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CASA DEL MENANDRO (Pompei)

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PERISTILIO E GIARDINO INTERNO

La casa del Menandro è una grande domus urbana dell'antica Pompei di quasi 1800 m². È situata nella Regio I, Insula 10, entrata 4. La villa è stata scavata dal novembre 1926 e giugno del 1932 ed è un buon esempio di una domus di una famiglia benestante dell'antica Pompei.

Prende il nome non dal proprietario della casa, ma dall'immagine del poeta greco Menandro (commediografo greco 342 - 291 a.c.), ritrovata in loco, evidentemente molto apprezzato dal proprietario.


La villa è molto antica, sembra sia stata edificata nel II sec. a.c., ma fu rielaborata e modernizzata: la parte più vecchia è di modeste dimensioni ed è composta da un atrio (il cortile interno porticato e dotato di impluvio e compluvio) costruito nel 250 a.c. con degli spazi immediatamente circostanti per tutti gli usi della casa.

La casa si sviluppa su due piani. Il corpo centrale è infatti costruito a un livello superiore rispetto a quello del cortile con il forno e i sotterranei e a quello dell'ergastulum, il quartiere riservato ai servi.
Lungo la facciata dell'edificio vi sono bassi sedili in muratura per la clientela (clientes) e l'ingresso è inquadrato da due pilastri corinzi.

L'ATRIO CON L'IMPLUVIO
Per la porta d'ingresso e per il tablinum (locale adibito a salotto o studio solitamente posto in fondo all'atrium) furono usati dei capitelli di tufo, secondo l'uso arcaico. L'atrio è infatti tuscanico (con tetto privo di colonne con travature a sostegno delle falde inclinate del tetto) ma, con i rifacimenti, ha un grande impluvium rivestito in marmo, pitture in 'quarto stile' ed un tempietto, dove si veneravano i Lares (protettori della famiglia) e il Genius, spirito vitale del capofamiglia.

Come si può vedere nella foto il peristilio presenta lungo le mura della casa una fascia inferiore rossa sormontata da una fascia giallo ocra, i caratteristici colori romani, mentre sul muro del giardino ci sono fasce di nero intervallate dalle basi delle colonne dipinte di rosso.

PLANIMETRIA DELLA VILLA
Tutta la casa del resto è dominata, come si vede nell'atrio, dal rosso e dal giallo. Le colonne, scanalate, sono in tufo rivestite di stucco e presentano capitelli tuscanici. Dopo il terremoto del 62 molti dei marmi pompeiani si frantumarono e gli ingegnosi pompeiani (e romani in genere) ne approfittarono per creare uno stucco che usufruendo dei vari marmi polverizzati, uniti a gesso o cemento, simulasse egregiamente l'autentico marmo, molto costoso.

Il pavimento  del peristilio è a mosaico a motivi geometrici con tessere bianche e nere. Sulle pareti compaiono medaglioni affrescati con testa di Zeus-Ammon (in IV stile) e quadretti con maschere tragiche. Sul lato Ovest dell'atrio si trova una terrazza con una grande esedra adibita a solarium.

IL PERISTILIO
Si ritiene che la villa del Menandro sia appartenuta ai Poppaei, imparentati con Poppaea Sabina, seconda moglie di Nerone. La regione della Campania, dove si trova il maggior numero di Poppaei, era d'altronde associata ai Sanniti, un popolo di lingua osca che rivendicava anche la discendenza sabina. La famiglia sarebbe stata proprietaria anche della Casa degli Amorini nonchè di una fabbrica di tegole.

Nel periodo augusteo la domus fu totalmente rinnovata, cosa che avvenne per molte domus essendo aumentate le esigenze e soprattutto i guadagni per la prosperità dell'Impero. in primo luogo fu edificato un peristilio (il portico che cingeva il giardino o cortile interno posto al centro della casa), utilizzando lo spazio ricavato dall'abbattimento degli edifici residenziali adiacenti.

IL POETA MENANDRO
Mentre nella parte orientale della casa venne ricavata la parte economica con cucina magazzini ecc., nella parte occidentale vennero ricavate delle terme. Ma fino a poco prima dell'eruzione erano state eseguite in vari posti della casa ulteriori opere di ammodernamento. Vi si sono infatti rinvenuti della anfore riempite di stucco e un forno provvisorio.

Sappiamo che il nome dell'ultimo abitante della casa era Quinto Poppeo, in quanto venne trovato questo nome in un sigillo di bronzo posto negli alloggi per la servitù. Solo il nome del proprietario poteva essere così importante da essere impresso su un sigillo con cui poter imprimere la sua proprietà sulle cose e il suo nome sui contratti. Quinto Poppeo era un ricco liberto, edile in carica intorno al 40 d.c.

CASSANDRA AIACE MENELAO ELENA
La casa è decorata con pitture del IV stile, detto anche dell'illusionismo prospettico, con una capacità prospettica tridimensionale che decadrà totalmente nel medioevo per resuscitare solo nel rinascimento. Il IV stile si affermò infatti in età neroniana e si distinse per le eleganti architetture fantastiche e fantasiose, insomma avevano inventato il Trompe l'oeil, che non è francese ma romano.

L'inizio di questo stile è documentabile a Pompei subito dopo il 60 d.c., infatti gran parte delle ville pompeiane furono infatti decorate in questo stile dopo la ricostruzione della città a seguito del disastroso terremoto di Pompei del 62. Nell'ambiente a sinistra dell'ingresso vi sono 3 quadretti di 'IV stile' con scene della guerra di Troia.

Nel IV stile trionfarono le imitazioni dei rivestimenti marmorei, le finte architetture e i Trompe l'oeil caratteristici del II stile ma anche le cosiddette "Grottesche" che tanto piaceranno poi a Raffaello e al Rinascimento, ricche di ornamentazioni con candelabri, figure alate, tralci vegetali, caratteristici del terzo stile.

IL LARARIO

Menelao ed Elena
Nella Casa del Menandro, infatti, l'atrio, come già detto, accoglie pregevoli quadretti con episodi della guerra di Troia; uno dei più rappresentativi è quello che raffigura l'incontro di Priamo, Menelao ed Elena nella reggia, dove Menelao re di Sparta afferra la moglie nuda per i capelli, come rea di averlo tradito fuggendo a Troia con Paride.
Sappiamo però che non andò così, perchè Elena seppe giocare bene le sue carte e perchè Menelao era ancora innamorato della moglie. Secondo le tradizioni dopo la presa di Troia, Menelao, accompagnato da Ulisse, si recò da Deifobo, che aveva sposato Elena dopo la morte di Paride, e lo uccise. 

Secondo altri Menelao alzò la spada anche contro Elena, che però per nulla intimorita si scoprì il petto. Colpito dal suo coraggio e la sua bellezza Menelao la risparmiò. Secondo un'altra versione, invece, fu Elena ad introdurre segretamente Menelao nella stanza di Deifobo, consentendogli così di ucciderlo e riconciliandosi con il marito di un tempo.

SCENE NILOTICHE CON CACCIA MARINA

Aiace e Cassandra
Nella stessa pittura è effigiato Aiace che insegue Cassandra che cerca inutilmente difesa presso il Palladio. Cassandra è ricordata da Omero, Apollodoro, Virgilio e Igino. Figlia dei reali di Troia, fu sacerdotessa di Apollo da cui ottenne la preveggenza in cambio dei suoi favori, ma ricevuto il dono Cassandra si negò per cui il Dio la condannò a non venire mai creduta. Strana storia perchè Apollo quando non otteneva consensi stuprava senza riguardo.

Espugnata Troia i greci, le diedero fuoco, massacrandone cittadini e membri della famiglia reale si rinchiusero nei templi troiani, ma tutto ciò valse a poco. Cassandra, rifugiatasi nel tempio di Atena, fu trovata da Aiace di Locride e violentata.

Mentre cercava di trascinarla via, Cassandra si aggrappò alla statua della Dea, il Palladio, ma Aiace lo fece cadere dal piedistallo. A causa di ciò tutti i principi greci, non ebbero felice ritorno e Aiace fu punito con la morte da Atena e Poseidone.

IL LAOCONTE
Il Laoconte

Sacerdote e veggente troiano che, quando i troiani portarono nella città il celebre cavallo di Troia, gli scagliò contro una lancia che ne fece risonare il ventre pieno, pronunciando la celebre frase Timeo Danaos et dona ferentes («Temo i greci, anche quando portano doni»). Atena, che parteggiava per i greci, inviò a Laocoonte due enormi serpenti marini, che avvinghiarono i suoi due figli, stritolandoli. Laocoonte cercò di accorrere in loro aiuto ma subì la stessa sorte. I troiani presero questo come un segno, tenendo così il cavallo tra le loro mura.
Nell'ala a sinistra dell'atrio vi sono pareti rosse bipartite in senso verticale, al centro delle quali figurano le scene della caduta di Troia:
- sulla destra Laoconte e i figli strangolati dai serpenti;
- nella parete a sinistra Cassandra si oppone al rapimento da parte di Ulisse sotto gli occhi del vecchio Priamo.
- Nella parete di fondo Cassandra osteggia invano l'introduzione del cavallo di legno, pieno di guerrieri greci, nella città.

SCENE NILOTICHE CON PIGMEI
Il lato di fondo della casa è occupato da un tablino (sala di ricevimenti) ed il passaggio dall'atrio al tablino è fiancheggiato da colonne in tufo con sovrapposizioni in stucco dipinto. Il tablino è inoltre fiancheggiato da due corridoi di accesso al peristilio che racchiude un grande giardino con colonne ricoperte di stucco e con gli intercolunni chiusi da bassi plutei decorati.

Le facce esterne dei plutei sono decorate con gruppi di animali, mentre i fusti di colonna sono dipinti con cespi d'edera e oleandri. Nel vasto peristilio si aprono sulla parete di fondo una biblioteca, un sacello domestico ed un'esedra rettangolare inquadrata da due nicchie ad abside decorate da pitture.

Nella prima esedra da destra, decorata in IV stile, è una piccola nicchia con altare per il culto domestico o sacello domestico in quanto contiene un larario in muratura sul quale sono posti i calchi dei ritratti in legno degli antenati (imagines maiorum).

Le cinque sculture in cera o legno, ivi deposte, lasciarono impronte nel banco di cenere indurita, e se ne poterono cosi trarre calchi di gesso; scoperta importantissima perchè sono le uniche immagini di antenati recuperati a Pompei. Esse venivano portate in processione in occasione di sacrifici pubblici e nei funerali di famiglia.

Nella esedra centrale sono dipinti due poeti seduti: quello che declama è il commediografo Menandro e l'altro era, probabilmente, Euripide, mentre sulle altri pareti vi sono maschere tragiche e satiriche e le altre esedre ad abside sono decorate con Artemide e con Afrodite. Intorno al peristilio, come di consueto, si aprono diversi ambienti.

Nel 'salone verde' (aperto sul peristilio) c'è l'affresco con amorini fra tralci di vite e col racconto umoristico delle nozze di Ippodamia, nonché il bel mosaico colorato con le scene della caccia marina e con con una scena nilotica, in tessere minute.
IL SECONDO PIANO

Ippodamia
La principessa Ippodamia era figlia del re di Argo e di una certa Demonassa. La principessa andò in sposa a Piritoo, figlio del re dei Lapiti. In occasione del suo matrimonio i Centauri, che erano tra gli invitati, finirono in preda all'alcool e infransero le regole della xenia, la famosa sacra ospitalità del mondo greco.

Essi, cercarono di rapire la sposa e di molestare le donne dei Lapiti, che aiutati da Teseo, li attaccarono a loro volta.i. La rissa si allargò e alla fine degenerò in una guerra fra il popolo dei Lapiti e quello dei Centauri, la famosa Centauromachia. I Centauri furono sconfitti grazie all'aiuto determinante che Teseo portò a Piritoo.

LE TERME

Le Terme
Il quartiere termale, in restauro al momento dell'eruzione (79 d.c.), presenta il cortile con 4 colonne, lo spogliatoio e il calidarium (sala dell'acqua calda). Nel calidarium si trova una grande mosaico con al centro un grande acanto circondato da pesci, delfini e altri animali marini, con figure negroidi e, all'ingresso, un servo che porge recipienti per unguenti.

Sulla soglia dell'ingresso al calidarium, che presenta pitture in IV stile, un servo porta due
recipienti, uno per l'olio l'altro per il profumo. Nel pavimento a mosaico (scene nilotiche) nuotano pesci, delfini, un granchio,un negro itifallico mentre un'altro caccia un mostro col tridente.

LA CASSA DEL TESORO

Il quartiere servile

Nel quartiere servile erano conservati un carro agricolo, un corredo di attrezzi agricoli, anfore di cui una conteneva mele del tipo chiamato "despumatum" (miele bianco depurato usato anche oggi in cosmetica e medicina), altre contenevano aceto, vino di Sorrento ed una con una scritta che raccomandava con salsa di pesce di prima qualità.

Attualmente nella stalla (equile) è esposta la riproduzione di un carro agricolo, unici pezzi originali sono solo le parti in ferro e in bronzo.



LE VITTIME DEL TERREMOTO

Nella casa del Menandro sono state trovate delle vittime del terremoto, delle persone e pure un cane da guardia. Le loro immagini sono state ricavate in parte riempiendo di cemento i vuoti lasciati dai loro corpi, in parte ricomponendo le ossa ritrovate nei sotterranei.

Una teca posta nelle villa stessa mostra i corpi delle vittime dell'eruzione da cui nessuno ebbe scampo, per i crolli, per il calore bruciante e per i gas tossici.

OGGETTO IN ORO DEL TESORO


IL TESORO

In un corridoio sotto il piccolo atrio della casa si trovava un tesoro di 118 vasi d'argento, bene avvolti in panni di lana, che erano stati sistemati in una cassa di legno posta nei sotterranei del cortile durante i lavori di restauro della casa. 
La cassa, istoriata con applicazioni e borchie di bronzo, conteneva, oltre all'argenteria, anche pezzi d'oro e monete per un valore di 1432 sesterzi.

Durante la Repubblica romana il sesterzio era una piccola moneta d'argento, coniata raramente. Durante l'Impero romano era una moneta in lega di rame e zinco, detto oricalco, molto simile all'ottone e di ampio conio.




CULTO DI POMONA

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POMONA - LOUVRE
- Monsignor d'Aspra, pur mostrando grato e liberale animo verso il proprio benefattore, mercè il dono ricordato dal Vacca, trovò modo di trattenere in casa molte e singolari opere d'arte. Egli abitava a S. Macuto, e l'Aldovrandi così ne descrive la raccolta antiquaria (p. 256):
« - Ne la loggietta di questa casa si vede la copia in pie vestita et intiera, e tiene il suo corno in mano pieno di frutti... 
- Vi è anco una Pomona intiera che era la Dea de' frutti. 
- Vi è uno Aristide assiso, ma non la testa. 
- Vi sono anco alcuni altri busti antichi. 
- Sopra la casa, dicono, che vi è un bellissimo Bacco intiero in pie, e che se ne doveva fare un presente ad un gran principe ». -

(RODOLFO LANCIANI)


Pomona è la Dea romana dei frutti, chiamata perciò "Patrona pomorum", "signora dei frutti", non solo di quelli che crescono sugli alberi, ma anche dell'olivo e della vite, le piante sacre con cui si nutrivano i romani. Il nome della Dea deriva chiaramente da pomum, "frutto". Viene in genere rappresentata come una Dea che accoglie frutti nel lembo della sua veste, o che regge un cesto di frutta, o una cornucopia.

Non si conoscono feste (Pomonalia) in suo onore, né dai calendari antichi giunti fino a noi, né dalle fonti letterarie classiche. Lo studioso Georg Wissowa ha ipotizzato che la festività di Pomona fosse mobile e determinata dal momento della fruttificazione delle colture.

Cosa probabile perchè al culto della Dea era preposto un flamine minore, il flamine pomonale, che nell'ordo sacerdotum era il meno importante di tutti. Per forza, era un'antichissima Dea, un tempo potente e pian piano decaduta, ma comunque ancora degna di un suo esclusivo flamine,

Comunque un tempio lo aveva altrimenti non avrebbe avuto il flamine, ed era sull'Aventino. Ovidio invece la descrive con una falce nella mano destra. Cosa miete la Dea munita di falce? Di solito la falce mieteva la messe matura e la vita degli uomini.

Ed ecco di nuovo l'antica Dea, la Dea Triforme, che nel suo aspetto autunnale raccoglie di frutti di una vita e prepara alla morte, della natura e pure degli uomini. I romani, e pure i greci, amavano il frutto del melograno ricco di simbolismi: era l'ultimo frutto dell'autunno, o il frutto maturava e lasciava cadere i suoi semi per la nuova pianta, o la vecchia pianta si estingueva. Di nuovo l'autunno con i suoi frutti.

LA TRIPLICE

VERTUMNO

Secondo Ovidio Pomona sarebbe stata insidiata da varie divinità delle selve, tra le quali i Satiri, ma solo il Dio Vertumno l'avrebbe amata davvero, l'avrebbe lungamente corteggiata e alla fine l'avrebbe conquistata. Naturalmente questo mito è tardivo.

Vertumno è un Dio di origine etrusca (Voltumna o Veltumna), che personificava il mutamento di stagione presiedendo alla maturazione dei frutti. Gli si attribuiva il dono di trasformarsi in tutte le forme che voleva. Il suo nome deriva dalla stessa radice indoeuropea del verbo latino vertere: girare, cambiare, dal sanscrito: vártate, con le sue varie derivazioni italiane: voltare, vorticare, divertire, pervertire, volgere verso etc.

Non ricorda un pochino il greco Proteo, avvero il proteiforme, colui che poteva assumere tutte le forme che voleva? Era il figlio della Madre Terra, tanto è vero che Ercole, in una delle sue fatidiche fatiche, lo vinse sollevandolo dal suolo, perchè riceveva da sua madre un'incredibile forza finché stava coi piedi per terra. 

Proteo, come Vertumno, era il figlio della Dea Terra, ovvero della Dea Natura che con la sua energia creava forme diversissime, dalla pietra alle piante e agli animali. Lui era il prodotto, Lei la creatrice. Coll'avvento del patriarcato il figlio della Dea divenne il Dio supremo.

Così Vertunno viene rappresentato come amante della Dea Pomona probabilmente perché Vertumno era il figlio - vegetazione annuale, quello che muore e resuscita ogni anno, ma pure Dio degli alberi da frutto, che producono frutti per poi disseccare i loro rami in Autunno. 

POMONA E VERTUMNO (MELZI - ALLIEVO DI LEONARDO)

LA NINFA - LA MADRE - LA VEGLIARDA

Vertumno si trasformò dunque in una vecchia per poter avvicinare la Dea Pomona. Conquistò la sua fiducia, ammirò la sua bellezza e quella del suo giardino e osservò un forte e maestoso olmo avvolto da uno splendido e rigoglioso tralcio di vite.

L'anziana donna disse alla ragazza che la vite, se non si fosse allacciata all'albero sarebbe rimasta per terra, afflosciata e il tronco dell'albero, senza l'abbraccio della vite sarebbe stato spoglio, senza poter vantare alcuna bellezza.

L'olmo era simbolo di Vertumno, la vite di Pomona.

Con tale allegoria Vertumno intendeva spiegare alla giovane, restia a concedersi a chiunque, che se avesse accettato di unirsi in giuste nozze con un degno giovane, tale unione avrebbe beneficato sia lei che il suo sposo, donando bellezza, gioia e prosperità a entrambi.

A questo punto si trasformò in se stesso e Pomona, vedendo la bellezza sfolgorante del giovane Dio fu sedotta dal suo aspetto e dalle parole dette poco prima, e così si unì a lui.

Un mito molto ingenuo che non ha un suo perchè, a meno che, ed è molto probabile, non fu un tentativo di far rivivere la Vegliarda, uno dei tre aspetti della Dea Natura che anche Pomona accoglieva in sè: la Ninfa, la Madre e la Vegliarda. 

Un po' come venne infilato nel Mito della Madonna la figura di Sant'Anna ormai vecchia e madre della Vergine.

La Ninfa era l'amante, colei che si accoppia con tutti, Iside in Egitto in tale ruolo era chiamata la prostituta ed era rappresentata in finestra come stavano appunto le prostitute. 

La Madre era colei che allattava, cioè che dava il nutrimento, nutrendo le piante, gli animali e l'uomo con i prodotti del suo suolo: l'ultima era la Vegliarda, cioè la Vecchia che dà la morte portando a compimento ogni vita per poi farla rinascere nel suo grembo. 

Insieme le tre Dee compiono il ciclo della vita nella Natura, tre Dee in una, responsabili di:nascita, crescita e morte di tutti gli esseri senzienti. Trinità che venne anch'essa copiata dalla religione cattolica ma tutta al maschile, quindi senza parto.



IL PROTETTORE DI VOLSINII


POMONA - MUSEO ARCHEOLOGICO DI NAPOLI
Il Veltumna etrusco fu protettore della città di Volsinii e titolare del vicino santuario federale della Lega delle dodici città etrusche (dodecapoli) (Fanum Voltumnae). 

A Roma ebbe una statua bronzea presso il vicus Tuscus, all'ingresso del Foro Romano, opera di Mamurio Veturio, il famoso fabbro che produsse a Roma gli undici scudi identici all'ancile di Marte piovuto dal cielo..

Quando, poi, il console Flaminio, nel 264 a.c., sottomise anche Volsinii, egli stesso trasportò a Roma la statua di Vertumnus attraverso il rito dell'Evocatio (Festo, s.v. Picta; Properzio IV 2).

Secondo Varrone, il culto del Dio però preesisteva a Roma sul colle Palatino già dal tempo di Romolo, specificando che il culto fosse stato già introdotto a Roma dagli etruschi di Celio Vibenna venuti in aiuto di Romolo contro Tito Tazio. 

Lo stesso Tito Tazio, poi, divenuto regnante assieme a Romolo, eresse al Dio un'ara sul colle Aventino (Varrone, "De Lingua Latina" V 46; 74). Nel vicus Tuscus infatti esisteva una statua del Dio, la cui base è stata oggi ritrovata (CIL VI, 00804). 

Sembra che presso altri popoli italici siano state venerate divinità di nome (e probabilmente di funzione) simile a Pomona, ma che siano di genere maschile anziché femminile; presso gli Umbri, infatti, si trova Pomo o Pomonus, attestato nelle Tavole di Gubbio dove si cita il sacrificio di una pecora a Puemune Puprike, vale a dire "a Pomono pubblico". Presso i Sabini, invece, è attestato il Dio Poemonio, citato nella Pietra di Scoppito.



PATRONA POMORUM

Patrona pomorum, Pomona, è l’antichissima divinità romana protettrice non solo dei frutti da raccogliere sugli alberi, ma anche delle due coltivazioni simbolo della macchia mediterranea, la vite e l’olivo.

La Dea che è spesso raffigurata con i frutti e foglie intrecciate tra i capelli come una corona bucolica, (oggi nei pressi della ventinovesima zona di Roma nell’Agro Romano, all’epoca ubicato a sud del XII miglio della via Ostiense)

Il filologo classico tedesco Georg Wissowa ha ipotizzato, e non senza ragione, che Pomona avesse una sua festività ma che non cadesse in una data fissa, bensì fosse stabilita dai momenti di maggiore fertilità.



IL RE PICO

Ma la tradizione latina non ricorda la Dea romana della frutta come moglie di Vertumno, bensì come sposa del re Pico, la cui storia è tramandata da Ovidio e Virgilio, rispettivamente nelle Metamorfosi e nell’Eneide.

Pico sarebbe stato uno dei primi re del Lazio, figlio di Saturno e Feronia: fondò e regnò su Alba Longa, e fondò anche la città di Laurentum, poi scomparsa.

Durante una battuta di caccia sul monte Circeo, Pico incontrò la maga Circe, che si invaghì immediatamente di lui, ma Pico la rifiutò perché le preferì Pomona. Circe allora si vendicò trasformandolo in un picchio, animale sacro al Dio Marte.

Altre versioni dipingono Pico come un Dio rurale venerato specialmente nel Piceno e in Umbria, padre di Fauno e dotato di poteri oracolari e profetici, in virtù della sua camaleontica capacità di mutare forma e trasformarsi in un picchio verde a suo piacimento.

Qui di nuovo abbiamo un muta-forma come Vertumno e Proteo, quindi figlio della Dea Terra.

Alcune fonti lo fanno sposo della ninfa Canente, ma la tradizione latina lo raffigura innamorato della Dea romana della frutta. Questo antico Dio italico, cui si ricorreva per responsi, ebbe culto fra gli Umbri, gli Equi e i Picenti.

Pico venne ritenuto figlio di Saturno, o di Sterces, padre di Fauno e avo di re Latino, re degli Aborigeni nel Lazio e fondatore della città dei Laurenti; sua moglie fu ritenuta Pomona o Canente, una ninfa figlia di Giano, oppure Circe.

Comunque il picchio era l'uccello di Marte, colui che attraverso i suoi colpi sulla corteccia degli alberi, annunciava l'avvicinarsi della morte. Un po' come il cuculo di Giunone. D'altronde Marte era Dio della guerra e la morte con la guerra è fatale.

Castel Porziano, la residenza di caccia reale, risiede sull'antico Ager Solonius dove, ci dice Festus, era situato il Pomonal o bosco sacro di Pomona, situato a sud del XII miglio della via Ostiense, che in seguito appartenne a Gaio Mario.

COSIDDETTO TEMPIO DI POMONA

TEMPIO DI POMONA A SALERNO

Si sa che a Salerno esisteva un tempio dedicato alla Dea Pomona, ma non sappiamo se si trovasse nel luogo che oggi chiamiamo tempio di Pomona. Nel muro perimetrale fu rinvenuta una epigrafe di ignota provenienza, situata tra la seconda e la terza monofora, che ricorda una donazione di 50 mila sesterzi fatta da un certo Tito Tettenio Felice Augustale nel IV secolo d.c. e che consentì di realizzare i pavimenti in marmo, un ricco intonaco ed il frontone del tempio di Pomona. Il tempio dunque c'era, anche se non si sa dove, ma può darsi fosse proprio dove viene collocato oggi. 

L’interno di questa sala è caratterizzato da una quindicina di colonne di stile ionico unite tra di loro da un arco gotico a sesto acuto. I capitelli, sempre di stile ionico, sono costituiti da quattro teste di donna, poi attribuite alla Dea Pomona, e una lastra quadrata a coronamento del capitello formata da facce concave. 

Sembra però che tali colonne, come i blocchi di travertino che formano la base del campanile del Duomo, provengano da Paestum, come materiale di spoglio. Ma durante dei lavori di ristrutturazione del duomo, sono stati trovati resti di un tempio che non è ionico ma di epoca romana, che potrebbe essere effettivamente il tempio dedicato a Pomona. .

LUCIO QUINZIO FLAMININO - L. QUINCTIUS FLAMINIUS

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Nome: Lucius Quinctius Flamininus
Nascita: -
Morte:
Gens: Quinctia
Consolato: 192 a.c.
Professione: Generale di terra e mare


Lucius Quinctius Flamininus, fratello di Tito Quinzio Flaminino, console nel 198 a.c., fu augure nel 213 a.c., edile curule nel 200 a.c. e pretore urbano nel 199 a.c.



II GUERRA MACEDONICA

Nel 198 a.c., quando al fratello Tito Quinzio Flaminino venne affidato il comando dell'esercito nella guerra contro Filippo V di Macedonia, a Lucio, suo fratello minore, fu affidato il comando della flotta, con il compito di proteggere le coste italiane dalle incursioni nemiche.

Egli con la sua flotta si recò a Corcira, dove prese le consegne per dirigersi verso il Pireo, unendosi alle altre navi a protezione di Atene. Dopo pochi giorni giunsero le flotte alleate di Attalo I, re di Pergamo, e della città di Rodi, che posero l'assedio ad Eretria, la principale città dell'Eubea, presidiata da una guarnigione macedone. Lucio conquistò la città con una inaspettata e ben congegnata sortita notturna e riuscì ad ottenere un ricco bottino, soprattutto per le squisite opere d'arte che ornavano Eretria. 

L'ALBERO GENEALOGICO
Allora cittadini di Karystos (Eubea - Grecia), constatata la clemenza dei romani verso coloro che deponevano le armi, si arresero senza combattere, così in pochi giorni Flaminino occupò le due principali città dell'isola di Eubea, poi si diresse su Cencrea, il porto di Corinto, dove iniziò l'assedio alla città. 

I Romani furono sconfitti ma, non appena giunsero i rinforzi della lega Achea, riuscirono a continuare l'assedio. La difesa di Corinto fu disperata, anche perché tra i difensori vi erano numerosi Italici che avevano disertato durante la II guerra punica e che si erano lì rifugiati dopo la sconfitta di Annibale. Lucio infine tolse l'assedio e con la flotta si portò a Corcira (Corfù), mentre Attalo I andò a proteggere il Pireo con il suo porto.

Come Tito, anche Lucio mantenne il comando della flotta romana per il 197 a.c. e accompagnò ad Argo il fratello all'incontro con Nabide, re di Sparta, per farlo desistere dall'alleanza con Filippo V di Macedonia e portarlo dalla parte romana.

Poco prima della battaglia di Cinocefale, Lucio seppe che la lega Acarnana (l'alleanza tra più città dell'Acarnania, una regione greca, fondata nel V secolo a.c..) voleva abbandonare l'alleanza con la Macedonia e passare dalla parte di Roma.
Per questo con la flotta si diresse a Leucade, la loro città principale (nelle isole ionie), onde verificare la notizia, ma gli abitanti di Leucade si difesero strenuamente e gli abitanti della Acarnania si batterono contro i Romani anche dopo la caduta della città; si arresero definitivamente solo dopo la definitiva vittoria romana a Cinocefale.

Dopo la sconfitta, Filippo dovette: 
- cedere ai romani il controllo della politica greca, 
- disarmare la flotta, fornire ostaggi al Senato romano 
- pagare una grossa indennità di guerra. 
La Macedonia, seppure alleata di Roma, divenne uno stato periferico della Repubblica romana. 

T. QUINZIO FLAMININO LIBERA LA GRECIA

GUERRA CONTRO NABIDE

Nel 195 a.c., quando il fratello Tito venne inviato contro Nabide, re di Sparta, a Lucio venne consegnato di nuovo il comando della flotta, composta da 40 navi romane, da 18 navi di Rodi, comandate da Sosila, e dalle navi di Pergamo inviate dal nuovo re Eumene II.
Appena giunto in Laconia, si arresero volontariamente a Lucio diverse città costiere. Poi avanzò verso il porto e l'arsenale navale spartano di Gytheio mentre le forze terrestri attaccavano la città, che malgrado le macchine da assedio, riusciva a resistere.

Dexagoridas, uno dei due comandanti della guarnigione, fece sapere al comandante romano che voleva arrendersi e cedere la città, ma l'altro comandante, Goropas, lo scoprì e lo uccise. Goropas continuò a resistere fieramente finché Tito Quinzio Flaminino non giunse con altri 4000 soldati per cui fu costretto ad arrendersi, però con la garanzia che la sua guarnigione e lui stesso non sarebbero stati toccati e che avrebbero potuto tornare a Sparta.


CONSOLE E PROCONSOLE

Poi Lucio Flaminino venne eletto console nel 192 a.c. con Gneo Domizio Enobarbo, grazie ai suoi successi militari e navali, ma nel 184 a.c. fu costretto a dimettersi dalla carica di senatore da Catone il Censore, perché accusato di aver fatto crudelmente giustiziare un nobile, della popolazione gallica dei Boi, mentre era proconsole della Gallia cisalpina. 

Secondo l'annalista Valerio Anziate (I secolo a.c.) la condanna sarebbe stata pronunciata per soddisfare il capriccio di una donna, con cui Flaminio stava banchettando, che voleva assistere all'esecuzione. Nella versione della storia resa da Tito Livio, invece, non è una donna la responsabile della richiesta ma un amasio (amante) di nome Filippo, un cartaginese, un amante che amava e che aveva attratto da Roma alla sua provincia di Gallia con la promessa di grandi doni.

Questo episodio fu uno dei più importanti durante il conflitto tra gli Scipioni, a cui i Flaminini erano legati, ed i loro oppositori guidati da Catone. Entrambe le fazioni erano nobili ma mentre gli Scipioni erano innovativi e all'avanguardia, i Catoniani erano conservatori e severi propugnatori degli antichi costumi, i "Mos Maiorum".

LUDI PLEBEI (4-19 Novembre)

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GIOCHI GLADIATORII

"Ogni manifestazione di vita, sia pubblica che privata, fu in Roma strettamente congiunta a idee religiose: dal nascere del cittadino alla sua educazione, al suo ingresso nella vita pubblica, alle nozze, all'adempimento di qualsiasi dovere civile e militare, fino al chiudersi del suo ciclo mortale, e fin oltre questo, nella tomba, con il profondo sentimento religioso che circondava e tutelava questa, mantenendola attraverso i tempi, quale perenne ammonitrice ai discendenti ed ai concittadini: il vero monumento, che 'monet', nel più proprio significato latino della parola. Quindi è che le più antiche manifestazioni di educazione fisica in Roma ci appaiono intimamente legate al duplice scopo di addestramento alla guerra e di espressione di culto alle divinità patrie: questa come presupposto essenziale di quello".

(GIUSEPPE MARCHETTI LONGHI - Ludi e Circhi nell'antica Roma)

I Ludi Plebei erano una festività romana religiosa, che si svolgeva dal 4 al 17 novembre, poi estesi fino al 18-19 novembre, e che come tutti i giochi (ludi) includevano sia rappresentazioni teatrali (ludi scaenici) sia competizioni atletiche. Ad essi erano preposti gli Edili Plebei ed erano tenuti nel Circo Flaminio, un'eccezione perchè la maggior parte dei giochi avvenivano nel Circo Massimo.

I Ludi Plebei erano istituiti da e per i plebei, per questo potevano essere celebrati tra la gente comune, senza la data del calendario ufficiale. Questo fino a quando i plebei non ottennero poteri maggiori per cui vennero ufficializzati.  

LE CORSE DEI CARRI
Durante la manifestazione, si tenevano anche:
- il 13 novembre (Idibus Novembribus) la Festa di Giove (Epulum Iovis).
- il 14 novembre una parata degli equites con gli onori militari appesi alla corazza da parata.
- Una processione simile a quella dei Ludi Romani in genere, coi Flamines che operavano i sacrifici di tori ma pure di maiali e pecore.
- le corse dei carri, ma pure i singoli cavalli con i fantini in una specie di "palio" dal 15 al 17 novembre.
 - Il 18 novembre e 19 Novembre (ante diem quartum decimum Kalendas Decembres e ante diem tertium decimum Kalendas DecembresFesta celebrata a conclusione dei Ludi Plebei. Sicuramente vi si svolgevano mercati e fiere per acquistare o vendere merci a conclusione dei Ludi Plebei.

Naturalmente prevedevano oltre alla processione (dove le donne ma non solo sfoggiavano gli abiti più belli) alcuni spettacoli, e non solo di danze e gare d'atletica perchè fu qui che Plauto presentò la prima volta la sua commedia Stichus nei giochi plebei dei 200 a.c. Tito Livio nota che i ludi furono ripetuti tre volte nel 216 a.c., a causa di un errore rituale (vitium) che interruppe il corretto svolgimento.



IL CIRCO FLAMINIO

Il Circo Flaminio, posto nella parte più a sud del Campo Marzio, presso le rive del Tevere, fu costruito dal censore plebeo Gaio Flaminio Nepote, (lo stesso che fece costruire la Via Flaminia) nel 221 a.c.), nel 220 a.c., e i primi giochi pubblici vennero istituiti lo stesso anno, tuttavia Cicerone credeva che fossero i ludi più antichi di Roma, quindi di molto precedenti (V-IV secolo a.c.).

Il circo era circolare, ma anche se non aveva una pista apposita per le corse di carri, non doveva essere difficile prepararne una attraverso transenne di legno, per le carceri e per la spina centrale. Nei tempi più antichi era lungo 500 metri e occupava gran parte dei possedimenti dei Flamini su cui era stato edificato. Il circo non aveva posti a sedere e strutture permanenti.

Ma il suo terreno faceva gola agli imprenditori edilizi tanto che nel II secolo a.c. lo spazio andò riducendosi, per la costruzione di edifici e monumenti sino a quando, nel III secolo, del circo non rimaneva che una piazza lunga 300 metri in cui venivano svolti i Ludi (giochi pubblici)

L'area venne utilizzata a volte come luogo per le assemblee e perfino come mercato. Nel 2 a.c. il circo venne tramutato in un'immensa vasca utilizzata per contenere 36 coccodrilli, uccisi durante i festeggiamenti per l'inaugurazione del foro di Augusto, e nel 9, Augusto, sempre in quest'area, assegnò la Laudatio a Druso.



SULLE CORSE DEI CARRI

Strabone non ne fa alcuna menzione quando cita il circo Flaminio. Valerio Massimo afferma che al suo interno venivano tenuti i Ludi Plebeii (giochi della plebe), ma altre fonti lo negano. Tito Livio e Marco Terenzio Varrone ricordano che alcuni giochi venivano tenuti all'interno del circo, come i Ludii Tauri, tenuti in onore degli Dei dell'oltretomba che si tenevano unicamente nel circo Flaminio, essendo legati all'area e qui correvano cavalli e non carri ma con un unico fantino, come nei pali medioevali.

Naturalmente fioccavano le scommesse e i pranzi luculliani con smodate esibizioni dei plebei e dei liberti, con tali ostentazioni che nel 161 a.c. il console Gaio Fannio Strabone propose la legge, che da lui prese il nome di Lex Fannia, che fissava il limite di spesa per i pranzi organizzati in queste occasioni, in 100 assi.

Intorno al circo Flaminio sorsero vari edifici:
- Il Tempio della Pietà, presso il Foro Olitorio, di fianco al tempio di Giano, che venne distrutto durante la costruzione del teatro di Marcello.
- Il Tempio di Marte, a nord-ovest del circo.
- Il Tempio di Giove Statore ( eretto da Quinto Cecilio Metello Macedonico) 
- Altri sei templi, tra cui quello di Apollo, c'erano già nel 220 a.c. nei suoi pressi.
- Una statua dedicata al Divo Augusto vi venne eretta nel 15, da Gaio Norbano Flacco nella piazza. - Il Portico di Ottavia, ricostruito sulla precedente Porticus Metelli.
- Il tempio di Giunone Regina (eretto dal censore M. Emilio Lepido nel 179 a.c.).
- Ad est sorse, tra il 45 e il 17 a.c. il Teatro di Marcello, che occupò una vasta area del circo.

Uno dei tre archi trionfali, eretti in onore di Germanico, fungeva da ingresso alla piazza. L'area venne abbandonata verso la fine del IV secolo, insieme agli edifici sorti nella zona. 
L'antica area occupata dal circo sorgeva tra l'odierna via del Teatro di Marcello, piazza Cairoli, via del Portico di Ottavia e le rive del Tevere, tra l’odierna sinagoga e il quartiere ebraico.

PONTE MALLIO (Cagli - Marche)

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Ponte Mallio è il nome di un ponte romano diviso in due arcate localizzato nel centro romano di Cagli, locato nella provincia di Pesaro-Urbino, nelle regione delle Marche. La Flaminia attraversa il torrente Bosso alla confluenza nel fiume Candigliano con il Ponte Mallio, probabilmente di età tardo-repubblicana, ben conservato e visibile subito prima del centro storico, accanto al nuovo ponte costruito nel 1948.

La dizione “Mallio” si pensa derivi dalla errata lettura di una iscrizione posta da M(arcus) Allius, che in epoca augustea ne curò il restauro. Il manufatto, costruito originariamente in epoca repubblicana, si presenta come una delle opere romane più imponenti di quelle esistenti lungo il tracciato della consolare Flaminia. Il grande fornice centrale (11,66 m) è composto da 21 cunei e sormontato da un cordolo aggettante.

Risulta in parte ancora interrato come l'altro più piccolo posto dopo la serie dei possenti contrafforti. Tecnicamente il ponte è stato costruito mediante la sovrapposizione a secco di grandi blocchi (superiori anche al mc) in “breccione”, localmente noto come pietra “grigna”, di cui un'antica cava si trova lungo la Flaminia, poco dopo la località Foci.
 
La parte in conci di pietra corniola, disposti a filari regolari, risale ad un successivo intervento di restauro che si ipotizza sia avvenuto all'inizio dell'epoca imperiale. Il ponte, uno dei più importanti di quelli che si trovano sulla via consolare Flaminia, fu costruito vicino Cagli e, sebbene in parte interrato, è quasi completamente intatto, nonostante i secoli e il terremoto del 3 giugno del 1781 che distrusse gran parte della città di Cagli. I romani, si sa, costruivano per l'eternità.




MONTECCHINI

“Come anche si rileva dalla forma del ponte e dalle sue ali all’entrar d’acqua, il corso antico del Bosso, poco superiormente al ponte stesso, era diverso dall’attuale: ed io penso che sia si alterato in seguito alla costruzione avvenuta già da molti anni del mulino detto della Smirra sul Burano, per cui l’alveo di questo essendosi alquanto rialzato diminuì la pendenza e la chiamata del Bosso; il quale non potendo più smaltire prontamente le impetuose piene, si diede a vagare nella stretta valle superiore al ponte, con pregiudizio anche della strada Flaminia della quale, or son due anni, rovesciò un alto muro di sostegno che a grande stento venne testè ricostruito.

Il ponte Manlio, per la smisurata dimensione dei massi di cui è nella maggior parte composto, per la sua perfetta conservazione, per le sue ali e muri andatori che l’accompagnano, è uno de’ più meravigliosi; e Palladio ne fa menzione con queste parole:

'e sopra il Metauro (è sbagliato il nome del fiume, ma ciò non conta) nell’Umbria (è sbagliata pure la regione) a Cagli se ne vede un altro (ponte) di opera rustica similmente con alcuni contrafforti nelle ripe che sostengono la strada e lo fanno fortissimo.'
PRIMO ARCO DEL PONTE MALLIO
Esso è ad un solo arco semicircolare del diametro di m. 11,66 i cui cunei in numero di ventuno perfettamente tagliati e posti a secco, hanno l’altezza di m. 1,30 coll’estradosso concentrico all’intradosso, fuori che due cunei laterali alla chiave, i quali sono più alti degli altri.

Le pietre di questo colossale manufatto, sono del solito breccione delle Foci, ossia pietra grigna, ciascuna di volume non minore di un metro cubo, e combaciantisi con tanta esattezza tra loro, da non poter essere superata.

Al disopra dell’arco ricorre un’alta fascia sporgente dalla fronte del ponte metri 0,25 sulla quale riposa il parapetto che ha la grossezza di metri 1,50 e l’altezza di metri 1,70: però è da notare che la strada ora scorre direttamente sull’estradosso dell’arco; mentre in antico su di questo, doveva esservi il selciato non meno alto di centimetri quaranta.

Porto opinione che questo ponte appartenga al primo secolo di Cristo, perché il genere di quella costruzione è proprio dell’epoca romana; e penso ancora che esso tenga luogo d’un altro ponte a due luci, simile a quello attraverso il fosso della Scheggia costrutto di grossi lastroni: rovinato poi il primo ponte dalla furia del torrente, sia stato ricostruito nella forma attuale conservando del precedente la parte rimasta illesa, come tuttora si vede nelle fiancate a valle.

SECONDO ARCO DEL PONTE MALLIO
E’ voce generale che il detto ponte, formi un circolo perfetto ossia un anello, di modo che sotto l’alveo esista un arco rovescio, come vi è un arco retto al disopra. Il lodato Cav. Mochi, nella sua storia di Cagli, assicura d’aver fatto esaminare il ponte da gente esperta, operando uno scavo nell’alveo; e dice d’aver avuta l’assicurazione che sta realmente in fatto quello che la pubblica voce afferma.

Né di ciò è a meravigliare, sapendosi che talora i romani, costruirono altri ponti in siffatta guisa per renderli eterni: e invero dopo tanti secoli e tante vicende di guerre e di terremoti, uno de’ quali nel 3 Giugno 1781 rovinò gran parte della Città di Cagli, quel manufatto dura pressoché inalterato; e se mostra qualche lesione, è più presto opera degli uomini che del tempo, al quale potrà resistere incolume altri duemila anni; cosa che certo non può presumersi delle opere nostre fatte pur con tanta superbia di sapienza, di molte delle quali, i posteri non lontani, troveranno appena la traccia.
  
Questo ponte è denominato Manlio per la mala lettura d’un iscrizione che stava sul parapetto a destra, della quale più non rimane vestigio, e che al dire del Bricchi, dava notizia avere M. Allio Tiranno Prefetto delle strade, restaurata quell’opera.

In che consistesse quel restauro, non saprei dire; certo è come già si accennò, che in quel manufatto sono due diverse maniere di costruzione; e se una di queste due rappresenta il restauro di Allio, non può essere che quella formata di massi smisurati.


V’è chi dubita della autenticità di quella iscrizione: però non può negarsi che la famiglia Tiranni non fosse antichissima in Cagli, ed anzi l’ultimo rampollo cessò di vivere soltanto sul declinare dello scorso secolo: sicché non è improbabile che qualcuno della stessa famiglia, fosse investito dell’ufficio suaccennato. 

Poco inferiormente al ponte Manlio, ve n’è un altro minore costrutto collo stesso sistema di pietre colossali, fatto pure a semicircolo col diametro di m.13,40: l’arco è formato da nove cunei alti metri 0,90 coll’estradosso concentrico all’introdosso.

Tra i due ponti, esiste un muro di sostegno della strada formato coi soliti massi squadrati di breccia, e munito di quei robusti contrafforti accennati da Palladio. Questo ponte da secoli non riceve più nessun’acqua, essendosi forse ad arte, alterato il corso del fosso pel quale esso era stato costruito.”

(Montecchini - 1879). .

DIPLOMA MILITARE ROMANO

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Il diploma militare romano è il documento che conferma soldati ausiliari e membri di altri rami di servizio nell'impero romano, concedendo loro la cittadinanza romana e / o il diritto di sposarsi. Questo "Diplomata" viene rilasciato dopo un servizio militare onorevole di 25 anni di servizio; I soldati della flotta invece devono il loro servizio per 26 o 27 anni, e a volte anche più a lungo. Il documento è una copia certificata dell'editto originariamente pubblicato a Roma.

Il diploma militare consisteva in due tavolette di bronzo unite nella forma di un dittico (libro incerato in due parti), contenente all'esterno e all'interno due copie identiche di un editto imperiale , che era stato già pubblicato a Roma tramite editto pubblico. Tutti i diplomi venivano stilati e sigillati a Roma.

Poichè il diploma in bronzo aveva un certo valore, si suppone che ricevessero il diploma in bronzo solo i soldati che lo ha pagassero a parte; tanto è vero che in tempi di crisi, come sotto Marco Aurelio, le copie di metallo vennero eliminate, evidentemente ne consegnavano di legno incerate. La possibilità che il testo potesse venire manipolato dall'esterno è paragonabile alla contraffazione dell'iscrizione di un sigillo, secondo l'opinione legale romana, il testo interno era l'effettiva copia certificata.

Nel documento, l'imperatore concedeva a un soldato nominato il diritto civile e / o il diritto esclusivo a un matrimonio legale (il conio), perché i soldati non potevano sposarsi ufficialmente fino al tempo della dinastia severa, ma fino ad allora si tollerava che avessero compagne di vita (concubinato), Spesso diversi soldati ricevevano lo stesso diploma, a volte intere unità. Il premio inizialmente si estendeva ai potenziali bambini, che venivano spesso citati per nome prima dell'anno 140.

La concubina veniva anche nominata per nome sul diploma prima del 140 - se ce n'era una - ma non ricevevano la cittadinanza. Dopo l'anno 140, la pratica legale cambiò e le famiglie vennero citate solo in casi eccezionali. Ad esempio, se il soldato era sposato o aveva figli prima dell'inizio del suo servizio militare. Da quel momento, i diritti civili di solito non venivano più dati ai bambini del soldato nati prima della sua liberazione.

DIPLOMA AD AUSILIARIO DELL'ESERCITO ROMANO DATO DALL'IMP. ADRIANO
Oltre ai soldati ausiliari, furono assegnati anche diplomi militari a membri della flotta romana e ai Pretoriani e alle Cohortes urbanae, che ricevettero solo il conubium poiché avevano già i diritti civili, e a forze speciali come gli Equites singulares reclutati dagli Auxiliares. I soldati di una legione invece dovevano avere la cittadinanza romana prima del reclutamento.

Tuttavia, diversi anni dopo la guerra civile nell'anno dei quattro imperatori (68-69), si sono ritrovati diplomi per la Legio I Adiutrix sotto Galba e per la Legio II Adiutrix sotto Vespasiano. Evidentemente queste legioni furono reclutate da non cittadini (probabilmente soldati della flotta), che furono poi naturalizzate retroattivamente.

Attualmente sono documentati oltre 900 diplomi militari tra il regno dell'imperatore Claudio (41-54) e l'inizio del IV secolo. Dal 210 circa, tuttavia, non risultano diplomi di ausiliari, evidentemente per la concessione dei diritti civili a tutti gli abitanti dell'impero da parte dell'imperatore Caracalla nell'anno 212.

Molto prezioso per la ricerca storica è l'elenco di tutte le unità militari di una provincia in cui i soldati erano di stanza e che ricevettero i diritti civili, così come la nomina dell'attuale governatore, i due consoli e il comandante dell'unità, con elencati sette testimoni che hanno certificato la copia a Roma. I diplomi sono datati fornendo così importanti informazioni sulla cronologia (regni e titolari degli imperatori, datazione dei governatori) e sulla storia sociale e militare. 

Però il numero di diplomi conosciuti è abbastanza grande da consentire delle statistiche: ad esempio, l'accumulo relativo di diplomi, rilasciato a 92 o 158, indica un reclutamento particolarmente ampio, precedentemente effettuato, connessi rispettivamente con le due guerre ebraiche (66-73 e 132-135). L'Esercito Imperiale dovette recuperare le perdite, e i soldati dell'Ausiliario e della Flotta appena aggiunti vennero rilasciati 25 anni dopo.

Come esempio di un diploma militare quello del Centurio Plato. A Pompejanum di Aschaffenburg, dal luglio 2014, viene mostrato il diploma militare ben conservato di Ottaviano delle Cohors I Cantabrorum, preso in prestito dallo Staatliche Antikensammlungen di Monaco. La coorte era di stanza all'epoca del premio, nel l'anno 78, nella provincia romana della Mesia, attuali Bulgaria e Romania.


Diploma di fine servizio

Nel 1930 fu rinvenuta una lapide in bronzo al campo di Pannon Brigetio, che conteneva un decreto degli imperatori Costantino (306-337) e Licinio (308-324) del 311, che tra l'altro segnano la fine della pratica dei diplomi militari. 


Ricerca e pubblicazione 

I diplomi sono annoverati tra le iscrizioni, quindi nel campo dell'epigrafia latina che ammontano a circa 1955 copie, raccolti nel Volume XVI del Corpus Inscriptionum Latinarum (CIL); i diplomi pubblicati dalla fine degli anni '50 sono stati raccolti nei cinque volumi dei Diplomi Militari Romani (RMD) di Margaret M. Roxan e Paul Holder. La maggior parte dei diplomi militari provengono dalle province balcaniche dell'impero, che nell'Alto Impero erano il più importante reclutamento dell'esercito romano.

Molti diplomi (o frammenti) entrano nel mercato dell'arte senza essere trattati scientificamente. Il numero di diplomi noti e di frammenti di diploma è aumentato notevolmente, specialmente dagli anni '80, principalmente a causa dei metal detector utilizzati da cacciatori di tesori privati.

DIPLOMA DI AURELIUS BITHUS - ALA I ULPIA CONTARIORUM GORDIANAE


RITROVAMENTI

I DIPLOMATA MILITARE

Brucia 100; CIL XVI.65; datato: 17 luglio 122AD

In ottimo stato, questo certificato di dimissione fu rinvenuto nel 1930 a Brigetio in Pannonia, ora noto come O-Szöny sul Danubio nell'ovest dell'Ungheria; evidentemente il soldato a cui apparteneva tornò a casa dopo il servizio militare nella Ala Primae Pannoniorum Tampianae in Gran Bretagna. Questo importante documento è stato successivamente acquistato dal British Museum.

Esso contiene 13 nomi di alae di cavalleria e 37 di fanteria e cohortes miste, il più grande numero registrato su qualsiasi diploma in tutto l'impero romano. Si pensa che questa lista rappresenti l'intera forza ausiliaria assegnata al governatore Aulo Platorius Nepos con il quale doveva presidiare il nord della Britannia mentre le sue truppe legionarie avevano lavorato costruendo i forti, i mulini a vento, le torrette e il varo del Vallo di Adriano.



IMP CAESAR DIVI TRAIANI PARTHICI DIVI NERVAE NEPOS TRA
IANVS HADRIANVS AVGVSTVS PONTIFEX MAXIMVS TRIBV
NIC POTESTAT • VI • COS • III • PROCOS
EQVITIB ET PEDITIB QVI MILITAVERVNT IN ALIS DECEM ET TRIB ET COH
TIB TRIGINTA ET SEPTEM QVAE APPELLANTVR I PANNONIOR SABINIAN
ET I PANNON TAMPIAN ET I HISPAN ASTVR ET I TVNGROR ET II ASTVR
ET GALLOR PICENTIAN ET GALLO ET THRAC CLASSIANA CR ET GALLO
PETRIANA ∞ CR ET GALLO SEBODIANA ET VETTON HISPAN CR ET
AGRIPPIANA MINIATA ET AVG GALLO ET AVG VOCONTIOR CR ET I
NERVIA TEDESCO CR ET I CELTIBEROR ET I TRAC ET I AFROR CR ET I
LINGON ET I FID VARDVLLOR ∞ CR ET I FRISIAVON ET I VANGION
∞ ET I HAMIOR SAGITT ET I DELMAT ET I AQVITAN ET I VLPIA TRAIA
NA CVGERN CR ET I MORIN ET I MANAPIOR ET I SVNVCOR ET I BETA
SIOR ET I BATAVOR ET I TVNGROR ET I HISPAN ET II GALLOR ET II
VASCON CR ET II THRAC ET II LINGON ET II ASTUR ET II DELMATAR
ET II NERVIOR ET III NERVIOR III BRACAROR ET III LINGON
• •
ET IV GALLOR ET IV BREVCOR ET IV DELMATAR ET V RAETOR
ET V GALLOR ET VI NERVIOR ET VII THRAC QVAE SVNT IN BRITAN
NIA SVB A PLATORIO NEPOTE QVINQVE ET VIGINTI STIPENDIS
EMERITIS DIMISSIS HONESTA MISSIONE PER POMPEIVM
FALCONEM • QVORM • NOMINA SVBSCRIPTA SVNT IPSIS LIBE
RIS POSTERISQ EORVM CIVITATEM DEDIT ET CONVM ET VXO
RIB QVAS TVNC HABVISSENT CVM EST CIVITAS IIS DATA
AVT SI QVI CAELIBES ESSENTE CVM IIS QVAS POSTEA DVXIS
INVIATO DVMTAXAT SINGVLI SINGVLAS AD XIV K AVG
TI IVLIO CAPITONE ET L VITRASIO FLAMININO COS

ALAE Ho PANNONIOR TAMPIANAE CVI Præst
FABIVS SABINVS
EX SESQVIPLICARIO
GEMELLO BREVCI F PANNON
DESCRIPTUM ET RECOGNITVM • EX • TABVLA • AENEA QVAE FIXA EST
ROMAE IN MVRO POST TEMPLVM DIVI AVG AD MINERVAM

TI • CLAVDI
A • FVLVI
TI • IVLI
L • PVLLI
L • NONI
Q • LOLLI
L • PVLLI•

•MENANDRI
IVSTI
VRBANI
DAPHNI
VICTORIS
FEST [I
ANT [

"L'Imperatore Cesare Traiano Adriano Augusto, figlio del divino Traiano Partico, nipote del divino Nerva, Sommo Sacerdote, detentore del potere tribunale per la sesta volta, tre volte console, proconsole. Per i cavalieri e i soldati a piedi che hanno servito nelle tredici ali di cavalleria e trentasette coorti che prendono il nome
Ala I Pannoniorum Sabiniana [ Halton Chesters? ]
Ala I Pannoniorum Tampiana
Ala I Hispanorum Asturum [ Benwell? ]
Ala I Tungrorum
Ala II Asturum [ Ribchester? RIB 586]
Ala Gallorum Picentiana [ Malton? ]
Ala Gallorum et Thracum Classiana civium Romanorum
Ala Gallorum Petriana milliaria civium Romanorum [ Stanwix ]
Ala Gallorum Sebosiana [ Carlisle? ]
Ala Vettonum Hispanorum civium Romanorum [ Brecon Gaer? RIB 403]
Ala Agrippiana Miniata [ Brucia 100 ]
Ala Augusta Gallorum [ Brucia 100 ]
Ala Augusta Vocontiorum civium Romanorum [ Newstead? RIB 2121]

- Cohors I Nervia Germanorum civium Romanorum [ Burgh di Sands? RIB2041] -
- Cohors I Celtiberorum - Cohors I Thracum - Cohors I Afrorum civium Romanorum [ Brucia 100 ]
- Cohors I Lingonum - Cohors I Fida Vardullorum milliaria civium Romanorum
- Cohors I Frisiavonum - Cohors I Vangionum milliaria - Cohors I Hamiorum sagittaria
-Cohors I Delmatarum - Cohors I Aquitanorum - Cohors I Ulpia Traiana Cugernorum civium Romanorum - Cohors I Morinorum - Cohors I Menapiorum - Cohors I Sunicorum
- Cohors I Betasiorum - Cohors I Batavorum - Cohors I Tungrorum - Cohors I Hispanorum
- Cohors II Gallorum - Cohors II Vasconorum civium Romanorum - Cohors II Thracum 
- Coon II Lingonum - Cohors II Asturum - Cohors II Delmatarum - Cohors II Nerviorum
- Cohors III Nerviorum - Cohors III Bracaraugustanorum - Coonus III Lingonum 
-Cohors IV gallorum - Cohors IV Lingonum - Cohors IV Breucorum - Cohors IV Delmatarum
-Cohors V Raetorum - Cohors V Gallorum - Cohors VI Nerviorum - Cohors VII Thracum
che sono in Gran Bretagna sotto Aulo Platorius Nepos. 

I soldati veterani che hanno servito per venticinque anni e hanno ricevuto un diploma onorevole da Pompeo Falco, hanno qui sotto iscritti i loro nomi. A loro e ai loro figli futuri è stata concessa la cittadinanza. Anche le loro mogli legittime che già hanno ricevono la cittadinanza, o, se non erano sposati, coloro con cui in seguito si sposano, a condizione che sia solo una donna per un uomo, riceveranno la cittadinanza.
 
Datato quattordici giorni prima delle calende di agosto nel consolato di Tiberio Giulio Capitonio e Lucio Vitrasio Flaminino (17 luglio 122).
La prima ala tampiana dei Pannoni, sotto il comando di Fabio Sabino, verso Gemello, figlio di Breuce, un Pannonico.
Copiato e controllato sulla tavoletta di bronzo che si trova a Roma sul muro dietro il tempio del Divino Augusto e accanto a quello di Minerva.
[Testimoniato da]
- Tiberio Claudio Menandro - Aulo Fulvio Giusto - Tiberio Giulio - Urbano Lucio Pullio Daphnus
- Lucio Nonio Victor - Quinto Lollius Festus - Lucius Pullius Antoninus

Estratto dall'iscrizione sul diploma militare  AE 2010, 1853 ): [..] coorte I Cantabrorum cui prae (e)st / C(aius) Cammicus G (ai) f (ilius) Fab (ia) Sabinus / pediti / Octavio Daphni filio Lingoni.

DIPLOMA MUSEO DI CARNUNTUM

II DIPLOMATA MILITARE


parte anteriore

Provincia: Provincia incerta Location :?
Imp (erator) Caesar Vespasianus Augustus /
pontifex maximus tribunic (ia) potestat (e) /
VIIII imp (erator) XVIIII p (ater) p (atriae) censore co (n) s (ul) VIII /
peditibus et equitibus qui militante in co /
hortibus octo I Cantabrorum I Thracum /
Syriaca I Sygambrorum tironum II Lu /
censium III et VIII Gallorum Cilicum Mat /
tiacorum quae sunt in Moesia sub Sex (to) Veterinario /
tuleno Ceriale qui quina et vicena sti /
pendia aut plura meruerunt quorum /
nomina subscripta sunt ipsis liberis pos /
terisque eorum civitatem dedit et conu /
bium cum uxoribus quas tunc habuissent /

cum est civitas iis dati si qui caelibes / 
essent cum iis quas postea duxissent dum /
taxat singuli singulas a (nte) d (iem) VII Idus Febr (uarias) /
L (ucio) Ceionio Commodo D (ecimo) Novio Prisco co (n) s (ulibus) /
coorte I Cantabrorum cui prae est /
Caius Cammicus Cai filius Fabia Sabinus /
pediti /
Octavio Daphni filio Lingoni /
descriptum et recognitum ex tabula /
aenea quae fixa est Romae in Capito /
lio post piscinam in tribunali deorum /


parte posteriore

Sex (ti) Priverni Celeris / P (ubli) Atini Rufi / Cn (aei) Pompei Maximi / M (arci) Veturi Montani /
M (arci) Stlacci Iuvenalis / L (uci) Naevi Vestalis / M (arci) Lolli Rufi // 

Imp (erator) Caesar Vespasianus Augustus /
pontifex maximus tribunicia potestatis /
VIIII imp (erator) XVIIII p (ater) p (atriae) censore co (n) s ( ul. VIII /
peditibus et equitibus qui militante in co /
hortibus octo I Cantabrorum I Thra / cum Syriaca Sygambrorum tironum Lucensium III et VIII Gallorum Cilicum / Mattiacorum quae sunt in Moesia sub / Sesso (a) Vettuleno Ceriale qui quina et vice / na stipendia aut plura meruerunt quo / rum nomina subscripta sunt ipsis liberis / posterisque eorum civitatem dedit et co / nubium cum uxoribus quas tunc habu / issent cum est civitas iis dati si qui / caelibes essent cum iis quas postea duxis / inviato dumtaxat singuli singulas / a (nte) d (iem) VII Idus Febr (uarias) / L (ucio) Ceionio Commodo D (ecimo) Novio Prisco co (n) s (ulibus) / coorte (è) I Cantabrorum cui prae (e) st / C (aius) Cammicus G (ai) f (ilius) Fab (ia) Sabinus / pediti / Octavio Daphni f (ilio) Lingon (i) / descriptum et recognitum ex tabula ae / nea quae fixa est Romae in Capitolio.

DIPLOMA RITROVATO A SLAVONSKY BROD, CROAZIA

HONESTA MISSIO

Honesta missio era il congedo rilasciato per il servizio reso con virtù e onestà, se il militare si fosse comportato con disonore non avrebbe avuto alcun premio o riconoscimento.

Da Augusto in poi, veniva rilasciato ai militari, sia legionari che ausiliari, oltre al diploma che ne sanciva per legge la fine del servizio, un'indennità in denaro (nummaria missio) o in beni (in genere un appezzamento di terra con deduzione di colonie romane = agraria missio, una forma di pensione dei giorni nostri, inoltre ad alcuni era concesso il diritto di cittadinanza romana (ausiliari) con la possibilità di contrarre così un matrimonio legittimo (Ius connubii). 

Ma questi premi venivano concessi anche ai legionari congedati in anticipo sui tempi a causa di ferite o malattie (causaria missio) o i congedati per volere del comandante come ricompensa dell'ottimo ed eroico comportamento in battaglia (gratiosa missio). La perdita dei benefici avveniva con il congedo disonorevole (ignominiosa missio).

I militari ormai in congedo erano chiamati, veterani ed in caso di necessità, essi potevano offrirsi o essere richiamati alla bisogna. Se erano stati richiamati in servizio attivo, erano nominati evocati ed ottenevano un'ottima paga.

BATTAGLIA DI AQUAE SEXTIAE (102 a.c.)

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GAIO MARIO VINCITORE DEI CIMBRI

AQUAE SEXTIAE

Aquae Sextiae (Acque Sestie - Oggi: Aix-en-Provence) fu una colonia romana posta a 18 miglia (26 km) a nord di Massalia che prese il nome nome del generale che dedusse la colonia fondando la città, nel 123 a.c., Gaio Sestio Calvino, e dalle sorgenti di acqua calda del territorio. Nei pressi della città si consumò la famosa battaglia di Acque Sestie da cui uscì vittorioso il generale Gaio Mario.



I TEUTONI

Plinio Il Vecchio (23-79 d.c.) narra che i Teutoni vivevano sulla costa occidentale dello Jutland, a sud dei Cimbri, e una devastante marea costrinse i Teutoni ad abbandonare le loro terre.

Quando la tribù dei Cimbri abbandonò lo Jutland (Danimarca e Germania settentrionale) attorno al 120 a.c., i Teutoni si spostarono con loro attraverso la Germania. Non è tuttavia chiaro se i Teutoni si fossero subito uniti ai Cimbri, o se li seguissero a distanza.

Nel 113 a.c. nella battaglia di Noreia l'esercito dei Cimbri, unitamente ai Teutoni, sconfissero i romani comandati dal console Gneo Papirio Carbone. Nonostante i Cimbri fossero stati presi in trappola con l'inganno, si ripresero rapidamente e sbaragliarono l'esercito romano che non subì l'annientamento totale solo grazie al sopraggiungere di un temporale.

La migrazione di questi barbari traversò poi il Reno e, come riferì Cesare nel De Bello Gallico, devastò la Gallia, sconfitto infine dai Belgi. I Germani si volsero allora contro i romani e li sconfissero in modo devastante nella Battaglia di Arausio, nell'anno 105 a.c., dopodiché i Cimbri andarono in Spagna, e i Teutoni rimasero in Gallia. Solo due anni più tardi tornarono ad unirsi per un attacco congiunto alla Repubblica romana: era il Furor Teutonicus, come lo chiamavano i romani, temuto almeno quanto il Metus Gallicus, altro soprannome romano dettato dalla paura.

In realtà i romani avevano più volte battuto quei barbari: nel 295 a.c. (Battaglia di Sentino), nel 283 a.c. (Battaglia del lago Vadimone), nel 225 a.c. (Battaglia di Talamone), nel 222 a.c. (Battaglia di Clastidium), ma questi popoli erano comunque terrorizzanti, sia per l'aspetto sia per la crudeltà e la ferocia. Erano molto più alti dei romani e molto più massicci, dei giganti dai lunghi capelli e lunghe barbe rossi, pieni di tatuaggi che urlavano e ruggivano in battaglia.

E in effetti i nuovi eserciti che i romani mandarono per proteggere gli alleati della Gallia Narbonense vennero nuovamente sconfitti nel 109 a.c. presso il Rodano e nel 107 a.c. presso Bordeaux. Roma trema, nel 105 a.c. il senato invia gli eserciti consolari al comando di Quinto Servilio Cepione e Gneo Mallio Massimo contro i Germani. Per loro dissidi però i due comandanti dividono l'esercito e affrontano separatamente il nemico il 6 ottobre presso Arausio (Orange) e vengono annientati dai guerrieri Cimbri e Teutoni.

I Romani, con il fiume alle spalle che impediva la ritirata, persero 80.000 soldati e 40.000 ausiliari. Questa sconfitta, provocata soprattutto dall'arroganza della nobiltà che si rifiutava di collaborare con gli abili capi militari non nobili, provocò una rivolta contro l'oligarchia.


GAIO MARIO

GAIO MARIO

Ora Roma era in preda al panico, i Germani stranamente non penetrarono in Italia ma si diressero in Spagna, vennero però cacciati dai Celtiberi, per cui decisero di invadere il territorio italiano, dividendo le loro forze secondo tre direttrici di invasione: i Teutoni e gli Ambroni sulle Alpi Marittime, lungo il tragitto percorso a suo tempo da Annibale, i Cimbri sul Brennero, e i Tigurini (popolo celtico) in Pannonia per penetrare in Italia attraverso le Alpi Giulie.

Ora l'aristocratico senato non può più arricciare il naso di fronte ai populares, perchè ora a salvare la situazione c'era solo un umile plebeo che si era dimostrato uno stratega e un generale come pochi
Siamo nel 102 a.c.e il popolo dei Teutoni, un'orda di 100.000 guerrieri con moglie e figli al seguito si appresta a varcare le Alpi per distruggere tutto ciò che incontra. 

Il senato gli invia allora il plebeo Gaio Mario, recente vincitore di Giugurta, già console per la V volta, con un esercito che fra romani ed alleati conta 32.000 uomini, pochissimi rispetto ai barbari, ma sono legionari, e a comandarli c'è il grande Gaio Mario, lo zio di Giulio Cesare.

Mario prepara accampamento tra i fiumi Rodano ed Isère, nella odierna Provenza settentrionale, al crocevia delle strade per i valichi del Piccolo San Bernardo e del Monginevro. I Teutoni si presentano di fronte al campo romano per sbeffeggiare i romani così piccoli di fronte a loro.

Mario dà ordine di restare fermi e re Teutobod, capo dei Teutoni, dopo aver razziato i dintorni e senza mezzi di assedio, decide di levare le tende e di dirigersi verso l'Italia. Erano talmente tanti che sfilarono per sei giorni di fronte all'accampamento di Mario prima di sparire all'orizzonte.



CONTRO GLI AMBRONI

Era la mossa che Mario aveva previsto, fece levare rapidamente il campo e utilizzando percorsi sconosciuti ai Germani precedette l'avanguardia dei barbari, costituita da circa 30000 Ambroni, accampandosi su di un pendio che sbarrava l'accesso alla vallata del fiume Arc presso la città di Aquae Sextie, in posizione favorevole ma priva di sorgenti.

All'arrivo degli Ambroni, Mario ordinò di preparare prima il campo, ma gli addetti all'acqua delle fonti vennero in contatto con gli Ambroni anch'essi all'approvvigionamento idrico, e ne nacque uno scontro: gli alleati italici, soprattutto i liguri, si gettarono dalla collina sugli Ambroni che cercavano di guadare il fiume. Fu un massacro a cui sfuggirono pochi Ambroni che riguadagnarono la riva dove era il loro campo. Nella seconda parte del combattimento i romani si diressero verso il campo degli Ambroni dove incontrarono la resistenza dei superstiti ma anche delle donne che combatterono insieme agli uomini, la battaglia terminò solo al tramonto quando i romani si ritirarono. Secondo Plutarco lo scontro "fu opera del caso piuttosto che della volontà generale"

STERMINIO DI TEUTONI E CIMBRI

IN ATTESA DEI TEUTONI

Mario ebbe a temere degli attacchi notturni tanto più che essendo buio, non si poteva terminare bene l'accampamento, ma non ve ne furono neppure nel giorno successivo: gli Ambroni ne avevano avute abbastanza e attendevano li Teutoni per riprendere il combattimento.

Così Mario non solo finì di allestire il campo ma inviò 3.000 fanti al comando di Claudio Marcello nei boschi delle colline che fiancheggiavano la piana dove era il campo nemico, in attesa della battaglia. Il giorno successivo Mario schierò le legione fuori dall'accampamento in assetto da battaglia, mandando avanti la cavalleria che ben presto raggiunse il fondovalle pianeggiante. 

I Teutoni ritenendo che la fanteria stesse seguendo in pianura i cavalieri, fecero quel che Mario aveva previsto: anticiparono l'attacco per impedire la formazione con la fanteria e la cavalleria alle ali. I germani dovettero risalire la collina mentre i fanti romani impattarono le schiere avversarie con l'impeto determinato dall'abbrivio della discesa. Mario fece lanciare i giavellotti all'ultimo istante, cogliendo i Germani già scompaginati dall'asperità del terreno. Fu una strage.

La fanteria legionaria, con il vantaggio del terreno, fece indietreggiare i Teutoni sino a fondo valle dove entrò in gioco il contingente fresco di 3000 fanti di Claudio Marcello, che si gettò sul nemico prendendolo alle spalle. I Germani, posti fra due fuochi andarono in panico e fuggirono coi romani alle calcagna che li abbatterono come animali, dal mezzogiorno fino a notte inoltrata.



IL SUICIDIO 

Al campo dei Teutoni erano rimaste solo le donne e i bambini, queste all'arrivo dei romani chiesero di aver salva la vita e di essere vendute come schiave alle sacerdotesse romane del fuoco, allo scopo di salvare il loro onore, di fronte al rifiuto dei Romani uccisero i loro figli per poi suicidarsi in massa.
Il campo teutone fu totalmente saccheggiato, Gaio Mario divise il bottino fra i suoi soldati e bruciò il resto.



L'ANNO SUCCESSIVO

Alcuni dei prigionieri furono mostrati da Mario l'anno successivo ai Cimbri prima della Battaglia dei Campi Raudii, dicendo: "Non preoccupatevi dei vostri fratelli, abbiamo dato loro delle terre che conserveranno in eterno" per poi mostrare alcuni prigionieri teutoni aggiungendo "essi sono qui, né possiamo permettere che ve ne andiate senza salutarli"
GAIO MARIO RICEVE GLI AMBASCIATORI DEI CIMBRI
- Le fonti parlano di un numero di morti germani tra i 100.000 e i 200.000,
- lo storico Velleio Patercolo parla di 150.000 morti,
- Plutarco li stima in 100.000.

Insomma l'intero popolo dei Teutoni fu sterminato o ridotto in schiavitù, nella valle tanti erano i morti che il luogo venne chiamato "Campi Putridi", ancora oggi "Pourrieres". In seguito il luogo divenne fertilissimo e i contadini del posto usarono le ossa per sostenere i tralci delle viti e definire il confine dei vigneti (!).
I prigionieri furono circa 80.000 - 90.000 e tra questi il re Teutobod che si era rifugiato presso i Sequani celtici, i quali, conoscendo i Germani, preferirono consegnarlo ai Romani, in seguito fu esibito da Gaio Mario nel suo trionfo. Alla fine, dell'intero popolo dei Teutoni, solo in 3.000 uomini si salvarono dalla morte e dalla prigionia.

La battaglia venne ricordata sino ai tempi della rivoluzione francese in una chiesetta dedicata a Santa Vittoria che era stata eretta sul posto del tempio edificato subito dopo la battaglia e dedicato a Mario insieme ad una piramide ancora visibile nel XV secolo. Lo stemma del comune di Pourrieres riproduce uno dei bassorilievi che la decoravano.

Lo scontro di Aquae Sextiae segnò l'inizio della riscossa romana nelle Guerre Cimbri che, unito alla decisiva vittoria conseguita l'anno successivo ai Campi Raudii, neutralizzò la minaccia dei Germani. Il Furor Teutonico era stato spento. Poi Cesare porrà fine al Metus Gallicus.

TYRE - TIRO (Libano)

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Tiro era una città più grande dell'area ora occupata dalla Città Vecchia perchè alcune parti sono state inghiottite dal mare. L'antica città controllava anche una fertile striscia costiera larga circa due km, con diverse città minori, santuari e fattorie. Sulle rive c'erano i villaggi dei raccoglitori di conchiglie, a est c'era una collina chiamata Al Ma'shook, e vicino a Al-Rashidiyeh nel sud c'era una città molto antica, probabilmente identica a Ušu menzionata nei testi assiri, e il Palaityros, "TIRO ANTICA", delle nostre fonti greche.

Questo, secondo Arriano, era il sito di un antichissimo santuario di Eracle (il nome greco di Melqart), e gli archeologi hanno trovato qui diverse tombe dell'età del bronzo. Era una delle città più importanti dell'antico Medio Oriente, edificata su un'isola nel Mediterraneo orientale, e controllava due porti naturali. Era abbastanza vicina alla riva per essere rifornita dall'entroterra, ma sufficientemente lontana dalla terraferma per cui difficile da conquistare. C'erano tre fonti vicino a Ušu, per cui l'area era ricca di acqua, il che produceva una grande prosperità agricola.

IL GINNASIUM

LA STORIA

Nel V secolo a.c., Erodoto di Alicarnasso visitò Tiro, e venne a sapere da un sacerdote che la città e il tempio di Melqart avevano 2.300 anni. Pertanto Tiro era stata fondata nel XXVIII secolo, come confermano i ritrovamenti archeologici sulla collina di Al Ma'shook, che sono ancora più antichi.

Nel secondo millennio, Tiro compare più volte nelle lettere di Amarna. Il santuario della dea Aširat (o Asherah) a Tiro è menzionato nell'epopea del re Keret, che è nota a Ugarit, e gli abitanti erano interessati ai tessuti di Tiro e soprattutto alla porpora per cui Tiro era ben nota.

LE MURA FENICIE

 RE HIRAM

Tiro è menzionata nel regno del re egiziano Sety I (regno 1293-1279 a.c.), mentre una stele di Tiro commemora la vittoria del figlio di Sety e del successore Ramesse II (regno 1279-1213 a.c.). All'inizio dell'età del ferro, Tiro divenne la città più importante della regione e fondò colonie sull'isola di Cipro, di Cartagine, Utica e Lixus, e di Gades in Andalusia. Plinio il Vecchio menziona Tiro come città madre di Lepcis Magna, ma questo potrebbe essere un errore.

Sembra che il re Hiram avesse buoni rapporti con il re David e il re Salomone, che aiutò a costruire il tempio e il palazzo di Gerusalemme e contribuì alle spedizioni navali. Giuseppe Flavio, scrivendo le sue Antichità Giudaiche, sostenne il racconto biblico con le citazioni di un Messaggero di Efeso, che sosteneva di aver studiato le fonti di Tiro. 

Questo Menandro non solo confermò il racconto biblico, ma aggiunse anche alcuni frammenti: ad esempio, che Hiram promosse il culto di Melqart / Heracles (testo), una vera rivoluzione religiosa. Tuttavia anche se re Hiram potrebbe essere stato realmente esistente, alcune delle sue azioni potrebbero essere leggendarie.

Secondo la Bibbia Hiram si alleò con Davide, e mantenne la sua alleanza col figlio e successore Salomone. Grazie alla sua alleanza con Israele, Hiram I si assicurò l'accesso alle strade principali di commercio con l'Egitto, l'Arabia e la Mesopotamia. Giuseppe Flavio dice che inoltre Hiram ingrandì il porto di Tiro ed inglobò nella città le due isole su cui esso era stato costruito; inoltre costruì un palazzo reale e un tempio per Melqart, ma l'archeologia moderna non ne dato una sola conferma.
PORTICO DI SUD EST
GLI ASSIRI

Da nord-est, Tiro e le altre città fenicie erano minacciate dagli assiri, da qui la ricerca e la fondazione delle colonie. Per pagare tributi agli Assiri, Tiro aveva bisogno di ottenere preziosi articoli da ovest, per cui Tiro è fiorita e si è espansa attraverso le colonie occidentali, anche se spesso i suoi possedimenti sulla terra venivano saccheggiati.

IL RILIEVO DI SARGON II,
TROVATO IN CITIUM, SUGGERISCE
CHE LE CITTA' DI CIPRO PREFERISSERO
L'ASSIRO AL GOVERNO DI TIRO
Durante il regno del re assiro Assurnasirpal II (r.883-859) Tiro, dovette pagare tributi per non essere saccheggiata. Il figlio e successore di Assurnasirpal, Salmaneser III (regno 858-824) combatté una grande guerra contro le città a ovest dell'Eufrate e richiese tributi da Israele, Sidone e Tiro.

Sebbene i tributi fossero piuttosto pesanti, Tiro fu in grado di fondare Cartagine, e probabilmente, l'ospite di Tiro fu re Ithoba'al I, il cui regno, secondo Menandro di Efeso, ebbe una grande carestia.La Bibbia lo menziona come il padre di Izebel, la moglie del re Acab di Israele per cui Tiro sarebbe, la città madre di Bathrun e la (non identificata) città libica di Auza.

Il prossimo ad esigere tributi fu il re Adad-Nirari III (r.811-783 a.c.). Menandro narra che gli assiri tentarono di negare ai tiri l'accesso all'acqua dolce, ed è probabile che i tiri abbiano pagato un altro tributo.

Secondo il Prisma Sennacherib, il re assiro Sennacherib conquistò Sidone e lo sottopose a un regolare sistema di tassazione.

Nonostante la perdita di Sidone e Citium, Tiro si riprese dai saccheggi di Sennacherib, perché una generazione dopo, poté sostenere il re Esarhaddon d'Assiria (r.680-669) quando soppresse una rivolta a Sidone.

ARCO DI ADRIANO
Il re assiro concluse un trattato con il re Ba'al I di Tiro, nel quale era riconosciuta la sfera d'influenza di Tiro, ma il re dovette accettare che alla sua corte c'era un funzionario assiro permanente.

Il figlio e successore di Esarhaddon, Assurbanipal (r.669-631?) al terzo anno riuscì a occupare la terraferma, ma non riuscì a catturare la città. Sembra che se ne concluse un'alleanza coniugale. Il Citium sembra essere tornato alla sfera d'influenza di Tiro. Catturare Tiro non era nell'interesse assiro. Era più redditizio chiedere tributi e beneficiare del commercio internazionale di Tiro.

Dunque Tiro cominciò a decadere con lo sviluppo di Cartagine e fu governata dagli Assiri, dai Babilonesi e da Alessandro Magno, che la saccheggiò uccidendo quasi tutti i suoi 30.000 abitanti. Ritornò ad essere autonoma e a riprendersi nel 126 a.c. finchè nel 64 a.c. entrò nei domini romani con cui ebbe una notevole fioritura, divenendo poi capitale della provincia romana sirio-fenicia.

I RESTI ROMANI DEL FORO

STRABONE SU TIRO
[16.2.23.1] Tiro è un'isola,  collegata con la terraferma da una galleria, costruita da Alessandro quando la stava assediando; e ha due porti, uno che può essere chiuso, e l'altro, chiamato porto "egiziano", aperto.

DEA ROMANA
Le case qui hanno molte storie, anche più delle case di Roma. La città fu anche sfortunata quando fu presa d'assedio da Alessandro; ma si ristabilì sia per mezzo della marineria del suo popolo, in cui i Fenici sono stati superiori a tutti i popoli di tutti i tempi, sia per le loro tintorie di porpora.

Poiché il viola di Tyrian si è dimostrato di gran lunga il più bello di tutti; e il pesce-conchiglia viene catturato vicino alla costa; e le altre cose necessarie per la tintura si ottengono facilmente; e anche se il gran numero di tinture rende la città spiacevole in cui vivere, tuttavia rende la città ricca grazie all'abilità superiore dei suoi abitanti.


ULPIANO SU TIRO (c.170-228),

Sulle Tasse, Libro I. "Va ricordato che nella legge romana vi sono alcuni principi di colonizzazione, come, ad esempio, la magnifica colonia di Tiro, nella Siria fenicia (dove sono nato), il più nobile di tutti, il più antico nel tempo, costante nell'osservanza dei trattati che fece con i Romani. Il divino Severo e il nostro imperatore vi attribuivano i privilegi di una città romana, in ragione della straordinaria e distinta fedeltà che manifestava sempre nei suoi rapporti con il governo romano".

Ripresasi sotto il dominio dei Seleucidi, la città divenne romana nel 64 a.c., all'interno della provincia romana di Siria. Fu in seguito eletta a colonia dall'imperatore Settimio Severo, divenendo centro di studi letterari e filosofici.



L'EDIFICIO OTTAGONALE 


DIONISO
L'edificio ottagonale si trova nella parte settentrionale degli scavi della città di Tiro. L'edificio in sé non è molto grande, ma circondato da magnifici colonnati. Nel colonnato sud-occidentale è un piccolo edificio. Parte della decorazione sembra egiziana.

Non sono stato in grado di scoprire di più su questo monumento, che era facilmente uno dei più grandi e splendidi del quartiere.

Allo stesso modo, non sono riuscito a scoprire quale fosse la piccola struttura interna: apparteneva al monumento originale o è un'aggiunta successiva, forse bizantina?



L'ACQUEDOTTO

L'acquedotto di Tiro corre parallelo alla strada principale per la città e passa l'ippodromo. Apparentemente, gli archi formavano il porticato che si apriva ai negozi lungo la strada.

Le fonti dell'acquedotto erano ad Al-Ma'shook, a est di Tiro, e a sud a Ras el-Ain e Al-Rashidiyeh ("Tiro Antica"), dove ancora esiste il bacino idrico originario alla fonte. Ciò significa che la condotta d'acqua era lunga poco più di sette km.

LE TERME

LE TERME

I bagni termali di Tiro, vicino alla Via del Mosaico, furono costruiti nel II secolo d.c. e ricostruiti nel III. Era un complesso piuttosto grande, al quale, come era comune, veniva aggiunta una Palestra. Ora il sito dello stabilimento balneare, sull'isola, vicino al mare, era un problema per gli ingegneri antichi. Dopo tutto, il terreno era un po' umido per la vicina acqua di mare. 

Per risolvere questo problema, l'intero complesso è stato sollevato da arcate. Il famoso ipocausto ("riscaldamento a pavimento") è stato costruito sopra. L'edificio, con i suoi bagni freddi, tiepidi, caldi e caldi, doveva essere piuttosto alto. Le terme cittadine furono costruite in cima all'antico muro fenicio: questo è l'unico posto in cui qualcosa è visibile della città conquistata da Alessandro Magno.

L'IPPODROMO

L'IPPODROMO

L'ippodromo di Tiro risale al secondo secolo. È larga 90 metri, lunga 480 metri, ha una capacità di circa 40.000 persone ed è stata costruita per le corse dei carri. Al centro c'era un grande blocco di granito. Su entrambi i lati c'erano luoghi di incontro per i sostenitori delle squadre, che venivano chiamati Blues (nella parte occidentale dell'ippodromo) e Verdi (nella parte orientale). Erano edifici lussuosi, con mosaici e bagni.

Sebbene fosse principalmente destinato alle corse dei carri, l'ippodromo era usato anche per altri tipi di sport, ed è probabile che almeno alcuni degli eventi dei Giochi di Tiro siano stati celebrati in questo luogo. Si suppone che in questo luogo, durante la persecuzione di Diocleziano, cinque cristiani egiziani furono torturati a morte, ma in realtà le esecuzioni erano ritenute uno spettacolo minore, indegno di ippodromi o circhi di grandi dimensioni.

Dette esecuzioni semmai si facevano nei piccoli centri che avevano piccoli circhi dove per risparmiare si effettuavano anche esecuzioni come intervallo tra altri spettacoli. Pertanto è impossibile che all'ippodromo di Tiro si facessero spettacoli così scadenti perchè il popolo avrebbe protestato violentemente. Come del resto il Colosseo a Roma non fu mai luogo del supplizio nè dei cristiani nè dei pagani.

RESTI  DELL'IPPODROMO
L'ippodromo è indicato come degno di lode nell'Expositio Totius Mundi.
Il grande arco nella zona Al-Bass di Tiro fu eretto nel II secolo d.c., probabilmente per l'imperatore Adriano, che visitò la città nel 130 o nel 131. Il monumento è alto ventuno metri, e il suo nucleo è fatto di arenaria, che era ricoperta di intonaco. Un piccolo frammento dimostra che l'arco era dipinto una volta in tutti i colori.

Su entrambi i lati dell'arco principale c'erano porte più piccole per i pedoni. Al giorno d'oggi, è difficile immaginare che al di sopra di questi archi più piccoli fosse un muro, probabilmente con nicchie per statue, che era alto quanto la parte centrale.

Su entrambi i lati c'erano grandi stanze che dovevano essere servite come guardiola. La stanza meridionale era pavimentata con pietre normali, ma nella stanza settentrionale sono ancora visibili i resti di un mosaico. La presenza di queste guardie suggerisce che il grande arco indicava il confine esterno ufficiale della città.

È stato anche suggerito che il Grande Arco segni l'inizio della Diga di Alessandro, ma le mappe del diciannovesimo secolo dimostrano che questo era un po 'più a sud. La strada, che porta alla Torre di Hiram (un pozzo nel centro della città), è stata ripavimentata in età bizantina; i due livelli sono ancora visibili vicino all'arco.


PUBLIO MUMMIO SISENNA RUTILIANO - P. M. SISENNA RUTILIANUS

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ESPONENTE DELLA GENS MUMMIA

Nome: Publius Mummius Sisenna Rutilianus
Nascita: -
Morte: -
Gens: Mummia
Consolato: 146 d.c.
Professione: Politico


Publio Mummio Sisenna Rutiliano, membro della gens mummia, ottenne la carica di console suffetto nel 146. Luciano di Samosata  (125 – dopo il 180)  tratta di lui in "Alexander vel Pseudomantis", dove il senatore viene descritto come "un uomo di buona famiglia e testato in molti uffici romani, ma completamente malato per quanto riguarda gli Dei", come la vittima più illustre dell'oracolo falso stabilito dall'Alessandro di Papinagonia.

Alessandro di Papinagonia era un mistico ed oracolo greco, e il fondatore del culto Glicone che brevemente raggiunse vasta popolarità nel mondo romano. Lo scrittore contemporaneo Luciano riferisce che era un frode assoluta e il Dio Glicone niente altro era che un burattino. La conferma alla narrazione della  carriera di Alessandro come grande oracolo, è confermata  da una statua di Alessandro, detto da Atenagora posta nel foro di Parium.

Luciano lo descrive come un astuto truffatore, forse anche per l'odio che aveva costui verso gli epicurei che invece Luciano molto apprezzava. a odio di Alessandro degli epicurei. Ora Rutiliano aveva sposato la figlia di Alessandro il che aveva contribuito a farlo cadere nella rete delle divinazioni.



LA BRILLANTE CARRIERA

Rutilianus fu nominato console suffetto con Tito Prifernio Paeto Rosianus Geminus come suo collega nel 146, sotto Antonino Pio. Probabilmente fu figlio di Publio Mummio Sisenna, console ordinario del 133 e costruttore del Vallo di Adriano.

LUCIANO DI SAMOSATA
Secondo due iscrizioni sopravvissute, Rutiliano iniziò la carriera senatoriale come uno dei "decemviri stlitibus judicandis", una delle quattro commissioni che formano i "vigintiviri", il primo passo verso l'ingresso al Senato. Poi gli fu commissionato un tribunato militare nella Legio V Macedonica, di stanza in Moesia Inferiore. Divenne poi questore passando poi al Senato. Seguirono altri due tradizionali magistrati repubblicani: tribuno e pretore plebeo.

Terminata la Pretura, Rutilianus sembra divenne "legatus legionis" per la Legio VI Victrix, di stanza nella Britannia romana, sotto il padre che era governatore della provincia dal 133 al 138. Certi nepotismi erano inusuali per i romani. "Questi legami stretti tra governanti e legati legionari erano anormali" commenta infatti Birley, "ma potrebbero essere interpretati come un segno di favore da Adriano". 

Il prossimo incarico fu prefetto dell'"Aerarius Saturni" ovvero del tesoro del Senato, carica che detenne per tre anni, Mireille Corbier data il suo mandato dal 141 al 143 con Lucio Coelius Festus come suo collega. Altrimenti, ad eccezione di un mandato come governatore di Mesia inferiore a qualche tempo prima del 156, il suo unico ufficio consolare sarebbe stato proconsole dell'Asia. 

Non sappiamo quando, ma comunque prima del suo consolato, Rutilianus fu accettato nel collegio di Auguri, sacerdoti interpreti della volontà degli Dei studiando il volo degli uccelli, carica che secondo Birley sarebbe una conferma alla sua "elevata posizione sociale".



IL PROCONSOLE D'ASIA

Alessandro di Abonoteichus, detto anche Alessandro il Paphlagoniano ( 105 – 170) aveva una bellezza notevole e la personalità sorprendente del ciarlatano di successo, e doveva essere un uomo dalle notevoli capacità intellettuali e dal potere di organizzazione.

IL DIO GLICONE
Non si sa molto di Alessandro se non che aveva lavorato in spettacoli di medicina itinerante in giro per la Grecia e potrebbe essere stato un profeta della Dea Soi o un seguace di Apollonio di Tyana. 

Dopo un periodo di istruzione in medicina da parte di un dottore che, secondo Luciano, era un impostore, intorno al 150 stabilì un oracolo di Esculapio nella sua città natale di Abonoteichus (più tardi Ionopolis), sull'Euxine, dove guadagnò ricchezza e grande prestigio professando per guarire i malati e rivelare il futuro.

Qualche tempo prima del 160 Alessandro formò un culto attorno al culto di un nuovo dio-serpente, Glycon, e la sua sede era in Abonoteichus. Avendo fatto circolare una profezia secondo cui il figlio di Apollo sarebbe nato di nuovo, ha escogitato che fosse trovato nelle fondamenta del tempio di Esculapio, poi in costruzione a Abonoteichus, un uovo in cui era stato collocato un piccolo serpente vivo. 

I Paflagoni avevano già fama di molta credulità, così Alexander non ebbe difficoltà a convincerli della seconda venuta del Dio sotto il nome di Glycon. Un grande serpente addomesticato con una falsa testa umana, avvolto intorno al corpo di Alessandro mentre sedeva in un santuario nel tempio, dispensando oracoli in versi anche quando non richiesti. Nel suo anno migliore si dice abbia consegnato quasi 80.000 risposte, riguardanti afflizioni fisiche, mentali e sociali, per ognuna delle quali ha ricevuto una dracma e due oboli.

Rutilianus era stato attratto dall'oracolo, apparentemente per servirlo come proconsole dell'Asia, ma invece "quasi abbandonò l'incarico affidatogli per prendere il volo per Abonoteichus". 
Luciano spiega che Rutilianus, "sebbene un uomo di nascita e di nobile casato, messo alla prova in molti uffici romani, tuttavia in tutto ciò che riguardava gli Dei sembrava malato e possedeva strane credenze su di loro. Cospargeva olio o adornava con una ghirlanda l'oracolo, sarebbe caduto ai suoi piedi immediatamente, avrebbe baciato la sua mano, e sarebbe accanto a esso per molto tempo facendo voti e chiedendogli benedizioni "

Poco dopo che Rutiliano era stato coinvolto in questo oracolo, Luciano aveva  fatto visita ad Alessandro, chiedendo all'oracolo chi Rutiliano avrebbe dovuto sposare, la risposta era che il proconsole, che aveva sessant'anni, avrebbe dovuto sposare la figlia di Alessandro, presumibilmente generata sulla Dea Selene. 

Luciano tentò di dissuadere il proconsole dal prendere la ragazza in matrimonio, ma a quel tempo Rutilianus era molto credulo e non lo ascoltò. Congedandosi, Luciano scoprì poi che l'equipaggio della barca che Alessandro gli aveva prestato per portarlo a casa aveva ricevuto l'ordine di ucciderlo, ed evitò questo destino cambiando le navi. 

Quindi Luciano decise di portare Alessandro in tribunale, ma quando presentò il suo caso al governatore di Bitinia e Pontus, Lucio Hedous Rufus Lollianus Avitus, e quest'ultimo lo convinse che sarebbe stato inutile, perché anche se Luciano avesse vinto il suo caso, Rutilianus avrebbe usato la sua influenza per impedire ad Alessandro di essere punito. Su questo inganno Luciano di Samosata, scrisse il libello critico "Alessandro o il falso profeta".



ALESSANDRO DI ABONOTEICHUS

Alessandro istituì dei Misteri come quelli di Eleusi e raggiunse una certa influenza politica e sua figlia infine sposò Publio Mummio Sisenna Rutilianus. Trovò credenti dal Ponto a Roma attraverso le arti pretese di divinazione e magia e fu venerato nonché come profeta consultato da individui notevoli della sua epoca.

MARCO AURELIO
Si diceva che avesse "fatto previsioni, scoperto schiavi fuggiaschi, individuato ladri e ladri, causato la dissimulazione di tesori, guarito gli ammalati e in alcuni casi addirittura resuscitato i morti".

Durante la pestilenza di 166 un versetto dell'oracolo fu inciso come amuleto sopra le porte delle case e un oracolo fu inviato, su richiesta di Marco Aurelio, da Alessandro all'esercito romano sul Danubio durante la guerra con i Marcomanni, dichiarando che la vittoria sarebbe seguita al lancio di due leoni vivi nel fiume. 

Il risultato fu catastrofico e Alessandro ricorse al vecchio cavillo dell'oracolo di Delfi a Creso sulla battaglia della Persia, anche questa perduta, che dette come risposta: "Qualora tu combatta contro la Persia, distruggerai un potere potente". Ma naturalmente poteva indicare tanto il potere della Persia quanto quello di Creso.

Alexandro morì secondo Lucano di cancrena alla gamba nel suo settantesimo anno ma il suo scenario gli sopravvisse per almeno un secolo, come dimostrano gli oggetti legati al suo culto fra il Danubio e l'Eufrate. 

Alessandro, dopo la morte, fu riconosciuto come figlio di Podalirio (figlio di Asclepio ed Epione), pertanto nipote di Asclepio e la sua figura associata a quella di Glicone.

CATURIGI (Nemici di Roma)

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RICOSTRUZIONE DEL TROFEO DELLE ALPI
I Caturigi (latino Caturiges) furono un piccolo popolo celtico stanziato sulle Alpi, precisamente nella valle dell'alta Durance (in italiano Druenza, ora in disuso; in latino Druentia), nelle Alpi Cozie, quelle che in Italia interessano la regione del Piemonte.

Gaio Giulio Cesare menziona i Caturigi una sola volta nel De bello Gallico. Il nome dei Caturigi è ricordato anche insieme a quello di numerose altre tribù alpine vinte da Ottaviano Augusto nell'iscrizione presente sul Trofeo delle Alpi ("Tropaeum Alpium"), monumento romano eretto
nel 7-6 a.c. per celebrare la sottomissione delle popolazioni alpine e situato presso la città francese di La Turbie:

«GENTES ALPINAE DEVICTAE· ACITAVONES · MEDULLI · UCELLI · CATURIGES»

Augusto in persona si dedicò, con l'aiuto di Agrippa, a conseguire la sottomissione di quelle aree interne all'impero non ancora conquistate. Iniziò con la sottomissione del nord-ovest della penisola iberica, e li pose sotto il dominio romano, dopo una serie di sanguinose campagne militari in Cantabria dal 29 al 19 a.c., impiegando 7 legioni e altrettanti ausiliari.

POSIZIONE DEI CATURIGI, NELLE ALPI COZIE
A questa conquista succedette quella dell'arco alpino, per dare maggior sicurezza interna ai valichi ed alle relazioni con la Gallia (26-25 a.c.). Vennero sottomesse le popolazioni a guardia del passo del Gran San Bernardo, contro il popolo dei Salassi, i 44.000 sopravvissuti furono tutti venduti come schiavi, mentre in luogo della fortezza militare fu fondata la colonia di Augusta Praetoria (Aosta)

Questi successi furono commemorati con il trofeo di La Turbie, eretto nel 7-6 a.c. in onore di Augusto nella Francia mediterranea, per ricordare i nomi di tutte le tribù sottomesse, ben 46 tribù alpine tra l'Italia, la Gallia Narbonese e la Rezia:
- Triumpilini, - Camuni, - Vennoneti, - Venosti (della Val Venosta), - Isarci, - Breuni, - Genauni, - Focunati, - le quattro tribù dei Vindelici (Cosuaneti, Rucinati, Licati e Catenati), - Ambisonti, - Rugusci, - Suaneti, - Caluconi, - Brixeneti, - Leponti, - Uberi, - Nantuati, - Seduni, - Varagri, - Salassi, - Acitavoni, - Meulli, - Ucenni, - Caturigi, - Brigiani, - Galliti, - Triutalli, - Ectini, - Vergunni, - Eguituri, - Nemanturi, - Oratelli, - Nerusi, - Velauni, - Suetri.

I Caturigi vennero sottomessi a Roma durante le campagne di conquista di Augusto, nel 16 e il 15 a.c., di Rezia e dell'arco alpino, condotte dai suoi generali Druso maggiore e il futuro imperatore Tiberio, contro i popoli alpini.  

ARCO DI AUGUSTO
Ma i Caturigi sono anche ricordati tra i popoli alpini che rispondevano a Marco Giulio Cozio nell'iscrizione dedicatoria dell'Arco di Augusto a Susa. In effetti mentre molte tribù galliche approfittarono della morte di Giulio Cesare per ribellarsi ai Romani, mentre Cozio rimase fedele a Roma durante le guerre civili.

Tanto è vero che Cozio fece erigere, tra il 9 e l'8 a.c., un arco onorario in onore di Augusto per celebrare l'alleanza (il foedus) con l'impero romano e il suo regno, stipulato nel 13 a.c.. Ottaviano in persona, di ritorno dalle Gallie, si fermò a Segusium per inaugurare il monumento.

Sebbene depredato delle lettere in bronzo dell'iscrizione e delle grappe di bronzo che ornavano e tenevano i blocchi di pietra, l'arco è in gran parte intatto. Solo il fregio sul lato est del monumento è stato corroso dal tempo ed è oggi incomprensibile. L'arco è stato comunque restaurato in occasione del suo bimillenario tra il 1990 e il 1992 con la supervisione della Soprintendenza Archeologica del Piemonte.

IL TROFEO DELLE ALPI
Esso è di 13 metri di altezza, 12 di larghezza e 7 di profondità, con un unico fornice con volta a botte decorata a cassettoni e delimitato ai 4 angoli da lesene sormontate da capitelli corinzi.
L'iscrizione dedicatoria all'imperatore Ottaviano Augusto da parte di Cozio, già insignito della carica di Praefectus Ceivitatium, insieme con le 14 popolazioni che governava, era:

«IMP · CAESARI · AVGVSTO · DIVI · F · PONTIFICI · MAXVMO · TRIBVNIC · POTESTATE · XV · IMP · XIII
M · IVLIVS · REGIS · DONNI · F · COTTIVS · PRAEFECTVS · CEIVITATIVM · QVAE · SVBSCRIPTAE · SVNT · SEGOVIORVM · SEGVSINORVM
BELACORVM · CATVRIGVM · MEDVLLORVM · TEBAVIORVM · ADANATIVM · SAVINCATIVM · ECDINIORVM · VEAMINIORVM
VENISAMORVM · IEMERIORUM · VESVBIANIORVM · QVADIATIVM · ET · CEIVITATES · QVAE · SVB · EO · PRAEFECTO · FVERVNT»
(CIL V 7231)

“[In onore dell']Imperatore Cesare Augusto, figlio del divino [Cesare], Pontefice Massimo, con Potestà Tribunizia da 15 [anni] e Imperatore da 13, [da parte di] Marco Giulio Cozio, figlio del re Donno, Praefectus delle popolazioni qui elencate: Segovii, Segusini, Belaci, Caturigi, Medulli, Tebavi, Adanati, Savincati, Ecdini, Veamini, Venisami, Imerii, Vesubiani, Quadiati e delle popolazioni che furono sotto la sua prefettura”.
Il fregio effigia scene politico-religiose relative al patto di alleanza tra Cozio e Ottaviano Augusto, diventando un'opera propagandistica assolutamente inusuale.

Cozio latinizzò il suo nome in Marcus Iulius Cottius, fu nominato præfectus civitatis e assunse la cittadinanza romana, per la riconoscenza dei romani e il desiderio di creare un saldo legame con le popolazioni stanziate sul valico del Monginevro, l'unica via per l'accesso alle Gallie.
IL CAPRICORNO DI AUGUSTO
Vero è che il dominio di Cozio venne ridotto, compensato però dall'ampia autonomia e le ricchezze che al territorio acquisì grazie ai commerci tra Gallia e Italia. La capitale Segusium (oggi Susa), cominciò infatti ad estendersi e abbellirsi di notevoli monumenti pubblici e dotarsi di monumenti pubblici.

Sotto la sua guida, le popolazioni locali, Caturigi compresi, si romanizzarono, adottando la lingua latina, le leggi romane e l'arte romana. Rimase intatta però la devozione verso i loro Dei, solo in seguito affiancati e identificati con quelli romani. Del resto i romani furono sempre estremamente tolleranti verso le divinità straniere.

Anzi alcuni Caturigi si arruolarono nell'esercito di Ottaviano a cercare fortuna, come testimonia un'epigrafe dove è scritto:
«Primo, figlio di Tito, trombettiere, della stirpe dei Caturigi, soldato della III Coorte Alpina, visse 48 anni, ebbe la paga per 23. Qui giace. Per testamento dispose che il sepolcro fosse eretto. Lucio, sottufficiale e Tullio, veterano, eredi, posero

Dopo la morte di Cozio, le Alpes Taurinae, cioè le montagne su cui Cozio aveva governato, mutarono in onore del re defunto in Alpes Cottiae (Alpi Cozie). Nel IV secolo d.c. il mausoleo di Cozio era ancora frequentato e la sua figura venerata come esempio di re giusto e previdente.

A Cozio succedette il figlio Donno II (c.a 30 a.c.- 44 d.c.), a cui succedette il nipote Cozio II (5 a.c.- 63 d.c.), che regnò molto a lungo sui Caturigi, ed ingrandì il territorio amministrato dal nonno grazie a doni territoriali concessi dall'Imperatore Claudio. Alla morte di Cozio II, non essendoci eredi, le Alpi Cozie divennero una provincia romana, con un passaggio del tutto indolore. I Caturgi divennero pertanto romani.

ARCUS MANUS CARNEAE

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SI SUPPONE FOSSE UN ARCO QUADRIFRONTE COME L'ARCO DI LEPTIS MAGNA QUI RIPRODOTTO
Tra i monumenti sopravvissuti alle distruzioni della Roma antica, gli archi trionfali sono quelli sui quali, fin dai primi studi umanistici, si è concentrata in misura maggiore l'attenzione di antiquari e topografi.

Per la loro Stessa natura celebrativa, la dislocazione di questi monumenti era sempre legata alla viabilità, ossia all'elemento più duraturo di ogni impianto urbano. L'erezione degli archi trionfali a Roma era connessa con le più importanti conquiste militari. Per questa ragione sono stati considerati dopo la fine dell'epoca imperiale la testimonianza più tangibile dell'antica grandezza dell'Urbe.

Ammirati fin nei più antichi cataloghi regionari, descritti negli itinerari e nelle guide per i pellegrini, menzionati nelle prime raccolte di iscrizioni pubbliche, gli archi, insieme alle due colonne coclidi, sono Stati fra i primi monumenti antichi a ricevere le cure necessarie alla loro conservazione e a essere oggetto, poi, di veri e propri interventi di restauro.

Nonostante ciò, alcuni di quelli sopravvissuti dall'antichità hanno subito in epoca moderna un progressivo smantellamento o una completa distruzione. Nella maggior parte dei casi, di questi archi perduti si conserva testimonianza letteraria e documentazione grafica:
- l'arcus Novus,
- l'arcus Claudi,
- l'arco di ingresso all'area dell'Hadrianeum
- l'arco detto di Portogallo, tutti collocati lungo la via Lata, cioè il tratto iniziale della Via Flaminia.



MANUS CARNEAE

Talvolta, invece, se n'è perduta ogni traccia, e persino l'esatto luogo di collocazione originaria. Tra questi ultimi vi è l'arco denominato «Manus Carneae», scomparso da tempo e noto soltanto per la sua menzione nelle fonti medievali, che lo collocano ai piedi del Campidoglio, lungo il versante nord-orientale.

Il monumento è ricordato nell'itinerario liturgico di Benedetto Canonico e in cinque diverse versioni dei « Mirabilia Urbis Romae».

Benedetto visse nella prima metà del XII secolo e la sua unica opera letteraria, il « Liber Politicus», fu scritta dietro richiesta del cardinale di S. Marco, Guido di Castello, e venne terminata prima del 1143, anno in cui il cardinale venne innalzato al soglio pontificio con il nome di Celestino Il (1143-1144). Il nucleo centrale dell'opera, costituito dall'«Ordo Romanum», riprende e rinnova l'antico cerimoniale del clero romano, con le feste e le cerimonie vecchie e nuove.

1) L'arco viene menzionato appunto lungo l'itinerario che, nel giorno della « secunda feria» di Pasqua, conclusa la messa celebrata nella basilica vaticana, si percorreva a ritroso da S. Pietro a S. Giovanni in Laterano:
« ascendit per Pineam iuxta Palacinam, prosiliens ante Sanctum Marcum; ascendit sub arcu Manus Carneae per clivum Argentarium, inter insulam eiusdem nominis et Capitolium»

Questo passo dimostra che quell'arco, sicuramente trionfale, fu fra S. Marco e la odierna salita di Marforio che portava allora il nome di Clivus argentarius, e per conseguenza dee porsi a Macello de' Corvi. Circa poi la sua etimologia, gli vien data questa dal codice Visconti, ed è una delle tante storielle inserite in questo opuscolo :

"Arcus qui vocatur Manus Carnea ad Sanctum Marcum. Tempore quo Dioclitianus imperator sanctam Luciam matronam pro fide Christi in urbe Roma cruciabat, iussit eam extendi ad verbera, ut fustibus mactaretur. Et ecce, qui eam caedebat, factas est lapideus; manus autem eius carnea remansit usque nunc. Propter hoc vocatur nomen loci illius ad Manum Carneam usque in praesentem diem. Arcus Aureus in Capitello".

2) La seconda citazione del monumento compare nella più antica redazione dei Mirabilia, datata negli stessi anni, dove nel novero degli archi trionfali di Roma, dopo l'arco «qui nunc vocatur Antonini» e prima dell'arco «Panis Aurei» in Campidoglio, viene nominato un «arcus ad Sanctum Marcum qui vocatur Manus Carneae».

3) Come ci informano Svetonio (Dom. 13) e Cassius Dio (LXVIII.1), Domiziano (51-96) eresse diversi archi in suo onore in varie parti dell'urbe. Uno di questi è stato riconosciuto attraverso una recente teoria (PBS III.259‑262) che per certo identifica l'arco riferito da Marziale (VIII.65) con l'Arcus Manus Carneae delle Mirabilia e Ordo Benedicti (ap. Giordano II.666). Quest'arco stava vicino a Piazza Venezia, e forse stava con la congiunzione alla via Lata e al Vicus Pallacinae.

4) La quarta menzione è presente nella «Graphia Aureae Urbis», un'opera letteraria del XIII secolo in cui sono mescolati tre testi più antichi, tra i quali una redazione dei Mirabilia attribuibile forse a Paolo Diacono e databile, per la citazione della tomba di Anastasio IV (1153—1154), non prima della morte di quest'ultimo.

Qui il riferimento topografico a un « arcus qui vocatur Manus Carneae ad Sanctum Marcum» è seguito da una spiegazione del nome: « Tempore quo Diocletianus imperator sanctam Luciam matronam pro fide Christi in urbe Roma cruciabat, iussit eam ext caedebat, factus lapideus; manus autetur nomen loci illius ad Manum Carneae. Et ecce ui eam caedebat, factus lapideus; manus autem eius Carneae remansit usque nunc. Propter hoc vocatur nomen loci illius ad Manum Carneam usque in praesentem diem »

5) La quinta menzione dell'arco si trova nella versione volgare della più antica redazione dei Mirabilia, chiamata «Le Miracole de Rome» e conservata in un codice del Duecento, dove si riporta:
« ad Sancto Marco Arcus lo quale se voca Manus Carnea. Et in quello tempo Dyoclitianus commannao ke sancta Lucia forse menata et martoriata pro la fede de Christo, et quello ke li feria incontenente fo admarmorito, se non solo le mane, ke remasero de carne, et inperzò quello loco vène vocato ad Manus Carneas» (insomma il corpo martoriato divenne di marmo mentre le mani restarono di carne)

6) La sesta Citazione compare, con le medesime parole della prima, nel «De Mirabilibus Civitatis Romae», una versione del testo dei Mirabilia con alcune aggiunte, inclusa nella raccolta di vari libri della Camera Apostolica Compilata tra il 1356 e il 1362 da Nicol Rosell, detto il Cardinale d'Aragona. 

7) Corpus Corporum
"iuxta sanctum Laurentium in Lucina est arcus triumphalis Octaviani; inde prope arcus qui nunc vocatur Antonini; est arcus ad sanctum Marcum qui vocatur Manus carnea; in Capitello arcus panis aurei." (Effemeridi letterarie di Roma - 1820)

Secondo A. Nibby però l'arco di Manus Carneas sarebbe semplicemente l'Arco degli Argentari
"E' quell' arco distrutto da Alessandro VII. ed esistente sul corso sotto il palazzo Fiano: i due bassorilievi che oggi sono nel Palazzo de' Conservatori in Campidoglio mostravano essere un arco eretto a Marco Aurelio, e non ad Ottaviano come la descrizione porta."



IL SIGNIFICATO

Aldilà delle fantasiose favole cristiane sugli improbabili miracoli, il nome dell'Arco è latino e si riferisce al vocabolo manus plurale manibus, che significa mano, modalità e molto altro, e carnea che non ha senso interpretare come una aggettivo, anche perchè nella maggior parte degli scritti il vocabolo è "carneae", che non è di certo interpretabile come "mano di carne".

Di certo non c'era più il riferimento al generale cui fu dedicato, e il nome doveva piuttosto riferirsi a un luogo prossimo all'arco. Nell'effigie a cui potrebbe riferirsi appare a quattro fornici con immagini di sacrifici animali e di buoi.

Con tutta probabilità ci si riferisce alla Dea Carnea (o Cardea) protettrice delle porte, dei passaggi e dei bambini. La mano di Cardea (manus Cardeae, giustamente al genitivo) antica Dea italica, potrebbe essere indicazione di una protezione divina della Dea, ma non vi sono prove in proposito per cui per ora è solo un'ipotesi.

FORMIA (Lazio)

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CISTERNONE DI CASTELLONE

"Resti, di edificio di età imperiale scoperti presso la via Tullia.
Eseguendosi alcuni scavi dai sigg. fratelli Paone por le fondamenta di una nuova casa nel giardino di loro proprietà presso la via Tullia, sono avvenute le seguenti scoperte.

A circa m. 3 di profondità, cominciarono a rinvenirsi, tra rottami di vecchia fabbrica, tratti di antiche mura, archi e pilastri in mattoni : e seguitando a scavarsi, a m. 6 si scoprì un pavimento parte a mosaico e parte a lastre marmoree. Tra i rottami si rinvenne:

- Vari pezzi di colonne di cipollino liscie, di varie lunghezze ma tutti di m. 0,50 di diametro.
- Quattro assi di colonne di marmo bianco, finamente lavorate; due sono di ordine corintio.
- Un capitello corinzio.
- Testa muliebre di pietra calcare, con ricca capigliatura scendente sul collo.
- Busto di statua virile mutilato, di finissimo marmo statuario e di buon lavoro.
- Frammento epigrafico su lastra di marmo, ove si legge : VERO COSIl
- Piccolo capitello corinzio, semplice.
- Vari tubi di piombo, del diam. di m. 0,05 circa."


(Atti della R. Accademia dei Lincei - 1890)


Formia si trova sul Mar Tirreno, adagiata nel Golfo di Gaeta, non lontano dall'attuale confine fra Lazio e Campania, e il passaggio nel suo territorio è tra i monti Aurunci e la costa, fra percorsi pedemontani e costieri che si uniscono in corrispondenza di Formia.

Formia risale, narrano le leggende, alla guerra di Troia e al peregrinare di Ulisse sulla via del ritorno, che qui incontra i temibili Lestrigoni, popoli di giganti cannibali, a cui soccombono tutte le navi di Ulisse tranne la sua, unica superstite con i suoi marinai. Formia è aurunca, come dimostra la cinta di mura poligonali, in buona parte conservata lungo la costa e nel quartiere di Castellone.

VILLA DI MAMURRA
Viene conquistata dai romani tra il V e IV secolo a.c., divenendo parte del Latium adiectum (Lazio aggiunto). Nel 338 a.c. le viene accordato lo status di "civitas sine suffragio" (cioè con tutti i diritti romani tranne quello di voto nelle assemblee popolari), come premio del fatto che il passaggio attraverso il suo territorio è sempre stato sicuro.

Passaggio molto importante, tanto che per la città viene fatta passare la via Appia nel 312 a.c., voluta da voluta dal console Appio Claudio Cieco, per ragioni di trasporti anzitutto militari e poi commerciali, tanto più che a Formia si apriva il porto sul mare.

I restauri dell’antica via Appia, fino all’anno 216 d.c. pavimentata con una pietra calcarea bianca tipica della zona, e solo in seguito in basalto, sono rilevabili dalle iscrizioni miliari che ne segnano il tragitto anche fuori dell’antico percorso. Ad oggi, se ne possono vedere i resti presso il miglio 88, in località San Remigio.

Durante le campagne di Roma in Italia, in qualità di alleati, i formiani dovettero contribuire alle gravose leve militari, necessarie per le guerre ininterrotte. Dopo la vittoria di Roma contro Cartagine, Formia, Fondi e Arpino passarono alla piena cittadinanza. Così Formia entrò, nel 188 a.c, a far parte a pieno diritto della comunità romano-italica. Verso la fine dell’età repubblicana Formia ebbe una notevole espansione urbanistica per l'edificazione del porto, di una curia e di un forte.

In età imperiale, l’economia e soprattutto il porto di Formia ebbero intense attività non solo per la pesca locale e per i commerci, ma anche per scopi militari. Sotto Adriano, Formia acquistò il rango di colonia, con il nome di Colonia Aelia Hadriana Augusta Formiae, un riconoscimento molto ambito. Qui nacque il grande architetto-scrittore Vitruvio. Dalla zona di Formia, Itri e Fondi provenivano i famosi vini Cecubo e Falerno, carissimi e tanto apprezzati dai Romani.

CISTERNONE DI CASTELLONE

IL CISTERNONE

L’alto tasso di urbanizzazione si comprende dalle dimensioni del Cisternone Romano di Castellone, una straordinaria opera di ingegneria idraulica posta a monte dell’Arce che permetteva di avere acqua corrente nelle numerose abitazioni locali, ma pure nelle numerose piscine per l’itticoltura ed infine nelle sontuose ville di importanti personaggi quali Cicerone e Mamurra.

Il Cisternone è una grande cisterna di epoca imperiale romana, da poco risanata e aperta al pubblico, che sta nel cuore del borgo. È una monumentale opera idraulica interrata nell'Arce, con murature talmente robuste e imponenti da sorreggere case e vicoli soprastanti. E' la seconda più grande d'Italia, visitabile dopo 22 secoli in cui era diventata un ammasso di detriti.

Il Cisternone, esteso per 1200 mq e alto 6 m,  con pilastri e volte a crociera, risale al I secolo a.c. ed è una struttura a pianta irregolare divisa in quattro navate con una capacità di 7000 mq3 di acqua, con cui poteva sopperire ai bisogni delle abitazioni e dei lussuosi giardini. Non ha nulla da invidiare alla c.d. Piscina Mirabile al Capo Miseno ed alla Cisterna di Giustiniano a Costantinopoli (la Yerbatan Saray).

Formia fu una località turistica molto apprezzata in epoca romana, ricca di ville aristocratiche tra le quali celebri quelle di Mamurra, di Mecenate e di Cicerone, che trovò la morte proprio a Formia dai sicari di Antonio nel dicembre 43 a.c. fuggiva alle proscrizioni.

LA COSIDDETTA TOMBA DI CICERONE
- Esiste effettivamente a lato dell'Appia Antica un mausoleo monumentale di età imperiale detto comunemente ‘'Tomba di Cicerone’'. La vicinanza al sito in cui la tradizione colloca la sontuosa villa che l'oratore abitò frequentemente, le fonti storiche che riferiscono del suo assassinio proprio nei pressi di questa e la grandezza dell'edificio, senz'altro costruito per accogliere le spoglie di un uomo illustre, fanno ragionevolmente presumere che esso sia proprio il monumento funerario dell'arpinate.

Sulla collina vicina, un sepolcro più piccolo è, dalla tradizione, ritenuto la tomba della figlia Tulliola, come Cicerone chiamava l'amata figlia. Però, mentre si sa con certezza che le spoglie di Cicerone non giacciono a Formia, bensì a Roma, è noto che le spoglie della figlia si trovano effettivamente nel mausoleo a lei dedicato, nella zona di Acervara, derivante dal termine acerbam che indica l'età molto giovane della ragazza e ara per indicare l'altare della sepoltura.

All'interno della cosiddetta tomba di Cicerone, rivestita in laterizio si notano zone intonacate che dovevano presentare affreschi, purtroppo oggi totalmente cancellati per l'incuria del monumento mai ripristinato prima. Il mausoleo che conserva i resti della figlia Tulliola non è distante da questo.

IL TEATRO OGGI

IL TEATRO ROMANO

- Sulle rovine del Teatro romano di età augustea del I secolo a.c., dove nel seicento fu edificata una casa e dove oggi vi sono abitazioni private. Secondo alcuni vi fu martirizzato S. Erasmo, ma secondo i più venne martirizzato nell'anfiteatro.

ANFITEATRO ROMANO

L'ANFITEATRO ROMANO

- Scoperto nel 2011, l’anfiteatro romano è una testimonianza d’importate valore archeologico, di epoca imperiale, anzi di età claudiana, nel I secolo d.c.. I resti si trovano nei pressi della stazione ferroviaria, ed è composto da quattro ambienti disposti a raggio, con gradinate in pietra calcarea destinate agli spettatori e la presenza di un ambulacro interno intonacato. La vicinanza alla costa lo rendeva raggiungibile anche dal mare. Gli scavi sono ancora in corso d’opera.

Nell'Anfiteatro di Formia, nell'anno 303, sarebbe stato martirizzato S. Erasmo, il patrono della città. La Passio che narra la sua vita risale però al VI secolo, due secoli dopo, per cui si tratta di una storia popolare dove Erasmo, vescovo di Antiochia, per evitare le persecuzioni in quanto cristiano, si rifugiò per sette anni in una caverna poi, scoperto, venne carcerato per non aver sacrificato agli idoli pagani.

Fu arrestato e condotto al tribunale dell'imperatore che, alternando lusinghe a tormenti, cercò di persuaderlo a rinunciare alla sua fede. Errore, a parte che un imperatore aveva ben altro a cui pensare, ma i romani non chiedevano ai cristiani di abiurare alla loro fede ma solo di compiere il rito all'imperatore divinizzato, dopodiché gli veniva scritto su un libricino ed era salvo. 

Dopo le tortura venne liberato per ben due volte da un angelo per farlo torturare di nuovo. Infatti a Formia gli furono strappati gli intestini legati ad un argano, (doveva avere un corpo e visceri d'acciaio per ricorrere a una argano!) e finì la storia.

Secondo un'altra storia dopo aver convertito ben 400000 persone (nemmeno Formia con i centri più vicini ne conteneva tante) e dopo aver compiuto altri miracoli e subito altre persecuzioni, venne condotto in volo dall'arcangelo Michele, non si sa perchè, proprio a Formia, dove morì. Comunque non risulta tra i vescovi di Antiochia (nel 303 morì ad Antiochia il vescovo Cirillo persecutore di pagani.).
L'ACQUEDOTTO ROMANO

ACQUEDOTTO ROMANO DI SAN GIOVANNI

- Come si vede l'acquedotto, mai restaurato per secoli, è ora ancora in fase di restauro. Speriamo bene, perchè larga parte dell'acquedotto è ancora interrato o seminterrato, come si osserva dall'immagine qua sotto.

Il piccolo tratto che si trova nell’area di Mola a ridosso della chiesa di San Giovanni – sono ormai abbandonati e sopraffatti da altri interessi. 

Basti considerare che proprio accanto è stato realizzato un distributore di benzina in pieno centro urbano. 

Oltre a ciò erbacce e rifiuti ne corredano il contesto, oggi, come già in passato. Insomma un sito di pregevole fattura storica e archeologia abbandonato a se stesso e anche piuttosto precario. 

A sollecitare una sua immediata riqualificazione e valorizzazione, e prima ancora una semplice pulizia che gli restituisca dignità, è il noto marciatore formiano Michele Maddalena che in una lettera inviata al sindaco fa cenno anche alla vicende del passato che lo hanno visto come al solito sottomesso agli interessi privatistici dell’apertura del pastificio Aprea, a causa del quale furono abbattute alcune arcate."

LA FONTANA ROMANA

FONTANA ROMANA SULLA VIA APPIA

- Oggi si chiama Fontana di San Remigio, forse dovrebbe avere un nome romano anzichè cattolico, anche perchè ovunque le vestigia romane appaiono distrutte, camuffate e rinominate. Magari chiamandola solo "Fontana romana" tanto per ricordarsi che è romana.

La fontana è in buono stato di conservazione. Appoggiata a una robusta parete di blocchi calcarei, è lunga circa sette metri e larga uno e mezzo. Possedeva nel retro una cisterna per l'approvvigionamento idrico. L'acqua fuoriusciva da due mascheroni antropomorfi, raffiguranti il sole e la luna. Di uno di essi sono ancora visibili le tracce. Visibile inoltre un tratto pavimentato in basalto dell'antica Via Appia. Il monumento è unico nella penisola.

PORTO ROMANO DELLA GIANIOLA

IL PORTO ROMANO DELLA GIANIOLA

Nel territorio comunale Formia è presente anche un’altra e importantissima piscina romana. Si tratta di quella posta sul promontorio di Gianola sulla quale fu ricalcato nel 1930 da parte del marchese Carlo Afan De Rivera il suo porticciolo privato. Sotto i due moli foranei l’argine antico sporge con una larghezza totale di 3,50 m e una lunghezza interna di 41 m.

La banchina orientale, lunga 52 metri si sovrappone a quella antica realizzata in opus incertum più piccolo di quello moderno, nel quale è stato reimpiegato un elemento lapideo di una chiusa simile ad altri che si trovano sulla banchina e fuori l’argine antico. Nella parte occidentale rimasta incompiuta i muri a pelo d’acqua seguono delle tracce evidenziate anche in un tratto intagliato nella roccia dalla quale esce acqua sorgiva.

I resti più evidenti della ripartizione della piscina sono sul fondale prossimo all’argine, dove parallelamente vi è un muro spesso 1,20 metri con setti ortogonali e una soglia di chiusa a doppio incasso, che restituiscono il disegno della loculatio a vasche rettangolari anteposte certamente ad una centrale. Inoltre l’alimentazione dell’impianto dal mare aperto era assicurata da un canale naturale ricurvo verso occidente che si espandeva davanti all’argine, oggi individuabile nell’insenatura completamente aperta all’azione delle correnti.

La piscina di Gianola fa parte di un complesso residenziale di età tardo repubblicana che, conosciuto fin dai primi anni del XVIII secolo a causa dell’edificio a pianta ottagonale posto sulla sommità della collina, fu dal Pratilli denominato “Tempio di Giano”, mentre nel secolo successivo, cioè nel 1847, fu classificato dallo studioso Pasquale Mattei come bagno appartenente ad una villa romana.

Dice infatti:

 ”Un’ampia sala di forma ottagonale coperta da volta, nel giusto centro sorretta da solido pilastro della stessa figura, costituisce di tutto l’edificio la parte principale. In esso niuno benché minimo spiraglio si mostra …
Lavorata a musaico è industriosamente la volta a fondo bianco in cui son simmetricamente condotte un gran numero di stelle delle quali la preziosa o fragile materia si staccava lasciando però visibili gli incastonamenti. Adornava il pavimento un altro ma più pregevole musaico distrutto assolutamente dal tempo …

Nello spazio del pavimento che fra l’ingresso intercede ed il pilastro del centro esiste una vasca quadrilunga ch’esser dovea lastricata e fregiata di finissimi marmi; e scavate parimenti nel suolo, ma nel destro e manco lato, son due pile di figura circolare, di cui quella a destra comunica con la vasca grande per un piccolo canale, che prima era dal pavimento stesso ricoperto; attualmente ingombri di pietre e di terreno i descritti recipienti d’acqua(che per tali uopo è che si riconoscano a fior d’ingegno), a noi non permisero di scovrire se con sotterranei meati avesser potuto aver relazione con l’esterne fabbriche …
La stessa ottagonale figura è serbata generalmente nel resto dell’edificio che la suddetta sala circonda … e vien formato questo da un porticato di otto stanze che si seguitano e comunican fra loro per via di porte laterali regolarmente negli otto angoli distribuite. Ciascuna di queste stanze altra nell’estremità ne racchiude … e chiusa in quel lato, che immette nel portico da muro condotto a semicircolo”.

Di questa struttura oggi restano solo poche rovine in quanto essa fu distrutta nel 1943.

Ma l’edificio a pianta ottagonale è solo una parte dell’area archeologica dato che questa si estende per 700 metri di lunghezza e 90 metri di larghezza. L’esame delle strutture emergenti mostra che si tratta chiaramente di un edificio costituito essenzialmente da due corpi di fabbrica rettangolari molto allungati, ubicati specularmente rispetto ad una struttura centrale a forma di U molto aperta.

L’edificio veniva ad essere così diviso in due quartieri est e ovest: in ciascuno di essi si ripetevano le varie stanze munite tutte di eleganti terrazze da utilizzare a seconda della stagione. Inoltre tutte le stanze erano rese indipendenti da ambulacri, utilizzati come passeggiate coperte e costituiti da viali, sedili e fontane, dove si sostava nelle ore migliori della giornata, mentre durante i giorni freddi e di pioggia i portici con prospetto sul mare erano un luogo di sosta e di passeggio.

Per accedere all’area archeologica si passa per la peschiera già descritta. Proseguendo verso ovest, si notano cospicui resti di murature( delle quali alcune sono in opus reticolatum) di poco sopraelevate dal terreno, disposte a formare un lungo corridoio con andamento parallelo al mare, su cui si innestano ortogonalmente numerosi ambienti, affiancati e allineati tra loro, di dimensioni variabili. L’allineamento parallelo alla costa venne suggerito dalla possibilità di poter godere al massimo di un panorama tra i più meravigliosi d’Italia.

Tutto ciò fa capire che si è in presenza della parte abitata della villa. In questa zona sono stati infatti ritrovati in passato notevoli frammenti di pavimento in mosaico decorati con motivi geometrici a tessere verde scuro su fondo bianco, mentre ancor oggi si possono ammirare nei resti delle murature tracce di intonaco colorato, caratterizzato in qualche punto dalla presenza di motivi vegetali e animali su fondo bruno, circondati da cornici in porfido.

Lungo la prosecuzione di questo corridoio si incontra ad ovest un’area pianeggiante prospiciente il mare, artificialmente regolarizzata, dove sono conservati i resti di un ambiente a pianta rettangolare definito a monte da un abside semicircolare.

La presenza di mattoni per suspensurae, resti di lastre marmoree che ne rivestono le pareti e gli avanzi dei gradini di una scalinata messa a vincere il dislivello tra i due corpi di fabbrica dell’edificio, fanno ipotizzare che si debba trattare dell’impianto termale della villa. Immediatamente a est della parte conservata, si nota, al di sotto delle strutture verso il pendio, un condotto a volta ogivale, nel quale è da identificare il corridoio di servizio per lo scarico e la pulizia delle vasche soprastanti.

VILLA DI MAMURRA

VILLA DI MAMURRA

La Villa di Mamurraè locata nel Parco della Riviera di Ulisse, e prende il nome dal suo proprietario, Lucio Mamurra, cavaliere romano originario di Formia. Questi seguì Gaio Giulio Cesare in Gallia, rivestendo il ruolo di praefectus fabrum (prefetto degli ingegneri) ed arricchendosi immensamente, si che molti pensarono, e probabilmente non a torto, fosse l'amante del bisessuale Cesare.

Vi si possono ammirare ammirare i resti di un edificio ottagonale (in fase di scavo), 2 cisterne romane (la Cisterna Maggiore e la Cisterna delle 36 colonne), una scala coperta (conosciuta col nome di grotta della janara), resti di ambienti termali e una piscina per l'allevamento ittico (porticciolo di Gianola).

NINFEO - VILLA DI CICERONE

VILLA DI CICERONE

Sorprendente e inquietante è la cosiddetta Villa di Cicerone, di cui qui sopra riproduciamo il ninfeo. Non si sa se sia pubblica o privata, si sa solo che oggi è ridotta a discarica. 



 Il FORMIANUM DI CICERONE 

- Non è stato ancora identificato: alcuni dicono sia la Villa i cui resti sono sulla penisola di Gianola, ma i più lo identificano con i ruderi sul litorale di Vindicio, in corrispondenza con il mausoleo detto appunto Tomba di Cicerone (Marziale ne fa cenno compiacendosi con Silio Italico per il possesso di una villa a Formia includente il sepolcro dell’oratore).
Lungo la Via Litoranea, sotto l’area dell’attuale Villa Rubino (ex Villa Reale borbonica di Caposele) si trovano i grandiosi resti di una caratteristica “villa formiana”, con ambienti decorati, ampi terrazzamenti, ninfei, porticciolo e peschiera (alcuni attribuiscono anche questa a Cicerone).


- L'ALBERGO RISTORANTE MIRAMARE, ex villa reale dei Savoia costruita sui ruderi di una villa romana, sulla via Appia nei pressi della zona di San Pietro.


- CRIPTOPORTICI E VILLA ROMANA  del I secolo a.c. sotto la villa comunale, utilizzati come magazzini connessi con l'antistante peschiera, (visibile durante la bassa marea del pomeriggio) che fungeva da vivaio ittico. Oggi utilizzati per mostre ed esposizioni.


- ALTRI CRIPTOPORTICI E VILLA ROMANA del I secolo a.c. sotto Piazza della Vittoria con resti di decorazioni pittoriche sulle pareti.


- RESTI ROMANI al civico 360 di Via Vitruvio a poca distanza da Piazza Mattej, ex foro romano, dove sono stati trovati molti dei reperti esposti oggi nel museo.



LE MURA ROMANE

- Formia fu un vero e proprio presidio militare rafforzato in special modo verso est, allo scopo di attutire l’urto dei popoli contrari alla espansione territoriale di Roma. 

ROVINE ROMANE SULLA LITORANEA
Della Formia pre-romana restano diversi tratti di una poderosa cerchia di Mura Poligonali (probabilmente ascrivibili agli Aurunci); sono visibili nel Quartiere Castellone e presso la costa dentro proprietà private spesso malmesse.

Per questo la cinta muraria poligonale megalitica di Formia già esistente venne ampliata dai Romani sul lato est con un portentoso muro chiamato oggi Muro di Nerva.

Nelle mura si aprivano sei porte:
1 – Porta nord di Castellone
2 – Porta est su Appia
3 – Porta a mare Sarinola
4 – Porta a mare Marina di Castellone
5 – Porta a mare Foce Rio Alto
6 – Porta ovest su Appia Ponte di Rialto.

delle mura ci avverte anche Orazio ( IV 4,3 ) che narra di ” fulmini sulle mura di Formia “.Tito Livio scrive che nel 268 a.c., nel consolato di Quinto Fabio Massimo Pittore e di Lucio Quinzio Gulone,  "le mura di Formia, percosse da molti fulmini, furono incendiate e rovinarono" .Anche Tito Livio attesta l’esistenza di mura a Formia nel 192 a.c. e ricorda il prodigio, scrivendo:  "Formis Portam murumque de caelo tacta nuntitum est ." ( Liv. 35 , 21,4).
Ancora Tito Livio nel Liber XL : "…et a Formiis aedem Apollinis ac Caietae de caelo tactam… ". (e il Tempio di Apollo a Formia, come anche in Caieta, era stato percosso da fulmine... Per codesti prodigi furono sacrificate a Formia venti vittime maggiori, e si fecero pubbliche preci per un giorno".

PONTE ROMANO DI ACQUATRAVERSA - FORMIA
Molto nascosto e difficilissimo da raggiungere trattandosi di un fossato con vegetazione spontanea di ogni tipo. All’ingresso lato nord, sulla destra una parete in ” opus incertum ” e mattoni, forse un sepolcro romano avendo rinvenuto delle grandi modanature in travertino lavorato utilizzate in epoca successiva a quella romana e visibili nei commenti.

Anche questo ponte si aggiunge, quindi, al nostro patrimonio archeologico e chissà quanti altri ancora da scoprire. In pratica quando fu costruita l’Appia Antica, ogni corso d’acqua proveniente dalle colline e montagne Formiane richiese la costruzione di un adeguato ponte.



LE PESCHIERE

Sono molto importanti i resti delle prospicienti peschiere delle ville romane. Riguardo ad esse è utile sottolineare che i Romani le costruirono per allevare le varietà dei pesci di mare davanti alle loro ville marittime con grande impegno tecnologico e finanziario quando cominciarono a raffinarsi i loro gusti gastronomici.

Sulle peschiere abbiamo anche delle fonti, di cui le principali sono il terzo libro del De re rustica del reatino Marco Terenzio Varrone (vissuto tra il 116 e il 27 a.c. e che mostrò una certa diffidenza verso queste costruzioni mostrandosi più propenso ad un allevamento in acqua dolce) e il Res rustica (libri VIII e IX) di Giunio Moderato Columella di Cadice, il quale nel primo secolo dell’Impero dettò i criteri generali delle piscinae delle villae.

Le strutture delle piscinae descritte da Columella potevano essere in petra excisae, meno frequenti, e in litore constructae con moles d’argine. In relazione alla posizione sulla costa, ai fondali e alla relativa possibilità di alimentazione dal mare di acque fresche, Columella prescriveva per le vasche un’altezza di 7 piedi (2,07 m) con canali di fondo alti 2 piedi (0,596 m), oppure di 9 piedi (2,66 m) con canali di superficie di uguale altezza. I canali erano chiusi da cataractae e da cancelli o clatri costituiti da lastre di bronzo aventi piccoli fori scorrevoli verticalmente in scanalature lapidee.

L’intento era quello di assicurare un efficace ricambio idrico attraverso le griglie utilizzando i riflussi di marea con le paratoie, comunque chiuse in caso di mare agitato. Columella individuava poi nella stessa diversità delle coste i tipi di allevamento: rocciosa per pesci come spigole e murene e molluschi come i polpi; fangosa per le sogliole e i rombi e molluschi conchiliferi; e sabbiosa per i dentici e le orate. Nelle vasche inoltre gli ambienti venivano ricostruiti con la creazione di apposite tane.

PARELIO - MINNESOTA

IL MIRACOLO DEI SOLI

Ma Formia era anche una città molto religiosa e piena di prodigi, anzi di miracoli. Non a caso vi sono state rilevate le basi di diversi templi. Tito Livio ci dice che nel Formiano esistevano due Templi dedicati al Dio Apollo, uno di essi era situato in un angolo della proprietà di Cicerone sulla spiaggia di Vindicio, di fronte all’attuale Ufficio Postale, in un podio oggi occupato da un ristorante-bar.

Nel libro di Giulio Ossequente è annotato che a Formia avvenne nel 163 a.c. che furono visti, durante il giorno, con grande stupore e commozione la visione miracolosa di due soli. "Formiis duo soles interdiu visi"
(Giulio Ossequente)

Anche Velleio Patercolo ( 19 a.c. – 31 d.c ) parla dei ” due soli a Formia ” .
Per questo episodio gli scienziati oggi si riferiscono ad un fenomeno di ” Parelio ” (come quello del miracolo della Madonna di Fatima). Un fenomeno provocato dalla rifrazione dei raggi attraverso nubi formate da cristalli di ghiaccio, per cui attorno al sole compaiono dischi meno luminosi. Oppure il sole trema e cambia di colore e sembra muoversi nel cielo.



LA FINE

Con la caduta dell'impero romano d'Occidente Formia fu depredata e i suoi abitanti dopo la calata dei barbari e la guerra greco-gotica, fuggirono sulle vicine colline, spopolando la cittadina.

TESORO DI HILDESCHEIM

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GRAN PARTE DELLA COLLEZIONE
Il Tesoro di Hildesheim è un'importante scoperta archeologica di vari pezzi romani, di stoviglie d'argento e non solo, risalenti all'epoca di Augusto, avvenuta nei pressi della città tedesca di Hildesheim, della Bassa Sassonia. Il tesoro è oggi conservato nell'Altes Museum (Antikensammlung) che è un museo di Berlino, parte della cosiddetta "Isola dei musei." (Staatliche Museen).

Il Tesoro, portato alla luce il 17 ottobre 1868 a Hildesheim, in Germania, è la più grande collezione di di argenti romani trovato fuori dalle frontiere imperiali. La maggior parte di esso è databile al I secolo d.c. Il tesoro è costituito da una settantina di vasi d'argento massiccio squisitamente artigianale.

Il luogo di ritrovamento si trovava allora ai confini dell'Impero, forse frutto di una razzia, visto che le iscrizioni sui pezzi d'argento rimandano a persone diverse. Secondo altri il tesoro era il servizio al tavolo di un comandante romano, forse Publio Quintilio Varo, che era militarmente attiva in Germania. 


LA SPLENDIDA MINERVA SEDUTA
Si tratterebbe del famoso Varo che in epoca augustea avrebbe perduto se stesso e le sue legioni a Teutoburgo, grazie al tradimento di Arminio, quindi una beffa maggiore. Ma questo lo pensano solo i tedeschi e non c'è la benché minima prova di ciò.

Il tesoro è stato sepolto circa 2 metri al di sotto del terreno sulla collina del Galgenberg, ed è stato trovato dai soldati prussiani. La maggior parte degli studiosi ora accettano che l'intera Tesoro di Hildesheim sia stato prodotto nelle officine frontiera nord-ovest delle province romane.
Un compendio di quattro piatti da parata ovvero piatti decorativi, con piede e senza, che miravano a stupire i commensali per il pregio della lavorazione ancor più del metallo prezioso.

Questi piatti lavorati da maestri avevano al centro medaglioni con altorilievi più antichi, riutilizzati in genere per il vasellame. La preziosa tazza di Atena seduta è un originale del II secolo a.c., di stile tardoellenistico, con la figura dorata a sbalzo di Atena che siede su una roccia, appoggiata a un timone.

PIATTO DI ERCOLE BAMBINO COI SERPENTI
La tazza fu rimontata in epoca augustea, ornata da dorature battute sull'argento e con manici laterali lavorati a cesello. La Dea indossa il copricapo battaglia e fluente veste, più lontano dalla mano destra di Minerva è il suo simbolo, il gufo. La ciotola è dotata di due maniglie, ciascuna di 3,4 cm di lunghezza. La ciotola stessa pesa 2.388 kg, con 25 cm di diametro e 7,1 cm di profondità. Il cratere è stato perso (ovvero trafugato) durante il 1945 e ora mostrato in copia in gesso.

Vi sono poi piatti di Attys, Ercole bambino coi serpenti e Cibele, che erano probabilmente decorazioni di armature da parata o medaglie militari, rielaborati anch'essi come piatti da parata. Ci sono anche tre ciotole a calice con cerchi pesanti ai bordi, una ciotola treppiede con un ornamento a foglia eseguita in niello, un cratere e un kantharos, così come tazze a due manici ornati a sbalzo e oggetti dedicati a Bacco.

Infatti molti pezzi hanno decorazioni di tipo religioso dionisiaco, con tralci e grappoli di vite (set di coppe potorie, brocche) e soprattutto il cratere decorato a sbalzo e rifinito a cesello, con delicati motivi decorativi che si dipanano armoniosamente su tutta la superficie.

COPPA POTORIA DIONISIACA
Nel prezioso cratere dei grifi sono retrospicienti (che guardano indietro) in posizione araldica, da cui si diparte un complesso stelo con racemi filiformi a girali simmetriche, tra cui si muovono graziosi eroti indaffarati nella pesca di gamberi e di pesci. 

Si tratta di una decorazione frequente nell'arte dell'epoca, confrontabile con la pittura e gli stucchi (come quelli della casa della Farnesina), ma oggi apprezzabile solo dalle fotografie d'epoca o la ricostruzione moderna nel museo, dato che il pezzo venne trafugato nel 1945 e mai più rinvenuto. Probabilmente, come tanti pezzi dell'epoca, è stato acquistato clandestinamente finendo in una collezione privata.

CRATERE A VOLUTE DELICATE
Qui in alto vi è il cratere di cui sopra dove spiccano i due grifi delicati e perfetti da cui si evolve l'ornamento del vaso. Tutti i pezzi in questione vanno dal I secolo a.c. al I secolo d.c.

Ci sono poi:
- altri due grandi crateri lisci, a campana e a volute, 
- un grande calderone e un mestolo,
- piatti, 
- vassoi per servire il cibo, 
- un contenitore baccellato per le uova, 
- un vassoio costolonato (pezzo unico, per quanto frammentario), 
una piccola casseruola con manico, 
- una situla, 
- un treppiede pieghevole dotato di vassoio, 
- un candelabro 
- due maniglie di specchi.
- delle saliere
- un piedistallo a tre gambe.

PARTE DEL SERVIZIO

LO SCANDALO

"Dal I secolo alla fine dell'antichità, da Petronio a Giovanni Crisostomo e più tardi ancora. sono numerose le denunce dell'inutile che spinge i più ricchi a possedere letti. tavoli e vasellame in argento quando il legno o la terracotta sarebbero sufficienti.

Dal vestibolo della casa di Trimalcione (Petron., 28). gli ospiti scorgono il portiere che sgrana dei piselli dentro un bacino d'argento, un fenomeno stupefacente quanto la gabbia d'oro che, nello stesso luogo, racchiude una gazza loquace: per lo stupore, Ascilto il parassita cade all'indietro.

I differenti materiali che costituiscono il quotidiano nel mondo romano sono a prima vista molto belli e sembrano in effetti portare a varie constatazioni: 


- persistenza, da un lato, di forme e decorazioni simili tra gli oggetti d'argenteria e quelli di ceramica. evidenti quando si confrontano gli oggetti conservati.
- dall'altro di una gerarchia piuttosto rigida dei materiali, e quindi degli oggetti che ne vengono realizzati.
- si osserva anzitutto che gli oggetti della vita quotidiana suscitavano stupore, perfino riprovazione quando erano in metallo prezioso. Lo scandalo tanto più grande quanto più la loro funzione era umile.

I nobili romani non si scandalizzavano delle ricchezze, frutto in genere dei ricchi bottini guadagnati con le vittorie in terreno nemico, ed erano lieti di mostrare le loro stoviglie e suppellettili di squisita fattura, di provenienza greco-romana. Viceversa si scandalizzavano per il vasellame che ostentava il metallo prezioso più della raffinatezza dell'esecuzione.

Lo sciorinamento degli argenti di bassa fattura erano considerati di pessimo gusto dai nobili romani, come segno di ignoranza dei nuovi arricchiti, in genere liberti dediti al commercio. Tutto ciò invece che era bello nell'esecuzione diventava un piacere per gli occhi di chiunque, e pertanto, e giustamente, sempre di buon gusto.

COPPA A SBALZO E CESELLO
Alcuni secoli più tardi, i Padri della Chiesa si scandalizzano per lo sperpero di un orinale d'oro (Jo. Chris.. Ad Colas. 7.4): un tema che ritorna ancora con il vescovo Nilo di Ancyra (Peristeria 9, 7) del VII secolo. Era il senso del "Di questo passo dove andremo a finire", dimenticando che la chiesa stessa ci ha ormai preso gusto al possesso di beni preziosi e che molti prelati considerano inammissibile (tanto più che ormai la chiesa è diventata ricchissima) che gli oggetti di chiesa non siano di metallo prezioso.

Lo stesso Teodoro di Sicea invia un arcidiacono Costantinopoli a comprare vasi d'argento per il servizio divino: quelli del monastero in Galazia erano solo di vile marmo ( Vila, S 42).
Vi è dunque un lusso legittimo quando è indirizzato a Dio, allorchè è il solo degno della sua grandezza e della sua santità, riprovevole quando contribuisce alla vita confortevole dei ricchi, sgradevole, ostentata nella vita quotidiana. In questo contesto l'invito di Cristo alla povertà resta completamente ignorato.

Col tempo da parte delle produzioni più modeste per uso materiali vi è un intento di avvicinarsi a quelle più ricercate per forma, stile e decorazione; esse attirano cosi una clientela ansiosa di emulare i più fortunati, ma anche una clientela più raffinata, che apprezza più l'arte che non il lusso. Questa imitazione si traduce dapprima nelle forme.

I VASSOI
Essa non è scontata, perchè le tecniche di lavorazione, come quelle di decorazione, non sono sempre identiche; si evolvono pertanto la tecnica della martellatura e quella della lavorazione a sbalzo impossibili nella ceramica, ma preponderanti nell'oreficeria. 

Questa differenza tecnica, tuttavia, non ha impedito che la ceramica aretina, per esempio. si avvicinasse incredibilmente alle forme metalliche contemporanee e tutto ciò che univa gli oggetti del tesoro di Boscoreale alle produzioni italiane, mentre quelli del tesoro di Hildesheim erano al contrario in rapporto con le forme della ceramica microasiatica.

Per concludere, la visione di tali capolavori fa comprendere come mai bastò la sola vista dei capolavori romani di statuaria, pittura, oreficeria e ceramica per rinverdire tale arte nel Rinascimento, soprattutto italiano.

Michelangelo si inquietò quando i signori del '500 si sbalordirono alla vista dei capolavori romani, lui non si considerava al disotto di tali lavori e per dimostrarlo eseguì la statuetta di un satiro spezzandogli poi un braccio che trattenne presso di sè. Rinvenuto il satiro tutti ne decantarono l'ineguagliabile arte romana e Michelangelo allora mostrò il braccio che aveva conservato dimostrando che quel capolavoro era opera sua. Ma di Michelangelo ce ne fu solo uno, e per il resto l'arte romana rimase ineguagliata. .

TOMBE E MAUSOLEI DI ROMA

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MAUSOLEO DI AUGUSTO
I Romani avevano un rapporto del tutto naturale coi defunti, non li dovevano salvare, sicuramente stavano bene e in qualche modo proseguivano la loro vita da defunti, insomma erano in un mondo diverso, ma con cui c'era qualche tipo di comunicazione.

Mancava il clima di seriosità e di cupezza che aleggia nei nostri cimiteri. Nei riti funebri i parenti banchettavano ricordando il defunto e pensando che questi partecipasse in spirito e che fosse contento della festicciola familiare. Questa usanza continuò per un po' anche nel cristianesimo; infatti nelle catacombe non rovinate dalla troppa frequentazione (ad esempio nelle catacombe di Priscilla) è facile trovare, nel corridoio, un tubicino di terracotta o di vetro (cannula) che mette in comunicazione l'interno del loculo con l'esterno.

Così, un figlio che andava a trovare la tomba del padre versava una goccia di profumo all'interno del tubicino, oppure, quando si brindava in onore del defunto, si versava un po' di vino pensando che egli ne gustasse e brindasse con i parenti.



ESEMPI DI SEPOLTURE A ROMA

- Sepolcro di Acca Larenzia (Sepulcrum Accae Larentiae)
La tomba di Acca Larentia nel Velabro, si trovava all'inizio della Via Nova, vicino alla porta Romanula(Varro, LL VI.24; Cic. Ep. ad Brut. I.15 ;Macrob. I.10.15: celeberrimo loco; Plut. Rom. 5), presso cui era innalzato un altare dove venivano offerti sacrifici dai pontefici il 23 Dicembre (HJ 45; RE I.132; Gilb. I.56‑58;cf. Mommsen, Röm. Forsch. II.3‑5; Rosch. I.5).

- Sepolcro di Adriano

- Sepolcro di Agrippa (Sepulcrum Agrippae)
Il generale Agrippa, intimo amico nonchè genero di Augusto, fece edificare la sua tomba in campus Martius (Cass. Dio LIV.28; Suet. Aug. 97), come sembra indicato dalle rimanenti lettere sui frammenti 72, 103 della Forma Urbis, e in questo caso, il monumento sarebbe stato eretto tra la villa villa Publicae le thermae Agrippae, nella moderna Via del Gesù (HJ 572; Mitt. 1903, 48‑53).

- Sepolcro dell'Airone

- Sepolcro di Alessandro Severo

- Sepolcro di Antinoo (Sepulcrum Antinoi)
Nel 130 dc., mentre, risalendo il Nilo, Adriano e il suo seguito stavano visitando l'Egitto Antinoo cadde in mare e affogò. Ma i pareri sulle cause della sua morte sono disparati. Sparziano sostiene che Adriano pianse l'amato come una donna, cioè senza controllo, tanto lo amava. Adriano, che aveva costruito tombe per i suoi cani ed il suo cavallo, e che aveva restaurato ed adornato le tombe dei suoi eroi, soprattutto greci, come il bellissimo Alcibiade, non poteva non erigere erigere una tomba per Antinoo nella sua residenza di Tivoli, ma nella Villa Adriana, per quanto cercata non è stata ancora trovata.
Del resto Adriano, partito nel 128 dc. e tornato verso la fine del 134 dc. non ebbe molto tempo per cercare il posto della tomba, cioè farne il progetto, ordinare i materiali e allestire il cantiere, anche perchè nel 138 dc. Adriano morì e la tomba forse non era completa.
Tuttavia nll’obelisco che ora si trova sulla collina del Pincio, a Roma, vi è una serie di geroglifici che racconta la storia di Antinoo e la sua morte. Purtroppo, molti dei geroglifici sono rovinati, e quelli ancora leggibili sono di difficile interpretazione in quanto realizzati a Roma, imitando geroglifici veri. Anche la collocazione iniziale dell’obelisco per molto tempo è stata incerta e alcuni hanno supposto che provenisse da Antinopoli.
Identificati finalmente nel 1896 ne uscì fuori la frase frase “O Antinoo! Il dio che è là che riposa in questo sepolcro, che è all’interno della tenuta agreste del Signore del potere di Roma, egli è conosciuto più di un dio nei luoghi di culto”. Come a dire che l’obelisco e la tomba si trovavano nello stesso luogo, e la tenuta agreste può essere solo Villa Adriana. Ma resta da scoprire in quale punto della Villa.
Adriano iniziò la costruzione della sua Villa nel 118 dc., cioè un anno dopo la sua elezione a imperatore, e ancora vi lavorava l’anno della sua morte, cioè il 138. L’ultima parte ad essere realizzata fu il Canopo-Serapeo, un canale che congiungeva il Nilo con un tempio dedicato al Dio Serapide ad Alessandria. Secondo alcuni il Canopo era già di per sè un monumento ad Antinoo, ed infatti qui sono state ritrovate molte statue del giovane, e alcune rappresentato come Osiride. Ad una delle estremità del canale vi è appunto un tempio, un’esedra con semi-cupola, il Serapeo, senza statue del Dio per cui la statua di Osiride-Antinoo poteva essere collocata qui.
Poiché quell’area della Villa non è stata ancora completamente scavata, è possibile che il corpo di Antinoo riposi proprio dietro le statue dei Sileni e delle cariatidi qui rinvenuti, semprechè Adriano non abbia sepolto sepolto Antinoo in Egitto.
Secondo altri ancora l’obelisco potrebbe provenire da un’area intorno al Mausoleo di Adriano (Castel Sant’Angelo) dove l'imperatore avrebbe sepolto il giovane accanto alla propria tomba. Il prof. Grenier infatti ipotizza che la frase sull’obelisco tradotta come “tenuta agrestre” dovrebbe invece tradursi come “gli orti” e starebbe ad indicare gli Horti della madre Domizia Plautilla proprio vicino al Mausoleo.

- Sepolcro dell'Arco di Travertino
Durante gli scavi per un centro commerciale all'Arco di Travertino, torna alla luce un sepolcro romano in terracotta di piccole dimensioni, sicuramente di un bambino, del II sec. dc.. Di fianco, un'altra tomba da cui affiorano ossa, e un'arcata dentaria ben conservata, mentre sotto a un costone sono stati portati alla luce tre ulteriori sepolture, immediatamente ricoperte per non comprometterne la conservazione. Rinvenuta anche un' antica moneta: l'"obolo di Caronte", molto probabilmente, il lasciapassare per l' aldilà che andava a coprire gli occhi del defunto.
Nel terreno, appartenente a privati, dovrebbe nascere un piccolo centro commerciale, ma durante i primi sondaggi sono affiorati resti che hanno indotto a compiere alcune indagini di carattere archeologico, prima dell' avvio dei lavori. Gli scavi proseguiranno, finchè non si avrà una visione d' insieme di quella che doveva essere una necropoli a carattere popolare. 
"Al sarcofago in terracotta si affianca una tomba più povera - spiega Rossella Rea della Sovrintendenza archeologica - La via Latina era come l' Appia, scandita da abitazioni di pregio. Ville ai cui bordi si stendevano i sepolcri privati, alcuni monumentali ma c' erano anche aree abitate da gente povera. Orazio invitava a guardarsi dal girare da queste parti dopo il calar del sole: "Mai aggirarsi di notte per via Latina" consigliava".

- Sepolcro degli Arruntii (Sepulcrum Arruntiorum)
E' la tomba di famiglia, liberti e schiavi compresi, di Lucius Arruntius, console nel 6 d.c., composta da tre colombari che furono trovati nel XVIII secolo sul lato sud dell'attuale Viale della Principessa Margherita, poco più di 100 metri da Porta Maggiore ( CIL VI .5931 -5960; per una descrizione del monumento, vedi Ghezzi, cod. Ottob. 3108 ss., 185-198; BC 1882, 209; HJ 362).

- Sepolcro di Attilio Irtio (Sepulcrum Hirtii)
La tomba di Attilius Hirtius, console nel 43 a.c. in campo Marzio (Liv. Epit. 119; Vell. II.62). Ma la sua locazione esatta è sconosciuta.

SEPOLCRO DI AUGUSTO
- Sepolcro di Augusto

- Sepolcro Bacelli
Sulla destra della via latina, oltre il sepolcro dei Valeri, è visibile un sepolcro in laterizio, di cui si conserva soltanto la facciata, che era rivolta verso una piccola traversa della via Latina in direzione dell’Appia antica. La camera funeraria sotterranea presenta due file di loculi sovrapposti su tre livelli, secondo una tipologia di sepoltura in forma intensiva, attestata a partire dal II sec. d.c., quando cominciò a prevalere il rito dell’inumazione. Nel ‘500 il sepolcro era utilizzato come chiesa.
TOMBA BARBERINI
- Sepolcro Barberini
Il Sepolcro dei Corneli o Barberini, così chiamato dal nome della famiglia aristocratica ultima proprietaria dell'area, databile al II secolo d.c., e costituito da due piani sopraterra e dalla camera sepolcrale sotterranea, è situato proprio all’inizio del Parco della via Latina, una delle più antiche strade romane.
Il sepolcro che prende il nome dalla tenuta dove sono state ritrovate le sepolture che costeggiano la strada (quelle dei Valeri e dei Pancrazi) è l’unico a essersi mantenuto in alzato e nella sua forma originaria, vale a dire un edificio in laterizi con decorazioni policrome sulle facciate (rinvenute tracce in colori vivaci come giallo, rosso, violetto, oro) e affreschi all’interno. Il monumento è ben conservato, in quanto nei secoli è sempre stato utilizzato come ricovero, per attività agricole e di pastorizia, fino all’800.
Il sepolcro fa parte oggi del Parco Archeologico dell’Appia Antica, perchè emerge solitario dalla campagna romana, e da esso nel `700 fu prelevato dai Barberini uno splendido e celebre sarcofago con scene ispirate al mito di Protesilao e Laodamia (ora ai Musei Vaticani).
Al suo interno sono stati infatti scoperti affreschi su fondo rosso con figurine alate ed eroti, volute vegetali, animali, figure mitologiche. Lo studio degli affreschi e stucchi della volta ha consentito infine di ipotizzare la ricostruzione dell’intero apparato decorativo degli ambienti destinati ai riti funebri. Un video che ricostruisce la storia degli scavi, dei lavori di riabilitazione che ne consentono oggi la visita, dello studio delle ricostruzioni tridimensionali dell’architettura e della decorazione, prossimamente in visione nella sede di Capo di Bove del Parco archeologico dell’Appia Antica.

- Sepolcro di Basilius
Narra Asconio Pediano che Basilius, il console a Costantinopoli senza collega nel 541, ebbe un monumento funebre sull'Appia vicino all'Urbe, in luogo molto infame dove si compivano molti ladrocinii.

- Sepolcro di Bibulo (Sepulcrum Bibuli)

- Sepolcro Bustum Hadriani

- Sepolcro dei Calpurnii (Sepulcrum Calpurniorum)
La tomba dei Calpurnii Pisones del primo impero, scoperta nel 1885 nella Villa Bonaparte sul lato est della Via Salaria, a circa 100 m a sud della Porta Salaria (BC 1885, 101; Bull. d. Inst. 1885, 9‑13, 22‑30; CIL VI.31721‑31727).

- Sepolcro dei Caludii (Sepulcrum Claudiorum)
Una tomba alla base del Colle Capitolino on the west side of the via Flaminia, a little north of the tomba di Bibulo. There is no real reason for identifying it with the sepultura gentis Claudiae sub Capitolio (Suet. Tib. 1). See LF 22; HJ 471; NS 1889, 225; 1909, 8‑10, 429; BC 1889, 437; 1909, 116; Capitolium, II.271‑273.

- Sepolcro di Caio Cestio (Sepulcrum C. Cestii) 

- Sepolcro di Caio Considio Gallo (Sepulcrum C. Considii Galli)
La tomba di Caius Considius Gallus, praetor peregrinus per qualche tempo nel primo impero (CIL VI.31705; RE IV.913), trovata nel 1883 appena a nord della linea della via Tiburtina vetus (la strada che portava a Tibur a 20 miglia da Roma), e vicino all'incrocio tra la moderna Via Mamiani e Via Principe Amedeo (NS 1883, 420; BC 1883, 223). It was rectangular, 5.30 metres by 4.10, with a façade of marble and side wall of travertine. ( NS 1883, 420; BC 1883, 223). Era rettangolare, 5,30 m x 4,10, con una facciata in marmo e una parete laterale in travertino. L'iscrizione era sul fregio.

- Sepolcro di Caio e Lucio Cesare (Sepulcrum C. et L. Caesaris)
Tomba di Gaio e Lucio Cesare, in cui il corpo di Julia Domna venne riposto nel 217 d.c. prima di essere depositato nel mausoleo di Adriano (Cass. Dio LXXVIII .24). Questo passaggio sembra dimostrare che questi due Cesari avevano una tomba separata e che le loro ceneri non erano collocate nel mausoleo di Augusto. D'altra parte, si ritiene generalmente che un'iscrizione frammentaria ( CIL VI .895= 31195) contenente una dedica a Lucio Cesare, trovata nel muro di una casa privata nei pressi di Piazza Capranica, apparteneva a una statua di Lucio nel mausoleo di Augusto. Qualunque sia la spiegazione della statua, sembra irragionevole dubitare della dichiarazione di Dio ( HJ 572; Mitt. 1903, 53; Gilb. III .306).

SEPOLCRO DI CAIO SULPICIO PLATORINO
- Sepolcro di Caio Sulpicio Platorino (Sepulcrum C. Sulpici Platorini)
La tomba di famiglia di Caius Sulpicius Platorinus, triumviro monetale nel 18 ac., sulla riva destra del Tevere, tra Ponte Sisto e via della Lungara e in seguito dentro le mura aureliane, venne scoperta e scavata nel 1880 (NS 1880, 129‑138; 1883, 372; 1896, 467‑469; BC 1880, 136‑138; Mitt. 1889, 286; HJ 650).
Era una struttura rettangolare, lunga m 7.44 e larga 7.12, con entrata a ovest; le basi delle colonne e le pareti esterne e erano di travertino, le pareti interne di mattoni calcestruzzo a vista, e il pavimento di mosaico bianco.
Nelle nicchie erano poste urne cinerarie con iscrizioni, e sul pavimento sono stati trovati due statue di grandezza eroica e un busto. Le iscrizioni trovate nella tomba vanno dal tempo di Augusto a quello dei Flavi (CIL VI.31761‑31768a).
La tomba fu ricostruita nell’aula X delle Terme di Diocleziano nel 1911, in occasione della grande Mostra Archeologica di Roma; in tale occasione si utilizzarono tutti i materiali originari superstiti (i blocchi marmorei usati per il rivestimento, le iscrizioni, le urne e le tre sculture).
L’edificio era composto da pareti con nicchie semicircolari e quadrate all’interno delle quali erano collocate le urne con le ceneri dei defunti; l’iscrizione che sovrasta l’ingresso del sepolcro riporta alla famiglia dei Suplicii, forse da identificare con i proprietari del sepolcro stesso.

- Sepolcro di Caludia Semne

SEPOLCRO DEI CAMPI ELISI
- Sepolcro dei Campi Elisi

- Sepolcro della Casa Tonda
La "Casa Tonda"è un mausoleo romano situato lungo l'antica via Labicana sulla sommità del colle Esquilino a Roma, nell'area oggi corrispondente all'angolo orientale di piazza Vittorio Emanuele II (RioneEsquilino). Il monumento è stato distrutto alla fine del XIX sec. e nulla rimane oggi visibile fuori terra.
Il monumento funerario, datato tra la fine della Repubblica e gli inizi dell'Impero, situato sull'asse della via Labicana-Praenestina circa 360 m fuori della Porta Esquilina (Arco di Gallieno). In età moderna fu trasformato in abitazione privata, al pari dei vicini "Trofei di Mario". L'alzato della struttura consisteva in un tamburo cilindrico con diametro di 20 m, fondato su una base quadrata (lato 24 m), con le murature a croce.
L'identità del proprietario del sepolcro è incerta, sebbene diversi studiosi pensino sia di Mecenate, data la vicinanza degli Horti Maecenatis e la testimonianza delle fonti che pongono "extremis Esquiliis" le tombe del poeta Orazio e dello stesso Mecenate, vicini anche nella morte. Il sepolcro fu purtroppo distrutto nel 1886 per l'apertura di piazza Vittorio Emanuele II.
Nel 1975, in occasione di alcuni saggi di scavo effettuati dalla Soprintendenza Archeologica di Roma per la Metropolitana, sono state evidenziate le poderose fondazioni in opera cementizia del monumento poco al di sotto del giardino della piazza, ma nessuno ne ha fatto cenno.

TOMBA DI CECILIA METELLA
- Sepolcro di Cecilia Metella

- Sepolcro dei Cinci (Sepulcrum Cinciorum)
Secondo Varrone (Fest. 262) la tomba della famiglia Cincia era posta presso la Porta Romana sul basso clivo della Victoria (Sepulcrum Accae Larentiae). Poichè a causa di questa tomba la località venne chiamata "Statua Cincia", si suppone che il monumento fosse ornato dalla statua di un membro della familia Cincia (Jord. I.1.176, 178, 190).

- Sepolcro di Cornelia (Sepulcrum Corneliae)
La tomba di una certa Cornelia, figli di un Lucius Scipio e moglie di un Matienus, conosciuta solo per un'iscrizione trovata nel 1871 sotto al torre nord della Porta Salaria (CIL VI.1296; Bull. d. Inst. 1871, 115)

- Sepolcro di Cotta (Sepulcrum Cottae)

- Sepolcro dei Domizi (Sepulcrum Domitiorum or monumentum Domitiorum)
La tomba della famiglia dei Domitii sul Pincio, (Suet. Nero 50) dove vennero poste le asce di Nerone, in un sarcofago di porfido con nei pressi un altare marmoreo dedicato alla Dea Luna, circondato da una balaustra di marmo Thasiano marble.
Questa tomba si trovava sulle pendici nord-ovest della collina, probabilmente negli horti Domitii, ma nel medioevo fu collocato ai piedi della collina. Per esorcizzare lo spirito diabolico di Nerone, Pasquale II (1099) edificò qui una piccola cappella che divenne nel XIII secolo la chiesa di S. Maria del Popolo (HJ 446; Arm. 319; BC 1877, 194; 1914, 376‑377).

DRUGSTORE GALLERY
- Sepolcri della Drugstore Gallery

- Sepolcro di Epinico
In via Ravizza, poco distante dalla Tomba dell’Airone, è emersa un'altra tomba, chiamata Tomba 2 o Ipogeo di Epinico o Ipogeo di Epinico e Primitiba. Questa prende il nome dal proprietario del sepolcro e dalla sue consorte. Vi è stato rinvenuto un mosaico di buona fattura, recante un’epigrafe. Tale sepolcro è accessibile per ora solamente agli studiosi, per via di una fragilità della struttura e del suo ingresso. Come la tomba dell’airone tale tomba si è salvata dalla colata di cemento che ha investito l’area perché si trova non all’interno di una proprietà privata, ma al di sotto di una strada pubblica: via Ravizza. La cura della tomba è in carico alla Soprintendenza Archeologica di Roma.

- Sepolcro del Fornaio (Sepulcrum Eurysacis)

- Sepolcro di Galba (Sepulcrum Galbae)
La tomba di Sulpicius Galba, console nel 144 o, più probabilmente, nel 108 a.c., nel distretto tra la parte sud-ovest dell'Aventino e il Tevere, dove più tardi vennero edificate le Horrea galbane. La tomba, una semplice struttura rettangolare di tufo con una cornice in peperino, fu ritrovata nel 1885 in Via Giovanni Branca, a nord delle ultime costruzioni delle horrea e forse inclusa entro queste, nel lato sud dell'antica strada (BC 1885, 165‑166; NS 1885, 527; Mitt. 1886, 62, 71 HJ 175). Essa si trova ora nel Museo Municipale (Antiquario) sul Celio; (CIL I2. 695 = VI.31617)

- Sepolcro dei Galloni (Sepulcrum Galloniorum)
Una tomba sulla via Flaminia, di cui venne trovata una frammentata iscrizione quando vennero distrutti le torri fuori Porta Flaminia nel 1876‑1877. L'iscrizione contiene il nome dei due Gallonii, C. Gallonius Q. Marcius Turbo e C. Gallonius Turbo, che indicano una parentela con Q. Marcius Turbo, che fu praefectus praetorio sotto Adriano (Pros. II.108, No. 30; NS 1878, 35; BC 1877, 251; 1881, 175, pls. XII, XIII; CIL VI.31714). E' possibile che il nucleo di una grande tomba circolare di circa 100 metri a nord della porta Flaminia, che era stata segnata sul piano di Bufalini, appartenesse a questa tomba (BC 1911, 187‑192).

- Sepolcro di Geta (Sepulcrum Getae)
Una presunta tomba di Settimio Severo, a noi nota solo da un passaggio ( Hist. Agosto 7 : inlatusque est maiorum sepulcro, hoc est Severi, quod est in via Appia euntibus ad portam dextra, specie Septizonii extructum ; HJ 218). Severo, Caracalla e Geta furono invece sepolti nel Mausoleo di Adriano.

- Sepolcro di Giulia Prisca Seconda (Sepulcrum Iuliae Priscae Secundae)

- Sepolcro di Iulia o degli Iulii (Tumulus Iuliae)
La tomba di Giulia, figlia di Cesare e moglie di Pompeo, sepolta nel Campus Marzio ( Liv. Epit. 106 ; Plut. Pomp. 53, Caesar 23; Cass. Dio XXXIX .64). La pira funebre di Cesare fu eretta vicino a questo tumulo (Suet Caes 84), ed era in questa tomba che probabilmente fu seppellito lui stesso (Cass. Dio XLIV .51). È anche possibile che sia la stessa tomba a cui si fa riferimento in Livio (Epoca 142) come luogo di sepoltura di Druso in "Caesaris Iulii tumulo", il quale tuttavia, secondo le migliori autorità, fu sepolto nel Mausoleo di Augusti. Insomma si trattava della tomba della gens Iulia.
D'altra parte, il tumulo Iuliorum, nel quale è stato collocato il corpo di Poppea (Tac. Ann. XVI, 6) è generalmente considerato il Mausoleo Augusti. È possibile che questa tomba sia indicata dalle lettere VLI sul frammento 72 della Forma Urbis. In questo caso, la sua posizione sarebbe probabile appena ad est delle terme Agrippae, tra questa e la Villa Publica, e vicino al Sepulcrum Agrippae, oggi a ovest della Via del Gesù. ( HJ 496, 572; Mitt. 1903, 48-54).

- Sepolcro di Largo Preneste
Monumento edificato tra il II e il III secolo d.c. in opera laterizia con l'uso di mattoni rossi e gialli e riproducente la tipica abitazione romana, come i monumenti funerari che si conservano anche lungo la via Latina e la via Appia.
Sulla facciata del sepolcro, sopra la cornice che sovrasta l’arco di ingresso, si vedono i resti di un ordine di archetti pensili, anch’essi in laterizio, che probabilmente sorreggevano un balcone come quelli esistenti nelle case di Ostia Antica.
Sul lato ovest del monumento, ma separati, sono i resti di una scala che portava al piano superiore, non più esistente, sostituiti in parte dai muri moderni di un casale di campagna del XVIII secolo.
L’interno è formato da un ambiente unico che era coperto da una volta a crociera, di cui si vedono le tracce, ed aveva le pareti scandite da nicchie sormontate da un timpano poggiante su colonnine e mensole, restano ancora tracce di stucco bianco all’interno delle nicchie.
Attualmente il sepolcro è coperto con un tetto moderno a doppio spiovente; tra il 1956 e il 1958 nell’area intorno al monumento furono condotte indagini archeologiche che portarono in luce i resti di un’area sepolcrale allineata con il sepolcro in laterizio.

- Sepolcro di Lucilio Peto (Sepulcrum Lucilii Paeti)

- Sepolcro di Macrino (Sepulcrum Macrinii)

SEPOLCRO DEI MARCII
- Sepolcro dei Marcii

- Sepolcro di Marco Aurelio Sintomo o Tito Quinto Atta (M. Aurelius Syntomus o di Titus Quintius Atta)
L'originario ingresso al mausoleo del torrione, sebbene la cornice in travertino è quella medioevale della famiglia Ruffini; doveva essere rialzato di almeno un m rispetto al piano di campagna; bella la maschera in bassorilievo sul concio di chiave; con orrenda chiusura in mattoni e blocchetti di tufo che sostituita con una grata in ferro lascerebbe vedere ciò che resta del dromos di ingresso.
E' un Mausoleo a tumulo, dell’età di Augusto situato al II miglio sul lato sinistro della via Prenestina, dove lo svincolo della tangenziale sopraelevata si unisce alla consolare, a circa 1500 m da porta Maggiore e quindi all’interno del Pigneto.
L'ampio muro circolare di oltre 10 m di altezza in opera cementizia con scaglie di selce era originariamente ricoperto all’esterno di bianchi travertini riutilizzati altrove; all’interno, in posizione centrale, era la cella funeraria per le ceneri dei defunti; con ben 42 m di diametro.
La tomba risale alla fine del I sec. a.c.; identificato da alcuni studiosi come il sepolcro di Marcus Aurelius Syntomus o di Titus Quintius Atta ma con attribuzione dubbia.
L’ingresso alla cella era sul lato opposto rispetto alla Prenestina, e accedeva alla camera tramite un corridoio con copertura a volta in parte ancora esistente. La camera sepolcrale è a pianta cruciforme con tre nicchie rettangolari; le mura del dromos e della cella sono in opera quadrata di tufo entrambi coperti da volte a botte.
Osservando la cella esistente dalla Prenestina si nota un arco in opera quadrata con funzione di passaggio tra due ambienti e tuttavia questa cella era sommersa dalla terra; inoltre dalla vista satellitare si nota che la cella non è esattamente al centro del tamburo; piuttosto è l'arco visibile dalla Prenestina al centro della struttura circolare; inoltre si trovano grossi agglomerati di cementizio sparsi dinanzi alla cella; tutto ciò fa pensare che potesse esistere una seconda cella funeraria, ora sparita, di dimensioni analoghe a quella esistente.
Tutto lo spazio incluso nelle mura esterne era riempito di terra creando una sorta di cono e ricoprendo la cella ed il dromos. Sopra la cella mortuaria doveva esserci una colonna con sopra la statua del morto orientata verso la Prenestina oppure vi erano piantati dei cipressi.
Poichè nel rinascimento la cella era usata come cantina, quindi con scarse escursioni termiche e con un alto valore di umidità, dimostra che a quei tempi era ancora esistente il tumulo di terra che ricopriva le celle funerarie e che la struttura delle celle e del dromos era ancora praticabile e magari integra.

- Sepolcro di Maria (Sepulcrum Mariae)
La tomba di Maria, figlia di Stilicone e moglie di Onorio, e probabilmente anche di Onorio stesso (Paul. Diac. hist. Langob. 13.7: iuxta S. Petri apostoli atrium in mausoleo sepultus est), di Teodosio II e Valentiniano III, fu costruita a est della spina del Circo di Gaio e Nerone (il circo costruito da Caligola e detto pure Circo Vaticano) insieme a un altro mausoleo circolare della stessa grandezza.
Essa fu più tardi conosciuto come S. Maria della Febbre (a sostituire la Dea Februa, da cui Febbraio), e venne demolita da Pio VI (DuP 38). La tomba conteneva al suo interno 8 nicchie di cui una serviva come entrata. Nell'VIII sec. il corpo di S. Petronilla fu trasferito qui, e la tomba divenne nota come la Cappella dei Re Franchi. Venne distrutto durante il 1520 durante la costruzione di S. Pietro, ma il sarcofago contenente i resti di Maria, e un tesoro in oro e argento è stato trovato nel 1544. (Lanciani, Pagan and Christian Rome 201‑205).

- Sepolcro del Muraccio di Santa Maura
Ammantata da leggende metropolitane che la vogliono far credere quale resto di una torre dedicata alla S.Maura e quindi origine materiale del toponimo Torre maura è in realtà una bella tomba laterizia di epoca Antonina (II sec. d.c.) provvista di una cella funeraria inferiore attualmente interrata.

- Sepolcro dei Nasoni

- Sepolcro di Nerone (Sepulcrum Neronis)

SEPULCRUM NERONIS 2
- Sepolcro di Nerone 2 (Sepulcrum Neronis 2)

- Sepolcro di Nonio Asprenas (Sepulcrum L. Nonii Asprenatis)
La tomba di Lucius Nonius Asprenas, console del 6 d.c., o, più probabilmente, suo figlio che fu console nel 29 d.c. (Pros. II.409‑411). I pochi frammenti, probabilmente del fregio in marmo, con un'iscrizione, vennero ritrovati quando la torre del lato esterno di Porta Flaminia venne demolito nel 1876‑1877 (NS 1877, 270; BC 1877, 247, pls. XX, XXXI; 1881, 176; 1911, 190; CIL VI.31689; HJ 463; Town Planning Review XI. (1924), 78).

- Sepolcro di Numa (Sepulcrum Numae)
La tomba di Numa, venne posta per tradizione sulla riva destra del Tevere, (Fest. 173; Dionys. II.76.6), sub Ianiculo (Solin. I.21), in agro L. Petilii (Liv. XL.29), non lontano dall'altare della fonte (Cic. de leg. II.56). Il corpo di Numa si dice venne inumato in un sarcofago di pietra e i suoi libri sacri vennero posti in un altro sarcofago. (Plut. Numa 22). La presunta scoperta di quest'ultimo nel 181 a.c. (Lav, lc,..... Vol Max I.1.12) suscitò un grande scandalo tra i pontefici. Non v'è alcuna indicazione della posizione esatta della tomba o del campo Petilii, o dell'Ara della fonte.

- Sepolcro di Orazia (Sepulcrum Horatiae)
La tomba di Horatia, il cui fratello Horatius l'assassinò appena fuori porta Capena, è conosciuta solo tramite lo scritto di Tito Livio (I.26: Horatiae sepulcrum, quo loco corruerat icta, constructum est saxo quadrato), da cui si desume solo fosse edificato in blocchi di pietra quadrata.

- Sepolcro di Orazio (Sepulcrum Horatii)
La tomba del poeta Horace, che, con quella di Mecenate, è conosciuta solo dagli scritti di Sveltonio (vit. Hor. 20: humatus et conditus est extremis Esquiliis iuxta Maecenatis tumulum).

- Sepolcro di Oreste (Sepulcrum Orestis)
La tomba di Oreste, il quale, secondo una tradizione romana, morì ad Aricia e venne sepolto a Roma di fronte al tempio di Saturno. (Serv. Aen. II.116; Hyg. Fab. 261; Myth. Vat. II.202; Rosch. III.1014).

- Sepolcro di Ottavia (Sepulcrum Octaviae)
La tomba di una certa Octavia, figlia di M. Appius, scoperta nel 1616 all'angolo tra Via Sistina e Via di Porta Pinciana, sul tracciato dell'antica strada che usciva dalla Porta Quirinalis correndo verso nord. La tomba era in marmo, con un'iscrizione sul fregio (CIL VI.23330; HJ 444; Richter 351).

SEPOLCRO DEGLI OTTAVII
- Sepolcro degli Ottavii (Sepulcrum Octaviorum)

- Sepolcro di Pallante (Sepulcrum Pallantis)
La tomba di Pallas, il celebre liberto di Claudio, eretta dal senato sulla via Tiburtina "intra primum lapidem" (Plin. Ep. VII.29; VIII.6.1;cf. iscrizione sulla tomba di M. Antonius Asclepiades Pallantis libertus, trovata a Porta Tiburtina (CIL VI.11965).

- Sepolcro di Pansa (Sepulcrum Pansae)
La tomba di Caio Pansa, console nel 43 a.c., nel Campo Marzio (Liv. Epit. 119; Vell. II.62). Nel 1899 venne trovato un blocco di travertino, con un'iscrizione dedicatoria a Pansa, nell'angolo tra Corso Vittorio Emanuele e Vicolo Savelli (NS 1899, 435; BC 1899, 280‑285), e un'altra iscrizione sepolcrale di un Pansa, probabilmente il nipote del console del 43, si riporta venne trovata a circa 400 m da quella. (CIL VI.3542). La tomba comunque doveva trovarsi a nord del teatro di Pompeo (Mitt. 1903, 52; HJ 496).

- Sepolcro dei Passieni (Sepulcrum Passienorum)
La tomba dei Passieni (Pros. III.14‑15) venne trovata nel 1705 in Vigna Moroni, in un sito a ovest della via Appia, non lungi a nord della Porta Appia, contiene molti frammenti di iscrizioni del I - II sec. dc. (CIL VI.7257‑7280, 33248, 33249).

- Sepolcri presso Piazza Menenio Agrippa
Di questa vasta necropoli di età imperiale restano oggi solo due mausolei. Il primo è un sepolcro in opera cementizia, alto circa 10 m e costruito da quattro dadi sovrapposti. Il secondo è un mausoleo a pianta circolare impostato in origine su un alto basamento. Poco resta del rivestimento originale in laterizi, mentre rimane a vista il nucleo cementizio interno.
La tomba era coperta a volta, con resti di anfore inglobate nel calcestruzzo della muratura, una tecnica utilizzata per alleggerire gli alzati voltati. La camera funeraria, a pianta circolare, presenta nicchie rettangolari. Nel Medioevo il mausoleo venne utilizzato come basamento per una torre, come appare in alcune riproduzioni dei secoli scorsi: la Mappa di Eufrosino della Volpaia (1547) ed una pianta del Catasto Alessandrino (1660).

- Sepolcro dei Plauzi

TOMBA DI POMPONIO HYLAS
- Sepolcro di Pomponio Hylas

- Sepolcro di Priscilla (Sepulcrum Priscillae)

- Sepolcro di Publio Elio Gutta Calpurnio (Sepulcrum P. Aelii Guttae Calpurniani)
Fu la tomba di un celebre auriga di questo nome al tempo di Adriano o degli Antonini, in via Flaminia, appena fuori della Porta Flaminia. L'iscrizione fu vista e copiata dal compilatore dell'Einsiedeln Itinerary (CIL VI.10047). Quando le due torri che stavano fuori della Porta Flaminia vennero distrutte (1876‑1877), venero ritrovati grandi frammenti marmorei con bassorilievi di carri e aurighi che dovevano essere locati accanto alla tomba. (BC 1877, 200‑201; 1881, 176‑179; 1911, 187‑192; Friedländer, Sittengeschichte II8.505‑525; Bocconi, Mus. Cap. 301).

- Sepolcro di Quinto Aterio (Sepulcrum Q. Haterii)
La tomba di Q. Haterius, forse l'oratore che morì nel 26 d.c. (Pros. II.126.17), sulla via Nomentana. Era coperta da una delle torri che Onorio fece costruire all'esterno di Porta Nomentana, e negli scavi del 1827 vennero fuori leggeri frammenti che mostrarono come vi fosse un monumento rettangolare, sormontato da un altare a volute (CIL VI.1426, e descrizione citata nelle Memorie Romane III.456; HJ 383; Jord. I.1.344; PBS III.38; Homo, Aurélien 243‑244; cf. Haterius Latronianus, domus).

- Sepolcro di Quinto Sulpicio Gallo (Sepulcrum Quntii Sulpicii Galli)

- Sepolcro dei Rabiri

- Sepolcro di Romolo (Sepulcrum Romuli)

- Sepolcro dei Rusticeli (Sepulcrum Rusticeliorum)
La tomba dei Rusticelii, un monumento in tufo e peperino, di 30 piedi, datato alla fine della repubblica. Era completamente coperto dal Monte Testaccio, ma venne ritrovato nel 1687 durante gli scavi della collina. (CIL VI.11534‑11535; Ann. d. Inst. 1878, 177‑180).

MAUSOLEO DI S. ELENA
- Sepolcro di S. Elena (Sepulcrum sanctae Helenae)

- Sepolcro di S. Urbano (Sepulcrum sancti Urbani)

- Sepolcro di Scipione (Sepulcrum Scipionis)
Nome talvolta attribuito all'inizio del Rinascimento (cf. Bufalini's plan; DAP 2.VIII.386) alla tomba piramidale posta tra il Mausoleo di Adriano e il Vaticano, più spesso chiamato Meta. L'attribuzione a Scipione va a due studiosi (Acron. in Hor. Epod. 9.25): "cum adversus Romanos denuo rebellarent consulto oraculo responsum est: ut sepulcrum Scipioni fieret quod Carthaginem respiceret. tunc levati cineres eius sunt de pyramide in Vaticano constituta et humati in portu Carthaginem respiciente".
Quando si ribellarono contro i Romani, ancora una volta consultato, l'oracolo rispose che la tomba era di Scipione che guardava Cartagine. Le sue ceneri vennero sepolte nel porto della piramide in Vaticano guardando verso Cartagine.

- Sepolcro degli Scipioni

- Sepolcro dei Semproni (Sepulcrum Semproniorum)
La tomba della fine della repubblica, situata appena fuori dalla Porta Sanqualis, all'estremità superiore dell'attuale Via Dataria. Venne scavata nel 1863 (Bull. D. Inst. 1864, 6), ma l'iscrizione era stata già conosciuta nel XVII secolo ( CIL VI .26152 ). La facciata in travertino sul clivus che portava al cancello aveva un semplice ingresso ad arco nella camera sepolcrale, che era tagliata nella roccia di tufo. La soglia era di 2 metri sopra il pavimento della strada, e sopra la porta c'era un fregio e una cornice decorati (1876 aC , 126-127, XII , HJ 403).

- Sepolcro dei Severi (Sepulcrum Severi)
Una presunta tomba di Settimio Severo, a noi nota solo da un passaggio ( Hist. Augusta Get. 7: inlatusque est maiorum sepulcro, hoc est Severi, quod est in via Appia euntibus ad portam dextra, specie Septizonii extructum ; HJ 218). Severo, Caracalla e Geta furono, tuttavia, tutti sepolti nel Mausoleo di Adriano, e il passaggio è interpolato.
Questo Septizonium a cui si allude, è noto solo da Svetonio (Tit. 1) e asserisce che Tito nacque "prope Septizonium aedibus sordidis". Probabilmente simile al Septizonium di Severo, anche se molto più piccolo, ed è stato localizzato generalmente sull'Esquilino ma senza una ragione sufficiente ( FUR 37; Gilb. III .354; Richter 158).

- Sepolcro di Silla (Sepulcrum Sullae)
La tomba del dittatore L. Cornelio Sulla, eretta nel Campo Marzio, per ordine del senato, che del resto era aristocratico come Silla ( Liv. Epit. 90; Plut. Sulla 38; App. B. C. I .106; Lucan II .222), e restaurato da Caracalla (Cass. Dio LXXVII .13). Il suo sito è sconosciuto ( HJ 492).

- Sepolcro degli Statilii (Sepulcrum Statiliorum)
Il colombario degli schiavi e liberti degli Statilii, in particolare di M. Statilius Taurus, console nel 44 d.C. e proprietario degli Horti Tauriani. Si trovava sul lato nord della via Praenestina, a circa 100 metri all'interno della Porta Praenestina (Maggiore), sul lato sud-ovest del moderno Viale Principessa Margherita. Tre camere di questa tomba furono scavate nel 1875-1877 e furono scoperte molte iscrizioni che risalivano da Augusto a Claudio ( CIL VI .6213-6640 e p982; Brizio, Pitture e sepolcri scoperte sull 'Esquilino, Roma 1876; NS 1877, 314-323; HJ 363; per altre iscrizioni trovate nelle adiacenti camere sepolcrali, vedi BC 1880, 51-75; CIL VI .33083 -33.190).

- Sepolcro di Statio Cecilio (Sepulcrum Statii Caecilii)
E' la tomba del poeta e comico Statius Caecilius, vicino al Gianicolo (Suet. reliq. ed. Reiffers. 26: iuxta Ianiculum sepultus), di cui si sa poco se non che nacque nel. 220 e morì nel 166 ac.. Fu intimo amico di Ennio ed ebbe origini tra i Galli Insubri, probabilmente a Mediolanum, e sembra sia stato fatto prigioniero dai romani nel 200, durante la Guerra Gallica. Divenuto pertanto schiavo, assunse il nome di Caecilius dal suo patrono che sembra fosse dei Metelli.
Adattò alla mentalità e al gusto dei romani il teatro greco, dagli scrittori della Commedia Nuova di Menandro, costituendo un genere chiamato Palliata Comoedia. Se le fonti hanno ben capito, Caecilio era così stimato che gli era stato ordinato di ascoltare l'Andria di Terenzio ( 166 ac), per pronunciarne un giudizio.
Dopo vari fallimenti, Cecilio guadagnò una grande reputazione. Volcatius Sedigitus, il critico drammatico, lo pose al primo posto tra i poeti comici; Varrone apprezzò il suo pathos e l'abilità nella costruzione delle trame, Orazio (Epistole, ii I. 59) lo paragonò all'arte di Terenzio. A Quintiliano invece non piace, e Cicerone lo considera inferiore a Terenzio.
Il fatto che le sue opere vengono indicate anche col solo tutolo senza l'autore (Cicerone, De Finibus, ii. 7) è prova della loro grande popolarità. Cecilio occupa un posto tra Plauto e Terenzio nel trattamento degli originali greci, non fece, come Plauto, di confondere le cose greche e romane, né, come Terenzio, di eliminare tutto ciò che non poteva essere romanizzato.
I frammenti delle sue opere sono principalmente conservati in Aulo Gellio, che cita alcuni passi Plocium (La collana) insieme con l'originale greco del Menandro, offrendo l'opportunità unica per fare un confronto sostanziale tra una commedia romana e il suo modello greco.

- Sepolcro di Tito Tazio (Sepulcrum Titi Tatii)
A Lavinium nel 745 ac. fu ucciso Tito Tazio, re di Roma inseme a Romolo. Questo accade perchè i parenti di Tito, avevano maltrattato degli ambasciatori a Roma di Lavinium, e Tito non aveva posto rimedio a questa grave provocazione. Giunto a Lavinium per un sacrificio solenne, fu assassinato in un moto di piazza. La tomba di Titus Tatius nel Lauretum sull'Aventino (Varro, LL V.152; Fest. 360), vicino all'Armilustrium (Plut. Rom. 23). Esso era sede di un culto (Dionys. III.43;b HJ 162). Secondo Plutarco fu sepolto nell'Armilustrio che era un luogo dove ogni ottobre si festeggiava una ricorrenza, forse proprio la morte e deificazione di Tazio. Il lauretum sull'aventino era però un bosco di lauro, cioè di alloro, un lucus sacro insomma, che lo stesso Varrone indica poi come luogo di sepoltura, e che Dionigi concorda come sepoltura di Tito sul monte aventino, ma mai ritrovato.

SEPOLCRO DEI VALERII

- Sepolcro di Valerio Romolo (Sepulcrum Valerii Romuli)

- Sepolcri Vaticani

- Sepolcro di Via dell'Aquila Reale
Tomba a tumulo di età augustea, consistente in un sepolcro circolare a tumulo con una circonferenza di 26 metri oggi compresa fra due palazzi al livello dei garage al civico 3 di via dell’Aquila Reale, sconosciuta ai più e creduta da molti per via della forma quale “tomba Etrusca”.
E' costituita sopra terra da due file di blocchi rettangolari di tufo sormontati da una serie di blocchi di travertino, con in cima una cornice di travertino sagomata.

- Sepolcro di Via Dino Compagni (Sepulcrum Viae Dino Compagni)


SEPOLCRO VIA LABICANA
- Sepolcro di Via Labicana (Sepulcrum Viae Labicanae)
Si tratta di un sepolcro, di età romana, visibile all'interno di un cortile condominiale; è a pianta circolare e conserva due file di blocchi parallelepipedi in travertino, coronate da una cornice modanata, sormontata a sua volta dai resti di un'altra fila di blocchi del tamburo, per un'altezza di 2.30 m ca. 
Il sepolcro è in buono stato di conservazione. Sul fronte ovest, ovvero quello rivolto verso l'entrata del condominio di via dell'Aquila Reale, si notano tre blocchi di opera quadrata, modanati, appartenenti certamente alla cornice del sepolcro, ma non in situ, probabilmente spostati durante qualche lavoro eseguito nell'area che si trova a nord dell'antico tracciato della via Collatina. 
Il sepolcro è stato scoperto nel 1970, in occasione di sbancamenti effettuati per la costruzione delle fondazioni del condominio. Quilici ricorda che tra il terreno mosso durante gli sbancamenti, sono stati rinvenuti basoli di selce, una lesena ed una cornicetta angolare di marmo bianco, un lato di sarcofago con resto del rilievo raffigurante un grifone (Quilici 1974, p.743).
Il sepolcro, le cui dimensioni sono di un diametro di m 8,80, si trova al di sotto del piano stradale, all'altezza dei garage del condominio (situato ad una quota inferiore di circa 8\9 metri rispetto a quella del piano stradale di via dell'Aquila Reale) ed è utilizzato come aiuola, al centro della quale crescono alcuni alberi di modeste dimensioni.

TOMBA DI VIA PESCARA
- Sepolcro di Via Pescara

- Sepolcro di Vibia (Sepulcrum Vibiae)

- Sepolcro di Vibio Mariano 
Detto "Tomba di Nerone" locato sul lato sinistro della moderna via Cassia, la tomba di Vibio Mariano, procuratore della Sardegna e di sua moglie Regina Maxima, fu nota fin dal medioevo come tomba di Nerone. Il monumento è costituito da un grande sarcofago in marmo bianco, risalente alla II metà del III secolo dc., posto su un alto basamento in laterizio. La cassa del sarcofago è sormontata dal tetto a doppio spiovente con acroteri angolari. Sulla fronte, nella tabella ansata fiancheggiata dai Dioscuri, l’iscrizione ricorda i defunti.

- Sepolcro di Vigna Codini (Sepulcrum Vignae Codini)


BIBLIO
- Samuel Ball Platner e Thomas Ashby: Dizionario topografico dell'antica Roma
Londra: Oxford University Press, 1929.

PORTA NOMENTANA (Porte Aureliane)

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PORTA CLAUSA (FIG.1)

Ciò che la  Porta Nomentana non è:

Questa immagine qui sopra riguarda la Porta Clausa, o Porta Chiusa, CHE NESSUNO HA MAI SAPUTO COME SI CHIAMASSE IN ANTICO.

Questa non è la Porta Nomentana ma è la Porta Chiusa, perchè effettivamente venne murata onde preservarne la stabilità, ma anche per non far penetrare dall'altra parte dove giacciono altri resti antichi. Nessuno sa come si chiamasse in epoca romana.

FIG. 3
La Porta Nomentana è una delle porte di Roma che si aprivano nelle Mura Aureliane, la cinta muraria costruita tra il 270 ed il 275 dall'imperatore Aureliano per difendere Roma dagli attacchi dei barbari, situata lungo l'attuale viale del Policlinico, ormai ridotta a semplice muro di recinzione per l'Ambasciata britannica, a circa 70 m ad est di Porta Pia, che poco dopo la metà del XVI sec. ne prese il posto ed il ruolo per l'accesso alla via Nomentana, via consolare romana che collegava Roma a Nomentum, città situata all'incirca dove sorge l'attuale Mentana.

Essa ebbe praticamente la stessa sorte della Porta Asinara, anticipandola di una decina d'anni. La Porta Asinaria venne chiusa per lasciare il posto alla vicina nuova Porta San Giovanni, come la Porta Nomentana venne chiusa per lasciar adito a Porta Pia.

Però la Porta Clausa non è la Porta Nomentana, tanto è vero che dietro di essa non si apre la Via Nomentana, ma una derivazione che conduce poi alla Porta Nomentana. Infatti:

PORTA NOMENTANA (FIG.2)

PORTA PIA

"Nomentana dicevasi anticamente quella porta, di poi si disse di s. Agnese per la vicina chiesa di detta Santa, ora però la diciamo Porta Pia, perchè da Pio IV. fu ornata col disegno da celebre Buonarroti; ma essendo rimasta imperfetta, fu poi proseguita dal Cav. Bernini, il quale neppure la terminò. A sinistra di questa porta fu l'antico e famoso Castro Pretorio, ed appresso il Vivario, vedendosene ancor le mura distese in fuori, e 4. miglia lungi dalla Città fu' la famosa villa di Faonte liberto di Nerone, in cui egli uccise se stesso."

LA POSTERULA
Questa sopra nella fig. 2 è la vera Porta Nomentana, che era la porta meridionale del Castro Pretorio, la grande caserma dei pretoriani che l'imperatore Tiberio costruì tra il 20 e il 23 per riunire in un'unica sede le 9 coorti istituite da Augusto come guardia imperiale. Da qui usciva probabilmente una strada secondaria che collegava sia alla Nomentana che alla Tiburtina. 

Quando Aureliano, verso il 270-273, incluse la caserma dei pretoriani nel perimetro della cinta muraria, il muro esterno fu rialzato, fu munito di una nuova e più fitta merlatura e vennero chiuse le porte settentrionale (le cui tracce sono ancora visibili) ed orientale. L'altra porta, quella occidentale, si apriva verso la città.

PORTA NOMENTANA
Essa era una porta a una sola arcata che venne restaurata nel 403 da Onorio, che fece rivestire la torre utilizzando il marmo del sepolcro, che sembra appartenesse ad un certo Quinto Aterio, famoso oratore della corte di Tiberio, e che Tacito definisce “un vecchio dalla turpissima adulazione” (senex foedissimae adulationis).

LA TORRE SEMICIRCOLARE
Le caratteristiche architettoniche della porta come appaiono oggi risalgono appunto a quell'intervento. Infatti Onorio vi aggiunse un secondo piano riducendo le finestre esistenti a feritoie, coprì le torri con tetto semicircolare e costruì una doppia galleria interna. Nel secondo piano era stata creata una camera di manovra, per l'apertura e la  chiusura a saracinesca della porta.

La porta non era enorme, perchè era larga 290 cm di larghezza per 550 di altezza, sebbene l'innalzamento dell'attuale livello stradale la faccia sembrare molto più bassa, ed è l'unica tra le porte aureliane ad avere gli stipiti in opera laterizia, come hanno di solito le posterule. 

Nel 1564 la porta Nomentana fu murata per volere di papa Pio IV (Giovannangelo Medici 1559-1565) in funzione dell’apertura della nuova Porta Pia, come ricorda l’iscrizione tutt'ora visibile sopra i resti della Porta. 

La nuova porta era collocata in corrispondenza della strada Pia, che sostituirà l’antica via Nomentana, già di minore importanza dall’età tardo imperiale. 

La porta Nomentana, murata, è oggi ancora visibile, seppure parzialmente interrata, a circa 75 metri a sud-est di Porta Pia e privata di una delle torri laterali.

RESTI DEL SEPOLCRO DI QUINTO ATERIO - I SEC.
Ne sono ancora visibili gli stipiti e l'arco in laterizio (sormontato dallo stemma papale) e la torre semicircolare di destra, con basamento quadrato, mentre quella di sinistra venne demolita nel 1827 per recuperare un sepolcro della prima metà del I secolo d.c. inglobato nella torre stessa. Papa Pio IV che ne fece chiudere anche la posterula che si apriva in direzione del Castro Pretorio. 

Da questa porta usciva la omonima e antica via Nomentana (dal nome della città alla quale conduceva, 'Nomentum', moderna Mentana) che, proveniente dall'antica Porta Collina che si apriva nelle vecchie mura serviane, si congiungeva all'attuale via Nomentana all'altezza di Villa Torlonia.

Nell'Alto Medioevo subì quel processo di cristianizzazione della nomenclatura di ogni monumento che riguardasse l'antica Roma, dalle Porte alle vie, ai ponti ecc. venne denominata Porta di S. Agnese perché conduceva al complesso della basilica di Sant'Agnese. 

Venne poi chiamata anche "Porta de domina" o "domnae", forse per la presenza di un'edicola mariana visibile su una delle torri in alcune incisioni.

Già dalla prima metà dell'VIII secolo la Porta non compare più tra gli itinerari e le descrizioni di Roma, ed era o parzialmente interrata a causa del sopraelevamento del terreno adiacente, o inglobata in qualche proprietà privata.




PRISCIANO - PRISCIANUS CAESARIENSIS

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PRISCIANO E LA GRAMMATICA - RILIEVO DI LUCA DELLA ROBBIA - FIRENZE

Nome: Priscianus Caesariensis
Nascita: Cesarea 512 d.C.
Morte: dopo il 527
Professione: Grammatico romano

Prisciano Caesariensis ( fl. dc 500 ), più comunemente conosciuto come Prisciano, è stato un  grammatico latino nonchè l'autore delle "Istituzioni di grammatica", che divenne l'abituale libro di testo per lo studio del latino durante il Medioevo. E' stato anche colui che fondò le basi della  grammatica speculativa.  



LA VITA

Prisciano  (Priscianus Caesariensis; Cesarea in Mauritania, 512  – dopo il 527) è nato e cresciuto lontano da Roma, nella città nordafricana di Cesarea (moderna Cherchell, in Algeria ), la capitale della provincia romana della Mauritania Caesariensis. Forse la lontananza dalle beghe politiche aiutò il suo amore per l'insegnamento e per la linguistica, e Cassiodoro (485 - 585) ci riferisce che insegnò il latino a Costantinopoli dll'inizio del VI secolo.

Le sue opere minori includono un panegirico ad Anastasio (491-518), scritto circa 512, che aiuta a stabilire il suo periodo di tempo. Inoltre, i manoscritti delle sue Istitutiones indicano che l'opera di Prisciano è stata trascritta (526, 527) da Flavio Teodoro, un impiegato della segreteria imperiale. 



ISTITUZIONI DI GRAMMATICA

L'opera più famosa di Prisciano, le Istituzioni di Grammatica (in latino : Institutiones Grammaticae), è una sistematica esposizione per un organizzato insegnamento della grammatica e della lingua latina.. In essa ha ampio svolgimento la morfologia, mentre la sintassi occupa solo gli ultimi due libri.La grammatica è divisa in diciotto libri, di cui i primi sedici trattano principalmente di suoni, formazione di parole e inflessioni; gli ultimi due, che vanno da un quarto a un terzo dell'intero lavoro, trattano la sintassi. 

La grammatica di Prisciano è basata sulle precedenti opere di Elio Erodiano e Apollonio Discolo. Gli esempi che include per illustrare le regole preservano numerosi frammenti di autori latini che altrimenti sarebbero andati perduti, tra cui Quinto Ennio, Marco Pacuvio, Lucio Accio, Gaio Lucilio, Marco Porcio Catone e Marco Terenzio Varrone. Moltissime sono poi le citazioni di Virgilio, Terenzio, Cicerone, Plauto, Lucano, Orazio, Giovenale, Sallustio, Stazio, Ovidio, Livio e Persio.

ISTITUTIONES GRAMMATICAE
Esistono a tutt'oggi circa un migliaio di manoscritti, tutti derivati ​​dalla copia di Flavius Theodorus. La maggior parte delle copie contiene solo libri I-XVI, a volte conosciuti come Priscianus Major (Prisciano Maggiore). Altri contengono solo libri XVII e XVIII insieme ai tre libri di Simmaco; questi sono noti come il suo lavoro sulla costruzione (De Constructione ) o il Priscianus Minor (Prisciano Minore). Alcune copie contengono entrambe le parti. I primi manoscritti risalgono al IX secolo, anche se alcuni frammenti sono precedenti.

L'opera è preceduta da una praefatio, con una dedica a un certo Giuliano, probabilmente un ignoto console e patrizio, ma non l'autore del compendio delle Novellae di Giustiniano, in quanto vissuto più tardi di Prisciano.

Nei libri I-XVI, si tratta di:

- generalia et varia,
- de litteris,
- de syllabis (etiam metrica ratione),
- de oratione eiusque partibus,
- de nomine,
- de verbo,
- de participio,
- de pronomine,
- de praepositione,
- de adverbio,
- de interiectione,
- de coniunctione.
- de constructione vel syntaxi (che sono gli ultimi due libri, che vanno da un quarto a un terzo dell'intero lavoro)


I CAPITOLI

I - Voce e lettera
II - Sillaba
III - Comparativi e superlativi
IV - Parole derivate
V - Generi, numeri e figure
VI - Caso nominativo
VII - Casi obliqui
VIII - Verbo
IX - Coniugazioni
X - Passato perfetto
XI - Participio
XII - Pronome
XIII - Pronome
XIV - Preposizione
XV - Avverbio e interiezione
XVI - Congiunzione
XVII - Parti del discorso
XVIII - Parti del discorso



LE OPERE MINORI

- Tre trattati dedicati a Simmaco (il suocero di Anicio Manlio Severino Boezio): su pesi e misure; sui metri di Publio Trenzio Afro; e la Praeexercitamina , una traduzione in latino di esercizi retorici greci di Ermogene.
- De nomine, pronomine, et verbo (Su nome, pronome e verbo), un riassunto di parte dei suoi
- Istituti per l'insegnamento della grammatica nelle scuole
- Partizioni XII. Versuum Aeneidos principioum: altro sussidio didattico, usando domande e risposte per sezionare le prime righe di ciascuno dei dodici libri dell'Eneide. Il metro è discusso per primo, ogni verso è scansionato e ogni parola accuratamente e istruttivamente esaminata.
Il poema su Anastasio di cui sopra, in 312 esametri con una breve introduzione giambica
- Una traduzione in 1087 esametri del rilievo geografico in esametri greci di Dionisio Periegeta.

LEGIO XV APOLLINARIS

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Legioni con l'ordinale XV sono ricordate al servizio di Gaio Giulio Cesare durante la conquista della Gallia. La Legio XV Apollinaris viene infatti a volte confusa con altre due legioni: la legione XV di Giulio Cesare che condusse nel North Africa nel 49 a.c., e un'altra unità presente alla Battaglia di Filippi a fianco del II Triunvirato e poi spedita in oriente.

La 15 Apollinaris viene istituita da Augusto che è particolarmente fedele al Dio Apollo con cui un po' si identifica. Fece scandalo a Roma una cena in cui Augusto fece travestire i commensali da divinità e in cui egli personificò il Dio Apollo. L'Apollinaris avrà infatti sul vessillo l'immagine di Apollo, ma pure della cetra o di un grifone.

Dunque Ottaviano viene a sapere che suo zio Cesare è assassinato alle Idi di Marzo del 44 a.c., e immediatamente torna sul suolo italico. Sbarca a Brindisi, dove riceve l'omaggio dalle legioni di Cesare lì acquartierate in attesa della spedizione che il dittatore aveva organizzato in Oriente. Ottaviano si impossessa allora, senza che nessuno si opponga, dei circa 700 milioni di sesterzi destinati alla guerra contro i Parti, che utilizza per pagare i soldati e i veterani di Cesare stanziati in Campania, e crea nuove legioni.

40 a.c. - Tra queste nuove legioni c'è la XV Apollinaris sembra sia stata formata nel 41 o nel 40 a.c. da Ottaviano, per combattere Sesto Pompeo, che teneva la Sicilia minacciando la fornitura di grano per la città di Roma: «La guerra di Sicilia fu una delle prime che [Ottaviano] cominciò, ma venne trascinata per lungo tempo, poiché fu interrotta più volte, sia per ricostituire le sue flotte che erano state distrutte dalle tempeste in due circostanze, nel bel mezzo dell'estate; sia perché, essendo stati interrotti i rifornimenti di grano alla città di Roma fu costretto a chiedere la pace, su insistenza del popolo, visto che la fame andava aggravandosi
(Svetonio, Augustus, 16)

- 36 a.c. - Quando Pompeo fu sconfitto, la XV probabilmente fu inviata all'Illirico. 

IL VESSILLO
- 35 - 33 a.c. -  Ottaviano combattè vittoriosamente nell'Illirico nel 35-33 a.c., e sicuramente partecipò la XV Apollinaris. Più tardi, tra lui e il suo collega Marco Antonio iniziò una guerra, che culminò nella battaglia navale di Azio (31 a.c.), dove Ottaviano sconfisse il suo avversario e divenne l'imperatore Augusto.

- 29 - 19 a.c. - Sicuramente la Apollinaris partecipò quindi alle Guerre Cantabriche, condotte da Ottaviano Augusto e da Marco Vipsanio Agrippa per un decennio, portando alla definitiva sottomissione di Cantabri ed Asturi e dei rispettivi territori. 

- 6 a.c. - Dopo la battaglia di Azio, i veterani si stabilirono ad Ateste, e la XV fu inviata all'Illirico, dove rimase fino al 6 a.c., quando partecipò all'inizio della campagna di Tiberio Claudio Nerone contro i Marcomanni, ostacolata da una rivolta dalmato-pannonica in Pannonia.
La rivolta  bloccò l'avanzata romana verso il cuore della Boemia dove si trovava il regno dei Marcomanni.

14 - 15 d.c. - La Apollinaris vide molti combattimenti nella repressione della rivolta. Secondo lo storico Balduin Saria, questa legione eresse un campo sul sito della Colonia Iulia Aemona, che fu istituito come campo nel 14 o 15 d.c., dopo che la legione partì per Carnuntum.

Durante il rimpasto delle forze romane dopo il disastro nella foresta di Teutoburg ( settembre 9 d.c.), la legione fu trasferita a Lubiana e/o Vindobona (attuale Vienna) in Pannonia. Quando Augusto morì nel 14 d.c., la sua città di guarnigione era probabilmente già a Carnuntum (a valle di Vienna). Quando i soldati arrivarono per la prima volta, questa era ancora un centro tribale; la legione ne fece una città fiorente e completamente romanizzata. Qui la legione rimase per qualche tempo.

- 43 - 50 d.c. - Al termine della rivolta dalmato-pannonica (14), la legione venne trasferita ad Emona fino al 43 (quando divenne colonia Iulia Claudia) e poi a Siscia, dove stazionò tra il 43 e il 50.

50 - 63 d.c. - Nel 50 venne trasferita a Carnuntum, un accampamento di 17 ettari, in seguito alla crisi interna del regno marcomanno di Vannio come ci informa Tacito; qui rimase stanziata almeno fino al 63.

TITUS CALIDIUS DELLA XV
- 61 - 62 d.c. - L'Apollinare venne poi inviata in Siria e forse in Armenia da Nerone nel 61 d.c. o 62 d.c., nei territori appena conquistati dai Parti. Dopo la conclusione della guerra con la Parthia, la legione fu inviata ad Alessandria ma ben presto si trovò impegnata nei feroci combattimenti della Prima Rivolta ebraica, conquistando le città di Jotapata e Gamla. 

Fu proprio la XV Apollinaris che catturò il generale ebreo Giuseppe Flavio,  che divenne schiavo di Roma per diventare poi famoso come storico. Durante questo periodo la legione fu comandata da Tito, che sarebbe poi diventato imperatore.

- 63 d.c.  -   La legione venne trasferita per pochi anni in Oriente tra il 63 ed il 70, dove partecipò inizialmente alle campagne contro i Parti di Gneo Domizio Corbulone (5 - 67),  

- 64 al 67 - La XV soggiornò ad Alessandria d'Egitto.

- 68-69 - la guerra si fermò perché Vespasiano fu riconosciuto come imperatore. Egli regnerà fino al 79 d.c. La XV combattè in Giudea nella I guerra giudaica contro gli Ebrei sotto Vespasiano e Tito (che ne fu comandante). I suoi accampamenti devono essere stati prima ad Antiochia. 

- 70 d.c. - La legio venne accampata a Gerusalemme. Tito riprese la guerra nel 70 d.c. e catturò Gerusalemme. Vi sarebbero anche iscrizioni di una sua permanenza (almeno di sue vexillationes) in Galatia (oggi Turchia), ad Ancyra (oggi Ankara). In questi anni di assenza dal fronte danubiano venne rimpiazzata a Carnuntum dalla X Gemina, ma la XV Apollinaris tornò a Carnuntum alla fine della guerra giudaica. L'inverno del 70/71 d.c. fu trascorso a Zeugma sull'Eufrate

- 71 d.c. - L'Apollinaris tornò in Pannonia a Carnuntum agli inizi del 71. Sulla via del ritorno a casa furono aggiunte le reclute dalla Cappadocia. Quando i soldati arrivarono a Carnuntum, ricostruirono la loro fortezza.

- 86 d.c. - Sottounità di Legio XV Apollinaris parteciparono alle guerre daciche degli imperatori Domiziano e Traiano. I Daci avevano invaso l'impero romano nell'86 d.c. e sconfitto le legioni che avrebbero dovuto difendere la Mesia. 

- 88 d.c. - Nell'88 d.c. un grande gruppo di soldati romani invase la Dacia e il generale Tettio sconfisse il suo re Decebalo a Tapae; la XV Apollinaris era una delle nove legioni coinvolte.

- 89 - 97 d.c. - Sotto Domiziano la XV combatté lungo il confine danubiano nel Bellum Suebicum et Sarmaticum degli anni 89-97. 

- 95 - 97 d.c. - La XV Apollinaris stazionò a Vindobona, in un accampamento di ettari 18,5.

- 114 - 117 d.c. - Nel 114 d.c., quando Traiano mosse guerra contro i Parti, la Legio XV Apollinaris fu inviatq ad est e combatté in Mesopotamia, dove Traiano volle conquistare l'Impero Partico. Per rendere la legione più potente, una sottounità della Legio XXX Ulpia Victrix fu aggiunta alla legione imperiale. Dopo aver conseguito molti successi come la conquista dell'Armenia, le regioni conquistate si ribellarono e Traiano si ammalò e morì.

117 - 118 d.c.Mesopotamia, Assiria e Armenia si ribellarono cacciando i romani e Adriano, succeduto a Traiano, riportò l'impero ai vecchi confini. Una piccola vexillatio della XV fu inviata anche in Egitto presso le miniere di porfido del Mons Claudianus al tempo di Traiano. In effetti le legioni avevano a volte non solo un ruolo di operai edilizi ma anche di operai delle miniere. Nella nuova riorganizzazione orientale operata da Adriano la Apollinaris venne stanziata definitivamente a Satala in Cappadocia.
Delle sue vessillazioni invece vennero stazionate perennemente a Trapezus ed Ancyra.

- 134 d.c. - Gli Alani, una tribù proveniente dalle steppe del Kazakistan, minacciarono l'impero romano. Il governatore della Cappadocia, Arriano di Nicomedia, prese in campo la Legio XV Apollinaris e la Legio XII Fulminata e sconfisse gli invasori prima che potessero diventare pericolosi.

- 161-166 d.c. - Partecipò alle campagne partiche di Lucio Vero contro i Parti; alcune vexillationes della XV Apollinaris furono stanziate come guarnigione di Artaxata, la capitale dell'Armenia appena conquistata, (a sud dell'odierna Erevan).

170 - 172 d.c. - Marco Aurelio utilizzò alcune sue vexillationes lungo il fronte dacico-sarmatico nelle guerre marcomanniche sotto il comando di Marco Claudio Frontone e nelle guerre contro i Mauri che avevano infestato le coste della Spagna romana. 

LAPIDE DI UN VETERANO DELLA XV APOLLINARIS
- 175 d.c. - Dopo la vittoria, la XV legione tornò a Satala, dove era ancora presidiata nel 175 d.c. quando il generale Avidio Cassio si ribellò contro l'imperatore Marco Aurelio. Per la fedeltà dimostrata all'imperatore al tentativo di usurpazione di Gaio Avidio Cassio, l'imperatore le attribuì l'appellativo "Costans Pia Fidelis", con relative remunerazioni e premi.

- 194 - 198 d.c. - La XV Apollinare era ancora a Satala alla fine del II secolo e deve aver preso parte alle campagne partigiane dell'imperatore Lucio Settimio Severo (194 d.c. e 197-198 d.c.), che culminarono nel sacco della capitale partigiana Ctesifonte.

- 217 d.c. - Si suppone che la XV abbia preso parte alle spedizioni del III secolo, come quella guidata dal figlio di Severo Caracalla (217 d.c.) e la guerra di Severo Alessandro contro il nuovo impero persiano sasanide.

- V secolo d.c. - La storia della legione dopo questo punto diventa meno chiara. L'unica cosa che sappiamo per certo è che era ancora a Satala e Ancyra in Cappadocia, secondo la Notitia dignitatum all'inizio del V secolo, ed era sotto il comando del Dux Armeniae, comandante di truppe limitanee di un settore del limes romano orientale, nella diocesi pontica (settore amministrativo laico) dai tempi di Costantino I (274-337). 
Suo diretto superiore era al tempo della Notitia dignitatum, il Magister Militum Praesentalis II, l'equivalente romano del Generale in quanto comandante supremo dell'esercito. Queste le ultime notizie della XV Apollinaris.

CARTAGINE (Tunisia)

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CARTAGINE SOTTO DOMINAZIONE CARTAGINESE
Cartagine è oggi un elegante quartiere residenziale di Tunisi, ma risale al IX secolo a.c., e fu per molto tempo la regina del Mediterraneo. Possiede numerosi siti archeologici, per la maggior parte romani, ma anche punici. Il 27 luglio 1979 è stata classificata come patrimonio dell'umanità dell'UNESCO.

Conosciuta come potenza marittima, commerciale e militare Cartagine si era spinta fino alle isole italiche. Per conflitti commerciali, Cartagine è giunta alla guerra con i romani.

Tra il 218 e il 217 a.c. Annibale, giovane generale cartaginese, attraversa le Alpi alla guida di un esercito composto da 38.000 soldati, 8.000 cavalieri e una quarantina di elefanti. Il suo piano è di portare l’attacco al cuore del nemico, fino a conquistare Roma e ottenere il dominio del Mediterraneo.

Vince di seguito le prime battaglie, sul Trebbia, sul lago Trasimeno, a Canne,  ma una volta arrivato alle porte di Roma temporeggia, il suo esercito è stanco e il nemico riesce a riorganizzarsi, fino a riportare lo scontro in Africa.

RICOSTRUZIONE
Tenace propugnatore della distruzione di Cartagine fu il senatore Catone il Censore; il suo principale alleato, o strumento di persuasione, fu un frutto di fico. Un giorno, Catone si presentò al Senato con una cesta piena di fichi.

Già molte volte il vecchio Senatore aveva cercato di convincere l’organo supremo della Repubbica a muovere nuovamente guerra contro Cartagine, la potente città di origine fenicia posta sull’altra sponda del Mediterraneo. Ma i suoi colleghi erano restii a scendere in guerra nuovamente, e per la terza volta, contro i Punici.

Catone fece distribuire i fichi ai senatori, che apprezzarono e ringraziarono. Poi Catone prese la parola, e domandò se i fichi erano sembrati abbastanza freschi. Tutti ne convennero, e allora Catone tirò fuori l’asso dalla manica: i fichi erano stati raccolti a Cartagine, ed erano, fuor di dubbio, freschi. Con ciò il Senatore aveva dimostrato la pericolosa vicinanza della città nemica.

Catone ripetè ancora con veemenza il suo “Delenda Carthago!”, ma questa volta il Senato non potè che essere d’accordo con lui. Nel 204, dopo quindici anni di guerra ininterrotta, Scipione l’Africano infligge ai cartaginesi la sconfitta più dura, a Zama, e la città è costretta alla resa.

ANNIBALE
L’assedio di Cartagine durò dal 149 al 146 a.c. e fu durissimo perché i cartaginesi, rifiutata l’offerta di evacuare la città, opposero una resistenza disperata.

 Dopo tre guerre puniche, Cartagine venne sconfitta definitivamente dai Romani che la distrussero completamente nel 146 a.c.  Nel corso del lungo assedio la città punica soffrì la fame e la pestilenza, infine Cartagine fu rasa al suolo, bruciata, le mura abbattute, il porto distrutto e 50 mila uomini e donne furono catturati e ridotti in schiavitù. Secondo la tradizione, sulle rovine di Cartagine venne sparso il sale: un atto simbolico per rendere sterili i resti e sancire l’impossibilità di ricostruzione.

In seguito però gli stessi Romani la ricostruiscono nel 29 d.c. per volontà di Ottaviano Augusto. Gradualmente Cartagine tornò ad essere lo splendore che era un tempo e i Romani la nominarono Capitale della Provincia Romana d'Africa.

IL PORTO CARTAGINESE OGGI

CARTAGINE PUNICA

Ma la storia di Cartagine risale ad almeno sei secoli prima, ufficialmente all’814 a.c. La leggenda vuole che sia stata fondata da Didone, fuggita da Tiro dopo che Pigmalione, suo fratello, le aveva ucciso il marito per salire al trono.

Il nome di Cartagine deriva dal punico Qart Hadasht = città nuova. Birsa significa "luogo fortificato", ma anche, secondo un'antica interpretazione, "pelle", intendendo la pelle di un bue, di un toro.

La leggenda narra che la città sorse come colonia fenicia, fondata dalla principessa Melissa (Didone), figlia del re di Tiro (Muttone), tradita dal fratello Pigmalione che le aveva ucciso per interesse il ricchissimo sposo Sicherba (Sicheo). Fuggita in Africa e giunta sulle sponde tunisine, aveva ammirato la posizione strategica di questo territorio elevato di fronte al mare. Chiese dunque ai locali il permesso di fermarsi, occupando alcune terre.

Ma il principe indigeno Iarba le accordò solo "lo spazio occupato dalla pelle di un toro". Melissa però non si perse d'animo e fece tagliare la pelle di un bue in modo da ottenere una sottilissima e lunga striscia che fu stesa sulla collina a segnare i confini della nuova proprietà.

ROVINE DI CARTAGINE
Qui dunque sorsero le prime abitazioni di Cartagine di cui Melissa fu regina, e la collina conserva tuttora il nome di Birsa. Ricorda il rito etrusco e pure romano di tracciare il solco della proprietà con l'aratro. Il perimetro veniva stabilito dal solco dell'aratro effettuato dal sorgere al calar del sole.

La regina fuggiasca e il suo gruppo di esuli,  costruirono dunque un nuovo insediamento sulle coste dell’attuale Tunisia, portando la loro cultura e la loro civiltà. I vari livelli dell'epoca punica
si trovano nella parte inferiore della collina, sul suo versante più meridionale con una necropoli di tombe risalenti al secolo VII, rimpiazzate da officine metallurgiche datate IV-III secolo a.c.

RESTI DI CARTAGINE PUNICA CON COLONNE ROMANE
Si tratta di un quartiere d'abitazioni concepito secondo un piano generale che ben si adattava al pendio naturale del terreno, con belle vie larghe da sei a sette metri, e l'acqua sporca era raccolta in
pozzetti scavati al centro delle stesse vie.

Ampie sono le tracce della tecnica edilizia dell'opus punicus, la stratificazione delle macerie delle epoche diverse, resti di case romane con l'impluvio e il peristilio, e poi mosaici di epoca bizantina, tracciati di basiliche e battisteri, tronconi di colonne emergenti dal terreno in una zona ombrosa dove la vegetazione s'insinua nella vita millenaria trascorsa, ma non perduta.

Cartagine divenne colonia romana nel 44 a.c., sotto Giulio Cesare, ma solo sotto l'imperatore Augusto, ne sarà il vero fondatore ordinandone la ricostruzione, fra Byrsa ed il mare. 

Cartagine è fin dall'inizio la capitale della nuova provincia romana d'Africa e, tra le città dell'impero, la seconda dopo Roma, centro di civiltà anche durante le invasioni dei Vandali iniziate nel secolo V e perdurate circa cento anni.

La conquista bizantina avvenne nel VII secolo (nel 695), ma poi la città dovrà arrendersi al generale arabo Hassan lbn Noaman che distrusse irrimediabilmente la città politeista. Della Cartagine punica, distrutta prima dai romani e poi definitivamente dagli arabi intorno al 700 d.c., non restano che poche rovine.
Le vestigia più interessanti si trovano sulla collina di Birsa, dove sorgeva l’acropoli, all’epoca circondata da una cinta di mura. Vi sono state trovate alcune sepolture, ma nessuno degli edifici pubblici e delle abitazioni è sopravvissuto alle conquiste.

La Cartagine punica era comunque molto evoluta, nelle case esistevano i servizi igienici con le tubature e perfino le vasche da bagno. Ovunque sorgevano templi e splendidi edifici, e nelle case regnava ovunque il simbolo della Dea Tanit, la Grande Dea Madre dei cartaginesi.

TOPHET

IL TOPHET

Poche tracce indicano il santuario di Tophet, il luogo destinato alle sepolture infantili, nei cui pressi sorgeva un tempio dedicato agli Dei fenici Tanit e Baal, individuato nel 1921, per i quali di dice venissero immolati i figli dei nobili cartaginesi. In realtà non c'è un solo documento che riporti questa barbara usanza e se così fosse stato le fonti romane ne avrebbero sicuramente e diffusamente parlato.

Questa credenza venne messa in circolazione dalla nuova religione cristiana che tendeva a demonizzare tutte le altre religioni. Il fatto che esistessero dei cimiteri riservati ai bambini defunti non significa che venissero sacrificati. Gli etruschi per esempio ponevano le tombe dei piccoli al di fuori delle grandi tombe a tumulo, ma non per questo sacrificavano il loro figli.

PAVIMENTO PUNICO DI BIRSA
Il tofet (o tophet) è un santuario fenicio-punico a cielo aperto, consistente in un'area consacrata dove venivano deposti e sepolti ritualmente i resti combusti dei sacrifici e dalle sepolture infantili.
Una zona ristretta dell'area era in genere occupata dalle installazioni per il culto (sacelli e altari). Molti cinerari erano accompagnati da stele con iscrizioni.

Si trova di solito in un'area periferica della città, nei pressi della necropoli. Tofet sono stati rinvenuti a Cartagine, a Hadrumetum ed in altre città puniche dell'Africa settentrionale. In Italia sono presenti a Mozia e Solunto in Sicilia, e a Tharros, a Sulki (Sant'Antioco), sul Monte Sirai (a Carbonia), a Nora e a Bithia, in Sardegna, ma anche qui non vi fu traccia di sacrifici umani.

Se ce ne fossero stati Catone anzichè portare i fichi cartaginesi a Roma, avrebbe parlato dei barbari infanticidi dei cartaginesi, un'ottima scusa per invadere Cartagine.

Viene citato nella Bibbia nel 2 libro dei Re 23,10 e in Geremia 7,31, come luogo dove i fanciulli erano «passati per il fuoco» in onore del dio Moloch o Melqart. Ma anche gli ebrei demonizzavano tutte le altre religioni, le religioni monoteiste odiano e diffamano ogni altra religione, venendo meno a quella splendida tolleranza che fu il vanto della civiltà romana. Anche la greca Demetra passò per il fuoco il figlio del re, ma era un rito per farlo diventare immortale.

NAISKOS - TEMPIETTO PUNICO
Recentemente tuttavia alcuni studiosi tendono a considerare che si trattasse piuttosto di aree di sepoltura separate (spesso infatti sono in prossimità delle necropoli), destinate alle tombe infantili.

Anche in altre culture le sepolture dei bambini tendono ad essere separate da quelle degli adulti. Inoltre Tanit e Baal sembrano avere caratteristiche di divinità benevole.

Le analisi dei resti ossei sembrerebbero confermare questa interpretazione.

« Perché i figli di Giuda hanno commesso ciò che è male ai miei occhi, oracolo del Signore. Hanno posto i loro abomini nel tempio che prende il nome da me, per contaminarlo.

Hanno costruito l'altare di Tofet, nella valle di Ben-Hinnòn, per bruciare nel fuoco i figli e le figlie, cosa che io non ho mai comandato e che non mi è mai venuta in mente. 

Perciò verranno giorni - oracolo del Signore - nei quali non si chiamerà più Tofet né valle di Ben-Hinnòn, ma valle della Strage. Allora si seppellirà in Tofet, perché non ci sarà altro luogo. I cadaveri di questo popolo saranno pasto agli uccelli dell'aria e alle bestie selvatiche e nessuno li scaccerà. » (Gr 7,30-33)

« Allora io diedi loro perfino statuti non buoni e leggi per le quali non potevano vivere. Feci sì che si contaminassero nelle loro offerte facendo passare per il fuoco ogni loro primogenito, per atterrirli, perché riconoscessero che io sono il Signore. » (Ezechiele 20,25-26)
Ecco che in questo passo il Dio ebraico si confessa autore degli efferati crimini che egli stesso condanna pur essendone la causa.

Del resto nel medioevo, nei posti e nei periodi in cui l'antisemitismo era più forte, gli ebrei furono spesso accusati di rapire bambini cristiani per bruciarli vivi in rituali in qualche modo legati alla venerazione di Moloch. Gli stessi cristiani vennero imputati di sacrificare i bambini.

RESTI DELLA CARTAGINE ROMANA

CARTAGINE ROMANA

Alla fine del I secolo a.c., durante imponenti lavori di rinnovo della città, la collina di Byrsa fu abbassata, rimodellata e trasformata in un ampio terrapieno. Su questa nuova acropoli i Romani eressero verso il II secolo i monumenti pubblici più importanti: templi, basiliche, portici, biblioteche ecc. che ci confermano in questo luogo la posizione del foro romano della colonia Cartagine, mentre all'estremità occidentale si elevava il campidoglio, celato per sempre sotto la cattedrale di San Luigi, ora sconsacrata ed adibita a centro culturale.

Uno stagno in riva al mare, poco più a nord, è invece quel che resta dei due grandi porti, quello mercantile e quello militare, che avevano fatto la grandezza di Cartagine.

RESTI DI CASA PUNICA

TERME ANTONINE

Le Terme di Antonino sono l'edificio più danneggiato dall'iconoclastia religiosa, ancora più che dal tempo, a mano di un violentissimo terremoto, e la zona non è sismica, le colonne, soprattutto di quella portata, non crollano da sole.

A Roma il Pantheon venne trasformato in chiesa perchè era praticamente impossibile abbattere le sue colonne, e altrettanto per le colonne, sempre a Roma, del tempio di Antonino e Faustina, dove si vede chiaramente il segno lasciato dalle funi di metallo usate per tirare giù le colonne per distruggere il tempio. Del resto se fossero cadute se ne troverebbero gli imponenti massi a terra, come si trovano nei templi dorici nella piana di Agrigento in Sicilia.

Pertanto  è stato realizzato un modello dove i turisti possono apprezzare la bellezza dell'edifico all'epoca romana. Con le loro grandi dimensioni, questi bagni sono stati probabilmente tra i più importanti dell'Impero Romano.

Delle imponenti terme di Antonino, costruite tra il 146 e il 162 d.c. oggi è visibile soltanto il basamento, dove sorgevano le stanze degli inservienti con i magazzini e i forni in cui si scaldava l’acqua (poi inviata alle sale termali, situate al piano superiore), sorretto da colonne gigantesche. Una di queste, è stata ricostruita negli ultimi anni: è alta 15 metri e sormontata da un capitello corinzio.

Le colonne monolitiche di sostegno delle sale delle terme di Antonino, del diametro di quasi 2 metri, dovevano pesare 70 tonnellate. Uno dei capitelli, rinvenuto di recente, è alto un metro per un peso di 4 tonnellate. La volta dell'imponente frigidarium, in fase di ristrutturazione, dovrebbe superare i 20 metri.

Poco distante si trova la basilica di Domus el Karita, il cui nome è probabilmente una storpiatura del latino “Domus Charitatis”, dove Sant’Agostino predicò tra il 399 e il 413.

L'ANFITEATRO

L'ANFITEATRO 

Celebrato come uno dei più maestosi del mondo romano, l’anfiteatro di Cartagine venne costruito fin dalla fondazione della colonia romana, con varie trasformazioni nel corso del II e IV secolo dell'impero. Era famoso fino ai confini dell’impero per le corse dei cavalli e i combattimenti di belve e gladiatori, prima, si tramanda, di divenire luogo di martirio per migliaia di cristiani.

Anche qui la tradizione inganna e la stessa cosa fu detto del Colosseo, ma le fonti hanno smentito la tradizione di stampo cristiano. I grandi anfiteatri, come il Colosseo e l'anfiteatro di Cartagine, non vennero mai usati per il martirio dei cristiani.

Questo perchè le esecuzioni non solo dei cristiani ma dei malfattori, non costituivano grande spettacolo, la gente amava scommettere e pertanto amava le corse e i combattimenti, i gladiatori soprattutto e le belve. Le esecuzioni capitali semmai si usavano nei piccoli anfiteatri dove il lanista poteva investire molto poco per gli spettacoli, data la poca capienza e quindi affluenza degli spettatori. Invece L'anfiteatro di Cartagine poteva contenere circa 36.000 spettatori

PIAZZALE DELL'ACROPOLI ROMANA
L'anfiteatro venne proibito e chiuso, non tanto per la effettiva crudeltà dei suoi spettacoli, quanto per la peccaminosità del divertimento, Agostino dichiara che fu la lussuria a spingere l'edificazione dei luoghi di spettacolo, tanto è vero che prima degli anfiteatri vennero chiusi i teatri, considerati luoghi demoniaci per le donne un po' discinte che vi si esibivano.

Ma oggi vi si riconoscono appena l'arena di forma ovale, la posizione delle gradinate ed i muri di recinzione ristrutturati.

Nel centro dell'arena, fu innalzata una cappella dai Padri Bianchi con una colonna (in realtà bizantina) in memoria delle martiri Perpetua e Felicita gettate in pasto alle belve in quest'anfiteatro per essersi rifiutate di rinunciare alla fede cristiana.

Tuttavia Perpetua, giovane cristiana cartaginese che sognò di combattere il Diavolo, che era sotto forma di un etiope (quindi simile a un cartaginese), fu uccisa insieme a Felicita, Saturo, Revocato, Secondino e Saturnino. Infatti, nell’anfiteatro di Cartagine, li avrebbero fatti aggredire da un ghepardo, un orso e una vacca.
Infine furono legati e infilzati da un corpulento gladiatore. Ora le vacche non aggrediscono gli umani, tanto più che sono erbivore, (non aggrediscono nemmeno i tori, per questo li tormentano con le banderillas) e i gladiatori, anzitutto non erano corpulenti ma avevano fisici da paura che facevano impazzire le matrone, e poi combattevano, non facevano i boia.

Sant' Agostino, piuttosto credulo, non cessò mai di gridare contro tali mostruosità per tutta la sua vita, anche se ai suoi tempi gli anfiteatri erano chiusi da un pezzo e cadevano in rovina: in Sermo a Dionisio 24, 13 scrive: "Videte amphitheatra ista, quae modo cadunt. Luxuria illa aedificavit."

L'anfiteatro, già in rovina, venne citato nell'XI secolo dal geografo arabo el-Bekri come il più interessante monumento di Cartagine. Le vestigia attualmente visibili appartengono, nelle parti non ricostruite, a un anfiteatro del I sec., la cui cavea fu ingrandita nel II secolo; si riconoscono ancora i tratti di muro, posti a raggiera, che facevano parte delle sostruzioni della cavea. Un centinaio di m più a sud, rilievi aerei hanno permesso di individuare tracce di mura appartenenti forse allo stadio nominato da Tertulliano.

Una volta abbandonato l'anfiteatro venne via via spogliato per costruire chiese e palazzi, e oggi ne restano poche rovine, che occhieggiano tra il verde dei pini. A nord-est dell’anfiteatro si trova una serie di gigantesche cisterne che costituivano la principale fonte idrica della città in epoca romana.

TEATRO DI CARTAGINE

IL TEATRO

Sono presenti cospicui resti del teatro fatto costruire da Adriano, di dimensioni imponenti e maestoso nell'aspetto, uno dei più grandi in terra d'Africa. Le ampie gradinate sfruttano il declivio naturale del terreno alle pendici di una collina. Vi potevano sedere migliaia di spettatori che potevano godere anche di uno straordinario panorama.

Il teatro occupa una piccola conca ai piedi della collina dell'odeon. Eretto agli inizi del II secolo d.c., fu restaurato in varie riprese prima di essere distrutto dai Vandali nel 439. Completamente ricostruito per gli spettacoli moderni, ospita, fra luglio e agosto, le rappresentazioni allestite nell'ambito del festival culturale internazionale di Cartagine di musica, canto e danza.

L'insieme, di dimensioni notevoli, comprendeva tre gallerie concentriche (ambulacri) e, in alto, un portico colonnato. Gli scavi hanno portato alla luce anche numerose statue, tra cui una, colossale, di Apollo, oggi al Museo del Bardo.

RESTI DELL'ODEON ROMANO

L'ODEON

Sulla sommità dell'omonima collina si trova l'odeon, costruito secondo Tertulliano negli anni 205-210 per celebrare i giochi Pitici. Distrutto in parte dai Vandali assieme all'adiacente teatro, i suoi materiali furono utilizzati per la costruzione delle fortificazioni bizantine.

Sebbene il complesso versi oggi in grave stato di abbandono, è possibile riconoscere abbastanza facilmente l'orchestra, che conserva in parte la piastrellatura a marmi policromi, e il basso muro (pulpitum) sul quale poggiava la scena e dove una serie di nicchie ospitava statue a grandezza naturale. Le fondazioni della parete esterna della scena, assai imponenti, ne suggeriscono l'altezza totale, mentre la notevole quantità di statue rinvenute nel corso degli scavi indica che il complesso presentava una sontuosa decorazione.

CIRCO IN UN MOSAICO CARTAGINESE DEL VI SECOLO

IL CIRCO

Dopo aver abbandonato l'anfiteatro, procedendo ancora più a sud la strada che va da la Marsa a la Goulette taglia l'area sulla quale sorgeva un circo romano o ippodromo, le cui dimensioni ricordano quelle del grande circo di Roma.

I romani a Cartagine si dotarono dunque oltre che del teatro, dell'odeon e dell'anfiteatro, anche del circo, con grande disapprovazione dei religiosi cristiani che vedevano in tutto ciò che divertiva, l'opera del diavolo, mentre erano graditi a Dio l'espiazione, l'astinenza, i digiuni e perfino l'autoflagellazione, in poche parole la mortificazione della carne.

Dell'edificio, in grado di accogliere oltre 200000 persone, sono stati portati alla luce i resti della spina, che divideva in due l'arena e attorno alla quale giravano i carri. Le corse dei carri furono l'ultimo spettacolo a scomparire, tollerato in quanto non licenzioso.

VILLA ROMANA

PARCO DELLE VILLE ROMANE

La collina della Byrsa, il centro antico della città punica, offre una splendida vista del porto punico e i resti di quelle che all'epoca dovevano essere splendide ville romane decorate con meravigliosi mosaici. Di particolare interesse per ammirare la struttura delle abitazioni, è inoltre il Parco delle Ville Romane, che si estende fino al mare. Qui gli scavi hanno individuato un gran numero di dimore patrizie, i cui mosaici sono conservati al Museo del Bardo, a Tunisi.

VILLA DELLA VOLIERA
In età romana sorsero numerose ville aristocratiche. La struttura di queste ville riprendeva la icnografia di quella romane, con tutti i comodi e gli agi che i proprietari si riservavano durante l'età imperiale. Elemento centrale della villa era il peristilio con gli ampi colonnati che si affacciavano sul giardino interno permettendo di collegare fra loro le camere della villa.

L'edificio principale è una casa romana del III secolo parzialmente ricostruita nel 1960 per essere utilizzata come antiquarium e detta casa della Voliera per il mosaico che vi fu scoperto. 

La terrazza, dalla quale si ha una bella vista su Cartagine è ornata con colonne a peristilio, iscrizioni, frammenti di sculture, statue (fra cui un bel busto di efebo) e pavimenti a mosaico.

Il quartiere delle ville romane a Cartagine si stendeva sul fianco orientale della collina dell'Odeon e si sovrappose ad una necropoli punica del III e II secolo a.c. Al di sotto e più a nord si stende un intero quartiere di case, scavate all'inizio del secolo e attualmente poco leggibili; vi si riconoscono muri portanti e cisterne di notevoli dimensioni.

VILLA DELLA VOLIERA

Villa della Voliera

La più importante è la Villa della Voliera realizzata nel III sec. chiamata in questo modo grazie al soggetto di un mosaico. Questo peristilio ha una splendida vista su Cartagine e Sidi Bou Said.

Il nome della Voliera deriva da un mosaico raffigurante numerosi uccelli, e conserva uno splendido peristilio. La terrazza della Casa della Voliera è ricoperta da una vasta pavimentazione, proveniente da un’altra residenza, che alterna pannelli quadrati a mosaico, raffiguranti cavalli e cavalieri, ad altri di marmo. Dei 98 elementi originari, se ne sono conservati 62.



IL MUSEO

In stile arabeggiante, il Museo di Cartagine ( qui sullo sfondo di alcuni reperti di epoca romana), ospita collezioni appartenenti a tre grandi periodi: fenicio-punico, afro-romano e arabo, conservando statue e frammenti di mosaici ritrovati negli scavi. 

Il museo occupa i locali del Seminario dei Padri Bianchi accanto alla cattedrale di San Luigi, costruita dai francesi nel 1890. Qui si trovano vasi, sculture, iscrizioni e ceramiche scoperti durante gli scavi, ultime testimonianze della Cartagine punica, romana e araba: vestigia di un impero scomparso.



SERVANDA CARTHAGO

Mentre la Tunisia si risolleva lentamente dai travagli rivoluzionari, il neoministro dei Beni culturali e della Salvaguardia del Patrimonio, Azedine Beschaouch, sta letteralmente travolgendo le cattive abitudini radicate negli anni passati, quando il suo ministero era essenzialmente uno strumento di propaganda politica per il regime di Ben Ali. Archeologo di fama internazionale, insieme al primo ministro Beji Caïd Essebsi è forse il personaggio più popolare dell’attuale governo transitorio.
Per preservare le vestigia è stata lanciata fin dal 1973 la campagna di scavi di salvataggio "Servanda Carthago"

IMPERATRICE ROMANA
Questo mosaico raffigurante un cavaliere sullo sfondo di un sontuoso palazzo con vegetazione tropicale è stato rinvenuto sulla collina di Borj-Jedid, sui versanti di quest’altura vengono ancora oggi portato alla luce resti appartenenti a diversi periodi, tra i quali alcune sepolture di epoca punica.

Uno dei punti più scottanti è l’oltraggio a Cartagine e il declassamento dei suoi terreni, iscritti fin dal 1979 nella lista del Patrimonio mondiale dell’Unesco.

«L’occupazione dei terreni di questo sito unico al mondo è avvenuta in maniera pressoché pubblica, ma in un silenzio di piombo. Sono state declassate alcune zone archeologiche di Cartagine e di Sidi Bou Said, con una serie di decreti del capo dello Stato (quattordici per la precisione, dal 1992 al 2008), proprio attraverso l’espressione giuridica più alta e sacra della nazione: l’atto presidenziale. 

E ciò per favorire i traffici e le speculazioni immobiliari della cricca al potere! Con il consenso e la complicità degli organi amministrativi, il sito è stato sottratto alla proprietà pubblica per essere consegnato a personaggi di regime, familiari del presidente e uomini d’affari corrotti. 

Gli accoliti dell’ex dittatore e di sua moglie, attraverso semplici procedure amministrative, si sono visti attribuire - a cifre simboliche - terreni di grande valore, che hanno poi rivenduto a caro prezzo ad altre persone: promotori immobiliari o cittadini danarosi, interessati a costruirsi una villa a Cartagine, il “must del must”. Questa città ha rappresentato naturalmente il mio primo pensiero fin da quando sono arrivato al ministero. Ho subito proposto un decreto legge per l’abolizione di tutti i decreti di declassamento promulgati sotto il regno di Ben Ali».

Cartagine è davvero la sua creatura: fu proprio lui a organizzare e a coordinare nel 1973 la campagna di scavi di salvataggio, denominata «Servanda Carthago», che proiettò il sito, all’epoca ancora semi-ignorato, sulla scena internazionale. Un’operazione mediatica coronata con l’inserimento nella lista del patrimonio mondiale dell’Unesco.

«È vero, negli Anni 70 l’ho salvata una prima volta. E ne sono fiero. Dal 1973 al 1983, nella veste di direttore dell’Istituto nazionale di archeologia, avevo intrapreso e coordinato questa campagna di scavi di salvaguardia, sotto l’egida dell’Unesco, per attirare l’attenzione internazionale su Cartagine che già allora rischiava di scomparire sotto le ruspe degli imprenditori immobiliari. Italiani, francesi, inglesi, tedeschi, americani, tutti aderirono con entusiasmo a un’iniziativa che condusse a grandi scoperte: prima fra tutte la constatazione che, malgrado la distruzione della città da parte dei Romani, restava intatto un intero quartiere punico (quello che oggi si trova nei pressi del museo), con case dell’epoca di Annibale.

Ma ora purtroppo ci risiamo. Abbiamo evitato per il rotto della cuffia la vergogna internazionale: quest’anno, a causa dei massacri e della cattiva amministrazione, il Comitato del patrimonio mondiale dell’Unesco aveva deciso di dichiarare Cartagine zona sinistrata, in pericolo. Ecco dunque un valido motivo per rilanciare la parola d’ordine “Servanda Carthago”, opponendoci una volta per tutte alla "Carthago delenda est" decretata da Catone più di duemila anni fa».



ACQUEDOTTO CLAUDIO

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ACQUEDOTTO CLAUDIO

L'acquedotto dell'Acqua Claudia, iniziato da Caligola nel 38 d.c. e portato a termine da Claudio nel 52 (ma Tacito Ann. XI.13 indica il completamento nel 47), è l'ottavo e più importante degli acquedotti di Roma.

Questo prese il nome dall'imperatore che l'aveva realizzato con una notevole spesa dovuta alla mole dell'impresa, al costo di tecnologie più evolute e all'aumentata percentuale di mano d'opera di lavoratori liberi rispetto agli schiavi. Plinio il Vecchio informa (Nat. Hist. XXXVI, 122) che l'acquedotto costò, insieme a quello dell'Anio Novus, ben 350 milioni di sesterzi, come 230 milioni di euro o 210 milioni di sterline o 450 miliardi di lire.

Ma la potente fornitura d'acqua non fu fortunata, perchè dopo essere stata in uso solo per dieci anni, venne meno totalmente, e fu interrotta per nove anni, finché Vespasiano la restaurò nel 71, e dieci anni dopo Titus dovette riparare l'acquedotto ancora una volta.

Il 3 luglio 88 fu completato un tunnel sotto il monte Aeflanus, vicino a Tibur (Tivoli). Non sappiamo di altri restauri, se non dallo studio dei resti stessi, che mostrano che una buona parte della riparazione è stata fatta nel II e nel III secolo (Plinio NH XXXVI.122; Frontinus, de aquis; Suet. Claud.; Procop. BG; Not. app.; Pol. Silv. 545, 5461; Cassiod. Var. VII.6; Victor).

L'AGRO ROMANO

LE SORGENTI

Le sorgenti principali erano la "Fons Cerulea" (per la sua trasparenza azzurra) e la "Fons Curtius", che fornivano un'acqua molto pregiata, ritenuta inferiore per qualità solamente alla Marcia. Esse si trovavano nell'alta valle dell'Aniene e davano luogo a due piccoli laghi, presso il Monte di Ripoli, all'altezza del XXXVIII miglio della via Sublacensis, tra Marano Equo e Carsoli o, più esattamente, a 300 passi da un diverticolo di quella strada sulla sinistra, in prossimità delle Sorgenti dell'Acqua Marcia. 

Oggi si identificano con il gruppo delle Sorgenti Serene e con il laghetto di Santa Lucia, che si trovano lungo la via Sublacense. L'acquedotto riceveva però anche altre sorgenti, come la Fons Albudinus, captate al tempo di Augusto e oggi dette "delle Rosoline", ed effettuava scambi con lo stesso Acquedotto della Marcia, in modo che la portata dell'uno e dell'altro fosse regolata secondo necessità.



LE MISURE

La lunghezza del suo canale è riportata nell'iscrizione sulla porta Maggiore come 45 miglia (Plinio ne riporta 40 miglia), in canale sotterraneo e in strutture sopra terra, mentre Frontino la dà 1 miglio e 406 passi in più, il che probabilmente si spiega con la sua misurazione fino al Fons Albudinus, che è stato aggiunto tra il tempo di Claudio e il suo.

Inoltre km 4,5 (3076 passi) erano di ponti, nel tratto superiore, mentre 10,5 (7095 passi) erano di sostruzioni e archi. La portata giornaliera era di 4607 quinarie (pari a mc 191.190 e 2211 l al secondo), delle quali tuttavia, dopo le erogazioni intermedie e le intercettazioni abusive, solo 3312 giungevano alla piscina limaria, dove l'acqua si mescolava a quella dell'Anio Novus.

INTERSECAZIONE CAPOLAVORO DEGLI ACQUEDOTTI CLAUDIO E MARCIO - TOR FISCALE


IL PERCORSO

L'Acquedotto Claudio iniziava seguendo sulla destra la valle dell'Aniene mantenendosi alto e tagliando con tratti rettilinei le curve delle pendici collinari. Alla chiusa di San Cosimato, mentre un ramo proseguiva a destra, passava con un ponte sulla riva sinistra affiancandosi agli altri acquedotti che passavano in loco (Anio Novus, Marcia e, dopo Vicovaro, Anio Vetus). 

Proprio sotto Vicovaro si ricongiungeva con il ramo suddetto e, sempre lungo la riva sinistra dell'Aniene, proseguiva fino a Tivoli scavalcando piccoli affluenti con ponti in parte conservati nella struttura originaria in opera quadrata di tufo e con restauri d'età flavia, adrianea e severiana. Da sottolineare, prima di Castel Madama, il ponte sul Fosso della Noce, a due ordini sovrapposti di arcate, lungo 135 m.

Dopo aver aggirato con un'ampia curva il Monte Sant'Angelo in Arcese e toccata Tivoli, l'acquedotto si dirigeva a sud verso la via Praenestina e attraversava le valli profonde tra San Gregorio e Gallicano su altissimi ponti gettati sui Fossi dell'Acqua Raminga, della Mola di San Gregorio, di Caipoli e Collafri. Superata (insieme all'Anio Novus) la tagliata della strada a Santa Maria di Cavamonte, piegava a ovest verso la via Latina e i Colli Albani.

Attraversava quindi altre valli con una nuova serie di ponti sul Fosso dell'Acqua Nera, a nove arcate, delle quali la centrale a due ordini (sempre nella caratteristica opera laterizia del tempo di Settimio Severo), e il ponte sul Fosso di Biserano, a una sola arcata, in opera quadrata di tufo su nucleo cementizio; e con "viadotti" come quello, lungo circa 80 metri, sul Fosso della Pallavicina, presso il laghetto di Monno, e quelli sui Fossi delle Marmorelle, di Casale Mattia, di Prata Porci.

ACQUEDOTTO CLAUDIO VIA TURATI ROMA
Al VII miglio della via Latina nell'odierna località delle Capannelle, l'acquedotto della Claudia usciva all'aperto e passava nella grande piscina limaria, oltre la quale emergeva su archi al di sopra del piano di campagna appoggiandosi prima, per poco più di m 900 (609 passi), su una substructio a muro pieno in blocchi di peperino, poi, per poco più di 9 chilometri e mezzo (6491 passi), su arcuazioni  sempre più alte, che portavano anche il canale dell'Anio novus, ed entrambi i canali passavano attraverso la via Labicana e via Praenestina da un grande arco monumentale, che in seguito divenne Porta Maggiore.

Era il più alto di tutti gli acquedotti, celebrato in duemila dipinti e foto, che da duemila anni caratterizzano il paesaggio della Campagna romana, a sud di Roma. Dalla porta Maggiore l'Arcus Caelimontani si separava a sinistra e trasportava le acque attraverso il Celio al Palatino, all'Aventino e alla Transtiberina (Frontino, I.20).

L'acquedotto principale si dirigeva verso la piscina terminale "post hortos Pallantianos"; e data la sua notevole altezza deve anche aver fornito le parti più alte della città, l'Esquilino, il Viminale e il Quirinale.

Gli archi, su cui fu poggiato quasi contemporaneamente l'acquedotto dell'Anio Novus, erano in opera quadrata di peperino e tufo rosso, con i blocchi di chiave in travertino. I piloni misurano m 3,35 sulla fronte per m 3,10 di profondità e distano tra loro m 5,5. Gli archi, che s'impostano su di essi leggermente arretrati, hanno una luce di m 6. Il canale dell'Anio Novus è invece costruito in opera reticolata e laterizi.

CASALE ROMA VECCHIA
L'acquedotto, al Casale di Roma Vecchia, dove c'è il tratto conservato più lungo (di km 1,5), è alto m 17. Più avanti, presso l' Osteria del Tavolato, nella depressione del Quadraro, le arcate, sostenute da pilastri molto slanciati, hanno un'altezza massima di m 27,40. Per tutto il tratto restante, fino a Roma, l'altezza media si mantiene tra i 17 e i 22 metri.

Nei punti in cui l'acquedotto è interrotto per i crolli, si vedono assai bene in sezione i due canali sovrapposti: quello dell'Acqua Claudia sta subito sopra gli archi, è realizzato, come quelli, in opera quadrata ed è distinto sulla fiancata da tre linee di blocchi sovrapposti in orizzontale, mentre al di sopra e al di sotto aggettano lievemente le lastre di copertura e quelle di base. Entrambi i canali misurano all'interno m 1,14 di larghezza per 1,75 di altezza.

La sorgente Augusta (o Aqua Marcia) fu anche travasata nell'acqua Claudia quando la Marcia era piena; ma a volte anche la Claudia non poteva contenerla, e andava sprecata (Frontino ii.72).

ACQUEDOTTO CLAUDIO NEL PARCO DEGLI ACQUEDOTTI

I RESTAURI

Dopo il restauro di Vespasiano nel 71 d.c. seguì quello di Tito nell'anno 81, poi gli interventi successivi si riconoscono per le diverse tecniche murarie sovrapposte alla struttura originaria. 
Possiamo quindi riscontrare:
- l"'opera listata" del periodo flavio,
- l'opera mista del tempo di Traiano e di Adriano,
- l'opera laterizia dell' età severiana
- opera "vittata" del periodo tardo-imperiale,
- "rattoppi" d'epoca medievale, quando si perse tutta l'immensa bravura edile romana.


I modi:

- Il consolidamento degli archi venne realizzato con l'aggiunta di anelli o "sottarchi" interni, in opera laterizia e in qualche caso con il completo "accecamento" delle luci;
- il consolidamento dei pilastri fu invece realizzato, per lo più al tempo de Severi e in quello di Diocleziano o di Massenzio, con "fasciature" in laterizio e opera listata.
- Nel 399, Arcadio e Onorio promossero opere di protezione delle sorgenti dagli straripamenti dell'Aniene.

In età  moderna è spesso avvenuto che per riutilizzare i grandi blocchi lapidei squadrati sia stata smantellata la struttura originaria in opera quadrata e lasciata intatta quella dei rinforzi in laterizio cosicché all'interno di questi si conservano ora le sole impronte de blocchi asportati, talvolta per tutta l'altezza dei pilastri e fino agli archi.

Questa mostruosa opera di spoglio ben si vede nel tratto di arcuazioni che va da Tor Fiscale a Porta Furba, dove l'acquedotto è attraversato dalla via Tusculana. Oltre questa invece si trova un tratto di ben 1300 metri (per un'altezza di m 19-20) perfettamente conservato, sia nella struttura originaria sia in quella degli interventi di consolidamento e restauro.

E' noto nel mondo lo "spettacolo" creato dall'affiancamento all'Acquedotto Claudio delle arcate dell'Acquedotto Marcio: per circa 300 metri i due imponenti manufatti entrano perfino a contatto, in modo che il centro dei pilastri dell'uno viene a coincidere col centro degli archi dell'altro, mentre le comuni "fasciature" dei restauri finiscono per costituire un'unica colossale muraglia dello spessore d'una decina di metri.

Un punto caratteristico di questo tratto è quello di Tor Fiscale (Fiscale in quanto tesoriere del papa), con la trecentesca torre che s'innalza per una trentina di metri proprio al di sopra dei due acquedotti, il “colosso” dell’agro romano, l'icona delle vedute pittoresche dei migliori quadri dei viaggiatori europei che venivano a sospirare in Italia alla vista della bellezza delle antiche rovine.

VILLA DI FISHBOURNE

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PLASTICO DELLA VILLA
Il grande palazzo romano di Fishbourne sorge nel villaggio di Fishbourne, presso Chichester nel West Sussex, Inghilterra e venne edificato nel I secolo d.c., circa trenta anni dopo la conquista romana della Britannia, sul sito di un accampamento usato dai romani per i rifornimenti durante l'invasione iniziata nel 43 dall'imperatore Claudio.

Il palazzo era rettangolare ed era circondato, come era nell'uso romano, da giardini dal disegno simmetrico, la parte nord dei quali è stata ricostruita. Nel II e III secolo ci furono estese modifiche, con molti dei mosaici originali in bianco e nero ricoperti da più sofisticati mosaici colorati, incluso quello perfettamente conservato del delfino nell'ala nord. 

Altre modifiche erano in corso quando il palazzo subì un grave incendio attorno all'anno 280 d.c., a seguito del quale venne abbandonato.


Anche se gli abitanti del posto conoscevano già l'esistenza di resti romani nella zona, fu solo nel 1960 che l'archeologo Barry Cunliffe, oggi a capo del Museo di Londra, ed Emeritus Professore all'Università di Oxford, iniziò uno scavo sistematico nel sito, scoperto per caso da Aubrey Barrett, un ingegnere impegnato nella posa di un acquedotto. 

La villa romana che la squadra di Cunliffe stava portando alla luce era talmente grande che si iniziò a chiamarla Palazzo romano di Fishbourne; un museo venne poi costruito per preservare i resti archeologici in sito. L'amministrazione del museo è affidata alla Sussex Archaeological Society.

Per comprenderne le dimensioni, viene paragonato alla Domus Aurea di Nerone a Roma (che occupava 2,5 kmq, 80 ettari con i giardini) o la villa di Piazza Armerina in Sicilia (occupava 3,5 Kmq senza i giardini), per cui il conto non è facile. 

RICOSTRUZIONE DELLA FACCIATA PRINCIPALE
La pianta invece somiglierebbe nell'organizzazione a quella della Domus Flavia nel Palazzo di Domiziano sul Palatino a Roma. Fishbourne è di gran lunga la più grande residenza romana a nord delle Alpi, superando, con i suoi 150 metri di lato, anche Buckingham Palace.

L'attuale museo incorpora gran parte dei resti visibili, inclusa un'intera ala del palazzo. I giardini sono stati ripiantumati utilizzando piante del periodo romano. Una squadra di volontari e archeologi professionisti è ancora impegnata in ricerche e scavi nei dintorni, sul sito di quelli che sembrano essere edifici militari. 

L'ultimo scavo è del 2002. Fra i resti anche un caldarium, un tepidarium, un frigidarium ed un ipocausto, il quale non fu completato a seguito dell'incendio del 280 d.c..

RICOSTRUZIONE DEGLI AMBIENTI


IL PROPRIETARIO DELLA VILLA

Sul proprietario del palazzo-villa si sono ipotizzate varie teorie. La prima e più accreditata è quella dell'archeologo britannico Barry Cunliffe, secondo il quale nella sua prima fase costruttiva il palazzo era la residenza del principe Cogidubno, citato nell'Agricola di Tacito (De vita et moribus Iulii Agricolae) e in una iscrizione commemorativa del tempio di Nettuno e Minerva trovata nella vicina Chichester. 

Altre teorie fanno riferimento a Sallustio Lucullo, Verica (un re cliente già da prima dell'invasione del 43), ed infine un certo Tiberius Claudius Catuarus, il cui sigillo a forma di anello d'oro fu trovato nel 1995 nelle vicinanze.

Sallustio Lucullo fu un generale romano, governatore della Britannia nel tardo I secolo, dopo Gneo Giulio Agricola, anche se non si sa se gli succedette direttamente, oppure se tra loro due ce ne sia stato un altro a noi sconosciuto. Da evidenze epigrafiche sembra che discendesse da un britanno.

Secondo Svetonio fu condannato a morte dall'imperatore Domiziano (51 - 96) perché aveva dato il suo nome e non quello dell'imperatore Domiziano a una nuova lancia di sua invenzione.

Ora sappiamo che Chichester e la vicina villa romana a Fishbourne, che per alcuni era il palazzo di Cogidubno, erano parte del territorio degli Atrebati, una tribù belgica della Gallia e della Britannia prima della conquista romana della Britannia. 


Cogidubno potrebbe essere stato erede di Verica, il re atrebate detronizzato nella prima metà del I secolo.  Dione Cassio (155 - 235) narra che "Berico" (Verica) fu espulso dalla Britannia durante una rivolta scoppiata nel I secolo d.c. Verica allora chiese aiuto all'imperatore romano Claudio, che approfittò di ciò per invadere l'isola col suo esercito. 

Dopo l'invasione, Verica potrebbe essere stato rimesso sul trono, anche se non ne abbiamo le prove. Comunque sia, come re della regione molto presto comparve Cogidubno, un principe britanno, sovrano della tribù celtica dei Regnensi della Britannia del I secolo d.c., che potrebbe essere stato erede di Verica, che a quel tempo era di certo molto vecchio.

Il sovrano dei regnensi era Tiberio Claudio Cogidubno,  un nativo a cui era stata data la cittadinanza romana da Claudio Nerone, come si attesta in un'iscrizione del I secolo trovata a Chichester. In molti manoscritti dell'Agricola di Tacito (opera della fine del I secolo) il suo nome appare come Cogidumno, come Togidumno solo in uno.


Tacito dice che aveva governato su molte civitates come fedele re cliente di Roma almeno fino agli anni settanta del I secolo. Cogidubno era forse un parente di Verica, il re atrebate che era stato spodestato con una scusa dopo la conquista. 

Dopo la morte di Cogidubno, il regno sarebbe stato incorporato direttamente nel territorio della provincia e diviso in diverse civitates, tra cui Atrebati, Belgi e Regnensi.

La teoria secondo cui Cogidubno divenne un legato, rango che veniva dato solo ai senatori, si basa su un'iscrizione danneggiata proveniente da Chichester in cui si legge:
Cogidubni regis legati Augusti in Britannia ("re e legato imperiale in Britannia").
Molto più probabilmente l'iscrizione va letta così:
Cogidubni regis magni Britanniae, cioè "grande re della Britannia"


Dopo la conquista romana, gli Atrebati entrarono a far parte della civitas dei Regnensi, che faceva probabilmente parte del regno di Cogidubno prima di essere inglobato nella provincia romana. Le vestigia romane di Silchester, un villaggio noto per i resti archeologici del vicino insediamento romano di Calleva Atrebatum, occupata dai Romani nel 45, furono probabilmente costruiti al tempo di Cogidubno.

Gli scavi degli anni Settanta del XX secolo nel Calleva Atrebatum, che furono eseguiti dall'Università di Reading, riportarono alla luce l'anfiteatro, il foro, le terme, la basilica, un'insula e numerosi reperti dell'epoca pre-romana e romana.



L'ISCRIZIONE DI CHICHESTER

Di Cogidubno parla l'iscrizione danneggiata trovata a Chichester nel 1723 e databile alla fine del I secolo. Secondo la ricostruzione di J.E. Bogaers l'epigrafe sarebbe questa:


[N]EPTVNO·ET·MINERVAE
TEMPLVM
[PR]O·SALVTE·DO[MVS]·DIVINA[E]
[EX]·AVCTORITAT[E·TI]·CLAVD·
[CO]GIDVBNI·R[EG·MA]GNI·BRIT·
[COLE]GIVM·FABROR·ET[·Q]VI·IN·E[O]
[SVNT]·D·S·D·DONANTE·APEAM[...]ENTE PVDENTINI·FIL

"La corporazione degli artigiani e i suoi membri provvidero (questo) tempio di Nettuno e Minerva a loro spese per proteggere la casa divina durante il dominio di Tiberio Claudio Cogidubno, grande re dei Britanni. [...]dens, figlio di Pudentino, donò il terreno"

Nell'iscrizione di Chichester, le prime due lettere del nome nativo del re, in genitivo, sono andate perdute. Di solito lo si ricostruisce come Cogidubno, seguendo la maggior parte dei manoscritti di Tacito. 


Tuttavia, alcuni studiosi, tra cui Charles E. Murgia pensano che sarebbe più corretta linguisticamente la forma Togidubno. I nomi romani Tiberio Claudio indicano che aveva ricevuto la cittadinanza romana dall'imperatore Claudio, o forse da Nerone, mentre è poco probabile l'ipotesi suggerita da alcuni secondo cui ci sarebbe una relazione con Claudia Rufina, una donna britannica del cui matrimonio con Auluo Pudente a Roma negli anni novanta del I secolo parla il poeta Marziale.

Questo personaggio fu più o meno contemporaneo al re dei Catuvellauni (tribù celto-belgica) Togodumno, di cui parla Dione Cassio (155 - 235), che però morì all'inizio dell'invasione romana della Britannia.

Le somiglianze dei loro nomi hanno indotto alcuni studiosi, tra cui l'illustre archaeologo Barry Cunliffe, a ipotizzare che si tratterebbe della stessa persona e che quindi il re di Fishbourne era un figlio di Cunobelino e fratello di Carataco. 

Le fonti non supportano però quest'ipotesi: secondo Dione, Togodumno fu ucciso nel 43, quindi all'inizio della conquista romana, mentre Tacito afferma che Cogidubno rimase fedele re cliente di Roma fino alla seconda metà del I secolo. Ciò implicherebbe un errore nella trasmissione del testo.

LA DECORAZIONE
Secondo Barry Cunliffe, il palazzo romano a Fishbourne sarebbe stato la sede di Cogidubno. Il dottor Miles Russell ha invece suggerito che sarebbe stato costruito per Sallustio Lucullo, proconsole romano della Britannia nel tardo I secolo, forse figlio del principe britannico Adminio, legato di Domiziano che lo fece poi mettere a morte.
Claudio, primo imperatore non italico e primo ad essere scelto dalle guardie pretoriane, nato in terra gallica nella antica Lugdunum (moderna Lione), rispondendo alla richiesta dell’alleato re Atrebate Verica, decise di intervenire in Britannia. 

Egli era al comando di quarantamila soldati, legionari e ausiliari e portava con sé perfino sedici elefanti. I Romani avevano imparato ad addomesticare la forza di quei possenti animali, da secoli, dopo le sconfitte patite da parte di Pirro e del punico Annibale, 

Le numerose sollecitazioni che arrivavano nell’Urbe aeterna con una certa regolarità dalla lontana isola britannica, erano rimaste per circa mezzo secolo inascoltate. il susseguirsi di questi accadimenti dimostra già senza dubbio un legame intenso e antecedente allo sbarco del 43 AD tra le tribù della Britannia e i Romani.

Per quanto riguarda la conquista vera e propria, anche ciò che viene tramandato a proposito degli Archi di trionfo può aiutarci, e a proposito degli Archi eretti dall’imperatore Claudio abbiamo varie notizie e reperti, soprattutto nel Museo del Louvre e nel Museo Capitolino. 

Svetonio parla di un Arco eretto per celebrare la romanizzazione “di quei popoli al di là di Oceanus senza spargimento di sangue”. Cassio Dione ci dice che un Arco di Claudio fu edificato in Gallia nella antica Gesoraicum (Boulogne) “perché fu da quel paese che salpò per le terre britanniche”, dove in seguito undici delle diciassette tribù presenti sull’isola strinsero formalmente rapporti di alleanza con Roma.


L’importanza della romanizzazione della Britannia è del resto testimoniata sia dalla decisione del Senato di celebrare l’evento attraverso l’istituzione di feste annuali e triumphalia ornamenta, sia dalla presenza dell’Arco sulle monete dell’epoca, prima allusione alla Britannia su monete romane.

D’altronde, sempre a proposito del luogo preciso dello sbarco, sappiamo che Cesare aveva lamentato la difficoltà che aveva incontrato, circa cento anni prima dell'età claudiana, durante il difficile approdo sulle poco accoglienti coste del sud est nel Kent, che costituivano il punto più vicino tra la Francia e la Gran Bretagna, dove navi e uomini erano repentinamente naufragati. 

Cesare aveva notato che le navi dei Britanni avevano un fondo piatto che consentiva di affrontare meglio le basse e le alte maree, imprevedibili e non certo frequenti nel Mare Nostrum. Di tutto ciò dovette tener conto l'imperatore Claudio.

Per l’imperatore un nuovo punto di approdo era quindi necessario non solo dal punto di vista strategico, ma anche da quello pratico, visto che da questo luogo sarebbe riuscito a visitare Verica direttamente nel territorio degli Atrebati e avrebbe potuto così aiutarlo meglio nel suo reinsediamento sul trono.

IL MAIALE CERCATORE DI FUNGHI
Dunque furono soprattutto le reiterate suppliche dei Britanni che fecero maturare la decisione dell’invio della flotta al comando “del distinto senatore Claudio”. Invio celebrato poco dopo dalla edificazione proprio del ricordato Fishbourne Palace, che ci appare così suggello dell’alleanza tra i Romani e la tribù britannica Atrebate. 

Una residenza reale che gareggiava per lusso con le più famose ville del suolo italico, formata da un centinaio di stanze, molte delle quali ornate con raffinati mosaici che rappresentavano storie mitologiche che favoriscono la diffusione di una mitologia comune che si va allargando dal nord Europa al mondo greco-romano.

Lo stesso ci dicono le circa centosessanta maestose colonne in pietra che supportavano il tetto di questo edificio composto da oltre cento tonnellate di tegole importate dalle terre del Bel Paese. Importata e scolpita in territorio romano appare anche una statua ritrovata nella villa che potrebbe essere di Cogidubnus, (“fedele fino ai nostri giorni” di lui dice Tacito) re britannico reinstallato sul trono e da alcuni identificato come il figlio di Verica, che aveva richiesto aiuto all’imperatore Claudio.

Infine dalle ultime teorie di emeriti accademici di Oxford (Martin Henig) e le recenti scoperte archeologiche nel centro sud della Gran Bretagna (Francis Pryor) si evince che i Romani sbarcarono pacificamente in un ambiente e in un territorio alleato da tempo e a loro certamente più familiare (Chichester), dove conoscevano personalmente il re Verica per il quale costruirono il monumentale palazzo di Fishbourne, primo esempio di tecniche architettoniche ancora sconosciute ai Britanni.

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