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HERDONIA - ORDONA (Puglia)

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GLI SCAVI DI HERDONIA
Tutti gli autori antichi, da Erodoto a Tucidide, a Polibio, a Varrone, a Festo e a Plinio il Vecchio, ci tramandano la suddivisione della Puglia in Daunia, Peucezia e Messapia.

La Daunia, posta nella parte settentrionale della Puglia, insieme alla Peucezia (da cui è separata dalla valle dell'Ofanto) e alla Messapia (Murgia meridionale e Salento), costituiva la Japigia o Apulia. Essa comprende il Tavoliere delle Puglie, il Gargano e i Monti Dauni.

Gli storici greci, identificavano spesso la Japigia con la sola Messapia, sia perché gli Japigi parlavano il messapico, sia perché rimandavano l'origine di questo popolo al figlio di Dedalo, Iapige, che guidò i cretesi fino a stabilirsi nei pressi di Taranto. 

Con l'occupazione romana fu istituita la Regio II Apulia et Calabria, che includeva un territorio appena più esteso dell'attuale regione: solo in seguito il toponimo Apulia sarebbe stato adottato per designare anche la penisola salentina.

TRAPEZOPHORO - ASCOLI SATRIANO (FOGGIA)

LA DAUNIA


La Daunia subì diverse dominazioni tra cui i Greci, da cui presero parte della loro mitologia e da cui deriverebbe il suo nome. Infatti fu l’eroe Dauno, figlio del re dell’Arcadia Licaone, che sarebbe giunto in Puglia dando origine alla stirpe che da lui prende il nome, i Dauni.

VASO DAUNIO
Dall'VIII secolo a.c. la Daunia ebbe scambi commerciali e culturali con l'area campana, ma subì gli influssi della civiltà greca e della Magna Grecia solo dalla fine del V e inizio IV secolo a.c. 

L'ellenizzazione della Daunia fu accentuata da Alessandro I re dell'Epiro durante la sua campagna militare in Italia nel 333-334 a.c. ma poi la Daunia subì l'influenza oscia ad opera dei Sanniti che scendevano dall'Appennino. 

Infine ebbe nuovi influssi dalla Campania dopo la penetrazione romana nella regione a partire dal 327 e a causa de molteplici culture con cui fu in contatto, la Daunia riuscì a sviluppare una sua ricca e particolare cultura. 

Durante le Guerre puniche i Dauni e altri popoli italici si schierarono con i Romani, ma passarono dalla parte dei Cartaginesi dopo la sconfitta alla battaglia di Canne nel 216 a.c., tradimento che pagarono col dominio assoluto di Roma.

Di questa fantastica civiltà di cui conserviamo splendidi resti, a cominciare dal Trapezophoro in marmo policromo, rinvenuto ad Ascoli Satriano (FG), o dal marmoreo ed elegantissimo vaso Daunio qua sopra, ha misteriosi risvolti non ancora del tutto spiegati, specie se andiamo a vedere i famosi vasi di Canosa, reperiti appunto nella necropoli della Canosa Daunia, in cui Bachofen riscontrò un gradi di evoluzione spirituale difficilmente riscontrata altrove.

RICOSTRUZIONE DI HERDONIA ( Autore: www.archeologiadigitale.it )

HERDONIA

Già centro Daunio e greco e poi romano nel I secolo a.c., divenne municipio romano e si sviluppò soprattutto tra il I e il III sec. d.c. in seguito alla costruzione della via Traiana.

Questo importante centro dauno e successivamente città romana, è stata oggetto di numerose campagne di scavo da parte dell'équipe belga diretta dal Prof. J. Mertens dal 1962, ma vi è una dolorosa quanto necessaria premessa da fare:

"L’antica città romana di Herdonia (Ordona, provincia di Foggia, in Puglia), situata nella periferia di Ordona, è stata ormai abbandonata dalle istituzioni. Infatti, l’ultimo studio attuato sul sito risale al 2000.

TEMPIO A
L’area archeologica di Herdonia vanta più di cinquant’anni di studi e scavi: i primi ad arrivare sul sito furono ricercatori belgi diretti dal professore Joseph Mertens, poi si aggiunsero le Università di Bari e di Foggia, condotti dal professore Giuliano Volpe. 

Scoperta negli anni sessanta, dopo cinquant’anni di scavi sistematici, la ricerca ha raggiunto e consolidato le linee di conoscenza del sito antico ed è matura, oggi, per essere proposta ad un pubblico più vasto.
Il territorio sembra allargarsi di anno in anno, tanto da non riuscire a quantificare gli effettivi ettari che custodiscono, di fatto, l’antico patrimonio. 

La maggior parte dei terreni è stata espropriata, ma resta ancora ricoperta di terra, erbacce e rifiuti. La zona visibile è di proprietà privata, appartenente alla famiglia Cacciaguerra ma nonostante ciò, non tutti i resti rinvenuti possono essere ritenuti di dominio della famiglia. 

In effetti, i resti scoperti dai ricercatori sono di proprietà del Ministero per i Beni e le Attività Culturali, anche se, come lamentano in molti, sono ormai più di dieci anni che il MiBAC non mostra più interesse per l’intera area, lasciando al degrado tutti i preziosi beni scoperti, dalle terme al mercato ittico, fino all’importante via Traiana. 

Oggi è possibile ammirare i resti del foro e di importanti edifici come la Basilica, le Terme, il Macellum e alcuni tratti dell'antica strada romana: la Via Traiana, realizzata dall'Imperatore Traiano nel 109 d.c. per collegare Benevento a Brindisi, in alternativa alla Via Appia, divenne rapidamente la più importante strada per l'attraversamento della Puglia.


IL MACELLO
Tale risultato è stato raggiunto attraverso le ricerche del cantiere-scuola messo in atto dalle Università di Bari e Foggia, Leuven (Belgio) e il comune di Ordona, mettendo a disposizione delle università una sede con alloggi, mense, laboratori e facendo del cantiere-scuola uno specifico luogo per la didattica archeologica sul campo affiancata da progetti di ricerca scientifica. 

Il progetto ha permesso di effettuare sia gli scavi sull’antica città che, su scala estensiva, sull’intero territorio herdoniate: interventi sia conservativi per la valorizzazione dell’intero comprensorio, sia divulgativi con la realizzazione di itinerari e l’apposita comunicazione visiva a tema nella città antica.

A prendersi cura di tutto questo è la signora Ambretta Cacciaguerra che svolge il ruolo di custode, guida e promotore del sito archeologico, allestendo perfino stand alle fiere dedicate all’archeologia: “Il sito, da quando non hanno più rilasciato la concessione di scavo, è abbastanza abbandonato. 

Viene pulito a spese nostre con la collaborazione di volontari del Movimento Cittadino di Ordona e altri, però si vede che manca la parte dell’archeologo. Spero soprattutto che se si dovesse fare un esproprio ci sia un progetto valido non solo di restauro ma anche di fruizione, che è la cosa più importante”.

(Da Domenico Margiotta -13 Gen 2016)

STELE DAUNIA

LA STELE DAUNIA

La stele daunia risale al VII – VI secolo a.c., recentemente riportata a casa grazie ad una raccolta fondi coordinata dalla Fondazione Apulia Felix e dal suo Presidente Giuliano Volpe, che ha permesso di acquistare il prezioso reperto al’asta della casa Bertolami. Il museo che ospita la stele Daunia sorge a pochi metri dall’area archeologica di Herdonia che comprende gran parte dell’antica città.

Queste stele, che possono raggiungere l’altezza di oltre un metro, hanno sembianze antropomorfe e sono costituite da un “corpo”, ricavato da una lastra di pietra, e da una “testa”, la cui forma stilizzata cuneiforme contribuisce all’originalità di questa espressione artistica. La testa è in alcuni casi parte integrante del medesimo blocco litico, mentre in altri veniva costruita separatamente e quindi applicata sul corpo. 

Nessuna di queste stele è finora stata trovata in sito, e molte furono riutilizzate come materiale da costruzione – addirittura già dal VI secolo a.c., pervenute in forme spesso frammentarie. Alcune presentano ancora traccia di colore, poichè oltre ad essere scolpite, venivano dipinte.

Il filologo classico, Ferri, interpretò i reperti aventi funzione funeraria e lesse le incisioni in chiave omerica. Ad oggi questa interpretazione è molto dibattuta e in alcuni casi screditata. A tal proposito, l'archeologa Maria Laura Leone scrive:

« - Primo: nessuno dei monumenti è stato trovato in un contesto comprovante la funzione sepolcrale originaria (tranne due rari casi di successivo riutilizzo). 
 - Secondo: soltanto due zone hanno restituito un numero significativo di stele, mentre se fossero state effigi di morti importanti le avremmo trovate in tutte le necropoli daunie. Ogni città Daunia avrebbe dedicato sculture funerarie ai suoi prestigiosi cittadini. 
 - Terzo: tutte le stele riproducono solo due entità specialissime, una maschile e l’altra femminile, piuttosto da collegare al pantheon daunio. 
 - Quarto: le sculture maschili sono numericamente molto inferiori rispetto a quelle femminili; e questo è strano, dal momento che i guerrieri sono più esposti alla morte. 
 - Quinto ed ultimo punto importante è che nessuno si è mai chiesto: “Dove hanno raffigurato, i Dauni, le loro divinità?” Ancora oggi, e non senza pigrizia intellettuale, molti continuano ad insistere sulla teoria funeraria e a riproporre acriticamente gli assiomi del Ferri privi di fondamento contestuale.»
(Maria Laura Leone, in «Oppio. “Papaver Somniferum”, la pianta sacra ai Dauni delle stele»)

SCENE COL PAPAVERO DA OPPIO
L’archeologa pugliese Laura Leone (1995-96) vede il grafema sferoidale come un simbolo grafico del papavero da oppio, e nelle scene delle stele sarebbero raffigurati emblemi, mitologie e momenti di un culto magico-terapeutico incentrato sull’utilizzo di questa pianta dalle proprietà antidolorifiche, narcotiche e visionarie.

La traduzione del grafema circolare col papavero da oppio ha dato una rilettura alle scene delle stele. I bastoni-scettro agitati nelle scene rituali-terapeutiche, le olle sacrificali portate sulla testa delle donne in processione, le figure femminili con la testa a forma di “capsula” e ben radicate nel terreno – che la Leone vede come divinità del papavero da oppio – nonchè i guaritori e più spesso guaritrici che offrono un vaso medicinale a individui dolenti e ammalati, trovano qui una giustificazione , tenendo conto delle proprietà medicinali del papavero da oppio, soprattutto per lenire il dolore fisico.

IL FORO

IL SITO ARCHEOLOGICO

Herdonia è anche nota come “la Pompei della Puglia”. Infatti le prime tracce di vita nel territorio risalgono all’epoca neolitica, mentre si datano all’età del Bronzo alcuni resti di capanne. Sono stati rinvenuti vari nuclei abitativi sparsi nel territorio, con case e tombe, a testimonianza della più ampia occupazione del territorio tra la prima età del Ferro e l’età Arcaica.

LE TERME
Nel sito sono attualmente visibili i resti di un anfiteatro, realizzato sfruttando il fossato di una più antica struttura difensiva. Si conservano inoltre i resti di edifici abitativi e artigianali riferibili ad età romana e di un campus utilizzato per attività militari. L’ampia area pubblica conserva porzioni della basilica civile insieme ad altri ambienti probabilmente identificabili con il tribunal, l’aerarium e la curia.

È chiaramente visibile la piazza del foro circondata dalle botteghe su tre lati. Del foro fanno parte anche i resti di due templi del macellum, di una Basilica, del Capitolium e di una villa rustica, scoperta di recente.

Sono visibili le mura perimetrali e sul lato ovest i resti della porta principale fiancheggiata da torri quadrate, con rivestimenti in opus reticulatum. Nella zona centrale si trovano un complesso di costruzioni in laterizio e opus reticolatum,

 A nord est troviamo i resti di un piccolo anfiteatro.

ANFITEATRO

L'ANFITEATRO

L’anfiteatro è oggi documentato solo da un'ampia cavità, notata già dai viaggiatori del XVIII secolo e solo in parte oggetto di scavo archeologico. Posto nei pressi delle mura della città romana, fu realizzato sfruttando il fossato esterno alla cinta muraria. Ha forma di ellissi (m 74 x 59 circa) ed è delimitato da un muro esterno, lungo m 215, in opera reticolata, in parte ancora visibile. 

Venne realizzato nel I secolo d.c., ma nel II d.c. venne restaurato, ingrandito e abbellito. L'edificio aveva due ingressi posti sull'asse principale, che consentivano l'accesso alle gradinate, di cui non restano tracce e che molto probabilmente vennero utilizzate per altri edifici. È difficile ricostruire l'altezza originaria del muro di cinta e il numero di gradinate, e quindi anche la presumibile capienza. Agli spettacoli (giochi gladiatorii, lotte con animali, ecc.) prendevano parte spettatori provenienti non solo dalla città ma anche dalle campagne circostanti.

L’anfiteatro venne smantellato in età tardoantica (IV-VI d.c.), quando il cristianesimo proibì la maggior parte degli spettacoli, per cui gli ingressi furono trasformati in abitazioni. Tra le sue rovine fu sepolto negli anni 1020-1030 un tesoretto di 148 monete d’oro di tipo musulmano e una bizantina contenute in una brocchetta.

I CAPITELLI DELLA BASILICA

LA BASILICA

La basilica si apriva sulla piazza del foro, ed era uno dei più importanti luoghi per la vita cittadina: si amministrava la giustizia, si tenevano riunioni e si svolgevano gli affari. È costituito da una grande aula rettangolare (m 42 x 26 circa) divisa all’interno da venti colonne che delimitano un ampio spazio centrale; restano le basi e i bei capitelli di stile ionizzante in pietra calcarea. 

Le colonne, alte originariamente circa 7 m e realizzate in mattoni con rivestimento di stucco, non si sono conservate. I muri, in “opera incerta quasi reticolata”, con filari di tegole e pilastri di mattoni, erano rivestiti da intonaco dipinto, di cui restano alcuni lembi. Sul lato opposto al foro si apre una sala rettangolare, sul cui fondo è una base per una statua: in un primo momento in un ambiente sotterraneo era forse conservata la cassa cittadina.

Venne costruita alla fine del I a.c. - inizio I secolo d.c.; fu abbandonata, forse in seguito ad un terremoto, nel IV secolo. Successivamente (IV-VI d.c.) furono ricavate alcune case-botteghe e un vano absidato. Ancor più tardi (VI-VII d.c.) lo spazio fu occupato da tombe e poi in età medievale (XII-XIV) da alcune abitazioni.


All’esterno delle mura si estende una vasta necropoli in cui sono stati rinvenuti diversi esempi di ceramica daunia conservati nei musei di Foggia, Bari e Taranto.

È stato inoltre riportato in luce un vasto complesso termale articolato in ambienti caldi e freddi, riccamente decorati. All’estremità settentrionale si conservano le tracce di una chiesa altomedievale poi trasformata, in epoca svevo-angioina, in castello circondato da un fossato.

Sappiamo che l’insediamento daunio che si estendeva su di una superficie di 600 ettari, mentre l’insediamento risalente ad epoca romana è molto più circoscritto rispetto al precedente, ma molto più ricco di vestigia, quali il Foro, la Basilica, il Macello, la Via Traiana.

Tutt'intorno si individuano tratti delle mura e del piccolo anfiteatro; verso la ferrovia si nota l'acropoli, da dove si scorgono i ruderi del ponte romano sull'antico alveo del Carapelle. Colpiscono i capitelli privi di colonne, perché erano fatte con mattoni, che non furono pertanto difficili da abbattere per la sorgente iconoclastia cristiana.
FRAMMENTO DI RICAMO DEL IV SECOLO a.c.

IL RICAMO PIU' ANTICO D'ITALIA

E' stato rinvenuto a Herdania ovvero “I ricami del guerriero“. Un’operazione condotta in sinergia con la Soprintendenza Archeologia della Puglia.

Nel 2012, nella necropoli daunia in contrada Cavallerizza, emergono due tombe a fossa d’inizio IV secolo a.c. La prima è di una donna ed è quasi spoglia ma la seconda, pur già depredata conserva i resti di un uomo tra i 30 e i 35 anni, un guerriero di alto rango con una schiera di ceramiche a geometrie colorate tipicamente daunie, una panoplia e diverse armi. 

Ma l’elenco dei reperti dei reperti è lungo: 70 frammenti di tessuto, 29 lignei, 250 di lamine bronzee, 4 manufatti torniti. E’ servito un anno di lavoro, ma infine dal drappo in lana si è manifestata una panoplia da parata con il bordo ricamato con fili di lino. I ricami del guerriero di Herdonia sono i più antichi mai recuperati in Italia”.

Comunque nel 2000 gli scavi sono stati improvvisamente interrotti: stato e proprietari dell’area non hanno ancora trovato un accordo sul prezzo di esproprio dell’area. In tutta fretta, molti monumenti sono stati nuovamente sepolti non potendone garantire il restauro e la conservazione, altri, privi di recinzione, versano in stato di totale abbandono.

IL TESORETTO

IL TESORETTO DI HERDONIA

Si tratta di 147 monete tarì d’oro e di un solido bizantino, riportati in superficie durante uno scavo archeologico nel 1965 e attualmente conservati presso i depositi del Museo tarantino senza mai essere stati esposti. Il tesoretto sarà esposto prima in via temporanea in un percorso relativo all’epoca tardo-antica, poi troverà una degna collocazione permanente nel museo. 

Per ora, quindi, non arriverà all’HERMA (Museo archeologico comunale di Herdonia) di recente apertura, a pochi passi da dove sono emerse queste ricchezze, ma comunque si tratta di un discreto traguardo. C'è però da tener conto che spesso le mostre italiane all'estero vi permangono per anni e anni, perchè si guadagna di più a portarle negli altri musei che tenerli nei nostri musei.




SERVIO CORNELIO MALUGINENSE - S. CORNELIUS MALUGINENSIS

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GENS CORNELIA

Nome: Servius Cornelius Maluginensis
Nascita:
Morte: -
Gens: Cornelia
Professione: Politico e militare
Consolati: 386 a.C., 384 a.C., 382 a.C., 380 a.C., 376 a.C., 370 a.C., 368 a.C.


Ovvero Servius Cornelius Maluginensis (Roma, ... – ...), del ramo Cosso, (Cosso = tarlo) una specie di tarlo, a causa della tenacia e della insistenza di cui era capace il capostipite della sua gens. Fu comunque un notevole politico e militare  romano del V sec. a.c.

Servio Cornelio fu il più antico rappresentante del ramo Maluginense della nobile gens Cornelia, una delle più antiche e conosciute gens patrizie dell'antica Roma, i cui membri più famosi, tutti del periodo repubblicano, furono:
  • Servius Cornelius Cossus Maluginensis, console nel 485 ac. e poi flamen quirinalis. 
  • Lucius Cornelius Servius Maluginensis, console nel 459 ac. 
  • Marcus Cornelius Servius Maluginensis, membro del II decemvirato nel 450 ac. 
  • Marcus Cornelius Maluginensis, console nel 436 ac. 
  • Publius Cornelius Maluginensis, tribunus militum consulari potestate nel 404 ac. 
  • Publius Cornelius Maluginensis, tribunus militum consulari potestate nel 397 e 390, magister equitum nel 396 ac. 
  • Publius Cornelius Maluginensis Cossus, tribunus militum consulari potestate nel 395, console nel 393 ac. 
  • Marcus Cornelius P. f. P. n. Maluginensis, censore nel 393 ac. 
  • Servius Cornelius P. f. M. n. Maluginensis, tribunus militum consulari potestate nel 386, 384, 382, 380, 376, 370, e 368 ac. 
  • Marcus Cornelius Maluginensis, tribunus militum consulari potestate nel 369 and 367 ac. 
  • Servius Cornelius Maluginensis, magister equitum nel 361 ac.

Servio Cornelio fu eletto console nel 485 a.c. insieme a Quinto Fabio Vibulano. La situazione è questa: la cacciata dei Tarquinii è avvenuta nel 509, appena 34 anni prima. Dopo la rivoluzione repubblicana il popolo romano fa sentire più spesso e più apertamente i suoi malumori. I plebei chiedono diritti e terre.

LA SEDIA DEL CONSOLE
Durante il suo consolato Spurio Cassio Vecellino, il console che l'anno precedente aveva proposto di distribuire parte della terra del demanio ai plebei, inimicandosi i patrizi, fu condannato e giustiziato. Cassio, pur avendo celebrato ben due trionfi per le sue vittorie, fu portato in giudizio con l'accusa di aspirare ai poteri di re.

I due accusatori, i questori  Cesone Fabio Vibulano e Lucio Valerio Potito, sarebbero poi diventati consoli, rispettivamente nel 484 e nel 483 a.c., con il sostegno dei patrizi. Condannato, Cassio, reo solo di aver voluto aiutare la plebe, venne quindi fatto precipitare dai due questori dalla Rupe Tarpea.

Da qui si capisce come la monarchia avesse lasciato ampi strascichi di privilegi negli aristocratici che mal sopportavano un potere dall'alto ma molto tenevano a quello che esercitavano sul popolo. Stranamente ci vorranno degli imperatori per rendere giustizia alla plebe.

Ma con la sua morte la questione agraria non venne estinta bensì il popolo richiese a gran voce l'applicazione della legge agraria che era stata promulgata.

Così i due aristocratici consoli, temendo disordini, approfittarono delle razzie e incursioni etrusche in territorio romano, chiamarono il popolo alla leva contro le città nemiche, distogliendo così la plebe dalla questione. Servio avrebbe condotto i romani contro Veio, mentre Quinto Fabio li avrebbe guidati contro i Volsci e gli Equi.

I Volsci secondo Tito Livio erano:
« ferocior ad rebellandum quam bellandum gens »
(Tito Livio, Ab Urbe condita)

Per narrare tutta la verità diciamo che le guerre non erano una scusa, perchè, specie Veio a soli 20 km da Roma, ma pure altre città minacciavano seriamente i romani, anche se ciò non avrebbe dovuto far dimenticare la Legge agraria.

LA STRAGE DEI FABII
Peraltro c'era un vecchio conto tra Romani e Veienti che risaliva ai tempi di Romolo:
« La guerra fidenate finì per propagarsi ai Veienti, spinti dalla consanguineità per la comune appartenenza al popolo etrusco [...] Persero parte del territorio ma ottennero una tregua di ben cento anni. Questi pressappoco gli eventi succedutisi in pace ed in guerra sotto il regno di Romolo. »
(Tito Livio, Ab Urbe condita libri. Newton Compton, Roma)

Ma poi ci fu un ricordo tragico e un'onta fortissima per i romani: la strage dei Fabii del 477 ac., tutti massacrati dai Veienti tanto che della gens Fabia rimase un solo componente: Quinto, figlio di Marco. Livio riporta che era stato lasciato a Roma perché troppo giovane ma l'informazione sembrerebbe errata dato che solo dieci anni dopo Quinto Fabio Vibulano divenne console.

In realtà venne nominato console, a rigor di date, 8 anni prima dell'eccidio (447), vale a dire nel 485 a.c. Le ragioni per cui non si trovò nella guerra di Crimea dove morirono i Fabi devono dunque essere state altre. Magari era malato o in terre lontane.

Comunque Fabio prima invase il territorio degli Equi, poi da lì quello dei Volsci, razziando e saccheggiando il territorio. Solo i Volsci provarono a resistere sul campo contro l'esercito romano, ma furono sconfitti. Fabio però si inimicò il popolo, quando tornato a Roma con il bottino di guerra, ordinò che questo fosse interamente incamerato nelle casse dell'erario, senza che i soldati ne ricevessero alcuna parte. Questo si dice avvenne nel 480 a.c., anno in cui trovò la morte in battaglia.

Pertanto dovette accadere prima di tale data che Servio Cornelio Maluginese, alla testa del suo esercito, invase il territorio dei Veienti.

Servio Cornelio è stato il più antico rappresentante del ramo Maluginense della nobile gens Cornelia, una delle più antiche gens patrizie della Roma arcaica, i cui cognomen più diffusi durante la Repubblica furono Scipione, Lentulo e Dolabella.
Servio Cornelio fu eletto console nel 485 a.c. insieme a Quinto Fabio Vibulano. Anche se fu uomo valoroso, ebbe però l'arroganza e l'insensibilità verso il popolo plebeo che ebbero molti patrizi dell'epoca.


LA RUPE TARPEA
Infatti durante il suo consolato, come narra Dionigi di Alicarnasso, Spurio Cassio Vecellino, il console che l'anno precedente aveva proposto di distribuire parte della terra del demanio inimicandosi i patrizi, fu condannato e giustiziato lanciandolo dalla Rupe Tarpea. Spurio era stato nominato console tre volte ed aveva ottenuto il trionfo per due volte. 

Nonostante questo e anzi proprio per questo venne accusato di voler assumere il potere e farsi re e nessuno dei due consoli in carica si oppose.

Del resto tutti coloro che chiesero la legge agraria, prima e dopo, vennero uccisi, fino a Giulio Cesare che la ottenne impunemente, anche se venne ucciso ma molti anni dopo per una congiura. La giustizia romana fu ottenuta dalle proteste e dalle insurrezioni del popolo della plebe.

Ma la morte di Spurio Cassio non placò la questione agraria, che era già stata promulgata ma mai entrata in vigore. I plebei cominciarono a ribellarsi e i due consoli, assolutamente non disposti a concedere nulla si attaccarono alle razzie e alle incursioni che i nemici delle città vicine facevano in territorio romano.

GENS CORNELIA
Così i due consoli chiamarono il popolo alla leva, creando un diversivo alla questione agraria. Ai due consoli, secondo la legge, spettava la guida dell'esercito che venne diviso in due. Servio Cornelio avrebbe condotto i romani del suo esercito contro Veio, mentre Quinto Fabio avrebbe guidato il resto contro i Volsci e gli Equi.

Per un console andare in guerra era cosa molto ambita, perchè se vinceva otteneva lustro lui e la sua famiglia, se poi otteneva un trionfo diventava un eroe.

Purtroppo essere un eroe non bastò a Sputio Cassio, ma Servio Cornelio voleva approfittare della battaglia non solo per placare l'ira del popolo, ma pure per guadagnarsi un po' di gloria a sua volta. 

Alla testa del suo esercito si inoltrò nel territorio di Veio saccheggiandolo e razziandolo, dopo averli sconfitti in diverse scaramucce recuperò il bottino sottratto ai romani, si fece pagare pure un riscatto e stipulò una tregua per un anno. All'epoca una tregua si rispettava sempre, per cui nessuno concedeva tregue per più di quanto fosse disposto. 

Ora i romani sapevano che per un anno, pena la collera degli Dei, i Veienti non avrebbero più invaso il territorio romano, dopodiché avrebbero magari dato battaglia. I romani ne furono più che soddisfatti, i plebei non del tutto, perchè Spurio Cassio era stato assassinato e la lex agraria era ancora in sospeso.

COLONIA CLAUDIA ARA AGRIPPINENSIS - COLONIA (Germania)

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CLAUDIA AGRIPPINA
La Colonia Claudia Ara Agrippinensium (odierna Köln), cioè Colonia, era la capitale dell'antica provincia romana della Germania Inferiore, una delle più grandi città a nord delle Alpi. Essa derivava dall'antica fortezza legionaria della provincia romana della Germania inferiore, che corrisponde all'odierna città tedesca di Colonia.

Era posizionata lungo il fiume Reno, di fronte alle tribù germaniche dei Sigambri (riva destra del Reno) e dei Tencteri (sempre sulla riva destra del Reno), a sud di Novaesium ed a nord di Bonna.



LA STORIA

Colonia venne fondata dai romani come accampamento per l'esercito romano di Druso maggiore ( figlio della terza moglie di Augusto, Livia Drusilla). impegnato nella campagna di conquista della Germania. 

COLONIA 200 D.C. (INGRANDIBILE)
I popoli di quella terra furono non facili da vincere per i romani nè da tenere tranquilli:

« Tencteri ed Usipeti non appena scorsero la cavalleria romana, che era composta da 5.000 cavalieri, sebbene essi non fossero più di 800, attaccarono i nostri con grande rapidità e li batterono, quando i nostri provavano a resistergli, secondo il loro costume i germani saltavano giù da cavallo a piedi e disarcionavano i nostri trafiggendo da sotto i cavalli, mettendo gli altri in fuga tra lo sbigottimento dei nostri.»
(Gaio Giulio Cesare, De bello Gallico)


Il museo di Colonia, uno dei più ampi della Germania, dispone di una splendida collezione di antichi reperti romani rinvenuti in loco. Cologne, cioè Colonia, venne fondata nel 37 o 19 a.c., quando i Romani trasferirono gli Ubiani dalla riva orientale del Reno in Cisgiordania, di molto svuotata dalle guerre di Giulio Cesare che aveva sterminato gli Eburoni.
 
IL DIO FIUME RENO
La nuova cittadina era chiamata Ara Ubiorum, "altare degli Ubiani", indicando che lì si trovava un santuario dove si praticava il culto dell'imperatore.

Svetonio narra che tra gli oggetti presi in questo tempio c'era la spada di Cesare, un cimelio del tutto leggendario, tanto che dette luogo alla leggenda di re Artù e la sua spada magica.

Inizialmente vi erano solo due regioni stanziate nel sito, e una delle due era la IX°.

Dopo la battaglia della Foresta di Teutoburgo nel settembre del 9 a.c., la I Germanica e la XX Valeria Victrix erano le legioni stanziate nell' Ara Ubiorum, ma dopo il 28, presso la città stanziò un accampamento romano, con un importante contingente navale a sud, ora conosciuto come Köln-Alteburg.

L' Ara Ubiorum divenne la capitale della Germania Inferiore e nel 50 venne promossa al rango di colonia, col nome di Colonia Claudia Ara Agrippinensium, che significava "Colonia di Claudia vicino all' Altare degli Agrippiniani" - nome con cui vennero ribattezzati gli Ubiano, in onore di Agrippina Minore, la moglie dell'imperatore Claudio, nata appunto a Colonia tra il 15 e il 16 d.c..





GIULIA CLAUDIA AGRIPPINA

Giulia Agrippina Augusta (in latino: Iulia Agrippina Augusta; Ara Ubiorum, 6 novembre 15 – Baia, marzo 59), nata semplicemente Giulia Agrippina e meglio conosciuta come Agrippina minore (Agrippina minor, per distinguerla dalla madre Agrippina maggiore), è stata una aristocratica e un'imperatrice romana, appartenente alla dinastia giulio-claudia.

DEDICA ALLE BOOUDUNNEHIC MATRES
Sposò l'imperatore romano Claudio, suo zio, il quale adottò il figlio da lei avuto dal precedente matrimonio con Gneo Domizio Enobarbo: Nerone, che sarebbe poi diventato a sua volta imperatore. Insignita del titolo di Augusta dell'Impero romano nel 50, Agrippina ebbe il ruolo di reggente durante l'assenza del marito Claudio e fu la prima donna a governare di fatto l'impero durante i primi anni di regno del figlio.

Ella era figlia di Agrippina maggiore e di Germanico Giulio Cesare, generale molto amato dal popolo romano. La madre era figlia di Marco Vipsanio Agrippa (amico fraterno di Augusto) e di Giulia maggiore (figlia di secondo letto di Augusto). Il padre era figlio di Druso maggiore (fratello di Tiberio e figlio di Livia, moglie di Augusto) e di Antonia Minore (figlia di Marco Antonio e Ottavia, sorella di Augusto). Suo padre Germanico era stato, inoltre, adottato da Tiberio su richiesta di Augusto, ma morì forse avvelenato.

Giulia Claudia Agrippina era nata nell'accampamento di Germanico, dalla coraggiosa madre che fu sempre a fianco del marito. Fu una delle più significative figure femminili dell'Impero romano, un'autentica imperatrice. Fu lei la fondatrice di Colonia, sorta su un pacifico patto di convivenza tra i veterani romani delle campagne germaniche ed il popolo germanico degli Ubii, divenuti poi alleati dei Romani dai tempi di Giulio Cesare. Gli abitanti di questa nuova città si chiamarono Agrippinensi. Nel 1993, la Città di Colonia ha eretto una statua ad Agrippina sulla facciata del proprio Municipio.

TORRE ROMANA

COLONIA

Il lungo nome di "Colonia Claudia Ara Agrippinensium" venne abbreviato nell'acrostico CCAA. Le Colonie avevano particolare considerazione, perchè erano considerate una piccola copia di Roma, quindi con un Campidoglio, un Foro, un cardo e un decumano e un tempio dedicato alla Triade Capitolina.

Oggi la chiesa di St. Maria in Kapital giace su una collina artificiale su cui all'epoca venne costruito il tempio romano. I Romani erano molto pratici e raccolsero tutte le rovine degli edifici abbattuti, in pratica capanne e poco altro, ammucchiandoli in una collina che venne coperta di sassi e di terra. In questa parte più alta costruirono così il tempio romano del Capitolium.

Contemporaneamente venne costruito il Praetorium, cioè il quartier generale dell'esercito del basso Reno. La costruzione divenne il palazzo del governatore quando la zona militare divenne una vera e propria provincia (83 - 84). Il Praetorium occupava una superficie di 3 ettari e ½ e dovette essere uno dei più grandi edifici della Germania Inferiore.

Le sue mura orientali erano chiuse dal Reno e si potevano scorgere le tribù germaniche, ostili a Roma, sulla riva opposta. Il bel palazzo del governatore aveva splendidi mosaici che decoravano i pavimenti, e qui egli accoglieva ambasciate e visitatori.

MURA ROMANE IN UN PARCHEGGIO (SIG..)
Fu in queste sale, odiernamente ancora accessibili, che Vitellio venne eletto imperatore.
Anche se la città ebbe alcune calamità (ad esempio, un incendio nel 58 e un attacco militare durante la rivolta batava nel 70), continuò a crescere e prosperare. Questa vantava anche diversi santuari dedicati a Marte, Dio della fertilità e della guerra, e al Dio dei legionari Mitra coi suoi templi sotterranei.

Vicino al porto fluviale doveva esserci un santuario del Dio fluviale Rhenus (Reno) e Portunus, il Dio del commercio fluviale e porti che fu esportato anche a Roma. Come capoluogo di una provincia, Colonia ha avuto di diritto anche un tempio dedicato al culto dell'imperatore.

Sappiamo anche dell'esistenza di un teatro a Colonia, l'unico vero e proprio teatro in Germania Inferiore. In altre città, gli attori dovevano usare gli anfiteatri, tuttavia non è stato ancora scoperto.

IL PRAETORIUM
I soldati legionari nelle grandi fortezze di frontiera e gli ausiliari nei piccoli fortini necessitavano di grandi quantità di cibo, in particolare di grano, che veniva coltivato nelle fertili pianure belgiche. La strada principale da Bavay e Tongeren al centro commerciale di Colonia (a volte chiamata Via Belgica) era quindi di vitale importanza per la sopravvivenza dell'enorme esercito del Basso Reno. Pertanto era vigilata e mantenuta con cura.

Ma Colonia non è stata solo un centro di prodotti agricoli, ma pure di produzione manifatturiera. Molte piccoli fiale, che dovevano un tempo contenere profumi, attestano che la città già all'epoca produceva Acqua di Colonia.

La cinta muraria di Colonia, edificata nel I decennio del I secolo, raggiungeva 2 m e ½ di larghezza e 8 m di altezza, con 9 porte e 21 torri. La sua lunghezza totale era di circa 3.900 m e circondava una città con superficie di quasi un Kmq (96,8).
Il ponte sul Reno era, sulla sponda opposta del fiume, era difesa da un fortino chiamato Divitia. Anche in tempo di pace, queste fortificazioni devono aver impressionato ogni visitatore.  Colonia è stata, nel III secolo, l'unica città in Germania Inferiore che ha continuato a crescere.

TORRE ROMANA
Le incursioni dei Franchi avevano causato lo spopolamento delle campagne, e pure delle città, ma Colonia continuò a prosperare con una popolazione di circa 25.000 abitanti all'interno delle mura e circa lo stesso numero di persone nelle sue immediate vicinanze.

Nel 257 venne fondata una zecca nella città per battere autonomamente moneta, e tra il 260 e il 274, divenne una delle residenze degli imperatori dell'Impero gallico indipendente.

Dopo che questo impero era stato reintegrato nell'impero romano, due ufficiali, Bonoso e Proculo, cercarono di creare un nuovo impero indipendente di istanza a Colonia (280-281). Ma la loro rivolta fu rapidamente soppresso da Probo imperatore.

A Colonia, una città veramente cosmopolita, vi erano molti culti stranieri, come Mitra, Giove Dolicheno, Iside e Serapide, con una sostanziale minoranza ebraica,  menzionata in un decreto dell'imperatore Costantino I il Grande (306-337) ed è attestata anche dagli archeologi.

IL MUSEO
Il cristianesimo deve essere arrivato alla fine del terzo o all'inizio del IV sec. e il primo vescovo era un uomo di nome Materno di Treviri.

Poi un contingente di guerrieri germanici occuparono e saccheggiato Colonia nel 355/356.
La città non si seppe riprendere, pur restando un importante centro della civiltà tardo-romana.
Anche dopo il crollo del potere romano in Renania all'inizio del V secolo, i comandanti romani considerarono la città come loro, e solo nel 456 che il generale Egidio fu costretto ad ammettere che la città era diventata franca.

L'anno scorso il museo ha tenuto una mostra speciale in onore dei 2.000 anni dalla nascita di Agrippina Minore, e ha pubblicato un libro sulla sua eredità a Colonia, la mostra si è chiamata: "Agrippina. Imperatrice di Colonia".

Di fronte al Municipio di Colonia si erge la statua di Agrippina dedicatale dalla città di Colonia.



TESORO DI CALVATONE (Lombardia)

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LA VITTORIA DI CAVATONE

A CALVATONE (CREMONA) TORNA ALLA LUCE UN TESORO DI MONETE ROMANE

CREMONA, 8 ottobre 20018

Gli archeologi dell’Università degli Studi di Milano, guidati dalla professoressa Maria Teresa Grassi del Dipartimento di Beni culturali e ambientali, hanno scoperto, sul sito romano di Bedriacum – nei pressi di Calvatone (Cremona) – un ripostiglio in cui erano nascoste 140 monete databili all’età di Gallieno, imperatore tra il 253 e il 268 d.c. La scoperta, nell’ambito della campagna di scavi 2018, ha fornito anche importanti informazioni sulla storia e il declino dell’antico insediamento.


TESORO NASCOSTO   
Le circa 140 monete che compongono il “tesoro” erano state nascoste sul fondo di un vaso in ceramica, e mai più recuperate dal suo proprietario, in un momento di gravissima crisi, politica e militare, dell’Impero Romano. Il tesoro, dall’alto valore storico e archeologico, consiste, in particolare, in un gruzzolo di “antoniniani”, moneta introdotta dall’imperatore Caracalla, all’inizio del III sec. d.c., del valore di un doppio denario, ufficialmente moneta d’argento, ma spesso soltanto rivestita del metallo prezioso.

Le monete sono attualmente in corso di restauro, a cura dell’Università degli Studi di Milano, presso un laboratorio specializzato, secondo le indicazioni della Soprintendenza Archeologia Belle Arti e Paesaggio per le province di Cremona, Lodi e Mantova.


TESTIMONIANZA DELLA CRISI 
Non meno significative le informazioni che gli archeologi della Statale sono riusciti a recuperare riguardo al luogo del ritrovamento. Le monete, infatti, sono state rinvenute in un quartiere residenziale di Bedriacum, mai indagato prima d’ora, in cui sono state scoperte le tracce di alcuni edifici in forte stato di degrado.

Secondo gli archeologi, la posizione in cui è stato trovato il ripostiglio, al cui interno si trovava il “tesoro”, indica chiaramente che, all’epoca del suo seppellimento, alla metà del III sec. d.c., questo settore dell’antico vicus romano era già caduto in rovina, era stato abbandonato e aveva già subito consistenti spoliazioni. Un dato storico assolutamente nuovo, sottolineano gli archeologi, dal momento che finora si era ipotizzato che la crisi dell’abitato romano e il suo abbandono fossero avvenuti soltanto nel IV-V sec. d.c.

Altri ripostigli furono trovati a Calvatone, nel 1911 e nel 1942, databili tra II e I sec. a.c., ma andarono quasi completamente dispersi. Non si sa con precisione da dove provengano né da quante monete erano composti. Sono quindi muti per la storia di Bedriacum, al contrario del ripostiglio Calvatone 2018, che ne ha svelato un aspetto finora totalmente sconosciuto.

La campagna di scavi 2018 della Statale è realizzata grazie ai finanziamenti, oltre che della stessa Università, del Comune di Calvatone e di Regione Lombardia. Sul sito archeologico di Bedriacum, conosciuto per le battaglie combattute nel 69 d.c. per la conquista del potere imperiale in seguito alla morte di Nerone, l’Università degli Studi di Milano opera nel sito archeologico dal 1986.

LA VITTORIA DI CAVATONE
LA VITTORIA DI CAVATONE

1836-2016: dalla clamorosa scoperta archeologica alla clamorosa riscoperta al Museo dell'Ermitage di San Pietroburgo.

Nel 1836 nel campo della famiglia Alovisi di Piadena, località Costa di Sant'Andrea, nei pressi di Calvatone, emerge una testa femminile in bronzo dorato. Attraverso gli scavi vengono poi alla luce altri reperti significativi, tra cui monete, bronzetti, vetri, ceramiche, frammenti di statue di marmo e di bronzo, presto dispersi tra collezioni museali e private.

Un giorno del 1986, la Soprintendenza Archeologia della Lombardia, nel cosiddetto Campo del Generale, scoprirà un quartiere a carattere artigianale, con abitazioni e botteghe, traversato da una larga strada e, nel 1991, una domus oltre il Dugale Delmona e nel 1998, più a ovest, una necropoli tardo-romana, con 14 tombe ad inumazione, prive di corredo.

Per interessamento del Luigi Alovisi, avviene il recupero del corpo, vestito di un leggero chitone coperto nella parte superiore da una pelle di pantera, ma privo del braccio e della gamba sinistra, che poggia i piedi su un globo dove è inciso: VICTORIAE AVG. / ANTONINI ET VERI / M. SATRIUS MAIOR quindi una Vittoria dedicata agli imperatori Marco Aurelio e Lucio Vero (161-169 d.c.)
LEONE FITTILE ACCOVACCIATO - BEDRIACUM
Nel 1841 la statua viene ceduta al regno di Prussia per essere esposta all'Antikenmuseum di Berlino, dove viene restaurata e integrata nelle parti mancanti (braccio sinistro che regge un ramo di palma e piede e gamba sinistra). La statua romana viene esposta sulla scalinata d'ingresso del museo, dove resta visibile al pubblico fino alla II guerra mondiale.

In occasione della "Mostra Augustea della Romanità" del 1937, nelle celebrazioni del bimillenario della nascita di Augusto, Berlino invia a Roma una copia in gesso della "Vittoria di Calvatone", oggi esposta al Museo della Civiltà Romana all'EUR. Nel 1937 viene realizzata una seconda copia della statua, in bronzo, acquistata da Cremona in occasione delle celebrazioni per il bicentenario stradivariano, oggi nel museo archeologico della città. Alla fine della II guerra mondiale, all'ingresso dell'Armata Rossa a Berlino, la "Vittoria di Calvatone" scompare.

Calvatone stessa si è voluta dotare di due copie della celebre statua, l'una esposta nel Palazzo del Municipio e l'altra collocata sul Monumento ai Caduti. Ezio Alovisi, pronipote di Luigi Alovisi da Piadena primo proprietario della statua, mette a disposizione la documentazione di famiglia per una mostra presso i Musei Civici di Cremona dal titolo "1937. La Vittoria Alata e le Celebrazioni Stradivariane", che prevede l'esposizione al pubblico della copia cremonese della "Vittoria di Calvatone".

I tre frammenti bronzei della statua romana vengono trasferiti al Museo Civico di Brescia, per un'esposizione pubblica all'Accademia delle Belle Arti di Brera a Milano. Nel 1837, la statua viene analizzata e ricomposta dallo scultore Bartolomeo Conterio. Restituita al Museo Civico di Brescia, la "Vittoria di Calvatone" rimane in deposito fino al 1841, ceduta da Luigi Alovisi al Re di Prussia Federico Guglielmo IV per essere esposta all'Antikenmuseum di Berlino, per una somma di 12.000 lire austriache e il rilascio di un titolo nobiliare.

Tre disegni ottocenteschi ritraggono la "Vittoria di Calvatone": il disegno a matita inviato all'Istituto di Corrispondenza Archeologica poco dopo la scoperta (1838), l'acquarello di Gerolamo Ioli (1842) e il disegno a china di Carlo Alghisi (1879). Tutti i disegni privilegiano il lato destro, più completo, e mostrano una Vittoria priva di ali.


Presso l'officina dei gessi dei Musei di Berlino tra il 1904 e il 1937 vengono prodotte otto copie in gesso della statua, tra cui la copia esposta all'Altes Museum di Berlino, la copia esposta al Museo della Civiltà Romana dell'EUR e la copia russa, ordinata ai Musei di Berlino nel 1906 e acquistata per 200 marchi.

Durante la II guerra mondiale, onde preservarla dai bombardamenti, la statua viene ricoverata nell'edificio della "Neue Reichsmunze" ("nuova zecca"). Da qui se ne perdono le tracce per i successivi settant'anni.

Nel 2016, sul sito del Museo dell'Ermitage di San Pietroburgo si riferisce che la "Vittoria di Calvatone" si trova nei depositi del museo dal 1946, giunta insieme ad altre opere da Berlino dall'Armata Rossa.

Danneggiata dai bombardamenti inglesi la "Vittoria di Calvatone" viene trasferita in Unione Sovietica, confusa tra 40.000 casse di legno e priva di numero di inventario, nel 1946, nei depositi dell'Ermitage di San Pietroburgo, classificata come scultura francese del XVII secolo e dimenticata fino alla nuova documentazione.

La scultura in bronzo ha subito danni e le sono state staccate le ali in ferro dorato di cui era stata dotata nell'Ottocento dai restauratori dei Musei di Berlino. A centottanta anni dalla sua scoperta (1836-2016) e dopo settantuno anni di oblio (1945-2016) la "Vittoria di Calvatone" riconquista la sua identità e, una volta completati gli interventi dei laboratori di restauro del Museo dell'Ermitage, potrà essere nuovamente restituita al mondo.

(da: Lilia Palmieri, 20/11/2016)




IL TERZO MOSAICO

«Anche dopo 28 anni di scavi c’è sempre qualche sorpresa. Il nostro applauso non può che andare a Bedriacum». Maria Teresa Grassi conduce le indagini in Calvatone dal 2005, ed ha dato il benvenuto al terzo mosaico ritrovato nel vicus romano pochi giorni fa, uno splendido mosaico policromo.

Un reperto di straordinaria importanza risalente al III secolo d.c., a differenza dei due rinvenuti in passato: il Mosaico del Labirinto e il Mosaico del Kantharos, entrambi di epoca precedente.
La nuova scoperta apre ulteriori scenari storici e la certezza che l’area di proprietà della Provincia di Cremona - che rappresenta solo una porzione dell’intera Bedriacum - può ancora riservare importanti sorprese.

PAVIMENTO MOSAICALE A LAVIRINTO - BEDRIACUM
Il mosaico del labirinto, del I sec. d.c. proveniente da Calvatone, apparteneva a una domus romana
riportata in luce nel 1959, la cosiddetta Domus del Labirinto, così denominata per la presenza di un emblema a mosaico con la raffigurazione di un labirinto, conservato nel museo archeologico

Platina di Piadena, che ornava il pavimento di una delle sale da pranzo della casa. I nuovi scavi, concentrati in un primo momento intorno alle strutture già note della domus, hanno assunto col tempo carattere estensivo, raggiungendo un'estensione di 768 mq, per esplorare le aree circostanti e comprendere lo sviluppo urbanistico di questa zona residenziale.

CULTO DI CACA

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DEA ESTIA O CACA - DEA DEL FUOCO
Caca fu una Dea romana, in realtà prima era un'umana ed era la sorella di Caco, ma venne fatta Dea perchè scoprì ad Ercole il furto dei suoi tori fattogli dal fratello Caco. La Dea aveva una cappelletta in cui le Vestali mantenevano un fuoco perpetuo come a Vesta. Insomma Caca è un'antichissima divinità romana del fuoco, della quale sappiamo pochissimo.

"Lattanzio (Institutiones, I, 20, 36) ce ne dà una notizia breve e quasi certamente errata. Servio (Ad Aen., VIII, 190) precisa che aveva un sacello in cui le si faceva sacrificio con fuoco perenne, come a Vesta (secondo una versione) o per mezzo delle vergini sacerdotesse di Vesta (secondo un'altra versione)". 

Tra i moderni prevale l'opinione che Caca fosse un'antichissima divinità del fuoco, più tardi oscurata e sostituita da Vesta; e che facesse coppia con Caco, da interpretare anch'egli come divinità del fuoco.

"Anche i dati di Servio sulla Dea sono pochi e insicuri, e piuttosto illatori. Più numerosi i dati intorno a Caco; ma di incerta interpretazione. C'è un racconto di Diodoro (IV, 21, 2) e un altro nell'annalista Gneo Gellio (fr. 7 Peter), oscurissimi e perciò spiegati in maniere diverse. I due racconti hanno in comune di presentare Caco come personaggio storico, e di metterlo con Ercole in relazioni umane."

Virgilio (Eneide, VIII, 190 seg.), Ovidio (Fasti, I, 543 segg.) e Properzio (V, 9 segg.) invece presentano Caco, un figlio mostruoso di Vulcano e di Medusa, abitante in una grotta dell'Aventino donde muove a far strage con le fiamme che vomita dalla bocca o da tre bocche. Caco era in effetti un'antica divinità del fuoco originaria del Lazio, che, visti i molti vulcani della zona, emetteva fuoco dalle fauci.

Il suo aspetto era scimmiesco, dato che il suo corpo era coperto di un manto peloso e, secondo la descrizione tramandataci da Properzio, il demone possedeva tre teste, il che ci rimanda alla Dea Madre triforme, ad Ecate col suo Cerbero. Insomma Caco è figlio del lato mortifero della Dea del Fuoco.

"Costui avrebbe rapito a Ercole i bovi di Gerione, e, dopo lotta furibonda, ne sarebbe stato ucciso; onde l'origine del culto erculeo sull'Ara maxima nel Foro Boario.
Da ultimo, gli storici Livio (I, 7, 3 segg.) e Dionisio (I, 39) raccontano anch'essi il furto e la morte, ma fanno di Caco un ladrone o, ancor meglio, un selvaggio primitivo, una specie di Polifemo, pastore e predatore a un tempo. Altri, valendosi un po' superficialmente dell'etimologia (Cacus da κακός "cattivo"), ne fanno uno schiavo di Evandro (cioè "l'uomo buono")." 

"Servio (Ad Aen., VIII, 203) ha proposto una congettura, piuttosto accreditata, secondo cui la lotta si rifarebbe a un mito antichissimo, affine al mito indiano di Vrtra e d'Indra, e si sarebbe svolta fra Caco e Recarano; solo più tardi Ercole avrebbe preso il posto di quest'ultimo, e il significato naturalistico del duello tra luce e tenebre sarebbe stato dimenticato."



INDRA E VRTRA

Indra, il cui nome Indra vuol dire "Signore": è la divinità vedica che detiene il potere temporale ed è una divinità guerriera. Indra è amante delle donne, è nobilmente iracondo ed è solito ubriacarsi prima delle battaglie. Dopo le sue bevute spesso diventa violento e distrugge qualsiasi cosa; nonostante ciò è considerato una divinità saggia e detentrice di connotati positivi: valore, forza e coraggio.

Vrtra è il serpente che esiste prima del tempo, e avvolgeva in una unica massa indistinta il cielo e la terra; la luce, il sole e l'aurora non esistevano: solo tenebre e caos. Le acque, elemento primigenio, non scorrevano ma rimanevano imprigionate nella massa indistinta di spazio e cielo rappresentata dalle montagne che si muovevano per ogni dove. A guardia del caos e dell'indistinto si poneva il serpente Vṛtra, adagiato sulle montagne che imprigionavano le acque.

Giunse quindi il signore della guerra Indra che con il fulmine (vajra) colpì a morte Vṛtra, liberando le acque e dando via alla Creazione. Le due divinità simboleggiano la lotta tra bene e male, dove il bene è il frazionamento e l'ordine e il male è l'unione caotica e indistinta.

In realtà il caos è l'energia primitiva che viene giudicata caos in quanto incomprensibile, e Vrtra in qualità di serpente rappresentava la Grande Madre Terra il cui culto venne scalzato dalle invasioni indoeuropee.

ERCOLE E CACO

CACO

Enorme e orribile pastore con tre teste, figlio di Efesto Vulcano e di Medusa. Era il terrore della foresta dell'Aventino e sputava fiamme da ciascuna delle sue tre bocche. Crani e membra umane erano inchiodati alle travi di sostegno della grotta, e il suolo biancheggiava delle ossa delle sue vittime.

Quando Eracle giunse sulle rive dell'Albula, in seguito chiamato Tevere, fu accolto da re Evandro, un esule dall'Arcadia, che regnava a Palanteo, la futura Roma (allora semplice villaggio di pastori sul Palatino). Alla sera attraversò il fiume a nuoto, spingendosi dinanzi a sé la mandria, e si sdraiò sulla riva erbosa per riposare. 

Mentre Eracle dormiva, Caco rubò due dei più bei tori della mandria e quattro manzi, che trascinò nella sua grotta tirandoli per la coda, costringendoli così a camminare all'indietro per non lasciare tracce.

Alle prime luci dell'alba, Eracle si destò e subito s'accorse che alcuni capi di bestiame erano spariti. Dopo averli cercati invano, fu costretto a riprendere il cammino col resto della mandria, ma ecco che uno dei manzi rubati muggì lamentosamente. 

Eracle, seguendo quel muggito, giunse alla grotta di Caco, ma la trovò sbarrata da un masso che dieci coppie di buoi avrebbero a mala pena smosso. Eracle lo spostò come se si trattasse di un ciottolo e, senza arretrare dinanzi al fumo e alle fiamme che Caco stava ora vomitando, lo agguantò e gli maciullò il viso.

Con l'aiuto di re Evandro, Eracle poi innalzò un altare a Giove Inventore, cui sacrificò uno dei tori ricuperati, e in seguito organizzò anche il proprio culto. Il re Evandro lo ringraziò per aver liberato il paese da un devastare come Caco e gli promise che il Cielo l'avrebbe ricompensato accordandogli onori divini.

I Romani tuttavia raccontano questa storia in modo da rivendicarne la gloria: secondo loro non fu Eracle che uccise Caco e offrì sacrifici a Zeus, ma un mandriano gigantesco chiamato Garano o Recarano, alleato di Eracle.

Fin qui il mito, ma Caco è rozzo e primitivo come la natura col suo aspetto selvaggio, egli è lo stravolgimento al femminile della Potnia Theron, la Signora delle Belve, l'antica Dea della Natura Naturata, cioè visibile. In alcune zone miti la natura primitiva proseguì eccezionalmente il suo culto, come il culto della Fortuna Primigenia a Palestrina, o nella polimammelluta Diana di Efeso.

MEDUSA

RECARANO 

Chiamato anche Carano o Garano, è un gigantesco mandriano alleato di Eracle.
Recarano, mentre attraversava il territorio della futura Roma con una mandria di buoi, il brigante Caco, uno schiavo del re Evandro, gli rubò due dei più bei tori della mandria e quattro manzi, che trascinò poi nella sua grotta.

Recarano, disperando di trovare i buoi, abbandonò le ricerche, ma Evandro che conosceva bene la natura ladresca del suo schiavo, lo obbligò a restituire gli animali rubati. Recarano, contento, ringraziò il re Evandro e innalzò ai piedi dell'Aventino un altare a Zeus, cui sacrificò uno dei tori ricuperati: sarebbe l'Ara Maxima, generalmente attribuita a Eracle.

ERACLE

CACA

In questo mito, anzi in questo coacervo di miti c'è molta confusione. Caco è figlio della Dea Serpente (Medusa) e del Dio del fuoco Efesto, cioè Vulcano. Ma in realtà Caco è il nome Caca trasformato, in quanto la divinità femminile venne trasformata in maschile e demonizzata. Tutte le Dee Serpente sono Dee della Terra, cioè della Natura.

Dunque Caca fu una Dea Natura creativa e distruttiva, perchè il fuoco è creatore e distruttore. Lei è il tutto cosmico, eterno e immortale ma il suo figlio-paredro Caco, che è il tempo, ne fissa le leggi attraverso il deperimento e la morte.

Il fuoco che non si deve estinguere è il fuoco della creazione, fuoco generatore e rigeneratore, ma la creazione si mantiene rinnovandosi attraverso i cicli di vita e morte, per cui il fuoco della creazione è vita e morte insieme. Caco è la morte, è colui che sottrae la vita e quindi deve essere abbattuto. Ma senza la morte non si ricrea la vita.

Pertanto Caca è la Dea del fuoco primordiale che tutto crea ma tutto distrugge e in definitiva è la Trasformatrice, da vita a morte e da morte a vita. Pertanto Caca è la Dea del passaggio.



FESTA DI CACA

Come a tutte le Antichissime Grandi Madri si offrivano nei festeggiamenti le primizie vegetali e il vino, in seguito anche gli animali. Si organizzavano processioni in suo onore, dove si portava in giro la statua ornata di ghirlande fiorite e appassite, a simboleggiare l'alternanza delle stagioni e quindi dei cicli vita-morte.

GENS PETREIA

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La Gens Petreia fu una gens plebea, originaria della città di Atina (Prov. di Frosinone - Lazio) I membri di questa gens sono menzionati per la prima volta verso la fine del II secolo a.c., con la fama di ottimi combattenti. Si pensa che Petreius sia un cognome patronimico, derivato dal praenomen osco Petrus o Petro.

Dal momento che il primo dei Petrei menzionati proveniva da Atina, nel Sannio, sembra probabile che la famiglia fosse di origine sannita. L'unico praenomen usato dai Petreii furono Gnaeus e Marcus. Nelle iscrizioni si trovano: Marcus, Gaio, Lucio e Quinto, mentre altri nomi sono poco usati.



I MEMBRI RICORDATI

- Gneo Petreio -
GNAEUS PETREIUS
Le uniche notizie sulla sua vita ci sono date da Plinio il Vecchio nel XXII libro della Naturalis Historia. Questi narra che Petreio ricevette l'onorificenza della corona di gramigna (o corona d'erba in latino: corona graminea), un'alta onorificenza della Repubblica e dell'Impero, il massimo simbolo di valore militare e spettava al comandante che avesse salvato un esercito assediato o a colui che avesse, con il proprio intervento, salvato un esercito dalla sicura distruzione). 
Venne conferita a Gneo Petreio per aver compiuto un atto di eroismo durante la Guerra contro Cimbri e Teutoni. Durante una spedizione contro i Cimbri nelle foreste svizzere fece presente al comandante della sua legione che si stavano dirigendo verso un'imboscata dei nemici, ma il comandante non gli diede ascolto. Petreio decise allora di ucciderlo e di prendere il comando della legione, riuscendo appena in tempo a farla schierare e a tenerla pronta per l'attacco dei Cimbri che arrivò poco dopo. Grazie alla sua prontezza e al suo coraggio la legione sconfisse così i nemici.  VEDI

- Marcus Petreius - generale romano appartenente alla Gens Petreia, partigiano di Pompeo Magno e nemico di Cesare. Dopo la sconfitta di Tapso ed il duello con il re Giuba I, Marcus fuggì da Zama, sbarcò in Liguria ad Alba Docilia (Albisola) e si rifugiò sugli Appennini accolto da una tribù di Liguri.

- Marcus Petreio
Fu un centurione romano della fazione di Giulio Cesare. Apparteneva all'VIII legione di Gaio Giulio Cesare al tempo della guerra gallica. Dimostrò sempre un grandissimo valore in battaglia, combattendo sempre allo stremo delle sue forze per ottenere la vittoria per Cesare; e proprio la sua audacia lo portò alla morte gloriosa.
Durante l'assalto delle truppe cesariane alla rocca di Gergovia, la foga dell'ottava legione giunse fino alle mura: lì Petreio e la sua centuria riuscirono ad entrare ma ben presto si ritrovarono circondati. Allora Petreio in un ultimo gesto di altruismo verso i suoi, decise di rimandarli indietro e di trattenere i Galli il più possibile sul posto. Dopo aver ucciso una decina di Galli, stremato dai dardi che piovevano dalle mura, morì eroicamente riuscendo però a salvare la vita ai suoi.

- Marco Petreio -
(110 – 46 a.c..) , figlio di Gneo Petreio, fu il primo della sua famiglia a diventare senatore. Iniziò la sua carriera militare circa nel 90 a.c. diventando prima tribuno militare, poi prefetto. Nel 62 a.c. divenne legato del proconsole Gaio Antonio Ibrida, governatore della Macedonia (62/61 a.c.) e come tale guidò l'esercito romano sconfiggendo  Lucio Sergio Catilina presso Pistoia, mentre lo stesso Ibrida rimase lontano dalla battaglia. 
Non concedendo tempo ai congiurati costretti ad una ritirata strategica, Petreio, aiutato da Publio Sestio, riuscì a costringerli in un passaggio angusto tra due montagne che conduceva ad una rupe. Lì i congiurati, tra cui Catilina, si ritrovarono chiusi in trappola ma comunque resistettero all'impeto dei legionari. Allora Petreio raggiunse le prime file assieme ad una cohors praetoria (la coorte che fungeva da protezione del condottiero) determinando le sorti della battaglia che finì nel giro di poche ore. La vittoria di Petreio fu schiacciante  e le perdite romane di appena un centinaio di uomini, mentre per i congiurati non ci furono superstiti, compresi Catilina e Manlio, il braccio destro del cospiratore. 
CATILINA
Dopo questa vittoria, Petreio si alleò con Catone, contro il primo triumvirato nel 59 a.c. Nel 55 a.c. si ritrovò come amministratore in Spagna insieme a Lucio Afranio, mentre il governatore ufficiale, Pompeo, rimase a Roma. Nel 49 a.c. scoppiò la guerra civile; Cesare, dopo aver preso il controllo di Roma si diresse verso la Spagna e dopo una serie di piccoli scontri circondarono gli uomini di Petreio e di Afranio sche si arresero presso Lerida. Petreio chiese di essere ucciso per la vergogna della sconfitta, ma Cesare li risparmiò. 
Ma la clemenza di Cesare non fu ricompensata e i due legati si recarono in Grecia per unirsi alle forze pompeiane ma dopo la battaglia di Farsalo del 48 a.c., Petreio e il suo amico e alleato Catone si rifugiarono nel Peloponneso e poi in Nord Africa, dove riorganizzarono la resistenza. Petreio e Tito Labieno riuscirono ebbero alcune vittorie sull'esercito di Cesare. 
Dopo la battaglia di Tapso, dove Gaio Giulio Cesare sconfisse l'esercito pompeiano sotto Metello Scipione, Petreio fuggì insieme al re numida Giuba I e nei pressi di Zama, i due decisero di cercare la morte in un duello. Nello scontro concordato Petreio uccise il re numida con relativa facilità, e poi si suicidò con l'aiuto di uno schiavo. VEDI

- Marco Petreio -
M. f., Figlio di Marcus Petreius, il legato di Pompeo, viene riferito da Orosio (storico cristiano) per essere stato catturato dopo la battaglia di Thapsus e messo a morte per ordine di Cesare; tuttavia, Orosio attribuisce erroneamente un destino simile alla famiglia di Faustus Cornelio Silla, figlio di Silla, quindi questo racconto del destino di Petreius è altamente sospetto.



I PETREII NELLE EPIGRAFI

- Petreia -
sepolta a Milevum in Numidia (di venticinque anni)

- Petreia
C. f. Celerina, sorella di Gaius Petreius Rufinus, insieme al fratello dedicò un monumento alla loro madre, Floria Rufina, a Terventum inel Sannio.

- Petreia -
M. f. Clara, Moglie di Marco Asinio Triarius, sepolto a Nertobriga Concordia Julia nella Hispania Baetica.
CESARE

- Petreia -
M. l. Prota, una liberta sepolta a Roma.

- Petreia -
C. f. Faustina, sepolta a Sicca Veneria in Africa Proconsularis, di trentanove anni.

Petreia - 
P. f. Januaria, sepolta a Mustis, all'età di settantacinque anni.

Petreia Extricata - 
 sepolta a Castellum Elefantum in Numidia, ottantenne. 

- Petreia Felicitas
 sepolta a Cartagine in Africa Proconsularis, di trentotto anni, dieci mesi e dodici giorni. 

- Petreia Hospitis
Sepolta a Castellum Tidditanorum in Numidia (di venticinque anni)

- Petreia Bonifatia
vissuta nell' Africa Proconsularis, poi sepolta nell'attuale sito di Borj El Amri (Tunisia) a sessantacinque anni. 

- Petreia Iacchi
f. Helis Maxima, vissuta in Siria, di venticinque anni, sepolta vicino a Zahlé (Libano). 

- Petreia Januaria
sepolta a Castellum Elefantum, all'età di novant'anni.
 
- Petreia Kasta
sepolta a Castellum Elefantum, all'età di novantacinque anni.
- Petreia Laeta
sepolta a Castellum Elefantum, all'età di novantacinque anni.
- Petreia Marcella
ha dedicato un monumento a suo marito, Martialis Cobelcus, a Emerita in Lusitania. 

- Petreia Marisa
sepolta a Castellum Elefantum, all'età di centocinque anni.
- Petreia Paula
sepolta a Castellum Tidditanorum, all'età di centocinque anni.- Petreia Turpa - una liberta sepolta ad Aesernia nel Sannio. 
 
- Petreia Rustica
 sepolta a Castellum Elefantum, all'età di novantacinque anni.

- Quinto Petrei
in una iscrizione del Nemus Dianae nel Lazio. 

- Marcus Petreius
S. f. Callisto, sepolto a Roma, nel I secolo d.c., a quindici anni e trentacinque giorni. 

- Lucius Petreius
POMPEO
L. l. Felix, un liberto di nome in un'iscrizione da Brixia.
 
- Gaius Petreius Fortunatus
sepolto a Mustis in Africa Proconsularis, a settantun anni.
 
- Lucio Petreius Gentianus
sepolto a Roma con un monumento di suo fratello, Lucio Petreius Saturnino.
- Marcus Petreius
L. f. Mustulus, sepolto a Mustis, a quarantotto anni. 

- Lucius Petreius
L. f. Ottaviano, sepolto a Mustis, a ottantacinque anni. 

- Quinto Petereo Quieto
sepolto a Castellum Celtianum in Numidia, a cinquantacinque anni. 

- Gaius Petreius
C. f. Rufinus, insieme a sua sorella Petreia Celerina, dedicò un monumento alla loro madre, Floria Rufina a Terventum. 

- Lucio Petreius Saturnino
costruì un monumento a Roma per suo fratello, Lucio Petreius Gentianus. 

- Gaius Petreius Sodalis
sepolto a Castellum Elefantum, a settant'anni. 

- Quintus Petreius
Q. l. Stabilio, un liberto sepolto a Venusia in Samnium.
- Marcus Petreius Stazio
in un'iscrizione a Roma. 

- Quintus Petreius
Q. l. Strenuus, un liberto sepolto a Venusia, a vent'anni. 

- Lucius Petreius Victor - nominato in un'iscrizione vicina a Mataró, già parte dell'Hispania Tarraconensis. 

- Marcus Petreius Victor
 sepolto a Castellum Tidditanorum in Numidia, di quattordici anni.

HORREA LOLLIANA

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POSIZIONE DELL'HORREA LOLLIANA
Marco Lollio Palicano, ovvero Marcus Lollius Palicanus, era un membro della gens plebea Lollia, del Picentium. Fu osteggiato da Silla ma poi appartenne alla fazione di Pompeo Magno. Egli fece edificare nei pressi degli Horrea Galbana un nuovo edificio adibito a magazzini per le merci che approdavano in Ripa Marmor, la riva teverina dei marmorari.

Questi magazzini che da lui presero il nome, si chiamarono Horrea Lolliana e avevano una posizione privilegiata sul fiume essendo su un'altura di un'ansa del Tevere.

Essi erano dislocati attorno a due corti al cui interno si affacciavano i magazzini che venivano dati in affitto, mentre all’esterno presentavano due file di tabernae dove si vendevano le merci immagazzinate.

La gens Lollia sembra avesse un ramo plebeo e un ramo aristocratico, quest'ultimo proprio a Roma e possedevano magazzini alle spalle del Porticus Aemilia, mentre la gens Sulpicia era proprietaria degli Horrea Galbana e la gens Seia possedeva gli Horrea Seianus. 

Queste gentes, prima della costruzione del Porticus, in quest’area avevano i propri horti, e dopo che gli Aemilii costruirono magazzini, moli, approdi e scale lungo il Tevere, è ovvio che essi stessi costruissero degli edifici commerciali, vale a dire gli horrea, onde affittarli ai mercatores per depositare le merci in attesa di essere vendute nei fori.

Così la viabilità del fiume si fondò soprattutto sul funzionamento di questi grandi magazzini per il carico e scarico merci, vale a dire, da una parte il Porticus Aemilia e dall’altra gli Horrea Lolliana.


Alcuni studiosi però ritengono che la costruzione degli horrea, sia i Lolliana che di altri, si possa far risalire a Seius, edile nel 74 a.c.; comunque tutte e tre le famiglie all’inizio del I sec. d.c. si schierarono dalla parte di Ottaviano superando senza danno il periodo delle guerre civili.

Lucio Elio Seiano nel 14 d.c., al massimo del suo potere, divenne il prefetto del Pretorio e quando Tiberio si ritirò a Capri, divenne il padrone di Roma, ma la storia di questa famiglia finì male perchè Seiano finì giustiziato da Tiberio quando venne a sapere della sua congiura contro di lui.

La gens Lollia era effettivamente di origine picena, anche se ci fu un ramo che proveniva da Ferentun (Ferentino) ed erano originariamente una famiglia plebea; un Marco Lollio Palicano fu tribuno della plebe nel 70 a.c., e fu il tribuno che ottenne da Pompeo la restaurazione della carica che era stata sospesa da Silla.

GLI SCAVI
Questo evento venne poi celebrato nel 45 a.c. dal figlio (o forse nipote) Marco Lollio Palicano che, divenuto triumviro monetale, emise un denario in argento con impresso il proprio avo e i rostra da cui i tribuni potevano nuovamente difendere i diritti della plebe, e al diritto della moneta la libertà ritrovata.

In realtà  la gens Lollia non aveva mai avuto un ramo patrizio ma, essendo stata, durante la guerra civile sempre dalla parte di Cesare, e lo stesso triumviro monetale fosse passato da Pompeo a Cesare e poi a Ottaviano, venne dal Princeps ricompensato, nell’editto del 30 a.c., proclamando patrizia la gens Lollia. 

Marco Lollio Palicano, ottenne molti incarichi nelle provincie riuscendo ad accumulare un ragguardevole patrimonio che gli consentì di partecipare alle elezioni e divenire console nel 21 a.c. con Quinto Lepido, come testimonia un'epigrafia che si trova sul ponte dei Quattro Capi all’Isola Tiberina, ricordando il restauro successivo alla grande piena del 23 a.c. realizzato dai due consoli del 21. a.c.

CORCYRA - CORFU' (Grecia)

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PIEDISTALLO DEL TORO DI CORCIRA
"A Corcira vi era Marco Bibulo con centodieci navi. Ma quelli, non fidandosi delle proprie forze, non osarono uscire dal porto, sebbene Cesare avesse condotto di scorta in tutto solo dodici navi lunghe da guerra, fra cui quattro coperte; e Bibulo, a sua volta, dal momento che non aveva le navi in ordine per salpare e i rematori erano dispersi, non lo affrontò in tempo poiché Cesare fu visto vicino a terra prima che la notizia del suo arrivo si fosse sparsa in quei luoghi.

Bibulo infatti, che aveva saputo a Corcira dell'arrivo di Cesare, sperando ancora di poter incontrare qualcuna delle navi cariche di soldati, si imbatté in quelle scariche e, capitato su una squadriglia di una trentina di navi, sfogò su di loro la rabbia della propria trascuratezza e dello scacco subito: le incendiò tutte facendo morire tra le fiamme i marinai e i capitani, nella speranza di terrorizzare gli altri con l'enormità del castigo.

Fatto ciò, occupò con la flotta, in lungo e in largo, tutto il litorale dal porto di Sasone a quello di Curico, disponendo anche con particolare attenzione i posti di guardia; egli stesso, dormendo sulle navi nonostante il rigore invernale, senza risparmiarsi nessuna fatica o incombenza, o aspettare aiuto, per vedere se poteva bloccare Cesare."

(Cesare - DE BELLO GALLICO)

Corcyra, oggi Corfù, è il nome latino di un'isola posta al largo della costa nord-occidentale della Grecia, nel Mar Ionio, citata da Omero come il paese dei Feaci, Essa giace a 75 km dall'Epiro, con un'estensione di oltre 700 km2.

Città fiorente in età arcaica e classica, per essere tappa obbligata delle rotte commerciali interessate ai mercati della Magna Grecia e dell'Adriatico, fu colonia di Corinto (ca. 734 a.c.) e, assieme alla metropoli, fondò a sua volta subcolonie sulla vicina costa illirica. 

Cresciuta in potenza, grazie soprattutto alla sua felice posizione geografica, divenne ben presto aperta concorrente della madrepatria.

FRONTONE DELL'ARTEMISION


LA STORIA

- Nel 733 a.c. Corinto fondò la colonia di Corcyra che molto prospera, grazie anche alla ricchezza della vite nelle sue terre, che consente loro in breve tempo un gran commercio ed esportazioni in tutto il mondo ellenico, tanto da poter vantare, al tempo delle guerre persiane, la maggior armata dopo quella di Atene.

- Siamo nel 435 a.c., a Corcyra scoppia la guerra civile, gli aristocratici di Epidamnos si rifugiano presso gli Illiri, intervengono Corinto e Corcyra per farli rientrare e ne nasce la guerra del Peloponneso che coinvolge infine tutta la Grecia (Thuc. I, 24-29; Diod. XII, 30, 2-4; 31, 2)

DECORAZIONE TEMPIO
IV SECOLO A.C.
Le cose andarono così: quando ad Epidamno, colonia corcirese, nel 435 a.c., scoppiò la guerra civile, i democratici vincitori espulsero gli oligarchi, i vecchi governanti della città, che chiesero e ottennero l'aiuto degli Illiri. 

I democratici, a loro volta, chiesero aiuto alla madrepatria Corcira, ma non l'ottennero, pertanto i democratici si rivolsero a Corinto nemica però dei Corciresi. 

- L’inevitabile scontro venne vinto da Corcira che, dopo aver assediato Epidamno, sconfisse i Corinzi, in una battaglia navale. L’anno successivo, nel 434 a.c., Corinto si preparava alla controffensiva, per cui Corcira chiese aiuto ad Atene promettendo, in caso di vittoria, la sua flotta.    

(Il toro di Corcira era una statua bronzea di toro opera dello scultore Teopropo di Egina che i Corciresi offrirono all’inizio del V secolo a.c., in ricordo di una pesca miracolosa di tonni che, come di ricorda Pausania, era stata loro indicata da un toro fermo sulla spiaggia, il quale venne poi sacrificato a Poseidone)
                                       
- Gli Ateniesi, temendo l'imminente lo scontro con Sparta, accettarono inviando dieci triremi. Nella battaglia delle isole Sibota, nel 433 a.c., in una battaglia navale, descritta da Tucidide come la prima battaglia navale della storia (La guerra del Peloponneso, 1,13), i Corinzi vinsero le circa cento triremi corciresi; ma gli Ateniesi, evitarono che Corinto cingesse d’assedio Corcira annullando la vittoria corinzia.

- Corcira per ora era salva, ma il contrasto con Corinto, alleata di Sparta, portò alla guerra del Peloponneso, in seguito alla quale si ebbe un indebolimento della potenza navale di Corcira, e l'inizio del suo declino. 

- Nel III secolo a.c. fu conquistata da Siracusa.

- Nel 229 a.c. venne conquistata dagli Illiri, popoli indoeuropei stanziati nella penisola balcanica nord-occidentale, Illiria e Pannonia, e lungo la costa sud-orientale dell'Italia: Messapia (Murgia meridionale e Salento).

- Filippo V venne sconfitto nel 197 a.c. a Cinocefale da Tito Quinzio Flaminino, che proclamò nel 196 a.c. la libertà per le città greche.


- Nel 194 a.c. le legioni abbandonarono la regione, dove i Romani continuarono comunque ad intervenire, formalmente come arbitri esterni, nelle contese tra le città greche o tra i Macedoni e le tribù confinanti.

Nel 148 a.c. Corcyra entra tuttavia a far parte della provincia romana di Macedonia. 

"Decretata da Romani la guerra contra Filippo qui Lucio Apustio si colle navi al suo comando commesse e con genti d arme a vernare e poi Aulo Paolo console il quale da Caropo uomo d autorità fra gli Epiroti ed a benevolo fu fatto consapevole come il re avesse occupato le strette d'Epiro accamparsi sicuro sulla sponda dell'Aio. 

Qui parimente Tito Quintio Flamminio con 8000 fanti e 500 cavalieri discese ed indi passò a Prossimi dell'Epiro. 
Quì Lucio Quintio fratello suo approdò coll'armata e mandò custodire i principali degli Acarnani che soli e per la fede a quelle genti innata. 
Per odio degli Etoli s'erano tenuti fermi nell'amicizia di Filippo. 
E poichè pacificossi co Romani e nuovo inimico ad essi Antioco di Siria in Grecia passò su Corcira la prima delle città greche nella quale Caio Livio prefetto dell armata per conoscere a che termine fosse la guerra. 
E vinto Antioco per terra e per mare e ridotti gli Etoli a non poter volgersi ad altro partito che la pace fra condizioni che loro impose il Senato una si fu il dover rendere i ribelli i fuggitivi ed i prigioni de Romani e de compagni e collegati loro e nello spazio di cento dopo la sanzione del trattato rappresentarli senza inganno o froda alcuna avanti all'arconte o magistrato de Corciresi.

Dal che per avventura si deduce che li tenessero in qualche conto quei di Corcira onde in questo giro d'anni veggiamo fra gli abitanti di Azoro città della Perrebia ed i Mondei della Tessalia le quali già erano sotto la romana tutela essendo surta certa contesa uno de giudici eletti a scioglierla si fu Senofanto di Damea corcirese.

Deliberato avendo i Romani di guerreggiare Perseo poichè scorgevano ch'egli rapidamente le sue forze stendeva e sollevava a belle speranze l'animo esasperato de Greci, mandarono in Corcira con mille pedoni Quinto Marzio Aulo Attilio Publio e Servio Corneli Lentuli Lucio Decimio con ordine che tra loro le provincie si dividessero le quali ciascuno doveva visitare e confortassero le città a mantenere la fede ed il favore mostrato nelle prime guerre di Filippo e di Antioco.

MONETA DI CORCIRA III SECOLO A.C.
E qui avanti che i legati si partissero furono per lettere da Perseo richiesti che cagione si avessero di traghettare genti in Grecia ed inviare guardie nelle città a Accesa poi la guerra Marco Lucrezio mandato innanzi dal fratello suo Caio Lucrezio con una quinquereme e le triremi ricevute dai Regini dai Locresi e dagli Uriti e 64 lembi presi agl'Illirj passò in Corcira e quindi subito in Cefallenia.

E vi passò anche Quinto Marzio console con 5000 soldati in supplimento delle legioni e Marco Popilio uomo consolare ed alquanti giovanetti della medesima nobiltà che seguitarono il console per essere tribuni militari delle legioni di Macedonia e Caio Marzio Figulo di cui era la cura dell'armata. 

Qui in fine da Brundusio recossi prima quel Paolo Emilio per la cui opera fu abbattuto il regno di Macedonia e date in preda a soldati le 70 città dell Epiro e 150000 persone menate in cattività. Quasi giunta alla vittoria della guerra macedonica fu la sconfitta e la prigionia di Gentio confederato di Perseo nè v ha dubbio che in questa come in altre occasioni cooperassero i Corciresi se per rimeritarli il Senato deliberò che fra essi e gli Apolloniati ed i Dirrachini fossero spartiti in dono i 120 lembi tolti a quel re degli Illiri.

Nè più tardi vennero meno i riguardi che pe Corciresi manifestarono i Romani secondo che ci narra Polibio. Imperciocchè al cominciare della III guerra punica Marco Manilio console il quale trovavasi al Lilibeo richiese per lettere agli Achei che a lui sollecitamente mandassero per alcune pubbliche necessità. 

Polibio stesso e gli Achei assentendo il cittadino loro che per molte ragioni stimava doversi al console obbedire posposto ogn'altro negozio partissi in sul principio della state. Ma giunto ch'ei fu in Corcira allora i Corciresi si ricevettero lettere dai consoli nelle quali annunziavasi che i Cartaginesi avevano consegnato gli ostaggi e parati erano di obbedire ad ogni altro comando e quindi giudicò Polibio che fosse finita la guerra nè più di lui duopo si avesse e rinnavigò quindi al Peloponneso e Olimpia. 
144 anno 4 Olimp 157 anno 4 a.c.

(Andrea Mustoxidi - Delle cose corciresi - 1848)

- Nel 27 a.c. Ottaviano Augusto trasforma la Grecia e l'Illirico nella provincia romana di Acaia. La provincia di Macedonia viene ascritta tra quelle senatorie ed ha un governatore di rango pretorio.

- Nel periodo 15-44, l'Acaia viene unita a Mesia e Macedonia come provincia imperiale.

- Negli anni 103-114 d.c. l'Epiro venne scorporato dalla Macedonia e divenne provincia autonoma grazie all'imperatore Traiano.
- Al tempo di Teodosio I, 380 - 386, la Macedonia venne divisa in Macedonia I e Macedonia II Salutaris. Il territorio della Prefettura del pretorio dell'Illirico fu oggetto di disputa tra le due metà dell'impero fino alla sua spartizione, nel 395, alla morte di Teodosio.
 Nel 382, Eutropio negoziò un trattato di pace con Alarico e i Visigoti che ottennero nuove terre da coltivare e Alarico divenne magister militum per Illyricum. Claudiano, panegirista di Stilicone, espresse indignazione per il trattato: "il devastatore dell'Acaia e dell'Epiro privo di difese [Alarico] è ora signore dell'Illiria; ora entra come amico dentro le mura che un tempo assediava, e amministra la giustizia a quelle stesse mogli che aveva sedotto e i cui bambini aveva assassinato. E questa sarebbe la punizione di un nemico...?"
La Macedonia venne distrutta dai barbari ma soprattutto dai cristiani che fecero strage di monumenti pagani e non.

MONETA DI CORCIRA CON TESTA DI ARTEMIDE

ARTEMISION

L' Artemision, o santuario di Artemide, corrispondente alla latina Dea Diana, è un tempio pseudodiptero ottastilo edificato nel primo quarto del VI secolo a.c., e risulta il primo pseudodiptero dorico conosciuto.

RESTI DELL'ARTEMISION
È il primo ad essere stato progettato interamente in pietra, anche se contiene ancora alcune decorazioni in terracotta. È un tempio con otto colonne sulla fronte e con diciassette colonne su ogni lato lungo.

Attualmente rimangono solo le sculture del frontone occidentale, in lastre a rilievo in poros (pietra tufacea), in origine sicuramente policromi. 

Del frontone sono state rinvenute 10 lastre su 21 tra il 1911 e il 1914 da Wiilhem Dörpfeld (1853 - 1940) uno dei fondatori del metodo scientifico archeologico, presso il monastero di Garitza. 

La ricostruzione del frontone, eseguita dall'archeologo tedesco Gerhart Rodenwalt (1886 - 1945), è esposta nel Museo archeologico di Corfù.

La pianta del tempio, di ordine dorico è stata ricostruita del tipo pseudodiptero (con un colonnato coperto dove le colonne sono distanziate il doppio dalle pareti della cella, come dovessero lasciare spazio per una fila intermedia che invece non c'è), e ottastila (con otto colonne sulla fronte) e con 17 colonne sui lati lunghi. 

Lo spazio della cella, lungo e stretto, è suddiviso in navate da due file di colonne: anteriormente la cella è preceduta da un pronao con due colonne tra le ante, e sul retro presenta un spazio posteriore simmetrico al pronao.

Atena, dunque - scrive Luciano - sullo scudo risplendente
come su uno specchio, gli fa vedere l’immagine
di Medusa, e lui allora, presala con la sinistra per i capelli,
con l’occhio fisso alla sua immagine, tenendo nella destra la scimitarra, gli tagliò la testa, e prima che si svegliassero le sorelle, se ne volò via
. -

PHITOS DA CORCIRA
VI SEC. A.C.
Il frontone, datato intorno al 585 a.c. presenta al centro una Gorgone nello schema della corsa in ginocchio, affiancata da due pantere, e dai figli, Pegaso e Crisaore (figlio di Medusa o, a seconda del mito, nato dal suo sangue) oppure da Pegaso e Perseo), di dimensioni ridotte. 

Pegaso è il cavallo alato nato dal terreno bagnato dal sangue versato quando Perseo tagliò il collo di Medusa. Secondo un'altra versione, Pegaso sarebbe balzato direttamente fuori dal collo tagliato del mostro, insieme a Crisaore. Perseo è il figlio di Zeus e Danae che uccide la Medusa.

Ai lati, sempre con figure più piccole, sono raffigurati episodi mitologici, la cui interpretazione non è ancora chiara, forse l'uccisione di Priamo, re di Troia da parte di Neottolemo, figlio di Achille, e Zeus che uccide un Gigante, terminanti negli angoli con figure di morti sdraiati. Si tratta del primo passaggio dalle raffigurazioni religiose a quelle narrative nello spazio frontonale.

La Gorgone che corre in ginocchio (come tutte le Dee che corrono in ginocchio, vedi anche Atena) sono il simbolo del tempo che scorre, somigliando al simbolo della svastica, per l'avvicendarsi di vita e morte che coglie uomini e bestie e la natura tutta. Pertanto la Gorgone è la Potnia Theron, la Signora delle belve, ovvero la natura selvaggia che tutto crea e tutto distrugge.


PUBLIO CORNELIO SCIPIONE EMILIANO - P. CORNELIUS EMILIANUS

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Nome: Publius Cornelius Emilianus
Nascita: 185 a.c., Roma
Console: 147 a.c. e 134 a.c. Roma
Morte: 129 a.c., Roma
Coniuge: Sempronia
Genitori: Lucio Emilio Paolo Macedonico, Publius Cornelius Scipio Africanus


Publio Cornelio Scipione Emiliano, ovvero Publius Cornelius Emilianus, detto anche Africano minore, ovvero Africanus Minor era nato non sappiamo dove nel 185 a.c. – e morì a Roma, nel 129 a.c..

Il nome Emiliano aveva valore di patronimico (espressione indicante il vincolo col padre), era infatti figlio di Lucio Emilio Paolo Macedonico (229 – 160 a.c.) e fu poi adottato da Publio Cornelio Scipione, il figlio di Publio Cornelio Scipione Africano. La sua educazione fu curata dallo storico Polibio (Megalopoli, 206 a.c. – Grecia, 124 a.c.) che lo seguì anche in guerra.
Grande rappresentante della politica imperiale mediterranea dell'aristocrazia romana, console nel 147 a.c., vinse la III guerra punica (149 -146 a.c.) distruggendo Cartagine (146 a.c.) e la città iberica di Numanzia (133 a.c.).

Sappiamo dal De re publica di Cicerone che Cornelio Scipione era il suo personaggio politico preferito. Nell'opera ciceroniana, viene descritto infatti come ottima sintesi fra i mos maiorum e la nova sapientia ellenistica. Infatti Cicerone gli attribuiva come maestro Catone da un lato, ma dall'altro nel suo filoellenismo riconosceva le figure dello storico Polibio e di suo padre Lucio Emilio Paolo, il vincitore della battaglia di Pidna.
- 168 a.c. - Già da giovane, all'età di 17 anni, riuscì a conseguire dei notevoli successi militari in Macedonia assieme al padre.
- 151 a.c. - Nel 151 a.c. divenne tribuno militare e l'anno successivo legato del console Lucullo. Nel 149 a.c. tornò in Africa, sempre nel ruolo di tribuno militare, con la quarta legione sotto il comando del console Manio Manilio.
- 147 a.c. - Nel 147 a.c., ottenuta la carica di console, più per volere del Senato che per convinzione propria, condusse la guerra contro Cartagine e, dopo un lungo assedio, nel 146 a.c. sconfisse i Cartaginesi e rase al suolo la città.
- 134 a.c. - Successivamente nel 134 a.c. riuscì ad ottenere un secondo consolato, ottenendo così il comando contro i Celtiberi in Hispania, distruggendo la città di Numanzia nel 133 a.c., dopo oltre 15 mesi di assedio. Per la gloria di queste vittorie gli vennero dati gli appellativi di Africano Minore e di Numantino.



CARTAGINE

Nel 149 a.c. un esercito romano, comandato dai consoli Manio Manilio Nepote e Lucio Marcio Censorino, pose il suo campo nei pressi di Utica che subito si arrese; Cartagine intimorita offrì ai romani 300 ostaggi della nobiltà punica, 200.000 armature, 2.000 catapulte e altro materiale bellico.

Ma per il console Censorino Cartagine doveva essere completamente distrutta: "Escano dunque dalle mura gli abitanti e vadano ad abitare ad ottanta stadi dal mare", il che voleva dire lontana dal mare e dalle sue vie commerciali.

I cartaginesi rifiutarono, uccisero tutti gli italici presenti in città, liberarono gli schiavi per avere aiuto nella difesa, richiamarono Asdrubale e altri esuli che erano stati allontanati per compiacere Roma e con il pretesto di inviare una delegazione a Roma ottennero una moratoria di 30 giorni.

In questo tempo, sbarrate le porte della città e rinforzate le mura, iniziò una frenetica corsa al riarmo. Usando ogni metallo recuperabile, i 300.000 cartaginesi riuscirono a produrre ogni giorno 300 spade, 500 lance, 150 scudi e 1.000 proiettili per le ricostruite catapulte. Le donne offrirono i loro capelli per fabbricare corde per gli archi.

Intanto Asdrubale aveva raccolto circa 50.000 uomini ben armati. La città era ben difesa, le mura erano possenti, i difensori decisi e i rifornimenti giungevano sicuri e abbondanti tramite il porto.
Iniziò il lancio delle catapulte e i romani riuscirono a produrre una breccia nelle mura che però fu subito richiusa. I difensori distrussero parte delle macchine belliche. I manipoli lanciati all'assalto della breccia, furono respinti. Censorino fu respinto da Asdrubale.

In questi giorni si distinse il giovane tribuno Scipione Emiliano, che riuscì a portare nel campo dei romani Imilcone, uno dei capi della cavalleria cartaginese, con oltre 1.200 cavalieri.

L'anno successivo (148 a.c.) la guerra fu affidata ai nuovi consoli Lucio Calpurnio Pisone e Lucio Ostilio Mancino, che però si rivelarono più incapaci dei precedenti. Asdrubale prese il potere con un colpo di Stato e ordinò di esporre sulle mura i prigionieri romani, orrendamente mutilati.

Nel 147 a.c., anche se non aveva ancora i prescritti 47 anni di età, Scipione Emiliano venne nominato console. Partito per l'Africa, dovette subito corse a salvare Lucio Ostilio Mancino e le sue truppe che, isolate da un contrattacco, correvano il rischio di morire di fame. Scipione Emiliano attaccò Asdrubale che difendeva il porto con 7.000 uomini, fu attaccato di notte e costretto a riparare a Birsa.

Poi con una diga di tre metri, bloccò il porto. I cartaginesi scavarono un tunnel-canale per poter rifornire la città e riuscirono addirittura a costruire cinquanta navi. Scipione distrusse la flotta, chiuse il tunnel e lo fece presidiare
Nel frattempo Nefari, che era presidiata da un grosso nucleo cartaginese, fu attaccata da truppe romane comandate dal legato Lelio e da Golussa: 70.000 morti e solo 4.000 sfuggiti. La caduta di Nefari convinse le altre città puniche ad arrendersi alle legioni di Roma. Cartagine restò sola.
Cartagine resistè per tutto l'inverno. La fame portò la pestilenza. 
Ma Scipione attaccò solo nella primavera del 146 a.c. I cartaginesi si batterono di casa in casa, di strada in strada, per circa quindici giorni. La guerriglia urbana costava sangue romano. Scipione promise salva la vita a chi si arrendeva e usciva disarmato dall'acropoli. Uscirono 50.000 persone, fra cui Asdrubale. Dalle mura della cittadella, la moglie di Asdrubale pregò Scipione di punire il marito codardo, poi salì al tempio incendiato, sgozzò i figli e, come l'antica regina Didone, si lanciò fra le fiamme.

Scipione recuperò alcune opere d'arte che i cartaginesi avevano predato in Sicilia e abbandonò la città al saccheggio dei suoi soldati. Cartagine fu rasa al suolo, sistematicamente bruciata, le mura abbattute, il porto distrutto. Ai 50.000 cartaginesi che si erano arresi, come promesso, fu fatta salva la vita, ma furono venduti come schiavi. 
Varie fonti moderne riportano che furono tracciati solchi con l'aratro e sparso sale a terra, dichiarando il luogo maledetto. Lo stesso Scipione sarebbe stato riluttante ad eseguire tali ordini. Però nessuna fonte dell'antichità menziona questo rituale e i primi riferimenti allo spargimento di sale risalgono solo al XIX secolo..

Polibio, lo storico greco ostaggio a Roma ma amico degli Scipioni, narra che Scipione Emiliano pianse vedendo in quella catastrofe la possibile futura sorte di Roma stessa.



NUMANZIA

ROVINE DI NUMANZIA
Numanzia, ovvero Numantia, era un'antica roccaforte celtiberica posta in provincia di Soria, in Spagna, alla confluenza dei fiumi Tera e Duero.

Venne ricordata per la sua tragica fine, con l'autodistruzione operata dai suoi abitanti che, fieri della loro indipendenza, non intendevano sottomettersi ai Romani.

Già gli abitanti avevano evitato la conquista dei Cartaginesi, e poi nel II secolo a.c., divennero la roccaforte della resistenza iberica contro i romani.

Nell'anno 153 a.c. un esercito numantino, sotto la guida di un certo Segeda Caro, era riuscito a sconfiggere un esercito romano di 30.000 armati, guidato dal console Quinto Fulvio Nobiliore, che, nel
153 a.c., venne eletto console.

A quel tempo i consoli venivano eletti a dicembre, con qualche mese di anticipo rispetto alla data in cui sarebbero entrati in carica, cioè le idi di marzo (primo mese del vecchio calendario lunare).Ma dato che doveva sedare la rivolta dei Celtiberi, chiese e ottenne dal senato di entrare in carica immediatamente per difendere gli interessi di Roma.

Gli fu concesso e, da quel momento i consoli neoeletti trovarono più conveniente entrare in carica immediatamente, che non aspettare la scadenza del mandato dei predecessori. Da allora l'anno comincia il primo di gennaio e comunque Nobiliore venne sconfitto.

Dopo venti anni di inutili guerre fra gli Arevaci, appoggiati dai Celtiberi, e i Romani, l'esercito della Tarraconense venne affidato, nel 134 a.c., a Publio Cornelio Scipione Emiliano, nipote di Publio Cornelio Africano e generale della III guerra punica. Questi pose l'assedio a Numanzia nel 134–133 a.c.
L'armata comandata da Scipione aveva con sè la cavalleria numidica, sotto il comando del giovane nipote del re, Giugurta. Scipione rincuorò e riorganizzò l'esercito scoraggiato, poi, capendo che la cittadella poteva essere presa solo per fame, fece costruire una doppia circonvallazione per isolarla da qualsiasi aiuto esterno. Diffidò poi gli Iberi dal portare aiuto alla città, obbligando Lutia alla sottomissione e alla consegna di ostaggi.
Dopo quasi un anno di assedio i numantini, ridotti alla fame, cercarono un abboccamento con Scipione, che però accettava solo una resa incondizionata, per cui i pochi uomini rimasti si gettarono contro le fortificazioni romane. Fallito anche questo tentativo, almeno così di dice, bruciarono la città e si gettarono fra le fiamme. 
Non tutti però persero la vita; alcuni, ridotti in schiavitù, sfilarono a Roma durante il trionfo di Scipione. La città fu rasa al suolo come Cartagine pochi anni prima. Il bellum numantinum affermò l'egemonia romana nell'Hispania centro-settentrionale e la pacificazione della massima parte della penisola iberica.



LA LEGGE AGRARIA
POLIBIO
A Roma, grazie all'avvento di Tiberio Sempronio Gracco, fu approvata nel 133 a.c. la legge agraria, che prevedeva la distribuzione al popolo dei territori italici conquistati. Questi appezzamenti di terra, infatti, erano diventate possesso di importanti famiglie patrizie, che ne lasciavano la conduzione principalmente a manodopera servile.

L'intenzione di Tiberio Gracco era di distribuire i terreni alla Plebe, come già previsto da una antica legge in vigore a Roma ma non applicata. Tiberio Gracco venne assassinato lo stesso anno dell'emanazione della legge, ma i suoi seguaci mantenevano un seguito specialmente tra la Plebe.

Il Patriziato auspicava misure forti per contrastare le aspirazioni popolari, tanto che fu proposto di nominare dittatore Scipione l'Emiliano.

La dittatura era una magistratura straordinaria, limitata nel tempo a sei mesi, ma illimitata nei poteri, il cui conferimento divenne progressivamente desueto, tanto che prima di Silla ci fu un periodo di quasi cent'anni senza ricorso a dittatori.



LA MORTE

Scipione riuscì a bloccare momentaneamente la legge agraria, rendendosi così molto impopolare. Morì, nel 129 a.c., poco prima del discorso con il quale si accingeva a motivare la necessità della sua abrogazione. La causa del suo decesso rimane tuttora ignota, e nonostante fossero stati trovati segni sul collo come di strangolamento, non si svolse alcuna indagine.

Alcuni la attribuirono ai sostenitori dei Gracchi, altri si limitarono a pensare ad una morte naturale (l'amico Lelio pensò anche ad un suicidio motivato dalle difficoltà trovate nel soddisfare le esigenze degli alleati italici e latini). Cicerone invece ne attribuisce la responsabilità ai parenti, in particolare alla moglie Sempronia, sorella dei Gracchi.

SANTUARIO DI LA CUMA

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Storie di genti, di culti antichi e di magnificenza vengono evocate alla vista di quel che resta dell’antico Santuario ellenistico romano del comune di Monte Rinaldo, oggi un comune italiano di soli 359 abitanti della provincia di Fermo nelle Marche.

Stiamo parlando del santuario ellenistico-romano, collocato in località La Cuma, di Monte Rinaldo, immerso nel verde della campagna, adagiato sul fianco di un colle e aperto su uno splendido panorama.

FORSE IL VOLTO DELLA DEA
Il santuario si trova sul versante settentrionale della Val d'Aso e prende il nome dalla località in cui è situata.

I monumenti principali presenti all'interno dell'aerea sono un santuario risalente all'età tardo repubblicana (II-I secolo a.c.) e l'annesso portico a due navate.

Le strutture sono paragonabili a quelle presenti ad Ancona e Palestrina.

Questo territorio, nel primo millennio a.c., venne colonizzato dai Piceni, emigrati dalla Sabina.

In seguito a varie alleanze con i Romani e alla Terza guerra Sannitica, nel III secolo a.c. il territorio passa a poco a poco sotto il controllo di Roma, come testimoniano i resti archeologici del santuario ellenistico - romano, situato oggi nella zona La Cuma e datato al II secolo a.c.

L'area archeologica La Cuma, che si trova nell'omonima località del comune di Monte Rinaldo, nelle Marche, è costituita appunto da un santuario di età ellenistica - romana, ma pure da numerosi resti di età romana.

Il sito occupa il versante occidentale della collina ed è costituito da un portico, da un tempio e da una terza struttura interposta tra le due.

Quello che rimane oggi agli occhi del visitatore non è di poco conto: i resti di un grande tempio con numerose colonne e di un edificio rettangolare di incerta destinazione, miracolosamente sfuggiti  ai furti e alle calcinare.

Il complesso era costituito originariamente da un porticato lungo ben oltre 60 metri, con un doppia fila di colonne di arenaria ioniche e doriche (le prime altre 6.80 m, le seconde 4.70 m, tutt’ora ben visibili) e al cui centro presentava un tempio ad alae di cui rimangono solo le sostruzioni.

SANTUARIO ELLENISTICO ROMANO LA CUMA

LE DECORAZIONI DEL TEMPIO

Le decorazioni architettoniche appartenenti al santuario sono conservate al Museo civico archeologico di Monte Rinaldo che ha sede  dal 2008 nella ex chiesa del SS. Crocefisso di Monte Rinaldo, che è parte della Rete Museale dei Monti Sibillini. Tra questi reperti risultano di fondamentale importanza le antefisse raffiguranti Ercole e la Potnia Theròn.

Ercole (in latino: Hercules) è una figura della mitologia romana, una forma italica del culto dell'eroe e semidio greco Eracle, introdotto probabilmente presso i popoli Sanniti dai coloni greci, in particolare proprio dalla colonia di Cuma, e presso i Latini e i Sabini dal culto etrusco ad Heracle.

Potnia Theron è un termine usato per la prima volta da Omero (Iliade, libro XXI, v. 470), come attributo di Artemide e in seguito utilizzato per descrivere tutte le divinità femminili Signore della Natura e degli animali, sia selvatici che domestici, su cui era in grado di esercitare il potere.

PLASTICO DEL SANTUARIO
Fanno parte delle collezioni i rivestimenti in terracotta del santuario, pezzi che svolgevano un fondamentale ruolo estetico e decorativo degli edifici, testimoniato dalle tracce di colori vivaci ancora presenti sui reperti che li denotano come documentazioni di fondamentale importanza.

Le lastre, destinate a proteggere gli architravi, gli spioventi e le testate delle travi, indicano il susseguirsi di differenti fasi di vita della struttura. Come si vede il tempio non è stato del tutto ristrutturato, molti reperti giacciono ancora al suolo, in attesa di essere ricollocati, speriamo, magari su parti rifatte che denotino la loro modernità ma che diano continuità alle forme dei monumenti in questione.

Infatti le lastre decorate con motivi vegetali a bassorilievo sono datate al II secolo a.c. e sono confrontabili con esemplari diffusi nei santuari di area adriatica, quelle invece decorate ad altorilievo o bassorilievo con decorazioni floreali sono paragonabili a quelle provenienti dall'area centro-italica e sono datate al I secolo a.c. 

LE DECORAZIONI DEL TEMPIO
Tra queste ultime spicca la lastra decorata con fiori a campana su cui si posa una colomba, evidente esempio di esecuzione a mano rispetto alle altre, realizzate con uno stampo.

Le antefisse (elementi fittili architettonici della copertura dei tetti) rappresentano figure di Ercole e Potnia Theròn.

Ercole è riconoscibile dalla leontè (la pelle del leone di Nemea) che gli copre il capo e le spalle, attributo tipico dell'eroe che rappresenta la sua forza.

La Potnia Theròn è chiamata anche Signora degli animali, o Signora delle belve, ed è una divinità femminile molto arcaica ritratta con grandi ali e una lunga veste mentre tiene due pantere per le zampe. Tale iconografia è diffusa nel Lazio e in Abruzzo dal III al II secolo a.c.

Un ruolo centrale hanno anche i reperti relativi alle sculture a tutto tondo che decoravano il frontone del tempio. Tra queste sono presenti diverse teste sia maschili che femminili, frammenti di panneggi e di membra di notevole qualità artistica, datati al II secolo a.c. e confrontate con i rilievi dell'altare di Pergamo, uno delle massime espressioni dell'arte ellenistica ora conservati al Pergamon museum di Berlino. 

I modelli sono stati evidentemente introdotti in Italia centrale tramite la scuola etrusca che li ha adeguati al gusto della popolazione locale, con una maggiore scioltezza e movimentazione.

TANAGRINA DI CENTURIPE
Molte sono le testimonianze relative al luogo di culto espresse nelle offerte dedicate agli Dei (ex voto) per richiedere una guarigione o una protezione per la propria salute.

Degne di nota sono alcune ceramiche di differenti epoche come piatti, contenitori e coppe, tra cui una recante un'iscrizione dedicata a Giove che alcuni studiosi pensano sia in connessione con la divinità a cui era dedicato il tempio. Però Giove non è stato mai una divinità che concedeva le guarigioni.

La salus era appannaggio soprattutto delle divinità femminili, soprattutto se collegate alle aque, con l'eccezione di Asclepio - Esculapio, divinità più tarda.

Il culto praticato all'interno del santuario non è dunque ancora noto, anche se i ritrovamenti sarebbero abbastanza riconducibili ad un culto salutistico.

Nell'ultima parte del percorso museale sono presenti:
- monete romane di cui una di Cornelius Scipio Asiagenus, eletto console nell'83 a.c., 
- una lucerna definita di tipo Esquilino per l'assenza della vernice e la forma cilindrica, 
- fibule in bronzo, 
- tegole con lo stampo di fabbrica sul retro, 
- statuette femminili tipo tanagrina, chiamate così perché riconducibili a modelli prodotti a Tanagra, in Beozia, per i suoi reperti ceramici funerari tra i quali le famose statuette fittili, di particolare espressività. 
Vennero poi dette "tanagrine" anche le statuette fittili di tipo similare ritrovate anche in altre località come a Centuripe e in altre aree della Magna Grecia.

Durante le prime campagne di scavo è stato attribuito a questo luogo una stretta relazione con Novana, l'unica città del Piceno citata da Plinio il Vecchio nella Naturalis Historia non ancora ritrovata. I ritrovamenti archeologici però non hanno confermato le ipotesi.

Il centro storico è medievale, circoscritto all'interno delle mura che corrono intorno alla piazza dove sono situati Palazzo Giustiniani e la Torre Civica. Poco lontano dal centro storico si trova l'area archeologica "La Cuma".

Passeggiare all’interno dell’area archeologica fa venire in mente lo stupore dei ricercatori che si trovarono davanti blocchi di imponenti colonne ioniche ma anche frammenti di statuine votive e mura che facevano pensare ad un fantastico luogo di culto.

IL TRIANGOLO SACRO

GLI SCAVI

Le prime evidenze archeologiche furono segnalate nel 1953, ma grossi blocchi di tufo e le colonne affiorarono solo nel 1957 in seguito ad alcuni lavori agricoli. Al 1957 risalgono infatti i primi scavi mentre successivi scavi sono stati effettuati tra il 1958 e il 1962. 

Le campagne portarono alla luce il santuario di epoca tardo ellenistica, le strutture di età imperiale avanzata e una villa rustica installata su quello che precedentemente era un luogo di culto. Tra il 1958 e il 1960 l'area fu assoggettata finalmente a vincolo archeologico. Vi si riconobbero, come già detto, un santuario, un tempio e un portico.



IL SANTUARIO

Il complesso monumentale del santuario ha una struttura a terrazze artificiali e si presenta con un grande effetto scenografico. Lo compone anzitutto un grande portico che incorniciava il tempio, una struttura posta tra le due, della quale non si conosce la destinazione, e un pozzo che attualmente non è più visibile. Questa composizione può essere ricollegato ad un antico  modello frequente nell'Italia centrale.

Il santuario sorge in un’area non urbanizzata, come spesso accade si santuari più famosi, ed è stato monumentalizzato probabilmente con le ricchezze provenienti dall’Oriente, in seguito all’istituzione della Provincia dell’Asia Proconsolare.

La fase di costruzione visibile oggi, infatti, è datata al II secolo a.c., in piena dominazione romana dell’area. È incerta, invece, la presenza dell’area di culto in età picena, anche se la religione italica prevedeva culti da svolgere in luoghi simili.

LE LASTRE DEL TEMPIO

IL TEMPIO 

È la costruzione meno nota perchè è conservata solo ai livelli di fondazione. All'interno è presente un podio, anch'esso solo in fondazione, che presenta una suddivisione in tre sezioni, identificate da alcuni come celle.

I rapporti tra le misure possono essere ricollegate a quelle che indica Vitruvio nel "De Architettura" per il tempio cosiddetto Tuscanico, cioè quello utilizzato in area etrusco-italica, come ad esempio il Tempio A di Pyrgi.

La datazione, data in base alle terrecotte architettoniche, oggi presenti al Museo civico archeologico, si aggira tra il III e il II secolo a.c., anche ma non tutte le decorazioni possono essere datate allo stesso periodo, ed alcune sembrerebbero anche più arcaiche, cioè del IV secolo a.c..



TESTA DI CREATURA AGRESTE
IL PORTICO

Il portico è posto all'estremità nord della terrazza e si conserva per due lati. È costituito da un muro di fondo in tufo locale che ha uno spessore considerevole tanto da poter essere considerato un muro di contenimento adattato a portico successivamente. 

Antistanti al muro sono poste due file di colonne, quella interna in ordine ionico, l’altra in ordine dorico.

All'estremità ovest del portico è stato ricavato un piccolo ambiente. Probabilmente una specie di magazzino del tempio, per riporre statue lignee delle divinità da portare in processione, o arredi sacri, o strumenti per le funzioni.

È probabile che il portico si estendesse anche a est e che per simmetria ci fosse un altro ambiente. Il portico è datato tra il II e il I secolo a.c.

Ad Ovest dell’edificio templare, sorge una seconda struttura suddivisa al suo interno in cinque vani, uno dei quali sembrerebbe una vasca. La presenza della vasca e del pozzo, sembrano suggerire un probabile collegamento con i riti ed i culti praticati nel santuario.



IL CULTO

Sono ancora molti i dubbi sul culto praticato all'interno della struttura poiché non ci sono testimonianze materiali, nemmeno sulle iscrizioni degli ex-voto. L’unico significativo indizio è un pezzo ceramico dove è presente il nome di Giove ma, trattandosi di un marchio e non di un’iscrizione votiva, potrebbe essere un oggetto destinato ad essere portato via dai pellegrini.

Alcuni studiosi hanno supposto che si trattasse di una Dea femminile paragonabile alla Dea Cupra, particolarmente venerata dai Piceni. Potrebbe quindi trattarsi di un culto preromano ma non ce ne sono prove sufficienti.

Poiché Monte Rinaldo è ricco di falde acquifere, è probabile che il culto fosse associato alle acque curative come è ricorrente in Italia centrale in età ellenistica, ma in genere le acque salutari sono dedicate alle Dee o alle Ninfe.

IL MUSEO

IL TERRITORIO

Gli insediamenti Piceni avrebbero dovuto ammirare la magnificenza del santuario dalla Valle poiché, essendo costruito su terrazze, doveva avere un effetto scenografico che si coglieva da lontano, come il Tempio della Fortuna Primigenia a Palestrina.

Non sono stati individuati, almeno al momento, testimonianze di un abitato direttamente collegato al santuario, ma è probabile che fosse il centro dei numerosi insediamenti che sorgevano sulle colline circostanti.

La viabilità in età romana è un problema molto discusso, anche per i collegamenti con le città di Asculum, Faleria e Firmum.

Di solito i grandi santuari erano muniti di strade e certamente alcune di esse, magari secondarie avrebbero dovuto collegare i centri con la valle dove sorge il santuario, forse ricalcando anche percorsi preesistenti.

In seguito agli eventi sismici, le frane e i dissesti geologici susseguitesi nel tempo hanno aumentato le difficoltà durante i periodi di scavi. Ciò che oggi è maggiormente visibile è il porticato a duplice fila di colonne, sia quelle interne in stile ionico-italico che quelle esterne di ordine dorico. 

Il tempio che si trova a sud del porticato sembra fosse a tre celle ed è fatto risalire tra il II e I secolo. Ciò che sicuramente era presente tra il porticato ed il tempo è un pozzo e proprio grazie alla sua presenza che si può pensare che il santuario fosse legato al culto dell’acqua.

Ritrovamenti di statuette votive fanno pensare proprio ai riti della "sanatio". Parte del frontone e altri oggetti rinvenuti si trovano oggi nel Museo Archeologico del Santuario Ellenistico di Cuma, sito presso la Chiesa del Crocifisso, adibita a museo dal 2008.

Il complesso è databile tra il II e I sec a.c., ma di più non si sa, visto che la Soprintendenza Archeologica di Ancona sta tutt’oggi effettuando i propri studi. Questo è l'ingresso al museo del santuario che conserva qualche manufatto o decorazione reperito nell'area del tempio.

LE DUE POTNIA THERON
Ora non è difficile desumere che il culto di Ercole è sicuramente posteriore a quello della Potnia Theron. Ercole è il figlio di Giove, il nuovo Dio Olimpico che ha sostituito in Grecia gli Dei Titanici e in suolo italico una miriade di divinità. Ercole è l'uomo eroico che tutto può, che soffre, che sbaglia ma che fa tutto con le sue forze, insomma l'uomo che si sente in grado di badare alla natura e ai suoi pericoli.

La Potnia Theron è la Natura Selvaggia, colei che domina la Terra, al cui cenno obbediscono uomini, animali e piante. Contro di lei non si può nulla, se non chiedere la sua generosità. Nelle immagini del tempio la Dea tiene le due pantere, immagine che sarà poi ripresa nel dionisiaco, anch'esso amante della natura selvaggia.

Tutto è riferito alla Dea, soprattutto quando è rappresentata, come qui, dalle belve che si affrontano a lei, perchè successivamente le belve guarderanno nelle immagini a destra e sinistra di lei, più rivolte all'esterno che alla Dea, segno che la mente dell'epoca stesse rivolgendosi più all'esterno che alle proprie sensazioni interne, insomma che l'uomo comincia a mentalizzarsi..



VALLE MURCIA

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VALLE MURCIA

GIUSEPPE MARCHETTI LONGHI
Ludi e Circhi nell'antica Roma

"Ma, come scarse, eppur solennissime, le prime forme di ludi, così unica la sede di esse. Se si eccettuino le Equine, ο corse di cavalli in onore di Marte nel Campus Martius, che rappresentano le lontanissime origini delle corse dei barbari, che i nostri vecchi ancora ricordano, gli antichissimi Magni Circenses, e poi tutti gli altri: i Romani, i Plebei, gli Apollinari, ecc. si celebravano nella grande valle, interposta tra il Palatino e l'Aventino, la celebre Vallis Murcia, sede delle primitive leggende di Roma e che, per la sua configurazione geografica, era già di per sè stessa l'ippodromo naturale, offerto ai primitivi abitatori del Palatino, dell'Aventino e dei finitimi colli.

La modesta ara ricoperta di zolle, rappresentava già gli altari di marmo, i simulacri di bronzo, gli obelischi e le mete dorate, che orneranno in seguito la spina del circo, che dividerà l'arena in due parti longitudinali, segnanti il percorso delle bighe e delle quadrighe spinte a corsa sfrenata. Tale l'origine del Circo Massimo, il primo, e per lungo tempo l'unico, circo di Roma.

Ma se quei primi abitatori della città Palatina e del Pago aventinense, onoravano in tal guisa il Dio, emblema della generazione delle messi e protettore dei puledri, questi e quelle riassumenti l'attività di pace e di guerra di quei prischi abitatori, ben presto un altro concetto prevalse: quello di onorare cioè le vittorie degli eserciti e le fortune vincitrici della patria. I più antichi ludi, i Romani, ebbero il precipuo carattere di una festa trionfale, onde celebravansi nell'autunno al ritorno degli eserciti dalle campagne di guerra. 


IL CIRCO MASSIMO
E, come la tradizione riporta a Tarquinio Prisco, personificazione leggendaria dell'influsso Etrusco in Roma, la trasformazione in circo stabile di quello naturale, formato dalla Vallis Murcia e dalle pendici del Palatino e dell'Aventino, così, non è forse improbabile, che etrusca fosse l'origine di quei ludi, che compresero essenzialmente ο corse di carri, su cui a lato dell'auriga stavano i corridori, che, poi, saltando in terra durante la corsa, gareggiavano in velocità con i carri, oppure corse di uomini tenenti al morso i destrieri, così come li rimiriamo ancora nei divini Dioscuri sul Quirinale. "

La valle o depressione, è alta 18 metri s.l.m. ma il suo livello  ha subito un rialzo di 9-12 metri sul  suolo antico. Essa separa il Palatino che sorge a 51 metri a nord-est dell'Aventino che sale a 46 metri a sud-est e conduce a nord-ovest sul Foro Boarium Forum e sul Velabro.

Il nome della valle deriva da Murcia, divinità arcaica venerata in un sacellum alle pendici nord dell’Aventino, che avrebbe anche riferimenti con i mirti che avrebbero coperto l’Aventino. Varrone riferisce che l'antico santuario della Dea Murcia, posto manco a dirlo in Valle Murcia, un tempo circondato da un boschetto, si era  ridotto a un solo albero di mirto, ultimo vestigium dell'età augustea (Varrone, loc. Cit.).

Nella tarda antichità la valle veniva chiamata Valle Murcia in onore della Dea, ma forse solo dopo che il suo santuario venne ampliato notevolmente (Humphrey 96-97; Coarelli; s.v. Vallis: Circo Massimo), vale a dire quando venne edificato in pietra il Circo Massimo.

GLI SCAVI DEL CIRCO
Non si sa nulla dell'architettura augustea del santuario, e anche la sua posizione può essere solo approssimativa, però Plinio parla di una Murciae Metae, a Roma, dove era consacrato un altare alla Dea Murcia. E Festo ci informa che c'era un tempio a Roma, il Tempio Murco,  dedicato alla Dea Murcia. Secondo lo studioso Felice Ramorino (1852 – 1929) la Dea Murcia aveva un tempio ai piedi dell'Aventino presso il Circo Massimo, secondo alcune fonti voluto da Anco Marzio.

Fattostà  che la Vallis Murcia, la valle tra Palatino e Aventino, sede di numerosi culti antichi celebrati con feste e gare circensi, è un luogo fortemente legato alle origini di Roma: è qui che avvenne il famoso Ratto delle Sabine da parte di Romolo che segnò in qualche modo origine alla civiltà romana, ovvero latino-sabina.

Poco dopo, il primo dei re etruschi, sistemerà proprio la valle Murcia per ospitare il più grande edificio da spettacoli mai concepito nel mondo Romano: il Circo Massimo.  L’antica Valle Murcia era già nell’antica Roma consacrata alla Dea Flora e fino a tutto il XVI secolo rimase coperta di orti e giardini.

Dunque la prima sistemazione della Vallis Murcia, situata tra il Palatino e l’Aventino, viene riportata all'epoca dei Tarquini, quando venne costruito un sistema di canalizzazioni che permise di drenare tutta l’area, ciò che permise la realizzazione del Circo Massimo.

LA VISTA DEL PALATINO

GLI INTERVENTI SUL CIRCO MASSIMO

In epoche molto antiche nel mezzo della Valle Murcia passava un affluente del Tevere che partiva li dove in epoca romana risiedeva il Foro Boario. Nel corso dei secoli ci furono molteplici interventi nella zona e bonifiche per rendere il luogo salubre. Nel 196 a.c., Lucio Stertinio fece erigere al centro del lato curvo meridionale un monumentale arco trionfale.

LA VALLE IN EPOCHE ARCAICHE EVIDENZIATA IN ROSSO (INGRANDIBILE)
Ingenti lavori di ampliamento furono realizzati da Giulio Cesare nel 46 a.c., e sotto Augusto venne edificato il pulvinar, una zona sacra destinata agli Dei che presiedevano gli spettacoli e alla cui iniziativa si deve l’installazione sulla spina dell'obelisco di Ramsete II, proveniente da Eliopoli (ora a Piazza del Popolo).

Il Circo, devastato più volte dal fuoco e conseguentemente restaurato, fu ricostruito quasi integralmente in epoca traianea, fase cui appartengono per la maggior parte le strutture in laterizio visibili nel tratto della parte curva ancora esistente, in vicinanza del Palatino e del Celio, attualmente in fase di scavo e di sistemazione.

Ma altri restauri avvennero per opera dei successivi imperatori, tra cui, nel 357 d.c., fu aggiunto da Costanzo II un altro obelisco, quello di Thutmosis III, proveniente da Tebe e ora in Piazza di San Giovanni in Laterano.

Il circo venne utilizzato, magari solo in parte, fino al 549 d.c., quando Totila vi fece svolgere gli ultimi giochi; in seguito l’area venne utilizzata a scopi agricoli. Ma il Circo Massimo era a ben cinque piani ed era tutto di travertini e marmi, che fine hanno fatto?

PORTUNALIA (17 Agosto)

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DEUS PORTUMNUS - COMPLESSO TERMALE E PORTUALE DI PIETRA PAPA SUL TEVERE

"Portunalia dicta a Portuno, cui eo die aedes in portu Tiberino facta et feriae institutae".
Marcus Terentius Varro (116 a.c. - 27 a.c.) - De lingua latina - liber VI - III -

I Portunalia furono una festa celebrata a Roma e nel Lazio in onore di Portunus, o Portumnus, Dio dei porti e delle porte. Si ricorda un'usanza di gettare nel fuoco le chiavi, mentre il flamen portunalis aveva il compito di ungere le armi del Dio Quirinus. Cosa avevano a che fare le chiavi con le armi?

L'attuale tempio di Portuno, di epoca repubblicana, si trova di fronte alla chiesa di S. Maria in Cosmedin, poco distante dal Tempio di Ercole Olivario, collegato con il vicino Portus Tiberinus.



LA SANTA DELLE PROSTITUTE

Nel IX secolo il tempio venne mutato in chiesa cristiana, prima con il nome di Santa Maria Secundicerii, quindi come Santa Maria Egiziaca patrona delle prostitute. La chiesa venne eliminata per ripristinare l'antico aspetto del tempio nel 1916. L'inserimento della struttura ecclesiastica mantenne intatto l'esterno del tempio; internamente sono ancora visibili gli antichi affreschi altomedioevali che narrano la storia della santa.


PALEMONE

PALEMONE

Dapprima chiamato Melicerte, fu il mitico figlio di Atamante, re dei Mini in Orcomeno, e di Ino. Secondo la leggenda venne gettato nell’acqua bollente dal padre o dalla madre impazziti. Poi Ino, rinsavita lo trasse fuori e si gettò con lui in mare e venne trasformata nella divinità marina Ino-Leucotea, mentre Melicerte assunse il nome di Palemone dopo essere stato trasformato in un dio marino, Portunus per i Romani, Dio propizio ai naviganti.

Il suo culto pubblico era curato a Roma da uno dei dodici flamini minori, il flamine portunale. A volte il Dio fu identificato con Palemone, anch'egli protettore dei porti, associandone i miti, cosicché a Portuno fu attribuita come madre la Dea Mater Matuta, che a sua volta era stata assimilata a Leucotea. Insomma, un figlio della Grande Madre.

SANTA MARIA DE PIANO - GIA' SANTA MARIA IN PORTUNO

PORTUNO

Portuno (latino Portunus o Portumnus) era il Dio romano dei porti e secondo alcuni anche delle porte, una specie di riedizione del Dio Giano. In effetti come Dio vigile dell'entrata e dell'uscita dai porti aveva un senso. In realtà Giano sembra avesse due figli, Tiberino e Portuno, che erano tra le più antiche divinità italiche.
Tiberino era il Dio del fiume, e Portuno era invece il Dio degli attraversamenti d'acqua e dei "passaggi" dai guadi ai traghetti, un po' come il medioevale San Cristoforo che appunto trae vita dal mito di Portuno e vedremo perchè.

Nell'iconografia Portuno veniva rappresentato con le chiavi in mano, in quanto protettore delle porte, un particolare poi ripreso dalla figura di San Pietro che è munito anch'esso di due chiavi, una d'oro e una d'argento. La chiave dorata, che punta a destra, alluderebbe al potere sul regno dei cieli.

Viene da chiedersi che potere avesse S.Pietro sul Paradiso, a meno che non alluda, e forse è così, al potere di farci entrare o meno le anime dei defunti. Quella d'argento, posta a sinistra, indicherebbe invece l'autorità spirituale del papato in terra, motivata soprattutto dall'autorità del suo potere temporale.


SAN CRISTOFORO CINOCEFALO

SAN CRISTOFORO CINOCEFALO

In diversi dipinti San Cristoforo appare come cinocefalo, cioè con testa da cane, in realtà è una riedizione del Dio egizio Anubis, il Dio dalla testa di sciacallo, un Dio che accompagna Iside nel suo viaggio nell'oltretomba onde recuperare le parti del corpo mutilato di suo marito il Dio Osiride.

Il viaggio si compie via fiume ma allude ovviamente a un viaggio negli inferi. Ciò perchè Anubis è colui che accompagna i morti nell'oltretomba, il che fa comprendere che San Cristoforo fu visto come traghettatore dei morti negli inferi, insomma una specie di Caronte.

In questo senso avrebbe un significato la purificazione delle chiavi gettandole nel fuoco. Teniamo conto però che il termine purificazione per i romani non era associato ad un significato di lavare le colpe come nel cattolicesimo, ma di togliere dal presente ogni traccia dolorosa del passato, ad esempio cancellare la morte dalla vita.


E quale morte se non quella in guerra, quella guerra che era tanto perseguita dai giovani romani in parte come destino ineluttabile ma in parte come speranza di gloria e plauso della sua gens e dei concittadini?

Le chiavi simboleggiano pertanto il passaggio dal mondo dei vivi al mondo degli inferi e purificando le chiavi nel fuoco queste tornavano al loro valore attuale, quello del passaggio dei vivi, pertanto salire sulle navi per andare a combattere i nemici auspicava solo vittoria e ritorno.

DIO EGIZIO ANUBIS IL TRAGHETTATORE DELLE ANIME
Ne fa fede anche un’anonima citazione tarda che fa menzione di chiavi e di fuoco, un rito attestato già nel mondo etrusco, nel quale piccoli pesci e chiavi venivano gettati in un braciere, perché offrendo i pesci in sacrificio agli Dei si potessero bruciare le chiavi che serravano il transito nel mondo dei defunti.

Dunque le chiavi consentivano o impedivano il passaggio, dunque con un duplice significato, a seconda che si trattasse di vivi e di defunti.

Per i vivi non passare tra i defunti e per i morti potersi trasferire nel mondo dell'Ade, cioè trovare la pace nella morte.

Un'altra attestazione si rintraccia nella Valle del Cesano, vicino a Corinaldo in provincia di Ancona, dunque presso l’Adriatico. 

Un’antica chiesa, un tempo denominata Santa Maria in Portuno (nel XIII secolo ribattezzata Santa Maria del Piano) attesta un preesistente tempio pagano dedicato alla divinità marina. Recenti scavi archeologici hanno rinvenuto in loco fondamenta e fornaci romane.

Dunque San Cristoforo è una riedizione dell'antico traghettatore delle anime che per l'occasione diventa traghettatore di Gesù, ma siccome i cristiani non la potevano passare liscia, il divino bambino pesa come un macigno, perchè il cristiano deve sopportare su di sè il peso del mondo.



IL FIGLIO DELLA DEA

In realtà la Dea italica Mater Matuta aveva un figlio, appunto Portunus, proprio nell'aspetto di Dea marina, una delle qualità della Dea.

PORTUNUS
Sembra infatti che una statua della Dea con figlioletto Portunus in braccio fosse stata deposta proprio nel tempio di Portunus, che a Roma venne dedicato proprio il giorno dei Portunalia, secondo quanto riferito da Varrone, e si trovava presso il Ponte Emilio, come indicano alcuni antichi calendari romani.

Anticamente il luogo si chiamava Foro Boario, poco distante dal Tempio di Ercole e dal più antico porto tiberino, che si estendeva a nord del tempio e del quale rimangono alcuni muraglioni.

La divinità collegata al porto fluviale, porto che era negl'immediati paraggi, nella zona ora occupata dall'attuale edificio dell'Anagrafe.

Il tempio, prossimo al Tevere, che volta le spalle al foro Boario, è uno dei pochi dell'età repubblicana arrivato integro.

La dicitura di tempio della Fortuna virile è riconducibile alla Dea Fortuna cui i giovani lasciavano la toga praetexta entrando nella virilità.

Servio Tullio, particolarmente devoto alla Dea Fortuna,  dedicò un tempio proprio nel Foro Boario, per cui tutto lascia presupporre che fosse la dedica più antica, trasformata poi in Mater Matuta con figlio Portunus in braccio, e infine dedicata al solo Dio Portunus.



LA FESTA

I sacerdoti iniziavano la processione di buon'ora con delle barche inghirlandate che scorrevano sul Tevere dove le acque venivano benedette, per la buona navigazione e già che c'erano pure per la pesca. Vi partecipavano dunque i marinai romani che combattevano sulle navi, ma pure gli addetti al porto e i pescatori.

Le ghirlande venivano poi gettate nel Tevere e seguiva poi la cerimonia ai piedi del tempio Portunno dove venivano gettate nel fuoco le chiavi del tempio e venivano non bruciati ma grigliati sui numerosi bracieri preparati all'occorrenza sempre ai piedi del tempio, una lunga serie di pesci che venivano poi divisi tra la popolazione. In pratica un cibo benedetto.

Seguiva poi la sfilata delle barche da pesca a loro volta inghirlandate con i marinai che cantavano e bevevano fino a notte quando si accendevano le torce e il Tevere notturno s'illuminava come le sue rive. Sembra che per l'occasione si lanciassero in acqua vari amuleti che proteggessero le navi romane dagli attacchi nemici. la festa terminava quando si spegnevano le fiaccole.

PORTA ESQUILINA (Porte Serviane)

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PORTA ESQUILINA
"Precisamente nel luogo stesso di comune accordo si pone la porta Collina in corrispondenza della via antica, che, passando lungo il lato settentrionale delle terme Diocleziane, si dirigeva verso la porta Nomentana del recinto Aureliano, e per una diramazione giungeva alla Salaria del medesimo recinto. Dionisio e Strabone dimostrano aver cominciato l'argine dalla nominata porta Collina, ed aver terminato alla Esquilina, ed essere stato della lunghezza di sei in sette stadi.


Da tale luogo percorrendo tutto il tratto, che giunge sino all'arco di Gallieno, ove si situa la porta Esquilina, e seguendo la direzione, che si conosce dalla prominenza rimasta aver tenuto l'argine, si trova essere tale distanza precisamente tra i sei ed i sette stadi."

(Storia e topografia di Roma - Luigi Canina - 1841)

Schiacciato fra due palazzi in via San Vito, si trova l'antico arco costruito sulla porta Esquilina delle antiche mura Serviane, poi divenuto arco di Gallieno.

La porta risale al periodo più antico della città, quando i popoli latini sul Palatino si espansero tra l'VIII e il VI secolo a.c. verso il Quirinale a nord, il Viminale e l'Esquilino a nord-est ed il Celio ad est, fondendosi con i sabini che già da un paio di secoli vi risiedevano.

Fa quindi parte della prima cinta muraria della città, risalente, insieme alle porte Collina, Viminale e Querquetulana, all'ampliamento della città operato dal re Servio Tullio. Un tratto di queste mura arcaiche è infatti stato trovato sotto la chiesa dei SS. Vito e Modesto negli scavi fatti nel 1971-72.

Addirittura venne cancellato il suo nome di Porta Esquilina non solo dall'arco di Gallieno, che pure ebbe una sua storia negli eventi romani, ma pure da quello di San Vito, un santo siciliano di cui non v'è menzione attendibile, che nulla aveva a che fare con quell'arco, se non di essere stato aggredito dalla costruzione di una chiesa al santo dedicata.

La Porta era originariamente a tre fornici, di cui quello centrale, l'unico rimasto, è quasi quadrato e decorato con cornici e piloni ad angolo in stile corinzio. I fornici erano divisi da paraste, che terminavano con capitelli corinzi e poggiavano su basi sagomate.

RICOSTRUZIONE DEL ROSSINI
Il fornice centrale era più alto e più ampio dei laterali ed era sormontato da un attico che terminava con un cornicione.
Nella parte sinistra sono visibili i resti di un ingresso secondario. poggiante su quello centrale, che dava su via Labicana, la via che portava a Labico, oggi Montecompatri; e via Praenestina, da Praeneste, antico nome di Palestrina.

Il colle Esquilino, a cui la Porta Esquilina introduceva, disponeva di tre cime: il Fagutal, l'Opius ed il Cispius, che facevano parte del Septimontium, e che rappresentavano la fase espansiva di Roma, successiva a quella del nucleo originario, cioè della Roma quadrata. Venne annesso all'Urbe da Servio Tullio, sesto re di Roma.



LA LEGGENDA

La tradizione antica lega alla Porta Esquilina l’origine della festa dei Quinquatri minori. Si narra che l’arte greca dei flautisti non fu più gradita e con un decreto ne venne ridimensionato il numero nelle cerimonie. I flautisti si recarono a Tivoli, dove vennero riuniti tutti per una gran festa, alla fine della quale erano talmente ubriachi che il padrone di casa li caricò su un carro e li allontanò.

Il carro, senza guida, si avviò verso Roma ed entrò per la porta Esquilina; al mattino era al Foro, dove la comitiva di ubriachi venne scherzosamente mascherata e poi cacciata. Lo scherzo piacque tanto che ogni 13 giugno venne consentito di ripetere per le strade della città, in onore di Minerva, la riunione di di flautisti e maschere.

In realtà anticamente Atena-Minerva era la detentrice del flauto, ma narra il mito antico greco che l'abbandonò perchè la imbruttiva gonfiandole le guance, figurarsi se una Dea della guerra si preoccupava del suo aspetto composto e compito, in realtà in Grecia le sacerdotesse suonavano i flauti e furono cacciate dai nuovi sacerdoti apollinei suonatori di lira.

Visto che anche Minerva era una divinità guerriera, le sue sacerdotesse, che probabilmente come in Grecia, organizzavano danze di guerra con flauti e maschere per i combattenti, furono esautorate e si imbastì questa storiella. Certamente una festa non si faceva per ricordare una congrega di ubriachi.



LA SUBURRA

In epoca augustea si sviluppò intorno alla Porta Esquilina un popoloso quartiere ottenuto scalzando il cimitero della plebe che qui si trovava, e, interamente bonificato da Mecenate, aveva assunto il nome di Subura, attraversata dal frequentatissimo clivus Suburanus, pieno di botteghe, taverne e prostitute, anzi era “la via delle prostitute” (come ricorda Marziale), che proseguiva, fuori dalla porta, con la via Labicana in direzione di Labicum e la via Prenestina verso Gabii e Praeneste.

Ma poi lo sviluppo urbanistico, portò anche alla costruzione di ville e horti, come quelli splendidi di Mecenate.

La porta della cinta serviana, in blocchi di tufo, ampliamento di quella più antica, era a tre fornici. Fu interamente ricostruita in travertino e monumentalizzata da Augusto, che fece apporre sull’attico, nel fornice centrale, un’iscrizione che però non è più leggibile in quanto riporta tracce di evidenti cancellature di epoca successiva.

I due fornici laterali, più piccoli di quello centrale, furono demoliti nel 1447 per far posto alla chiesa dei Santi Vito e Modesto, tuttora addossata ad un lato dell’unico arco rimasto, adoperandone anche i materiali, come si vede da vecchie incisioni.

La chiesa dei SS. Vito e Modesto era detta "in macello" o meglio come "intrans sub arcum [di Gallieno] ubi dicitur macellum Livianum", dato che sorgeva sopra al macellum, il mercato fatto costruire dall'imperatrice Livia. Sotto la chiesa dovrebbero dunque esserci, oltre alle mura, diversi reperti del macellum.

AULO GELLIO - AULUS GELLIUS

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Nome: Aulus Gellius
Nascita: Roma, 125 circa 
Morte: 180 circa
Professione: scrittore


Aulo Gellio (Aulus Gellius; Roma, 125 circa – 180 circa) è stato uno scrittore e giurista romano, famoso soprattutto per la sua opera " Noctes Atticae " (Le Notti Attiche), che ebbe origine da appunti presi nelle lunghe sere d'inverno in una rustica dimora dell'Attica. Fu allievo dello scrittore e oratore Marco Cornelio Frontone, esponente dell'arcaismo latino dell'epoca, dove sembra ci si preoccupasse soprattutto della purezza della forma e dell'elocuzione.

Egli nacque a Roma sotto Adriano, dove studiò Retorica e Grammatica, presso il retore Tito Castricio e il grammatico Sulpicio Apollinare. Poi si recò ad Atene, per perfezionarsi nelle arti liberali. Qui conobbe, tra gli altri, Erode Attico e Peregrino Proteo. Fra gli autori greci preferì i prealessandrini e fra i romani gli arcaici, specialmente Catone.

Egli narra, a proposito di Erode Attico, suo amico, che durante un convivio, giunse un questuante che, dandosi arie da filosofo, insisteva che gli fosse fatta la carità. Erode si lamentò a lungo di coloro che profanano il sacro nome della filosofia ma poi gli diede denari per trenta giorni di cibo e lo fece cacciare. "Gli ho dato - disse - perché sono un uomo, ma non perché è un uomo". In un altro episodio riporta come Erode confutasse uno stoico che sosteneva l'apatheia (apatia), affermando che nessuno può essere esente dalle emozioni e che comunque, anche se qualcuno riuscisse ad esserlo, ciò non sarebbe di alcun vantaggio, poiché le emozioni, purché regolate, sono necessarie alla mente.

Fu durante questo soggiorno ateniese che Gellio cominciò a comporre la sua opera principale delle "Noctes Atticae", frutto delle sue letture e colloqui con i letterati, filosofi e retori del suo tempo.

Tornato poi a Roma, ebbe un certo successo, tanto che iniziò a lavorare come giudice extra ordinem, cioè come giudice del processo imperiale, e probabilmente fu in questo periodo che conobbe Marco Cornelio Frontone e il filosofo Favorino, spesso citato nelle Noctes Atticae (Le Notti Attiche), la sua unica opera pervenutaci. 

La sua posizione sociale nella Roma di Antonino Pio (86-161) era senz'altro collocata nella fascia dell'élite, come si capisce dai nomi che frequentava.

Aulo ebbe grande influenza sugli scrittori posteriori, specie sui compilatori come Nonio e Macrobio, e fu molto letto anche nel Medioevo.




FRASI DI GELLIO:

“Quando mento e dico che sto mentendo, mento o dico la verità?”
“Il tempo è padre della verità.” 
"La verità è figlia del tempo"
"La donna è un male necessario."
“Le malattie e le sofferenze sono venute al mondo contemporaneamente alla salute.”
“Non devi dire mai cose di cui ti debba vergognare, né pentire di aver detto.”“Erode Attico fu un giorno fermato da un tale con capelli lunghi e barba che gli arrivava fin quasi alla cintura che gli chiese dei soldi per comprare un po’ di pane. Erode gli chiese allora che cosa facesse e questo individuo gli rispose che era un filosofo. Sentiti però i suoi discorsi, Erode esclamò: ‘Vedo la barba ma non riconosco il filosofo’.”
 


NOTTI ATTICHE


- Gellio spiega come l'opera sia costituita dagli appunti che aveva l'abitudine di raccogliere durante i suoi studi per costituire una "provvista letteraria", alla raccolta l'autore ha voluto lasciare l'ordine casuale con il quale gli appunti sono stati redatti. Gellio afferma che il suo intento è quello di proporre argomenti culturali senza sviscerarli, per sollecitare il lettore agli approfondimenti che più riterrà utili ed interessanti.

VESTALE
- Demostene veniva criticato dai suoi rivali per l'effeminatezza e l'eccessiva cura della sua persona. Anche Quinto Ortensio Ortalo, avvocato famoso quasi quanto Cicerone aveva le stesse caratteristiche, si racconta che un rivale lo paragonò in tribunale alla danzatrice Dionisia.

- Caio Gracco affidava ad un suonatore di flauto il compito di avvertirlo con note più o meno alte se il suo eloquio diveniva troppo caloroso o troppo monotono.

- Sulle vestali: 
dovevano essere scelte tra i sei e i dieci anni, avere entrambi i genitori viventi e di condizione libera, essere esenti da difetti fisici. Erano esentate le bambine nella cui famiglia si contassero altri membri con cariche sacerdotali.
Appena "prese" le vestali erano affrancate dalla patria podestà ed acquisivano il diritto di fare testamento. Secondo Antistio Labeone la vestale non poteva ereditare senza testamento ed i suoi beni non potevano essere ereditati senza testamento.

- Sull'integrità di Caio Fabrizio:
(terzo secolo) che, dopo aver concluso la pace con i Sanniti rifiutò un'offerta in denaro che questi volevano fargli per compensarlo della sua benevolenza ed in considerazione della sua povertà.

- Sulla loquacità futile:
giudizi dei vari autori. Cicerone preferiva un uomo privo di eloquenza ad uno stupidamente loquace. (De Orat I, 51). Anche Catone, in una sua orazione, aveva lo stesso vizio.
Nell'Iliade Omero mette in ridicolo le chiacchiere del grottesco Tersite.
Analoghi giudizi erano stati espressi da Eupoli, Sallustio, Esiodo, Epicarmo e Favorino.
Infine vengono citati alcuni versi di Aristofane (Rane).

- Sulla pazienza di Socrate
nei confronti della moglie Santippe. Socrate avrebbe detto ad Alcibiade che sopportare la moglie bisbetica lo aiutava ad affrontare più preparato la cattiveria umana. Varrone espresse lo stesso concetto in una delle sue numerose satire menipee.

- Storia di Tarquinio il Superbo e dei Libri Sibillini.
Una vecchia straniera si presentò da Tarquinio offrendogli in vendita nove libri per un prezzo smisurato. Vedendosi derisa dal re che la credeva pazza bruciò tre libri e chiese lo stesso prezzo per i sei rimanenti. Davanti al re che rideva ancora bruciò altri tre libri e chiese di nuovo lo stesso prezzo. Questa volta Tarquinio, impressionato dalla risolutezza della strana visitatrice, comprò gli ultimi tre libri pagando il prezzo che era stato richiesto per l'intera raccolta. Della vecchia non si seppe più nulla ed i libri vennero racchiusi in un santuario dove venivano consultati come un oracolo nei momenti difficili per lo stato.

- Storia di Papirio Pretestato:
figlio del senatore Papirio, accompagnava il padre nella curia quando era ancora adolescente (vestiva perciò la toga pretesta). Dopo una delicata riunione sulla quale i senatori avevano concordato di mantenere il riserbo fu interrogato dalla madre un po' curiosa. Il ragazzo raccontò che si discuteva se fosse meglio dare due mariti ad ogni donna o due mogli ad ogni uomo.
La donna sparse la voce e l'indomani, i senatori trovarono la curia invasa dalle matrone allarmate. Il ragazzo spiegò la ragione della bugia e i senatori lo lodarono per la riservatezza premiandolo con il soprannome di Pretestato per ricordare quell'episodio avvenuto quando ancora indossava la toga pretesta. Anche Macrobio (Saturnali I, 6) riporta lo stesso episodio attingendo da Gellio o dalla fonte di questi,  Catone. Nei Saturnali racconta la vicenda l'ospite della prima giornata, Vettio Agorio Pretestato, discendente del Papirio Pretestato già menzionato.

- Gellio interroga il filosofo Tauro 
(II sec. d.c.) sull'ira e su quanto questa si addica ad un saggio. Questi racconta un episodio di cui è protagonista Plutarco, che fu anche autore di un trattato sull'ira, e che fece fustigare un suo schiavo per una qualche colpa. Questi lo accusò di incoerenza verso la sua dottrina, ma Plutarco rispose di non essere adirato. pertanto chi non si adira può anche fustigare una persona e restare un saggio. Un principio filosofico che fa venire qualche dubbio.



LIBRO SECONDO

- Esercizi di resistenza e temperanza di Socrate.
Si dice che Socrate usasse meditare in piedi, assolutamente immobile, dall'alba all'alba del giorno successivo. La sua temperanza gli permise di mantenersi sempre in ottima salute e lo salvaguardò perfino da una terribile pestilenza.

SOCRATE
- Sul termine "divinatio",
che indicava il giudizio con il quale veniva nominato l'accusatore in un processo. In sintesi il discorso di Gellio vuole attribuire l'origine del termine alla "Divinazione" necessaria per scegliere l'accusatore in quanto questi sarà in rapporto con l'accusato ma, mentre l'accusato è già noto, la persona che lo dovrà accusare è ancora sconosciuta.
- Sull'obbedienza che si deve al padre,
filosofi greci e latini hanno espresso pareri discordi. Alcuni hanno sostenuto che si debba comunque obbedire, altri che si debba obbedire solo se gli ordini sono giusti ed onesti, altri che nessuna obbedienza sia dovuta al padre. Questi ultimi argomentavano che se l'ordine è giusto va eseguito perché giusto (non perché ordine), se l'ordine è ingiusto non dev'essere eseguito, quindi in nessun caso si agisce per mera obbedienza. Gellio, tra le tre sentenze, sposa la seconda.

- Plutarco criticava una sentenza di Epicuro:
"La morte non è nulla per noi; infatti ciò che si dissolve è insensibile e ciò che è insensibile non ci riguarda". Secondo Plutarco al sillogismo mancava la preposizione "La morte è la dissoluzione dell'anima e del corpo". Gellio difende Epicuro sostenendo che il filosofo non aveva intenzione di formulare un sillogismo secondo le regole scolastiche.

- Si parla delle "Favisae Capitolinae",
In una lettera di Varrone, dicendo che erano delle celle o depositi sotto il tempio del Campidoglio nelle quali venivano custodite le vecchie statue del tempio, sostituite per vetustà, e le offerte votive.

- Disquisizioni fonetiche e grammaticali,
partendo da Cicerone (106-43 a.c.) che sosteneva un principio di eufonia: "il piacere dell'orecchio è la prima legge del linguaggio".

- Si parla del vento Iapigio e dei venti in generale
citando Favorino (80-150) che illustra un sistema ad otto venti:- l'Euro spira da Oriente in primavera
- l'Aquilone spira da Oriente in estate
- il Volturno o Euronoto spira da Oriente in inverno
- il Cauro spira da Occidente in estate
- il Favonio o Zefiro da Occidente in primavera
- l'Africo da Occidente in inverno
- l'Austro o Noto spira da Sud e porta umidità
- il Settentrionale spira da nord
Vi sono poi altri nomi dati a venti locali, tra questi il vento Iapigio (Iapix) che spira in Apulia.

- Sulle leggi contro il lusso.
I romani legiferarono più volte per contenere gli eccessi nei banchetti. La legge Famia, di cui parla anche Macrobio, imponeva limiti di spesa per ogni pasto. La legge Licinia (104 a.c.) contingentava il consumo della carne. Anche Silla emanò una legge che limitava a determinati giorni festivi la possibilità di offrire costosi banchetti. (legge Cornelia, 81 a.c.).
La legge Anzia, proposta da Anzio Restone nel 68 a.c., limita la possibilità per i magistrati in carica di accettare inviti a cena. Anche Augusto, nel 19 a.c., promulgò leggi in materia, poi imitato da Tiberio.
- Le cause dei terremoti
Non conoscendo con esattezza le cause dei terremoti i Romani erano in dubbio anche su quale fosse la divinità alla quale offrire sacrifici per evitarli. Per questo motivo in caso di terremoto si offrivano sacrifici "A un Dio o a una Dea" il cui rituale non comprendeva il nome di alcuna divinità. Fra le ipotesi più accreditate si faceva quella greca che attribuiva i movimenti sismici alle acque sotterranee (Posidone "scuotitore della terra").



LIBRO TERZO

- In che giorno debba considerarsi nato chi nasce di notte.
Gellio cita qui Varrone che considerava limite la mezzanotte. Gli Ateniesi consideravano il giorno dal tramonto al tramonto successivo, i Babilonesi da alba ad alba, gli Umbri da mezzogiorno a mezzogiorno. Il criterio romano indicato da Varrone si applicava anche alle cerimonie notturne ed al calcolo del tempo in occasioni ufficiali o giuridiche.

ERODE ATTICO
- Radersi
Ai tempi di Scipione l'Africano si diffuse l'abitudine di radersi, che i Romani non avevano rispettato in precedenza.

-  l'elasticità del legno di palma
era stato notato da Plutarco ed Aristotele per cui, nelle gare, era simbolo di vittoria perché rappresentava la resistenza contro ogni oppressione.

- Un episodio di eroismo
tratto dalle Origini di Catone: il tribuno militare Quinto Cecidio durante le operazioni in Sicilia della prima guerra punica propose di distogliere l'attenzione del nemico con un manipolo di quattrocento uomini votati alla morte e si offri volontario per il comando del manipolo. L'azione diversiva permise al console di portare in salvo l'esercito che si trovava in posizione sfavorevole e Cecidio, stando a Catone, si salvò miracolosamente nonostante le molte ferite.

- Il cavallo Seiano
Si narrava la storia proverbiale del cavallo Seiano che si diceva discendente dei mitici cavalli del re di Tracia Diomede conquistati da Ercole. Secondo la favola questo splendido cavallo arrecava disgrazia a chi lo possedeva. Il suo primo proprietario fu infatti Gneo Seio, che fu condannato a morte da Marco Antonio, poi Cornelio Dolabella che cadde durante la guerra civile, quindi il cavallo passò a Caio Cassio che notoriamente fu sconfitto da Antonio ed infine a Marco Antonio la cui fine fu certamente tragica.

- Sullagestazione umana
può durare sette mesi, mai otto, più frequentemente nove e compiersi nel decimo. Sull'impossibilità della nascita all'ottavo mese dissentiva Varrone. L'imperatore Adriano aveva giudicato un processo contro una donna che aveva partorito all'undicesimo mese, essendo il marito morto all'inizio della sua gestazione. Si sospettava che la donna fosse rimasta incinta dopo la morte del marito, ma Adriano, consultati gli antichi filosofi e sentito il parere dei medici aveva stabilito che il parto all'undicesimo mese era possibile.



LIBRO QUARTO

- Gli aruspici etruschi,
secondo Verrio Flacco, erano perfidi ed ingannatori; una volta convinsero il popolo a nascondere una statua di Orazio Coclite colpita da un fulmine, che era l'esatto contrario di quanto si sarebbe dovuto fare. Infatti solo quando gli aruspici furono scoperti e giustiziati e le statue sistemate in un luogo aperto ed elevato, il popolo romano tornò a godere di eventi fortunati.

Publio Cornelio Rufino
fu eletto console (nel 290 a.c.) con l'aiuto di Fabrizio Luscino. Rufino era avido ed intrigante ma esperto di cose militari. Luscino, uomo noto per la sua rettitudine lo aiutò nonostante fosse suo avversario e spiegò la sua scelta dicendo "Preferisco essere derubato da un cittadino che venduto da un nemico".

- Cesare
Durante il suo consolato con Marco Bibulo del 59 a.c., Cesare commise alcune irregolarità nel Senato, procura benefici fiscali a Crasso e terre ai volontari di Pompeo. Inoltre una volta fece arrestare Catone perché questi stava proseguendo un discorso troppo lungo. Il gesto provocò l'indignazione dei senatori tanto che Cesare dovette subito far rilasciare Catone.
- Il suono del flauto
era ritenuto curativo della sciatica ed efficace anche contro gli effetti del veleno della vipera.

- L'alimentazione eccessiva
si riteneva fosse dannosa per i bambini. Questa questione era espressa anche da Varrone ("Cato" o dell'educazione dei figli).

- I censori
La severità dei censori era proverbiale. Gellio racconta di persone punite per aver scherzato o sbadigliato in loro presenza.



LIBRO QUINTO

Annibale
derise il re Antioco che aveva preparato contro i Romani un esercito riccamente vestito ed adornato:
- Basterà per i Romani? - chiedeva il re alludendo alla dimensione dell'esercito.
- Basterà, nonostante la loro avidità - rispose sarcasticamente Annibale.

PITAGORA
- Le corone militari concesse come titoli onorifici:
- la trionfale, d'oro, in occasione del trionfo.
- ossidionale - offerta dagli assediati al loro liberatore, fatta di erbe.
- civica, di fronde di quercia, veniva offerta da un cittadino ad un altro che gli avesse salvato la vita in battaglia.
- murale, la corona offerta dal generale a chi per primo è riuscito a scalare le mura di una città assediata. (oro).
- castrense è il premio del primo che riesce a penetrare nel campo nemico (oro).
- navale è il premio di chi per primo, in una battaglia navale ha effettuato l'arrembaggio (oro)
- ovale, di mirto, veniva concessa a quanti l'onore dell'ovazione.

-  Gavio Basso
faceva risalire l'origine della parola "persona" (maschera teatrale) al verbo "personare" (risuonare) con riferimento al rimbombo della voce degli attori nelle maschere.

- Sui nomi dei romani chiamati "Diovid" e "Vediovis". Il primo deriva da Iuvare (giovare) come Iovis, Iovispater, Iuppiter. Dunque un dio che ha il potere di giovare, di venire incontro. Di qui Gellio deduce che Vediovis sia composto con la particella privativa Ve ed indichi una divinità ostile alla quale si deve chiedere non di aiutare ma di non nuocere. In effetti Vediovis o Veduis era una divinità schiva cui venivano offerti sacrifici umani, poi animali, tuttavia l'interpretazione di Gellio rimane molto incerta.
- L'importanza dei doveri nell'uso dei romani
venivano per primi i doveri verso i pupilli a loro affidati, seguivano quelli verso i clienti, quindi verso gli ospiti, infine quelli verso parenti ed amici. Gellio cita varie testimonianze antiche a sostegno di questa scala o di sue modeste variazioni.

Verrio Flacco,
 grammatico, sosteneva che i giorni successivi alle calende, alle idi ed alle none, normalmente chiamati nefasti, dovevano essere considerati "funesti". Seguono esempi a sostegno della tesi, che dimostravano come i sacrifici propiziatori offerti in tali date avessero sempre portato a conseguenze negative, a cominciare dalla disastrosa battaglia dell'Allia nel 390 a.c.

- I Romani distinguevano fra "adozione" (adoptatio) ed "arrogazione" (arrogatio).
Nel primo caso le formalità si svolgevano davanti al pretore, era necessario che il vero padre emancipasse il figlio dalla propria patria potestà "vendendolo tre volte" (si trattava di un rituale: il padre toccava tre volte con una moneta una bilancia).L'arrogazione avveniva nei confronti di una persona già emancipata e si celebrava davanti al popolo riunito nei Comizi Curiati. Chi voleva adottare in questo caso doveva essere nell'impossibilità di avere altri figli e doveva pronunciare un apposito giuramento. In precedenza si era indagato per evitare atti fraudolenti ai danni dell'adottato.
Era possibile adottare schiavi e liberti ma non per arrogazione. Il figlio adottivo doveva votare nella tribù del padre.





LIBRO SESTO

- Si diceva che la madre di Scipione l'Africano,
poco prima di rimanere incinta, avesse trovato un enorme serpente nel proprio letto.
Si diceva anche che egli usasse recarsi a meditare nel tempio di Giove Ottimo Massimo (si credeva consultasse direttamente il dio) senza che i cani di guardia, di solito molto aggressivi lo importunassero. Si diceva, infine, che durante l'assedio di Badia, nella Spagna Tarraconense, predisse con esattezza il giorno in cui la città sarebbe capitolata.

SCIPIONE L'AFRICANO
- Sulla vendita degli schiavi
era usanza esporre gli schiavi in vendita con un berretto detto "pilleo" quando il venditore non forniva garanzie. Portavano invece una corona in testa i prigionieri di guerra che venivano venduti come schiavi.

- Rifacendosi al poeta Apione,
Gellio racconta la storia di un delfino innamorato di un ragazzo che trascorreva molto tempo a nuotare e giocare con lui. Quando il ragazzo morì anche il delfino si lasciò morire ed il suo corpo, trovato sulla spiaggia, venne sepolto con quello del giovane. La stessa storia è narrata anche da Plinio il Giovane.

- La parola "pignoriscapio"
(costituzione di un pegno) usata da Varrone riguardava gli arretrati sul soldo delle truppe.

- Ai tempi di Scipione l'Africano 
era considerato indecoroso per gli uomini indossare le tuniche dette "chiridotae" che avevano maniche lunghe e nascondevano braccia e gambe.

- I cittadini romani erano divisi in cinque classi definite in base al censo. Gli appartenenti alla prima classe erano detti "classici", gli altri "infra classem".

- In una sua satira intitolata "sugli alimenti",
Varrone descriveva con ironia l'abitudine dei Romani abbienti di ricercare cibi esotici e particolari, come la "gallina selvatica di Frigia", "la gru della Media" o la "murena di Tartesso".
Dei versi di Euripide (da un'opera per noi perduta) deprecavano l'abitudine di nutrirsi con cibi strani.

- Per i Romani il giuramento era sacro.
Quando Annibale inviò a Roma dieci prigionieri per proporre uno scambio, li fece giurare che sarebbero tornati se il Senato non avesse accolto la sua proposta. I senatori non accettarono e otto dei dieci prigionieri tornarono da Annibale, gli altri due furono talmente odiati e disprezzati dai concittadini che finirono col suicidarsi.

- Molto nobilmente Tiberio Sempronio Gracco
(il padre dei due famosi tribuni) intervenne in favore di Lucio Cornelio Scipione Asiatico, evitandogli la prigionia, nonostante i forti contrasti che egli aveva con la famiglia degli Scipioni. L'Asiatico, fratello di Scipione l'Africano, era stato accusato di peculato dal tribuno della plebe Caio Minucio Augurino e, non avendo prestato garanzie, doveva essere imprigionato. Sempronio Gracco, anche egli tribuno, usò il proprio diritto di veto per salvaguardare la libertà di un generale ed ex console.

- I cavalieri obesi
venivano esonerati dai censori. Non si trattava di una punizione ma alcuni la consideravano un'ingnominia.



LIBRO SETTIMO

Tuberone
riportava la notizia di un enorme serpente catturato dal console Atilio Regolo durante le prima guerra punica. L'episodio, noto anche a Valerio Massimo e a Tito Livio, avvenne nel 256 a.c.

- Molti autori scrissero su Atilio Regolo
e la sua famosa vicenda. Catturato dai Cartaginesi venne rimandato a Roma per trattare lo scambio di prigionieri, ma fu egli stesso a convincere i senatori a non accettare la proposta, quindi tornò a Cartagine per tener fede alla parola data. Secondo Tuditano prima di lasciarlo partire per Roma i Cartaginesi gli avevano somministrato un veleno a lento effetto.
Tuberone fornisce una versione della tortura a cui fu sottoposto Atilio Regolo diversa da quella più diffusa della botte con i chiodi: lo avrebbero accecato costringendolo a fissare il sole con le palpebre cucite perché gli occhi rimanessere aperti. Secondo Tuditano, invece, gli impedirono di dormire finché non morì. I figli di Regolo, a Roma, si rivalsero rinchiudendo dei prigionieri Cartaginesi in un armadio irto di punte acuminate.

- Dagli annali di Quadrigario,
Gellio riporta la storia di Valerio Corvino e del suo cognome: nel 394 a.c. Valerio era tribuno militare, raccolse la sfida di un gigantesco capo dei Galli che avevano invaso il Lazio, il quale proponeva un duello con il più coraggioso dei Romani. Quando il duello stava per iniziare un grande corvo aggredì il gallo colpendolo con il becco e con le unghie e disorientandolo, quindi si posò sull'elmo di Valerio. Questi, incoraggiato dal fatto prodigioso ed a lui favorevole, attaccò il rivale e lo uccise. Di qui il cognome Corvino.

- La figlia di Appio Claudio Cieco
 fu multata per essersi espressa con arroganza in pubblico. Trovandosi fra la folla che usciva dal circo ed avendo ricevuto dei colpi aveva imprecato augurandosi che il fratello Publio Claudio, perito in una battaglia navale (249 a.c.) potesse rivivere per sterminare la moltitudine che l'aveva colpita.

- Dagli scrittori di arte militare,
Gellio ricava ed elenca alcuni termini che indicavano i possibili schieramenti dell'esercito: "fronte, riserva, cuneo, circolo, globo, forbici, sega, ali, torre".

- Si usava portare gli anelli all'anulare sinistro.
Gli egiziani avevano scoperto un nervo finissimo che collega questo dito al cuore. L'argomento è trattato anche da Macrobio.

Artemisia, 
moglie del re di Caria Mausolo, era profondamente innamorata del marito. Si diceva che alla morte di lui ne avesse ingerite le ceneri mescolate con essenze. Fu Artemisia a far costruire il famoso monumento funebre detto Mausoleo. Indisse inoltre un agone poetico per celebrare le lodi di Mausolo; la gara fu vinta da Teopompo, allievo di Isocrate.

- I Romani
mandarono a Cartagine una lancia (simbolo di guerra) ed un caduceo (simbolo di pace) chiedendo ai Cartaginesi di scegliere quale volessero, i Cartaginesi risposero che i latori dei due simboli potevano scegliere di lasciare quello che volevano. L'aneddoto vuole dimostrare che in origine Roma e Cartagine erano in parità di potenza.

Tuberone
ricordava che Servio Tullio considerava "pueri" i minori di diciassette anni, "juniores" gli uomini fra i diciassette e i quarantasei, "seniores" quelli che avevano superato i quarantasei.

Timeo e Varrone
sostenevano che il termine "Italia" derivasse dal vocabolo "italoi" che in greco arcaico significava buoi, animali molto numerosi nella penisola. Di questa abbondanza di bovini sarebbe testimonianza anche il fatto che la massima multa che si poteva infliggere era di due pecore e trenta buoi al giorno.

- Le donne romane
non giuravano mai su Eracle e non gli offrivano sacrifici, mentre gli uomini non giuravano mai in nome di Castore. Sia uomini che donne, invece, usavano l'espressione "Edepol", cioè giuravano in nome di Polluce. (Si ritiene che queste usanze derivassero dagli antichi riti eleusini).

- Il retore Tito Castricio
esaminando un'espressione di Caio Gracco che era molto piaciuta a Gellio trova che contenga un'inutile ripetizione a scapito dell'incisività. La frase Se voi respingete oggi per capriccio quelle cose che avete negli ultimi anni desiderate e volute, non potete evitare che si dica o che le avete desiderate con precipitazione o che le avete ripudiate sconsideratamente. Secondo Castricio "con precipitazione" e "sconsideratamente" sono ridondanti e non correttamente posizionati nella frase.

Lucio Pisone Frugi
raccontava che Romolo era molto sobrio nel consumo del vino.

Gellio propone un enigma tratto da Varrone:
Se una o due volte sia minore o entrambe non so, eppure mi si è detto che neppure a Giove volle far posto. La soluzione è il dio Termine e si riferisce ad un episodio narrato anche da Livio: non si riuscì a rimuovere un cippo dedicato a Termine durante la costruzione del tempio di Giove sul Campidoglio.

Gneo Dolabella,
governatore d'Asia, rinviò all'Aeropago di Atene una donna, rea confessa di aver ucciso il marito ed il figlio i quali a loro volta avevano ucciso un altro suo figlio, nato da un precedente matrimonio. L'Aeropago giudicò fondati i motivi della donna ma non potendola assolvere per legge, rinviò la causa a cento anni dopo.

ALESSANDRO MAGNO
Alessandro Magno
si compiaceva di farsi chiamare "figlio di Giove". Quando usò l'appellativo per firmare una lettera alla madre Olimpiade questa, con garbo ed ironia, rispose pregandolo di non far credere a Giunone che lei fosse una rivale.

- Gli antichi non usavano il termine barbarismus per indicare i difetti del discorso. Definivano rusticus un discorso rozzo.

- Note sul buon gusto nei banchetti tratte da Varrone
i convitati dovranno essere in numero fra tre e nove. Quattro le condizioni necessarie per una buona riuscita del banchetto: ospiti amabili, luogo ben scelto, momento opportuno, servizio adeguato.
Si deve inoltre ricordare che dolciumi e digestione "non si fanno buona compagnia".

- Riferendosi a scritti di Ateio Capitone, Labeone Antistio e Varrone,
Gellio sostiene che i tribuni della plebe avevano il diritto di arrestare ma non quello di citare in giudizio. Ciò dipendeva dal fatto che in antico i tribuni furono istituiti non per giudicare o svolgere inchieste ma per intervenire immediatamente nelle situazioni che lo richiedessero.

Varrone
precisava che un magistrato che non aveva il potere di citare davanti al pretore, poteva essere citato da un privato cittadino senza lesione della dignità della sua magistratura.

- Il pomerio 
era una striscia di terreno dietro le mura che circondavano la città. Era considerato sacro. Il primo pomerio fu tracciato da Romolo intorno al Palatino e successivamente fu più volte esteso ma solo ai tempi di Claudio arrivò a comprendere l'Aventino che ne era stato lasciato fuori (secondo Gellio) a causa dei presagi infausti ivi osservati da Remo.

- Il significato preciso di Humanitas
era "educazione ed iniziazione alle arti liberali" e non benevolenza verso gli uomini come molti ritenevano.

- Note sulla frase proverbiale attribuita a Catone
"fra bocca e focaccia vi è una distanza" con la quale si intendeva che fra intenzione ed azione sussiste una differenza.

- Sulla genealogia della famiglia Porcia
Marco Porcio Catone il Censore ebbe due figli: Marco Porcio Catone Liciniano e Marco Porcio Catone Saloniano. Il primo fu padre del Marco Porcio Catone console nel 118 a.c., a sua volta padre di un altro Marco Porcio Catone. Il secondo fu padre di Lucio Porcio Catone console nell'89 a.c. e del Marco Porcio Catone tribuno della plebe nel 99 a.c. Quest'ultimo fu padre di Marco Porcio Catone Uticense suicida nel 46 a.c., il cui figlio Marco Porcio Catone morì a Filippi nel 42 a.c.

- Il retore Tito Castricio,
insegnante di Gellio, deprecava le usanze di quanti indossavano la lacerna (un corto mantello con cappuccio) e dei sandali detti "scarpe galliche" trovando questi indumenti indecorosi.

- Sull'etimologia
di alcuni vocaboli usati nelle preghiere romane. In particolare è interessante il termine Nero, che nell'antica lingua sabina stava per ardito, coraggioso e divenne nome personale nella famiglia Claudia che era, appunto, di origine sabina.

- Il terminepraeda
indicava le prede di guerra prese al nemico mentre manubiae indicava il denaro ricavato dalla vendita delle prede stesse. Il quesito se i due termini siano e non siano sinonimi è occasione per una lunga dissertazione sull'uso della ripetizione nel linguaggio retorico.

VARRONE
- Citando le Satire di Varrone,
si ricorda il detto prandium caninum che indicava un pasto senza il vino (i cani non ne bevono).

- Secondo gliAnnali di Quinto Quadrigario,
il legno imbevuto di allume non brucia. Quando Silla attaccò il Pireo non riuscì ad incendiare una torre di legno che Archelao, prefetto del re Mitridate, aveva protetto proprio con questo accorgimento.

- Nella sua opera Le Leggi,
Platone afferma che un moderato consumo di vino durante i banchetti sia utile per rinfrancare lo spirito, far emergere eventuali intenzioni malevole dei commensali ed anche perché non può dirsi morigerato chi non ha mai avuto esperienza del bere. La passione per il vino e la vergognosa ubriachezza che può derivarne vanno quindi combattute con cognizione di causa.

- Si riteneva che ilsessantatreesimo anno di vita
(detto anche climaterico) fosse spesso caratterizzato da malattie, disgrazie o dalla morte. Gellio cita una lettera nella quale l'imperatore Augusto si compiace di averlo superato.

- Racconta Plutarco
(Dell'Anima) che un tempo tutte le giovani donne di Mileto furono prese da inspiegabile mania suicida. Per arginare il fenomeno si decretò che le suicide venissero sepolte nude, facendo così leva sul pudore delle ragazze.

- La battaglia della piana di Farsalo,
nella quale Cesare sconfisse Pompeo, fu predetta il giorno precedente da un sacerdote di Padova.

- Nella tradizione poeticai figli di Giove
erano saggi e forti (Eaco, Minosse, Sarpedonte) mentre quelli di Nettuno erano spesso crudeli, come i Ciclopi, Cercione, Scirone e i Lestrigoni.

Sertorio
 era molto abile nel mantenere la disciplina delle truppe usando ogni genere di astuzia. Ad esempio fece credere ai soldati che una bellissima cerva di sua proprietà fosse dono degli Dei e che, per il tramite dell'animale, egli ricevesse consigli dalla Dea Artemide.

- Definizione aristotelica di sillogismotradotta da Gellio:
Il sillogismo è un ragionamento nel quale, certune cose essendo ammesse ed accettate, una cosa diversa da quelle che sono state ammesse deriva naturalmente dalle ammesse.

- Si dicevanoComitia Calate
(assemblee convocate) le riunioni tenute in presenza dei pontefici per instaurare il "re dei sacrifici" o i flamini.

- Si riteneva checomprimere lo stomaco
fasciandolo molto strettamente aiutasse a sopportare il digiuno. Citazioni in merito dal filosofo Erasistrato.

- I Marsi,
nel mito discendenti da Circe, erano abili nel domare i serpenti e nel preparare pozioni miracolose. Un antico popolo africano, gli Psylli, curava le stesse arti. Erodoto racconta che si ribellarono al vento Austro, responsabile della siccità del loro paese e che furono dal vento distrutti o dispersi.

- I diritti degli abitanti deiMunicipia
erano superiori a quelli degli abitanti delle colonie. I primi erano cittadini romani ma potevano avere leggi proprie mentre le colonie non godevano di tanta autonomia.

- Il nome delVaticano
derivava dai vaticini che venivano espressi per ispirazione divina in quel luogo. Qui, si diceva, un plebeo aveva udito una voce che avvertiva dell'imminente invasione dei Galli.

- Metodi di scrittura segreta
per evitare che messaggi riservati finissero sotto occhi indiscreti. Giulio Cesare usava un cifrario di sua invenzione, i Lacedemoni usavano scrivere su una striscia lunga e sottile arrotolata lungo una bacchetta. Per decifrare il messaggio occorreva arrotolare la striscia su una bacchetta identica a quella usata dal mittente. Un persiano ai tempi di Dario aveva escogitato l'espediente di tatuare il messaggio sul capo rasato di uno schiavo ed attendere che i capelli ricrescessero prima di mandare lo schiavo dal destinatario.

- Si usaval'elleboro bianco
per purificare lo stomaco (tramite il vomito) e l'elleboro nero per purificare l'intestino. Essendo molto potente il farmaco poteva essere pericoloso.

Varrone
riferisce che Sallustio, colto in flagrante adulterio, venne staffilato e condannato al pagamento di una forte multa.

Pitagora di Samo
venne in Italia durante il regno di Tarquinio il Superbo, in quel periodo ad Atene fu ucciso Ipparco.

- Il poeta Archiloco
visse ai tempi di Tullo Ostilio.

- Duecentosessanta anni dopo la fondazione di Roma
Milziade sconfisse i Persiani a Maratona. In quel tempo Eschilo fioriva ad Atene e Coriolano, passato ai Volsci, combatteva contro il popolo romano.

SERSE
- Pochi anni dopoSerse
fu sconfitto da Temistocle a Salamina.

 - Quattro anni più tardii Fabi
furono trucidati presso il fiume Cremera.

- Seguì di poco a Romal'istituzione dei decemviri
per la redazione delle leggi mentre ad Agrigento fioriva Empedocle.

- Trecentoventitre anni dopo la fondazione di Roma
iniziò la guerra del Peloponneso.

- I Romani
combattevano contro Equi e Fidenati

- In Grecia
divenivano famosi Sofocle, Euripide, Ippocrate, Democrito e Socrate.

- Quando aSocrate
fu imposto di bere la cicuta a Roma era dittatore Furio Camillo che conquistò Veio e più tardi liberò Roma dai Galli.

- I Lacedemoni furono sconfitti presso Corinto
dagli Ateniesi di Formione, a Roma Marco Manlio fu condannato a morte perché sospettato di aspirare alla tirannia. Sette anni dopo l'invasione dei Galli a Roma, in Grecia nasceva Aristotele.

- La battaglia di Leuttra nella quale i Tebani sconfissero i Lacedemoni, si svolse poco prima che a Roma la legge di Licinio Stolone aprisse ai plebei l'accesso al consolato.

- A quattrocento anni dalla fondazione di Roma
divenne re di Macedonia Filippo e nacque Alessandro. Successivamente Filippo fu ucciso in una congiura ed Alessandro, preso il potere, si dedicò alla conquista dell'Oriente.

Alessandro
morì dopo undici anni di regno. In quel periodo scoppiò la guerra fra Romani e Sanniti.
Verso il 470° anno dalla fondazione di Roma iniziò la guerra di Pirro, vent'anni più tardi quella contro i Cartaginesi.

- Ancora vent'anni più tardi
si tennero a Roma le prime rappresentazioni teatrali con Livio Andronico.

- NacqueQuinto Ennio
che completò i suoi Annali all'età di sessantasette anni.

- Nell'anno 519 dalla fondazione di Roma (235 a.c.) si verificò ail primo divorzio, quello di Spurio Carvilio e nello stesso anno Gneo Nevio presentò un lavoro teatrale (questo passo di Gellio suscita molti problemi cronologici ed ampio dibattito fra gli studiosi moderni).

- Circa quindici anni dopo
iniziò la prima guerra punica.

 Catone
divenne famoso come oratore e Plauto come commediografo.

- I filosofi greci Carneade, Diogene e Critolao
vennero a Roma per trattare affari pubblici. Non molto tempo dopo vissero e lavorarono Quinto Ennio, Cecilio Stazio, Terenzio, Lucilio.

- Sticines 
era un termine raro con il quale si indicavano coloro che suonavano una specie di flauto ai funerali.

- Sicinnium
era un antico genere di canto accompagnato dalla danza.

GLI DEI AIUTANTI DI CERERE

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Nell'antico sacro cereale un sacerdote, il Flamen Cerialis (uno dei flamini minori), invocava Cerere (e probabilmente anche Tellus) insieme a tredici divinità ausiliarie, specializzate e minori, per assicurare aiuto e protezione divina in ogni fase del ciclo del grano, cominciando poco prima della Feriae Sementivae. Wilhelm Heinrich Roscher elenca queste divinità tra gli indigitamenta, nomi usati per invocare specifiche funzioni divine.

Gli indigitamenta erano un elenco di divinità custodite dal Collegio dei Pontefici per assicurare che nelle preghiere pubbliche venissero invocati i nomi divini esatti. Queste liste descrivevano la natura delle varie divinità che potevano essere invocate in circostanze particolari, specificando Dei e sequenza delle invocazioni. I primi indigitamenta, come molti altri aspetti della religione romana, furono attribuiti a Numa Pompilio, il II re di Roma.

Si suppone che gli Dei Indigetis fossero quel numero enorme di divinità che i romani accolsero nel loro panteon man mano che accoglievano nuove genti all'interno dell'urbe prima, e poi nell'Impero romano, quasi sempre a causa di guerre di conquista. 

Annali del Museo -1 38 -  "Vervactor era uno degli Dei che alla coltura della terra era il primo invocato nel sacrificio che il Flamine Cerere offriva a quella Dea ed alla Terra. Invocava egli eziandio le seguenti divinità cioè :Conditor, Convector, Imporcitor, Messor, Obarator, Occator, Reparator, Sorritor, Subruncinator, Vervactor trae il suo nome da Ver perchè presiedeva egli ai lavori di quella stagione.
Secondo alcuni questi aiutanti erano solo dieci, ma per altri erano 12, per altri 13.


"Ognuna delle fatiche dell'agricoltura avea il nume suo proprio, il proprio genio tutelare. I nomi degli lddii che invocava in Roma il flamine della Dea Dia, l'italica Cerere, erano i seguenti: Vervactor, Reparator, Abarator, Imporcitor, Insitor, Occator, Sarritor, Subruncator, Messor, Convector, Conditor, Promitor."

Micol Perfigli ha fatto una tesi pregevole, pubblicata da ETS, su Indigitamenta. Divinità funzionali e Funzionalità divina nella Religione romana. Contiene il nome del dio Obarator a pagg.: 141, 145, 178, 186, 193n, 201, 222n.. I nomi sono imposti agli Dei in base ai compiti che questi svolgono. Da una parola come erpicatura (occatio) il Dio è chiamato Occator, da sarchiatura (sarritio) il Dio è chiamato Sarritor, dalla concimazione (stercoratio) Sterculinus, dalla semina (satio) Sator.

Fabio Pittone ha enumerato questi Dei, i quali sono invocati dal flamine nella cerimonia del Sacrum Ceriale per Tellus e Ceres: Vervactor, Reparator, Imporcitor, Obarator, Occator, Sarritor, Subruncinator, Messor, Convector, Conditor, Promitor. […] il Dio Obarator presiedeva l’azione dell’aratura.

Viene da pensare che in tempi lontanissimi, quando il mondo romano era soprattutto rurale e poco scolarizzato, le invocazioni pubbliche agli Dei aiutanti di Cerere servissero ai contadini per rammentarsi la sequenza delle cose da fare nei propri campi, dalla semina al raccolto e poi fino all'aratura per la nuova semina.

Ogni divinità degli Dei Indigetes, cioè della società agricola, disponeva di una potenza inferiore con funzione di servitore (minister)… [Serv. Aen. V, 54] Cerere ne aveva addirittura tredici (come le lune o mesi dell'antico calendario lunare).

Nel cerimoniale in onore della divinità affinché l’invocazione funzionasse davvero, tutti questi servitori dovevano essere menzionati, senza tralasciarne alcuno: solo in questo modo l’azione della divinità avrebbe potuto essere perfetta e senza ostacoli.

Attraverso questo principio possiamo spiegare la lista di indigitamenta che Fabio Pittore trae dai libri ponteficali, per una sacrum ceriale, una cerimonia in onore di Cerere, di certo compiuta in occasione delle Feriae Sementivae, riportata da Servio:
"… Vervactor, Reparator, Inporcitor, Insitor, Obarator, Occator, Sarritor, Subruncinator, Messor, Convector, Conditor, Promitor…" [Fab. Pict. Jur. Pont. Fr 3 apud Serv. Georg. I, 21]



All’invocazione della Dea, si associa dunque quella dei suoi famuli, ciascuno preposto a una singola operazione e che per questo motivo riceve un nome d’agente, costruito semplicemente a partire dall’azione cui è preposto.
Ed ecco i nomi e i compiti delle divinità che aiutavano la Dea delle messi:

Vervactor - "Colui che ara " era il primo Dio invocato per l'inizio della stagione agricola. Ver era infatti la primavera, quando il terreno doveva essere arato. Insieme ad Obarator provvedeva all'aratura. Il lavoro durante l’aratura consisteva nel guidare la coppia di buoi che stava davanti camminandogli a lato e tenendo in mano le funicelle che erano legate al freno applicato al naso degli animali. Dietro un altro agricoltore doveva tenere l'aratro nella giusta posizione e contemporaneamente guidare i buoi attaccati all'aratro.

Obarator - "Colui che traccia la prima aratura". Ob in latino significa "per", da molti ritenuto che ara dal cielo, alcuni credono riguardi la prima aratura assoluta in quel campo, o almeno dal suo proprietario. E' un campo nuovo e quindi avrebbe bisogno più che mai di tutte le benedizioni degli Dei. L'accezione più logica è però che il grano, avendo bisogno di più operazioni, avesse nell'aratura la prima operazione che muoveva la terra.

Stercoratio (pron. Stercorazio) - "il nume che concima la terra", e cioè Stercolinus, Il concime, derivante dallo sterco, veniva steso sui campi a mano, utilizzando come contenitori dei panieri fatti da intrecci di rametti di vinco o altri vegetali flessibili, rivestiti all’interno con un panno per evitare che il concime uscisse. I contadini con una mano tenevano il paniere e con l’altra, camminando, spargevano il concime in modo più uniforme possibile.

Occator - "Colui che erpica, erpicatore" colui che usa l'erpice dopo l’aratura per spianare e sminuzzare il terreno smosso con i suoi denti, e poi per interrare semi e concimi, rompere le sottili croste superficiali del terreno, ma anche per asportare erbacce e residui vegetali.  Si usava in genere prima l’erpice piano, un attrezzo di legno molto semplice, che i contadini costruivano da soli. Poi si usava l'erpice di ferro fatto in genere da due specie di gabbie in ferro che sotto avevano ciascuna 20 lunghi e grossi chiodi con la punta leggermente piegata in avanti.

Reparator - "Colui che prepara la terra" in realtà colui che ripara la terra. Vale a dire spianare o tritare la terra dei campi lavorati con l'erpice.

Imporcitor - "Colui che solca con un largo solco" Il solco largo permetteva di dare largo spazio e nutrimento alla pianta che cresceva con spighe più rigogliose. Finalmente si è alla fase in cui si solca la terra per la semina.

Serritor (o saritor) - "Colui che scava" ovvero era il Dio della zappatura e del diserbo. Anche se lo scavare sembra più appropriato allo scavo del solco. Sembra più appropriato la derivazione da sarchiatura (sarritio). La sarchiatura consiste nel taglio o nel rimescolamento del suo strato superficiale di terra, accompagnata in genere dalla rincalzatura, che si eseguiva con la zappa rimuovendo il terreno dall'interfila e addossandolo sul piede delle piante.

Insitor - "Colui che pianta i semi" era il Dio dedito alla protezione della semina e degli innesti. Tutte queste divinità provvedevano al buon andamento delle diverse azioni compiute dagli agricoltori.

Subruncinator - "Colui che semina " però più che seminatore appare come il Dio del diserbamento, l'atto di rimuovere le erbacce dai raccolti. Aveva una corrispondente Dea femminile di nome Runcina Ora il runcinator è colui che spiana, e il subruncinator è colui che spiana sotto. Un'azione che sembra più riguardare la lavorazione della terra prima della semina, più che la semina stessa.


Messor - "Colui che miete, il mietitore" Dopo aver raccolto il grano si procedeva alla trebbiatura, la separazione dei chicchi dalla paglia e dalla pula

Convector (Convettore)  - "Colui che porta il grano". L'operazione di trasportare il grano mietuto nei posti della battitura doveva essere fatto nel tempo giusto, così come il trasporto dei semi e della paglia.

Conditor - "Colui che immagazzina il grano". Ora immagazzinare il grano era un'arte, per la pulizia dei locali, per l'arieggiatura, per la protezione dai topi e dagli uccelli. Importante era poi mettere da parte i semi per la nuova semina che non dovevano assolutamente essere toccati anche se il raccolto era  scarso pena l'impossibilità di una nuova semina. Per questo a volte gli agricoltori affidavano i loro semi a un capovillaggio che li custodiva e ne impediva l'uso prima della semina.

Promitor - "Colui che distribuisce il grano", in realtà sarebbe il promotore del grano. Sappiamo però che spesso anticamente gli agricoltori mettevano da parte del grano per la semina e lo affidavano al capovillaggio che lo raccoglieva nei silos, per ridistribuirlo poi al momento della semina. Se il raccolto era andato particolarmente bene se ne teneva anche una parte ulteriore, conservata per i futuri raccolti carenti, sostituendo naturalmente il grano vecchio con il grano nuovo. Questa operazione, come tutte le altre, erano ovviamente compiute dagli uomini ma la loro efficacia dipendeva dall'attenersi all'ispirazione di questi Dei minori che andavano ossequiati e invocati.


TRES TABERNAE (Lazio)

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I MOSAICI DI TRES TABERNAE
Le Tres Tabernae (le tre taberne) era una località dell'antico Lazio sulla Via Appia a circa 50 km da Roma. La sua posizione è segnalata sulla Tabula Peutingeriana, ed era la prima mansio o mutatio (posto di riposo per i viaggiatori) da Roma. A questa altezza si congiungeva probabilmente da ovest una strada proveniente da Anzio, e successivamente una da est proveniente dai piedi della montagna di Norba.

I suoi resti archeologici vengono situati a 5 km a sud-est di Cisterna di Latina (provincia di Latina nel Lazio), ed esattamente alle Grotte di Nottola, in corrispondenza della progressiva miliaria riportata dalle fonti antiche. Altri ne hanno proposto l'identificazione con Cisterna stessa (scavi del 1993-2001), quantunque per questi ultimi ritrovamenti siano state proposte anche le spiegazioni più disparate.

STRUTTURA TERMALE

STORIA E LEGGENDA

Gli ATTI DEGLI APOSTOLI sono un testo greco contenuto nel Nuovo Testamento, redatto intorno all'80-90 d.c., attribuito dalla tradizione cristiana a Luca, collaboratore di Paolo e autore del Vangelo secondo Luca.

Secondo questo testo, San Paolo, in viaggio verso Roma, fu accolto da un gruppo di cristiani romani venutigli incontro lungo l'Appia fino a questa mutatio ed a quella più meridionale di Forum Appii (dove via Appia entrava nelle paludi pontine).

A Tre Taverne fu imprigionato l'ex-imperatore Flavio Valerio Severo (... - 307) da Massenzio (278 - 312) e Massimiano prima di essere ucciso (suicidio imposto da Costantino nel 310).
Cisterna di Latina, graziosa cittadina che si affaccia sull'antica Via Appia deve la sua storia ai Romani che qui si insediarono fondando Tres Tabernae. I resti di questo antico sito sono visibili e visitabili alla periferia della città.

Il sito archeologico di Tres Tabernae è il primo insediamento da cui nacque la comunità di Cisterna di Latina; l’antico abitato si sviluppò infatti sull’Appia intorno a una stazione di posta e prese il nome di 3 tabernae, o botteghe.

La prosperità del luogo cessò con l’arrivo dei barbari prima, e dei saraceni poi, che nell’anno 868 la rasero al suolo.

LE TERME PER I VIAGGIATORI
I MOSAICI
"L’area è passata da quasi quattro anni sotto il completo controllo del Comune grazie ad un accordo con la Soprintendenza ai Beni Culturali di Latina. Il Comune, dunque, ha preso possesso del sito e di tutto quello che c’è all’interno ed avrebbe pieno diritto a disporre qualsiasi intervento di valorizzazione.
Ciò nonostante, in questi anni, non sono stati formulati progetti di alcun tipo su Tres Tabernae, né per l’area archeologica, né per i suoi millenari resti. Intanto, gli agenti atmosferici degradano quello che è rimasto del tesoro archeologico cisternese, disseppellito nel 1996 e poi di nuovo ricoperto con un sottile strato di terra.


LA STRADA ROMANA
È dai tempi dell’amministrazione Salvatori infatti, che sono iniziati gli scavi per portare alla luce le meraviglie romane che si trovano ai margini dell’Appia. Allora sembrò una scoperta sensazionale e tutti pronosticavano per il sito un grandioso futuro.

Prima venne ipotizzata la costruzione di un parco archeologico ad hoc, poi la messa in rete con altre aree archeologiche importanti del nostro territorio ed infine il famoso P.I.T (piano integrato territoriale) che avrebbe dovuto valorizzare le potenzialità delle nostre zone a cominciare proprio dal patrimonio archeologico. 


Sfumate di fatto tutte queste ipotesi, qualche anno fa l’amministrazione Merolla ipotizzò un museo dell’archeologia a Cisterna, che mettesse insieme i preziosi reperti affiorati da altri siti scoperti nel territorio comunale. Un progetto suggestivo riposto nel dimenticatoio assieme alle altre buone intenzioni delle amministrazioni comunali degli ultimi 15 anni.



Ora tocca al nuovo sindaco Eleonora Della Penna ed ai suoi alleati politici trovare una strada percorribile per ridare alla città le meraviglie del suo passato, compatibilmente con le esigenze di risparmio imposte alla pubblica amministrazione. Il nuovo governo cittadino sembra essere sensibile al tema della valorizzazione del patrimonio archeologico locale, o almeno questo ha trasmesso nel corso dell’ultima campagna elettorale. Vedremo cosa farà concretamente.

Ma bisogna fare in fretta: il tempo passa ed i preziosi mosaici che impreziosiscono Tres Tabernae si stanno logorando lentamente. A minacciarli, oltre agli agenti atmosferici, ci sono anche gli incendi estivi (in questi anni da quelle parti ne sono scoppiati almeno una mezza dozzina) oltre ai cacciatori di antichità".
Peccato che Eleonora Della penna si è dimessa in quanto indagata con la sua giunta per truffa. Le Tres Tabernae non trovano soluzione.

Ma finalmente: dopo anni di abbandono, grazie a una campagna di restauri, ritornano alla luce i bellissimi mosaici che testimoniano la raffinatezza di quell’antica comunità romana. I restauratori illustreranno il lavoro compiuto e proporranno un laboratorio di mosaico.



PORTA PINCIANA (Porte Aureliane)

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VEDUTA ESTERNA DELLA PORTA PINCIANA
La Porta Pinciana è un accesso alla città di Roma situato tra Viale del Muro Torto e Via Vittorio Veneto. Della Porta la maggior parte degli studiosi ritiene fosse un semplice accesso secondario ampliato in occasione della ristrutturazione del V secolo.

I bei giardini sulla collina pinciana appartennero agli Acilii Glabriones almeno dal II sec. d.c., se ne ignorano i confini esatti, ma dai resti ritrovati si presume che si estendessero da Trinità de' Monti fino alle pendici della collina a Villa Borghese, e ad est fino a Porta Pinciana.

La Porta fu eretta per volere dell’imperatore Aureliano ed inserita nella lunga cinta di mura urbane iniziate a costruire nel 271 d.c., ma terminate solamente nel 279 d.c. Le mura Aureliane, lunghe circa 19 km, seguivano una linea studiata per includere sia le alture che le costruzioni di grandi dimensioni. Anzi molte costruzioni vennero incluse per fare a loro volta da bastioni risparmiando mattoni, soldi e tempo di costruzione.

Porta Pinciana chiudeva, ai tempi di Aureliano, la VI regio augustea nel versante settentrionale, appoggiandosi alle ripide pendici del Pincio ed utilizzando in parte i muraglioni di sostruzione delle ville, che vi sorgevano sopra.

Gli horti passarono alla gens Pincia nel IV sec., da cui presero il nome la collina e l'attuale Porta Pinciana. Gli Horti passarono poi ad Anicia Faltonia Proba e suo marito Petronius Probus, divenendo poi proprietà imperiale col nome di Domus Pinciana.

VEDUTA INTERNA DELLA PORTA PINCIANA

I NOMI DELLA PORTA

- un tempo fu chiamata Porta Turata, perché era stata murata; venne infatti murata nel 1808 a causa della sua scarsa importanza per il transito delle merci e, la strada di accesso, l’attuale via di Porta Pinciana, fu ridotta un viottolo. 
Venne riaperta nel 1887 a seguito dell’urbanizzazione del quartiere a causa di Roma Capitale del regno;

- ma fu chiamata anche Porta Salaria Vetus, perché da qui usciva la più antica via Salaria che, poco più avanti, si congiungeva con il tracciato della via Salaria Nova. 
La via del sale proveniva dalla Porta Fontinalis delle Mura Serviane, alle pendici del Campidoglio, costeggiava il Quirinale e con un percorso corrispondente alle attuali via Francesco Crispi e via di Porta Pinciana usciva dalla Porta Pinciana, congiungendosi, poco oltre la porta, alla "via salaria Nova", che invece usciva dalla Porta Salaria, per dirigersi poi verso la Valle dell'Aniene e la Sabina;


- nel medioevo fu detta “Porta Belisaria”, in quanto rivisitata con due torri cilindriche fatte costruire dal generale bizantino Belisario. 
Secondo una leggenda il generale Bizantino Belisario, che morì in grande ricchezza, avrebbe mendicato, ormai vecchio e cieco, presso la Porta, dove era ancora visibile, all'inizio del XIX secolo, un graffito, ora scomparso, con su scritto ”Date obolum Belisario”; da ricordare che fu proprio Belisario a restaurare la grande cinta muraria aureliana. 
La croce greca, raffigurata nella chiave dell’arco, è l’unica testimonianza dei restauri fatti fare da Belisario, a cui si doveva riferire anche l’iscrizione medievale perduta nell’800;

- la denominazione Pinciana, con le distorsioni dialettali dell'epoca medievale in cui il latino, per mancanza di scuole e scolarizzazione, venne man mano perduto dando luogo all'analfabetizzazione, per corruzione fu detta anche "Porciana" e "Portiniana".

- oggi si chiama Porta Pinciana dal nome dell'omonimo colle.

LAGHETTO DEL PINCIO

IL PINCIO

Il colle Pincio era collocato al di fuori dei confini originali della città e infatti non fa parte dei sette colli, tuttavia si trova all'interno delle mura costruite dall'imperatore Aureliano tra il 270 ed il 273. e molte famiglie patrizie dell'Antica Roma vi edificarono le loro dimore e i loro giardini (horti), specie nell'ultimo periodo repubblicano.

Tra i personaggi che elessero la propria dimora sulle pendici del colle ricordiamo Scipione Emiliano e forse anche Pompeo Magno. Ma soprattutto ricordiamo Lucullo, con i suoi splendidi Horti Lucullani, edificati grazie al bottino realizzato con la vittoria su Mitridate nel 63 a.c.

Vi si trovavano inoltre gli Horti Sallustiani, proprietà in origine dello storico Sallustio e in seguito unificati agli horti luculliani in un'unica proprietà detta in Pincis nell'era imperiale, poi gli Horti Pompeiani, e gli Horti Aciliorum, degli Acilii.

Proprio per la presenza di queste dimore, il colle fu noto nell'antichità come il Collis Hortulorum (il colle dei giardini). La villa dei Pincii, con quella degli Anicii e degli Acilii, occupava la parte settentrionale della collina e un resto delle sostruzioni di queste residenze è il cosiddetto Muro Torto.

In epoca augustea la regio subì un'intensa urbanizzazione: qui Agrippa fece edificare il Campus Agrippae (dedicato nel 7 a.c.), una villa e la sua tomba, mentre sua sorella Polla fece edificare la Porticus Vipsania. In prossimità di piazza Santi Apostoli si trovava la caserma della I coorte dei vigili e poco lontano era il mercato della carne suina, il Forum Suarium.
ANTICA STAMPA DELLA PORTA PINCIANA

LA PORTA

La Porta venne realizzata dall'imperatore Onorio durante le operazioni di restauro delle mura aureliane operato nel 403, ingrandendo la preesistente posterula di epoca aureliana e realizzando le due torri laterali a base semicircolare, e che conserva ancora l'originale arco centrale in travertino.

Il pericolo delle invasioni barbariche era incombente si che Onorio fece anche rialzare l'intera cinta muraria, rinforzare le torri e le porte e fece costruire le torri difensive alle porte che non ne avevano, con merlature e posti di guardia, come la Pinciana, l'Asinaria e la Metronia.

Il suo arco in laterizio, rimase unico perchè meno passaggi c'erano più le porte erano facili da difendere, collocato fra due dei tanti contrafforti quadrati che sporgevano dalle mura, tuttavia ampliato e rinforzato, e ne vennero aggiunte le due torri cilindriche ai lati, non si sa per quale ragione asimmetriche.

L'arcata originaria, in travertino, è rimasta quella dell'epoca. La porta Pinciana passò così, grazie ad Onorio, da posterula a Porta di grande importanza strategica, posizionata com'era in cima al colle, e venne affiancata da due solide torri semicircolari. Le piccole porte su entrambi i lati sono state aggiunte nel XX secolo.



COHORS I e II CANTABRORUM (EQUITATE)

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La Cohors I Cantabrorum [equitata] era la I coorte tedesca dei Cantabrici, originari della Spagna nordoccidentale ed era un'unità ausiliaria romana. È dimostrata da diplomi militari e marchi sui laterizi. (coorte = sottounità della legione romana)

Detti Cantabrorum in quanto furono reclutati nella formazione dell'unità dal popolo dei Cantabrici, ed
equitata: in quanto erano in parte a cavallo. Secondo alcuni fu invece solo peditata (fanteria), ma ci sono prove di una parte equitata.
La I e la II Cantabrorum vennero reclutate nella provincia Hispania Citerior Tarraconensis tra i cantabri, uno dei popoli pre-romani della Hispania che si era opposto più ferocemente alla conquista romana, specialmente durante le guerre augustee in Cantabria.

Poiché non vi sono prove per il suffix milliaria (1000 uomini), l'unità poteva essere una coorte di fanteria con una forza nominale di 480 uomini ma si ritiene invece una Cohors equitata con una forza di 600 uomini (480 fanteria e 120 cavalieri) composta da una fanteria di 6 centurie con 80 uomini ciascuno e 4 Turmae (la più piccola unità tattica di cavalleria romana) con 30 cavalieri ciascuna. 



STORIA

La data del reclutamento è sconosciuta, ma forse è stata fatta sotto il dominio di Nerone (37-68), in occasione delle campagne orientali di Corbulo (7-67), per sostituire le truppe che erano state mandate ad est dal limes del Danubio.

La prima prova di unità nella provincia della Mesia si basa su diplomi militari datati al 78 d.c. (Diploma Militaris CIL XVI, 22 febbraio 7, 78) Nei diplomi, la coorte è elencata, nell'era di Vespasiano, come parte delle truppe di stanza in Mesia, alla base di Ad Aquas (Prahovo, Serbia), sotto il governatore Sextus Vettulenus Cerialis.  

I luoghi della coorte in Moesia erano probabilmente: Acumincum: i reperti in mattoni COHICANT indicano la presenza (o parti) della coorte in o vicino all'Acrumum. Sicuramente partecipò alla Campagna di Corbulo contro i Parti e alla Guerra Giudea di Vespasiano e Tito.

Conosciamo solo il nome di uno dei suoi Praefecti, M. Clodius Ma(ternus?) ( Ins. Ital . X, II, 737), nativo di Brixia (Brescia - Italia), e di uno dei suoi soldati, Crispo ( Situla 19).
 
I seguenti comandanti dell'unità sono noti:
- Caio Cammicus Sabinus ( AE 2010, 1853 ) (AE =Année épigraphique) Nel diploma militare viene chiamato comandante dell'unità perché il diploma è stato rilasciato a un soldato del Cohors I Cantabrorum. Il suo grado non è specificato nel diploma.


Imp (erator) Caesar Vespasianus Augustus pontifex maximus tribunic(ia) potestat(e)
VIIII imp(erator) XVIIII p(ater) p(atriae) censore co(n)s(ul) VIII peditibus et equitibus 
qui militante in cohortibus octo I Cantabrorum I Thracum Syriaca I Sygambrorum tironum II Lucensio III et VIII Gallorum Cilicum Mattiacorum quae sunt in Moesia sub Sex(to) Veterinario tuleno Ceriale qui quina et vicena stipendia aut plura meruerunt quorum nomina subscripta sunt ipsis liberis posterisque eorum civitatem dedit et conubium cum uxoribus quas tunc habuissent cum est civitas iis dati aut si qui caelibes essent cum iis quas postea duxissent dum taxat singuli singulas a(nte) d(iem) VII Idus Febr (uarias) L(ucio) Ceionio Commodo D(ecimo) Novio Prisco co(n)s(ulibus) 
coorte(a) I Cantabrorum cui prae(e)st C(aius) Cammicus C(ai) f(ilius) Fab(ia) Sabinus pediti Octavio Daphni f(ilio) Lingon(i) descriptum et recognitum ex tabula aenea quae fixa est Romae in Capito lio post piscinam in tribunal(i) deorum  party posteriore
Sex(ti) Priverni Celeris
P (ubli) Atini Rufi 
Cn(aei) Pompei Maximi
M(arci) Veturi Montani
M(arci) Stlacci Iuvenalis
L(uci) Naevi Vestalis
M(arci) Lolli Rufi   

Imp (erator) Caesar Vespasianus Augustus pontifex maximus tribunic(ia) potestat(e)
VIIII imp(erator) XVIIII p(ater) p(atriae) censore co(n)s(ul) peditibus et equitibus qui militante in cohortibus octo I Cantabrorum I Thracum Syriaca Sygambrorum tironum Lucensium III et VIII Gallorum Cilicum Mattiacorum quae sunt in Moesia sub Sesso(a) Vettuleno Ceriale qui quina et vicena stipendia aut plura meruerunt quorum nomina subscripta sunt ipsis liberis posterisque eorum civitatem dedit et conubium cum uxoribus quas tunc habuissent cum est civitas iis dati si qui caelibes essent cum iis quas postea duxis inviato dumtaxat singuli singulas a(nte) d(iem) VII Idus Febr(uarias) L(ucio) Ceionio Commodo D(ecimo) Novio Prisco co(n)s(ulibus) coorte(è) I Cantabrorum cui prae(e)st C(aius) Cammicus G(ai) f(ilius) Fab(ia) Sabinus  pediti  Octavio Daphni f(ilio) Lingon(i)  descriptum et recognitum ex tabula aenea quae fixa est Romae in Capitolio.

- Marco Clodio Ma[.] ( CIL 5, 4326 ): nell'iscrizione è elencato come prefetto della Cohors Cantabrorum, che può essere la Cohors I Cantabrorum. L'omissione del numero probabilmente significa che il Cohors II Cantabrorum non esisteva in quel momento.

DIPLOMA MILITARE DELLA II CANTABRORUM
L'unità dovette partecipare alle operazioni precedenti alla guerra di Domiziano (51-96) di Dacia, ma ne uscì fuori così danneggiata, che i pochi sopravvissuti furono integrati in un'altra unità, forse il Cantabrorum di Cohors II inviato in Giudea.

Questa ultima unità era destinata alla Siria o alla Cappadocia e partecipò alla I guerra giudeo-romana sotto la direzione di Vespasiano e Tito Insieme alla I cohors cantabrorum, essendo stanziata nella provincia della Giudea, dove appare attestata nel diplomatico militaris CIL XVII 33 del 13 maggio 86, AE 2005, 731 anche di 86, ZPE 170, 2009, pp. 201-206 di 87 e RMD V, 332 di 90, tutti sotto Domiziano.
Non ci sono testimonianze dopo l'ultima data di questa unità, quindi deve essere scomparsa in qualche azione di combattimento sconosciuta.

GENS ROSCIA

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CONIO DELLA GENS ROSCIA RAFFIGURANTE GIUNONE CAPROTINA
Non sappiamo molto della gens Roscia se non che il suo nome doveva risalire alla colorazione dei capelli di alcuni suoi capostipiti, naturalmente rossi. Doveva essere però una gens di una qualche importanza, visto che le venne concessa la coniazione di una moneta d'argento, dedicata a Lucio Roscio Fabato, pretore e comandante della X legione sotto Giulio Cesare in Gallia, tant'è che questa moneta fu definita Moneta Roscia. Si trova spesso Giunone sulle monete del denaro dei repubblicani le cui radici familiari sono nel Lanuvium, come L. Roscius Fabatus e davanti a lui Lucio Thorius Balbus, Lucio Procilio e Lucio Papio.

Secondo alcuni storici il nome di Castello di Rosceto, Todi (PG) deriverebbe dalla Gens Roscia,  anche se sul luogo non sono state trovate almeno a tutt'oggi tracce che testimonino la loro presenza.
 

- Lucio Roscio - 

(Lucius Roscius) è il più antico componente della gens Roscia che risulta nominato. Questi fu uno dei quattro romani inviati a Fidenae dopo la rivolta contro il dominio romano e l'alleanza con la città etrusca di Veii. Lui e gli altri emissari romani furono assassinati per ordine del re di Veii, Lars Tolumnius, (morto nel 437 ac).
 

- Lucio Roscio Fabato -

Il nome latino di Lucio Roscio Fabato, cioè Lucius Roscius Fabatus, come già detto, comparve effigiato sulla moneta d'argento del 64 o del 58 d.c. con la scritta L. Rosci da un lato e Fabati dall'altro.
Trattasi di un denario di argento, frangiato, di circa 4 g che presenta su un lato l'immagine di Iuno Sospita (Giunone soccorritrice) con la testa ricoperta di una pelle di capra con dietro una minuscola casetta forse simbolo del mundus, o entrata agli Dei Mani, oppure, come sembra più probabile un piccolo santuario.

Sotto c’è la scritta L. Rosci (” di Lucio Roscio”). Sul retroverso è raffigurata una giovinetta che estrae del cibo da una sacca (secondo alcuni sarebbero dei pesci) per darlo a un serpente sacro e sotto vi è scritto Fabati (di Fabato).

Ora la pelle di capra che avvolge il capo di Giunone allude all'antica Dea Capra (a Roma c'è un monte Caprino a lei dedicato ove evidentemente sorgeva un suo santuario, e non certo perchè nel centro di Roma ci pascolassero le capre come qualcuno ha suggerito), una Dea lussuriosa, fertile e donativa di latte, che venne poi assimilata a Giunone con quest'immagine.

Non si sa bene se Lucio fosse pretore, o questore, o legato di Giulio Cesare nel corso della conquista della Gallia, ma si sa che fu comandante della X legione sotto Giulio Cesare in Gallia dal 54 a.c., e la X non era una legione qualsiasi, perchè era la più gloriosa e fidata del generale romano e di certo Cesare l'avrebbe fatta guidare solo al più valoroso e affidabile dei suoi comandanti.

LA MONETA IN ALTRO CONIO
Si sa poi che fu  Praefectus monetalis nel 64 o nel 58 a.c. e che a lui si debba, forse nel 59 a.c., la proposta della lex Manilia Roscia Peducaea Alliena Fabia, probabilmente una norma attuativa della Lex Iulia agraria campana del 59 a.c., voluta da Cesare, che istituiva un collegio di venti persone per dare esecuzione alle norme di questa legge. Trattavasi di una legge molto importante e pericolosa, visto che sei dei suoi propositori vennero nel tempo assassinati per impedirne la prosecuzione, ma che invece si occupava della tutela delle assegnazioni nelle colonie e nei municipi, in una prospettiva di salvaguardia dell’ordine pubblico.

Dopo la seconda spedizione in Britannia, Cesare inviò Lucio Roscio a svernare nel territorio degli Esuvi (un popolo celtico della Gallia) con la XIII legione. Nel 49 a.c., egli viene menzionato dalle fonti con la carica di pretore, per cui divenne l'autore della legge che concedeva la cittadinanza romana ai Transpadani. La Lex Roscia, presentata per conto di Giulio Cesare, concedeva il Plenum ius ai cittadini della provincia della Gallia Cisalpina. Questi con la Lex Pompeia de Transpadanis avevano ricevuto nell'89 a.c. la cittadinanza latina, mentre la legge del 49 a.c. concedeva la piena cittadinanza romana.


Giulio Cesare cercava così di garantirsi l'appoggio della popolazione della Transpadana, che aspiravano da tempo al Plenum ius, proprio allo scoppio della Guerra Civile contro Pompeo Magno. La famosa Legio X era stata del resto in gran parte reclutata nella Cisalpina. Altra conseguenza della Lex Roscia fu la trasformazione delle città da colonie latine a municipia romani, un notevole impulso all'urbanizzazione. Inoltre cercò in ogni modo di scongiurare la guerra civile tra Cesare e Pompeo però, una volta iniziata la guerra, Lucio Roscio si schierò con Cesare. Nel 43 a.c. morì nella battaglia di Modena, alla dovette partecipare nelle file dell'esercito senatorio contro Marco Antonio.



LA CERIMONIA LANUVIANA

La Moneta Roscia, così detta perchè dedicata ad un membro della gens Roscia, fa riferimento ad una sacra cerimonia latina che si teneva a Lanuvium (donde si pensa fosse originaria la Gens Roscia) in onore di Juno Sospita. Si dice che la cerimonia consistesse in un rito nel quale una vergine scendeva in una grotta nella quale vi era un serpente e dove la vergine doveva dare del cibo al serpente stesso: se la fanciulla era casta sarebbe tornata sana altrimenti non sarebbe più uscita viva.

La realtà però era altra, il serpente era il simbolo della Madre Terra e tutte le Pitie o Pitonesse ne allevavano nei templi della Grande Madre Tellus. Nessuna sacerdotessa venne mai morsa, per il semplice fatto che un serpente, come un cane o un gatto, si affeziona a chi lo nutre e mai gli farebbe del male. Anzi i serpenti amano essere accarezzati e coccolati come qualsiasi creatura.


- Quinto Roscio Gallo -

(lat. Q. Roscius Gallus). Attore latino (m. prima del 62 a. C.), schiavo di origine, uomo di grande cultura, nativo dell'agro Solonio presso Lanuvio. Liberato da Silla, divenne uno dei più bravi attori romani, tanto che il suo nome divenne tipico per l'artista di scena. Introdusse l'uso della maschera in scena; tenne anche scuola di recitazione e compose un libro su quest'arte, forse il primo manuale di recitazione. Contribuì al successo delle commedie di T. Quinzio Atta.  in contatto con gli uomini più in vista della Roma antica. Fu difeso da Cicerone, del quale era stato maestro per l'arte del porgere, nella causa di risarcimento di danni contro Fannio Cherea con l'orazione Pro Roscio comoedo (del 77 o del 66 a.c.).  Alla carriera da attore affiancò quella da equestre, titolo insignitogli da Silla.


IL GIOVANE CICERONE
- Sesto Roscio Amerino (il giovane) -

(lat. Sextus Roscius Amerinus). - Cittadino di Ameria (Amelia), difeso da Cicerone (80 a.c.) in un processo intentatogli da Crisogono, liberto di Silla, con l'accusa di avere ucciso il padre (i beni del quale lo stesso Crisogono aveva carpito mediante la proscrizione). 

L'orazione in sua difesa, Pro Sexto Roscio Amerino, è la seconda in ordine cronologico, tra quelle di Cicerone, ed è una delle più perfette, ma presentò qualche rischio per Cicerone, poichè egli accusò Lucius Cornelius Chrysogonus, un liberto di Silla (Sulla), poi dittatore di Roma, per corruzione e coinvolgimento nel crimine.

Crisogono aveva comprato la proprietà del proscritto Sextus Roscius Amerinus, del valore di 250 talenti (ogni talento corrispondeva a 100 libbre d'oro), per 2.000 denari (un denaro equivaleva a 1/72 di una libbra romana, d'argento. Alla fine, Sesto il giovane fu assolto dalle accuse di omicidio, ma non potè riappropriarsi della sua terra.


Lucio Roscio Ottone -

di origine plebea, ottenne la carica di tribuno della plebe e fece la legge sui teatri, "Discrimina ordinum: The Lex Julia Theatralis" una legge del 67 a.c. che riservava 14 file di buoni posti nel teatro per membri dell'ordine equestre. Gli equites o "cavalieri" che avevano questo privilegio non erano tutti quelli che soddisfacevano i requisiti di proprietà sotto il censimento per l'ammissione all'ordine, ma piuttosto quelli che avevano il diritto del "cavallo pubblico", un gruppo più piccolo e più elitario. Il poeta latino Orazio si riferisce ad esso satiricamente nelle sue epistole e si chiede se il melior est sia un puerorum nenia (è molto meglio della filastrocca per bambini).


- Marco Roscio Coelio -

Marcus Roscius Coelius (o Caelius) fu un ufficiale militare del I sec. d.c.. Fu un legato della XX Valeria Vitrix stazionata in Britannia nel in 68. Egli era in conflitto con il governatore provinciale, Marco Trebellius Maximus, e colse l'occasione durante il tumulto dell'anno di quattro imperatori per fomentare l'ammutinamento contro di lui. Trebellius perse ogni autorità con l'esercito, che si schierò con Coelius, e fuggì per farsi proteggere da Vitellius in Germania. Celio con i suoi regnò brevemente nella provincia fino a quando Vitellio, ora imperatore, inviò Marco Vettio Bolano come il nuovo governatore alla fine del 69. L'anno della guerra civile finì quando Vespasiano divenne imperatore. Nel 71 questi ricordò il comportamento infido Coelius che gli era stato reso noto, e lo sostituì nel comando della XX Valeria Victrix con Gneo Giulio Giulio Agricola.

MAUSOLEO DI VIRGILIO

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PARCO E TOMBA DI VIRGILIO
Nel piccolo parco sito alle spalle della chiesa di Santa Maria di Piedigrotta, nei pressi della stazione ferroviaria di Mergellina, sulle pendici orientali del promontorio di Posillipo, sembra si trovi la preziosa tomba-mausoleo di Virgilio Marone (Andes, 70 a.c. - Brindisi, 19 a.c.), il grande autore dell'Eneide.

Posillipo viene dal nome greco Pausilypon (“pausa della tristezza”) dato alla splendida villa romana che sorgeva sulla collina, villa Patulco, dal nome della divinità venerata in zona, che avrebbe appartenuto al grande Virgilio, ma tutta l’area a giardino, che ospita monumenti rilevanti per la storia dell’area partenopea, ha un aspetto magico e sognante.

Publio Virgilio Marone asserì aver qui composto le sue opere Bucoliche, Georgiche e parte dell’Eneide. Morto a Brindisi, dopo un viaggio dalla Grecia, nel 19 a.c., lasciò per testamento di essere sepolto in detta zona, ovvero nel mausoleo a colombario di età augustea.

All’entrata del parco un'edicola del 1668, posta dal viceré Pietro d’Aragona, ricorda la presenza della tomba virgiliana e in una grande nicchia sulla parete, si trova un busto di Virgilio su colonnina, omaggio nel 1931 degli studenti dell’Accademia dell’Ohio. Poi salendo si giunge all’ingresso orientale della Crypta Neapolitana, una delle più antiche gallerie del mondo, scavata in età augustea come collegamento tra Napoli e i Campi Flegrei.

PARCO VIRGILIANO E CRYPTA NEAPOLITANA
Circa un secolo dopo la morte di Virgilio, il luogo divenne sacro e meta del turismo colto, come Stazio, Plinio il Giovane e Silio Italico, il quale si recava al sepolcro virgiliano, per ricordare il 15 ottobre l’anniversario della nascita del poeta. 

Secondo Elio Donato (secolo IV d.c.), biografo di Virgilio, il poeta fu sepolto al II miglio della via Puteolana, un’ubicazione che sarebbe per alcuni l’area attigua alla strada romana che attraversava la grotta in direzione di Pozzuoli, per altri si riferirebbe a luoghi più lontani, fino alle falde del Vesuvio. 

Però la tradizione popolare giura che in questo mausoleo venne sepolto Virgilio, assurto a divino protettore di Napoli e magico creatore della Crypta. Il mausoleo, edificato in opus reticulatum a colombario con tamburo cilindrico su un basamento quadrangolare, ha la cella funeraria a pianta quadrata con volta a botte, illuminata da feritoie e dotata di dieci nicchie per ospitare le urne cinerarie. 

L'EPIGRAFE VERLILIANA
Nota anche come “Grotta vecchia di Pozzuoli”, questa galleria fu costruita in età augustea dal liberto Lucius Cocceius Aucto, architetto di Agrippa ed ammiraglio di Ottaviano. Menzionata nella Tabula Peutingeriana e ricordata oltre che da Strabone anche da Donato, Seneca, Petronio ed Eusebio, risulta scavato interamente nel tufo per m 705, larga m 4,50 e alta m 5,00, rischiarata e ventilata da due pozzi di luce obliqui.

Qui fu rinvenuto però un bassorilievo marmoreo di Mitra di fine III - inizio IV secolo d.c., ora conservato nel Museo Archeologico Nazionale di Napoli, il che ha fatto ipotizzare un luogo di culto mitriaco, non a caso usato in luoghi sotterranei. 

Ma la tradizione è importante e il poeta Silio Italico, Console di Roma nel 68 d.c., ne acquisì la proprietà: ”Egli ogni giorno visitava il sepolcro di Marone, adorando le fredde di lui ceneri come fatto avrebbe di un Nume”, come testimoniò Marziale: “Silius haec magni celebrat monumenta Maronis”.

L'INTERNO DEL MAUSOLEO
Papirio Stazio, poeta amico di Domiziano “solea sedere sopra i gradini del monumento, e godea di accompagnare con la lira i versi che i mani del suo eccelso maestro avevano saputo ispirargli”. L'urna marmorea con le ceneri di Virgilio, secondo vari storici, fu fatta trasferire, su ordine di re Roberto d’Angiò, presso il Castel dell’Ovo nel XIV secolo, al fine di metterla in sicurezza dal passaggio dei diversi visitatori e viandanti.

La tomba era posizionata lungo la via Puteolana, strada extra-urbana in direzione di Pozzuoli, ove erano solite le costruzioni funerarie e i templi dedicati al Dio del sole, Mitra.

Vi fu testimonianza di lapide in cui si riscontra la proprietà del sepolcro ceduta dai Canonici Regolari Lateranensi al sig. Giuseppe Vitale nel 1643:

Maronis Urnam, cum adiacenti monticulo extensaque ad cripta planitie modiorum trium cum dimidio circuite, Urbano VIII annuente ac Reverendissimo D.Gregorio Peccerillo, Vicario Neapolitano una cum admodum Reverendo D.Io.Vincentio Iovene, Canonico Cimiliarca Neapolitanae Archiepiscopalis, delegatis exequntoribus, anno addicto censu duc. 52, Domino Iosepho Vitale, eiusque in aevum successoribus Canonici Regulares Lateranenses concessere anno salutis 1643
(Storia Patria, p.723).

IL BUSTO DI VIRGILIO
Sulla lapide, scritta per mano di Virgilio si leggeva:
MANTUA ME GENUIT, CALABRI RAPUERE,
TENET NUC PARTHENOPE,
CECINI PASCUA, RURA, DUCES

“Mantova mi generò, in Calabria venni rapito, Ora mi tiene Partenope; cantai pascoli, campi e condottieri.”

Ma Virgilio non venne ritenuto solo un grande poeta, ma pure un grande mago, tanto più che era iniziato al “neopitagorismo”, corrente filosofica e magica-religiosa diffusa in Magna Grecia ed a Napoli.
Si credeva così che la Crypta Neapolitana fosse stata costruita da Virgilio per agevolare i viandanti diretti o provenienti da Pozzuoli, congegnando il tunnel in modo da essere illuminato dalla luce del sole. 

LA CRYPTA  ADIACENTE AL MAUSOLEO
Ma non solo, perchè gli si attribuì pure di “aver dissipata l’aria malsana de’ dintorni di Napoli; e l’aver per incanto distrutte le cicale e le sanguisughe nelle acque” rendendo salubri i bagni delle acque flegree dalle virtù terapeutiche, donate poi dallo stesso ai poveri della città di Napoli.

Secondo la leggenda un libro di magia, conservato nella sua tomba e tanto ricercato dai negromanti, finì per essere rinvenuto e “studiato nell’opera di Chironte e divenuto esperto in magia” (S. Volpicella).



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