Quantcast
Channel: romanoimpero.com
Viewing all 2264 articles
Browse latest View live

CULTO DELLA DEA MEDITRINA

$
0
0
ECATE TRINA

11 ottobre - Meditrinalia

- Veniva dedicata in onore di Giove. E' una festa dedicata alla lavorazione del vino. Non è mai citata una Dea che si chiami Meditrina. Tuttavia si tratta di una festa già in disuso ai tempi di Varrone e nominata poi di nuovo solo ai tempi della riforma di Augusto.
Varrone tuttavia ne riporta una formula antica, recitata durante la degustazione del vino nuovo: "Novus-vetus vinum libo; novo-veteri vino morbo medeor"

("Bevo vino nuovo-vecchio, curo con tale vino nuovo-vecchio la malattia").

Da questa formula e dall'antico concetto del vino come medicina deriverebbe secondo alcuni il nome di Meditrinalia. Ma non è così, anche perchè medicina e meditrina sono termini molto diversi. In realtà Meditrina era un aspetto dell'antica Dea e significava colei che sta nel mezzo della divinità Trina. L'antica Dea era infatti Trina, tre Dee in una: la Dea che dà la vita, quella che nutre e quella che dà la morte. Il vino era legato al nutrimento per cui riguardava la Dea centrale della divinità.

Meditrina era una Dea romana che sembra essere stata un'invenzione tardoromana a giustificare l'origine dei Meditrinalia. La più antica associazione dei Meditrinalia alla Dea del vino fu l'intuizione del grammatico del II secolo Sesto Pompeo Festo, e grazie a lui gli studiosi hanno compreso che si trattava di una Dea romana della salute, della longevità e del vino, con un significato etimologico di "guaritrice" suggerito da alcuni.

Festo fu un grammatico romano del II secolo d.c., che scrisse in venti volumi l'enciclopedico trattato di Verrius Flaccus "De Verborum Significatione". Flaccus era stato un famoso grammatico che fiorì sotto il regno di Augusto. Grazie a lui Festus dà l' etimologia e il significato di molte parole, chiarendoci molti miti e culti religiosi dell'antica Roma.

Un tempo all'antica Dea si sacrificava la focaccia e il vino, ma per "sacrificare" s'intendeva all'epoca rendere sacro attraverso un rito o una preghiera, non significava bruciare la focaccia o versare il vino sull'altare, perchè sprecare il cibo non era ben visto dalla Dea.

LA TRIPLICE MADONNA
Tanto è vero che i fedeli si riunivano accanto a un fuoco, o a un altare e il sacerdote, in genere una sacerdotessa, distribuiva le focacce e diceva:
"Mangiate le focacce, esse sono il corpo della madre Terra."

Poi versava il vino e diceva:
"Bevete il vino, esso è il sangue della Madre Terra".

Così tutti mangiavano, bevevano e ringraziavano la Dea Meditrina, cioè la Madre Terra che li nutriva. In effetti la farina era il prodotto della spiga impastato con l'acqua delle sorgenti e il vino era il prodotto dell'uva che era a sua volta il prodotto della terra.

Grazie a questo rito tutti si sentivano figli della Grande Madre che li nutriva, e pertanto fratelli. Poi venne il cattolicesimo che a sua volta impastò la farina con l'acqua facendone non focacce ma ostie, ma più o meno ci siamo, sempre di farina e acqua si trattava e poi offrì il vino, anzi dopo se lo bevve solo il prete forse perchè costava meno.

Comunque offrirono le ostie dicendo che si trattava del corpo di Cristo e il vino era il sangue di Cristo, ma non ci si capì più niente, per cui dissero allora che si trattava di un mistero e lo chiamarono il "Mistero della Transustanziazione", che significa il Mistero di un cambiamento di sostanze, e rimase ancora più oscuro.

Nel culto della Dea Metidrina invece il rito era palese, era la Madre Terra che forniva il cibo, e prima di essere figli dell'uomo e della donna, gli umani, tutti gli umani, erano i figli di Meditrina, la Terra.
"Novus-vetus vinum libo; novo-veteri vino morbo medeor"

("Bevo vino nuovo-vecchio, curo con tale vino nuovo-vecchio la malattia").

Qual'era la malattia che veniva curata col vino? Le sofferenze della vita, la sofferenza del vivere. Bevendo il vino si dimenticano gli affanni, questo era il regalo della Dea agli uomini. Bere il vino nuovo insieme al vecchio era unire affanni passati e affanni presenti, curandosi di entrambi.

E che c'entrava Giove col cibo e col vino per lenire gli affanni? Nulla ma avendo perduto il ricordo dell'antica Dea preferirono dedicare la festa al nuovo Padre, che sembrava più potente dell'antica Madre.


TRIGARIUM

$
0
0
TRIGARIUM
Il Trigarium era uno spazio aperto posto a sud dell'ansa del Tevere, vicino all'attuale Via Giulia, che venne usato all'inizio come terreno di allenamento alle gare equestri. Esso era posto nella parte nord-ovest del Campo Marzio, così chiamato dal nome della triga, un carro a tre cavalli. In realtà le corse con la triga erano inusuali, in quanto tre cavalli erano difficili da gestire per qualsiasi auriga, ma allenarcisi era ottimo per passare poi alle bighe.

Nelle gare si usavano le bighe, a due cavalli, e talvolta le quadrighe ma quasi esclusivamente per spettacoli di parata che non per corse tra quadrigae (quadrighe). Le sfide classiche erano tra le bighe, ma talvolta per allenarsi gli auriga si cimentavano da soli nella corsa con le trighe.  Dionigi di Alicarnasso cita corse di trighe sotto Augusto, corse che sono registrate anche in iscrizioni relative a periodi più tardi..Il primo riferimento al Trigarium data al periodo dell'imperatore Claudio, ma non ne conosciamo le origini.

Si pensa che il Trigarium facesse parte di un terreno più ampio, un vasto spazio pubblico destinato al pascolo dei cavalli e all'addestramento militare dei giovani, che era l'uso originario del Campo Marzio, che si chiamava così proprio perchè i soldati si esercitavano nell'arte della guerra protetta dal Dio Marte. Questo enorme spazio conteneva oltre al Trigarium, anche i Septa Trigaria e il Tarentum.

LA PRESUNTA POSIZIONE

ALLENAMENTO E LUDI

Sebbene il Trigario venisse usato come terreno di allenamento, talvolta ospitava realmente delle corse di bigae che servivano da introduzione all'October Equus, compiuto in Campo Marzio in onore del Dio Marte il 15 ottobre.

RAPPRESENTAZIONE DI DUE TRIGAE
Pertanto lo spazio dedicato all'allenamento si trasformò pian piano in un vero e proprio stadio e gli allevamenti divennero spettacoli. Alla fine della gara il cavallo guida della squadra vincente era sacrificato presso la località ad Nixas, un luogo posto appena a est del Trigarium, che era o un altare alle divinità della nascita (di nixi) o forse qualcosa denominato Ciconiae Nixae.

Alle cerimonie del cavallo di ottobre (October Equus), due quartieri si sfidavano in duelli incruenti per il possesso della testa del cavallo come trofeo per l'anno successivo e un atleta correva a perdifiato per portare la coda del cavallo alla Regia e, prima che si coagulasse, versare il suo sangue sul fuoco sacro di Roma.

In definitiva non si sa se le corse degli Equirria del 27 febbraio e del 14 marzo, festività anch'essa dedicata a Marte, e i ludi tarentini, che poi divennero i Ludi Saeculares si svolgessero al Trigarium oppure l'area servisse solo come campo di allenamento e preparazione per queste festività.



SEPTA TRIGARIA

Nel vasto Campo marzio oltre al Trigarium c'era la Septa Trigaria che Publio Vittore, sulle regioni augustane, pone la nella IX Regio del Circus Flaminius. I Septa sing. septum). Le Septa erano uno spazio recintato all'inizio da tavole (e perciò si chiamarono anche ovili) e diviso in sezioni dove le tribù e le centurie si adunavano nei comizii per dare il suffragio. 
Scrisse Attico, il dì 30 settembre dell'anno 699 di Roma, che egli ed Oppio volevano fare di marmo e coprire i Septa nel Campo Marzio per i comizi tributi e cingerli con un portico magnifico che girasse 1000 passi e con questo edificio andare a raggiungere la Villa Publica.

ADE

TARENTUM

Il Trigarium non possedeva strutture permanenti proprio perchè addetto a svariati usi. Accanto ad esso infatti era collocato il Tarentum, l'altare sotterraneo dedicato a Dis Pater (equivalente di Plutone) e Proserpina (equivalenete di Persefone o Core). 

Dis aveva rapito Proserpina portandola nel mondo degli inferi per farne la sua sposa e regina. Nelle religioni misteriche, la coppia veniva talvolta rappresentata come il Sole e la Luna, e il carro di Plutone è trainato dai quattro cavalli come nelle quadrighe dei sovrani e degli Dei del Sole.

Pertanto anche l'altare era legato al mondo degli inferi con le festività romane dei Consualia, dell'equus Octrber e dei Ludi Taurii, mentre il Tarentum era legato ai ludi tarentini, e il Trigarium era legato alle gare ai giochi e alla religione. 

Isidoro di Siviglia narra che le gare del Trigarium si svolgevano in concomitanza con alcune festività religiose. La quadriga - riferisce Isidoro - rappresenta il sole e la biga la luna; la triga rappresenta gli Dei degli inferi, ma pure le tre età dell'uomo: infanzia, età adulta e vecchiaia.



HARPASTUM 

La sede della fazione degli aurighi professionisti era ubicata nelle vicinanze: il Trigarium si trovava appena a nordovest delle stalle e dell'edificio in cui era la sede delle squadre verde e blu.

GIOCO DELL'HARPASTUM
Un'area adiacente, in cui la gente giocava ad harpastum (gioco della palletta), ai giochi con il cerchio e alla lotta, era il sito in cui furono costruiti stadi temporanei di legno da Giulio Cesare e da Augusto fino a quello permanente dello Stadio di Domiziano.

Infatti Plinio il Vecchio utilizza la parola per indicare genericamente l'esercizio equestre: egli descrive un'acqua fortificata o una bevanda per lo sport, preparata con polvere di sterco di capra e aceto, che era bevuta da Nerone "quando voleva fortificarsi per il trigarium.". Plinio asserisce che i cavalli del suolo italico erano superiori agli altri per gli esercizi del trigarium.

L'ultimo riferimento al Trigarium risale alla seconda metà del IV secolo, dopodichè si suppone che anche le corse dei cavalli ebbero fine in una dolente decadenza generale delle arti, dei costumi e dei diritti umani insieme alla distruzione di tutto ciò che di monumentale potè essere distrutto.



VILLA DI JULIA FELIX - GIULIA FELICE (Pompei)

$
0
0
EURIPO DI VILLA FELIX
"Felix", era un cognomen romano che significa "Il Fortunato", ed era un epiteto del dittatore Lucio Cornelio Silla e dei suoi discendenti nel periodo repubblicano. Nel periodo imperiale era un nome che indicava soprattutto fortuna, da esso deriva il termine italiano "felice".

Julia Felix era discendente dei Julii, che erano liberti dell'Impero, cioè ex schiavi della gens Julia, il che sicuramente ha influenzato la sua scelta nelle opere d'arte nella sua proprietà, che descrivono la vita della classe media, raffigurando la vita quotidiana nel foro pompeiano, tra bancarelle, una scuola all'aperto, conversazioni e un mendicante che riceve l'elemosina da una signora con la sua cameriera. 

Ben 5800 mq di aree, un impianto termale, domus, botteghe e un triclinium estivo con letti di marmo ed una fontana a cascata. E’ la grande ‘casa’ di Giulia Felice, matrona del I sec. a.c., che affittava parte della casa.

L'AMBULACRO
Julia era una donna molto ricca e possedeva una grande villa a Pompei che occupava un intero isolato della città, con stanze ben arredate e decorate fino al terremoto del 62. La villa subì forti devastazioni con il grave terremoto del 62 tanto che la proprietaria ne convertì alcune parti in appartamenti, bagni pubblici, negozi e taverne poi sepolti dell'eruzione del Vesuvio del 79.

Ella affittando i diversi locali non solo si arricchì maggiormente ma si affermò soprattutto come donna d'affari e figura pubblica a Pompei, il che fa comprendere come la figura della donna romana, pur essendo piuttosto penalizzata nella vita politica e in determinate professioni, aveva però una libertà di azione notevole per quei tempi, soprattutto se si paragona alla situazione di quasi cattività della donna greca.

La villa si estende su un'area corrispondente a due "insulae", di cui un terzo è occupato dall'edificio vero e proprio e due terzi vennero utilizzati come orto. Dopo il terremoto del 62, Julia Felix figlia di Spurius, data la penuria di alloggi, decise di affittare parte della casa. 

Inoltre, poichè le terme del Forum potevano essere utilizzate solo in parte, ella aprì al pubblico le sue terme private. Lo testimonia l'avviso dipinto sulla facciata: "Eleganti stabilimenti balneari, negozi con appartamenti annessi al piano superiore e appartamenti indipendenti al primo piano sono offerti in affitto a persone di tutto rispetto". Vi è specificata anche la durata massima del contratto di locazione, che è un periodo di cinque anni "dal I agosto al I agosto del VI anno".

RITRATTO DI SAFFO

GLI SCAVI

La casa fu una delle prime di Pompei ad essere scavata, ma per il sito gli scavi borbonici del regno di Napoli non furono propriamente una fortuna. Gli scavi archeologici iniziarono nel 1755 e continuano ancora oggi. Negli anni successivi al 1755 la casa venne fortunatamente risepolta, ma aveva già subito molti danni sia per gli asporti all'estero sia per il modo incontrollato di scavare privando il sito di tutte le notizie e particolari che fornisce invece uno scavo condotto con cura e con moderni mezzi di investigazione. 

Vi vennero successivamente rinvenuti una complessa taverna, bagni lussuosi e stanze tricliniari da giardino riccamente decorate. Tra gli anni 1912-1935 fu scoperto un santuario di dedica sconosciuta e poi la facciata lungo la Via dell'Abbondanza dell'edificio. 

Quando l'intero edificio fu scavato, furono trovate anche due statue romane.

IL TRICLINIO ESTIVO
Il sito venne nuovamente scavato e pure restaurato nel 1952-53, cercando di porre rimedio ai danni perpetrati nei primi scavi del XVIII sec.. 

La casa e i giardini si sono rivelati di grande importanza, occupando uno dei più grandi lotti di Pompei, essendo praticamente delle dimensioni di un intero isolato.

Tra gli anni 1998-1999 gli scavi ripresero e si fecero nuove e più importanti scoperte. 

Una trincea trovata dietro il calidarium, che risaliva già al periodo augusteo, ha rivelato uno scarico che conduceva l'acqua dal pavimento dell'ipocausto, per scaldare dei bagni o una stanza in una casa romana. 

Fu scoperto anche un ninfeo con una fontana a scala d'acqua e un triclinio, una modifica introdotta dopo il terremoto del 62.

ATRIO

DESCRIZIONE

La casa, dopo le drammatiche vicissitudini  del terremoto del 62, con conseguente massiccia ristrutturazione, era stata divisa in tre parti: 

- I bagni, con accesso da Via dell'Abbondanza, che sono stati dotati di tutti i servizi necessari all'uso pubblico, nonchè dotati di una piscina scoperta. 

- L'appartamento del proprietario che si affaccia su un magnifico giardino con un canale d'acqua circondato su tutti i lati da originali colonne quadrangolari.


- I negozi e gli appartamenti, alcuni dei quali si aprivano su Via dell'Abbondanza e alcuni sulla strada laterale che portava alla Palestra Grande. Ad eccezione della casa di Julia il resto infatti era stato dato in affitto a persone referenziate.

Le sculture che decoravano il giardino ed alcuni dei dipinti trovati nella casa sono per lo più esposti al Museo Archeologico Nazionale di Napoli, mentre un affresco con Apollo e le Muse è esposto al Louvre, a Parigi.



LA DOMUS DI JULIA

Originariamente la proprietà della domus era stata creata da due "insulae" complete che erano state unite insieme con la strada che si frapponeva tra le due. 
La perdita di una strada così importante che porta all'anfiteatro fu compensata poi dall'ampliamento della strada successiva, il cosiddetto vicolo dell'Anfiteatro, che guadagnò terreno a spese della tenuta di Julia.

La Casa di Giulia Felice si trova infatti oggi sul lato sud della Via dell'Abbondanza vicino al suo limite orientale, nei pressi della Palestra e dell'Anfiteatro.



L'abitazione ha un bellissimo giardino porticato, le cui colonne sono quadrangolari e non tonde e sono rivestite in marmo, un vero lusso. 

Un canale d'acqua derivante dall'acquedotto locale, oltre a fornire l'acqua per le necessità, arricchiva ulteriormente il giardino. Infatti intorno ad esso era stato creato un elegante bordo in marmo che si allargava ogni tanto con forme curve alternate a forme quadrate, con inseriti più in basso dei sedili dove evidentemente si poteva scendere per bagnarsi.

La porta (fauces) della casa si apriva direttamente su un grande atrio rettangolare con un impluvium, cioè con una bassa vasca centrale che raccoglieva le acque piovane. Si trattava di una tradizione romana (e pure sannita ed etrusca) che era nei tempi più antichi la necessità di reperire acqua per i fabbisogni della casa. Tuttavia nel tempo di Pompei era solo un fatto di tradizione architettonica visto l'uso dell'acquedotto.


L' atrio ha un andamento insolito in quanto nessuna camera si apre direttamente al di fuori di esso, sebbene dia accesso ad altre parti della casa attraverso corridoi e attraverso un ambulacro porticato.
Munito di tetto ma con compluvio (apertura centrale sul tetto) e impluvio sottostante, l'atrio ha perso gran parte della sua decorazione ad affresco, ma è purtuttavia ancora decorato in rosso e giallo con un lungo fregio orizzontale raffigurante la vita di tutti i giorni nel forum. 

PLANIMETRIA DELLA VILLA
Questi dipinti per ragioni di conservazione non sono più in loco, ma possono essere visitati nel Museo Archeologico Nazionale di Napoli. 

- Sul lato orientale dell'atrio una porta conduce all'area di servizio (b) per introdurre gli avventori nel complesso dei bagni.
- Un lungo corridoio di servizio (c) si apre dall'angolo sud-ovest dell'atrio.

- Un'ampia apertura al centro della parete sud si apre sul deambulatorio porticato (d) che corre lungo il lato occidentale di un grande giardino centrale (e). 

Il giardino è incorniciato da eleganti colonne in stucco scanalato con al centro dei rettangoli e  modanati sempre in stucco a imitazione dei marmi. Le colonne sorreggono eleganti capitelli in stile corinzio. Una lunga tettoia protegge l'ambulacro dalla pioggia e dal sole.

Dopo il terremoto infatti molti marmi erano andati in pezzi ma l'arte dello stucco, particolarmente felice in epoca romana, recuperò molti di quei pezzi macinandoli insieme a calce e malta per creare superfici lisce ma facili da modulare con l'aspetto di un marmo vero e proprio.


Il giardino presenta al centro una lunghissima fontana, tutta contenuta da banchine in marmo, che dovrebbe rappresentare secondo alcuni il canale di Canopo in Egitto, secondo altri il canale Euripo dell'isola greca di Eubea.

Le pareti dell'ambulacro, visibili nell'immagine, sono decorate con pannelli quadrati rossi bordati in nero alternati a pannelli rettangolari rossi con un campo giallo centrale sopra un fregio nero inferiore. 
Vi compaiono anche piacevoli fregi dipinti a nicchia con l'illusione di una base sporgente e di una semicupola cassettonata.

Nel centro dell'ambulacro si trova un triclinio estivo (f), il luogo dove i ricchi romani si adagiavano sulle panche in muratura  imbottite di materassi e cuscini per i lunghi pasti conviviali con gli ospiti, completamente aperto lungo il lato orientale.

MELPOMENE E THALIA
I divani del triclinio sono rivestiti in autentico marmo, così come le tre pareti circostanti fino al livello dell'ampio marcapiano anch'esso in marmo. Sopra di esso compare un ninfeo sulla parete occidentale, in guisa di grotta con giochi d’acqua attorno ai letti conviviali, costituito da una cascatella a gradini rivestita in marmo e incorniciata da un paio di nicchie che sicuramente dovevano ospitare delle statue.

All'estremità meridionale dell'ambulacro una porta (g) conduce a un secondo atrio (h). Questa parte della casa è un appartamento praticamente autonomo con un proprio accesso dal Vicolo di Giulia Felice ai numeri 10 e 11, e fanno parte degli immobili posti in affitto dalla proprietaria.

ERATO E CALLIOPE

L'APPARTAMENTO AFFITTATO

Anche l'atrio di questo appartamento ha un tetto con compluvio e impluvio centrale rivestito di marmo, e presenta stanze su tutti e quattro i lati. 
Come si nota la costruzione era a pietre e malta coperte di intonaco, il soffitto era altissimo e decorato ad affresco.

La decorazione, basata sui restanti resti di gesso, era nel quarto stile (un gusto che insisteva molto su decori delicati e scene architettoniche illusorie) e consisteva essenzialmente su una zona centrale rossa sopra un fregio inferiore di color nero.
Naturalmente la decorazione dell'atrio, dipinta al livello inferiore, costituiva uno zoccolo decorato a figure geometriche e immagini varie. 

Di questo appartamento due stanze risultano di particolare interesse, entrambe con ingresso sul lato orientale dell'atrio.
Sono il biclinium (i) (simile al triclinium, la stanza per desinare, ma solo che anzichè i tre letti tradizionali ne offriva solamente due) e il tablinum (j), cioè la stanza centrale alla fine dell'atrio di una casa romana.   

TERSICORE E APOLLO
Il tablinium originariamente costituiva la camera da letto principale, in seguito venne utilizzata come stanza di ricevimento dei clientes o per gli affari commerciali, per la conservazione dei documenti e talvolta come biblioteca.

Il biclinium  è decorato nel quarto stile con pannelli celesti incorniciati in rosso e separati tra loro da un'architettura fantastica su un fondo bianco, tutti collocati sopra un fregio rosso inferiore continuo. I pannelli celesti contengono immagini di contenuto occasionale. La camera ha finestre che si affacciano sul giardino a settentrione e sull'orto a oriente.

"Vendita di vestiti, pentole e altri oggetti", una pittura di poco meno di 10 metri. Trovata sulla parete est dell'atrio, ora nel Museo Archeologico di Napoli.



LA TABERNA 

Sul lato occidentale dell'ingresso c'erano i resti di un santuario di strada, cioè un'edicola con l'Ara Compitales. Il negozio, o taberna, possedeva una minuscola finestra sulla parete laterale.
Il muro di costruzione era di pietrame e malta rivestito di mattoni. In alto si trovano le finestrelle perchè in genere nella parte superiore vi alloggiavano gli affittuari del negozio. Come altre parti della casa, la proprietaria aveva affittato questo negozio a persone referenziate.

DECORAZIONE DELLE TERME

LE TERME

Sembra che Julia Felix, brava imprenditrice, abbia rielaborato le sue terme private per offrirle al pubblico previo pagamento. Ciò fu facilitato dal fatto che il terremoto del 63 aveva messo fuori uso una buona parte delle terme pubbliche di Pompei. 

Viene da pensare che la proprietaria non abbia tanto voluto ampliare il suo giro d'affari per spirito imprenditoriale, quanto perchè probabilmente, possedendo diverse proprietà a Pompei, alcune o molte di quelle siano crollate col terremoto, per cui ebbe a provvedere altrimenti per il suo mantenimento.

Infatti ha dovuto rinunciare ai suoi bagni privati ed ha dovuto adattarsi a condividere il suo ambulacro con altri appartamenti. In quanto ai negozi non sappiamo se li avesse già in precedenza o li abbia ricavati dalla sua stessa villa.


3 affreschi separati con raffigurazione di fontane architettoniche, riuniti in un'unica cornice. Attualmente al Museo Archeologico di Napoli. Inventario numero 9275, descritto come proveniente da Ercolano.

Secondo altre fonti, le vignette separate di una fontana di sfinge (a sinistra) e di una statua di un filosofo (a destra) sarebbero state trovate in questo portico della Villa Julia Felix quando, all'epoca degli scavi borbonici, gli affreschi vennero staccati e inviati al Museo.

La vignetta dell'Herm, usata come fontana, forse proveniva dall'atrio a cui si accedeva dall'ingresso II.4.10 e II.4.11, e dall'estremità meridionale del portico ovest dell'area giardino.

MOSAICO DELLE TERME
Mosaico in bianco e nero raffigurante un fornaio e una scena marina ambientata nel pavimento del Museo di Napoli.
Secondo Marietta de Vos, questa è stata ricavata dalle terme della Praedia di Julia Felix e si trova ora nel piano nobile del Museo Archeologico di Napoli, giro interno, Sala III, pavimento.

LA VENERE IN BIKINI

LA VENERE IN BIKINI

Fra le statue rinvenute nella villa c'è quella della "Venere in bikini". 

"La statuetta ritrae Afrodite sul punto di sciogliere i lacci del sandalo sul piede sinistro, sotto il quale un piccolo Eros si accovaccia, toccando la suola della scarpa con la mano destra.
La Dea è appoggiata al braccio sinistro (manca la mano) contro una figura di Priapo in piedi, nuda e barbuta, posizionata su un piccolo altare cilindrico mentre, accanto alla sua coscia sinistra, c'è un tronco d'albero sopra il quale l'indumento della dea è piegata. 

Afrodite, quasi completamente nuda, indossa solo una sorta di costume, costituito da un corsetto sostenuto da due paia di bretelle e due maniche corte sulla parte superiore del braccio, da cui una lunga catena porta ai fianchi e forma un motivo a stella a livello del suo ombelico".

Il "bikini", per cui la statuetta è famosa, è ottenuto con l'uso magistrale della tecnica della doratura, impiegata anche sul suo inguine, nella collana pendente e nell'armilla sul polso destro di Venere -Afrodite, così come sul fallo di Priapo. Tracce di vernice rossa sono evidenti sul tronco dell'albero, sui corti capelli ricci raccolti in una crocchia e sulle labbra della Dea, così come sulle teste di Priapo e dell'Eros. Gli occhi di Afrodite sono fatti di pasta di vetro, mentre la presenza di fori a livello dei lobi delle orecchie suggerisce l'esistenza di preziosi orecchini andati perduti. 

La statuetta, probabilmente importata dall'area di Alessandria, riproduce con alcune modifiche il tipo statuario di Afrodite che scioglie il suo sandalo, noto da copie in bronzo e terracotta, con tutta probabilità ispirato al mito per cui Pan tentò di violentare la Dea mentre si preparava per prendersi un bagno ma venne colpito dalla Dea che dall'espressione non dimostra rabbia ma solo un certo mite rimprovero. Del resto desiderare Venere era un fatto del tutto normale..



ARA PACIS (30 gennaio)

$
0
0
L'ARA PACIS OGGI
Sulla parte superiore dell'Ara Pacis, con le fiancate decorate da girali poggianti su leoni alati, è scolpito un piccolo fregio che gira tutt'intorno al monumento, sia internamente che esternamente. E' una scena importante, perchè aldilà delle citazioni e delle fonti, rappresenta il sacrificio che il 30 gennaio di ogni anno, nella ricorrenza della consecratio dell'altare, si compiva sull'Ara Pacis, con le Vestali ed il Pontefice Massimo, all'interno, accompagnati, nel rilievo esterno, da camilli, sacerdoti vittimarii e animali destinati al sacrificio.

L'ARA PACIS COLORATA COME ALL'ORIGINE (INGRANDIBILE)
Il fregio è ben conservato solo sulla fiancata sinistra, dove sono rappresentati, all'interno, le Vestali e il pontefice massimo e all'esterno i sacerdoti e i camilli con gli animali destinati ai suovertaurilia (il sacrificio del maiale, della pecora e del toro).

La festa si compiva il 30 gennaio di ogni anno in onore di Pax, Dea della pace. Peraltro la data era sacra anche perchè appositamente scelta per farla coincidere con il giorno del compleanno di Livia, la vereconda sposa di Augusto, tanto cara anche al senato per la morigeratezza dei suoi costumi.

L'ara venne costruita nel 13 a.c. e dedicata nel 9 a.c. in Campo Marzio per celebrare il ritorno di Augusto dalla Gallia e dalla Hispania pacificate. Secondo il detto di Ottaviano "si vis pacem para bellum""Se vuoi la pace prepara la guerra". La cosiddetta Pax Romana.

LA CERIMONIA

LA PROCESSIONE

Una processione molto ricca partiva dalla casa delle Vestali, una dal collegio dei Pontefici e un'altro corteo partiva dal collegio degli augustali (ma solo dal 14 d.c. in poi, anno della sua fondazione) per raggiungere la reggia Augusta, dove erano ad attenderli il Pontifex Maximus che era la persona dell'Imperatore e dai suoi familiari e amici di grande fiducia.

Tutti i Pontefici, ma pure i familiari e gli amici maschi dell'imperatore vestivano la toga dei magistrati con le bande purpuree, mentre l'imperatore, i pontefici e le donne portavano il capo velato.
In questo modo Augusto divulgò e santificò le sue intenzioni di pace e di restauro degli antichi mores (però più aristocratici che plebei nonostante le predilezioni populares dell'amato zio e padre Giulio Cesare:
 "Così mi sia concesso di consolidare nelle sue fondamenta sana e salva la repubblica e di ricavarne il frutto che io desidero: essere chiamato fondatore di un ottimo stato e portare con me, morendo, la speranza che dureranno incrollabili le fondamenta della repubblica che avrò posto" (Suet. Aug. 28.2).

LA DEA TELLUS, OGGI SENZA COLORI E COME DOVEVA APPARIRE ORIGINARIAMENTE 
Così, con a capo l'imperatore, il corteo-processione ormai al completo, arricchito da suoni e canti, nonchè fumi di incenso e fiori lanciati nel cammino, si avviava al tempio dell'Ara Pacis per il festeggiamento annuale. Il tempio era una grandiosa opera d'arte ma pure una grande glorificazione per Roma e per l'Imperatore Augusto che vi includeva i suoi gloriosi ascendenti e i suoi preziosi discendenti.

Sia i partecipanti che i templi che si incontravano nel cammino erano per l'occorrenza ornati di serti e di ghirlande di fiori, nonchè nastri, mentre molti tappeti pendevano dalle finestre del percorso in segno di festa e di omaggio all'imperatore.

SUOVERTAURILIA

IL SUOVERTAURILIA

Ai piedi dell'Ara Pacis Augusta si compiva poi il sacrificio del suovertaurilia (cioè il sacrificio di un maiale di una pecora e di un toro), al cospetto del popolo, eseguito dai camilli e sorvegliato e diretto dai pontefici, sull'ara della Dea Pax Romana, con un cerimoniale abbastanza complesso che si avvaleva delle Vestali, dei sacerdoti e del Pontifex Maximus (il Sommo Pontefice) che all'inizio fu appunto lo stesso Ottaviano Augusto.

Dopo l'uccisione degli animali questi venivano trasportati nelle stanze sotterranee del tempio dove venivano sezionate e successivamente, al cospetto del popolo, cotte al fuoco sulla piazza e offerta prima ai dignitari e poi agli astanti, e data l'importanza della festività, veniva accompagnata da bicchieri di vino offerte dallo stato che ne metteva a disposizione numerose botti.

L'importanza della festa era tale che pur non essendo previsti spettacoli in suo onore, venivano benedetti i Lari pubblici nelle strade ed aperti vari templi dove i fedeli potevano portare corone, ghirlande, voti e offerte.

Per un approfondimento sulla storia del monumento: ARA PACIS

KSAR GHILANE - TISAVAR (Limes Tripolitanus)

$
0
0

«Un popolo [quello dei Romani] che valuta le situazioni prima di passare all'azione e che, dopo aver deciso, dispone di un esercito tanto efficiente: non meraviglia se i confini del suo impero sono individuati, ad Oriente dall'Eufrate, dall'oceano ad occidente, a settentrione dal Danubio e dal Reno? Senza compiere esagerazioni, potremmo dire che le loro conquiste sono inferiori ai conquistatori.»
(Giuseppe Flavio, Guerra giudaica, III, 5.7.107.) 

Ksar Ghilane, conosciuta anche come Henchir Tébournouk, è un'oasi, cioè un'area coltivata, spesso con ricchi palmeti e piscine calde naturali intorno o all'interno di un deserto o di una zona semidesertica. Le oasi fungono anche da habitat per animali di allevamento e non, e di piante spontanee. 

Ma Ksar è pure in sito archeologico nonchè una città del Governatorato Tataouine, ai confini dell'Algeria e della Libia, uno dei 24 governatorati tunisini. Amministrativamente però Ksar Ghilane fa parte della provincia di Kebili (governatorato), sebbene sia molto vicino alla provincia di Tataouine. Quest'ultima ha come capitale una città della stesso nome con un abitato molto particolare e molto bello in stile berbero.


L'oasi di Ksar Ghilane è posta nella parte meridionale della Tunisia, sul limite orientale del Grande Erg Orientale. Famosa per essere la più meridionale delle oasi tunisine e una delle porte del deserto tunisino del Sahara, l'oasi è alimentata da una fonte di acqua calda in cui si può fare il bagno e che avrebbe virtù termiche.

Ksar Ghilane è stato a lungo difficile da raggiungere, ma ora è collegata da una strada asfaltata a Douz (80 chilometri a nord) o Matmata, che può essere utilizzato da veicoli fuoristrada o auto private o a noleggio.

Come suggerisce il nome (ksar è una parola araba che significa "castello"), ha rovine risalenti all'Impero romano, cioè un forte romano che proteggeva il confine del Sahara. Il suo nome era Tisavar, e seguiva il bordo del deserto. Il governo tunisino ha proposto, il 17 febbraio 2012, i resti del forte romano per una futura classificazione nella lista del patrimonio mondiale dell'UNESCO.
PLANIMETRIA DEL FORTE ROMANO

I LIMES ROMANI

Il "limes romano" era la linea di confine dell'Impero romano al suo apice nel II secolo d.c. e si estendeva per oltre 5.000 km dalla costa atlantica a nord della Gran Bretagna, attraversando il L'Europa verso il Mar Nero e da lì verso il Mar Rosso e il Nord Africa per tornare sulla costa atlantica. 
Di codesti limes sono rimasti mura, fossati, fortezze, torri di guardia e abitazioni civili. Alcuni elementi della linea sono stati scoperti durante gli scavi, altri ricostruiti e alcuni distrutti. 
In Tunisia, il limes romano è più simile a un sistema di sorveglianza del territorio e controllo dei movimenti di persone che a una linea di difesa che si dovesse opporre a una vera e propria minaccia militare. Al culmine della dominazione romana, l'area delle fortificazioni si estendeva per non meno di 80.000 kmq dai monti Gafsa a nord fino al Grand Erg a sud.

I resti delle installazioni appartenenti ai dominatori romani rientrano in un'area di diversa profondità a seconda del settore. Trenta in numero, si tratta di campi, forti, fortezze, segmenti di mura o fossati. La loro distribuzione dà un'impressione di forte organizzazione.


Si trattava di un'opera complessa e di lunga durata, si sa che i romani costruivano per l'eternità, per cui poco è crollato ma molto è stato fatto crollare. La creazione del limes è stata un arricchimento perpetuo, pezzi di date diverse giustapposte in un sistema in cui tutte le epoche sono finalmente rappresentate.

Istituito gradualmente dal regno di Ottaviano Augusto (27 a.c .-- 14 d.c.) in seguito all'apertura nel 14 d.c. del raccordo strategico, via Capsa (Gafsa), campi invernali (castra hiberna) nel porto di Tacapes (Gabès) nel Golfo di Little Syrte, e anticipando la penetrazione romana nella regione pre-desertica, questo sistema di sorveglianza e controllo rimase funzionale per tutta la tarda antichità fino al V secolo, come attestato dalla Notitia Dignitatum.


Del limes tunisino restano due muraglie e quattro fortezze:
Muro di Bir Om Ali: 2 km da Khanguet Oum Ali, sulla collina omonima, attraverso la gola, i resti ben conservati di un "muro" che blocca il passaggio da una cima all'altra del gola. Spessa 3 metri e costruita in macerie, la struttura conserva buona parte di un'altitudine che supera i 5 m.
- Muro di Jebel Tebaga: si estende per 17 km da Jebel Tebaga ai piedi occidentali di Jebel Melab. È costruito in pietra e talvolta conservato a un'altezza di oltre 2 m con una larghezza totale della struttura di circa quindici metri.
Fortezza di Ksar Tarcine: sulla riva destra di Oued Hallouf che domina di dieci m. Comprendeva un recinto esterno che formava un quadrilatero irregolare di 110 m di lunghezza, un cortile interno e un cubicolo quadrato di 15 mx 15 m con un muro di rinforzo esterno. Uno stretto corridoio di 30 m, con dispositivo di chiusura, conduceva al cortile interno.
L'ENTRATA DEL FORTE VISTA DALL'INTERNO
Fortezza di Bénia Guedah Esseder: situata in una fertile pianura, di 60 m di lunghezza e 40 m di larghezza, con un recinto bastionato di un'altezza di 3 m. L'unica apertura, a sud-est, era da un corridoio guardato dall'interno da fessure orizzontali Vi si accedeva attraverso un corridoio di nicchia e una porta ad arco che si apriva su un atrio.
Fortezza di Bénia bel Recheb: domina la valle di Oued bel Recheb, con una pianta quadrata di 40 m su un lato e un recinto di pietra tagliata fiancheggiato da bastioni quadrati. Due bastioni incorniciavano l'ingresso che si apriva su un doppio corridoio girevole, da cui si accedeva al cortile interno.
E infine:

INTERNI DEL FORTE

LA FORTEZZA DI KSAR GHILANE / TISAVAR

Situata a 3 km dall'oasi di Bou Flija, su una collina rocciosa che domina le prime dune del Grande Erg Orientale, questo forte risale al regno dell'Imperatore Commodo (161 - 192).

Si tratta di una costruzione rettangolare, di 40m x 30m, con angoli arrotondati. Le pareti, costruite con pietre tagliate, che ora raggiungono un'altezza di 1,50 m, erano edificate con massi grandi sotto e macerie più piccole sopra, raggiungendo in origine uno spessore di 1,40 m e un'altezza di quasi 4 m.

Vi era un'unica porta d'ingresso e si apriva nel mezzo della parete est del recinto. Il portale, con un portone dotato di cardini, si apriva su un corridoio lungo 7 m che poi era chiuso nel mezzo da una porta a doppia anta.
Questa a sua volta dava accesso a un cortile sul quale si aprivano 20 stanze poggianti sul muro esterno. In ogni angolo del forte e sui lati est e ovest, le scale davano accesso alle terrazze sopra le camere da letto e ad una passerella sopra il muro di cinta.
Nel mezzo del cortile sorgeva un cubicolo di 12,60 m x 7,40 m, le cui pietre angolari erano costruite in pietra bugnata, composto da alcune stanze (forse per magazzino) e da una cappella di Giove con statua della divinità.

INTERNI DEL FORTE
LA STRAORDINARIA FUNZIONALITA' ROMANA

La sezione tunisina delle frontiere dell'Impero romano è un esempio di trasposizione in un ambiente desertico sahariano di un sistema difensivo del territorio e di un'architettura militare e di un centro politico come vennero ideati nella penisola italica, tenendo però conto che dovettero trasferirla in un ambiente molto diverso per clima, terreno, popolo, cibo e animali.
Essa è un vero e proprio incontro di economia e cultura, che si occupa e preoccupa tanto della messa in campo agricolo per assicurare l'approvvigionamento dei legionari, tanto dell'artigianato per la produzione di pentole, vasi, mobili e tende, quanto della produzione delle armi e armature dell'esercito, ma pure per la produzione degli emblemi militari e religiosi delle legioni.
I romani erano in grado di edificare e organizzare una città e un presidio ovunque, con uno spirito di versatilità, creatività e insieme di adattamento mai superato.

GENS MINUCIA

$
0
0

La Gens Minucia fu un'antica famiglia romana riportata nelle fonti dai primi tempi della repubblica fino all'epoca imperiale. La gens era di origine patrizia, ma ebbe più fortuna con i suoi rami plebei. Il primo dei Minucii a salire al consolato fu Marco Minucio Augurino, eletto console nel 497 a.c.

I Minuci vengono spesso confusi con Minici o con Munici, che sono però gentes diverse. I Minucii furono tanto importanti da dare il loro nome a diversi monumenti, tra cui la Via Minucia, il Pons Minucius, un ponte lungo la Via Flaminia, e il Porticus Minucia, all'interno del Campo Marzio, che prese il nome dal console Marco Minucio Rufo, eletto nel 110 a.c.



I PRAENOMINA

I Minucii adottarono di solito i praenomina Publius, Marcus, Lucius, Tiberius, e Gaius. Almeno uno dei primi Minucii portava il praenomen Spurius. Altri praenomina appaiono raramente e solo verso il finire della Repubblica.



I COGNOMINA

Il ramo più vecchio della famiglia, i Minucii Augurini, era in origine patrizio, ma nel 439 a.c. Lucio Minucio Augurino passò tra le file dei plebei onde farsi eleggere tribuno della plebe e vi riuscì. Tra i suoi discendenti ricordiamo il console Tiberio Minucio Augurino del 305 a.c. e numerosi altri tribuni della plebe. Il cognomen deriva da augur, che indicava un sacerdote dedito alla divinazione, carica di solito limitata ai soli patrizi.

Alcuni dei primi Augurini portavano l'agnomen (nome proprio) Esquilino, assunto perché vivevano sul colle Esquilino. Gli altri cognomina furono Rufo, Termo, Basilo. I Minucii Rufi e i Minucii Termi iniziano nella seconda metà del III secolo a.c. fino alla seconda metà del I secolo d.c. Rufus significa "rosso" e, probabilmente dovuto a qualche esponente con i capelli rossi.

Thermus potrebbe riferirsi a dei bagni termali o a sorgenti calde. I Minucii Basili compaiono solo nell'ultimo secolo della Repubblica. Il loro cognomen deriva da basileus, che in greco significa "re". Altri Minucii plebei non avevano cognomen.



UOMINI ILLUSTRI


MINUCI AUGURINI

- Marco Minucio Augurino  -
console nel 497 e nel 491 a.c.. Nel 497 a.c. venne eletto console con Aulo Sempronio Atratino; fratello di Publio Minucio Augurino, console nel 492 a.c., e fu il primo rappresentante della Gens Minucia ad ottenere la carica di console.

Durante il suo consolato fu inaugurato il tempio di Saturno nel foro romano e venne istituita la festività delle Saturnalia. Nel 491 a.c. fu rieletto console per la seconda volta, anche questa volta con Aulo Sempronio; dalla Sicilia giunse una massiccia importazione di grano, per poter soddisfare la mancanza di generi alimentari seguita alla secessione della plebe sul Monte Sacro.

Alcuni senatori si erano pentiti di aver concesso alcuni diritti ai plebei grazie alla secessione del 494 a.c., soprattutto Coriolano, che tanto osteggiò i tribuni della plebe, da venire condannato all'esilio a vita.

Nel 488 a.c. fu uno dei cinque ex-consoli inviati dal Senato al campo dei Volsci ad intercedere con Coriolano, quando questo stava avanzando contro Roma. Fu proprio Minucio a perorare con un lungo discorso, la causa di Roma, con Coriolano.

Publio Minucio Augurino - console nel 492 a.c.
(Roma 525 a.c.- 492 a.c.) Venne eletto console nel 492 a.c. con il collega Tito Geganio Macerino, che era il fratello di Marco Minucio Augurino, console nel 497 a.c. e nel 491 a.c. Publio ebbe due figli, che a loro volta raggiunsero la carica di console, Lucio Minucio Esquilino Augurino Consul suffectus nel 458 a.c. e Quinto Minucio Esquilino Augurino, console nel 457 a.c.

Come narra Livio, il 492 a.c. non vi fu alcuna guerra e non vi furono altre sommosse popolari, ma i consoli dovettero fronteggiare l'emergenza alimentare derivata dall'abbandono dei campi; per questo i consoli inviarono delle delegazioni in giro per l'Italia per acquistare del grano.

A Cuma, il tiranno Aristodemo trattenne le navi come forma di indennizzo perché era l'erede di Tarquinio il Superbo; presso i Volsci ed i loro vicini fu addirittura impossibile negoziare, ed il grano dovette essere acquistato in Etruria ed in Sicilia.

«...Quell'anno, non essendoci più nessuna preoccupazione militare ed essendo stato composto ogni motivo di urto all'interno, una calamità di ben altra portata si abbatté su Roma: la mancanza di generi alimentari, dovuta al fatto che i campi erano rimasti incolti durante la secessione della plebe, poi la fame, come succede alle città in stato d'assedio. 
Per gli schiavi e soprattutto per la plebe avrebbe voluto dire morte se i consoli non avessero provveduto mandando degli emissari a racimolare frumento dovunque, non solo lungo la costa etrusca a nord di Ostia e a sud superando via mare le terre dei Volsci fino giù a Cuma, ma addirittura in Sicilia, tanto lontano li aveva costretti a cercare aiuto l'odio dei popoli confinanti......»
(Tito Livio - Ab Urbe condita libri)

Inoltre, per fronteggiare una possibile nuova guerra contro i Volsci, i Romani rafforzarono la colonia di Velitrae (Velletri) e costruirono una nuova colonia a Norba. Publio venne poi eletto console nel 492 a.c. con il collega Tito Geganio Macerino, che era il fratello di Marco Minucio Augurino, console nel 497 a.c. e nel 491 a.c..

- Lucio Minucio Esquilino Augurino -
console nel 458 a.c. decemviro nel 450 a.c.

- Quinto Minucio Esquilino Augurino -
fratello del precedente, console nel 457 a.c.

- Lucio Minucio Augurino -
praefectus annonae, che passò tra le file dei plebei e venne eletto tribuno della plebe.

- Tiberio Minucio Augurino -
console nel 305 a.c.

- Marco Minucio Augurino -
tribuno 216 a.c., a lui si deve la creazione dei triumviri mensarii, responsabili delle operazioni finanziarie.

- Gaio Minucio Augurino -
tribuno della plebe nel 187 a.c., che fece arrestare Lucio Cornelio Scipione Asiatico.

- Tiberio Minucio Augurino Molliculo -
praetor peregrinus nel 180 a.c., morì per la pestilenza che colpì Roma in quell'anno.

ALTARE FUNERARIO DI MINUCIA E STATORIA MARCELLA

MINUCII RUFI

- Marco Minucio Rufo -
console nel 221 a.c., magister equitum nel 217 a.c., fu ucciso a Canne nel 216 a.c..

- Quinto Minucio Rufo -
pretore nel 200 a.c. e console nel 197 a.c..

- Marco Minucio Rufo -
praetor peregrinus nel 197 a.c..

- Marco Minucio Rufo
tribuno della plebe nel 121 a.c..

Marco Minucio Rufo - 
console nel 110 a.c. insieme al collega Spurio Postumio Albino. Dopo il consolato ottenne la Macedonia come provincia. Combatté con successo contro i barbari della Tracia e, al suo ritorno a Roma, gli fu tributato il trionfo per le sue vittorie contro gli Scordisci (celti originari dell'area del fiume Sava) ed i Triballi (popolazione trace posta nell'area tra la Serbia e la Bulgaria).
Marco Minucio è ricordato anche per la costruzione della Porticus Minucia (struttura quadrilatera che racchiudeva i quattro templi dell'area sacra di Largo Argentina a Roma, nell'antico Campo Marzio), presso il Circo Flaminio.

- Minucio Rufo
uno dei comandanti della flotta romana nella guerra contro il re del Ponto Mitridate (132 a.c. - 63 a.c.).



MINUCII TERMI  

Quinto Minucio Termo - 

console nel 193 a.c. con Lucio Cornelio Merula come collega. Nel 202 a.c. fu al servizio di Scipione come tribuno militare nella campagna d'Africa; nel 201 a.c. fu tribuno della plebe e nel 197 a.c. fu edile curule; venne poi nominato "triumvir coloniis deducendis" per la fondazione di sei nuove colonie lungo le coste italiane.

Nel 196 a.c. venne eletto pretore e gli fu affidata la provincia della Spagna Citeriore dove riuscì a consolidare le posizioni romane, tanto che al suo ritorno a Roma gli fu tributato il trionfo (195 a.c.).
Nel 193 a.c. fu eletto console con Lucio Cornelio Merula e gli fu affidata la Liguria come provincia, dove era scoppiata la rivolta.

Portò a Pisa il suo quartier generale ma, in inferiorità numerica, fu costretto a rimanere sulla difensiva e si trovò per ben due volte in grande pericolo. Nel 192 a.c. il suo imperium fu prolungato e, ricevuti i rinforzi, potè ottenere una vittoria decisiva contro i Liguri. L'anno successivo il suo imperium fu ancora esteso e sconfisse nuovamente i Liguri, che di notte avevano compiuto un attacco improvviso contro l'accampamento romano.

Rientrato a Roma nel 190 a.c., chiese il trionfo per le vittorie ottenute, ma gli fu negato, principalmente causa l'opposizione di Catone, che lo accusava ingiustamente di aver ucciso dieci uomini liberi in Liguria e di aver inventato false battaglie di aver esagerato il numero di nemici uccisi. Nel 189 a.c. servì sotto Lucio Cornelio Scipione Asiatico nella guerra contro Antioco III. Morì l'anno seguente (188 a.c.) mentre operava agli ordini di Gneo Manlio Vulsone nella guerra contro i Galati.

Lucio Minucio Termo - 
legatus in Istria di Aulo Manlio Vulsone, governatore della Gallia, nel 178 a.c..

Marco Minucio Termo - 
propretore nell'81 a.c. e nell'80 a.c. fu propretore nella provincia d'Asia, e sotto di lui militò come legatus il giovane Gaio Giulio Cesare.

Aulo Minucio Termo - 
difeso due volte con successo da Cicerone nel 59 a.c..

Quinto Minucio Termo - 
tribuno della plebe nel 64 a.c., propretore nel 51 e nel 50 a.c., governatore dell'Asia dal 52 al 50 a.c..e un sostenitore di Gneo Pompeo il Giovane (75 a.c. - 45 a.c.) 

- Minucio Termo
un amico di Seiano (amico e confidente dell'imperatore Tiberio), messo a morte dall'imperatore Tiberio nel 32 a.c.

COLONNA MINUCIA

MINUCII BASILI

- Minucio Basilo
tribuno dei soldati sotto Lucio Cornelio Silla nell'86 a.c., durante la campagna contro il generale greco Archelao.

- Minucio Basilo
sepolto lungo la via Appia. La sua tomba era un luogo tristemente famoso per le rapine.

Lucio Minucio Basilo -
uno dei legati di Cesare durante le guerre galliche, menzionato nella guerra contro Ambiorige nel 54 e nel 52 a.c., a conclusione della campagna di Gallia, quando si fermerà a svernare presso i Remi, al comando di due legioni. Restò in Gallia fino allo scoppio della guerra civile tra Cesare e Pompeo nel 49 a.c., in cui guidò parte della flotta di Cesare.
« L. Minucius Basilus fu un eminente ufficiale, probabilmente un legatus sotto Cesare in Gallia, e, sembra, anche durante la Guerra civile. Egli si ritenne tuttavia mortalmente offeso dalla decisione di Cesare di non concedergli una provincia dopo la sua Pretura nel 45 a.c., ma solo una somma di denaro in cambio dei servigi resi, e così si unì alla congiura ordita contro di lui.» 
L'anno dopo aver assassinato Cesare venne ucciso da un suo schiavo come vendetta di una barbara mutilazione punitiva inflitta ad uno di loro.

- Minucio Basilo
attaccato da Cicerone nella seconda filippica in quanto amico di Marco Antonio.



VARI 

- Spurio Minucio
pontifex maximus nel 420 a.c..
 
- Marco Minucio
tribuno della plebe nel 401 a.c., mise sotto accusa due dei tribuni consolari dell'anno precedente, accusati di cattiva condotta nella guerra contro Veio. 

- Marco Minucio Fesso
uno dei primi plebei eletto augure dopo la promulgazione della Lex Ogulnia.

- Quinto Minucio -
legatus di Marco Claudio Marcello durante l'assedio di Capua del 210 a.c..

- Lucio Minucio
legatus di Quinto Fulvio Flacco nella Spagna Citeriore nel 180 a.c.
- Tiberio Minucio - eletto praetor peregrinus nel 180 a.c., morì poco dopo essere entrato in carica.

- Minucio Pacato - meglio conosciuto come Ireneo, grammatico alessandrino, probabilmente visse al tempo di Augusto.

- Minucio Aciliano
amico di Plinio il Giovane, fu questore, tribuno e pretore.

Marco Minucio Felice - 
visse tra il II e il III secolo; avvocato e apologeta. Felice menziona Marco Cornelio Frontone, morto nel 170; il trattato "Quod idola dii non sint"è basato sull'Octavius; dunque se quello è di Cipriano (morto nel 258), Minucio Felice non fu attivo oltre il 260, altrimenti il termine "ante quem"è Lattanzio, attorno al 300.

Anche la zona d'origine di Minucio è sconosciuta. Lo si ritiene talvolta di origine africana, sia per la sua dipendenza da Tertulliano, sia per i riferimenti alla realtà africana: la prima ragione, però, non è indicativa, in quanto dovuta al fatto che all'epoca i principali autori di lingua latina erano africani, e dunque il loro era lo stile cui ispirarsi. 
La seconda, inoltre, potrebbe dipendere esclusivamente dal fatto che il personaggio pagano dell'Octavius, Cecilio Natale, era africano, come attestato da alcune iscrizioni. Cionondimeno, è significativo che entrambi i personaggi dell'Octavius abbiano nomi citati in iscrizioni africane, e che lo stesso valga per il nome Minucio Felice.

LUCUS ARICINAE - NEMUS ARICINUM

$
0
0
DIANA NEMORENSIS DAL SANTUARIO DI NEMI
Il Nemus Aricinum era l'equivalente del lucus Dianae, quindi il bosco sacro della Dea Diana, posto nel Lazio, non lontano da Romanella zona dei Castelli Romani. Nel nemus Aricinum, il bosco sacro a Diana che si stendeva presso il lago di Nemi, vicino ad Aricia (Ariccia), viveva e operava ancora in piena età imperiale un sacerdote antico, chiamato Rex Nemorensis, votato al culto della stessa Diana.

Doveva essere giovane e vigoroso, fattore indispensabile per la sua carica: il rex Nemorensis, infatti, doveva sempre stare in guardia armato di spada, poiché avrebbe perduto il sacerdozio e la vita, se un avversario più forte fosse riuscito a ucciderlo dopo avere strappato un ramo da un albero sacro alla Dea.

Com’è facile immaginare, un simile sacerdozio non era ambito, tant’è vero che ormai rischiavano la vita solo gli schiavi fuggitivi, pronti a tutto pur di evitare la punizione dei loro padroni. La carica veniva comunque perpetuata per lo scrupolo religioso tipico dei Romani che non dovevano mai trascurare i propri Dei nè le vecchie tradizioni, pena la rottura della Pax Deorum, quella che aveva, nell'immaginario collettivo, reso grande Roma.

LE MANI DELLA DEA (NAVI DI CALIGOLA A NEMI)
Si pensa che il rex Nemorensis fosse un rex sacrorum federale, visto che il “re del bosco” era votato al culto della Diana italica, una divinità tipicamente latina e arcaica, retaggio di una Grande Madre trinitaria.

Comunque per volere del re Servio Tullio i Latini istituirono un santuario federale in onore di Diana anche sull’Aventino, affinchè Roma non avesse niente da invidiare alla Lega. Di certo il culto comune sul monte Albano non venne abbandonato, ma ora il santuario albano aveva un pericoloso concorrente che acquistava sempre importanza maggiore.

Tarquinio il Superbo, di certo pessimo re, fu però ottimo generale dell'esercito e avrebbe convocato e presieduto un’assemblea generale dei Latini, "ad lucum Ferentinae", nel bosco sacro della Dea Ferentina, in cui, riferisce Livio, riuscì alla fine a sottometterli riuscendo a farsi nominare “rex nominis Latini” (o “rex Latinorum”).

SANTUARIO DI NEMI
Servio Mario Onorato collocava sotto il tempio di Saturno le ossa di Oreste, figlio di Agamennone e di Clitennestra, nonchè fratello di Elettra, che furono trasferite dal santuario del lucus di Aricia; segno che il bosco sacro aveva perso un po' della sua importanza a favore di Roma.

Dopo la battaglia del Lago Regillo, e poi dopo la morte del re Tarquinio, i Latini credettero bene di riorganizzarsi in una lega creando un dictator e un rex sacrorum, uno per i doveri civili e uno per quelli religiosi.

Per queste decisioni la Lega scelse un luogo estremamente sacro e pure extraurbano, dove era molto pericoloso tradire i patti perchè era la Dea Diana a custodirli, e il luogo fu il Nemus Aricinum. Qui le otto città latine elessero quale "dictator latinus" il tuscolano Egerio Bebio e insieme crearono il loro primo rex Nemorensis, con un rito del tutto latino e per niente romano, colui che da sè doveva difendere il suo ruolo sacrale e la sua vita.

In pratica la paura della sopraffazione romana aveva risvegliato i riti antichi e barbari dei latini che nel momento del pericolo ricorrevano ai sacrifici umani per placare la Dea potente e assetata di sangue che aveva loro voltato le spalle.

IL LAGO DI NEMI

IL MITO DI IPPOLITO 

La versione più nota è quella della tragedia di Euripide dell'Ippolito Coronato che racconta di un giovane orgoglioso della propria verginità che scelse di vivere casto e di dedicarsi esclusivamente al culto di Artemide ed alla caccia. La scelta offese Afrodite che lo punì facendo innamorare di lui la sua matrigna Fedra, la quale, rifiutata, si suicidò lasciando al marito (Teseo, padre di Ippolito) un biglietto dove lo accusava di averla violentata.

Teseo non credette al figlio e lo fece esiliare dalla città ma mentre questi usciva dalla città, un toro fece spaventare i suoi cavalli che, imbizzarriti, lo fecero cadere, lo trascinarono e lo sbatterono contro le rocce. Ippolito fu portato agonizzante a Trezene, città dell'Argolide, ed Artemide comparve a Teseo rivelandogli la verità su Fedra, ottenendo così, prima di morire, il perdono dal padre, perdono però ingiustificato visto che era innocente, semmai era Teseo che avrebbe dovuto ottenere il perdono del figlio.

Comunque Artemide la pietosa, conscia di ciò, fece resuscitare Ippolito da Esculapio, ma Ippolito rifiutò di perdonare il padre (e si può capire) e si trasferì nel Latium nei pressi di Aricia dove vi portò il culto di Artemide e ne divenne il re. Artemide cambió poi il suo nome in Virbio, ma in altri miti fu il figlio di Ippolito.

In età monarchica il primo re di Nemi fu secondo la tradizione Ippolito figlio di Teseo, quello che aveva ucciso il minotauro con l'aiuto del filo di Arianna, re di Atene. Si ha notizia poi che ci fu anche Virbio come Rex Nemorensis figlio di Teseo e Aricia.

Frazer in proposito scrisse "Il ramo d'oro", un celeberrimo libro di antropologia tradotto in tutte le lingue, dove definisce d’oro il ramo di Nemi, pensa erroneamente di riconoscere l’albero sacro con una quercia, da un passo virgiliano, mentre il ramo d’oro sarebbe stato del vischio che cresceva abbarbicato ad essa, un ramo che sembra dorato per le sue bacche gialle.

Insomma si trattava di un ramo di un certo albero ma non si sa quale. a parte che nei lucus, cioè nei boschi sacri, era proibito per chiunque tagliare e perfino raccogliere rami. Solo il sacerdote poteva farlo in vista di certe festività.


ARTEMIDE TAURICA

Il mito fa pensare a un capo tribale che mantiene il suo ruolo finchè un altro campione non lo sfidi e lo vinca. Nel contesto il pretendente avrebbe tentato di sposare la regina per ereditare il trono, fallito il colpo va a fondare con i suoi seguaci un'altra città.

Servio narra di come il rito fosse percepito remoto e barbaro dai romani, facendolo derivare dai cruenti sacrifici offerti ad Artemide Taurica, descritti nella tragedia di Euripide, l’Ifigenia in Tauride, ovvero la figlia di Agamennone e Clitennestra sacrificata dal padre poco paterno a Nettuno per placare una tempesta.

Secondo il mito Oreste, colpevole di matricidio, forse commesso per sbaglio, aveva condotto nel bosco aricino la statua di Artemide dal Chersoneso, o Artemide Taurica, con il suo culto, appunto, cruento e straniero, divenendo il primo rex nemorensis. I seguaci della Dea nel Chersoneso (penisola di Crimea) avrebbero infatti ucciso e immolato alla Dea qualsiasi straniero fosse approdato in quella terra.

Praticamente un condannato che sfugge alla sua pena rifugiandosi nel bosco sacro per salvare la vita, finché altri non lo sfidi. Secondo alcune tradizioni il re poteva venire sfidato ogni cinque anni, durante i quali egli era inviolabile, e sembra una tradizione attendibile.

Nelle Argonautiche di Valerio Flacco, Oreste narra esplicitamente di essere fuggito dalla crudele Diana Taurica, divenendo il re di Aricia e del bosco di Egeria, quindi un rex nemorensis. Con la differenza che là doveva uccidere gli intrusi mentre qua doveva difendersi dall'aspirante re.

EMISSARIO ROMANO DEL LAGO DI NEMI

POCO SACERDOTE E POCO RE


Strabone, che si riferisce anch'egli alla storia di Oreste fuggiasco e inseguito dalle Furie, sottolinea l’elemento “barbaro” percepito nel cruento rituale di successione del rex e nel fatto che questi si muovesse sempre armato all’interno del santuario, caratteristica che lo rendeva del tutto anomalo agli occhi dei contemporanei, sia come sacerdote che come re, in quanto ambedue inviolabili per le leggi romane.

Sembra peraltro che Caligola tifasse per un nuovo pretendente al rex del Nemus affinchè abbattesse il precedente rex, in carica, a suo dire, da troppo tempo: "Nullus denique tam abiectae condicionis tamque extremae sortis fuit, cuius non commodis [Caligula] obtrectaret: Nemorensi regi, quod multos iam annos potiretur sacerdotio, validiorem adversarium subornavit."

Non sappiamo chi abbia vinto ma conosciamo la follia di Caligola, anche se forse esagerata dalle cronache cristiane. Comunque in era imperiale, la successione al seggio Nemorensis avveniva in un modo ormai incomprensibile per i romani, disavvezzi a tali culti vagamente tribali. In effetti, le origini del sacerdozio dovevano risalire all’età regia, e il mondo romano da allora era molto cambiato. .


MOTTI DI GUERRA ROMANI

$
0
0
"ROMA VOCAT!"
"Vi abbiamo insegnato a distinguere se i legionari sono delle reclute o se sono veterani. Se sono reclute potete provare ad affrontarli; se sono veterani tirategli addosso tutto quello che avete e scappate il più in fretta possibile."
(Giuseppe Flavio - discorso ai suoi soldati)



IL CARATTERE DEL LEGIONARIO

I legionari venivano estremamente caricati dai loro istruttori e i mezzi per attuarlo erano questi:

1) Il Giuramento 
Il legionario al suo reclutamento pronunciava un giuramento solenne, detto SACRAMENTUM (da cui la chiesa cattolica ha copiato i termini Sacramenti, come impegni solenni a far parte dell'esercito di Cristo).
Questo giuramento non si faceva una volta per tutte ma si ripeteva ogni anno, esattamente il I gennaio, per cui il primo anno capitava magari di ripeterlo due volte. Si eseguiva da parte dell'intera legione, giurando fedeltà, ai consoli nella repubblica, all'imperatore, ma pure ai generali e al senato, e successivamente col cristianesimo su Dio, Cristo e lo Spirito Santo, accanto alla maestà dell'imperatore, "che il genere umano deve amare e onorare subito dopo Dio", ma in quell'epoca lo spirito di corpo s'era già perso parecchio.

2) Il Tirocinio,
Pesantissimo, dove si affrontavano fatiche improbe perchè il legionario doveva essere molto forte e resistente, e se non reggeva alle fatiche veniva scartato subito. Un romano doveva valere quanto 10 barbari perchè molto spesso si sarebbe trovato a combattere contro eserciti superiori al suo.
Le legioni, rese da Augusto permanenti e rinnovabili parzialmente ogni anno anche a rischio di una dilatazione eccessiva dei tempi di mantenimento in servizio, si costituivano sulla base dell'adesione volontaria da parte dei tirones, cioè di coloro che per arruolarsi chiedevano di fare il tiro (tirocinio). 

3) Il Tatuaggio
Finito il tirocinio se il tiro aveva superato la prova veniva dichiarato miles, e veniva segnato col marchio militare, un vero e proprio tatuaggio, che riguardava l'essere "civis romanus", sintetizzato con l'S.P.Q.R con cui si indicava il senato e il popolo di Roma, o il nome della legione, o il comandante della legione o l'imperatore. Avere marchiata sulla pelle la propria appartenenza a un gruppo aveva un certo effetto psicologico, rafforzava l'unione tra i partecipanti.

4) L'addestramento
Durante l'addestramento gli allenatori li incitavano anche con maniere forti, insultandoli e magari picchiandoli, ma dando forti riconoscimenti ai risultati conseguiti. Gli si raccontava che i legionari erano il terrore dei nemici, che erano superiori a tutti i militari del mondo, e che se non lo erano dovevano diventarlo, si sarebbero infatti allenati ogni giorno, con le armi, con le zappe, con le asce e con le pale. 
Il legionario sapeva fare di tutto e faceva tutto. Montava e smontava accampamenti fortificati a tempo di record, edificava strade, ponti, torri, accampamenti stabili, edifici sacri e profani come le terme, in più marciava a velocità maggiore di qualsiasi esercito e con un carico personale maggiore di qualsiasi esercito, dai 30 ai 35 kg sulle spalle.

5) Il Sermo
I legionari avevano un sermo militaris (il gergo militaresco) che serviva a non farsi capire dall'esterno se volevano, ed era un gergo sintetico, ironico, sboccato, enfatico, ma soprattutto piuttosto criptico, il che diventava una specie di lingua riservata a loro, che li univa ancor di più come corpo militare.

6) L'iniziazione di Mitra
Avevano nel campo un'ara dedicata a un Dio particolare, ma soprattutto erano seguaci del Sol Invictus, cioè Mitra. Quando tornavano in patria, o nella città che li ospitava, frequentavano i Sacri Misteri di Mitra che creava un nuovo e più forte legame tra gli adepti, e li faceva sentire unici e particolari, 
- perchè erano soldati di Roma e Roma era la caput mundi, 
- e loro erano i migliori combattenti del mondo
- e tutti gli altri erano barbari e incapaci di disciplina e organizzazione
- e la folla li adorava, o almeno quando vincevano, ma vincevano spesso.

Insomma venivano costantemente incoraggiati fino a sentirsi onnipotenti, ma questa eccitazione dava forza e coraggio, e spesso le grida di guerra contribuivano a questa esaltazione. 



IL SILENZIO PRIMA DELLA BATTAGLIA

Si dice però che prima della battaglia i romani stessero in assoluto silenzio, battendo ritmicamente le spade sugli scudi, il che era abbastanza terrorizzante, perchè riuscivano a battere come un sol uomo.
Nel tardo impero, cioè dal IV secolo, si usava anche il barrito dell'elefante, che i romani avevano appreso dai germani. Vero è che nel IV secolo le legioni erano formate perlopiù da germani, una delle cause della caduta dell'impero romano.

Dunque, i romani avanzavano senza un grido, ma col fragore ritmico delle spade sugli scudi (modalità copiata oggi dalle squadre di polizia antisommossa) mentre i nemici si dimenavano urlando e saltando ognuno per suo conto come era usanza tra i barbari occidentali (in oriente i costumi variavano da paese a paese).

Si dice che non gridassero per udire meglio gli ordini in battaglia, ma non è così perchè gli ordini in quel frangente erano uditivi e visivi, uditivi per i suoni delle varie trombe, con suoni diversi a seconda del comando di avanzare, di ritirare, di compattarsi, di coprirsi ecc., visivi perchè per maggior sicurezza venivano sventolati dei vessilli che segnalavano gli ordini di cui sopra, per essere certi che i legionari avessero compreso.

In alcune epoche e zone venivano usati anche i fischietti. Un primo fischio per lanciare i giavellotti, un secondo fischio per coprirsi con gli scudi e sguainare il gladio, e così via per lasciare il posto alle fila posteriori per un ricambio delle forze che erano così sempre fresche. Naturalmente poi c'erano i centurioni a ribadire gli ordini per essere certi che tutti avessero compreso.

Dunque il fragore delle armi sugli scudi o dei barriti che venivano eseguiti dietro gli scudi in modo che questi agissero come cassa di risonanza non erano da meno delle urla. Il tacere aveva un significato diverso. Anzitutto dimostravano al nemico che le loro minacce non li intimorivano per cui non rispondevano alle provocazioni. In effetti, per i barbari, abituati alle battaglie fra tribù dove tutti urlavano e si dimenavano, il comportamento minaccioso ma ordinatissimo delle fila romane era un po' destabilizzante.

Peraltro l'urlo di guerra stabilito dal comandante rafforzava l'unione degli intenti, la fedeltà al generale e la disciplina nella coesione perfetta: un urlo poderosissimo si, ma voluto dal generale e gridato come fossero un sol uomo.

Dunque, dopo essere arrivati a distanza di tiro di un pilum nel più assoluto silenzio, ma battendo le spade sullo scudo, veniva lanciato il pilum, si avanzava ancora di qualche metro e poi si caricava. Per evitare di perdere compattezza la carica doveva essere fatta il più tardi possibile, ed è a questo punto, che si lanciava il fatidico urlo di battaglia, che era lo stesso per tutti, scelto ogni volta dal proprio comandante per quel giorno e per quella battaglia.

"USQUE AD FINEM!"

L'URLO DI BATTAGLIA

Nella battaglia di Farsalo Cesare trasmise ai romani come urlo di battaglia
- "Venus Victrix!" - (Venere Vincitrice!)
Gli altri urli di battaglia erano in genere anch'essi molto brevi e spesso erano invocazioni agli Dei, talvolta agli imperatori:

- Exurge Mars!- (Sorgi Marte!)
- Mars Ultor!- (Marte vendicatore!)
- Roma Regina! - (Roma Regina!)
- Roma et Imperator! - (Per Roma e per l'imperatore! In genere si diceva il nome dell'imperatore senza il termine imperator, tipo: Roma et Augustus!)
- Sol Invictus! - (Sole Invitto!)
- Roma Victrix! - (Roma vincitrice!)
- Ad imperatorem! - (Per l'imperatore!)
- Victoria regnat! - (Regna la Dea Vittoria!)
- Finem hostium! - (Per la morte dei nemici!)
- Iovis optimo maximo! - (Per Giove Ottimo e massimo!) oppure:
- Iuppiter optimo maximo! - (Per Padre Giove ottimo e massimo!)

Se però durante la battaglia un generale o il re nemico cadeva o fuggiva o moriva, i legionari interrompevano il silenzio e urlavano per sottolineare la cosa ai loro per incoraggiarli ma pure ai nemici che potevano sbandare o fuggire. Nell'Eneide, Virgilio narra che quando Enea fa cadere da cavallo Mezenzio, capo dei nemici Etruschi, i Troiani gridarono di trionfo. Altrettanto doveva accadere ai tempi dell'autore.



I MOTTI E LE GRIDA DI BATTAGLIA

- Signa inferre! (Avanti le insegne!)
Era uno dei gridi di battaglia per l'avanzamento dell'esercito contro il nemico.

- Semper fidelis (Sempre fedeli)
Era il motto dei senatori al popolo e all'Imperatore alla fine di ogni sessione senatoria che poi divenne il motto delle legioni al richiamo del generale o dell'Imperatore.

- Fideliter excubat (Vigila fedelmente)
Motto delle vedette legionarie poi usato dallo stemma di Gallipoli.

- Usque ad finem! (Fino alla fine!)
Usato dai legionari ma spesso anche dai gladiatori prima di un combattimento.

- Nobiscum Deus! (Dio è con noi!)
Motto dei cavalieri Bizantini prima della carica.

- Hic sunt leones (Qui ci sono i leoni)
Usato per indicare il luogo dove erano reperibili i leoni per i circhi, e poi usato argutamente dai legionari.

- Sursum corda (In alto i cuori)
Usato nei brindisi, traeva origine dalle adlocutio del generale ai soldati prima della battaglia.

- Hic manebimus optime (Qui rimarremo benissimo)
Dopo il sacco di Roma ad opera dei Galli Senoni del 390 a.c. i romani dibattevano se restare a Roma semidistrutta o trasferirsi a Veio. La frase occasionale di un centurione delle coorti in ordine di marcia di ritorno dal presidio: "Pianta l'insegna qui, signifero; qui staremo benissimo!" fu accettato come volere divino e si decise di rafforzare e difendere Roma. Veniva usata parte della frase: Hic manebimus optime, soprattutto quando si doveva mantenere un presidio o resistere a un attacco.

- Fortes Fortuna adiuvat! (la Dea Fortuna aiuta i forti!)
Motto irruento.

- Heb Hep Hierusalem!
(Attribuito ad alcune unità romane dopo la distruzione di Gerusalemme).

- Hodie rudit leo (Oggi ruggisce il leone).
Grido che incita alla vittoria

- Lupae filii sumus! (Siamo figli della lupa!)
Grido di sprone in battaglia.

- Oppure Romani, sumus filii Lupae Capitolinae! (Romani, siamo figli della lupa capitolina!)
In genere nell'adlocutio.

- Ad augusta per angusta! (A grandi mete per anguste vie)
Le fatiche per la vittoria.

- Honos et Virtus! (Onore e virtù!)
Grido di battaglia ai tempi di Augusto.

- Vivere est militare! (La vita stessa è una guerra!)
Prima della battaglia.

- Omnia hostes mori debent! (Tutti i nemici devono morire)
Grido di battaglia.

- Ad maiora (A successi più grandi).
Usato in guerra ma anche in tempi di pace, anche nei brindisi.

- Roma vocat! (Roma chiama!)
Usato nella chiamata alle armi ma pure in battaglia.

- Aut Caesar aut nihil! (O Cesare o niente!)
Non era il motto di Cesare, come alcuni hanno inferito, ma dei soldati di Cesare nel passaggio del Rubicone. Equivalente del "Alea iacta est" di Cesare. Adottato poi da Cesare Borgia (1475-1507).

- Viribus unitis! (a forze unite!)
Oggi si direbbe: uniamo le forze!

- Ad unum! (fino all'ultimo uomo!)
Grido di battaglia.

- In albo segnanda lapillo! (sarà un giorno fortunato!)
Prima della battaglia, un giorno da segnare con un sassolino bianco (il giorno sfortunato aveva il sassolino nero).



MOTTI D'AUTORE

- Nec spe nec metu (Né speranza né paura).
Tratto dall'Orazione di Cicerone "Post reditum in senatu" (57 a.c.) ma usato in battaglia.

- Male vivunt, qui se semper victuros putant (Vivono male quelli che pensano di vivere per sempre.)
Motto di Sicilius ripetuto a volte dai legionari prima della battaglia.

- Audaces fortuna iuvat (La fortuna aiuta gli audaci).
Di Virgilio, in realtà il motto originario era "Audentis fortuna iuvat" (la fortuna giova a chi osa)

- Flectar ne frangar (Mi piego, ma non mi spezzo).
Ispirato da un passo di Orazio.

- Ad astra per aspera (Attraverso aspre vie fino alle stelle) Oppure: Per aspera sic itur ad astra (attraverso aspre vie così si giunge alle stelle)
Citato da: Cicerone, Virgilio, Seneca, Sallustio e Orazio, ma pure nell'esercito romano.

- Mors est dulcis et honesta si accipiatur pro patria, Roma (la morte è dolce e onesta se si muore per la patria, Roma). Oppure Dulce et decorum est pro patria mori. (la morte è dolce e dignitosa se si muore per la patria).
(Orazio)

- Amor patriae nostra lex.
L’amore della patria è la nostra legge.
(Orazio)

- Qui non timet mortem non morietur.
Chi non teme la morte non muore.
(Seneca)

PONTE CALDARO (Narni - Umbria)

$
0
0
PONTE CALDARO

PONTE CALDARO

Ponte Caldaro, posto a nord di Narni Scalo, era uno dei tanti ponti che i romani avevano costruito nel territorio comunale per sviluppare la Via Flaminia, che dall’Urbe doveva arrivare sino al Mare Adriatico. Esso doveva scavalcare il fosso del fiumiciattolo omonimo, verso Carsulae, sulla Flaminia Fu costruito dai Romani senza badare a spese, senza nulla da invidiare al ponte di Augusto quanto a maestosità.

Fu eretto nel 27 a.c. insieme a tutti i grandi lavori voluti da Augusto in quell'anno per abbellire e organizzare i traffici dell'Impero. Il ponte era dunque dislocato lungo la via Flaminia per superare il torrente Caldaro ed era formato da 5 arcate di misura crescente verso quella centrale. Era rivestito in conci di travertino a tutto sesto, senza chiave di volta centrale.

Del Ponte Caldaro (Cardaro o Cardano) in origine a ben cinque fornici di bei conci di pietra bugnata con anathyrosis integralmente conservati (era uno dei più belli e lunghi dell’intera Flaminia), restano le coppie di archi delle testate.

La tecnica dell'anatirosi consisteva in un trattamento differenziato nella lavorazione della superficie: la parte più centrale si lavorava con martellina e punteruolo in modo da renderla in leggero sottosquadro, evitando così il contatto tra i blocchi. Invece la fascia periferica, prossima agli spigoli, veniva perfettamente levigata, per ottenere la perfetta aderenza tra superfici. 

Così si assicurava il perfetto contatto tra due blocchi adiacenti e, data la giunzione riservata solo alla fascia perimetrale, si evitava un aggravio di lavoro con costi elevati. Il fornice centrale con buona parte dei piloni relativi dovette essere ricostruito in mattoni.


Esso vantava una lunghezza è di 74.32 metri e una larghezza di  7.90, quindi consentiva il passaggio contemporaneo di due carri, con una luce centrale di 9 metri mentre quelle laterali sono di 5.50. Le luci degli archi piccoli posti alle estremità erano di 3.50 metri, ce ne dà notizia la Guida Archeologica Laterza. Un ponte che era durato per duemila anni, quando della Flaminia si era persa ormai ogni traccia.

Un salto nel tempo: Ponte Caldaro così come progettato dagli ingegneri romani era stato “inglobato” nella strada dell’Asse, di quel nastro di asfalto che collegava le due grandi capitali, Roma e Berlino. Ci fu un rimaneggiamento che cancellò ogni aspetto antico per quella mancanza di rispetto che spesso i potenti hanno verso le antiche civiltà. E' il frutto della presunzione mista all'ignoranza.

Poi quella stessa presunzione e ignoranza venne la guerra, poi la ritirata dei tedeschi, e le mine sotto le arcate: ponte Caldaro saltò in aria: una arcata venne perduta per sempre. Sembrava così quando solo qualche anno fa dopo alcuni scavi sono venute alla luce le pietre saltate in aria dopo lo scoppio della mina.

Accantonate, aspettano ora di essere rimesse al loro posto. Intanto, Ponte Caldaro continua ad essere trascurato anche se è bellissimo. Sempre per la presunzione e l'ignoranza dei piccoli o grandi poteri. I tempi cambiano ma la civiltà romana fatica a tornare.



CUMA (Campania)

$
0
0

Ancora un ritrovamento straordinario a Cuma: stavolta emersa una grande tomba ben conservata con pitture che rappresentano una scena di banchetto

Grandi novità dagli scavi che archeologi francesi ed italiani stanno effettuando da tempo ai piedi del monte sul quale è stata ritrovata l’acropoli dell’antica città di Cuma. È stata infatti ritrovata in questi giorni una grande tomba ben conservata e tutta dipinta risalente al II secolo a.C. con sui muri una grande una scena di banchetto.

A giudicare dalla tipologia architettonica e dai corredi si ritiene che la tomba appartenesse a defunti che avevano un alto livello sociale e comunque ampia diponibilità economica. Cuma era la più antica colonia greca d’Occidente, fondata da greci attorno alla metà dell’VIII secolo a.C e si trova sulla costa dopo Pozzuoli di fronte ad Ischia.

Oggi tutta la zona è compresa nel Parco archeologico dei Campi Flegrei che sta organizzando scavi assieme a Università straniere e a tre Università partenopee.

Grazie a questi lavori in corso gli archeologi già a giugno di quest’anno hanno ritrovato una nuova tomba con decorazioni all’ingresso della camera funeraria. Nel sito sono ben chiari infatti una figura maschile nuda con nelle mani una brocca in argento e un calice e poi ai lati un tavolino, alcuni grandi vasi e un’anfora su treppiede.

Invece sulle pareti laterali ci sono scene di un paesaggio e poi decorazioni e fregi floreali con pitture di buona qualità e colori eccezionali.

Dai lavori in corso è oramai anche ben chiaro l’impianto urbanistico della antica città greca, la porta mediana, l’officina metallurgica e il tracciato dell’antica via Domiziana ma la campagna di scavo
continua anche perché si stima che Cuma era almeno due volte più grande di Pompei.

TEMPIO DI APOLLO

LA STORIA

Si pensa sia stata fondata nel 740 a.c. anche se la più antica documentazione archeologica risale al 725-720 a.c. Secondo la leggenda, i fondatori di Cuma furono gli Eubei di Calcide, che sotto la guida di Ippocle di Cuma Euboica e Megastene di Calcide, scelsero di approdare in quel punto della costa perché attratti dal volo di una colomba o secondo altri da un fragore di cembali.

Dopo la colonia greca Cuma fu conquistata dai Sanniti nel 438 o 421 a.c. Nella seconda metà del sec. IV a.c., con l'espansione in Campania dell'influenza romana, Cuma ottenne la civitas sine suffragio (338).

Nelle guerre puniche rimase fedele a Roma e nel 180 ottenne il diritto di servirsi della lingua latina negli atti ufficiali. Forse già prima della guerra sociale a Cuma fu concessa la cittadinanza optimo iure. Ottaviano e Agrippa ne fecero una base navale nella guerra contro Sesto Pompeo.

In seguito, nonostante la costruzione della via Domiziana, che accentuò l'importanza di Puteoli (Pozzuoli), Cuma restò una delle città più importanti della Campania.
Il decadimento della città cominciò in età longobarda: la sua distruzione avvenne nel 1203 a opera di Napoli.

Dell'antica colonia greca resta l'acropoli cinta da mura con il santuario di Apollo collegato, attraverso un cunicolo, a un lungo corridoio a sezione trapezoidale nel quale si vuol riconoscere il famoso antro della Sibilla Cumana cantato da Virgilio.
Dell'area urbana restano soprattutto i ruderi romani con la piazza porticata del foro, il Capitolium ed edifici termali (a sud della città c'era l'anfiteatro). Di grande importanza le necropoli che vanno dal sec. VIII a.c. all'età imperiale romana.

LA NECROPOLI DI CUMA

GLI SCAVI

I primi scavi furono voluti dai Borboni, tra il 1852 ed il 1857, procedendo in alcuni edifici nell’area della Masseria del Gigante e delle necropoli. Gli scavi vennero poi dati in concessione ad un privato, il colonnello Emilio Stevens (1878-1893), che effettuò lo scavo di quasi tutta l’area delle necropoli con importanti ritrovamenti illustrati metodicamente dal Gabrici. La fama di questi rinvenimenti scatenò il saccheggio delle necropoli da parte di clandestini. Un’altra parte dell’area delle necropoli andò distrutta tra il 1910 ed il 1922 quando il terreno della zona venne utilizzato per prosciugare il lago di Licola.

Nel 1911 ebbe inizio l'esplorazione dell'Acropoli, portando alla luce il tempio di Apollo. Tra il 1924 ed il 1932 si scoprirono il tempio di Giove, la Crypta e l'antro della Sibilla. Un'altra campagna di scavo ebbe luogo nella parte bassa della città tra il 1938 ed il 1953. 

Da allora sono stati effettuati soltanto interventi consolidamento:
il "Sepolcro della Sibilla" nel 1962 -1965 
- il "Tempio con portico" nel 1971-72
o di emergenza 
- tratti di strada romana lungo la Via Cuma-Licola nel 1975 
- necropoli nell’area del depuratore di Cuma nel 1978-82 ed in Località Convento nel 1983-85.

Nel 1992 durante gli scavi del metanodotto della SNAM sulla spiaggia antistante l'Acropoli., emerge - un tempio dedicato alla Dea egizia Iside,  I sec. a.c. - I sec. d.c.

Dal 1994 è in corso il Progetto Kyme, un programma di studi e scavi che ha rimesso in luce 
- la "Tomba a tholos", già scavata nel 1902, 
- mentre un saggio di scavo lungo il percorso settentrionale delle mura ha portato alla luce la porta di uscita verso Liternum della Via Domiziana.

- Nell’area del foro è emerso un impianto bizantino a sei fornaci per la lavorazione della calce; si è completato lo scavo di un vasto edificio basicale già detto "aula sillana"; infine si è proceduto allo scavo del tempio su podio sul quale si è impiantata la cosiddetta "Masseria del gigante". Nell’area portuale altri scavi hanno portato al rinvenimento dei resti di almeno tre ville marittime.



IL MISTERO DELLA SIBILLA

Il mistero non riguarda tanto il fatto che la sibilla in questione vaticinasse il vero o s'inventasse tutto, non è che la gente facesse viaggi lunghissimi per ascoltare le sue profezie o i suoi responsi, ma che in epoche antichissime, dove la donna contava meno di niente e non si azzardava a mettere il naso fuori di casa senza almeno un valido accompagnatore, questa donna vivesse sperduta in un antro dove chiunque avrebbe potuto entrare e fare di lei qualsiasi cosa.

Il mistero è che nessuno osò mai toccare la Sibilla, che fu praticamente rispettata e quasi divinizzata in vita.

L'ANTRO DELLA SIBILLA

L'ANTRO DELLA SIBILLA

Virgilio ne parla ampiamente nell’Eneide così come fanno anche Ovidio, nelle sue Metamorfosi, e Dante che la cita nella Divina Commedia con queste parole: ”Così la neve al sol si disigilla, così al vento ne le foglie levi si perdea la sentenza di Sibilla”. 

Una figura mitologica, tra il mistero e la realtà. La sua identità resta ancora un mistero mentre quella che secondo la leggenda fu la sua casa viene visitata ogni giorno da migliaia di turisti provenienti da tutto il mondo. 

È l’Antro della Sibilla cumana che si trova all’interno del Parco Archeologico di Cuma. Facilmente raggiungibile da Napoli, il parco si trova tra il comune di Pozzuoli e Bacoli dove un tempo sorgeva l’antica città di Cuma.

Un’antica colonia greco-romana che si estendeva dal cuore dei Campi Flegrei, una zona nota per la sua vivace attività vulcanica. L’antro della Sibilla rimane uno dei luoghi più misteriosi di queste zone, circondato da un alone di magia che lo rende davvero speciale.

L'ANTRO DELLA SIBILLA

L’antro è costituito da un tunnel artificiale che risalirebbe all’età greco-romana, la cui data di costruzione però non è ancora certa. Qui il lungo cunicolo di forma trapezoidale scavato nella pietra conduce ad una sala dove si pensa che la Sibilla elargisse le sue profezie.
In queste strade sotterranee sarebbe vissuta una delle Sibille più famose della storia antica, protagonista di intrighi e battaglie per oltre dieci secoli. La leggenda vuole infatti che la Sibilla di Cuma fosse vissuta per oltre mille anni.

Il mito racconta che il Dio Apollo si fosse innamorato della Sibilla alla quale fece dono della vita eterna. La Sibilla però si dimenticò di chiedere in dono anche l’eterna giovinezza e si racconta quindi che visse per oltre 1000 anni tra i cunicoli di Cuma, mentre il suo corpo invecchiava sempre di più.

Diventata ormai inconsistente nel corpo, la Sibilla venne rinchiusa in un ampolla esposta nel tempio di Apollo. In quest’ampolla erano conservate le sue polveri mentre il suo spirito e la sua voce vivevano ancora. Una maledizione quindi quella della Sibilla di Cuma che fu costretta ad elargire consigli e profezie per l’eternità ai curiosi e bisognosi che raggiungevano la sua dimora. 

Secondo quello che racconta la storia, le Sibille sembra fossero delle figure realmente esistite; sacerdotesse spesso devote al dio Apollo che in un perenne stato di trance potevano predire il futuro.

IL TEMPIO DI GIOVE

IL TEMPIO DI GIOVE

Il tempio di Giove è un tempio greco-romano ritrovato a seguito degli scavi archeologici sull'acropoli dell'antica città di Cuma. Durante l'età greca, probabilmente tra il VI e V secolo a.c., venne costruito un primitivo tempio dedicato a Demetra, divinità molto venerata dai cumani.

Il tempio di Giove, di cui però non si ha alcuna testimonianza che fosse effettivamente dedicato a Giove, sorse sul precedente tempio e venne costruito alla fine del I secolo, in età augustea.

Tra la fine del V e l'inizio del VI secolo venne trasformato in basilica cristiana, dedicata a san Massimo martire (†303) sulla cui storia però esistono molti dubbi, divenuta poi cattedrale della diocesi di Cuma. Venne abbandonata nel XIII secolo a seguito dello spopolamento di Cuma ed esplorata tra il 1924 ed il 1932.

Del tempio greco non si hanno molte notizie: è presumibile che sia stato pseudo-periptero (circondato sul perimetro esterno da colonnato "ptèron" su tutti e quattro i lati della cella creando un porticato quadrangolare) e l'unica testimonianza della sua esistenza rimane la base in tufo, lunga trentanove metri e larga ventiquattro, riutilizzata anche per il tempio romano.

IL TEMPIO DI GIOVE
La struttura sacra sorgeva sulla sommità dell'acropoli ed era la più importante della città. Il tempio romano invece, alterato nella struttura durante la dominazione bizantina, oggi ridotto in ruderi e parzialmente crollato insieme al costone della collina, quando fu trasformato in basilica, aveva un orientamento est-ovest ed era circondato da un muro perimetrale in opus reticolatum che presentava tre aperture.

Internamente era diviso in cinque navate, due delle quali vennero in parti murate e divise in piccoli ambienti per ospitare delle cappelle. La cella presentava delle semicolonne con delle nicchie poi murate, oltre ad una serie di quattro pilastri.

Al suo interno venne inserito un altare in marmi policromi ed un fonte battesimale, completamente ricoperto in marmo e costituito da tre scale, in modo tale da permettere la totale immersione per il battesimo (il battezzando veniva immerso spingendo il suo corpo e il suo capo totalmente sott'acqua, subendo un momentaneo shock che doveva facilitare il suo risveglio interiore alla nuova fede). 

Tra le altre strutture conservate: resti della pavimentazione in signino (frammenti di laterizi, tegole o mattoni, minutamente frantumati e malta fine a base di calce aerea) con inserti in marmo, tombe scavate nel pavimento e archi in opera reticolata.

I romani edificarono varie ville presso Cuma, una di queste fu chiamata Cumano, ed era una villa di Cicerone, sulla costa della Campania, nell'area dell'antica Cuma.

LA CRYPTA ROMANA

LA CRYPTA ROMANA

Percorrendo il vialetto di accesso in direzione dell'Acropoli si notano a destra dei pozzi che fungono da prese per la luce per la sottostante Crypta romana, è un tunnel scavato nel tufo sotto la collina di Cuma, una grandiosa opera di ingegneria viaria che traversa in galleria tutto il monte di Cuma per circa 292 m di cui un centinaio sono ora scoperti.

Edificata insieme ad altre opere di potenziamento militare volute da Marco Vipsanio Agrippa (63 a.c. - 12 a.c. stratega di Augusto) e progettate da Lucio Cocceio Aucto nel 37 a.c., comprendenti la costruzione del nuovo "Portus Iulius" e il suo collegamento con il porto di Cuma tramite la cosiddetta "Grotta di Cocceio" e la stessa "Crypta Romana".

Essa era destinata a collegare il porto con la città bassa, come naturale prolungamento della grotta di Cocceio, dal lago d'Averno a Cuma. La galleria rimase in uso fino a tutto il II secolo d.c.

CRYPTA ROMANA
A seguito di alcuni crolli non la usarono più come strada ma come area cimiteriale paleocristiana. In epoca bizantina, tolti i resti paleocristiani, la galleria venne ripristinata con la creazione di contrafforti ancora visibili, abbassandone il pavimento di circa un me. Durante le guerra greco-gotiche, quando Narsete volle riconquistare Cuma (552 d.c.), venne provocato ad arte il crollo di una parte dell’acropoli nel vestibolo della Crypta che, da allora, finì per essere colmata di detriti e materiali di scarto.

Accedendo dal lato del porto, si attraversa il vestibolo, alto 23 metri e conservante perfettamente il rivestimento in conci di tufo. Sul lato sinistro si aprono quattro grandi nicchie che dovevano ospitare delle statue. Più avanti è un ambiente con nude pareti in tufo. 

Andando oltre, la galleria attraversa in direzione est-ovest l'acropoli di Cuma, con una curva sotto il Tempio di Apollo, collegando l'area del foro con il mare. con opere di rivestimento e contrafforti in muratura, terminando linearmente sul versante opposto della collina. 



Quasi a metà della galleria sulla destra vi sono degli ambienti scavati nel tufo, probabilmente delle cisterne alimentate dai pozzi che si incontrano all'ingresso dell'Acropoli, da mettersi in relazione con un acquedotto sotterraneo. Infine la galleria giunge a sbucare dal lato del Foro.

Con lo spostamento della flotta dal Portus Iulius al porto di Miseno nel 12 a.c. e la fine della Guerra civile tra Ottaviano e Marco Antonio nel 31 a.c., il tunnel perse il suo interesse strategico. In età cristiana fu utilizzato come area cimiteriale. 

Nel VI secolo il generale bizantino Narsete, (478 – 574) durante l'assedio di Cuma, cercò di utilizzarlo per raggiungere la città, ma i nuovi cunicoli scavati ne indebolirono la struttura e una vasta sezione della volta crollò, rendendo la galleria impraticabile e destinata all'oblio. Fu riportata alla luce tra il 1925 e il 1931 dall'archeologo Amedeo Maiuri (1886 – 1963).



LA VIA SACRA

Iniziando la salita all'Acropoli appare il basolato dell'antica Via Sacra e poco dopo quello che resta della porta di accesso all’acropoli. Essa era fiancheggiata da due torri a pianta quadrangolare delle quali una è crollata insieme col costone tufaceo, mentre l’altra, rifatta in epoca bizantina, è ancora in parte visibile.

Seguendo sempre la Via Sacra si arriva ad un vialetto sulla destra che immette sulla terrazza del Tempio di Apollo, identificato nel 1912, tramite un' iscrizione con dedica ad Apollo Cumano. All’ingresso della terrazza è una lapide con i versi del Libro VI dell’Eneide relativi alla leggenda di Dedalo ed Icaro.

LA TORRE BIZANTINA
Secondo la leggenda Dedalo fu rinchiuso nel labirinto insieme al figlio Icaro per aver aiutato Teseo,  a entrare nel labirinto e ad uccidere il Minotauro. Allora Dedalo aveva costruito due coppie di ali con piume di uccelli tenute insieme con la cera, per volare via dal labirinto col figlio, ma Icaro si avvicinò troppo al sole finchè la cera si sciolse facendolo precipitare a terra. Dedalo, annientato, prosegue fino ad atterrare in Campania, a Cuma, dove, in memoria del figlio, edifica un Tempio, quello di Apollo Cumano.

TEMPIO DI APOLLO

IL TEMPIO DI APOLLO

Il Tempio di Apollo sorge su un precedente tempio greco, intorno al VI-V secolo a.c., sembra dedicato ad Era ad Era, come dimostra il materiale votivo, nei pressi di una vicina cisterna; abbandonato quindi durante la dominazione sannita. 

Il tempio tempio fu ricostruito in età augustea, quando per volere dell'imperatore tutti i luoghi ricordati nell'Eneide vennero restaurati: Virgilio infatti racconta che Enea, fermatosi a Cuma, raggiunse questo tempio, al cui interno consacrò ad Apollo le sue ali che gli avevano permesso di fuggire dal labirinto. 

Tra il VI ed l'VIII secolo il tempio venne trasformato in basilica cristiana, con conseguenti fonte battesimale e tombe nel pavimento. Venne poi abbandonato allo spopolamento di Cuma nel XIII secolo e ritrovato solamente nel 1912, identificato da un'epigrafe in marmo che si riferiva all'Apollo Cumano.


Il tempio greco, posto su una naturale terrazza panoramica, aveva un orientamento nord-sud, lo stesso poi della basilica cristiana, era periptero e ionico, con sei colonne sul fronte minore, elevato su una piattaforma in tufo lungo 34 metri e largo 18.

Il tempio di Apollo invece, ormai rudere, aveva un orientamento est-ovest: il pronao presentava delle colonne doriche, eccetto quelle agli angoli che avevano una particolare forma trilobata: tutte le colonne erano in laterizio rivestite in stucco, che in parte ancora si conserva, poggianti su basi attiche e sormontate da capitelli ionici.

La trabeazione, reperita in alcuni frammenti, era decorata in terrecotte con elementi zoomorfi ed antropomorfi. La cella, in opus reticolatum ma senza rivestimento murario, misurava 22 metri di lunghezza e 9 di larghezza con ingresso sul lato orientale ornato da due colonne in laterizi. Internamente era divisa in tre navate con aperture ai lati intercalati da pilastri in trachite e conteneva una grossa statua raffigurante Apollo.

La pavimentazione era tutta in travertino, mentre nel lato sud della cella era posto il fonte battesimale a forma ottagonale; nelle vicinanze del tempio un ambiente a pianta rettangolare con volta a botte, un thòlos e un cisterna utilizzata probabilmente per raccogliere gli ex voto.

IL FORO


IL FORO

Il Foro cumano è oggi solo parzialmente in luce, come del resto molte parti di Cuma, in quanto ancora interrato nella parte orientale. Esso risale di una sistemazione monumentale di età tardo- repubblicana, vale a dire una piazza rettangolare con orientamento E-O, di m. 50x120, con il lato breve occidentale delimitato dal Capitolium. 

Alla fine del I sec. d.c., la strada lungo il lato meridionale del Foro, parallela a quella proveniente dalla Crypta Romana, fu chiusa da una fontana monumentale addossata al fianco del Capitolium. Pertanto l'accesso alla piazza lungo questo lato era fornito da una porta che immetteva nel porticato. In seguito alla costruzione, sul lato meridionale del Foro, del Tempio italico con portico, il piano di calpestio fu ribassato di cm. 50 ca. e lievemente inclinato, onde convogliare le acque reflue in una canaletta di scolo, e venne pavimentato con lastre di travertino bianco.

I lati lunghi della piazza vennero delimitati da porticati di età sillana in tufo grigio rivestito di stucco bianco: elevati su due ordini, con semicolonne addossate a pilastri e un fregio dorico con triglifi e metope. Poco dopo venne aggiunto, nei pressi del Capitolium, un altro tratto, costituito da un doppio ordine di colonne corinzie e ioniche, con fregio continuo decorato con armi, di cui sono stati rinvenuti alcuni frammenti.

L'ANFITEATRO

ANFITEATRO

L’Anfiteatro di Cuma, è uno dei più antichi anfiteatri della Campania, uno dei primi teatri stabili, cioè in pietra, edificato infatti alla fine del II sec. a.c., vale a dire nel momento in cui la città greco-sannitica si rinnovava con la nuova architettura romana e i nuovi edifici monumentali, come l’anfiteatro. 

Esso sorgeva appena fuori le mura meridionali della città, nel luogo più utile per il controllo dei flussi di spettatori in ingresso e in uscita, un anfiteatro di medie proporzioni, privo di sotterranei e addossato per circa una metà al pendio del Monte Grillo, secondo l'uso greco. 

Esso misurava 90 m nella parte lunga dell'ellisse e 70 m nella parte più corta. ed era sviluppato probabilmente solo su due livelli, anzichè su tre, come si usava per gli anfiteatri più grandi.

Il monumento è stato indagato solo parzialmente, tanto è vero che la cavea, suddivisa da moderni terrazzi per le coltivazioni, è attualmente occupata da un frutteto (!). Ne sono stati messi in luce l’ingresso meridionale, parte dell’arena e delle gradinate della cavea e il muro perimetrale a due ordini di arcate. dalle prime indagini comunque si evince che l’ingresso e l’ima cavea hanno subito un’importante ristrutturazione all’inizio del II sec. d.c. con l’inserimento di un criptoportico onde facilitare l’accesso alle gradinate.


L’anfiteatro è dotato inoltre, come spesso usava, di un tempio romano poggiato  summa cavea, che svettava sulla sommità del pendio cui si appoggiano le gradinate Il tempio romano sorge sulle strutture di un tempio arcaico, risalente alla fine del VI sec. a.c., del quale sono stati rinvenuti numerosi materiali.

Il monumento, ancora visibile nell’800, venne rilevato dal De Jorio nella sua pianta di Cuma (1830) e a metà secolo fu oggetto di scavi, che misero in luce le strutture del tempio in summa cavea, successivamente inglobato nella Villa Vergiliana, palazzina demaniale (sigh!) impiantata nel 1911.

All’estremità nord dell'anfiteatro vi doveva essere un accesso, corrispondente grosso modo a quello attuale della masseria; accanto a questo, inglobato nella masseria stessa (!), è conservato un ambiente in opera reticolata con volta a botte, probabilmente con funzioni di servizio. 

Doveva esserci un ingresso secondario al centro del lato est del muro perimetrale esterno. Le gradinate, già private del loro rivestimento sono irriconoscibili, in quanto completamente ricoperte dalle coltivazioni; come è possibile che un bene di 2000 anni fa venga abbandonato a se stesso? Come mai il terreno non viene espropriato? Cosa fa il comune di Cuma?

LE TERME DEL FORO

TERME DEL FORO

Le Terme del foro di Cuma, essendo pubbliche, furono edificate in pieno centro cittadino, a nord- ovest dell'area forense, pochi decenni dopo l'apertura della via Domitiana (95 d.c.). Come tipologia richiamano le Terme di via Terracina a Napoli e quelle del Foro a Ostia.

Queste erano dotate di almeno due ingressi pubblici:
- uno a sud, sulla via che costeggia il Capitolium, che immetteva nel corridoio porticato e nella palestra;
- uno a est, su una strada perpendicolare alla precedente, che immetteva nel vestibolo, comunicando, mediante un porticato, con il frigidarium che aveva ai suoi lati due vasche per i bagni. A destra e a sinistra del vestibolo si aprono due ambienti si aprivano lo spogliatoio, la sala per massaggi, e la biblioteaca.

TERME DEL FORO
Gli ambienti caldi, esposti a sud, prevedevano: i tepidaria, la sudatio (laconicum) e calidarium, dotato di tre vasche per i bagni. Sulla parete di fondo, c'è il fornice del praefurnium da cui si spandeva il calore nei vari ambienti attraverso le intercapedini delle mura e gli hypocausta sotto i pavimenti.

Il rifornimento idrico era affidato a una cisterna divisa in quattro serbatoi, posta su alto podio a nord-ovest del corpo principale. Successivamente, nel III sec. d.c. furono aggiunti alcuni ambienti con funzioni di servizio e per il pubblico. 

L'edificio doveva essere riccamente decorato, come dimostrano i resti di lastre di marmo, cornici di porfido, mosaici a tessere bianche e nere, zoccoli modanati, intonaci dipinti. Le coperture dovevano essere di diversi tipi (a botte, a crociera, a catino). L'illuminazione era assicurata da finestre e lucernari nelle volte. 

La proibizione dell'uso delle terme, a partire dal V sec. d.c. cambiò la destinazione di un settore dell'edificio: vestibolo, sala fredda e cisterna, che vennero  riutilizzati come abitazione e magazzino o stalla.



PURTROPPO

"Cuma, un gioiello che tutti, fino ai confini del mondo, ci invidiavano per tutta la sua storia, le sue spiagge dorate, l'acqua cristallina, la florida e singolare vegetazione; e dove ora, a pochi metri da tutto questo, sorge un depuratore malfunzionante, una discarica a Cielo aperto, strade dissestate da ricostruire ed un patrimonio storico, artistico e culturale da rivalorizzare."
(Luigi Di RAZZA)




I SACRIFICI ROMANI

$
0
0
SACRIFICIO DI MARCO AURELIO
I Romani appresero il rituale dei sacrifici dai culti italici, e pure dagli Etruschi, ma soprattutto dai greci, dei quali adottarono molte divinità e relative modalità di culto. Del resto tutta l'Italia meridionale era greca, anzi era Magna Grecia.

Sacrifici o offerte costituivano la base del culto dei popoli antichi, o come segno di gratitudine, o per propiziarsi gli Dei, o per indurre la divinità a concedere una grazia al sacrificante. Ma come sacrifici c'erano anche i Donaria, che potevano essere oggetti offerti agli Dei, che venivano bruciati sui loro altari, o che si credeva fossero consumati dagli Dei.

SACRIFICIO GRECO - 430. A.C.

I DONARIA IN GRECIA

Nell'antica Grecia gli "anathemata" consistevano in coroncine e ghirlande di fiori offerte agli Dei. Oppure si offrivano ciocche di capelli, specialmente i giovani e le fanciulle. Pausania vide la statua di Hygeia a Titano, coperta da ciocche di capelli che erano state dedicate dalle donne.

Ma si donavano anche abiti costosi , in particolare ad Athena e Hera. Ad Atene il sacro peplo di Atena, in cui venivano lavorate le grandi avventure di eroi antichi, veniva tessuto dalle donzelle ogni cinque anni, alla festa della grande Panatenea. Un peplo veniva tessuto ogni cinque anni a Olympia, da sedici donne, e dedicato a Hera.

Nel periodo in cui le belle arti fiorivano in Grecia, gli anathemata erano generalmente opere d'arte di squisita fattura, come alti treppiedi che portavano vasi, crateri, tazze, candelabri, quadri, statue e varie altre cose. I materiali di cui erano fatti erano di bronzo, altri d'argento o d'oro, ma si donavano pure gioielli come collane, bracciali e diademi. Così come si donavano nastri e veli colorati.

Dopo una vittoria i greci dedicavano la decima parte del bottino agli Dei, generalmente sotto forma di qualche opera d'arte. Oppure delle splendide armature, o una bella spada lavorata, o un elmo inciso, o uno scudo molto elaborato, venivano donati nei templi alle divinità come anathemata. Gli Ateniesi dedicarono sempre ad Atena la decima parte del bottino e dei beni confiscati; e a tutti gli altri dei collettivamente, la cinquantesima parte. Dopo un combattimento marittimo, spesso veniva offerta a Nettuno una nave, ponendola in secca.

Ma talvolta la decima parte del profitto di qualche impresa commerciale veniva dedicata a un Dio nella forma di un'opera d'arte. Spesso si offrivano anathemata per essersi ristabiliti da una malattia, soprattutto trascorrendo una o più notti in un tempio di Esculapio. Per ogni grazia ricevuta venivano fatti regali al tempio e e si appendevano piccole tavolette sui muri, contenenti un resoconto del pericolo scampato, e dell'intervento divino. A volte dopo la guarigione si dedicava un'immagine della parte malata in oro o argento alla divinità sanatrice.

Le persone sfuggite a un naufragio di solito dedicavano a Nettuno l'abito che indossavano al momento del pericolo ma se erano fuggiti nudi, dedicato ciocche di capelli.  Anche sul tempio di Nettuno si appendevano tavolette votive con su descritto o dipinto l'incidente.

Gli individui che abbandonavano la professione o l'occupazione con cui erano vissuti, spesso dedicavano nel tempio gli strumenti che avevano usato, come riconoscimento del favore degli Dei. Il soldato dedicava così le sue armi, i pescatori la sua rete, il pastore il suo flauto, il poeta la sua lira, la cetra o l'arpa, ecc. 




SACRIFICI CRUENTI IN GRECIA

Nel culto di Zeus Lycaeus in Arcadia, dove si diceva che i sacrifici umani fossero stati introdotti da Lycaon (Paus VIII .2 §1) , sembra che siano continuati fino all'epoca degli imperatori romani (Teofrasto, porfido. de Abstin. II .27 ; Plut. Quest. Gr. 39 ). A Leucas una persona veniva ogni anno alla festa di Apollo gettata da una roccia nel mare (Strab. X p452) ; e Temistocle, prima della battaglia di Salamina, avrebbe sacrificato tre persiani a Dionisio (Plut. Em. 13). Comunque i sacrifici umani erano cessati nelle epoche storiche della Grecia.



I DONARIA A ROMA

L'usanza di fare regali agli Dei era comune ai Greci e ai Romani, ma tra questi ultimi i donaria non erano né così numerosi né magnifici come in Grecia. Più che altro i romani mostravano la gratitudine verso un Dio, costruendogli un tempio, un'edicola, un altare, o celebrando ludi in ​​suo onore, o adornando il suo tempio con costose opere d'arte. Infatti la parola donaria fu usata dai Romani per designare un tempio o un altare, così come statue e altre cose dedicate in un tempio. 
LA LUSTRATIO

I SACRIFICI A ROMA

I sacrifici invece consistevano in oggetti deperibili e potevano essere cruenti o incruenti, cioè con o senza spargimento di sangue.

Le prime offerte fatte alle divinità nelle ere più arcaiche furono incruente, in quanto conservavano i costumi delle religioni animiste, che non spargevano sangue, e sacrificavano con frutta, dolci, miele e libagioni.

I sacrifici umani per i romani furono rarissimi e scomparvero ben presto. Sul suolo italico invece regnò il Ver Sacrum.



VER SACRUM

Era un'abitudine tra le popolazioni italiane, specialmente tra i Sabini, in tempi di grande pericolo o di malattie o penuria di cibo, di giurare alla divinità il sacrificio di ogni cosa nata nella primavera successiva, cioè tra il primo di marzo e l'ultimo giorno di aprile (Festus, sv Ver sacrum ;Sup. XXII .9, 10 , XXXIV .44 ; Strab. V. p172 ; Sisenna ap. Non. XII, 18; Serv. ad Aen. VII .796 ).

Questo sacrificio nei primi tempi comprendeva sia i bambini che gli animali domestici, ma poi il sacrificio venne trasformato. I bambini non vennero sacrificati ma nella primavera del ventesimo o ventunesimo anno venivano coperti i loro visi e portati fino alla frontiera del paese, lì veniva loro scoperto il volto e lasciati liberi di andare a cercare la ventura in qualsiasi paese estero. Spesso venivano imbarcati per mare e molte colonie erano state fondate da questi giovani come i Mamertini in Sicilia  (Fest. lc e sv Mamertini,  Dionis, I. 16, e Plinio, N. III, 18).

In due casi, per quel che sappiamo i Romani promisero agli Dei un Ver Sacrum, (detto poi Sacro Vere, da Primo Vere o Primavera), e cioè dopo la battaglia del lago Trasimenus e alla fine della II Guerra Punica, ma il voto fu riservato solo agli animali domestici, e non riguardò gli umani (Liv .lc ; Plut. Fab. Max. 4 ). Si è supposto che quando i soldati di Giulio Cesare tentarono un'insurrezione a Roma, due di loro vennero sacrificati nel Campo Marzio dai pontifici e dai flamen Martialis, e le loro teste furono bloccate presso la regia ( Dion Cass. XLII .24 ), ma gli studiosi hanno perloppiù rigettato la verità dell'evento.

I sacrifici di animali erano i più comuni tra i Greci e i Romani. La vittima si chiamava ἱερεῖον , e in latino hostia o victima. Nei primi tempi vi era l'usanza di bruciare l'intera vittima sugli altari degli Dei, e a volte per espiare un crimine commesso (Apollon, Rhod. III .1030, 1209). Ma fin dall'epoca di Omero era pratica quasi generale bruciare solo le zampe racchiuse nel grasso e alcune parti dell'intestino, mentre la parte rimanente della vittima veniva consumata dagli uomini il dì di festa.

Gli Dei gradivano il fumo delle vittime in fiamme, più gradito quanto maggiore era il numero delle vittime. Quindi non era raro offrire un'ecatombe (sacrificio di cento tori)  anche se non erano cento, poiché il nome era usato per designare qualsiasi grande sacrificio. Gli animali sacrificati erano per lo più di tipo domestico, come tori, mucche, pecore, arieti, agnelli, capre, maiali, cani e cavalli; ma i pesci sono anche menzionati come graditi a certi Dei.

Ogni Dio aveva i suoi animali preferiti come sacrifici; ma in genere gli animali sacri a un dio non gli venivano sacrificati, (eccezione i cavalli sacrificati a Poseidone). Il capo della vittima prima di essere ucciso veniva cosparso di farina d'orzo tostato mescolato con sale (mola salsa). Le persone che offrivano il sacrificio indossavano generalmente delle ghirlande intorno alle loro teste e talvolta le portavano anche nelle loro mani, e prima che toccassero qualcosa appartenente al sacrificio si lavarono le mani in acqua.

Anche la vittima era adornata con ghirlande e talvolta le corna erano dorate. Prima che l'animale fosse ucciso, un ciuffo di capelli veniva tagliato dalla sua fronte e gettato nel fuoco come primitiae. Quando il sacrificio doveva essere offerto agli dei olimpici, la testa dell'animale era disegnata verso il cielo; quando agli dei del mondo inferiore, agli eroi o ai morti, veniva disegnato verso il basso. Mentre la carne bruciava sull'altare, vi furono gettati vino e incenso con preghiere e musica (Iliade , I , 264, XI , 77, ecc .).



I SACRIFICI CRUENTI ROMANI

I sacrifici animali più comuni a Roma erano i suovetaurilia, o solitaurilia, costituiti da un maiale, una pecora e un bue. Veniva eseguita la lustrazione e le vittime venivano trasportate intorno alla città, o a un pezzo di terra (Lustratio), ma in genere non veniva uccisa dai preti che conducevano il sacrificio, ma da una persona chiamata Popa, che colpiva l'animale con un martello prima che venisse usato il coltello.
La parte migliore dell'intestino era cosparsa di farina d'orzo, vino e incenso e bruciata sull'altare. Quelle parti dell'animale che venivano bruciate venivano chiamate prosecta, prosiciae o ablegamina. Quando veniva offerto un sacrificio agli Dei dei fiumi o al mare, queste parti non erano bruciate, ma gettate nell'acqua ( Cato, de Re Rust. 134 ; Macrob. Sat. II .2).

SACRIFICIO DI PRIMIZIE

SACRIFICI INCRUENTI 

A Roma erano consuete le libagioni (libationes), che potevano avvenire da sole o accompagnare i sacrifici cruenti. Le libagioni accompagnavano sempre un sacrificio offerto nel concludere un trattato con una nazione straniera, ma le libagioni potevano essere indipendenti da ogni altro sacrificio, come nelle preghiere solenni ( Iliade , XVI .233), o, in molte altre occasioni di vita pubblica e privata, come prima di bere ai pasti.

Le libagioni di solito consistevano in vino non mescolato, ma pure latte, miele e altri fluidi, puri o diluiti con acqua (Soph. Oed, Col. 159, 481; Plin. H. N. XIV .19). Anche l'incenso era un'offerta che di solito accompagnava sanguinosi sacrifici, ma era anche bruciata come offerta da sola. Il vero incenso sembra essere stato usato solo in epoche successive (Plinio H. N.XIII .1), ma si bruciavano agli Dei vari tipi di legno profumato, come cedro, fico, vite e legno di mirto.




SACRIFICI DI FRUTTA E DOLCI

I sacrifici di frutti venivano in genere offerti agli Dei come primitie o decime del raccolto, e come segno di gratitudine, o al naturale, oppure adornati o preparati in vari modi. Ad esempio il ramo d'ulivo avvolto intorno dalla lana e legato con vari tipi di frutti; o le pentole piene di fagioli cotti.

Le focacce erano destinate al culto di certe divinità, come a quello di Apollo. Erano semplici focacce di farina, a volte anche di cera, o erano fatti a forma di animale, e venivano poi offerti come sacrifici simbolici al posto di veri animali, o perché non potevano essere procurati facilmente o erano troppo costosi per il sacrificante. Ma anche accadeva che le pecore venivano sacrificate al posto dei cervi, e venivano chiamate cervi; e nel tempio di Iside a Roma i sacerdoti usavano l'acqua del fiume Tevere invece dell'acqua del Nilo che chiamavano l'antica acqua del Nilo (Fest. sv Cervaria ovis ; Serv. lc ).

BATTAGLIA DI CLASTIDIUM (222 a.c.)

$
0
0


"Aspice, ut insignis spoliis Marcellus opimis
ingreditur uictorque uiros supereminet omnis
".
"Osserva come Marcello, glorioso per le ricche spoglie avanza,
sopravanzando su tutti gli uomini vittoriosi."
(Virgilio, Eneide, VI, 855.)



CLASTIDIUM

La battaglia di Clastidium (oggi Casteggio, nell'Oltrepò Pavese) si svolse il I marzo del 222 a.c.,  tra i Romani e i Galli Insubri. Gli Insubri, tre anni prima, avevano condotto una pericolosa offensiva contro i Romani, fermata a Talamone con una battaglia epica.

Polibio narra che per l'invasione del territorio romano-italico i celti costituirono la più grande coalizione mai realizzata contro i romani; dopo combattimenti sanguinosi, si concluse con la completa vittoria romana l'esercito celtico venne in gran parte distrutto o catturato. 

"Durante il consolato di Lucio Emilio, vaste truppe di Galli valicarono le Alpi. Ma tutta l’Italia si schierò a favore dei Romani e, per quella guerra, erano stati preparati ottocentomila uomini, così come è stato tramandato dallo storico Fabio, che a quella guerra partecipò, ma l’impresa venne condotta con successo soltanto dal console. 
Dopo che quarantamila nemici furono stati uccisi, per Emilio venne decretato il trionfo. Poi, alcuni anni dopo, si combatté contro i Galli all’interno dell’Italia, e la guerra venne portata a termine dai consoli M. Claudio Marcello e Cn. Cornelio Scipione. 
Marcello, pur essendosi scontrato con un piccolo manipolo di cavalieri, uccise di propria mano il re dei Galli, dal nome di Viridomaro. Successivamente, dopo che dai consoli furono state sterminate le vaste truppe dei Galli, Marcello, insieme al collega, espugnò Milano e trasferì a Roma un grande bottino. E, mentre trionfava, Marcello portò sulle proprie spalle le spoglie del Gallo."

(Eutropio - Breviarium ab urbe condita)


MARCUS CLAUDIUS MARCELLUS
I Romani, respinte le proposte di pace degli Insubri, assediavano Acerrae, località tra il Po e le Alpi tradizionalmente identificata con Pizzighettone, tra Cremona e Lodi. 

Allora gli insubri, visto che non riuscivano a soccorrere efficacemente Acerrae, dopo aver ingaggiato ben trentamila mercenari della valle del Rodano, detti Gesati, tentarono un diversivo su Clastidium. 

Essa era allora un'importante località degli Anamari (o Marici), popolazione ligure che, probabilmente per timore dei vicini Insubri bellicosi, già l'anno prima aveva accettato l'alleanza con Roma.

Invece i Romani, non abbandonando come sperato dagli Insubri l'assedio di Acerrae, inviarono la cavalleria con parte dei fanti a soccorrere gli alleati. 

Non è chiaro se Clastidium fosse allora già caduta (come sembra indicare Plutarco), o ancora resistesse, come più verosimilmente indica Polibio.

Comunque gli Insubri, lasciata Clastidium, avanzarono contro il nemico, ma furono attaccati dalla cavalleria romana con grande impeto. Dopo una certa resistenza, attaccati anche alle spalle e alle ali dai Romani, dovettero ritirarsi disordinatamente, e furono spinti verso un fiume (il Po oppure, come vuole il Baratta, un piccolo corso d'acqua locale, la Coppa), dove in gran numero trovarono la morte. Ma anche gli altri furono vennero uccisi dai Romani. 



IL DUELLO

Lo stesso console Marcello, riconosciuto il re nemico Viridomaro dalle ricche vesti, lo sfidò a duello e l'altro accettò. Il combattimento avvenne al centro dei soldati di entrambe le fazioni che per assistere al duello interruppero la battaglia.

Per volontà di ambedue i re nessuno dei due eserciti intervenne nel duello, durante il quale ciascuno degli sfidanti si battè con coraggio ed onore, ma infine fu Marcello ad avere la meglio, colpendo a morte il re nemico.

Non era di quei duelli che definivano l'esito di una battaglia, come al tempo degli Orazi e Curiazi, infatti la battaglia riprese subito dopo con lo sterminio degli Insubri già provati ed ora demoralizzati anche per la morte del loro re.

IL TRIONFO DI MARCELLO

MEDIOLANUM

La distruzione dell'esercito degli Insubri ispirò ai Romani la conquista di Mediolanum (Milano), la capitale nemica, che fu conquistata dopo breve assedio. La battaglia di Clastidium, che fu quindi il preludio per la conquista romana della Gallia Cisalpina, divenne tra le più celebri della storia romana.

L'epico duello tra i comandanti fece sì che Marcello, che consacrò le spolia opima di Viridomaro a Giove Feretrio, diventasse l'eroe di una delle più antiche opere della letteratura latina, la "fabula praetexta" di Nevio, intitolata appunto "Clastidium".

Marcello ebbe l'onore del trionfo, che così viene ricordato nei Fasti triumphales capitolini:

«M. CLAUDIUS M. F. M. N. MARCELLUS AN. DXXXICOS. DE GALLEIS INSUBRIBUS ET GERMAN
K. MART. ISQUE SPOLIA OPIMA RETTULIT
REGE HOSTIUM VIRDUMARO AD CLASTIDIUM
INTERFECTO»

(AE 1889, 70)

MARCO OFFRE LA SPOGLIA OPIMA


LA SPOLIA OPIMA

La Spolia Opima fu concessa solo tre volte nella storia di Roma, la prima a Romolo, che se l'attribuì da solo, la seconda venne concessa ad Aulo Cornelio Cosso (Console nel 428 a.c.) che nella battaglia di Fidene uccise il re di Veio Tolumnio, re di Veio nel 437 a.c., e la terza appunto a Marco Claudio Marcello per l'uccisione in duello di Viridomaro, re dei Galli.


BIBLIO

- Polibio (II, 34, 5)
- Plutarco (Marcellus, VI, 5).
- Tito Livio (XXIX, 25, 7 e XXIX, 11, 40),
- Valerio Massimo (Memorabilia, I, 1, 8)
- Eutropio (Breviarium ab urbe condita)
- Virgilio (Eneide VI 855):

PORTA FLAMINIA (Porte Aureliane)

$
0
0
PORTA DEL POPOLO - LA FACCIATA ESTERNA

ATTUALE PORTA DEL POPOLO

L'attuale Porta del Popolo che corona a Roma Piazza del Popolo si chiamava originariamente Porta Flaminia perché da qui usciva, ed esce tuttora, la via consolare Flaminia che anticamente aveva inizio molto più a sud, dalla Porta Fontinalis, nei pressi dell’Altare della Patria.

Essa costituisce il varco più settentrionale delle mura Aureliane, lungo l'antica via Flaminia, la strada, che Caio Flaminio fece costruire nel III secolo a.c., che si dirigeva al Campidoglio e poi all'esterno, fino ad Ariminum (Rimini) sulla costa adriatica, ad oltre 300 km di distanza. Qualsiasi viaggiatore diretto a Roma proveniente da nord sarebbe entrato in città attraversando questa porta.

LE DUE ANTICHE TORRI DELLA PORTA DEL POPOLO

GIA' PORTA DI SAN VALENTINO

Nel X secolo, per la vandalica usanza di cancellare tutti i nomi che rievocassero l'Impero Romano che aveva avuto la colpa di essere pagano, e per subissare Roma di chiese e di santi, alla Porta Flaminia venne cambiato il nome di San Valentino. Fortunatamente poi riprese il nome di Porta del Popolo ma non quello, forse giudicato troppo antico, di porta Flaminia.

L’origine del nome della porta e della relativa piazza sono dibattute: alcuni la fanno derivare da populus, (pioppo) per i numerosi pioppi della zona, ma si ritiene legato alle origini della chiesa di Santa Maria del Popolo, che fu eretta nel 1099 sul sepolcro dei Domizi dove Nerone fu sepolto, da papa Pasquale II, piuttosto infastidito che la gente andasse a portare ancora omaggio sulla tomba di Nerone, ancora ricordato dalla popolazione.

"II Papa eresse la Chiesa della Madonna del Popolo su la comune voce che ivi fosse il Sepolcro di Nerone il che serve per più confermare che ivi fosse il Sepolcro della famiglia de Domizj. La Porta del Popolo fu fabbricata da i Sommi Pontefici con avanzi di quella di Aureliano. Vi si veggono dai lati esterni i basamenti di marmo i quali reggevano le Torri. Questi furono maltrattati da Barbari e forati nelle commisure per levarne i perni essendo i forrami poi stati tassellati quando fu rifatta l'istessa Porta."

(Ridolfini Venuti Patrizio Cortonese 1763)


Il Papa era molto infastidito dall'affetto del popolo per Nerone, tanto che, in grazia dei sontuosi spettacoli che l'imperatore aveva sempre e generosamente offerto al popolo, era solito portare i fiori alla tomba il 9 Luglio, anniversario della morte di Nero.

Così il Papa ordinò di distruggere il monumento, ma la cosa dispiacque molto al popolo che manifestò contro il capo della Chiesa con molto vigore. Allora,  per placare il malcontento popolare, il Papa fece diffondere la voce che le ceneri fossero state traslate in un mausoleo sulla Cassia, abbastanza lontano per sperare che cessasse la tradizione di portare i fiori sulla tomba al 9 di Luglio. 

La speranza però restò disillusa, perchè i romani affrontarono il viaggio continuando ad omaggiare l'imperatore, e la cosa si protrasse talmente che ancora oggi la località che ospita il sepolcro si chiama "Tomba di Nerone".
LA FORMA ROMANA
La nuova chiesa che doveva sorgere sulla tomba di Nerone doveva essere sontuosa, ma di sostenerne la spesa il papa non aveva intenzione, costretto com'era a fondare una nuova chiesa a causa dell'idolatria proterva degli sconsiderati romani, per cui ne estorse i soldi al popolo romano che dovette pagare volente o nolente, ma ebbe in ringraziamento che la Madonna era del popolo, cioè che la chiesa si chiamasse Santa Maria del Popolo, visto che l'aveva pagata il popolo, anzi fingendo che il popolo l'avesse offerta spontaneamente.

Si narrò infatti con molta fantasia e poca correttezza che una volta tolto il sepolcro uscissero i diavoli dalla tomba con grande frastuono, più o meno la stessa fandonia usata per il pantheon che una volta benedetto produsse dall'occhio del tetto una fuoruscita di demoni urlanti. Insomma tutto ciò che era pagano era divenuto demoniaco.

LA FACCIATA INTERNA DI PORTA DEL POPOLO
All’epoca di papa Sisto IV la porta si presentava seminterrata e mai restaurata, ma solo puntellata, danneggiata dal tempo e dalle vicende medievali; ancora oggi la porta si trova su un terreno rialzato di un metro e mezzo sul livello antico, a causa dei detriti trasportati dal fiume nelle sue inondazioni e lo sfaldamento della collina del Pincio.

L’aspetto attuale è infatti il frutto di una ricostruzione cinquecentesca, ispirata tra l'altro all’Arco di Tito. Le quattro colonne della facciata provengono dall’antica basilica di S.Pietro e inquadravano l’unico grande fornice.

Per far fronte alle maggiori esigenze del traffico cittadino nel 1887 furono aperti i due fornici laterali, per la cui realizzazione era stato necessario, già nel 1879, demolire le torri che fiancheggiavano la porta. In occasione di quei lavori vennero alla luce resti particolarmente importanti per la ricostruzione storica della porta, relativi all’antica struttura di epoca aureliana ed alle torri cilindriche, insomma dei reperti romani, di cui però nulla si è risaputo.



CULTO DI AURORA

$
0
0
AURORA CONDUCE IL CARRO SOLARE DEL FRATELLO HELIOS (PALAZZO PALLAVICINI)

LA EOS GRECA

Nella mitologia greca Eos è figlia del titano Iperione (il pilastro dell'est) e di Teia, (greco Theía) o Tea, Thea e Tia, figlia di Urano (il cielo) e di Gea (la terra), chiamata Eurifessa (oppure Eurifaessa) per la magnificenza e lo splendore, secondo le narrazioni di Esiodo nelle sue “Cosmogonie” e da Apollodoro. Sorella e moglie di Iperione divenne madre di Helios (Dio del sole) e Selene (Dea della luna).

Pindaro:
«Madre del sole, Teia dai molteplici nomi, con la tua benedizione gli uomini onorano l'oro come elemento più prezioso di qualsiasi altro; ed attraverso il suo valore tu li accordi, o regina, le navi combattenti sul mare e le squadre di cavalli ammaestrati nelle gare di volteggio diventano meraviglie

Secondo altri Aurora era figlia di Titano e della Terra, comunque era la Dea che apriva le porte del giorno e che, dopo aver attaccato i cavalli al carro del Sole, lo precedeva col suo carro. Ebbe molti mariti e quattro figli, i venti: 
- il vento del nord (Borea), 
- il vento dell'est (Euro), 
- il vento dell'ovest (Zefiro) 
- e il vento del sud (Austro). 

La Dea Aurora si risveglia ogni mattina all'alba e vola attraverso il cielo, annunciando l'arrivo della mattina; nell'Iliade e nell'Odissea è scritto "apparve Aurora dalle dita di rosa" 

THESAN DEA DELL'AURORA IN TEMPIO ETRUSCO

TITONE

Uno dei mariti di Eos è il vecchio Titone, principe di troia e uomo bellissimo, fu rapito da Eos e portato in Aethiopia dove ebbero i due figli e dove la Dea chiese a Zeus di donargli l'immortalità, dimenticando però di richiedere anche l'eterna giovinezza, così lui visse per sempre ma lo fece invecchiando e così, sempre più vecchio e privo di forze si che Eos chiese ed ottenne che fosse mutato in una cicala.



CEFALO

In un altro mito Eos vide Cefalo figlio di Deioneo, sposo felice di Procri, unito a lei dall'amore e dalla passione per la caccia, per cui i due si erano promessi reciproca fedeltà. Aurora senza complimenti gli propose di giacere con lei, ma Cefalo rifiutò per la fedeltà promessa alla sua Procri. Allora Aurora disse: non voglio che tu infranga la tua promessa se prima non l'avrà infranta lei." Così lo trasformò nel giovane attico Pteleone che si presentò a Procri e le cinse la fronte con un ricco frontale d'oro finemente cesellato. Affascinata dal bellissimo giovane e dagli splendidi regali, Procri si lasciò sedurre. 
Quando nel letto, Cefalo si lasciò riconoscere, Procri umiliata comprese di essere stata ingannata da Aurora e fuggì a Creta dove Artemide stava cacciando, ma la Dea la cacciò via perché con lei cacciavano solo le vergini. Procri affranta le raccontò dell'inganno di Aurora, allora Artemide impietosita le regalò una lancia che colpiva qualsiasi bersaglio e un cane Lailape a cui nessun animale poteva sfuggire, invitandola a sfidare Cefalo nella caccia. Procri, sotto spoglia di un giovinetto, lo sfidò e lo vinse.

Cefalo affascinato dalla lancia e dal cane gli chiese di scambiarli con tutte le ricchezze e metà del suo regno, e l'altro acconsentì a patto che l'altro si concedesse a lui. Allora Procri si lasciò riconoscere e gli concesse il suo perdono. Ma quando Cefalo si recò a caccia con i doni di Procri, gelosa di Aurora lei lo seguì e vide Cefalo invocare: Aura vieni! Aura vieni! Era il nome del vento che Cefalo invocava per refrigerio dopo la battuta di caccia. 
Procri, credendo di udire il nome di Aurora balzò dal cespuglio e Cefalo, scambiandola per una bestia selvatica le scagliò contro la lancia infallibile uccidendola. Cefalo sopraffatto dal dolore si uccise con la stessa lancia e insieme a Procri ascesero al Cielo dove furono trasformati nella stella che precede il mattino.



AURORA ROMANA

I Latini le attribuirono il nome di Aurora, “ Quasi Aurea, colei che ha il colore dell'oro”e a Roma, il suo culto venne spesso associato a Matuta nella divinità di Mater Matuta.

AURORA - LEUCOTEA
Venne rappresentata vestita di giallo, con una fiaccola nelle mani, mentre esce da un palazzo dorato e ascende sopra un una carrozza dorata o del colore del fuoco.

Venne spesso raffigurata anche con e ali e una stella sulla testa, oppure come una giovane ninfa, coronata di fiori che conduce un carro trainato da Pegaso il cavallo alato. 

Con una mano sparge petali di rose, quegli stessi fiori ornamento della Terra che vivono della rorida rugiada stillata dagli occhi di Aurora in liquide perle.

La Dea romana eredita il mito greco per cui rappresenta la divina essenza femminile che ad ogni alba rigenera se stessa. Ella sposa il cugino Astreo, figlio dei titani Crio e Euribia, da cui ha una prole sterminata: tutte le stelle al cielo, ma soprattutto Fosforo, affezionatissimo figlio che al limitare di ogni notte annuncia in forma di astro l’arrivo della madre, e poi i venti che soffiano costanti il mondo, Zefiro, Borea, Noto ed Apeliote.

Ma la giovane una notte giace anche con il temibile Ares, e la vendetta di Afrodite, proprio lei, Dea dalle è terribile perchè maledice Aurora e la condanna a un desiderio sessuale inesauribile, ragione per cui da allora cambia continuamente amante.

In realtà Aurora è l'antica Dea Bianca, la Leucotea, la Grande Madre luminosa, la Dea Vergine, all'epoca più marina che terrestre, che conduce il giorno e la vira della natura, Dea prolifica e senza marito ma con mille amanti. I romani raccomandano alle figlie di non invocarla perchè le indurrebbe in tentazione, ma le spose la invocano per tenere desto il loro desiderio sessuale e la loro fertilità.

Lo stato romano si preoccupava di sacrificare alla Dea una volta l'anno ma privatamente sembra che il suo culto fosse più seguito, ma mentre nel tempio veniva sacrificata una scrofa, nel privato i sacrifici erano incruenti. Alla Dea si offrivano fiori, primizie e soprattutto vino versato sull'ara, incoronando le sue statue di ghirlande e ungendole di profumi.

CASA DELL'EFEBO (Pompei)

$
0
0
L'ESEDRA
La casa fu scavata nel 1925, nella Regio I, insula VII, numero civico 11, collocata nei pressi della casa del Sacerdos Amandus a una profondità di tre m. dal suolo dell'epoca. Gli scheletri rinvenuti testimoniano che era occupata al momento dell'eruzione.

Chiamata anche Casa dell'Efebo, o Villa di Publio Cornelio Tegeste, dal nome del proprietario, un ricco mercante del ceto medio pompeiano, e deve la sua denominazione al ritrovamento di una meravigliosa statua raffigurante un efebo.

La statua dell'Efebo era completamente sommersa da uno strato di cenere e lapilli, nella stessa posizione nella quale era stata provvisoriamente collocata prima dell'eruzione, poggiata all'anta ovest del cubicolo adiacente all'atrio della casa, avvolta in un tessuto (lino o canapa) conservatosi in tracce nei detriti compattati, nei frammenti mineralizzati e in quelli carbonizzati sparsi sul pavimento.

PLANIMETRIA DELLA VILLA EVIDENZIATA IN GRIGIO
Ai piedi della statua giacevano due bracci di candelabro ad intreccio vegetale, che l'Efebo un tempo stringeva in mano in quanto lychnophoros (portatore di lampada).

La casa, al momento dell'eruzione, era in fase di ristrutturazione, forse a seguito dell'acquisto da parte di Publius Cornelius Tages, un liberto citato negli archivi del banchiere L. Caecilius Iucundus come personaggio di recente ascesa (commerciante di vino e speculatore edile) che comprò e unì cinque modeste case confinanti per crearne una di maggiori dimensioni. 

Oppure i proprietari, dopo il terremoto del 62, erano partiti lasciando la casa alla gestione degli schiavi.

Infatti la villa, di una superficie complessiva di 650 mq, come testimoniano i calcinacci nel giardino, era in fase di restauro e pertanto non utilizzata dai proprietari, lo testimoniano la mancanza di utensili da cucina, un letto posto in un ambiente non adatto e le decorazioni in quarto stile. Ebbe i primi scavi nel 1912 e poi tra marzo e settembre del 1925, lavori protratti fino al 1927.

L'edificio si trovava ad una profondità di tre metri dal suolo di calpestio e le indagini iniziarono praticando un tunnel dalla casa del Sacerdote Amando: tuttavia dei varchi nelle mura evidenziarono che questa già era stata esplorata precedentemente. Nel 2010 l'abitazione vide l'inizio del suo restauro, riaprendo al pubblico nel dicembre 2015.

Si accede alla costruzione da una traversa di via dell'Abbondanza, nel cosiddetto vicolo dell'Efebo: al momento dello scavo, lungo la strada sono stati ritrovati diversi oggetti, probabilmente prelevati dalla casa dai fuggiaschi durante l'eruzione.



DESCRIZIONE

La villa è costituita dall’aggregato di diverse case comunicanti, forse cinque, con tre porte di accesso.
- L'ingresso della parte alta doveva essere utilizzato dalla famiglia,
- quello mediano era per gli ospiti,
- mentre quello in basso era l'accesso al giardino.



L'INGRESSO DELLA PARTE ALTA

L'ingresso della parte alta era decorato con semicolonne sormontate da capitelli cubici; qui è stato ricavato il calco del portone a due battenti, internamente sbarrato, o perchè non era più in uso o perchè era stato chiuso durante l'eruzione per evitare l'ingresso di materiali vulcanici o di malintenzionati.

Il corridoio d'ingresso ha pareti affrescate in bianco con motivi di candelabri e bordi ornamentali, tipici del IV stile, il pavimento invece è in lavapesta, una malta mista a frammenti minuscoli di lava, usata anche per impermeabilizzare i pavimenti.

L'ingresso conduce all'atrio privo di impluvium; le pareti nord e sud hanno pareti bianche con disegni di piante nella zoccolatura e nature morte con bordi ornamenti nella parte mediana, mentre la parete est ha lo zoccolo e la parte mediana in nero. Il pavimento è in cocciopesto, come in quasi tutto il resto della casa.

Una scala conduceva al piano superiore e nel sottoscala in essa ricavato c'era un armadio contenente vasi in vetro e bronzo e un braccio appartenente alla statua dell'Efebo ritrovata in giardino. 

Poco discosta era una nicchia che fungeva da larario decorata con un Genio che offriva libagioni, una flautista, un inserviente, lari che danzano, e sotto due serpenti, di cui uno con barba e cresta rossa, contornati da piante.

Nell'atrio, posti ai lati dell'ingresso, due cubicoli affrescati in giallo, con zoccolo decorato con Menadi, amorini, ghirlande, sfingi e colombe e zona mediana con nature morte e elementi architettonici.

Il giardino era circondato da muri su ogni lato, e nella parte meridionale ospitava una fontana ninfeo. Al centro della sala vi erano i letti triclinari in muratura, sui quali prendevano posto gli ospiti al momento del banchetto. I letti erano dipinti con un fregio di stile impressionistico a soggetto idillico-sacrale e paesaggistico-nilotico. 

Davanti al triclinio, spostato su un lato, era il basamento circolare in muratura che avrebbe dovuto ospitare l'Efebo, destinato ad illuminare col suo candelabro acceso i lunghi banchetti serali che si tenevano soprattutto nei periodi caldi.
LA STATUA DELL'EFEBO

L'EFEBO

L'Efebo è modellato sull'originale greco del V secolo a.c., anch'esso in bronzo, uscito dalle botteghe di uno degli artisti che solitamente gravitavano attorno ad un maestro. L'archeologo tedesco Paul Zanker, invece, pensa che la statua sia opera di uno scultore eclettico:
 "che ha usato per il corpo un tipo classico di efebo del periodo intorno al 430 a.c. e lo ha unito a un tipo di testa femminile stilisticamente più antico di una generazione". 
Opinione che ci sembra del tutto legittima. Basti vedere l'Athena Lemnia, appunto del V sec. a.c.

La statua è alta 1,50 metri, come l'Apollo Citaredo e l'Anadumenos, il che lascerebbe pensare che ci fosse un canone fisso tradizionale nel raffigurare un efebo del V secolo a.c.. La gamba sinistra era spezzata quasi all'altezza del ginocchio. Gli occhi erano bronzei e solo le pupille dovevano essere in pasta vitrea e smalto, ma non se ne è trovata traccia.

CONFRONTO CON L'ATHENA DI LEMNO

L'ESEDRA

Nell'esedra adibita a tablino la pavimentazione è in cocciopesto con l'inserto di tessere bianche, mentre le pareti sono tinteggiate in bianco con l'aggiunta di elementi vegetali nella parte inferiore e medaglioni ed elementi architettonici in quella superiore. Le camere e il divano in muratura a tre lati, nel giardino erano completamente decorate in IV stile e in buono stato di conservazione, coperto da un pergolato che si sorreggeva su quattro colonne stuccate

Il divano è decorato con affreschi di scene nilotiche con pigmei: il fiume viene raffigurato nel momento della piena, con l'acqua che circonda i recinti sacri e particolare è una scena erotica sulla parte frontale che si svolge alla presenza di terzi intenti a suonare il flauto o gridare. 

Un tavolo in marmo era posto nel centro del divano e diverse basi in muratura su cui erano posate delle statue. Il pavimento è in cocciopesto con l'inserto di tessere bianche, le quali formano delle croci, e al centro un mosaico policromo raffigurante uccelli e fiori.

Lungo la parete sud è una fontana a forma di tempio con ninfeo come decorazione era posta una statua in bronzo di una figura femminile, Pomona, ritrovata al momento dello scavo su un mucchio di piastrelle, da cui fuorusciva l'acqua che defluiva attraverso una fistula per scomparire nel muro perimetrale e ricomparire nel peristilio della casa confinante, evidentemente dello stesso proprietario. 

Nella parte est del giardino c'è una grande vasca dove sono state ritrovate anfore e vasi in ceramica; al centro un tavolo, una sedia a semicerchio e un altare in terracotta, mentre nel muro perimetrale si trova un ingresso con scala per la casa vicina.

PAVIMENTAZIONE ISTORIATA

IL BAGNO

Sullo stesso lato dell'esedra è un bagno, fornito di un lavabo in bronzo, un foro nella parete a circa un metro e mezzo di altezza che ospitava uno specchio e, nel pavimento, c'era un foro collegato al forno del cortile, segno che in casa era presente l'acqua calda. 

Il bagno ha una zoccolatura nera con scomparti bordati in rosso e parte mediana bianca con disegni di candelabri, ghirlande e uccelli. 



TRICLINIO

Dall'esedra di accede a un piccolo cortile con la zoccolatura in rosso scuro, un locale per la raccolta e il riscaldamento dell'acqua. Si passa poi al triclinio rustico con resti di un focolare e pareti rosse nella parte inferiore e bianche nella superiore. 

Il triclinio presenta un prezioso emblema in intarsio marmoreo (opus sectile) al centro del pavimento, e nel giardino si trova un gran dipinto di Marte e Venere, con un larario addossato al castellum aquæ.

Una scaletta conduceva ad una piccola abitazione connessa, avente un altro ingresso sulla strada di sotto.



L'INGRESSO MEDIANO

L'ingresso mediano era dotato di sedili, mentre il corridoio appare dipinto con zoccolo nero e parte mediana in giallo e rosso con riquadri bianchi. Qui, contenuti in un armadio di cui restano le cerniere, c'erano oggetti da gioco, un martello, vasi in ceramica e bronzo e una moneta.
Di qui si accedeva al secondo atrio, di tipo tuscanico con impluvium, scala al piano superiore e comunicante al primo atrio: le pareti sono intonacate con incastonato un pezzo di vetro decorativo.
Accanto all'impluvium sono stati rinvenuti due gambe di un tavolo in marmo e due recipienti metallici.

Ai lati del corridoio d'ingresso una stanzetta, intonacata in bianco, forse una cucina, visto il ritrovamento di vasi e casseruole e una latrina accanto, e un cubicolo con pitture parietali effetto marmo, con zona inferiore in rosso e giallo e superiore in bianco, entrambi con quadretto centrale in bianco e bordi ornamentali.



OECUS

Accanto al cubicolo c'è un oecus, la stanza da pranzo invernale con pareti decorate in II stile, con zoccolo nero con cornice esterna gialla e interna rossa. Con ingresso sia dall'atrio che dall'oecus c'è un ulteriore ambiente con pareti a zoccolo bianco, arricchito con disegni di piante e elementi architettonici, e zona superiore bianca con quadretto centrale di uccelli, pesci, animali selvatici e ghirlande.

Qui si è rinvenuta una cassa con oggetti in vetro e ceramica decorati, una pentola in bronzo, un coltello e un pettine per la cardatura.

Sul lato dell'atrio di fronte all'ingresso si aprono tre ambienti: 

- quello centrale è un tablino dove si sono rinvenuti vasi di ceramica e vetro, tazze, attrezzatura per il cucito e strumenti in ferro per il giardinaggio, una cassa carbonizzata con quattro statuette in bronzo dorato, ognuna delle quali reca in mano un vassoio, sul quale venivano poggiati dolci, conservate al Museo archeologico nazionale di Napoli.

- Gli ambienti laterali invece sono un cubicolo con soffitto a volta e pareti affrescate con quadretti a scene mitologiche come Eco e Narciso, Apollo e Dafne e l'Afrodite pescatrice, e un ripostiglio, con pareti intonacate in bianco e scaffali contenenti vasi, lampade, resti di gioielli in vetro e una maschera in terracotta.

Queste due camere danno accesso al triclinio, con zoccolatura bianca, figure volanti e piante; nella parete est Elena e Menelao. Il soffitto era decorato a cassettoni con figure e medaglioni, mentre il pavimento è in cocciopesto con al centro e il lato sud in opus sectile, a quadrati e triangoli in marmo colorato e vetro millefiori (ampiamente usato fin dal I sec., molto simile al vetro murrino).

Nel triclinio si sono rinvenuti resti di divani lungo le pareti,  resti di statuette, probabilmente provenienti dal giardino, come: una statua di Pan, di un Capra con un capretto e un bassorilievo con un amorino. 

Esternamente al triclinio, una nicchia per un larario, decorato con l'affresco di due serpenti, quello a sinistra più grande con cresta rossa e barba, mentre l'altro piccolo, e al centro, sotto la nicchia, la raffigurazione di un braciere con sopra delle uova. 

Tra il triclinio e il larario è l'accesso a una dispensa o ripostiglio, nel quale sono stati ritrovati un braciere e un'anfora.



L'INGRESSO INFERIORE

Il terzo ingresso è quello, come abbiamo già premesso, che immette nel giardino. Ha la parete nord intonacata in bianco e quella sud con zoccolo rosa e parte mediana in bianco. 
Intorno all'ingresso si aprono i tre ambienti di servizio: 

- uno con una scala in legno che portava al piano superiore, 
- una cucina con latrina, 
- e uno con pareti bianche e ghirlande, candelabri, piante e animali, dalla funzione sconosciuta.
Dall'ingresso si passa all'ambulacro che divide la zona residenziale della casa dal giardino: le pareti sono bianche con piante nella parte inferiore e candelabri, ghirlande, uccelli e delfini in quella superiore.
Sul fondo, accanto un larario fatto a tempio, si trova un castellum aquae con capacità di tre metri cubi di acqua, collegato alla fontana del giardino, decorato con l'affresco di Marte e Venere.
Il giardino è diviso in due parti da lastre di marmo: la decorazione delle pareti è in una parte in zoccolo rosso con piante e zona mediana con scene di caccia, mentre nelle altre parti è intonacato in bianco.

La casa aveva anche stanze al piano superiore, crollate.




VIA CASSIA

$
0
0
IL PERCORSO DELLA CASSIA
La via Cassia fu un'importante via consolare romana che congiungeva Roma a Florentia (Firenze) poi prolungata sino alla via Aurelia passando per Lucca e Pistoia. Era l'unica delle strade che partono da Roma il cui chilometraggio non iniziava dal Campidoglio ma da Ponte Milvio.

Poichè infatti uscendo dalle Mura Serviane da Porta Fontanalis, per un lungo tratto era comune con la via Flaminia da cui si separava dopo Ponte Milvio, la sua distanza venne presa non dal "miliarum aureum" ma dal suo distacco dalla Flaminia a ponte Milvio. Dalla etrusca via Clodia si separava invece al IX miglio, all'altezza dall'attuale "La Storta".

Non vi è certezza sul curator o console che le diede il nome. Di certo un Cassio, e forse il censore Cassio Longino;del 154 a.c. (Livio, Periochae ab Urbe condita libri, 48.2.), oppure il senatore Cassio Longino, console del 127 a.c., ma è più accreditato il primo.

PONTE MILVIO
Inizialmente venne realizzata fino a Clusium - ad fines Clusinorum (Chiusi), al suo inizio collegando e riunendo vari percorsi etruschi preesistenti come ad esempio la Via Veientana, ma venne in breve prolungata fino a Florentia (Firenze), da cui si aprivano diverse vie per il passaggio dell’Appennino.

Infine venne ulteriormente sistemato il prolungamento che, passando per Lucca, portava a ricongiungersi con l'Aurelia, ma il suo ruolo principale fu di connessione rapida tra Roma e Firenze.

Infatti per strade di interesse militare progettate per trasferimenti a lunga distanza, come la Cassia, i Romani procedevano in linea retta, senza curarsi delle località preesistenti, ricorrendo a "tagliate", per ridurre i dislivelli, nonchè a ponti su corsi d'acqua o su terraferma. Le tecniche romane erano molto più avanzate di quelle etrusche e furono i primi a realizzare i ponti con gli archi in muratura.


Da Roma la Cassia toccava: 
- Veio, 
- Sutri, 
- Forum Cassi (Vetralla) per poi entrare nell'Etruria meridionale (Tuscia), toccando 
- Castrum Viterbii (Viterbo), 
Mons Flascun (Montefiascone negli Annales Stadenses, itinerario dell'abate Alberto di Stade tra il 1230 - 1240)
- Volsini (Bolsena sul lago di Bolsena)
CIPPO MILIARIO DELLA VIA CASSIA
- Nel percorso più antico portava a poi Urbs Vetus (Orvieto, città etrusca di Velzna)
- e di lì a Clusium (Chiusi)
- Nel percorso più recente, invece, portava direttamente da Bolsena a Clusium, 
- poi a Cortona 
- e infine ad Arretium (Arezzo).
- Poi per i rapidi spostamenti di truppe verso la Cispadania venne prolungata fino a Florentia (Firenze), 
- passando per Cortona e Arretium (Arezzo), 
- per Luca (Lucca) 
- Pistoria (Pistoia), 
- valicava il Monte Magno
- raggiungeva Campus Maior (Camaiore) 
- Pietrasanta 
- Taberna Frigida (Massa), castrum romano del IX secolo munito dell'Hospitalium di San Leonardo al Frigido, per accogliere i viandanti che percorrevano la Via Francigena,
- arrivava a Luni dove si congiungeva all'Aurelia. 

La Cassia costituì una via ulteriore alle vie consolari Aurelia o la Flaminia, per le comunicazioni verso nord, essendo intermedia tra via Aurelia che corre lungo la costa tirrenica, e la via Flaminia, che si congiungeva alla via Emilia ad Ariminum (Rimini) e quindi per il nord d'Italia.

TOMBA DI NERONE

LA TOMBA DI NERONE

Già all'inizio della via, verso il X km, nella parte ora all'interno della città, si trova la cosiddetta Tomba di Nerone, che dà anche il nome alla zona, benché il sarcofago sul ciglio della strada, poco prima del km 10, contenga in realtà i resti di Publio Vibio Mariano (funzionario imperiale nativo di Tortona) e di sua moglie Regina Maxima.

Venne detto Tomba di Nerone dopo che papa Pasquale II nel XII secolo ordinò di abbattere la vera tomba di Nerone, il sepolcro dei Domizi, ubicata dove ora sorge Santa Maria del Popolo. Si dice che vedendo dei corvi volteggiare nei pressi del sepolcro ed in base a riscontri cabalistici il Papa avesse dedotto che Nerone si sarebbe reincarnato nell’Anticristo di cui narra Giovanni nell’Apocalisse, decidendo di farlo abbattere.

In realtà il cristianesimo non credeva alla reincarnazione ma avversò qualsiasi ricordo o affezione del passato romano, non a caso venne deposta la presunta urna di Giulio Cesare, la palla che sta al Palazzo dei Conservatori, perchè i pellegrini del Vaticano andavano là ad omaggiare il grande generale di Roma.

Infatti il popolo romano, che ancora amava la figura dell' Imperatore Nerone, forse per i sontuosi spettacoli che aveva sempre offerti al popolo, era solito portare i fiori alla tomba il 9 Luglio, anniversario della morte di Nero. Così il Papa ordinò di distruggere il monumento. La cosa però dispiacque molto al popolo che manifestò contro il capo della Chiesa con molto vigore.

Allora, per placare il malcontento popolare, venne artatamente diffusa la voce che le ceneri fossero state traslate in un mausoleo sulla Cassia, abbastanza lontano per sperare che cessasse la tradizione di portare i fiori sulla tomba al 9 di Luglio. La speranza però restò disillusa, perchè i romani affrontarono il viaggio continuando ad omaggiare l'imperatore, e la cosa si protrasse talmente che ancora oggi la località che ospita il sepolcro si chiama "Tomba di Nerone".

Sotto Traiano le condizioni della strada erano già deteriorate per cui l'imperatore scelse di edificare un tratto ex novo tra Volsinii Novi e Clusium, chiamata Via Traiana Nova, continuando per un tratto in comune con la Via Cassia (che in origine attraversa, senza bypassare, la rupe di Orvieto) ed evitando di attraversare alle Colonnacce, dirute, la valle alluvionale del Fiume Paglia, attraverso un percorso più corto e diretto.

PARCO DI VEIO

LA DECADENZA

Dopo la caduta dell'impero romano d'occidente e le prime invasioni barbariche, l'Etruria venne divisa tra Longobardi e Bizantini e la Cassia rimase come un corridoio serrato tra i possedimenti longobardi, che posero sotto controllo parte del territorio di Vico e Bolsena. Il longobardo Liutprando cedette questa zona alla Chiesa, costituendo il Patrimonio di San Pietro in Tuscia. 

Poco tempo dopo i Franchi subentrarono ai Longobardi, Carlo Magno ampliò ancor di più i possedimenti della Chiesa, e la Cassia divenne la Via Francigena, da cui giungevano i pellegrini dalla Francia (Lotaringia).


BIBLIO

- La via Cassia. Sopravvivenza di un’antica strada con note per un’escursione tra Sutri e Bolsena - Arnod Esch - Roma nel Rinascimento.
- Strade romane, di Romolo A. Staccioli, L’Erma di Bretschneider, 2010.
- L. Quilici, S. Quilici Gigli, Architettura e pianificazione urbana nell'Italia antica - L'Erma di Bretschneider -1997.
- R. Knobloch, - Il sistema stradale di età romana: genesi ed evoluzione.
- Le strade dell'Italia romana, Touring Club Italiano, Milano, 2004.

TEMPIO DELLA GENS FLAVIA

$
0
0
TEMPIO GENS FLAVIA AL CENTRO
Pur non conoscendo esattamente la sua localizzazione, sappiamo che venne costruito da Domiziano (Roma, 24 ottobre 51 - Roma, 18 settembre 96), sul sito della casa di suo padre, Vespasiano (Cittareale, 17 novembre 9 - Cotilia, 23 giugno 79), in cui egli stesso era nato, nel 51 d.c., e consisteva nel mausoleo dove furono sepolti i membri della famiglia imperiale e in un tempio, inseriti in un recinto sacro.



DOMIZIANO

A differenza del fratello Tito e del padre Vespasiano, Domiziano non aveva esperienza militare e mai la ebbe, anche se comandò alcune spedizioni militari contro i germani e contro i daci, che non riportarono grossi successi. 

Pare che durante l’anno dei quattro imperatori si trovasse a Roma insieme allo zio Sabino, quando Vitellio, venuto a sapere dell’acclamazione di Vespasiano, cercò di catturarli.

I due Flavi aveva cercato rifugio sul Campidoglio, nel tempio di Giove Ottimo Massimo; i soldati di Vespasiano appiccarono un incendio e il tempio venne distrutto, e Sabino perse la vita. Domiziano invece, diciottenne (era nato il 24 ottobre del 51), trovò riparo in casa di un custode e scampò travestito da sacerdote di Iside:
«Durante la guerra contro Vitellio, si rifugiò sul Campidoglio con lo zio paterno Sabino e con una parte delle truppe presenti, ma, quando gli avversari fecero irruzione e il tempio andò in fiamme, egli si nascose e passò la notte in casa di un custode. La mattina seguente, travestito da sacerdote di Iside e intrufolato tra gli addetti ai riti di varie religioni, con un solo compagno si rifugiò al di là del Tevere presso la madre di un condiscepolo; e lì si tenne così ben nascosto che non potè essere scovato da coloro che lo cercavano seguendo le sue tracce. Uscì allo scoperto soltanto dopo la vittoria e, acclamato Cesare, assunse la carica di pretore urbano con potestà consolare, ma solo nominalmente: perché lasciò il potere effettivo al primo dei suoi colleghi
(Svetonio, Domiziano, 1)

DOMIZIANO
«Indiceva continuamente spettacoli splendidi e costosi, non solo nell’anfiteatro, ma anche nel circo, dove, oltre alle tradizionali corse di bighe e quadrighe, organizzò anche un doppio combattimento, di cavalieri e di fanti. Nell’anfiteatro diede un combattimento navale, e cacce e lotte di gladiatori anche di notte, alla luce delle fiaccole, e non solo combattimenti fra uomini, ma anche fra donne. Inoltre presenziava sempre agli spettacoli offerti dai questori che, dopo un periodo di sospensione, aveva ripristinati
(Svetonio, Domiziano, 4)

«Non acconsentì che gli venissero erette statue in Campidoglio, se non d’oro e d’argento e di un determinato peso. Fece costruire nei vari quartieri della città tante e tali volte ed archi sormontati da quadrighe e insegne trionfali, che su uno di essi si trovò scritto in greco: Basta!»
(Svetonio, Domiziano, 13)

Insomma Domiziano, al contrario di suo padre e suo fratello, due grandi imperatori, grandi generali e grandi personaggi, non valeva un granché e i romani lo capirono ben presto, e i senatori ancora prima, e altrettanto l'esercito. Insomma non piaceva a nessuno, e e era consapevole.

L'unico suo vanto poteva essere il discendere da cotanto padre ed avere un così amato fratello che fu addirittura chiamato "Delizia dell'umanità". Pertanto, onde darsi un tono, Domiziano credette bene di erigere un tempio alla Gens Flavia, affinchè il popolo si rammentasse da chi proveniva.

PROBABILE POSIZIONE DEL TEMPIO (IN ROSSO) RISPETTO ALLE TERME DI DIOCLEZIANO
Il tempio è costruito sul Quirinale, compare nella lista dei monumenti del Regio VI Alta Semita delle Regionali di Roma 1. Si trova in o vicino alla villa in cui nacque Domiziano, residenza di suo padre Vespasiano, e quella di Tito Flavio Sabino, zio di Domiziano e fratello maggiore di Vespasiano. 

Questo sito corrisponde durante l'antichità al luogo chiamato Ad Malum Punicum, occupato oggi dall'attraversamento di Via XX Settembre e Via delle Quattro Fontane.

Il monumento evidenzia il culto della dinastia, visto che Domiziano ha divinizzato suo fratello Tito, sua figlia Giulia Flavia e il suo stesso figlio neonato, creando un sacrario e un mausoleo insieme. Inoltre il tempio di Domiziano è costruito a Roma, entro i confini del Pomerio, che poteva essere fatto solo con l'autorizzazione speciale del Senato.

Così come la casa di Augusto sorse sopra al tempio del Lupercale, il tempio dei Flavi si sacralizza con i due imperatori passati. Negli scritti di Marziale Stazio si allude al fatto che le ceneri di Vespasiano, di Giulia Flavia e di Domiziano furono depositate nel mausoleo, evidentemente insieme alle ceneri di Tito e altri membri della famiglia imperiale come Flavia Domitilla, madre di Domiziano.

CASERMA DEI CORAZZIERI- IPOTESI DI TEMPIO GENTE FLAVIA
Poco si sa sul piano e le dimensioni del tempio. Tuttavia, un'allusione negli Epigrammi di Martial e la scoperta di resti di un antiquario nel XVI secolo suggeriscono che il tempio è composto da una rotonda a cupola costruita al centro di un recinto quasi quadrato. Essendo il tempio costruito in un'area densamente popolata, doveva essere di dimensioni modeste, più piccolo del mausoleo di Augusto, costruito in una zona lontana dalla città.

Sul retro di un sesterzio del 95 o 96, datato al XVII consolato di Domiziano, potrebbe esserci una rappresentazione del tempio. Esso sembra racchiuso in due recinti successivi, il primo con una porta centrale sormontato da un frontone e incorniciato da tre nicchie alternativamente rettangolari e semi-circolari su ciascun lato, e il secondo, più grande, con un'apertura centrale a volta e due aperture laterale sormontato da frontoni triangolari.

All'interno del tempio, il soffitto della cupola è decorato con una rappresentazione del regno celeste, simbolo dell'eternità di Roma. La colossale testa di Tito conservata oggi al Museo Archeologico Nazionale di Napoli e frammenti di sculture e rilievi chiamati "Don Hartwig" in marmo Pentelico, scoperti nel 1900 durante la costruzione dei portici di Piazza della Repubblica, sono molto probabilmente parte della decorazione del tempio. Su uno dei frammenti del rilievo è rappresentato il frontone del tempio di Quirino.

TITO

SUL QUIRINALE

Lavori di adattamento per la mensa della caserma dei corazzieri sul Quirinale hanno portato alla scoperta di un gruppo di monumenti di notevole interesse.
Si tratta di un breve settore in cappellaccio delle mura serviane, all'interno delle quali si osserva un tratto di un grande podio in opera cementizia.

All'esterno delle mura il terreno digradava a terrazze: i primi due ripiani erano occupati da un grande ambiente, liberato solo in parte, evidentemente un ninfeo (come mostra un canale di adduzione dell'acqua), una parete del quale era decorata da un grandioso mosaico figurato, con decorazione di quarto stile iniziale (età di Vespasiano).

La scoperta, avvenuta nelle immediate vicinanze, sull'altro lato di via XX Settembre, di una fistula acquaria con il nome di Tito Flavio Sabino, rende probabile l'identificazione dell'edificio con la casa del fratello di Vespasiano, che sappiamo esser stata sul Quirinale.
In tal caso, il grande podio potrebbe essere il tempio della Gens Flavia, eretto accanto alla casa da Domiziano.

"La sua nutrice Phyllis gli rese gli ultimi onori nella sua villa sulla strada Latina; poi portò di nascosto i suoi resti nel tempio dei Flavi e li mescolò con le ceneri di Julie, figlia di Tito, che aveva anche allevato".
(Svetonio - Vita dei 12 Cesari)



SOTTO LE TERME DI DIOCLEZIANO

TESTA COLOSSALE DI TITO
Tuttavia un'ipotesi più recente ipotesi, secondo la quale la casa di Vespasiano era prossima, ma non identica a quella del fratello, identifica il tempio con resti rinvenuti sotto le terme di Diocleziano (tra l'aula ottagona, un tempo utilizzata come planetario, e la chiesa di San Bernardo), eliminati in occasione della costruzione del complesso, ad eccezione dell'edificio centrale, rimasto in vista nel recinto delle stesse terme.
(Eugenio La Rocca, Il Templum Gentis Flaviae, in Coarelli 2009, pp. 224-233..

L'ipotesi è stata formulata in seguito alla scoperta dei resti: Daniela Candilio, Roma. Indagini archeologiche nell'aula ottagona delle Terme di Diocleziano).

In effetti i resti permettono di ipotizzare un esteso recinto porticato sui quattro lati, con esedre alternativamente circolari e rettangolari sporgenti dal muro di fondo. Al centro un amplio podio che doveva sorreggere un edificio di forma oggi sconosciuta.

Dalla decorazione del complesso provengono una testa colossale di Tito oggi al Museo archeologico nazionale di Napoli, rinvenuta nelle vicinanze, e i frammenti di rilievi del cosiddetto "dono Hartwig", rinvenuti durante la costruzione dei portici dell'attuale piazza della Repubblica (che ripetono la pianta della grande esedra delle terme di Diocleziano).

PARTE DEL "DONO HARTWIG''

1994 - MUSEO NAZIONALE ROMANO: RIAPRE PALAZZO MASSIMO CON ''DONO HARTWIG'' (2)

(AdnKronos) - 
Hartwig donò i nove pezzi acquistati, appena si rese conto della loro importanza, al Museo Nazionale Romano (inaugurato qualche decennio prima all'interno delle Terme di Diocleziano) curandone anche un primo, esemplare, catalogo. Kelsey portò invece i reperti in America che andarono poi ad arricchire il museo a lui intitolato nel Michigan.

Soltanto recentemente e' stato scoperto che i reperti da oggi in mostra -nel primo piano di Palazzo Massimo- facevano parte di un medesimo complesso, identificabile con il Templum Gentis Flaviae, noto attraverso le citazioni degli autori antichi e costruito dall'Imperatore Domiziano come tempio e mausoleo di famiglia.

Il Templum Gentis Flaviae si trovava presso l'attuale Chiesa di Santa Susanna.
Tutto questo in una sola aula museale.


PARTE DEL "DONO HARTWIG''
E tutti i reperti delle altre collezioni? Entro il 1994 -lo hanno più volte assicurato il Ministro Ronchey ed il Soprintendente archeologico di Roma, Adriano La Regina- l'intero Museo (il più importante museo archeologico greco-romano del mondo) dovrebbe essere finalmente interamente aperto nelle tre nuove o rinnovate sedi:

- Museo della Fondazione, nelle Terme di Diocleziano (e' invece già stabilmente aperto l'attiguo Ex Planetario, piccolo 'museo dei capolavori');
- Palazzo Massimo;
- Palazzo Altemps (Largo Zanardelli-Piazza Navona) destinatario della Collezione Ludovisi, per decenni conservata, imballata, nella vecchia sede delle Terme.

(Pal/Zn/Adnkronos)



CARAUSIO - CARAUSIUS (Usurpatori)

$
0
0


Nome: Marcus Aurelius Maus (aeus?) Carausius
Nascita: ?
Morte: 293
Professione: Generale romano e ammiraglio.


Marco Aurelio Mauseo Carausio (latino: Marcus Aurelius Maus(aeus (?) Carausius; ... – 293), della tribù dei Menapii, è stato un militare romano, originario della Gallia Belgica, che nel 286 usurpò il potere, proclamandosi imperatore della Britannia e della Gallia settentrionale. Mantenne il potere per sette anni, per essere poi assassinato dal suo tesoriere, Alletto che gli succedette e che regnò dal 293 al 296.

Carausio, essendosi distinto in battaglia, aveva infatti ottenuto da Cesare Massimiano, co-imperatore di Augusto Diocleziano, l'incarico di provvedere alla sicurezza del mare presso Bononia, infestata da Franci e Saxones.

Carausio, secondo la Historia Augusta, era di umili origini, figlio del mercenario Menapo (oppure della tribù dei Menapi popolo della Gallia Belgica). Massimiano, dopo averlo nominato capo della flotta, divenendo comandante della classis britannica, che pattugliava la Manica, lo incaricò di pattugliare e ripulire i mari dalla minaccia dei pirati Franchi e Sassoni, che devastavano la costa dell'Armorica (odierna Bretagna e territori tra la Senna e la Loira) e quella della Gallia Belgica, e quegli assolse il suo compito con grande efficienza, soprattutto durante la campagna militare condotta dall'imperatore contro i Bagaudi nel 286.



L'USURPATORE

Sembra poi che, insuperbitosi dai numerosi successi, abbia cominciato ad agire e a comandare per conto proprio. Secondo altri Massimiano, sospettando che Carausio fosse sceso a patti coi nemici, ordinò la sua eliminazione. Avendo saputo ciò, nel 286 - 287, Carausio si autoproclamò imperatore della Britannia e della Gallia settentrionale.

Massimiano emise allora la sua condanna a morte (secondo alcune fonti tentò di farlo assassinare ma senza successo), e per reazione Carausio occupò la Britannia (286), evento a cui si riferiscono le sue monete colla leggenda: Expectate vent e colla rappresentazione del genio della Britannia (Cohen, 54 segg.).
ISCRIZIONE DI CARAUSIUS
Carausio convinse le tre legioni in stanza nell'isola a dichiararlo imperatore; inoltre sembrava disporre dell'alleanza dei Franchi del re Gennobaude, il quale gli fornì innumerevoli mercenari con i quali iniziò a compiere scorrerie nella Gallia per costringere i Romani a combattere su più fronti.

Carausio assunse allora i nomi di Imperator, Caesar ed Augustus, che gli furono riconosciuti da Diocleziano e Massimino, dopo che nel 289 ebbe sconfitto i militari inviatigli a destituirlo. Allora probabilmente assunse i nomi di Af. Aurelius Valerius. 

Nelle sue monete i tipi sono ripetuti da quelle di imperatori precedenti, come: 
- Carausius et fratres sui, nelle quali accanto a lni si vedono Massimino e Diocleziano (Cohen 7 p. 43), 
- Moneta Auggg. (Cohen 177), 
- Laetitia Auggg. (Cohen, 129), 
- conservatori Augg. (Cohen, 49), 
- Comes Auggg. (Cohen, 27), 
- Hilaritas Augusti. (Cohen, 104), 
- Pax Auggg. (Riv. ital. di numism. 1892 p. 32. 

Carausio, sperando in un riconoscimento dei coimperatori, cominciò a battere moneta a Londra, a Rouen e a Colchester, fregiandosi dei titoli di "Restitutor Britanniae" ("Restauratore della Britannia") e di "Genius Britanniae" ("Spirito della Britannia"), forse per accattivarsi il popolo di Roma. All'epoca le monete erano il mezzo più valido di propaganda presso la popolazione.
Inoltre, fece costruire una flotta forte e numerosa con la quale invase la Gallia del Nord, proprio mentre Massimiano, pressato dalla situazione, si dichiarò Augusto.
Però nel 288 o nel 289, Massimiano preparò un'invasione della Britannia, che tuttavia fallì, forse anche in seguito all'invasione dei Franchi Sali del loro re Gennobaude, che impegnò l'esercito romano lungo il fronte renano con diverse battaglie, per le quali il coimperatore ottenne il titolo di Germanicus maximus insieme a Diocleziano.

Sembra che Carausio non abbia mai coperto la carica di console, benchè in una moneta (Cohen, 51) si legga cos. III (cioè III consolato). II suo dominio durò diversi anni, assicurando la pace nei mari del Nord. 



LA RIVOLTA DI CARAUSIO


I Soldati Romani

Almeno otto legioni, tre di queste impiegate nella battaglia finale; tra i 40.000 e i 50.000 soldati.


I Soldati Britanni

Almeno tre legioni secessioniste, molti mercenari Franchi e indipendentisti britanni: 15.000 Romani, almeno 10.000 Franchi (forse 30.000 - 40.000, ma impegnati solo fino al 293)



MASSIMIANO

Massimiano chiamò allora in aiuto Diocleziano, con il quale concordò una strategia contro Carausio. Massimiano iniziò la guerra contro le tribù renane alleate di Carausio, prima contro i Burgundi e gli Alemanni, che vinse. Si racconta di un'azione contro alcuni barbari che avevano passato il Reno: Massimiano, toltasi la tunica e indossata la corazza, mosse contro i barbari e li sconfisse in un luogo imprecisato, celebrando poi il trionfo. Successivamente sconfisse i Burgundi e gli Alemanni in una terribile terra bruciata, o forse si trattò di scaramucce, che però ebbero l'effetto sperato.

Poi sconfisse gli Eruli, e nel il 287-288, Massimiano e Diocleziano invasero la Germania, l'uno dirigendosi verso la regione degli Agri Decumates e l'altro verso la Rezia, vincendo entrambi. Rimanevano solo i Franchi, con cui però il prefetto del pretorio, Flavio Costanzo, stilò un trattato di pace. Nel 289 venne organizzata una spedizione contro Carausio, ma l'attacco fallì, probabilmente per una tempesta.



COSTANZO CLORO

Il fallimento della spedizione scoraggiò Massimino, il quale strinse un accordo di pace con Carausio, che Diocleziano, però non accettò, comprendendo che due imperatori non erano sufficienti a tenere unito l'Impero. Decise quindi di far nominare due Cesari: Massimiano scelse Costanzo e Diocleziano scelse Galerio.

Costanzo Cloro conquistò la Gallia settentrionale nel 293, attaccato poi dai Franchi che ugualmente vinse ricevendo il titolo di Germanicus Maximus. 



ALLECTUS

Fu allora che Carausio venne ucciso dal suo prefetto dei pretoriani, Allectus, non per riportare l'ordine ma per prenderne il posto (Entrop. 9, 2. Inc. paneg. Constantio, 12, 21. Aur. Vict. Caes. 39, 20. 21. Jordan, Rom. 297 etc.).

Il suo regno durò tre anni, dopodichè Allecto venne sconfitto e ucciso per strangolamento da un uomo di Costanzo Cloro, Giulio Asclepiodoto. Secondo la Historia Regum Britanniae di Goffredo di Monmouth, Allecto sarebbe stato un duca di Cornovaglia nemico dell'usurpatore Alletto, che opprimeva la Britannia.



ASCLEPIODOTO

Sconfitto e ucciso Alletto nei pressi di Londra, Asclepiodoto fece massacrare con l'inganno dai suoi alleati le restanti truppe di Alletto, che si erano rifugiate in città. Le loro teste mozzate furono gettate nel fiume Galobroc. Dopodichè Asclepiodoto venne incoronato re e governò per dieci anni in modo giusto. 
Per reazione però alle persecuzioni ordinate contro i cristiani dall'imperatore Diocleziano, Coel Hen, duca di Colchester, mosse guerra contro Asclepiodoto e lo uccise, prelevandone la corona,, ma si rivelò un incapace.
Così nel 296 Costanzo diede inizio all'invasione. Al comando vi era il prefetto del pretorio, Giulio Asclepiodoto, che sconfisse e uccise in battaglia Alletto nel corso della Battaglia di Londinium del 296. Poco dopo Costanzo Cloro entrò a Londra, accolto come un liberatore.
Con la morte di Carausio e di Alletto la Britannia tornò sotto il dominio Romano, e la tetrarchia proseguì come forma di governo fino alla morte di Diocleziano e all'ascesa al trono di Costantino I.


BIBLIO

- Panegirici latini VIII, 12;
- Aurelio - Vittore, Libro dei Cesari XXXIX, 40;
- Eutropio - Breviario IX, 22;
- Orosio - Historia adversus paganos libri VII, 25,6
- Pius Felix Invictus Augustus - Herder 2003
- Goffredo di Monmouth, Historia Regum Britanniae V, 3-4
Schiller, Gesch. der Rom. Kaiserz. 2 p. 127 segg

VASIO JULIA VOCONTIORUM - VAISON-LA-ROMAINE (Francia)

$
0
0
VILLA DEL PAVONE
Quando Cesare giunse in Gallia, Roma già da un cinquantennio aveva ridotto a provincia la Gallia Narbonese, corrispondente all’odierna Francia del Sud, e i primi interventi del futuro dictator, nel 58 a.c., furono proprio a protezione dei domini romani: solo in un secondo tempo egli si diede alla conquista della restante parte del territorio gallico.

E tanto fu alto, nei secoli, il livello di romanizzazione di quell’area che anche oggi il suo nome lo documenta: la Provence, infatti, è il modello perfetto della provincia romana.

Vasio Julia Vicontiorum, è stata a volte indicata come “La Pompei di Francia” ed è un comune della regione Provenza-Alpi-Costa Azzurra nella Francia sud-orientale, che in effetti ha molte meravigliose rovine romane.

La città di Vaison-La-Romaine è l'antica Vasio Julia Vocontiorum, situata lungo il fiume Ovidio (oggi Ouvèze) nel dipartimento di Vaucluse, in Francia, e deve il suo nome al suo fortunato passato romano, e i due siti archeologici che mostrano la città antica sono quello della Villasse e quello del Puymin.

VILLA DEL BUSTO DARGENTO
Si registra un insediamento di oppidum gallico già nel IV secolo a.c. della tribù dei Vocontii, sconfitti durante le campagne del proconsole in Gallia Marco Fulvio Flacco nel 125 a.c. che per questo ottenne il trionfo, e il proconsole Gaio Sisto Calvino nel 123 a.c.

Alla fine delle campagne nel 118 a.c. il territorio dei Vocontii passò sotto il controllo dei romani ma, come a molte tribù della regione, ai Vocontii fu concessa una certa autonomia, infatti riuscirono a mantenere il loro centro religioso a Luc-en-Diois, anche perchè i romani rispettavano tutte le altrui religioni purchè rispettassero la religione romana.

I Vocontii si ribellarono a Marco Fonteius governatore della Gallia Transalpina negli anni '70 a.c., per la cattiva gestione della provincia di cui venne poi fu accusato, ma dal 60 a.c. si acquietarono e divennero anzi alleati di Roma.

PERISTILIO DELLA VILLA DEL BUSTO D'ARGENTO
I Vocontii sono menzionati solo brevemente da Cesare nelle sue guerre galliche, e sia Pompeo che Cesare conferirono la cittadinanza ad alcuni dei principali cittadini delle tribù, e Pompeo conferì loro lo status di civitas foederata.
Dalla metà alla fine del I secolo a.c., la città prosperò e si ampliò ma con architetture galliche piuttosto semplici e povere. L'archeologia moderna (opera di Christian Goudineau) suggerisce che gli aristocratici vocontiani si spostarono dall'oppidum e fondarono ville lungo il fiume, attorno alle quali la città gallo-romana si sviluppò.

PONTE ROMANO SUL FIUME OUVEZE
Si ebbe invece un grande cambiamento quando salì al potere Cesare Augusto, perchè, obbedendo ai voleri dell'imperatore, la città venne praticamente ricostruita secondo la griglia romana.
Vasio diventò una delle città più ricche della provincia romana Gallia Narbonensis, con molti pavimenti a mosaico geometrico e un piccolo teatro, probabilmente costruito durante il regno di Tiberio, poiché la sua statua fu trovata in un posto di rilievo sul suo sito.

Pomponio Mela menziona Vasio Vocontiorum come una delle città più ricche della Gallia Narbonense.

Alla metà del I secolo d.c.. Vasio Vocontiorum sembra essere stata saccheggiata nelle invasioni della fine del III secolo d.c., ma non fu abbandonata, anzi, al contrario di molte altre città della Gallia Narbonensis, venne ricostruita proprio in seguito agli attacchi alla città, anche perchè divenne la sede dei nuovi occupanti fino almeno al VI secolo d.c.

Successivamente, tuttavia, la maggior parte della popolazione sembra essersi spostata nella posizione della città medievale sulla collina sul lato sud del fiume Ouvèze, sebbene la città romana non sia stata completamente abbandonata. 

CARDO CON LE BOTTEGHE

GLI SCAVI

L'antico sito è noto dal XV secolo grazie a molte scoperte soprattutto fortuite. L'esplorazione archeologica del territorio di Vasio iniziò dal 1821, ma solo nel 1893 iniziarono scavi sistematici. Fu però Prosper Mérimée, allora ispettore dei monumenti storici, a stanziare i fondi per gli scavi durante il XIX secolo per gli scavi del sito.

Si reperì così la statua di Diadumèno (colui che si cinge la fronte, per aver ottenuto la vittoria), replica dell'opera di Policlèto, acquisita tuttavia dal British Museum.

DIADUMENO
Il canonico e archeologo Joseph Sautel, grandissimo appassionato di arte romana, trascorse il suo tempo a scavare nella città dal 1907 fino alla sua morte nel 1955.

Iniziata la sua tesi di dottorato egli iniziò a cercare, a sue spese, Vaison dal 1907, riportando alla luce i resti di una città romana in una città che aveva solo pochissime rovine visibili.

L'entità delle scoperte gli permise di beneficiare di sussidi pubblici dal 1913, mentre il municipio di Vaison acquistava terreni e organizzava la protezione dei resti.

Venne creato un museo e Sautel ne venne nominato curatore nel 1921, uno dei primi musei del sito anche se modesto.

Le ricerche, condotte negli anni '70 da Christian Goudineau, sono descritte in un supplemento alla rivista Gallia.

Nel 2011 le operazioni diagnostiche archeologiche hanno rivelato parti del forum e dell'anfiteatro.

La scoperta di vasti resti romani qui reperiti all'inizio del XX secolo, forse il sito più ampiamente scavato in Francia, dette alla città il soprannome di "La Romain" (la romana).

Degli edifici pubblici sono conosciuti e riportati in luce fino ad oggi:

- un grande teatro, parzialmente ricavato entro una collina; 
- i resti di diversi impianti termali; 
- parti di due vasti porticati rettangolari con cortile interno e vasca; 
- una basilica;
- un ninfeo.

I numerosi frammenti architettonici che sono stati trovati conglobati nelle fondamenta della cattedrale fanno probabilmente tutti parte di un edificio pubblico di maggiori dimensioni non ancora identificato. Dato che di solito si cancellavano i templi pagani costruendovi sopra templi cristiani dedicati a qualche santo che sostituisse la divinità, non è improbabile che si tratti di un tempio pagano.



Durante gli scavi più recenti oltre ai resti di alcune case di piccole dimensioni sono stati riportati in luce i resti di tre case di abitazione signorili, grandi e riccamente arredate, con atrio, peristilio e ambienti termali privati (Ville dei Messii, del busto d'argento e del delfino). 

Il ponte sull'Ovidius, tuttora in uso, era traversato da un ponte in pietra ad una sola luce di m 17,20, che congiungeva la città con la sponda sinistra del fiume. Al di sopra di questo ponte entro tubi di piombo veniva portata alla città anche l'acqua attraverso un acquedotto lungo 9 km proveniente da sorgenti ai piedi del Monte Ventoux.

Sono state reperite inoltre molte iscrizioni circa i culti, l'amministrazione e l'artigianato, a parte numerosi busti di imperatori (Tiberio, Adriano, Sabina), un fregio tardoantico raffigurante le gesta di Ercole, altari, rilievi votivi e funerari, degli oscilla e una quantità di utensili della vita di ogni giorno.

VESTIBOLO DELLA VILLA DEL BUSTO D'ARGENTO
Nella visita al sito si incontra dapprima il grande cardo pavimentato ai cui lati si aprivano le numerose botteghe e in fondo alla strada, a sud, si trova un edificio del I secolo d.c., parzialmente scavato, che originariamente era identificato come una basilica. Ulteriori esplorazioni al di fuori dei confini del parco archeologico hanno rivelato le caratteristiche di un complesso balneare di cui questo edificio è ora identificato come parte.

Negli scavi sono emerse due grandi ville nel quartiere della Villasse, la Villa del busto d'argento e la Villa del delfino. Sono emerse anche anche porzioni più piccole di altre due case, la Villa degli animali selvatici e la Villa dell'Atrio. 

La più grande di queste case, la Villa del busto d'argento, si trova immediatamente a ovest della strada che attraversa il quartiere commerciale e copre circa 5.000 metri quadrati. L'esatta natura della casa non è chiara; originariamente si pensava che fosse una residenza, ma recenti interpretazioni hanno suggerito che potrebbe essere stata una sorta di luogo di incontro per dei "collegia". 

Inoltre, potrebbe essere una combinazione di una casa privata con uno spazio pubblico che venne affittato a gruppi. La parte settentrionale della struttura, che fu costruita nel I secolo d.c. e distrutta da un incendio nel III secolo d.c., sembra avere stanze che potrebbero essere state dedicate alle pratiche di culto imperiale, quindi di uso non domestico. 

LATRINA DELLE TERME
Il significativo complesso balneare a nord del portico giardino/palazzo sembra essere stato anche un complesso termale pubblico costruito intorno al 10-20 d.c., ma poi incorporato nella Villa del busto d'argento verso la fine del I secolo d.c. L'omonimo busto d'argento che dà il nome alla casa è esposto nel museo del sito nel parco Puymin.

A sud della Villa del busto d'argento si trova la piccola sezione di resti della Villa degli animali selvaggi. Sono state scavate solo alcune stanze di questa casa, ma tra queste vi sono alcuni mosaici abbastanza ben conservati che possono essere visitati, oltre a un po' di pittura murale rimasta. Direttamente a ovest di queste poche stanze ci sono altre stanze della Villa dell'atrio, di cui non c'è però nulla di degno di nota.

L'altra grande proprietà nell'area archeologica di Vasio Juilia è la Villa del delfino. E' un po più piccola della Villa del busto d'argento, ma tuttavia molto estesa. Questa casa ha una pianta più tradizionale rispetto all'altra dimora, con il nucleo della casa disposto attorno a un atrio. Vi è un ampio giardino nella parte meridionale della residenza con una fontana che conserva ancora intatto il rivestimento. Nella parte settentrionale della casa si trova una piccola zona termale.


Nel quartiere del Puymin vi sono altre lussuose domus, con pavimenti a mosaici ed eleganti elementi d’arredo (come quella “dell’Apollo laureato” e “del pavone”), ma pure giardini pubblici, un ninfeo, e un teatro, non grande come quello di Orange e pesantemente restaurato, ma pur sempre suggestivo. Così come suggestivo è il ponte d’epoca romana sul fiume Ouvèze, il più grande e meglio conservato della provincia Narbonensis.

Di ottima qualità le statue di imperatori conservate oggi nel locale Museo archeologico, tra le quali Claudio, Domiziano, e un “eroico” Adriano con la moglie Sabina; per non dimenticare la splendida testa di Apollo laureato e il piccolo busto virile d’argento, che danno il nome alle rispettive domus.

Notevoli pure due straordinarie maschere teatrali che fungevano da antefisse di monumenti funerari di lusso, e in generale alcuni oggetti di uso quotidiano legati alla cultura materiale di manifattura assai fine. Non ci stupiamo dunque che questa città potesse vantare il numero di ben 10.000 abitanti e che, come sembrano oggi assicurare gli ultimi studi, potesse essere la città natale di Tacito.

RICOSTRUZIONE DEL TEATRO (https://jeanclaudegolvin.com/en/)

IL TEATRO

L'antico teatro è oggi protetto come monumento storico dal 1862. La sua costruzione risale probabilmente al I secolo d.c., sotto il regno dell'imperatore Claudio; la sua decorazione è stata arricchita all'inizio del secolo successivo.

In conformità alle regole dall'autore latino Vitruvio nel suo trattato di architettura, il teatro fu scavato sul fianco settentrionale della collina Puymin che offriva una massa rocciosa e un pendio adatto a tale installazione.

Restaurato nel III secolo, il teatro fu probabilmente utilizzato fino all'inizio del IV secolo. Gli storici sostengono che fu distrutto all'inizio del secolo successivo, al tempo del decreto di Onorio (nel 407) che ordinò in tutte le province di rovesciare, rompere o seppellire le statue di divinità pagane.

RICOSTRUZIONE DEL TEATRO (https://jeanclaudegolvin.com/en/)
È forse in questo contesto che le effigi degli imperatori e altre divinità che adornavano la parete del palcoscenico venivano gettate nelle parti più profonde del teatro, e fu una fortuna, perchè spesso le antiche statue vennero calcinate per farne della calce.

Purtroppo vennero utilizzate perfino le grandi fondamenta del monumento, come sarcofagi o come materiali da costruzione. L'opera di distruzione e oblio era così completa che all'inizio del Rinascimento erano rimasti solo due archi sul monumento, che furono citati in varie occasioni da studiosi e viaggiatori. Dobbiamo arrivare al diciannovesimo secolo affinchè il monumento susciti un nuovo interesse.

Le sue dimensioni e struttura consentivano di ospitare fino a 7000 spettatori, distribuiti secondo una rigida gerarchia. I 32 gradini erano raggruppati in piani separati da un muro e probabilmente da un corridoio di circolazione ed erano sormontati da un portico.

IL TEATRO OGGI
Erano accessibili dalle scale dall'orchestra e dai vomitoires. Della parte riservata agli attori rimangono visibili i resti del muro del palcoscenico e le dodici cavità per il meccanismo del sipario. Sul retro, dei magazzini ospitavano i macchinari utilizzati per la trasformazione dello scenario e degli effetti scenici attraverso i portelli nel pavimento. 

Le basi del muro del palcoscenico, tagliato nella roccia, danno una leggera idea dell'arredamento monumentale, con tre porte da cui gli artisti entravano sul palco: per convenzione, gli attori che entravano dal cortile laterale (a destra) provenivano dal forum e quelli che entravano dalla sinistra (giardino) proveniva dalla campagna o dall'esterno della città.

Attualmente il teatro è oggetto di una vasta campagna di restauro sia per proteggere i resti antichi sia per adattare il sito ad un uso contemporaneo. .

LUCUS PISAURENSIS

$
0
0
A. LAZZARINI - MOMENTI DI CULTO NEL LUCUS PISAURENSIS

IL LUCUS SACRO

Almeno in area mediterranea ed europea, ma non solo, il primo luogo sacro fu il bosco, in latino lucus, plurale luci. Il bosco è misterioso, pieno di vita, ma anche di pericoli, lì la natura, che un tempo riempiva quasi tutta l'area di boschi, si esprimeva col suo lato accogliente per le bacche, le erbe e la legna per il fuoco e le capanne, ma anche col suo lato oscuro per le belve, il perdere la strada, i temporali e quella penombra dove il sole penetra con difficoltà.

Il lucus era come gli Dei della natura, benevolo ma a volte ostile o indifferente, dunque si doveva rendergli omaggio per ingraziarseli. Così gli si offrivano cibo, erbe odorose, preghiere, canti e danze. Le sacerdotesse furono le prime a contattare il mondo magico del bosco, e la loro religione fu un misto di scienza e magia, perchè dal bosco trassero le erbe da mangiare ma anche quelle medicamentose, nonchè i segni per i vaticini.

Presso i Romani un lucus era un bosco consacrato alla divinità, dove si offrivano sacrifici e doni per favorirne l'intervento o ringraziare per il beneficio ricevuto. Nel tempo i materiali votivi già usati ma comunque sacri venivano raccolti in depositi o fosse per lasciare posto ai nuovi. Il Lucus doveva essere connesso a lux (luce), forse la radura nel bosco dove arrivava la luce del sole e si celebravano gli atti di culto. 



LE LEGGI DEL LUCUS

Le origini dei boschi sacri si perdono nella preistoria e nell'Italia antica e venivano tutelati da leggi, come la lex luci Lucerina (dall'iscrizione rinvenuta a Lucera in Puglia) e la lex luci Spoletina (riportata su due cippi rinvenuti nel territorio di Spoleto). 

STATUETTA DI BRONZO LIBERO
Nel mondo romano l'istituzione dei boschi sacri, dimore delle divinità e quindi patrimonio collettivo  rientrava nella pianificazione del territorio. Frontino (I sec. d.c.) testimonia che essi erano parte dell'ager publicus e pertanto ricadevano nell'amministrazione dello Stato. 

Con l'avvento del Cristianesimo i boschi sacri furono lentamente abbandonati o più spesso distrutti. Ovvero vennero prima distrutti, ma come per i templi demoliti la gente attaccata alla vecchia fede vi si recava per pregare, finchè l'imperatore ormai cristiano non proibì la sosta nei luoghi pagani con pene severissime, fino alla pena di morte.

Solo nelle campagne permase il culto dei lucus e delle antiche pratiche pagane, per cui a volte gli stessi luoghi vennero adibiti a culti cristiani, vedi la Verna, il luogo sacro di S. Francesco dove c'era l'antico culto pagano della Dea Laverna, protettrice dei rifugiati, degli anfratti e dei nascondigli, tipici di questo territorio montano; e il culto pagano del Dio della montagna Pen, da cui deriva il nome del monte Penna, presso il quale sorge il santuario della Verna. 

Il bosco sacro era detto anche Nemus, e si pensa che l'antico tempio di Diana a Nemi avesse il suo bosco sacro che ha dato il nome al paese, mentre col nome lucus si intese un bosco che aveva una parte sacra, in genere recintata, detta Incus.

Quella separazione segnò la separazione di un'idea. Mentre nei primordi la natura era tutta sacra, poi divenne in parte sacra e in parte profana. Col cristianesimo perse ogni sacralità essendo ritenuta una materia senza vita da utilizzare a piacimento.

Un tempo i romani chiedevano al Genius loci, o al Nume del bosco il permesso di cacciare o tagliare legna, col cristianesimo tutto era stato fatto da dio per l'uomo, che poteva distruggere la natura come poteva, perchè era solo profana. Un tempo i boschi erano abitati da Numi, genii, Ninfe a Satiri, ora la natura è vuota e disanimata.



IL SITO DEL LUCUS PISAURENSIS

Annibale degli Abbati Olivieri Giordani nel pubblicare i Marmora Pisaurensia (1737) annunciò di avere appena scoperto a circa un miglio da Pesaro il complesso votivo di un antichissimo luogo di culto che identificò in un bosco sacro: il lucus Pisaurensis.

EX VOTO DEL LUCUS
Consapevole dell'importanza della scoperta e pressato dai tempi di pubblicazione dell'opera, l'Olivieri preferì limitarsi a una brevissima sintesi dei ritrovamenti.

Aveva infatti deciso di lasciare il materiale intatto per uno specifico trattato, il "De luco sacro veterum Pisaurensium", tanto più che aveva "luogo a sperare" che, proseguendo gli scavi, il numero dei reperti sarebbe aumentato "a larga mano".

Purtroppo il De luco è rimasto all'inizio della fase preparatoria e i dati che se ne possono trarre sono scarsi e ricalcano spesso quelli esposti nella prefazione dei Marmora. 

Quanto al materiale si apprende che consisteva in "tredici iscrizioni in lingua e carattere antico e confinante con l'Etrusco, quantità di donari e voti di metallo e terra cotta, statuette grandi di terra cotta, monete di offerte dai tempi più antichi fino ai secoli Romani¹".

I reperti permisero di identificare il sito con un lucus, ossia un bosco sacro romano. Negli scavi settecenteschi furono riportati alla luce monete, terracotte votive e bronzetti. Di particolare importanza sono quattordici cippi votivi in arenaria, con l'iscrizione del nome della divinità a cui il cippo è dedicato, e talvolta anche il nome del dedicante. I cippi sono stati datati alla fine del III sec. a.c., ovvero qualche decennio prima della fondazione della colonia romana nel 184 a.c.

La precisa localizzazione del sito era stata dimenticata dopo la scoperta, ma recentemente è stato nuovamente identificato con il declivio nord-orientale del "Colle della Salute" nei pressi del quartiere di Santa Veneranda. I reperti del bosco sacro (lacus Pisaurensis) rappresentano un patrimonio storico che molto possono aiutare per la ricostruzione della vicenda di Pesaro antica.

Contemporaneamente suscita un ampio dibattito tra storici, archeologi e linguisti, che se ben condotto può dar luogo a una interdisciplina indispensabile per procedere della conoscenza di quel luogo e di ogni luogo archeologico. 

Le radici della cultualità rintracciate nel lucus collocato a ridosso di Pisaurum nascono in ambito preromano e forse pre-coloniale, quando ormai i Romani sono si presenti nella zona, ma con tracce ancora esigue e indistinguibili. 

EX VOTO

IL COMPLESSO VOTIVO

Il complesso votivo attribuito al lucus Pisaurensis, conservato nel  museo, è costituito da are (comunemente denominate cippi), monete, terrecotte e bronzetti.


I CIPPI 

I cippi sono 14, in pietra arenaria e tutti epigrafici (CIL XI 6290 - 6303). Uno di essi reca, per frattura, solamente il nome mutilo della dedicante e il verbum donandi. 

Gli altri 13 portano dediche ad Apollo di Novensides, Diana, Feronia, Fides, Iuno, Iuno Loucina, Luno Regina, Liber, Marica, Mater Matuta, Salus. Essi costituiscono una delle più importanti testimonianze di età medio-repubblicana a noi pervenute. 

I più recenti studi, propendono per la datazione alta, da riferirsi ad un conciliabulum di coloni viritani formatosi alla foce del fiume Foglia (Pisaurus) precedente alla fondazione della colonia romana di Pisaurum (184 a.c.). Ma ciò sarebbe contraddetto dalle iscrizioni sui cippi del lucus derivanti necessariamente dalla romanizzazione, che col suo apporto legislativo e razionale definiva i confini dei luoghi sacri come di quelli profani, consci che leggi precise evitavano dissidi e conflitti.


MONETE

L'Olivieri scrisse delle monete nel De luco, ma né in questa sede né altrove fornì indicazioni sufficienti per individuarle oggi tra le 12.526 monete conservate ai Musei Oliveriani.

EX VOTO
Nè sono noti dati o cataloghi di altra mano, che consentano di rimediare alla situazione creatasi nel corso dei secoli. Le notizie più particolareggiate sono comunque quelle fornite dall'Olivieri, dal quale si apprende che le monete erano oltre 4.000 (delle quali una solo d'argento) e "involte...tra carboni intorno all'are"


BRONZETTI

Purtroppo dalla "quantità di donari e voti di metallo" (De luco) ovvero "maximam votorum donariorumque... ex metallo capiam" (Marmora) di cui scrisse l'Olivieri, attualmente è possibile individuare con certezza solamente il bronzetto di cui lo studioso fornisce uno schizzo con la notizia del ritrovamento: "in luco sacro a. 1783 ara quadrata.." 


LIIBRO 

Riferisce l'Olivieri che vicino a questa ara tra carboni e monete fu scoperto questo idoletto di bronzo con le gambe rotte, la cui figura però spiega il LIBRO che è "LIBERO". Per tradizione vengono attribuite al lucus altre due statuette ed una maschera femminile di bronzo di piccole dimensioni.


TERRACOTTE

Tra le oltre 150 terracotte votive rinvenute nel lucus Pisaurensis si trovano numerose teste e mezzeteste isolate e tutte velate, sia maschili, che femminili e variamente acconciate, e una infantile (in realtà si troveranno diverse statuine di bimbi in fasce), ed ancora più numerosi ex voto anatomici (maschere, braccia, mani, gambe, piedi, mammelle, organi genitali maschili e femminili).

Sono inoltre presenti statue di piccole e grandi dimensioni (figure femminili e maschili, bambini in fasce) nonché animali domestici, zampe di animali, pesi da telaio ed un manufatto tronco-conico iscritto interpretato recentemente come terminus isoscelis. 



I L CULTO ANTICO DIVENTA ROMANO

DEA EX VOTO
Il culto nel lucus va valutato in base ai dati archeologici, epigrafici, linguistici e letterari e in particolare occorre tener presente un passo di Giulio Ossequente, come avevano già indicato Braccesi e Peruzzi, dove si cita il suddetto lucus. 

La possibilità che il culto d'epoca romana si innesti su luoghi e tradizioni precedenti è usuale nello stile romano, visti anche i numerosi casi analoghi contemplati a Gubbio, Spello, Assisi, a Bettona, a Urvinum Hortense e a Fanum Fortunae. 

La religione romana tendeva a integrare le altre religioni, non peccava di assolutismo come nelle religioni monoteiste, portatrici di guerre di religione, assolutamente sconosciute prima.



I CIPPI

TERMINI O ARE?

La scoperta del lucus è legata alla figura dello studioso pesarese Annibale degli Abbati Olivieri Giordani, autore dei Marmora Pisaurensia, nella cui prefazione annunciò di avere individuato a circa un miglio da Pesaro  un antico luogo di culto. Dunque tra il 1734 e il 1737 l'Olivieri scopre il lucus, ne comprende immediatamente l'importanza e raccoglie materiale che, purtroppo, non riuscirà mai a pubblicare, per colpa dell'ignoranza e della trascuratezza dei potenti. 

TERMINUS ISOSCELIS
Resta solo un prezioso manoscritto dell'autore (De luco sacro veterum Pisaurensium, Biblioteca Oliveriana, ms. 474, fasc. 6), unica fonte per affrontare i numerosi problemi che riguardano il bosco sacro. Il primo dei problemi è quello topografico e purtroppo Olivieri ne dà scarse indicazioni.

Sappiamo solo che il rinvenimento avvenne in un campo lontano un miglio da Pesaro, vicino alla Chiesa e Borgo di S. Veneranda, sotto alla Collina di Calibano, di proprietà da tempo immemore della famiglia Calibano. Maria Teresa Di Luca ha analizzato tutte le notizie molto attentamente. 

Purtroppo l'indicazione della proprietà di famiglia non restringe l'area, vista l'estensione delle proprietà degli Abbati, degli Olivieri, e dei Giordani, che confluiscono nel patrimonio dello studioso settecentesco. 

L'area che la studiosa pensa di aver individuato a seguito dei suoi studi, è quella che si trova sulle pendici nord-orientali del colle che unisce Santa Veneranda a San Pietro in Calibano, nei pressi della chiesetta di S. Gaetano. 

M. Teresa Di Luca non concorda con l'ipotesi di Peruzzi che colloca il lucus sul versante sud-orientale del colle, in zona Fonte Magnano, sulla base dell'interpretazione di un manufatto tronco-conico come terminus isoscelis (termine isoscele), dato che non si conosce il luogo di rinvenimento del terminus stesso. 

La proposta di Peruzzi riguardava il riconoscimento del manufatto come un "terminus isoscelis",  cioè un cippo di confine a forma di trapezio isoscele, mentre altre interpretazioni vi avevano identificato un segno di devozione, o un basamento a sé stante o relativo a una statua perduta. 

Il cippo è in terracotta, con la superficie percorsa da solchi obliqui, e incise lettere disposte obliquamente. Vi si riconoscono un delta maiuscolo, le parole 'luci coeref, e altre lettere (Cl e LX), forse indicazioni numerali. 

Peruzzi basa la sua ricostruzione sui Gromatici (p. 325 L.) e sull'osservazione delle caratteristiche fisiche dei luoghi, riconoscendovi la situazione descritta nel testo tecnico latino: l'altura è la chiesa di S. Gaetano presso S. Veneranda e, in relazione ad essa, il flumen inferius di cui si legge nei Gromatici è il Genica (S2) e l'aqua viva corrisponderebbe a Fonte Magnano. 
EX VOTO ALLA MATER MATUTA

In questo manufatto Peruzzi trova che le parole 'luci coerei' di grande importanza, perché coereus  sarebbe un aggettivo sabino, che indica l'appartenenza del lucus a Giunone sabina, confortato da una testimonianza letteraria, che identifica Giunone con Curis: 'curiales mensae, in immolabatur lunoni, quae Curis appellata est' (Paul.-Fest., p. 56, 21-22 Linds.). 

Ciò che l'Olivieri rinvenne nel lucus è detto nel manoscritto De luco sacro (c. 5 r.): 'tredici iscrizioni in lingua e carattere antico e confinante con l'Etrusco, quantità di donarii e voti di metallo e terra cotta, statue grandi di terra cotta, monete di offerte dai tempi più antichi fino ai secoli Romani'. 

Nel 1783, si rinvennero ancora una base (CIL 12 XI, 6303), un bronzetto e altre monete. Il materiale si può vedere esposto nel Museo Oliveriano, ma non c'è certezza sulla provenienza dei reperti votivi minori: potrebbero esservene di pertinenti ad altre zone. 

Tra i reperti si riconoscono, spesso di mediocre fattura, in quanto ottenute a stampo, come di solito avviene per tutti gli oggetti votivi dell'epoca, teste e mezze teste, sia maschili che femminili, parti del corpo umano, dal torso alla mano, dagli organi genitali ai piedi, e zampe di animali, statuette di bovini, ma anche figure maschili e femminili stanti, bambini in fasce, e figure femminili in trono. 
Queste ultime farebbero pensare a Dee Madri tipo Mater Matuta.

I quattordici cippi sono in pietra arenaria, materiale di zona, alti circa un metro, con forma piramidale, eccettuato un cippo parallelepipedo (CIL 12 377=CIL XI, 6299), con un'iscrizione ciascuno. 

Tredici menzionano anche la divinità cui ci si rivolge. Una base è sprovvista della parte superiore, per cui l'iscrizione si riduce al gentilizio e al verbum donandi / Nomeci[a] / dede' (CIL 12 380=ClL XI, 6302). In realtà non sarebbero cippi ma altari, che fungevano come appoggio su cui i fedeli ponevano l'oggetto dedicato alla divinità, il cui nome è iscritto sulla base. 



LA DATAZIONE

La datazione delle are è controversa e va dalla fine del IV alla metà del Il secolo a.c. Margherita Guarducci, sulla base di confronti con i cippi del santuario di Tor Tignosa, vicino a Lavinio, propone la datazione più alta, tra la fine del IV e i primi decenni del III sec. a.c. 

ZAMPA DI BOVINO - EX VOTO
Theodor Mommsen data le are alla guerra annibalica, se non prima, e, anche in relazione a ciò, oltre che alla presenza delle coloniae di Sena Gallica (283 a.c.) e di Ariminum (268 a. ipotizza l'esistenza di un conciliabulum in prossimità della foce del Foglia (SS2,3). 

Filippo Coarelli propende per una cronologia alta. Susini propone un arco di tempo che va dalla fine del III secolo a.c. agli anni successivi alla deduzione della colonia di Pisaurum (184 a.c.), riprendendo l'ipotesi del conciliabulam, della presenza di coloni successiva alla Lex Flaminia e distinguendo due tipi di incisione, l'una con un solco a sezione curva (detta 'a cordone'), l'altra, presente sulle iscrizioni che riportano il nome del dedicante, a sezione triangolare. 

Cosi le basi con i nomi delle matronae vengono collocate anche agli anni successivi alla deduzione coloniaria. Cresci Marrone e Mennella collocano le iscrizioni con la menzione alla divinità alla fine del III sec. a.c, le altre alla I metà del Il sec. a.c.,  vengono considerate posteriori quelle che menzionano le matronae.

Le monete ritrovate dall'Olivieri in sito, non possono aiutarci nella datazione perchè confuse tra le oltre dodicimila monete conservate nel Museo Oliveriano. 
Per Olivieri  le monete rinvenute 'tra carboni intorno all'are' , furono circa quattromila: "Tra tante monete dissotterrate che a più migliaia ascesero una sola di Traiano ne ho saputa rinvenire, ed una sola di Crispina di Commodo, segno evidente che poco più dagli uomini era il Luco frequentato

La di lui eversione però non la pongo che dopo i tempi di Costanzo. Una di lui medaglia ivi scoperta mi fa credere che sussistesse ancora a di lui tempo" (De Luco, c. 14 r). 

Assai interessante è la correlazione cronologica indicata da Braccesi tra l'affievolirsi del culto nel lucus e la svolta d'età augustea, allorquando Pisaurum si lascia repentinamente alle spalle la tradizione dei prodigi infausti: l'ipotesi è che il lucus servisse a togliere la contaminazione antichissima dell'aurum Gallicum.

SENI EXVOTO
L'analisi linguistica condotta sui testi induce Peruzzi a riconoscere nel latino delle iscrizioni un latino né rozzo né arcaico, ma un latino diverso da quello di Roma e proprio della classe dominante a Pisaurum, 'per cultura e per censo se non anche per numero', che presenta una facies prettamente sabina. 

Per la cronologia Peruzzi non crede la dedica a Liber anteriore al senato-consulto del 186 a.c., (CIL 12, 581) che vieta si i riti orgiastici e le associazioni per organizzare baccanali, ma non il culto di Liber. 

Peruzzi ascrive, inoltre, a un periodo di tempo più circoscritto tutte le arae, anche in ragione della rapida scomparsa della lingua che esse testimoniano; riguardo alle differenze nell'incisione, al di là delle diverse officine, Peruzzi accetta un'anteriorità delle basi con i soli nomi delle divinità, visto che esse sono gli appoggi per i doni che i fedeli offrono alla divinità e si trovano nel lucus fino dalla sua istituzione, che Peruzzi vuole coeva alla deduzione coloniaria. 
Di poco posteriori sarebbero le restanti iscrizioni, che si sono aggiunte al gruppo originario. Tra esse Peruzzi individua 'un preciso caposaldo di cronologia assoluta'; si tratta dell'iscrizione CIL 12 378 (=CIL XI, 6300) che riporta:
'lunone Re[ginaJ / matrona / pisaurese / dono dedrot'
"L'ordo matronarum di Pisaurum celebra un sacram publicum per Giunone Regina". L'ordo matronaram nella già dedotta colonia di Pisaurum,  espiano un prodigio nefasto avvenuto nel territorio o nella città stessa. 

L'evento prodigioso potrebbe essere stato semplicemente la guerra annibalica, o la presenza di Asdrubale nella zona. Oppure si può ricercare il prodigium tra gli eventi innaturali e inquietanti riportati dalla tradizione per Pisaurum. 

AREA DEI RINVENIMENTI
DEL LUCUS PISAURENSIS
Scrive Braccesi: 'il misterioso lucus è frequentato luogo di culto fin dai primi anni di vita della colonia, quando già la tradizione, per il 163 a.c., registra il primo sconcertante prodigio avvenuto in Pesaro'. Si tratta del prodigio del sole notturno descritto da Giulio Ossequente (Prod., ad a. 657 Rossbach, p. 168). 

In effetti, considerando aspetti cultuali e presenze femminili, Braccesi aveva potuto sottolineare la connessione del lucus con cerimonie espiatorie (piacula); la presenza del culto di Apollo, comunque divinità dalla connotazione purificatrice e l'atmosfera di religiosità femminile sono elementi che si ritrovano congiunti nella grandiosa cerimonia espiatoria indetta in Roma nel 207 a.c. per scongiurare terrificanti prodigi alla vigilia della battaglia del Metauro (Liv., 27 , 37, 7-15). 

Un'altra iscrizione posteriore alla fondazione della colonia, che parla di matronae, ma ci informa di un atto di culto privato, sebbene di signore abbienti e appartenenti all'élite locale, è CIL 12 379 (=CIL XI, 6301); il testo riporta: 
'Alatre / Matuta / dono dedro / matrona / Caria // Pola Livia / deda'. 

Numerosi problemi sono sorti in relazione all'interpretazione della parola deda alla linea 7, Mommsen vede in deda una forma verbale (un perfetto di tipo umbro), ma la De Bellis lo esclude perchè il verbum donandi è in effetti già espresso nel testo, ed esclude che si tratti del nome di una terza matrona, come aveva proposto il Meister ai primi del Novecento; deda, in latino dida, significa mammella è un sostantivo plurale femminile, che possiamo tradurre, sulla scorta di Peruzzi, con 'nutrici', appartenenti alle rispettive gentes e perciò prive di nomen. Mania Curia e poi la Livia sono matronae importanti, legate da una comune appartenenza all'élite di Pisaurum. Matronae che rappresentano due importanti famiglie come quelle dei Curii e dei Livii.

Dalle indagini e dai reperti storici, si deduce che il santuario era dedicato a Divinità Salutifere, con particolare riferimento al culto delle acque. Presso gli abitanti della zona rimane infatti il ricordo delle Fontanine, dove ci si recava a prendere acqua perché particolarmente buona. Esse si trovavano ai piedi della chiesetta di san Gaetano, e sono state prosciugate nel 1963.



Viewing all 2264 articles
Browse latest View live