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GENS CAECILIA

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GENS CAECILIA

I PLEBEI

Fu una gens di origine plebea; e per ciò che riguarda il nome di Titus Caecilius in Livio (iv. 7, comp. 6), il tribuno consolare patrizio, nel 444 a.c., è un'errata lettura di T. Cloelius. I membri di questa gens sono menzionati nella storia già nel V sec. a.c., ma il primo dei Cecilii che ottenne il consolato fu Lucius Caecilius Metellus Denter, nel 284.



LA MITICA DISCENDENZA

Come altre famose famiglie romane nella tarda repubblica, essi si fabbricarono antenati famosi e mitici, pretendendo discendere da Caeculus, il fondatore di Praeneste, che si diceva essere il figlio di Vulcano e nato da una scintilla.

L'ALBERO GENEALOGICO DEI CAECILII (INGRANDIBILE)
Una storia simile a quella che venne riferita a Servio Tullio. Come lui infatti era esposto da neonato e quindi condannato a morire, ma venne salvato dal padre divino e allevato da alcune fanciulle. Crebbe dunque tra i pastori e divenne un viaggiatore. Diventato adulto, invitò gli abitanti della campagna a costruire con lui una nuova città, convincendoli con l'aiuto di un miracolo.

In un'altra versione i Cecilii si dissero discendenti da Caecas, il compagno di Enea, venuto con lui in suolo italico dopo la distruzione di Troia. (Festus, s. v. Caeculus.} 
La famiglia dei Metelli divenne a quest'epoca una delle più importanti e gloriose famiglie romane. 



I COGNOMINA

I cognomi usati da questa gens durante la repubblica furono:
Bassus (Basso), Denter (Dentato), Metellus (Metello), Niger (Negro), Pinna (Pinna) e Rupus (Rupo). Di questi più famosi furono i Metelli.



I PRAENOMINA

Invece i praenomina usati durante la Repubblica furono:
Lucio, Quinto, Gaio e Marco. Tito appare solo verso la fine della Repubblica ma non sembra sia stato utilizzato dalla grande casa dei Caecilii Metelli.

A partire dal consolato di Lucio Caecilio Metello Dentato, la famiglia dei Metelli divenne una delle gentes più famose a Roma. Nell'ultima metà del II secolo a.c., questa gens ottenne un gran numero di cariche pubbliche negli uffici più alti dello stato.

Quinto Metello, che era console nel 143 a.c., ebbe quattro figli, che vennero ammessi al consolato in successione; E suo fratello, Lucio Metello, che era console nel 142 a.c., aveva due figli, ugualmente elevati alla dignità di console.

I Metelli sono stati distinti come una famiglia per il loro sostegno incrollabile al partito degli ottimati (patrizi). L'etimologia del loro nome è abbastanza incerta. Festus lo connette, probabilmente dalla semplice somiglianza del suono, con i mercenari. La storia della famiglia è molto difficile da tracciare, e in molte parti desunta con varie congetture.

CASA CECILIO GIOCONDO POMPEI
I MEMBRI DELLA GENS CECILIA


CECILII PINNA

- Caecilius Pinna -
Cecilio Pinna, uno dei comandanti romani durante la guerra sociale, si dice abbia sconfitto i Marsi in diverse battaglie, insieme a Lucio Licinio Murena. Poiché non è menzionato in altri registri, potrebbe essere che il suo nome proprio fosse Caecilio Pio, dal momento che Quinto Caecilio Metellus Pio ha giocato una parte distinta in questa guerra. 



CECILII NIGRI

- Quintus Caecilius Niger -
Quinto Cecilio Negro, un siciliano e questore di Gaio Verres (120 - 43 a.c.) durante la sua amministrazione di Sicilia. Verres era un magistrato romano, famigerato per la sua estorsione sugli agricoltori locali e il saccheggio di templi che portarono Cicerone a delle accuse così devastanti che il suo difensore avrebbe potuto raccomandare solo che Verres dovesse lasciare il paese. I discorsi di procura di Cicero sono stati poi pubblicati come  "Verrine".
Cecilio Nigro contendeva con Cicero per l'accusa di Verres, fingendo di essere nemico del suo ex maestro, ma in realtà voleva togliere ai siciliani la difesa di Cicerone. L'orazione di Cicero Divinatio in Caecilium è stata consegnata contro questo Caecilio quando i giudici dovevano decidere quale dovrebbe essere dato l'accusa.
La Divinazione di Cicero in Caecilium è l'orazione di Cicerone contro Quinto Cecilio nel processo di selezione di un procuratore per Gaius Verres (70 a.c). Cicerone affermò che egli stesso, piuttosto che Q. Caecilius, sarebbe il migliore procuratore di Verres. È l'unico testo sopravvissuto di un genere retorico.
Il sostenitore di Verres, nei confronti del quale l'oratore scelto deve piegare le proprie capacità retoriche, era Quintus Hortensius Hortalus, alleato degli ottimisti e principale oratore della giornata.



CECILII RUFI

Lucius Caecilius Rufus -
Lucio Cornelio Rufo, fratellastro di Publius Cornelius Sulla (un politico della tarda Repubblica Romana e nipote di Lucio Cornelio Silla), fu tribuno della plebe nel 63 a.c. e propose che sia Sulla che Publius Autronius Paetus (politico della tarda Repubblica Romana che era coinvolto nella cospirazione di Catilina), eletti dei consoli nel 66 a.c., ma condannati per corruzione e condannati, dovessero ancora rimanere in carica.
Tuttavia, Sulla lo convinse a ritirare la proposta. Rufus era un sostenitore di Cicerone e del partito aristocratico e si opponeva alla riforma agraria. Fu pretore a 57 anni, e propose il richiamo di Cicerone dall'esilio, causando l'ira di Publius Clodius Pulcher (ucciso da Tito Annius Milo, difeso poi da Cicerone nel Pro Milone).

- Gaius Caecilius Rufus -
Gaio Cecilio Rufo, console del 17 a.c. 



CECILII BASSI

- Quintus Caecilius Bassus -
Quinto Cecilio Basso, militare equestre di stanza in Siria, presso Tiro, militante sotto sotto Giulio Cesare. Promosse una rivolta contro Cesare nell'estate del 46 a.c. Dopo aver eliminato il legittimo governatore della provincia, Sesto Giulio Cesare ( cugino di Giulio Cesare), e assegnatosi la carica di pretore, si sostituì a quest'ultimo istituendo un dominio personale dalla città di Apamea, divenendo partigiano di Gneo Pompeo (106 - 48 a.c.).



CECILII DENTATI

- Lucius Caecilius Denter -
Lucio Cecilio Dentato, pretore nel 182 a.c., riceve la Sicilia per la sua provincia. 

- Marcus Caecilius Denter -
Marco Cecilio Dentato, uno degli ambasciatori inviati a Perseo nel 173 a.c., per ispezionare gli affari della Macedonia e ad Alessandria per rinnovare l'amicizia con Tolomeo.

METELLUS VICTORIATUS (194-190 a.c.)

CECILII METELLI

- Gaius Caecilius (Metellus) -
Gaio Caecilio (Metello), nonno del console del 251 a.c. e forse il padre di Lucius Caecilius Metellus Denter.

- Lucio Cecilio Metello Denter -
Lucio Cecilio Metello Denter. console nel 284 e pretore nel 283 a.c., ucciso in battaglia contro i Senones.

- Lucius_Caecilius_Metellus -
Lucio Cecilio Metello (morto nel 221 a.c.) console nel 251 e 247 a.c., durante la I guerra punica, e poi Pontifex Maximus.

Lucius_Caecilius_Metellus -
Lucio Cecilio Metello, tribunus plebis nel 213 a.c., precedentemente degradato dai censori per aver proposto l'abbandono dell'Italia e di stabilire una nuova colonia dopo la battaglia di Canne .

Quinto Caecilio Metello -
Quintus Caecilius Metellus (circa 250 a.c. - 175 a.c.) console nel 206 a.c., durante la II guerra punica. Era figlio di Lucio Cecilio Metello. Fu Pontefice nel 216 a.c., edile dei Plebei nel 209 a.c. e 208 a.c., Console nel 206 a.c., Dittatore nel 205 a.c. e Ambasciatore presso la Corte di Filippo V di Macedone nel 185 a.c.

- Marcus Caecilius Metellus -
Marco Cecilio Metello, figlio di Lucio Cecilio Metello, deportato dopo la sconfitta di Canne, prima di Annibale, nel 216 a.c., per aver cospirato con altri ufficiali per trasferirsi insieme alle loro truppe in altro posto, ma il loro comandante, Lucio Emilio Paullo, lo impedì Alla fine Metello fu riabilitato e ricondotto a Roma, dove fu eletto Questore nel 214 a.c. e Tribuno dei Plebei nel 213 a.c., poi Edile dei Plebei nel 209 a.c., pretore urbano nel 206 a.c. Nel 205 a.c. fu inviato come Ambasciatore presso la Corte di Attalo I Soter.

- Quintus Caecilius Metellus -
Quinto Cecilio Metello, soprannominato Macedonicus, trionfò su Andrisco (ultimo re di Macedonia) e divenne console nel 143 e censurò nel 131 a.c..

Lucio Caecilio  Metello -
Lucius Caecilius Metellus, soprannominato Calvus , console nel 142 a.c.. statista romano. Fu pretore, poi Console e governatore di Hispania nel 142 a.c., dove combatté, senza successo, contro Viriathus, poi divenne Proconsole della Gallia Cisalpina nel 141 a.c. e nel 140 a.c.-139 a.c. un legato. Nel 140 a.c.-139 a.c. Calvus partecipò ad un'ambasciata in alcuni stati orientali.

Quintus Caecilius Metellus -
Quinto Cecilio Metello, statista romano, figlio maggiore di Quinto Cecilio Metello Macedonico, console in 123 e censura nel 120 a.c., conquistò le Isole Baleari, ricevendo il cognome Balearico e fondò diverse città.

- Lucius Caecilius Metellus -
Lucio Cecilio Metello, soprannominato Dalmaticus, figlio di Lucio Cecilio Metello Calvus . Fu console nel 119 a.c., quindi Pontificio Massimo. Combatté Saturnino, contribuendo così al ritorno a Roma, nel 99 a.c., di suo fratello Quinto Cecilio Metello Numidico console in 119 e censura nel 115 a.c., trionfò sui Dalmati, e successivamente diventò Pontifex Maximus.

Lucius Caecilius Metellus -
Lucio Cecilio Metello soprannominato Diadematus, console nel 117 a.c.. secondo figlio del politico e generale Quinto Caecilius Metellus Macedonicus. Durante il suo consolato sostenne lo sviluppo delle strade in Italia e costruì la Via Caecilia. Un anno dopo fu Proconsole della Gallia Cisalpina. Nel 115 a.c. fu eletto Censore e durante la sua censura con Gneo Domizio Ahenobarbus espulse 32 senatori dal Senato. Era un avversario di Lucio Appuleio Saturnino e quando Saturno nel 100 a.c. cercò di opporsi al Senato con la forza, insieme ad altri senatori andarono ad arrestarlo.

Marcus Caecilius Metellus -
Marco Cecilio Metello, console nel 115 a.c., uno dei quattro figli di Quinto Cecilio Metello Macedonico. Fu monetario nel 127 a.c., pretore nel 118 a.c., console nel 115 a.c. e dal 114 a.c. al Proconsole di Corsica e Sardegna dove trionfò sui sardi.

Gaius Caecilius Metellus -
Gaio Cecilio Metello, soprannominato Caprarius, console in 113 e censura del 102 a.c., servì sotto lo Scipione Emiliano a Numantia verso il 133 a.c. e trionfò sui Traci.

CASA CECILIO GIOCONDO
- Caecilia  Metella -
sposata a Gaius Servilius Vatia .

- Caecilia Metella -
sposata a Publius Cornelius Scipio Nasica Serapio.

Quintus Caecilius Metellus -
Quinto Cecilio Metello, soprannominato Numidico, console in 109 e censura nel 102 a. c, trionfò su Jugurtha, aspro oppositore politico di Gaio Mario. Espulso dal senato e esiliato da Lucio Appuleio Saturnino, e non ricordato per vent'anni.

Caecilia Metella -
Cecilia metella, figlia di Calvus, moglie di Lucius Licinius Lucullus e madre del giovane Lucullus, il conquistatore di Mithradates. Invece di interpretare il ruolo di una donna sposata virtuosa, Calva si impegnò in una serie di affari scandalosi, principalmente con schiavi, che alla fine portarono al divorzio.

Quintus Caecilius Metellus -
Quinto Cecilio Metello, soprannominato Nepos, console nel 98 a.c.. Combatté nella penisola iberica contro i Celtiberiani e i Vaccaei, subendo da questi una sconfitta memorabile.

Caecilia Metella -
figlia di Quinto Cecilio Metello Balearico, console nel 123 a.c., madre di Clodius Pulcher, sposata ad Appius Claudio Pulcher. Una delle matrone più apprezzate di Roma.

Caecilia Metella -
Cecilia Metella, figlia del Dalmaticus, sposò prima Marcus Aemilius Scaurus e poi Lucius Cornelius Sulla, il dittatore.

Quintus Caecilius Metellus -
Quinto Cecilio Metello, suo padre Metello Numidico fu bandito da Roma a causa di Gaio Mario e dei Popolari. Per i suoi costanti e incessanti tentativi di far richiamare ufficialmente suo padre dall'esilio, ricevette l'agnomen (soprannome) Pio, uno dei generali più riusciti di Sulla, console dell'80 a.c. e poi Pontifex Maximus.

Quinto Caecilio Metellus -
Quinto Cecilio Metello pretore nel 71 a.c. Succedette a Caio Verres come governatore della Sicilia nel 70 a.c.; console nel 69 a.c., fu soprannominato Cretico perchè trionfò sui Cretesi.

- Lucius Caecilius Metellus -
Lucio Cecilio metello, pretore nel 71 a.c. Succedette a Caio Verres come governatore della Sicilia nel 70 a.c.;  console nel 68 a.c., è morto all'inizio del suo anno di carica.

Marcus Caecilius Metellus -
Marco Cecilio Metello pretore nel 69 a.c., presiedette il quaestio de repetundis, un tribunale permanente di sentenze senatoriali (giurati-giudici) per indagare e decidere casi di estorsione. Verres, che fu perseguito da Cicerone, aveva sperato di rinviare il processo fino a quando Cecilio Metello presiedeva il tribunale.

- Quintus Caecilius Metellus Creticus -
Quinto Cecilio Metello Cretico, forse quaestore circa 60 a.c. con Gaius Trebonius.

Quintus Caecilius Metellus -
Quinto Cecilio Metello, soprannominato Celer, console nel 60 a.c., morì improvvisamente nel 59 a.c. secondo alcuni avvelenato da sua moglie, notoriamente dissoluta, ritenuta l'amante incestuosa di suo fratello Clodio, di Celio, probabilmente del grande poeta Catullo (molti studiosi lo identificano come soggetto della sua Lesbia) e molti altri.
- Quintus Caecilius_Metellus_Nepos_Iunior -
Quinto Cecilio Metello Nepote il giovane, console nel 57 a.c.

- Quinto Caecilio Metellus -
Quinto Cecilio Metellio, un eques, diventò ricco come usuraio, e morì nel 57 a.c, lasciando la sua fortuna al nipote Titus Pomponius Atticus.

- Quintus Caecilius Metellus Pius Scipio Nasica -
figlio di Publius_Cornelius_Scipio_Nasica_Serapio_(console nel 111 a.c.), adottato da Quinto Caecilio Metellus Pio; Consul Ex Kal. Sesta. Nel 52 a.c. fu partigiano di Pompeo.

- Lucius Caecilius Metellus -
tribunus plebis nel 49 a.c, si oppose al tentativo di Cesare di prendere possesso dell'erario.

- Marcus Caecilius Metellus -
menzionato da Cicerone nel 60 a.c.

- Quintus Caecilius Metellus Creticus -
console nel 7 d.c..

- Sextus Caecilius Jucundus Metellus -
figlio del banchiere pompeiano Cecilius Iucundus (I sec. d.c.).

LUCIUS CAECILIUS JUCUNDUS

CAECILII VARI

Gaia Caecilia -
personificazione in parte leggendaria della matrona romana, spesso identificata con Tanaquil, la moglie di Tarquinius Prisco, il quinto re di Roma.

- Quintus Caecilius -
tribunus plebis nel 439 a.c.

- Caecilius Statius -
Cecilio Stazio, poeta comico e commediografo romano del II secolo a.c. (Mediolanum 230 a.c. – 168 a.c.).

Quinto Caecilio -
Quintus_Caecilius, (cavaliere), ucciso dal cognato, Catilina, al tempo di Sulla.

Tito Cecilio -
Titus Caecilius, primus pilus nell'esercito di Lucio Afrani, ucciso alla battaglia di Ilerda nel 49 a.c.

Cecilia -
Caecilia, moglie del giovane Publius_Cornelius_Lentulus_Spinther (nata il 74 a.c.) che divorzò da lei nel 45 a.c.

Cecilia Attica -
Caecilia Attica, figlia di Titus Pomponius Atticus, sposò Marcus Vipsanius Agrippa.

- Quintus Caecilius Epirota -
grammatico di Titus Pomponius Atticus.

- Titus Caecilius Eutychides -
liberato di Titus Pomponius Atticus, poi adottato da Quintus Caecilius.

- Caecilius Calactinus -
un retorico greco ebreo a Roma nel tempo di Augusto.

- Caecilius Cornutus -
 un uomo di rango pretoriano nel regno di Tiberius Tiberio, accusato ingiustamente in connessione con un complotto contro l'Imperatore, pose fine alla propria vita.

- Caecilius Bion -
scrittore sulle proprietà delle piante medicinali, usata da Gaius Plinius.

- Lucius Caecilius Jucundus -
banchiere di Pompei durante il I sec. d.c., di cui si è rinvenuta la domus.

- Quintus Caecilius -
figlio del banchiere pompeiano.

Caecilio Rufino -
cacciato dal senato da Domiziano perché ballava.

Caecilius Simplex -
nominato console suffectus Ex Kal. Nov. dall'imperatore Vitellius.

- Caecilio di Elvira o San Caecilio -
fondatore tradizionale dell'arcidiocesi di Granada.

- Aulus Caecilius Faustinus -
console suffetto nel 99.

- Gaius Plinius Caecilius Secundus - (Plinio il Giovane)
scrittore romano della fine del primo e dell'inizio del II secolo. Era membro delle geni Caecilia dalla nascita, figlio di Lucius Caecilius Cilo, e nipote di Gaius Caecilius. È stato adottato dal suo zio materno Gaius Plinius Secundus e ha cambiato il suo nome di conseguenza.

- Sestus Caecilius -
un giurista, che può, o non, essere identico a Sesto Caecilio Africano.

- Sestus Caecilius Africanus -
giurista durante la seconda metà del II secolo.

- Caecilius -
uno scrittore di Argos sull'arte della pesca.

- Caecilia -
Santa Cecilia, martire cristiana semi-leggendaria di Roma, sotto Alexandro Severo (ca 230). Gli storici moderni sospettano che sia stata effettivamente eseguita durante un regno precedente, quello di Marco Aurelio.

- Caecilia Paulina -
Imperatrice romana durante la crisi del III secolo. Era la moglie dell'imperatore Maximinus Thrax (Massimino Trace regnante 235-238) e madre del suo cesare Gaius Julius Verus Maximus. Probabilmente è morta durante l'anno 236, visto che il suo vedovo l'ha deificata quell'anno. Non si conosce quasi nulla di lei, e le opere storiche romane che si occupano del regno di suo marito includono per lo più opere andate perdute.

- Caecilius Natalis -
la persona che mantenne la causa del paganesimo nel dialogo di Marcus Minucius Felix Octavius.

- Thascius Caecilio Cyprianus -
un filosofo cristiano, diventato vescovo di Cartagine, è stato martirizzato e santificato come Santo Cipriano.

- Lucius Caecilius Firmianus Lactantius -
autore e consigliere cristiano dell'imperatore Costantino il Grande (regno 306-337)


LEGIO VII GEMINA

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La Legio VII Gemina, ovvero la VII Legione Gemella, venne fondata nel 69 dall'imperatore Galba (governatore dell’Hispania Citerior Tarraconensis, Lucius Livius Ocella Sulpicius Galba 3 a.c. - 69 d.c.) a Clunia (Burgos - Spagna) quando venne proclamato imperatore dal suo esercito in opposizione a Nerone nell'anno 68.

Essa nacque infatti come Legio VII Galbiana, che servì per completare gli effettivi della Legio VI Victrix al servizio dell'imperatore. Facevano parte della VII legio il centurione primipilo Minicius Iustus, che divenne praefectus castrorum della nuova legione e il tribuno augusticlavio Raecius Gallus.

Svetonio:
"Galba reclutò legioni e truppe ausiliarie tra la gente della sua provincia per rafforzare il suo esercito, che consisteva di una sola legione, due ali di cavalleria e tre coorti. Fondò una sorta di Senato composto da anziani di grande esperienza per deliberare con loro, a volte, su importanti affari; nell'ordine dei cavalieri nominò giovani uomini che, senza perdere il diritto di utilizzare l'anello d'oro, dovevano servire nelle loro località con il nome evocati."

TOMBA DI MARCUS ANNIUS DELLA VII GEMINA

LA LEGIO VII GALBIANA HISPANA

Nel luglio del 68 la VII Galbiana parte alla volta dell’Italia con Galba, e giunge a Roma il 20 ottobre; Galba ottiene l'imperio e la Legio VII Galbiana Hispana viene spedita a novembre nella base di Carnuntum (Pannonia Superiore), forse accompagnata dalla Legio XIV Gemina. Dopo appena sette mesi di governo, il 15 gennaio del 69, Galba fu deposto e assassinato dai pretoriani che elevarono Otone alla porpora imperiale e la VII Gemina si schierò con lui. 

Otho (Otone) ordina il rientro in Italia della legione, che si mette in marcia a fine febbraio-inizio marzo del 69, preceduta da una vexillatio di 2000 legionari per combattere il 14 aprile nella battaglia di Bedriacum, dove le legioni di Otone sono sconfitte a Bedriacum da quelle del nuovo candidato imperatore Aulus Vitellius, sostenuto dalle legioni germaniche.

A causa della severità del Praefectus castrorum Minicius Iustus, la Legio VII Galbiana Hispana, poco prima della battaglia di Bedriacum, rasenta l’ammutinamento nei pressi di Patavium; Minicius viene spostato presso l’esercito di Vespasiano, comandante le legioni impegnate nella guerra in Giudea, e nuovo candidato al trono imperiale.

Salito al trono, Vitellio stanziò la VII in Italia, dove, come molte altre unità che avevano sostenuto Ottone, cambiò parere e si dichiarò sostenitrice di Vespasiano, nominato imperatore da parte delle legioni orientali e dalle legioni danubiane comandate dal suo legato Marcus Antonius Primus.

Nella II battaglia di Bedriacum la Legio VII forma l’ala sinistra dell’esercito di Vespasiano, subisce molte perdite e perde diverse insegne, salvando l’aquila a costo della vita del centurione primipilo Lucius Atilius Verus. Tuttavia è vincitrice.

Altro particolare: il legionario della XXI Rapax al servizio di Vitellio, Iulius Mansuetus, viene ucciso in battaglia dall'ignaro figlio che non lo vedeva da quando era bambino, ora recluta della  VII Galbiana Hispana.

MURO ALTO IMPERIALE DEL CASTRUM DELLA VII GEMINA

LA LEGIO VII GEMINA

Nel 70 viene ordinato da Vespasiano alla VII di tornare nel suo accampamento di Carnuntum in Pannonia. Da lì la legione viene inviata nella Germania Inferiore per sedare la rivolta dei Batavi comandati da Iulius Civilis. 

Anche qui subisce molte perdite per cui la legione viene fusa con i resti della Legio I Germanica, fondata da Giulio Cesare, una delle legioni che portarono il loro aiuto alle truppe assediate a Castra Vetera (Germania Inferiore), finendo loro stesse intrappolate, prendendo finalmente il nome di LEGIO VII GEMINA.

Essa servì in Pannonia e nella Germania Superior, dove ricevette il titolo di Felix, per i suoi meriti. Dopo 4 o 5 anni, l'unità venne trasferita nella Hispania Tarraconensis, nella città di Leon (Spagna) che crebbe intorno al luogo dove si stabilì la Legione VI Victrix fino al 69, sostituita poi dalla Legione VII Gemina nel 74 dalla Pannonia. 

Il nome León è un'evoluzione del termine romano Legio. Le sue rovine sono sotto la moderna Leone, che ne conserva le mura, la Porta Principalis Sinistra e i resti dell'anfiteatro dei suoi cannabae.

Tra i suoi comandanti Publio Cornelio Anullino (175-203), console nel 199 e amico dell'imperatore Settimio Severo e Quinto Edio Lolliano Plauzio Avito (202-205), che comandò la VII dal 202 al 205 e nel 209 ottenne il consolato, e che, nel 224, fu governatore d'Asia.

Al tempo della Notitia dignitatum alcuni suoi distaccamenti (vexillationes) erano posti sotto il comando del "Magister militum per Orientem"



LA LEGIO IN HISPANIA 74–192

Vespasiano 
- Nell'anno 74, l'imperatore Vespasiano decise di trasferire la Legio VII Gemina Felix alla provincia Hispania Tarraconensis, stanziandola nell'antico accampamento della Legio VI Victrix di Legio, oggi León, che rimase fin tanto che perdurò il dominio romano in Spagna. 

La VII in realtà creò un nuovo campo, con orientamento leggermente diverso da quello del predecessore, che divenne la sua base permanente fino alla sua scomparsa nel 409. 

TEGOLA CON ISCRIZIONE LVII G GORD P F,
LEGIO VII GEMINA GORDIANA PIA FELIX
Domiziano
- Nell'anno 89, sotto Domiziano, quando l'unità fu guidata dal futuro imperatore Traiano, si trasferì nella Bassa Germania per reprimere la rivolta di Lucio Antonio Saturnino, anche se, pur compiendo una marcia forzata di un solo mese, arrivò in ritardo e non poté partecipare alla battaglia, così che non ottenne, con grande dispiacere, il titolo di Pia Fidelis Domitiana, assegnato alle legioni e alle unità ausiliarie che parteciparono all'operazione.
Poco dopo, per ordine di Domiziano, inviò una vexillatio agli Agri Decumates, recentemente incorporati nell'Impero, collaborando alla costruzione del sistema difensivo dei nuovi limes e delle vie di comunicazione locali.

Traiano
- Sotto Traiano, la Legione fu in grado di inviare un distaccamento sul Danubio per partecipare alle guerre daciche.

Infatti la VII Gemina, diretta dal futuro imperatore Traiano, si recò nella Bassa Germania per reprimere la rivolta di Lucio Antonio Saturnino, collaborò alle guerre daciane di Traiano.

Il ponte di Traiano in Aqua Flaviae conserva un'iscrizione che indica come la sua costruzione venne pagata da 10 comunità della zona e costruita con l'aiuto dei legionari della VII Gemina.

Partecipò anche alla costruzione del ponte sul fiume Tamega nell'Aqua Flaviae (Chaves, Portogallo) e con l'Ala II Flavia Hispanorum civium romanorum per la costruzione del suo campo di Petavonium (Rosinos de Vidriales, Zamora).

Adriano
- Sotto Adriano, mandò una vexillatio in Britannia, collaborando alla costruzione del Muro di Adriano.

- Sotto Antonino Pio, una vexillatio dell'unità fu trasferita in Africa Proconsolare, nel campo della Legio III Augusta in Lambaesis per combattere contro i Mauri, che minacciavano la stabilità delle province romane del Maghreb.

Marco Aurelio
- Partecipò alle campagne contro i Mauri quando invasero la Baetica sotto Marco Aurelio, nel 171, stabilendo il suo regno in Italica, e ancora nel 174-175, anche se la sua partecipazione a questa campagna, diretta alla Mauritania tingitana, non è certa.

Clodio Albino
- Nel corso del III secolo, l'unità giurò fedeltà a Clodio Albino (145-197).

Settimio Severo
- giurò poi a favore di Settimio Severo (146 - 211) dopo la battaglia di Lugdunum, che gli diede l'epiteto di Pia nel 196, diventando Legio VII Gemina Felix Felix Pia.

Caracalla
- In seguito la legione fu fedele a Caracalla (188-217) - Legio VII Gemina Felix Pia Antoninianae. 

Alessandro Severo
EMBLEMA DELLA VII SECONDO LA
NOTITIA DIGNITARUM DEL V SEC.
- ad Alessandro Severo (208-236) - Legio VII Gemina Felix Pia Severiana. 

Gordiano
- a Gordiano III (225-244) - Legio VII Gemina Felix Pia Gordianae.

Aureliano
- Qui si dedicò all'Impero gallico, per ritornare alla disciplina imperiale di Aureliano (214-275), quando parte dell'unità fu inviata in Oriente per le campagne contro il regno di Palmira, ma rimase in zona e non ritornò mai in Hispania. 

Galerio
- Giurò fedeltà ai diversi imperatori fino al tempo di Galerio (250 - 311). 

Costantino I
- Diventò invece, con Costantino I (274-337), la maggior parte dell'esercito di manovre d'Oriente come legio comitatensi.

Costantino III
Nel IV secolo, l'unità fu trasformata e ridotta con le riforme di Costantino I, senza partecipare ad alcuna operazione esterna e verso il 409, dopo le manovre di Costantino III e Gerontius, era così ridotta che l'invasione di vandali, Suevi e Alans quasi la distrussero.

- All'inizio del V secolo, negli anni turbolenti dell'usurpazione di Costantino III contro Onorio, la VII passò a Costantino. 

- Però nel nord della penisola due cugini di Onorio, Dídimus e Veriniano, mantennero la maggior parte delle truppe fedeli alla loro causa fino a quando non furono sconfitti dal figlio di Costantino, Cesare Costanzo, e dal generale Gerontius a capo delle truppe romane galliche e degli ausiliari barbareschi (honoriaci) nell'altopiano settentrionale vicino a Palencia. Da allora non si sono più avute notizie di Legio VII nè di altre guarnigioni ausiliarie del nord.

ISCRIZIONE IN ONORE DEL VETERANO DELLA VII GAIO VALERIO SOLDO

LA CITTA' DI LEON

Legio (León) fu una città romana sorta presso il convento Asturicense, nella provincia Tarraconense, fondata nel 29 a.c. come accampamento della Legio VI Victrix, ma dove fu poi istallata la Legio VII Gemina, dove rimase fino all'inizio del secolo V. 

Essa era l'unica guarnigione di tutta la penisola Iberica, situata nella provincia Tarraconensis, era formata da questa legione con i suoi ausiliarii. Secondo alcuni la VII Gémina doveva proteggere le miniere d'oro di Médulas (dove lavoravano 80.000 operai),nonchè per controllare il passaggio per le Asturie e i Cantabri.

Situata tra i fiumi Bernesga e Torío, durante l'epoca alto imperiale ebbe grande importanza per il fatto che l'unità militare era incaricata, tra l'altro, di controllare il nord-ovest della penisola, dove si trovavano importanti miniere d'oro come Las Médulas. Le sue rovine si trovano sotto la moderna Leon, di cui restano le mura, la Porta Principalis Sinistra e i resti dell'anfiteatro con le sue cannabae. 

Quando l'esercito romano conquistò la zona asturiana a sud della Cantabria, le autorità imperiali decisero di stabilire una delle loro basi su una terrazza fluviale, a 838 m sul livello del mare, alla confluenza dei fiumi Bernesga e Torío, al limite nord dell'Altopiano Settentrionale, pertanto sui principali passi orientali dal Paramo leonese attraverso la Cordigliera verso l'Asturia Transmontana ai primi contrafforti della Sierra e della costa Cantabrica.

Nella sua posizione strategica, León è stato un passaggio obbligato per raggiungere il Bierzo e la Galizia da un lato, e le Asturie dall'altro, attraverso i passi dei Monti di León e dei Monti Cantabrici.

Nell'Itinerario Antonino, una delle poche raccolte di antiche vie risalente al III secolo, sono citate alcune strade che traversavano la città, tra cui la Via I, che collegava Legio con l'Italia attraverso Caesaraugusta.

CANALIZZAZIONI DELL'ACQUA PER L'ACCAMPAMENTO DELLA VII LEGIO A LEON

GLI SCAVI

La trama reticolare di questo castra legionis VII Geminae determinò la successiva evoluzione di Legio e di León, la città che seguì. Inoltre, è stata rinvenuta un'area civile adiacente al campo. 

Le mura di León ospitano i resti di uno dei più importanti emblemi che Roma aveva, la Legione VII, la legione che permise a Galba di diventare imperatore, che collaborò alla costruzione del sistema difensivo e delle vie di comunicazione in Germania, che partecipò alle guerre daciane, collaborò alla costruzione del muro di Adriano e in Africa combatté i mauri, gli abitanti dell'attuale Marocco.

Gli strati delle sue mura stanno rivelando caratteristiche sconosciute della fisionomia campamentale. Tra le strutture si trovano fregi, colonne, basi, pozzi, pozzi, conci o mattoni. Questi elementi sono stati utilizzati per rinforzare il muro alla fine del III e all'inizio del IV secolo e possono dare indizi su come alcuni degli edifici, sia del campo che delle popolazioni al di fuori delle mura.

L'impero si trovava in un momento di profonda crisi e non si sa fino a che punto il campo legionario non avesse convissuto con la popolazione che viveva fuori dalle mura. Fu proprio allora che iniziò il processo di rafforzamento del muro. 

In questo periodo l'Hispania fu posta sotto la Prefettura di Gallia (che comprendeva Hispania, Gallia, Gallia, Germania e Britannia), dove l'Hispania divenne uno dei granai di questo settore occidentale e León (capitale militare di Hispania) era il centro logistico, il porto dove venivano immagazzinati i prodotti di approvvigionamento delle truppe che custodivano i confini settentrionali. 

Roma utilizzava due itinerari: quello che collegava Merida con Astorga e quello partiva al confine della catena montuosa cantabrica fino ai Pirenei e, attraversando la Gallia, a Treviri, la capitale. Quest'ultima era conosciuta come la Via de Hispania in Aquitania ed è lungo di essa che avviene la grande concentrazione delle mura nord-occidentali che conosciamo oggi: Legio VII, Lucus Augusti, Bracara Augusta, Veleia o Gijon (come supporto marittimo).

PONTE DI TRAIANO COSTRUITO CON L'AIUTO DELLA VII LEGIO
Per rafforzare le difese, sono stati utilizzati materiali provenienti dalla maggior parte degli edifici rurali e, naturalmente, da quelli che, come i templi o l'anfiteatro, si trovavano fuori dalle mura. Anche gli elementi costruttivi dei Principia potrebbero essere stati utilizzati a questo scopo.

Tra le iscrizioni ci sono una ventina di lastre di marmo provenienti da cave locali. Molti dei pezzi rimossi dal muro provengono da affioramenti calcarei nei pressi della città di León. Il gruppo più grande è costituito da marmi bianchi con venature grigie che offrono origini diverse più difficili da definire. 

Gli scavi archeologici di León, il cui centro storico conserva le linee del castra legionario, hanno portato alla luce i resti delle mura, del suo fossato, della Porta Principalis Sinistra, del Praetorium e dei Principia, di alcune caserme e delle terme - sotto l'attuale cattedrale -, insieme a monete, armi, resti di armature e materiale da costruzione sigillato con la figura della Legione.

Il castrum aveva forma rettangolare di 570 per 350 metri, per 20 ettari di superficie, in grado di ospitare una intera legione. I resti principali degli edifici riguardano due caserme (centuriae), dove si possono distinguere gli spazi per ospitare i soldati, ma anche il Principia, il comando della Legio VII, che si trovava su un lotto di via San Pelayo.

Ma il suo compito principale fu di collaborare con l'amministrazione imperiale di Hispania, per la quale mantenne distaccamenti nelle zone di estrazione dell'oro di El Bierzo, Lugo, Salamanca e del Portogallo settentrionale, fornendo scorte e burocrati ai governatori provinciali e procuratori equestri e, in generale, di mantenere l'ordine nelle tre province ispaniche. Fornì anche personale al porto di Tritium Magallum (Tricio, La Rioja), a quello di Lucus Augusti (Lugo) e alla statio di Segisama (Sasamón, Burgos).

CAERE - CERVETERI (Lazio)

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TERME DELLE ACQUE DI CAERE
Caere era un'antichissima città dell'Etruria meridionale (nel Lazio moderno), la cui fondazione risalirebbe al XIV secolo a.c. Sorgeva sul luogo dell'attuale Cerveteri a nord ovest rispetto Roma, a 4 miglia dalla costa del Mar Tirreno. Fondata dai Pelasgi (così chiamate dai Greci dell'età classica le popolazioni preelleniche greche) con il nome di Agylla.

Il geografo greco Strabone (Geografia, 5,2-3 e 8) attribuiva la nascita di Cere (Cisra per gli Etruschi, Agylla per i Greci, Caere per i Romani), ai mitici Pelasgi, i quali avrebbero fondato altre città su suolo italico proprio lungo la fascia costiera etrusca e nell'immediato entroterra tirrenico. In effetti le mura che circondavano e in parte circondano Caere sono poligonali, cioè di tipo pelasgico.

Anche Plinio il Vecchio attesta a Caere il nome greco Agylla e la elenca tra le città Etrusche delle settima regione italica, venne fondata dai Pelasgi, e quindi conquistata dagli Etruschi, che la chiamarono Caere.



ETTORE DE RUGGIERO

CAERE (Cerveteri - C. XI 8592-3709. - Città dell'Etruria, presso Tarquinia: alla forma ordinaria di "Caere" stanno accanto I'altra di "Caeres" (C. XI 3595. 3601. 3604. 3605) e di "Caerete" donde Caeretanus (C. avrebbe avuto guerra coi Romani già sotto Tarquinio Prisco e Servio Tullio (Dionys. 3,58. 4, 27); e, scacciato da Roma, Tarquinio il Superbo vi avrebbe esulato con due figli (Liv. 1, 60, 2).

Occupata Roma dai Galli nel 364 u. c. furono a Caere trasportati i sacra e le Vestali, avvenimento ricordato in un elogio (C. I. el. XXIV = C. VI 1272).  Nel medesimo anno fu concluso tra Roma e la città un trattato d'amicizia o ospitium publicum (Liv. 5, 50, 3).

Nella guerra dei Romani contro Tarquinii nel 401 u. c, avendo i Caerites parteggiato per questi, ed essendo minacciati di ostilità da Roma, ottennero un armistizio di cento anni (Liv. .7, 19. 20); secondo Dione Cassio (frag. 33) in un tempo indeterminato, meglio fra l'anno 364 e 481 u. c., una pace sarebbe stata conclusa e Caere avrebbe perduta la metà del suo territorio.

La tradizione è incerta nel determinare il tempo in cui Caere, ottenendo la cittadinanza romana "sine iure suffragi", divenne municipium o praefectura (Livio e Strabone), Gellio invece (16, 13, 7) al tempo dell'invasione dei Galli, nota che per la prima volta allora si sarebbe applicata questa forma della cittadinanza romana. Ma il Mommsen (Staatsr. 3 p. 572) non dà molto peso a tale notizia, giudicando che lo scrittore abbia voluto piuttosto alludere alla classe peggiore di tali municipii, quelli che mancarono di ogni autonomia (cf. Fest. p. 127. 233 Municipinm).

S'ignora quando da questa condizione sia passata a quella di municipio di piena cittadinanza e in che tribù sia stata inscritta. La notizia di Livio (28, 45, 15), che nell'anno 549 u. c. Caere abbia fomito alla spedizione di Scipione nell'Africa degli aiuti, non basta a risolvere il dubbio (cf. Mommsen, Staatsr. 3 p. 585, 1).

A ogni modo, notevole è la singolarità del riordinamento municipale posteriore, specialmente per ciò che riguarda i titoli delle magistrature; il dictator p. e. è molto probabile che rimonti al tempo della sua indipendenza da Roma; che poscia, divenuta "Caere praefectura", abbia avuto semplicemente un carattere sacro, come le altre praefecturae (Mommsen, Staatsr. 8 p. 580), e che divenuta municipio con piena autonomia, abbia assunto il potere degli altri magistrati supremi municipali.

Magistrati:
- Dictator o dictatores (3593. 3614. 3615);
- aedilis iure dicundo e insieme praefectus aerari (3614);
- aedilis annonae (3614);
- aedilis (3015);
- praefectus Caius Caesaris (3610);
- censor perpetuus (3616. 3617);
- quaestor (3615);
- curator Caeretanorum (3367).

Senato e cittadinanza:
- Senatus (3596. 3610. 3619),
- decuriones (3614);
- senatus populusque Caeres (3595. 3601. 3604. 3605. 3608).
- Augvstales (3613. 3614).

Delle divinità non ricorrono che Dii curialis (3593) e Mars (3614).

Edificii pabblici:
- Templum divorum (3614),
- aedes Martis (3614),
- basilica Sulpiciana (3614),
- curia Asemia (3598),
- theatrum (3620. 3621),
- balineum (3621. 3622),
- aquaeductum (3594).
(Dizionario Epigrafico di Antichità Romane - Ettore De Ruggiero - 1886)

TERME ROMANE

ANTICA AGYLLA

La presa di Agylla da parte dei Tirreni (Etruschi),è descritta anche da Strabone, che racconta di un soldato etrusco che giunge sotto le mura della città:
« ...un tale raggiunte le mura, chiese il nome della città. Una delle sentinelle tessale, invece di rispondere alla domanda lo salutò esclamando: "Chaire!" (forma di saluto greco). Avendo pensato che fosse un presagio (nomen omen), i Tirreni cambiarono il nome della città conquistata
(Strabone, Geografia, V, 2,3.)
In un altro racconto, fonte romana più tarda, dove di nuovo uno straniero chiede il nome della città a un suo abitante, questi risponde con un saluto in greco, Χαιρε, ma stavolta la domanda viene posta da un romano e non da un etrusco, e si narra che Agylla prende il nome dal suo fondatore Agella.

Una menzione della città compare anche nella vicenda dei troiani di Enea in guerra con i Rutuli guidati dal loro re Turno, che ricorse all'aiuto di Mezenzio, re della ricca città di etrusca di Caere (Caere opulento).



LE BATTAGLIE

Nella prima metà del V secolo a.c. (tra il 541 e il 535 a.c.) Caere-Agylla combatté insieme agli etruschi alleati dei Cartaginesi contro i Focei nello scontro navale detto Battaglia del Mare Sardo, o Battaglia di Alali. Sebbene lo scontro venne vinto da Focea, la conseguenza fu che Etruschi e Cartaginesi coalizzati bloccarono l'espansione greca nel mar Tirreno occidentale.

TERRACOTTA CERVETERI
I focei superstiti dalle navi affondate vennero divisi tra Etruschi e Cartaginesi, e i Ceretani, che tra gli Etruschi ne ebbero la parte maggiore, li condussero a Caere dove, posti fuori delle mura, li sottoposero ala lapidazione, indegna di un popolo civile. Per questa empietà, una maledizione avrebbe colpito chiunque, uomo o animale, fosse passato presso i luoghi di sepoltura delle vittime, forse il tumulo di Montetosto con il suo santuario extramurario arcaico, lungo la via che da Cerveteri conduce a Pyrgi.

Consci della lor empietà e incapaci di rimediare attraverso i propri riti fece ricorrere i ceretani presso l'oracolo di Delfi, dove la Pizia, ordinò ricchi sacrifici funebri accompagnati da un agone ginnico, dando il via a una tradizione ancor viva ai tempi di Erodoto. 

Durante il regno di Tarquinio Prisco i romani condussero una lunga campagna militare, di almeno sette anni, contro le città etrusche di Veio e Caere. Anche il sesto re di Roma, l'etrusco Servio Tullio, dopo avere assoggettato i Sabini, mosse guerra contro le città di Veio, Tarquinia e Caere.

Nel 510 a.c. Tarquinio il Superbo, cacciato da Roma, andò in esilio con due dei suoi figli a Caere, mente il terzo scelse di riparare a Gabii, dove venne però assassinato dai suoi abitanti.

DONNA DI CAERE

CAERE ROMANA

Caere compare come alleata di Roma nel 387 a.c., quando i Galli di Brenno saccheggiano Roma, infatti dette rifugio alle vestali e ai profughi di Roma attaccata dai Galli, seguendo la via Cornelia che già allora collegava Roma con Caere, poi combattè in Sabina gli stessi Galli sulla strada del ritorno, riuscendo pure a recuperare il bottino sottratto a Roma.

Caere fu grazie a questo la prima città a ricevere lo status di "Municipia sine suffragio", che dava ai propri cittadini diversi diritti della cittadinanza romana, senza quello di voto, e con l'obbligo di partecipare alle guerre condotte da Roma. Per questo vennero iscritti su tavole dette "tabulae Caeritum" che divenne però il registro dove vennero elencati tutti i municipi con questi stessi diritti di Caere.

Ma le cose cambiarono e nel 353 a.c., quando sembrò che Caere si fosse alleata con Tarquinia contro Roma, Tito Manlio Torquato, detto Imperioso, fu nominato dittatore per passare alla controffensiva.

Mentre Roma organizzava la campagna contro Cere, gli ambasciatori cerretani si precipitarono a Roma per implorare la pace, sostenendo che solo pochi cittadini, fattisi convincere dai tarquiniesi, avevano in animo di avversare l'Urbe, la maggioranza voleva il buon rapporto.

Roma rinnovò quindi la pace con Cere, e volse il suo esercito contro i Falisci, senza però che si arrivasse ad uno scontro in campo aperto. Durante la II guerra punica (218- 202 a.c.) in diverse città delle penisola si registrarono fenomeni straordinari e a Caere in particolare un avvoltoio entrò nel tempio di Giove.

TOMBA DEI RILIEVI

LE ACQUE CERRETANE

- Delle Aquae Caeretanae parlò l’imperatore Lucio Domizio Aureliano (214 a.c. - 275 a.c..) dicendo che si trattava “delle acque termali più calde d’Italia

- Strabone (n. 60 a.c. - 21 a.c.) nel suo De Geographia sostiene che “erano talmente famose da essere più popolari della stessa Caere”. lo storico antico romano Tito Livio (59 a.c. - 17 a.c.) nella sua Ab Urbe Condida, la monumentale storia di Roma, riferisce che “Nell’anno 535 tra i vari prodigi ci fu quello delle acque ceriti miste a sangue 
Dopo Aureliano questo sito, esteso per ben 7 ettari, una vera città termale dove si abitava e dove, fra l’altro, effettuavano la quarantena anche le legioni romane, fu cancellato dalla storia” per oltre 1600 anni e ciòè fino al 1987. 

Vennero cercate agli inizi del 1600 d.c., dai due geografi e storici tedeschi Philippus Cluverius (Filippo Cluverio) e Lucas Holstenius (Luca Olstenio) che “mappando”sul territorio italiano, con grande metodologia cercarono, per parecchio tempo ma inutilmente, le Aquae Caeretanae. 

Ma nel 1986 quando nella zona di Pian della Carlotta in prossimità della località del Sasso nel territorio di Cerveteri, a seguito di una aratura effettuata con un trattore dal proprietario del terreno fu segnalata, alla Soprintendenza Archeologica dell’Etruria Meridionale, un’ampia presenza di particolari cocci e frammenti fittili, di marmo, di vetro e numerosissimi tasselli di mosaico che erano sparsi su una grande superficie.

Iniziati i lavori di ricerca affiorarono subito alcune soglie in marmo, e, a cinque metri di profondità, i resti di due grandi vasche, quelle del calidarium e del tepidarium circondati da ben tre file di sedili in marmo, ma non solo, visto e considerato che sotto una volta brillavano dei gran bei mosaici con le loro rispettive tessere in pasta vitrea di colore blu, verde, giallo, nero e rosso a disegnare un’esplosione di fiori su campo bianco. Su una colonnetta votiva c'era scritto: 
A Giove e alle fonti delle acque ceretane”.

Dagli scavi emersero:

- un bustino muliebre somigliante ad una Faustina.
- un pezzo di sedile con su una zampetta di leone,
- lungo le pareti, dei tubi di terracotta che recavano l’acqua calda per riscaldare gli ambienti, come fu scritto, “di dimensioni e livello artistico decisamente eccezionali rispetto allo standard degli insediamenti noti nella zona”. Insomma riemerse pure una bella polla di acqua sulfurea che rendeva acre l’aria tutto intorno.

Furono rinvenute anche tracce di legno bruciato e di vari detriti alluvionali; segno “che furono distrutte dai Visigoti di Alarico o da una violentissima alluvione”; le ricerche archeologiche si fermarono per mancanza di fondi si che mancano ancora il frigidarium, gli spogliatoi e la palestra. Attualmente il GATC (Gruppo Archeologico del Territorio Cerite – onlus) ha avuto dalla Soprintendenza Archeologica (la quale ha come supervisore della Zona l’archeologa d.ssa Rossella Zaccagnini) il permesso di ripulitura e lo sta facendo con la stessa équipe operativa, coordinata da Gianfranco Pasanisi, che ha già sistemato, in maniera eccellente, l’area del Laghetto al Sito UNESCO della Banditaccia a Cerveteri.

A tutt’oggi, in molti notevolissimi spazi, circostanti ed annuncianti le Aquae Caeretanae, si vedono dei frammenti estranei alla natura del terreno; chissà se quello finora riportato alla luce, sommerso di rovi e cespugli, sia totalmente esaustivo del punto di vista estensivo. Fra l’altro sulla sinistra (spalle al mare) del calidarium e del tepidarium c’è un altro spesso “macchione” che copre un’altra struttura che, sebbene più piccola, impegnerà molto, anche lei, i volontari specializzati del GATC al fine dell’ennesima ripulitura finalizzata alla riscoperta delle antiche terme, sperando che, quanto prima, messa in sicurezza tutta l’area, essa possa divenire visitabile da parte tutti.
(Arnaldo Gioacchini – Membro del Comitato Tecnico Scientifico dell’Associazione Beni Italiani Patrimonio Mondiale UNESCO)

NECROPOLI

NECROPOLI DELLA BANDITACCIA

Accanto alla città di Caere sorse la necropoli etrusca della Banditaccia, la necropoli antica più estesa di tutta l'area mediterranea, sita su un'altura tufacea a nord-ovest di Caere (Cerveteri). Essa si estende per circa 400 ettari e vi si trovano molte migliaia di sepolture (la parte recintata e visitabile rappresenta soli 10 ettari di estensione e conta circa 400 tumuli), dalle più antiche del periodo villanoviano (IX secolo a.c.) alle più "recenti" del periodo ellenistico (III secolo a.c.).

TEMPIO DI PYRGI - FRONTONE

PYRGI

Fu una città portuale etrusca posta alle pendici dei Monti della Tolfa (oggi frazione di Santa Severa) e soprattutto fu il porto di Caere, da cui distava 13 km, distrutta dalla flotta di Dionigi di Siracusa nel 384 a.c., ma che fu ricostruita e divenne poi colonia romana nel 264 a.c. .

Della cittadina romana restano tracce maestose del circuito murario in opera poligonale, nel quale si aprivano alcune porte, oltre a molteplici reperti e iscrizioni in lingua latina conservati nel Castello di Santa Severa e nel borgo medievale che lo circonda. La città è citata da Virgilio nell'Eneide fra le popolazioni che andarono in aiuto di Enea.

Qui venne eretto Il Santuario Monumentale dedicato dal tiranno di Caere Thefarie Velianas (510 a.c.) alla Dea Ilithia-Leucothea, un luogo di culto a carattere internazionale, realizzato secondo un progetto architettonico innovativo. Le decorazioni del tetto e le iscrizioni documentano il culto di Uni e Tinia (corrispettivi di Giunone e Giove) insieme a quello di Ercole. 

Nell’area sacra C furono rinvenute le famose lamine, e nel cd. Edificio delle venti celle, si effettuava la prostituzione sacra. Intorno al 470/60 a.c. l’area sacra viene quasi raddoppiata con l’erezione del Tempio A, a pianta tuscanica e anch’esso dedicato ad Ercole ora insieme a Thesan/Leukothea,

Il Santuario Monumentale è direttamente connesso alla città madre con la monumentale via Caere-Pyrgi, che richiama nel suo ruolo la strada che univa Atene al Pireo. 

Il Santuario Meridionale è una seconda area sacra indipendente dalla precedente, con piccoli altari e modeste strutture. Qui si svolgevano i culti arcaici di Demetra; le numerose iscrizioni etrusche evidenziano il culto parallelo di Kore (etr. Cavatha) e del suo compagno infero (etr. Sur/Suri).

La Pyrgi romana è una città fortificata a pianta rettangolare, impostata sul modello del castrum, cioè dell’accampamento militare, costruita su una parte del precedente abitato etrusco. Il muro di cinta, in opera poligonale in blocchi di calcare, è ancora ben visibile quasi per l’intero perimetro; quattro le porte di accesso, aperte a metà di ciascun lato.

Con l’età imperiale, venuta meno la funzione strategico-militare, il litorale venne occupato da lussuose ville marittime, proprietà di ricche famiglie romane. Nel II sec. d.c. Pyrgi venne dotata dall’imperatore Adriano di un acquedotto facendo ripristinare le banchine del porto.

LA DIVINAZIONE PUBBLICA ROMANA

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"Divinazione, definita da Una delle più antiche e delle più vane superstizioni nata dal furore che hanno sempre avuto gli uomini di voler conoscere l'avvenire. L'istoria antica è piena di tratti di questo fanatismo ed a vergogna dello spirito umano la moderna non ne è esente."



GLI ORACOLI

Presso i romani gli oracoli rispecchiavano la volontà degli Dei di comunicare qualcosa agli uomini.

AMULETO
Cicerone:"Quante volte il senato ordinò ai decemviri di consultare i libri sibillini! In quanto importanti e numerose occasioni obbedì ai responsi degli arùspici! Ogni volta che si videro due soli, e tre lune, e fiamme nell’aria; ogni volta che il sole apparve di notte, e giù dal cielo si sentirono dei rumori sordi e sembrò che la volta celeste si fendesse, e in essa apparvero dei globi. 
Fu anche annunziato al senato una grossa frana nel territorio di Priverno, quando la terra s’abbassò fino ad una profondità immensa e la Puglia fu squassata da violentissimi terremoti. E da questi portenti erano preannunciate al popolo romano grandi guerre e rovinose sedizioni, e in tutti questi casi i responsi degli arùspici concordavano coi versi della Sibilla."

- Gli Etruschi, come scrive Bloch, riponevano grande fiducia nei riti e nelle prescrizioni racchiuse nei Libri ( libri haruspicini, libri fulgurales e libri rituales ) e la lettura dei prodigi era altamente ritualizzata in Etruria, come testimoniano i pochi frammenti degli Ostentaria, tramandatici da Cicerone nel De Haruspicarum Responsum;

- I Greci, invece, avevano totale assenza di rituali scritti, di prescrizioni e espiazioni.

- A Roma è possibile individuare stadi successivi di questa credenza, la cui prima fase“mitica” è databile proprio all’età dei Tarquini, che sembrano aver introdotto a Roma l’arte divinatoria. Così i romani si affidarono agli Oracoli Sibillini, ma pure alla consultazione del destino, che si faceva nel tempio della Dea Fortuna a Preneste, esattamente nell'Antro delle Sorti, dove le sacerdotesse eseguivano un specie di lancio di dadi, che erano però tavolette di legno incise.



PRESAGI FUNESTI

LE FURIE
I Romani avevano moltissime cose le quali venivano da essi considerate come presagi dell'avvenire. Per esempio certe parole fortuite che venivano pronunziate senz'alcuna intenzione e che potevano riferirsi indirettamente a qualche predizione del futuro.

Quindi stavano perciò molto attenti all'espressioni usate nei loro ragionamenti per non dar motivo a presagi funesti.

Nominavano pertanto:
- la prigione: domicilio
- le Furie: Eumenidi
- i nemici: gli stranieri
- per dire che un uomo era morto dicevano: che aveva vissuto.



I PRESAGI DI GRANDI AVVENIMENTI

Gli antichi autori poeti e storici sono ripieni di presagi tratti da cose fortuite che non tengono relazione alcuna cogli avvenimenti se non quella che vogliono trovarvi. Virgilio riferisce i presagi che precedettero la guerra civile. Si videro a scorrere rivi di sangue. i lupi nel corso della notte spaventarono le città con urli terribili, mai più caddero fulmini in un tempo così sereno nè mai le spaventevoli comete atterrirono maggiormente i mortali.

Lucano mette in versi tutti i presagi della guerra civile.

Lo storico Tito Livio riporta fatti di malaugurio:
- ora le acque dei fiumi e dei laghi apparvero tinte di sangue
- ora un idolo cangiò situazione senza che alcun lo toccasse
- un'altra volta si udirono tuoni e scoppiarono fulmini in un tempo affatto sereno
- un bue pronunciò distintamente queste tre parole "Roma cave tibi" (Roma guardati).

- Nonostante il vulcano laziale si dica estinto 10000 anni fa, Livio (Ab Urbe Condita) riporta che sotto re Tullo Ostilio, il vulcano abbia ripreso la sua attività. Forse allude all'eruzione del 673 - 641 a.c. con una pioggia di lapilli sul Monte Albano, durata più giorni e per la quale venne istituito il Sacro Novendiale:
"Sconfitti i Sabini, quando ormai il regno di Tullo Ostilio e la potenza di Roma avevano raggiunto il vertice della gloria e della ricchezza, venne annunciato al re e ai senatori che sul monte Albano stavano piovendo pietre".
Siccome la cosa non era molto verosimile furono inviati dei messi a controllare il fenomeno. Anche in loro presenza cadde una spessa pioggia di pietre che "cadevano come chicchi di grandine ammucchiata dal vento sulla terra". Fatti del genere, durati parecchi giorni, sono noti in quell'epoca in tutta l'area dei Colli Albani. Si stabilì pertanto che ogni volta fosse accaduto lo stesso prodigio si sarebbero celebrati 9 giorni di festività dette Novendiales.

SACRIFICIO SU MONTE ALBANO
Era di cattivo augurio:
- rovesciare vino, o olio, o acqua
- incontrare per strada muli con un carico di ipposelino (pianta che ornava i sepolcri);
- un cane nero che entrava in casa,
- varcare la soglia col piede sinistro
- rompere la correggia delle scarpe mettendosele, bastava per interrompere un affare incominciato o per rimettere a un'altra giornata quello che si proponeva di fare,
- un topo che faceva un buco in un sacco di farina,
- una trave della casa che si spaccava senza motivo,
- scendere dal letto col piede sinistro,
- se dei corvi beccavano l’immagine di un Dio,
- Plinio il Vecchio narra che ogni romano, senza esclusione, dopo aver sorbito un uovo ne spaccava il guscio, per evitare la sfortuna.
- molte case avevano sulla porta la scritta 'arseverse' (forse da 'averte ignem', contro il fuoco),
- Plinio narra che Giulio Cesare, dopo che il suo carro si era rotto durante la celebrazione del Trionfo, recitava sempre uno scongiuro che ripeteva tre volte per garantirsi la sicurezza del viaggio (carmine ter repetito securitatem itinerum aucupari solitum)
- se i pesci in salamoia, arrostendo, guizzassero come fossero vivi,
- se un toro in corsa infilava le scale di un caseggiato e si fermava al terzo piano,

- che a uno venisse uno starnuto nel momento in cui gli si porgeva il vassoio; l’unico rimedio era che cominciasse subito a mangiare.
- se a un commensale cadeva in terra del cibo che teneva in mano, il cibo doveva esser subito restituito al convitato che non doveva ripulirlo nè soffiarci sopra.
- Se il cibo cadeva di mano al Pontefice durante una cena rituale, si riponeva il cibo sulla mensa e si bruciava come sacrificio ai Lari.

SACERDOTE DI CIBELE

I SACERDOTI

I GALLI - Sacerdoti di Cibele così nominati da Gallo fiume di Frigia ove aveva avuto principio il culto di questa dea Essi erano eunuchi e avevano per capo uno del loro corpo che si chiamava Archigallo.

I sacerdoti nel corso del rito arrivavano a flagellarsi ed evirarsi come Attis, onorando la dea con preghiere, urla, danze ossessive che culminavano in un rapidissimo girare su se stessi. In preda al parossismo si sentivano allora invasi dalla Dea e vaticinavano. 

A loro veniva attribuito il potere di interpretare i sogni, il moto degli astri, il volo degli uccelli, e la capacità di esorcizzare. Giravano da un paese all'altro cavalcando un asino e trasportando l'immagine della Megalesia.

Invece Cicerone nel De Legibus e nel De Divinatione distingue tre ordini di pubblici sacerdozi:
- i vates,
- gli augures,
- gli haruspices etruschi
che sono i sacerdoti preposti ad interpretare i segni offerti dagli Dei alla collettività. Costoro non sono indovini invasati ma i depositari di una vera e propria arte che, sebbene possa essere in qualche caso ingannevole, il più delle volte conduce alla verità. Entriamo, così, nella prima sfera della divinazione, quella “artificiale”, poiché duo sunt enim divinandi genera, quorum alterum artis est, alterum naturae

L’altra tipologia è quella “naturale”, una forma di divinazione che si attua attraverso il contatto diretto con la divinità che impossessandosi di un uomo prescelto lo rende come folle e parla per sua bocca. Tuttavia, pur sembrando in apparenza distinte, tali due forme di divinazione spesso tendono a compenetrarsi reciprocamente ed ad influire in pari tempo sulla vita dell’Urbe essendo, per così dire, coeve alla sua stessa fondazione.



I LIBRI SACRI

Gli Etruschi – afferma Bloch – riponevano grande fiducia nei riti e nelle prescrizioni racchiuse nei Libri:
- libri haruspicini,
- libri fulgurales
- libri rituales
e la lettura dei prodigi era altamente ritualizzata in Etruria, come testimoniano i pochi frammenti degli Ostentaria, tramandatici da Cicerone nel De Haruspicarum Responsum; per i Greci, invece, mancavano rituali scritti, di prescrizioni e espiazioni.

PROFEZIE DELLA SIBILLA

I LIBRI DELLA SIBILLA

A Roma la  prima fase della divinazione è databile proprio all’età dei Tarquini, che sembrano aver introdotto a Roma l’arte divinatoria.

Una seconda fase corrisponderebbe alla tavola dei pontefici (III a.c.) come testimoniato da Livio che nei libri X e seg. descrive i prodigi accaduti ogni anno e riconosciuti dal Senato, seguito poi dall’elenco dei riti espiatori.

In quest'ambito rientrano i Libri della Sibilla, che non sono oracoli ma "remedia", ricette e pratiche religiose per l’espiazione dei taetra prodigia. In un momento particolare nella vita e nella religione romana, costituito dalla crisi della Seconda Guerra Punica (217 a.c. e seguenti), momento in cui cresce la superstitio a causa della paura, aumentano i prodigi e occorrono regole sacre.

Il responso avviene così:
- gli Dei, tra cui Juppiter, Saturno, Nettuno, che sono i maggiori e i più collerici, e poi magari gli altri Dei, manifestano collera e biasimo.
- Perché? Per la negligenza degli uomini verso i riti, o per le discordie interne tra i cittadini.
- Come ? La collera si manifesta nel prodigio che produce danni, morte, pericolo per gli optimates (la plebe conta un po' meno) e per la città.

Solo i "responsa haruspicum" potranno fornire l’espiazione di cui si farà carico lo stato e ripristinare la "pax deorum". A volte occorre trovare nuove espiazioni o introdurre nuove divinità, quando una comunità corre un pericolo si deve conoscere l’avvenire, ed ecco il ricorso alla divinazione.

- Nel 216 Fabio Pittore è inviato a Delfi per conoscere la mantica greca e per ordine di Apollo vengono celebrati i Ludi del 212; le predizioni si propagano per Roma, e quelle di un indovino chiamato Martius sono ritenute “degne” di entrare a far parte della raccolta sibillina, poiché una di esse annunciava con precisione la disfatta di Canne.

LA SIBILLA
- Da questo momento in poi Libri Sibillini diventeranno indispensabili: quando nell’83 un incendio brucerà il raccolto, si invierà una commissione sul suolo italico e greco per reperire gli oracoli della Sibilla; di conseguenza gli haruspices verranno interrogati sulla procuratio prodigiorum, ma si occuperanno pure dei destini di Roma.

- Contemporaneamente verranno introdotti nei Libri Sibillini una raccolta di profezie ispirate di indovini, profetesse e Sibille, del mondo greco, latino ed etrusco, come ad esempio i Carmina Marciana, nonchè la costituzione tardiva di una leggenda sibillina cumana.

- I Carmina Marciana furono una raccolta di profezie attribuite a un certo Marcio, grande indovino,  utilizzata durante la guerra contro Annibale. Questi previde sia la sconfitta di Canne e sia i "remedia" alla sconfitta per ottenere la vittoria.

- I Libri Sibillini, come altri libri ispirati, dovevano sostituire il vaticinio delle sacerdotesse ormai esautorate dalla divinazione, essendo i sacerdoti maschi poco propensi a cadere in quella trance magica che caratterizzava il mondo delle vaticinanti. Pertanto, onde usare un mezzo in modo raziocinante e non ispirato, si rivolsero ai libri sacri, con il compito di interpretarli senza il contatto diretto con la divinità, caratteristico solo del mondo femminile.

- Le donne tuttavia ritrovarono un ruolo importante nel mondo greco come Sibille, sacerdotesse indipendenti e invasate dalla divinità che inviava loro oracoli profetici. Gli oracoli greci erano famosi anche a Roma, per cui gli ambasciatori romani dopo l’incendio del Campidoglio si recarono nella Magna Grecia e nella stessa Grecia per ritrovare gli oracoli della Sibilla.

- In questo contesto nascono i Libri Sibillini tanto che il prefetto di Roma, Fabio Macrobio Longiniano, si allarmò per le allusioni politiche in esso contenute. Infatti le profezie cristiane, tra cui quelle sibilline (una Sibilla di ascendenza giudeo-cristiana e orientale), annunciavano inesorabilmente la fine dell’Impero Romano. La Chiesa ci sperava per occupare alti posti di potere che era disposta a condividere sia pure con i barbari, purchè convertiti alla nuova religio cristiana.

- Gli Oracula Sibyllina contengono un mare di notizie, storiche e non, relative al passato biblico ed alla storia dei popoli e dei regni dalle origini fino all’attualità, esposte sotto forma di oracoli connessi alle calamità che coloro che opprimono i cristiani (e israeliti) dovranno patire. Pur provenendo la Sibilla dal mondo pagano, ella divenne (per volere e invenzione della Chiesa) profetessa del “popolo di Dio”.
Tra queste profezie un posto rilevante occupano il 90° libro degli oracoli, il più antico della raccolta, di età ellenistica, dove Roma appare come l’ultimo degli Imperii :

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LA SIBILLA DELFICA
- « Sventura allora Dio regalò ai Titani. E tutte perirono le stirpi dei Titani e di Crono. Poi, col volger del tempo, sorse il regno d’Egitto, indi quello dei persiani, dei medi, degli etiopi e dell’assira Babilonia; poi dei macedoni e di nuovo il regno d’Egitto, quindi di Roma. »

Segue il «secondo l’oracolo del Gran Dio» che ordina alla Sibilla di «profetare in tutta la terra e il futuro in cuore di mettere ai re »:

- « Ché prima fra tutte la casa di Salomone dominerà sugli abitanti della Feniciae dell’Asia ed anche di altre isole, sulla stirpe dei panfili, dei persiani e dei frigi e dei carii, dei misi e dei lidi, ricchi d’oro. 
- Dopodiché sarà la volta dei greci tracotanti ed impuri, poi avrà il comando un altro popolo grande e vario di Macedonia: ...
- Poi sarà la volta di un altro regno bianco e dalle molte teste, dal mar d’Occidente, estenderà il suo dominio su molta terra, molti sconvolgerà ed a tutti i re in seguito incuterà timore, molto oro e argento rapinerà a molte città

Seguono le predizioni delle catastrofi che colpiranno Roma rea di aver portato ai Giudei lutti e sofferenze. Segue la fine del mondo con un giudizio finale e le pene eterne per i malvagi ma pure il paradiso per i buoni, tutto a causa delle iniquità e malvagità degli imperatori di Roma, per giunta pagani e causa della collera di Dio, con conseguente distruzione della città e invece salvezza del popolo eletto.

Il nucleo centrale è il più antico ed è databile tra il 163 ed il 140 a.c. La successione dei regni sembra seguire lo schema delle dieci generazioni: la generazione di Crono e dei Titani; gli otto imperi; il regno messianico.
- Vengono enumerate le sventure che si abbatteranno sui Titani,
- poi sui greci vittime delle tirannidi,
- su persiani e assiri,
- su tutto l’Egitto e la Libia e gli etiopi,
- per trasferirsi su tutti i mortali.
Non appena avranno fine le prime sventure, subito piomberanno sugli uomini le seconde:
- esse colpiranno anche gli uomini pii, il popolo del Gran Dio.
- Poi verrà la liberazione, ci sarà un nuovo Tempio, e Babilonia, l’Egitto, i paesi dell’Africa soffriranno nuove pene;
- la terra sarà deserta, piena di morti, di fame, di peste invasa dal popolo barbaro;
- ci sarà una moltitudine di prodigi
- verrà la rovina della stirpe funesta dell’Egitto
- e la fine di Roma, ultima di una serie di Imperii.
Come “quinto impero” Roma è descritta anche nel IV libro degli Oracula, composto dopo l’80 d.c.

« Ma quando l’umana stirpe sarà giunta alla decima,  allora dall’Italia un gran re scapperà (Nerone redivivo) come schiavo fuggiasco, in segreto, senza farsi vedere, attraverso il guado dell’Eufrate, quando oserà compiere un orrendo sacrilego delitto sulla madre e molti altri atti, deliberati e perpetrati con mano malvagia. Il sangue di molti bagnerà il terreno intorno al trono di Roma, quando costui sarà riparato nella terra dei parti.

Un principe di Roma (Tito) giungerà nella Siria e dopo aver dato alle fiamme il tempio di Gerusalemme ed aver compiuto grande sterminio, devasterà degli ebrei il grande paese dalle ampie strade. Il terremoto inonderà  Cipro nel suolo d’Italia si leverà un fuoco. Allora sarà dato conoscere l’ira del Dio dei cieli. Allora giungeranno a occidente la contesa della guerra destata ed il fuggiasco di Roma con una grande lancia, dopo aver varcato l’Eufrate con molte migliaia di uomini ».


Insomma questo Dio è perennemente rabbioso, collerico e vendicativo, nonchè critico e giudicante, non gli va mai bene niente e non gli piace nulla di ciò che piace agli uomini. Nell’VIII libro, dell’epoca di Marco Aurelio, si condannano i costumi sociali, le tradizioni politeiste, le capacità belliche della città e se ne preannuncia la fine imminente per mano del “figlio santo” che aprirà una nuova era di felicità (cioè il Medioevo, che allegria..).

Pertanto se gli antichi giuravano, come avvenne, che la statua di Apollo trasudava acqua, cioè lacrime, ed in un'altra occasione sangue, era menzogna e superstizione, ma se a versare lacrime o sangue è la statua di una Madonna, allora è un miracolo. Così come Cristo Salvatore è un dato di fatto, ma Giunone Salvatrice (Sospita) è menzogna e superstizione.

Secondo le Sibille la fine di Roma avverrà 948 anni dopo la sua fondazione, cioè nel 198 d.c.(!):

« Su te un dì piomberà, Roma dal collo elevato, un colpo pari dal cielo e tu, prima, la cervice piegherai. Rasa al suolo, il fuoco interamente ti consumerà, mentre giaci sulla tua terra rannicchiata. La ricchezza scompare e le tue fondamenta da lupi e volpi saranno abitate. Allora verrai completamente abbandonata, come se non fossi esistita. ... O altera signora, o prole di Roma latina: non più la tua arroganza fama ti procurerà, non più, infelice, ti riprenderai ma rimarrai prostrata. La gloria delle legioni, che l’aquila portano, cadrà.

Dov’è dunque la tua forza? Qual paese è il tuo alleato, che tu alle tue vanità hai asservito, senza diritto né legge? Confusione allora tra gli abitanti dell’orbe ci sarà, quando lui stesso sul trono compare, l’Onnipotente, per giudicare ciò che nel mondo esiste, dei morti e dei vivi le anime. ...Di Roma l’impero un tempo fiorente ora è tramontato: Roma, l’antica signora delle città che le stavano d’intorno. Non più il paese di Roma fiorente sarà vincitore, ... Tre volte trecento e ancor quarantotto anni tu compirai e infelice destino su te si riversa, il tuo nome con violenza completando.»

I Libri Sibillini rimasero presso il tempio di Apollo Palatino fino al V sec., dopo di che se ne persero le tracce. Però Rutilio Namaziano, l'ultimo autore del mondo letterario latino e pagano, che rifiuta i culti cristiani, estranei alla tradizione di Roma. nel suo poema De Reditu suo accusa aspramente il generale Stilicone, di origine vandala, di averli bruciati nel 408.
«Egli ordinò di bruciare gli oracoli salvifici dei Libri Sibillini, i garanti dell’eternità dell’Impero»

LUDI SECULARES

LUDI SECULARES

Pertanto, si può certamente affermare la netta distinzione che intercorre tra questa celebrazione dei Ludi Saeculares e le due antecedenti (quelle del 249 e del 149 ca.): nelle precedenti occasioni:
- Roma aveva celebrato i suoi Giochi in un momento di pericolo (la I Guerra Punica, l’ultimo scontro con Cartagine);
- nel 17 Augusto ha già sanato ogni situazione interna ed esterna ed ha ripristinato la pace: i suoi Giochi servono solo a segnare il cambiamento.
- Anche Claudio vorrà celebrare i Giochi: Tacito racconta la celebrazione dei Ludi Saeculares voluti da Claudio nel 47 d.c., 64 anni dopo quelli agustei e secondo Censorino nell’anno 800 a.u.c.; Zosimo ricorda che Claudio celebrò i Giochi senza seguire la datazione di Augusto, ma preferendo celebrare nell’VIII centenario della fondazione dell’Urbe, come fatto basilare e primario di Roma. Insomma i Ludi Secolari seguono il genetliaco dell'Urbe.

La celebrazione voluta da Claudio dovette ripetere quella voluta da Augusto, come Domiziano che fece celebrare i Giochi nell’88 d.c.. Censorino riporta che  tale celebrazione si svolse nell’anno 841 ab U.C., e Zosimo osserva che Domiziano rinunciò al computo usato da Claudio per ritornare a quello augusteo.
La consultazione dei Libri Sibillini, che diverrà sempre più formale, è limitata alla partecipazione al rito dei quindecemviri, ormai adattati all’ideologia imperiale. Tacito proclama con orgoglio la sua partecipazione ai Giochi: la presenza dei membri del collegio, infatti, ha ormai l’unico scopo di dare solennità alla celebrazione.

Tra le altre celebrazioni di Ludi, si ricorda quella dedicata alla Magna Mater Cibele, istituita nel 204 a.c., che verrà poi celebrata annualmente il 4 aprile a partire dal 191. L’oracolo che vuole l’introduzione di Cibele colloca la Dea tra le altre divinità salvatrici di Roma. La Madre frigia viene invocata dai fedeli come soteira, cioè salvatrice, in vita e in morte (termine che passerà poi alla Madonna).

DEA CIBELE

81 a.c.CIBELE A ROMA  

La leggenda vede una Claudia quale matrona prescelta ad accogliere la dea in virtù della sua castità. La fanciulla vestale sospettata di un incesto mai compiuto, dimostra la sua innocenza  mentre il simulacro della Dea entra a Roma su una nave sostando davanti alla casa di Scipione Nasica, il migliore degli uomini.
Anche Cicerone, quando si scaglia contro Clodio e ricorda la celebrazione dei Megalensia, ricorda che la Dea venne portata a Roma dal migliore degli uomini, Publio Scipione, e dalla più casta delle donne, Claudia.
La leggenda di Claudia, come quella di Sulpicia del 215, potrebbe secondo il Köves riporterebbe alla lotta politica tra la fazione dei Claudii e quella degli Scipioni: da un lato l’elezione del giovane Scipione rafforza la potenza della sua gens, dall’altro il miracolo di Claudia pende dalla parte dei Claudii. Secondo il Gérard, tuttavia, la leggenda di Claudia andrebbe datata tra il 50 e il 16 a.c. in corrispondenza alla condotta immorale di Clodio censurata da Cicerone.

Comunque i Romani venerarono per secoli «la Rhea frigia venuta ad essi da Pessinunte» e praticarono anche a Roma i suoi riti, «il dolore su Attis secondo il costume frigio», un penthos rituale terminante con il rito della lavatio, che nel cerimoniale romano costituiva la rievocazione del bagno rituale cui era stato sottoposto l’idolo metroaco appena giunto nella città. A queste celebrazioni luttuose, probabilmente a partire dal I sec. d.c., sarebbe seguita una cerimonia a carattere gioioso, gli Hilaria, rievocante la letizia di Cibele dopo il lutto. Il che sarà ripreso pari pari dalla morte del Cristo e relativa Resurrezione.

A partire dal 204 e fino a tutta l’età imperiale il culto metroaco fu introdotto all’interno della religione romana,regolamentato secondo la tradizione e posto sotto il controllo sacerdotale.
I decemviri, e poi i quindecemviri, deterranno fino alla fine del paganesimo il controllo di questo culto e dei riti adesso connessi. La celebrazione delle feste, posta sotto l’autorità del pretore urbano e degli edili curuli, sarà patrocinata dalle famiglie patrizie.

ANTRO DELLA SIBILLA

LA FINE DEL MONDO

Tuttavia, cerimonie e riti anatolici si svolgeranno, almeno fino al I-II sec. d.c., nel recinto del santuario costruito sul Palatino e consacrato nel 191, ad esclusione della processione che durante i Megalensia accompagnava la Gran Madre al suo bagno nell’Almone (il 27 marzo) al limite del territorio cittadino. annunciando la morte di Mundo. Esso annunciava che quando l’Africa sarebbe stata conquistata «il Mondo con la sua prole sarebbe finito»: "Africa capta Mundus cum natoperibit". La fine del mondo è una caratteristica delle religioni monoteiste.

Spiega Procopio che la Sibilla avrebbe predetto la fine di Mundo e del figlio Maurizio. L’oracolo, probabilmente, doveva essere espresso in forma metrica: Africa capta sedet: Mundus natusque peribit; in latino l’interpretazione  risulta ambigua, circolante in ambienti bizantini militari, che lo reinterpretano nel suo significato “greco”.

Il soggetto della profezia sarebbe allora Mundo, principe dei Gepidi, militante tra le schiere di Teodorico. Nel 510 aveva ricevuto il dominio di un territorio della Mesia, nel 529 era divenuto magister militum per Illyricum, impegnato dal 528 nelle guerre contro i Goti 111, durante le quali trovò la morte insieme al figlio.

Ci troveremmo, allora, di fronte ad un vaticinio ex eventu del genere della sibillistica giudaica, nato in ambiente bizantino e redatto in latino, la cui ambiguità fu voluta ai fini apocalittici tanto cari al cristianesimo. Nelle vicende relative alla Guerra Gotica, inoltre, Procopio cita però gli oracoli della Sibilla favorevoli ai Romani, annuncianti la sconfitta finale dei barbari.

Quando racconta l’episodio dell’assedio di Roma, ad esempio, descrive un prodigio: i piedi del mosaico dedicato a Teodorico posto nella piazza della città di Napoli si staccarono; «il prodigio– afferma Procopio – indicò la fine del regno teodoriciano».

In quell’occasione alcuni Romani «tirarono fuori gli oracoli della Sibilla» ed affermarono che la città sarebbe divenuta salva nel mese di luglio: i Romani avrebbero avuto allora un altro re e non avrebbero più dovuto temere nulla dal Geta.

A questo punto segue l’oracolo della Sibilla in latino, purtroppo corrotto, probabilmente espresso in versi metrici: Quintili mense  rege nihil Geticum iam . «Delle cose annunciate– scrive Procopio – non ebbe luogo nessuna. I Romani non ebbero un nuovo re, l’assedio si prolungò fino all’anno seguente, Roma corse nuovi pericoli sotto un altro re goto, Totila. Probabilmente l’oracolo si riferiva ad un altro episodio, ad un attacco dei barbari avvenuto in passato o anche ad un evento futuro»

114 . Procopio precisa che la Sibilla non racconta i fatti ordinatamente, in successione, né li organizza sintatticamente; pertanto, la mente umana non riesce ad afferrare pienamente il significato delle sue profezie. Esso sarà comprensibile solo "post eventum", non prima. Ciò permetterà al lettore di dare una sua personale interpretazione.

Quindi Procopio riporta una sequenza di “morti” in relazione alla distruzione del mosaico: quando si staccò la testa morì Teodorico, quando si staccò il busto morì Atalarico, quando si staccò il ventre morì Amalasunta... Ora si staccano i piedi: è la distruzione dei Goti.

Secondo l’antica tradizione pagana che collocava le Sibille in un tempo primordiale, Procopio trova naturale che la profetessa abbia annunziato molto tempo prima la morte di un generale bizantino e l’oscura conclusione dell’assedio di Roma 281 189 a.c.

- Consacrazione di una statua nel tempio di Ercole.
- Oracolo: Manlio Vulsone non deve superare il Tauro.
- 188 a.c. - Espiazione di prodigi annuali in seguito ad una eclissi di sole: tre giorni di "supplicationes" da celebrare in tutti i crocevia ed un "novemdiale sacrificium".
- Pestilenza: celebrazione di una "supplicatio pro valetudine populi per triduum" e delle "Feriae Latinae"
-183 a.c. - Celebrazione di una rogativa pubblica in seguito ad una pioggia di sangue.
- 181 a.c. - Espiazione di molteplici foeda prodigia: una "supplicatio" di tre giorni per "totam Italiam" e la celebrazione delle Feriae.
- 180 a.c. - Pestilenza: offerta di doni e statue dorate in onore di Apollo, Asclepio e Salus; celebrazione di una "supplicatio".
- 179 a.c. - Espiazione dei prodigi avvenuti nell’anno: diverse cerimonie espiatorie, tra cui sacrifici, una "supplicatio" della durata di un giorno, e la celebrazione di Ludi votivi.
- 174 a.c. - Pestilenza: una rogativa pubblica e la promessa di celebrare una festa e un’azione di grazia per due giorni nel  caso in cui la pestilenza continui ad affliggere Roma.
- 173 a.c. - Espiazione dei prodigi annuali: diverse cerimonie, tra cui una rogativa pubblica.
- 172 a.c. - Celebrazione di una rogativa pubblica e offerta di piacula a Giunone dopo il suicidio di Quinto Fulvio Flacco. Celebrazioni espiatorie in seguito alla distruzione della columna rostrata sul Campidoglio. Giochi in onore di Juppiter Optimus Maximus.
- 169 a.c. - Espiazione dei prodigi annuali: varie cerimonie, tra cui una rogativa pubblica celebrata secondo il rito greco, cui partecipano tutti i magistrati.
- 167 a.c. - Espiazione dei prodigi dell’anno: un giorno di "supplicatio".
- 166 a.c. -  un sacrificio di cinquanta capre nel foro.
- 165 a.c. - Pestilenza: la sospensione di ogni attività e l’offerta di sacrifici ai crocevia e nei sacelli.
- 149 a.c. - Celebrazione dei quarti Ludi Saeculares.
- 144/40 a.c. - La questione dell’Aqua Marcia e l’opposizione dei decemviri.
- 143 a.c. - Oracolo: la sconfitta di Appio Claudio.
- 142 a.c. - Pestilenza e nascita di un androgino: una "supplicatio" ed altre espiazioni.
- 133 a.c.- Cerimonie in onore di Cerere ad Enna.
- 125 a.c. - Il caso di un androgino: espiazione.
- 122 a.c. - Il caso di un androgino: espiazione.
- 119 a.c. - Il caso di un androgino: espiazione.
- 118 a.c. - Sacrificio ad espiazione dei prodigi dell’anno.
- 117 a.c. - .Il caso di un androgino: espiazione.
- 114 a.c. - Sacrificio di una coppia di galli e di una coppia di greci.Costruzione del tempio di Venere Verticordia.
- 108 a.c. - Espiazione dei prodigi dell’anno: un sacrificio da offriresull’isola Cimolia ad opera di trenta fanciulli e altrettante vergini, patrimi et matrimi.
- 104-03 a.c. - .Il caso di un androgino: espiazione.
- 100 a.c. - La fondazione di Eporedia (Ivrea).
- 99-98-97 a.c. - Casi di androgini: espiazione.
- 98 a.c. - Prodigi funesti durante il sacrificio dei decemviri nel tempio di Apollo.
- 95 a.c. - Il caso di un androgino: espiazione.
- 92 a.c. - Il caso di un androgino: espiazione.
- 89 a.c. - Vendita dei loca publica del Campidoglio.
- 87 a.c. - Oracolo: Cinna espulso da Roma.
- 83 a.c. - Incendio sul Campidoglio: i Libri Sibillini vengono distrutti.
- 83/79 a.c. - Silla porta a quindici il numero dei membri del Collegio.
- 76/69 a.c. - Seconda collezione dei Libri Sibillini. La nuova collezione è depositata nel tempio di Giove Capitolino.
- 63 a.c. - L’oracolo del catilinario Lentulo.
- 56 a.c. - Oracolo su Tolomeo Aulete.
- 49 a.c. - Un albero sprofonda nel territorio cumano: è l’annuncio della guerra civile.
- 44 a.c. - Oracoli su Pompeo e Cesare. 283
- 44 a.c. - Cesare aumenta il numero dei quindecemviri a sedici.
- 38 a.c.Purificazione della statua di Virtus .
- 28/12 a.c. - Inaugurazione del tempio di Apollo sul Palatino; deposito e custodia della nuova collezione di oracoli.
- 17 a.c. - I Giochi secolari di Augusto.
- 15 d.c. - In seguito ad una inondazione, Tiberio si oppone allaconsultazione dei Libri .
- 22 d.c.- I quindecemviri prendono parte ai sacrifici per la salute di Livia.
- 32 d.c. - Tiberio si oppone all’inclusione di un nuovo libro nel canone dei Libri Sibillini.
- 47 d.c. - Galba membro del Collegio. I Giochi secolari di Claudio.
- 66 d.c. - Trasea Peto, quindecemvir , accusato di tradimento da Nerone.
- 64 d.c. - I Libri Sibillini e l’incendio di Roma. Oracolo su Nerone matricida .
- 79 d.c. - La Sibilla plutarchea annuncia l’eruzione del Vesuvio.
- 88 d.c. - I Giochi secolari di Domiziano.
- 98 d.c. - Adriano riceve un oracolo sul suo futuro.
- 222/235 - d.c.Severo Alessandro a favore del Collegio dei quindecemviri .
- 241 d.c. - Cerimonie per allontanare un terremoto al tempo di Gordiano III.
- 262 d.c. - Cerimonie per allontanare un terremoto al tempo di Gallieno: un sacrificio offerto a Juppiter Salutaris .
- 270 d.c. - Devotio di Claudio il Gotico.
- 271 d.c. - Oracolo su Aureliano.
- 282 d.c. - Oracolo: la excellentia di Probo.
- 312 d.c. - Oracolo: Massenzio sconfitto da Costantino. Costantino ed i Libri Sibillini .
- 363 d.c. - Un terremoto proibisce a Giuliano di attraversare le frontiere.
- 284 363 d.c. - I Libri Sibillini distrutti nell’incendio del tempio di Apollo sul Palatino.
- 408 d.c. - I Libri Sibillin i sono definitivamente distrutti da Stilicone ed il Collegio viene sciolto.
- VI d.c. - Profezie sibilline sulla Guerra Gotica.

APOLLO E LE NINFE

LE DIVINITA' PREDITTIVE


DIO CLITUNNO

Il fiume Clitumno in Umbria dava oracoli, il solo tra i fiumi che avesse tal privilegio. Plinio dice di questo Dio Clitumno da cui si può prendere ancora l'oracolo essendovi alla sua sorgente un tempio antico e rispettabile. Clitumno ivi era vestito alla romana. Il suo potere e la sua presenza è indicata dagli oracoli. All'intorno v'erano diverse cappelle ed alcune aveano fontane e sorgenti. Esso è come il padre d'altri piccoli fiumi che si uniscono a lui. Un ponte divide le acque sacre dalle profane.


DEA PROVIDENTIA

La Dea Providentia (Provvidenza) era presso i romani la personificazione divina dell'abilità di prevedere il futuro. Rappresentava una delle virtù romane che facevano parte del culto imperiale. In realtà la divinità romana ebbe un'antesignana, la Pronoia, un concetto greco caro ai filosofi ma soprattutto agli stoici, per cui la provvidenza era l'Ananke, il Fatum, un fato divino ma pure razionale, che governa i vari cicli della vita terrena, prevedendo il modo con cui si svolgerà il corso degli eventi ma pure provvedendo a che esso si svolga nella migliore forma possibile, al meglio o al meno peggio.

DEA NENIA

DEA NENIA

Nenia era una antichissima Dea preromana oltre che romana, che si occupava di predire la malattia o la guarigione, insomma se la persona malata sarebbe guarita o sarebbe morta. Sembra che la Dea venisse rappresentata con un biflauto da cui faceva uscire le note calmanti e sonnifere, e un serto di mirto (la pianta dei morti) tra i capelli. Di solito veniva onorata, oltre che con rami di mirto, con rose appassite unite a boccioli, segno dell'avvicendarsi ciclico di vita e morte.

Proprio per questo doppio filo la Dea veniva deputata anche al canto che faceva addormentare i neonati, quindi collegata al sonno e alla morte che era a sua volta una specie di sonno. Le si offrivano anche papaveri rossi immersi nel vino che venivano in parte bevuto dai sacerdoti e in parte versato sulla statua della Dea.

In tempi più antichi c'era una sacerdotessa preposta al culto che si dedicava anche alla divinazione, come il culto si trasferì dalle campagne a Roma, la sacerdotessa venne soppiantata da un sacerdote e venne cessata la pratica della divinazione.


DEA FORTUNA PRIMIGENIA

Culto risalente all'VIII secolo a.c., affermato soprattutto per il suo potere oracolare, si che da ogni parte del Lazio accorrevano i pellegrini per accogliere i responsi delle sue sacerdotesse nell'Antro delle sorti, dove le sacerdotesse facevano uso di alcune tavolette di legno che forse avevano dei simboli, mediante cui prevedevano il futuro.



VATICINII CELEBRI

Cesare turbato da un sogno della notte precedente (aveva sognato infatti di violentare sua madre) fu incitato a nutrire le più grandi speranze dagli stessi indovini che gli vaticinarono il dominio del mondo quando gli spiegarono che la madre, che aveva visto giacere sotto di lui, altro non era che la terra stessa, considerata appunto madre di tutti.

DUROCORTORUM - REIMS (Francia)

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DUROCORTORUM
Durocortorum era il nome romano della odierna città di Reims, derivante dal celtico "Durocorteron" ("fortezza rotonda"), ed era la seconda città più grande della Gallia romana (Gallia Belgica), già oppidum e capitale della tribù dei Remi che la fondarono intorno all'80 a.c..
Durante la conquista della Gallia di Giulio Cesare (58–51 a.c.), i Remi si allearono con i romani e, grazie alla loro fedeltà durante le varie insurrezioni galliche, ottennero il favore speciale di Roma.

La città fiorì talmente in epoca romana, essendo un nodo così importante nel sistema viario della Gallia Belgica che era raggiunta da ben otto strade commerciali ed ebbe una popolazione compresa tra 30.000 e 50.000 o forse fino a 100.000,

Dopo l'insediamento di Flavius ​​Magnus Maximus Augustus come imperatore della parte occidentale dell'Impero romano, dal 383 al 388, ad Augusta Treverorum, Durocortorum venne chiamata "Metropolis Civitas Remorum" decadendo da capitale della Gallia Belgica, sebbene rimase la capitale della Belgica Secunda (area compresa tra il Canale della Manica e l'alto fiume Mosa).

LA PORTA DI MARTE, IERI ED OGGI
Le menzioni di Durocortorum in ordine cronologico:
 - Tolomeo - Geografia, II, 9, 6 Duricortora.
- Giulio Cesare - De bello gallico, VI, 44 e 3.
- Strabone - Geographica, IV, 3, 5.
- Ammiano Marcellino - Res gestae XV, 11-10.
- Sinodo di Arles (314) nel codice C 37 civitas Remorum , K 27, A 24, D 24 ( Item de Galleis. Inbetausius episcopus, Primigenius diaconus de ciuitate Remorum [Reims] ).
- San Girolamo - lettera CXXIII, 15 a Gerchia, Remorum urbs.
- Codice Teodosiano - Valente e Valentiniano II si trovano a Durocortorum nel 366 e 367 promulgando le ordinanze imperiali (libro VIII, XI e XIV).
- Notitia dignitatum - menzionata per la sua fabbricazione di spade (impero occidentale IX, 36), di abiti da corte (impero occidentale XI, 56), di laboratori per gioielli d'oro o d'argento (impero occidentale XI, 76), per la residenza del principale esattore delle tasse (impero occidentale XI, 34) e prefetto dei laeti (barbari) e dei pagani (impero occidentale XLII, 42).

DETTAGLIO DELLA PORTA DI MARTE

LA CITTA' DEI REMI 

Durocorteron, l'insediamento principale dei Remi (popolo belga della Gallia nord-orientale) era un oppidum situato vicino agli attuali villaggi di Variscourt e Condé-sur-Suippe, presso Reims, che fu fondato tra il 450 e il 200 a.c. durante La Tène (cultura europea dell'età del ferro) del I e del II periodo.
 
PIETRA MILIARE DI VICTORINUS
Sicuramente era circondato da due pareti concentriche o fossati e copriva una superficie circa 500 ettari, poi come dimostrano i reperti archeologici delle necropoli adiacenti, fu sostituito dall'oppidio romano di Durocortorum, sotto l'attuale città di Reims.

Poiché i Galli non possedevano la scrittura, abbiamo poche informazioni sulla città dei Remi, considerata tuttavia la città civile più settentrionale. Durante il periodo di La Tène era comunque scarsamente popolata, mentre la città remiana era di 90 ettari e si sviluppava attorno all'attuale "luogo Reale" di Reims. Essa era protetta da fortificazioni, con un fossato di 50 metri di lunghezza, 8 metri di profondità e un muro di terra, probabilmente ricoperto da una palizzata di legno.

Al tempo dell'invasione di Cesare della Gallia, il territorio del Remi si estendeva dalla Senna alla Marna e alla Mosa nella Gallia nord-orientale, al confine meridionale della Gallia Belgica. Vedendo l'avanzata degli eserciti di Giulio Cesare, le Belgae (una grande confederazione gallico-germanica di tribù che vivevano nella Gallia settentrionale, tra il Canale della Manica, la sponda occidentale del Reno e la sponda settentrionale della Senna, da a almeno il III secolo a.c. ) si riunirono per combattere l'invasione romana. 

 I Remi invece, convinti di avere tutto da guadagnare ad aprire le porte ai romani, decisero di allearsi con i romani inviando due rappresentanti con offerte di negoziazione e cercando di convincere i Suessiones (tribù belga della Gallia Belgica occidentale nel I secolo a.c., che abitava la regione tra l' Oise e la Marna), una tribù con cui condividevano leggi e governo, a fare altrettanto.
Nel 57 a.c. le Belgae attaccarono l'oppidum Bibrax nella battaglia dell'Axona del 57 a.c., contro l'esercito romano di Gaio Giulio Cesare. Le Belgae, guidate dal re Galba dei Suessiones, attaccarono, ma furono respinte dalle legioni di Cesare che difesero con successo l'oppido.


SARCOFAGO DEL GENERALE FLAVIO IOVINIO

Dopo il ritiro di Cesare, gli eserciti delle Belghe attaccarono i Remi, ma le truppe romane tornarono immediatamente in soccorso dei loro alleati, che tali rimasero durante tutte le guerre galliche. Durocortorum fu quindi dichiarata città alleata e poté essere indipendente con il privilegio di mantenere le sue leggi, la sua religione e il suo governo, e le Suessiones furono poste sotto il loro dominio.

Al tempo di Cesare, i Carnuti erano dipendenti del Remi, che in una occasione di pericolo intercedette per loro. Nell'inverno del 58–57 a.c., Cesare impose un protettorato sui Carnuti e gli nominò Tasgetius come re, scelto dal clan dominante come ricompensa per il suo sostegno durante le guerre galliche, ma dopo tre anni, i Carnuti lo assassinarono.

"Tasgetius è nato un uomo di alto rango tra i Carnuti. I suoi antenati controllavano la regalità nel loro paese. A causa della sua qualità di persona e della sua buona volontà nei confronti di Cesare, e poiché in tutte le sue campagne militari Cesare aveva sfruttato le sue eccezionali capacità, Cesare aveva riportato Tasgetius al suo rango ancestrale. Nel terzo anno del suo regno, fu ucciso dai suoi nemici. Molti uomini del suo stesso paese erano tra gli istigatori, senza alcuna pretesa di segretezza. Questi eventi furono segnalati a Cesare, che era preoccupato, poiché era in gioco così tanto, che sotto l'influenza di questi uomini la comunità nel suo insieme avrebbe difettato. Ordinò a Lucius Plancus di prendere una legione e avanzare rapidamente dal territorio belga ai Carnuti. Plancus stabilì lì i quartieri invernali e indagò sulle azioni di coloro che avevano ucciso Tasgetius. Questi uomini dovevano essere arrestati e inviati a Cesare".

(Cesare - De Bello Gallico)
CRIPTOPORTICO ROMANO
Per giunta nel 53 a.c., i Carnuti di Cenabum massacrarono tutti i mercanti romani di stanza nella città e uno degli ufficiali del commissariato di Cesare. Per tutto ciò Cesare ordinò a un Concilium Galliae di unirsi a Durocortorum per giudicare Acco, capo dei Carnuti, per la cospirazione tra i Senoni e i Carnuti.
Ma i Senoni cospirarono contro i Romani con i Carnuti: il capo della congiura, Acco, venne allora ucciso per ordine di Cesare. Fu il segnale per della rivolta generale del 52, sotto la guida di Vercingetorige. Cesare bruciò Cenabum, dove fece uccidere gli uomini e fece vendere come schiavi donne e bambini. Il bottino fu distribuito tra i suoi soldati, in modo da finanziare la conquista della Gallia.

Durante la guerra che seguì, i Carnuti (secondo altri erano Senoni) mandarono 12.000 uomini in lotta in aiuto di Alesia, ma vennero sconfitti come tutto l'esercito gallico. Avendo attaccato i Bituriges Cubi, che avevano chiesto aiuto a Cesare, furono costretti a sottomettersi. Cenabum fu lasciato per anni come una massa di rovine, come esempio per gli altri, con due legioni romane presidiate lì.

Sotto Augusto il suo territorio fu integrato nella provincia di Gallia Belgica di cui Durocortorum divenne la capitale.
I TESORI DI DUROCORTORUM

LA CITTA' ROMANA

La città aveva un'area da circa 500 a 600 ettari. La rete stradale aveva un cardo e un decumano maggiori da cui si dipartivano tutte le vie ad essi ortogonali. Le strade maggiori erano larghe 5 metri e fiancheggiate da uno scolo delle acque terminanti nei tombini delle fognature. I due assi principali possono riconoscersi nell'attuale Reims:

- il cardo maggiore: rue de Vesle, avenue Jean Jaures

- il decumano maggiore: rue de l'Université, rue Anatole-France e rue Colbert, che attraversava al centro della città.
MOSAICO DI GLADIATORE
La città gallica probabilmente occupava una piccola altezza naturale che dominava la palude dove la Vesle scorreva nella direzione opposta rispetto al suo corso generale, ma l'altezza ora è probabilmente circa 6 metri sotto il livello della strada.

La città gallo-romana era enorme: era la capitale della Gallia Belgica e una delle più grandi città a nord-ovest di Roma, con quattro porte monumentali di cui la porta di Marte, del III secolo d.c., era orientata verso la Gallia Belgica che era in via di pacificazione. Delle altre porte, solo alcuni resti della porta di Dioniso (porte de Bazée) sono sopravvissuti.

Veri archi di trionfo furono eretti sulle diagonali che collegavano le porte in onore dei colonizzatori romani:

- Dalla porta di Cerere le strade si dividevano verso Augusta Treverorum (Treviri), Divodorum (Metz) e Colonia Agrippina (Colonia). Appena fuori dalla porta di Cerere c'era il quartiere degli artigiani, specializzato principalmente nella lavorazione dell'osso.

- Dalla porta di Marte le strade si dirigevano verso Bavacum (Bavay), Tervanna (Thérouanne) e il porto di Gesoriacum (Boulonge sur mer).

- Dalla porta di Venere una sola strada, che traversava la palude, diretta verso Lutetia (Parigi).

- Dalla porta di Dioniso, le strade si dividevano verso Roma e Tullum Leucorum (Toul). I cimiteri fiancheggiavano le strade che entravano e uscivano dalla città.
GLADIATORI
Alla fine del II secolo, la città si sviluppò economicamente e , beneficiando della Pax Romana che ne conseguì progressivamente, con conseguente aumento del commercio. Fu in questo periodo che furono costruite le porte sopra menzionate e l'enorme area coperta del criptoporto, un'area a forma di U lunga 100 per 50 metri che formava la parte settentrionale del Foro e che divenne il centro commerciale del città.

PORTA BAZEE
Probabilmente si è tenuto un mercato vicino (forse nell'attuale rue du Marc). La città aveva anche un anfiteatro, uno stadio (rue Gosset), un'arena (Rue du Mont-d'Arène), terme , templi e ville ricche come testimoniano i mosaici trovati. La città aveva anche il proprio approvvigionamento di acqua dolce da un acquedotto (aquaduc de Reims) al Suippe, un sistema fognario e una discarica.

Il cristianesimo si era stabilito in città nel 260, in quel periodo San Sisto fondò il vescovato di Reims.

Il console Flavius ​​Jovinus, sostenitore del cristianesimo, divenuto magister militum sotto l'imperatore Jovian (364-375) e sotto Valentiniano I (364-375), respinse diverse incursioni degli Alemanni che invasero lo Champagne, prima che raggiungessero la Metropolis Civitas Remorum (Reims) come viene chiamato Durocortorum durante questo periodo, e che li sconfisse nella battaglia nel 366 a Scarponna (Dieulouard). Nel 367 divenne console. La città non aveva ancora fortificazioni difensive e il progressivo declino dell'Impero romano non aveva forze militari sufficienti per proteggerla. All'epoca la città si estendeva oltre il grande fossato gallo romano, ma la popolazione declinò e trovò rifugio all'interno del perimetro delimitato da quattro porte romane.

Il recinto si trova ancora nel piano stradale formato da: - rue de Talleyrand, - rue de Chanzy, - rue de Contrai - rue des Murs, dal nome delle mura costruite in quel periodo, - rue Ponsardin, - rue Rogier, - rue Andrieuz, - viale Désaubeau.

Le difese non furono comunque sufficienti e nel 406 i Vandali calarono sulla città e la saccheggiarono. Gli abitanti si rifugiarono nella cattedrale cristiana, dove il vescovo Nicasio di Reims fu decapitato sulla soglia mentre cercava di rallentarli.
Nel 451 vennero attaccati dagli Unni, ma di questo periodo non è rimasto quasi nulla, tranne alcune tracce di fortificazioni e il sistema stradale romano che non era stato modificato. Sembra che la città sia stata incendiata e ricostruita più volte, ma si può ancora trovare poco poiché gli abitanti, molto più poveri, usarono materiali economici e facili da lavorare ma deperibili come legno, paglia e argilla.


MERCURIO - DOMUS DI MERCURIO
Dal XIX secolo sono stati effettuati molti scavi archeologici nella città, nella nuova stazione ferroviaria, e in zone limitrofe che hanno rivelato: le case romane, la porta di Marte, il santuario di rue Belin, il foro, le terme e la necropoli alle uscite della città.

Tra le case scavate: 

- la domus di Muranus, nelle alte passeggiate,
- la domus di Mercurius, in rue Eugène-Desteuque,
- la domus del rosario, in rue Eugène Desteuque,
- la domus dei pesci e della pergola in rue Chanzy e rue Libergier risalenti al I secolo d.c.,
- la domus con il giardino, in rue des Capucins,
- la domus degli innamorati, in rue des Capucins e rue Boulard,
- la domus dell'Ariete, in rue des Capucins et rue Boulard,
- la domus di Piazza della Missione, sotto il monumento ai morti di Reims,
- la domus dell'uccello, in rue des Marmouzets,
- la domus dei fiori, in rue de la Paix, risalente al II secolo d.c.,
- la domus di Notturno, in rue des Moissons,
- la domus dei gladiatori, sulle alte passeggiate, risalente al III secolo d.c.



    BIBLIO

    - Charles Loriquet, Avviso sulle antichità di Reims, scoperte recenti e misure adottate per la conservazione degli antichi monumenti della città , 1861.
    - Reims - Enciclopedia Britannica (XI ed.). Una geografia storica della Francia . Cambridge University Estratto il 10 ottobre 2014 .
    - Pictor 1 - ed. 2013 - Peintures murales et stucs d’époque romaine. De la fouille au musée, Actes des XXIV et XXV séminaires AFPMA, Narbonne, 12-13 novembre 2010 et Paris, 25-26 novembre 2011, Ausonius Pictor 1, Bordeaux.
    - Pictor 3 - ed. 2014 - Peintures et stucs d’époque romaine. Relever l’architecture par l’étude du décor, Actes du XXVI colloque de l’AFPMA, Strasbourg 16-17 novembre 2012, Pictor 3, Bordeaux.
    - Pictor 5 - ed. 2016 - Boislève A. Dardenay et F. Monier, ed. 2014: Peintures et stucs d’époque romaine. Une archéologie du décor, Actes du XXVII colloque de l’AFPMA, Toulouse 21-22 novembre 2014, Pictor 5, Bordeaux.
    - Ernest Kalas, Les Aspects du Vieux Reims nel Bulletin de la socièté archologique champenoise del 1912.
    - Robert Neiss, Agnés Balmelle, Les maisons de l'élite à Durocortorum (Bulletin de la Société Archéologique Champenoise, tome 96). 

    VI REGIO AUGUSTEA - UMBRIA

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    JESI TEATRO ROMANO
    La Regio VI era anche detta Umbria et Ager Gallicus, in quanto nel territorio regionale erano compresi due territori:

    - la parte dell'attuale Umbria ad est del Tevere con le attuali città di Terni, Narni, Spoleto, Foligno, Assisi, Gubbio e Città di Castello.
    - l'Ager Gallicus, detto anche Ager Gallicus Picenus, il territorio che i Romani avevano conquistato ai Galli Senoni, che di nuovo la invasero mescolandosi ai Piceni, corrispondente alle attuali Marche settentrionali, a Nord dell'Esino.

    La parte occidentale dell'Umbria attuale, situata ad ovest del Tevere, con le città di Perugia, Orvieto, ecc, .era invece compresa nell'Etruria. Una descrizione del territorio della Regio VI è presente nella Naturalis Historia di Plinio il Vecchio (Libro III) con l'elenco delle città che con i propri territori costituivano la regione:
    «Aggiungeremo a questa la sesta regione che comprende l'Umbria e il territorio dei Galli al di qua di Rimini

    Essa fu una delle regioni dovute al riordinamento che fece Cesare Augusto nell'Italia nel I secolo;
    in occasione della riforma dioclezianea dell'amministrazione imperiale, la Regio VI fu unificata alla Regio VII Etruria per formare la Tuscia et Umbria, mentre la parte orientale della VI Umbria al Piceno a formare la Flaminia et Picenum.



    LE CITTA'

    - Aesis - oggi Jesi -
    facente parte dell'ager Gallicus, nelle Marche, di fondazione picena, appartenente alla tribù Pollia, poi colonia romana dedotta nel 247 a.c. Negli scontri coi Galli Sénoni i Romani li vinsero nella battaglia del Sentino del 295 a.c., poi Roma sconfisse definitivamente i popoli italici e nel 283 a.c. stabilendo così numerose colonie, tra cui Jesi nel 247 a.c. che divenne la Colonia Civium Romanorum di Aesis e fu incorporata nella Regio VI Umbria.
    Nacque così il municipium di Aesis sul modello del castrum, rimasto fino ad oggi. I Romani costruirono anche un'importante via di comunicazione, la Via Salaria Gallica, che passando proprio per Jesi (importante centro per il pagamento del dazio fra la V e la VI Regio) collegava la Via Flaminia alla Via Salaria. In epoca romana Cupramontana e Planina furono i due centri vicini di Aesis, ma a differenza di quest'ultima non sopravvissero ai saccheggi e alle distruzioni barbariche.


    - Ameria (nome latino) - Amer (nome umbro) - oggi Amelia,
    locata in Umbria e di fondazione umbra. Secondo il mito fondata dal re Ameroe, con resti di mosaici e terme romane. Divenne Municipio dopo essersi alleata con Roma. Conserva la statua bronzea di Germanico, opera di eccezionale valore e unica al mondo, conservata nel Museo archeologico della città. 


    - Arna - Civitella d'Arna -
    in Umbria, di fondazione umbra, poi governata dagli etruschi sotto cui fiorì nel IV secolo a.c., il suo castello del XIII secolo venne costruito su fondamenta di antiche cisterne romane.


    - Asisium - Assisi -
    in Umbria - di fondazione umbra - della tribù Sergia - conquistata dai Romani nel 295 a.c., con la battaglia del Sentino, insieme a tutta l'Italia Centrale. Prese il nome latino di Asisium e fu monumentalizzata a partire dal II secolo a.c. Nell'89 a.c. divenne municipium e fu un importante centro economico e sociale dell'Impero romano.


    - Attidium (n.l.) - Atiersium (n.u.) - Attiggio -
    vicino a Fabriano - nelle Marche - di fondazione umbra - della tribù Lemonia, vanta delle terme romane.


    - Camerinum n.l. - Kamars n.u. - Camerino -
    nelle Marche, di fondazione umbra, presso il confine del Piceno, della tribù dei Camerti che secondo una leggenda, avevano abbandonato la città natia, Kamars, perché vinti in guerra dal popolo dei Pelasgi. I Camerti ed i Romani strinsero un trattato di alleanza, l'Aequum Foedus (309 a.c.). Ottenne la cittadinanza romana, confermata da Gaio Mario nel 101 a.c. e da Settimio Severo nel 210. Durante la II guerra punica i Camerti fornirono a Roma 600 combattenti. Fiorì durante l'Impero, nel teatro comunale emersi i resti di un mercato d'epoca romana.

    CARSULAE

    - Cornelia - Carsulae -
    vicino a San Gemini, in  Umbria, posta al confine  tra  Interamna Nahars (Terni) e Casventum (San Gemini), lungo la futura via Flaminia, abbandonata già in epoca remota a seguito di gravi smottamenti del terreno ed è ancora in parte sepolta


    - Cupramontana -
    nelle Marche - di fondazione picena - deriva il suo nome dalla italica Cupra, Dea della fertilità e della bellezza adorata dalla popolazione preromana dei Piceni alla quale era dedicato un tempio nella zona. Cupramontana divenne poi un importante municipio romano, il cui fulcro si estendeva nell'attuale zona del cimitero e di cui resta a testimonianza il serbatoio detto Barlozzo.


    Fanum Fortunae - Colonia Julia Fanestris - Fano -
    appartenente all'ager Gallicus, nelle Marche, di fondazione picena, poi colonia romana, della tribù Pollia, il nome rimanda al "Tempio della Fortuna", eretto a testimonianza della battaglia del Metauro, nel 207 a.c. quando le legioni romane vinsero e uccisero Asdrubale che voleva ricongiungersi al fratello Annibale.
    Nel 49 a.c. Giulio Cesare la conquistò assieme a Pesaro, dando così inizio alla Guerra Civile contro Pompeo. Successivamente Cesare Augusto la dotò di mura di cinta, elevandola a colonia romana col nome di Colonia Julia Fanestris. Nel 271 d.c., si svolse nei suoi pressi la Battaglia di Fano che segnò la fine del tentativo degli Alemanni di raggiungere Roma, sconfitti dall'imperatore Aureliano.


    - Forum Flaminii - San Giovanni Profiamma -
    presso Foligno in Umbria - Fondata nel 220 a.c. dal censore Gaio Flaminio durante la costruzione della via Flaminia con lo scopo di organizzare un mercato sotto la diretta sorveglianza di Roma. La sistemazione del forum va pertanto riferita alle iniziative intraprese dal potere centrale di Roma, quando il console Gaio Flaminio iniziò a sistemare, probabilmente su itinerari preesistenti, il tracciato della Via Flaminia.


    - TufiemoForum Julii Concupiensium - Pietralunga -
    In Umbria. La fondazione del centro urbano col nome di Tufiernu, risale al popolo Umbro. Durante il florido periodo romano venne chiamata Forum Julii Concupiensium. L'oppidum dei foroiulienses cognomine concupienses, elevato a Municipium nell'età augustea, è citato anche da Plinio il Vecchio nella "Naturalis historia. Ne restano ville, acquedotti, fistulae aquariae, monete e strade con tratti interamente basolati. A san Crescenziano, legionario romano a cui la leggenda attribuisce l'uccisione di un drago alle porte di Tiferno (Città di Castello), decapitato e sepolto a Pieve de' Saddi dove, venne dedicata, sopra le vestigia di un tempio pagano, una chiesa per accogliere le spoglie del martire.


    - Forum Sempronii - Fossombrone -
    dell'ager Gallicus, nelle Marche, di fondazione picena, della tribù Pollia, deve il nome al tribuno Gaio Sempronio Gracco capitato in queste zone nel 133 a.c. per l'applicazione della legge agraria, venne elevato al rango di municipio nel I secolo a.c. e conobbe un periodo di splendore in epoca imperiale. Plinio il Vecchio  nella sua Naturalis historia del II secolo d.c.chiama i suoi abitanti Forosempronienses. 


    - Fulginium, Fulginia Fulkinion - Foligno -
    nell'Umbria, di fondazione umbra ad opera degli "Umbri Fulginates" nel X secolo a.c., divenne poi Fulginium romana, situata in zona precollinare nei pressi di Santa Maria in Campis, alla biforcazione dell'antica via Flaminia e dello sbocco del fiume Topino (l'antico Supunna umbro o Timea romano) a fondovalle. Le sue strade sono in rapporto a quattro ponti romani tuttora esistenti sull'antico corso del fiume Topino. Dal 258 a.c. fu prefettura e municipio, dal 254 a.c., venne iscritta alla tribù Cornelia ed ebbe notevole importanza durante l'epoca imperiale.


    CORNELIA HISPELLUM
    - Cornelia Hispellum - Spello -
    in Umbria, di fondazione umbra. della tribù Lemonia, poi Julia Splendidissima colonia Julia. Agli inizi del sec. IV d.c. Costantino I, ovvero Flavio Valerio Aurelio Costantino, le cambiò il nome in Flavia Costans, cioè le dette il suo nome concedendole vari privilegi.
    Ne restano: la porta consolare, l'arco di Augusto in via Giulia, il bel complesso di porta Venere con due torri (dette di Properzio), le porte "urbica" ed "arce", resti dell'anfiteatro romano ma anche del Foro, delle antiche mura, di varie evidenze negli spazi di Villa Fidelia.


    - Iguvium o  Eugubium - Ikuvium - Gubbio -
    in Umbria, di fondazione umbra, alleatasi con Roma nel 295 a.c., nel 167 a.c. vi fu custodito Genzio, ultimo re dell'Illiria fatto prigioniero dal pretore Lucio Anicio Gallo. Genzio fu condotto prigioniero ed assieme alla moglie e ai figli fece parte del trionfo di Lucio Anicio (167 a.c.). Quindi fu inviato al confino a Gubbio (secondo altri a Spoleto), dove probabilmente morì. Gubbio ottenne nell'89 a.c. la cittadinanza romana: fu eletta a municipium e ascritta alla tribù Clustumina. 


    - Interamna Nahars - Terni -
    in Umbria, in base ad un'iscrizione del 32 d.c. (Corpus Inscriptionum Latinarum XI, 4170) di fondazione umbra nel 672 a.c.. Le genti preromane che l'abitavano dalle fonti latine sono chiamate Nahartes (da cui Interamna Nahartium, ossia dei Naharti), come tutte le popolazioni umbre che vivevano lungo il corso del fiume Nahar (il Nera) in fondo alla valle.
    Nel 290 a.c. Manio Curio Dentato fece edificare la Via Curia (scomparsa), collegando Terni a Rieti e realizzò il taglio del costone delle Marmore, per facilitare il deflusso delle acque del Velino nel Nera. Dopo la Guerra sociale, Interamna divenne municipium e fu iscritta alla tribù Clustumina. Nella prima metà del I secolo d.c. nella Terni romana vennero edificati templi, il teatro, due terme e l'anfiteatro.
    Nel 275 d.c., assassinato Aureliano, un ternano divenne imperatore di Roma: Marco Claudio Tacito, che punì i responsabili della morte di Aureliano, riordinò la rete stradale, si rivolse contro gli Eruli e i Goti che saccheggiavano i territori dell'Asia Minore; sconfitti, affidò la continuazione dell'impresa al fratellastro Marco Annio Floriano, prefetto del pretorio. Nonostante l’età si impegnò nella guerra contro i persiani che Aureliano aveva avviato. Dopodiché, a 75 anni, si ritirò a vita privata ritornando ad Interamna dove morì un anno dopo.


    - Matilica - Matelica -
    nelle Marche, di fondazione picena, iscritta alla tribù Cornelia. Nel I sec. a.c. divenne municipium; l’attestazione della magistratura dei duoviri consente di datare l’assunzione della municipalità intorno alla metà del I sec. a.c. Riemerse varie domus e le terme.

    MOSAICO DELLE TERME DI BEVAGNA

    - Mevania - Bevagna -
    nell'Umbria, di fondazione umbra, iscritta alla tribù Aemilia, conquista romana dell'Umbria con la famosa Battaglia del Sentino del 295 a.c., divenne Municipio romano nel 90 a.c. col nome di Mevania, servita dalla via Flaminia (220 a.c), e dal suo porto fluviale sul Topino. Munita di una cinta muraria, di terme e d'un anfiteatro dei quali restano ancora le vestigia.


    Mevaniola -
    vicino a Galeata, nella Romagna, di fondazione umbra, annoverata da Plinio il Vecchio tra le città umbre, iscritta alla tribù Stellatina, vi è stato rinvenuto un balneum con diversi mosaici ed una cisterna per l'acqua piovana. Fu abbandonata intorno al IV-V secolo d.c. per ragioni sconosciute.


    - Narnia - Nahars - Nequinum - Narni -
    Nell'Umbria, fondata dagli Umbri come Nequinum,  Nel 300 a.c. venne assediata dal console Quinto Appuleio Pansa che riuscì a conquistarla solo nel nel 299 a.c. grazie al tradimento di due locali che permisero ai Romani l'ingresso tra le mura. Divenne colonia romana e centro strategico lungo la via Flaminia. Per punire il sostegno dato ai Galli, venne distrutta dai romani, ma rifondata nelle vicinanze, considerando Nequinum di cattivo auspicio (in latino, nequeo significa "non posso", e nequitia "inutilità".), i romani cambiarono il nome della città in latino di Narnia, dal nome del vicino fiume Nar, attuale Nera, e iscritta alla tribù Papiria.
    Lungo il fiume Nera, nei presso Stifone, dove si trovava il porto della città romana, è stato individuato il sito archeologico di un cantiere navale romano. Divenne Municipium nel 90 a.c. Nell'anno 30 d.c. vi nacque Nerva, ultimo italico tra gli imperatori romani. Di epoca paleocristiana è la citazione di Narnia ad opera di Tertulliano, nell'Apologeticum, in un elenco di "falsi dei" redatto nel I secolo, in quanto la città era dimora del dio Visidianus (Narnensium Visidianus).


    - Nuceria Camellaria - Nocera Umbra -
    nell'Umbria, di fondazione umbra, lungo la via Flaminia, sul ramo che portava a Fanum. I Romani costruirono anche un'altra strada, la Septempedana, che attraversati i vici di Dubios, Prolaqueum e Septempeda proseguiva per Ancona. Plinio il Vecchio, nella sua Naturalis Historia, nell'elenco dei Popoli Umbri cita i "Nucerini cognomine Favonienses et Camellani", (i Nocerini chiamati Favoniensi e Camellani), i primi (Favoniensi) avrebbero abitato nella vicina località oggi chiamata Pievefanonica, mentre un gruppo di Camellani si sarebbero trasferiti vicino ad Arcevia nel Piceno. Divenne colonia romana dal I sec. a.c..


    - Nuceria Favoniensis - Pievefanonica -
    vicino a Capodacqua (Foligno), nell'Umbria, oggi un piccolo agglomerato di case, attorno ad una chiesa presumibilmente costruita su di preesistente tempio pagano, da cui il toponimo Pieve Fanonica (Plebes – Pieve, fanum – tempio).

    OCRICULUM

    - Ocriculum - Otricoli
    nell'Umbria, di fondazione umbra, Narra Tito Livo che, dopo la battaglia di Mevania (Bevagna), agli abitanti di Ocriculum venne formalmente promesso che sarebbero stati accolti tra gli amici di Roma - "Ocriculani sponsione in amicitiam accepti".
    Così Ocriculum divenne città di confine tra l'Umbria, l'agro Falisco e la Sabina sia in ambito fluviale, attraverso il cosiddetto "Porto dell'Olio", sia in quello terrestre, a seguito della costruzione nel 220 a.c. della Via Flaminia; è da questo periodo che si suppone che la città, con le attività commerciali, si sposto lungo la riva del Tevere.
    Fu ascritta alla tribù Arnensis, come documentato da diverse epigrafi rinvenute in loco e divenne municipio, retto da quattuorviri: nella divisione operata da Augusto assegnata alla Regio VI, di cui costituì l’estremo lembo verso la Sabina.
    Narra Tacito che nel 69, durante la guerra tra  Vespasiano e Vitellio, Marco Antonio Primo, comandante del primo, radunò le truppe a Carsulae, passò indenne da Narni, e poi raggiunse Ocriculum, dove si fermò per festeggiare i Saturnalia. In occasione della riforma dioclezianea delle suddivisioni amministrative della penisola italiana, Ocricolum entrò a far parte della Tuscia et Umbria.


    Ostra - Ostra Vetere -
    Appartenente all'ager Gallicus, nelle Marche, di fondazione romana, ascritta alla tribù Pollia, In località "Le Muracce" di Pongelli, si trovano le rovine dell'antica città, fu dapprima prefettura nel 232 a.c. per poi ricevere lo statuto municipale nel corso del I secolo a.c fino a raggiungere nel II d.c. il massimo della cultura e della ricchezza. Venne abbandonata in quanto distrutta da Alarico nel 410.


    Pisaurum - Pesaro -
    appartenente all'ager Gallicus, nelle Marche, di fondazione picena, poi, dal 184 a.c., colonia romana iscritta alla tribù Stellatina. Il nome deriverebbe da Furio Camillo che, vinti i Galli, avrebbe pesato l'oro (aurum in latino) che i barbari stavano trafugando da Roma. In età triumvirale e augustea la città assunse il nome di colonia Iulia Felix Pisaurum. Fu successivamente colonizzata nuovamente durante il secondo triumvirato da Ottaviano e Marco Antonio, diventando, durante l'Impero, castrum e centro economico posto sulla via Flaminia.


    - Pitinum Mergens -
    vicino ad Acqualagna nelle Marche. Della tribù Clustumina L’abitato era situato lungo il percorso della strada che si distaccava dalla Flaminia a breve distanza dalla gola del Furlo e che proseguiva verso il passo appenninico della Serriola (m 730), aperto verso l’alta valle del Tevere.

    Nel sito in cui sorgeva la città, attualmente sottoposta a vincolo archeologico, sono stati segnalati due brevi tratti di mura urbiche; resti di strutture del teatro romano sono stati rinvenuti in una zona in leggero pendio.


    - Pitinum Pisaurense -
    vicino a Macerata Feltria, appartenente all'ager Gallicus, nelle Marche, della tribù Oufentina, menzionata da Plinio (Nat. hist., III, 114), edificato nel III sec. a.c., vi si veneravano le divinità di Saturno, Fortuna, Minerva e Matronae-Iunones.


    - Planina - Castelplano -
    nelle Marche, ritrovati mosaici, una villa romana e un'epigrafe romana di Quinto Precio Proculo, un ricco possidente della città di Ostra antica.



      - Plestia -
    vicino a Colfiorito, sito in Umbria/Marchedi fondazione Plestini (umbri), Dal VI secolo a.c. al I secolo a.c. fu luogo di culto dedicato alla dea Cupra, Nel III secolo a.c. ottenne la cittadinanza sine suffragio e la prefettura; nel II secolo a.c. ottenne la cittadinanza optimo iure e l'iscrizione nella tribù Oufentina. Dopo la guerra sociale del 90 a.c., si compì il processo di urbanizzazione che portò alla nascita della città di Plestia, con la creazione della Res Publica Plestinorum, municipio romano


    - Sassina - Sarsina -
    nella Romagna, di fondazione umbra (Sassinates), venne sottomessa dai Romani nel 266 a.c., in seguito a due gravose campagne militari, che le conferirono lo status di civitas foederata (città alleata), concedendole una certa autonomia. Pertanto nel 225 a.c., quando i Romani combatterono contro i Galli, i Sassinates, insieme gli Umbri, fornirono all'esercito romano 20.000 soldati. Nel I secolo a.c. Sassina, divenuta municipio romano, venne iscritta alla tribù Pupinia e venne riorganizzata sul piano urbanistico ed architettonico, con la dotazione inoltre di una massiccia cinta muraria.


    Sena Gallica - Senigallia -
    appartenente all'ager Gallicus, nelle Marche; dopo la battaglia di Sentino del 295 a.c. i romani ottennero il territorio tra il fiume Esino e Ariminum (Rimini), popolato dai Galli Senoni, che fu denominato da quel momento Ager Gallicus.
    Nel 284 a.c. istituirono la colonia romana di Sena Gallica, la prima sull'Adriatico, e nel 207 a.c. la città fu base di partenza delle truppe romane che infersero un duro colpo ai cartaginesi sulle rive del Metauro sconfiggendo in battaglia Asdrubale Barca, fratello di Annibale, che stava accorrendo in suo aiuto. Ottenne pertanto lo status di colonia romana dal 283 a.c. e venne iscritta alla tribù Pollia.


    - Sentinum - Sentino -
    vicino a Sassoferrato, nelle Marche, nota soprattutto per la battaglia del 295 a.c., dove Decio Mure effettuò la sua eroica devotio, ed in seguito alla quale divenne città federata di Roma. Dopo la guerra sociale diventò municipio retto da quattuorviri e venne iscritto alla tribù Lemonia.
    In età romana doveva possedere una cinta di mura, perché Ottaviano non poté nel 41 a.c. espugnarla con la forza e solo il suo luogotenente Salvidieno Rufo riuscì ad occuparla con l'inganno e, pare, con confische ed assegnazioni di territorio; tuttavia continuò a vivere come municipio, almeno fino al sec. III d.c., in cui abbiamo alcune iscrizioni datate.


    Sestinum - Sestino -
    in Toscana, Nel I secolo a.c. i romani edificarono su un villaggio di capanne una grande città (un municipium con il foro, la curia e le terme) sul crocevia degli Appennini, dove convergevano strade per le Marche, la Toscana e la Romagna, venne iscritta come tribù Clustumina.

    DOMUS ROMANA DI SPOLETO

    Spoletium - Spoleto -
    In Umbria, di fondazione umbra, la colonia romana fu fondata nel 241 a.c.. Il suo nome deriva probabilmente dal greco “spaolothos”, pietra spaccata, da cui il latino Spoletium, sorge sulla sommità di un colle ed ha per decumani massimo la via Flaminia, la via consolare che la poneva in comunicazione coi territori italici del nord.
    Divenne poi colonia romana e rimase fedele alleata di Roma anche durante le guerre puniche, quando respinse vittoriosamente l'esercito di Annibale dopo la battaglia del Trasimeno nel 216 a.c. Ha come resti: il Ponte sanguinario, l'Arco di Druso e Germanico, il Teatro Romano, una casa attribuita dalla tradizione a Vespasia Polla, madre dell'imperatore Vespasiano.



    - Horatia Suasa - detta a volte Suasa Senonum -
    vicino a Castelleone di Suasa ager Gallicus, nelle Marche, di fondazione romana, iscritta alla tribù Camilla; La città sorge nel III secolo a.c. come praefectura e assume dignità municipale a metà del I secolo a.c. In un'iscrizione il pretoriano Lucius Naevius Verus fu sepolto a Pergola nel territorio di Suasa da un altro Lucius Naevius.


    - Suillum - Sigillo -
    in Umbria, Plinio il Vecchio (79 d.c.) nella sua Naturalis Historia, narra che Suillum fu fondato dalla popolazione umbra dei Suillates; in epoca imperiale ebbe il municipium di Suillum, retto dai magistrati "Duoviri". Attraversato dall'importante via Flaminia, costruita nel 220 a.c., a 127 miglia da Roma, per raggiungerla erano necessari tre giorni di viaggio sui carri..


    - Tadinum - Tarsina - Gualdo Tadino -
    in Umbria, di fondazione umbra; gli scavi ne hanno portato alla luce cinque complessi edilizi: le terme pubbliche, il foro civile con adiacente area sacra, un'area di mercato ed una grande domus. Le terme sono costituite da un grande edificio, con fronte di 40 m che si affaccia lungo la Flaminia, realizzato all'inizio del I sec. d.c..
    L'area sacra si sviluppa a sud del foro, prima delle grandi terme, con un'area porticata che si affaccia sulla via Flaminia. Il portico, del I sec. d.c., con colonne con base in travertino ed alzato in calcaree e laterizio, nel IV sec. d.c. fu sostituito da un nuovo portico a pilastri.
    Il forum pecuarium o mercato del bestiame, si trova a sud delle terme ed è una vasta spianata chiusa ad est da una serie di ambienti che si affacciano sulla Flaminia. L'ambiente più antico, databile al 100 a.c., viene identificato come sacello di Ercole in base ad una iscrizione del II sec. d.c. trovata nei pressi, che ne documenta il restauro.


    Tifernum Mataurense -
    oggi Sant'Angelo in Vado Marche, iscritta alla tribù Clustumina; vi sono stati rinvenuti i resti dell’ingresso monumentale delle terme con fronte porticata a quattro colonne, intonacate di rosso, la palaestra con la relativa piscina (natatio) ed il destrictarium, l’abside lungo il lato Sud del calidarium. Quest’ultimo insieme ad altri ambienti riscaldati con sistema a ipocausto, cioè con pavimentazione sospesa (suspensura) su colonnette (pilae) per il passaggio di aria calda, era già venuto alla luce nelle passate stagioni di scavo. Tali scoperte confermano ancora una volta quanto estesa e articolata fosse la pianta del complesso termale tifernate, decorato con marmi e pavimenti musivi, figurati e policromi, vicini stilisticamente a quelli rinvenuti negli scorsi anni nella sontuosa ‘Domus del mito’ a Campo della Pieve.


    - Tifernum Tiberinum - Città di Castello
    in Umbria, iscritta alla tribù Clustumina, venne ben presto federata a Roma. Fu Municipio fiorente sin dalla fine del I secolo, magnificato da Plinio il Giovane, che nelle sue epistole la descrive con molta ammirazione.
    Tifernum si estendeva alla sinistra del Tevere, nell’attuale area sud-ovest della città, in corrispondenza dei rioni Prato e Mattonata dove in passato fu trovato un mosaico del II sec.a.c. e dove stati rinvenute porzioni di antiche mura (e forse di un anfiteatro) di epoca romana.
    Alcuni altri reperti sono conservati nella Sala Consiliare del Comune, mentre i sarcofagi conservati nella Pinacoteca comunale attestano che anche nel III secolo risiedevano in loco ceti sociali capaci di commissionare opere artistiche di buon livello. In seguito alla riforma di Diocleziano (285/305 d.c.) il territorio tifernate fu incluso nella provincia “Tuscia et Umbria” sotto la diretta amministrazione romana.


    Trebia o Lucana Trebiensis - Trevi -
    in  Umbria, tribù Aemilia;  fu pagus umbro (Plinio il Vecchio parla dei Trebiates come degli originari abitatori di questa terra) sorto forse nel 450 a.c.. Conquistata dai Romani, nel 284 a.c., fu municipio retto da quattuorviri. Sulla sommità del colle, v'era il tempio dedicato a Diana Trivia, famoso santuario.
    Trebiae, in epoca romana, ebbe una grande rilevanza posta com'era sul diverticolo spoletino della Flaminia, a confine con la zona sacra al Dio Clitunno ed attraversata dall'omonimo fiume, allora navigabile, attraverso il quale si poteva giungere sino a Roma. Tiberio vi volle un altro teatro a sue spese.


    - Tuder - Tutere - Todi -
    in Umbria, di fondazione umbra tra l'VIII ed il VII secolo a.c.; eretta su un colle situato sulla riva sinistra del Tevere, al territorio etrusco, col nome di Tutere, che significa "Città di confine".
    Si sviluppò soprattutto fra il V e il IV secolo a.c., probabilmente annessa dagli etruschi Nel III secolo a.c. iniziò il processo di romanizzazione pur nel rispetto delle autonomie locali fra cui il diritto di coniare moneta propria. 
    Ottenne la cittadinanza romana (dopo l'89 a.c.) con l'ascrizione alla tribù Clustumina, venendo successivamente ribattezzata con il nome di Colonia Julia Fida Tuder (60 a.c. circa). A partire dall'età augustea ricevette un vigoroso impulso edilizio con la costruzione di un anfiteatro, di edifici civici e ville.


    Tuficum - Borgo Tufico -
    oggi presso Fabriano, nelle Marche, iscritto alla tribù Oufentina.

    MOSAICO A URVINUM HORTENSE
    - Urvinum Hortense -
    oggi Collemancio, Umbria romana, un'epigrafe testimonia la presenza di un teatro nel sito archeologico di Urvinum Hortense di Collemancio a Cannara.


    - Urvinum Metaurense, detto a volte anche Urvinum Mataurense  - Urbino -
    nelle Marche, tribù  Stellatina, domina da posizione strategica la vicina gola del Furio, frequentata lungo il percorso naturale più favorevole che collega l'alta valle del Tevere con la regione medio-adriatica. Il tracciato, lungo la vallata del Metauro e dei suoi affluenti, fu utilizzato ininterrottamente dalla fine del III sec. a.c. dalla Via Flaminia per unire Roma a Rimini, a partire dalla romanizzazione dell'ager Gallicus.


    - Vettona - Bettona -
    in Umbria, di fondazione etrusca, l'unico centro etrusco sulla sponda orientale del Tevere; gli abitanti di Bettona vengono citati in Plinio, (NH III.114) come Vettonenses.
    Nel periodo in cui l'Umbria cadde sotto il controllo romano, Bettona venne eletta municipio (Vettona) ed entrò a far parte delle colonie Clusturmina e Lemonia. Nella guerra tra Augusto e Marco Antonio, la città si schierò al fianco di quest'ultimo, riportando una grave sconfitta.



     VIE CONSOLARI 

    - Via Flaminia che partendo da Roma attraversava gli Appennini arrivando al mar Adriatico all'altezza di Fanum Fortunae e continuava fino ad Ariminum.



    STRADE SECONDARIE

    - Via Amerina da Ameria a Ravenna.
    - Via della Spina da Spoletium a Plestia.
    - Via di Helvillum da Helvillum lungo la valle dell'Esino, ad Ancona
    - Via Nucerina da Nuceria Camellaria lungo la valle del Potenza fino all'Adriatico.
    - Via Plestina da Fulginia a Plestia e poi al Piceno.
    - Via Salaria Gallica, strada intervalliva che partendo da Forum Sempronii arrivava ad Asculum collegando la regio VI alla via Salaria nel Piceno.
    - Via Salaria Picena, strada litoranea che partendo da Fanum Fortunae arrivava al Piceno collegando le città della costa e la via Flaminia alla via Salaria.

    ALLETTO - ALLECTUS (Usurpatori)

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    ALLECTUS

    Nome: Allectus
    Nascita: ?
    Morte: 296 dopo Cristo, Britannia
    Predecessore: Carausio
    Regno: dal 293 al 296.


    Alletto (latino: Allectus; ... – 296) fu un imperatore romano della Britannia e della Gallia settentrionale, un usurpatore che tolse il potere a Carausio, che a sua volta se n'era impossessato nel 286/287. Regnò dal 293 al 296.



    CARAUSIO

    L'imperatore Massimiano fu prima Cesare e poi Augusto, quindi co-imperatore con Diocleziano (244 - 313), le cui arti politiche erano complementari alle grandi capacità militari di Massimiano.

    Carausio, un ufficiale romano di umili origini, membro della tribù belgica dei Menapi (che secondo Strabone e Tolomeo vivevano nell'area dell'estuario del Reno e a sud lungo la Schelda), che si era fatto notare per il suo coraggio e la sua abilità sotto il comando dell'imperatore Massimiano (250 - 310), durante la campagna militare condotta dall'imperatore contro i Bagaudi (briganti celtici) nel 286. 

    L'imperatore pertanto gli affidò il comando della flotta "classis britannica" col compito di difendere la Manica dai pirati franchi e sassoni che devastavano la costa dell'Armorica e quella della Gallia Belgica.

    Tuttavia Massimiano sospettò che Carausio avesse tradito Roma e fosse sceso a patti coi nemici, per cui aveva deciso di farlo uccidere. Venuto però a conoscenza tramite le sue spie dell'ordine imperiale, Carausio, promettendo larghi favori ai suoi uomini che temevano comunque di poter essere puniti, li convinse a proclamarlo imperatore nel 286 d.c..

    La ribellione di Carausio causò la secessione della Britannia romana (provincia romana dal 43/44 al 410 d.c.) e della Gallia dall'Impero. Massimiano partì con la sua flotta per sconfiggere Carausio e riprendersi le province, ma le tempeste si accanirono sulle sue navi distruggendole nel 289 (o forse nel 290).

    Carausio iniziò allora a sperare di essere riconosciuto dal potere centrale e cominciò a battere moneta a Londra, a Rouen e a Colchester. Nelle monete egli si annuncia come "Restitutor Britanniae" ("Restauratore della Britannia") e di "Genius Britanniae" ("Spirito della Britannia"), a dimostrazione di come egli abbia fatto leva sul risentimento della popolazione nei confronti del governo di Roma.

    Forse Massimiano ci riprovò a riprendersi le province ma venne anche impegnato altrove a causa dell'invasione dei Franchi Sali (che vivevano a nord del Limes romano, nell'area costiera sopra al Reno, nell'attuale Olanda Settentrionale), guidati dal loro re Gennobaude, che lo tenne impegnato lungo il fronte renano.

    Massimiano riuscì al termine della campagna condotta contro di loro a catturarne il loro re, Gennobaude, che sembra fosse in combutta con lo stesso Carausio, ed a ottenerne la restituzione di tutti i prigionieri romani. Massimiano vinse largamente guadagnandosi, insieme a Diocleziano, il titolo di Germanicus maximus.

    COSTANZO CLORO

    COSTANZO CLORO

    Nel 288 Costanzo Cloro era prefetto del pretorio dell'imperatore Massimiano che lo incaricò di condurre una campagna contro i franchi alleati di Carausio, i quali controllavano gli estuari del Reno, impedendo attacchi via mare a Carausio.

    Nel 293, Costanzo Cloro marciò in Gallia, portando distruzione e diffondendo panico, e raggiunse il Mare del Nord. Isolò Carausio assediando il porto di Bononia e invadendo la Batavia (delta del Reno), così da assicurarsi le spalle da possibili attacchi degli alleati franchi di Carausio. I Franchi estenuati e terrorizzati chiesero la pace e ottennero di riavere il re Gennobaude a patto che non aiutassero più Carausio, e così fu.

    Nello stesso anno però Alletto, che era il tesoriere di Carausio, ormai privo di sostegni militari in quanto isolato da colui che era diventato, per volontà di Massimiano, il Cesare d'Occidente, cioè Costanzo Cloro, venne assassinato da Alletto.

    Ma costui però, anzichè riconsegnare il potere a Roma e guadagnarsene gli onori e la riconoscenza, ebbe l'ardire di tenere il trono per sè, proclamandosi Imperatore di tutto l'Impero Romano.

    La situazione in italia era complessa, solamente dopo tre anni di regno Costanzo Cloro riuscì a invadere la Britannia, dove Giulio Asclepiodoto, prefetto del pretorio di Costanzo Cloro, sconfisse e uccise Alletto in battaglia (forse a Silchester). 

    Asclepiodoto, duca di Cornovaglia e senatore romano, che nel 292 aveva ottenuto il consolato, nel 296 accompagnò il cesare Costanzo Cloro (il padre di Costantino) nella campagna contro Alletto.

    Sbarcato in Britannia, forse nei pressi di Southampton o di Chichester, Asclepiodoto  sconfisse Alletto e lo uccise per incaprettamento (cioè per strangolamento), massacrò poi ciò che restava del suo esercito, che s'era rifugiato a Londra, gettandone, a monito per tutti i rivoltosi, le teste nel fiume Galobroc.

    Per questa vittoria su Alletto, Costanzo Cloro, nel 297, ottenne il titolo "Britannicus maximus" e per celebrare la sua vittoria, fece coniare dalla zecca di Treviri un multiplo da 10 aurei al cui rovescio, con la leggenda "Redditor Lucis Aeternae" (restitutore della luce eterna) è raffigurato Costanzo a cavallo fuori dalle mura di Londra, con una donna in ginocchio che lo accoglie fuori dalla porta principale e una nave militare pronta allo sbarco.

    MEDAGLIONE DI COSTANZO CLORO PER LA SCONFITTA DI ALLETTO


    BIBLIO 

    - S. D'Elia - Ricerche sulla tradizione manoscritta e sul testo di Aurelio Vittore e dell'Epitome de Caesaribus - Rend. Acc. Napoli - 1968.
    - Sextus Aurelius Victor - Enciclopedia Britannica - Cambridge University Press - 1911.
    - Eutropio - Storia di Roma - Santarcangelo di Romagna, Rusconi Libri - 2014.
    - Orosio - Historia adversus paganos - libri septem  25, 6.

    PROVINCIA ROMANA DELLA MAURITANIA

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    VOLUBILIS
    Il nome Mauritania deriva dalle antiche tribù berbere dei Mauri e dal loro regno, la parte settentrionale della Mauritania, divenne parte della provincia romana della Mauretania nel 33 d.c. I romani chiamavano con il nome Mauri tutti i popoli nativi del Nord Africa.

    La mauritania ebbe una colonizzazione prima fenicia e poi punica, ma vi si era sviluppato un regno indigeno dal IV secolo a.c., dalla confederazione di diverse tribù berbere, che prendeva il nome dalla tribù dei Mauri (da cui il nome successivo di Mori in Nordafrica e nella Spagna musulmana).

    PROVINCIA DELLA MAURITANIA

    LA STORIA

    Alla fine del II secolo a.c. la Mauretania venne a contatto con i Romani: il re Bocco sostenne i romani durante la guerra giugurtina, consegnando lui stesso Giugurta ai Romani nel 105 a.c.. Gli successe il figlio, e il regno fu poi suddiviso tra i due suoi figli, la metà orientale retta da Bocco II e la metà occidentale, da Bogud. Durante la guerra civile tra Ottaviano e Marco Antonio, Bogud venne cacciato da una rivolta e il suo regno fu incorporato dal fratello.

    Il regno di Mauretania venne lasciato in eredità a Bocco II, e alla sua morte nel 33 a.c., ad Ottaviano, il quale institui ben nove colonie lungo le sue coste: a Igilgili, Saldae,Tubusuctu, Rusazu, Rusguniae, Aquae Calidae, Zuccabar, Gunugu e Cartenna. Nel 25 a.c. però poi Augusto preferì ricostituirne un regno cliente, affidandolo a Giuba II, della famiglia reale numida e suo compagno di studi, che era stato allevato a Roma dopo essere stato condotto nella capitale, in seguito alla sconfitta del padre Giuba di Numidia contro Gaio Giulio Cesare a Tapso nel 46 a.c.
    La Mauretania restò indipendente fino al 40 d.c. quando avvenne l'annessione sotto Caligola, mentre la costituzione in province, di Mauretania Caesariensis e di Mauretania Tingitana avvenne solo nel 42 al tempo dell'imperatore Claudio. Entrambe furono province imperiali, governate da un procurator Augusti.

    A partire dalla Tetrarchia di Diocleziano (293), dalla Mauretania Caesariense venne staccata la piccola regione all'estremità orientale con il nome di Mauretania Sitifense (Mauretania Sitifensis), mentre la Mauretania Tingitana venne annessa alla diocesi della Spagna.

    A questo punto il regno di Mauretania (latino: Mauritania), collocato all'estremità occidentale del Nordafrica, ad ovest del regno di Numidia, si estendeva in corrispondenza dell'attuale Marocco e dell'Algeria occidentale, tra il IV secolo a.c. e il I secolo d.c.. Si divideva in:

    - Mauretania Sitifense, la parte più orientale, ai confini della Numidia,

    - Mauretania Cesariense, situata ad est del fiume Mulucha (oggi Muluya)

    - Mauritania Tingitana, a occidente nell'attuale Marocco.

    Fu l’imperatore Clau­dio a operare questa divisione nell’anno 44 d.c.: Mauritania Tingitana, conquistata da Caligola nell’anno 42, e Mauritania Cesariana o Cesariense. La prima corrisponde al Marocco, la secon­da all’Algeria. Diocleziano (anno 200 d.c.) divise la seconda e ne creò una terza: Mau­ritania Sitifense, la cui capitale fu la città di Bugia, a est dell’Algeria.

    Tra i due imperi di Costantino I (324) e Teodosio I (395), la diocesi delle Spagne fu sottoposta al controllo della Prefettura del pretorio delle Gallie. Il periodo tardo imperiale vide la difesa provinciale affidata ad un Comes Tingitaniae e ad un Dux limitis Mauretaniae Caesariensis, mentre l'amministrazione a tre praeses, di Mauretania Tingitana, Caesariensis e Sitifensis.

    La Mauritania Tingitana fece parte della Spagna, quando nel 429 tutto il Nord Africa fu conquistato dai Vandali, fino al 534, anno nel quale passò sotto il potere di Bisanzio.


    TRUPPE CAMMELLATE ROMANE

    PUBLIO EMILIO CASTRICO SENATORE E CONSOLE

    "Il Divino Augusto, Imperatore del Popolo Romano, dopo aver vinto per mare e terra i nemici in tutto il mondo, chiuse il tempio di Giano; dopo aver riformato lo Stato con ottime leggi e sante istituzioni, inviò degli uomini da Roma nella parte più lontana della Mauritania, con il compito di riuscire a scoprire tutti i misteri dell’altissimo monte: ma costoro riferirono più tardi solo cose inutili, tutte inventate, tutte non reali.

    Poiché in quel­l’epoca c’era la convinzione che il Monte Atlante, dal momento che era posto all'estremo del mondo, fosse inaccessibile, era chiaramente lecito a ciascuno raccontare le favole che preferiva; ma oggi che è stato scoperto un altro mondo, lontano dall’Eu­ropa e dall'Africa, al di là di quell'Oceano che è navigabile come nessun altro mare in tutta la terra, tutto ciò che prima era misterioso e segreto è stato svelato, e nulla può più sfuggirci.

    Se i Romani ebbero qualche sicura notizia su questo monte, ciò avvenne quando D. L. Cesare, che comandava lo Stato Romano, mosse guerra alla Mauritania e la sconfisse: allora, per la prima volta, il Console, i Capi dell’esercito e i Senatori giunsero con grande gloria presso il Monte Atlante. Non molto tempo dopo, il Console Svetonio Paolino, valicato per molte miglia il monte, diede ai Romani notizie finalmente chiare: ma non lasciò, purtroppo, niente di scritto, e nulla lasciarono di scritto neppure i suoi successori. Io esporrò correttamente ciò che ho visto: ciò che ho saputo da testimonianze di uomini illustri, noti per integrità, valore, per profonda erudizione e grande prestigio.

    Questi barbari non conoscevano, essendo ormai passati molti secoli, le origini di Roma; agli abitanti delle Coste Atlantiche e di tutta l’Etiopia, ai quali ogni tanto era giunta qualche notizia, è invece noto che l'Impero romano si era impadronito di tutto il mondo, estendendosi non solo in Europa, in Asia e in Africa, ma anche nella stessa Etiopia; è nota da sempre la grandissima e immortale fama degli antichi Consoli e degli Imperatori. Questa era l’iscrizione posta sul monumento:

    "Io, P. Emilio Castrico, Senatore e Console, dopo molte cose ben fatte in favore del Senato e del Popolo Romano, ho sofferto l’invidia dei cittadini (danneggia infatti talvolta fare il bene, ma dal bene per nessun motivo si deve mai desistere, anche a costo di sacrifici). Passai nella Mauritania Tingitana, mi fermai su un fianco del Monte Atlante, restaurai un tempio del Dio Apollo, costruii una casa unita al tempio in un luogo con alti alberi e ruscelli; e diventato primo sacerdote del tempio, passai il resto della mia vita vivendo in tranquillità, nell'osservanza del culto e dedicandomi a scrivere.

    Voi che, dopo aver compiuto correttamente e con zelo il vostro dovere dovete subire le maldicenze dei vostri concittadini, imparate da me: è meglio infatti vivere lontani dal proprio paese e in solitudine, piuttosto che trovarsi in mezzo a continue dispute della città; ciò è estremamente piacevole, anche se a suo tempo sono stati ricevuti degli onori. Ma io non potei allontanarmi troppo dal mio Paese: se avessi potuto, sarei fuggito molto lontano; ebbi tempo di ordinare di scrivere sul marmo queste cose, dal momento che avevo con me uno scultore
    ."

    Io, P. Emilio Liberto, sono stato lasciato erede di lacrime, perché lo scultore si è allontanato dal tempio di Apollo ed il monumento è rimasto incompiuto; e subentrata la morte di P. Emilio, Primo Sacerdote, in seguito aggiunsi io queste parole: è chiaro che il mio padrone P. Emilio ha sofferto per l’odio di Domiziano Augusto, figlio dell’Imperatore Vespasiano; è chiaro che è fuggito dalla città di Roma perché, per il suo valore, gli era contro tutto il partito politico del Principe. Visse santamente sotto il Monte Atlante, dove morì nel primo anno ( Anno 98 d.c. di regno di Nerva Traiano Imperatore Augu­sto, il giorno tre di giugno).

    (Liberto: schiavo liberato di P. Emilio Castrico)

    TIPAZA
    Questi popoli, dei quali devo ora parlare e che si trovano dietro l’Atlante, vivono da nomadi, com’è antica usanza di quei luoghi, e sono sempre errabondi alla ricerca affannosa di nuove terre. Ma al tempo dell’Impero Romano, quando il Divino Caio Lucio Cesare sottomise la Mauritania Tingitana, furono costretti ad abbandonare questo tipo di vita, ad abitare insieme con gli altri, a sopportare i disagi della vita in comune, e a rimanere in grandi città fortificate.

    Frate Consalvo Cassalia dopo aver lasciato dietro di sé la Mauritania, trovò una gran quantità di colonne molto alte, fatte di marmi diversi, sulle quali erano incisi gli editti di molti Imperatori. Uno era questo:

    Imperatore Nerone Claudio Cesare Augusto Germanico, Pontefice Massimo, Tribuno per la quinta volta, comandante per la quarta, Padre della Patria. (C. Claudio Nerone Lucio Domizio: imperatore romano. (37-68 d.c.)

    Per ordine pubblico, dal confine della Mauritania, provincia cartaginese della Numidia, ho inviato un messaggero fino in Egitto, affinché mettesse in esecuzione il mio ordine, scrivendo ovunque su colonne di marmo:

    "Comando ed esigo che tutti i popoli nomadi del deserto, che vanno vagando e si spingono dal monte Atlante fino in Etiopia seguendo le lunghissime linee di confine, e che attraversando una vasta zona di deserto si spostano dall'Oceano al Mare Eritreo, costruiscano villaggi, borghi, fortezze e città, secondo l’usanza dell’Africa e della Libia, e che si comportino come cittadini. In caso contrario, costoro, con mogli, figli e con ogni bene personale, siano catturati e fatti prigionieri, siano scambiati come vili schiavi e cacciati da tutto il Mondo Romano. Comando ed esigo."

    In quel luogo c’erano poi molti editti di altri Imperatori, che qui non mi sono preso la cura di trascrivere: ho però voluto riportare anche questa testimonianza dell’Imperatore Vespasia­no, messa in evidenza da una colonna molto alta:

    VESPASIANO

    VESPASIANO

    "Io, Imperatore Cesare Augusto Vespasiano, Pontefice Massimo, Tribu­no per la seconda volta, Generale per la settima, Console per la quarta, designato Padre della Patria.

    Volendo provvedere al bene delle nazioni, come è giusto per un Principe messo a capo dell’Impero dei Romani, io rendo noto e ordino a tutti i Proconsoli, Pretori e Propretori che governano la Mauritania, la Numidia, la Libia e l’Africa, in nome dello Stato, di procurare ai popoli del deserto costruttori, falegnami, fabbri, carpentieri e altre persone in grado di fare questi lavori, come architetti e artigiani, perché siano costruite case e uffici pubblici dello Stato, templi, mura e castelli. In caso contrario saranno destituiti dalle loro cariche per opera della stessa magistratura delle Province, o per opera dello stesso Imperatore, qualora giungessero segnalazioni che quanto or­dinato non è stato eseguito. E infatti compito dei Principi Romani provvedere, senza eccezione, a tutto l’Impero
    ."

    Francesco Consalvo Cassalia trovò, nella piazza di una città molto grande e ormai demoli­ta, in un vasto spiazzo, due editti di Imperatori su colonne poste all’ingresso e all’uscita del foro. Queste sono le iscrizioni:

    "Io, Imperatore Cesare Traiano Germanico (Ulpio Traiano 53-117 d.c.), imperatore romano di origine iberica, adotta­to da Nerva, figlio del Divino Nerva, vincitore dei Daci, Pontefice Massimo con tribunica potestà per la quinta volta, e Console per la sesta, Padre della Patria.

    Poiché mi sta giustamente a cuore il bene pubblico di questo Paese del deserto, e tutto ciò che può portare vantaggio a questa terra, e dal momento che è compito dell’Imperatore dei Romani dare leggi utili a tutto il mondo, con questo editto reso pubblico a tutti i popoli che prima erano nomadi, comando che, se qualcuno è in possesso di un gregge o di armenti, li faccia custodire da servi o da altri assunti a stipendio.

    I padroni rimangano invece nelle città o nei castelli: se sarà necessario che greggi e armenti siano custoditi dai padroni, voglio che mogli e figli restino nelle città o nei castelli. In caso contrario, ordino che i loro beni siano confiscati; che essi, le mogli, i figli e i nipoti, siano venduti all’asta sulla pubblica piazza della città e diventino schiavi, che mai possano essere liberati dai loro padroni; e che tutti i loro discendenti rimangano schiavi per cento anni. Ho infatti deciso che cess­i, perché sbagliata, l’abitudine di andare nomadi per tutto il paese."

    DJEMILA
    C’era, in quella zona, un’altra colonna di Adriano Augusto  (Publio Elio Adriano 76-138 d.c. imperatore romano, cugino e successore.); si leggevano anche molti editti fatti da Principi, riguardanti ponti e territori della regione: non mi sono curato di tra­scriverli, ma ho voluto qui riportare quanto si riferisce all’Impe­ratore Adriano.

    "Cesare Imperatore Traiano Adriano Augusto, figlio del Divo Traiano Par­tico, nipote del Divo Nerva, Pontefice Massimo con tribunica Potestà, Con­sole per la terza volta.

    Poiché molti non vogliono distaccarsi dalla vecchia consuetudine dei loro Maggiori, ma insistono col vivere nel vagabondaggio dei loro padri ereditato quasi per testamento; e vanno vagando di continuo, attraversando i confini dell’Etiopia con cammelli, cavalli, buoi, carri e tutti i componenti della famiglia; vivono all'aperto ed evitano ogni contatto con le città e rifiutano di abitare nelle città stesse inducendo molti a comportarsi nello stesso modo: così, con un pubblico editto dei Magistrati e un ordine chiaro dei Consoli, questa gente sia deportata in Etiopia.

    Io ordino, con incarico ufficiale agli stessi Consoli, Proconsoli, Pretori e Propretori delle Provincie, e a tutti quelli che, in ogni luogo, sono a capo dei popoli, che con scelto drappello muovano subito dall’Etiopia contro di questi: nei limiti del possibile li trovino e li catturino. Nelle piazze delle vicine città, o in luoghi aperti al pubblico, li uccidano in modo che abbiano una morte crudele e terribile. A nessun costo si può infatti tollerare che questa gente torni all'antico modo di vivere."

    In tutte le città ci sono simili colonne: poste nelle piazze, agli incroci, nei luoghi aperti al pubblico, e su di esse sono riportati i vari editti degli Imperatori: dobbiamo, a questo punto, sapere perché i popoli della Zona Selvaggia hanno abbandonato le loro città.


    ACQUEDOTTO DI FORUM NOVUM

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    Quel che si sa di Forum Novum, l'antico sito archeologico ubicato nel territorio del comune di Torri in Sabina (RI), presso l’attuale chiesa di S. Maria in Vescovio, infatti successivamente chiamato Vescovìo, è che, fondato, anzi rifondato dai romani nel II secolo a.c., pur essendo retto da duoviri, magistrati preposte alle colonie, non sembra mai sia stata una colonia, anche se il Momsen non è di questo parere.

    In età augustea, invece divenne municipio, citato come tale da Plinio nella Naturalis Historia. Le epi­grafi riportano il culto dell'imperatore attraverso i seviri augustales, ma molto sentiti erano pure i culti a Giove Ottimo Massimo, a Iside, Serapide e Arpocrate, Mercurio, Fortuna, Vacuna, i Lari, i Penati. Alla Dea Venere era pure dedicato un tempio, su cui il cristianesimo si è affrettato a erigere una chiesa dedicata alla Madonna, Santa Maria di Vescovio, che per vari secoli ebbe il titolo di Cattedrale dei Sabini.

    ACQUEDOTTO DI FORUM NOVUM
    Numerose le dediche agli imperatori, come Gordiano III, ma pure ai loro congiunti come Druso e Germanico. Le epigrafi ricordano anche un acquedotto, costruito da un privato cittadino, un'espressione dell'antico evergetismo, una forma di propaganda elettorale per cui si facevano opere pubbliche a proprie spese, che alimentava, oltre ad una fontana, anche le terme.

    I primi scavi nella zona furono eseguiti tra il 1969 ed il 1975 e venne alla luce gran parte l'antico abitato, facendo riemergere: il foro, la basilica, alcune botteghe, un tempio, la villa romana di Cottanello, le ville rustiche di Montebuono e Vacone e, lungo le vie di accesso alcuni monumenti funerari, con tombe in prevalenza a camera, scavate nel tufo, localizzate a Poggio Sommavilla, a Foglia ed a Magliano e le arcate d'un acquedotto. 

    Il centro romano, edificato su di terrazzo alluvionale quasi alla confluenza di due torrenti, all'incrocio di due strade secondarie che collegavano il nuovo centro alla via Flaminia e alla Salaria, venne fondato su un precedente abitato fornito di luogo di mercato e di aggregazione delle genti sabine, posto in un crocevia di strade in comunicazione con l’Etruria, l’Umbria e la Sabina interna.

    Le recenti indagini geofisiche hanno individuato un anfiteatro, ancora completamente nel sottosuolo, un impianto termale e una villa al di fuori del centro cittadino di proprietà di un certo Faianus Plebeius che, come riportato da un’epigrafe, in occasione della sua seconda elezione a magistrato supremo, fece dono alla cittadinanza di un acquedotto convogliando le acque dalla sorgente posta nel terreno di sua proprietà sino alla piscina e alle fontane (lacus) del municipio:
    TRATTO PRINCIPALE DELL'ACQUEDOTTO DI FORUM NOVUM
    Publius Faianus Pbeius II vir iter aquam ex agro suo in municipium Forum Novum pecunia sua adduxit et lacus omnes fecit et in piscinam…”

    La collaborazione tra gli speleologi sabini del Gruppo Speleo Archeologico Vespertilio e gli speleologi di Egeria Centro Ricerche Sotterranee ha portato all’individuazione e all’esplorazione dell’antico acquedotto di cui non si conosceva né il percorso né il punto di ingresso.

    Per accedere al cunicolo idraulico ci si è recati all’interno del bottino di captazione di un vecchio fontanile rurale (individuato da Tullio Dobosz) posto fuori dall’abitato di Vescovio e che si imposta su alcune strutture romane (forse uno dei tanti “lacus” menzionati nell’epigrafe).

    Il condotto, ancora attivo ed in perfette condizioni, presenta diverse fasi costruttive alcune delle quali molto antiche e con ogni probabilità precedenti agli interventi edilizi effettuati dallo stesso Faiano. Questo confermerebbe la presenza di antichi insediamenti sabini in zona riforniti da alcuni cunicoli idraulici preesistenti che vennero “annessi” nel percorso dell’acquedotto.

    Le ricerche, condotte sotto la direzione del dott. Alessandro Betori della Soprintendenza per i Beni Archeologi del Lazio, hanno portato all'esplorazione di pozzi e cisterne presenti nell'antico Foro.

    I PIATTI ROMANI

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    BASSORILIEVO DI MINERVA SU PIATTO DORATO - II SEC.
    Non abbiamo neppure una pallida idea della grandezza di Roma, grande nell'organizzazione, nella civiltà, nel diritto, nell'arte, e nella bellezza delle sue architetture, nei suoi arredamenti e nella sua oggettistica.

    Una certa mentalità un po' ristretta ha teso a occultare tanta bellezza per timore che su questo potesse installarsi nuovamente una certa visuale politica. Ma la grandezza di un popolo non può essere occultata da simili dettagli. E' come sconfessare Omero perchè Stalin o Hitler amavano Omero.

    Non abbiamo idea della bellezza e la grandezza di Roma perchè con la caduta dell'Impero ogni civiltà scomparve, inghiottita da un'oscurantistica religione che negava la gioia di vivere ed ogni espressione artistica che non fosse a uso e consumo della propaganda religiosa.

    Per darne una pallidissima idea abbiamo deciso di farvi conoscere le suppellettili romane, a cominciare dai piatti, incredibilmente lavorati, diversissimi nei modelli e di numero incredibile. L'arte romana si instaurò per tutta l'Europa ma pure nelle province dell'Asia e un po' dell'Africa. Perchè Roma fu davvero la Caput Mundi.

    I piatti possono essere decorati sul bordo, in tutto l'interno, o su un medaglione interno lasciando liscio il contorno, oppure possono essere decorati in tutto l'interno ma pure con il medaglione al centro. Il bordo può essere lavorato o liscio ma comunque ribattuto.
    Come materiale potevano essere di ferro, di bronzo, di peltro, di terracotta, di terra sigillata, di metallo argentato, di argento e pure d'oro.



    ARGENTO

    PIATTO ROMANO BRITANNIA - IL PIATTO DI BACCO

    Il Piatto di Bacco fa parte del tesoro di Mildenhall (Mildenhall Treasure), un recupero di antico vasellame romano da tavola in argento, del IV secolo recuperato a West Row, nei pressi di Mildenhall (Suffolk, Regno Unito).
    Il tesoro fu scoperto da Gordon Butcher nel gennaio del 1942, mentre arava il campo di Sydney Ford, ma non fu segnalato alle autorità prima del 1946, finchè venne acquisito dal British Museum di Londra.
     
    Il vasellame da tavola nelle famiglie patrizie era un modo per sfoggiare gusto, bellezza e ricchezza, ma anche agli ospiti era gradita la mostra perchè ammiravano qualcosa di ottimo gusto, una vera opera d'arte.

    Il servizio da tavola era ricchissimo e si giovava di stupendi piatti da portata che venivano esibiti uno alla volta da uno schiavo che lo mostrava agli ospiti e lo deponeva poi sulla tavola. Un altro schiavo recava poi la pentola da cui attingeva i cibo che veniva posto con cura sul prezioso piatto. con l'approvazione e l'applauso dei presenti.



    ROMANO III  SEC. D.C.

    In Italia si usa oggi il titolo di 800/1000, mentre i paesi anglosassoni usavano ed usano tutt'oggi la titolazione romana di 925/1000, il titolo più alto in cui è possibile lavorare il metallo prezioso.

    Questo piatto accoglie al suo centro una figura dionisiaca che potrebbe essere anche lo stesso Dioniso, oppure di un Sileno. Si evince dai corni di capra della fronte ma pure dai tralci d'uva con grappoli e foglie che ha sul capo.

    Il piatto è impreziosito da una doratura che fa da sfondo al volto della creatura. Sul fondo si nota un lavoro eseguito a cesello che mostra uccelli, serpenti e volute varie.



    GANIMEDE E L'AQUILA - II SEC. D.C.

    Il mito narra di Ganimede, bellissimo figlio di Tròo e di Calliroe, che venne rapito da un’aquila mandata da Giove, per alcuni era Giove stesso tramutatosi in aquila, per assegnare al giovane la mansione di coppiere alla divina mensa olimpica, carica fino ad allora riservata ad Ebe. Giunone si risentì, non per il coppiere ma perchè il giovane sarebbe diventato l'amante del re degli Dei.

    Giove non mancò poi di risarcire Tròo, per il torto che gli aveva arrecato, facendogli recapitare da Mercurio un vitigno d’oro e due cavalli velocissimi. Evidentemente nella mentalità dell'epoca i figli potevano essere comprati, ma soprattutto si voleva celebrare ed anche legittimare la pederastia che impazzava tra i greci e che, anche se in misura molto minore, dilagò pure tra i romani.

    Evidentemente il padrone di casa non si scandalizzava del contenuto del mito che faceva d'altronde parte anche della religione romana che molto attinse dalla greca, oppure simpatizzava molto per la pederastia e ne accoglieva la celebrazione in questo artistico piatto.



    RICOSTRUZIONE DAI FRAMMENTI DI PIATTO

    Dai frammenti di un piatto d'argento sepolto in Scozia 1500 anni fa di è ricostruito un piatto da portata per illustrare lo stile di vita sontuoso di cui godevano i membri elitari della società romana.

    Gli archeologi furono in grado di creare questa ricostruzione digitale della lastra d'argento decorata basata su due pezzi dell'orlo originale, che portò alla luce insieme a un'enorme collezione romana recuperata a East Lothian nel 1919.

    I frammenti d'argento "altamente decorativi" e il diametro di 70 cm della piastra ricostruita indicano che si trattava di piatti da tavola adatti ai senatori e all'élite romana ", come hanno riferito i ricercatori. Il bordo è stato dorato tutt'intorno.

    Alcune incisioni, specie al centro del piatto, ma pure quelle sul bordo dorato, sembrerebbero eseguite a niello, con quella particolare tecnica romana per cui le incisioni erano evidenziate da un contorno tanto scuro che appariva nero, il che dava maggior visibilità alle immagini incise.



    III SEC. D.C. 

    Questo piatto, orlato da un bordo ribattuto e liscio, con all'interno una dedica poco leggibile sulla parte superiore, mostra in alto una divinità che sembrerebbe essere Apollo che col suo cocchio di 4 cavalli guida appunto il carro del sole.

    La divinità infatti mostra un'aureola fiammeggiante, però stranamente ha un corpo femmineo con tanto di seno. Non sarebbe poi così eccezionale, perchè spesso Apollo ha un viso e un corpo femmineo con vesti da donna e talvolta anche col seno, ma il fatto è che sopra il capo poggi un crescente lunare e questo non è pertinente ad Apollo ma a Diana.

    Inoltre la divinità, mentre con la destra si presume tenga le redini dei cavalli, redini che comunque non si vedono, con la sinistra tiene quella che sembrerebbe essere una patera, cioè un piatto di offerte che in genere portano gli offerenti agli Dei, ma talvolta sono gli Dei a portarla, forse a simboleggiare l'offerta che fanno agli uomini dei frutti della terra. Il che ben s'addirebbe a un'immagine femminile.

    Sulla destra di chi guarda c'è poi un tempietto su alto podio dove troneggia la Dea Minerva, con tanto di lancia e scudo, mentre sul lato sinistro emerge un albero di ulivo, notoriamente sacro ad Atena.
    Più in basso un sacrificante, vestito con una semplice clamide, conduce per un corno una capra mentre con l'altro braccio tiene dei frutti, avviandosi verso un'ara sacrificale ove ovviamente sacrificherà l'animale e i frutti.

    Sull'ara sacrificale brucia una fiamma, ma pure sui gradini del tempio di Minerva si leva una fiamma da un braciere. Il significato è piuttosto difficile da interpretare, anche perchè a ben guardare l'offerente, sembrerebbe avere due cornetti caprini tra i capelli.



    IV SEC. 

    Qui l'immagine, bellissima, non lascia dubbi. Si tratta di una menade e di un satiro. Il piatto ha un bordo perlinato a grosse perle. In cielo volteggia qualcosa che somiglia a una trottola, che sembra però specchiarsi nell'acqua, ma sta in cielo.

    I due danzano in una classica scena dionisiaca, la menade regge in una mano un tirso e nell'altra un tamburello, un terzo personaggio, probabilmente un altro satiro, danza sul fondo. In basso c'è un bastone da pellegrino che regge un fazzoletto contenente una pigna e dei frutti. la pigna è sacra al culto di Dioniso. 

    In basso c'è una siringa poggiata su un muretto, uno strumento a fiato a più canne, in genere 7 ma poteva giungere a 9 o a 11 canne, inventato dal Dio Pan quando tentò di sedurre la ninfa omonima, restando con il cespuglio di canne in cui era stata trasformata la ninfa.

    Il bordo perlinato, di gusto romano, è poi dilagato soprattutto in Inghilterra nel '700, ma poi in tutta europa,  come orlo per posateria, piatti, vassoi e altri oggetti in argento.



    II META' IV SEC. PARAPIAGO

    ll piatto, o patera che dir si voglia, è in argento dorato e lavorato a sbalzo con ritocchi in cesello, è tra gli esemplari più noti dell'argenteria di epoca tardo-imperiale del IV secolo d.c. La scena è piuttosto complessa, abbracciando un significato cosmologico e filosofico-religioso

    Rappresenta il trionfo della Dea Cibele e del suo figlio-compagno Attis su una quadriga trainata da leoni, al quale assistono le divinità e le personificazioni del tempo, del cielo e della terra. Vi sono guerrieri danzanti, serpenti, amorini, in alto il sole con il cocchio dei cavalli e la luna col cocchio dei buoi. Nel punto più basso le divinità del mare e ai lati, Venere con Cupido, e un paio di divinità femminili, una col lituo ed una con la canna palustre.

    Il culto della Dea frigia Cibele venne introdotto a Roma nel 205 a.c. a protezione dell'Urbe su suggerimento dei Libri Sibillini, durante la II Guerra Punica. I sacri testi consigliarono ai Romani di recuperare a Pessinunte la pietra nera della Madre degli Dei, pietra che venne recuperata e e conservata nel Tempio di Vittoria.

    La costruzione di un Tempio dell Magna Mater cominciò nel 204 a.c.,  e fu riedificato sul Palatino, in pietra e marmo da Augusto, che ne fu gran devoto. La Dea fu particolarmente venerata nel mondo romano a partire dal I secolo d.c, e l'imperatore Giuliano l'Apostata, alla fine del IV secolo d.c,  tentò vanamente di opporre il culto della Dea al Cristianesimo dominante.

    La patera di Parabiago è un grande piatto d'argento del diametro di circa 39 centimetri e uno spessore di circa 5,1 cm. Rinvenuto a Parabiago, cittadina a 23 km da Milano, nel 1907 e recuperato nel 1931 dalla Soprintendenza Archeologica della Lombardia, pesa di 3,5 kg. 



    PIATTO EROS - PERIODO ELLENISTICO

    Il piatto ha un bordo liscio ed è liscio anche al suo interno, però con al centro un medaglione dorato, a sua volta bordato a gradino, dentro il quale si apre un fiore a quattro petali, forse un anemone, dentro cui sgambetta un bimbo alato.

    E' il Dio dell'amore, è Cupido, cioè Eros, il piccolo Dio eternamene fanciullo che col suo arco d'oro incocca la freccia e colpisce le vittime del suo incanto, chi è colpito non si può sottrarre all'innamoramento, neppure sua madre.



    PIATTO TESORO DI MORGANTINA

    Il tesoro di Morgantina venne scavato da clandestini nei primi anni ’80 del '900 giusto a Morgantina, ed acquistato in Svizzera, e poi dal Metropolitan Museum di New York, costretto nel 2010 a restituirli all’Italia. Lo studio dell’abitazione in cui si effettuò lo scavo rivelò che questa fu improvvisamente abbandonata dopo la fine della II Guerra Punica, nel 211 a.c., quando Morgantina fu presa dai romani che affidarono la città ad un gruppo di mercenari ispanici, ma nel frattempo molte case erano state evacuate, rimanendo in abbandono. 

    Evidentemente il proprietario della casa aveva occultato il tesoro per salvare dalla razzìa gli oggetti preziosi. Sembra che il padrone del tesoro fosse tale Eupolemo, un proprietario terriero nei pressi della casa dove questo venne trovato, un prodotto dell’alto artigianato siracusano della metà del III sec. a.c., durante il regno di Gerone II.

    Il piatto in questione, di eccezionale bellezza, mostra un bordo scanalato tutt'intorno con l’effige non di Scilla, come molti hanno pensato, ma di Cariddi. Scilla era una ninfa bellissima trasformata in mostro metà donna e metà mostro marino con sei enormi teste di cane con tre file di denti ognuna, un busto enorme e delle gambe serpentine lunghissime.

    Per l'orrore della trasformazione Scilla si gettò in mare e andò a vivere nella cavità di uno scoglio vicino alla grotta dove abitava anche Cariddi, altra ninfa trasformata in un mostro che aveva due code e tre teste di cane, nell’atto di scagliare un masso di pietra lavica in mezzo alle onde del mare sottostante. Il piatto è totalmente rivestito in oro.



    ARGENTATO

    PIATTO DA PORTATA PESCE

    Il piatto in foto era evidentemente utilizzato come piatto da portata per servire del pesce. Lo dimostra la sua decorazione, dove si nota l'immagine di un pescatore, circondato da immagini a sbalzo di pesci, frutti di mare, serpenti di mare, calamari, gamberi e conchiglie.

    Il piatto concavo, conservato oggi al Civico museo archeologico di Milano, è realizzato a sbalzo e inciso a cesello, totalmente in metallo argentato. Le argentature dell'epoca non erano come quelle di oggi, perchè il bagno galvanico non esisteva e lo strato d'argento veniva applicato con un martelletto finchè non si attaccava al metallo unendosi strettamente con esso. Per questo l'argentatura romana dura ancora oggi, dopo 2000 anni.



    COSTANTINOPOLI - ARGENTATI

    Ambedue i piatti sono argentati e datati del 570 d.c. Il primo è strettamente dionisiaco, un satiro e una menade danzano invasati dall'ebbrezza divina, la menade è coperta da un velo trasparente e agita due torce, mentre il satiro, nudo e con tanto di coda, ma con una mantellina leggera, regge in mano il lituo, l'antico bastone ricurvo mentre sulla gamba gli si avvolge un serpente. Una pantera in basso accompagna l'eccitazione selvaggia della scena.

    Il secondo piatto è di mano diversa, forse più accurata ma meno emotiva. la scena sembrerebbe rappresentare la Dea Venere con Cupido e la piccola Psiche. la Dea, incitata dal piccolo e svolazzante Cupido sembra volerle porgere una coppa, forse dell'ambrosia, che Psiche bambina, anch'essa nuda, sembra accettare di buon grado. La scena è corredata ai lati da un albero e da una colonna, e tutto intorno da uccelli, forse colombe, che erano sacre alla Dea.



    VETRO

    III SEC.

    Il vetro fu uno dei materiali più usati dai Romani, soprattutto dopo il I sec. a.c., quando la tecnica della canna da soffio e la costruzione di fornaci a temperature elevate permisero di produrre il vetro in tempi più brevi e a costi ridotti.
    La prima produzione vetraria fu realizzata infatti mediante il metodo della colatura, o fusione a stampo, che consisteva nel colare o pressare la massa allo stato fluido all'interno di uno stampo che recava la forma dell’oggetto che si desiderava ottenere.

    Infatti secondo Strabone, contemporaneo di Augusto, l'industria vetraria romana aveva una grande inventiva, perchè non solo sperimentava varie tecniche di colorazione, ma riusciva a produrre vasellame molto economico, che costava solo una moneta di rame.



    CIPRO III SEC. D.C. vetro

    Solo nel periodo giulio-claudio, I sec. a. c., la produzione di vetro mosaico si attenuò fino a sparire per la scoperta tutta romana della soffiatura a stampo intorno al 25 d.c., che rivoluzionò l'industria vetraria.

    Una quantità variabile di materia allo stato vischioso veniva applicata all'estremità di una canna di metallo o di argilla, quindi si soffiava al suo interno conferendo all'oggetto la forma desiderata.

    Rispetto alla tecnica precedente, la soffiatura permetteva di ottenere oggetti molto più leggeri, dalle pareti più sottili.


    100 - 150 D.C.

    Fu proprio per questo che gli effetti della scoperta non tardarono a farsi sentire: furono accellerati i ritmi di produzione e di conseguenza vi fu un crollo nei prezzi sul mercato. Noi moderni non abbiamo nemmeno una pallida idea di cosa i romani realizzassero in questo materiale. Inventarono migliaia di modelli dall'aspetto sofisticatissimo o finemente stilizzato.

    Si potrebbero mostrare alla gente tantissimi modelli di vasi romani in vetro e chiunque giurerebbe che quegli oggetti siano stati eseguiti a Murano, non solo i calici classici o le anfore o i cesti che sembrano merletto, ma pure quelli modernissimi, stilizzati e striati a vari colori.

    PARTICOLARE DELLA LAVORAZIONE DEI MANICI
    Il vetro si trasformò rapidamente da bene di lusso, a merce ordinaria, ovvero aveva l'uno e l'altra, per tutte le borse, perchè i romani erano bravissimi nel business, tanto che in ogni provincia circolavano oggetti semplici o decorati, prodotti da manifatture regionali.

    A partire dal I sec. fino alla fine dell'epoca romana si produssero in tutto l'impero servizi da tavola in vetro soffiato.
    Il vetro a colorazione naturale verde bluastro o verde chiaro divenne il comune vasellame da tavola e dei recipienti per la conservazione, mentre il vetro incolore era ricercato per gli oggetti di maggior pregio, divenendo un'attività di tipo industriale, svolta su larga scala in particolare a Roma ed ad Aquileia.

    L'invenzione della soffiatura a stampo e l’uso di coloranti sostituì in larga parte i costosi procedimenti di colatura e formatura a caldo dei vetri ed intorno al 25 d.c., producendo contenitori in vetro per uso alimentare, per uso medico e cosmetico, per uso estetico come gioielli o addirittura come lente.

    Il possesso di vasellame e di suppellettili di vetro perse un po' della sua attrattiva quando divenne alla portata di tutte le classi sociali della Roma imperiale. Tuttavia l'aristocrazia ebbe solo per sè dei pezzi unici e stupendi che costituivano l'orgoglio dei padroni di casa, conservati gelosamente come le stoviglie d'argento e di valore non inferiore ad esse.

    Come al solito i romani divennero abilissimi artisti, superando qualsiasi altra produzione al mondo, nella tecnica e nell'inventiva delle forme e dei soggetti, ma soprattutto nella bellezza delle esecuzioni.



    TERRA SIGILLATA

    La ceramica sigillata è un tipo di ceramica romana fine da mensa, cioè destinata ad essere utilizzata come servizio da tavola, diffusa in tutto il territorio romano.
    La sua caratteristica principale è una vernice rossa, più o meno scura o tendente all'arancione più chiaro o meno chiaro. e la decorazione a rilievo, modellata, impressa o applicata. Alcuni esemplari portano impressi dei bolli ceramici o "sigilli", dai quali la tipologia deriva il suo nome, che riportano il nome del fabbricante.

    Contrariamente a ciò che si pensa la terra sigillata non nacque in suolo italico bensì ebbe origine nel Medio Oriente e si diffuse poi in Italia, dove il centro della migliore produzione fu Arezzo, ragion per cui venne chiamata anche "ceramica aretina".


    PERGAMO - II - III sec.

    La vernice lucida e rossastra che si realizza sul vasellame si ottiene attraverso la decantazione dell'argilla in acqua a cui viene aggiunto un elemento che facilita da un lato la precipitazione del calcare sul fondo e dall'altro la sospensione delle particelle di feldspato, che producono così la vetrificazione dell'argilla. 

    Il colore del prodotto dipende dal colore della vernice ma anche dalle tecniche di cottura che possono avere buona o scarsa ossigenazione, favorendo una colorazione rossa, più o meno intensa, fino ad un nero dai riflessi metallici.
    La terra sigillata, o ceramica aretina, si diffuse molto a partire dall'epoca di Augusto, consentendo la fioritura della fabbriche che la producevano ed esportavano in zona aretina, ma un altro centro importante di produzione nacque presso il porto di Puteoli (Pozzuoli).

    Poi, nel II secolo, a partire dall'età flavia, queste vennero soppiantate dalle fabbriche nordafricane (terra sigillata chiara o africana), di colore sia rosso-arancio che rosso-bruno, prive però delle decorazioni con stampi a matrice. La produzione africana durò fino al VII secolo.

    La decorazione poteva essere "a matrice", cioè modellato al tornio direttamente nella matrice, nella quale erano stati ricavati motivi decorativi incavati, che comparivano quindi a rilievo sul piatto, o "alla barbotine" in cui i motivi decorativi a forte rilievo erano applicati sul corpo liscio con un'argilla semiliquida che fungeva da collante. Altre decorazioni incise potevano essere aggiunte con rotelline o punzoni. Infine veniva stampigliato il bollo del fabbricante.



     PIATTO DELLA GALLIA

    A partire dal 50 d.c. i centri di produzione si spostarono verso le province. Il sito di La Graufesenque, nella piccola città di Condatomagus (Francia), esportò i suoi prodotti perfino a Pompei, dove furono conservati dell'eruzione del Vesuvio nel 79. La romanizzazione delle province portò, insieme a una nuova civiltà, nuove produzioni locali e nuovi commerci. Così ebbe vita la "ceramica sudgallica" che dapprima imitò la ceramica aretina, poi sviluppò un proprio repertorio.

    Le officine si allargarono poi alla Germania, in Grecia, Siria, Egitto, fin sulle coste del Mar Nero. La produzione, iniziata intorno al 20 d.c., ebbe vita per circa un secolo, terminando sul suolo italico intorno al 120 d.c.. Ma le ceramiche della Gallia orientale invece continuarono la produzione fino al IV secolo.



    TERRACOTTA

    CENTRO EUROPA

    Questo piatto fittile romano presenta un bordo inclinato ma sicuramente non apposito.Tuttavia la non giusta inclinazione non aveva però impedito l'uso del vaso, forse venduto a minor prezzo o usato dall'artigiano stesso, fattostà che è giunto integro fino a noi.

    Infatti la corrosione dell'oggetto deriva non tanto da agenti esterni nei diversi secoli, quanto dal suo uso prolungato.

    Fu rinvenuto durante scavi archeologici, miracolosamente integro. La terracotta semplice, più o meno raffinata, è stato il piatto principale delle mense romane fin dai primordi. Poteva essere fatto anche in casa, prelevando dell'argilla e dandole una forma prima a mano e poi col tempo al tornio.


    PELTRO

    Può stupire perchè è poco divulgato, ma i romani fabbricavano stoviglie in peltro. Ne facevano diverso uso, ma non era il prodotto più economico, perchè il peltro era piombo, stagno e argento, il più economico era la terraglia, o terracotta.

    I più antichi oggetti in peltro, con forte percentuale di stagno, risalgono ai primi secoli dell'era cristiana e riguardava piatti, monete, ciotole e anfore rinvenuti in varie località inglesi e classificati come oggetti di peltro “romano-britannico”.

    I piatti in peltro erano pesanti e non del tutto igienici perchè la forte componente di piombo poteva produrre, a contatto con cibi acidi, dei sali leggermente velenosi. Pertanto andavano bene per cibi freddi o basici.



    BRONZO

    STOVIGLIE BRITANNE

    Più di mille artefatti in bronzo sono stati rinvenuti scavando sotto una strada londinese: ed ecco i piatti di bronzo, (ma pure secchi, attingitoi, pentole, tazze), tutti di epoca romana ma di manifattura britanno-romana.



    PIATTI DEL FUCINO IN BRONZO

    Questi piatti di epoca romana, furono recuperati con il prosciugamento del lago del Fucino entrando a far parte della collezione dei principi Torlonia. Sicuramente erano piatti di legionari, per la quantità, l'identico modello, in metallo in modo che non potessero rompersi e di costo modesto.


    PIATTO DI LEGIONARIO ROMANO

    Reperito in un castro romano, è evidente che la forma del piatto permettesse una perfetta impilatura dovendo questi essere trasportati sui carri. Questo in figura è uno chiaro esempio di piatto di legionario romano. I romani infatti portavano nello zaino le armi e la borraccia dell'acqua ma non altro se non lo per la pura sopravvivenza.

    In questo modo si poteva fuggire e nascondersi mollando carri e altro per ricostituirsi e ritrovarsi in modo più sicuro. Però, osserviamo noi, visto che nelle provviste essenziali portavano il grano, in qualche modo dovevano cuocerlo e una pentola, o almeno un piatto di bronzo, poteva far parte dell'essenziale, visto che necessitavano, sempre per la pura sopravvivenza, di una pentola, di un piatto e di un recipiente dove raccogliere il cibo, sia pure delle bacche o delle radici. Un piatto di bronzo, di poco spessore poteva essere utilizzato in tutti e tre i casi.

    CATACOMBE DI SAN LORENZO

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    CATACOMBE DI SAN LORENZO
    La catacomba di San Lorenzo, detta anche catacomba di Ciriaca è un cimitero sotterraneo posto sulla via Tiburtina, sotto l'attuale basilica di San Lorenzo fuori le mura, nel quartiere Tiburtino. Detto in origine in agro Verano, venne chiamata San Lorenzo solo a partire dal VI secolo, per il martire più conosciuto di cui accoglie la sepoltura, testimoniata dalla Depositio martyrum (metà del IV secolo) al 10 agosto con queste scarnissime parole: "quarto idus Augustas Laurentii in Tiburtina" (il 10 di agosto Lorenzo in Tiburtina).

    L'entrata alla catacomba è accessibile dalla cappella di San Tarcisio, e adiacente sagrestia, da cui ci si inoltra nel chiostro e quindi nella catacomba di San Lorenzo.
    La Depositio Martyrum altri non è che il Cronografo del 354, una raccolta di testi prevalentemente cronografici, a opera di Furio Dionisio Filocalo, calligrafo e letterato del IV secolo. Consta di:
    - elenco dei consoli fino al 354, 
    - un canone pasquale, 
    - un elenco dei prefetti di Roma  254-354, 
    - un elenco dei martiri (Depositio martyrum) e dei papi (Depositio episcoporum) venerati a Roma, 
    - il Catalogo Liberiano, 
    - una duplice redazione dei Fasti consolari romani, 
    - una cronaca universale (la Chronica Horosii), 
    - una cronaca degli imperatori di Roma fino a Licinio, 
    - una descrizione di Roma per regioni.


    I Padri della Chiesa, recuperarono un’affabulazione leggendaria che descrive il martirio di San Lorenzo sulla graticola, dopo aver distribuito i suoi averi ai poveri. Così la passio Polichronii, narra che Lorenzo era, appunto, arcidiacono di Sisto II e mentre il Papa era condotto al martirio, egli si rammaricò di non poter seguire la stessa sorte, tanto che costrinse i carnefici a promettergli che dopo tre giorni avrebbe ottenuto anche lui la palma della vittoria.

    La Depositio Martyrum  non cita il nome del cimitero, forse perchè già identificato con il nome del martire. Altre fonti invece identificano la catacomba col nome di Ciriaca, proprietaria del terreno in cui fu scavato il cimitero, come:
    - il Liber Pontificalis, o Libro dei Papi, redatto da ufficiali inferiori della corte papale,
    - una passio di San Lorenzo del VI secolo, che specifica la sepoltura del martire in via Tiburtina "in praedio Cyriacae viduae in agro Verano" (in via Tiburtina nel terreno della vedova Ciriaca nel fondo del Verano). 

    In altre fonti dell'VIII secolo Ciriaca è detta «beata», in quanto il martire diventava automaticamente santo, e chi faceva donazioni alla chiesa (quasi sempre le donne) diventava beato.



    LO SCANDALO DEI SANTI

    "In Roma ove è la miniera delle reliquie, ed il magazzino generale chiamato custodia, giudica della verità di esse, apparentemente e per la forma, il cardinal vicario; realmente poi, un padre Gesuita preposto alle catacombe. Nelle catacombe romane, sotto la direzione di un padre Gesuita, lavorano alcuni contadini, praticando scavi per trovare corpi di santi e sono chiamati dai Romani corpisantari. 

    Quando trovano delle ossa, chiamano il rev. Padre, il quale dichiara se quelle ossa hanno appartenuto ad un santo o ad un martire. Se le giudica ossa di santo, sono poste in una cassa apposita e portate dai corpisantari al magazzino, e come reliquie di santo si distribuiscono alla occasione. Se vi è una lapide col nome, si chiamano santi di nome proprio; se non vi è, allora il cardinal vicario gl'impone un nome a suo piacere, e questi si chiamano santi battezzati."

    Il P. Mabillon, Benedettino e zelante Cattolico, ha scritto "Lettera di Eusebio romano a Teofilo francese sopra il culto dei santi non conosciuti" per provare che molte di quelle reliquie sono tutt'altro che di santi.  La più parte di essi non solo non presentano prove della loro santità e del loro martirio; ma anzi alcuni di essi ne presentano tali da escludere l'uno e l'altra. In quanto ai santi battezzati "Il cardinal vicario, o Monsignor sacrista, gl'impongono quel nome che vogliono" e così il cadavere di un uomo prende spesso il nome gentile di una giovanetta, e come tale è vestito, ed ha la sua maschera di cera.

    "I segni sui quali si decide la santità ed il martirio sono una croce, il monogramma di Gesù Cristo, un A ed un Omega, la immagine del buon pastore o di un agnello, o alcuni simboli dell'Antico e Nuovo Testamento. Ma se cotali segni indicano tutto al più il sepolcro di un cristiano, non sono per ciò una prova che esso sia il sepolcro di un santo.


    Un altro segno è tenuto per decisivo del martirio, e cioè le palme."Coteste palme sono un segno assai equivoco: spesse volte quelle che si prendono per figure di palme non sono che figure di cipresso, che indicano il lutto, e non il trionfo. Ma quando anche fossero vere palme, non indicherebbero necessariamente il martirio." E cita l'esempio del sepolcro di Flavia Giovinia, figlia di Flavio Giovinio console nell'anno 367. Sul suo sepolcro vi erano il monogramma di Cristo, circondato da una corona di alloro, e due bellissime palme; e la iscrizione diceva che essa era solamente neofita, ed era morta in pace (deposita neophita in pace IX Kal. octobr.).

    La sacra congregazione delle indulgenze e sacre reliquie col suo decreto 10 aprile 1668 ha dichiarato che per giudicare il cadavere come martire, non bastano le palme, ma bisogna che vi sia un vaso col sangue. "Il decreto della s. congregazione è savissimo, supponendo però che si possa essere certi che quel vaso avesse contenuto il sangue; e non piuttosto profumi, o cose simiglianti." Chi non sa difatti che gli antichi solevano porre ne' sepolcri un piccolo vaso di vetro che conteneva le lacrime de' parenti e degli amici del defunto?

    La catacomba di S. Lorenzo è una delle poche catacombe romane di cui non si persero le tracce, sempre visitata da pellegrini e dai corpisantari sempre a caccia di santi. Questo è uno dei motivi, assieme ai bombardamenti dell'ultima guerra mondiale e alla costruzione del cimitero del Verano, che ne hanno minato la conservazione.

    Il martire Lorenzo fu ucciso il 10 agosto dell'anno 258 e sepolto nel cimitero sulla via Tiburtina. Alcuni decenni dopo l'imperatore Costantino fece costruire sulla tomba del martire un oratorio, modificando il percorso per agevolare i pellegrini. Inoltre l'imperatore fece costruire nei pressi dell'oratorio una grande basilica circiforme chiamata Ecclesia Maior.



    LA MONUMENTALIZZAZIONE DEI PAPI

    Tre papi del V secolo decisero di farsi seppellire nei pressi della cripta del martire: Zosimo, Sisto III e Ilaro (... - 468), ma non se ne sono state trovate tracce. 
    - Ilaro fece edificare un monastero, le terme per i pellegrini, una biblioteca e una residenza vescovile. 
    - Papa Simplicio (468-483) fece costruire, nei pressi dell'oratorio, una chiesa dedicata a santo Stefano protomartire. 
    - Papa Felice III (483-492) un'altra chiesa, dedicata a sant'Agapito, compagno di Lorenzo.
    - Papa Pelagio II (579-590) edificò una nuova basilica al posto dell'oratorio costantiniano, sulla tomba del martire chiamata Ecclesia Minor, per distinguerla da quella costantiniana.

    Le invasioni barbariche trasformarono il cimitero in una vera e propria cittadella fortificata con mura e torri. 
    - Papa Adriano I (772-795) restaurò la basilica costantiniana, dedicandola alla Sanctae Dei Genetricis, e le due chiese di Santo Stefano e di Sant'Agapito. 
    - Papa Onorio III (1150 –1227)  edificò una nuova basilica come prolungamento di quella pelagiana, che a sua volta venne trasformata in presbiterio di quella nuova.

    Nella catacomba sono stati scoperti nel 1947-1949 i santuari di altri due martiri, Abbondio ed Erennio.

    RICOSTRUZIONE DI UNA DELLE PITTURE

    DESCRIZIONE

    La catacomba si sviluppa su cinque livelli, ed è visitabile solo a partire dai tre accessi nella basilica di San Lorenzo fuori le mura. Il nucleo originario si sviluppò nel III secolo, ma alcune trasformazioni intervennero per ampliare e monumentalizzare lo spazio attorno ad una sepoltura di piccole dimensioni. Su di essa, tra gli inizi e la metà del IV secolo venne realizzato un pozzo in muratura che permetteva di vedere dall'alto la speciale tomba.

    Molto vicino a questo ambiente doveva trovarsi la sepoltura di Lorenzo, dove l'imperatore Costantino, come sappiamo dal Liber Pontificalis, fece costruire un'abside rivestita di porfido, racchiudendo poi la tomba dietro ad una grata in argento.

    Costantino fece inoltre costruire nel sopraterra una grande basilica circiforme (a forma di circo) che era legata alla tomba del martire attraverso una scala e che servì da cimitero a cielo aperto.

    Alla fine del VI secolo, papa Pelagio II fece costruire una seconda basilica proprio sulla tomba di S. Lorenzo, tagliando parte della collina e delle gallerie cimiteriali circostanti. Il corpo di questo edificio sacro si conserva ancora nell'attuale basilica, costituendone attualmente la zona absidale. L'attuale edificio venne realizzato all'epoca di papa Onorio III (1216-1227).

    Ma di tutto questo non è stato trovato niente, successivamente gli scavi archeologici hanno identificato un altro santuario martiriale ipogeo, dedicato ai santi Abbondio ed Erennio, ancora in uso in epoca medievale.

    ISCRIZIONE E DISEGNO SULLA TOMBA

    LE ISCRIZIONI

    Le iscrizioni che si trovano sui sepolcri nelle catacombe sono spesso fallaci. nelle Spagne vi è un S. Viar in gran voga; la di lui santità è autenticata da un pezzo di lapide trovata vicino al suo corpo nel quale è scritto S. Viar: gli archeologi che hanno esaminata quella iscrizione han dimostrato che essa è un frammento di una lapide innalzata ad un prefetto delle strade: PRAEFECTUS VIARUM; e della quale non è restato che la S. di praefectus, e il VIAR di viarum.

    D. M.
    IULIA. EVODIA. FILIA. FECIT.CASTAE. MATRI. 
    ET. BENE. MERENTI.QUAE. VIXIT. ANNIS. LXX.

    ( Agli Dei Mani
    Giulia Evodia figlia, ha fatto questo monumento 
    di gratitudine alla sua casta madre, 
    che visse 70 anni) 
    dunque una pagana dove il D.M. fu interpretato come Diva Martyr.

    FREGIO DEI DELFINI

    LE RELIQUIE

    - Il legno della croce del Signore da molti secoli si distribuisce in Roma e nell'Oriente. Nella basilica di S. Croce in Roma ce ne è un grosso pezzo, un altro pezzo è nell'obelisco vaticano, una porzione in Costantinopoli; e la custodia delle reliquie in Roma ne dà ogni giorno a tutti. Tutti i vescovi ne hanno un pezzo nella loro croce pettorale: non vi è chiesa che non ne abbia il suo pezzo; se si radunassero tutti i pezzi esistenti, senza calcolare quelli che in tanti secoli sono andati perduti, vi sarebbe tanto legno della croce da caricarne più bastimenti.

    - Del latte della Vergine Maria ve ne sono tante bottiglie da empirne una dispensa. Il corpo di S. Andrea Apostolo è in cinque differenti luoghi, la sua testa, che doveva pure essere una, è in sei luoghi, e si contano di lui 17 braccia. 

    - Il corpo di S. Clemente è in tre diversi luoghi, e la sua testa in cinque. 

    - S. Ignazio martire, che fu mangiato dalle fiere nell'anfiteatro, ha tre corpi, sei teste, e sette braccia in diversi luoghi. 

    - S. Giacomo il minore ha quattro corpi, dieci teste, e dodici braccia. 

    - La testa di S. Giovanni Battista sta in dieci luoghi, e si venera il suo dito indice in undici chiese. 

    FRAMMENTI DELLA CATACOMBA DI S. LORENZO
    Potremmo tirare assai a lungo questo catalogo; ma basti questo piccolo saggio per far vedere qual fede debba prestarsi alla indentità delle reliquie, e con quanta ragione il signor Pasquali contestava l'autenticità della sedia di S. Pietro.

    Quando Maometto II prese Costantinopoli, raccolse con gran cura tutte le reliquie, e le serbò nel suo tesoro, per farne commercio. Era ancora il tempo nel quale si correva dietro a cotali cose; e molti principi offrivano al sultano buone somme per avere da lui una reliquia, e più essa era rara, più era pagata. 

    Ognuno vede quale autenticità potevano avere le reliquie vendute da Maometto e suoi successori. Saladino sultano di Gerusalemme faceva lo stesso commercio; e così l'Europa fu riempita di quelle reliquie che non reggono neppure alla critica la più superficiale: intanto la Chiesa romana le adora, e ne celebra la festa con uffizio e messa.

    BELLUM NUMANTIUM (133 a.c.)

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    ASSEDIO DI NUMANTIA

    LA GUERRA LUSITANA

    La guerra tra i Romani e i Lusitani, per la conquista della penisola iberica, iniziò nel 194 a.c., ed ebbe una tregua solo nel 179 a.c. con un trattato di pace. Tuttavia scoppiò una rivolta nel 155 a.c. e terminò quando lo sleale pretore Servio Sulpicio Galba fece uccidere a tradimento nel 150 a.c. i capi dei Lusitani, da lui invitati ad un colloquio di pace. 

    Nel 146 a.c., i Lusitani, guidati da Viriato, si ribellarono di nuovo, sostenuti da una coalizione anti-romana di diversi popoli. Viriato fu ucciso nel 139 a.c. nel suo letto da tre suoi uomini, corrotti dai Romani. Il generale Quinto Servilio Cepione giustiziò poi i tre, dicendo che Roma non ricompensa i traditori.



    LE GUERRE CELTIBERE

    Intanto erano iniziate le guerre celtibere, o celtiberiche, tra il 181 a.c. e il 133 a.c., fra Roma e i popoli celtiberi per il dominio romano nell'Hispania centro-settentrionale. Conclusive però furono le ultime due guerre fra il 153-151 a.c. e il 143-133 a.c., combattute intorno alla città di Numanzia, ultima roccaforte della resistenza celtibera.

    Numanzia, (in latino Numantia) era una antica roccaforte dell'attuale provincia di Soria, in Spagna, alla confluenza dei fiumi Tera e Duero, fondata nel IV secolo a.c. dal popolo celtibero degli Arevaci, divenuta poi territorio punico nel III secolo a.c., che si insinuarono pacificamente senza mai combattere. Ormai Numantia era territorio cartaginese e pertanto pericolosa per Roma.

    - 153 a.c. - Nell'anno 153 a.c. viene inviato in Spagna il console Quinto Fulvio Nobiliore al comando di un esercito di 6000 uomini, poichè la città di Segeda stava fortificando le proprie mura, nonostante i trattati precedentemente stipulati coi Romani. L'esercito romano si scontra con l'esercito ispanico, composto in prevalenza da Belli e Titti, e lo sconfigge. 

    A quel punto la sorte di Segeda è segnata e infatti la maggior parte dei suoi abitanti la abbandona per rifugiarsi a Numantia. Secondo altre fonti andò diversamente, l'esercito di Fulvio Nobiliore era di 30000 uomini e venne sconfitto dall'esercito numantino guidato da un certo Caro de Segeda che provocò la morte di 6000 romani e che morì inseguendo l'esercito romano allo sbando. In effetti Caro de Segeda provocò molti danni ai romani che tuttavia vinsero Segeda e la distrussero ma nulla poterono contro Numanzia.

    RESTI DI NUMANTIA
    - 143 a.c. - Dieci anni dopo il comando viene affidato al console Quinto Cecilio Metello Macedonico, che venne inviato come governatore nella penisola Iberica dove sconfisse e sottomise gli Averaci. Gli successe Quinto Pompeo a cui venne assegnata la Hispania Citerior come provincia da governare e da pacificare, ma Quinto subì alcune sconfitte e pose, senza successo, l'assedio a Numanzia. 

    Le truppe, accampate sotto le mura della città durante l'inverno, ebbero numerosi morti per il freddo e per le malattie; Quinto richiese la resa incondizionata ai Numantini, ma con trattative segrete si limitò alla consegna dei prigionieri, dei disertori romani, di alcuni ostaggi e di trenta talenti. 

    - 139 a.c. - I numantini accettarono, ma il comando passò al console Marco Popilio Lenate che, giunto in Spagna, chiese l'immediata la resa della città, mentre i numantini si appellarono al trattato già ratificato. Lenate allora rimise le decisioni del Senato romano che optò per la guerra e Lenate pose nuovamente l'assedio alla città, subendo però un'ulteriore disfatta nel 139 a.c. Numantia sembrava inespugnabile.

    - 137 a.c. - Nel 137 a.c. poi, sotto le mura di Numanzia, il successore di Popillio, il console Caio Ostilio Mancino, sconfitto, per evitare la distruzione del suo esercito, fu costretto dai Numantini a firmare una pace umiliante per Roma. Il trattato venne disconosciuto dal Senato.

    RICOSTRUZIONE DELLE MURA DI NUMANTIA
    - 134 a.c. - Siamo ora nel 134, Roma è stanca di perdere uomini e denari nella penisola iberica e allora affida l'esercito romano della provincia Tarraconense a Publio Cornelio Scipione Emiliano, vincitore della III Guerra Punica e distruttore di Cartagine, appositamente eletto per la seconda volta al consolato, in deroga ad una legge che impediva di reiterare la massima magistratura.
    E' Appiano ad informarci sul Bellum Numantinum, sulle cronache di Polibio, il quale ebbe modo di farsi esperienza diretta, accompagnando Scipione l'Emiliano come amico e consigliere militare. 
    Il generale Cornelio Scipione, dopo aver saccheggiato il paese dei Vaccei, cinse d'assedio Numanzia nel 134–133 a.c. Scipione aveva portato da Roma un certo numero di volontari e cinquecento persone a lui legate da vincoli di amicizia o di dipendenza: una specie di guardia del corpo privata, con il compito di proteggerlo mentre ristabiliva la disciplina nell'esercito. Inoltre aveva al suo fianco il giovane nipote del re, Giugurta a capo della cavalleria numidica, preziosa nella battaglia perchè velocissima. 
    Scipione, oltre a ristabilire la disciplina, cercò di alzare il morale dei soldati ormai abituati alle perdite continue di uomini e assicurò che d'ora in poi questo svenamento non sarebbe più accaduto. 
    La cittadella poteva essere presa solo per fame, per cui fece costruire una doppia circonvallazione per isolare Numanzia dagli approvvigionamenti e dai soccorsi. Si presentò poi alla città di Lutia facendosi consegnare degli ostaggi per prevenire qualsiasi volontà di aiuto a Numanzia.

    PUBLIO SCIPIONE EMILIANO
    - 133 a.c. - L'assedio durò 15 mesi, i Numantini affamati cercarono di trattare con Scipione che tuttavia accettò solo una resa incondizionata. I pochi cittadini in condizione di combattere, disperati si gettarono in un assalto suicida contro le fortificazioni romane. 

    Vista l'inutilità del gesto, si narra, ma forse è leggenda, che dettero fuoco alla città e si gettarono nelle fiamme. Gli scampati comunque vennero ridotti in schiavitù,e fatti sfilare a Roma durante il trionfo di Scipione. La città fu rasa al suolo come Cartagine pochi anni prima.

    L'Emiliano aveva fatto di testa sua, affidando comandi ai suoi parenti o amici e decidendo personalmente di distruggere il centro dei Celtiberi senza consultare il Senato. Ma il senato non fiatò, per troppi anni Numantia era stata una spina nel fianco al potere di Roma sulla penisola iberica.

    Così ancora una volta Roma trionfò, e ancora una volta si servì di un ottimo generale che sapeva non solo usare le strategie, ma sapeva anche addestrare il suo esercito. Cesare disse che era da commiserare l'esercito il cui generale vinceva con la forza anzichè con l'astuzia. In effetti, molti decenni dopo il grande genio militare di Giulio riprodusse in parte la stessa prodezza con l'assedio di Alesia, in cui stavolta però l'esercito romano assediò e fu assediato.


    BIBLIO

    - Ammiano Marcellino - Rerum gestarum libri - XXXI -
    - Giovanni Brizzi - Storia di Roma - Dalle origini ad Azio -
    - Giovanni Brizzi - Studi militari romani - Bologna -CLUEB -, 1983.
    - Publio Cornelio Scipione Emiliano - Enciclopedia Italiana - Istituto dell'Enciclopedia Italiana
    - Velleio Patercolo - Historiae romanae ad M. Vinicium - libri duo -

    ANTIOCHIA DI PISIDIA - YALVAC (Turchia)

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    Sedici sono le città del Medio Oriente che portano il nome di Antiochia, in quanto la dinastia seleucide, una dinastia ellenistica che regnò sulla parte orientale dei domini di Alessandro Magno, dopo la sua morte, cioè sulla Mesopotamia, sulla Siria, sulla Persia e sull'Asia Minore, ebbe molti sovrani con il nome di Antioco.

    Antiochia di Pisidia (o Antiocheia in greco, in latino: Antiochia ad Pisidiam), era una città dell'Asia Minore, capoluogo della montuosa Pisidia, di cui giaceva all'estremità settentrionale presso il piccolo fiume Anthius. Il sito archeologico dista circa 1 km dall'attuale villaggio di Yalvaç.

    PIANTA DEL SITO (INGRANDIBILE)
    Essa era collocata nella regione dei laghi in Turchia, nella provincia moderna di Antalyaera, posta su sette colline, di cui la più alta raggiunge i 1236 m. Circondata da alte montagne, pur essendo posta vicino alle coste del mediterraneo, ha un clima piuttosto fresco. La zona dispone di molte sorgenti che sgorgano nelle vicine montagne.

    Posta all'incrocio tra il Mediterraneo e il Mar Egeo e la regione centrale dell'Anatolia, era vicina al vecchio confine tra Pisidia e Frigia per cui era anche chiamata l'Antiochia della Frigia. Il sito dista circa 1 km. a nord di Yalvaç (o Yalobatch), moderna città della provincia di Isparta.

    L'acropoli della città aveva una superficie di 460.000 m² ed era circondata da mura fortificate, sede di un importante santuario dedicato al Dio lunare Men, probabilmente derivato dal culto del Dio mesopotamico Sin.

    La città controllava un territorio stimato a circa 1400 kmq e secondo alcuni studiosi c'erano 40 villaggi con una popolazione di 50.000 abitanti in ​​questa zona. La popolazione durante il periodo romano deve essere stata parecchio maggiore di così. Il suo terreno fertile e costantemente irrigato era molto adatto alla frutticoltura e all'allevamento.

    Per i veterani delle legioni romane che la colonizzano e che provengono da zone povere d'Italia, l'agricoltura diventa l'attività principale. Per quanto riguarda la religione, notiamo l'importante presenza nella città del culto del Dio Men (o Men Askaelos, in greco : Μήν, in latino: Mensis) come Dio misericordioso protettore dei poveri. Di questa divinità esistono ancora molte iscrizioni.

    ABSIDE DELLA BASILICA DI SAN PAOLO

    LA STORIA

    280 a.c. - I ritrovamenti archeologici fanno risalire i primi insediamenti al IV secolo a.c., ma la vera città venne fondata da Seleuco Nicatore nel 280 a.c. con i coloni di Magnesia al Meandro (Magnesia ad Meandrum) una città greca in Asia Minore sul fiume Meandro a monte di Efeso. Il luogo era comunque già sede di un importante sito religioso, il santuario della divinità frigia Men.

    Antioco I Sotere estese infatti il suo regno verso occidente sconfiggendo i Galati (Galli) in una battaglia dove utilizzò 16 elefanti da guerra, animali ad essi completamente sconosciuti, e pose questa città a controllo della frontiera. 

    188 a.c. - La regione tornò sotto i Galati con il trattato di Apamea del 188 a.c., in cui, grazie all'intervento romano, fu ceduta da Antioco III, e vi sorse il regno di Pergamo (Turchia).

    189 a.c. - I Romani la dichiararono città libera nel 189 a.c., e ai tempi di Augusto vi dedussero una colonia, col titolo di Cesarea, facendone il capoluogo dell'amministrazione civile e militare della Galazia inferiore. 


    133 a.c. - Nel 133 a.c. Attalo III, re di Pergamo dal 138 a.c. fino alla sua morte, poco interessato al suo governo e molto ai suoi studi, fece un lascito testamentario del suo regno alla repubblica romana ma la regione comunque restò per parecchio tempo contesa da vari regni. 

    102 a.c. - I Romani vi si imposero definitivamente nel 102 a.c., ma il territorio restò difficilmente controllabile, anche a causa della sua particolare morfologia.
    64 a.c. - Nel 64 a.c. la Galazia divenne un regno cliente della Repubblica romana, mantenendo la suddivisione in tre tribù, ciascuna con un tetrarca. Al tempo di Cesare, uno dei tetrarchi, Deiotaro, prese il sopravvento sugli altri due e venne riconosciuto dai Romani quale "re" della Galazia.


    25 a.c. - Con la morte del re Aminta (25 a.c.), la Galazia fu definitivamente incorporata nell'impero da Augusto, tant'è che Pilamene, erede dell'ultimo re galata, ricostruì un tempio presso Ancyra dedicandolo ad Augusto in segno di lealtà all'impero. Nei secoli successivi, del resto, la Galazia si dimostrò una delle province più fedeli a Roma.
    Così nello stesso anno venne creata la Provincia di Galatia, che confinava a nord con la Bitinia e la Paflagonia, a est con il Ponto, a sud con la Licaonia e la Cappadocia e a ovest con quel che rimaneva della Frigia, così Antiochia fece parte della Provincia di Galatia. Sotto Augusto fu l'unico capoluogo della regione a ottenere il nome di Cesarea.
    6 a.c. - Nella regione vennero create delle colonie, distribuendo le terre tra i legionari, e vi fu costruita una strada, la via Sebaste, conosciuta anche come la "Strada Imperiale", che passava per Antiochia, costruita per volontà dell'imperatore Augusto nel 6 a.c. 

    La strada iniziava lungo il Mediterraneo a Perge, proseguendo poi a nord-ovest verso Comama, attraversando il lago Burdur fino all'Antiochia Ad Pisidis prima di fare un giro ad ovest e sud-ovest attraverso Iconium, Lystra e Derbe.

    La via romana consentiva alle unità militari romane di spostarsi rapidamente in tutta la regione, per arginare le tribù predatrici montane e collegare le nuove colonie romane dell'Asia Minore. Inoltre collegava le grandi città della regione ai porti del Mediterraneo, funzionando come rete di trasporto e comunicazione sia interregionale che dell'impero romano.

    All'inizio dell'era cristiana Antiochia era diventata un notevole centro culturale grazie all'intensa attività economica, militare e religiosa. San Paolo e San Barnaba visitarono la città, a testimonianza dell'importanza da essa assunta, e contribuirono alla sua cristianizzazione.


    313 d.c. - L'editto di Costantino del 313 che liberalizzò la religione cristiana e le altre misure prese a sostegno economico della stessa religione, permisero a questa di espandersi nella regione e nella città, che fu anche sede di concili. 

    IV secolo d.c. - Alla fine del IV secolo la città aveva assunto una tale importanza che venne scelta per diventare la capitale della provincia di Pisidia.

    VI secolo d.c. -  Nel VI secolo iniziò la decadenza della regione e della città. Pur restando un importante centro religioso per la cristianità, come altre colonie romane, rimase sempre più esclusa dai nuovi itinerari commerciali.

    Non solo era caduto l'Impero romano d'Occidente ma l'Impero Romano d'Oriente era ora minacciato a sud-est dai guerrieri della nuova religione islamica, anch'essa monoteista e intransigente, proveniente dall'Arabia. Le continue incursioni arabe dal mare e da terra fiaccarono lentamente l'Impero finchè più volte la stessa capitale Costantinopoli fu sottoposta ad assedio. La situazione non poteva durare a lungo.

    L'attacco più feroce inferto ad Antiochia fu portato dagli Abbasidi (una dinastia califfale musulmana che governò il mondo islamico dal 750 al 1258) nel 718, durante il regno del califfo al-Walīd ibn 'Abd al-Malik. La città non si riprese mai più da questo colpo mortale.

    Nell'XI secolo i Turchi selgiuchidi (una dinastia turca il cui ramo principale elesse la sua residenza in Persia) invasero l'Anatolia e nel 1176 l'esercito bizantino e quelli del sultano si scontrarono a Myriokephalon (mille teste), sito di cui non si conosce l'esatta ubicazione ma sicuramente nelle vicinanze dell'antica Antiochia.


    L'imperatore bizantino fu sconfitto e venne firmato un trattato secondo il quale questa regione passava sotto controllo seleiuchide.
    I Turchi abbandonarono le colline per insediarsi nella valle, non dovendo più preoccuparsi della difesa in quanto possedevano il controllo di tutta l'Anatolia. La dominazione turca mantenne i nomi delle principali città, ma Antiochia, essendo nome oramai dimenticato per l'assenza di abitanti e credenti cristiani a ricordarlo, venne chiamata Yalvaç che significa Profeta, secondo alcuni in ricordo di San Paolo, che però non fu mai profeta.

    IL TEATRO

    IL TEATRO

    Quando Gaio Giulio Cesare fece visita ad Antiochia, nel 47 a.c., decise di costruirvi una grande basilica, chiamata Kaisarion. Ma non fu l'unico monumento pubblico che qui eresse. Sembra abbia anche fatto costruire un nuovo teatro, un anfiteatro (uno dei primi del mondo romano), un acquedotto, nuovi impianti termali e ricostruì anche un nuovo Pantheon.
    Il teatro era in parte scavato sulla collina e in parte edificato. Per costruirlo si sfruttò la pietra locale ma venne anche rivestito di marmi che vennero poi spoliati per edificare successivi monumenti dai musulmani ma pure dai romani stessi.


    TEMPIO DI AUGUSTO

    TEMPIO DI AUGUSTO

    Secondo le volontà dello stesso Augusto, il testo delle

    Res Gestae "doveva essere inciso, e così venne fatto, su tavole di bronzo da porre davanti alla sua tomba, nell'area vicina all'Ara pacis." Non si comprende come mai non siano state ricomposte le due stele (oltre che nell'Ara Pacis) davanti all'ingresso del monumento con le Res Gestae, come era in antico.

    In quell'area, prima del principe, erano stati sepolti tutti coloro che furono legati alla nuova dinastia, Marco Claudio Marcello, Agrippa, Druso maggiore, la sorella Ottavia, Lucio e Gaio Giulio Cesare.

    TEMPIO DI AUGUSTO
    In realtà i frammenti superstiti delle "res gestae" non provengono da Roma ma dall'oriente romano: da Antiochia di Pisidia. da Ankara (Ancyra), da Apollonia. Tutte queste città si ubicavano nella parte interna dell'Asia minore e dell'Anatolia, evidentemente Ottaviano voleva dare alla regione asiatica, così frammentata in realtà culturali, sociali e religiosi diverse, un assetto politico stabile, basato sul riconoscimento del potere di Roma e di Augusto.
    Così anche sul tempio di Antiochia vennero scritte a lettere di bronzo le Res Gestae di Augusto, giustamente nel tempio che lo celebrava, affinchè il mondo e anche i posteri sapessero quale buon governo avesse esercitato nel suo regno, a favore di Roma e dell'impero romano.

    Il tempio era decorato con due fregi, uno con girali di acanto, l'altro con ghirlande e protomi taurine, e con un'elegante figura di Vittoria alata come acroterio. La decorazione del pròpylon era costituita da rilievi raffiguranti prigionieri pisidi e Vittorie alate che commemorano la sottomissione della Pisidia da parte di Augusto, e recava anche una copia delle Res gestae del principe.

    BASILICA DI SAN PAOLO

    BASILICA DI SAN PAOLO

    Antiochia di Pisidia fu sede episcopale e uno dei centri principali del cristianesimo in Asia Minore.
    In essa si conservano le fondamenta della sinagoga dove predicò Paolo, distrutta poi dalle invasioni arabe nel settimo secolo, che venne poi trasformata in Basilica. Ma questa andò a sua volta distrutta dai terremoti.

    BASILICA DI SAN PAOLO
    Della basilica si conservano delle mura perimetrali e parte delle navate eseguite ad arcate sorrette da grossi pilastri di grandi pietre squadrate. I muri sono a loro volta in pietra a secco per le parti interne e con pietre più piccole e malta per le parti interne. Non vi sono più reperti perchè tutto è andato distrutto o depredato.

    LE TERME

    LE TERME

    La pianta della città era basata su un sistema a reticolato irregolare di strade e insulae. Il decumanus maximus conduceva a un ninfeo, probabilmente del tardo I o degli inizi del II sec. d.c., situato alla Sua estremità Ν e alimentato da un acquedotto dal tracciato ancora delineabile. Lo stesso acquedotto approvvigionava un grande edificio termale con annesso ginnasio situato all'angolo NO della città.

    IL NINFEO

    IL NINFEO

    Anche il ninfeo doveva essere approvvigionato dallo stesso acquedotto che all'esterno delle terme, come di consueto si apriva in un ninfeo adornato di fontane, scalette, statue, colonne, rocce e piante a simulare un paesaggio naturale.

    L'ACQUEDOTTO

    L'ACQUEDOTTO

    Di edificazione romana, ne sono rimasti diversi archi ed alcune tracce, fu il solito capolavoro di ingegneria romana distrutto poi in gran parte dai violenti terremoti, ma soprattutto dall'invasione araba che cercò di cancellare qualsiasi traccia di civiltà.



    GLI DEI DI ANTIOCHIA DI PISIDIA

    Dalla Turchia, ci giunge la notizia di un’altra importante scoperta, di quelle che ogni archeologo sogna di fare almeno una volta nella vita. Cinque sculture di divinità sono state appena scoperte nel santuario dedicato a Men, il Dio lunare di origine frigia (chiamato Mensis dai romani)), nell’antica città greco-romana di Antiochia di Pisidia, situata nell’attuale provincia turca di Isparta.

    Le sculture sono state rinvenute, in buono stato di conservazione, in una delle camere del santuario finora inesplorate.

    Il Professor Mehmet Özhanli, direttore degli scavi, ha riferito che le statue, raffiguranti le dee Ecate, Cibele, Atena e gli dei Men e Apollo, sono state rinvenute tutte insieme, in quello che doveva essere un luogo di culto di questo pantheon che accomunava divinità greco-romane e anatoliche.

    È la prima volta nella storia dell’archeologia che queste divinità vengono trovate insieme nella stessa camera. Il Dio anatolico Men si trovava su un altare al centro tra le altre divinità, di fronte a Cibele ed Apollo e con Atena al suo fianco. Ovviamente, i risultati di questa scoperta, consentono di acquisire importanti informazioni sugli antichi culti locali.

    GENS POETELIA

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    La gens Poetelia o Poetilia era una famiglia plebea dell'antica Roma. I membri di questa gens sono menzionati per la prima volta al tempo dei Decemvir, e da allora fino alla seconda guerra punica, hanno ricoperto regolarmente le magistrature principali dello stato romano. Dopo di ciò, tuttavia, svaniscono nell'oscurità e vengono menzionati solo occasionalmente. La plebe Gens Poetelia si era distinta nel IV secolo a.c., ma poco dopo il nome quasi scomparve, forse per mancanza di discendenti.
    Il nomen Poetelius è talvolta confuso con Petillius, e può essere trovato con una "l" singola o doppia.

    "Mons.Cespius lucus Poetelius Esquliis est" (Nel monte Cespio il bosco Poetelis è esquilino).
    Lucus Poetelius o Lucus Petelinus. Si voleva vedere una relazione con il culto di Mefite a causa della sua relazione etimogenica con putrido (bifidus sarebbe un tratto falso arcaicizzante). Altri 10 riguardano le gens della Poetelia, di origine plebea. tuttavia, Tito Livio, 6. 20, I I, situa quello vicino alla porta Nomentana al Lucus Petelinus.
    Nexum era una servitù per debiti contratti nei primi Repubblica Romana. Il debitore impegnava la sua persona come garanzia sul suo prestito. Il Nexum venne abolito dalla Lex Poetelia-Papiria nel 326 a.c..

    La legge nexum venne abolita a causa della crudeltà eccessiva e la lussuria di un singolo usuraio, Lucio Papirio. Nel 326 a.c., un giovane ragazzo di nome Gaio Publilius era garante per debiti di suo padre, diventando il nesso di Papirio. Nella versione di Dionigi di Alicarnasso, Publilius, preso in prestito i soldi per il funerale di suo padre, venne notato per la sua giovinezza e la bellezza, e Papirio lo desiderò sessualmente.

    Egli cercò di sedurre Publilius con “conversazione oscene”, ma il ragazzo lo respinse. Papirio si spazientì e ha ricordato che il ragazzo della sua posizione di schiavo. Quando il ragazzo ha rifiutato ancora una volta le sue avance, Papirio lo spogliò e lo frustò. Il ragazzo ferito corse in strada, e la gente insorse contro il nexum, portando i consoli ad emanare la Lex Poetelia-Papiria, che vietava di tenere debitori in schiavitù per il loro debito, utilizzando invece come garanzia la proprietà del debitore. 

    Tutte le persone confinate sotto la nexum vennero rilasciati, e il nexum venne vietato da allora in poi.
    Varrone risale in alternativa l'abolizione di nexum al 313 a.c, durante la dittatura di Gaio Poetelius Libo Visolus.



    RAMI E COGNOMINA

    L'unica famiglia distinta dei Poetelii è Libo, da libare, che probabilmente si riferisce a chi versa libagioni durante un sacrificio. Gran parte di questa famiglia portava anche il cognome Visolus. Livio si riferisce al console del 360 a.c. come Gaio Poetelio Balbo, ma altre fonti lo chiamano Libo.



    PERSONAGGI NOTI

    - Quintus Poetelius Libo Visolus -

    SYPHAX RE DI NUMIDIA
    secondo Dionysius di Halicarnassus, era plebeo, uno dei membri plebei del II decemvirato, membro del II Decemvirato a Roma dal 450 al 449 a.c., presieduto da Appio Claudio Crasso ed eletto per redigere la Legge delle Dodici Tavole. Su istigazione di Appio Claudio, i decemviri rimasero al potere l'anno successivo e si rifiutarono di consentire l'elezione annuale dei consoli nel 449 a.c.. Nel 449 a.c., i Sabini si stabilirono a Eretum e gli Aequi si erano accampati sul Monte Algidus, in guerra con i Romani che si divisero in due eserciti per combattere su due fronti. Quintus Poetelius ricevette il comando dell'esercito che combatté i Sabini, con altri tre decemviri: Quinto Fabius Vibulanus, Manius Rabuleius e Kaeso Duillius. A quel tempo, Appio Claudio e Spurio Oppius Cornicen rimasero a Roma per garantire la difesa della città, mentre gli altri quattro decimi combatterono contro gli Aequi. 
    L'esercito di Quintus Poetelius si ritirò a Fidenae e Crustumerium, quindi tornò in campo dopo la morte di Lucio Siccius Dentatus, ex tribuno delle plebe e avversario dei patrizi. La sua morte fu nascosta come se si trattasse di una perdita subita in un'imboscata. I soldati si ammutinarono ed elessero dieci tribuni militari per comandare l'esercito. Ritornarono a Roma e si accamparono sull'Aventino prima di fondersi con l'altro esercito sul Monte Sacro. Sotto la pressione dei soldati e dei plebei, i decemviri si dimisero. Appius Claudius Crassus e Spurius Oppius Cornicen rimasero a Roma e furono incarcerati, ma si suicidarono durante il processo. Gli altri otto decemviri, come Quinto Poetelio, lasciarono Roma e andarono in esilio.


    - Gaius Poetelius Q. f. Libo Visolus -

    padre di Gaius Poetilius Libo Visolus, console nel 360 a.c..


    - Gaius Poetelius C. f. Q. n. Libo Visolus -

    console nel 360 a.c., sconfisse i Tiburtini e i Galli, guadagnandosi un trionfo. Come tribuno della plebe nel 358, aveva approvato una legge intesa a frenare la corruzione. Fu di nuovo console nel 346 e 326, e nell'ultimo anno passò la lex Poetelia Papiria, abolendo una forma di schiavitù del debito.

    - Gaius Poetelius C. f. C. n. Libo Visolus

    dittatore nel 313 a.c., durante la II Guerra Sannita, ebbe alcuni successi contro i Sanniti, ma alcune autorità attribuiscono credito al console Gaius Junius Bubulcus Brutus. Niebuhr e Müller suggeriscono che fu lui, piuttosto che suo padre, a portare avanti la lex Poetelia Papiria.


    - Marcus Poetelius M. f. M. n. Libo -

    console nel 314 e Magister equitum del dittatore Poetelius Libo nel 313. Nonostante le sue vittorie contro il Sanniti, gli è stato negato l'onore di un trionfo. La legge Poetelia Papiria sui debiti fu votata dai comizi centuriati nel 326 su Proposta della Consoli C. Peteliae e Papirio Cursore.


    - Publius Poetelius -

    uno dei tre ambasciatori inviati a Syphax, the king of Numidia, in 210 a.c.. Gaius Poetilius C. f. Paullus, un soldato della guardia pretoriana, seppellito a Roma, all'età di ventisette anni, avendo prestato servizio per otto anni.


    - Publius Poetellius P. l. Syrys

    un liberto che lavorava come lanista, o allenatore di gladiatori, sepolto a Roma, di 48 anni.




    BIBLIO

    - Dionysius of Halicarnassus - Roman Antiquities, X. 58 -
    - Tito Livio - Ab urbe condita libri -
    - Aurelius Victor - De Viris Illustribus, 45 -
    - Fasti Capitolini - AE 1927, 107 - Alfred Merlin -
    - Diodoro Siculo - Bibliotheca historica, II -
    - Pliny the Elder, XIII -

    CULTO DI CACO

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    ERCOLE E CACO
    Caco è una divinità, o semidivinità della mitologia romana, figlio di Vulcano e non si sa di chi (ammesso che avesse una madre, visto che gli Dei romani ebbero anche parti improbabili, come Giove dalla testa ecc.)

    Si presuppone che Caco fosse in origine un'antica divinità italica del fuoco della regione che circondava Roma. Veniva raffigurato come un uomo un po' scimmiesco, che però emetteva fuoco dalle fauci. Properzio ci tramanda che avesse tre teste e un corpo peloso.

    La divinità non doveva essere negativa, visto che a lui si dedicarono a Roma alcuni monumenti, di cui sono sopravvissuti le "Scalae Caci" e l'"Atrium Caci".

    Le suddette scale:

    "Mettevano in comunicazione la vallata del Circus maximus col Palatinus, e propriamente la parte meridionale detta Cermalus, nel cui fianco eran tagliate. Formavano uno dei tre accessi all'antica città del Palatino, e finivano con una porta, di cui non ci è dato il nome. Cosi le chiama Solino (collect, rer. mem. 1, 18), che fa cominciare le mura della Roma quadrata in "area Apollinis", e finire ad "scalarum Caci, ubi tugurium fuit Faustuli". E furono senza dubbio le stesse che ricorda Plutarco (Rom. 20), quando accenna al luogo della "casa Romuli", le scolae stesse e ivi pone la casa di Cacus. Avanzi se ne vedono tuttora."
    (Dizionario Epigrafico di Antichità Romane - Ettore De Ruggiero - 1886)

    In seguito si pensò a Caco come un mostro dall'aspetto scimmiesco, dato che il suo corpo era coperto di un manto peloso e, secondo la descrizione tramandataci da Properzio, possedeva tre teste. La trinità era appannaggio delle grandi Madri che governavano nel cielo, sulla terra o negli inferi. Insomma rimanda ad Ecate e pure a Cerbero, forma demonizzata dell'antica Dea.

    Caco appare nella decima delle Fatiche di Ercole e Virgilio (Eneide VIII, 193-306), ma pure Tito Livio (I, 7) ed Orazio (Satire) ne parlano come di un mostro sputafuoco, che tuttavia fa il pastore.



    I BUOI DI GERIONE

    Il mito narra che Caco viveva in un anfratto dell'Aventino ed era un ladro di bestiame, tanto è vero che rubò parte della mandria dei buoi che Ercole aveva rubato al mostro Gerione, ma siccome secondo Ercole l'unico autorizzato a rubare era lui si adirò molto e si mise alla ricerca dei buoi.

    Non fu facile perché Caco aveva portato le bestie nella sua grotta trascinandole per la coda, in modo che le orme rovesciate indicassero la direzione opposta. Sembra che nè Caco nè Ercole brillassero per acume, ma una mucca rispose al richiamo di Ercole, permettendogli di scoprire la grotta. 

    Il mostro cercò di difendersi vomitando dalle fauci un'immensa fiammata e fumata che avvolse la grotta in una buia caligine; ma Ercole balzò attraverso il fuoco (forse come figlio di Giove era ignifugo), afferrò Caco e lo strinse tanto da fargli uscire gli occhi dalle orbite, uccidendolo.
    Insomma vinse Ercole e Caco morì, il che fa pensare alla solita invasione Argea che cambiò culti e usanze.



    SCALAE CACI

    Stranamente però le famose scale erano intitolate a Caco e non ad Ercole, il che rimanda a una riabilitazione degli antichi Dei una volta cacciati gli Arghei.

    ERCOLE E CERBERO

    ATRIUM CACI 

    Segnalato dalle cataloghi Regionari e davanti al portico Margaritaria (Curiosi) e il villaggio Iugarius e Unguentarius, e il portico Margaritaria (Notttia). L'atrium, o vestibulum) probabilmente portava ad un tempio, che avrebbe potuto essere il tempio di Caca e Caco, così che il nome Caci fosse riferito ad entrambi gli Dei.



    CACA E CACO

    Caca è divinità romana del fuoco, della quale sappiamo pochissimo. Secondo un mito Caca prima era un'umana ed era la sorella di Caco, ma venne fatta Dea perchè scoprì ad Ercole il furto dei suoi tori fattogli dal fratello Caco. Naturalmente è una contraffazione di mito, per dare tutto il merito a Ercole, è lui a renderla Dea, seppure nemmeno lui è un Dio.

    In realtà Caca faceva coppia con Caco, ambedue divinità del fuoco, e la Dea aveva un sacello con un fuoco perenne, come Vesta, o, secondo alcuni, per mezzo delle vergini sacerdotesse di Vesta. Caca fu più tardi oscurata e sostituita da Vesta, e Caco divenne un mostro.

    Ambedue erano divinità del fuoco e dei vulcani, quindi protettivi in quanto davano il fuoco agli uomini e distruttivi in quanto facevano eruttare i vulcani, presso i quali però il suolo era molto fertile.



    ERCOLE E GLI ARGEI

    La realtà è che gli Argei, che in epoca antichissima conquistarono Roma, ovvero gli abitanti della futura Roma, furono cacciati dagli stessi Romani e i loro capi gettati nel Tevere, usanza riservata ai tiranni dell'Urbe, tanto è vero che i Romani in epoca monarchica, non potendo gettare a Tevere Tarquinio, ci gettarono dei covoni di grano dei suoi campi. I romani erano tosti, facili alla ribellione, facili ad aggregarsi e organizzarsi tra loro per cacciare qualsiasi tiranno.

    Prova ne sia che gli Argei se ne andarono (Ercole se ne era già andato ma aveva lasciato dei compagni) e non tornarono più. Inoltre i Lemuri (in latino "lemures", cioè "spiriti della notte) erano gli spiriti dei morti diventati vampiri, ossia anime che non riescono a trovare riposo a causa della loro morte violenta.

    Secondo il mito tornavano sulla terra a tormentare i vivi, perseguitando le persone fino a portarle alla pazzia. Il che dimostra che gli Argei, prima venerati, erano poi deceduti per morte violenta, in quanto i romani li avevano legati come salami e gettati nel Tevere. Da qui le Lemuria per impedire che potessero tornare dai vivi e vendicarsi.



    LA RIABILITAZIONE

    Si pensa dunque che cacciati gli Argei si fosse proceduto alla riabilitazione di Caca e Caco,
    Come a Caca si offrivano nei festeggiamenti le primizie vegetali e il vino, e in seguito anche gli animali, così anche a Caco nelle campagne si festeggiava in coppia con la Dea. Si organizzavano processioni in loro onore, dove si portava in giro le statue ornate di ghirlande fiorite e appassite, a simboleggiare l'alternanza delle stagioni e quindi dei cicli vita-morte.


    VILLA SELENE - VILLA SILIN (Libia)

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    PARTE DELLA VILLA SILIN
    La villa romana di Silin si trova, come quella di Zliten, sulle coste del Mediterraneo in Tripolitania ed è un sito archeologico di primaria importanza per il patrimonio archeologico, storico e culturale della Libia. La villa si estende per circa 3600 mq ed è stata rinvenuta in uno stato di conservazione eccezionale.

    La maggior parte degli ambienti, per una superficie complessiva di 900 mq, è arricchita da pavimenti a mosaico a soggetto geometrico e figurato e da una ricca decorazione parietale costituita da pitture e stucchi per un’estensione complessiva di circa 300 mq.

    LA VILLA, INTERNI ED ESTERNI
    Edificata nel II secolo d.c., è unica nel Mediterraneo per l’estensione e l’articolazione degli spazi, la ricchezza degli apparati decorativi e l’eccezionale stato di conservazione. Il complesso residenziale, che sorge a pochi metri dal mare sulla riva sinistra dell’uadi Yala, è inserita nel territorio della cabila di Silin, a 10 km a ovest di Leptis Magna.
    Da molti anni la Missione Archeologica Roma Tre è impegnata nell’elaborazione di un adeguato piano di ripristino della villa marittima di Silin, scavata tra la fine gli anni Settanta e i primi anni del decennio successivo e contestualmente sottoposta a restauro.

    Il merito di questa impresa, senza la quale l’integrità del monumento sarebbe andata definitivamente perduta, va all’allora Controllore di Leptis Magna, Omar Mahjub, che si è potuto avvalere della consulenza delle missioni archeologiche operanti sul posto (in particolare la Missione ‘Tempio Flavio’, diretta dall’arch. Enrica Fiandra).

    PARTE DELLA VILLA
    L’Istituto Superiore per la Conservazione ed il Restauro (ISCR) del MIBACT - che ha fornito le immagini e la documentazione - collabora dal 1999 con la missione archeologica dell’Università Roma Tre diretta dalla professoressa Luisa Musso per lo studio delle ville costiere del territorio di Silin (Libia) e per la redazione di una Carta Archeologica costiera e dei siti sommersi.

    Nel dicembre 2011, alla fine del conflitto armato, una missione congiunta composta dall’ISCR, dall’Università di Roma Tre e dall’Unesco ha effettuato un sopralluogo sul sito e ha denunciato le gravi condizioni delle strutture e degli apparati decorativi della villa.

    A seguito di questo sopralluogo, l’ISCR, il Department of Archaeology, National Transitional Council of Libya e l’Università degli Studi di Roma Tre hanno firmato a Roma, il 23 aprile 2012, una Convenzione che vede le tre Istituzioni impegnate nell’attività di studio e restauro della Villa romana di Silin.

    I fondi fino ad ora stanziati dal Ministero dei Beni e delle Attività Culturali e del Turismo per la realizzazione di questo progetto ammontano a 432.790,40 euro.
    In collaborazione con L’ISCR, il DoA e l’Università di Ferrara la Fondazione ha avviato la messa in sicurezza delle coperture della villa romana di Silin, Leptis Magna, Libia. Le operazioni prevedono la sostituzione delle coperture, il ripristino delle dotazioni di sicurezza e dell’area circostante.
    Nella primavera 2014 era previsto di realizzare il riposizionamento del mosaico A1 del peristilio e il restauro dell’ambiente decorato con mosaico con scena di damnatio ad bestias. Le attività sono state sospese a causa dell’instabilità del Paese. 
    Nell’attesa di completare il lavoro sul campo, è prevista la realizzazione di un volume in tre lingue (italiano, arabo e inglese) dedicato alla Villa, ai lavori e alle sperimentazioni svolte fino ad ora, che sarà pubblicato a cura dell’ISCR, del DoA e dell’Università Roma Tre. Barbara Davidde è il direttore dei lavori e Responsabile scientifico del progetto di restauro della Villa romana di Silin per l’ISCR.
    SCENE NILOTICHE

    GLI INSEDIAMENTI
    Dal I secolo d.c. quando il territorio dell' Africa Proconsolare risulta interessato da forme abitative con caratteristiche riconducibili a:

    - Ville,
    - Piccole fattorie, di numero variabile, raggruppate per formare un'unica unità insediativa e provviste
    costante dal I al VI secolo d.c. 
    La villa nelle ricerche relative alle zone indagate ha evidenziato che tale complesso mostra caratteristiche strutturali e architettoniche differenti in relazione all 'area di insediamento, ma quasi sempre collegato ad un latifondo, sul quale sono installati gli impianti produttivi.
    Ville situate lungo la Costa della Tripolitania presentano una tipologia specifica e ne sono esempio le ville di Silin che contemplano un'architettura di genere paesaggistico: la collocazione dei diversi settori serve anzitutto a far godere il più possibile del paesaggio circostante, determinando uno sviluppo longitudinale dei complessi, parallelo alla spiaggia.
    Di conseguenza comporta l'esistenza di corridoi o criptoportici che separano i vari corpi dell'edificio, utilizzati come aree di comunicazione e disimpegno tra i vari ambienti.

    L'analisi delle ricerche relative alle zone indagate ha evidenziato caratteristiche strutturali e architettoniche differenti a seconda dell 'area di insediamento, ma risulta quasi sempre collegato ad un latifondo, sul quale sono installati gli impianti produttivi. 
    La villa romana di Silin fa parte di una serie di insediamenti residenziali distanti tra loro meno di 1 km e posti come baluardi sul mare di ricche proprietà terriere che si estendevano nell’immediato retroterra, caratterizzato dalla presenza di oasi e di numerose tracce di oleifici antichi.
    Non dimentichiamo che la Tripolitania pagava a Cesare un enorme tributo in olio, e le anfore di questo luogo le abbiamo ritrovate anche a Ostia, Pompei, Pozzuoli ecc. Erano anfore cilindriche con collo molto corto e abbastanza larghe, destinate certamente al trasporto dell’olio.

    DAMNATIO AD BESTIAS
    L‘elevato stato di conservazione delle strutture dovuto soprattutto al clima piuttosto secco e arido, consente di ricostruire, attraverso le scelte decorative dei committenti, e quindi dei padroni di casa, quale fossero gli stili di vita della società romana o romanizzata tra la seconda metà del II secolo d.c. e gli inizi del III secolo d.c. 
    Cosa amassero, in cosa credessero e come si divertissero in queste zone fertili dove prosperano e prosperavano le spezie e i “widian” (essenze di profumi). Ma pure quali fossero il loro gusti sugli spettacoli e l'importanza che davano al loro corpo, alla sua igiene e ai suoi piaceri.
    In questa residenza la decorazione parietale svolge un ruolo minore, a confronto con l’eccezionale e vario repertorio musivo, secondo una tendenza comune ad altre ville di età medio e tardo-imperiale, note soprattutto dalla province occidentali.
    Il centro di riferimento di queste ville è Leptis Magna dove però non sono state scavate le case, ma solo solo i monumenti. Della cultura di Leptis di questo momento noi non sappiamo nulla, quindi è difficile mettere in parallelo le ville; siamo privi della possibilità di confrontare i livelli abitativi della città con quello che succede fuori dalla città.


    La planimetria si riferisce alla parte messa in luce della villa, in cui la lettura degli ambienti non è difficile: 
    - portico a mare in cui è caduto il quarto lato (siamo su un mare ventosissimo e molto mosso);
    - elemento centrale con l’esedra distila (con due colonne sulla facciata) i cui capitelli sono identici a quelli del foro di Leptis Magna (di età severiana);
    - portico colonnato indicato come atrio;
    - una biblioteca con nicchie angolari;
    - infine vediamo due ambienti vicini aperti in direzioni opposte.

    La villa ha accesso interno ed esterno (doppio accesso agli ambienti termali). All’interno della villa di Silin la scena non è affidata tanto alle pitture quanto ai mosaici.

    Si tratta di una struttura molto complessa che si compone di aree funzionali diverse che prendono luce dall’ambiente principale e altre che hanno il cuore negli ambienti termali.
    La villa non è ancora molto studiata. Come abbiamo detto la missione archeologica italiana ha dovuto momentaneamente sospendere le ricerche e i restauri a causa dell'instabilità del paese.
    Il rapporto fra la decorazione parietale e pavimentale è decisamente a favore della pavimentale, dat che le pitture sono molto più neutre. Parte dei temi di questa villa saranno riproposti anche a piazza Armerina (325-350).

    Il repertorio nilotico infatti non è esclusivo di questi luoghi africani, ma qui ci sono una serie di esempi che manifestano il permanere di questo particolare repertorio in cui confluiscono gli animali di questi paesaggi e anche i pigmei in quanto esseri la cui caratteristica è di essere sempre ingaggiati in scene caricaturali (contro animali giganti ecc).


    I pigmei per gli antichi romani erano esseri della natura che stavano tra l'umano e il livello più accessibile del divino, esserini della natura, un po' come gli eroti che giocano e si divertono, ma pure eseguono lavori impegnativi e non semplici con molta determinazione.
    La decorazione pittorica e musiva rispondono alla funzione degli ambienti, le pitture figurate sono limitate a tre soli esempi in tutta la villa, per gli ambienti destinati ad accogliere il visitatore, amico o cliente del dominus:

    - l’atrio, con temi di giardino e di caccia alle fiere,
    - il vano di collegamento
    - il vestibolo del complesso termale, con coppia di Vittorie e fregio con scene di palestra.

    Negli ambienti più rappresentativi della villa, come il triclinio, l’oecus, e i cubicoli diurni, gli ornati geometrici dei mosaici sono di grande bellezza, fantasiosi e accurati, che inquadrano scene di grande finezza compositiva, mentre le pitture parietali presentano partizioni architettoniche e modulari che, con vivi toni di giallo, di rosso, e di blu, non uguagliano la bellezza dei mosaici pavimentali. 
    L'accorgimento è di usare scene figurate sulle pareti piuttosto complesse con un semplice tappeto geometrico musivo, oppure il contrario: un pavimento complesso e colorato con scene impegnative e una pittura piuttosto neutra alle pareti.
    Ci si è chiesti se la scelta la fa il dominus o il pittore di valore coi suoi lavoranti di bottega e i suoi mosaicisti. I romani erano abituati alla ricchezza e all'arte raffinata, per cui sicuramente decideva il dominus, a cui il valente pittore poteva dare dei suggerimenti.


    Naturalmente non possono mancare le scene con le bighe e le quadrighe, agli ospiti piacciono moltissimo le gare, specie delle quadrighe, così difficili da guidare, e pure così pericolose per i fantini. Ma più c'è pericolo e più ci si diverte, naturalmente il pubblico non i fantini. Ma questi più rischiano e più guadagnano, così c'è un equilibrio.

    Compaiono anche varie scene di venatio, ossia la caccia del dominus nel territorio di campagna del dominus, che si svolge come piacere del signore e dei suoi ospiti e che termina con cattura ed uccisione degli animali commestibili. Invece gli animali feroci o particolarmente esotici catturati venivano poi mandati nel teatro per raffigurare le finte cacce.

    Come sempre le scene sono violente, alcuni studiosi ritengono che la violenza sia da interpretare come valvola di sfogo nella società; in realtà era la vecchia legge per cui il più forte domina e il più debole soccombe. Una legge cara ai romani che erano quasi sempre dalla parte del più forte, ma che osarono spesso imprese più grandi di loro rischiando di soccombere di fronte a un nemico più forte.

    Le immagini però più che violenza esprimono la natura dove la vita è in lotta per la vita, e dove il dominus è padrone assoluto dei suoi uomini e dei suoi animali nel suo territorio, per cui può offrire lo stesso spettacolo di dominio a favore dei suoi ospiti, che per un lasso di tempo usufruiscono della ricchezza e del dominio di quella parte di territorio.


    Il dominus è in grado di offrire ai suoi cittadini lo spettacolo della caccia divertendo i suoi ospiti e aumentando il rispetto che essi hanno di lui, cosa che politicamente fa buon gioco.

    La venatio è la caccia nell’anfiteatro, sono cacce finte date da elementi finti vegetali che sono parte della sceneggiatura dell’anfiteatro. Questa scena noi la troviamo nell’atrio, nell’ambiente dove si distribuiscono le persone nella villa. Oltre alla lotta tra uomini e fiere c’è ancora la lotta fra animali buoni e cattivi (paradeisos) immagini ambientate in finta natura (gioco anfiterale).

    Nelle scene di caccia non possono mancare i leoni, ma pure i leopardi e i cervi, talvolta che si azzannano tra loro. Nelle scene nilotiche i piccoli pigmei devono difendersi pure dalle oche, o da grossi uccelli che tentano di infilzarli col lungo becco. Sono buffi e goffi.

    Ma la scena cambia e ci si avvia in biblioteca dove le pareti hanno rivestimenti in marmo, le statue si elevano sui piedistalli e al muro numerosi armadi mostrano i loro contenuti di libri e di papiri. Nel tablino c’è invece un mosaico, da notare che è stesso soggetto di piazza Armerina, che però ha 150 anni in più di questo. Ma non pensiamo che nessuno abbia copiato nessuno, l'arte si trasmette e si propaga come la moda.

    Qui come a piazza Armerina, gli elementi che compongono l’ambientazione sono molto vicini a quelli del Circo Massimo, come dire che il modello è sempre il circo romano. Il tema è ancora quello dei giochi offerti ma pure quello delle gare e della vittoria.

    Vedi le corse con quadrighe, dove chi vince viene considerato tema della vittoria vero e proprio; partenza tipo palio di Siena, poi c’è chi arriva, chi vince, chi cade, e chi ci lascia la pelle. La spina è uguale a quella di piazza Armerina. Anche qui c’è la Magna Mater che ricorda l’ambientazione romana.


    La scena da circo occupa la scena centrale nel pavimento, mentre tutto il resto funge da composizione geometrica, complessa, fantasiosa e fantastica. Alle pareti compaiono le pitture del finto opus sectile, in Africa il marmo scarseggia e ogni tanto occorre imitarlo.

    Molti sostengono però che non si tratti di un problema economico, ma della condizione sociale: chi può ottenere questi marmi pregiati e chi no perchè non tutto si compra sul mercato,  dipende se hanno accesso oppure no alle grandi cave di marmo, un po' come il porfido rosso a Roma spettava solo all'imperatore.

    Ma forse il problema era un altro, la decorazione marmorea dipinta in parete andava di moda, per giunta i marmi scarseggiavano in Africa. Peraltro non mancava la selvaggina e le pietre anche colorate per i mosaici, che infatti diventano soprattutto colorati.

    Oppure si segue un altro sistema: si pongono in alto i marmi più pregiati e in basso quelli di più scarso valore. Evidentemente quelli in basso sono più facili da deteriorarsi. Oppure si ponevano in alto i marmi veri e sotto quelli dipinti, ma non è chiaro il motivo.

    Vediamo quindi gli ambienti che si aprono sul lato di fondo del peristilio prospicienti al mare.
    Qui c'è un oecus che sembra un larario (questa casa ha un larario nella cucina; ci sono dei casi, come a Pompei, in cui c’è un doppio larario, uno di rappresentanza nell’atrio e poi in cucina, probabilmente poiché esisteva una religione ufficiale ed una domestica, cioè i Lari.

    Vi è una presenza costante di elementi del culto familiare nei luoghi dove stanno i servi: è la testimonianza dell’interagire dei servi nella villa familiare della casa e del penetrare nella casa familiare attraverso il culto domestico delle divinità della domus.

    I pigmei, che abbondano anche nelle pitture del suolo italico, talvolta sono armati, o indossano scudi, hanno buffi cappelli, combattono con gli animali per ucciderli o addirittura catturarli.


    GLI AMBIENTI TERMALI

    Infine vediamo le decorazioni degli ambienti di accesso agli ambienti termali, uno è un accesso interno alla casa e un altro è all'esterno. Molto spesso gli ambienti termali hanno anche un accesso più esterno che consente di accedere alle terme senza passare dall’interno della casa.

    Nella villa di Zliten c’era l’immagine della Vittoria nel passaggio termale, qui abbiamo vittorie alate che reggono la palma e la corona.

    Lo stesso tema è anche qui, la presenza di questi temi di vittoria negli ambienti termali ricollega alle palestre e al ginnasio più che ad una raffigurazione normale nell’ambiente termale e anche qui sono molto mal conservati ma legati al tema dei giochi e delle gare.
    Nella villa di Zliten c’era l’immagine della Vittoria nel passaggio termale, qui abbiamo vittorie alate che reggono la palma e la corona.
    Lo stesso tema è anche qui, la presenza di questi temi di vittoria negli ambienti termali ricollega alle palestre e al ginnasio più che ad una raffigurazione normale nell’ambiente termale e anche qui sono molto mal conservati ma legati al tema dei giochi e delle gare.


    Qui sotto vediamo una vasca per l'acqua calda rivestita di marmo con il pavimento in mosaico. Le vasche fornivano acque a diverse temperature, dalla calda alla tiepida ed alla fredda. ma nelle ville più prestigiose, e questa sicuramente lo era, poteva esserci il laconicum, cioè la sauna anche se con il clima così caldo della regione forse non era consigliabile.

    Ambienti termali decorati in questo modo suggeriscono che questi ambienti siano aperti ad invitati del dominus che però non entrano dall’interno della casa e questi temi agonistici dovevano essere all’interno di strutture riservate al dominus e ai suoi ospiti.

    Non era raro che pure all'interno della sua casa il padrone offrisse gare di pugilato, come dimostra questa pittura parietale ricavata in una nicchia.
    I temi di ginnasio (ginnastica), vittoria o giochi atletici è una caratteristica che segnala la villa di Silin (temi non sono comunissimi in questo periodo).

    Il fatto che l'immagine avesse un buco in basso forse significava che lasciasse cadere un rivolo d'acqua che faceva da fontanella.


    LA SERRATURA ROMANA

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    SERRATURA ROMANA DA ERCOLANO

    Nell'antica Roma non esistevano le banche, e il denaro, in oro e in argento, era abitualmente conservato in casa in vere e proprie casseforti. Si trattava di casse estremamente robuste e capienti, che potevano contenere sia monete che vari oggetti preziosi, sia gioielli che servizi da tavola in argento.

    Abitualmente le casseforti erano sistemate negli atri, in piena vista, in modo da rimandare all'opulenza economica del proprietario della domus. Se il dominus aveva bisogno di una cassaforte significava che aveva oggetti preziosi e denaro da riporre, pertanto era ricco.

    L'inviolabilità di queste antesignane delle moderne casseforti era assicurata da una o più complesse serrature con tanto di chiavi, dalle quali il proprietario raramente si separava per affidarle, nel caso, ad un "portiarius", schiavo di sua completa fiducia, incaricato di trasportarle al seguito del suo padrone.

    SERRATURA ROMANA DA POMPEI - MUSEO ARCHEOLOGICO DI NAPOLI
    Per agevolare il trasporto, delle chiavi vennero realizzate in bronzo, e vennero sagomate ad anello ma con rilievi elaborati e vennero chiamate "sigilli", perché utilizzate anche come timbro a caldo sulla cera.

    CHIAVI ROMANE AD ANELLO (SIGILLI)
    Queste chiavi erano simili ad un anello, con una piccola sporgenza sagomata e un'incisione che fungeva da sigillo e che serviva ad autenticare i documenti importanti.

    Pertanto le casseforti o i cofani contenenti documenti importanti erano di solito apribili o chiudibili attraverso un sigillo di solito realizzato in bronzo.

    Tutti i nobili possedevano un proprio sigillo, perfino l'imperatore l'aveva, piuttosto elaborati per non poter essere facilmente contraffatti. Divennero insomma uno degli strumenti di sicurezza dell'epoca e se ne fecero anche in argento e in oro.


    Le stanze interne delle case romane spesso non avevano porte, ricorrendo piuttosto ai tendaggi, a parte una robusta, di legno massiccio e ferro che chiudeva il portone esterno, e un'altra a protezione dell'atrio, che era in genere il luogo dove venivano tenuti la piccola cassaforte con il denaro e gli oggetti preziosi di famiglia.

    Nelle famiglie più importanti e più ricche, al momento delle nozze il marito invitava la sposa a condividere sia le chiavi che il sigillo. Questo gesto rappresentava un simbolo della fiducia che lo sposo riponeva nelle capacità amministrative della consorte.

    TIPI DI SERRATURE
    In effetti per quanto il capo famiglia fosse l'uomo, la donna diventava la domina della casa; era lei che si occupava dell'igiene della casa dando ordini e controllando gli schiavi, ma era anche colei che si incaricava delle finanze, teneva i conti sia delle spese che degli introiti derivati dal lavoro del marito ma pure degli affitti degli eventuali immobili di proprietà o delle rendite delle tenute rustiche.

    A volte erano gli schiavi di fiducia ad avere questi ruoli e ad avere la responsabilità della conservazione delle chiavi nonchè del controllo continuo delle serrature che riguardavano sia le "fauces", cioè della porta di casa in città, quanto quelle della cassaforte o dei magazzini, o delle case di villeggiatura o delle ville rustiche

    Le serrature vere e proprie divennero sempre più raffinate e con incastri sempre più complesse che richiedessero l'opera di esperti fabbri onde non potessero venire contraffatte facilmente. In questi schemi de ne vedono gli ingranaggi di alcune, come si vede, piuttosto diverse tra loro.

    Il ferro ben presto sostituì il rame e il bronzo, fornendo utensili alle arti, ai mestieri artigiani, ai lavori dei campi alle armi di offesa e difesa e pure per serrature e chiavi. I Romani furono tra i primi in Europa a conoscere perfettamente la tecnica di forgiatura del ferro e si pensa che tanta abilità fosse derivata dall'uso continuo di fabbricazione di armi e armature.

    RESTI DI UNA SERRATURA ROMANA
    Pertanto le chiavi vennero sia forgiate in ferro che fuse in bronzo e i romani, per primi in Europa e
    nel mondo, idearono diverse tipologie di bloccaggio. Per la fusione in bronzo veniva usata una lega costituita dell'85 per cento di rame e dal 15 per cento di stagno.

    Il modello di serratura più usato in assoluto era quello con la chiave a rotazione nella toppa, perdurato nei vari secoli, ma pure quello con funzionamento della chiave a doppia spinta, caratteristico di quest'epoca e usato fino circa al 700 d.c.; c'era poi quello con funzionamento della chiave per sollevamento, detto capucine, ma veniva usato più raramente, anche se tuttavia ebbe un uso continuativo nei secoli.

    La forma delle chiavi in ferro è più o meno quella classica che abbiamo sempre visto, costituita da un'impugnatura, un'asta e un pettine. Il sistema di forgiatura usato fu quello della chiave maschia dal massello. Le impugnature sono tonde, raramente ovali, talvolta sormontate da una piccola pigna. 

    La sezione del fusto era quasi sempre rettangolare. Le poche chiavi in ferro con l'asta di sezione circolare sono quelle di piccole dimensioni con l'impugnatura snodata usate per i lucchetti. Già, perchè i romani conoscevano e usavano spesso e volentieri i lucchetti. 
    ESEMPI DI CHIAVI ROMANE
    Le aste erano sempre piene e piuttosto corte; i pettini, cioè la parte della chiave che, inserita nella serratura, spinge avanti o indietro il chiavistello, erano composti da più denti verticali che, variavano in una infinità di combinazioni, in modo da evitare assolutamente i doppioni, ma variabili a seconda del numero, della disposizione e della forma della sezione, dando così luogo a una possibilità di infinite combinazioni.

    Invece la chiave detta "chiave a doppia spinta" aveva un procedimento del tutto particolare, perchè affinchè funzionasse doveva venire spinta verso l'alto per sbloccare i perni di bloccaggio e subito dopo doveva venire tirata a destra o a sinistra per trascinare il chiavistello.

    Il numero di denti era variabile, poteva andare da due a quattro, a sei e a otto, in genere di numero pari e se superiore a due i denti venivano disposti su due file. Tuttavia la disposizione anche se in fila doppia poteva cambiare da modello a modello.



    Le chiavi più semplici o, se vogliamo, più povere, venivano fuse in ferro, ma quelle più sontuose venivano fuse in bronzo, con la tecnica della cera persa, talvolta con fusioni raffinate ed inserti in oro. Comunque l'arte romana era talmente evoluta e raffinata che, sia in ferro che in bronzo, l'impugnatura aveva sempre un fregio o un qualcosa che la rendesse minimamente elegante. 

    Le impugnature erano infatti o di forma geometrica, oppure zoomorfa o guarnita di volute. Di solito erano piuttosto grandi e pesanti, di certo non adatte da portare in tasca. Ce ne hanno fornito un notevole esempio le numerosi chiave rinvenute a Ercolano e a Pompei, che erano a volte autentici capolavori.
    CHIAVI A FOGGIA DI ANIMALE
    Le basi delle chiavi di bronzo a loro volta avevano spesso la forma di capitelli o basamenti. L'asta, di sezione rettangolare se maschia, o tonda se femmina, rispettava un po' le proporzioni correnti. 
    L'esecuzione di tali strumenti erano affidate a veri mastri dell'artigianato che sicuramente si facevano pagare bene per tanta maestria.

    I pettini di bronzo erano ancora più elaborati di quello delle chiavi in ferro e in genere presentavano molti denti con l'aggiunta in alcuni casi di una o due complicazioni laterali, di forma simile alle mappe dei pettini a cartella, nel caso di chiavi a doppia spinta, o da intricate mappe, per chiavi a rotazione o a sollevamento.

    Un padrone di casa che mostrava la sua chiave già forniva un indizio della sua posizione sociale, ma pure della qualità del suo senso estetico, se sapeva comprendere o meno il livello della lavorazione artistica dell'oggetto.

    MARCO TERENZIO VARRONE - M. TERENTIUS VARRO

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    MARCUS TERENTIUS VARRO

    Nome: Marcus Terentius Varro
    Nascita: 116 a.C., Rieti
    Morte: 27 a.C., Roma
    Gens: Terentia
    Professione: letterato, grammatico, militare e agronomo.


    Marco Terenzio Varrone, ovvero Marcus Terentius Varro (Rieti, 116 a.c. – Roma, 27 o 26 a.c.) è stato un letterato, un grammatico, un militare e un agronomo romano, ma non solo. Egli fu anche un grande enciclopedista che trattò diffusamente nei suoi libri argomenti di igiene. Compose (secondo San Gerolamo) ben 74 opere per un totale di 620 libri, per cui fu ritenuto da Quintiliano "il più istruito dei Romani".

    Il suo genio fu ben compreso da Cicerone:
    «Tu ci hai fatto luce su ogni epoca della patria, sulle fasi della sua cronologia, sulle norme dei suoi rituali, sulle sue cariche sacerdotali, sugli istituti civili e militari, sulla dislocazione dei suoi quartieri e vari punti, su nomi, generi, su doveri e cause dei nostri affari, sia divini che umani
    (Marco Tullio Cicerone, Academica Posteriora, I 9 - trad. A. D'Andria)



    LA VITA

    Fu di nobili origini, con ricche proprietà terriere in Sabina, dove ricevette un'educazione piuttosto severa dai suoi familiari dai familiari, oltre a lussuose ville a Baia e fondi terrieri a Tusculum e Cassino. Fu uomo notevolissimo per l'immensa mole del lavoro compiuto, sia per il sentimento patriottico e per l'elevato spirito morale che l'animavano. Lo stile non fu eccelso ma le opere tantissime e per lo più distrutte.

    A Roma arricchì la sua istruzione presso i migliori maestri del tempo: per la grammatica presso Lucio Elio Stilone Preconino (154 a.c. - 74 a.c.), che lo indirizzò anche agli studi etimologici e retorici, e per la linguistica e la filologia presso Lucio Accio (170 a.c. - 84 a.c.), a cui dedicò la sua prima opera grammaticale "De antiquitate litterarum".

    Per perfezionare la sua istruzione, come usava presso i giovani nobili di Roma, fece poi un viaggio in Grecia fra l'84 a.c. e l'82 a.c., dove seguì filosofi accademici famosi come Filone di Larissa (158 a.c. - 83 a.c.) e Antioco di Ascalona (120 a.c. - 67 a.c.), che gli consentirono una posizione filosofica piuttosto eclettica e non rigida.

    Per quanto studioso Varrone non si ritirò dalla vita politica ma anzi, vi partecipò dalla parte degli optimates, come gli consentiva la sua estrazione sociale. Divenne infatti triumviro capitale nel 97 a.c., questore lo stesso anno, legato in Illiria nel 78 a.c. e fu molto vicino a Pompeo (106 a.c. - 48 a.c.) da cui ottenne incarichi importanti: fu legato e proquestore in Spagna fra il 76 a.c. e il 72 a.c. e combatté nella guerra contro i pirati difendendo la zona navale tra la Sicilia e Delo.
    Allo scoppio della guerra civile nel 49 a.c. fu propretore in Spagna: in una guerra che vedeva i romani contro i romani. Tentò di difendere il suo territorio ma dovette arrendersi a Gaio Giulio Cesare, in un modo che nei "Commentarii de bello civili", questi definì poco glorioso.
    Dopo la disfatta dei pompeiani, si presentò comunque a Cesare che, nella sua abituale grandezza, lo apprezzò e valorizzò affidandogli la costituzione di due biblioteche, una di testi latini l'altra di testi greci, ma che, dopo le idi di Marzo, furono ignobilmente sospese.

    Dopo la morte del dittatore, anzi, fu inserito nelle liste di proscrizione sia di Antonio che di Ottaviano (forse interessati ai suoi beni), da cui si salvò grazie all'intervento di Fufio Caleno per poi avvicinarsi a Ottaviano a cui dedicò il "De vita populi Romani" volto alla divinizzazione di Giulio Cesare.
    Morì quasi novantenne nel 27 a.c. dopo aver scritto una produzione di oltre 620 libri, suddivisi in circa settanta opere.



    LE OPERE

    La vasta produzione di Varrone fu suddivisa da Eufronio Eusebio Girolamo in un catalogo (però con solo la metà degli scritti), con 74 opere, divise in 620 volumi. Resta il fatto però che Varrone stesso, a 77 anni, abbia riferito di aver scritto 490 libri. Varrone è eclettico e geniale, e, come Plinio il Vecchio, si interessa un po' di tutto. Le sue opere pertanto sono dei più svariati argomenti:

    - di FILOLOGIA
    di ERUDIZIONEDI STORIA -
    - con le Quaestiones Plautinae, opera non pervenuta, formata da 5 libri, l'opera riguardava i vari problemi di critica sul teatro del commediografo Tito Maccio Plauto.
    - con le Imagines (o Hebdomades) in 15 libri, contenente 700 ritratti di personaggi romani e stranieri, accompagnati ognuno da un elogio in poesia e da un breve riassunto della vita in prosa.
    - con il De Pompeio, Annales.

    - di DIRITTO -
    - con 15 libri De iure civili. 

    - di FILOSOFIA -
    - con i "Logistorici" (dal greco “discorsi di storia”) un'opera in 76 libri, composta in forma di dialogo in prosa, di argomento morale e antiquario, in cui ogni libro prende il nome di un personaggio storico e un tema di cui il personaggio costituisce un modello, come il "Marius, de fortuna" o il "Catus, de liberis educandis"; dei dialoghi storico-filosofici che furono tra i modelli espositivi del "Laelius de amicitia" e del "Cato Maior de senectute" di Cicerone.
    - Ma pure con le Saturae Menippeae, che prendevano come modello i componimenti perduti di Menippo di Gadara (III secolo a.c.), esponente della filosofia cinica e scrittore di satire.
    Scritte tra l'80 a.c. e il 46 a.c., si componevano di 150 libri, in prosa e in versi, di cui rimangono circa 600 frammenti e 90 titoli, di argomento soprattutto filosofico, ma anche di critica dei costumi, morale, con rimpianti sui tempi antichi in contrasto con la corruzione del presente.  
    Ciascuna satira recava un titolo, desunto da proverbi quali: "Cave canem" come attenzione alla mordacità dei filosofi cinici, o dalla mitologia: Eumenides contro la tesi stoico-cinica per cui gli uomini sono folli, o alla politica: Trikàranos, il mostro a tre teste, mordace riferimento al I triumvirato (Cesare, Pompeo e Crasso) ed era caratterizzata da lessico popolaresco, polimetria e, come in Menippo, uno stile tragicomico.

    - di AGRICOLTURA
    - col "De re rustica", diviso in tre libri, pervenuto quasi totalmente, che giunge nel bel mezzo di una forte crisi agricola nella Roma post guerra civile, per fornire consigli che migliorino la resa dei terreni, allora coltivati con metodi estensivi e poco fruttuosi. Terenzio elogia l'agricoltura nelle sue varie forme, da un punto di vista economico, per il piacere che ne deriva, e con una celebrazione nostalgica del mos maiorum, i valori dei padri, quando il passato era caratterizzato da benessere e serenità, diversi da quelli moderni convulsi e poco etici.
    Poco ci resta dei testi originali tra i quali il famoso "De re rustica libro III" in cui Varrone, da quel genio precursore che è, anticipa alcuni concetti dell'acrobiologia e dell'epidemiologia, quando, ad esempio avverte di stare lontani dalle zone paludose perché queste zone ospitano dei corpuscoli, minuscole creature che non si possono vedere con gli occhi, ma che fluttuano nell'aria e che possono entrare nel corpo attraverso il naso e la bocca e provocare gravi malattie. 
    Marco Terenzio Varrone ebbe questa intuizione nel 36 a.c. e fu uno dei primi a parlare di germi, descrivendo “minuscole creature invisibili all’occhio umano, che entrano nel corpo attraverso la bocca e il naso e causano malattie serie”. La teoria dei germi non sarebbe stata comunemente accettata per altri 1900 anni. Tale concetto verrà divulgato solo 1900 anni dopo, sia perchè la follia iconoclasta cristiana bruciò tutto il sapere dell'antichità, sia perchè il medioevo che ne seguì badò alla religione oscurando la scienza.



    - di LINGUISTICA di RETORICA,
    - col "De lingua Latina", (pervenuti solo 6 libri su 25).
    - col "De antiquitate litterarum" non pervenuta. composta verosimilmente tra il 47 e il 45 a.c. contenente le teorie linguistiche e grammaticali dell'autore.
    L'opera era formata da 25 libri, di cui ce ne sono pervenuti solo 6 (V-X) e non integralmente, ed era divisa in sezioniù: dopo il libro I, che fungeva da introduzione, erano presenti quattro esadi (gruppi di sei libri ciascuno): i libri II-VII (prima esade) erano destinati all'etimologia, i libri VIII-XIII (seconda esade) alla declinazione, in particolar modo alla flessione, mentre gli ultimi 12 libri alla composizione delle parole, ossia alla sintassi:

    - di LETTERATURA,  di POESIA,  
    - con il De comoediis Plautinis, con 130 fabulae: di cui 21 vengono autentiche, 19 incerte (pseudo-varroniane) e il resto spurie. Tale suddivisione è detta canone varroniano (o Corpus Varronianum).
    Varrone si basò non solo su dati stilistici, ma anche su documenti di archivio e sulle didascalie. Le 21 opere che egli definì autentiche sono le commedie di Plauto note oggigiorno, mentre le pseudovarroniane e le spurie sono andate perdute. Appartengono al gruppo di studi storico-letterari e filologici.

    - di ANTIQUARIA, o le 
    Antiquitates rerum humanarum et divinarum
    con 41 libri di "Antiquitates", divisi in 25 di res humanae e 16 di res divinae, che Agostino adottò come fonte nel suo "De civitate Dei". Trattasi di una folta disamina su culti e tradizioni tracui anche l'opera, non pervenuta, "De bibliothecis", presumibilmente legata alle incombenze come bibliotecario affidategli da Cesare. 
    Nel "De Vita populi Romani" egli riassume il materiale trattato nelle Antiquitas con un criterio cronologico, per esaminare lo sviluppo della civiltà latina nel suo svolgersi con una riflessione d’insieme sulla storia romana dall’età monarchica fino alla guerra civile fra Cesare e Pompeo, appena conclusasi.
    I sedici libri, dedicati a Cesare come pontifex maximus, dopo un libro di introduzione generale, si articolavano in cinque triadi: 
    i libri 2-4 erano dedicati ai sacerdozi (de hominibus), 
    i libri 5-7 ai luoghi di culto (de locis), 
    i libri 8-10 al calendario delle feste religiose (de temporibus), 
    i libri 11-13 ai riti (de sacris) 
    e i libri 14 -16 agli dei (de dis). Quest'ultima triade si occupava in particolare dell'etimologia dei nomi delle divinità.



    BIBLIO
    - "Dell'agricoltura", con note, Traduzione di Giangirolamo Pagani, Tomo I-IV, Venezia, dalla tipografia Pepoliana, 1795-97 («Rustici latini volgarizzati»)
    - Eralda Noè - I proemi del «De re rustica» di Varrone - Pavia - Tipografia del Libro - 1977 -
    - La vita dei campi - Versione di Alfredo Bartoli - Milano - Notari - 1930 («Collezione Romana») -
    - Nicolaus Ienson Gallicus - Scriptores rei rusticae, Venetiis - (De re rustica di Catone, Varrone, Columella e Rutilio Tauro Palladio) - Ed. Princeps - 1472

    LEGIO XXVII DI CESARE

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    LA BATTAGLIA DI FARSALO
    La legio XXVII di Cesare fu una legione di epoca tardo repubblicana che venne reclutata da alcuni emissari di Giulio Cesare, tra i quali vi era Marco Antonio, ed allenata dai veterani della legio X, che aveva però almeno in parte, combattuto in Gallia, per affrontare la Guerra Civile combattuta tra Cesare e Pompeo dal 49 al 45 a.c.
    La troviamo alla fine di dicembre del 49 a.c. a Brundisium (Brindisi), pronta ad attraversare il Mare Adriatico con altre legioni. Agli inizi di aprile del 48 a.c. fu inviata agli ordini del legatus legionis Lucio Cassio Longino Varo in Thessalia (Tessaglia) ed Aetolia (Etolia), in Grecia, per assicurare questi territori a Gaio Giulio Cesare.

    Partecipò poco dopo alla battaglia di Dyrrhachium, combattuta nell'estate del 48 a.c. nei pressi di Durazzo (Albania) tra gli eserciti di Gneo Pompeo Magno (106 - 48 a.c.) e quelli di Gaio Giulio Cesare (101 0 100 a.c. - 44 a.c.) nel corso della II guerra civile di Roma.
    Cesare fece costruire intorno al campo di Pompeo una linea di trincee, a semicerchio; un'altra più interna, di difesa, fu fatta costruire da Pompeo. La mancanza d'acqua costrinse Pompeo a forzare il blocco. Cesare tentò con le sue legioni di separare il grosso delle truppe pompeiane dal resto dell'esercito ma non gli riuscì e venne sconfitto.
    Il successivo 9 agosto la legio XXVII partecipò alla decisiva battaglia di Farsalo. Lo scontro decisivo fra Cesare e Pompeo avvenne in Tessaglia, in una zona pianeggiante in cui la potente cavalleria di Pompeo avrebbe potuto sfondare l’ala destra dell’esercito nemico. 
    Ma Cesare prevedendolo lasciò un corpo di riserva che uscito allo scoperto all’improvviso spezzò la manovra pompeiana. Così nonostante Pompeo disponesse di un numero di forze doppio, fu sconfitto.



    Dopo Farsalo la legione XXVII passo in Acaia, quindi a Rodi, per giungere in Egitto nel settembre del 47 a.c. agli ordini di Quinto Fufio Caleno, che aveva già combattuto nel 51 a.c. in Gallia come legato di Cesare, per aiutare ancora Cesare nella difficile situazione egiziana.
     
    Ma l’Egitto era in preda alla guerra civile fra Cleopatra VII e suo fratello Tolomeo XIII, cui partecipò al seguito di Cesare e in favore di Cleopatra che venne posta sul trono. La XXVII rimase in Egitto fino a poco prima della morte di Cesare (marzo del 44 a.c.).

    Alla morte del dittatore la XXVII di Cesare si trovava in Siria, pronta ad entrare in azione nella prevista campagna di Cesare contro i Parti, battaglia naturalmente che non avvenne. Sappiamo anche che fu di stanza nella provincia romana di Macedonia, anche se non sappiamo con precisione in quale periodo. 

    Molto probabilmente passò, insieme ad altre legioni schierate in Oriente, dalla parte di Gaio Cassio Longino (86 - 42 a.c.) e quindi dovrebbe aver militato nel campo dei cesaricidi nella battaglia di Filippi, con la loro sconfitta da parte di Ottaviano e Marco Antonio.

    In seguito la legione fu reintegrata tra le forze dei triumviri, in particolare con Ottaviano di cui abbracciarono la causa in qualità di erede di Cesare, partecipando poi alla battaglia di Azio (31 a.c.), una battaglia navale che concluse la guerra civile tra Ottaviano e Marco Antonio; quest'ultimo alleato al regno tolemaico d'Egitto di Cleopatra.

    Sembra che sia stata sciolta nel 30 a.c. quando Ottaviano riformò l'esercito romano, o comunque non più tardi del 14 a.c., quando furono congedati tra i 105.000 ed i 120.000 veterani.

    LE TERME DI ROMA

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    TERME DI DIOCLEZIANO
    Le prime terme a Roma si ebbero alla fine del III secolo a.c. iniziando da quelle private, i "Balnea" , di derivazione greca, che però erano tutt'altro. I primi balnea erano poco spaziosi, senza le decorazioni alle pareti e riscaldati solo da qualche braciere, con piccole vasche dove vi si versava acqua precedentemente scaldata da forni a legna, dove potevano fare bagni caldi anche quelli che non aveva la possibilità i farlo nella propria casa.

    Poi i Balnea si ampliarono e si moltiplicarono: nel 33 a.c. da un censimento di Agrippa a Roma se ne contavano 170, che divennero 1000 nel IV secolo d.c. oltre a 11 grandi Terme imperiali. Con Agrippa, alla fine della Repubblica, venne reso gratuito l'accesso ai balnea e proprio Agrippa tra il 25 ed il 19 d.c. fece costruire nel Campo Marzio, nei pressi del Pantheon il primo grande edificio balneare al quale si dette il nome di "Termae".

    Purtroppo delle Terme di Agrippa non ci rimane niente, queste si distinguevano dai balnea per essere più grandi, per la perfezione degli impianti, per il numero delle stanze, per il sistema di riscaldamento e per la ricchezza delle decorazioni.



    LE DECORAZIONI

    Da Seneca sappiamo che le pareti delle terme erano dotate di grandi specchi circolari, di marmi alessandrini e di Numidia, di mosaici, con soffitto di vetro o di marmo di Thaos, statue e colonne preziose ornavano gli ambienti.

    I pavimenti delle terme erano di marmi pregiati, marmi bianco candido o colorati, con i marmi delle zoccolature e delle specchiature parietali che si accompagnavano a pitture e scene di vario genere.
    Diffusi nelle terme erano anche i "mosaici" a tessere in bianco e nero, o a colori distesi sui pavimenti, o come rivestimento interno delle vasche con motivi di pesci.

    Vi era una enorme varietà di elementi decorativi:
    - geometrici
    - floreali,
    - o del mare e dell'acqua,
    - con pesci e delfini,
    - divinità del mare,  ninfe,  tritoni e nereidi.

    Nelle palestre invece i soggetti decorativi erano di ginnasti ed atleti. In altri vi erano decorati dei sandali, per ricordare ai bagnanti di indossarli quando passavano negli ambienti riscaldati.

    Ovunque statue e colonne, immagini di divinità, ritratti di uomini illustri, copie e rielaborazioni di capolavori famosi, ed elementi originali di grandi maestri, come il bronzo di Lisippo, l'"Apoxymenos" che Agrippa aveva fatto collocare al centro delle Terme di Agrippa a Campo Marzio, perchè le opere d'arte dovevano poter essere ammirate da tutti.



    LO SCHEMA DELLE TERME

    Le terme imperiali, avevano uno schema di base:

    - gli ambienti del bagno erano disposti in successione verticale, lungo un unico asse a formare il settore centrale dell'edificio, e tutti gli altri, duplicati e collocati da una parte e dall'altra di quelli principali a formare due settori laterali tra loro identici e simmetrici.

    - Dal settore centrale a partire dal lato dell'ingresso si succedevano i seguenti ambienti:
    1.  natatio,
    2. aula basilicale con funzione di frigidarium, tepidarium e calidarium. 
    - In ognuno dei due settori laterali, dopo il vestibolo d'ingresso, si susseguivano:
    1. l'apoderio all'altezza della natatio, 
    2. la palestra all'altezza della basilica, 
    3. una serie di sale riscaldate in successione orizzontale all'altezza del calidario. 
    Al centro di tutto il complesso ed in comunicazione con ognuno dei suoi settori si trovava:
    l'Aula Basilicale, al centro dell'intero complesso termale
    - con il frigidario,
    - il tepidario
    - e il calidario.

    In ognuno di questi settori laterali, dopo il vestibolo d'ingresso, si susseguivano:
    - l'apoderio all'altezza della natatio,
    - la palestra all'altezza della basilica,
    - ed una serie di sale riscaldate in successione all'altezza del calidario.

    La complessa e razionale planimetria serviva a facilitare l'afflusso delle persone nelle varie sale, sembra che nelle terme di Caracalla potessero stare fino a 1600 bagnanti, il doppio delle Terme di Diocleziano.

     Il percorso aveva un andamento "anulare", attraversava tutti gli ambienti principali e secondari,
     - cominciava nell'apodario,
    - passava per la palestra e le sue sale minori,
    - arrivava al calidario,
    - da questo al tepidario,
    - da questo arrivava all'aula basilicale e all'annesso frigidario,
    - continuava fino alla natatio che era la piscina,
    - per tornare nuovamente all'apodario.

    Vi era anche la simmetria degli ambienti minori nei due settori laterali dell'edificio balneare che davano la possibilità di due percorsi anulari contemporanei con punti di partenza e di arrivo indipendenti.

    Di solito l'ambiente termale era posto sul piano terra, ma con ambienti anche nel piano superiore aperti al pubblico, come probabilmente doveva essere nelle Terme di Caracalla. Il recinto esterno delle terme, era destinato a diversi usi, e vi erano:
    - biblioteche,
    - auditorii,
    - sale d'esposizione e di ritrovo,
    - ninfei,
    - latrine,

    In genere questi ambienti esterni erano a pianta centrale, con esedre ed aule absidate, con spazi liberi ed aperti dotati di portici e giardini, che bilanciavano il chiuso dell'impianto balneare.

    L'ingresso termale era una parete continua,  con mura altissime, mosse dalle sporgenze degli absidi, delle rotonde e aperti dalla successione dei grandi varchi delle porte e delle finestre. La bellezza e la grandiosità delle terme è nella costante ricerca di equilibrio tra gli spazi e le proporzioni, con una magistrale sequenza di spazi chiusi e aperti, in un organico e razionale alternarsi di spazi minori e maggiori, e in una coerente distribuzione architettonica funzionale e strutturale.



    GLI ACQUEDOTTI

    Il rifornimento idrico termale era assicurato dagli acquedotti, dei capolavori di architettura e di esecuzione. Già Agrippa aveva fatto costruire, nel Campo Marzio, l'acquedotto dell'Acqua Vergine per alimentare le sue Terme, acqua che sorge presso Marino, nella zona dei Colli Albani, e arriva a Roma dalle alture del Pincio, per mezzo di condotte sotterranee.

    Mentre le Terme di Traiano erano alimentate dall'Acqua Traiana, una diramazione dell'acquedotto,
    - per alimentare le Terme di Caracalla venne costruito un ramo dell'Acqua Marcia che prese il nome di Acqua Antoniniana,
    - e per le Terme di Diocleziano vi fu una ulteriore diramazione dell'acqua Marcia e prese il nome di Acqua Iovia.
    - Per le Terme di Nerone, in un primo tempo si usò l'Acqua Vergine che alimentava anche le vicine Terme di Agrippa, successivamente si utilizzò l'acquedotto Alessandrino. L'acqua non arrivava direttamente dentro gli stabilimenti termali ma veniva raccolta in apposite cisterne.



    LE CISTERNE

    Le Cisterne, contenitori giganti di enormi quantità di acqua, erano costituite da un gran numero di ambienti a tenuta stagna e coperti a volta, intercomunicanti e disposti in file affiancate. Le Cisterne erano una complessa rete di distribuzione dell'acqua con tubazioni in piombo o in terracotta portavano acqua nelle acque per il bagno freddo e nella piscina natatoria, mentre l'acqua che doveva essere scaldata veniva convogliata nel settore dei forni ed una volta scaldata veniva convogliata nelle vasche apposite.

    La Cisterna delle Terme di Traiano è conosciuta come Cisterna delle Sette Sale era formata da nove lunghi ambienti. La Cisterna delle Terme di Caracalla aveva 18 ambienti affiancati. Gli ?acquari? erano gli addetti specializzati alle cisterne e alle condutture dell'acqua.



    IL FORNO

    I fornaciari erano gli addetti specializzati ai forni. Il Forno si trovava nella parte centrale dell'edificio balneare, e comunque in prossimità del reparto delle acque calde, era un ambiente a cielo aperto agibile da uno o più corridoi, con fosse circolari per la combustione, delimitate da banconi in muratura sui quali venivano poggiate le caldaie, infine terminavano con una imboccatura chiusa da un portello metallico o da lastre in pietra refrattaria.

    I forni erano alimentati a legna, legna che veniva accantonata in speciali depositi in un quantitativo tale sufficiente per almeno 1 mese. Nelle Terme di Caracalla c'erano 50 forni, veniva preferito il legno di abete che non faceva troppo fumo e non sporcava troppo. La cenere raccolta veniva setacciata e destinata alle lavanderie ed impiegata come detersivo.



    LE CALDAIE

    Le caldaie erano in genere di bronzo, e la parte lambita dalle fiamme in piombo, e poste in una camicia in muratura per dare meno dispersione al calore. Vi erano anche caldaie a batteria nelle quali l'acqua veniva riscaldata a temperature diverse, le caldaie comunicavano tra di loro a mezzo di tubi e fornite di rubinetti. Con questo sistema si aveva un risparmio energetico.

    L'acqua delle piscine veniva poi convogliata per il lavaggio degli ambienti prima di andare a finire nelle fognature. Il riscaldamento era ottenuto con il sistema della circolazione di aria calda sotto il pavimento e dietro le pareti attraverso vespai e intercapedini, questo sistema di riscaldamento era adottato anche nelle dimore romane.

    Si deve l'invenzione ad un certo Caio Sergio Orata di Pozzuoli che era un ricco allevatore di ostriche del Lago di Lucrino, vissuto tra la fine del II secolo ed inizi del I secolo a.c., nella zona dei campi Flegrei e delle "Fumarole", ricreò artificialmente questo fenomeno.

    Si faceva circolare aria calda prodotta dalla combustione di fascine di legna che venivano fatte bruciare in appositi forni messi in comunicazione con il vespaio, questo sistema venne detto "bagno sospeso" o "balnea pensilis", il sistema fu perfezionato con la creazione di pareti doppie, con delle intercapedini, nelle quali veniva fatta passare l'aria calda.



    LA FINE DELLE TERME

    Tutte le grandi terme vennero utilizzate e tenute in efficienza fino al V secolo d.c., nel VI secolo il re goto Teodorico promosse il restauro delle Terme di Caracalla, ma la fine definitiva delle terme sopraggiunse nel 537 quando i Goti di Vige assediarono Roma tagliando gli acquedotti che rifornivano di acqua la città, l'interruzione dell'approvvigionamento idrico determinò la cessazione di ogni attività ed il declino delle terme, oltre che dell'impero romano d'occidente.

    - Le Terme di Caracalla, le Terme Surane e le Terme deciane vennero usate come cimiteri, come ricovero per pellegrini, forestieri e ammalati da parte di enti religiosi,
    - Le Terme Alessandrine o Terme di Nerone a Campo Marzio furono adibite a diaconia con annesso cimitero e così sopravvissero fino ai secoli X e XI.
    - Le altre Terme furono adibite a vigne ed orti, e a cave di materiali più o meno pregiati che venivano riciclati per le nuove costruzioni, venivano anche prelevati i marmi per farne calce in calcare approntate sul posto.

    Nel Rinascimento, artisti come il Bramante, Michelangelo, Raffaello e Sangallo attenti alle antiche vestigia, proposero di ripristinare la Roma dei Cesari in quella dei Papi, e le terme furono oggetto dei loro studi, disegni e ricerche, lasciandoci cosi delle preziose testimonianze utili per conoscere quanto poi il tempo avrebbe distrutto.

    Lo stesso Michelangelo trasformò l'area basilicale delle Terme di Diocleziano nella Basilica di Santa Maria degli Angeli, Michelangelo la realizzò tra gli anni 1563 e 1566 con un semplice geniale adattamento nel rispetto dell'antico edificio.



    IL BAGNO TERAPEUTICO

    Il Bagno terapeutico venne all'epoca appoggiato da medici illustri come Asclepiade, Celso, Antonio Musa, e Galeno, era una pratica terapeutica basata sull'alternanza di bagni in acqua calda e fredda, dopo una abbondante sudorazione, che aiuta il ricambio, la circolazione e la disintossicazione.

    PAVIMENTO ANTICO ROMANO IN SANTA PUDENZIANA

    LE TERME 

    TERME ETRUSCHE

    Le Terme Etrusche: probabilmente realizzate al tempo di Traiano ad opera di un certo Claudio Etrusco in una zona, forse tra il Quirinale e il Pincio.

    ARCATE SEVERIANE DELLE TERME SETTIMIANE

    TERME AURELIANE

    Le Terme Aureliane, sempre in zona Trastevere.



    TERME COMMODIANE

    Le terme Commodiane fatte edificare dal liberto di Commodo, di nome Cleandro, erano nella zona dove poi sorsero le Terme di Caracalla.

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    TERME LATERANENSI

    TERME LATERANENSI

    Se ne scorgono reperti tra la via dei Laterani e via dell'Amba Aradam, in particolare di una grande sala quadrata con finestroni ad arco databili al III sec. d.c.

    TERME LATERANENSI:VEDI

    TERME DECIANE

    TERME DECIANE   

    Le Terme Deciane, zona Aventino, Roma, Rione XII Ripa, fatte costruire nel 242-250 d.c. dall'Imperatore Decio, e restaurate dai figli di Costantino, Costante e Costanzo, si distinguevano dalle altre terme per essere destinate a servire una zona aristocratica di Roma, e quindi di dimensioni ridotte rispetto alle altre destinate anche al popolo.

    TERME DECIANE:VEDI

    TERME DI AGRIPPA

    TERME DI AGRIPPA

    Le Terme di Agrippa si trovavano nella zona del Pantheon, a Roma, furono fatte edificare da Marco Vipsanio Agrippa, genero di Augusto nel Campo Marzio, furono una delle prime grandi terme imperiali di carattere pubblico e le prime probabilmente chiamate con il termine "termae".

    La costruzione si trovava immediatamente a sud del Pantheon, probabilmente erano alimentate dall'Acquedotto dell'Acqua Vergine costruito tra il 25 ed il 19 a.c, che alimenta oggi la Fontana di Trevi, probabilmente si estendevano tra la via dei Cesari e la via di Torre Argentina, il limite meridionale corrispondeva probabilmente all'attuale largo Argentina, e la parte settentrionale verso la via di Santa Chiara.

    Le terme sorgevano nella zona più depressa del Campo Marzio, il luogo in precedenza malsano era chiamato Palude della Capra, ovvero Palus Caprae, venne poi bonificato, ed erano vicine allo "Stagnum", che era un grande bacino di acqua, che si trovava la parte occidentale delle terme, bacino d'acqua usato come piscina dai frequentatori delle terme. Nel 12 a.c., alla morte di Agrippa le terme passarono al libero uso del popolo romano, all'interno vi era la splendida statua bronzea dell'Apoxyomenos, l'atleta che si deterge, capolavoro di Lisippo, che Agrippa volle fosse esposta all'ingresso, oggi possiamo ammirarne una copia in marmo esposta ai Musei Vaticani ritrovata nel 1849 a Trastevere in una via che fu ribattezzata vicolo dell'Atleta.

    Agrippa aveva fatto esporre nelle sue terme anche altre opere e statue di artisti illustri dell'epoca. Nell'80 d.c. un enorme incendio devastò l'intera area del Campo Marzio. Le terme, vennero poi restaurate da Tito e da Domiziano. Ebbero ancora un sostanziale restauro tra il 120 e il 125 d.c. ad opera dell'imperatore Adriano che ristrutturò tutta la zona del Pantheon. Altri interventi ci furono ad opera di Settimio Severo e poi di Massenzio e dei suoi figli Costantino, Costanzo e Costante.
    Da testimonianze storiche le terme di Agrippa erano ancora funzionanti nel 344 - 345.

    Probabilmente già a partire dal VII secolo vennero smantellate ed i materiali riciclati per altre costruzioni, nei pressi vi era anche una calcara che riduceva il marmo in calce. In epoca medievale la zona era densamente popolata e quanto rimaneva delle terme di Agrippa venne riutilizzato per la costruzione di case e botteghe che sopravvivono ancora oggi.
    Le testimonianze di queste terme si hanno da disegni di Baldassarre Peruzzi e del Palladio. Resti delle terme di Agrippa sono visibili all'arco della Ciambella.

    TERME DI AGRIPPA:VEDI

    FONTANA DELLE TERME DI NERONE

    TERME DI NERONE

    A Nerone si deve l'iniziativa di dare stabilmente carattere pubblico alle Terme, per il piacere del popolo e per evitare pestilenze e malattie contagiose, perchè l'acqua era straordinariamente sempre rinnovata come non accade neppure nelle piscine di oggi. Le Terme di Nerone, del 70 d.c. unirono il balneum romano e il gimnasio greco, infatti erano dette "Gimnasium Neronis".

     Le Grandi Terme imperiali avevano:

    - lo "spogliatoio" detto "apodyterium", un ambiente rettangolare o quadrato con volte a botte o a crociera non riscaldato e dotato di una fontana o di una piccola vasca per le abluzioni personali, lungo le pareti vi erano panche di marmo o in muratura con cuscini e tappeti sui quali i bagnanti potevano sedersi, sulle pareti mensole e spazi per riporre gli abiti.

    - il "caldarium", a pianta poligonale/circolare, con nicchie e copertura a cupola o rettangolare, con volte a crociera o a catino, con vasca per il bagno caldo ad immersione detta "alveus", era generalmente rotonda e munita tutto intorno di gradini; Questa occupava l'intero spazio centrale dell'ambiente, con vasche minori, e fontane di acqua fredda.

    L'alveus era orientato a sud-ovest per sfruttare il calore del sole pomeridiano e sporgeva dall'edificio balneare, con ampie finestre ad arco chiuse con lastre di vetro opache di piccole e medie dimensioni. Le prime vetrate furono di micascisto e talvolta di alabastro.

    -  Il "Tepidarium" era un ambiente dotato di un modesto riscaldamento, a pianta centrale o quadrata, con absidi e con una o più vasche con acqua tiepida, sedili e panchine alle pareti, alle volte era utilizzato come ulteriore spogliatoio, e in questo caso alle pareti era dotato di nicchie per il deposito degli effetti personali e delle vesti.

    - Il "Frigidarium", in genere al centro dell'impianto termale, con una enorme aula basilicale, detta "basilica delle terme", con copertura a triplice crociera; il frigidarium era munito di numerose vasche di acqua fredda collocate entro grandi nicchie o esedre, e si apriva su uno dei lati maggiori sulla "Natatio", un grande vano rettangolare a cielo aperto, delimitato da alte mura e quasi interamente occupato dalla piscina natatoria, nelle terme più grandiose, uno dei lati lunghi era decorato da grandi ninfei, fontane monumentali, con ordini sovrapposti di colonne, di nicchie, e di edicole contenenti statue.

    - La "Palestra", era un grande cortile interno, circondato su almeno 3 lati da portici con vari ambienti destinati ai giochi e agli esercizi fisici al coperto, dove avvenivano unzioni, aspersioni di sabbia, strigliatura, massaggi. Numero si schiavi addetti alle terme offrivano i vari servizi di unzioni e massaggi.

    Le Terme di Nerone, dette anche Terme Alessandrine, erano nella zona del Pantheon, furono costruite un secolo più tardi rispetto alle terme di Agrippa, erano il secondo più importante stabilimento termale della Roma imperiale. Gli ambienti erano distribuiti in modo assiale e simmetrico, furono rifatte nel III secolo da Severo Alessandro, tant'è che poi vennero chiamate Terme Alessandrine.

    Le terme di Nerone furono costruite agli inizi degli anni 60, prima del grande incendio che devastò Roma, nel 64 d.c. si trovavano anche queste come le terme di Agrippa nel Campo Marzio, a nord ovest del Pantheon, e a poca distanza da queste ultime, si trovavano in un'area compresa tra piazza della Rotonda e Corso Rinascimento, e tra la via delle Coppelle e piazza Sant'Eustachio.

    - Ci sono ancora resti sotto palazzo Madama,
    - negli scantinati di palazzo Giustiniani e di palazzo Patrizi,
    - resti dell'abside orientale sono visibili in un cortile di piazza Rondanini
    - e resti di due colonne monolitiche di granito rosa con capitelli in marmo bianco ritrovate nel sottosuolo della chiesa di San Luigi dei Francesi, sono state rialzate accanto ad un grosso frammento di architrave in via di Sant'Eustachio,
    - mentre altre 2 colonne si trovano nel lato sinistro del pronao del Pantheon, e qui collocate nel 1666, sotto Papa Alesandro VII, in sostituzione di quelle originarie gravemente danneggiate.
    - mentre un'altra colonna ritrovata nel 1875 sotto la salita de Crescenzi, venne collocata nel 1896 davanti alla Breccia di Porta Pia, in occasione del 25 anniversario della presa di Roma.

    La pianta delle Terme di Nerone ci è nota da un disegno del Palladio e di Antonio da Sangallo il Giovane, erano ancora in uso nel V secolo.

    TERME DI NERONE:VEDI

    TERME DI TITO

    TERME DI TITO

     Terme di Tito, erano alle pendici dell'Esquilino, a Colle Oppio, in via delle Terme di Tito, uno dei più antichi esempi di terme di tipologia "imperiale", vennero inaugurate da Tito nell'anno 80 d.c., più o meno in concomitanza con l'inaugurazione del Colosseo, forse le terme di Tito erano in origine i balnea privati della Domus Aurea di Nerone, infatti queste erano immediatamente adiacenti al lato orientale della Domus Aurea, e si deve alla Gens Flavia la successiva destinazione di queste terme ad uso pubblico, nell'intento di restituire al popolo gli spazi urbani usurpati da Nerone.

    L'edificio occupava le pendici meridionali del Colle Oppio, sono visibili alcuni resti ed altri sono interrati e sono visibili nello spazio aperto verso il Colosseo. Delle terme di Tito, se ne conosce la pianta che fu disegnata dal Palladio. Vi erano anche spazi aperti, mentre il complesso balneare era sul versante meridionale, probabilmente l'ingresso principale doveva essere sul lato settentrionale e al centro dell'area aperta, saliva dalla valle del Colosseo con un grande propileo porticato, probabilmente queste terme erano in collegamento con il sottostante lago della Domus Aurea, lo Stagnum, poi sostituito dal Colosseo.

    Queste terme vennero restaurate ai tempi di Adriano, e già dal 238 d.c., non se ne ha menzione, il che fa supporre che il suo abbandono sia avvenuto precocemente. Anche queste terme come le altre furono sottoposte alla spoliazione sistematica dei materiali pregiati, alcuni marmi vennero riutilizzati nel 1590 per la decorazione delle cappelle laterali della Chiesa del Gesù. Sia dalle terme di Tito che dalle terme di Traiano derivano il bacino di granito grigio riutilizzato per la fontana al centro del cortile del Belvedere, ai Musei Vaticani in Vaticano.

    TERME DI TITO:VEDI

    RICOSTRUZIONE A CURA DI www.katatexilux.com
    TERME DI TRAIANO 
      
    Le Terme di Traiano, a Roma, si trovano nella zona di colle Oppio, furono costruite per iniziativa dell'Imperatore Traiano che dette loro il suo nome, l'architetto che realizzò l'opera fu Apollodoro di Damasco.

    Le terme di Traiano furono in realtà costruite sulle rovine dell'ala residenziale della Domus Aurea, che scomparve così appena quarant'anni dopo la sua costruzione, ed erano un'opera molto più ambiziosa delle prime terme romane.

    Furono erette tra il 104 e il 109 d.c. da Traiano e costruite non solo sulla Domus Aurea interrata a seguito della Damnatio Memoriae di Nerone, ma su altri edifici, come quello dell’affresco della “Città Dipinta”, ed in parte edificate, con un nuovo e rivoluzionario orientamento sud-ovest per maggiore luce e calore.

    Furono il prototipo delle terme imperiali, e il più grande edificio termale esistente allora al mondo, con un'estensione di ben 4 ettari.

    Come riportato nei Fasti Ostiensi, il 22 giugno 109 d.c. Traiano aprì al pubblico il grandioso impianto termale edificato sul versante meridionale del colle Oppio, che forse occupava anche una parte dei vicini giardini di Mecenate.

    TERME DI TRAIANO:VEDI

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    S. PRISCA SOPRA LE TERME SURANE

    TERME SURANE

    "Nel 1934-1935 alcuni scavi sotto la chiesa di S. Prisca sull’Aventino portarono alla scoperta di un complesso di abitazioni risalenti al I sec. d.c.., inizialmente ritenuti l’abitazione del futuro Imperatore Traiano, identificato successivamente nelle strutture rinvenute nel sottosuolo della Piazza del Tempio di Diana. Si ritiene che si tratti della casa e delle Terme di Lucio Licinio Sura, politico e generale molto influente sotto Traiano. Ciò sarebbe confermato dalla Forma Urbis Severiana, che in quest’area, adiacente al Tempio di Diana, indica la presenza delle Terme Surane."

    Le Terme Surane, Thermae Surane o Balneum Surar, erano all'Aventino, nella zona intorno alla chiesa di Santa Prisca, vennero edificate su iniziativa di Lucio Licinio Sura, corregionale, amico e collaboratore di Traiano che le avrebbe poi dedicate all'amico, forse gli edifici delle terme sorsero su preesistenti costruzioni appartenenti allo stesso Sura.

    Intono alla zona di Santa Prisca sono stati ritrovati notevoli resti di ambienti termali di età Traianea. La loro planimetria è conservata quasi per intero in alcuni frammenti che possono essere collegati tra loro e darci la pianta marmorea severiana, corredati anche dall'iscrizione Balneum Sura, tutto l'impianto, ridotto, rispetto alle terme imperiali, erano formate dal balneum e da una serie di ambienti allineati in modo rettilino tra loro comunicanti e da uno spazio aperto porticato sui 3 lati forse destinato alla palestra.

    Vi è una iscrizione ritrovata in loco e forse pertinente ad un architrave, la quale ci racconta di un restauro fatto eseguire da Gordiano nel 414 delle terme Surane che il sacco di Alarico distrusse insieme a tutta la zona dell'Aventino. Probabilmente queste terme, erano utilizzate solo dagli abitanti del colle Aventino che appartenevano alla XII regio, un quartiere popolare.

    TERME SURANE:VEDI

    TERME DI CARACALLA

    TERME DI CARACALLA

     Terme di Caracalla, zona Aventino, dette anche Thermae Antoninianae o Thermae Caeacallae, gli imponenti resti sono visibili alla Passeggiata Archeologica, furono edificate nel III secolo tra il 212 e il 217 dall'Imperatore Caracalla il cui vero nome era Marco Aurelio Severo Antonino Bassiano, e per questo si chiamarono Thermeae Antoniniane vennero inaugurate con libero ingresso per il pubblico nel 216 d.c.

     Tra gli anni 222 e 235 le terme vennero completate dai successori di Caracalla : Eliogabalo e Severo Alessandro, gli antichi le definirono magnificentissime, per grandezza vennero poi superate dalle terme di Diocleziano. Nel V secolo le terme di Caracalla erano elencate tra le meraviglie dell'Urbe.

    Vennero restaurate al tempo dell'imperatore Diocleziano e poi da Costantino, e nel VI secolo dal re Teodorico, poco tempo prima che fossero rese inagibili nel 537 per il taglio degli acquedotti da parte dei Goti durante l'assedio di Roma.

    A seguito dell'abbandono delle terme di Caracalla nei secoli VI e VII nella parte centrale del complesso si insediò un ospizio per il ricovero e l'assistenza dei pellegrini, probabilmente collegato alla vicina chiesa dei Santi Nereo e Achilleo.

    Successivamente tutta l'area perimetrale venne occupata da un sepolcreto, le antiche strutture durante il periodo di abbandono vennero usate anche come abitazione, finchè tutto il complesso termale non venne ridotto a "terreno agricolo", con prevalenza di vigneti gestiti da enti e comunità ecclesiastiche e dai proprietari delle ville della zona.

    Tale era il degrado che i ruderi divennero cava di materiali pregiati, e da qui si prelevarono marmi, metalli, colonne, cornici e architravi. Alcuni frammenti architettonici delle terme di Caracalla furono utilizzati per la chiesa di Santa Maria in Trastevere, tre capitelli sono nel Duomo di Pisa, e anche qui, come accadde per altri monumenti dell'antica Roma, la zona divenne una cava di calcare, dove i marmi venivano trasformati in calce.

    Dal XV secolo inizia la documentazione relativa ai ritrovamenti di maggior rilievo; nel Medioevo le Terme conosciute con i nomi di Antoniniana, Palatium, Antoninianum, furono oggetto di studio da parte dei grandi architetti dell'epoca. Tra le scoperte, le più importanti avvennero durante il pontificato di Papa Paolo III Farnese, nel 1547 vennero rivenute opere "minori"come alcuni busti degli Antonini, una statua di Minerva, una di baccante, una presunta vestale, una di Venere e di un'ermafrodita.

    Tornarono alla luce il colossale gruppo del supplizio di Dirce, detto "Toro Farnese" e il gigantesco Ercole in riposo detto "Ercole Farnese" copia dell'originale bronzeo di Lisippo, la grande Flora di ispirazione attica del V secolo a.c., opere che divennero parte della collezione Farnese e che ora si trovano al Museo Nazionale di Napoli.

    Venne scoperta anche una enorme colonna in granito portata a Firenze nel 1561 ed eretta a piazza Santa Trinità, mentre le due grandi vasche monolitiche in granito bigio egiziano lunghe 5,50 metri vennero riutilizzate nel 1612 per le fontane di piazza Farnese.

    Nel XIX sono stati condotti scavi ed indagini che nel 1824 portarono al recupero di grandi lembi di mosaico pavimentale policromo con 28 figure di atleti che erano parte di una delle palestre ed conservati nel Museo Gregoriano Profano, ai Musei Vaticani, in Vaticano.

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    TERME DI CARACALLA
    Un primo scavo documentato risale al 1912, e ancora c'è molto da scavare. Sono continui gli interventi di manutenzione, di restauro e di consolidamento delle strutture. Nel 1938 vennero istallati tra il tepidario e il calidario gli impianti del Teatro dell'Opera, rimasti in piedi fino al 1993. Oggi le terme di Caracalla rappresentano l'esempio più grandioso, completo e meglio conservato di una grande terma imperiale.

    Le Terme di Caracalla sviluppano in senso monumentale lo schema già perfezionato e ampiamente collaudato nelle terme di Traiano. Le terme di Caracalla si presentano con il corpo massiccio dell'edificio centrale, propriamente balneare, posto nel mezzo di una vasta area aperta, ed interamente circondata da un recinto comprendente portici, sale, esedre e ambienti minori.

    Il complesso sorge sulle pendici del colle Aventino, chiamato Aventino Minore volto verso la via Appia, la zona già in antico occupata da ville, giardini, case private, non lontana dalla zona popolare che si trovava tra porta Capena e il Circo Massimo. Per realizzare l'enorme spianata a terrazzo sulla quale le terme vennero costruite furono necessari grandi lavori di sbancamento del terreno.

    Sono stato ritrovati anche i resti di una domus adrianea che è a 10 metri sotto il livello attuale delle terme. Verso valle venne aperta un'ampia strada rettilinea, parallela e adiacente al complesso termale denominata via Nova. Il recinto esterno è delimitato da un muro alto e poderoso, quasi quadrato con i lati di 337 m  X 328 m.

    All'ingresso principale vi era un portico con una serie di ambienti su due piani probabilmente adibiti a botteghe e faceva da sostegno al terrapieno. Portico e ambienti giravano tra di loro identici e caratterizzati dalla presenza di due ampie esedre al'interno delle quali vi erano una sala rettangolare absidata e aperta con una fronte di 8 colonne, e ai due lati un ambiente ottagonale coperto a cipolla ed un altro rettangolare e absidato, probabilmente entrambi riscaldati.

    Il lato a sud-ovest era dotato di una scalinata per l'accesso alle terme direttamente dall'Aventino ed era occupato al centro da una conserva d'acqua della capacità di 10.000 mc, parzialmente affondata nel terreno in pendio e formata da 18 vani coperti a volta e intercomunicanti, disposti in doppia fila.

    L'alimentazione era assicurata da una diramazione dell'Acqua Marcia, detta "Aqua Antoniniana". Ai due lati della cisterna vi erano due grandi sale absidate e tripartite utilizzate come biblioteche. Davanti alla cisterna, e verso l'interno, vi era una lunga gradinata coi due lati minori curvilinei, una sorta di mezzo stadio che forse poteva essere una monumentale fontana a cascata. L'edificio centrale dei bagni si sviluppava su una superficie rettangolare con i lati di 220 m X 114 m.

    Vi si accedeva attraverso 4 ingressi ed era organizzato sull'asse minore con la successione degli ambienti principali, natatio, aula basilicale, tepidario e calidario, mentre sull'asse maggiore vi era la collocazione simmetrica dei vestiboli e degli spogliatoi, delle palestre a loro volta contornate da vari ambienti e da due serie di 4 aule minori di fianco al calidario.

    Questa planimetria offriva un doppio percorso anulare, in modo che i bagnanti potessero usufruire di due distinti percorsi simmetrici, che partendo dagli spogliatoi andavano a confluire nella sequenza centrale del calidario, del tepidario, del frigidario, per concludersi separatamente nei rispettivi punti di partenza, ossia negli spogliatoi. Nelle sue strutture murarie tutto l'edificio delle Terme di Caracalla è in un buono stato di conservazione, l'ingresso attuale è di quelli che si aprivano direttamente nel corpo centrale dei bagni.

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    TERME SETTIMIANE

    Le Terme Settimiane nella zona di Trastevere forse dovute a Settimio Severo nei pressi di quella che sarà la Porta Settimiana delle Mura Aureliane.



    TERME SEVERIANE

    TERME SEVERIANE

    Terme Severiane, dette Terme di Settimio Severo, sorgono sul Palatino, subito dopo l'esedra dell'ippodromo e sono fondate per la maggior parte sopra un piano artificiale, già preparato da Domiziano, prolungando tutto l'angolo sud del colle mediante colossali costruzioni a più piani, spinte fin sopra le gradinate del Circo Massimo.

    Dalla terrazza delle terme Severiane si gode una bellissima vista fino ai colli Albani e Tuscolani sui quali c'è il Monte Cave luogo sacro ove era stato edificato il Tempio a Giove Laziale. Le terme Severiane sono disposte su diversi piani, e le prime ricerche archeologiche pontificie vennero avviate sotto Papa Pio IX e negli ultimi anni sono state oggetto di ampi restauri.

    Gli edifici termali risalgono al periodo di Domiziano che probabilmente voleva dotare il palazzo imperiale di grandi terme, oggi si possono ammirare grandi ambienti in parte interrati in buono stato di conservazione. La costruzione delle terme venne proseguita da Settimio Severo, da cui presero il nome, e successivamente il complesso venne definito da Massenzio.

    All'interno ci sono, canalizzazioni e sistemi di riscaldamento. Domiziano aveva allacciato le terme Severiane, all'acquedotto Neroniano con delle arcate che partivano dalla scomparsa Porta Capena attraversavano il Celio e il Palatino sulla odierna via di San Gregorio fino all'Arco di Dolabella e Silano.

    Lo splendido edificio venne demolito nel XVI secolo per ordine di Papa Sisto V, che utilizzò i materiali per l'edificazione del palazzo della Cancelleria e per la costruzione della sua cappella alla Basilica di Santa Maria Maggiore.

    Sul Palatino, in direzione di porta Capena, sul lato del Circo Massimo si vedono le magnifiche arcate Severiane, salendo sulla sommità del Palatino, da cui si accede dai Fori Romani, su via dei Fori Imperiali, vicino al Colosseo, si gode la vista di Roma a 360 gradi.

    Le terme Severiane si trovano a lato dello Stadio Palatino, il percorso attraversa il piano alto del Palatino con il settore del palazzo imperiale identificato come "Complesso Severiano" situato nell'angolo sud - est del Palatino e distinto in due parti le arcate e le terme.

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    TERME DI DIOCLEZIANO

    TERME DI DIOCLEZIANO

    Le Terme di Diocleziano, a Roma, si trovano nella zona della Stazione Termini e piazza della Repubblica, a via delle Terme di Diocleziano, tra piazza della Repubblica e largo di Villa Peretti, fanno parte del Rione XVIII Castro Pretorio, la loro edificazione venne iniziata nel 298 dall'Imperatore Massimiano e proseguite dall'Imperatore Diocleziano, vennero completate dopo l'abdicazione dei due Imperatori tra il 305 e il 306.

    Le terme si estendevano su un'area di quasi 14 ettari era il più grande degli edifici termali della città di Roma e del mondo romano capaci di essere utilizzate contemporaneamente da 3000 persone, il doppio delle Terme di Caracalla.

    Costruite in opera laterizia erano alimentate da una diramazione dell'Acqua Marcia detta anche Aqua Jovia che arrivava dalla Porta Tiburtina con un manufatto utilizzato fino al 1879 dall'Acqua Felice, e faceva capo a una cisterna di forma trapezoidale, a più navate, originate da file di pilastri e lunga oltre 90 m, la cosi detta botte Termini, situata nella zona dei giardini delle terme, questa botte venne distrutta tra il 1860 e il 1876 per la costruzione della prima stazione ferroviaria di Roma.

    Le terme di Diocleziano avevano un recinto di 380 m X 365 m, ed erano dotate di esedre e di altri ambienti, sul lato della attuale piazza della Repubblica si apriva al centro una grande esedra. La tradizione vuole che per la costruzione di questo enorme complesso siano stati impiegati anche prigionieri cristiani. La vita delle terme fu complicata fin dagli inizi. Vennero semidistrutte dal goto Alarico durante il sacco di Roma del 410 e abbandonate divennero come molti altri monumenti romani cava di marmo e travertino per altre nuove costruzioni.

    Le aule furono usate di volta in volta come doma dei cavalli, rifugio abusivo di senza tetto, abitazione privata e altri svariati usi. Molti artisti vennero ad ispirarsi di fronte ai ruderi delle terme di Diocleziano, Andrea Palladio le disegnò in ogni dettaglio. Poi nel 1560 il tepidarium delle terme venne utilizzato per l'edificazione della basilica di Santa Maria degli Angeli.

    Nel 1575 Papa Gregorio XIII destinò una parte delle terme a magazzino di frumento, oggi l'edificio è usato dalla Facoltà di Magistero che in passato era la Scuola Normale Femminile.

    Papa Paolo V nel 1612 ingrandì i granai e Papa Urbano VIII li restaurò. Papa Clemente XI per salvare dalla rovina l'aula rotonda che dava sul Viminale, ridusse anche questa a granaio.

    Le terme subirono danni ma mai come l'opera del Vanvitelli che rivoluzionò l'orientamento della Chiesa di Santa Maria degli Angeli e i fabbricati circostanti, dove si trovava il calidarium. Scomparve la Botte Termini, vennero aperte le strade di via Nazione e via Cernaia, e venne sistemata la piazza davanti alla stazione ferroviaria. Le terme furono utilizzate a varie riprese come caserma, prigione, magazzino militare fino ad avere la loro degna sistemazione come parte e sede del Museo Nazionale Romano, che si trova in via del Museo dell Terme.

    Le terme di Caracalla erano l'espressione completa e perfetta dello stabilimento termale, già di per se abbastanza grandi, ma le Terme di Diocleziano le superarono in estensione e grandezza. Costruite in 7 - 8 anni, tra il 298 e il 305 d.c., a 100 anni da quelle di Caracalla, erano nell'area tra il Viminale e il Quirinale, oggi compresa tra piazza della Repubblica, un tempo chiamata piazza dell'Esedra, piazza dei Cinquecento e le vie Volturno, e Venti Settembre.

    Per ottenere lo spazio necessario all'edificazione delle terme venne smantellata la zona da numerosi edifici privati, case di abitazione, che vennero debitamente acquistate, e sconvolta la viabilità preesistente del vicus Longus, dell'Alta Semita e vicus Collis Viminalis. Per l'approvvigionamento idrico venne edificata una diramazione dell'acqua Marcia detta Aqua Iovia che iniziava subito dopo la porta Tiburtina con una serie di arcate utilizzate fino al 1879 dall'Acqua Felice di Papa Sisto V, che veniva raccolta in una cisterna, che si trovava su un lato del recinto termale, dove oggi c'è viale Enrico De Nicola.

    TERME DI DIOCLEZIANO
    La cisterna aveva una pianta trapezoidale divisa in più navate, da file di pilastri e lunga 90 metri, chiamata "Botte Termini" venne distrutta quando fu edificata la Stazione Ferroviaria, la attuale Stazione Termini. Le Terme di Diocleziano replicavano lo schema delle Terme di Caracalla, nel suo perimetro successivamente sono state inserite la chiesa di Santa Maria degli Angeli e la chiesa di San Bernardo, il complesso dell'ex convento dei Certosini, occupato oggi dal Museo Nazionale Romano, dagli Horrea Ecclesiae i granai Clementini, dall'ex Planetario e dall'ex Casa del Passeggero, una facoltà universitaria, scuole, un museo delle cere.

    Durante i secoli di degrado e di abbandono le terme furono depredate degli arredi e dei materiali preziosi, e lo spazio del Palazzo di Diocleziano, o Palatium Diocletiani, nome delle terme in epoca medievale, fu sfruttato per insediarvi chiese e conventi, case ad uso abitativo, depositi, botteghe.

    Nel XVI secolo la zona fu trasformata in orti e giardini, successivamente occupati da una Certosa posta nell'edificio centrale mentre le strutture periferiche vennero in parte adibite a magazzini per l'Annona frumentaria. Nel 1561 , Papa Pio IV fece trasformare da Michelangelo la parte centrale dell'edificio balneare nella Basilica di Santa Maria degli Angeli. Tra il 1586 e il 1589 i ruderi della zona del Calidario, le cui sale erano chiamate "Massicci di Termini", venero distrutte per ricavarne materiale per la villa Peretti Montaldo di Papa Sisto V.

    Altre demolizioni vennero attuate alla fine dell'Ottocento per l'apertura di via Cernaia, della piazza Termini, oggi piazza dei Cinquecento, della piazza dell'Esedra, oggi piazza della Repubblica, e per la costruzione di nuovi grandi palazzi. Solo ai primi del XIX inizio il consolidamento, il ripristino ed il restauro delle Terme di Diocleziano.

     Lo schema delle Terme di Diocleziano era lo stesso di quelle di Caracalla, caratterizzato da un recinto quadrangolare che racchiudeva una vasta area aperta al centro della quale si trovava l'edificio balneare. I quattro lati del recinto, che misurava 361 m X 376 m, circa, erano variamente dotati di esedre e altri ambienti volti versi l'interno. Il lato nordorientale, lungo l'attuale via Gaeta, e attraverso il Chiostro grande della Certosa, aveva nel suo centro, più o meno dove oggi si trova via Montebello, l'ingresso principale di tutto il complesso e alle due estremità in posizione simmetrica due esedre per parte con nicchie e colonne, una delle quali adibita a latrina.

    I due lati di nord-ovest e di sud-est, identiche tra loro, avevano ognuna regolarmente intervallate altre due esedre e alcuni ambienti minori rispetto a quelli centrali con funzione di ingressi secondari. Il quarto lato di sud-ovest si apriva al centro con una esedra del diametro di oltre 140 m al posto della quale oggi si trova l'emiciclo della piazza della Repubblica aperta nel 1885 con il nome di piazza Esedra.

    Questa esedra era fiancheggiata da due sale rettangolari, dove vi erano probabilmente due biblioteche, una latina e una greca che provenivano dal Foro di Traiano, seguite da ambienti minori agli angoli da due sale rotonde, l'occidentale è mantenuta quasi intatta, perchè venne trasformata nel 1598 nella chiesa di San Bernardo con la grande cupola del diametro di 22 metri ornata di file concentriche di cassettoni ottagonali decrescenti verso la sommità e aperta al centro da un grande foro circolare, oggi chiuso da un lucernaio, e la sala orientale che si intravede nel fabbricato che fu il granaio dei Clementini tra le vie del Viminale e via delle Terme di Diocleziano.

    L'edificio balneare al centro dello spazio aperto tenuto in gran parte a giardino era rettangolare con i lati di 240 m X 145 m, aveva sull'asse minore la successione della natatio, aula basilicale, dove c'erano il tepidario e il calidario, sull'asse maggiore simmetricamente disposti e uguali, vi erano i vestiboli, gli spogliatoi, le palestre con i portici e altri ambienti annessi alla basilica, due serie di quattro sale affiancate all'altezza del tepidario e del calidario.

    Una gran parte dell'edificio delle terme di Diocleziano è ancora conservata e riconoscibile. A piazza della Repubblica sono stati rinvenuti gli antichi resti del quartiere demolito per far posto alle Terme, e si vede la facciata disadorna della basilica di Santa Maria degli Angeli, che era una delle absidi centrali del calidario.

    Via Cernaia taglia in due l'antico complesso della palestra. Varcato l'ingresso di Santa Maria degli Angeli, il vestibolo circolare coperto a cupola e con due esedre quadrate ai lati, un tempo erano occupate da vasche, la navata trasversale della chiesa era l'aula basilicale delle terme. Fuori del perimetro della chiesa c'è il Museo Nazionale Romano.

    La geniale trasformazione dell'ambiente termale delle terme si deve a Michelangelo che però venne modificata nel Settecento dal Vanvitelli. Tra i ritrovamenti delle Terme di Diocleziano vi è uno straordinario bacino monolitico di porfido rosso di 4 metri di diametro con una circonferenza di 14,40 metri che si trova al Museo Pio Clementino in Vaticano, sono anche conservati i resti dell'iscrizione delle terme e una copia, ove tradotto si legge:
    "Al nostro Signor Diocleziano e Massimiano, abilissimi cesari, dedicarono ai romani le Terme felici Diocleziane che Massimiano Augusto al suo ritorno dall'Africa, in presenza della sua maestà decise e ordinò di costruire, e consacrò il nome di Diocleziano, suo fratello, dopo aver acquistato edifici sufficienti a un'opera di tanta grandezza e completatele sontuosamente in ogni particolare".

    Fontana del Chiostro delle Terme di Diocleziano, una fontana di ispirazione della portiana o forse proprio opera di Giacomo della Porta, si trova al centro del chiostro della Chiesa di Santa Maria degli Angeli, chiostro voluto dai Certosini, che erano stati custodi prima di San Ciriaco e dopo di S. Maria degli Angeli,i cui lavori in principio vennero affidati a Michelangelo che realizzò il "chiostro delle cento colonne" nel 1565, la bella fontana è circondata da cipressi, tra questi un secco si dice sia stato piantato dallo stesso Michelangelo.

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    RESTI DELLE TERME DI COSTANTINO AL XVI SECOLO

    TERME DI COSTANTINO

    Le Terme di Costantino in zona Quirinale, furono le ultime grandi terme di Roma, fatte costruire da Costantino e probabilmente iniziate da Massenzio subito dopo il 315 d.c. nella zona meridionale del colle Quirinale posta tra i tratti iniziali del vicus Longus e dell'Alta Semita, occupavano un'area stretta ed allungata compresa tra piazza del Quirinale, la via XXIV Maggio, via della Consulta e via Nazionale.

    Per l'edificazione delle Terme si procedette ad un lavoro di sbancamento e regolarizzazione del terreno in pendio, e di eliminazione degli edifici preesistenti come gli horrea, i magazzini pubblici, e domus signorili private. Le terme di Costantino vennero danneggiate da un incendio nel 367, vennero poi restaurate nel 443 dal prefetto della città Petronius Magnus Quadratianus, data in cui probabilmente vennero collocati i gruppi scultorei dei Dioscuri, che ora si trovano al centro della piazza del Quirinale.

    Le Terme di Costantino vennero saccheggiate dai Goti di Alarico nel 410, furono restaurate per l'ultima volta da Teodorico nel VI secolo. Dopo l'abbandono delle terme, in età medioevale, le strutture vennero variamente utilizzate , qui sorsero le chiese di San Salvatore, di Sant'Elena, Santo Stefano, e furono occupate da fabbriche private. Nel 1238 una parte del complesso apparteneva alla famiglia Arcioni che l'aveva trasformato in fortilizio.

    Nel Cinquecento, nel settore settentrionale venne costruito il palazzo Ferrerio, poi demolito, nel 1723 per costruirvi il palazzo della Consulta che era del cardinale Scipione Borghese. Il settore meridionale venne completamente smantellato tra il 1605 e il 1621 per la costruzione del palazzo che nel 1709 divenne palazzo Rospigliosi. Resti delle antiche terme di Costantino, vennero alla luce nei giardini di palazzo Rospigliosi e nei giardini di palazzo Aldobrandini, ma vennero demoliti nel 1877, per consentire l'apertura della via De Merode che oggi si chiama via Nazionale.

    Purtoppo oggi delle terme di Costatino non è rimasta nessuna traccia, ma ne conosciamo la pianta grazie ai disegni del Palladio, e alla pianta di Roma del Bufalini del 1551. Da queste testimonianze se ne deduce che queste terme erano un complesso di dimensioni piuttosto ridotte rispetto alle altre terme di Roma, e probabilmente perchè non popolari, ma destinate ad una clientela selezionata e raffinata.

    Erano orientate in senso nord - sud come erano orientate le terme antiche fino alle Terme di Tito. Le terme di Costantino erano limitate al solo edificio balneare e alcuni ambienti, sembra che fossero assenti i cortili porticati delle palestre sostituiti da una vasta area aperta che al di la della natatio si estendeva ad emiciclo occupando tutto il settore settentrionale del complesso e dove si immetteva direttamente l'ingresso principale, in corrispondenza del grande asse stradale detto Alta Semita.

    Non si può escludere la presenza di un ingresso laterale costituito da una monumentale gradinata sulle pendici occidentali del colle Quirinale, che era di fianco al Tempio di Serapide verso il Campo Marzio e il Portico Costantiniano che correva proprio ai piedi del colle nella zona che oggi si chiama della Pilotta. Probabilmente le terme di Costantino erano riccamente decorate, con sculture, ed è verosimile che i due dioscori del Quirinale facessero appunto parte delle terme di Costantino, i quali per la presenza dei cavalli dettero nel medioevo il nome alla zona "contrada Caballi" o "Montecavallo".

    I due Dioscuri vennero collocati nella attuale piazza del Quirinale da Papa Sisto V nel 1589. Provengono dalle Terme di Costantino le statue di Costantino e del figlio Costantino II che sono sulla balaustra di piazza del Campidoglio e le due statue dei fiumi Nilo e Tevere che sono sempre a piazza del Campidoglio e situate ai due lati della fontana alla base del palazzo Senatorio, e la statua dell'imperatore Costantino che si trova nell'atrio della Basilica di San Giovanni in Laterano, e la grande statua della Dea Roma detta della Giustizia che fu collocata nella villa esquilina di Papa Sisto V e che oggi si trova nel parco del castello dei Massimo ad Arsoli.

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    TERME ELENIANE

    TERME ELENIANE

    Le Terme Eleniane, o Thernae Helenianae, o Terme Helenae, furono edificate all'inizio del III secolo d.c., nell'estremo orientale del settore del Celio, all'interno del complesso residenziale severiano del Sessorium, la villa Imperiale di Settimio Severo e rifatte secondo una iscrizione, dopo un incendio tra il 323 e il 326, per iniziativa della madre di Costantino, Elena dalla quale presero il nome.

    Sorgevano nell'area oggi compresa tra Santa Croce in Gerusalemme e Porta Maggiore, attraversata dalla via Sommeiller, ma i loro resti ancora visibili nel Cinquecento, furono completamente smantellati ed interrati al tempo di Papa Sisto V, per la realizzazione di via Felice. Se ne conosce la pianta delle terme Eleniane attraverso i disegni del Palladio e di Antonio da Sangallo il Giovane, queste terme erano una sorta di compromesso tra grandi terme imperiali e i complessi balneari minori.

    A breve distanza da queste terme, si trovava una grande cisterna, probabilmente alimentata da una derivazione dell'acquedotto Alessandrino, formata da due file parallele di sei ambienti ciascuna, in piccola parte occupata nel Medio Evo da una chiesa, i resti delle terme Eleniane si trovano tra via Eleniana e via Sommeiller, quello che si vede è quanto rimane dell'intero complesso.

    C'è una iscrizione commemorativa di queste terme che è conservata in Campidoglio, che dice :
    "La nostra signora Elena, madre augusta del venerabile signore nostro Costantino, e nonna dei nostri felicissimi e fiorentisimi Cesari,(queste) terme, distrutte da un incendio, ripristinò".

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    TERME DI OLIMPIADE

    Le Terme di Olimpiade, Rione Monti, Roma, sono scomparse, erano sul Clivo Viminalis, di queste non se ne ha traccia a parte una lapide su via Clementina.




    TERME NOVATIANE

    Le Terme Novatiane, dette anche Terme Timotine o Timotiane, si possono collocare a via Urbana, Rione Monti, Roma, erano un complesso termale privato fatto edificare, sembra da Novato e Timoteo, figli di Pudente, situate dove oggi vediamo la attuale Basilica di Santa Pudenziana; la valle che separava il colle Viminale dal colle dell'Esquilino, era percorsa un tempo dall'antico vicus Patricius, oggi via Urbana.

    La facciata della chiesa che è oggi al di sotto di quasi 3 m, rispetto al piano stradale, sembra facesse parte di una antica casa romana a due piani del II secolo, parti di questa antica domus, diventata poi "titulus Pudentis", sono visibili nei sotterranei della basilica, e qui si possono vedere anche parti delle terme, che sostituirono la preesistente casa di Pudente, con degli ambienti coperti a volta, e delle gallerie che facevano parte di questo antico impianto termale, sarà poi, su questa struttura termale che verrà edificata nel IV o V secolo, la basilica di S. Pudenziana.

    Questo edificio termale detto Terme Novatiane o Timotiane, era formato da un'ampia aula di 28 m per 10 m, e sembra che corrispondesse alla attuale navata centrale della basilica, era circondata sui quattro lati da una serie di arcate sorrette da colonne, riutilizzate in parte nei pilastri della navata. Nell'aula centrale c'erano una serie di vasche e piscine, sul lato occidentale c'era l'aula delle terme riadattata per l'attuale abisde con il mosaico del V secolo.

    Quando fu edificata la chiesa, le vasche termali vennero riempite e la sala fu pavimentata con mosaici policromi, infatti, sono ancora visibili i segni dei contorni di queste vasche sul pavimento. In seguito, l'impianto termale venne sostituito da un titulus cristiano, come ricorda una iscrizione funeraria di un certo Leopardus, all'interno della basilica di S. Pudenziana, oltre ad un mosaico sempre all'interno della chiesa.

    Oltre alle terme sono stati individuati i resti di una ricca casa repubblicana, queste antiche terme avevano una notevole ampiezza, sembra che Novato non fosse il reale costruttore delle terme ma il capo di un gruppo scismatico presente a Roma nel III secolo, dei cosi detti Novaziani, che sconfitto da Papa Siricio riconsacrò l'oratorio a San Pietro, per cui sulle terme costruite sulla casa Pudente, titulus Pudentis, si sarebbe istallata una comunità eretica contro la quale si scagliò la Chiesa ufficiale, e che successivamente sulle Terme si edificò la Chiesa di Santa Pudenziana oggi Basilica.

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