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PORTA PRETORIANA (Porte Aureliane)

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RESTI DELLA PORTA PRETORIANA
La Porta Pretoriana, nell'accampamento era la Porta che si apriva davanti al pretorio, all'estremità del decumano massimo, e a Roma fu una porta delle Mura Aureliane. Vi sono scarsissime notizie su di essa, dato che venne murata in epoca imprecisata. Si pensa che sia la prima porta ad essere murata, e così appare lungo il muro dei Castra Praetoria.

I Castra Praetoria erano la caserma dei pretoriani a Roma, situata nell'estrema parte nord-orientale della città, tra il Viminale e l'Esquilino, tra la via Nomentana e la via Tiburtina. Si intendevano come "pretoriani", tutte le piccole unità di scorta alle varie autorità, mentre la Guardia pretoriana era un reparto militare che svolgeva compiti di guardia del corpo dell'imperatore.

La Guardia pretoriana, costituì il corpo militare a disposizione degli imperatori romani decretandone molto spesso le fortune, in positivo o in negativo. Ebbe origine nel III secolo a.c. come gruppi di militari scelti nelle legioni per proteggere pretori, consoli e generali.


Sembra, però, a quanto riferisce Tito Livio, che il primo esempio di guardia armata a protezione del regnante ci fu in età regia, al tempo di Tarquinio il Superbo. Ma fu Augusto che la utilizzò come guardia del corpo dell'imperatore, ma pure come servizi segreti, compiti amministrativi e di polizia fino anche all'aiuto dei vigiles nello spegnere gli incendi.

La caserma dei pretoriani misurava m 440 x 380, cioè 16,72 ettari e presentava verso ovest un campus, cioè un'area per le esercitazioni militari. Le mura del castra, alte sotto Tiberio m 3-5, furono danneggiate durante la guerra civile del 69 d.c. e ricostruite da Vespasiano. Quando Aureliano fece circondare Roma di mura, l'accampamento dei pretoriani fu inglobato in esse.

I PRETORIANI (COLONNA TRAIANA)
La Porta Pretoriana doveva essere la porta orientale dei Castra Praetoria, la grande caserma della guardia pretoriana che l'imperatore Tiberio (42 a.c. - 37 d.c.) costruì tra il 20 e il 23 d.c. per riunire in un'unica sede le 9 coorti istituite da Augusto (63 a.c. - 14 d.c.) come guardia imperiale.

Non è mai comparsa tra le porte di Roma, tanto che si pensa sia stata chiusa da Aureliano (214 - 275 d.c.) quando, tra il 270 e il 273,  incluse nella cinta muraria l'accampamento dei pretoriani, oppure da Costantino (274 – 337 d.c.) quando sciolse l'ordine militare dei pretoriani.

La sagoma della Porta è ormai scomparsa, anche se se ne può individuare l'ubicazione. Poichè sembra fosse ad arco con tre finestre poste alla sommità della porta, e queste ultime sono visibili tuttora, si possono individuare lungo il Viale del Policlinico, tra il Policlinico Umberto I e Porta Pia, dove appunto compaiono tre finestrelle non spiegabili altrimenti.




CULTO DI PIETAS

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DEA PIETAS

« … ma è nel sentimento religioso e nell’osservanza del culto e pure in questa saggezza eccezionale che ci ha fatto intendere appieno che tutto è retto e governato dalla volontà divina, che noi abbiamo superato tutti i popoli e tutte le nazioni. »

(Cicerone, De haruspicum responso)

Pietas era una delle divinità indigene, cioè italiche, (Di Indigetes) della religione animista primigenia romana. I Di indigetes ("dei indigeni") sono un gruppo di divinità e spiriti della religione e della mitologia romana primitive, (in realtà anteromana ma proseguita in epoca romana) non adottati da altre religioni. Non si racconti dunque che derivi da un'idea incarnata, a meno che non si consideri così qualsiasi divinità, ad esempio Minerva è l'incarnazione dell'intelligenza, Venere della bellezza, la Madonna dell'amore filiale e il Cristo del sacrificio supremo.

I romani, e prima di loro gli italici, avevano fede in questa divinità che garantiva un buon rapporto nelle famiglie, tra i cittadini e tra i cittadini e lo stato. Il significato del termine si è avvicinato a quello attuale di misericordia (un po’ riduttiva, rispetto all’antica pietas) con il Cristianesimo, per il quale la pietà è un attributo di Dio, anche se smentito continuamente dal suo comportamento con gli uomini e con il suo unico figlio.

Nel II secolo a.c., le fu dedicato un tempio nel Foro Olitorio, il mercato della verdura e della frutta, così come il foro boario era il mercato della carne. Al suo interno si trovava un'area sacra già comprendente i tre tempietti dedicati a Giano, Speranza e Giunone Sospita. I Romani le consacrarono dei templi, il primo dei quali risaliva all'anno 181 a.c., votato da Acilio Glabrione nella battaglia contro Antioco alle Termopili nel 191 a.c. e dedicato da suo figlio dieci anni dopoun altro si ergeva nelle vicinanze del circo Flaminio, presso il tempio di Nettuno ed era in modo particolare consacrato alla pietas tra genitori e figli.

Il tempio del Foro Olitorio venne poi distrutto per la costruzione del contiguo teatro di Marcello, dedicato al nipote di Augusto da lui molto amato e scomparso prematuramente.

Sembra strano che Augusto, che fece restaurare o riedificare tutti gli antichi templi, abbia distrutto questo senza riedificarlo altrove. Tanto più che distruggere un tempio significava inimicarsi la divinità.

D'altro canto Ottaviano aveva rimarcato il suo valore evocando la Pietas Augusta, come se la divinità gli avesse trasfuso il senso della Pietas per tutto il suo popolo. Ancora rese omaggio alla Dea raffigurando almeno sulle monete sua moglie Livia in qualità di divina Pietas, come si vede qua sotto, ammantata e incoronata.

Del resto nell'iconografia imperiale, Pietas veniva spesso associata alle donne legate all'imperatore, in quanto la pietas era una virtù che ben si confaceva alle donne imperiali. Il maschio era la giustizia e la difesa militare, la femmina era la premura e la cura del popolo e dei più deboli.

LIVIA COME DEA PIETAS
Dunque Augusto fece ricostruire il tempio tanto che alla Dea a Roma ne erano stati dedicati due. infatti il 13 novembre si festeggiava, anzi si commemorava la dedica del Templum Pietatis, e dunque la Pietas, Dea del dovere, della religiosità e dell'amore.

La Dea veniva rappresentata spesso sulle monete come una figura femminile offerente incenso su un altare oppure recante un bambino al seno. Pietas era la sorgente del sentimento romano che aveva reso grande Roma, perciò divinità preposta al compimento del proprio dovere nei confronti dello Stato, delle divinità e della famiglia, i cui attributi erano dei bambini o una cicogna, che nella sua qualità di ‛ciconia pietati cultrix' (Petron., Büchler, p. 347) appare quasi regolarmente sulle monete repubblicane accanto ai numerosi busti della Pietas.

- Il suo nome appare per la prima volta sulle monete coniate del figlio di Pompeo Magno, che si definisce pio nella sua qualità di vendicatore del padre. Ma l'immagine della Pietas per antonomasia è quella del ‛pio Enea', che porta sulle spalle il padre per sottrarlo all'incendio di Troia, immagine che si ritrova spesso sulle monete posteriori.

 - Un cambiamento nell'accezione di Pietas si riscontra nelle monete del triumviro Antonio: Pietas, ormai in piena figura, tiene nella destra una cassetta di incenso e una cornucopia, decorata con due cicogne. 

- Questa Pietas diviene con Augusto la "pietas erga deos" e la musa ispiratrice della politica imperiale e religiosa di Augusto che desidera ardentemente la moralizzazione dei costumi romani secondo gli "ius maiorum". 

- Tiberio pone, come già per Iustitia, il titolo di Pietas accanto al ritratto di sua madre, quando ancora intratteneva un buon rapporto con lei, e fece coniare monete con la scritta Pietas Augusta e votò un'ara (poi consacrata da Claudio) in occasione di una malattia di Livia.

- Il suo successore, Gaio Caligola, presenta sul dritto di una delle sue monete la Pietas velata con la coppa dei sacrifici, e sul retro se stesso, mentre compie il sacrificio. 

- Galba chiama la Pietas, in atto di compiere il sacrificio, pietas Augusti, e sull'altare si vede il pio Enea con il padre e il figlio. 

LA PIETAS CHE OPERA IL SACRIFICIO
- Il Senato onora la Piets di Vespasiano in confronto al suo divinizzato predecessore Galba, con l'iscrizione "Senatus Pietati Augusti". 

- Traiano mette in mano alla Pietas la coppa dei sacrifici e lo scettro, donandole i potere si scatenare la Pietas negli animi degli uomini migliori, soprattutto di governo.

- Adriano invece crea nuove forme per la rappresentazione della Pietas che diventeranno tipiche per le età successive: la Pietas alza, dinanzi ad un altare, una o due mani pregando verso il cielo oppure sparge sul fuoco dell'altare grani di incenso, che toglie da una cassetta.
Altrettanto fanno i fedeli quando pregano, mai a mani giunte la con le mani alzate all'altezza delle spalle

- La Dea Pietas si evolve ancora nella rappresentazione iconografica con Antonino Pio, che non a caso ne porta il nome.
Nelle sue numerose monete, coniate particolarmente in onore della consorte deceduta, Faustina I, mostra ampiamente la religiosità romana; anche le copiose riproduzioni di suppellettili destinate ai sacrifici sulle sue monete attestano la sua Pietas. 

- In età successiva la Pietas indica ancora i rapporti affettuosi, soprattutto, come propaganda ma pure come buon esempio, entro l'ambito della famiglia imperiale, o quando le imperatrici si atteggiavano a "mater castrorum" o a "mater Augusti", o "mater senatus", o "mater patriae", evocando la pia assistenza praticata dalle donne imperiali durante le guerre o durante i disastri. 

- Due imperatori, che regnarono contemporaneamente (Balbino e Pupieno) definirono la loro reciproca simpatia con l'espressione Pietas mutua. 

- L'imperatore Gallieno nelle sue monete rappresenta Giove fanciullo sul dorso di Amaltea, la capra che lo allevò come figlio, come "pietas saeculi".

ENEA CON PADRE E FIGLIO

IL PIO ENEA

La pietas degli antichi era infatti la devozione religiosa, il sentimento d’amore patriottico e di rispetto verso la famiglia, ma pure verso il generale dell'esercito e verso ogni gerarca che lo comandava per il buon esito della pace e della guerra

L'Enea di Virgilio è “il pio” per antonomasia, ed è Virglio a definirlo così, non perché sia buono e misericordioso, in senso cristiano (e da qui l’equivoco che Virgilio etrusco e figlio di una maga etrusca fosse cristiano) ma perché era devoto agli Dei, ai genitori e ai figli (durante la fuga da Troia, si fa carico sia del figlio, che del padre Anchise). Enea obbedisce agli Dei e al fato, mettendo in secondo piano le vicende personali, insomma l’atteggiamento “pietoso” dell’eroe troiano consiste nel rispetto dei valori tradizionali quali la famiglia, la patria e la religione.

Non a caso le donne partecipano poco, la moglie muore e Didone viene abbandonata. Invece il vecchio padre porta con sè i Lari e i penati, perchè Anchise, come Enea, è un pio, e porta con sè la religio e gli ius maiorum.


STATO E FAMIGLIA

Nella sua devozione, il Romano non è rivolto, come il Cristiano verso il Cielo: lui, pastore e guerriero, guarda le greggi, i suoi armenti, il suo terreno, la sua famiglia, e soprattutto la sua patria con estrema razionalità anche nell'ambito religioso. Il romano non ha paura della morte, non spera una ricompensa nell'aldilà, ma ciononostante si sente chiamato a contribuire al benessere di tutti i romani.

La pietas delle iscrizioni militari esprime l'attaccamento delle varie legioni all'imperatore (Pietas legionis). In questo stesso senso la colonia dedotta a Pola sullo scorcio della repubblica si chiamò Pietas Iulia.

La “pietas romana” garantisce il successo alla res publica mediante la scrupolosa osservanza della religio, dei suoi culti, dei suoi riti, della sua tradizione, osservanza che consente di ottenere il favore degli Dei e garantire la "pax deorum". Esecutori e garanti di questa possibilità sono i sacerdoti che eseguono scrupolosamente  riti e cerimonie per la salvaguardia e la perpetua vittoria di Roma sui nemici.

La benevolentia degli Dei viene dunque determinata dalla scrupolosa osservanza della religio e dei suoi riti, ed è testimoniata infatti dal successo di Roma nei confronti delle altre città e nel Mondo.
Dunque i romani non hanno alcun obbligo di amare gli Dei, obbligo precipuo del cristianesimo, nessun romano pensa che si possa amare un Dio che domina con premi e punizioni, nè pensa che gli Dei possano amarlo, ma crede ad un “do ut des” tra uomo e Dei. Donando agli Dei onori, preghiere e templi essi riconoscenti accorderanno la loro protezione.

Ma per il resto il romano accoglierà la Pietas non per ottenere premi in questo mondo o nel successivo ma per essere un buon romano, guida ed esempio per ogni altro popolo, soprattutto verso i popoli assoggettati che emergano dalla barbarie e si romanizzino.

VILLA DI CHEDWORTH (Inghilterra)

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RICOSTRUZIONE DELLA VILLA

La Villa romana di Chedworth si trova nel Gloucestershire, nei pressi di Cheltenham, a breve distanza a nord-ovest di Fossebridge sulla strada Cirencester-Northleach (A429) ed è uno dei più importanti siti archeologici di epoca romana in Inghilterra. Venne acquisito nel 1924 dal National Trust che ha condotto un programma di conservazione a lungo termine, con nuove strutture in loco e edifici di copertura.

Gli studiosi dibattono se Chedworth fosse effettivamente una fattoria o un ostello religioso, cioè un santuario con albergo, poiché sono state trovate prove a sostegno di entrambi gli argomenti. Tuttavia, la maggior parte propende per una fattoria privata, abitata da un benestante romano-britannico.

PLANIMETRIA DELLA VILLA

LA SCOPERTA

Nel corso dei secoli, i conigli scavando hanno fatto emergere un numero di tessere sparse, notate infine dai guardiacaccia, che ne hanno capito il significato. Questa fortuna portò al restauro della villa, inizialmente intrapresa dal signore di quei luoghi e successivamente occupata da gruppi di volontari.

In affetti il sito venne scoperto per caso da un guardiacaccia nel 1864, un certo Thomas Margetts che stava cercando un furetto e trovò frammenti di pavimentazione e ceramica. Il posto rivelò i resti di una fattoria risalente al II sec. d.c. e progressivamente ingrandita sino al IV sec. 

DETTAGLIO PLANIMETRIA (INGRANDIBILE)
Una villa immensa, con almeno cinquanta stanze, con oltre un miglio di murature Romane, ambienti da bagno, fontane e mosaici di eccezionale qualità, sullo sfondo nell’affascinate paesaggio rurale delle Costwolds. I romani sceglievano per le loro ville i posti più belli.

L'edificio sorse inoltre a soli 8 miglia (13 km) a nord da Chedworth, un tempo la seconda città per importanza della Britannia, dopo Londra, Corinium Dobunnorum ora conosciuta come Cirencester.

Roger Goodburn suggerisce che la posizione di Chedworth nel Cotswolds e nella valle del fiume Coln sia importante per l'agricoltura. Era una delle circa cinquanta ville del Cotswolds, e una delle nove in un raggio di 5 miglia (8 km).

Nel IV secolo l'edificio venne trasformato in una dimora di lusso disposta intorno ai tre lati di un ampio cortile, con un'ala ovest riscaldata e arredata che conteneva una sala da pranzo (triclinium) con un bel pavimento a mosaico, e due sale da bagno separate: una per il calore umido e una per il calore secco.


È nell'anticamera della sala da pranzo (il triclinio ) che si può vedere il pavimento a mosaico più elaborato. Solo tre pannelli sopravvivono e rappresentano la primavera, l'estate e l'inverno. La villa era situata accanto a una sorgente naturale nell'angolo nord ovest del complesso, che era la principale fonte d'acqua della villa, e che era il luogo in cui gli abitanti costruivano un santuario absidale alle ninfe acquatiche (ninfeo).

L'architettura dell'edificio e le opere d'arte dei mosaici sono state eseguite in modo molto professionale e anche se sono stati utilizzati materiali locali, si può solo supporre che tali abilità dovessero essere introdotte a costi elevati, da lontano - forse dal continente o anche da Roma stessa.

GLI ESTERNI COLONNATI

LA STORIA

La conquista romana della Britannia fu iniziata dall'imperatore Claudio nel 43 d.c. e dopo la traumatizzante rivolta di Boudicca nel 61 d.c. il paese esausto si stabilì finalmente in un lungo periodo di pace e buona amministrazione (almeno nel sud).

NICCHIA VOTIVA
Dopo la conquista romana, le città, disposte in stile formale romano, presto rimpiazzarono gli insediamenti tribali e migliaia di prosperose proprietà o ville di famiglia vennero stabilite in tutta la campagna britannica.

La villa in sé era più di un semplice edificio, era il fulcro di uno stile essenzialmente mediterraneo di impresa agricola e consisteva in una comunità agricola autosufficiente, incentrata su una fattoria o una grande casa appartenente a una sola famiglia.

Cirencester come capitale e civitas ha portato alla rapida romanizzazione dell'area fornendo ricchezza tramite gli scambi commerciali. Seppure di importanza minore, anche la città romana di Glevum (Gloucester), a 14 miglia (22 km) da essa, ha avuto un impatto positivo su Chedworth.

La villa si trova in una posizione riparata, con vista sul fiume Coln nelle colline di Cotswold nel Gloucestershire, appena fuori dalla strada romana conosciuta come la Via della Fossa Antonina, la prima forma di frontiera occidentale (limes) della nuova provincia di Britannia, che collegava Exeter (Isca Dumnoniorum, sede della II legio Augusta) con Lincoln (Lindum Colonia, fortezza sede della IX LEGIO) nelle Midlands Orientali, attraverso Ilchester (Lindinis), Bath (Aquae Sulis, le grandi terme romane), Cirencester (Corinium, un castrum che divenne civitas) e Leicester (Ratae Corieltauvorum).

GLI SPLENDIDI MOSAICI DELLA SALA TRICLINARE

L'EDIFICAZIONE

(Fase I) - La villa fu fondata intorno al 120 d.c. e iniziò come tre gruppi di edifici separati e modesti. Durante questa prima fase  la villa consisteva in edifici separati a ovest e a sud con una terme indipendente a nord. 

(Fase II) - All'inizio del III secolo le ali ovest e sud furono ricostruite a seguito di un incendio, e il bagno del nord fu ampliato con ulteriori stanze aggiunte al suo lato orientale.

OGGETTO MISTERIOSO IN BRONZO ED OSSO
RINVENUTO NELLA VILLA
(Fase III) - All'inizio del IV secolo, la villa fu trasformata in una dimora di lusso attorno ad un cortile. Le ali esistenti erano collegate da un portico coperto e furono creati un giardino interno e un cortile esterno.

La sala da pranzo (triclinium) venne decorata a mosaici e la metà settentrionale dell'ala ovest venne trasformata in una seconda serie di bagni. 

(Fase IV) Poco dopo i bagni nell'ala nord furono ricostruiti e trasformati in bagni a calore secco (laconicum), il che significava che la villa aveva due bagni con acqua calda e una a secco. I pavimenti di almeno undici stanze erano decorati con bei mosaici.

(Fase V) - Verso la fine del IV secolo l'ala nord fu ampliata con l'aggiunta di una nuova sala da pranzo. La villa fu probabilmente distrutta nel V secolo.

IL NINFEO

NINFEO

La piscina alimentata dalla sorgente nell'angolo nord-ovest della villa era molto simile ad un santuario absidale di quelli che si dedicavano alle ninfe d'acqua. La parete posteriore curva è alta 2 metri ed è l'originale muratura romana. Sul bordo della piscina è stato scoperto un monogramma cristiano di chi-rho. 

Per quanto i romani fossero rispettosi delle altrui religioni erano un popolo di grande razionalità e tra il santuario delle ninfe e le terme sontuose preferivano le terme sontuose, lasciando magari le statue e gli oggetti votivi. Ne danno ampia dimostrazione le terme di Bath che erano un tempio sotterraneo alla Dea triforme (nel museo è conservata la Dea Luna con tre teste).



IL I TEMPIO

Fondazioni di un tempio romano-britannico sono state scavate a circa 800 metri a sud-est degli edifici della villa. I resti comprendono gli angoli sud-ovest e sud-est di un edificio rettangolare di 16,5 m per 16,0 m. Gli altari conservati nel museo della villa provenivano probabilmente dal tempio così come monete, tessere di vetro e una nicchia scolpita nella pietra.



IL II TEMPIO

C'era, tuttavia, un altro edificio romano a Chedworth Woods a circa 150 metri a nord-ovest della villa che fu distrutta nella costruzione della ferrovia intorno al 1869. 

Reperti inclusi: monete, tessere esagonali, frammenti di pilastri, parte di una nicchia a conchiglia e tessere di vetro.
Il rilievo in pietra di un "Dio cacciatore" con la lepre, il cane e il cervo, a volte attribuito al tempio sud-est, potrebbe provenire da questo sito.

Un'altra figura scolpita è stata scoperta recante un'iscrizione frammentaria che si ritiene possa riferirsi al Dio guaritore Marte Lenus, una divinità della tribù dei Treveri in Gallia.

IL FORNO DELL'IPOCAUSTO

L'IPOCAUSTO
l' ipocausto veniva usato principalmente nei bagni pubblici (terme), ma era anche installato in molte ville private per riscaldare gli spazi abitativi. L'aria calda veniva condotta da un forno centrale e fluiva attraverso spazi o condotti sotto i solai rialzati per scaldare le stanze di sopra.

Per fornire spazi al di sotto dei pavimenti, le lastre di cemento o lastre di pietra venivano solitamente installate su pilastrini detti pilae (o sospensorii). Nei casi in cui era richiesto ulteriore calore, come nei bagni della villa di Chedworth, questo veniva spinto verso l'alto attraverso le condotte di calore inserite nelle pareti.



I SECONDI SCAVI

Il sito è stato successivamente scavato per un periodo di due anni da James Farrer, un antiquario e membro del Parlamento per South Durham. Il proprietario del terreno era il conte di Eldon, e fu lui a finanziare gli scavi, le coperture per i mosaici e la costruzione della finta Tudor lodge per ospitare i manufatti. Nel 1924 la villa fu acquisita dal National Trust e da allora gli scavi proseguono regolarmente.

Nel 2011 sono stati effettuati lavori di costruzione per fornire una nuova copertura per i mosaici per garantire la loro qualità duratura. I mosaici pavimentali in diverse sale esibiscono i tipici meandri geometrici trovati in altre ville romane in tutta l'Inghilterra. Il pavimento della sala da pranzo contiene uno dei disegni geometrici più elaborati trovati nella villa.

Anche se in buone condizioni, mancano delle porzioni sostanziali. Tuttavia, è stato scoperto un semplice algoritmo matematico che è in grado di ricostruire le parti mancanti del mosaico da ciò che è ancora in loco. Ulteriori mosaici rimangono sottoterra e potrebbero essere esposti durante gli scavi archeologici.

SOSPENSURE DELLE PRIME TERME

LA DECADENZA

Questo periodo di pace e di una certa prosperità durò fino al 410 d.c., quando le ultime legioni furono ritirate sugli ordini dell'imperatore in un futile tentativo di difendere l'indifendibile. Ormai la marea della storia si era veramente rivolta contro Roma e l'Impero Occidentale si sbriciolò rapidamente e alla fine crollò sotto il peso dei successivi attacchi barbarici. 

Lasciati indifesi, le cose andarono di male in peggio per la popolazione indigena abbandonata della Gran Bretagna con le invasioni dei sassoni affamati di terra, gli Angli e gli Iuta (antenati dell'inglese moderno) che cominciarono a infiltrarsi stabilmente dall'Europa. 

Nonostante qualche opposizione, queste nazioni guerriere presero la maggior parte del paese dai nativi britannici, che furono gradualmente spinti verso ovest. In effetti, si conosce poco dei secoli di "età oscura "che seguì la partenza di Roma.

Quello che sappiamo, dalle testimonianze archeologiche, è che gli invasori hanno portato un ritorno a uno stile di vita più elementare, molto meno civilizzato, e non vi è stato molto spazio per la vita colta e raffinata e le arti delicate.

LE SECONDE TERME
Ciò è triste, perché durante il precedente lungo periodo di pacifica occupazione romana, al momento della definitiva partenza delle legioni, la maggior parte dei nativi britannici aveva adottato modi romani e una ricca cultura ibrida romano-britannica si era evoluta tanto che la popolazione parlava il latino e pertanto conosceva i classici, celebrava le festività religiose romane oltre ad aver mantenuto le proprie e rendeva omaggio volontario al loro lontano imperatore. 

Per giunta le leggi tribali erano state sostituite da quelle romane molto più eque e democratiche, i costumi si erano ingentiliti e raffinati, le donne potevano divorziare come gli uomini ed attendere pure a molti tipi di lavoro.

La famiglia che possedeva la tenuta doveva comunque essere molto ricca, e la loro casa, oltre a deliziare il loro gusto doveva impressionare e intrattenere gli ospiti di maggior riguardo. Probabilmente il proprietario aveva una posizione di notevole influenza nell'area.


Il padrone di casa possedeva infatti tutto il terreno circostante, in netto contrasto con il vecchio sistema tribale britannico di proprietà terriera condivisa, dove la terra era sempre tenuta in comune. Il risultato inevitabile fu che una considerevole ricchezza si accumulò nelle mani di questa nuova nobiltà romano-britannica, che ora disponeva delle risorse e del tempo libero per godersi le cose belle della vita come i piaceri (e l'igiene) della balneazione regolare.

Dopo l'abbandono della fattoria nel tardo IV secolo, la foresta bonificò la terra e le rovine di Chedworth Villa furono sepolte sotto una copertura di terra e foglie marce. Questo processo naturale ha avuto l'effetto benefico di proteggere il prezioso lavoro del mosaico da ulteriori danni provocati dagli elementi, in particolare dai danni causati dal gelo. Per lunghi secoli, i resti della villa abbandonata sonnecchiarono sotto il suolo della foresta, dimenticati e nascosti totalmente dalla conoscenza umana. 

Ma ora sono fruibili e visitabili anche se il lavoro di scavo procede incessantemente, non tutta la villa è stata scavata e molte cose nascoste di essa possono ancora venire alla luce e stupirci e rallegrarci.




HORTI VOLUSIANI

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"In XII tabulis legum nostrarum nusquam nominatur villa, sempre in signicatione ea hortus, in horti vero heredium" (heredium era l'appezzamento di due iugeri di terreno assegnato, secondo la tradizione, da Romolo a ciascuno dei compagni all’atto della fondazione di Roma)
"Nelle XII tavole della legge nostra non si nominò mai una villa se non in significato del suo Hortus, perchè negli Horti ritroviamo la nostra terra d'origine."

TERMINVS POSI[ ]VS EX CONVENT[ ] FEROCIS LICINIANI ET AITHALIS AVG L[ ]B INTER HORTOS MARSIANOS QV[ ] PO[ ]SIDET AITHALIS AV [ ]IB ET HORTO[ ] 
VO[ ]VSIANOS QVOS POSSIDET FEROX LICINIANVS

TERMINVS POSITVS EX CONVENTIO FEROCIS LICINIANI ET AITHALIS AVG LIB 
INTER HORTOS MARSIANOS QVOS POSSIDET AITHALIS AVG LIB ET HORTOS VOLVSIANOS QVOS POSSIDET FEROX LICINIANVS

Gli Horti Volusiani sono noti solo da questa iscrizione ora in possesso dell'American Academy in Rome, che era incisa in un cippo, una pietra di confine tra essi e gli Horti Marsiani che appartenevano ad una tale Aithalis Aug(usti) lib(erta); vedi AJP 1927, 27 , 28.

Evidentemente trattavasi di una schiava non solo liberata dagli augusti (Ottaviano o Livia) ma fatta oggetto di una donazione di un appezzamento di terra (horti).  

Da tale iscrizione, che presenta alcune lacune che con un po' d'ingegno sono state ricostruite, come si vede nella seconda dicitura, apprendiamo che codesti Horti Volusiani appartenevano a un Ferox Licinianus; questi potrebbe essere identificato con (Cn. Pompeo) Ferox Licinianus ( Pros. III. 66. 461), che a sua volta può essere il Pompeo menzionato come uno dei cortigiani di Domiziano che fu invitato al famoso conclave sul grande pesce ( Juv. Iv. 109 sqq.)

La storia racconta che Domiziano convocò d'urgenza alcuni senatori del Consiglio dell'Impero, cui riferì d'aver ricevuto in dono un enorme rombo, ma non sapeva come cucinare un rombo così grande senza una padella adatta a contenerlo. Vinse l'opinione del noto gastronomo Montano, che proclamò il rombo tanto maestoso da meritare la costruzione di un apposito tegame.

Ferox può però derivare da Feronia, un centro abitativo presso il Lucus Feroniae dove i Volusiani possedevano una villa, sul pianoro che da Civitella San Paolo si estende verso sud. La residenza, raggiungibile dalla via Tiberina tramite una strada basolata, era dotata di una pars urbana e di una pars rustica per produzione di vino.
 
Ma per altri potrebbe essere il 'Licinus' menzionato da Sidonio Apollinare ( Ep. V. 7 ), l'iscrizione sarebbe appartenuta al periodo circa 80-120 d.c., ed è, inoltre, possibile che CIL vi. 9973 si riferisca a questi hor(ti), e non agli hor(rea) Volusiana ( AJP 1927, 27 , 28). D'altra parte un "vestiarius"è più appropriato a quest'ultimo, e ib. 7289 sembra certamente implicare l'esistenza di un simile horreum.

L. VOLUSIO SATURNINO
Della gens Volusia si conosce Lucio Volusio Saturnino (console suffectus 12 a.c.), figlio di Quinto Volusio, nato nel 60 a.c. e morto nel 20 d.c. Ebbe come figli: Lucio Volusio, Saturnino, Volusia e Saturnina. 

Si sa di una ritratto del cosiddetto larario del villaggio della gens Volusia che possedeva una villa nella periferia settentrionale del Lucus Feroniae. La testa, forse legata a una statua, è di marmo bianco, probabilmente il ritratto di una delle due mogli di Lucio Volusio Qf Saturnino o di sua nuora Cornelia, moglie di suo figlio Lucio (3 d.c.).

I Volusii, secondo Tacito, erano un'antica e illustre famiglia senatoriale che non si elevò mai sopra la pretura fino a quando il nonno di Saturno, Lucio Volusio Saturnino, ottenne tale distinzione. Il padre di Saturnino, chiamato anche Lucio Volusio Saturnino, svolse l'ufficio con tale abilità e simpatia che alla sua morte ricevette un funerale di stato sotto l'imperatore Nerone e Cornelia Lentula. Saturno aveva un fratello maggiore, Lucio Volusio Saturnino, e una sorella, Volusia Cornelia.

Volusia Cornelia era una donna ricca e distinta della classe senatoria. Possedeva una lussuosa villa privata a Nemi, il precedente possedimento dell'imperatore Caligola. In un'area della villa, Volusia restaurò un teatro, utilizzato per intrattenere gli ospiti della villa, come i familiari, gli amici che condividevano una vacanza, i vicini proprietari di villa e notabili invitati a cena. Un ramo della famiglia Volusii aveva un praedium nella zona di Nemi e fu rinvenuta anche una fistola recante il nome di Volusia.

Alcuni studiosi pensano che gli Horti Volusiani fossero l'antico nome delle terre che accolsero anticamente il ninfeo sull'Esquilino, chiamato tempio di Minerva Medica. Anche se la tendenza è di attribuire il cosiddetto tempio agli Horti Liciniani, è possibile quello che alcuni studiosi affermano, e cioè che antecedentemente fossero appartenuti alla famiglia Volusia, costituendo così gli Horti Volusiani.

DECIMO GIUNO BRUTO CALLAICO - D. I. BRUTUS CALLAICUS

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Nome: Decimus Iunius Brutus Callaicus
Nascita: II sec. a.c.
Morte: 113 a.c.
Padre: Marcus Iunius Brutus
Professione: Generale romano


Decimo Giunio Bruto Callaico, ovvero Decimus Iunius Brutus Callaicus, figlio del console Marco Giunio Bruto, è stato un politico e militare romano del II sec. a.c., di origini aristocratiche.



IL PADRE 

Decimo nacque da Marco Giunio Bruto, eletto console nel 178 a.c. con Aulo Manlio Vulsone; a cui fu affidato il comando della campagna contro gli Istri, descritti dai romani come un feroce popolo di pirati, protetti dalle loro coste rocciose. Ci vollero due campagne militari da parte dei Romani. guidati da Marco Giunio Bruto, per sconfiggerli e conquistarli definitivamente l'anno successivo, nel 177 a.c..



LO ZIO

Ma di illustre Callaico ebbe anche lo zio, il pretore Marco Giunio Bruto nacque nel 180 a.c. e non abbiamo più notizie di lui fino al 138 a.c. quando venne eletto console assieme a Publio Cornelio Scipione Nasica.

DECIMO GIUNIO BRUTO CALLAICO
Si sa che sposò una donna di nome Clodia. Marco Bruto Callaico non ebbe un grande carattere, fu grande sostenitore degli optimates, e quindi avverso ai tribuni della plebe, e a volte in modo insensibile e impietoso.

Infatti quando il senato propose di acquistare del grano per il popolo, egli rifiutò ma i tribuni se la legarono al dito, e quando non concesse di congedare dieci soldati che ne avevano il diritto, il tribuno Gaio Curiazio lo fece imprigionare assieme al collega Publio Cornelio Scipione Nasica, consoli in quell'anno, per le ingiustizie nell'arruolamento militare.

A Roma non esisteva la condanna alla segregazione, la galera serviva solo all'attesa della condanna morte o del processo. Naturalmente Bruto vi rimase in attesa di processo, ma del suo esito nulla sappiamo. Comunque se la dovette cavare bene, sia lui sia Scipione, perchè continuarono a combattere e a farsi onore.



I DISCENDENTI

Ebbe come figlio Decimo Giunio Bruto, console nel 77 a.c. e fu nonno di Decimo Giunio Bruto Albino, uno degli assassini di Cesare.



DECIMO BRUTO ASSASSINO DI CESARE
LA PROVINCIA HISPANICA

Di Decimo sappiamo che venne nominato augure, una carica onorifica sacerdotale, e poi ricevette la provincia dell'Hispania Ulterior, dove stroncò la rivolta di Tantalo, successore di Viriato.

Bruto come generale ebbe molto talento, ma anche come uomo ebbe un carattere migliore dei suoi predecessori.

Fondò nell'Hispania Citerior (la parte Nord della Spagna affacciata sul Mediterraneo) la città di Valentia Edetanorum, l'odierna Valencia, lungo la riva destra del fiume Turia, sul luogo di un antico insediamento iberico, in cui trasferì i soldati di Viriato (180 a.c. - 139 a.c.), sconfitto nel 139 a.c.

Questa azione gli fece invece onore, perchè oltre a dare asilo e da vivere a dei combattenti molto audaci che come nemici gli avrebbero dato filo da torcere, riabilitò i vari tradimenti romani perpetrati verso i lusitani di Viriato, con un atto di generosità e di giustizia.



CONQUISTA DELL'IBERIA OCCIDENTALE

Bruto Callaico conseguì molte vittorie nel sud dell'attuale Portogallo: conquistò la città di Olisipo (Lisbona) e la fortificò trasformandola in un avamposto per l'esercito, poi continuò l'avanzata verso nord distruggendo gli insediamenti che incontrava sulla sua strada. Stabilì un centro a Viseu sul fiume Paiva, traversando i fiumi Douro e Limia nel 137 a.c..

I romani denominarono Gallaecia la parte nord-orientale della Penisola Iberica dal nome dei Callaeci, un amalgama di popoli più o meno celtizzati che vivevano tra il Douro e il Miño, conosciuti dai romani per la prima volta con l'arrivo di Decimo Giunio Bruto Callaico al nord del Douro nel 137 a.c. che continuò la sua spedizione verso nord, sottomettendo i popoli castregni, fino al fiume Limia, considerato il Lethes o fiume dell'oblio, per cui chi l'oltrepassa muore. 

Decimo vince la superstizione e oltrepassa il fiume continuando fino al Miño dove si ferma. Come risultato di questo primo approccio, il territorio costiero tra il Duero e il Miño rimase malamente esplorato e sottomesso al controllo romano. D'ora in poi la società indigena gallecia comincia a ricevere influenze romane, effettuando interscambi commerciali direttamente con Roma.I galleci vengono citati nel I secolo d.c. tramite il poema epico Punica di Silio Italico sulla I guerra punica:

«La ricca Gallaecia invia la sua gioventù, conoscitrice della divinazione mediante le viscere animali, il volo degli uccelli e le fiamme divine, che urlava canti nella loro lingua nativa o, dopo aver colpito la terra con colpi alternati dei piedi, si dilettava a battere ritmicamente gli scudi sonori»
(Silio Italico, Punica Libro III. 344-347)

Si dice che Decimo abbia avuto anche qualche tensione con i suoi uomini che, giunti sulla riva del fiume Oblivio, si sarebbero rifiutati di attraversarlo. Decimo dovette dare l'esempio e cominciò a guadare il fiume da solo, fino a quando i soldati, colpiti da quel gesto, non 10 seguirono. Per le sue vittorie il governatore ottenne anche il trionfo nel 136 a.c. e un cospicuo bottino; con i soldi guadagnati poté erigere un certo numero di edifici pubblici, presso i quali furono poste delle iscrizioni in versi opera del poeta Lucio Accio, di cui Decimo era mecenate.
BRUTUS NOME DI UNA FAMILIA PLEBEA DELLA GENS IUNIA
Infine raggiunse il fiume Minho in Galizia:
«In Spagna, prima della distruzione di Numanzia, si svolse la brillante campagna di Decimo Bruto il quale, arrivato al centro di tutte le popolazioni di quella regione, catturò un gran numero di nemici, si impadronì di molte città e, avanzandosi in territori dei quali si era appena sentito parlare, si guadagnò il soprannome di Gallaeco». 
II soprannome derivava dal nome di una delle tribù sottomesse durante la campagna, i gallaeci, tribù celtica del nord del Portogallo.

Insieme ai Gallaeci sconfisse i Bracari, altro popolo della Gallaecia (o Callaecia, o Galizia), giunti in aiuto dei Lusitani con un esercito di 60.000 uomini. 

Poco dopo venne chiamato in Spagna Citeriore da Marco Emilio Lepido Porcina, un parente messo in difficoltà da alcune tribù locali, ma dovette desistere anche lui contro i Vaccei.

Il senato sfiduciò Lepido ma non Bruto, a cui anzi accordò nel 136 il trionfo per le numerose vittorie avute sulle popolazioni dell'Iberia e il senato gli conferì il titolo di Callaicus.
Tra il 135 a.c. e il 132 a.c., rieletto console, Decimo Giunio Bruto Callaico condusse felicemente una spedizione in Galizia (nord del Portogallo e Galizia), conquistandone tutto il territorio.

Bruto inaugurò a sue spese il Circo Flaminio a Roma nel 133 a.c. per commemorare le proprie vittorie, servendosi per questo dei versi di Lucio Accio (170 a.c. - 84 a.c.), grande poeta e drammaturgo romano a cui, per amore della poesia e dell'arte, Bruto fece da mecenate, e anche in questo senso si comportò da generoso distinguendosi dai suoi avi.  Cicerone ce lo descrive pure come un brillante oratore e molto versato nella letteratura greca e latina.

Nel 129 a.c. servì di nuovo nell'esercito con Gaio Sempronio Tuditano, console nel 129 a.c. con cui riuscì a sconfiggere le popolazioni della zona Alpina dei Carni e dei Taurisci della zona di Nauporto, nella Slovenia nordoccidentale. Nel 113 a.c. fu nominato proconsole di Lusitania con Gaio Mario. Morì ancora in età da poter combattere ancora molte battaglie ma morì nello stesso anno per cause imprecisate.

GENS FABIA

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I FABII IN MARCIA
La gens Fabia fu un'antichissima famiglia patrizia romana, inclusa fra le cento gentes originarie ricordate dallo storico Tito Livio. Secondo il Theodor Mommsen la loro antichità si dimostra col fatto che diedero il nome alla Tribù Fabia, che comprendeva i territori di Alba Fucens e Ascoli, Rudie nella terra dei Messapi, Lucca, Brescia e Padova, e pure dal fatto che uno dei collegi sacerdotali più antichi, quello dei Luperci, anteriore al V secolo a.c., era costituito esclusivamente da membri delle gentes Fabia e Quinctia.

La gens Fabia derivò il nome dalla faba, cioè le fave, la cui coltivazione era assai diffusa in età arcaica. In proposito, Plinio il Vecchio ricorda che molte antiche famiglie romane derivarono il proprio nomen dai legumi che prediligevano, o alla cui coltivazione erano dediti maggiormente; ad esempio i Lentuli (da lentes, "lenticchie"), ramo dei Cornelii, i Pisoni, ramo dei Calpurnii, ed ancora i Ciceri.

La gens Fabia comprendeva diversi rami. Il più illustre fu quello dei Fabii Massimi, che presero il cognomen dall'Ara Massima di Ercole, presso la quale avevano la propria dimora (nell'area dell'attuale basilica di Santa Maria in Cosmedin). I Fabii Massimi si vantavano di discendere da un Fabius figlio del Dio Ercole, nato sotto il regno del mitico re Evandro. Si ricordano inoltre i Fabii Ambusti, i Fabii Pittori, i Fabii Vibulani.

I membri di questa illustre gens ricoprirono durante la repubblica tutte le magistrature, e il consolato per ben 66 volte, con un atteggiamento molto conservatore, tendente ad escludere i plebei dalle magistrature. Sul piano militare assunsero la difesa di Roma contro Veio, probabilmente molto coraggiosi ma privi di un comandante responsabile ed esperto, per cui vennero sterminati nella terribile disfatta nella battaglia del Cremera nel 477 a.c..



FABII ILLUSTRI

- Quinto Fabio Vibulano - V secolo a.c., uno dei pochissimi sopravvissuti della disfatta del Cremera, console nel 467 e nel 465 a.c., sconfisse gli Equi e vinse altre battaglie. Nel 450 a.c. fu uno dei decemviri legibus scribundis, partecipando alla stesura del primo codice di leggi scritte di Roma, le Leggi delle XII tavole.

Quinto Fabio Ambusto Vibulano - console nel 412 a.c.

Marco Fabio Ambusto - tribuno consolare nel 380 a.c.

Marco Fabio Ambusto - IV secolo a.c., tribuno militare con potestà consolare nel 381 e 369 a.c.; fece un'alleanza politica con la Gens Licinia, plebea, e sostenne le Leggi Licinie-Sestie, che stabilirono l'accesso dei plebei alle assegnazioni di Ager Publicus e alla magistratura Consolare.
Fu console tre volte, nel 360, 356. e 354 a.c..
Nel 360 a.c. vinse nella campagna contro gli Ernici, e per questo gli fu concessa un'ovazione. Rieletto console nel 356 a.c.. combattè contro Falisci e Tarquinesi, alleatesi contro i romani, e nonostante le sconfitte iniziali riuscì infine a vincere con un grande bottino.
Eletto console per la terza volta nel 354 a.c.vinse sui Tiburtini e sui Tarquinesi, con tanta facilità, che i Sanniti vennero a Roma a chiedere la pace.
Tra il 355 e il 351 a.c. fu interrex. Nel 351 a.c. fu nominato dittatore perché fosse rispettata la legge per l'elezione dei consoli. Nel 322 a.c. fu magister equitum del dittatore Aulo Cornelio Cosso Arvina, per combattere contro i Sanniti. Marco Fabio condusse i cavalieri romani alla vittoria contro i cavalieri Sanniti, e quindi alla decisiva vittoria contro i Sanniti.

- Gaio Fabio Ambusto - console nel 358 a.c.

Quinto Fabio Massimo Rulliano - figlio di Marco Fabio Ambusto, IV-III secolo a.c., per 5 volte eletto console, riportò importanti vittorie sui Sanniti, vincendo la decisiva battaglia di Sentino con Decio Mure nel 295 a.c.

Quinto Fabio Massimo - detto il Temporeggiatore (latino: cunctator), III secolo a.c., console per ben cinque volte, censore, princeps del senato e dittatore nel 217 a.c. post sconfitta romana della battaglia del Lago Trasimeno ad opera di Annibale. Contro il generale cartaginese ideò una tattica di logoramento basata su scaramucce ed ostacoli agli approvvigionamenti, che finì per indebolire Annibale, dando tempo ai Romani di riorganizzare le proprie forze. Morì nel 203 a.c.

Quinto Fabio Pittore - III secolo a.c., politico e storico, scrisse in greco una Storia di Roma facendone risalire le origini alla leggenda di Enea.
Quinto Fabio Massimo Allobrogico - II secolo a.c., questore, riportò una grande vittoria sui Galli Allobrogi dai quali prese il soprannome. Celebrò un grande trionfo facendo costruire nel Foro un arco a lui dedicato (Fornix Fabianus).
Fabiola - fu una matrona discendente dalla gens Fabia che, rimasta vedova, si consacrò alla preghiera e alla penitenza. È venerata come santa dalla Chiesa cattolica.



TITO LIVIO - I FABII


I FABII

Allora la gente Fabia si presentò di fronte al senato. Il console parlò a nome della propria famiglia:

Nella guerra contro Veio, come voi sapete, o padri coscritti, la costanza dello sforzo militare conta più della quantità di uomini impiegati. Voi occupatevi delle altre guerre e lasciate che i Fabi se la vedano coi Veienti. Per quel che ci concerne, vi garantiamo di tutelare l'onore del popolo romano. E’ nostra ferma intenzione trattare questa guerra alla stregua di una questione di famiglia e di accollarcene tutte le spese: lo Stato non deve preoccuparsi né dei soldati né del denaro."

Seguì un coro unanime di ringraziamenti. Il console uscì dalla curia e se ne tornò a casa scortato da un nutrito drappello di Fabi, i quali avevano aspettato il verdetto del senato nel vestibolo della curia. Quindi, ricevuto l'ordine di trovarsi il giorno dopo, armati di tutto punto, di fronte alla porta del console, rientrarono tutti nelle proprie case.

La notizia fece il giro della città e i Fabi vennero portati alle stelle: una famiglia si era assunta da sola l'onere di sostenere lo Stato e la guerra contro i Veienti si era trasformata in una faccenda privata e combattuta con armi private. Se in città ci fossero state altre due famiglie così forti, una si sarebbe occupata dei Volsci e l'altra degli Equi e il popolo romano si sarebbe goduto beatamente la pace una volta sottomessi tutti i vicini.

LA BATTAGLIA DI CREMERA
Il giorno successivo i Fabi si presentano all'appuntamento armati di tutto punto. Il console, uscito nel vestibolo in uniforme da guerra, vede schierati tutti i membri della sua famiglia e, postovisi a capo, dà ordine di mettersi in marcia. Per le vie di Roma non sfilò mai in passato nessun altro esercito meno numeroso ma nel contempo così acclamato e ammirato dalla gente. Trecentosei soldati, tutti patrizi, tutti della stessa famiglia, ciascuno dei quali più che degno di esserne al comando, e capaci insieme di formare, in qualsiasi momento, un'eccellente assemblea, avanzarono a passo di marcia minacciando l'esistenza del popolo di Veio con le forze di una sola famiglia.

Li seguiva una folla in parte costituita da parenti e amici, gente straordinaria che volgeva l'animo non alla speranza o alla preoccupazione, ma solo a sentimenti sublimi, e in parte da gente qualunque spinta dall'ansia di partecipare e piena di entusiasmo e ammirazione. Tutti auguravano loro di essere sostenuti dal coraggio e dalla fortuna e di riportare un successo degno dell'impresa; e una volta di nuovo in patria, avrebbero potuto contare su consolati e trionfi, e su ogni forma di premio e riconoscimento.

Quando passarono davanti al Campidoglio, alla cittadella e agli altri templi, supplicarono tutte le divinità che sfilavano davanti ai loro occhi, e quelle che venivano loro in mente, di accordare a quella schiera favore e fortuna e di restituirla intatta e in breve tempo alla patria e ai parenti. Ma vane furono le preghiere.

Partiti lungo la Via Infelice e passati dall'arcata destra della porta Carmentale, arrivarono alla riva del torrente Cremera. La posizione sembrò indicata per la costruzione di un campo fortificato. Dopo questi episodi furono eletti consoli Lucio Emilio e Caio Servilio. Finché si trattò soltanto di razzie, i Fabi non solo garantirono una sicura protezione al loro campo fortificato, ma in tutta l'area di confine tra la campagna romana e quella etrusca resero sicura la propria zona e, con continui sconfinamenti, crearono un clima di pericolo costante nel territorio nemico.

Quindi le razzie cessarono per un breve tempo, finché i Veienti, reclutato un esercito in Etruria, attaccarono il presidio di Cremera e le legioni romane agli ordini del console Lucio Emilio li affrontarono in uno scontro all'arma bianca; a dir la verità, i Veienti ebbero così poco tempo per schierarsi in ordine di battaglia che, quando nel disordine delle manovre iniziali era in corso l'allineamento dietro le insegne e la collocazione dei riservisti al loro posto, la cavalleria romana li caricò all'improvviso sul fianco, togliendo loro la possibilità non solo di attaccare per primi, ma anche di mantenere la posizione.

QUINTO FABIO MASSIMO VERRUCOSO
Respinti in fuga fino al loro accampamento a Saxa Rubra, implorarono la pace. Ma per la debolezza tipica del loro carattere, si pentirono di averla ottenuta prima che la guarnigione romana avesse evacuato il campo di Cremera. Il popolo di Veio si trovò di nuovo nella necessità di vedersela coi Fabi, senza però essere meglio preparato alla guerra; e non si trattava più soltanto di razzie nelle campagne e di repentine rappresaglie contro i razziatori, ma si combatté non poche volte in campo aperto e a ranghi serrati, e una famiglia romana, pur misurandosi da sola, ebbe più volte la meglio su quella città etrusca allora potentissima.

Sulle prime ai Veienti ciò parve umiliante e penoso; poi però, studiando la situazione, decisero di giocare d'astuzia contro quel nemico irriducibile, anche perché vedevano con piacere che i reiterati successi avevano raddoppiato l'audacia dei Fabi. Così, parecchie volte, quando questi ultimi si avventuravano in razzie, facevano trovare loro, come per pura coincidenza, del bestiame sulla strada; vaste estensioni di terra venivano abbandonate dai proprietari e i distaccamenti inviati ad arginare le razzie fuggivano con un terrore più spesso simulato che reale.

E ormai i Fabi si erano fatti un'idea tale del nemico da non ritenerlo in grado di sostenere le loro armi vittoriose, qualunque fossero stati l'occasione e il luogo dello scontro. Quest'illusione li portò ad uscire allo scoperto, nonostante la presenza in zona del nemico, per catturare una mandria avvistata a notevole distanza dal campo di Cremera.

Dopo aver superato, senza però rendersene conto vista la velocità con cui procedevano, un'imboscata proprio sulla loro strada, si dispersero nel tentativo di catturare il bestiame che, come sempre succede quando reagisce spaventato, correva all'impazzata in tutte le direzioni; proprio in quel momento, si trovarono all'improvviso di fronte i nemici saltati fuori dovunque dai loro nascondigli.

Prima fu il terrore per l'urlo di guerra levatosi intorno a loro, poi cominciarono a volare proiettili da ogni parte; e mentre gli Etruschi con una manovra centripeta li chiusero in una fila ininterrotta di uomini, in modo che a ogni loro passo avanti corrispondeva una riduzione dello spazio concentrico in cui i Romani si potevano muovere, questa mossa ne mise in chiara luce l'inconsistenza numerica esaltando invece la massa compatta degli Etruschi che sembravano il doppio in quella stretta fascia di terra.

Allora, rinunciando alla resistenza che avevano sostenuto in tutti i settori, si concentrarono in un unico punto dove, grazie alla forza d'urto e alla loro perizia militare, riuscirono a fare breccia con una formazione a cuneo. In quella direzione arrivarono a un'altura appena accennata. Dove in un primo tempo riuscirono a resistere; poi, dato che la posizione sopraelevata permise loro di tirare il fiato e di riprendersi dal grande spavento, respinsero anche i nemici che pressavano da sotto; quel pugno di uomini stava avendo la meglio grazie alla posizione vantaggiosa, quando i Veienti furono spediti ad aggirare l'altura emersero da dietro sulla cima.

Quindi permisero ai compagni di riprendere in mano la situazione. I Fabi vennero massacrati dal primo all'ultimo e il loro campo venne espugnato. Nessun dubbio: morirono in trecentosei; se ne salvò soltanto uno, poco più di un ragazzo, destinato a mantenere in vita la stirpe dei Fabi e a diventare per Roma, nei momenti più cupi in pace e in guerra, un sostegno fondamentale. Al momento di questo disastro, Gaio Orazio e Tito Menenio erano già consoli.

ELOGIUM FABII - TABULA ONORARIA, MARMO (2 A.C. – 14 D.C.) 
"L'elogium testimonia che Q. Fabio Massimo fu dittatore nell’anno 220 a.c. e si scelse c. Flaminio in qualità di subalterno. Tre anni dopo, però, allorché si presentò una nuova situazione d’emergenza, il Senato, per evitare che lo stesso Fabio potesse scegliersi come vice un altro fra gli outsider politici legati al proprio clan gentilizio, approvò l’aberrante rogatio elettiva del magister equitum. Tra l’altro, siccome l’unico console in vita, Gneo Servilio, conduceva le operazioni belliche sul mare e a causa di ciò non poteva essere in patria in quel momento per nominare un dictator, a Fabio Massimo fu conferito un "imperium pro dictatore".

"La dittatura di Q. Fabio Massimo nel 217 a. c a seguito della famosa battaglia del Trasimeno in cui morì il console C. Flaminio avvenne per 'interregni causa', ossia a seguito di un interregnum (morte e/o impossibilità dei due consoli)".

PONTE D'AUGUSTO (Narni - Umbria)

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PONTE SULLA FLAMINIA
Ai piedi della città di Narni, percorrendo la via Flaminia, si giunge, lungo la strada della Funara, poco prima della frazione di Stifone, vicino al fiume Nera. Questo, imboccando la gola dei monti Corviano e Santa Croce, va ad infrangersi sui piloni del ponte romano di Augusto, che originariamente univa i due monti.

Citato dalle fonti classiche, raffigurato da artisti e viaggiatori, vero capolavoro dell'architettura romana, è da porre in relazione alle grandi ristrutturazioni volute da Augusto nel 27 a.c., lungo il percorso della strada consolare Flaminia.

Dell'imponente struttura originaria restano due piloni voltati ad arco sulla sponda del monte Corviano, una seconda sezione sulla sponda del monte Santa Croce e i ruderi di due piloni dell'arcata centrale, crollata prima del 1055.

IL PONTE NEL 1864
Il ponte era lungo 160 metri e alto 30: fatto costruire dal I imperatore romano, ma dell'imponente struttura originaria resta solo un arco largo 19 m. Dell'arcata centrale, crollata nel 1855 (doveva avere una luce di ben 32 metri), restano pochi ruderi.

La lunghezza originaria del ponte doveva essere di circa 160 m per un'altezza di 30 m, con una luce mirabile dell'arco centrale di circa 32 m, mentre la larghezza del piano stradale era di 8 m. Il fronte, realizzato in nucleo cementizio e paramenti di blocchi squadrati con bugnature e a corsi alternati, presenta (a due terzi dell'altezza dei pilastri) una cornice aggettante, che si ritrova nella parte interna dell'arcata. I piloni hanno una pianta rettangolare e sono in parte impostati sulla roccia.

L'ARCATA SOPRAVVISSUTA
Nel corso del tempo, è stato più volte soggetto a crolli e gravi danneggiamenti, come quelli risalenti al 1053-54. Si suppone che il ponte s'innalzasse su quattro arcate, tutte con un'ampiezza diversa che variava dai 19 m della prima, 32 m dell'arcata centrale, circa 17 m della terza e 16 m della quarta, se esisteva. 

Secondo il Guattani, le pietre furono levate da un luogo chiamato Valle Mantea, presso Civitella, alla volta di Fiano; nel 1724 venne inoltre scoperto come le pietre rimanessero saldamente connesse tra loro in quanto, oltre alla calce, erano state adoperate delle anime di ferro saldamente piombate alle loro estremità.

I RESTI DEL PONTE ASSOLUTAMENTE ABBANDONATI
Il ponte, a causa di frequenti crolli, ma pure alluvioni, è inagibile già dal XIII secolo. Del ponte, che doveva essere a tre o quattro arcate, (sembrerebbero quattro) si possono ammirare la prima arcata, forse la più grande, e i ruderi di due pilastri.

Inutile chiedersi come mai una così gloriosa opera d'arte sia stata lasciata crollare nei secoli, visto che con una ordinaria manutenzione, i ponti romani resistono ovunque da 2000 anni. Ci sono diverse ragioni. Una è che i ponti romani nel medioevo venivano chiamati spesso "Ponte del diavolo", ce ne sono a centinaia in tutta Europa, ma soprattutto in Italia.


Essendo il medioevo un evo oscuro in cui, con la chiusura delle scuole e la bruciatura dei libri, si erano perse quasi tutte le cognizioni della scienza, a cominciare dall'architettura, un'opera di sofisticata architettura come un ponte romano doveva essere opera del diavolo, e sui ponti sorsero varie vicende di santi e diavoli dove però i diavoli sapevano costruire i ponti ma i santi no.
Come dire che i romani, essendo pagani, avevano non solo una religione diabolica, ma pure una scienza diabolica.

L'altra ragione è che poco occupandosi del popolo, come se ne era invece occupato da sempre sia la Repubblica che l'Impero Romano, i Signori del medioevo poco si occuparono di strade, ponti e acquedotti, più pronti a pagare soldati mercenari che non a fare opere di edilizia per il popolo. E l'usanza è proseguita a tutt'oggi. Almeno i resti sulla terra ferma potevano venire rimessi in piedi. Non è da tutti possedere nel proprio territorio i resti di un ponte di 2000 anni fa.



LUCUS ANGITIAE

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DEA ANGITIA

IL LUCUS SACRO

Almeno in area mediterranea ed europea, ma non solo, il primo luogo sacro fu il bosco, in latino lucus, plurale luci. Il bosco è misterioso, pieno di vita, ma anche di pericoli, lì la natura, che un tempo riempiva quasi tutta l'area di boschi, si esprimeva col suo lato accogliente per le bacche, le erbe e la legna per il fuoco e le capanne, ma anche col suo lato oscuro per le belve, il perdere la strada, i temporali e quella penombra dove il sole penetra con difficoltà.

Il lucus era come gli Dei della natura, benevolo ma a volte ostile o indifferente, dunque si doveva rendergli omaggio per ingraziarseli. Così gli si offrivano cibo, erbe odorose, preghiere, canti e danze. Le sacerdotesse furono le prime a contattare il mondo magico del bosco, e la loro religione fu un misto di scienza e magia, perchè dal bosco trassero le erbe da mangiare ma anche quelle medicamentose, nonchè i segni per i vaticini.

Successivamente il sacerdozio divenne preponderantemente maschile, e la popolazione aumentò si che una vasta area del bosco divenne profana, atta cacciare animali, raccogliere legna ed abbattere alberi per coltivare. Il bosco sacro era detto anche Nemus, e si pensa che l'antico tempio di Diana a Nemi avesse il suo bosco sacro che ha dato il nome al paese, mentre col nome lucus si intese un bosco che aveva una parte sacra, in genere recintata, detta Incus.

Quella separazione segnò la separazione di un'idea. Mentre nei primordi la natura era tutta sacra, poi divenne in parte sacra e in parte profana. Col cristianesimo perse ogni sacralità essendo ritenuta una materia senza vita da utilizzare a piacimento. Un tempo i romani chiedevano al Genius loci, o al Nume del bosco il permesso di cacciare o tagliare legna, col cristianesimo tutto era stato fatto da dio per l'uomo, che poteva distruggere la natura come poteva, perchè era solo profana. Un tempo i boschi erano abitati da Numi, genii, Ninfe a Satiri, ora la natura è vuota e disanimata.

RICOSTRUZIONE DEL TEMPIO DI ANGIZIA

IL LUCUS ANGITIAE

Il Lucus Angitiae, conosciuto anche più semplicemente come Angizia, dal nome della Dea sorella della maga Circe, è un sito archeologico, all'epoca Bosco Sacro e Santuario, riconosciuto oggi come monumento nazionale, posto nei pressi della sponda meridionale della Conca del Fucino, vicino alla contemporanea cittadina di Luco dei Marsi in provincia dell'Aquila.

Sembra che gli abitanti (o almeno le sacerdotesse) sapessero preparare antidoti contro i veleni di serpenti. In realtà si trattava di un'antica Dea dei serpenti, pertanto Grande Madre e Trina. Il suo nome peligno era Anaceta. La forma Lucu si ricava dall’etnico Lucenses (abitanti di Luco) usato da Plinio.

TEMPIO DI ANGITIA


LA STORIA

Nell'Età del ferro esisteva già un'area fortificata sviluppata su oltre 14 ettari recintati con opere poligonali che presentavano due porte d'accesso all'area. Secondo la leggenda gli abitanti erano abili preparatori di antidoti contro i veleni di serpenti e conoscitori delle erbe dei monti circostanti, a cominciare da Umbrone, che fu ucciso da Enea nella guerra fra italici e troiani, come è narrato nell'Eneide.

In età preromana il sito era occupato, come l'intero Fucino, dal popolo italico dei Marsi, per i quali costituiva un bosco sacro dedicato alla Dea. Secondo alcuni autori vi si praticava la ierodulia, cioè la prostituzione sacra nel santuario.

Certe usanze che oggi potrebbero far inorridire erano invece di grande rispetto per la donna, primo perchè per il sacro lavoro compiuto da sacerdotesse le donne, finito il tempo della ierodulia, tornavano alle loro case rispettate e onorate, si che spesso facevano matrimoni superiori al loro rango. Secondo e non meno importante non avevano l'obbligo della verginità che assillò le donne in generale fino alla metà del '900, cioè per circa 2400 anni.

Sulle rive del lago del Fucino sorgeva un'antica città chiamata Angizia (Anxa), era situata dove ore sorge il cimitero e le sue rovine sono visibili in tanti posti. La citta, preromanica, era abitata dai marsi, e i suoi abitati si opposero con forza alla dominazione e conquista dei romani.

Però, dopo l'accordo con Roma gli abitanti di Angizia divennero fieri alleati dell'impero romano e si distinsero sia in battaglia ( La citta' Angizia è citata anche nell'Eneide) che in pace, essi infatti erano ottimi curatori, e pare che fossero specializzati nel curare i morsi dei serpenti. L'area ha svolto le funzioni di municipio fino all'alto medioevo.




L'AREA SACRA

Il nome "Angizia" del lucus deriva dalla Dea che gli abitanti adoravano, alla quale era stato edificato un tempio del quale si conosce con esattezza l'ubicazione. L'area sacra, risalente al III secolo a.c., è nota anche come Anxa, nome romano derivato dal toponimo in lingua marsa Actia (ovvero Angizia). La città santuario è sovrastata dall'acropoli di monte Penna, dove il centro fortificato venne inglobato dalla sottostante città durante il periodo delle Guerre sannitiche attraverso opere murarie che coprirono un'area di circa 30 ettari e che furono dotate di cinque porte.

Il sito è caratterizzato dalla presenza di un tempio di epoca italica situato in località Il Tesoro e di un tempio di epoca augustea. Sono visibili il muro di terrazzamento dell'area sacra di Angizia e le tracce dell'ampia recinzione muraria dell'età del ferro, i ruderi delle tre porte di accesso ai templi, le tracce del foro e del quartiere artigiano.

Molti  reperti venuti alla luce casualmente o durante lavori pubblici e privati testimoniano  l'importanza del sito archeologico, con statue, sculture a bassorilievo, monete ecc. ora custoditi presso il museo storico di Chieti.

IL COMPLESSO

LA DEA DEI SERPENTI

Anche se solo con Servio (IV sec. d.c.) si fa per la prima volta riferimento ai serpenti connessi col culto della Dea, il nome Angitia riporta al termine anguis ‘serpente’ ed ogni Dea Madre ed in ogni latitudine ha il simbolo del serpente.

REPERTO DEL LUCUS
Esso è infatti simbolo della Terra (perchè striscia, perchè ha la tana sottoterra e perchè muta la pelle), cioè della natura, coi suoi lati di madre di nutrice e di morte.

Come Dea trina la Dea è protettrice delle nascite, degli animali, delle messi ed ha anche il carattere di divinità ctonia, sotterranea ed infera, pertanto addetta pure al culto dei morti.



I MITI

Nel IV sec. a.c., i Marsi incontrarono la cultura greco-etrusca della Campania, da cui appresero i miti del ciclo apollineo che metteva in secondo piano le grandi Madri Mediterranee. Secondo il mito greco Apollo inseguì il serpente o drago Pitone e lo uccise proprio dinanzi al sacro crepaccio che serviva per i responsi della Pizia nel famosissimo santuario di Delfi nella Focide.

Contemporaneamente fece passare al suo servizio le Muse e si fregò l'oracolo. Infatti Plutarco si lamenta non poco perchè da quando ci sono i sacerdoti di Apollo le pitia non oracola più e balbetta solo cose senza senso come inebetita, mentre prima, quando le sacerdotesse oracolavano per il tempio della Madre Terra (abbattuto dai sacerdoti di Apollo), le pitie addirittura oracolavano in versi.
Dunque Apollo uccide il serpente Pitone e lo lascia disseccare al sole e la divinazione scompare.

Angizia sarebbe la sorella della maga Circe figlia del Sole oppure della maga Medea, figlia di Eeta, fratello a sua volta di Circe.

DEA ANGITIA



GLI SCAVI ARCHEOLOGICI

Gli scavi archeologici per riportare alla luce il sito sono partiti nei primi anni settanta ad opera dell'Archeoclub della Marsica, poi hanno ripreso nel 1998, a spese dell'amministrazione comunale, ed hanno portato alla luce un tempio italico composto di due celle e un tempio di eta' augustea a tre ambienti. Sono state scoperte colonne doriche, fornaci e sepolture.

Nel 2003 opere di ricerca condotte dall'Università degli Studi dell'Aquila hanno permesso di svelare altri importanti reperti, in particolare nell'area denominata Sagrestia sono tornate alla luce le tre statue: quella, che secondo alcuni studiosi sarebbe ricollegabile alla figura della Dea Angizia, è in terracotta e risale al III secolo a.c.; le altre due statue in marmo sono invece databili al II secolo a.c. 


Iscrizione di Caso Cantovios

L'iscrizione di Caso Cantovios è un'epigrafe in lamina bronzea rinvenuta nei pressi del sito archeologico della città-santuario di Lucus Angitiae, vicino alla contemporanea Luco dei Marsi, in occasione delle opere di bonifica della piana del Fucino. L'iscrizione risale al 294 a.c., anno in cui fu combattuta la III guerra sannitica, e a tutt'oggi fa parte della ricca collezione Torlonia ospitata un tempo nel museo romano, oggi non si sa dove sia e non è mai pervenuta nelle collezioni statali.

L'iscrizione è una dedica votiva dei compagni del comandante marso, Caso Cantovios Aprufclano (Caso Cantovio Apruscolano), al santuario dedicato alla Dea Angizia, dopo la morte del condottiero avvenuta a Casuentum (area del Casentino in prov. di Arezzo) durante la III guerra sannitica combattuta al fianco dei romani tra il 298 e il 290 a.c. contro le popolazioni galle della federazione sannitica. Qui Angitia è chiamata Actia stesso appellativo del famoso Apollo Akti, venerato nel promontorio di Azio nell’Acarnania in Grecia, col significato di splendente. 




LA DISTRUZIONE

Non era facile nè utile dare alle fiamme tutti i boschi sacri, che erano anche un tesoro di legna e di animali, nonchè erbe selvatiche e bacche, per cui S. Agostino suggerì alla chiesa cattolica di consacrare a Dio tutti i boschi sacri e di sostituire le divinità pagane con i santi cristiani.

LA FONTE DEL LUCUS
I santi, una grande invenzione, senza di loro il culto pagano non sarebbe mai stato estirpato, neppure con la forza.
Così S. Domenico ha preso i poteri di Angizia, e dispensa ancora oggi nella Marsica la protezione divina che fu sua sugli uomini e sulle serpi.

E' nata così la festa dei serpari, a Cocullo: incantatori di serpi che ripetono oggi le nenie insegnate ai loro avi da Angizia. Si tiene la prima settimana di maggio festa che oggi, scanso equivoci è dedicata alla Madonna, hai visti mai.


I reperti

I reperti sono venuti alla luce casualmente e tramite lavori pubblici. Si tratta di statue, sculture a bassorilievo, monete, bronzetti, ex voto, frammenti architettonici, teste ecc. in parte esposti nella sezione archeologia del museo d'arte sacra della Marsica e in parte conservati presso il museo Paludi a Celano.

Dal 2014, dopo i lavori di messa in sicurezza del santuario, il sito è visitabile. L'area è stata sottoposta a tutela ambientale e paesaggistica nel 1998 tramite l'istituzione del parco naturale San Leonardo, con la Dea Angizia e il suo bosco sacro.




CASA DEL PRINCIPE DI NAPOLI

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PERISTILIO
Scavata per la prima volta nel Gennaio del 1897, quindi senza i moderni accorgimenti, come si apprende dalle "Notizie degli Scavi", iscritta come Insula 12 della Reg. VI, che venne poi cambiata in Insula 15 sempre della Reg. VI.

Questa casa aveva due ingressi, entrambi sul lato ovest della strada tra Insulae VI 15 e VI 16. Aveva una superficie al piano terra di c. 270 mq, quindi appartenente al Quartile 3 di Wallace-Hadrill (1994: 81). 


Si chiama così perché venne scavata tra il 1896 e il 1898 alla presenza del Principe di Napoli, il futuro re d’Italia Vittorio Emanuele III, che era un erede al trono italiano e aveva un titolo di principe di Napoli essendo nato a Napoli.

Recentemente sottoposta a restauro, si tratta di una domus a pianta quadrata, che secondo gli studiosi della SANP apparteneva a una famiglia di ceto medio basso, in cui viveva una dozzina di persone, compresi eventuali schiavi e affittuari.

Contiene due larari (le nicchie che ospitavano le immagini dei Lari, le divinità protettrici della famiglia): uno, nel giardino, a forma di tempietto, così che i Lari potessero tenere d’occhio tutti i locali dell’abitazione; l’altro invece si trova nella cucina.
La casa si conformava a un piano di ingresso / giardino, tranne per il fatto che l'area del giardino si trovava su un lato dell'area del corridoio anteriore, altrimenti la sala anteriore non aveva stanze laterali.

Il fulcro della casa è il settore posteriore, su cui si affacciano gli ambienti di rappresentanza e dove è collocata l' edicola votiva per i sacrifici domestici. Le immagini di Bacco e Venere a grandezza naturale sono dipinte sui pannelli delle pareti a fondo bianco dell'esedra.

PERSEO E ANDROMEDA
Le due divinità si dividono la piccola esedra dalle pareti bianche che da luce agli affreschi. Ambedue sono iscritte in cornici, quasi dei portali. Quello di Bacco sormontato da due grifoni contrapposti.Il dio del vino è rappresentato con i suoi attributi: il tirso (bastone contorto sormontato da un’edera) e la tazza.

Una tunica è posta sulla sua spalla e si appoggia nell’incavo del gomito.Venere è anch’essa in piedi, nuda. E’ colta nell’atto di pettinare i suoi lunghi capelli. Indossa solo una collana, due bracciali e due cavigliere.Se le due divinità sono lì per lasciarsi ammirare, altrettanto attraente è lo sfondo.

Si tratta di un’architettura che dona prospettiva alla scena, un "trompe l'oeil" che offre rifugio ad una popolazione variegata. Il cervo ed il pavone sono le figure principali ma altre piccole creature ed un albero popolano la scena.

Vi è poi una pittura con una scena misteriosa e probabilmente simbolica, vi sono delle statue, una colonna, un edificio ed un lungo colonnato sullo sfondo, il tutto in un tono azzurrino. Un portatore d’acqua fa il suo ingresso nella scena con i contenitori in equilibrio alle estremità di un lungo bastone posto di traverso sulle spalle.



LA CASA

Gli stipiti delle porte di entrata erano in pietra calcarea. All'esterno un graffito VI.15.8 Pompei. Trovato sul gesso a sinistra della porta, che ricorda un po' l'Imperatore Galba.

Le pareti delle fauci, ovvero il corridoio d'ingresso, presentavano decori vari su uno sfondo bianco, che era poi diviso in due parti con linee nere e rosse. L'alto dado, o 'zoccolo' era dipinto interamente di nero.

La presenza di cibo  e uno scheletro nella stanza c indica che la casa era stata probabilmente occupata fino al momento dell'eruzione. I reperti in quasi tutte le stanze della casa erano in gran parte di carattere domestico. 

Eventuali eccezioni sono i vasi di stoccaggio nella sala anteriore e i pesi del telaio nella stanza i, che potrebbero indicare alcune attività commerciali / industriali, anche se non necessariamente. 

La scoperta di utensili da cucina ovunque tranne che in cucina. Anche se la decorazione può essere mostrata fino ad oggi prima del 62 d.c., la casa non sembra essere rimasta nello stesso stato di occupazione da quella catastrofe fino all'eruzione del 79 d.c.

In teoria ha sperimentato ulteriori alterazioni nelle condizioni di vita. Ciò è più evidente nella stanza c e nella stanza k, dove la ristrutturazione grossolana implica il declassamento. I reperti nella stanza c indicano un palinsesto di attività, mentre quelli nella stanza k mostrano che se questa stanza non era stata usata per intrattenere, allora doveva essere utilizzata per lo stoccaggio.
L'ATRIO

L'ATRIO

Nel centro dell'atrio (d) tuscanico c'era un impluvio quadrato di 1,55 m, ricoperto di opus signinum e in testa c'era un tavolo di marmo sorretto da due grifoni alati con zampe di leone.
Il pavimento dell'atrio, di colore scuro, era disseminato di cubetti di mosaico bianco disposti in linee parallele.

Guardando a ovest attraverso l'atrio si vedono il tablinum e la cucina. Vicino all'impluvio dell'atrio c'è l'imboccatura di una cisterna che convogliava sicuramente l'acqua dell'impluvio.

La parete nord dell'atrio aveva un'ottima conservazione della decorazione murale, per un'altezza di 5,70 m a simulare, con una simulazione di bugnato.

I DUE EROTI
Nella parte inferiore, aveva uno sfondo rosso diviso da linee verdi in pannelli delineati in giallo.
Nei pannelli erano dipinti cigni, pavoni, altri uccelli e grifoni, mentre al livello più basso, lo zoccolo era dipinto di nero.

Nella stanza a nord dell'ingresso c'erano dei gradini di pietra e una scalinata saliva poggiandosi sulla parete degli intonaci del muro nord. Guardando ci sono tracce di un piccolo piano mezzanino, sostenuto da travi a nord e sud.

C'era un focolare con una panca nell'angolo nord-ovest della cucina, eppoi una latrina nel lato nord est. I romani ponevano in genere vicine la cucina e la latrina, al contrario di noi moderni che cerchiamo di tenere la cucina lontana dal bagno. Nel muro sopra il focolare c'è una piccola nicchia ad arco di cui è ormai invisibile il contenuto. A est della cucina c'era un piccolo magazzino.


IL CUBICULUM

Il tablinum, che era posto sul lato ovest dell'atrio aveva una finestra affacciata sul giardino. Sul muro occidentale del tablino si apriva la porta al cubicolo, (f) il quale era fornito anch'esso di una finestra che si affacciava sul giardino.

Sopra detta finestra però se ne apriva un'altra molto alta, non grande e a forma circolare. Sul muro ovest del cubicolo, le pareti erano dipinte con uno sfondo bianco e nei pannelli erano rappresentati cigni in volo e capre. 

Questa stanza aveva un soffitto voltato a botte, e l'area vicino al muro nord aveva una seconda area a volta, con una proiezione di 1,40 m. Nella parte superiore di questa area a volta, si poteva vedere il dipinto di un pavone che si dirigeva verso un frutto, su uno sfondo bianco.

TABLINIUM

IL TABLINIUM

Il tablinum aveva pareti decorate con i delicati e grotteschi motivi architettonici su uno sfondo bianco. Il dado era nero. In uno dei pannelli sulla parete ovest c'era un dipinto di pesce su uno sfondo bianco incorniciato da un bordo viola dipinto.

Questa stanza era coperta da un soffitto a volta a botte e sulla parete ovest, l'area superiore a volta era dipinta con un ippocampo tra i delfini sullo sfondo bianco. I due pannelli dipinti sulla parete nord avevano sfondi viola.

Uno mostrava un cervo che fuggiva a sinistra seguito da un cane, a sinistra un idolo di Priapo.
L'altro mostrava un cervo attaccato da un cane, anche a sinistra forse era un idolo di Priapo. Sulla parete nord del tablinio c'era dipinta una scena di caccia con un cane che insegue un cervo e una pianta e un albero sullo sfondo. 



IL LARARIO

Nel giardino della villa c'era un larario domestico, un'edicola sacra addossata alla parete ovest del giardino.

L'edicola venne edificata su un alto podio in muratura rivestito di stucco giallo, con quattro colonne e due ante applicate alla parete stessa. Le colonne supportavano un tettuccio di mattoni fornito di frontone.

Le colonne, eseguite in laterizio, sono rivestite di stucco e dipinte, le due esterne sono gialle, le due interne sono rosse, rispettando i classici colori che caratterizzarono Roma: il rosso e il giallo.

La parete posteriore del santuario era invece dipinta di bianco, come era usuale per ogni dipinto del genere, ma del dipinto  non rimane traccia.

La base è anch'essa dipinta in rosso e giallo. Rosso alla base e giallo sopra. Al suo centro venne ricavata una grande rientranza ad arco, dipinta di rosso all'interno.



IL GIARDINO

Nel giardino (o) si conserva un puteal di terracotta con bordo decorato a rilievo tutto intorno, e con sopra teste di leoni e umboni. Il puteal era un pozzo da cui si attingeva acqua per i residenti, per altri usi come innaffiare il giardino e altro si ricorreva alla cisterna. 

Il giardino era munito secondo la consuetudine di un porticato continuo, con colonne dipinte sotto in rosso e sopra in giallo. Nella parete nord del portico vi è dipinto un pannello con uccelli e frutta. Il giardino del peristilio a sinistra dell'atrio aveva un portico sul lato est, con cinque colonne di mattoni ricoperte di stucco, due di colore giallo sopra, rosse sotto.

Dei quattro spazi tra le colonne, due furono in seguito lasciati aperti; il terzo era chiuso da un muretto in muratura. Il quarto fu incorporato nella parete ovest della piccola stanza costruita a sud del portico.
Sul porticato si affacciavano le porte dell' oecus e del triclinium estivo.

Dal giardino è emerso una stretta base di marmo, da cui usciva una grossa zampa di leone. In cima alla zampa c'erano foglie d'acanto dalle quali emergeva la figura di Sileno dal ventre in su, con il piccolo Bacco poggiato sul braccio sinistro.

VENERE

TRICLINIO ESTIVO

La parete sud del triclinio a est del portico era sontuosamente decorata e questa piccola stanza, coperta da una volta, riceveva luce anche da due piccole finestre che si aprivano nelle pareti laterali.
Vi è un affresco di Bacco e uno di probabile Venere, nuda ma con al collo una collana e due cavigliere in oro ai piedi.

La parte inferiore del triclinio è dipinta di rosso e decorata con diverse immagini. Nella parete est del triclinio estivo, c'è una finestrella aperta ricavata da una piccola nicchia o armadietto dove si poteva riporre qualche oggetto.

Al centro sulla parete est c'era un piccolo dipinto che mostrava degli amorini che prendevano oggetti da una piccola scatola per la toilette di Venere, il che lascerebbe presupporre che la fanciulla nuda sia appunto Venere.  L'amorino a destra aveva già uno specchio circolare, l'altro a sinistra stava forse prendendo un gioiello.

A sud del portico ci sono due piccoli recessi, uno a est e uno a ovest, uno dei due contenente delle anfore, una specie di piccolo magazzino dover riporre anfore i cui contenuti stavano al fresco nell'ombra. Anche i recessi sono decorati, sia pure con semplicità.

BACCO

OECUS

L'Oecus si trova nell'angolo sudorientale del portico, secondo gli studiosi questa stanza era o un triclinium o un oecus. Aveva pareti dipinte con decorazioni suddivise con i soliti motivi architettonici, su uno sfondo bianco. Il dado (la parte inferiore del muro), invece era era viola.

A parere dei critici la decorazione voleva essere ricca e vibrante, ma in realtà era pasticciata, pesante e volgare; faceva un'impressione triste come se si fosse in una catacomba.
Originariamente avrebbe contenuto tre dipinti centrali, ma ne sono rimasti solo due, mentre il terzo è caduto insieme al muro meridionale. Sulla parete nord c'erano Perseo e Andromeda. Sulla parete est, si pensa che il dipinto mostrasse Elena e Parigi a Sparta.

Sulla parete nord dell'oecus c'è l'affresco di Perseo e Andromeda, dove Perseo tiene la testa mozzata della gorgone Medusa. Ambedue stanno guardando il riflesso della testa nell'acqua sotto di loro, visto che la Medusa non poteva essere guardata direttamente pena la pietrificazione dell'osservatore.

Il pavimento dell'oecus era decorato con un pannello di marmi colorati posti in opus sectile. La parete ovest dell'oecus aveva una porta  che dava sul porticus.


GROTTESCHE

ENTRATA

Ingresso VI.15.7 nella stanza sul lato est del portico, questa stanza avrebbe avuto la scala per il piano superiore indipendente adiacente ad essa. Questo avrebbe portato dalla porta alla VI.15.7, sulla sinistra.

Soglia della porta al cubicolo sul lato sud delle fauci, nell'angolo sud-est dell'atrio, guardando verso est verso il piano del cubicolo.

Guardando verso la parete est del cubicolo con la finestra su Vicolo dei Vettii. Questa stanza era stata coperta da un soffitto a volta a botte e aveva una rientranza per un letto.
Le pareti erano decorate con uno sfondo bianco e avevano una cornice in stucco che correva intorno alle pareti ad un'altezza di circa 2 metri dal pavimento.

Nell'angolo nord-est del cubicolo con rientranza del letto, un teschio umano insieme ad alcune delle ossa dello scheletro sono stati trovati in questa stanza.



IL TESORETTO DI COMO

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Monete d'oro romane, Bonisoli: 'Ritrovamento epocale'
(Fonte)

Eccezionale ritrovamento a Como nel corso di alcuni scavi in vista della costruzione di palazzine: trovato un 'tesoretto' di 300 monete d'oro romane, per il ministro Bonisoli è un evento epocale:
"Per me questo è un caso più che eccezionale è epocale, uno di quelli che segna il percorso della storia" ha detto il ministro dei Beni Culturali, Alberto Bonisoli, nella conferenza stampa di presentazione, a Milano, del ritrovamento delle monete d'oro di epoca romana avvenuto a Como.

"Non siamo ancora in grado di capirlo, ma è un messaggio che ci arriva dai nostri antenati".
All'interno dell'anfora trovata a Como non solo monete, forse anche un lingotto che deporrebbe per il deposito di una cassa pubblica, difficilmente di un privato.

All'interno, infatti, sono stati individuati almeno altri tre oggetti. Lo hanno spiegato gli archeologi della Soprintendenza della Lombardia a Milano, a una conferenza stampa alla quale ha partecipato anche il ministro dei Beni Culturali, Alberto Bonisoli. 

"Di certo abbiamo intravisto una barretta d'oro - ha spiegato una funzionaria - e altri due oggetti
Ma al momento nel microscavo abbiamo rimosso solo il primo strato di 27 monete da circa 4 grammi d'oro, coniate nel periodo degli imperatori Onorio, Valentiniano III, Leone I e Livio Severo, quindi non collocabili oltre il 474 d.c. Un lingotto deporrebbe sicuramente per un deposito di una cassa pubblica, poco probabile un privato".


La zona del ritrovamento del tesoro non riguarda scavi archeologici, ma un cantiere moderno: il cantiere della Officine Immobiliari Srl di Como, una ditta privata che sta trasformando l’ex teatro Cressoni dismesso negli anni 90 in un complesso residenziale, si trova in un’area molto vicina a quello che era il foro di Comum, la Como romana.
Gli scavi, realizzati con l’aiuto di pompe idrovore per risolvere il problema dell’acqua di falda, hanno portato alla luce un edificio di funzione ignota e di epoca tardoantica, fabbricato con pezzi di reimpiego, tra cui alcune epigrafi di epoca imperiale.

In uno di questi vani dell'edificio, poggiato sopra uno strato in cocciopesto (che i romani utilizzavano per impermeabilizzare pavimenti o pareti), nel livello più antico finora individuato nello scavo, era poggiato un boccale con coperchio in pietra ollare grigia, proveniente dalle Alpi Centrali, con una strana forma. Infatti il vaso presenta un’ansa quadrangolare ed è più largo alla base e più stretto sul collo.


La pietra ollare viene di solito lavorata in un solo blocco in forme cilindriche o eventualmente anche troncoconiche, ma con l’orlo più largo rispetto alla base. Questo permette di ridurre al minimo lo scarto e di ottenere più forme da uno stesso blocco. Quindi una lavorazione come quella del nostro recipiente, che prevede una grande quantità di scarto, è pensabile solo per oggetti estremamente preziosi.

Non sappiamo quante monete contenga di preciso il boccale, però sappiamo che sono state tutte riposte con cura e non abbandonate in fretta come capita in altri ripostigli. Probabilmente sono state impilate, un po’ come fanno anche le banche di oggi, forse entro rotoli di stoffa o altro materiale deperibile che ora non c’è più e che si potrà forse dedurre dallo scavo stratigrafico in miniatura dell’olla, da analizzare millimetro per millimetro.

La Facchinetti ha avanzato l’ipotesi che possa trattarsi di una cassa pubblica sotterrata in un momento di pericolo. Un’idea suggestiva che dovrà però essere chiarita dalle indagini future.
Comunque il ministro Bonisoli, ha annunciato che il tesoretto appartiene alla città in cui è stato trovato, e cioè a Como.

IL RITROVAMENTO


CHI NE USUFRUISCE

La legge parla chiaro: l'operaio che ha trovato materialmente il tesoro di monete d’oro in via Diaz potrebbe diventare ricco. La legge gli assegna infatti un quarto del valore del ritrovamento. Allo stesso modo, un altro quarto dovrà essere corrisposto ai proprietari del terreno, mentre lo Stato tratterrà per sé il 50%.

Il premio può essere «corrisposto in denaro o mediante rilascio di parte delle cose ritrovate».
Una volta stimate le monete, insomma, lo Stato potrà decidere se pagare o dare una parte del tesoro ai proprietari dell’area e a chi ha scoperto l’anfora.



LA SORPRESA (settembre 2018)
(Fonte)

Già estratti dal vaso e catalogati 275 pezzi. Confermata anche la presenza di gioielli e di un lingotto: a una settimana dalla clamorosa scoperta di via Diaz, l’entità del prezioso rinvenimento nelle fondazioni dell'ex Teatro Cressoni va molto probabilmente rivista al rialzo.

Il soprintendente ai beni archeologici Luca Rinaldi, da cui dipende lo studio dei reperti, ancora non vuole dare cifre, ma si sbilancia in una previsione: «Il tesoro di Como potrebbe essere superiore a quello sensazionale di Sovana», più di 400 monete d’oro trovate nel 2004 nelle fondazioni della chiesa di san Mamiliano nel piccolo borgo in piena Maremma.

«A meno di non trovare grossi oggetti sul fondo della pentola - dice ancora Rinaldi - la massa di monete ancora da tirar fuori è tale da far supporre un quantitativo notevole. Peraltro l’epoca è la stessa di Sovana, il V secolo dopo Cristo, identici gli imperatori che troviamo in effigie».

A una settimana dalla scoperta, prosegue dunque spedita la catalogazione delle monete e degli oggetti in oro rinvenuti all’interno della pentola in pietra ollare. Siamo a quota 275 soldi estratti e fotografati.




ADDIRITTURA SI PARLA DI MILLE MONETE (marzo 2019)

E non solo. "Oltre alle 1000 monete erano stati inseriti nel vaso alcuni oggetti in oro: un frammento di barretta, tre orecchini e tre anelli con castone”. Le attività di studio e catalogazione si svilupperanno, sotto la direzione della dottoressa Grazia Facchinetti, esperta in numismatica della Soprintendenza.

«La Soprintendenza sta lavorando su più fronti– ha dichiarato il Soprintendente Luca Rinaldi – per consentire di presentare il tesoro al pubblico in tempi ragionevoli anche in collaborazione con il Comune di Como e il Museo Archeologico “Paolo Giovio”».

LUCARIA (19 - 21 luglio)

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BOSCO SACRO DI BOMARZO - SECOLO XVI
"Lucaria" era la festa dedicata ai boschi sacri. Lucus infatti significa bosco. I Romani distinguevano i boschi in sacri, divinizzati e profani. Sacri erano quelli in cui abitava un numen, divinizzati erano quelli che venivano sacralizzati dai sacerdoti a seguito di un evento portentoso avvenuto in quel luogo e profani erano tutti gli altri.

I boschi sacri, come quelli divinizzati, potevano essere liberamente attraversati, ma non si potevano tagliare alberi e neppure rami e non si poteva uccidere alcun animale che l'abitasse, perchè tutto era sacro al numen che l'abitava.

"Il bosco è misterioso, pieno di vita, ma anche di pericoli, lì la natura, che un tempo riempiva quasi tutta l'area di boschi, si esprimeva col suo lato accogliente per le bacche, le erbe e la legna per il fuoco e le capanne, ma anche col suo lato oscuro per le belve, il perdere la strada, i temporali e quella penombra dove il sole penetra con difficoltà.

Il lucus era come gli Dei della natura, benevolo ma a volte ostile o indifferente, dunque si doveva rendergli omaggio per ingraziarseli. Così gli si offrivano cibo, erbe odorose, preghiere, canti e danze. Le sacerdotesse furono le prime a contattare il mondo magico del bosco, e la loro religione fu un misto di scienza e magia, perchè dal bosco trassero le erbe da mangiare ma anche quelle medicamentose, nonchè i segni per i vaticini."

Nei boschi i soldati romani, sconfitti e perseguitati dai Galli, si ritirarono a consiglio il 19 luglio, in un bosco tra il Tevere e la Via Salaria.

BOSCO SACRO DI SEGNI

LE ORIGINI DELLA FESTA

- Secondo alcuni le Lucarie vennero istituite per celebrare le divinità dei boschi che, dopo la durissima disfatta subita dai Romani ad opera dei Galli il 18 luglio del 390 a.c. nella piana del fiume Allia, consentirono a numerosi superstiti di scampare al massacro. Infatti Roma venne saccheggiata dai Galli Senoni di Brenno nel 18 luglio, dies Alliensis, ma le Lucarie sottolineavano il ruolo positivo dei fuggitivi che si erano imboscati nelle selve intorno alla via Salaria, i quali poterono contribuire alla riorganizzazione dell'esercito che in breve tempo riconquistò la città.

- Secondo altri la festa era dedicata genericamente a tutti i boschi e le divinità boschive, in primis alla Dea Lucae, patrona dei boschi. Si trattava di quei gruppi di alberi che venivano lasciati intatti dopo il disboscamento di un'area (lucus), e che veniva dedicato ad una divinità. Ma il lucus non erano gruppi di alberi, erano boschi veri e propri. Vero è che dentro Roma vennero rosicchiati dalla speculazione edilizia che riusciva spesso a rimpicciolire i lucus per fabbricarvi case.

- Per Ovidio è festa consacrata a un asilo che Romolo avrebbe fondato nei pressi del Tevere. In effetti secondo lo storico Lucio Calpurnio Pisone, l'Asilo era posto sotto la protezione del Dio Lucoris, nome evidentemente foggiato sulla parola lucus, ad indicare il Dio del bosco, come da silva derivò Silvanus, Dio della selva. Sembra però che fosse locato nell'odierna piazza del Campidoglio, quindi non dovrebbe avere a che fare col Lucus della via Salaria.

Sia Livio che Plutarco menzionano il Lucus Petelinus  a proposito del giudizio contro Marco Manlio. Da prima i comizi si erano radunati nel Campo Marzio, ma poi, avendo Manlio additato il Campidoglio, che dal Campo Marzio si scorgeva, e "da lui salvato nella precedente invasione gallica", i tribuni consolari, temendo che il popolo a tale ricordo si commuovesse, trasportarono la sede del giudizio in luogo da cui il Campidoglio non fosse visibile, scegliendo il bosco Petelino.
Tito Livio dice che il bosco si trovava extra portam Flumentanam, cioè presso il Forum Olitorium, tra l'odierno ponte Rotto e ponte Quattro Capi. Anche qui si sostiene che il bosco che salvò i militari romani si trovasse presso il Campidoglio, niente a che fare con la Salaria.

LA DEA PORTATRICE DI LUCE

IL SIGNIFICATO

Gli antichi romani avevano questo motto: "lucus a non lucendo" (lucus deriva dal non lucere), cioè: il bosco si chiama così perché non ha luce. In effetti il bosco è in penombra a causa delle chiome degli alberi che riparano il sole, ma proprio per questo consentono di "vedere" l'ombra. E' la stessa ragione per cui i culti lunari hanno preceduto nella storia i culti solari.

La luna era come il bosco, aveva una fioca luce che consentiva di vedere nelle zone buie, mentre il sole fuga totalmente le tenebre. Così il bosco consentiva la suggestione delle zone buie all'interno dell'uomo, con i suoi fantasmi e soprattutto con la paura della morte.



INNO A ISIDE

Perché io sono colei che è prima e ultima
Io sono colei che è venerata e disprezzata,
Io sono colei che è prostituta e santa,
Io sono sposa e vergine,
Io sono madre e figlia,
Io sono sterile, eppure sono numerosi i miei figli,
Io sono donna sposata e nubile,
Io sono colei che dà alla luce e colei che non ha mai partorito,
Io sono colei che consola dei dolori del parto.
Io sono sposa e sposo,
E il mio uomo nutrì la mia fertilità,
Io sono madre di mio padre,
Io sono sorella di mio marito,
Ed egli è il figlio che ho respinto.
Rispettatemi sempre,
Poiché io sono colei che dà scandalo e colei che santifica.

(Inno a Iside - rinvenuto a Nag Hammadi, Egitto -  III-IV secolo a.c.)

Dunque il bosco era un po' il Sacro Mistero, con la Dea che può accogliere e proteggere ma può anche dare la morte. Cosa spinse i romani a radunarsi a consiglio nel bosco presso la Salaria dove già si rifugiarono per sfuggire ai Galli? Il fatto che quel bosco misterioso li avesse salvati dall'inseguimento dei galli. Il bosco era ignoto ai Galli ma pure ai romani,  nel senso che era impossibile orientarvisi, così fuggendo i romani vi si erano avventurati scongiurando la Dea di occultarli e il "miracolo" o la "fortuna" avvenne.

Pertanto i romani festeggiavano i boschi come luoghi di Dee o Ninfe protettrici, e nei giorni delle Lucarie la festa si svolgeva nei boschi sacri di Roma vale a dire nei luci posti entro le mura:
- Lucus Vestae, sulla Via Nova,
- Lucus Strenuae, sulla Via Sacra,
- Lucus Asyli, sul Campidoglio,
- Lucus Robinigis, sul Pincio,
- Lucus Bellonae, sul Campo Marzio,
- Lucus Feroniae in Campo, tra la via Salaria e la Pinciana, che potrebbe essere il lucus in cui si rifugiarono i superstiti romani fuggiti dai Galli,
- Lucus Loretae, sull'Aventino.
- Lucus Saturni, presso il Circo Massimo,
- Lucus Furinae, presso il ponte Sublicio,
- Lucus Albionarum, in Trastevere.



LA FESTA

I sacerdoti addetti ai luci si recavano con il popolo in processione e dopo preghiere e benedizioni staccavano i rami fronzuti dagli alberi consegnandoli al popolo accorso insieme ad un ramo secco raccolto da terra. Il ramo fronzuto veniva poi esposto nelle case mentre quello secco veniva bruciato nelle cucine, forse per cuocere un pane particolare ma non ve ne è certezza.

Si appendevano nastri e ghirlande nel bosco e nei templi, e la gente si cingeva il capo con ghirlande di foglie e fiori e in quel giorno si portavano cibi e bevande che si consumavano nei boschi. Una piccola parte di quel cibo, come del vino recato, si offriva alla divinità locale lasciandolo cadere a terra. prima del tramonto del sole si abbandonava il bosco per tornare alle case.

In quanto alla Dea Lucae non ne sono rimaste tracce, ma sicuramente venne assorbita dalla Dea Diana, detta anche Lucina, il cui tempio si conserva oggi a Roma sotto la chiesa dei SS. Apostoli, dove è riemerso attraverso gli scavi archeologici, l'antico tempio.

Recentemente la festività è stata simbolicamente ripristinata dalla Soprintendenza Archeologica di Roma, con eventi e spettacoli ambientati nell'area archeologica di Crustumerium, a circa 15 Km da Roma.

Festa delle Lucarie nell’area archeologica di Crustumerium promossa dalla Soprintendenza Speciale Archeologia Belle Arti e Paesaggio. Il 19 luglio 2018 il sito ospiterà un evento culturale nel giorno dell’antica festività delle Lucarie. Le celebrazioni vennero istituite per ringraziare le divinità dei boschi che, dopo la durissima disfatta subita dai Romani ad opera dei Galli il 18 luglio del 390 a.c. nella piana solcata dall'Allia, consentirono a numerosi soldati romani di scampare al massacro.

In seguito a questa sconfitta Roma fu espugnata dai Galli Senoni di Brenno e subì un disastroso saccheggio. La data del 18 luglio, dies Alliensis che corrispondeva appunto alla battaglia del fiume Allia fu sempre considerata infausta dai Romani.

LUDI VICTORIAE CAESARIS (20 - 30 luglio)

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"Nel giorno tredici delle Calende Sestili celebravansi i giuochi della Vittoria di Cesare de quali fa commemorazione Svetonio in Augusto e Dione"

(Gianfrancesco Pivati - Nuovo dizionario scientifico e curioso sacro-profano - 1751)



I LUDI DI CESARE

I "Ludi Victoriae Caesaris" venivano celebrati dal 20 al 30 luglio (secondo altri 21 - 31 Luglio) per la vittoria conseguita da Cesare. Vennero istituiti da Cesare in occasione della dedicazione del tempio di Venere Genitrice, a cui si doveva la generazione della gens Iulia (almeno a detta di Cesare) il 26 settembre, 46 a.c. Inizialmente celebrata alla conclusione del trionfo di Cesare, la festa includeva giochi circensi e spettacoli da teatro.

La celebrazione fu immensamente popolare si che i giochi vennero replicati l'anno successivo, e sicuramente sarebbero divenuto un appuntamento fisso sul calendario romano. Gli ultimi 4 giorni, degli 11 della durata totale di questi ludi, erano destinati alle gare nel Circo.

Per consentire ai romani di partecipare in massa Cesare dovette costruire un anfiteatro provvisorio nel foro di Cesare eseguito in legno, dove faceva svolgere le cacce e i combattimenti fra i gladiatori. 



I LUDI DI AUGUSTO

Successivamente i  ludi Victoriae Caesaris divennero stabili e si svolsero nell'arco di dieci giorni, dal 20 al 30 luglio, tanto che venne nominato un apposito collegio che si doveva occupare della loro organizzazione. Quando il collegio venne meno all'incarico assunto vi provvide lo stesso Augusto pro collegio e nel 32 d.c. i giochi furono presieduti dai consoli. 

AUGUSTO LAUREATO
In seguito alla uccisione di Giulio Cesare, Marco Bruto, rendendosi conto che il popolo lo considerava più un assassino che un liberatore, cercò di riconquistarsi una buona fama organizzando a sue spese il Ludi Apollinares, del 6-13 luglio.

Allora l'erede di Cesare, Ottaviano, con l'intenzione di superarlo organizzò ancora più in grande e a sue spese i Ludi Victoriae Caesaris, "giochi in onore della vittoria di Cesare", che si svolsero dal 20 al 28 Luglio in concomitanza con una festa in onore di Venere Genitrice, divinità protettrice e matriarca divina della sua gens.

Fu durante questi ludi, che servivano anche da giochi funebri, che venne notoriamente avvistata una cometa, apparsa ad "annunciare" il nuovo status divino di Cesare (che venne in effetti divinizzato da Ottaviano), e che restò chiaramente visibile per una intera settimana. In seguito Augusto istituì i nuovi ludi all'interno del suo programma di riforma religiosa, corredati di pubblici spettacoli e intrattenimenti, instaurando così il culto imperiale.

Anche i Fasti Amiternini, spesso imprecisi, citano al 20 luglio i «ludi Victoriae Caesaris», celebrati ogni anno a Roma dal 20 al 30 dello stesso mese.  Caius Matius fa riferimento ai giochi di Ottaviano celebrati in onore della vittoria di Cesare (ludos quos Caesaris victoriae Caesar adulescens fecit cura), e pure Svetonio (10.1.1), secondo cui Ottaviano, ancora adolescente, presentò i ludos victoriae Caesaris quando quelli designati a farlo non osavano (Dio 45.6.4). 

ATLETI ROMANI

LA PROCESSIONE

La descrizione più esaustiva su tale processione è fornita dalle Antiquitates Romanae di Dionigi di Alicarnasso, basato sulla testimonianza di Fabio Pittore.

La cerimonia seguiva il seguente ordine:

- Il corteo circense veniva aperto dal magistrato ordinatore dei giochi, in questo caso Augusto coi littori e col suo seguito;
- avanzava quindi il corteo della gioventù romana tutta paludata in candide toghe, e il popolo plaudeva perché erano o sarebbero diventati i difensori di Roma; la palestra preparava all'addestramento militare e a Roma tutti i giovinetti stavano in palestra;
- poi seguiva il corteo degli atleti in clamidi succinte, belli come numi;
- quindi seguiva quello dei ludiones (che gareggiavano nelle corse dei cavalli o dei carri o come gladiatori) e la folla andava in visibilio urlando i nomi più famosi;
- seguivano a tempo di musica i danzatori travestiti da Sileni.

A questo punto comparivano le statue delle divinità e i loro simboli, trasportati su mezzi differenti, in genere da tensae (carri a due ruote)  e ferculae (lettighe portate a spalla), tra le invocazioni del popolo, e questa era la parte più importante, cioè il fine della festa, in quanto ci si ingraziava le divinità facendo loro assistere ai Ludi Victoriae Caesaris. Vigeva il concetto per cui se gli Dei si divertivano diventavano più benevoli verso il popolo romano.

- Una volta giunta al circo, la processione veniva chiusa da un sacrificio compiuto dai magistrati e dai sacerdoti ai quali competeva.
- si deponevano le statue degli Dei con fiori e ghirlande sull'apposita tribuna a loro destinata (non era mai una sola divinità impegnata nei ludi, visto la dispendiosità enorme dei ludi si approfittava per coinvolgere più divinità), tra preghiere e canti. Non sappiamo se sedute o semi coricate come nei banchetti, ma si presuppone fossero: di legno, sedute, dipinte, vestite e ingioiellate.

- seguiva quindi il giuramento di rito degli atleti sul loro onesto comportamento nelle gare e sulla fedeltà a Roma (non poteva mai mancare).

A questo punto, tra squilli di tromba iniziavano le gare, che si svolgevano però i giorni seguenti, iniziando da quelle dei fanciulli, prima nella corsa, poi nella lotta e quindi nel pugilato.

Nei giorni ancora successivi iniziavano le gare più avvincenti degli adulti: prima nella corsa, poi nella lotta, nel pugilato e nel pancrazio (un combattimento molto duro misto di lotta e pugilato piuttosto pericolosa ma che infiammava molto gli animi).

I GLADIATORI

IL CESAREUM

Terminate queste gare, si ricreava la processione a cui partecipavano tutti gli atleti, i sacerdoti e i cittadini che si incamminavano verso il Caesareum, (o Aedes Divum, cioè Tempio dei Divi Cesari), uno dei templi minori del Santuario degli Arvali, dedicato al culto del divo Cesare, e poi dei seguenti imperatori divinizzati, dove veniva compiuta la cerimonia e il sacrificio in loro onore.

Terminato il complesso rituale, il giorno seguente si tornava al circo dove iniziavano le gare musicali, poetiche e drammatiche, aperta anche ai giovanissimi, con premi consistenti in corone e somme di denaro.
A queste seguivano nei giorni successivi le gare di pentathlon: salto in lungo, lancio del giavellotto, lancio del disco, corsa di uno stadio e infine la lotta.

Negli ultimi giorni iniziavano gli spettacoli più attesi: le corse dei cavalli e/o i ludi gladiatori. Per seguirli la gente si appostava alle porte del circo aspettando l'apertura e partendo all'assalto. Fioccavano le scommesse, si affittavano cuscini e si vendevano a valanga bevande, lupini, dolci, frutta secca e focacce varie.

Al termine di queste ultime gare tornavano i sacerdoti che con un'ultima cerimonia si riprendevano gli Dei e li facevano riportare nei loro templi seguiti da canti e preghiere.

V REGIO AUGUSTEA - PICENUM

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FANO
Cosiddetta dal nome della popolazione originaria prima della conquista romana, i Piceni che ebbero origine da una primavera sacra dell'alta Sabina da cui si diffusero nel versante adriatico, accompagnati dal totem del picchio verde. Secondo Ovidio il picchio verde era un tempo un bellissimo uomo affascinante di nome Pico, re dell'Ausonia e fondatore di Albalonga, che aveva sposato la ninfa Canens, figlia di Giano e della ninfa Venilia.

Durante una battuta di caccia, vestito con un mantello di porpora fermato sulla sommità da una borchia dorata, lo vide Circe, figlia del Dio Elio e di Perseide, che scendeva dal monte Circeo e se ne invaghì.

Isolatolo dai compagni di caccia grazie al ricorso alle sue arti magiche, Circe gli apparve e gli dichiarò il suo amore, ma Pico la rifiutò dichiarandosi fedele alla moglie Canens. Infuriata, la maga lo trasformò in un uccello, appunto il picchio, che mantenne i colori del mantello (la testa del Picchio verde è rossa) e della borchia (il collo dell'uccello è giallo).

Pico era stato anche un augure e quindi era considerato uccello molto importante per gli auspici. Per gli Umbri era considerato uccello beneaugurante. Plutarco sostiene che il picchio era uccello sacro a Marte. Da notare l'alta considerazione di cui godeva la donna nel popolo dei Piceni. Nella regio V fu incluso anche il territorio dei Pretuzi (ager Pretutianus), di origine sabina e proto-sabellica. Essa includeva:

- il territorio delle attuali Marche, a sud del fiume Esino,
- il territorio dell'attuale Provincia di Teramo, in Abruzzo,
- parte dell'attuale provincia di Pescara in Abruzzo, compreso tra il fiume Esino a Nord, l'Adriatico ad Est, l'Appennino a Ovest e il fiume Saline a Sud.

Plinio colloca il confine meridionale della Regio V Picenum sul fiume Aternus, (Pescara) (Nat. Hist., III 18, 110-112). Strabone informa che il territorio dei "Picentini", occupasse 800 stadi, dal fiume Aesis (Esino) a Castrum Novum (Giulianova).

(INGRANDIBILE)
La V Regio Augustae ci viene descritta da Plinio il Vecchio nella Naturalis Historia (Libro III, paragrafi 110-111-112) con l'elenco delle città che con i propri territori costituivano la regione.
«Quinta regio Piceni est, quondam uberrimae multitudinis. (CCCLX) Picentium in fidem p. R. venere. orti sunt a Sabinis voto vere sacro. tenuere ab Aterno amne, ubi nunc ager Hadrianus et Hadria colonia a mari (VI) p. flumen Vomanum, ager Praetutianus Palmensisque, item Castrum Novum, flumen Batinum, Truentum cum amne, quod solum Liburnorum in Italia relicum est, flumina Albula, Tessuinum, Helvinum, quo finitur Praetutiana regio et Picentium incipit. 
Cupra oppidum, Castellum Firmanorum, et super id colonia Asculum, Piceni nobilissima. intus Novana; in ora Cluana, Potentia, Numana a Siculis condita, ab iisdem colonia Ancona, adposita promunturio Cunero in ipso flectentis se orae cubito, a Gargano (CLXXXIII). intus Auximates, Beregrani, Cingulani, Cuprenses cognomine Montani, Falerienses, Pausulani, Planinenses, Ricinenses, Septempedani, Tolentinates, Traienses, Urbesalvia Pollentini

Dall'estremità della Puglia fino al confine tra Marche ed Emilia-Romagna l'intera fascia costiera era occupata da due principali gruppi etnici: 
- quello iapigio, dal capo di S.Maria di Leuca al Gargano, 
- e quello sabellico, dal fiume Fortore a Pesaro. 
Queste due entità, distinte dal punto di vista linguistico, etnico e culturale, erano formate a loro volta da raggruppamenti minori. 
Procedendo da sud verso nord, degli Iapigi facevano parte: 
- i Messapi,
- i Peucezi 
- i Dauni; 
Del gruppo sabellico invece facevano parte:
- i Frentani, 
- i Marrucini, 
- i Vestini,
- i Pretuzi 
- i Piceni.



I PICENI

I Piceni furono la maggiore e più significativa entità culturale stanziata nell'area marchigiana nel primo millennio a.c.

-  Tito Livio (Liv. X, 10-11) riferisce che nel 299 a.c. i Romani strinsero un patto di alleanza coi Piceni "cum Picenti populo".

- Nei Fasti Triumphales Capitolini è citata la vittoria nel 268 a.c. di P. Sempronio e A. Claudio sui "Peicenti" (Peicentibus).

- La legge del tribuno G. Flaminio del 232 a.c. prevedeva la colonizzazione dei territori dell'Italia centrale adriatica "al di qua di Ariminum e ultra agrum Picentium" (Catone ex Varrone I, 2, 7)

M. VERRIO FLACCO
- Polibio (II 21, 7) narra che nel "232 a.c. sotto il consolato di Marco Lepido, i Romani colonizzarono nella Gallia Cisalpina la zona picentina "da cui cacciarono i Galli Senoni", e  a proposito dei movimenti di Annibale dopo la battaglia del Trasimeno (III, 86, 9)  ricorda che il condottiero cartaginese "dopo aver attraversato il territorio degli Umbri e dei Picenti giunse in dieci giorni presso il litorale adriatico".

- Appiano (Samn., 6,3) narra altresì che le legioni romane, con a capo il console Publio Cornelio Dolabella, attaccarono nuovamente nel 283 a.c. i Galli Senoni passando attraverso i territori dei Sabini e dei "Picentini". 

- Plutarco di Cheronea chiama il Piceno "Picenide", e i suoi abitanti "Piceni". 

- Claudio Tolomeo (III, 1, 7 - III, 1, 18) chiama "Piceni" i popoli che vivono accanto ai Peligni e Marrucini, e "Picentini" quelli che si trovano nei dintorni di Salerno. 

M. Verrio Flacco (50 a.c. - 20 d.c.), la cui epitome, curata da S. Pompeo Festo nel II o III secolo d.c., venne compendiata nell'VIII secolo d.c. da Paolo Diacono: "La regione picena, nella quale è compresa Ascoli, viene così chiamata perché, quando i Sabini partirono verso Ascoli, sul loro vessillo era un picchio
(Paul. Fest., p. 235 Lindsay, s.v. Picena regio).

Le invasioni celtiche, la presenza siracusana e la conquista romana porteranno nel volgere di meno di due secoli alla totale scomparsa della cultura picena.



GLI ALTRI POPOLI

Nelle attuali Marche erano stanziati anche:
- gli Asili (Silio Italico, VIII, 439-445), nei pressi di Jesi o nella valle dell'Aso; 
- i Tirreni, fondatori a Cupra Maritima del santuario dedicato alla Dea Cupra (Strabone, V, 4,2); 
- i Valesi (Esichio);
- i Liburni, dei quali Truentum secondo Plinio sarebbe stato l'unico insediamento superstite; 
- i Siculi, fondatori di Ancona e di Numana, scacciati secondo Filisto da Umbri e Pelasgi; 
- gli abitatori della zona di Novilara, a sud di Pesaro, di cui conosciamo solo quattro stele di iscrizione "nordpicene" e di cui ignoriamo il nome; 
- Plinio riferisce nell'area compresa tra Ascoli e di Teramo Plinio la presenza dei Pretuzi: Helvinum, "quo finitur Praetutiana regio et Picentium incipit" (Nat. Hist., III 18, 110); 
- i Villanoviani con insediamenti e necropoli, rinvenuti nel territorio di Fermo. 



LE STRADE

- la via consolare Salaria, antica via del sale, tracciata dagli antichi Sabini nel II millennio a.c. che passando per Ascoli giungeva a Porto d'Ascoli;
- la via consolare Flaminia, che collegava Roma a Rimini, nella variante meridionale che passava per Septempeda e raggiungeva il mare ad Ancona, per proseguire lungo la costa con due ramificazioni, una diretta a Fano, dove si ricongiungeva col ramo settentrionale della Flaminia, e l'altra a Porto d'Ascoli, dove si ricongiungeva alla Salaria.
- la Salaria Gallica che si snodava all'interno della regione, collegando la via Flaminia (all'altezza di Forum Sempronii, odierna Fossombrone) con la via Salaria (all'altezza di Asculum, odierna Ascoli Piceno



LE CITTA'


- Ancon - Ancona -
Fondata dai Greci di Siracusa nel 387 a.c. 
Iniziò a romanizzarsi nel 133 a.c., quando ci fu la deduzione di una colonia romana nell'agro anconitano in seguito alla Lex Sempronia Agraria, e ancor di più nel 90 a.c. quando divenne municipio romano in seguito alla Guerra Sociale. 
Da quell'anno Ancona può dirsi città romana, pur rimanendo per alcuni decenni un'isola linguistica e culturale greca. In età imperiale svolse per Roma la funzione di collegamento marittimo con l'Oriente e per questo l'imperatore Traiano ne ampliò il porto. 
Conserva ancora l'Arco di Traiano e l'Anfiteatro Romano.


- Asculum Picenum - Ascoli -
MONETA DI AUSCULUM
monetazione di Ausculum, sul dritto una A e sul rovescio un fulmine. Era la principale città dei Piceni, I primi contatti tra Asculum e Roma avvennero per i commerci che avvenivano lungo la via Salaria. In seguito alla sua sconfitta da parte dei Romani nel 268 a.c., Asculum divenne una civitas foederata.
Nel 90 a.c. fu la prima città a ribellarsi al dominio di Roma, dando origine alla guerra sociale. I Romani, guidati da Gneo Pompeo Strabone, conquistano e saccheggiano Asculum nell'89 a.c., per farne poi municipio romano. La città prosperò sotto Augusto (che istituirà la Regio V Picenum), con templi, teatri, domus, ponti e fortificazioni.


- Auximum - Osimo -
Con la battaglia di Sentinum (Sassoferrato) del 295 a.c., i Romani iniziarono la conquista del Piceno, coinvolgendo anche Osimo: nel 173 a.c. narra Livio che i censori Q. Fulvius Flaccus e A. Postumius Albinus appaltarono le mura urbiche e decisero la costruzione di tabernae (botteghe) attorno al foro. Considerata l'inespugnabilità dell'abitato e la sua posizione centrale rispetto l'area picena, i Romani decisero inoltre, nel 157 a.c., di dedurvi una colonia, iscrivendone i cittadini nella tribù Velina.


- Beregra -
Antica città federata dei Romani nel Piceno, sul ramo meridionale della Via Salaria che per Amiterno e Beregra conduceva a Interamnia (Teramo). Si crede che Civitella del Tronto sorga sull'antica area della picena Beregra.


- Castrum Novum - Santa Marinella -

"Colonia maritima civium Romanorum" insediata nella parte settentrionale costiera del territorio cerite, attuale Santa Marinella, fondata nel 264, all'inizio della I Guerra Punica (seguendo Vell., I, 14,8; al 289 risalirebbe la Castrum Novum picena, cfr. Liv., Periock, XI), con prevalente scopo di difesa costiera e di controllo dei traffici marittimi, al pari di Pyrgi e di Cosa. Infatti nel 191 a.c., fu invocata per reclamare la vacatio rei militaris nella guerra contro Antioco (Liv., XXXVI, 3,6). Di una nuova deduzione, forse nel III sec. d.c., si avrebbe attestazione epigrafica nell'appellativo "Colonia Iulia Castrum Novum" (CIL, XI, 3576-78).


- Castrum Truentinum - S. Benedetto -
Con la fondazione della cittadina portuale di Castrum Truentinum, (oggi San Benedetto, più Porto d’Ascoli e Martinsicuro), si romanizza la riviera adriatica e la cittadina in età romana diventa un rilevante scalo marittimo grazie alla sua posizione strategica. Essebdo al centro della penisola diventa punto di raccordo del commercio romano con gli altri porti dell’Adriatico. Inoltre, raccogliendo tutti i nuclei abitati che da secoli circondavano il fiume Tronto, collegava la costa ad Ascoli (Asculum) e all’importante via Salaria, grande arteria di comunicazione dell’Italia Centrale. Infatti l’antico porto di Castrum Truentinum diventa lo sbocco sul mare della Salaria, che attraversava tutta la vallata del Tronto, trovava un crocevia fondamentale in Ascoli e poi procedeva verso Roma tramite i valichi dei Sibillini.

PONTE ROMANO - CINGULUM

- Cingulum - Cingoli -
il suo nome indicherebbe una città edificata sul ripiano di un monte, secondo una leggenda, il picchio piceno, giunto nelle Marche, 
si posò proprio sull'altura di Cingoli. 

Il primo nucleo insediato di Cingulum, nell'area dell'attuale Borgo San Lorenzo, risale al III sec. a.c.
Nel periodo romano, la città è citata nel "De bello civili" da Giulio Cesare e venne ampliata e fortificata da Tito Labieno, cingolano, luogotenente imperiale. 

Alla metà del I secolo a.c., in età augustea, Cingoli venne elevata a Municipium della tribù Velina, nella V Regio.


- Cluana, Cluentum -
La zona archeologica, oggi non visibile, sta nei pressi della Chiesa di San Marone, fra le vie Bruno Buozzi e Adriano Cecchetti. Fu fondata nell'VIII secolo a.c., a nord della foce del fiume Chienti (che cambiò nome in Cluentum in epoca romana) lungo la costa adriatica. Nel 268 a.c. il popolo piceno viene sconfitto in guerra dai romani, la sua terra annessa al territorio di Roma e con essa anche Cluana.
Nel 50 d.c. su una collina vicina al mare, nei pressi di Cluana, sorge un nuovo piccolo centro abitato: Cluentis Vicus, attuale Civitanova Alta (frazione di Civitanova Marche). I due centri, pur diversi, uno sul mare l'altro arroccato sull'altura, nel corso dei secoli, tra alterne vicende, rimangono sempre legati e collegati tra loro.
L’antica Cluana decadde in età imperiale, fino a perdere del tutto l’autonomia amministrativa a favore del proprio vicus Cluentensis, menzionato in un’iscrizione e ubicato dagli studiosi a Civitanova Alta. Nel periodo delle invasioni barbariche Cluana viene distrutta dai Visigoti e quasi tutti i superstiti si rifugiano nel vicus.


- Cupra Maritima - Cupra Marittima -
fondata dai Piceni, adoratori della Dea Cupra, nell' VIII secolo a.c., che vennero poi sconfitti dai Romani nel 268 a.c. divenendo colonia romana e l'ager cuprensis venne identificato con la Regio V Picenum famosa per la produzione di olio, olive e commercio marittimo con un grande porto situato verso la zona nord dell'attuale paese. Qui sorgevano i magazzini, e qui sono venuti alla luce gli ormeggi di navi e anfore per il trasporto del grano e dell'olio. Con la caduta dell'Impero romano d'Occidente, i barbari saccheggiarono Cupra molte volte e subì la dominazione di Bizantini, Longobardi e Franchi, finché nel IX secolo i Mori la distrussero. I cuprensi si ritirarono sulle alture dando vita ai centri difensivi di Castrum Maranum, Castel Sant'Andrea e Castel Boccabianca.


- Cupra Montana - Cupra Montana
Il suo nome Cupramontana deriva dalla Dea Cupra, la dea della fertilità e della bellezza, adorata dalla popolazione preromana dei Piceni. Divenne poi un importante municipio romano.

FALERIO PICENO

Lungo il fiume Tenna, nella località di Piane di Falerone vi è Falerio Picenum, con un teatro romano quasi intatto.
Di 50 metri di diametro, poteva ospitare 1600 persone, e si erigeva per tre ordini, l’ultimo dei quali è andato distrutto. Sopra le volte che coprivano gli ingressi principali vi erano due tribune che ospitavano da un lato il Pretore e dall’altro le vestali. 
Lungo il perimetro esterno dell’anfiteatro è possibile notare i fusti di 22 colonne che, come le gradinate, erano rivestite in marmo.
L’area archeologica comprende inoltre le cisterne romane (a poche centinaia di m dal teatro) e i resti dell’anfiteatro, purtroppo inglobato dall’edilizia privata. Il Louvre di Parigi, ospita le statue di Venere e Perseo qui reperite.

- Firmum Picenum - Fermo -
Villanoviana alle origini e poi Colonia romana nel 264 a.c., Fermo partecipa con Roma a varie campagne di guerra, per cui i suoi abitanti ottengono la cittadinanza romana nel 90 a.c. Il motto della città è "Firmum firmae fidei romanorum colonia" (Fermo, colonia romana di ferma fede). "Romanorum Colonia" (Colonia dei Romani); è un onore guadagnato dalla città grazie alla fedeltà assicurata ai Romani nella I e nella II Guerra Punica.


- Hadria - Atri -
La presenza di un antico porto davanti alla Torre di Cerrano è documentata ampiamente dalle fonti  a partire da Strabone (63 a.c. - 19 d.c.) che cita un porto commerciale presso la foce del fiume Matrino, discendente dall’antica Hatria, e identificandolo come un "epìneion" dotato quindi di strutture per lo stoccaggio delle merci, immagazzinamento e altre strutture funzionali al servizio di una città che ne distava poche miglia. Ancora Plinio (I secolo d.c.) ci parla dell’importanza del vino di Atri trasportato in anfore di produzione locale verso l’Oriente, Grecia e Egitto, senza tralasciare la direttrice Aquileia – regioni danubiane. Il porto in età romana aveva una posizione strategica essendo collocato in prossimità della via Cecilia, una diramazione della Salaria che collegava Roma con l’Adriatico passando per Amiternum (Aquila) e Hadria (Atri).

MOSAICO DEL LEONE - PAL. SAVINI

Fu abitata dai Piceni e dai Pretuzi, che dominarono fino al III 
secolo a.c., prima del dominio romano, l'area di Aprutium, 
da cui il termine "Abruzzo". 
Venne conquistata dal console Manio Curio Dentato nel 290 a.c., divenendo municipio.

Prese parte attiva alla Guerra sociale (91-88 a.c.) e Silla la privò dello statuto di municipio, che le fu poi restituito da Cesare.
Come capitale del Pretutium venne inserita nella V regio da Augusto. 

Sotto il dominio imperiale conobbe un periodo di grande prosperità, testimoniato dalla costruzione, sotto Adriano, di templi, terme e teatri.


- Novaria -
Da picena passò al dominio romano.


- Numana -
Da picena passò al dominio romano.


- Pausulae -
La città romana di Pausulae è stata localizzata nel comune di Corridonia nei pressi dell'Abbazia di San Claudio al Chienti. Le notizie del municipio, fondato dopo il 49 a.c., sono riportate in un passo di Plinio, nel Liber Coloniarum e nella antica cartografia (Tabula Peutingheriana).
Le fonti testimoniano che la città esisteva ancora nel V secolo. Nei terreni ad Est dell'Abbazia è stata individuata una vasta zona di affioramento di materiali archeologici di età romana con presenza di strutture murarie.


- Planina -
Da picena passò al dominio romano.


- Potentia -
I Romani fondarono Potentia nel processo di colonizzazione della costa adriatica, come è documentato da Plinio il Vecchio, Tito Livio, Tolomeo, Pomponio Mela e Velleio Patercolo.
Fu fondata tra il 184 a.c. e il 189 a.c. ad opera dei triumviri Marco Fulvio Flacco, Quinto Fulvio Nobiliore e Quinto Fabio Labeone, per assicurare terra ai veterani delle guerre puniche e per proteggere il litorale dall'assalto dei pirati illirici.
La colonia crebbe fra il II e il I secolo a.c., finanziata da un ceto mercantile florido; con una fiorente produzione locale di terrecotte.
Dopo il 174 a.c. vi fu un  declino, legato alle guerre civili e al violento terremoto del 56 a.c., di cui parla Cicerone. In età augustea prosperò fino a raggiungere la sua massima estensione, contemporaneamente al fiorire della qualità dei manufatti, che mantenne, probabilmente grazie ai traffici, fino al II secolo.
Dopo un forte declino nel III secolo, culminante nella conquista e semidistruzione nel 409 da parte di Alarico I, si risollevò nella seconda parte del secolo IV; ma con detrimento dei suoi monumenti, di questi secoli è l'interramento del tempio, che testimonia la cristianizzazione della colonia.


- Ricina - Villa Potenza di Macerata - (o Helvia Recina) -
Dal dominio dei Piceni passò a quello dei Romani.

SEPTEMPEDA - MOSAICO II O III SECOLO

- Septempeda
A breve distanza dall’odierno centro abitato di San Severino Marche, presso la Chiesa di S. Maria della Pieve, lungo il tracciato del diverticolo dell’antica via Flaminia, si osservano i resti della città romana di Septempeda, posta sulla sinistra del fiume Potenza, distrutta nel corso delle invasioni barbariche. 

Dell’antica città sono visibili parte del circuito murario costruito in opera quadrata con grossi blocchi di arenaria con le porte est e sud-ovest, un ampio edificio termale costituito da una serie di ambienti che si sviluppano intorno ad un cortile centrale pavimentato in opus spicatum ed un complesso artigianale con fornaci per la produzione di ceramiche anch’esso databile ad epoca romana.

 
- Tolentinum -
Sorto su un insediamento preromano, il municipio romano era ubicato su un terrazzo fluviale lungo la sponda sinistra del Chienti, sul luogo di un importante asse stradale.
In epoca romana Tolentinum è ricordata da Plinio il Vecchio tra i municipi della regio V augustea (Nat. Hist. III, 111) ed è menzionata dal Liber coloniarum (grom. vet. 226 L) che ci informa come, in epoca triumvirale, avesse avuto deduzioni di coloni viritani. Divenne municipium ascritto alla tribù Velina come testimoniano alcune iscrizioni, tra le quali spiccano quelle di un patronus, dei seviri augustales e di un praefectus fabrum.
La città romana occupava l'abitato medievale, che in parte ne riproduce lo schema sull'asse di corso Garibaldi, l'antico decumanus maximus. Nelle odierne piazze della Libertà e San Nicola, stava l'area forense del municipium, dove, alla fine dell'800, vennero riportati in luce frammenti architettonici e scultorei, iscrizioni con dediche ai membri della casa imperiale e lacerti murari di una basilica con almeno un pavimento in crusta di marmo e di alabastro, datata al I sec.
L'unico monumento di epoca romana ancora parzialmente conservato, è il mausoleo del V sec. di Flavius Iulius Catervius, presso la cattedrale di San Catervo, sotto il campanile e il presbiterio della cattedrale, a pianta circolare con tre absidi, gli alzati in opus latericium, e decorazioni parietali con affreschi a soggetto cristiano e mosaici in pasta vitrea.


- Trea -
L'antica Treia sorgeva nella zona del Santuario del Santissimo Crocifisso, ove in un campo è ancora visibile la forma di un anfiteatro, ed è possibile ancora trovare frammenti di epoca romana, oltre a quelli inseriti nei muri del convento. Fondata o dai Piceni o dai Sabini., prende nome da quello della dea Trea-Jana, la Dea Trina di origine greco-sicula che qui era venerata. Fu prima colonia romana, poi municipio (109 a.c.), raggiunse una buona estensione urbana e notevole importanza militare. Treia fu distrutta una prima volta dai Visigoti nel V secolo e poi, tra il IX e X secolo, dai Saraceni, per cui gli abitanti la ricostruirono su tre piccoli colli vicini che permettevano una più facile difesa, dandole anche il nuovo nome di Montecchio.


- Urbs Salvia - Urbisaglia -

ULPIA TRAIANA SARMIZEGETUSA (Romania)

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RICOSTRUZIONE DEL VILLAGGIO ROMANO DI ULPIA TRAIANA SARMIZEGETUSA
Ulpia Traiana Sarmizegetusa, Hunedoara County, fu il più importante centro politico e militare della Dacia in epoca Romana, sorto sul vecchio castrum di Traiano (53 - 117), a circa 50 km ad ovest dell'antica Sarmizegetusa Regia, il più importante centro dell'antica Dacia, in senso militare, religioso e politico, distrutto dai Romani di Traiano durante la conquista della Dacia nel 106.

Venne fondata in relazione alla conquista della Dacia ed alla conseguente creazione della Provincia, conquista che si realizzò negli anni compresi tra il 101 ed il 106, attraverso lo scontro tra l'esercito romano, guidato dall'imperatore Traiano, e i Daci, stanziati nel basso corso del Danubio, guidati dal re Decebalo (87 - 106).
 
L'esito finale della guerra fu la sottomissione della Dacia, l'annessione all'Impero romano e la sua trasformazione in provincia, sancita l'11 agosto del 106 e governata da cittadini romani optimo iure (cittadinanza romana). Fu centro amministrativo, finanziario e sede del governatore della provincia con il nome completo di "Colonia Ulpia Traiana Augusta Dacica Sarmizegetusa".

I sarmati Iazigi erano un popolo stanziato a sud del Volga, che attorno al 20 migrarono dietro indicazione di Tiberio, nella piana del Tisza (attuale Ungheria orientale), dove rimasero fino all'arrivo degli Unni, un popolo guerriero nomade siberiano di ceppo turco, che giunse in Europa nel IV sec.

Successivamente i sarmati Iazigi attaccarono la provincia romana e Ulpia Traiana durante le guerre marcomanniche (166 -180). Con Settimio Severo Ulpia potrebbe aver ricevuto lo ius italicum, secondo il quale i suoi cittadini erano esentati dal pagamento del tributo fondiario.

LA REGIA DACICA DI SARMIZEGETUSA CON ANNESSA RICOSTRUZIONE
La capitale della nuova provincia di Dacia sorgeva 50 km ad ovest della precedente capitale dei Daci, Sarmizegetusa Regia. Durante il regno di Traiano ebbe un ruolo guida a livello amministrativo e religioso, nel cuore della Transilvania, la parte occidentale e centrale dell'odierna Romania, protetta da entrambi i lati dalle due legioni lasciate a guardia della nuova provincia: ad est dalla legio XIII Gemina di stanza ad Apulum ed a ovest dalla legio IIII Flavia Felix di stanza a Berzobis.

Sotto Antonino Pio (86 - 161) fu anche sede del concilium Daciarum trium (posto sotto il controllo di un sacerdos arae Augusti), riunione annuale dei rappresentanti di tutte le comunità della Dacia.
Rimase sede del Procurator Augusti finanziario durante l'intero dominio romano fino al 271, come pure centro religioso della provincia. 

Sotto Alessandro Severo (208 - 235) ricevette il glorioso epiteto di Metropolis, quale centro urbano più importante dell'intera provincia delle tre Dacie (Romania, parte della Bulgaria e dell'Ungheria.). 

Tra il 247-258 ad Ulpia fu battuta moneta. La città sopravvisse per circa un secolo all'abbandono della Dacia da parte dei romani e iniziò a decadere definitivamente solo attorno alla metà del IV sec.
Le sue rovine sorgono nei pressi dell'omonima Sarmizegetusa nel distretto di Hunedoara In Transilvania, nella depressione di Ţara Haţegului.



DESCRIZIONE

Se l'antica capitale della Dacia preromana era sui Monti Orastiei ad un'altitudine di 1.200 m, Sarmizegetusa romana era situata su un terreno quasi pianeggiante in Haţeg Basin, a quota 531 m. La città si trova a circa 8 km dalla strada che passa tra Banat e Transilvania, e che un tempo erano chiamati Tapae, le "Cancelli di Ferro della Transilvania". 

La scelta del luogo per fondare la città è stata fatta sulla base di vantaggi strategici ed economici con le Montagne Retezat  e la Poiana Rusca  a sud e a nord, che erano le barriere naturali difficili da attraversare per i potenziali aggressori. 

Il territorio metropolitano si estendeva dal Tibiscum che faceva da ingresso al passaggio di Jiu, un territorio favorevole dove la capitale fu in grado di sviluppare in pace, essendo difesa dai fortini di Tibiscum, Voislova  e Bumbeşti.

ISCRIZIONE PORTA TRAIANA
Sopra: PARTE DELL'ISCRIZIONE SOPRA ALLA PORTA DI ULPIA TRAIANA  1968, 441 = AE 2003, 1520: che riporta: (le lettere minuscole sono le mancanti)
In honorem domus divinae
Lucius OPHONIUS PAPiria DOMITIUS PRISCUS
II VIR COLoniae DACICae PECUNIA SUA FECIT
Locus Datus Decreto Decurionum

La fortezza iniziale, un quadrilatero di massicci blocchi di pietra (muro Dacio), venne costruita con cinque terrazze degradanti su una superficie di quasi 30.000 mq. Le sue dimensioni originarie erano di 530 x 430 metri, un rettangolo pari a 22,5 ettari, con le strade principali appartenenti all'accampamento utilizzato da Traiano durante la conquista della Dacia. 

Le strade principali, il "cardine massimo" (cardo maximus) ed il "decumano massimo" (decumanus maximus) si intersecavano perpendicolarmente, come era d'uso in tutti gli accampamenti romani, a loro volta intersecate perpendicolarmente dalle vie minori.

La cinta muraria della città in seguito fu ampliata di ulteriori 170 metri, andando a coprire ora un'area di 32 ettari (530 x 600 metri), mentre lo sviluppo esterno portò a coprire un'area molto più vasta complessivamente di oltre 100 ettari.


Il sito archeologico è ricco di vestigia romane tra cui: 

- un acquedotto (costruito al tempo di Adriano), 
- due fori, uno dei quali abbellito con rifiniture in marmo da Settimio Severo (146 - 211), 
- un anfiteatro, 
- due granai, 
- numerosi templi quale centro religioso provinciale tra cui 
  1. un tempio dedicato al Libero padre, 
  2. uno dedicato al Dio Esculapio, 
  3. uno dedicato alla Dea Nemesi 
  4. ed uno come tempio Capitolino, 
- un teatro, 
- l'abitazione del Procurator Augusti, 
- numerose abitazioni private, 
- locali industriali e commerciali.
- Attorno alla città sorgevano poi numerose villae rusticae.

I RESTI DEL FORO

ROMANIA

" Le rovine di Ulpia Traiana Sarmizegetusa, antica capitale della Dacia nonché sito archeologico tra i più spettacolari dell’intera Romania, saranno restaurate grazie a un progetto del costo di 4 milioni e mezzo di euro. Tra gli interventi annunciati, la ricostruzione integrale dell’Anfiteatro e del Foro, che torneranno così all’aspetto che avevano duemila anni fa. Il progetto è stato approvato e la richiesta per il finanziamento europeo è già stata presentata.

Al progetto hanno collaborato archeologi, architetti, professori ed esperti, praticamente tutti coloro che nel corso degli anni hanno condotto ricerche sistematiche su Ulpia Traiana Sarmizegetusa. C’è voluto un anno intero per ottenerne l’approvazione”, spiega Liliana Tolas, direttore del Museo della Civiltà Dacica e Romana (MCDR) di Deva, che ha in gestione il sito.


I lavori dovrebbero iniziare nella primavera prossima e dureranno quattro anni. Il progetto sarà realizzato in due fasi: il primo, di due anni, sarà finalizzato al restauro e alla conservazione; la seconda si concentrerà sulla ricostruzione dell’Anfiteatro e del Foro. Quando sarà ultimato, l’Anfiteatro potrà contenere 5mila spettatori e diverrà sede di eventi culturali.

La città si trova a una quarantina di Km da Sarmizegetusa Regia, capitale dei Daci prima della conquista. Il sito fa parte della “Strada degli Imperatori Romani” che comprende anche i siti di Adamclisi, Histria, Apulum e Rosia Montana. Il sito è stato visitato lo scorso anno da circa 90mila persone. Con il restauro e la ricostruzione dei monumenti, l’aspettativa è che il numero dei turisti salga a un milione. "





L'ANFITEATRO

L'anfiteatro è l'edificio più imponente del complesso. Fu costruito nella prima metà del II secolo. Nei suoi locali si aggiravano gladiatori pronti al combattimento, animali selvatici e persone, scene teatrali, gare poetiche e altre manifestazioni pubbliche.

RICOSTRUZIONE
In una capienza di circa 5.000 persone, i sedili erano di due tipi: quelli in pietra, vicini alla scena, riservati alle persone importanti, e quelli in cima, in legno, riservati agli spettatori ordinari.

Secondo l'iscrizione di un sedile conservata nel museo, i dignitari avevano per l'appunto posti riservati.

Nel mezzo dell'anfiteatro c'era una sala sotterranea in cui giaceva una lastra di marmo dedicata alla Dea Nemesis.

Il suo commissionario fu Gaius Valerius Maximus pecurarius, un fornitore di bestiame, che lo fece eseguire a sue spese, per ingraziare la Dea per la fortuna economica che gli aveva accordato.



IL TEMPIO DI NEMESI

Vicino all'anfiteatro fu costruito un tempio dedicato alla Dea Nemesis, venerata nell'antichità dai gladiatori. All'interno del museo archeologico sono state conservate alcune colonne di tempio e diverse tavole con bassorilievi. Uno di questi rappresenta la Dea Nemesi con i suoi attributi, la bilancia, il grifone e la ruota.




IL PALAZZO AUGUSTALE

Il Palazzo Augustale (Latina Aedes Augustalium) si trova vicino al tribunale, all'interno delle mura della città, e riguardava l'ordine degli Augustali, una società influente, che reclutava i suoi membri all'interno dello strato più ricco degli abitanti della città. L'Ordine si occupava dell'organizzazione di celebrazioni, tra cui quella del 3 gennaio dedicata all'imperatore in carica. 

Si trattava di un edificio imponente dotato di un grande cortile centrale (diviso in due da un muro), con due basiliche poste ad est e ad ovest dell'edificio. Nel mezzo del cortile troneggiava l'altare dell'imperatore con la sua statua imponente.

Nell'edificio sono stati rinvenuti oggetti di valore nascosti in una stanza sotterranea pavimentata in pietra, con pareti intonacate e una porta di sicurezza. Tra gli oggetti rinvenuti nel palazzo c'è una colonna con una scritta relativa ad una donazione di un certo Antonius, e due iscrizioni con i nomi dei figli del fondatore del palazzo: cavalieri e membri del consiglio cittadino Procilius Iulianus Marcus e Marcus Regulus Procilius.



FORUM VETUS

Il foro di Traiano, o il forum vetus, è stato collocato al centro della colonia dei veterani. Originariamente costruito in legno, venne restaurato in pietra durante il regno di Traiano, guadagnando un carattere monumentale. La sua decorazione esalta la recente vittoria sui Daci. Di fronte all'entrata c'era l'altare, innalzato in occasione della fondazione della colonia e della fondazione della provincia, l'intero spazio che gli era dedicato era sacro e carico di grande valore simbolico.

A metà del II secolo è iniziato il processo di ristrutturazione dell'edificio con elementi architettonici di marmo. L'edificio, che copre un'area di 1 ha, è costituito da un mercato pubblico, circondato da un portico e affiancato da una grande basilica, con molte sale,  che servì come sede del governo locale (compresa la curia) e varie associazioni professionali e religiose. 

Nel corso del tempo il cortile di corte venne letteralmente riempito con statue onorarie di
bronzo, soprattutto di imperatori  trionfanti sulle quadrighe.
A sud del foro c'era il mercato alimentare ( macellum ) affiancato da una catena di negozi ( tabernae ) e bacini di pesce freschi al centro. Nel II secolo il mercato alimentare venne sostituito da un secondo forum, il Forum Novum.




FORUM NOVUM

Il nuovo Forum ospitava il Tempio Capitolino, innalzato su un podio monumentale, preceduto da 11 gradini di marmo e con una facciata di sei colonne corinzie. Sul lato nord venne costruito un
Cryptoporticus, dove si moltiplicarono nel tempo le statue onorarie per le élite locali. Invece nella corte del lato opposto vennero collocate le statue equestri dei governatori provinciali, che erano anche
gli amministratori della colonia di Traiano.

PONTE LUCANO

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PONTE LUCANO NEL 1870 (DI FRANZ KNEBEL II)
Percorrendo la Via Tiburtina appena prima della salita per Tivoli si è colpiti dalla mole cilindrica marmorea che domina il greto dell'Aniene e dell'elegante ponte che ad essa si collega. Fu così anche nei secoli passati quando valenti pittori si dettero a ritrarre i due magnifici monumenti di cui si era quasi persa la memoria.

Fonte di ispirazione fin dal Rinascimento, quando appunto si ridestò il desiderio di conoscere e riconoscere i fasti romani per secoli occultati e demonizzati, dando appunto luogo a una rinascita dell'arte, il ponte è stato rappresentato in innumerevoli quadri e stampe di grandi artisti: dal Piranesi a Salvator Rosa, a Lorrain, Poussein e Corot, solo per citarne alcuni.

Sulle pendici di Tivoli, sul fiume Aniene, che da qui era navigabile, venne innalzato l'imponente Mausoleo dei Plautii in onore del Console Plautus Silvanus, nel I sec. d.c. e a lato venne edificato nella stessa epoca il Ponte Lucano, costruito dal diumviro M. Plauzio Lucano, da cui il nome, con il collega Tito Claudio Nerone. Il ponte consentiva alla Via Valeria di scavalcare l’Aniene e salire verso Tivoli.

Questo monumento romano si trova dunque nella piana di Tivoli presso il fiume Aniene, a circa un km dalla celeberrima Villa di Adriano, dichiarata dall’UNESCO patrimonio dell’umanità, e poco a valle, a detta degli studiosi, giaceva l’antico porto fluviale da dove veniva imbarcato il prezioso materiale da costruzione di cui venne rivestita Roma: il lapis tiburtinus (travertino). Insieme ai marmi si caricavano i legnami per i tetti tratti dai boschi dell’alta valle dell’Aniene.

PONTE LUCANO E IL MAUSOLEO DEI PLAUZI IN EPOCA ROMANA

DESCRIZIONE

Il ponte è costituito di cinque archi di cui:
- il primo arco è oggi chiuso da un muro medioevale di mattoni, 
- il secondo arco corrisponde alla ricostruzione di Narsete, 
- gli altri sono originali e corrispondono alla costruzione voluta da Lucano Plauzio, 
- l'ultimo arco sulla riva destra è interrato.

Il Ponte ha conservato le antiche arcate ma è stato privato dell’antico parapetto in pietra, sostituito con una ringhiera, secondo alcuni per facilitare il deflusso delle acque in piena, secondo altri come materiale di riutilizzo, la spoliazione fu una delle principali attività del medioevo, per ricostruire o per fare calcina.

Sia il Ponte Lucano che il Mausoleo dei Plautii, o Plauzi, sono tra i rarissimi monumenti di questo tipo pervenuti in buono stato di conservazione, probabilmente perchè le famiglie che li detenevano restarono potenti fino al tardo impero, per cui nessuno potè abbattere le loro sepolture, come avvenne invece in molti altri casi. Il ponte fu semi-distrutto dai Goti di Totila per ritardare l'avanzata dei bizantini di Narsete, il quale, poi lo ricostruì.

IL PONTE NEL 1750 (PIRANESI)
Nel 2014 il complesso Mausoleo-Ponte venne racchiuso in un cantiere poi abbandonato. Nel 2005, per porre fine al degrado, venne stipulato un "Protocollo d’Intesa" nel settembre 2005 fra le varie e numerose Autorità Competenti, vale a dire:

- Ministero per i Beni Culturali,
- Agenzia Regionale per la Difesa del Suolo,
- Comune di Tivoli,
- Autorità di Bacino del Tevere,
- Direzione Regionale Beni Culturali,
- Soprintendenza Beni Archeologici
- Soprintendenza Beni Architettonici del Lazio
- vari piccoli comitati privati
che però dopo una decina di anni, non aveva concluso assolutamente nulla.

Il ponte romano, posto sull’antico tracciato della via Tiburtina, è costituito, come detto da 5 arcate a tutto sesto, e da un'arcata interrata siamo passati a tre, a causa dei depositi fluviali che nessuno rimuove in quanto da infiniti decenni il fiume non viene dragato.  Questo lo espone naturalmente alle soventi esondazioni di fronte a cui gli amministratori allargano le braccia, non sanno proprio cosa fare. Insomma bene che va è incuria.

Nel 1936, a causa delle esigenze di traffico, fu cambiato il percorso della via Tiburtina creando, non distante un nuovo ponte, ma il Ponte Lucano rimase in uso, per gli spostamenti locali, fino ai primi anni Ottanta. Per la città ha un grande significato storico e simbolico, campeggiando sullo stemma cittadino al di sotto dell’aquila. 



Protect Hadrian's Villa: dalla discarica di Corcolle a Ponte Lucano (Fonte)
Protect Hadrian's Villa: dalla discarica di Corcolle a Ponte Lucano"We are pleased to pass on some very good news: we have won our battle to prevent Rome's new garbage dump from being located near Hadrian's Villa". Così il professor Bernard Frischer annuncia ai firmatari della petizione per scongiurare la localizzazione di una discarica a Corcolle - San Vittorino la vittoria della battaglia Protect Hadrian's Villa.

"Abbiamo il piacere di darvi una notizia molto positiva: abbiamo vinto la nostra battaglia per impedire che la nuova discarica per i rifiuti di Roma venisse realizzata a poca distanza da Villa Adriana - scrive il professore californiano -. Siamo riusciti ad evitare uno scempio ma il nostro impegno per tutelare la Villa ed il paesaggio tiburtino deve continuare".

IL PONTE NEL 2019 ED IL SUO DEGRADO

DA CORCOLLE A PONTE LUCANO
Petizione online creata del professor universitario californiano (promotore del layer di Google Earth che contiene la virtualizzazione dettagliata di 7000 monumenti e palazzi della Roma all'epoca dell'imperatore Costantino nel 320 d.c.) che ha visto l'adesione di migliaia di studiosi, professori e cittadini con firme apposte da ogni parte del mondo. 
"Fight to protect Hadrian's Villa" che non si vuole fermare, come scrive ancora Bernard Frischer: "Molti monumenti antichi nella zona attorno a Villa Adriana versano in uno spaventoso stato di degrado... Un esempio particolarmente significativo di questa situazione è Ponte Lucano il cui portale è ridotto in condizioni miserevoli... 
La nostra petizione internazionale ha dimostrato senza ombra di dubbio che la protezione di Villa Adriana non è solo una questione locale, ma un problema che desta grande preoccupazione fra gli studiosi, gli architetti e in generale presso l'opinione pubblica di tutto il mondo. Vi invitiamo ad unirvi a noi per passare da un ruolo difensivo ad uno più attivo nel proteggere Villa Adriana".
Come al solito: Roma antica preme più agli stranieri che a noi italiani. All'estero comprano i nostri monumenti e i nostri artefatti e perfino li riproducono trasformandoli in ricchezza. Noi li lasciamo deperire come fossimo un paese del terzo mondo privo di scuole e di istruzione.

2018
"Dopo tanti anni di lavoro da parte di enti e associazioni che fin da subito hanno creduto nell’importanza del Contratto di Fiume dell’Aniene – dichiara il presidente di Legambiente Lazio – la firma del Manifesto di Intenti sancisce l’avvio definitivo di un percorso fondato sulla partecipazione dal basso, e che nei prossimi anni vedrà tutti gli aderenti lavorare insieme per difendere la biodiversità e pianificare la mitigazione del rischio idrogeologico sul territorio. 
Ora che lo strumento è operativo, c’è bisogno che l’intera assemblea di fiume costruisca e pianifichi le idee per il futuro dell’Aniene, a partire dalla qualità, e in questo caso anche quantità, dell’acqua. Questo contratto è di importanza fondamentale perché si estende per l’intero asse del secondo fiume del Lazio, dalle sorgenti alla confluenza romana nel Tevere, mettendo insieme nel suo scorrere tante governance diverse fatte di comuni, comunità montane, provincie, parchi regionali, e dando vita, infine, a un luogo dove insieme si può veramente migliorare il futuro dell’Aniene. 
Sull’Aniene il contratto di fiume è nato bene, con la giusta partecipazione e focalizzando obiettivi concreti, auspichiamo che diventi esempio per tutti gli altri percorsi simili in avvio nel Lazio che sosteniamo e seguiamo con forza. Intanto è arrivato già il sostegno dal nuovo Ufficio Speciale sui Contratti di Fiume della Regione Lazio, determinante per dare gambe a un percorso collettivo di risanamento ecosistemico e sviluppo ecosostenibile”.
Se ne farà qualcosa? Non lo sappiamo. E per il ponte? Rimane un incognita.

CULTO DELLE DEE MATRES

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MATRES IN TERRACOTTA DA INSEDIAMENTO GALLO ROMANO DI VERTILLUM

Il culto delle Matres (madri) dette anche Matronae (matrone) è un culto antichissimo che affonda le radici nel paleolitico, venerate in tutto il mondo, e in Europa soprattutto mediterraneo e celtico. La prima statuina del genere, in terracotta a forma romboidale, con una donna che apre il suo manto da cui spuntano altre due teste laterali risale al 30.000 a.c.

In epoca preromana e romana ne esistevano anche in suolo italico, rappresentate in gruppi di tre figure femminili, spesso sedute e recanti in grembo simboli di abbondanza e fertilità (canestri di frutta o pani, cornucopie, bimbi in fasce). I romani, con un grado di accoglienza mai più riscontrata in alcuna religione, accettarono anche questa divinità primitiva dedicando loro santuari e templi.

La Dea era trina, antesignana del concetto di trinità collegato alla Natura datrice di nascita, crescita e morte per tutti gli esseri viventi. Il comprendere che questi tre aspetti riguardavano una stessa entità era un mistero da comprendere, tanto che se ne fecero delle congregazioni religiose relative ai Sacri Misteri.

In questi si comprendeva che esistevano MATRES NATURANTIS (la parte invisibile identitaria e intelligente della natura) e MATRES MATUTAE, la parte visibile e agente della natura.



LE MATRES MATUTAE

Le Matres Matutae abbondano in tutto il suolo italico, lasciando tracce soprattutto nel sud, con antiche statue in tufo, realizzate, in un periodo compreso tra il VI al I sec. a.c., dalle popolazioni Osche e Campane. 
Sono madri in trono con uno o più neonati tra le braccia.

MONETA DI ACCOLEIUS LARISCOLUS E LE MATRES

LA MATER MATUTA 

Se Le Matres Matutae rappresentavano la provvida natura fertile e generosa, che accorda abbondanti i frutti del lavoro della terra, accettandone però i cicli di vita e di morte. 
La Mater Matuta, divinità italica dell'aurora e delle nascite, ha già questi simboli in sè. Ella infatti tiene in mano un melograno (simbolo di morte e rinascita) nella mano destra, e una colomba (simbolo di pace) nella mano sinistra. Il frutto del melograno infatti quando muore si apre mostrando i suoi semi per la rinascita.



LA DEA TRIVIA

Il trivio indicava le tre vie della Grande Madre appunto Trina, cioè fautrice di nascita, crescita e morte, e per il lato erotico- ludico ma pure sano della fecondità si esaltava la sessualità che tanto fu poi negata e punita dal cristianesimo.

MATER MATUTA
I santuari di Ecate Trivia erano in tempi remoti, come del resto quelli di Venere Trivia, alla sacra prostituzione, abolita poi dai romani più tardi togliendone il lato religioso ma non il lato profano.

La prostituzione  sacra, o ierodulia, rappresentava la natura sessuata e proliferante, come era vista un po' in tutto il mondo. Nona caso Iside in Egitto è rappresentata come la prostituta che sta alla finestra.

“Celebro Ecate trivia, amabile protettrice delle strade,
terrestre e marina e celeste, dal manto color croco,
sepolcrale, baccheggiante con le anime dei morti,
figlia di Crio, amante della solitudine superba dei cervi,
notturna protettrice dei cani, regina invincibile, annunciata dal ruggito delle belve, imbattibile senza cintura, domatrice di tori, signora che custodisce le chiavi del cosmo,
frequentatrice dei monti, guida, ninfa, nutrice dei giovani,
della fanciulla che supplica di assistere ai sacri riti, benevola verso i suoi devoti sempre con animo gioioso.”

(Esiodo - Teogonia)

Le figure femminili che sono sulla moneta portano abiti differenti: quella a sinistra, ha un drappo che dalla spalla sinistra scende trasversalmente fino al lato destro del fianco ed ha poco seno; le altre due portano abiti uguali, con una ripresa della stoffa sotto il petto per creare delle pieghe decorative che scendono dritte verso il basso ed hanno floridi seni.
Sono la morte, la nascita e la crescita. La madre che dà alla luce, che allatta e che dà la morte.
 


LA DEA MARICA

Presso la foce del Garigliano, c'era il santuario della Dea Marica, che secondo le fonti prevedeva un lucus, una palude e dell’acqua, sia del fiume che del mare. Marica era una Dea matronale, preposta alla riproduzione e alla fertilità, con connotazioni ctonie.

Essa venne collegata a Diana, Hekate Trivia e Circe. Tra la fine del VI e l’inizio del V sec. a.c., il nome di Trivia, che compare inciso su una ciotola di impasto rinvenuta nell’area del santuario. La Dea triplice era sempre la ricca natura della zona, che forniva, oltre ai frutti reperiti dall'uomo, un lato selvaggio ma sempre produttivo, legato alle acque e ai boschi.

Del resto nelle religioni primitive molte sono le triadi femminili: le Moire, le Parche, le Norne e così via, splendide Dee Trine che raccoglievano in sè i diversi cicli, successivamente trasformate in brutte e cattive come le Parche, o buone e belle  come le Grazie e le Eumenidi. In realtà non erano nè buone nè cattive, ma seguivano i cicli della vita.

Il culto delle Matres, in via di abbandono, venne poi recuperato sotto Augusto, non solo delle Matres ma della Madre Matuta. Il culto delle Matres venne però seguito soprattutto nei pagi, cioè nei villaggi. Ad esse si facevano offerte di acqua, latte e vino, in genere in contemporanea e mentre l'acqua simboleggiava la vita (forse acque amniotiche oppure il mare generatore), il latte simboleggiava la crescita per ovvi motivi, ma il vino significava la morte.

Viene da pensare al vino che è prodotto dalla trasformazione dell'uva che per produrre vino deve morire e rinascere. Spesso la vite (anche nel cattolicesimo) viene inteso come simbolo di morte e rinascita.

LEGIO IIII SORANA

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"Saccha dopo alcune erudite sopra simili antiche memorie aggiunge alla lettura della sopradetta Iscrizione per chiarezza maggiore la seguente spiegazione: 

Legio quarta Sorana fecit aut dicavit Lucio Firmio Filio Lucii; scilicet hunc lapidem deducta Colonia ob deduciam Coloniam causa honoris ci virtutis scilicet ipsius firmii.

Fatta dunque Sora Colonia di Roma ne participò i Privilegi e ne corse le fortune ora godendo con lei la pace ed ora sostenendo con lei le guerre.

E singolarmente nella II gran guerra Cartaginese fra le bellicose Squadre che componevano l'Esercito Romano si annovera, da Silio Italico, la Gioventù di Sora Soraque juventus se bene dopo dieci anni di continuate perdite si vide questo aiuto di Sora a Roma non poco illanguidito.

Imperocchè nel quinto Consolato di Fabio Verrucoso e quarto di Fulvio Flacco avendo Roma per le tante sconfitte ricevute dal fiero Annibale addimandati li soliti soccorsi alle sue trenta Colonie sparse per l Italia dodici di esse fra le quali fu Sora si scusarono con dire che non avevano più nè Soldati nè danari persi in si lunga ed infausta guerra.
"

(Memorie istoriche massimamente sacre della città di Sora - di padre Francesco Tuzii)

La legio IIII Sorana, (ma per molti invece il suo nominativo è la III Sorana), fu una unità militare romana di epoca tardo repubblicana, che si ritiene sia stata formata dal console Gaio Vibio Pansa Caetronianus (tribuno della plebe nel 51 a.c. e console della Roma repubblicana nel 43 a.c.), che nel 54 e 53 a.c. aveva prestato servizio nell'esercito di Cesare nella Guerra Gallica (58 - 50 a.c.) che nel 43 a.c. aveva reclutato la IIII proprio nella cittadina volsca di Sora (Latium), da cui il nome. (Augusto, Res Gestae Divi Augusti)

La Sorana deve sicuramente aver partecipato alla successiva battaglia di Filippi del 42 a.c., e da buoni cesariani furono dalla parte dei triumviri Ottaviano e Marco Antonio. Si presuppone infatti che coincida con la legio II Sabina sempre di epoca tardo repubblicana, che era stata formata all'epoca da Gaio Giulio Cesare nell'anno di consolato del 48 a.c., arruolata per combattere contro Gneo Pompeo Magno, che prese parte alla successiva battaglia di Munda del 45 a.c.

Gaio Vibio avrebbe anche partecipato alla successiva battaglia di Filippi, quella del 23 ottobre del 42 a.c. sempre dalla parte dei triumviri, Ottaviano e Marco Antonio. Secondo Svetonio sarebbe morto assassinato per mano di Augusto che gli avrebbe fatto un lungo discorso:

"Ho trovato il metodo per togliervi di mezzo sia te, che Irzio, tutti crederanno che siete morti da eroi, in battaglia, ma in realtà, sono riuscito ad ottenere, quanto mi ero prefissato, da non farvi portare a termine il pensiero di Cesare, togliendo di mezzo i due maggiori artefici

al che l'altro avrebbe risposto:

“Sapevo che questa era la mia fine, sono partito già sapendo di morire”

LA IIII SORANA CONFLUISCE NELLA III AUGUSTA
Perchè mai Augusto avrebbe voluto assassinarlo non si capisce, anche se soffriva di gelosie Augusto non sarebbe arrivato a tanto, e soprattutto non l'avrebbe mai fatto esponendosi in tal modo, inoltre non era certo tipo da discorsi in certi frangenti, Augusto poteva essere anche spietato, ma mai stupido, e da intelligente qual'era si tenne sempre cari i bravi generali.

Risulta invece che dopo la disfatta dei repubblicani, Gaio Vibio giurò fedeltà al solo Ottaviano e con lo stesso rimase fino alla battaglia di Azio del 31 a.c., in seguito alla quale sembra sia stata sciolta la legione negli anni compresi tra il 30 ed il 14 a.c. (quando furono mandati in congedo tra i 105.000 ed i 120.000 veterani).

Parte dei suoi soldati dovrebbero essere stati inseriti nei ranghi della nuova legione, la IV Macedonica (nella quale confluì anche la legio IV di Cesare). La IIII Macedonica era stata creata da  Cesare nel 48 a.c. e sciolta nel 70 dall'imperatore Vespasiano. I simboli della legione erano il toro e il capricornoSecondo alcuni parte dei suoi soldati potrebbero essere stati integrati anche,  nella nuova legione, la II Augusta, arruolata anch'essa nel 43 a.c.,

Il fatto che la III e la IIII siano spesso sovrapposte fa pensare si tratti di una stessa legione, fondata nel 43 da Pansa, reclutata da Ottaviano, sciolta dopo la battaglia di Azio, e riesumata poi per costruire e combattere in Africa, rieditandosi come III Augusta in onore di Ottaviano.

Proseguì poi fino al 238 quando la legione riuscì a sopprimere la rivolta di Gordiano I e Gordiano II nella Battaglia di Cartagine, per poi però venire sciolta da Gordiano III. In tal caso come simboli avrebbe avuto il pegaso alato e il capricorno.

VIRIATUS

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MONUMENTO DI VIRIATUS A VISEU (PORTOGALLO)

Nome: Viriathus
Nascita: Lusitania, 180 a.C. 
Morte: Lusitania, 139 a.C.
Professione: Condottiero Lusitano

Viriatus (o Viriathus; conosciuto come Viriato in Spagna e Portogallo; comunque un nome celtico (... - 139 a.c.) fu il leader più importante del popolo lusitano che si oppose a Roma nella sua espansione verso la Spagna occidentale, che i romani chiamavano Hispania, e che i greci chiamavano Iberia occidentale. Dopo la conquista romana comunque la Lusitania divenne una provincia romana, comprendendo la maggior parte del Portogallo, tutta l'Estremadura e la provincia di Salamanca.

Viriatus sviluppò alleanze con altri gruppi iberici, inducendoli a ribellarsi contro Roma. Il suo esercito supportato dalla maggior parte delle tribù lusitane e Vetton nonché da altri alleati celtiberici, annoverò diverse vittorie contro i romani tra il 147 e il 139 a.c., prima di essere tradito dai suoi e ucciso durante il sonno.

Mommsen scrisse di lui: "Sembrava come se, in quell'epoca prosaica uno degli eroi omerici fosse ricomparso."Senza il loro leader carismatico la sua banda di ladri semplicemente si sciolse.
"Egli era, come concordato da tutti, valente nei pericoli, prudente e attento nel fornire ciò che era necessario, e ciò che è stato più notevole di tutti è stato, che, mentre fu al comando, non vi fu mai stata persona più cara di lui"

MONUMENTO DI VIRIATUS A ZAMORA (SPAGNA)
Si pensa che Viriatus avesse origini oscure, sebbene Diodoro Siculo (I sec. a.c.) riferisca che egli "sostenesse di essere un principe" e inoltre "Sigore e proprietario di tutto". La sua famiglia era sconosciuta ai romani che pure conoscevano le aristocratiche famiglie guerriere. Molti autori descrissero le sue grandi qualità fisiche e psichiche come le sue numerose abilità nei combattimenti. Aveva una grande forza fisica, era un eccellente stratega, e una mente molto pronta e lucida.

Alcuni autori descrivono Viriatus con le precise prerogative di un re celtico. L'unico riferimento su dove fosse la sua tribù nativa è stata fatta da Diodoro Siculo, che sostiene fossero tribù lusitane presso l'oceano. Egli apparteneva alla classe dei guerrieri, il ruolo più basso tra le classi dirigenti, ed era noto ai romani come il dux dell'esercito lusitano, come l'antenato (protettore) dell'Hispania, o come un imperatore, probabilmente delle tribù lusitane e celtibere confederate.

Livio lo descrive come un pastore che divenne prima un cacciatore e poi un soldato, seguendo la strada della maggior parte dei giovani guerrieri,  che si dedicavano alla razzia di bestiame, alla caccia e alla guerra. Secondo Appiano, Viriate è stato uno dei pochi sfuggiti a Galba, il console romano, quando massacrò la Iuventutis Flos, il fiore dei giovani guerrieri lusitani, nel 150 a.c.

Due anni dopo il massacro, nel 148 a c., Viriatus divenne il leader di un esercito lusitano. Venne descritto come un uomo che seguiva i principi di onestà e correttezza, preciso e fedele alla sua parola sui trattati e le alleanze. Livio gli dà il titolo di "vir duxque magnus" con le qualità implicite delle antiche virtù.

Per alcuni studiosi moderni Viriatus invece apparteneva a un clan lusitanico aristocratico che era proprietario di bestiame. Per Cassius Dio, non perseguì il potere o la ricchezza, ma portò avanti la guerra per amore della gloria militare. I suoi obiettivi potevano quindi essere paragonati ai puri ideali aristocratici romani di quel tempo: servire e ottenere gloria e onore militari. Viriatus non combattè per il bottino di guerra o il guadagno materiale, come i soldati comuni.

I Lusitani onorarono Viriatus come il loro Benefactor, benefattore, (Greek: euergetes), e Savior, salvatore, (Greek: soter), titoli onorifici ellenistici usati da re come i Tolemaici.
Secondo alcuni autori egli proveniva dal Monte Herminius  (Serra da Estrela), nel cuore della Lusitania, (Portogallo centrale) o dalla regione Beira Alta.

La maggior parte della sua vita e la sua guerra contro i romani fanno parte della leggenda e Viriatus è considerato il primo eroe nazionale portoghese, dato che era il capo delle tribù confederate di Iberia che resistevano a Roma. Lo storico Appiano di Alessandria nel suo libro sull'Iberia (nella sezione Historia Romana, Storia romana), commentò che Viriatus "uccise numerosi romani e mostrò grande abilità".

È stato sostenuto che Silius Italicus, nel suo poema epico "Punica", menzioni un ex Viriatus che sarebbe stato un contemporaneo di Annibale. Si riferisce a Primo Viriatus, capo dei Gallaeci e dei Lusitani. Il Viriatus storico sarebbe stato colui che ricevette il titolo di regnante "Hiberae magnanimus terrae", il "re più magnanimo della terra iberica".

I LUSITANI

LA CONQUISTA ROMANA DELLA LUSITANIA

Nel III secolo, Roma iniziò la conquista della Penisola Iberica, durante la II Guerra Punica, quando il senato inviò in Iberia un esercito per bloccare i rifornimenti cartaginesi per Annibale nella penisola italica. Fu l'inizio delle battaglie romane per ben 250 anni in tutta l'Iberia, con la conquista del 19 a.c. e la fine delle guerre della Cantabria.

Il dominio romano di Iberia non fu affatto facile. Nel 197 a.c., Roma divise la costa sud-orientale dell'Iberia in due province, Hispania Citerior e Hispania Ulterior, e due pretori furono incaricati di comandare le legioni. I romani però commisero un grosso errore gravando le originarie tribù con tasse gravose: la tassa sulla terra, il tributum, una certa quantità di cereali e lo sfruttamento delle miniere, oltre al bottino di guerra e i prigionieri di guerra venduti come schiavi.

Tra il 209 e il 169 a.c., l'esercito romano raccolse 4 tonnellate d'oro e 800 tonnellate d'argento saccheggiando le tribù native della penisola iberica. Come parte del pagamento poi, un certo numero di uomini dovevano servire nell'esercito romano. Nel 174 a.c., quando Publio Furius Philus fu accusato di pagare pochissimo per i cereali che l'Iberia fu costretta a consegnare a Roma, Catone difese gli interessi delle tribù native. Lo sfruttamento e l'estorsione raggiunsero un livello così estremo nelle province che Roma dovette creare un tribunale e leggi speciali, come la Lex Calpurnia creata nel 149 a.c..

DATE DI CONQUISTA DELLA SPAGNA

LE RIVOLTE

I Lusitani si ribellarono nel 194 a.c., ma l'Iberia L'Iberia era divisa tra le tribù che sostenevano il dominio romano e le tribù che si ribellavano al loro dominio romano, seguì una serie di trattati falliti  finchè nel 152 a.c. i lusitani stipularono un accordo di pace con Marco Atilio, dopo aver conquistato Oxthracae, la città più grande della Lusitania.

Ma i termini offerti furono tali che, non appena Atilio tornò a Roma, questi si ribellarono e ruppero il trattato. Quindi attaccarono le tribù che erano sudditi romani e che si erano schierati con i Romani nell'aiutare ad attaccare e saccheggiare le città lusitane, cioè i Celtiberi. Forse i lusitani recuperarono parte del bottino che i romani avevano diviso con quelle tribù.

Nel 151 a.c. i Celtiberi, ormai alleati dei romani, temendo altre incursioni delle tribù lusitane dei ribelli che li consideravano traditori, chiesero ai romani di intervenire sulle tribù ribelli e di proteggerli.


IL MASSACRO DEI LUSITANI

Il pretore dell' Hispania Ulterior, Servius Sulpicius Galba, comandò le truppe romane in Iberia nel 150 a.c., e nello stesso tempo Lucio Licinio Lucullo fu nominato governatore della Hispania Citerior e comandante di un esercito. Nell'anno 151 a.c., Lucullo "avido di fama e di denaro", stipulò un trattato di pace con i Caucaei, della tribù dei Vaccaei, dopo di che ordinò ai suoi uomini di uccidere tutti i maschi adulti della tribù, di cui si dice solo alcuni su 30.000 sono fuggiti.

Servio Sulpicio Galba unì le forze con Lucio Licinio Lucullo e mentre Lucullo invadeva il paese da est, Galba lo attaccò da sud. Incapaci di sostenere una guerra su due fronti, le truppe lusitane temendo un lungo assedio e la distruzione delle loro città, inviarono un'ambasciata a Galba per negoziare la resa. I lusitani speravano di poter almeno rinnovare l'ex trattato fatto con Atilio.

Galba concordò un trattato di pace, poi ordinò loro di lasciare le loro case e di rimanere in aperta campagna. Quando i lusitani disarmati, tra cui Viriatus, furono riuniti da Galba per consegnare le loro armi e per essere divisi in tre gruppi e assegnati a nuove terre, scattò la trappola. L'esercito di Galba li circondò di un fossato, per impedire loro di fuggire, poi iniziarono a massacrare tutti i maschi in età militare. Si dice che i sopravvissuti siano stati venduti in schiavitù in Gallia. Ma tra quei lusitani c'era Viriatus che attraverso la sua comprensione dei metodi militari romani salvò i ribelli lusitani con un piano di fuga semplice ma intelligente.

L'ESERCITO ROMANO VARCA IL PONTE DI ALCANTARA

LA GUERRA DEL FUOCO

La guerra con Viriatus fu chiamata "GUERRA DEL FUOCO" dallo storico greco Polibio di Megalopoli. Due tipi di guerra furono portati avanti da Viriatus, il "bellum", con un esercito regolare, e il "latrocinium", quando i combattimenti coinvolgevano piccoli gruppi di combattenti e l'uso di tattiche di guerriglia. Non si sa nulla di Viriatus fino alla sua prima impresa di guerra nel 149 a.c., quando con un esercito di diecimila uomini invase la Turdetania meridionale.

Roma mandò il pretore Caio Vetilio che attaccò un gruppo di guerrieri lusitani che erano fuori a cercare cibo, e dopo aver ucciso diversi di loro, gli altri si rifugiarono in un posto  circondato dall'esercito romano. Stavano per stringere un nuovo accordo con i romani quando Viriatus, diffidando dei romani, propose un piano di fuga.

I lusitani convinti lo posero al comando. Viriatus schierò il suo esercito in battaglia con i Romani, disperdendolo però mentre i romani caricavano, fuggendo in direzioni diverse per incontrarsi in un luogo successivo. Poi Viriatus con 1000 uomini scelti, tenne sotto controllo l'esercito di 10.000 romani. Una volta che il resto dell'esercito era fuggito, anche lui e i mille uomini fuggirono. Aveva salvato i suoi e questi non lo dimenticarono.

Viriatus organizzò un attacco contro Caio Vetilio a Tribola. Poiché i romani erano meglio armati, organizzò tattiche di guerriglia e scatenò imboscate fantasiose. Caricando con lance di ferro, tridenti e ruggiti, i lusitani sconfissero Vetilio uccidendo 4.000 su 10.000 truppe incluso lo stesso Vetilio.

Come risposta, i Celtiberi furono assoldati per attaccare i lusitani, ma furono distrutti. Dopo quell'episodio, i lusitani si scontrarono con gli eserciti di Caio Plauzio, Claudio Unimano e Gaio Negidio, tutti sconfitti. Durante questo periodo Viriatus ispirò e convinse i Numantini e alcuni Galli a ribellarsi contro il dominio romano.

Allora Roma inviò Quinto Fabio Massimo ad Emiliano, con 15.000 soldati e 2.000 cavalieri per rafforzare Gaius Laelius Sapiens che era un amico personale di Scipione Emiliano Africano. I Romani persero la maggior parte di questi rinforzi a Ossuma. Quinto Fabio rischiò di nuovo il combattimento e venne totalmente sconfitto vicino a Beja in Alentejo.

Roma inviò allora uno dei suoi migliori generali, Quinto Fabio Massimo Servilianus, ma vicino alla Sierra Morena, i Romani caddero in un'imboscata lusitana. Viriatus però risparmiò i Romani e Servilianus fece un termine di pace con cui riconobbe il dominio lusitano sulla terra conquistata.



IL TRATTATO

Questo accordo fu ratificato dal Senato romano e Viriatus fu dichiarato "amicus populi Romani", alleato del popolo romano. Tuttavia Quinto Servilio Caepio si fece nominare successore di suo fratello, Q. Fabio Massimo Serviliano, al comando dell'esercito e all'amministrazione degli affari in Iberia, sostenendo che  il trattato era disonorevole per Roma. Il trattato era in vigore per un anno. Durante quel periodo Q. Servilio Caepio maltrattò Viriato fino a quando fu autorizzato a dichiarare pubblicamente la guerra.

LA MORTE DI VIRIATUS

LA MORTE

Sapendo che la resistenza lusitana era in gran parte dovuta a Viriato, Quinto Servilio Caepio corruppe Audax, Ditalcus e Minurus, inviati da Viriato come ambasciatori per stabilire la pace. Questi tornarono al loro campo e uccisero Viriato mentre stava dormendo. Eutropio afferma che quando gli assassini di Viriato chiesero a Q. Servilio Caepio il loro pagamento, egli rispose che "non è mai stato piacevole per i Romani, che un generale debba essere ucciso dai suoi stessi soldati"., o in un'altra versione "Roma non paga i traditori che uccidono il loro capo".

L'unica cosa onorevole che fece Quinto Servilio Caepio fu quella di rifiutare il suo trionfo offerto dal Senato. Viriato, che era già un eroe, divenne da allora il simbolo della nazionalità e della indipendenza portoghese.

TOMBA DEL CALZOLAIO (Pizzone)

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LA TOMBA DEL CALZOLAIO

MARISA DE SPAGNOLIS

Archeologia Viva n. 86 – marzo/aprile 2001
pp. 78-87

L’immagine di questo antico mestiere artigiano oggi in disuso e quasi dimenticato ci viene riproposta dalla scena dipinta nella tomba di un “sutor” insolitamente ricco vissuto a Nuceria e sepolto nella grande necropoli monumentale della sua città.

A Nocera Superiore (Sa), l’antica Nuceria Alfaterna, circa un chilometro dalla cinta orientale delle mura, sulla prosecuzione della strada romana che attraversava la monumentale distesa di sepolcri della necropoli di Pizzone (vedi AV n. 79), chi scrive ha diretto lo scavo archeologico di un edificio funerario realizzato subito dopo l’eruzione vesuviana del 79 d.C.

La tomba era di un artigiano, un calzolaio, un sutor, come dimostra inequivocabilmente l’affresco che lo raffigura al lavoro. L’area esplorata era sottoposta a vincolo, essendo interessata dalla vicina necropoli dove erano già stati riportati in luce e resi visitabili molti monumenti funerari realizzati fra il I sec. a.C. e il IV sec. d.C. 

CAIO GIULIO ELIO

LA TOMBA DI CAIO GIULIO ELIO

Il monumento funerario detto "Tomba del calzolaio" fu rinvenuto in località Pizzone e la sua denominazione deriva dalla raffigurazione dell'attività del proprietario nella taberna sutrina.

A circa 800 m dal perimetro dell’antica città di Nuceria Alfaterna troviamo infatti una zona archeologica  venuta alla luce tra il 1994 e il 1997: la necropoli di Pizzone, situata lungo la via consolare Popilia che congiungeva Nocera con Salerno. 

I cinque dei sette grandi mausolei venuti alla luce appartennero senz'altro a famiglie piuttosto abbienti. Tra questi infatti c'era il sepolcro di Caio Giulio Elio.

Trattasi infatti dell’altare funerario di un personaggio identificabile grazie all'iscrizione dedicatoria riportata sulla base del cippo, con il calzolaio Caius Iulius Helius. 


La sua bottega si trovava però a Roma, presso Porta Fontinalis nei pressi del Campidoglio, verso il Campo Marzio. Un posto centrale ed ambito, quindi molto costoso, che l'imprenditore-calzolaio poteva evidentemente permettersi viste le floride condizioni del suo commercio.
Il calzolaio, ancora in vita, eresse l’altare per sé, per la figlia, per il liberto Onesimo, per le liberte e per i loro discendenti.

Viene da chiedersi cosa ci facesse la stele funeraria nella necropoli di Pizzone. Evidentemente il calzolaio proveniva da questo paese o da questa zona e al momento di preparare il suo monumento funebre volle tornare, sentendo la nostalgia delle sue origini, al suo paese natale.

E non si creda che il mestiere di calzolaio fosse così umile. I calzolai formarono a Roma una potente società fin dal tempo dei re e formarono una loro corporazione chiamata il Sutorium Atrium, che avevano una loro sede e partecipavano alla cerimonia religiosa chiamata Tubilustrium, che aveva luogo ogni anno il 23 marzo.


L'Atrio Sutorium era un edificio in cui veniva eseguita annualmente appunto la cerimonia del Tubilustro, il che fa comprendere l'importanza della corporazione. Il sito dell'Atrio Sutorium è sconosciuto, ma lo sappiamo collegato con il commercio di scarpe e con l'Argileto. Poiché non è menzionato dopo il primo secolo, il suo sito potrebbe essere stato occupato dal forum Transitorium che insisteva sullo spazio tra il forum Augustum a nord-ovest e il forum Pacis a sud-est ( Varro, LL VI .14 ; Fest. 352 ; CIL I 2 p313; Jord. I .2.452; FUR30).


Si dice anche che i membri della corporazione fossero piuttosto irritabili e violenti. Ulpiano parla di
un ricorso per risarcimento danni dinanzi al magistrato da un ragazzo i cui genitori lo aveva messo in un negozio per imparare il mestiere, e che, dopo aver frainteso le indicazioni del suo padrone, venne colpito da lui così pesantemente su la testa con una forma di legno, che perse la vista da un occhio.
Naturalmente un caso non fa una categoria, ma di certo i ragazzini all'epoca non erano grandemente rispettati, specie se di umile famiglia.

LA NECROPOLI

Nella parte superiore dell’edicola sono rappresentate due forme per scarpe, evidentemente Helius doveva essere specializzato nella realizzazione di sandali annodati con lacci, un tipo di scarpa indossato soprattutto dai soldati: le famose caligae che dettero il nome all'imperatore Caligola. Però le calzavano anche le donne, ma come calzature non troppo raffinate.

I tratti del personaggio sono molto veritieri, cosa inusuale nella ritrattistica delle tombe, mentre era la norma nei busti e nelle statue ritrattistiche romane. Evidentemente il calzolaio per il suo sepolcro non aveva badato a spese e aveva fatto ricorso a un costoso ritrattista.

Il suo volto infatti è realistico, e sembrerebbe anche impietoso, vi è evidenziata pure una verruca ricoperta di peletti al di sotto dell’angolo sinistro della bocca, potrebbe avere un aspetto sgradevole, se non fosse per il piglio energico e orgoglioso dell'uomo ritratto nel pieno delle sue forze vitali. 

Risultati immagini per tomba del calzolaio
LE CALIGAE
Il monumento è una tomba a camera, tipo «sepolcro di famiglia» con un unico ambiente quasi quadrangolare, con alcuni sepolcri, recintato sulla facciata per aumentarne l'effetto monumentale.
Il sepolcro a camera appartiene ad una tipologia di camera quadrangolare totalmente fuori terra con copertura estradossata preceduta da un recinto, modello di ispirazione ellenistica, ma attestata in occidente a partire dall'età tiberio-claudia. 

L’altare risale alla prima metà del II secolo d.c., secondo l'uso dell'epoca, per il formato del busto, tagliato all’altezza dei pettorali. Fu scoperto nel 1887 a via Leone IV, corrispondente con l’antica via Triumphalis, nel luogo dove sorgeva la tomba del calzolaio. Oggi l'edicola funebre è conservata nella Sala Caldaie nel museo della Centrale Montemartini. Ci chiediamo come mai il comune di Pizzone non abbia richiesto la copia, magari in resina, dell'edicola e non l'abbia collocata nella camera sepolcrale apposita.

E' stata scavata e ripulita la camera a colombario del calzolaio? Perchè non ci danno foto e notizie? L'archeologia è fonte di forestieri, di cultura di lavoro e di commercio. Qualunque comune dovrebbe darsi da fare per recintare e creare organizzazioni ed eventi. E non si dica che una necropoli non si presti, perchè in esse si organizzavano Ludi Gladiatori, banchetti, musiche, danzatori e sceneggiate a favore dei defunti.

COLOMBARIO DI VIA TARANTO

IL COLOMBARIO DI VIA TARANTO

Si ritiene che il colombario romano di via Taranto (in realtà sito in via Pescara) con copertura a botte ed ingresso su uno dei lati lunghi sia l'antecedente di questo tipo sepolcrale che avrà larga diffusione in epoca successiva. La massima diffusione di questa tipologia si ha, infatti, agli inizi del Il secolo d.c. in particolar modo nella necropoli di Porto SO ove alloggiano tombe quasi tutte con volta a botte, raro il tetto a doppio spiovente e con facciata di laterizio. 

Le tombe della necropoli di Porto sono infatti tutte ad una sola cella a pianta quasi quadrangolare con un'altezza dai m 3,60 ai 4,00 con cornice di mattoni in cui si inserisce l'iscrizione sopra la porta e ai suoi lati, con rilievi in laterizio raffiguranti il mestiere del defunto. Il complesso delle tombe di Porto si data dall'inizio del Il alla metà del III sec. d.c.

CULTO DI VERTUMNO

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VERTUMNO

"Ma a te, o Mamurrio, scultore della mia immagine bronzea,
la terra osca non consumi le industriose mani,
a te che hai saputo fondermi, abile in molte esperienze.
Unica è l'opera, ma ad essa è tributata una molteplice lode"


(Properzio - Vertumnio chiede una sua statua a Mamurrio)

In una Roma che si trasforma Vertumno, temendo il suo oblio, si rivolge al sabino Mamurio Veturio, abile fabbro e scultore, nonchè fondatore della gens Veturia, legato anch'egli alla più antica tradizione di Roma antica.

In una ricorrenza di capodanno, il Vertumno di Properzio si paragona ad una vecchia divinità guerriera che sta per essere scacciata dal suo posto esattamente come veniva scacciato il vecchio Mamurio durante le Mamuralia: una forma di bronzo che forse sta per essere di nuovo fusa dato che Roma si espande e cambia.

Ma per Properzio a questa morte segue una rinascita che riconduce all'origine di ogni cosa, come un  rito simile ad arcaiche cerimonie delle genti che popolavano l'Italia antica:
"Un tempo, prima di Numa, ero un tronco d'acero sbozzato
con frettolosa falce, un dio povero in una grata città"


Insomma Properzio parla dell’aedes di Vortumno situata sull’Aventino senza descriverlo; Orazio vede la statua in un angolo di Roma. Forse Vertumno non è stato tolto ma solo relegato a divinità minore.
Vari studiosi pongono Vertumno in relazione col Dio Voltumna, il cui santuario, il fanum Voltumnae, presso Volsinii, era il luogo di riunione della lega etrusca.

La statua di Vertumno nel Vicus Tuscus, godeva molta popolarità tanto che molti scrittori vi allusero, ma di essa si sa tuttavia solo che era di bronzo, forse in sostituzione di altra lignea, di arte primitiva (Properzio, IV, 2, 61), di fattura probabilmente etrusca. I molti attributi assegnati dagli scrittori a Vertumno hanno reso difficile la sua vera rappresentazione. A Roma venne spesso associato a Silvano essendo entrambe due divinità agricole e rusticane, una di origine etrusca, l'altra di origine latina. Più tardi venne anche associato a Priapo.

In realtà l’unica statuetta etrusca assimilata a Vertumno, o ad un suo devoto che tiene in mano un lituo, si trova al Museo Archeologico di Firenze, ma si sa che il cristianesimo fece strage di templi e di immagini pagane.

IL VERTUMNO DI FIRENZE

LA PREMESSA 

Un giorno Numa ricevette da Marte l’ancile, uno scudo sacro  che discese dal cielo. Il re chiese consiglio alla ninfa Egeria che spiegò che quel dono era l'eterna garanzia dell’invincibilità di Roma, a patto che fosse conservato nella stessa città.

Numa si rivolse all’abile scultore Mamurio che dovette forgiare ben undici copie identiche in bronzo dell’ancile, in modo che un eventuale ladro non avrebbe potuto distinguere la copia dall’originale. Dunque a quale miglior scultore avrebbe potuto rivolgersi una divinità? Se Mamurio fa una statua nessuno mai la dimenticherà.



IL DIO

Vertumno era un'importante divinità etrusca, presiedeva al cambiamento stagionale e alla crescita delle piante, e per questa sua capacità in fase tarda si immaginò che avesse l'abilità di mutar forma. Inoltre aveva il potere di arrestare o respingere le acque del Tevere. Ovviamente fu il figlio-vegetazione della Grande Madre Natura che moriva e risorgeva ogni anno, quando la natura si assopiva in autunno, moriva in inverno e risorgeva un primavera.

Marco Terenzio Varrone lo mette a fianco di Opi, Quirino e altri, tra gli Dei introdotti già da Tito Tazio, e Vertumno è anteriore ai contatti con la città di Volsinii, e d'altronde iscrizioni sul Dio si ritrovano in tutto il mondo italico tranne che in Etruria. Ancora, pare risalisse al regno di Numa Pompilio la statua del Dio che sorgeva all'uscita del Foro.

VERTUMNO TRASFORMATO IN VECCHIA SI PRESENTA A POMONA

OVIDIO

Ovidio, nelle sue metamorfosi, immagina una divertente seduzione da parte del Dio nei confronti della Dea Pomona, dove Vertumno utilizza con impegno la sua abilità di assumere forme diverse.

Il poeta, conquistato dalla mitologia ellenica, esalta l'affinità fra il Dio delle stagioni e la Dea che presiede alla crescita della frutta: due divinità preposte all'abbondanza e alla generosità della natura. In effetti i due Dei condividevano una festa (Vertumnalia), che cadeva il 13 di agosto.

"Già Proca governava il popolo del Palatino
e sotto questo re ci fu Pomona, amadriade
di cui nessuna coltivava con più zelo l’orto,
nessuna era più appassionata delle piante da frutto:
di qui il suo nome. Non le piacciono campagne e fiumi,
ama la campagna e i rami carichi di frutti. Non porta
nella destra un giavellotto, ma una falce adunca,
con cui controlla la vegetazione, e spunta i rami
che s’intralciano tra loro, compie gli innesti incidendo
la corteccia, e offre la linfa a piante estranee.
Non le lascia soffrire la sete; con rivoli d’acqua
irriga le fibre ricurve della radice porosa.

Qui è tutta la sua passione, dell’amore non ha desiderio.
Temendo la violenza dei contadini, richiude
i frutteti, e tiene lontani gli approcci dei maschi.
Che cosa non fecero i satiri, gioventù esperta
nel ballo, i Pan con le corna cinte di fronde di pino,
Silvano, sempre più giovane dei suoi anni,
e il dio che spaventa i ladri col membro o con la falce,
per possederla? Ma tutti li superava in amore
Vertumno, e tuttavia non aveva più fortuna degli altri.
Quante volte, nelle vesti di un rustico mietitore,
portò un cesto di spighe, ed era il ritratto autentico del mietitore!

Spesso, con le tempie fasciate di fieno,
dava l’impressione di avere falciato l’erba;
spesso portava in mano un pungolo, e avresti giurato
che aveva appena staccato i giovenchi sfiniti;
con una falce, era un potatore di viti,
con una scala, avresti pensato che andava a raccogliere
pomi, con la spada diventava un soldato, e con la canna
un pescatore. Con tutti questi travestimenti trovava
il modo di avvicinarla e godersi lo spettacolo della bellezza.

Mettendosi in testa una benda colorata, appoggiandosi
a un bastone, sistemandosi una parrucca bianca,
si travestì da vecchia ed entrò nell’orto ben coltivato,
e ammirò i pomi. “Quanto sei brava!”, le disse;
e lodandola molto, le dava baci che una vecchia vera
non avrebbe mai dato, e sedette ingobbito
per terra, guardando i rami curvati dal peso.
C’era di fronte un olmo adorno di splendida uva;
lo lodò insieme alla vite compagna, ma aggiunse:
“Se questo tronco stesse là celibe, senza tralci
di vite, non avrebbe che il fascino delle sue fronde;
e anche la vite, che nell’abbraccio dell’olmo riposa,
se non fosse sposata giacerebbe riversa per terra.

Te però non ti tocca l’esempio di quest’albero: fuggi
il matrimonio e non ti dai cura di accoppiarti.
Se lo volessi! Avresti più pretendenti di Elena,
e di quella che provocò la guerra dei Lapiti,
della moglie dell’audace Ulisse.
Anche adesso che i pretendenti li sfuggi e respingi,
in mille ti desiderano, uomini e semidei,
e dei e geni che abitano i monti Albani.
Ma tu se sei saggia e vuoi fare un buon matrimonio,
se vuoi dar retta a questa vecchia che ti ama
più di tutti, più che non credi, respingi le nozze volgari
e prenditi Vertumno per compagno di letto!

Su di lui prendi me per garante, che lo conosco
come lui conosce se stesso. Lui non vagabonda per tutto il mondo,
ama queste ampie campagne, non fa come fanno la maggior parte
dei pretendenti, che amano quella che hanno appena vista;
tu sarai il suo primo e ultimo amore, a te sola
dedicherà i suoi anni. Aggiungi che è giovane e ha il dono
naturale della bellezza, sa assumere tutti gli aspetti:
diventerà quello che gli ordini, e puoi ordinargli di tutto.
E poi avete le stesse passioni, se tu coltivi
i frutti, lui li riceve per primo e nella mano lieta
tiene i tuoi doni; ma adesso non cerca più i frutti degli alberi
né i succhi benigni delle verdure dell’orto,
non desidera altro che te. Abbi misericordia
del suo amore, fa’ conto che sia lui stesso a pregarti.
Temi gli dei vendicatori, la signora dell’Idalio che odia
i cuori duri e l’ira tenace di Nemesi di Ramnunte."

(Ovidio - Metamorfosi)



VOLSINII

Il fanum Voltumnae (in latino, traducibile come "santuario di Vertumna") era il santuario federale etrusco, conosciuto dalle fonti antiche, ma di incerta identificazione. Il santuario era dedicato al dio "Voltumna" o Vertumno, probabilmente un aspetto del Dio Tinia (equivalente a Giove). Ogni anno a primavera vi si riunivano i capi dei "dodici popoli" della Lega che raccoglieva le dodici città etrusche, delle quali la più antica e importante era Tarquinia: vi si eleggeva il capo supremo della Federazione Etrusca, vi si tenevano feste religiose e vi si prendevano deliberazioni di politica interna ed estera. Il rescritto di Spello, emesso dall'imperatore Costantino I (333-337) consentiva agli Umbri di Spello l'esonero di recarsi a Volsini per partecipare alle feste religiose annualmente tenute dal "Coronatus della Tuscia e dell'Umbria".

La festa che vi si svolgeva in onore di Vertumno non aveva carattere politico, ma religioso, e si svolgeva più verosimilmente ad Orvieto che a Bolsena, perché Orvieto si trovava sul confine fra l'Etruria e l'Umbria. Tito Livio cita diverse volte il santuario con il nome di Fanum Voltumnae e riporta che gli Etruschi vi tenevano i concili federali tra la fine del V e gli inizi del IV secolo a.c., ma non ne indica la precisa collocazione. È da escludere comunque che per Tito Livio il Fanum Voltumae, centro federale degli Etruschi, si trovasse a Volsini. Lo storico, infatti, in altra occasione, presenta Volsini, assieme a Perugia ed ad Arezzo, solo come capoluogo del proprio singolo Stato (Storia di Roma, X, 37: Etruriae capita Volsinii, Perusia, Arretium).

RESTI DEL TEMPIO ETRUSCO SULLA RUPE DI ORVIETO

IL TEMPIO

Una sua statua era nel vicus Tuscus presso il Foro; essa era in bronzo e Properzio, (iv, 2, 61) immagina che sostituisse un arcaico simulacro ligneo. Era incoronata dai piccoli bottegai con i fiori della stagione, con offerte di frutta o degli strumenti e vesti proprie del loro mestiere. Essa venne rinnovata nell'età di Diocleziano (244- 313).

Nel 264 a.c. il console Marco Fulvio Flacco guidò il suo esercito contro la città di Volsinii per domare la ribellione e la distrusse. Venne riportato a Roma un ricco bottino, tra cui numerosissime statue in bronzo, offerte in dono agli Dei. Il Dio Vertunno, ovvero la sua statua venne invocato con il rituale dell'Evocatio con cui si pregava il Dio di trasferirsi a Roma dove avrebbe ricevuto onori anche maggiori. Volsinii è stata variamente identificata con Orvieto (detta Volsinii Veteres) o con Bolsena (cdetta Volsinni Novi).

Negli scavi del santuario dell'area sacra di Sant'Omobono a Roma, è stata rinvenuta la base di uno di questi donari, identificato dall'iscrizione di dedica del console Flacco. Fu inoltre edificato sull'Aventino un tempio dedicato al dio Vertumnus o Vortumnus, dove sarebbero state presenti pitture raffiguranti il console Flacco quale trionfatore.
L'Aedes Vertumni era dunque situato sul colle dell’Aventino, forse nei pressi delle Terme Surane. Infatti sull'Aventino venivano accolte le divinità straniere provenienti dalle città conquistate con il rito dell’evocatio per il quale si trasferiva nell’Urbe la divinità protettrice della città sconfitta. Non a caso, nei pressi del tempio di Vertumno era anche il tempio di Diana, il tempio di Giunone Regina (fasti sui Veienti, capitolazione di Veio nel 396 a.c.); e quello di Minerva; e, in un bosco sacro, il tempio della Bona Dea.



GLI ATTRIBUTI

VERTUMNO
Le poche rappresentazioni note del Dio lo mostrano come un giovane con la barba, coronato da spighe o foglie verdi e recante la cornucopia. Alcuni lo hanno identificato in una statuetta bronzea da Isola di Fano, ora al Museo Archeologico di Firenze, rappresentante forse Mercurio; oppure in una statuetta bronzea portante una falce, trovata nel santuario di Diana presso Nemi (ora al Museo di Villa Giulia), che forse è Silvano; o del bronzo bifronte del museo di Cortona che forse è Turms, il Mercurio etrusco.

La falce era effettivamente un attributo di Vertumno, che con esso potava e faceva gli innesti, ma  sicuramente aveva una connessione col mondo lunare ed infero, la falce come simbolo della luna e come portatrice di morte.

Orazio riferisce di una statua bronzea di Vertumno posta in fondo al Vicus Tuscus presso il Tempio dei Dioscuri, all'ingresso del Foro Romano, opera di Mamurio Veturio, il grande fabbro a cui Numa Pompilio fece riprodurre undici scudi identici all'ancile che Marte aveva donato a Roma facendolo piovere dal cielo.






E qui che Properzio presta voce a Vertumnio, il Dio trasformista:

"Perchè ti meravigli che io assuma tante forme in un corpo solo?
Apprendi gli aviti connotati del dio Vertumno.
Sono etrusco, nato da etruschi, e non mi pento
di avere abbandonato in guerra i focolari di Volsinio.
Mi piace questa gente, e non m'allieto d'un tempio d'avorio,

è sufficiente per me poter vedere il Foro romano.

Un tempo per di qui scorreva il Tevere e dicono
che si udiva il tonfo dei remi sulle acque percosse;
ma dopo che esso cedette tanto ai suoi figli,
sono chiamato il dio Vertumno per la deviazione del fiume;
oppure poichè v'è l'uso di recarmi i primi frutti al mutare delle stagioni,
credete che da qui derivi il culto del dio Vertumno.



Per me si colora la prima uva di acini violacei,
e la chioma della spiga si gonfia di chicchi lattiginosi.
Qui vedi le dolci cerase, qui le prugne autunnali,
e rosseggiare le more nei giorni d'estate.
Qui l'addetto agli innesti scioglie i suoi voti con una corona di frutti,
nel quando il pero produce mele contro il volere del suo tronco.
Tu, menzognera fama mi nuoci; il significato del mio nome è diverso:
credi soltanto al dio che parla di se stesso.

La mia natura è adatta ad assumere tutte le forme:
mutami in qualunque figura vorrai, potrò ugualmente piacerti.
Vestimi di tessuti di Cois, sarò amabile fanciulla,
se indosso una toga, chi potrebbe negare che sono un uomo?

Dammi una falce e cingimi la fronte di un serto di fieno intrecciato:
giurerai che l'erba è stata falciata dalla mia mano.
Un tempo portai le armi e, ricordo, in esse ero elogiato;
con il peso d'un cesto sul capo ero un mietitore.

Non amo le risse, ma quando mi è stata imposta una corona,

allora griderai che il vino mi ha dato alla testa.
Cingimi il capo di una mitra, ruberò la parvenza di Bacco,
se però mi darai un plettro, la involerò a Febo.

Con le reti in spalla mi trasformo in cacciatore, se prendo la canna,
sono il dio che ama cercare la piumosa preda.
Inoltre Vertumno ha sembianze di auriga, o di quello
che ora su un cavallo ora sull'altro sposta il suo lieve peso.

Mi si presti la circostanza, catturerò pesci con l'amo,
e andrò elegante venditore nella disciolta tunica.
So curvarmi sul bastone come un pastore, o anche portare
cestini pieni di rose in mezzo alla polvere delle vie.
Che dire poi - ciò che mi procura grandissima fama -
dei doni dell'orto che divengono preziosi nelle mie mani?

L'anguria verdastra e la zucca dal ventre rigonfio
diffondono il mio nome, e il cavolo legato da un lieve giunco;
non si schiude fiore nei prati, che non venga prima deposto
con grazia quale ornamento sulla mia fronte, dove poi langue.
Il nome mi venne dato dalla lingua dei miei avi,
ispirato dal fatto che rimanendo uno mi mutavo in tutte le forme;
e tu, o Roma, mi attribuisti come ricompensa ai miei Etruschi
(da ciò si denomina oggi il vico Tusco),

fin dal tempo in cui i Licomedi vennero come alleati
e infransero le armi sabine del feroce Tazio.
Io stesso vidi le schiere sbandarsi, e piovere i dardi,
e i nemici volgere le spalle in vergognosa fuga.
Ma tu, padre degli dèi, fa' che la romana gente togata,
continui sempre a passare davanti ai miei piedi.
Restano sei versi (non voglio trattenerti mentre corri
in tribunale per un avallo): questo è il traguardo di creta per i miei giri.

Un tempo, prima di Numa, ero un tronco d'acero sbozzato
con frettolosa falce, un dio povero in una grata città.
Ma a te, o Mamurrio, scultore della mia immagine bronzea,
la terra osca non consumi le industriose mani,
a te che hai saputo fondermi, abile in molte esperienze.
Unica è l'opera, ma ad essa è tributata una molteplice lode".


(Properzio - Elegie IV-2)


POMONA

POMONA

Nel mito romano Vertumno si innamorò della Dea Pomona e, per avvicinarsi a lei, mutò il proprio aspetto più volte ma senza buoni risultati. Pensò infine di trasformarsi in una saggia anziana e stavolta Pomona si avvicinò. Evidentemente le attenzioni del Dio non le dispiacquero perchè più tardi i due si sposarono.

Pomona è la Dea romana dei frutti, ma anche dell'olivo e della vite.  Ovidio la descrive con una falce nella mano destra il che sembra alludere al mondo infero. Infatti in alcuni miti lei è la Dea dei frutti autunnali, prima che la natura si addormenti e non dia più frutti. L'autunno è facilmente collegabile con la morte di tutte le creature, uomini compresi.

Le era dedicato un bosco sacro denominato Pomonal, situato a sud del XII miglio della via Ostiense, nei pressi dell'attuale Castel Porziano. Al culto della Dea era preposto un flamine minore, il Flamen pomonalis, che nell'ordo sacerdotum era il meno importante.

Non si conoscono feste (Pomonalia) in suo onore, forse Vertumno univa le sue feste con quelle della Diana Nemorense, a cui Pomona, antica Dea Tellus, era stata assimilata. Vertumno poteva infatti trasformarsi come tutti i figli della Dea Tellus, come ad esempio Proteo, da cui il termine proteiforme. Ma questa potrebbe essere secondo alcuni un'invenzione di Ovidio, perchè la tradizione latina, comunque, ricordava che Pomona sarebbe stata la compagna di Pico.

Nel 1989, in Lunigiana ci fu il ritrovamento di una stele dedicata a Pomona, sulla cui autenticità c'è stato qualche dubbio a causa dell'intervento di uno scalpellino locale che ha ripassato alcune lettere nell'intento di renderle più visibili. Giovanni Mennella, docente di storia romana all'Università di Genova, in un articolo su una rivista di storia locale, tende comunque ad attribuire l'iscrizione all'epoca rinascimentale, escludendo dunque l'età classica.



VERTUMNALIA

Le sue feste erano dette Vertumnalia, celebrate al termine dell'estate, dove si festeggiava anche Pomona. Durante la festa gli venivano offerte le primizie dei raccolti stagionali. Successivamente gli si attribuirono onori divini nell’ambito del commercio: Orazio parla della sua statua eretta in fondo al vicus Tuscus (da qui la presunta origine etrusca). Nel suo tempio tempio sull’Aventino, il 13 agosto gli veniva offerto un sacrificio.

"Mi piace questa gente, e non m'allieto d'un tempio d'avorio,
è sufficiente per me poter vedere il Foro romano.
Un tempo per di qui scorreva il Tevere e dicono
che si udiva il tonfo dei remi sulle acque percosse;
ma dopo che esso cedette tanto ai suoi figli,
sono chiamato il dio Vertumno per la deviazione del fiume;
oppure poichè v'è l'uso di recarmi i primi frutti al mutare delle stagioni,
credete che da qui derivi il culto del dio Vertumno".

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