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LUCUS FERENTINAE

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DEA FERENTINA

"Hercoli quaerenti nulla erant signa ad speluncam ferentia"
(nella sua ricerca Ercole non trovò segni della spelonca ferenzia)
(Virgilio - Eneide)

Nel Latium risiedevano almento tre boschi sacri, tre lucus: quello di Diana Nemorense presso Aricia, quello di Ferentina sotto il monte Albano e quello di Diana a Corne presso Tuscolo, tutti siti extraurbani, ma nei pressi di importanti centri latini. 

L’uso di boschi sacri come luoghi di riunioni politiche ο militari è estremamente arcaico ed ha riscontri anche a Roma, forse perchè qualsiasi patto di alleanza o accoglienza aveva valore di giuramento se fatto nel luogo sacro dedicato alla Grande Dea che anticamente regnava nei boschi.

Tarquinio il Superbo, di certo pessimo re, fu però ottimo generale dell'esercito e avrebbe convocato e presieduto un’assemblea generale dei Latini, "ad lucum Ferentinae", cioè nel bosco sacro della Dea Ferentina, in cui, come riferisce Livio, riuscì alla fine a sottometterli e a farsi nominare “rex nominis Latini” (o “rex Latinorum”). Fare un patto in un lucus significava invocare la Dea per il giuramento di fedeltà al patto, chi tradiva il patto incorreva nelle ire della Dea del lucus.

L’asylum romano, quello dove i romani accolsero la feccia dei paesi limitrofi, insieme ai dissidenti e ai perseguitati, onde avere più soldati pronti a difendere Roma, sembra collegato all’ingresso al colle capitolino presso il tempio di Saturno, altro posto sacro ai giuramenti. 

Una notizia di Mario Servio collocava sotto di esso le ossa di Oreste, figlio di Agamennone e di Clitennestra, nonchè fratello di Elettra e di Ifigenia, che furono trasferite da Aricia; particolare che per alcuni si spiega con le tradizioni mitiche che ponevano sul Campidoglio i Sabini, discendenti, secondo alcuni, dagli Spartani.

Secondo Eschilo, invece, vi fu un processo ad Atene dove Apollo (ispiratore dell'assassinio dei due amanti Egisto e Clitennestra) difese Oreste mentre le Erinni lo accusarono. I voti della giuria furono pari ma Atena, in quanto presidente dell'Areopago, diede il suo voto in favore di Oreste, giudicando la morte della madre meno importante di quella del padre; quindi il trapasso da matriarcato a patriarcato.

Il trasferimento delle ossa di Oreste ad Aricia, il bosco sacro della Dea Diana, testimonia pertanto un mutamento dei costumi verso il potere maschile, potere prima largamente tenuto dalle sacerdotesse.

DEA FERENTINA IN TRONO (?)

IL SITO DEL LUCUS

Il Locus Ferentinum o Lucus Ferentinum, o semplicemente Ferentinum, era Ferento, Ferentino o Foro della Ferentina), cioè la sede delle riunioni periodiche della Lega Latina dopo la distruzione della capitale latina di Alba Longa nel VI secolo a.c.

Il suo sito, cioè il bosco sacro dei Colli Albani in provincia di Roma, dove si riuniva la federazione delle città della Lega Latina è stato individuato da Christian Mauri, docente di Archeologia presso l’Università “Unitre” di Albano Laziale, con Cecchina, nell'area dei Castelli Romani.

Il sito era stato finora collocato comunemente presso Marino, anche se recentemente e sebbene le memorie riguardanti il Locus Ferentinum non siano anteriori alla distruzione di Alba Longa, lo storico ed archeologo ottocentesco marinese Girolamo Torquati (1828 - 1897) ha ipotizzato che il Ferentinum possa essere stato il Forum dell'antica capitale latina.

Il Torquati, supportato dall'archeologo romano Antonio Nibby (1792 - 1839), collocherebbe Alba sul lato orientale del lago Albano ai piedi del Monte Cavo, interpretando alla lettera la definizione di Dionigi di Alicarnasso, che parla della capitale latina come fondata "vicino ad una montagna e ad un lago, occupando lo spazio tra i due".

"Perciò Ferentinum si sarebbe trovato all'esterno della città, ma sufficientemente vicino a questa per poter essere il suo foro: l'usanza di costruire il foro esterno alla città era comune anche ad altre popolazioni italiche e si riscontra in altri siti archeologici. Ad oggi comunque l'opinione più comune colloca sul lato meridionale del lago, tra il Colle dei Cappuccini presso Albano Laziale ed il "Convento di Santa Maria ad Nives di Palazzolo", nel comune di Rocca di Papa. 

Il toponimo è collegato al culto della Dea indigetes Ferentina, venerata come divinità dell'acqua e della fertilità presso il bosco Ferentano, che ancora mantiene il suo nome. Il nome di "Ferentina" deriverebbe dal verbo latino "fero, produco", sicché è traducibile "colei che è fruttuosa". 

Nella strada che sale dalla valle della Ferratella e sale alla piazza della Navicella, e che dicesi Via delle Mole, conduce alla Porta che, essendo nella direzione del celebre luco di Ferentino presso la città di Marino, dove i latini adunavano la loro dieta, ebbe perciò il nome di Porta Ferentina, e viene nominata da Plutarco nella Vita di Romolo c.XXIV, dicendo che quel fondatore purificò con lustrazioni la città, e che quelle cerimonie dicevansi essere le stesse di quelle che, ai suoi dì, facevansi alla Porta Ferentina."

(Antonio Nibby - Roma 1838)

La prima nomina del Locus Ferentinum è a causa di una riunione convocata nel 651 a.c. dai rappresentanti della Lega Latina per discutere del crescente strapotere di Tarquinio il Superbo. Nel primo giorno di riunione, assente Tarquinio, il delegato di Aricia, Turno Erdonio, tenne un violento discorso contro il sovrano romano, che non appena arrivò pensò bene di punire l'aricino facendolo gettare da una rupe nella vicina sorgente del Caput Aquae Ferentinum, e poiché non era morto ordinò ai suoi schiavi di lapidarlo.
Altre riunioni della Lega Latina si tennero a Ferentinum nel 500 a.c., nel 499 a.c., nel 498 a.c., nel 488 a.c. ed infine nel 347 a.c. Le riunioni riguardavano i centri di:
- Latium adiectum
- Castriminium
- Vulturnum
- Casinum Aquinum,
- Fregellae,
- Arpinum,
- Verulae,
- Fabrateria_Vetus,
- Setia,
- Norba,
- Astura,
- Lavinium,
- Tolerium,
- Suessa Aurunca,
- Teanum_Sidicinum,
- Anxur Ferentinum,
- Aricia,
- Antium,
- Samnium Latium vetus.


La riunione, in località Prato della Corte, oggi in parte distrutta ed in parte venduta dagli scopritori, alcuni locali intonacati, identificati dallo storico ed archeologo Girolamo Torquati con le abitazioni dei delegati della Lega Latina, infine una fontana ricca di ornamenti, quasi sicuramente collegata al vicino acquedotto di Pozzo Calvino sito in comune di Grottaferrata, ed altri resti riconducibili ad una villa romana di età imperiale appartenente alla gens Servilia, come testimoniato da una smozzicata epigrafe ivi rinvenuta
«SERVILIA QE[...]
NATA IULIA ANN[...]
AMATA A PATRE»
«Servilia nata Giulia amata dal padre»


ACQUEDOTTO ROMANO

CECCHINA

Cecchina fu abitata dall'età del Bronzo fino all'età repubblicana, con il nome di Lucus Ferentinae (il bosco sacro di Ferentina). In questo luogo venne ucciso alla fine del VI secolo a.c., al tempo di Tarquinio il Superbo, il delegato aricino all'assemblea della Lega, Turno Erdonio, che osò opporsi al volere del superbo re di Roma che lo fece affogare in un fosso.

Le tombe a fossa restituirono circa 20 scheletri ammassati tra loro e privi dei crani, i quali vennero rinvenuti in una fossa circolare a parte, segno evidente di un'esecuzione capitale, che potrebbe riguardare gli uomini coinvolti con Erdonio nella ribellione a Tarquinio,  in occasione di una riunione della Lega Latina alla fine del VI secolo a.c., a causa della sua opposizione nei confronti del re di Roma.

A breve distanza si trova lo sbocco dell'emissario di Nemi a Cecchina, riconoscibile con il caput aquae Ferentinae riportato dagli storici e presso il quale venne ucciso Turno. Da segnalare infine il celebre tempio di Valle Ariccia, rinvenuto subito al di sotto del costone di tufo di Via Perlatura, nel lato verso Cecchina, il quale ha restituito le bellissime statue in terracotta di tre divinità femminili Cerere Proserpina ed appunto Ferentina, oggi conservate nel Museo delle Terme a Roma.

Nella parte di nord-est della spianata identificata con il sito archeologico furono rinvenuti fibule di metallo e vasi di terracotta, il tutto oggi disperso o peggio distrutto. L'analisi archeologica e topografica compiuta a Cecchina ha evidenziato qui la presenza di un abitato a costante continuità di vita dall'età del Bronzo fino all'età repubblicana, il cui confronto con le fonti letterarie ha permesso di identificare con l'antica Ferentina. 

Questa cittadella sorgeva fin dall'epoca arcaica all'interno del territorio di Ariccia ed a non molta distanza dalla città volsca di Corioli (oggi Monte Giove). Tra gli importanti ritrovamenti archeologici effettuati a Cecchina nel corso del Novecento ricordiamo l'abitato dell'età del Ferro venuto alla luce negli anni settanta lungo Via Perlatura e la necropoli arcaica di Via Lazio, rimasta inedita per molti anni. 

Non lontano da Cecchina è la località di Montagnano (frazione di Ardea), in cui sono emersi molti reperti di età preistorica (conservati nel Museo Civico di Albano) ed una tomba a pozzo del IX secolo a.c. (oggi nel Museo di S. Scolastica a Subiaco). Il nome deriva dall'antico villaggio di Giano, riportato da Virgilio nell'Eneide (VII, 601-622) ai tempi dello sbarco di Enea nel Lazio. 

Nel Medioevo sorse sul luogo il Casale di Monte Giano (oggi Tor di Sbarra), in località Monte Jani, da cui deriva il nome Montagnano. Non lontano verrà aggiunto nel Cinquecento il bel mulino di Montagnano, alimentato dalle acque dell'emissario di Nemi.

Si reputa trattarsi del villaggio di Giano citato da Virgilio, ai tempi dello sbarco di Enea nel Lazio e vicino a cui si ergeva un tempietto dedicato a Giano. Il re Latino avrebbe dovuto, secondo le regole, aprire le porte del tempio, chiuse da sbarre di bronzo e dichiarare guerra ai Troiani, ma invece volle accogliere i profughi.

La località, fino al Medioevo, veniva chiamata Monte Jani, cioè Monte di Giano, è un peccato che non sia stato ripristinato il nome primevo. Molti nomi in Italia dovrebbero essere riportati alla loro origine, troppo spesso sopraffatti da nomi di santi o addirittura di uomini politici.

In epoca romana intorno a Cecchina sorsero molte ville romane, tra cui la più importante fu la villa del console Memmio Regolo in località Le Cese, dove sono state rinvenute molte statue, tra cui un Sileno con pantera (oggi ai Vaticani) ed una statua colossale di Artemide. 

LUCUS FERENTINAE VICINO MARINO
Altra villa fu quella di Senecianus presso il casale della Pagliarozza, che ha restituito molto materiale, tra cui i resti di un cornicione romano e tegole con bolli. Da segnalare soprattutto le molte ville di liberti imperiali del II secolo d.c. in località Cancelliera. 

Per ultima la cosiddetta villa di Flavio Fileconzio in Via Perlatura, con sottostante criptoportico, di cui rimangono oggi un mosaico ed alcune strutture in opera incerta. Notevoli anche i mosaici di una villa romana in Via Tor Paluzzi.

Nel quadro di tanta bellezza si conserva il bosco sacro di Ferentina, ritenuta dai più Dea delle acque, una Dea decisamente arcaica, il cui nome, anche se un po' addolcito nel diminutivo, rimanda alla Dea delle fiere (Dia Ferae, dal termine latino fera ferae = fiera o belva), corrispondente all'antica Potnia Theron, la Signora delle Belve, come dire la Dea della Natura Selvaggia. Tutto parte da lei e riporta a lei, e il bosco con la sua semioscurità ben la rappresenta.

Il bosco sacro non poteva essere toccato, nessuno poteva uccidere un animale o tagliare un ramo, se non nelle feste sacre dove i sacerdoti staccavano i rami consegnandoli alla popolazione che li conservava come rami benedetti. Un po' come la Domenica delle Palme, ma non dobbiamo scomodare culti stranieri per capire le nostre radici, i lucus pullulavano nel suolo italico, onorati e venerati da ogni popolo italico. .




LUCIO BALBO MINORE - L. CORNELIUS BALBUS

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LUCIUS CORNELIUS BALBUS

Nome: Lucius Cornelius Balbus
Nascita: non prima del 60 a.c. Cadice
Morte: dopo il 13 a.c.
Zio: Lucio Cornelio Balbo Maggiore
Gens: Cornelia


Capitò che la notizia del suo arrivo in città giungesse proprio in quei giorni in cui Cornelio Balbo stava celebrando degli spettacoli in onore della consacrazione del teatro che ancora oggi porta il suo nome; per questo Balbo assunse un atteggiamento altezzoso, come se spettasse a lui riaccompagnare Augusto nella capitale, sebbene, a causa dell’innalzamento del livello dell’acqua dovuto allo straripamento del Tevere, non si potesse neppure entrare nel teatro se non con un’imbarcazione, e Tiberio diede il suo voto a lui per primo in onore del teatro che aveva fatto costruire. 
(Cassio Dione, LIV, 25, 2)
Cassio non ama Balbo che non risulta altezzoso in altre fonti, ma che sicuramente era grande amico di Cesare prima e di Augusto poi. Lucio Cornelio Balbo, ovvero Lucius Cornelius Balbus, nacque a Cadice, in Spagna in data anteriore al 60 a.c., apparteneva alla Gens Cornelia ed era nipote del console del 40 a.c., Lucio Cornelio Balbo maggiore.

Venne definito l'homo novus dell'epoca augustea, pur facendo parte della più autorevole e abbiente aristocrazia cittadina dell'antica Roma. Fu l'ultimo personaggio non legato alla famiglia imperiale a celebrare un trionfo.

Fu rinomato pensatore e letterato, politico e uomo d'azione. Ma fu pure un grande generale e un eccezionale esploratore. Non fu assolutamente da meno di Lawrence d'Arabia, per il famoso attraversamento del deserto sahariano, ma ai tempi della Repubblica Romana. Da ricordare poi le numerose campagne militari, tra le quali in qualità di proconsole d'Africa nelle terre prima dei Getuli e poi dei Garamanti nel 20 a.c. nella Libia sahariana.

Infatti Cesare lo aveva designato già all'epoca questore nella Spagna ulteriore (43 a. c.). Nel 21-20 invece fu designato da Augusto proconsole in Africa dove condusse una spedizione contro i Garamanti, riportando il trionfo nel 19.

RESTI DEL TEATRO

A ROMA

Lucio Balbo, .banchiere ed amico di Augusto, costruì poi un nuovo teatro a Roma: il teatro di Balbo con l'annessa Crypta Balbi (nel 13 a.c.). Il monumento venne costruito in pietra, con il bottino della sua vittoria sui Garamanti e dedicato nel 13 a.c..

Lo fece edificare nel settore Sud Est del Campo Marzio, nella IX Regio, all’interno dell’area ove, nel 435 a.c., era stata edificata la Villa Publica, ossia un parco con edifici templari dove, ogni cinque anni, aveva luogo il censimento del popolo romano. L’area, così come il resto dell’Urbe, dall’età Repubblicana all’epoca augustea aveva subito modifiche e all’epoca di Balbo vi erano già stati costruiti numerosi altri edifici e quindi fu necessario sfruttare al meglio lo spazio a disposizione.

Balbo era favorito da Augusto e doveva favorire Augusto, che chiedeva ai ricchi in genere, e soprattutto ai suoi beneficati, non privilegi per la sua famiglia o per se stesso, ma opere monumentali per Roma a titolo gratuito, per sostituire la città di mattono con la città di marmo, come scrisse nelle sue Res Gestae.

Così Lucio decise di far costruire un nuovo teatro stabile che divenne il terzo della città, dopo quello di Pompeo e quello quasi contemporaneo, iniziato da Cesare e poi completato da Augusto, dedicato a Marcello. Era il più piccolo dei tre ma non per questo meno ricco: Plinio in un passo (Nat. Hist. XXXVI, 60) ricorda che Balbo pose nel suo teatro quattro piccole colonne di prezioso onice (namque pro miraculo insigni quattuor modicas in theatro suo Cornelius Balbus posuit), secondo altri le colonne sono sei però Plinio ne cita quattro, colonne che naturalmente furono trafugate o distrutte alla caduta dell'impero.

CRIPTA BALBI
Il teatro venne poi distrutto da un incendio durante il regno di Tito (probabilmente nel 79), ma venne in seguito restaurato, si pensa da Domiziano. Durante il medioevo vi furono installati dei negozi, e la via che vi passava davanti prese il nome di via delle Botteghe Oscure. Secondo altri il teatro era sopra via Arenula, ma la via deve il nome alle botteghe commerciali e artigiane prive di finestre, quindi oscure, che durante il Medioevo albergavano tra le rovine del Teatro di Balbo di cui ancora spuntavano gli archi semisepolti.

Il teatro poteva ospitare 7700 spettatori, e ne restano oggi tracce in opus quadratum e reticulatum della parte inferiore della cavea; alle spalle del teatro era la "porticus post scaenam", la Crypta Balbi.

Sulla Cripta vennero insediati in gran fretta siti cristiani: prima la chiesa-convento di Santa Maria Domine Rose, con il suo orto e gli annessi, poi il convento di Santa Caterina con annesso Conservatorio, poi l'ancora esistente chiesa di San Stanislao e l'annesso ospizio dei Polacchi che non sia oggi quale funzione abbia.



IL PRECURSORE DI LAWRENCE D'ARABIA

Lucio Cornelio Balbo, progettò di conquistare le terre africane abitate, affrontando (per la prima volta da parte di un romano o da un europeo) il deserto implacabile. Infatti partì da Sabrata, città del nord-ovest della attuale Libia, conducendo un esercito di una decina di migliaia di uomini nel profondo del deserto del Sahara,

Il Sahara è il più vasto deserto caldo della Terra, con scarsissime precipitazioni atmosferiche, forte siccità, rapidissima evaporazione, escursioni termiche fra giorno e notte fino a 25–30 c., temperature diurne che raggiungono i 45 °c e i 50 °c di media.

I cavalli non possono resistere a certe temperature, ma soprattutto affondano gli zoccoli nella sabbia, e idem per i muli. L'unico modo di traversare il deserto era con i cammelli, ma ovviamente i fanti , la parte più estesa dell'esercito, restavano a piedi. 

TRUPPE CAMMELLATE ROMANE

IL DESERTO LIBICO

I Garamanti vivevano di commercio che svolgevano tra la regione Subsahariana (attuali stati del Niger, Ciad, Sudan, Mali, Burkina Faso, Benin) ed i possedimenti mediterranei greci (Cirene, Philaimon Bomoi) e pure con Cartagine, cui subentrò Roma dopo la III guerra punica.

Siccome il dazio dei nomadi sulle merci in transito era molto pesante, i commercianti italici richiesero una spedizione militare contro i Garamanti per liberarsi dalle gabelle. La spedizione romana avrebbe conquistato Garama, capitale del regno dei Garamanti, avrebbe eliminato i tributi dovuti ai nomadi del Sahara, e magari conquista delle piste carovaniere da parte dei Romani.

Queste spedizioni portarono i Romani nel Sahara e pure al di là del Sahara in quelle terre che le carte geografiche rinascimentali riporteranno con la famosa dicitura "Hic sunt leones", dicitura in realtà romana più antica che segnava le belve feroci per i circhi, ma usata poi da alcune legioni stanziate che si autodefinivano "leones" cioè leoni.

Cornelio Balbo ebbe la genialità tutta romana di pianificare l'enorme viaggio. Si procurò le mappe esistenti, non molte in verità, ma ne ordinò ai suoi "speculatores" (spie) ed esploratores (esploratori) che partirono per il deserto cercando guide e gente disposta ad aiutarli in cambio di merci e danaro. 

Alcuni "speculatores" avevano un aspetto arabo o lo erano realmente ma al servizio romano, per cui si infiltravano e raccoglievano notizie, in genere seguendo delle carovane ma talvolta in piccoli gruppi il che era piuttosto pericoloso, ma erano disposti a rischiare.

Questi si preoccuparono di reperire le mappe e di eseguirne di nuove per i luoghi inesplorati, raccolte le notizie necessarie e le mappe, acquistarono un certo numero di cammelli e di campionatura di cibo con cui fecero ritorno al campo. Balbo potè così pianificare il viaggio. Fece insegnare agli ufficiali e soprattutto ai cavalieri a cavalcare e a guidare i cammelli, poi fece cucinare i vari cibi ai legionari in modo che potessero scegliere le materie prime che fossero accettabili e in grado di nutrirli sufficientemente.

Dopo la pianificazione gli emissari acquistarono i restanti cammelli, i contenitori per l'acqua in pelle che dovevano in grandi quantità ma non troppo pesanti, nonchè le fasciature per non scottare i piedi sulla sabbia bollente e tela per coprire il capo. Poi si preoccuparono del vettovagliamento a base soprattutto di farina, carne secca, pesce secco, legumi e gallette.

Nel Sahara mancano totalmente corsi d'acqua e quindi l'idrografia è rappresentata da una rete di valli disseccate e di fiumi fossili (arabo widyān, pl. di wādī, "fiume" o "letto del fiume") orientati verso il Niger, il Ciad, e il Nilo, nei quali scorre l'acqua solo in caso di piogge eccezionalmente abbondanti. 

Balbo cercò di alleggerire al massimo il carico dei legionari caricando al massimo i cammelli, visto che non si potevano usare i carri per cui l'equipaggiamento di ogni singolo legionario non era la solita armatura in metallo con elmo in metallo, che sarebbero diventati roventi nel caldo torrido, ma anche lo zaino venne alleggerito perchè era impossibile costruire campi fortificati tra le dune di sabbia. Conservavano però i pali aguzzi che facevano da cavallo di frisia attorno al campo.

Così attrezzati l'esercito di 10000 legionari di  Lucio Balbo Minore partì per Cydamus (oggi Gadames, Libia occidentale, situata nei pressi del confine con l'Algeria e la Tunisia,) centro che raggiunse dopo una marcia di circa 550 km, cercando però di marciare nelle ore più fresche, cioè all'alba e al tramonto, sostando nelle tende durante il caldo più torrido.

IL DESERTO DEL SAHARA
Giunto a Gadames l'esercito sostò e si rifocillò, razziando probabilmente nell'oasi, dai campi alle abitazioni. Poi il viaggio proseguì piegando ad angolo retto verso sud per altri 650–700 km attraverso l'Hamada el-Hamra (un deserto assolutamente roccioso), ed infine riuscendo ad occupare i più importanti centri della regione (come Debris e Baracum nell'odierno distretto di Wadi al-Shatii e Tabidium) e la capitale dei Garamanti, Garama (oggi Germa).

I Garamanti (in latino Garamantes) erano una popolazione di lingua berbera che abitava nel Sahara. Fondarono un regno nella regione del Fezzan (nell'attuale Libia, di 700 000 km², confina a nord con la Tripolitania, a ovest con l'Algeria, a sud col Niger e il Ciad e ad est con la Cirenaica.) e costituirono una potenza regionale nel Sahara all'incirca tra il 500 a.c. e il 500 d.c.

Garamanti è la forma grecizzata Garamantes, adottata anche dai Romani, un nome probabilmente derivato da Garama, la loro capitale, citata da Plinio il Vecchio (V, 36) e da Tolomeo (IV, 6, 12), e corrispondente all'attuale Germa (circa 150 km ad ovest della città di Sebha).

Da qui potrebbe avere, inoltre, inviato una spedizione esplorativa fino nel Fezzan, forse raggiungendo l'ansa del fiume Niger. Il Fezzan è una regione della Libia nel cuore del deserto del Sahara, ha una superficie di circa 700 000 km² e confina a nord con la Tripolitania, a ovest con l'Algeria, a sud col Niger e il Ciad e ad est con la Cirenaica. La maggior parte del territorio è costituita da un deserto di sabbia, ciottoli o rocce. Al suo interno vi sono delle oasi abitate perlopiù da berberi.

I Romani non conquistarono mai il Fezzan, anche se intrattennero intensi scambi commerciali con i Garamanti e intrapresero alcune spedizioni come quella di un certo Iulius Maternus che intorno alla fine del I secolo a.c. ripetè le prodezze di Balbo, attraversando il deserto fino ai territori degli "Etiopi" (cioè popolazioni di pelle nera, il Sudan).


Biblio:
- Cassio Dione - Storia romana - LIV.
- Svetonio - Vite dei Cesari - Augusto.
- Tacito - Annales - III.
- Plinio il Vecchio - Naturalis Historia - V.
- Fasti triumphales.

GENS HOSIDIA

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MONETA DELLA GENS HOSIDIA
La gens Hosidia era una famiglia romana di cui abbiamo traccia durante l'ultimo secolo della Repubblica e fino ai tempi imperiali. Il più illustre delle gens, Gnaeus Hosidius Geta, ottenne il consolato nel 47 d.c.


Oplaco Hosidio

Fra i tanti condottieri della gente Hosidia, di stirpe Histoniense, spicca il nome del guerriero Oplaco Hosidio, protagonista di un epico avvenimento durante la guerra fra Roma e il re Pirro, nella battaglia di Eraclea. Figlio di Eraclide, re di Epiro, Pirro venne in Italia, in aiuto a Taranto, città della Magna Grecia, in guerra contro Roma.

Pirro sbarcò a Taranto nella primavera dell'anno 280 a.c., forte di un esercito di 25 mila uomini e 20 elefanti. I Romani opponevano due legioni con 20 mila armati, di cui faceva parte un contingente frentano, al comando di Publio Valerio Levino.

Lo scontro avvenne presso Eraclea, all'imboccatura del fiume Sinni, e i romani ressero all'urto delle falangi epirote, quando, improvvisamente comparvero gli elefanti bardati di pesanti armature su cui erano posti nuclei di arcieri che presero a flagellare le schiere romane.

Prevalse in questo scontro la strategia di Pirro che divise la sua falange in unità minori protette dalla cavalleria, per evitare gli attacchi fiancali. Nel momento critico della battaglia ordinava di far entrare in azione gli elefanti, per opporli ai carri falcati dei romani.

A questo punto l'esercito di P. Valerio Levino cominciò a sbandare perché, prima di allora, non aveva visto gli elefanti corazzati, ed anche perché la cavalleria tessala ne approfittò per travolgere l'esercito romano più che mai terrorizzato. La sconfitta costò a Roma la perdita di 10 mila uomini.

In questo cruento scontro si innesta l'episodio che ha per protagonista l'histoniense Oplaco Hosidio. Questo era Prefetto delle milizie di una delle due legioni romane. Durante una furibonda mischia Oplaco Hosidio riconobbe Pirro e lo inseguì a cavallo del suo destriero nero dai garretti bianchi. Appena a tiro scagliò contro il re epirota la sua lancia che, invece di centrare Pirro, colpì al collo il suo cavallo.

Frattanto i cavalieri tessali, sgomenti, avevano assistito alla scena, sorpresi per il coraggio dimostrato dal guerriero frentano e, appena ripresisi, intervennero in gran numero circondando il prode Hosidio.
Un cavaliere tessalo, di nome Leonato, fu pronto a trafiggerlo, prima che avesse il tempo di impugnare un'altra lancia per colpire Pirro che, frattanto, era stato disarcionato a causa della caduta del suo cavallo ferito.

Narra Plutarco in Vite Parallele - Pirro, che il macedone Leonnato si era accorto di un italico che aveva preso di mira Pirro, indirizzava il proprio cavallo contro di lui, ne seguiva i movimenti e disse: "Vedi lì quel barbaro, mio re, in sella a quel cavallo con le zampe bianche? Ha l'aspetto di uno che ha in mente un progetto grande e pericoloso. Ti guarda, ti ha preso di mira è pieno di coraggio e di fuoco e non si preoccupa di nessun altro. Stai attento a quell'uomo."

Pirro rispose: "Leonnato è impossibile sfuggire al proprio destino. Tuttavia né questo, né altro italico avrà a che fare con me senza rimanere impunito!" Mentre i due così parlavano, l'italico Oplacus afferrò la sua lancia, spronò il suo cavallo e si scagliò contro Pirro. Trafisse con la lancia il cavallo del re, contemporaneamente Leonnato accorso trafisse con la propria il suo. I due cavalli caddero, Pirro fu circondato dai suoi che lo portarono via ed uccisero l'italico che si difese con coraggio.

L'avvenimento è riportato nel "Rerum Romanorum" Libri Quatuor - da Lucii Annae Flori (Bassani 1578 L.I. cap. 18): "Prima pugna tam atrox fuit, ut Frentanae Turmae Praefectus Obsidius invectus in Regem, turbaverit, coegeritquae projectis insignibus praelio excedere".

Lo stesso Plutarco nel “Cheronei Graecorum Romanorumque illustrium vitae" nel raccontare le vicende di Pirro ricorda l'origine del Prefetto delle Milizie Frentane, Oplaco Hosidio, precisando il particolare della gesta compiuta: "Italus infesta lancea admittit equum in Phyrrum, tum simul ferit equum Regis lancea et illius equurn excipiens Leonatus, ambo-bus collapsis equis, abripiunt Phyrrum circumstantes amici, Italumquae occidunt fortiter pugnantem: fuit hic natione Frentanus Alae Praefectus Oplacus nomine".

Oplaco Hosidio, dunque, un alto comandante della milizia frentana federata a Roma, ma la sua origine è Istoniese. Infatti, la Regione Frentana contribuiva a fornire a Roma contingenti militari in caso di guerra, come, peraltro, erano tenute le altre regioni. Polibio, nella sua ''storia" ricorda: "In tabulis relatae erant copiae... Marsorum autem, et Marrucinorum, et Frentanorum. et Praetera Vestinorum peditum viginti, equitem quatuor milia".

Un’abbondante documentazione può confermare la patria Histoniense di Oplaco Hosidio, valoroso condottiero di cui la città del Vasto trae vanto e decoro, quale retaggio di antichissima e nobile civiltà.

LA CONQUISTA DELLA GRAN BRETAGNA

- Gaius o Gnaeus Hosidius Geta 

(20 - dopo il 95) era un senatore romano e generale del I secolo secolo, che fu pretore qualche tempo prima del 42. Nell'ultimo anno, comandando una legione, probabilmente la Legio IX Hispana nella Provincia dell'Africa, fece parte delle campagne di Gaio Svetonio Paolino in Mauretania.

Geta sconfisse due volte Sabalus, un capo dei Mauri e, dopo aver raccolto quanta più acqua possibile, lo inseguì nel deserto. Le forze di Sabalus erano più abituate alle condizioni e l'acqua della legione iniziò a esaurirsi. Un nativo amico dei romani persuase Geta a eseguire un rituale della pioggia usato dal suo popolo e la pioggia cominciò a cadere. La sete dei Romani fu sollevata e i Mauri, vedendo i cieli venire in aiuto dei loro nemici, si arresero.

Geta e la sua legione collaborarono alla conquista romana della Gran Bretagna, guidata da Aulus Plautius, l'anno successivo. Geta fu quasi catturato nella Battaglia di Medway, ma poi ne capovolse le sorti in modo così brillante e decisivo che ricevette gli "ornamenta triumphalia", onore insolito per chi non fosse stato un Console. Fu un Legato in Britannia intorno al 45. Un'iscrizione a Roma rivela che divenne Console Suffetto nel 49.

Geta ebbe una figlia a circa 65 anni, Hosidia, che sposò Marco Vitorius Marcello, uomo di rango consolare e amico del poeta Statius. Osidia e Marcello ebbero un figlio chiamato Gaius Vitorius Hosidius Geta. Una poesia di Statius, scritta nel 95 d.c., descrive suo figlio Gaius Vitorius Hosidius Geta come onorato da una "triunphalis ovis" (ovazione trionfale)


- Caio Hosidio Geta 

legato dell'Imperatore Claudio che, nel 43 d.c., comandò l'esercito romano nella conquista dell'Inghilterra e, pur non essendo Console, ricevette onori trionfali e gli ìstoniesi ne celebrarono la memoria con una statua in bronzo (di cui resta solo la base in cui sono visibili i supporti dove poggiavano i piedi con la scritta C(aio) Ho-si(dio) Geta Ur(bano) Cer(iali).

Caio Hosidio Geta, inoltre venne inviato, quale Magistrato, a giudicare le controversie della Spagna e nel Caucaso (IIII VIR = Quatrorviro, cioè Magistrato dei Municipi e delle Colonie). Fu anche Questore (Quaesitori), che era la carica di Giudice Inquirente a giudicare le cause, e anche Ceriale Urbano (UR CER), vale a dire-capo delle Corporazioni dei Sacerdoti di Cesare il cui tempio esisteva in Histonium e su cui venne costruita la chiesa di San Pietro Apostolo.


- Hosidio Geta

Hosidio Geta, dopo essere stato condannato dai triumviri nel 43 a.c., fu salvato da suo figlio, che fingendo che l'anziano Geta si fosse tolto la vita, celebrò i riti funebri, nascondendo il padre in una delle sue fattorie. Il padre si travestì indossando una benda sopra un occhio; ma quando fu graziato, scoprì che non poteva più vedere con quell'occhio.


- Gaius Hosidius Geta

fratello del console del 47 d.c., sembra essere stato triumvir monetalis; una moneta emessa con il suo nome raffigura un cinghiale. Alcuni studiosi ritengono che sia stato lui, piuttosto che suo fratello, a trionfare sui britannici, ma questo dipende dal fatto che Cassio Dio intendesse scrivere "C" per Gaius o "Cn" per Gnaeus, la cui prima vittoria in Africa fu discusso nello stesso libro.



ALTRI MEMBRI ILLUSTRI DELLA GENS HOSIDIA

Per quanto riguarda la patria Istoniese di Oplaco Hosidio la conferma ci è data dall'esistenza nel fiorente Municipio dei Romani, della gens Hosidia, di cui si hanno numerosi illustri esponenti.

- Quinto Hosidio che fu Curatore, ossia Assessore ai Lavori Pubblici, citato quale autore della costruzione dell'acquedotto Augusteo di Histonium. 


-  Massimo Hosidio e sua moglie Afrodisia, di cui si rinvenne una lapide, custodita nei Museo Civico di Vasto.


- Hosidio Geta 
drammaturgo del II secolo d.c.; autore di una tragedia intitolata Medea , forse il primo esempio di un cento virgiliano (opera poetica interamente composta da versi o passaggi tratti da altri autori, in particolare il poeta greco Omero e il poeta romano Virgilio, disposti in una nuova forma o ordine)



LE LAPIDI DI VASTO

Nelle scritte lapidarie rinvenute nel territorio di Vasto, così come elencate da Alfredo Mannucci nel volume "Le iscrizioni del Gabinetto Archeologico di Vasto" (1974), troviamo più volte il nome dei personaggi appartenenti alla gens Hosidia presenti in Histonium, tra cui:

- C(aius) V(itorius) H(osidius) G(eta); 
- Quintus Hosidius; 
- Hosidius Hilar; 
- Caius Hosidius C.L. Isi(dorus?); 
- Hosidius Nepos: Quintus Hosidius
- Primitivus, (Hos) idius Restitutus, 
- Hosidius Secondus;
- Gaius Hosidius Veteranus; 
- Hosidia Aphrosidia; 
- Hosidia Ditria; 
- Hosidia Victoria.

BEIT SHE’AN - BEISAN (Israele)

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Le straordinarie rovine romane di Beit She'an con strade colonnate, un teatro da 7000 posti di 1800 anni fa molto ben conservato, due strutture termali ed enormi colonne di pietra che giacciono proprio dove caddero durante il terremoto del 749 evocano la grandezza dell'antica vita di provincia romana.

Beit She’an, detta anche Beisan o Bisan, è una città del Distretto Settentrionale di Israele posta all'incrocio tra la valle del Giordano e la valle di Jezreel, essa si estende in un pendio morbido verso il Giordano, e in Oriente alla Valle del Jezreal.

Beit She’an è una delle più antiche città della nazione, come testimonia il Parco Nazionale di Beit She’an, nel nord della città. Le vicine rovine abbandonate di Tel che appaiono sulle colline sono una parte del Parco Nazionale del sito, e contengono ben 15 strati successivi di occupazione, cioè 15 città edificate l'una sopra l'altra, un miscuglio di civiltà mescolate in modo difficile da districare.

Gli strati più importanti sono dall'occupazione egiziana in Canaan e appartengono archeologicamente all'età del bronzo. L'altezza della Tel è impressionante, fino a 80 metri, ma le sue misure di diametro sono solo pochi acri.

Le rovine della magnifica città sono ancora visibili nella sua area principale, il Parco Nazionale di Beit She’an, uno dei più belli, dove nell’area settentrionale si trova Tel Beit She’an, con l’antica città di Beit She’an, a sud e ad est di essa, le superbe rovine della Scythopolis romanico/bizantina.



LA STORIA

Beit She’an fu inizialmente fondata 5.000/6.000 anni fa, ed ebbe in seguito molti conquistatori, tra cui gli Egiziani, 3.500 anni fa. Essa però è menzionata per la prima volta tra le conquiste di Tutmosi III ((1481 – 1425 a.c.), che la rese un centro amministrativo egiziano nella XVIII e XIX dinastia. L'occupazione egiziana durò per 3 secoli.
La sua prima menzione nella Bibbia invece è come una città cananea nel Libro di Giosuè, conquistata da parte di Davide; gli scavi hanno portato alla luce costruzioni amministrative dell'epoca di Salomone distrutte da Tiglat-Pileser III, uno dei principali re dell'Assiria nell'VIII secolo a.c..

In Giudici 1:27 Beit Shean è riferita appartenente all'area conquistata della tribù israelita di Manasse, ma in realtà gli Israeliti non erano abbastanza avanzati per conquistare una città di pietra fortificata. Oltre a questo, si sarebbero incontrati con le forze dei Cananei che avevano carri, mentre gli israeliti combattevano a piedi.

SCORCIO DEL TEATRO
Alcuni secoli dopo, venne conquistata dai Filistei che, dopo la famosa battaglia del Monte Gilbo’a, appesero il corpo di Saul al muro di Beit She’an
(Samuele 1, 31.8-11 - “Posero poi le sue armi nel tempio di Astàrte e appesero il suo corpo alle mura di Beisan.”).

Beit She’an divenne in seguito parte dei Regni di Davide e di Salomone, con interessanti manufatti di Cananei, Filistei e Israele, ampi resti di edifici, per venire infine distrutta in un incendio, apparentemente per mano del Re di Assiria (732 a.c.). Il Tel è stato scavato a fondo dal 1980, ma i resti più importanti sono emersi nel Tel Rehov, poco distante.

Ricostruita come città ellenistica intorno a 2.300 anni fa, e rinominata Scythopolis, “città degli Sciiti”, probabilmente in quanto vi si erano stabiliti come veterani dei mercenari sciti; poiché la mitologia greca la voleva fondata da Dioniso e dalla sua nutrice Nysa, la città era nota anche come Nisa-Scitopoli (Nysa-Scythopolis).
Nel III e II sec. a.c., la città fu coinvolta nelle guerre dei Diadochi tra le dinastie tolemaica e seleucide, come pure nella rivolta dei Maccabei asmonei, che nel II sec. a.c. distrussero Scitopoli.

IL TEATRO

I ROMANI

Nel 63 a.c. il generale romano Pompeo nella sua vittoriosa marcia al potere in Israele includeva Scitopoli nella sua Decapoli, 10 città che sostenevano l'influenza greco-romana nella regione. Scitopoli vene ricostruita e resa capitale della Decapoli.

Quando gli abitanti ebrei della città caddero in conflitto con i vicini greci durante la I Guerra Ebraica, furono massacrati. La città crebbe enormemente nel II secolo d.c quando la VI legione romana fu stanziata a Scitopoli.

Allo stesso tempo, la città divenne uno dei centri tessili dell'impero romano. La biancheria di Scitopoli era famosa. Sempre nel periodo Romano si espanse verso Sud, raggiungendo l’apice della sua ricchezza nel V secolo, epoca in cui contava 30/40000 abitanti.

La pianta del lino attirò anche contadini ebrei dalle campagne, ma i leader ebrei ammonirono contro l'influenza corruttrice della vita in una città romana. Tuttavia gli ebrei continuarono a emigrare in città.

IL CARDO MASSIMO
Più tardi i cristiani si unirono a loro quando il cristianesimo venne proclamato unica religione di stato, e durante il dominio bizantino i lavoratori del lino furono ridotti cristianamente in schiavi, poiché lo stato aveva il pieno controllo dell'industria del lino e poteva fare ciò che desiderava. Ciò ha comportato una deriva di lavoratori di lino qualificati che erano richiesti in altri luoghi.

Molte delle costruzioni di Scitopoli furono danneggiate dal terremoto del 363. Nel 409 la città divenne capitale della Palaestina Secunda. Dopo la conquista araba il nome della città fu cambiato in vecchio "Beisan", ma gli arabi non potettero fermare il declino della città, finchè un terremoto non distrusse la città nell'VIII secolo.

TERME DI DOMUS PRIVATA

DESCRIZIONE

La pax romana rese florida la città, che si estendeva su di un’area di 370 acri, fiorente nella manifattura, nell'agricoltura e nei commerci, come evidenzia la sua nuova pianificazione urbana, con ampie strade e grandi edifici, e sono ancora visibili i resti delle mura che la circondava.

Inoltre, nel parco nazionale sono stati scoperti alcuni imponenti edifici, con:
- un teatro ancora utilizzato per spettacoli ed eventi,
- un bagno pubblico, il più grande ritrovato in Israele,
- due magnifiche strade colonnate,
- un tempio romano,
- una monumentale fontana decorativa,
- un’ampia basilica che segna il centro della città.
- il mosaico restaurato della Dea romana della fortuna, Tyche, che porta la cornucopia.
- un ippodromo.

MOSAICO ROMANO
Per la viabilità venne edificato il cardine, la via più importante della città che correva in direzione nord sud che collegava le porte praetoria e decumana, traversato ortonogonalmente dal decumanus maximus. In coincidenza del loro incrocio sorgeva solitamente il praetorium, che diveniva la sede del forum. e di altri edifici pubblici.

Dal monte Ghilboa, distante 7 km a settentrione di Israele, vennero estratti i blocchi di basalto scuro usati per le varie costruzioni tra cui anche l'acquedotto romano, la cui acqua proviene dagli stessi monti. C'era un'enorme palestra colonnata che sembrava un tempio, con piscine e sale riscaldate per estrarre il sudore dal corpo su tre lati. Le stanze del nord erano non riscaldate e utilizzate per socializzare. Un ingresso monumentale conduce alla strada.

All'angolo nord-est del bagno c'era un piccolo ninfeo, su cui però venne eretto un successivo edificio bizantino, e quindi distrutto. La costruzione bizantina è costruita in un semicerchio costituito da un mercato aperto con stanze separate (probabilmente per i negozi), ognuna delle quali contiene un mosaico. Una delle sale custodisce un meraviglioso mosaico di Tyche, la Dea romana della fortuna.

TESTA DI MARCO AURELIO
La strada principale della città è pavimentata con lastre di basalto, nel mezzo, le lastre di pietra coprono uno scarico. Su entrambi i lati della strada ci sono marciapiedi. Lungo il lato occidentale della strada c'erano negozi.

Conducendo al Tel, la strada si snoda lungo l'intero Tel su cui delle scale portavano al tempio di Zeus, che si trovava sulla cima. I resti all'angolo della strada sono del tempio di Dioniso, il Dio protettore della città. Aveva quattro colonne alte 10 metri che sostenevano una pietra triangolare. I gradini interni conducono al tempio stesso che poggia su un podio.

Accanto al tempio di Dioniso c'era un ninfeo, una fontana decorativa. La struttura è realizzata in basalto rivestito in pietra calcarea. Accanto ad essa, lungo la strada che conduce verso est, si trova un grande edificio pubblico che fu utilizzato in epoca romana come una sorta di tribuna coperta per gli affari della città.

IL CIRCO
In epoca bizantina venne ristrutturato e utilizzato come un grande mercato o "agora". Ai lati c'erano negozi coperti. Da un lato si trova un bellissimo mosaico di leone. Accanto al mercato si trova un'altra strada, e dall'altra parte c'è un altro Bagno pubblico bizantino. A nord di questo bagno si trovano i resti di un edificio costruito in epoca romana e ristrutturato in epoca bizantina.

L'edificio romano era una grande piscina ornamentale a gradini, decorata con alte colonne. Successivamente è stato convertito in una fila di negozi. C'è anche un anfiteatro romano risalente al II secolo d.c. al di fuori del Parco Nazionale, si trova un po 'a nord della strada Shaul Hamelech.

Questo servì per intrattenere la sesta legione romana e mostrò spettacoli di gladiatori e di caccia. A nord del Tel è anche un monastero con pavimenti a mosaico ben conservati, che appartiene alla città bizantina.



PONTE SALARIO

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Ponte Salario, ovvero Pons Salarius, è un ponte sopra il fiume Aniene attraversato dalla via Salaria, a Roma, la più antica delle vie consolari romane, che collegava Roma ad Aesculum, attuale Ascoli Piceno, e all'Adriatico, e dall'Adriatico veniva il sale a Roma, da qui il nome della via "Salaria".
Si trovava a 2 miglia fuori dalla Porta Salaria, in muratura già all'epoca della repubblica romana, ed è l'ultimo ponte che l'Aniene sottopassa nel suo percorso prima di affluire nel Tevere.

L'etimologia della parola pontifex (pontem facere) significa "costruttore di ponti", e l'arte di costruire ponti, i Romani l'appresero dagli Etruschi. Il Pontifex era l'artefice di ponti, attraverso incastellazioni di legno su cui si ponevano le pietre rastremate e infine il cuneo centrale.

Il legno, curvato a caldo e opportunamente legato, veniva posto in loco dove si doveva montare l'arco, e sopra questo si ponevano le pietre leggermente rastremate con il lato più stretto verso il suolo. Infine una pietra più grossa e più rastremata delle altre, detta cuneo, si poneva sul culmine dell'arco, così il tutto si teneva per forza di gravità che scaricava sui pilastri laterali, e il legno veniva tolto.



Il segreto dell'arco su cui si basava la costruzione di ponti e acquedotti, derivava dunque dal popolo etrusco, tramandato attraverso una casta che si trasmetteva l'arte di costruire e di organizzare le cose sacre. Così come il cuneo sosteneva l'arco il pontifex maximus sosteneva l'arco religioso della cura dei vari Dei. La corporazione dei costruttori di ponti scorse nell'architettura di questi un'espressione divina, per cui i costruttori di ponti furono riveriti come sapienti e collegati col divino.

In ambiente latino arcaico rimane il collegamento tra i pontefici ed i ponti: il primo ponte di Roma, il Sublicius, era infatti restaurato a cura del collegio pontificale. Venne più volte distrutto e più volte ricostruito, e fu proprio su questo ponte che nei primi 4 secoli dalla fondazione di Roma si svolsero i combattimenti tra i Romani e i Sabini, i Fidenati, i Vejenti, e i Galli.

IL PONTE SALARIO MODERNO
Secondo la leggenda, o la storia, sul ponte Salario sarebbero passate le sabine vittime del rapimento dei romani nel famoso "Ratto delle sabine". Nel 361 a.c. i Galli scesero per la seconda volta contro Roma e si accamparono al di là del ponte Salario, dove avvenne l'epico duello tra il tribuno Tito Manlio Torquato e Gallo capo dei Celti adornato di torques (da cui il soprannome del soldato romano), che rimase ucciso da Torquato, ponendo in fuga i Celti.

Il ponte fu poi scelto come sede di accampamento di eserciti che invasero la città di Roma: nel 472 vi fece sosta il goto Ricimero; nel 537 Vitige, re dei Goti, tagliati gli acquedotti, e passato il ponte si diresse su Roma, ma a porta Salaria venne respinto da Belisario, dopo 18 giorni di assedio, avendo rinunciato a distruggere Roma, distrusse il ponte Salario, e prese a saccheggiare la campagna romana, poi Vitige venne preso prigioniero e morì a Costantinopoli.

MA ANCORA SE NE POSSONO SCORGERE I RESTI SOTTO
Nuovamente il ponte Salario venne distrutto nel 547 dai Goti di Totila, e fu nuovamente ricostruito tutto in travertino da Narsete, generale di Giustiniano, che fece apporre sui due parapetti del ponte una targa dove era scritto:

"Narsete uomo gloriosissimo dopo la vittoria gotica dopo aver restituito la libertà a Roma e a tutta l'Italia, restaurò il ponte di via Salaria distrutto fino all'acqua da Totila crudelissimo tiranno e ripulito l'alveo del fiume lo sistemò molto meglio di quanto fosse mai stato"
Poi in un'altra epigrafe : 
"e lo curò tanto bene, che la via del ponte è diritta, e proseguito l'interrotto corso del ponte, calpestiamo le rapide onde, del sottostante Tevere, ed è piacevole cogliere il mormorio delle acque agitate, andate pertanto spensierati, cittadini romani, ai vostri piaceri, e tu Narsete fai risuonare la lode che echeggi dovunque, colui che potè sottomettere le forti genti dei Goti, insegnò ad imporre ai fiumi un duro giogo"


Purtroppo queste due epigrafi caddero nell'Aniene e li ancora giacciono, con la demolizione del ponte nel 1798 durante la ritirata delle truppe francesi. Viene da chiedersi se davvero non sono state recuperate queste epigrafi di 1500 anni fa, o piuttosto non siano state trafugate e vendute.

Presso il ponte Salario unica memoria delle sue antiche glorie, resta la Torre Salaria, torre del XII secolo che ingloba un antico sepolcro, che la tradizione vuole fosse di Caio Mario, è identificata come la Torre del Canicatore, citata in un atto di vendita del 1396 e di proprietà dei Crescenzi nel XVI secolo. Il ponte ormai ridotto a rudere venne interamente ricostruito nel 1930, e nulla rimane oggi del suo aspetto originario.

ANELLI ROMANI

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(FIG.1) ANELLO DI CARVILLO I SEC. D.C.

L'anello della fig.1 qui sopra è un anello d'oro formato da una verga cava in lamina appiattita che si allarga in un castone ovale in cui è inserito il cristallo di rocca (quarzo incolore) sotto cui è incastonato il ritratto in oro cesellato.del giovane Carvilio, morto a soli diciotto anni e tre mesi. L'anello era all'anulare della madre di Carvilio, Ebuzia Quarta, sepolta nella sua stessa tomba.

E' un prezioso accostamento di amore materno legato all'arte. Questo meraviglioso artefatto di 2000 anni fa ci introduce alla gioielleria romana legata all'oggetto più diffuso indossato dai romani: l'anello.

Plinio, inorridito da questa moda così orientale e così poco "mos Maiorum" romani, scrisse: “Commise un delitto funesto per l’umanità chi per primo si mise oro alle dita!” Che male ci fosse ad indossare anelli non si capisce, forse, pensava lui, il romano per bene si dimenticava della guerra e della patria, cosa non vera, visto che Giulio Cesare proclamava che i suoi fidi veterani si profumavano ma combattevano benissimo.

(FIG.2) ANELLO IMPERATORE GIULIANO
Durante il periodo repubblicano l’anello d’oro era riservato quasi solo al rango senatorio (ambasciatori, nobili e cavalieri soprattutto), per poi estendersi ovunque, tanto che il Senato stabilì che l'anello d'oro potesse essere indossato solo dai cittadini nati da padre e nonno liberi, oltre che possessori di un certo censo.

Ne conseguì che anche i non nati liberi, per dare l’impressione di esserlo, ponessero un vistoso anello dorato al dito, spesso pacchiano, tipo quello descritto da Petronio su Trimalcione: 
Al dito mignolo sinistro portava un grande anello dorato, mentre all’ultima falange del medio un anello più piccolo, d’oro massiccio, tutto intarsiato con pezzetti di ferro saldato a mo’ di stelline”.

I romani adoravano gli anelli, ma, come detto, non ne portavano solo le donne, ne indossavano volentieri anche gli uomini.

Certo le romane ne portavano di più, fino ad indossarne uno per dito, non solo però alle mani, perchè inanellavano anche le dita dei piedi. In più di anelli ne portavano anche le bambine, di più o meno pregio a seconda delle possibilità familiari.

Comunque era un costume seguito anche dagli uomini, come ricordano con ironia alcuni caustici epigrammi di Marziale: "...
Charinus porta sei anelli ad ogni dito" (XI, 59) ; ":.. chi sarà quel ricciutello ..: che porta ad ogni dito un anellino..." (V, 61);
però deve riconoscere che il suo amante fa altrettanto, e pure con ostentazioni preziose:
"Il mio Stella ... porta sardonici, smeraldi, diamanti e diaspri ad ogni dito" (V,11).

Gli anelli erano per tutti, grandi e piccoli, ricchi e poveri, ve n'erano di:
- ferro - fonde a 1538°
- bronzo - lega di rame e stagno - fonde sui 880÷1020°
- rame - fonde a 1083°
- argento - fonde a 961°
- elettro - lega di argento e oro, fonde sui 1000°
- oro - fonde a 1064°

Più era bassa la fusione più era facile la lavorazione dell'anello che si prestava a lavori di bulino e cesello.

(FIG.3) ANELLO A SERPENTE
All'apice dell'Impero romano, i metalli in uso infatti comprendevano: oro, argento, bronzo, stagno, piombo, zinco, ferro, mercurio, arsenico, antimonio. Gli anelli avevano anche la funzione di sigillo e per questo si rinvengono molti anelli con castone o con gemma incisa.

I romani usarono diversi metodi per creare oggetti metallici, principalmente:

- usarono la terra sigillata (o ceramica aretina), stampi che venivano fatti creando un modello della forma desiderata (che fossero di legno, cera, o metallo), il quale veniva poi premuto contro uno stampo d'argilla. Nel caso di un modello fatto di cera o metallo, una volta cotta, la ceramica poteva essere riscaldata e la cera o metallo fusi fino a che poteva colare dallo stampo (cera persa). Facendo colare il metallo nell'apertura, si potevano creare copie esatte dell'anello.

- oppure si usava un metallo dolce ridotto a lamina e poi ribattuto, magari con incisioni varie.

- o si lavorava un filo di metallo dolce attorcigliandolo e unendolo fino a ottenere l'oggetto desiderato.

Le gemme più usate erano smeraldi, prasii, granati, ametiste, niccoli, quarzi, ma soprattutto corniole, queste ultime quasi sempre incise. Uno degli anelli più diffusi era comunque quello del serpente (fig. 3), che non solo era apotropaico perchè era il simbolo della Dea Tellus, ma essendo a molla aveva anche il vantaggio di essere modellato nella misura come si voleva. Insomma una misura unica per tutti.

(FIG.4) CORNIOLA INCISA

Il Ferro

I romani usavano anche gioielli di ferro, non c'è da stupirsi perchè nell'età del ferro avevano imparato a fondere i metalli.
ANELLO IN FERRO
Naturalmente erano gioielli poveri, in genere imitazione di gioielli più pregiati. Non si usavano molto, perchè pian piano vennero rimpiazzati dal bronzo. 

Il ferro richiedeva una temperatura elevata di fusione, però i forni erano praticamente sempre accesi per produrre altri oggetti, soprattutto armi, per cui non era tutt'altro che dispendioso.

Gli anelli di ferro avevano l'inconveniente di arrugginirsi, anche se i romani produssero per le armi un ferro ad altissima temperatura molto simile all'acciaio. Poichè il metallo costava poco vi si incastonavano pietre di poco prezzo, come la corniola e il niccolo,  che per giunta non restavano attaccate alla cera se usati come sigillo (Plinio, Storia Naturale, XXXVII, 30 - 31).


Il Bronzo

Il bronzo è una lega di rame unito a una piccola percentuale di stagno, se si aumentava questa percentuale si potevano ottenere degli oggetti fatti in fusione, cioè colati in bronzo fuso dentro una matrice. 

(FIG.6) ANELLO IN BRONZO
Agli anelli in bronzo, di modestissimo prezzo per i più semplici, potevano venire dorati dando l'idea di essere d'oro. Dato il colore del metallo sottostante infatti un piccolo graffio non deturpava l'oggetto essendo grosso modo dello stesso colore. 

Questo tipo poteva essere acquistato anche da una schiava o indossato da una bambina. Spesso i genitori ingioiellavano le bambine e la cosa era perfettamente normale. Spesso era semplicemente ritorto o con una piastrina al centro, o del tutto liscio.

C'erano però anelli più complessi, con il castone inciso, con applicazioni in argento, con pietre incastonate, semplici o incise. Il castone, come per tutti gli anelli, poteva essere tondo, rettangolare o rettangolare smussato.


Il Rame

(FIG.7) ANELLO IN RAME
Il rame si prestava ad anelli leggeri, essendo il rame un metallo dolce facilmente riducibile in lamina che veniva ribattuta negli orli ed incisa a piacere.

Ma essendo piuttosto duttile si usava anche a filo, liscio o attorcigliato, semplice o con applicazioni di argento o di pietre dure. Il rame fuso era facilissimo da adoperare perchè fonde a bassa temperatura.

Per questa ragione era molto usato anche a più fili che venivano infilati nello stesso dito, a volte trattenuti da una stanghetta anch'essa di rame, oppure d'argento.

ANELLO CON RITRATTO (CAPUA)


I METALLI NOBILI

L'Argento


(FIG.8) ANELLO IN ARGENTO INCISO
Era ritenuto un metallo nobile per la sua rarità ma pure per la sua bellezza. Era molto usato dai romani con una lega simile a quella che si usa nei paesi anglosassoni. 

Mentre in Italia si usa oggi una lega a 800 (cioè 800 parti di argento e 200 di rame), i romani usavano infatti una lega di 925 parti di argento e 75 di rame, che si scurisce molto più lentamente dell'argento a 800. il bello è che i romani portarono questo uso raffinato nella Britannia, ma mentre gli inglesi hanno conservato l'uso, noi italiani ne abbiamo abbassato la proporzione d'argento.

(FIG.9) ANELLO IN ARGENTO E PIETRA DURA INCISA
Gli anelli d'argento era usati moltissimo dalle romane ma pure dai romani maschi, che avevano sovente l'abitudine di indossare gioielli ma soprattutto anelli ad ambedue le mani. 

Gli anelli d'argento spesso portavano pietre incastonate, sovente anche incise. I romani non le tagliavano sfaccettandole come si fa oggi ma le arrotondavano facendone quelli che oggi si chiamano cabochon, cioè con la superficie superiore convessa e quella inferiore piatta.

Ma la maggior parte delle pietre incastonate negli anelli non erano pietre preziose, bensì pietre dure, e ancora più diffusa era la pasta vitrea colorata, che all'epoca aveva un costo rilevante.

Del resto le paste vitree a volte erano ottime simulazioni di pietre preziose, tanto che si sono trovate collane di pietre preziose incastonate di cui alcune erano di pasta vitrea, forse perchè quelle perdute erano di eccessivo valore e non potevano permettersele o perchè non ne trovavano di simili.

Esistevano pure gli anelli in argento dorato, quindi che potevano sembrare tranquillamente d'oro, e pure anelli in argento con applicazioni in oro.

ANELLO IN ELETTRO

L'Elettro

Si trovava in natura ma veniva pure riprodotto artificialmente attraverso una lega di oro e argento, come ci racconta Plinio. 

Fu usato soprattutto per la monetazione, ma, soprattutto nella Magna Grecia, anche per statuette di divinità, per piatti e per gioielli. 
L'elettro fu usato soprattutto per la particolarità del suo colore, come un oro molto chiaro, un colore che sta tra l'argento e l'oro.

(FIG.11) ANELLO IN ORO CON EQUES ROMANO

L'Oro

(FIG.12) ANELLO IN ORO
I romani erano ricchi, o almeno lo erano molti di lor, per cui produssero e indossarono un'infinità di gioielli d'oro, ma soprattutto anelli. 

Anelli su ogni dito, anelli sulle dita dei piedi, anelli intonati su uno stesso colore, parure di anelli intonata al colore del vestito per le matrone.


Gli anelli sono lisci, lavorati, incisi, incastonati con pietre preziose di vari colori, a cammeo, con monete d'oro applicate sopra, a due castoni, con due pietre preziose di diverso colore, con perla, con corallo, con bottone d'argento inciso, ma soprattutto con pietre preziose incise.

(FIG.13) ANELLO CON LUPA E GEMELLI
Sulla pietra preziosa si incidono divinità, simboli romani, teste dell' imperatore vigente, animali, meduse, o come nell'anello qui accanto, c'è una lupa che allatta i gemelli incisa su corniola e incastonata su un anello d'oro, ottenuto per fusione e quindi pieno.

E' da tenere presente che l'oro può essere lavorato solo in lega altrimenti è cedevole, ma mentre noi italiani abbiamo solitamente oro a 18 carati, cioè a 750/1000, tenendo conto che l'oro puro è a 24 carati.

La legge italiana vieta di lavorare o vendere oro che abbia una caratura inferiore, cosa che non avviene in molti altri stati, negli USA per esempio l'oro viene trattato a 12 e pure a 9 carati.

(FIG.14) ANELLO DEA MONETA
I romani però usavano un oro ancora più puro del nostro, perchè lo lavoravano sempre a 22 carati, per cui quasi puro. E' quello che i gioiellieri chiamano "oro matto", perchè ha un aspetto meno lucido del nostro ma di un colore giallo più carico.

Tra i vari modelli documentati prevalgono nettamente gli anelli con il castone decorato da una gemma, spesso incisa.

La verga è liscia e per lo più cava, ed era realizzata con una lamina riempita con resina o altra sostanza che le conferiva maggiore solidità.

Le gemme più usate erano smeraldi, prasii, granati, ametiste, niccoli, quarzi, ma soprattutto corniole, queste ultime quasi sempre incise.

La corniola e il niccolo avevano un costo minore e pertanto erano sovente montati in ferro.
Per giunta non restavano attaccate alla cera se usati come sigillo (Plinio, Storia Naturale, XXXVII, 30 - 31).

Un altro modello di anello a larga diffusione è quello con verga liscia che si allarga verso un castone, tipo definito liscio o inciso. 

Spesso il castone, se non è liscio, ha ai lati due palline d'oro, quasi sempre il castone è aperto nella parte inferiore.

Molto usato naturalmente l'anello a corpo di serpente: sia unico che a due teste affrontate, con una patera o una perla nella bocca o avvolto in diverse spire.

ANELLO CON TESTA DI ELIOGABALO
Rari invece gli anelli a cerchio, con verga a sezione circolare liscia o più raramente godronata.
Ancora più rari quelli in cui la verga si sdoppia formando due anelli con castoni lisci combacianti.

I romani amavano molto le diverse pietre trovate in oriente e apprezzavano anche le pietre dure come le pietre non troppo inusuali.

Ad esempio conoscevano, ed usavano, il cristallo di rocca, cioè il quarzo ialino, di colore biancastro, trasparente.

La moda di portare l'effigie dell'imperatore riguardava soprattutto gli ufficiali di alto grado, il che fa presupporre che volessero mettersi in luce  se l'imperatore era abbastanza egocentrico, in quanto voleva esprimere attaccamento e fedeltà.

Però, nel caso di imperatori molto amati, come Augusto o come Traiano, vennero portati anche dai semplici legionari.

(FIG.15) ANELLO DEA ROMA

ANELLI A SIGILLO

L'uso degli anelli a sigillo era frequentissimo per i romani, perchè non solo lo adoperavano l'imperatore e i suoi dignitari, e non solo i generali e gli ufficiali dell'esercito, ma pure tutti quelli che si dedicavano al trasporto e al commercio  delle merci, in quanto era una vera e propria firma.

Gli anelli a sigillo avevano le forme più strane, con figure vegetali, animali, simboli (folgore, caduceo, tirso, cetra, luna e stelle, serpente, conchiglia), oppure sigle, o figure di divinità, ritratti, imperatori, genii, oggetti (vaso con pianta, lituo, scrigno) e perfino paesaggi.

Cesare ad esempio aveva per sigillo un'effigie della sua presunta antenata Venere, detta Venere Giulia, che fece anche imprimere sulle monete.

ANELLO A SIGILLO
Augusto fu più egocentrico e sul suo sigillo, che fece il giro del mondo, pose semplicemente la sua immagine, che fu ripetuta su un'infinità di monete.

Da lui presero esempio i successivi imperatori che usarono nel sigillo imperiale la propria immagine.

Gli intagliatori greci furono i più ricercati nella lavorazione dei sigilli. Si sa che Augusto si servì del greco Dioscoride, il più grande artista dell'epoca.

I personaggi più importanti non usavano un solo sigillo ma diversi che alludevano alle diverse cariche o privilegi. Sigilli diversi tra loro erano più difficile da contraffare.
I sigilli erano costituiti nei metalli più svariati, i più comuni in ferro, in minoranza di bronzo o di oro. 

SIGILLO NIKE SU BIGA
Si facevano quindi sigilli-matrici di metallo, che erano i più frequenti, ma pure in pietre intagliate, fossero esse pietre dure o pietre preziose. Agli ambasciatori e ai legati imperiali invece del sigillo si consegnavano dei ricchi anelli d'oro che testimoniavano la loro carica da parte dell'imperatore.

I legionari usavano spartanamente degli anelli di ferro e pure i loro generali, anche se Mario cambiò il suo anello di ferro con uno d'oro, ma solo al suo III consolato. Naturalmente non mancavano le falsificazioni ma il reato veniva punito con la morte.

Nei trattati o nelle contrattazioni importanti il sigillo non veniva apposta solo sulla tavoletta incerata del legato romano ma ogni testimone aveva una sua tavoletta su cui era specificato il nome e il ruolo, e su cui veniva posto il sigillo.

ANELLO D'ORO ORIGINALE DI UN UFFICIALE DELLA V LEGIO MACEDONICA


ANELLI  LEGIONARI

Aquila Legionaria

Perfino i legionari portavano anelli, anzi per il legionario l'anello era immancabile, perchè si riferiva alla sua legione, o all'essere "cives romanus", o al suo imperatore, o al segno zodiacale dell'imperatore, uno dei più indossati era l'Aquila Legionaria, l'insegna principale comune a tutte le Legioni.

Essa rappresentava il potere del sommo Giove che, attraverso questo simbolo, poneva Roma a capo di tutto il mondo allora conosciuto dandole l'invincibilità nelle battaglie. Essa veniva portata come insegna vessillifera in battaglia, e perderla in battaglia era sventura ed onta che andavano lavate con una guerra successiva.


Il Leone


Il leone era il simbolo della legione preferita di Cesare, la X, la fedelissima, quella a cui lui era più legato perchè essa era legatissima a lui. Aveva come emblema un leone ruggente pronto all'attacco.
ANELLO ROMANO II SEC. D.C.
Qualsiasi cosa lui le potesse chiedere, essa rispondeva sempre positivamente. Divenne infatti una legione storica, e potervi partecipare significava essere guardato con rispetto da qualsiasi romano.

Ma il leone fu anche il simbolo della Legione XIII Gemina, condotta da Giulio Cesare nelle sue campagne in Gallia e anche nelle successive guerre civili contro la fazione capitanata da Pompeo. È soprattutto la legione che per prima passò il Rubicone il 10 gennaio del 49 a.c.

Anche la Legio XVI Flavia Firma, di formazione più tarda, ebbe come simbolo il leone. Essa venne creata dall'imperatore Vespasiano nel 70, incorporando reparti della XVI Gallica (che si era arresa durante la rivolta dei Batavi).


Il Pegaso

Era l'emblema, e pertanto l'anello di tre legioni: 
- la Legio II Augusta, 
- la Legio III Augusta 
- la Legio II Adiutrix. 
Intorno all’anno 80 d.c. vennero stanziate nell’ordine:
a Caerleon (Britannia), e a Lambaesis (Nord Africa).

Sappiamo inoltre che nel II e III secolo la II Adiutrix venne stanziata a Budapest. L'emblema era il divino cavallo Pegaso, sorto dal sangue di Medusa, levato in volo.


ANELLO DI PEGASO (OSIMO)

L'elefante

Questa era l'insegna della Legione V Alaudae. nota anche come V Gallica o semplicemente V, creata da Giulio Cesare nel 52 a.c., composta da Galli transalpini.
Si narra che nel corso della battaglia di Tapso nel 46 a.c., dopo aver sostenuto e respinto con grande coraggio una carica di grandi pachidermi africani, alla stessa fu dato come simbolo, proprio l'elefante.

Questa Legione intorno all’anno 80 d.c. era stanziata vicino al Danubio.


Lo Scorpione

Era l’emblema della guardia Pretoriana, usata per onorare l’imperatore Tiberio per il fatto di aver costruito il Castro Pretorio di Roma.

I pretoriani seguivano sempre gli imperatori, anche in guerra e non avevano Legioni, , ma erano sempre divisi in coorti.

BASSORILIEVO DI UNA GIOIELLERIA ROMANA

Il Fulmine

Insegna della XII Legione Fulminata. costituita da Gaio Giulio Cesare nel 58 a.c. e attiva fino all'inizio del V sec. a guardia dell'attraversamento dell'Eufrate a Melitene. 

Fu detta fulminata secondo alcuni perchè portatrice del fulmine, ma non corrisponde al participio passato, secondo altri perchè venne colpita nei da un fulmine che però non li colpì, per cui fu preso come un buon presagio.
Questa Legione, intorno all’anno 80 d.c., era stanziata a Melitene (Cappadocia)


Il Toro

Fu l'emblema della legio X Equestris ("equestre") di epoca tardo repubblicana, forse antecedente alla conquista della Gallia di Gaio Giulio Cesare.

Da questi comunque utilizzata nel 58 a.c. per l'invasione della Gallia, fu sciolta prima nel 45 a.c. e poi, dopo essere stata nuovamente formata, confluì insieme ad un'altra legio X, nella X Gemina dopo la battaglia di Azio del 31 a.c.

LEGIO III ITALICA

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La Legio III Italica fu una legione arruolata in Toscana, insieme alla II Italica, dall'Imperatore Marco Aurelio (121 - 180) attorno al 165, in vista della sua campagna contro i Marcomanni, tribù germaniche che vivevano tra il Reno, il Meno e il Danubio superiore.

Il cognomen Italica significa che i reclutati erano originari del suolo italico, e infatti un'iscrizione mostra che almeno uno di loro era nato a Como, ed era soprannominata Concors, "armoniosa", dato che Marco Aurelio aveva un co-imperatore, Lucio Vero, con cui voleva sottolineare che viveva in armonia.
 
IL VESSILLO DELLA III ITALICA
L'emblema della legione era una cicogna, come uccello altamente combattivo che si nutre anche di serpenti, così come la legione uccideva i nemici. La legione risulta ancora attiva in Germania alla fine del IV secolo.
La cicogna era famosa tra i romani tanto che Plinio il Vecchio nella sua "Storia naturale" narra che in Tessaglia era messo a morte colui che fosse stato sorpreso ad uccidere una cicogna, tesi confermata da Plutarco.

Subito dopo la sua fondazione la III Italica, insieme alla II Italica e alla I Adiutrix, venne stanziata nelle province danubiane, combattendo le invasioni delle province romane di Rezia e Norico da parte del Marcomanni. 

I romani avevano conquistato la Rezia e la Vindelicia già nel 15 a.c., a seguito delle campagne condotte da Druso e Tiberio. Sappiamo poi che una subunità composta da soldati di II e III Italica era in servizio a Salonae (vicino alla moderna Spalato) in Dalmazia.

È probabile che la legione fosse, insieme a I Adiutrix e II Italica, parte di un'armata comandata da Publio Helvico Pertinace (126 - 193), il futuro imperatore. In seguito alle invasioni dei Catti, un'antica popolazione germanica stanziata nell'Assia centro-settentrionale e nel sud della Bassa Sassonia, nel 172 venne collocata ad Eining sul sito già esistente di un precedente forte ausiliario.


Più tardi la legione costruì il campo definitivo di Regina Castra, l'odierna Ratisbona, progettato come postazione fortemente difensiva. Un'iscrizione dell'edificio può essere datata all'anno 179, poco prima della morte di Marco Aurelio. Già nel 90 i Romani vi avevano edificato un piccolo forte, appartenente al sistema difensivo del limes germanico-retico, ma ora divenne un vero e proprio castrum.

Era una costruzione molto particolare, con una struttura a griglia come tutte le basi legionarie romane, ma era un vero castello, con muri giganti, alti 8 metri e larghi 2 metri. 

AUGUSTA, TOMBA DI SAECUNDANUS
FLORENTINUS - PITTORE E SOLDATO DELLA
III ITALICA (EDCS-10700601)
Norico poi, creata al tempo di Claudio e posta sotto l'autorità di un procurator Augusti, con sede a Virunum, aveva un esercito costituito da sole truppe ausiliarie.

I soldati erano attivi anche in altre città della Raetia, come nella capitale della provincia di Augusta Vindelicum (oggi Augusta), che era abbastanza vicina a Ratisbona.

Questo perché il comandante della legione di solito serviva anche come governatore della Raetia, e spesso ufficiali e soldati legionari erano spesso impiegati nella burocrazia provinciale. 

Altre iscrizioni mostrano che i soldati erano attivi anche nelle città più piccole. Una tavoletta di bronzo, contenente una dedica al dio della montagna Poenus del quartiermastro della legione, è stata scoperta nel Gran San Bernardo.

Nella guerra civile del 193, la III legione appoggiò Lucio Settimio Severo e lo aiutò a sconfiggere i suoi avversari; prima Didio Giuliano, quindi Pescennio Nigro e Clodio Albino. Fu fedele anche al successore di Severo, l'imperatore Caracalla, per il quale, insieme con la VIII Augusta e la XXII Primigenia, combatté nel 213 in una vittoriosa campagna contro gli Alemanni. 

Sembra che una subunità della III Italica fosse presente anche durante la stessa spedizione dell'imperatore contro i Parti. Lo dimostrerebbe la pietra tombale di Paulus durante il regno di Caracalla ritrovata a Perinthus (sulla costa nord-occidentale del Mar di Marmara), in Tracia (Bulgaria), che menziona un soldato della III Italica.

Facendo parte dell'armata danubiana, la III Italica partecipò alle frequenti lotte per il potere interno del III secolo. Per aver sostenuto l'imperatore Gallieno (218 - 268) contro il suo rivale Postumo, la III Italica fu insignita del titolo VI Pia VI Fidelis prima e con quello VII Pia VII Fidelis (sette volte pia, sette volte fedele).

ZENOBIA
Un'iscrizione che chiama la legione III Italica Gordiana mostra che (le subunità della) legione si unirono a una campagna durante il regno di Gordiano III, il che si riferisce necessariamente alla spedizione contro i Persiani sassanidi del 243-244.

Il campo principale era ancora a Ratisbona, e poi partecipò alla campagna del 273, comandata dall'imperatore Aureliano (214 - 275), contro la Regina Zenobia (Palmira, 240 – Tivoli, dopo il 275).
La legione viene ancora menzionata da fonti del tardo IV secolo nelle province danubiane, sebbene fosse ora divisa in sei unità più piccole.

Cinque di loro sorvegliavano i guadi del fiume contro gli Alamanni e gli Ostrogoti, e devono averlo fatto fino a quando la frontiera del Danubio non crollò nel terzo quarto del quinto secolo.(Ratisbona fu occupata dai bavaresi). La sesta unità era stata trasferita a Illirico, dove viene menzionata come gemella della III Herculia.

CULTO DELLA DEA HORTA

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HORTA - DEMETRA
Horta (Orte), era la città latina (o forse di origine etrusca ma conquistata dai romani ed elevata a municipio nel I° sec. a.c.) dedicata a Horta Dea degli orti, che ad Orte aveva appunto un santuario, dove le sue sacerdotesse piantavano ogni anno un chiodo per misurare il tempo, un primitivo calendario.
Era venerata in particolare dal popolino, e veniva festeggiata nel mese di aprile. Dal suo nome deriva quello dell'odierna Orte, centro della Tuscia Viterbese, nell'alto Lazio. Secondo alcuni è di origine etrusca, e sarebbe stata una divinità dell'agricoltura, equivalente alla romana Cerere.

Secondo altri ha invece origini latine e il suo nome proverrebbe da orior, (orieris, ortus sum, orieri) che allude al nascere e al sorgere, in particolare a quello del sole. Horta potrebbe derivare dunque da "Luce Horta" (lat. = all'alba). A parer nostro Horta è nome latino, vedi Hortus, per i romani il piccolo appezzamento di terreno dove si coltivavano gli ortaggi destinati alle necessità alimentari della famiglia.

In seguito l'Hortus diventa il podere coltivabile e pure la ricca villa con terreno dei patrizi romani che abbinavano lusso e necessità. Horta era pertanto l'aspetto della Dea per mezzo della quale gli umani si nutrivano, pertanto quella della vegetazione annuale e delle piante e alberi da frutto che fornivano frutti annuali, inclusi la vite e l'ulivo. 

Insomma Horta è la Dea degli Horti e dei campi coltivati, pertanto è la natura, ovvero la Dea Natura che provvede al sostentamento di uomini, animali e piante. E' la natura provvida. Non ci si deve dunque meravigliare se le sue sacerdotesse contassero gli anni, perchè la natura è appunto soggetta a l tempo, e l'uomo con lei.

I campi muoiono e rinascono ogni anno, ma pure gli animali, come gli uomini hanno un periodo di vita destinato ad estinguersi. Il rito della conta degli anni è stato da sempre un compito precipuo delle sacerdotesse, ponendo dei nastri sugli alberi, o nei templi, o conficcando chiodi nella superficie degli stessi.

ORTE ROMANA - SOTTERRANEI

HORTA O HORTIA

C'è chi la ricollega a Hortia, o Ortia, ovvero ad Artemide Ortia di origine spartana, ma gli Etruschi erano molto lontani nei costumi dagli spartani, e poi c'è chi la riconduceva alla Dea Orsa.

Ad Artemide però era sacra l'orsa perché in origine, è essa stessa un'orsa, è la temibile "Signora delle belve" (Potnia theron) detta anche Ortia e forse Nortia. Infatti un attributo di Nortia era un chiodo che veniva conficcato nella parete del tempio di Volsinii per marcare ogni anno il Nuovo Anno.
Tito Livio (7,3,7) riporta che secondo lo storico Cincio, a Volsinii nel tempio della Dea etrusca Nortia si potevano ancora vedere dei chiodi piantati per indicare il numero degli anni.

La Dea orsa, come appunto l'orsa, è selvaggia, pericolosa, aggressiva, però affettuosissima con i piccoli per la cui difesa è disposta a dare la vita. Inoltre alleva i piccoli completamente da sola, perchè non fa coppia col maschio, che deve anche sfuggire onde non abbia da far male ai piccoli.

Nortia, come Ortia, è la Dea Natura, senza marito ma intensamente Madre. E Nortia era luna in cielo, orsa sulla terra e infera nel mondo dei morti, e nessun mondo era superiore o inferiore agli altri due.



GLI DEI CELESTI

Gli Dei celesti, vedi quelli dell'Olimpo stavano aldisopra degli uomini ed erano praticamente intaccati dalle loro vicende, mentre le Grandi Dee erano in cielo, in terra e negli inferi, molto più vicine alla vita e alla morte degli uomini, e pertanto alle loro vicende.

Basta capire che per i romani, e pure per gli italici, gli Dei non stavano in cielo nè tantomeno sull'Olimpo, ma stavano nei templi, da cui uscivano per le processioni o per i lectisternia dove stavano allungati come su un triclinio (e infatti venivano posti su triclinii), oppure stavano seduti su degli scranni a godersi i Ludi romani.

Pertanto Horta era Dea triplice, di cielo, terra e inferi, ma incarnava nella venerazione dei suoi fedeli, soprattutto il lato terrestre di nutrice dei viventi, come terra prolifica.


FLAVIO EZIO - FLAVIUS AETIUS

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FLAVIO EZIO E MOGLIE

Nome: Flavius Aetius
Nascita: Durosturum, 390
Morte: Ravenna 21 settembre 454
Professione: Generale
Soprannome:"L'ultimo dei Romani"



Edward Gibbon (1737 – 1794):
«l'uomo celebrato universalmente come terrore dei Barbari e baluardo della Repubblica di Roma».

Flavio Ezio o Aezio ovvero Flavius Aetius; Durosturum, (390 circa – Ravenna, 21 settembre 454) è stato un grande generale romano, più volte console e ministro sotto Valentiniano III (419 – 455), famoso soprattutto per la sua vittoria su Attila, contro l'esercito degli Unni presso i Campi Catalaunici.

Ezio nacque a Durosturum in Mesia inferiore (oggi Silistra in Bulgaria), intorno al 390; da Gaudenzio, comandante militare romano secondo alcuni di antica origine scita o gotica, e una madre discendente da una ricca e nobile famiglia italica.

Prima del 425 sposò la figlia dell'ex-comes domesticorum Carpilione, dalla quale ebbe un figlio cui diede il nome del nonno materno. Dopo il 432 sposò Pelagia, vedova di Bonifacio, (generale romano e governatore della diocesi d'Africa, l'avversario di Flavio Ezio). da cui ebbe il figlio Gaudenzio. Forse ebbe anche una figlia che sposò Traustila.

Questi era protector (guardia del corpo dell'Imperatore) e nel 455, insieme al collega Ottila, assassinò l'imperatore Valentiniano III, per vendicare la morte di Flavio Ezio, generale che Traustila e Ottila avevano servito, avvenuta per mano di Valentiniano e a causa delle trame di Eraclio.

PROBABILE EZIO E MOGLIE

PELAGIA ( 429-451)  


Di nobile famiglia di origine barbarica, forse visigota, fu la moglie dei due più importanti generali romani della sua epoca, Bonifacio ed Ezio. Cristiana ariana, si convertì al cattolicesimo prima del matrimonio col generale Bonifacio.

Con la morte del marito, nel 432, ferito nella vittoriosa battaglia contro il suo rivale Ezio, divenne molto ricca e Marcellino narra che, sul letto di morte, Bonifacio fece promettere a Pelagia che si sarebbe risposata solo con Ezio, cosa che però solleva molti dubbi.

Da Ezio Pelagia ebbe un figlio, Gaudenzio, nato attorno al 440, che avrebbe dovuto sposare Galla Placidia, figlia di Valentiniano III; per tutelarne le aspirazioni politiche e imperiali, Pelagia convinse il marito ad ostacolare il futuro imperatore Maggioriano, l'ultimo buon imperatore di Roma. Quando Valentiniano morì, avvenne il sacco di Roma (455) da parte dei Vandali di Genserico (390-477), che tornarono in Africa portandosi dietro come ostaggio Gaudenzio.



LA CARRIERA DI EZIO

Da ragazzo fu dato in ostaggio prima al Re dei Visigoti Alarico, dal 405 al 408, da cui apprese l’arte della guerra, venne richiesto nuovamente come ostaggio ma gli fu rifiutato, poi però venne concesso al Re degli Unni Rua sempre in qualità di ostaggio, divenendone però amico. Venne arruolato nell'unità militare dei tribuni praetoriani partis militaris. 

Dopo aver cercato invano di sostener l’usurpatore Giovanni Primicerio, divenne fedele all’Imperatore Valentiniano III, di cui divenne generale nel 423, quando l'imperatore d'Occidente Onorio morì, e venne nominato imperatore Giovanni Primicerio che Ezio servì come Cura Palatii. Giovanni non fu però riconosciuto dall'imperatore d'Oriente Teodosio II, che inviò in Italia un esercito per porre sul trono suo nipote Valentiniano III.

Giovanni inviò allora Ezio presso gli Unni, a chiedere aiuto e, nel 425 Ezio tornò in Italia con un esercito di Unni di Unni, ma Giovanni era già stato deposto e ucciso da Valentiniano (419-455), ovvero da sua madre, l'Augusta Galla Placidia, visto che Valentiniano aveva appena sei anni. L'esercito barbarico spinse Galla Placidia a fare accordi con Ezio, che rimandò i propri uomini nelle loro terre in cambio di un comando militare.

Ezio divenne dunque comes et magister militum per Gallias, cioè comandante supremo delle truppe stanziate in Gallia, posizione inferiore a quella del magister militum Felice, ma la sua influenza sugli ausiliari barbarici rese Ezio l'uomo più potente della Gallia. 

EZIO
Galla Placidia (388/392 - 450) riuscì poi a mettere l'uno contro l'altro Ezio, Bonifacio e Felice, per paura che attentassero al trono di Valentiniano. Nel 429 Ezio fu nominato magister militum praesentalis iunior dell'Impero d'Occidente; mentre Felice, sostenitore di Galla Placidia, era stato nominato patricius nel 425, nel 428 console per l'Occidente e magister militum praesentalis senior, quindi più potente di lui.

Nel 426, Ezio sconfisse i Visigoti che assediavano Arelate (Arles) costringendoli a ritornare in Aquitania e nel 428 sconfisse i Franchi, sgombrandoli dal territorio occupato lungo il Reno.

Nel 430, Ezio sconfisse in Rezia gli Iutungi, tribù germanica degli Alemanni, e distrusse un contingente visigoto nei pressi di Arelate, catturandone il capo, Anaolso. Nello stesso anno Felice, sua moglie Padusia Avita e il diacono Grunito furono arrestati a Ravenna e uccisi per ordine di Ezio, accusati di aver complottato a suo danno.

Nel 431 sconfisse i Norici (Marcomanni e Suebi), poi tornò in Gallia e ricevette Idazio, storico ispanico e vescovo di Aquae Flaviae, sulle rive del Tamega, che chiedeva soccorso per le razzie delle tribù Suebi, germaniche del Mar Baltico.

Nel 432 sconfisse i Franchi, popoli germanici occidentali, inducendoli alla pace e rimandando Idazio in Spagna come ambasciatore presso i Suebi. Poi venne fatalmente in conflitto col potente Bonifacio. Gli storici Procopio di Cesarea e Giovanni di Antiochia affermavano che gettò tanto discredito sul comes Bonifacio che lo fece proclamare nemico di Roma (427), ma successivamente successivamente Galla Placidia lo riabilitò (429).

Nel 432, quando Bonifacio aveva ottenuto il magisterio militare e il patriziato, superando Ezio che era solo Magister militum oltre che console dell'anno. I due si affrontarono, Bonifacio col suo esercito ed Ezio, che stava organizzando un esercito con l'aiuto del re unno Rua, ponendosi come fuorilegge. La battaglia avvenne presso Ravenna e fu vinta da Bonifacio, che però morì poco dopo per le ferite riportate nello scontro.

Ezio fuggì in campagna, ma, dopo aver subito un attentato, fuggì prima a Roma e poi presso gli Unni. Con l'aiuto militare dei suoi alleati, l'anno dopo tornò in Italia e costrinse Galla Placidia ad accettare le sue condizioni.

Fece esiliare dall'Italia il genero e successore di Bonifacio, Sebastiano, elevato al rango di magister militum praesentalis e patricius dall'imperatrice Galla Placidia. 

Poi sposò la vedova di Bonifacio, Pelagia, ottenendone i beni e i contingenti militari privati. Si fece nominare Comes et Magister militum, il massimo rango militare d'Occidente, e ottenne finalmente il rango di patricius.

Dal 433 al 450 Ezio divenne la persona più potente dell'Impero d'Occidente ma pure un valoroso e attento generale che curò soprattutto la difesa della frontiera delle Gallie. Egli continuò ad avere sostegno dagli Unni, che però dovette ripagare cedendo loro la Pannonia e la Valeria nel 435.

Secondo il panegirico di Merobaude, per merito di Ezio, «il Reno firmò dei patti che asservivano quel freddo mondo a Roma»;
ma verso i Burgundi, Ezio ebbe la sua piena rivincita.

GALLA PLACIDIA,VALENTINIANO III E GIUSTA GRATA ONORIA
Nel 436/437, infatti, il Magister Militum dell'Impero romano d'Occidente, sfruttando il supporto militare degli Unni, pose fine alle loro incursioni, sottomettendo i Burgundi, tribù germanica dell'est stanziati nella Gallia Belgica, di Gundecario (colui che nella leggenda avrebbe fatto cadere il tesoro dei Nibelungi nel Reno) nel 436, e costringendoli a chiedere la pace.

Nel 437 poi gli Unni attaccarono e annientarono per sempre i Burgundi. Intanto l'Armorica si era ribellata sotto la guida di Tibattone. Nell'anno stesso anno un generale di Ezio, Litorio, che fu tra il 435 e il 437 Comes rei militaris in Gallia, riuscì a sopprimere la rivolta. Grazie a tutti questi successi Ezio venne nominato console per la seconda volta.

Nel frattempo i Visigoti erano in rivolta, protesi ad acquisire lo sbocco al Mediterraneo assediando Narbona (Gallia narbonense, nella parte meridionale) nel 436 onde prenderla per fame. Deciso a farla finita con le incursioni dei Visigoti, Ezio inviò nel 437 il generale Litorio con ausiliari unni per liberare Narbona, portando ciascuno un sacco di grano alla popolazione e liberando la città.

ATTILA
Poi nel 438 Ezio sconfisse i Visigoti (scandinavi) nella battaglia di Mons Colubrarius, ma l'impiego degli Unni pagani contro i cristiani Visigoti scandalizzò molti, come lo scrittore marsigliese Salviano, autore del "De gubernatione Dei" (Il governo di Dio), che badavano più alla conquista del potere ecclesiastico che alla salvezza dell'impero romano. 

Secondo Salviano i Romani, adoperando i pagani Unni contro i cristiani Visigoti, avrebbero perso la protezione di Dio (che era molto interessato alle guerre), perché i Romani «avevano avuto la presunzione di riporre la loro speranza negli Unni, essi invece che in Dio». In realtà i romani, conversi al cristianesimo non pensavano più alla patria ma a salvarsi l'anima, lasciando l'impero aperto alle invasioni.
Si narra che nel 439 Litorio, arrivato ormai alle porte della capitale visigota Tolosa, permettesse agli Unni di compiere sacrifici alle loro divinità e di predire il futuro attraverso la scapulimanzia, suscitando lo sdegno e la condanna degli intransigenti scrittori cristiani.

La vittoria però arrise ai Visigoti, che catturarono Litorio e lo giustiziarono. Secondo Salviano la sconfitta degli arroganti Romani contro i  goti timorati di Dio, era una giusta punizione per Litorio, e confermava il passo del Nuovo Testamento, secondo cui «chiunque si esalta sarà umiliato, e chiunque si umilia sarà esaltato.» Pensare ai crudeli Visigoti e al sacco di Roma del 410 fa sorgere molti dubbi.  

I Visigoti nel Sacco di Roma compirono barbare violenze su donne e anziani. Gli edifici più colpiti furono il palazzo dei Valerii sul Celio e le ville sull'Aventino che furono incendiate; le terme di Decio vennero gravemente danneggiate, e il tempio di Giunone regina fu distrutto. Le statue del Foro furono spogliate, la curia Iulia, sede del senato, venne data alle fiamme e l'imperatrice Galla Placidia presa in ostaggio da Alarico.

Nonostante tutto, nei tre giorni di saccheggio Alarico impartì l'ordine di risparmiare i luoghi di culto (soprattutto la basilica di San Pietro), come luoghi di asilo inviolabili, cosa che colpì molto sant'Agostino (nel De civitate Dei) come segno della prossima fine del mondo o della punizione che Dio infliggeva alla capitale del paganesimo, da scegliere a piacere.

LE INCURSIONI DI ATTILA (INGRANDIBILE)
La sconfitta e morte di Litorio obbligò Ezio a fare pace coi Visigoti riconfermando il trattato del 418, dopodiché tornò in Italia, per l'emergenza Vandali, che avevano conquistato Cartagine. In Spagna Ezio si limitò a negoziare delle trattative tra Svevi e Galiziani, non volendo perdere soldati per riconquistare una provincia povera come la Galizia. Ripristinò invece il dominio romano sul resto della Spagna, che ricominciò di nuovo a far affluire entrate fiscali nelle casse dello Stato.

La perdita di Cartagine portò Ezio a stringere un accordo di pace con i Visigoti, e confermò loro il possesso dell'Aquitania, per tornare in Italia e affrontare i Vandali. Roma lo accolse con tutti gli onori, per volere dell'imperatore gli eressero una statua e Merobaude scrisse un panegirico in suo onore. Nel 440 tornò in Gallia dove ebbe dissidi con il prefetto del pretorio delle Gallie Albino (console del 444), ma il diacono Leone, futuro papa Leone I, li fece riappacificare.
Dopo la caduta di Cartagine in mano vandala, del 439, vi fu l'invasione vandalica della Sicilia nel 440. L'Imperatore Teodosio II inviò una flotta di ben 1100 navi in Sicilia per un attacco congiunto delle due metà dell'Impero contro i Vandali: ma una massiccia invasione unna nei Balcani ad opera di Attila costrinse Teodosio II a richiamare la flotta. 
L'Impero negoziò la pace con i Vandali nel 442, riprendendosi le Mauritanie e parte della Numidia, ma riconoscendo ai Vandali il possesso di Proconsolare, Byzacena e del resto della Numidia. Il re vandalo Genserico inviò come ostaggio a Ravenna il figlio Unerico, che si fidanzò con la figlia dell'Imperatore, secondo i termini del trattato.
Nel 442, Ezio riportò l'ordine in Armorica, infestata dai ribelli, permettendo agli Alani di re Goar di insediarsi nella regione. Nel 443 stanziò come foederati i rimanenti Burgundi nella odierna Savoia a sud del Lago di Ginevra. Questi barbari foederati, avrebbero tenuto a bada i ribelli difendendo le frontiere da altri barbari, ma i proprietari terrieri gallici protestarono perchè molti di loro vennero espropriati dei loro possedimenti da questi foederati.

I ROMANI SI APPRESTANO A FERMARE ATTILA
Gli Unni attaccarono l'Impero romano d'Occidente solo otto anni dopo, nel 451, ma, attaccando l'Impero romano d'Oriente proprio in coincidenza con la spedizione congiunta contro Cartagine, avevano indirettamente favorito Genserico provocando il fallimento della spedizione e costringendo l'Impero d'Occidente a rinunciare alle più ricche province dell'Africa.
Nel 446 Ezio fu eletto console per la terza volta e ricevette l'ultima richiesta d'aiuto da parte dei Romani di Britannia, il cosiddetto Gemitus Britannorum, contro gli invasori Sassoni, ma Ezio non accorse perché impegnato su altri fronti. Nel 447 o 448 sorsero nuovi problemi in Armorica, a causa dello stanziamento degli Alani. Vi fu una battaglia presso Tours, seguita da un attacco dei Franchi di Clodione,  sconfitti da Ezio a vicus Helena.

Intanto in Spagna il re svevo Rechila, tra il 439 e il 441, conquistò Lusitania, Betica e Cartaginense, riducendo la Spagna romana alla Tarraconense, infestata dai Bagaudi. Ezio, impegnato in altri fronti, inviò dei generali che sedassero le rivolte dei Bagaudi nella Tarraconense. 
Nel 446 inviò il generale Vito con un forte esercito rinforzato da contingenti di Visigoti; ma fu annientato da Rechila, la Tarraconense continuò ad essere infestata dai Bagaudi, che nel 449 nominarono come leader Basilio e si allearono con il nuovo re degli Svevi, Rechiaro, saccheggiando il territorio imperiale e massacrando in una chiesa a Tyriasso i federati goti.

Nel 449 Ezio inviò al sovrano unno una ambasciata per placare la sua rabbia a seguito di un presunto furto di un piatto d'oro; Attila gli donò un nano, di nome Zercone, che poi Ezio restituì al suo primo padrone Aspare. Nel 450 morì il re dei Franchi, ed Ezio sostenne il suo figlio minore come successore. Il giovane si trovava a Roma come ambasciatore ed Ezio lo adottò, rimandandolo in patria carico di doni.

LA BATTAGLIA DI CHALONS

EZIO VINCE ATTILA - BATTAGLIA DI CHALONS (451)

Nel 451, Attila invase l'Impero d'Occidente e progettò di eliminare Ezio prima dell'inizio della campagna; ma Ezio rimase al comando delle truppe romane. Al comando di un vasto esercito formato da Unni, Ostrogoti e Burgundi, Attila varcò il confine del Reno assoggettando molte città. Ezio, con l'aiuto di Avito, coinvolse i Visigoti di Teodorico I, gli Alani di Sangibano, e perfino i Burgundi (togliendoli ad Attila) ad allearsi contro Attila stesso.

Quando gli Alani arrivarono in Gallia, per combattere contro Attila, Ezio e il re visigoto Teodorico I mossero alla volta di Orléans, assediata da Attila che abbandonò la città e si mosse verso l'aperta campagna dove, nel 451 combattè contro l'esercito guidato da Ezio nella battaglia dei Campi Catalaunici, vicino Châlons-en-Champagne.

Fu un grande trionfo strategico per Ezio e i Romani; Attila, infatti, fu costretto a ritirare le sue truppe oltre il Reno a causa dell'inverno, pur avendo ancora tutti i mezzi necessari per riprendere le ostilità l'anno successivo. Durante la battaglia, per altro, trovò la morte Teodorico, il re dei Visigoti, ed Ezio suggerì al figlio Torismondo, acclamato re alla morte del padre, di affrettarsi a tornare nella capitale Tolosa per assicurarsi il trono minacciato dai suoi fratelli.



Dopo la vittoria su Attila, l'alleanza di Ezio si sfaldò, riuscì a contenere i Visigoti a sud della Loira, ma non gli poté impedire di assediare Arelate (451-453). Ancora Attila nel 452, con il pretesto di richiedere la mano di Onoria, invase l'Italia, saccheggiando numerose città e radendo al suolo Aquileia. 

Valentiniano III si rifugiò a Roma, Ezio rimase invece con le sue poche truppe cercando di rallentare l'avanzata del re barbaro sperando negli aiuti inviategli dall'imperatore d'Oriente, Marciano. Attila riuscì comunque a passare il Po, oltre il quale fu raggiunto da una delegazione composta dal prefetto Trigezio, dall'ex-console Gennadio Avieno e da papa Leone I. Dopo questo incontro Attila volse indietro il suo esercito senza aver richiesto per questo gesto né la mano di Onoria né i territori da lui precedentemente rivendicati.



LA MORTE

Nel 454 Ezio chiese senza successo a Valentiniano III di far fidanzare i loro figli, Gaudenzio e Placidia. Ma quello stesso anno, Ezio fu ucciso durante una discussione da Valentiniano III, a Ravenna, a seguito di intrighi ai quali non fu estraneo Petronio Massimo. Questi, debole successore di Valentiniano, non fu in grado di fermare il sacco di Roma da parte dei Vandali di Genserico, che tornarono in Africa portandosi dietro come ostaggio Gaudenzio.

In un Impero che ospitava molti Regni germanici, fu grazie alle personali alleanze coi Sovrani Burgundi, Franchi, Goti ed Unni, con cui alternava pace e guerra che Ezio era sempre riuscito a difendere Roma. E quando Attila invase l’Impero, nel 451, fu proprio egli, in alleanza con Meroveo Re dei Franchi e Teodorico I Re dei Visigoti, a sconfiggerlo ai Campi Catalaunici e a contener la sua avanzata in Italia.
Temendo però che potesse insidiargli il trono, Valentiniano III lo uccise personalmente nel 454; quando l’anno successivo due guardie del corpo di Ezio, Optila e Traustila, assassinarono l’Imperatore per vendicare Ezio, ebbe fine la dinastia teodoside e, con essa, l’Impero più grande di ogni tempo: L'Impero romano d’Occidente.

SVETONIO - CESARE (PARAGRAFO 1 - 40)

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PRESCRIZIONI DI SILLA

( 1 )  Aveva quindici anni quando perse il padre; nell'anno successivo gli fu conferita la carica di Flamendiale. Separatosi da Cossuzia, donna di famiglia equestre, ma molto ricca, alla quale era stato fidanzato fin dalla più giovane età, sposò Cornelia, figlia di Cinna, quello stesso che era stato eletto console per quattro volte.

Da lei ebbe una figlia, Giulia, e neppure Silla poté costringerlo a divorziare; allora il dittatore lo privò della sua carica sacerdotale, della dote della moglie e dell'eredità familiare, inserendolo quindi nella lista dei suoi avversari. Cesare fu costretto così a starsene nascosto, a cambiare rifugio quasi ogni notte, quantunque ammalato piuttosto gravemente di febbre quartana.

Finalmente, per intercessione sia delle Vergini Vestali, sia di alcuni suoi parenti, ottenne la grazia. Si dice che Silla, rifiutatosi a lungo di accogliere le preghiere dei suoi più illustri amici e oppostosi tenacemente alle insistenti richieste, alla fine, vinto, abbia esclamato, non si sa bene se per intuizione o per uno strano presentimento:
«Esultate e tenetevelo stretto, ma sappiate che colui che volete salvo ad ogni costo un giorno sarà la rovina del partito aristocratico che voi avete difeso insieme con me. In Cesare, infatti, sono nascosti molti Mari.»

MITRIDATE

L'AMANTE DI NICOMEDE

( 2 )   Fece il servizio di leva in Asia, presso lo stato maggiore di Marco Termo. Mandato da costui in Bitinia per cercare una flotta, si attardò presso Nicomede e qui corse voce che si fosse prostituito a quel re.

Egli stesso alimentò questa diceria quando, pochi giorni più tardi, ritornò in Bitinia con la scusa di ricuperare un credito concesso ad uno schiavo affrancato, divenuto suo cliente.
Tuttavia gli ultimi anni della sua campagna militare gli procurarono una fama migliore e Termo, in occasione della conquista di Mitilene, gli fece assegnare la corona civica.

( 3 )  Prestò servizio anche in Cilicia, agli ordini di Servilio Isaurico, ma per poco tempo. Era giunta infatti la notizia della morte di Silla e allora, con la speranza di qualche nuova discordia, che già si profilava per opera di Marco Emilio Lepido, si affrettò a rientrare a Roma.

Qui tuttavia, nonostante le vantaggiose proposte, si guardò bene dal far lega con lo stesso Lepido, perché diffidava delle sue capacità e soprattutto perché gli sembrava che le circostanze fossero meno favorevoli di quanto avesse immaginato.

( 4 )  Quando la discordia civile fu domata, Cesare incriminò per concussione Cornelio Dolabella, un ex console che aveva meritato il trionfo.

Poiché l'imputato era stato assolto, decise di andarsene a Rodi, un po' per sottrarsi ad eventuali vendette, un po' per seguire durante quel periodo di inattività e di riposo, le lezioni di Apollonio Molone, a quel tempo il più celebre maestro di oratoria.

Durante la navigazione verso Rodi, avvenuta nella stagione invernale, fu fatto prigioniero dai pirati presso l'isola di Farmacusa, e rimase con loro, non senza la più viva indignazione, per circa quaranta giorni, in compagnia di un medico e di due schiavi.

I compagni di viaggio, infatti, e tutti gli altri servi erano stati inviati immediatamente a Roma per raccogliere i soldi del riscatto.

Quando furono pagati i cinquanta talenti stabiliti, venne sbarcato su una spiaggia e allora, senza perdere tempo, assoldò una flotta e si lanciò all'inseguimento dei pirati: li catturò e li condannò a quel supplizio che spesso aveva minacciato loro per scherzo.

Mitridate, intanto, devastava le regioni vicine al suo regno e Cesare, per non apparire inattivo, mentre  altri si trovavano in difficoltà, da Rodi, dove era giunto, passò in Asia con un certo numero di truppe che aveva raccolto, scacciò dalla provincia il luogotenente del re e ridiede fiducia alle popolazioni incerte e dubbiose.

( 5 )  Durante il suo tribunato militare, la prima carica che ottenne con il suffragio popolare dopo il suo ritorno a Roma, appoggiò vigorosamente coloro che volevano ripristinare l'autorità tribunizia, da Silla indebolita. Fece poi votare la legge Plozia che concedeva il ritorno in patria a Lucio Cornelio Cinna, fratello di sua moglie, e a quelli che, con lui, al tempo della sommossa civile, prima avevano seguito Lepido e poi, alla sua morte, si erano rifugiati presso Sertorio. Sull'argomento tenne addirittura una pubblica arringa.



I FUNERALI DELLA ZIA E L'ORAZIONE

( 6 )  Quando divenne questore, dalla tribuna dei rostri pronunciò, secondo la consuetudine, il discorso funebre in onore della zia Giulia e della moglie Cornelia che erano morte. Proprio nell'elogio della zia riferì di lei e di suo padre questa duplice origine:
«La stirpe materna di mia zia Giulia ha origine dai re, quella paterna si congiunge con gli Dei immortali. Infatti da Anco Marzio discendono i Marzii, e tale fu il nome di sua madre. Da Venere hanno origine i Giulii, alla cui gente appartiene la nostra famiglia. Vi è dunque nella stirpe la santità dei re, che si innalzano sugli uomini, e la solennità degli Dei, sotto il cui potere si trovano gli stessi re."

Rimpiazzò poi Cornelia con Pompea, figlia di Quinto Pompeo e nipote di L. Silla; da lei divorziò più tardi, sospettandola di adulterio con Publio Clodio. Si andava dicendo che Clodio si era introdotto da lei, in vesti femminili, durante una pubblica cerimonia religiosa. Il Senato dovette ordinare un'inchiesta per sacrilegio.

PUBLIO CLODIO PULCRO

PIANTO SULLA TOMBA DI ALESSANDRO

( 7 ) Sempre come questore gli fu assegnata la Spagna Ulteriore; qui, con delega del pretore, percorse i luoghi di riunione per amministrare la giustizia, finché giunse a Cadice dove, vista la statua di Alessandro Magno presso il tempio di Ercole, si mise a piangere, quasi vergognandosi della sua inettitudine. Pensava infatti di non aver fatto nulla di memorabile all'età in cui Alessandro aveva già sottomesso il mondo intero.

Allora chiese subito un incarico a Roma per cogliere al più presto l'occasione di compiere grandi imprese. Nello stesso tempo, turbato da un sogno della notte precedente (aveva sognato infatti di violentare sua madre) fu incitato a nutrire le più grandi speranze dagli stessi indovini che gli vaticinarono il dominio del mondo quando gli spiegarono che la madre, che aveva visto giacere sotto di lui, altro non era che la terra stessa, considerata appunto madre di tutti.

( 8 )  Lasciata dunque, prima del tempo, la provincia, si recò a visitare le colonie latine che lottavano per ottenere i diritti di cittadinanza. Molto probabilmente avrebbe tentato qualche grosso colpo se i consoli, prevenendo i suoi progetti, non avessero trattenuto per un po' di tempo le legioni arruolate per un'operazione militare in Cilicia.

( 9 )  Non di meno anche a Roma tentò qualcosa di più grande: infatti pochi giorni prima di accedere alla carica di edile venne sospettato di aver complottato con l'ex console Marco Crasso, d'accordo con Publio Silla e con Lucio Autronio, condannati per broglio elettorale, dopo essere stati designati consoli.

Il piano prevedeva di attaccare il rituale riservato esclusivamente alle donne, ma evidentemente Clodio non aveva scrupoli di nessun genere. Avrebbero quindi attaccato il Senato al principio dell'anno e ucciso tutti quelli che avevano preventivamente stabilito. Compiuta la strage, Crasso sarebbe divenuto dittatore, Cesare sarebbe stato da lui nominato maestro della cavalleria e, organizzato lo Stato a loro piacimento, sarebbe stato riconferito il consolato a Silla e Autronio.

Fanno menzione di questa congiura Tanusio Gemino, nella sua storia, Marco Bibulo nei suoi editti, e Caio Curione, il padre, nelle sue orazioni. Anche Cicerone, in una lettera ad Axio, sembra alludere a questo complotto quando dice che Cesare, una volta console, si assicurò quella sovranità che si era promesso come edile.

Tanusio aggiunge che Crasso, o perché pentito, o perché timoroso, non si fece vedere il giorno stabilito per la strage, e di conseguenza neppure Cesare diede il segnale che si era convenuto secondo gli accordi. Curione dice che, come segnale, Cesare avrebbe dovuto far cadere la toga dalla spalla.

Lo stesso Curione, ma anche Marco Actorio Nasone affermano che aveva pure cospirato con il giovane Gneo Pisone, al quale, proprio perché sospettato di una congiura a Roma, sarebbe stata assegnata, in via straordinaria, la provincia spagnola. Si sarebbero accordati per provocare una rivoluzione, nello stesso tempo, Pisone fuori e Cesare a Roma, facendo insorgere gli Ambroni e i Galli Traspadani. La morte di Pisone mandò a monte il duplice progetto.



CESARE UNICO CONSOLE

( 10 )  Quando era edile adornò non solo il comizio, ma anche il foro e le basiliche di portici provvisori per esporvi una parte delle molte opere d'arte che possedeva.

MARCO BIBULO
Organizzò, o con la collaborazione del collega in carica, o per conto proprio, battute di caccia e giochi; così avvenne che anche delle spese sostenute in comune si ringraziava soltanto lui.

E il suo collega Marco Bibulo non nascondeva che gli era toccata la stessa sorte di Polluce: come infatti il tempio dei due fratelli gemelli, eretto nel foro, veniva indicato soltanto con il nome di Castore, così la generosità sua e di Cesare solo a Cesare era attribuita.

Per di più Cesare offrì anche un combattimento di gladiatori, tuttavia meno grandioso di quello che aveva progettato.

La verità era che i suoi nemici si erano preoccupati perché aveva raccolto da ogni parte una enorme quantità di gladiatori: per questo si stabilì che a nessun cittadino fosse lecito possederne in Roma più di un certo numero.

( 11 )  Guadagnatosi il favore del popolo, con l'aiuto di alcuni tribuni brigò per farsi assegnare, attraverso un plebiscito, la provincia dell'Egitto; vedeva là l'occasione di ottenere un comando straordinario, perché gli abitanti di Alessandria avevano scacciato il loro re, che il Senato aveva dichiarato amico e alleato. L'atto di rivolta era stato disapprovato a Roma.

Tuttavia, per l'opposizione degli ottimati, non ottenne lo scopo; allora, per ridurre in qualunque modo possibile la loro influenza, ripristinò i trofei delle vittorie di Mario su Giugurta, sui Cimbri e sui Teutoni, a suo tempo rimossi da Silla.

Trattando poi la questione dei sicari, considerò tali anche coloro che, durante il periodo delle proscrizioni, avevano ricevuto denari dall'erario per essere stati delatori di alcuni cittadini romani. E ciò nonostante le eccezioni previste dalle leggi Cornelie.

( 12 )  Convinse anche qualcuno a trascinare in giudizio Gaio Rubinio per alto tradimento. Grazie al suo aiuto, infatti, il Senato, alcuni anni prima, aveva represso un tentativo di sedizione del tribuno Lucio Saturnino. Sorteggiato come giudice del colpevole, ci mise tanto impegno a condannarlo che Rubinio, appellatosi al popolo, trovò la sua miglior difesa proprio nella severità del suo giudice.



LA CARICA DI PONTEFICE

( 13 )  Deposta la speranza di avere il comando di una provincia, si diede da fare per ottenere la dignità di pontefice massimo, naturalmente con grandi elargizioni di denaro. Così, pensando all'enormità dei suoi debiti, sembra che, avviandosi alle elezioni, abbia detto alla madre che lo abbracciava: «Non tornerò a casa se non con la carica di pontefice

In tal modo batté due competitori assai potenti, che lo superavano sia per età, sia per dignità, anzi ottenne più suffragi nelle loro tribù che quei due in tutte le altre messe insieme.

LUCIO SERGIO CATILINA

LA CONGIURA DI CATILINA

( 14 )  Era pretore quando venne scoperta la congiura di Catilina e mentre compatto il Senato decretava la pena di morte per i congiurati, lui solo sostenne che si doveva imprigionarli separatamente nelle città municipali e confiscare i loro averi.

A furia di mostrare che il popolo romano avrebbe in seguito provato invidia per loro, gettò un tal panico tra i fautori della severità ad oltranza, che il console designato Decimo Silano non si vergognò di dare un'interpretazione più addolcita della sua sentenza, proprio perché sarebbe stato vergognoso cambiarla.

Disse che era stata presa in un senso più rigoroso di quanto egli stesso intendesse. Cesare avrebbe ottenuto lo scopo perché erano già passati dalla sua parte moltissimi senatori, tra i quali anche Cicerone, il fratello del console, ma il discorso di Marco Catone convinse finalmente il Senato indeciso.

Anche allora, tuttavia, egli non rinunciò alla sua opposizione, finché una schiera di cavalieri romani che se ne stava in armi attorno alla curia per sorvegliare, lo minacciò di morte, per la sua eccessiva insistenza, dirigendo contro di lui le spade sguainate.

Coloro che gli erano seduti vicino si allontanarono e a stento alcuni amici riuscirono a proteggerlo, prendendolo fra le braccia e riparandolo con la toga. Veramente spaventato, questa volta, non solo desistette, ma per il resto dell'anno non si fece più vedere in Senato.

( 15 )  Il primo giorno della sua pretura citò davanti al popolo Quinto Catulo per un'inchiesta sulla ricostruzione del Campidoglio, presentando nello stesso tempo un progetto di legge che affidava ad un altro l'appalto di quei lavori; troppo debole, però, di fronte alla coalizione degli ottimati che, abbandonato il servizio d'onore ai nuovi consoli, vedeva correre numerosi e decisi a resistere alle sue intenzioni, lasciò cadere anche questo proposito.

( 16 )  Ma quando Cecilio Metello, tribuno della plebe, volle far passare, contro il parere dei colleghi, alcune leggi chiaramente sovversive, se ne mostrò il più grande sostenitore e il più costante difensore, finché tutti e due, per decreto del Senato, furono rimossi dalle loro funzioni politiche. Ciò nonostante ebbe il coraggio di restare in carica e di continuare ad amministrare la giustizia.

Quando poi venne a sapere che si stavano preparando per impedirgli ogni attività con la forza delle armi, congedati i suoi littori e deposta la sua pretesta, si ritirò segretamente in casa, deciso, per il momento critico, a starsene tranquillo. Arrivò perfino, due giorni dopo, a placare la folla che si era spontaneamente riunita sotto la sua casa per promettergli rumorosamente di aiutarlo a riprendere la sua carica.

Poiché il fatto avvenne contro ogni aspettativa, il Senato, che in fretta si era riunito proprio a causa di quell'assembramento, lo ringraziò attraverso i cittadini più in vista, lo fece chiamare in curia, lo lodò con belle parole e lo reintegrò nelle sue cariche, dopo aver revocato il precedente decreto.



SOSPETTI SU CESARE COME COMPLICE DI CATILINA

( 17 )  Ma incorse ancora in un altro inconveniente quando venne denunciato come complice di Catilina, prima davanti al questore Novio Negro, su delazione di Lucio Vettio, poi davanti al Senato, su delazione di Quinto Curio.

A costui erano stati assegnati premi pubblici perché aveva svelato per primo i piani dei congiurati. Curio sosteneva di aver saputo da Catilina la complicità di Cesare e Vettio arrivava a promettere di mostrare un biglietto autografo, scritto da Cesare per Catilina.

Pensando di non dovere in nessun modo sopportare una simile accusa, Cesare dimostrò, invocando la testimonianza di Cicerone, che proprio lui aveva svelato al console alcuni dettagli della congiura e fece in modo che nessuna ricompensa fosse assegnata a Curio.

Quanto a Vettio, gli si inflisse un sequestro, si presero i suoi mobili, fu maltrattato e quasi messo alla berlina, in piena assemblea, davanti ai rostri; dopo di che Cesare lo fece mettere in prigione. Con lui vi cacciò anche il questore Novio, perché aveva permesso che davanti a lui venisse accusato un magistrato di grado superiore.

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GIULIO CESARE

CESARE OTTIENE LA SPAGNA ULTERIORE

( 18 )  Allo scadere del suo mandato di pretore, gli fu assegnata la Spagna Ulteriore; i suoi creditori, però, non lo lasciavano partire, ma si sbarazzò di loro con l'aiuto di gente che garantisse per lui. Quindi, contrariamente alla consuetudine e alle leggi, partì prima ancora che le province fossero dotate di tutto il necessario. Non è ben chiaro se lo fece per timore di un processo che gli si stava intentando privatamente, o per recare aiuto con più tempestività agli alleati che lo invocavano.

Pacificata la provincia, con altrettanta rapidità, senza attendere il suo successore, tornò a Roma, per chiedere contemporaneamente sia il trionfo, sia il consolato. Le elezioni, però, erano già state indette e quindi non si poteva tener conto della sua candidatura, a meno che non fosse entrato in città come privato cittadino. Brigò per ottenere una deroga dalla legge, ma molti gli si opposero. Così, per non essere escluso dal consolato, fu costretto a differire il trionfo.

( 19 ) Dei due competitori al consolato, Lucio Luccio e Marco Bibulo, egli si associò al primo, con il patto che, essendo quello inferiore per prestigio, ma stimabile per patrimonio, promettesse a tutte le centurie, in nome di tutti e due, notevoli elargizioni di denaro, che avrebbe concesso attingendo dai propri fondi.

Risaputo l'accordo gli ottimati, presi dal timore che Cesare, una volta ottenuta la massima carica, si sarebbe permesso di tutto, con il consenso e l'appoggio del collega, raccomandarono a Bibulo di fare promesse dello stesso genere, e molti misero a disposizione i denari.

Perfino Catone sostenne che tali elargizioni giovavano allo Stato. Fu così che Cesare venne eletto console insieme con Bibulo. Per questa stessa ragione gli ottimati si diedero da fare perché ai futuri consoli venissero assegnate province di poco conto, più precisamente zone di boschi e di pascoli.

Colpito profondamente da queste ingiustizie, Cesare si mise a corteggiare in mille modi Gneo Pompeo, che dal canto suo era irritato con i senatori perché tardavano a ratificare i suoi atti dopo la vittoria sul re Mitridate.

Cesare riuscì a riconciliare Marco Crasso con Pompeo, separati da un'antica rivalità fin dai tempi in cui esercitarono il consolato nel disaccordo più completo: insomma strinse con loro un'alleanza, in base alla quale non si doveva fare niente, nell'ambito dello Stato, che potesse dispiacere a uno dei tre.

GNEO POMPEO MAGNO

IL TRIUNVIRATO

( 20 )  Entrato in carica, Cesare per prima cosa stabilì che tutti gli atti, sia del Senato sia del popolo, venissero resi pubblici. Ristabilì inoltre l'antica usanza, secondo la quale nel mese in cui non disponeva di fasci, fosse preceduto da un messo e subito seguito dai littori. Promulgò poi una legge agraria, e quando il suo collega tentò di opporsi, lo fece cacciare dal foro con le armi.

Il giorno dopo Bibulo si lamentò in Senato, ma non trovò nessuno che osasse fare un rapporto su un simile atto di violenza e proporre misure che già erano state prese in circostanze di ben minor gravità. Fu talmente scoraggiato, che, per tutta la durata della sua carica, se ne stette nascosto in casa, limitandosi a manifestare la sua opposizione solo per mezzo di comunicati.

Da quel momento Cesare regolò da solo, e a suo piacimento, tutti gli affari dello Stato: fu così che alcune persone spiritose, dovendo datare un atto per renderlo autentico, scrivevano che era stato redatto non durante il consolato di Bibulo e Cesare, ma di Giulio e Cesare, nominando due volte la stessa persona, prima con il nome, poi con il soprannome.

Ben presto insomma cominciarono a correre tra il popolo questi versi: «Non Bibulo, ma Cesare ha fatto la tal cosa; Non ricordo che Bibulo, da console, abbia fatto qualcosa
Il campo di Stella, consacrato dagli antenati, e l'Agro Campano, che era rimasto soggetto ad imposte per i bisogni dello Stato, furono divisi da Cesare, senza estrazione a sorte, tra ventimila cittadini che avevano tre o più figli.

Quando gli esattori delle imposte vennero a chiedere un alleggerimento del canone di appalto, condonò loro un terzo, ma raccomandò anche pubblicamente di non essere sfrenati nell'aggiudicare nuove imposte.

Per il resto elargiva favori a chiunque glieli chiedesse, senza che nessuno facesse opposizione, e se qualcuno ci si provava, lo minacciava fino a spaventarlo. Marco Catone gli si oppose, ed egli lo fece uscire dalla curia per mezzo di un littore e condurre in prigione.

Lucio Lucullo, con eccessivo ardimento, provò a resistergli: Cesare gli gettò addosso una tale paura con insinuazioni calunniose che spontaneamente quello si gettò ai suoi piedi. Cicerone, durante un processo, deplorò le condizioni dei tempi: Cesare, nello stesso giorno, alle tre del pomeriggio, fece passare Publio Clodio, nemico personale dell'oratore, dalla classe dei patrizi a quella della plebe, favore che Clodio già in precedenza aveva tentato invano di ottenere.

Infine contro tutti i nemici di diversa fazione cercò di ricorrere a un delatore che, corrotto dal denaro, si prestasse a dichiarare che era stato sollecitato da alcuni di loro ad uccidere Pompeo e salisse sui rostri per indicare, secondo i suoi suggerimenti, gli istigatori del crimine.

Il disgraziato però cominciò a confondersi dopo aver pronunciato due nomi, cosa che fece sospettare la frode. Cesare allora cominciò a pensare che un'impresa così temeraria non avrebbe avuto successo e fece sopprimere il delatore: pare con il veleno.

CALPURNIA

CALPURNIA

( 21 ) Nello stesso periodo di tempo Cesare sposò Calpurnia, figlia di Lucio Pisone, che gli sarebbe succeduto nel consolato, e diede in moglie a Gneo Pompeo la propria figlia Giulia, dopo averla fatta divorziare dal precedente marito Servilio Cepione, con l'aiuto del quale, poco prima, aveva combattuto contro Bibulo.

Stabilita questa nuova parentela, prese l'abitudine di chiedere per prima cosa il parere di Pompeo, anziché quello di Crasso, come era solito fare, benché fosse tradizione che il console, durante tutto l'anno, chiedesse i pareri secondo l'ordine che aveva introdotto al primo di gennaio.



LA PROVINCIA DELLE GALLIE

( 22 ) Così, con l'appoggio del suocero e del genero, fra le tante province, scelse le Gallie, pensando che vi avrebbe trovato non poche risorse e occasioni favorevoli per riportarvi trionfi. Tuttavia all'inizio gli fu assegnata soltanto la Gallia Cisalpina con l'aggiunta dell'Illirico, in forza della legge Vatinia. Ben presto, però, il Senato vi unì anche la Transalpina, perché i senatori temevano che se gliel'avessero negata, l'avrebbe avuta dal popolo.

Al colmo della gioia, Cesare non seppe più contenersi e alcuni giorni più tardi si vantò, davanti a numerosi senatori, di aver ottenuto quello che desiderava, nonostante le opposizioni e le lagnanze dei suoi avversari, e che ormai da quel momento avrebbe potuto farsi beffe di tutti.

Un senatore, con il preciso scopo di offenderlo, dichiarò che ciò non sarebbe stato facile per una donna, ma Cesare, con l'aria di stare allo scherzo, rispose che anche Semiramide aveva regnato in Siria e che le Amazzoni avevano dominato su gran parte dell'Asia.



CESARE MINACCIATO DI GIUDIZIO

( 23 ) Allo scadere del consolato, i pretori Gaio Memmio e Lucio Domizio presentarono una relazione sui fatti dell'anno precedente: allora Cesare deferì al Senato l'istruzione dell'affare, ma poiché il Senato non se ne occupava, e tre giorni erano stati perduti in varie discussioni, se ne partì per la provincia.

Subito il suo questore fu trascinato in giudizio sotto varie imputazioni, in vista di un'inchiesta pregiudiziale. Ben presto fu citato anche lui da Lucio Antistio, tribuno della plebe, e dovette alla fine appellarsi al collegio dei tribuni per ottenere di non essere accusato, dal momento che era assente per servizio di Stato.

Così, allo scopo di garantirsi in avvenire la propria sicurezza, si diede da fare per legare a sé ogni anno i vari magistrati in carica e sostenere o lasciar giungere agli onori soltanto quei candidati che si fossero impegnati a difenderlo durante la sua assenza. Di questo accordo non esitò a pretendere da alcuni un giuramento e perfino una dichiarazione scritta.



LA PROROGA DEL CONSOLATO

( 24 )  Ma quando Lucio Domizio, candidato al consolato, lo minacciò pubblicamente di realizzare come console ciò che non aveva potuto fare come pretore e di togliergli il comando delle truppe, convinse Crasso e Pompeo, che aveva convocato a Lucca, città della sua provincia, a concorrere per un altro consolato, allo scopo di ostacolare Domizio, e riuscì, con l'appoggio di entrambi, ad ottenere la proroga del suo comando per un altro quinquennio.

Forte di questo successo, aggiunse, a proprie spese, altre legioni a quelle che aveva ricevuto dallo Stato. Una di queste fu reclutata fra i Galli transalpini e chiamata con nome gallico (quello di Alauda), ma fu addestrata secondo la disciplina e la tradizione romane. Più tardi la gratificò tutta quanta del diritto di cittadinanza.

In seguito non trascurò nessuna occasione di fare la guerra, anche a dispetto della giustizia, e di recar danno sia agli alleati, sia alle popolazioni nemiche e selvagge, apertamente provocate, tanto che il Senato, un bel momento, decise di inviare alcuni commissari per accertare la situazione delle Gallie.

Alcuni senatori arrivarono perfino a proporre di consegnarlo al nemico, ma poiché tutte le sue imprese avevano successo, egli ottenne pubblici ringraziamenti più spesso e più a lungo di qualunque altro generale.



NOVE ANNI DI GUERRE

( 25 ) Ecco in sintesi le sue imprese durante i nove anni di comando. Ad eccezione delle città alleate e di quelle che avevano acquisito meriti davanti a Roma, ridusse alla condizione di provincia tutta la Gallia compresa tra le catene dei Pirenei, delle Alpi e delle Cevenne e i fiumi Reno e Rodano, che si estende per tre milioni e duecentomila passi e vi impose un tributo annuo di quaranta milioni di sesterzi.

Primo fra i Romani, aggredì i Germani, abitanti oltre il Reno, dopo aver costruito un ponte sul fiume, e inflisse loro gravi sconfitte. Mosse anche contro i Britanni, fino a quel tempo sconosciuti, e dopo averli battuti li costrinse a consegnare ostaggi e a versare tributi.

In mezzo a tanti successi si trovò in difficoltà non più di tre volte: in Britannia la sua flotta fu quasi interamente distrutta da una tempesta; in Gallia, sotto le mura di Gergovia, una sua legione fu messa in fuga; infine nel territorio dei Germani i suoi luogotenenti Titurio e Arunculeio perirono in un'imboscata.



CESARE INIZIA LA COSTRUZIONE DEL NUOVO FORO

( 26 )  Nello stesso periodo di tempo gli morirono prima la madre, poi la figlia e infine, non molto dopo, anche la nipote. Mentre era colpito da tante disgrazie personali, lo Stato venne sconvolto dalla morte di Publio Clodio.

Il Senato era dell'avviso di nominare un solo console, e precisamente Gneo Pompeo, ma Cesare convinse i tribuni della plebe, che volevano eleggerlo come collega dello stesso Pompeo, a proporre piuttosto al popolo di permettergli, benché fosse lontano, di concorrere ad un altro consolato quando sarebbe stata prossima la scadenza del suo mandato di comando.

In tal modo non sarebbe stato costretto a lasciare anzi tempo la provincia, prima che la guerra fosse conclusa. Quando ottenne questa concessione, pieno di speranza, già meditando imprese più ambiziose, profuse elargizioni e favori di ogni genere a tutti, pubblicamente e privatamente. Con i proventi dei bottini di guerra avviò la costruzione di un Foro, il cui terreno venne a costare più di cento milioni di sesterzi. 

Annunciò al popolo uno spettacolo di gladiatori e un ricco banchetto in memoria della figlia morta, cosa che nessuno aveva mai fatto prima di lui. Allo scopo di creare un grande stato di attesa per questa manifestazione, faceva preparare tutto ciò che riguardava il banchetto in case private, sebbene avesse affidato l'incarico a personale specializzato.

Dovunque vi fossero gladiatori famosi, costretti a combattere davanti ad un pubblico ostile, dava ordine di prelevarli, magari anche con la forza, e di riservarglieli.

Quanto agli allievi gladiatori, non li faceva addestrare nelle scuole e nemmeno sotto le direttive di maestri professionisti, ma in case private, per mezzo di cavalieri romani e perfino di senatori esperti nell'uso delle armi; li andava supplicando, come confermano le sue lettere, di addossarsi la responsabilità della disciplina dei singoli allievi e di dirigere personalmente gli esercizi.

Per quanto si riferisce alle legioni, raddoppiò definitivamente la paga. Ogni volta che vi era abbondanza di grano, lo fece distribuire senza limitazioni e misura, e assegnò a ciascuno, di tanto in tanto, uno schiavo preso dal bottino di guerra.



CESARE ELARGISCE DONI E SPETTACOLI

( 27 ) Allo scopo di conservare la parentela con Pompeo e la sua amicizia, gli offrì la mano di Ottavia, nipote di sua sorella, che aveva già maritato a Gaio Marcello, mentre lui personalmente chiese in moglie la figlia di Pompeo, destinata a Fausto Silla.

Vincolati a sé tutti coloro che erano vicini a Pompeo e anche una parte dei senatori mediante prestiti gratuiti o a basso interesse, quando venivano a trovarlo cittadini di altri ordini sociali, sia perché li aveva fatti chiamare, sia di loro iniziativa, li colmava di ogni generosità, senza dimenticare i liberti e gli schiavetti di ciascuno, per quanto fossero ben accetti al loro padrone o patrono.

Inoltre gli accusati, gli oppressi dai debiti e i giovani prodighi trovavano in lui un aiuto unico e tempestivo, a meno che il peso delle loro colpe, della loro miseria o dei loro disordini fosse superiore alle sue possibilità di aiuto; in tal caso diceva loro, senza mezzi termini, che «avevano bisogno di una guerra civile».

( 28 )  Non minore impegno ci metteva ad accattivarsi la simpatia dei re e di tutte le province della terra, ora mandando in dono migliaia e migliaia di prigionieri, ora, senza chiedere l'autorizzazione del Senato e del popolo, inviando truppe ausiliarie dove e tutte le volte che volessero e per di più abbellendo con opere insigni le più potenti città dell'Italia e della Gallia.

Alla fine un po' tutti cominciarono a domandarsi, con un certo stupore, dove avesse intenzione di arrivare, e il console Marco Claudio Marcello, dopo aver annunciato con un editto che intendeva prendere provvedimenti nell'interesse dello Stato, fece un rapporto al Senato; vi si chiedeva di dare un successore a Cesare prima ancora che scadesse il suo tempo legale, perché, conclusa ormai la guerra, doveva esservi la pace e si doveva congedare un esercito vittorioso.

Sosteneva ancora che, per le elezioni, non si doveva tener conto della sua candidatura mentre era assente, dal momento che Pompeo, in seguito, aveva abrogato lo stesso plebiscito. Era accaduto infatti che Pompeo, presentando una legge sullo stato giuridico dei magistrati, vi aveva introdotto un articolo che impediva agli assenti di concorrere alle cariche, e si era dimenticato di fare almeno un'eccezione in favore di Cesare; più tardi aveva corretto la dimenticanza, ma quando ormai la legge era già incisa nel bronzo e conservata presso il Tesoro.

Marcello, non contento di togliere a Cesare sia le province, sia i privilegi, propose anche di revocare la cittadinanza a quei coloni che aveva stanziato a Novo Como in forza della legge Vatinia: sosteneva che era stata concessa con intenzioni demagogiche e al di là delle prescrizioni della legge.

IL SENATO


IL SENATO OSTACOLA CESARE

( 29 )  Preoccupato per queste macchinazioni e convinto, come sembra lo si sia sentito dire spesso, che era più difficile, finché occupava il primo posto nello Stato, resistette con tutte le sue forze, sia per l'intervento dei tribuni, sia per quello di Servio Sulpicio, l'altro console.

L'anno successivo fece gli stessi tentativi Gaio Marcello, che era succeduto nel consolato a suo cugino Marco, ma Cesare, spendendo somme enormi, si procurò, come difensori, Emilio Paolo, il collega di Marcello, e Gaio Curione, uno dei più violenti tribuni della plebe.

Vedendo però che ci si accaniva contro di lui con maggiore ostinazione e che erano stati designati come consoli perfino due suoi avversari, scrisse al Senato pregandolo di non togliergli un comando concessogli dal popolo, o altrimenti di rimuovere dai loro eserciti anche gli altri generali.

Pensava, come credono, che avrebbe potuto convocare quando volesse i suoi veterani in un tempo più breve di quello impiegato da Pompeo per fare nuove leve. Agli avversari propose di congedare otto legioni, abbandonando la Gallia Transalpina, e di tenere per sé due legioni e la Gallia Cisalpina, o almeno una legione con l'Illirico, fino a quando fosse stato eletto console.

( 30 )  Il Senato però non rispose e gli avversari si rifiutarono di scendere a patti per questioni che riguardavano lo Stato; egli allora scese nella Gallia citeriore, quindi, tenute le sue riunioni, si fermò a Ravenna, ben deciso a vendicare con la guerra quei tribuni che facevano opposizione in suo favore, qualora il Senato avesse preso provvedimenti troppo severi nei loro confronti.

Fu questo per lui il pretesto della guerra civile, ma si crede che altre siano state le cause. Pompeo andava dicendo che, vedendosi impossibilitato a portare a termine i monumenti iniziati e a realizzare, con le sue sole risorse, le speranze che aveva fatto concepire al popolo per il suo ritorno, egli aveva voluto precipitare ogni cosa nel caos.

Altri dicono che temesse di essere costretto a rendere ragione di ciò che aveva fatto durante il suo primo consolato, senza tener conto né degli auspici, né delle leggi, né dell'opposizione dei magistrati; M. Catone annunciò più di una volta, e non senza accompagnamento di giuramenti, che lo avrebbe trascinato in giudizio nel momento stesso in cui avesse congedato l'esercito.

Si diceva apertamente che se fosse tornato senza nessuna carica, seguendo l'esempio di Milone, avrebbe sostenuto la sua causa davanti a giudici circondati da uomini armati.
Rende credibile la cosa Asinio Pollione quando riferisce che, dopo la battaglia di Farsalo, vedendo i suoi avversari fatti a pezzi e completamente battuti, Cesare disse queste testuali parole:

«Lo hanno voluto loro: dopo tante imprese io, Gaio Cesare, sarei stato condannato se non avessi chiesto aiuto ai miei soldati.»

Alcuni ritengono che sia stato condizionato dall'abitudine del comando e che abbia colto l'occasione di conquistare il potere supremo, da lui ardentemente desiderato fin dalla prima giovinezza, dopo aver saggiamente valutato le sue forze e quelle del nemico.

Anche Cicerone sembrava seguire questa opinione, perché nel terzo libro della sua opera «Dei doveri» dice che Cesare aveva sempre sulle labbra i versi di Euripide (si trovano nelle «Fenicie»:

«Quando si deve commettere ingiustizia, bellissima è l'ingiustizia per il potere; per il resto si deve essere pietosi» che egli stesso così aveva tradotto: «Giacché se il diritto si deve violare, violarlo si deve per la conquista del regno; in tutto il resto osserva la pietà».

RAVENNA  HISTORIA MUNDI - RICOSTRUZIONE STORICA

CESARE DECIDE DI PRENDERE IL POTERE

( 31 )  Quando dunque gli fu riferito che non si era tenuto conto dell'opposizione dei tribuni e che questi avevano abbandonato Roma, subito fece andare avanti segretamente alcune coorti, per non destare sospetti.

 Poi, con lo scopo di trarre in inganno, si fece vedere ad uno spettacolo pubblico, esaminò i progetti di una scuola di gladiatori che aveva intenzione di costruire e, secondo le sue abitudini, pranzò in numerosa compagnia.

Dopo il tramonto del sole, aggiogati ad un carro i muli di un vicino mulino, partì in gran segreto, con un'esile scorta. Quando le fiaccole si spensero, smarrì la strada e vagò a lungo, finché all'alba, trovata una guida, raggiunse a piedi la meta, attraverso sentieri strettissimi.

Riunitosi alle sue coorti presso il fiume Rubicone, che segnava il confine della sua provincia, si fermò per un attimo e, considerando quanto stava per intraprendere, si rivolse a quelli che gli erano più vicini dicendo:
«Siamo ancora in tempo a tornare indietro, ma se attraverseremo il ponticello, dovremo sistemare ogni cosa con le armi

CESARE SUL RUBICONE

PASSAGGIO DEL RUBICONE

( 32 ) Mentre esitava, gli si mostrò un segno prodigioso. Un uomo di straordinaria bellezza e di taglia atletica apparve improvvisamente seduto poco distante, mentre cantava, accompagnandosi con la zampogna.

Per ascoltarlo, oltre ai pastori, erano accorsi dai posti vicini anche numerosi soldati e fra questi alcuni trombettieri: l'uomo allora, strappato a uno di questi il suo strumento, si slanciò nel fiume, suonando a pieni polmoni una marcia di guerra, e si diresse verso l'altra riva.
 Allora Cesare disse: «Andiamo dove ci chiamano i segnali degli Dei e l'iniquità dei nostri nemici. Il dado è tratto

( 33 ) Fatta passare così la sua armata, prese con sé i tribuni della plebe che, scacciati da Roma, gli si erano fatti incontro, si presentò davanti all'assemblea dei soldati e invocò la loro fedeltà con le lacrime agli occhi e la veste strappata sul petto.

Si crede perfino che abbia promesso a ciascuno il censo di cavaliere, ma si trattò di un equivoco. Infatti, nel corso della sua arringa e delle sue esortazioni, egli mostrò molto spesso il dito della mano sinistra dicendo che di buon grado si sarebbe tolto anche l'anello per ricompensare tutti coloro che avessero contribuito alla difesa del suo onore.

I soldati dell'ultima fila, per i quali era più facile vedere che sentire l'oratore, fraintesero le parole che credevano di interpretare attraverso i gesti e si sparse la voce che avesse promesso a ciascuno il diritto di portare l'anello e di possedere i quattrocentomila sesterzi.



CESARE CONTRO POMPEO

( 34 ) Questo è l'ordine cronologico e il sunto delle imprese che compì in seguito: occupò il Piceno, l'Umbria e l'Etruria; accettata la resa di Lucio Domizio, che, in mezzo a una gran confusione, era stato nominato suo successore e teneva Corfinio con una guarnigione, lo lasciò libero di andarsene; seguendo la litoranea adriatica, si diresse verso Brindisi, dove si erano rifugiati i consoli e Pompeo per attraversare il mare al più presto.

Dopo aver cercato invano di impedire la loro partenza con tutti i mezzi possibili, ritornò verso Roma, dove illustrò ai senatori la situazione politica, quindi mosse verso le ben addestrate truppe di Pompeo che si trovavano in Spagna al comando di tre luogotenenti: M. Petreio, L. Afranio e M. Varrone.

Ai suoi amici, prima di partire, disse che andava contro un esercito senza comandanti e che poi si sarebbe mosso contro un comandante senza esercito. Quantunque l'assedio di Marsiglia, che durante il viaggio gli aveva chiuso le porte in faccia, e una pericolosa penuria di frumento gli imponessero dei ritardi, tuttavia in breve tempo sistemò ogni cosa.

CESARE VINCE A FARSALO

UCCISIONE DI POMPEO E DI TOLOMEO

( 35 )  Dalla Spagna tornò a Roma, quindi passò in Macedonia dove tenne assediato Pompeo con formidabili fortificazioni per circa quattro mesi, finché lo sconfisse nella battaglia di Farsalo. Pompeo fuggì e Cesare lo inseguì fino ad Alessandria, dove seppe che era stato ucciso.

Rendendosi conto che il re Tolomeo gli tendeva insidie, combatté anche contro di lui una delle guerre più difficili, in una posizione sfavorevole e in una stagione poco clemente, d'inverno, tra le mura di un nemico ben provvisto di rifornimenti e particolarmente ingegnoso, mentre lui era privo di tutto e assolutamente impreparato.

Uscitone vincitore, concesse il regno d'Egitto a Cleopatra e a suo fratello minore, temendo che, se lo avesse ridotto allo stato di provincia romana, divenisse un giorno, nelle mani di un governatore audace, un focolaio di rivoluzione.

Da Alessandria passò in Siria e di qui nel Ponto, dove lo chiamavano notizie pressanti di Farnace, il figlio del grande Mitridate, che aveva approfittato delle circostanze per entrare in guerra e che già si esaltava per i numerosi successi.

Meno di cinque giorni dopo il suo arrivo, quattro ore dopo il loro incontro, Cesare lo sconfisse in una sola battaglia; per questo faceva spesso allusione alla fortuna di Pompeo che aveva conquistato la maggior parte della sua gloria militare contro nemici così poco validi. In seguito sconfisse, in Africa, Scipione e Giuba, che tentavano di rianimare i resti del partito pompeiano, e, in Spagna, i figli di Pompeo.



LE UNICHE SCONFITTE SONO DEI GENERALI

( 36 )  Durante tutte queste guerre civili, Cesare non subì sconfitte se non per colpa dei suoi luogotenenti, dei quali Caio Curione morì in Africa, Caio Antonio cadde in mano dei nemici nell'Illirico, Publio Dolabella perse la flotta, sempre nell'Illirico, e Cneo Domizio Calvino ci rimise l'esercito nel Ponto.

Per quanto riguarda lui personalmente, si batté sempre vittoriosamente, e la situazione non fu mai incerta se non in due occasioni: la prima a Durazzo dove, respinto, disse che Pompeo non sapeva vincere perché aveva rinunciato ad inseguirlo; la seconda in Spagna, durante l'ultima battaglia quando, disperando ormai del successo, pensò perfino di darsi la morte.



I TRIONFI

( 37 ) Concluse le guerre, riportò il trionfo cinque volte: quattro volte nello stesso mese, ma a qualche giorno di intervallo, dopo aver sconfitto Scipione, e una volta ancora, dopo aver superato i figli di Pompeo. Il primo, e il più bello, dei suoi trionfi fu quello Gallico, poi l'Alessandrino, quindi il Pontico, dopo l'Africano e infine lo Spagnolo, ciascuno differente per apparato e varietà di particolari.

Nel giorno del trionfo sui Galli, attraversando il Velabro, per poco non fu sbalzato dal carro a causa della rottura di un assale; salì poi sul Campidoglio alla luce delle fiaccole che quaranta elefanti, a destra e a sinistra, recavano sui candelieri.

Nel corso del trionfo Pontico, tra gli altri carri presenti nel corteo, fece portare davanti a sé un cartello con queste tre parole: «Venni, vidi, vinsi», volendo indicare non tanto le imprese della guerra, come aveva fatto per le altre, quanto la rapidità con cui era stata conclusa.



SOLDI AI VETERANI E CIBO AL POPOLO

( 38 )  Alle sue vecchie legioni, oltre ai duemila sesterzi che aveva promesso come preda a ciascun fante, all'inizio delle sommosse civili, ne diede anche altri ventiquattromila. Assegnò anche dei campi, ma non contigui, per non procedere ad espropri.

Quanto al popolo fece distribuire non soltanto dieci moggi di frumento e altrettante libbre d'olio, ma anche trecento sesterzi per persona, che un tempo aveva promesso, e ne aggiunse altri cento per farsi perdonare il ritardo.

Condonò inoltre, per un anno, gli affitti delle abitazioni che a Roma arrivavano fino a duemila sesterzi e in Italia fino a cinquecento. A queste liberalità aggiunse una distribuzione di pasti e di carne e, dopo la vittoria in Spagna, di due pranzi, perché la prima distribuzione gli era sembrata insufficiente e poco degna della sua generosità; quattro giorni dopo offrì un altro ricchissimo banchetto.

I TRIONFI

SPETTACOLI DI GLADIATORI E NAUMACHIA

( 39 )  Offrì spettacoli di vario genere: combattimenti di gladiatori, rappresentazioni teatrali, allestite in tutti i quartieri della città e per di più con attori che parlavano tutte le lingue, giochi ginnici nel circo e battaglie navali.

Ai combattimenti di gladiatori, allestiti nel foro, presero parte Furio Leptino, di famiglia pretoria, e Quinto Calpeno, un tempo senatore e avvocato. Ballarono la Pirrichia i figli delle più grandi famiglie dell'Asia e della Bitinia.

Alle rappresentazioni teatrali Decimo Laberio, cavaliere romano, propose un mimo di sua creazione, poi, dopo aver ricevuto in dono cinquecento sesterzi e un anello d'oro, abbandonò la scena e attraversò l'orchestra per andarsi a sedere su uno dei quattordici gradini.

Per i giochi del circo si ingrandì l'arena da una parte e dall'altra e vi si condusse intorno un fossato: i giovani della più alta nobiltà guidarono bighe, quadrighe e cavalli da corsa.

Una duplice schiera di fanciulli, differenti per età, realizzò il gioco troiano. Cinque giorni furono dedicati alla caccia e, alla fine tutto si risolse con una battagli a tra due schiere che comprendevano ciascuna cinquecento fanti, venti elefanti e trenta cavalieri. Per lasciare più spazio ai combattenti erano state tolte le mete e allestiti al loro posto due accampamenti opposti uno all'altro.

Alcuni atleti lottarono per tre giorni in uno stadio appositamente costruito per la circostanza nel quartiere del Campo di Marte. Per la battaglia navale si scavò nella piccola Codeta un bacino dove si scontrarono, con grande numero di combattenti, biremi, triremi e quadriremi, raggruppate in due flotte, una tiriana e l'altra egiziana.

Tutti questi spettacoli determinarono un tale afflusso di gente, venuta da ogni parte, che la maggioranza degli stranieri si sistemò sotto le tende erette nei vicoli e nelle strade, e molti furono schiacciati e uccisi dalla folla. Tra questi anche due senatori.



RIFORMA DEL CALENDARIO

( 40 ) Dedicandosi quindi alla riorganizzazione dello Stato, Cesare riformò il calendario nel quale, per colpa dei pontefici che avevano abusato dei giorni da intercalare, si era determinato un tale disordine che le feste della mietitura non cadevano più in estate e quelle della vendemmia in autunno.

Regolò allora l'anno secondo il corso del sole, in modo che vi fossero trecentosessantacinque giorni e, eliminato il mese da intercalare, stabilì che si aggiungesse un giorno ogni quattro anni. Ma, perché da allora in poi fosse più sicura la concordanza delle date, a partire dalle successive calende di gennaio, aggiunse altri due mesi tra quelli di novembre e dicembre. Così quell'anno, in cui fece la riforma, fu di quindici mesi, perché, secondo l'usanza, proprio allora era il turno del mese da intercalare.

I BELGI (I nemici di Roma)

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I BELGI
«La Gallia è, nel suo complesso, divisa in tre parti: la prima la abitano i Belgi, l'altra gli Aquitani, la terza quelli che nella loro lingua prendono il nome di Celti, nella nostra, di Galli»
(Gaio Giulio Cesare - De bello Gallico- Libro II) 

Cesare aveva un nutrito numero di esploratori, amici, spie e delatori che considerava preziosi per la guerra, e attraverso questi, e pure dal generale Labieno, venne a sapere che le tribù di Belgi volevano attaccare i Romani.
 "Cesare allora dà incarico ai Senoni ed agli altri Galli che erano confinanti coi Belgi, di sapere quello che si faceva presso di loro e di informarlo di tali argomenti. Essi costantemente riferirono che si riunivano manipoli, che si raccoglieva l'esercito in un unico luogo. Allora davvero non pensò si dovesse aver dubbi di partire contro di loro. Provveduto il vettovagliamento al dodicesimo giorno muove gli accampamenti ed in circa 15 giorni giunge nei territori dei Belgi".



I REMI

Dunque Cesare in soli dodici giorni allestisce uomini animali e salmerie, e in soli 15 giorni di marcia serrata raggiunge il territorio, il che fa tremare i Remi, gli abitanti dell'attuale territorio di Reimsche che gli inviano come ambasciatori Iccio ed Andecumborio, capi della nazione, a dire che si rimettono al popolo romano, "che loro non s'erano accordati con gli altri Belgi né si erano alleati contro il popolo romano, che erano pronti a dare ostaggi, obbedire agli ordini, accoglierli nelle città e aiutarli con frumento ed altri beni"

Cesare viene a sapere dai Remi che i Belgi avevano tra loro i Bellovaci, fortissimi per coraggio e numero di uomini. Potevano realizzare 100.000 armati, e chiedevano per sé il comando della guerra.
- I Sucessoni erano loro confinanti; possedevano campi vastissimi e fertilissimi. Loro re era stato Diviziaco, il più potente di tutta la Gallia, che  aveva tenuto il potere di gran parte di queste regioni ma anche della Britannia. Ora era re Galba, a cui per la giustizia e saggezza era stata affidata la guida di tutta la guerra e aveva dodici città e 50.000 armati;
- i ferocissimi Nervi ne avevano altri 50.000; 
- gli Atrebati ne avevano 15.000; 
- gli Ambiani 10.000, 
- i Morini 25.000, 
- i Menapi 9.000, 
- i Caleti 10.000, 
- i Veliocassi 10.000 
- i Viromandui 10.000 
- gli Atuatuci 19.000; 
- i Condrusi, gli Eburoni, i Cerusi, i Cemani, erano circa 40.000.

In tutto quasi 350.000 uomini, come farà Cesare a vincerli tutti? Guai se si associano, occorre dividerli a batterli uno per uno.

Cesare illustra ai Remi i vantaggi della loro fedeltà a Roma e chiede però come ostaggi i figli dei capi, cosa che fanno senza esitazione, anche perchè sanno che gli ostaggi vengono trattati benissimo dai romani, che li istruivano e gli insegnavano a combattere. Cesare colloquia poi con l'eduo Diviziaco, un druido gallico vergobreto, cioè capo politico del popolo gallico degli Edui, fedele alleato di Roma, e lo convinse dell'importanza di separare tra di loro i nemici, per non dover combattere in solo tempo contro tutti. Per questo gli Edui devono portare le truppe nei territori dei Bellovaci devastandone i campi.



I BELGI

"Cesare, dopo che vide che tutte le truppe dei Belgi riunite in un solo luogo venivano contro di lui e seppe da quegli esploratori che aveva inviato e dai Remi, che ormai non erano lontani, si affrettò a far passere l'esercito oltre il fiume Aisne, che è negli estremi confini dei Remi e lì pose l'accampamento. Questa posizione era fortificata da un solo lato dell'accampamento che negli altri lati confinava con le rive del fiume, quindi sicuro dai nemici e faceva sì che i rifornimenti da parte dei Remi e degli altri popoli si potessero portare a lui senza rischi. Su quel fiume c'era un ponte. Lì pose una guarnigione e nell'altra parte del fiume lasciò il legato Q. Tiburio Sabino con sei coorti; ordinò che gli accampamenti fossero fortificati con una trincea di 12 piedi in altezza e con un fossato di diciotto piedi."


I Belgi e i Galli assediano la città dei Remi Bibratte che a stento riesce a resistere. Giunta la notte e terminato l'assedio per il buio,  il remo Iccio, capo della città, chiede aiuti immediati a Cesare o Bibratte cadrà. Cesare invia gli aiuti velocissimamente, a mezzanotte sono già a Bibratte, servendosi in parte dei Remi di Iccio, in parte di arcieri numidi e cretesi e frombolieri baleari. 

I nemici, si spaventano, mollano l'assedio e si limitarono a saccheggiare e devastare i campi dei Remi e i villaggi. Poi si accamparono a meno di 2000 passi dagli accampamenti di Cesare che, dai fuochi, comprende trattarsi di un esercito enorme. Cesare combatte con l'intelligenza, è lui a dire che era sfortunato l'esercito il cui comandante combattesse con la forza anzichè con l'intelligenza. per cui rimanda lo scontro. 

LE CAMPAGNE DI CESARE
"Quotidianamente però con scontri di cavalleria sperimentava cosa potesse il nemico nel valore e cosa osassero i nostri. Quando capì che i nostri non erano inferiori, davanti agli accampamenti in posizione giusta e adatta per conformazione a schierare l'esercito, poiché quel colle, dove erano gli accampamenti, un poco rialzato dalla pianura, si stendeva davanti tanto in larghezza, quanto posto poteva occupare l'esercito schierato, e da entrambe le parti del lato aveva pendii e sul fronte leggermente in pendenza a poco a poco ritornava a pianura, tracciò da entrambi i lati di quel colle un fossato trasversale di circa 400 passi ed alle estremità dei fossati pose delle fortezze e lì collocò le macchine da guerra, perché, dopo aver schierato l'esercito, i nemici non potessero circondare i suoi mentre combattevano. Fatto questo, lasciate le due legioni, che recentemente aveva arruolato negli accampamenti, perché, se fosse occorso qualche soccorso, si potesse portare, schierò le altre sei legioni in battaglia davanti agli accampamenti."

Una piccola palude si trovava tra i due eserciti. Chi passava per primo sarebbe stato assalito. Intanto tra le due schiere ci si scontrava con scaramucce di cavalleria. Poiché nessuno attraversava, Cesare ricondusse i suoi negli accampamenti. I nemici allora si diressero al fiume Aisne, dietro agli accampamenti. Qui trovati dei guadi, tentarono di far passare parte delle loro truppe per espugnare la fortezza, a cui era a capo il legato Q. Titurio, e magari tagliare il ponte, e devastare i campi dei Remi bloccando i rifornimenti ai romani.

Titurio allora fece passare il ponte a tutta la cavalleria, ai Numidi di armatura leggera, ai frombolieri ed agli arcieri e mosse battaglia. Un gran numero di Belgi morirono nel fiume colpiti dai giavellotti, altri che erano riusciti a passare, vennero circondati dalla cavalleria e massacrati. I nemici compreso che non avrebbero espugnata la città e non avrebbero passato il fiume, per giunta cominciava a mancargli il vettovagliamento, decisero di tornare a combattere nella loro patria. 

Si preparano ad andarsene con grande strepito come fosse una fuga, ma Cesare, temendo insidie, trattiene esercito e cavalleria negli accampamenti. All'alba, confermata la fuga dagli esploratori, manda avanti tutta la cavalleria, con i legati Q. Pedio e L. Aurunculeio Cotta, e comanda che il legato Tito Labieno segua dopo con tre legioni. Molti di quelli che fuggono vengono uccisi fino al tramonto quando i romani si ritirano negli accampamenti.



I SUCCESSONI

Il giorno seguente Cesare guida l'esercito nei territori dei Sucessoni, confinanti dei Remi, e con una rapida marcia forzata si dirige alla città di Novioduno, quasi priva di difensori, a causa della larghezza del fossato e dell'altezza del muro, ma non riesce a espugnarla. Allora fa avvicinare alle mura le macchine da guerra, fa preparare alte torri per tirare ai Successoni e scavare gallerie per irrompere in città. Spaventati da tanti mezzi e tanta velocità, i Sucessoni mandano ambasciatori a Cesare ambasciatori chiedendo di essere risparmiati. 



I BELLOVACI

Cesare accetta la resa, prende come ostaggi i capi della nazione e due figli dello stesso re Galba, e si fa consegnare tutte le armi dalla città, ma è un fulmine, non c'è tempo da perdere, prosegue la sua marcia nel Paese dei Bellovaci, fino alla capitale Bratuspanzio. Tutti gli anziani usciti dalla città tendono le mani a Cesare in senso di supplica, dicendo che non volevano battersi contro il popolo romano. Altrettanto fecero ragazzi e donne dalle mura, a mani aperte, in segno di resa, chiedono la pace ai Romani per tutti i Bellovaci.



GLI AMBIANI

Diviziaco dice che i capi Bellovaci avevano dichiarato guerra al popolo romano, poi, compreso il grave danno recato alla nazione, erano fuggiti in Britannia. Cesare  accoglie la resa e promette di proteggerli, ma chiede seicento ostaggi che gli vengono consegnati insieme a tutte le armi in città, poi riprende la marcia e giunge nei territori degli Ambiani, che si arrendono e gli consegnano tutti i loro beni.

I Nervi erano loro confinanti, non tolleravano che i mercanti Bellovaci avessero accesso presso di loro, nè che si importasse vino o altre cose di lusso, perché non si infiacchissero gli animi; loro non avrebbero mandato ambasciatori né avrebbero accettato condizioni di pace.

GIULIO CESARE

I NERVI

Cesare marcia per tre giorni attraverso i loro territori, e scopre dai prigionieri che il fiume Sambre dista dai suoi accampamenti non più di 10 mila passi, che tutti i Nervi si sono insediati al di là di quel fiume e che aspettano l'arrivo dei Romani insieme con gli Atrebati ed i Viromandui, loro confinanti e alleati; e attendevano anche le truppe degli Atuatuci che erano in marcia.

Allora Cesare manda avanti esploratori e centurioni, che scelgano un luogo adatto agli accampamenti. Poiché parecchi dei Belgi arresi ed altri Galli, seguendo Cesare, marciano coi romani, alcuni di loro, come poi si seppe poi dai prigionieri, attesa la notte, vanno dai Nervi e riferiscono che tra le singole legioni ci sono molti carri facili da assalire, appena giunta la prima legione negli accampamenti essendo ancora distanti le altre legioni. Consigliarono quindi ai Nervi, per bloccare più facilmente la cavalleria, di formare siepi con pali e rovi per impedire l'assalto dei romani.

"Dal fiume Sabis con uguale inclinazione sorgeva un colle dirimpetto a questo ed opposto, a circa duecento passi, aperto in basso, dalla parte superiore selvoso, tanto che non si poteva facilmente vedere dentro. Dentro a quelle selve i nemici si tenevano in segreto. Nel luogo aperto lungo il fiume si vedevano poche pattuglie di cavalieri. La profondità del fiume era di circa tre piedi."

Cesare, mandata avanti la cavalleria, segue con tutte le truppe, ma avvicinandosi ai nemici, guida sei legioni leggere; dietro le salmerie e poi due legioni di guardia ai carri. I cavalieri con frombolieri e arcieri passano il fiume e attaccano la cavalleria nemica che a sua volta attacca e indietreggia, ma la cavalleria non li insegue temendo imboscate. Intanto le sei legioni arrivate per prime, cominciarono a issare gli accampamenti. Improvvisamente tutte le truppe nemiche assalgono i cavalieri che li respingono, ma questi si dirigono agli accampamenti romani.

Cesare deve fare tutto nello stesso istante: ordinare di alzare il vessillo e di suonare la tromba come segnali per correre alle armi, richiamare dalla fortificazione i soldati che erano fuori per cercare materiale, schierare l'esercito ed esortare i soldati. Intanto ha vietato ai legati di allontanarsi dalla fortificazione e dalle legioni, finchè non sono fortificati gli accampamenti, ma i legionari ormai esperti non attendono l'ordine di Cesare, perchè da sé organizzano la battaglia.

AMBIORIGE PRINCIPE DEGLI EBURONI
Cesare, dati gli ordini successivi, corre giù ad esortare i soldati, e va prima alla X legione, poi dalle altre, che mantengano il ricordo dell'antico valore e sostengano l'attacco dei nemici, che non distano più di un lancio giavellotto, e dà il segnale di attaccare battaglia. Non c'è tempo, velocemente indossarono gli elmi e tolgono le protezioni agli scudi. Ognuno corre verso le prime insegne che vede, per non perdere l'occasione di combattere nel cercare i suoi.

Schierato l'esercito, con la vista delle truppe impedita dalle densissime siepi, i soldati della IX e X legione sulla sinistra, lanciati i giavellotti, dalla postazione superiore respingono velocemente verso il fiume gli Atrebati, pur sfiniti dalla corsa e dalla stanchezza, e li inseguono mentre passano il fiume massacrandone gran parte. Essi stessi poi passano il fiume e pur in postazione sfavorevole mettono in fuga i nemici che, ripreso lo scontro, resistono di nuovo. 

Le legioni XI e VIII poi, sbaragliati i Viromandui, combattono dalla postazione superiore fin sulle rive del fiume. Ma avendo svuotati gli accampamenti del fronte e della parte sinistra, poiché la XII legione e la VII si sono fermate nell'ala destra, tutti i Nervi, con una schiera serratissima, sotto il comando di Boduognato, si dirigono a quella postazione. Una parte di loro comincia a circondare sul lato aperto le legioni, una parte si dirige alla sommità della postazione degli accampamenti.

"Nello stesso tempo i cavalieri romani ed i fanti dall'armatura leggera, insieme a quelli che hanno respinto il primo assalto dei nemici, mentre si ritirano negli accampamenti, si imbattono nei nemici di fronte e cercano la fuga da un'altra parte ed i portatori, che dalla porta decumana e dalla cima del colle avevano visto i nostri passare il fiume vittoriosi, usciti per far bottino, essendosi voltati indietro e avendo visto che i nemici si trovavano nei nostri accampamenti, a precipizio si davano alla fuga.

Contemporaneamente sorgeva l'urlo di quelli, che venivano con i carriaggi e terrorizzati si recavano chi da una parte chi dall'altra. Sconvolti da tutte queste situazioni, i cavalieri Treviri, di cui in Gallia c'è un giudizio lusinghiero, i quali mandati dalla nazione erano giunti da Cesare in aiuto, avendo visto che i nostri accampamenti erano riempiti dalla massa dei nemici, che le legioni erano incalzate e quasi circondate erano bloccate, che i portatori, i cavalieri, i frombolieri, i Numidi disordinati e sparpagliati fuggivano in tutte le direzioni, essendo disperate le nostre condizioni, si diressero in patria; riferirono alla nazione che i Romani erano stati vinti e sconfitti e che i loro nemici si erano impadroniti degli accampamenti e dei carriaggi."

La situazione è disperata, Cesare vede che i suoi incalzati e ammassati, che le insegne ed i soldati della XII ammassati erano di impiccio per lo scontro, che sono stati uccisi tutti i centurioni della IV coorte, abbattuto l'alfiere, perduta l'insegna, e feriti o uccisi quasi tutti i centurioni delle altre coorti, e vede che non c'è soccorso che si possa inviare, sottrae lo scudo a un soldato della retroguardia, perché era venuto senza scudo, avanza nella prima fila e chiama per nome i centurioni, esorta gli altri soldati, ordina di far avanzare le insegne e di allargare i manipoli, perché possano più facilmente usare le spade. 

Infusa speranza e coraggio nei soldati e desiderando ciascuno far bella figura alla presenza del generale, l'assalto dei nemici fu rallentato. Cesare, vedendo la VII legione incalzata dal nemico, ordina ai tribuni di riunire le legioni, e che girino le insegne contro i nemici. Appena fatto ognuno soccorse l'altro senza paura di venire circondati dal nemico, e cominciarono a resistere e a combattere più aspramente.

"Frattanto le due legioni (la XIII a la XIV) che erano state nelle retroguardie e di scorta alle salmerie, giunta notizia della battaglia (del Sabris), presero a correre a gran velocità (per combattere contro i Nervi)."

Labieno intanto, impadronitosi degli accampamenti dei nemici della postazione superiore, manda in soccorso ai nostri la X legione. Con l'arrivo della X, della XIII e della XIV la situazione cambia, e i nemici vengono sterminati.

A questo punto gli anziani, mandarono ambasciatori da Cesare e gli si consegnano e dicono che essi sono ridotti da 600 a 3 senatori, da 60.000 uomini a 500 che possano portare le armi. Cesare li grazia ed ordina che tornino ai loro territori e alle loro città ordinando ai loro confinanti che si astengano da oltraggi o danni nei loro confronti.



GLI ATUATUCI
 
Gli Atuatuci ritornarono in patria e abbandonate città e fortezze portano tutte le loro cose in un'unica città straordinariamente fortificata, avendo attorno da tutte le parti altissime rocce e dirupi, con un solo un accesso, e hanno munito la postazione con un doppio altissimo muro con travi acuminate e grandi pietre.

All'arrivo dell'esercito romano iniziarono a fare scorrerie dalla città, ma come vedono da lontano che, costruito un argine, si fabbrica una torre, ridono ed insultano i romani che pretendono, loro così bassi di costruire una così grande macchina da una così grande distanza. Quando però vedono che la torre si muove e si avvicina alle mura, mandarono ambasciatori da Cesare per la pace, dicendo che i Romani fanno la guerra con un aiuto divino, e che mettevano se stessi e tutte le loro cose sotto il loro potere. Una sola cosa chiedevano, di non spogliarli delle armi.che essi avevano come nemici quasi tutti i confinanti e non avrebbero potuto difendersi. Sarebbe stato meglio morire per mano dei romani che esser uccisi con torture da quei popoli.

Cesare risponde che devono consegnare le armi ed avrebbe ordinato ai confinanti di non recare oltraggio agli arresi del popolo romano. Gettano tante armi nel fossato da riempirlo, sebbene, come si scoprirà, ne hanno nascosto un terzo in città.

A sera Cesare ordina che si chiudano le porte e che i soldati escano dalla città, perché i cittadini di notte non ricevano danni. Allora gli Atuatuci armatisi con tutte le truppe fanno una sortita dalla città. Velocemente, Cesare fa una segnalazione coi fuochi alle fortezze vicine che corsero in difesa dei romani. Uccisi circa quattro mila uomini gli altri vengono respinti in città. Il giorno seguente Cesare vende all'asta tutto il bottino di quella città e gli schiavi, circa 53.000 persone.

Cesare viene informato da Publio Crasso che all'unica legione che aveva mandato dai Veneti, Unelli, Osismi, Coriosoliti, Essuvi, Aulirci, Redoni, che sono popoli marittimi dell'Oceano, si erano tutti arresi a Roma. Così famosa è questa guerra, che le popolazioni che abitano al di là del Reno inviano ambasciatori promettendo di consegnare ostaggi e di eseguire gli ordini. 

Per quelle imprese conosciute a Roma dalle lettere di Cesare si decide un pubblico rendimento di grazie di quindici giorni, cosa che prima di quel tempo non accadde per nessuno. Cesare rinforza le difese dell'oppidum e attacca la tribù dei Nervi; la scarsa coordinazione delle forze alleate fece sì che l'unione collassa, e gli eserciti tribali ritornarono ciascuno alle proprie terre, dove verranno sconfitti singolarmente e assoggettati dai Romani.

Le quattro tibù dei Nervi, degli Atuatuci, degli Atrebati e dei Viromandui si rifiutano però di arrendersi. Nell'inverno 58-57 a.c., queste notizie gli furono utili per estendere le proprie conquiste al di là della Gallia, per assoldare altre due legioni, la XIII e la XIIII, e per convincere la tribù dei Remi (popolo della Gallia Belgica meridionale, oggi Reims) ad allearsi con lui.

Per rappresaglia, le tribù belgiche e celtiche attaccarono Bibracte, l'oppidum dei Remi, per attirare allo scoperto Cesare; questa alleanza include le tribù dei Bellovaci, Suessioni, Nervii, Atrebati, Ambiani, Morini, Menapi, Caleti, Veliocassi, Viromandui, Atuatuci, Condrusi, Eburoni, Ceresi e Pemani, sotto il comando di Galba, re dei Suessioni.

Le legioni di Cesare marciano per tre giorni nel territorio dei Nervi, con le sei legioni veterane, mentre le due nuove legioni (la XIII e la XIV) sono di guardia ai bagagli. Le forze romane cominciarono a costruire il castrum a nord-est del fiume Sabis su una collina. Ad ovest del fiume c'è un altro colle coperto di boschi e qui si appostarono i Belgi.

Le forze belgiche, sotto il comando di un certo Boduognato, sono composte dai Nervi, dai Viromandui e dagli Atrebati, in quanto gli Atuatuci sono ancora in marcia. Disposti sulla riva sud del fiume, al riparo degli alberi e si preparano all'attacco, ma quando vedono le salmerie romane escono di corsa attaccando la cavalleria romana che li respinge.

I Belgi però attaccano il campo che i legionari non hanno ancora completato. Mentre la IX e la X da un lato e la VIII e la XI dall'altro sgominano i nemici, le legioni VII e XII, rimaste da sole a difesa del campo, vengono attaccate da più parti dai Nervi e quasi circondate. Gli alleati considerano la battaglia persa e abbandonano i romani.

"Cesare vide che la situazione era critica, tolto lo scudo ad un soldato delle ultime file, avanzò in prima fila e chiamati per nome i centurioni, esortati gli altri soldati, ordinò di avanzare con le insegne allargando i manipoli, affinché potessero usare le spade. Con l'arrivo di Cesare ritornata la speranza nei soldati e ripresi d'animo desiderarono, davanti al proprio generale, di fare il proprio dovere con professionalità, e l'attacco nemico fu in parte respinto."

Con l'arrivo alle spalle dell'esercito dei Nervi della Legio X e i rinforzi che erano stati fino a quel momento a guardia delle salmerie, i Romani hanno ragione del nemico e dei 60.000 Nervi ne rimangono in vita solo 500. La presa della città di Namur, la vittoria contro i Nervi e quella presso il fiume Axona nel corso della stessa campagna del 57 a.c., danno a Cesare il controllo di tutto l'attuale Belgio. Ancora una volta ha vinto.

DOMUS POSITANO

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LA DOMUS DI POSITANO
"La tenacia e la caparbietà della Soprintendenza per i Beni Archeologici di Salerno, antesignana nella scoperta e nella valorizzazione della Domus di Positano, hanno consentito che venisse alla luce tale tesoro, dando concreta dimostrazione dell’importanza rivestita dalla nostra città nei secoli, crocevia di popoli, civiltà e culture.

A loro il merito di aver posto questo straordinario ritrovamento non solo come baluardo per il recupero della rilevanza storico-artistica assunta da Positano nei secoli, ma anche come eccezionale possibilità di studio antropologico e culturale.

La sensibilità dei nostri Amministratori Regionali ha altresì permesso la riqualificazione di tale patrimonio storico-artistico, che consentirà a Positano di imporsi nel panorama turistico mondiale non solo quale luogo di straordinaria bellezza naturale, ma anche come tappa fondamentale per la conoscenza delle meravigliose vestigia del nostro passato. La Villa Romana è la prova tangibile che Positano è realmente, da sempre, luogo privilegiato d’otium, ristoro non solo per il corpo, ma, soprattutto, per la mente
".

(Michele De Lucia - sindaco di Positano)


Scoperta da Karl Weber nel 1758, torna oggi visitabile la magnifica residenza romana di Positano, nel 79 d.c. ricoperta dalla stessa cenere che uccise Pompei. Un luogo unico e affascinante, tra architetture e affreschi vivacemente colorati.

Verso il IX secolo, proprio l’età della nascita del Ducato di Amalfi, fu fondato da monaci di origine orientale, un monastero, che successivamente si ingrandì sia architettonicamente sia a livello di beni e possedimenti e fu chiamato Abbazia o Badia di San Vito.

LA PLANIMETRIA DELLA CHIESA DI SANTA MARIA
ASSUNTA CON IL RITROVAMENTO (INGRANDIBILE)
Questo monastero con annessa Chiesa abbaziale di stile romanico sorgeva in luogo dell’attuale Chiesa, che è di stile tardo barocco o neoclassico, del campanile e di alcune strutture ed abitazioni moderne. Esso fu costruito con l’aiuto dei primi Positanesi, contadini e pescatori, che erano spinti da un intenso spirito religioso e di devozione verso la Chiesa e questo Santo.

Ritroviamo, però, nelle fonti anche un’altra dedicazione alla originaria Chiesa abbaziale, verso Santa Maria. Non era l’Assunta, che celebriamo oggi, ma unicamente la Madre di Gesù; infatti tutti i monasteri della Costiera avevano come divinità tutelare la Madonna.

È un copione che ripropone attraverso quella finestra sbilenca lo stesso colpo d’occhio, lo stesso brivido di meraviglia e conquista che deve aver provato due secoli e mezzo fa Karl Weber, l’archeologo svizzero assoldato dal Borbone che fu tra i registi della riscoperta di Pompei.


Era il 1758, in una pausa degli scavi nella città vesuviana, Weber arrivò a Positano guidato dalle voci di una domus romana sepolta dalla stessa eruzione del 79 d.c. nel sottosuolo di quella ripida conca sul mare che circolavano fra gli abitanti insieme ad una serie di cimeli rinvenuti sul posto.

Seguendo quelle informazioni organizzò un primo saggio di scavo proprio sotto la chiesa di Santa Maria Assunta, rimuovendo parte del pavimento della cripta e affondando i picconi nel terriccio su cui poggiava. D’improvviso, sotto quella coltre di fango e di polvere spuntò un muro tappezzato di affreschi di un lussuoso ambiente ipogeo. Weber non andò oltre. La conferma che la sua ipotesi era esatta gli bastava.

Gli bastava trovare la prova che l’immensa colonna di cenere e lapilli sputata su in alto dal Vulcano ad un altezza di chilometri aveva scavalcato la barriera dei Monti Lattari e si era scaricata anche sulla costiera, forse senza seminare vittime ma portando anche lì distruzione e abbandono. Impossibile dirottare uomini e fondi dall’impresa degli scavi di Pompei che era appena partita.


Così Weber fece coprire quella piccola trincea, limitandosi ad annotare in poche righe la sua scoperta su suoi diari di bordo. Una traccia sepolta e dimenticata che solo all’inizio del duemila sarebbe stata ripresa come bussola degli scavi che hanno portato al ritrovamento e poi al lungo restauro del sito, ormai identificato con certezza come il triclinium di una vasta dimora patrizia che abbracciava buona parte dell’emiciclo del golfo di Positano.

Una domus di cui continuano a riaffiorare da altri scantinati e interrati vicini preziosi reperti, architetture, cimeli. Rafforzando la suggestione se non la certezza di aver trovato anche il possibile nome del primo proprietario che potrebbe essere stato anche il suo costruttore.

Quel Posides dal quale, secondo una versione diffusa, questo paese della Costiera prese il proprio nome. Un personaggio la cui esistenza è attestata da fonti letterarie d’epoca, da Svetonio, a Plinio il Vecchio a Giovenale.

Si tratta di un ex schiavo di lingua greca e origine orientale affrancato dall’imperatore Claudio, che a lui e ad altri liberti di fiducia aveva affidato, per indebolire il ruolo del Senato, le cariche più importanti dei suoi 14 anni di regno, concluso nel 54 d.c.


Un personaggio di alto rango ed enormi ricchezze che Claudio premiò per la sua partecipazione alla conquista della Britannia.

E che in tempo di pace si distinse come architetto progettando ed edificando diverse villa e impianti termali in varie zone tra Pozzuoli e la Costiera.

Più che plausibile attribuire a lui, il cui nome era consacrato a Poseidone il Dio del mare, la nascita di questa dimora in riva al mare.

Un rifugio ideale nei suoi ultimi anni di vita, di cui non sappiamo più nulla, per allontanarsi da Roma e dai veleni e le invidie di corte dopo che lo scettro era passato a Nerone.

Nel fasto che meritava ma senza dare troppo nell’occhio, in quel cono di terra raggiungibile solo via mare, senza facile attracchi per le navi, o attraverso un impervio dedalo di mulattiere che scavalcava i monti Lattari.

Plausibile che fosse ancora lì, anche se in età molto avanzata, in quei terribili giorni del ’79 d.c. quando la furia del Vulcano esplose e il cielo si incendiò in una immensa nube di cenere e lapilli che oscurò tutto prima di riversarsi attorno per un raggio di decine di chilometri.


Sicuramente non rimase ad assistere al disastro successivo, la cenere che si depositava sui tetti facendoli crollare per poi impastarsi con le piogge in una valanga di fango che sommerse l’intero pendio, devastando la villa, buttando giù muri, per poi sigillare ogni cosa sotto una coltre di detriti e lapilli impenetrabile per secoli.

La sequenza di questa devastazione è ancor oggi leggibile nel tappeto di relitti che i restauratori hanno voluto lasciare a vista, sotto una grande finestra di vetro: le tracce di una parete, quella di sinistra, che galleggiano con i loro stupendi affreschi e le loro partiture modulari tra cumuli di pietre, intonaci, frammenti di colonne e trabeazioni.

Quasi un contrappunto alla vista delle due pareti alterate ma rimaste in piedi per tutti i quattro metri di altezza nella loro sfolgorante bellezza.

È lo spettacolo mozzafiato che si spalanca davanti ai visitatori che a piccoli gruppi vengono da pochi giorni guidati fino alla piccola passerella sospesa che fa loro da platea, cinque metri sopra il pavimento, piccole tessere di mosaico bianco incastonate tra bordature nere.


Così vicini che di quelle figure, di quelle nicchie, di quei colori che la permanenza sotto terra e la ripulitura dei restauri ha mantenuto di una straordinaria nitidezza come fossero appena stesi sulla tavolozza e non ancora sull’intonaco, sembra davvero di poter cogliere le voci e il respiro.

Attori che si presentano e sfilano sul palco.

Al teatro rimanda del resto anche l’impianto che i pittori, guidati da un committente ossessivamente presente alle loro spalle, ha imposto alla scena.
A cucire insieme ogni riquadro c’è un grande drappo verde che si apre come un sipario e si attorciglia sulle due pareti. Un atto mimetico.

Il padrone di casa che accoglie gli ospiti raccolti in quell’ambiente, sicuramente un triclinio dove consumare cena e libagioni, tirando via le tende che chiudevano il quarto lato della stanza per liberare di colpo la vista abbacinante del mare che all’epoca arrivava proprio lì davanti.

A far da fermaglio a quel drappo si staglia come una polena su uno scorcio sghembo di trabeazione che ricorda la chiglia di una nave la figurina rosso arancio di un cavallo marino, le zampe impennate la coda che si agita come quella di un pesce.


Se l’intero ciclo ricorda l’intreccio di tempi, dall’adagio al moto con brio, di una sinfonia, quel buffo animale è la sua chiave di violino, un dettaglio che genera e armonizza tutti gli altri abitanti del bestiario dipinto o sagomato in rilievo a stucco sulle altre pareti: amorini, draghi, cavalli alati, cocchi tirati da serpenti acquatici che si alternano ad altri animali da giardino o da allevamento.

Gli esperti catalogano gli affreschi nella produzione che caratterizza la quarta fase dello stile pompeiano. Ma sono costretti ad ammettere di trovarsi di fronte ad un unico in qualche modo mai visto prima. Mai visto un gioco così sfacciato e capriccioso di contrasti cromatici, un catalogo bizzarro di architetture realistiche e di pura fantasia, mai visti quel tendaggi che scompaginano ogni geometria.

Forse, ipotizzano, il parto di maestranze locali del Salernitano, di cui però stentano a citare altri esempi. In un riquadro una scena che rimanda all’epopea omerica. Achille a scuola dal centauro Chirone, sotto gli occhi vigili della madre Teti. Tra tanti eroi il committente ha voluto scegliere quello più circonfuso di ambiguità.


Eleggendo a modello esemplare il guerriero acheo più potente e temuto ma più orgoglioso ed egocentrico fin quasi al tradimento, uno che non esita a voltare le spalle ai compagni che l’hanno offeso, abbandonandoli alla sconfitta.

Un combattente senza paura ma anche il figlio obbediente e mammone che non esita a travestirsi da donna per evitare l’arruolamento e assecondare i timori profetici della madre che vorrebbe evitargli la fine sotto le mura di Troia.

Un incastro di metafore che sembra rafforzare l’attribuzione della villa al leggendario Posides, ripercorrendone la biografia, gli umori e persino le debolezze sessuali: il funzionario e comandante valoroso che si ritira in disparte, l’ex schiavo divenuto padrone che si trascina appresso la ferita e le inclinazioni amputate della sua condizione di eunuco, attestata dalle fonti dell’epoca.

Probabilmente è soltanto la tentazione di proseguire con un altro racconto la storia che l’archeologia ha dissepolto e ricominciato a narrare.

Il congedo dal sito in altre sale dei sotterranei verso cui si risale per uscire: un campionario di pentole, stoviglie, attrezzi d’uso che raccontano una dimora che era sicuramente anche una fattoria agricola. E si affianca ad un’altra passerella di reperti che ci parlano del monastero medievale che sorse da quelle rovine e poi precipitò a suo volta in rovina.

(DANILO MAESTOSI)

SOPRA LA VILLA ROMANA L'ESPOSIZIONE DEI CADAVERI BENEDETTINI

ANNOTIAMO

Questi dipinti affascinano, ma diciamola tutta, oggi averli in casa farebbero venire il mal di testa. Noi adoriamo questi colori accesi, questo movimento di corpi e di volute, questa fantasia scatenata in apparizioni e movenze improvvise, paghiamo per vederle e ne restiamo incantati, ma a casa nostra non la vorremmo.

Capiamone il perchè. Per farlo teniamo conto che la raffinata assenza di colore nelle statue e nei bassorilievi dell'Impero Romano è un errore, o almeno discende dallo sbiadimento operato dal tempo. Roma, come Pompei e ogni centro abitativo dell'epoca, era coloratissima. Le statue, i bassorilievi, le mura, i fregi e spesso anche le colonne, erano coloratissimi.

In ogni parte del mondo anticamente trionfava il colore. Oggi trionfa nell'architettura e nell'arredamento l'assenza di colore. Non si può fare un paragone ma si può fare una riflessione: gli antichi erano molto più istintuali di noi, dipingevano gli interni delle loro case riempiendoli di immagini e colori. Ora le immagini e i colori procurano emozioni, e noi quella valanga di emozioni non potremmo sopportarle, sarebbe troppo.

Il nostro sovraccarico mentale dato dalla corsa del nostro tempo renderebbe per noi insopportabile una casa dipinta e colorata e, per giunta, piena di colpi di scena. Nella domus di Positano personaggi fantastici come geni alati, animali mitici e personaggi della mitologia piuttosto tragici si associano e si scavalcano in scene a continua sorpresa.

C'è il gusto del tragico e dello spensierato insieme, eroti e altri esseri fantastici scorrono ad allietare un panorama bello e tragico di grandi eroi epici, con continui rivolgimenti e sorprese. Un accavallamento di immagini, stimoli e sensazioni che quotidianamente e cioè in casa nostra non sopporteremmo mai.

Ci piace però godercelo nei musei o nelle case di Pompei, di Ercolano o di Positano, consci dell'allegria e soprattutto della spensieratezza dell'epoca, quando noi, subissati da uno scorrere velocissimo del tempo, quale il lavoro e la vita ci richiedono, abbiamo perduto per sempre.

Noi con i nostri palazzi squadrati e asettici, e le nostre case arredate in bianco e grigio e avana, cerchiamo di sopravvivere a un mondo caotico, per cui maggiormente ci incanta questo mondo sospeso di esseri fantastici e scene sfavillanti, bruciati poi, come per la vendetta di un Dio geloso, nel suo acme di allegria e bellezza.

Ma quella immane tragedia che tanto contrasta con la vivacità e la gioia di vivere sia dei pittori che dei padroni di casa ci ha donato un patrimonio di preziosissima bellezza, che guardiamo a bocca aperta chiedendoci se in tanti secoli di progressi non ci siamo dimenticati di qualcosa di importante, e cioè vivere.

Ci colpisce molto il contrasto tra la cripta del convento benedettino dove si esponevano i cadaveri che colavano i loro liquidi di putrefazione a monito della morte incombente e il gioco allegro e fantastico della domus positana. Anche Catullo pensava alla morte e chiedeva per questo alla sua Lesbia cento e mille baci. Ma ci siamo persi qualcosa?

TIMGAD - THAMUGADI (Algeria)

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PANORAMICA DELLE ROVINE
Timgad (l'antica Thamugadi romana), fu una colonia romana fondata dal nulla in Numidia, un antico regno berbero che occupava i territori del Nordafrica corrispondenti all'incirca all'attuale Algeria, facendo uso solo di manodopera militare. La vittoria di Cesare a Tapso, nel 46 a.c. aveva già provocato l'annessione della Numidia a Roma e la sua trasformazione in provincia.

COME DOVEVA APPARIRE (INGRANDIBILE)
(Ricostruzione di https://jeanclaudegolvin.com/en/ )
La città, chiamata "Colonia Marciana Ulpia Traiana Thamugadi", venne fondata dall’imperatore Traiano intorno al 100 d.c. e il suo nome doveva commemorare sua madre (Marcia), sua sorella maggiore (Ulpia Marciana) e suo padre (Marco Ulpius Traianus).

Timgad sorgeva a più di 1300 metri su un altopiano arido, sulle ultime propaggini dei Monti Aures. Anche in piena estate la temperatura è mite.
Venne progettata nel 110 da Lucio Munazio Gallo, un legato imperiale di Traiano: una città militare aveva per base un quadrato perfetto di 370 metri circa di lato.Le sue notevolissime rovine sono un esempio della griglia con cui venivano costruite le città romane. La città nacque come un castro quadrato, cinto da un muro di m. 3,50 di spessore.

Quando nell'800 la città viene dissepolta dalla sabbia del deserto viene chiamata "la Pompei africana". Situata sulle montagne dell'Aures in un sito montuoso di grande bellezza, a 480 km a sud-est di Algeri e 110 km a sud di Costantino, Timgad è un esempio accertato di una colonia militare romana creata ex nihilo.

La Colonia Marciana Traiana di Thamugadi fu fondata dalla III legione Augusta e dal suo legato Munazio Gallo, con lo scopo di creare un centro di romanizzazione e insieme di difesa alla base dell'Aurès. Essa funzionò all'inizio come accampamento per la III Legione di Augusto che, successivamente, fu spostata a Lambaesis.


L'abbandono dell'antico sito, in un periodo successivo, e la conduzione di scavi archeologici quasi ininterrottamente dal 1881 al 1960 ha permesso alla città di Thamugadi di evitare la costruzione di edifici nuovi sugli edifici antichi, soffocandone i resti.

Le rovine della città si trovano a 35 km da Batna, in Algeria. La città venne fondata dal nulla come colonia militare, venne costruito il forte dagli stessi legionari, con le camerate, le cucine, la sala d'armi, il cortile, e poi le terme, e i bagni, le latrine, le meridiane, la palestra, le stalle, e il macellum, i templi, la basilica, e il teatro.

Venne poi il quartiere commerciale di Sertius dal nome del personaggio che ha donato alla città un mercato con interessanti resti, originariamente coperto, a semiarco di banchi e capitelli che riproducevano gli alimenti venduti, il perimetro con i negozi e, al centro una piazzetta. Sulla via sacra le pietre cambiano di colore per distinguere i diversi luoghi, e poi il foro (su cui si affacciano la basilica, la curia, l’erario), e la necropoli, insomma pian piano si formò una città.

MERIDIANA
Però nacque principalmente come bastione contro i Berberi del Massiccio dell'Aurés. In origine essa venne abitata da veterani della Campagna Partica dell'esercito romano, cui vennero assegnate terre ai confini dell'impero in cambio degli anni di servizio militare prestato.

I veterani accettavano volentieri questo tipo di ricompensa, anche se le terre erano molto lontane da Roma, anzitutto perchè provenivano da varie terre, e poi perchè amavano circondarsi dei commilitoni (cum milites), come li definì Giulio Cesare, visto che in guerra, dovendo difendere la vita propria e degli altri, si formavano fortissimi legami di fratellanza tra i legionari.

Inoltre, in terre non proprio tranquille, dove ogni tanto era necessario difendersi, rinnovavano l'eccitazione di sentirsi ancora legionari e legati gli uni agli altri, non dovendo più affrontare guerre per difendere l'impero, ma dovendo ogni tanto difendere le proprie terre da eventuali attaccanti nomadi. Era un modo per non sentirsi la vecchiaia addosso.

La città, cinta di mura, aveva quattro porte, una per ogni punto cardinale. Sul lato occidentale della città vecchia, la porta fu sostituita da un arco di trionfo, l’Arco di Traiano, quando l’area urbana si estese oltre i suoi limiti originari.

Collocata lungo la strada fra Thevaste e Lambesi (sede della Legio III Augusta), la città fu infatti cinta di mura ma non fortificata. Essa venne praticamente edificata dalla III Augusta, una legione che subì nell'anno 18 d.c. la rara punizione della decimazione (l'uccisione di un soldato su dieci scelti casualmente ed esecutati dagli stessi compagni), per aver consentito, con la sua mancanza di coraggio, che una sua sottounità cadesse in un'imboscata e venisse annientata senza ricevere aiuto.


Progettata per una popolazione di 15.000 abitanti, ben presto la città crebbe al di fuori di ogni controllo e si sviluppò senza più rispettare la planimetria ortogonale della fondazione originale romana, arrivando a coprire ben 50 ettari, contro i 12 iniziali.

Con tutto ciò tra le rovine di Timgad sono ancora perfettamente visibili il decumano e il cardo, affiancati da un colonnato corinzio parzialmente restaurato. Il cardo non attraversa l'intera città, bensì termina in un foro all'incrocio col decumano.

Il sito di Timgad, con il suo campo militare romano, il suo modello urbanistico e il suo particolare tipo di architettura civile e militare riflette un importante scambio di idee, tecnologie e tradizioni esercitate dal potere centrale di Roma sulla colonizzazione delle alte pianure dell'Algeria antica.

PLANIMETRIA DELLA CITTA' (INGRANDIBILE)
Timgad adotta le linee guida dell'urbanistica romana con un notevole sistema a griglia. Un esempio tipico di un modello urbano, la permanenza del piano originale dell'accampamento militare e lo sviluppo del sito in tutti i vari periodi, ancora testimonia la bravura e l'inventiva in qualsiasi tipo di edilizia degli ingegneri militari romani. Una civiltà e una capacità oggi raramente eguagliata.

Nell'interno le strade lastricate in pietra locale, incrociandosi ad angolo retto, delimitavano le singole insulae di circa 20 m. di lato. All'incrocio del cardine e del decumano maggiori si apriva il Foro, piazza porticata di circa m. 100 per 60, sui cui lati sorgevano la curia, la basilica, i rostri, le latrine pubbliche, il macellum, le terme e così via; non lontano sono la biblioteca e un mercato.

Dietro al Foro, poggiato a una collinetta, si apriva il teatro. Fuori del recinto primitivo, verso ponente, su un'altra elevazione del terreno, che in tutta l'area della città era leggermente ondulato, e digradante verso nord, svettava il Campidoglio, un tempio esastilo su podio, cui si accedeva per mezzo di trentotto scalini, e chiuso entro un recinto quadrangolare porticato.

Fuori dal recinto si situavano due edifici termali, uno, il maggiore, aldifuori della porta settentrionale, o di Cirta, l'altro sul lato opposto. Oltre l'arco di Traiano erano il mercato detto di Serzio, dal nome del costruttore, un munifico cittadino di Thamugadi, e il tempio ritenuto del Genio della colonia.

CIPPI FUNERARI
Un quartiere di costruzioni più modeste e di pianta irregolare presso le terme meridionali accoglieva vari stabilimenti industriali, un'officina ceramica, una fonderia, ecc. Timgad possiede un ricco inventario architettonico di numerosi tipi, relativo alle diverse fasi storiche della sua costruzione, essa costituisce un'immagine vivente della colonizzazione romana nel Nord Africa per tre secoli.

Così l'insieme delle vestigia e dei manufatti scavati testimoniano l'eccezionale valore universale che ha permesso l'iscrizione della proprietà all'Unesco. Nella forte e prospera colonia, Timgad deve essere servito come immagine convincente della grandiosità di Roma sul suolo numidico.

La pianificazione urbana romana raggiunse poi il suo culmine. Entro la metà del II secolo, la rapida crescita della città aveva gli stretti confini della sua fondazione originale.
Il Timgad si estendeva oltre i perimetri dei suoi bastioni e di diversi edifici importanti: il capitolium, i templi, i mercati, una basilica, una biblioteca, ben quattordici terme e quattro bagni pubblici, nonchè un vasto teatro.


LA BIBLIOTECA  (Ricostruzione di https://jeanclaudegolvin.com/en/ )
Gli edifici, costruiti interamente in pietra, furono spesso restaurati durante il corso dell'Impero: l'Arco di Traiano nella metà del II secolo, la Porta Orientale nel 146 e la porta occidentale sotto Marco Aurelio.

La città prosperò ancora sotto Adriano (76-138) e sotto gli Antonini, ma la maggior parte di questi edifici risalgono al periodo di Settimio Severo (146-211), quando la città godeva della sua età dell'oro, arricchita ormai anche di enormi e fastose residenze private. La città prosperò fino alla metà del sec. III d.c. quando divenne sede episcopale, e sede di lotte per le conquiste del potere religioso.


Nel IV sec. divenne infatti teatro di discordie sanguinose fra cattolici e donatisti (nativo di Thamugadi fu il famoso vescovo donatista Ottato), e si è ipotizzato, ma con prove insufficienti, che le due chiese, databili fra il sec. IV e il V, appartenessero alle due parti in lotta. Tutto ciò, unitamente alla accresciuta bellicosità delle popolazioni meridionali, determinarono la decadenza di Thamugadi che si accrebbe durante il periodo vandalico.

Dopo l'invasione vandalica del 430, Timgad infatti venne distrutta alla fine del V secolo dagli Auricani. La riconquista bizantina fece rivivere alcune attività nella città, difese da una fortezza costruita a sud, nel 539, riutilizzando i blocchi rimossi dai monumenti romani, ma «i Bizantini fecero più danni nel Nord Africa dei Barberini a Roma».

Ma l'invasione araba determinò l'ultima rovina di Thamugadi, fortunatamente la città non fu usata come cava di pietra dagli Arabi (come quasi tutte le altre del Nord Africa) e cessò di essere abitata dopo l'VIII secolo, senza mai essere ricostruita dagli indigeni.

Nel museo sono conservati molti oggetti del quotidiano, quali gioielli, strumenti geometrici e chirurgici, monete, serrature e chiavi, spille e fibbie in osso e uno stupefacente mucchio di monete d'oro difficilmente riconoscibili perchè fuse e ridotte in un unico blocco in seguito a un incendio.


IL TEATRO

IL TEATRO

Il teatro di Timgad non era particolarmente grande, perchè prevedeva solo 3.500 posti a sedere, e venne costruito dai romani nel 160 d.c., e venne edificato tagliando un lato di una collina, all'uso greco. Il teatro romano infatti non scavava le colline ma aveva una struttura totalmente autonoma e autoportante, fondata su una fitta rete di murature radiali e concentriche che si levavano dal terreno.

Il teatro dispone di tre gradini dell'orchestra dove sedevano i personaggi più importanti come i senatori, un muretto alle spalle li separa dal passaggio per gli spettatori e dalla cavea con otto ordini di gradini dove sedevano cavalieri e militari, e un successivo muretto sempre per il passaggio degli spettatori li separava dall'ordine di undici gradini dove sedevano le donne e tutti gli altri.

Non mancavano il pulpito e la scena ornata di colonne, pilastri e architravi. Il teatro è ancora oggi in ottime condizioni di conservazione, tanto che ancor oggi viene utilizzato per rappresentazioni teatrali.
Una solenne scritta all'entrata spiega che il teatro fu costruito con i soldi della comunità. 


ARCO DETTO DI TRAIANO PRIMA E DOPO IL RESTAURO

IL COSIDDETTO ARCO DI TRAIANO

Nella parte terminale ovest del decumano sorge il cosiddetto arco di Traiano, della seconda metà del II secolo o degli inizi del III, parzialmente restaurato nel 1900. L'arco, costruito principalmente in arenaria, è corinzio con 3 fornici, di cui quello centrale è largo più di 3 metri. L'iscrizione ricorda la fondazione della colonia da parte di Traiano, ma dovette essere in origine una semplice porta cittadina, monumentalizzata in epoca successiva.

L'arco romano di Timgad (detto impropriamente arco di Traiano) è un arco romano costruito tra la seconda metà del II secolo e gli inizi del III, situato nella colonia romana di Timgad (antica Thamugadi), presso la città di Batna in Algeria.

L'arco, a tre fornici, fungeva da porta occidentale della città, all'inizio del decumano massimo, che proseguiva la via proveniente da Lambaesis, l'antica fortezza legionaria della provincia romana dell'Africa proconsolare, che corrisponde all'odierna città algerina di Tazoult. Era posizionata in Numidia a nord dei monti dell'Aurès, di fronte alle tribù berbere dei Getuli.

L'iscrizione sull'attico ricorda la fondazione della colonia da parte di Traiano nell'anno 100, ma la struttura decorativa del monumento e inoltre la ricca ornamentazione degli elementi architettonici hanno fatto supporre una sua datazione più tarda: ai lati dei fornici laterali sono presenti colonne distaccate da parete, collegate da un frontone curvilineo, che creano due edicole laterali sporgenti e fortemente chiaroscurate, quasi indipendenti.

L'iscrizione:
«L'IMPERATORE TRAIANO AUGUSTO GERMANICO, FIGLIO DEL DIVINO NERVA, 
SOMMO PONTEFICE, PADRE DELLA PATRIA, PER LA TERZA VOLTA CONSOLE 
E RIVESTITO PER LA IV VOLTA DEL POTERE TRIBUNIZIO, FONDO' CON L'AIUTO 
DELLA III LEGIONE AUGUSTA LA COLONIA DI TAMUGADI, ESSENDO  LEGATO
IMPERIALE E PROPRETORE L. MUNAZIO GALLO»
L'arco, insieme all'intero sito archeologico di Timgad, è stato inserito dal 1982 nella lista dei Patrimoni dell'umanità dell'UNESCO. L'arco raggiunge un'altezza di 12 m, con il fornice centrale alto 6 m che permetteva il passaggio dei veicoli, le cui ruote hanno lasciato profondi solchi sul basolato della via. I fornici laterali, alti 3,75 m, erano riservati ai pedoni.

Sulle due facciate sopra i fornici laterali sono presenti profonde nicchie rettangolari, inquadrate da edicole con colonnine corinzie con fusti lisci in marmo colorato, sorrette da mensole. Le nicchie erano destinate ad ospitare statue oggi scomparse. L'insieme di ciascun fornice laterale e della nicchia soprastante era inquadrato da due colonne corinzie rudentate, distaccate da parete e innalzate su piedistalli.

La trabeazione che corre sulla parete sopra i fornici laterali, sporge sopra le colonne e su di essa poggia a sua volta un frontone curvilineo. L'attico doveva essere sormontato da un gruppo statuario monumentale.

L'ampio viale che passa davanti al Campidoglio termina a nord con l'arco trionfale eretto all'ingresso occidentale del decumanus maximus. Poco prima della fine del II secolo, la porta di passaggio fu sostituita da un arco trionfale impropriamente chiamato "Arco di Traiano" che, con un minimo di restauro, è sopravvissuto quasi intatto.

L'ampio fornice centrale, alto sei metri, permetteva il passaggio di veicoli che lasciavano solchi profondi sulle lastre della pista. Ai pedoni erano riservati i due fornici laterali, alti tre metri e settantacinque. Sopra questi, su entrambi i lati sono scolpite nicchie rettangolari decorate con colonne per ricevere statue, dominate da archi ad arco su colonne corinzie distaccate. Quattro colonne di piedistallo per ogni faccia principale.

Il tutto aveva un attico sopra cui si ergeva una biga di quattro cavalli tenuti da una divinità o da un imperatore. Altri rilievi sono stati aggiunti successivamente alla base della parete è: le statue di Marte e la Dea della Concordia, eretto durante il regno di Settimio Severo (193-211) da un certo L. Licinio in riconoscimento Optaziano la sua elezione al flammato perpetuo della colonia.

Altre sculture furono aggiunte all'arco successivamente: tra queste una statua di Marte e una della Concordia furono erette sotto l'imperatore Settimio Severo da Lucio Licinio Optaziano, in occasione della sua elezione a flamine perpetuo della colonia.

TERME MERIDIONALI

LE TERME
Le terme di Timgad romanizzarono gli africani meglio di qualsiasi forma di propaganda. Lo stile di vita confortevole e ludico della città iniziò presto a esercitare il proprio fascino sulle persone del posto che vi si recavano per vendere i propri prodotti.

Esse erano provviste di tiepidarium, frigidarium, calidariume sale per i massaggi con l'olio di oliva. Al di fuori dei limiti della città ci sono le Grandi Terme Settentrionali, un complesso di 80 m per 66 m che aveva più di 30 camere.
Per essere accettati a Timgad, dove solo cittadini romani potevano risiedere, molti nativi si arruolarono volontariamente nella legione romana per un periodo prestabilito di 25 anni in modo da ottenere la cittadinanza romana per se stessi e per i propri figli maschi.
Non accontentandosi di essere semplici cittadini romani, alcuni africani arrivarono anche a raggiungere posizioni preminenti a Timgad o in altre città coloniali. La strategia dei romani di integrare i locali fu vincente tanto che, a cinquant'anni dalla sua fondazione, Timgad era abitata perlopiù da nordafricani.
LE TERME SETTENTRIONALI
Le terme era uno dei più grandi relax e divertimenti di Timgad, per averne un'idea bisogna pensare a una SPA dove ci siano le piscine calde e fredde, una palestra, una biblioteca con sale da lettura, una sala per piccoli spettacoli, un punto di ristoro e il salotto delle notizie e del pettegolezzo. Divertimento assicurato tutti i giorni e a prezzi molto contenuti. 
A Timgad sono sopravvissuti i resti di ben 4 terme. Una di queste si trova all’estremità settentrionale del cardo della città. Queste terme si trovavano sul lato sinistro del cardo mentre si entrava nelle porte della città, e sarebbero state usate dai viaggiatori stanchi che entravano nella città da quella direzione.

A Timgad si trovano inoltre un tempio dedicato a Giove Capitolino (grande quasi come il Pantheon di Roma), una chiesa quadrata con abside circolare risalente al VII secolo, e una cittadella bizantina costruita negli ultimi giorni della città. Le strade sono state pavimentate con grandi lastre rettangolari di pietra calcarea e comprendeva ben quattordici terme, oggi ancora visibili.  Durante il periodo cristiano, Timgad era un vescovato di fama.

RESTI DELLA BIBLIOTECA

LA BIBLIOTECA

La Biblioteca di Timgad, l'antica Thamugadi, venne edificata, nel III secolo d.c., grazie alla donazione di un cittadino di nome Marcio Giulio Quinziano Flavio Rogaziano. L'edificio, che nella pianta della città occupa un isolato quadrato con ciascun lato di m 23,50, è costituito da un atrio rettangolare delimitato su tre lati da un colonnato, oltre alla sala della biblioteca vera e propria, e da sei ambienti secondari più piccoli, due per ciascun lato dell'atrio e uno per ogni lato della sala della biblioteca.

Quest'ultima consiste in un ambiente semicircolare con otto nicchie a parete che fungevano da armadi con ante, dove si conservavano documenti e libri, e non mancava un'edicola centrale che di solito accoglieva una statua di divinità o dell'imperatore, spesso di entrambi.

RICOSTRUZIONE 3D DELLA BIBLIOTECA

Dinanzi a queste nicchie c'era un podio a cui si accedeva mediante una gradinata. Dato le dimensioni relativamente piccole dell'edificio, si deduce che il colonnato posto di fronte al podio fosse di un unico piano.

La stanza era coperta, nella parte anteriore, da una volta a botte, invece in quella posteriore era coperta da una semicupola, e prendeva la luce esterna, come si vede in figura, da una ampia finestra, leggermente arcuata sopra, ricavata nella facciata sotto la volta a botte.

COME DOVEVA APPARIRE (PROSPETTO E SEZIONE)

Non sapremmo dire se la forma di questa sala avesse funzioni estetiche o solamente funzionali, magari favorendo un'illuminazione uniforme ottenuta mediante la finestra sulla facciata. L'esistenza della biblioteca è testimoniata sia da fonti letterarie ed epigrafiche, sia dai suoi resti archeologici.

Come altri edifici pubblici di Timgad, la biblioteca venne finanziata, almeno in parte, per quel fenomeno tutto romano dell'evergetismo, dove i notabili che volevano fare carriera politica, come pubblicità principale regalavano alla città un edificio pubblico a proprie spese. Sappiamo infatti che per la biblioteca vennero spesi da un privato ben 400000 sesterzi.





LE VILLE PRIVATE

Con l'arricchirsi della città in agi e monumenti, molti possidenti edificarono splendide dimore di varie dimensioni, con i loro sontuosi mosaici, che dovevano  tra l'altro compensare l'assenza di marmi preziosi. Le case infatti erano costruite esclusivamente in pietra, arenaria o calcare, e pure in mattoni; anche gli elementi architettonici, colonne, capitelli, fregi sono ricavati dalla pietra calcarea bianca, bella ma meno pregevole del marmo, il quale si limitava alla decorazione di pavimenti e di pareti.

Frequenti sono invece i mosaici, alcuni a figure, ma i più geometrici o floreali, con ampia policromia; rari i bronzi e anche, relativamente, i marmi scolpiti, che, tranne qualche eccezione, forse importati, sono di esecuzione non molto fine. Le case, tranne qualcuna più grande che più si accosta al tipo della casa pompeiana, sono comprese ognuna nell'ambito di un'insula: hanno un piccolo cortile scoperto, intorno a cui si aprono, ma irregolarmente, i vari ambienti, in genere piuttosto angusti.



LE CHIESE

La diffusione del cristianesimo portò alla costruzione di chiese, sia all'interno della città, in qualche casa trasformata a questo scopo, sia fuori: una, a tre navate, di 36 m. di lunghezza per circa 15 di larghezza, attorniata da cortili a colonne e da altri annessi, sorgeva al di là dell'angolo nord-occidentale del recinto primitivo.

Più ampia e più importante era quella ad occidente del Campidoglio, lunga m. 63 e larga 22, pure a tre navate: una seconda sala di preghiera era disposta perpendicolarmente alla prima, e tutto all'intorno dell'una e dell'altra si stendevano numerosi ambienti, uno dei quali, con una bella vasca adorna di mosaici, serviva da battistero; gli altri dovevano far parte probabilmente di un monastero.

Procedendo per 300 m verso sud lungo una strada dissestata si arriva a un grande forte bizantino costruito durante il regno di Giustiniano. Le pareti sono spesse più di due metri e mezzo e racchiudono una superficie lunga 110 m per 70 m. All'interno le stanze e le altre strutture sono ancora ben conservate. A destra, dopo l'ingresso, ci sono una piscina e una terrazza che conservano ancora la pavimentazione originaria in piastrelle.

DEPOSITO DI COLONNE MAI RISOLLEVATE

PPMUSA

Il piano di protezione e presentazione (PPMVSA), uno strumento legale e tecnico che stabilisce azioni di conservazione e gestione nella proprietà. L'ente che gestisce la proprietà è l'Office of Cultural Properties Management and Operations (OGEBC).

Esegue tutte le attività riguardanti la protezione, la manutenzione, la documentazione e lo sviluppo di programmi di presentazione e promozione. L'OGEBC implementa il suo programma di protezione e gestione per il sito in collaborazione con la Direzione culturale della Wilaya (provincia) che ha un servizio responsabile per il patrimonio culturale.

Il quadro legale e gestionale comprendeva le leggi 90-30 (legge regionale), 98-04 (relative alla protezione del patrimonio culturale), 90-29 (relative all'urbanistica e allo sviluppo) e il Piano generale per lo sviluppo e la città Pianificazione (PDAU) della comunità di Timgad, 1998.


Tuttavia, lo Stato ritiene che sia necessario rivedere le disposizioni legali e amministrative riguardanti la proprietà per assicurarne meglio la conservazione e la presentazione. È necessario esaminare l'impatto dei gruppi di visitatori e di veicoli sulle fragili strutture dei siti e dei loro dintorni. -

Viene da chiedersi dove siano queste fragili strutture visto che si tratta di pietre e nemmeno di marmi. Se l'Algeria pensa di avere troppo turismo c'è qualcosa che impensierisce. Vero è che deve badare ai suoi affari interni visti i molti disagi e rovesciamenti politici, ma dire che deve limitare il turismo per proteggere i suoi monumenti sembra poco realistico, a meno che non temano che il contatto con gli occidentali possa mutare la mentalità del popolo.

A Timgad c'è ancora molto da fare per riassestare le vestigia della città romana, basta guardare questo mastodontico deposito di colonne lasciato al suolo e mai ricollocato. Sono colonne di diversi tipi, diversi per altezza, spessore e forma, lisce, scanalate, tortili, parte lisce e parte scanalate, sottili ed enormi. Molto è ancora da ricostruire e poi molto è ancora da scavare. Con sicurezza c'erano ad esempio il circo per le corse dei cavalli e l'anfiteatro per i gladiatori.

ACQUEDOTTO DELLA FORMINA

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ACQUEDOTTO DELLA FORMINA
L'acquedotto romano della Formina era la fonte di approvvigionamento idrico-potabile della città di Narnia (Narni), che si trovava lungo la consolare via Flaminia, 12 miglia dopo la città di Ocricolum (Otricoli), secondo gli itinerari antichi.

L'acquedotto è un esteso reticolo di cunicoli e corridoi realizzati con enorme perizia nel I secolo d.c. sotto l'impero di Tiberio, e per secoli ha assicurato egregiamente l'approvvigionamento idrico della città di Narni e di tutto il territorio circostante, spesso esposti a estati siccitose.

Costruito in parte in muratura ed in parte in galleria entro le montagne, si snoda lungo le pendici delle colline, attraversa tre monti attraverso tre trafori e i supera alcuni corsi d'acqua attraverso i ponti. Alimentato da sei sorgenti si estende da Sant'Urbano, passando per la città vecchia e culminando nel grande serbatoio di distribuzione.

Le prime notizie riguardanti l'acquedotto si hanno grazie agli statuti narnesi che risalgono al 1371.
dove, secondo un'epigrafe riportata da padre Ferdinando Brusoni nel XVIII secolo, l'acquedotto dovrebbe essere stato costruito da Marco Cocceio Nerva, considerato che il bisnonno dell'imperatore omonimo, che fu console nel 36 a.c., edificò l'acquedotto della Formina nel 27 d.c.. 

Ma il Nerva che costruì l'acquedotto della Formina nel 27 d.c. doveva essere il nonno e non il bisnonno dell'imperatore Nerva (30 - 98). L’acquedotto in effetti venne edificato dalla Gens Nerva di cui alcuni suoi membri furono Consoli e Curatori delle Acque, nominati dall'Imperatore Tiberio.

L'acquedotto raccoglieva le acque di sette sorgenti lungo un percorso di 13 Km e la pendenza media si aggirava sul cinque per mille. Dall'origine, o per meglio dire dalla base del “Bottino con caduta” che è a quota m. 318 s.l.m, alla cinta muraria di Narni, si ha un dislivello di m. 62,5 pari a una pendenza media del 4,9 per mille.

Le dimensioni interne sono varie, da 1,30 m. a 1,80 m. d’altezza, alla larghezza, quasi costante, di “un piede e mezzo” romano, equivalente proprio ai 45 cm. Di solito negli acquedotti romani si poteva passare in piedi (e con un metro e ottanta si poteva), tranne brevi tratti in cui occorreva procedere inchinati, ma di solito molto brevi.

L'opera era caratterizzata da quattro ponti di cui due ponti, Ponte Cardona e Ponte Vecchio, sono ancora ben conservati), tre trafori: S. Biagio, Monte Ippolito e S. Silvestro (dei quali il più lungo misura 700 metri) e contava 55 pozzi e 139 bocchette. L'acquedotto della Formina, quando non fu più utilizzato per la città di Narni, dal 1923 in poi, venne abbandonato e sfruttato in parte, attraverso delle stazioni di pompaggio, per le frazioni di Itieli e S. Urbano. Presso quest'ultima si trova il caput aquae (capo dell'acqua). 

PONTE CARDONA DELL'ACQUEDOTTO DELLA FORMINA

L'ACQUEDOTTO DENTRO NARNI

L'acquedotto entra a Narni a quota m. 243,5 s.l.m, a circa m. 100 a sud-ovest di Porta Ternana ed il suo tracciato in parte è percorribile ed in parte si può ricostruire grazie ad alcune planimetrie.
All'interno della città l'acqua si andava a raccogliere in varie cisterne o zampillava dalle 3 fontane pubbliche.

Scavato nella roccia adiacente si trova un'antica cisterna del I sec. a.c. e un locale dove è possibile effettuare una visita virtuale dell'acquedotto romano della Formina, che riforniva la città, e ammirare fedeli riproduzioni di alcuni strumenti usati dagli architetti del tempo.

L'acquedotto della Formina è visitabile lungo una galleria di 700 metri, larga mediamente 45/50 cm. e alta da 170 a 250 cm., con il soffitto caratterizzato in buona parte dalla presenza di suggestive stalattiti bianchissime, e termina in un pozzo scavato nella roccia profondo 18 metri, da cui, attraverso una ripida scala a chiocciola, si riemerge in superficie.

LUCUS QUERQUETULANUS

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IL QUERCETO SACRO

IL MONTE QUERQUETULANO

In origine il nome del monte Celio, o Caelius, doveva essere "Querquetulanus mons" per la ricchezza di querce, o "lucus querquetulanus", di cui resta ancora la via odierna Querquetulana. Invece l'origine del nome Caelius viene concordemente fatta risalire all'etrusco Celio Vibenna, uno dei due fratelli di Vulci che, secondo quanto tradizionalmente narrato da fonti etrusche, favorì il VI re romano, Servio Tullio, nel corso della conquista del monte Celio e successivamente nell'occupazione di Roma.

In epoca arcaica, i templi urbani avevano in genere un proprio lucus, che poi con l'espansione degli edifici e l'aumentato costo del suolo cittadino, venne gradualmente ridotto ad un piccolo gruppo di alberi che tuttavia venivano curati con molta attenzione; i grandi boschi sacri erano invece più diffusi nei santuari rurali o suburbani.

A Roma i maggiori boschi sacri urbani, sia per estensione che per importanza, si trovavano sull'Esquilino:

- Facutalis, 
- Larum Querquetulanum, 
- Esquilinus, 
- Poetelius, 
- Mephitis, 
- Junonis Lucinae, 
- Libitinae 

Secondo quanto riporta Varrone, essi venivano visitati durante la processione che si svolgeva nella festività degli Argei, l'11 gennaio, quando si visitavano 27 sacrari posti attorno alla città offrendo sacrifici. Numerosi erano però i Boschi Sacri della città di Roma, sia dentro che fuori le mura.

MONETA RITRAENTE LE QUERQUETULANAE

LUCUS LARUM QUERQUETULANUM 

Tra questi il Lucus Larum Querquetulanum, che, dato il nome, doveva essere caratterizzato dall'abbondanza di querce. Secondo per ampiezza solo al Lucus Fagutalis.


FAMIANO NARDINI (Roma Antica - Antonio Nibby)

"Querquetulano era il primo nome del Monte Celio poiché con l'autorità di Tacito disse che Querquetulana aveva anche nome una parte di Roma da un bosco sacro che gli fu aggiunto da Festo. Querquetulanae si chiamavano le Ninfe che presiedevano il querceto che si indica fosse posto presso la Porta Querquetularia. 

Doveva anche essere stata chiamata da alcuni il Querquetulano Sacro anch'esso appunto presidiato dalle Ninfe. Si pone da molti presso Santa Maria Maggiore ma senza fonti credibili. Il Donati invece lo pone sul Celio perchè il nome di Querquetulano fu dato a quel monte e le parole di Varrone nel luogo citato: 
"Quorum angusti fines non mirum jam di enim late avaritia una est item lucus Larum Querquetulanum Sacellum" (poichè anche il bosco dei Lari che era ai piedi del Palatino e il Sacello Querquetulano che era nel Celio erano restati angusti come gli altri del Colle Esquilno). 

In questo senso il Sacello Querquetulano e il bosco de Lari erano nell'Esquilie, ed il nome  Querquetulano del Monte Celio non dissuade a credere quel Sacello nella parte dell'Esquilie confinante col Celio, prima che le mura di Tullio Ostilio lo esclusero più dal Celio che non dall'Esquilie. 
Così il Bosco Querquetulano è facile che fosse di là da S Giovanni in Laterano ed ivi nel basso che diviso era tra un Monte e l'altro, la porta Querquetulana anch'ella detta appresso gli si può supporre il Sacello ma sulla falda dell'Esquilie verso Santa Croce in Gerusalemme. 

Osservo che Varrone volendo parlar solo dei Boschi dell'Esquilie vi annovera non il bosco ma il Sacello Querquetulano. Segno espresso che il Sacello solo era nell'Esquilie standole il bosco a lato sì ma sul Celio."

SATIRI E NINFE ORGIASTICI

SATIRI E NINFE

Gli antichi romani, ritenevano che i boschi fossero abitati soprattutto da ninfe e satiri. Le ninfe erano fanciulle giovani e belle che vivevano in mezzo alla natura, simboli della forza vitale della natura nelle sue manifestazioni più piacevoli e amichevoli verso l’uomo; alcune ninfe erano immortali, altre mortali ma dotate di una vita molto lunga. Eleganti, flessuose, vestite di lunghe tuniche a velo, oppure nude, spesso si divertivano improvvisando danze e giochi, o intrecciando storie d’amore con Dei, satiri e pure con uomini.

Furono adorate moltissimo dalla popolazione, ma non in pubblico; si facevano alle ninfe offerte in privato (latte, miele, olio, vino, ghirlande di fiori) per ottenere la loro benevolenza. Si ponevano le offerte su una pietra o dentro un circolo di pietre raccolte nel bosco. Le ninfe avevano il potere di indovinare il futuro, erano ispiratrici, guaritrici, e offrivano protezione alle donne durante il parto. Anche quando i boschi vennero dedicati alle divinità il culto continuò, ma sempre privatamente.

Quanto alla Porta Querquetulana, generalmente s'ammette che essa sia una delle porte Serviane e che debba porsi poco più al settentrione della precedente, tra l'Oppius (Esqailino) e il Caelius, a di dipresso ove oggi sta la chiesa dei ss. Pietro e Marcellino.

Soltanto il Gilbert  ritiene che essa sia anteriore alla cinta Serviana, e propriamente l'unica porta che metteva alla fortezza del Celio, quando questo formava un comune a sè, separato da quello del Palatino e del Quirinale.

Il Nardini riconosce in zona:
- Sacellum Querquetulanum,
- Lucus Querquetulanus,
- Lares Querquetulani,

Quindi un Sacello dedicato alle Ninfe, un Bosco Sacro alle Ninfe, e i Lares delle Ninfe propiziatorie a chi le pregava e onorava. Come tutti i lucus nel loro interno non si poteva cogliere pianta o ramo o erba o fiore, nè uccidere animali, pena l'ira delle Sacre Ninfe.

Solo nel dì di festa i sacerdoti usavano cogliere le fronde e donarle alla popolazione affinchè, dopo aver cinto il ramo di nastri lo portassero nella propria casa e lo appendessero al trave con intento propiziatorio.



I LARI

Ora i Lari erano dei geni benevolenti amati e onorati dai romani che però in questo frangente sono ninfe, le ninfe delle querce che abitavano il bosco sacro. Ciò deriva dalla religione animistica che ampiamente si conservò in era matriarcale e di cui restarono alcune tradizioni anche e in epoca patriarcale e romana.

Secondo la religione animistica ogni pianta o luogo era animata da un'entità semidivina che badava alla purezza e salute del luogo, del fiume, dell'albero e così via. Gli uomini riverivano e rispettavano queste entità in guisa di semidivinità. Riservavano loro sacrifici di erbe, vino, acqua e altro ma mai sacrifici cruenti. Pertanto erano Lari anche le Ninfe che abitavano il Lucus Querquetulanus.

PORTA QUERQUETULANA

LA PORTA QUERQUETULANA

Fu certamente in ricordo d’un bosco di querce che detta porta venne chiamata Querquetulana, poichè conduceva al posto dove attraversava le vecchie mura serviane nella depressione tra l’Oppio del Esquilino ed il Celio. Qui doveva sorgere un querceto, un tempo sacro ai Lari e alle Ninfe ma probabilmente poi divenne sacro a Giove, in quanto la quercia diventò uno degli attributi sacri di Giove.

A Roma resta una via Querquetulana sul colle Celio che si riversa su via Ambaradam, e un minuscolo sacello che alcuni ritengono di origine romana, poi dedicato a un'incerta Madonna del '600, comunque abbandonato e lasciato sbiadire nella noncuranza, che potrebbe essere stato un tempo un'edicola o un sacello dedicato alle Ninfe Querquetulane.


ULPIA MARCIANA

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ULPIA MARCIANA

Nome: Ulpia Marciana
Nascita: 48 d.c.
Morte: Roma, 29 Agosto del 112 d.c.
Fratello: L'imperatore Marcus Ulpius Nerva Traianus
Marito: Gaius Salonius Matidius Patruinus
Figlia: Salonia Matidia



TRAIANO

Il 18 settembre del 53 d.c. Marco Ulpio Traiano (regno 98-117) nasceva ad Italica, nell’Hispania Baetica, poco a nord dell’attuale Siviglia. La sua famiglia, la gens Ulpia, era originaria di Tuder (Todi), nella italica Umbria, ma si era da tempo trasferita nella ricca provincia di Betica, rimanendo però personaggi nell'ombra, senza particolari onori, o meriti o ricchezze.

Sua madre si chiamava Marcia; suo padre, Marco Ulpio Traiano, iniziò la sua carriera sotto Nerone, diventando governatore della Baetica, la sua provincia natale; tuttavia fu amico dei Flavi e primo della sua famiglia a diventare senatore.

Successivamente venne nominato comandante di una legione durante la guerra giudaica nel 70, e, dal 75 al 77, fu governatore della Siria, avendo al suo servizio come tribuno il figlio Marco Traiano, che iniziò così la sua carriera militare. Traiano padre rivestì il consolato nel 91 e ignoriamo la data della sua morte, ma sappiamo che nel 112 fu proclamato divus insieme alla figlia Ulpia Marciana, sorella di Marco.



ULPIA MARCIANA (48 - 112)

Figlia maggiore del senatore Marco Ulpio Traiano e di Marcia, pertanto sorella maggiore di Traiano, ereditò il suo secondo nome, Marciana, dagli antenati paterni di sua madre. Il suo luogo di nascita è sconosciuto.

Sposò intorno al 63 Gaio Salonino Matidio Patrizio, uomo molto ricco che era un pretore e un membro del collegio religioso dei Fratelli Arvales e che morì nel 78. Da costui Ulpia ebbe la figlia Salonina Matidia. Dopo la morte di Salonino Marciana non si risposò.

Forse quell'unione le era bastata, forse non le sorrideva di stare sotto tutela di un marito, quel che è certo è che molti uomini avrebbero voluto sposarla per la sua prestigiosa parentela con l'imperatore, tenendo poi conto che era una bella donna. Comunque Traiano "optimo princeps" ma anche ottima persona, rispettò la sua volontà e non la obbligò mai, come avrebbe potuto, a sposare chicchessia.

Sua figlia Matidia invece si sposò almeno due volte, una volta con un Matidius, da cui ebbe una figlia, Matidia, e la seconda volta con Lucius Vibius Sabinus, di famiglia consolare, e da questo matrimonio nacque Vibia Sabina, futura moglie di Adriano. Attraverso il terzo matrimonio di sua figlia Salonina Matidia, Marciana fu la bis-bis-bisnonna del futuro imperatore Marco Aurelio.

Quando Vibius Sabinus morì (84 o 87), Ulpia Marciana con sua figlia e le sue nipoti andarono a vivere nella casa di famiglia di Traiano e sua moglie Plotina, e successivamente nella reggia.

Dopo il 105 fu elevata al rango di Augusta dal fratello, prima sorella di un imperatore a ricevere questo titolo: all'inizio Marciana rifiutò modestamente questo onore, ma la cognata e l'imperatrice Plotina, evidentemente a lei affezionata, insistette affinché lo accettasse.

ULPIA MARCIANA - LOGGIA LANZI - FIRENZE
L'avvenimento venne anche celebrato con l'emissione di una moneta che la effigiava.
In qualità di Augusta Ulpia entrò così a far parte della iconografia imperiale ufficiale, e la sua statua venne posta sull'Arco di Traiano ad Ancona assieme a quelle di Traiano e di Plotina.
Viaggiò spesso con il fratello, consigliandolo sulle decisioni da prendere, e venne onorata con monumenti e iscrizioni in tutto l'impero.

Siamo nel I sec. d.c., e l'amatissima sorella di Traiano detta la moda dell'epoca: capelli dietro tirati sulla nuca e avvoltolati a formare uno chignon, in realtà una specie di pizza. Ma è la moda dei diademi, le romane diventano esigenti e spendaccione, con grande scandalo degli anziani.

Davanti una specie di diadema, un sostegno raggiato verso l'alto, innestata su un cordulo che riporta ai lati due riccioli, il tutto in materiale leggero, forse corno, o avorio, o di osso, ma sembra più somigliante la prima ipotesi. In realtà è una pettinatura complessa ma castigata, Ulpia non ama mettersi in mostra e il senato l'apprezza molto per questo, ma non solo.

Traiano ebbe con la sorella un rapporto di profonda consonanza, tanto che la frequentò molto e talvolta la portò con sé nel corso dei suoi viaggi; questo faceva di Marciana in pratica una fida consigliera dell'imperatore, tanto che i suoi suggerimenti e le sue opinioni erano tenute in gran conto da Traiano.

Amata da Traiano, da Plotina moglie di Traiano, dal senato e dal popolo, Ulpia venne effigiata in diverse monete, come si può vedere qua sotto.

AUREUS DI ULPIA
Sia la moglie di Traiano, Plotina, che sua sorella Ulpia e sua nipote Salonina Matidia sono state quiete matrone, vivendo in armonia tra loro, mai cercando di esercitare alcuna influenza sulla politica, nè mai ebbero particolari agevolazioni finanziarie o poteri come Livia e come altre principesse giulio-claudie.

Nel 104 Plotina e Marciana divennero praticamente parte della famiglia reale ricevendone i conseguenti onori. Nel 105 poi sia Plotina che Marciana vennero onorate con il titolo di Augusta, inoltre Traiano dedicò a sua sorella ben due città.

Colonia Marciana Ulpia Traiana Thamugadi (moderna Timgad, Algeria), in Africa, fu fondata intorno all'anno 100, e questa città prese anche il nome dai defunti genitori di Marciana e Traiano. L'altra città è stata fondata nel 106 e si chiamava Marcianopolis (che ora fa parte della moderna Devnya, Bulgaria) in Moesia.

Fu la prima sorella di un imperatore romano a ricevere questo titolo. All'inizio Marciana non lo accettò, ma sua cognata, l'imperatrice Pompeia Plotina, insistette sul fatto che lei prendesse il titolo. Entrò così a far parte dell'iconografia imperiale ufficiale e la sua statua fu posta insieme a quella di Traiano e di Plotina sugli archi di Traiano ad Ancona. Marciana era molto vicina a Traiano e a Plotina.

Marciana, che fu poi suocera di Adriano, morì tra il 112 e il 114 e sappiamo che Traiano approvò la sua divinizzazione già proposta dal senato, mentre Adriano le innalzò un tempio unitamente a Matidia. Allo stesso tempo, sua figlia, Salonina Matidia, ricevette il titolo di Augusta.

Il suo ritratto, oltre che dalle monete, ci è noto da alcune teste marmoree, quali quella colossale di Ostia e quelle di Napoli, Firenze, New York: tutte presentano una complicata pettinatura ad alto diadema di doppio ordine di rigide ciocche ondulate e grossa crocchia di treccine sulla nuca.
La grande testa ritratto venne rinvenuta nell’area delle Terme di Porta Marina e perciò dette anche "Terme della Marciana".

I GRANDI LUPANARI DEL CELIO

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IL MORALISMO

Nell’antica Roma la prostituzione, come lo sfruttamento, erano considerati atti legali. Oggi sono illegali entrambi ma sembra molto ingiusto equiparare la prostituzione allo sfruttamento. Chi si prostituisce volontariamente non fa male a nessuno, chi sfrutta la prostituzione è invece un criminale. Infatti spesso ricatta, obbliga, sequestra e maltratta le donne per spremerle economicamente al massimo. All'epoca c'erano le schiave da sfruttare fino allo sfinimento, come fossero animali.

Per il resto è stato il cattolicesimo a condannare la prostituzione come peccato, ignorando che ognuno dovrebbe essere libero di usare il proprio corpo come crede, in piena libertà. La condanna della prostituzione non è moralità ma moralismo, mentre lo sfruttamento della prostituzione è profondamente immorale.

Oggi ci scandalizziamo del fatto che lo Stato romano si preoccupasse solo di far pagare le tasse, per cui c'era l’obbligo di iscrizione ad un registro, ma era anche accettato un nome fittizio o d’arte, per cui chiunque sfruttasse le prostitute, o i prostituti, perchè a Roma si prostituivano anche i maschi, doveva avere un numero di dipendenti pari a quello denunciato. Un altro vincolo era quello di praticare la professione nelle ore notturne e non di giorno. 

LA FRECCIA INDICA LA STRUTTURA DEI GRANDI LUPANARI

I LUPANARI

I luoghi operativi, i postriboli, erano chiamati “Lupanari”, dal nome della “Lupa” colei che allattò i fatidici gemelli, poi mistificata per una prostituta. In realtà trattavasi dell'antica Dea Lupa le cui sacerdotesse si prostituivano donando il ricavato al tempio. Esse usavano fare il verso del lupo per richiamare i passanti, per cui esse stesse erano chiamate Lupe., da cui Lupanare. In genere questi monasteri stavano attaccati ai templi ed erano posti in un trivio, da cui è derivato, coll'avvento del cristianesimo, il termine spregiativo "triviale".

Diverse zone preposte alla prostituzione rappresentavano veri e propri quartieri a luci rosse, e sembra che a Roma molti lupanari erano nella zona del Celio accanto alle caserme degli equites singulares, corpo militare a cavallo dell’impero romano. L’alta frequentazione avveniva anche in seguito ai prezzi bassi che le prostitute chiedevano e nella cultura maschile degli antichi romani, il frequentare un lupanare non solo non era disdicevole, ma era comunque una tappa obbligatoria a cui tutti i ragazzi dovevano sottostare per guadagnarsi la virilità. Questo avvenne però fino ad almeno la metà del '900 in molte aree del suolo italiano.

All'entrata del lupanare si potevano acquistare i profilattici usati poi dai clienti. Erano fatti con intestini essiccati di pecora, che pur non essendo un’invenzione dei Romani devono a questi il loro perfezionamento e la loro ampia diffusione. Il preservativo, infatti, faceva parte della dotazione di base del soldato romano che dopo l’uso lo lavava e poi lo riutilizzava. Il suo uso era finalizzato soprattutto ad evitare che una campagna militare venisse ostacolata da epidemie imputabili
a malattie veneree capaci di decimare interi eserciti.

MUSEO ARCHEOLOGICO DI NAPOLI

 LA REGIONE CELIMONTANA

Quella delle caserme e dei complessi collegati con la vita dei militari costituirà a lungo una nota caratteristica per la regione Celimontana, in quanto comporterà l'esistenza di particolari strutture ed esercizi quali: stabilimenti termali, case da gioco, lupanari e bettole (thermopolia), le cui attività non dovevano essere gradite agli abitanti della zona residenziale. 

L'ingente numero di postriboli o lupanari che vediamo concentrati al Celio erano evidentemente frequentati massimamente dai soldati in servizio presso le varie caserme. I bordelli erano ben riconoscibili perché erano tutti personalizzati da una particolare lanterna e dagli organi maschili scolpiti, ben visibili, non ci si poteva sbagliare.

I Cataloghi Regionari del IV secolo sembrano raggruppare tutti i postriboli della città, 45 o 46, nella sola regione Celimontana, un numero incredibile, si suppone che da ogni angolo dell'Urbe gli uomini si recassero in quest'area dove c'era scelta e i prezzi erano bassi per l'enorme concorrenza.

Gli accampamenti più noti nella zona del Celio (i cosiddetti Castra Caelimontana) ove oggi sorge il Policlinico Militare di Roma furono principalmente:
- I castra aequitum singularium che ospitavano un corpo scelto di cavalleria al servizio personale dell’Imperatore (area della Basilica di S. Giovanni);
- I castra peregrinorum che erano una specie di caserma di soldati provinciali impiegati in Roma per funzioni particolari (area di via S.S. Rotondo);
- La statio cohortis V vigilum, una sorta di coorte di pompieri o polizia urbana (di cui furono trovate incisioni nel 1882 presso l’ingresso dell’Ospedale).

Si può capire che con tanti militari, uomini spesso non sposati o lontani dalla terra natia, e comunque avvezzi al pericolo e al rischio il gioco d'azzardo e i lupanari avessero un discreto lavoro. I lupanari del Celio erano abbondantemente situati lungo le pendici meridionali del colle, verso le valli di Porta Capena e di San Sisto, e comunque al margine delle zone residenziali. 

Secondo i Cataloghi Regionari i lupanari si erano concentrati sul Regio II Caelimontium, una delle 14 regioni di Roma augustea ed in particolare nella suburra che rasentava le mura cittadine, tra le Carinae e la valle tra il colle Celio e l'Esquilino.  Si trattava della suburra, un vasto e popoloso quartiere dell'antica Roma situato sulle pendici dei colli Quirinale e Viminale fino alle propaggini dell'Esquilino (Oppio, Cispio e Fagutal). 

La popolazione della parte bassa del quartiere era costituita da sottoproletariato urbano che viveva in condizioni miserabili, nella parte alta viveva gente con maggiori possibilità, ma i ricchi la snobbavano. Qui nacque Giulio Cesare, di famiglia nobile ma non ricca.

Basti pensare che il grande mercato (Macellym Magnum) si trovava all'interno di questo popoloso quartiere, insieme a molti negozi di alimentari e bancarelle, barbieri, artigiani, l'ufficio del boia, oltre alla caserma per i soldati stranieri acquartierati a Roma. Il Regio II è stata una delle zone più frequentate e densamente popolate dell'urbe, una posizione ideale per il proprietario di un bordello; l'affitto procurato da un bordello era una legittima fonte di reddito.



LA PROSTITUTA INDIPENDENTE

Anche se erano sia le donne sia gli uomini a praticare la prostituzione, la prostituzione femminile era maggiore. Una prostituta poteva in certi casi essere autonoma e affittare una camera per il lavoro.

Una "ragazza" (puella) poteva convivere con una ruffiana o Lena (da cui deriva lenocinio), oppure mettersi in affari sotto la gestione di sua madre, in ogni caso donne nate libere ma in uno stato di grande bisogno finanziario. La maggior parte delle prostitute erano schiave o ex schiave.

Le prostitute potevano però anche lavorare fuori di casa in un bordello o taverna per un magnaccia (leno) il quale aveva il compito di procurare la clientela.

Si presumeva che anche gli attori e i ballerini fossero disponibili per fornire prestazioni sessuali a pagamento, e le cortigiane i cui nomi sono sopravvissuti nel ricordo storico a volte erano del tutto indistinguibili dalle attrici e da altri tipi di artisti. 

Alcune prostitute professionali però potevano essere buone imprenditrici di se stesse e magari diventare abbastanza ricche in poco tempo. Si suppone che il dittatore Lucio Cornelio Silla abbia costruito la sua intera fortuna sulla ricchezza lasciatagli da una prostituta nel proprio testamento.



L'ETERISMO

C'erano dunque prostitute di vari tipo e ceto sociale. Al tempo di Marco Tullio Cicerone la cortigiana Citeride era un'ospite assai gradita per le cene al più alto livello della società romana. Si trattava di donne colte, intelligenti e raffinate, donne belle e affascinanti, a volte con spiccate doti artistiche, con cui era molto piacevole intrattenersi, donne che potevano scegliere i loro clienti e non darsi a tutti.

Queste donne hanno fatto sognare gli uomini, un po' come le etere greche, molti le invitavano e le corteggiavano, talvolta se ne innamoravano, dando luogo ad un nuovo rapporto romantico uomo-donna, che Ovidio e altri poeti dell'età augustea descrivono e apprezzano nelle opere poetiche di elegia erotica.



IL PALUDAMENTO

Le prostitute erano le uniche donne romane che portavano la toga, un capo esclusivo dei maschi. Anzi, che erano obbligate a indossarla, forse per scongiurare abiti troppo osè che potessero troppo colpire la tranquillità pubblica. Strano perchè le romane giravano spesso con vesti trasparenti tanto da apparire nude, come fa notare scandalizzato Plinio il Vecchio. In privato invece indossavano poi costosi abiti di seta, di damasco e di veli. 

Sembra invece che alcune prostitute di più bassa estrazione si mostrassero per lo più nude al cliente di turno, in genere si trattava di schiave. Un passaggio di Lucio Anneo Seneca descrive la condizione di prostituta come quella di una schiava pronta per la vendita: 
"Nuda si trovava sulla riva, a piacere dell'acquirente; ogni parte del suo corpo è stato esaminato e soppesato. Vuoi ascoltare il risultato della vendita? Il pirata ha venduto; il protettore acquistato, che lui la possa utilizzare come una prostituta."

Nel Satyricon il narratore racconta come egli "vide alcuni uomini aggirarsi furtivamente tra le file delle prostitute nude." 

L'autore satirico Decimo Giunio Giovenale descrive invece una prostituta come ritta in piedi e nuda "con capezzoli dorati" all'ingresso sua camera. L'aggettivo nudus, però, può anche significare "a vista" o spogliato del proprio solito abbigliamento esterno, e le pitture murali erotiche di Pompei ed Ercolano mostrano donne e presunte prostitute che indossano l'equivalente romano di un reggiseno, anche mentre è in corso il rapporto sessuale.



LUPANARI POPOLARI E DI LUSSO

I lupanare erano essenzialmente di due tipi: 
- quelli di proprietà e gestiti da un magnaccia-leno o da una signora-lena 
- quelli in cui questi ultimi erano solo degli agenti che riscuotevano l'affitto delle camere messe a disposizione oltre ad agire come fornitori per gli affittuari. 

Nel primo caso il proprietario teneva un segretario (villicus puellarum) o un sorvegliante per le ragazze; questo responsabile, assegnato il nome alla donna ne fissava i prezzi, riceveva il denaro e la riforniva di abbigliamento ed altre necessità. Il villicus faceva anche da contabile, per tenere conto di quanto ogni ragazza aveva guadagnato, e a seconda dei conti del bordello ne applicava la tassa.

I bordelli regolari erano soprattutto popolari, in genere descritti come sporchi, maleodoranti, poco ventilati e invasi dal fumo delle lampade. Ma questo ovviamente dipendeva dal livello del lupanare.
Le decorazioni murali erano in sintonia con l'attività erotica. Sopra la porta di ogni cubiculum si trovava un titulus indicante il nome della risiedente con il suo prezzo; il rovescio portava la parola "occupata" e veniva girato durante i periodi di servizio. 

Nel cubiculum si poneva una lampada (di bronzo o, nei casi più infimi, di argilla) e un lettino con cuscino su cui veniva stesa una trapunta simile a una coperta. C'era poi un catino per lavarsi munito di asciugamano, con una brocca e un bicchiere. Le tasse registrate a Pompei andavano dai 2 ai 20 assi, moneta di rame o bronzo di valore relativamente basso

Alcuni bordelli di lusso invece disponevano di parrucchieri per donna per rimettere in ordine i capelli dopo i rapporti amorosi, mentre i ragazzi dell'acqua (acquarioli) attendevano all'ingresso con ciotole per lavare i pavimenti e cambiare il letto. Questo era di legno decorato con pellicce e coperte di pregio, guarnito di più cuscini. C'era anche un tavolinetto con bottiglia e bicchieri per offrire un boccale di vino all'avventore di riguardo. La lampada era ad olio e d'inverno si usava i braciere. Le donne si presentavano vestite con abiti di lusso e provocanti, ben truccate e profumate, e la stanza odorava di resine e di profumi.

Le prostitute erano suddivise in caste:
- le delicatæ e le famosæ, erano ragazze colte, capaci di intrattenere i clienti più raffinati;
- le lupae, un retaggio delle antiche sacerdotesse, attiravano i clienti con una specie di ululato;
- le bustuariæ, esercitavano la professione nei pressi dei monumenti funebri;
- le scorta erratica,  erano le passeggiatrici vaganti, che, lavorando per strada, indossavano la toga, 
si tingevano i capelli di rosso oppure portavano una parrucca rossa, compivano il mestiere negli angoli bui;
- le blitidæ, erano prostitute da osteria e prendevano il nome da una bevanda di basso costo venduta in quei posti;
- le gallinæ, erano così denominate le ladruncole;
- le forarie, esercitavano lungo le strade di campagna e s'infrattavano nei cespugli;
- le fornices, si prostituivano sotto le volte (fornices) di archi, ponti, ippodromi;
- le quadrantariae, erano coloro che si accontentavano di un quarto di asse a prestazione.
- le diabolaiæ erano l’ultimo gradino di questa scala sociale, quelle da due soldi che esercitavano il loro mestiere nei quartieri accomunati dal forte degrado e dalla miseria più assoluta. 

Oltre che nei lupanari, o per strada, la prostituzione si esercitava anche nelle terme, nei teatri ed in molte case private, dove le famiglie facevano esercitare le proprie schiave (o schiavi, visto che la prostituzione era anche maschile).

MONETA DA LUPANARE

LA MONETA DEL LUPANARE

Intorno al I secolo d.c., come conseguenza del divieto d’introdurre
all’interno dei lupanari monete con l’effige imperiale,
furono battute apposite monete che presero il nome di spintria;
erano più precisamente tesserae eroticae,
con le quali era possibile pagare le prestazioni sessuali alle prostitute.
Su di un lato, usualmente c'era la rappresentazione di scene
delle 15 diverse forme di rapporto sessuale e
sull'altro i numeri da I a XVI.
Davanti ai numeri II, IIII e VIII si trova a volte la lettera "A".
Si suppone che i numeri indichino il costo delle prestazioni in assi
che spiegherebbe la lettera "A".
Il numero XVI corrisponderebbe quindi a un denario.
Erano di norma coniati in ottone o bronzo
ed avevano circa le dimensioni di una moneta da 50 centesimi di euro.



IL TESORO DI BERNAY (Francia)

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IL TESORO

Di certo non erano molti i fortunati che potevano agognare all'ammissione di una cena di gran classe tipo quella di Trimalcione o di Lucullo "che cena da Lucullo" con menù estremamente rari e sofisticati, che andavano dalle lingue di fenicottero, alle uova di pavone e ai ghiri cosparsi di miele. Il tutto innaffiato dai migliori vini della penisola servito in preziosissimi brocche e calici con scene drammatiche della mitologia greca.

La squisita argenteria e le scene che la decoravano di certo animavano la conversazione degli uomini colti. Si poteva affascinare i commensali sui miti antichi e recenti che includevano Dei e semidei, e a volte comuni mortali in vicende spesso complesse e talvolta misteriche, o restare inermi nella propria ignoranza. la spiegazione di quei miti e la riflessione su di essi dimostrava non solo cultura ma anche la capacità riflessiva che occorreva per accoglierne i significati più reconditi.

Tutto ciò per dire che gli antichi romani, nati sulle coste del Tevere come rozzi pastori, avevano raggiunto mediando la raffinatezza greca con quella etrusca, un'arte propria inconfondibile, unita a un gusto vivace della vita che difficilmente sarà più raggiunto.

Le guerre di conquista che avevano portato Roma prima a contatto con gli Etruschi e poi con la Magna Grecia e la cultura ellenistica, determinarono un totale cambiamento di gusto. Nelle domus patrizie entrarono statue, mobilio, suppellettili e il vasellame in vari materiali, ma soprattutto in argento che divenne un elemento indispensabile per la vita sociale d'elite.

Questo gusto dell'arte si manifestava in ogni aspetto della vita, dall'architettura alla raffinata cucina, dalla pittura alla ricercatezza delle vesti, dalla gioielleria al teatro, all'arredamento, alla scultura e così via, ma soprattutto nel gusto particolare di ogni domus, dei suoi mobili e dei suoi arredi.

Dalla Grecia arrivarono anche gli artigiani e dal I secolo a.c. inizia a Roma la corsa all’argento, i piccoli capolavori che abili artigiani riescono a realizzare con le lamine dolci d’argento, diventano status simbol. Alcune persone arrivano ad averne quantità enormi come Pompeo Paolino, governatore della Germania Inferiore, amico di Plinio, che ne possedeva 12 mila libbre (circa 4 tonnellate).

MERCURIO FIG. 1

STATUA DI MERCURIO - FIG. 1

Non ci si scandalizzi però della assurde dimensioni di questo Hermes, perchè ha una testa che non gli appartiene. Basta confrontare la grandezza della testa col suo corpo e osservare le giunture sul collo. la testa non è di Hermes nè di un Dio. L'altezza di questa statuina è di cm 56.3 x un diametro di 16 cm, ed un peso di 2772 g. Mentre il corpo è di buona fattura, il capo è di fattura decisamente inferiore. (Bibliothèque nationale de France, Département des monnaies, médailles et antiques, Paris).

A causa delle sue dimensioni, della sua bellezza e del fatto che è conservato nella sua totalità, Berthouville Treasure ha raggiunto uno status leggendario. Fu scoperto nel 1830 vicino alla Senna nella Francia nordoccidentale - una regione che, come colonia romana, è stata descritta da Cesare nel suo resoconto delle guerre galliche.

Successivi scavi hanno dimostrato che il tesoro proveniva da un tempio dedicato al Dio romano Mercurio e può essere datato tra il I e il II secolo d.c. Durante i periodi di disordini, probabilmente nel III secolo, è stato nascosto sotto il pavimento piastrellato nel recinto del tempio, ma apparentemente non fu mai recuperato quando il tempio fu bruciato, probabilmente durante i ripetuti attacchi barbarici sull'Impero Romano.

BROCCA FIG. 2


LA BROCCA DELLA GUERRA DI TROIA - FIG. 2

La stupenda brocca della figura 2 è decorata da scene della Guerra di Troia. Ha la dedica di Quintus Domitius Tutus che vi ha fatto incidere: “MERCVRIO AVGVSTO Q DOMITIVS TVTVS EX VOTO”. L'oggetto può essere datato dall'1 al 100 d.c. E' un ex voto molto ricco donato evidentemente da un uomo molto ricco.

Sul vaso è illustrata la scena di Achille che trascina il corpo di Ettore intorno alle mura di Troia, e alle spalle dello stesso vaso si nota la scena della morte di Achille, gloria e tramonto di un eroe. Il prezioso oggetto ha un'altezza di cm 31.5, una circonferenza di 44 cm e un peso 1159 g. 

LA MORTE DI ACHILLE - FIG. 3
Si noti che l'argento romano (come d'altronde quello inglese oggi) non è titolato a 800/1000 come l'attuale argento italiano, ma era titolato a 925 /1000, cioè 925 parti erano di argento puro e 75 parti erano di lega, in genere rame e zinco.

Il tesoro è costituito da statue che raggiungono i 50 cm di altezza. Fortunatamente per i posteri quei 25 chilogrammi di argento sono venuti a conoscenza sono stati acquistati dallo stato francese prima che qualcuno avesse la possibilità di fonderlo o dividerlo.

COPPA DEI CENTAURI - BOSCOREALE - FIG. 4


LA COPPA DEI CENTAURI - FIG. 4

Per quattro anni la Biblioteca Nazionale di Francia a Parigi, lavorando insieme al J. Paul Getty Museum di Los Angeles, ha pulito e restaurato gli oggetti in modo che possano essere esibiti in tutto il loro splendore.

La cosiddetta "Coppa dei centauri" invece proviene da una zona presso Pompei. Essa venne scoperta nel 1834 in Campania, durante gli scavi archeologici in una villa romana di Boscoreale e come una gran parte dei beni artistici italiani, venne venduto all'estero legalmente o illegalmente. Sembra infatti che oggi faccia parte del tesoro di Bernay che però venne scoperto nel 1830.

Le sue dimensioni sono: altezza 11,7 cm - larghezza 26,9 cm - diametro 15-18,5 cm - diametro del piede 11,3 cm - anse 5,5 cm. - peso 1654,2 gr.


COPPA DEL CENTAURO CON CENTAURESSA - FIG. 5
La coppa o Skiphos, cioè la coppa per bere, detta coppa del centauro per il centauro e la centauressa effigiati, è di età Giulio-Claudia, cioè durante il regno di Claudio o di Nerone, è in argento, e i diversi elementi che la compongono sono stati fabbricati separatamente e poi assemblati.

Lo Skiphos, o scifo, era un vaso di forma tronco-conica, adoperato a partire dal VI secolo a.c., provvisto di due anse in genere molto sottili innestate obliquamente un po' sopra all'altezza dell'orlo.

Ne sono stati trovati diversi a Pompei. Lo scifo veniva lavorato a sbalzo con applicazioni ottenute in fusione e saldate allo scifo. Le immagini di solito venivano poi ritoccate a cesello, come si fa nella gioielleria.


Il centauro emerge con un'aria piuttosto tormentata dalla bellissima tazza di ottima fattura e di manodopera squisitamente romana, probabilmente proveniente dai laboratori della stessa Roma.

"Il tesoro d'argento (ma anche di altri metalli tra cui l'oro) romano venne scoperto a Berthouville nel marzo 1830, nel Casale di Villeret, dipartimento Eure della Normandia, nella comunità di Berthouville, Francia settentrionale."

Il Tesoro di Bernay, o Berthouville, consiste nel ritrovamento di 69 oggetti (ma già nella foto ce ne sono parecchi di più) in argento, dell'Impero romano, scoperti appunto a Berthouville, nei pressi di Bernay, in Francia.

Gli oggetti, ora conservati al "Musée des monnaies, médailles et antiques", Biblioteca nazionale di Parigi, provengono dall'Italia (Boscoreale) e dalla Gallia (un antico tempio dedicato a Mercurio); i pezzi sono battuti a martello e una completa argentatura nasconde le cavità dello sbalzo sul retro.
Acquistato al tempo della scoperta per modesti 15.000 franchi, il Tesoro è conservato nel Cabinet des Médailles presso la Biblioteca Nazionale, Parigi.

Il tesoro comprende, da un lato, pezzi di un servizio da tavola di laboratori romani del I sec. d.c. e, dall'altro, pezzi votivi da laboratori in Gallia del II sec. d.c.. La coppa in questione è romana del I sec. d.c. Vi sono pure 2 statuette in argento di Mercurio e il busto di una Dea, probabilmente la Dea Maia madre di Mercurio, forse rappresentazioni romanizzate di divinità galliche.

IL CENTAURO TORMENTATO - FIG. 6


LA STORIA -

Da - IL TESORO DI BERTHOUVILLE - DI MICHEL HAMMER
DALLA RIVISTA RÉDACTION MONNAIE - 14 APRILE 2015 (Fonte)

"La storia si svolge poco prima della rivoluzione del 1830. Un contadino Prosper Corrida, proprietario di un campo nel comune di Berthouville, a pochi km da Bernay in Normandia, decide di arare il campo e lo zoccolo colpisce un ostacolo. Emerge, bloccato nel terreno, non una pietra  ma un baule affondato nel terreno.
Appaiono oggetti metallici: riposano come un blocco su uno strato di argilla. Sono sporchi, accidentati, appannati. Possiamo tuttavia giudicare a prima vista che sono d'argento e che c'è un buon peso.


MERCURIO - FIG. 7

LA PATERA DI MERCURIO - FIG. 7 

Il piatto è inciso tutto intorno con volute floreali, uccelli, cesti e papere. All'interno reca un medaglione con immagine di Mercurio seduto sulla roccia e interamente nudo, con le ali sul capo, che si poggia da un lato con la mano destra a un caduceo come fosse una lancia conficcata sul terreno. 

La mano sinistra è poggiata al ginocchio, e sul lato sinistro si scorge un gallo, proverbiale attributo di Mercurio come simbolo del risveglio, un altare da cui si eleva una fiamma e in terra c'è una tartaruga. Sul lato destro, oltre al caduceo si scorge una capra, anch'essa attributo di Mercurio.

"Alcuni erano oggetti di culto, altri erano offerte, ex voto, portati da credenti e pellegrini.
Il tesoro è uno straordinario assortimento di pezzi antichi, date e origini molto diverse. I più antichi precedono la conquista romana in Gallia (II o I secolo a.c.); le più recenti risalgono al III secolo della nostra era. Tra questi, opere di fattura o ispirazione greca, opere di importazione romane, altre infine che sono dovute a artigiani gallo-romani. Il loro valore artistico è piuttosto variabile. Ma alcuni sono capolavori incomparabili dell'oreficeria antica; è più in particolare una serie di vasi".

Secondo gli esperti: "Questi vasi devono essere tra i migliori esemplari di argenteria lavorata che l'Antichità ci ha lasciato in eredità. Né per le giuste proporzioni e l'eleganza della forma, né per l'abilità sconcertante della tecnica, né infine per la cura meticolosa data ai più piccoli dettagli della decorazione, non sono superati dalle opere d'arte più giustamente ammirate. tesori di Taranto o Pompei (Veramente alcuni sono di Boscoreale accanto a Pompei). Questi sono alcuni dei più illustri reperti dell'antica orafa mai realizzati". 

MERCURIO - FIG. 8

LA PATERA DI MERCURIO - FIG. 8

La ciotola da offerta o patera della fig. 8  mostra un medaglione centrale di Mercurio in un paesaggio rurale. Dedicato da Julia Sibylla che vi ha fatto incidere l'iscrizione “DEO MERC IVL SIBYLLA DSDD”. Il piatto è romano del 175-225 d.c.. eseguito in argento e oro; il diametro della ciotola è di 21 cm; il suo peso di 572 g.

Nell'immagine Mercurio è senza ali, porta il caduceo e il tradizionale sacchetto in pelle di vitello con le monete d'oro, è tra due colonne, la destra sormontata dal gallo del risveglio, l'altra, la sinistra, sormontata da una tartaruga e, sotto la colonna una capra.

GIOCHI ISTMICI - FIG: 9

IL VASO DEI GIOCHI ISTMICI FIG. 9

I Giochi Istmici di Corinto, vaso d'argento ad essi dedicato, 
eseguito in Italia, dedicato da Quintus Domitius Tutus che vi ha scritto una dedica: “MERCVRIO Q DOMITIVS TVTVS VSLM”. E' eseguito in argento e oro, degli anni 1-100 d.c..

Ha un'altezza di 15,2 cm, ha un diametro di cm 10,3 e pesa 463 g. Vi sono illustrati Modiolus. Poseidon (Neptune) e Demeter (Ceres).

E' un ex-voto, evidentemente per una promessa fatta al Dio in caso di vittoria. I romani usavano gli oggetti votivi come scambio. 
Vale a dire che l'uomo prometteva una ricompensa alla divinità in caso di grazia, e solo a grazia avvenuta si dedicava l'oggetto, mai preventivamente.

Il vaso è di squisita fattura. La maggior parte del tesoro, una novantina di pezzi, appartiene a preziose stoviglie e vasellame da tavola: vasi, scodelle, piatti, calici, una collezione di cucchiai ... tutto in argento, anche con inserti o parti in oro.

GIOCHI ISTMICI - PARTICOLARE - FIG. 10
"E tra questi tesori, due gioielli eccezionali, due statue del Dio Mercurio in argento, di ogni bellezza, uno di quasi 3 chili e un'altra statua di "soli" 1.700 chili, vestigia dell'arte romana. Una terza rappresentazione divina è quella di Maia, la più giovane delle Pleiadi, che ha avuto il privilegio di unirsi a Giove per generare Mercurio."

GIOCHI ISTMICI - PARTICOLARE - FIG. 11
Questi tre pezzi sono le uniche statuette o busti trovati a Berthouville. Tutti gli altri sono composti da piatti. Entrambi sono meravigliosamente realizzati. Le scene rappresentate sono molteplici, con 
un'intera processione di dei e eroi, episodi mitologici o magici, persino la caccia o il circo."

"Gli scavi ripresero circa vent'anni dopo, questa volta in buone condizioni, guidati da un famoso archeologo in quel momento: era un padre gesuita di nome Camille de la Croix. Questo eccellente archeologo ha riportato alla luce, a Berthouville, un gran numero di resti e ha decifrato il piano. Ha provato l'esistenza di numerosi templi e un villaggio e, inoltre, ha liberato i resti di un teatro."

"Eravamo alla presenza di un ensemble di Galloromain, con imponenti costruzioni che ospitavano un tesoro favoloso in argento massiccio e nella storia di un lontano passato.
Perché furono seppellite queste ricchezze destinate al Dio Mercurio? 
Forse è necessario cercare la causa delle invasioni dopo la caduta dell'Impero Romano. Ma questa non è più la storia di un tesoro, ma solo la storia."

La bellezza e la morbidezza di quest'immagine qua sopra, con la splendida ninfa che si appoggia a un animale mitologico (Grifone o pegaso), fa comprendere la preziosità di questa coppa, sicuramente di manifattura romana.


MERCURIO CON SUA MADRE MAIA - FIG. 12

LA PATERA DI MERCURIO E MAIA FIG. 12

Nel piatto emergono in altorilievo due busti poggianti su due piedistalli d'acanto, sorretti dal caduceo mercuriale. E' stato scritto che le ali sul capo di mercurio sono specifiche della manodopera gallo-romana. In realtà le ali sulla testa di Mercurio sono di tradizione greca, come testimonia il famoso Hermes di Fidia (o comunque attribuito a Fidia), del V sec. a.c.

La ciotola, o patera presenta i due busti in altorilievo, è in argento ma le ali e il mantello di Mercurio, nonchè il mantello e il diadema che Maia ha tra i capelli, e le foglie di acanto su cui poggia il caduceo, sono in oro. In genere la doratura veniva ribattuta sopra l'argento finendo per fondersi con esso dando un oro leggermente più chiaro.

DETTAGLIO DI MAIA E MERCURIO - FIG. 13
Narra il mito che Maia lasciò il seggio tra gli Dei dell'Olimpo per cedere il posto a suo figlio Hermes, cioè Mercurio. Lo fece perchè era una Dea molto schiva che non amava i fasti dei banchetti.
Naturalmente la verità era un'altra. Maia era un'antica Grande Madre soppiantata da Giove che la ingravidò e le dette un figlio, cioè che la spodestò a divinità minore togliendola dal convivio degli Dei.

Chiaramente fu un'invasione di popoli adoratori di Zeus che soppiantarono le divinità del pantheon senza tuttavia abolirle ma relegandole a ruoli minori.

Trattandosi però del tempio di Mercurio non si poteva non onorare la Dea, trattandosi della madre del Dio a cui era dedicato il tempio. E' probabile però che la fattura fosse di artisti galli essendo il piatto di buona fattura, ma di certo molto inferiore sia alla greca che alla romana.

PATERA DI ONFALE - FIG. 14

LA PATERA DI ONFALE - FIG. 14

Nel centro piatto è raffigurata la regina Onfale addormentata pacificamente sulla pelle del leone di Némea, con la clava di Ercole. Il piatto venne offerto a Mercurio da Quintus Domitius Tutus. Ed ecco qua sotto ingrandito lo sbalzo che allude alla leggenda per cui Ercole, sedotto da Onfale, regina della Libia, le avesse ceduto tutti i suoi trofei, lasciandosi vestire da donna e filando la lana per lei.

L'eroe delle tradizionali 12 fatiche che non ebbe mai un insuccesso si piegò però alla seduzione di Onfale, perdendo ogni dignità. Secondo alcuni Onfale era invece la regina delle Amazzoni che catturato Ercole lo costrinse ai suoi capricci non risparmiandogli delle umiliazioni. Tanto che l'eroe, sfuggito al suo potere, tornò con un esercito e fece la sua vendetta, su Onfale e sulle amazzoni.

PIATTO DI ONFALE DORMIENTE - FIG. 15
La regina dorme dunque sulla pelle del leone di Nemea ucciso da Ercole in una delle sue proverbiali fatiche, attorniata da tre amorini, anch'essi dormienti e con a lato un cratere a due manici. La scena è di grande bellezza, nella mollezza dei corpi serenamente sdraiati nel sonno profondo, come un inno al potere della bellezza femminile, dove Onfale, alias Venere, giace seminuda paga del suo trionfo come Medea sul Vello d'Oro.

Ella riposa poggiando la mano sulla clava, i suoi capelli sono legati sulla nuca, indossa un subligar, insomma una fascia reggipetto, però il suo corpo è nudo anche se ha un mantello su cui giace, e che giace a sua volta sulla pelle del leone nemeo che è totalmente dorata.
Il tesoro di Bernay, dopo essere stato restaurato negli Stati Uniti, inizia a fare il giro del mondo
Dopo Los Angeles, San Francisco, Houston, gli oggetti sono attualmente esposti al Museo dipartimentale di Arles fino al 28 gennaio 2018. Quindi espatrierà ancora per una mostra a Copenaghen già annunciata e pubblicizzata.

BACCO ERCOLE E MONETE - FIG. 16


LA PATERA DI BACCO, ERCOLE E LE MONETE FIG. 16

Questa patera mostra il Dio Bacco appoggiato a uno scranno che versa da una bottiglia dal collo lungo e sottile del vino in un boccale che gli tende Ercole. Attorno ci sono un fauno che suona la cosiddetta siringa, un giovinetto che suona un flauto, un uomo barbuto che potrebbe essere Pan, tre menadi che osservano compiaciute la scena e ai piedi di Dioniso-Bacco una pantera.

Attorno al medaglione con Bacco ed Ercole c'è una fascia che percorre tutto il perimetro del medaglione dove una folla di amorini, ovvero di eroti, cantano, suonano, giocano e si agitano, mentre nella fascia ancora superiore, accanto al bordo ribattuto della ciotola si snoda un corteo di monete che circonda il medaglione, datato al 210 d.c. Il tutto in è in oro massiccio, con un'altezza di 4 cm, un diametro di 25 cm e un peso di 1315 g d'oro.

Qui sotto vi è il dettaglio della scena dionisiaca. Di certo la scena nulla ha a che fare con l'offerta al tempio di Mercurio che qui non compare affatto. E' anche strano che Dioniso offra il vino ad Ercole perchè non risulta alcun mito che ne parli. Riteniamo infatti che l'attribuzione a Bacco sia errata e che il personaggio che mesce il vino non sia Bacco ma bensì Folo.

FIG. 17
Apollodoro di Atene (II sec. a.c.) narra infatti che prima di affrontare la quarta delle sue dodici fatiche, e cioè la cattura del cinghiale di Erimanto, Eracle fu ospitato dal centauro Folo, figlio di Sileno (che potrebbe essere il personaggio alla sua destra), che lo invitò a cena servendo all'eroe carni cotte, mentre lui le mangiava crude. 

Quando Eracle gli chiese un po’ di vino, Folo rispose che possedeva un orcio di vino che condivideva con gli altri Centauri, ma che non osava aprirlo. Eracle insistè e Folo aprì l’orcio. Attratti dal profumo del vino comparvero i Centauri armati davanti alla caverna di Folo, vi fu una lotta titanica vinta però da Ercole che ottenne il suo vino. 

L'unica discrepanza è che l'offerente del vino non è un centauro, tanto è vero che siede su una panca, e la pantera è di ordine dionisiaco, ma anche Sileno e le menadi fanno parte del seguito dionisiaco del Dio.

ERCOLE E IL LEONE DI NEMEA - FIG. 18

PATERA DI ERCOLE E IL LEONE DI NEMEA - FIG. 18

Il piatto è interamente in argento, con uno sbalzo poco profondo ma ritoccato a cesello, occhi poco espressivi e atteggiamenti piuttosto rigidi, caratteristici del tardo impero. Infatti la ciotola si colloca tra il 500 e il seicento d.c., con una fattura di tipo gallico.


MASCHERE DIONISIACHE - FIG. 19
LA COPPA DELLE MASCHERE DI BACCO - FIG. 19

La coppa è a due manici ed è decorata da alcune maschere di teatro dionisiache, con varie erme falliche, alberi e frutti.

"Acquistato al momento della sua scoperta da 15.000 franchi, la collezione divenne parte del Cabinet des Médailles ( Dipartimento di monete, medaglie e antiquariato ) della Biblioteca Nazionale di Francia a Parigi.

Recentemente, si è trasferito a Villa Malibú della Paul Getty Foundation per il restauro e lo studio, come parte di un progetto collaborativo; esponendo il suo temporaneamente dal 2014."

ALTRA COPPA DIONISIACA - FIG. 20

LA COPPA DELLE MASCHERE DI BACCO - FIG. 20

Le coppe con immagini a sbalzo di maschere da teatro dionisiache nel tesoro di Bernay sono due e questa è la seconda, con maschere di Sileno, di donne incoronate, erme falliche e una cetra.



IL TESORO DI BERTHOUVILLE 

consiste secondo alcuni di cento pezzi d’ argento, per altri 93, per altri 59, per altri 29 alcuni dei quali sono considerati capolavori di orafi romani. Come mai i numeri sono così discordi? Alcuni oggetti hanno iscrizioni votive perché un certo Quinto Domizio Tutus le dedicò dal Dio Mercurio, databile alla metà del I sec. d.c.. Altri donatori sono chiamati Propertius Secundus, Lucia Lupula, Merius Caneto Epaticus o Libertus Elios Euticus.

Si tratta del corredo di un tempio gallo-romano nella zona di Lessovi dedicato a Mercurio Canetonensis. I Lessovi (latino Lexovii) erano una tribù gallica stanziata sulla costa della Normandia, a sud della foce della Senna. Dettero il nome all'altopiano di Lieuvin e a Lisieux che, dopo la conquista della Gallia, diventerà città romana di nome "Noviomagus" ("Mercato nuovo"). Ancora oggi, in Francia, gli abitanti di Lisieux sono detti Lexoviens.

Mercurio Canetonensis era una delle principali divinità della Gallia romana, e nel suo tempio venne nascosto il tesoro di Bernay (fine II sec. - inizio III sec.), senza dubbio per proteggerlo dai saccheggi durante le invasioni barbariche. E ‘stato scavato nel 1896 da Octave Join-Lambert, portando alla luce un sito archeologico con due templi, un teatro e delle mura.


TESORO DI BOSCOREALE DIVENTATO FRANCESE PROBABILMENTE IN MODO ILLEGALE


IL TESORO DI BOSCOREALE (ITALIA)

Negli argenti romani antichi furono determinanti le tecniche impiegate ed una delle più raffinate fu la lavorazione a sbalzo, usato per l’argento, l’oro, il rame ed il bronzo, per eseguirlo venivano impiegate sottili lamine d’argento dove mediante ceselli si otteneva la figura modellando delle concavità grandi e piccole. La lavorazione veniva effettuata sul rovescio ma i particolari venivano ottenuti aggiungendo delle sottili lamine a diritto.

Sono a sbalzo la maggior parte degli oggetti dei famosi tesori di Boscoreale, di Hildesheim, di Bernay, della casa del Menandro a Pompei, nei quali Roma dimostra di essere degna erede dell'arte e dello sfarzo delle grandi corti ellenistiche.

Insomma il Tesoro di BERNAY non ce la racconta giusta, e non ce la racconta giusta nemmeno Paul Getty, ambedue detentori spesso illegali di tanti tesori italiani. Il tesoro francese sembra infatti composto soprattutto dal tesoro di Boscoreale. 


Gli scavi di Boscoreale

Gli scavi della villa erano iniziati nel 1876 ad opera del proprietario del terreno in cui si trovava parte della villa, Modestino Pulzella, ma dovettero essere interrotti in corrispondenza dell'appezzamento confinante, di proprietà di Angelandrea De Prisco. Alla morte di questi nel 1894 i figli vennero autorizzati a riprendere gli scavi nel loro terreno, nei quali rinvennero i preziosi pezzi. Nel maggio successivo alla scoperta i pezzi, esportati clandestinamente in Francia dai fratelli Canessa, antiquari napoletani, furono donati al museo del Louvre dal barone Edmond James de Rothschild, che li aveva acquistati per mezzo milione di franchi.

Il barone acquistò nel settembre dello stesso anno altri cinquantaquattro oggetti del servizio da tavola, donandoli ancora al museo, e venne in seguito imitato da altri collezionisti che avevano acquistato altri pezzi del tesoro, mentre i monili d'oro vennero acquistati dall'amministrazione dei musei nazionali. Con la realizzazione di una copia della testa di Agrippina, conservata al British Museum di Londra, l'intero tesoro venne ricomposto ed esposto nella "sala dei gioielli antichi" al Museo del Louvre.



VILLA LUCIO CECILIO GIOCONDO

Detta anche Villa della Pisanella, perchè in località Pisanella, scavata in parte nel 1876 dal proprietario del fondo.

Lo scavo venne proseguito dal 1894 dal proprietario del fondo accanto, il deputato Vincenzo Giuseppe De Prisco, che vi rinvenne ambienti con suppellettili e i corpi di persone e animali colti dalla morte dall'eruzione.

Nella villa venne soprattutto rinvenuto nel 1895 il Tesoro di Boscoreale, oltre un centinaio di pezzi in argento e oro, e un sacco pieno di monete d'oro, che venne esportato clandestinamente in Francia, venduto dal De prisco al barone Edmond de Rothschild ed è oggi conservato presso il Museo del Louvre di Parigi, a cui il barone l' aveva generosamente donato.

Nel sito oggi resta solo un grande avvallamento e qualche rudere, per uno scavo fatto solo per depredare. La villa, il cui plastico è esposto insieme ad alcuni reperti nell'Antiquarium di Boscoreale, presentava ambienti molto signorili, tra cui un piccolo bagno termale mosaicato, con un ampio porticato sul lato ovest.

Il settore rustico invece, con numerosi ambienti tra cui due torcularia, torchi vinari, si dipanava attorno a una grande cella vinaria con 84 dolii fittili interrati, destinati alla conservazione del vino, ben 72 dolii per un totale di circa 10000 l., oltre a olio e granaglie.

Nella villa, attribuita da alcuni studiosi al banchiere pompeiano Lucius Caecilius Jucundus, si rinvenne, in un vano sotterraneo del torcular, celato dagli antichi proprietari, il ricchissimo tesoro di cui sopra.


Giovanni Pinna, da Il Giornale dell'Arte numero 386, maggio 2018
(Fonte)

"Sembra che Macron abbia promesso la restituzione delle collezioni francesi all’Africa, e abbia dimenticato le ex colonie francesi d’Asia, i mandati mediorientali e l’Egitto faraonico. Come presidente della Commissione congiunta sulle restituzioni dell’Associazione Nazionale Musei Scientifici e del Museo di Storia Naturale dell’Università di Firenze colgo questa irripetibile occasione per reclamare le opere italiane conservate nei musei francesi, invocando lo stesso principio di illegalità universale dei prelievi anche in assenza di Stati-Nazione giuridicamente riconosciuti e di leggi di tutela.

Se per l’Eliseo il patrimonio africano non può essere prigioniero dei musei europei, perché dunque dovrebbe rimanere prigioniero in Francia il patrimonio di provenienza italiana? Il presidente dovrebbe restituire a Venezia le «Nozze di Cana» del Veronese (rimaste a Parigi in cambio di «Il convito in casa di Simone» di Charles Le Brun, «buono al massimo per fare da cassa da imballaggio» secondo Ruskin), a Firenze i trecenteschi italiani prelevati da Bonaparte e rimasti al Louvre, a Verona la collezione di pesci fossili di Monte Bolca sequestrata da Gaspard Monge a nome del Bonaparte oggi al Muséum National d’Histoire Naturelle, a Napoli gli argenti romani di Boscoreale esportati clandestinamente, venduti al barone de Rothschild e oggi al Louvre, all’Italia le ceramiche etrusche, apule e della Magna Grecia di cui non si può dimostrare un’acquisizione legale. 


In occasione di una sua prossima visita ufficiale in Italia Macron dovrebbe restituire anche i bei frammenti dell’Ara Pacis della collezione Campana conservati al Louvre, permettendo la ricomposizione del monumento."

E perchè non di tutti gli argenti di Boscoreale illegalmente usciti dal suolo d'origine, cioè l'Italia?

SEPTEMPEDA (Marche)

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L'ANTICA SEPTEMPEDA
Il Parco archeologico di Septempeda sorge a 2 Km ad est della città di S. Severino Marche, in un’area pianeggiante a nord del fiume Potenza, con resti archeologici visibili in gran parte in località Pieve. Teniamo conto che di questo sito molto è ancora da scavare e ciò che è già scavato in parte è ancora interrato.

Il nome di tale sito è di origini ignote, deriva da Septem, cioè sette, e Pedum, nome latino di un bastone curvo adoperato dai pastori per il controllo degli animali, di solito associato a divinità come Pan o ad alcuni ordini di sacerdoti.

Oppure si riferisce al bastone dei pastori, ricurvo alla sommità per poggiarvisi, usato da pastori e da cacciatori, nel mondo greco e romano, per guidare e raccogliere il gregge. Fu perciò un attributo di pastori, di personaggi mitologici e divinità di natura agreste: come Atteone, i Centauri, Orione, Paride, Pan, Silvano. 

Codesto bastone, col nome di Pastorale, venne poi copiato dalla religione cattolica, riccamente ornato e spesso in argento. ad uso dei vescovi.

Però associato al numero 7 il bastone, pastorale o meno che sia, ha poco senso, oppure il peda si riferiva ai piedi, la misura lineare romana, che corrispondeva in questo caso (i sette piedi) a poco più di due metri. 

TORRE DELLE MURA (ANCORA INTERRATA)
Qualcuno ha ipotizzato che vi fosse una statua antica in un santuario locale alta oltre due metri. Se da un lato è vero che per indicare una statua alta (in genere di divinità) talvolta si usava il termine "septem pedes", non vi sono prove di questa supposizione.

Il territorio risulta già popolato in età preromana, come documentato dai numerosi resti di Pitinio, a nord-est dell'abitato di San Severino. Molto interessanti le necropoli picene che hanno restituito corredi orientalizzanti, soprattutto la necropoli rinvenuta sulla sommità del Monte Penna, utilizzata tra il VII e il VI sec a.c. 

La necropoli è disposta a raggiera intorno ad un grande tumulo di pietre, come se tutto ruotasse intorno ad un personaggio importante e quasi mitico, il che farebbe pensare alla tomba di un principe. 

MOSAICO II O III SECOLO
I corredi maschili sono contraddistinti dalla costante presenza di armi, il che denuncia il popolo come guerriero ma con molti prodotti di importazione, come la ceramica protocorinzia dalla Grecia e il vasellame eneo dall'Etruria. Questo presuppone l'esistenza di marinai, di navi e di scambi commerciali.

Nel V sec. a.c. in località Frustellano viene creata un'altra zona sepolcrale, che nei corredi presentava ceramiche figurate attiche e magnogreche, molto belle, come il corredo funebre con coppa attica "a occhialoni" con valore apotropaico.

STRADA CITTADINA
Sembra che Septempeda, nato come Oppidum, un piccolo centro fortificato, passasse a Conciliabulum, vale a dire uno spazio, una piazza o un piccolo centro, nel quale convenivano periodicamente gli abitanti dei villaggi e dei municipi vicini, per feste religiose e mercati, o per ascoltare la lettura di nuove leggi e di ordinanze da parte dei magistrati. 

Un luogo dove accorrono le lenti di terre o villaggi vicini comporta il loro alloggio e i loro rifornimento di cibo, per uomini e animali da trasporto, nonchè di uno più santuari che acquistarono fedeli, miracoli, divinazioni e ricchezza.

Successivamente Septempeda divenne Municipium, una comunità cittadina legata a Roma che conservava una certa autonomia, mantenendo magistrati e istituzioni loro proprie, ma senza i diritti politici dei cittadini romani.

LE TERME
Un tratto della via Flaminia è stata localizzato in località Ponte di Pitino, a 6 Km ad est della città, ma Septempeda era collegata sia con la Salaria Gallica attraverso Urbs Salvia, sia direttamente con la Salaria che traversava alcune delle principali città del Piceno Falerone (Falerius Picenus), Fermo (Firmum) ed quindi Ascoli (Asculum). 

La Via Flaminia Prolaquense, che con direzione ovest-est corre parallela sul Potenza, ha costituito il decumanus maximus della città, dividendo lo spazio urbano in due aree ben definite: pianeggiante quella sud, in leggero declivio quella nord, definendone le vie ortogonali e l’impianto urbanistico.

L’area occupata dalla città è tuttora delimitata in gran parte dalle mura urbane, realizzate in grossi blocchi d’arenaria. 
Queste con un percorso in parte irregolare dato che si adatta alla conformazione del pendio, recinge un’area che dal I terrazzo sul fiume Potenza e circonda la cima delle prime colline che occupano il terrazzo di IV ordine.

Soprattutto sono ben conservate le due porte sud ed est, delle quali visibile quella meridionale, entrambe fiancheggiate da torri e situate sul fondo di una corte aperta, semicircolare e anch’essa protetta agli estremi da altre torri.

LE TERME
La porta orientale di Septempeda è stata infatti riportata alla luce dagli scavi regolari condotti tra il 1922 ed il 1926, è costituita di due torrioni circolari di m 8 di diametro distanti tra loro m 30, impostati sulla cinta muraria e uniti all’interno della porta da due bracci che andavano a formare il fornice.

Attraverso la porta passa tuttora la S.S. 361, che quindi ricalca il tracciato viario del diverticolo della Flaminia che toccava Septempeda. Meno visibili, in quanto interrati o coperti dalla vegetazione, altri tratti di mura che si riescono a individuare solo in parte, soprattutto per la zona est; tra questi due torri circolari, oggi non più visibili.

I più recenti scavi condotti in prossimità della porta meridionale hanno rivelato che questa area era occupata tra il III e il II sec. a.c. da una necropoli, i cui materiali documentano un’interessante fase ellenistica e sono in parte esposti presso il Museo Civico.

Va inoltre ricordato tra i monumenti ancora visibili un edificio termale con piscina e portico, e diverse zone di sepoltura. I materiali della zona archeologica di Septempeda sono conservati nel Museo Civico, situato a S. Severino nel palazzo Tacchi-Venturi (via Salimbeni 44)

LE FORNACI
Dell’organizzazione degli spazi interni alla città poco si può ancora desumere, se non che, presso la Chiesa della Pieve, un breve tratto di un incrocio fra due strade basolate, dal cui scavo sono stati messi in evidenza anche livelli riconducibili all'età repubblicana. 

I resti archeologici relativi alle aree interne alle mura riguardano soprattutto un edificio termale, in parte scavato nel 1971, attualmente recintato e dotato di un apparato didattico illustrativo. 

Le terme si erigono intorno ad un piazzale pavimentato a mattoncini in opus spicatum, circondato su tra lati da un portico a pilastri e dotato di una piscina. Intorno ad esso si affacciano il calidarium ed alcuni ambienti con suspensurae, pavimentati in gran parte a mosaico. 

Collocato in posizione centrale rispetto alla città, e forse in prossimità del foro, alcuni edifici di età repubblicana, datati tra III e I sec. a.c., sembrano attestare in questa zona la presenza di una fornace per ceramica a vernice nera e soprattutto un santuario dal quale provengono alcune interessanti frammenti di decorazione architettonica fittile.


Sempre all’interno dell’area urbana e a sud della strada provinciale, nei pressi della Chiesa della Pieve sono state individuate a partire dal 1922 parti di una o forse più domus romane delle quali però è difficile ricavare la planimetria. 

Vi sono però stati rinvenuti quattro mosaici, dei quali il più antico è databile alla fine dell’età repubblicana, e gli altri, uno dei quali esposto all’ingresso della sezione romana del Museo, di età imperiale e nel II sec. d.c..

STELE FUNERARIA
Più discosto dal centro è stato individuato ed in parte indagato il quartiere artigianale dotato di un complesso di fornaci per la cottura dei laterizi e della ceramica in uso fra il I e il IV sec. d.c. quando l’area fu utilizzata come discarica. 

Si tratta di una struttura principale a corridoio centrale con praefurnio intorno alla quale si dispongono almeno altre 5 fornaci ed una vasca utilizzata probabilmente per la decantazione della materia prima.

Ugualmente lungo la viabilità principale, ad est ed ovest della città, erano collocate le necropoli già note, delle quali solo di quella ovest un nucleo scavato nel 1973 è collocabile topograficamente a sud della Strada Statale.

La ricerca è evidentemente il tema principale dell’opera svolta" sottolinea Roberto Perna dell’Università di Macerata, "senza lo studio e l’approfondita conoscenza dei beni culturali, in questo caso archeologici, qualunque processo di tutela e valorizzazione, infatti, risulterebbe lacunoso in partenza. 
È per questo che le ricerche condotte a San Severino, che ci hanno consentito di individuare strutture dedicate all’immagazzinamento della ceramica, di analizzare la distribuzione dei siti nel territorio, di indagare la città e alcuni dei suoi monumenti principali, sono state inquadrate in progetti di valorizzazione, condivisi con la Soprintendenza, il Comune e la Regione, finalizzati alla crescita economica del territorio”.

La città ebbe vita fino ad epoca tarda, e fu probabilmente distrutta da Totila.



LEGIO GEMINA

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La legione Gemella, chiamata semplicemente così senza numerazione, fu una legione di epoca tardo repubblicana, del 49 - 48 a.c. nata per combattere a favore di Pompeo Magno contro Gaio Giulio Cesare.

(De bello gallico - Cesare e T.A. Dodge, Caesar, p. 489.) 

Essa venne formata da Gneo Pompeo Magno nel 49 a.c. dalla fusione di due legioni gemelle: la XVII e la XVIII, formate ambedue da Publio Cornelio Lentulo Spintere e allora posizionate in Cilicia.

(Cesare, De Bello civili, III, 4 - T.A.Dodge, Caesar, p.489 - J.R.Gonzalez, Historia del las legiones romanas, p.441).

Sia Gaio Giulio Cesare (100 a.c. - 44 a.c.), sia Gneo Pompeo Magno (106 a.c. - 48 a.c.) ebbero nel loro esercito una legione XVII, ma se ne ignora il destino dopo la guerra civile e si suppone che la legione cesariana, forse insieme alla XVIII e alla XIX (formate da Cesare con cittadini romani dell'Italia oppure con i pompeiani arresisi al termine dell'assedio di Corfinio), fosse stata distrutta nel corso della spedizione in Africa al comando di Gaio Scribonio Curione.

CESARE
La legio XVIII di Cesare era anch'essa un'unità militare romana di epoca tardo repubblicana, la cui origine è da collegarsi all'inizio della guerra civile, quando venne costituita da Gaio Giulio Cesare, nel marzo del 49 a.c.). Fu distrutta poco dopo, una volta trasferita in Africa proconsolare sotto il comando di Gaio Scribonio Curione.

Quest'ultimo era amico e sostenitore di Gneo Pompeo Magno, Gaio Giulio Cesare, Marco Antonio e Cicerone. Tra Pompeo Magno e Cesare scelse comunque Cesare ma venne esiliato da Roma.

Allo scoppio della guerra civile tra Cesare e Pompeo, Publio Cornelio Lentulo Spintere si schierò per quest'ultimo e per lui combatté nella Battaglia di Farsalo, dove trovò la morte, ucciso durante la fuga dei pompeiani in seguito alla schiacciante sconfitta subita.

POMPEO
Arruolata dunque per combattere contro Gaio Giulio Cesare, la Legione Gemella fu dapprima inviata in Sicilia e poi in Macedonia, dove prese parte alla successiva battaglia di Farsalo, all'ala destra dei pompeiani (Cesare, De Bello civili, III, 4; III, 88), al termine della quale fu sciolta, sia perchè la legione era stata decimata, sia perchè fortemente legata a Pompeo Magno e quindi inutilizzabile da Giulio Cesare.

Per la stessa ragione alcuni suoi legionari furono mandati in congedo a Falerii (oggi Civita Castellana) mentre altri, di maggior affidamento per il nuovo comandante, confluirono nelle nuove legioni create da Cesare, che per lui combatterono con fedeltà, la XXXV e la XXXVIII. (J.R.Gonzalez, Historia del las legiones romanas, p.441.)

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