dei guerrieri celtici, il torques.

I GALLI

I SACRI MISTERI

Il frontone costituisce, insieme a quello di Talamone, uno dei rarissimi esemplari superstiti di frontone interamente chiuso in ambito etrusco-italico. M. Zuffa, a seguito di un restauro effettuato nel corso degli anni '50, optava per il ritrovamento di Arianna a Nasso. In favore di un frontone unico, costruito sulla giustapposizione dei due gruppi antitetici, raffiguranti Arianna ed Ermafrodito è F. Massa-Pairault.

Il tema è stato comunque concordemente interpretato in chiave dionisiaca: al centro, dove si registra una grande lacuna, vi sarebbe l'apoteosi di Dioniso e Arianna, esaltata dalla presenza, sul fondo, del grande velo sollevato da demoni femminili alati, mentre altri personaggi, satiri, tedofori e menadi, accompagnano gli episodi laterali col ritrovamento dei Arianna dormiente.

Difficile inquadrare questa iconografia nella complessa situazione politica nell'affare dei Baccanali, verificatosi nel 186 a.c. in cui venne messa al bando la religione dionisiaca, almeno nei suoi risvolti misterici, a cui il frontone sembra alludere. Come era accaduto in Grecia Dioniso venne cacciato ma infine venne riaccolto. Non accade lo stesso nel suolo italico.

Sulla cronologia delle lastre vi sono divergenze: 
Marco Verzar Bass ritiene che la data della costruzione del tempio, fosse immediatamente successiva al 191 a.c., anno del trionfo sui Boi di P. Cornelio Scipione Nasica.
Massa-Pairault, 1985), verso il 150 a.c..  In età romana, nel territorio arceviese vi sono pochi municipi ma molti insediamenti rurali, tra cui:
- in località Cone (Montale di Arcevia) è stata scavata una villa rustica in uso dal I al IV sec. a.c.; - nella zona di Nidastore sono state individuate, oltre ad abitati e sepolture, fornaci per la produzione ceramica;
- a Piticchio, a 80 m. dalle mura castellane, negli anni Trenta del XX sec. fu rinvenuta, durante alcuni scavi, una fistula aquaria formata da tubi in cotto, che probabilmente serviva a portare acqua al castello da una sorgente già utilizzata in età romana.

LUCERNE DA CONE DI ARCEVIA
- Un insediamento romano di età imperiale con tombe è stato individuato anche a S. Pietro in Musio.
- a S. Stefano è stato trovato un tesoretto di monete di età tardo repubblicana.
- ritrovato un Cippo Militare, proveniente dal territorio comunale, dedicato agli imperatori Valentiniano, Valente e Graziano, e riferibile agli anni 367-375 d.c. Il miliare attesterebbe il passaggio nell’area di un diverticulum della via Flaminia che passando per Sentinum doveva dirigersi verso Senigallia, fondata nel 283 a.c. alle foci del fiume Misa, il gallico Sena.

In contrada Civitalba, su di un poggio tagliato quasi a metà dal confine tra i comuni di Arcevia e Sassoferrato, sorse un abitato romano documentato nel II sec. a.c.  Secondo il Brizio, che qui effettuò una campagna di scavi negli anni 1897-98 e seguenti, l’abitato fu in origine un centro gallico assai importante preesistente alla battaglia di Sentino del 295 a.c.

L’archeologo individuò resti di muri di case romane, una strada lunga più di cento metri e le mura di cinta, ancora visibili in alcuni punti, formate da “ciottoli ovoidali alternati con blocchi quadrati di travertino” ed una fornace per la cottura della ceramica, di età romana.  Nella collezione Anselmi di Arcevia era conservato un album di disegni riguardanti Civitalba, eseguiti nel XVI sec. dal grande  pittore paesaggista e botanico Gherardo Cybo.

Insomma una vittoria romana sui Galli unita a un riconoscimento di arte italica. Tutto ciò che è italico e oltre diventa romano, purchè la fama non superi mai la gloria romana, chiamata dagli Dei a governare il mondo.



IL BRINDISI ROMANO

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Gesto conviviale molto comune, un rituale che si compie fra due o più persone che alzando assieme il bicchiere, prima di berne il contenuto, lo fanno tintinnare recitando una formula, in segno di saluto, di benevolenza, di augurio pro salute e prosperità di qualcuno, o per augurasi l'esito fausto di un'impresa, o per auspicare un evento positivo, o per festeggiare qualcosa di fausto già avvenuto.



IL NOME

Sulle origini del nome vi sono varie interpretazioni. Il termine "brindisi" deriverebbe dall'antico tedesco bring dir's cioè "Io porgo a te" attraverso lo spagnolo brindis.ma la più plausibile potrebbe essere questa. Nel periodo di massimo splendore di Roma, Brindisi era forse il porto più importante. Quando i marinai attraversavano i mari impervi dell’Adriatico, di ritorno verso Brindisi, aspettavano con ansia l’avvistamento della terra ferma, del porto più vicino. Quindi al vedere la terra ferma, probabilmente gridavano “Brindisium”, dando il via alle libagioni di vino per la contentezza.
Il vino romano era un vino trattato, per paura dell’acetificazione e di altri processi deteriorativi. Il vino, nel simposio, era sempre diluito con acqua secondo le decisioni del "rex convivii" o "magister" o "arbiter bibendi", sorteggiato spesso coi dadi, che decideva:

- le proporzioni acqua-vino, 
- la quantità che se ne poteva bere, 
- il numero delle coppe da bere,
- l’ordine da seguire nel versare il vino ai convitati.

Alla persona amata si suole dedicare una coppa per ogni lettera del suo nome. Marziale fa riferimento a questa convenzione quando ricorda con amarezza: “Sette calici a Giustina, a Levina sei ne bevi, cinque a Licia, a Ida tre. Col Falerno che versai numerai ogni amica, vien nessuna; dunque, o sonno, vieni a me”.



Altra usanza riguardo all'amata era di cedere a lei la propria coppa, bere un sorso da quella, poi in tingervi un dito e scrivere sulla tovaglia il nome dell'amata.

I recipienti per brindare presso i romani erano:

Bicchiere
In argento o stagno, sostituiti da bicchieri in vetro che presentano le stesse forme dei pochi in argento. I bicchieri in vetro sono cilindrici, a coppa o conici. Venivano esposti su tavolini per mostrare l'opulenza della domus ai visitatori.

Calice

In bronzo o argento, soprattutto in ambiente etrusco, soprattutto di bucchero. Le riproduzioni in bronzo sono rare. Sostituito col vetro.

Kotyle
Coppa profonda con due anse, in bronzo, argento o oro. Per bere e brindare.

Kylix

Coppa in bronzo con due anse, bassa e aperta, con alto piede, spesso in ceramica, raro in metallo.

La pratica ha origini antichissime: già nei poemi omerici gli eroi bevevano convivialmente, e non dimentichiamo il brindisi di Ulisse a Polifemo, per convincerlo a bere il suo vino e ubriacarsi; e durante il convivio dove i convitati dedicavano bevute in onore delle divinità o di personaggi illustri.

- La folotesia dei greci era il brindisi in cui si levava la coppa in onore di un amico, si chiamava il suo nome, si beveva un sorso di vino passandogli la coppa perché ne bevesse anche Lui, e trattenesse la coppa come pegno d'amicizia, aggiungendo qualche formula di augurio come:

"Bevi, accomodati, accetta questa bevuta in amicizia" oppure
"Bevo, benaugurante, alla tua salute".




IL BRINDISI ROMANO

Presso i Romani, si sviluppò il
- "bibere graeco more", cioè il fare brindisi secondo il costume greco cioè la bevuta per l'amicizia,

- la "propinatio" ('bere prima", oppure "offrire, donare"), fu invece l'antesignana dell'aperitivo, in genere fatto con vini leggeri, speziati e poco dolci, col significato di bere "alla salute". 

- Durante il banchetto i brindisi continuavano e i Romani solevano usare formule come "bene vos, bene nos, bene te, bene me" per augurare il meglio ai propri commensali. 

- Nei conviti si facevano anche brindisi all'amore come narrano Plinio e Ovidio, per la propria ragazza o per conquistare una ragazza, o per brindare ad essa se è assente.

- In genere era il padrone di casa che stabiliva i brindisi, a meno che non ci fosse un ospite così importante a cui cedere l'onore. Ma solitamente anche gli ospiti, specie se poeti, aggiungevano i loro brindisi.

- Non mancavano mai i brindisi per le vittorie romane in battaglia.

Nella suddivisione della cena veniva lasciato il posto per la comissatio o epidipnis, cioè il brindisi finale, cioè dopo il dolce.

Alceo, poeta lirico greco del VII - VI sec. a.c., invita a dimenticare le ansie della giornata abbandonandosi al dolce oblio del vino, senza attendere che cali la sera per dare il via al simposio.



Beviamo: perché aspettiamo le lucerne? Un dito è il giorno;
ragazzo mio, tira giù grandi coppe decorate:
il vino, infatti, il figlio di Semele e Zeus, oblio dei mali,
donò agli uomini. Mesci mescolando una misura d’acqua e due di vino,
colme fino all’orlo, e l’una l’altra coppa scacci

[Alc. fr.346 v]

La frase di Orazio "Nunc est bibendum, nunc pede libero pulsanda tellus" («Ora bisogna bere, ora bisogna far risuonare la terra con libero piede», cioè ci si può dare alla pazza gioia, perchè era morta Cleopatra) viene di solito abbreviata in "Nunc est bibendum". Ma era presa dall'esortazione del poeta Alceo, per la gioia della morte del tiranno Mirsilo di Mitilene.

Nei primi secoli del Medioevo questa usanza cadde in disuso poiché l'atto del brindisi era considerato peccaminoso per un buon cristiano, però S. Ambrogio narra di un uso dei cristiani di brindare non alla salute dei vivi, ma alla memoria dei martiri e dei santi, che fu detto:
"Bibere in amore sanctorum vel animae defuncti". Che allegria! 

Ma alla chiesa non piacque neanche questo, solo più tardi nel '500, vi fu una parziale ripresa della gioia di vivere e di questo cerimoniale. Anche Luigi XIV (1638-1715) vietò i brindisi, permettendo solo quelli fatti in occasione dell’Epifania. Venne poi di moda il motto: "Prosit' che letteralmente significa: "che sia di giovamento". Questa formula era usata in Chiesa quando il sacerdote terminava la Santa Messa. 

Plinio (Naturalis Historia, XXXI, racconta la pratica del "bere le corone": consisteva nello sfogliare i fiori delle proprie corone nel vino ed offrire poi la coppa alla persona amata. Un brindisi del genere venne proposto a Marco Antonio da Cleopatra, la quale era offesa con lui poiché si portava sempre dietro un assaggiatore, non fidandosi del personale della regina; cosi, per vendicarsi, intrise la Sua corona di veleno e propose a Marco Antonio di "bere le corone"; quando però questi stava per portarsi alle labbra la coppa, Cleopatra lo fermò perché il diffidente romano le piaceva molto. Chiamò un condannato a morte al quale fece bere quel vino, che cadde fulminato ai piedi di Marco 
Antonio.


Un altro brindisi di Orazio fu "Bene pasti et bene poti...Nunc bibemus" (buoni cibi, buone bevande, dunque beviamo).

"Si tibi serotina noceat potatio, vina hora matutina rebibas". (Se il bere alla sera ti è di danno, ribevi al mattino, e sarai guarito). (Scuola medica salernitana) Tradotto in versi: "A chi il troppo vin bevuto alla sera avrà nociuto, troverà che medicina è il riberne la mattina"

"E voi dove vi piace andate, acque turbamento del vino,
andate pure dagli astemi: qui c’è il fuoco di Bacco".
(Catullo)

Nel vino voglio soffocare i dolori,
al vino chiedo che faccia scendere
negli occhi stanchi, consolatore, il sonno
(Tibullo)

Il vino ha dunque una vita più lunga della nostra?
Ma noi, fragili creature umane, ci vendicheremo ingoiandolo tutto.
Nel vino è la vita.
(Petronio Arbitro)

“Il primo bicchiere è per la sete;
il secondo, per la gioia,
il terzo, per il piacere;
il quarto, per la follia.”
(Apuleio)

RECIPIENTI ROMANI IN VETRO
Ovidio, Ars amandi, I, 571-572, narra l'usanza consisteva nel passare la coppa all'amica dopo aver bevuto, d'intingere il dito nel vino e di scrivere col dito cosi bagnato il nome dell'amica sul tavolo.
La sua suddivisione interna prevedeva: gustatio, antipasto, primae mensae, cena vera e propria, secundae mensae, dessert, comissatio o epidipnis, 'brindisi finale'.

Di solito il primo brindisi lo faceva il padrone di casa, forse per dimostrare che il vino non era avvelenato, ma più probabilmente per far valere un suo potere, a cui poteva rinunciare solo in favore di un ospite particolarmente importante. In questo caso il secondo brindisi restava del padrone di casa. Spesso era lo stesso dominus a chiedere a un ospite di indirizzare un brindisi secondo un suo desiderio.

Una delle consuetudini romane era quella di bere nel brindisi tanti bicchieri di vino quante erano le lettere che componevano il nome della persona scelta. Il banchetto terminava comunque con una libagione ai Lari, di cui venivano esposte le statuette sacre.

Ma i primi a brindare, secondo le antiche tradizioni, furono anzitutto gli Dei:

"Seduti intorno a Zeus, gli Dei stavano a convegno  
sul pavimento d'oro, e fra loro Ebe veneranda 
mesceva come vino il nettare; quelli Con le coppe d'oro 
brindavano gli uni agli altri, volgendo lo sguardo"
(Iliade IV, 1 SSS. )

LEGIO XIX

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LA STRAGE DI TEUTOBURGO
La Legio XIX venne fondata nel 41-40 a.c. da Ottaviano, il futuro primo imperatore romano Augusto, e infine distrutta, attraverso un tradimento, insieme alle altre due legioni, la XVII e la XVIII, nella battaglia della foresta di Teutoburgo nell'anno 9. L'emblema della XIX non è noto, ma dovrebbe essere stato il Capricorno come per le altre legioni di Augusto.

«Il Reno ed il Danubio dividono tutta la Germania dal paese dei Galli, da quello dei Reti, dai Pannoni, mentre il timore reciproco o le catene montuose la separano dai Sarmati e dai Daci. L'Oceano circonda le altre terre, abbracciando ampie penisole ed isole, dove da poco sono state conosciute nuove genti e popoli, scoperti tramite le guerre lì condotte. La Germania, terra di paesaggio desolato, dal clima rigido, piena di tristezza da vedersi ed abitarsi, a parte per coloro che vi sono nati.» 
(Tacito, De origine et situ Germanorum, I-II.)

Sia Gaio Giulio Cesare che Gneo Pompeo utilizzarono nei loro eserciti delle legioni con il numero XIX, ma non è chiaro se la XIX nacque dai resti di una di queste; anche Marco Antonio ebbe una XIX legione, detta Classica.

Si pensa però che Ottaviano l'abbia reclutata in vista della battaglia con Sesto Pompeo, figlio di Pompeo Magno e rappresentante del Senato romano, il quale dominava la Sicilia, controllando la fornitura di grano per Roma.

Dopo la guerra civile tra Ottaviano e Marco Antonio, vinta dal primo nella battaglia di Azio nel 31 a.c., ai veterani vennero assegnate terre nella zona di Pisa. 

La XIX fece parte dell'esercito che conquistò la Rezia e poi dell' arco alpino sotto Augusto degli anni 16 -7 a.c., come preludio alla grande invasione della Germania degli anni 12 al 9 a.c. Le fonti riportano la presenza per il fronte della Gallia delle: Legio I Germanica, V Alaudae, XIIII Gemina Martia Victrix, XVI Gallica, XVII e XVIII; e per il fronte italico/illirico le Legioni VIIII Hispana, XIII Gemina, XVIIII, XX Valeria Victrix e XXI Rapax. ma i reperti archeologici di Oberammergau, in Baviera, testimoniano la presenza della XIX legione. Invece tra il 15 e l'8 a.c. la legione (o una sua parte consistente) rimase di stanza a Dangstetten, lungo l'alto corso del Reno.

Nell'ambito della conquista della Germania voluta da Augusto, la XIX partecipò alle campagne di Tiberio (8 a.c. e 4-5 d.c.). Ne è attestata la presenza ad Ara Ubiorum (Colonia), Novaesium (Neuss) e Aliso (Haltern).  



PUBLIO QUINTILIO VARO

«Il suolo della Germania, per quanto sia diverso nell'aspetto, appare in generale selvaggio a causa delle foreste, triste e cupo per le ampie paludi, più umido rispetto alla vicina Gallia, più ventoso nella parte [meridionale] che si rivolge al Norico e alla Pannonia
(Tacito, De origine et situ Germanorum, V, 1.)

Con la fine della campagna di Tiberio, le nuove conquiste vennero organizzate a provincia, e Publio Quintilio Varo (Cremona, 47 a.c. - Foresta di Teutoburgo, 9 d.c.), fu questore nella provincia di Acaia, dove divenne patronus della città di Tinos, e, tra il 22 e il 19 a.c., accompagnò Augusto nel corso del suo viaggio in Oriente.

Divenne console nel 13 a.c., poi proconsole in Africa e legatus Augusti pro praetore in Siria, fu inviato come governatore in Germania. fu scelto come governatore. Aveva sposato la figlia di Marco Vipsanio Agrippa, genero di Augusto ed era molto apprezzato dall'imperatore. 

TEUTOBURGO

ARMINIO

Nel 9 il capo dei Cherusci, nonché alleato romano, Arminio (Weser, 18 a.c. – Germania Magna, 19), principe e condottiero dei Germani Cherusci, ex prefetto di una coorte cherusca dell'esercito romano, dopo una vita a Roma in cui si finse romanizzato e amico dei romani, tese un'imboscata ai Romani, informando Varo di una inesistente rivolta delle tribù occidentali, affinchè portasse l'esercito sul Reno. 

Arminio aveva scaltramente conquistato la fiducia di Varo, che non ascoltò le accuse di tradimento dei romani che sospettavano di lui e lo promosse invece suo consigliere militare. Ciò fa sospettare che il sentimento che Varo nutriva verso il giovane non fosse proprio paterno. Varo era un anziano generale, aveva combattuto molto bene e vinto numerose battaglie. Sembra impossibile che si lasciasse imbottigliare da un giovane straniero ponendosi addirittura nelle sue mani.

Arminio iniziò segretamente a unire sotto la sua guida diverse tribù di Germani, pur mantenendo il suo incarico di ufficiale della Legione e conquistò talmente la fiducia di Varo, che affidò ai suoi suggerimenti la campagna militare.
MASCHERA ROMANA DA COMBATTIMENTO RINVENUTA A TEUTOBURGO

L'IMBOSCATA

Varo si mosse con tre legioni, la XVII, la XVIII e la XIX, ma il tradimento di Arminio fece scattare la trappola: le legioni, bloccate vicino Osnabrück, vennero sconfitte e distrutte nella battaglia della foresta di Teutoburgo. Lo stesso Varo, vista la fine si suicidò per non cadere nelle mani dei feroci germani. Cassio Dione Cocceiano, Storia romana:
« ...per questi motivi Varo, e gli altri ufficiali di alto rango, nel timore di essere catturati vivi o di morire per mano dei Germani... compirono un suicidio collettivo ... »

Velleio Patercolo, Storia Romana:
« ...(Quintilio Varo) si mostrò più coraggioso nell'uccidersi che nel combattere... e si trafisse con la spada... »

L'IMBOSCATA (INGRANDIBILE)
Non appena si diffuse la notizia, molti soldati romani smisero di combattere preferendo uccidersi o fuggire per non venire catturati, ma la maggior parte dei romani fu torturata e uccisa senza potersi difendere.

Nel 15 Lucio Stertinio, durante la campagna germanica di Germanico, ritrovò l'aquila della XIX in possesso dei Bructeri. In seguito Germanico ritornò sul luogo della battaglia di Teutoburgo, e diede degna sepoltura ai resti dei soldati morti.

«Apprendo dagli storici e dai senatori contemporanei agli eventi che in Senato fu letta una lettera di Adgandestrio, capo dei Catti, con la quale prometteva la morte di Arminio se gli fosse stato inviato un veleno adatto all'assassinio. Gli fu risposto che il popolo romano si vendicava dei suoi nemici non con la frode o con trame occulte, ma apertamente e con le armi, del resto Arminio, aspirando al regno mentre i Romani si stavano ritirando a seguito della cacciata di Maroboduo, ebbe a suo sfavore l'amore per la libertà del suo popolo, e assalito con le armi mentre combatteva con esito incerto, cadde tradito dai suoi collaboratori. 
Indubbiamente fu il liberatore della Germania, uno che ingaggiò guerra non al popolo romano ai suoi inizi, come altri re e comandanti, ma ad un Impero nel suo massimo splendore. Ebbe fortuna alterna in battaglia, ma non fu vinto in guerra. Visse trentasette anni e per dodici fu potente. Anche ora è cantato nelle saghe dei barbari, ignorato nelle storie dei Greci che ammirano solo le proprie imprese, da noi Romani non è celebrato ancora come si dovrebbe, noi che mentre esaltiamo l'antichità non badiamo ai fatti recenti
(Tacito, Annales II, 88)

 Nel 19, Arminio fu assassinato dai suoi sudditi, che temevano volesse sottomettere tutte le tribù al suo potere.

SANGUEM (24 Marzo)

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CIBELE ED ATTIS
Il Sanguem era una festività romana, connessa con il mito di Cibele e di suo figlio Attis ed era una serie di feste e di riti celebrati tra il 15 e il 28 marzo. La celebrazione era di origine frigia, attuale Turchia, in quanto il culto di Cibele era stato importato da quella terra nel 204 a.c., ed era officiato da sacerdoti stranieri, detti Galli.

I romani, pur avendo grande rispetto per gli Dei stranieri, non erano molto attratti dai culti dove c'era fanatismo. Il romano doveva essere pio e tanto bastava, morigerato e continente in ogni settore della sua vita. Avere un'amante era segno di vivacità, averne troppe era segno di poco equilibrio. Così anche nella religione, chi pregava troppo o passava troppo tempo nei templi aveva qualcosa di poco equilibrato.

Eppure il culto di Cibele fece grossa presa sui romani, anche se lo stato vietò ai romani di farsi sacerdoti della Dea, visto il fanatismo che spingeva i Galli, cioè i suoi sacerdoti, a colpirsi nei genitali fino a mutilarsi.



IL MITO

Il mito parla di Cibele, Dea della Natura, che viene corteggiata invano da Zeus; questo, sognandola ardentemente ha una polluzione che feconda una roccia da cui nasce Agdistis. Costui, malvagio e violento, venne legato per punizione ad un albero per i testicoli e cadendo se li strappò: morì dissanguato ma fece fiorire il melograno.

Quando una ninfa toccò un frutto, rimase incinta e così nacque il bellissimo Attis di cui Cibele si innamorò. Ma ad egli lei non bastava, e cercò amore altrove. Cercando di nascondersi, venne sorpreso dalla Dea sotto un pino e si uccise.

Ma le versioni sono tante: in un'altra si narra che Agdistis era un dio ermafrodita, figlio di Zeus e Cibele, nato da una pietra su cui era caduto del seme del Dio durante l’accoppiamento. Gli Dei temevano che, racchiudendo in sé sia il potere del padre degli Dei che della Grande Madre, uniti ai principi sia maschile che femminile, Agdistis potesse diventare troppo potente, perciò lo evirarono. Dal suo sangue sorse un mandorlo da cui poi la ninfa Nana prenderà un frutto, restando incinta.

CIBELE

CANNA INTRAT

Le celebrazioni iniziavano il 15 marzo, quando una processione, detta Canna intrat ("Entra la canna"), raggiungeva il tempio di Cibele sul Palatino. I partecipanti erano i "cannofori", che portavano al tempio fusti di canne, allo scopo di commemorare l'esposizione di Attis bambino in un canneto. Si ritiene che questa cerimonia sia collegata ad antichi rituali propiziatori della pioggia in ambito agricolo.



ARBOR INTRAT


CIBELE SUL CARRO E ATTIS
I sette giorni seguenti la Canna intrat venivano considerati di espiazione, ed erano noti come "Castus Matris" (Digiuno della Madre). Il 22 marzo avveniva la processione dell'"Arbor intrat" (Entra l'albero), celebrante la morte di Attis.

Quel giorno si tagliava il pino, simbolo del Dio, se ne fasciava il tronco con sacre bende di lana rossa, lo si ornava di viole e strumenti musicali e sulla sua sommità si ponevano le effigi del Dio giovanetto. L'albero veniva portato dai "dendrofori" fino al tempio di Cibele, dove avveniva la commemorazione funebre di Attis.



SANGUEM

Il 24 marzo era il Sanguem, o anche "Dies Sanguinis": iniziavano le cerimonie funebri e i fedeli lamentavano la morte di Attis. L'arcigallo, il gran sacerdote, si tagliava le carni con cocci e si lacerava la pelle con pugnali per spargere sull'albero-sacro il sangue che usciva dalle ferite, in ricordo del sangue versato dal Dio da cui nacquero le viole. Il gesto veniva imitato dagli altri sacerdoti, poi gli uomini che seguivano la scena iniziavano una danza frenetica e nell'eccitazione sguainavano le spade per ferirsi. Il pino decorato veniva chiuso nel sotterraneo del tempio, da cui sarebbe stato rimosso l'anno successivo. La notte era poi passata nella veglia.

E' evidente che si allude alla primavera, cioè alla rinascita della vegetazione, Attis è il figlio vegetazione della Grande Madre, quindi portatore di vita, ma prima di lui vi è Agdistis, il fratello malvagio, cioè il distruttore, vale a dire la morte. Prima la morte invernale poi la rinascita primaverile. ma anche Attis morirà ricongiungendo le sue energie a quelle della Madre, per essere ripartorito ad ogni primavera. Questo mito è riprodotto in varie religioni.

In Egitto c'era il malvagio Seth che uccide il fratello Osiride, ma anche Iside ha un primo figlio Anteros, che si suicida, e poi il figlio Eros. L'ebraismo ha il cattivo Caino che uccide il buon Abele,  come Romolo uccide Remo nella fondazione di Roma, in realtà è lo stesso Dio che muore e risorge in primavera come il Cristo della religione cattolica.

E' l'alternanza della vita e della morte, il susseguirsi dei cicli, dove però la morte, ovvero la distruzione viene vista come malvagia, per il semplice fatto che gli uomini ne hanno paura. Il Sanguem è il venerdì santo della chiesa cattolica, è la morte di Attis cui seguirà la resurrezione per il nuovo ciclo di vita annuale.

ATTIS

HILARIA, REQUEITO E LAVATIO   

Il giorno seguente, 25 marzo, il Dio risorgeva e si celebravano allora le feste chiamate Hilaria e per le strade vi erano cortei gioiosi. Dopo un giorno di riposo, il Requetio, il 27 marzo giungeva il momento della Lavatio ("Abluzione") della statua di Cibele: veniva messa su un carro e portata fino al fiume Almone e spinta nel fiume.



INITIUM CAIANI

L'Initium Caiani era la cerimonia di iniziazione ai misteri di Attis, che veniva praticata il 28 marzo. L'iniziazione veniva praticata in un santuario frigio situato sul colle Vaticano, fuori dalle mura cittadine. Gli iniziandi consumavano un pasto negli strumenti musicali, cimbali e timpani. Poi veniva una processione, in cui veniva portato il "kernos", un cratere contenente dei lumi. Infine avveniva una ierogamia, in cui gli iniziati, identificandosi con Attis, celebravano le nozze mistiche con la Dea Cibele.

I Sacri Misteri di Attis, come tutti i Misteri sono segreti e non possono essere rivelati, l'imperatore Giuliano scrive appunto che lui, pur essendo stato iniziato ai Misteri delle madre degli Dei, non può rivelarli ma tenta di spiegare chi sia Cibele, la Madre degli Dei:

Chi è dunque la Madre degli Dei? È la sorgente degli dei intelligenti e demiurghi che governano le cose visibili, la genitrice e allo stesso tempo la sposa del grande Zeus, grande dea venuta all’esistenza subito dopo e insieme al grande demiurgo.
È la signora di ogni vita, causa di ogni generazione, che (oziosamente) porta a compimento nella quiete ciò che è fatto, partorisce senza dolore ed è demiurga col padre di ciò che esiste, è la vergine senza madre, il cui trono è in comune con quello di Zeus, ed è effettivamente la madre di tutti gli dei.
Infatti avendo ricevuto in sè le cause di tutti gli dei intelligibili sovracosmici, divenne la fonte degli dei intelligenti. Questa dea….è anche provvidenza
”.
(Giuliano L’ Apostata, Inno alla Madre degli dei)

VILLA DI MOREGINE

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APOLLO
Il complesso architettonico di Moregine fu scoperto a circa 600 metri a sud delle mura di Pompei, presso la foce del fiume Sarno e dell'antico scalo commerciale, nel 1959, in occasione dei lavori di costruzione dell’autostrada Napoli-Salerno. Si trattava di un cortile porticato sul quale si affacciavano almeno cinque triclini affrescati e terme in via di costruzione.

Le pitture sono in IV stile, di età neroniana, ed opera della stessa bottega che decorò la più celebre Casa dei Vettii. L'edificio apparteneva alla famiglia puteolana dei Sulpicii che da queste parti custodiva l'archivio contabile. Si suppone avesse il compito di ospitare piccoli gruppi di avventori, forse i membri di un collegium.

Lo scavo tuttavia non era facile a causa di una falda freatica. Si ha una falda freatica quando l'acqua delle precipitazioni si infiltra nel sottosuolo scendendo sino ad incontrare una superficie impermeabile che però fa da letto all'acqua senza contenerne altri movimenti. Il pericolo di allagamento ha convinto gli operatori a staccare le pitture.

PARTE DELLO SCAVO
In particolare furono staccate le parti alte corrispondenti al fregio e qualche quadro figurato della zona centrale. Gli affreschi ritrovati vennero staccati e conservati nei depositi della Soprintendenza di Pompei per oltre cinquant’anni.

L’edificio venuto alla luce è stato scavato finora per un terzo: tre sale da pranzo con splendidi affreschi e terme ancora in costruzione. Di particolare interesse la modalità di rinvenimento del tesoro di argenterie: in una latrina fu rinvenuta una gerla in vimini, che sembrava piena solo di terra dell’eruzione. 

Dalle radiografie si intravidero invece dei corpi metallici che un microscavo attentissimo, ha consentito di portare alla luce facendo emergere pezzi d’argento; piatti, coppe di varia forma, un cucchiaino, due forme decorate a sbalzo con figure d’animali.


L'effigie di Apollo, ve ne sono almeno due nella villa, ha fatto pensare anche a un omaggio all'imperatore. Nerone è un novello Apollo citaredo così come raffigurato su una moneta divisionaria destinata ad una circolazione diffusa, soprattutto tra le classi popolari, nel periodo di radicale trasformazione economico-culturale del 64 d.c. 

Nel 2000 tutto quel che era stato scavato è stato sepolto sotto le corsie dell’autostrada, dal momento che le condizioni dello scavo si sono rivelate troppo difficili a causa delle sorgenti d’acqua sotterranee. 

Gli affreschi sono stati, in precedenza, esposti ad Ottawa. Ma non sono solo le pitture murali il tesoro estratto dal sottosuolo di Moregine: vi sono anche 125 tavolette cerate relative ai commerci della famiglia dei Sulpicii.

MUSA TERSICORE
Il corpo di chi stava cercando di portar via gli argenti e le tavolette non esiste più. Accanto a questi reperti, però, vi erano i corpi di due donne e tre giovanissimi, tra i quali una bambina di quattro anni ed una ragazza adolescente. Una delle donne portava con sé, nella fuga, dei monili d’oro.

Lo scavo venne ripreso successivamente in occasione della costruzione della terza corsia dell’Autostrade Salerno – Reggio Calabria e ha permesso di riportare in luce, oltre alle strutture archeologiche, anche materiali di grande interesse quali le tavolette cerate, già citate dal Maiuri come contratti registrati, elementi architettonici e decorativi in legno perfettamente conservati e un tesoro di argenterie di eccezionale qualità.

Negli ultimi 50 anni si è lavorato su tre i triclini, oggi esposti nella Palestra Grande:

GENIO ALATO
- Il Triclinio A è composto da tre pareti dipinte in cui sono rappresentate le Muse, divinità ispiratrici del canto, che presiedevano ai diversi generi poetici, alle arti, alle scienze e a tutte le attività intellettuali e la figura di Apollo.

- Il Triclino B ritrae invece Castore e Polluce, i divini Dioscuri, su pareti di colore nero.

- Il Triclinio C, invece, propone la personificazione della locale divinità fluviale (Sarno) su pareti rosse.
Lo scavo, ripreso in occasione della costruzione della terza corsia dell'autostrada, ha permesso di riportare in luce altri materiali come tavolette cerate con contratti registrati, elementi architettonici e decorativi in legno perfettamente conservati.
MUSA
Gli archeologi di fronte ai tre triclini allineati attorno ad un portico, non compresero se avessero una funzione pubblica o privata, nè che rapporto avesse con la vicina Pompei o col suo contesto extraurbano. Non individuandone la funzione gli archeologi non sapevano che nome dare all'edificio.

Lo studioso Amedeo Maiuri, in una nota scritta dopo le varie polemiche sorte intorno alla scoperta, la chiamò domus delle tabulae ceratae, per il ritrovamento in uno dei triclini di una vasta cesta di vimini contenente circa 300 tavolette cerate, costituente l’archivio dei negotiatores puteolani C. Sulpicius Cinnamus, C. Sulpicius Faustus e C. Sulpicius Onyryus.

Intanto la costruzione stava scoprendo le sue stanze e i suoi affreschi, oltre ai letti in muratura e mensa centrale, mentre sul lato est erano stati notati senza essere scavati e rilevati altri due triclini, probabilmente altrettanto ricchi di decorazioni.
MENADE
Il complesso apparteneva alla famiglia puteolana dei Sulpicii che qui custodivano l’archivio contabile. La funzione dell’edificio era, molto probabilmente, quella di ospitare piccoli gruppi di avventori, forse membri di un collegium.

La decorazione parietale dei triclini è stata attribuita ad un’unica bottega, con artigiani di buona qualità e un’attenta analisi stilistica permette di affermare che tutti gli elementi raffigurati nella decorazione pittorica dei tre triclini sono riconducibili alla figura dell’imperatore Nerone e alla sua politica espressa in un momento ben preciso del suo governo.

Anche se nella prima fase di scavo venne alla luce l’edificio con un cortile porticato su cui si affacciavano almeno cinque triclini (sale da pranzo), sontuosamente affrescati e terme ancora in costruzione, vennero salvati solo gli affreschi di tre sale triclinari.

GENIO ALATO
Oggi è possibile ammirare le pitture, dopo vari tour all’estero, perché esposte in una mostra permanente nella Palestra Grande del Parco Archeologico di Pompei in un percorso chiamato il “Gioco delle Risonanze”.

E' strano, ma le opere d'arte italiane le vedono più gli stranieri che noi. C'è una ragione, ed è che all'estero rendono molto di più in quanto molti cercano di profittare dell'occasione visto che si trova nel loro paese. raggiungerle in Italia sarebbe molto più complesso.

Ma ci sono due opposizioni a questo conteggio così poco pro italiani. Uno è che l'arte è un bene primario per l'educazione dei giovani nel nostro paese, come lo è per tutti nei vari paesi, e tutti gli italiani dovrebbero poter visitare i luoghi d'arte di ogni parte dello stivale. Secondo non sembra che questi viaggi fruttino poi così tanto, visto che i nostri luoghi d'arte sono quasi sempre in perdita.

Basti pensare che in America realizza maggior guadagno un museo che accoglie tutte le riproduzioni dei vasi e reperti etruschi, che non Villa Giulia a Roma che accoglie gli autentici vasi e reperti etruschi. Forse le regioni dei mancati guadagni vanno ricercati altrove, nella insufficiente organizzazione o altro.

IL TESORO DI MOREGINE

IL TESORO DI MOREGINE

Destò parecchio interesse il tesoro di argenterie, anche per la modalità curiosa del suo ritrovamento: infatti venne rinvenuto in una latrina, dentro una gerla in vimini, che sembrava piena solo di terra dell’eruzione.

Dalle radiografie si intravidero invece dei corpi metallici che un microscavo attentissimo ha consentito di portare alla luce facendo emergere pezzi d’argento; piatti, coppe di varia forma, un cucchiaino, due forme decorate a sbalzo con figurazioni d’animali.




I NINFEI ROMANI

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NINFEO DI VILLA GIULIA - ROMA
Un ninfeo è in origine un edificio sacro dedicato ad una o più ninfe, da cui il nome, in genere posto presso una fontana o una sorgente d'acqua. Le sacerdotesse, o semplicemente le donne, vi si recavano facendo offerte incruente e pregando per ottenere prosperità e pace. Qui si svilupparono poi altari o spazi sacri, poi veri santuari delle ninfe, in epoca ellenistica o romana, con costruzioni di forma rettangolare o circolare, contenenti una fonte e una fontana sacra.

PARTICOLARE DEL NINFEO DELLA FONTANA GRANDE - POMPEI
Il famoso Lourdes ad esempio è un antico santuario pagano. "Ai piedi della cittadella sorgeva un tempio pagano dedicato alle divinità delle acque, le cui costruzioni sono venute parzialmente alla luce subito dopo la demolizione della parrocchiale di Saint Pierre (avvenuta agli inizi del Novecento), insieme a resti di ceramiche e di tre altari votivi."

I ninfei avevano diverse forme, rettangolari, ellittiche o circolari caratterizzati da un prospetto architettonico con nicchie che contenevano all’interno delle fontane.
Oggi le chiameremmo fontane monumentali, di quelle che si trovano nei parchi o nelle regge, ma i romani più ricchi li mettevano pure nelle loro case.

Il ninfeo in realtà non ha origini romane ma greche ed è attestato per la prima volta a partire dal IV secolo a.c. in un santuario dell’isola di Delo. Quello greco però aveva funzione religiosa mentre i romani, più edonisti, lo fanno diventare un luogo fantastico dove convogliare le acque.

In età repubblicana, soprattutto nelle ville del Lazio e della Campania, le fontane e i ninfei entrano a far parte dei giardini con tre elementi fissi: i ciottoli, le conchiglie e i mosaici. Ne fa testo la Casa di Nettuno e Anfitrite negli scavi archeologici di Ercolano.

Presso greci e romani con ninfeo si indicavano dei "luoghi d'acque", strutture con vasche e piante acquatiche presso i quali era possibile sostare, imbandire banchetti con amici, magari con musici, poeti e danzatori.



L'ESEDRA

Spesso il ninfeo aveva un incavo semicircolare, sovrastato da una semi-cupola, posto spesso in una stanza che si apriva su un portico, circondata tutt'intorno da banchi di pietra alti e ricurvi: un ambiente aperto destinato a luogo di ritrovo e conversazione filosofica.

ESEDRA DEL COLLE OPPIO - ROMA
Un'esedra può anche risaltare da uno spazio vuoto ricurvo in un colonnato, magari con una sede semicircolare. 

Oppure si poggiava su una casa, in una parete esterna che dava in un giardino.

L'esedra fu ampiamente adottata dai romani e così il ninfeo, che poteva avere anche più esedre, dalle quali l'acqua si incanalava in vasche di varia forma. 

A volte il ninfeo era un'opera urbana con getti d'acqua a più piani collocata nel punto terminale di un acquedotto. 

Nell'edilizia residenziale invece, i ninfei erano locali affacciati sul giardino-peristilio, destinati ai banchetti estivi, con un'edicola mosaicata da cui scaturiva l'acqua. Talvolta venivano decorate anche con incrostazioni in spuma di lava e conchiglie (da esse si originano le rocaille, parola che indica un tipo di decorazione eseguita con pietre, rocce e conchiglie, utilizzate come abbellimento di padiglioni da giardino e grotte.
Qui il peristilio, uno spazio delimitato da colonne, era per lo più uno spazio pavimentato, mentre il ninfeo, a fianco ad esso, era una fonte leggiadra. Innumerevoli ninfei di questo tipo si trovano nelle case più ricche di Pompei ed Ercolano (per esempio, la Casa di Giulia Felice).
La decorazione di ninfei, spesso a tessere bianche e nere, comincia ad avere tessere policrome dal 58 a.c., come appare nel teatro di M. Scaurus a Roma (Plin. XXXVI, app. 114) e nelle residenze imperiali di Tiberio di Capri e si diffonde ampiamente nel I secolo d.c. Si pensi ad esempio al ninfeo di Marina della Lobbra nella penisola sorrentina. 

I ninfei a pianta centrale servirono come base per la progettazione dei battisteri paleocristiani, edifici annessi a una chiesa, dove si svolgeva il rito del battesimo. La separazione dei due luoghi ebbe origine nei primi secoli dell'era cristiana, quando i non ancora battezzati non erano ammessi alle celebrazioni eucaristiche all'interno dei luoghi di culto consacrati.

NINFEO BERGANTINO - CASTELGANDOLFO

ESEMPI DI NINFEI


IL NINFEO DI VILLA PIPIANO

Si tratta di una parte di una villa marittima di età giulio-claudia (50-55 d.c.) ed é uno degli esempi più esplicativi di questo genere, e pure meglio conservati in Campania, riguardante le splendide ville marittime consacrate all’otium dagli imperatori e dai ricchi nobili romani su tutto il golfo di Napoli.

La straordinarietà dei ninfeo riguarda tanto la grandiosa articolazione scenografica della struttura architettonica, quanto la preziosa e policroma decorazione delle pareti interamente rivestite a mosaico con costose paste vitree.



"Nel 1979 l’Archeoclub di Massa Lubrense segnalò alla Soprintendenza delle Province di Napoli e Caserta l’esistenza di una “edicola” mosaicata posta sul costone roccioso prospiciente il mare, lungo la via costiera, allora ancora in fase di sistemazione, che univa Marina della Lobra all’insediamento residenziale di S. Montano (il tratto comunemente chiamato “la Ghiaia”), e ne fornì una fotografia a colori.

Circa nove anni dopo la comunicazione dell’Archeoclub, nel 1988, la Soprintendenza intraprese una campagna di scavo di quella che sembrava un’”edicola” isolata e che si rivelò, invece, parte di un monumentale ninfeo, pertinente ad una villa romana edificata in quel luogo.

Successive indagini archeologiche sistematiche iniziate nel 1993 e continuate nel 1994 e 1996 hanno consentito il rinvenimento di altri elementi del ninfeo, in parte rovinato dal susseguirsi di fenomeni di smottamento comuni a quel tratto costiero.

Nelle varie campagne di scavo sono state recuperate dieci nicchie interamente rivestite di mosaici policromi. Per assicurare la conservazione della decorazione musiva costantemente in pericolo a causa delle frequenti frane, fu deciso il distacco dei mosaici contestualmente allo scavo per poi restaurarli e montarli su pannelli altrove.

Cinque delle dieci nicchie e un avancorpo sporgente, che probabilmente costituiva la parte centrale del ninfeo, sono state restaurate e ricostruite nel parco del Museo Archeologico Territoriale della Penisola Sorrentina “Georges Vallet”, allestito a Villa Fondi, a Piano di Sorrento, dove ora è possibile ammirarle.

La struttura architettonica, posta a circa 15 m sopra il livello del mare, si sviluppava per circa m 24. ed era costituita da una natatio rettangolare rivestita di cocciopesto e coperta all’interno di intonaco azzurro.
Era invece decorata sui bordi da lastre di marmo, presenti anche alla base delle pareti mosaicate, e da uno scenografico fondale articolato in corpi avanzati e retroposti, nei quali erano ricavate nicchie a pianta, alternativamente, trapezoidale e rettangolare. Dalla parte opposta la natatio si apriva alla vista del mare.
Un avancorpo sporgente per m 0,95, nel quale si apriva una nicchia absidata con soffitto a volta, costituiva la parte centrale del ninfeo dalla quale probabilmente scaturiva l’acqua che alimentava la piscina. Nella nicchia absidata si è conservata solo una piccola parte del rivestimento musivo, raffigurante dei pesci e un’aragosta sul fondo blu egizio. 
Cinque nicchie erano poste a destra dell’avancorpo centrale e altre cinque a sinistra, per un totale di dieci nicchie. 
La struttura muraria era in opera reticolata con cubilia di 8,5 cm di lato, ammorsata da blocchetti parallelepipedi di tufo grigio locale, e formava una quinta alta m 2,70.
Nel piano di fondo delle nicchie lastre di marmo coprivano le fistule di adduzione dell’acqua tutte asportate nell’ultimo periodo di vita del monumento. 
Al centro della natatio c’era una base rivestita di lastre di marmo. La copertura del ninfeo era realizzata con un filare di tegole coperte da un doppio strato di cocciopesto, realizzato il primo con malta e scaglie di tufo, l’altro con malta e scaglie di mattoni.

A Villa Fondi sono state ricostruite le cinque nicchie a destra dell’avancorpo centrale. In ordine di rinvenimento, si osserva una prima nicchia (quella diametralmente opposta all’avancorpo), con fondo piano e soffitto a volta, nella quale il pannello di fondo, molto danneggiato, era occupato da un riquadro con un cigno che stringe un nastro fra le zampe.

La seconda, rettangolare, a fondo piano e soffitto piano, ha un medaglione con la rappresentazione di un’antilope con lunghe corna in posizione di salto, con le quattro zampe sollevate da terra. La terza, con fondo absidato e copertura a volta, è decorata con scene di giardino.

Nella quarta, anch’essa rettangolare, fondo piano e soffitto piano, sulla parete di fondo, è raffigurato un medaglione con un grifo in volo. Anche nella quinta, l’ultima prima dell’avancorpo sporgente, a fondo piano e copertura a volta, è presente su tutti e tre i lati, una scena di giardino dietro una transenna ad incannucciata. Al centro è raffigurato un platano contornato da rami di alloro e uccelli svolazzanti.
La decorazione conservata costituisce una delle più estese e rappresentative superfici di mosaico parietale del I sec. d.c. attestate in Campania. E’ realizzata con tessere in più materiali utilizzati per ottenere effetti cromatici diversi: blu egizio (la cosiddetta “fritta” ottenuta dalla cottura di una mescolanza di sabbia, fior di nitro e rame) calcari policromi, marmo, pasta vitrea.
Il soggetto principale raffigurato è quello del giardino fiorito con alberelli dai colori sgargianti e astratti, popolati da uccelli variopinti, transennato da canne, che si sviluppa sulle pareti della terza e quinta nicchia e spicca sul blu egizio utilizzato come sfondo. 
Accanto alla raffigurazione del giardino si inseriscono coppie di quadretti con motivi idilliaci o di genere: la capra presso l’altare (nella prima nicchia), la colomba che estrae la collana dal portagioie (nella lunetta della prima nicchia), la pantera e la cista (sulla parete interna dell’arco della prima nicchia), l’uccello e la frutta (nella seconda nicchia), fondali marini con pesci e molluschi (nell’avancorpo centrale).


Tutte le scene sono inserite in una complessa trama di motivi decorativi: palmette circoscritte in grosse volute contrapposte dai colori brillanti, verde e blu, disegnate in giallo sul fondo rosso scuro; candelabri tortili dorati; bordi di tappeto con motivi cuoriformi contrapposti.

Gusci di conchiglie collocate su una superficie preventivamente dipinta di rosso sono utilizzati per sottolineare le cornici e i bordi dei campi decorativi.
Le ricercate composizioni tonali testimoniano una sensibilità coloristica propria del gusto ellenistico.


Effetti cromatici ottenuti con utilizzo di tessere diverse sono visibili nel medaglione contenente un busto femminile con i capelli lunghi ai lati del collo, dove tessere bianche rendono le lumeggiature del diadema a fascia, in giallo.


Nel medaglione della seconda nicchia, con un gorgoneion al centro di un elemento raggiato, l’uso di tessere di diversa gradazione di verde conserva l’effetto del volume di una stoffa pieghettata, mentre le pantere rappresentate nella prima nicchia hanno il mantello reso realisticamente a macchie con l’uso di tessere bianche, gialle, rosa e marroni.

Il tema del giardino verdeggiante con alberi ricchi di pomi e uccelli svolazzanti visto al di là di una staccionata di canne è largamente attestato in pittura: a Roma confronti si possono stabilire con i famosi dipinti del ninfeo sotterraneo di Villa Livia o con quelli del c.d. Auditorio di Mecenate; numerosi esempi sono presenti anche a Pompei ed a Stabia.

L’ampia diffusione di questo genere dimostra le sue profonde radici, le cui origini vanno forse ricercate nelle scenografie ellenistiche del dramma satiresco che, secondo Vitruvio (V, 6,9), erano caratterizzate da “alberi, grotte, monti ed altre scene campestri trasformate a mo’ di giardino”.

L’ampio uso di tessere in blu egizio, che con l’affermazione della pasta vitrea tende a scomparire dall’età tiberiana in poi, ma che in Campania continuerà fino agli anni ’60, la sintassi decorativa e la presenza di raffigurazioni di giardino hanno consentito di datare i mosaici in età claudia, negli anni 50-55 d.c. 


Il ninfeo era pertinente ad una villa marittima dotata di giardini, probabilmente con disposizione a terrazze, come sembra indicare l’esistenza di una rampa in terreno battuto rinvenuta sul lato orientale, mentre, alcuni frammenti di colonne doriche di tufo stuccate, sembrano indicare la presenza di un peristilio o porticato sulla terrazza superiore.

La villa di Marina della Lobra si inserisce in quel complesso di ville marittime costruite in posizione panoramica che soprattutto dal I sec. a.c. sorsero in tutto il Golfo di Napoli.
L’amenità dei luoghi fece della Penisola Sorrentina un sito privilegiato per la costruzione di dimore marittime, che sfruttavano scenografiche disposizioni degli ambienti.

La frequentazione della penisola da parte dell’aristocrazia romana da Augusto in poi, ed in particolare con la presenza di Tiberio e della sua corte a Capri dal 27 al 37 d.c., determinarono un periodo particolarmente florido, testimoniato anche da un’intensa attività edilizia a Sorrento durante la prima età imperiale."
SAN GIOVANNI DEL PALCO - AVELLINO

NINFEO DI SAN GIOVANNI IN PALCO

Al confine tra il comune di Lauro e di Taurano, ad est del Vesuvio e poco a sud di Nola, stretta fra le montagne di Sarno e gli Appennini interni, si estende la lussureggiante valle di Lauro, dove, in località San Giovanni del Palco si trova la bellissima villa romana costruita in età imperiale intorno al I secolo a.c.

Ai margini del Comune, in una splendida posizione soprelevata sorge il convento di S. Giovanni del Palco. Probabilmente la chiesa ed il convento di San Giovanni del Palco vennero  costruiti spoliando i resti di una Villa Romana, come è infatti illustrato in un affresco di fine ‘800 presente nel Castello Lancellotti.

RICOSTRUZIONE
Al centro del vallo, in posizione dominante, si trova il Castello Lancellotti, che fu costruito probabilmente su un tempio romano. Si tratta di una villa di circa 1400 mq costruita su tre livelli probabilmente per uso rurale data la presenza di numerosi vigneti ed oliveti e soprattutto alle vicine sorgenti a monte.

Sicuramente di uso rurale ma anche di uso residenziale, altrimenti vi non avrebbero edificato un ninfeo così vasto e così riccamente e splendidamente decorato. Ai piedi della chiesa, edificato su più terrazze lungo la collina, ci sono le bellissime terme della villa, scavato per circa 1330 mq. a partire dal 1981.

I resti finora portati in luce lasciano ipotizzare varie fasi di vita del complesso, con successivi restauri e riattamenti, dal II secolo a.c. fino all’eruzione vesuviana del 472 d.c., quando il complesso venne definitivamente abbandonato.

Vi si riconoscono infatti l'hypocaustum ed il sistema idrico di approvvigionamento. Nella terrazza inferiore si trova lo splendido ninfeo di età tiberiana, con fontana absidata, vasca e due edicole alle estremità, e, ai lati di queste, una serie di nicchie decorate con mosaici a tessere bianche e azzurre, e ben decorate con motivi diversi.
RICOSTRUZIONE DEL NINFEO DI PUNTA EPITAFFIO - PARCO SOMMERSO DI BAIA

NINFEO DI PUNTA EPITAFFIO

Il Ninfeo di Punta Epitaffio è un ninfeo romano, risalente al I secolo d.c. all'epoca dell'imperatore Claudio (41-54 d.c.), situato ad una profondità di circa 7 metri sotto il livello del mare all'interno del Parco sommerso di Baia, nel golfo di Pozzuoli, in Campania. Esso è stato poi  ricostruito nel Museo archeologico dei Campi Flegrei situato nel Castello Aragonese di Baia.

La scoperta casuale avvenne nel 1969, rinvenendo statue e blocchi sul fondale che pulite e ricomposte ricostituirono parte dello splendido e ricco ninfeo. 

Le statue dell'abside terminale raffiguravano l'episodio dell'Odissea in cui Ulisse, prigioniero nella grotta di Polifemo, cerca di ubriacare il ciclope per accecarlo. 
Ne restano la figura di Ulisse che offre a Polifemo la coppa di vino, e uno dei compagni, che reca l'otre, mentre non resta traccia della figura del Ciclope, che sicuramente occupava la posizione centrale.

Delle otto statue delle nicchi laterali, quattro sono perfettamente conservate, due sono di Dioniso giovinetto e le altre due, la prima ritrae Antonia Minore come Augusta, con in capo un diadema e in braccio un fanciullo alato, forse un Eros funerario.

APOLLO - BAIA
L'altra è una bimba dalle delicate fattezze, con un'acconciatura che ricorda i ritratti giovanili di Nerone, anch'essa ornata di gemme sul capo. 

Secondo alcuni trattasi di  Claudia Ottavia, futura sposa di Nerone, o meglio e più credibile, una delle figlie di Claudio morte in tenera età. Delle altre statue, come per il Polifemo, non si è trovata alcuna traccia.

Era dunque un ninfeo per la presenza dell'acqua e la decorazione delle pareti che imitano grotte naturali: l'abside e le nicchie dell'edificio erano infatti rivestite con pezzi di calcare naturale (finta roccia) e con mosaico di paste vitree policrome e conchiglie, mentre il resto delle pareti era coperto da lastre di marmo colorato.

Ma era contemporaneamente un triclinio perché secondo gli archeologi sulla piattaforma c'erano i letti tricliniari, con cuscini e lenzuoli su cui stavano sdraiate le persone e banchettavano allietati da musiche, danze e poesie.

NINFEO DELLA CASA DELLA FONTANA GRANDE - POMPEI


NINFEO DELLA CASA DELLA FONTANA GRANDE

La fontana, ovvero il ninfeo, fu rinvenuto nel 1826 a Pompei per interessamento di Francesco I di Borbone. La Casa della Fontana Grande era dotata di graziosi ninfei a nicchia decorati da mosaici e una fontana forse eccessivamente grande per le proporzioni del giardino. Il bellissimo viridario faceva da cornice alla grande fontana a mosaico ornata anche con conchiglie.

Questa casa, situata lungo la via di Mercurio, deve il nome alla presenza di quel genere di fontane, particolarmente in uso nell’età post-augustea, tipiche dell’Egitto greco-romano, ma pure dell'uso greco: fontane a nicchia interamente rivestite di mosaici a paste vitree policrome.

Ancora oggi, dopo venti secoli, ritroviamo inalterati i colori ed i motivi delle decorazioni parietali. D'altronde le paste vitree erano così preziose, e costose, che a volte ci si facevano delle collane legate addirittura con l'oro.

Accanto al ninfeo, è collocato un piccolo bronzo di cui l’originale si trova a Napoli, raffigurante un putto con delfino, ma anche delle copie di belle statue bronzee.

Degno di osservazione è anche il bel prospetto esterno, tutto in tufo a bugne e pilastri terminali ben squadrati.
Accanto a questa casa è situata anche la Casa della Fontana Piccola, con altro pregevole ninfeo.

EMILIA ROMAGNA

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ARCO DI AUGUSTO - RIMINI
Diverse popolazioni hanno occupato nei secoli le terre a sud del fiume Po, in Emilia-Romagna: anzitutto gli Etruschi nel V secolo a.c. e i Galli nel IV secolo. 

- I Galli Senoni si insediano nelle attuali regioni Romagna e Marche del nord, dal fiume Montone verso sud, quindi dall'ager Decimanus, ovvero la campagna a sud di Ravenna, fino al fiume Esino.
«Al di là del Po si sono fissati per primi gli Anari, poi i Boi, in direzione dell'Adriatico i Lingoni, infine, vicino al mare, i Senoni.»
(Polibio, Storie, II,17)

I Boi si insediarono nella valle padana attraverso il passo del San Gottardo, sostituendosi agli Etruschi della città di Velzna (latinizzato in Felsina), l'odierna Bologna, che dalla conquista romana nel 189 a.c. si chiamò Bononia. Polibio narra che i Boi arrivarono a Felsina chiamati da Ateste, ricco commerciante felsineo che voleva vendicarsi dei suoi concittadini che non gli avevano riconosciuto dei diritti sul patrimonio del giovane Lucumone, di cui era tutore. Ma nemmeno i Boi diedero ragione ad Ateste, però gli piacquero talmente i doni da lui portati che decisero di trasferirsi dove i doni erano stati prodotti.
«Poi ancora, i Boi e i Lingoni, passando attraverso le Alpi Pennine, quando già il territorio fra il Po e le Alpi era tutto occupato, varcano il Po con zattere e cacciano via dalla regione non solo gli Etruschi ma anche gli Umbri, rimanendo tuttavia al di là degli Appennini. E finalmente i Senoni, ultimi immigrati, occupano il territorio dal fiume Utente fino all'Esino.»
(Tito Livio, Ab Urbe condita, V, 35)

- I Lingoni, un popolo Celtico originario della Gallia Transalpina, stanziato tra i fiumi Senna e Marna (Francia), si erano invece stanziati attorno alle Alpi, soprattutto nella Gallia Cisalpina (Italia settentrionale), alla foce del Po nella zona del ferrarese (Emilia), attorno al 400 a.c..
«Presso i Sequani si eleva il Monte Giura, che costituisce la frontiera tra loro gli Elvezi. Dopo gli Elvezi e i Sequani vengono ad ovest gli Edui e i Lingoni, poi i Mediomatrici , i Leuci e un cantone dei Lingoni.»
(Strabone, Le Gallie, Vol. IV del De Geografia)

I GALLI SENONI
Comunque l'arrivo degli invasori Romani, pur non estirpando usi e costumi gallici, li ha ammorbiditi fondendosi con la popolazione. I più antichi abitanti dell'attuale Romagna di cui si hanno testimonianze archeologiche furono gli Umbri, che fondarono Sarsina e gli Etruschi, che fondarono Verucchio e Rimini.

A partire dal III secolo, i Celti dovettero affrontare il potere dei Romani, finchè si scontrarono nel 295 a.c. Sentino. I romani vinsero e occuparono la zona finchè i Senoni praticamente sparirono. Tra il 191 al 187 a.c. venne costruita la via Emilia tra Rimini e Piacenza. Giulio Cesare il 10 gennaio del 49 a.c. attraversò il fiume Rubicone (o il Pisciatello) alla testa di un esercito, dopo aver lungamente trattato coi patrizi del senato che lo volevano eliminare, violando la legge che proibiva l'ingresso armato dentro i confini dell'Italia e dando il via alla II guerra civile, pronunciando la celeberrima frase: Alea iacta est.

In epoca romana l'Emilia fece parte dapprima della provincia della Gallia Cisalpina o Gallia Citeriore, e, dopo la riforma Augustea che estese la cittadinanza romana a tutta la penisola italica, della Regio VIII Aemilia, che corrispondeva al territorio attraversato dalla Via Emilia, cioè grossomodo all'attuale territorio dell'Emilia-Romagna.

PONTE ROMANO DI TIBERIO
Città importanti di questa regione, la maggior parte delle quali di origine preromana, soprattutto etrusca, furono:

Cesena (Caesena) - abitata dagli umbri intorno al VI-V secolo a.c., intorno al IV secolo c'è l'invasione dei Galli, che introducono l'allevamento suino. Con la dominazione romana si esegue una colossale opera di centuriazione cui è sottoposto il territorio cesenate, presumibilmente tra il 235 e 220 a.c., che suddivide la campagna in un perfetto reticolato. Successivamente la "Curva Caesena" dell'età imperiale prospera come città produttrice di ottimo vino, per poi decadere con la caduta dell'Impero.

Forlimpopoli (Forum Popili, o Forum Livii Popilii) - deriverebbe il suo nome da quello del console Publio Popilio Lenate, che avrebbe fondato la città nel 132 a.c. Nel I secolo a.c. Forum Popili divenne un municipium al centro di un vasto territorio confinante con quelli di Caesena, Forum Livii, Mevaniola e Sarsina. Nei primi secoli dell'epoca imperiale il centro conobbe un forte sviluppo economico grazie alle attività agricole e soprattutto al vino che veniva esportato in diverse località mediterranee, come è dimostrato dal ritrovamento di fornaci che producevano anfore vinarie.

- Forlì (Forum Livii) - il castrum fu probabilmente fondato nel 188 a.c., da Gaio Livio Salinatore, figlio del console Marco Livio Salinatore che, nel 207 a.c., aveva sconfitto l'esercito cartaginese guidato da Asdrubale nella battaglia del Metauro. - Faenza (Faventia) - Plinio parla di "popoli faentini" alleati dei romani in epoca repubblicana e Silio Italico descrivendo la II guerra punica (218 a.c.) racconta che i faentini, a differenza degli insediamenti celtici della zona, appoggiarono i romani contro i cartaginesi.

Imola (Forum Cornelii) - fondata dal dittatore Lucio Cornelio Silla intorno all'82 a.c..

Bologna (Bononia) - venne influenzata, nel VII-VI secolo a.c. dai modelli culturali e artistici della vicina Etruria, e venne chiamata Felsina (in etrusco Velznao Felzna).
Nel V-IV secolo a.c., i Galli si sostituirono agli Etruschii, finchè nel 196 a.c., i Galli Boi vennero soggiogati dai Romani, che nel 189 a.c. vi fondarono una colonia di diritto latino a cui diedero il nome di Bononia.

Modena (Mutina) - fu un insediamento etrusco, poi gallico con la calata dei Galli Boi. Nel 183 a.c. venne fondata come colonia romana da mille cives provenienti da Roma guidati dai triumviri Marco Emilio Lepido, Tito Ebuzio Parro e Lucio Quinzio Crispino. Divenne capoluogo dell’ex Gallia cisalpina e sede del governatore per due secoli. Venne abbandonata fra il V e il VII secolo, causa le numerose inondazioni dei fiumi Secchia e Panaro,

Reggio Emilia (Regium Lepidi) - fu municipio romano che trasse il nome da Marco Emilio Lepido, fondatore della città e della via che dà il nome all'attuale regione. Con la caduta dell'Impero romano d'Occidente la città venne quasi spopolata.

MAUSOLEO DI TEODORICO - RAVENNA
Parma - il suo nome deriverebbe dallo scudo rotondo dell'esercito Romano, che richiamava la forma del primo nucleo cittadino. Secondo altri sarebbe derivata dai gentilizi etruschi Parmnie. Secondo Tito Livio sarebbe stata fondata dagli Etruschi tra il VII e il VI secolo a.c. Poi, verso il IV secolo a.c., la regione venne occupata dai celti Boi. Con la conquista da parte dei Romani, nel 183 a.c. Parma divenne una colonia romana e ad ognuna delle 2.000 famiglie installate vennero affidati lotti di terra in prossimità della via Emilia, da cui, a est della città, partiva un cardo della centuriazione che si insinuava lungo la valle del torrente Parma, dando origine alla "strada delle cento miglia", che collegava Parma a Luni attraverso il passo del Lagastrello. Col trascorrere degli anni, la fedeltà dimostrata nei confronti dell'Impero valse alla città il titolo di Augusta Parmensis.

Fidenza (Fidentia) - nacque come accampamento romano nei luoghi in cui i Galli Anani fondarono l'insediamento che aveva nome Vicumvia (latino Victumviae), lungo il percorso della Via Emilia con il nome di Fidentia. Per la sua posizione divenne poi un importante centro commerciale, rimanendolo per tutto il periodo di dominazione dell'impero romano, tanto che nel 41 a.c. fu insignita da Ottaviano della cittadinanza romana come Fidentia Julia e divenne municipio.

Piacenza (Placentia) - fondata nel 218 a.c., fu la prima colonia romana nell'Italia settentrionale,  come importante avamposto militare contro Annibale che muoveva dalla Spagna per giungere in Italia e portarvi devastazione conquistando i territori del Ticino e della Trebbia. La città resistette agli attacchi punici e fiorì come centro commerciale sulla via Emilia.

Ravenna (Civitas Classis) - vi si insediarono Tessali, Etruschi ed Umbri, poi i Galli Senoni, specialmente dal fiume Montone verso sud, comprendendo tutto l'Ager Decimanus, ovvero la campagna verso Forlì, il territorio cosiddetto delle Ville Unite, che non era un territorio lagunare.
Ravenna per tutta l'antichità era accessibile solo dal mare, per questo Augusto vi appoggiò la flotta militare dell'alto Adriatico, e per questo fece scavare la Fossa Augustea, un canale che collegava il Po con l'ampio specchio di acqua a sud di Ravenna e qui fondò il porto di Classe. Secondo Plinio il Vecchio, il porto poteva contenere fino a 250 triremi e 10 000 marinai o classari destinati al controllo di tutto il Mediterraneo orientale (la base destinata al controllo del Mediterraneo occidentale era invece il porto di Miseno).

Rimini (Ariminum) - già abitata dagli Etruschi, dagli Umbri, dai Greci, dai Piceni e dai Galli, i Romani vi fondarono la Colonia di Diritto Latino di Ariminum. Lo statuto di colonia latina, conferito per difendere nuovi territori, la rese stato autonomo. Circa 25000 coloni latini che si insediarono nel riminese, provennero dal Latium vetus che per 200 anni fu in guerra contro Roma: Aricia, Tusculum, Tibur, Suessa Pometia, Velitrae, Ardea; il rapporto con l'odierna Ariccia è testimoniato dall'introduzione del culto di Diana, che ad Aricia era Diana Aricina e a Rimini divenne Diana Arimina. Dopo la I guerra punica (264-241 a.c.) il console Gaio Flaminio Nepote riorganizzò tutto il territorio a sud di Ariminum, l'ager gallicus, che fu centuriato ed assegnato ai coloni, facendone un bastione contro l'avanzata dei Galli, e un avamposto per le conquiste romane verso nord. Ariminum era snodo di importanti vie di comunicazione tra il Nord e il Centro Italia: qui terminava la Via Flaminia (220 a.c.), proveniente da Roma. Da qui si dipartivano: la Via Emilia (187 a.c.), diretta a Piacenza, e la Via Popilia-Annia (132 a.c.), che collegava la città a Ravenna, Adria, Padova, Altinum e Aquileia. Durante la II guerra punica furono le legioni di Arezzo e Rimini che presidiarono i confini.

- Bobbio, (Bobium) - divenne romano nel 14 a.c. e nel IV secolo sorse il primo nucleo del borgo di Bobium.

- Città d'Ombria o Castelliere d'Ombria o Città d'Umbrìa - venne fondata tra il III e il II secolo a.c. dai Liguri o dagli Umbri, fortificato nel VI o VII secolo dai Bizantini, che si trova a 977 m s.l.m. alle pendici del monte Barigazzo nei pressi delle frazione di Tosca, all'interno del comune di Varsi, in provincia di Parma.

ARIMINUM (RIMINI)
- Claterna - era una città romana posta su precedenti insediamenti etruschi e celtici posta sulla via Emilia fra le colonie romane di Bologna (Bononia) e Imola (Forum Cornelii), fra la frazione di Maggio ed il torrente Quaderna (affluente dell'Idice) da cui la città prendeva il nome.

- Mevaniola - Venne annoverata da Plinio il Vecchio tra le città umbre (nat.hist., III, 113), posta in una zona ricca di acque, risale al periodo repubblicano e venne abbandonata nel IV - V secolo d.c.

Luceria - o Nuceria, nacque come zona di mercato attorno al IV secolo a.c. nella Gallia Cispadana, posta fra tre importanti vie di comunicazione: la strada dal Po fino alla Tuscia, la pista pedemontana da ovest ad est e la pista montana verso le colline. I primi abitanti furono i Liguri che infine si fusero con gli Etruschi. Nel II secolo a.c. vi fu invasa dai romani in età repubblicana che ne fecero un centro con edifici pubblici e privati, strade con marciapiedi, locande, alloggi per il bestiame con acqua corrente e spiazzi per stoccaggio merci. Nel I e nel II secolo, giunse a circa 100.000 mq di superficie; venne abbandonata nel IV secolo per cause ignote.

- Misa (Kainua) sul suo territorio vi sono i resti di una città etrusca risalente al VI secolo a.c. identificata con l'antica Kainua, fu abitata poi dai celti e infine conquistata dai romani. Oggi si chiama Marzabotto.

- Monte Bibele - vi è stato scavato un centro abitato d’altura di circa 7000 m² tra il IV e il II sec. a.c., di etruschi e poi celti boi, con uno specchio d'acqua e un santuario in cui sono stati rinvenuti 195 statuette di bronzo con centinaia di vasi miniaturistici e alcuni vasi di normali dimensioni, di produzioni etrusco-italiche del V -IV sec. a.c. , insieme a vasellame di pasta grigia, di impasto buccheroide e a vernice nera di produzione volterrana.

- Sassina (Sarsina) - un insediamento umbro della fine del IV secolo a.c. poi invasa dai celti e sottomessa dai Romani nel 266 a.c., però con status di civitas foederata (città alleata) e una certa autonomia. Nel 225 a.c., quando i Romani combatterono contro i Galli, i Sassinates, insieme gli Umbri, fornirono all'esercito romano 20.000 soldati. Divenne municipio nel I secolo a.c., riorganizzata sul piano urbanistico ed architettonico, con massiccia cinta muraria, inserita poi in età augustea nella Regio VI Umbria. Nell'età imperiale fiorì sia per l'attività silvo-pastorale, per i rapporti commerciali con il porto di Ravenna, sia per l'artigianato ed i centonari (fabbricanti di stoffe). Subì atroci devastazioni barbariche verso la fine del III secolo, che segnarono il suo declino.

Travo (Trivia) - Vide la presenza dei Liguri e fu colonia romana col nome di Trivia, nome riservato alla Grande Dea Trivia, cioè Venere, i cui templi, in cui si praticava la prostituzione sacra, si poneva all'incrocio di tre vie, da cui trivio e il termine triviale.

- Lugagnano Val d'Arda (Veleia) - Centro di notevole importanza agricola e commerciale dei Liguri Eleiati o Velleiati, divenne colonia latina nell'89 a.c. e municipio nel 49 a.c., ascritto alla famiglia patrizia dei Galeria. Vi fu rinvenuta la "Tabula alimentaria traianea" un'epigrafe in cui Traiano concesse un prestito ipotecario ai proprietari terrieri i cui interessi evenivano devoluti ai fanciulli indigenti, sia per incrementare le attività agrarie sia per sostenere le famiglie povere e contrastare lo spopolamento delle campagne.

- Voghenza (Voghiera) - fu insediamento romano con il nome di Vicus Habentia, un avamposto della bonifica attraverso canali e ampie strade con cui vennero ricavati territori agricoli. Era situata sul ramo principale dell'Eridano (il Po) e a pochi km delle vie consolari: Via Popilia, Via Annia e Via Emilia.

UTICA (Tunisia)

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ENTRATA IN CITTA'
Utica è una delle più antiche città del Mediterraneo, posta a nord ovest di Cartagine, ed anche se ora è lontana dal mare, da cui dista diversi km, era una città costiera, ed anche un porto fenicio molto importante. Secondo Plinio il Vecchio era stata fondata prima di Cartagine dai coloni di Tiro nel 1101 a.c., anche se gli scavi non abbiano trovato tracce anteriori all'VIII secolo a.c., ma è ancora tutto da scoprire, anzi da scavare.

Il fiume, che si chiamava Macaras, poi Bagradas in epoca romana e che ora si chiama Mejerda, passava nei pressi della città, ai piedi del promontorio che formava un golfo dove il fiume sboccava nel mare, ma già verso il IV secolo a.c. aveva con le sue frequenti alluvioni iniziato a formare una pianura allontanando la costa.

Il benefico fiume, che forniva acqua per i campi e portava barche piene di grano ai mercati più lontani, forniva anche un flusso costante di limo nel porto. Nel corso del tempo, il porto di Utica divenne meno profondo e più difficile da navigare e nel V secolo d.c., la prospera città portuale fu tagliata fuori dal mare.

ECCO COME DOVEVA APPARIRE UTICA (INGRANDIBILE)
Oggi, sulla foce del Mejerda, si sono accumulati tanto limo e sedimenti che i resti dell'antica Utica ora si trovano a dieci chilometri nell'entroterra. E la posizione del porto della città, ora piena di terra, è rimasta un mistero per secoli. Secondo Plinio il Vecchio. "Utica" in Fenicio significa "Vecchia città", in contrasto con la successiva colonia Cartagine, che significa "Nuova città".

Cartagine fu sua alleata e rivale a seconda delle circostanze. Intorno al 300 a.c. Agatocle, tiranno di Siracusa, conquistò Utica per opporsi ai cartaginesi. In seguito Utica parteggiò per i Romani con Massinissa, re della Numidia, allo scoppio della III guerra punica (149 -146 a.c.) e per questo le vennero accordati molti territori e divenne capitale della provincia d'Africa.

A seguito della dichiarazione di guerra, nel 149 a.c. un esercito romano, comandato dai consoli Manio Manilio Nepote e Lucio Marcio Censorino, sbarcò e pose il suo campo nei pressi di Utica che subito si arrese salvando la vita ai suoi abitanti. Poi i romani la conquistarono e ne fecero una base militare romana, punto di partenza per Scipione per il suo attacco definitivo a Cartagine nel 146 a.c.. Utica ottenne infine la cittadinanza romana.

PAVIMENTO IN OPUS SECTILE
Dopo la battaglia di Farsalo (48 a.c.) Utica divenne la base operativa dei pompeiani e nella vicina località di Tapso, si svolse nel 46 a.c. la battaglia vinta da Gaio Giulio Cesare contro i Pompeiani di Tito Labieno, Giuba I, M. Petreio, Gneo e Sesto Pompeo. Ad Utica nel frattempo si era prodigato per difenderla Marco Porcio Catone Minore, non a caso chiamato l'Uticense in quanto nativo della città, lui che era stato l'anima della resistenza Pompeiana, contro Cesare e a difesa degli optimati.

Catone, fermo e convinto seguace della dottrina stoica, strenuo sostenitore della libertà Repubblicana, ma anche dei privilegi degli aristocratici, non appena seppe che Cesare era alle porte della città, non esitò a suicidarsi per evitare l'umiliazione che tra l'altro Cesare gli avrebbe risparmiata. Utica, divenuta celebre proprio per il suicidio di si grande uomo, strenuo difensore dei "mos maiora", rese sontuosi onori funebri a questo suo grande figlio.

Nel I secolo d.c. Utica divenne di tale importanza che ebbe anche una propria Zecca dove nel 25 d.c., venne coniata una moneta che recava su una faccia la testa dell'imperatore Tiberio insieme ai nomi del Proconsole e del Questore della Provincia di Siria.

 "Dopo che Cartagine fu smantellata da Romani ad Utica fu concesso tutto il paese che giacea fra Cartagine e Ippona e fu per un considerabile tratto di tempo Metropoli dell Africa."
Ma Utica era già divenuta Municipio sotto Augusto e sotto Adriano divenne Colonia, per decadere poi a causa della rinascita di Cartagine e dell'insabbiamento del porto.

IL DECUMANO

IL PARCO ARCHEOLOGICO 

Il parco archeologico dista alcune centinaia di metri dal museo e al di sotto dello strato romano si sono trovati i resti della abitato punico ed in particolare di una necropoli ove le tombe ci appaiono come grandi sarcofagi rettangolari a conca monolitica in pietra senza decorazione. Uno solo, costruito in mattoni crudi, conserva uno scheletro quasi intatto.

Le tombe sono di diverse tipologie appunto, monolitiche in pietra, in blocchi di argilla cruda o cotta. Alcune, piccole, sono costituite da urne cinerarie poste in nicchie scavate nel terreno. Le più antiche risalgono al VII secolo a.c. Il corredo funerario è costituito da ceramiche puniche, lucerne e qualche oggetto in bronzo o ferro.

La pianta della città abitata è divisa in isole, all'uso romano, di cui si individuano il decumano massimo, il cardo massimo e le loro parallele, mentre attorno stanno i grandi edifici pubblici. Oltre ad alcuni edifici con mosaici di età repubblicana romana, si sono identificate tracce di un tempio, di terme e di due teatri e due anfiteatri che si spera divengano oggetto di seri scavi archeologici.



GLI EDIFICI PRIVATI

Le case già scavate sono una ventina e gli archeologi le stanno classificando secondo certe caratteristiche costruttive che permettono di attribuirle ai diversi periodi. Di solito presentano piccole stanze ubicate intorno a una corte scoperta, raggiungibile dalla strada mediante uno stretto corridoio, spesso dotate di un secondo piano. Le pavimentazioni sono in cementizio o in mattoni crudi. e il portico in genere è posto alle spalle dell'ingresso principale.

IL TRIONFO DI NETTUNO ED ANFITRITE

LA CASA DELLA CASCATA

Il nome di “Casa della cascata” le deriva proprio da una fontana che imita una cascata d’acqua. E' la prima casa che si incontra nel tragitto del sito archeologico, ed ha un bel mosaico in un bacino a lunetta con una scena marina con barca e pesci ed amorino dedito alla pesca. I proprietari erano benestanti che si permettevano bei mosaici, un bel peristilio con pavimento a mosaico in cubetti bianchi e frammenti di marmo , un “viridarium”, una sala da pranzo “triclinium” e altri locali piuttosto lussuosi. L’inizio di una scala fa supporre l’esistenza di un altro piano.



CASA DEI CAPITELLI ISTORIATI 

La “Casa dei capitelli istoriati” è la più nota e deve il suo nome a due colonne con capitelli scolpiti finemente, recuperati da precedenti costruzioni che risalgono al I° secolo a.c. mentre la casa è del I° secolo d.c.. Nei capitelli sono rappresentati Ercole, una Minerva armata ed Apollo citaredo. Attorno al peristilio di dodici colonne si aprono le stanze, una grande sala ed altre minori.



CASA DELLA CACCIA 

Più avanti, la” Casa della Caccia” per le scene di caccia dei mosaici del pavimento del peristilio. Anche qui le tracce di una scala fanno pensare ad un piano superiore.



CASA DEL TESORO

La” Casa de Tesoro” così chiamata perché l’archeologo che eseguiva gli scavi (P. A. Fevrier) nel 1957 trovò un piccolo tesoro in monete. Sull’ala settentrionale si apriva una serie di negozi che davano sul Cardo massimo.



IL FORO

Il Foro è poco visibile, ma la maggior parte delle statue in marmo di gran dimensione e dei monumenti epigrafici sono stati trovati in questa area; comunque gli si è dato il nome di “ Forum novum”.

Delle terme, alimentate da un grande acquedotto, rimangono pochi muri e tracce di volte, del II secolo d.c in epoca adrianea. Al periodo repubblicano invece risale ciò che rimane di un teatro che Cesare ricorda nel suo” De Bello Civili”.

Il poeta Nevo, in chiara opposizione ad un certo potere dominante e soprattutto alla gens Metella, In base alla legge delle XII tavole che puniva i mala carmina, nel 206 a.c. fu imprigionato in Roma, dove, dal carcere, scrisse due commedie con le quali faceva ammenda delle offese recate. Venne liberato grazie all'intervento dei tribuni della plebe, e la sua pena fu commutata in una condanna all'esilio: Nevio morì in Africa, e precisamente a Utica durante la seconda guerra punica attorno al 201 a.c.



IL TESORO DI CANOSCIO (Perugia)

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IL TESORO DI CANOSCIO - FIG. 1

IL TESORO DI CANOSCIO E LE ARGENTERIE ITALICHE DEL VI SECOLO 
Di Marco Aimone

"In un atto di donazione scritto all’inizio del VII secolo, il vescovo Desiderio di Auxerre († 621) elencava una lunga serie di oggetti da mensa in argento, suddividendoli fra la sua cattedrale e la chiesa di S. Germano: si trattava di vassoi, piatti, ciotole, brocche e cucchiai, per ognuno dei quali veniva specificato il peso, a volta ragguardevole, e spesso il soggetto dei motivi figurati incisi.

La ricorrenza su queste stoviglie di temi mitologici, forse esibiti con orgoglio sulla tavola di un prelato discendente da una nobile famiglia gallo-romana, dimostra la forza perdurante, nel regno merovingio, della cultura tradizionale greco-romana, una vitale eredità del mondo classico che, in quel caso, si esprimeva attraverso un supporto prediletto nel mondo tardoantico e protobizantino, quello delle argenterie.

Se questo metallo prezioso era stato elevato a simbolo del lusso domestico già nella Roma tardo repubblicana e alto imperiale, a partire dal IV secolo d.c. il suo uso era stato introdotto in due nuovi settori della vita pubblica, quello dei donativi ufficiali (largitiones) e quello delle suppellettili d’altare utilizzate nella liturgia cristiana (vasa sacra), un segno ulteriore della sua affermazione nella vita sociale e culturale del tempo".


Dal IV al VII l’Italia ha fornito vari tesori di argenterie, sia di uso domestico, che liturgico-cristiano e, in due soli casi, ufficiale (i missoria per il consolato di Aspar, datato al 434, e del sovrano vandalo Gelimero, re dal 530 al 534). 

Tuttavia, per l’Italia sono mancati fino ad ora studi generali, già condotti per altre regioni dell’antico Impero romano, che offrano un quadro interpretativo di questi peculiari materiali archeologici, in merito alle tipologie, alle datazioni, alle iconografie, ai centri di produzione, alla diffusione geografica e cronologica dei ritrovamenti; il riesame di uno dei più importanti complessi di argenterie riferibili ai secoli VI-VII, quello di Canoscio (Pg), ha offerto l’occasione per una più ampia riflessione sugli argenti rinvenuti nella penisola e riferibili al medesimo orizzonte cronologico".

IL GRANDE PIATTO - FIG. 3

 LA STORIA DEL TESORO

Il "Tesoro di Canoscio" designa un gruppo di argenterie scoperto, come di solito casualmente, il 12 luglio del 1935 a Canoscio, frazione di Città di Castello, in Umbria dal mezzadro Giovanni Tofanelli, che avendo informato altri del ritrovamento, procurò il sequestro della maggior parte dei manufatti, dopo soli quattro giorni, da parte dei Carabinieri Reali.

Inoltre i carabinieri ispezionando la buca nel campo, recuperarono vari frammenti d’argento, probabilmente appartenenti al grande piatto che copriva gli oggetti, gravemente danneggiato al momento della scoperta.

 Ma le cose non finirono qui, perchè ne seguì un complicato processo per stabilire a chi spettasse la proprietà, finchè nel 1940 il giudice l’assegnò allo Stato italiano e nel 1949 le argenterie furono definitivamente affidate in custodia alla diocesi di Città di Castello, per essere esposte nel locale Museo del Duomo, loro attuale sede (sala 1).

Viene da chiedersi come mai un tesoro italiano venga affidato a un museo straniero (Vaticano), che fa pagare 6 euro per visitarlo, dopo che lo stato stesso ha pagato i lavori per ampliare e praticamente fare da capo il museo.

Comunque tre manufatti erano sfuggiti ai Carabinieri: un cucchiaio, rimasto presso il santuario di Canoscio (sempre al Vaticano) e riunito alle altre argenterie solamente nel 1984 (cioè ancora al Vaticano); un secondo cucchiaio e un piatto iscritto con i nomi Aelianus et Felicitas, acquistati sul mercato antiquario e dal 1992 conservati presso il Bode Museum di Berlino. Ora vorremmo sapere chi li ha venduti al mercato antiquario, non certo gli scopritori perchè gli oggetti sarebbero già stati sequestrati.

L’alta qualità dei pezzi e le raffinate decorazioni a niello, a doratura o a paste vitree colorate, possono ricollegarsi al gusto prezioso ma piuttosto carico di Teodorico, che negli oggetti preziosi vedeva un forte elemento di prestigio per il proprio regno.

Il tesoro, che pesa quasi 16 kg, comprende 27 oggetti, quasi tutti integri, di cui 25 a Città di Castello e 2 a Berlino (quelli indebitamente venduti), oltre alla base di un piccolo piatto frammentario e a 34 minuscoli frammenti di pareti e orli, conservati a Città di Castello e assegnabili in massima parte al grande piatto danneggiato.

PIATTO - FIG. 5


LA COMPOSIZIONE

 - Due grandi piatti circolari (metà VI - inizio VII sec.) misurano rispettivamente 62 e 43,5 cm di diametro, ornati al centro da un tondo con iconografie simili: una croce gemmata fra agnelli, la manus Dei e una colomba in alto, i quattro fiumi del Paradiso sotto la croce.

LE COCHLEARIA  - FIG. 6
 - Altri tre piatti, (metà VI - inizio VII sec.) di dimensioni rispettivamente di 44, di 34 e di 25 cm, sono ornati al centro da corone d’alloro, due delle quali contengono una croce latina, mentre quello maggiore (frammentario) reca un’iscrizione di offerta al martire S. Agapito.

 - Un catino di 29 cm, (metà VI - inizio VII sec.), anch’esso ornato da una croce iscritta in una corona d’alloro. Sul suo uso si presume fosse offerto agli ospiti del banchetto colmo di acqua e petali di fiori per detergere le mani tra una portata e l'altra.

 - Due piatti di 16 cm ciascuno, con bordo rialzato e sagomato, che recano incisi e niellati sicuramente i nomi di due sposi, Aelianus et Felicitas (fine V inizi VI sec.), probabilmente un dono nuziale offerto a due sposi secondo l’uso dello scambio fra aristocratici di piccole argenterie, cui fa cenno Quinto Aurelio Simmaco in una sua lettera.

- Quattro coppe (fine V inizi VI sec.), tre dal profilo svasato e una di forma globulare con le superfici esterne solcate da costolature radiali: le tre più grandi erano chiuse da coperchi con manico, di cui solo due conservati. Sicuramente non servivano per bere ma per contenere condimenti e salse, non a caso avevano coperchi, e di cui i romani facevano ampio uso soprattutto nei banchetti.


- Dieci cucchiai del tipo a cochlear, (metà VI - inizio VII sec.) con piattello ellittico e manico sottile, suddiviso in quattro sottotipi caratterizzati da differenze formali secondarie: quello più riccamente decorato, del tipo Antiochia, è ornato sul piattello da un pesce reso con vivace gusto naturalistico. Si suppone che i differenti cochlearia fossero posate individuali che attraverso attraverso differenze formali e di peso, sottolineassero una certa gerarchia del simposio data da personaggi più o meno importanti.

- Un cucchiaio con profondo scodellino semisferico, del tipo a ligula con manico tornito e balaustrino terminale. I cucchiai dal grande piattello emisferico stranamente non hanno riscontri al di fuori della penisola, e possono essere datati entro la prima metà del VI sec.

 - Un colino (fine V secolo - inizio VII sec.) con piattello ellittico e manico ad anello terminante a collo di gru, probabilmente usato dagli inservienti coppieri per filtrare il vino nei bicchieri degli ospiti.

 - Un altro colino (sempre fine V secolo - inizio VII sec.)con profondo piattello semisferico, fori che compongono un disegno floreale e manico lavorato a tortiglione, anche questo probabilmente usato dagli inservienti coppieri per filtrare il vino nei bicchieri degli ospiti.

COLINO - FIG. 8

ARREDI SACRI O PROFANI

 Dato il gran numero di motivi cristiani presenti sugli oggetti, e la ricchezza del metallo, fece presupporre al loro primo editore, mons. Enrico Giovagnoli, che si trattasse di suppellettili per la liturgia eucaristica.

Con una certa fantasia propose per ciascun pezzo un nome latino e un uso nella celebrazione della messa, mentre sulle iscrizioni, ipotizzò un’origine africana legata ad un culto di martiri locali. L'interpretazione dovette piacere parecchio, perchè condizionò senza eccezioni, l’interpretazione dei tesori scoperti successivamente in Italia, quelli di Canicattini Bagni (1938), di S. Michele Maggiore di Pavia (1962) e di Classe (2005), considerati dai rispettivi editori tesori liturgici o comunque appartenuti a chiese, quasi che, nell’Italia di VI e VII secolo, non esistessero le argenterie domestiche.

LE QUATTRO COPPE - FIG. 4
Il che spiega perchè questo tesoro sia stato affidato alla chiesa e non allo stato nonostante l'esito del giudizio in tribunale. Dopo tre decenni di disinteresse per il tesoro di Canoscio, nel 1964 e nel 1972 gli studiosi Fritz Volbach e Joseph Engemann riconobbero che i simboli cristiani non erano pertinenti solo agli altari, poichè croci, pesci, agnelli e cristogrammi erano molto presenti anche sugli oggetti di uso domestico e quotidiano.

Viene peraltro da rimarcare che dal tesoro umbro sono assenti sia calici che patene, presenti invece nei tesori effettivamente liturgici, come quello di Galognano, l’unico di questo genere finora scoperto in Italia. Al contrario, i tre grandi piatti hanno il profilo caratteristico dei missoria da mensa, con fondo concavo (lances) e con fondo piano (missoria plana), che servivano per imbandire sulle mense tipi diversi di carne e di pesce, (come riportato del De re coquinaria) attestati poi da numerosi esemplari nei tesori di Kaiseraugst, Cesena, Mildenhall e Sevso (metà-fine del IV sec.). 

L’occultamento del tesoro deve essere avvenuto nel corso del VII secolo, forse in seguito alle guerre che, per più decenni, coinvolsero Bizantini e Longobardi, in lotta per il possesso dei centri fortificati lungo il famoso percorso a corridoio che collegava Roma a Ravenna attraverso gli Appennini Tutto ciò fa supporre una sopravvivenza fino alla fine del VI secolo della tradizione del simposio romano, dove la produzione di pregiate stoviglie domestiche continuò almeno fino alla metà del VII secolo.

SALUS PUBLICA POPULI ROMANI, CONCORDIA ET PAX (30 Marzo)

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SALUS AUGUSTA

Per ordine di Augusto, nel 10 a.c. si celebrò ogni anno nell'Impero la Salus Publica Populi Romani, Concordia et Pax, divinità personificazioni della salvezza dello Stato romano, della concordia dei cittadini e della pace.

A tal uopo l'imperatore fece erigere un altare sul quale si svolgeva ogni anno questa celebrazione, ma esisteva una statua della Salus nel tempio della Concordia a Roma. La Dea Salus era stata soprattutto la Dea della salute personale e privata, ma con Augusto divenne la salus pubblica, cioè del popolo romano. I romani avevano già Igea come Dea della salute che però era greca, trasformata in Egeria, antica Dea italica.

Ma nella religione romana la Salus divenne la Valetudo, divinità della salute personale, derivante dalla divinità greca di Igea. Da essa venne il saluto Vale, cioè "Stai bene". Benché fosse una divinità minore, come del resto la Salus Publica Populi Romani, Valetudo ebbe un suo tempio a lei dedicato sul colle del Quirinale (inaugurato nel 302 a.c.).

Attorno al 180 a.c. vennero iniziati i primi sacrifici in onore della Dea Salus, unitamente al Dio Apollo ed Esculapio, considerati Dei della medicina. 



L'IMMAGINE

- La Dea Salus era spesso rappresentata seduta con le gambe incrociate, come del resto la Dea Securitas) ed il gomito appoggiato sul bracciolo di un trono. 
- In genere teneva nella destra teneva una patera per alimentare un serpente, che era avvolto intorno ad un altare. 
- A volte il serpente veniva rappresentato eretto ma con la testa nella patera.
- A volte la mano della divinità veniva rappresentata aperta e vuota, nell’atto di fare un gesto.
- Oppure la mano destra sollevava una figura più piccola femminile.
- Oppure non c'era l'altare, ed il serpente era avvolto attorno al braccio del suo trono.
- Oppure la Salus aveva una verga nella mano sinistra, con un serpente attorcigliato intorno ad esso.
- Oppure veniva rappresentata con un timone nella mano sinistra, per il suo ruolo nel guidare saggiamente l'imperatore.
Più tardi, la Salus fu rappresentata in piedi, ma che dava da mangiare serpente. 

Quest'ultima divenne la posa più comune nel periodo imperiale: Salus in piedi che afferra saldamente il serpente sotto il braccio, orientandolo verso il cibo che porge su un piatto nell'altra mano.



IL TEMPIO DELLA CONCORDIA

Il Tempio della Concordia era posto all'estremità occidentale del Foro Romano, presso il tempio di Vespasiano e Tito e posteriormente poggiato sul Tabularium. Così infatti è rappresentata in un frammento della Forma Urbis severiana, dove è raffigurato col vicino tempio di Saturno.

Venne iniziato nel 367 a.c. da Lucio Furio Camillo, per commemorare la riconciliazione tra patrizi e plebei, e ricostruito nel 121 a.c. da Lucio Opimio per ripristinare l'armonia dopo l'orribile omicidio dei Gracchi. Nel 211 a.c., la statua della Vittoria, posta nel punto più alto del tempio, venne colpita e abbattuta da un fulmine e restò ancorata alle antefisse piccole Vittorie,  senza cadere dal tetto.

Durante il regno di Augusto venne di nuovo restaurato da Tiberio tra il 7 a.c. e il 10 d.c., come scrive infatti Svetonio:
« Dedicavit et Concordiae aedem, item Pollucis et Castoris suo fratrisque nomine de manubiis.»
« Con il ricavato del bottino di guerra restaurò il tempio dedicato alla Concordia, così come fece per quello di Castore e Polluce, a nome proprio e di suo fratello. »
(Gaio Svetonio Tranquillo, De vita Caesarum , Tiberio,20)

Notevole divenne il tempio per l'opulenza dei marmi, per i ricchi ornamenti architettonici per le statue greche, e i magnifici dipinti, si che Plinio il Vecchio ci ha tramandato un vero e proprio catalogo delle opere, soprattutto statue greche di epoca ellenistica. A questo rifacimento risale la cella, che forse venne ingrandita sfruttando lo spazio della demolita basilica Opimia, che da allora non è più ricordata.

IL TEMPIO DELLA CONCORDIA

ROBERTO LANCIANI

Il Tempio della Concordia, enfaticamente lodato da Plinio, fu costruito da Camillo ai piedi del Campidoglio e restaurato da Tiberio e Settimio Severo, era ancora in piedi al tempo di Papa Adriano I (772-795), quando l’iscrizione sulla sua facciata fu copiata per l’ultima volta dall’Einsiedlensis. Fu raso al suolo intorno al 1450. "Quando ho fatto la mia prima visita a Roma," racconta Poggio Bracciolini, "ho visto il tempio della Concordia quasi intatto (aedem fere integram), costruito con marmo bianco”. Da allora i Romani hanno demolito la struttura trasformandola in una fornace per calce.

La cella conteneva una nicchia centrale e dieci ai lati, nelle quali erano conservati capolavori di artisti greci, quali:
- L’Apollo e Hero, di Baton;
- Leto che nutre Apollo e Artemide, di Euphranor;
- Asklepios e Hygieia, di Nikeratos;
- Ares ed Hermes, di Piston;
- Zeus, Atena e Demetra, di Sthennis.
- Il nome dello scultore della statua della Concordia nell’abside è ignoto.
- Plinio parla anche di un dipinto di Theodoros che riproduceva Cassandra;
- di quattro elefanti scolpiti in ossidiana, un miracolo di abilità e arte,
- e di una collezione di pietre preziose, tra cui c’era il sardonice incastonato nel
leggendario anello di Policrate di Samo.



LA FESTA

Macrobio scrive che anticamente chiunque invocasse la Salus e pertanto la Dea, aveva già assolto ai doveri della festa, cioè aveva onorato gli Dei, il che dà la misura dell'importanza di questa Dea, ma il dovere era soprattutto di interrompere il lavoro per onorare la festa. Dunque per invocare la salute occorreva interrompere di lavorare con conseguente danno economico.

DEA SALUS
Ora trattandosi di Salute Pubblica, quindi di Res Pubblica, la festa era doverosa, tanto più che includeva Concordia e Pax, cioè la concordia e la pace tra i cittadini, cioè soprattutto il superamento del perpetuo dissidio tra patrizi e plebei.

Il cittadino che non ottemperava a questa festa poteva essere guardato come un traditore, per cui gli uomini insigni, e soprattutto quelli che aspiravano alla carriera politica, facevano a gara per partecipare e mettersi in mostra, magari elargendo doni al popolo intervenuto, come vino e monete.

Trattandosi di una festa pubblica essa prevedeva sacrifici cruenti e l'opera dei sacerdoti flamines. In genere si sacrificavano dei buoi e si allestiva un banchetto pubblico dove si arrostivano le carni e si distribuivano al popolo insieme ai cosiddetti "vini fiascali" cioè vino gratuito per il popolo.

I templi della Salus, della Concordia e della Pax venivano ornati con ghirlande di fiori e rami d'ulivo, i quali rami venivano pure portati in processione da ciascun tempio, finchè non si riunivano tutte e tre davanti all'ara della Salus Pubblica dove venivano recitate le preghiere e dove il popolo partecipava facendo promesse di concordia tra cittadini. Qui senatori e tribuni si salutavano cordialmente e il popolo dimenticava i propri rancori, o almeno così doveva essere.

LUCIO MUNAZIO PLANCO - L. MUNATIUS PLANCUS

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MUNATIUS PLANCTUS


Nome: Lucius Munatius Plancus
Nascita: 90 a.c., Tivoli o Atina
Morte: 1 a.c., Gaeta
Consolato: 42 a.C.

Lucius Munatius Plancus; Tivoli o Atina, 90 a.c. – Gaeta, 1 d.c. Nell'immagine scultorea compare come un uomo di mezza età con sintomi di emiplegia sulle pieghe nasolabiali.

«Lucio Munazio Planco, figlio di Lucio, nipote di Lucio, pronipote di Lucio, console, censore, comandante militare vittorioso per due volte, uno dei Septemviri epulones, trionfatore dei Reti, costruì col suo bottino il Tempio di Saturno, divise i campi in Italia a Benevento, fondò in Gallia le colonie di Lugdunum e Raurica»
(testo scritto sulla lapide dedicatoria posta sulla porta del suo Mausoleo in Gaeta)

Lucius nacque da una famiglia di cavalieri presso Tivoli od Atina (una delle 5 leggendarie città saturnie, fondate cioè dal Dio Saturno: Alatri, Anagni, Arpino, Atina e Ferentino, detta Antino). Divenne console nel 42 a.c., assieme al triumviro Marco Emilio Lepido, e censore nel 22 a.c. con Lucio Emilio Lepido, che era stato Console suffetto nel 34 a.c.
Ottenne l'imperium per due volte, fu dux, prefetto dell'Urbe, legatus pro praetore e fondò due colonie romane: le attuali città di Lione in Francia e di Augst (Augusta Raurica) presso Basilea in Svizzera. Alcuni pensano che Planco nella sua vita politica cercò solo di sopravvivere, cambiando bandiera come girava il vento. In realtà Planco fu sempre fedele a Roma, scegliendo ogni volta la fazione che riteneva potesse fare meglio gli interessi della Repubblica o Impero che fosse.



IL CESARIANO

Fu legatus al seguito di Gaio Giulio Cesare durante le campagne militari per la conquista delle Gallie e lo seguì pure durante la guerra civile, attraversando al suo fianco il fiume Rubicone. Ma fu tanto valido discepolo di Cesare divenendo un valente comandante, quanto un valido discepolo di Marco Tullio Cicerone diventando un valido oratore.
Giulio Cesare lo inviò in Spagna nel 49 a.c. insieme a Gaio Fabio, per poi raggiungerli poco dopo ed intraprendere insieme una vittoriosa campagna militare. Nel 46 a.c. Cesare, dopo essere stato nominato dittatore decennale l'anno precedente, lo nomina praefectus urbi. L'evento è ricordato da una moneta, un aureo: al diritto è rappresentata la vittoria con la scritta 
C CAES DIC TER 
ed al rovescio una brocca con la scritta 
L. PLANC PRAEF. VRB.



IL REPUBBLICANO

Nel 45 a.c. Cesare gli conferisce il governo della Gallia. L'anno successivo Cesare muore assassinato e Cicerone gli fa giurare fedeltà alla Repubblica. La Repubblica c'è sempre stata, Cesare era solo un dictator, esattamente come Silla, ma di quest'ultimo nessuno si lamentava. La repubblica cadrà con Augusto, ma Cesare non ebbe mai l'imperior.

Planco rimane fedele a Cesare, e pure Lepido, governatore della Gallia Narbonense. Il Senato chiede loro di combattere Marco Antonio in Italia, ma dopo che il luogotenente di Lepido, Silano, si è unito alle legioni di Marco Antonio, questi cambia idea ed impone a Lepido e Planco di rimanere in Gallia e di fondare una città per i profughi cacciati da Vienne dagli Allobrogi. I profughi romani si erano accampati al confluente del Rodano e dell'Arar e così Planco fonda sul colle lì vicino la colonia di Lugudunum.

Così nel 43 a.c. il Senato Romano, su proposta di Cicerone, gli affidò l'incarico di fondare una colonia nella Gallia, che prese il nome di Lugdunum, e lui ne tracciò personalmente i confini con un aratro, evento commemorato da apposita moneta. Poi fondò un'altra colonia romana, Augusta Raurica, che prenderà poi il nome di Augst presso Basilea. Nel giugno dello stesso anno, una lettera di Lucio Munazio Planco a Cicerone testimonia da allora l'esistenza del villaggio romano-gallico di Cularo, in seguito ribattezzato Gratianopolis. nelle Alpi francesi (odierna Grenoble).



FEDELE AL I TRIUNVIRATO

Intanto a Roma il triunvirato di Ottaviano, Marco Antonio e Marco Emilio Lepido si era attivato per dividersi un potere informale, e Munazio Planco, che rivedeva in questo il triunvirato di Cesare, si schierò dalla loro parte. Essere fedeli al triunvirato era come essere ancora fedeli a Cesare. I triumviri decisero di disfarsi dei loro nemici e crearono le liste di proscrizione, tra cui Cicerone, che venne ucciso dai sicari di Marco Antonio presso Formia, Gaio Plozio Planco, fratello di Lucio Munazio Planco, e Paolo Lepido, fratello di Emilio Lepido.

Dopo la vittoria di Filippi il triunvirato, pago della fedeltà e del valore di Planco, gli affidò il delicato e ingrato compito di espropriare le terre di Benevento per darle in premio ai veterani. Espropriare le terre ai nobili significava farsi molti nemici, oppure farsi corrompere facendo molto denaro, ma Munazio si comportò correttamente come al solito. Anzi nell'operazione rischiò la vita, ma un certo Calpurnio, vessillifer della I legione in Germania all'adesione di Tiberio nel 14 d.c., che impedì ai soldati di Germanico di uccidere Munazio Plancus, inviato del senato.

ANTONIO E OTTAVIANO X IL II TRIUNVIRATO

FEDELE AL II TRIUNVIRATO 

Munazio Planco fu fedele al II Tiunvirato come lo fu al I, perchè in realtà parteggiava per Ottaviano, l'erede del tanto ammirato Cesare. Intanto Quinto Labieno, figlio di Tito Labieno e fedele ai cesaricidi, si schierò con la Partia contro il Secondo triumvirato nel 40 a.c.; l'anno successivo invase la Siria insieme a Pacoro I.
Il triumviro Marco Antonio non fu in grado di condurre la difesa romana contro la Partia perchè molte delle sue forze erano state inviate in Italia per scontrarsi con il rivale Ottaviano, con cui invece condusse negoziazioni a Brindisi. Lucio Munazio comatteva per Antonio come componente del II Triunvirato, valente generale molto stimato da Cesare che ricordava compagno di battaglie.

Nel 36 a.c. Munazio si trovò dunque al fianco di Marco Antonio nella campagna militare contro i Parti, che ebbe però un esito disastroso per i Romani, e si ritirò ad Alessandria d'Egitto, ma qualche mese dopo venne richiamato e gli venne affidato l'incarico di governatore della Siria. Lucio Munazio Planco aveva un'ottima amicizia con Marco Antonio, che era stato d'altronde un valente generale e seguace di Cesare, ma le continue richieste di Cleopatra la misero in dubbio fino ad incrinarla, e Lucio Munazio Planco iniziò a credere che Marco Antonio non stesse più facendo gli interessi di Roma ma quelli di Cleopatra. 
Da fedele generale romano partì con i suoi alla volta di Roma e qui giunto riferì a Ottaviano che Marco Antonio era diventato succube di Cleopatra intestandole il suo testamento. Ottaviano, desideroso di sbarazzarsi del potente rivale, capì che con quel testamento in mano avrebbe vinto le ultime perplessità del Senato Romano per portare una guerra in terra d'Egitto contro Marco Antonio, e, sapendo che era custodito presso le Vestali, chiese loro di consegnarglielo.
MAUDOLEO DI LUCIO MUNAZIO PLANCO
SUL MONTE ORLANDO A GAETA
Era una cosa che le Vestali non erano tenute a fare, ma come all'epoca avevano avuto un debole per Cesare, ora lo avevano per il suo figlio adottivo e glielo consegnarono. Così Ottaviano potè leggerlo in Senato e convincere i senatori che le accuse che muoveva verso Antonio non erano infondate.

Lucio Munazio Planco amò tanto Gaeta da possedere nel suo territorio una splendida villa di cui restano solo dei ruderi e da volervi essere sepolto in un grande mausoleo, posto in cima al Monte Orlando e molto ben conservato. 
Al suo interno è presente una copia della statua del cosiddetto "generale di Tivoli", perché trovata nel santuario tiburtino di Ercole Vincitore, che sicuramente raffigura Munazio Planco. Lo conferma la fedeltà all'originale della ritrattistica romana. Nel testamento che Marco Antonio ingenuamente aveva lasciato a Roma, disponeva che alcune terre dei domini romani fossero assegnati ai figli di Cleopatra e che le sue spoglie fossero consegnate alla regina egizia per provvedere alla sua sepoltura in Alessandria d'Egitto.

Che Antonio si divagasse con le regine straniere o quali fossero non contava ma che ciò venisse prima dell'attaccamento alla patria romana era un delitto imperdonabile. A questo punto il tradimento era evidente e il Senato autorizzò Ottaviano a muovere guerra contro Marco Antonio, e Lucio combattè con lui.

La guerra terminò con la vittoria di Ottaviano ad Azio nel 31 a.c. e il senato era tutto dalla sua parte. nel 27 a.c., durante una discussione in Senato a proposito di quale appellativo dare ad Ottaviano per onorarlo, fu Lucio Munazio Planco a proporre il titolo di Augustus, in seguito assunto da tutti i successori di Ottaviano.
Gli scultori nei ritratti non facevano sconti a nessuno, neppure agli imperatori e ritreavano ciascuno con le sue imperfezioni. Nel viso del personaggio compaiono i segni di una evidente emiplegia, un deficit motorio (una paralisi) di metà del corpo, dovuto a un danno cerebrale controlaterale. 
La causa è un danno cerebrale che comporta vari malesseri, come irrigidimento e rattrappimento degli arti, piaghe da decubito, grande debolezza muscolare, difficoltà a parlare ecc. Quel che sappiamo è che l'ottimo generale, afflitto da mali e stanco di sopportarli, si suicidò.
Nelle città di Gaeta, Frosinone, Tivoli e Benevento vi è a tutt'oggi una via è a lui dedicata, mentre ad Atina è il corso ad essere intitolato a lui.

DUE DOMUS - PALAZZO VALENTINI

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RICOSTRUZIONE DEGLI INTERNI DELLA DOMUS
"Gli scavi archeologici nel sottosuolo di Palazzo Valentini dal 16 ottobre 2010 sono un'esposizione permanente, che arricchisce il patrimonio storico artistico di Roma con l'area archeologica delle Domus Romane. Palazzo Valentini, sede della Provincia di Roma dal 1873, fu edificato a partire dal 1585 dal cardinale Michele Bonelli, nipote di papa Pio V".

"Nel XVII secolo fu sottoposto ad una serie di lavori di ristrutturazione ed ampliamento, eseguiti su incarico del cardinale Carlo Bonelli e di Michele Ferdinando Bonelli".

RICOSTRUZIONE
"Il palazzo venne poi parzialmente demolito e ricostruito da Francesco Peparelli per il nuovo proprietario, il cardinale Renato Imperiali, che vi sistemò l'importante biblioteca di famiglia (la biblioteca ‘Imperiali’) composta di circa 24.000 volumi".

"Agli inizi del XVIII secolo, il palazzo venne affittato a diversi personaggi di rilievo, tra i quali il marchese Francesco Maria Ruspoli, che vi abitò tra il 1705 ed il 1713, facendone la sede di un teatro privato".

RICOSTRUZIONE
"L'intera costruzione venne poi acquistata dal cardinale Giuseppe Spinelli nel 1752, che sistemò al pianterreno la biblioteca Imperiali, destinata alla fruizione pubblica e frequentata anche da Johann Joachim Winckelmann".

RICOSTRUZIONE
"Nel 1827 il banchiere e console generale prussiano Vincenzo Valentini acquistò il palazzo, vi stabilì la propria dimora e diede ad esso il suo nome".

"Ora il museo multimediale è un originale incontro fra antichità e innovazione".

"Il suggestivo percorso tra i resti di “Domus” patrizie di età imperiale, appartenenti a potenti famiglie dell’epoca, con mosaici, pareti decorate, pavimenti policromi, basolati e altri reperti, è stato supportato da un intervento di valorizzazione curato da Piero Angela e da un’équipe di tecnici ed esperti, quali Paco Lanciano e Gaetano Capasso, che hanno ridato vita alle testimonianze del passato attraverso ricostruzioni virtuali, effetti grafici e filmati".

RICOSTRUZIONE
"Il visitatore vede “rinascere” strutture murarie, ambienti, peristilii, cucine, terme, decorazioni e arredi, compiendo un viaggio virtuale dentro una grande Domus dell’antica Roma".

"Del percorso fa parte un grande plastico ricostruttivo dell’area in età romana e delle varie fasi di Palazzo Valentini, grazie al quale il visitatore può ricollocarsi all’interno del contesto urbano attraverso le sue numerose stratificazioni storiche".

"A partire dal 7 dicembre 2011 l’area archeologica e il suo percorso museale si sono arricchiti di un nuovo e significativo settore".

"Nei sotterranei prospicienti la Colonna Traiana il visitatore può ammirare i resti di un monumentale edificio pubblico o sacro:

RITROVAMENTI DI STATUE
una possente platea in opera cementizia, setti murari in grandi blocchi di travertino e peperino, fusti di colossali colonne monolitiche in GRANITO GRIGIO EGIZIANO, LE PIÙ GRANDI MESSE IN OPERA NELL’ANTICHITÀ ROMANA, AMBIENTI SEMINTERRATI CON MURI IN OPERA LATERIZIA E VOLTE A CROCIERA RIBASSATA, DATABILI, IN BASE AI BOLLI LATERIZI, NELLA PRIMA ETÀ ADRIANEA".

Queste strutture, sepolte da secoli, sono state riportate alla luce in Via IV Novembre, nel cuore del centro storico di Roma, non lontano da Piazza Venezia.

Trattasi di due ville romane di epoca imperiale e di grande bellezza.

Il traffico fu un problema anche al tempo degli antichi romani, in una città che contava in media un milione di abitanti.

"Ecco perché i Romani costruirono case a più piani", ha detto Antonello Lumacone un archeologo che ha lavorato allo scavo del sito antico sotto il Palazzo Valentini, avere pertanto delle domus e non un appartamento nelle insule al centro di Roma significava possedere molta ricchezza.

"La parte video della ricostruzione mostra, tanto per dare un'idea del mondo romano dell'Urbe, una folla in festa con scene di centurioni vittoriosi, uno scorcio di un mercato del cibo trafficatissimo, colorato e caotico, una rapina in un vicolo poco illuminato, ma pure i giochi dei bimbi che correvano nella vasta villa romana".



VISTA SULLA COLONNA TRAIANA

Le due ville, che misurano circa 20.000 piedi, erano locate presso il Foro Traiano, zona anche allora di grande prestigio.
Nella ricostruzione virtuale, si apre una finestra con vista sulla colonna traiana. Non altrimenti doveva essere per la villa, dotata certamente di varie finestre, e non poteva mancare quella su uno dei maggiori capolavori dell'epoca traiana.

Per chi pensasse che all'epoca non ci fosse a Roma una cultura media disposta ad apprezzare certe opere artistiche sbaglia di grosso.

Il popolo romano vantava una cultura unica, perchè esistevano anzitutto scuole per tutte le tasche.

Le scuole private si avvalevano di una stanza con un insegnante che a volte si contentava anche di poco perchè la concorrenza degli altri insegnanti era forte.

Pertanto alcuni alunni se la cavavano portando al maestro i prodotti dell'orto o i formaggi, olive, vino ecc.

Inoltre esistevano pure le scuole pubbliche perchè gli imperatori ci tenevano che gli abitanti di Roma parlassero latino e si amalgamassero anzinchè costituire isole a parte.

Ma c'è di più perchè anche gli schiavi studiavano, anche perchè conveniva ai padroni che potevano incaricarli di qualsiasi incombenza e lavoro. Ne complesso della reggia di Caligola esisteva infatti la scuola per i figli degli schiavi.

Pertanto la zona della colonna traiana ricca di splendidi edifici non poteva che essere vanto per i proprietari delle due ricche ville e senz'altro l'avranno mostrate orgogliosamente agli ospiti.



L'EFFETTO CRISTALLO

Come si vede in foto, la mostra è munita di uno strano pavimento di cristallo di altissimo spessore sostenuto da travi e travicelli di metallo.

cristallo per pavimento
Questo pavimento fa uno strano effetto perchè sembra di essere sospesi dal suolo.

L'impatto è notevole per cui nel primo tratto la distanza tra il cristallo e il suolo è di circa mezzo metro per aumentare poi nelle stanze successive.

Il sistema permette di vedere le stanze dall'alto senza dover annaspare tra le macerie, inconveniente che in genere si ovvia creando una passerella a ponte di ferro che tuttavia toglie una parte della visuale.

Questo pavimento invisibile invece permette di assistere alla proiezione su pavimenti e pareti di come la stanza doveva essere, desunta puntigliosamente dai residui di pavimenti e pitture trovate in loco e riprodotte con assoluta fedeltà.

PIANTA DEL COMPLESSO

Un lavoro di ricostruzione da certosino, arricchito spesso da suoni e musiche, si che pare di assistere dall'alto direttamente alla scena sia delle stanze sia di alcuni scorci della Roma di allora.

Non mancano nella domus i passi concitati dei bambini, le loro risate e le voci degli adulti che li chiamano. Insomma una vita ricca e felice, in uno scenario di arte e bellezza unico al mondo.

"Lungo le camere monumentali, gli archeologi hanno trovato i resti di un edificio termale destinato ad incontri privati ​​dal III secolo, ora visibile sotto il vetro d'un immenso pavimento. Altri resti, tra cui le statue di un senatore e un giovane, datati al II secolo dc."

"Alla fine del tour, i visitatori si riversano nel Foro di Traiano, attraverso una serie di gallerie e rifugi anti aerei risalenti al 1939".


GLI SCONGIURI ROMANI

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FALLI CONTRO IL MALOCCHIO
I romani furono un popolo molto religioso e molto superstizioso, le due cose andavano d'accordo perchè un culto non si opponeva all'altro, ognuno era libero di credere a ciò che voleva. Scrive Plinio il Vecchio: “Secondo molti autori le formule hanno la facoltà di cambiare il corso di grandi avvenimenti stabiliti dal fato ed annunciati dai presagi”.

Solo i non credenti, escludendo ogni intervento provvidenziale della divinità nella vita dell’uomo, negavano il presagio e si facevano beffe delle superstizioni, incorrendo perciò nei dovuti pericoli.
Ma ciò che noi chiamiamo superstizione era in realtà religione, è come se un'altra religione criticasse un cattolico perchè ogni mattina rivolge le sue preghiere al suo Dio, giudicandolo superstizioso perchè ritiene che se prega tutto andrà meglio.

I romani si raccomandavano agli Dei, in realtà con poco fanatismo, perchè la preghiera rivolta agli Dei era un riconoscerli e onorarli, ma senza svilire o calpestare se stessi, non si sentivano i servi degli Dei, ma coloro che avevano facoltà di onorarli e di ottenere cose da loro. Diciamo che più che pregare i romani nel quotidiano facevano scongiuri, cioè impedivano o credevano di impedire che un altro umano, o qualche spirito poco amichevole potessero giocargli un brutto tiro portandogli sfortuna, cioè facendolo incappare in eventi sfortunati.

I romani avevano anche un'idea della superstizione, per esempio Cicerone nel De Natura Deorum, chiama superstizioso chi sacrifica agli dei o prega ossessivamente affinchè i figli gli sopravvivano. Dal che il termine superstizioso sarebbe connesso al verbo superstare, cioè sopravvivere. Viene da pensare che Cicerone abbia sicuramente pregato per la sopravvivenza dell'amatissima figlia Tullia morta di parto, e che deluso del risultato abbia decretato che fosse stolido pretendere di forzare gli Dei a salvare la vita dei propri figli.



LE FORMULE

- ( 1 ) - “EPHESIA GRAMMATA” (parole di Efeso), sono una formula a scopo propiziatorio e soprattutto apotropaico, le cui parole sono :

AΣKION KATAΣKION AIΞ TETPAΞ ΔAMNAMENEΥΣ AIΣIA . Secondo le principali fonti (Plutarco, Pausania, Clemente di Alessandria, Esichio) esse si chiamano così perché sarebbero state inscritte nel simulacro arcaico, sulla cintura e/o sul copricapo, della Dea Artemide venerato ad Efeso, uno “xoanon”, una statua di legno dai tratti sommari poi sostituito da una seconda e una terza immagine, di pregevole fattura artistica collocata nel grandioso santuario costruito a partire dal 560 a.c.

ARTEMIDE EFESINA
- ( 2 ) - Uno degli scongiuri più conosciuto e usato a Roma, era “Abracadabra”, del principio del III secolo, facente parte del “Liber Medicinalis”, di Quinto Sereno Sammonico, letterato, medico ed erudito, possessore di una biblioteca di ben 62.000 volumi, che Elio Sparziano narra venne fatto assassinare dall’imperatore Caracalla.

Per la cura "dell'hemitritaeus”, cioè la malaria,  Sammònico prescrive una formula magica:

Mortiferum magis est quod Graecis hemitritaeos
Vulgatur verbis; hoc nostra dicere lingua
Non potuere ulli, puto, nec volvere parentes.
Inscribes chartae quod dicitur ABRACADABRA
Saepius et subter repetes, sed detrahe summam
Et magis atque magis desint elementa figuris
Singula, quae semper rapies, et cetera figes
Donec in angustum redigatur littera conum:
His lino nexis collun redimire memento
”.

“Più mortale è ciò che volgarmente con parola greca
si dice “hemitriteo” che gli avi
non poterono né, credo, vollero tradurre nella nostra lingua
Si scriva su una carta la formula ABRACADABRA
e la si riscriva più volte andando verso il basso
ma avendo cura di detrarre ogni volta la lettera finale
fino a che rimanga una sola lettera
a terminare una figura a forma di stretto cono.
Ricordati di cingere al collo il foglietto con un filo di lino”.

In aggiunta Simmaco consiglia:

- il grasso di leone,
- indossare una collana di coralli, a cui si alternino autentici smeraldi, 
- una perla di superiore qualità, preziosa per il niveo candore,
con tali potenti mezzi si allontanerà al più presto il letale morbo. Si direbbe che i consigli di Simmaco riguardassero solo i ricchi, visto che si parlava di gemme preziose. Ma detto scongiuro fu usato in vari modi.

La formula ABRACADABRA si ritrova poi in età medioevale inscritta o incisa su medaglie coniate in “elettro magico”, cioè una lega di sette metalli, secondo la descrizione di Paracelso:
- 10 parti di oro;
- 10 parti di argento;
- 5 parti di rame;
- 5 parti di ferro;
- 2 parti di stagno;
- 2 parti di piombo;
- 1 parte di mercurio.
fondendo durante una congiunzione planetaria di Mercurio e di Saturno.

- ( 3 ) - Un'altra formula di scongiuro largamente usata a Roma fu: ARSE VERSE.

Questa formula di origine preromana veniva scritta sulle porte della case per scongiurare gli eventi infausti che avessero potuto colpire l’edificio e soprattutto contro gli incendi. Si ritiene derivasse dall’etrusco, con il significato di “allontana il fuoco”

Il grammatico romano S. Pompeo Festo (II sec. d.c.), nel I libro del “De verborum significatione” scrive:
“Arse verse: “averte ignem” significat: Tuscorum lingua enim VERS “averte”,
ARSE “ignem” constat appellari.
Unde Afranius ait: inscribat aliquis in ostio: VERSE ARSE”
(“arse vers = allontana il fuoco. In etrusco  “vers” vuol dire “scaccia, allontana”, mentre “arse” è chiamato il fuoco).
Pertanto Afranio dice: “Si scriva ARSE VERSE sulla porta”.

Tuttavia già dall’800 si è ritenuto derivasse dal latino “arse” connesso con “arceo, arcere”, allontanare, separare, difendersi da; “verse” con “ferveo, fervere”, ribollire.

LUCERNA APOTROPAICA
- ( 4 ) - Un’altra interessante testimonianza in ambito latino di formule incantatorie si riscontra nel “De agri cultura” di Catone il Vecchio, opera nella quale, accanto ai consigli in materia di agricoltura, allevamento del bestiame ed economia domestica, sono ricordate anche alcune ricette mediche (De A. C., CLX):

“Luxum si quod est, hac cantatione sanum fiet. Harundinem prehende tibi viridem pedes quattuor aut quinque longa, mediam diffinde et duo homines teneant ad coxendices. Incipe cantare:

MOTAS VAETA DARIES DARDARES ASTARIES DISSUNAPITER, usque dum coeant. Ferrum insuper iactato. Ubi coierint et altera alteram tetigerint, id manu prehende et dextera sinistra praecide, ad luxum aut ad fracturam alliga: sanum fiet. Et tamen cotidie cantato [et luxato] vel hoc modo: HUAT HAUT HAUT ISTASIS TARSIS ARDANNABOU DANNAUSTRA”

(“Se qualcuno ha una lussazione, con questo incantesimo guarirà. si prenda una canna verde lunga 4 o 5 piedi, circa un metro e mezzo, e la si tagli a metà. Due uomini tengano ciascuno una delle due parti all’altezza della anche e comincino a cantare [o a recitare]: Motas vaeta…ecc. fino a che non le abbiano riunite. Si agiti una lama di ferro al di sopra di esse: non appena le due metà della canna sono perfettamente ricongiunte, tagliatene via un pezzo da ciascuna estremità, la parte destra con la sinistra e viceversa, dopo di che legatele alle membra lussate o fratturate. Ripete poi tutti i giorni la medesima formula o la seguente: Huat haut… ecc.”).
PICCOLO GLADIO PORTAFORTUNA
Delle formule indicate nei codici compaiono però anche altre versioni:

“Moetas vaeta daries dardaries asiadarides una petes” della prima;
“Huat hauat huat pista sista dannabo dannaustra”,
“Huat hanat huat ista pista sista domiabo damnaustra”,
“Huat haut haut ista sis tar sis ardannabon dunnaustra”.

Queste differenti versioni deriverebbero dalla trasmissione dei testi nei codici dove anche le parole più semplici e chiare potevano essere involontariamente alterate o cambiate, tanto più che non esistendo in pratica negli scritti antichi e medioevali una vera punteggiatura, né spazi o intervalli tra parole, ed essendo la scrittura complicata da abbreviazioni e sostituzioni di lettere, gli errori erano molto frequenti; soprattutto trattandosi di parole prive di evidente significato.

Come si può facilmente capire, in effetti il rimedio di Catone non è altro che una steccatura dell’arto fratturato o lussato, alla quale però le “parole magiche” pronunciate, danno un valore in più, un aspetto placebo e quindi un aiuto nella guarigione.

Sulla composizione delle formule vi sono diverse ipotesi. Si è supposta una derivazione da voci osche, umbre, greche, celtiche, e fenice, pervenute nell’antico Lazio. Ma è più probabile che queste parole siano forme arcaiche, poi alterate foneticamente e iscritte nell’uso magico-terapeutico, di termini latini:

- “Motas vaeta” dovrebbe significare “mota sueta”, ovvero “movimenti abituali”;
- “daries dardaries, ecc.” potrebbero essere forme del verbo “dare”;
- “dissunapiter” sarebbe una contrazione deformata di “des una petes”, supposizione confermata dal fatto che in alcuni codici si tramanda pure una lezione “una petes”.

Cioè:
 “Con il consueto movimento [lo steccare l'arto]
dai e nello stesso tempo chiedi [doni cura e chiedi magicamente]”.

Sulla seconda formula:
- “Huat” e “haut” sarebbero deformazioni del saluto “(h)ave” (verbo “(h)avere);
- oppure una variante di “haud”, “non”.
- “Istasis” potrebbe essere una contrazione di “instans sis” = “stai fermo”,
- “tarsis” dal greco “tarsos”, osso del piede;
- “sista” (e “pista”) imperativo di “sisto, - ere”, fermarsi.
- “Ardannabou (o “ardannabon”) dannaustra” da “Damnameneus”, la quinta delle “Ephesia grammata”;
- oppure una trasformazione, attraverso una forma arcaico-volgare “ast dannabo danna ustra”, di “at damnabo damna vestra” = “io neutralizzerò i vostri danni”.

Quindi:
- “Vai, vai, vai, stai fermo [riferito al male causato dalla frattura]
- e io con codeste [le stecche per immobilizzare l’arto] eliminerò i vostri danni”:
uno scongiuro agli spiriti maligni che hanno provocato la frattura, affinché lascino il malato.



- (5) -  Varrone dichiara di aver tratto dal testo di agronomia dell’etrusco Saserna, la seguente frase che doveva essere cantata a digiuno dal praticante per 27 volte (nove volte tre): “La terra si prenda la malattia, la salute rimanga nei miei piedi”. Dopodichè doveva sputare in terra, gesto ritenuto di grande efficacia, perché la saliva era considerata capace di allontanare demoni e malanni a causa della repulsione che provoca la sua vista.

- (6) - Tibullo raccomanda “Pronuncia i carmi tre volte e tre volte sputa dopo averli pronunciati”.

- (7) - Plinio il Vecchio: “Sputiamo sugli epilettici durante gli attacchi: così rigettiamo il contagio.  Chiediamo anche venia agli dei di qualche progetto troppo audace sputandoci in grembo; per la stessa ragione è usanza sputare e fare tre volte gli scongiuri tutte le volte che adoperiamo una medicina, potenziandone gli effetti”. (poveri epilettici, ingiustamente sputacchiati)

- (8) - Nelle case come scongiuro si usava tenere un rametto di ruta per evitare incidenti domestici.

(9) - Dentro la casa, dietro la porta, si appendeva un ferro di cavallo contro la malasorte. Ancora oggi molti ritengono che il ferro di cavallo porti fortuna.

- (10) - Al collo dei bambini, per tenere lontani i demoni col loro suono, si mettevano collanine con medaglioni a sonagli in numero dispari detti crepundia

- (11) - Come ciondolo che scongiura la malasorte, era molto usato anche il corno di corallo, così oggi sappiamo da chi ereditò questa credenza il popolo campano.

- (12) - Un potente scongiuro era dato dalla raffigurazione, spesso in materiali preziosi, del pugno chiuso, col pollice in alto stretto tra l’indice e il medio, simbolo della vagina e della penetrazione, usata anche per favorire l’amore e le nascite, ma in seguito divenne solamente un simbolo triviale senza alcuna valenza benefica.

Grande importanza veniva data al fallo maschile in erezione come simbolo di buon augurio, fertilità ed abbondanza. Nella bulla, una sorta di amuleto che veniva messo al collo dei ragazzini, al suo interno era contenuto un fascinus fallico, cioè un piccolo amuleto con la forma di membro maschile. Nelle case veniva appeso il tintinnabulum che si rifaceva al Fascinus, una figura magico-religiosa che aveva il compito di allontanare il malocchio e portare fortuna e prosperità.

Vedi anche: CAMPANE E CAMPANELLI ROMANI.

MEGALENSIA (4-10 aprile)

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SANTUARIO RUPESTRE DI CIBELE - SIRACUSA
Le Megalensia erano le feste romane in onore della Grande Madre Cibele, e coincidevano con l'arrivo della statua della Dea portata a Roma sul Palatino, da Pessinunte nella Frigia, nel 204 a.c. durante la II guerra punica per la protezione contro Annibale.

Vengono citati come i primi giochi dopo la lunga pausa invernale, non dimentichiamo che si svolgevano sempre all'aperto, per cui il clima impervio e la pioggia impedivano i giochi d'inverno, o almeno con poche eccezioni. I Ludi erano organizzati per l'occasione dagli edili curuli, poi Augusto ne trasferì la cura al pretore urbano. Le Feste Megalesie restarono fino agli ultimi anni dell'impero.

Complessivamente i ludi dati in giorni fissi, al tempo di Cesare, occupavano ben 65 giorni dell'anno; ma nel. IV sec. il popolo romano impiegava nell'assistere ai giochi ben 175 giorni, cioè poco meno della metà dell'intero anno. Da qui si comprende perchè i romani per metà dell'anno fossero in Feriae, cioè non lavorassero. Beati loro.
Mentre in campagna si lavorava tutto l'anno, in città si lavorava poco, per questo vivere a Roma costava molto, anche perchè era facile trovare lavoro e ci si divertiva molto.

MEGALESIA

IL MITO

Cibele, la Grande Madre (Matrix Magnae), era la Dea della natura, degli animali e dei luoghi selvatici. Il centro principale del suo culto era Pessinunte, nella Frigia, da cui attraverso la Lidia passò nel VII secolo a.c. nelle colonie greche dell'Asia Minore e successivamente nel continente.

Collegato al culto era il giovane Dio Attis, suo figlio, poi da adulto suo amante e paredro, che in seguito si innamorò di una ninfa. Durante il banchetto nuziale Cibele, per vendetta, fece impazzire il giovane che, fuggito sui monti, si uccise evirandosi. Addolorata per la morte di Attis, Cibele chiese a Zeus di riportarlo in vita, così il Dio resuscitò dopo tre giorni; altre versioni riportano che fu invece trasformato in un abete (simbolo di vita eterna). Si può capire da quale mito venne presa la morte e resurrezione di Gesù Cristo dopo tre giorni all'equinozio di primavera.

Poi Attis resuscitò in primavera venendo assiso in cielo accanto alla Dea. Era l'antico mito in cui il Dio vegetazione muore al solstizio d'inverno risorgendo all'equinozio di primavera, nell'eterno ciclo della natura (la Dea Madre). In genere Cibele e Attis  vengono raffigurati sul carro divino trainato da leoni in un corteo trionfale.

RAPPRESENTAZIONE DEL TEMPIO DI CIBELE IN UN BASSORILIEVO CUSTODITO A VILLA MEDICI

L'ACCOGLIENZA

Erano stati i Libri Sibillini, consultati e interpretati, a suggerire la protezione dell'antica Dea mediterranea, la Magna Mater di cui c'era un importante tempio a Pessinunte, nel nord dell’Asia Minore, detta anche "La Pietra Nera". I Sibillini avevano suggerito di rivolgersi "all'Antica Madre" per salvare Roma da Annibale.

Il Tempio per accogliere la Magna Mater o di Cibele (Aedes Matris Magnae) fu edificato sul colle Palatino a partire dal 204 a.c. e venne terminato, e pertanto inaugurato, l’11 aprile del 191 a.c. Per la celebrazione venne dato l'avvio ai Ludi Megalensi, di cui scrissero Terenzio e Plauto.

Tito Livio:
"Perché l'oracolo aveva ordinato che la dea dovesse essere ricevuta e consacrata dal miglior uomo, fu ricevuta da Publio [Cornelius] Scipione Nasica (figlio di Gneo, che era morto in Spagna), giudicato dal Senato come il miglior uomo, anche se era giovane e non non era ancora stato eletto questore."


CIBELE ED ATTIS
Una delegazione romana partì dal Senato e si recò al tempio della Dea e ne imbarcò il simulacro su una nave per essere trasferita a Roma:  "Fu la nobile matrona di Roma, Claudia Quinta, che personalmente diede il benvenuto al seguito di Cibele a Ostia, tirando la nave con la sua virtuosa forza, un episodio considerato allora come un segno miracoloso di destino favorevole"

Il nuovo tempio venne costruito al centro tra la Domus Tiberiana e la Casa Romuli, nelle vicinanze della Domus Augustana e un'immagine figurativa della Dea, fu ritrovata senza testa nelle vicinanze del Tempio a lei dedicato, conservata oggi nel Museo Palatino.  In più venne ritrovata un'iscrizione che doveva sorgere sul lato destro della facciata: M(ater) D(eum) M(agna) I(daea).

Esiste anche una raffigurazione dell'edificio in un rilievo dell'età di Claudio, murato nella facciata posteriore di Villa Medici, dove il tempio è raffigurato corinzio e esastilo, con alta scalinata; senza colonne sui lati.

La celebrazione abituale dei Megalesia, tuttavia, non cominciò fino a dodici anni più tardi (191 a.c.), quando il tempio della Magna Mater, (Aedes Matris Magnae) situato sul colle Palatino, fatto costruire nel 203 a.c., fu completato e dedicato dal pretore Marco Giunio Bruto, anche se da un altro passo di Livio sembra che i Megalesia fossero già celebrati nel 193 a.c.

RESTI DEL TEMPIO DI CIBELE

CIBELE

Le Megalesia fecero parte degli antichi Magni Circenses, dedicati ad un'antica divinità anatolica, venerata come Grande Madre Idea, dal monte Ida presso Troia, Dea della natura, degli animali (potnia theron) e dei luoghi selvaggi.

La pietra nera di Cibele fu dunque portata a Roma da Pessinunte nel 204 a.c., quando venne introdotto a Roma il Culto della Magna Mater, e il giorno del suo arrivo una grande processione ebbe luogo dal punto dell'approdo della nave fino al Campidoglio. 

Era l'anno in cui si giocavano i destini di Roma e di Cartagine. In quell'anno infatti Scipione ottenne la carica di proconsole in Africa, potendo finalmente portare avanti il progetto che aveva in mente già dagli anni delle campagne in Spagna: portare la guerra contro Cartagine sul suo stesso suolo, in Africa.

La celebrazione abituale del Megalesia, tuttavia, non cominciò fino a dodici anni più tardi (191 a.c.), quando il tempio della Magna Mater, fatto costruire nel 203 a.c., fu completato e dedicato dal pretore Marco Giunio Bruto. Anche se da un altro passo di Livio sembra che i Megalesia fossero già celebrati nel 193 a.c.



LA GUERRA

Nel 193 a.c. il re berbero Massinissa occupò Emporia e il Senato romano inviò a Cartagine una delegazione per tranquillizzarla, ma Catone, che fa parte della spedizione, porta con sè un cesto di fichi cartaginesi e li mostra ancora freschi al senato, per far comprendere quanto Cartagine fosse pericolosamente vicina. Risuona il "Carthago delenda est".

La guerra è ancora una volta all'orizzonte. Per propiziarsi la Dea i romani indicono ancora i Magni Circenses Megalesi. Grande paura, grandi giochi.

Per fare le cose alla grande, mentre prima gli spettatori assistevano in piedi allo spettacolo, vennero in questa occasione disposti sedili per la comodità degli  spettatori. Anche perchè fecero protrarre la cerimonia fino a sera. Durante i giochi passavano i commercianti con vino annacquato, cibo precotto, frutta, dolci e cuscini.

CIBELE - ATTIS

L'ABITO DA CERIMONIA MEGALENSIA

"Effugiatque togam": la toga era l'abito delle occasioni ufficiali, ed era obbligatoria per i cittadini agli spettacoli (cfr. Mart. 2, 29, 4; Suet. Aug. 40, 5; HA Comm. 16, 6; Friedlânder 1922, 2, 9), a causa della loro natura di spettacoli pubblici, presieduti da magistrati e spesso, come nel caso dei Megalensia, di matrice religiosa. Pur essendo un simbolo della cittadinanza romana e associata all'orgoglio nazionale (Verg. A. I, 282) la toga poteva risultare scomoda, in particolare nella bella stagione, quando teneva troppo caldo.

Giovenale (3, 171-81) critica l'obbligatorietà della toga nell'etichetta della vita sociale della città di Roma contrapponendola alla maggiore libertà di comportamento in città più piccole:
- pars magna Italiae est, si verum admittimus, in qua
nemo togam sumit nisi mortuus...
hic ultra vires habitus nitor, hic aliquid plus
quam satis est interdum aliena sumitur arca.

La stessa contrapposizione è implicita nella Lode di Marziale dei costumi della nativa Spagna, dove la toga sarebbe ignota: 1, 49, 31; 12, 18, 17 (indirizzato a Giovenale); l'antipatia per la toga, pesante e difficile da pulire, appare anche a 3, 4, 6; IO, 47, 5; Sen. Ep. 18, 2; Plin. Ep. 7, 3, 2; Tert. Pall. 5. Fare a meno della toga significa quindi nello stesso tempo rimanere vestiti con abiti comodi e rinunciare alle vuote formalità della vita sociale.

Ma il rifiuto di presenziare agli spettacoli del circo è una posa intellettuale diffusa nella cultura romana pagana, prima della rabbiosa condanna di ogni tipo di spettacolo da parte di Tertulliano; cfr. Cic. Off. 2, 57  "haec pueris et mulierculis et servis et servorum simillimis liberis esse grata, gravi vero homini et ea, quae fiunt, iudicio certo ponderanti probari posse nullo modo"  De Or. 1, 24; Plin. Ep. 9, 6. 1 ecc.

Non perchè spesso gli spettacoli da circo fossero crudeli e sanguinosi, ma perchè gli intellettuali erano un po' snob. Ma neppure Tertulliano non li condanna per la crudeltà ma perchè sono spettacoli stupidi, specie quelli del teatro che sono "spettacoli per bambini, donnicciole, schiavi, servi, ma non per veri uomini" (da notare che a volte gli schiavi erano istruitissimi).

Ma nonostante gli snobismi alle Mengalesia partecipavano tutti, sarebbe stato come per un americano non onorare la Festa dell'Indipendenza, un buon romano doveva necessariamente parteciparvi e indossare la toga. D'altronde lo faceva anche l'imperatore. Anzi i magistrati dovevano indossare la tonaca viola (o con le strisce viola), e guarda caso anche il prete cattolico alla morte del Cristo nei tre giorni prima della resurrezione portano la stola viola.

TORO SACRIFICALE PORTATO AL TEMPIO DELLA MAGNA MATER

I LUDI

Alla dedica del tempio si inaugurarono i Ludi Megalensi, dal greco Megale, un nome della Dea che significa Madre, celebrati con spettacoli teatrali per i quali scrissero alcune delle loro migliori opere Plauto e Terenzio.

Ovidio - I Ludi Megalensi:

Che il cielo giri per tre volte sul suo asse,
che il Sole tre volte aggioghi e lasci andare i suoi cavalli,
e quando il flauto Berecinto inizierà a suonare
il suo corno ricurvo, sarà la festa della Mater Idaea.
Gli Eunuchi sfileranno, e suoneranno i tamburi,
e i cembali batteranno con i cembali, con toni sonori:
seduta sui colli morbidi dei suoi servitori, essa verrà condotta
tra le urla per le vie della città.
La scenario è ultimato: i giochi stanno chiamando. Guardate, poi,
o Romani, e lasciate che le cause legali cessino nelle piazze.
Vorrei chiedere molte cose, ma sono impaurito
dal battito stridulo del bronzo e dal terribile ronzio del flauto curvo.
"Dammi qualcuno a cui chiedere, o dea."
Cibele, che sorvegliando le sue dotti nipoti, le Muse, ordinò loro di prendersi cura di me.
“I Bambini a balia dell’Elicona, memore dei suoi ordini, rivelano
il perché la Grande Dea provi piacere nel rumore continuo.”
Così parlai.





LE CORSE DEI CAVALLI

I Ludi Megalenses prevedevano anzitutto delle rappresentazioni teatrali che avevano luogo nell'area antistante il tempio di Cibele e ai quali si assisteva dalle gradinate dell'edificio. Sia Plauto che Terenzio produssero loro opere per questa occasione. Accorrevano da tutto l'impero per assistere al grande evento.

Infatti la parte più attesa della festa erano le corse di cavalli nel Circo Massimo. I dodici carceres, la struttura di partenza che si trovava sul lato corto rettilineo verso il Tevere, disposti obliquamente per permettere l'allineamento alla partenza, erano dotati di un meccanismo che ne permetteva l'apertura simultanea per cui ne uscivano dodici carri a velocità folle.

Iniziata la corsa, i carri potevano spostarsi liberamente per la pista per cercare di sabotare gli avversari spingendoli contro le "spinae", dei pilastri tenuti fra loro da muretti dove sulla loro sommità venivano poste le "uova", grossi segnali simili ai "delfini" delle corse greche, che venivano fatti cadere in una canaletta di acqua che scorreva al centro della spina per segnalare il numero di giri che mancavano alla fine della gara.

La spina divenne sempre più elaborata, decorata con colonne, statue e obelischi si che gli spettatori spesso non potevano seguire i carri quando si trovavano dal lato opposto, ma ciò aumentava l'emozione. Ai due capi della spina si trovavano le due curve del percorso, le metae, dove spesso avvenivano spettacolari collisioni tra i carri. Gli incidenti che provocavano la distruzione dei carri e gravi infortuni a cavalli ed aurighi erano chiamati naufragia, come il naufragio delle navi.

Naturalmente non mancavano gli incidenti tra gli spettatori che tifavano per questo o quel fantino. L'auriga del carro vincitore veniva poi osannato e portato in un virtuale trionfo dai suoi numerosi fans. Oltre a tutto le corse erano occasione di molte scommesse, oculate e non, perfino le vestali partecipavano ai ludi dove potevano abbandonare il solito contegno con gesti ed urla poco sacerdotali.

"E intanto intorno al circo gravitavano maghi ed astrologhi che promettevano all’incauto spettatore di predire il nome dell’auriga vincente" (Cicerone, De divinatione, 1, 132).
I carri in gara potevano essere trainati da due cavalli, bighe, o da quattro cavalli, le quadrighe, e queste ultime erano le più importanti, ma anche le più difficili da guidare. In rari casi, con auriga eccezionali, si era giunti ad impiegare fino a dieci cavalli, esercizio che non migliorava la scenicità della corsa ma evidenziava solo la bravura dei conducenti.

Gli aurighi, per i frequenti incidenti, indossavano un caschetto ed altre protezioni per il corpo e si legavano le redini attorno alla vita per non perderle. Però in caso di incidente, finivano per questo trascinati dai cavalli attorno alla pista rimanendone uccisi se non riuscivano a liberarsi. per questo, cioè per tagliare le redini erano muniti anche di coltello.

"Per i Romani il Circo Massimo è insieme tempio e casa, luogo di riunione e realizzazione dei desideri. Si ammassano nelle piazze, agli incroci, nelle strade, e discutono animatamente di questo o quel partito. Quando arriva finalmente il giorno delle corse tutti si affrettano verso il circo, prima ancora che sorga il sole e corrono a grande velocità come se volessero gareggiare con i carri. Molti passano le notti senza chiudere occhio, pieni di ansia per il risultato delle corse" (Ammiano Marcellino, Res Gestae, 28, 4, 29-31).





IL RINGRAZIAMENTO

Seguiva, come ringraziamento alla Dea per la sua protezione su Roma, una processione con musica e canti che si snodava per le vie dell'urbe con sacerdoti e popolo che si univa festante agitando ghirlande e nastri che venivano poi posti nel tempio della Dea Cibele. Poi ognuno tornava a casa per la festa serale: quella del Moretum.





IL MORETUM

Il tripudio durava fino a sera, perchè la conclusione della festa consisteva nell'offerta sacra di un piatto di erbe chiamato “moretum”.  In realtà il moretum in origine era un piatto di erbe amare e selvatiche, ripassate con olio e aglio, piuttosto usato dai contadini romani le cui donne le reperivano nei boschi.

CIBELE ROMANA
Poi divenne una specie di «agliata», una focaccia a base di formaggio, tanto aglio e tanta ruta. Era il ritorno alla vita primitiva quando si offriva un po' di questa erba amara alle divinità del luogo, in genere alle ninfe.

La focaccia però divenne un'offerta rituale fatta dai sacerdoti che ne benedivano un grosso quantitativo che veniva poi spezzettato e distribuito tra il pubblico, ma occorrevano i Vigiles per evitare gli incidenti della calca.

Per evitare questi incidenti si stabilì che il Moretum diventasse una cosa privata, mentre le focacce benedette le dividevano i sacerdoti tra loro. Così venne l'usanza del Moretum serale offerto in famiglia, ma qui seguirono le “invitationes”, cioè l'invito reciproco dei romani ai banchetti serali, in cui si offriva oltre al Moretum ogni ben di Dio in cibo e vino.

Sembra che l'invito venisse esteso anche a qualche povero, ovvero a qualche plebeo, ma in seguito divenne un invito ai plebei ricchi e influenti. Il numero degli invitati faceva capire le possibilità dell'ospitante, per cui il convito serale si faceva nel giardino antistante la domus, si che dai cancelli si poteva guardare con invidia la sontuosità del banchetto.
La dispendiosità di questo banchetto che si protraeva a notte inoltrata divenne così sfacciata che lo Stato dovette provvedere a regolamentarne il costo, ma con scarsi risultati.

LEGIO V MACEDONICA

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- 43 a.c. - La Legio V Macedonica ("Macedone") fu una legione romana fondata dal console Gaio Vibio Pansa Cetroniano (91 - 43 a.c.) e da Ottaviano (63 a.c. - 14) nel 43 a.c.. La Legio V fu una delle ventotto legioni di Ottaviano. Altre due "quinte" legioni sono attestate dalle fonti, la V Gallica e la V Urbana, ed è probabile che entrambe siano quella diventata poi la V Macedonica. La legione ebbe vita fino ad entrare nell'esercito bizantino, scomparendo probabilmente nel 636, nella disastrosa battaglia di Yarmuk contro gli Arabi.

- 31 a.c. - Il simbolo della legione era il toro, ma anche l'aquila. La legione ricevette il cognomen Macedonica dal fatto che stazionò in Macedonia per un certo periodo. Probabilmente combattè ad Actium (31 a.c.), che segnò la vittoria definitiva di Ottaviano su Marco Antonio e lo designò come Imperator, dopo di che i veterani si insediarono nel Veneto.

STENDARDO DELLA V MAC
- 29 a.c. - Sembra che per un breve periodo venne chiamata V Scythica, il che fa pensare che combattè contro gli Sciti, le tribù nomadi che vivevano nei dintorni della città romana di Olbia, ma che occasionalmente arrivò a sud e tentò di attraversare il Danubio. Sembra che la V Macedonica, insieme alla IV Sciitica, abbia sconfitto queste tribù, ma non si conosce la data di questa vittoria. Potrebbe riferirsi alla guerra condotta negli anni 29-27 a.c. dal comandante romano Marcus Licinio Crasso, noto per aver ucciso un leader nemico in combattimento singolo.

- 15 a.c. - Una successiva generazione di veterani fu inviata in Fenicia (nel 15 o 14 a.c.), per stabilirsi nella città rifondata di Berytus, moderna Beyrut. Dovevano condividere questa città con gli ex legionari della VIII Augusta, già fondata da Ottaviano nel 44 a.c.

- 6 d.c. - Nel 6 fu trasferito a Oescus (futura Oescus Ulpia, ora Gigen) in Mesia, dove rimase fino al 61, a guardia della frontiera del Basso Danubio contro le tribù della Dacia, dove il fiume Olt si rovescia nel Danubio. Questo fiume è più o meno la strada principale in Dacia.

- 20 d.c. - La legione dovette essere coinvolta nella campagna di Tiberio (42 a.c. - 37 d.c.), il futuro imperatore, contro l' impero dei Parti nel 20 (Altre legioni in questa campagna furono III Gallica , VI Ferrata , X Fretensis e XII Fulminata ). 
I Parti furono impressionati e restituirono le aquile romane che avevano ottenuto dopo la sconfitta del generale romano Crasso a Carrhae nel 53 a.c.

- 43 d.c. - Nel 43 la legione fu inviata a presidiare la Macedonia, nell'ambito del riassestamento delle legioni romane alla fine delle guerre civili. Dopo la permanenza in Macedonia, che terminò nel 6 d.c. con l'invio a Oescus (Mesia), la futura Colonia Ulpia Oescus, la V fu nota come Macedonica per i successivi sei secoli.

PIETRA TOMBALE DI P. SCRIBONE
DELLA V MACEDONICA
- 45 d.c. - La V Macedonica era attiva quando l'imperatore Claudio decise di annettere Tracia (terra avente a nord il Danubio, a est il Mar Nero, a sud il Mar Egeo, a ovest il Mlava, attuale Bulgaria) nell'impero romano nel 45/46 d.c.. I dettagli, tuttavia, non sono chiari. Combattere non era l'unica attività della legione. Diverse iscrizioni attestano la costruzione di strade e altre opere di ingegneria nell'area del Danubio. È probabile che Velleius Paterculus, (19 a.c. - 31 d.c.) che sostiene di aver visto il delta del Danubio, abbia prestato servizio nel Quinto.

- 62 d.c. - Nel 62 alcune vessillazioni della V vennero trasferite a est, di stanza nel Ponto, a sud del Mar Nero. e combatterono al comando di Nero Lucio Cesennio Paeto (28 - 72), governatore della Cappadocia. Il generale impiegò la XII Fulminata, la IIII Scitica e le subunità di V Macedonica contro i Parti in Armenia; ma le forze di Tiridate obbligarono il generale romano ad arrendersi a Rhandeia (Erand).
Vi fu allora una controffensiva romana organizzata inviando in oriente tutta la V Macedonica, assieme alla III Gallica, alla VI Ferrata e alla X Fretensis, sotto il comando di Gneo Domizio Corbulone (7 - 67), governatore della Siria. Naturalmente la vittoria fu piena però ad opera di Annius Vinicianus, genero di Corbulo a cui era stato dato il comando.

- 66 d.c. - LA RIVOLTA GIUDAICA  La V era probabilmente ancora in oriente quando scoppiò la I guerra giudaica nel 66. L'imperatore Nerone affidò il compito di sedare la rivolta ebraica al generale Tito Flavio Vespasiano (9 - 79), cui assegnò le legioni V Macedonica, X Fretensis e XV Apollinaris. 

- 67 d.c. - Nel 67 la città galilea di Seffori (Zippon) si arrese pacificamente ai romani, e negli anni successivi, i Romani lentamente si spostarono a sud, dove conquistarono la montagna del Garizim, il principale santuario dei Samaritani.

- 68 d.c. - Nel 68, la guerra fu interrotta perché l'imperatore Nerone si era suicidato. La legione rimase per un po' a Emmaus. La presenza di diverse lapidi informa di alcuni duri combattimenti. Si era ormai nell'"Anno dei quattro imperatori", il 68 fu trascorso dalla legione ad Emmaus (Palestina), dove sono state ritrovate diverse tombe dei soldati della Macedonica. Dopo la nomina di Vespasiano ad imperatore e la sua partenza per Roma, il comando dell'esercito passò a suo figlio, il futuro imperatore Tito, che pose fine alla guerra con una grande vittoria.
SEFFORI
69 d.c. - L'anno successivo Vespasiano fu proclamato imperatore e andò ad Alessandria (Egitto), dove tagliò le scorte di grano di Roma. Prima della fine dell'anno venne riconosciuto imperatore dal Senato.
70 d.c. - Suo figlio Tito continuò la guerra nel 70 e prese Gerusalemme dopo asprissima battaglia. Dopo la vittoria romana, la V legione scortò Tito ad Alessandria e tornò in Mesia, verso Oescus. 
- 71 d.c. - Dopo la vittoria, la V ritornò nella sua provincia, in Mesia, nel 71. Era stato lontano da casa per quasi dieci anni.

- 85 d.c. - Verso l'85, l'imperatore Domiziano (51-96) riorganizzò le frontiere del Reno e del Danubio. La Mesia era divisa in due province, chiamate Superiori e Inferiori. La V Macedonica apparteneva alla Mesia Inferiore, insieme alla I Italica e alla XI Claudia. Questa riorganizzazione era diventata necessaria dopo che i Daci avevano invaso l'impero romano e sconfitto le legioni che avrebbero dovuto difendere la Mesia.

- 88 d.c. - Nell'88 un grande esercito romano invase la Dacia e il generale Tettius sconfisse il suo re Decebalo a Tapae; la V era una delle nove legioni coinvolte. Sfortunatamente, la rivolta del governatore della Germania Superiore, Lucio Antonio Saturnino, nell'89, ne impedì il successo finale.
- 96 d.c. - Nel 96 venne nominato tribunus militum (ufficiale dell'esercito) della V legione il futuro imperatore Publio Elio Traiano Adriano (nel 98).

101 d.c. - Più tardi, la V legione prese parte alle campagne di Traiano (53 - 117) contro i Daci per la conquista della regione (101- 106), e al suo ritorno fu trasferito a nordest, di stanza a Troesmis (Iglita moderna) vicino al delta del Danubio nel 107. 

107 d.c. - Qui, la V Macedonica rimase nella provincia appena annessa, di fronte ai Roxolani, una tribù che a volte era irrequieta (soprattutto nel 118) e doveva essere sorvegliata.

115 d.c. - Più tardi durante il regno di Traiano, una sub-unità della quinta legione macedone fu inviata ad est, per prendere parte alle sue disastrose campagne partiche (115-117). 

132 d.c. - Una seconda spedizione orientale ebbe luogo quando una subunità fu inviata in Giudea, per sopprimere la rivolta messianica di Simon ben Kosiba (132-136), detto "Il figlio della Stella" una delle peggiori guerre che Roma abbia mai combattuto.

Diversi soldati della V prestarono servizio nella sede del governatore della Mesia Inferiore, a Tomis. Altri legionari con la XI Claudia erano tra i costruttori del forte a Draschna nei Carpazi sudorientali, nella valle del Buzau. Uno degli altri compiti della legione era l'occupazione della Crimea, dove diverse città greche erano protette da unità romane.
Le legioni moesiane erano a loro volta responsabili di questo avamposto. Diverse iscrizioni attestano la presenza di soldati di V Macedonica, I Italica e XI Claudia.

EPIGRAFE DI ALAGRIA INGENUA, MOGLIE DI T. SERANIO PRIMIANO,
CENTURIONE DELLA V MACEDONICA
- 160 d.c. - Publio Mummio Sisenna Rutiliano, console suffetto nel 146 venne posto al comando della Legio V Macedonica, in Mesia inferiore, all'inizio degli anni 160. Con la sua unità partecipò alle campagne partiche di Lucio Vero, giocando un ruolo importante, assieme ad Avidio Cassio, nella seconda parte della guerra. 
Martio Vero, al comando della Legio V Macedonica, nella Mesia inferiore, all'inizio degli anni 160, con la sua unità partecipò valorosamente alle campagne partiche di Lucio Vero, assieme ad Avidio Cassio (120 - 175), nella seconda parte della guerra.

- 161 d.c. - Quando l'imperatore Lucio Vero iniziò la propria campagna contro i Parti (161-166), la legione fu inviata in oriente, ma tornò poi nella Dacia Porolissensis, con il campo nell'antica fortezza della Dacia di Potaissa (moderna Turda, Romania). A questo punto, la frontiera settentrionale fu riorganizzata, perché diverse tribù, come Marcomanni, Sarmati e Quadi, erano diventate irrequiete. 

- 164 d.c. - Fu grazie all'abilità di Avidio Cassio, che i Romani sconfissero le truppe del re Vologese IV a Dura Europos (nel 164), occuparono la capitale dei Parti Ctesifonte e la città di Seleucia al  Tigri.

- 166 d.c. - I romani conquistarono quindi la Media, costringendo Vologese a una pace umiliante. L'Armenia e la Mesopotamia settentrionale tornarono in mano ai Romani.

- 175 d.c. - Per i meriti ottenuti in questa guerra Publio Mummio fu onorato col consolato suffetto e il governo della provincia della Cappadocia. Nel corso del suo lungo mandato dovette badare al vicino Regno di Armenia, il cui controllo era stato la ragione principale della guerra. Di lui ci narra Cassio Dione, che offre di Vero un ritratto molto lusinghiero; attorno al 175 sostenne il potere del vacillante Soemio di Armenia e rinforzò la guarnigione di Vagharshapat-Kainepolis (moderna Echmiadzin).

- 179 d.c. - Nel 175, in Siria, Avidio Cassio si proclamò imperatore, ma Marzio Vero rimase fedele a Marco Aurelio (121 - 180) e combattè per ristabilire l'ordine nelle province orientali. Così partecipò al governo della provincia di Siria dal 175 al 177 e la sua fedeltà venne ricompensata nel 179 con un secondo consolato come collega dell'erede al trono, il futuro imperatore Commodo.

ANELLO DI UN UFFICIALE DELLA V MACEDONICA - SECONDO SECOLO D.C.
- 185 d.c. - L'imperatore Marco Aurelio (121-180) trascorse quasi dieci anni del suo regno combattendo sul Medio Danubio, contro i Marcomanni, i Sarmati e i Quadi, e qui la V macedonica dovette tornare al campo di battaglia. Quando questa guerra fu portata a termine, i Romani spostarono la loro attenzione verso i Daci all'interno. I lavoratori delle miniere d'oro si erano ribellati e avevano assunto un esercito mercenario. 
Quando furono sconfitti dalla V Macedonica, l'imperatore Commodo (161-192) assegnò alla legione il titolo Pia Constans ("Fedele e affidabile") o Pia Fidelis ("Fedele e leale") nel 185 o 187.
All'inizio del regno di Commodo, la V Macedonica e la XIII Gemina sconfissero ancora una volta i Sarmati, sotto il comando di quei Pescennio Nigro (140 - 194) e Clodio Albino (145 - 197) che contesero il trono a Settimio Severo (146 - 211).
Quando la V sconfisse un esercito di mercenari in Dacia, nel 185 o nel 187, ricevette il titolo onorifico di Pia Constans ("Pia e affidabile") o Pia Fidelis ("Pia e leale").

- 193 d.c. - Nel 193, il governatore della Pannonia Superiore, Lucio Settimio Severo (145-211) marciò su Roma per espellere Didius Julianus (135-193) , che era diventato imperatore dopo che il vecchio Publio Helvus Pertinace (126-193) era stato linciato dai suoi soldati. Il governatore della Dacia Porolissensis era suo fratello Geta, e V Macedonica si schierò immediatamente con il nuovo sovrano, il cui regno sarebbe durato fino al 211. Una subunità mista di V Macedonica e XIII Gemina accompagnò Severus a Roma, durante la sua guerra contro il suo rivale Pescennio Niger e contro i Parti. Non conosciamo l'atteggiamento dei soldati nei confronti della guerra civile, che Severus combatté contro Clodio Albino, ex ufficiale di V Macedonica.
La legione doveva rimanere a Potaissa per la maggior parte del terzo secolo. Diversi monumenti sono stati trovati che dimostrano la sua permanenza, come un'iscrizione del 259. Sappiamo anche che nel 244-245, V Macedonica e XIII Gemina sconfissero i Carpi, aggressivi membri delle tribù dei Carpati.



NEL III SECOLO

Pur restando di stanza a Potaissa per tutto il III sec., la V Macedonica combatté più volte, guadagnandosi onori ed encomi. L'imperatore Valeriano (200-260) conferì alla V i titoli di Pia III e Fidelis III ("Tre volte pia, tre volte leale"). Ciò significa che la legione aveva già ricevuto il titolo Pia II Fidelis II, ma non sappiamo quando. 
Il figlio di valeriano, Gallieno (218 - 268), onorò la legione con i titoli VII Pia VII Fidelis, mentre i titoli vennero conferiti per la quarta, quinta e sesta volta  perché aveva sostenuto Gallieno con un'unità di cavalleria mobile (una totale innovazione) probabilmente quando la legione era divenuta parte del comitatus (esercito mobile) dell'imperatore contro gli usurpatori Ingenuo (260 Mesia) e Regaliano (260 ...). Una vessillazione combatté anche contro l'usurpatore Vittorino (Gallia, 269–271).

ALTARI DEL MITREO DELLA PETRAION - ALTA PANNONIA DELLA
V MACEDONICA E DELLA XIII GEMINA SOTTO L'IMPERATORE GALLO 
- 274 d.c. - Quando l'imperatore Aureliano (214-275) abbandonò la Dacia e la sponda orientale del Danubio nel 274, la legione tornò ad Ulpia Oescus (antica città della Moesia, odierna Bulgaria), per le terza volta e per rimanervi definitivamente. Tuttavia alcuni legionari della V vennero inviati altri forti: Cebro, Sucidava e Variniana.
Il compito della Macedonica nei secoli successivi fu infatti quello di proteggere la provincia. L'unità di cavalleria creata da Gallieno fu definitivamente separata dalla legione dall'imperatore Diocleziano (284-305), divenendo parte del suo comitatus.

 - 293 d.c.La subunità di cavalleria fondata da Gallieno divenne parte dell'esercito mobile che era il nucleo dell'esercito romano della tarda antichità. Nel 293 fu inviato a Memphis in Egitto, ma prima dovette svolgere un ruolo in una guerra contro i persiani sasanidi (che avevano sostituito i persiani come nemici orientali di Roma). 

- 296 d.c. - Il generale di Diocleziano Galerio (255-311) e il suo esercito furono sconfitti in Mesopotamia nel 296, ma venne riorganizzata la rivincita. La V Macedonica venne infatti inviata in Mesopotamia, dove ottenne la vittoria sui Sasanidi (II impero persiano) nel 296. Quando fu firmato un trattato di pace, i soldati dell'unità di cavalleria furono infine inviati a Menfi in Egitto (19 km a sud dalla città odierna del Cairo, sulla sponda occidentale del Nilo), dove si trovava ancora all'epoca dell'impero bizantino, fino all'inizio del V secolo. Al tempo della Notitia dignitatum dei suoi distaccamenti (vexillationes) erano posti sotto il comando del Magister militum per Orientem, risultando ormai di fatto una unità militare indipendente dalla "legione madre" (legio comitatensis).
- 400 d.c. - Dopo il 400, questi soldati si trovano in Siria, ed è l'ultima volta che sentiamo parlare di loro. La vecchia legione madre era rimasta in Mesia, dove è ancora attestata all'inizio del V secolo. Entrambe le unità devono essere state integrate nell'esercito bizantino.
- 636 d.c. - La V Macedonica fu probabilmente distrutta nella battaglia di Yarmuk (636) contro gli Arabi dopo la morte di Maometto che sancì l'espansione dell'Islam nelle province della Siria e della Palestina.

DOUGGA - THUGGA (Tunisia)

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Nella mappa si osservano, attorno al foro, a est, da nord a sud, il Tempio di Mercurio e il Tempio della Pietas d'Augusto, il "Quadrato della Rosa dei Venti " e il mercato; a ovest, la piazza occidentale con il Campidoglio e immediatamente a sinistra del Campidoglio, le sostruzioni del Tempio di Massinissa; in grigio, il profilo del forte bizantino.

Tra i monumenti più famosi del sito ci sono il Campidoglio, il teatro, i templi di Saturno e di Giunone Celeste (Caelestis), il tempio di Mercurio e la piazza dei Venti, il Foro e la villa del Trifolium.
Dougga è uno dei siti architettonici più rappresentativi in ​​Tunisia e meglio conservati dell Nord Africa. Grazie al suo interesse storico, questa città romana del I secolo a.c. è stata dichiarata Patrimonio dell'Umanità dall'UNESCO nel 1997.

Situato a poco più di un'ora dalla capitale, quella antica si differenzia dal resto delle città romane, dal momento che la sua disposizione non è geometrica, ma troviamo strade, che assomigliano a una medina. Ciò è dovuto alla coesistenza tra Romani e Numidi per più di due secoli.
Il sito, che si trova nel mezzo della campagna, è stato protetto dall'invasione dell'urbanizzazione moderna, al contrario, ad esempio, di Cartagine, che è stata saccheggiata e ricostruita in numerose occasioni.

PLANIMETRIA DELLA ZONA CENTRALE DELLA CITTA'
Prima di essere una città romana fu una fortezza numida che godeva di grande prosperità attraverso Masinissa, il suo sovrano, che si alleò con i Romani piuttosto che con i Carthigiani, e la città, con i suoi probabili 10.000 abitanti, se ne avvantaggiò grandemente perchè godette il favore di Roma.
La Tunisia, in qualità di provincia dell'impero romano, era chiamata Africa proconsolare. Dougga insiste su un terreno di circa 70 ettari dove troviamo un notevole numero di monumenti in ottime condizioni, un esempio della prosperità e del buon gusto in passato. Grazie ai resti che sono rimasti fino ad oggi possiamo vedere le varie civiltà che si sono susseguite su queste terre, come il punico, il numidio, il romano e il bizantino.

Passeggiando per le sue strade incontriamo il magnifico teatro, i bagni, i bagni pubblici, l'anfiteatro, un mausoleo libico-berbero e diversi templi. Per la costruzione di questa città, i romani presero in considerazione, l'esistenza di acqua e di cave, da cui ottennero il materiale per la costruzione degli edifici . Thugga, come si chiamava in passato, era una piccola città, ma con una quantità incredibile di templi.



LA STORIA

I Romani, una volta conquistata la regione, concessero a Dougga lo status di città indigena (civitas), per poi annetterla all'epoca di Augusto, al territorio di Cartagine, divenuta colonia romana, e accanto a Dougga crebbe poi un pagus di coloni romani.

Dougga era abitata dai pregrini (abitanti delle provincie dell'Impero senza cittadinanza romana) e il pagus con i suoi cittadini romani, entrambi con istituzioni civiche romane - magistrati e un consiglio di decurioni per la città, un consiglio locale della fine del I secolo d.c., e gli amministratori locali per il pagus, subordinati alla colonia di Cartagine.

Cl tempo, la romanizzazione avvicinò le due comunità. Sotto Marco Aurelio, la città divenne di diritto romano, per cui i magistrati ricevettero la cittadinanza romana e i diritti degli abitanti della città furono simili a quelli dei romani. Il pagus a sua volta si sganciò sempre più da Cartagine.

IL DIO NETTUNO
Nel 205 dc, durante il regno di Settimio Severo (145-211), le due comunità si unirono in un unico municipio, col nome di Municipium Septimium Aurelium Liberum Thugga sostenuto spesso dall'evergetismo delle sue grandi e ricche famiglie, creando grandi e sontuosi edifici pubblici a loro spese. Dougga ottenne poi lo status di colonia romana con il titolo Colonia Licinia Septimia Aurelia Alexandriana Thuggensis

I monumenti di Dougga attestano la sua prosperità nel periodo dal regno di Diocleziano (244-311) a quello di Teodosio I (347-395), poi il cristianesimo del IV secolo d.c. la fece cadere in una profonda depressione cancellando divertimenti, arti e bellezza, minando commerci e traffici con conseguente caduta della ricchezza.

Cadde anche l'evergetismo, perchè gli unici edifici ammessi dai cristiani erano le chiese che vennero disseminate ovunque. Mentre nella religione pagana gli Dei andavano onorati in date prestabilite, e per giunta nessuno era obbligato a partecipare, nel cristianesimo si doveva partecipare a tutte le riunioni dei vescovi, e dal IV secolo si doveva andare a messa ogni domenica, pena l'additamento al popolo, l'accusa di essere pagano con conseguente perdita dei beni e pure la condanna a morte.

IL FORO

IL FORO

In origine questo foro doveva essere una bellezza, perchè era ornato da ben 35 colonne in marmo rosso/arancio di Chemtou con capitelli bianchi. Poco di questo è sopravvissuto fino ai nostri tempi.
Le fortificazioni bizantine hanno utilizzato gran parte delle pietre da costruzione del Foro per le sue strutture, il che spiega perché si tratta in gran parte solo di una grande piazza.

La città di Dougga conserva ancora un pavimento con il disegno a spina di pesce. La qualità del lavoro è impressionante, e darebbe punti a molti scalpellini moderni. Le case di Dougga erano di due tipi. Quello Cartaginese aveva un ingresso che conduceva in una corte, poi con l'ingresso laterale nel quartiere residenziale. Quello Romano invece, aveva accesso diretto all'abitazione.

IL CAMPIDOGLIO

IL CAMPIDOGLIO

Scendendo si trova il centro nevralgico del vecchio villaggio, il Campidoglio, un tempio romano dell'anno 163 dedicato ai culti ufficiali in onore di Giove, Giunone e Minerva. All'interno, possiamo vedere le tre nicchie dove erano collocate le statue delle tre divinità romane, con un approssimativo di 6 metri.

Le colonne sono monolitiche, cioè costituite da una singola pietra alta 8 metri con capitelli compositi ionici e corinzi. Nel frontone del tempio vediamo un'aquila scolpita, simbolo dell'imperatore, mentre nel fregio dell'ingresso si trova un'iscrizione dedicata all'imperatore del tempo, Antonino Pio.

Una statua colossale di Giove era posta sul fondo del tempio, edificato a spese di un cittadino di Dougga ( Thugga ), Lucius Marcius Simplex, e di suo figlio Lucius Marcius Simplex Regillianus nel 166 o 167. La sua costruzione è realizzata con la tecnica opus africanum, caratterizzata da pilastri verticali in mattoni alternati ad altri orizzontali, pieno di mattoni più piccoli tra loro, il suo nome deriva dalla provincia romana dell'Africa ed è abbastanza comune in Nord Africa.
 
Il tempio, elevato su alto podio, è preceduto da una piattaforma lastricata dove si riunivano i fedeli per le cerimonie. All'esterno una scala conduce al portico con quattro colonne con capitelli corinzi, poste sulla facciata e altri due su entrambi i lati, dopo di che c'è una stanza di culto di 13 x 14 metri, con tre nicchie sullo sfondo dove furono trovate al centro le sculture di Giove e ai lati quella di Giunone e Minerva. 

Nel frontone c'era un rilievo scultoreo, che rappresentava un uomo con un'aquila, il simbolo dell'impero romano per eccellenza, che qui simboleggiava l'apoteosi dell'imperatore Antonino Pio (138-161).

Il tetto, anche se oggi non c'è traccia, era con travi di legno e coperto di tegole. Come curiosità possiamo dire che i passi dei templi romani erano sempre numeri dispari. Grazie alla successiva fortificazione bizantina, il tempio fu preservato.




PIAZZA DELLA ROSA DEI VENTI

Ai piedi di questo tempio troviamo una costruzione rettangolare che si chiude in un emiciclo, essendo un'estensione per la crescita della città, conosciuta come la Piazza della rosa dei venti, poiché in essa possiamo osservare un cerchio con i 12 venti registrati.
La Piazza dei Venti, o della Rosa dei venti, ha una forma diversa dalle altre piazze romane, con il suo semicerchio che termina su un lato. Le decorazioni sul pavimento sono ciò che ha dato il nome alla piazza: nell'iscrizione fatta a compasso è elencato il nome dei 12 venti. 
Essa serviva come anemoscopio, cioè per comprendere la natura dei venti attraverso le direzioni in cui spiravano. Ciò era utile per l'agricoltura, l'immagazzinaggio e per le previsioni atmosferiche.

TERME LICINIANE

TERME LICINIANE

Le Terme di Licinia sono piuttosto interessanti per avere intatte molte delle sue pareti originali, oltre a un lungo tunnel utilizzato dagli schiavi che lavoravano nei bagni. Inoltre, dai bagni si godono alcune belle viste sulla valle e oltre.
I bagni furono donati alla città dalla famiglia Licinii nel III secolo per evergetismo nei confronti della città e della popolazione. Erano principalmente usati come bagni invernali. Colpisce molto per la sua eleganza il frigidarium con triple arcate alle due estremità e ampie finestre che assicuravano una splendida vista sulla valle.


TERME DEL SUD

Le terme del sud si distinguono un po' dal resto di Dougga, perchè anche se l'opera è grandiosa nelle dimensioni, nell'esecuzione non erano raffinate come le altre terme, e anche per il luogo dove sorgevano, cioè situate vicino alle cisterne. 
È evidente che queste terme erano più destinate al popolino che non agli abbienti, anche se era fornito anche di splendidi mosaici.


I TEMPLI
La religione romana era una religione aperta e tollerante, che permetteva il culto di molte divinità, a condizione che queste fossero viste nel contesto della vasta e comune religione romana. In territorio straniero, la necessità di venerare le divinità locali era rispettata, e così  avvenne anche a Dougga, dove sono sopravvissuti almeno 11 templi.


TEMPIO DI MERCURIO
Vicino a questa piazza vediamo il tempio di Mercurio, Dio dei mercanti, situato vicino a quella che è stata la piazza del mercato, dove ancora oggi vediamo i resti delle bancarelle. Questo monumento si distingue per le sue dieci colonne, tre stanze e le fondamenta di quello che era stato il tempio della Dea Fortuna. 
TEMPIO DI TELLUS

TEMPIO DI TELLUS
Templi come quelli di Mercurio e Tellus erano di dimensioni e decorazioni più piccole rispetto ai templi più grandi del Capitolium e di Mercurio, ma realizzati con un buon materiale da costruzione. Inoltre dovevano esserci un gran numero di templi più piccoli costruiti con materiali più poveri, come il legno o piccole pietre, che non sono sopravvissuti nei secoli.


TEMPIO DI MINERVA
Il Tempio di Minerva è della metà del II secolo d.c. e non si conservato bene, si che oggi ne resta solo l'impianto con poche pietre e alcune colonne.


TEMPIO DI SATURNO
Il Tempio di Saturno era di grande importanza e a tutt'oggi i suoi resti sono molto interessanti. Solo 6 colonne sono ancora in piedi, ma la piattaforma è in gran parte intatta.
Quando fu costruito nel 195, probabilmente si trovava su un più antico santuario dedicato a Baal-Hammon. In epoca romana, Baal-Hammon fu reinterpretato come Saturno.
I panorami, come si può vedere, sono splendidi. La vista deve essere stata di valore anche per i costruttori del tempio, e si suggerisce che questa di Dougga.

TEMPIO DI CAELESTIS


TEMPIO DI CAELESTIS


Il tempio di Caelestis fu eretto all'inizio del II secolo, non molto tempo prima che il cristianesimo cominciasse a prendere piede in Tunisia.
Si entra nel tempio da un'ampia scalinata. Il santuario ha una forma rettangolare che originariamente aveva colonne su tutti i lati. Molti di loro sono ancora in piedi. Intorno al tempio vero e proprio c'era un cortile semicircolare con colonne
Nella città si possono anche vedere bunker, il principale trovato sotto il forum, che furono costruiti dai Romani per rifugiarsi in caso di invasione. Poiché la sua costruzione era veloce, venivano usate pietre dai templi e dagli edifici vicini, motivo per cui attualmente osserviamo iscrizioni su alcune pietre. Dentro c'erano cibo e acqua e gli abitanti potevano resistere fino a diversi mesi in caso di doversi rifugiare lì.

TEATRO DI DOUGGA

IL TEATRO

Il bellissimo teatro, del II secolo a.c.,  è stato restaurato ed è oggi in ottime condizioni. Fu costruito sulla collina, il che facilitò molto la costruzione. Ha un fronte di bellissime colonne corinzie e un palcoscenico coperto di mosaici. Aveva una capacità di 3.500 persone. 

Non è tra i più grandi ma è il meglio conservato dell'Africa romana e consiste in una cavea, 19 gradini su tre piani divisi da gradini, un'orchestra e il palcoscenico. Attualmente è utilizzato ancora come teatro e vari concerti e spettacoli si svolgono durante l'estate. 

Il teatro di Dougga risale al 168 d.c., lo sappiamo perchè fu donato alla città da una delle sue famiglie più ricche. Tra le parti mancanti, c'era un portico in cima e il muro dietro la scena. Questa mancanza ha permesso di però ai visitatori uno splendido panorama sulla valle sotto Dougga.

I RESTI DL MERCATO

IL MERCATO

Il mercato era caratterizzato da bancarelle su entrambi i lati, ognuna delle quali misurava esattamente 2,8 metri per 2,7 metri. Al centro c'era una fontana. Il mercato fu costruito nel I secolo, e convertito in mercato della carne nel II secolo.

Intorno a Dougga ci sono i resti di alcuni mosaici, che non sono stati ancora rimossi ed esposti nel Bardo Musuem (Dougga). Una statua senza testa, che sembrerebbe di un magistrato, si trova lungo la strada che porta al Campidoglio. Molte pietre con iscrizioni giacciono ancora a terra da decifrare e porre nel museo.



LE CISTERNE

Le cisterne di Dougga costituivano un sistema favoloso per fornire a Dougga una costante erogazione d'acqua. Il sistema, che si chiama ora Aïn Mizeb, era costituito da sette camere a volta, ognuna lunga 35 metri, costruite in modo da essere assolutamente impermeabili. Ogni camera era separata dalle altre, in modo che gli eventuali problemi di una di esse non portassero all'interruzione dell'erogazione dell'acqua. 

L'acqua veniva fornita dall'acquedotto ma in estate l'acqua non veniva trasportata, se non in minima parte. Pertanto le cisterne supplivano per la stagione più calda, sia accumulando quella degli acquedotti, sia per raccogliere la rara acqua piovana. Ciò permetteva non solo l'uso umano ma pure l'irrigazione di giardini e campi.

ARCO DI ALESSANDRO SEVERO


L'ARCO DI ALESSANDRO SEVERO

L'arco di Alessandro Severo (208-235) era dedicato al pio imperatore il cui motto preferito era: «Quod tibi fieri non vis, alteri ne feceris», cioè «Non fare agli altri quel che non vuoi sia fatto a te». Come Antonino Pio, di carattere fu mite e buono, e anche quando giudicò su colpe gravissime, non comminò la pena di morte. Non fu però un buon generale e per questo le sue truppe lo uccisero a soli 28 anni.

L'arco era a un solo fornice, e molte delle sue pietre giacciono ancora a terra. Dougga ha due archi trionfali, di cui quello di Alessandro Severo è in ottime condizioni e risale a circa 225 anni fa.
Di quasi 20 anni più vecchio è l'arco trionfale di Settimio Severo, un imperatore di origine libica, l'arco celebrava che Dougga era stato reso dai romani un municipum. Oggi è purtroppo in uno stato rovinoso.

VILLA DEL TRIFOLIUM

VILLA DEL TRIFOLIUM

La villa Trifolium, che prende il nome da una stanza a forma di trifoglio che fu senza dubbio utilizzata come triclinio, è la più grande casa privata finora scavata a Dougga. La casa aveva due piani, ma non è rimasto quasi nulla del piano superiore. 
Questa residenza, risalente al II o III secolo d.c., si trova a valle dei quartieri che circondano il Foro e i principali monumenti pubblici della città, in un'area dove le strade sono tortuose secondo l'antico uso orientale. 
Qui i romani non hanno potuto impiantare il solito metodo di sistema ortogonale delle vie, nei cui spazi venivano ricavate le insule, perchè hanno dovuto adattarsi all'abitato preesistente, di tipo libico punico che per qualche motivo non si sono sentiti di abbattere. 
Evidentemente la colonia romana non era abbastanza vasta da giustificare la ricostruzione totale della città, ma forse c'era anche il fatto che le stradine molto strette riparavano meglio dal sole cocente e dal vento sabbioso proveniente dalla zona desertica.
La casa, posta a sud della città, e a metà della collina, è particolarmente interessante per il modo in cui è costruita per allinearsi con la conformazione del terreno; l'ingresso degrada verso il cortile attorno al quale sono stati disposti i vari ambienti.



APOTROPAICO O BORDELLO?

Per molto tempo le autorità locali hanno fatto finta che questa struttura non fosse affatto lì, o non avesse proprio quello scopo, ma con i tempi moderni il bordello di Dougga è diventato una delle parti di Dougga che incuriosisce la maggior parte dei visitatori.


È affascinante vedere un bordello costruito così pragmaticamente e senza mezzi termini per servire la sua funzione: una sala aperta per le scelte e le contrattazioni e le stanze immediatamente disponibili per i servizi sessuali.

L'edificio stesso ha una strada che porta diritto ad esso, permettendo forse alle donne di intrattenere i clienti incerti fuori dell'entrata.
Il segno fuori della porta allude a simboli sessuali, a Roma usava porre i falli per le strade con scopo apotropaico, infatti i negozianti prima di aprire le taberne gli davano un'allisciata perchè portava fortuna, o almeno allontanava le disgrazie, ma qui sopra al fallo vi sono due seni che nulla hanno a che vedere.
E' come se avessero abbinato il senso apotropaico del fallo con un altro simbolo sessuale per far capire che in quel locale c'era altro, insomma non solo apotropaico ma bordello.


LE NECROPOLI ROMANE

Le diverse necropoli segnano le zone di insediamento a Dougga. Ci sono cinque aree che sono state identificate come necropoli: la prima a nord-est, attorno al Tempio di Saturno e la Victoria Church, la seconda a nord-ovest, una zona che comprende anche i dolmen sul sito, la terza a ovest, tra le cisterne Aïn Mizeb e Aïn El Hammam e al nord del Tempio di Giunone Celestis, il quarto e il quinto a sud e sud-est, uno intorno al mausoleo e l'altro intorno all'arco trionfale di Settimio Severo.

Queste necropoli sono quasi tutte ancora da scavare, come d'altronde la maggior parte del sito di Dougga. Oltre alla villa romana del Trifolio per esempio sono emerse altre ville con splendidi mosaici, ma prima di scavare forse si devono riassettare le numerosissime pietre che giacciono ovunque in ordine sparso e che andrebbero ricollocate al loro posto con un attento e paziente lavoro di ricostruzione archeologica.



VETTIO AGORIO PRETESTATO - V. AGORIUS PRAETEXTATUS

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PORTICO DEGLI DEI CONSENTI

Nome: Vettius Agorius Praetextatus
Nascita: 320 d.c., Roma
Morte: 384 d.c., Roma
Professione: politico e letterato



GLI HORTI VETTIANI

Gli Horti Tauriani erano degli splendidi ed enormi giardini sul colle Esquilino che occupavano la zona compresa tra la via Labicana antica, l'agger serviano e le Mura aureliane per un'estensione di circa 36 ettari.

Il loro proprietario Tito Statilio Tauro fu accusato di magia e costretto al suicidio da Agrippina minore per appropriarsi degli Horti. In seguito vennero suddivisi si che alla fine del IV sec. d.c. il praefectus Urbi Vettio Agorio Pretestato ne possedeva una parte enorme, gli Horti Vettiani, che si estendevano nella zona dell'attuale Palazzo Brancaccio.

I resti della domus appartenuta a Pretestato e a sua moglie Aconia Fabia Paulina sono stati identificati attraverso i nomi iscritti sulle fistulae aquariae trovate all'interno dell'edificio.

Pretestato e Paulina avevano una splendida domus negli horti, anzi un palatium, all'angolo tra via Merulana e via delle Sette Sale, a Roma, dove ora si erge Palazzo Brancaccio. Il giardino che circondava il palazzo, gli Horti Vettiani, si estendeva fino all'attuale stazione ferroviaria di Termini.

I ritrovamenti archeologici effettuati in questa area hanno riportato alla luce diversi monumenti riconducibili alla famiglia di Pretestato, nonchè frammenti marmorei di statue, pavimenti e mosaici, ma il più è ancora da scavare.

ARTEMIDE - HORTI VETTIANI - DA ORIGINALE GRECO
IV SEC. A.C. DI KEPHISODOTOS 
Dall'area degli Horti Vettiani, provengono molte statue sicuramente poste nei viali dei giardini:
- la statua di mucca facente parte di un gruppo pastorale, copia dell'originale in bronzo di Mirone creato per l'acropoli di Atene,
- un bassorilievo con un paesaggio sacro e un santuario circondato da alte mura,
- un rilievo frammentario di fattura neoattica con le quadrighe affrontate di Helios (il Sole) e Selene (la Luna),
- due grandi crateri marmorei,
- tre splendidi ritratti imperiali di Adriano, Sabina e Matidia,
- la statua più grande del vero rappresentante Igea,
- la parte superiore della statua di Artemide
- la statua, anch'essa maggiore del vero, della Dea Roma trasformata in Roma Cristiana alla fine dell'Ottocento per decorare la Torre Capitolina.
Le tre ultime sculture sembra ornassero tre nicchioni di un interno del palatio.

Un altro importante complesso di sculture fu scoperto tra il 1872 e il 1873 ad est di piazza Manfredo Fanti, durante la demolizione di un muraglione di fondazione annesso ad un edificio con diverse fasi edilizie dal II al IV sec. Nelle murature dell'edificio fu trovata una serie di fistulae con i nomi di Vettio Agorio Pretestato, praefectus Urbi del 367-368, e di sua moglie Aconia Fabia Paulina, evidentemente della villa di loro proprietà. Qui vennero rinvenuti:
- i ritratti di Adriano e di sua moglie Sabina,
- un cratere marmoreo con le nozze di Elena e Paride
- un altro con un corteggio dionisiaco e
- una testa colossale di Baccante.
- l'eccezionale Auriga dell'Esquilino, recentemente ricongiunto alla statua del cavallo, rinvenuta a qualche centinaio di metri in un altro muro, a formare un notevole gruppo scultoreo.
- la base di una statua recante la dedica a Celia Concordia, una delle ultime sacerdotesse di Vesta, che aveva innalzato una statua a Pretestato dopo la sua morte.
Questa statua fu oggetto di opposizione da parte Simmaco, che scrisse una lettera a Flaviano dicendo di essere contrario alla sua erezione da parte delle Vestali, in quanto queste non avevano mai eretto un monumento ad un uomo, benché pontifex maximus. Invidia forse? Ma perchè le vestali lo amavano tanto, anzi perchè tanta gente lo amò tanto?



RODOLFO LANCIANI

Nel colle Aventino, incontro de la chiesa di santo Alexio, et allato alle rovine delle Therme Deciane, tra infiniti ornamenti della casa di Vettij fu trovata questa base della statua (di Vettius Agorius Praetextatus) « . C/L. VI, 1777. 
STATUA DI IGEA VANDALIZZATA
«... in questo luogo secondo le rovine delle statue delle colonne di varij marmi di mischi peregrini et gli intagli di pavimenti dimostravano esser quivi un gran palazzo... (le dedicationi) trasportate d' indi da M. Francesco Lisca fuori del suo luogo con molte statue che quivi trovòLa casa di Vettio Agorio fu nel colle Aventino intorno all'entrata di santo Alexio, ove era uno bellissimo atrio d'ordine corintio quadrato, con colonne di marmo mischio di diversi colori et di molte statue etc. 

Tutte queste scolture furono trasferite dal Lisca nella sua casa in Parione, dove  le vide e descrisse l' Aldrovrandi l'anno 1551. 

Entrando in una loggia si trova(va)no à man manca queste tre statue:
- una vergine Vestale in piedi vestita all'antica. 
- Una Giulia togata che fu moglie di Pompeio, e figliuola di Giulio Cesare; 
- vi è un Pane mezzo ignudo in pie ma non ha testa ne braccia: lia un Montone à piedi senza testa ... 

A man manca di questa loggia sono altre tre statue:

- una di Pomona che è sotto al portico coperto, et ha il grembo pieno di frutti...
- un' altra della Fama: ha l'ale o smorza una face accesa: 
- un'altra n'è di Diana vestita con una meza Luna in testa, e non ha braccia. 

Nel fronte di questa loggia, nel mezzo è un Bacco ignudo in pie poggiato con un braccio sopra un tronco, nell'altro tiene avolto un cappotto. 

A man manca è una Arethusa nuda dalle coscie in su, e con una mano s'acconcia le treccie in testa 



LE OPERE D'ARTE BLASFEME

Nel volume dedicato all'innalzamento dell'Obelisco Vaticano, l'architetto Domenico Fontana riporta che il pontefice Sisto V fece radere al suolo tutti gli antichi monumenti che ingombravano la sua villa esquilina per regolarizzare con le macerie l'andamento del suolo.

Il che dimostra la tremenda decadenza dei costumi che faceva abbattere opere d'arte in quanto appartenenti ad un periodo di diversa religione che andava cancellato, tra l'altro un lungo periodo di splendore artistico sia greco che romano, un miracolo di architettura, scultura e pittura che investiva ogni angolo di Roma.



VETTIO AGORIO

Sacerdote e iniziato a diversi culti e Misteri, oltre che studioso di letteratura e filosofia. La sua vita è nota principalmente attraverso le opere di Quinto Aurelio Simmaco, Ammiano Marcellino e da fonti epigrafiche.

Simmaco (320 circa-402 circa) fu un importante esponente dell'aristocrazia di rango senatoriale dell'epoca e il maggiore oratore del suo periodo. Di lui si conserva un'ampia raccolta epistolare, discorsi e rapporti di servizio; attraverso questi si è compreso che tra Simmaco e Pretestato c'era una profonda amicizia.

- Simmaco considerava Pretestato un ottimo magistrato e un uomo virtuoso anche se dopo la morte protestò per la sua statua voluta dalle vestali.

- Ammiano Marcellino (330 circa-390 circa) cita Pretestato in tre passaggi delle sue Res Gestae; a differenza degli altri esponenti dell'aristocrazia senatoriale, il giudizio di Ammiano su Pretestato è sempre favorevole.

- Sull'ara funeraria di Pretestato e di sua moglie Aconia Fabia Paulina si trovano parecchie informazioni sulla sua vita.

- Altre informazioni sono fornite da alcune leggi che gli furono indirizzate in qualità di praefectus urbi e di prefetto del pretorio e conservate nel Codice teodosiano, alcune lettere indirizzategli dall'imperatore Valentiniano II e riguardanti una disputa religiosa e conservatesi nella Collectio Avellana.

- Sofronio Eusebio Girolamo (347-420), teologo e polemista cristiano, conosceva l'ambiente aristocratico romano in quanto frequentava le matrone cristiane. Scrisse riguardo a Pretestato in due lettere e nella polemica "Contra Ioannem Hierosolymitanum" (397); il dolore causato dalla morte di Pretestato nelle persone del suo ambiente fu così grande che Girolamo fece eccezione alla sua pratica di non attaccare gli esponenti del paganesimo e scrisse in una lettera che Pretestato era nel Tartaro, all'inferno. Invidia forse per chi era stato tanto amato?

- Ambrogio Teodosio Macrobio  fece invece di Pretestato il protagonista dei Saturnalia, rappresentazione della rinascita pagana romana di quel periodo. L'opera fu però probabilmente composta cinquant'anni dopo la morte di Pretestato, a figura ormai idealizzata.

-  Zosimo, storico della prima metà VI secolo che aveva tra le proprie fonti Eunapio e Olimpiodoro di Tebe, parla nella sua Storia nuova di Pretestato come di un difensore dei culti ellenici in Grecia.

BASE DELLA STATUA DI VETTIO PRETESTATO


LE ORIGINI

Non conosciamo la sua data di nascita, sicuramente apparteneva alla generazione precedente a quella di Quinto Aurelio Simmaco (320-403) e di Virio Nicomaco Flaviano (334-394), conosciamo invece la data della sua morte, nel 384, e che era stato sposato ad Aconia Fabia Paulina per quaranta anni. Se Paulina fu la sua prima moglie e se Pretestato si sposò tra i venti e i venticinque anni, come usava all'epoca, dovrebbe essere nato tra il 314 e il 319.

Oppure nacque tra il 310 e il 324, se si tratta dello «Pretestato lo ierofante», che secondo Giovanni Lido prese parte in qualità di pontefice alla cerimonia di polismós durante la fondazione di Costantinopoli (nel 330 circa), tanto più che che Vettio Agorio ricoprì la carica di pontifex Vestae, La cosa è controversa.

Si ritiene che suo padre sia stato Gaio Vettio Cossinio Rufino (praefectus urbi di Roma nel 315-316), sia per il nome, sia perché ricoprì diverse cariche poi ricoperte da Pretestato (corrector Tusciae et Umbriae, proconsul Achaiae, pontifex Solis e augur) e sappiamo che nelle famiglie dell'aristocrazia senatoriale romana era comune che le cariche politiche, amministrative e religiose passassero dai padri ai figli.
Però passano oltre cinquant'anni tra le rispettive reggenze della prefettura urbana (Pretestato fu praefectus urbi nel 367), per cui si ritiene che Cossinio Rufino fosse il nonno di Vettio e che il padre fosse Vettio Rufino, console nel 323.

Agorio, dati i suoi illustri natali, ebbe rapporti con molti altri aristocratici, tra cui Quinto Aurelio Simmaco e suo padre Lucio Aurelio Avianio Simmaco, Virio Nicomaco Flaviano, i senatori Volusio Venusto e Minervio. Nel 344 sposò Aconia Fabia Paulina, figlia di Fabio Aconio Catullino Filomazio, praefectus urbi del 342-344 e console del 349 e i due ebbero almeno un figlio, citato nel poema funebre e che fece incidere una iscrizione in onore del padre, poco dopo la sua morte, nella loro casa sull'Aventino.



ACONIA FABIA PAULINA

Figlia di Fabio Aconio Catullino Filomazio, console nel 349, Paulina sposò nel 344 Vettio Agorio Pretestato, funzionario imperiale e membro di diversi collegi pagani. Ella ebbe un suo percorso religioso:

- iniziata ai Misteri Eleusini,
- iniziata ai Misteri Lernici di Dioniso e Demetra,
- iniziata al culto di Cerere,
- iniziata al culto di Ecate, di cui fu ierofante,
- iniziata al culto della Magna Mater, come tauroboliata,
- iniziata al culto di Iside.

Pretestato e Paulina avevano una domus sull'Esquilino, tra via Merulana e via dell'Arco di San Vito, nei pressi dell'attuale Palazzo Brancaccio.. I giardini che circondavano l'abitazione, gli Horti Vettiani, si estendevano fino alla stazione di Roma Termini. I ritrovamenti archeologici in questa area sono riconducibili alla famiglia di Pretestato.

Oltre ad alcuni tratti di fistulae aquariae vi è la base di una statua recante la dedica a Celia Concordia, ultima o penultima sacerdotessa di Vesta. Clelia aveva innalzato una statua a Pretestato dopo la sua morte (384): in cambio, Paulina le dedicò a sua volta una statua, con la dedica:
«Fabia Aconia Paulina erige questa statua di Celia Concordia, gran sacerdotessa delle Vestali, non solo a testimonianza delle sue virtù, della sua castità e della sua devozione agli Dei, ma anche come segno di ringraziamento per l'onore concesso dalle Vestali a suo marito Pretestato, al quale hanno dedicato una statua nel loro collegio
(CIL VI, 2145)

Sulla base di un monumento funebre dedicato a Pretestato, sono incisi il cursus honorum del marito di Paulina, due dediche di Pretestato alla moglie e un poema di Paulina dedicato al marito e al loro amore coniugale, forse una derivazione dell'orazione funebre declamata da Paulina per il funerale del marito. Paulina morì poco tempo dopo il marito.



CURSUS DI VETTIO AGORIO


L'ara funeraria di Pretestato e di sua moglie Aconia Fabia Paulina, conservata presso i Musei Capitolini, ci enuncia tutto il cursus di Pretestato.


IN CAMPO RELIGIOSO  

PONTIFEX
- pontefice di Vesta e del Sole,
- augure,
- curiale di Ercole.
- partecipò ai culti della Magna Mater (tauroboliatus),
- partecipò ai culti di Mitra, con il rango di pater sacrorum e di pater patrum, autorità centrale del culto,
- partecipò ai culti di Ecate come ierofante;
- fu iniziato ai misteri di Dionisio,
- fu iniziato ai Misteri Eleusini di Demetra e Kore (sacratus Libero et Eleusiniis),
- partecipò ai misteri di Iside e Serapide (neocoro).
- fu grande devoto di Vesta.


IN CAMPO POLITICO

- questore,
- corrector Tusciae et Umbriae (amministratore di un'area di provincia),
- consularis (governatore) della Lusitania,
- proconsole di Acaia,
- praefectus urbi (367-368);
- nel 384 fu Prefetto del pretorio d'Italia e Illirico,
- console eletto per il 385, carica che non ricoprì mai in quanto morì nel tardo 384.

Durante il suo mandato di praefectus urbi restituì al vescovo di Roma Damaso (I pontefice massimo dopo la rinuncia alla carica dell'imperatore Graziano) la basilica di Sicinino e fece espellere l'altro vescovo Ursino da Roma, riportandovi la pace sebbene garantisse un'amnistia ai suoi seguaci.

«L'ardore di Damaso e Ursino per occupare la sede vescovile superava qualsiasi ambizione umana. Finirono per affrontarsi come due partiti politici, arrivando allo scontro armato, con morti e feriti; il prefetto, non essendo in grado di impedire i disordini, preferì non intervenire. 

Ebbe la meglio Damaso, dopo molti scontri; nella basilica di Sicinnio, dove i cristiani erano riuniti, si contarono 137 morti e dovette passare molto tempo prima che si calmassero gli animi. 

Non c'è da stupirsi, se si considera lo splendore della città di Roma, che un premio tanto ambito accendesse l'ambizione di uomini maliziosi, determinando lotte feroci e ostinate. 

Infatti, una volta raggiunto quel posto, si gode in santa pace una fortuna garantita dalle donazioni delle matrone, si va in giro su di un cocchio elegantemente vestiti e si partecipa a banchetti con un lusso superiore a quello imperiale.»

(Ammiano Marcellino)

S. DAMASO IL PLURIOMICIDA SANTO
Comunque, per quanto assassino, il vincitore Damaso venne fatto santo dalla Chiesa cattolica e il perdente Ursino diventò antipapa. Un po' come l'ambizione per il trono imperiale, chi perdeva diventava usurpatore, chi vinceva diventava imperatore.
Pretestato fu uno degli ultimi difensori della religione romana nel tardo impero. Riguardo ai suoi rapporti con i cristiani, è noto che una volta Pretestato ebbe a dire ironicamente a papa Damaso I «eleggetemi vescovo di Roma, e mi farò cristiano». Fu amico di un altro esponente dell'aristocrazia pagana romana, Quinto Aurelio Simmaco, che ebbe con lui uno scambio epistolare parzialmente conservatosi. 

La amministrazione della giustizia di Vettio fu molto lodata: 
- fece rimuovere le strutture private costruite sui templi pagani (balconi, colonnati, piani rialzati, nel loro complesso detti maeniana) e diffuse in tutta la città pesi e misure controllate e uniformi.
Come praefectus urbi curò il rifacimento del Portico degli Dei Consenti nel Foro Romano, l'ultimo grande monumento dedicato a Roma al culto pagano; sebbene si trattasse di un semplice restauro delle strutture e delle statue danneggiate, l'azione fu molto simbolica, in quanto gli Dei Consenti erano i protettori celesti della classe senatoriale, la quale classe era il garante dei limiti dell'imperatore.
- Come Prefetto del pretorio diede inizio ad indagini sui casi di demolizione di templi in Italia per mano di cristiani. 
- Come proconsole di Acaia si appellò contro l'editto di Valentiniano I che proibiva i sacrifici notturni durante i Misteri, affermando che avrebbe reso impossibile la vita ai pagani: Valentiniano allora ritirò il provvedimento.

Dopo la sua morte l'imperatore chiese al Senato romano una copia di tutti i suoi discorsi, mentre le Vestali proposero all'imperatore di erigergli delle statue.

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