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MONS OPPIUS - COLLE OPPIO

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VEDUTA DAL MONS OPPIUS
Il Colle Oppio è una delle tre alture che, con Fagutal e Cispius costituivano il Mons Esquilinus. Festo, secondo notizie dateci da Varrone, racconta che il colle Oppio e il colle Cispio che si trovano sull'Esquilino furono chiamati così perché durante una battaglia per difendere Roma dai ribelli Albani, il colle Oppio fu difeso dal condottiero omonimo, Oppius, che capeggiava i Tuscolani e il colle Cispio fu difeso dal condottiero Levio Cispio che capeggiava gli Anagnini.

Il colle fu sede di uno dei villaggi da cui sorse Roma, e la memoria di questa nobile discendenza resta ancora in epoca repubblicana, come dimostra un'iscrizione rinvenuta presso le Sette Sale, alle Terme di Traiano, che cita il restauro del sacellum compitale fatto a spese degli abitanti (de pecunia montanorum).

Nella suddivisione augustea della città il Mons Oppius fu compreso nella Regio III, denominata Isis et Serapis dal grande tempio che sorgeva alle sue pendici sudorientali, tra le odierne via Labicana e via Merulana.

Il parco di Colle Oppio si estende su una buona parte della superficie anticamente occupata dalle Terme di Traiano e di Tito e custodisce i resti della Domus Aurea.

Già sede (in direzione del Vicus Suburanus) del Portico di Livia, l'altura fu occupata in epoca neroniana dalla Domus aurea e dalle successive Terme di Tito e di Traiano. Vi si stabilirono poi, in epoca cristiana, il Titulus Eudoxiae (oggi San Pietro in Vincoli) e il Titulus Equitii (oggi San Martino ai Monti).



TEMPIO DI ISIDE METELLINA

Il santuario era molto esteso e si sviluppava principalmente su due terrazze, con un lunghissimo fronte meridionale di ben 260 m, un po' sullo stile del tempio della Fortuna primigenia a Palestrina, collegate tra loro con rampe e gradinate, con ringhiere, viali, erme, vasi a calice, statue, colonne, piccoli obelischi ed enormi fontane caratteristiche delle divinità salutari. Il fronte del tempio era ampissimo, si pensi che il diametro più lungo del Colosseo è di m 188, e il famoso Iseo Campense era lungo 240 m, meno dell'Iseo metellino.

LA VASCA DESTRA DELLA FONTANA FACEVA PARTE
DEL TEMPIO DI ISIDE
I ruderi di piazza Iside vengono interpretati come una fontana monumentale, visti i vari fori e le condutture per l'acqua, di cui si scorgono ancora le imboccature in argilla cotta, posti a diverse altezze. Sicuramente con una piscina centrale, ma, come usava per le terme, abbellita da vasche di marmi colorati, con colonne di granito, pomici, statue e stucchi, e con strutture che proseguono lungo Via Villari nella proprietà delle Suore del Buono e Perpetuo Soccorso, per l'antica abitudine di edificare luoghi di culto cristiani sopra i templi pagani, affinchè di questi non restassero traccia nè ricordi.

Nel processo di cristianizzazione dell'impero dunque anche questo culto soffrì delle spoliazioni non di Costantino che al contrario di ciò che si crede non fu ostile ai culti pagani, ma di Massenzio, poi degli editti imperiali che ne vietavano il culto, e soprattutto di Teodosio, che abrogarono totalmente i culti pagani, trasformando Roma, da faro di civiltà per le leggi e la tolleranza delle diverse popolazioni e religioni, a sede di una religione intollerante, integralista e persecutoria.

GROTTESCHE DELL DOMUS AUREA

LA DOMUS AUREA

Sul Colle Oppio giacciono i resti della Domus Aurea, la lussuosissima villa di Nerone, che  si estendeva su oltre 80 ettari dalle pendici del Palatino, al Celio, fino agli Orti di Mecenate, e tutto il complesso comprendeva oltre all'edificio residenziale un ampio giardino e sull'area che poi venne occupata dall'Anfiteatro Flavio, il Colosseo, era occupata da un enorme lago artificiale. 

Le ricerche archeologiche hanno evidenziato la presenza sul piano superiore della Domus Aurea di impianti sistemati a giardini, ninfei e peristili. Alla morte di Nerone la Domus Aurea venne fatta distruggere da Vespasiano.

Della domus sono state rinvenute 150 stanze, di cui ancora 15 interrate e 8 non raggiungibili, costruite in opera laterizia, con volte a botte di altezza di 10 metri e oltre.

TERME DI TRAIANO

LE TERME DI TRAIANO

Le Terme di Traiano, edificate sulla sommità del colle Oppio, sorsero sopra la Domus Aurea il cui piano superiore venne abbattuto e rasato, mentre il piano inferiore, spogliato di tutti i materiali preziosi e dei rivestimenti di marmo, venne rinforzato con grandi muri creando una serie di gallerie con le volte a botte. 

Tutte le aperture verso l'esterno della Domus Aurea vennero chiuse e riempite di terra e macerie creando un terrazzamento, su cui vennero edificate le Terme. Alle terme vennero aggiunti gli ambienti di soggiorno e di studio, con una grande esedra. La riserva di acqua era assicurata dalla cisterna delle Sette Sale, in realtà 9 cisterne parallele e comunicanti tra di loro.

Il taglio degli acquedotti di Roma nel 539 da parte del re degli Ostrogoti, Vitige, determinò l'abbandono delle Terme di Traiano e del colle Oppio, che per tutto il medioevo venne occupato da orti e vigne e per secoli si perse anche il ricordo della Domus Aurea. Venne s coperta nel XV secolo, quando gruppi di artisti calandosi dall'alto con delle corde sbalordirono e copiarono quei disegni sulle "grotte" che in seguito vennero definiti "grottesche".

Le grottesche col loro mondo fantastico e allegro vennero copiate dal Ghirlandaio, Pinturicchio, Perugino, Filippino Lippi, Raffaello, Giovanni da Udine, Perin del Vaga e Giulio Romano, finalmente si capì, come riconobbe lo stesso Raffaello, lo splendore del devastato e cancellato impero romano.

RICOSTRUZIONE DELLE TERME DI TRAIANO

IL CRIPTOPORTICO

Il criptoportico delle Terme di Traiano fa parte di un edificio di età Flavia coetaneo della Domus Aurea. Il piano di calpestio alla base insomma risale al 60 dell’era volgare. Sopra il criptoportico e il mosaico ci sono le terme di Traiano inaugurate nel 109.


Dal cd. "Criptoportico" delle Terme di Traiano
da un art. di Simone82

E' stata presentata a Roma la scoperta di un frammento di mosaico del cosiddetto "Criptoportico" delle Terme di Traiano sul Colle Oppio, un'area miracolosamente sopravvissuta alle distruzioni e all'urbanizzazione postclassica, nella quale le testimonianze archeologiche si sono conservate quasi intatte: merito in parte dello stesso imperatore Traiano e poi della trasformazione a vigne e orti perdurata fino alla creazione del Parco durante il Ventennio.

MOSAICO DEL CRIPTOPORTICO
Il frammento di mosaico, inizialmente attribuito ad Apollo ma quasi certamente invece da identificare con Diomede e il ratto del Palladio (o per alternativa Oreste e il ratto della statua di Artemide Taurica), si trova sulla parte destra di una parete lunga 16 m: lo scavo ha raggiunto una quota di 2 m, ma si ritiene che possa proseguire molto in profondità, forse per altri 10 m. 

Di sicuro, i frammenti decorativi sono stati solo parzialmente riportati alla luce, per cui è possibile che altri frammenti della decorazione parietale siano ancora conservati sul muro. 

Nelle numerose stanze che compongono quest'area sotterranea del colle, sono già emersi altri famosi frammenti di mosaici e dipinti: il notissimo affresco della "Città Dipinta" nel febbraio 1998, il mosaico con Musa e Filosofo nel maggio 1998, l'esplorazione del mosaico con scena di vendemmia nel gennaio 2005. 

Dopo l'abbandono della Domus Aurea voluta dal defunto imperatore Nerone, oltre alle monumentali opere dei Flavi (Anfiteatro Flavio con relativi Ludi e Terme di Tito su tutte), si impiantano una serie di edifici che proseguono l'orientamento N-S della precedente Domus, per lo meno fino al 104 d.c.. 

Allora un secondo grande incendio che colpì l'area distrusse quel poco che rimaneva del sogno neroniano e diede la possibilità all'imperatore ispanico di progettare, insieme ad Apollodoro di Damasco, quell'incredibile rivoluzione architettonica che furono per l'epoca le Terme di Traiano, rimaste in uso fino al V-VI sec. d.c.

Il quartiere era così organizzato: l'edificio con affresco, di tipo rappresentativo e non decorativo, aveva una tipologia pubblica, databile in base all'analisi della cortina laterizia ad epoca vespasianea, forse parte degli edifici della Prefettura Urbana, forse la stessa "Biblioteca" delle Terme. 

Nei muri interni di questo edificio è stato ritrovato il frammento di mosaico con scene di vendemmia, decorante parte della sua volta: nei riempimenti dell'ambiente si trovano certamente parti del mosaico, crollate con il tempo, molte delle quali già recuperate ed ora in fase di restauro. 

A metà galleria, antistante detto edificio, si trova un vasto ambiente, su cui affacciava un ninfeo sotterraneo (la cui nicchia centrale, lungo la parete di fondo, presenta un rivestimento in mosaico azzurro con girali), sulla faccia del quale si trova il mosaico parietale con Musa e Filosofo su un prospetto architettonico di sfondo.


Appare evidente la somiglianza del soggetto con Diomede, l'eroe greco figlio di Tideo, invincibile guerriero della tradizione omerica, legato a numerose tradizioni delle terre italiche (Spina, Arpi, Canosa, Venosa e Brindisi si dice fossero state fondate da lui). 

Nell'immagine seguente è visibile il tema del "ratto del Palladio" in una statua di Kresilas, nella copia romana di un originale greco di V sec. a.c. dalla collezione Albani alla Glyptothek di Monaco, messo a confronto proprio con il mosaico del criptoportico:

La somiglianza pare molto più diretta in questo caso rispetto ad un Apollo Kitharoidos, che ha tutt'altra raffigurazione (si veda ad es. la statua della collezione Ludovisi a Palazzo Altemps, la copia di Timarchides ai Musei Capitolini o l'aureo di Augusto). Il dubbio è generato dalla posizione della mano sinistra, che regge qualcosa: la cetra (come da prima identificazione), che collega il mosaico con Apollo, oppure una faretra o simile, che l'avvicina di più a Diomede? In tal modo risulterebbe errata l'identificazione di questo edificio con un Musaeum e forse anche la sua identificazione con un ambito residenziale.


IUVANUM (Abruzzo)

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IUVANUM, RICOSTRUZIONE DEL FORO
Iuvanum è un sito archeologico di epoca romana posto nello splendido scenario della Majella orientale, e si trova nelle campagne di Montenerodomo, in provincia di Chieti. I monumentali resti dell’antica Iuvanum costituiscono uno dei più importanti siti archeologici della regione.

Dell’insediamento originario, dei Sanniti-Carricini, rimane il santuario arcaico, con due templi affiancati, e il piccolo teatro con scena e gradini in pietra. All’età romana risale invece la gran parte dei resti archeologici oggi visitabili: strade lastricate, la grande piazza centrale (il foro), pavimentata con lastre di pietra e circondata da botteghe ed edifici pubblici, e poco distanti le terme.

A ridosso del sito, un moderno edificio ospita il Museo Archeologico, che dispone di un percorso appositamente pensato per gli ipovedenti, e il Museo della Storia e Trasformazione del Paesaggio.

Sono resti di un insediamento romano successivo alla guerra sociale (91-88 a.c.) un foro, un tempio e una basilica e si pensa che il nome derivi dal fatto che il centro fosse abitato inizialmente da iuvenes ("giovani").

IL SITO ARCHEOLOGICO
Nel Liber Coloniarum Iuvanum viene elencato come Jobanos e Plinio il Vecchio afferma che Juvanenses è una derivazione di Lanuenses, ma si pensa non abbia a che fare con Iuvanum che probabilmente dovette il suo nome invece da un santuario dedicato a Iuventas, la Dea della gioventù.

Il centro originario si trova lungo l'odierna strada che da Montenerodomo porta a Torricella Peligna. E' probabile che il primo nucleo si trovasse su una sorgente ove i pastori dediti alla transumanza facevano abbeverare le loro greggi.

Nell'età repubblicana è da ricercare l'oppido preromano che si è sviluppato sulle colline limitrofe tutt'intorno. Già prima della guerra sociale risulta essere municipio romano. Il municipio comprendeva i seguenti paesi:

- Montenerodomo (antica città frentana-carecina che, verso il IV-III secolo venne spostata a valle ove divenne municipio romano)
- Torricella Peligna (La fondazione di Torricella si fa risalire secondo la tradizione locale ad un esodo dagli esuli di Juvanum, durante le guerre bizantine del VI secolo d.c.)
- Taranta Peligna (epoca preromana e romana)
- Palena (epoca preromana e romana)
- Gessopalena (In Monte San Giuliano sono stati ritrovati resti di mura megalitiche di epoca preromana, Durante la costruzione della via Peligna, venne ritrovata una statua raffigurante una sfinge).

LA FONTE
Reperita un'iscrizione di Juvanum dove un certo Poppedius fu "Patronus Munic(ipii) Iuvanens(is)". Il municipio fu iscritto alla tribù Arniensis e fu gestito da quattuomviri. Nel centro abitato vi erano dei seviri augustales (magistrature minori in genere a carattere onorario) e la divinità principale era Ercole, culto gestito dal collegium Herculaniorum (congregazione di pii dedicati al culto di Ercole). Nel 325 vennero restaurate le mura dal governatore provinciale Fabio Massimo il quale restaurò le mura e fece erigere il secretarium.

La città romana fu attiva fino al IX secolo d.c. circa, quando si spopolò per la costruzione di nuovi centri fortificati per difendersi dalle incursioni barbariche. Nacquero così i castelli di Montenerodomo e Torricella Peligna. 

La città romana fu spogliata, inoltre, per l'edificazione di case pastorali, e per la costruzione della vicina Abbazia di Santa Maria in Palazzo. Fino alla seconda metà del '900, la città romana era caduta in oblio, e l'erba l'aveva interamente ricoperta, tranne le colonne di alcuni templi, che furono prelevate nel 1933 per il restauro della chiesa parrocchiale di San Martino di Montenerodomo. Il sito è stato completamente riportato alla luce negli anni '90.

Grosso modo Juvanum era composto da un foro posto al centro dell'abitato, una basilica posta a destra del foro, a sinistra si apriva la via Orientale e sullo sfondo si elevava la collina dell'acropoli.

ISCRIZIONE DELLA PIAZZA

IL FORO

Il Foro, luogo di aggregazione sociale e di mercato, mostra una grande piazza rettangolare, tutta lastricata, che misura metri 64 x 27,50. Alcuni lastroni del pavimento del foro recano delle incisioni.

L'intera piazza del foro è circondata quasi per intero da portici che costeggiavano delle tabernae, con botteghe artigianali e commerciali, sostenuti da 13 colonne sui lati maggiori e 8 su quelli minori. Le colonne erano 8 x 18, mentre l'intercolumnio misurava 3,90 metri. Nella piazza vi erano anche delle statue come si può ipotizzare da alcuni basamenti ritrovati.
Naturalmente assunse la sua forma monumentale solo in età augustea, quando si realizzo il foro lastricato, con le statue poste tra le colonne e si edificarono importanti edifici pubblici.Sono state infatti rinvenute molte le iscrizioni che celebravano fatti e personaggi influenti.

Una iscrizione pavimentale con lettere in bronzo fuse nella pietra su tre righe caratterizzava la piazza, che era dedicata ad un uomo politico, un tale Herennius Capito che nella metà del I sec. d.c. realizzò la pavimentazione del foro a sue spese. Capitava sovente tra gli antichi romani che un influente personaggio facesse una grossa donazione alla sua città per conquistare voti elettorali.
All'epoca questo fenomeno era detto evergetismo e veniva usato spesso per venire eletti in un'importante carica pubblica. era una forma di pubblicità, ma non era corruzione perchè ne usufruivano tutti i cittadini.

Ancora oggi passeggiare nel foro di Iuvanum è un'esperienza emozionante, sono visibili i fori delle iscrizioni in bronzo colato, il perimetro della piazza e la base del porticato, le fondamenta degli edifici, la basilica e le strade.

LE MURA MEGALITICHE

LE MURA

Le mura poligonali risalgono al IV e III secolo a.c. erano atte a difendere un'area di culto forse dell'acqua. Erano situate presso un colle roccioso nelle vicinanze del borgo vecchio della città di Montenerodomo ed erano mura poligonali con pietre a secco di epoca sannitica. Nel III secolo a.c. l'abitato venne spostato più a valle, ove sorse Juvanum.

I TEMPLI

I TEMPLI

Intorno al III sec a.c. si sviluppò sulla cima di una collina nei pressi di Montenerodomo il santuario di Iuvanum, forse su un preesistente luogo di culto legato all'acqua.

Sulla sommità dell’acropoli, nella prima metà del II secolo a.c. i Carricini, una delle quattro tribù che componevano il popolo sannita, edificarono un tempio, su alto podio in opera quadrata rivestita da lastre in pietra con scalinata centrale e quattro colonne con capitello dorico.

Il tempio conserva delle tracce di antico podio con dei pezzi di travertino. Le misure del pavimento dovevano essere di 21,30 X 12,60 metri, mentre l'ingresso era di 9 x 2,6 metri. Le misure possono essere imprecise, dato che sopra il tempio, intorno all'anno mille, i benedettini edificarono un'abbazia, Santa Maria del Palazzo utilizzando le pietre dell'antica città e del tempio che divenne la fondamenta del nuovo edificio di culto.

IL SANTUARIO DEL III SEC: A.C.
Successivamente, ma sembra nello stesso secolo, l’area sacra venne ampliata con la costruzione di un secondo tempio più piccolo, anch’esso su podio, con cella unica preceduta da un pronao con gradinata, ora scomparsa. Intorno al II secolo a.c. venne costruito un 2° tempio ad una distanza di 3,9 metri dal tempio precedente. Di questo tempio rimane solo il podio. 

Le epigrafi citano i culti di Eracle, Diana, Vittoria e Minerva. I due templi sono di influenza ellenistica importata da alcune maestranze campane e la diffondono in tutto il Sannio-Pentro tramite richiesta di alcuni committenti, (i pentri erano una delle quattro tribù sannite stanziate nel Sannio settentrionale, a cavallo delle attuali province di Isernia, Campobasso, L'Aquila e Chieti, tra Molise e Abruzzo).

A sud-est della collina con l'acropoli è stata trovata la cavea del teatro, di impianto sannita, risalente al II secolo a.c. di cui sono rimaste le prime 7 file di gradini costruito con delle pietre più piccole ai lati e più grandi al centro. La frons scenae è a tre nicchie. Il teatro, posto al di sotto dell'area dei templi non è in simmetria con i teatri sulla parte alta del sito.



LE TERME

Poco distante troviamo le fondamenta di un imponente edificio, oggetto di scavi negli ultimi anni, probabilmente utilizzato per attività termali.

LA BASILICA

LA BASILICA

La basilica era a pianta absidale (struttura architettonica a pianta semicircolare o poligonale con volta generalmente a semicupola) e pavimento a lastre di marmo, vi si praticava secondo alcuni il culto imperiale, secondo altri, e con più probabilità, i processi e la giustizia.

A sud est del foro sono stati ritrovati alcuni vani:

- il vano W aveva funzione, forse, di cucina, come pare attestare la presenza di un focolare al centro;
- il vano B è una taberna di un medico dato il ritrovamento di attrezzi medici usati anche nel campo della cosmetica e farmaceutico;
- il vano K probabilmente era la stanza di una ornatrix come paiono attestare oggetti ivi rinvenuti appartenenti al mundus muliebris celati da bipedali.

- A sud est del portico del foro, si apre la città giulio-claudia. Uno degli altri ambienti ha ridato alla luce una mola olearia utilizzata per il riempimento della pavimentazione. Alcuni ritrovamenti sotto la città romana fanno ipotizzare un antico insediamento rurale.

- Due delle vie di Juvanum vengono chiamate in modo fittizio, dato che non si conosce il loro nome reale, "Via del Foro" e "Via Orientale". Le due vie non sono strutturate con vie ortogonali e non attraversano il foro.
- La Via del Foro era pavimentata con delle lastre a struttura regolare. La lunghezza della via era di 5,30 metri.

I RESTI DEL TEATRO
- Della Via Orientale ne rimane un tracciato di 90 metri di lunghezza per 3 metri di larghezza. I lastroni di pavimentazione sono delimitati da argini.

Varie ceramiche a patera del II e I secolo a.c., mentre tra il I secolo a.c. ed il I secolo d.c. vengono realizzate le coppa da mensa in sigillata italica liscia o con decorazioni di barbottine (legante semliquido, ottenuto dall'impasto di acqua e argilla).

Delle fibule ad arco semplice del tipo Aucissa, della fine del I secolo d.c. che prende il nome di un fabbricante celtico iscritto sulla fibula.

Una tomba di un bambino con due bronzetti raffiguranti Ercole recante una lamina d'argento con un'incisione riempita a niello (lega metallica nera usata come intarsio nell'incisione di metalli).

Delle statue di togati di cui uno con una bulla, forse raffigurante un membro della famiglia imperiale, un altro con un mantello.

Nel Museo archeologico di Juvanum sono conservate alcune suppellettili di Juvanum. È stato inaugurato nel 2006. Nel Museo Archeologico Nazionale d'Abruzzo di Chieti vengono conservati frammenti architettonici di Juvanum.

VIA LAURENTINA

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ANTICA VIA LAURENTINA
"Roma, un tratto dell'antica Laurentina riemerge dal cantiere per il distributore. Verrà reinterrata per far posto a un distributore di benzina che ovviamente distruggerà o alienerà ogni bene del sottosuolo. L'antica Laurentina, larga 6-8 metri, che seguiva il percorso dell'attuale via di Decima, per poi penetrare all'Eur e dirigersi verso il centro, è stata lungamente studiata e in alcuni tratti anche scavata. Nel 2011 gli archeologi hanno esplorato un tracciato di poco meno di 300 metri, che corre quasi parallelo a Via di Decima e si congiunge al tratto scoperto su via dell'Acqua Acetosa Ostiense.
"Ora concluderemo gli studi, per cercare di capire se accanto alla strada scoperta vi sono altri reperti, come necropoli o cave - conclude Buccellato - anche se un tratto interessato da arterie stradali così imponenti è ormai occupato dalla città moderna. D'altronde a Roma, se scavi, trovi". In centro e in periferia, che siano strade, ville, o sarcofagi romani."

(R.it - Arianna Di Cori)

NECROPOLI DI VIA LAURENTINA

RODOLFO LANCIANI

A San Paolo alle tre Fontane sulla via Laurentina nel lavoro dell'orto dei Trappisti venne alla luce un cippo di marmo, che nella parte superiore è decorato di un busto femminile entro la nicchia: ai lati è scolpito un albero con frutta, simile alle mele, ma che non ho potuto ben discernere. L'iscrizione incisa nella fronte, è scolpita pure nel lato postico :
D • M
SVLPICIA • PALES
TRICE • ET • Q_- SVL
PICIVS • B ASILIS
C VS • FECERVNT
SVPICIAE • AC TE
FILIAE-PIENTISSIMAE
ET . SIBI
Quella ripetuta di dietro, la quale doveva riguardare il sepolcro, mentre quella dinanzi prospettava la via, differisce solo nella disposizione dei versi :
D . M
SVLPICIA • PA
LESTRICE-ET
Q^SVLPICIVS
BASILISCVS
FECERVNT
SVLPICIAE-ACTE
FILI AE
PIENTISSIMAE
ET-SIBI

NECROPOLI VIA LAURENTINA

VIA LAURENTINA

L'attuale via Laurentina era l'antica strada che, corrispondendo a via delle Tre Fontane, procedeva oltre la Chiesa di San Paolo alle Tre Fontane (Ad aquas salvias, dove sorgeva un tempio alla Dea Dia di cui rimane l'altare dedicato), passava per la località di Monte Migliore (circa al ventunesimo km di via Laurentina), e giungeva fino ad Ardea.

Secondo Dionigi di Alicarnasso, Ardea fu fondata da Ardeas, figlio di Odisseo e Circe. Un'altra leggenda fa risalire Ardea, nel XV secolo a.c. a Danae, figlia del re di Argo, che dopo la nascita di Perseo da Zeus, sarebbe giunta sulle coste laziali e avrebbe sposato il rutulo Pilumno. Insieme decisero di fondare una nuova città sulla ripida rupe tufacea, scoperta risalendo il fiume.

Ovidio invece riferisce l'origine del nome di Ardea all'alzarsi in volo di un airone cenerino (ardea cinerea) dopo l'incendio e la distruzione della città ad opera di Enea, vittorioso sul re rutulo Turno, figlio di Dauno, a sua volta figlio di Danae e di Pilumno.

ALTARE DELLA DEA DIA ALLE TRE FONTANE
«Turno muore. Ardea cade con lui, città fiorente finché visse il suo re. Morto Turno, il fuoco dei Troiani la invade e le sue torri brucia e le dorate travi. Ma, poi che tutto crollò disfatto ed arso, dal mezzo delle macerie un uccello, visto allora per la prima volta, si alza in volo improvvisamente e battendo le ali, si scuote di dosso la cenere. Il suo grido, le sue ali di color cenere, la sua magrezza, tutto ricorda la città distrutta dai nemici. Ed infatti, d'Ardea il nome ancor gli resta. Con le penne del suo uccello Ardea piange la sua sorte»
(Ovidio, Metamorfosi, XV.)

Giunta ad Ardea, la Laurentina proseguiva nella diramazione della attuale via di Trigoria, nota in passato come via di Pratica, cioè di Pratica di Mare, l'antica Lanuvium. Ora trigoria dovrebbe derivare o dal latino "tres gores" (tre fiumi, però in zona questi tre fiumi non ci sono mai stati.), oppure dal greco Τρι-οδια (Trivium), oppure da Trigonia, triangolata, o Triplice, o Trinitaria, o Trinità.Il significato è lo stesso, è la Grande Madre Natura, la Grande Dea che dà la vita, il nutrimento e la morte. Esisteva tra i romani il culto della Venere Trivia, ma anche della Ecate Trivia, si sa che ai trivi venivano collocati i santuari della ierodulia, la prostituzione sacra.
Dall'antica Via Trigoria la via Laurentina giungeva presso Laurentum, da cui il nome della via.

PORTA NEVIA
Nella Tavola Peutingeriana l'unica via che collega Roma con Laurento è una via priva di denominazione della lunghezza di XII miglia (km 17,7 ca.). Considerando che la Tavola nel suo impianto originario risale al I secolo a.c., la riproduzione della via senza nome potrebbe far pensare o ad un asse viario composto da più tratti, o ad un tracciato viario ormai in disuso, soppiantato in parte nei primi secoli dell'era cristiana dal tracciato attuale, definito da Ashby come un diverticolo che collegava l'Ostiense con la Laurentina antica (forse nei pressi di Tor Pagnotta, situata tra le vie Laurentina e Ardeatina), per raggiungere il santuario della Dea Dia alle Acque Salvie.

Rodolfo Lanciani ad inizio secolo XX nel suo studio sulle antichità del territorio laurentino, avvalorando le ricerche fatte da Pietro Rosa, nel sostenere che la strada dovesse procedere in modo pressoché rettilineo e radiale rispetto alle mura serviane, non spiega perchè la via Laurentina, invece che dalla porta Raudusculana dovesse uscire insieme alla Ardeatina dalla Porta Naevia, costringendola a percorrere un'ansa verso est per farla ricongiungere alla attuale Laurentina al VI miglio nei pressi dei ritrovamenti archeologici identificati come il sito dei rituali dei Terminalia, ed allungarne il percorso rispetto alla lunghezza data da Plinio.

BASOLATO ROMANO DELLE ACQUE SALVIE
Numerose citazioni di Cicerone, Plinio il Giovane e Simmaco che rispetto a questa parte del suburbio di Roma scrivono di ville e possedimenti lungo la Via Ostiense, riportando nomi di proprietari famosi o sconosciuti, a cui si possono aggiungere quelli tramandatici dalla documentazione epigrafica su cippi e da tubazioni plumbee.

Il nome della via Laurentina scompare dopo il V secolo per ricomparire solo nel XVI secolo nella cartografia dell'agro romano attribuendolo a diramazioni dalla via per Ostia. 

Appare inoltre discutibile attribuire la medievale località di Ponte o Castel di Decimo (oggi Decima), sorto nei pressi di un sito pre-romano, alla via Laurentina; perchè il miliario rinvenuto dovrebbe dovrebbe indicare la distanza tra questa e la Porta S. Paolo sulla via Ostiense, abbandonandola all'altezza di via di Decima per percorrerla fin quasi al limitare dell'ager laurentinus, e incorporando parte della numerazione dell'Ostiense, ipotesi che non concorda con Plinio il Giovane che distingue invece le due vie, per cui la strada che collegava a Laurentum, traversasse territori a lei ostili e non ancora sotto il suo controllo.

Sembra che la Via Laurentina sia quella che portava fuori dalla Porta Ardeatina delle Mura Aureliane e andava direttamente a Tor Paterno, mentre la strada che dalla Via Ostiense al terzo miglio, e poi da Decimo a Lavinio (Pratica), che traversa l'altra strada ad angolo retto non lontano dalla sua destinazione (la Laurentina che corre SW e quella di Lavinium SE) può per comodità essere chiamata Lavinatis, anche se questo nome non si verifica in tempi antichi. 

La fondazione di Lavinium è attribuita ad Enea (mentre Laurentum era la primitiva città di re Latino), che la chiamò in onore di sua moglie Lavinia. Lavinium è raramente menzionato nella storia romana e spesso confuso con Lanuvium o Lanivium nel testo sia degli autori che delle iscrizioni. L'usanza con cui i consoli, i pretori o i dittatori sacrificati sul Monte Albano e l Lavinio ai Penati e a Vesta, prima che entrassero in carica o partiti per la loro provincia, sembra fosse consueto nell'antichità. 

Sulla Lavinatis, al di là di Decimo, sono state trovate due pietre miliari, una di Tiberio (42 a.c. 37 d.c.), l'altra di Massenzio (278-312), ognuna con il numero II; e più avanti, a Capocotta, tracce di antichi edifici e un'importante iscrizione sepolcrale di un capo ebreo di una sinagoga sono venuti alla luce. 

Che la Via Laurentina fosse vicino alla Via Ardeatina è chiaro dal fatto che lo stesso appaltatore era responsabile di entrambe le strade. Laurentum era accessibile anche da un ramo della Via Ostiense all'ottavo miglio (a Malafede ) che conduceva davanti a Castel Porziano, che è identico all'antico Ager Solonius (nel quale, ci dice Festus, era situato il Pomonal o sacro boschetto di Pomona ) e che in seguito appartenne a Gaio Mario.

NECROPOLI VIA LAURENTINA

Via Laurentina-Severiana

Una via omonima, riutilizzata forse poi nel percorso della via Severiana, doveva collegare Ostia antica mediante la porta Laurentina, posta al termine del tratto meridionale del cardine massimo, con la medesima località di Laurentum distante circa 8 miglia (Km 14,4 ca.). La via Severiana era l'antica strada romana che congiungeva Portus (Fiumicino) con Terracina. Edificata nel 198 d.c. dall'imperatore Settimio Severo (146-211 pertanto severiana), che collegò e lastricò semplicemente pezzi di strade preesistenti lungo il percorso della costa laziale.

IL PARTO NELL'ANTICA ROMA

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SULLA FECONDAZIONE

Secondo Aristotele l'embrione era il risultato dell'azione dello sperma, o meglio della sua parte dinamica e incorporea, sul sangue mestruale femminile. Lo sperma rappresentava il principio del movimento e della vita: esso infondeva l'anima nella materia inerte del sangue, alla quale era riservato unicamente il compito di nutrire l'embrione.

Per l'atomismo greco invece, che risaliva a Democrito e a Ippocrate, il fluido seminale proveniva da tutte le parti del corpo dei due genitori e solamente in seguito era convogliato nei testicoli per dare luogo alla formazione simultanea dell'embrione. 

Per Galeno invece, l'embrione si formava attraverso la fusione del seme maschile e di quello femminile, che erano prodotti dai rispettivi testicoli. Si pensava infatti che le ovaie delle femmine fossero dei 'testicoli' che secernevano un liquido simile allo sperma. E fu Galeno che insegnò la medicina ai romani.




SULLA GESTAZIONE

I romani ritenevano possibile la gestazione di sette mesi, mai otto, più frequentemente nove e anche 10 mesi. Sull'impossibilità della nascita all'ottavo mese dissentiva Varrone, e aveva ragione, anche effettivamente la nascita all'ottavo mese è molto più rara di quella al settimo mese, forse è questa la causa di questa falsa credenza. Naturalmente il computo era presunto e non dimostrabile.

L'imperatore Adriano aveva giudicato un processo contro una donna che aveva partorito all'undicesimo mese, essendo il marito morto all'inizio della sua gestazione. Si sospettava che la donna fosse rimasta incinta dopo la morte del marito, ma Adriano, consultati gli antichi filosofi e sentito il parere dei medici, aveva stabilito che il parto all'undicesimo mese era possibile.



I PERICOLI DEL PARTO

Partorire in età romana era molto pericoloso: il dieci per cento delle donne moriva di parto, spesso per lacerazioni e lesioni irreparabili in un utero troppo infantile per l'estrema giovinezza delle spose, o per emorragia o altre cause.

Ma mentre in Grecia le ragazze andavano spose solo dopo la pubertà, le romane venivano maritate anche impubere, poichè le norme giuridiche fissavano a dodici anni l’età minima per le nozze.

Plutarco spiegò che i Romani le sposavano a quell’età e ancora più giovani per averle vergini nell'anima e nel corpo.

Se il consorte era molto più grande, e spesso lo era, trattavasi di pedofilia legalizzata.

Sorano fece notare che le giovanissime spose romane deflorate precedentemente al primo ciclo mestruale erano in pericolo di vita e con rischio di aborto (sig!).

Ma la diversa "usanza" romana impose al medico di rivedere i suggerimenti.

Per anticipare la pubertà consigliò alle ragazze un esercizio fisico più moderato ed un regime alimentare leggero.

Naturalmente non è vero che le ragazze atletiche sviluppino dopo, si sa che l'età delle mestruazioni dipende anzitutto da un filo ereditario, e poi da un filo di localizzazione, ad esempio nei paesi più caldi in genere inizia prima ecc.

Di certo chi deflorava una dodicenne era un pervertito, tanto che in alcuni casi il matrimonio non si consumava prima di una certa età, prova ne sia che Augusto ripudiò la giovanissima moglie rimandandola ai genitori con un documento che la assicurava assolutamente vergine.

Per questo in età imperiale la donna cercò di limitare le nascite, specie nelle classi più elevate, soprattutto se era riuscita a portare a termine le tre gravidanze dovute. La storia era andata così. Alle donne non andava l'idea di morire di parto per cui evitavano in ogni modo l'avvenimento.



LA CONTRACCEZIONE

Le donne romane usavano pozioni contraccettive ed abortive, con ruta, elleboro e artemisia. Oppure ricorrevano ai rimedi medici come i pessari, cioè tamponi di lana imbevuti di aceto e collocati negli organi genitali.

Ma dovevano farlo spesso di nascosto, perchè anche la decisione sull'aborto spettava al futuro padre che poteva ripudiarle se non era d'accordo. La maggior parte dei medici rifiutava di assistere aborti, che potevano derivare da adulterio, e in tal caso diverrebbero complici, subendo le stesse pene degli amanti, per cui si ricorreva alle levatrici o a donne esperte.

SEDIA PAPALINA CONSERVATA
IN VATICANO

Se la donna moriva nella pratica abortiva, per un intervento chirurgico fallito, il medico veniva accusato di omicidio. Comunque l'aborto non era punito per sè, ma solo se procurava la morte della donna.

Il calo delle nascite fu così vistoso che l'imperatore Augusto per migliorare la situazione fece due leggi importanti, probabilmente su suggerimento di Livia.

La prima fu che concesse il divorzio alle donne, che prima potevano solo essere ripudiate, rimediando così magari ad un'unione con un uomo troppo vecchio oppure sgradito.

Con la seconda concedette alle donne che avessero compiuto tre gravidanze, andate o meno a buon fine, di poter scegliere se restare sotto l'autorità maritale o liberarsene. Poiché l'autorità paterna sulla donna cessava nel momento in cui ella si sposava, rinunciando all'autorità del marito tornava libera.

Fu una vera rivoluzione e parecchie donne fecero figli solo per questo, poi il cattolicesimo, non molto favorevole al sesso femminile, tolse questa libertà. Infatti la norma successiva prevedeva che la donna domandasse al capofamiglia (l'uomo) l'autorizzazione per comparire in giudizio e per il compimento di atti di disposizione patrimoniale quindi donare, ipotecare o alienare beni immobili, contrarre mutui ecc., diritto che la donna poté riacquistare solo duemila anni dopo, perchè in Italia la ottenne solo nel 1975.


IL PARTO

La puerpera alle prime contrazioni si lavava le mani e si copriva il capo. Invocava Giunone Lucina, o la Dea Carmenta (come Antevorta che presiedeva all'inizio e alla nascita, perchè Postvorta riguardava la fine cioè la morte), o altra Dea, intanto veniva spogliata e sistemata sulla sedia da parto dall'ostetrica.

Perchè i Romani avevano apposite sedie da parto, forate sotto per far colare i liquidi (non per far uscire il bambino come si è supposto) e le maniglie per attaccarsi nella spinta. La sedia papalina fu per lungo tempo la “sedia gestatoria”, cioè d’un sedile da parto per gentildonne, a Roma infatti si usava il "parto seduto".




Venne usata per permettere ai preti di sincerarsi che il papa fosse maschio e non un travestito come la papessa Giovanna (vera o meno che ne fosse la storia), ma in realtà era l'immagine di un antico trono sacerdotale femminile che col foro esaltava la qualità fertile della donna, unica responsabile ed autrice di vita.

D'altronde, in Grecia e oltre, si credette a lungo che il maschio fosse l'unico detentore del seme procreatore e che la donna fosse solo la terra che nutriva la pianta il cui seme unico era posto dal maschio.

A Roma come più o meno ovunque la levatrice era donna:

- Appena seduta sulla sedia gestatoria le schiave portavano ampolle di olio di oliva, cataplasmi, spugne, coperte di lana grezza, e versavano acqua calda nelle catinelle.

- Una schiava abbracciava da dietro lo schienale la partoriente, mentre l'ostetrica sedeva su un basso sgabello sotto di lei, ungendola d'olio d'oliva per rendere più elastica la pelle e facilitare il passaggio.

- Le schiave ponevano sul ventre mani riscaldate e panni bagnati di olio caldo sui genitali.

- Lungo ognuno dei fianchi si poggiava una vescica piena di olio caldo. Queste pratiche, per evitare dolori ma anche le antiestetiche smagliature, non ci sono neppure nelle cliniche moderne.

- Per sedare il dolore si usavano cataplasmi caldi.

- Le spugne asciugavano il sangue delle ferite e l'acqua calda per la pulizia dei genitali.

- Le coperte venivano usate per coprire le gambe della donna, le bende e il cuscino per fasciare e deporvi il neonato.

Plinio avverte che nascere con i piedi in avanti è contro natura e generalmente quanti nascono così sono chiamati "Agrippa" (partorito con difficoltà). I medici romani consideravano grave una presentazione podalica, meno pericolosa, ma anch'essa difficile, la presentazione di spalla.


Un parto cesareo era raro e veniva praticato con un gancio acuminato che estraeva il feto privilegiando la vita della donna su quella del nascituro. La chiesa cattolica poi non fu d'accordo perchè il piccolo avrebbe dovuto salvarsi prima della madre.

Oggi la morale cattolica dice che non ci possono essere privilegi nè per la madre nè per il piccolo, quando però una donna sacrificò la sua vita per far nascere il bambino la beatificò immediatamente.

Ma c'erano neonati che venivano felicemente alla luce anche col parto cesareo, sembra che la dinastia di Cesare provenisse da un capostipite nato col cesareo, vero o meno che fosse, dimostra che i nati col cesareo potevano campare. Evidentemente esistevano altri sistemi per estrarre il neonato.

- La partoriente stringeva le maniglie della sedia da parto e iniziava a spingere.

- Secondo le prescrizioni mediche, l'ostetrica non doveva tenere a lungo lo sguardo sui genitali della donna, ad evitare che per pudore la partoriente si contraesse. Ma questo lo scrissero i medici maschi, perchè le levatrici hanno sempre guardato attentamente, fin dall'età della pietra, e ci mancherebbe altro.

- Tratto fuori il bimbo gli si tagliava il cordone ombelicale, poi veniva controllato e infine lavato.
Quindi si invocavano i vari Dei per la salute del neonato.

VILLA DI PUBLIO FANNIO SINISTORE (Boscoreale)

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La Villa di Publio Fannio Sinistore venne così chiamata per la presenza di questo nome su un vaso, anche se con molta probabilità era di proprietà di Lucius Herius Florus, come testimoniato dal ritrovamento di un sigillo.

La villa è una piccola struttura con un ambiente rustico di modeste dimensioni ed una zona residenziale. Gli affreschi presenti, tutti risalenti al 40-30 a.c. ed oggi conservati in diversi musei come il Metropolitan Museum di New York, al Museo archeologico nazionale di Napoli, al Louvre di Parigi e al Musée Royal de Mariemont a Morlanwelz, in Belgio, erano tutti in II stile pompeiano.

Tra i dipinti più rappresentativi una veduta di una città, presente in un cubicolo, una Venere con Eros con alla destra Dioniso ed Arianna e sulla sinistra le Tre Grazie, raffigurati invece sulla parete di un oecus ed ancora nello stesso ambiente sovrani macedoni ed ellenistici oltre a figure alate. Le opere di maggiori importanza sono rappresentate però da diverse megalografie, ossia affreschi a grandezza naturale



IL PAGUS

Questa piccola cittadina alle pendici del Vesuvio secondo alcuni autori si sarebbe chiamata Pagus Augustus Felix Suburbanus. I Pagus, da cui il termine "pagano" (usato dai cristiani in senso spregiativo per i seguaci della religione romana), era un territorio rurale con diverse ville, che divenne però un sobborgo (suburbius = sub urbis) della vicina Pompei in età augustea (27 a.c. – 14 d.c.)

- Tra la fine dell’Ottocento 1894-1895 e gli inizi del Novecento in questo territorio vennero scoperte una trentina di ville rustiche di piccole e medie dimensioni a conduzione familiare o gestite da schiavi, insieme però a sontuose ville residenziali.

- Nel 1900 riemerse la Villa di Publio Fannius Sinistore scavata nel Fondo Vona in Via Grotta a Boscoreale, con i suoi splendidi affreschi di tardo II Stile e megalografie simili a quella della Villa dei Misteri a Pompei.

Nel corso del I secolo appartenne a due proprietari tra cui Publius Fannius Synistor come risulta da un’iscrizione trovata in loco, ma cambiò proprietari nella sua fase terminale; non conosciamo però il nome di colui che la edificò e di chi commissionò gli affreschi.

CUBICOLO - METROPOLITAN MUSEUM DI NEW YORK

Il proprietario della villa è stato identificato come Publius Fannius Coepio, personaggio del seguito di Augusto ma si sa pure, grazie ad un sigillo rinvenuto, che negli ultimi tempi la casa dovette essere abitata da un certo Lucius Herius Florius.

La villa fu costruita intorno al 40-30 a.c, successivamente venduta all’asta nel 12 d.c..
Sappiamo che il rinvenimento della Villa fu dovuto a Vincenzo de Prisco, funzionario del Ministero delle Finanze ed archeologo dilettante, motivato soprattutto dall’introito che poteva ricavare dalla vendita illegale di queste opere; una per tutte la vendita del Tesoro di Boscoreale al Louvre.

Infatti gli affreschi della Villa di Fannius furono subito staccati, smembrati e venduti; oggi sono sparsi in tutto il mondo: da Napoli, a NewYork, a Parigi, ma anche in Belgio ed Olanda.

La villa era divisa in due parti: un sontuoso quartiere residenziale con al centro un grande peristilio e un quartiere rustico con magazzini, stalle, sotterranei, cucina e alloggi servili. Il Metropolitan Museum di New York, acquistò all’inizio del XX secolo gli affreschi staccati dal cubiculum M e ricostruì la stanza da letto integrandola con i pezzi originali.

La stanza presenta composizioni architettoniche con vedute prospettiche di vari edifici, recinti sacri, ma anche mura, propilei, torri, balconi e grotte.

Nel recinto superiore ci sono decorazioni di un recinto religioso con una statua di Ecate. Gli oggetti sono rappresentati così meticolosamente da sembrare reali; tra le colonne, sul lato sinistro, si scorge un santuario noto come syzygia (manifestazione complessa di un insieme divino) con una trabeazione sostenuta da due pilastri. Al centro del santuario la figura di una Dea con una fiaccola accesa in ogni mano.

L’architettura magnificamente dipinta va “illusoriamente” ed oltre misura, al di fuori dello spazio
occupato dalla stanza stessa, in un mondo favoloso e fantastico abitato da divinità, satiri, pescatori.

GLI ARGENTI - METROPOLITAN MUSEUM DI NEW YORK

SALVATORE DI GIACOMO
(poeta, drammaturgo e saggista)

Nell’agosto del 1894, seppi dall’avvocato Pietro De Prisco, a Boscoreale, la storia degli scavi intrapresi da suo fratello Vincenzo.

Voi conoscete certamente, caro signore, la favola posta in giro, da questi superstiziosi contadini, sulla scoperta che abbiamo fatto e sulla sontuosa villa pompeiana che i nostri scavi hanno rimesso alla luce. Si è detto che un nostro zio prete ci abbia indicato il pezzo di terra sotto il quale avremmo rinvenuto un tesoro: si è detto ch’egli, morendo, ci abbia raccomandato di scavare sotto le nostre viti e che seguendo il suo consiglio, noi ci siamo arricchiti con la suppellettile dei nostri padri antichi. Vi dirò, invece come sono andati i fatti.

Siamo quattro fratelli. Mio padre possedeva un pezzo di terra limitrofo a quello che apparteneva a un signor Pulzella. Il Pulzella scopre un avanzo di fabbrica remota. Continua lo scavo, penetra in una piccola stanzuccia sotterranea e s’inoltra in un secondo cubicolo. 

Ma qui, siccome egli era penetrato nella nostra proprietà, si dovette arrestare. E per venti anni ci tenne nascosta la sua scoperta. Intanto, morto nostro padre, nel 1888, toccò in sorte a mio fratello Vincenzo il terreno sotto il quale era penetrato il vicino. 

Mio fratello appura del tentativo del Pulzella, sospetta di aver sotto le sue viti qualche casa pompeiana, raccoglie un po’ di denaro e coraggiosamente continua lo scavo.Mio fratello scoperse subito un secondo e un terzo cubicolo. Tutte e due queste camere, comunicanti fra loro e con quella che aveva esplorato il Pulzella, facevano parte del bagno.

L’ultima di esse, il calidarium, aveva la sua vasca rettangolare rimpetto a una nicchia ornata e rivestita di stucco a spicchi. La precedeva il frigidarium col suo spogliatoio, e il così detto apoditerium precedeva tutte.

ARGENTI - METROPOLITAN MUSEUM DI NEW YORK

”Si scava ancora, si va avanti ed ecco il serbatoio dell’acqua, ed ecco venir fuori la caldaia che presenta un sistema riscaldatore affatto nuovo. Ed ecco vasi, anfore, utensili da cucina, utensili campestri; vetri, anelli, monete…"

"E infine quel tesoro d’argenti lavorati al quale vostro fratello ha fatto pigliare tranquillamente la via di Francia".
“È vero. Ma sono seguite, in Italia, tali circostanze, riguardo al fatto degli argenti, che mio fratello non ha potuto far a meno di avviarli per la via d’oltr’Alpi."
Il cagnuolo dell’avvocato, che ci aspettava nel cortile, ci precedette, scodinzolando allegramente, fino allo scavo e si mise, a un tratto, ad abbaiare davanti a una porta.

La porta s’aperse di dentro in una specie di fossato quadrato ov’ erano ancora in piedi le mura e si vedevano stanze delle quali alcune avevano un leggiadro pavimento a mosaico. Riconobbi la parte rustica della villa, con la sua cucina che aveva nel centro il suo focolare di mattoni e nella parte nord-est l’impronta d’una grande scansia di legno. 

Ecco il larario, la cella vinaria, la stanza rurale ove Vitruvio raccomandava che si tenessero le vanghe, le forcine, le falci, le zappe, strumenti che furon qui tutti rinvenuti sul posto e che ora fanno parte del bel piccolo Museo De Prisco a Pompei. 

Un vasto locale, pur a pianterreno, era serbato per i dolia, ne’ quali il ricco proprietario poneva il vino, il grano, la carne salata, perfino il miglio che occorreva a’ suoi uccelli. Ecco la cameretta del portinaio, che rimase asfissiato mentre fuggiva e cadde colla mano sulla bocca: l’impronta di gesso del suo cadavere è lì, nello stesso Museo De Prisco.

ARGENTI - METROPOLITAN MUSEUM DI NEW YORK

Vidi ancor la caldaia, vidi il bagno, col suo bel pavimento a mosaico, diverso in ogni stanzetta del bagno stesso. In una camera vicina il De Prisco aveva raccolto: una svariata collezione di lampade, le tegole e le grondaie del tetto, i dadi, o tesserae, con cui giocavan gli schiavi, le anfore pel vino, alcune delle quali, dette litteratae, avevano sulla pancia, inciso, il nome del vino o quello del suo fabbricante. Su di una leggo:

G. F. SCOMBR
SCAVRI
EX OFFICINA SCAVRI

e su di un’altra:
GEMINIAN - T. T. H.

In una scodella sono monete d’oro, d’argento, di bronzo, pietre preziose, anelli, monili, amuleti: in un coccio di vetro è del vino quasi pietrificato, ma che, soffregato, odora ancor forte. E lì, su un’altra tavola, accanto alla forma del villicus o portinaio, è il gesso del mezzo busto d’un cadavere femminile, il cadavere d’una vecchia, la quale ha sulla bocca un panno che le si rannoda dietro, sopra la nuca…

Per sei anni non si parlò, né a Napoli né fuori di Napoli, del tesoro di Boscoreale. Il silenzio era stato interrotto soltanto quando i giornali francesi avevano annunziato la compera che aveva fatto il Rothschild dell’argenteria preziosa rinvenuta nel pozzo della villa pompeiana e il dono che, dallo stesso Rothschild, era venuto al Louvre di quella splendida, forse unica collezione di coppe, di vasi, d’anfore e piatti lavorati a sbalzo da’ più aristocratici e squisiti artefici greci. 
Poi tutto tacque e il nostro Governo si consolò della perdita con l’acquisto d’un interessante mosaico scavato a Torre Annunziata e rappresentante Platone in mezzo a’ suoi discepoli. (Si tratta del mosaico rinvenuto il 14 luglio 1897 nel fondo della Signora Giuditta Masucci-d’Aquino sito in contrada Civita del comune di Torre Annunziata. In tale fondo fu scavata una villa rustica dal 31 maggio 1897 al 12 novembre 1898)

METROPOLITAN MUSEUM DI NEW YORK
Una nuova casa, assai più vasta della prima che fu scoperta nel 1894, è venuta a luce a un tiro di fucile da quella, e Vincenzo De Prisco, che aveva comprati altri terreni intorno al campicello. Nella nuova casa il De Prisco non trova argenti, non utensili degli usi domestici o campagnoli, non monete, non impronta di cadaveri d’uomini o bestie. 
Ma le antiche pareti rimaste in piedi hanno svelato alla meraviglia e all’ammirazione nostre i più interessanti affreschi i quali, fin ad oggi, si siano rinvenuti in queste esplorazioni pazienti del vasto territorio pompeiano.

Un pagus abbastanza folto di ville e di villette, d’uno stile architettonico la cui fisionomia rivelatrice scombussola un tantino la teoria archeologica de’ così detti quattro stili vitruviani.
Prima maniera de’ decoratori antichi fu, come si legge nello scrittore romano, d’imitare le varie combinazioni che si fanno con incrostazioni di marmo.

Seguirono cornici con riquadrature di giallo e di rosso; edifici coi rilievi delle colonne e dei frontespizi, scene tragiche o comiche, paesaggi nei corridoi e, in alcuni luoghi, anche quadri con figure, rappresentanti immagini di Dei, o favole, o fatti di guerre di Troia, o viaggi di Ulisse.

Ma – soggiunge Vitruvio – queste pitture, che gli antichi copiavano da cose vere e possibili, sono adesso, per depravato costume, disusate in tutto. Gl’intonachi offrono allo sguardo confuso non creature ma mostri. Scambio di colonne son canne sulle pareti: invece di frontespizi son pur lì arabeschi ornati da foglie ricce, o da viticci o da candelabri che reggono figure: sui teneri gambi di fiori ipotetici stanno altre figure sedute!
Ottant’anni dopo la morte di Vitruvio, la storia delle decorazioni pompeiane diventa, da quel tempo fino alla catastrofe del 79, ancor più confusa, e agli archeologi e agli studiosi delle vicende dell’arte riesce sempre più difficile la conoscenza dell’aspetto esterno della casa romana.

Nella penombra di un vasto locale ove il De Prisco conserva adesso, staccati da’ muri, que’ magnifici quadri, io son rimasto lungamente a contemplarli, mentre la memoria degli occhi miei s’andava, a mano a mano, risovvenendo di analoghe rappresentanze, intravedute, or qua or là, nelle riproduzioni di scenari architettonici dipinti in anni più assai vicini a noi. 
AFFRESCO DEL CUBICOLO
In qualcuna di codeste romane architetture mi è parso di ritrovare il motivo germinatore di quegli sfondi quattrocenteschi su’ quali or si agitano le figure suggestionanti della Torre di Babele di Benozzo Gozzoli, or quelle bizzarre e tenere del Botticelli, o tra una folla di cavalli e di armati, le guerresche figure del Carpaccio.

Ecco gli stessi pensili balconcelli sporgenti, ecco le travi quadrate e rosse che ne reggono il peso e vengon fuori simmetricamente dal muro, ecco torricelle quadrangolari sormontate da piccoli tetti a scaglioni e, più in su, colonnati che non sono fantastici e che quasi terminano più severamente e più sontuosamente la fabbrica assorgente.

Nella parte bassa ella ha una porta dal cui disegno armonioso non si scostano quelli della nostra Rinascenza: le riquadrature, gli ornati, la elegante cimasa sull’architrave, lo stile de’ battenti degli usci, che alla mano del visitatore offrono un mascherone il quale addenta un largo anello, le colonnine laterali a capitello jonico, tutto questo è stato evidentemente imitato nel nostro bel Cinquecento: due secoli hanno più da vicino profittato degli elementi svariati che forniva loro l’arte antica.
Gli affreschi architettonici rinvenuti dal De Prisco non appartengono ad alcuno di quelli additati dal Vitruvio come arbitrari: un sentimento ragionevole ha guidato la mano del pittore e l’ha fatta obbedire alle leggi comuni della prospettiva e della statica. 
CITAREDA - METROPOLITAN MUSEUM DI NEW YORK
Ma chi, visitando Pompei e scendendo dal Foro verso le Terme private, si mette dietro la Basilica, vede una parte della città costruita a scaglioni sul posto delle demolite mura di cinta.

Così si fece, quando, sotto la dominazione romana, la ridente colonia venerea vide assicurata la sua pace. Così a un punto del vasto anfiteatro di Napoli noi vediamo, affacciantisi nelle acque azzurrine del golfo, le ville di Mergellina e di Posillipo, incantevoli presepi popolati di torri, di colonnati biancheggianti e di terrazze.
Guardate la suonatrice di cetra: ella, fra tante filarmoniche ritrovate in effigie a Pompei, ha una fisionomia più viva, più espressiva, più reale. Chi ha posato per questo quadro simpatico e vivace? Si direbbe quasi che sia stata la padrona di casa. 
E quella piccina che le sta accanto ed ora fissa i grandi occhi neri maliziosi nello spettatore come dovette, nel momento in cui fu ritratta, affissarli nel pittore che le aveva forse detto di rimanersene lì per conferire maggior verità al dipinto, quella piccina non è forse una qualche servetta? 

(L’affresco della cosiddetta “citareda” è anch’esso al Metropolitan Museum di New York e proviene dal grande “triclinio” o “sala di Afrodite” con il fregio a figure megalografiche).

La casa scavata ultimamente dal De Prisco è disposta su due livelli. Vi si accede dal più basso. Il vano di accesso non è ancora stato scoperto, ma esso era certamente posto nella parte bassa, la quale, più che ad atrio, è configurata a peristilio. Una stalla assai vasta e un lararium si son trovati a levante di questa parte della villa; ad occidente era la cella vinaria. 
Nella parte alta è un peristilio esastilo in tutti i quattro lati e sul lato destro del peristilio sono le camere da letto, il bagno e la latrina: di rimpetto stanno due triclini, uno estivo, l’altro invernale. La figurina di genietto riprodotta in questo articolo era sulla parete di entrata al triclinio invernale. Gli affreschi – più di cento – si son trovati sparsi qua e là sulle pareti del portico del secondo peristilio.
(Il genio alato fu acquistato nel 1903 dal Louvre di Parigi e proviene dal lato sinistro dell’accesso al grande triclinio, mentre un altro, posto sul lato destro dell’ingresso alla sala, è oggi conservato all’Allard Pierson Museum di Amsterdam).
METROPOLITAN MUSEUM DI NEW YORK
Il Ministero della Pubblica Istruzione ha incaricato un’apposita Commissione per gli studii sulla nuova casa e sulle sue pitture. Aspettiamo con viva impazienza questo giudizio. La pubblicazione officiale sarà, a quanto si dice, sontuosa."

IL SEGUITO
La commissione citata dall’Autore era stata eletta nell’agosto 1900 dal Ministro della Pubblica Istruzione on. Niccolò Gallo e doveva riferire al ministro circa l’importanza o meno dei dipinti e se quindi essi dovessero essere conservati allo Stato impedendosene l’esportazione all’estero. 
La commissione, riunitasi più volte, stabilì all’unanimità la grande importanza degli affreschi ed espresse il parere che tutti dovessero essere acquistati dallo Stato, perché di enorme interesse artistico. Ma le raccomandazioni caddero nel vuoto. 
Nel 1903 infatti gli affreschi della villa furono messi all’asta e il Governo Italiano acquistò solo pochi pezzi, determinando così la dispersione del gruppo di opere. (viene solo da piangere!) Di Giacomo si riferisce agli affreschi del cubicolo o stanza da letto dell’appartamento nobile. Tali affreschi sono oggi conservati al Metropolitan Museum di New York. Essi furono venduti al museo statunitense dagli antiquari Canessa di Napoli nell’agosto 1903.


MONS CISPIUS - COLLE CISPIO

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CHIESA DI SAN VITO IN MACELLO CON L'ARCO DI GALLIENO
Il Colle Cispio è una delle tre alture che, con Fagutal e Oppius costituivano il Mons Esquilinus.
Festo, secondo notizie dateci da Varrone, racconta che il colle Oppio e il colle Cispio che si trovano sull'Esquilino furono chiamati così perché durante una battaglia per difendere Roma dai ribelli Albani, il colle Oppio fu difeso dal condottiero omonimo, Oppius, che capeggiava i Tuscolani e il colle Cispio fu difeso dal condottiero Levio Cispio che capeggiava gli Anagnini.

Il colle è una propaggine del colle Esquilino, e su questa propaggine sorge la Basilica di Santa Maria Maggiore e sul lato dell'abside a piazza dell'Esquilino, sorge l'obelisco Liberiano o dell'Esquilino. L'obelisco di S. Maria Maggiore, poggia sul terreno spianato che un tempo era il mons Cipsius, portato a quel livello da Sisto V.

Infatti la via Cavour, all'incrocio con la via Urbana, e che si trova a solo 75 metri più a sud rispetto a piazza dell'Esquilino, poggia sopra un avvallamento nascosto dal manto stradale, che va dai 13 ai 17 metri, infatti le case che si trovano su via Urbana hanno cantine molto profonde, molte delle quali insistono su volte romane di età imperiale, che testimoniano l'altezza della modificata altura del mons Cispius.


Il Cispio è alto 55 metri alla sua sommità, giusto dove si trova la Basilica di Santa Maria MaggioreTale edificio era comunque poco distante da altri luoghi del colle Cispio ricordati in diversi documenti: il Forum Esquilinum, il Macellum Liviae, la basilica di Giunio Basso trasformata nella chiesa di Sant'Andrea Catabarbara, il santuario di Giunone Lucina molto frequentato dalle partorienti.

Sotto la chiesa della basilica vi sono i resti, scoperti negli anni 1966-1971, di un edificio porticato dove fra l'altro si possono vedere parti di un affresco tardo imperiale dedicato ad un calendario con scene agresti. Del porticato invece restano numerose tegole esposte in un ampio ambiente. In uno degli spazi scavati, fra l'altro, sono stati rinvenuti alcuni graffiti fra i quali uno con il quadrato del Sator.

L'edificio con porticato rinvenuto sotto il pavimento di Santa Maria Maggiore è una grande costruzione con cortile a portici, interpretabile, secondo alcuni, come il Macellum Liviae, il mercato inaugurato da Tiberio nel 7 d.c. e dedicato alla madre. La particolarità più interessante di questo edificio è la presenza di calendario dipinto inframmezzato da scene che rappresentano i lavori agricoli connessi con i relativi mesi: si tratta di uno dei migliori esempi della pittura di paesaggio della tarda età imperiale.

L'AUDITORIUM DI MECENATE

IL FORUM ESQUILINUM

Il Forum Esquilinum era il più antico e importante mercato dell'Esquilino, di cui però non resta traccia. Ne parla lo storico Appiano (bell. civ. 1.58), durante l'attacco di Silla nell'88 a.c.: quando gli assedianti avevano occupato le mura e la Porta Esquilina, i partigiani di Mariosi rifugiarono nel Forum Esquilinum. Si pensa che piazza del mercato fosse posta immediatamente all'interno della Porta Esquilina, dove nell'Ottocento sono emerse iscrizioni che lo menzionano.

Alcune epigrafi specificano la presenza del magister vici, un magistrato incaricato della gestione di aree pubbliche, e di due argentarii a foro Esquilino, artigiani orafi, di cui conosciamo una delle botteghe di quest'area commerciale. Il Forum Esquilinum rimase in uso fino al V sec. d.c., come dimostra una iscrizione che ricorda un restauro fatto a metà di quel secolo. da parte del praefectus urbi, il prefetto urbano che tutelava l'ordine pubblico in città.

MACELLUM LIVIAE

MACELLUM LIVIAE

“Hic fecit basilicam nomini suo iuxta Macellum Liviae”. Così il Liber Pontificalis si riferisce alla Basilica romana di Santa Maria Maggiore, fondata, si dice, da Papa Liberio (352-366) sul luogo di una miracolosa nevicata, del 5 Agosto del 352.

Ma la costruzione attuale della Basilica patriarcale, è ormai accertato, non è anteriore a Sisto III che la dedicò alla Maternità divina di Maria, definita dal Concilio di Efeso del 431 d.c..
Però effettivamente la Basilica sorse giusto sul Macellum Liviae, il grande mercato dove si vendeva ogni genere di viveri, di cui non si conosce ancora l’esatta posizione.

Si pensa si trovasse presso il Forum Esquilinum, fuori ma parallelo alle Mura Serviane, visto il nome della Chiesa di S.Vito "in Macello" accanto all’Arco di Gallieno. Quando negli anni 1964-71 i Servizi Tecnici Vaticani fecero smantellare, per ragioni di umidità, il pavimento in marmo della basilica onde creare un solaio in cemento armato, scavato per 6 metri di profondità, videro emergere numerosi ambienti romani dal II sec a.c. al IV d.c.

Si evidenziarono un ambiente principale di età augustea, in gran parte ricostruito in epoca Adrianea e Costantiniana, circondato da un muro lungo il quale rimangono tracce di un calendario stagionale, “uno straordinario-menologio, corredato, mese per mese, da una serie di grandiose scene di paesaggio che, per quanto è possibile leggere nelle parti conservate, illustrano i lavori campestri propri per ogni stagione”.

Lungo il percorso sotterraneo si incontrano anche tracce di un piccolo stabilimento termale, con mosaici ed intercapedini per il riscaldamento, tracce di affreschi geometrici, un piccolo ambiente semicircolare con nicchie, resti di un pavimento in opus sectile su suspensurae (probabilmente pertinente all’ambiente termale ) e una parete libera con graffiti romani, tra cui il famoso quadrato palindromo del sator, simile a quello di Pompei.

SOTTERRANEI DI SAN VITO

CHIESA DI SAN VITO IN MACELLO


La chiesa dei Santi Vito e Modesto si trova in via Carlo Alberto, addossata all’Arco di Gallieno. Fu edificata nel 1477 da Sisto IV, sopra antichi ruderi romani che si presuppone facessero parte del Macellum Liviae, il Macello di Livia.

L'EPIGRAFE DI ELIO TERZIO
All’interno della chiesa, dietro una grata antica posizionata nella navata destra, si trova un cippo marmoreo, la cosiddetta “pietra scellerata” cui sarebbe legato il ricordo della uccisione di numerosi primi cristiani. 

La tradizione popolare riteneva per questo motivo che la pietra avesse il potere di curare dall’idrofobia, e quindi da essa veniva grattata via la polvere da utilizzare come medicamento in casi di idrofobia.

La stele funeraria romana ricordava semplicemente Elio Terzio Causidico, cittadino di Piacenza che, con le sue benemerenze, si era meritato l’onore di una statua che lo raffigurava sedutoCome fu "grattata"è visibile dalla foto.

Naturalmente su di essa non fu torturato nè ucciso nessuno.

Quello di creare pietre miracolose era un tentativo di sostituire da una lato la mancanza della classe medica che non esisteva più data la chiusura delle scuole, e dall'altro il tentativo di sostituire la miracolistica attribuita agli Dei con la miracolistica attribuita ai santi.

BASILICA DI IUNIUS BASSUS

BASILICA DI GIUNIO BASSO

La basilica di Giunio Basso (basilica Iunii Bassi) era una basilica civile, un'aula rettangolare absidata, situata sul Cispio dove oggi è il seminario pontificio di Studi Orientali, in via Napoleone III 3.

Fu edificata nel 331 dal console Giunio Annio Basso e nella seconda metà del V secolo, all'epoca di papa Simplicio (468-483), venne trasformata nella chiesa di Sant'Andrea Catabarbara.

Nel 1930 furono scoperti i resti dell'edificio e definitivamente demoliti. L'interno era rivestito di incrostazioni marmoree figurate (opus sectile), visibile fino al XVI secolo, quando fu copiato da Giuliano da Sangallo e altri artisti. 

PROCESSUS CONSULARIS
Delle lastre superstiti, la più grande è quella a palazzo Massimo alle Terme, con un "drappo" inferiore ornato da scene egittizzanti, un "vela Alexandrina", e una scena del mito di Ila e le ninfe (il giovane amato da Ercole che recatosi a una fonte viene sedotto e rapito dalle ninfe). 

La seconda lastra di Palazzo Massimo, priva del velum, è quella del processus consularis di Giunio Basso, raffigurato frontalmente mentre procede su un cocchio, seguito da 4 aurighi a cavallo, che portano un frustino e i colori delle quattro fazioni dei giochi nel Circo Massimo, probabilmente finanziati dal console. I due pannelli di palazzo Drago raffigurano simmetricamente due tigri che sbranano dei buoi bianchi.

LE PORTE DEGLI EDIFICI ROMANI

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AFFRESCO CHE ILLUSTRA UNA PORTA NELLA VILLA DI FANNIO SINISTORE - BOSCOREALE
Le porte greche e, soprattutto quelle romane, potevano essere singole, a doppia anta, triple, scorrevoli o pieghevoli. A Roma compaiono le prime cerniere, mentre le prime serrature esistevano già in Egitto, ma furono i Romani a migliorarle introducendo l’uso del metallo.

Con l’invenzione delle serrature di ferro, inoltre, i Romani erano finalmente in grado di avere una protezione efficace contro gli scassi. Le chiavi erano per la prima volta abbastanza piccole da essere introdotte in una tasca, appese al collo o agganciate al bracciale.

Ma i romani sono andati oltre, perchè hanno inventato anche i risalti delle serrature, che garantivano che solo la chiave con la forma corretta potesse spingere le levette giuste, facendo scattare il meccanismo di entrata.

La porta esterna è una cosa e quella interna è un'altra. I romani usavano anche le porte interne, ma raramente per le zone da giorno, mentre ne usavano per la zona notte. Questo indifferentemente dalla lussuosità delle case.

CALCO DI UNA PORTA DI ERCOLANO CARBONIZZATA
Non è vero che le porte fossero solo per i ricchi, anche perchè non costavano granchè quattro tavole di legno.

CLASSICO ESEMPIO DI BATACCHIO
ROMANO USATO ANCORA OGGI
Ovviamente le porte dei benestanti erano lavorate e decorate, mentre quelle dei meno abbienti erano più semplici e sottili.

Per esempio dietro l'atrio, la stanza dove il dominus riceveva clienti e uomini d'affari, come separazione tra questo grande ingresso e la casa privata della famiglia di solito non si usavano le porte ma un pesante tendaggio.

Dell'atrium Vitruvio descrive alcune tipologie:
- Tuscanicum, il tipo più antico e più largamente diffuso in cui il peso del tetto è sorretto unicamente dalle travature orizzontali
- Tetrastylum, con una colonna a ciascuno dei quattro angoli dell'impluvium. Ne è un esempio la Casa delle Nozze d'Argento di Pompei.
- Corinthium, con un maggior numero di colonne e un'ampia apertura di luce.

I cubicoli invece avevano le loro porte e così i bagni, le terme e i magazzini.



LE PORTE ESTERNE O PORTONI (DI LEGNO)

I Romani erano bravissimi nelle porte esterne, essendosi Roma riempita di monumenti anche le loro porte dovevano essere all'altezza. Queste porte erano in legno massiccio borchiate e spesso dipinte, nonchè incorniciate a volte da pilastri e pure timpani di pietra.


ERCOLANO

PORTA CARBONIZZATA MA INTATTA DI ERCOLANO
"Nei depositi del padiglione della barca, negli scavi di Ercolano, sono conservati pregiati legni, reperti praticamente sconosciuti: sono arredi in legno, restaurati durante le esplorazioni condotte tra 1927 e 1958. Li ha visitati Renzo Piano, perché il mecenate californiano David Packard ha chiesto all’architetto di progettare un museo per esporli nell’area esterna del sito.

Una culla a dondolo, tavolini con piedi lavorati a zampa di leone o ispirati ad animali fantastici, un letto con paratie in legno tutte intarsiate, armadi, larari, e anche alcune statuette raffiguranti le divinità protettrici della casa, gli antenati. Questi reperti hanno incantato Packard fin dal 2001, quando iniziò la campagna di restauri e scavi, finanziando il progetto con 16 milioni di euro".

Tra i vari reperti questa magnifica porta di legno, carbonizzata ma perfettamente conservata, a quattro ante completamente o parzialmente apribili, come ancora se ne vedono a Roma in certi antichi negozi della zona di Campo De' Fiori. In realtà non è proprio una porta ma si tratta degli sportelli di un mobiletto, ma li abbiamo riportati perchè sono identici alle porte di Pompei, è solo una questione di dimensioni.



BOSCOREALE

BOSCOREALE
Nella villa di Fannio Sinistore a Boscoreale viene illustrata una porta che risente di influssi etruschi nella forma con in cima la rappresentazione di una scena di caccia. Ancora sopra una specie di timpano da cui il barocco deve aver attinto parecchio.

La porta di casa di una domus era in genere costituita da un alto portone in legno a due battenti con grosse borchie in bronzo.

Al centro di ogni battente non era raro trovare raffigurata la testa in bronzo, di un lupo o di un leone che stringeva in bocca un grande anello da usare come batacchio.

Diciamo che tutto il mondo ha un po' copiato queste porte che sono ormai consuete fino ai primi del '900 italiano.

Questi portoni erano perlopiù a quattro riquadri, in genere con una rifinitura diversa tra i due riquadri superiori, che erano rettangolari come quelli inferiori ma più corti, e i due inferiori.

LA PORTA STAMPATA NELLA CENERE

POMPEI

"Nuove scoperte del cantiere della Regio V, dove è visibile all’ingresso di una bottega “l’anima” della porta di legno “stampata” nella cenere indurita dell’eruzione.

Un miracolo della chimica ha fatto viaggiare l’immagine di quella porta nel tempo, mutandone la consistenza organica perché la cenere e i detriti vulcanici della corrente piroclastica si sono induriti, assumendo le forme del materiale organico della porta preesistente." 

In questo modo la decomposizione del legno ha lasciato intatto il suo profilo, visibile sul materiale indurito che lo circonda. Insomma il legno si è bruciato ma polvere e detriti vulcanici ne hanno assunto l'aspetto originario immortalandola nei secoli.

PORTA DEL TEMPIO DI ROMOLO SULLA BASILICA DI S. COSMA E DAMIANO

PORTE ESTERNE DI BRONZO

Ma soprattutto i romani erano diventati i maestri delle porte in bronzo, materiale molto diffuso perché relativamente economico e facile da fondere in forme o motivi desiderati. Venivano realizzate soprattutto doppie porte in bronzo massiccio, di solito supportate da perni inseriti in prese nella soglia e nell’architrave.

Tra gli esempi che è ancora possibile ammirare, le porte di bronzo nella chiesa dei Santi Cosma e Damiano a Roma, a due ante, ciascuna con due pannelli incorniciati. Bellissime molto antiche, visto che sono state sottratte al Tempio di Romolo, il mausoleo fatto costruire da Massenzio per il figlio Romolo morto precocemente.

Che dire delle porte del Pantheon, alte 7,3 metri, che sono simili nel disegno. Sono ancora quelle di Marco Agrippa, o almeno come suppongono molti, quelle volute dall'Imperatore Adriano, e comunque a tutt'oggi funzionano benissimo.

LE PORTE DEL PANTHEON
Il Pantheon è il monumento meglio conservato dell'antica Roma, miracolosamente risparmiato soprattutto perchè la sua demolizione era oltremodo difficile, con muri spessissimi e colonne gigantesche, per cui il Papa decise di inserirvi una chiesa cristiana limitandosi a cambiarlo all'interno nelle decorazioni e gli altari laterali, lasciando inalterato il pavimento e le grandi porte di bronzo.

Altre due porte in bronzo di epoca romana si trovano nella Basilica Lateranense, e appartengono alle Terme di Caracalla. Sono anch'esse bronzee e bellissime. Sono un po' sullo stesso stile delle porte di S. Cosma e Damiano.

Ambedue sono arricchite di borchie che un tempo venivano dorate, pertanto restavano lucide anche quando il bronzo delle porte si anneriva. Naturalmente la doratura è svanita ma le porte troneggiano ancora miracolosamente intatte, mentre tutte le altre sono state fuse. Fa parte insomma dei tanti materiali di spoglio utilizzati dai principi della chiesa per edificare i loro palazzi e le loro chiese.

LE PORTE DELLE TERME DI CARACALLA OGGI PORTE DI S. GIOVANNI


LE PORTE INTERNE

Le porte interne come già detto non erano in ogni stanza, o se c'erano erano piuttosto leggere, con graticci che permettessero di vedere dall'altra parte e di lasciar passare l'aria. Bisogna tener conto di diversi fattori:

- che, a quanto sembra, la temperatura all'epoca degli antichi romani era più calda di oggi, lo dimostrerebbero le case con il cortile interno e le finestre piuttosto piccole e rade all'esterno;
- che era più facile controllare l'operato degli schiavi senza porte chiuse;
- che era praticamente impossibile riscaldare solo con i bracieri stanze così grandi e con soffitti altissimi, per cui le porte non servivano a contenere il calore;
- che le porte erano più che altro decorative, a parte quella di casa, cioè le fauces, perchè i ladri abbondavano.



DOMUS DEL TRAMEZZO DI LEGNO

Una porta particolare è quella della domus sepolta dall'eruzione del Vesuvio del 79 d.c. e riportata alla luce grazie alle campagne di scavo, che è detta  la "Domus del tramezzo di legno" che è appunto caratterizzata al suo interno da un tramezzo, una sorta di porta pieghevole in legno carbonizzato, che costituisce una sorta di paravento, perfettamente conservato e messo sotto vetro tale e quale venne ritrovato ad Ercolano.

Nel lato est dell'atrio si trova il tablino: i due ambienti sono divisi per mezzo di un tramezzo, ossia una sorta di porta pieghevole, alta quanto un uomo, realizzata completamente in legno, carbonizzato in seguito all'eruzione, con battenti sagomati e grossi anelli in bronzo sui quale venivano poggiate delle lampade.

AFFRESCO CASA DI SALLUSTIO - POMPEI

DOMUS DI SALLUSTIO - POMPEI

Dagli affreschi della Domus di Sallustio possiamo comprendere come potessero essere le porte interne delle case, ovviamente qui parliamo di ville di pregio. Qui sopra ne sono riportate due identiche in legno decorate con borchie di bronzo, a scopo puramente ornamentale.

Le porte sono a tre riquadri uguali ma in alto presentano una specie di graticcio, con i caratteristici disegni ad asterisco, in modo che l'aria circolasse negli ambienti senza che nessuno potesse scorgere alcunché nella stanza. Qui le porte sono lasciate a colore naturale.

VILLA POPPEA

VILLA DI POPPEA - OPLONTIS

Qui siamo ad Oplontis, nella bellissima Villa di Poppea, dove in un complesso affresco compaiono due porte in legno identiche. Qui sopra riportiamo la porta da interno ingrandita e sotto l'affresco perfettamente ricostruito.

Le porte sono tinte di giallo e di rosso scuro. Nella parte superiore la porta è protetta da una tettoia con due palombelle laterali terminanti nell'immagine di due draghi. Delle borchie di bronzo di due dimensioni ornano il legno, quelle più grandi sottolineano le due inquadrature del legno, quelle minute costellano ambedue i riquadri.

Nella parte superiore le porte hanno in ciascun battente una pittura raffigurante un genio ciascuno, ambedue alati e di ottima fattura, con la veste di velo svolazzante, con i piedi volti all'esterno della porta, ma con i visi rivolti verso l'interno.

La villa di Poppea ad Oplontis (oggi Torre Annunziata) venne rinvenuta a circa dieci metri sotto il livello del terreno moderno. Sembra che fosse di proprietà dell'imperatore Nerone, e si crede che sia stata usata dalla sua seconda moglie, Poppaea Sabina, come sua residenza principale quando non era a Roma.

VILLA DI POPPEA - OPLONTIS

IL CANCELLO DEL GIARDINO

Nella villa della moglie di Nerone ad Oplontis risalta un affresco che riproduce un cancello da giardino, in bronzo e appoggiato a due colonne, sormontate da due grifi dorati. Nella parte superiore sopra al cancello si leva un architrave con due piedritti a cui sono poggiati i pilastri dipinti di rosso.

L'architrave, elevato a punta nel centro, accoglie l'immagine di una Nike con volute su fondo rosso, da cui sporge leggermente una tettoia sotto a cui corre una cornice di draghetti e serpentelli. Al centro dell'architrave c'è un osciluum dorato e sopra al cancello pieno ci sono delle leggere volute bronzee.
Il cancello a due battenti suddivisi ciascuno in due riquadri sotto e quattro sopra, sono ornati da quattro teste di leone.

PORTA A CALCO DELLA VILLA DI POPPEA

I CALCHI DELLE PORTE

Come i corpi degli umani, tutto ciò che è organico viene bruciato e distrutto dalla lava, e così avvenne a Pompei. Però nello stesso modo in cui è stato iniettato gesso liquido nei vuoti ottenuti dalla combustione dei corpi umani e animali, altrettanto è avvenuto per il legno che ugualmente è materiale organico.

Pertanto ogni volta che negli scavi vien incontrato un vuoto si ricerca la natura del vuoto e una volta definita si riempie quel vuoto che talvolta rappresenta una porta esterna o interna della casa. A Oplontis ne sono state reperite in tal modo più di una.

VARI CALCHI DI PORTE DISTRUTTE DALLA LAVA DELLA VILLA DI POPPEA
"I corpi dei pompeiani sono calchi in gesso. La cenere, molto fitta, si solidificò, avvolgendo i corpi. All’interno la carne, formata da molta acqua e da tessuti molli, sparì formando una cavità. Le parti non ossee si consumarono, lasciando una cavità, ma lo scheletro ha resistito in sospensione, sorretto alle estremità dalla cenere che era diventata molto compatta."

Altrettanto è avvenuto per le porte di legno dove serrature bandelle e chiavistelli hanno fatto tutt'uno con la cenere e i lapilli. Pertanto oggi sappiamo che le porte nelle ville c'erano, e a volte erano splendide, dipinte e adornate in modo mirabile.

BATTAGLIA DI CORBIONE

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A Corbione, nel 446 a.c. si svolse alle porte di Roma un'importante battaglia dei Romani contro i loro antichi nemici, Volsci ed Equi.



I VOLSCI

Spesso alleati con gli Equi, vennero descritti da Tito Livio: «ferocior ad rebellandum quam bellandum gens» "I più feroci tanto a ribellarsi quanto nella guerra."
(Tito Livio, Ab Urbe condita libri, VII)

L'ESPANSIONE ROMANA (INGRANDIBILE)
Già nel 495 a.c., era stata distrutta dai romani la loro città più estesa e popolosa, Suessa Pometia, si che la capitale del territorio era diventato Anzio, già oppidum latino. I Volsci abitavano un'area un po' collinosa e un po' paludosa nel sud del Latium, oltre alla maggior parte della Valle del Sacco , della Valle del Liri e della Valle di Comino, tutti in provincia dell'attuale Frosinone.
Intanto a Roma il Senato si era schierato contro i consoli, pur essendo entrambi patrizi. Infatti il trionfo decretato ai consoli Valerio e Orazio non era stato concesso dal Senato, ma dall'assemblea del popolo romano.

Finita l'era degli scellerati Decemviri, che aveva visto l'esercito romano combattere svogliatamente o non combattere affatto, Roma si era risollevata con i consoli Lucio Valerio Potito e Marco Orazio Barbato con una sequenza di gloriose di vittorie. 


LUCIO VALERIO POTITO
Lucio Valerio fu eletto con console nel 449 a.c. insieme al collega Marco Orazio Barbato.
Sotto il loro consolato, dopo che erano stati ripristinati il diritto d'appello e il potere dei tribuni della plebe, furono rafforzati i diritti della plebe con la promulgazione delle Leges Valeriae Horatiae che, tra gli altri diritti, stabilivano l'inviolabilità dei tribuni della plebe e le modalità delle loro elezioni, e riconoscevano valore giuridico ai plebisciti. Appio Claudio e Spurio Oppio Cornicene si suicidarono in carcere (dopo l'assassinio di Virginia), mentre gli altri ex-decemviri vennero condannati all'esilio.

SECESSIO PLEBIS

MARCO ORAZIO BARBATO

Dopo la morte di Verginia, uccisa da suo padre per sottrarla ai desideri sessuali di Appio Claudio Sabino, membro estremamente influente del decemvirato, scoppiarono dei tumulti che portarono l'esercito, accampato fuori Roma, a marciare sulla città e a prendere possesso dell'Aventino. Orazio e Valerio, posti a capo della rivolta popolare, vennero inviati dal senato sul Mons Sacer, dove la plebe si era ritirata, con l'obiettivo di sedare pacificamente la rivolta.
Nel frattempo Equi, Volsci e Sabini presero le armi contro Roma e prima di partire per la guerra, i due consoli fanno incidere nel bronzo le leggi delle XII tavole. Mentre Marco Orazio si marciò contro i Sabini, Valerio andò contro Volsci ed Equi sopraffacendoli, mentre Marco Orazio, dopo una prima fase incerta, riuscì a vincere l'esercito sabino.
I due consoli avevano donato a Roma due vittorie. Ma il Senato, memore delle misure da essi adottate a favore della plebe, si rifiutò di concedere loro il trionfo. Tuttavia, per la prima volta nella storia di Roma, i comizi tributi, ignorando la volontà del Senato, decretarono il trionfo per i due consoli.

«Non enim semper Valerios Horatiosque consules fore, qui libertati plebis suas opes postferrent»
«Non capitano spesso consoli come Valerio e Orazio, che antepongono la libertà delle persone ai propri interessi»
(Livio, Ab urbe condita, Libro III, 64, 3)
Così l'elezione di consoli e tribuni privilegiò uomini coraggiosi, abili e fedeli all'Urbe, si che Volsci ed Equi, per due anni non attaccarono Roma permettendo alla città di ricomporsi socialmente ed economicamente. Nel 446 a.c. però ripresero le ostilità ripresero.



IL DISCORSO DI QUINTIO (ADLOCUTIO)

Narra Tito Livio che furono i Volsci e gli Equi a rompere la pace saccheggiando le campagne e depredando bestiame attorno a Roma, nel territorio dei latini, e poi vedendo che i romani non accorrevano cominciarono a sbeffeggiare gli abitanti indicando loro le campagne devastate, evidentemente approfittando del dissidio tra patrizi e plebei..

Dopo che si furono ritirati impuniti procedendo a passo di marcia e giungendo fino alla porta Esquilina, e con il bottino bene in vista alla testa dello schieramento, si acquartierarono a Corbione (Oppidum Corbione). Fu allora che il console Quinzio convocò l'assemblea del popolo.

Tito Quinzio Capitolino, eletto console per la IV volta nel 471 a.c. con il collega Appio Claudio Sabino Inregillense, prese finalmente in mano la situazione e in un lungo e accorato discorso ricordò ai romani che le discordie venivano pagate da tutti e che il nemico andava fermato sul campo di battaglia.

«Benché io sia conscio di non aver alcuna colpa, o Quiriti, ciononostante è con estrema vergogna ch'io mi presento al cospetto di questa assemblea. Voi sapete, e un giorno verrà tramandato ai posteri, che, durante il quarto consolato di Tito Quinzio, Volsci ed Equi, un tempo appena all'altezza degli Ernici, sono giunti impunemente fin sotto le mura di Roma con le armi in pugno. Benché ormai da tempo la situazione sia tale da non lasciar presagire nulla di buono, ciononostante, se solo avessi saputo che l'anno ci riservava un episodio così funesto, avrei evitato questa ignominia, anche a costo di andare in esilio o di togliermi la vita, ove non mi restassero altri mezzi per sottrarmi a questa carica. 

Se fossero stati uomini degni di questo nome quelli che si sono presentati con le armi in pugno di fronte alle nostre porte, Roma avrebbe potuto esser presa sotto il mio consolato! Avevo avuto onori a sufficienza e vita a sufficienza, anzi fin troppo lunga: avrei dovuto morire durante il mio terzo consolato. Ma a chi hanno riservato il loro disprezzo i nostri più vili nemici? A noi consoli, oppure a voi, o Quiriti? 

Se la colpa è nostra, allora privateci di un'autorità della quale non siamo degni. E se poi questo non basta, aggiungete anche una punizione. Se invece la responsabilità ricade su di voi, l'augurio è che né gli Dei né gli uomini vi facciano pagare i vostri errori, ma siate soltanto voi stessi a pentirvene. I nemici non hanno disprezzato la codardia che è in voi, ma nemmeno riposto eccessiva fiducia nel proprio coraggio. 

A dir la verità è toccato loro molte volte di essere sbaragliati e messi in fuga, privati dell'accampamento e di parte del territorio, nonché di passare sotto il giogo, e conoscono voi e se stessi! No, sono la discordia delle classi e gli eterni contrasti. vero veleno di questa città, tra patrizi e plebei, che hanno risollevato il loro animo, perché noi non moderiamo il nostro potere e voi la vostra libertà, voi siete insofferenti nei confronti dei patrizi e noi nei confronti delle magistrature plebee. 

Ma in nome degli Dei, cosa volete? Morivate dalla voglia di avere dei tribuni della plebe, in nome della concordia sociale ve li abbiamo concessi. Desideravate i decemviri: ne abbiamo autorizzato l'elezione. Vi siete stancati dei decemviri, li abbiamo costretti ad abbandonare la carica. Continuavate a odiarli anche quando erano ormai tornati dei privati cittadini, abbiamo tollerato che uomini molto nobili e onorati venissero condannati a morte e all'esilio. 

Poi vi è di nuovo venuta la voglia di eleggere dei tribuni, li avete eletti, e di nominare consoli dei membri della vostra parte e noi, pur sembrandoci ingiusto nei confronti dell'aristocrazia, siamo arrivati al punto di vedere quella grande magistratura patrizia offerta in dono alla plebe. L'intromissione dei tribuni, l'appello di fronte al popolo, i decreti approvati dalla plebe e imposti al patriziato, i nostri diritti calpestati in nome dell'eguaglianza delle leggi, tutto abbiamo sopportato e sopportiamo. 

In che modo potranno mai avere fine i contrasti? Verrà mai il giorno in cui sarà possibile avere una sola città unita e considerarla la patria comune? Noi, che ne usciamo sconfitti, accettiamo la situazione con animo più sereno di quanto non facciate voi, che pure siete i vincitori. Non vi basta che noi dobbiamo temervi? 

Contro di noi è stato preso l'Aventino, contro di noi è stato occupato il monte Sacro. Abbiamo visto l'Esquilino quasi preso dal nemico e i Volsci apprestarsi a scalare le mura di Roma: nessuno ha avuto il coraggio di andarli a ricacciare indietro. Solo contro di noi voi siete dei veri uomini, solo contro di noi impugnate le armi».

Forza dunque: visto che siete riusciti ad assediare la curia, a trasformare il foro in una tana di insidie e a riempire le patrie prigioni di uomini eminenti, dimostrate la stessa audacia, uscite dalla porta Esquilina. Ma se non siete neppure all'altezza di un gesto del genere, allora andate a vedere dall'alto delle mura i vostri campi messi a ferro e fuoco, le vostre cose portate via e il fumo degli incendi che sale qua e là nel cielo dalle case in fiamme. 

Ma voi potreste obiettare che chi sta peggio è lo Stato, con le campagne che bruciano, la città assediata e la gloria militare lasciata solo ai nemici. E con questo? Credete che i vostri interessi privati non si trovino nella stessa situazione? Presto dalla campagna arriverà a ciascuno di voi la notizia delle perdite subite. Che cosa c'è qui in patria, in grado di risarcirle? Ci penseranno i tribuni a restituirvi quel che avete perduto? Vi prodigheranno a sazietà parole e chiacchiere, accuse contro cittadini in vista, leggi su leggi e concioni. 

Ma da quelle concioni nessuno di voi è mai tornato a casa più ricco di beni e di denaro. O c'è mai stato qualcuno che abbia riportato a moglie e figli altro che risentimento, antipatie e gelosie pubbliche e private dalle quali siete stati protetti non certo per il vostro valore e la vostra integrità, ma per l'aiuto ricevuto da altri? 

Ma, per Ercole, quando eravate al servizio di noi consoli e non dei tribuni, e nell'accampamento invece che nel Foro, quando il vostro urlo spaventava il nemico in battaglia e non i senatori romani in assemblea, dopo aver fatto bottino e dopo aver conquistato terre al nemico, tornavate a casa, ai vostri Penati, carichi di preda, coperti di gloria e di successi conquistati per la patria e per voi stessi! 

ADLOQUTIO
Ora invece permettete che i nemici se ne vadano carichi delle vostre ricchezze. Tenetevele strette le vostre assemblee e continuate pure a vivere nel Foro: ma la necessità di prendere le armi, da cui rifuggite, vi incalza. Vi pesava marciare contro Equi e Volsci? Ora la guerra è alle porte. Se non si riuscirà ad allontanarla, presto si trasferirà all'interno delle mura e salirà fino alla rocca del Campidoglio, perseguitandovi anche dentro le case. 

Due anni or sono il senato bandì una leva militare e poi diede ordine di condurre le truppe sull'Algido: noi ora ce ne stiamo qui oziosi, litigando come donnicciole, contenti della pace del momento e incapaci di prevedere che da questo breve periodo di tregua la guerra risorgerà mille volte più grande. So benissimo che ci sono cose molto più piacevoli a dirsi. Ma a parlare di cose vere anziché di gradite, anche se non mi ci inducesse il mio carattere, mi obbliga la necessità. 

Vorrei davvero piacervi, o Quiriti, ma preferisco di gran lunga vedervi sani e salvi, qualunque sia il sentimento che nutrirete in futuro nei miei confronti. Dalla natura è stato disposto così: chi parla in pubblico per interesse personale è più gradito di chi ha invece al vertice dei suoi pensieri solo l'interesse dell'intera comunità; a meno che per caso non crediate che tutti questi adulatori del popolo e questi demagoghi che oggi non vi permettono né di combattere né di starvene tranquilli vi incitino e vi stimolino nel vostro interesse. 

La vostra agitazione è per loro titolo di merito o ragione di profitto; e siccome quando regna la concordia tra le classi essi sanno di non essere nulla, preferiscono mettersi a capo di tumulti e sedizioni, preferiscono fare azioni malvagie piuttosto che nulla. 

Se esiste una possibilità che alla fine tutto ciò arrivi a disgustarvi e che vogliate tornare alle vostre abitudini di un tempo e a quelle dei vostri antenati, rinunciando alle funeste innovazioni, vi autorizzo a punirmi se nel giro di pochi giorni non sarò riuscito a sbaragliare questi devastatori delle nostre campagne dopo averli sradicati dall'accampamento, e a trasferire da sotto le nostre mura alle loro città questa paura di un conflitto che ora vi paralizza!»

Raramente, in altre occasioni, il discorso di un tribuno popolare ebbe presso la plebe un'accoglienza più entusiastica di quella toccata allora alla durissima requisitoria del console. Perfino i giovani, che in situazioni così critiche avevano di solito nella renitenza alla leva l'arma più affilata contro il patriziato, guardavano invece con impazienza alle armi e alla guerra. E siccome i contadini fuggiti dopo essere stati depredati e feriti mentre si trovavano nella campagna riferivano di atrocità ben più gravi di quelle che erano sotto gli occhi, un'ondata di sdegno travolse l'intera città.

Quando si riunì il senato, tutti si voltarono verso Quinzio, guardandolo come il solo vendicatore della maestà di Roma. I senatori più autorevoli dichiararono che il suo discorso era stato all'altezza dell'autorità consolare, degno cioè dei molti consolati detenuti in passato e dell'intera sua vita, che era stata piena di riconoscimenti a lui spesso tributati e anche più spesso da lui meritati. 

Altri consoli avevano in passato o adulato la plebe tradendo la dignità dei senatori oppure, insistendo in un'accanita difesa dei diritti della loro classe, avevano esasperato la massa cercando a tutti i costi di soggiogarla; nel suo discorso Tito Quinzio aveva tenuto conto della dignità dei senatori, della concordia tra le classi e, soprattutto, della situazione di fatto. 

Implorarono lui e il suo collega di prendere in mano le redini dello Stato e pregarono i tribuni di predisporsi ad agire di conserva con i consoli, nel tentativo di allontanare la guerra dalle mura di Roma, supplicandoli anche di fare in modo che in circostanze così allarmanti la plebe accettasse di obbedire ai senatori. 

Dissero inoltre che la patria comune, vedendo le devastazioni nelle campagne e la città quasi stretta d'assedio, si rivolgeva ai tribuni invocandone l'aiuto. All'unanimità venne quindi decretata e subito messa in pratica la leva militare. Di fronte all'assemblea i consoli proclamarono che non c'era tempo per valutare i motivi per esentare dal servizio, e dunque i più giovani, nessuno escluso, dovevano presentarsi in campo Marzio all'alba del giorno successivo; solo a guerra finita si sarebbe trovato il tempo di valutare la giustificazione di chi non era andato ad arruolarsi; e quanti avessero addotto delle motivazioni poi giudicate non sufficientemente valide avrebbero ricevuto il trattamento riservato ai disertori.

La popolazione rispose unanime.

« E dunque i senatori pregavano lui e il collega di prendere in mano le redini della repubblica e pregavano i tribuni di voler collaborare, in unità di intenti, con i consoli. Il consenso fu unanime e la leva fu indetta e attuata. »
(Tito Livio, Ab Urbe condita libro III) 

Il giorno seguente si presentarono tutti i cittadini e vennero formate le legioni. Ciascuna coorte si scelse autonomamente i propri centurioni e due senatori vennero posti al comando di ognuna di esse. Furono aggiunte alcune coorti di veterani volontari, nel corso di quella stessa giornata, le insegne furono prelevate dai questori nell'Erario, trasferite in Campo Marzio e di lì, alla quarta ora del giorno si misero in movimento "ad decimum lapidem", un'antica postazione romana che distava a dieci miglia da Roma, raggiungendola entro sera. E il giorno dopo i Romani posero i loro accampamenti a Corbione, vicini a quelli degli avversari. Il giorno successivo avvenne la battaglia.




LA BATTAGLIA

Agrippa Furio Fuso, collega di Tito Quinzio Capitolino, riconoscendone le maggiori capacità, gli lasciò il comando dell'esercito, un atto non dovuto di cui Quinzio gli fu molto riconoscente, mettendolo al corrente dei suoi piani e dandogli molta libertà operativa. Quinzio si mise al comando dell'ala destra, Agrippa dell'ala sinistra, mentre ai due legati Spurio Postumio Albo e Publio Sulpicio furono affidati al primo il centro della formazione e al secondo il comando della cavalleria.

L'ala destra si battè con maggior valore della fanteria. La cavalleria di Sulpicio invece riuscì a sfondare le linee nemiche, e poi anzichè ritornare fra i ranghi scelse di attaccare i nemici alle spalle, ma venne attaccato dalla cavalleria degli Equi e dei Volsci. Ma in quell'istante Sulpicio gridò che non c'era più tempo da perdere e che sarebbero stati circondati e tagliati fuori dal resto dei compagni, se con tutte le loro forze non avessero concluso quello scontro tra cavallerie. Non sarebbe stato sufficiente mettere in fuga i nemici permettendo che ne uscissero incolumi: dovevano distruggere uomini e cavalli, in maniera tale che nessuno potesse rituffarsi nello scontro e dare nuovo vigore alla battaglia.

La cavalleria romana, per non essere circondata, dovette impegnarsi moltissimo e uccidere quanti più uomini e cavalli possibile per evitarne il ritorno alla battaglia e il possibile accerchiamento. I cavalieri romani ottennero il successo e Sulpicio mandò dei messaggeri ai consoli per avvisare della vittoria e informarli che avrebbe attaccato i nemici alle spalle.
Gli Equi e i Volsci, che già stavano retrocedendo, si demoralizzarono mentre i Romani si facevano più audaci. L'ala comandata da Quinzio fece arretrare l'ala nemica. Agrippa, che al comando dell'ala sinistra romana si trovava difficoltà, ispirato dai buoni risultati degli altri militari decise di afferrare alcune insegne e a gettarle nel folto dei nemici. Questa era una mossa critica e tragica per i romani, perchè lasciare le insegne ai nemici significava essere disonorati a vita. 
Così per disperazione i legionari si buttarono in avanti mentre Equi e Volsci cominciarono ad arretrare. E il vittorioso Agrippa raggiunse il collega vittorioso di fronte all'accampamento nemico e là ci fu uno scambio di congratulazioni. Messi in fuga in un baleno i pochi rimasti a presidiare il campo, i due consoli senza far uso delle armi irruppero nelle trincee e ricondussero in patria l'esercito carico di un ingente bottino.
Così fu e i due consoli, assieme, travolsero i pochi difensori dell'accampamento e riportarono a Roma non solo il bottino nemico ma anche i beni romani precedentemente saccheggiati.



NESSUN TRIONFO

Si narra che né i consoli richiesero il trionfo né il senato lo decretò; non ci viene tramandato il motivo per il quale un simile riconoscimento fu dai vincitori disdegnato o non sperato. Per quanto si può arguire, dopo così tanto tempo, siccome il trionfo era stato negato dal senato ai consoli Valerio e Orazio i quali, oltre ad aver sconfitto Volsci ed Equi, si erano coperti di gloria anche nella guerra contro i Sabini, Agrippa e Quinzio si vergognarono di chiederlo per un'impresa ch'era metà di quella; se lo avessero ottenuto, poteva sembrare che si fosse tenuto conto più degli uomini che dei meriti.


INSULA DI SAN PAOLO ALLA REGOLA

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Tra il 1978 e il 1982 il Comune di Roma effettuò il restauro di un insieme di fabbricati di sua proprietà situati tra via del Conservatorio e la chiesa della SS. Trinità dei Pellegrini. Il restauro mise il luce strutture di età romana conservate per quattro piani di altezza, due nel sottosuolo e due al di sopra, restaurate e sopraelevate sin quasi alla situazione attuale già nel medioevo.

Il complesso archeologico di S. Paolo alla Regola, scavato, restaurato e attualmente visitabile è ubicato nel primo e secondo livello sottosuolo del cinquecentesco Palazzo degli Specchi, occupato al primo piano dalla Biblioteca comunale per i ragazzi e nei piani superiori da abitazioni private.
L'insula è prospiciente a via di S. Paolo alla Regola, strada che ricalca quell'antico tracciato stradale che fin dall'età repubblicana collegava il Circo Flaminio con la pianura del Campo Marzio.

L'urbanizzazione del Campo Marzio meridionale si deve all'intensa attività edilizia di Augusto, che non a caso dichiarò in punto di morte: "Ho trovato una città di mattoni e lascio una città di marmo".


Ma ciò riguarda anche la zona limitrofa agli edifici di S. Paolo, la costruzione di ponte Sisto realizzata da suo genero Agrippa, nonchè un reticolo di strade parallele al Tevere ricalcate dalle moderne via delle Zoccolette e via di S. Paolo alla Regola, ed ortogonali ad esso quali via del Conservatorio e via dei Pettinari, che collegava ponte Sisto con il Campo Marzio centrale.


All'epoca di Domiziano la zona venne occupata dagli Horrea Vespasiani, un vasto complesso di magazzini che si estendevano parallelamente al fiume tra via dei Pettinari e via Arenula.
In età severiana la zona fu oggetto di un radicale trasformazione, accanto e sopra ai magazzini furono edificate abitazioni e palazzi di non meno di quattro piani di altezza, successivamente distrutti da un violento incendio.


Con la ristrutturazione dell'età costantiniana venne interrato un piano per preservare gli edifici dalle piene del Tevere, e le strutture murarie vennero poderosamente consolidate. Dopo un periodo d'uso gli edifici vengono però abbandonati, cadono in rovina ed il livello del suolo raggiunge, tra crolli e depositi alluvionali, all'incirca la quota attuale.

Nell'XI e nel XII secolo a seguito di una nuova intensa attività edilizia, le rovine romane vengono consolidate fino alle fondamenta e sopraelevate. Viene edificata una casa a torre in laterizio con sopraelevazione a tufelli a cavallo di un antico vicolo che separa tra loro due blocchi edilizi domizianei, tuttora visibile dietro Palazzo Specchi.

Successivamente, tra il XII e il XIII secolo tutta la zona viene occupata da costruzioni intensive con case di forma stretta ed allungata che saturano tutti gli spazi disponibili e che raggiungono i 4-5 piani di altezza, e che saranno nuovamente sopraelevate nel XIV secolo.

L'area archeologica di S. Paolo alla Regola si compone, nel secondo livello sottosuolo situato a 8 mt. di profondità dalla quota attuale della strada, da due grandi magazzini domizianei, in struttura laterizia e coperti con ampie volte a botte, che si affacciano sul vicolo romano parallelo al Tevere.


Qui si aprivano due ingressi, chiusi poi in età medioevale con una muratura in opera listata di laterizi alternati con tufi. Il livello intermedio, detto "della colonna" per la presenza di una loggia con arcone ribassato sorretto da una colonna, era in origine un cortile lastricato di pietre calcaree dove si affacciano i magazzini domizianei, poi ripristinato in età severiana per ospitare due magazzini ed infine totalmente ristrutturato in età costantiniana, interrando il piano terra dell'edificio e consolidando le murature domizianee e severiane fino a triplicarne lo spessore.

Il primo livello sottosuolo del si compone di una serie di magazzini di età severiana che si sviluppano accanto ad un cortile; oltre alla ristrutturazione costantiniana vi compare una poderosa muratura moderna di rinforzo alle volte cinquecentesche sulle quali si è sviluppato il sovrastante Palazzo degli Specchi.

I rimanenti due ambienti, pavimentati a mosaico, costituiscono il primo piano del palazzetto il cui piano terra era occupato dai magazzini domizianei; i mosaici bianchi e neri a disegno sono di età severiana.






Insula Romana di San Paolo alla Regola. (Fonte)
Ogni volta mi stupisco e penso a quante cose ci sono nel sottosuolo e in superficie che raccontano della nostra storia, come eravamo, come vivevamo ed eravamo legati al territorio, al nostro fiume Tevere. Molte cose non hanno mai smesso di essere usate nei secoli dei secoli. 

Un raro esempio accade a Palazzo Specchi dove la facciata mostra chiaramente la struttura in opus reticulatum. Vedere che i muri di un edificio moderno siano ancora quelli del I secolo d.C. fa un certo effetto.

Incredibile si tratta degli ultimi due piani di un’enorme struttura che ha origine sotto i Flavi e non viene mai abbandonata o abbattuta nel corso dei secoli.
Ovviamente nel tempo cambia destinazione d’uso. 

Nel sottosuolo ancora tre livelli che raccontano di come questa struttura sia nata e si è sviluppata in relazione al fiume.

Quello che ne ha anche determinato il veloce interramento. Nei primi ambienti, quelli più in profondità, sono stati identificati degli horrea, dei magazzini, in realtà si estendevano fino al Ministero di Grazia e Giustizia a diversi metri di lontananza. Risalire i livelli superiori significa incontrare altre situazioni e atmosfere.

La sala della Colonna, ad esempio, è un antico cortile, sul quale si affacciavano diverse abitazioni, oggi indicate dalle numerose finestre tamponate. Come alcuni pavimenti a mosaico bianco e nero testimoniano il fatto che ad un certo punto questi locali vengono usati come abitazione, alla quale è annessa una lavanderia, che si serve dell’acqua corrente del fiume. Un bello spaccato di vita quotidiana e soprattutto, una rara dimostrazione della stratificazione interna ad un edificio.

(Sabrina Rinaldi)

CULTO DI AEQUITAS

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DEA AEQUITAS

Divinità femminile facente parte degli Dei Indigetes, cioè degli Dei primitivi del suolo italico preromano. Questi Dei non furono aboliti dai romani ma rimasero come divinità con santuari e talvolta templi, in particolar modo ricostruiti sotto Augusto che amava la tradizione religiosa.
Venne spesso accompagnata dalla Dea Veritas.

L'aequitas è l'origine del movimento e del divenire. Tutto si muove per raggiungere l'aequitas per poi squilibrarsi di nuovo e sentire ancora il bisogno dell'aequitas, unica condizione di pace e serenità. A questo principio si ispira il detto romano (secondo alcuni greco): "Si vis pacem para bellum."

SI VIS PACEM PARA BELLUM (ARA PACIS)

AEQUITAS MATERNA

L'uovo fu nell'oriente antico espressione della suprema Aequitas Materna. Sappiamo di un re persiano che avrebbe bevuto in un uovo d'oro acqua e vino, il che può valerci come un riferimento alla origine materna del suo potere, ed altresì alla suprema equità materna con la quale egli amministrava questo potere (Atenagora, 11, 110, Fraq. hist. qraec., 2, 92).

Secondo i principi materni tutti gli uomini sono uguali in quanto partoriti dalla stessa Dea Terra, pertanto ogni omicidio è reato contro la Madre e la terra è di tutti. Poi il patriarcato, conseguente all'allargamento delle tribù fino a formate lo Status, stabilì il diritto paterno ispirato però a una Dea della Giustizia, che in Grecia fu temi, a Roma fu Iustitia (Giustizia) ed Aequitas.



AEQUITAS DELLO STATO

Ad Urbisaglia, nelle terme, un'iscrizione ricorda un certo Rutileius figlio di Caius, magistrato municipale, lasciò in dono 100.000 sesterzi, forse riservato all'area sacra del tempio principale della città, essendo citata la Dea Æquitas Augusta.

Nell'antica Roma con il termine "aequitas" si intendeva il procedimento consuetudinale non scritto che si instaurava tra i giuristi per la soluzione delle controversie; era quindi un concetto in divenire, non statico, che esprimeva la capacità di risolvere un problema relazionandosi alle esigenze economico-sociali e al contesto culturale del luogo.  

D'altronde il giurista romano con i suoi studi e le sue interpretazioni fu quello che fondò la scienza dell'organizzazione della società romana attraverso le istituzioni e le regole operanti nei vari ambiti umani.

La nozione dell’aequitas è tra le più essenziali per la comprensione del diritto romano nel suo sviluppo storico, anche se nell’aequitas nell’antica Roma, l’arte retorica giocò un ruolo fondamentale, come testimonia un passo di Cicerone: “In hoc genere pueri apud magistros exercentur omnes, cum in eius modi causis alios scriptum alios aequitatem defendere docentur”.

Insomma la Dea Equitas era anzitutto l'ispiratrice dell'uguaglianza dei diritti nell'ambito delle relative leggi. l'Aequitas è equanimità, giustizia nel trattamento da parte dell'imperatore (Aequitas Augusti), insomma l'imparzialità, senza preferenze preconcette. Certo, stando alle fonti di cui disponiamo (gli Annali e le Storie di Tacito, le Vite dei Dodici Cesari, la Historia Augusta, ecc.) non sono moltissimi gli imperatori che seguirono la Aequitas Augusti.

Nel 242 a.c. venne istituito il praetor peregrinus, il quale, non vincolato né allo ius civile né alla rigida procedura delle legis actiones, risolveva le controversie mediante un procedimento più rapido e meno formale, quello per formulas, dove un ruolo fondamentale svolsero i nuovi concetti di "aequum bonum" e di "bona fides", secondo il principio dell'"Aequitas".

Così l’evoluzione del diritto romano vide nell’aequitas il proprio principio mediatore, “un unicum nella storia”. Nella numismatica esistono raffigurazioni della Dea Aequitas da Galba a Decenzio.
Aequitas ha come attributi la bilancia nella mano destra e la cornucopia nella mano sinistra. Un po' come il pastorale e il flagello dei faraoni egizi. E' la via di mezzo tra la severità e l'elargizione. Talvolta, ma raramente, è effigiata con la bilancia e la lancia, come la fece raffigurare ad esempio l'imperatore Adriano, che però, ricordiamolo, passò la vita a rimettere l'ordine nell'impero, e sovente con le armi.

ADRIANO E AEQUITAS
Moneta è a volte raffigurata con gli stessi attributi di Aequitas, tanto che su alcune monete non si ha la certezza di quale delle due si tratti.

Moneta, appunto spesso confusa con Aequitas, in realtà era Giunone Moneta (l'avvertitrice, l'ammonitrice, da moneo = ammonisco) e prese questo nome dall'episodio delle oche del Campidoglio, animali a lei sacri, che con le loro grida avvertirono i romani assediati dell'approssimarsi delle truppe di Brenno, che stavano entrando da un passaggio segreto.

L'Aequitas invece è stata abbondantemente battuta sotto Vespasiano (anche per Tito e Domiziano) e più limitatamente sotto Tito. Domiziano in proprio non l'ha mai utilizzata.


L'interpretazione della legge, che nel caso singolo si può rivelare contraria al suo dettato, rimane invece conforme alla mente del legislatore. Il suo concetto è la risultante di tre fattori: 
- l'aequitas romana, intesa come ideale di perfetta giustizia; 
- la misericordia o benignitas cristiana; 
- l'epikeia aristotelica, cioè quello che è conveniente, moderato, equo e di conseguenza la correzione o emendamento del giusto legale: ossia il venir meno dell'obbligatorietà della legge quando, nel caso particolare, la sua applicazione si riveli manifestamente iniqua.
In epoca giustinianea l'imperatore (Giustiniano I - 482 - 565) fece ricorso all'Aequitas per giudicare oltre i limiti della stretta applicazione del diritto.

VOLUBILIS (Marocco)

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IL DECUMANO MASSIMO
Volubilis è un sito archeologico romano, situato ai piedi del massiccio dello Zerhoun, a 27 km a nord di Meknès, e a 80 km a nord-est della catena montuosa dell'Atlante. Essa fu abitata fin dall'epoca neolitica e venne occupata anche dai Cartaginesi. Volubilis era la più occidentale tra le città del Nord Africa ed era una città punica.

Fu una delle capitali di Giuba II (25 a.c. - 23 o 24 d.c.), re della Mauretania, con il nome di Oulili, ovvero Oaulili, che significa "oleandri rosa". È il sito archeologico più noto del Marocco ed è inserito nell'elenco dei patrimoni dell'umanità dell'UNESCO.

Nell'anno 42 Claudio annetté all'impero romano la provincia della Mauretania, una sequela di deserti e monti, con poche oasi di terra fertile, che si stendevano dai confini della Numidia fino a Tangeri. Sembrava una terra piuttosto avara ed inospitale ma gli straordinari ingegneri romani, ricalcando e allargando una pista punica e prolungandola gradualmente a ovest fino a Tangeri (Tingi) e a sud fino a Rabat, edificarono una strada costiera che andava dall'Atlantico al Nilo, per una lunghezza continua di 2800 miglia (4480 LM), un'opera colossale.

COME DOVEVA APPARIRE
Attraverso questa strada transitavano gli eserciti ma pure i carri producendo rifornimenti e commerci, che davano vita e lavoro e mezzi di sostentamento ai villaggi. Trasformata poi in provincia romana (40-45 d.c.), sebbene molto lontana dal mare, ma ben collegata da questa strada costiera, divenne una delle principali città della provincia mauretana tingitana, residenza dei procuratori che governavano la regione per conto dell'imperatore.

Volubilis visse il suo apogeo nel II e III secolo d.c. grazie al commercio dell'olio, una casa su quattro infatti era dotata di un frantoio per le olive, di una macina per il grano che producevano ormai essi stessi e diverse gabbie con dentro gli animali selvaggi (leoni, pantere, elefanti). Le immense possibilità di commercio per tutto l'impero romano la fecero ricca, anche perchè divenne fonte delle belve da far combattere nei circhi romani.

VOLUBILIS OGGI

LA STORIA

Augusto, grazie alla conquista di Cesare, fece della Mauretania un regno "cliente", che forniva esercito e tributi, in cambio di un abbellimento e una civilizzazione che purtroppo non durò abbastanza per poterle dare un codice di diritto romano.

In questo regno "cliente" pose sul trono Giuba II, figlio di Giuba I e nipote di Massinissa, sovrani di Numidia. Giuba I era stato già sconfitto da Cesare nel corso della guerra contro Pompeo, ma con la solita clemenza romana la vita del sovrano mauretano venne risparmiata, a patto naturalmente che alla sua morte il suo regno passasse in mano romane.

Alla morte di Giuba I la Numidia divenne provincia romana e Giuba II, ancora bambino, venne portato a Roma dove ricevette la stessa educazione dei figli dell'aristocrazia romana. Qui conobbe e sposò, nel 19 a.c., la greca Cleopatra Selene, figlia di Cleopatra VII la Grande e di Antonio, che era stata, come il marito, educata a Roma alla cultura sia romana che greca.

IL FORO
I due regnarono insieme avendo per capitali sia Cesarea che Volubilis,  si fecero edificare insieme una splendida tomba di tipo "imperiale" a Tipasa, e scrissero opere di notevole interesse storico e geografico, che poco conosciamo e solo attraverso gli autori più tardi. Essi ebbero un figlio, Tolomeo, che regnò dopo di loro fino al 42 d.c., quando fu ucciso per ordine del folle Caligola.

l regno di Mauretania (nord del Marocco e Algeria costiera) venne diviso in due province:

- Mauretania Tingitana (la parte nord del Marocco, da Tingis, Tangeri,
- Mauretania Cesariensis con capitale Cesarea.

La Mauretania era collegata alle strade imperiali che, attraverso la Spagna, arrivavano alle Colonne d'Ercole. Diventata poi residenza del procuratore, Volubilis ebbe il comando del limes della Mauritania Tingitana.

CASA ROMANA CON IMPLUVIO ROTONDO

Luzio Quieto

Nel 117 Volubilis subì attacchi da parte dei Mauri, capeggiati da Luzio Quieto, ovvero Lusius Quietus, principe di una tribù della Mauretania mai conquistata dai Romani. Suo padre fu un fedele alleato di Roma negli anni che seguirono la conquista e trasformazione in provincia della Mauretania Tingitana (41-46), tanto da meritarsi la cittadinanza romana.

Luzio (Mauretania, 70 circa – 118) in effetti era stato un militare berbero dell'Impero romano, che aveva servito nelle file degli auxilia, come prefetto di un'ala di Mauri, prima di venire allontanato dal servizio con ignominia (non si sa per quale ragione) da parte di Domiziano (51 - 96).

Tornato in servizio alla morte dell'imperatore, compì eroiche imprese militari durante l'impero di Traiano che lo apprezzò invece nel giusto merito, prima nel corso della conquista della Dacia degli anni 101-106, e poi nel corso delle campagne partiche degli anni 114-117. 

BASILICA ROMANA
In Dacia sono ricordate le sue imprese a capo della cavalleria leggera dei Mauri, l'ala dell'esercito traiano, mentre in Mesopotamia Lusio si distinse particolarmente per aver conquistato Nisibis e saccheggiato Edessa, capitale dell'Osroene (antico regno della Mesopotamia), oltre ad aver represso una rivolta di Giudei in Mesopotamia.

Traiano "optimus princeps" (53 - 117) riconoscente lo nominò senatore, con la formula "adlectus inter praetorios" che significa che era stato nominato dall'imperatore senza alcuna elezione, poi nel 117 lo fece addirittura console, e subito dopo legato della Siria-Palestina. Una serie di onori mai sperati per un mauretano.

L'anno seguente (118), fu però accusato da Attiano, prefetto del pretorio ed ex tutore di Adriano, di aver ordito una congiura ai danni di Traiano, insieme a tre complici, quando l'imperatore era già morto e non poteva difenderlo.

LA PORTA DI TINGIS
I quattro accusati furono sottoposti a un sommario processo "in absentia" conclusosi con la condanna a morte. Ciò provocò la rivolta della Mauretania capeggiata da Lusio Quieto, che però alla fine venne braccato e giustiziato.

È probabile che i quattro fossero semplicemente oppositori della rinunciataria politica imperiale sul limes orientale di cui Lusio perdeva tra l'altro il governatorato. L'imperatore Adriano avrebbe preso energicamente le distanze da questo oscuro episodio che segnò negativamente il suo esordio e i suoi rapporti con il senato. Anche nella sua perduta autobiografia ne avrebbe attribuita ogni responsabilità ad Attiano, che venne poi rimosso dalla carica.

Comunque fu l'Imperatore Adriano a reprimere le rivolte tra i Mauri alla fine del suo primo grande viaggio attraverso l'impero nel 121-122. Direttamente da Hispania in Mauritania, dove avrebbe trascorso in inverno, per condurre di persona una campagna contro la ribellione mauritana. 


Infine, nel 168, la città venne protetta da una cinta di mura. Per difendersi dagli attacchi continui delle tribù berbere, nomadi e razziatrici, venne eretto questo poderoso muro di cinta con molte torri attorno alla città. Proseguì sotto le dinastie degli Antonini (138 - 192) e dei Severi (193 - 235) il rafforzamento delle mura e l'abbellimento della città.

Ancora sotto Commodo Volubilis venne abbellita di monumenti; sotto Macrino ottenne la costruzione del Campidoglio e sotto Caracalla quella di un Arco di Trionfo a lui dedicato. L'arco di Trionfo sul «decumanus maximus», edificato come tutto il foro in pietra locale e munito di un bel fregio nella parte anteriore, fu eretto infatti nel 217 in onore di Caracalla e di sua madre Iulia Domna.

La città venne abbandonata dalle autorità romane verso il 284-285 e rimase fuori dai nuovi confini della provincia fissati da Diocleziano. L'impero rivedeva il suoi confini che non riusciva più a mantenere.

LE TERME DI UNA VILLA PRIVATA
Anche se ad un certo punto l'acquedotto che alimentava la città cessò di funzionare, le iscrizioni superstiti attestano che verso la metà del VII secolo vi fu ancora una civiltà latina e cristiana che perdurò fino all'arrivo degli arabi che ne decretarono la fine.

Il declino di Volubilis iniziò con il regno di Mulay Isma'il ( 1645 1727), il quale utilizzò i marmi della città per abbellire i palazzi di Meknès. Nel 1755 un terremoto la rase al suolo. Solo nel XIX secolo furono avviati gli scavi per recuperare gli antichi resti.

TEMPIO CAPITOLINO

24 GIUGNO 2018  MARCO SCANU (Fonte)

- Lucio
"Quando ero piccolo, arrivava spesso al porto di Cadice, dall’Africa, con le Galere, un oleum che ai miei occhi appariva davvero speciale perché dicevano essere fatto in una città leggendaria… VOLUBILIS."

- Marco
"Non è una leggenda. I resti di Volubilis si trovano in Marocco, vicino a dove oggi sorge Meknès. In una vallata che ho visitato di recente e, dopo un inverno piovoso, il verde dei campi e l’argento degli olivi mostravano un paesaggio straordinario. Un clima davvero unico tra due mari e la catena montuosa di Atlante che crea le condizioni per un’olivicoltura dalla grande storia e tradizione.

Come Atlante anche le popolazioni dei Berberi sono lì da sempre, eppure, insieme a loro, ci appare di colpo qualcosa che appartiene alla profonda essenza del sentirsi contemporaneo: la Città o meglio l’Urbe Romana. Perché non andarci proprio ora?"

Il volto di Lucio s’illumina di colpo, l’idea di vedere qualcosa di cui ha solo sentito parlare sin dalla più tenera età lo affascina ancor più che toccare con mano le innumerevoli meraviglie moderne… Così in men che non si dica i nostri passi ci conducono a Volubilis.

IL FRANTOIO

- Marco
"Una città che, oltre al tempo inesorabile e la fatalità di un terribile terremoto nel 1775, presenta una serie straordinaria di monumenti che lasciano intuire la bellezza di una volta.
C’è una cosa che rende speciale ai miei occhi Volubilis: l’eccezionale quantità di Frantoi che troviamo e che dimostrano quale fosse davvero la principale economia della regione e della bellissima e ricchissima Urbe di Volubilis."

- Lucio
"Fai presto tu a dire Urbe, mio caro, ma senza l’agricoltura mai avremmo potuto creare alcuna delle nostre Città antiche e moderne. Mi rendo conto nell’osservarvi come la vostra sia un’agricoltura che ha perso i punti cardinali di riferimento, stravolgendo i valori di base e andando in una direzione sempre più estrema, sia per la progressiva alienazione dell’uomo dal lavoro agricolo che per l’inquinamento sempre più grave ed irreversibile sul pianeta terra. La centralità persa è quella della Agricoltura a servizio della Civitas appunto l’agricoltura fatta dall’uomo per l’uomo e quindi necessariamente a dimensione “urbana”."

MOSAICO DEI MOSTRI MARINI DELLA CASA DI ORFEO

- Marco
"Ma l’uomo moderno ha sostituito la forza lavoro con le macchine, positivamente, per sostituire le persone in lavori pesanti. Voi Romani avevate gli schiavi – e di questo parleremo poi se credi – ma noi con le nuove tecnologie abbiamo ridotto i tempi e aumentato le capacità in volume e quantità prodotto. 

L’aratro si è modernizzato aiutando non poco lo sviluppo agricolo. Da lì ci abbiamo preso gusto e l’evoluzione è stata inarrestabile sia in tecnologie che in sviluppo della chimica applicata all’agricoltura. Pensa Lucio che siamo arrivati a creare pesticidi intelligenti e modificare geneticamente il grano anch’esso intelligente per renderlo resistente a questi e così massimizzarne le produzioni. 

Siamo arrivati al punto da dover inserire l’agricoltura tra le primissime cause di inquinamento del nostro Pianeta. Ma siamo costretti a farlo perchè abbiamo una popolazione mondiale che cresce esponenzialmente, che ha fame e che va sfamata. 

Le produzioni devono essere sempre più massive per cui dobbiamo globalizzare: un solo grano, un solo olio, una sola carne, un solo pomodoro, una sola patata, uno solo di tutto è l’unico obiettivo a condizione che possa essere prodotto a bassissimi costi e altissimi rendimenti per i padroni esclusivi e protetti da brevetti di ogni genere, insomma un vero oligopolio di semi unici e dei pesticidi esclusivi.
Anche nell’olio si tende a uniformare e globalizzare tutto su tre forse quattro cultivar meccanizzabili e non di più…"



- Lucio
"Sarà pure come dici ma non mi convince proprio per nulla. L’agricoltura di un tempo ha messo le basi per tutte le grandi civiltà mentre oggi l’agricoltura moderna sta minacciando l’esistenza della Umanità intera! State producendo tantissimo cibo avvelenato che tra l’altro poi verrà in parte sprecato e distrutto non arrivando mai a chi ha davvero fame, tutto ciò ad un costo insostenibile per il contadino, ma quando ve ne renderete conto?"

Camminiamo per le strade in pietra solcate dalle ruote dei carri con marciapiede su cui si affacciano le case dedite al commercio. Volubilis è affascinante ma proprio qui vicino c’è il caso di un’azienda olivicola che ben incarna questa tendenza di alienare l’uomo dal centro della scena produttiva. 

Nonostante qui in Marocco il costo del lavoro sia incredibilmente basso, circa 8 euro al giorno per un operaio agricolo (oggi in Italia parliamo almeno di 60 euro, quasi otto volte di più!), gli investitori internazionali hanno comunque deciso di realizzare un oliveto Superintensivo non tanto evidentemente in ragione del costo, come detto già bassissimo, della manodopera, ma a mio avviso proprio per eliminare a monte ogni problematica di gestione dell’uomo/operaio.



- Lucio
"Ma come puoi passare da macchine utili a macchine che tolgono lavoro all’uomo? Ma come pensare di sfamare la gente con un solo grano e un solo olio piuttosto che creare le condizioni perché quell’uomo possa lavorare e guadagnare dignitosamente per poi poter scegliere tra più grani e più oli, scegliere tra dignità e miseria, tra alienazione e distruzione da una parte e sostenibilità umana e ambientale dall’altra?"

- Marco 
Le parole di Lucio mi lasciano ammutolito. Le sue accuse al nostro sistema sono veri e propri macigni, grandi come queste pietre dei muri di Volubilis che ci circondano.

Lo sguardo di Lucio fissa con attenzione la macina di un Frantoio davvero ben conservato. Entriamo dall’ingresso laterale che doveva essere destinato allo scarico delle olive. Lucio è molto serio e con la mano accarezza i bordi della macina. Fissandomi mi avverte che lì non c’erano animali da lavoro ma schiavi che spingevano quella macina di pietra.

- Marco
"Quanto erano importanti, per l’economia e lo sviluppo di Roma, gli schiavi?"

BACCO E ARIANNA (CASA DI BACCO)

- Lucio
"Non avremmo mai potuto costruire l’impero di Roma senza la schiavitù. Dal numero di schiavi si poteva apprezzare l’importanza del Nobile Romano, immagina che alcuni Nobili arrivarono ad averne oltre 20 mila al proprio servizio. Per fortuna mi pare che il nuovo mondo abbia debellato la schiavitù, o no?"

- Marco
"Caro Lucio, oggi abbiamo forme moderne di schiavitù: sfruttamento minorile, la tratta di donne e uomini sono cose attuali anche ai nostri tempi. Schiavi moderni che si distinguono da quelli dell’Antichità solo per l’illusione di essere uomini liberi, anche se sono invece vittime di pochi, ora come allora."

- Lucio
"Sembra proprio che, come l’olivo, anche l’uomo non sia cambiato affatto. Ma tu Marco dimmi che olivicoltura immagini possibile in questo scenario?"

Marco
"Se posso sognare allora immagino una olivicoltura che si ispiri a quella in cui ho la fortuna di lavorare in una zona a te carissima: Il METAPONTO. Ci andiamo?"

Un largo sorriso sul volto di Lucio mi dice che la prossima tappa sarà in Italia…



GLI SCAVI

Il sito, non è ancora riportato interamente alla luce, si stima che ancora 2/3 dell’avamposto romano siano seppelliti sotto cumuli di terra. Cionondimeno nel corso di scavi praticati in questa zona nel 1944 furono ritrovati due busti, di cui uno del re Giuba II che regnò a Jol-Caesarea (oggi Chercell) in Mauretania con sua moglie Cleopatra Selene. 

Fu, secondo Plutarco, uno «dei prigionieri più fortunati che siano mai caduti nelle mani dei Romani, perché pur essendo un barbaro (suo padre era un re dei Numidi), poté collaborare con gli storici più eruditi della Grecia».



Caesarea, oggi un povero villaggio di pescatori a cento miglia all'incirca a ovest di Algeri, era adorna al tempo di questo suo re di monumenti, che racchiudevano una delle collezioni più splendide di statue greche, fra cui originali di Fidia, Alcamene e Prassitele e pure i tesori recuperati dalla trireme naufragata davanti a Mahdia, sulle coste della Tunisia, mentre portava a Giuba sculture greche, bronzi e mobili stupendi, perfettamente conservati dal mare, che riempiono oggi due sale del Museo del Bardo.

Qui si conserva anche il ritratto di Catone il giovane, suicida dopo essere stato sconfitto da Giulio Cesare nella battaglia di Tapso. Man mano che l'Africa cresceva in opulenza aumentavano i suoi predoni, perchè chi non coltiva la terra è nomade ed ama razziare. E poiché i berberi e gli altri abitanti dell'interno erano naturalmente attirati dalle città costruite nei deserti dai colonizzatori, fu necessario mandarvi di stanza guarnigioni sempre più numerose.

ARCO DI CARACALLA

LA CITTA'

- Le mura presentano quattro porte, la principale delle quali, collegata alla strada proveniente da Tangeri, immette nel decumanus maximus che prosegue fino all'ingresso ovest.

- Il decumanus maximus è l'asse che attraversa la città fra la cosiddetta porta di Tangeri, a nord-est, e la porta occidentale (il tratto messo in luce dagli scavi è compreso fra l'arco di trionfo e la porta di Tangeri). Lungo la strada si allineavano il palazzo del Procuratore (detto di Gordiano) e le più belle dimore della città.

- Uno dei monumenti più importanti è la basilica che presenta due esedre contrapposte, 

- il capitolium dei Severi (nel Foro),

- templi risalenti al I secolo, tra cui quello di Giove capitolino

- l'acquedotto

- le terme di Gallieno, che si raggiungono dopo il Foro e la basilica più a sud. Vi si può riscontrare la sorprendente maestria degli ingegneri romani per la realizzazione della rete fognaria e di quella idrica e delle tecniche di riscaldamento utili al funzionamento delle terme.

ISCRIZIONE DELL'ARCO DI CARACALLA
- l'arco di trionfo costruito da Marco Aurelio Sebastiano in onore di Caracalla, come testimoniano i nomi suo e di sua madre, scolpiti sul frontone. L'arco di Trionfo, collocato sul «decumanus maximus», fu eretto nel 217 in onore di Caracalla e di sua madre Iulia Domna ed è stato rialzato nel 1933.

- diverse case con frantoi e vasche per la produzione dell'olio d'oliva, una casa su quattro ne possedeva uno. 

- Lungo il decumano si trovano i resti di numerose case romane e patrizie decorate con complessi mosaici policromi, alcuni dei quali in ottime condizioni di conservazione. 

Tra le case più importanti:
- la Casa dell’acrobata (vedi mosaico),
- la Casa di Orfeo (Orfeo con lira che incanta gli animali, Anfitrite su biga trainata da ippocampo, i nove delfini),
- la Casa del corteo di Venere,
- la Casa dell’Efebo,
- la Casa delle Colonne,
- la Casa del Cavaliere, 
- Casa di Bacco,
- la Casa delle Fatiche di Ercole,
- la Casa delle Ninfe al bagno (uno dei mosaici è stato prelevato da Volubilis e allestito nel Museo della Kasbah di Tangeri).

PORTA LAVERNALIS (Porte Serviane)

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POSIZIONE DELLA PORTA LAVERNALIS
"Nella valle che divide le due sommità dell" Aventino poi si trova conveniente di stabilire la porta Lavernale che traeva il nome dall'ara di Laverna, e che sembra dedursi dal medesimo Varrone essere stata vicina alla Raudusculana".

Laverna era la Dea dei ladri e degli impostori e l’epicentro del suo culto era Roma: qui esistevano due luoghi a lei sacri, uno presso la porta Lavernale, uno lungo la via Salaria; la notizia di Festo, secondo cui i ladri erano soliti riunirsi nel lucus della Dea, non può essere riferita al lucus della via Salaria, perché lo stesso Festo prosegue affermando che da tale bosco prende il nome la porta Lavernale, e che si trovava sicuramente sull’Aventino e non sulla Salaria. Esistevano quindi a Roma due diversi siti dedicati alla Dea, uno sull’Aventino e uno lungo la via Salaria.

Secondo Varrone il nome della Porta Lavernale deriverebbe dalla sua vicinanza con un altare o un tempietto dedicato alla Dea Laverna, protettrice dei ladri. La mitologia narra infatti che in quella zona esistesse un fitto boschetto sacro a Laverna, che serviva da ricovero e nascondiglio per i ladri e la loro refurtiva.

"Custodivano l'intera porta: (gli Dei) Forculus le imposte; Limentinus la soglia e l'architrave e Cardea i cardini. Ciò nondimeno le porte venivano infrante dai ladri, che devoti alla Dea Laverna, mettevano in non cale l'ira di sì forti custodi, ed invocavano la loro protettrice facendole offerta di una parte degli oggetti rubati."

"Inferis mani sinistra immolamus pocula
laeva quae vides Lavernae
Palladis sunt dextera"

cioè: "agli inferi sacrifichiamo con la coppa nella mano sinistra, ciò che vedi a sinistra è di Laverna, ciò che vedi a destra è di Minerva."

Infatti, a sinistra sta la divinità oscura e misteriosa, a destra quella operativa e razionale. Laverna era la Dea dell'Averno, del mondo dei morti, e naturalmente dell'occulto. Secondo Orazio alla Dea si rivolgevano non solo i ladri, ma tutti quelli che volevano tener segreti i loro piani.

Sia Prudenzio del IV sec. a.c. che Settimio Sereno, del II sec. la considerano Dea dell'Oltretomba, che si chiamava anche Averno. Le era dedicato un tempio, un'ara, una via e una Porta: Porta Lavernale.

Secondo Varrone il nome della Porta deriverebbe dalla sua vicinanza con un altare o un tempietto dedicato alla Dea Laverna, protettrice dei ladri. La mitologia narra infatti che in quella zona esistesse un fitto boschetto (dedicato anch'esso alla Dea) che serviva da ricovero e nascondiglio per i ladri e la loro refurtiva.

Plauto:
"Tra gli Dei e i demoni dei tempi antichi, possano essere sempre favorevoli a noi! Tra di loro era una femmina più malvagia di tutti. Si chiamava Laverna. Era una ladra, poco conosciuta dalle altre divinità, che erano oneste e dignitose, perché era raramente in cielo.
Stava quasi sempre sulla terra, fra ladri, borseggiatori, e ruffiani, vivendo nell'ombra.

Un giorno si recò da un sacerdote apparendo come una bellissima sacerdotessa e gli disse:
- Hai una tenuta che voglio comprare. Ho intenzione di costruire su di esso un tempio al Dio. Ti giuro sul mio corpo che te lo pagherò entro un anno. -
Il sacerdote le vendette la proprietà, ma presto Laverna aveva venduto tutte le colture, cereali, bestiame, legno e pollame. Non vi lasciò il valore di quattro centesimi. Ma il giorno del pagamento Laverna non c'era, era andata lontano, piantando in asso il suo creditore.

Intanto Laverna andò da un gran signore e comprò il suo palazzo, ben arredato e con ricche terre, ma questa volta giurò sulla sua testa di pagare per intero in sei mesi. E come aveva fatto col sacerdote, agì il signore del palazzo, vendendo ogni bastone, mobili, bestiame, uomini e topi, non lasciò tanto da nutrire a una mosca. Allora il sacerdote e il signore si rivolsero agli Dei, lamentando di essere stati derubati da una Dea. 
Si capì che si trattava di Laverna, per cui fu chiamata a giudizio dagli Dei. Quando le chiesero perchè avesse rotto il giuramento sul suo corpo fatto al sacerdote, rispose facendo sparire il suo corpo, lasciando visibile solo la testa, dicendo 
- Ho giurato sul mio corpo ma io non ho corpo! -

Tutti gli Dei risero, poi venne il ricco signore imbrogliato al quale aveva giurato sulla sua testa, ed ella fece sparire la testa mostrando solo il bellissimo corpo - Ecco io sono Laverna, accusata di essere ladra perchè ho giurato sulla mia testa di pagare, ma io non ho testa, per cui non ho mai fatto questo giuramento. -

Gli Dei risero, poi le ordinarono di riattaccare il corpo alla testa e di pagare i debiti, cosa che lei fece. Poi Giove parlò: - Ecco una Dea maliziosa senza un adoratore, mentre a Roma ci sono moltissimi ladri, imbroglioni, truffatori, furfanti, abbindolatori e scrocconi, che vivono con l'inganno. Questa brava gente non ha né un tempio né un Dio, ed è un gran peccato, perché anche i demoni hanno il loro padrone, quindi, io comando che in futuro Laverna sia la Dea di tutti i commercianti disonesti, con tutta la spazzatura e rifiuto della razza umana, che sono stati finora senza un Dio o demone, in quanto sono stati troppo spregevoli per l'uno o l'altro. - 
E così Laverna divenne la Dea di tutte le persone disoneste e malandate."

Da rilevare che poco più oltre, lungo il Tevere, c'era la porta Trigemina, anche nota come porta Minucia, e Minucio era uno dei nomi con cui era anche chiamato Ercole, scopritore di ladri e briganti che, proprio lì nei pressi, aveva innalzato un'ara per ringraziare gli Dei di avergli fatto ritrovare i suoi buoi, rubati dal ladrone Caco che aveva la sua tana dalle parti della Lavernalis.

In effetti la collocazione della Porta Lavernalis, nell'angolo sud-occidentale della cinta delle mura serviane, non è chiara ed è piuttosto dibattuta, mancando un qualsiasi reperto archeologico che possa fornirne indicazioni.

Sembra che la Porta si aprisse sulla scalae Cassi, una scalinata che permetteva di salire sull'Aventino dalla riva del Tevere, che si trovava nella XIII regione augustea e dove però alcuni studiosi pongono la porta Trigemina. La Scala di Cassio dunque dalle sponde del Tevere saliva sull'Aventino fino alla chiesa di S. Sabina seguendo il percorso dell'attuale vicolo di S. Sabina.

Sembra più probabile che la porta si trovasse nella piccola valle a sud dell'Aventino, sul fianco orientale del bastione del Sangallo, in corrispondenza dell'attuale via di Porta Lavernale. La via ha tale nome per tradizione e spesso le tradizioni nascondono una realtà.

Ne darebbero conferma gli studi e rilievi effettuati da Antonio da Sangallo il Giovane (1484 - 1546) quando progettò e costruì, per ordine di papa Paolo III Farnese, il bastione ancora oggi visibile nei pressi di via Marmorata. Si trovava comunque in una posizione intermedia tra la porta Raudusculana e la sponda del Tevere e forse dalla porta Lavernale usciva l'antico tratto iniziale della via Laurentina.

CATACOMBE AD DECIMUM

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L'ENTRATA ALLE CATACOMBE AD DECIMUM

La parola “catacomba” nacque casualmente a Roma. Sulla Via Appia antica vi era una località chiamata “Catacumbas”, perché in quel punto il terreno si avvallava. Proprio lì sorse il cimitero di San Sebastiano, così il termine “catacomba” si estese a tanti cimiteri.

Le catacombe hanno origini pagane, ma mentre nel I sec. d.c. cristiani e pagani venivano seppelliti insieme, dal II secolo i cimiteri cristiani considerano peccaminosi certi accostamenti coi pagani e acquisirono in superficie dei cimiteri propri.

Nel V secolo decade il divieto di seppellire all’interno della città e Roma ormai è completamente cristiana e svanisce il problema del sacrilegio. Nascono così i primi cimiteri urbani, nei pressi delle parrocchie cittadine. Le catacombe vengono abbandonate ad eccezione di quelle che conservavano la sepoltura di un martire, che trasforma la catacomba in santuario.

Il cimitero "Ad Decimum" (miliarum) della Via Latina, e cioè a circa 15 km da porta Capena, (oggi all'altezza del km. 6 della Via Anagnina), era certamente troppo distante per servire ai cristiani di Roma. Era invece il cimitero di un villaggio che da fonti epigrafiche sappiamo si chiamava Vicus Angusculanus ed era, diremmo oggi, una frazione di Tusculum. Oggi sta nel comune di Grottaferrata.

PIANTA DELLE CATACOMBE (INGRANDIBILE)
Abbandonata molto presto, probabilmente già a partire dalla fine del V – VI secolo perché priva di corpo di martire, per 1500 anni rimase dimenticata, anche perché non menzionata in alcun documento. Venne però scoperta nel 1905, in massima parte è rimasta com'era, anche se le prime tombe ai piedi della scala furono devastate dai proprietari del vigneto soprastante, i quali, dopo la casuale scoperta, s'illusero di trovare un tesoro. All'interno sono conservate all'incirca un migliaio di tombe (II-V sec. d.c.)

Su tre "fistulae aquariae" (segmenti di tubi di piombo per l'acqua) risulta invece il nome di PVB(lica) Decimiensium, cioè Comunità dei Decimiensi (o abitanti al Decimo Miglio). Si pensa che gli abitanti del piccolo nucleo abbiano, col tempo, preso il nome della stazione di posta "Ad Decimum", nome che risulta in una carta topografica dell'impero, nella tavola Peutingeriana.

Se al villaggio tuscolano, forse assai modesto ma alquanto vivificato dal traffico della stazione di posta e del tratturo che provenendo dall'Alta Valle dell'Aniene, traversava la via Latina e conduceva le greggi al mare, aggiungiamo il personale delle ville d'intorno, possiamo giustificare le circa 1000 tombe che dal III al V secolo riempirono il cimitero cristiano.

La scoperta, del tutto casuale, fu dovuta ai proprietari del vigneto soprastante mentre eseguivano lo "scassato" e cioè quella serie di buche profonde circa un metro che allora si facevano ogni trenta o quaranta anni per ripiantare viti nuove in luogo delle vecchie ormai esauste. A quanto pare, capitarono proprio sull'inizio della scala che stava circa un metro e mezzo sotto il piano di calpestio. 


Alla ricerca del "tesoro", cominciarono ad aprire le tombe, tutte di bambini come si desume dalla lunghezza, che stavano ai lati della scala, provocando una parziale rovina delle pareti. (menomale che non era un cimitero cartaginese altrimenti avrebbero detto che quei bambini erano stati sacrificati ritualmente).

Per giungere in fondo alla scala dovettero scavare perché la catacomba era piena del fango accumulatosi in circa quindici secoli. Ai piedi della scala stavano, purtroppo, le tombe più ricche, subito aperte a colpi di piccone: non si trovò nulla e, per rifarsi in parte della delusione, gli avidi ricercatori, si vendettero i marmi che non avevano fracassato. Poi proseguirono avanti e ai lati, ma senza alcun successo, per cui fortunatamente smisero di scavare, anche perché costava.

Una certa devastazione, tuttavia durò per sette anni, sino a quando i Monaci dell'Abbazia Greca, visto che né lo Stato, né la S.Sede si decidevano a comprare il terreno della catacomba, decisero di acquistarlo. Dopodiché si potette procedere allo scavo archeologico. La prima campagna si svolse fra l'autunno del 1912 e direttore dello scavo fu il Padre Sisto Scaglia, cisterciense.

Una seconda campagna di scavo fu condotta dal 1916 al 1919., diretta dall'archeologo Iosi. Ad essa presero parte specialmente prigionieri di guerra austriaci che preferirono questo lavoro al campo di prigionia.

La catacomba si articola in cinque gallerie:
- una centrale, in linea con la scala,
- due che si diramano a sinistra,
- una che si diparte sulla destra ed è tagliata perpendicolarmente dalla quinta.
- la perpendicolare sulla destra, cioè la quinta.

TOMBA CRISTIANA
Le gallerie, con undici diverticoli e sub-diverticoli, misurano in complesso circa 225 metri, non troppo lunga ma in notevole stato di conservazione. Dopo 7 gradini moderni in mattoni ha inizio la scala dell'epoca, che precedette lo scavo delle gallerie di cui la più antica, la "C",  è della seconda metà del III secolo, e scende diritta con 31 gradini piuttosto alti alla profondità di circa 9 m.

E' coperta da una volta di cementizio di cui manca la prima parte, quella dell'ingresso. Ai lati, scendendo, si vedono ancora le tombe aperte dei bambini. Ai piedi della scala, a destra, i tre cubicoli devastati, di età più tarda. Il lucernario che appare in alto è la parte superiore di un pozzo preesistente al cimitero.

I cristiani scavarono la scala diretti a questo pozzo, tagliandone la canna e chiudendola in basso con una pietra. Poi scavarono a destra una cisternetta comunicante col pozzo, per attingere l'acqua che serviva per la malta necessaria a chiudere le tombe ma serviva anche per i banchetti delle cerimonie funebri, usanza pagana mantenuta tra i cristiani.

Tra le pitture di Pompei e di Roma e queste pitture c'è un abisso di arte, di cultura e di bellezza. Pur essendo degli storici e interessanti documenti del passato, certamente segnarono un enorme passo indietro retrocedendo a uno stile piuttosto barbaro, che caratterizzò poi ogni luogo al declino e poi alla caduta dell'Impero Romano di occidente.



GALLERIA "C"

Nella galleria "C" le tombe sono chiuse (meno quelle del diverticolo "C1") perché non vi giunsero i tombaroli. Le iscrizioni sono in greco e in latino, la prima subito a destra è in greco e sgrammaticato, " Nel nome del Signore Cristo io credo Aurelia Prima" (segue un'aggiunta posteriore, non "rubricata", cioè non ripassata in rosso: "E P Elio Quinziano qui giace". Il Quinziano venne aggiunto in una tomba già occupata.

Sempre a destra, un'altra iscrizione in greco (appesa alla parete, ma non su tomba, perché trovata nello scavo a terra, in pezzi), asportata da ladri insieme ad altre cinque lapidi: "Sta di buon animo, nessuno è immortale". Questa era una frase abbastanza codificata e spesso in uso tra i pagani che avevano una visione un po' più stoica ed anche umoristica della vita e della morte.

Altri cristiani invece Ad Decimum avevano scritto: "sta' di buon animo, Musèna Irene, la tua anima immortale è presso Cristo" come a voler ribadire la propria fede. Seguono tre iscrizioni latine, di cui una capovolta, forse a causa dell'analfabetismo del fossore (addetto alle fosse dei cimiteri).



GALLERIA "D"

Dalla galleria "C" si passa al primo tratto della "D", dove sul muro di sinistra è stata affissa la riproduzione di una lapide sottratta con un'iscrizione che dice: "Al benemerito Speranzio i suoi colliberti fecero; (A lui) che visse più o meno 50 anni. Al benemerito, in pace ".

I liberti erano gli schiavi affrancati, e colliberti erano quelli affrancati da un medesimo padrone e portavano generalmente tutti lo stesso "nomen" dell'ex padrone. Essendo stati insieme per tanti anni, conservavano in genere vincoli di amicizia. A metà circa della sua lunghezza la "D" s'incrocia sotto un piccolo lucernario con la galleria "E" a sinistra e la galleria "F" a destra.




GALLERIA "E"

Nella galleria "E" vi sono due iscrizioni greche con la formula "en eirene" ("in pace"), e due latine, di cui una dalla dedicante Seleucide al defunto Fedimo (fine III -inizio IV sec.).

In fondo alla galleria si scorge una tomba sul pavimento molto simile a quelle in parete. Queste tombe, chiamate forme, sono coperte da un palmo di terra affinché non si logorino le giunzioni fra le tegole.

La maggior parte delle tombe sono a parete ("loculi"), scavate sempre "per lungo", e non in profondità, come sono invece i moderni fornetti. Sono chiuse generalmente con tegole, talvolta con marmi, ma quasi sempre di materiale di reimpiego. Ma ci sono altre sepolture poste nell'angolo fra la parete e il suolo, generalmente chiamate "d'angolo" ma anche "a spiovente".

 All'inizio del secondo tratto della galleria "D" troviamo a sinistra una tomba con iscrizione latina: "Coprion fece alla benemerita moglie Florentina che visse 31 anni".
 In questo tratto vi sono quattro lapidi latine, due greche e una mista: siamo ancora fra il III e il IV secolo. Nelle iscrizioni cristiane, assai più che in quelle pagane, appaiono spesso nomi strani, o sgradevoli, o ridicoli, o addirittura ignominiosi.

Si parla di un Dyscolus, cioè bisbetico, intrattabile, e il dedicante è Coprion cioè "sterco". Su questi strani nomi delle iscrizioni cristiane (perché nelle pagane sono rarissimo) alcuni hanno pensato che assumessero questi nomi col battesimo (che si riceveva da adulti) per auto umiliazione o per premunirsi contro il gravissimo peccato della superbia. In effetti il giungere a immolarsi al proprio Dio sicuramente nasceva da un desiderio di autopunizione.

Segue la lapide del cipriota Epafrodito e quella di Granis (nome di un fiume persiano), scritta in caratteri greci, ma con una parola greca e una latina sgrammaticata; evidentemente due schiavi o liberti.




GALLERIA "F"

Ripartendo dall'incrocio imbocchiamo la galleria "F", il cui primo tratto è di tombe di bambini, e superati i due diverticoli di sinistra ("F1") e di destra ("F3") troviamo a sinistra una lapide latina posta verticalmente. E' una lapide pagana del II sec. reimpiegata, come ce ne sono diverse appresso sempre verticali.

Più avanti a sinistra troviamo una bella lapide incisa che recita: "Al benemerito Marciano./ Ilaro al carissimo fratello./ In pace.". Vi sono incisi: un Buon Pastore coll'agnello sul collo, due pecore e due alberi ai lati; una colomba che becca un grappolo d'uva; due altre colombe affrontate sopra un'anforetta panciuta, su alto piede.

Tornando indietro al diverticolo "F3" c'è la lapide che Proficio, lettore ed esorcista, dedica alla moglie Istercoria, con cui era vissuto 24 anni, 6 mesi e 26 giorni. Il nome Stercoria rientra nei nomi umilianti, invece Proficio è un ecclesiastico lettore di libri sacri e scacciatore di demoni dai corpi e dai luoghi infestati, e lui non si umilia davvero.


GALLERIA "B"

Tornati al sito del pozzo s'imbocca la galleria "B", dove si passa sopra una griglia che protegge la lapide di Lucilla, posta sopra una forma o tomba terragna. A metà della galleria, sulla destra, vi è una tomba semiaperta dove si legge sul margine inferiore "Susanna in pace" preceduta e seguita dal monogramma formato dalle prime due lettere del nome (Christòs). Siamo in età costantiniana, e cioè nella I metà del sec. IV.

DANIELE TRA I LEONI

GALLERIA "C"

Tornati al pozzo seguono i tre cubicoli del primo tratto della "C", tre ricche cappelle funerarie devastate dai vignaioli al tempo della scoperta. Il più vicino al pozzo, contrassegnato "C2", è interamente ricoperto di pitture purtroppo mal conservate, ma leggibili. Sono pitture a tempera, a destra (entrando) rappresenta un collegio apostolico, solo sei per ragioni di spazio, vestiti di tunica e pallio, seduti con al centro un Cristo senza barba.

Il dipinto, di fattura scadente, è della II metà del IV secolo. Nella stessa parete, a sinistra di chi guarda, è rappresentata un'adolescente con le braccia allargate e le palme verso l'alto, la cosiddetta orante, con una veste a maniche assai larghe priva della parte inferiore a causa della devastazione, e il collegio apostolico risulta spicconato.

Sul soffitto, in fondo al cubicolo, è un uomo nudo fra due leoni: certamente Daniele. Nella parete di sinistra, nella curvatura sopra la tomba c'è un'altra orante con un velo bianco, quindi una matrona. Nella parte anteriore del soffitto abbiamo un Buon Pastore con pecore o forse capre.

Il cubicolo attiguo "C3", contiene due tombe orizzontali ricavate "a risparmio" nel tufo e molti marmi spezzati. Vi è poi la lapide dell'esorcista Fausto.

Il terzo cubicolo, "C4", conteneva molte tombe, di cui però non rimane alcuna lapide. Al centro resta, privata dei suoi marmi, una tomba cosiddetta "a baldacchino", con colonnine e copertura. Nel Lazio è rarissima, due dei pilastri sono crollati e si è dovuto rifarli di mattoni. Il pavimento  era rivestito di marmi dello spessore di circa 15 cm. C'era all'interno del cubicolo un sarcofago, che fu venduto dai vignaioli.



GALLERIA "A"

 Ai piedi della scala, a sinistra di chi scende, inizia la galleria "A",ad un livello più alto di un metro rispetto al resto della catacomba. Subito a sinistra, la tomba di famiglia del Diacono Gennaro, che aveva fatta per sé, per la sua "costola" Lupercilla e per la figlia Martyria (nome da Horror) ch'era vissuta tre anni, sei mesi e cinque giorni. La tomba è certamente fatta al momento della morte della figlia. La gerarchia ecclesiastica fatta di un lettore, due esorcisti, un diacono e un sacerdote, doveva essere la guida della piccola comunità di Ad Decimum.

La tomba di Gennaro e la successiva sono "ad ara", davanti a destra, vi sono due "arcosoli" anomali, perché hanno un angolo sorretto da un pilastro. Questo perchè davanti alla tomba di Gennaro vi era un candelabro romano del I sec., che fungeva da colonna e che fu divelta e rubata negli anni '70 si che venne sostituita con l'attuale pilastro.

Più avanti veri arcosoli (tombe sovrastate da un arco) ma privi di ornamentie. Dalla sinistra della galleria si diparte il diverticolo denominato "Al". La sua prima tomba a sinistra è del tipo "a mensa", simile all'arcosolio, ma sovrastata da un soffitto piano. Davanti vi è una tomba "a forno". Si tratta di una tomba collettiva munita di una grande apertura quadrangolare, una tomba di emergenza per seppellire più defunti insieme, per esempio in tempi di epidemie.

Sempre a destra, una ricca tomba successiva, interamente decorata da pitture imita un'abside, con sul fondo la "traditio legis " cioè la consegna della Legge da Cristo a Pietro. C'è anche Paolo e un uccello nero, l'araba fenice, un mito etiopico-egizio, l' uccello che ogni cento anni si incendiava e moriva per poi risorgere dalle proprie ceneri.

Ai lati della testa del Cristo sono la A e l'Omega, in alto colombe e palme alternate; a sinistra un vaso da cui forse zampilla acqua: un giardino simbolo del Paradiso; sul margine inferiore si vedono solo buchi neri che dovevano essere le sorgenti dei quattro fiumi del Paradiso terrestre.

Sulla parte destra una figura femminile assai sbiadita, a sinistra un ragazzo seduto e orante, con due personaggi in piedi. In basso forse un paesaggio silvestre, con un quadrupede che bruca l'erba o beve. La tomba è fine IV - I metà del V sec.



F. M. A. CASSIODORO S. - F. M. A. CASSIODORUS S.

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Nome: Flavius Magnus Aurelius Cassiodorus Senator
Nascita: Scolacium 485 d.c.
Morte: Scolacium 580 d.c.
Professione: Politico, letterato e storico romano


"E che non dice Cassiodoro, il quale scrivea nel principio del secolo seguente? Narra, che Roma sola conteneva le più grandi maraviglie del mondo, e superava l’immaginazione, principalmente per li grandi edifizj ornati di stupende colonne, e di preziosi metalli; e per la copiosissima quantità di statue in bronzo di uomini, di cavalli, e di altri animali, collocate nelle strade, nelle piazze, e in ogni luogo."



LE ORIGINI

Flavio Magno Aurelio Cassiodoro Senatore ovvero Flavius Magnus Aurelius Cassiodorus Senator; (Scolacium 485- 580) fu un politico, letterato e storico romano, che visse sotto il regno romano-barbarico degli Ostrogoti e poi sotto l'Impero Romano d'Oriente.

Fece una brillante carriera politica sotto il governo di Teodorico il Grande (493-526), come consigliere, cancelliere del re e il compilatore delle sue lettere ufficiali e dei provvedimenti di legge, collaborando anche con i successori di Teodorico fino al 540.

Al termine della guerra gotica si stabilì in via definitiva presso la nativa Squillace, dove fondò il monastero di Vivario con la sua biblioteca:
«Rifulge di luce chiarissima e, dotata di un clima molto mite, ha inverni aprichi (soleggiati), estati fresche, e la vita ivi trascorre senza alcun malanno per la mancanza d'intemperie. Perciò anche gli abitanti sono svegli nelle sensazioni, perché la contemperanza del clima regola ogni cosa.»
(Cassiodoro)

Nonostante una certa tendenza di Cassiodoro alla fede cristiana, il monastero del Vivarium non ebbe fini religiosi ma bensì la copiatura, la conservazione, la scrittura e lo studio dei volumi contenenti testi dei classici e della patristica occidentale. Ebbe pertanto una funzione di scriptorium, con le problematiche del rifornimento dei materiali, dello studio delle tecniche di scrittura e delle difficoltà economiche. Comunque i codici e i manoscritti prodotti nel monastero raggiunsero una notevole popolarità e furono assai richiesti.

CASSIODORO

LA FAMIGLIA   

La fonte principale della famiglia di Cassiodoro è fornita dalla sua opera, più importantele: Variae, da cui si apprende che nacque da una delle più stimate famiglie patrizie dei Bruzi, originaria della Calabria. L'origine del nome Cassiodoro è da ricercarsi in un luogo di culto dedicato a Zeus, presso Antiochia. 

Per questo scelse di vivere nel territorio dei Bruzi, culturalmente più vicina all'Oriente greco. Sappiamo che il bisnonno di Cassiodoro venne definito «"vir illustris"» e che suo nonno fu Senatore, tribuno sotto Valentiniano III, e in qualità di ambasciatore conobbe il re degli Unni: Attila.

Il padre di Cassiodoro ricoprì il ruolo di comes rerum privatarum e successivamente di comes sacrarum largitionum nel governo di Odoacre, e governatore provinciale sotto Teodorico. Nel 490 fu governatore della Sicilia, poi governatore della Calabria fino al 507, quando si ritirò a vita privata.

LA BIBLIOTECA DI CASSIODORO

LA CARRIERA

Non è certo comunque che nascesse a Squillace, ma vi passò l'infanzia, dove seguì gli studi, per essere avviato dal padre alla carriera pubblica. Divenne infatti consiliarius, e quaestor sacri palatii nel 507, forse perché Teodorico apprezzò particolarmente il panegirico a lui dedicato.

Ricevette poi il governatorato di Lucania e Bruttii, e nel 514 la designazione a console, seppure fosse ormai una carica soprattutto onorifica. Pubblicò la Chronica del 519.e nel 523, fu nominato magister officiorum del re, divenendo così il capo dell'amministrazione pubblica, degli officia e delle scholae palatinae.

Alla morte del sovrano, avvenuta nel 526, divenne ministro di Amalasunta, la figlia di Teodorico il Grande (493-526), succedutagli come reggente per il figlio Atalarico. Nel 533, ottenne il titolo di Prefetto del pretorio per l'Italia. Alla morte di Atalarico nel 534 successe la guerra gotica. 

Cassiodoro ottenne nuovamente la prefettura tra il 535 e il 537, sotto i re Teodato e Vitige, per poi abbandonare definitivamente la carriera pubblica nel 538. Di fronte all'avanzata bizantina Cassiodoro si ritirò a Ravenna, ma nel 540 la città fu conquistata dalle truppe imperiali, e da quel momento per dieci anni si perdono le sue tracce. Nel 550 lo si ritrova nel seguito di papa Vigilio a Costantinopoli.

Rientrò nei Bruttii attorno al 554; ritiratosi definitivamente dalla scena politica, fondò il monastero di Vivario presso Squillace, Non ebbe moglie né eredi diretti e trascorse il resto dei suoi anni al Vivarium, dedicandosi allo studio e alla scrittura di opere didattiche per i monaci. Qui istituì uno scriptorium per la raccolta e la copiatura di manoscritti, che fu il modello a cui si ispirarono altri monasteri medievali.

Il pensiero politico-culturale di Cassiodoro fu quello di ridare al regno teodericiano una restaurazione del Principato, con la collaborazione quasi paritaria, tra l'imperatore e la classe senatoria. Alla base vi è il concetto di civilitas, che indica tanto il «rispetto delle leggi e dei princìpi della Romanità» quanto la «convivenza sociale, giuridica ed economica di Romani e stranieri fondata sulle leggi».

Secondo Cassiodoro, il regno goto si sarebbe fatto custode della civilitas, garantendo così la giustizia e la pace sociale (l’otiosa tranquillitas, cioè l'obiettivo di ogni buon governo), in accordo con la legge divina e la migliore tradizione imperiale romana. La prospettiva di Cassiodoro è l'autonoma nei confronti di Costantinopoli ed egemone rispetto agli altri regni occidentali, e il modello è la figura di Traiano. 

Con il regno di Amalasunta e Teodato, invece, il modello di riferimento fu quello dell'imperatore-filosofo, un ideale etico-politico con caratteri neoplatonici. Sotto Vitige invece pose in risalto le virtù belliche e l'ardore guerriero.

RE TEODORICO

MONASTERO DI VIVARIO

Il monastero di Vivario nacque per la copiatura, conservazione, scrittura e studio dei testi dei classici e della patristica occidentale, una forma di scriptorium, con i compiti di rifornimento materiali, tecniche di scrittura e problemi economici; comunque i codici e manoscritti del monastero divennero molto richiesti. Ma nulla si sa dell'organizzazione monastica:

«Voi tutti che vivete rinchiusi entro le mura del monastero osservate, pertanto, sia le regole dei Padri sia gli ordini del vostro superiore e portate a compimento volentieri i comandi che vi vengono dati per la vostra salvezza... Prima di tutto accogliete i pellegrini, fate l'elemosina, vestite gli ignudi, spezzate il pane agli affamati, poiché si può dire veramente consolato colui che consola i miseri.»
(Cassiodoro, Institutiones)

Il monastero, nella contrada San Martino di Copanello, nei pressi del fiume Alessi, prendeva nome dai tre vivai di pesci fatti preparare da Cassiodoro, in cui si praticava l'allevamento ittico; un valore simbolico, legato al concetto di Cristo Ichthys, ma soprattutto un nutrimento per i monaci. Non lontano si trovava una zona per anacoreti, riservata a monaci con esperienze di vita cenobitica.

«Era la biblioteca, infatti, come centro di cultura di tutto il monastero, la novità del suo programma, una biblioteca nata ed accresciuta secondo le intenzioni del fondatore che dei suoi libri conosceva non solo la sistemazione, perché l'aveva curata personalmente, ma anche i testi, perché li aveva studiati, annotati, arricchiti di segni critici, riuniti insieme secondo la materia in essi trattata e persino abbelliti esteriormente
(Mauro Donnini nella prefazione alle Institutiones)

I monaci inadatti a seguire la biblioteca badavano alla coltivazioni di orti e campi, mentre i letterati si occupavano dello studio delle Sacre Scritture e delle sette arti liberali, divisi in notarii, rilegatori e traduttori. Raccomandate da Cassiodoro erano le opere di carità, gli studi di medicina e quelli sulle opere sacre. Cassiodoro fece preparare tre edizioni differenti della Bibbia e si occupò di copiature e riscritture di molti altri testi della cristianità, ma pure di testi profani, come le Antiquitates di Flavio Giuseppe e l'Historia tripartita.

ATALARICO

LE OPERE


CHRONICA

Una storia universale del 519, di cui si conservano solo due frammenti, commissionata per celebrare il consolato di Eutarico Cillica (collega dell'Imperatore Giustino), genero di Teodorico e designato al trono. Il sovrano d'Italia non aveva eredi maschi mentre Eutarico, sposandone la figlia Amalasunta, era riuscito a donargli il nipote Atalarico. Offrire il consolato ad Eutarico rappresentava una sorta di unione tra Romani e Goti.

L'opera parte da Adamo fino al 519 con Eutarico, illustrando tutti i poteri temporali della storia, dai sovrani assiri sino ai consoli del tardo Impero, passando ovviamente per tutta la storia romana basata su numerose fonti quali Eusebio, Gerolamo, Livio, Aufidio Basso, Vittorio Aquitano e Prospero d'Aquitania, dopodiché la trattazione successiva al 496 è autonoma. E' un'opera filo-gotica che arriva a manipolare o a ignorare eventi storici per far apparire i Goti sotto la luce migliore.


HISTORIA GOTHORUM

Detta anche De origine actibusque Getarum, in 12 libri, nel quale illustra tutta la sua ideologia filogotica certamente caldeggiata da Teoderico, poi pubblicata sotto Atalarico (516 –534); pervenuta solo in versione ridotta dello storico Giordane, col titolo "Getica".

L' Historia Gothorum, tesa a glorificare la dinastia regnante degli Amali come i più valorosi tra i guerrieri e i sovrani gotici, attraverso la storia dei Goti dalle origini all'anno 551, in cui si cerca di identificare i Goti con i Geti. Secondo Erodoto, i Geti erano "la più nobile e la più giusta di tutte le tribù traciche". La narrazione vuole celebrare l'unione tra Goti e Romani, sancita dal matrimonio tra il romano Germano Giustino, nipote dell'imperatore Giustino I e cugino di Giustiniano I. e l'amala Matasunta, figlia di Amalasunta, regina degli Ostrogoti e nipote di Teodorico il Grande. 


ORDO GENERIS CASSIODORORUM

Ne resta solo frammento in più copie, di difficile interpretazione, composto negli anni della carriera pubblica di Cassiodoro, tra il 522 e il 538 e dedicato a Rufio Petronio Nicomaco Cetego, politico contemporaneo dell'autore. L'opera fornisce notizie sulla famiglia di Cassiodoro, in particolare sul padre.


VARIAE

Datata tra il 537 e il 540, è una raccolta di lettere e documenti (468 in totale per 12 volumi) redatti in nome dei sovrani o trasmessi a firma dell'autore stesso tra il 507 (assunzione della questura) al 537 (termine della carica di prefetto al pretorio). Il VARIAE alluderebbe alla varietà degli stili letterari impiegati E' un insieme di nozioni utili a chiunque si accostasse alla carriera pubblica; anche con l'intento di far conoscere i propri trascorsi come membro del ceto dirigente. Storicamente utili per conoscere le istituzioni, le condizioni politiche, morali e sociali sia dei Goti sia dei Romani all'epoca..


DE ANIMA

L'opera affronta dodici questioni, tra cui l'incorporeità e il destino dell'anima, senza idee proprie ma legate alla tradizione di Tertulliano, Agostino e Claudiano Mamerto.


EXPOSITIO PSALMORUM

Di datazione incerta, è un commento completo ai salmi, è l'opera maggiore di Cassiodoro, soprattutto per la sua estensione.


ISTITUZIONI

(ovvero: Institutiones divinarum et saecularium litterarum). Un'erudita introduzione allo studio delle Sacre Scritture e delle arti liberali, datate al 560. Progettata dopo che la richiesta di Cassiodoro per la fondazione di un'università di studi cristiani ricevette una risposta negativa da papa Agapito I,

Una prima parte presenta i vari libri della Bibbia, la storia della Chiesa e degli studi teologici; la seconda si occupa di quelle arti incluse successivamente nel trivio (grammatica, retorica e dialettica) e quadrivio (aritmetica, geometria, astronomia e musica), in parte si rivolge alla cultura pagana e in parte alle norme che servono a trascrivere correttamente gli antichi.



OPERE MINORI

- Complexiones in Epistolas et Acta apostolorum et Apocalypsin; commento ad alcuni passi degli Atti degli Apostoli e dell'Apocalisse di Giovanni.
- Expositio epistolae ad Romanos (Commento alla lettera dei Romani).
- Liber memorialis; breve riassunto del contenuto della Sacra Scrittura.
- Historia ecclesiastica tripartita, autore della sola prefazione.
- De orthographia; le regole per trascrivere gli scritti antichi e moderni. (Ultima opera scritta intorno ai 90 anni).

Cassiodoro morì nel 575 "a più di 95 anni d'età."

LA LEGGENDA DI CESARE

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NENNIO

Nennio è un mitico principe della Britannia ai tempi delle invasioni della Britannia di Giulio Cesare (55-54 a.c.). La sua storia appare nella Storia dei re di Gran Bretagna di Geoffrey of Monmouth (1136), un'opera i cui contenuti sono ormai considerati in gran parte fittizi. Geoffrey fu un chierico britannico che molto scrisse sulla storia di re Artù propagandone il mito. Nelle versioni medio-gallesi di Geoffrey's Historia Nennio veniva chiamato Nynniaw.

Nella storia di Geoffrey, si dice che Nennio abbia combattuto Cesare in un combattimento personale e abbia preso la sua spada, che usava per uccidere molti romani. Nelle ere Tudor e giacobini divenne un emblema del patriottismo britannico.



HISTORIA REGUM BRITANNIAE

Historia regum Britanniae (La storia dei re di Gran Bretagna ), originariamente chiamata "De gestis Britonum", è un racconto pseudo-storico della storia britannica, scritto intorno al 1136 da Geoffrey di Monmouth. Descrive le vite dei re dei britannici nel corso di duemila anni, a cominciare dai Troiani che fondarono la nazione britannica (una storia che abbiamo già sentita per Roma) e continuarono fino a quando gli anglo-sassoni assunsero il controllo di gran parte della Gran Bretagna intorno al VII secolo.

È uno dei pezzi centrali della leggenda della Britannia. Sebbene sia stato preso come bene storico nel XVI secolo, ora è considerato poco attendibile negli avvenimenti, compreso le invasioni della Britannia di Giulio Cesare, che peccano di inesattezza.

Historia regum Britanniae di Geoffrey Monmouth (1095- 1155) fu un chierico britannico e una delle maggiori figure nello sviluppo della storiografia britannica e della popolarità di storie di re Artù. Conosciuto per la sua cronaca "La storia dei re di Gran Bretagna" (De gestis Britonum o Historia Regum Britanniae) scritto in latino del 1136, molto popolare ai suoi tempi, essendo tradotta in altre lingue dal suo latino originale, ha ricevuto credito storico nel XVI secolo, ma ora è considerato storicamente poco affidabile.

La "Storia" fornisce il seguente resoconto della vita di Nennio.




HELI

Nennio era il terzo figlio di Heli, re d'Inghilterra, che nella Historia Regum Britanniae (1130) compare come il figlio di Digueillus, sovrano saggio e modesto, e padre di Lud, di Cassivellaunus e di Nennio, (e secondo fonti gallesi, di Llefelys). Si dice che Heli abbia regnato sul trono per 40 anni, dopo di che gli successe il figlio Lud (Llud). Nelle traduzioni in lingua gallese del lavoro di Geoffrey, noto collettivamente come Brut y Brenhinedd, il nome di Heli fu restituito a Beli e suo padre cambiò nome in Manogan.


LUD

Lud fu re di Britannia in epoca pre-romana che salì al trono nel 73 a.c., fondò Londra ("città di Lud", trasformata in Londinum dai romani) e fu sepolto a Ludgate, "Porta di Lud". Era il primogenito del re Heli e succedette al trono al padre. Lud, forse collegato con la figura mitologica gallese Lludd Llaw Eraint, chiamò il suo fratello minore Llefelys per liberare la Gran Bretagna dalle piaghe che affliggono il regno. 
La prima piaga fu quella dei Coraniani, una razza di nani "asiatici" che potrebbero rappresentare i Romani. Hanno un senso dell'udito così acuto da poter sentire ogni parola che il vento tocca, rendendo impossibile l'azione contro di loro.
- La seconda piaga fu quella dei draghi bianchi e rossi. I draghi rappresentavano i Brythons (Britanni), mentre i draghi rossi rappresentavano gli invasori anglosassoni (di origine germanica) della Britannia.
DAL FILM L'ULTIMA LEGIONE

L'ULTIMA LEGIONE
Il film è basato su un romanzo dedicato agli avvenimenti che accompagnarono la fine dell'Impero romano d'Occidente e la nascita della leggenda di Re Artù. 

Il film viene narrato da Ambrosinus, ovvero Aureliano Caio Antonio, un druido britanno che conosce la leggenda della spada di Giulio Cesare, passata di mano in mano tra gli imperatori romani fino a Tiberio, alla cui morte venne nascosta per evitare che uomini malvagi se ne impossessassero. 

Il film inizia poco prima dell'incoronazione di Romolo Augusto come imperatore nel 460. Ambrosius ha viaggiato in quasi tutto il mondo in cerca della spada di Cesare, diventa il tutore di Romolo. 

Alla fine Romolo uccide Wulfila con la spada di Cesare, vendicando i suoi genitori, ma non vuole più guerre e getta via la spada, che va a incastonarsi in una solida roccia.

Molti anni dopo, Ambrosinus, che ha ripreso il suo vecchio nome celtico di Merlino è con un giovane Artù al quale rivela di essere figlio di Romolo (che ha preso il nome di Pendragon) che era stato allevato da Aurelio e Mira. Re Artù è dunque romano.



AMBROSIO AURELIANO VENTIDIO
E' di quest'epoca la figura di Ambrosio Aureliano che sconfisse gli invasori anglo-sassoni, e che probabilmente fu il mitico Re Artù, in quanto ritenuto il capo dei britannici romanizzati nella battaglia del Monte Badon, una battaglia combattuta tra i romano-britannici e i celti da un lato e un esercito di invasori anglo-sassoni dall'altra negli anni 490, che risultò una pesante sconfitta di quest'ultimi.

AMBROSIO AURELIANO
Dopo il distruttivo assalto dei sassoni, i sopravvissuti si riunirono sotto la leadership di Ambrosio, che viene così descritto:

«Era un uomo modesto, l'unico della razza romana che era casualmente sopravvissuto nel frastuono della tempesta (i suoi genitori, che avevano sempre indossato la porpora, erano morti con questa) che si è scatenata ai nostri giorni e che ci ha condotti assai lontano dalla virtù degli avi... a questi uomini, con il consenso di Dio, arrise la vittoria

Secondo Gildas, Ambrosio organizzò i superstiti in un esercito e ottenne la prima vittoria militare contro gli invasori sassoni. Tuttavia, questo successo non fu decisivo: "A volte i sassoni e a volte i cittadini (romano-britanni) furono vittoriosi". Il fatto che Gildas dica che i parenti di Ambrosio "portarono la porpora" indicherebbe che egli era collegato con uno degli imperatori romani, forse con la casata di Teodosio o con un usurpatore, come Costantino III, ma secondo altri suo padre era un console romano. Anche qui ricorda il mitico Re Artù.


CASSIVELLAUNUS
A Lud successe, a sua volta, suo fratello Cassivellaunus, uno storico capo tribale britannico che guidò la difesa contro la seconda spedizione di Giulio Cesare in Gran Bretagna nel 54 a,c. Condusse un'alleanza di tribù contro le forze romane, ma alla fine si arrese dopo che la sua posizione fu rivelata a Giulio Cesare dai britannici sconfitti.
Nennio combatté al fianco di Cassivellaunus quando Cesare invase la Britannia. Mandubracio era figlio di un re trinoviano, di nome Imanuentius in alcuni manoscritti del De Bello Gallico di Giulio Cesare, che fu rovesciato e ucciso dal signore della guerra Cassivellaunus qualche tempo prima della II spedizione di Cesare in Gran Bretagna nel 54 a.c.
Mandubracio, figlio del re dei Trinovanti, fuggì allora per farsi proteggere da Cesare in Gallia. Cassivellaunus quindi guidò la difesa britannica contro i Romani, ma i Trinovanti tradirono la posizione della sua fortezza a Cesare, che procedette ad assediarlo. Come parte dei termini della resa di Cassivellauno, Mandubracius fu installato come re dei Trinovantes, e Cassivellaunus si impegnò a non fare guerra contro di lui.

NENNIO
Nennio e suo nipote Androgeo, il figlio maggiore del re Lud, guidarono le truppe di Trinovantum (Londra) e Canterbury, e incontrarono le truppe di Cesare e Nennio affrontò Cesare in un combattimento. Caesar colpì Nennio con un colpo alla testa, ma la sua spada rimase bloccata nello scudo di Nennio. 
Dopo essersi separati nella mischia, Nennio gettò la propria spada e attaccò i romani con la spada di Cesare, uccidendo molti, incluso il tribuno Labieno. Secondo Geoffrey, "tutti quelli che Nennio aveva colpito con la spada avevano la testa tagliata oppure erano rimasti feriti così gravemente da non avere alcuna speranza di poter mai guarire". 
La mitica spada è dunque Escalibur che uccide con un solo tocco, e da sola può sterminare un gruppo. Chi ne è ferito, anche lievemente, alla fine muore. Ed ecco l'invincibilità di Cesare, aveva una spada magica, il che spiega da un lato quanto fosse temuto e mitizzato Cesare, dall'altro canto il merito non era suo ma della sua magica spada.

QUINTO LABERIO DURUS
Quinto Laberio Durus (morto il 54 agosto a.c.) era un tribuno militare romano morto durante la II spedizione di Giulio Cesare in Gran Bretagna. Cesare descrive come subito dopo l'arrivo nel Kent, i Romani furono attaccati mentre costruivano un campo dai nativi britannici. Prima che i rinforzi potessero arrivare, Laberio fu ucciso. Il suo luogo di sepoltura è tradizionalmente il terrapieno della Tombadi Julliberrie vicino a Chilham (che è in realtà un lungo tumulo neolitico).

Orosio, nei suoi Sette libri di storia contro i pagani, lo chiama Labieno, confondendolo con il legato di Cesare Tito Labieno, che visse per combattere contro Cesare durante la guerra civile. L'errore fu perpetuato da Bede e Geoffrey of Monmouth, i quali si riferiscono a un tribuno chiamato Labieno ucciso in Gran Bretagna. Quest'ultimo dice di essere stato ucciso da Nennio. A noi sembra si sia confusa la I con la II spedizione di Cesare.




GIULIO CESARE

Nel corso delle sue Guerre Galliche, effettivamente Giulio Cesare invase il Regno Unito due volte: nel 55 e nel 54 a.c.. Nella prima occasione Cesare portò con sé solo due legioni, e riuscì poco oltre uno sbarco sulla costa del Kent. La seconda invasione consisteva in 628 navi, cinque legioni e 2.000 cavalieri. La forza era così imponente che i britannici non osarono contestare lo sbarco di Cesare nel Kent, in attesa invece di iniziare a muoversi nell'entroterra. 

Cesare penetrò nel Middlesex, un'antica contea nel sud-est dell'Inghilterra, e attraversò il Tamigi, costringendo il generale britannico Cassivellaunus ad arrendersi come referente di Roma e ad insediare Mandubracio dei Trinovanti come re cliente. Quindici giorni dopo la battaglia Nennio morì per la ferita alla testa inflittagli da Cesare con la sua straordinaria spada, e fu sepolto a Londra (la "Città dei Trinovantes"), vicino alla Porta Nord. 

La spada di Cesare, chiamata Crocea Mors (Morte gialla), fu sepolta con Nennio. Nelle versioni medio-gallesi, si chiama Angau Coch (Morte rossa) o Angau Glas (Morte grigia).


Versioni successive

Lo scrittore anglo-normanno R. Wace elabora la storia del combattimento nel suo libro Roman de Brut, dove Cesare sconfigge Nennio, ma la sua spada è bloccata nello scudo di Nennio ed è costretto a ritirarsi quando gli amici di Nennio vengono in suo aiuto. In questa versione, la perdita della sua spada è un'umiliazione che porta al ritiro di Cesare e ispira la ribellione nelle Gallie. E qui Cesare senza la sua magica spada non vale nulla. Ovviamente Cesare non ha mai combattuto personalmente da generale, limitandosi al massimo di recarsi nelle prime fila a incitare i suoi uomini.

Comunque nel periodo Tudor Nennio divenne un simbolo patriottico dell'indipendenza britannica. Avere abquisito la magica spada era come avere il potere di Cesare, o almeno chi la trovava lo erdeitava.

In The Mirror for Magistrates è interpretato come una "lezione ispiratrice per il futuro popolo britannico per difendere il proprio paese dall'invasione straniera". In questa versione Caesar sconfigge Nennio ma attraverso un imbroglio, perchè avvelena la punta della sua spada. Qui Cesare è il cattivo ingannatore che può uccidere il grande britanno solo con l'astuzia e l'inganno. Così Nennio diventa la vittima e Cesare il sordido carnefice, e qui ricorda un po' l'Amleto che muore a causa dell'avvelenamento della spada nemica ad opera del perfido padrigno.




LA REGINA BOUDICA

Nennio appare anche nelle commedie in epoca giacobiana, in particolare Fuimus Troes di Jasper Fisher e Bonduca di John Fletcher. Nel primo incarna lo spirito combattivo dei britannici e viene dato il discorso patriottico di apertura che esorta il popolo a resistere all'invasione. I suoi giochi funebri dopo il suo combattimento con Cesare formano il punto culminante del gioco. In quest'ultimo è anacronisticamente ritratto come un contemporaneo di Boudica (60 o 61 d.c.), agendo come uno dei suoi generali.
Boudica è un'eroina e i romani sono stati bugiardi, crudeli e barbari. Comunque neanche Boudica è una santa perchè si diverte a torturare i romani. Circa 70.000-80.000 tra romani e inglesi vennero uccisi dagli eserciti di Boudica, molti dalle torture. 
Svetonio, nel frattempo, raggruppò le sue forze, e nonostante fosse pesantemente in inferiorità numerica, sconfisse decisamente i britannici. Boudica si uccise per evitare la cattura (Tacito), o morì di malattia (Cassius Dio).

CONCLUSIONE
Le invasioni britanniche di Giulio Cesare misero a contatto le tribù locali con la grande capacità organizzativa, combattiva dei romani, ma pure della loro civiltà molto più avanti del livello britannico che era pressoché all'età del bronzo. 
EXCALIBUR
Tale salto qualitativo per essere assorbito aveva bisogno di sforare in una dimensione diversa che superasse l'ansia del quotidiano, e come sempre dette luogo a leggende e miti, in una dimensione al disopra dell'umano.
Così Cesare diventa un uomo eccezionalmente potente, ma essendo nemico non è per suo merito ma perchè possiede una spada magica, superlativa, che uccide chiunque la tocchi. E' la spada Escalibur, la spada su cui nasce il mito di Re Artù, l'essere eccezionale che può, unico fra tutti, impugnare la spada del grande Cesare. 
Il mito però viene volto al positivo, risentendo già della morale apportata dal cattolicesimo: mentre Cesare vince perchè è un eccezionale stratega, Artù vince perchè è puro di sangue reale, un sangue che assicura un'audacia e un coraggio sconosciuti al volgo.
La spada in un certo senso sceglie il suo padrone, per virtù e per nascita, e ricompone l'audacia dei Britanni con la capacità dei romani, fondendo nella figura del re la grandezza dell'animo e la capacità di battersi. 
E' la figura del re che attrae fatalmente il mago Merlino, erede della arcaica magia britannica, e contemporaneamente è Merlino che opera quasi suo malgrado perchè la terra abbia il Re Degno di governare in giustizia il suo popolo. 
Il tutto poi mescolato col Santo Graal che riunisce in sè magia e religione, prima che la mentalissima Chiesa Cattolica non perseguitasse la magia come opera diabolica. Il tempo dei miti è il tempo del grande cambiamento che può effettuarsi a favore del mondo dell'anima con la poesia, il sogno e i miti, o a favore della mente, con l'intransigenza, le regole drastiche e la richiesta di obbedienza supina. 
Unico vincitore resta Gaio Giulio Cesare che, per quanto assassinato a tradimento, resta il più grande eroe dell'antica Roma, a cui, dopo 2000 anni, persone di ogni paese gli pongono fiori sulla tomba.


CASA DEL CITARISTA

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RICOSTRUZIONE DEL PERISTILIO

E' così chiamata per la bella statua bronzea di Apollo Citaredo, (o Apollo Citaredo) ,collocata nel peristilio della casa e ora al Museo Nazionale di Napoli. Il citarista (greco κιθαροιδός (kitharoidos), latino citharoedus), anche detto citaredo, vocabolo che deriva dal termine greco κιθἆρα, era il suonatore di cetra (o indistintamente della lira e dell'arpa), nell'antica Grecia e nella Roma antica, che spesso decantava anche versi di poesia lirica (così detta perché si accompagnava al suono della lira o della cetra). Uno dei sottogeneri della poesia lirica nell'antica Grecia era appunto la citarodia.

PLANIMETRIA DELLA VILLA (ingrandibile)
Gli ingressi della villa sono da Via dell’Abbondanza e da Via Stabiana. Essa occupa gran parte dell'isolato poichè ebbe origine dalla fusione di due case nel I sec. a.c., che necessitarono di ristrutturazioni e decorazioni, per cui ha due atri e tre peristili con una superficie di 2700 mq.

Le stanze di rappresentanza e riposo si sviluppano intorno ai peristili, quelle per i servi sull'atrio, senza tablino; vi sono ambienti termali e, nel peristilio centrale, belle sculture di animali in bronzo funzionavano da getti d'acqua. 

Panificio, pasticceria e taverna connesse all'edificio sono forse dipendenze del complesso residenziale.

RICOSTRUZIONE - LA PISCINA DEL PERISTILIO

LA CASA DEL CITARISTA ED IL SUO ARREDO (Fonte)

La scelta del tema è nata dall'idea di proporre una mostra che non fosse la rappresentazione della vita quotidiana a Pompei, ma un approfondimento di un tema circoscritto: la Casa del Citarista.

Una delle più grandi e complesse abitazioni, della quale si conoscono non solo i nomi dei proprietari, ma anche il loro aspetto fisico, grazie al ritrovamento dei busti in marmo e in bronzo. 

Si tratta della casa che ha restituito i più grandi quadri di Pompei, alcuni dei quali di altissima qualità, e un ricco arredo da giardino in bronzo e in marmo che attesta ulteriormente l'alto livello economico dei proprietari.

Grazie al Bucerius Kunst Forum e alla Fondazione Ebelin e Gerd Bucerius è stato possibile restaurare, tra l'altro, i grandi affreschi:
- "Leda in vesti di sacerdotessa " ,
- "Apollo e Nettuno dinanzi a Laomedonte",
- il lungo fregio con paesaggi fluviali, il mosaico con gorgone, staccato circa venti anni addietro dal pavimento della sala LI del MANN e non più ricomposto,
- riconoscere che una statuetta di Genius, definita "d'argento"è in realtà di terracotta dipinta in blu egizio con argentature.



La ricchezza e la varietà dei soggetti raffigurati ha suggerito il titolo della esposizione "Pompeji. Goetter, Mythen, Menschen " (Pompei. Dei, Miti, Uomini).

La mostra, realizzata esclusivamente con opere del Museo Archeologico Nazionale di Napoli, è stata l'occasione per approfondire lo studio di quella casa, che non è mai assurta alla notorietà di altre a causa del periodo in cui fu scoperta per volere di Carlo III di Borobone, ma in drammatici momenti.

Emerse infatti soprattutto tra il 1859 e il 1862, proprio nel momento della caduta del regno borbonico; ha permesso di re-individuare nei depositi del Museo gli elementi del suo arredo e di ricostruirne la decorazione pittorica, grazie anche ai documenti dell'Archivio Disegni della Soprintendenza e al Grande Plastico di Pompei.

Una selezione inoltre di un'altra decina di affreschi di provenienza diversa, scelti tra quelli custoditi nei depositi del museo napoletano, completa il percorso del visitatore attraverso gli "stili" pompeiani.

RICOSTR. - PERISTILIO CON OSCILLA
Il Catalogo curato da Andreas Hoffmann vede tra gli altri i contributi di A. Wallace Hadrill, Bettina Bergmann, Caroll Mattusch, S. De Caro, V. Sampaolo. Con il patrocinio della Presidenza della Repubblica Italiana

La parte più antica è quella inferiore, che si affaccia su via Stabiana, con atrio tuscanico e due peristili aggiunti in sostituzione di case abbattute.

Nel cortile centrale provvisto di un portico, animali di bronzo, collocati sull’orlo della vasca semicircolare rivestita di marmo, funzionavano da tubature per e facevano zampillare getti d’acqua.
Aveva anche le terme e persino un panificio, una pasticceria e una taverna.

L'edificio apparterrebbe a membri del ramo d'origine servile della famiglia dei Popidii, una delle più cospique e antiche famiglie di Pompei, cui si riferiscono 3 graffiti e 2 scritte elettorali sulla casa, 45 programmi sulla loro candidatura lungo via dell'Abbondanza e ritratti rinvenuti nell'abitazione.

RICOSTRUZIONE CORRIDOIO DEL PERISTILIO
La casa fu scavata tra il 1853-61, nel 1868, nel 1872 e nel 1929. E' collocata nella Strada Stabiana 110. Essa è in realtà una delle più grandi case di Pompei famosa sia per l'"Apollo del Citarista" che per il bellissimo mosaico del "Cinghiale assalito dai cani".

Nell'ala sinistra dell'atrio vennero trovati due ritratti in bronzo del padrone di casa e della moglie; un altro ritratto femminile, di marmo, era nel peristilio; i due ritratti maschili di marmo rinvenuti al piano superiore raffigurano probabilmente di Marcello (patrono della colonia) e qualche altro personaggio di rango legato alla casa imperiale. I ritratti dovevano evidenziare il lealismo dei Popidii e i loro legami con la corte.

Animali di bronzo, collocati sull'orlo della vasca di marmo producevano salienti getti d'acqua, tra questi vi era il noto gruppo del cinghiale addentato da due cani da caccia, oltre a un leone galoppante, un cervo in fuga e un serpente (tutti al M.A.N. di Napoli).


Nonostante lo scadente stato di conservazione, la casa fa intuire la magnificenza dell'architettura degli interni e la ricchezza delle decorazioni. Infatti sono di grande effetto spettacolare sono i tre peristili sovrapposti.

Nell'ala sinistra dell'atrio vennero trovati due ritratti in bronzo del padrone di casa e della moglie; un altro busto femminile di marmo, di personaggio sconosciuto si trovava nel peristilio.

Al piano superiore invece due ritratti maschili sempre in marmo, raffiguranti probabilmente Marcello, il patrono della colonia, e un altro personaggio importante legato alla casa imperiale.

Animali di bronzo posti sull'orlo della vasca di marmo gettavano zampilli d'acqua, tra questi il gruppo del cinghiale addentato da due cani da caccia, un leone in corsa, un cervo in fuga e un serpente, conservati al Museo archeologico di Napoli.

Al centro della parete est, rimane invece un quadro con Apollo Citaredo, in un trompe l'oeil che dilatata artatamente la prospettiva, forse per richiamare l'Apollo citaredo in bronzo.



CROLLI E DENUNCE 
(Fonte)

Crolla un muretto della Casa del Pressorio di Terracotta, negli scavi di Pompei. Una Domus chiusa al pubblico in via dell'Abbondanza al civico 22 (Regio I).

Frammenti subito recuperati ed un crollo che il direttore generale della Sovrintendenza di Pompei, Massimo Osanna, definisce fisiologico. 

Ma in un clima, teso, tra i sindacati e Osanna, il cedimento ha fatto scattare polemiche.

ENEA E DIDONE
Sono stati i custodi degli Scavi a scoprire il crollo durante il solito giro di perlustrazione. Il cedimento ha riguardato una porzione di circa un metro e mezzo quadrato di muretto di delimitazione di un cubicolo della Domus, per altro non affrescata. 

Una vicenda, quella di oggi, che si innesta nella forte polemica tra i sindacati autonomi Flp e Unsa dei Beni culturali e il Soprintendente.

IFIGENIA IN TAURIDE
Proprio ieri i sindacati hanno denunciato il professor Massimo Osanna ai carabinieri, accusato di gestire con «superficialità» gli Scavi.
E, di rimando, il Dg della Soprintendenza ha rilasciato dichiarazioni stampa su presunti «ricatti» subiti dai sindacati che lo hanno denunciato. 

Intanto, il muretto crollato ha riportato i carabinieri nel sito archeologico. «Un episodio del genere, nonostante sia circoscritto a un'area da sottoporre a intervento e dunque di per sé fragile - spiega Osanna - rischia, come nel passato, di ridimensionare di gran lunga l'immenso lavoro finora portato a compimento e ancora in corso in tutta l'area archeologica.

Tutti gli episodi di cedimento che sono stati registrati negli ultimi anni si sono verificati sempre in aree nelle quali nessun intervento era ancora partito, quindi in maniera del tutto fisiologica».

Il Dg della Soprintendenza di Pompei ci tiene a rassicurare tutti:
«È prioritario chiarire l'importanza delle attività di messa in sicurezza in generale e che dovranno interessare l'area. L'episodio di questa mattina ha riguardato un'area chiusa al pubblico e nella quale deve partire la messa in sicurezza, sospesa al momento per un ricorso al Tar».

Il ricorso al Tar è quello presentato circa un anno fa da un'azienda che aveva partecipato al bando per l'assegnazione dei lavori, ma ne era risultata esclusa per delle imperfezioni del materiale presentato.

ANTIOPE E THYIAS
Pertanto, la Soprintendenza non può dare l'ok all'apertura del cantiere finché il Tribunale regionale della Campania non avrà sentenziato in merito. 

Osanna ricorda che nella Regio I e Regio II sono programmati «interventi che riguardano il ristabilimento delle capacità statiche e l'integrazione delle murature, il ripristino di creste murarie, la manutenzione o sostituzione di architravi degradati, il preconsolidamento degli apparati decorativi parietali e pavimentali (come lacertini lungo i margini dei frammenti conservati di affreschi e mosaici)».

E ribadisce: «Ad oggi Pompei ha portato a termine la messa in sicurezza in quasi tutte le regiones di Pompei, ad eccezione della Regio I e Regio II».

IO, ARGO ED HERMES

I MAGNIFICI AFFRESCHI

La casa era dotata di magnifici affreschi, perlopiù staccati onde preservarli e collocati nel Museo Archeologico Nazionale di Napoli.

Tre questi ricordiamo:
- Ifigenia in Aulide (nella foto il particolare di Oreste e Pilade)
- Marte e Venere
- Antiope e Thyilas
- Enea e Didone

La squisita fattura degli affreschi fa pensare alla mano d'opera di artitsti affermati e pertanto costosi, il che conferma la ricchezza dei proprietari e conseguentemente della casa.
La maggior parte dei dipinti ornavano i cubicoli.

BUSTO DI DONNA - FORSE LA PADRONA DI CASA


I MAGNIFICI BRONZI

Stupendi anche i bronzi con cui la famiglia dei popidii ornò i suoi splendidi giardini, in particolare l'Apollo Citaredo, e il cinghiale circondato dai cani da caccia, animali in drammatico movimento con movenze ed espressioni incredibili.

A parte lo splendido serpente, anch'esso di bronzo, eretto minacciosamente che teoricamente sembra estraneo alla scena ma in realtà funge da tubo del sistema idraulico e da erogatore dell'acqua, insomma da fontana.

Tutto questo anche a baneficio della vista del triclinium illustrato qui sotto che si beava del giardino, della piscina, dei vari animali e statue in bronzo e dell'ombra fresca del pergolato nelle assolate giornate estive.






PONTE DELLA BULLICA

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Il Ponte della Bulica, o della Bullica è in realtà un tratto dell'acquedotto dell'Acqua Marcia (Aqua Marcia) che venne costruito per scavalcare il fosso di Collafri. Esso si raggiunge poco prima di Gallicano (in epoca romana l'antica Pedum) nel Lazio, dopo il tratto dell’antica via Prenestina ed il Ponte Amato, e poi una stradina sterrata.

Il ponte è alto m 5,5, largo m 3,35 e lungo 10,60 m, e il ponte è tutt'oggi in buone condizioni, senza aver mai avuto ricevuto radicali restauri. Vi sono in effetti dei resti di cementizio inseriti lungo la sponda sud-est del fosso per contenere l'erosione delle piene, un sicuro intervento di età imperiale, ma poca cosa per 2000 anni di resistenza. Si presuppone infatti che il ponte sia età augustea.

Il ponte, data l'esiguità del torrente, presenta un'unica arcata a tutto sesto in conci radiali di tufo con 5,8 m di luce e sopra al ponte passava il condotto dell'Acqua Marcia, che mediante il ponte manteneva la sua giusta pendenza. Sulle sponde ai lati delle due colline, a circa 30 m dal ponte, si presentano dei locali e una galleria di servizio romani.


La galleria di servizio posta sulla sponda di sud ovest, scavata nel tufo è lunga 230 metri circa ed è stata realizzata contemporaneamente all'acquedotto. All'interno ci sono infatti. ogni 30-40 metri, gli imbocchi dei pozzi creati per l'estrazione del materiale e per la manutenzione dello speco. Questo espediente ha fatto in modo di non creare pozzi troppo profondi e quindi difficilmente praticabili.

Lo speco sotterraneo dell’acquedotto dell’Aqua Marcia, che secondo Plinio il Vecchio portava l’acqua più fredda e limpida di Roma, è alimentato da acque freschissime dalle sorgenti Rosoline di Marano Equo, tra Àrsoli ed Agosta.

Fu condotto a Roma tra il 144 ed il 140 a.c. dal pretore Quintus Marcius Rex. È l’acquedotto più lungo di tutti (91 Km circa) di cui il 90% sotterraneo e con circa 9 chilometri ininterrotti di archi che costeggiavano la Via Latina. Arrivato allo Spem Veterem, seguiva poi le Mura Aureliane fino alla Porta Tiburtina e poi raggiungeva il castello terminale vicino a Porta Collina. 

GALLERIA DELLA BULLICA
La galleria della Bulica (o Bullica) è una galleria lunga circa 230 metri di dimensioni carrabili.
Venne realizzata da Augusto insieme all'ampliamento dell'omonimo e limitrofo ponte della Bulica, per permettere ai carri di manutenzione di attraversare colle Collafri.

La galleria, scavata nel tufo, si compone di un unico pozzo d'ispezione che la collega con l'esterno, mentre all'interno sono presenti delle grandi nicchie scavate, che per mezzo di pozzi a pianta circolare, danno accesso all'acquedotto marcio.

La galleria venne documentata per la prima volta, negli anni '70, dalla dott.sa Cecilia Roncaioli Lamberti e, successivamente, venne effettuato uno studio approfondito da Marco Placidi.

GENS NUMMIA

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La gens Nummia era una famiglia plebea i cui nomi però appaiono quasi esclusivamente sotto l'Impero. Ottennero benefici durante il terzo secolo, occupando spesso gli uffici più alti dello stato romano.



LE REGOLE DEI NOMI

La maggior parte della praenomina ha un nomen corrispondente per filiazione, come Lucilio, Marzio, Publio, Quinzio o Servilio, tutti cognomi patronimici, perché derivano dal nome del padre del proprietario originale. 

Le figlie erano scritte tra il nomen e qualsiasi cognomina, e abbreviate usando le abbreviazioni di praenomina, seguite da f. per filius o filia, e talvolta n. per nepos (nipote) o neptis (nipote). 
La filiazione includeva a volte il nome della madre, con gnatus e il nome della madre, invece di filius o filia, però solo per le famiglie di origine etrusca. I nomi delle donne sposate erano talvolta seguiti dal nome del marito e da uxor per "moglie". 

Anche schiavi e liberti possedevano filiazioni, in questo caso la persona a cui si fa riferimento è il proprietario dello schiavo. Le abbreviazioni: s. per servus o servae l. per libertus o liberta. I liberti delle donne a volte usavano una "C" capovolta, a significare il praenomen femminile Gaia, qui usato genericamente per significare qualsiasi donna; e ci sono alcuni esempi di "M" invertita, anche se non è chiaro se questo è stato usato genericamente, o specificamente per il praenomen femminile Marca o Marcia.



PRENOMINA E COGNOMINA DEI MUMMII

Dei praenomina dei primi Nummi, si sa solo che quasi tutti i Nummii Albini, l'unica famiglia eminente, portavano il praenomen Marcus e si distinguevano l'uno dall'altro con i loro vari altri nomi. L'unico altro praenomen che si verifica tra i Nummii che appaiono nella storia è Tito, sebbene nelle iscrizioni troviamo anche Lucio, Publio e Quinto.



RAMI E COGNOMINA

La famiglia principale dei Nummii portava il cognome Albino, (candido, biancastro), un antico e onorevole cognomen associato a lungo tempo con famiglie aristocratiche romane. Probabilmente il nome derivò dalla città di Alba e nulla ha a che fare con l'albinismo che per quanto ereditario, ha un'incidenza rarissima. I membri di questa famiglia portavano cognomi aggiuntivi, come Senecio (vecchio), Giusto (giusto, retto), Dexter (abile, capace), Tuscus (etrusco), Gallo (abitante della  Gallia), e Rusticus (contadino, rustico).




MEMBRI CONOSCIUTI

- Tito Rustico Nummio Gallo -
console suffetto nel 34 d.c.

- Nummio Sisenna -
console nel 133, durante il regno di Adriano.

- Didius Nummius Albinus -
fratello o fratellastro di Marcus Didius Severus Julianus, imperatore per nove settimane nel 193. Probabilmente fu messo a morte da Settimio Severo. Potrebbe essere stato il padre di Marco Nummio Umbrius Primus Senecio Albinus, console nel 206

Marco Nummius M. f. Umbrius Primus Senecio Albinus -
senatore, console nel 206, era stato uno dei Salii Palatini. Secondo la tradizione era figlio biologico di Nummio Albino, fratellastro dell'imperatore Didio Giuliano, probabilmente condannato a morte dopo il suo rovesciamento da Settimio Severo nel 193. A un certo punto Senecio Albino fu adottato da Marco Umbrius Primus, membro degli Umbrii Primi di Compsa (oggi Conza della Campania), che aveva strettissimi legami con Beneventum. Sposò Vibia Salvia Varia e fu padre di Marco Nummi Senecio Albino, console nel 227 d.c. e Nummia Varia. Marco Nummio Giusto potrebbe essere stato un altro figlio. 

Marco Nummio M. f. M. n. Senecio Albino -
console nel 227, era il fratellastro di Lucio Roscio Aeliano Paculo Salvio Giuliano, console nel 223. Senecio era il padre di Marco Nummo Toscio, console nel 258, e forse anche di Marco Nummius Albino, console nel 263 con Marco Laelio Fulvio Massimo Emiliano. Non sappiamo nulla della sua carriera.
Senecio Albinus era figlio di Marco Nummio Umbrio Primo Senecio Albino, console nel 206, e fratellastro di Lucio Roscio Eliano Paculo Salvio Iuliano, il console del 223. Fu il padre di Marco Nummio Tusco, console nel 258, e può essere stato anche il padre di Marco Nummio Albino, console nel 263.

- Nummia M. f. M. n. Varia -
figlia di Marco Nummio Umbrius Primus Senecio Albinus, era una sacerdotessa di Venere Felice (Venus Felix, Venere prolifica e ricca). Nel 242, le fu assegnato il sacerdozio di Peltuinum, città dei Vestini in Abruzzo


- Marco Nummio Giusto -
forse figlio di Marco Nummio Umbrius Primus Senecio Albinus.
 
- Nummius Emiliano Dexter -
un senatore, che ha servito come proconsole di Asia.

- Marcus Nummius (M. f. M. n.) Ceionius Annius Albinus -
un senatore, servì come console in un anno incerto, circa 240. Era praefectus urbi nel 256, durante il regno di Valeriano, e di nuovo da 261 al 263. Fu console per la seconda volta nel 263. Probabilmente è lo stesso Albino che morì di vecchiaia sotto Aureliano.

Marco Nummius M. f. M. n. Tusco o Toscio -
console nel 258, fu probabilmente il padre di Nummio Toscio, console nel 295. Fu figlio di Marco Nummio Senecio Albino che fu console nel 227. Egli per turnazione venne eletto console priore nel 258, al posto di Mummius Bassus. Non si hanno dettagli sulla sua carriera.
Forse fu fratello di Marco Nummio Albino che fu console ordinario nel 263, e può essere stato padre di Marco Nummio Tusco, che fu console nel 295. Secondo la Historia Augusta, egli accompagnò l'imperatore Valeriano fino alla città di Bisanzio dove visitarono alcune terme pubbliche.
Nummius (M. f. M. n.) Tuscus -
senatore, poi console nel 295 e praefectus urbi dal 302 al 303. Probabilmente figlio di Marco Nummio Tusco, console del 258.

- Nummius Albinus -
conosciuto solo per una dedica un altare a Giove Diespater a Roma.

- Marco Nummio Celonio (o Ceionio) Annio Albino -
molto probabilmente figlio del Felicio Albino console del 227. È menzionato nei fasti del 263 come console per la seconda volta insieme con Massimo Destro (Klein op. cit.), ed è quel Celonio Albino cui Valeriane diresse una lettera riferita da Vopisco in vita Aureliani 9. Fu pretore urbano (C. /. /.. VI, 3146) e prefetto della città nel 256 (Klein 1. e. in nota; Borghesi, Oeuvres III p. 255).

- Marco Nummio Attidio Senecio Albino
in una epigrafe con Marco Nummio Ceionio Annio Albino che è suo figlio.
Marco Nummio Attidiano Tusco fu questore designato, e ci è noto per i frammenti epigrafici scoperti nell'area di casa Mariani e riferiti più sopra: il suo titolo spetta alla fine del III sec. Nummio Tusco fu prefetto della città nel Panno 302 o 303, e curatore delle acque e della distribuzione del frumento nei primissimi anni del sec. IV: cf. Tepigrafe inserita alla pag. 7. ( Nummio Attidiano Tusco menzionato in epigrafe dovè esercitare una qualche magistratura in Africa, essendogli stato decretato la statua in marmo da un incerto municipio Africano. Il tìtolo spetta alla fine del secolo III).

Marco Nummio Albino. Questi ebbe pure il cognome di Triturrius e fu questore candidato, pretore urbano, conte domestico del primo ordine e console ord. per la seconda volta nel 345. 

Nummio Secundo figlio del precedente, è menzionato nella stessa epìgrafe.

MURA DI PELTINUM

BULLETTINO DELLA COMMISSIONE ARCHEOLOGICA COMUNALE DI ROMA - 1872
CASA DEI NUMMII ALBINI


NUMMIA VARIA

Che nell'area occupata dalla chiesa di s. Caio, sorgesse una parte della casa urbana dei Nummii, poteva dirsi accertato fino dalla prima metà del secolo XVII; imperocché appunto nel Panno 1629, escavandosi d'ordine di Urbano Vili, per le fondamenta della chiesa stessa, fosse tornato in luce il piedistallo marmoreo della statua di M. Nummio Albino console ordinario per la seconda volta, forse nel 345. Nel cippo posseduto ora dai Barberini si legge la seguente iscrizione (C. /. L VI, 1748) :
•TRITVRRII- M • NVMMIO • ALBINO • V • C ' QVAESTORI . CANDIDATO PRAETORI • VRBANO GOMITI DOMESTICO • ORDINIS • PRIMI • ET CONSVLI • ORDINARIO - ITERVM •NVMMIVS SECVNDVS EIVS-

La statua doveva adornare, secondo il costume del tempo, il vestibolo, il peristilio della casa dei Nummii, né poteva supporsi che il piedistallo, per la stessa sua mole, fosse tornato alla luce in luogo lontano da quello che originariamente occupava. Altre scoperte venivano a confermare indubbiamente, in questi ultimi anni, l'ubicazione della domus urbana dei Nummii. Nel 1877 costruendosi la casa Mariani sull'angolo della via Venti Settembre con la piazza di s. Bernardo, a brevissima distanza cioè dalla ricordata chiesa di s. Caio, si rinvenne una iscrizione frammentata edita dal eh. Lanciani (Bull. arch. com. 1877 p. 168 n. 145) e che qui riproduco: 

M  NVMmio ATTIDIano TVSCO QUAEstori DESlGnato lAWNlCipes AFrica s Il M. 

- Nummio Attidiano Tusco menzionato in questa epigrafe dovè esercitare una qualche magistratura in Africa, essendogli stato decretato il riferito marmo da un incerto municipio Africano. Il tìtolo spetta alla fine del secolo III.

- Ad altro Nummio cognominato pure Tusco, od anche ad una donna della gente Nummia, possono forse ascriversi i due frammenti epigrafici che seguono, e che sembrano avere appartenuto ad una sola iscrizione. Tornarono in luce nel 1883 entro Parea del Ministero della guerra dal lato rivolto verso la chiesa di s. Caio (cf. Notizie degli scavi, 1883 p. 243) : 
NVA ENT T VS^ MARC»^

I caratteri dell'epigrafe, di buona forma, convengono alla prima metà del III secolo. Finalmente nel febbraio 1884 escavandosi per le fondazioni della casa Scafati sul prolungamento della Via Firenze e sempre nelle adiacenze della più volte ricordata chiesa di s. Gaio, addossata ad un pilastro laterizio appariva la parte inferiore di una lastra opistografa con la menzione di un altro Nummìo Tusco (cf. Notizie degli scavi, 1884 p. 103). Per buona ventura continuandosi gli sterri nello stesso luogo, dopo circa dieci mesi dalla riferita scoperta, si rinveniva la parte superiore della stessa epigrafe. Distinguendo con la lettera a il frammento primo tornato in luce e con b il secondo, credo utile riprodurre l'iscrizione di una sola faccia, siccome quella che al nostro argomento strettamente si riferisce :

PACE AC-BELLO et fortissimis DOMINIS NOSTRIS m - KWW - Val - Maximiano PIO Felici AVGVSTO SEMPEr in vieto et Flavio Valerio constanti t o nob • caesari PIETATE EORVM ET CLEmenfta A V C f O HONORE JCO NVMMIVS TVSCVS • V • C • PRefectus-urbi CVRATOR ACÌVARVM ETJ m i n i e r a e NVMINI EORVM SEMper devotus  

La frase NVMINI EORVM chiaramente accenna ad una delle diarchie di cui frequentissimi esempi ci offrono la fine del III ed il principio del IV sec., ma la menzione di Flavio Valerio Costanzo e le sigle M - AV che sole avanzano dei prenomi dell'Augusto, e che indubbiamente rivelano M. Aurelio Valerio Massimiano, fanno riferire l'epigrafe nostra agli anni dal 293 al 305 nei quali Costanzo ebbe il titolo di Cesare.

Il nostro Nummio Tusco però che fu prefetto di Roma nell'anno 302 - 303 determina con maggior precisione l'epoca del monumento. Questi come curatore delle acque e della distribuzione del frumento, può trovar luogo nella lista dei curatori delle acque data dal Lanciani nella sua Silloge epigrafica aquaria p. 318, fra Q. Flavio Posturaio Tiziano cos. ord. per la seconda volta  nel 301, prefetto di Roma 305, e Massimiliano ricordato come consularis aquarum all'epoca constantiniana. 

Per le scoperte avvenute nelle epoche e nei luoghi ricordati, resta accertato che la casa dei Nummii sorgeva sull'area occupata dalla casa Mariani, dalla chiesa di s. Caio e per circa una terza parte dal nuovo palazzo del Ministero: e che quivi si distendessero il peristilio e i giardini della casa potrebbe argomentarsi dal trovamento di alcune stanze con le volte istoriate, e di tre grandi vasi marmorei scanalati a spira, che solo a decorazione di ricchi viridiarum possono essere ascritti.

A brevissima distanza da questo punto si rinvennero pure un simulacro di Venere di dimensioni maggiori del vero ed una statua muliebre acefala pure maggiore del vero, vestita di tunica e di palla, scolpita con isquisito artifìcio: cf. Notizie degli scavi 1883 p. 339, e 1884 p. 103, 154. Accertata l'ubicazione del palazzo dei Nummii, credo utile il ricordare vari individui della stessa gente già noti per altre fonti epigrafiche e storiche. 

Maeco Nummio Umbrio Primo M. f, 

Senecio Albinus nato forse nel 173.

Salio Palatino 191, pontefice 199 (Borghesi Oeuvres IV, 510), console nel 206 insieme con L. Fulvio Emiliano (Klein fasti; C. /. L V, 4347), 

- Vibia L f. Salvia Varia moglie di Marco Nummio Umbrio Primo, dedicò insieme ai figli 
CVM • NVMMIIS • ALBINO • ET VARIA ET L • ROSCIo • aELIAN • PACVLO • SALVIO • IVLIANO • FILIIS

Era già compiuta la composizione tipografìca di questo articolo quando nel Bullettino dell'Instituto di C. A. 1885 p. 68 è stata dichiarata la nostra epigrafe dal chiarissimo Henzen. L'illustre epigrafista ascrive a due persone distinte la dedica dell'iscrizione, cioè a

Nummio Tusco prefetto della città e ad un altro che esercitò la cura aquarum et minierae, e di cui il nome si sarebbe dovuto leggere nel v. 7 dopo quello di Tusco. 

- Marco Nummio Euhodo fu liberto di M. Nummio Umbrie Primo e come 
NVTRITOR • ET • PROCVRATOR 
dedicò a lui la base bresciana {C. /. L V, 4347, cf. pure nel voi. stesso il n. 4142).

Marco Nummio Senecio Publio Felìcio Albino, figlio di Umbrio Primo e di Salvia Varia, menzionato nel titolo bresciano. Fu console nel 227 con M. Lelio Massimo (Klein fasti). Al consolato di questo Nummio spettano la dedicazione di una base prenestina (Borghesi 1. e. in nota) tre graffiti nell'escubitorio della coorte VII de' Vigili {C, /. L VI, 3005, 3019 e 3051) e la dedicazione di un'epigrafe marmorea scoperta all'Esquilino (Bull. arch. com. 1875 p. 87), 

Nummia Varia, sorella del precedente e notata pure nella stessa iscrizione bresciana, è la 
NVMMIA • VARIA • C • F • SACERDOS • VENERFS • FELICIS eletta patrona de' Peltuinati nel 242 (Borghesi VI, 157; C. /. L IX. 3429). Alla stessa donna si riferisce l'epigrafe canusina:  
• S NVMMIA • VARI A-CF.NVMMI AE • AVRHE • LIB • BENE • MERENTI • 
Narrando delle scoperte avvenute nell'area della casa dei Nummii ricordai un simulacro di Venere ed una statua di donna. Se mi fosse concesso lasciar libero il freno alla fantasia, vorrei arrischiare un'ipotesi intorno a tali statue. Vedemmo più sopra come Nummia Varia figlia di Ombrio Primo e sorella di Felicio Senecione Albino, patrona de' Peltuinati nel 242, fosse pure insignita della dignità di Sacerdotessa di Venere felice. Di questa donna chiarissima dovè senza dubbio eternare il ricordo la sua famiglia. Non potrebbe dunque ammettersi che la statua muliebre da noi scoperta, confermandolo inoltre lo stile della scultura, avesse ritratto le sembianze di Nummia Varia? Il sacerdozio di Venere esercitato dalla stessa donna vale a spiegarci la presenza del simulacro della Dea degli amori nel peristilio della casa dei Nummii.

Nummio lusto figlio forse della precedente, fu pure patrono de' Peltuinati. A lui 
OB • EXIMIAM ADFECTIONEM- SPLENDIDISSIMVS ORDO [DECVRIONyM PELTVINATVM] BISELLIVM DECREVIT • CVBITVMQVE • CONCESSIT- (C. A L IX, 3436).

- Nummia Aurha libertaè nota per l'iscrizione canusina di Nummia Varia riferita più sopra. Una serva di un Nummio Albino è nota per la memoria sepolcrale che le dedicò il marito Crescente, esiste ora nel museo di Aquila, cf. Marini Atti Arv. 181. 

FALERIO PICENUS - FALERONE (Marche)

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PARTICOLARE DIVINITA' BIFRONTALE

La città di Falerone risulta  esistente  già nel sec. VI a.c. e le attuali Piane di Falerone, nacquero nel 29 a.c. con il nome di “Falerio Picenus” quando Ottaviano decise di costruire una piccola città capoluogo della centuriazione della media Valtenna, dove stabilire una colonia di suoi soldati veterani.

La scelta venne fatta su canoni precisi: le terre erano fertilissime, acqua ve ne era in abbondanza; il fiume Tenna era una discreta via di navigazione; Falerio nasceva dall'incrocio di strade strategiche ed importanti.

La colonia divenne un importante centro, dotato di teatro e anfiteatro, di numerose ville patrizie, di terme, di monumenti sepolcrali e di notevoli impianti idrici.

Il Falerio Picenus è documentato nel codice Acernario del sec.VI, con le due porte, a nord verso Urbs Salvia, e a sud verso Novana e Ausculum, il che ci conferma l'importanza del castrum.

RESTI ROMANI IN ROSSO
Al periodo di splendore seguì la decadenza alla caduta dell'impero così che gli abitanti di Falerio Picenus furono costretti ad abbandonare la cittadina a causa dei predoni che facevano base nel territorio tra Tivoli e Pescara, rifugiandosi sul colle sovrastante il Tenna.

Si possono visitare il  Parco Archeologico (unico nella provincia di Fermo) e il Museo Civico Archeologico sito nel paese alto, in collina, esattamente in piazza della Libertà.

Il mosaico policromo con erma bifronte, illustrata a lato, è pertinente una domus romana rinvenuta sotto il Palazzo di Giustizia.

I  MOSAICI
Il sito archeologico della città antica di Falerio Picenus è situato in frazione Piane di Falerone, sulla sinistra del fiume Tenna, a circa 2 km. dall'odierno centro di Falerone in provincia di Fermo.

Nel IV e V sec. la sede del vescovo di Falerio passa a Fermo, segno evidente dello stato di decadenza della città romana già preda di orde barbariche e del conseguente spopolamento e perdita di prestigio di centri romani a vantaggio di città più grandi.

Nel 90 a.c. ai piedi del Mons Falarinus (poi Falerone medievale), è ricordata la sconfitta dei Romani guidati da Gneo Pompeo Strabone (padre di Pompeo Magno), da parte dei socii piceni comandati da Gaio Vidacilio, Publio Ventidio e Tito Lafrenio, nel percorso delle legioni romane verso Fermo.

IL MOSAICO DI FALERIO OGGI AI MUSEI VATICANI


IL PARCO ARCHEOLOGICO

Il parco archeologico è formato anzitutto dall’area urbana dell’antica città di Falerio Picenus, con le vicine aree cimiteriali e le ville suburbane. L’intera area, di circa 30 ettari, è suddivisa in due parti: la prima, centrale, purtroppo inquinata dalla edificazione avvenuta dagli anni settanta in poi; la seconda, verso est e verso settentrione, quasi totalmente coltivata, con possibilità infinite di ricerca e valorizzazione. 

La zona, piuttosto pianeggiante, si estende lungo la Strada Statale 210, con la superficie principale del lato nord sullo stesso asse viario. L’area è tagliata da via del Pozzo, che segue indicativamente la direzione dell’antico cardine; la strada che conduce al teatro ripercorre invece il decumano.
Gli scavi archeologici condotti sull'area dell'impianto urbano hanno reso attualmente visibili il teatro, che è ottimamente conservato, resti dell'anfiteatro e di una cisterna romana con relativo impianto idrico.

IL TEATRO

IL TEATRO

Il teatro, situato all'estremità orientale dell'antico impianto urbano, è uno degli edifici teatrali romani meglio conservati delle Marche, seppure saccheggiato nella sua decorazione, con una capienza stimata di circa 1600 posti a sedere, collocati su tre ordini. Strano a dirsi ma ora sono rimasti solo i primi due, il terzo è venuto a mancare una volta terminati gli scavi.

Ad oggi i posti a sedere sono 530, incluse le poltroncine della platea e le gradinate restaurate. Della monumentale costruzione, databile all'età augustea, possono essere tuttora ammirati solo i primi due ordini della cavea, oltre all'orchestra, ai due ingressi laterali, il proscenio e quello che rimane dell'apparato scenico. Ci devono spiegare come fa a sparire con gli scavi un ordine di sedili di pietra, e magari ci dovrebbero spiegare a cosa e a chi siano serviti.

Il teatro, esplorato come gli altri monumenti a partire dagli scavi pontifici del 1777, è in ottimo stato di conservazione e viene ancora utilizzato per rappresentazioni teatrali. Sorge nella zona settentrionale della città romana, in corrispondenza dell'inizio dell'attuale abitato di Piane di Falerone.


L'edificio, di cui rimane la struttura in laterizi con la scena e la cavea e quattro vomitatori, è datato all'inizio del I sec. d.c., probabilmente nel 43 d.c. dedicato all'imperatore Tiberio Claudio e con restauri di età antonina. Le mura sono in laterizio; le volte a sostegno delle gradinate, invece, sono state realizzate con pietre e sassi.

La cavea ha un diametro di m 50, ed è costruita su sostruzioni a volta; all'esterno la struttura mostra un prospetto ad archi dei quali restano numerose basi con semicolonne rivestite un tempo di marmo. Conservato è pure il proscenio che delimita l'orchestra, con struttura a nicchie semicircolari decorate anch'esse con marmo.

Dal teatro vengono due statue di Cerere e altre due al Louvre. L'area è dotata di un ampio parcheggio, ed è collegata con il Museo Civico Archeologico. Da essa le altre aree del parco sono raggiungibili a piedi.

L'ANFITEATRO

L'ANFITEATRO

Dell'anfiteatro, situato nella zona occidentale dell'antica città, sono visibili solo alcuni settori del muro perimetrale, sufficienti tuttavia alla comprensione della poderosa struttura, che poteva contenere fino a circa 5000 spettatori.

Nell'antichità a falerio Picenus i cittadini godevano delle rappresentazioni teatrali, mentre quelle di tipo ludico, come la lotta fra gladiatori, avvenivano all'interno dell'Anfiteatro Romano. Costruito intorno al I secolo d.c. e originariamente della capienza di 5.000 posti, risulta logorato dagli anni, avendo subito diversi crolli per l'abbandono a cui il cristianesimo condannò prima i teatri e poi gli anfiteatri. Ne rimangono solo alcune porzioni di muro.

I vari monumenti furono in parte spogliati per costruire nuovi edifici, e in parte vandalizzati. Basta vedere la statua sottostante per capire che come quasi tutte le statue pagane, soprattutto religiose, siano state prese a mazzate per sfigurargli il volto. Il tempo e i terremoti al massimo spezzano le statue, ma non le sfigurano. 




L'ARTE DI FALERIO PICENO

Attualmente parecchi reperti sono esposti nella sezione archeologica di musei come il Louvre di Parigi che conserva un Perseo e una Nike, i Musei Vaticani che custodiscono un pregevole pavimento musivo, il Museo archeologico nazionale delle Marche che tutela un mosaico e Fermo che invece possiede una testa dell'imperatore Augusto e una stadera in bronzo.



IL MUSEO ARCHEOLOGICO

Molta della ricca documentazione archeologica recuperata dagli scavi di Falerio è confluita nelle collezioni civiche del Museo Archeologico “Pompilio Bonvicini”, la cui visita consente una più approfondita comprensione dell'importanza storica e culturale dell'antica città. Il Museo, allestito nel 2006, accoglie al suo interno:

RESTI DELLA DOMUS

- il mosaico della divinità bifrontale, un'immagine molto particolare in quanto visibile in modo diverso dai due lati,
- il mosaico raffigurante il Picchio simbolo dei Piceni, 
- la statua della Dea Cerere,
- statuette rinvenute durante gli scavi del teatro fra le quali: il suonatore di cetra, la divinità maschile, il busto imperatore Tiberio,
- la Tomba Cappuccina e altri reperti funebri, 
- il Dolio ovvero l'anfora a misura d'uomo piena d'iscrizioni sulla superficie esterna.
- tuculi ovvero tubazioni in terra cotta che servivano tutta la città,
- manubriati (tombini),

Spesso gli agricoltori della zona si imbattono in vari reperti, il che fa pensare che nel sottosuolo siano ancora presenti altri resti interessanti, purtroppo da lasciare dove sono, non avendo a disposizione fondi per ulteriori scavi. Nel nostro paese troppo spesso non si trovano i soldi per le meraviglie del nostro sottosuolo, che da un lato attivano la cultura dei giovani, e dall'altro sarebbero un investimento per un ulteriore turismo.



TEMPLUM SACRAE URBE O TEMPLUM PACIS

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TEMPLUM PACIS
Molti autori antichi come Plinio il Vecchio, chiamavano Templum Pacis, “ Tempio della Pace”, il monumento edificato a ridosso della Velia, in origine separato dal Foro di Augusto, poi collegato a esso dal Foro Transitorio. Il tempio, detto anche Templum Sacrae Urbe, giungeva a sfiorare la Velia, da cui lo separava la strada che collegava il Foro alle Carinae.

Nella zona al di là della strada, sulla Velia, occupata in un primo tempo dal mercato delle spezie (Horrea Piperataria), sorse più tardi la Basilica di Massenzio. Quest’ultima era identificata con il Tempio della Pace fino all’inizio del XIX secolo quando Antonio Nibby non fece chiarezza.

Il templum venne costruito da Vespasiano tra il 71 e il 75, per commemorare, oltre alla vittoria sugli ebrei, l’ordine ristabilito dall’avvento dell’imperatore, che inaugurava un nuovo periodo di pace. Il Templum Pacis si caratterizza per la presenza di tre lati porticati con colonne in granito rosa di Assuan, sopraelevati rispetto alla piazza centrale destinata a giardino, mentre a nord, dove si apre l’ingresso principale e gli accessi minori, presenta una fila di colonne addossate alla parete. Sul lato di fondo ha una serie di ampie aule di cui quella centrale costituisce la vera e propria aedes.


Nel mondo greco-romano la lettura era presente e pure molto diffusa, visto anche l'alto grado di scolarizzazione dell'epoca. Per questo esistevano luoghi deputati alla conservazione dei volumi (cioè i rotoli con i testi su pergamena o papiro: in latino “volumen” significa rotolo) e luoghi deputati alla loro lettura, come gli “auditoria” dove si leggevano testi a voce alta per la delizia degli astanti. 

Lo conferma la scoperta degli “auditoria” di Adriano in piazza Madonna di Loreto a Roma nel 2008, durante gli scavi preventivi alla costruzione della linea C della metropolitana, nonchè le ricerche nel “templum Pacis”, lungo via dei Fori Imperiali, considerato una delle meraviglie di Roma, scavi che hanno restituito interessanti reperti.

La Chiesa dei SS. Cosma e Damiano, una basilica poco conosciuta dai romani, ma di grande importanza per il Medioevo, si deve a papa Felice IV (per cui fu detta anche Basilica beati Felicis) che la ricavò (527) dal cosiddetto Templum Sacrae Urbis, ora riconosciuto come ambiente della Bibliotheca Pacis a sua volta pertinente al Templum Pacis, che ospitava una famosa biblioteca con opere in greco e in latino, con auditori per conferenze e letture pubbliche. 


Nel periodo ostrogoto, fu Amalasunta, figlia del re Teodorico, a donare a Papa Felice IV alcuni edifici situati presso il Foro della Pace: un’aula rettangolare e un tempietto circolare che, secondo la tradizione era stato dedicato da Massenzio a suo figlio Romolo.

Si tratta di un aspetto meno noto, quello della lettura e dei luoghi deputati alla lettura a voce alta. 

Il primo a usare il termine auditorium (Lettere, 52, 11) fu Seneca (4-65 d.c.) nelle Lettere (53, 11). 

Descrisse un uomo che lo aveva appena abbandonato, pazzo di gioia per l'acclamazione ricevuta dal pubblico. Alla fine del I secolo d.c. avvenne una vera e propria rivoluzione con il codex, il libro da sfogliare con le pagine, non più il rotolo di pergamena.


La Bibliotheca Pacis venne rinnovata nel 1632 su disegno di L. Arrigucci e di frà Michele. Per un lungo corridoio, già parte del chiostro francescano e decorato da affreschi di F.Allegrini, si passa nell’interno, a una navata, che corrisponde alla cella dell’edificio pagano.

Quando Felix IV prese possesso del tempio sacræ urbis e lo dedicò alla SS. Cosma e Damiano, le pareti dell'edificio erano coperte da incrostazioni del tempo di Settimio Severo che rappresentavano il lupo e altri emblemi profani. Papa Felix non solo li ha accettati come un ornamento alla sua chiesa, ma ha cercato di copiarli nell'abside che ha ricostruito.

AREA DEL FORO DELLA PACE

RODOLFO LANCIANI


" Dietro il tempio rotondo, detto il tempio di Romolo (in realtà il tempio dei Penati), è situato un edifizio rettangolare, la cui parete ad oriente, bellissima costruzione di grandi blocchi tufacei, è stata messa alla luce fino al livello antico. Nel centro della parete si vede una porta con sopra un arco cieco, e con gli stipiti di travertino: il tutto di esecuzione eccellente.

La parete posteriore dell' edifizio invece è di mattoni: sulla superficie si vedono numerosi buchi per le grappe che tenevano lastre di marmo, nelle quali era incisa la grande pianta di Roma (Forma Urbis). Questa fu eseguita sotto Settimio Severo, probabilmente in sostituzione di un' altra più antica; i frammenti trovati nel 1560 e nel secolo XIX che si sono potuti ricomporre, ora sono esposti nel giardino del palazzo dei Conservatori. 

L' edifizio aveva il suo ingresso principale a occidente, ove fino al secolo XVII era conservato tutto il muro di tufo simile a quello del lato opposto, e un portico di otto colonne. Nel 1640, Urbano VIII fece demolire questo lato e dei blocchi si servì per costruire la chiesa di S. Ignazio.

SALA DOVE RISIEDEVA LA STATUA DELLA PACE
All'edifizio rettangolare si è dato il nome (che non si trova nelle fonti antiche) di templum Sacrae Urbis: e lo si è considerato come una specie di archivio in cui fossero conservati l' originale della Forma Urbis su papiro o pergamena, i libri del catasto ed altri simili documenti; l' edifizio avrebbe avuto anche una cappella della Dea Roma.

Ma la pianta dell' edifizio non si attaglia punto ad un tempio, e la Forma Urbis, come decorazione della parete esterna, sarebbe anche conveniente se nell' interno vi fosse stata la "Biblioteca del Tempio della Pace" menzionata da Gellio (II sec. d.c.). Inoltre è poco probabile che un edifizio dedicato al culto pagano fosse stato trasformato già nel principio del VI secolo in una chiesa cristiana.

La chiesa dei Ss. Cosma e Damiano aveva fino al secolo XVI pareti figurate con mosaici di marmo (opus sectile) distrutte soltanto nei restauri di Urbano VIII. Nell' abside, che fu aggiunta da papa Felice IV, sono ben conservati i mosaici che debbono annoverare fra i più belli esistenti in Roma, e che rendono la chiesa meritevole d' una visita (l' ingresso è dalla via in Miranda).

RESTI DEL FORUM PACIS
La piazza dietro il tempio, che ha un bel pavimento di grandi lastre marmoree, apparteneva già al Forum Pacis. Vi si nota un grandissimo macigno caduto dal vertice della vicina basilica di Costantino, e vedendo come nell' interno sia ben conservata una scale di dodici gradini e altresì l'enorme altezza dalla quale quel macigno è caduto, si ha una prova dell' eccellente qualità del cemento romano.

Il masso quando fu rinvenuto, giaceva ad un' altezza di m. 1,50 sopra il livello antico (ora è sostenuto da muri moderni): da ciò si può concludere che esso crollò a causa di uno dei grandi terremoti nel secolo XII o XIII.

Sotto l' angolo NO della basilica passa una galleria antica, la quale serviva come via di comunicazione durante tutto il medio evo, e fu chiusa soltanto nel 1563. La galleria allora si chiamava Arcus Latronis, forse a cagione di misfatti ivi accaduti; all' autore delle Mirabilia questo nome fornì occasione ad inventare un templum Pacis et Latonae. "

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