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CULTO DI ANACETA

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Dea dei Peligni, Grande Madre Anaceta, con l'attributo del serpente. La Dea è conservata oggi nel museo della Preistoria, una struttura polifunzionale sorta nei pressi dell'area archeologica Le Paludi.
La collezione del museo va dall'età del Bronzo fino all'epoca romana e illustra la storia della Marsica a partire dai primi villaggi di palafitte.

Gli scavi archeologici a Le Paludi, effettuati dal 1985 al 1998, hanno portato alla luce un insediamento del terzo millennio a.c., sulle rive dell'antico lago del Fucino. Dell’istituto in loco della cosiddetta “ierodulia”, o prostituzione sacra, sembra esserci una testimonianza tarda del greco Atenodoro, riportata da Porfirio, datata attorno al III secolo a.c.

La Dea marsica venne chiamata Anaceta, Anxia, Anctia, Antia, Angizia, Angitia e così via, una Grande Madre che variava le sfumature del suo nome da pagus a pagus. Nel 2003 a Luco de Marsi vennero rinvenute tre statue femminili: la divinità seduta in trono, in terracotta (in alto), e due in marmo di scuola rodia del II sec. a.c., rappresentanti Cerere e Afrodite.

La Dea Anaceta era venerata a Luco dei Marsi (AQ), la Signora dei serpenti di cui era in grado di neutralizzare il morso, e che una tradizione trasmessa da Servio considera sorella di Circe e Medea, dunque una triplice Madre. 

Il mito sembrerebbe sopravvivere nel comune di Cocullo (AQ), dove, all’inizio del mese di maggio, si tiene ancora ogni anno la “processione” della statua di San Domenico ricoperta da serpenti vivi, affinché il santo scongiuri il pericolo dei. morsi da serpenti. Come al solito i riti femminili passano ai maschi, che interpretano alla meno peggio un rito ormai indecifrabile.

I RESTI DEL SANTUARIO DI ANACETA
La Dea dei serpenti è la Terra, la Tellus, e Angitia era anche Dea della divinazione e della negromanzia, e le sue adepte erano chiaroveggenti e in grado di evocare gli spiriti dei morti affinché svelassero il futuro. Anticamente la negromanzia, o necromantia, non consisteva nell'avere potere sui morti ma nell'evocarli si, non per averli in proprio dominio, ma per attingere alla loro veggenza. Si sa che in ogni tempio della Dea dei Serpenti le sacerdotesse oracolavano, traendo spunto dai morti o dalla Dea. 

C'era l'idea che gli antenati vegliassero sui nipoti e pronipoti, per cui avrebbero volentieri, con apposite offerte, fatto conoscere un qualcosa del futuro o fare dono di certi consigli. Pertanto la Dea marsica Anaceta era maga e altrettanto lo erano le sue sacerdotesse. Di esse si sa tra l'altro che in tempi arcaici, prima che si instaurasse il potere romano, oltre che a divinare esercitassero la ierodulia, ovvero la prostituzione sacra. Poi i tempi cambiarono, la ierodulia venne bandita e le sacerdotesse erano invece tenute alla castità.

Su un plinto (un parallelepipedo che funge da base) funerario proveniente dalla più estesa delle necropoli di Corfinio, rinvenuto a fine ‘800 da Antonio De Nino, il ricercatore della zona, è datato alla metà del I secolo a.c. e reca un carme funerario.

Questo è molto esteso, ma comprensibile solo in parte, dato che è in lingua peligna. La proprietaria della tomba, tale Prima Petiedia, sacerdotessa di Cerere e di Herentas - Venere, viene definita, come ci rivela il grande linguista Emilio Peruzzi, “ritualmente vedova”.

Del resto fonti di età romana testimoniano che le sacerdotesse di Cerere non potevano avere contatto con uomini nel periodo del loro servizio sacro, e pertanto dovevano divorziare temporaneamente dai mariti. Nel periodo del servizio pertanto la donna torna ad essere Vibidia, il nome della famiglia paterna. 

RESTI DEL TEMPIO DI ETA' AUGUSTEA
La sacerdotessa quindi non aveva l'obbligo della verginità ma aveva quello della castità. Il suo alto rango sociale la determina oltre che sacaracirix,  “sacerdotessa”, anche pristafalacirix, “capo delle sacerdotesse”, il che rivela una gerarchia interna ben definita con relative facoltà e rituali precisi.

Oggi la Dea Anaceta viene sostituita a Cocullo da San Domenico, un frate che si trasferì proprio a Cocullo, e donò agli abitanti un suo suo dente e il ferro della mula con cui si spostava, due oggetti apotropaici che riuscirono ad allontanare dal paese il popolo dei Marsi, che veneravano la Dea pagana Angizia. Chi curò la figura del santo dimenticò tuttavia che gli abitanti della zona erano proprio i Marsi, meglio documentarsi un pochino.

Comunque ancora oggi a Cocullo vengono catturati dei serpenti negli ultimi giorni di aprile che vengono poi liberati il primo maggio ponendoli sulla testa del santo che ha sostituito la Grande Dea. Durante la processione i serpenti, ancora un po' intorpiditi dal letargo, si muovono con lentezza sulla statua aggrovigliandosi in varie forme, e da queste forme si traggono auspici sull'andamento della prossima stagione agricola.

Insomma il groviglio dei serpenti ha sostituito l'oracolo delle sacerdotesse, sconfessando improvvisamente l'emblema demoniaco del serpente della tradizione giudaico-cristiana. Il serpente non è più il demoniaco tentatore di Adamo ed Eva e viene addirittura benedetto dal prete cattolico.

Tutte le Dee preromane erano in larga parte Dee dei serpenti, che era il simbolo della Madre Terra, la quale possedeva l'omphalos, ovvero l'ombelico del mondo, o centro del mondo da cui tutto nasceva e moriva. L'omphalos era una specie di cunetta scolpita a rete romboidale a rappresentare la pelle del serpente. Era l'antica Dea primordiale e aniconica.

Secondo Plinio il Vecchio, i Marsi avrebbero appreso i loro poteri taumaturgici dalla Dea Circe, maestra per eccellenza nel manipolare le erbe e nell’incantare i serpenti, il che fa supporre che Circe e Anaceta fossero in realtà la stessa Dea. Pertanto come la Dea era maga e guaritrice altrettanto le sue sacerdotesse lo erano. 

Ricordiamo inoltre che Luco dei Marsi, lucus era il “bosco sacro” si riferisce al bosco dedicato ad Angizia, di cui parla anche Virgilio nell’Eneide. Tre erano le figlie di Eete: Angizia, Medea e Circe. Delle tre sorelle soltanto Angizia ricevette gli onori divini, in virtù della sua sapienza nell’arte della magia e dell’utilizzo delle erbe a scopo terapeutico.

IL SANTUARIO CON LE COLONNE ANCORA A TERRA
I poteri magici di Angizia furono cantati anche dal poeta abruzzese Silio Italico: “Angizia, figlia di Eete, per prima scoprì le male erbe, così dicono, e maneggiava da padrona i veleni e traeva giù la luna dal cielo, con le grida i fiumi tratteneva, e chiamandole spogliava i monti delle selve” (Punicae,VIII, 498-501) .

Il comune di Luco dei Marsi fu un importante centro politico e religioso, e fu anche sede del santuario federale dei Marsi, fino a quando la guerra sociale degli inizi del I secolo a.c. (bellum marsicum) portò alla nascita del municipio romano di Anxa-Angitia o Anctia o Anaceta venerata dai Marsi che abitavano le sponde del lago Fucino.

Il sito risale all'età del bronzo, ma si sviluppò grandemente durante l'età del ferro su oltre 14 ettari recintati con opere poligonali con due grandi porte d'accesso. Il centro fortificato del sovrastante monte Penna venne inglobato dalla sottostante città-santuario durante il periodo delle guerre sannitiche attraverso opere murarie che coprirono un'area di ben 30 ettari dotate di cinque porte.

Il sito è caratterizzato dalla presenza del tempio di epoca italica situato in località Il Tesoro e di quello di epoca augustea. Sono visibili il muro di terrazzamento dell'area sacra della Dea, e le tracce dell'ampia recinzione muraria, i ruderi delle tre porte di accesso ai templi, le tracce del foro e del quartiere artigiano. La città santuario è sovrastata dall'acropoli di monte Penna.


DRUSO MINORE - DRUSUS IULIUS CAESAR

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DRUSO MINORE

Nome: Drusus Iulius Caesar
Nascita: 7 ottobre 14 a.c. Roma
Morte: 14 settembre 23 d.c. Roma
Moglie: Claudia Livilla
Figli: Germanico Gemello, Tiberio Gemello, Giulia Livia
Padre: Tiberio
Madre: Vipsania Agrippina
Dinastia: Giulio-Claudia
Consolato: 15 e 21


Alla nascita Nerone Claudio Druso, successivamente cambiato col nome Druso Giulio Cesare detto Druso Cesare o Druso Minore, era il figlio dell'imperatore Tiberio (42 a.c. - 37 d.c.) e della sua prima moglie Vipsania Agrippina, l'unica donna che l'imperatore amò e che dovette abbandonare per volere di Augusto, onde sposare la figlia di lui Giulia.

Druso Minore nacque nel 14 a.c. e avrebbe dovuto essere l'erede del titolo imperiale del padre, ma Augusto aveva imposto a Tiberio di adottare Germanico, il figlio di Nerone Claudio Germanico Druso (fratello di Tiberio) e di Antonia Minore, di un anno più anziano di Druso.

Druso sposò la cugina Giulia Livilla, figlia di Druso Maggiore, fratello di Tiberio, e di Antonia Minore (figlia di Marco Antonio), già moglie, nel I d.c. di Gaio Cesare, figlio di Marco Vipsanio Agrippa e di Giulia.

Gaio Cesare fu fra i possibili successori di Ottaviano Augusto, ma morì in Licia nel 4 a.c. per le ferite ricevute in una campagna militare. Venne ritratto nei rilievi dell' Ara Pacis fra i personaggi della famiglia imperiale in processione.

Druso ne sposò la vedova nello stesso anno, nel 4 d.c., e da lei ebbe la figlia Giulia e una coppia di gemelli: Tiberio Gemello e Germanico Gemello.

RICOSTRUZIONE DEL VOLTO
Dopo la morte di Augusto (14 d.c.) Druso Minore intervenne in Illirico con due legioni pretoriane e sedò il tumulto delle truppe in quella provincia, che erano arrivate al punto di combattersi fra di loro, nonostante i tentativi di Giunio Bleso, loro comandante e zio di Seiano.

Venne poi eletto console nel 21 d.c. insieme al padre Tiberio e nel 22 ottenne la tribunicia potestas. Sicuramente sarebbe diventato l'erede di Tiberio. Secondo Tacito, Druso venne ucciso dalla moglie Livilla e dall'amante di lei Seiano con un lento veleno (23 a.c.), simulando una malattia. Si sa che non c'era stato buon sangue fra Druso e Seiano tanto che il figlio di Tiberio in un litigio l'aveva schiaffeggiato.

Nel 23 d.c, Tiberio reagì con virile fermezza alla morte del suo figlio, che pure spesso aveva rimproverato per la sua dissolutezza. Stette in lutto pochi giorni, per poi ripresentarsi in Senato, per nominare suoi eredi Nerone e Druso Cesare, figli di Germanico. Ed ecco il discorso di Tiberio che Tacito riporta:

Padri coscritti, affidai costoro, quando rimasero orfani del loro padre a loro zio, e lo pregai, benchè egli avesse figli suoi, che ne avesse cura come figli suoi, li allevasse e li rendesse simili a sé e degni della posterità. Poiché Druso mi è stato strappato, rivolgo a voi le mie preghiere e vi supplico di fronte agli dei ad alla patria, accogliete, guidate e compite il vostro dovere ed il mio nei confronti dei pronipoti di Augusto, nati da illustrissimi antenati. Costoro, Nerone e Druso, siano per voi come padri. Siete nati da condizione così elevata che il vostro bene ed il vostro male riguardano lo Stato”.

(Tacito, Annali, Libro IV)

IL POPOLO SI ACCANISCE SUL CADAVERE DI SEIANO
Rimasta nuovamente vedova nel 23 d.c., nel 25 fu chiesta in moglie da Lucio Elio Seiano ma l'imperatore Tiberio negò il consenso alle nozze, forse perchè non voleva che la vedova di suo figlio potesse consolarsi dopo soli due anni di cotale marito.

Il consenso venne alla fine concesso, ma solo nel 31. quando però Tiberio, venuto a conoscenza dei tradimenti di Seiano, convocò a Capri il nuovo prefetto del pretorio incaricandolo di arrestare Seiano.
Questi, tornato a Roma, convocò Seiano davanti al senato facendogli credere che Tiberio volesse conferirgli nuovi onori, quindi fece leggere le accuse dell'imperatore contro di lui. Seiano venne arrestato e fu strangolato in carcere (31 d.c.). 

Anche Giunio Bleso, lo zio di Seiano, che, proconsole in Africa aveva sconfitto il re dei Numidi Tacfarinas, ottenendo il trionfo, venne coinvolto nei tradimenti del nipote per cui, sentendosi perduto, si suicidò. Alla sua morte di Seiano poi seguìrono molti altri processi con i quali l'aristocrazia romana colpì tutti i seguaci di Seiano con una certa efferatezza.

Dopo la morte di Seiano sua moglie, Apicata, accusò il marito di aver fatto morire Druso, figlio di Tiberio, con la complicità della sua amante Livilla, e quindi si suicidò, forse per paura di dover subire anche lei un processo dove avrebbe potuto essere perseguitata. Non si sa se l'accusa fosse fondata, comunque Livilla fu imprigionata per ordine di Tiberio e lasciata morire di fame.

SVETONIO - CESARE ( PARAGRAFO 41 - 89)

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VEDI: SVETONIO - CESARE, I  PARTE (Par. 1-40)



I PROVVEDIMENTI DI CESARE

( 41 ) Cesare completò il Senato, creò nuovi patrizi, aumentò il numero dei pretori, degli edili, dei questori e anche dei magistrati minori, riabilitò i cittadini privati delle loro prerogative per intervento del censore o condannati per broglio dai giudici.

Divise con il popolo il diritto di eleggere i magistrati, stabilendo che, salvo per gli aspiranti al consolato, una metà degli eletti doveva essere presa tra i candidati scelti dal popolo, e l'altra metà tra quelli che lui stesso aveva designato.

E lui designava i suoi candidati per mezzo di circolari, indirizzate ai tribuni, che recavano questa semplice formula: «Il dittatore Cesare ha designato il tale. Vi raccomando il tale e il tal altro, perché con il vostro voto ottengano la loro carica

Ammise alle cariche anche i figli dei proscritti. Per la giustizia conservò soltanto due categorie di giudici: quelli dell'ordine equestre e quelli dell'ordine senatorio. Soppresse la terza, quella dei tribuni del tesoro.

Fece il censimento della popolazione, non secondo il modo e i luoghi consueti, ma in ogni quartiere, per mezzo dei proprietari di stabili di abitazione, e ridusse a centocinquantamila i trecentoventimila plebei che ricevevano frumento dallo Stato. Infine, perché il censimento non dovesse in avvenire far sorgere qualche sommossa, stabilì che ogni anno, per rimpiazzare i morti, il pretore estraesse a sorte tra i plebei quelli che non erano stati iscritti.



DISTRIBUZIONE DELLE COLONIE

( 42 ) Distribuì nelle colonie d'oltremare ottantamila cittadini, ma per assicurare nello stesso tempo alla capitale, così depauperata, una popolazione sufficiente, vietò ad ogni cittadino maggiore di vent'anni e minore di sessanta, a meno che fosse sotto le armi, di stare lontano dall'Italia per più di tre anni consecutivi.

Proibì ai figli dei senatori di andare all'estero, se non come membri dello stato maggiore o accompagnatori di un magistrato; volle infine che gli allevatori di bestiame avessero tra i loro pastori almeno un terzo di uomini liberi in pubere età.

A tutti coloro che esercitavano la medicina o insegnavano le arti liberali in Roma concesse la cittadinanza, perché più volentieri prendessero residenza in città e ve ne attirassero altri. Quanto ai debiti, deludendo le speranze di abolizione, che spesso si diffondevano, stabilì che i debitori si accordassero con i creditori nello stimare le loro proprietà al prezzo che ciascuna era costata prima della guerra civile, deducendo dalla cifra dei loro debiti ciò che avevano pagato a titolo di interesse, sia in argento, sia in valori; queste disposizioni ridussero il credito di circa un quarto.

Fece sciogliere tutte le associazioni, ad eccezione delle più antiche. Rese più dure le sanzioni contro i crimini, e poiché i ricchi tanto più facilmente si rendevano colpevoli in quanto se ne andavano in esilio senza perdere niente del loro patrimonio, stabilì, come riferisce Cicerone, che i parricidi fossero  spogliati di tutti i loro beni, e tutti i colpevoli di altri delitti della metà del loro patrimonio.

TEMPIO DEL DIVO GIULIO

AMMINISTRAZIONE DELLA GIUSTIZIA

( 43 ) Amministrò la giustizia con il più grande zelo e con la massima severità. Arrivò perfino a rimuovere dall'ordine dei senatori i magistrati riconosciuti colpevoli di concussione. Annullò il matrimonio di un anziano pretore che aveva sposato una donna separata dal marito solo da due giorni, quantunque senza sospetto di adulterio.

Stabilì diritti di importazione sulle merci straniere. Permise l'uso delle lettighe, e così pure delle vesti di porpora e delle perle, solo a certe persone, ad una certa età e durante certi giorni. Fu severissimo nell'applicazione della legge suntuaria.

Mise delle guardie intorno al mercato con l'incarico di scoprire le derrate proibite e fargli rapporto: talvolta inviava di sorpresa littori e soldati che requisivano dalle sale da pranzo, dove già erano state sistemate, le merci che erano potute sfuggire alle guardie.



I MONUMENTI DELL'URBE

( 44 ) Inoltre, per ciò che concerne l'abbellimento e l'arricchimento dell'Urbe, la protezione e l'ingrandimento dell'Impero, faceva ogni giorno i più numerosi e vasti progetti. Si ripromise, innanzitutto, di costruire un tempio di Marte, il più grande del mondo, dopo aver riempito e spianato il bacino in cui era stata data la battaglia navale, e di realizzare un immenso teatro, a ridosso della rupe Tarpeia; di condensare il diritto civile e di scegliere nell'enorme congerie di leggi sparse ciò che vi era di migliore e di indispensabile per raggrupparlo in un piccolo numero di libri; di mettere a disposizione del pubblico biblioteche greche e latine, le più ricche possibili: aveva affidato a Marco Varrone l'incarico di procurare e catalogare i libri.

Aveva intenzione di bonificare le paludi pontine, di aprire uno sbocco al lago Fucino, di condurre una strada dall'Adriatico fino al Tevere, scavalcando l'Appennino, di tagliare l'istmo di Corinto, di contenere i Daci che si erano riversati nella Tracia e nel Ponto, di portare quindi guerra ai Parti, passando per l'Armenia minore, ma di non provocarli a battaglia, se non dopo aver saggiato le loro forze.

Nel bel mezzo di questi lavori e di questi progetti, lo sorprese la morte. Ma prima di raccontare la sua fine, non sarà fuori posto esporre sinteticamente tutto ciò che riguarda la sua persona, il suo carattere, il suo tenore di vita, le sue abitudini, non meno che il suo talento civile e militare.



L'ASPETTO E IL CARATTERE

( 45 ) Si dice che fosse di alta statura, di carnagione bianca, ben fatto di membra, di viso forse un po' troppo pieno, di occhi neri e vivaci, di fibra robusta, benché negli ultimi tempi andasse soggetto ad improvvisi svenimenti e fosse ossessionato da incubi che lo svegliavano nel sonno.

Fu anche colto, in pieno lavoro, da due attacchi di epilessia. Un po' ricercato nella cura del corpo, non si limitava a farsi tagliare i capelli e a radersi con meticolosità, ma si faceva anche depilare, tanto che alcuni lo rimproveravano per questo.

Non sopportava l'idea di essere calvo, soprattutto perché si era accorto più di una volta che suscitava le canzonature dei suoi denigratori. Per questo aveva preso l'abitudine di riportare in avanti i pochi capelli che aveva e di tutti gli onori che il Senato e il popolo gli avevano decretato, nessuno preferì o accettò più volentieri del diritto di tenere perennemente sul capo la corona di lauro.

Dicono anche che fosse elegante nel vestire: indossava un laticlavio guarnito di frange che arrivavano fino alle mani e su di esso portava la sua cintura, per altro allentata: da questa abitudine è venuta la battuta che Silla andava ripetendo agli ottimati di «fare attenzione a quel giovane che portava male la cintura».

( 46 ) In principio abitò in una modesta casa della Suburra; dopo il massimo pontificato si trasferì in un palazzo pubblico sulla via Sacra. Molti riferiscono che fosse avido del lusso e della sontuosità. Avrebbe fatto abbattere una villa nel bosco Nemorense, iniziata dalle fondamenta e con grande impiego di soldi, perché non corrispondeva completamente ai suoi desideri, e ciò benché fosse ancora povero e pieno di debiti. Durante le sue spedizioni avrebbe importato pavimenti di marmo fatti a mosaico.



I LUSSI

( 47 ) Avrebbe aggredito la Britannia con la speranza di trovare le perle e che, per raccogliere le più grosse, più volte, di sua mano, ne avrebbe saggiato il peso. Dicono che facesse collezione continuamente e con grande passione, di pietre preziose, di vasi cesellati, di statue, di quadri di antichi artisti; dicono anche che si assicurasse gli schiavi più belli e più educati ad un prezzo spropositato, ed egli stesso se ne vergognava a tal punto da vietare di registrarlo nei suoi conti.

( 48 )  Dicono che nelle province offrisse continuamente banchetti, facendo apparecchiare due tavole distinte: una per i suoi ufficiali e per i Greci, l'altra per i Romani e per i notabili del paese. In casa propria manteneva una disciplina così precisa e rigorosa, sia nelle piccole, sia nelle grandi cose, che fece mettere ai ferri uno schiavo addetto alla panificazione perché serviva agli invitati un tipo di pane diverso dal suo e punì con la morte uno dei suoi più cari liberti, senza che nessuno se ne lamentasse, perché aveva sedotto la moglie di un cavaliere romano.



L'OMOSESSUALITA'

( 49 )  Soltanto il suo soggiorno presso Nicomede diffuse la fama della sua sodomia, ma fu sufficiente per disonorarlo per sempre ed esporlo agli insulti di tutti. Lascio perdere i conosciutissimi versi di Licinio Calvo: «... tutto ciò che mai la Bitinia possedette e l'amante di Cesare.» Sorvolò sui discorsi di Dolabella e di Curione padre, nei quali il primo lo definisce a rivale della regina, «sponda interna della lettiga regale» e il secondo «postribolo di Nicomede, sotterraneo bitinico».

Non prendo nemmeno in considerazione le scritte con le quali, sui muri di Roma, Bibulo chiamò il suo collega «regina bitinica, al quale un tempo stava a cuore un re ed ora sta a cuore un intero regno».

Nello stesso tempo, come riferisce Marco Bruto, un certo Ottavio, la cui acutezza di mente lo autorizzava a dire tutto senza riguardi, davanti ad un'assemblea numerosissima, aveva dato a Pompeo il titolo di «re» e aveva salutato Cesare con il nome di «regina».

Ma Caio Memmio arriva perfino a rimproverarlo di aver servito, come coppiere, insieme con altri invertiti, questo Nicomede, durante un grande banchetto al quale avevano preso parte alcuni commercianti romani, dei quali riporta i nomi.

Cicerone, non contento di aver scritto in alcune sue lettere che le guardie lo portavano nella camera del re, che si sdraiava su un letto d'oro, con una veste dorata e che un discendente di Venere aveva contaminato in Bitinia il fiore della sua giovinezza, un giorno, anche in Senato disse a Cesare, che difendeva la causa di Nisa, la figlia di Nicomede e ricordava i benefici che aveva ricevuto dal re: «Lascia perdere queste cose, ti prego, dal momento che è ben noto quello che lui ti ha dato e quello che tu hai dato a lui

Infine, durante il trionfo sui Galli, tra i versi satirici che i suoi soldati cantavano, secondo la tradizione, mentre scortavano il suo carro, si udirono anche questi, divenuti assai popolari: «Cesare ha sottomesso le Gallie, Nicomede ha sottomesso Cesare: Ecco, Cesare che ha sottomesso le Gallie, ora trionfa, Nicomede, che ha sottomesso Cesare, non riporta nessun trionfo.»



L'ETEROSESSUALITA'

( 50 )  Tutti concordano nell'affermare che era portato alla sensualità ed era assai generoso nei suoi amori; che sedusse moltissime donne di nobile nascita: tra queste Postumia, moglie di Servio Sulpicio, Lollia, moglie di Aulo Gabinio, Tertulla, moglie di Marco Crasso e anche la moglie di Gneo Pompeo, Mucia.

In ogni caso i due Curioni, padre e figlio, e molti altri rimproveravano Pompeo perché, spinto dalla sete del potere, aveva accettato in matrimonio proprio la figlia di colui che lo aveva costretto a ripudiare la moglie, dopo averne avuti tre figli, e che egli, quasi lamentandosi, era solito chiamare «Egisto».

Ma in modo particolare Cesare amò Servilia, la madre di Marco Bruto: per lei, durante il suo primo consolato, acquistò una perla del valore di sei milioni di sesterzi e, nel corso della guerra civile, tra le altre donazioni, le fece aggiudicare al prezzo più basso possibile, immense proprietà messe all'asta.

Quando molti si stupirono del prezzo irrisorio, Cicerone, assai spiritosamente, disse: «La spesa fu ancora più esigua, perché è stata dedotta la terza parte.» Si supponeva infatti che Servilia avesse procurato a Cesare anche i favori della figlia Terza.

( 51 )  Non si astenne nemmeno dalle donne della provincia, come appare evidente da questo distico, continuamente ripetuto dai soldati durante il trionfo sui Galli: «Cittadini, sorvegliate le vostre donne: vi portiamo l'adultero calvo; In Gallia, o Cesare, hai dissipato con le donne il denaro che qui hai preso in prestito

( 52 )  Ebbe per amanti anche le regine, tra le quali Eunce di Mauritania, moglie di Bogude: a lei e a suo marito, come scrive Nasone, fece molte e grandi donazioni. La sua più grande passione fu però Cleopatra, con la quale protrasse i banchetti fino alle prime luci dell'alba. Conducendola con sé, su una nave dotata di camera da letto, avrebbe attraversato tutto l'Egitto se l'esercito non si fosse rifiutato di seguirlo.

Infine la fece venire a Roma e poi la rimandò in Egitto, dopo averla colmata di onori e di magnifici regali, permettendole di dare il proprio nome al figlio nato dal loro amore. Alcuni scrittori greci hanno affermato che questo figlio assomigliasse moltissimo a Cesare sia nell'aspetto, sia nel modo di camminare.

M. Antonio dichiarò in Senato che lo aveva riconosciuto per questo e che la stessa cosa sapevano Caio Marzio e Caio Oppio e tutti gli altri amici di Cesare. Ma uno di costoro, e precisamente Oppio, pensando fosse opportuno difenderlo e giustificarlo su questo punto, pubblicò un libro nel quale sosteneva che non era figlio di Cesare quello di cui Cleopatra gli attribuiva la paternità.

Elvio Cinna, tribuno della plebe, confidò a molti di aver già scritto e pronto un progetto di legge che Cesare gli aveva ordinato di proporre durante la sua assenza. La legge gli concedeva di poter sposare tutte le donne che volesse per assicurarsi la discendenza.

Perché poi non vi sia più nessun dubbio che Cesare abbia avuto la più triste reputazione di sodomita e di adultero, basterà dire che Curione padre, in una sua orazione lo definisce: «il marito di tutte le donne e la moglie di tutti gli uomini».



LA MORIGERATEZZA

( 53 )  Anche i suoi nemici dicono che fu assai parco nell'uso del vino. È di Marco Catone il detto: «Fra tutti coloro che si apprestarono a rovesciare lo Stato, solo Cesare era sobrio.» Nei riguardi del vitto Gaio Oppio lo mostra tanto indifferente che una volta, essendogli stato servito da un ospite olio rancido al posto di olio fresco, mentre tutti gli altri convitati si risentivano, lui solo se ne mostrò entusiasta, per non aver l'aria di rimproverare l'ospite stesso della sua negligenza o della sua mancanza di buon gusto. Conservò la moderazione sia durante i periodi di comando, sia durante le sue magistrature.

( 54 )  Secondo quanto affermano alcuni autori nei loro scritti, quando era proconsole in Spagna, non si fece riguardo di prendere denaro dai suoi alleati, dopo averlo mendicato, per pagare i suoi debiti, e distrusse, come nemiche, alcune città dei Lusitani, sebbene non si fossero rifiutate di versare i contributi imposti e gli avessero aperto le porte al suo arrivo.

In Gallia spogliò le cappelle e i templi degli Dei, piene di offerte votive e distrusse città più spesso per far bottino che per rappresaglia. In tal modo arrivò ad essere così pieno d'oro da farlo vendere in Italia e nelle province a tremila sesterzi la libbra.

Durante il suo primo consolato sottrasse dal Campidoglio tremila libbre d'oro e le rimpiazzò con un peso uguale di bronzo dorato. Concesse alleanze e regni, dietro versamento di denaro, e al solo Tolomeo estorse, a nome suo e di Pompeo, circa seimila talenti.

È chiaro quindi che grazie a queste evidenti rapine e a questi sacrilegi poté sostenere sia gli oneri delle guerre civili, sia le spese dei trionfi e degli spettacoli.

CESARE

GRANDE ORATORE

( 55 )  Nell'eloquenza e nell'arte militare o eguagliò o superò la gloria dei personaggi più insigni. Dopo la sua requisitoria contro Dolabella fu senza dubbio annoverato tra i migliori avvocati. Ad ogni modo Cicerone, elencando nel suo «Bruto» gli oratori, dice di «non vedere proprio a chi Cesare debba essere considerato inferiore» e aggiunge che «è elegante e che ha un modo di parlare splendido, magnifico e in un certo senso generoso».

Scrivendo poi a Cornelio Nepote si esprime così nei confronti di Cesare: «Come? Quale oratore gli preferisci tra quelli che si sono dedicati esclusivamente all'eloquenza? Chi è più acuto e ricco nelle battute? Chi più elegante e raffinato nella terminologia?»

Sembra che solo durante la sua giovinezza abbia seguito il genere di eloquenza di Cesare Strabone, dal cui discorso che si intitola: «A favore dei Sardi» riportò, parola per parola, alcuni passaggi nella sua «Divinazione». Parlava, almeno così dicono, con voce penetrante, con movimenti e gesti pieni di foga e non senza signorilità. Lasciò qualche orazione e tra queste alcune gli sono attribuite a torto.

Giustamente Augusto pensa che il testo dell'orazione «In favore di Quinto Metello» sia stato redatto da stenografi che avevano seguito male le parole di Cesare mentre parlava, e non pubblicato da lui stesso.

Infatti in alcuni esemplari trovo scritto non già «Discorso in favore di Metello» ma «Discorso che ha scritto per Metello»; e pertanto è Cesare in persona che parla per difendere sia se stesso, sia Metello dalle accuse dei loro comuni denigratori.

Anche le «Allocuzioni rivolte ai soldati in Spagna» Augusto, con molta riluttanza, le considera di Cesare, e tuttavia due gli vengono attribuite: una sarebbe stata pronunciata prima del primo combattimento, l'altra dopo il secondo; ma Asinio Pollione ci dice che non ebbe nemmeno il tempo di rivolgere un'esortazione ai soldati a causa di un improvviso attacco dei nemici.



DE BELLO GALLICO

( 56 )  Lasciò anche i Commentari delle sue imprese nella guerra gallica e nella guerra civile contro Pompeo, mentre non si è d'accordo sull'autore dei resoconti sulla guerra di Alessandria, d'Africa e di Spagna. Alcuni dicono che sia Oppio, altri Irzio, il quale avrebbe anche completato l'ultimo libro della guerra gallica, rimasto incompiuto.

A proposito dei Commentari di Cesare, sempre nel a Bruto» Cicerone dice:
«Scrisse i Commentari che bisogna proprio lodare: essi sono scarni, precisi e pieni di eleganza, spogliati di ogni ornamento oratorio, come un corpo del suo vestito; ma volendo offrire materiale a chi avesse intenzione di attingere dai suoi Commentari per scrivere una storia, fece forse cosa gradita agli stolti che vorranno impiastricciare quelle limpide annotazioni, ma ha fatto desistere gli uomini di buon senso dal raccontarla.»

Sugli stessi Commentari Irzio così si esprime: «Tutti ne hanno tessuto così alti elogi che Cesare sembra non tanto aver offerto, ma addirittura tolto agli storici la possibilità di scrivere. Di questa opera la nostra ammirazione è maggiore di quella degli altri lettori: essi sanno come l'abbia scritta bene e in stile perfetto, noi invece sappiamo come l'abbia composta con facilità e rapidamente»

Asinio Pollione pensa che i Commentari siano stati scritti con poca diligenza e con scarso rispetto della verità, perché Cesare, nella maggior parte dei casi ha accettato, senza nessun controllo, tutto quello che gli altri hanno fatto, mentre vuoi deliberatamente, vuoi per un inganno della memoria, ha presentato in modo inesatto le proprie azioni.

Lasciò anche due libri a «Sull'Analogia» e altrettanti dell'«Anticatone» e inoltre un poema intitolato a «Il viaggio». Di queste opere compose la prima mentre attraversava le Alpi, quando dalla Gallia Citeriore ritornava presso l'esercito, dopo aver tenuto le sue assemblee, la seconda la scrisse al tempo della battaglia di Munda e l'ultima mentre si portava da Roma nella Spagna ulteriore con un viaggio di ventitré giorni.

Abbiamo anche alcune sue lettere inviate al Senato: sembra sia stato il primo a dividerle in pagine e a dar loro la forma di un memoriale, mentre i consoli e i generali avevano sempre fatto i loro rapporti su tutta la larghezza del foglio.

Rimangono anche le sue lettere a Cicerone e quelle ai familiari; quando doveva fare qualche comunicazione segreta, si serviva di segni convenzionali, vale a dire accostava le lettere in un ordine tale da non significare niente: se si voleva scoprire il senso e decifrare lo scritto bisognava sostituire ogni lettera con la terza che la seguiva nell'alfabeto, ad esempio la A con la D, e così via.

Si ricordano anche alcuni scritti giovanili, come «Le lodi di ErcoIe», una tragedia «Edipo» e una raccolta di detti famosi. Augusto però proibì che questi libretti venissero pubblicati: lo ordinò con una lettera breve e tuttavia incisiva che inviò a Pompeo Macro, al quale aveva affidato l'incarico di amministrare le biblioteche.

CESARE E VERCINGETORIGE

ABILITA' E CORAGGIO

( 57 )  Fu abilissimo nell'uso delle armi e nell'equitazione e sopportava le fatiche in modo incredibile. In marcia precedeva i suoi uomini qualche volta a cavallo, ma più spesso a piedi, con il capo scoperto, sia che picchiasse il sole, sia che piovesse.

Con straordinaria rapidità coprì lunghissime tappe, senza bagaglio, con un carro da nolo, percorrendo in un giorno la distanza di centomila passi. Se i fiumi gli sbarravano la strada, li attraversava a nuoto o galleggiando su otri gonfiati: così spesso arrivava prima di coloro che dovevano annunciare il suo arrivo.

( 58 ) Durante le spedizioni non si può dire se fosse più prudente o ardito: non condusse mai il suo esercito per strade insidiose, se prima non aveva ispezionato la natura del terreno; non lo trasportò in Britannia senza aver prima esplorato personalmente i porti, la rotta e i possibili approdi sull'isola.

Al contrario però, quando venne a sapere che alcuni suoi accampamenti erano assediati in Germania, passò attraverso le postazioni nemiche, travestito da Gallo, e raggiunse i soldati.

In pieno inverno fece la traversata da Brindisi a Durazzo, eludendo le flotte nemiche; poiché le truppe, cui aveva ordinato di seguirlo, non si decidevano a partire e più volte aveva inviato solleciti per farle arrivare, alla fine lui stesso, di notte, in gran segreto, salì su una piccola imbarcazione, con il capo coperto, e non si fece riconoscere e non permise al pilota di arrendersi alla tempesta se non quando i flutti minacciarono di travolgerlo.



POCO RELIGIOSO

( 59 )  Nessuno scrupolo religioso gli fece mai abbandonare o differire una sola delle imprese cominciate. Una volta che la vittima gli scappò di mano proprio mentre stava per sacrificarla, non rimandò per niente la sua spedizione contro Scipione e Giuba. Per di più, scivolato mentre saliva sulla nave, volse il presagio in senso favorevole e gridò: «Africa, io ti tengo

Però, allo scopo di eludere le predizioni, secondo le quali si diceva che in quella terra, quasi per volontà del destino, il nome degli Scipioni era fortunato e invincibile, tenne presso di sé, nell'accampamento un membro degenere della famiglia dei Cornelii che, per l'infamia della sua condotta, era stato soprannominato «Salvitone».



IMPREVEDIBILE

( 60 ) Attaccava battaglia non tanto ad un'ora stabilita, ma secondo l'occasione e spesso durante la marcia, talvolta nelle peggiori condizioni di tempo, quando nessuno credeva che si sarebbe mosso.

Soltanto negli ultimi tempi si fece più esitante a combattere: pensava infatti che quanto più spesso aveva vinto, tanto meno doveva esporsi al caso e che un'eventuale vittoria non gli avrebbe reso più di quanto avrebbe potuto togliergli una sconfitta.

Non mise mai in fuga il nemico, senza poi aver conquistato il suo accampamento: in tal modo non dava scampo a quelli che già erano in preda al terrore. Quando la battaglia era incerta, faceva allontanare i cavalli, il suo per primo: così costringeva tutti a resistere ad ogni costo, dal momento che aveva sottratto le risorse della fuga.

( 61 ) Aveva un cavallo straordinario, dai piedi simili a quelli di un uomo e con le unghie tagliate a forma di dita: era nato nella sua casa e quando gli aruspici dichiararono che presagiva al suo padrone il dominio del mondo, lo allevò con grande cura e fu il primo a montarlo, perché la bestia non sopportava nessun altro cavaliere. Gli fece anche erigere una statua davanti al tempio di Venere Genitrice.

( 62 ) Spesso da solo riordinò le file sbandate, opponendosi a quelli che fuggivano, trattenendoli uno per uno e afferrandoli alla gola per volgerli verso il nemico. Questo avveniva magari nei confronti di uomini così atterriti che un portatore di insegne lo minacciò con la punta, mentre tentava di fermarlo e un altro, per sfuggirgli, gli lasciò l'insegna tra le mani.

( 63 ) Non certo inferiore fu la sua temerarietà e numerose ne sarebbero le prove. Dopo la battaglia di Farsalo, mandate avanti verso l'Asia le truppe, attraversò lo stretto dell'Ellesponto su una piccola nave da trasporto. Quando incontrò Lucio Cassio, che era del partito avversario, con dieci navi rostrate, si guardò bene dal fuggire, ma, avvicinandosi, lo esortò ad arrendersi spontaneamente e lo accolse a bordo come supplice.

( 64 )  Ad Alessandria, durante l'attacco ad un ponte, una improvvisa sortita del nemico lo obbligò a saltare su una barca, ma poiché un gran numero di soldati ci si buttò contro, si tuffò in mare e, nuotando per duecento passi, si mise in salvo presso la nave più vicina, tenendo alzata la mano sinistra per non bagnare i libri che portava con sé e stringendo fra i denti il suo mantello di generale per non lasciare al nemico una simile spoglia.

( 65 )  Non giudicò mai il soldato né per la sua moralità, né per la sua fortuna, ma soltanto per il suo valore, e lo trattava sia con severità, sia con indulgenza. Non era però esigente sempre e dappertutto, ma solo quando il nemico era vicino: allora, soprattutto, pretendeva la massima disciplina. Non faceva conoscere né l'ora della marcia, né quella del combattimento, ma tenendo l'esercito pronto e all'erta in ogni momento, poteva condurlo subito dove voleva.

A volte lo faceva senza motivo, specialmente nei giorni di pioggia o di festa. Raccomandava alle sue truppe di tenerlo d'occhio, poi improvvisamente spariva, di giorno o di notte, e forzava la marcia per affaticare la colonna che lo seguiva.

( 66 ) Se i suoi soldati erano spaventati per ciò che si diceva a proposito delle truppe nemiche, li rassicurava non certo negando la realtà e minimizzandola, ma, al contrario, esagerandola e aggiungendo menzogne.

Così, quando si accorse che stavano aspettando Giuba in preda allo spavento, radunò tutti i soldati e disse: «Sappiate che nel breve giro di soli tre giorni arriverà il re con dieci legioni, trentamila cavalieri, centomila soldati armati alla leggera e trecento elefanti. Di conseguenza alcuni la smettano di volerne sapere di più o di fare congetture e credano a me che sono bene informato; in caso contrario li farò imbarcare sulla più vecchia delle mie navi ed essi andranno, in balia del vento, verso le terre che potranno raggiungere

( 67 )  Non faceva caso a tutti i loro difetti, ai quali non proporzionava mai le punizioni, ma quando scopriva disertori e sediziosi e doveva punirli, allora prendeva in considerazione anche il resto. Non di rado, dopo una grande battaglia, conclusasi con la vittoria, condonato ogni incarico di servizio, concedeva a tutti la possibilità di divertirsi, perché era solito vantarsi che «i suoi soldati potevano combattere valorosamente anche se erano impomatati». Durante le arringhe che rivolgeva loro non li chiamava «soldati», ma con il termine più simpatico di «compagni d'armi».

Li voleva così bene equipaggiati che li dotava di armi rifinite con oro e con argento, sia per salvare l'apparenza, sia perché in battaglia fossero più valorosi, preoccupati dal timore di perderle. In un certo senso li amava a tal punto che quando venne a sapere della strage di Titurio si lasciò crescere la barba e i capelli e se li tagliò soltanto dopo averlo vendicato.

( 68 ) Per tutte queste ragioni li rese fedelissimi alla sua persona, ma anche molto coraggiosi. All'inizio della guerra civile i centurioni di ciascuna legione gli offrirono, di tasca propria, l'equipaggiamento di un cavaliere, mentre tutti i soldati si dichiararono disposti a prestare i propri servizi gratuitamente, senza paga e senza rancio: i più ricchi, poi, si impegnarono al mantenimento dei più poveri.

Durante la guerra così lunga nessuno di loro lo abbandonò mai e quelli che furono fatti prigionieri, quando si videro risparmiata la vita se avessero voluto continuare a combattere contro di lui, per lo più rifiutarono.

Quanto alla fame e alle altre privazioni, non solo quando erano assediati, ma anche quando assediavano, sopportavano tutto con tale coraggio che Pompeo, dopo aver visto nelle trincee di Durazzo un tipo di pane fatto con erba, che serviva loro di nutrimento, disse di avere a che fare con bestie, e lo fece subito sparire senza mostrarlo a nessuno.

Temeva che la tenacia e l'ostinazione del nemico scoraggiasse l'animo dei suoi soldati. Con quanto valore combattessero i soldati di Cesare è dimostrato dal fatto che, dopo essere stati battuti una volta presso Durazzo, essi stessi, spontaneamente, chiesero di essere puniti, tanto che il loro generale dovette impegnarsi più a consolarli che a rimproverarli.

In tutte le altre battaglie vinsero facilmente le forze innumerevoli del nemico, anche se erano inferiori per numero. Infine una sola coorte della sesta legione, posta a difesa di un forte, tenne impegnate per alcune ore quattro legioni di Pompeo, benché quasi tutti gli uomini fossero trafitti dalla quantità delle frecce nemiche, delle quali 130000 furono trovate dentro il vallo.

La cosa non sorprende, se si fa attenzione ad alcuni esempi di eroismo individuale come quelli del centurione Cassio Sceva o del soldato semplice Gaio Acilio, per non citarne altri.
Sceva, colpito ad un occhio, trapassato il femore e l'omero, forato lo scudo da centoventi colpi, continuò a difendere la porta del forte che gli era stata affidata.

Acilio, durante la battaglia navale presso Marsiglia, si vide tagliata la mano destra con cui aveva afferrato la poppa di una nave nemica. Imitando allora il mirabile esempio del greco Cinegiro, saltò sulla nave e respinse con la sporgenza dello scudo quanti gli venivano incontro.

( 69 )  I suoi soldati non si ribellarono mai per tutti i dieci anni che durò la guerra contro i Galli; lo fecero qualche volta durante la guerra civile, ma furono richiamati prontamente all'ordine, non tanto per l'indulgenza del comandante, quanto per la sua autorità.

Infatti non indietreggiò mai davanti ai rivoltosi, ma sempre tenne loro testa. In particolare, presso Piacenza, quando Pompeo era ancora in armi, congedò ignominiosamente tutta quanta la nona legione, e ci vollero molte preghiere perché acconsentisse a ricostituirla, e non senza aver punito i colpevoli.

( 70 ) A Roma, quando i soldati della decima legione reclamarono il congedo e le ricompense con terribili minacce e mettendo la città stessa nel più grande pericolo, proprio nel momento in cui la guerra divampava in Africa, egli non esitò a presentarsi davanti a loro, nonostante il parere contrario degli amici, e a congedarli.

Gli fu sufficiente una sola parola, li chiamò «Quiriti», invece di «soldati», per calmarli e dominarli facilmente: gli risposero infatti che erano soldati e che, nonostante il suo rifiuto, spontaneamente lo avrebbero seguito in Africa. Ciò non gli impedì di togliere ai più sediziosi un terzo del bottino e della terra che era stata loro destinata.

( 71 ) Il suo attaccamento ed il suo zelo nei riguardi dei suoi clienti non erano mai venuti meno, nemmeno durante la sua giovinezza. Ci mise tanto entusiasmo a difendere contro il re Iempsale il nobile giovane Masinta che, prendendo da parte Giuba, il figlio di quel re, lo afferrò per la barba, e quando il suo protetto fu dichiarato tributario non solo lo sottrasse a quelli che volevano arrestarlo, tenendolo nascosto per molto tempo in casa sua, ma più tardi, quando, deposta la carica di questore, si accingeva a partire per la Spagna, lo fece passare tra gli amici venuti a salutarlo e tra i suoi littori, e lo condusse nella sua stessa lettiga.

( 72 )  Trattò sempre gli amici con generosità e indulgenza. Una volta, vedendo che Gaio Oppio, suo compagno di viaggio, si era improvvisamente ammalato proprio nel mezzo della foresta, gli cedette l'unico modesto alloggio trovato, e si adattò a dormire per terra, all'aria aperta.

Quando già si era impadronito del potere, elevò alle più alte cariche anche uomini di infima condizione e, poiché di questo lo rimproveravano, dichiarò pubblicamente che se «per difendere il proprio onore avesse dovuto servirsi dell'aiuto di banditi e di assassini, anche a costoro avrebbe dimostrato uguale riconoscenza».

( 73 ) Di pari passo, al contrario, non conservò mai rancori molto profondi e, quando si presentava l'occasione, volentieri li deponeva. Alle violente orazioni di Gaio Memmio contro di lui aveva risposto con non minor livore, e tuttavia più tardi giunse anche a sostenere la sua candidatura al Senato. Per primo, e spontaneamente, scrisse a Gaio Calvo che, dopo averlo diffamato con i suoi epigrammi, aveva chiesto l'aiuto di alcuni amici per riconciliarsi con lui.

Valerio Catullo, con i suoi versi su Mamurra, gli aveva impresso un indelebile marchio di infamia e Cesare ben lo sapeva, ma quando il poeta volle chiedergli scusa, lo invitò a cena il giorno stesso e non cessò, come ormai era abituato, le relazioni di ospitalità con suo padre.

( 74 )  Anche nella vendetta manifestò la bontà della sua indole. Quando fece prigionieri i pirati che lo avevano catturato, poiché in precedenza aveva loro promesso che li avrebbe impiccati, ordinò che prima fossero sgozzati e poi appesi. Una volta, malato e proscritto, con fatica era sfuggito alle insidie notturne di Cornelio Fagita, pagando una somma per non essere consegnato a Silla: tuttavia in seguito non si decise mai a fargli del male.

Lo schiavo Filemone suo segretario, aveva promesso ai suoi nemici di avvelenarlo: egli lo fece mettere a morte, ma non lo torturò. Quando fu chiamato a testimoniare contro Publio Clodio, l'amante di sua moglie Pompcia, accusato, per la stessa ragione, di sacrilegio, dichiarò di non sapere niente, benché sua madre Aurelia e sua sorella Giulia, davanti agli stessi giudici, avessero detto tutta la verità. Quando poi gli chiesero perché mai avesse ripudiato la moglie, rispose: «Perché, a mio avviso, tutti i miei parenti devono essere esenti tanto da sospetti quanto da colpe

( 75 )  Diede prova di moderazione e di ammirevole clemenza, sia nella conduzione della guerra civile, sia nell'uso della vittoria. Pompeo dichiarò che avrebbe considerato nemici tutti quelli che si fossero rifiutati di difendere lo Stato. Cesare proclamò che avrebbe annoverato fra i suoi amici sia gli indifferenti sia i neutrali.

Tutti coloro ai quali aveva conferito i gradi su raccomandazione di Pompeo furono lasciati liberi di passare al nemico. Presso Ilerda, Afranio e Petreio avevano avviato trattative di resa e tra le due armate si erano stabilite fitte relazioni di affari; tutto ad un tratto, presi dai rimorsi, fecero massacrare i soldati di Cesare sorpresi nel loro accampamento.

CESARE DETTA I COMMENTARII
Cesare tuttavia non se la sentì di imitare la perfidia commessa nei suoi confronti. Alla battaglia di Farsalo raccomandò di risparmiare i cittadini, poi concesse ad ognuno dei suoi uomini di tenere un solo prigioniero di parte avversa, a scelta. Nessun pompeiano, dopo la battaglia, fu messo a morte, ad eccezione soltanto di Afranio, Fausto e Lucio Cesare il giovane.

E pare che non siano stati uccisi per sua volontà; i primi due, ad ogni modo, avevano ripreso le armi dopo aver ottenuto il perdono e il terzo, non contento di aver selvaggiamente trucidato col ferro e col fuoco i liberti e gli schiavi di Cesare, aveva anche fatto sgozzare le bestie acquistate per uno spettacolo pubblico.

Infine, negli ultimi tempi, anche tutti coloro ai quali non aveva ancora concesso il perdono, ebbero l'autorizzazione a ritornare in Italia e a esercitare le magistrature e i comandi; fece rimettere ai loro posti le statue di Silla e di Pompeo che il popolo aveva abbattuto. In seguito preferì scoraggiare, piuttosto che punire coloro i cui pensieri e le cui parole gli erano ostili.

Così, quando scoprì congiure e riunioni notturne, si limitò a rendere noto con un editto che ne era al corrente. Nei confronti di coloro che lo criticavano aspramente si accontentò di ammonirli in pubblica assemblea a non insistere troppo. Sopportò con signorilità che la sua reputazione fosse offesa da un violentissimo libro di Aulo Cecina e dai versi particolarmente ingiuriosi di Pitolao.

( 76 ) Purtroppo altri suoi atti e altri suoi discorsi fecero pendere la bilancia a suo sfavore a tal punto da credere che abbia abusato del suo potere e che abbia meritato di essere ucciso. Infatti non solo accettò onori eccessivi, come il consolato a vita, la dittatura e la prefettura dei costumi in perpetuo, senza contare il titolo di «imperatore», il soprannome di «padre della Patria», la statua in mezzo a quelle dei re, un palco nell'orchestra, ma permise anche che gli venissero attribuite prerogative più grandi della sua condizione umana: un seggio dorato in Senato e davanti al tribunale, un carro e un vassoio nelle processioni del circo, templi, altari, statue a fianco di quelle degli Dei, un letto imperiale, un flamine Luperco, con il suo nome venne chiamato un mese e per di più non vi furono cariche che egli non abbia preso e assegnato a suo piacimento.

Del terzo e del quarto consolato tenne soltanto il titolo e si accontentò del potere dittatoriale conferitogli insieme con i consolati, ma in quei due anni designò due consoli supplenti per gli ultimi tre mesi; in tal modo nell'intervallo non indisse altre elezioni se non quelle degli edili e dei tribuni della plebe, e nominò prefetti propretori, incaricati di amministrare la città in sua assenza.

La morte improvvisa di un console, avvenuta il giorno prima delle calende di gennaio, lasciò vacante per qualche ora la carica che subito conferì a chi la chiedeva. Con la stessa disinvoltura, in spregio alla tradizione consacrata, attribuì magistrature per più anni, accordò gli ornamenti consolari a dieci pretori anziani, concesse il diritto di cittadinanza e fece entrare in Senato alcuni Galli semibarbari.

Inoltre affidò il Tesoro e i redditi pubblici ai suoi servi personali. Lasciò la cura e il comando delle tre legioni di stanza ad Alessandria a Rufione, figlio di un suo liberto e suo favorito.

( 77 )  Come scrive Tito Ampio, teneva pubblicamente discorsi che rivelavano non minore imprudenza:
«La Repubblica non è che un nome vano, senza consistenza e senza realtà.»
«Silla, quando rinunciò alla dittatura, fu uno sprovveduto
«Bisogna ormai che gli uomini mi parlino con più rispetto, che considerino legge quello che dico

Arrivò ad un punto tale di arroganza che quando un aruspice annunciò che i presagi erano funesti e le vittime senza cuore, disse che «sarebbero stati più lieti quando lui lo avesse voluto e che non si doveva considerare un prodigio il fatto che una bestia manchi di cuore».

( 78 )  Ma ciò che suscitò contro di lui un odio profondo e mortale fu soprattutto questo. Un giorno tutto il corpo del Senato venne a presentargli un complesso di decreti che gli conferivano i più alti onori: egli lo ricevette davanti al tempio di Venere Genitrice, senza nemmeno alzarsi.

Alcuni dicono che sia stato trattenuto da Cornelio Balbo, mentre tentava di alzarsi, altri invece che non tentò nemmeno, ma che al contrario guardò con aria severa Gaio Trebazio che lo esortava ad alzarsi.

Questo suo modo di comportarsi apparve assolutamente intollerabile e lui stesso, passando su un carro di trionfo davanti ai seggi dei tribuni e vedendo che, di tutto il collegio, solo Panzio Aquila se ne stava seduto, pieno di indignazione gridò: «Tribuno Aquila, richiedimi dunque la Repubblica
Per più giorni, in seguito, quando faceva qualche promessa a qualcuno, non mancò di aggiungere: «Sempre se Aquila lo permette

( 79 )  A così grande disprezzo per il Senato, aggiunse una arroganza ben più grave. Infatti, mentre ritornava dalle feste latine tra acclamazioni eccessive ed insolite del popolo, uno della folla impose sulla sua statua una corona di lauro legata con un nastro bianco; allora i tribuni della plebe Epidio Marullo e Cesezio Flavo ordinarono di togliere il nastro alla  corona e di mettere in prigione l'autore del gesto.

Cesare, però, furente, sia perché l'allusione alla regalità aveva ottenuto così scarso successo, sia perché, come pretendeva, gli era stata tolta la gloria di rifiutare il regno, rimproverò severamente i tribuni e li destituì dalla carica.

Da allora non riuscì più a far cadere il sospetto infamante di aver aspirato anche al titolo di re, sebbene un giorno al popolo che lo salutava con il nome di re, avesse risposto di essere Cesare e non re e durante i Lupercali, davanti ai rostri, avesse rifiutato la corona che il console Antonio, a più riprese, aveva avvicinato alla sua testa; la fece portare, invece, in Campidoglio, nel tempio di Giove Ottimo Massimo.

Inoltre, secondo diverse voci correnti, si accingeva a partire per Alessandria o per Troia, portando con sé le ricchezze dell'Impero, dopo aver spogliato l'Italia a furia di leve e aver affidato agli amici l'amministrazione di Roma; per di più, alla prima seduta del Senato, il quindecemviro Lucio Cotta avrebbe avanzato la proposta di conferire a Cesare il titolo di re, perché nei libri sibillini era scritto che i Parti potevano essere sconfitti solo da un re.

( 80 ) Fu questo il motivo che indusse i congiurati ad attuare il loro progetto, per non essere costretti a dare il loro assenso alla proposta. Allora fusero in un solo i piani, fino a quel momento distinti, che avevano elaborato in gruppi di due o tre persone: anche il popolo non era più contento del regime in corso, ma, di nascosto o apertamente, denigrava il tiranno e reclamava chi lo liberasse.

All'indirizzo degli stranieri ammessi in Senato, fu pubblicato questo biglietto: «Buona fortuna! Che nessuno si prenda la briga di indicare la strada della curia ad un nuovo senatore»; dappertutto, poi, si cantava così: «Cesare conduce in trionfo i Galli, li conduce in Senato; I Galli hanno abbandonato i calzoni e indossato il laticlavio.» Quando in teatro un littore ordinò di annunciare l'entrata di Quinto Massimo, nominato console supplente per tre mesi, tutti gli spettatoti in coro gridarono che quello non era console.

Durante le elezioni che seguirono alla revoca di Cesezio e Marullo si trovarono numerosi voti che li designavano come consoli. Alcuni scrissero sul basamento della statua di Lucio Bruto: «Oh, se fossi ancora vivo!», e su quella dello stesso Cesare: «Bruto fu eletto console per primo perché aveva scacciato i re. Costui, perché ha scacciato i consoli, alla fine è stato fatto re».

Più di sessanta cittadini cospirarono contro di lui, guidati da Gaio Cassio, Marco e Decimo Bruto. I congiurati erano indecisi, in un primo tempo, se assassinarlo al Campo di Marte, durante le elezioni, quando egli avrebbe chiamato i tribuni a votare: allora alcuni lo avrebbero fatto cadere dal ponte, e altri lo avrebbero atteso giù, per sgozzarlo; oppure se assalirlo sulla via Sacra, o ancora mentre entrava in teatro. Quando però fu fissato che il Senato si sarebbe riunito alle idi di marzo nella curia di Pompeo, non ci furono difficoltà sulla scelta di quella data e di quel luogo.

( 81 )  Ma la morte imminente fu annunciata a Cesare da chiari prodigi. Pochi mesi prima, i coloni condotti a Capua, in virtù della legge Giulia, stavano demolendo antiche tombe per costruirvi sopra case di campagna. Lavoravano con tanto ardore che scoprirono, esplorando le tombe, una gran quantità di vasi di antica fattura e in un sepolcro trovarono una tavoletta di bronzo nella quale si diceva che vi era sepolto Capi, il fondatore di Capua.

La tavola recava la scritta in lingua e caratteri greci, il cui senso era questo: «Quando saranno scoperte le ossa di Capi, un discendente di Iulo morrà per mano di consanguinei e ben presto sarà vendicato da terribili disastri dell'Italia.» Di questo episodio, perché qualcuno non lo consideri fantasioso o inventato, ha reso testimonianza Cornelio Balbo, intimo amico di Cesare.

Negli ultimi giorni Cesare venne a sapere che le mandrie di cavalli che aveva consacrato, quando attraversò il Rubicone, al Dio del fiume, e lasciava libere di correre, senza guardiano, si rifiutavano di nutrirsi e piangevano continuamente. Per di più, mentre faceva un sacrificio, l'aruspice Spurinna lo ammonì di «fare attenzione al pericolo che non si sarebbe protratto oltre le idi di marzo».

Il giorno prima delle idi un piccolo uccello, con un ramoscello di lauro nel becco, volava verso la curia di Pompeo, quando volatili di genere diverso, levatisi dal bosco vicino, lo raggiunsero e lo fecero a pezzi sul luogo stesso. Nella notte che precedette il giorno della morte, Cesare stesso sognò di volare al di sopra delle nubi e di stringere la mano di Giove; la moglie Calpurnia sognò invece che crollava la sommità della casa e che suo marito veniva ucciso tra le sue braccia; poi, d'un tratto, le porte della camera da letto si aprirono da sole.

In seguito a questi presagi, ma anche per il cattivo stato della sua salute, rimase a lungo indeciso se restare in casa e differire gli affari che si era proposto di trattare davanti al Senato; alla fine, poiché Decimo Bruto lo esortava a non privare della sua presenza i senatori accorsi in gran numero che lo stavano aspettando da un po', verso la quinta ora uscì.

Camminando, prese dalle mani di uno che gli era venuto incontro un biglietto che denunciava il complotto, ma lo mise insieme con gli altri, come se volesse leggerlo più tardi. Dopo aver fatto quindi molti sacrifici, senza ottenere presagi favorevoli, entrò in curia, passando sopra ogni scrupolo religioso, e si prese gioco di Spurinna, accusandolo di dire il falso, perché le idi erano arrivate senza danno per lui. Spurinna, però, gli rispose che erano arrivate, ma non erano ancora passate.

L'ASSASSINIO DI CESARE
( 82 ) Mentre prendeva posto a sedere, i congiurati lo circondarono con il pretesto di rendergli onore e subito Cimbro Tillio, che si era assunto l'incarico dell'iniziativa, gli si fece più vicino, come se volesse chiedergli un favore: Cesare però si rifiutò di ascoltarlo e con un gesto gli fece capire di rimandare la cosa ad un altro momento; allora Tillio gli afferrò la toga alle spalle e mentre Cesare gridava: «Ma questa è violenza bell'e buona!» uno dei due Casca lo ferì dal di dietro, poco sotto la gola.

Cesare, afferrato il braccio di Casca, lo colpì con il suo stilo, poi tentò di buttarsi in avanti, ma fu fermato da un'altra ferita. Quando si accorse che lo aggredivano da tutte le parti con i pugnali nelle mani, si avvolse la toga attorno al capo e con la sinistra ne fece scivolare l'orlo fino alle ginocchia, per morire più decorosamente, coperta anche la parte inferiore del corpo.

Così fu trafitto da ventitré pugnalate, con un solo gemito, emesso sussurrando dopo il primo colpo; secondo alcuni avrebbe gridato a Marco Bruto, che si precipitava contro di lui: «Anche tu, figlio?», Privo di vita, mentre tutti fuggivano, rimase lì per un po' di tempo, finché, caricato su una lettiga, con il braccio che pendeva in fuori, fu portato a casa, da tre servi.

Secondo il referto del medico Antistio, di tante ferite nessuna fu mortale ad eccezione di quella che aveva ricevuto per seconda in, pieno petto. I congiurati avrebbero voluto gettare il corpo dell'ucciso nel Tevere, confiscare i suoi beni e annullare tutti i suoi atti, ma rinunciarono al proposito per paura del console Marco Antonio e del maestro dei cavalieri Lepido.

( 83 )  Su richiesta del suocero Lucio Pisone, fu aperto il suo testamento che venne letto nella casa di Antonio. Cesare lo aveva redatto alle ultime idi di settembre, nella sua proprietà di Lavico e lo aveva poi affidato alla Grande Vergine Vestale. Quinto Tuberone riferisce che egli non aveva mai cessato, dal suo primo consolato fino all'inizio della guerra civile, di designare come suo erede Cneo Pompeo e che davanti all'assemblea dei soldati aveva letto un testamento concepito in tal senso.

In questo ultimo documento, però, nominò suoi eredi i tre nipoti delle sue sorelle, Gaio Ottavio per i tre quarti, Lucio Pinario e Quinto Pedio per il quarto rimanente; come codicillo dichiarava di adottare Gaio Ottavio, dandogli il proprio nome; molti dei suoi assassini erano designati come tutori dei figli che potevano nascere da lui, mentre Decimo Bruto era presente fra gli eredi di seconda linea. Assegnò al popolo, collettivamente, i suoi giardini in prossimità del Tevere e trecento sesterzi a testa.

( 84 )  Quando venne stabilita la data del funerale, fu eretto il rogo nel Campo di Marte, presso la tomba di Giulia e si costruì in vicinanza dei rostri una cappella dorata sul modello del tempio di Venere Genitrice: all'interno fu collocato un letto d'avorio ricoperto di porpora e d'oro e alla sua testata fu posto un trofeo con gli abiti che indossava al momento della morte.

Poiché il giorno non sembrava abbastanza lungo per permettere la sfilata di tutti coloro che portavano i loro doni, si ordinò che ciascuno, senza osservare nessun ordine, li depositasse nel Campo di Marte, seguendo l'itinerario che preferiva. Durante i funerali furono cantati inni di commiserazione per Cesare e di odio per i suoi assassini, modellati su quelli del «Giudizio delle armi» di Pacuvio: «Li ho forse salvati perché divenissero i miei assassini», ed altri di senso analogo, tolti dall'Elettra di Atilio.

Come elogio funebre il console Antonio fece leggere da un araldo il decreto del Senato con il quale gli erano stati conferiti simultaneamente onori divini ed umani, e nello stesso tempo il giuramento con il quale tutti si erano impegnati a difendere la vita del solo Cesare. A tutto questo, di suo, aggiunse solo poche parole. Il letto funebre fu portato al foro, davanti ai rostri dai magistrati in carica e già usciti di carica.

Alcuni volevano che lo si cremasse nel santuario di Giove Capitolino, altri invece nella curia di Pompeo, ma improvvisamente due uomini con i gladi alla cintura, tenendo due giavellotti tra le mani, appiccarono il fuoco con torce ardenti; subito la folla dei presenti gettò sopra il rogo legna secca, panchetti, i sedili dei giudici e tutti i doni che poteva trovare.

In seguito sonatori di flauto e attori, spogliatisi degli abiti che, già usati in occasione dei trionfi di Cesare, avevano indossato per la presente circostanza, li strapparono e li gettarono sulle fiamme. I veterani delle sue legioni vi gettarono le armi con le quali si erano parati per il funerale. Anche molte matrone gettarono sulla pira i gioielli che portavano indosso e le bolle d'oro e le preteste dei loro figli.

Oltre a queste grandiose manifestazioni di dolore pubblico, le colonie di stranieri, ciascuna a suo modo, espressero separatamente il proprio cordoglio, soprattutto i Giudei che, anche nelle notti successive, si riunirono attorno alla sua tomba.

( 85 )  Appena ebbe termine il rito funebre, la plebe si diresse, con le torce, verso la casa di Bruto e di Cassio; respinta a fatica si imbatté in Elvio Cinna e scambiandolo, per un equivoco di nome, con Cornelio, quello che il giorno prima aveva pronunciato una violenta requisitoria contro Cesare, lo uccise e la sua testa, conficcata su una lancia, fu portata in giro.

Più tardi fece erigere nella piazza una massiccia colonna di marmo di Numidia, alta quasi venti piedi, e vi scrisse sopra: «Al padre della patria». Si conservò per lungo tempo l'abitudine di offrire sacrifici ai piedi di questa colonna, di prendere voti e di regolare certe controversie giurando in nome di Cesare.

( 86 )  Ad alcuni suoi amici Cesare lasciò il sospetto che non volesse vivere più a lungo e che non si preoccupasse del declinare della sua salute. Per questo non si curò né di quello che annunciavano i prodigi né di ciò che gli riferivano gli amici. Alcuni credono che, facendo eccessivo affidamento nell'ultimo decreto del Senato e nel giuramento dei Senatori, abbia congedato le guardie spagnole che lo scortavano armate di gladio.

Secondo altri, al contrario, preferiva cadere vittima una volta per sempre delle insidie che lo minacciavano da ogni parte, piuttosto che doversi guardare continuamente. Dicono che fosse solito ripetere che «non tanto a lui, quanto allo Stato doveva importare la sua salvezza; per quanto lo riguardava già da tempo aveva conseguito molta potenza e molta gloria; se gli fosse capitato qualcosa, la Repubblica non sarebbe certo stata tranquilla e in ben più tristi condizioni avrebbe subito un'altra guerra civile».

( 87 ) Su una cosa tutti furono d'accordo, che in un certo senso aveva incontrato la morte che aveva desiderato. Infatti una volta, avendo letto in Senofonte che Ciro, durante la sua ultima malattia, aveva dato alcune disposizioni per il suo funerale, manifestò la sua ripugnanza per un genere di morte così lento e se ne augurò uno rapido. Il giorno prima di morire, a cena da Marco Lepido, si venne a discutere sul genere di morte migliore ed egli disse di preferire quello improvviso e inaspettato.

( 88 ) Morì a cinquantacinque anni e fu annoverato tra gli Dei, non per formalità da parte di coloro che lo decisero, ma per intima convinzione del popolo. In realtà, durante i primi giochi che Augusto, suo erede, celebrava in suo onore, dopo la consacrazione, una cometa rifulse per sette giorni di seguito, sorgendo verso l'undicesima ora e si sparse la voce che fosse l'anima di Cesare accolta in cielo.

Anche per questo si aggiunse una stella alla sommità della sua statua. Si stabilì di murare la curia in cui era stato ucciso, di chiamare le idi di marzo «giorno del parricidio» e di sospendere in quella ricorrenza i lavori del Senato.

( 89 )  Quanto ai suoi assassini, nessuno gli sopravvisse più di tre anni e nessuno morì di morte naturale. Tutti, dopo essere stati condannati, per un verso o per l'altro, morirono in modo tragico, chi per naufragio, chi in battaglia. Alcuni poi si uccisero con lo stesso pugnale con il quale avevano assassinato Cesare.

BATTAGLIA DI AZIO - ACTIUM - (31 a.c.)

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Dopo l'assassinio di Giulio Cesare nel 44 a.c., era  scoppiata la guerra civile tra, i repubblicani come Bruto e Cassio, e i cesariani, guidati da Marco Antonio e Ottaviano. Marco Antonio, uno dei migliori generali dell'epoca e amatissimo dai suoi uomini, sconfisse i repubblicani nel 42 a Philippi, e iniziò a riorganizzare la metà orientale dell'Impero Romano. Nel frattempo, Ottaviano accettò l'Occidente.

I rapporti tra i due uomini non erano mai stati granchè tuttavia Ottaviano fece sposare sua sorella Ottavia minore a Marco Antonio, che all'inizio si distaccò dalla sua relazione con Cleopatra, regina d'Egitto. Dopo un certo periodo però il generale romano tornò dall'amante egizia e per giunta venne notizia che Antonio volesse lasciare alla regina e ai loro figli, cioè quelli avuti da Antonio e Cesarione figlio di Cleopatra e di Cesare, le terre romane che gli appartenevano.

Ottaviano, che già aveva il senato dalla sua parte, voleva poter dichiarare guerra, ma aveva bisogno di un pretesto. Riuscì in qualche modo a mettere le mani sulle Donazioni di Alessandria che facevano parte del testamento di Marco Antonio e portò il documento in senato. Cedere possedimenti romani a uno straniero era un tradimento. Il senato orripilò, il popolo pure, e fu guerra all'Egitto.



LA BATTAGLIA

Cleopatra e Antonio iniziarono a navigare verso ovest, svernando poi a Efeso. La loro marina consisteva di 230 navi e 50.000 marinai; il loro esercito accoglieva ben 23 legioni (circa 115.000 uomini) oltre alle truppe ausiliarie.

Il piano di Antonio era di attraversare l'Italia, ma l'avanzata venne bruscamente interrotta quando Ottaviano salpò verso est con circa 100 navi sbarcando in Dalmazia. Aveva 24 legioni, ovvero 120.000 soldati. Radunato tale esercito, marciò verso sud, stabilendo una testa di ponte nel Golfo di Acarnanian, immediatamente a nord dell'ingresso.

Intanto il fidato e capace luogotenente di Ottaviano, Marco Vipsanio Agrippa si recò nel Peloponneso occidentale con 300 galee da guerra, occupando diverse posizioni strategiche onde bloccare i rifornimenti dell'immenso esercito di Antonio. Fatto questo, Agrippa navigò verso nord, stabilendo un'altra importante base a Patrasso, quindi si unì a Ottaviano.

Nel frattempo, Antonio aveva raggiunto l'ingresso del golfo di Acarnanian, sperando che Ottaviano avrebbe offerto battaglia, ma non fu così. Antonio occupò la penisola meridionale, chiamato "actio", cioè "promontorio", e fece costruire un ponte verso il promontorio nord, dove installò un secondo campo militare. Ottaviano rifiutò di essere attirato in battaglia perché era conscio che Marco Antonio era un comandante di gran lunga migliore di lui.


La battaglia decisiva fu invece combattuta il 2 settembre del 31 durante il pomeriggio, quando i venti del nord, che sono comuni sul Mar Mediterraneo dovevano essere favorevoli ad Antonio. Ottaviano e Agrippa, rafforzarono le ali della loro marina, perché volevano evitare che Antonio li aggirasse.

A questo punto il centro romano era apparentemente indebolito e Antonio attaccò. Da tenere conto che mentre Antonio era un grande condottiero via terra non lo era via mare, mentre lo era grandemente Agrippa. Infatti, iniziata la battaglia, Lucio Arruntio, che era al comando dell'ala sinistra della flotta di Ottaviano. scompigliò e sconfisse il centro di Antonio, su cui si inserì il centro di Agrippa e Ottaviano formando un varco.

Vedendo che le sorti della battaglia cominciavano a volgersi contro di loro, Cleopatra ebbe paura di venire catturata. Se fosse intervenuta con le sue navi per chiudere il varco, la situazione probabilmente si sarebbe capovolta, invece guidò le sue 60 navi attraverso il passaggio fuggendo per l 'Egitto, ma pure Antonio perse la tasta perchè le corse dietro con 40 navi, lasciando il resto della flotta priva del comandante.

Così la flotta di Antonio, abbandonata e tradita dal suo comandante, coi marinai stanchi e affamati, divenuta inferiore di numero, stremata dalle manovre e con una tempesta in corso non potè fare altro che arrendersi, consegnando ad Ottaviano ben 350 navi.

Lo storico greco Dione offre una drammatica descrizione del modo in cui le navi di Ottaviano, più leggere e più facili da girare, abbiano attaccato le pesanti navi di Antonio gettandogli torce con pece incendiaria con le catapulte, che alla fine incendiarono le navi nemiche.

Dopo aver raggiunto il mare aperto, Antonio e Cleopatra ordinarono di alzare le vele, e andare a sud, beneficiando del crescente vento del nord. Ottaviano aveva vinto e i due amanti si suicidarono ognuno per suo conto.


ESERCITI
OttavianoMarco Antonio
21 Legioni    30 Legioni
400 navi e 80.000 soldati  480 navi e 84.000 soldati


Perdite Perdite
35 navi e 2.500 uomini  400 navi e 5.000 uomini



LA CELEBRAZIONE

La battaglia di Azio è diventata una parte importante della propaganda imperiale, senza però infierire sui due sconfitti, soprattutto su Antonio, in quanto cives romanus. Il poeta Virgilio descrisse con fine poesia i monumenti eretti per commemorare la vittoria di Ottaviano in diverse città.

La vittoria di Ottaviano, o meglio del suo fedele generale Agrippa, costituisce di fatto la fine del dominio del Senato ed ha portato alla nascita dell'Impero Romano. Onorato poi dal senato col nome di Augusto, Ottaviano resse il suo impero per più di quaranta anni, e fu uno degli imperatori più illuminati che mai siano esistiti.

Ottaviano celebrò così un triplice trionfo sulle vittoriose campagne in Dalmazia (37-35 a.c.), ad Azio (31 a.c.) e in Egitto (30 a.c.), per tre giorni di festeggiamenti. Celebrando un trionfo senza precedenti, con il copioso bottino e i numerosissimi prigionieri di guerra sfilati nel suo trionfo.
Le fonti informano che un arco in onore di Ottaviano venne eretto nel Foro dopo la battaglia di Azio, 31 a.c., e la conquista dell'Egitto l'anno successivo, cioè il 30 a.c., in occasione del suo trionfo celebrato il 29 a.c. Quest'arco è infatti conosciuto come "arco aziaco", cioè per il trionfo dopo la vittoria di Azio, che come narra Dio Cassius, era stato eretto nel Forum per decreto del Senato.



In questa moneta c'è l'immagine dell'arco con Augusto che guida una quadriga al pari del Dio Elios, o Apollo che dir si voglia, a cui l'imperatore era molto devoto, ma con cui amava anche identificarsi, tenendo conto che era piuttosto bello.

Forse proprio per questa bellezza nella moneta l'imperatore venne caricaturizzato raffigurandolo con un pronunciatissimo naso che egli non aveva. Sappiamo tuttavia che i romani amavano fare caricature sui loro personaggi di spicco, specie imperatori e generali, soprattutto se ne amavano la figura. La Caricatura era il sorriso benevolo e ammiccante del popolo verso l'imperatore. Infatti Augusto fu amatissimo, durante la sua vita e dopo la sua morte.

VILLA LA TEJADA (Spagna)

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La villa romana di Tejada si trova nel vicino villaggio di Quintanilla de la Cueza (Palencia)Il sito deriva il suo nome della terra in cui è stato scoperto nel 1970. Al momento, i resti archeologici sono protetti da un edificio che, oltre a preservarli, rende possibile la loro visita in modo confortevole e accessibile.

La città risale al II secolo d.c., ha vissuto il suo periodo di splendore a metà del III e IV secolo e ha raggiunto il suo declino e l'abbandono nel V secolo. Il complesso non è stato ancora scavato nella sua interezza. Dal 1995 è bene di interesse culturale.

L'insediamento romano corrisponderebbe a una fattoria agricola a carattere nobiliare che fu scoperta nel 1970. Attualmente è stata eretta una costruzione che lascia in vista la struttura di tutte le stanze e i pavimenti. Fu costruita in epoca tardo-romana e custodisce mosaici particolarmente interessanti con motivi geometrici e figurativi. 

LEDA COL CIGNO
Da segnalare le scene delle “quattro stagioni”, “Nettuno”, “le svastiche” e “i nodi di Salomone”. Possiede inoltre uno dei migliori sistemi d’ipocausto (sistemi sotterranei di riscaldamento)

A La Tejada è possibile visitare una vasta gamma di sale decorate con pavimenti a mosaico e dotate di un sistema di riscaldamento a pavimento (hipocaustum), che riflette il lusso e il comfort esistenti in questa parte dell'Impero durante un periodo di occupazione che va dal I al V secolo d.c.


Tuttavia sebbene questo sito sia menzionato come villa romana o sfruttamento agricolo del tardo impero romano, le strutture che lo compongono e la sua grande estensione, fanno pensare a molti, almeno per i resti visibili attualmente, che potrebbe trattarsi di un complesso termale relativo a una "mansion".

Sarebbe cioè una locanda o un albergo, insomma un alloggio dei viaggiatori in transito attraverso la vicina strada romana che collegava Burdigala (Bordeaux) con l' Asturia (Astorga).


L'alloggio non sarebbe però di umile condizione, visto che usufruisce di ottime terme con grandi e costosi mosaici.

L'area scavata mostra solo una parte minima dell'estensione totale. L'area dei resti di epoca romana come la strada romana Aquitana ancora conservati in Calzadilla.

Attualmente, è possibile visitare i resti di tre diverse aree di costruzione:

- Tredici stanze disposte su un asse nord-sud con muri in calcare in muratura alternati a
file di mattoni.

- Un ampio corridoio coperto orientato da est a ovest, nella cui area settentrionale ci sono
altre sei stanze pavimentate con mosaici e un'altra serie di stanze forse utilizzate per lo
stoccaggio.


I mosaici figurativi mostrano scene mitologiche, come:
  • il tema di Leda e del cigno; 
  • il Dio Oceano circondato da delfini e altri pesci; 
  • le quattro stagioni; 
  • Nettuno e Anfitrite 
  • il Mosaico dei Pesci in cui le diverse specie sono rappresentate all'interno di un complicato schema geometrico.

La città fu saccheggiata molto nel Medioevo, muri, fondamenta, pietre, mattoni, in un
modo molto curioso, perchè i vari mosaici non vennero mai toccati, così come uno dei più antichi sistemi di riscaldamento sotterranei in Spagna, ovvero l'ipocausto.

Data la grande estensione della villa, secondo alcuni si tratterebbe di un importante lupanare, secondo altri  di una villa con un grande latifondo di un importante militare. Per altri ancora si tratterebbe dei bagni o delle terme di una grande casa romana, che sarebbe vicina ma non è stata ancora scoperta.

Le stanze principali sono decorate con dipinti murali di temi geometrici, piante o imitazioni di marmi in vari colori. Per quanto riguarda i mosaici, quelli con temi geometrici presentano eleganti motivi
decorativi di nodi di Salomone, disegni a scacchi, svastiche, nastri intrecciati, ecc.

Anche se ben poco è rimasto dell'edificio, vi si possono però ammirare ben 20 mosaici, di notevoli dimensioni e tutti ben conservati. Resta un mistero la ragione per cui nessuno abbia pensato a sottrarli.

Viene da pensare che da un lato non esistessero più le maestranze in grado di ricollocarli, e dall'altro lato che forse erano rimasti totalmente ricoperti di terra o quasi. Accanto ai mosaici a colori si sono reperiti anche grandi e bei mosaici a tessere bianche e nere.



PORTA NAVALIA - NAVALIS

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NAVI DA GUERRA ROMANE A SECCO NEI NAVALIA
Con il termine “navalia” i Romani indicavano tanto le strutture specializzate che avevano funzione di arsenale, quanto la base navale della flotta romana. Come accade anche oggi, l'arsenale provvede alle manutenzioni ed alle riparazioni delle navi, mentre la base navale accoglie le unità della flotta al rientro dalla loro attività in mare.

Qui pertanto avveniva il rimessaggio di tutte le navi, che venivano tirate a secco sugli scali d’alaggio coperti che conosciamo attraverso varie rappresentazioni iconografiche antiche: quelle che mostrano una serie di archi sotto ai quali spuntano le prore rostrate delle navi.

Talvolta negli scali venivano impostate nuove costruzioni navali, dando ai navalia anche la funzione di cantieri navali, ma come funzione accessoria e non esclusiva. Sappiamo infatti che nell'antichità intere flotte potevano essere costruite anche su scali di fortuna sistemati su di una spiaggia marina, o sul greto di un fiume, o sulla riva di un lago, purché in vicinanza di una foresta da cui trarre i legnami necessari.

RICOSTRUZIONE DEI NAVALIA

L'ABILITA' DEI CANTIERI ROMANI
"Le capacità tecnico-meccaniche dei romani, apprese spesso dai popoli vinti ed elaborate successivamente ‘dall’Impero’ a livelli mai visti prima. Acquisizioni che superano, a volte, abbondantemente, tecniche e tecnologie manifestate sia da Leonardo che da tutto il Nostro Rinascimento, arrivando ad equipararsi a quelle di concezione Ottocentesca".
(Mario Palmieri)

La posizione dei Navalia appare confermata dal racconto del ritorno a Roma della trireme recante il simbolo di Esculapio prelevato ad Epidauro (291 a.c.): quando la nave giunse al proprio approdo, il sacro serpente si tuffò nel fiume per raggiungere la vicina isola Tiberina, ove andava eretto il tempio del Dio.

Le prime notizie storiche sulle abilità costruttive delle navi romane vengono menzionate all'inizio con la cattura delle navi di Anzio (340 a.c.), che vennero in parte immesse nei già esistenti Navalia di Roma.

Ancor più capaci, nella I guerra Punica, quando i Romani misero in cantiere la loro prima grande flotta di quinqueremi, replicando lo scafo di una nave cartaginese arenata, o magari avvalendosi di maestranze di popoli alleati. Ma i migliori fabbricanti erano però proprio i cartaginesi.

I fabri navales romani costruirono una quinquereme molto più veloce e di facile manovra, evolvendosi con progressi costanti, e giungendo, in epoca imperiale, a livelli di indubbia eccellenza, sia per la quantità delle navi varate, sia per la qualità del naviglio.

Ne avemmo la prova con i relitti delle due gigantesche navi di Nemi, recuperate dal lago negli anni ’30 e poi purtroppo incendiate durante la guerra. Per fortuna ci fu il tempo di sottoporre quegli scafi a dei rilevi alquanto accurati, che hanno fornito l’evidenza della perfezione tecnica raggiunta dall’architettura navale romana, delle innovazioni tecnologiche introdotte a bordo e della raffinatezza degli allestimenti.

Lo dimostrano a tutt'oggi il Museo Nazionale Romano, nel Palazzo Massimo (primo piano, Sala X) a Roma, ed il Museo delle Navi Romane di Nemi, sulla riva settentrionale del lago.


LA NAVE DI ENEA

Una parte dei Navalia risulta ancora presente nel VI sec. d.c., tanto che lo storiografo bizantino Procopio di Cesarea vi si recò e poté ammirarvi un'antichissima nave, conosciuta come la "Nave di Enea". L’ampio edificio che la custodiva era un’arcaica pentecontera, che ne costituì il primo museo navale dell'Urbe.

La pentecontera era una nave sospinta sia dalla vela che dalla voga e fu la prima imbarcazione adatta alle lunghe navigazioni. Il suo nome deriva proprio dai cinquanta vogatori disposti, venticinque per lato e in un unico ordine, sui due fianchi della nave. L'esemplare più famoso appartiene al mito: la nave Argo e i suoi (circa) cinquanta Argonauti.


LA PORTA NAVALIS
I Navalia di Roma furono collocati sulla riva sinistra del Tevere, lungo la sponda del Campo Marzio, in un primo tempo di fronte all'isola Tiberina, poi si estesero giungendo fino all'altezza del ponte Elio (ora S. Angelo), quindi al di fuori delle mura repubblicane.

Dopo la risistemazione dell'antica cinta muraria di Roma, avvenuta nel III sec. a.c., il tratto delle vecchie mura parallelo al fiume fra le pendici del Campidoglio e quelle dell'Aventino (lasciando fuori dalle mura il Portus Tiberinus) venne abbattuto. 
Perciò le mura interrotte vennero prolungate fino alla più vicina riva del fiume, e cioè dal Campidoglio al Tevere (all'estremità nord del porto fluviale) e dall'Aventino al fiume (all'altezza del Ponte Sublicio). Così il Portus Tiberinus venne inglobato nella cinta muraria di Roma, mentre i Navalia continuarono a rimanerne fuori.

Per consentire poi il passaggio dal porto ai Navalia, venne aperta una porta nel tratto di mura più vicino al fiume: la "Porta Navale", ricostruita poi all'epoca di Augusto: il relativo arco era probabilmente ancora visibile nei pressi del Teatro di Marcello fino al XV secolo, come dimostra una stampa dell'epoca. La Porta viene menzionata nel II sec. d.c., dal grammatico Sesto Pompeo Festo come Navalis porta.
"Si ha in Festo che li Navalia avevano vicina una porta che da essi prese il nome di Navale: 'Navalis porta item Navalis regio videtur utraque ab Navalium vicinia appellata' così sembra evidentissimo che questa porta del Trastevere equivalente alla Portuense fra i Navali ed il ponte Sublicio debba dirsi Navalis e non Mutia."
(Stefano Piale Romano - Delle Mura Aureliane di Roma - 1822)

Nel 44 a.c., alla morte di Giulio Cesare “i Navalia ed altri luoghi furono colpiti da fulmini”. Questa notizia è stata da taluni interpretata come la fine del porto militare di Roma, dando per scontato che la folgore avesse provocato un incendio devastante. 
In realtà quello non è un funesto annuncio, ma l’evento più innocuo fra una serie di sciagure segnalate alla morte di Cesare e che Giulio Ossequente ha tratto da Livio per compilare il suo libro dei “Prodigi”: terremoti, trombe d’aria, tetti scoperchiati, alberi sradicati, una grande stella, tre soli, una cometa e luce affievolita per molti mesi. Se i Navalia fossero andati a fuoco, Livio l’avrebbe scritto e Ossequente non l’avrebbe certamente taciuto.
Alla fine dello stesso anno Cicerone, nel redigere il suo ultimo trattato filosofico, includeva i Navalia fra le opere di pubblica utilità sulle quali lo Stato doveva a giusto titolo investire nell'interesse dell'Urbe.
TRIREME ROMANA CON SERPENTE SACRO

IL TEMPIO DI NETTUNO

Non lungi dalla Porta stava il Tempio di Nettuno, collocato tra il Campo Marzio ed il Circo Flaminio; orientato in direzione dei Navalia per il collegamento con la flotta da guerra romana, prevalentemente basata nell’Urbe nei secoli dal IV al II a.c. e poi più distaccata per esigenze di Stato.

E' evidente il collegamento tra le navi romane e la protezione del Dio del mare affinchè compissero illese i loro viaggi e che soprattutto uscissero vincitrici nelle battaglie. Nella religio romana, molto razionale e organizzata, funzionava un sano "DO UT DES", uno scambio tra uomini e divinità che potevano mantenersi o diventare protettrici e benevolenti, o almeno cessare di essere ostili, attraverso sacrifici di animali e cerimonie particolari.

NAVALIA

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RICOSTRUZIONE DEI NAVALIA
I "Navalia" romani erano un insieme di arsenale, cantiere navale e base della flotta militare di Roma, collocati sulla sponda sinistra del fiume Tevere, in Campo Marzio, che con la divisione augustea in regioni entrò nella Regio IX Circus Flaminius. Le prime notizie storiche sulle costruzioni navali, e pertanto sui navalia, iniziano con la cattura delle navi di Anzio (340 a.c.), che vennero in parte immesse nei Navalia di Roma già esistenti all'epoca.
I rinvenimenti di opere murarie in calcestruzzo con volte a botte (le più antiche rinvenute a Roma), databili al II secolo a.c., lungo la sponda sinistra del Tevere riportano ai Navalia, ambienti coperti con elevazione del tetto in corrispondenza dei luoghi di ricovero delle navi.


ANTONO NIBBY

"La porta del Palatino di Ovidio è la stessa della porta Mugonia di Dionisio, e questa porta fu dove Romulo cominciò il solco, e per conseguenza verso il Foro Boario, è da stabilirsi verso il Tevere, ed i Navalia, e per conseguente non lungi dall'angolo formato dalle mura del secondo recinto con quelle del recinto primitivo, di qua dal carcere del Circo Massimo."

LA POSIZIONE

LA STORIA

I Navalia, antico porto militare romano, furono edificati sulla sponda del Tevere al principio dell'Età repubblicana, presso l'isola tiberina, in un'area che per altro rimase sgombra di edifici fino all'età augustea e di cui qualche resto archeologico venne scoperto verso la fine dell’800.

La posizione originaria dei Navalia appare evidente dal racconto del ritorno a Roma della trireme recante col simbolo Esculapio prelevato ad Epidauro (291 a.c.): quando la nave giunse al proprio approdo, il sacro serpente si tuffò nel fiume per raggiungere l'isola Tiberina, ove doveva erigersi il tempio del Dio.

Venne scelto appunto il sito dell'isola tiberina perchè nell’ansa a monte dell’isola il fiume formava sulla riva sinistra una spiaggetta di sabbia che servì agevolmente fin dall’epoca arcaica a tirare a secco, con l'ausilio di scivoli di legno e coperture, le prime penteconteri usate dai Romani dal VI sec. a.c.

Le strutture dei navalia non erano comunque progettate per il rimessaggio delle navi onerarie (da carico), ma solo per quelle "lunghe" da guerra che, per poter essere sufficientemente veloci avevano uno scafo alquanto leggero, che rischiava di essere seriamente danneggiato dalle teredini (molluschi divoratori di legno) se mantenuto troppo a lungo immerso in acqua.

LA POSIZIONE ODIERNA DEGLI ANTICHI NAVALIA
I navalia erano costituiti da una serie di scali d’alaggio coperti, sui quali le imbarcazioni venivano tirate a secco, con l'accortezza che la prora fosse rivolta verso l’acqua per ripartire velocemente. La velocità per terra come in mare era fondamentale per le battaglie dei romani.

Vennero citati da Tito Livio quando riporta che nel 338 a.c. le navi catturate agli Anziati (abitanti di Anzio e Nettuno) nel corso della battaglia del fiume Astura, furono in parte bruciate e in parte condotte a Roma nei Navalia.

Alla foce dell’Astura esisteva infatti un approdo collegato alla Via Severiana ed in questa zona erano sorte molte ville tra cui una di Cicerone (che aveva almeno 8 ville). Sui resti di una villa romana in parte realizzata su un’isoletta artificiale e munita di una grande peschiera ancora visibile, intorno al 1200 la Famiglia Frangipane aveva costruito una torre con un recinto di difesa contro i Saraceni, collegata alla riva da un ponte in mattoni.

Nel III secolo a.c., quando furono risistemate le Mura Serviane verso il Tevere, il Portus Tiberinus fu incluso nella nuova cinta, mentre i Navalia rimasero all'esterno. Per consentirne l'accesso dalla città fu aperta nella cinta muraria la Porta Navalis, citata da Sesto Pompeo Festo nel II secolo d.c. e probabilmente visibile fino al XV secolo vicino al teatro di Marcello.

Le Navalia di Roma vennero ampliate in occasione della I guerra Punica, data la necessità di navi per poter affrontare la potente flotta cartaginese. Nel 261 a.c. con l’avvio della costruzione delle prime cento quinqueremi, per poi aumentarle fino a un massimo di 350 unità, in seguito ridotte di nuovo a 200-300 navi. Le flotte romane si avvalsero poi di 200 quinquiremi nella successiva guerra Illirica e di 220 all’inizio della II guerra Punica.

NAVE PENTECOTERA
I Navalia dell’Urbe non erano gli unici cantieri romani ma vennero ampliati in modo tale da poter accogliere almeno un centinaio di navi, successivamente poi i navalia si estesero verso nord, lungo la riva del Campo Marzio, fino a dove venne costruito l’antico ponte Neroniano (i cui resti sono tuttora visibili a valle dell'odierno ponte Vittorio). Giustamente riferisce Tito Livio che sorgessero di fronte ai "Prata Quinctia", terreno collocato da Plinio il Vecchio “in Vaticano.”

Tra IV e II secolo a.c. i Navalia ospitarono la flotta militare romana, mentre, in seguito, vi si ormeggiavano solo navi presenti a Roma per esigenze dello Stato.Nel VI secolo d.c., lo storico bizantino Procopio di Cesarea (490 - 565) visitò i Navalia ancora esistenti e vi poté vedere una nave molto antica, che era tradizionalmente chiamata Nave di Enea.

L'arsenale provvedeva alle manutenzioni ed alle riparazioni delle navi, ma anche di accogliere le unità della flotta al loro rientro dall'attività operativa. Qui si operava il rimessaggio delle navi, che venivano tirate a secco sugli scali d’alaggio coperti (di cui abbiamo varie rappresentazioni iconografiche, con una serie di archi sotto ai quali spuntano le prore rostrate delle navi).

A volte sugli scali si procedeva a nuove costruzioni navali, con funzione di cantieri navali, ma non era l'attività principale. Infatti i romani costruirono intere flotte anche su scali di fortuna sistemati su una spiaggia marina, o sul greto di un fiume, o in riva a un lago, purché vicino a una foresta per il legname necessario. 

I Navalia di Roma erano collocati sulla riva sinistra del Tevere, lungo la sponda del Campo Marzio, dapprima nel tratto più a valle di quella riva, cioè di fronte all'isola Tiberina, poi si estesero più a monte, fino all'altezza del ponte Elio (ora S. Angelo).

I Navalia erano al di fuori delle mura repubblicane e nel III sec. a.c., il tratto delle mura parallele al fiume fra le pendici del Campidoglio e quelle dell'Aventino (lasciando fuori dalle mura il Portus Tiberinus) venne abbattuto. Pertanto le mura interrotte vennero prolungate fino alla più vicina riva del fiume, e cioè dal Campidoglio al Tevere, all'estremità nord del porto fluviale, e dall'Aventino al fiume, all'altezza del Ponte Sublicio.

RAPPRESENTAZIONE DEI NAVALIA IN UN MOSAICO CONSERVATO NEI MUSEI VATICANI
Così il Portus Tiberinus venne inglobato nella cinta muraria di Roma, mentre i Navalia continuarono a rimanerne fuori. Tuttavia, per consentire il passaggio dal porto ai Navalia, venne aperta una porta, detta 'Porta navale' nel tratto di mura più vicino al fiume, ben conosciuta nel II sec. d.c., come riportato dal grammatico Sesto Pompeo Festo che parla della Navalis porta.

Questo assetto augusteo beneficiava dunque di un arco ancora visibile nei pressi del Teatro di Marcello fino al XV secolo, come desunto da una stampa d'epoca. Non lontano c'era il Tempio di Nettuno, tra il Campo Marzio ed il Circo Flaminio, direzionato verso i Navalia il cui culto fosse era collegato alla flotta da guerra romana.

Una parte dei Navalia risulta ancora presente nel VI sec. d.c., come riporta lo storiografo bizantino Procopio di Cesarea che vi si recò e poté ammirarvi un'antichissima nave conosciuta come la "Nave di Enea" antesignano di tutti i musei dell'Urbe.

Ma i romani organizzarono e coordinarono molti altri cantieri sulle rive di fiumi navigabili, soprattutto nel bacino del Tevere, sempre presso i boschi per reperire il legno, come testimonia un cantiere individuato in un canale scavato nella roccia presso la riva del fiume Nera, vicino a Narni.

I Navalia, dato il loro notevole ampliamento, furono in grado di accogliere, al termine della III guerra Macedonica (167 a.c.), le grandi navi catturate al re Perseo, oltre a quelle romane usate nel conflitto e a quelle della concomitante III guerra Illirica.

Successivamente venne edificato sul Tevere il vastissimo edificio in opus incertum detto Porticus Aemilia: 50 ambienti lunghi e stretti in pendenza e in direzione del Tevere, per cui doveva trattarsi di altri navalia, utilizzati per circa un secolo, forse come arsenale, prima della riconversione per usi commerciali.

TRIREME ROMANA

MORTE DI CESARE

Nel 44 a.c. “i Navalia ed altri luoghi furono colpiti da fulmini”. La notizia venne interpretata come la fine del porto romano a seguito di un incendio devastante. In realtà fu uno dei prodigi meno funesti segnalati alla morte di Cesare: terremoti, trombe d’aria, tetti scoperchiati, alberi sradicati, una grande stella, tre soli, una cometa e luce fioca per mesi. Se i Navalia fossero andati a fuoco, Livio e altri l’avrebbero scritto.



AUGUSTO

Augusto non ridusse le grandi forze navali che avevano combattuto ad Azio ma le suddivise fra tre nuove basi: Miseno, Ravenna e Forum Iulii (Fréjus). I Navalia dell’Urbe pertanto non furono più la base navale principale della flotta romana, ma rimase un contingente a protezione della foce del Tevere. 

In epoca augustea anche i Navalia e la Porta Navale che dava accesso ai Navalia provenendo dal Portus Tiberinus vennero ornati di marmi come molti edifici romani. Sembrerebbe di quest'epoca un edificio tetrastilo, di forma allungata e con volta a botte come uno degli scali d’alaggio dei Navalia posto su di un podio nell’area del porto, lungo la riva del Tevere all'altezza del Circo Flaminio. 

Sembra fosse una specie di museo dove era esposta, a ricordo delle antiche origini della potenza navale romana, una pentecontore che aveva contribuito alla vittoria di Azio. Un orgoglio romano ma pure una propaganda all'imperatore vittorioso sui nemici di Roma.

La successiva presenza di due flotte praetorie che proteggevano gli imperatori in guerra o in viaggio fanno presupporre che per diversi secoli i Narvalia proseguirono la loro funzione, soprattutto di mantenimento dell'efficienza delle navi romane da guerra.

CULTO DI PUDICITIA

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PUDICITIA AUGUSTA
Pudicizia (lat. Pudicitia), che sembra fosse denominata "Pudicitia Patrizia" in quanto riservata alle donne patrizie, era la Dea romana che presiedeva alla castità coniugale, soprattutto a quella delle patrizie e sposate una sola volta (univirae) con un patrizio, a cui era dedicato un tempio nel Foro Boario (da identificarsi forse quello della Fortuna); ma pure uno situato sul colle Quirinale, lungo il Vicus Longus, equivalente all'attuale via Nazionale, dedicato alla "Pudicitia Plebeia" (pudicizia plebea).

Sembra che il culto sia derivato dalla Grecia, visto che la Dea Pudicizia fu addirittura la maggiore divinità di Argo, la Dea poliade (Era argiva), cioè protettrice della comunità, come Dea Matrona (corrispettivo di Dio Patrono); e qui fu elevata al grado di moglie di Zeus (mentre a Dodona tale fu considerata Dione).

A Roma i due templi, come già specificato, avevano una dedica diversa: uno alla Pudicizia Patrizia ed un altro alla Pudicizia Plebea e secondo una tradizione narrata da Livio (X, 23) lo sdoppiamento sarebbe avvenuto perché avendo una fanciulla patrizia, di nome Virginia, nel 297 a.c. sposato un plebeo, Lucio Volumnio Flamma Violente, eletto console nel 307 a.c., era stata estromessa dal tempio perdendo così la partecipazione al culto.

Contrariata di essere stata esclusa dalle matrone, Virginia fece costruire un altro tempio a sue spese dedicandolo alla Pudicizia plebea. Sembra però che il tempio non avesse una grande fortuna (secondo alcuni lo aveva fatto edificare nella sua casa, o accanto ad essa) anche perchè venne aperto anche a donne che non erano un esempio di pudicizia.

Così il suo tempio cadde in disuso ma Festo nel II secolo d.c. citava il culto come ancora esistente ai suoi tempi, per cui forse si trattava di una falsa notizia diffusa da uno storico aristocratico. Il gesto di Virginia era una rottura delle tradizioni, in quanto deciso da una donna e per giunta plebea.

IULIA DOMNA MOGLIE DI SETTIMIO SEVERO, RITRATTA CON LA DEA PUDICITIA
Secondo alcuni studiosi questo tempio potrebbe essere semplicemente l'ara Pudicitiae cui accenna la moneta di Plotina, ma non ci sono prove di ciò, anche perchè Livio parla di tempio e non di ara. Sembra che questo tempio non incontrasse molte simpatie.

Durante l'epoca augustea il culto della Pudicizia fu associato a quello della famiglia imperiale e perciò ai buoni costumi di Livia, esempio di pudicizia e modestia, e si ebbero così  monete dedicate alla Pudicitia Augusta e alla Pudicitia Augustorum (pudicizia degli augusti).

Ciò rientrava nel vasto piano di propaganda dove Augusto doveva apparire un esempio di virtù, di concordia, di equità, di pace (apportata con la pacificazione dell'impero), di felicità (dei cittadini conseguente al buon governo), di salute (del popolo sempre grazie al buon governo) e pure di pudicizia da parte di Livia, l'esemplare moglie di Augusto.

Ai tempi di Traiano si ebbe anche l'ara dedicata alla diva Plotina, moglie di Traiano, che si manteneva, più che casta, astinente, essendo noto che Traiano fosse decisamente omosessuale e che Plotina non cercò amori al di fuori del matrimonio. Traiano le era molto grato di questo sacrificio e la apprezzava anche come persona anche se Plotina ebbe sempre un aspetto triste, almeno nei suoi ritratti e si può capire perchè.


CORNELIO NEPOTE - CORNELIUS NEPOS

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CORNELIO NEPOTE

Nome: Cornelius Nepos
Nascita: 100 a.c. Hostilia
Morte: 27 a.c. Roma
Professione: Storico e biografo


CORNELIUS NEPOS cioè Cornelio Nepote (il prenome non è stato tramandato) nacque ad Hostilia, presso le banchine del Po o comunque nei dintorni di Pavia intorno al 100 a.c. Le notizie riguardanti la sua vita sono poche e lacunose: della sua discendenza non abbiamo notizie; ma dato le sue rispettabili conoscenze fin in giovane età, è probabile che fosse di buona estrazione.

Sappiamo solo che visse Roma e, pur tenendosi sempre lontano dalla politica, rivestì posizioni di prestigio negli ambienti colti dell'Urbe. Ebbe stretti rapporti di amicizia con Attico, Cicerone e Catullo, il quale gli dedicò il suo Liber (Carme I):

A chi potrei donare il grazioso e nuovo libricino
or ora levigato con la ruvida pomice?
A te, o Cornelio: infatti tu eri solito
ritenere che le mie "nugae" avessero un qualche valore
già allora, sei l'unico fra gli Italici che osa
svolgere un compendio di storia universale in tre libri
dotti, o Giove, e faticosi.
Perciò abbi tutto quanto contiene questo libretto,
qualunque sia il suo valore; che ciò, o Musa,
possa vivere durevolmente per più di una generazione.

(Catullo)

Alcuni autori riferiscono che avrebbe tre libri di Cronache, con un resoconto biografico di tutti i più famosi sovrani, generali e scrittori dell'antichità. Morì in un anno imprecisato durante il principato di Augusto.

Egli è l'autore della raccolta di biografie più antica tra quelle pervenuteci dal mondo Romano, il suo linguaggio è puro, il suo stile scorrevole, con una giusta misura tra descrizione ampia e concentrazione. Non si è attenuto alle stesse regole per il trattamento di ogni soggetto trattato; per alcuni la descrizione della loro vita è corta, tanto da far sospettare che sia stata mutilata, se non contenessero segni evidenti del loro completamento concentrato.

Il valore degli uomini non è lo stesso per tutti: "Costoro se non avranno imparato che le stesse cose non sono buone e cattive per tutti, ma che tutto giudicato secondo le tradizioni degli antenati, non si meraviglieranno che noi nell'esporre le qualità dei Greci abbiamo seguito i loro costumi. Infatti non fu brutto per Cimone, sommo uomo degli Ateniesi, avere in matrimonio la sorella germana, poiché i suoi concittadini usavano la stessa istituzione. 
In Creta si ritiene di onore per i giovani aver avuto tantissimi amanti. A Sparta nessuna vedova tanto nobile che non esca ad un pranzo se non pagata con denaro. In grandi onori per tutta la Grecia fu essere proclamati vincitore ad Olimpia; ma uscire in scena ed essere di spettacolo al popolo nelle stesse popolazioni per nessuno fu di disonore. Ma tutte queste cose presso di noi in parte sono ritenute infamia, in parte basse e lontane dall'onore. 
Al contrario per lo più quelle cose sono decorose per le nostre tradizioni, che presso di loro sono considerate disdicevoli. Chi infatti dei Romani si vergogna di portare la moglie ad un banchetto? O la madre di famiglia di chi non detiene il primo posto della casa e non si intrattiene in pubblico? Ma questo accade diversamente in Grecia. Infatti né si introduce ad un banchetto se non di parenti, e non siede se non nella parte interna della casa, che si chiama gineceo; dove nessuno accede se non congiunto da stretta parentela."

Dei suoi numerosi lavori bibliografici, a carattere enciclopedico, probabilmente in 16 libri, "De Viris Illustribus", del 34 a.c., ce ne restano purtroppo solo 22, che sono tutti di personaggi valorosi e meritevoli del mondo antico, tra cui condottieri, storici, poeti e grammatici, e solo.greci, eccetto due cartaginesi: Amilcare e Annibale; e due romani Marco Porcio Catone e Tito Pomponio Attico. Dei personaggi esegue una trattazione parallela derivata forse dalle "Imagines" di Varrone e ripresa, in seguito, nelle "Vite" di Plutarco.

Della sua stessa vita, la vita di colui che ha scritto la vita di tanti, non viene trasmesso alcun racconto; ma dalla molteplicità delle sue produzioni, possiamo concludere che era dedicato alla letteratura. Dell’opera ci restano numerosi frammenti: 2 vite (Catone il Vecchio e Attico) del "De historicis latinis" e l’intera sezione "De excellentibus ducibus exterarium gentium" (22 biografie di condottieri greci, asiatici e cartaginesi). L’autore esegue un confronto sistematico fra civiltà greca e romana, ma privo di nazionalismi.


Opere minori

- I "Chronica" (l'opera citata da Catullo), un breve compendio di storia universale in 3 libri probabilmente d'ispirazione greca, storia universale in 3 libri, forse in prosa, in cui - ispirandosi all'opera di Apollodoro di Atene - già affiorava l’esigenza di un confronto tra la civiltà romana con le altre
- Gli "Exempla", una raccolta di aneddoti e curiosità di vario genere che spaziavano dalla storia alla scienza, in 5 libri, a sfondo moraleggiante.
- "Vita di Catone il Vecchio", una completa biografia di catone il Censore, da cui Aulo Gellio trasse un aneddoto di Catone (IX 8) 
- "Vita di Cicerone" Il libro deve essere stato scritto dopo la morte dell'oratore.
- Lettere a Cicerone, un estratto che sopravvive in Lattanzio. (Divinarum Institutionum Libri Septem III.15). Non sappiamo quando sia stato pubblicato..

Le biografie, secondo alcuni, intenderebbero rappresentare per il mondo romano, specie per quello più tradizionalista, un'apertura verso elementi culturali diversi, per dimostrare delle "convergenze etiche" tra mondo romano e greco.

RE AGESILAO GIOCA CON I SUOI FIGLI

I BRANI

UN UOMO RISPETTOSO DELLA RELIGIONE (AGESILAO)

Agesilao preferì la buona reputazione ad un regno molto potente e ritenne molto più glorioso, obbedire alle istituzioni della patria, che superare tutta l'Asia. Con questo animo allora portò le truppe oltre l’Ellesponto e ebbe tanta rapidità che in trenta giorni compì il tragitto che Serse aveva compiuto in tutto un anno.

Quando ormai si trovava poco distante dal Peloponneso, gli Ateniesi ed i Beoti tentarono ostacolarlo presso Coronea; egli li vinse tutti in un’aspra battaglia. Poiché moltissimi in fuga si rifugiarono nel tempio di Minerva ed i soldati gli chiedevano cosa volesse fare di loro, sebbene avesse ricevuto in battaglia alcune ferite e sembrasse adirato verso tutti coloro che si rifugiavano nel tempio, ordinò di perdonarli ed antepose il sentimento religioso all’ira.

E in verità non fece questo solo in Grecia, ma anche presso i barbari risparmiò, con grandissimo rispetto, i templi e le statue degli Dei. Infatti si meravigliava che non fossero nel novero dei sacrileghi e che non fossero accusati di empietà coloro che avessero recato danno a coloro che supplicano gli Dei o che coloro che offendevano la religione non venissero colpiti con pene più gravi di coloro che spogliavano i luoghi sacri.



AGESILAO E I MESSENI

Agesilao, re degli Spartani, conducendo l'esercito in Messenia, affinché con la potenza degli Spartani respingessero i Messeni, che venivano via dall'ordine di Sparta, mandarono avanti i cavalieri per esplorare i luoghi ed esaminare le intenzioni degli abitanti.

Andati ad Agesilao annunciarono che non solo gli uomini avrebbero preso le armi per la guerra ma anche donne, vecchi e servi, ai quali, se avessero combattuto valorosamente, avevano promesso la libertà.

Allora Agesilao, conosciute le intenzioni dei Messeni, affinché non conducesse i suoi soldati in pericolo, si ritirò dalla regione. Sa infatti che i Messene, perdendo ogni speranza per la vita e combattendo per la libertà, combatteranno per ciò con maggior forza.



ALTRE IMPRESE DI AGESILAO

Questo quando aveva in mente di partire contro i Persiani, ad Agesilao fu inviato dagli efori un messaggio, perché sia gli Ateniesi che i Beoti avevano dichiarato guerra agli Spartani.

Agesilao aveva grande fiducia sulla riuscita della guerra, poiché comandava truppe valorose e valide, ma dimostrò una grande modestia e ubbidì a comando degli efori.

Agesilao antepose ad un ricchissimo regno la buona fama e obbedì alle istituzioni della patria. Dopo che trasportò le truppe attraverso l'Ellesponto, gli Ateniesi e i Beoti e altri loro alleati lo bloccarono presso Coronea, Agesilao vinse con un aspro combattimento tutte le truppe degli Ateniesi e dei Beoti.

Molti fuggiaschi si rifugiarono nel tempio di Minerva, tuttavia Agesilao frenò la sua ira e li salvò, poiché non solo in Grecia i templi degli dei sono sacri, ma conservò anche con animo pio le statue e gli altari presso i barbari.



ONESTA' DI AGESILAO

Dopo la battaglia di Leuttra, senza dubbio, gli Spartani non si riebbero più e non riacquistarono l'egemonia di prima; ma nel frattempo Agesilao giammai desisté di recare aiuto alla patria con tutti i mezzi che potesse.

Gli Spartani, per esempio, avevano assoluto bisogno di denaro; egli allora andò in soccorso di tutti quelli che si erano ribellati al re; ne ebbe in compenso molto denaro e recò sollievo alla patria.

Ed a questo proposito, fu soprattutto degno di ammirazione il fatto che quantunque fossero recati a lui ricchissimi doni dai re e dai dinasti e dalle città, egli mai nulla si portò a casa sua, nulla mutò del tenore di vita, nulla del modo di vestire degli Spartani.

Visse contento in quella stessa casa nella quale era vissuto Euristene, il capostipite dei suoi antenati; chi vi entrava non poteva scorgerci alcun segno di mollezza, né di lusso, invece moltissimi invece di austerità e di frugalità. Era infatti così messa che non differiva in nulla da quella di qualsiasi povero e privato cittadino.

SOCRATE DISTOGLIE ALCIBIADE DAL PIACERE SESSUALE

ALCIBIADE RITORNA AD ATENE

Pur essendo l'intera città scesa al Pireo  incontro a Trasibulo, Teramene e Alcibiade, l'attesa di vedere Alcibiade era in tutti  tanto grande che la folla affluiva verso la sua trireme come se fosse arrivato lui solo. Il popolo infatti pensava che le avversità precedenti e le fortune presenti fossero accadute per opera sua. E così gli Ateniesi attribuivano ad una loro colpa sia la perdita della Sicilia sia le vittorie degli Spartani, poiché avevano espulso dalla città un tale uomo.

Infatti dopo che Alcibiade aveva cominciato a comandare l'esercito, i nemici non avevano potuto resistergli essergli pari né per terra né per mare. Appena Alcibiade uscì dalla nave, sebbene Teramene e Trasibulo fossero stati al comando delle medesime azioni e fossero giunti al Pireo insieme, tuttavia tutti accompagnavano in corteo lui solo, e, cosa che mai prima era stata in uso se non a Olimpia per i vincitori,  donavano corone auree e bronzee.

Egli, piangendo, accettava una simile dimostrazione d'affetto dei suoi concittadini, memore della durezza del tempo passato.



ALCIBIALE MONSTRUM CON DUE NATURE

Alcibiade, imperatore coraggiosissimo, figlio di Clinia, era ateniese, molti credono che la natura abbia fatto miracoli in lui. si sa infatti che Alcibiade fosse stato tra i coetanei il superiore a tutti tanto nei vizi quanto in virtù. nato in una grandissima città da una nobile famiglia, fu di molto più bello dei suoi coetanei, adatto ad ogni cosa e pieno di saggezza, infatti fu sommo imperatore sia dei mari che della terra, eloquente a dire a tutti gli oratori più elegantemente su ogni argomento.

Tanta fu infatti la grazia della pronuncia e delle orazioni che nessuno gli resistette. fu anche piuttosto ricco, attivi, paziente, generoso, brillante non meno nella vita pubblica quanto nella vita privata affabile, blando che si adatta astutamente al cambiamento dei tempi. Ma ebbe dei brutti vizi: infatti si era mostrato anche lussurioso, indolente, capriccioso, incostante che tutti si stupirono che in un solo uomo ci fosse tanta differenza e un così diverso carattere.



 ALCIBIADE FUGGE DOPO LA SCONFITTA DI ATENE 

Alcibiade, pensando che quei luoghi non fossero sufficientemente sicuri per lui, dopo la disfatta degli ateniesi, si nascose all'interno della Tracia, oltre la Propontide, auspicando che lì molto facilmente avrebbe potuto tener nascosti i suoi averi.

Si sbagliava. Infatti quando i Traci si accorsero che era arrivato con una grande quantità di denaro, gli tesero un agguato: gli portarono via quello che aveva recato con sé, ma non riuscirono a prenderlo.

Alcibiade, rendendosi conto che nessun luogo nella Grecia era per lui sicuro per lo strapotere degli Spartani, passò in Asia da Farnabazo e lo legò talmente a sé con i suoi modi affabili, da divenire il suo più intimo amico.

E così gli concesse Grinio, un castello in Frigia, da cui ricavava un tributo di cinquanta talenti. Ma Alcibiade non si sentiva pago di questa fortuna e non riusciva a darsi pace che Atene vinta fosse sotto il giogo degli Spartani.

E così tutti i suoi pensieri erano rivolti a liberare la patria. Ma capiva che ciò non poteva realizzarsi senza il re di Persia e perciò desiderava farselo amico ed era certo che ci sarebbe riuscito se solo avesse avuto la possibilità di incontrarlo. Sapeva infatti che il fratello Ciro, gli preparava in segreto una guerra con l'aiuto degli Spartani; se glielo avesse rivelato, capiva che avrebbe conquistato pienamente il suo favore.



LA DISTRUZIONE DELLE ERME (ALCIBIADE)

Durante la guerra del Peloponneso gli ateniesi per suggerimento e prestigio di costui dichiararono guerra ai Siracusani; e per guidarla lui stesso venne eletto comandante, e gli furono affiancati (dati) due colleghi, Nicia e Lamaco.

Mentre la si allestiva, prima che la flotta uscisse, accadde che in una sola notte tutte le Erme, che c’erano in città ad Atene, furono abbattute eccetto una, che era davanti alla casa di Andocide. E così in seguito quello fu chiacchierato il Mercurio di Andocide. 

Risultando che questo era stato fatto non senza un grande assenso di molti, che riguardava non una cosa privata ma pubblica, nella moltitudine fu insinuato un grande timore, che una qualche forza improvvisa sussistesse in città, che sopprimesse la libertà del popolo.

Questo sembrava accordarsi particolarmente verso Alcibiade, perché era considerato sia più potente sia maggiore di un privato. Infatti aveva legato molti con la prodigalità, parecchi pure li aveva resi suoi con l’attività forense.

Perciò accadeva, che gli occhi di tutti, ogniqualvolta fosse uscito in pubblico, li attirasse su di sé e che nessuno nella città si ponesse pari a lui. Così non solo avevano massima speranza in lui, ma anche timore, poiché poteva sia giovare che nuocere moltissimo. Si spargeva pure la cattiva fama, perché si diceva che in casa sua si celebravano misteri; e questo era sacrilego secondo la tradizione degli Ateniesi, e la stessa cosa si pensava non rivolgersi alla religione, ma alla congiura.



ALCIBIADE CADE IN DISGRAZIA DEGLI ATENIESI

Gli Ateniesi si erano persuasi che le precedenti disfatte e le attuali vittorie si erano verificate per opera di Alcibiade.

Così imputavano a propria colpa la perdita della Sicilia e le vittorie degli Spartani, dal momento che avevano allontanato dalla città un tale uomo. E sembravano pensare questo non senza ragione. Infatti, dopo che Alcibiade aveva cominciato ad essere a comando dell'esercito, né per terra né per mare i nemici avevano potuto essere all’altezza.

Tuttavia, questa buona sorte di Alcibiade non durò troppo a lungo. Infatti, dopo che gli erano state decretate tutte le cariche e affidata l’intero Stato e in pace e in guerra, giunto in Asia con la flotta, poiché non realizzò le aspettative, ricadde nell'odio: i concittadini ritenevano infatti che lui nulla potesse mandare ad effetto.

Ne conseguiva che gli imputassero a colpa tutti gli insuccessi. Pertanto, riteniamo che gli avesse nociuto soprattutto l'eccessiva considerazione dell'ingegno e del valore.



ALCIBIADE SI SOTTRAE ALLA MORTE FUGGENDO TRA LE FIAMME

Nello stesso tempo però Crizia e gli altri tiranni degli Ateniesi avevano mandato uomini fidati in Asia da Lisandro per avvisarlo che se non avesse tolto di mezzo Alcibiade, nessuno dei provvedimenti da lui presi per Atene sarebbe stato duraturo; per cui se voleva che la sua opera rimanesse, doveva dargli la caccia.

Lo Spartano, impressionato da questa notizia, stabilì di trattare in modo più stretto con Farnabazo. Dunque gli fa sapere che l'alleanza tra gli Spartani ed il re sarebbe stata annullata se non gli avesse consegnato vivo o morto Alcibiade. Il satrapo non seppe tener testa a costui e preferì violare lo spirito di umanità che vedere diminuita la potenza del re.

Così mandò Susamitre e Bageo ad uccidere Alcibiade, mentre lui era in Frigia e si apprestava ad andare dal re. Gli inviati incaricano segretamente alcuni che abitavano vicino ad Alcibiade, di ucciderlo. Siccome quelli non osavano attaccarlo con le armi, di notte accatastarono della legna intorno alla capanna in cui dormiva e le dettero fuoco in modo da uccidere con le fiamme quello che non erano sicuri di poter vincere con la spada.

Ma lui come fu svegliato dal crepitio delle fiamme, sebbene gli fosse stata portata via la spada, afferrò da un amico lo stiletto che portava sotto l'ascella: c'era infatti con lui un ospite dell'Arcadia che non aveva voluto mai separarsi da lui. Gli ordina di seguirlo e arraffa tutte le vesti che in quel momento poté trovare. Gettatele sul fuoco, poté sfuggire alla violenza delle fiamme. 



ALCIBIADE PRESSO CHIUNQUE SI PONEVA COME UN PRINCIPE

Alcibiade, denigrato da molti, tre autorevolissimi storici lo esaltarono in sommo grado: Tucidide che fu suo contemporaneo; Teopompo, che visse qualche tempo dopo, e Timeo: questi due benché molto maldicenti, non so come mai, si trovano d'accordo nell'esaltare lui soltanto.

Infatti hanno celebrato le virtù di cui prima abbiamo parlato ed hanno aggiunto questo: benché nato nella splendidissima città di Atene, superò in splendore e prestigio tutti.

Quando, bandito dalla patria, andò a Tebe, si adattò tanto alle loro abitudini, che nessuno poteva uguagliarlo nella capacità di resistenza fisica, tutti i Beoti infatti tengono più alla robustezza dei corpo che all'acume dell'intelletto; parimenti a Sparta dove la più alta virtù era riposta nella capacità di sopportazione, si dedicò ad una vita austera tanto da superare gli Spartani nella frugalità del mangiare e del vestire; visse in mezzo ai Traci, ubriaconi e lussuriosi: superò anche loro in queste abitudini; si recò tra i Persiani, per i quali era somma gloria essere abili cacciatori e vivere sontuosamente: imitò così bene i loro costumi, da suscitare in questo la loro ammirazione.

Insomma con queste sue doti ottenne che, dovunque si trovasse, fosse considerato il primo e fosse molto amato.



ALCIBIADE ACCUSATO DI EMPIETA'

Durante la guerra del Peloponneso, mentre i Greci lottavano fra di loro, essendo la situazione in grande pericolo, gli Ateniesi dichiararono guerra ai Siracusani per aumentare il loro predominio sul mare; per questa guerra Alcibiade in persona fu delegato come capo in capo per condurre l'esercito.

I suoi nemici in Atene decisero di danneggiarlo mentre con una grandissima flotta naviga verso la Sicilia; e così gli organizzarono con grande astuzia, un stratagemma, con il quale speravano di screditare il giovane generale.

Ma non capirono che avrebbero rovinato anche la patria stessa. Dal momento che fu diffusa la notizia che Alcibiade era giunto sull'isola coloro che erano i suoi nemici lo accusarono di aver violato le leggi sacre e di aver violato le molto venerate immagini di Mercurio. Dopo che gli fu recapitato il mandato di presentarsi per tale, perché tornasse il più presto possibile ad Atene di sua volontà ad affrontare la causa, egli non volle disobbedire e salì su di una trireme.

Ma quando giunse a Turi e ritenne che fosse meglio per lui sottrarsi il pubblico giudizio e rintuzzare questi pericoli, fuggì presso i Lacedemoni, ai quali offrì sostegno contro gli Ateniesi; e così fu poi ritenuto traditore della sua patria.



LA COMPLESSA PERSONALITA' DI ALCIBIADE

In Alcibiade, figlio di Clinia, Ateniese, sembra che la natura abbia sperimentato che cosa abbia la capacità di realizzare.

Nato in una nobilissima città, abile in tutte le attività e pieno di senno - infatti fu un grandissimo comandante sia per mare e per terra - fu loquace, ricco, operoso, tenace, generoso, affabile; sempre lui allo stesso tempo si mostrava dissoluto, sregolato, sfrenato, intemperante.
Fu allevato nella casa di Pericle - infatti si dice che fosse suo figliastro e fu istruito da Socrate.

Ebbe per suocero Ipponico, di gran lunga il più ricco di tutti i Greci. Durante la guerra del Peloponneso, gli Ateniesi, seguendo il suo autorevole parere, dichiararono guerra ai Siracusani; ed a condurla fu scelto come comandante lo stesso Alcibiade.

ALESSANDRO MAGNO

ALESSANDRO E' ECCITATO DAL VINO

Tutti si erano infervorati per il vino e così si alzarono ubriachi per incendiare la città che da armati avevano risparmiato.

Per primo il re appiccò il fuoco alla reggia e poi dopo di lui i commensali, i servitori e le cortigiane.

La reggia era stata costruita con una grande quantità di legno di cedro, la quale espanse largamente l'incendio una volta che era stato appiccato il fuoco e quando l'esercito che si accampava non lontano dalla città si accorse di quello ritenendolo causale corse per portare aiuto.

Ma quando si giunse al vestibolo della reggia, vedono il re stesso che ancora portava delle torce.
Deposta dunque l'acqua che avevano portato, iniziarono a gettare nell'incendio materiale adatto al fuoco.

Questa fine ebbe la reggia di tutto l'Oriente, da cui tante genti dapprima chiedevano leggi, patria di tanti re, un tempo unico terrore della Grecia, dopo aver allestito una flotta di mille navi ed eserciti con cui fu invasa l'Europa.

E non risorse nemmeno nel tanto lungo periodo che seguì la sua distruzione. I Macedoni si vergognavano che una così splendida città (Persepoli) fosse stata distrutta da un re gozzovigliante. Dicono che egli stesso, non appena il riposo restituì la ragione, si sia pentito.



AVIDITA' DEI GENERALI DI ALESSANDRO DOPO LA SUA MORTE

E' noto che i Macedoni affidarono ad Eumene la Cappadocia dopo la morte di Alessandro.
Con grande impegno Perdicca se lo fece alleato poiché vedeva in lui fedeltà e grande zelo. Infatti pensava che gli sarebbe stato utilissimo nei progetti che stava allestendo. Infatti sperava di impadronirsi di ogni parte dell'impero di Alessandro, cosa che quasi tutti desiderano fortemente nei grandi imperi.

E in verità non fece ciò lui soltanto, ma anche gli altri generali che erano stati amici di Alessandro. Gli storici narrano che Leonnato per primo ambì alla macedonia.

Egli circuì Eumene con molte e grandi promesse affinché lasciasse Perdicca e si alleasse con lui. Ma, poiché non poté convincerlo, cercò di ucciderlo: il che non avvenne. Raccontano infatti che Eumene sia fuggito di nascosto durante la notte dai suoi accampamenti senza nessun compagno. 




AMILCARE SALVA CARTAGINE

Amilcare quando giunse a Cartagine trovò lo Stato che aveva bisogno di lui. Infatti a causa della durata della guerra esterna, scoppiò una guerra civile tanto grande che Cartagine mai si trovò ad essere in pericolo simile, se non quando fu distrutta.

Prima di tutto, si ribellarono i soldati mercenari, di cui si erano serviti contro i Romani ed il loro numero ammontava a ventimila. Questi chiamarono alla ribellione tutta l'Africa e dettero l'assalto alla stessa Cartagine. I Cartaginesi furono talmente atterriti da questi rovesci, che chiesero addirittura rinforzi ai Romani e li ottennero.

Ma da ultimo, quando erano quasi ormai giunti alla disperazione, fecero Amilcare comandante supremo. Questi non solo respinse i nemici dalle mura di Cartagine, sebbene i soldati fossero saliti a più di centomila, ma addirittura li ridusse al punto che, chiusi in luoghi molto angusti, morirono più per fame che per spada.

Riconquistò alla patria tutte le città ribelli, tra queste Utica ed Ippona, le più potenti di tutta l'Africa. E non si fermò qui, ma ampliò addirittura i confini dell'impero; in tutta l'Africa ristabilì tanta pace che sembrava che in essa non ci fosse stata alcuna guerra da tanti anni.

ANNIBALE

ANNIBALE

Era in discordia con Annibale il re di Pergamo Eumene, molto legato ai Romani, e tra loro si combatteva una guerra sia per mare che per terra. Ma essendo Eumene più forte a causa dell'alleanza dei Romani, Annibale desiderava maggiormente sconfiggerlo.

Una volta rimossolo, riteneva che le altre cose sarebbero state per lui più agevoli. Escogitò ciò per ucciderlo. Entro pochi giorni avrebbero combattuto con la flotta e Annibale era inferiore per numero di navi; si doveva combattere con l’inganno, non essendo pari nelle armi.

Ordinò ai soldati di raccogliere quanti più serpenti velenosi vivi e di chiuderli in vasi di terracotta.
Dopo averne raccolto un gran numero, il giorno stesso, nel quale stava per intraprendere il combattimento navale, convoca i marinai e comanda loro di dirigere tutti verso la nave di Eumene il lancio dei vasi con i serpenti. Finalmente i soldati di Eumene, incredibile a dirsi, immediatamente dovettero fuggire.



ANNIBALE OLTREPASSA LE ALPI CON GLI ELEFANTI

Divenuto generale, Annibale non ancora venticinquenne, nei tre anni che seguirono sottomise con le armi tutte le genti della Spagna; espugnò con la forza Sagunto città alleata; allestì tre poderosi eserciti. Di questi uno ne mandò in Africa; un altro lo lasciò in Spagna col fratello Asdrubale; il terzo lo condusse con sé in Italia. Attraversò il valico dei Pirenei.

Dovunque passò, venne a conflitto con tutti gli abitanti; nessuno lasciò alle spalle se non sconfitto. Dopo che giunse alle Alpi, che dividono l'Italia dalla Gallia, che nessuno mai prima di lui, eccetto il Graio Ercole, aveva attraversato con un esercito, sterminò gli alpigiani che cercavano di impedirgli il passaggio, aprì i luoghi, fortificò i percorsi, fece sì che potesse passare un elefante equipaggiato, per dove prima a mala pena poteva arrampicarsi un uomo senza armi. Per questa via fece passare le truppe e giunse in Italia.



IL GIURAMENTO ANTIROMANO DI ANNIBALE

Infatti, per non omettere Filippo, che sebbene lontano, inimicò ai Romani, in quei tempi il re più potente di tutti fu Antioco. Lo riempì di tanto desiderio di combattere che cercò di portar guerra in Italia sino dal Mar Rosso. 

Essendosi recati da lui dei legati romani per indagare sulle sue intenzioni e darsi da fare con segrete macchinazioni, per rendere Annibale sospetto al re, come se, corrotto da loro stessi, Annibale nutrisse sentimenti diversi da quelli di prima, ed essendo riusciti nel loro intento e avendo Annibale saputo questo e avendo visto che lui stesso era tenuto lontano dalle riunioni riservate, offertasi l'occasione si rivolse al re, e avendogli ricordato le numerose prove della sua lealtà e del suo odio contro i Romani, aggiunse questo:

"Mio padre Amilcare quando io ero ancora me giovinetto, dato che non avevo più di 9 anni, partendo come generale da Cartagine verso la Spagna, immolava delle vittime a Giove ottimo massimo, mi chiese di scegliere di andare con lui nell'accampamento. Dopo che ebbi volentieri accettato ciò e che ho iniziato a chiedergli che non esitasse a condurmi con lui, in quel momento egli disse: " lo farò qualora tu mi avrai giurato quanto ti chiedo".

Nello stesso tempo mi condusse verso l'altare, davanti al quale avevo deciso di sacrificare, dopo aver allontanato gli altri, ordinò di promettere con giuramento: "Mai io sarò in amicizia con i romani!".
Io mantenni il giuramento fatto al padre sino a questo momento a tal punto che nessuno deve dubitare che nel tempo restante sarò della stessa opinione. Perciò, se penserai qualcosa amichevolmente sui Romani, non agirai imprudentemente se me lo nasconderai, quando invece preparerai la guerra ingannerai te stesso se non mi porrai a capo di essa".



ANNIBALE AVANZA VITTORIOSO DAL RODANO A CANNE

Presso il Rodano, si era scontrato con il console P. Cornelio Scipione e lo aveva respinto. Con questo stesso combatte a Casteggio presso il Po e da lì lo respinge ferito e fuggitivo. Per la terza volta lo stesso Scipione gli andò incontro col collega Tiberio Longo presso la Trebbia. Venne a battaglia con loro; li sbaragliò entrambi. Da lì attraverso la Liguria superò l'Appennino, diretto in Etruria. Durante questa marcia viene colpito da una malattia degli occhi tanto grave che poi dall'occhio destro non vide più bene.

Mentre ancora era affetto da questo malanno e veniva trasportato in lettiga, trasse in un agguato presso il Trasimeno il console Caio Flaminio con l'esercito e lo uccise e poco dopo il pretore Caio
Centenio che con truppe scelte presidiava i passi.

Da qui arrivò in Puglia. Là gli andarono incontro due consoli, Caio Terenzio e Lucio Emilio. In una sola battaglia sbaragliò gli eserciti dell'uno e dell'altro, uccise il console Paolo ed inoltre alquanti ex consoli, tra i quali Cneo Servilio Gèmino, che era stato console l'anno precedente.



ANNIBALE CON UNO STRATAGEMMA EVITA LO SCONTRO CON FABIO MASSIMO 

Annibale combattuta questa battaglia andò a Roma senza fermata e negli imminenti monti della città si fermò. Avendo avuto là l’accampamento alcuni giorni ed essendo ritornato a Capua, Quinto Fabio Massimo, dittatore romano, si situò davanti a lui nel campo Faleno.

Questi chiuso nella strettezza dei luoghi di notte senza alcun detrimento dell’esercito si prese gioco di Fabio, abilissimo comandante. E infatti nell’oscurità della notte bruciò dei rami legati nelle corna dei buoi e mandò contro l’esercito romano una grande moltitudine di quel genere. Con quella repentina apparizione procurata suscitò tanto errore all’esercito dei romani che nessuno osò uscire fuori dallo steccato.

Dopo questa impresa non in così tanti giorni Marco Minuccio Rumo, capo della cavalleria uguale a quello del dittatore a comando fuggì indietro in battaglia per l’inganno. Sarebbe lungo contare tutte le battaglie. Per questo motivo questa sola osservazione sarà sufficiente così da poter essere compreso quanto grande egli sia.



ANNIBALE NOMINATO COMANDANTE DELL'ESERCITO MUOVE SULL'ITALIA

All'età, dunque, che abbiamo detto, egli partì con il padre per la Spagna, dopo la morte del quale, quando Asdrubale venne nominato comandante, comandò tutta la cavalleria.

Quando anche questo fu ucciso l'esercito gli affidò il comando supremo. Questa nomina, comunicata a Cartagine, venne ufficialmente approvata. Così, a meno di venticinque anni, Annibale venne eletto comandante supremo, e nei tre anni successivi aggiogò tutti i popoli della Spagna con una guerra, espugnò con la forza Sagunto, città alleata, e allestì tre grandissimi eserciti.

Di questi uno ne inviò in Africa, un altro lo lasciò in Spagna con il fratello Asdrubale, il terzo lo condusse con sé in Italia. Oltrepassò la catena dei Pirenei. Qualunque territorio attraversò, combatté con tutti gli abitanti: non lasciò andare nessuno se non vinto.

Dopo che arrivò alle Alpi, che dividono l'Italia dalla Gallia, che mai nessuno prima di lui aveva attraversato con un esercito, ad eccezione di Ercole Graio, per questo fatto ancora oggi quella catena è chiamata Graia, sterminò gli abitanti delle Alpi che cercavano di impedirgli il passaggio, rese praticabili quei luoghi, fece sì che un elefante con tutto l'equipaggiamento potesse passare là dove prima poteva passare un uomo solo senza armi. Per questo itinerario condusse le truppe e giunse in Italia.



INGRATITUDINE DEI CARTAGINESI VERSO ANNIBALE

Quando fece ritorno a Cartagine, fu eletto re, dopo che era stato supremo comandante per 22 anni; come infatti a Roma i consoli, così a Cartagine erano creati due re che duravano in carica per un anno.

In quella magistratura Annibale mostrò la stessa diligenza che aveva tenuto in guerra. Fece in modo infatti che dalle nuove entrate fiscali derivasse non solo il denaro, che sarebbe stato pagato dai Romani per il patto stipulato, ma che anche ne avanzasse e fosse riposto nell'erario.

Poi l'anno successivo, essendo consoli M. Claudio e L. Furio, giunsero ambasciatori a Cartagine da Roma. Quando Annibale seppe che erano stati mandati per chiederne l'estradizione, prima che il senato lo consegnasse a loro, salì su di una nave di nascosto e fuggì in Siria presso Antioco.

Scoperto ciò i Punici mandarono due navi per catturarlo, se fosse stato possibile raggiungerlo, confiscarono i suoi beni, demolirono la sua casa dalle fondamenta, e lo condannarono all'esilio.



LA MORTE DI ANNIBALE

I luogotenenti di Prusia giungevano a Roma e, mentre cenavano nella villa di Quinzio Flaminio, facevano menzione di Annibale; dai funzionari Asiatici, ospiti dei Romani, Annibale era indicato vivo nel regno di Prusia. Flaminio mandava luogotenenti in Bitinia per la consegna di Annibale, poiché il comandante Africano era un violento nemico dei Romani e causa di molte scelleratezze. 

Prusia era pronto per la consegna, ma non dava egli stesso il nemico ai Romani, poiché riteneva sacro il diritto dell'ospitalità. Annibale stava sempre in una fortezza della regione, che era concessa al comandante Africano da Prusia; la fortezza aveva mura solide e molte porte pronte alla fuga del comandante, se i nemici circondavano il luogo. Quando i luogotenenti Romani giungono presso la fortezza e circondano il luogo con un gran numero di soldati, un giovane schiavo vede dalla porta molti soldati e dà la notizia ad Annibale. 

Poiché tutte le porte sono occupate dai Romani e non vi è neppure una piccola possibilità di fuga, Annibale decise la morte e, memore delle antiche virtù, prese del veleno. Così, con un ultima testimonianza di fierezza, depone la vita non solo un uomo coraggioso, comandante esperto, soldato fedele alla patria, vincitore di molti combattimenti e fiero nemico dei Romani, ma anche un uomo esperto di lingua Greca e autore di libri. Molti ricordano le imprese e il nome di Annibale.



LA MORTE DI CABRIA

Cabria morì in questo modo durante la guerra sociale. Gli Ateniesi assediavano da Chio. Cabria militava nella flotta come semplice cittadino, ma superava in prestigio tutti i comandanti effettivi, e i soldati avevano fiducia in lui più che in questi.

Ma ciò ne affrettò la morte. Infatti, mentre cercava di entrare per primo nel porto e ordinava al timoniere di dirigervi la nave, egli fu di rovina a sé stesso; infatti penetrandovi, nessuna delle altre navi lo seguì. Circondato perciò da nemici che lo assalivano, mentre lottava strenuamente, la sua nave speronata, cominciò ad affondare. 

Pur potendo fuggire di lì, se si fosse gettato in mare, perché si avvicinava la flotta degli Ateniesi, per raccogliere i naufraghi, preferì perire che, gettate le armi, abbandonare la nave, nella quale era stato trasportato. Gli altri non vollero fare ciò; ed essi nuotando giunsero al sicuro. Ma lui ritenendo fosse meglio una morte gloriosa che una vergognosa vita combattendo fu ucciso dalle armi dei nemici.
CATONE IL CENSORE

CATONE IL CENSORE

Marco Porcio Catone giovò molto allo stato romano in pace e in guerra. Quest'uomo aveva un aguzzo ingegno e una singolare operosità e diligenza in tutte le cose: infatti fu sia un agricoltore solerte, un esperto giure consulto, un grande generale, un lodevole oratore e un amante della letteratura. da adolescente partecipò alla seconda guerra punica e al combattimento presso Sena, nel quale fu ucciso Asdrubale fratello di Annibale. In questa battaglia fu stimato lodevole il suo operato.

Come console dalla Spagna riportò il trionfo. Publio Cornelio Scipione l'africano che allora deteneva il comando della città (Roma) tentò di scacciarlo dalla provincia e di succedergli egli stesso, ma non poté ottenere ciò attraverso il senato poiché lo stato veniva amministrato non col potere politico ma dalla legge.

L'asprezza dell'animo di Catone e l'integrità di vita furono lodate particolarmente. Nominato censore con Lucio Valerio Flacco, con cui aveva esercitato il consolato, esercitò severamente il suo mandato, infatti corresse i costumi corrotti dei suoi cittadini e disprezzò la lussuria e lo spreco fino alla vecchiaia avanzata non smise di esporsi per la repubblica; accusato da molti venne sempre scagionato da ogni crimine.

Si sa che egli stesso componesse orazioni dall'adolescenza, che abbia scritto libri di storia intitolati "origini" nei quali narrò le imprese del popolo romano senza nominare i comandanti delle guerre.



VITA E OPERE DI CATONE

In tutte le cose fu di straordinaria operosità: infatti fu sia esperto agricoltore sia abile avvocato sia grande generale sia oratore valente sia molto amante degli studi letterari. Sebbene avesse intrapreso il loro studio piuttosto vecchio, tuttavia fece talmente tanti progressi che non si può facilmente trovare né di storia greca né di quella romana un fatto che gli sia rimasto sconosciuto. Fin dalla giovinezza compose orazioni.

Da vecchio cominciò a scrivere opere storiche. Di queste ne esistono sette libri. Il primo contiene le imprese dei re del popolo romano, il secondo e il terzo da dove ogni città italica abbia avuto origine: pare che sia questa la ragione per cui Catone abbia chiamato tutti i libri "Origini".

Nel quarto c'è la I guerra punica, nel quinto la II. E tutti questi fatti sono esposti per sommi capi. E allo stesso modo continuò a trattare le rimanenti guerre fino alla pretura di Servio Galba, che depredò i Lusitani: e di queste guerre non nominò i condottieri ma ne registrò i fatti senza i nomi.

CIMONE

IMPRESE DI CIMONE

Cimone aveva abbastanza eloquenza, molta liberalità, molta esperienza nel diritto civile e nell'arte militare: perché aveva vissuto col padre da bambino nell'esercito.

Perciò tenne nel suo dominio il popolo della città e presso l'esercito ebbe massimo prestigio.
All'inizio della guerra, presso il fiume Strimone mise in fuga una grande truppa tracia; finita la guerra, fondò la città di Amfipoli.

Dopo, presso Micale, catturò una flotta di 200 navi dei ciprioti e dei fenici e nello stesso giorno si servì della stessa fortuna sulla terra, immediatamente fece uscire dalla sua flotta le truppe e con massima forza sconfisse i barbari.

Portata a termine questa vittoria s'impadronì di un grande tesoro e propagò l'impero ateniese.



INGRATITUDINE DEGLI ATENIESI VERSO CIMONE

Impadronitosi di un grande bottino con quella vittoria, quando tornò in patria, poiché alcune isole si erano ribellate a causa della durezza del dominio ateniese, riconfermò su quelle ben disposte, e costrinse le ribelli a ritornare al dovere.

Spopolò Sciro, che a quel tempo era popolata dai Dolopi, perché si erano comportati con eccessiva superbia, cacciò dalla città e dall'isola i vecchi abitanti e divise i campi tra i concittadini, con il suo arrivo sbaragliò gli abitanti di Taso, fiduciosi nella loro ricchezza. Da quel bottino, fu decorata la rocca di Atene, che volge a mezzogiorno.

E per questi motivi, godendo più di chiunque altro della massima reputazione, cadde nella medesima disgrazia che ci fu per suo padre e per tutti gli altri governatori ateniesi. Infatti con i voti dei cocci, che quelli chiamano "ostracismo", venne multato con dieci anni di esilio.

Di questo fatto si pentirono prima gli Ateniesi che lui stesso. Infatti essendo sottostato con grande coraggio alle calunnie degli ingrati cittadini e avendo dichiarato guerra agli Spartani, subito conseguì il rimpatrio del suo noto coraggio e così dopo il quinto anno che era espulso venne richiamato in patria.

Egli, poiché si serviva dell'ospitalità degli Spartani, ritenendo più opportuno rimanere a Sparta, si allontanò di sua spontanea volontà, e conciliò la pace tra le due potentissime civiltà.


GENEROSITA' DI CIMONE ATENIESE

Gli Ateniesi rimpiansero a lungo Cimone, figlio di Milziade, non solo in guerra ma anche in pace.
Egli infatti fu di così tanta generosità che, avendo in parecchie località poderi ed orti, non mise mai in essi un custode che sorvegliasse i frutti, affinché a nessuno venisse impedito di raccogliere i frutti che volesse. Lo seguirono sempre accompagnatori con monete affinché, se qualcuno avesse bisogno del suo aiuto, egli avesse subito cosa dare.

Spesso, quando vedeva qualcuno vestito non bene, diede il suo mantello. Ogni giorno gli veniva cucinata una cena così sontuosa che poteva invitare tutti quelli che aveva visto non invitati nel foro; in nessun giorno ometteva di fare ciò.

A nessuno mancò la sua lealtà, a nessuno l'aiuto, a nessuno il patrimonio; arricchì molti, a tutti i concittadini offrì il suo aiuto nelle avversità. Pertanto la sua vita fu serena e la morte dolorosa per tutti.



ULTIMI ANNI DI VITA DI CONONE  

Debellata la flotta degli abitanti del Peloponneso, reputando di aver vendicato le offese della patria desiderò più cose di quanto poté realizzare. E tuttavia tali cose non furono giuste, perché preferì che venissero aumentate le ricchezze della patria piuttosto che del re.

Infatti avendo costituito per sé grande autorevolezza in quella battaglia navale, che aveva conseguito presso Cnido non solo tra i Barbari, ma anche tra tutti i cittadini della Grecia, iniziò ad impegnarsi in segreto, a restituire agli Ateniesi la Ionia e la Eolia.

Dato che tale piano era stato tenuto nascosto meno accuratamente, Tiribazo, che era a capo dei Sardi, chiamò Conone, facendo finta d'inviarlo presso il re per un grande progetto.

Essendo giunto secondo il volere di costui, fu gettato in catene, in cui si trovò per qualche tempo.

Perciò alcuni lasciarono scritto che lui fu condotto presso il re e qui lo uccisero.

Diversamente a quanto detto lo storico Dinone, verso cui noi abbiamo molta fiducia in merito agli avvenimenti Persiani, scrisse che fuggì.



MORTE DI DATAME

Uomo pieno di ingegno, nemico del re di Persia, Datame una volta fu raggirato dall'astuzia di Mitridate, costui, il quale aveva promesso al re che lo avrebbe ucciso, fece amicizia con Datame, affinché in lui non nascesse alcun sospetto di inganno.

Infine gli mandò un'ambasciata perché venisse in un determinato luogo a parlare con lui della guerra contro il re. Mitridate, alcuni giorni prima, va in quel luogo e nasconde sotto terra, in diversi punti, separate le une dalle altre, delle spade e contrassegna attentamente quei punti.

Poi, il giorno stesso del colloquio, dopo che avevano parlato per un bel pò di tempo e si erano allontanati in direzioni opposte, e ormai Datarne era distante, Mitridate, affinché non nascesse alcun sospetto, tornò nello stesso posto e li, dove una spada era nascosta sottoterra, si sedette, come se volesse riposarsi per una qualche stanchezza.
Poi chiamò indietro Datame fingendo di avere dimenticato qualcosa nel colloquio. Quindi estrasse la spada che era nascosta e, dopo averla sfoderata, la occultò tra le vesti. A Datarne che arrivava disse che aveva notato un certo posto adatto per gli accampamenti. Mentre lo indicava col dito e quello si girava indietro a guardare, lo trafisse alle spalle con l'arma e lo finì prima che qualcuno potesse soccorrerlo.



DIONE E DIONIGI

Dione era amico intimo Dionigi il vecchio, e non meno a causa delle abitudini che per l'affinità.
Infatti anche se a lui era sgradita la crudeltà di Dionigi, tuttavia desiderava la sua incolumità a causa della loro parentela, e ancor di più per i suoi familiari.

Lo assisteva nelle questioni rilevanti, e il tiranno era molto influenzato dalla sua saggezza, tranne nella situazione in cui si si era frapposta una sua più forte passione. Tuttavia tutte le ambascerie, che fossero di una certa risonanza, erano gestite per mano di Dione: egli incaricandosene sicuramente con zelo, gestendole con lealtà, nascondeva la crudelissima fama del tiranno con la sua affabilità. 

I Cartaginesi lo ammirarono quando fu mandato da Dionigi tanto che non ammirarono di più mai nessuno che parlava la lingua Greca. Nè d’altra parte queste cose sfuggivano a Dionigi: infatti capiva di quanto grande onore fosse per lui. Per questo accadeva che solamente a lui accondiscendeva moltissimo e non lo amava diversamente dal figlio. 

Nel frattempo Dionigi si ammalò. Lottando egli con una malattia grave, Dione chiese ai medici come stesse e chiese a loro allo stesso tempo che gli rivelassero se per caso stesse in un pericolo maggiore: infatti voleva parlare con lui sulla divisione del regno, poiché riteneva che i figli di sua sorella nati da lui dovessero avere una parte del regno.

I medici non tacquero su ciò e riferirono il discorso al figlio Dionigi. Quello, spinto da ciò, affinché Dione non avesse la possibilità di agire, costrinse i medici a dare al padre un sonnifero. L'ammalato, dopo averlo preso, come si assopì, morì. Tale fu l'inizio dell'ostilità tra Dione e Dionigi e questa fu fomentata da molte cose. Ma tuttavia nei primi tempi di tanto in tanto un’amicizia simulata si mantenne tra loro.



CARTAGINE FONDATA DA UNA DONNA

Cartagine, rivale della fama di Roma, fu fondata da una donna. Infatti Didone Sidonia, il cui marito Sicheo era stato ucciso dal fratello Pigmalione, dopo aver abbandonato la patria, essendo giunta in Africa con la sorella e alcuni compagni di fuga e avendo lì ottenuto dal re Giarba tanta terra da poter far seccare una pelle di bue al sole, divise la pelle in sottili strisce e con esse delimitò con esse sufficiente territorio da costruire una rocca che chiamò Birsa.

Non distante da Giarba, che era caduto nell'amore di Didone, la nuova città Cartagine fu edificata e fu ornata con splendidi templi e con abitazioni. Nascono ancora nuove mura e l'opera è in gran fermento, Enea dopo che Troia fu presa e distrutta dai greci, profugo dalla patria, fu spinto da una tempesta in Africa.



LA RAFFINATA EDUCAZIONE DI EPAMINONDA

Epaminonda, nacque dal padre, dal quale diciamo, di classe onesta, fu lasciato dagli antenati già povero ma fu istruito cosi che nessun tebano di più.

E infatti imparò a suonare la cetra e a cantare al suono delle corde da Dioniso il quale non fu meno importante per gloria in musica di Damone o di Lambro, dei quali i nomi sono divulgati, a cantare con i flauti da Olimpiodoro, a danzare da Callipone.

Ma ebbe come maestro di filosofia Liside di Taranto, Pitagorico, al quale fu veramente così dedito, che il giovane preferì l'accigliato e severo vecchio a tutti i suoi coetanei e non lo allontanò da sè prima di superare i condiscepoli nelle scienze filosofiche tanto che si poteva capire che Epaminonda avrebbe superato tutti nelle altre arti allo stesso modo.

E queste cose per nostra abitudine sono di poca importanza e preferibilmente trascurabili ma anticamente in Grecia erano senz’altro di grande lode. Quando giunse alla pubertà e cominciò a frequentare la palestra, non ebbe di mira tanto la robustezza quanto l'agilità quella infatti riteneva che servisse alla pratica dell'atletica, questa alle esigenze della guerra.
Pertanto si esercitava moltissimo nella corsa e nella lotta fino a tanto che gli riuscisse di avvinghiare e combattere con l'avversario rimanendo in piedi. Nelle armi invero profondeva il massimo impegno.



ABILITA' ORATORIA DI EPAMINONDA

Lo stesso si era recato ad un'assemblea degli Arcadi per chieder loro che facessero alleanza con i Tebani e gli Argivi.

EPAMINONDA
Callistrato invece, il delegato degli Ateniesi, che in quel tempo era superiore a tutti nella eloquenza, sosteneva che ricercassero piuttosto l'amicizia degli Attici, e nel suo discorso si scagliò con molte ingiurie contro i Tebani e gli Argivi, e fra le altre cose tirò fuori l'argomento che gli Arcadi dovevano por mente a che razza di cittadini avesse generato l'una e l'altra città, e così potessero giudicare del resto: Argivi infatti erano stati Oreste ed Alcmeone, matricidi, a Tebe era nato Edipo, il quale dopo aver ucciso il padre aveva generato figli dalla madre.

Allora Epaminonda, nella sua risposta dopo aver trattato degli altri argomenti, quando fu giunto alle due accuse infamanti, disse che si meravigliava della scempiaggine del retore attico, che non aveva fatto caso che quelli nati innocenti in patria, una volta commesso il delitto, furono cacciati dalla città ed accolti dagli Ateniesi.

Ma la sua eloquenza rifulse in modo straordinario quando fu ambasciatore a Sparta, prima della battaglia di Lèuttra".

Là erano convenuti gli inviati di tutti gli alleati e dinanzi alla affollatissima assemblea delle legazioni seppe stigmatizzare così bene la tirannide degli Spartani, che scosse la loro potenza non meno con quel discorso che con la battaglia di Leuttra. In quella occasione infatti, riuscì ad ottenere, come si vide poi, che gli Spartani rimanessero senza l'aiuto degli alleati.



SAGGEZZA DI EPAMINONDA

Un certo Meneclide, poiché vedeva Epaminonda distinguersi nell'arte militare, aveva l'abitudine di esortare i Tebani, affinché anteponessero la pace alla guerra, affinché l'intervento di quel comandante non venisse richiesto.

Quello disse a questo: "Con la parola inganni i tuoi concittadini, perché li distogli dalla guerra: infatti con il pretesto della pace procuri la schiavitù. Infatti la pace viene prodotta dalla guerra. Perciò quelli che vogliono godere di una lunga pace, devono essere esercitati alla guerra. Per cui se volete essere i primi della Grecia, dovete ricorrere all'accampamento, non alla palestra". 

Poiché quello stesso Meneclide lo tacciava di orgoglio, affermando che egli aveva conseguito la gloria militare di Agamennone, disse: "Poiché pensi che imito Agamennone, sbaglierai.
Infatti egli con tutta la Grecia in dieci anni occupò a malapena una sola città, io al contrario con una sola nostra città e in un solo giorno liberai tutta la Grecia, dopo aver fatto fuggire gli Spartani
".



DISINTERESSE DI EPAMINONDA PER IL DENARO

L' incorruttibilità di Epaminonda fu messa alla prova da Diomedonte di Cizio: egli infatti su richiesta del re Artaserse si era assunto il compito di corrompere Epaminonda col denaro. Venne a Tebe con grande quantità di oro e con cinque talenti conquistò alla sua volontà il giovinetto Micito che allora era grandemente amato da Epaminonda. Micito andò a trovare Epaminonda e gli manifestò il motivo della venuta di Diomedonte.

Ma egli a Diomedonte quando gli fu davanti: "Non c'è affatto bisogno di denaro", disse; "infatti se il re vuole cose utili per i Tebani, sono pronto a farle senza ricompensa; se invece cose dannose, non gli basta tutto l'oro e l'argento che ha. Non voglio ricevere le ricchezze di tutto il mondo in cambio dell'amore di patria. Che tu, non conoscendomi, mi abbia tentato e mi abbia ritenuto simile a te, non mi meraviglio e te ne scuso; ma esci immediatamente, perché non corrompa altri, non avendo potuto corrompere me. E tu, o Micito, rendi a costui l'argento, altrimenti, se non lo fai immediatamente, io ti consegnerò al magistrato".

E pregandolo Diomedonte di potersene andare con sicurezza e che gli fosse permesso di portare via quello che aveva recato con sé: "Codesto certo che lo farò", disse, "e non per te ma per me, perché, nel caso ti venga rubato il denaro, non si dica che sia pervenuto a me strappato con violenza quello che non avevo voluto accettare offertomi". Gli chiese dove volesse essere accompagnato e avendo quello detto Atene, gli dette una scorta, perché vi giungesse senza rischi.



AMOR DI PATRIA DI EPAMINONDA

Non avendo voluto i suoi concittadini per invidia che lui comandasse l’esercito ed essendo stato eletto un comandante inesperto di guerra, e per il suo errore quella moltitudine di soldati era stata condotta al punto che tutti temessero per la salvezza, perché chiusi dai nemici in strettezze di luoghi, si cominciò a desiderare l’abilità di Epaminonda.

Infatti era lì nel numero dei soldati come privato cittadino. Chiedendo aiuto a lui, non ebbe nessun ricordo dell’offesa e l’esercito, liberato dall’assedio, lo ricondusse incolume in patria. Ma non fece questo una volta sola, ma piuttosto spesso. Ma specialmente fu cosa famosa, avendo guidato l’esercito nel Peloponneso contro i Lacedemoni e avendo due colleghi, di cui uno era Pelopida, uomo forte e valoroso.

Poiché essi per le accuse di avversari erano venuti tutti in odiosità e per tale cosa era stato tolto loro il comando ed al loro posto erano succeduti altri comandanti, Epaminonda non obbedì al decreto del popolo, e persuase i colleghi che facessero lo stesso e fece la guerra che aveva intrapresa. Infatti capiva che se non avesse fatto ciò, tutto l’esercito per l’incapacità dei comandanti e l’ignoranza della guerra sarebbe perito.



PUNIZIONE DI UN GENERALE (FEBIDA)

Febida Spartano, conducendo l'esercito ad Olinto e facendo un tragitto attraverso Tebe, occupò la rocca della Città con ausilio di pochi fra i tebani. Tuttavia intraprese l’occupazione con una sua personale decisione e non pubblica, così gli Spartani allontanarono Febida dall’esercito e gli diedero una sanzione pecuniaria, ma non restituirono la rocca ai Tebani.

Febida si rifugiò ad Atene con molti esuli Tebani capitanati da Pelopida e lì attese il momento e aspettò il tempo adatto alla vendetta. L’ estate seguente, pochi sicari, tra i quali Febida e Pelopida, giunsero a Tebe con un veloce viaggio da Atene con cani da caccia, reti e vesti contadine, infatti volevano fare il viaggio senza destare sospetto.

Come la notte avanzò ed i capi Spartani furono uccisi dai sicari, Pelopida chiamò il popolo alle armi. Allora il popolo, che per molti mesi era rimasto senza libertà accorse da ogni parte, scacciò il presidio degli Spartani dalla rocca e liberò la patria dalla schiavitù.



IFICRATE

Fu inoltre grande sia d'animo che di corpo e di aspetto da comandante tanto che proprio con questo aspetto incuteva in chiunque l'ammirazione nei suoi confronti, ma fu troppo fiacco nel lavoro e poco resistente, come Teopompo ha tramandato, e fu davvero un buon cittadino e di grande lealtà.

Cosa che dimostrò in altre circostanze, innanzi tutto proteggendo i figli del macedone Aminta. E infatti Euridice, madre di Perdicca e di Filippo, essendo morto Aminta, si rifugiò con i suoi due figli presso Ificrate e fu difesa con le sue forze.

Visse fino alla vecchiaia in pace con l'animo dei propri concittadini. Una volta portò avanti una causa per un'accusa capitale, durante la guerra sociale, assieme a Timoteo, e fu assolto da quell'accusa.

Abbandonò il figlio, Menesteo, nato da una donna di Tracia, figlia del re Coti. Egli, quando gli fu chiesto chi stimasse di più, il padre o la madre, disse: "La madre". Poichè ciò a tutti sembrava strano, allora egli disse: "Lo faccio a buon merito: infatti il padre, per quanto stette a lui, mi ha generato Trace, invece la madre Ateniese."



LISANDRO CADE NEL TRANELLO DI FARNABAZO  

LISANDRO
Lisandro, comandante della flotta poiché aveva agito molto crudelmente e avidamente in guerra e temeva che queste cose turpi fossero riferite ai suoi concittadini, chiese a Farnabazo di dargli un attestato della sua onestà per gli efori: con grande disinteresse aveva condotto la guerra e trattatogli alleati, quindi Farnabazo doveva scrivere sulla cosa accuratamente.

Egli promise volentieri: scrisse un grande libro con molte parole e con somme lodi esaltava Lisandro. Lisandro lesse gli scritti mentre apponeva il sigillo. Tuttavia Farnabazo sostituì il sigillo ad un altro libro di pari grandezza e somiglianza, nel quale aveva accusato alquanto accuratamente l'avidità e la malafede del comandante.

Lisandro ritornò a casa/in patria e quando lo portò dal magistrato sulle sue azioni, come conferma, porse il libro dato da Farnabazo. Così l'imprudente fu accusatore della sua crudeltà.



GLI ONORI TRIBUTATI A MILZIADE

Non mi sembra inopportuno riferire quale ricompensa sia stata data a Milziade per questa vittoria, affinché possa essere compreso più facilmente che la natura di tutti i popoli è la stessa. Come infatti un tempo le onorificenze del popolo Romano furono rare e modeste e per questo motivo gloriose, ora invece diffuse e svilite, così scopriamo essere stato una volta presso gli Ateniesi.

Infatti a questo Milziade, che aveva liberato Atene e tutta la Grecia, fu attribuito un onore tale che nel portico, che si chiama Pecile, essendo dipinta la battaglia di Maratona, il suo ritratto fu posto per primo nel numero dei dieci comandanti ed egli esortò i soldati e attaccò battaglia.

Quello stesso popolo, dopo che ebbe raggiunto un potere maggiore e fu corrotto dalla prodigalità dei magistrati, decretò trecento statue a Demetrio Falereo.



MILZIADE E' ACCUSATO DI ASPIRARE ALLA TIRANNIDE

Miliziade, avendo passato molta parte della vita nelle cariche militari e politiche, non sembrava che potesse essere cittadino privato, tanto più che sembrava che fosse spinto dalla consuetudine al desiderio di potere.

Infatti per tutti quegli anni in cui aveva abitato nel Chersoneso, aveva ottenuto un dominio ininterrotto ed era stato chiamato tiranno, ma giusto. Infatti non l'aveva ottenuto con la forza, ma per volontà dei suoi, e deteneva quel potere con bontà. In verità sono chiamati e sono ritenuti tiranni tutti quelli che sono con un potere ininterrotto in quella città che ha usufruito della libertà.

Ma c'era in Milziade come una grandissima umanità così una mirabile affabilità, così che non c'era nessuno tanto umile a cui non fosse disponibile l'avvicinamento a lui; una grande autorevolezza presso tutte le popolazioni, una nobile fama, e una grandissima gloria dell'arte militare. Il popolo guardando a queste cose preferì che quello fosse punito innocente piuttosto di essere nella paura troppo a lungo.

MILZIADE

MILZIADE OCCUPA IL CHERONESO 

Milziade, figlio di Cimone, ateniese, si distinse moltissimo sia grazie all'antichità della stirpe sia per la gloria degli antenati sia per la sua modestia.

Poiché a quei tempi gli Ateniesi desideravano mandare coloni nel Chersoneso e molti popoli chiedevano l'alleanza dell'espatrio, consultarono l'oracolo di Apollo ed elessero Milziade comandante.

Allora Milziade guerreggiò con valorosi uomini presso il Chersoneso e in breve tempo distrusse le truppe dei barbari, occupò tutta la regione, fortificò con fortezze luoghi adatti, piazzò molti uomini nelle valli e si arricchì con continui saccheggi.

Dopo che i barbari furono superati in guerra grazie al valore dei soldati, con moderazione e saggezza Milziade fondò una colonia e lì decise di abitare: infatti aveva tra gli abitanti del Chersoneso dignità regale, sebbene gli mancasse il nome di re. Dopo ridusse sotto il potere degli Ateniesi con uguale successo le restanti isole, chiamate Cicladi.



TRISTE FINE DI MILZIADE

Dopo questo combattimento gli Ateniesi misero a disposizione dello stesso Milziade una flotta di settanta navi perché portasse la guerra a quelle isole che avevano aiutato i barbari. Durante questa missione ne costrinse molte a tornare all'obbedienza, alcune le prese con la forza.

Fra queste non riusciva convincere con i negoziati l'isola di Paro orgogliosa della sua potenza; allora fece sbarcare truppe dalle navi, cinse con opere d'assedio la città e la tagliò fuori da ogni approvvigionamento: poi piazzate vigne e testuggini si accostò alle mura. Quando stava per impadronirsi della città, lontano sul continente, un bosco che si vedeva dall'isola, non so per quale accidente, di notte prese fuoco.

Quando le fiamme furono viste dagli assediati e dagli assalitori, ad entrambi venne il sospetto che si trattasse di un segnale mandato dai marinai del re. Ne conseguì che i Parii non vollero più saperne di arrendersi e Milziade temendo che si avvicinasse la flotta del re, incendiate le opere d'assedio che aveva predisposto, con le stesse navi con cui era partito tornò ad Atene, con grande disappunto dei suoi concittadini.

Fu quindi accusato di tradimento perché. pur potendo espugnare Paro, se ne era andato senza portare a termine l'impresa, in quanto corrotto dal re. In quel tempo era sofferente per le ferite che aveva riportato nell'assalto alla città; così, non essendo egli in grado di difendersi personalmente, parlò per lui il fratello Steságora.

Fatto il processo, assolto dalla pena capitale, fu condannato a una multa che fu stabilita di cinquanta talenti, esattamente la somma impiegata per allestire la flotta. Siccome non era in grado di pagare sul momento questo denaro, fu gettato nelle carceri dello Stato e lì morì.

PAUSANIA

PAUSANIA SOSPETTATO DI TRADIMENTO

Dopo questa battaglia inviano lo stesso Pausania con la flotta degli alleati a Cipro e nell'Ellesponto, con l'incarico di cacciare da quelle regioni le guarnigioni dei barbari. Avuto un esito ugualmente felice dell'impresa cominciò a comportarsi con molto orgoglio ed a prefiggersi mete più ambiziose.

Ed infatti quando, espugnata Bisanzio, catturò molti nobili Persiani e tra loro alcuni parenti del re, rispedì questi ultimi di nascosto a Serse, fingendo che fossero fuggiti dalle pubbliche prigioni, insieme con questi Gangilo di Eretria con l'incarico di consegnare al re le lettere, nelle quali erano scritte queste cose:

"Pausania, duce di Sparta, quelli che ha catturato a Bisanzio, dopoché ha appreso che sono tuoi parenti, te li ha mandati in dono e desidera imparentarsi con te; perciò, se ti sta bene, dagli in sposa la tua figliuola. Se farai così, io ti prometto di ridurre in tuo potere, col tuo aiuto, e Sparta e tutto il resto della Grecia."

Il re si rallegrò moltissimo e mandò da Pausania Artabazo con una lettera, nella quale lo colmava di lodi; chiede che nulla tralasci per realizzare quelle cose che prometteva quando fosse venuto in aiuto agli spartani; Pausania richiamato in patria fu accusato di delitto capitale ed assolto tuttavia infatti narrano che non fu condannato se non ad una ingente pena pecuniaria; e per questo non fu rimandato alla flotta.



LA VICENDA DI PAUSANIA GENERALE SPARTANO  

Pausania, un uomo famoso a Sparta veniva sia lodato per la virtù sia biasimato per i vizi.
Annientò con un ingente esercito, a Platea Mardonio, satrapo dei medi. Respinse, con la stessa fortuna i presidi dei barbari, quando fu inviato con la flotta a Cipro e in Ellesponto. 

Intensificata la superbia, al re dei persiani Serse, egli rimandò indietro i parenti di Serse prigionieri con Gongilio il Cretese con una lettera per il re. questo era il contenuto della lettera 
"Ho rimandato da te i tuoi familiari e con te sono interessato a legarmi con una parentela di matrimonio: io ti consegnerò Sparta e tutta la Grecia, se mi darai una figlia in sposa".
Ma Pausania andò in sospetto e fu messo in catene dagli efori.

I cittadini aspettavano un'occasione per punirlo e quindi così accadde. Infatti dopo che Pausania diede al fanciullo Argilio le lettere per Serse, il fanciullo aprì le lettere e scoperta la congiura ed il tradimento della patria, diede agli efori le lettere. Pausania si rifugiò nel tempio di Minerva ma serrato il tempio e il tetto fu demolito dagli efori, fu estratto morente dagli efori.



IL GIOVANE POMPONIO ATTICO CONQUISTA LA SICILIA

Silla dopo che si allontanò dall'Asia essendo giunto in quel luogo, per tutto il tempo in cui stette qui, ebbe con sé Pomponio, poiché venne catturato dall'umanità e dalla dottrina dell'adolescente.
Infatti parlava in greco così, che sembrava che fosse nato ad Atene. Ma c'era tanta soavità nel parlare in latino, da sembrare che in lui ci fosse una certa grazia innata, non acquisita.

Egli stesso pronunciava i componimenti in versi sia in greco che in latino così, che non si poteva aggiungere nulla di più. Per tali motivazioni avvenne che Silla non lo lasciò in alcun modo andare da lui, e desiderò condurlo con sé.

Costui tentando di convincerlo, disse "Io Pomponio ti prego, non devi volermi condurre contro coloro con i quali, per non portare le armi contro di te, lasciai L'italia" Ma Silla, elogiato il senso del dovere del giovane, partendo ordinò che gli venissero concessi tutti i doni, che aveva ricevuto ad Atene.



POMPONIO ATTICO E IL CULTO LETTERARIO DEI MAIORES

Attico fu un grandissimo seguace del costume degli antenati e un amatore dell'antichità, che studiò con tale cura, da averla esposta interamente in quell'opera, con cui regolò le magistrature.

Non c'è infatti nessuna legge, né pace, né guerra né gloriosa azione del popolo Romano, che non sia stata annotata in essa e, cosa che fu assai ardua, vi inserì anche la genealogia delle famiglie, perché possiamo conoscere da essa le discendenze degli uomini illustri.

Fece questa stessa cosa separatamente in altri libri, al punto che, su richiesta di Marco Bruto, passò in rassegna in ordine cronologico la famiglia Giunia dal capostipite alla nostra età, annotando da chi fosse nato, quali onori avesse ricevuto e in quali tempi.



CULTURA E UMANITA' DI POMPONIO ATTICO

POMPONIO ATTICO
Parlava infatti in Greco in modo tale da sembrare nato ad Atene; ma era di tale gradevole lingua Latina che sembrava avesse in essa una qualche grazia nativa, non acquisita. Per le quali cose avvenne che Silla non lo allontanò mai da sé e desiderò condurlo con sé. Quando tentò di persuaderlo a ciò, "Non volere, ti prego" disse Pomponio" condurmi contro coloro, con i quali ho lasciato l'Italia per non prendere le armi contro di te".

Ma Siila, avendo lodato pubblicamente l'impegno del giovane, ordinò partendo che gli fossero concessi tutti gli uffici che aveva ricevuto ad Atene. Pomponio, trattenutosi qui per molti anni, e avendo dedicato tanto impegno alla famiglia, quanto un padre di famiglia premuroso deve, e avendo occupato tutto il tempo rimanente o nelle lettere o per la comunità Ateniese, per nulla di meno si occupò dei pubblici uffici per gli amici.

Infatti e era solito recarsi ai loro comizi e, se qualche fatto di maggior importanza fu compiuto, non si sottrasse. Come offrì una singolare fedeltà a Cicerone in tutti i suoi rischi: gli donò mentre fuggiva dalla patria duecentocinquantamila sesterzi.



LA SEMPLICE E SOBRIA CASA DI POMPONIO ATTICO

E quell'uomo, in vero, non fu considerato meno esperto come padre di famiglia che come cittadino.
Infatti sebbene fosse benestante, nessuno meno di lui fu smanioso di comprare, meno desideroso di costruire. Tuttavia non ebbe una abitazione tra le migliori e non godette di tutte le comodità. Infatti abitò la casa sul Quirinale, lasciatagli in eredità dallo zio materno, la cui bellezza era costituita non tanto dall'edificio ma dal bosco.

La stessa infatti di per sé, fatta in tempi antichi, aveva più buon gusto che sfarzo; in essa non cambiò nulla, se non quello che fu costretto a cambiare per la vetustà. Fu  elegante, non magnifica; splendida, non sfarzosa; e tutta la cura manifestava finezza, non eccesso.

Modesto l'arredamento e non eccessivo. Non ebbe nessun giardino, nessuna villa sontuosa fuori città o al mare eccetto ad Arezzo e a Nomento, un podere di campagna, e tutta la sua entrata di denaro dipendeva in possedimenti urbani in Epiro.



ANTONIO RISPARMIA ATTICO DALLA PROSCRIZIONE

Quando Antonio tornò in Italia tutti ritenevano che Attico corresse un grande pericolo per l'intima familiarità Con Cicerone e Bruto.

Pertanto poco prima dell'arrivo dei generali aveva smesso di apparire in pubblico, temendo la proscrizione e stava nascosto presso P. Volumnio, al quale, come abbiamo detto, aveva prestato poco prima il suo aiuto (tanto grande fu in quei tempi la mutabilità della fortuna che ora l'uno ora l'altro veniva a trovarsi o all'apogeo del potere o nel massimo pericolo) ed aveva con sé Q. Gellio Cassio suo coetaneo ed in tutto simile a lui.

Anche questo sia un esempio della bontà di Attico: il fatto che con lui che aveva conosciuto fanciullo alla scuola, visse tanto affiatatamente, che la loro amicizia crebbe fino all'età estrema. Ma Antonio, sebbene fosse spinto da tanto odio contro Cicerone, da essere nemico non solo di lui ma anche di tutti i suoi amici e li volesse proscrivere, incoraggiato da molti, tuttavia fu memore del favore di Attico e informatosi dove fosse, gli scrisse di sua mano che non temesse e che andasse subito da lui: egli aveva infatti fatto togliere lui ed in grazia sua Canio dalla lista dei proscritti.

E perché non incappasse in qualche pericolo, dato che la cosa avveniva di notte, gli mandò una scorta.



CORRISPONDENZA DI OTTAVIANO E DI ANTONIO CON P. ATTICO

Ottaviano, non solo quando si trovava lontano dalla città, non mandava mai alcuna lettera ai suoi, senza scrivere ad Attico cosa facesse, specialmente cosa leggesse e in quali luoghi si trovasse e per quanto tempo vi si sarebbe fermato, ma anche, quando si trovava in città e a causa dei suoi infiniti impegni godeva della presenza di Attico meno spesso di quanto volesse, non passava nessun giorno in cui non gli scrivesse, poiché ora gli chiedeva qualche informazione sulla storia antica, ora gli proponeva una discussione poetica, talvolta scherzando lo induceva a scrivere lettere più lunghe.

Da ciò accadde che, essendo caduto in rovina a causa dalla vecchiaia e della trascuratezza, il tempio di Giove Feretrio, sul Campidoglio, costruito da Romolo, Cesare, dietro suggerimento di Attico, si impegnò nel restaurarlo.

E quando era lontano non riceveva per lettera minori attestazioni di stima da Marco Antonio, a tal punto che quello dalle più lontane regioni rendeva informato dettagliatamente per lettera Attico su cosa facesse e su quali incarichi avesse per sé.



MORTE DI POMPONIO ATTICO

Pronunciata quest’orazione in verità Agrippa piangendo e baciandolo pregava e scongiurava, che egli stesso non affrettasse anche per sé ciò, che la natura imponeva, e dato che allora poteva resistere anche alle circostanze, che si mantenesse in vita per sé e per i suoi, declinò con la propria taciturna ostinazione le preghiere di costui.

Così essendosi astenuto dal cibo per due giorni la febbre cessò repentinamente e la malattia cominciò ad essere più lieve. Nonostante ciò il proposito si realizzò non di meno. Pertanto nel quinto giorno dopo che era subentrata tale decisione.

Morì sotto i consoli Cn. Domizio e C. Sosio. Fu trasportato sulla lettiga, come egli stesso aveva prescritto, senza alcun corteo funebre, con tutti gli onesti che lo accompagnavano, con la massima affluenza del volgo. Venne sepolto nei pressi della via Appia sulla quinta pietra nella tomba di suo zio, Q. Cecilio.



SAGGIO GOVERNO DI TIMOLEONTE IN SICILIA  

Timoleonte, cacciato Dionisio e annientati i Cartaginesi, poiché, a causa della lunga durata della guerra, erano state abbandonate non solo le regioni, ma anche le città, in un primo momento mandò a chiamare i coloni dalla Sicilia, poi da Corinto, poiché da loro all'inizio era stata fondata Siracusa.

Restituì agli antichi cittadini i loro beni, e divise fra i nuovi i nuovi i possedimenti ottenuti dalla guerra, ricostruì le mura demolite delle città e i templi devastati dalle fondamenta, restituì alle città le leggi e la libertà: da un così devastante conflitto procurò all'intera isola una così grande tranquillità da essere giudicato egli stesso il fondatore di quelle città e non quelli che le fondarono all'origine.

Demolì dalle fondamenta la rocca che Dionisio aveva fortificato per sottomettere la città in suo potere, distrusse gli altri baluardi della tirannide e si adoperò perché non rimanesse traccia della schiavitù.

Pur avendo un potere così grande da poter comandare anche su quelli che non volevano e pur avendo, inoltre, un così grande affetto da tutti i Siciliani da poter ottenere il regno, preferì essere amato che temuto. Pertanto, non appena gli fu possibile abbandonò il potere e trascorse il resto della vita a Siracusa come un cittadino privato.


TIMOLEONTE DIFENDE FINO ALL'ULTIMO LA LIBERTA' DI PAROLA

Timoleonte, essendo ormai anziano, senza alcuna malattia perse la vista.
Sopportò tale sciagura così moderatamente che nessuno lo sentì che si lamentava né partecipò meno alle faccende private e pubbliche.

Inoltre dalla sua bocca non uscì mai niente di arrogante né borioso. Il quale, quando udiva che venivano celebrate le sue lodi, non disse mai altro se non che in quella circostanza ringraziava sommamente gli Dei. Diceva, infatti, che nessuna delle cose umane poteva essere compiuta senza la volontà degli Dei. Per la sua onestà accadde che tutta la Sicilia ritenesse giorno di festa il giorno della sua nascita.

Un giorno un tale Lafistio, uomo sfacciato ed ingrato, volle imporre a costui l'impegno di comparire in giudizio. Essendo accorsi parecchi, che tentavano di reprimere con le mani l'insolenza dell'uomo, Timoleonte pregò tutti di non farlo. Disse infatti di avere affrontato grandissime fatiche ed estremi pericoli affinché ciò fosse possibile per chiunque; disse, infatti, che questo è il bello della libertà, se a tutti è possibile ricorrere alle leggi in ciò che ciascuno vuole.


ALTERNE SORTI DELL'ATENIESE TIMOTEO

Contro Filippo Menesteo, figlio di Ificrate e genero di Timoteo, viene investito del comando di console con l'ordine di partire per la guerra; gli si danno come consulenti il padre e il suocero, uomini di particolare esperienza e avvedutezza e dotati di tanta autorità che si poteva ragionevolmente sperare di riacquistare per mezzo loro il perduto.

Poichè essi erano già partiti alla volta di Samo, Carete, non appena lo seppe, perché non sembrasse che si facesse qualche operazione senza di lui, vi si recò egli pure con tutte le sue forze. Ma accadde che, mentre si accostavano all'isola, si scatenasse una gran burrasca, per schivare la quale i due anziani comandanti giudicarono conveniente interrompere la navigazione.

Quello, invece, lasciandosi guidare dalla sua pazza temerarietà, come se la fortuna fosse alla sua mercè, non si piegò all'autorità dei più vecchi: giunse là dove voleva e mandò a dire a Timoteo e a Ificrate che lo raggiungessero. Ma l'impresa gli andò male, tanto che dovette tornare alla base di partenza con parecchie navi in meno. Mandò allora una relazione ufficiale ad Atene, affermando che la conquista di Samo gli sarebbe stata cosa facile se Timoteo e Ificrate non lo avessero piantato in asso.

Il popolo, irascibile, sospettoso e di conseguenza volubile, ostile e invidioso, anche la potenza era considerata una colpa, li richiama in patria e li mette sotto inchiesta per tradimento. In tale processo viene condannato Timoteo e l'ammenda è stabilita in cento talenti. Egli, esacerbato dall'odio della sua ingrata città, si stabilì a Calcide.

Dopo la sua morte, il popolo pentito del proprio giudizio, condonò i nove decimi della multa e ordinò al figlio Conone di pagare dieci talenti per rifare un certo tratto delle mura.



UNA CORONA PER TRASIBULO

A Trasibulo, per tanti meriti, fu data una corona d'onore dal popolo, fatta da due ramoscelli d'ulivo: poichè aveva fatto uscire l'amore dei cittadini e non la forza, egli non ebbe invidia e fu di grande gloria. Quindi quel famoso Pittaco, che fu considerato nel numero dei 7 sapienti, dando a lui gli abitanti di Mitilene molte migliaia di jugeri di campo in dono disse:

"Non vogliate, vi prego, darmi ciò, che molti potrebbero invidiare, numerosi anche desiderare. Poichè tra codeste cose non voglio più che cento iugeri, che indichino anche la mia equità d'animo e la vostra volontà. Infatti i piccoli doni durevoli, sono soliti essere non propriamente ricchezze".

Dunque Trasibulo, contento, né pretese di più né ritenne di distinguesi in alcuna cosa per onore. Costui, qualche tempo dopo, essendo approdato un pretore con la flotta in Cilicia, affinché le guardie non giungessero abbastanza diligentemente nel suo accampamento, da barbari, fatta irruzione dalla città nella notte, fu ucciso nella tenda.



UN GENERALE ODIATO E POI RIMPIANTO

Visto che era l'unico nella città a distinguersi in modo così eccellente per queste imprese, cadde nella stessa invidia di suo padre e degli altri principi ateniesi.

Così con il voto dei cocci, che quelli chiamano "ostracismo", fu condannato a 10 anni di esilio. Di questo, però, si pentirono gli Ateniesi prima ancora di lui. Infatti, mentre lui si era piegato con animo forte all'ostilità dei suoi ingrati concittadini, giacchè gli Spartani avevano dichiarato guerra agli Ateniesi subito si rimpianse il suo ben noto valore.

Così, dopo il quinto anno che era stato cacciato fu richiamato in patria. Egli che aveva approfittato dell'accoglienza degli Spartani, ritenendo più conveniente ritirarsi che combattere, per sua spontanea volontà avanzò a Sparta e mise pace tra le due potentissime città.

Non molto dopo, l'imperatore mandato con duecento navi a Cipro, dopo aver sottomesso la maggior parte dell'isola, caduto in malattia morì nella città di Cizio. Lo rimpiansero a lungo non solo durante la guerra ma anche in tempo di pace. Infatti aveva proprietà e terreni in molti luoghi, ma fu di tanta generosità che mai in quelli aveva messo dei custodi per preservarne i prodotti.



PELOPIDA

Dubito sulle virtù di Pelopida ad ogni modo io le esporrò, perché temo che, se comincerò a spiegare le cose, sembra che io non narri la sua vita, ma scriva la storia; se avrò toccato le essenze, appaia meno distintamente ai poco esperti quanto grande sia stato quell’uomo. Pelopida lottò anche contro la fortuna avversa.

Una volta persuase i tebani a partire per la Tessalia e a cacciare i tiranni dalla loro regione. Essendogli stata dato il comando di questa guerra e partito perciò con l’esercito, non dubitò, appena vide il nemico, di attaccare. In questo combattimento però come scoprì Alessandro, acceso d’ira spronò contro di lui il cavallo, ed uscito lontano dai suoi, trafitto dal lancio di giavellotti, cadde. Anche questo accadde essendo la vittoria favorevole: infatti le truppe dei tiranni erano già piegate. Per tale fatto tutte le città della Tessaglia donarono a Pepopida, ucciso, corone d’oro e statue di bronzo.


TEMISTOCLE E LA BATTAGLIA DI SALAMINA

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TEMISTOCLE

Serse espugnate le Termopili si avvicinò prontamente alla città e la distrusse con un incendio dato che nessuno la difendeva una volta uccisi i sacerdoti che aveva trovato sulla rocca.

I soldati della flotta, atterriti dalle fiamme, non osavano rimanere in quel luogo e moltissimi erano del parere di tornare alle proprie città e difendersi dentro le mura; ma Temistocle da solo si oppose affermando che tutti uniti potevano far fronte, divisi sarebbero sicuramente periti e sosteneva questa tesi davanti ad Euribiade, re degli Spartani che allora aveva il comando supremo.

Ma non riuscendo a convincerlo come voleva, di notte mandò al re persiano il suo servo più fidato, perché gli portasse a nome suo la notizia che i suoi nemici erano in fuga: ma se questi si fossero allontanati, avrebbe durato più fatica e più tempo a concludere la guerra, dovendo inseguirli singolarmente; mentre se li avesse attaccati subito, in breve li avrebbe sconfitti tutti.

Con questo stratagemma voleva che tutti fossero costretti loro malgrado a combattere. A questa notizia, il re credendo che non ci fosse sotto alcun inganno, il giorno dopo, in una posizione per lui del tutto sfavorevole e invece molto vantaggiosa per i Greci, si scontrò con loro in un braccio di mare così angusto che la sua numerosa flotta non poté attuare lo spiegamento. Così fu vinto più dallo stratagemma d Temistocle che dalle armi greche.



TEMISTOCLE IN ESILIO

Per quello stesso timore per cui era stato condannato Milziade, cacciato dalla città per mezzo dell'ostracismo andò a vivere ad Argo.

Poiché questo viveva grazie alle sue molte virtù con grande dignità, gli Spartani mandarono ad Atene degli ambasciatori, che lo accusarono mentre era assente, di aver fatto un'alleanza con il re Perse per sottomettere la Grecia.

A causa di questo crimine fu condannato per tradimento in contumacia. Quando seppe ciò, poiché non gli sembrava di essere abbastanza al sicuro ad Argo, si trasferì a Corcìra. Qui, rendendosi conto che i cittadini più importanti temevano che a causa sua gli Spartani e gli Ateniesi gli avrebbero mosso guerra, si rivolse ad Admeto, re dei Molossi, con cui aveva un legame di ospitalità. Quando giunse là, poiché in quel momento il re non era era presente, perché, dopo averlo accolto, tenesse a riceverlo con maggiore apprensione, rapì la piccola figlia di questo e con quella si diresse al santuario, poiché era celebrata un'importante cerimonia.

Non uscì di lì prima che il re non lo ebbe accolto in fiducia dandogli la destra; e la mantenne. Infatti benché fosse reclamato a nome dello Stato dagli Spartani e dagli Ateniesi, non tradì il supplice e lo consigliò di provvedere alla sua incolumità; era infatti difficile per lui rimanersi al sicuro in un luogo così vicino.

Così lo fece accompagnare a Pidna e gli diede una scorta sufficiente per la sua sicurezza. Qui si imbarcò in incognito a tutto l'equipaggio. Una violenta tempesta spinse la nave verso Nasso dove era allora un esercito ateniese, per cui Temistocle capì che se fosse arrivato lì per lui sarebbe stata la fine. Trovandosi a mal partito, rivela la propria identità al comandante della nave, facendogli molte promesse se lo avesse salvato.

Quello allora preso da pietà per un uomo così famoso, per un giorno e una notte tenne la nave ancorata in una rada lontana dall'isola e non permise che alcuno ne scendesse. Quindi giunse ad Efeso e li sbarcò Temistocle. E questi in seguito gli mostrò una riconoscenza adeguata al beneficio.



GRANDEZZA DI TEMISTOCLE

Il primo passo di impegnarsi per lo stato fu nella guerra di Corcira; per guidarla eletto comandante dal popolo non solo nella guerra presente, ma anche nel tempo restante rese la città più fiera.

Infatti mentre il denaro pubblico, che rientrava dalle miniere, per la prodigalità dei magistrati annualmente periva, egli persuase il popolo che con quel denaro si allestisse una flotta di cento navi. Costruita questa velocemente dapprima spezzò i Corciresi, poi inseguendo i pirati marittimi rese il mare sicuro.

In questa cosa da una parte adornò di ricchezze, dall’altra pure rese gli Ateniesi espertissimi di guerra navale. Di quanta grande salvezza ciò sia stato per tutta la Grecia, si conobbe con la guerra persiana.

Infatti poiché Serse e per mare e per terra dichiarava guerra a tutta l’Europa con così grandi truppe, quante né prima né poi nessuno ebbe – la flotta di questi fu di mille e duecento navi da guerra, che migliaia di navi da carico seguivano; gli eserciti poi di terra furono di settecento migliaia di fanti, quattrocento migliaia di cavalieri.



TEMISTOCLE INTERPRETA ACCORTAMENTE UN VATICINIO DELLA PITIA

Ma c'era fra gli Ateniesi un uomo di recente nei cittadini dell'autore dell'era attuale o di cui era nome Temistocle ma gli impiegati chiamati figlio di Neocle.

Egli diceva che gli interpreti ufficiali non avrebbero richiesto tutto ciò che era necessario dire altrimenti, che se davvero l'oracolo avesse osservato quali aveva detti gli ateniesi non sarebbe apparso che il responso dato mitemente ma così: "Salamina divina", o "Maledetta Salamina", a condizione che tu abbia il diritto di noleggiare una nave.

Infatti, in modo corretto, l'oracolo dato dal Dio come riferito ai nemici e non agli Ateniesi; nell'inventario dunque dei preparativi per le navi della marina, perché proprio queste erano legate a Salamina.

Quando Temistocle chiarì in modo di senso del responso, molto preferibile a quella degli interpreti ufficiali, che il Dio concorda  nella preparazione di una battaglia navale, ma non una resistenza senza contatto, così l'Attica conoscerà la stabilità in un altro paese.



TEMISTOCLE ABILE GENERALE E UOMO POLITICO

Temistocle essendo apprezzato poco dai genitori, sia perché viveva in maniera piuttosto libera sia perché trascurava il patrimonio familiare, fu diseredato dal padre.

Questo affronto però non lo piegò, anzi lo incoraggiò. Infatti, giacchè riteneva che questo non potesse essere cancellato senza grandissimo impegno, si diede interamente all'attività politica, dedicandosi con una certa diligenza agli amici e alla gloria. Si occupava molto di cause private, spesso si presentava all'assemblea del popolo; nessun affare di una certa importanza si trattava senza di lui; trovava facilmente quanto era necessario e lo chiariva con facilità di parola. E non era meno pronto nell'esecuzione che nell'ideazione, poichè, come dice Tucidide, non solo giudicava esattamente le situazioni presenti, ma anche prevedeva con grande abilità quelle future.

Perciò accadde che in breve tempo diventò famoso. il primo passo della sua carriera politica fu al tempo della guerra di Corcira: eletto stratego dal popolo per condurla, rese la città più ardita non solo nella guerra di allora ma anche per il futuro.

Siccome il denaro pubblico che si ricavava dalle miniere veniva sperperato ogni anno a causa delle elargizioni dei magistrati, convinse il popolo a impiegare quel denaro per costruire una flotta di cento navi. Allestita in breve una tale flotta, dapprima debellò i Corciresi, poi dette la caccia ai predoni marittimi finché rese il mare sicuro. Con che arricchì gli Ateníesi e nel contempo li rese espertissimi nella guerra navale. Quanto questo abbia contribuito alla salvezza di tutta quanta la Grecia, si vide nella guerra contro i Persiani.


IL PRESTIGIO DI TEMISTOCLE

Temistocle, figlio di Neocle, era un Ateniese. I suoi difetti dell'età giovanile furono corretti con le grandi virtù a tal punto che nessuno si anteponeva a lui, pochi erano ritenuti eguali.
Ma dobbiamo cominciare dal principio. Suo padre Neuclo fu generoso. Egli sposò una cittadina di Acarnana, Da cui ebbe Temistocle, che si dedicò interamente allo stato, mettendosi più diligentemente al servizio degli amici e della notorietà.

Prendeva spesso parte ai processi privati, si mostrava soventemente nell'assemblea del popolo; senza di lui non si trattava alcuna questione più importante, ed era pronto a compiere le azioni non di meno di escogitarle, perché, come disse Tucidide, giudicava molto rettamente in merito alle situazioni presenti e congetturava molto astutamente relativamente agli eventi futuri.

Ma il primo passo fu di darsi alla vita politica con la guerra di Corfù; per compierla fu eletto pretore dal popolo e non solo durante l'immediata guerra, ma anche nel tempo restante rese più fiera la città.
Infatti dato che la rendita pubblica, che veniva ricavata dalle miniere, a causa delle elargizioni annuali dei magistrati andò perduta, egli convinse il popolo che con tale rendita era stata costruita una flotta di cento navi. Compiuto velocemente tale affare prima di tutto disperse gli abitanti di Corfù, poi col dare la caccia ai pirati marittimi rese il mare sicuro. .

CATACOMBE DI COMMODILLA

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CUBICULUM LEONIS
Queste catacombe sono poste in via delle Sette Chiese, non molto lontano dalla via Ostiense, nel quartiere Ostiense, e traggono il nome dalla fondatrice o dalla donatrice del terreno su cui venne scavato il complesso cimiteriale sotterraneo, peraltro conosciuto anche col nome dei due principali martiri secondo la tradizione qui sepolti, Felice e Adautto.

Felice e Adautto vennero uccisi forse durante le persecuzioni di Diocleziano che durarono dal 303 al 305 con:

a) il rogo dei libri sacri, la confisca dei beni delle chiese e la loro distruzione;
b) il divieto per i Cristiani di riunirsi e di tentare qualunque tipo di difesa in azioni giuridiche;
c) la perdita di carica e privilegi per i cristiani di alto rango, l'impossibilità di raggiungere onori ed impieghi per i nati liberi, e di poter ottenere la libertà per gli schiavi.
d) l'arresto di alcuni funzionari statali.

Molto più violenta fu la persecuzione di Diocleziano contro i Manichei, religione del profeta iraniano Mani all'interno dell'Impero sasanide, dove i seguaci vennero messi al rogo insieme ai loro libri, ma questi non produssero santi.

Il culto di Felice a Adautto come santi risale al IV secolo, documentato da un carme loro dedicato da papa Damaso I (366 - 384) che, con la collaborazione del prete Vero, curò la monumentalizzazione dei loro sepolcri nelle catacombe di Commodilla.

Stranamente Commodilla è consideta una santa ed ha l'aureola, tuttavia la catacomba è di Commodilla, non di santa Commodilla.

MADONNA,  FELICE, ADAUTTO E COMMODILLA
Papa Damaso I dovette affrontare papa Ursino per conquistare il soglio pontificio, questo accadeva spesso e chi perdeva diventava antipapa:

«L'ardore di Damaso e Ursino per occupare la sede vescovile superava qualsiasi ambizione umana. Finirono per affrontarsi come due partiti politici, arrivando allo scontro armato, con morti e feriti; il prefetto, non essendo in grado di impedire i disordini, preferì non intervenire. Ebbe la meglio Damaso, dopo molti scontri; nella basilica di Sicinnio, dove i cristiani erano riuniti, si contarono 137 morti e dovette passare molto tempo prima che si calmassero gli animi. Non c'è da stupirsi, se si considera lo splendore della città di Roma, che un premio tanto ambito accendesse l'ambizione di uomini maliziosi, determinando lotte feroci e ostinate. Infatti, una volta raggiunto quel posto, si gode in santa pace una fortuna garantita dalle donazioni delle matrone, si va in giro su di un cocchio elegantemente vestiti e si partecipa a banchetti con un lusso superiore a quello imperiale.»

(Ammiano Marcellino - Res Gestae, XXVII, 12-14)

Il prefetto di Roma, di cui parlava Ammiano Marcellino, attese che si concludessero i disordini e una volta accertata la vittoria del partito di Damaso, esiliò da Roma Ursino. Ma i suoi seguaci non vollero accettare la sconfitta e si rifugiarono nella basilica di Santa Maria Maggiore che i damasiani il 26 ottobre assalirono: si accese una battaglia, con morti e feriti.

CATACOMBE DI COMODILLA
Riammesso l'anno seguente a Roma, Ursino cercò nuovamente di prendere il posto di Damaso, dando vita ad altri disordini e ricavandone un nuovo esilio. Dalla Gallia e da Milano, Ursino nel 370 fece accusare Damaso di gravi delitti. Fu celebrato un processo che nel 372 assolse il vescovo di Roma, e Ursino fu definitivamente esiliato a Colonia.

Questi contrasti si rifletterono non solo sulla reputazione di Damaso ma anche su quella della Chiesa romana. Molti, sia nella società pagana che in quella cristiana, videro in Damaso un uomo le cui ambizioni terrene erano superiori alle preoccupazioni pastorali.

Nel 378, alla corte imperiale, fu mossa contro Damaso anche un'accusa di adulterio, dalla quale fu scagionato prima dall'Imperatore Graziano e, poco dopo, da un sinodo romano di quarantaquattro
vescovi, che scomunicò i suoi accusatori.

L'elogio di Damaso dice Felice e Adautto fratelli; secondo una leggendaria passio tarda del VII secolo, invece, Felice era un prete condannato a morte per essersi rifiutato di sacrificare agli idoli e, mentre veniva condotto al luogo del supplizio, un altro cristiano confessò la sua fede e subì la stessa condanna. Poiché dell'altro martire si ignorava il nome, venne chiamato "adauctus" (da adiuctus), ovvero "aggiunto".

La basilica ipogea dei Santi Felice e Adautto nel cimitero di Commodilla fu edificata sotto il pontificato di Giovanni I e fu riscoperta da Orazio Marucchi grazie agli scavi eseguiti tra il 1903 e il 1905 dalla Pontificia commissione di archeologia sacra.



LA DESCRIZIONE

La Catacomba si sviluppa su tre livelli di cui quello mediano è ricavato in un'antica cava di pozzolana, dove si trovano le sepolture dei martiri, in una piccola basilica ipogea, E' proprio da questa cava che si è sviluppato il resto delle catacombe. Nel sopraterra non esistono monumenti connessi con le catacombe.

Dai reperti ritrovati le catacombe si datano tra la metà e gli inizi del IV secolo, e la passio data il martirio di Felice ed Adautto negli ultimi anni di vita dell'imperatore Diocleziano (284-305). Ciò è stato spiegato come se la cava fosse stata utilizzata per la sepoltura quando ancora era funzionante, cioè nella seconda metà del IV secolo e fino alla fine del secolo, perchè nel V e nel VI secolo vengono utilizzate solo a scopo devozionale.

La catacomba è ricca di affreschi, da quello di San Luca del VII sec. raffigurato con i ferri del mestiere di chirurgo nella tomba di Tortura del VI sec., a quello della consegna delle chiavi a Pietro del VI sec.

Dalla cripta completamente affrescata del cosiddetto cubicolo di Leone, ufficiale romano prefetto dell’annona della metà del IV sec., alla cripta o basilichetta del VI secolo dedicata ai santi martiri Felice e Adàutto, che custodisce anche la più antica attestazione nota di scritto in volgare, risalente alla prima metà del IX secolo, "non dicere ille secrita a boce"… "non dire i segreti a voce (alta)".
L'indicazione si riferisce ai mysteria, o orazioni segrete, che secondo le indicazioni dello scrivente andavano pronunciate a bassa voce.

FACCIA DEL CRISTO
In seguito, come per le altre catacombe, essa fu trasformata in un luogo di culto martiriale: la basilica venne restaurata dai papi fino al IX secolo, come luogo di pellegrinaggio di devoti cristiani. Vi sono state rinvenute anche monete con l'effigie di papa Gregorio IV (827-844). Papa Leone IV (847-855) invece donò le reliquie dei martiri Felice ed Adautto alla moglie dell'imperatore Lotario, riconosciuto venerabile per la sua condotta a favore della Chiesa, tanto che gli fu iniziato un processo di beatificazione mai portato a termine.

In seguito la catacomba venne abbandonata e dimenticata.

Fu scoperta nel 1595 dall'archeologo Antonio Bosio, ma chi la identificò come quella di Commodilla fu, nell'Ottocento, Giovanni Battista de Rossi.

Campagne di restauro furono eseguite all'inizio del XX secolo e portarono allo scavo completo del secondo livello cimiteriale, cioè all'antica cava di pozzolana.

Nella catacomba vi sono particolari sepolture dette a pozzo: si tratta di fosse profonde, ove si contano fino a 20 loculi disposti nelle pareti della fossa e sovrapposti l'uno all'altro. 

Dispone di un'architettura architettonica, epigrafica e iconografica con rari cubicoli e arcosoli, e spesso le iscrizioni marmoree contengono errori di ortografia.

Notevole invece la piccola basilica dei santi Felice e Adautto; ricavata dall'antica cava di pozzolana (al secondo livello), che fu chiusa ed allargata per le esigenze di culto.

Altre tombe:

- la cosiddetta tomba di Turtura (metà del VI secolo): sepolta dal figlio con una tomba arricchita da un affresco che raffigura la Madonna, con in braccio Gesù, accanto alle figure dei santi Felice, Adautto e Turtura; un'epigrafe, recita: “Il tuo nome è Turtura, e tu fosti una vera tortora”;
- l'affresco di san Luca, della seconda metà del VII secolo, in cui il santo ha con sé una piccola borsa con gli strumenti da chirurgo;
- l'affresco della consegna delle chiavi a Pietro (VI secolo): dove Cristo seduto su un globo consegna le chiavi a Pietro; con i santi: Adautto, Merita, l'apostolo Paolo, Felice, Stefano protomartire.
- Notevole anche il cubicolo di Leone, ufficiale romano prefetto dell'annona (seconda metà del IV secolo), che commissionò la cripta per sé e la sua famiglia, completamente dipinta con scene bibliche.

PRIMA CHE IL GALLO CANTI

I MARTIRI

Oltre a Felice ed Adautto: il carme di papa Damaso, andato perduto ma di cui si conserva una copia  altomedievale, narra che i due martiri erano fratelli ed entrambi presbiteri.

La passio leggendaria del VII secolo narra invece che, durante il martirio di Felice, uno sconosciuto uscì dalla folla e, confessando di essere cristiano, chiese di morire con Felice: di lui non si conosceva il nome, per cui passò alla storia col nome di l'aggiunto. Di questi due santi sarebbero state trovate le tombe.

Per altri martiri e santi:

- una santa di nome Merita, il cui nome si legge in un affresco vicino alla sepoltura di Felice e Adautto ma le fonti liturgiche non dicono nulla di lei, mentre scrivono di due sorelle martiri, Degna e Merita, vennero sepolte in Commodilla; ma di Degna non c'è traccia nelle catacombe. I nomi sembrano ricavati dalla fede popolare sulla base di iscrizioni funerarie. I loro corpi e le rispettive lapidi furono infatti recuperate nelle catacombe di Commodilla senza altra indicazione sulle loro vicende terrene. I suoi resti insieme a quelli di Merita vennero traslati nella chiesa di San Marcello al Corso durante il pontificato di papa Paolo I.

- il Martirologio geronimiano, alla data del 29 agosto, accanto a Felice ed Adautto, nomina una certa Gaudenzia, di cui non c'è traccia nella catacomba;

- infine le guide per pellegrini dell'alto medioevo parlano di un altro martire, Nemesio, che però non risulta da nessuna parte.



CODICE TEODOSIANO

 «È nostra volontà che tutti i popoli che sono governati dalla nostra moderazione e clemenza aderiscano fermamente alla religione insegnata da s. Pietro ai Romani, conservata dalla vera tradizione e ora professata dal pontefice Damaso e da Pietro, vescovo di Alessandria, uomo di apostolica santità. Secondo la disciplina degli Apostoli e la dottrina del Vangelo, crediamo nella sola divinità del Padre, del Figlio e dello Spirito Santo, sotto un'uguale maestà e una pia Trinità. Autorizziamo i seguaci di questa dottrina ad assumere il titolo di cristiani cattolici, e siccome riteniamo che tutti gli altri siano dei pazzi stravaganti, li bolliamo col nome infame di eretici, e dichiariamo che le loro conventicole non dovranno più usurpare la rispettabile denominazione di chiese. Oltre alla condanna della divina giustizia, essi debbono prepararsi a soffrire le severe pene che la nostra autorità guidata da celeste sapienza, crederà d'infliggere loro.» 
(Codex Theodosianus, libro XVI, titolo I, legge 2).



CARTHAGO NOVA - CARTAGENA (Spagna)

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RICOSTRUZIONE DEL FORO DI CARTHAGO NOVA
La città di Carthago Nova, oggi Cartagena, era stata fondata dai Cartaginesi, esattamente da Asdrubale (270 - 221 a.c) nel 221 a.c., su una preesistente città iberica (Massia o Mastia), un centro molto importante perchè nei suoi pressi c'erano ricche miniere d’argento.

Ma soprattutto era importante la sua posizione, punto d'appoggio ideale per raggiungere l'Africa. La città era fornita di un grande porto sufficiente per qualunque flotta e forse era l'unico spagnolo che si affacciava sul Mare Mediterraneo.

Mastia venne menzionata dal poeta greco-romano Rufo Festo Avieno (IV secolo) nell'opera denominata: "Ora maritima", una poesia in cui sono descritte le coste del Mediterraneo, che contiene le più antiche notizie conservate sulla penisola iberica.

Essa è citata anche nel secondo trattato romano-cartaginese nel anno 348 a.c. come Mastia Tarseion (Mastia dei Tartessians).

COME APPARIVA IN EPOCA IMPERIALE (INGRANDIBILE)
Carthago sorgeva in un golfo a metà della costa iberica, secondo Polibio profondo venti stadi (uno stadio 177 m), e, all'entrata, largo dieci. All'ingresso di questa insenatura c'era una piccola isola, a protezione del porto.

Dalla profonda insenatura sporgeva una penisola, sulla cui altura sorgeva la città, il cui perimetro, come informa Polibio, era di circa  Km 3,7.
Il lato meridionale della città era protetto direttamente dal mare, quello settentrionale da una ampio stagno, che variava di profondità con le maree.

Una collina larga quasi 250 passi (370 metri) univa la città al continente. Era pertanto una città molto protetta e difficilmente espugnabile.
Polibio descrive la città con una depressione al centro e pianeggiante sul mare, mentre sugli altri lati era circondata da colli, due molto scoscesi, gli altri tre più bassi, ma rocciosi e difficili da scalare.

Il più alto dei colli, a est, si protendeva verso il mare con in cima il tempio di Asclepio.

Il colle a ovest aveva in cima una splendida reggia edificata da Asdrubale, quando voleva farsi re.

La palude a nord era collegata con il mare attraverso un canale su cui venne costruito un ponte, per i trasporti commerciali.




LA COLLINA DEL MOLINETE

La Collina del Molinete, nel cuore di Cartagena, è il più grande parco archeologico urbano d'Europa. Su una delle sue pendici, vicino al Foro, troviamo un gruppo di edifici dove sono conservate le terme e il loro accesso porticato, e un edificio dedicato alla celebrazione di banchetti religiosi, dove le sue pitture murali, le colonne sopraelevate e le ampie sale riportano il visitatore indietro nel tempo.

La collina delle Molinete, una delle cinque menzionate dallo storico Polibio nella s. II a.c. Come sede del Palazzo Asdrúbal, è una delle grandi riserve archeologiche dell'antica Carthago-Nova. 

Tra i reperti archeologici, possiamo evidenziare:

- i resti di un "castellum aquae" nella parte alta,
- i resti del Foro
- il podio del possibile tempio capitolino della città
- la curia della fine del I secolo a.c.,
- vestigia di fortificazioni romane,
- strutture tardo-repubblicane associate a un tempio di una cronologia leggermente precedente, accanto a una cappella della Dea siriana Atargatis.
- l'arena dei bagni romani di Honda Street, che è l'introduzione ai bagni e alla sala da ginnastica. Il pavimento della palestra, magnificamente conservato, è di mattoni a punta.
- La costruzione dell'atrio, dedicata alla celebrazione di banchetti rituali, che aveva due piani.
- Parte del forum, centro politico, economico, legislativo e sociale della città romana.
- Parte di quello che sembra essere un tempio dedicato alle divinità orientali Iside e Serapide
- E, un tratto di strade e strade romane che hanno ancora tracce di macchine che passavano lì nel solito modo.
- un bugnato con un fallo scolpito rovesciato, che aveva un carattere protettivo contro il malocchio e gli spiriti maligni.



LA STORIA

Carthago Nova venne fondata dal generale cartaginese Asdrubale nell'anno 227 a.c. con il nome di Qart Hadash (città nuova) nella zona precedentemente occupata dalla città di Mastia, divenendo la principale città dei cartaginesi in Spagna tanto è vero che Annibale partì da qui per iniziare la Seconda guerra punica.

"- Dopo aver interrogato tutti coloro che conoscevano bene la città di Nova Carthago, venne a sapere che era in pratica l'unica città dell'Iberia a possedere un porto adatto a contenere un'intera flotta; 
- che si trovava in una posizione strategica chiave per i Cartaginesi, i quali dalla Libia potevano fare una traversata diretta per mare; 
- che i Cartaginesi avevano in questa città la maggior parte delle loro ricchezze e tutti i bagagli dei loro soldati, oltre agli ostaggi di tutta l'Iberia sottomessa; 
- ed infine che i soldati che erano stati lasciati a sua difesa erano soltanto un migliaio circa, e che la sua restante popolazione era composta di artigiani, operai e marinai, quasi tutti privi di una qualsiasi esperienza militare."

La città venne espugnata dopo un breve assedio (Assedio di Carthago Nova) dalle truppe romane comandate da Scipione l'Africano che, data la posizione strategica della città e per via delle sue possenti fortificazioni, la prese attaccando dal lato nord della laguna che risultò guadabile a piedi grazie alla marea e al vento di tramontana.

RICOSTRUZIONE DEL PORTO

LE MINIERE D'ARGENTO

"Polibio, quando menziona le miniere d'argento di Cartagena, dice che sono molto grandi, che sono distanti dalla città circa venti stadi, ("circa quattro km") che occupano un'area di quattrocento stadi, ("circa settantacinque km") che quarantamila operai lavoravano lì e che ai loro tempi riportavano al popolo romano 25.000 dracme al giorno. 

E ometto tutto ciò che conta del processo di lavorazione, perché è una lunga storia; ma non quello che si riferisce alla ganga argentina trascinata da una corrente, che, dice, è schiacciata e attraverso i setacci è separata dall'acqua; i sedimenti vengono frantumati ancora e ancora filtrati e, separati dall'acqua, nuovamente schiacciati. 

Quindi, questo quinto sedimento si scioglie e, separato dal piombo, rimane l'argento puro. Attualmente le miniere d'argento sono ancora attive; ma sia qui che altrove, hanno smesso di essere pubblici."

(Strabone - Geografia - libro III)

RICOSTRUZIONE DEL FORO
Con la conquista romana cambiò nome in Carthago Nova e divenne una delle città più importanti della Hispania Citerior. Divenne poi colonia romana con Gaio Giulio Cesare nel 45 a.c. sotto il nome di Colonia Vrbs Iulia Nova Carthago (CVINC), formata da cittadini di diritto romano. Alla nuova colonia venne concesso il privilegio di emettere la propria valuta in valori di assi, semestri e quadranti.

Augusto nel 27 a.c. decise di riorganizzare la Hispania, in modo che la città fosse inclusa nella nuova provincia imperiale della Hispania Tarraconensis. 

Già dal tempo repubblicano esisteva in città un anfiteatro romano, ma fu durante il mandato di Augusto, che la città fu sottoposta ad un ambizioso programma di urbanizzazione e monumentalizzazione, che comprendeva, tra gli altri interventi urbani, la costruzione di un imponente teatro romano e un grande forum.

Più avanti, all'epoca dell'imperatore Diocleziano, divenne capitale dell'omonima provincia romana e gran parte del settore orientale della città venne riqualificato utilizzando materiali provenienti dagli edifici costruiti durante il mandato di Augusto, come è successo con il mercato monumentale costruito sui resti del teatro romano sfruttando in parte i suoi materiali.

L'attività commerciale della città venne riorientata alla produzione di garum, salsa di pasta di pesce fermentata, da cui sono stati trovati numerosi resti di sfruttamenti lungo la costa. Un esempio del cambiamento nell'attività economica dall'estrazione mineraria alla fabbricazione del garum si verifica nella villa romana di Paturro.

LA VILLA ROMANA DI PATURRO

VILLA ROMANA DI PATURRO

La villa romana di Paturro è un sito archeologico di una grande villa romana situata nell'estesa Sierra de Cartagena-La Union, vicino alla città di Portman nella regione di Murcia.

Scoperto nel 1969 ha subito numerose campagne di ricerca archeologica che hanno evidenziato, in settori terrazzati, due parti differenziate: una abitativa, decorata con materiali di grande lusso, un'altra industriale che si occupava della produzione del garum su vasta scala.

La villa fu legata in era repubblicana allo sfruttamento di argento, piombo e altri metalli dalle miniere di Carthago Nova, una volta chiuse le miniere si dedicò alla produzione del garum nel I e II secolo d.c.

Ma proprio all'età di Diocleziano, nel IV secolo, la città dette segni di decadenza, nonostante fosse la capitale della provincia di Cartagine. Dopo essere stato saccheggiato dai vandali intorno al 425 e dopo la caduta dell'Impero Romano d'Occidente nel 476, la città divenne una potenza visigota, pur mantenendo una popolazione fortemente romanizzata.

Nell'ambito delle guerre civili visigote, verso la metà del VI secolo una fazione chiese l'aiuto dell'imperatore bizantino Giustiniano I (483 - 565), che, dopo una breve campagna, conquistò una parte importante della Spagna meridionale e convertì la città nella capitale della provincia di Spania con il nome di Carthago Spartaria, e il vescovato di Cartagena diventa la sede metropolitana.

Con la caduta dell'Impero romano d'Occidente la città peggiorò notevolmente e, dopo aver fatto parte dell'Impero Bizantino, venne conquistata dai visigoti, comandati dal re Sisebuto, che la distrussero definitivamente.
IL TEATRO

IL TEATRO

Il teatro è stato scoperto per caso; il versante settentrionale della collina della Concezione ha facilitato il suo tempo a costruire gli stand. Per le iscrizioni commemorative è noto che la costruzione è iniziata alla fine del I sec. a.c., in coincidenza con il periodo di maggior splendore urbano della colonia romana.

Dopo la demolizione del Palazzo della Contessa, del 1990, vennero scoperti i primi resti di questo straordinario teatro,  che è rimasto ben conservato appunto perchè coperto da altri edifici successivi.

Le iscrizioni dedicatorie del teatro a Gaio e Lucio Cesare, nipoti di Augusto designati alla successione, e la menzione di Gaio come console designato in uno degli altari rinvenuti nell'area della scena, permettono di collocare cronologicamente l'inaugurazione dell'edificio negli anni tra il 5 e l'1 a.c.

Nel III secolo sopra il teatro e riutilizzandone i materiali fu costruito un mercato colonnato, con uno spazio semicircolare scoperto che riprendeva la forma dell'orchestra. Il mercato venne probabilmente abbandonato dopo un incendio per il saccheggio dei Vandali nel 425. Un quartiere commerciale bizantino si installò nell'area nel VI sec.

IL TEATRO

Vi sono state rinvenute delle sculture per onorare l'imperatore tra cui: un'aquila, un pavone, donne che danzano, un gufo e molti testi dedicati a Caio e Lucio. Venne collocato sul Monte Concezione, poiché sui suoi fianchi era più facile ricavare la costruzione, dato che la maggior parte del colle venne scavata nella pietra naturale della collina. Poi, l'intera opera venne coperta da conci di calcare.

Solo i sedili della media cavea e una parte della summa cavea avevano una propria struttura parallela alla facciata esterna. In quest'area vennero aperte le porte (vomitorium) che davano l'accesso all'interno del teatro.
La cavea era divisa n tre aree orizzontali: ima, media e summa cavea. Verticalmente essa era divisa da gradini radiali in quattro sezioni a cuneo, alla ima ed alla media cavea; mentre era divisa in sette sezioni in summa cavea. Il suo raggio è lungo 44 m.

Il podium edificato come opus caementicium è coperto di calce grigia. Esso è lungo 46 m. , largo 7,50 m. e alto 2 m. Invece il fronte-scena è lungo 44 m. e largo quasi 8 m. e alto 16 m., con una pianta composta da tre esedre curve che delimitano il proscaenium dove sono aperte tre porte per entrare nella scena - la valva regia e le valvae hospitales -. Ai lati c'era la parascaenia, stanze rettangolari comunicanti con la cavea.

Il suo prospetto mostra le doppie basi attiche in marmo bianco che sostengono colonne in marmo rosa con capitelli corinzi dello stesso materiale delle basi. A questa si sovrappone una struttura simile, formando una facciata armonica ed equilibrata. Questo prospetto può aver fatto da modello per l'età di Augusto. È probabile che questi elementi costruttivi: capitelli, basi e colonne provenissero da un'officina romana.

Sotto questa struttura fluisce un canale per l'evacuazione delle acque pluvie, che disponevano di tre uscire poste nelle esedre. Infine, il raggio dell'orchestra è lungo 6,5 m. ed è circondato da posti riservati alle persone rilevanti della città, i "proceres". 

Il teatro divenne un luogo di negozi e di mercato, essendo diviso in due e utilizzando i suoi elementi costruttivi, come capitelli, architravi e colonne, per i nuovi seminterrati. 
Per questo motivo, gli storici attuali hanno potuto recuperare questi elementi e ricostruire la maggior parte del Teatro.

L'ANFITEATRO PRIMA DEI LAVORI

L'ANFITEATRO

L'anfiteatro fu costruito nel periodo Flavio, intorno alla seconda metà del I secolo a.c. L'imponente edificio è lungo 96,60 metri per 77,80 metri di larghezza, ed è di forma ellittica. Attualmente è ancora in parte interrato.

Sembra avesse una capacità di circa 11000 spettatori. Esso si trova ancora interrato sotto la Plaza de Toros (1854) e attualmente si stanno effettuando dei sondaggi per effettuarne lo scavo nel modo migliore. In figura l'esterno dell'anfiteatro, nel cui interno si effettuano gli scavi.

L'ANFITEATRO DURANTE I LAVORI

AUGUSTEUM

L'Augusteum è un complesso archeologico, risalente al I secolo a.c., costituito dai resti di due edifici pubblici di epoca romana nell'area foranea di Cartago Nova. Questo è l'edificio romano meglio conservato, e potrebbe essere interpretato come uno dei primi edifici scolastici dedicati al culto degli imperatori conosciuti nel mondo romano. Dispone di una sala espositiva dedicata al foro romano.

RESTI DELL'AUGUSTEUM, IL TEMPIO IN ONORE DI AUGUSTO
Lo splendore romano della città di Cartago Nova si basava fondamentalmente sullo sfruttamento delle miniere di argento, piombo, zinco e altri minerali della sierra mineraria di Cartagena-La Unión, una formazione montuosa che si estende da est a ovest lungo 26 km di costa dalla città di Cartagena fino al Capo di Palos, passando per il comune di La Unión, nel Regione di Murcia.

Nelle vicinanze di Cartagena e Mazarrón l' estrazione mineraria era stata estratta fin dai Fenici, e Roma continuò con lo sfruttamento delle miniere che estraevano grandi quantità di minerale, facendo lavorare in esse un certo numero di schiavi il cui numero oscillava intorno ai 40.000.

"Con l'argento delle miniere di Cartagena pagarono i loro mercenari e, quando lo presero (i romani) nel 209 a. c. Carthago perse questi tesori, Annibale non fu più in grado di resistere ai Romani, così che anche la presa di Cartagena decise la guerra di Annibale."

(Adolf Schulten - Fontes Hispaniae Antiquae)




IL QUARTIERE DEL FORO ROMANO

La città subì un intenso processo di rinnovamento urbano nel I secolo a.c. e furono costruiti importanti edifici pubblici come il Teatro e il Foro. Qui è possibile visitare alcuni elementi dell'epoca romana, come le strade, i bagni termali o l'edificio dell'Atrium.

D'altra parte, a circa cinque minuti dal Foro Romano, è possibile visitare la Casa de la Fortuna, i resti di una casa romana, che risale al I secolo a.c. e le diverse posizioni della casa, per capire meglio il modo di vivere dei romani in quel momento.

LE TERME

LE TERME ROMANE

Le terme romane di Carthago Nova risalgono all'inizio del I secolo d.c., e sono state utilizzate fino alla V secolo d.c. Si trovano a circa 150 metri dal Foro Romano. Erano praticamente in una delle strade principali della città. I primi scavi furono effettuati nel 1968 tra Plaza de los Tres Reyes, Via Honda e Via Jara.

Le terme romane cominciarono a diventare popolari nel I secolo d.c., anche se dal IV secolo a.c. i Greci adottarono bagni pubblici dove poter ricevere massaggi con oli o fare bagni in piscine a temperature diverse.

RICOSTRUZIONE DELLE TERME (INGRANDIBILE)
Le stanze più importanti erano:

Palestra - per gli esercizi ginnici.
Apodyterium - il guardaroba.
Natatio - la piscina, di solito situata all'aperto.
Frigidarium - vasca di acqua fredda
Tepidarium - vasca di acqua tiepida
Caldarium - vasca di acqua calda
Laconicum o sudatio - la sauna.

Le Terme si trovano nella strada Arco de la Caridad 8, 10 e 12 di Cartagena, situate all'epoca tra la curia e la sede degli Augustales, con una estensione di circa 1.200 mq.

La fondazione e la costruzione dell'edificio avvenne nel I secolo d.c.. Successivamente, nel II secolo d.c. venne aggiunto il frigidarium e vi fu un abbellimento con statue e marmi,.

Gli scavi del 1968, hanno portato alla luce stanza con pavimenti differenti e talvolta rifatti, ma senza cambiamenti negli edifici perché non v'è molto materiale riutilizzato vicino al forum e bagni.
Nel 1972 il Museo Archeologico Municipale di Cartagena effettuò nuovi scavi, che permisero di interpretare meglio i resti rinvenuti.

Le stanze che sono state identificate nelle terme di Carthago Nova sono, da nord a sud:
- Il frigidarium , pavimentato con lastre di marmo bianco con venature rosse, e la cui piscina è pavimentata allo stesso modo.
- Il caldarium o il tepidarium.
- Le sospensure, con colonne di mattoni e arenaria.
Altre stanze sono il praefurnium, ad est del caldarium e un'altra stanza, adiacente al frigidarium, che potrebbe essere usata come sudatio o laconicum .

A metà del III secolo d.c. ci potrebbe essere stato un incendio che ha causò il suo successivo progressivo abbandono. Ma sappiamo bene che il cristianesimo proibì tutto ciò che rientrava nella cura e nel corpo o nei divertimenti, a parte le corse dei cavalli. Da allora, e fino al Vii secolo, divenne oggetto di spolio per nuovi edifici.



PONTE ARAPSU (Turchia)

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Il ponte Arapsu, che prende il nome dal fiume Arapsu, è un ponte romano di Adalia, ovvero Antalya, in Turchia. Nel 133 a.c. la città fu annessa dai Romani che vi edificarono diversi monumenti tra cui strade e ponti per lo spostamento rapido dei legionari, ma utile pure per gli scambi commerciali.

Nel distretto di Arapsuyu, in località Konyaaltıa, 5–6 km a ovest del centro città di Antalya, ai piedi di un antico tumulo associato alla colonia greca di Olbia, venne edificato un ponte in pietra, con un'unica campata, classificato da Colin O'Connor come un ponte ad arco segmentale romano, esempi dei quali sono sopravvissuti nella vicina provincia di Lycia (come il ponte di Limyra).

Un arco segmentale è un arco che è meno di un semicerchio, con un profilo insolitamente piatto. I vantaggi del ponte ad arco segmentale consistevano nel fatto che permetteva il passaggio di grandi quantità di acque di inondazione al di sotto di esso, il che avrebbe impedito che il ponte venisse spazzato via durante le inondazioni e che il ponte stesso potesse essere più leggero.


Come quasi tutti i ponti romani presentava pietre ad arco primario a forma di cuneo, uguali per dimensioni e forma. Gli ingegneri romani furono i primi e, fino alla rivoluzione industriale, gli unici a costruire ponti con cemento, che chiamarono opus caementicium. 

L'esterno era generalmente coperto di mattoni o bugnati, come nel ponte dell'Alcántara. Furono anche i primi a munire i ponti di finestre di guardia, per alleggerire l'urto e lasciar defluire le acque in caso di alluvioni.

Il ponte Arapsu è stato parzialmente sommerso da una moderna diga a circa 100 m a valle, per cui la forma esatta del suo arco in muratura sarebbe difficile da determinare. Almeno così è scritto in turco.
Ci riesce difficile capire come si possa fare una diga che allaghi un monumento romano peraltro intatto, sapendo che le dighe inquinano e che comunque potrebbero essere fatte altrove.

Speriamo comunque che non sia così difficile determinare la forma del ponte, speriamo che qualcuno l'abbia fotografato in passato, oppure che l'abbiano fotografato prima di allagarlo con la diga, e speriamo anche che in Turchia vi sia ancora qualcuno tanto curioso da essersi spinto fin sotto il pelo dell'acqua a guardare la forma del ponte vecchio di duemila anni fa.



ISAURI (Nemici di Roma)

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L'Isauria era una terra che si trovava nella penisola anatolica meridionale compresa tra Licaonia, Pisidia, Panfilia e Cilicia. Essa fu anticamente tristemente famosa in quanto abitata da briganti, detti Isauri, dal nome della loro terra. Essi effettuarono scorrerie sia nell'Isauria che nelle regioni confinanti, come la Licia e la Panfilia, per vari secoli.

Si narra che, sotto il regno di Probo (276-282), gli Isauri, condotti dal loro capo Lidio, saccheggiarono la Panfilia e la Licia, prima di essere fermati dall'esercito romano, il quale, strettolo d'assedio presso la città di Crimna, in Licia, riuscirono ad uccidere Lidio e a fermare i saccheggi.

Tuttavia nel IV secolo, i saccheggi degli Isauri tornarono a colpire le terre limitrofe, finchè, intorno al 354, i briganti Isauri giunsero a devastare anche le province dell'Oriente romano.
L'ANTICA PIRATERIA
I motivi della rivolta fu l'uccisione di un loro associato, che fatto prigioniero dalle autorità romane, fu gettato in pasto alle belve durante i giochi all'anfiteatro di Iconio, città della Pisidia, provincia dell'Impero romano a partire dal 297, fatto che fu ritenuto dai briganti Isauri un oltraggio senza precedenti.
Pertanto gli Isauri arrivarono ad attaccare le navi romane costeggiate lungo la costa, uccidendone gli equipaggi e traendone un ricco bottino. Ormai gli equipaggi erano talmente spaventati di essere assaliti e uccisi dai briganti, che non osavano più approdare sulle coste dell'Isauria limitandosi a fare scalo a Cipro, sulla sponda opposta.

Ora i briganti, non essendo rimasto più nulla da saccheggiare in Isauria, passarono poi a devastare la Licaonia, provincia limitrofa all'Isauria, e, bloccando le strade con strette barricate, depredavano i beni dei provinciali e dei viaggiatori.

IL TERRITORIO DEGLI ISAURI EVIDENZIATO NELL'OVALE CHIARO
Le guarnigioni romane non riuscirono ad arrestare i saccheggi dei briganti, perchè questi conoscevano bene il loro territorio montagnoso e impervio e potevano tendere imboscate e insidie alle armate romane. Siccome però in pianura non potevano competere con le armate romane, dopo aver subito diverse sconfitte in Licaonia, che era soprattutto pianeggiante, decisero di ritirarsi in Pamfilia.

Così gli Isauri giunsero sulle rive del Melas, un fiume che forniva riparo alle popolazioni locali dai saccheggi nemici, con l'intenzione di attraversarlo: il fiume era tuttavia molto profondo e inoltre, mentre gli Isauri cercavano ancora imbarcazioni per attraversarlo, intervennero le legioni romane, che li respinsero in direzione di Laranda, dove i briganti riposarono per qualche giorno e si rifornirono di provviste. Da qui attaccarono i villaggi che però erano difesi da alcune coorti di cavalleria romana, che li respinsero su un territorio pianeggiante.

MURA DI SELEUCIA
Gli isauri dovettero fuggire di nuovo, tentando poi di assaltare per tre giorni e per tre notti la fortezza di Palea, nei pressi del mare, ma questa era ben protetta e l'assalto fallì. Passarono allora assaltare Seleucia, la metropoli della provincia, che era però difesa da tre legioni sotto il comando del Comes Castricio, il quale, avvertito dagli esploratori delle intenzioni degli Isauri, decise di scontrarsi con gli Isauri in campo aperto.
La battaglia iniziò nei pressi del fiume Calicadno che costeggiava le torri delle mura di Seleucia, ma vennero presto richiamate dai loro comandanti, dentro le mura, perchè troppo rischioso. Così sbarrarono tutti gli ingressi, e presero posizione sulle torri e sulle mura per difenderle dall'assedio degli Isauri. 
Questi però avevano catturato alcune imbarcazioni che caricavano grano diretto alla città, mentre gli assediati avevano già esaurito le loro scorte regolari di provviste, e rischiavano di capitolare per fame. Quando si seppe dell'assedio di Seleucia a Costantinopoli, il Cesare Costanzo Gallo inviò Nebridio, Comes Orientis, (un funzionario civile) di soccorrere Seleucia, ma gli isauri alla notizia fuggirono sulle montagne.

Gli Isauri dettero problemi anche sotto l'Imperatore Valente (364-378); e nel 375 colpirono le province della Licia e Panfilia, devastando le campagne quando non riuscivano ad impadronirsi delle città. Le truppe inviate da Valente da Antiochia però non inseguivano gli Isauri con il loro bottino sulle montagne, per tema di imboscate.

ANASTASIO I
Gli Isauri colpirono ancora nel 405, sotto il regno di Arcadio, devastando le campagne e le città non ben fortificate. Il generale Arbazacio, inviato dall'Imperatore per porre fine ai saccheggi riuscì ad occupare molte città cadute in mano ai briganti e a risospingerli sulle montagne, uccidendo anche molti di loro, ma poi non portò fino in fondo a termine il suo incarico, preoccupandosi solo di arricchirsi. Richiamato a Costantinopoli per essere, venne assolto grazie alla cessione all'Imperatrice di parte del bottino recuperato agli Isauri.
Alcuni isaurici erano giunti ad alte cariche nell'Impero romano all'epoca di Teodosio II (408-450) e nel regno dell'imperatore Leone I (457-474). Però essi non erano ben visti dal popolo di Costantinopoli, tanto che nel 473 nell'ippodromo di Costantinopoli scoppiò una rivolta anti-isaurica e nel 475 il genero e successore di Leone, Zenone, venne scacciato dal trono in quanto Isaurico.

Nel 491 salì al trono Anastasio I e scoppiò una rivolta anti-isaurica nell'ippodromo di Costantinopoli per cui Anastasio ordinò l'esilio per Longino, fratello di Zenone, per il generale isaurico Longino di Cardala e per altri isaurici.

ZENONE
Nel 492 gli Isaurici diedero inizio ad una rivolta in Isauria, sconfitti però dall'esercito romano. L'anno successivo Giovanni Gibbo ottenne una schiacciante vittoria contro gli Isaurici, dopo aver liberato l'esercito di Diogeniano, parente dell'imperatrice Ariadne, moglie degli imperatori Zenone e Anastasio I, a Claudiopoli. Nel 497, a Tarso, Giovanni Scita uccise gli ultimi comandanti isaurici (Longino di Cardala e Atenodoro) ed inviò le loro teste a Costantinopoli, dove furono esposte su dei pali.

Nel 498 Giovanni Gibbo catturò gli ultimi capi nemici, Longino di Selino e Indes, e li mandò all'imperatore, furono messi in catene e fatti sfilare lungo le strade della città, fino a raggiungere il Circo in occasione delle gare per celebrare la vittoria, e qui fatti inginocchiare ai piedi del palco di Anastasio.

Dopo la guerra Anastasio premiò i propri generali: Giovanni Scita fu console del 498, Giovanni Gibbo nel 499. Anastasio fece poi erigere la La Porta della Chalke, l'accesso monumentale al Gran Palazzo di Costantinopoli. per celebrare la vittoria definitiva sugli isaurici. Il poeta Cristodoro scrisse un'opera in sei libri sulla guerra, intitolata Isaurica ed andata perduta.

LUCIO ELIO CESARE - LUCIUS AELIUS CAESAR

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LUCIO ELIO CESARE
Lucio Elio Cesare, o Lucio Elio Vero (in latino Lucius Aelius Caesar; 13 gennaio 101 – I gennaio 138), è stato un politico e generale dell'Impero romano, figlio adottivo e successore designato dell'imperatore romano Adriano. (24 gennaio, 76 - 10 luglio, 138).

Tuttavia Elio Vero non divenne mai imperatore, in quanto morì poco prima di Adriano. Era il padre di Lucio Vero (15 dicembre, 130 - 169) che diventerà poi co-imperatore di Marco Aurelio (161-169).

Nato con il nome di Lucio Ceionio Commodo, apparteneva ad una famiglia di rango consolare originaria dell'Etruria e suo padre, anche lui di nome Lucio Ceionio Commodo, fu console nel 106 e suo nonno, anche lui con lo stesso nome, fu console nel 78. Sua madre fu Aelia or Fundania Plautia.

Sappiamo che prima del 130 sposò Avidia Plauzia, figlia del senatore Gaio Avidio Nigrino, console suffetto nel 110 durante il principato di Traiano di cui era un parente. Traiano avrebbe voluto come suo successore Gaio Avidio Nigrino, ma Adriano l'aveva fatto ben presto assassinare, designando ne però come suo successore il genero Lucio Ceionio Commodo. 

- Nel 130 venne eletto pretore, 
- nel 136 ottenne il titolo di Caesar da Adriano, 
- nel 137 venne eletto console insieme al collega Publius Coelius Balbinus Vibullius Rufus); 
- nello stesso anno venne eletto proconsole in Pannonia.
Da Avidia Lucio ebbe due figli e due figlie: 
- Lucio Ceionio Commodo, che diventerà poi il co-imperatore Lucio Vero;
- Gaio Avidio Ceionio Commodo,
- Ceionia Fabia (125 d.c. - II metà II secolo d.c.) che Adriano promise in sposa al giovane Marco Aurelio, ma alla morte di Elio Cesare e quella di Adriano, Antonino Pio, nuovo principe, propose a Marco di annullare il fidanzamento con Ceionia Fabia e di sposare al suo posto la propria figlia, Faustina minore. Marco, erede designato, accettò la proposta. In seguito, Fabia sposò il nobile Plauzio Quintillo, appartenente ad una famiglia di rango consolare.
Ceionia Plauzia.
Il senatore Elio Cesare beneficiava di grandi alleanze politiche, ma forse non godeva di ottima salute. I suoi gusti erano lussuriosi e orgiastici e la sua vita frivola e annoiata. Si diceva che avesse vicino al letto un libro di poesie erotiche di Ovidio ma soprattutto "un libro riguardo Apicio" (presumibilmente Sulla lussuria di Apicio del sofista Apione Plistonice).

DENARIUA AELIUS

IL TETRAFARMACUM

Di lui si diceva che avesse inventato il lussurioso "tetrafarmacum", un costoso e complicato piatto della cucina romana, contenente mammelle di scrofa, fagiano, cinghiale e prosciutto che si supponeva donasse grande energia sessuale.

La sola fonte che ha permesso di conoscere e di tramandare fino ai giorni nostri il "tetrafarmacum"è la Historia Augusta, che lo menziona tre volte traendolo dalla biografia di Adriano, che però non è giunta a noi. Si dice che la ricetta inventata da Lucio Elio Cesare piacesse molto all'imperatore Adriano, ma anche al morigeratissimo Alessandro Severo.



LA SUCCESSIONE

Nel 136 fu dunque adottato, all'età di 35 anni, dal vecchio e malato Adriano e nominato suo successore al trono sebbene tutte le persone a lui vicine glielo avessero sconsigliato, non godendo Lucio Elio di buona considerazione. In seguito all'adozione imperiale Lucio Ceionio cambiò nome in Lucio Elio Cesare.

Fu quindi inviato in Pannonia, nel 137, in qualità di proconsole, nel castrum di Carnuntum, in quello stesso anno, per combattere le popolazioni suebe di Marcomanni e Quadi che avevano compiuto scorrerie lungo il limes di questo settore strategico.

Lucio Elio tornò a Roma per pronunciarvi, il capodanno del 138, un discorso davanti al Senato riunito. La notte prima del discorso, però, si ammalò e morì di emorragia nel corso della giornata, all'età di 37 anni. Probabilmente ebbe un aneurisma o aveva un tumore o una qualsiasi malattia, di cui forse ignorava l'esistenza.

Il 24 gennaio del 138 Adriano scelse allora Tito Aurelio Antonino, il futuro Antonino Pio, che sarà imperatore dal 138 al 161 come suo nuovo successore e che a sua volta adottò il giovane Lucio Vero e il suo nipote acquisito, Marco Aurelio Antonino Augusto (26 aprile, 121 - 17 marzo, 180).

PORTA OPPIA (Porte Serviane del VI sec. a.c.)

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IL CUORE DEL COLLE OPPIO E LE MURA SERVIANE CHE LO COSTEGGIAVANO
Il Colle Oppio è una delle tre alture che, con Fagutal e Cispius costituivano il Mons Esquilinus. Festo, secondo notizie dateci da Varrone, racconta che il colle Oppio e il colle Cispio che si trovano sull'Esquilino furono chiamati così perché durante una battaglia per difendere Roma dai ribelli Albani, il colle Oppio fu difeso dal condottiero omonimo, Oppius, che capeggiava i Tuscolani e il colle Cispio fu difeso dal condottiero Levio Cispio che capeggiava gli Anagnini.

Il Colle Oppio è oggi identificabile nell'area romana compresa tra via Labicana, via degli Annibaldi, via Cavour, via Giovanni Lanza e via Merulana, compresi gli splendidi giardini che sorgono tra gli ampi ruderi romani.

Nel colle arcaico il colle sorse uno dei villaggi da cui si generò Roma, e questo evento epico era ancora immortalato in epoca repubblicana, come si nota da un'iscrizione ritrovata presso le Sette Sale, una cisterna monumentale (presso le Terme di Traiano), che cita il restauro del sacellum compitale edificato a spese degli abitanti (de pecunia montanorum).


Queste edicole sacre venivano poste al trivio o al quadrivio di tre o quattro strade, a seconda del numero delle strade che vi convergevano, e di solito qui si riuniva la gente per parlare o deliberare, per fare sacrifici ai Lari Compitali o per il mercato di occasione che qui si organizzava.

Qui si organizzavano le feste dei Lari Compitali a cui partecipavano anche i villaggi che sorgevano sui colli vicini, ed in genere erano organizzate dagli schiavi. Uno degli usi rituali era quello di sospendere all'altare tanti gomitoli e tanti fantocci di lana quanti erano rispettivamente gli schiavi e i liberti partecipanti alla festa, ciò che generalmente si suole interpretare come un rito funerario, ovvero, a nostro avviso come un segno di morte e rinascita, da gomitolo a fantoccio e viceversa dove il filo di lana è l'elemento conduttore che non perisce ma si trasforma. 

Nella festa si sacrificava un maiale che come si sa, era sacro alla Dea Tellus, il che conferma il rito di morte e rinascita. Ogni famiglia inoltre contribuiva al rito con una focaccia, come frutto della Terra Madre che nutre.

NINFEO DEL COLLE OPPIO
Questo era il Colle Oppio del VI secolo a.c., riparato dalle mura serviane di difesa, mura realizzate in grossi massi di tufo sovrapposti a secco e dotate di almeno una porta a quanto sappiamo, e cioè la Porta Oppia, chiamata così in quanto permetteva il transito in entrata e in uscita dal Colle Oppio, ovvero dal Mons Oppius. 

Successivamente il colle fu dimora di splendide dimore con intensa urbanizzazione dei ceti nobili, in direzione dell'antico vicus Suburanus e del Portico di Livia, non a caso Nerone edificò qui la sua Domus Aurea seguita poi dalle successive Terme di Tito e dalle Terme di Traiano.

Se nella parte bassa del colle erano situate abitazioni popolari mentre sulla sommità erano presenti case signorili quella di Vedio Pollione ereditata da Augusto, vero è che questi, per quanto riferita splendidissima, la fece demolire, un po' perchè gli era antipatico Pollione, un po' perchè volle costruire il Portico di Livia dedicato all'amata consorte.

Dopo la morte di Nerone la Domus Aurea venne interrata e al di sopra vennero costruite le terme di Tito e Traiano sfruttando buona parte delle strutture di epoca neroniana.
Ma all'epoca della Porta Oppia il transito era tra i vari colli e fra il colle e il Tevere, per scopi esclusivamente commerciali o religiosi per i vari culti romani.

Non si sa esattamente dove la porta fosse collocata, di certo fece parte delle mura serviane del VI secolo a.c., collocate sulla parte ovest e settentrionale del Colle Oppio ed è probabile che lo ponessero in comunicazione con il Collis Exquilinus a lui confinante. Più o meno dove nel IV secolo verrà posta la Porta Esquilina.

LE MURA SERVIANE ALL'AUDITORIUM DI MECENATE
Queste difese murarie erano costituite da una fossa e da un terrapieno sul margine della fossa, al cui fossato seguiva un muro sostenuto da un muro di controscarpa (visibile in parte nei sotterranei della Stazione Termini), e il tutto costituiva l'Agger.

Resti dell’Agger possono essere ancora osservati, sul Colle Oppio,  presso la Villa di Mecenate, in via Carlo Alberto presso la Basilica di Santa Maria Maggiore, presso la chiesa dei ss. Martino e Silvestro ai Monti.

Di certo la Porta Oppia doveva essere una massiccia porta di legno a due battenti rinforzati in ferro, con cerniere e serratura di ferro e affiancata da una casetta dove albergava il portiere, colui che era addetto alla apertura e chiusura della porta.
Solitamente le porte erano aperte di giorno e chiuse di notte, ma di giorno comunemente (nonostante la tradizione delle oche del campidoglio come uniche guardiane), avevano un soldato a guardia sulle mura che sorvegliava l'esterno.

Comunque, oche di Giunone a parte, che effettivamente risentono delle presenze estranee e avvertono rumorosamente, i romani utilizzavano ampiamente i cani da guardia, per appartamenti, ville e pure nelle mura.


BAULI - BACOLI (Campania)

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PISCINA MIRABILIS
Bacoli fu fondata dagli antichi romani che la chiamarono col nome di Bauli. In epoca romana era un luogo di villeggiatura rinomato quasi quanto la vicina Baia. Quinto Aurelio Simmaco disse di Bauli:

«Lasciai quel luogo perché c'era pericolo che se mi fossi affezionato troppo al soggiorno di Bauli, tutti gli altri luoghi che mi restano da vedere non mi sarebbero piaciuti»
(Simmaco)

Nell'età augustea Bacoli, antica Bauli, diventò addirittura il principale avamposto militare del Tirreno, della cultura e della mondanità insieme alla vicina Baiae.

In seguito alla caduta dell'Impero romano ma soprattutto a seguito al fenomeno di bradisismo la città di Bacoli decadde per svariati secoli fino a risorgere nei secoli XVII, XVIII e XIX trasformandosi in una delle mete preferite dagli europei.

Accanto ai resti dell'antica Bauli, vi sono le vestigia delle antiche città romane di Baia i cui resti si estendono fino al lago di Fusaro, che gli antichi chiamavano "Acherusia palus", ritenendolo la palude infernale del fiume Acheronte.

Dell'antica Bauli restano oggi:

- le Cento Camerelle,
- la Piscina Mirabile,
- il Sepolcro di Agrippina,
- la Villa di Publio Servilio
- Il Lago di Fusaro
LE CENTO CAMERELLE

LE CENTO CAMERELLE

La costruzione romana conosciuta nei Campi Flegrei con il nome di "Cento Camerelle"è uno dei reperti romani più affascinanti dell'intera zona. Stretti cunicoli scavati nel tufo si inseguono e si intrecciano in un lungo sentiero e, quando la luce piove dall'alto, shanno tutta l'apparenza di un complicato labirinto. In passato le "Cento Camerelle" erano conosciute come le "Prigioni di Nerone", per la forma intricata della costruzione e per la fantasia popolare. 

In realtà le "Cento Camerelle" sono una porzione di una delle immense ville patrizie che sorgevano dalle parti di Baia. Oggi, purtroppo, il sito non è visitabile a causa dei lavori di ripristino della villa.

PISCINA MIRABILIS

LA PISCINA MIRABILIS

La colossale opera idraulica che stupisce ogni visitatore per la maestria e la grandiosità è la "Piscina Mirabilis", un'immensa vasca costruita sottoterra e composta da altissime navate, che aveva la funzione di cisterna per l'acqua potabile. E' la più grande cisterna romana mai scoperta, perchè ha una lunghezza di 72 metri, una larghezza di 25 m, è alta 15 m e ha un capacità di 12.600 mc.

L'acquedotto aveva la funzione di portare l'acqua dal fiume Serino fino a Napoli e ai Campi Flegrei, passando poi per la Piscina, per un percorso di oltre 100 Km. L’edificio, costruito sulla collina prospiciente il porto di Misenum per l’approvvigionamento d’acqua per la Classis Praetoria Misenensis è in realtà un’enorme cisterna a pianta quadrangolare, scavata nel tufo con quattro file di dodici pilastri cruciformi che dividono lo spazio interno in cinque navate lunghe e tredici corte, e ne sorreggono la volta a botte.

Sulla Piscina è impostata la terrazza di copertura pavimentata in cocciopesto, comunicante con l’interno con una serie di portelli.

Le strutture murarie sono realizzate in opus reticulatum con ricorsi di laterizio per le pareti laterali ed in tufelli per i pilastri.

Un bacino profondo m 1,10, incavato nel pavimento della navata corta centrale e munito di bocca di uscita ad un’estremità, fungeva da piscina limaria, cioè da vasca di decantazione e di scarico per la pulizia e il periodico svuotamento della cisterna, la cui alimentazione avveniva mediante un condotto d’immissione posto presso l’ingresso del lato occidentale; una serie di finestre aperte lungo le pareti laterali provvedeva all’illuminazione e all’areazione.

L’acqua veniva sollevata sulla terrazza superiore attraverso i portelli con macchine idrauliche e da qui canalizzata.

Addossati all’esterno del lato Nord-Est vi sono dodici piccoli ambienti coperti con volte a botte aventi il piano di calpestio m 1,80 più in basso dell’imposta della volta della cisterna.

Costruiti in opus mixtum e listatum, muniti di un cordolo di cocciopesto alla base dei pilastri, questi ambienti rappresentano un intervento di potenziamento dell’impianto idraulico eseguito tra la fine del I e gli inizi del II secolo d.c.

Ancora oggi la piscina è meta delle visite di numerosi turisti, tanto più che la visita è gratuita. Sembra di entrare in un mondo sotterraneo che non è di questa era, nè di questa terra, sembra fantascientifico.

LA COSIDDETTA TOMBA DI AGRIPPINA

LA TOMBA DI AGRIPPINA

Agrippina, madre dell'imperatore Nerone, venne uccisa su ordine del figlio nel 59 d.c. poco propenso a condividere il suo potere con l'invadente madre. Nerone ordinò di affondare la nave sulla quale viaggiava la madre che tornava ad Anzio da Baia, dopo aver partecipato ai festeggiamenti della Quinquatrie. Agrippina si salvò a nuoto e si rifugiò nella sua villa di Lucrino, dove il figlio la fece uccidere. 

La leggenda vuole che Agrippina fosse stata sepolta in un mausoleo che si trova difronte al porto di Baia. La struttura conosciuta come "Tomba di Agrippina", è in realtà un piccolo teatro, di cui oggi è visibile solo una parte. Nonostante ciò si mormora del fantasma di Agrippina che vi si aggiri di notte.

VILLA DI SERVILIO VAITA

LA VILLA DI PUBLIO SERVILIO VATIA ISAURICO

Della splendida villa del condottiero e politico romano Vatia restano alcuni resti in parte visibili e in parte inglobati in un ristorante (sigh!). La scoperta archeologica risale al XVI secolo quando il viceré Don Pedro de Toledo decise di far costruire una torre di guardia oggi scomparsa.

La villa era talmente bella che i romani solevano ripetere alla sua vista: “O Vatia tu solus scis vivere”. (O Vatia, solo tu sai vivere!) alludendo al fatto che l'uomo aveva saputo ritirarsi dagli affari per godersi in pace la fantastica villa. Ma chi era Publio Servilio Vatia?




PUBLIO SERVILIO VATIA ISAURICO

Aveva parteggiato per Silla (contro Mario) tanto che questi lo fece eleggere console nel 79 a.c. dandogli nell'80 il proconsolato della Cilicia, con l'incarico di sgominarne i pirati. Vatia in tre anni di guerra conquistò la città di Olimpo in Licia, strappandola al capo dei pirati Zeniceto, che morì per difenderla. Conquistò quindi Phaselis, saccheggiandola e, in Cilicia, la fortezza di Corico (Corycus). 

Conquistate tutte le città costiere, fece traversare all'esercito romano il Tauro per la prima volta e conquistò la capitale degli Isauri, Isaura, cosa che ottenne per merito del suo acuto genio, facendo deviare il corso di un fiume e prendendo la città per sete. Le truppe entusiaste lo acclamarono imperator e tornato a Roma nel 74 a.c. ricevette il trionfo e l'agnomen Isaurico.

Combatté poi nell'ultima fase della III guerra mitridatica, quale comandante della flotta, a fianco di Pompeo Magno; nel 63 a.c. cercò di farsi eleggere Pontefice Massimo, dal collegio dei pontefici che gli preferirono però uno degli uomini che avevano servito sotto di lui contro i pirati, l'astro nascente Gaio Giulio Cesare. 

Sostenne Cicerone nella condanna della Congiura di Catilina, chiedendo al Senato la pena di morte per i congiurati. Nel 57 a.c. fu tra coloro che aiutarono Cicerone a tornare dall'esilio, nel 55 a.c. ricoprì la carica di censore ma non prese parte alle guerre civili, a causa dell'età avanzata.
Morì nel 44 a.c., all'età di 76 anni.

LA VILLA DI PUBLIO SERVILIO

LA DOMUS

La domus venne edificata tra la fine dell’età repubblicana e l’età augustea su uno sperone di roccia tufacea sfruttando in parte la conformazione naturale della zona e in parte avvalendosi di sostruzioni artificiali per una scenica disposizione a terrazze della villa.

Ciò permetteva ai proprietari e ai loro ospiti di godere la brezza che saliva dal mare e del sole che illuminava e scaldava gli ambienti in inverno. Seneca, in una sua epistola all’amico Lucilio, la descrive munita di due grandi cavità artificiali e di un euripo, che dividendo a metà un bosco di platani, permetteva l’allevamento dei pesci.

Gli archeologi hanno ipotizzato che le due grotte di cui parla Seneca erano i due ingressi di una galleria scavata nel tufo che collegava la zona del mare alla villa, oggi conosciuta come Antro di Cerbero, perché la tradizione vuole che Virgilio si sia ispirato a questa struttura per descrivere l’entrata agli Inferi di cui Cerbero era il guardiano.


MA OGGI?

Lo spazio verde a Torregaveta, alle spalle della Cumana, tra Via Gavitello e Via Spiaggia Romana, dove ancora emergono i resti archeologici dell’antica villa appartenuta a Servilio Vatia, giace abbandonato e circondato da rifiuti di ogni genere. Della villa persistono resti di mura e ambienti in opus reticolatum rinvenuti nel 2008, ma l’intera area, che include una foce di epoca romana del Lago Fusaro, è piena di erba e sterpaglie.

Area già ripulita qualche anno fa da alcuni cittadini volontari residenti in zona onde riqualificare l'area e mettere in luce i resti archeologici di una villa antica di un paio di millenni, che sicuramente meriterebbe un trattamento migliore, dai cittadini e dal comune.
LAGO DI FUSARO CON EDIFICIO DEL VANVITELLI SOPRA EDIFICIO ROMANO

IL LAGO DI FUSARO
(Fonte)
Il Comune di Bacoli, ad oggi, non ha dato esecuzione alla deliberazione di Consiglio Comunale n. 18, di conferire incarico per effettuare un carotaggio dei fondali del Lago Fusaro, nella prossimità degli scarichi dello stabilimento Selenia, allo scopo di individuare eventuali rifiuti tossici.
- Il prof. Luciano Ferrara dell’Università Federico II di Napoli, docente della cattedra di Chimica, su incarico della Regione Campania, scrive: “a causa di un lungo periodo di insediamento della Selenia sulle sponde del Lago... l’alluminio, che sembra essere stato uno degli scarichi principali della Selenia, presenta valori massimi nella zona meridionale, in corrispondenza dello scarico dell’industria stessa e del suddetto scarico di Torregaveta”.

Ancora, nella relazione annuale redatta dall’Arpac “Le analisi delle acque del lago, in data 12.2.2007, hanno evidenziato, nel punto posizionato al lato destro dell’impianto di mitili, sia presenza di Salmonella che PCB".

Inoltre il ponte che collega alla villa Vanvitelliana cade a pezzi.

Il Comune di Bacoli ha rilasciato concessioni per l’allevamento di molluschi e pesci nel Lago Fusaro, nonostante fosse nota la presenza di metalli pesanti nocivi per l’ambiente e la salute umana, almeno a far data dal 1967.

L'inquinamento del Lago Fusaro, di recente confermato dall’Istituto pubblico Pascal di Napoli, ha evidenziato, come anche il Comune di Bacoli, sia tra i comuni con mortalità in eccesso per i tumori alla mammella ed al fegato per il genere femminile.
Non può tacersi che l’inquinamento delle falde acquifere, protrattosi per oltre 40 anni, ha certamente comportato un interessamento anche dell’agricoltura e dell’allevamento sul territorio (tramite irrigazione, abbeveraggio degli animali, irrorazione spontanea del terreno), con ingresso degli agenti inquinanti nella catena alimentare.



LEGIO XXII PRIMIGENIA

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ISCRIZIONE FUNERARIA DI TITO PONZIO SABINO A FERENTINO (LAZIO)

"Tito Ponzio Sabino, figlio di Tito, ascritto alla tribù Palatina, prefetto della I coorte di cavalleria di Pannoni e Dalmati con cittadinanza romana, tribuno militare della VI legione Ferrata,
insignito di decorazioni militari dal divino Traiano nella spedizione partica, e precisamente di un "hasta pura", di un "vexillum" e di una "corona muralis".
centurione della XXII legione primigenia,
centurione della XIII legione gemina,
primipilo della III legione augusta,
comandante di tre distaccamenti di mille uomini della VII legione gemina, della VIII legione augusta e della XXII primigenia al tempo della spedizione in Britannia, tribuno della III coorte dei vigili, della XIV coorte urbana, della II coorte pretoria, primipilo per la seconda volta, procuratore della provincia Narbonense, quatorviro giurisdicente, quinquennale, flamine, patrono del municipio."

- La Legio XXII Primigenia venne fondata nel 39 d.c. dall'imperatore Caligola (12 - 41) che la dedicò alla Dea Fortuna Primigenia (che aveva uno splendido tempio a Preneste, da cui il nome), di cui era cultore fervente, per essere utilizzata nelle sue campagne in Germania.

SIA IL CAPRICORNO CHE ERCOLE
ERANO IL SIMBOLO DELLA XXII PRIMIGENIA
- La XXII Primigenia trascorse gran parte del suo tempo a Mogontiacum (Magonza), nella provincia romana della Germania Superiore, a guardia del limes del Reno, fino alla fine del III secolo o inizio IV secolo. I simboli della legione erano un Capricorno ed Ercole, quest'ultimo generalmente non usato dopo il III secolo.
- Caligola (12 - 41) aveva reclutato la XXII (insieme alla gemella XV Primigenia) in previsione di una campagna in Germania. Il numero numeri della legione era il XXII in quanto già esisteva in territorio germanico la la XXI Rapax, stanziata dal 9 d.c. a Castra Vetera, in Germania Inferiore, oggi Xanten.

- Le due nuove legioni costituite da Caligola si sarebbero dovute affiancare a quelle già presenti sul Limes, dove c'era anche la XIIII Gemina, di stanza a Mogontiacum fin dal 13 a.c., in Germania Superiore.

- Gaio Svetonio Tranquillo narra che Caligola fece schierare il suo esercito sulla riva del mare, fronteggiando l'oceano, in assetto da battaglia, ordinando poi ai suoi uomini di raccogliere le conchiglie (Vita Caligulae, 46).

Ma non fu del tutto così perchè le due nuove legioni attraversarono poi le Alpi e pure il Reno, affrontando il nemico a Wiesbaden.

- La XXII dovette combattere nella vittoriosa campagna di Aulo Gabinio Secundo, che recuperò ai Catti le aquile perse nella battaglia di Teutoburgo, e forse anche alla campagna, sempre contro i Catti, che vide vittorioso Servio Sulpicio Galba nei pressi di Magonza (battaglie del 40-41).

- Nel 43 la XXII Primigenia venne stanziata pertanto a Mogontiacum (Magonza) nella Germania superior a guardia del limes germanico, sul confine del Reno, nello stesso campo della IIII Macedonica, una legione veterana proveniente dalla Hispania. 

Poichè la XXII Primigenia era l'unità più giovane, occupava il meno onorevole lato sinistro della fortezzaLe due legioni condividevano anche un centro di produzione di piastrelle e ceramiche a Rheinzabern nel Palatinato.

- Nel 67, la posizione dell'imperatore Nerone si aggravò. Anche se il popolo lo amava, molti senatori erano scontenti e diversi governatori ne richiedevano la rimozione. 

Tra questi c'erano Lucio Clodio Macer d'Africa (che reclutò la Macriana Liberatrix) e Gaio Giulio Vindex di una delle province della Gallia. Sostennero il governatore della Hispania Tarraconensis, il sopra menzionato Servius Sulpicius Galba, quando dichiarò che voleva detronizzare Nerone.

«Non si turbò Nerone, nell'udire    
ANELLO DI LEGIONARIO DELLA XXII PRIMIGENIA

il vaticinio delfico:
"Dei settantatré anni abbia paura". 
Ha trent'anni. Assai lunga 
è la scadenza che concede il dio,
per angosciarsi dei rischi futuri.
Ora ritornerà a Roma, un poco stanco,
divinamente stanco di quel viaggio,
che fu tutto giornate di piacere, 
nei giardini, ai teatri, nei ginnasi... 
Sere delle città d'Acaia... Oh, gusto,
gusto dei corpi nudi, innanzi tutto...
Così Nerone. Nella Spagna, Galba
segretamente aduna le sue truppe
e le tempra, il vegliardo d'anni settantatré

(da La scadenza di Nerone di Costantino Kavafis)

- L'esercito della Germania Inferiore (XXII Primigenia, I Germanica, V Alaudae, XV Primigenia e XVI Gallica) marciò verso sud e sconfisse Vindex. Si aspettavano di essere ricompensati, ma furono delusi: Galba e una nuova Legione reclutata, la VII Gemina, marciarono su Roma, il Senato lo riconobbe e Nerone si suicidò (giugno 68). La fedeltà della legione non solo non fu ricompensata, ma si dovette temere la vendetta.

- Con il resto dell'esercito germanico, la legione XXII sostenne Vitellio durante l'Anno dei quattro imperatori nel 69, insieme all'esercito della Germania inferior, costituito dalle legioni I Germanica, V Alaudae, XV Primigenia e XVI Gallica.

Nell'occasione di più pretendenti al trono contro Nerone, sedarono la rivolta di Gaio Giulio Vindice in Gallia, prima che Galba, alleato di Vindice, riuscisse a farsi riconoscere imperatore dal senato romano.

- Pertanto, gli eserciti di Germania Inferiore e Superiore acclamarono il proprio comandante, Vitellio, come imperatore, e marciarono su Roma (69 gennaio).

Ebbero successo e Vitellio regnò. Una subunità, composta da soldati della XXII Primigenia e della IIII Macedonica, prese parte a questa campagna, e lo stendardo dell'aquila del Ventiduesimo venne esibito quando Vitellio entrò nella capitale.

- Durante la ribellione batava (69 - 70), capeggiata da Gaio Giulio Civile, la XXII Primigenia, comandata dal generale Gaius Dillius Vocula, fu l'unica legione germanica sopravvissuta agli attacchi dei ribelli, difendendo strenuamente ma inutilmente il proprio campo agli ordini di Gaio Dillio Vocula, comandante della XXII Primigenia di stanza a Moguntiacum.

DEA FORTUNA - POMPEI
- Dall'oriente giunse però un altro generale molto esperto e molto amato dal suo esercito, Vespasiano, che stava combattendo contro gli ebrei, e aveva dalla sua l'esercito del Danubio.

I due eserciti si scontrarono nei pressi di Cremona, nel nord Italia, e i soldati dell'esercito del Reno persero con l'esercito del Danubio.

Vespasiano conquistò il trono dopo aver sconfitto l'esercito di Vitellio nella II battaglia di Bedriaco. Si sa che comunque Vespasiano perdonò le truppe che si erano levate contro di lui e non fece rappresaglie.

-  Ci vollero diversi mesi prima che il nuovo imperatore Vespasiano potesse inviare un forte esercito romano per recuperare la Renania, comandato dal suo parente Quinto Petillius Cerialis.

Dopo la guerra civile e la fine della rivolta batava (nell'autunno del 70), la legione fu inviata prima a Vindobona (Vienna) e poi a Castra Vetera II (Xanten). I soldati non rimasero nella vecchia fortezza, che era stata distrutta dai Batavi, ma costruirono una nuova base.


Pia Fidelis Domitiana

- La XXII ottenne la vittoria  nell'89 assieme all'esercito della Germania Inferior contro quello della Germania Superior, fino alla sconfitta totale dell'usurpatore Lucio Antonio Saturnino, che voleva detronizzare Domiziano. 

Per questa valorosa campagna la XXII Primigenia, insieme alla I Minervia, alla VI Victrix, e alla X Gemina, ottenne dall'imperatore Domiziano il titolo Pia Fidelis Domitiana, con onori e premi, titolo ridotto a Pia Fidelis alla morte dell'imperatore, per l'ostilità che aveva suscitato in senato.

Intorno al 90, le unità della XXII furono presidiate nella moderna zona del Butzbach, come parte del Limes Germanicus (una lunga serie di forti lungo la frontiera romana della Germania Superiore).


Adriano

- La Legio XXII ebbe come tribunus militum Publio Elio Traiano Adriano nel 97-98 (all'età di 21- 22 anni), il futuro imperatore Adriano. Le subunità o vexillationes, venivano talvolta inviate ad altre province.

Per esempio, quando I Minervia, che abitualmente si trovava a Bonn, si era trasferito nel Basso Danubio per prendere parte alla guerra di Daci di Traiano (101-106), i soldati del Ventiduesimo presidiarono Bonn. La Primigenia rimase a Moguntiacum almeno fino al III secolo.


DEDICA DELL'AQUILA DALLA XXII PRIMIGENIA

Giuliano

- Ebbero come tribuno anche Didio Giuliano, altro futuro imperatore, come ufficiale nel 170-171. 
Didio Giuliano fu imperatore solo dal 28 marzo al I giugno del 193, anno in cui venne assassinato dagli stessi pretoriani che l'avevano nominato imperatore.

Alcune vexillationes della legione Primigenia parteciparono: 

- alla costruzione del Vallo di Adriano (119) 
- e poi del Vallo di Antonino in Scozia (142-144)
- alla campagna contro i Mauri sotto Antonino Pio (86-161), 
- nella campagna partica sotto Lucio Vero (130-169), 
- in quella contro i Marcomanni guidata da Marco Aurelio (121-180); 
- alla difesa di Treviri per Clodio Albino (145-197)
- probabilmente alcuni uomini della XXII seguirono Settimio Severo (146-211) in Scozia.


Antoniniana

- Con l'imperatore Caracalla (188-217), nel 213, la XXII Primigenia partecipò alla campagna in Germania, ricevendo nell'occasione, per il suo valore, il titolo il titolo onorifico di Antoniniana.


Alessandro Severo

 Sotto Alessandro Severo (208-235) che portò la Primigenia con sé contro i Sasanidi, nel 233, ottenne il titolo onorifico di Alexandriana, ma solo due anni dopo, per il tentativo di Alessandro di comprare gli Alamanni che avevano travolto le difese settentrionali prima della controffensiva romana, gli uomini della legione linciarono l'imperatore e sua madre, eleggendo Massimino Trace nuovo imperatore.

- La XX era ancora a Moguntiacum durante l'attacco della tribù degli Alamanni nel 235, e furono responsabili del linciaggio dell'imperatore Alessandro Severo quando tentò di negoziare con il nemico, trovando troppo esitante la sua condotta in guerra. Partecipò alla successiva elezione di Massimino Thrace come nuovo imperatore.


Pia VI Fidelis VI e Pia VII Fidelis VI
- Nel tempo la XXII confermò il suo valore ricevendo diverse volte il titolo Pia Fidelis, come si evince dai titoli Pia VI Fidelis VI e Pia VII Fidelis VII ricevuti dall'imperatore Gallieno per il sostegno e la lealtà fornitigli durante il suo scontro con Postumo (regno 260-269), l'imperatore delle Gallie. Il fatto che Gallieno abbia dato il titolo Pia Fidelis per la sesta e la settima volta fa pensare che altri imperatori, dopo Domiziano, abbiano conferito il titolo altre quattro volte.

LA COLONIA ULPIA TRAIANA OGGI XANTEN

Gallieno

Nel 268 la Primigenia dovette combattere, agli ordini di Gallieno, nella battaglia di Naisso, vincendo contro i Goti, ma l'anno seguente il comandante della XXII, Leliano, divenne l'imperatore delle Gallie, conquistando brevemente Magonza con la sua legione. Fu poi Postumo a riprendere il controllo della città, ma venne ucciso dai suoi uomini per aver loro proibito di saccheggiarla.


Primigenia CV

La XXII deve aver partecipato alla riconquista di Aureliano e dalla sua campagna contro i barbari del nord (214-275). Vi sono testimonianze dell'esistenza della XXII Primigenia all'inizio del IV secolo, perché ha ricevuto il titolo onorifico "Primigenia CV", che deve significare Constantiana Victrix, ma da allora scomparve.


Gordiano III

L'imperatore romano Gordiano III, per riprendersi i territori perduti, iniziò una campagna contro Sapore I nel 243, avendo al fianco suo suocero Timisiteo, riconquistando le città di frontiera e vincendo Sapore nella battaglia di Resena.

RESTI DELLA FORTEZZA DI MOGONTIACUM
In seguito Timesiteo, vero comandante delle forze romane e vincitore della battaglia di Resena, morì, sostituito da Filippo l'Arabo. Gordiano morì probabilmente assassinato dalle sue truppe, tra cui la XXII, dietro istigazione di Filippo, il quale divenne il nuovo imperatore.


Odenato

Nel 268, Odenato fu assassinato, ad Emesa, assieme al figlio e al suo fedele collaboratore, il governatore militare di Palmira, Settimio Vorode, per opera di Maconio, cugino o nipote di Odenato, su mandato della regina Zenobia.

Quindi Zenobia fece giustiziare Maconio e prese il potere, per creare un impero d'Oriente da affiancare all'impero di Roma, assumendo il titolo di Regina dei Re di Palmira e Imperatrix Romanorum.

SEPOLCRO DI T. JULIUS TUTTIUS XXII PRIMIGENIA
Nel 268, la Primigenia probabilmente combatté sotto Gallieno nella battaglia di Naissus, vincendo una vittoria sui Goti, ma la notizia è controversa. il figlio, Gallieno  (218 - 268), dovendo combattere lungo il fronte del basso Danubio contro i Goti, lasciò il compito a Settimio Odenato, principe di Palmira, col titolo di imperator, dux e corrector totius Orientis.


Leliano

Ma poi la XXII Legione si ribellò contro l'imperatore Postumo, già comandante dei germanici Batavi, e usurpatore di Gallieno, proclamando Ulpio Cornelio Leliano, uno dei suoi migliori comandanti militari, imperatore a Magonza. 
Sebbene Postumo riuscisse a riconquistare rapidamente Magonza e a uccidere Leliano, fu incapace di controllare le proprie truppe, che gli si ribellarono e lo uccisero a loro volta insieme a suo figlio, perché non aveva permesso loro di saccheggiare la città. 
Leliano passò alla storia per il suo coraggio nella lotta contro i barbari e come militare eccezionale che ha costruito la maggior parte dei forti lungo il fiume Reno. Il nuovo imperatore Valeriano venne poi a tradimento imprigionato dai sasanidi. Zenobia venne sconfitta e Palmira distrutta dall'Imperatore Aureliano.
Dopo il crollo del Limes nel 259/60 d.c., il Mogontiacum romano divenne di nuovo una città di frontiera. Il capoluogo di provincia finora sterrato doveva fornire una protezione adeguata, che le truppe romane non potevano proteggere nonostante la loro presenza massiccia. Fu costruita allora la prima cinta muraria.



LA FINE

All'inizio del IV secolo la legione ottenne il titolo di "Primigenia CV" (presumibilmente Constantiana Victrix). Non c'è traccia di ciò dopo il regno di Costantino il Grande (306-337). Una fonte suggerisce che "potrebbe essere stata distrutta durante la Battaglia di Mursa", combattuta tra l'imperatore Costanzo II e l'usurpatore Magnenzio, che si concluse con la morte di Magnenzio.
La notizia non appare improbabile anche perchè fu una delle battaglie più sanguinose della storia romana, in cui persero la vita più di 50.000 uomini da ambo le parti.

Iscrizioni epigrafiche

- Dis Manibus Avidiae Nice uxori rarissimi exempli Publicius Apronianus hastatus legionis XXII Primigeniae fecit. Tarragona (Spagna) CIL II 4147.
- Amoena hic sita est Quintus Antonius Avitus veteranus legionis XXII Primigeniae faciendum (...). Lisbona (Portogallo). AE 1981, 491.
- (...) tribuno militum legionis XXII Primigeniae praefecto cohortium in Germania / MIL (...). Beja (Portogallo) IRCP 235. .

ETRUSCHI (Nemici di Roma)

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L'APOLLO DI VEIO
"Sappi che il mare è stato separato dal cielo quando Giove rivendicò la terra di Etruria e stabilì che le pianure e i campi fossero limitati e misurati. Conoscendo l’avarizia umana e la passione suscitata in loro dalla terra, volle che tutto fosse definito dai segni dei confini. Questi segni, quando sul finire dell’ottavo secolo verranno da qualcuno rimossi, per questo delitto sarà condannato dagli Dei. Se sono schiavi, cadranno in servitù peggiore, se padroni, la loro casa sarà abbattuta e la loro stirpe perirà per intero. Coloro che avranno spostato i segni (dei confini) saranno colpiti dalle peggiori malattie, la terra sarà poi scossa da tempeste, i raccolti distrutti. Sappi che queste punizioni avranno luogo quando tali delitti si verificheranno."
(anonimo etrusco che fu tradotto in latino ai tempi di Cicerone)



LE ORIGINI

Il fondatore della questione etrusca è Dionisio D’Alicarnasso, storico greco di età augustea, che nei cinque capitoli (26-30) del I libro delle sue "Antichità romane" si adopera per confutare le teorie che identificavano gli Etruschi con i Pelasgi o i Lidi, favorevole all'ipotesi che fossero un popolo «non venuto di fuori ma autoctono», il cui nome indigeno sarebbe stato Rasenna:
"Dopo che i pelasgi ebbero lasciato la regione, le loro città furono occupate dai popoli che vivevano nelle immediate vicinanze, ma principalmente dai tirreni, che si impadronirono della maggior parte di esse, e delle migliori… Sono convinto che i pelasgi fossero un popolo diverso dai tirreni. E non credo nemmeno che i tirreni fossero coloni lidii, poiché non parlano la lingua dei primi… Perciò sono probabilmente più vicini al vero coloro che affermano che la nazione etrusca non proviene da nessun luogo, ma che è invece originaria del paese."
(Dionisio di Alicarnasso (Antichità Romane) I sec. a.c.)

Mentre le origini di Roma e dei Latini erano riportate ai Troiani attraverso le migrazioni di Enea, così per i Tirreni, cioè per gli Etruschi, si narrava una provenienza dalla Lidia in Asia Minore, attraverso una migrazione transmarina, guidata da Tirreno figlio di Ati re di Lidia, nel territorio italico degli Umbri (racconto di Erodoto, l, 94) o secondo altri si trattava del popolo nomade dei Pelasgi (Ellanico di Lesbo in Dionisio, I, 28), ovvero anche di una immigrazione di Tirreno con i Pelasgi che avevano già colonizzato le isole egee di Lemno e di Imbro (Anticlide in Strabone, V, 2, 4). Virgilio ritiene Lidi gli Etruschi.


Secondo Erotodo: 
"Sotto il regno di Atis, figlio di Manes, tutta la Lidia sarebbe stata afflitta da una grave carestia. Per diciotto anni vissero in questo modo. Ma il male, lungi dal cessare, si aggravava sempre più. Allora il re divise il suo popolo in due gruppi: quello estratto a sorte sarebbe rimasto, l'altro avrebbe cercato fortuna altrove. Alla testa dei partenti pose suo figlio, chiamato Tirreno. Dopo aver costeggiato molte coste e aver visitato molti popoli giunsero nel paese degli umbri e vi costruirono varie città in cui tuttora abitano. Ma mutarono il nome di lidii in un altro, tratto dal figlio del re che li aveva guidati: prendendo il suo stesso nome si chiamarono tirreni." 
(Erodoto (Storie I, 94) V sec. a.c.)

La civiltà etrusca, definita dalle iscrizioni in lingua etrusca, inizia nel VII secolo a.c. e dura fino al principio dell'età imperiale, diffusa nel Lazio settentrionale e Toscana, in Campania e nella parte orientale della valle del Po. La fase più antica etrusca ha un notevole afflusso di elementi orientali e detta perciò orientaleggiante, e segue immediatamente alla cultura del ferro villanoviana.
Sulla provenienza degli etruschi la tesi la più nota ed universalmente accettata è quella dell'origine orientale.

SARCOFAGO DEGLI SPOSI

I RITI FUNEBRI

In Etruria prevale il rito funebre dell'inumazione nell'età preistorica, poi l'incinerazione nel villanoviano più antico; di nuovo l'inumazione nell'Etruria meridionale e marittima nel periodo orientalizzante; infine ambedue i riti, con prevalenza dell'inumazione nel sud e dell'incinerazione nel nord. 

Ricordiamo che le pratiche di incinerazione dipendono e dalla necessità nomade di spostamento in cui le ceneri vengono disperse o da una dottrina di tipo più spiritualistico e legato al cielo, mentre l'inumazione dipende dalla stanzialità del popolo e della sua religione di tipo più animistico e legato alla terra.

L'espansione etrusca si dilatò a sud seguendo il versante tirrenico in direzione della Campania e salì a nord attraverso l'Appennino Tosco-Emiliano verso la pianura padana, non oltrepassando il confine orientale del Tevere che separa l'Etruria dall'Umbria.

ESEMPIO DI VILLAGGIO ETRUSCO

GLI ETRUSCHI NEL SUD ITALIA 


Scrittori greci e romani riferiscono della fondazione di una dodecapoli (Strabone, V, 4,3) iniziando dell'occupazione etrusca di Capua, considerata la capitale etrusca, e poi NoIa, Nocera, Pompei e altri centri campani. Le iscrizioni etrusche sono piuttosto abbondanti, e tra queste la tegola di Capua, che è il più lungo testo in lingua etrusca che possediamo dopo il manoscritto su tela della Mummia di Zagabria. Il materiale archeologico e le opere figurate presentano strette analogie con gli aspetti culturali dell'Etruria fino al V secolo.

La presenza degli Etruschi in Campania si espande fra il golfo di Salerno e il retroterra campano fino al fiume Volturno; avendo come centro principale Capua ed altre città come Suessula, Acerra, Nola, Pompei, Nocera:

Alla conquista della Campania seguì l'espansione etrusca nel Lazio, attestata dalle tombe principesche di Praeneste (tombe Castellani, Bernardini, Barberini del VII secolo), caratterizzate da corredi orientalizzanti. 

La prevalenza etrusca nel Lazio è provata dalla storia dei re Tarquini a Roma tra la fine del VII e gli ultimi decenni del VI secolo; confermata sia dalle scoperte epigrafiche sia dalle testimonianze archeologiche e artistiche. 

Tuttavia nel Lazio non vi fu un dominio stabile e diffuso come in Campania, perchè la popolazione laziale conserva il latino, i suoi costumi e le sue strutture.

Roma colloca la dinastia etrusca dei Tarquini negli ultimi decenni del VII secolo, con Tarquinio Prisco che diventa re dopo il sabino Anco Marcio.

Sotto Tarquinio Roma si crea una cinta difensiva, il foro, l'attrezzatura dell'arce del Campidoglio, la costruzione del tempio di Giove Capitolino, la Regia e il Comizio, sopra tracce di tombe e capanne più antiche. La classe dirigente etrusca, posta ai piedi del Campidoglio tra la valle del Foro e il guado tiberino, darà luogo al futuro Vicus Tuscus.

Dopo Servio Tullio, identificato con Mastarna, camerata di Caelius Vibenna (che dette il nome al Monte Celio e fratello di Aulo Vibenna), e la sanguinosa «presa di potere» di Tarquinio il Superbo, l'Etruria calca il suo potere su Roma e l'urbe si ribella con il «nobile duce» Celio Vibenna e suo fratello Aulo, ambedue originari di Vulci (Festo, Arnobio), e con il «fedelissimo compagno» (Claudio) Mastarna, oltre ad altri camerati forse di condizione servile (Tomba Francois).

Gli etruschi di Volsinii e Roma reagiscono, e i loro capi (Larth Papathna di Volsinii, Pesna Arcmsna di Sovana, Cneve Tarchunie di Roma), dopo aver catturato lo stesso duce nemico Celio Vibenna, liberato dall'amico Mastarna, vengono a loro volta sconfitti e quindi massacrati (Tomba Francois). Cade dunque il potere dei Tarquini.

PANTERA SU VASO A FIGURE ROSSE E NERE


GLI ETRUSCHI NEL NORD ITALIA

Qui l'occupazione etrusca riguardò soprattutto l'Emilia - Romagna con la leggenda di Tarconte, il fondatore di Tarquinia, ma ampiamente testimoniata dalle fonti storiche e archeologiche, avvenuta verso la fine del VI secolo, con i centri di Bologna, a Marzabotto e Spina.

Livio (V, 34) ci informa della battaglia combattuta, e perduta, dagli Etruschi nelle vicinanze del Ticino contro i Galli discesi in Italia con Belloveso e Segoveso ai tempi del re Tarquinio Prisco. Intorno agli inizi del V secolo si crearono floridi centri dell'Etruria interna: Volsinii, Perugia, Chiusi, Volterra, Fiesole, l'etrusca Felsina (Bologna), nella media valle del Reno Marzabotto e più a nord Adria.

La civiltà etrusca padano-adriatica, si delineò più chiaramente nel V secolo, soprattutto intorno ai centri di Felsina a di Spina), e così oltre alla dodecapoli tirrena se ne forma una nordica adriatica. 

BRACCIALE D'ORO

ALLEATI DI CARTAGINE

Erodoto riferisce, nel VI secolo a.c., di battaglie navali tra Greci ed Etruschi, come quella del 535 a.c., nel Mare Sardo. Quando i Focei provenienti dalla ionia asiatica si stabilìrono in Corsica, Cere si alleò con Cartagine, anch’essa danneggiata nel commercio dall’arrivo focese. L’alleanza condusse allo scontro armato al quale presero parte sessanta navi dei Focei e altrettante di Etruschi e Cartaginesi. Secondo Erodoto vinsero i Greci, ma con quaranta delle loro navi distrutte e le restanti inservibili, cosicché essi lasciarono la Corsica e partirono verso Reggio.

Alcuni prigionieri focesi furono portati a Cere e lapidati. Da allora quelli che passavano sul luogo dell’eccidio, narra Erodoto, animali o uomini, “diventavano rattrappiti, storpi o paralitici”. Gli Etruschi interrogarono l’oracolo di Delfi, che ordinò loro di celebrare sacrifici e di tenere ogni anno giochi per placare le anime dei Focesi massacrati.

LA CHIMERA
- Nel 480 a.c. i Greci di Sicilia, accettando la supremazia dei Siracusani, affrontarono a Imera i Cartaginesi sbarcati nell’isola sotto il comando di Amilcare. La sconfitta dei Cartaginesi fu un ulteriore colpo per gli etruschi, benché non avessero combattuto.

- Nel 474 a.c., gli etruschi dovettero affrontare la ribelle Cuma, che aveva chiamato in soccorso il tiranno siracusano Gerone. Vennero sconfitti in una memorabile battaglia navale presso Capo Miseno, dal che i Greci cominciarono ad assalire e saccheggiare le località etrusche della costa tirrenica, tra cui Vetulonia e Populonia.

- Nel V secolo a.c. a nord, i celti penetrarono in Italia attraverso le Alpi, mentre a sud, Roma la quale, scaduta la tregua del 474 a.c., riprese con la guerra contro Veio che venne conquistata e distrutta nel 396 a.c. 

- Nel 387 a.c. i Celti di Brenno sconfissero i Romani ad Allia, devastando l’Etruria e Roma; L'Urbe si riprese, anche se dapprima i romani ebbero l'idea, a cui Camillo si oppose, di spostare la città da Roma a Veio. Dopo Veio, per la scarsa coesione tra le città della lega, cadono le altre città etrusche, una dopo l’altra, tra cui Falerii, capitale dei Falisci e gli avamposti di Tarquinia. 


TOMBA DI TARQUINIA
- Nel 358 a.c. scoppiò la guerra tra Tarquinia e Roma, che si concluse nel 351 a.c. senza vincitori né vinti, ma con una tregua quarantennale. Subito dopo i Galli travolsero i centri etruschi del nord, tra cui Felsina (Bologna). 

- Nel 350 a.c. i siracusani depredarono Pyrgi e Caere, Roma conquistò Tarquinia, e i Galli invasero la Valle Padana, senza trovare opposizione. Tutte le città della lega del nord, ad eccezione di Spina e Mantova vengono saccheggiate.

- Spina ed Adria verranno poi prese dai greci che nel frattempo avevano fondato Ancona. L’economia agricola è distrutta: non si produce più vino, ricompaiono le paludi in Valle Padana, il sistema idrico è distrutto, cresce solo del grano che la città di Spina commercia con la Grecia. Per rappresaglia contro i Galli, alcuni etruschi eseguono atti di pirateria sui carichi di grano.

- Nel 311 a.c. si armarono contro Roma Volsini insieme a Vulci, Arezzo, Cortona, Perugia e Tarquinia. Nel 310 a.c. i Romani, comandati da Q. Fabio Rulliano, invadono e saccheggiano la Selva Cimina ritenuta sacra e inviolabile. 

- Nel 308 a.c. Tarquinia rinnovò la tregua, mentre Cortona, Arezzo e Perugia si arresero accettando condizioni umilianti. La guerra si riaccese nel 302 a.c. fino al 280 a.c..

- Gli Etruschi nel 295 a.c. subirono una sconfitta a Sentinum, i Romani furono quasi sempre all’attacco, e gli Etruschi quasi sempre in difesa nelle loro città fortificate. 

- Nel nel 283 a.c. gli etruschi assoldarono i Galli per combattere contro Roma vicino Bassano in Teverina, sul lago Vadimone, ma furono sanguinosamente sconfitti e i Galli Senoni (che subirono un genocidio nei pressi di Rimini), ed i Boi furono cacciati dall’Italia. Ribellatisi ai Romani ad Arezzo, gli etruschi vennero annientati. Sperarono inutilmente in Pirro, che dopo aver vinto ad Eraclea (Basilicata) nel 282 a.c., perse però a Maleventum.


- Tra il 281 e il 280 a.c. si arresero al dominio romano Vulci e Volsini, gli altri centri dovettero sottoscrivere patti associativi o “federativi” come sociae, da un lato liberi e autonomi, con le proprie leggi, la propria lingua e la propria religione, ma accettando la supremazia di Roma. 

- I Romani fondarono colonie di controllo in Etruria: Rusellae, Castrum Novum (Porto Clementino), Alsium, Fregene, Saturnia e Graviscae. Nel 225 a.c. i Galli devastarono di nuovo l’Etruria finendo sconfitti dai Romani a Talamone, ma la Maremma non si riprenderà più dalla devastazione: il grande sistema idrico di bonifica venne distrutto lasciando paludi e zanzare. Si racconta che Ansedonia, Graviscae, Rusellae divennero città insalubri.

- Comunque i Romani fondarono delle colonie fortilizie a controllo dell'Etruria: Rusellae, Castrum Novum (Porto Clementino), Alsium, Fregene, Saturnia e Graviscae. 

- Nella II guerra punica (218 - 202 a.c.) la disfatta subita dai Romani al Trasimeno risvegliò tra i Tirreni il desiderio di rivincita, così sostennero Annibale vanamente nel 210 a.c., subendo ritorsioni e processi sommari dai Romani. Eseguirono azioni di sabotaggio, di frode e di pirateria contro Roma.

- Tuttavia infine, nel 205 a.c., furono forniti grossi aiuti dagli Etruschi a Scipione per la sua spedizione africana. Tito Livio scrive che Cere dette frumento e viveri; Tarquinia tele di lino per le vele delle navi; Roselle, Chiusi, e Perugia legname per gli scafi e frumento; Volterra frumento e pece per le calafature; Populonia ferro; Arezzo grandi quantità di armi (3.000 scudi e altrettanti elmi e 100.000 giavellotti), strumenti e attrezzi da lavoro e 100.000 moggi di grano e altri rifornimenti per quaranta navi. 

- Nel 130 a.c. vennero uccidi i fratelli Gracchi che volevano abolire il latifondo che impoveriva i contadini, cosa che fece poi il console Lucio Giulio Cesare promettendo la cittadinanza romana a chi non entrava in guerra con Roma. Fino al 100 a.c. gli etruschi godettero di una buona situazione commerciale ma con un lento declino.


- Grata dell'aiuto ricevuto, tra il 90 e l’89, Roma concesse agli Etruschi i diritti di cittadinanza e nacquero così, tra l’80 e il 70 a.c., i municipi Romani dell’Etruria. Successivamente sotto Augusto il territorio etrusco divenne la regione VII del suolo italico.

- Gli Etruschi evitarono di scendere in combattimento ma, finita la guerra, la legge agraria venne respinta dal Senato e scoppiò la guerra civile, con Silla, della fazione degli ottimati, che prese con la forza il potere di Roma. Silla, massacrati i Sanniti, andò in Etruria, dove venne sconfitto a Saturnia, ma si vendicò con liste di proscrizione, premi per chi uccideva i proscritti, inibizione dalle cariche pubbliche, confische di beni, riduzione dei territori ad Arezzo, Fiesole e Chiusi.

- L’Etruria era alla fame. Solo più tardi, Cicerone riuscì a far ridare terre a Volterra ed Arezzo.
Nel 62 a.c. alcuni abitanti di Fiesole e Arezzo si unirono vanamente a Catilina e furono sconfitti a Pistoia. 

- Con Cesare (49-44 a.c.) tornò la pace, venne promulgata la Legge Agraria e ripresero le attività commerciali. Del resto Arezzo si mostrò simpatizzante verso Cesare, accogliendo le coorti spedite in avanscoperta prima di passare il Rubicone. Con la morte di Cesare finì il nono secolo etrusco. 

- Con l’avvento di Augusto venne distrutta Perugia nel 40 a.c. per aver appoggiato il fratello di Marco Antonio, sconfitto ad Azio da Agrippa nel 31 a.c., con la deportazione di 300 perugini, trucidati nel Foro Romano. 

- Mecenate consigliò l’imperatore di ricostruire Perugia, che si chiamò Augusta Perusia. Cominciò per l’Etruria uno sviluppo nel turismo, di moda già all’epoca. Famose erano le fonti termali Fontes Clusini presso Chianciano e Aquae Populoniae presso Populonia.

- Nacquero le provincie, le colonie, le regioni romane ed i processi di latinizzazione. L’ultimo imperatore amico dei tirreni fu Claudio, loro grande studioso, morto nel 54 a.c., che compose i " Tyrrhenica ", studi di etruscologia, purtroppo mai pervenuti. 

DONNE CHE DANZANO

LA CIVILTA' ETRUSCA 

Purtroppo non ci sono pervenuti libri sugli etruschi e non conosciamo neppure la loro lingua non avendo mai trovato una lingua di riferimento che l'avesse tradotta. Pur avendo decifrato quasi tutte le epigrafi non conosciamo ancora l'etrusco, per cui poco sappiamo di questo popolo così raffinato.

Di certo erano molto colti visto che parecchi trovarono lavoro presso i romani come precettori dei loro figli, e le loro donne esano estremamente raffinate, tanto che a Roma di una donna elegante si diceva che vestiva all'etrusca. Esse si adornavano di piume, di gioielli, di veli trapunti in oro e indossavano speciali babbucce tinte e ricamate. Furono grandi artisti nell'oreficeria, fautori di quel perlinato in oro che pochi ancora oggi sono riusciti a rifare. Usavano oro argento ed elettro come leghe preziose, dove l'elettro era una lega di oro e argento. Usavano pure l'argento dorato.

Dalle loro tombe desumiamo che avessero case molto belle, ornate di pelli, tappeti, cuscini, frange, e mobili raffinati, in legni pregiati, spesso dipinti a colori iridescenti (si diceva a coda di pavone). Le loro abitazioni erano affrescate nelle pareti e nei soffitti, avevano suppellettili da cucina raffinate e usavano anche le forchette (che i romani ignoravano). 

GIOIELLO ETRUSCO
La scultura degli etruschi era quasi tutta di arte sacra, o fortemente simbolica, i ritrovamenti consistono in elementi decorativi di templi o di tombe. La loro arte non aveva una ricerca formale, valendo solo per ciò che voleva rappresentare, eppure raggiunsero grande intensità e bellezza.
Gli etruschi erano celebri tra i loro contemporanei per le sculture di bronzo, realizzate con particolari processi di fusione. Malgrado che a noi sia giunto pochissimo, solo alcuni pezzi unici come la Chimera d’Arezzo, la Lupa capitolina e l’Arringatore, ci troviamo di fronte ad un’arte finemente progredita e misteriosa.

Le donne etrusche erano molto libere, non avevano cariche politiche ma potevano intervenire nelle assemblee dove erano molto ascoltate. Partecipavano ai banchetti insieme agli uomini che le rispettavano e amavano, per un non lontano retaggio matriarcale, probabilmente di discendenza lidia.
Anche gli uomini avevano una ricercatezza, spesso a torso nudo con un gonnellino ornato di foglie d'oro, oppure con clamidi dipinte con bordi e dorature varie. Uomini e donne nei banchetti usavano indossare corone di ulivo tra i capelli.

Gli etruschi seppero fare gli archi quando ancora i romani li ignoravano, tanto che appresero poi da loro questa capacità. Inoltre tingevano pelli e stoffe quando ancora i romani indossavano pelli o stoffe incolori. Dagli etruschi i romani appresero l'arco e la costruzione di acquedotti, canali, chiuse e cisterne. Ne copiarono le insegne da guerra, il simbolo dell'aquila, il mantello rosso, le tegole di argilla, i giochi gladiatori e la grande capacità di lavorazione dei metalli.

TITO PULLONE e LUCIO VORENO

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TITO PULLONE E LUCIO VORENO NEL TELEFILM TV "ROMA"

TITUS PULLO ET LUCIUS VORENUS

Essendo questi due militari, seppur valorosi, ma comunque personaggi di poco rilievo nella storia di Roma, non è possibile ricostruire la vita di Tito Pullone (col nome latino di Titus Pullo), tranne che era un centurione delle Legio XIII in Gallia, lo stesso Cesare nel capitolo 44 del suo “De Bello Gallico”, ce lo descrive in perenne competizione con Lucio Voreno per ottenere promozioni a livelli più elevati. 

Nella foto in alto i due militi romani sono così interpretati da attori con un ruolo in parte aderente e in parte di fantasia rispetto alla storia che conosciamo.

Tito Pullone e Lucio Voreno ebbero modo in particolare, di distinguersi, combattendo e vincendo sotto il comando di Quinto Cicerone, fratello del ben più noto politico e oratore, contro Ambiorige principe degli Eburoni e di cui Cesare loda la vittoria.  Quinto Tullio Cicerone (102 a.c. – 43 a.c.) è stato un politico romano, fratello del celebre oratore Marco Tullio Cicerone.

Ma di quale legione fosse a capo proprio Quinto Cicerone a cui Voreno e Pullone obbedivano, Cesare non lo dice, narra della Legio XIV quando dice di affidarla al comando di Cicerone in un momento successivo ma non si capisce se fosse la stessa che partecipò alla battaglia contro Ambiorige. 

Allo scoppio della guerra civile tra Cesare e Pompeo, nel 49 a.c., Tito Pullone venne venne assegnato alla XXIV Legione, dove convinse molti suoi commilitoni a schierarsi dalla parte di Pompeo Magno, consigliandoli piuttosto male perchè Pompeo venne sconfitto, con il quale combattè anche nella decisiva battaglia di Farsalo alla cui battaglia non sappiamo se sopravvisse. 

Nella serie televisiva i due sono protagonisti in un periodo storico compreso fra l'assedio alla città di Alesia e la morte di Cesare, ma erroneamente li assegna entrambi militanti nella Legio XIII. 
Nel libro 5, cap. 44, Cesare descrive Tito Pullone in perenne competizione con Lucio Voreno per raggiungere per primo un avanzamento di grado. Entrambi si sono distinti nel 54 a.c., quando i Nervi attaccarono la legione sotto Quinto Cicerone che fu già legato di Pompeo Magno in Sardegna, ma poi militò per ragioni politiche con Cesare durante la conquista della Gallia.

Quinto si scontrò con i Nervii di Ambiorige, che aveva raccolto intorno a sé gli Atuatuci e gli Eburoni, oltre a popolazioni minori e aveva sferrato un attacco agli accampamenti invernali di Cicerone. Nel 53 a.c. al comando della Legio XIII presso Atuatuca fu messo in difficoltà dai Sigambri. Congedato nel 52 a.c., servì come legato del fratello Marco in Cilicia.

Allo scoppio della guerra civile tra Cesare e Pompeo, si schierò con Pompeo insieme al fratello. Alla fine del conflitto, fu perdonato da Cesare, ma nel 44 a.c. diede il suo assenso all'assassinio del dittatore. Nel 43 a.c. venne ucciso nelle proscrizioni volute dai triumviri.

Nella guerra civile del 49 a.c., Pullone fu assegnato alla XXIV Legione, dove convinse molti compagni a passare dalla parte di Pompeo, col quale combatté anche a Farsalo. Di certo fece la scelta sbagliata perchè Pompeo fu sconfitto e la maggior parte del suo esercito venne sterminato.

LUCIO VORENO
Ecco il testo del capitolo 44 del libro V del De Bello Gallico:

«Erant in ea legione fortissimi viri, centuriones, qui primis ordinibus appropinquarent, Titus Pullo et Lucius Vorenus. Hi perpetuas inter se controversias habebant, quinam anteferretur, omnibusque annis de locis summis simultatibus contendebant. Ex his Pullo, cum acerrime ad munitiones pugnaretur, 
"Quid dubitas," inquit, "Vorene? aut quem locum tuae probandae virtutis exspectas? hic dies de nostris controversiis iudicabit." 
Haec cum dixisset, procedit extra munitiones quaque pars hostium confertissima est visa irrumpit. Ne Vorenus quidem tum sese vallo continet, sed omnium veritus existimationem subsequitur. Mediocri spatio relicto Pullo pilum in hostes immittit atque unum ex multitudine procurrentem traicit; quo percusso et exanimato hunc scutis protegunt, in hostem tela universi coniciunt neque dant regrediendi facultatem. Transfigitur scutum Pulloni et verutum in balteo defigitur. 
Avertit hic casus vaginam et gladium educere conanti dextram moratur manum, impeditumque hostes circumsistunt. Succurrit inimicus illi Vorenus et laboranti subvenit.
 Ad hunc se confestim a Pullone omnis multitudo convertit: illum veruto arbitrantur occisum. Gladio comminus rem gerit Vorenus atque uno interfecto reliquos paulum propellit; dum cupidius instat, in locum deiectus inferiorem concidit. 
Huic rursus circumvento fert subsidium Pullo, atque ambo incolumes compluribus interfectis summa cum laude sese intra munitiones recipiunt. Sic fortuna in contentione et certamine utrumque versavit, ut alter alteri inimicus auxilio salutique esset, neque diiudicari posset, uter utri virtute anteferendus videretur

«In quella legione militavano due uomini fortissimi, Tito Pullone e Lucio Voreno, centurioni che stavano raggiungendo i gradi più alti. I due erano in costante antagonismo su chi doveva esser anteposto all'altro e ogni anno gareggiavano per la promozione, con rivalità accanita. Mentre si combatteva aspramente nei pressi delle nostre difese, Pullone disse: 
"Esiti, Voreno? Che grado ti aspetti a ricompensa del tuo valore? Ecco il giorno che deciderà le nostre controversie!
Ciò detto, scavalca le difese e si getta contro lo schieramento nemico dove sembrava più fitto. Neppure Voreno, allora, resta entro il vallo, ma, temendo il giudizio di tutti, segue Pullone. A poca distanza dai nemici, questi scaglia il giavellotto contro di loro e ne colpisce uno, che correva in testa a tutti; i compagni lo soccorrono, caduto e morente, proteggendolo con gli scudi, mentre tutti insieme lanciano dardi contro Pullone, impedendogli di avanzare. 
Anzi, il suo scudo viene passato da parte a parte e un piccolo giavellotto gli si pianta nel balteo, spostandogli il fodero della spada: così, mentre cerca di sguainarla con la destra, perde tempo e, nell'intralcio in cui si trova, viene circondato. 
Subito il suo rivale Voreno si precipita e lo soccorre in quel difficile frangente. Su di lui convergono subito tutti i nemici, trascurando Pullone: lo credono trafitto dal giavellotto. Voreno combatte con la spada, corpo a corpo, uccide un avversario e costringe gli altri a retrocedere leggermente, ma, trasportato dalla foga, cade a capofitto in un fosso. 
Viene circondato a sua volta e trova sostegno in Pullone: tutti e due, incolumi, si riparano entro le nostre difese, dopo aver ucciso molti nemici ed essersi procurati grande onore. Così la Fortuna, in questa loro sfida e contesa, dispose di essi in modo che ognuno recasse all'antagonista aiuto e salvezza e che non fosse possibile giudicare a quale dei due, per valore, toccasse il premio per il valore.»

(Gaio Giulio Cesare, De Bello Gallico, V, 44.)


Comunque siano stati rappresentati, Pullone e Voreno sono esistiti davvero e furono proprio la determinazione e il coraggio di uomini come Voreno e Pullone, che insieme al genio stratega di Cesare hanno consentito al generale romano di conquistare tutta la Gallia.

Caso curioso, se vi trovate in viaggio lungo l’attuale via Flaminia, potete fermarvi a visitare il bellissimo e antico borgo di Bevagna, in provincia di Perugia, e proprio qui, all’interno del palazzo del museo civico, sul soffitto è possibile ammirare, tra gli altri, guarda caso, proprio un ritratto di Lucio Voreno, come mai?
Le risposte potrebbero essere molteplici, la famiglia potrebbe aver avuto origini di Bevagna, lo stesso Cicerone cita Lucio Voreno in una sua orazione a difesa proprio della sua famiglia, di certo è che Bevagna, insieme all’insediamento di Carsulae, rappresentava un punto di sosta per le legioni in marcia in direzione di Roma, comprese naturalmente quelle al comando di Cesare una volta varcato il Rubicone.

CULTO DELLA DEA FERENTINA

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DEA ITALICA
Ferentina era un'antica divinità prima italica e poi romana, venerata già dai Latini e dagli Ernici come Dea dell'acqua e della fertilità. Il nome di "Ferentina" deriverebbe dal verbo latino "fero", "porto, produco", perciò la Dea sarebbe "colei che è fruttuosa". Oppure viene dal termine Fera (fiera, belva), cosa che ci trova più concordi, in quanto Potnia Theron (la Signora delle belve).

Secondo alcuni studiosi anglosassoni, il culto di Ferentina sui Colli Albani potrebbe essere collegato al culto di Diana presso l'antica Aricia, sul lago di Nemi dove vigeva il "rex nemorensis", il sacerdote del tempio, che per installarsi nella carica doveva sfidare in duello e uccidere il sacerdote precedente. Ma non ci sono prove su questa ipotesi.



IL CULTO DELLA DEA

- Il principale luogo di culto di Ferentina era il bosco Ferentano presso il "Caput Aquae Ferentinum" sui Colli Albani, alle pendici dell'attuale Monte Cavo ("Mons Albanus" dei Latini), nel Latium, dove si svolgevano le riunioni annuali dei delegati della Lega Latina, collocato dagli studiosi presso la località Prato della Corte presso Marino. Secondo altri era presso Cecchina, frazione di Albano Laziale. identificata con lo sbocco dell'emissario di Nemi, dell VI secolo a.c.

- Ma erano legate al culto di Ferentina anche Ferentium (oggi Ferento), nel Lazio a 6 km da Viterbo, sulla strada Teverina verso la valle del Tevere. Sorgeva sull'altura di Pianicara, dove si insediarono gli sfollati della vicina città etrusca Acquarossa, distrutta intorno al 500 a.c. durante le guerre di espansione di Tarquinia.

Nel "Liber coloniarum" e in un passo dei "Gromatici veteres" (testi latini del V sec, sull'agricoltura) risalente al 123 a.c. è menzionata Ferento, in riferimento all'assegnazione di una colonia o alla spartizione di alcuni terreni demaniali. Dopo la guerra sociale (91-88 a.c.) Ferento divenne municipium.

IL TEATRO DI FERENTO 
- Ferentinum (oggi Ferentino), nella provincia di Frosinone (Lazio, Valle del Sacco), la cui fondazione, antecedente a quella di Roma di almeno 300 anni, è attribuita al Dio Saturno che, scacciato dall'Olimpo, si insediò in questo territorio diffondendovi le arti e le tecniche. 

Non a caso vi si ergono le mura ciclopiche, con massi posati a secco per circa circa 2.500 metri, con 12 porte. Fra il VI e il IV secolo a.c. Ernici, Volsci e Romani combatterono per il possesso della zona.

In seguito Ferentino divenne alleata di Roma, arricchendosi di grandi edifici pubblici, dei quali restano: un Mercato Coperto, un teatro, il Testamento di Aulo Quintilio Prisco, le terme, l'acquedotto e il basolato stradale della via Latina.

Ferentillo in Umbria, presso Terni, dal latino "Ferentum illi" ovvero "quelli di Ferento", sicuramente in ricordo della patria abbandonata. Il paese è attraversato dal fiume Nera che lo divide in due nuclei.

FERENTO DI VITERBO
Ferentum, città della Puglia, non molto conosciuta ma le dettero fama sia Diodoro che Livio. Fu posseduta dai Sanniti e poi spugnata dai romani.

Ferentana in Abruzzo, da Frentrum, il nome locale della capitale dei Frentani, popolo italico di lingua osca insediato sulla costa adriatica centrale, tra le foci dei fiumi Sangro e Biferno, strettamente affine ai Sanniti, negli attuali Abruzzo sud-orientale e nel basso Molise. Entrati in conflitto con Roma alla fine del IV secolo a.c., ne accettarono il ruolo di alleati con un certo margine di autonomia. Nel I secolo a.c., dopo la Guerra Sociale si giunse alla definitiva romanizzazione del popolo frentano.

- Secondo alcuni Ferentina aveva un altro centro di culto nella città di Aricia, situato tra il lago di Albano e il lago di Nemi (Nemorensis), un lago vulcanico, a poche miglia dal lago di Albano. Lì si trovava il famoso boschetto di Diana Nemorensis, nel quale cresceva un "ramo d'oro" in una quercia sacra, probabilmente vischio, e che figurava nel rituale con cui i suoi sacerdoti venivano sostituiti. Ma non vi sono prove di ciò.



L'AQUA FERENTINA

Ferentina è un'antica Dea latina dell'acqua e della fertilità della sorgente che prende il nome da Lei e non viceversa, vale a dire l'Acqua Ferentina, situata nei boschi vicino a Castrimoenium, l'attuale Marino, sulle sponde del Lago Albano (Lacus Albanus), situato nel cratere di un vulcano estinto.

Ella era anche la Dea protettrice della città chiamata Ferentinum, una città degli Hernici (una tribù sabina), posta a circa 45 miglia a sud-est di Roma, al largo della via Latina; secondo alcuni gli antichi confondevano questa città con il sito della sua sorgente e del suo boschetto, che poteva chiamarsi Ferentinum in suo onore.

L'ernico Ferentinum, oggi chiamato Ferentino, si trova in effetti a circa trenta miglia dalla sua sorgente a Castrimoenium, ma ciò non toglie che il culto non potesse estendersi a tale distanza e anche molto oltre. In origine Ferentino era una città dei Volsci, di origine umbra od osca, ma in seguito fu abitata dagli Hernici, una tribù
sabina.

Il nome Ferentinum deriva secondo alcuni dal verbo fero, "portare" o "produrre", da cui deriva la parola ferax, "fecondo" o "fertile". Pertanto, Ferentinum significherebbe"il luogo che è fertile"; e la Dea "Colei che è feconda". Ferentinum era conosciuto nell'antichità come una tranquilla città di campagna, dove si poteva sfuggire al trambusto e ai rumori della città, insomma un luogo di villeggiatura per i ricchi romani.

Ma sul suolo italico c'erano altre città con nomi simili, come Ferentana, situata nel Sannio, e Ferentum, una città in Puglia. Sia la Puglia che il Sannio erano regioni dell'Italia antica situate sulla costa orientale (adriatica); esse confinavano tra loro, e il Sannio era un vicino del Lazio, la regione in
cui si trovavano Roma, il lago Albano, Ferentinum e Castrimoenium.

Ci si chiede se questi luoghi si chiamassero così in onore di Ferentina e la risposta viene affermativa; lo stesso culto di Feronia richiama la Dea Ferentina, la cui sorgente si trovava in un boschetto sacro in una valle fittamente boscosa, e un tratto di bosco a Marino è ancora oggi chiamato bosco di Ferentina.

Dunque una Dea dell'Acqua e delle Sorgenti, ma soprattutto la Ninfa di una sorgente centrale per i popoli latini; e le sorgenti sono tradizionalmente simbolo di origine, nascita e connessione con gli Inferi, in quanto emergono direttamente dal sottosuolo. Lei è una Dea della Terra e dei poteri della fertilità, della fecondità e della nascita; quindi legata all'agricoltura, e per estensione ai poteri civilizzatori dell'agricoltura, proprio come Cerere. Veglia sul suo popolo, i latini, e protegge le città che la onorano. Ma ci sono anche accenni di un lato più oscuro di Lei, nell'associazione di entrambe le sorgenti e della terra oscura con la Terra dei Morti.

Quella che si presume essere la sua sorgente si trova attualmente in un piccolo parco chiamato Parco di Colonna; scorre ancora abbastanza abbondantemente e dà origine ad un ruscello chiamato Marrana del Pantano; evidentemente il torrente ha scavato un fosso paludoso. L'area intorno a questa sorgente è stata abitata fin dall'epoca preromana, e la popolazione locale aveva stabilito il commercio con gli Etruschi a nord.

IL VOLTO DELLA DEA

LA LEGA LATINA

In questo boschetto Ferentina aveva un santuario, famoso come luogo d'incontro della Lega Latina, una confederazione di città laziale dei primi tempi di Roma. La Lega Latina vi si riuniva regolarmente fino alla metà del IV secolo a.c., quando le città laziali, da tempo in contrasto con Roma, furono sconfitti da quella città e assorbite nel suo territorio in continua espansione.

Tradizionalmente c'erano 30 città membri della Lega Latina, per cui il santuario dove riunirsi doveva essere di buone dimensioni; in tempi moderni si diceva che ci fossero rovine romane vicino alla sua fontana, anche se oggi ne è rimasto ben poco.



L'OMICIDIO DI TURNUS

Tarquinio il Superbo, l'ultimo re di Roma prima della Repubblica avrebbe punito il leader latino Turnus Herdonius, il delegato latino di Aricia, che aveva parlato contro di lui; mentre i latini erano tutti riuniti al santuario di Ferentina, Tarquinio insinuò che Turnus avesse complottato contro gli altri latini e se stesso accogliendo armi nella casa di Turnus. I latini, che comunque non amavano molto Turnus, dopo aver trovato le armi (appositamente inserite) non ascoltarono neppure la difesa di Turnus, e lo giustiziarono annegandolo nella sorgente di Ferentina.

Nell'omicidio di Turnus i latini si assicurano doppiamente che se ne sia andato mandandolo direttamente agli Inferi non solo attraverso la sua morte, ma anche attraverso una sorgente, considerata una porta per gli Inferi e un luogo adatto per inviare sacrifici agli Dei; e i tradizionali rituali purificatori eseguiti nel suo boschetto sono anche legati all'assassinio di un leader o di un Re.



LA PESTE A ROMA

In un'altra tradizione romana dei primi tempi, stabilita da Plutarco ( I-II secolo d.c.), Roma sarebbe stata visitata da una peste perché Romolo, il primissimo re, non aveva cercato giustizia nell'assassinio di Tito Tazio, l'ex re dei Sabini, che per un certo periodo aveva governato Roma insieme a Romolo. Alla fine fu persuaso a compiere i necessari riti di purificazione e la peste si calmò. Plutarco dice poi che questi riti erano ancora in corso nel boschetto di Ferentina ai suoi tempi.
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