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LEGIO XVI FLAVIA FIRMA

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La Legio XVI Flavia Firma (firma = salda, che non fugge) fu una legione creata dall'imperatore Vespasiano nel 70, incorporando anche reparti della XVI Gallica, quella stessa che si era arresa durante la rivolta dei Batavi, un disonore incommensurabile per i romani.

Un anno esatto dopo che il suo esercito diretto a Roma contro Vitellio si era fermato a Ocriculum per festeggiare i Saturnalia, l’imperatore TITO FLAVIO VESPASIANO ricostituisce la LEGIO XVI FLAVIA su quanto era rimasto della Legio XVI Gallica arresasi durante la Rivolta dei Batavi.
Trasferita, per una sorta di punizione, ai confini dell’Eufrate è di stanza a Satala (l’attuale città turca di Sadak) in Cappadocia.
Di solito i legionari che si arrendevano venivano cacciati con disonore, se però prima di arrendersi si erano comportati molto bene usava dare loro una seconda possibilità per riabilitarsi.

ARALDI DELLA LEGIONE
Per un legionario arrendersi significava perdere la faccia con la famiglia, con gli amici e con gli altri legionari, insomma coi romani in genere.

Per questo solitamente gli arresi andavano a raccomandarsi per essere arruolati di nuovo e ritrovare il proprio onore.

L'occasione buona la legio XVI la ebbe accettando di combattere per la prima volta quando, terminata la guerra civile che aveva coinvolto i quattro imperatori, e volgendo ormai verso la conclusione la prima guerra giudaica,  la legio XII Fulminata e la XVI Flavia Firma congiunte vennero destinate alla provincia di Cappadocia dal 72 d.c. al 73 d.c.



II SECOLO d.c. LA RIABILITAZIONE

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La XVI Flavia Firma prende poi parte alle campagne traianee contro i Parti (114-117) e poi è trasferita a Samosata Provincia di Siria (la vecchia città di Samsat ora sommersa dopo la realizzazione della diga di Ataturk nel 1989).

Negli anni successivi prende parte alle campagne di Lucio Vero mosse alla conquista della Mesopotamia e poi alle due campagne di Lucio Settimio Severo (194 e 197-198), culminate con la cattura della capitale dei Parti Ctesifonte (nell’odierno Iraq).

La XII Fulminata venne destinata a Melitene, e la XVI Flavia Firma dunque fu posizionata a Satala, a protezione del confine dell'Eufrate. Qui a fianco troviamo i simboli della legio XVI Gallica che aveva come simbolo il leone, e la Legio XVI Flavia Firma che aveva un leone o un pegaso in volo ad ali spiegate.



III SECOLO d.c.. - LE CAMPAGNE CONTRO L'IMPERO SASANIDE

La riorganizzazione del limes in Mesopotamia comporta delle attività più vicine agli aspetti civili: si ricorda un’iscrizione che attesta la costruzione del ponte sul fiume Chabinas (l’attuale fiume Cendere Suyu) - ponte ancora in uso che permette di giungere alla splendida tomba del Re Antioco I di Commagene sul monte Nemrut Dağı (in Turchia). La LEGIO XVI è attestata in questa zona durante il regno di Alessandro Severo e si pensa che abbia preso parte nella sua campagna contro il nuovo impero persiano sassanide.



IV SECOLO d.c. - IL TARDO IMPERO E IL TRASFERIMENTO A SURA

Nel IV sec d.c. la legione è attestata nei Castra di Sura, sempre sull’Eufrate.

L'emblema della LEGIO XVI FLAVIA FIRMA
L’emblema della legione è in via di discussione tra gli studiosi: in un primo periodo si pensava fosse un Leone, una moneta trovata di recente presso Samosata fa pensare che l’emblema potesse essere un Pegaso.

SUL PONTE ROMANO DI CENDERE IN
MESOPOTAMIA E' MENZIONATA LA XVI
FALAVIA FIRMA 
La legione XVI Flavia rimase stanziata lì fino alla fine del principato di Traiano, quando al termine delle campagne militari contro la Partia, fu rimpiazzata dalla legio XV Apollinaris, nell'anno 117 d.c.
Conosciamo il nome del suo legatus legionis al tempo del regno congiunto di Settimio Severo e Caracalla, come si deduce dall'iscrizione del 205 d.c., un certo Mario Perpetuo.

Poi, nel IV secolo, la legione, accampata a Sura (Siria), ebbe il compito di sorvegliare il confine orientale (limes) presso l'Eufrate.

Questo il testo dell'iscrizione imperiale in cui si cita la legione e il suo legato, comandante della XVI Flavia Firma:

IMPERATOR CAESAR LUCIUS SEPTIMIUS SEVERUS PIUS PERTINAX
AUGUSTUS ARABICUS ADIABENICUS PARTHICUS, PRINCEPS FELICUM,
PONTIFEX MAXIMUS, TRIBUNICIA POTESTATE XII, IMPERATOR VIII,
CONSUL II, PROCONSUL ET IMPERATOR CAESAR MARCUS AURELIUS
ANTONINUS AUGUSTUS, AUGUSTI NOSTRI FILIUS, PROCONSUL,
IMPERATOR III, ET PUBLIUS SEPTIMIUS GETA CAESARIS, FILIUS ET
FRATER AUGGUSTORUM NOSTRUM, pONTEM CHABINAE FLUVI A SOLO RESTITUERUNT ET TRANSITUM REDDIDERUNT SUB ALFENUM
SENECIONEM LEGATUM AUGGUSTORUM PRO PRAETORE CURANTE MARIO PERPETUO LEGATO AUGGUSTORUM LEGIONIS XVI FLAVIAE FIRMAE.

(CIL III, 6709 e CIL III, 6710 (Syria, Kiachta))

Evidentemente la legione non solo si riabilitò e riguadagnò il suo onore, ma ricevette anche un premio, cioè un titolo onorifico come Firma, cioè ferma, che non fugge dinanzi al pericolo, premio che comportava anche una discreta cifra in danaro per ogni legionario o un oggetto in oro come una torque etc.

Qui a lato la riproduzione di un anello d'argento di un anello legionario senatoriale appartenente alla legione romana XVI Flavia Firma.


BIBLIO
Cassio Dione Cocceiano, Storia romana, LV, 24.
Julian Bennett, The cappadocian frontier: from the Julio-Claudians to Hadrian, p.301-312. 

JERASH - GERASA (Giordania)

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L'ARCO DI ADRIANO
Qui sopra l’Arco di Adriano edificato nel 129 d.c. in onore dell’imperatore Adriano, un arco di trionfo in onore della visita dell'imperatore nella città. La visita di un imperatore romano in genere era di grande beneficio perchè egli osservava e comandava i nuovi edifici monumentali che faceva costruire nella città per aumentarne la bellezza, gli agi e lo sviluppo economico. Il Monumento, di splendida fattura, è un po' il simbolo di Jerash ed essendo stato eseguito in pietra locale, è interamente di colore ocra

Jerash, ovvero Gerasa, ovvero l'antica Antiochia di Giordania (c'è un'Antiochia anche in Siria) che si trova a circa 60 km da Amman, fu fondata successivamente alla morte di Alessandro Magno con il nome di Antiochia sul Fiume d’Oro, una notevole città importante di cultura greca, capitale e più grande città del Governatorato di Jerash, Giordania.

RICOSTRUZIONE DI JERASH
Venne conquistata dal pazzo e crudele Alessandro Ianneo nell'84 a.c., che, pur essendo di cultura greca, obbligò tutti i sudditi sia greci che siriaci, alla conversione all'ebraismo, finchè non venne sconfitto da Aulo Gabinio, governatore romano della Siria.

Si mantenne di profilo greco fino al 63 a.c. quando cadde sotto la dominazione romana che ne decise una totale ricostruzione. La pianta greca a raggiera venne pertanto eliminata e la città ricostruita secondo lo schema romano, vale a dire sulla scacchiera ricavata dall'intersecarsi a 90 ° del cardo e del decumano, dai quali si dipartivano le vie secondarie.

IL CARDO MAXIMUS

IL VIALE DI ACCESSO

E' una via colonnata, con basamenti e capitelli più o meno ben conservati, unitamente a qualche architrave, tutto in pietra calcarea locale, da cui svoltando si può raggiungere la piazza ovale. Essa costituisce il cardo massimo, che andrà a incrociare il decumano massimo secondo l'urbanistica romana usata in tutto l'impero.

RICOSTRUZIONE DEL CARDO MAXIMUS
Il viale inquadra l’Arco di Adriano, anche se non con molta precisione, tanto è vero che talvolta sia le pietre che le colonne sembrano avere leggere deviazioni per poi tornare all'Arco sul fondo.
Evidentemente le maestranze erano locali e non brillanti come quelle delle legioni romane che eseguivano qualsiasi lavoro di edilizia con grande ingegno e con grande precisione.

Le sue più importanti porte di accesso alla città erano: la Porta di Philadelphia a sud (verso Amman) e la Porta di Damasco a nord. In tutto le porte erano quattro.

LA PORTA DI PHILADELPHIA A SUD
La Porta Sud faceva da ingresso ai viaggiatori che arrivavano da Philadelphia (Amman). Le mura rimaste accanto alla Porta risalgono agli anni 60 - 70 d.c., costruite in difesa della città quando questa venne adattata adattata al sistema urbanistico romano. La parte di mura attualmente visibili risale al IV secolo, appunto di successive ristrutturazioni.
Come l'Arco di Adriano, la Porta Sud presenta una decorazione di foglie d'acanto, con scanalature e nicchie. Da qui si accedeva al nucleo monumentale di Gerasa, agli edifici di culto e a quelli istituzionali. La zona residenziale era collocata dove ora si estende purtroppo la città moderna.

Un’ulteriore evoluzione si ebbe nel 313 d.C. a seguito del riconoscimento della religione cristiana come ufficiale, fatto che diede il via alla costruzione di numerose chiese.

In questo periodo Jerash è una città ricca, un crocevia di commerci e culture provenienti dalle zone dell’Iraq, dell’Arabia Saudita e da tutto il Medio Oriente, pervasa da un clima di pacifica convivenza come dimostrano le testimonianze dell’esistenza di almeno venti chiese sul suo territorio.Nel 1747 infatti un terribile terremoto si abbatte sulla città radendola quasi completamente al suolo e lasciando i pochi abitanti sopravvissuti incapaci di porre rimedio a questa catastrofe. Il declino di Jerash fu inevitabile e la città venne dimenticata nei secoli, fino al 1900, anno della sua ‘riscoperta’.

Per l’esattezza una piccola parte di Jerash era scampata al cataclisma, ma rappresentava il passato e il ricordo di una città ormai scomparsa. La nuova Jerash crebbe a pochi chilometri di distanza ed è oggi visibile dal sito archeologico.

IL FORO OVALE
Avanzando lungo il viale all’ombra delle massicce mura ci si addentra in quello che un tempo era il cuore cittadino, un inusuale foro ellittico in buono stato di conservazione. Parecchie delle colonne che lo attorniano sono state riposizionate grazie all'utilizzo dell'esercito, che ha ripristinato la stupefacente scenografia di questo ampio spazio colonnato, che si prolunga elegantemente nel rettilineo del Cardo Maximus pure colonnato.

L'ampia spianata quasi ovale, che misura 90 metri nella sua parte più lunga e 80 metri nella parte più larga e si estende ai piedi dell'altura su cui svetta il tempio di Zeus è tutta lastricata in pietra calcarea. La parte centrale evidenzia una lastricatura ovoidale più antica, che si dice costituisse la primitiva piazza, di dimensioni ridotte, appartenente alla precedente città greca; l'espansione successiva della città romana portò alla necessità di un suo ampliamento alle dimensioni attuali.

Le colonne che la circondano hanno capitelli ionici del I secolo d.c., sui quali corre per tutto il perimetro un architrave decorato. Nella zona centrale più antica vi sono le fondamenta di una struttura quadrata, che si pensa fosse la base di un monumento, che nel VII secolo fu convertito in fontana.

L'IPPODROMO

L'IPPODROMO

E' l'impianto più grande della città con una lunghezza di 245 m e una larghezza di 51 metri, risalente ai secoli II - III d.c. dell'impero romano, quando poteva accogliere fino a 15.000 spettatori. Un lato corto dell'ippodromo è delimitato dall'Arco di Adriano.

Sulla strada che lo costeggia nel senso della lunghezza sono stati trovati i resti di un piccolo edificio di culto, la chiesa del vescovo Mariano, che si fa risalire al 570, sicuramente sorto su un preesistente tempio romano. Esso durò più a lungo del teatro perchè le corse dei cavalli e le scommesse erano ben tollerate dai cristiani, tanto più che, al contrario dell'epoca pagana, vi erano bandite le donne.

Comunque l'ippodromo è molto poco conservato avendo fatto da cava di pietre per le chiese e gli edifici successivi. Proseguendo lungo questa strada, in direzione del foro e del centro della città, si giunge alla Porta Sud e alle mura.

IL TEATRO SUD

IL TEATRO SUD

In cima all’altura si trova inoltre un altro edificio, è l’anfiteatro greco risalente al 90 d.c. che ci si presenta oggi quasi intatto nonostante gli avvenimenti.

Le sedute sono pressoché integre e la struttura ha mantenuto intatta la sua acustica, al punto che talvolta, sul palcoscenico (realizzato dai romani che vi aggiunsero i corridoi per gli attori) vengono messe in scena alcune rappresentazioni teatrali. Rinvenimenti fatti in loco evidenziano l’invenzione del biglietto e anche la partecipazione della donna alla rappresentazione teatrale.

In effetti fu il cristianesimo a demonizzare sia la donna che i teatri, essendo luoghi peccaminosi dove lavoravano le artiste che spesso sfoggiavano le loro forme procaci.

Risalgo le alte gradinate fino in cima, per osservare il teatro dall’alto, da quassù si vede benissimo la città nuova, mentre guardando dall’alto il sito archeologico vedo il colonnato lungo il cardo maximus e la piazza.

IL TEATRO NORD

IL TEATRO NORD

Il Teatro nord è più piccolo del Teatro sud, ed era utilizzato non per gli spettacoli teatrali come nel teatro sud, ma per esecuzioni musicali e declamazioni poetiche. La sua inaugurazione è datata al 164 - 165 d.c. e fu usato fino al V - VI secolo, venendo più volte ristrutturato. Sugli architravi si vedono iscrizioni in greco che citano personaggi della famiglia imperiale dei Severi. I posti a sedere sono numerati, oppure intitolati ad una tribù, e ciascuna fila di sedili della cavea è dedicata ad una divinità.

Ebbe vita più lunga del teatro sud non contemplando spettacoli di recitazione che vennero proibiti dal cristianesimo per tutto il medioevo, tanto che durante l'evo oscuro venne sostituito da teatrini itineranti, disprezzati ed ostacolati ancora dalla chiesa che definì guitti gli attori.

Lo stato di conservazione del teatro è molto buono, grazie ad un massiccio intervento di restauro e di ricostruzione, soprattutto della scena. La pavimentazione della zona centrale della cavea è stata rifatta, utilizzando in parte anche pezzi recuperati dell'antica pavimentazione originale.

TEMPIO DI ZEUS

IL TEMPIO DI ZEUS

Edificato su una altura su un precedente santuario dell'età del Ferro, il tempio di Zeus è uno dei più importanti monumenti della Gerasa antica e domina la città, fra la Piazza Ovale (Foro) e il Teatro Sud.
RICOSTRUZIONE DEL TEMPIO DI ZEUS
Il tempio risale al 162-163 d.c., quando venne edificato dai romani. Si sale al tempio attraverso una monumentale scala che conduce ad una ampia terrazza con resti di un altare che pare risalire al precedente tempio.

Dal piazzale antistante i resti (la spianata di Zeus) si gode una splendida vista di tutto il sito archeologico, ed in particolare del sottostante Foro ellittico da cui si diparte il Cardo Maximus colonnato.

IL TEMPIO DI ARTEMIDE

IL TEMPIO DI ARTEMIDE

Una curiosità molto apprezzata dai turisti in questo tempio è che le colonne, realizzate ad incastro, oscillano molto lievemente, soprattutto nei giorni di vento, di modo che, invitati dalle guide turistiche, i visitatori, infilando nelle fessure un cucchiaino, ne osservano il dondolio.

RICOSTRUZIONE DEL TEMPIO DI ARTEMIDE
Ma molto più interessante è la bellezza del tempio e delle colonne corinzie, dato che il santuario era molto seguito al suo tempo per cui venne ampliato ed abbellito, con due scalinate che dai propilei conducevano ad un ampio cortile porticato in stile corinzio.

Una monumentale scalinata conduceva al temenos. La scala di sette rampe, ognuna formata da sette scalini, era costruita in modo tale che guardandola dal basso sembrava che non ci fossero interruzioni fra le rampe, ma fosse una sola ininterrotta salita; guardandola dall'alto non si scorgono gli scalini, cosìcchè appare come una unica piattaforma. 

Questa ingegnosa illusione ottica era merito dei raffinati architetti romani in epoca bizantina e in epoca omayyade il tempio di Artemide ospitò botteghe di vasai; una parte della costruzione venne anche trasformata in castello dagli Atabeg di Damasco, castello che venne distrutto da Baldovino II, re di Gerusalemme. Il che dimostra che solo la religione romana fu tollerante con le altre religioni esistenti.

IL NINFEO

IL NINFEO

Il Ninfeo era un importante punto di ritrovo nel centro cittadino, per la sua bellezza, per il suo spazio e per la sua frescura, grazie all'acqua che fluiva dalla bella fontana grazie ad un ingegnoso sistema di condutture che la convogliavano qui da lontano.

RICOSTRUZIONE DEL NINFEO
Sgorgava da più bocche, e ricadeva in più bacini per poi scendere sulla strada dove, funzionando da pulizia della strada, veniva raccolta con un sistema di canali che la conduceva ai due lati opposti della strada, grazie alla sapiente pendenza dei canali sotterranei sotto il cardo maximus.

Il ninfeo, edificato nel II secolo d.c., era consacrato alle Ninfe divinità delle fonti, sormontato da una semicupola adorna di statue (di ninfe varie) e rivestita di marmi al piano terreno e di stucchi al primo piano. Naturalmente le statue furono, come negli altri monumenti, le prime a cadere sotto le mani degli iconoclasti cristiani prima e musulmani poi.

LA CATTEDRALE
Quasi al centro del cardo maximus, vicino al ninfeo, si possono vedere i resti della Cattedrale, che si ritiene sia stata edificata nel 365 nel medesimo luogo in cui sorgeva in epoca pagana il tempio di Dioniso, per quella abitudine cristiana di abbattere i templi pagani riutilizzandone pietre e ornamenti per il tempio del nuovo culto. Insomma fu il cristianesimo a decidere il culto dei cittadini e non i cittadini stessi. 

Si è conservata poca cosa però si riconosce la pianta basilicale della costruzione che presenta ancora un maestoso portale di accesso con ricche decorazioni a bassorilievo.  Sul retro c'è una zona ben pavimentata, con un portico a colonne ioniche e corinzie, che costituiva l'atrio della chiesa nella quale si celebrava la commemorazione annuale del miracolo delle nozze di Cana, nella vasca quadrata al centro, riedizione della festa del vino celebrata in onore di Dioniso.

PAVIMENTO CHIESA S. COSMA E DAMIANO

CHIESA SANTI COSMA E DAMIANO

Ed ecco qui in alto un bel pavimento mosaicale quale vestigia della chiesa bizantina dei santi Cosma e Damiano, dove erano aggregate altre chiese, anche se le immagini ricche di animali, personaggi, piante e motivi geometrici, senza il minimo accenno ad un'immagine cristiana, suggeriscono un pavimento laico, probabilmente appartenente ad una estesa villa romana.



TETRAPILO NORD

I Tetrapili erano archi a quattro fornici nelle quattro direzioni usati dai romani a guarnizioni di intersezioni stradali, dove si ponevano immagini degli Dei e dell'Imperatore.Il tetrapilo nord, costruito all'incrocio del cardo con il decumano nord, è opera del II secolo d.c. ed è dedicato a Giulia Domna, moglie dell'imperatore Settimio Severo.

È formato da quattro pilastri uniti da archi, con nicchie e mascheroni a testa di leone da cui sgorgava acqua, con bassorilievi ed incisioni delle divinità del sole e della luna. Evidentemente funzionava anche da fontana sia per bellezza sia per i bisogni della popolazione.

TETRAPILO SUD
Nella parte sud della città, all' incrocio del cardo con il decumano, realizzati nel I secolo d.c., c'è il Terapilo sud, costruito nel III - IV secolo d.c.; molto meno elegante del Tetrapilo nord, d'altronde siamo in periodo di decadenza, con quattro massicce basi quadrate e quattro colonne in granito, circondate da un marciapiede su cui prospettavano ambienti adibiti a bottega, che durante la successiva dominazione islamica furono usati come abitazioni.



CLELIA

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FUGA DI CLELIA - F. WOUTERS

IL CONTESTO STORICO

Nel 509 a.c. la monarchia etrusca fu rovesciata e Roma (ancora agli albori tanto che occupava un suolo che si estendeva per poco più di 15 miglia dalla città), ormai indipendente dal potere etrusco, si dette un governo repubblicano, un pò sul modello ateniese. Il re deposto, Tarquinio il Superbo, la cui famiglia era originaria di Tarquinia, in Etruria, chiese ed ottenne il sostegno delle città di Veio e Tarquinia.

Gli eserciti delle due città guidati da Tarquinio si scontrarono con l'esercito romano guidato dai due consoli Publio Valerio Publicola e Giunio Bruto, e l'ultimo giorno del mese di febbraio fu combattuta la sanguinosa battaglia della Selva Arsia, durante la quale perirono moltissimi uomini
da una parte e dall'altra, tra cui anche il console Bruto.
 
CLELIA - PROMPTUARII ICONUM
INSIGNORUM - XVI sec.
Lo scontro fu interrotto da una violenta ed improvvisa tempesta, senza un esito definitivo, tanti erano i morti che giacevano sul campo di battaglia. Ambedue le parti reclamavano la vittoria, finché nel cuore della notte una voce affermò che i Romani avevano vinto, poiché gli Etruschi avevano perso un uomo in più.

«....Numeratisi poscia i cadaveri, trovati furono undicimila e trecento quelli dei nemici, ed altrettanti, meno uno, quei dei Romani»

(Plutarco, La vita di Publicola)

Tuttavia il conflitto non ebbe termine perchè Lars Porsenna pose Roma sotto assedio. Porsenna era un lucumone etrusco della città di Chiusi (ager clusinum), che sia Plinio il Vecchio, che Dionigi di Alicarnasso e Floro definiscono re d'Etruria, forse in riferimento ad un suo possibile ruolo di capo militare della dodecapoli etrusca.


CLELIA

Narra Tito Livio che Porsenna, lucumone etrusco di Chiusi e dominatore di altre città etrusche come la vicina Orvieto, tanto da divenirne "re", si era alleato con i Tarquini e nel 507 a.c. (Consoli romani: Publio Valerio Publicola e Marco Orazio Pulvillo) assediò Roma, che sfinita dalla mancanza di rifornimenti, infine si arrese.

Come parte del trattato di pace che pose fine alla guerra tra Roma e Clusio, Lars Porsenna ottenne molti ostaggi, tra cui la giovane Clelia, della gens patrizia Cloelia, originariamente Cluiliauna gens molto importante durante il periodo repubblicano. E' ovvio che tutti gli ostaggi erano patrizi anche perchè se fossero stati plebei non avrebbero avuto valore.

DENARIO DI T. CLELIO - 128 a.c.
Questa fanciulla tuttavia, che non si rassegnava ad essere prigioniera del nemico, tanto si adoperò che, come narra lo scrittore e storico Valero Massimo nel suo "Facta et dicta memorabilia ", riuscì a catturare dei cavalli e con alcune compagne fuggì dal campo etrusco, cavalcò fino al Tevere e si gettò nel fiume raggiungendo a nuoto l'altra riva.

Secondo una versione Clelia rimase poi sulle sponde del fiume per sorvegliare le ragazze in fuga e fu qui che una sentinella nemica trovò la ragazza e la riconsegnò a Porsenna.

Secondo la versione riportata da Tito Livio ed Aurelio Vittore, Clelia riuscì invece a rientrare a Roma ma Porsenna chiese che fosse restituita, e i Romani acconsentirono. Clelia fu dunque riconsegnata a Porsenna da sola per pegno di pace (o assieme ad altri giovani, secondo Livio).

Al suo ritorno, comunque, Porsenna si dimostrò molto impressionato dal suo coraggio, tanto da liberarla con le sue compagne. Secondo un'altra versione le permise di scegliere la metà degli ostaggi rimanenti da liberare e Clelia scelse i giovani ragazzi romani, in modo che potessero continuare la guerra.

I romani, a pace conclusa, comunque dettero a Cloelia un onore solitamente riservato ai soli eroi maschili: una statua equestre, situata in cima alla Via Sacra. Una statua così equivaleva ad un trionfo e se è vero che alcuni episodi narrati potevano essere inventati per nascondere l'onta della sconfitta (a cui i romani non erano abituati), la statua dedicata alla fanciulla, ricordata da diverse fonti doveva essere necessariamente vera come l'episodio che l'aveva ispirata.

Comunque i romani fecero pagare cara questa sconfitta, conquistando e occupando una per una tutte le città etrusche.

CULTO DI MINERVA ILIA

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MINERVA - ATENA ILIAS
"Il Parco Archeologico di San Leucio, sull’omonimo colle a sud-est di Canosa, è uno dei luoghi più suggestivi del territorio. Il sito è testimone di due importanti momenti storici. Il colle, infatti, fu scelto dapprima per l’edificazione del più imponente tempio italico dell’Italia meridionale, dedicato alla Dea Minerva – Atena Ilias, con il probabile scopo di sancire ideologicamente e politicamente l’alleanza tra i “principi” indigeni e i romani nel 318 a.c. 

Successivamente, distrutto il tempio a partire dalla fine del V sec. d.c., il colle vide prender forma la straordinaria basilica a pianta centrale dedicata inizialmente ai Santi Medici Cosma e Damiano e solo in età longobarda a S. Leucio.


Sia il tempio che la successiva basilica erano ubicati in posizione esterna e dominante rispetto alla città antica, visivamente e simbolicamente contrapposti all’altura dell’acropoli di Canusium, ritenuta verosimilmente ubicata sulla collina ove oggi sono presenti i resti del castello medievale."

MINERVA ILIA
"Il sito, segnalato per la prima volta nel 1925, è stato ed è un cantiere aperto: numerose sia le ricerche archeologiche che i restauri susseguitisi nel corso del ‘900. Recenti le campagne di scavo a cura della “Sapienza – Università di Roma” culminate nel luglio del 2008 con l’allestimento dell’annesso Antiquarium, e i lavori di restauro dei mosaici pavimentali. 

Infatti, tra eleganti colonne in marmo sormontate da capitelli ionici e da pulvini bizantini, sono presenti lacerti musivi policromi e di pregiatissima fattura, quale lo splendido “mosaico del pavone” collocato nell’esedra occidentale della basilica paleocristiana. Tra gli elementi superstiti del tempio è il capitello corinzio con protome femminile (Giunone?), i rocchi di numerose colonne scanalate, i piedi di un gigantesco telamone.

La frequentazione dell’area è attestata anche nel periodo repubblicano e in età imperiale. Dopo il suo abbandono in età tardoantica il tempio viene abbattuto e i materiali vengono reimpiegati nella costruzione in loco, tra V e VI sec. d.c., di una basilica paleocristiana che riutilizza il podio come fondazione."

ENTRATA DEL TEMPIO DI MINERVA ILIA A CANOSA


FU ENEA IL FONDATORE DEL TEMPIO

MINERVA ILIA
Risulta che un tempio di Minerva - Atenas Ilias venne fondato da Enea a Lanuvio.   

E' attestato da una dedica su un cippo di terracotta posto su un'altura subito fuori Lavinio dove, a oriente di essa, era un'area terrazzata con tempio e pozzi, nonchè alcune antefisse a testa di Iuno Sospita e Sileno. 

Il tutto risalirebbe al V sec. a.c., ma alcuni dati la fanno retrodatare fino al VII sec. a.c.

Infatti tra la fine del VII e la prima metà del VI sec. a.c. è stato ritrovato una favissa di oggetti votivi con ceramiche italo-geometriche, e di imitazione corinzia e di bucchero, tutta di produzione locale.

Altri oggetti di culto risalgono al VI e il III sec. a.c., riguardanti statue della Dea e di offerenti, quasi tutti femminili, ex voto anatomici, incensieri, bronzetti, pesi da telaio, statuine di bimbi in fasce e di madri. 

Minerva Ilia era guaritrice, ma pure addetta alle nascite e alla crescita dei bimbi, nonchè Dea delle opere femminili (il telaio per la tessitura).

Dall’inizio del III sec. a.c. si rileva un declino della città e dei santuari extraurbani, che rifiorisce in parte in età imperiale.



ATENA - ILIA ROMANA

Ma Atena Ilia, rivisitata come Minerva Ilia, non poteva non essere romana, per il semplice fatto che i romani si sentivano i discendenti dei Troiani scampati dalla caduta di ilio, o Troia che dir si voglia. Publio Virgilio Marone nel suo poema epico Eneide aveva descritto, tra il 29 e il 19 a.c., la leggendaria storia dell'eroe troiano Enea (figlio di Anchise e la dea Venere) che riuscì a fuggire dopo la caduta della città di Troia, e che viaggiò per il Mediterraneo fino ad approdare nel Lazio, diventando il progenitore del popolo romano.

E non poteva mancare Atena Ilia, o Minerva Ilia per romanizzarla un po', quella Dea che insieme a Marte proteggeva e rendeva invincibile il popolo romano, che tante guerre e tanti popoli vinse, da diventare la governatrice e Dea di tutto il mondo conosciuto.



IL FANTASMA DI TROIA FRA LE ROVINE DI LAGARIA

A Timpone della Motta ci sono vari elementi in grado di evocare, in modo sorprendente, il fantasma della città di Troia.

ATENA ILIA IN TRONO
FRANCAVILLA - VII SEC. A.C.
A cominciare dalla stessa tipologia della dea qui venerata, che – spiega la Maaskant in un’intervista – è quella dell’Athena Ilias, ossia l’Athena troiana: la vediamo talora raffigurata in statuine di terracotta seduta con il peplo raccolto in grembo, descritta da Strabone e Licòfrone quale effige cara ad Ecuba, moglie di Priamo, re di Troia. 

"Inoltre– aggiunge la studiosa – frammenti di pinakes provenienti dal Timpone della Motta ma poi finiti al Getty Museum di Los Angeles, mostrano carri da guerra in corteo e sono decorati con fregi troiani."

Senza trascurare la presenza di toponimi significativi come Dardano dato a uno dei calanchi che solcano il Timpone della Motta e coincidente col nome del leggendario fondatore di Troia. Quello per Atena sarebbe stato dunque un culto che, sia pure nella diversità di espressione, accomunava troiani e greci, e che insieme ad altri elementi sembra suggerire l’idea che in Calabria gli acerrimi nemici narrati da Omero siano riusciti addirittura a convivere.

E probabile, – osserva la Maaskant – ma siamo sempre nel campo di un’ipotesi, suggestiva di certo, ma che necessita di essere approfondita.” Un’ipotesi dunque cautamente formula dalla studiosa, secondo la quale “oltre la scienza c’è l’immaginazione, l’istinto più che la razionalità, elementi in base ai quali può dirsi che profughi della guerra troiana potrebbero essersi integrati con gli Enotri.”

STATUETTE VOTIVE DI MINERVA ILIA RINVENUTE IN PUGLIA

ATHENA TROIANA O ACHEA?

Ora ci si può chiedere come mai i romani, discendenti dai troiani, o almeno così credevano (è non è da escludere) venerassero una Atena Ilia che però aveva parteggiato per gli achei e non per i troiani. 

Fu infatti Atena a suggerire all'astuto Ulisse di fabbricare una grande cavallo di legno che non passasse per le Porte Scee della città, e di nascondervi nel ventre i migliori combattenti Achei.

Fu proprio grazie a questo stratagemma che gli Achei poterono entrare in città ed espugnarla, cosa con possibile a porte chiuse.

Ma Atena, facendo fuggire i troiani da Ilio, fece fuggire anche Enea, il progenitore del fondatore di Roma. Insomma se Atena Minerva aveva sacrificato Ilio, l'aveva fatto per assicurare la fondazione di una città molto più importante e gloriosa di lei. 

Se Ilio era grande Roma era immensa e le sue radici troiane non potevano che rendere fieri i suoi abitanti, abituati alla guerra in cui erano abili come pochi, anzi come nessun altro popolo. Ciò spiega la gratitudine del popolo romano per la Minerva Ilia, colei che in fondo li aveva condotti, o almeno aveva condotti i loro progenitori fino suolo Laziale infine a Roma stessa.

CORNELIO FUSCO - CORNELIUS FUSCUS

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Nome: Cornelius Fuscus
Nascita: -
Morte: 86 d.c.
Professione: Politico e Generale


Cornelio Fusco fu un generale romano sotto gli Imperatori della dinastia Flavia.  Poco si sa della sua vita prima della guerra civile del 69. Tacito riferisce che Cornelio era di famiglia aristocratica, ma rinunciò a una carriera senatoriale a favore di una vita di "riposo calmo" come un eques (cavaliere).

CORNELIO FUSCO
Nel 68 d.c. Gaius Julius Vindex, il governatore della Gallia Lugdunensis (Francia), si era ribellato alle politiche fiscali troppo severe dell'imperatore Nerone. Vindex aveva quindi invitato Galba, il governatore di Hispania Tarraconensis, a dichiararsi Imperatore al posto di Nerone. Galba era uno dei più antichi generali di Roma, dotato di prestigio e di consenso politico. 

Nerone inviò il governatore della Germania Superiore, Virginius Rufo in Gallia, che sconfisse Vindex vicino a Vesontio. Galba fu dichiarato un nemico pubblico e la sua legione fu confinata nella città di Clunia, ma diverse legioni stavano passando dalla parte di Galba. 

Entro il 68 giugno, il Senato aveva votato Galba Imperatore e dichiarato Nero un nemico pubblico.  Ninfiso Sabino,  prefetto della Guardia Pretoriana, corruppe i suoi soldati per abbandonare il loro Imperatore. Il 9 giugno 68, Nerone si suicidò e con lui la dinastia Julio-Claudia finì.

Molte province però non volevano accettare Galba come successore, mentre Cornelio Fusco gli diede il suo sostegno e per questo venne ricompensato con la procura di Illirico (Illyria / Dalmazia e Pannonia). Intanto legioni in Germania e la Guardia Pretoria a Roma, si ribellarono. Il 15 gennaio 68, Galba fu assassinato e sostituito da Otho, governatore di Lusitania, che venne però rapidamente sconfitto e ucciso dagli eserciti di Vitellio, governatore della Germania. 

DECEBALO
Subito dopo, Tito Flavio Vespasiano, un generale di stanza in Giudea, dichiarò guerra a Vitellio. Vespasiano unì le forze con il governatore della Siria, Gaio Licinio Mucianus, che avrebbe condotto la guerra contro Vitellio, mentre Vespasiano si recò in Egitto per assicurare la fornitura di grano a Roma. 

Non molto tempo dopo, le province dell'Illirico, della Pannonia e della Dalmazia passarono dalla parte dei Flavi, su istigazione di Marco Antonio Primus e Cornelio Fusco. Secondo Tacito, Fusco era impaziente di combattere:

"Abbracciando la causa di Vespasiano, prestò al movimento lo stimolo di uno zelo ardente. Trovando il suo piacere non tanto nelle ricompense del pericolo come nel pericolo stesso, al possesso assicurato e acquisito da lungo tempo, preferiva la novità, l'incertezza e il rischio".

Cornelio si distinse come uno dei più ardenti sostenitori di Vespasiano, di cui aveva un'autentica venerazione, durante la guerra civile del 69 d.c., l'"Anno dei Quattro Imperatori". 
Antonio Primo e Fusco abbandonarono Vitellio e guidarono le legioni di Danubio di Vespasiano nell'invasione dell'Italia. 

VESPASIANO
Fuscus guidò la Legio V Alaudae in guerra e fu nominato comandante della flotta di Ravenna quando si rivolse a Vespasiano. Fuscus guidò l'Alaudae nella Seconda Battaglia di Bedriaco e aiutò le legioni sull'ala sinistra, e comandò la legione durante la conquista di Roma. Vespasiano unì le forze con il governatore della Siria, Gaio Licinio Mucianus, che avrebbe condotto la guerra contro Vitellio, mentre Vespasiano si recò in Egitto per assicurare la fornitura di grano a Roma. 

Non molto tempo dopo, le province dell'Illirico, della Pannonia e della Dalmazia passarono dalla parte dei Flavi, su istigazione di Marco Antonio Primus e Cornelio Fusco. Secondo Tacito, Fusco era impaziente di combattere:
"Abbracciando la causa di Vespasiano, prestò al movimento lo stimolo di uno zelo ardente. Trovando il suo piacere non tanto nelle ricompense del pericolo come nel pericolo stesso, al possesso assicurato e acquisito da lungo tempo, preferiva la novità, l'incertezza e il rischio".

DOMIZIANO
Eletto al trono Domiziano (51 - 96 d.c.), Fusco servì come prefetto della guardia del corpo imperiale, ovvero come Guardia Pretoriana dall'81 fino alla sua morte. Intorno all'84 o all'85 i Daci, guidati dal re Decebalo (87-106 d.c), traversarono il Danubio nella provincia della Moesia (Serbia centrale, Kosovo e nord della Macedonia per la la Moesia Superiore, e Bulgaria settentrionale e Dobrudja rumena per la Moesia Inferiore), devastando territori e gente e uccidendo il governatore moese Gaio Oppio Sabino. 

Decebalo, provò a trattare con Domiziano, promettendogli la pace; ma Domiziano inviò Fuscus contro di lui con un grande esercito. Venuto a conoscenza di questo Decebalo, gli mandò di nuovo un'ambasciata con la proposta offensiva di fare pace, a condizione che ogni romano dovesse versare due oboli per Decebalo ogni anno; altrimenti, dichiarò, avrebbe fatto la guerra e avrebbe inflitto grandi mali ai Romani.

Allora Domiziano inviò Cornelio Fusco nella regione con cinque legioni. Sebbene Fuscus abbia avuto inizialmente successo nel condurre gli invasori oltre il confine, il prefetto subì una sconfitta quando fu attaccato con la Legio V Alaudae durante una spedizione in Dacia, nella Prima Battaglia di Tapae. Fuscus tentò di radunare i suoi uomini per organizzare una resistenza, ma senza successo. L'intera legione fu annientata e Fuscus si suicidò, nell'86 d.c., per non cadere nelle mani nemiche. Le coorti pretoriane sarebbero state restaurate, ma la quinta Alaudae non fu mai riformata. 


BIBLIO
Cassius Dio - libro di storia romana
Svetonio - Le vite dei cesari, Vita di Domiziano
Tacito - Le storie

VIA LABICANA

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L'ANTICA VIA LABICANA

Labicum, da cui il nome alla via Labicana che da Roma si congiungeva a questa, era una città del Latium vetus ubicata nella Valle del Sacco (attuale ciociaria) tra Roma, Tusculum e Praeneste. Oggi è una delle città romane scomparse.



LA STORIA

Labicum al pari delle altre città latine si era opposta a Roma al principio del V secolo a.c., alleandosi a Equi e Volsci. Quinto Servilio Prisco, magister equitum nel 494 a.c., la rase al suolo e il suo territorio (Ager Labicanus) entrò a far parte dell'Ager Romano.

L'anno seguente, nel 493 a.c., Labicum firmò il Foedus Cassianum, un trattato di pace stipulato tra Romani e Latini. Successivamente, nel 489 a.c., fu una delle città conquistate dai Volsci condotti da Gneo Marcio Coriolano, e i suoi abitanti divennero schiavi dai Volsci.

Successivamente, Labicum fu espugnata dal dittatore Quinto Servilio Prisco che nel 418 a.c. la rase al suolo e il suo territorio (Ager Labicanus) entrò a far parte di nuovo del territorio romano. Qui per la prima volta le fonti citano la via Labicana che congiungeva Roma a Labicum.

Gli abitanti di Labicum in parte furono deportati a Roma, in parte furono trasferiti in un'altra località a valle, chiamata ad Quintanas dove, secondo Livio, era stata fondata una colonia romana di tipo militare, donando a 1500 veterani un terreno di due iugeri a testa. Ad Quintanas divenne poi municipio con il nome di Labicum Quintanense.

Non sappiamo dove sorgessero né l'antica Labicum, la città distrutta nel 418 a.c., né la Labicum ad Quintanas. Secondo Strabone, l'antica località distava da Roma 120 stadi, poco più di 22 km. Negli itinerari antichi (Itinerario antonino, Tabula Peutingeriana) Labicum Quintanense era la prima stazione di posta (mansio) sulla via Labicana. Sulle indicazioni di Strabone, l'antica Labicum è stata collocata sul Monte Salomone, tra Monte Compatri e Colonna; oppure a Monte Compatri, e Labicum Quintanense nei pressi di Colonna.

La via Labicana nasce come un percorso alternativo all'antica via Latina. Infatti le due strade si congiungevano nel punto Ad Bivium a ovest del passo del mons Algidus (oggi monte Artemisio). Ma mentre la distanza da Roma restava uguale, la via Labicana si manteneva su un percorso più a valle dove di rado nevicava facilitando i trasporti. Troviamo ancora citata la via Labicana quando l'imperatore romano Didio Giuliano fu sepolto al V miglio di questa via dopo essere stato giustiziato nell'anno 193.

IL MAUSOLEO DI S. ELENA

IL PERCORSO

La via iniziava dal Foro romano, nella suburra si separava dalla via Salaria e saliva con via in Selci sull'Esquilino, per scendere verso porta Esquilina. La moderna strada urbana via Labicana passa invece a sud dell'Esquilino.

La via Labicana usciva dunque dalle mura Serviane dalla porta Esquilina. Con l'avvento delle mura Aureliane la via Labicana ne usciva tramite la porta Praenestina-Labicana (oggi porta Maggiore). Nel primo tratto fuori le mura seguiva la via Prenestina e poi l'attuale via del Pigneto, congiungendosi al percorso dell'attuale via Casilina presso piazza della Marranella. 

Proseguiva poi attraverso la campagna romana verso sud est seguendo l'attuale via Casilina fino al VII miglio (oggi Torrenova), passando probabilmente per l'antica Tusculum (Frascati). Al XV miglio incontrava l'osteria di Labico Quintanense, finendo poi a Labicum sulle pendici settentrionali dei Colli Albani, congiungendosi infine con la via Latina.

Congiungendosi verso sud con la via Latina, la via Latina/Labicana attraverso la valle del Tolerus (territorio di Frosinone), giungeva fino a Casilinum (oggi Capua), per cui nel Medioevo il suo nome antico si sostituì con quello di via Casilina.

ARCO DI GALLIENO

I REPERTI

"- Visitando i disterri che si eseguono dalla società delle Mediterranee fra le vie Labicana e Tusculana, per l'impianto di una nuova stazione ho trovato, fra i materiali provenienti dalla demolizione del casino, già dei pp. di s. Marcello, un piccolo sarcofago marmoreo, liscio, di elegante fattura. È lungo m. 1,10, largo m. 0,45, alto m. 0,34.

- Nel taglio dell'acquedotto Felice, dove sono tornati in luce i cunicoli cemeteriali descritti nelle Nollie 1889 p. 839, sarebbe stato scoperto il seguente frammento di lapide, lungo m. 0,55 largo m. 0,29.

- Nel taglio attraverso il vicolo del Mandrione è stato rinvenuto un bollo di mattone, rotondo, con rilievo rappresentante il noto gruppo di Bacco che, appoggiato con la sinistra al tirso, porge da bere con la destra ad una pantera. Il gruppo è contornato da tralci di vite con grossi grappoli.

- Nella trincea aperta dalla Società delle Mediterranee, attraverso il terreno del sig. Marolda Petilli, per costruire una linea di congiungimento tra le varie ferrovie suburbane, alla distanza di circa 3 km fuori della Porta Maggiore, è stata scoperta una bella colonna di portasanta mancante del solo imoscapo. La colonna sta confitta nella scarpata sinistra della trincea, e sporge nel vuoto per circa m. 1,50. È lunga in complesso m. 2,95 e larga nel diametro m. 0,45. Il terreno, nel quale è avvenuta la scoperta, presenta tracce di costruzioni reticolate: ma è probabile che il monolite sia stato trasportato in questo luogo in epoca assai tarda, trovandosi a giacere all'ltezza di m. 3,75 sopra i piani delle fabbriche antiche circostanti.

- A metà circa del suddetto vicolo del Mandrione, è stato scoperto il fondamento di un pilone della Claudia costruito a scaglia di selce. Misura m. 4 di lunghezza m. 3 di larghezza e m. 2 di altezza."

- Demolita piccola parte di un muro, che cingeva un'antica vigna, presso la via Labicana, fra i materiali di costruzione si è rinvenuto un frammento di blocco marmoreo, grosso m. 0,14. Nella superficie, di m. 0,10 x m. 0,08, rimane un piccolo avanzo di icnografia spettante ad antiche fabbriche private, coi nomi dei rispettivi proprietarii. L'incisione è assai accurata, ed il tipo delle lettere superstiti rivela i tempi augustei."

La via Labicana incontrava sull'Esquilino la chiesa di Santa Lucia in Selci, e usciva dalle mura Serviane dalla Porta Esquilina dove venne edificato l'arco di Gallieno. 

Al III miglio vi era l'antica necropoli Ad duas lauros con la basilica interrata di Elena e il suo mausoleo detto Tor Pignatta da cui deriva il nome della borgata romana di Torpignattara, e le Catacombe dei Santi Marcellino e Pietro.

La zona viene citata per la prima volta nel Liber Pontificalis, riferendosi alla grande proprietà imperiale che partiva dal III miglio della via Labicana dove sorgeva una grande villa, nota come l'abitazione dei Flavi Cristiani e residenza dell'imperatrice Elena.

RICOSTRUZIONE DEL MAUSOLEO DI S. ELENA

MAUSOLEO DI S. ELENA

(RODOLFO LANCIANI)

"Mausoleo di Elena a Torre Pignattara (così chiamata dalle pignatte, o vasi di terra costruite nel caveau per alleggerire il peso) è di forma rotonda, e contiene sette nicchie o rientranze per sarcofagi. Uno di questi sarcofagi, famoso nella storia dell'arte, è stato rimosso dalla sua posizione già alla metà del XII secolo da Papa Anastasio IV, che ha scelto per il suo luogo di riposo. 

E' stato preso alla basilica del Laterano, dove sembra essere stato molto danneggiato dalle mani di pellegrini indiscreti. Nel 1600 venne traslata dal vestibolo alla tribuna, e quindi al chiostro. Quando Pio VI. aggiunse alle meraviglie del Museo Vaticano, è stato sottoposto ad un accurato processo di restauro che impiegò venticinque scalpellini per un periodo di nove anni.

IL MAUSOLEO DI S. ELENA
I rilievi su di esso vengono eseguite abbastanza bene, ma mancano di invenzione e di novità. Essi sono in parte presi in prestito da un lavoro più vecchio, in parte combinato da varie fonti in modo straordinario; cavalieri librarsi in aria, e sotto di loro, i prigionieri e cadaveri sparsi. Essi sono destinati a rappresentare una processione trionfale, o forse un decursio militari, che è stato fatto in precedenza.

Quando l'amore per lo splendore, che era caratteristica dei Romani della decadenza, li indusse a prendere possesso dell'enorme blocco di pietra, di cui è stato fatto questo secondo sarcofago, l'arte della scultura era già degenerata; tutto ciò che potrebbe realizzare doveva impartire a questa massa di roccia più di una architettura di una forma plastica. 

Le rappresentazioni con cui il sarcofago è ornata o figurata, a seconda dei casi può, se trovata altrove, difficilmente attirare la nostra attenzione. Sui lati sono festoni che racchiudono gruppi di ragazzi alati in grado di raccogliere l'uva; alle estremità sono figure simili che percorrono le uve. Questo sarcofago fu rimosso per la Sala della Croce greca dallo stesso illuminato papa Pio VI. 

Può sembrare indiscreto e anche offensivo da parte di Anastasio IV di aver rimosso i resti di una imperatrice canonizzata da questo nobile sarcofago in modo da avere il proprio posto in esso; ma dobbiamo tenere a mente che, sebbene la Torre Pignattara ha tutta l'apparenza di un mausoleo reale, e anche se il terreno su cui sorge è noto per aver fatto parte della corona, Eusebio e Socrate negarono che Elena fosse stata sepolta a Roma. 
La loro affermazione è contraddetta dal "Liber Pontificalis" e da Beda, e, soprattutto, dalla somiglianza tra questa bara di porfido e quella scoperta nel secondo mausoleo di cui ho parlato, cioè di S. Costanza, sulla via Nomentana."



SEPOLCRO A TEMPIETTO

La struttura, visibile sul lato nord della villa è un sepolcro "a tempietto", costruito agli inizi del III sec. d.c., probabilmente riferito a una derivazione stradale, adiacente ma in posizione marginale rispetto alla villa, destinato sicuramente al proprietario della villa, del quale ignoriamo il nome; era costituito da una camera sepolcrale al piano seminterrato, e da un piano rialzato, cui si accedeva mediante una scalinata dal lato opposto.

RESTI DEL SEPOLCRO
L'edificio laterizio aveva una pavimentazione in opus sectile, una zoccolatura di rivestimento a crustae marmoree e un intonaco bianco contornato a fasce in pittura rossa sulle pareti alte e sulla volta.
Il piano superiore era coperto da un tetto a spiovente in tegole e coppi marmorei. Il sepolcro era circondato da un imponente sistema di drenaggio a canalette e tombini.
Il sepolcro viene circondato, in epoca costantiniana, da un recinto monumentale in opera listata con ampi nicchioni su tre lati e due nicchie maggiori assiali all'edificio centrale.

Pesanti interventi di spoliazioni e danneggiamenti, dovuti sia all'attività di recupero di materiali edilizi successiva all'abbandono, sia alle trincee degli scavi pregressi, non presentano interventi o frequentazioni successive.

Sono state individuate in tutto 22 sepolture, collocate tra le nicchie del recinto, lungo i muri perimetrali all'esterno del grande monumento funerario o all'interno di esso. Le tombe disposte lungo il perimetro del recinto sono state costruite in muratura, adattando le nicchie con l'aggiunta di pilastrini; quelle dell'area centrale sono invece tombe a fossa, generalmente con copertura di tegole e coppi o lastre di riutilizzo.

SARCOFAGO RAFFIGURANTE DIONISO E ARIANNA - III SEC. D.C.
Tutte le sepolture ricavate tra i pilastri hanno subito una massiccia spoliazione. Eccone alcune:
- Della tomba 1, sul lato ovest del cortile, rimane la parte inferiore di una costruzione in muratura, con al centro un vano rettangolare per la sepoltura.
- La nicchia più a settentrione del lato ovest del recinto è stata occupata dalle tombe 2-4.
- All'interno della tomba 5-7 c'è un loculo inferiore coperto da tegole alla cappuccina, con sopra uno spesso piano di malta che costituiva il fondo della deposizione superiore. 
- Nell'area sud della zona centrale c'è una sepoltura in anfora (tomba 9) con un contenitore cilindrico del V sec. d.c.. 
- Poco più tardi è stata deposta un'altra sepoltura in anfora (tomba 10), la cui fossa ha intaccato l'enkitrismos e la fossa della tomba a cappuccina. 
- Sempre sul lato nord la parte inferiore del nucleo cementizio di una tomba, (tomba 17) con qualche traccia del paramento in opera listata. 
- Lungo il lato S sono state rinvenute 4 tombe a fossa (tombe 20-23) in sequenza con una lunga cappuccina, realizzata con materiali eterogenei. 
- A nord del sepolcro una sola sepoltura (tomba 24), con l'orientamento est ovest del muro perimetrale del "tempietto". 
Tutte le fosse sono state violate.

CATACOMBE DEI SS. MARCELLINO E PIETRO

CATACOMBA DEI SS. MARCELLINO E PIETRO

Situate in Via Casilina, 641, le catacombe si sviluppano nell’ambito della proprietà imperiale Ad duas lauros, sulla Via Labicana. Sono tra le catacombe più grandi a Roma.

La rete cimiteriale è un intreccio di cunicoli lungo i quali si aprono cubicoli decorati da splendide pitture dei secoli III-IV.

Terze per estensione fra le 35 di Roma, caratterizzate da centinaia di pitture murali che le rendono una vera pinacoteca della pittura del IV secolo d.c.

Oltre ai citati resti di età tardo-antica, nello stesso territorio ancor prima vi erano sepolcreti, colombari e strutture varie facenti parte di vari aggregati residenziali, nonchè la necropoli degli Equites Singulares, la Guardia Imperiale a cavallo, soppressa da Costantino per l'appoggio che questa diede al suo avversario Massenzio nella battaglia di Xaxa Rubra.

AUGUSTO

STATUA DI AUGUSTO

Una statua di Augusto (63 a.c. - 14 d.c.) pontefice massimo fu trovata nella villa di Livia lungo la via Labicana. Oggi questa statua si trova al Museo Nazionale Romano, indicata generalmente come Augusto di via Labicana.

Il ritratto dell'Imperatore è a figura intera, a tutto tondo, in marmo, alta 207 cm. Deve il suo nome alla zona dove venne scavata alle pendici del colle Oppio, in via Labicana. L'imperatore è ritratto a capo coperto nelle vesti di pontefice massimo.

La statua è una copia di età tiberiana di un ritratto dell'imperatore eseguito alla fine del I secolo a.c. o all'inizio del I d.c. I tratti somatici piuttosto emaciati infatti suggerirebbero la realizzazione negli ultimi anni di vita, con i segni già visibili della malattia e della stanchezza. Si tratta del più importante ritratto augusteo di questo periodo "finale", tra i pochi trovati a Roma.

Il capite velato è dovuto al suo ruolo di pontifex maximus, il braccio destro, spezzato, aveva probabilmente in mano una patera, piatto rituale per lo spargimento di vino durante un sacrificio. La testa venne scolpita a parte, da uno specialista.

L'ANTICA LABICANA

SCOPERTI A ROMA 13 METRI DELLA VIA LABICANA

Grazie agli archeologi incaricati dei lavori per la stazione di Centocelle delle Ferrovie Laziali, è stata scoperta l’antica via Labicana. In totale, tredici metri di basolato del V secolo a.c. In quel momento, la via portava dalla porta Esquilina, l’arco di Gallieno delle vecchie Mura Serviane, fino alla città di Labicum, tra Colonna e Montecompatri.

È stato grazie ad un finanziamento della Regione che i resti della Roma antica sono stati riportati alla luce a soli cinquecento metri dalla stazione della metro c. Da una parte, sono riapparsi i ciottoli della strada, larga tre metri e mezzo, chiamati crepidine. Dall’altra, quel che rimane del “marciapiede” dell’epoca, largo un metro e mezzo. Ma non solo. Ci sono anche edifici funerari, tra cui un sepolcro ed un mausoleo a pianta circolare.

Una cosa è certa – ha dichiarato Stefano Musco, l’archeologo responsabile di tutto il settore Est della città – non dobbiamo permettere che tutto torni sotto la terra”.

FESTA DI FORS FORTUNA (24 Giugno)

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 « ...nam si a me regnum Fortuna atque opes eripere quivit, at virtutem non quiit.»
« ...di regno e di ricchezze la Fortuna poté privarmi, non del mio valore »
(Accio 170-84, Telefo, framm. 625)

Fortuna era una antica divinità italica, più tardi identificata con la greca Dea Tiche, il cui culto era praticato anche presso i Romani. Servio Tullio, (... – Roma, 539 a.c.) il sesto re di Roma, che le era particolarmente devoto, dedicò alla Dea ben 26 templi nell'Urbe, ciascuno dedicato ad una sua particolare valenza.

Il 24 giugno si svolgeva la festa in onore di Fors Fortuna. Fors non era il Dio maschile equivalente alla Dea Fortuna, come alcuni hanno interpretato, anche perchè molte fonti latine attestano sulla riva destra del Tevere il culto della Dea Fortuna, la forte, "Fors, huius aedes Transtiberim est", che veniva praticato in due templi a lei dedicati. Ne sono noti però altri tre templi: uno a Pietra Papa, uno al complesso arvalico della Magliana e uno agli Orti di Cesare. Un santuario di Fors Fortuna era inoltre 
posto al primo miglio della via Campana.


DEA FORTUNA
La Dea Fortuna aveva diverse valenze:
- la Fortuna Primigenia o Pubblica veniva festeggiata il 5 aprile e il 25 maggio;
- la Fortuna virilis festeggiata l’11 giugno in un tempio al Foro Boario;
- la Fortuna Muliebris venne eretto sulla Via Latina nel 487 a.c., quando Coriolano, persuaso dalle sue donne, si ritirò dalla battaglia contro Roma;
- la Fortuna Huiusce Diei, la fortuna del presente;
- la Fortuna Redux, per il ritiro di Augusto sano e salvo con le sue truppe dalle province il 19 a.c., che divenne così la Fortuna che riporta in patria i reduci dei combattimenti;
- la Fortuna Dubia, soprattutto quando è dubbio l'esito di una battaglia;
- la Fortuna Stata, cioè costante, quella che non tradisce la sua protezione;
- la Fortuna Averrunca, colei che allontana le sciagure; 
- la Fortuna Comes, colei che accompagna nel viaggio allontanandone i pericoli. 

A Preneste, presso il grande tempio della Fortuna Primigenia, come testimonia Cicerone, la Dea era rappresentata nell’atto di allattare Giove e a Giunone bambini; quindi Dea Grande Madre che divenne però, una volta spodestata, figlia dello stesso Giove. 

Ella era festeggiata l’11 e il 12 aprile e nel suo tempio i pronunciavano vaticini (le sortes Praenestinae). I suoi attributi erano il timone, il globo, la ruota, la cornucopia, talvolta il caduceo.

Il 24 giugno, giorno del solstizio d'estate, però in particolare si festeggiava la Grande Dea, la Fors Fortuna, la Dea forte, madre di tutti ma soprattutto della povera gente, che si recava nei templi a invocare la Dea come oggi si prega la Madonna.

La Dea Forte alla cui potenza nessuno poteva opporsi, veniva festeggiata tutta la notte bevendo e divertendosi, soprattutto sul Tevere con barche inghirlandate di fiori, dove durante la notte ci si poteva appartare, sulle coste del Tevere a fare l'amore sotto gli alberi.

Il solstizio d'estate segna l’inizio del periodo estivo nel nostro emisfero, quello settentrionale, determinando il giorno di più lunga durata durante l'intero anno solare. L'estate qui iniziata durerà fino al 23 settembre, data dell’equinozio d’autunno, che per l'appunto segnerà l'inizio dell'autunno.

Secondo Vittorio Lanternari (Antropologia religiosa, Etnologia, storia, folklore, Edizioni Dedalo, Bari, 1997), ma pure secondo tanti altri,  questi festeggiamenti sarebbero poi passati alla festa cristiana di S.Giovanni, visto che la Dea era patrona dei culti agrari e quindi della raccolta del grano che si svolgeva in questi giorni, cioè alla fine di giugno.

Nel rito più arcaico, essendo la Dea simbolo della Natura e quindi della proliferazione, durante la notte si accendevano i falò nella campagna e a quella suggestiva luce le sacerdotesse si accoppiavano, imitate dalle coppiette dei contadini. Era una generale esplosione di sesso, incentivata dalla lauta cena e dal buon vino, accompagnati da musica e danze. 

In molti luoghi d'Europa e altrove si festeggiava il culto più antico della terra, quello del Solstizio d'Estate, quando i contadini raccolgono il frutto del loro lavoro e festeggiano l'estate che muore nei campi dorati dalle spighe recise che giacciono in terra sotto il sole cocente.


Gli accoppiamenti duravano tutta la notte e la campagna, che ormai aveva mietuto i suoi campi, si illuminava di fuochi scoppiettanti senza pericolo. Tutto ciò decadde quando venne tolta l'autonomia femminile, cioè già in epoca romana repubblicana, ma nelle campagne perdurò nei secoli, con grande scorno della chiesa cristiana che sessuofoba e misogina, cercò di evitare il rito in tutti i modi, fino a ricorrere alla condanna di stregoneria e a porre le disgraziate sui roghi.

Infatti in diversi paesi, soprattutto del Lazio, quella festa diventò la festa dei roghi delle streghe, con fantocci di paglia che venivano e vengono ancora bruciati nelle campagne. La Chiesa cattolica cambiò la festa trasformandola in quella di S. Giovanni, che si trasformò infatti nella Notte delle Streghe.



Durante la notte tra il 23 e 24 giugno, giorno in cui si festeggia San Giovanni Battista, si credeva, o almeno la chiesa aveva fatto credere, che le streghe si dessero appuntamento nei pressi della basilica di San Giovanni a Roma per un grande Sabba e andassero in giro per la città a catturare le anime. Le streghe venivano chiamate a raccolta dai fantasmi di Erodiade e Salomè, ormai anime dannate per aver causato la decapitazione di san Giovanni, il precursore del Cristo.

Così la festa orgiastica divenne festa puritana e punitiva nei confronti del sesso e soprattutto delle donne, torturate e bruciate vive, soprattutto nel 1500 con l'inizio della Santa Inquisizione che di santo non aveva nulla.


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VILLA DEI VOLUSII (Fiano Romano)

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La Villa dei Volusii si trovava non lontano l'importante città di Capena e presso il famosissimo Lucus Feroniae.



LUCUS FERONIAE

Fu un antico lucus dedicato alla Dea sabina Feronia, protettrice delle liberte e delle matrone romane.
Il santuario venne inglobato in una famosa città che riportò lo stesso nome, sita nella pianura lungo il fiume Tevere, abitata già dalla seconda metà del III secolo a.c. 

Il santuario era frequentato sia dai Latini sia dai Sabini anche al tempo di Tullo Ostilio. Venne saccheggiato da Annibale nel 211 a.c.. In età imperiale divenne una comunità indipendente con lo status di colonia in cui si insediarono veterani di Ottaviano (Colonia Iulia Felix Lucus Feroniae)


Secondo la leggenda tramandata da Servio, Capena fu fondata da coloni veienti guidati dal re Properzio, durante una primavera sacra, e si stabilirono sull’altura di Civitucola tra l’VIII e il VII secolo, collegato sia attraverso la via Capenate che dal Capenas stesso, affluente del Tevere, con scalo presso Lucus Ferionae, luogo sacro per i Capenati. Poi a partire dal VII sec. venne colonizzata dagli Etruschi,
La cultura dei Capenati era un coacervo di quella Etrusca, Latina e Sabina. Nel IV secolo venne conquistata da Roma e ascritta alla tribù Stellatina,  divenne municipium e e pian piano si romanizzò. Nel periodo imperiale aumentarono i latifondi e quindi le Ville rustiche, come la Villa dei Volusii. 
IL LARARIO

LA FAMILIA DEI VOLUSII
I Volusii Saturnini furono una potente e gloriosa gens i cui membri svolsero, per oltre un secolo, ruoli importanti nella vita politica e nell'organizzazione delle terre e dei prodotti agricoli, soprattutto nella parte adiacente al Tevere per il rifornimento di grano a Roma durante la carestia che colpi la città tra il 6 e l'8 d.c. Importante anche la presenza presso la villa di servi horrearii e di un negotator. 


I MEMBRI
- Il primo personaggio che si conosce è il pretore Quinto Volusio che edificò la Villa nel 50 a.c..

- Questa venne poi ampliata dal figlio Lucio Volusio Saturninotra la metà dell'età augustea e l'inizio dell'età tiberiana (10 a.c - 20 d.c.). 
Di lui si sa che fu console nel 12 a.c., che fu grande amico dell'imperatore e patrono della città di Capena. Inoltre si sa che teneva le funzioni censoriali per la selezione dei i cavalieri, come membro giudicante. Mori intorno al 20 d.c. 
- Lucio Volusio ebbe una figlia, Volusia Saturninache sposò Marco Lollio Paolino, anch'esso di famiglia senatoria. 
- Questi ebbero a loro volta due figlie: la prima Lollia Paolina divenne la moglie dell'imperatore Caligola nel 38 d.c., ed una delle candidate a sposare l'imperatore Claudio; la seconda di nome Lollia Saturnina andò in sposa ad un certo Valerio Asiatico (console suffetto nel 35 d.c.). 
- Lucio Volusio Saturnino, divenne console nel 3 d.c. Egli sposò Cornelia, figlia di Lucio Cornelio Lentulo (console nel 3 a.c. e forte uomo politico dell'Impero romano). 
- Segue nella genealogia Quinto Volusio Saturninoconsole nel 56 d.c. e frequentatore della cerchia di Nerone, e Volusio Saturnino, console nell' 87 d.c. Forte è il legame di quest'ultimo con I'imperatore Domiziano tant'è che diventerà governatone della Germania superiore. 
Si è a anche della presenza nel 92 d.c. di un altro console chiamato Volusiosempre sotto I'imperatore Domiziano, dopodiché nessuna altra notizia. 



LA VILLA DEI VOLUSII SATURNINI

La Villa dei VoIusii Saturnini venne scoperta nel 1961 durante i lavori per la autostrada del Sole, nei pressi di Fiano Romano (Roma Nord). Tali lavori non solo distrussero parte del complesso, ma lo tagliarono in due con la rampa di accesso all'autostrada.

La villa, edificata intorno alla prima metà del I sec. a.c., si pensò dapprima che appartenesse alla famiglia degli Egnatii, coinvolti nelle guerre civili del sec. a.c. e proscritti da Augusto; poi si comprese l'appartenenza ai Volusii.

Il tipo di villa d 'otium su cui è impostato l'impianto della Villa dei Volusii è quello
tradizionale, consistente nel modello della domus urbana, con terrazze e criptoportici a
giardino; di li a poco sarebbe invalso il nuovo modello a padiglioni e nuclei sparsi in un ambiente naturale, che avrebbe avuto la completa affermazione soprattutto in età neroniana.




GLI SCAVI

Dal 1962 al 1971 la Soprintendenza per i Beni Archeologici dell'Etruria Meridionale, con la collaborazione della Società Autostrade (che non era di certo affidabile), procedette allo scavo integrale della parte centrale del vasto complesso, poi al restauro delle Strutture c dei pavimenti a mosaico, e all'allestimento di un piccolo antiquarium (attualmente chiuso). Nel 1998, sono State realizzate idonee di per la protezione degli ambienti mosaicati.

Gli scavi hanno rivelato imponenti strutture architettoniche, affreschi, mosaici, sculture, ceramiche, iscrizioni, monete. Inoltre, l'area archeologica si situa a 500 mt da un altro sito di interesse storico-culturale, il Lucus Feroniae, ed è raggiungibile da qui attraverso i campi, oppure dall'area di servizio Feronia dell'Autostrada.

La villa sorge sulla sommità di una piccola collina ed è ancora in fase di studio: attualmente risulta esplorata per poco più di un terzo a la maggior parte dei suoi tesori non è stata ancora pubblicata.

IL PERISTILIO
- Primo proprietario fu Quinto Volusio, personaggio noto a Cicerone, poi la villa passò al figlio, Lucio Volusio Saturnino, console nel 12 a.c., tra la media età augustea e la prima età tiberiana (10 - 20 d.c.).

Secondo proprietario fu suo figlio omonimo (console del 3 d.c.) cui si dovettero le nuove decorazioni a mosaico e soprattutto I'ampliamento del settore padronale con la costruzione del gigantesco peristilio, al cui interno fu edificato un bellissimo lararium con le Statue degli antenati.

- Gli ultimi esponenti della famiglia dei Volusii furono due fratelli, consoli nell'87 e nel 92 d.c. La famiglia probabilmente declinò a causa delle persecuzioni antisenatorie di Domiziano.

Il complesso ebbe nuova vita fase in età traianea e restauri nel 111-IV d.c e fino al V d.c.. quando sulla parte residenziale si impiantò un piccolo cimitero, per quella mania tutta cristiana di cancellare ogni traccia dell'Impero Romano, reo di essere pagano.

Venne infatti nell'alto medioevo spogliato di pietre, colonne e ornamenti per edificarvi un edificio religioso, poi un piccolo centro fortificato di torri, ed infine un casale rustico.



DESCRIZIONE

Nella sua fase di maggiore espansione, la villa occupò una superficie di circa 205 x 120 metri.
Il nucleo più antico risale all'epoca repubblicana, (l secolo a.c.), in un periodo pieno di quei rivolgimenti politici che porteranno prima al potere di Cesare e poi all'Impero di Augusto.

TESTA DI AGRIPPINA MINORE RINVENUTA NELLA VILLA
La prima costruzione è caratterizzata da strutture in opus incertum, tecnica edilizia in cui le pareti sono costruite con piccole pietre di misura diseguale con le facce combacianti tra loro. Ha un effetto un po' rozzo ma richiede un lavoro abbastanza sbrigativo. 

All'inizio la villa ebbe l'aspetto di una lussuosa abitazione di campagna, in seguito prese l'aspetto di un vasto complesso rurale con numerosi schiavi che lavoravano la terra, unico esempio del genere arrivatoci così ben conservato.

La villa era connessa a un fondo agricolo ampiamente dotato di impianti produttivi, come un frantoio per il vino, che era adiacente alla parte residenziale. All'epoca la produzione vinifera era molto remunerativa e i vini del suolo italico (Enotria, cioè terra dei vini) erano molto apprezzati anche all'estero.

La zona padronale era disposta attorno ad un peristilio, cioè un giardino porticato con 6 colonne tuscaniche in calcare su ciascuno dei lati lunghi e 4 colonne su ciascuno dei lati corti. Qui si sviluppava un giardino con vari cespugli e l'hortus o viridarium (giardino per essenze aromatiche), che si sviluppava al margine nord orientale del complesso.

LE STATUE DELLA VILLA
I romani usavano sicuramente più di noi le spezie e le erbe aromatiche che avevano importato e trapiantato da ogni parte del mondo, anche per questo la cucina romana era così raffinata e di conseguenza lo è oggi la cucina italiana che da essa deriva. Seguiva poi un ambulacro (corridoio), pavimentato con marmi colorati inseriti su un fondo nero.

Sul peristilio si aprivano numerosi ambienti: un vasto tablinio (sala da pranzo) a triplice ingresso che ha un vano di passaggio a Sud e una sala a Nord; un oecus (sala di soggiorno), pavimentata in opus sectile (con marmi intarsiati); un'esedra divisa in due parti. Sempre sul peristilio si aprono anche cubicoli (stanze da letto) e ripostigli vari.

Il peristilio nella parte meridionale presentava un lungo criptoportico, una galleria sorretta da archi e coperta da volta a botte. Resti di strutture murarie del fronte della villa, che domina la valle tiberina, rivelano che questa si elevava su più piani. Da qui ci si può arguire la grandezza della parte edificata.

Ai margini occidentali del complesso si trovava, infine, un'imponente riserva d'acqua, una grande e stupenda cisterna a tre navate, probabilmente collegata a un sistema di approvvigionamento idrico.

Sono di età Repubblicana i vani riguardanti i lati sudorientale e nordorientale del peristilio minore, a quest'epoca pavimentato con semplice cocciopesto.


Tali strutture restarono in uso anche nel secolo successivo c mantennero le originarie funzioni di rappresentanza.

Tra la fine del I secolo a.c. e l'inizio del successivo in Età Augustea, la villa fu interessata da diversi lavori di ampliamento e assunse l'aspetto planimetrico attuale.
Predominò in questa fase l'uso dell'opus reticolatum, tecnica edilizia in cui le pareli sono costruite con blocchi di pietra a base quadrata disposti in modo tale da creare un reticolo sempre in diagonale.

L'opera di questo rinnovamento fu dovuta a Lucio Volusio Saturnino (console del 12 a.c.) e a suo figlio omonimo (console del 3 d.c.). Dal punto di vista architettonico vennero creati degli spazi per le esigenze dell'Otium, inteso come svago rispetto agli impegni della vita pubblica e del fasto residenziale.

Fu innalzato un grandioso peristilio destinato alla manodopera servile e dotato di strutture di servizio come vani per il deposito dei prodotti. II punto focale della villa fu costituito da un raffinato larariurm (parte della casa riservata al culto dei Lari, divinità protettrici del focolare domestico), deputato a celebrare i fasti dei nobili proprietari.

LARARIO CON TAVOLINO (COPIA)
Al centro del lato più lungo e in asse con l'ingresso alla casa signorile, questo "larario" della casa, era costituito da una grande sala. Sul pavimento vi venne posto mosaico molto bello, di forma circolare, a motivo radiante in bianco e nero, con al centro il simbolo policromo della vita.
Restò immutata la destinazione della zona padronale, che venne ampliata, e furono realizzati nuovi mosaici pavimentali. Le costruzioni di prima fase, eseguite in "opus incertum" accolsero comunque una pavimentazione a mosaico policromo.

L'opus reticulatum" invece, più raffinato ed elegante, caratterizza le strutture della seconda fase e i mosaici sono in bianco e nero. Cosa curiosa: il mosaico policromo si sviluppò in epoca tarda e prese piede soprattutto nelle lontane province romane soprattutto orientali.

Sembra che i sofisticati romani apprezzassero più il mosaico in bianco e nero, magari impreziosito da tessere di pasta vitrea. Non era raro che al centro di un mosaico più semplice venisse posto un mosaico con tessere molto più piccole a comporre un'opera dettagliata e di gran valore, detta "emblemata".
Nell'hortus, invece, fu costruita una grande "esedra" con tre nicchie dove vennero accolte tre sculture di marmo, poi ritrovate: un Eracle di stile scopadeo e le copie di due celebri ritratti, un Menandro e un Euripide.


In questo ambiente è evidente l'intenzione di ricreare l'atmosfera da 'Gymnasium", dove all'esercizio fisico si univa quello intellettuale di passeggiare parlando di filosofia, sintesi assai gradita all'aristocrazia romana della tarda repubblica e dell'inizio dell'impero.

La villa rimase di proprietà dei Volusii fino all'età Traianea. Dagli studi risulta però che intorno alla metà del I secolo d.c. la villa venne meno alla sua qualità di dimora residenziale e divenne una grande fattoria.
Furono apportate, quindi, diverse modifiche. Il grande complesso "servile" si sviluppava a Nord e a Est della villa signorile e vi si accedeva da una strada lastricata proveniente dalla campagna. Il vastissimo peristilio di questa zona aveva delle colonne su tre lati c mezzo.

Lungo i portici si aprivano una ventina di stanze col pavimento a nuda roccia: quasi certamente si tratta delle cellette degli schiavi del latifondo (forse alcune centinaia). Gli ambienti identificati come appartenenti ad un frantoio per il vino vennero collocati dietro ai vani del lato Nord-Est del peristilio.
Un passaggio univa la zona signorile con il peristilio del complesso servile (ergastulum). Gli ambienti del lato meridionale del nucleo padronale, appartengono per la maggior parte al periodo repubblicano.

All'estremità orientale si trovava una latrina con il pavimento in "opus spicatum" (mattoni di cotto messi a spina di pesce). Dagli scavi risulta inoltre che vennero costruite sul sito nuove strutture impiegando materiali della villa augustea.
Alcuni frammenti architettonici databili al IX secolo invece, fanno ipotizzare l'esistenza di un edificio religioso. L'angolo sudorientale dell'impianto repubblicano venne invece trasformato in un piccolo centro fortificato. Nei secoli successivi il complesso di villa dei Volusii fu trasformato in casale rustico.

EMBLEMATA COL SIMBOLO DELLA VITA

LA VILLA MODIFICATA

Ora il grande complesso "servile" si sviluppava a Nord e a Est della villa signorile, e vi si accedeva da una strada lastricata proveniente dalla campagna. Il vastissimo peristilio di questa zona aveva delle colonne su tre lati e mezzo.

Lungo i portici si aprivano una ventina di stanze col pavimento a nuda roccia: quasi certamente si tratta delle cellette degli schiavi del latifondo (forse alcune centinaia).
All'estremità orientale si trova una latrina con il pavimento in "opus spicatum" (mattoni di cotto messi a spina di pesce).

Al centro della sala è situato l'altare di marmo con i simboli del sacerdozio della famiglia: l'albero sacro degli Arvali e il lituo dell'Augure.
Su di un lato vi è una tavola rotonda e una sella (sedia) - copie degli originali, ospitati nel museo del Lucus Feroniae, con bei piedi di leone, di stile neo-attico.

Su di un bancone, nel fondo della sala, venivano poste le statue degli avi e le iscrizioni in loro onore.
Ad ovest della villa, ad alcune decine di metri dalla zona signorile, è visibile una parte del basamento dell'antico "hortus" (giardino) con un "criptoportico", in parte tagliato dall'autostrada, rialzato notevolmente rispetto alla Valle del Tevere.

Il nucleo della villa era a sua volta leggermente più in alto dell'" hortus".
Da tutto il complesso della villa si può dedurre il passaggio tra la produzione dell'olio, del vino e dell'allevamento di animali pregiati e lo sfruttamento intensivo di colture, per lo più di cereali, che richiedevano un gran numero di schiavi; la creazione cioè del grande latifondo che dette origine alle servitù coatte dei contadini del tardo impero e del Medioevo.




ACQUEDOTTO DI VENAFRO

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PONTE SULL'ACQUEDOTTO DI VENAFRO
Dionigi di Alicarnasso, nelle sue Antichità Romane rilevò che " La straordinaria grandezza dell'Impero Romano si manifesta prima di tutto in tre cose: gli acquedotti, le strade lastricate e la costruzione delle fognature". Anche Vitruvio è dello stesso parere. I Greci erano stati grandissimi costruttori, ma non avevano acquedotti, strade e fognature come i romani.

I Sanniti crearono nella zona di Venafro, all'epoca di appartenenza campana, una rete di centri abitati che opposero tenace resistenza al dominio di Roma. Una volta assoggettate però, le città assaggiarono in breve i vantaggi del dominio romano: fiorirono i commerci e la città si riempì di monumenti mai visti, con grandi comodità come le terme e i termpoli.

Col tempo e con la romanizzazione Venafro rivestì un ruolo importante e strategico tanto da diventare Colonia romana con Augusto (Colonia Augusta Julia Venafrum), organizzandosi nella tradizionale sistemazione urbanistica, parzialmente conservata nell'abitato attuale.

Ma un centro fiorente non poteva mancare dell'acqua per tutti i bisogni cittadini, e così in epoca augustea venne edificato l'acquedotto, detto "Rivus Venafranus", che portava l'acqua del fiume Volturno da Rocchetta a Volturno a Venafro.

Dell’acquedotto conosciamo numerosi tratti e possediamo l’editto che ne stabiliva le regole d’uso.

Costruito probabilmente tra il 17 e l’11 a.c. è lungo circa trenta Km e supera un dislivello di più di 300 m dalla captazione, alle sorgenti del Volturno, fino al punto di arrivo nella parte alta della città in corrispondenza di un castellum aquae (serbatoio), non individuato con precisione. 

La struttura è quasi completamente sotterranea, esce allo scoperto solo per attraversare corsi d’acqua o valloni per mezzo di ponti.
È in parte costruito in opera cementizia e in parte scavato nella roccia, con pavimento in laterizi, volta a tutto sesto e pareti rivestite con malta idraulica.
Lungo il percorso sono collocati dei cippi riportanti la prescrizione di lasciare liberi due percorsi di servizio ai lati della conduttura. Come al solito l'organizzazione romana era perfetta.



L’ACQUEDOTTO DELLA COLONIA ROMANA DI VENAFRO
DA:  FRANCO VALENTE

" La ricca polla d’acqua delle sorgenti del Volturno sgorga fuori della montagna a quota di 548 metri sul livello del mare. Consapevole della differenza di quota tra le sorgenti del Volturno e la parte più alta dell’abitato di Venafro, in un epoca imprecisata (che ragionevolmente possiamo fissare nel I secolo a.c.) Chilone, l’architetto idraulico cui fu affidata la progettazione, punteggiò il territorio pedemontano della riva destra del Volturno in maniera da formare una linea continua che, risalendo in maniera graduale e progressiva le curve di livello, congiungesse quella parte alta della città venafrana alle sorgenti del Volturno.

Chilone apparteneva a quella categoria di architetti chiamati libratores per la capacità tecnica di stabilire il livello (libra) e la pendenza dei condotti idraulici.

PARTE DELL'ACQUEDOTTO
L’attribuzione a Chilone della progettazione e della direzione dei lavori dell’acquedotto vulturnense ci viene da una citazione in una lettera che Marco Tullio Cicerone inviò a suo fratello Quinto quando, in occasione di un suo viaggio da Roma, si era fermato a Venafro rimanendo testimone di una circostanza drammatica.
Quattro operai che lavoravano sotto la direzione di Chilone erano stati investiti dal crollo di un cunicolo dell’acquedotto rimanendo uccisi: …Chilonem accersiveram Venafro; sed eo ipse die quatuor eius conservos et discipulos Venafri cuniculus oppresserat… (Marco Tullio Cicerone, Ad Quintum fratrem, 3,1). Nel 1925 si rinvenne un buon numero di tratti dell’antico cunicolo.

- Il primo tratto presenta uno specus in buona parte scavato nella roccia, spesso pavimentato con mattoni bipedali. Si sono rinvenuti pozzi circolari per le ispezioni (spiramina) dal diametro ci m.1,10. Il condotto è pressoché regolare dalla sorgente fino a Venafro e presenta una larghezza costante di 60/65 cm. Ed un’altezza di cm. 160/165. Il primo tratto è pressoché pianeggiante, con lievissima pendenza nella parte che attraversa la piana di Rocchetta.
- Il secondo tratto, invece, ha una pendenza notevolissima e mediamente del 25%.
Poco si conosce del sistema di distribuzione secondario. Sicuramente nel tratto urbano alimentava anche fontane pubbliche e private. Un chiaro esempio di utilizzazione anche per fini ornamentali è la Venere ritrovata negli anni 50 che, diversamente dalle altre consimili, presenta a lato un delfino fornito di una fistola interna che, collegandosi ad un condotto, permetteva all’acqua di zampillare.

L’EDITTO DI AUGUSTO NELLA TAVOLA ACQUARIA

L’epigrafe venafrana è l’unico esempio di costituzione di un acquedotto pubblico in cui compaia il regolamento che ne disciplina l’amministrazione.

TAVOLA ACQUARIA NEL MUSEO ARCHEOLOGICO DI VENAFRO
Si tratta di un editto emanato da Augusto intorno all’11 a. c. e, quindi, prima della lex Quinctia (del 9 a.c.) che fissò la disciplina generale degli acquedotti.
L’iscrizione è formata da 69 righe divise in 4 titoli.
- Il primo riguarda la donazione dell’acquedotto alla città di Venafro da parte di Augusto.
- Il secondo illustra la costruzione e la manutenzione dell’opera ed i rapporti tra i coloni privati e l’uso dell’acquedotto.
- Il terzo riguarda la gestione dell’acquedotto affidata a magistrati locali (duumviri).
- Il quarto stabilisce le sanzioni per i comportamenti contrari e le procedure da seguirsi davanti al pretore peregrino.
L’editto fissa che su due fasce di terreno, da una parte e dall’altra del condotto, ognuna larga otto piedi, sia vietato al proprietario del fondo di costruire qualsiasi tipo di edificio e di piantare qualsiasi albero. Su tali strisce è consentito il transito pedonale a tutti coloro che debbano occuparsi della manutenzione del canale.
Il fatto che nell’editto si garantisca il che il passaggio sia largo quanto una via adatta anche al passaggio di carri (8 piedi) lascia intendere che doveva essere sufficientemente comodo per gli addetti alla manutenzione senza che potesse essere utilizzato, il passaggio di carri.
Il terzo capitolo individua nei duumviri i magistrati cui era affidata la vendita dell’acqua su autorizzazione dei decurioni della città. La competenza per le sanzioni era affidata ad un cosiddetto pretor peregrinus a Roma, per mezzo di un rappresentante pubblico nominato dal senato.

Nella quarta parte vengono chiariti i rapporti tra l’organizzazione politica centrale e quella della colonia Venafrana. Sebbene la direzione e l’esecuzione delle opere era affidata dallo stesso editto ai magistrati locali. Era l’imperatore, però, che stabiliva con il suo editto la terminatio, ovvero la posizione dei termini che seguivano la fascia di protezione dell’acquedotto.

Inoltre l’ingerenza romana, che derivava proprio dal fatto che l’acquedotto fu donato da Augusto, si ravvisa in particolare nell’affidamento al pretore peregrino di Roma la competenza per l’applicazione delle sanzioni, anche se era prevista la figura di un delegato locale in funzione di accusatore in rappresentanza della colonia. Dal che si conferma che la colonia di Venafro fu, come le altre colonie augustee, una vera istituzione organica connessa con l’economia agricola volta anche alla sistemazione dei veterani romani."



AEDES LARIUM IN VIA SACRA (27 Giugno)

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LARES AUGUSTI

Aedes Larium in Via Sacra era una festa che avveniva il 27 giugno in onore dei Lares, divinità protettrici etrusche e romane. Si ricordava l'istituzione della aedes a loro dedicata sulla via Sacra. Plauto trasmette la figura dei Lares in forma di cani, che venivano posizionati accanto alla porta d’ingresso.

Probabilmente appoggiandosi ad una precedente tradizione etrusca, queste divinità avevano il compito di proteggere, in generale, i confini; che fossero strade, terreni, case o proprietà. Da qui nasce la divisione dei vari ambiti di competenza:

1) - Lares praestites: protettori della città.

2) - Lares domestici:"Lares familiares", più antichi dei Lares Patrii, sono i protettori della "Familia".

3) - Lares patrii: "Oh Lari paterni, non vergognatevi di essere stati fatti con un vecchio tronco" (i più antichi venivano scolpiti nel legno, erano gli antenati un po' divinizzati, più della Gens che della Familia).

4) - Lares cubiculi: protettori della casa (con tutti quelli che c'erano dentro, schiavi compresi). 

5) - Lares compitales: protettori dei crocicchi (ma anche dei trivii). 

6) - Lares permarini: protettori sul mare per i marinai, soprattutto i soldati). 

7) - Lares rurales: protettori dell'agricoltura, responsabili del buon raccolto.

8) - Lares Augusti: aggiunti in un secondo tempo, erano i numi tutelari della famiglia imperiale e, di conseguenza, di tutto lo Stato romano. 

LA CASA DEL NAVIGLIO - POMPEI
La festa veniva celebrata il 27 giugno in onore dei Lares, divinità protettrici presso l'Aedes a loro dedicata sulla via Sacra. Gli Aedes furono a Roma i luoghi sacri più arcaici insieme ai lucus e alle aedicula. Il templum dunque derivava dall'inauguratio compiuta dall’augure, mentre la aedes non è inaugurata, ma consacrata dal pontefice e dedicata dal magistrato.

Ne consegue che può essere templum anche un sito o un edificio di uso civile, come il Comizio e la Curia, mentre la aedes è sempre e solo un edificio di culto.

Se invece un edificio è inaugurato, consacrato e dedicato, acquista il doppio carattere di templum e di aedes. E' adibito al culto, ma può essere adibito anche a funzioni civili, come ad esempio le riunioni del Senato nel Tempio di Bellona o di Apollo Palatino.

Ogni aedes ha un suo statuto (lex aedis) e un suo patrimonio. In quanto sacra è inviolabile e non è commerciabile; il suo patrimonio è invece commerciabile, purché risponda allo scopo per il quale viene costituito.

POMPEI - MUSEO ARCHEOLOGICO DI NAPOLI
La cura dell'aedes è dunque affidata allo stato, ed è tutelata dallo ius sacrum. La custodisce l'aedituus, che non è né sacerdote né magistrato (una specie di "sacrestano").

Il 27 giugno era dedicato alla festa degli Aedes Larium nella importante via Sacra, festività già esistente ma fu Augusto a spostarla sulla Via Sacra. Probabilmente Augusto volle riunire due feste in un’unica processione: la festa dei Lari e la festa in onore del Tempio di Iupiter Stator, anch’esso costruito sulla Via Sacra. A Roma metà dell'anno era festivo, bisognava metterci un freno, altrimenti si lavorava molto poco.

Anticamente l'Ardes Larium era un unico edificio che riuniva un focolare dedicato a Marte, e un focolare ai Lari, separati dall’edificio col focolare di Vesta, collegati solo da un unico passaggio. Successivamente venne spostato in un nuovo edificio posto tra la Domus Regis Sacrorum, e l’atrium-aedes Vestae, zona dedicata alla Dea Vesta. All'esterno vi si accedeva tramite la Via Sacra e all’interno dell'Aedes si accedeva a dei “sotterranei” in linea con l’oltretomba dei Lari.

POMPEI
Dove conducevano questi sotterranei non si sa, ma Roma è ancora in larga parte sotterrata, perchè quasi tutta edificata al disopra con i vari palazzi, e le scoperte archeologiche si fanno quasi sempre per caso, quando si devono eseguire dei lavori di risanamento per gli edifici attuali.

Durante la festa tutti potevano portare le stesse preghiere a differenti divinità, si che le famiglie potevano ritrovarsi e scambiarsi i Lari raffiguranti i morti di quell’anno e ricostruire il retaggio attraverso gli antenati. 

Oppure si stringevano nuove alleanze o matrimoni per collegare le varie famiglie. Naturalmente se un membro della famiglia disonorava gli antenati, oltre che su di lui la sventura avrebbe potuto abbattersi contro altri membri della famiglia, per cui le preghiere e le offerte dovevano in questo caso moltiplicarsi.

La festa era molto sontuosa anche perchè alla fine compariva, nella lunga processione che snocciolava tutti i tipi di Lares agghindati con ghirlande e nastri, i Lares Augusti che proteggendo la famiglia imperiale proteggevano lo stato e il popolo romano.

LARES PRIVATI
Ma tra i Lares Augusti spiccò poi il Lar Augusti, il Genio di Augusto, quello che ispirava Augusto per il bene di tutto l'Impero Romano. Insomma lunga vita all'Augusto, anche qui la propaganda non mancava, e visto che comunque il governo di Ottaviano fu un buonissimo governo, mite e illuminato, il popolo lo adorava e adorava i Lares, i potenti protettori.

La cerimonia iniziava nel tempio della Via Sacra dove officiavano i sacerdoti e in genere vi assisteva lo stesso imperatore per ricevere il tributo affettuoso del popolo, poi l'imperatore se ne tornava alla sua reggia e aveva inizio la processione che coinvolgeva Giove Stator (colui che impediva ai soldati di fuggire, restando saldi al loro posto di combattimento) e i Lare tutti, pubblici e privati.

Non mancavano le musiche, i canti e le danze che accompagnavano la processione a cui si accodava il pubblico devoto, poi dopo un lungo giro la "processio" tornava al tempio dove il popolo sfilava donando ghirlande, fiori, nastri, oggetti e monete che i sacerdoti raccoglievano e riponevano nel tempio o nel suo magazzino sottostante.


Al termine della processione si preparavano i banchetti nelle case dove fervevano gli inviti soprattutto fra i membri delle varie gentes per favorirne il legami e gli accordi, oppure tra i membri di una stessa familia. Nelle ricche domus che raccoglievano tali ospiti si poneva una ghirlanda sul cancello con un'immagine dei Lares, anch'essi coinvolti nell'invito.

Mostrare al pubblico che si teneva in debita considerazione i Lares era segno di essere buoni e pii cittadini romani, perfino la reggia non si sottraeva a tale usanza. Essendo inoltre tempo d'estate i cittadini meno abbienti solevano festeggiare tale ricorrenza anche nelle campagne, chi poteva nelle proprie case di villeggiatura, chi non ne aveva si faceva ospitare dalle famiglie di congiunti anche lontani portando i doverosi omaggi e doni.

Astenersi dalla festa era giudicato riprovevole verso i congiunti e verso i Lares tutelari che di certo si sarebbero vendicati. Ovviamente durante la festa era d'obbligo il vino, con cui si facevano i rituali 7 brindisi usando un unico bicchiere che doveva essere bevuto interamente al termine dei sette brindisi. Si dice che la ritualità dei sette brindisi massonici all'Agape dei solstizi provenga da questo antico brindisi romano. 

Dopo i sette brindisi rituali, per conservare il numero sacro si faceva una pausa offrendo dei dolci che si caratteristici  della festa dei Lares (secondo alcuni autori sembra aromatizzati al rosmarino sacro ai morti), si passava al brindisi finale in onore dei Lares Augusti per il bene di tutto l'Impero Romano, fieri tutti di appartenere ad un popolo così glorioso, potente e amato dagli Dei.

VILLA DI NOHEDA (Spagna)

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La villa romana di Noheda è un sito archeologico che si trova in Spagna, a poca distanza dal piccolo centro di Noheda vicino a Cuenca. Il complesso è costituito dai resti di un'antica fattoria agricola di epoca tardo romana, che si distingue soprattutto per la sontuosità della casa principale, i cui pavimenti sono decorati con ricchi mosaici che sono stati conservati in uno stato eccellente fino ad oggi.

"Il giacimento della Villa Romana di noheda, grande protagonista al numero 167 della prestigiosa rivista Historia National Geographic. Il post dedica sei pagine a tutto colore con il titolo 'la meraviglia del bacino romano : il mosaico di noheda', dove si può ammirare il magnifico mosaico di 291 mq."

Sebbene sia stata scoperta durante il lavoro agricolo nella zona negli anni ottanta, la villa romana di Noheda non è stata scavata correttamente e sistematicamente fino al 2005, quando iniziò la prima campagna di studio del sito. Da allora, e tenendo conto della ricchezza dei mosaici che contiene, le varie amministrazioni si sono poste l'obiettivo di proteggere il monumento e renderlo visitabile per i turisti.

(INGRANDIBILE)
Tuttavia, all'inizio del 2016 questi mosaici sono ancora nascosti alla vista. La ragione non è altro che il confronto tra le diverse amministrazioni per vedere chi è responsabile del finanziamento della loro conservazione e assumersi la responsabilità delle loro cure. 

I capi del Consiglio provinciale di Cuenca dichiarano di aver fatto tutto ciò che è in loro potere, avendo completato la costruzione dell'edificio che coprirà e proteggerà i mosaici del tempo inclemente, e accusa il Consiglio di Castilla La Mancha di aver bloccato la apertura del sito al pubblico. 

Come affermano dalla Diputación, stanno aspettando che il Consiglio dia loro il permesso di iniziare un corso di restauro che permetta di recuperare parte del deposito, qualcosa che il Board nega in modo categorico. Il governo regionale, nega a sua volta. 

Chi è responsabile? Indipendentemente da chi è la colpa di questo ritardo, la verità è che nel caso dei mosaici di Noheda ci troviamo di fronte a un confronto tra due amministrazioni controllate da due partiti politici di diverso segno che usano la cultura come parte della sua campagna per screditare del rivale. Mentre questo accade, i mosaici languiscono senza che gli amanti della cultura classica possano godersi la loro contemplazione.



CASTILLA - LA MANCHA APRIRA'

Castilla-La Mancha aprirà al pubblico la tenuta di un immensa villa che comprende il più grande mosaico figurativo del mondo e una collezione di 500 pezzi di marmo.

C'era una volta un uomo immensamente ricco, così ricco che nel IV secolo si faceva portare il vino dalla Siria, a 50000 km di distanza, perché i vini della terra in cui viveva non erano di suo gradimento. Era così potente che il villaggio in cui viveva e faceva affari (un insieme di edifici) occupava circa 10 ettari. Solo il salotto della sua casa ( triclinium ) misurava quasi 300 mq ed era decorato con mosaici degni del palazzo di un imperatore.

"Quell'uomo esisteva", spiega Miguel Ángel Valero, professore di storia antica all'Università di Castilla-La Mancha. Non si sa ancora come è stato chiamato, ma prima o poi lo sapremo", dice Valero, che ha scavato le sue impressionanti proprietà per un decennio - lo ha già fatto nel 5% del totale - nell'attuale provincia di Cuenca, che sarà presto visitata.

(INGRANDIBILE)
Qualcosa più di un decennio fa, un trattore ha colpito un terreno molto duro (noto da sempre come El Pedregal o Cuesta de los Herreros) a Villar de Domingo García. Quella parte del comune ricevette quei nomi perché i vicini non smisero di trovare grandi conci di pietra e oggetti metallici di cui non conoscevano la provenienza.

Ora il Consiglio delle Comunità di Castilla-La Mancha aprirà il sito, chiamato Villa de Noheda, nella città di Villar de Domingo García di 218 abitanti, e renderà pubblici gli spettacolari risultati della ricerca: il più grande set scultoreo in marmo della Hispania romana, con mezzo migliaio di grandi frammenti e il più grande mosaico figurativo dell'Impero.

Il sindaco della città, Javier Parrilla (PP), vuole che la sua apertura coincida con i nuovi lavori archeologici estivi, dove è previsto, tra le altre attività, di iniziare lo scavo della sala di ricevimento (auditorium) del villa, "normalmente più grande del triclinio " , spiega Valero. Naturalmente, quest'area nasconde anche il proprio mosaico e centinaia di segreti.

"Quando l'aratro aprì la terra, centinaia di piccole pietre colorate tornarono alla luce. Facevano parte delle tessere che componevano i mosaici. I servizi archeologici iniziarono gli scavi poiché in una mappa di Alonso de la Cruz (1554), che è conservata nel monastero dell'Escorial, si chiama il luogo Villar de la Vila e nel 1897 Francisco de Coello già descrisse l'esistenza di alcune rovine Romane, con tessere, nella frazione di Noheda".

La realtà ha però superato l'immaginazione. Noheda mostra il tentativo di trasmettere un messaggio di alto valore ideologico e propagandistico: il potere di un proprietario terriero ( dominus ) che garantiva stabilità economica e sociale alla comunità (ci è riuscito a tutt'oggi, tutto il mondo ha il fiato sospeso su questa villa.)


Ha costruito un gigantesco complesso residenziale che combinava i concetti di "tempo libero e affari" in una vasta area di terra (fondo). Infatti, "questi gruppi di sfruttamento agricolo sono chiamati città a rure (città in campagna)", ricorda il professore.

Il fondo - che occupava 80 kmq - consisteva in terreni agricoli (ager), pascoli per il bestiame (saltus) e una zona montuosa (silva) da cui si otteneva il legno. Il villaggio era situato in un punto strategico  con sufficienti risorse idriche, riparato dai venti del nord e vicino a un canale di comunicazione. Nel caso di Noheda, era sufficientemente lontana dalla strada romana per evitare di essere scoperta da visite indesiderate o aggredita da legioni affamate.

(INGRANDIBILE)
I quadri che decorano le pareti delle ville romane, i mosaici dei pavimenti, le sculture e altri elementi che decorano questi spazi hanno un senso. In Noheda intendono il possesso della massima ricchezza. Gli specialisti non trovano una risposta a come tale accumulo di opulenza sia stato possibile: sono stati rilevati più di 30 tipi di marmi portati da tutto il mondo conosciuto all'epoca.

La costruzione occupava 10 ettari e solo il triclinium dell'edificio, 291 mq.

"Potrebbe essere che il dominus era imparentato con l'imperatore, a quel tempo Teodosio, ma ancora non lo sappiamo, ma ciò che è chiaro è che apparteneva all'alta aristocrazia", ​​spiega Valero.

Le dimensioni sono tali che il mosaico del triclinio è il più grande tipo di mosaico figurativo finora conosciuto. Le misure di questa stanza sono superate solo da quella di Cercadilla (Córdoba), anche se questa manca di mosaico. 

È paragonabile - sebbene il Noheda sia più grande di 20 mq - alla famosa villa siciliana del Casale, in Piazza Armerina (270 metri quadri). Il pavimento era composto da un'area centrale, divisa in sei pannelli con scene di tema mitologico e allegorico, in cui sono esposte figure enormi, come Athena, che misura 2,18 m. Il numero di tessere usato è "non numerabile". 


In ogni quadrato di 25 per 25 centimetri veniva utilizzata una media di 1.243 di questi piccoli pezzi, alcuni di millimetri per arrivare a dare movimento o ombre alle figure.

Gli archeologi considerano, in virtù della differenza nel numero di pezzi usati in ogni parte del mosaico, che non c'era un "solus pictor imaginarius", ma diversi. Hanno anche scoperto che sotto alcune aree del grande mosaico è nascosto un altro con motivi diversi. 

"È come se al proprietario della villa non piacesse un primo risultato e ne ordinasse uno diverso da completare. Il denaro non sarebbe stato un problema", scherza Miguel Ángel Valero e, al centro della stanza, una fontana ornamentale le cui canalizzazioni sono preservate.

E cosa rappresentano le scene? Gli specialisti elencano il mito di Enómao, Pélope e Hipodamia, due Pantomima e il Rapimento di Elena, il corteggiamento dionisiaco e Thiasos marino.

Di tutta la superficie costruita è stata scavata solo una parte minima.
"In quello spazio, oltre all'incredibile mosaico, abbiamo trovato oltre 550 grandi frammenti di sculture, tutti realizzati in marmo importato da Oriente e Carrara [Italia]. È il più grande gruppo scultoreo di tutta la Spagna, comprese figure di Dioniso, Venere o Dioscuri."


E perché è scomparso ed è stato dimenticato? Con la caduta dell'impero romano, tutta la Hispania subì una rapida cristianizzazione. I nuovi abitanti usavano le stanze del villaggio come luogo in cui vivere. Le sculture pagane furono distrutte e gettate in una discarica. Alcuni di questi erano usati per fare polvere di marmo.

Ma molti sono sopravvissuti. Alcuni sono già stati recuperati e nella mostra Noheda è possibile vedere l'immagine del potere, nella capitale della provincia.

"Ora dobbiamo essere in grado di mostrare questo deposito", afferma il sindaco di Villar de Domingo García. "Tutto è quasi pronto per l'apertura. L'idea è che i visitatori possano godere di questo, mentre vedono come lavorano gli archeologi ", aggiunge Javier Parrilla.

Infatti, uno degli obiettivi dell'inaugurazione è quello di far visitare oltre alla villa romana anche il comune a cui appartiene e di non spostarsi nella vicina e sempre attraente Cuenca.
Il Consiglio comunale e gli specialisti che lavorano nello scavo hanno dato corsi e svolto attività con i vicini per coinvolgerli in quella che potrebbe essere la loro grande attrazione turistica e culturale. 


"Vorremmo averli per tutto, anche per insegnare", dice Valero, anche se Parrilla ammette che l'assunzione "è molto difficile a causa di problemi amministrativi". 
"Mi piacerebbe", lamenta il sindaco, "ma la legislazione ...".

Fonti del governo regionale hanno confermato a EL PAÍS che l'apertura "sarà il più presto possibile". "È qualcosa di unico al mondo. Quando mostro le immagini nei congressi internazionali [ha tenuto conferenze in tutto il mondo], gli specialisti di altri paesi sono sbalorditi. E che il meglio deve ancora venire, perché abbiamo solo scavato una piccola parte", conclude Miguel Ángel Valero.

Le Fonti del governo regionale, commentiamo noi, non sono chiare: cosa vuol dire che l'apertura "sarà il più presto possibile?" Finora il più presto possibile ha significato MAI. Noi italiani conosciamo bene questa "Corruptissima re publica plurimae leges" che significa "moltissime sono le leggi quando lo Stato è corrotto" ( Tacito - Annales, Libro III, 27) e ci dispiace davvero per i nostri fratelli spagnoli. Si sa che questa marea di leggi sono dovute non al bene comune ma agli interessi dei singoli, le leggi "ad personam", che creano alla fine un invalicabile immobilismo.

Sul fatto che il mosaico sia più grande di quello della villa del Casale, teniamo a precisare che il paragone è su una stanza, perchè la Villa del Casale occupa oltre 3500 mq di mosaici, Noheda non è ancora stato stimato con certezza. Resta comunque un importantissimo capolavoro.



II REGIO AUGUSTEA - APULIA ET CALABRIA

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APULIA

STRABONE 
Geografia VI.1.1-15

"La costa che viene dopo la Lucania, fino allo stretto di Sicilia e per una distanza 1350 stadi è occupata dai Bretti. Secondo Antioco, nel suo trattato " Sull'Italia", questo territorio che si chiamava Italia, prima si chiamava Enotria.

Ed egli assegna come suoi confini, sul mare Tirreno, lo stesso confine che io ho assegnato al paese dei Bruzi il fiume Lao e sul mare Siciliano (Jonio) Metaponto. Ma escludendo il territorio dei tarantini, confinante con Metaponto, che egli colloca fuori dall'Italia e chiama i suoi abitanti Japigi. Ed in un tempo più antico, secondo lui, si potevano chiamare Italiani ed Enotri solo quelle genti che vivevano in questo lato dell'istmo nel paese che giunge fino allo stretto di Sicilia.

Lo stesso istmo, largo 160 stadi, si trova fra due golfi l'Hipponiate (che Antioco chiama Nepetino) e lo Scylletico. Il percorso lungo la costa intorno al paese compreso fra l'istmo e lo stretto è 2000 stadi. Ma in seguito, egli dice, i nomi di Italia ed Enotria vennero ulteriormente estesi oltre il territorio di Metaponto e quello di Siri, fino a comprendere, i Choni, una tribù Enotria ben governata, il cui territorio venne chiamato Conia.

Antioco parla in maniera semplice ed arcaica, senza fare alcuna distinzione fra Lucani e Brettii. In primo luogo, la Lucania è situata fra la costa tirrenica e quella del Mar di Sicilia, sulla prima si estende fra i fiumi Sele e Lao, sulla seconda fra Metaponto e Turi; in secondo luogo, sul continente, dal territorio dei Sanniti fino all' istmo che si estende da Thurio a Cerilli (una città vicino a Lao) l'istmo largo 300 stadi.

Ma i Brettii sono situati al di la dei Lucani, e questa penisola include un'altra penisola che ha un istmo che si estende dal golfo di Scylletium fino al golfo Hipponiate. Il nome della tribù fu dato loro dai Lucani, infatti i lucani chiamano tutti i ribelli Brettii. I Brettii si ribellarono, così si dice, poiché prima essi pascevano gli armenti dei Lucani, e poi per l'indulgenza dei loro padroni, cominciarono ad agire come uomini liberi, quando Dione fece la sua spedizione contro Dionisio, fece sollevare tutti questi popoli l'uno contro l'altro. Questo è quanto si può dire in generale dei Lucani e dei Bretti.

La città dopo Lao che appartiene ai Brettii, si chiamava Temesa, sebbene oggi la chiamino Tempsa; venne fondata dagli Ausoni, ma in seguito fu colonizzata dagli Etoli guidati da Toante, ma gli Etoli vennero scacciati dai Brettii, che a loro volta soccombettero prima ad Annibale e poi ai romani. Vicino a Temesa vi era un Heroon consacrato a Polite, uno dei compagni di Ulisse, circondato da olivi selvatici, che fu assassinato a tradimento dai barbari, e perciò divenne estremamente risentito contro il paese che, su consiglio di un'oracolo, gli abitanti del circondario si sottomisero all'usanza di offrirgli un tributo, e da ciò nacque il motto popolare nei confronti degli ingrati di cui si dice che "L'eroe di Temesa grava su di loro".

Ma quando i Locresi Epizefiri presero la città, si racconta che, il pugilatore Eutimo, si scontrò con lo spirito di Polite e dopo averlo battuto liberò Temesa dal tributo. Dicono che Omero ha menzionato Temesa, non Tamaso in Cipro, quando disse " a Temesa, alla ricerca del rame". Infatti miniere di rame sono state viste nei dintorni, ma oggi sono state abbandonate. Vicino Temesa c'è Terina, che fu distrutta da Annibale, poichè non poteva difenderla quando si era rifugiato nel Bruzio.

Quindi viene Consentia, la metropoli dei Brettii e poco al disopra la città di Pandosia, una potente fortezza, presso cui venne ucciso Alessandro il Molosso. Anche lui venne ingannato dall'oracolo di Dodona, che lo aveva avvertito di guardarsi da Acheronte e da Pandosia; poiché luoghi con questi nomi si trovano anche in Tesprozia, egli venne a cercare la sua fine qui nel Bruzio. La fortezza di Pandosia è sita su tre colline, e vicino le scorre il fiume Acheronte.

Vi fu anche un altro oracolo che trasse in inganno Alessandro il Molosso : " O Pandosia dalle tre colline, un giorno ucciderai molta gente" perciò egli pensò che l'oracolo si riferisse alla distruzione dei nemici, e non della sua stessa gente. Si dice anche che Pandosia sia stata un tempo sede del Re degli Enotri. Dopo Consentia viene Hipponio, fondazione dei Locresi, inseguito venne conquistata dai Brettii ma poi la presero i romani che mutarono il suo nome in Vibo Valentia.

(INGRANDIBILE)
Poiche tutta l'area circostante Hipponio è coperta da praterie fiorite, la gente crede che Core venisse qui dalla Sicilia a raccogliere fiori, e che da ciò deriva l'usanza delle donne di Hipponio di raccogliere fiori ed intrecciarli in ghirlande per indossarle nei giorni di festa e si reputa disdicevole indossare ghirlande comprate. Hipponio ha anche un porto, che venne costruito molto tempo fa da Agatocle, il tiranno dei Sicelioti, quando conquistò la città.

Quindi si naviga verso il Porto di Ercole, che è la punta d'italia sullo stretto, dove si comincia a girare verso oriente. In questo viaggio si passa Medma, una città dei già nominati Locresi, che ha il nome di una grande sorgente e ha pure un porto nelle vicinanze chiamato Emporion.

Lì vicino è il fiume Metauro e un punto d'approdo dallo stesso nome. Al largo di questa costa vi sono le isole Lipari, ad una distanza di circa 200 stadi dallo stretto. Secondo alcuni sono le isole di Eolo, di cui fa menzione il poeta nell'Odissea. Sono sette e sono tutte in vista sia della Sicilia che della costa presso Medma, ma di queste parleremo nella descrizione della Sicilia.

Dopo il fiume Metauro viene un'altro un secondo Metauro, poco dopo questo fiume viene il promontorio Scylleum, in posizione elevata, che forma una penisola con un piccolo istmo basso che offre approdo su entrambe i lati. Questo istmo venne fortificato da Anassilao, il tiranno di Reggio, contro i Tirreni, costruendovi una stazione navale, impedendo così ai pirati di attraversare lo stretto.

Nelle vicinanze si trova il promontorio Caenys, che dista da Medma 250 stadi, ed è l'ultima punta sullo stretto opposta al capo siciliano Peloro. Capo Peloro è uno dei 3 capi che fanno l'isola triangolare, ed è rivolto verso il levante estivo, così come il Capo Caenys è rivolto verso ponente, cosicché i due promontorii appaiono in qualche modo contrapposti. Il tratto di mare fra il Caenys e il promontorio Poseidonio o "Colonna Reggina" e di circa 6 stadi, poco di più misura lo stesso stretto nel suo punto più breve.

Dalla Colonna fino a Reggio la distanza è di 100 stadi, qui Lo stretto comincia ad allargarsi e si procede verso Est e verso il mare aperto che è chiamato Mare Siciliano.
Reggio fu fondata dai Calcidiesi che, si dice, dedicarono ad Apollo, un uomo ogni 10 calcidiesi a causa di una carestia, ma poi secondo un oracolo, emigrarono da Delphi e si vennero a stabilire qui, portando con loro anche altri dal loro paese.
Ma secondo Antioco i Calcidiesi vennero chiamati dagli Zanclei che diedero loro come ecista Antimnesto. A questa colonia appartenevano anche esuli Messeni del Peloponneso che erano stati battuti dalla fazione opposta. Questi uomini non vollero riparare l'offesa recata ai Lacedemoni per l'oltraggio delle vergini avvenuto a Limne, ove si erano recate per officiare un rito religioso, ed avevano anche ucciso coloro che erano intervenuti in loro aiuto.

Cosi gli esuli dopo essersi rifugiati a Mecistos, mandarono una delegazione all'oracolo del Dio, lamentandosi con Apollo e Artemide di dover subire tale sventura per essere intervenuti a difendere la loro causa e chiedendo come potessero salvarsi dalla rovina. Apollo ordinò loro di andare con i Calcidiesi a Reggio e di onorare la sorella; essi infatti non erano stati maledetti, ma invece era stata loro offerta la salvezza, poiché non sarebbero periti insieme alla loro patria che a breve sarebbe stata distrutta dagli Spartani.

Essi obbedirono; e perciò i governanti dei Reggini fino ad Anassilao appartennero sempre alla stirpe dei Messeni. Secondo Antioco tutta questa regione era stata abitata da Siculi e Morgeti nell'antichità, che successivamente espulsi dagli Enotri, passarono in Sicilia. Secondo alcuni, Morgantium prese il nome dai Morgeti di Reggio.

La città di Reggio divenne poi molto potente ed ebbe molte dipendenze nelle sue vicinanze, ed è sempre stato un potente avamposto fortificato opposto all'isola, non solo nei tempi antichi ma anche ai nostri giorni, quando Sesto Pompeo indusse la Sicilia a ribellarsi. La città fu chiamata Reggio, secondo quanto riporta Eschilo, a causa della calamità che aveva colpito questa regione: infatti la Sicilia si staccò dal continente a causa di un violento terremoto, "da questo fatto appunto deriva il nome di Reggio. Come prova di ciò adducono i fenomeni che si verificano sull'Etna e in altre parti della Sicilia, come a Lipari e nelle isole vicine, e anche nelle isole Pithecusae e lungo tutta la costa adiacente, non è irragionevole supporre che tale catastrofe naturale abbia avuto luogo.

Attualmente la terra intorno allo stretto, si dice, non è spesso interessata da terremoti, perchè qui le fratture, attraverso cui si sollevano il fuoco e le masse incandescenti vengono eruttate, sono aperte; una volta però il fuoco e i vapori che erano costretti sotto terra, producevano violenti terremoti, poichè i passaggi verso la superficie erano ostruiti, e le terre che erano continuamente in movimento, vennero lacerate ed il mare penetrò in entrambe i lati, sia qui che fra le altre isole di quella regione.

Infatti Procida e Pithecusa sono frammenti separatisi dal continente, ed anche Capri, Licosa le Sirene e le Enotridi. Poi vi sono isole che si sono sollevate dal mare, cosa che avviene anche oggi in molti luoghi; le isole che si trovano in alto mare e più probabile che siano emerse dal fondo, mentre e più ragionevole supporre quelle che stanno al largo dei promontori e sono separate da brevi tratti di mare dal continente si siano distaccate da esso.

SCULTURA DAUNIA
In ogni caso, sia che il nome di Reggio sia stato dato per la regione suddetta o piuttosto derivi dalla propria fama, per cui i Sanniti l'avrebbero denominata dalla parola latina che significa "città regale" (poichè gli antenati dei Sanniti godevano della cittadinanza romana e usavano prevalentemente la lingua latina), la questione è aperta ad ulteriori approfondimenti per svelare la verità. Comunque questa famosa città, che non solo aveva fondato molte colonie, ma aveva dato i natali a molti uomini illustri, sia nella politica che nella cultura, venne distrutta da Dionisio a causa del fatto che avendo egli chiesto in sposa un fanciulla, i Reggini gli avevano offerto la figlia di un boia.

Ma suo figlio ricostruì una parte della vecchia città e la chiamo Phoebia. All'epoca di Pirro la guarnigione dei Campani ruppe la tregua e massacrò la maggior parte degli abitanti e poco prima della guerra Marsica la città venne distrutta in buona parte da un terremoto.

Ma Cesare Augusto dopo aver scacciato Pompeo dalla Sicilia, vedendo che la città era scarsamente popolata, vi lasciò una parte degli uomini della sua armata come coloni, e la città venne ripopolata.

Quando si salpa da Reggio verso Est, a 50 stadi di distanza si giunge a capo Leucopetra (così detto per il suo colore) ove, si ritiene, termini l'Appennino. Quindi viene l' Heracleium, che è l'ultimo capo dell'Italia che si protende verso sud, poichè chi lo doppia naviga sospinto dal Libeccio fino al promontorio Japigio, poi la rotta inclina sempre più verso nord-ovest,in direzione del Golfo ionio. Dopo l' Eracleo viene un promontorio che appartiene a Locri, chiamato Zefireo, il suo porto è esposto ai venti occidentali, da cui il nome. poi viene la città di Locri Epizefiri, una colonia dei locresi che vivevano sul golfo di Crisa, che furono qui condotti da Evante, poco dopo la fondazione di Crotone e Siracusa.

Eforo erra nell'attribuire la colonia ai Locresi Opunzii. Comunque essi vissero solo 3 o 4 anni presso lo Zefirio, e poi si spostarono nell'attuale sito, con la cooperazione dei Siracusani. Presso il promontorio Zefirio vi è una fonte detta Locria, ove i Locresi posero il loro primo insediamento.

La distanza fra Reggio e Locri è di 600 stadi, la città sorge sul pendio di un colle chiamato Epopis.  Si crede che i Locresi Epizefiri siano stati i primi a darsi delle leggi scritte. dopo che ebbero vissuto sotto buone leggi per un lunghissimo tempo, Dionisio, che era stato esiliato dal territorio dei Siracusani, attuò contro di loro ogni genere di sopruso. Infatti si insinuava nelle camere nuziali delle promesse spose dopo che si erano abbigliate per il matrimonio e giaceva con loro prima del matrimonio, inoltre riuniva ai suoi festini le ragazze più belle in età da marito, e le costringeva a correre a piedi nudi per afferrare dei piccioni che venivano lasciati liberi senza che fossero stati loro tarpate le ali, alle volte, per maggior perversione, pretendeva che calzassero saldali disuguali (uno più alto, l'altro più basso) e così inseguissero le colombe.

Ma comunque infine pagò a caro prezzo tutti i suoi soprusi quando ritornò in Sicilia per riprendere il potere. Infatti i Locresi scacciata la guarnigione, si resero indipendenti, catturarono la moglie e le sue due figlie ed il più giovane dei suoi due figli (che era già adolescente) poiché l'altro maggiore, che si chiamava Apollocrate, stava combattendo col padre in Sicilia.
Sebbene lo stesso Dionisio e i suoi alleati Tarantini, facessero molte richieste ai locresi affinchè liberassero i prigionieri a qualunque condizione, essi si rifiutarono di liberarli sopportando l'assedio e la devastazione del loro territorio. Ma questi riversarono tutta la loro indignazione sulle sue figlie, prima le fecero prostituire quindi le strangolarono e poi dopo averne bruciato i corpi ne gettarono le ceneri in mare.

Eforo menzionando la legislazione scritta dei Locresi che fu fissata da Zeleuco traendo norme dall'ordinamento dei Cretesi, degli spartani e degli Aeropagiti, dice che Zaleuco fu tra i primi ad introdurre la seguente innovazione - prima del suo tempo si lasciava ai giudici la scelta di determinare la pena per ciascun crimine, egli le definì nella stessa legge, poiché egli riteneva che non sempre le opinioni dei giudici erano sempre le stesse per lo stesso crimine, come dovrebbero in realtà essere.

Eforo continua lodando l'operato di Zaleuco per aver semplificato le normative sui contratti. E dice anche che i Thurii volendo col tempo mostrarsi più sottili dei Locresi sulla legislazione, divennero certamente più famosi, ma moralmente inferiori; infatti egli aggiunge, non hanno buone leggi coloro che prendono in considerazione tutti i possibili cavilli che gli accusatori di professione possano immaginare, ma coloro che rimangono fedeli ad alcuni semplici principi.

VASO DAUNIO DI CANOSA
Lo stesso Platone osservò che li dove ci sono moltissime leggi ci sono anche molti processi e pratiche corrotte, cosi come ove vi sono molti medici è probabile che vi siano anche molte malattie. Il fiume Alice, che segna il confine fra i territorio Reggino e la Locride, scorre attraverso una profonda gola, e lì accade un fatto particolare riguardante le cicale: mentre quelle sul lato Locrese cantano, le altre restano mute. La causa di ciò, si pensa, che essendo le seconde in un luogo ombreggiato abbiano le membrane umide e non riescano a distenderle, le altre stando nella zona assolata avrebbero le membrane ben asciutte e simili al corno, cosicché sono atte ad emettere suoni. Un tempo era esposta a Locri la statua del citarista Eunomo con una cicala sulla cetra.

Timeo racconta che Eunomo e Aristone di Reggio si stavano sfidando nei giochi Pitici, Aristone pregava quelli di Delphi affinchè lo favorissero poiché i suoi antenati erano stati al servizio del Dio e che da Delphi erano poi partiti per andare a fondare la colonia in Italia, mentre Eunomo sosteneva che i reggini non avevano nemmeno il diritto di partecipare a tali gare poiché da loro nemmeno le cicale avevano la voce, che pure sono gli animali più forniti di voce, tuttavia Aristone ebbe il favore del pubblico ed aveva speranza di vincere, ma alla fine vinse Eunomo il quale innalzò in patria la summenzionata statua.

Infatti durante la tensone gli si ruppe una corda della cetra, allora una cicala venne a posarsi sullo strumento e ne sostituì il suono mancante. L'entroterra di queste città è occupato dai Brettii, qui si trovano la città di Mamertium e la foresta della Sila che produce la migliore pece detta "Brettia", è ricca di legno e acque e si estende per 700 stadi, dopo Locri viene il Sagra, un fiume che ha un nome femminile, sulle sue sponde vi sono gli altari dei Dioscuri, nei luoghi 10,000 Locresi e Reggini si scontrarono con 130,000 crotoniati riportando un'incredibile vittoria, da tale avvenimento si dice nasca il proverbio, riferito agli increduli : " Più vero del risultato della Sagra". ed alcuni aggiungono la leggenda che la notizia dell'accaduto fu annunciato nello stesso giorno ad Olympia ove si stavano svolgendo i giochi e che essa, diffusa tanto celermente, risultò vera.

Dicono anche che tale disfatta fu la ragione per la quale i Crotoniati non poterono perdurare più a lungo a causa del gran numero di caduti in battaglia. Dopo la Sagra viene la città fondata dagli Achei, Caulonia, anticamente chiamata Aulonia, per la valle che si trova di fronte ad essa. comunque adesso è disabitata poiché i coloni vennero scacciati dai barbari che li spinsero in Sicilia dove fondarono una nuova Caulonia.

Quindi viene Scylletium, una colonia degli Ateniesi che erano con Menesteo (adesso detto Scylacium). Sebbene la tennero i Crotoniati, Dionisio la incluse nei confini dei Locresi. Il Golfo Scylletico, che insieme al golfo Hipponiate forma il summenzionato Istmo, prende nome dalla città. Dionisio cominciò anche a costruire un muro attraverso l'istmo quando mosse guerra ai Lucani, col pretesto di voler proteggere i popoli all'interno dell'istmo dai barbari esterni, ma in realtà voleva rompere l'alleanza che le colonie greche avevano fra di loro, per poter governare a proprio piacere su quelli che erano dentro l'istmo, ma quelli che erano all'esterno intervennero decisamente impedendo il suo progetto.

Dopo Scylletium viene il territorio dei Crotoniati, e i tre promontori dei Japigi; e dopo questi, il Lacinium, un tempio di Hera, che una volta era ricco e pieno di offerte. circa le distanze via mare, gli scrittori non sono abbastanza chiari, eccetto che, in via generale, Polibio dà la distanza dallo stretto al Lacinio in 2300 stadi, e quindi la distanza fino a Capo Japigia di 700, questo punto è chiamato la bocca del golfo Tarantino. Come per lo stesso golfo, la distanza intorno ad esso via mare è di lunghezza considerevole, 240 miglia come dice il Corografo, ma Artemidoro dice 380 poiché è un uomo ben informato, sebbene sottostimi la reale ampiezza dell'imboccatura del golfo.

Il golfo è esposto al levante invernale ed inizia a Capo Lacinio, quindi doppiandolo, si giunge direttamente alle città Achee, che, tranne quella dei tarantini, non esistono più, ma a causa della loro fama sono ancora degne di essere ricordate. La prima città è Crotone, a 150 stadi dal lacino, e poi viene il fiume Esaro, un porto ed un'altro fiume, il Neto.

L'ANFITEATRO DI LECCE
Si dice che il Neto debba il suo nome a ciò che li accadde. Alcuni Achei che si erano dispersi dalla flotta troiana giunsero li e sbarcarono per esplorare la regione, e quando le donne troiane che viaggiavano con loro si diedero conto che le navi erano senza uomini, diedero fuoco alle imbarcazioni, poiché esse erano stanche di viaggiare, così gli uomini furono costretti a rimanere colà, anche perché si erano resi conto di quanto fosse fertile quella terra.
E in breve parecchi altri gruppi, della stessa stirpe, vi giunsero e li imitarono, e quindi sorsero molti insediamenti, molti dei quali assunsero nomi dai troiani; e anche un fiume, il Neto, assunse la sua denominazione dall'evento summenzionato (l'incendio delle navi). Secondo Antioco, il Dio ordinò agli Achei di fondare Crotone. Miscello partì per esplorare il luogo, ma quando vide che Sybari era già stata fondata presso il fiume omonimo, giudicò che fosse da preferire questa città; quindi tornò in patria per chiedere all'oracolo se non fosse meglio istallarsi in questa invece di fondare Crotone, e il Dio gli rispose ( si tenga presente che Miscello era gobbo) : "'O Miscello dal dorso corto, cercando altro oltre ciò che ti è predestinato, vai incontro alla tua rovina, perciò accetta di buon grado ciò che ti è offerto!" e Miscello ritornò e fondò Crotone, in compagnia di Archia, il fondatore di Siracusa, il quale poco dopo riprese il viaggio per andare a fondare Siracusa.

Come dice Eforo nei tempi antichi gli Japigi abitavano la regione di Crotone. E la città ebbe fama di coltivare e l'arte della guerra e l'atletica; in una olimpiade accadde che i sette atleti che primeggiarono nello stadio su tutti gli altri fossero tutti e sette crotoniati, per cui sembra ragionevole il detto : "l'ultimo dei crotoniati è il primo su tutti gli altri Greci", e ciò, si dice sia stata l'origine del proverbio "più salubre di Crotone", come se il luogo avesse qualcosa che favorisce la salute e la vigoria fisica, a giudicare dal numero dei suoi atleti.

Essa ha avuto un gran numero di vincitori Olimpici, sebbene poi non sopravvisse a lungo a causa della perdita di moltissimi uomini durante la battaglia del fiume Sagra. La sua fama si accrebbe per il gran numero dei suoi filosofi Pitagorici, e da Milone, che fu il più illustre dei suoi atleti, non che seguace di Pitagora, che trascorse un lungo periodo nella città. Si racconta che una volta, durante un banchetto a cui partecipavano i Pitagorici una colonna cominciò a cedere, allora Milone si sostitui ad essa permettendo ai presenti di mettersi in salvo riuscendo poi a salvarsi egli stesso.

Ma successivamente, è probabile che, l'eccessiva fiducia nei propri mezzi fu la causa della sua prematura morte, nel modo che alcuni raccontano. Mentre stava attraversando una fitta foresta, si allontanò molto dalla strada principale, trovandosi davanti un grosso tronco su cui erano piantati dei cunei, allora egli cercò di spezzare il tronco infilando mani e piedi nelle fenditure, ma la sua forza fu appena sufficiente a far cadere i cunei cosicchè le fessure si richiusero imprigionandolo come in una morsa, e cosi divenne cibo per le bestie selvatiche.

Dopo, ad una distanza di 200 stadi viene Sibari fondata dagli Achei e sita fra due fiumi, il Crati ed il Sibari. Venne fondata da Is di Elice. Nei primi tempi era tanto florida che il suo dominio si estendeva su 4 popoli vicini e dominava sopra 25 città, nella campagna contro i Crotoniati schierò 300,000 uomini e le sue abitazioni si estendevano per un raggio di 50 stadi intorno al Crati.

Comunque, a causa della loro opulenza e insolenza essi vennero privati di tutto nel volgere di 70 giorni dai crotoniati, che dopo aver preso la città la sommerse deviando il corso del fiume. in seguito i sopravvissuti, davvero pochi, si riunirono e la riedificarono, ma col tempo vennero distrutti dagli Ateniesi e da altri greci che erano giunti lì per abitarvi, ma vennero sottomessi al pari di schiavi e la città venne trasferita in un sito vicino e chiamata Thurio, dal nome di una fonte.

Le acque del fiume Sybaris rendono i cavalli che vi si abbeverano ombrosi perciò tutti gli armenti ne vengono tenuti lontani, mentre quelle del Crati rendono i capelli delle persone biondi o bianchi, e a parte ciò, curano molti malanni. Successivamente i Turini prosperarono per un lungo tempo, fino a che non vennero sottomessi dai Lucani, e quando i Tarantini si sostituirono ai lucani essi chiesero l'aiuto dei Romani, e i Romani vi inviarono coloni per aumentare la loro popolazione che si era molto ridotta, e cambiarono il nome della città in Copia.

Dopo Turio viene Lagaria, una fortezza fondata dal Focese Epeo, famosa per il suo vino Lagaritano, dolce e delicato tenuto in gran conto dai medici. Anche quello di Turio è uno dei vini più rinomati. Poi viene la città di Eraclea a breve distanza dal mare, e da due fiumi navigabili l' Aciris ed il Siris. Sul Siris vi era una città d'origine Troiana dallo stesso nome, ma in seguito quando i Tarantini stabilirono la colonia di Eraclea essa divenne il porto degli Eracleoti. Siris dista 25 stadi da Eraclea e 330 da Thurio. Gli scrittori adducono come prova dell'insediamento Troiano la presenza in quel luogo del simulacro ligneo di Athena Iliaca - che la leggenda dice che abbia chiuso gli occhi quando alcuni devoti supplici vennero catturati dagli Ioni che presero la città.

IL TEATRO DI LECCE
Questi Ioni erano giunti lì come coloni per sfuggire al dominio dei Lidi e presero con la forza la città che apparteneva ai Chonii e la chiamavano Polieum, e ancora oggi vi si può vedere il simulacro con gli occhi chiusi.
Già è difficile credere in questa favola che l'immagine abbia chiuso gli occhi per lo sdegno - come si racconta che accadde all'immagine a troia quando fu violata Cassandra - ma che anche la si possa vedere quando li chiude, ma ancor più difficile credere che tutte queste immagini siano state portate da Troia, non solo quella di Siris ma anche a Roma, a Lavinio, e a Luceria Athena viene chiamata Iliaca, poiché si pensa che sia stata portata da Ilio.

Inoltre in così tanti luoghi si attribuisce alle donne Troiane l'atto eroico che per quanto sia possibile e difficile da credere. Alcuni sostengono che Siris e Sybaris Theuthtantos (sul Teuthras ?? Traente) vennero fondate dai Rodii. Secondo Antioco, quando i Tarantini erano in guerra con i Turini che erano guidati da Cleandrida, un esule di Sparta, per il possesso del territorio di Siris, giunsero ad un compromesso e la occuparono congiuntamente, ma la colonia venne attribuita a Taranto, ma successivamente la colonia venne spostata e venne chiamata Eraclea.

Viene quindi Metaponto che è a 140 stadi dalla stazione navale di Eraclea. Si dice sia stata fondata dai Pilii che tornavano da Troia con Nestore, e si racconta che la loro agricoltura divenne così prospera che poterono dedicare a Delphi una messe d'oro. Gli storici a prova della fondazione dei Pilii l'istituzione del sacrificio espiatorio ai Neleidi, la città venne poi distrutta dai Sanniti.

Secondo Antioco, il luogo venne successivamente colonizzato da alcuni achei che erano stati chiamati dai Sibariti poiché era abbandonato; in realtà essi vennero chiamati a causa dell'odio che gli achei nutrivano nei confronti dei tarantini che li avevano cacciati dalla Laconia e per impedire che i loro odiati vicini occupassero quel luogo.

Quindi essendoci due città, delle quali Metaponto era più vicina a Taranto i nuovi arrivati furono convinti dai Sibariti ad occupare il sito di Metaponto e possedendo questo avrebbero anche Siris, mentre se avessero occupato la Siritide, avrebbero permesso l'inclusione del territorio di Metaponto a quello dei Tarantini, essendo quest'ultimo confinante col loro territorio.

Quando più tardi i Metapontini si scontrarono con i Tarantini e gli Enotri dell'interno si raggiunse un accordo per definire il confine fra la Japigia e l' Italia di allora. Qui viene localizzata la leggenda di Metaponto e quella della prigioniera Melanippe e di suo figlio Beoto. Secondo Antioco, la città di Metaponto si chiamava prima Metabon e solo inseguito il suo nome si modificò leggermente, ed inoltre che Melanippe non sia stata portata all'eroe Metabos ma a Dios, come è provato dal santuario dell'eroe Metabos, anche il poeta Asios, quando racconta di Beotodice che fu generato " dalla bella Melanippe nelle stanze di Dios" volendo dire che fu portata a Dios non a Metabos.

Ma come dice Eforo, il colonizzatore di Metaponto fu Daulio, tiranno di Crisa, nei pressi di Delfi. Un'altra storia racconta che che l' uomo che fu inviato dagli Achei a contribuire alla colonizzazione fosse Leucippo, e che avendo chiesto il permesso ai tarantini di sostare in quel luogo per la notte egli non lo restituì più, rispondendo alle loro proteste di giorno che lo aveva chiesto per la notte successiva e di notte che avesse diritto a passare lì anche il giorno successivo.

Dopo vengono Taranto e la Japigia, ma prima di descrivere questi luoghi, in accordo col mio scopo originale, darò una descrizione generale delle isola che stanno di fronte all'Italia; giacché di volta in volta ho già menzionato le isole vicine alle diverse tribù, così adesso che ho attraversato l'Enotria dall'inizio alla fine, che gli antichi chiamavano Italia, è giusto che conservi lo stesso ordine nell'attraversare la Sicilia e le isole introno ad essa.
In tutti i periodi ordinari, ed è vero, il loro governo era democratico, ma nei periodi di guerra veniva scelto un re dai magistrati in carica. Adesso sono Romani. "

Il territorio della Regio II Apulia et Calabria comprendeva l'attuale Puglia, parte della fascia adriatica del Molise, il settore nord-orientale dell'attuale Basilicata nonché l'area appenninica dell'Irpinia corrispondente all'attuale provincia di Avellino in Campania.

«Dopo aver descritto l'Italia antica fino a Metaponto, dobbiamo parlare delle regioni che la seguono. La prima è la Iapigia: i Greci la chiamano Messapia, gli indigeni la distinguono in Salento (la parte intorno al promontorio Iapigio) e Calabria. A nord di queste si trovano le popolazioni chiamate in greco Peucezi e Dauni, ma gli indigeni chiamano Apulia tutta la regione dopo la Calabria e Apuli la popolazione

La Regio II Apulia et Calabria in seguito alle riforme di Diocleziano fu trasformata in provincia; la sede del governatore (corrector Apuliae et Calabriae) era probabilmente a Canusium. Nell'età di Valentiniano I, tra il 28 marzo del 364 e il 24 agosto del 367, si documenta l'esistenza di un corrector (governatore) Apuliae et Calabriae a Luceria, dove vengono edificati un secretarium e di un tribunal, forse rifacimento di strutture preesistenti.

PONTE ROMANO DI CANOSA

GOVERNATORI

Ulpius Alenus (305-310)
(Vibonius ?) Caecilianus, due volte (prima del 326 o forse del 312)
Lucius Nonius Verus (forse per la seconda volta, 317-324)
Marco Aurelio Consio Quarto (stesso periodo di Nonius Verus)
Volusio Venusto (326-333)
Clodio Celsino Adelfio (? 333)
Attio Insteio Tertullo Populonio (prima del 359?)
Annius Antiochus (355-361)
[...]anus (364-367)
Anonimo (384?)
Flavius Sexio (379-394)
Anonimo (398-400/401)
Orontius (prima del 427-428)
Aelius Restitutianus (IV-V secolo)
Flavianus (?)
Furio Claudio Togio Quintillo (IV secolo)
Flavianus Cornelius Marcellinus (IV secolo)
Cassius Ruferius (V secolo)
Constantinus (492-496)



LE CITTA'

- Abellinum - (Atripalda/Avellino) -
Insediamento sannita degli Irpini che sorgeva nei pressi dell'odierna Atripalda, a pochi passi da Avellino, in Campania. Dopo le Guerre sannitiche venne assoggettata a Roma. Nella Guerra Civile tra Gaio Mario e Silla gli Irpini sostennero Mario, per cui Silla la rase al suolo. Nel 7 d.c. Augusto la incluse nella Regio II Apulia et Calabria chiamandola Livia Augusta in onore della moglie. Nel III secolo Alessandro Severo incluse nella colonia molti immigrati orientali sotto il titolo di Livia Augusta Alexandrina. I Longobardi nel 568 cacciarono da Abellinum la colonia romana che si trasferì nell'odierna Avellino.

- Aecae - (Troia) -
Prima di essere colonizzata dai Romani la città era conosciuta come Aika (latinizzato in Aecae), ma il ebbe un forte sviluppo solo in epoca imperiale quando venne attraversato dalla via Traiana nel tratto fra i borghi di Aequum Tuticum e Herdonia. 

TERME DI AECLANUM
- Aeclanum - (Mirabella Eclano) -
Città sannitica fondata alla fine del III sec a.c., in Irpinia, posto tra le valli dei fiumi Calore ed Ufita, in località Passo di Mirabella accessibile solo dalla via Appia, che l'attraversava da ovest a est.
Saccheggiata da Silla nell'89 a.c, divenne un municipium e nel 120, Adriano la resi colonia col nome di Aelia Augusta Aeclanum. Restano: le terme pubbliche, il mercato coperto (macellum), alcune abitazioni e botteghe., i resti delle mura, porte e torri di diversa grandezza.

- Aequum Tuticum - (Sant'Eleuterio) -
Fu un vicus romano presso Ariano Irpino, sull'altipiano di Sant'Eleuterio, e si sviluppa lungo un'antica strada romana la cui esistenza è attestata da alcuni cippi miliari del II secolo a.c. con l'iscrizione Marcus Aemilius Lepidus. Citato per la prima volta da Cicerone che, in una sua missiva a Tito Pomponio Attico, scrive proprio da Aequum Tuticum definendolo una "sosta obbligata verso l'Apulia" Il periodo di massimo splendore giunge però in epoca imperiale quando il borgo diventa anche il punto d'incrocio fra l'Appia Traiana e la via Herculea.

- Aletium - (Alezio) -
La città si sviluppò almeno dal VII secolo al VI secolo d.c. In epoca romano-imperiale ebbe diversi nomi: Aletia in Strabone, Aletium in Plinio il Vecchio, Aletion in Tolomeo, Baletium nella "Tavola Peutingeriana". Venne definita popolosa e fortunata, collegata com'era al vicino scalo marittimo di Gallipoli e attraversato da importanti vie di comunicazione. Si arricchì anche durante la dominazione romana sulla Messapia, soprattutto per la costruzione della via Traiana che collegava la città ed altri centri salentini a Roma. Secondo Plinio gli Aletini discendevano dagli Japigi, derivati dagli Osci popolo italico insediatosi in Campania tra il XI e VIII secolo a.c..

- Apenestae - (Vieste) -
Innumerevoli reperti archeologici testimoniano l'insediamento degli antichi Greci e dei Romani a Vieste. Dopo essere stata amministrata dai bizantini, venne dominata dai longobardi.

- Arpi, Argyrippa o Argos Hippium - (Arpinova) -
città daunia della antica Apulia, Annibale nel 215 a.c., dopo essere stato sconfitto a Nola, pose gli accampamenti invernali proprio nei pressi di Argos Hippium, che si era alleata a lui. L'anno seguente (214 a.c.), Annibale partì da Argos Hippium per tornare in Campania, passato di nuovo l'inverno ad Arpi ritornò sul monte Tifata nel territorio di Capua. Nel 194 a.c. Roma si vendicò su Arpi alla quale fu tolta la libertà, furono abbattute le mura, furono negati l'approdo marittimo a Siponto, le monete proprie e ogni altro diritto.

- Ausculum - (Ascoli Satriano) -
I suoi primi abitanti furono i Dauni, nell'XI secolo a.c. che si mescolarono con le popolazioni mediterranee. Nel 279 a.c. nei pressi della città avvenne la battaglia dei Romani contro Pirro, re dell'Epiro. Secondo Plutarco, «a uno che gli esternava la gioia per la vittoria, Pirro rispose che un'altra vittoria così e si sarebbe rovinato». Pirro svanì e Roma avanzò. Durante la II guerra punica (218-201 a.c.), la città restò alleata di Roma anche dopo la vittoria di Annibale a Canne. Durante la Guerra Sociale, Silla vi fondò la Colonia Militare Firmana, assegnandola ai veterani della Legio Firma, in località Giardino, vicino ad Ascoli.

- Azetium - (Rutigliano) -
Nel IV secolo a.c., messapi e peuceti si contrapposero alla città magno-greca di Taranto e si munirono
di un'imponente muraglia lunga 3450 metri, con doppio paramento con émplekton centrale di riempimento ( terra e pietre irregolari con cui si riempiva lo spazio tra i due paramenti verticali di un muro), a blocchi in opera poligonale assemblati a secco. Oggi la sua altezza varia fra i 4 ed i 6 m, mentre la profondità raggiunge i 5 m. Presenta alcuni avancorpi a pianta quadrata ed era intervallata da torri di vedetta. Conquistata da Roma, alla fine della guerra sociale ottenne la cittadinanza romana (90 - 88 a.c.). La città sarebbe stata quindi promossa al rango di municipium. 

- Barduli - (Barletta) -
Tra il IV e il III secolo a.c. fu lo scalo marittimo di Canusium, ricco di risorse naturali, con clima salubre, poiché lontano dalle acque stagnanti e paludose dei fiumi che scendevano a valle. Nel 216 a.c. nei pressi della vicina Canne, Annibale sconfisse i romani. La città, fino ad allora vissuta all'ombra della vicina Canosa, dopo la distruzione di Canne, nel 547, ricevette una prima ondata migratoria di superstiti cannesi; in seguito all'arrivo dei Longobardi, nel 586 accolse un secondo esodo, questa volta degli stessi canosini, che si stabilirono lungo le principali direttrici di traffico verso i paesi limitrofi.

FONTANA GRECA GALLIPOLI
- Barium - (Bari) -
Entrata a far parte del dominio romano, nel III secolo a.c. come municipium, Barium si sviluppò in seguito alla costruzione della via Traiana. Era dotata di un poderoso castello, una zecca, un pantheon per le proprie divinità pagane e molto probabilmente di un teatro. 

- Brundisium - (Brindisi) -
Nel 267 a.c. Brindisi fu conquistata dai Romani e divenne un importantissimo scalo per la Grecia e l'Oriente, quindi divenne municipio nell'83 a.c. e ai brindisini fu riconosciuta la cittadinanza romana (240 a.c.). La città conobbe durante il periodo romano la sua età aurea e godette di importanti collegamenti stradali con Roma attraverso le consolari Appia e la via Traiana.

- Butuntum - (Bitonto) -
Sarebbe stata fondata dal re illirico Botone, fu un importante centro peuceta. Dal III secolo a.c., la lega peuceta si sciolse, si sganciò da Taranto e si dotò di una propria zecca. Conquistata da Roma divenne municipio, mantenendo il culto riservato a Minerva, Dea protettrice della città. Venne attraversata dalla via Traiana che permise ulteriori sviluppi commerciali.

- Caelia  - (Ceglie del Campo) -
Un tempo era un centro arcaico, oggi è un quartiere nella periferia sud della città di Bari, a circa 6 km dal centro. Anticamente venne fondata dai Peuceti e poi passata ai Greci, e poi ai Romani.

- Caelia - (Ceglie Messapica) -
nell'odierno Salento, legata all'arrivo in Italia dei Pelasgi, al quale è attribuita la costruzione di manufatti megalitici noti con il nome di specchie, realizzati con la sovrapposizione a secco di lastre calcaree provenienti dallo spietramento a mano dei soprasuoli murgiani e salentini.
In seguito all'arrivo di coloni greci, intorno al 700 a.c., la città si chiamò Kailìa. Il nucleo urbano, esteso ai piedi di un colle, era difeso da fortificazioni e presso la città sarebbero sorti santuari extraurbani dedicati ad Apollo (sovrapposto dalla chiesa di San Rocco), a Venere (sulla collina di Montevicoli) e alla Dea Latona madre di Apollo e Diana, sovrapposto dalla Basilica di Sant'Anna
La città fu punto di avvistamento del popolo dei Messapi che, caddero sotto il dominio tarantino. In epoca romana la città era ormai decaduta.

- Callipolis - (Gallipoli) -
Sarebbe stata edificata dai Candici, cioè gli abitanti di Candia, l’antica Heraklion cretese, secondo altri da coloni siculi in fuga dal tiranno di Siracusa Dionisio il Vecchio, agli inizi del IV secolo a.c. oggi si pensa do origine messapica. Si possono vedere ancora oggi gli antichi cardo e decumano che confluiscono nella piazza corrispondente alla parte più alta della città, dove sorgeva l'agorà. Conquistata nel 265 a.c. divenne un importante avamposto romano per la sua posizione di vedetta sullo Ionio, luogo di stanziamento della XII Legione, che aveva la sua fortezza sul luogo dove sorge l'attuale castello.

- Cannae - (Canne della Battaglia) -
Fu "Vicus" ed emporio fluviale della città di Canosa. Qui il 2 agosto del 216 a.c., nella località ancor oggi denominata per ovvie ragioni "campo di sangue", si svolse la famosa Battaglia di Canne, dove i romani subirono una grave sconfitta ad opera dei Cartaginesi comandati da Annibale. Vi si possono visitare importanti resti romani.

- Canusium - (Canosa) -
Dal 6000 a.c., abitata dai Dauni, ramo settentrionale degli Iapigi, centro commerciale e artigianale, specie ceramiche e terrecotte. Con lo sviluppo della Magna Grecia, si sviluppa nell'VIII secolo a.c. Nel 318 a.c. si allea a Roma, accoglie i Romani nel 216 a.c. dopo la disfatta di Canne. Dall'88 a.c. diventa municipium e beneficia della via Traiana (109) e dell'acquedotto di Erode Attico (141), di un anfiteatro, di mausolei e archi. Più tardi Antonino Pio la eleva a colonia con il nome Canusium.

- Castrum Minervae - (Castro) -
Virgilio, nell'Eneide, colloca il primo approdo di Enea in Italia a Castrum Minervae, una cittadella dedicata alla Dea della guerra, posta di fronte a Butroto, nell'Epiro. Nel 123 a.c. divenne colonia romana. Castro divenne poi un possedimento di Bisanzio e subì frequenti attacchi dagli Alani, dagli Ostrogoti, dai Vandali, dai Goti, dai Longobardi e dagli Ungari.

- Dertum - (Monopoli) -
Esistente già in epoca messapica nel V secolo a.c.,con mura possenti. Dell'epoca romana rimane solo la grande porta fortificata, inglobata nel Castello, e alcune tombe nella zona ipogea della Cattedrale. Dal I al III secolo fu porto militare romano.

- Genusia - (Ginosa) -
«Genusium, posta al centro tra Taranto e Metaponto, capitale della Magna Grecia è famosa anche per aver dato asilo a Pitagora, aveva mura e templii agli idoli innalzati e quello a cui rendea speciale culto era il dio Giano» (Sesto Giulio Frontino, De coloniis, III cap.). Importante centro Peuceta e poi Romano.

SITO DI EGNAZIA
- Gnatia - (Egnazia) -
Centro messapico il cui porto venne usato soprattutto per raggiungere la via Egnazia, da cui il nome della città. «Per chi naviga da Brindisi lungo la costa adriatica, la città di Egnazia costituisce lo scalo normale per raggiungere Bari, sia per mare che per terra
(Strabone, fine I secolo a.c.)

- Grumum - (Grumo Appula) -
Centro apulo e poi romano. Nel suo territorio si sono rinvenute sepolture italiche e monete greche e romane. Alla caduta dell'Impero romano d'Occidente entrò a far parte del regno ostrogoto. 

- Herdonia - (Ordona) -
Annibale ebbe in zona le schiaccianti vittorie sui romani a Canne (216 a.c.) e a Herdonia (212 a.c.).
Per la sua fedeltà a Roma e slealtà ai cartaginesi, Herdonia fu incendiata e distrutta da Annibale nel 210 a.c. Nell'89 a.c. vi fu rifondato il municipio romano. La città fiorì particolarmente con la costruzione della via Traiana e la via Herdonitana. Tra il I e il IV secolo d.c. divenne grande centro di transito e di commercio dei prodotti agricoli del Tavoliere. Conserva a tutt'oggi notevoli resti della città: il foro, la basilica, l'anfiteatro, il macellum, le terme, le tabernae e le horreae per lo stoccaggio del grano lungo la via Traiana. Col terremoto del 346 d.c. su Irpinia e Sannio, si spopolò a favore di altre zone vicine alla via Traiana.

- Larinum - (Larino) -
Le testimonianze dell'abitato si s hanno dal V sec. a.c. in poi; si tratta in prevalenza di nuclei sepolcrali, anche se accolse uno dei centri principali del territorio dei Frentani. Per la fase romana abbiamo quasi esclusivamente le monete ed i testi epigrafici rinvenuti. Nel 304 a.c. i Frentani, già debellati nel 319 a.c. dai Romani, ottennero la pace con Roma, stringendo con essa un foedus, (Livio,IX,45,18) ed ottenendo in cambio maggiore autonomia. Di conseguenza i Sanniti dovettero rassegnarsi alla perdita di Saticula, Luceria e Teanum Sidicinum, e dell'intera valle del Liri, ritrovandosi circondati da civitates foederatae e da popoli alleati di Roma, che rendevano difficile poter minacciare il Lazio. 

ANFITEATRO DI LUCERIA
- Luceria  - (Lucera) -
Nella II guerra sannitica (326-304 a.c.), quando l'esercito romano, per soccorrere Luceria, città daunia assediata dai Sanniti, subì una grave sconfitta nella Battaglia delle Forche Caudine (321 a.c.): i Romani passarono sotto il giogo dei Sanniti e a Luceria, rinchiusero seicento cavalieri romani in ostaggio. Allora il console Lucio Papirio Cursore nel 320 a.c. mise sotto assedio la città, dove si trovavano 7 000 guerrieri Sanniti sotto il comandante Gaio Ponzio. Questi dovettero arrendersi, liberare gli ostaggi, consegnare armi e salmerie, e passare sotto il giogo dei romani, che così si vendicarono dell'umiliazione. 
Luceria divenne romana e Lucio Papirio Cursore ottenne il trionfo. Nel 315 a.c., la città daunia si ribellò a Roma, tornando coi Sanniti, ma nel 314 a.c. i consoli Petilio e Sulpicio la riconquistarono. Luceria divenne in colonia di diritto latino. Nel 295 a.c. i Sanniti attaccarono di nuovo Luceria, ma il console Marco Atilio Regolo li sconfisse definitivamente (294 a.c.). Nel 265 a.c. Luceria, la Colonia "iuris latini", per la sua grande lealtà, ricevette diritto di conio con proprie monete, proprie leggi, proprio fisco, propri magistrati.

- Lupatia - (Santeramo in Colle) -
Abitata dagli iapigi dal IX agli inizi dell'VIII secolo a.c. con vari reperti ceramici. La parte antica è suddivisa in area originale peuceta e area di successiva espansione «romana», probabilmente da ascriversi al periodo dalla ricostruzione presunta nel II secolo a.c. e fino ai primi secoli d.c..

- Lupiae - (Lecce) -
Di origine messapica, fu conquistata nel III secolo a.c. Roma conquistò tutto il Salento e anche Sybar, che aveva mutato il nome in Lupiae, e la vicina Rudiae, città dove era nato il poeta Quinto Ennio. Tra la fine dell'età repubblicana e gli inizi dell'età imperiale, Lupiae si presenta cinta da mura, costruite su quelle messapiche, dotata di un foro, un teatro. un anfiteatro e il porto Adriano, l'attuale marina di San Cataldo.

- Manduria - (Manduria) -
Fondata dai Messapi, di cui si rintracciano le mura megalitiche, i resti del fossato che circondava la città, e la necropoli. Combattè con la vicina Taranto, finchè intorno al 266 a.c. entrò a far parte dei domini di Roma. Nella discesa di Annibale in Italia, Manduria si schierò contro Roma e per questo la repressione fu molto dura: le fonti storiche riferiscono della deportazione di migliaia di uomini.
A Manduria vi passava la via Traiana Sallentina, lastricata e larga 4 m. Sulla Tavola Peutingeriana oltre al tracciato si leggevano le distanze in miglia: "Taranto XX Manduris XXIX Neritum" (20 miglia tra Taranto e Manduria e 29 miglia tra Manduria e Nardò).

- Mateola - (Matera) -
Di probabili origini greche, Matera accolse benignamente i profughi metapontini dopo la distruzione della loro città da parte di Annibale. Nel periodo della Magna Grecia ebbe stretti rapporti con le colonie situate sulla costa meridionale e, successivamente, in età romana fu solo centro di passaggio ed approvvigionamento. Nel 664 d.c. Matera passò sotto il dominio longobardo.

- Matinum - (Mattinata) -
città costiera della Daunia durante l'epoca romana, ricordata da Orazio e Lucano. La locazione sarebbe l'odierna Mattinata in provincia di Foggia, in Contrada Agnuli. Venne denominata Matinum, in onore della Mater Matuta. Secondo Orazio (Odi 1, 28) "Tu misuratore del mare e della terra e delle immensurabili arene, ti coprono, o Archita, pochi pugni di polvere presso il lido Matino..." Archita di Taranto, filosofo, matematico, politico, scienziato, stratega, musicista, astronomo, uomo di stato nonché generale greco antico, ricordato da Cicerone come "Virum magnum in primis et praeclarum", naufragò nella baia di Matinum (Litus Matinum) ed ivi fu sepolto.

- Merinum - (Santa Maria di Merino) -
Situata a nord di Vieste. Gli scavi iniziati nel 1938 non sono stati mai conclusi e quanto era stato scoperto i contadini dell'epoca è stato riseppellito, tranne i resti di una villa Romana. La supposta esistenza della “città di Merinum” è da attribuirsi ad una controversa citazione dell'opera “ Naturalis Historia" di Plinio il Vecchio, in cui si fa riferimento del popoli Merinate del Gargano “Merinates ex Gargano”, dalla città di Merinum, (anche se alcune versioni riportano l'iscrizione “Metinates”)

- Neapolis - (Polignano a Mare) -
Forse una delle due colonie che, nel IV secolo a.c., Dionigi II di Siracusa fondò sulle coste adriatiche. Vi vennero rinvenuti 4 splendidi vasi del IV sec. a.c. che superavano il m in altezza, e uno, denominato Gran Vaso di Capodimonte, più bello e grande degli altri, su cui è raffigurata un'assemblea di divinità: Minerva, Apollo, Artemide ed Eracle su un'amazzonomachia, mentre sul collo vi è una Nike alata su un carro trainato da quattro bellissimi cavalli bianchi, preceduti da Ecate nell'atto di sollevare due torce a far da apri-strada nelle tenebre. Questo reperto, tra i più belli mai ritrovati, si conserva oggi presso il Metropolitan Museum di New York. Fu per i Romani un'importante statio lungo la via che collegava Roma a Brindisi. Nel VI secolo, Polignano fu sotto la giurisdizione dell'Impero Bizantino.

- Rubi - (Ruvo di Puglia) -
Di origini piceute ebbe anche un porto, chiamato Respa, presso Molfetta. Tra l'VIII e il V secolo a.c. fu colonizzata dai greci, nel IV secolo a.c. fiorì per gli scambi commerciali, anche con gli etruschi, coniando moneta ed esportando di olio di oliva, vino e vasellame. Finì col diventare protetta di Atene, come dimostrano alcune monete, ma anche alleata di Taranto.
La sconfitta di Taranto vinta da Roma dette inizio all'influenza romana col nome di Rubi. In seguito ottenne la cittadinanza romana, poi il titolo di municipium e infine divenne stazione della via Traiana. In età imperiale l'ager rubustinus subì una diminuzione per il sorgere di Molfetta, Trani e Bisceglie.

- Rudiae - (Rugge) -
E' una frazione di San Pietro in Lama. Antica città messapica, nell'area di influenza della colonia dorica di Taranto, menzionata da Plinio il Vecchio, Pomponio Mela, Strabone, Ovidio e Silio Italico. Nel sito visibili le tracce di un anfiteatro, una necropoli e due cinte murarie in blocchi di tufo. L'area doveva essere di 100 ettari nel periodo romano. Ebbe una certa importanza tra la fine del VI e il III secolo a.c., poi perse di importanza e già nel I secolo d.C. - secondo Silio Italico - era ridotta a un modesto villaggio, a vantaggio di di Lupiae, che tra I e II secolo si dotava di un anfiteatro e di un teatro.

- Salapia -
Antica città daunia posta a nordovest di Trinitapoli. Nella II guerra punica ebbe due schieramenti, uno filoromano, e uno filocartaginese che prevalse, tanto che Annibale soggiornò a lungo a Salapia.
Poi decise di passare dalla parte romana, cacciando il presidio cartaginese e ritornando a fianco di Roma (210 a.c.); Annibale cercò di entrare in città e vendicarsi, ma non vi riuscì. Poi Salapia fu coinvolta nella guerra sociale, assediata, incendiata e quasi rasa al suolo.
Alla metà del I secolo a.c., in piena decadenza, con la laguna che si interrava per i detriti portati da vari corsi d'acqua, trasformarsi in una palude malarica. I Salapini, allora ottennero dal senato romano di potersi trasferire a 4 miglia di distanza, su di una piccola altura, oggi denominata “il Monte”, a ridosso delle vasche delle Saline. La nuova città fu delimitata da mura e provvista, tramite un canale, di un porto sul mare, le cui strutture dovevano trovarsi nell'area dell'attuale Torre di Pietra. Era ormai una città romana.

- Sidion/Silvium - (Gravina) -
«In Italia i sanniti, dopo aver espugnato Sora e Calazia, città alleate ai romani, ne vendettero schiavi gli abitanti; nel frattempo i consoli romani invasero con un numeroso esercito la Iapigia e si accamparono presso la città di Sìlbion. Poiché essa era presidiata dai sanniti, l'assediarono per molti giorni, e dopo averla espugnata con la forza, catturarono più di cinquemila prigionieri e presero anche un'ingente quantità di altro bottino.» (Diodoro Siculo, Bibliotheca historica, XX, 80,1)
All'epoca di Alessandro il Molosso, divenne polis con diritto di coniare monete (Sidinon) e dopo la terza guerra sannitica (305 a.c.) divenne municipium romano, toccato dal tracciato della via Appia. Con le invasioni barbariche, distrutto il centro abitato, uno sulla collina di Botromagno e l'altro sul ciglio del burrone, la popolazione si trasferì nel sottostante burrone, dove alle grotte preesistenti aggiunsero altre abitazioni.

PARCO ARCHEOLOGICO DI SIPONTUM
- Sipontum - (Manfredonia) -
Dal 1500 a.c. fino al IV secolo a.c. con l'arrivo degli Iapigi fiorisce, nella Puglia settentrionale la civiltà Daunia. Nel 335 a.c. Sipontum fu conquistata da Alessandro I, re dell'Epiro, accellerandone l'ellenizzazione. Durante le Guerre puniche i Dauni si schierano con i Romani, ma passarono ai Cartaginesi dopo la sconfitta di Canne nel 216 a.c. Nel 194 a.c. Roma vittoriosa si vendicò sulle città infedeli, e confiscò ad Arpi il territorio (e l'approdo marittimo) di Siponto. Il centro daunio diventò colonia di cittadini romani. Con l' impaludamento della laguna l'insediamento fu spostato più a nord nell'attuale Santa Maria di Siponto. Otto anni dopo fu però necessario l'invio di un nuovo contingente di coloni, perché la città era già spopolata, a causa della malaria o della siccità.

- Sturni - (Ostuni) -
Di origine messapica, nel III secolo a.c. il Salento fu conquistato dai Romani e con esso Sturni. Ne restano poche tracce in alcune masserie, sorte sulle fondazioni di antiche ville. Poco si sa anche riguardo all'etimologia della parola Ostuni: probabilmente, deriva dall'eroe eponimo Sturnoi, compagno di Diomede, che dopo la Guerra di Troia l'avrebbe fondata.

- Tarentum - (Taranto) -
Si tramanda fondata nel 706 a.c.. Narra Eusebio di Cesarea che lo spartano Falanto, figlio del nobile Arato e discendente di Eracle di VIII generazione, con altri compatrioti Parteni, emigrarono approdando sul promontorio di Saturo e qui svilupparono una vera e propria cultura aristocratica, con fortini (phrouria). Con la colonizzazione greca nell'Italia meridionale, Taranto acquisì grande importanza, sia economica che militare e culturale, generando filosofi, strateghi, scrittori e atleti, nonchè una scuola pitagorica tarantina. A partire dal 367 a.c., fece parte della lega italiota e nel 281 a.c. combattè contro Roma nella Guerra Tarentina, ma venne sconfitta nel 272 a.c. Durante la II Guerra Punica, accolse Annibale nel 212 a.c., ma fu punita tre anni dopo con la strage dei suoi cittadini e col saccheggio quando Fabio Massimo la riconquistò. Nel 125 a.c. vi fu dedotta una colonia romana (colonia neptunia), mentre nel 90 a.c.. Sotto Nerone a Taranto i veterani di guerra di diverse legioni, tra cui la V Macedonica, la XII Fulminata e la IIII Scythica.

- Teanum Apulum - (San Paolo di Civitate) -
antica città dauna di Tiati, situata presso la foce del fiume Fortore. Conquistato dai Romani nel 318 a.c., prese il nome di Teanum Apulum e divenne municipium. Nel 207 a.c., da Teanum partì con due legioni, il console Gaio Claudio Nerone contro l'esercito di Asdrubale Barca, giunto in soccorso del fratello Annibale, che venne sconfitto e ucciso nella battaglia del Metauro. In epoca imperiale Teanum fu ribattezzata col nome di Civitate. Dopo la caduta dell'Impero romano d'Occidente, conobbe l'avvicendarsi delle varie dominazioni bizantine, longobarde.

- Turenum - (Trani) -
Turenum era un Municipio in quanto aveva il Collegio dei Decurioni. Si conservavano a Trani: un Mausoleo appartenente alla famiglia dei Bebii, costruito presumibilmente nel III secolo d.c. e demolito nella seconda metà del XIX secolo, l'opera di arginatura di un torrente che sfociava nell'insenatura del porto, i cui resti vennero utilizzati in seguito come fondamenta per il sottopassaggio ferroviario di via Torrente Antico, e le rovine di una villa recentemente ritrovata lungo il tratto di costa verso Bisceglie, attestabili al I secolo d.c.

- Uria - (Oria) -
Centro messapico fondato, secondo Erodoto, da un gruppo di cretesi che naufragò sulla costa, dove impiantò il villaggio di Hyria che, nell'VIII secolo a.c. divenne la capitale politica della confederazione messapica, intessendo rapporti sia con centri della Messapia che con città magno-greche. La rivalità dei Messapi con Taranto sfociò nel conflitto del 473 a.c. che però indebolì sia i Messapi che i Tarantini. Nel 272 a.c. Taranto e di lì a poco i Messapi finirono nella sfera d'influenza di Roma e nell'88 a.c. divenne municipio romano.

RESTI DI VENUSIA
- Venusia - (Venosa) -
l'antica Venusia era una città apula sorta al confine con la Lucania. Fu ricostruita dai Romani che nel III sec. a.c., cacciarono i Sanniti che la occupavano e ne fecero una colonia, nel 291 a.c.che dedicarono alla Dea Venere dandole il nome di Venusia. In questa città nel 65 a.c. nacque il poeta Orazio di cui sembra si conservino le vestigia della sua domus patrizia.

- Veretum - (Vereto) -
Antica città messapica in provincia di Lecce. Situata sull'omonima collina, fu un importante centro di commercio, sia con la Grecia che con la Magna Grecia. Divenne municipio romano e poi fu rasa al suolo nel IX secolo ad opera dei Saraceni. Ne rimangono alcune testimonianze, il sito occupato attualmente dalla chiesetta della Madonna di Vereto, fu il centro, l'acropoli, sia della Vereto messapica, che della Vereto romana..

- Vibinum - (Bovino) -
Il nome "Bovino" deriva dal latino Vibinum, un centro osco-sannitico già sotto il dominio di Roma quando vi si accampò Annibale, nel 217 a.c., prima della battaglia di Canne.

- Vieste -
Innumerevoli reperti archeologici testimoniano l'insediamento degli antichi Greci e dei Romani a Vieste.

- Yria
Detta anche uria, era un'antica città del Gargano settentrionale, fondata in epoca dauna, probabilmente situata tra il Lago di Varano e Vieste. Venne grecizzata durante la II colonizzazione greca ( VIII-V secolo a.c.). Aveva un suo conio e una strada, che percorreva tutto il Gargano settentrionale, la collegava direttamente alla città di Tiati. Yria scomparve misteriosamente forse in età imperiale. La tradizione vuole che sia stata sommersa dalle acque del Lago di Varano in seguito ad un terremoto: da essa il lago avrebbe quindi preso il nome di "Urianum". Di quello sterminio sarebbe dovuto il cupo muggito che di tanto in tanto gli antichi udivano a presagio di cattivo tempo.

DIVINAZIONE PRIVATA ROMANA

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COGLIERE PRESAGI DA SOLI

I romani, come i precedenti popoli italici, per prevedere il futuro si affidavano alle mantiche, termine derivante dal greco mantiké, che si origina a sua volta da màntis che significa "indovino". Le mantiche furono diverse, operate soprattutto nelle campagne, facendo uso di oggetti molto semplici e non sofisticati.



CAPNOMANZIA

Antica arte divinatoria fondata sull'osservazione della direzione, del colore o della forma assunta dal
fumo. Ciò faceva parte dei culti italici preromani, non accolti nella divinatoria pubblica ma fiorente in quella privata.

Il fumo riguardava all'inizio la bruciatura del ciocco di legno nel solstizio d'inverno, poi si estese ai rami sacri di una selva dedicata ad una divinità. faceva parte dei culti italici preromani, non accolti nella divinatoria pubblica ma fiorente in quella privata.
Raramente riguardò il sacrificio di un animale, che riguardava soprattutto i templi pubblici. Dal fumo del sacrificio si traevano degli auspici. Si osservavano i giri del fumo, quanto si alzasse e con qual moto se retto o a spirale, nonchè il tempo per dissolversi.




CATOTTROMANZIA

La Catottromanzia, detta pure enottromanzia era un tipo di divinazione ottenuta delle visioni percepite per mezzo di uno specchio ritenuto magico. Derivano dai termini greci κάτοπρον kátoptron ed ἔνοπτρον énoptron che significano "specchio".Chi praticava l'enottromanzia era chiamato enottromo o enottromante.

Lo specchio magico faceva conoscere gli eventi passati e futuri anche a chi lo guardasse con gli occhi bendati. Le maghe della Tessaglia si vantavano di far discendere con questo specchio la Luna dal cielo e ricevere da essa le risposte, e scrivevano i responsi col loro sangue.
Un altro metodo consisteva nel porre lo specchio dietro la testa di un fanciullo a cui si bendavano gli occhi. Si dice che un fanciullo con questo metodo avesse indovinato la venuta di Severo e la morte di Giuliano.

Pausania racconta che vi era a Patrasso, davanti al tempio di Cerere, una fontana separata dal tempio medesimo per mezzo di una muraglia; qui veniva consultato un oracolo considerato veritiero per le malattie.

Il consultante malato faceva discendere nella fontana uno specchio sospeso ad un filo in modo che toccasse la superficie dell'acqua solamente con la sua base; dopo avere pregato la dea ed arso dei profumi il consultante si guardava nello specchio e, secondo che si trovasse il viso pallido e sfigurato o fresco e rubicondo, ne concludeva che la malattia sarebbe stata mortale o guaribile.
Pitagora poneva lo specchio in analogia con la Luna infatti, prima di leggere il futuro nel suo specchio magico, era solito mostrare l’oggetto alla faccia della Luna.



CHIROMANZIA

La chiromanzia osserva i segni speciali delle mani, sia le pieghe della pelle che la conformazione dei rilievi sul palmo, nonchè la forma delle dita, o segni rilevabili su altre parti del corpo, come gli occhi e perfino la forma delle orecchie.

La forma e le pieghe della mano sottolineerebbero il nostro destino, come fortuna, salute, figli e pure incontri.

La lettura delle mani è antichissima, come in fondo tutte le forme di divinazione che non richiedevano grandi mezzi per essere effettuate, e si è trasmessa fino ai giorni nostri.



CLEROMANTIA

La divinazione per mezzo di stecche o piastre, con sopra una scritta (talora versi di Virgilio: sortes vergilianae), infilzate in una cordicella, dalla quale una scelta a caso doveva col motto che portava scritto illuminare sul futuro. L'operazione si faceva talora, perché avesse più sicuro effetto, in qualche tempio, in ispecie quello di Preneste (sortes praenestinae).



CRISTALLOMANZIA

Si usava un grosso cristallo trasparente in genere di cristallo di rocca o di berillo posto davanti ad una candela, chi cercava responsi fissava il cristallo, spesso tagliato a cabochon (un piano e una superficie convessa) o a sfera, entrando in uno stato di trance in cui vedeva immagini. In mancanza del cristallo si usava una bottiglia panciuta piena d'acqua con la candela dietro.

Diverse tribù celtiche, stanziate nelle isole britanniche fin dal 2000 a.c., sono state unificate dai druidi che praticavano la divinazione attraverso cristalli di quarzo. 

Durante l'Alto Medioevo si hanno invece le prime notizie sull'uso di cristalli di forma sferica, le sfere di cristallo.



GENETLIACA

L'osservazione della posizione degli astri alla nascita d'un bambino (equivalente al moderno oroscopo), in particolare del sole, della luna e dell'ascendente, soprattutto al momento del concepimento, che determinavano gli ostacoli e le possibilità della sua vita.

L’astrologo era chiamato «matematicus» o «caldeus». Nel 139 a.c. il decreto di Cornelius tentò di proscrivere gli astrologi, con totale insuccesso. I romani ebbero i loro scrittori d’astrologia, come Giulio Firmico Materno, Marco Manilio, Columella. Detrattori furono Cicerone, Catone, Plinio il Vecchio, simpatizzanti Silla, Cesare, Crasso, Pompeo, che si dilettavano di pratiche divinatorie.

Svetonio scrive che Augusto viveva ad Apollonia a 18 anni, e che andò con Agrippa dall’astrologo Theogène. Ad Agrippa venne predetta una carriera molto elevata, per cui Ottaviano si rifiutò di svelare la propria data di nascita temendo gli fosse riservata una sorte inferiore; ma quando cedette alle sollecitazioni dell’amico, Theogène si alzò e si gettò ai suoi piedi.

Da quel momento Augusto ebbe una tale fede nel suo destino che pubblicò il suo oroscopo e fece coniare una moneta d’argento con il suo segno: il Capricorno. Per gli astrologi romani un uomo era del Capricorno se aveva la Luna in questo segno mentre quelli moderni si regolano sul Sole e l’Ascendente.



IDATOSCOPIA

L'idatoscopia è una mantica il cui lemma deriva dal greco hydóe, acqua, e scopeó, osservare. Non v’è incertezza sul termine idatoscopia, ma sembrerebbe riferito alla divinazione concernente il futuro climatico. In alcuni testi si legge anche la specifica che per idatoscopia s’intende la divinazione effettuata per mezzo di acqua piovana, differenziandosi dalla pegomanzia che è effettuata tramite l’acqua delle sacre fonti.

Esistevano vari tipi di idatoscopia:
1) Dalla direzione dell'acqua piovana e dalla sua intensità, ma soprattutto dal modo e dal tempo in cui bagnava una statuetta o un ciottolo sacralizzato si traevano auspici.

2) Quando in uno stato di trance, dietro l' invocazione o altre cerimonie magiche, vedevansi sull'acqua scritti nomi di persone o di cose che si vedevano alla rovescia.
3) Si facea uso di un vaso pieno di acqua e di un anello, sospeso ad un filo, col quale battevasi per un certo numero di volte le pareti del vaso.
4) Gittavansi successivamente ed a brevi intervalli, tre piccole pietre in un'acqua tranquilla ed immobile, e da’ cerchi che formava la superficie , come pure dalla loro intersecazione si traevano gli augurii .
5) Esaminavansi attentamente i diversi movimenti e l' agitazione de' flutti del mare.
6) I presagi traevansi dal colore dell'acqua, e dalle figure che si credeano scorgere in quella.
Secondo Varrone, in questa maniera si giunse in Roma a predire il risultamento della famosissima guerra contra Mitridate. Presso gli antichi eranvi certe riviere e certe fontane che essi riguardavano come più proprie delle altre a siffatte operazioni.
7) Esisteva una pratica abominevole presso i Germani, per chiarire i sospetti intorno alla fedeltà delle loro mogli. Gittavano essi nel Reno i fanciulli appena nati: se quelli galleggiavano, allora li consideravano come legittimi; se calavano a fondo, li dichiaravano spurii.
8) Le donne de' Germani invece, per scoprire il futuro, esaminavano i diversi giri che facea I'acqua de' fiumi ne' vortici che formavano
9) Riempivasi una tazza di acqua, e dopo di avervi pronunciate sopra certe parole, ed aver agitato l'acqua con leggero movimento, esaminavasi se l' acqua faceva bollicine, ed usciva dagli orli.
9) Ponevasi l' acqua in un catino di vetro, indi vi si gettava una goccia di olio, ed allora credevasi di vedere in quell'acqua, come in uno specchio, ciò che si desiderava conoscere.
10) Nell'antico suolo italico, ma non solo, quando alcune persone venivano sospette di furto si scriveva il nome di ciascuna sopra altrettanti piccoli ciottoli, che poscia venivano gettati nell’acqua. Dal modo in cui cadevano si capiva se i sospetti erano fondati.



IDROMANZIA

Tecnica divinatoria per mezzo dell’acqua. I movimenti prodotti da un oggetto gettato in una fontana sacra, o in uno specchio d’acqua sacra connesso in genere con un luogo di culto, in genere una foglia, o una piuma, o un fuscello di legno. A seconda della direzione che l'oggetto prendeva, o gli scuotimenti, o il tempo dell'affondamento, si traevano presagi.

Venne usato in Italia, in Grecia e in Asia Minore. Poteva all'occorrenza anche essere usato in un lago, in un fiume, in un mare, in un ruscello oppure in acqua ferma come uno stagno, una polla d'acqua o in una sorgente, mediante preghiere e scongiuri. A volte veniva sacralizzato anche l'oggetto da porre sull'acqua mediante apposita formula magica.

Da: "La Filosofia Occulta o La Magia" di Cornelio E. Agrippa:
"L’idromanzia fa divinare con gli aspetti delle acque, il flusso e il deflusso, l’accrescersi e lo straripare o il decrescere, la colorazione e simili altra cose, a cui si possono aggiungere le visioni che si compiono nelle acque, genere di divinazione questo trovato dai Persiani e di cui Varrone dà un esempio parlando di quel fanciullo che aveva visto formarsi nell’acqua una immagine di Mercurio, che con centocinquanta versi predisse ogni evento della guerra di Mitridate. 
Anche Numa Pompilio coltivava l’idromanzia, evocando per mezzo delle acque le immagini degli dei che gli predicevano il futuro. 
E Pitagora, molto tempo dopo di lui, ha esercitato la stessa arte.... Anticamente esistevano sorgenti, da cui si ricavavano presagi delle cose future, come quella che ancora si trova a Patrasso, in Acaia, e quella che Epidauro chiama fontana di Giunone, di cui parleremo a lungo in seguito nel trattare degli oracoli.
V’era anche la fonte fatidica d’Acaia, collocata davanti al tempio di Cerere. Coloro che venivano a consultarla intorno alla salute degli infermi, facevano discendere poco a poco sino in fondo all’acqua uno specchio trattenuto da una cordicella e dopo speciali suppliche e dopo aver bruciato qualche profumo, il vaticinio si rendeva visibile nello specchio.
Non lungi da Epidauro, città della Laconia, si stendeva uno stagno profondo detto l’acqua di Giunone, in cui si usava gettare pasticcini di farina di frumento. Se le acque non li rendevano, il responso dell’oracolo era lieto, ma se ritornavano a galla, se ne ritraeva cattivo presagio.
"



LECANOMANZIA

Si versavano in una coppa, o in una una ciotola, o una bacinella, un catino o un bacile. liquidi diversi, in specie l'acqua e l'olio, poi venivano agitati con una bacchetta già sacralizzata con una formula e a seconda dei loro movimenti e incontri si traevano le indicazioni per il futuro. 

Da: "La Filosofia Occulta o La Magia" di Cornelio E. Agrippa:
"Gli Assiri avevano in pregio una specie di idromanzia chiamata lecanomanzia, in cui si faceva uso d’un recipiente colmo d’acqua e si adoperavano lamine d’oro o d’argento tempestate di pietre preziose, sulle quali s’incidevano dati nomi e caratteri. Alla lecanomanzia si può anche ricollegare l’arte di divinare mercé il piombo e la cera fusi versati in acqua fredda, in cui si rapprendono in determinate forme, che rendono manifeste le cose che desideriamo conoscere."




ONEIROMANZIA

Interpretazione dei sogni sogni. Talvolta essi contenevano una chiara e precisa indicazione, considerati allora come una diretta rivelazione o ispirazione della divinità, che si cercava di ottenere anche per mezzo dell'incubazione in qualche santuario.

Gli antichi romani reputavano che i sogni potessero uscire da due porte:
- da una porta d'avorio, che era la porta degli uomini,
- da una porta di corno, che era la porta degli Dei.
La porta degli Dei portava predizioni per il futuro e questi andavano capiti e interpretati.

A volte i sogni contenevano solo segni o simboli, che avevano anch'essi bisogno di essere interpretati per mezzo di un'arte, appunto la oneiromanzia.



PEGOMANZIA

Specie di divinazione che si faceva coll'acqua delle fonti nella quale gettavano delle sorti ovvero delle specie di dadi. Ne ricavavano presagi fortunati quando andavano al fondo ma se restavano a galla era un segno cattivo.

Famosa la fontana d'Abano non lungi dalla città di Padua, ove un sol colpo di dado bastava per decidere su i buoni e tristi successi dell'avvenire, secondo il numero de' punti più o meno rilevanti che si vedevano dal fondo dell'acqua.

"Dalla pegomanzia fatta nelle acque di essa fontana, Tiberio concepì le più alte speranze avanti che giungesse all'impero. Passando per l’Illiria, esso principe essendosi recato a consultare sulla propria sorte l'oracolo di Gerione, quel dio lo mandò alla fontana d' Abano.

Egli vi andò, e avendo gittati nell' acqua alcuni dadi d'oro, quelli del fondo gli presentarono il maggior numero di punti che ei potesse desiderare. Svetonio dice che alcun tempo dopo si vedeano ancora nella fontana quei medesimi dadi gittativi da Tiberio."

Oppure vi si immergevano dei vasi di vetro, esaminando gli sforzi che faceva l’acqua per entrarvi, scacciandone l' aria che prima li riempiva.



PIROMANZIA

Le forme prese dal fuoco di un sacrificio, se la fiamma era alta, se si suddivideva, se tardava a spegnersi, se si propagava e così via, da ciò si coglievano presagi.
Nelle campagne però la piromanzia si faceva in genere bruciando rami sacri, cioè di ulivo, o di mirto, ma anche corteccia di pino o di abete.



RABDOMANZIA

Divinazione che si faceva per mezzo di verghe o bacchette. Erodoto nel libro IV scrive che le donne greche cercavano e adunavano delle bacchette ben diritte per valersene nella ricerca delle acque, di filoni di metalli, di tesori. Sembra che l'uso riguardasse anche le romane.



RAPSODOMANZIA

Divinazione che si faceva tirando delle sorti (dadi) sui versi dei poeti per una predizione di ciò che si voleva sapere.

Per ordinario si usavano versi di Omero o di Virgilio. Talvolta si scrivevano delle sentenze o dei versi del poeta poi li mettevano sopra pezzetti di legno gettandoli alla rinfusa in un'urna da dove ne estraevano uno e questa era la sorte ottenuta.
Talvolta invece si gettavano dei dadi sopra una tavola sulla quale erano scritti dei versi e quelli sui quali si fermavano i dadi passavano per quelli che contenevano la predizione.



IL CRISTIANESIMO

Il cristianesimo fin da principio ha proibito la divinazione come opera del demonio. 
- Clemente Alessandrino (Protrepticon), considerò oracoli, auguri, astrologi e indovini una stolida impostura.
- Tertulliano (De anima) considerava la divinazione come una facoltà naturale ma pericolosa, perché ci si poteva infiltrare il demonio. 
- Origene (In Numeros) riteneva diabolico ogni tipo di divinazione. 
- Lattanzio (Instit. divin.) credeva che i demoni, sostituendosi agli Dei pagani (in realtà uomini divinizzati) avessero inventato ogni tipo di divinazione per farsi onore e guadagnare per sé l'adorazione dovuta a Dio. 
- S. Agostino (Liber de divinatione daemonum) sostiene che i demoni, autori della divinazione in parte imitano gli angeli, e in parte se ne allontanano per ragione della loro caduta. Riteneva buona l'astrologia, a meno che non diventi atea e non pretenda di vedere negli astri delle cause.

IL TESORO DI HOXNE (Inghilterra)

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IL TESORO DI HOXNE

ORO ARGENTO E MONETE

Il tesoro di Hoxne (Hoxne Hoard) è il più grande tesoro di oro e argento di età tardo-romana rinvenuto nel Regno Unito, e la più grande raccolta di monete in oro e argento del IV e V sec. rinvenuta all'interno del territorio dell'Impero romano.

Il tesoro venne scoperto il 16 novembre 1992 con l'aiuto di un cercametalli (metal detector) nei pressi del villaggio di Hoxne, nel Suffolk, e consistette in  14.865 monete romane in oro, argento e bronzo, oltre a circa 200 pezzi di vasellame in argento e di gioielleria in oro. Tutto il tesoro è ora conservato presso il British Museum di Londra, dove i pezzi principali sono esposti permanentemente.

Nel 1993 il Treasure Valuation Committee (l'ente pubblico che che offre consulenza al governo su articoli di tesori dichiarati nel Regno Unito che i musei desiderano acquisire dal Commonwealth) valutò il tesoro circa 1,75 milioni di sterline.

CATENA PER IL CORPO IN ORO CON AMETISTA E GRANATI
Il tesoro era stato sepolto in una scatola di legno di rovere, con gli oggetti impacchettati e ordinati in cassette di legno più piccole, in sacchetti vari o avvolti nel tessuto. Resti della cassa e dei suoi accessori, come le cerniere e le serrature, sono stati recuperati nello scavo.

Le monete reperite nel tesoro ne hanno consentito la datazione a dopo il 407, che è la data della fine della dominazione romana in Britannia. Non sappiamo nè chi siano i proprietari del tesoro nè le ragioni del suo seppellimento. Di certo gli oggetti sepolti fanno pensare a una famiglia molto ricca, ma mancando i grandi vassoi in argento e i gioielli, si ritiene che il tesoro sia solo una parte delle ricchezze del proprietario.

DETTAGLIO CON AMETISTA E GRANATI
Il tesoro è importante anche perché la sua scoperta fu segnalata agli archeologi prima di essere estratto, e fu dunque possibile scavarlo studiandone la disposizione originaria intatta; questa collaborazione tra archeologi e cacciatori di tesori dilettanti influì su un mutamento della legge britannica che regola il ritrovamento di tesori.

Il tesoro fu scoperto nel campo di una fattoria, a 2,4 km a sud-ovest del villaggio di Hoxne nel Suffolk, il 16 novembre 1992. Peter Whatling, il fittavolo, aveva perduto un martello e chiese al suo amico Eric Lawes, giardiniere in pensione e cerca-metalli dilettante, di aiutarlo a ritrovarlo.

Mentre cercava nel campo col suo cerca-metalli (metel detector), Lawes scoprì dei cucchiai in argento, gioielli in oro e numerose monete d'oro e di argento. Dopo aver recuperato alcuni pezzi, Lawes e Whatling notificarono la scoperta ai proprietari del terreno, il Suffolk County Council, e alla polizia, senza provare a trovare altri oggetti.

CATENA PER IL CORPO IN ORO
Il giorno successivo, un gruppo di archeologi della Suffolk Archaeological Unit effettuarono un rapido scavo nel sito; in un solo giorno fecero riemergere l'intero tesoro, insieme a diversi blocchi di materiale intatto per il vaglio in laboratorio, e tutta l'area in un raggio di 30 m dal luogo del ritrovamento fu indagata con i cerca-metalli. Anche il martello perduto da Peter Whatling fu recuperato in questa occasione, e donato al British Museum.

Il tesoro era stato stipato all'interno di un contenitore in legno ormai quasi tutto consumato. Gli oggetti erano stati disposti in bell'ordine: mestoli e ciotole erano impilati l'uno sull'altro, e così gli altri oggetti erano disposti secondo il tipo e in maniera da ingombrare meno.

Alcuni degli oggetti erano stati smossi da animali o dalle operazioni agricole, ma nel complesso il deposito era rimasto piuttosto integro. Grazie alla pronta notifica della scoperta da parte di Lawes, gli archeologi hanno potuto determinare la disposizione originale dei pezzi, oltre a riconoscere lo stesso contenitore.

BRACCIALI  D'ORO 
Il deposito dissotterrato fu portato al British Museum. Il 19 novembre il quotidiano britannico The Sun pubblicò una notizia in prima pagina sul ritrovamento del tesoro con una foto di Lawes e del suo cerca-metalli; sebbene il contenuto esatto del tesoro e il suo valore non fossero ancora noti, si affermò che il tesoro valeva 10 milioni di sterline.

Il British Museum fece allora una conferenza per annunciare a sua volta la scoperta, tenutasi al museo il 20 novembre. Poi la notizia si affievolì, e il British Museum potè dedicarsi al tesoro. Ci volle un mese per il suo riordino, poi, il 3 settembre 1993, il deposito di Hoxne fu dichiarato "treasure troves" («tesoro trovato»), cioè nascosto con l'intenzione di essere recuperato successivamente.

Secondo la legge britannica, tutti i treasure troves sono di proprietà della Corona, a meno che qualcuno non possa rivendicarli. Però si usava premiare colui che aveva trovato un treasure trove e l'aveva comunicato immediatamente alle autorità con un premio in denaro equivalente al valore di mercato del tesoro, a spese dell'istituzione che intendeva acquisire il bene.

BRACCIALI  D'ORO 
Nel novembre 1993, il Treasure Trove Reviewing Committee valutò il tesoro 1,75 milioni di sterline, che furono pagate a Lawes, in qualità di scopritore del tesoro; a sua volta Lawes divise il premio con Peter Whatling, il contadino affittuario del campo. Tre anni dopo, il Treasure Act 1996 impose che il ritrovatore del tesoro e il proprietario del terreno fossero premiati nella stessa misura.

Nel settembre 1993, dopo che il campo del ritrovamento del tesoro era stato arato, il Suffolk County Council Archaeological Service effettuò una ricognizione archeologica, durante la quale furono ritrovate altre quattro monete d'oro e 81 di argento, tutte considerate parte del tesoro.
Furono anche trovati materiali risalenti sia alla precedente Età del ferro britannica che al successivo Medioevo inglese, ma nessun indizio di un insediamento romano nelle vicinanze.

Nel 1994, in seguito alla segnalazione dell'attività di tombaroli nell'area del ritrovamento, il Suffolk County Council Archaeological Service fece un'ulteriore scavo archeologico. La buca in cui era stato sepolto il tesoro fu scavata nuovamente, e fu ritrovato il foro di un palo nell'angolo sud-orientale; si potrebbe trattare del palo posto ad indicare il luogo della sepoltura, in modo che il tesoro potesse essere successivamente recuperato.

BRACCIALE - FIG. 6
Per analizzare l'area, fu rimosso il terreno nei 1000 m² attorno al luogo del ritrovamento, fino alla profondità di 10 cm, e vennero usati i cerca-metalli per individuare gli oggetti in metallo. Questa indagine permise il ritrovamento di ben 335 oggetti riconducibili al periodo romano, per lo più monete, ma anche cardini e decorazioni di scatole.

Anche in questo caso non furono trovati indizi di un insediamento di epoca romana, sebbene fosse scoperta una serie di buche per pali risalenti all'Età del bronzo o alla prima Età del ferro. Le monete scoperte durante l'indagine del 1994 erano sparse all'interno di un'ellisse centrata sul luogo del ritrovamento del tesoro, orientata lungo l'asse est-ovest e ampia 40 metri.

Questa distribuzione può essere spiegata col fatto che nel 1990 il contadino arò il campo in profondità in direzione est-ovest proprio nella zona in cui fu ritrovato il tesoro; precedentemente (a partire dal 1967/1968, quando l'area fu ripulita per convertirla a campo agricolo) il contadino aveva arato sempre in direzione nord-sud, ma l'assenza di monete a nord e a sud del punto di ritrovamento suggerisce che prima del 1990 le arature non avevano disturbato il deposito.

 

LA COMPOSIZIONE DEL TESORO

Il tesoro è composto per lo più di monete d'oro e d'argento e da gioielleria, per un totale di 3,5 kg d'oro e 23,75 kg d'argento. Fu collocato in una cassa di legno, realizzata in tutto o in gran parte in rovere, recante le misure di 60×45×30 cm circa. 

All'interno della cassa, alcuni oggetti furono disposti in scatole più piccole, realizzate in legno di tasso e ciliegio, mentre altri oggetti furono avvolti in panni di lana o deposti nella paglia. La cassa e le scatole interne si dissolsero quasi completamente dopo la deposizione nel terreno, ma frammenti della cassa e i suoi elementi in metallo furono recuperati durante lo scavo.

MESTOLI
I principali oggetti ritrovati sono:
- 569 solidi (monete d'oro)
- 14.272 monete in argento, tra cui 60 miliarenses e 14.212 siliquae
- 24 nummi (monete in bronzo)
- 29 pezzi di gioielleria in oro
- 98 cucchiai e mestoli in argento
- una tigre in argento, manico di un contenitore perduto
- 4 coppe in argento e un piccolo piatto
- 1 bricco in argento
- 1 vasetto in argento
- 4 pepaiole, tra cui la pepaiola "Imperatrice" in argento dorato.
- oggetti da toletta come stuzzicadenti
- 2 lucchetti in argento, provenienti da contenitori in legno o cuoio scomparsi
- tracce di materiali organici, come una piccola pyxis in avorio.

CUCCHIAI
Su diversi pezzi della posateria è stato ritrovato il monogramma di Cristo o Chi Rho (o CHRISMON) che è una combinazione di lettere dell'alfabeto greco, che formano una abbreviazione del nome di Cristo.

I ricchi cristiani amavano i miti pagani come arte pittorica e letteratura, anche se abbracciavano in toto la nuova religione. Questo dovette scandalizzare non poco i sacerdoti cristiani che però poco potettero contro i potenti convertiti si al cristianesimo ma cultori del gusto artistico antico.

Spesso le antiche stoviglie rinvenute col Chi Rho vennero scambiate per strumenti per i cerimoniali del cristianesimo, e venivano così donate o affidate alla chiesa, con la complicità di ecclesiastici molto di parte e poco archeologi che si improvvisarono cultori degli antichi oggetti romani, che fossero stoviglie, o brani latini o epigrafi da interpretare con poca fedeltà e un po' di tornaconto.



LA GIOIELLERIA

I gioielli sono tutti d'oro, e tutto l'oro, monete a parte, sono gioielli, che sono:

- una catena per il corpo,
- sei collane,
- tre anelli
- 19 braccialetti,

per un peso complessivo di circa 1000 g titolati a 22 carati, in lega con argento e rame.
- La catena per il corpo è formata da quattro catene piene a «coda di volpe», agganciate avanti e dietro a due placche. Le catene davanti terminano con teste di leone, mentre la placca è decorata da gemme incastonate:un'ametista ovale al centro e quattro granati a goccia alternati a castoni tondi vuoti, di pietre perdute. Sulla schiena, le catene si incrociano su un solido dell'imperatore Graziano (375–383).Le catene per il corpo erano spesso indossate dalle matrone e potevano essere doni per la sposa. Erano un ornamento molto gentile che esaltavano i seni e le forme senza essere volgari, ma anzi molto eleganti.




LE MONETE

Le monete del tesoro di Hoxne sono:

- 569 solidi (monete d'oro), coniate tra il regno dell'imperatore Valentiniano I e quello di Onorio (IV - V sec.);

- 14.272 monete in argento, tra cui 60 miliarenses e 14.212 siliquae, coniate tra il regno di Costantino II (IV sec.) e quello di Onorio;

- 24 nummi (monete in bronzo).
E' il più importante ritrovamento di monete della Britannia tardo-romana, e contiene tutte le principali denominazioni della numismatica romana dell'epoca, tra cui monete in argento «tosate», cioè alle quali era stato rimosso del materiale prezioso, pratica diffusa in Britannia a quell'epoca.

CHOCLEARIUM
Il più grande tesoro numismatico romano-britannico è il tesoro di Cunetio, composto da 54.951 monete del III secolo, ma si tratta di radiati svalutati (una moneta veniva definita radiata dalla corona raggiata indossata dall'imperatore) con poco metallo prezioso. Il tesoro di Frome, riportato alla luce nel Somerset nell'aprile del 2010, contiene 52.503 monete coniate tra il 253 e il 305, anche queste per lo più in argento e bronzo svalutati.

Tesori più grandi composti da monete romane sono stati trovati in altri luoghi della periferia dell'Impero, come il Tesoro di Misurata, dall'omonima località della Libia. Il peso totale dei solidi nel tesoro è di quasi esattamente 8 libbre romane, indizio che le monete erano state misurate a peso piuttosto che a numero.

Delle siliquae, 428 sono imitazioni prodotte localmente, generalmente di alta qualità e con molto più argento delle siliquae ufficiali dell'epoca. Una manciata di esse, però, sono dei cliché, dei falsi in cui un nucleo in metallo vile fu avvolto in un foglio di argento e coniato con conii originali.

Le monete sono gli unici oggetti del tesoro di Hoxne per cui sono chiari la data e il luogo di produzione, perchè tutte le monete auree e molte di quelle in argento recano i nomi e i ritratti degli imperatori romani sotto cui vennero coniate; molte recano ancora i segni di zecca originali, un'iscrizione o un piccolo disegno posto su una moneta che indica la zecca dove la moneta è stata coniata. In totale, 14 zecche romane coniarono le monete del tesoro di Hoxne:


Treviri, Arelate e Lione (in Gallia),
Ravenna, Milano, Aquileia e Roma (in Italia),
Siscia (moderna Croazia),
Sirmio (moderna Serbia),
Tessalonica (in Grecia),
Costantinopoli, Cizico, Nicomedia, Antiochia (moderna Turchia).

Le monete furono coniate sotto tre dinastie romane:

- sotto gli ultimi regnanti della dinastia costantiniana,
- sotto i regnanti valentiniani,
- sotto i regnanti teodosiani.
Poichè ciascun imperatore all'epoca poteva coniare monete anche a nome dei propri colleghi e poichè gli imperatori d'Oriente e quelli d'Occidente avevano regni sovrapposti, si possono datare le  nuove monete anche nel regno di ogni imperatore. Così le monete più recenti del tesoretto, quello dell'imperatore d'Occidente Onorio (393–423) e del suo avversario Costantino III (407–411) possono essere datate ai primi anni dei loro regni, in quanto corrispondono alle monete coniate sotto l'imperatore d'Oriente Arcadio, che morì nel 408. 

Pertanto il tesoro non fu nascosto prima del 408. Le siliquae del tesoro furono coniate per lo più nelle zecche occidentali della Gallia e dell'Italia.

LA TIGRE DI HOXNE

LA TOSATURA DELLE MONETE D'ARGENTO

Quasi tutte le silique del tesoro sono state tosate, vale a dire private più o meno pesantemente del bordo per recuperare l'argento.
(A SINISTRA) SILIQUA NON TOSATA,
(AL CENTRO) SILIQUA PARZIALMENTE TOSATA,
(A DESTRA) SILIQUA GRAVEMENTE TOSATA
E' usuale nelle monete romane argentee ritrovate in Britannia nel tardo impero, mentre è più raro nelle monete del resto dell'Impero.
Il processo di tosatura lascia intatto il ritratto dell'imperatore sul dritto della moneta, ma spesso danneggia il segno di zecca, la legenda e l'immagine sul rovescio.
Tra le ragioni di questa tosatura ci sono la frode, oppure voler mantenere un rapporto stabile tra il valore delle monete in oro e in argento, o ottenere una fonte di argento mantenendo lo stesso numero di monete in circolazione. Il livello di tosatura è praticamente costante per monete dal 350 in poi.

MINERVIA SCOLACIUM (Calabria)

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SCOLACIUM - TAVERNA
Scolacium, città di Cassiodoro, detta anche Scylletium – in latino Scylacium, Scolatium, Scyllaceum, Scalacium, o Scylaeium e successivamente, Minervium e Colonia Minervia, è un'antica città costiera del Bruzio. Ebbe una storia millenaria attraverso greci, brettii, romani, bizantini, saraceni e normanni.

Le sue rovine si trovano sulla costa ionica nel Golfo di Squillace a Roccelletta di Borgia (CZ), tracce della città si trovano anche nella località Santa Maria del Mare in Caminia di Stalettì, ed altre ancora nei quartieri Lido e Germaneto di Catanzaro. La cittadina di Squillace deve il suo nome attuale all'antica Scolacium. Nel comune di Borgia è situato un parco archeologico ormai completamente conurbato con i quartieri marinari di Catanzaro.




MINERVA SCOLACIUM

Minervia Scolacium è il nome della colonia romana che fu fondata nel 123-122 a.c. nel sito dove precedentemente si trovava la città greca di Skylletion, a nord di Caulonia. Il centro greco è nominato da Strabone ed ha un mito di fondazione collegato alle vicende della guerra di Troia: sarebbe stata fondata da Ulisse, naufragato in quella terra o dall'ateniese Menesteo durante il ritorno da Troia.

Però secondo gli storiografi la fondazione di Skylletion si deve a Crotone, che si contendeva con Locri Epizefiri il controllo sull'attuale istmo di Catanzaro (la striscia di terra di 30 km che separa il mar Tirreno dal mar Ionio, la più stretta della penisola italiana).e dei traffici marittimi presenti in quel settore. All'origine tuttavia il centro ebbe carattere specifico di presidio militare, presente fin dalla prima metà del VI secolo a.c.

La Scolacium romana ebbe vita prospera nei secoli seguenti e conobbe una fase di notevole sviluppo economico, urbanistico e architettonico in età Giulio-Claudia. Vi fu fondata una nuova colonia sotto Nerva, nel 96-98, col nome appunto di Colonia Minerva Nervia Augusta Scolacium. Sembra sia passata sotto il controllo dei Brettii nel corso del IV secolo a.c. e che abbia conosciuto un periodo di decadenza dal III secolo a.c., fino alla fondazione della colonia romana ad opera di Gaio Sempronio Gracco.

In età bizantina diede i natali a Cassiodoro (487-583), grande autore della tarda romanità a cui si devono molte opere a carattere teologico ed enciclopedico. Il declino cominciò con la guerra greco-gotica del VI secolo e le incursioni dei Saraceni dal 902 d.c., concludendosi con l'abbandono della città nell'VIII secolo. 

Gli abitanti trasferirono il loro insediamento sulle alture circostanti, fondando altri insediamenti tra i quali quello sulla collina prospiciente l'attuale quartiere Santa Maria di Catanzaro. Successivamente questi centri vennero riorganizzati in posizioni più difendibili e le popolazioni insediate intorno allo Zarapotamo come quelle della collina prospiciente l'attuale quartiere S. Maria di Catanzaro contribuirono alla fondazione della nuova città di Catanzaro.

LA BASILICA

IL PARCO ARCHEOLOGICO SCOLACIUM

Presso Marina di Catanzaro, sulla costa Ionica del golfo di Squillace, sorge tra gli ulivi secolari un tesoro artistico-culturale, chiamato “Parco Scolacium” di Roccelletta. Il Parco Archeologico di Scolacium si trova appunto in località Roccelletta di Borgia, purtroppo completamente inurbata con i quartieri marinari del comune di Catanzaro. 

Dell'abitato preromano rimangono interessanti resti che dimostrano l'impianto della colonia romana, con i suoi monumenti più importanti, tra cui vanno segnalati gli avanzi delle strade lastricate, degli acquedotti, dei mausolei, di altri impianti sepolcrali, della basilica e di un impianto termale.

L’area, oggi espropriata, faceva parte dei possedimenti dei baroni Mazza e, prima ancora, dei Massara di Borgia, proprietari di un’azienda per la produzione di olio. Il sito è infatti immerso in un magnifico uliveto secolare. I ritrovamenti nell’area del Parco testimoniano una frequentazione fin dal paleolitico inferiore e superiore.

IL FORO
Poco noto è l’insediamento greco, perchè non pubblicizzato e perchè della antica Skilletion greca restano poche tracce, visto l'abbellimento  e la ristrutturazione romane, qualcosa in più, scampato all'avidità e dalla iconoclastia religiosa, resta della romana Scolacium.

La fondazione di Skyllation risale al VI-V secolo a.c. a opera di coloni greci provenienti da Atene o da Crotone. Il luogo venne scelto cum grano salis, posto anzitutto lungo la rotta dell'istmo, sulla costa ionica e a presidio del Golfo di Squillace, ottimo per il controllo dei percorsi terrestri e fluviali e quindi per i commerci con tutto il bacino del Mediterraneo.

La colonia romana di Scolacium venne dedotta nel 123-122 a.c., con risistemazione della parte urbana e dell’intero territorio attraverso la centuriazione (secondo un reticolo ortogonale, di strade, canali e appezzamenti agricoli destinati all'assegnazione a nuovi coloni, in genere legionari a riposo).

Essa fiorì fino alla rifondazione da parte dell’imperatore Nerva, quando assunse il nome di Colonia Minervia Nervia Augusta Scolacium, in cui maggiormente prosperò e venne ulteriormente monumentalizzata. 

LA BASILICA

SKYLLETION

Qui fiorì l’antica città di Squillace, la greca Skylletion, della quale gli scavi hanno riportato alla luce numerosi reperti archeologici come edifici e ceramiche, insieme a numerose statue acefale di epoca romana. Skylletion era una colonia di antichissima e nominata da Strabone con un mito di fondazione collegato alla guerra di Troia: sarebbe stata fondata da Ulisse, naufragato in quella terra o dall'ateniese Menesteo durante il ritorno da Troia.

Mentre le fonti storiche rimandano almeno all’VIII secolo a.c., i reperti archeologici recuperati fino ad oggi a Roccelletta (un frammento di ceramica a figure nere, orli di coppe attiche e coppe ioniche) testimoniano l’esistenza dell’insediamento greco presso il fiume Corace, di cui si ignora ancora il porto, solo dal VI secolo a.c. La città fu coinvolta anche nella Guerra del Peloponneso, alla fine del V secolo. Un tempo legata a Crotone, Skylletion passò poi sotto la dominazione di Locri nel IV secolo a.c. 

Di Skylletion si ignora ancora oggi l’estensione e i caratteri urbanistici, poiché vi si sovrappose in seguito la colonia romana, ma essa fu certo importante per il controllo della breve via istmica tra Ionio e Tirreno e per il controllo delle direttrici di traffico marittimo.

INTERNI DELLA BASILICA

SCOLACIUM

Scolacium ebbe una storia millenaria attraverso greci, brettii, romani, bizantini, saraceni e normanni. Le sue rovine si trovano sulla costa ionica nel Golfo di Squillace (CZ) a Roccelletta di Borgia, tracce della città si trovano anche nella località Santa Maria del Mare in Caminia di Stalettì, ed altre ancora nei quartieri Lido e Germaneto di Catanzaro.

La Scolacium romana ebbe vita prospera nei secoli seguenti e conobbe una fase di notevole sviluppo economico, urbanistico e architettonico in età Giulio-Claudia.  Vi fu fondata una nuova colonia sotto Nerva, nel 96-98, col nome appunto di Colonia Minerva Nervia Augusta. In età bizantina diede i natali a Cassiodoro (487-583), grande autore della tarda romanità con molte opere di carattere teologico ed enciclopedico.

La Scolacium Romana ebbe un notevole sviluppo economico, urbanistico, ed architettonico di cui possiamo ammirare l’impianto della colonia romana con i monumenti più importanti: dagli avanzi delle strade lastricate, degli acquedotti, dei mausolei, di altri impianti sepolcrali, della basilica e di un impianto termale, al Foro Romano, il Teatro e l'Anfiteatro Romano.

LA BASILICA

LA BASILICA

Nel parco è il primo rudere che viene ad incontrarsi, un tempo di edificazione ed uso laico poi religioso, in parte distrutta, ma una delle più grandi Cattedrali costruite dai Normanni in Calabria stile romanico con influenze bizantine. 

Costruita per volontà dei Normanni, nel corso del XII secolo e probabilmente mai portata a compimento, nel tempo servì come fortificazione, tanto che ancora oggi viene indicata come “il castello. Possedeva una grande navata, e coperta di capriate in legno e con 5 finestre laterali. Crollata dopo il terremoto del 1783 rimasero innalzate solo le maestose pareti.

RICOSTRUZIONE DEL FORO (http://www.scolacium.com)

IL FORO

Oggi è possibile visitare il Foro, con la sua singolare pavimentazione in laterizio che non ha eguali in tutto il mondo romano e i resti di alcuni edifici, tra cui la Curia, il Cesareum e il Capitolium. Il Foro è costituito da un’area rettangolare pavimentata con mattoni, circondata da portici. Visibili il tempietto, una fontana ed in oltre il tribunale. Proprio in quest’area vennero rinvenute statue e ritratti conservati nell’Antiquarium.

RICOSTRUZIONE DEL TEATRO (http://www.scolacium.com)

IL TEATRO

La città era anche dotata di terme, due acquedotti, fontane e necropoli. Poco distante dalla piazza, adagiato, secondo l'uso greco, alla collina che sfrutta il pendio vi è il teatro per 3500 persone. Nerva lo ampliò con una nuova scena.

Dal teatro provengono molti resti tra cui fregi e statue che sono conservate al museo del sito archeologico, che è compreso nella visita, insieme a dei ritratti storicamente rilevanti di personaggi della famiglia Giulio Claudia come Agrippina e Germanico, sempre legati al sito di Scolacium. 

Tra i pochi teatri di epoca romana ad appoggiarsi al declivio naturale di una collina (il romano sopraelevava in mattoni, rapido e organizzato), il teatro si apre a pochi passi dal Foro, edificato quasi certamente nel I secolo d.c. in occasione della deduzione a colonia romana dell'antica città greca di Skylletion.

IL TEATRO
Come il teatro greco di Locri Epizefiri, anche il teatro romano di Scolacium venne edificato sfruttando il pendio naturale e la cavità offerta da una collina argillosa posta a ridosso del foro romano, costruito intorno al I secolo d.c. una volta dedotta la colonia romana di Scolacium, che sostituì l'antica poleis di Skylletion. 

Nel corso del II secolo d.c. l'imperatore Nerva avviò una intensa opera di ristrutturazione della colonia, nell'ambito della quale il teatro romano venne ampliato e dotato di una nuova scena.Con l'ampliamento dell'intero abitato, il teatro subì alcuni ampliamenti riguardanti sopratutto la scena, con rifacimenti protratti sino al IV secolo d.c. 

IL TEATRO
Dall'area del teatro romano proviene la gran parte dei reperti archeologici messi in luce con gli scavi relativi al Parco Archeologico di Scolacium, e che oggi sono esposti nel nuovo Antiquarium di RoccellettaTra questi pregevoli frammenti architettonici, gruppi scultorei costituiti da due statue acefale di togati, e tre teste ritratto risalenti tutti al periodo compreso tra il I ed il II secolo d.c. 

Sempre dall'area del teatro di Scolacium proviene gran parte della decorazione marmorea e fittile della stessa struttura, tra cui capitelli, antefisse e colonne, che costituiscono elementi della scena, nonchè un'epigrafe della Fors Fortuna, tutto esposto nell'antiquarium. Il teatro romano di Scolacium è ancora oggi oggetto di restauro da parte della Sovrintendenza per i Beni Archeologici della Calabria, e molto è ancora da fare.

L'ANFITEATRO SCAVATO SOLO IN PARTE

L'ANFITEATRO

“… di qui si scorge il golfo di Taranto sacra ad Ercole (se è vero quanto si dice) e di fronte si erge la dea Lacinia e le rocche di Caulon e Scylaceum che infrange le navi.”
(Virgilio, Eneide , III, 551-553)

Passeggiando dal foro, attraversato dal decumano e dominato dal capitolium, verso il teatro e la necropoli, si giunge alla collina dell’anfiteatro. Qui sono state reperite raffinate sculture come la statua della Fortuna, il Genio di Augusto, e un raro esemplare di Germanico, il figlio adottivo dell’imperatore Tiberio. 

L’Anfiteatro, dell’epoca di Nerva,  a pochi metri dal Teatro, seguito da almeno tre impianti termali, necropoli e acquedotti.  Sono i resti dell’unico anfiteatro romano in Calabria.

L'edificio sorge in un settore marginale della colonia romana di Scolacium, sfruttando una depressione naturale, ampliata e riadattata con l'impianto di muraglioni radiali in opera incerta con ammorsature e cinte di mattoni, integrati da strutture curvilinee, basate su uno schema ellittico.

L'ANFITEATRO
La tipologia edilizia riprende in parte le caratteristiche principali del tipo edilizio tardo repubblicano che sfrutta al massimo «le condizioni naturali del terreno [...]» e rientra nella «categoria che J.-Cl. Golvin definisce a struttura piena» (P. Gros). L'anfiteatro ha un asse maggiore di 85,50 m e asse minore di 65 m, un'arena con assi di 45 m e 32 m. f

Si impiantarono nella collina delle strutture radiali innestate sul muro perimetrale, creando vani trapezoidali allungati privi di finestre, in parte agibili, ed in parte costruendo cassoni sotterranei coperti talvolta da volte a botte, su cui si impiantavano le gradinate della cavea. 

Lungo il settore orientale si edificò invece un settore «a struttura cava», con diversi elementi superstiti, relativi ad almeno due livelli con arcate e volte in concrezione di laterizi e pietrame. Quella più bassa, che si sviluppa sull'asse maggiore dell'anfiteatro, fungeva anche da entrata all'arena (vomitorium). Ai suoi lati altri due vomitoria minori che permettevano agli spettatori di raggiungere i settori superiori della cavea.


Della facciata esterna si conservano parti in opera incerta e opera testacea, con robusti contrafforti per la sua stabilità. Due ampie mura con forte inclinazione verso l'arena e forse un terzo muro più stretto, posto in basso, prossimo all'arena, a diretto contatto con il poderoso muro del podio in opera testacea, garantivano la sicurezza degli spettatori dell'ima cavea, con vani di accesso dall'arena attraverso scale in pietra locale.

Nulla si può dire dell'arena non ancora scavata, riguardo alle gradinate per gli spettatori, nelle zone mediane e basse erano costituite da elementi in pietra locale (calcarenite bianca), mentre in altri settori probabilmente dovevano essere lignee.

Tra fine III e IV secolo un settore abbandonato dell'edificio fu occupato da una sontuosa dimora posta su varie terrazze (in gran parte distrutta, come i resti dell'anfiteatro, dai lavori agricoli tra XIX e XX secolo), su cui si sovrappose tra V e VI secolo un'altra costruzione con poderose fondazioni che tagliano le preesistenze e sfruttano in parte i resti dell'anfiteatro.

Le ricerche in corso stanno studiando la datazione dell'edificio che sembrerebbe del I secolo d.c., con rimaneggiamenti e ristrutturazioni del II sec. d.c., in un settore collinare già frequentato in età greca  e tra l'età repubblicana e la prima età augustea. Si segnala un'occasionale occupazione di settori dell'anfiteatro tra seconda metà del XIII e XIV secolo, per l'uso dell'abbaziale di S. Maria della Roccella come fortificazione.

IL MUSEO

IL DECLINO

Il declino cominciò con la guerra greco- gotica del VI secolo e le incursioni dei Saraceni dal 902 d.c., concludendosi con l’abbandono della città nell’ VIII secolo. Gli abitanti, come in tanti altri centri, trasferirono il loro insediamento sulle alture circostanti, fondando altri insediamenti tra i quali quello sulla collina prospiciente l’attuale quartiere Santa Maria di Catanzaro. 

Successivamente questi centri provvisori furono riorganizzati in posizioni più difendibili e le popolazioni insediate intorno allo Zarapotamo come quelle della collina prospiciente l’attuale quartiere S. Maria di CZ contribuirono alla fondazione della nuova città di Catanzaro.




FESTA DI PAX (4 Luglio)

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EIRENE DEA DELLA PACE

PAX GRECA

Anticamente la pace non era solo l'astensione dal conflitto militare, ma veniva sempre strettamente associata ad altri concetti di armonia e giustizia. Per esempio Esiodo (Viii - VII sec. a.c.), personifica la Pace in Eirene, associata però a Eunomia (il buon governo) e a Diche (giustizia), tutte figure delle Ore figlie di Themis.

A sua volta Pluto bambino, in braccio a Eirene, personifica l'abbondanza recata dalla pace, come compare in una raffigurazione di Cefisodoto il Vecchio, padre di Prassitele, posta sull'acropoli di Atene, dove il bambino portato in braccio accarezzava il volto della Dea.

- Secondo Eraclito non può esistere una pace totale, assoluta ed eterna. Esiste una pace perché prima si è verificata una guerra, e la contrapposizione tra la pace e la guerra crea l'armonia nel divenire. La guerra, in quanto distruzione, è indispensabile strumento del divenire, e quindi del progresso: "Polemos (la guerra) è padre di tutte le cose".

- Per Platone, il mantenimento dell'ordine e della pace all'interno della polis dipende anche dalle guerre. che sono un elemento dell'attività di governo e quindi dell'arte politica. Pertanto la guerra è naturale e non eliminabile.

- Aristotele indica la pace come il fine ultimo della polis ideale, a cui doveva tendere l'educazione politica del cittadino.

EIRENE

LE ANFIZIONIA

Proprio al mantenimento della Pace tendevano l'anfizionia delfica dell'Antica Grecia, la lega sacrale stabilita attorno ad un particolare santuario. Nel santuario si raccoglievano i fondi da destinare alle cerimonie religiose, ma pure per accogliere le assemblee delle anfizionie dove si discuteva, oltre che di religione, anche di affari economici, commerciali e politici, finchè non si trasformarono in alleanze a carattere politico-militare.

I compiti di coloro che ne facevano parte, comprendevano l'amministrazione e la custodia del santuario e delle strade che conducevano all'oracolo e al tesoro del dio, la punizione con multe (o in certi casi con azioni militari) dei violatori delle norme anfizioniche.



EIRENE

Eirene o Irene era nella mitologia greca la Dea personificazione della pace, è figlia di Zeus e di Temi, ed era una delle Ore. Il corrispondente nella mitologia romana era Pax.

PAX AUGUSTI
« Poi Zeus sposò la lucente Themis, che diede alla luce Horai (Ora) ed Eunomia (Ordine), Dike (Giustizia) e la fiorente Eirene (Pace), colei che dà significato ai travagli degli uomini mortali.»
(Esiodo, Teogonia, 901)

La Dea Irene, o Eirene, anticamente Dea della Pace, era raffigurata a Roma come in Grecia, come una giovane recante, in una mano, un ramoscello d'olivo con la cornucopia e nell'altra Pluto, simboli di quella ricchezza e dell'abbondanza che solo la pace può donare. Famosa la statua della Dea di Cefisodoto il Vecchio, della quale oggi possediamo una copia romana.

Alla Dea furono eretti altari e statue ad Atene e a Roma. In quest'ultima città Vespasiano e Domiziano fecero erigere un tempio con portici e giardini (Tempio della Pace, più tardi considerato uno dei Fori Imperiali). La Dea venne rappresentata anche sulle monete.



PAX ROMANA

Cicerone, che all'inizio del I secolo a.c. definisce la Pax come tranquilla libertas nelle Filippiche (II, 44, 113), quindi la libertà, con la securitas, erano i presupposti della pace. Insomma "si vis pacem para bellum" (se vuoi la pace prepara la guerra). Infatti i romani erano un popolo di guerrieri.

Publio Cornelio Tacito vede la pax romana ottenuta dalla sottomissione dei popoli bellicosi, del resto lui è il genero del bellicoso e formidabile generale romano Agricola, nella cui vita Tacito riporta le parole di Calgaco (Calgax) capo dei Britanni nell'ultimo tentativo di questi di opporsi alla conquista di Roma. Calgaco si sta rivolgendo ai suoi guerrieri prima dello scontro.

« Auferre trucidare rapere falsis nominibus imperium, atque ubi solitudinem faciunt, pacem appellant
« Rubare, trucidare, rapinare, con falso nome chiamano impero, e dove fanno il deserto, la chiamano pace »

(Tacito, Vita di Agricola)

Ora è vero che i romani conquistavano ammazzavano e rubavano, ma da un lato erano meno feroci dei popoli tribali in cui i capofamiglia avevano potere di vita e di morte sui figli. Inoltre difficilmente erano crudeli o esosi coi popoli conquistati, mirando più a romanizzarli. Che furono un faro di civiltà è un fatto incontrovertibile.

Ma non dobbiamo dimenticare la PAX AUGUSTI, quella del "si vis pax para bellum", però Augusto al popolo romano la pace la dette davvero, ovvero dette poche guerre e piuttosto brevi e lontane.

LA DANZA DELLE ORE

LE ORE

Le Ore (o Stagioni) sono figure della mitologia greca, figlie di Zeus e di Temi, sorelle delle Moire e custodi dell'Olimpo. In origine erano tre e simboleggiavano lo scorrere del tempo e il volgere delle stagioni (primavera, estate e autunno fusi insieme, inverno); poi ne fu aggiunta una quarta (l'autunno); in epoca romana finirono col personificare le ore vere e proprie, divenendo 12 e da ultimo 24. Le ore si presentano in duplice aspetto:

- in quanto figlie di Temi (l'Ordine universale) assicuravano il rispetto delle leggi morali;
- in quanto divinità della natura presiedevano al ciclo della vegetazione.

I loro nomi:
- Eunomia, la Legalità;
- Diche, la Giustizia;
- Irene, la Pace;

oppure:
- Tallo, la Fioritura primaverile;
- Auso, il Rigoglio estivo;
- Carpo, la Fruttificazione autunnale.

Le Ore avevano diversi compiti:
- sorvegliavano le porte della dimora di Zeus sull'Olimpo: le aprivano e le richiudevano disperdendo o accumulando una densa cortina di nuvole.
- Servivano Hera - che avevano allevata.
- Attaccavano e staccavano i cavalli dal suo cocchio e da quello di Elio;
- Facevano anche parte del corteo di Afrodite - insieme con le Cariti,
- Facevano anche parte del corteo di Dioniso.

Gli antichi le rappresentavano come leggiadre fanciulle con in mano un fiore o una pianticella, ma anche brune e invisibili con riferimento alle ore della notte.

DOMUS DEL TEMPIO ROTONDO (Ostia)

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CORTILE DELLA DOMUS
La Casa del Tempio Rotondo è una domus di Ostia Antica, così chiamata proprio perchè vicina ad un tempio circolare, ed è situata tra una serie di edifici pubblici: il Tempio Rotondo a ovest, la Basilica del Foro a nord, e il Tempio di Roma e Augusto a est. L'edificio si trova all'incrocio tra Via di Iside e Via del Tempio Rotondo, a sud-ovest del Tempio Rotondo.

Tutti questi edifici erano ancora integri quando venne eretta la domus, ed è stata datata nel periodo di Alessandro Severo (222-235 d.c.), data sconfessata poi da G. Hermasen che le attribuì un periodo che va dalla fine del III all'inizio del IV sec. d.c..

Oggi si pensa che sia sorta sotto Alessandro Severo ma che verso la fine del III sec. subì una radicale trasformazione, forse passando da edificio pubblico a privato. La maggior parte della muratura è in opus latericium. Nelle stanze orientali, che furono aggiunte all'inizio del IV secolo, si trovano anche alcuni primi opus mixtum e tardo opus vittatum.

L'ingresso del vestibolo (A) che si apre da una strada a sud, è ornato da due lesene con basi in travertino. La muratura dei pilastri è molto più regolare rispetto alla muratura circostante e presenta giunzioni più sottili. Questo effetto visivo indica che la facciata non doveva essere intonacata.

PIANTA DELLA VILLA

I NEGOZI

Sui lati del vestibolo ci sono due negozi, uno per lato, che fanno parte dello stesso edificio, ma che non hanno alcun collegamento con la casa e sono pertanto numerati separatamente (I, XI, 3).
Nella parte posteriore dei negozi si trova la parte inferiore di una scala che porta al primo piano ("mezzanino"). 

In questo mezzanino di solito risiedeva il negoziante con la sua famiglia, per cui al mattino apriva il suo negozio scendendo a piano terra all'interno senza dover raggiungere la strada. Questo gli faceva risparmiare tempo e per giunta poteva rassettare il negozio prima di aprirlo agli avventori.

Questa usanza di fare casa e bottega insieme risparmiava al conduttore della bottega il tragitto tra casa e negozio, consentiva di stipare qualche mercanzia anche alle stanze superiori, e garantiva una maggiore protezione dai ladri, perchè il negozio non era quasi mai incustodito. Si sa che il pericolo dei furti in appartamenti e negozi non era affatto remoto all'epoca.



GLI APPARTAMENTI

Una scala nell'angolo sud-ovest della domus doveva portare ad appartamenti indipendenti ai piani superiori, probabilmente posta a destra del vestibolo di cui sopra. Non sappiamo se i negozi e gli appartamenti fossero di proprietà della domus, o almeno in origine lo dovevano essere, perchè di solito i proprietari si assicuravano con proprietà aggiunte una certa rendita data dagli affitti. Si pensa si trattasse di una casa di ricche persone o la sede di una corporazione.

CORRIDOIO PAVIMENTATO A MOSAICO


DESCRIZIONE

L'ingresso è posto sulla Via del Tempio Rotondo ed immette in un vestibolo, affiancato esternamente, come si è detto, da botteghe con mezzanini. Trattasi della stessa via che conduce al Tempio Rotondo, quindi una strada lastricata dove avevano accesso i carri. Le camere sono disposte intorno a un cortile con porticus. Il pavimento del portico a est ha un mosaico geometrico.

Al centro dell'edificio vi è un cortile circondato da un corridoio pavimentato con un mosaico a disegni geometrici in bianco e nero. Al centro del cortile, completamente pavimentato in marmo bianco a lastre sia sul pavimento che sulla parte bassa delle pareti, c'è una vasca decorativa, anch'essa di marmo all'interno e all'esterno.


La vasca al centro del cortile aveva una base centrale su cui doveva poggiare una statua, e veniva alimentata dal sistema comunale di approvvigionamento idrico.

Nella parte nord del cortile c'era un ninfeo con due nicchie semicircolari che probabilmente contenevano due statue. In una stanza a ovest c'è una grande abside, un'aggiunta successiva.

STANZA DIETRO AL CORTILE
Comunque nella parte nord dell'ala ovest c'era un pozzo circolare che assicurava acqua fresca. Da notare che in terra il ,mosaico segue il contorno del pozzo, segno che il pozzo era in funzione e considerato un pregio nella casa.

Due colonne, di uno stile misto in parte dorico ma con foglie sottostanti un po' come un corinzio semplificato, separano il cortile da una sala pavimentata con marmi policromi, raggiungibile salendo pochi gradini. 

Verrebbe da pensare ad un triclinio estivo, anche se non vi sono panche in muratura, ma nulla esclude che vi fossero dei letti triclinari e dei tavolinetti, d'altronde la stanza era priva della parete frontale che dava sul giardino, per cui le due colonne, che sono interamente di marmo, facevano oltre che da sostegno al tetto, da ornamento alla vista del giardino.

Le stanze poste sul lato ovest della casa, il lato più freddo, erano riscaldate e l'ultima stanza a nord era una cucina.

STANZA DIETRO AL CORTILE
A ovest del suddetto corridoio si aprivano infatti tre stanze (MNO) che erano provviste di decorazioni in marmo sia sui pavimenti che sulle pareti. 

Una stanza posta più in basso, detta stanza L, scaldava le tre stanze MNO, attraverso tubi di terracotta che, passando attraverso i muri, portavano l'aria riscaldata dal forno sotterraneo scaldando le tre stanze.

La stanza P, che era la stanza in fondo, sempre sul lato ovest, era una cucina, sia perchè non aveva tubuli di terracotta che la scaldassero (le cucine, come d'altronde oggi non si scaldavano), sia perchè una parete riporta l'impronta di una stufa nella parte inferiore sinistra della sua parete ovest.

Sulle pareti delle stanze c'erano dipinti molto semplici, soprattutto a riquadri con festoni e maschere. Due delle stanze ad est del corridoio (stanze G ed E) hanno una panchina in muratura ricoperta di marmo contro la parete di fondo.

Sopra la panca nella stanza G inoltre c'è una nicchia che probabilmente accoglieva una qualche divinità. Pertanto questa potrebbe essere stata una stanza di culto, però la nicchia non è centrale ma laterale.

Per giunta, per quanto il pavimento debba essere di nuovo ripulito per la terra e le erbacce che vi hanno allignato sopra, la panca e la relativa nicchia appaiono troppo basse per accogliere una statua votiva, che di solito veniva posta all'altezza del viso dei fedeli. 

Nessuno si chinava per pregare od onorare una divinità. per giunta la panca corre intorno a tutta la parete, e anche questo non ne spiega l'uso, perchè di solito si faceva un altare per la statua o per le statue, mentre la panca dà l'idea di un posto dove sedersi. Insomma più un salotto che una stanza di culto.

IL POZZO
Poichè però solitamente nelle famiglie romane il culto ai Lari e ai Penati si faceva nel Larario, un minuscolo tempietto che si poneva di solito in giardino, viene da pensare, o almeno qualche studioso lo ha congetturato, che si trattasse della casa di qualche sacerdote che vivesse qui con la sua famiglia, ma che dedicasse un culto particolare ad una certa divinità dato il suo ruolo sacerdotale.

Sul fondo si apre direttamente a sud sul cortile, in asse con l'ingresso, una grande stanza, la sala principale con opus sectile marmoreo e ingresso sopraelevato con due colonne, forse una sala da pranzo affacciata su un peristilio (non scavato). La parte centrale della parete nord di questa stanza è un'aggiunta successiva e contiene una nicchia a muro.

Come si può scorgere da questa stanza che sta dietro il cortile, alcuni pavimenti erano molto pregiati, tagliati in grossi medaglioni rotondi, incorniciati da tessere anch'esse di marmo ma di diverso colore, a sua volta iscritti in quadrati di marmo di diverso tipo e colore, a loro volta incorniciati in altrettanti bordi di marmo colorati. Di certo era un'abitazione di gran lusso.


Secondo G. Hermansen potrebbe essere stata la sede di una corporazione però, non solo non vi sono prove in proposito, ma la presenza della cucina e di diverse stanze, nonchè di quello che potrebbe essere un triclinium estivo, riporta ad una abitazione privata e familiare, per giunta decorata con marmi colorati e costosi, lavorati pure in opus sectile. Insomma doveva appartenere ad una famiglia agiata, con beni e schiavi.

Qualcuno ha pensato che potesse essere abitata da uno dei sacerdoti del Tempio Rotondo, data la presenza di una porta (bloccata) nella stanza N, che conduce all'area ad est della cella del Tempio Rotondo. Si è ipotizzato un sacerdote del culto imperiale che anche ad Ostia si operava dai tempi di Augusto, ma non c'è esempio di tempio comunicante con una abitazione privata, sia pure di un importante sacerdote.

Durante un terremoto parte della facciata crollò e cadde su Via del Tempio Rotondo, dove sono ancora visibili i resti, finestra compresa. Il fatto che non venne ripristinato significa che la casa era già stata abbandonata o fu abbandonata nell'occasione.



GNEO CORNELIO LENTULO CLODIANO

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Nome: Gneus Cornelius Lentulus Clodianus
Nascita: 114 a.c.
Morte: -
Gens: Clodia
Genitori: Gneo Cornelio Lentulo
Figli: Gnaeus Cornelius Lentulus Clodianus
Nonno: Gneo Cornelio Lentulo
Consolato: 72 a.c.


Ovvero Gneus Cornelius Lentulus Clodianus,  un politico romano del I sec. a.c..
Nacque nella gens Clodia ma fu adottato nella gens Cornelia, probabilmente da Gneo Cornelio Lentulo, console nel 97 a.c.  che è noto solo dai Fasti consolari ed è citato da Plinio il Vecchio. I Lentuli erano un ramo della gens Cornelia; il nome deriva da lens, lenticchia, probabilmente un vistoso neo di un loro antenato. Di lui si disse che era un buon oratore ed aveva una bella voce persuasiva.

Gneo venne eletto console nel 72 a.c. assieme a Lucio Gellio Publicola, con cui si intendeva benissimo, e insieme emanarono alcune leggi "ad personam":
- una che confermava la cittadinanza romana che Pompeo aveva concesso a Gneo Cornelio Balbo e a due suoi parenti che avevano combattuto per Roma durante la guerra contro Sertorio (Cic. pro Balb. 8, 14);
- un'altra secondo cui una persona assente da Roma perché in viaggio nelle province non poteva essere accusata di delitti capitali, fu emessa per proteggere Stenio di Thermae dalle macchinazioni di Verre, di per sè comunque una legge anche giusta, ma venne vanificata dall'influenza dello stesso Verre (Cic. in Verr. II, 34, 39, etc.)
- Lentulo fece anche approvare una legge per esigere pagamenti da coloro a cui era stato donato del terreno pubblico da Lucio Cornelio Silla. (Sall. ap. Gell. xviii. 4.)

SPARTACO

SPARTACO

Nella III guerra servile contro Spartaco, essendo Gneo Cornelio Lentulo e Lucio Gellio Publicola già proconsoli, in un primo tempo avevano sconfitto un generale di Spartaco, un celta di nome Crixio, in Apulia (Puglia) nella battaglia del Gargano nel 72 a.c..

Spartaco non si intimorì della morte dell'alleato, e anzi riuscì a battere nuovamente le truppe romane, attestate in due eserciti comandati dai consoli Lucio Gellio Publicola e Gneo Cornelio Lentulo Clodiano uno di qua e uno di là dell'Appennino. I due eserciti romani, nel tentativo di sbarrare il passo agli insorti verso le Alpi, vennero sconfitti (estate del 72 a.c.) nell'Appennino tosco-emiliano.
(Tito Livio, Epitome, xc; Plutarco, Crasso, ix e segg.)



I CENSORI

Venne eletto censore nel 70 a.c., di nuovo assieme a Gellio Publicola, dopo circa 15 anni che la carica non era stata più coperta. Una volta eletti espulsero dal Senato 64 membri per indegnità, tra cui Lentulo Sura e Gaio Antonio che fu in seguito collega di Cicerone nel consolato. Tuttavia la maggior parte fu assolta e ripristinata nella carica. (Cic. pro Cluent. 42, in Verr. V, 7; pro Flacc. 19; Gel. V, 6; Val. Max. V 9, 1)

MONETA DI CORNELIO CLODIANO

IL LUSTRUM

I due consoli tennero un lustrum, una cerimonia di purificazione che veniva fatta prima del censimento, con cui il numero dei cittadini risultò ridotto a 450.000. Da tenere conto che non venivano censite nè le donne nè i bambini, nè gli schiavi. (Liv. Epit. 98; Ascon. ad Verr. Act. I, 18; comp. Plut. Pomp. 22.). Veniva eseguita una regolare e generale lustratio di tutto il popolo romano ogni cinque anni, quando il censore aveva terminato il suo censimento e prima di deporre il suo ufficio. La lustratio, o lustrum, era diretta da uno dei censori (Cic. De Divin. I .45), e tenuta con sacrifici chiamati Suovetaurilia (Liv. I . 44 ; Varro, de Re Rust. II . 1 ), perché i sacrifici consistevano in un maiale (o montone), una pecora e un bue. Questa lustratio, che continuò ad essere osservata ai tempi di Dionisio, ebbe luogo nel Campo Marzio.



CONTRO I PIRATI

Entrambi i consoli furono legati di Pompeo contro i pirati del Mar Mediterraneo. Lentulo prese il comando della flotta del mare Adriatico nella primavera estate del 67 a.c., e Gellio comandò quella nel mar Tirreno.

BELLUM PIRATICUM (INGRANDIBILE)
«I pirati non navigavano più a piccoli gruppi, ma in grosse schiere, e avevano i loro comandanti, che accrebbero la loro fama. Depredavano e saccheggiavano prima di tutto coloro che navigavano, non lasciandoli in pace neppure d'inverno; poi anche coloro che stavano nei porti. E se uno osava sfidarli in mare aperto, di solito era vinto e distrutto. Se poi riusciva a batterli, non era in grado di catturarli, a causa della velocità delle loro navi. Così i pirati tornavano subito indietro a saccheggiare e bruciare non solo villaggi e fattorie, ma intere città, mentre altre le rendevano alleate, tanto da svernarvi e creare basi per nuove operazioni, come si trattasse di un paese amico.»
(Cassio Dione Cocceiano, Storia romana, XXXVI, 21.1-3.)

Gneo Cornelio Lentulo Clodiano si pose al comando nell'alto Adriatico, e alle cui dipendenze vennero collocati i giovani figli di Pompeo (Gneo e Sesto) e Gellio venne posto al comando del mare toscano, in breve i pirati vennero sconfitti.

I PIRATI
«Alcune delle bande dei pirati che erano ancora libere, ma che chiesero perdono, furono trattate umanamente, tanto che, dopo il sequestro delle loro navi e la consegna delle persone, non gli fu fatto alcun male ulteriore; gli altri ebbero allora la speranza di essere perdonati, cercarono di scappare dagli altri comandanti e si recarono da Pompeo con le loro mogli e figli, arrendendosi a lui. Tutti questi furono risparmiati e, grazie al loro aiuto, furono rintracciati, sequestrato e puniti tutti coloro che erano ancora liberi nei loro nascondigli, poiché consapevoli di aver commesso crimini imperdonabili
(Plutarco, Vita di Pompeo, 27.4.)



LEGGE MANILIA

Poi al senato Lentulo appoggiò la legge Manilia, del tribuno della plebe Gaio Manilio, che affidava a Pompeo il comando delle legioni contro Mitridate. (Appiano Mithr. 95; Cic. pro Leg. Manil. 23.) , fu La legge vene approvata nel 66 a.c., grazie anche all'aiuto politico di Cesare e Cicerone. Questa legge diede a Pompeo Magno il potere di condurre la guerra contro re Mitridate VI del Ponto, guidata fino a quel momento da Lucio Licinio Lucullo. La legge portata dai plebei non piacque agli aristocratici ma dovettero ricredersi quando Mitridate, ormai sconfitto, si suicidò, liberando Roma di un pericolosissimo nemico.

Dopodichè non si hanno più notizie di lui.

LE CATACOMBE

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CATACOMBE DI SAN CALLISTO
I cimiteri romani si dividevano in sotterranei e subdialis. Questi ultimi erano i cimiteri sopra terra, recintati e con un unico custode e fossore (scavatore di fossi), visto le modeste dimensioni. I corpi, come i templi, erano orientati ad est. Il sarcofago era una tomba più lussuosa, realizzata in pietra, in marmo, in terracotta, e raramente in piombo. Molto diffuso invece, di origini puniche, era un sepolcro realizzato con delle anfore, oppure delle tombe a pozzo chiamate "forma". Le tombe più semplici erano a cappuccina se in muratura, oppure a mensa, con una lastra piana semicircolare.

Le catacombe sono antiche aree cimiteriali sotterranee solitamente ricavate nel tufo essendo questa roccia facile da scavare, e possono avere anche più livelli, con profondità che arrivano fino a trenta m. Contrariamente ad alcune credenze, le catacombe erano pagane, alcune ebraiche e col diffondersi del cristianesimo, anche cristiane. Successivamente con la proibizione violenta della religione pagana, le catacombe rimasero solo cristiane. Infatti, le tombe pagane vennero vuotate e il loro contenuto gettato via e sostituito dai defunti cristiani. Il termine catacomba proviene dal greco, "kata kymbas", vale a dire "presso le cavità".

Mentre i pagani in parte inumavano e in parte incineravano, I cristiani preferirono l'inumazione, si dice, per la fede nella resurrezione dei corpi, abbandonando l'uso della cremazione pagana. 

I cimiteri, pubblici o privati, si trovavano sempre fuori città, tranne in rarissimi casi trattandosi di un onore eccezionale, dato che le Leggi delle XII tavole prescrivevano che "hominem mortuum in urbe neve sepelito neve urito" ("Non si seppellisca né si cremi alcun morto in città"). Infatti si svilupparono principalmente ai lati delle vie extraurbane.

CATACOMBE DI COMODILLA

DESCRIZIONE

I terreni sulle quali le catacombe venivano edificate appartenevano a privati o a collegi funerari. Tuttavia le gallerie delle cave per l'estrazione di tufo e pozzolana vennero spesso sfruttate per farne cimiteri sotterranei, piuttosto estesi, con una planimetria articolata a gallerie più o meno parallele e dei cubicoli, una specie di cappella dove si accoglievano più sepolture.

Generalmente le gallerie, dette ambulacri, erano strette e basse, dai sette a trenta metri sotto la superficie, di circa 2,5 m di altezza e di larghezza. e intercomunicanti ai vari livelli tramite ripidi scalini.

I vari loculi venivano scavati sulle pareti degli ambulacri, con un'altezza di 40–60 cm ed una lunghezza dai 120 ai 150 cm; formando a volte dei cubicoli che accoglievano i corpi avvolti in lenzuoli di lino oppure posti in sarcofagi di pietra. Alcuni cubicoli ospitavano le tombe di una famiglia o di un'associazione, con delle cripte, o con tombe sormontate da archi, dette arcosoli e destinate a personaggi importanti, magari nobili, oppure martiri cristiani.

Dei pozzi di areazione procuravano un modico ricambio dell'aria per i visitatori, che tuttavia non potevano restare molto a costo di morire asfissiati. Naturalmente è falso che i cristiani abbiano usato le catacombe per fuggire le persecuzioni, sia perchè sarebbero morti asfissiati, sia perchè era sufficiente riconoscere la divinità dell'imperatore per aver salva la vita. Cortesia non ricambiata dai cristiani nelle persecuzioni ai pagani.

TOMBA PAGANA CON DEA FORTUNA

LE DECORAZIONI

Per la decorazione delle catacombe si adoperavano procedimenti, già noti, della pittura sia ellenistica, sia romana; prima di tutto era preparata la superfice da decorare con l’arriccio, un impasto di calce spenta, pozzolana e sabbia, dopo di che, una volta asciugato il supporto, veniva steso l’intonaco o lo stucco, alcune tombe non sono dipinte ma presentano degli stucchi di eccezionale fattezza, dopo la pittura, quest’ultimo strato, detto tectorium, riceveva un’accurata levigatura che lo rendeva lucido e simile al marmo.

Il materiale usato era spesso il marmo, ma anche la pietra, le tegole, in rari casi mosaici, tavolette lignee, sono state ritrovate iscrizioni anche su oggetti in avorio, bronzo o persino, su manufatti in oro. Chi incideva i vari materiali era di solito un artigiano specializzato, il lapicida, anche se a volte la sua cultura non era sufficiente a scrivere in una lingua corretta, in special modo quando si trattava di usare quella greca, la cui conoscenza era propria di personaggi di elevata cultura.

CATACOMBE DI SANTA PRISCILLA
A volte sono presenti omissioni di sillabe o di lettere altre volte vi sono delle aggiunte per correggere qualche errore, in alcuni casi il supporto era girato e inciso nuovamente sulla parte opposta, per risparmiare spazio erano usate delle abbreviazioni e a volte le scritte erano in latino ma con l’uso delle lettere greche e viceversa.

In alcuni loculi sono stati ritrovati, in sostituzione delle epigrafi o semplicemente per abbellire la sepoltura, gli oggetti più strani, come statuette di avorio, giocattoli, monete, vetri, che presumibilmente erano appartenuti ai defunti. Non mancavano le citazioni, le preghiere, le orazioni, delle brevi composizioni, le invocazioni e i disegni o le sculture simboliche, infine molti graffiti furono lasciati dai pellegrini e dai visitatori.

Non mancarono peraltro i vari simboli del cristianesimo:

- Il Buon Pastore con la pecora sulle spalle (Cristo che salva I'anima), in realtà un simbolo pagano riadattato da Hermes e pure Apollo recanti l'animale salvato sulle spalle, che poteva essere una pecora o un vitello.
- L'orante: figura rappresentata a braccia aperte, simbolo dell'anima che vive già nella pace divina, ma era il gesto degli oranti già al tempo degli antichi greci quando pregavano gli Dei pagani. Qui sotto il primo orante è del 300 a.c. ellenico e il secondo è cristiano del III secolo d.c..
- Il monogramma di Cristo è formato da due lettere dell'alfabeto greco, la X (chi) e la P (ro), intrecciate, che sono le prime due lettere della parola greca "Christòs", Cristo. 
- Il pesce. In greco si dice IXTHYC (ichtùs). Disposte verticalmente, le lettere di questa parola formano un acròstico: Iesùs Christòs Theòu Uiòs Sotèr = Gesù Cristo Figlio di Dio Salvatore.
- La colomba, con il ramoscello d'olivo nel becco, simbolo dell'anima nella pace divina.
- L'Alfa e l'Omega dell'alfabeto greco. Significano che Cristo è l'inizio e la fine di tutte le cose.
- L'àncora è il simbolo della salvezza cristiana.
- La fenice, mitico uccello d'Arabia, che ogni cento anni risorge dalle sue ceneri, è il simbolo della risurrezione.

 La cura e la manutenzione delle catacombe era affidata ai Fossores, i quali oltre a tumulare i morti avevano il compito di scavare le gallerie, gli ambienti, le tombe a volte provvedevano anche alla decorazione delle sepolture, si trattava ovviamente di operai specializzati che si servivano di vari strumenti di lavoro, tra i tanti ricordiamo: la dolabra scultorea, l’ascia, lo scalpello con relativo mazzuolo, il compasso, la groma; nonostante fossero dei professionisti vivevano, perlomeno ufficialmente, di sole donazioni.

Dall'età costantiniana il culto dei martiri portò profonde modificazioni alle catacombe a causa dell'affastellarsi di sepolture accanto ai santi, come se questa vicinanza concedesse all'anima del defunto un qualche beneficio, determinando l'apertura di brevi gallerie e nuovi cubiculi appositamente scavati per le inumazioni "retro sanctos", spesso creando veri ossari, per custodire i resti delle tombe distrutte durante i lavori atti a creare nuovi spazi funerari.

Con l'ampliarsi del cristianesimo venne a sostituirsi la sepoltura subdiale (priva di tetto) a quella sotterranea visto che ormai l'attività d'aggregazione dei cristiani avveniva nel titulus, una sorta di area parrocchiale o nella domus ecclesiae la casa dell'assemblea, messa spesso a disposizione da famiglie abbienti.

Le catacombe furono utilizzate per le sepolture fino al V secolo, dopodiché divennero luoghi di pellegrinaggio dei fedeli sulle tombe dei martiri. A Roma sono state ritrovate più di sessanta catacombe che si snodano per svariati km, molte a più livelli, però quelle visitabili sono solo cinque o sei,  ed eccone un elenco suddiviso per le vie a Roma:

IPOGEO DI VIA LIVENZA

Via Appia:

- Catacombe di San Callisto.
- Catacombe di Pretestato.
- Catacombe di San Sebastiano
-  Ipogeo di Vibia.
- Catacombe di Vigna Randanini.


Via Ardeatina:

- Catacomba dei Ss. Marco e Marcelliano o di Basileo.
- Catacombe di Domitilla.
- Catacomba della Nunziatella.
- Catacomba di Balbina.


Via Aurelia:

-  Catacomba di San Pancrazio.
-  Catacomba di Calepodio.
-  Catacomba dei due Felici.
-  Catacomba dei Santi Processo e Martiniano.


Via Cornelia:

-  Necropoli Vaticana.


Via Flaminia:

-  Catacomba di San Valentino.


CATACOMBA DI SANTA PRISCILLA
Via Labicana:

- Catacombe dei Santi Marcellino e Pietro.
- Catacombe di San Zotico.
- Ipogeo degli Aureli.
- Catacomba di San Castulo.


Via Latina:

- Catacomba dei Santi Gordiano ed Epimaco.
- Catacomba di Aproniano:
- Ipogeo di via Dino Compagni.
- Ipogeo di Trebio Giusto.


Via Nomentana:

- Catacomba di San Nicomede.
- Catacomba di Sant’Agnese
- Catacomba Maggiore.
- Catacombe di Sant’Alessandro.
- Catacombe di Villa Torlonia.


Via Ostiense:

- Tomba di San Paolo.
- Tomba di San Timoteo.
- Catacombe di Commodilla.
- Catacomba di Santa Tecla.


Via Portuense:

-  Catacomba di Ponziano.
-  Catacombe di Generosa.


Via Salaria nuova:

- Catacombe di Santa Felicita.
- Catacomba di Trasone.
- Catacomba di Sant’Ilaria.
- Catacomba dei Giordani.
- Catacombe di Priscilla.
- Catacombe di via Anapo.


Via Salaria vecchia:

- Catacomba di San Panfilo.
- Catacomba di Sant’Ermete o di Bassilla.
- Catacomba a Clivum Cucumeris.


Via Tiburtina:

- Catacomba di San Lorenzo o di Ciriaca.
- Catacomba di Novaziano.
- Catacomba di Sant’Ippolito.
- Catacomba di Santa Sinforosa.

CATACOMBE DI PIETRO E MARCELLINO

Nel resto d'Italia:

Bolsena - Santa Cristina;
Rignano Flaminio - Santa Teodora; 
Nepi - Santa Savinilla
Monteleone Sabino - Santa Vittoria   
Paliano - Colle San Quirico  
Grottaferrata - ad Decimum 
Valmontone - Sant’Ilario ad bivium; 
Albano Laziale - San Senatore; 
Chiusi - Santa Mustiola e Santa Caterina d’Alessandria; 
Ravenna - San Severo, San Eleucadio, San Probo e Sant’Apollinare; 
Napoli - San Gennaro, San Gaudioso, Sant’Eufebio e San Severo; 
Potenza - Venosa; 
Palermo - Porta d’Ossuna; 
Fragapane ad Agrigento. 


In Europa:

a Parigi in Francia, 
a Colonia e Treviri, 
in Germania, 
in Spagna, 
in Grecia, 
a Malta, 
in Anatolia, 
in Africa settentrionale.

CATACOMBA DI SANTA PRISCILLA
Le esplorazioni e gli studi delle catacombe iniziarono, in maniera assidua, tra il 1593 e il 1629 per opera di Antonio Bosio che scrisse un’opera imponente “La Roma sotterranea”, la pubblicazione avvenne postuma nel 1634, cinque anni dopo la sua morte. Da quel momento le ricerche scientifiche gli studi e le pubblicazioni si succedono senza interruzioni.

BATTAGLIA DI DYRRHACHIUM

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La battaglia di Dyrrhachium fu combattuta nell'estate del 48 a.c. nei pressi di Dyrrhachium (Durazzo, Albania) tra gli eserciti di Gneo Pompeo Magno e quelli di Gaio Giulio Cesare nel corso della II Guerra Civile di Roma.

Dopo essere fuggito dall'Italia senza combattere, Gneo Pompeo, allarmato dalla caduta delle città che si erano opposte a Cesare, si rifugiò in Puglia, per raggiungere con la flotta la penisola balcanica. Aveva cercato di organizzare e potenziare le sue ingenti forze terrestri e navali per raggrupparle nel Mediterraneo Orientale.

Egli disponeva in totale di undici legioni, di cui almeno cinque piuttosto efficienti, ma la maggior parte era ancora da addestrare. Le truppe in generale manifestavano un morale elevato ma non avevano grande esperienza esperienza. La superiorità militare di Pompeo stava nel campo navale, dove disponeva di circa 500 navi da guerra. Inoltre il comandante navale Marco Calpurnio Bibulo aveva raggruppato oltre 110 navi nel quartier generale di Corcyra.


Bibulo conosceva bene Cesare per essere stato console con lui nel 65 a.c. quando Cesare lo oscurò ed esautorò dal comando, si che si diceva che era l'anno dei consoli Gaio Giulio e Cesare. d'altronde riuscì nel 59 a.c. ad essere nominato console grazie al denaro di catone e dei senatori che corruppero gli elettori. Così Bibulo odiava Cesare e con tutto il cuore si preparava a distruggerlo.

Il grosso delle legioni pompeiane invece si muovevano in posizione più arretrata; dopo aver lasciato l'accampamento estivo sull'Aliakmon, le truppe marciavano da Tessalonica verso Durazzo dove Pompeo voleva porre il suo comando supremo; invece due legioni al comando di Metello Scipione erano ancora presso il regno di Pergamo e non era previsto il loro arrivo fino alla primavera del 48 a.c.
Dvrrhachium (noto anche come Epidamnus, Durazzo in Albania moderna) si trova all'inizio della Via Egnatia, la strada romana che collegava il Mar Adriatico in Macedonia e sul Mar Egeo. La città divenne il centro di una serie di impegni militari durante la seconda guerra civile (49-48), in cui Giulio Cesare ha combattuto contro Pompeo Magno. In questione era la fine della Repubblica Romana con a capo Cesare come dittatore, o di una repubblica con un forte leader militare, come proposto da Pompeo.
GIULIO CESARE
Gennaio 49, Cesare aveva invaso l'Italia al Rubicone, e Pompeo aveva evacuato l'Italia, che non poteva essere difeso contro i soldati esperti di Cesare (17 marzo). Dopo una campagna lampo in Spagna, dove ha sconfitto diverse legioni fedeli a Pompeo, Cesare ha diretto la sua attenzione alla Grecia, dove il suo avversario stava costruendo un nuovo esercito di nove legioni. Voleva invadere l'Italia e aveva bisogno di Dyrrhachium come sua base. Quando la campagna è iniziata, Pompeo stava ancora raccogliendo il suo esercito in una zona del sud-est di questo porto.

Nel gennaio del 48 a.c. la XII Legio, insieme alla Legio XI attraversò lo stretto di Otranto da Brundisium all'Epiro, pur decimata da un'epidemia che aveva colpito la zona.

Caesar disponeva di undici legioni (V Alaudae,  VI Vitrix, VII Claudia, VIII, IX Hispana, X Fratensis, XI Claudia, XII Fulminata, XIII, XIV Gemina, XXVII), ma non era in grado di trasportarne più di sette sul Mar Adriatico. Avendo sbarcarono a Apollonia, a sud di Dyrrhachium, Cesare, immediatamente inviò due legioni a est, per evitare che Pompeo ricevesse rinforzi. Con le restanti cinque unità, Cesare marciò verso nord e si accampò tra Pompeo e Dyrrhachium. Quando Pompeo, giunse, fece porre il suo accampamento su una collina chiamata, "roccia", e poiché i suoi uomini erano ancora inesperti, rifiutò la battaglia.

Pertanto, Cesare iniziò a costruire fortificazioni. per impedire ai soldati di Pompeo di ottenere cibo dalle campagne circostanti, per impedire alla cavalleria di attaccare, e, di massima importanza, avrebbe dato l'impressione che Pompeo fosse assediato e che non avesse il coraggio di combattere. Così, gli uomini di Cesare fecero un'opera colossale: costruirono ventiquattro porte e un muro di 22 Km.

Pompeo intanto costruiva a sua volta opere di difesa. Ci sono stati diversi scontri tra le due forze romane, in cui la IX legione di Cesare ebbe a soffrire parecchie perdite. La costruzione della circumvallazione, tuttavia, continuò. Nella sua Storia della guerra civile, Cesare dice che durante un attacco in un fortino del sud, un centurione ricevette non meno di 120 colpi sul suo scudo, ecco la prova della disciplina e il morale alto dei legionari.

Cesare non era affatto contento, aveva perso molti uomini, aveva dato Pompeo la possibilità di addestrare i suoi reclute, e non aveva ancora una linea di comunicazione con l'Italia. Eppure, i suoi uomini erano rimasti disciplinati e motivati, ed entro un mese lo avrebbero dimostrato a Farsalo. La parte meridionale delle fortificazioni di Cesare erano ancora incompiute, e Pompeo doveva staccarsi dal suo campo prima che l'anello si fosse chiuso.

POMPEO MAGNO
Ciò diventò ancora più urgente quando il luogotenente di Cesare, Marco Antonio arrivò con le restanti quattro legioni. Durante la notte del 7 luglio, Pompeo ordinò ai suoi soldati di attaccare la parte incompiuta delle fortificazioni di Cesare, e dopo una giornata di combattimenti, Cesare dovette ammettere che non era in grado di riprendere il controllo di questa parte del campo di battaglia. Ciò significa che la sua circonvallazione non sarebbe stata chiusa. 

Le cose precipitarono: il 17 luglio 48 a.c.. Pompeo riuscì a organizzare un attacco combinato in tre punti diversi; i cesariani subirono forti perdite e ci furono cedimenti sull'ala sinistra delle fortificazioni. Cesare preferì rinunciare alla guerra d'assedio e ripiegare con le sue forze a est verso la Tessaglia, sarebbe stato inseguito, ma sul terreno che decideva lui.

La vittoria di Pompeo fu di scarsi risultati, anche per le indecisioni del generale che, conoscendo l'astuzia di Cesare, temette che la fuga delle sue legioni fosse una manovra tesa a preparargli una trappola. Cesare poté quindi riorganizzare le sue legioni e trasferire i combattimenti nelle pianure aperte della Tessaglia, nel combattimento aperto dove Cesare poteva esercitare le sue grandi doti di stratega, e dove conseguì dopo poche settimane la decisiva vittoria di Farsalo.

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