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APOLLONIA (Albania)

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ACROPOLI DI APOLLONIA
Apollonia è oggi un sito archeologico locato sulla riva destra del fiume Vjosa, nei pressi del villaggio di Pojan, nell'attuale Albania. Apollonia fu una città della Cirenaica, e venne fondata 588 a.c.,  dai coloni Greci di Kerkyra (odierna Corfù) e Corinto, edificata come porto di Cirene, la metropoli greca posta nel nord della odierna Libia.

Sembra che la città si chiamasse in origine Gylaceia, dal nome dal suo fondatore, un certo Glyax, ma in seguito la città venne dedicata al Dio Apollo. Si arricchì poi con il commercio degli schiavi e l'agricoltura, ma soprattutto per il porto.



LA STORIA

- dopo il 513 a.c. - Poichè Apollonia dipendeva dalla città più vecchia, non era un centro molto importante, e seguì il destino di Cirene. Così entrò a far parte dell'impero persiano o achemenide dopo il 513 a.c..
Il luogo era già usato dai commercianti di Corinto e dai Taulanti, una tribù dell'Illiria, che convisse con questo insediamento per secoli a stretto contatto con la civiltà greca.

PIANTA DEL SITO ARCHEOLOGICO (INGRANDIBILE)
365 a.c. - Un terremoto danneggiò la città nel 365 a.c., ma nonostante la distruzione di tanti edifici, Apollonia sopravvisse, e divenne ancor più importante, fino al V secolo (quando cadde nelle mani dei nomadi  Laguatan libici, Synesio di Cyrene descrive questi anni disastrosi nella sua Catastasis).

- 331 a.c. - Dopo che Alessandro Magno ebbe conquistato i persiani nel 331 a.c., Apollonia e Cyrene erano diventate parti dell'impero tolemaico, che venne fondato da uno dei generali di Alessandro, Tolomeo I Soter (367-282). essendo in zone periferiche, le città conservarono molto della loro autonomia.

- 296 a.c. - La città fece parte dei domini di Pirro (318 a.c. – 272 a.c.), re dell'Epiro tra il 306 e il 300 a.c. e tra il 298 e il 272 a.c. Fu uno dei più temibili antagonisti della Repubblica romana e fu uno dei migliori condottieri alessandrini, tanto che Annibale lo ritenne il più astuto degli strateghi. Avendo sposato nel 296 a.c. Lanassa, figlia di Agatocle, re di Siracusa, che gli portò in dote Corcira con annessa Apollonia, ne ricevette il dominio.

- 229 a.c. - la Cyrenaica venne integrata nella repubblica romana e Apollonia divenne un municipio indipendente da Cirene, sua antica padrona.


- 168 a.c. - Apollonia venne occupata dall'ultimo re degli Illiri, Genzio, che tuttavia venne sconfitto poco dopo dai Romani insieme all'alleato macedone Perseo, re di Macedonia. 

- 148 a.c. - Apollonia divenne parte della provincia romana di Macedonia, più tardi incorporata nella provincia romana dell'Epiro. 

- 48 a.c. - Durante la guerra civile tra Pompeo Magno e Cesare Apollonia si schierò dalla parte di Cesare, ma si consegnò a Marco Giunio Bruto, uno degli assassini di Giulio Cesare, nel 48 a.c.

- 44 a.c. - Il futuro imperatore romano Augusto compì alcuni studi in Apollonia nel 44 a.c. con il maestro Atenodoro di Tarso, e qui ricevette la notizia che il patrigno, Cesare, era stato assassinato.
Apollonia fiorì sotto l'impero romano come ci racconta Marco Tullio Cicerone nelle sue Filippiche, definita "magna urbs et gravis", vale a dire grande ed importante città.

- III secolo - qui iniziò il suo declino, quando un terremoto cambiò il corso del fiume Voiussa, causando al porto problemi di navigabilità e nelle zone circostanti casi di malaria. In quest'epoca vi si insediò il cristianesimo.

LE TERME
- 404 - La Catastasi, o Caduta della Cirenaica, è un lungo lamento sulle incursioni nomadi che avevano destabilizzato la regione dal 404 circa. Synesius scrisse questo testo, forse non per pubblicarlo, probabilmente per un discorso alla corte imperiale. 

- 411 -  La Catastasi fu composta dopo un intervento militare del generale Anysius e della sua unità di Unnigardae, che aveva offerto ai Cirenaici una tregua nel 411.

- 431 - 451 d.c. - L'arcivescovo di Apollonia presenziò il Concilio di Efeso del 431 e quello di Calcedonia del 451. Ma la città cominciò a svuotarsi in questo periodo per il continuo e progressivo sviluppo della vicina città di Valona, divenuta ora più importante. La città ridusse sempre di più la sua popolazione.

- Intorno al 300 - Apollonia divenne capitale di una nuova provincia, la Libia Superiore, creata dall'imperatore Diocleziano (284-305). Fu ribattezzata Sosouza ("salvatrice"), probabilmente in onore di una Dea qui venerata, probabilmente Iside. Il capo militare della regione, il dux, costruì il suo palazzo in città e ricostruì le mura originali del III secolo a.c..

La città venne riformata durante l'Ananeosis ("rinnovamento") ma alla fine conquistata dagli arabi, fu abbandonata nel Medioevo, ma reinsediata nel 1897 con i profughi musulmani di Creta, che la chiamarono Susa (da Sosouza).

L'ODEON

GLI SCAVI

Il primo a rendersi conto della localizzazione dell'antica Apollonia fu Ciriaco d'Ancona (1391- 1452), archeologo, umanista, epigrafista e viaggiatore italiano, considerato il padre dell'archeologia, che ne descrisse nel 1435 i resti e le iscrizioni.

«Spinto da un forte desiderio di vedere il mondo, ho consacrato e votato tutto me stesso, sia per completare l'investigazione di ciò che ormai da tempo è l'oggetto principale del mio interesse, cioè le vestigia dell'antichità sparse su tutta la Terra, sia per poter affidare alla scrittura quelle che di giorno in giorno cadono in rovina per la lunga opera di devastazione del tempo a causa dell'umana indifferenza…»
(Ciriaco d'Ancona)

La città fu poi "riscoperta" con il movimento del Neoclassicismo europeo del XVIII secolo, benché non fu indagata da archeologi austriaci prima dell'occupazione del 1916-1918. I primi scavi furono seguiti da un'équipe francese negli anni 1924-1938 e parte del sito fu danneggiato durante la II guerra mondiale. 

Dopo la guerra nuovi scavi furono condotti da esperti albanesi a partire dal 1948, benché molto del sito archeologico non sia stato ancora scavato ai giorni nostri. Molti degli oggetti trovati sono stati trasportati nel museo della capitale, Tirana. Durante il periodo di anarchia che seguì la fine della dittatura in Albania nel 1990, molti dei beni archeologici, manufatti e rovine, furono trafugati per essere venduti a ricchi mercanti e collezionisti occidentali all'estero.



I MONUMENTI

Fuori della cinta urbana, un km a ovest, sul rilievo di una piccola collinetta, è possibile vedere ben conservata la piattaforma di un tempio dorico di m 31,39 × 17,30. Le misure hanno permesso di ricostruire idealmente 6 colonne in facciata e 16 nei lati lunghi. 

Oltre ai tagli nella roccia, sono stati trovati sul posto alcuni frammenti architettonici, tra cui un capitello dorico con l'echino molto teso. L'echino è un elemento dei capitelli dorico e ionico, a profilo convesso verso l'alto, posto sotto l'abaco (la parte piatta sopra le volute del capitello).

Gli scavi di Montet hanno portato alla luce un frammento di altare con una dedica ad Atena e Ares, databile alla prima metà del V sec.; manca però ogni indicazione sulla originaria ubicazione dell'altare e del relativo santuario.

IL TEATRO

IL TEATRO

Il teatro di Apollonia si trova a est della città, appena fuori dalle mura. Fu costruito nel III secolo a.c. ed è uno dei monumenti più antichi di Apollonia. All'epoca non era così vicina al mare come lo è oggi; il rumore delle onde era probabilmente molto distante; le ventotto gradinate di posti a sedere sono ancora presenti.

Durante il regno dell'imperatore romano Domiziano (81-96) fu aggiunto un muro al palcoscenico. e venne costruito un muretto che circondava l'orchestra (lo spazio semicircolare di fronte al palcoscenico); questo suggerisce che il teatro sia stato ora utilizzato anche per le gare di gladiatori. 

Nel 365, Apollonia soffrì molto a causa di una grande onda di marea, e il teatro fu improvvisamente molto più vicino al mare. Il rumore delle onde deve aver reso impossibile una normale rappresentazione, e il muro del palcoscenico fu demolito nel V secolo, per riutilizzare le colonne della Basilica Orientale.

LE TERME

LE TERME

Le Terme vennero edificate durante il regno dell'imperatore Adriano (117-138). Probabilmente la corte, che è il cuore delle terme, è il peristilio di una casa più antica. Molte case greche di età ellenistica vennero costruite intorno ad un cortile-giardino, come la Villa del Mosaico delle Quattro Stagioni a Ptolemais e la Villa di Giasone Magno a Cirene.

Ancora oggi si può vedere il cortile, un tempo circondato da colonne corinzie, che doveva essere utilizzato da chi faceva gli esercizi sportivi (palaestra). Sono visibili anche le terme vere e proprie, che erano ancora in uso nel IV secolo.

L'ingresso originale doveva essere a nord, dove si trovava la strada principale di Apollonia fino a quando, nel 365, un grande maremoto distrusse gran parte della città. Dopo di che, le Terme furono abbandonate; sembra che la gente abitasse nel vecchio monumento.

PAVIMENTO DELLA BASILICA

LA BASILICA OCCIDENTALE

La basilica risale al 500 - 600 d.c. , ha l'ingresso a est e l'abside a ovest, ed è stata ricavata da una torre della cinta muraria. Al suo interno è stato reperito un Battistero tipico dell'epoca, che era comunemente usato nei primi periodi del cristianesimo come simbolo del rito del battesimo di Gesù nelle acque del Giordano.

BASILICA CENTRALE

LA BASILICA CENTRALE

La Basilica Centrale era la chiesa principale di Apollonia; è citata nel Sinesio di Cirene e deve quindi risalire almeno al IV secolo d.c. L'abside si trova nella parte orientale di questa basilica e l'ingresso è posto a occidente.

Oggi sono visibili il cortile, le tre navate e l'abside; l'ubicazione dell'altare è riconoscibile perché sono ancora in piedi quattro colonne, che un tempo sostenevano un baldacchino. Dietro l'abside c'era un battistero, il fatto interessante è che accanto ad esso c'era un forno per scaldare l'acqua del battesimo.

Le pareti della chiesa sono di scarsa qualità, il che è strano, perché alcune colonne di marmo e parti dei mosaici dovevano essere molto costose. Ma i mosaici sono incompleti e alcune colonne non sono di marmo. 

Si pensa che gli abitanti fossero riusciti ad ottenere un carico di materiali da costruzione ma non c'erano più gli abili costruttori romani di una volta. La chiesa fu a quel che sembra distrutta intenzionalmente: le colonne sono indeterminate nella loro provenienza.

BASILICA ORIENTALE

BASILICA ORIENTALE

Edificata nel V secolo, la Basilica Orientale è una delle chiese più antiche nel mondo ad essere stata costruita a forma di croce.

Venne eretta sopra un edificio più antico del I secolo a.c., il che spiega come mai l'entrata sia a nord: si entra in questa chiesa dalla strada principale.

Un'iscrizione suggerisce che la struttura più antica fosse un tempio, dedicato al Dio Apollo.

Pertanto le basi della colonna di granito rosa sono spolia di questo santuario.

Le colonne di marmo cipollino, d'altra parte, non erano certamente del vecchio tempio; sono stati rimossi dal teatro. 

Originariamente importato da Eubea alla fine del primo secolo, erano originariamente utilizzati nella parete del palcoscenico.

Dopo che il maremoto di 365 aveva reso impossibile l'uso del teatro, le colonne furono riutilizzate in questa chiesa.

La chiesa aveva alcuni interessanti mosaici del VI secolo, alcuni dei quali si trovano ora nel museo. Altri possono essere visti nel transetto meridionale e nell'abside

LE MURA

LE MURA

Apollonia venne fondata come porto di Cyrene, il che significa che non era il sito principale che, in caso di emergenza, doveva essere difeso. La cortina muraria è scandita ad intervalli di circa 60 m da torri aggettanti (ne rimangono 19) normalmente rettangolari, con la sola eccezione di due circolari ad occidente.

Delle porte che si aprivano nelle mura, conosciamo soltanto quella occidentale, mentre ogni torre è munita di una posterula. Le mura di Apollonia non possono essere anteriori al IV sec. a.c., in quanto tombe di questo periodo sono state ritrovate sotto il circuito murario.

Esse quindi dovrebbero datare all'età ellenistica, quando anche altre città cirenaiche furono munite di difesa. Sono molto ben conservate, soprattutto nella parte sud-est, anche se non è sempre facile riconoscere le porte.

IL PALAZZO

IL PALAZZO

Il palazzo risale al 300 a.c. Nella prima foto si può osservare uno dei cancelli che dava accesso alla corte centrale.

Come si può vedere, una croce è stata tagliata nella pietra sopra questa porta, a testimoniare che il cristianesimo era diventata religione di stato, soppiantando qualsiasi altro culto.
La croce è dunque il ricordo della cristianizzazione dell'impero romano durante il regno di Costantino il Grande (regno 306-337) e di suo figlio Costanzo II (regno 337-361).

Il palazzo un tempo aveva due piani, ma ne rimangono solo le stanze al piano terra, dove il governatore riceveva i suoi ospiti. 
Vicino a questo monumento c'erano due grandi ville, che probabilmente erano utilizzate come annesso al palazzo.

Apollonia divenne particolarmente importante nel V secolo, quando poi l'interno fu abbandonato ai nomadi laguatani (Sinesio di Cirene descrive questi anni disastrosi nella sua Catastasi). 
Il porto rimase una delle ultime basi delle truppe bizantine e il palazzo del dux doveva essere uno degli edifici militari più importanti della Cirenaica.

TERME E PORTO

IL PORTO

Il porto di Apollonia è stato costruito intorno a due o tre porti naturali, che sono scomparsi sotto le onde nel 365 d.c., quando un gigantesco maremoto ha distrutto le coste dell'Africa settentrionale. Sembra che il porto interno - che era circondato da banchine e magazzini - fosse utilizzato per le navi da guerra, e il porto esterno per le navi mercantili. 

Nella parte orientale c'erano un grande molo e un faro. Questo molo e il porto esterno sono stati costruiti dai Romani; il porto interno invece sembra essere greco. Nel 1987 è stata scoperta una piccola nave (lunga tredici metri), i cui resti si trovano ora nel museo di Sousa.


LA BATTAGLIA DI SABIS (57 a.c.)

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Così famosa divenne questa guerra di Cesare, che le popolazioni che abitavano al di là del Reno inviarono ambasciatori promettendo di consegnare ostaggi e di eseguire gli ordini.
Per quelle imprese conosciute a Roma dalle lettere di Cesare furono decisi festeggiamenti pubblici di ringraziamento che durarono quindici giorni, cosa che prima di quel tempo non era accaduto per nessuno. 

Cesare allora si affrettò a rinforzare le difese dell'oppidum e attaccò la tribù dei Nervi; la scarsa coordinazione delle forze alleate fece sì che l'unione collassò, e gli eserciti tribali ritornarono ciascuno alle proprie terre, dove vennero sconfitti singolarmente e assoggettati dai Romani.

Le quattro tibù dei Nervi, degli Atuatuci, degli Atrebati e dei Viromandui si rifiutarono però di arrendersi. Nell'inverno 58-57 a.c., queste notizie gli furono utili per estendere le proprie conquiste al di là della Gallia vera e propria, per assoldare altre due legioni, la XIII e la XIIII, e per convincere la tribù dei Remi (popolo della Gallia Belgica meridionale, oggi Reims) ad allearsi con lui.

Per rappresaglia, le tribù belgiche e celtiche attaccarono Bibracte, l'oppidum dei Remi, per attirare allo scoperto Cesare; questa alleanza includeva le tribù dei:

- Bellovaci, della Gallia Belgica nord orientale, con 60000 uomini;
- i Suessioni, una tribù che viveva tra i fiumi Oise e Marna, con 50000 uomini;
- i Nervii, la più potente tribù della Gallia Belgica, che viveva nell'area del fiume Schelda;
- gli Atrebati, tribù belgica della Gallia e della Britannia di origine germanica, con 15000 uomini;
- gli Ambiani, tribù celtica della Gallia Belgica con 10.000 uomini;
- i Morini, tribù celtica di origine germanica, con 25000 uomini;
- i Menapi, tribù celtica che viveva nella zona dell'estuario del Reno e verso sud lungo la Schelda, fino alle Ardenne, con 7000 uomini;
- i Caleti, tribù gallica che occupava l'attuale regione del Pays de Caux e Pays de Bray, con 10000 uomini;
- i Veliocassi, popoli armoricani, stanziati presso il Vexin, con 10000 uomini;
- i Viromandui, che occupavano l'area del dipartimento francese dell'Aisne, nella Piccardia, con 10000 uomini;
- gli Atuatuci, discendenti da Cimbri e Teutoni, stanziati nel territorio a nord della Mosa con 10000 uomini;
- i Condrusi, popolo formato da discendenti sia germanici che celti;
- gli Eburoni, popolo di origine germanica che praticava sacrifici umani e viveva tra il Mosa e il Reno;
- i Ceresi, popolazione germanica che fornì 40000 uomini;
- i Pemani, popolo celto-germanico insediato nelle Ardenne;

Tutti sotto il comando di Galba, re dei Suessioni, definito da Cesare giusto e saggio, a cui venne offerto il comando delle tribù belgiche per contrastare gli invasori Romani.



FORZE IN CAMPO

Repubblica romana - Gaio Giulio Cesare
Otto legioni: VII, VIII, VIIII Triumphalis, X, XI, XII, XIII, XIIII
Ausiliari, arcieri e cavalleria
Totale: circa 40.000

Alleanza belgica - Boduognato
Eserciti alleati: Nervi, Viromandui, Atrebati
Totale: 85.000

Le legioni di Cesare marciarono ininterrottamente per tre giorni nel territorio dei Nervi, ricevendo continui rapporti sulle loro posizioni. Cesare portò avanti le sei legioni veterane, mentre le due nuove legioni (la XIII e la XIV) erano di guardia ai bagagli. Le forze romane si rifocillarono e contemporaneamente cominciarono a costruire il castrum a nord-est del fiume Sabis su una collina. Ad ovest del fiume c'era un altro colle coperto di boschi e qui si appostarono i Belgi.

FASE 1 (INGRANDIBILE)
La cavalleria insieme a frombolieri ed arcieri ausiliari di Cesare attraversò il corso d'acqua, che era profondo meno di un metro, per ottenere informazioni sulla disposizione del nemico e per ingaggiare battaglia con la cavalleria dei Belgi, la quale si ritirò tra i boschi, ma ogni tanto ne usciva e attaccava di nuovo i Romani, per ritirarsi ancora tra gli alberi, era guerriglia, il forte dei barbari ma non dei romani.

Le forze belgiche, sotto il comando di un certo Boduognato (De Bello Gallico 2, 23), erano composte soprattutto dai Nervi, dai Viromandui e dagli Atrebati, in quanto gli Atuatuci erano ancora in marcia, e non fecero in tempo a giungere sul luogo della battaglia prima della sua fine. Si erano disposti sulla riva sud del fiume, al riparo degli alberi e si preparavano all'attacco.



L'ATTACCO DEI BELGI

La campagna militare di Cesare si svolse nella foresta di Compiègne, (che verrà in seguito parzialmente coltivata al tempo dei Romani come mostrano le numerose vestigia gallo-romane).in un'area che era stata occupata dai Suessioni e che i Bellovaci volevano conquistare, una situazione che Cesare temeva.

FASE 2 (INGRANDIBILE)
I Bellovaci misero in atto una strategia di guerriglia, cercando di colpire soprattutto i rifornimenti romani, a cui Cesare rispose cercando di portare i nemici allo scontro campale, dove era molto più forte potendo usare le sue strategie.

«Intanto le sei legioni, che erano giunte prime, tracciarono la pianta e cominciarono a fortificare il campo. Quando i nemici, che erano nascosti nei boschi, videro le salmerie romane... poiché dentro ai boschi si erano disposti già in ordine di battaglia... all'improvviso con tutte le truppe mossero in avanti di corsa ed attaccarono la cavalleria romana. Respinti e sbaragliati questi senza difficoltà, i Belgi con grande rapidità scesero di corsa al fiume, tanto da apparire contemporaneamente nei boschi, al fiume ed a combattere contro i nostri. E con identica rapidità mossero per il colle di fronte dove si trovava il nostro campo e verso quelli che erano impegnati a costruirlo

(Cesare, De bello Gallico 2.19.)

FASE 3 (INGRANDIBILE)
Dopo aver attraversato il fiume, che in quel punto era profondo solo tre piedi (poco meno di 1 metro), i Belgi caricarono su per la collina contro le legioni che stavano preparando il campo e che non ebbero, quindi, il tempo di disporsi in assetto da battaglia.

I Romani, infatti, iniziarono a combattere mentre alcuni di loro non avevano ancora indossato l'elmo o imbracciato lo scudo. I legionari prendevano posizione nello schieramento casualmente di fianco alle insegne più vicine, dove si trovavano meno distanti dal luogo in cui, poco prima, stavano costruendo il campo.



L'ACCAMPAMENTO ROMANO IN PERICOLO

Sul lato sinistro dello schieramento romano, i soldati della IX e X si trovarono a fronteggiare gli Atrebati, i quali furono, però, ricacciati oltre il fiume dopo un fitto lancio di giavellotti. I legionari, passato il Sabis inseguirono il nemico in fase di ritirata e ne fecero grande strage. Egualmente anche le legioni VIII e XI che si trovavano al centro dello schieramento, sbaragliarono i Viromandui lungo le rive del fiume.
FASE 4 (INGRANDIBILE)
Invece le legioni VII e XII, rimaste da sole a difesa del campo romano, vennero attaccate da più parti dai Nervi, la parte più consistente dello schieramento avversario che miravano alle salmerie.

In questa confusione totale, dove per poco la parte destra dello schieramento romano non fu completamente travolta dall'avanzata dei Nervi, solo la ferrea disciplina delle legioni e dei loro ufficiali, salvarono il generale romano da una disfatta. Ma accade un altro fatto increscioso: 
«I cavalieri dei Treviri [alleati dei Romani] turbati per questi fatti, i quali erano stati mandati dal loro popolo per portare aiuto a Cesare, avendo visto il campo romano riempirsi di molti nemici, con le legioni incalzate e quasi accerchiate, le salmerie, i cavalieri, i frombolieri, i Numidi, sparpagliati qua e là, che fuggivano da ogni parte, considerando persa la battaglia da parte dei Romani, presero la via di casa, annunciando al loro popolo che i Romani erano stati cacciati e vinti ed i nemici si erano impadroniti di campo e salmerie romane.» 
(Cesare, De bello Gallico 2.24.)

La legione VII e la XII, anche se quasi circondate, continuarono a combattere disperatamente per la propria sopravvivenza, mentre le legioni XIII e XIV si avvicinavano il più rapidamente possibile al teatro della battaglia.
GIULIO CESARE

CESARE VINCITORE

Cesare, dopo aver esortato la legione X, si recò all'ala destra dello schieramento romano, dove i soldati della legione XII erano incalzati dai Nervi. 

«[Cesare] riunite le insegne della XII legione, i soldati accalcati erano d'impaccio a se stessi nel combattere, tutti i centurioni della quarta coorte erano stati uccisi ed il signifer era morto anch'egli, dopo aver perduto l'insegna, quasi tutti gli altri centurioni delle altre coorti erano o feriti o morti mentre i nemici, pur risalendo da posizione da una posizione inferiore, non si fermavano e da entrambi i lati incalzavano i Romani. 
FASE 5 (INGRANDIBILE)
Cesare vide che la situazione era critica, tolto lo scudo ad un soldato delle ultime file, avanzò in prima fila e chiamati per nome i centurioni, esortati gli altri soldati, ordinò di avanzare con le insegne allargando i manipoli, affinché potessero usare le spade. 

Con l'arrivo di Cesare ritornata la speranza nei soldati e ripresi d'animo desiderarono, davanti al proprio generale, di fare il proprio dovere con professionalità, e l'attacco nemico fu in parte respinto. 

Cesare avendo poi visto che anche la legione VII era incalzata dal nemico, suggerì ai tribuni militari che a poco a poco le legioni si unissero e marciassero contro il nemico voltate le insegne. Fatto questo, dopo che i soldati si soccorrevano vicendevolmente senza più aver paura di essere presi alle spalle dal nemico, cominciarono a resistere con maggior coraggio e a combattere più valorosamente. Frattanto le due legioni che erano state nelle retroguardie e di scorta alle salmerie [le legioni XIII e XIV] giunta notizia della battaglia, presero a correre a gran velocità. 
Tito Labieno dopo aver occupato il campo nemico, e visto quanto accadeva nel nostro campo da un'altura, mandò in soccorso ai nostri la legione X.» 

(Cesare, De bello Gallico 2.25-26.)

Con l'arrivo alle spalle dell'esercito dei Nervi della formidabile Legio X e dei rinforzi che erano stati fino a quel momento a guardia delle salmerie, i Romani presero il sopravvento, e sebbene i Nervi combattessero con coraggio e ostinazione, furono completamente massacrati. 
Cesare narra che al termine della battaglia dei 60.000 Nervi, ne rimasero in vita solo 500. Gli Atuatuci, venuti a sapere della sconfitta subita dai loro alleati, si ritirarono tutti insieme in una sola città fortificata dalla natura del luogo: l'oppidum di Namur.

Cesare prenderà poi anche la città di Namur,  vincerà anche presso il fiume Axona nel corso della stessa campagna del 57 a.c., e Boudogneto gli chiederà la resa, ottenendo  il pieno controllo dell'attuale Belgio.



BIBLIO

- Gaio Giulio Cesare - De bello Gallico - 2 -
- Turquin, Pierre - La Bataille de la Selle (du Sabis) en l'An 57 avant J.-C. - Les Études Classiques - 1955 -
- Napoleone III - Histoire de Jules César - vol. II -  Parigi - 1865-1866 -
- Ernest Desjardins - Géographie historique et administrative de la Gaule romaine - Paris - 1876 -
- Auguste Longnon - Études sur les pagi de la Gaule - Paris - 1869 -

IL TESORO DI BOSCOREALE

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Il tesoro di Boscoreale è un reperto composto di 108 pezzi d’argento trafugati illegalmente dall’Italia e acquistati da diversi collezionisti privati francesi, che poi li donarono al Museo del Louvre di Parigi. Sembra una storia di epoca napoleonica ma è un fatto accaduto molto più di recente, fra la fine del XIX e l’inizio del XX secolo, quando già l’Italia era una nazione riconosciuta e sovrana da oltre 3 decenni.

IL TESORO AL COMPLETO (INGRANDIBILE)
Il tesoro di Boscoreale è composto da opere d’arte che vanno dal IV Secolo avanti Cristo al I Secolo, ed è considerato uno degli esempi più magnifici di arte Romana.

Il barone Edmond James de Rothschild, banchiere francese, acquistò gran parte della collezione a più riprese per oltre mezzo milione di franchi, e così fecero altri collezionisti privati che, diventando ricettatori d’arte, acquistarono a buon prezzo delle opere d’arte di valore inestimabile e che la legge destinava alla proprietà dello stato.

Vincenzo de Prisco, proprietario insieme ai fratelli del terreno, era un funzionario del Ministero delle Finanze e, anche se processato per la trafugazione illegale delle opere d’arte, se la cavò con una pena ridicola a paragone del danno causato: gli venne imposto di cedere gratuitamente tutte le opere restanti del tesoro di Boscoreale, di valore infinitamente inferiore rispetto ai 108 pezzi ormai di proprietà del Louvre.

I GIOIELLI
Vincenzo de Prisco in realtà si era già arricchito e l'Italia si era già impoverita di un così favoloso tesoro. Noi ogni tanto restituiamo beni archeologici (vedi la Venere con Cupido o l'obelisco di Dogali) ma nessuno mai ne restituisce all'Italia, seppure trafugati illegalmente.

Il Louvre è pieno delle nostre opere d'arte, si dice che se togliessero le pere italiane al Louvre, il museo dovrebbe chiudere i battenti. Ma si può dire anche del Metropolitan.

E non fu un'assenza di leggi perchè le leggi c'erano, ma fu una questione di corruzione, tanto per cambiare. Ancora oggi molti musei italiani, a cominciare da quello di Napoli, non hanno un catalogo delle opere che giacciono nei loro magazzini. Un metodo splendido per vendere le opere all'estero senza  che nessuno lo venga a sapere.

Comunque la storia del tesoro di Boscoreale andò così, ce ne parla il giornalista Francesco Servino:


"Il 9 Novembre 1876, il cavalier Luigi Modestino Pulzella rinvenne, durante lo scavo delle fondamenta di un muro di cinta nel proprio fondo in via Settetermini alla Pisanella, a Boscoreale, delle stanze che poi si riveleranno essere il quartiere rustico della villa di Cecilio Giocondo, altrimenti detta 'Villa del Tesoro'.

Sfortunatamente, il cavaliere non poté continuare l’esplorazione della villa perchè essa si estendeva nella proprietà del suo vicino, l’avvocato Angelo Andrea (o Angelandrea) De Prisco, capostipite di una nota famiglia di Boscoreale.

Il 10 Settembre 1894, il figlio di Angelo Andrea, Vincenzo De Prisco, che aveva ereditato quel pezzo di terra dal padre, decise di effettuare per conto suo degli scavi che portarono alla luce il complesso di una grande casa di campagna con stanze di soggiorno, bagni, depositi per la fabbricazione e la conservazione del vino e dell’olio e un locale per la spremitura dell’uva. 


Un edificio rimasto inalterato nel tempo per quasi due millenni: tutto era al suo posto, suppellettili, mobili e vasche da bagno in bronzo con protomi leonine. Nel cortile dei torchi vennero alla luce tre scheletri umani, fra cui quello di una donna, probabilmente la padrona di casa, che portava splendidi orecchini in oro e topazi. 

Nella cucina è stato invece rinvenuto lo scheletro di un cane morto, attaccato alla catena, il cui calco è custodito nel vicino museo Antiquarium. Tutto in quella casa, la disposizione degli oggetti e la posizione dei morti, permetteva di ricostruire esattamente le ultime ore che vi erano state vissute. Ma la scoperta più sensazionale ebbe luogo a Pasqua, il 13 Aprile del 1895.

Come raccontato dall'ufficiale austriaco e storico Egon Caesar Conte Conti nel volume “Untergang und Auferstehung von Pompeji und Herculaneum” (“Caduta e Resurrezione di Pompei e Ercolano”), “alla vigilia del giorno festivo, gli operai già avevano lasciato i lavori, e sul posto erano rimasti solo alcuni uomini per ultimare lo sgombero di due cunicoli che immettevano nella cella vinaria, quando uno di essi, un certo Michele, spintosi in fondo allo stretto corridoio, ritornò dicendo che il locale era saturo di esalazioni velenose e non si poteva respirare. 


Naturalmente nessuno ebbe voglia di esporsi a quel pericolo e il sorvegliante diede senz’altro ordine di sospendere per il momento il lavoro. Tutti se ne andarono, ma Michele, appartandosi dagli altri, corse invece dal proprietario del fondo.

“Signore” – gli disse – “il cellaio del vino è completamente vuoto, ma sul pavimento ho visto un morto in mezzo a dei meravigliosi vasi d’argento, bracciali, orecchini, anelli, una doppia catena d’oro e un sacco zeppo di monete pure d’oro“. Il padrone gli ordinò di non aprir bocca e lo persuase a rimanere con lui quella notte. 

Appena cadute le tenebre, i due, muniti di lanterne e di ceste, scesero nel sotterraneo e rimasero col fiato mozzo dinanzi a una vera profusione di oggetti preziosi, sparpagliati intorno ad uno scheletro disteso per terra, sulla faccia e sulle mani. 


Oltre a moltissimi vasi d’argento splendidamente lavorati, c’era un sacco di cuoio dall'iscrizione ancora visibile, il quale conteneva la bellezza di mille nummi d’oro che recavano l’effige di tutti gli imperatori susseguitisi da Augusto a Domiziano, fino al 76 d.c.

Alcuni erano del tempo di Galba, Otone e Vitellio, quindi rarissimi, perché questi tre monarchi non avevano regnato che pochi mesi ciascuno. I pezzi dell’epoca augustea e tiberiana erano più consumati, ma quelli dell’epoca neroniana, 575 in tutto, erano praticamente nuovi, fiori di conio. 

Gli oggetti d’oro erano naturalmente inalterati, mentre i vasi d’argento si erano ricoperti di una spessa patina scura. I due fortunati inzepparono le ceste e si affrettarono a trasportare il tesoro in un nascondiglio sicuro, ripromettendosi di venderlo a un prezzo vantaggioso all'estero, in barba alle leggi italiane che vietavano l’esportazione di oggetti antichi. 


Michele fu ricompensato a dovere e, dopo qualche tempo, ricevette una seconda vistosa gratificazione, come premio al suo silenzio. Ne fu così contento, che andò all'osteria e si ubriacò. Ahimè!, nei fumi del vino la lingua gli si sciolse ed egli raccontò per filo e per segno la bravata della scoperta“.

La notizia del ritrovamento in breve tempo si sparse e le autorità aprirono un’inchiesta. Ci fu pure un’interpellanza parlamentare ma il tesoro aveva già oltrepassato i confini, trasportato oltralpe da due antiquari napoletani (i fratelli Canessa): 117 pezzi di argenteria e il sacco con le preziose monete non erano più in Italia. 

Nessun personaggio – a partire dagli operai incaricati dello scavo, fino al Ministro dell’Istruzione e al procuratore generale della Corte d’Appello – fu in grado o volle produrre prove concrete contro il proprietario del fondo in cui era stata fatta la scoperta: Vincenzo De Prisco.



Dapprima i pezzi furono offerti al museo del Louvre per la somma complessiva di mezzo milione di franchi, poi, avendo il museo fatto una controfferta di 250 mila franchi, pagabili in cinque rate annue, le trattative furono interrotte e gli oggetti furono acquistati dal barone Edmond James de Rothschild, membro francese di una delle ancora oggi più potenti dinastie europee, che tenne per sè alcuni pezzi tranne 109 di argenteria e la totalità delle monete donati al celebre museo di Parigi.

Fra l’argenteria ritrovata a Boscoreale di particolare interesse sono due coppe, dette “degli scheletri” per le raffigurazioni che riportano: si tratta di un “modiolus” ad una ansa, in argento parzialmente ricoperto d’oro e del peso di quasi 500 grammi l’una, fabbricate al tempo di Alessandro Magno e che richiamano al senso effimero della vita che va vissuta godendo. 

Le scritte, in greco, accompagnano diverse scene che ritraggono il poeta tragico Sofocle, il poeta e filosofo platonico Mosco e l’epicureo Zenone; su una delle coppe sono presenti gli scheletri di Euripide, di Menandro e del poeta cinico Monimo. 


Le incisioni riportano: 

Godi finché sei in vita, il domani è incerto”; 
La vita è un teatro”; 
Goditela finché sei vivo”; 
Il piacere è il bene supremo”. 

Espressioni che rimandano alla concezione epicurea evidentemente diffusa all'epoca: 
Godi finché vivi, poiché il domani è incerto. La vita è una commedia, il godimento il bene supremo, la voluttà il tesoro più prezioso: sii lieto, finché sei in vita”. 
Gli scheletri ammonivano: 
Guarda quelle lugubri ossa, bevi e godi finché puoi: un giorno anche tu sarai così”.

Secondo fonti familiari dei De Prisco, la legislazione dell’epoca in materia di ritrovamenti archeologici era decisamente lacunosa e faceva sì che chi a quei tempi possedesse un fondo era proprietario di tutto quello che si trovava al suo interno, ivi compreso il sottosuolo. 



Pare che lo Stato italiano non volle o non poté acquistare quegli oggetti. Forse un’Italia unita da troppi pochi anni non disponeva di una legislazione unificata ed efficace nella tutela dei beni culturali.

La Villa della Pisanella fu distrutta dell’eruzione del 79 d.c. e sepolta sotto strati di ceneri. Di quell'area tanto fertile in età romana non rimaneva, nel Medioevo, che un esteso bosco. Un bosco “reale”, da cui il nome della cittadina, in quanto preferito dai Re Angioini per la pratica della caccia.

Una vecchia diatriba, quindi, è alla base dell'”esportazione” che qualcuno definisce clandestina del magnifico tesoro boschese ma che, secondo i discendenti di De Prisco, è dovuta a qualche incauto funzionario ministeriale che non reputò degna di considerazione l’iniziale offerta di vendita del tesoro.

Comunque sia, a Vincenzo De Prisco si deve l’importanza di taluni altri scavi: carico dell’importantissimo ritrovamento e, si suppone, delle possibilità di ulteriore guadagno, De Prisco riportò alla luce pure la villa di Publio Fannio Sinistore in via Grotta a Boscoreale, caratterizzata da bellissimi affreschi megalografici (a grandezza naturale) che ripropongono la reale ambientazione dell’epoca. 


Una residenza nobile, con grandi camere affrescate nel cosiddetto II stile pompeiano. Da questa villa provengono gli splendidi dipinti ora conservati al Metropolitan Museum di New York (affreschi dall’esedra, dal cubiculum e dal grande triclinio), al Museo Archeologico Nazionale di Napoli (affreschi dal triclinio e dal grande triclinio), al Louvre di Parigi (affreschi dal triclinio) ed al Museo di Mariemont, in Belgio (affreschi dal triclinio e da altre stanze).

di Francesco Servino
(giornalista e attivista italiano noto per la sua difesa del Parco Nazionale del Vesuvio e dei siti archeologici dell'area vesuviana)

La beffa per il popolo italiano non finì con l’espatrio illegale del tesoro e la sua acquisizione da parte del Louvre. Vincenzo De Prisco, dopo esser stato assolto e punito blandamente per la trafugazione illegale del tesoro all'estero, venne addirittura eletto Deputato del Regno d’Italia.

Ora qualcuno dice che gli alti funzionari che lo elessero nulla sapessero della fuga del tesoro al Louvre, ma è impossibile da credere, lo sapevano come si sapeva in Italia delle 70 statue italiane vendute illegalmente all'estero quando già erano esposte nei nostri musei, vedi la statua di Vibia, la Morgentina ecc. ma non solo nessun direttore di museo ne rispose, ma di quelle 70 ne sono tornate solo 40 in Italia.

Come avevano fatto a trafugarle? Solo la statua di Vibia era alta m 4,50 che pesava svariate tonnellate, come avevano fatto a rubarla, se la sono messa sotto braccio?

LUCUS FURRINAE

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IL BOSCO SACRO

I NUMI DEL LUCUS

Gli antichi romani, ritenevano che i boschi fossero abitati soprattutto da ninfe e satiri. Le ninfe erano fanciulle giovani e belle che vivevano in mezzo alla natura, simboli della forza vitale della natura nelle sue manifestazioni più piacevoli e amichevoli verso l’uomo; alcune ninfe erano immortali, altre mortali ma dotate di una vita molto lunga. Eleganti, flessuose, vestite di lunghe tuniche a velo, oppure nude, spesso si divertivano improvvisando danze e giochi, o intrecciando storie d’amore con Dei, satiri e pure uomini.

Furono adorate moltissimo dalla popolazione, ma non in pubblico; si facevano alle ninfe offerte in privato (latte, miele, olio, ghirlande di fiori) per ottenere la loro benevolenza. Si ponevano le offerte su una pietra o dentro un circolo di pietre raccolte nel bosco. Le ninfe avevano il potere di indovinare il futuro, erano ispiratrici, guaritrici, e offrivano protezione alle donne durante il parto. Anche quando i boschi vennero dedicati alle divinità il culto continuò, ma sempre privatamente.



DETTO ANCHE LUCUS FURINAE

Fu un bosco sacro posto in Trastevere. La Dea Furina (o Furrina), fu una delle più antiche divinità romane, come si comprende da Varrone che menziona il flamine della Dea Furina insieme ad altri flamini antichissimi, quali il Palatualis ed il Vulturnalis.

Il Lucus Furrinae, detto anche Lucis Furrinae, era collocato sulle pendici del Gianicolo in corrispondenza dell'attuale parco di Villa Sciarra, dove si trovava anche una fonte a lei dedicata.
La Dea Furrina venne associata:
  • Ai crocevia, essendo le sacerdotesse deputate alle direzioni e ai punti cardinali da loro creati e scoperti onde favorire i viaggi ma soprattutto la navigazione. 
  • Ai portali di ingresso, alle case, alle strade agli edifici, perchè la Dea presiedeva ai passaggi, soprattutto quelli della vita e della morte.
  • Al fuoco, per il focolare familiare, per le torce che illuminano la notte e per il fuoco sacro trasformatore. Ma soprattutto fu la Dea delle due torce, quella in alto accesa che annuncia la vita, e quella in basso spenta che annuncia la morte.
  • Alla magia, consumata nell'ombre dei boschi o nella notte rischiarata dalla luna. 
  • Alle pozioni curative, estratte dalle erbe e dai minerali, poichè nelle campagne erano le donne a conoscere e utilizzare le erbe medicinali.
  • All'interrogazione dei morti per ottenere responsi.
Nel lucus si celebravano feste in onore della Dea, che si trovano segnate nei calendari al giorno 25 luglio col nome di Furrinalia o Furrinales ferine. Ma presto devono esser cadute in disuso, affermando Varrone che già ai suoi tempi pochi ne conoscevano il nome.



INSULA BOLANIANA

1122-J123 - Scavi sotto Callisto II per la costruzione della chiesa dei ss. Quaranta (s. Pasquale Baylon) che occupa il sito dell' insula Bolaniana, CIL. VI, 67.

INSULA
La chiesa fu dedicata ai 40 soldati romani che, durante la persecuzione di Licinio, non avendo abiurato alla fede cristiana, sarebbero stati immersi e fatti morire in un lago gelato di Sebaste nel 310 (strano, perchè le persecuzioni di Licinio iniziarono nel 315).

Durante questi scavi sarebbe stata scoperta l'ara n. 422 indicante il sito del Lucus Furinae.

Marcus Vettius Bolanus, che fu console nel 66 e proconsole della Britannia dal 69, prima di partire per la Britannia fece restaurare un'ara della Bona Dea posta nell'insula Bolani (cioè la sua) e successivamente un'immagine religiosa venne allestita per vegliare sull'Insula Bolani (o Bolaniana) da un certo Cladus. Sembra che l'ara della Boana Dea fosse inserita nel Lucus Furrinae.



Il LUCUS VIOLATO

"Del lucus Furinae si sa che Caio Gracco, fuggendo dai suoi avversari che, dopo aver occupato l'Aventino, lo inseguivano, cercò di riparare in Trastevere, traversando il ponte Sublicio; del quale intanto i pochi rimasti fedeli al tribuno tentarono impedire l'accesso ai partigiani del console Opimio, fino a che, sopraffatti dal numero, caddero uccisi.

In questo bosco sacro, Gaio Gracco rifugiato per fuggire ai suoi assassini, visto che lì era assicurata l'immunità in nome della Dea,  si dovette far uccidere dal suo schiavo Filocrate nel 121 a.c. per sfuggire ai suoi implacabili e irreligiosi nemici. Da questo racconto si deduce che il lucus Furinae era situato in Trastevere, non lontano dal ponte Sublicio, dietro l'odierno ospedale di san Gallicano."

Una violazione del genere era un delitto quasi insanabile, molto più grave che non staccare un ramo o uccidere un animale del bosco sacro. Si era versato sangue umano e il senato, formato in maggioranza da patrizi e quindi avverso A Caio Gracco dovette sentirsi piuttosto in imbarazzo, tra la necessità di procedere all'espiazione della violazione del bosco sacro e il desiderio di troncare una volta per tutte le pretese dei plebei.

Procedere all'espiazione era ammettere il delitto che si volle invece passare sotto silenzio facendo tacere i rivoltosi. Non procedere all'espiazione significava invece la possibile vendetta della Dea e comunque l'impossibilità di operare cerimonie sacre in un territorio violato e dissacrato.

Dobbiamo pensare che il senato optasse per la seconda possibilità, visto che non si hanno più notizie del Lucus Furrinae tanto che i romani si erano addirittura dimenticati della sua esistenza. Pertanto la festa dei Ferrinalia cadde in disuso.

GENS PETILLIA

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GENS PETILLIA

La gens romana Petillia, anche detta Petilia, compare nella storia nel I secolo d.c., con un nutrito numero di componenti famosi e il primo a ottenere l'onore del consolato fu Quintus Petillius Spurinus nel 176.

Il nome Petillius, ma anche Petilius, Petelius, e Petellius, deriva dal cognomen Petilus, che significa "smilzo", e appartiene a una classe gentilizia formata usando i suffissi tipicamente diminutivi -illius ed - ellius. Il nome viene spesso confuso con quello dei Poetelii, una famiglia plebea più antica, che risale all'epoca dei Decemviri fino al periodo delle Guerre Sannitiche, ma non sembrano essere stati gli stessi.


Rami e cognomina

Gli unici soprannomi dei Petillii registrati al tempo della Repubblica furono Capitolinus and Spurinus, che conosciamo mediante le monete dell'epoca. Un certo numero di Petillii compaiono invece senza cognomina.

Spurinus, appartenente a uno dei primi Petillii, collegato probabilmente all'etrusco gentile Spurina, forse un antenato materno dei Petillii, oppure un diminutivo del praenomen Spurius, ma non si sa se etrusco o latino.

Si dice che il cognomen Capitolinus sia stato donato a uno dei Petillii che era custode del Tempio di Giove sul Campidoglio al tempo di Augusto, tuttavia Capitolinus era un cognome comune a chi viveva in Campidoglio. 

Poichè però le monete di questa famiglia raffigurano il Tempio di Giove sul retro, mentre al dritto raffigurano una testa di Giove, o un'aquila, appare evidente che avessero a che fare col tempio più da vicino per cui sembra più plausibile la prima ipotesi.


I PERSONAGGI PIU' ILLUSTRI 

- Quintus Petillius Spurinus
tribuno della plebe nel 187 a.c., accusò Scipione l' Africano di aver accettato una tangente per trattare con clemenza con Antioco, e richiese un'indagine su altri suoi amici, sospettati di essere stati corrotti da Antioco. Divenne pretore urbano nel 181, quando ordinò, con un atto che oggi appare incivile e indegno di un romano, la distruzione di alcuni libri che si dice fossero appartenuti a Numa Pompilio.Ottenne il consolato nel 176, ma fu ucciso durante la battaglia contro i Liguri.

- Quintus Petillius
tribuno della plebe nel 187 a.c., insieme con Quintus Petillius Spurinus, con il quale, secondo alcune fonti, avrebbe agito di concerto sull'accusa contro Scipione africano e sull'invito a indagare su coloro che avevano ricevuto denaro da Antiochia. Non si sa come i due Petillii fossero imparentati.
Tra i due tribuni del 187 c'erano due uomini di nome Quinto Petillio, e Valerio Antia riferisce che essi agirono di concerto accusando Scipione, essendo stati indotti a farlo da Catone il Vecchio. Secondo altre fonti, l'accusa invece sarebbe stata mossa da Gaio Minucius Augurinus, o da Marco Nevio, uno dei tribuni del 184. 

- Lucius Petillius -  
uno scriba che visse ai piedi del Gianicolo. Nel 181 a.c., alcuni contadini che lavoravano la sua terra scoprirono due sarcofagi, uno che sembrava aver appartenuto a Numa Pompilio, ma trovata vuota, mentre l'altra avrebbe dovuto contenere i suoi libri. I libri, ancora leggibili vennero esaminati e poi fatti distruggere da Quinto Petillio Spurino, il pretore urbano, cosa poteva esserci scritto che i romani non dovevano sapere?
Livio riferisce che le due casse di pietra portavano il nome di Numa Pompilio e vennero scoperte da operai sulla terra di Lucio Petillius, scriba e amico del pretore. Si diceva che uno contenesse il corpo del re, ma era completamente vuoto. L'altro conteneva una serie di libri di filosofia e di riti religiosi. Il pretore esaminò i libri, e concluse che avrebbero danneggiato la fiducia del pubblico nella religione di stato, così ordinò di bruciarli, e Lucio risarcì la confisca dei suoi beni. 
Sembra evidente che i libri religiosi fossero di provenienza sabina visto che Numa era sabino, probabilmente più vicini al matriarcato di quanto non lo fossero i riti romani. Probabilmente i troppi riferimenti a una Grande Madre vennero trovati inopportuni, anche se poi vi dovettero ricorrere portando a Roma il simulacro di Cibele durante le Guerre puniche.

- Lucius Petillius -
uno degli ambasciatori imprigionati da Gentius nel 168 a.c., e liberato in seguito alla sconfitta di quel re da parte del pretore Lucio Anicius Gallus. 

- Petillius Capitolinus
custode del Tempio di Diove sul colle Capitolino in epoca augustea. Fu accusato di aver rubato la corona dalla statua di Giove, ma fu assolto, presumibilmente a causa della sua amicizia con l'imperatore.

- Titus Petillius -
figlio di Publius, uno dei due duumviri del Forum Clodii, che dal periodo di Augusto compare come sede della praefectura Claudia (Plin., Nat. hist., iii, 52) nel 18 a.c..

- Petilius Rufus -
uno dei molti uomini di rango pretoriano che nel 28 a.c., accusarono l'eques Titius Sabinus di slealtà all'imperatore, nella speranza di ottenere il consolato attraverso il favore di Sejanus. Per queste macchinazioni Sabino venne messo a morte.

- Quintus Petillius -
nominato in una lista di gladiatori a Pompei, con il numero di battaglie che ha combattuto, che però è andata perduta.

- Gaius Petillius -
figlio di Quinto Firmo, un tribuno militare della IV legione, durante il regno di Vespasiano. Più tardi servì come giudice ad Arretium (Arezzo) in Etruria.
- figlio di Gaio, Vindex Batavus, nominato in un'iscrizione a Brigetio in Pannonia Superiore, datata al 110 d.c.

- Quintus Petillius Cerealis Caesius Rufus -
un generale ai tempi del suo parente, l'imperatore Vespasiano. Servì in Gran Bretagna durante la rivolta di Boadicea (Budicca) nel 61 d.c., e sostenne l'ascesa di Vespasiano all'impero. Nel 70 riuscì a reprimere la rivolta di Civilis, e fu nominato console suffectus ex Kal. Fu governatore della Gran Bretagna durante le campagne di Agricola. Fu console suffectus ex Id. Mai. nel 74, e console ordinario con l'imperatore Domiziano nell'83.



ALTRI PETILLII  O PETILII  O PETELII

- Petellia -
nominata in un'iscrizione nel Pagus Veianus (Pago Veiano) in Campania.

- Petellia Maximina -
sepolta a Cirta in Numidia, a 40 anni.

- Petellia Satura -
dedicò un monumento a Lambaesis a suo marito, Quintus Laelius Saturus.

- Petillia
- una liberta sepolta a Roma.
- M. f. Maena, nominata in un'iscrizione a Forum Novum nella Gallia Cisalpina.
- una liberta sepolta nell'attuale sito di Mompeo nel Latium (Lazio).
- una liberta sepolta a Patavium (Padova) in Venetia and Histria.
-  Liberta sepolta a Roma, con un monumento a Critonia Nike.
- Q. l. Fausta, liberta e moglie di Quintus Petillius Eros, fu madre di Quintus Petillius Clemens. Fu sepolta a Châtel-Argent.
- Q. l. Jucunda, a freedwoman named in a dedicatory inscription from Rome.
- Q. f. Modesta, sepolta ad Aquileia, con un monumento da suo marito, Gaius Mutillius, un decurione di Aquileia.
- L. l. Philumina, sepolta a Roma.
- P. f. Sabina, figlia di Publius Petillius Primigenius e Calpurnia Coene, sepolta ad Hadria.

Petillia Irena -
una liberta nominata in un'iscrizione del I secolo a Roma.

Petillia Rustica -
una liberta nominata in una iscrizione a Roma, della seconda metà del I secolo.

- Petillia Volsoni -
f. Maxima, sepolta ad Aenona in Dalmatia.

- Petilia -
- T. l. Marta, una liberta sepolta a Corduba.
- Liberta sepolta a Tarquinii, all'età di 58 anni.
- Liberta nominata in un'iscrizione a Ucubi (Espejo) nella Hispania Baetica.
- Liberta nominata in un'iscrizione a Praeneste nel Latium.
- figlia di Hilaritatus, sepolta a  Formiae nel Latium, a 17 anni, con un monumento eretto dai suoi parenti.
- una neonata figlia di Quintus Petilius Pergamus e Petilia Nike, sepolta a Roma, all'età di 5 mesi.
- liberta seppellita a Corduba in Hispania Baetica, di 36 anni.
- una degli eredi del soldato sepolto a Timacum Minus nella Moesia Superiore.
- Q. l. Nike, liberta di Quintus Petilius Felix, moglie di Quintus Petilius Pergamus, e madre di Petilia Calliope, una bambina sepolta a Roma.
- figlia di Irena, seppellita nella campagna del Sannio con un monumento da sua madre, Gavia Auxime, datata al 198 d.c..
- C. l. Quinta, una liberta sepolta a Venafrum.
- Q. f. Secundina, figlia di Messia Dorcas, sepolta a Butuntum (Giovinazzo) in Apulia, di nove anni, sette mesi e 18 giorni.
- Q. f. Sabina, fece una donazione ai sacerdoti di Minerva al Ticinum nella Gallia Cisalpina.
- L. l. Sextula, in una iscrizione funebre di Corduba.

Petilia Ampliata -
moglie di Gaius Julius Martialis, e madre di Viricia Euhodia, una giovane sepolta a Roma, di diciannove anni.

Petilia Moschis -
dedicò un monumento a Roma a suo marito, Gaius Pomponius Servandus.

Petilia Hygia -
madre di Titus Petilius Titianus, a cui dedicò un monumento a Roma.

Petilia Januaria -
madre di Quintus Calidius Urbanus, di 5 anni, 6 mesi, a cui lei e suo marito, Quintus Calidius, dedicarono un monumento a Roma.

Petilia Jucunda -
sepolta a Interamna Nahars in Umbria.

Petilia Justa -
- sepolta ad Aquileia, a 19 anni, tre mesi e 10 giorni, con un monumento dedicato da sua madre, Lusidiena Pieris, e da suo fratello, Titus Lusidienus Secundus.
- dedicò un monumento a Misenum in Campania a suo marito, Publius Sextilius Marcellus.

Petilia Proculina -
dedicò un monumento a Vicohabentia in Venetia et Histria in memoria di suo nipote, Lucius Quadratianus Proculinus, un giovane.

- Petilia Valentina -
figlia di Petilius Primus e Seccia Silvia, sepolta a Clissa in Dalmatia, di 6 anni, 8 mesi e diciotto giorni.

- Petelia Quieta -
nominata in un'iscrizione di Castellum Tidditanorum in Numidia.

Petellia Prisca -
tumulata nel sepolcro di famiglia costruito da suo nonno, Tiberius Claudius Pluto, ad Ostia.



- Petillia Zaelis -
liberta e moglie di Quintus Petillius Alexander, nominata in un'iscrizione a Stroncone.

Petillia Attica -
menzionata in un'iscrizione a Clusium.

Petillia Clara -
sepolta a Scupi in Moesia Superiore, una bimba di 4 anni.

Petillia Clymene -
dedicò un monumento a Roma a Quintus Pomponius Cladus.

Petilia Euphrosyne -
moglie di Gaius Lucretius Euhodius, e madre di Gaius Lucretius Priscus e Gaius Lucretius Euhodianus, seppellita nel II secolo in un sepolcro di Roma, a 22 anni di età.

Petilia Chrestene -
moglie di Q. Arrenius Primitius, sepolta a Roma, a 28 anni.

- Petilia Romana -
moglie di Allius Fortunatius, e madre di Petilius Rusticus, sepolto ad Ammaedara, di 65 anni.

- Petilia Secundina -
dedicò un monumento a Salona a suo marito, il decurione Gaius Petilius Amandus.

- Petilia Severa -
sepolta a Châtillon, nella Gallia Cisalpina, con un monumento di suo figlio, Valerius Vettianus.

Petilia Cybele -
liberta e moglie di Petilius Cerealis, citata in un'iscrizione di Aquileia.

Petilia Egloge -
citata in un'iscrizione a Rome.

Petilia Eutychia -
madre di Quintus Petilius Quinquatralus,a cui dedicò un monumento a Roma.

- Petilia Sintyche -
dedicò un monumento a Roma a Gaius Setonius, di un anno e 7 giorni.

- Petilia Surilla -
in un'iscrizione funeraria di Timacum Minus.

Petilia Paulina -
madre di Petilius Paulinianus, dedicò un monumento ad Ariminum a sua nuora, Sentia Justina, di 17 anni e due mesi.

- Petilia Secunda -
dedicò un monumento sull'isola di Brattia (Croazia) nell'Adriatico alla memoria di Aurelius Nigellio.

- Petilia Titulla -
sepolta a Milevum (Mila) in Numidia, di 35 anni.

- Petilia Victorina -
dedicò un monumento a Gaius Togernius Ingenuus, sepolto a Ulpia Trajana in Dacia, di 30 anni.

Petellius Faustus -
uno dei centurioni della VI coorte della II legione a Lambaesis in Numidia, in un'iscrizione datata al 161 d.c..

Petilius Apollonius -
menzionato in una coppa da libagioni reperito nell'attuale sito di Baldushk, in Macedonia.

Petilius Asianus -
padre di Tintirius Asianus, che edificò un monumento a suo padre a Ligures Baebiani, un paese nel Samnium dove vennero deportate delle tribù Liguti antagoniste di Roma.

Petilius Paulus -
un soldato della III legione a Lambaesis,  in un'iscrizione datata al 161 d.c..

Petilius Augurinus -
fratello di Petilius Sabinus e Petilius Candidus, con cui dedicò un documento ad Ariminum, nella Gallia Cisalpina, ai loro genitori: Petilius Sabinus e Secunda.

Petilius Barbarus -
sepolto a Sigus in Numidia, all'età di 35 anni.

Petilius Callistus -
menzionato in un'iscrizione a Nomentum (Mentana) nel Latium.

Petilius Candidus -
fratello di Petilius Augurinus e Petilius Sabinus, con cui dedicò un monumento ad Ariminum ai loro genitori, Petilius Sabinus and Secunda.

Petilius Tironis -
liberto Cerealis  e marito di Petilia Cybele, noto per un'iscrizione ad Aquileia in "Venetia et Histria".

Petilius Fructus -
marito di Ulpia Fronime, costruì un sepolcro per la famiglia di lei ad Ostia.

Petilius Docimus -
figlio di Docimus e Januaria, sepolto a Roma, di 4 anni, 4 mesi e 15 giorni.

- Petilius Primus -
marito di Seccia Silvia, e padre di Petilia Valentina, una bambina sepolta a Clissa in Dalmatia.

- Petilius Rusticus -
figlio di Allius Fortunatius e Petilia Romana, fu un soldato, venne sepolto ad Ammaedara, di 28 anni, con un monumento da suo padre.

Petilius Felix -
dedicò a suo padre un monumento ad Auzia in Mauretania Caesariensis.

Petilius Paulinianus -
 figlio di Petilia Paulina, spodò Sentia Justina.

- Petilius Processius -
un aristocratico sepolto a Rome il 25 maggio, quando fu console Probus junior (probabilmente Anicius Probus Faustus, consul nel 490 d.c.).

- Petilius Sabinus -
- marito di Secunda, e padre di Petilius Augurinus, Petilius Sabinus, e Petilius Candidus, che dedicarono il monumento ai loro genitori ad Ariminum.
- fratello di Petilius Augurinus e Petilius Candidus, con cui dedicò un monumento ad Ariminum ai loro genitori, Petilius Sabinus e Secunda.

- Aulus Petilius Perseus -
menzionato in un'iscrizione di Roma.

- Gaius Petelius -
- dedicò un monumento nell'attuale sito di Lara de los Infantes, nella Hispania Citeriore a sua moglie, Arcea Elianoca, figlia di Paternus, che morì a 30 anni. Probabilmente il padre Gaius Petelius Paternus, fu sepolo nelle vicinanze.
- figlio di Adeptus, sepolto a Roma, di 4 anni, 4 mesi, e 21 giorni.

Gaius Petelius Paternus -
figlio di Gaius Haerigius, e marito di Anna Maluga, fu sepolto a Clunia in Hispania Citerior, a 56 anni.

Gaius Petilius -
- liberto di Anteros, sepolto a Patavium.
- M. f. Rufus, un censore di Septempeda.

- Gaius Petilius Venustus -
un tribuno della Guardia Pretoriana, nominato in un'iscrizione ad Aquileia.

Gaius Petilius Amandus -
un veterano della Legione XIV Gemina, nonchè decurione a Salona, dove fu seppellito in un monumento voluto da sua moglie, Petilia Secundina.

Gaius Petilius Bassus -
sepolto a Roma, all'età di 35 anni.

Gaius Petilius Gaetulus -
sepolto a Sigus, a 85 anni.

Gaius Petilius Calvo -
sepolto a Tuscania in Etruria, all'età di 53 anni.

Gaius Petillius Chryseros -
nome in un'iscrizione funeraria da Beneventum.

QUINTUS PETILIUS SECUNDUS - LEGIO XV PRIMIGENIA - 
GERMANIA - I SECOLO
- Gaius Petilius Restitutus -
sepolto a Ammaedara (Haidra) in Africa Proconsularis, di 50 anni.

- Gaius Petilius Sedatus -
sepolto a Beneventum.

Gaius Petillius -
- C. f. Dexter, sepolto a Venafrum nel Latium.
- C. l. Statius, liberto sepolto a Venafrum.

Gaius Petillius Hedystus -
sepolto a Bononia nella Gallia Cisalpina.

- Gaius Petilius Priscus -
noto da un'iscrizione a Roma

Gaius Petillius Pavo -
menzionato in un'iscrizione a Clusium.

- Gaius Plaestinus -
f. Petillianus, fratello di Quintus Petillius Crispus, evidentemente adottato da un Plaestinus.

- Lucius Petilius -
- dedicò un monumento a Salona in Dalmatia a sua sorella, Apuleia Jucunda.
- un soldato così chiamato in un'iscrizione di Clusium (Chiusi).
- menzionato in un'iscrizione a Rome.
- un liberto sepolto a Roma.
- figlio di Caio, così chiamato in un'iscrizione di Lussonium in Pannonia Inferiore.
- L. l. Priamus, un liberto sepolto a Corduba.
- L. f. Saturninus, in un'iscrizione di Clusium.


- Lucius Petilius Victor -
sepolto a Sitifis in Mauretania Caesariensis, di 40 anni.

- Lucius Petilius Syneros -
sepolto a Roma.

Lucius Petilius Nepos -
uno dei due duumviri di Perusia (Perugia) nel 166 d.c.. 

Lucius Petillius -
Q. f. Q. n. Martialis, figlio di Quintus Petillius Clemens e Firmia Tertulla, nipote di Quintus Petillius Eros e Petillia Fausta, e fratello di Quintus Petillius Saturninus, sepolto a Châtel-Argent.

Lucius Petillius Panemus -
un liberto nominato in una iscrizione del I secolo a Roma.

Lucius Petillius Saturninus -
figlio di Lucio, nominato in un'iscrizione del I secolo a Clusium (Chiusi) in Etruria.

Lucius Petilius Lupus -
sepolto a Scupi, di 25 anni, con un monumento da sua madre, Vesidia Ingenua.

Lucius Petilius Alianus -
così chiamato in un'iscrizione dell'attuale sito di Bischofshofen, posto nel Noricum.

Lucius Petilius Aurelianus -
un legionario della VII Legione Claudia, nominato in un'iscrizione dell'attuale sito di Buljesovce, in Moesia Superior.

- Lucius Petilius Pudens -
conosciuto da un'iscrizione ad  Aquileia.

Lucius Petilius Celer -
sepolto ad Asseria in Dalmazia, con un monumento eretto da sua sorella.

- Lucius Petilius Telephus -
da un'iscrizione ad Ostia.

Lucius Petillius Lollianus -
nominato in un'iscrizione a Ostia.

Marcus Petellius Felix -
uno dei vigili di Roma, listato in un'iscrizione del 208 d.c..

Marcus Petillius -
M. l. Heraclida, liberto con iscrizione dedicatoria a Roma.

Marcus Petilius -
Cicerone lo cita come un eques che avesse degli affari a Siracusa durante l'amministrazione di Verres in Sicilia.
- Athenaidi l. Successus liberto che dedicò un monumento a Roma a Claudia Storge, datato verso la fine del I o inizi del II secolo.
- M. f. Philero, liberto sepolto a Interamna Nahars.

Marcus Petilius Adlectus -
marito di Scribonia Venusta, fu sepolto a Roma, di quaranta anni, aveva servito come attendente dell'imperatore per ventuno anni.

Marcus Petilius Clementius -
dedicò un monumento ad Aquincum in Pannonia Inferiore a sua moglie, Floria Matrona, di 44 anni  e 5 giorni.

- Publius Petilius -
P. f. Victorinus, legionario sepolto ad Ammaedara, di 33 anni.

Publius Petilius Clemens -
citato in un'iscrizione a  Casilinum in Campania.

- Publius Petilius Mercator -
uno degli ufficiali municipali a Heraclea Lyncestis in Macedonia.

Publius Petilius Exoratus -
erede di Titus Clodius Naso, un soldato della guardia pretoriana di Ravenna, a cui egli dedicò un monumento.

Publius Petilius Homerus -
dedicò un monumento a suo padre a Spoletum.

Publius Petellius -
figlio di Quinto Petellio, un eques nominato in una epigrafe a Samothracia, datata al 100 a.c..

- Publius Petillius Primigenius -
marito di Calpurnia Coene, e padre di Petillia Sabina, sepolto ad Hadria nel Picenum.

- Quintus Petilius -
- così chiamato in un'iscrizione trovata nel sito attuale Acquapendente, in Etruria.
- così chiamato in un'iscrizione trovata a Narbo in Gallia Narbonensis.
- figlio di  Quintus Petilius Faustus e Ulpia Alexandria, sepolto a Roma, di nove anni, quattro mesi, e 17 giorni.
- liberto di Alexander, e marito di Petillia Zaelis, così chiamato in un'iscrizione dell'attuale sito di Stroncone (forse Trebula Suffena), posto nel Samnium.
- uno dei giudici al processo di Tito Annio Milone.
- Q. l. Pergamus, liberto di Quintus Petilius Felix, marito di Petilia Nike, e padre di Petilia Calliope, una bambina sepolta a Roma.
- Q. f. Secundus, di Mediolanum, soldato della XV Legione, sepolto a Bonna nella Germania Inferiore, di 25 anni, con un servizio militare di 5 anni.
- Ↄ. l. Sindenis, liberto nominato in una iscrizione a Roma.

Quintus Petilius Felix -
liberto, nominato in un'iscrizione a Roma, in data 119 d.c., insieme a un certo numero di altri liberti.

- Quintus Petilius Quinquatralus -
figlio di Petilia Eutychia, sepolto a Roma, di 6 anni, 8 mesi e 26 giorni.

Quintus Petilius Severianus -
nominato in un'iscrizione a Roma, nel 186 d.c..

Quintus Petilius Agricola -
sepolto a Reate (Rieti) nel Latium, con un monumento erettogli da un suo schiavo, Geminus.

Quintus Petillius -
- Q. l. Surus, liberto di Quintus Petillius Saturninus, sepolto con la sua famiglia.
- figlio di Quintus, così chiamato in un'iscrizione trovata a Pisae in Etruria.
- figlio di Quintus Petillius Eros e Petillia Fausta, marito di Firmia Tertulla, e padre di Lucius Petillius Martialis e Quintus Petillius Saturninus, sepolto nel sito di Châtel-Argent, nella provincia delle Alpes Graiae.
- dalla Hispania Baetica, fu uno scriba impiegato come curule aediles.
- figlio di Caius Crispus, fratello di Gaius Plaestinus Petillianus, sepolto a Pola in Venetia et Histria.
- figlio di Lucio Petellio, un eques che servì sotto Gnaeus Pompeius Strabo (padre di Pompeo Magno) nell'88 a.c..
- figlio di Tito Petillio, nominato in un'iscrizione a Roma, del 78 a.c.
- Q. f. Q. n. Saturninus, figlio di Quintus Petillius Clemens e Firmia Tertulla, nipote di Quintus Petillius Eros e Petillia Fausta, fratello di Lucius Petillius Martialis, e marito di Salvia Lasciva, fu un soldato della XXII legio, ed uno dei Seviri Augustales.
- M. f. Rufus, in un'iscrizione dall'isola di Vele Srakane nell'Adriatico.

Quintus Petillius Amphio -
così chiamato in un'iscrizione di Roma.

Quintus Petillius Attalus -
- menzionato in un'iscrizione a Roma.
- un liberto menzionato in un'iscrizione a Septempeda in Picenum.

Quintus Petillius Eros -
liberto, marito di Petillia Fausta, e padre di Quintus Petillius Clemens, sepolto a Châtel-Argent.

- Quintus Petillius Secundus -
dedicò un monumento a Roma a sua madre, Cornelia Glyce, una liberta.

- Quintus Petellius Rogatianus -
nominato in un'iscrizione a Castellum Tidditanorum.

- Quintus Petillius Stephanus -
nominato in un'iscrizione funeraria a Roma.

Quintus Petilius Faustus -
marito di Ulpia Alexandria, e padre di Quintus Petilius Alexander, per cui costruì il monumento a Roma.

Quintus Petilius Felix -
praetor ed uno dei magistrati quinquennali a Laurentum e Lavinium, fu il maestro di Pergamus e Nike, poi di Quintus Petilius Pergamus e Petilia Nike.

- Sextus Petilius Verus -
nominato in un'iscrizione ad Aquileia.

- Sextus Petilius Titianus -
sepolto a Brixia in Venetia et Histria.

- Sextus Petilius Primigenius -
sepolto a Clusium, con un monumento da sua figlia Justa.

- Titus Petilius -
- così chiamato in un'iscrizione trovata a Camerinum in Umbria.
- figlio di Publius, sepolto ad Altinum in "Venetia et Histria".
- figlio di Tito, Crescens, sepolto a Tuder in Umbria, con un monumento edificato dal suo liberto, Titus Petilius Primio.
- T. l. Primio, liberto diTitus Petilius Crescens, s cui dedicò un monumento a Tuder.

- Titus Petilius Expectatus -
sepolto a Firmum nel Picenum.

- Titus Petilius Titianus -
figlio di Petilia Hygia, sepolto a Roma, di 22 anni, 8 mesi e 25 giorni.

- Titus Petellius Gemellus -
sepolto a Bir Chegreff,  in Numidia, di 30 anni.



BIBLIO

- Aurelius Victor, De Viris Illustribus, 49 -
- Dionigi di Alicarnasso, Antichità romane, Milano - 1823 -
- Giovanni Brizzi, Storia di Roma. 1. Dalle origini ad Azio, Bologna 1997 -
- Fasti Capitolini, AE 1927, 101 -
- Dictionary of Greek and Roman Biography and Mythology, vol. I, p. 605 ("Petillius Capitolinus").
- Dictionary of Greek and Roman Biography and Mythology, vol. III, p. 212 ("Petillia or Petilia Gens").

OBELISCO ESQUILINO LIBERIANO

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OBELISCO ESQUILINO

I DUE OBELISCHI ANEPIGRAFI

Due obelischi anepigrafi (senza geroglifici), quasi identici tra loro, si ergono sulla sommità di due diversi colli, l'Esquilino e il Quirinale: sono la coppia di guglie che un tempo fiancheggiava l'ingresso del mausoleo dell'imperatore Ottaviano Augusto in Campo Marzio, nel rione omonimo.

Non risulta che in origine facessero parte del mausoleo, in quanto non ne esiste menzione fino alla seconda metà del I secolo, pertanto dovrebbero essere stati aggiunti al monumento almeno una cinquantina di anni dopo la sua costruzione. 

In quanto al loro trasferimento dall'Egitto a Roma alcuni studiosi ritengono che risalgano a pochi anni prima del suddetto mausoleo, probabilmente acquisiti dall'Impero romano di Augusto prima ancora che fossero stati effigiati con i geroglifici. Secondo altri  invece non sarebbero di fattura egizia ma sarebbero romani, e risalirebbero all'epoca di Domiziano, anche se la moda dello stile egizio doveva essere a Roma già tramontata da un pezzo.

L'OBELISCO INCOMPIUTO DI ASSUAN
Gli obelischi nel mondo, o almeno quelli antichi, cioè egiziani, non sono molti, Roma ne vanta 13 e in Egitto ne sono rimasti solo 9, sicuramente furono in gran parte distrutti dalle varie intransigenze religiose.

Durante il medioevo i due obelischi giacquero accanto al mausoleo di Augusto, parzialmente sepolti e in vari pezzi. Papa Leone X (1513-21) ne fece dissotterrare uno, che fu poi trascinato lungo la vicina strada che corre parallela al fiume (in alto a sin.), dove viene raffigurato in alcune piante rinascimentali, ma sempre in pezzi. 

Era un lavoro troppo arduo farli a pezzi minuti o tagliarlo per ricavarne altro, visto che le numerosissime taberne artigiane della scultura greco-romane non esistevano più, crollate con la caduta dell'impero.

Le cave di Assuan forniscono un pregiato granito rosso non troppo scuro e, particolare curioso, nelle sue cave si conserva ancora un esemplare di obelisco in messa in opera ma  mai terminato. Da ricordare inoltre che a Roma c'è un altro obelisco nato dalle cave di Assuan, edè l'obelisco Laterano, posto oggi a piazza San Giovanni in Laterano.



L'OBELISCO LIBERIANO

L’obelisco Liberiano, che si trova in piazza dell’Esquilino, dietro la basilica di S. Maria Maggiore, come l’obelisco del Quirinale, fu realizzato a Roma con granito rosso proveniente dalle cave di Assuan. Fu detto Kiberiano per la sua vicinanza con la Basilica Liberiana e venne costruito all’epoca di Domiziano ad imitazione degli obelischi egiziani, oppure reperito in Egitto, e collocato insieme all'obelisco del Quirinale all'ingresso del Mausoleo di Augusto. 

Sisto V usò questo obelisco, rinvenuto nei pressi della chiesa di San Rocco a Ripetta, durante una campagna di scavi del 1519, per adornare la piazza alle spalle della basilica di Santa Maria Maggiore e la sua complessa opera di erezione avvenne il 28 luglio 1587, per opera dell'architetto Domenico Fontana.

L'obelisco venne posto dietro la chiesa e non dinanzi ad essa perchè la piazza segnava il punto finale della lunga e diritta via Felice, aperta dal papa per collegare il Pincio all'Esquilino, che era stata chiamata col nome di battesimo dello stesso pontefice. Secondo altri invece per la ragione che sulla piazza dell'Esquilino si apriva il cancello principale di Villa Montalto, una grande e preziosa proprietà appartenente proprio a Sisto V.

La guglia dell'obelisco non termina, come solitamente avviene, con un pyramidion alla sommità, bensì ha l'estremità del fusto piatta, o perchè scolpita in questa forma, oppure il piccolo terminale venne rimosso prima di innalzare l'obelisco. Pertanto l'elemento bronzeo che sta sll'estremità superiore non è inserito sul pyramidion, ma poggia direttamente sulla parte piatta del fusto. La guglia presenta una croce e una stella a otto punte, il simbolo araldico di Sisto V.

SANTA MARIA MAGGIORE COM'ERA
Come già detto l'obelisco non presenta alcuna iscrizione. Venne ritrovato nel 1527 insieme al gemello e fu eretto nel 1587 per ordine di papa Sisto V ad opera di Domenico Fontana. Sul piedistallo furono fatte eseguire delle iscrizioni. 

Quella verso la chiesa mostra:
- Cristo per l’invitta Croce dia pace al suo popolo, egli che volle nascere nel presepe al tempo della pace di Augusto. -

La faccia a nord: 
- Io adoro Cristo Signore che Augusto vivente adorò nascituro da una Vergine, dopo di che egli non volle più essere detto Signore. -

A levante: 
- Con grande gioia venero la culla di Cristo Dio vivente in eterno, io che triste servivo al sepolcro del morto Augusto. -

Infine nella facciata verso via Panisperna: 
- Sisto V Pontefice Massimo questo obelisco portato dall’Egitto e dedicato ad Augusto nel suo mausoleo, in seguito abbattuto e spezzato in più parti, giacente sulla strada presso S. Rocco, restituito all’antico suo aspetto, comandò che fosse qui più felicemente eretto in onore della salutifera Croce, nell’anno 1587, terzo del suo pontificato -
Le scritte alludono alla leggenda, ovviamente del tutto  inventata, di Augusto, da parte di Jacopo da Varagine (Varazze), detta Legenda Aurea. Siccome Augusto era molto amato dalla popolazione che non sopportava calunnie sul suo conto, si ritenne bene da parte della chiesa, di infondergli un carattere cristiano onde giustificare questa affezione popolare: 

" - Narra papa Innocenzo III che il senato voleva adorare come un dio Ottaviano per aver riunito e pacificato tutto il mondo ; ma il prudente imperatore non volle usurpare il nome di immortale poiché ben sapeva di essere come uomo, mortale. Insistevano i senatori nel loro proposito onde Ottaviano interrogò la Sibilla per sapere se mai sarebbe nato nel mondo qualcuno più grande di lui.

- Era il giorno della Natività di Cristo e la Sibilla si trovava in una stanza, sola con l’imperatore: ed ecco apparire un cerchio d’oro attorno al sole e in questo cerchio una vergine bellissima con un fanciullo in grembo. 

- La Sibilla mostrò questo portento all’imperatore: mentre costui teneva gli occhi fissi alla visione sentì una voce che diceva: 
- Questa è l’ara del cielo ! - 
Esclamò allora la Sibilla: - Questo fanciullo è più grande di te ; adoralo -
- La stanza dove avvenne tale fatto è stata poi consacrata alla Madonna ed ora si chiama Santa Maria Ara Coeli.
- Timoteo ci dice di aver trovato negli antichi libri romani lo stesso fatto raccontato in modo diverso: dopo trentacinque anni di regno, Ottaviano salì in Campidoglio e chiese agli Dei chi avrebbe retto l’impero dopo di lui. Udì in risposta queste parole: 

- Un fanciullo celeste, figlio del Dio vivente, nato da una vergine immacolata
Ottaviano fece allora costruire un altare e vi fece scolpire queste parole: 
- Questo è l’altare del figlio del Dio vivente -

(Jacopo da Varagine, Legenda Aurea, Libreria Editrice Fiorentina)



BIBLIO

- Domenico Fontana - Della trasportazione dell'obelisco vaticano et delle fabriche di Nostro Signore Papa Sisto V fatte dal Cavallier Domenico Fontana architetto di Sua Santità - libro I - Domenico Basa - Roma 1590 -
- Cesare D'Onofrio - Gli obelischi di Roma - Bulzoni - 1967 -
- Erik Iversen - Obeliscs in exile - Vol. I - Copenaghen - 1968 -
- Armin Wirsching - Obelisken transportieren und aufrichten in Aegypten und in Rom - Norderstedt - III ed. - 2013 -

PONTE DA CAVA DA VELHA (Portogallo)

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Il ponte romano è situato nel centro amministrativo di Castro Laboreiro e Lamas de Mouro, nel municipio di Melgaço nel distretto di Viana do Castelo, nella parte settentrionale del Portogallo.

Esso è uno dei tre ponti di origine romana che, insieme ai ponti Dorna e Assureira, abbelliscono attualmente la strada comunale 1160, lungo il fiume Castro Laboreiro. Anticamente, collegava la Via Romana dalla Porta dell'Uomo a Laboreiro, e serviva anche per una fortezza vicina, per garantire il processo di romanizzazione e per eventuali attacchi nemici.

Esso è costituito attualmente da due archi di curva perfetta, di larghezza diversa, uno di 10,60 m ed uno di 1,70 m. in quanto riformulato nel Basso Medioevo. Infatti le parti inferiori della struttura e la curvatura dell'arco sono eseguite in pietre rettangolari ben tagliate, caratteristiche della manodopera romana, mentre le pietre superiori, di epoca medievale, sono irregolari e di varia grandezza, fino ad essere pietrisco.

PONTE DA VELHA
Questo ponte è anche chiamato Ponte Nuovo, alludendo sicuramente a un ponte più vecchio che qui (o molto vicino) sarebbe esistito. Secondo alcune opinioni, il vecchio ponte era quello di Assureira (IDEM, p.172), ma mancano ancora informazioni più affidabili.

Il ponte proseguiva la strada romana che conduceva alla Spagna attraverso la Portela do Homem (Porta dell'uomo), passando attraverso Estrimo, Ameixoeira, Porto do Vaga e Assureira, Cova da Velha, Varziela, Castro Laboreiro. 

Il ponte risale al I sec., ma non compare nelle due maggiori liste dei ponti romani. 
Venne ricostruito nel medioevo identico all'originale. 

Nel 1986 è stato classificato Monumento Nazionale del Portogallo. Un bene è considerato di interesse nazionale quando la sua protezione e valorizzazione, in tutto o in parte, rappresentano un valore culturale significativo per la nazione.

Il ponte si trova in una zona rurale isolata, all'interno del Parco Naturale di Peneda do Gerês, 110 m (360 piedi) a est della carreggiata comunale sul fiume Laboreiro, a 3 km da Castro Laboreiro.

SOPRA IL PONTE
Esso è fornito di due rampe anch'esse di epoca romana, e si trova a 200 metri (660 piedi) dal Ponte di Assureira e dalla Cappella di São Brás.
Gli archi di rampa sono supportati da basi di granito.
Il ponte ha una forma a cavalletto pronunciato (a forma di "V" rovesciata), che forma due rampe inclinate, poggiante su due archi notevolmente irregolari.

Le rampe, piuttosto ardite si articolano in linea nord a sud, precedute da una curva su entrambi i lati, su due archi differenziati, il più grande di 10,6 metri (35 piedi) e 7,7 metri (25 piedi) di altezza e il più piccolo di 1,7 m (5,6 piedi) e 3,3 m (11 piedi) di altezza.

La struttura è sostenuta da un bugnato lavorato con giunti riempiti da pietre più piccole. Tra gli archi si osservano una struttura prismatica a monte e contrafforti rettangolari a valle. Sul fondo degli archi sono presenti dei fori per adattarsi al telaio del ponte.
La pavimentazione del plancito è costituita da grandi lastre irregolari, protette da lunghe lastre di pietra che le contengono ma che fanno soprattutto da parapetto. 

Alcuni studiosi pensano che fosse costituito anche da un altro arco uguale al più piccolo dei due, e probabilmente venne perduto nel rifacimento del ponte per adattarlo a un fiume che era ormai diminuito nella portata e nella larghezza.
E' il ponte meglio conservato del Parco Naturale di Peneda. L'accesso è a piedi, percorrendo circa 120 metri lungo una vecchia strada asfaltata, dalla strada CM1160 che collega Castro Laboreiro a Ribeiro de Baixo, 75 me a sud della cappella di São Brás.



CLUNIA SULPICIA (Spagna)

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IL TEATRO
La Colonia di Clunia Sulpicia è una città romana localizzata nell'Alta Castiglia, a più di 1.000 m s.l.m., posta tra i villaggi di Coruña del Conde e Peñalba di Castiglia, nel Sud della Provincia di Burgos in Spagna.
Sia a Coruña del Conde che nelle città vicine c'erano diversi insediamenti celtiberici, più precisamente arévacos (sito di El Castro ad Arauzo de Torre, Alto del Cuerno e Alto de Castro a Peñalba de Castro).

Vi sono dubbi su quale di questi ultimi due luoghi fosse la città preromana di Clunia che Livio cita come rifugio di Sertorio prima dell'occupazione di Pompeo nel 72 a.c. Infine, nell'anno 56 a.c. la città partecipa all'alleanza tra Arévacos e Vacceos per l'indipendenza contro Roma. 

Metelo assedia la città dopo aver conquistato Numancia e un anno dopo, nel 55 a.c., Afranio, sottomette definitivamente Arévacos e Vacceos e romanizza la zona. I romani manterranno il nome di Clunia, da cui deriva il comune,
Clunia può essere considerata una delle città romane più importanti della Meseta settentrionale della Spagna e, dal I secolo a.c. fu la capitale di una circoscrizione giuridica nella provincia della Spagna Citeriore Tarragonese, denominata Giurisdizione di Clunia. 
La città sorgeva sulla strada che collegava Caesaraugusta (Saragozza) con Asturica Augusta (Astorga). Clunia è un toponimo di origine celtiberica (tribù degli Arévaco).
Clunia fu fondata su una collina presso un insediamento celtibero denominato Cluniaco o Kolounioukou, nome facente capo alla cultura degli Arévaco, una tribù preromana appartenente alla etnia delle popolazioni celtibere.

QUINTO SERTORIO

QUINTO SERTORIO (126 a.c. – 72 a.c.)

Nel 77 Marco Perperna Vento venne da Roma, con un seguito di nobili romani insieme a Gneo Pompeo Magno (106 a.c. - 48 a.c.) per sconfiggerlo. Sertorio dimostrò, secondo taluni, di valere più del suo giovane avversario Pompeo, sconfiggendolo completamente nei pressi di Saguntum. 

Pompeo scrisse a Roma per chiedere rinforzi, senza cui, egli disse, lui e Metello sarebbero stati cacciati via dalla Spagna. In realtà Sertorio fu sconfitto più dalla tattica temporeggiatrice di Metello che da quella avventata e spregiudicata di Gneo Pompeo Magno, ancora acerbo come comandante militare.

A causa delle gelosie fra gli ufficiali romani che servivano sotto di lui con gli ispanici di rango più elevato, non poté mantenere la sua posizione e la sua influenza sopra le tribù natali venne meno, benché avesse vinto sempre fino alla fine. 


Da Livio, sappiamo che il sito fu assediato da Pompeo nella sua lotta contro Sertorius nel 75 a.c. e che Pompeo fu costretto a lasciare Clunia anche a causa delle condizioni meteorologiche. Solo dopo tre anni Pompeo ebbe la meglio su Sertorio con un tradimento.

Nel 72 a.c. infatti Sertorio venne assassinato in un banchetto, e sembra che il principale istigatore sia stato Marco Perperna Vento dopo che Quinto Cecilio Metello Pio e Gneo Pompeo Magno ebbero messo una taglia sulla sua testa. 

A questo punto per rappresaglia verso Clunia Pompeo distrusse tutta la città, senza salvare nè edifici nè persone, compresi donne e bambini. Clunia cadde poi sotto il controllo dei Vacceos nel 56 a.c., ma successivamente cadde nuovamente sotto il controllo romano, così come i ribelli Vacceos e Arevaci. 

PONTE BARRUSIO (ROMANO) A CORUNA DEL CONDE

LA RIFONDAZIONE

Diversi anni più tardi la città fu fondata di nuovo durante l'impero di Tiberio (42 a.c. - 37 d.c.), all'interno della Provincia romana denominata Spagna Citeriore Tarragonese. Inizialmente venne eletta al rango di municipium, ed emise monete che rappresentavano i quattro dirigenti locali del quadriumvirato che governava la città.

Successivamente, tra gli imperi Tiberio e di Claudio, essa divenne sede di uno dei Legati Giuridici della Provincia di Tarragona, assumendo il ruolo di capitale della Giurisdizione Cluniense. Clunia acquisì il rango di colonia romana assumendo la denominazione di Sulpicia in quanto in essa si autoproclamò imperatore il generale Servio Sulpicio Galba, che vi si rifugiò durante la rivoluzione anti-neroniana. 

MOSAICO
Qui ricevette la notizia della morte di Nerone e quella di essere stato nominato Imperatore dai legionari (perciò alcuni storici aggiungono il nome di Galba alla denominazione della città). Con Sulpicio Galba, Clunia fu la capitale dell'Impero. Comunque il definitivo riconoscimento dello stato di colonia romana glielo dette l'imperatore Vespasiano.

Lo splendore della città romana di Clunia si estese durante il I e II secolo d.c., alla stessa stregua di altre città della Meseta Settentrionale, come Asturica Augusta o Iuliobriga, rispettivamente nelle province di León e della Cantabria. Al suo apice la città di Clunia arrivò a contare oltre 30.000 abitanti.

Clunia possedette così:  
- due terme,
- una basilica,
- un forum,
- molte tabernae
- molti termopoli,
- un teatro,
- un grande tempio dedicato a Jupiter.



IL DECLINO

Nel corso del III secolo si verificò un graduale spopolamento del nucleo urbano, dovuto alla crisi del III secolo e all'incipiente declino dell'Impero Romano d'Occidente. 

Infatti verso la fine del III secolo, la città fu bruciata dalle tribù barbariche franco-germaniche, invasioni che, insieme all'instabilità economica, possono aver contribuito al declino di Clunia. Tuttavia, non sembra che ci sia stata una distruzione violenta e generale; in ogni caso, ciò prelude alla fine dell'influenza culturale romana nella città di Clunia e dintorni. 

Gli scavi rivelano la distruzione delle aree urbane di Clunia, che non sono state ricostruite. Durante i regni di Diocleziano e Costantino si sono avute alcune limitate ricostruzioni, ma gran parte della città era disabitata nel VII secolo, durante l'epoca visigota.

Più tardi venne ricostruito il villaggio di Peñalba de Castro, che riscattò la meseta dell'enclave di Clunia in cambio di acqua in un'epoca in cui il valore dell'acqua era più prezioso delle poche rovine non ancora sepolte rimaste della città romana abbandonata.  




I RESTI

Gli scavi archeologici nel giacimento sono iniziati nel 1915, riprendendo nel 1931 e nel 1958, portando alla luce il glorioso passato di una delle principali città della Hispania la cui estensione - a giudicare dagli scavi archeologici - si avvicinava a 1,2 kmq, una delle più grandi città di tutta la Hispania romana. 

Gli scavi hanno portato alla luce: 
- un teatro scavato nella roccia, 
- varie domus con mosaici, 
- strade, 
- rovine degli edifici del foro 
- una grande cloaca, 
- un'effigie di Iside e un torso di Dioniso, conservati presso il Museo Archeol. Naz. di Spagna e in quello di Burgos, 
- una grande quantità di monete, 
- rovine epigrafiche, 
- ceramiche romane di terra sigillata come i manufatti samiani, 
- oggetti in vetro e bronzo.

IL TEATRO

IL TEATRO

Il monumento più significativo è il teatro, uno dei più grandi del suo tempo in Hispania, è stato scavato nella roccia, e aveva una capacità di 10.000 spettatori, destinato ad ospitare spettacoli di opere teatrali del periodo classico.

Costruito su una collina chiamata Alto de Castro (a 1.000 metri di altezza), si trova tra gli attuali villaggi di Coruña del Conde e Peñalba de Castro, nel sud della provincia di Burgos. 

Il suo recupero ha meritato il premio nella sezione di Restauro e Riabilitazione conferito dai Premi biennali di Architettura di Castiglia e León del 2004-2005. 
La giuria ha sottolineato "il rispettoso recupero del teatro e il trattamento paesaggistico generale".
L'edificio fu costruito sotto il regno dell'imperatore Tiberio per monumentalizzare la città più importante, insieme ad Asturica Augusta, del bacino del Douro. 

La città si trovava nella provincia di Hispania Citerior Tarraconensis.

ALCHETRON

IL FORO

Nel centro delle città romane, dove il cardo maximus e il decumanus maximus si incrociavano, si apriva il foro della città, una vasta piazza circondata da portici. Qui si svolgevano attività politiche, commerciali, giudiziarie e religiose. 

A Clunia, il foro non è distante dal teatro, nei cui dintorni spiccano le rovine di tre domus, una basilica e un macellum (mercato). Gli edifici erano ornati da preziosi mosaici e sotto le abitazioni si aprivano gli ipocausti e i forni per il riscaldamento. Al di sopra del mercato, nel XVII secolo, fu costruito un eremo tutt'altro che artistico, che danneggiò le antiche abitazioni.

TEMPIO ROMANO-VISIGOTA DI UNA DEA TRASFORMATO IN CHIESA

LE TERME

Non distanti dal Foro romano si ergono le rovine delle terme romane, di grandi dimensioni e con i pavimenti rivestiti di mosaici un po' più semplici di quelli delle case del forum. Anche qui è ben visibile il sistema di riscaldamento delle diverse stanze termali, l'ipocausto.



IL SOTTOSUOLO 

Nel sottosuolo della città, dove non è ancora consentita la visita a causa della sua fragilità, si trovano interessantissimi sistemi di approvvigionamento idrico costruite utilizzando le grotte naturali esistenti nel sottosuolo calcareo dello sperone sopra il quale si eleva la città, con varie cisterne e canali e un santuario di Priapo, Dio della fecondità e della buona sorte.


LA FRUGALITA' DEI ROMANI

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BANCHETTO ROMANO
Si dice che i romani mangiassero tanto, e in parte è vero, ma solo in parte. Plutarco ci teneva a precisare che, a differenza dei barbari, “noi non ci mettiamo a tavola per mangiare, ma per mangiare insieme." Plutarco era greco ma era vissuto a Roma.

Analogamente Cicerone (I secolo a.c.) sosteneva che “il piacere del banchetto non si deve misurare dalla squisitezza delle vivande, bensì dalla compagnia degli amici e dal loro dissertare”.

Se però venne presentata e fatta votare da Augusto la "Lex Iùlia sumptuaria" all’inizio del suo principato (18-17 a.c.), una ragione c'era. Augusto era per la moderazione e la frugalità in tutto, nel mangiare, nel vestite e nell'ostentare ricchezza. La legge conteneva una serie di disposizioni intese a reprimere il lusso sfrenato a Roma, nei banchetti e negli abiti femminili. In realtà faceva parte di una più complessa riforma legislativa, promossa da Augusto per restaurare l’ordine pubblico.

Per contro c'era chi non si teneva:

- Intanto mentre lui preso dal gioco sciorina tutto il gergo dei carrettieri, mentre noi ci gustavamo ancora l’antipasto, fu portato un vassoio con sopra una cesta contenente una gallina di legno ad ali spalancate in cerchio, nella posizione consueta di quando covano le uova. Lo abbrancano subito due schiavi e, mentre scoppia una salva musicale, si danno a frugare tra la paglia, ed estratti un uovo di pavone dopo l’altro, ne fanno omaggio ai convitati. 
Trimalchione volge il capo a questo colpo di scena e spiega: “Amici, ho fatto mettere uova di pavone sotto la gallina. Ma, miseriaccia, ho paura che ci sia già dentro il pulcino! In ogni modo proviamo a vedere se sono ancora succhiabili. Si, si possono succhiare”. 
Ci vengono distribuiti dei cucchiaini di non meno di mezza libra e rompiamo quelle uova rivestite di pasta frolla. Io quasi buttai via la mia parte, che mi pareva già essersi formato dentro il pulcino. Ma poi, come sentii un convitato abituale: “Qui deve esserci qualcosa di buono”, ho fatto una prova con la mano ed ho trovato un beccafico ben grasso dentro un tuorlo pepato. -
(Petronio arbiter - Satiricon)

BANCHETTO GRECO
Ma non tutti potevano permettersi certi lussi, nemmeno un famoso poeta come Catullo, che invita il suo amico per modo di dire, cioè lo invita a portare la cena e i connessi:

Cenerai bene, o mio Fabullo, a casa mia, tra pochi giorni,
se gli dei ti saranno favorevoli, a patto che tu ti porti una cena 
buona e abbondante e non scordarti una fanciulla candida 
e vino e sale e tutto ciò che rende gradevole la cena; 
se avrai portato tutte queste cose, io dico, o mio caro amico, 
mangerai bene; infatti il portafoglio del tuo Catullo è pieno di ragnatele.

In cambio riceverai gli amori più puri, ossia quanto c'è 

di più soave ed elegante. Infatti ti darò una pomata che alla mia fanciulla 
donarono le Veneri e i Cupidi, che quando l'annuserai 
chiederai agli dei, o Fabullo, di farti tutto naso.

Secondo l'usanza i convitati non usavano scarpe sui triclinii, e nemmeno babbucce o pantofole. L'invitato lasciava sempre le scarpe nell'androne di casa, per non portare all'interno la sporcizia delle strade, un'ottima ed igienica abitudine che purtroppo non abbiamo conservato, ma lasciava le pantofole ai piedi del triclinio, onde non sporcare il lettino.


Ma non basta, perchè una consuetudine obbligatoria prima di iniziare la cena, oltre al lavarsi le mani, era che gli schiavi lavassero i piedi ai commensali, perché avrebbero dovuto mangiare distesi sui triclini coi piedi di fuori. I romani furono grandi igienisti.

Questa accuratezza nella pulizia era in genere seguita dalla frugalità del pasto, almeno come valore morale. Seneca infatti (Cons. ad Helviam) esalta il tempo in cui i cittadini romani erano parsimoniosi anche nel cibo, nutrendosi di polenta di farro con legumi, pesciolini salati e frutta: « Di polta e non di pane vissero per lungo tempo i Romani », rammenta ricordando i tempi andati.

Il medico Galeno raccomanda però di non usare l'orzo nell'alimentazione, come usavano i Greci, ottimo solo per i cavalli, ma di preferire il farro che era molto più nutriente. L'orzo fu utilizzato solo nei momenti di carestia.

Il farro fu per circa tre secoli il cereale preferito dai Romani. Con il farro si preparava il puls, cioè la polenta. Plauto narra infatti che i Greci chiamavano i Romani "polentoni" puliphagonides. In seguito fu sostituito dal grano, ancora più nutriente del farro.

Quintiliano scrive orgogliosamente: "Non vivo per mangiare, ma mangio per vivere." Del resto l'alimentazione romana un tempo era fatta soprattutto di vegetali, com'era nell'uso dei vicini etruschi da cui nei periodi di carestia si importavano a Roma lungo il Tevere i rifornimenti di grano («ex Tuscis frumentum Tiberi uenit») che permisero dal II sec. a.c. la produzione del pane.

Ma come facevano gli amministratori a sapere che tipo di banchetti fornissero i romani? Nessuno andava a controllare nelle domus anche perchè di solito vi abitavano i patrizi o persone di grande prestigio. Il sistema di controllo fu drastico: la legge li obbligava ad apparecchiare nell'atrio o nel vestibolo con la porta aperta, dimodochè qualsiasi controllore potesse verificare senza entrare, o qualsiasi delatore potesse "delare" impunemente.

BANCHETTO MILOTICO DI PALESTRINA
Viene da chiedere come facessero in inverno col freddo e magari la pioggia, ma il modo c'era, perchè di sicuro i romani non rinunciavano ai loro banchetti autunnali o invernali. Si attrezzavano teli con sopra pelli impermeabili sostenuti da pali dapprima di legno poi di ferro lavorato, in sintonia con la raffinatezza romana, e tutt'intorno bracieri che scaldavano l'aria. Da tener conto che nell'antica Roma le temperature erano leggermente superiori a quelle attuali.

Molta colpa la ebbero i lettini portati da Cartagine dal generale Scipione l'Africano, i cosiddetti "punicani", insomma i triclini, che invitavano a restare a lungo accanto alle mense, così mollemente riposati sulle morbide coltri. Anche perchè i Cartaginesi usavano riempire delle rozze pelli di capra cucite e imbottite di paglia, mentre i Romani le riempivano di lane e piume, usando come copertura stoffe morbide e raffinate. Naturalmente in inverno i triclini, e quindi i commensali, si ricoprivano di coperte di morbida lana.

Cosa c'era di più accogliente di un letto e una mensa insieme? Ma non basta, perchè il pasto era allietato da cantori, da suonatori e da poeti. Spesso i poeti venivano invitati perchè si esibissero durante il banchetto. Ma Augusto per esempio era un uomo frugale e invitava alla frugalità. Spesso, specie in viaggio, soleva nutrirsi di pane ed uva e nei banchetti che faceva approntare per gli ospiti imponeva altrettanta frugalità.

Insomma molti potevano essere smodati ma si trattava di un comportamento disapprovato. Nella civilissima Roma uno dei principi più apprezzati, e seguiti, dai virtuosi, era quello della continenza. Si poteva godere di tutto ma nella continenza. Ciò, e non solo, distingueva un romano da un barbaro.

LUCUS PISAURENSIS

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A. LAZZARINI - MOMENTI DI CULTO NEL LUCUS PISAURENSIS

IL LUCUS SACRO

Almeno in area mediterranea ed europea, ma non solo, il primo luogo sacro fu il bosco, in latino lucus, plurale luci. Il bosco è misterioso, pieno di vita, ma anche di pericoli, lì la natura, che un tempo riempiva quasi tutta l'area di boschi, si esprimeva col suo lato accogliente per le bacche, le erbe e la legna per il fuoco e le capanne, ma anche col suo lato oscuro per le belve, il perdere la strada, i temporali e quella penombra dove il sole penetra con difficoltà.

Il lucus era come gli Dei della natura, benevolo ma a volte ostile o indifferente, dunque si doveva rendergli omaggio per ingraziarseli. Così gli si offrivano cibo, erbe odorose, preghiere, canti e danze. Le sacerdotesse furono le prime a contattare il mondo magico del bosco, e la loro religione fu un misto di scienza e magia, perchè dal bosco trassero le erbe da mangiare ma anche quelle medicamentose, nonchè i segni per i vaticini.

Presso i Romani un lucus era un bosco consacrato alla divinità, dove si offrivano sacrifici e doni per favorirne l'intervento o ringraziare per il beneficio ricevuto. Nel tempo i materiali votivi già usati ma comunque sacri venivano raccolti in depositi o fosse per lasciare posto ai nuovi. Il Lucus doveva essere connesso a lux (luce), forse la radura nel bosco dove arrivava la luce del sole e si celebravano gli atti di culto. 



LE LEGGI DEL LUCUS

Le origini dei boschi sacri si perdono nella preistoria e nell'Italia antica e venivano tutelati da leggi, come la lex luci Lucerina (dall'iscrizione rinvenuta a Lucera in Puglia) e la lex luci Spoletina (riportata su due cippi rinvenuti nel territorio di Spoleto). 

STATUETTA DI BRONZO LIBERO
Nel mondo romano l'istituzione dei boschi sacri, dimore delle divinità e quindi patrimonio collettivo  rientrava nella pianificazione del territorio. Frontino (I sec. d.c.) testimonia che essi erano parte dell'ager publicus e pertanto ricadevano nell'amministrazione dello Stato. 

Con l'avvento del Cristianesimo i boschi sacri furono lentamente abbandonati o più spesso distrutti. Ovvero vennero prima distrutti, ma come per i templi demoliti la gente attaccata alla vecchia fede vi si recava per pregare, finchè l'imperatore ormai cristiano non proibì la sosta nei luoghi pagani con pene severissime, fino alla pena di morte.

Solo nelle campagne permase il culto dei lucus e delle antiche pratiche pagane, per cui a volte gli stessi luoghi vennero adibiti a culti cristiani, vedi la Verna, il luogo sacro di S. Francesco dove c'era l'antico culto pagano della Dea Laverna, protettrice dei rifugiati, degli anfratti e dei nascondigli, tipici di questo territorio montano; e il culto pagano del Dio della montagna Pen, da cui deriva il nome del monte Penna, presso il quale sorge il santuario della Verna. 

Il bosco sacro era detto anche Nemus, e si pensa che l'antico tempio di Diana a Nemi avesse il suo bosco sacro che ha dato il nome al paese, mentre col nome lucus si intese un bosco che aveva una parte sacra, in genere recintata, detta Incus.

Quella separazione segnò la separazione di un'idea. Mentre nei primordi la natura era tutta sacra, poi divenne in parte sacra e in parte profana. Col cristianesimo perse ogni sacralità essendo ritenuta una materia senza vita da utilizzare a piacimento.

Un tempo i romani chiedevano al Genius loci, o al Nume del bosco il permesso di cacciare o tagliare legna, col cristianesimo tutto era stato fatto da dio per l'uomo, che poteva distruggere la natura come poteva, perchè era solo profana. Un tempo i boschi erano abitati da Numi, genii, Ninfe a Satiri, ora la natura è vuota e disanimata.



IL SITO DEL LUCUS PISAURENSIS

Annibale degli Abbati Olivieri Giordani nel pubblicare i Marmora Pisaurensia (1737) annunciò di avere appena scoperto a circa un miglio da Pesaro il complesso votivo di un antichissimo luogo di culto che identificò in un bosco sacro: il lucus Pisaurensis.

EX VOTO DEL LUCUS
Consapevole dell'importanza della scoperta e pressato dai tempi di pubblicazione dell'opera, l'Olivieri preferì limitarsi a una brevissima sintesi dei ritrovamenti.

Aveva infatti deciso di lasciare il materiale intatto per uno specifico trattato, il "De luco sacro veterum Pisaurensium", tanto più che aveva "luogo a sperare" che, proseguendo gli scavi, il numero dei reperti sarebbe aumentato "a larga mano".

Purtroppo il De luco è rimasto all'inizio della fase preparatoria e i dati che se ne possono trarre sono scarsi e ricalcano spesso quelli esposti nella prefazione dei Marmora. 

Quanto al materiale si apprende che consisteva in "tredici iscrizioni in lingua e carattere antico e confinante con l'Etrusco, quantità di donari e voti di metallo e terra cotta, statuette grandi di terra cotta, monete di offerte dai tempi più antichi fino ai secoli Romani¹".

I reperti permisero di identificare il sito con un lucus, ossia un bosco sacro romano. Negli scavi settecenteschi furono riportati alla luce monete, terracotte votive e bronzetti. Di particolare importanza sono quattordici cippi votivi in arenaria, con l'iscrizione del nome della divinità a cui il cippo è dedicato, e talvolta anche il nome del dedicante. I cippi sono stati datati alla fine del III sec. a.c., ovvero qualche decennio prima della fondazione della colonia romana nel 184 a.c.

La precisa localizzazione del sito era stata dimenticata dopo la scoperta, ma recentemente è stato nuovamente identificato con il declivio nord-orientale del "Colle della Salute" nei pressi del quartiere di Santa Veneranda. I reperti del bosco sacro (lacus Pisaurensis) rappresentano un patrimonio storico che molto possono aiutare per la ricostruzione della vicenda di Pesaro antica.

Contemporaneamente suscita un ampio dibattito tra storici, archeologi e linguisti, che se ben condotto può dar luogo a una interdisciplina indispensabile per procedere della conoscenza di quel luogo e di ogni luogo archeologico. 

Le radici della cultualità rintracciate nel lucus collocato a ridosso di Pisaurum nascono in ambito preromano e forse pre-coloniale, quando ormai i Romani sono si presenti nella zona, ma con tracce ancora esigue e indistinguibili. 

EX VOTO
IL COMPLESSO VOTIVO

Il complesso votivo attribuito al lucus Pisaurensis, conservato nel  museo, è costituito da are (comunemente denominate cippi), monete, terrecotte e bronzetti.


I CIPPI 

I cippi sono 14, in pietra arenaria e tutti epigrafici (CIL XI 6290 - 6303). Uno di essi reca, per frattura, solamente il nome mutilo della dedicante e il verbum donandi. 

Gli altri 13 portano dediche ad Apollo di Novensides, Diana, Feronia, Fides, Iuno, Iuno Loucina, Luno Regina, Liber, Marica, Mater Matuta, Salus. Essi costituiscono una delle più importanti testimonianze di età medio-repubblicana a noi pervenute. 

I più recenti studi, propendono per la datazione alta, da riferirsi ad un conciliabulum di coloni viritani formatosi alla foce del fiume Foglia (Pisaurus) precedente alla fondazione della colonia romana di Pisaurum (184 a.c.). Ma ciò sarebbe contraddetto dalle iscrizioni sui cippi del lucus derivanti necessariamente dalla romanizzazione, che col suo apporto legislativo e razionale definiva i confini dei luoghi sacri come di quelli profani, consci che leggi precise evitavano dissidi e conflitti.


LE MONETE

L'Olivieri scrisse delle monete nel De luco, ma né in questa sede né altrove fornì indicazioni sufficienti per individuarle oggi tra le 12.526 monete conservate ai Musei Oliveriani.

EX VOTO
Nè sono noti dati o cataloghi di altra mano, che consentano di rimediare alla situazione creatasi nel corso dei secoli. Le notizie più particolareggiate sono comunque quelle fornite dall'Olivieri, dal quale si apprende che le monete erano oltre 4.000 (delle quali una solo d'argento) e "involte...tra carboni intorno all'are"


I BRONZETTI

Purtroppo dalla "quantità di donari e voti di metallo" (De luco) ovvero "maximam votorum donariorumque... ex metallo capiam" (Marmora) di cui scrisse l'Olivieri, attualmente è possibile individuare con certezza solamente il bronzetto di cui lo studioso fornisce uno schizzo con la notizia del ritrovamento: "in luco sacro a. 1783 ara quadrata.." 


LIBRO - LIBERO

Riferisce l'Olivieri che vicino a questa ara tra carboni e monete fu scoperto questo idoletto di bronzo con le gambe rotte, la cui figura però spiega il LIBRO che è "LIBERO". Per tradizione vengono attribuite al lucus altre due statuette ed una maschera femminile di bronzo di piccole dimensioni.


LE TERRACOTTE

Tra le oltre 150 terracotte votive rinvenute nel lucus Pisaurensis si trovano numerose teste e mezzeteste isolate e tutte velate, sia maschili, che femminili e variamente acconciate, e una infantile (in realtà si troveranno diverse statuine di bimbi in fasce), ed ancora più numerosi ex voto anatomici (maschere, braccia, mani, gambe, piedi, mammelle, organi genitali maschili e femminili).

Sono inoltre presenti statue di piccole e grandi dimensioni (figure femminili e maschili, bambini in fasce) nonché animali domestici, zampe di animali, pesi da telaio ed un manufatto tronco-conico iscritto interpretato recentemente come terminus isoscelis. 



I L CULTO ANTICO DIVENTA ROMANO

DEA EX VOTO
Il culto nel lucus va valutato in base ai dati archeologici, epigrafici, linguistici e letterari e in particolare occorre tener presente un passo di Giulio Ossequente, come avevano già indicato Braccesi e Peruzzi, dove si cita il suddetto lucus. 

La possibilità che il culto d'epoca romana si innesti su luoghi e tradizioni precedenti è usuale nello stile romano, visti anche i numerosi casi analoghi contemplati a Gubbio, Spello, Assisi, a Bettona, a Urvinum Hortense e a Fanum Fortunae. 

La religione romana tendeva a integrare le altre religioni, non peccava di assolutismo come nelle religioni monoteiste, portatrici di guerre di religione, assolutamente sconosciute prima.



I CIPPI

TERMINI O ARE?

La scoperta del lucus è legata alla figura dello studioso pesarese Annibale degli Abbati Olivieri Giordani, autore dei Marmora Pisaurensia, nella cui prefazione annunciò di avere individuato a circa un miglio da Pesaro  un antico luogo di culto. Dunque tra il 1734 e il 1737 l'Olivieri scopre il lucus, ne comprende immediatamente l'importanza e raccoglie materiale che, purtroppo, non riuscirà mai a pubblicare, per colpa dell'ignoranza e della trascuratezza dei potenti. 

TERMINUS ISOSCELIS
Resta solo un prezioso manoscritto dell'autore (De luco sacro veterum Pisaurensium, Biblioteca Oliveriana, ms. 474, fasc. 6), unica fonte per affrontare i numerosi problemi che riguardano il bosco sacro. Il primo dei problemi è quello topografico e purtroppo Olivieri ne dà scarse indicazioni.

Sappiamo solo che il rinvenimento avvenne in un campo lontano un miglio da Pesaro, vicino alla Chiesa e Borgo di S. Veneranda, sotto alla Collina di Calibano, di proprietà da tempo immemore della famiglia Calibano. Maria Teresa Di Luca ha analizzato tutte le notizie molto attentamente. 

Purtroppo l'indicazione della proprietà di famiglia non restringe l'area, vista l'estensione delle proprietà degli Abbati, degli Olivieri, e dei Giordani, che confluiscono nel patrimonio dello studioso settecentesco. 

L'area che la studiosa pensa di aver individuato a seguito dei suoi studi, è quella che si trova sulle pendici nord-orientali del colle che unisce Santa Veneranda a San Pietro in Calibano, nei pressi della chiesetta di S. Gaetano. 

M. Teresa Di Luca non concorda con l'ipotesi di Peruzzi che colloca il lucus sul versante sud-orientale del colle, in zona Fonte Magnano, sulla base dell'interpretazione di un manufatto tronco-conico come "terminus isoscelis" (termine isoscele), dato che non si conosce il luogo di rinvenimento del terminus stesso. 

La proposta di Peruzzi riguardava il riconoscimento del manufatto come un "terminus isoscelis",  cioè un cippo di confine a forma di trapezio isoscele, mentre altre interpretazioni vi avevano identificato un segno di devozione, o un basamento a sé stante o relativo a una statua perduta. 

Il cippo è in terracotta, con la superficie percorsa da solchi obliqui, e incise lettere disposte obliquamente. Vi si riconoscono un delta maiuscolo, le parole 'luci coeref' e altre lettere (Cl e LX), forse indicazioni numerali. 

Peruzzi basa la sua ricostruzione sui Gromatici (p. 325 L.) e sull'osservazione delle caratteristiche fisiche dei luoghi, riconoscendovi la situazione descritta nel testo tecnico latino: l'altura è la chiesa di S. Gaetano presso S. Veneranda e, in relazione ad essa, il "flumen inferius" di cui si legge nei Gromatici è il Genica (S2) e ''l'aqua viva" corrisponderebbe a Fonte Magnano. 
EX VOTO ALLA MATER MATUTA

In questo manufatto Peruzzi trova che le parole "luci coerei" di grande importanza, perché "coereus"  sarebbe un aggettivo sabino, che indica l'appartenenza del lucus a Giunone sabina, confortato da una testimonianza letteraria, che identifica Giunone con Curis: "curiales mensae, in immolabatur lunoni, quae Curis appellata est" (Paul.-Fest., p. 56, 21-22 Linds.). 

Ciò che l'Olivieri rinvenne nel lucus è detto nel manoscritto De luco sacro (c. 5 r.): "tredici iscrizioni in lingua e carattere antico e confinante con l'Etrusco, quantità di donarii e voti di metallo e terra cotta, statue grandi di terra cotta, monete di offerte dai tempi più antichi fino ai secoli Romani". 

Nel 1783, si rinvennero ancora una base (CIL 12 XI, 6303), un bronzetto e altre monete. Il materiale si può vedere esposto nel Museo Oliveriano, ma non c'è certezza sulla provenienza dei reperti votivi minori: potrebbero esservene di pertinenti ad altre zone. 

Tra i reperti si riconoscono, spesso di mediocre fattura, in quanto ottenute a stampo, come di solito avviene per tutti gli oggetti votivi dell'epoca, teste e mezze teste, sia maschili che femminili, parti del corpo umano, dal torso alla mano, dagli organi genitali ai piedi, e zampe di animali, statuette di bovini, ma anche figure maschili e femminili stanti, bambini in fasce, e figure femminili in trono. 
Queste ultime farebbero pensare a Dee Madri tipo Mater Matuta.

I quattordici cippi sono in pietra arenaria, materiale di zona, alti circa un metro, con forma piramidale, eccettuato un cippo parallelepipedo (CIL 12 377=CIL XI, 6299), con un'iscrizione ciascuno. 

Tredici menzionano anche la divinità cui ci si rivolge. Una base è sprovvista della parte superiore, per cui l'iscrizione si riduce al gentilizio e al verbum donandi / Nomeci[a] / dede' (CIL 12 380=ClL XI, 6302). In realtà non sarebbero cippi ma altari, che fungevano come appoggio su cui i fedeli ponevano l'oggetto dedicato alla divinità, il cui nome è iscritto sulla base. 



LA DATAZIONE

La datazione delle are è controversa e va dalla fine del IV alla metà del Il secolo a.c.. Margherita Guarducci, sulla base di confronti con i cippi del santuario di Tor Tignosa, vicino a Lavinio, propone la datazione più alta, tra la fine del IV e i primi decenni del III sec. a.c. 

ZAMPA DI BOVINO - EX VOTO
Theodor Mommsen, di solito molto attendibile, data le are alla guerra annibalica, se non prima, e, anche in relazione a ciò, oltre che alla presenza delle coloniae di Sena Gallica (283 a.c.) e di Ariminum (268 a. ipotizza l'esistenza di un conciliabulum in prossimità della foce del Foglia (SS2,3). 

Filippo Coarelli propende per una cronologia alta. Susini propone un arco di tempo che va dalla fine del III secolo a.c. agli anni successivi alla deduzione della colonia di Pisaurum (184 a.c.), riprendendo l'ipotesi del "conciliabulam", cioè della presenza di coloni successiva alla Lex Flaminia e distinguendo due tipi di incisione, l'una con un solco a sezione curva (detta 'a cordone'), l'altra, presente sulle iscrizioni che riportano il nome del dedicante, a sezione triangolare. 

Cosi le basi con i nomi delle matronae vengono collocate anche agli anni successivi alla deduzione coloniaria. Cresci Marrone e Mennella collocano le iscrizioni con la menzione alla divinità alla fine del III sec. a.c, le altre alla I metà del Il sec. a.c., e vengono considerate posteriori quelle che menzionano le matronae.

Le monete ritrovate dall'Olivieri in sito, non possono aiutarci nella datazione perchè confuse tra le oltre dodicimila monete conservate nel Museo Oliveriano. 
Per Olivieri  le monete rinvenute 'tra carboni intorno all'are' , furono circa quattromila:

"Tra tante monete dissotterrate che a più migliaia ascesero una sola di Traiano ne ho saputa rinvenire, ed una sola di Crispina di Commodo, segno evidente che poco più dagli uomini era il Luco frequentatoLa di lui eversione però non la pongo che dopo i tempi di Costanzo. Una di lui medaglia ivi scoperta mi fa credere che sussistesse ancora al di lui tempo" (De Luco, c. 14 r). 

Assai interessante è la correlazione cronologica indicata da Braccesi tra l'affievolirsi del culto nel lucus e la svolta d'età augustea, allorquando Pisaurum si lascia repentinamente alle spalle la tradizione dei prodigi infausti: l'ipotesi è che il lucus servisse a togliere la contaminazione antichissima dell'aurum Gallicum.

SENI EXVOTO
L'analisi linguistica condotta sui testi induce Peruzzi a riconoscere nel latino delle iscrizioni un latino né rozzo né arcaico, ma un latino diverso da quello di Roma e proprio della classe dominante a Pisaurum, 'per cultura e per censo se non anche per numero', che presenta una facies prettamente sabina. 

Per la cronologia Peruzzi non crede la dedica a Liber anteriore al senato-consulto del 186 a.c., (CIL 12, 581) che vieta si i riti orgiastici e le associazioni per organizzare baccanali, ma non il culto di Liber. 

Peruzzi ascrive, inoltre, a un periodo di tempo più circoscritto tutte le arae, anche in ragione della rapida scomparsa della lingua che esse testimoniano; riguardo alle differenze nell'incisione, al di là delle diverse officine, Peruzzi accetta un'anteriorità delle basi con i soli nomi delle divinità, visto che esse sono gli appoggi per i doni che i fedeli offrono alla divinità e si trovano nel lucus fino dalla sua istituzione, che Peruzzi vuole coeva alla deduzione coloniaria.

Di poco posteriori sarebbero le restanti iscrizioni, che si sono aggiunte al gruppo originario. Tra esse Peruzzi individua 'un preciso caposaldo di cronologia assoluta'; si tratta dell'iscrizione CIL 12 378 (=CIL XI, 6300) che riporta:
'lunone Re[ginaJ / matrona / pisaurese / dono dedrot'
"L'ordo matronarum di Pisaurum celebra un sacram publicum per Giunone Regina". L'ordo matronaram nella già dedotta colonia di Pisaurum,  espiano un prodigio nefasto avvenuto nel territorio o nella città stessa. 

L'evento prodigioso potrebbe essere stato semplicemente la guerra annibalica, o la presenza di Asdrubale nella zona. Oppure si può ricercare il prodigium tra gli eventi innaturali e inquietanti riportati dalla tradizione per Pisaurum. 

AREA DEI RINVENIMENTI
DEL LUCUS PISAURENSIS
Scrive Braccesi: 'il misterioso lucus è frequentato luogo di culto fin dai primi anni di vita della colonia, quando già la tradizione, per il 163 a.c., registra il primo sconcertante prodigio avvenuto in Pesaro'. Si tratta del prodigio del sole notturno descritto da Giulio Ossequente (Prod., ad a. 657 Rossbach, p. 168). 

In effetti, considerando aspetti cultuali e presenze femminili, Braccesi aveva potuto sottolineare la connessione del lucus con cerimonie espiatorie (piacula); la presenza del culto di Apollo, comunque divinità dalla connotazione purificatrice e l'atmosfera di religiosità femminile sono elementi che si ritrovano congiunti nella grandiosa cerimonia espiatoria indetta in Roma nel 207 a.c. per scongiurare terrificanti prodigi alla vigilia della battaglia del Metauro (Liv., 27 , 37, 7-15). 

Un'altra iscrizione posteriore alla fondazione della colonia, che parla di matronae, ci informa di un atto di culto privato, sebbene di signore abbienti e appartenenti all'élite locale, è CIL 12 379 (=CIL XI, 6301); il testo riporta: 
'Alatre / Matuta / dono dedro / matrona / Caria // Pola Livia / deda'. 

Numerosi problemi sono sorti in relazione all'interpretazione della parola deda alla linea 7, Mommsen vede in deda una forma verbale (un perfetto di tipo umbro), ma la De Bellis lo esclude perchè il verbum donandi è in effetti già espresso nel testo, ed esclude che si tratti del nome di una terza matrona, come aveva proposto il Meister ai primi del Novecento.

Deda, in latino "dida", significa mammella ed è un sostantivo plurale femminile, che possiamo tradurre, sulla scorta di Peruzzi, con 'nutrici', appartenenti alle rispettive gentes e perciò prive di nomen. Mania Curia e poi la Livia sono matronae importanti, legate da una comune appartenenza all'élite di Pisaurum Matronae che rappresentano due importanti famiglie come quelle dei Curii e dei Livii.

Dalle indagini e dai reperti storici, si deduce che il santuario era dedicato a Divinità Salutifere, con particolare riferimento al culto delle acque. Presso gli abitanti della zona rimane infatti il ricordo delle Fontanine, dove ci si recava a prendere acqua perché particolarmente buona. Esse si trovavano ai piedi della chiesetta di san Gaetano, e sono state prosciugate nel 1963. .



BIBLIO

- Filippo Coarelli - "Il lucus Pisaurensis e la romanizzazione dell'Ager Gallicus" - in Christer Bruun (a cura di) - The Roman Middle Republic: Politics Religion and Historiography c.400-133 C.C. - Institutum Romanum Finlandiae - Rome 2000 -
- Maria Teresa Di Luca, Gabriele Baldelli, Pier Luigi Dall'Aglio - Il lucus Pisaurensis (Pesaro e l'Archeologia. Quaderni tematici) - Comune di Pesaro - 2004 -
- Mario Luni - Archeologia nelle Marche - 2003 -
- Nereo Alfieri - Scritti di topografia antica sulle Marche - a cura di Gianfranco Paci - Ed.Tipigraf - 2000 -



CULTO DI VATICANUS

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Nella religione romana, Vaticano o Vagitano, in latino Vaticanus o Vagitanus, era una divinità minore, la cui funzione era assistere i neonati nel loro primo vagito. Sebbene la forma più attestata del nome sia "Vaticanus" e non "Vagitanus", diversi autori classici, fra cui Agostino d'Ippona e Aulo Gellio, menzionano questa divinità indicando l'origine del nome in vagitus (vagito).

Sant'Agostino, ne La città di Dio (De civitate Dei contra Paganos), sostiene questo argomento per dimostrare come le divinità pagane fossero solo personalizzazioni di eventi naturali. La corrispondenza fra i nomi delle divinità minori e la loro sfera di influenza è in effetti comune a molte mitologie indo-europee, e nella stessa religione romana si trovano numerosi esempi analoghi, tra cui molti legati al processo del parto, della nascita e della crescita.
IL COLLE VATICANO
Questo avvenne perchè la religione romana discendeva in parte da una religione italica e autoctona, a cui si aggiunsero la religione etrusca e soprattutto quella greca, dato che i latini avevano nel nord-Italia gli Etruschi e nel sud-Italia i greci della Magnagrecia. Ma la religione italica e autoctona proveniva dalla religione animistica e ne portava ancora diverse vestigia.

Nella religione animistica ogni evento naturale era provocato o accompagnato da una specie di esseri sovrannaturali che vennero poi ritenuti semidei in quanto non divinità vere e proprie. Questi esseri vennero poi personalizzati come entità minori preposte a vari compiti, come appunto far nascere e crescere umani, animali e piante, nonchè animare acque, rocce, caverne o montagne.

IL PRIMO VAGITO
Ad un certo punto presero immagini umane diventando ninfe, satiri, o esseri semidivini come Vaticanus, o come gli aiutanti di Cerere, o come i Lari posti ai crocicchi. In religioni più nordiche divennero gnomi (geni dell terra), salamandre (geni del fuoco), ondine (geni dell'acqua) ed elfi (geni dell'aria). 

Nel territorio italico divennero l'Auguriello con zoccoletti di cavallo, il Mazzamurello (il folletto del sud-Italia), o il Gambastorta che sposta le tegole dei tetti, o lo Gnefro (della cascata delle Marmore), o l'Incubo che procura sogni paurosi, o il Monaciello napoletano, o il Linchetto della vendemmia, o gli Ometti dell'Alto Adige, o il Travicello che salvaguardava i travi della casa e così via.

Il Vaticanus, data l'importanza dei bambini, soprattutto per la forte mortalità nell'infanzia, era necessariamente pregato e invocato, niente vagito niente bambino. Così il genio, o spirito, o folletto, del primo vagito, divenne un Dio minore, minore rispetto agli altri Dei del Panteon ma non per questo poco importante, tanto è vero che gli era stato dedicato un tempio sul colle del Vaticano che appunto prendeva nome da Dio.



BIBLIO

- Agostino d'Ippona - De civitate Dei - Venezia - Antonio Miscomini - circa 1483 -
- Renato Del Ponte - Dei e miti italici. Archetipi e forme della sacralità romano-italica - ECIG - Genova - 1985 -
- Carlo Fea - Nuova descrizione de' monumenti antichi ed oggetti d'arte contenute nel Vaticano e nel Campidoglio - 1819 -

MALATTIE PANDEMICHE NELL'IMPERO ROMANO/BIZANTINO

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PESTE GIUSTINIANEA
"Cantami, o Diva, del Pelìde Achille l'ira funesta, che infiniti addusse lutti agli Achei… Irato al Sire, destò quel Dio nel campo un feral morbo... "

L’Iliadedi Omero dimostra come nell’antichità le epidemie fossero interpretate come un segno dell’ira divina (ma pure oggi), e qui si allude alla Guerra di Troia e all'epidemia avvenuta in Turchia verso il 1250 a.c. o poco meno.



LE EPIDEMIE 

Tutte le antiche civiltà, ma pure le moderne, hanno dovuto affrontare varie ondate epidemiche che si sono spesso protratte per molti anni. In Europa le più calamitose furono la peste, il colera, il vaiolo e il tifo, spesso accompagnate da carestie e guerre, o da grandi periodi di freddo, imperversato una dopo l’altra, ma pure contemporaneamente. La più letale fu la peste nera che devastò l’Europa per 5 anni, dal 1347 al 1352, sterminando tra il 25 e il 50% della popolazione.

I sopravvissuti erano immunizzati, cosicché dopo le malattie infettive colpivano solo i bambini piccoli. Perciò, il morbillo si ritiene, a torto, una malattia infantile. Esattamente come il vaiolo causato da un virus particolarmente contagioso che ha imperversato a lungo e fu debellato solo nel 1979, cosicché se ne interruppe la vaccinazione. Anche la poliomielite o la difterite che colpiscono soprattutto i bambini di età inferiore a 5 anni, sono ormai quasi debellate.



TUBERCOLOSI

Egitto - Alcune mummie egizie del 3000-2400 a.c. riportano i segni di infezione da tubercolosi, come la mummia del sacerdote Nesperehen. E’ possibile che Akhenaton e sua moglie Nefertiti siano morti per la tubercolosi e ci sono prove che centri per il ricovero degli affetti da questa malattia esistessero in Egitto fin dal 1500 a.c.
Il papiro di Ebers, uno dei più completi testi medici dell’antico Egitto, descrive una malattia polmonare molto simile alla tubercolosi. La malattia veniva trattata con una mistura di acacia, piselli, frutta, sangue di animali e insetti, sale e miele.

MARCO TERENZIO VARRONE
Roma - A Roma non esisteva un'organizzazione sanitaria con ospedali pubblici o privati per la cura dei malati, a parte il Tempio di Esculapio sull'Isola Tiberina, ma allo scopo esistevano medici per tutte le tasche, più cari o meno cari a seconda della fama che si erano procurati nella cura dei loro malati.
Viceversa diverse strutture sanitarie erano invece presenti in ambito militare con ospedali da campo, medici e infermieri per la cura dei soldati feriti in battaglia. Indubbiamente la medicina romana aveva un grosso limite nell'ignoranza delle infezioni e delle contaminazioni, cosa che del resto sarà acquisita solo in epoca moderna, e la scoperta dei virus risale a 120 anni fa. Questo nonostante Marco Terenzio Varrone nel suo "De re rustica libro III" da quel precursore che era, avesse già anticipato alcuni concetti dell'acrobiologia e dell'epidemiologia, quando, ad esempio avverte di stare lontani dalle zone paludose perché queste zone ospitano dei corpuscoli, minuscole creature che non si possono vedere con gli occhi, ma che fluttuano nell'aria e che possono entrare nel corpo attraverso il naso e la bocca e provocare gravi malattie.
Marco Terenzio Varrone ebbe questa intuizione nel 36 a.c. e fu uno dei primi a parlare di germi. Ma la medicina, a base di erbe e minerali era nonostante i tempi piuttosto buona, valendosi delle acquisizioni in campo degli Egizi e dei Greci.



INFLUENZA

L’influenza non è dei tempi recenti, ma gira per il mondo da millenni, mutando in continuazione. La prima descrizione dei sintomi dell’influenza fu redatta da Ippocrate circa 2400 anni fa, ed è un quadro piuttosto serio, ma è probabile che fosse in circolazione da qualche millennio prima. Sembra che con i secoli l'essere umano si sia un po' immunizzato, per cui non è stata in seguito molto virulenta.



LEBBRA

5000 a.c. - E' un’infezione causata da due batteri, il Mycobacterium leprae o il Mycobacterium lepromatosis e i suoi sintomi possono manifestarsi anche dopo 10 anni dal contagio. Causa granulomi su nervi, tratto respiratorio, pelle e occhi; col tempo si perde la capacità di provare dolore e si manifestano deformità.

Le tracce più antiche della lebbra si trovano in reperti scheletrici umani della valle dell’Indo risalenti a circa 5.000 anni fa. Comunque Ippocrate descrisse la lebbra nel 460 a.c., malattia era ben conosciuta nell'antica Grecia, in Cina, in Egitto e in India. La malattia fu descritta anche da Aulus Cornelius Celsus e Plinio il Vecchio.



IL COLERA

Un’infezione intestinale causata da alcuni ceppi del batterio Vibrio cholerae che si diffondono attraverso cibo e acqua infetti da feci umane. All'inizio provoca diarrea con vomito e crampi muscolari, di una tale gravità da portare alla disidratazione in poche ore.

V secolo a.c. - Ippocrate utilizzò per primo il termine “colera”, anche se non si hanno prove certe che si riferisse a questa malattia.



FEBBRE TIFOIDE

430 a.c. - Febbre tifoide durante la guerra del Peloponneso che uccise un quarto delle truppe di Atene ed un quarto della popolazione, nel giro di quattro anni. Questa malattia fiaccò la resistenza di Atene, ma la grande virulenza della malattia ha impedito un'ulteriore espansione, in quanto uccideva i suoi ospiti così velocemente da impedire la dispersione del bacillo. La causa esatta di questa epidemia non fu mai conosciuta. Nel gennaio 2006 alcuni ricercatori della Università di Atene hanno ritrovato, nei denti provenienti da una fossa comune sotto la città, presenza di tracce del batterio.

IL COLERA OVVERO LA PESTE

LA PESTE

399 a.c. - Lo scopo del primo lettisternio romano era di placare l'ira degli Dei che avevano inviato un inverno rigidissimo, cui era seguita nell'estate una pestilenza. Il lettisternio fu celebrato dai "duumviri sacris faciundis ed ebbe la durata di otto giorni". Ai santuari con i letti delle divinità sfilarono in venerazione i senatori e patrizi con rispettivi mogli e i figli, poi tutte le tribù e gli ordini con alla testa il pontefice massimo, e poi in fondo i giovani non sposati.
Durante il lettisternio, come da prescrizione e per fede religiosa, cessarono le liti e le private competizioni, e vennero liberati molti prigionieri.

165 d.c. - 180 d.c. - Scoppia la peste. Il medico greco Galeno era presente allo scoppio dell'epidemia tra le truppe stanziate ad Aquileia nell'inverno del 168/69. Presumibilmente si trattò di vaiolo, portata dalle truppe di ritorno dalle province del Vicino Oriente, uccise cinque milioni di persone che soprattutto per l'epoca era uno sproposito.

166 d.c. - Nel Mausoleo dei Valeri, accanto alla triade divina (forse Minerva Giunone e Diana), i componenti della famiglia dei Valeri sono atteggiati come antichi filosofi e a sorvegliare il sonno dei fratellini Olimpiano e Valeria, uccisi da un' epidemia di peste nel 166, la statua di Hypnos, il dio del sonno.

167 d.c. -
In seguito a una pestilenza l'imperatore Marco Aurelio indice un lettisternio.

177 d.c. - Il focolaio scoppiò di nuovo nove anni dopo, secondo lo storico romano Cassio Dione, e causò fino a 2.000 morti al giorno a Roma, uccidendo un quarto degli infetti. La peste avrebbe imperversato nell'impero per quasi 30 anni, facendo secondo le stime tra i 5 e i 30 milioni di morti. La malattia uccise circa un terzo della popolazione in alcune zone, e decimò l'esercito romano.

Ammiano Marcellino afferma che la peste dilagò fino alla Gallia ed alle legioni stanziate lungo il Reno. Eutropio asserisce che moltissime persone morirono in tutto l'impero. Secondo lo scrittore del V secolo Paolo Orosio, molte città e villaggi della penisola italiana e delle province europee persero tutti i loro abitanti. Quando l'epidemia si spostò verso nord raggiungendo il Reno, infettò anche i popoli germanici e galli posti all'esterno dei confini dell'impero.

Orosio cita febbre, diarrea, infiammazioni della faringe, eruzioni sulla pelle, a volte asciutte a volte purulente, che apparivano verso il nono giorno di malattia. L'informazione di Galeno non definisce chiaramente la natura della malattia.

249 d.c. - 262 d.c. - La peste di Cipriano fu una pandemia che colpì l'impero romano dal 249 al 262 d.c. circa, secondo altri dal 251 al 270.

251 d.c. - ca. 270 d.c. - Lo storico William McNeill afferma che la peste antonina e la successiva peste di Cipriano  furono due malattie diverse, una di vaiolo e l'altra di morbillo, anche se non necessariamente in questo ordine.



IL VAIOLO

La grave devastazione che la popolazione europea subì da queste due epidemie potrebbe far pensare che queste persone non fossero mai state colpite dalle due pandemie, che altrimenti avrebbero reso immuni i sopravvissuti. Altri storici credono che si sia trattato in entrambi i casi di vaiolo, ipotesi più corretta dato che la stima molecolare data l'evoluzione del morbillo dopo il 500.



LA PESTE BUBBONICA  - DAL 541 AL 750 d.c.  - DURO' BEN 209 ANNI!!!

La peste bubbonica usa come veicolo principale le pulci infette: passando da mammifero a mammifero, ma anche anche tramite contatto con i fluidi corporei di animali o esseri umani infetti. Senza trattamenti specializzati, la mortalità varia dal 30% al 90%.

541 d.c. - Morbo di Giustiniano, a partire dal 541; fu la prima pandemia nota di peste bubbonica,
causata dallo stesso batterio, lo Yersinia pestis, che colpì l'Europa nel XIV secolo (la peste nera), con effetti simili. Partendo dall'Egitto giunse fino a Costantinopoli; secondo lo storico bizantino Procopio, morì quasi la metà degli abitanti della città, a un ritmo di 10.000 vittime al giorno nella sola Costantinopoli.
La pandemia si estese nei territori circostanti, uccidendo complessivamente un quarto degli abitanti delle regioni del Mar Mediterraneo occidentale, non si trovavano luoghi dove seppellire i morti e i cadaveri dovevano spesso essere lasciati all'aperto. In pratica causò la morte di 25 milioni di abitanti solo nell'impero bizantino.

546 d.c. - La peste influenzò anche la Guerra gotica (535-553), Roma, nel 546, rimase senza quasi soldati e poi senza abitanti per alcuni mesi: Procopio di Cesarea riferisce che fu Totila a deportare in Campania i pochi abitanti rimasti.

560-570 d.c. - La peste non cessa e continua a mietere vittime. Il Liber Pontificalis ricorda come sotto papa Benedetto I (575-579) un'ondata epidemica seguita a grave carestia indusse molte città assediate dai longobardi ad aprire loro le porte. Paolo Diacono scrive che la peste nel 565 decimò la Liguria:
"tutti erano scappati e tutto era avvolto nel silenzio più profondo. Due figli se ne erano andati lasciando insepolti i cadaveri dei loro genitori; i genitori dimenticavano i loro doveri abbandonando i loro bambini".

La peste si ripresentò a ondate fino al 750 circa, anche se non raggiunse più la virulenza iniziale. Le stime più accreditate parlano di 25 milioni di decessi. Ma vi sono stime di storici che raggiungono la cifra di cento milioni.
PESTE ANTONINA

I SALTI DI SPECIE

VAIOLO E MORBILLO

Secondo William McNeill furono i primi salti di specie, nell'attacco all'umanità, di due diverse malattie da ospiti animali, una di vaiolo e una di morbillo, anche se non necessariamente in questo ordine. 


VAIOLO

Dionysios Stathakopoulos afferma invece che entrambi i focolai erano di vaiolo. 


EBOLA

Secondo lo storico Kyle Harper, i sintomi attribuiti dalle antiche fonti alla peste di Cipriano corrispondono meglio a una malattia virale che causa una febbre emorragica, come l'ebola, piuttosto che il vaiolo. Al contrario, egli sostiene che la peste antonina sia stata causata dal vaiolo.



SALTI DI SPECIE AUTOLIMITANTI

La maggior parte degli eventi di salto di specie si traduce in casi auto-limitanti, cioè da animale a uomo senza però ulteriore trasmissione da uomo a uomo, come accade, ad esempio con: 
- rabbia, 
- antrace,
- istoplasmosi 
- idatidosi.

Altri agenti patogeni zoonotici possono essere trasmessi dall'uomo per produrre casi secondari e persino per stabilire catene di trasmissione limitate come: 
- filovirus di Ebola e Marburg, 
- coronavirus MERS e SARS-related, 
- alcuni virus dell'influenza aviaria. 



DA ANIMALE-UOMO A UOMO-UOMO

Infine, alcuni eventi possono portare all'adattamento finale del patogeno agli umani, che diventano un nuovo serbatoio stabile, come è avvenuto con il virus dell'HIV che ha provocato la pandemia di AIDS. In effetti, la maggior parte dei patogeni che attualmente sono esclusivi degli umani sono stati probabilmente trasmessi da altri animali in passato.



BIBLIO

- Q. Sereno Sammonico - La medicina in Roma antica - Il liber medicinalis di Quinto Sereno Sammonico - a cura di Cesare Ruffato - Utet - Torino - 1996 -
- Andrea Piccioli, Valentina Gazzaniga, Paola Catalano - Bones: Orthopaedic Pathologies in Roman Imperial Age - Springer - 2015 -
- Celsio - De medicina liber, IV - cap. XXI
- Dioscorides Pedanius - De materia medica - ed. M. Wellmann and Weidmann - Berlin - 1907 -
- Past pandemics that ravaged Europe - BBC News - 2005 -
- Kyle Harper - Solving the Mystery of an Ancient Roman Plague - The Atlantic - 2017 -
- Dionysios Ch. Stathakopoulos - Famine and Pestilence in the Late Roman and Early Byzantine Empire - Taylor and Francis - 2017 -

AMBRACIA - ARTA (Grecia)

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MOSAICO DI AMBRACIA
Ambracia, odierna Arta, situata nella periferia dell'Epiro, fu un'antica città greca, capitale del regno d'Epiro (Epirus vetus) durante il regno di Pirro (318 a.c. - 272 a.c.). Nella mitologia greca, Ambracia (in greco antico: Άμβρακία) era una principessa Oeachalian e figlia di Melaneus, figlio di Apollo e Oechalia, e quindi sorella di Eurito. La città di Ambracia in Epiro prese il suo nome (Antoninus Liberalis - Metamorphoses).

Secondo diversi autori essa venne fondata da Gorgo, figlio di Cipselo (tiranno di Corinto dal 657 al 628 a.c.), nella fertile valle del fiume Aracto, a nord della baia di Azio. Già dal V secolo a.c. il nome originale passa da Ἀμβρακία a Ἀμπρακία.

TEATRO DI AMBRACIA

FRANCESCO ZANOTTO

- Scimmo di Chio (v 452) dice che Ambracia è una colonia di Corintij e che Gorgo, figlio di Cipselo, ne fu il primo abitante. 
- Strabone (l VII) scrive che la città di Ambracia è opera di Tolgo figlio di Cipselo. 
- Antonio Liberale (Met l 4) chiama Torgo quello che Scimmo di Chio e Strabone chiamano Gorgo e Tolgo e lo fa fratello di Cipselo. 
- Questo autore assicura che Ambracia diggià esisteva quando vi fu spedita una colonia di Corinti. 
- Cipselo, tiranno di Corinto, viveva 620 anni circa prima dell'era volgare.
- Gli Ambraci gemevano sotto la tirannia di Faleco quando la colonia dei Corinti giunse in Epiro condotta da Cipselo che li tolse dalla tirannia di Faleco e verosimilmente li pose sotto la propria poichè Periandro figlio di Cipselo è chiamato tiranno degli Ambraci da Aristotele e da Massimo di Tiro ed Aristotele dice che il popolo avendo scacciato Periandro recuperò la sua libertà.
- Gli Ambraci ebbero pure dissenzioni coi Molossi da cui furono vinti.
- Furono egualmente soggiogati dai re d'Epiro e sconfitti dagli Ateniesi secondo Tucidide (l. 5) comandati da Demostene. 

LE MURA ANTICHE DI AMBRACIA
- Diodoro di Sicilia dice che la città d Ambracia restò quasi distrutta per le conseguenze della guerra contro gli Ateniesi. 
- Demostene riferisce che Filippo padre d'Alessandro re di Macedonia assalì poscia gli Ambracj. 
- Secondo Polibio, Marco Fulvio li sottomise ai Romani e Paolo Emilio li spogliò dei loro privilegi e dei loro beni come il resto degli Epiroti al dir di Plutarco (in Emilio). 
- Pausania (l. 10 c. 18) nota che vedevasi a Delfo un asino di bronzo offertovi dagli Ambraci in riconoscenza di una vittoria riportata sopra i Molossi. Le statue, i quadri e le cose preziose che i Romani tolsero ad essi sono innumerabili."

(Dizionario pittoresco di ogni mitologia - Francesco Zanotto - 1840)

IL TEATRO PICCOLO DI AMBRACIA

SECONDO UN'ALTRA TRADIZIONE

Secondo un'altra tradizione Ambracia fu, originariamente, una città dei Tesproti (antica tribù greca di Tesprozia, Epiro, consanguinei ai Molossi), fondata da Ambrace, figlio di Tesproto, mitico figlio di Licaone.

I Molossi erano un'antica tribù epirota che abitava la regione dell'antico Epiro sin dall'età Micenea, in antichità avevano abitato le coste della Tessaglia, e vennero portati da Neottolemo, figlio di Achille caduto presso Troia, in Epiro dove occupò Dodona. Ambracia era così celebre per l’oracolo di Giove che da tutta la Grecia erano inviati spesso ambasciatori per consultare l’oracolo. Qui i Molossi tanto furono forti per le armi e per la loro potenza e la loro fama tanto crebbe che furono ritenuti i più forti di tutti i popoli confinanti.
Tuttavia non venivano amati dai Greci, che li ritenevano ignoranti e rozzi. La più antica delle loro città fu Passarone, in seguito espugnata dai Romani.

Ambracus figlio di Tesproto pose le fondamenta della città d Ambracia presso la foce dell'Arete, oggidì Arta, sul golfo dello stesso nome.
Nella seconda metà del VII secolo a.c. (tradizionalmente nel 635 a.c.) nella città vi si insediarono i Corinzi di Cipselo, che la trasformarono in una città greca.

Presto Ambracia divenne una florida e importante città tanto da inviare 7 navi ad Atene durante la II guerra persiana ( il secondo tentativo di aggressione, invasione e conquista della Grecia ad opera dei Persiani, comandati da Serse I di Persia, tra il 480 e il 479 a.c.)

NECROPOLI OCCIDENTALE DI AMBRACIA
Fu in guerra contro i vicini acarnaniesi, appartenenti alla Lega Acarnana, una alleanza tra più città dell'Acarnania (regione greca fondata nel V secolo a.c., che si affaccia sul Mare Ionio, situata tra il fiume Acheloo ed il Golfo di Arta), durante la guerra del Peloponneso, il secondo tentativo di aggressione, invasione e conquista della Grecia ad opera dei Persiani, comandati da Serse I di Persia tra il 480 e il 479 a.c.

Nel IV secolo a.c. divenne uno stato federale con a capo Anfilochia per il controllo della baia, fino allo scoppio della guerra del Peloponneso, dove Ambracia raggiunse la massima potenza. Nel 426 a.c. la città fu però sconfitta da questi suoi nemici grazie al loro alleato ateniese.

Occupata dalla Macedonia al tempo di Filippo (382 -386 a.c.), Ambracia passò poi a Pirro, re dei Molossi, che l'abbellì.
Dopo la morte di Alessandro Magno (323 a.c.), la città venne conquistata dalla Lega Etolica.

Nel 212 a.c., gli Etoli affiancarono i Romani accanto a Sparta contro Filippo V nel corso della I guerra macedonica (214 - 205 a.c.), ma nel 206 a.c. dovettero giungere a una pace separata con Filippo V, che li indebolì ulteriormente. 

RESTI DEL TEMPIO DI APOLLO
Schieratisi con Filippo nella guerra di Creta, nella II guerra macedonica, combatterono al fianco di Roma, alleatasi con Attalo I di Pergamo e Rodi, contro Filippo V di Macedonia alleato del re di Bitinia, Prusia I. 
Filippo venne sconfitto e costretto ad abbandonare i possedimenti macedoni in Grecia e in Tessaglia il console Tito Quinzio Flaminino proclamò nel 196 a.c. la libertà di tutta la Grecia.

Nel 189 a.c. venne eletto console Marco Furio Nobiliore che si recò in Etolia al comando di un esercito. L'Etolia, infatti, aveva parteggiato per Antioco III di Siria e, quando questi fu sconfitto alla battaglia di Magnesia, dovette subire la rappresaglia romana. La capitale, Ambracia, si arrese dopo un lungo assedio.

Per celebrare la sua vittoria (31 a.c.) su Marco Antonio ad Actium, Ottaviano (futuro Augusto) fondò la nuova città di Nicopoli Atia a pochi Km di distanza; di conseguenza, Ambracia andò in declino.
PONTE DI ARTA

IL PONTE ROMANO

Arta è caratterizzata principalmente da un gran numero di interessanti monumenti bizantini. L'emblema della città è il famoso ponte di Arta. rinomato per la sua architettura e la leggenda che coinvolge il capomastro, che si suppone abbia sepolto la moglie nelle fondamenta, per placare gli Dei altrimenti il ponte aveva continui crolli. Si dice che il ponte risalga all'epoca di Pirro, oggetto però di diverse trasformazioni e adattamenti.

Secondo altri, e il suo aspetto lo conferma decisamente, il ponte è romano ed è a cinque arcate e quattro oculi a livello di guardia per le piene che qui possono defluire, tral'altro alleggerendo il peso del ponte.


I MONUMENTI

- Il teatro (III sec. a.c.) scoperto di recente,
- Le fondamenta del tempio dorico di Apollo Pythios (V sec. a.c.),
- Una parte delle antiche mura,
- La base di un monumento del VI sec. a.c. (la fortezza di Arta fu costruita nel XIII secolo in un tratto di mura antiche). Attualmente è utilizzato come teatro comunale,
- Il ponte romano.
Si conoscono tre principali parti in cui la città di Ambracia era suddivisa:
- L'acropoli
- Il monte Perrante
- Il porto Ambraco




TROVATO UN MOSAICO IN CIOTTOLI AD AMBRACIA (Fonte)

Un mosaico in ciottoli pertinente a dei bagni del IV secolo a.c. è venuto alla luce durante uno scavo presso il piccolo teatro dell'antica città di Ambracia, scavo condotto dall'Eforato delle Antichità di Arta, in Grecia.

Il mosaico è composto da ciottoli di fiume dalla superficie arrotondata che rappresentano scene legate all'acqua, amorini che giocano con gli animali, cigni, pesci, uccelli acquatici ed un polipo. Il mosaico è antecedente alla costruzione del teatro ed è simile a quello scoperto negli anni '70 nella parte orientale del teatro e successivamente rimosso per essere esposto nel Museo Archeologico di Arta.

La datazione del mosaico è stata attribuita in base alle sussistenze architettoniche ed in base ai mosaici in ciottoli trovati nelle terme dell'antica città di Corinto e datati alla metà del IV secolo a.c.Arta, che si trova nella Grecia occidentale, è stata abitata ininterrottamente dall'antichità all'età moderna.

La stratigrafia dei vecchi insediamenti è tuttora visibile in varie parti della città attuale. Il piccolo teatro, per esempio, si trova proprio nel centro della città moderna. Nell'antichità Arta era conosciuta come Ambracia.

Molto noto è il suo ponte medioevale sul fiume Arachthos, ma anche per i resti risalenti all'epoca di Pirro, re dell'Epiro, l'antica regione greca nella quale era situata la città. Consistenti sono anche i resti dell'epoca bizantina, quali la chiesa Panagia Paregoretissa, costruita nel 1290 da Niceforo I Komnenos Doukas.

Il primo insediamento nell'area ora occupata dalla moderna Arta risale al IX secolo a.c.. Ambracia venne fondata come colonia corinzia nel VII secolo a.c.. Nel 294 a.c., dopo molti anni di semi-autonomia sotto la sovranità macedone, Ambracia venne ceduta a Pirro, re dei Molossi e dell'Epiro.
Questi fece di Ambracia la sua capitale e il punto di partenza per la sua spedizione in Italia contro i Romani. Nel frattempo Pirro adornò la città con palazzi, templi e teatri. Nel 146 a.c. Ambracia venne inserita nei possedimenti romani.

BATTAGLIA ROMANA DELLE TERMOPILI (191 a.c.)

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PASSAGGIO DELLE TERMOPILI
Le Termopili sono una località greca dove nell'antichità esisteva uno stretto passaggio costiero. Il nome significa all'incirca "porte calde" e deriva dalla presenza di numerose sorgenti naturali di acqua calda.

È nota soprattutto per la battaglia delle Termopili del 480 a.c., nella quale una piccola forza greca comandata dal re di Sparta Leonida I e composta da vari contingenti, tra i quali spiccavano i soldati scelti spartani, rallentò l'avanzata dell'esercito persiano comandato da Serse I a prezzo della quasi completa distruzione; da allora il termine «termopili» è utilizzato per indicare una tragica ed eroica resistenza nei confronti di un nemico molto più potente.
La battaglia delle Termopili ebbe luogo nell'aprile del 191 a.c. tra l'esercito seleucide di Antioco III il Grande (241 - 187) e quello romano comandato da Manio Acilio Glabrione. Manlio era stato tribuno della plebe nel 201 a.c. e si era opposto alla richiesta del console Gneo Cornelio Lentulo che voleva il governo della provincia d'Africa, assegnata invece a Publio Cornelio Scipione per unanime voto delle tribù.

L'anno successivo fu nominato decemvir sacrorum, per il controllo dei riti sacri, venendo poi eletto edile, e poi pretore nel 196 a.c., in cui presiedette ai Giochi Plebei nel Circo Flaminio. Homo pius, utilizzò le multe per l'occupazione impropria dei terreni demaniali per la costruzione di statue in bronzo della Dea Cerere e degli Dei Liber e Libera. 

Era, seppure plebeo, uomo erudito e ottimo generale, stimato peraltro dall'aristocratico Scipione che ne coltivava l'amicizia.

Eletto console nel 191 a.c., fu chiamato a condurre la guerra romano-siriaca contro Antioco III che stava avanzando in Acarnania, in Grecia, ponendo sotto assedio molte città. Verso la fine del 192 a.c. Antioco attaccò la Grecia con circa 10.000 fanti, 500 cavalieri, sei elefanti ed una flotta composta da 100 navi da guerra e 200 da carico. Non era un grande esercito.

I Romani, che avevano reclutato ben 20.000 legionari romani e 40.000 tra gli alleati Italici, con la primavera riuscirono ad inviare ad Apollonia in Illiria, un esercito di 20.000 fanti e 2.000 cavalieri avendo, inoltre, predisposto una flotta a Brundisium.
Per prima cosa Roma inviò come ambasciatore agli Etoli, un certo Publio Villio Tappulo, affinché minacciasse un intervento romano nella zona.

Antioco aveva iniziato a invadere la Grecia, grazie anche ai consigli di Annibale, che avrebbe suggerito di attaccare Roma su due fronti, non solo nel mar Egeo, ma anche in Italia, con una flotta seleucide e 10.000 armati, per riconquistare il potere a Cartagine, ed invadere nuovamente l'Italia dall'Epiro (auspicando in un'alleanza con Filippo V di Macedonia), occupandone i punti strategici principali.

Annibale fu autorizzato dal re selucide ad inviare un messaggero a Cartagine per sobillarli, ma il messaggio fu scoperto e distrutto da chi temeva un nuovo scontro "suicida" di Cartagine contro Roma. 

Sembra che nel 192 a.c. Annibale e Scipione l'Africano, si incontrarono per la seconda ed ultima volta nella loro vita per trovare un accordo tra le parti. In verità si era creato ormai un forte legame tra il cartaginese ed il romano, l'unico ritenuto da Annibale alla sua altezza. Sembra che i due si stimassero molto per l'intelligenza nell'arte del comando e per l'onestà dell'animo dimostrate da entrambe le parti.
ANTIOCO III IL GRANDE
Nel 192 a.c. Antioco III, prima tentare di stipulare inutilmente accordi con i Romani (offrendo loro di lasciare liberi i Rodii, gli abitanti di Bisanzio e di Cizico, tutti i Greci anche dell'Asia Minore, a parte gli Etoli, gli Ionii ed i re barbari dell'Asia), sbarcò in Eubea con 10.000 armati, e proclamarsi protettore della libertà dei Greci. 

Il re seleucide confidava, inoltre, che alla sua alleanza si sarebbero uniti sia i Lacedemoni di Sparta che i Macedoni di Filippo V.

Antioco dapprima sbarcò ad Imbro, da lì passò a Sciato, a Pteleo, a Demetriade, e a Falara nel golfo Maliaco in Tessaglia, poi a Lamia, dove si concretizzava l'alleanza tra Seleucidi ed Etoli e si conferiva al sovrano seleucide il ruolo di sua guida.

La Calcide però non volle allearsi, ma nemmeno i Beoti, e gli Achei ed il re Athamania di Amynandro. Anzi gli Achei si accordarono con i Romani.

Antioco, venuto però a sapere che le truppe romane avevano passato l'Adriatico e che il sovrano macedone, Filippo V, (238 a.c. 179 a.c.) accompagnato dal pretore romano Marco Bebio Tamfilo si stava dirigendo in Tessaglia, e stava conquistando diverse città, tornò prudentemente a Calcide in Eubea.

Con l'inizio della primavera, Acilio Glabrione, con due legioni romane e due di alleati italici, per un totale di 20.000 fanti, 2.000 cavalieri ed alcuni elefanti, sbarcato ad Apollonia in Illiria, si unì all'armata dell'alleato macedone. Dopo aver liberato varie città si diresse, con il consenso del re macedone, verso il sud della Tessaglia, prendendo la guida dell'intero esercito.

Antioco spaventato inviò messaggeri in Asia per sollecitare l'arrivo di Polissenida, comandante rodio che doveva assumere il comando dell'esercito di Antioco, mentre egli si attestava con 10.000 fanti, 500 cavalieri oltre agli alleati a guardia del passo delle Termopili (quello famoso dei 300 di Leonida), per impedire al nemico di penetrare più a sud, e qui attendere l'arrivo dei rinforzi.

Antioco fece costruire un doppio vallo sul quale egli pose le sue macchine d'assedio oltre a un fossato e un muro, e, per evitare che i Romani attraversassero le montagne e lo aggirassero, presidiò con 2000 Etoli le tre cime del monte, denominate Callidromo, Teichio e Rodunzia. In realtà i romani ignoravano quel passaggio, ma non Manio Glabrione che aveva studiato attentamente la storia greca con la battaglia delle Termopili. E fu la salvezza sua e del suo esercito.

Egli infatti si rammentò dell'esistenza di un percorso diverso per superare il passo delle Termopili già utilizzato secoli prima dai Persiani per sorprendere i Greci. Pertanto inviò alcune truppe contro Antioco e allo stesso tempo fece cercare ai suoi esploratori il presidio sul sentiero segreto.

Casualmente, un reparto romano condotto da Marco Porcio Catone (234 a.c. - 149 a.c.) incappò in un avamposto che Antioco aveva stabilito per custodire il percorso. Riuscì a catturare uno dei greci e a scoprire la posizione della forza principale di Antioco e che la guarnigione posta a difesa del percorso ammontava a 600 armati Etoli. I Romani attaccarono questo piccolo contingente, che si disperse immediatamente.

Mentre la battaglia sulla cima del monte infuriava, apparve sulle alture del Callidrono il contingente degli Etoli in fuga da Catone e poi Catone stesso con un reparto romano, minacciando la retroguardia del re.



Antioco avendo sentito parlare del micidiale combattimento dei romani si spaventò e, invece di combattere, preso tra due fronti, venne sonoramente sconfitto mentre cercava di riparare nel proprio accampamento, incalzato dai romani che vi entravano insieme a lui.

Le perdite romane risultarono assai irrilevanti (circa 200 armati), mentre la maggior parte dell'esercito di Antioco fu annientato o ridotto in schiavitù, tanto che il re seleucide dovette fuggire in Asia, ad Efeso, con soli 500 armati. Si racconta che Antioco stesso fu colpito alla bocca da una pietra e perse alcuni denti.

Ancora oggi si vedono i resti di tre fortezze greche sulle alture sopra alle Termopili, che si presuppongono identificabili con le tre alture citate da Tito Livio. A causa le vittorie romane nella battaglia delle Termopili (191 a.c.), nella battaglia di Magnesia (190 a.c.) e in alcuni scontri navali nel Mare Egeo Antioco venne definitivamente sconfitto e Glabrione ottenne il suo meritato trionfo.

Venne pertanto stipulato un trattato di pace nel 188 a.c., ad Apamea in Frigia, tra la Repubblica romana ed Antioco III, sovrano seleucide, detta Pace di Apamea. Secondo le disposizioni contenute nel trattato Antioco dovette cedere le navi (gliene lasciarono solo dieci) e gli elefanti da guerra e pagare un'enorme indennità di guerra pari a 15.000 talenti.

Per la Siria comportò la perdita dei territori ad ovest del Tauro, inclusa la Pisidia, che i Romani affidarono al regno ellenistico degli Attalidi di Pergamo. La sconfitta ebbe conseguenze nefaste per l'impero seleucide che aveva precedentemente superato una grave crisi politico-economica grazie alla guida del re Antioco. I Romani ebbero così l'occasione di espandere il proprio dominio sul Mar Mediterraneo orientale. .

TUNNEL DI TITO

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TUNNEL DI TITO IN ENTRATA
Seleucia in Pieria o Seleucia sul Mare, era un porto della Siria ed una delle quattro città della Tetrapoli siriana.  Seleucia, le cui origini risalgono al 300 a.c., era soprattutto il porto per Antiochia (ora Antakya).

Il nome moderno è Çevlik, un piccolo villaggio vicino a Samandağ. L'apostolo Pietro scelse questo luogo per la sua prima missione di conversione rivolta ai gentili, e i suoi convertiti ad Antiochia furono il primo gruppo ad andare sotto il nome di cristiani.

I macedoni chiamarono questa regione Pieria, e questa regione aveva almeno due porti (il "porto interno" e il "porto esterno"), che a volte venivano usati dalla marina imperiale romana.

Tuttavia, i porti hanno continuato ad insabbiarsi per un fenomeno di bradisismo.

Questo fenomeno è legato al vulcanismo (risalita in superficie di materiale allo stato fuso, spesso accompagnato da gas e solidi) consistente in un periodico abbassamento (bradisismo positivo) o innalzamento (bradisismo negativo) del livello del suolo, relativamente lento sulla scala dei tempi umani (normalmente è nell'ordine di 1 cm per anno).

Secondo altri si tratterebbe invece delle piene dei torrenti che invaderebbero la zona del porto inondandolo di sabbia e detriti.

Probabilmente i due fenomeni si associano tra loro, tanto è vero che
diversi imperatori romani ordinarono di scavare alcuni canali per impedire questo processo, ma alla fine tutto divenne inutile.

La città fu costruita, un po' a nord dell'estuario degli Oronti, tra i piccoli fiumi sulle pendici occidentali del Coryphaeus, una delle vette meridionali dei Monti Amanus.

Il tunnel di Tito e Vespasiano si trova vicino al villaggio di Çevlik ("Porta d'acqua" ), nel distretto di Samandağ nella provincia di Hatay, ai piedi delle montagne Nur e a circa 35 km a sud-ovest di Antiochia. Da un punto di vista strategico l’importanza di questa città fu notevole in quanto costituiva una base della flotta imperiale romana.

Poco lontano dal porto si può vedere un grandioso tunnel, magnifico progetto dei bravissimi genieri romani, edificato per deviare il corso di un torrente che minacciava di ostruire il porto. Presumibilmente si trattava di una fenditura naturale poi allargata e dotata di chiuse.

Così i romani, per evitare che le acque, spesso piene di sabbia e detriti, insabbiassero il porto, decisero di deviare il torrente, facendo tagliare agli schiavi un canale lungo e attraverso la roccia per quasi un miglio.

ISCRIZIONE A VESPASIANO E TITO
Qui sopra vi è l'iscrizione di entrata nel tunnel: la dedica a Vespasiano e a Tito 81 d.c. – 96 d.c. Negli studi effettuati (Università dell'Arizona e Università di Ankara) si ritiene si tratti di una antichissima grotta preesistente, la cosiddetta Grotta Kanal, una grotta preistorica che venne trasformata in tunnel dai romani (Andrea De Pascale - Anatolia).

Il progetto ingegneristico iniziò infatti intorno al 69-79 d.c. sotto il regno di Vespasiano e continuò durante il regno dell'imperatore Tito nel 79-81 d.c., utilizzando soprattutto gli schiavi ebrei ottenuti dalla sconfitta di Gerusalemme (nel 70, altri prigionieri di guerra furono inviati a Roma, dove dovevano costruire il Colosseo).

Seleucia aveva almeno due porti, ma ambedue i porti continuavano ad insabbiarsi. Diversi imperatori romani ordinarono di scavare canali per impedire questo processo, ma alla fine tutti gli interventi risultarono inutili. Uno di questi canali, perchè ne furono scavati diversi, è il cosiddetto Tunnel di Tito.

Il canale di Tito, era stato scavato, secondo la narrazione di Flavio Giuseppe, da schiavi ebrei che lavoravano per ordine del comandante romano Tito, che aveva catturato Gerusalemme nel 70 (altri prigionieri di guerra furono inviati a Roma, dove dovevano costruire il Colosseo).

ISCRIZIONE AD ANTONINO PIO
Qui sopra vi è l'iscrizione ed uscita dal tunnel: la dedica ad Antonino Pio 138 d.c.–161 d.c. Lo scavo proseguì per molti anni, non per la sezione della roccia ma soprattutto per i detriti che qui continuamente si accumulavano.

Il sistema di deviazione si basava sul principio di chiudere il fronte del letto del torrente con una copertura di deviazione e di trasferire le acque del torrente al mare attraverso un canale artificiale e una galleria.

Il canale è lungo quasi 1400 metri e parte di esso attraversa un tunnel progettato dagli ingegneri della decima legione Fretensis. Anche confrontato con i mezzi attuali a disposizione, rimane una grande opera di ingegneria. Ma oltre alla stupefacente opera edilizia esso è meta dei turisti per la sua incredibile bellezza e suggestione di luci ed ombre, di ardite pareti scoscese e lucernari improvvisi sul soffitto altissimo.

Secondo l'iscrizione infatti, il tunnel non fu terminato se non durante il regno di Antonino Pio (138-161). Gli ultimi operai furono i legionari di IIII Scythica e XVI Flavia Firma. Il loro non fu l'ultimo tentativo di migliorare i porti: secondo la Descriptio Totius Orbis del IV secolo, i porti furono nuovamente rinnovati dall'imperatore Costanzo II (r. 337 - 361).

IL PONTICELLO D'USCITA
Considerato "il tunnel più grande del mondo realizzato dall'uomo", l'antica struttura è visitata da centinaia di viaggiatori amanti della storia, dell'arte e dell'architettura.

Il tunnel, la cui costruzione iniziò nel I secolo d.c. durante il regno dell'imperatore romano Vespasiano e continuò sotto il figlio Tito e il suo successore Antonio Pio, venne costruito anche per combattere la costante minaccia delle acque di piena che provenivano dalle vicine montagne dell'antica città di Seleuceia Pieria, nella odierna Turchia, piene esistenti a tutt'oggi.

Per risolvere questo problema, l'imperatore Vespasiano ordinò ai suoi legionari, marinai e prigionieri, di scavare un canale d'acqua attraverso la montagna per deviare le acque di piena attraverso un tunnel, impedendo così l'interramento del porto onde impedirne la fine.

I canali erano stati costruiti dagli ex imperatori romani per risolvere questo problema, ma non sono riusciti a fermare le inondazioni. Il fatto che l'intera galleria sia stata scavata nella roccia solida con martelli e scalpelli e sia sopravvissuta fino ad oggi senza molti danni, continua comunque a stupire gli ingegneri e gli architetti moderni.

L'USCITA DAL TUNNEL
Husnu Isıkgor, direttore provinciale per la cultura e il turismo, ha dichiarato all'Agenzia Anadolu di aver eseguito tutti i lavori possibili per la protezione del sito onde offrire ai visitatori un'esperienza migliore e più confortevole.

Isıkgor ha dichiarato di aver costruito per la prima volta sentieri per passeggiate, terrazze panoramiche e stand dove vengono venduti prodotti locali, ed ora stanno preparando un progetto per la creazione di un centro visitatori che includa strutture sociali all'interno del tunnel.

"Il tunnel Vespasianus-Titus è il tunnel più lungo del mondo mai scavato a mano. Accanto ad essa, c'è anche la grotta di Besikli, dove ci sono molte tombe di importanti sacerdoti e chierici", ha detto. La grotta è stata chiamata anche le "Tombe dei Re", poiché si ritiene che le tombe appartengano agli imperatori fin dall'epoca romana. "Vogliamo che il tunnel sia aggiunto alla lista permanente dell'UNESCO", ha aggiunto Isıkgor.

L'area del canale è stata proposta per il Patrimonio Mondiale dell'Umanità  ed è stato aggiunto all'elenco provvisorio nella categoria culturale del patrimonio mondiale dell'UNESCO il 15 aprile 2014. .




COLONIA ULPIA TRAIANA - XANTEN (Limes Retico)

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La "Colonia Ulpia Traiana", ovvero la "Colonia Agrippina Ulpia Traiana" (abbreviato CUT), o "Castra Vetera" , era una città romana nella zona dell'attuale Xanten, una città della Renania Settentrionale -Vestfalia, locata nel distretto di Wesel, in Germania.

La Colonia Agrippina Ulpia Traiana fu fondata dall'imperatore Traiano (57 - 117), da cui prende il suo nome. Era una delle circa 150 città dell'Impero Romano che aveva lo status giuridico di Colonia Agrippina romana ed erano considerate "immagini di Roma".

PLANIMETRIA DELLA COLONIA (INGRANDIBILE)
Ulpia Traiana era la terza principale città romana a nord delle Alpi nella Germania inferiore, dopo di Claudia Ara Agrippinensium (l'odierna Colonia) e Augusta Treverorum (l'odierna Treviri). I loro edifici pubblici rappresentano lo stato elevato della città, che costituiva il centro di un'ampia area circostante.

Le rovine di Colonia Ulpia Traiana sono tra le poche nel nord Europa. I visitatori possono vedere i resti dell'anfiteatro di 12.000 persone, il bagno, un tempio e alcuni edifici e fortificazioni ricostruiti. Le rovine si trovano nel cosiddetto Parco archeologico (Archäologischer Park in tedesco).

Fondata oltre 2000 anni fa, Xanten (Castra Vetera, Colonia Ulpia Traiana o Tricensimae in latino) è una delle città più antiche della Germania. Secondo la leggenda, Xanten era il luogo di nascita dell'eroe mitologico germanico Siegfried, l'uccisore dei draghi nel Tesoro dei Nibelungi.



CASTRA VETERA I

Castra Vetera era il nome dell'antica fortezza legionaria della provincia romana della Germania inferiore, fortezza che si trovava nei pressi dell'odierna città tedesca di Xanten. Era posizionata lungo il fiume Reno, di fronte alle tribù germaniche dei Sigambri e degli Usipeti, a sud di Noviomagus Batavorum ed a nord di Novaesium.

L'area fu abitata da varie tribù celtico-germaniche almeno dal 2000 a.c. Nel 15 a.c., sotto l'imperatore Augusto, i romani costruirono un accampamento sulla cima di una collina, che chiamarono "Castra Vetera". 

Era la base principale della Classis germanica (marina romana per la Germania), che occupava da 8.000 a 10.000 legionari.

Castra Vetera fu distrutta durante la rivolta dei Bataviani nel 70 d.c.., e fu costruito un secondo campo su Bislicher Insel (cioè un'isola sul Reno). "Castra Vetera II" divenne il campo base della Legio VI Victrix ("Vittoriosa").

La protezione e le opportunità economiche offerte dal campo romano hanno portato allo sviluppo di un insediamento nelle vicinanze. 

RESTI DEL TEMPIO DEL PORTO DI COLONIA

CASTRA VETERA II

Il primo castra legionario semi-permanente dovrebbe essere stato di poco successivo al 20 a.c., quando Augusto ed il futuro imperatore Tiberio, si recarono in Gallia nel 16 a.c.. Questo primo accampamento, costruito in legno e terra, fu fondato sul Fürstenberg vicino alla moderna Birten, e rimase attivo fino alla distruzione avvenuta in occasione della Rivolta batava del 70.

Arrivò ad ospitare fino a 10.000 legionari, fungendo anche da base per la Classis Germanica. La posizione strategica dell'accampamento, costruito su di una altura, permetteva il controllo della confluenza del Reno e del Lippe.


Venne fondata attorno al 16-13 a.c. da Druso Maggiore (38 a.c. - 9 a.c.) come accampamento (castrum) per l'esercito romano assoldato nella campagna di conquista della Germania. Nel 110, aveva raggiunto una popolazione da 10.000 a 15.000 abitanti, e gli furono dati i diritti di una Colonia dall'imperatore Marco Ulpio Traiano, che ribattezzò la città "Colonia Ulpia Traiana".

Divenne il secondo posto commerciale più importante nella provincia della Germania inferiore, solo da Colonia Agrippinensis (moderna Colonia). Nel 122, la "Vetera II" divenne il campo della Legio Ulpia XXX Victrix, che sostituì la VI Victrix, che era stata inviata in Britannia.

Le tribù germaniche (principalmente i Franchi) fecero irruzione nell'area molto frequentemente a partire dal III secolo e riuscirono a distruggere la colonia nel 275. Una nuova città, chiamata "Tricensimae", fu allora ricostruita, più piccola ma meglio fortificata e più facile da difendere. I Franchi continuarono le loro incursioni, alla fine conquistarono la città all'inizio del V secolo e si insediarono nell'area.

RESTI DELL'ANFITEATRO IN PARTE RICOSTRUITO

TRICENSIMAE

Tricensimae era il nome di una grande fortezza romana di tarda antichità a Xanten sul Basso Reno. Il suo nome potrebbe essere legato all'esistenza della Legio XXX Ulpia Victrix, una legione romana arruolata dall'imperatore Traiano nel 105 in occasione delle sue campagne in Dacia, almeno secondo le notizie che abbiamo fino ad ora.

Il campo fu costruito tra il 306 e il 311 d.c., probabilmente sotto l'imperatore Costantino sulle nove insulae centrali della Colonia Ulpia Traiana. Le sue dimensioni erano di 400x400 metri, aveva pareti spesse 4 metri con 48 torri ed era circondato da due fossati. 

Il materiale da costruzione non proveniva, come nella costruzione di Colonia, da molto lontano. C'erano, infatti, pietre appena fuori dai cancelli. Inoltre, la pulizia del terreno antistante aveva anche uno scopo militare. 

Ogni rudere era un'ostruzione visiva per i difensori e anche un potenziale nascondiglio per gli aggressori. Il motivo dell'intensificazione delle fortificazioni proveniva dal pericolo del saccheggio dei Germani.

Nel 352 d.c., Tricensimae fu prima conquistata dai Franchi e poi ricostruita nel 359 d.c.. Nella prima metà del V secolo d.c., l'insediamento fu infine abbandonato. Probabilmente non era più sicuro nonostante le spesse mura.

RICOSTRUZIONE DELLA PORTA DI ENTRATA AD ULPIA TRAIANA

SAN VITTORIO CRISTIANO

Victor Christian (Vittorio Cristiano) di Xanten fu al seguito di San Maurizio, uno dei membri più influenti della Legione nel 363 vicino all'attuale città di Birten. Il nome cristiano gli deve essere stato aggiunto poi, perchè nessuno avrebbe arruolato un cristiano nell'esercito romano.

Vittorio di Xanten disubbidì non solo come civile ma anche come soldato, perchè la sua religione cristiana gli impediva di uccidere. In qualità di insubordinato, fu giustiziato, divenne martire, come tutta la sua leggendaria legione tebana ed i suoi leggendari compagni di fede, fatto rapidamente santo dalla Chiesa cattolica.

Nella seconda metà dell'VIII secolo, fu costruita una chiesa sul presunto luogo di sepoltura di Viktor nel vecchio cimitero romano, e chiamato Sanctos super Rhenum ("San sul Reno"). Conosciuto anche come Ad Sanctum, i Franchi chiamarono il luogo di Santen, che alla fine si è evoluto in "Xanten". Questa prima chiesa è dove ora sorge la Cattedrale di San Viktor.



GENS NERATIA

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RILIEVO FUNERARIO DEI PACCII RAMO DEI NERATII
Della gens Neratia possediamo notizie dal I al IV secolo d.c., e sembra fosse originaria del municipio romano di Saepinum, situato nella zona geografica del Sannio Pentro, peraltro molto attaccati al suolo natio in cui cercarono sempre di collocarsi o ricollocarsi, anche grazie ai possedimenti agricoli e agli edifici residenziali, che possedevano nell'area.

I Neratii, evidentemente grandi conoscitori dell'agricoltura e del commercio, fecero grande fortuna si da diventare particolarmente ricchi, anzi ricchissimi, il che permise loro di ottenere cariche di notevole rilievo (perfino il consolato), imparentandosi per giunta con altre importanti gentes si da poter contare su appoggi notevoli.

Infatti nel IV secolo la ramificata rete delle parentele dei Neratii arrivò a comprendere persino la famiglia imperiale, giungendo anche, per risalire i gradini della scala sociale, al farsi adottare (adoptio), come Marcus Hirrius Fronto Neratius Pansa, il cui nome denuncia l’adozione da parte di un Marcus Hirrius Fronto, di probabile estrazione senatoria, nonché un certo legame con Lucius Naevius Pansa, ricordato come patrocinatore della costruzione della basilica forense di Saepinum.

- M. Hirrius Fronto Neratius Pansa, console nel 73 d.c.;
- L. Neratius Priscus, console nell’87 d.c.;
- L. Neratius Priscus, suo omonimo, console nel 97 d.c.;
- di L. Neratius Marcellus, console nel 95 d.c. e, per la seconda volta, nel 129 d.c.;
- L. Neratius Proculus, console nel 144 d.c.;
- Neratius Cerealis, console nel 358 d.c. e di suo fratello Vulcacius Rufinus, console nel 347 d.c.:
- La neratia Galla fu moglie di Iulius Constantius, fratello dell’imperatore Costantino, e madre di Gallus Caesar, fratellastro dell’imperatore Giuliano. (PLRE I Galla 1: 382).
- Iustina, sorella di Constantianus e di Cerealis e quindi anch’ella imparentata con i Neratii, fu moglie dell’usurpatore Magnenzio e poi, in un secondo momento, dell’imperatore Valentiniano I, e madre dell’imperatore Valentiniano II e di Galla, a sua volta moglie dell’imperatore Teodosio e madre di Galla Placidia. (PLRE I Iustus 1: 490; PLRE I Iustina: 488; PLRE I Constantianus 1: 221; PLRE I Cerealis 1: 197; PLRE I Galla 2: 382; PLRE II Placidia: 888).

SAEPINUM

LE VILLE

La presenza di una villa Neratiorum è certa per quanto riguarda San Giuliano del Sannio, mentre è altamente probabile, ma non ancora provata, nel territorio di Ferrazzano. Le proprietà dei Neratii erano, in ogni caso, sicuramente numerose nell’ambito territoriale tra la vallata del Tammaro e quella del Tappino.

A Roma invece è assodato che Neratii stabilirono una sontuosa domus rinvenuta sul colle Esquilino, dove le dimore di lusso abbondavano ma costavano care, e cioè nei pressi di S. Maria Maggiore. Sebbene stabilmente residenti nella capitale e all'apice del prestigio politico-sociale, tuttavia i Neratii mantennero sempre il legame con la comunità natia di Sepino, dotando la città con edifici nuovi, effettuando in età flavio-traianea restauri alla basilica, e segnalandosi in opere di pubblica munificenza, il cosiddetto evergetismo che procurava fama e voti.

Sappiamo dalle iscrizioni epigrafiche rinvenute che possedevano una villa rustica nel territorio di Sepino e che i sepinati onorarono i membri di questa famiglia prestigiosa con epigrafi, dediche e statue. Ma le epigrafi appartennero pure anche ad ex appartenenti alla familia servile, schiavi e liberti rimasti nella clientela degli antichi padroni, dei quali assunsero e perpetuarono il nome.



LE EPIGRAFI

La prima attestazione epigrafica riguardante questa famiglia è di epoca tardo repubblicana e venne  rinvenuta nell'odierna Miranda, vicino la città romana di Aesernia, poco lontano dall'ambito territoriale di Saepinum; essa attesta la discendenza di Caius Paccius Capito, appartenente alla tribù Voltinia, da una non meglio identificata Neratia.

Il gentilizio Paccius, antico prenome osco (derivante da Pakis), conosce la sua massima diffusione nell'Italia centro-meridionale, ed in particolare nell'area irpina e in quella di Canosa.

Invece a Saepinum, il primo rappresentante della famiglia conosciuto a livello epigrafico è Caius Neratius, un ex militare che, nella sua carica di duoviro municipale, insieme al collega Numerius Antonius, fa erigere a proprie spese un altare consacrato alla Vittoria. Caius Neratius è quindi un membro della classe dirigente sepinate, un ex soldato che, probabilmente grazie al sostegno dato ad Augusto durante il periodo delle guerre civili, viene dallo stesso imperatore ricompensato con assegnazioni territoriali e con la suprema magistratura municipale.

Raggiunta tale sommo livello sociale nella vita del municipio, egli riesce a stringere legami familiari con la famiglia di uno dei personaggi di spicco della Saepinum tardo-repubblicana, Lucius Naevius Pansa, anch'egli militare, probabilmente proveniente da Alba Fucens, patrono anch'egli di opere di evergetismo nei confronti della comunità sepinate, come la costruzione della basilica forense e di una fontana monumentale. Da questo momento in poi, tale legame verrà rimarcato  nell’onomastica dei Neratii.

Ancora in età augustea, venne stabilito un importantissimo legame matrimoniale da una serta Neratia con Antistius Labeus, famoso giureconsulto di origini capuane, figlio di Pacuvius Antistius Labeus, giurista anche tristamente famoso come membro della cospirazione contro Cesare. Detto matrimonio, mise in contatto la sposa e i suoi parenti con i massimi ranghi sociali sepinati ma, soprattutto, dette loro accesso al mondo giuridico e soprattutto alla scuola di Labeo (detta poi Proculiana) della quale i Neratii furono esponenti autorevoli.


MARCUS HIRRIUS FRONTO NERATIUS PANSA
Nella seconda metà del I secolo d.c., agli inizi dell’età Flavia, emerge tra le fila della famiglia un personaggio di notevole spessore, Marcus Hirrius Fronto Neratius Pansa, ricordato anche in alcune iscrizioni greche che lo menzionano quale governatore della Lycia-Pamphylia.
La sua carriera è strepitosa.

EPIGRAFE DI NAERATIUS CEREALIS
- 1) comandante di una legione stanziata in Germania inferiore, la XXI Rapax,
- 2) propretore nella ricca provincia di Lycia e Pamphylia,
- 3) nel 73/74 d.c., console suffecto.
- 4) Nello stesso anno, M. H. F. Neratius Pansa riceve l’elezione al patriziato da parte dell’imperatore Vespasiano.
- 5) Tra il 73 e il 76 d.c., ottiene la censura della regio X (Venetia et Histria),
- 6) poi il quindicemvirato sacris faciundis, per la custodia e l’interpretazione dei libri sibillini e la competenza sui culti di origine straniera,
-7) la cura delle opere pubbliche e degli edifici sacri,
- 8) il comando di una spedizione militare in Armenia minore,
- 9) nel 79 d.c. diventa propretore in Cappadocia e Galazia,
- 10) diventa legato propretore di Vespasiano nella provincia di Syria.

Svolse pertanto incarichi di un certo prestigio, militari e civili, nelle provincie orientali di Lycia e Pamphylia, Armenia minore, Cappadocia e Galazia, e in quella occidentale della Germania inferiore, oltre che, ovviamente, in Italia.

Ottenne pure importanti meriti militari, per i quali l’imperatore gli conferì particolari onorificenze:
- Da Vespasiano fu decorato con quattro astae purae, riconoscimento solitamente concesso a chi avesse ucciso nemici in battaglia,
- quattro vessilli,
- quattro corone murali, premio per aver scalato mura nemiche,
- una ricompensa vallare, per aver attraversato trincee nemiche,
- una corona aurea ed un’ultima corona classica, conferita a chi  per primo avesse messo piede a bordo di una nave nemica.

Grazie a questi straordinari successi militari ed alla fortunata adozione da parte di Marcus Hirrius Fronto, Marcus Hirrius Fronto Neratius Pansa raggiunse l’ordine senatorio accumulando cariche civili e religiose di grande prestigio.
Grazie al munifico Lucius Naevius Pansa, forse proprio per rimarcare tale prestigioso collegamento, Marcus Hirrius Fronto Neratius Pansa compì un munifico atto di evergetismo nei confronti della basilica forense fatta erigere dal suo noto parente.

Da questo momento, in seguito all’adlectio al patriziato concessa da Vespasiano, la famiglia si biforcherà in due rami: l’uno patrizio, l’altro plebeo. Il ramo plebeo della gens, dal quale lo stesso Marcus Hirrius Fronto Neratius Pansa proviene, non sarà meno noto di quello patrizio, vantando molti memri nell’ambito della nobilitas senatoria.

Nella pars plebea, ricordiamo il fratello maggiore (o forse il cugino) di Marcus Hirrius Fronto Neratius Pansa, Lucius Neratius Priscus. La sua carriera sebbene non goda dell’accelerazione impressa da un’adozione di prestigio, come avviene invece per suo fratello, risulta essere comunque molto rilevante:
- tra l’84 e l’86 d.c. ricopre la carica della praefectura aerarii Saturni,
- nell’87 d.c. raggiunge il consolato (suffecto)
- tra il 92 ed il 96 d.c., ottiene la propretura nella provincia di Pannonia.
Il conseguimento tardivo del consolato (appena dieci anni prima del figlio naturale), potrebbe essere ricondotto ad una adlectio inter praetorios, forse favorita dallo stesso Vespasiano, già promotore di suo fratello, che da homo novus trasforma Lucius Neratius Priscus in uomo degno di ricoprire le più alte cariche.

Il trattamento di favore riservato ai Neratii dall’imperatore Vespasiano fu motivato dall’appoggio, essenzialmente economico, che i Flavi dovettero ricevere all’epoca della guerra civile (68-69 d.c.). In tale situazione familiare, i figli di Lucius Neratius Priscus, Lucius Neratius Marcellus, Caius Neratius Proculus (?) e l’omonimo Lucius Neratius Priscus, potevano contare sia sul sostegno paterno, sia su quello dello zio Marcus Hirrius Fronto Neratius Pansa novello patrizio.

Tra tutti loro fu senz’altro il maggiore, Lucius Neratius Priscus figlio, ad ottenere i riconoscimenti maggiori e a portare più grande lustro alla famiglia (sebbene, al contrario del fratello minore Lucius Neratius Marcellus, non raggiunse il rango patrizio). Lucius Neratius Priscus Lucius Neratius Priscus è probabilmente una delle figure di maggior spicco ed interesse che la gens Neratia ha regalato alla storia.

Eminente giurista, sposò la linea della scuola di diritto Proculiana, della quale rappresentò uno dei maggiori esponenti, e, proprio grazie alla sua sapienza giurisprudenziale, divenne presto uno dei più stretti collaboratori della casata imperiale. L’imperatore Traiano, infatti, lo volle accanto a sé nel suo consilium principis e, almeno stando a quanto racconta l’Historia Augusta, ebbe addirittura l’intenzione di nominarlo suo successore all’impero.

Secondo l’autore della biografia, Traiano avrebbe addirittura conferito al giureconsulto una nomina informale a suo successore, affidandogli il governo delle province nel caso di una sua morte improvvisa (commendo tibi provincias, si quid mihi fatale contigerit) e quindi, di fatto, consegnandogli il comando dell’impero.

Tale decisione, sempre secondo la stessa fonte, sarebbe stata largamente condivisa dall’entourage traianeo, quale attestato di stima nei confronti di Lucius Neratius Priscus. Pertanto, se il passo citato si rivelasse attendibile, la gens Neratia non avrebbe visto uno dei suoi membri assumere il controllo dell’impero solamente a causa di un intrigo di corte, ordito dall’imperatrice Plotina a favore del futuro imperatore Adriano.

Proprio dall’Historia Augusta, infatti, si dirama la voce che in realtà Traiano non avrebbe adottato Adriano in punto di morte (e che quindi non avrebbe avuto in animo di nominarlo suo erede politico) ma che invece, una volta morto l’imperatore, Plotina avrebbe corrotto un cortigiano affinchè lo impersonasse e adottasse il suo protetto (nec desunt qui factione Plotinae mortuo iam Traiano Hadrianum in adoptionem adscitum esse prodiderint, supposito qui pro Traiano fessa voce loquebatur).

L'approvazione di molti dei suoi amici, avrebbe programmato di non nominare come suo successore Adriano, ma Neratius Priscus, fino al punto di dire a Priscus: "Affido le province alle tue cure nel caso mi succeda qualcosa". E, infatti, molti affermano che Traiano aveva in animo di seguire l'esempio di Alessandro il Macedone e morire senza nominare un successore.

Ma, anche in questo caso, molti altri dichiarano che in tal modo avrebbe voluto dare un indirizzo al senato, chiedendo, nel caso in cui gli fosse accaduto qualcosa, di nominare una guida per l'impero romano, e proponendo i nomi di alcuni tra i quali il senato avrebbe potuto scegliere il migliore. E non manca chi afferma che Adriano fu adottato solo dopo la morte di Traiano, e solo per mezzo di un trucco di Plotina: ella avrebbe corrotto qualcuno che impersonasse l'imperatore e parlasse con voce flebile.

Ovviamente, seppur suggestiva, la notizia che la scelta del futuro imperatore ricadesse su un membro del consilium principis, il dubbio sulla veridicità dell'’Historia Augusta resta fortemente.
Grazie inoltre alla figura di Lucius Neratius Priscus (figlio), il ramo plebeo della famiglia ottennne riconoscimenti pari, se non superiori, a quelli ottenuti dai parenti patrizi.



VIRIS ILLUSTRIBUS

LUCIUS NERATIUS MARCELLUS
Infatti, Lucius Neratius Marcellus, fratello minore di Lucius Neratius Priscus, venne eletto al rango di patrizio ma, nonostante anch’egli possa vantare una carriera prestigiosa, sicuramente non riuscirà a superare l’incredibile successo del fratello maggiore.

Attraverso la testimonianza epigrafica è possibile ricostruire il cursus honorum di questo eccezionale cittadino sepinate:

STELE DI CAIUS NERATIUS
1) - Tribuno nella legione XXII Primigenia,
2) -  tribunato della plebe,
3) -  pretore,
4) - console suffetto,
5) - propretore, dapprima in Germania inferiore ed in seguito in Pannonia,
6) - entrò a far parte del collegio dei VII viri epuloni.

Ovviamente, gli impegni di corte e l’adempimento dei numerosi incarichi lui assegnati, portarono Lucius Neratius Priscus lontano dall’originaria Saepinum ma, proseguendo la tradizione familiare, egli non tralasciò di mantenere vivi rapporti con il piccolo municipio attraverso l’evergetismo. Insieme a suo padre, infatti, finanziò la costruzione di un edificio, che occupava quasi interamente il lato sud-orientale del foro, e del relativo arco onorario antistante.

Sull’attico di tale arco, come d’uso, si stagliava un’iscrizione che ricordava i nomi dei due benefattori. Lucius Neratius Priscus, come visto, riuscì a collezionare una lunga lista di incarichi e ad avere una brillante carriera ma, in primo luogo, egli fu un giurista.

Le sue opere giuridiche più note sono:
- il Regularum,
- il Membranarum, al quale attinse Ulpiano,
- il Responsorum, numerosi frammenti del quale confluirono nel Digesto.

In ultima analisi, con la figura di Lucius Neratius Priscus, la gens Neratia raggiunge l’apice della sua fortuna. In seguito, infatti, nel periodo tra la seconda metà del II secolo d.c. e la prima metà del IV secolo d.c., i membri della gens, pur continuando a rivestire ruoli di una certa importanza all’interno della classe dirigente senatoriale, di certo non riusciranno ad emergere quanto i loro predecessori; la brillante carriera dei Lucii Neratii Prisci padre e, soprattutto figlio, ma anche quella del pluridecorato Marcus Hirrius Fronto Neratius Pansa e del suo figlio adottivo, nonché nipote naturale, Lucius Neratius Marcellus, offuscherà i risultati raggiunti dalla nuova generazione di Neratii.

Alla metà del IV secolo d.c., invece, si vedrà come la gens riacquisterà l’antico splendore e arriverà addirittura ad imparentarsi con la famiglia imperiale.


LUCIUS NERATIUS MARCELLUS
Nel frattempo anche il fratello minore di Lucius Neratius Priscus, Lucius Neratius Marcellus, raggiungeva importanti traguardi ai livelli più alti dell’amministrazione imperiale. Grazie ad una probabile adozione da parte dello zio paterno, Marcus Hirrius Fronto Neratius Pansa, entrò a far parte del patriziato; ciò rappresenta una notevole spinta alla sua carriera, tanto che raggiunse per la prima volta il consolato nel 95 d.c., due anni prima dell’illustre Lucius Neratius Priscus, una carriera molto più rapida e prestigiosa rispetto a quella del padre naturale. Ed ecco la carriera:

1) -  magistrato monetale,
2) tribuno della legione XII Fulminata,
3) questore,
4) segretario del senato,
5) pretore,
6) console suffecto nel 95 d.c.,
7) curatore degli acquedotti di Roma,
8) propretore in Britannia ,
9) di nuovo console (stavolta ordinario) nel 129 d.c.

Il successo di Lucius Neratius Marcellus si inquadra principalmente durante l’impero di Traiano e di Adriano, imperatore da lui espressamente onorato a Saepinum con una dedica datata al 130 d.c., probabilmente per esprimere riconoscenza per il conseguimento del secondo consolato. Sarebbe quindi da escludere l’ipotesi che sia a lui riferibile la notizia, riportata dall’Historia Augusta, secondo cui un Lucius Neratius Marcellus sarebbe stato costretto al suicidio da parte di Adriano. Tale opinione è certamente da rigettare anche alla luce del fatto che, dopo la morte di Marcellus, la fortuna politica del ramo patrizio perdura.


LUCIUS CORELLIUS NERATIUS PANSA

Il figlio di Lucius Neratius Marcellus, Lucius Corellius Neratius Pansa,  raggiungerà il consolato (ordinario) nel 122 d.c.


LUCIUS NERATIUS MARCELLUS
Alcune iscrizioni riguardanti Lucius Neratius Marcellus ricordano Domitia Vettilla, anch’essa donna proveniente da una famiglia di rango consolare, in quanto figlia di Lucius Domitius Apollinaris, console nel 97 d.c.

Lucius Neratius Marcellus, infatti, sposò in seconde nozze Domitia Vettilla, la quale pose al marito l’iscrizione onoraria che permette di ricostruire la sua carriera. La gran messe di incarichi istituzionali obbligano Lucius Neratius Marcellus a risiedere a Roma; egli fa quindi erigere sull’Esquilino, nell’area sottostante l’attuale basilica di Santa Maria Maggiore, una sontuosa domus, frequentata poi fino ad epoca tardo antica.

Nonostante risieda ormai stabilmente nell’Urbe, Lucius Neratius Marcellus mantiene nel territorio d’origine numerosi possedimenti, soprattutto fondiari, come quelli nel territorio dei Ligures Baebiani, documentati dalla Tabula alimentaria del 101 d.c..


CAIUS NERATIUS PROCULUS
Il terzo figlio di Lucius Neratius Priscus, è Caius Neratius Proculus (?), colui con il quale Lucius Neratius Marcellus probabilmente condivide la proprietà della domus sull’Esquilino, ma di cui non abbiamo notizie. Sappiamo solo che è padre di Lucius Neratius Proculus.


LUCIUS NERATIUS PROCULUS
Il cursus di Lucius Neratius Proculus, appartenente al ramo plebeo della gens (come ci testimonia la carica di aedilis plebis Cerialis), si snoda attraverso le varie tappe della carriera senatoriale:

1) - decemvirus stlitibus iudicandis,
2) - tribuno della legione VII Geminia Felix,
3) - tribuno della legione VIII Augusta,
4) - questure,
5) - edile plebeo,
6) - pretore,
7) comandante della legione XVI Flavia Fidelis, con l’incarico specifico di condurre distaccamenti di soldati (ad ducendas vexillationes) in vista di un Bellum Parthicum, evidentemente scongiurato,
8) - prefetto dell’erario militare,
9) console (suffecto) tra il 144 e il 148 d.c.


NERATIA PROCILLA
Sorella di Lucius Neratius Proculus è Neratia Procilla; anche questa donna è molto importante all’interno delle dinamiche familiari, in quanto, grazie ad un matrimonio ben congegnato, riesce ad assicurare alla sua gens un ulteriore rapporto di parentela molto vantaggioso. Suo marito Caius Betitius Pietas, infatti, è un notabile di Aeclanum dell’illustre famiglia dei Betitii.
I figli di questo matrimonio, Neratia Betitia Procilla e Caius Neratius Proculus Betitus Pius Maximillianus, raggiungeranno entrambi ottimi livelli.


NERATIA BETITIA PROCILLA
Neratia Betitia Procilla sarà flaminica dell’imperatrice Faustina Minore.


CAIUS NERATIUS PROCULUS BETITUS PIUS MAXIMILLIANUS
fratello di Neratia Betitia Procilla, otterrà il consolato. È da notarsi che essi sono dei Neratii – Betitii; il titolo gentilizio materno ha, in questo caso, il primo posto rispetto a quello meno prestigioso della famiglia paterna. Tramite la parentela con i Betitii, i Neratii si imparentarono, di conseguenza, con l’importantissima gens Anicia.


FALTONIA PROBA
Faltonia Betitia Proba, poetessa cristiana moglie del praefectus urbi nel 351 d.c., Neratius Probus, è detta Aniciorum mater. Faltonia  fu la più importante e influente poetessa di lingua latina del tardo impero che compose versi prima di carattere epico e poi cristiano. Ebbe come nipote Anicia Faltonia Proba, sorella del console del 370 Olibrio e moglie di Sesto Petronio Probo, console nel 371, che visse a Roma, nella ricchissima villa che gli Anici avevano al Pincio, più o meno dove sorgono oggi la scalinata e la chiesa di Trinità dei Monti e Villa Medici, ossia negli Horti Aciliorum.


LUCIUS CORNELIUS NERATIUS PANSA
Lucius Corellius Neratius Pansa fu un altro esponente di questa generazione di Neratii, figlio di Lucius Neratius Marcellus e della sua prima moglie, Corellia Hispulla, appartenente ad un’illustre famiglia; suo padre era infatti Quintus Corellius Rufus, console nel 78 d.c. Dietro alla scelta matrimoniale di Lucius Neratius Marcellus si cela probabilmente la volontà di legarsi ancor più  con la famiglia del suo principale sostenitore, il genitore adottivo Marcus Hirrius Fronto Neratius Pansa.

EPIGRAFE DI LUCIUS NERATIUS MARCELLUS
Infatti, Corellia Hispulla era parente di Lucius Corellius Celer Fisius Rufinus, marito di Varia Pansina, nipote abiatica dello stesso Marcus Hirrius Fronto Neratius Pansa. Varia Pansina, infatti, era figlia del matrimonio tra Neratia Pansina (figlia naturale di Marcus Hirrius Fronto Neratius Pansa) e Lucius Varius Ambibulus, originario di Aeclanum.

Tornando a Lucius Corellius Neratius Pansa, il cui nome prende elementi sia dalla parte materna sia dalla parte paterna: al gentilizio della gens di sua madre si associa il cognomen del padre adottivo del suo padre naturale, Marcus Hirrius Fronto Neratius Pansa. Nella Tabula alimentaria dei Ligures Baebiani, tra i proprietari dei fundi, si menziona un Lucius Corellius Neratius Pansa. Sempre dalla Tabula, veniamo a conoscenza del fatto che Lucius Neratius Marcellus avrebbe fatto da garante del proprio figlio riguardo al pagamento degli interessi su un prestito contratto.

Purtroppo non conosciamo l’intero cursus honorum di questo membro del ramo patrizio dei Neratii, sappiamo però che raggiunse il consolato (ordinario) nel 122 d.c., il che esclude totalmente l’induzione al suicidio da parte di Adriano nei confronti del padre Neratius Marcellus, perchè avrebbe impedito a Corellius Neratius Pansa di raggiungere la carica consolare.


LUCIUS IUNIUS AURELIUS NERATIUS GALLUS FULVIUS MACER
Tra la seconda metà del II secolo d.c. e la prima metà del IV secolo d.c., le fortune della gens neratia, pur sempre nelle sfere sociali più alte, registrano una notevole flessione. Nella seconda metà del II secolo d.c., spicca tuttavia un certo Lucius Neratius Iunius Macer che, secondo alcuni (De Benedittis), sarebbe da identificare con il Lucius Iunius Aurelius Neratius Gallus Fulvius Macer, noto attraverso un’epigrafe rinvenuta a Roma.


I NERATII - FUFIDII
Neratii - Fufidii La continuità familiare della gens, da questo momento in poi, è assicurata essenzialmente dalla linea matrilineare: per il III secolo d.c. abbiamo un consistente gruppo epigrafico, reperito nel municipium di Saepinum e, per quanto riguarda quattro epigrafi in particolare, a San Giuliano del Sannio, nella zona pertinente alla villa (contrada Crocella), che riguarda tre fratelli, Caius Neratius Fufidius Priscus, Caius Neratius Fufidius Annianus e Caius Neratius Fufidius Atticus, figli di Caius Fufidius Atticus68 e di Neratia Marullina.

L’onomastica di Neratia Marullina ha fatto insorgere qualche sospetto circa una presunta parentela tra la gens Neratia e la gens Eggia, eminente famiglia di Aeclanum; Lucius Cossionus Eggius Marullus, curatore di Canosa e console (ordinario) nel 184 d.c., sarebbe allora responsabile del cognomen Marullo alla madre dei tre fratelli celebrati nelle epigrafi di San Giuliano.


LUCIUS NERATIUS ANNIANUS
A parte quest’ulteriore parentela, è provata la discendenza di Neratia da un Neratius Priscus, forse figlio adottivo del famoso giurista Lucius Neratius Priscus (iuniore). C'è chi identifica questo Neratius Priscus con il Lucius Neratius Annianus, probabile figlio adottivo di uno dei figli di Lucius Neratius Priscus (senior), Lucius Neratius Priscus, Lucius Neratius Marcellus o Caius Neratius Proculus (senior). In tal caso, il Lucius Neratius Annianus, originariamente membro della gens Annia, sarebbe entrato nella gens Neratia tramite l’adozione da parte del famoso giurista Neratius Priscus, oppure di uno dei suoi fratelli.

Il suo nome per esteso sarebbe allora Lucius Neratius Priscus Annianus (oppure Lucius Neratius Marcellus Annianus o, ancora, Lucius Neratius Proculus Annianus), il che giustificherebbe la trasmissione del cognomen Annianus al figlio di Neratia Marullina, Caius Neratius Fufidius Annianus, che l’avrebbe quindi ricevuto dal nonno materno.


CAIUS NERATIUS FUFIDIUS PRISCUS
CAIUS NERATIUS FUFIDIUS ANNIANUS
CAIUS NERATIUS FUFIDIUS ATTICUS

Le iscrizioni pertinenti ai tre fratelli Caius Neratius Fufidius Priscus, Caius Neratius Fufidius Annianus e Caius Neratius Fufidius Atticus, ricordano il nonno Neratius Priscus (Lucius Neratius Priscus Annianus?) ed il bisnonno Accius Iulianus, entrambi di dignità consolare.

Con questi tre fratelli, quindi, si viene a comporre un nuovo ramo collaterale della famiglia, quello dei Neratii Fufidii (in quanto figli di una Neratia – Neratia Marullina - ed un Fufidius – Caius Fufidius Atticus).

Come vedremo, tale ramo sarà molto importante per Saepinum, in quanto proprio questi tre fratelli sono i proprietari della villa di San Giuliano. È ancora una volta un matrimonio, pertanto, a procurare alla gens Neratia un’alleanza con una famiglia dell’élite senatoriale, quella dei Fufidii, originari di Telesia.

Per quanto riguarda le carriere di Caius Neratius Fufidius Priscus, Caius Neratius Fufidius Annianus e Caius Naratius Fufidius Atticus, non disponiamo di cursus per intero ma sappiamo che furono tutti di rango senatorio. Qualche ulteriore breve considerazione può poi essere fatta sul cognomen Annianus che, come precedentemente accennato, Caius Neratius Fufidius Annianus potrebbe aver ereditato da suo nonno materno.


NERATIA ANTEIA RUFINA NAEVIA DECIANA
Neratia Anteia Rufina Naevia Deciana, figlia di un Lucius Neratius Priscus, e forse sorella di Marcus Hirrius Fronto Neratius Pansa e Lucius Neratius Priscus (senior). Nel nome di questa Neratia ricorre il cognomen Pansa che rimanderebbe quindi a Lucius Naevius Pansa, padre adottivo di quello che si pensa essere suo fratello; andando oltre, il cognomen Rufina la ricollegherebbe al console P. Anteius Rufus (dal quale le deriverebbe anche il nome di Anteia).


LUCIUS NERATIUS RUFINUS
A sua volta, ella avrebbe trasmesso il suo cognomen al figlio, Lucius Neratius Rufinus, e alla nipote, Iulia Rufina Augurina, il cui padre potrebbe essere il Caius Iulius Augurinus che Tacito menziona quale vittima delle repressioni neroniane.


FLAVIA NERATIA SEPTIMIA OCTAVILLA
Un’epigrafe urbana ci fornisce notizia di Flavia Neratia Septimia Octavilla, donna di rango senatoriale (clarissima puella), figlia di un personaggio legato all’entourage adrianeo, Lucius Flavius Septimus Aper Octavianus, i cui elementi onomastici rimandano, in un certo qual modo, a Settimio Severo. Purtroppo non abbiamo ulteriori notizie riguardanti questa famiglia che ci permettano di chiarire tutti i dubbi circa il suo grado di parentela con i Neratii; tuttavia nel IV secolo d.c., le fila della gens si intrecceranno con quelle della famiglia imperiale dei Costantinidi in un primo tempo e dei Valentiniani poi.


NERATIUS IUNIUS FLAVIANUS
Nel IV secolo d.c. rileviamo Neratius Iunius Flavianus, probabilmente figlio del Lucius Iunius Aurelius Neratius Gallus Fulvius Macer, documentato epigraficamente a Roma, che divenne prefetto urbano nel 311-312 d.c.


NERATIUS CERIALIS
Neratius Cerealis, uomo ricchissimo, fu:
1) - praefectus annonae nel 328 d.c.,
2) - praefectus Urbi nel 352-353 d.c.
3) - console (ordinario) nel 358 d.c.

Trasformò la villa sull’Esquilino in una sontuosissima dimora, dotandola dei Balnea Cerealis, grandiose e lussuosissime terme riservate all'elite del senato romano.


NERATIUS SCOPIUS
Neratius Scopius, consularis Campaniae, fu probabilmente figlio di Neratius Cerialis.


NERATIUS PALMATUS
Neratius Palmatus (figlio stesso di Neratius Scopius?), consularis in Sicilia, forse da identificare con il Neratius Palmatus praefectus Urbi nel 412 d.c.


VULCACIUS RUFINUS
Importanti anche i fratelli di Neratius Cerealis: Vulcacius Rufinus e Galla.
Vulcacius Rufinus fece un'ottima carriera:
1) - pontifex maximus,
2) - vir consularis per la Numidia,
3) - comandante di truppe comitatensi in Egitto e Mesopotamia,
4) - console (ordinario) nel 347 d.c.,
5) - prefetto del pretorio per l’Italia,
6) - prefetto del pretorio per l’Illirico,
7) - di nuovo prefetto del pretorio per l’Italia,
8) - prefetto del pretorio per la Gallia,
9) - prefetto del pretorio per l’Africa.


GALLA
La neratia Galla e suo figlio,  il Cesare Flavius Claudius Constantius Gallus
Sorella di Neratius Cerealis e Vulcacius Rufinus, Galla, sposò Iulius Constantius, figlio del tetrarca Costanzo Cloro e di Teodora e quindi fratellastro dell’imperatore Costantino I. Ebbe tre figli, fratellastri dell’imperatore Giuliano l’Apostata, che nacque da un secondo matrimonio di Iulius Constantius con Basilina.


FLAVIUS CLAUDIUS CONSTANTIUS GALLUS CAESAR
Il figlio maggiore di Iulius Constantius perì insieme a suo padre nell’estate del 337 d.c. quando, morto l’imperatore Costantino, l’esercito uccise i maschi della famiglia imperiale affinchè non gli succedessero. La strage fu gradita ai figli naturali di Costantino: Costantino II, Costanzo II e Costante I, che miravano al trono.

EPIGRAFE DI CAIUS FUFIDIUS ATTICUS
Unici sopravvissuti furono Giuliano, che si salvò perchè nel 337 d.c. aveva solo sei anni, e Constantius Gallus, secondo figlio di Iulius Constantius e della neratia Galla (e quindi fratellastro di Giuliano), perchè affetto da una malattia ritenuta mortale, oppure perchè Costanzo II voleva salvare la vita a quello che era diventato da poco suo cognato, in quanto sua sorella era andata in sposa a Costanzo II.

Nel 351 d.c., Constantius Gallus venne nominato Cesare da Costanzo II, divenendo Flavius Claudius Constantius Gallus Caesar. L’anno precedente c'era stata l’usurpazione del generale Magnenzio che, ucciso l’Augusto d’Occidente Costante I, era stato acclamato imperatore dal suo esercito stanziato in Gallia.

Era quindi necessario che Costanzo II, preparasse una campagna militare in Occidente che però, in mancanza di un erede, avrebbe lasciato il trono orientale allo sbaraglio. Pertanto l’imperatore scelse di elevare Constantius Gallus al rango di Cesare e conferirgli quindi il controllo sulla pars orientis dell’impero.

Constantius Gallus e Giuliano, infatti, seppur risparmiati dalla strage, nel 337 d.c., secondo la testimonianza di Ammiano Marcellino, erano stati affidati ad Eusebio di Cesarea e alla sua morte, vennero relegati nella residenza imperiale del Macellum, in Cappadocia.

Così Flavius Claudius Constantius Gallus Caesar, ricevette il nome di Costantius e sposò Costantina, sorella maggiore di Costanzo II, meglio conosciuta come Costanza. Nel periodo in cui Constantius Gallus fu Cesare (351-354 d.c.) vi fu una violenta rivolta della comunità ebraica in Palestina (351-352 d.c.), sedata nel sangue dal magister militum Ursicino e la città di Diocesarea venne completamente distrutta.

Negli ultimi anni del suo governo, vi furono contrasti con i Sasanidi, nemici di Roma; le fonti, a riguardo, ci informano di alcuni successi riportati dal cesare, probabilmente dovuti al generale Ursicino.

Giuliano, nella sua Epistola al Senato e al Popolo degli Ateniesi, narrò di come il fratellastro Constantius Gallus, divenuto Cesare, volesse usurpare il trono del cugino instaurando un regime di terrore, sospetti e crudeltà, sostenuto dalla moglie Costanza, una “megera in veste di donna”, una donna molto più anziana del marito. Ammiano Marcellino: “Sempre più incontenibile e dannoso per tutti gli uomini onesti, il Cesare, ormai privo di ritegno, dopo i fatti che abbiamo riferito, opprimeva per lungo e per largo tutto l’Oriente, non risparmiando i nobili, i maggiorenti delle città ed i plebei.”

Constantius Gallus entrò in contrasto con il senato di Antiochia. A causa del repentino innalzamento del prezzo del grano, propose una nuova tassa e, di fronte alla risposta negativa di molti senatori, ne condannò a morte parecchi, dissuaso solo dal comes Orientis Onerato, che rifiutò di far eseguire la condanna, evitando l’intervento diretto dell’imperatore contro Constantius Gallus.

Allora il Cesare incolpò Teofilo, vir consularis Syriae, dell’aumento del prezzo del grano e la scarsità dei rifornimenti, facendolo linciare dalla folla. A questo punto Costanzo II sostituì Ursicino con un uomo a lui fedele, per togliere a Cesare il suo valente generale; poi richiamò a corte il Cesare e sua moglie, che però morì durante il viaggio. Giunto a corte Constantius Gallus fu chiamato a render conto delle sue scelleratezze e venne condannato a morte.


IUSTINA
Nel frattempo, alcuni Neratii si erano imparentati con Iustus, il vir consularis della provincia di Picenum, fatto uccidere da Costanzo II. I suoi figli erano Cerealis, Constantianus e Iustina. Quest’ultima figlia andò in sposa all’usurpatore Magnenzio ma, una volta sconfitto da Costanzo II, ella sposò l’imperatore Valentiniano I da cui ebbe Valentiniano II, il quale succederà al padre al comando dell’impero, e Galla che sposerà Teodosio e sarà madre di Galla Placidia.



A SEPINUM

A Saepinum, in epoca tardo-antica, Neratius Constantius, curator locale, promosse lavori di ristrutturazione urbanistica notevoli, coadiuvato dal rector della provincia Fabius Maximus. Fece restaurare:
-  la basilica,
- il tribunal colomnatum,
- le thermae Silvani con relativa porticus,
- l’area del foro
- le mura urbiche.

Le opere edilizie furono dovute all’intervento diretto di Neratius Cerealis, all’epoca praefectus Urbi, disponendo, attraverso il parente e patronus municipii Neratius Constantius, una risistemazione della città d’origine della propria gens.



A ROMA

La più importante testimonianza archeologica della presenza dei Neratii a Roma è la domus Neratiorum sull’Esquilino, il cui sito a tutt'oggi è noto solo parzialmente e soprattutto non precisamente circoscrivibile.

La storia dei ritrovamenti inizia nel 1873 quando, durante dei lavori di scavo condotti nella zona tra piazza dell’Esquilino, via Cavour, via Farini e via Manin, furono rinvenuti i resti della domus di Naeratius Cerealis, in base al ritrovamento in sito di un’epigrafe che lo menzionava come conditor balnearum. Un’epigrafe con iscrizione analoga era stata già rinvenuta nell’area attigua dell’odierna Stazione Termini, un tempo occupata dalla villa Montalto Peretti – Negroni.

Nella stessa zona, poi, erano state trovate basi dedicate rispettivamente a Naeratius Cerealis e a suo figlio Naeratius Scopius e numerose epigrafi menzionano Naeratius Cerealis quale promotore di un impianto termale; tra ‘600 e ‘700 si trovavano conservate in punti di Roma anche piuttosto distanti tra loro (dalla villa Matteiana del Celio a villa Borghese) e non si conservava memoria dei luoghi di ritrovamento. Ciò suggerì prudenza nel considerare le epigrafi esquiline un riferimento topografico certo.

Nel 1905, all’angolo tra via Urbana e via di Santa Maria Maggiore, venne rinvenuta una fistula aquaria con il nome dei Neratii, del II secolo d.c. Si comprese che l’espressione conditor balnearum si riferisse a qualche importante edificio pubblico che Cerealis aveva inaugurato in altra zona. Invece le ricche decorazioni degli ambienti, i resti di cornicioni in rosso antico, di colonne in giallo e nero antico, di un tratto di sectile parietale, le pavimentazioni di marmo cipollino e la statuaria rinvenuta, rimandano a una residenza aristocratica tardo antica.



NERATIUS PALATIUSIl complesso passò poi in eredità a Naeratius Palmatus, praefectus urbi nel 412 d.c. e figlio, o forse nipote, di Naeratius Scopius. Egli, ultimo personaggio della gens Neratia, probabilmente fu anche l’ultimo dei Neratii proprietario della domus esquilina.

Terminata la dinastia, l’edificio, verosimilmente attraverso una donazione, entrò a far parte delle proprietà della nuova basilica di Santa Maria Maggiore, quale casa d’affitto da rendita.



LA DOMUS CISPIA

Durante una campagna di scavo condotta tra il 1966 e il 1971 nell’area sottostante la basilica di Santa Maria Maggiore, la quale occupa la sommità del Cispio, sotto il pavimento della chiesa, a sei metri di profondità, furono rinvenuti i resti di un edificio costituito essenzialmente da un grande cortile porticato, sul quale si affacciano alcuni altri ambienti.

La fase più antica, in opus incertum, è datata al II secolo a.c., mentre il rifacimento principale sembra essere di età adrianea. Inizialmente identificato con il Macellum Liviae, è stata considerata un’abitazione privata. In particolare, nel II secolo d.c., la domus sembra sia appartenuta a Lucius Neratius Marcellus e a Caius Neratius Proculus, fratelli di Lucius Neratius Priscus; a questi personaggi si riferirebbe l’iscrizione riportata sulla fistula aquaria di cui sopra.

Gli scavi condotti sotto la basilica di Santa Maria Maggiore hanno altresì messo in luce una decorazione parietale eccezionale: i muri dei lati lunghi erano infatti ricoperti da un calendario dipinto, intramezzato da scene che rappresentano lavori agricoli corrispondenti ai relativi mesi, tutt’ora parzialmente conservato.

La datazione è precedente all’ultimo quarto del IV secolo d.c., quando le pitture furono ricoperte da una decorazione a finto marmo. La proprietà dei Neratii doveva estendersi nella zona oggi dell’Ottocento subito fuori della Porta Esquilina, compresa tra la stazione Termini, la basilica di Santa Maria Maggiore, il complesso del palazzo Brancaccio, ultimo palazzo nobiliare costruito a Roma, e il teatro Morgana (poi teatro Politeama Brancaccio) su via Merulana. Soprattutto in epoca tardo antica, la domus doveva presentarsi come una residenza urbana particolarmente sontuosa, degna di ospitare una potente famiglia aristocratica come quella dei Neratii.



BIBLIO

- Eutropio - Storia di Roma - Santarcangelo di Romagna - Rusconi Libri - 2014 -
- D. Bowder - Dizionario dei personaggi dell'antica Roma - Dizionario dei personaggi dell'antica Roma, Newton Compton editori - 2001 -
- Andrea Frediani, Sara Prossomariti - Le Grandi Famiglie di Roma Antica - Roma - Newton Compton Editori - 2014 -
- Edward Gibbon Nomina Gentesque Antiquae Italiae (1763-1764) -
- Valerio Cianfarani - Guida delle antichità di Sepino - Milano - 1958 -

MARCO EMILIO LEPIDO - M. AEMILIUS LEPIDUS (Triunvirato)

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Nome: Marcus Aemilius Lepidus
Nascita: 90 a,c, Roma
Morte: 13 a.c. San Felice Circeo
Moglie: Giunia Seconda
Figli: Aemilia Lepida, Marco Emilio Lepido minore
Consolato: 46 a.c. 42 a.c.


Marco Emilio Lepido (in latino: Marcus Aemilius Lepidus; 90 a.c. circa – 13 a.c.) è stato un politico romano, membro del II triumvirato assieme a Ottaviano e Marco Antonio, due volte console e pontefice massimo.



L'INTERREX

Appartenente a un'antica famiglia patrizia, era figlio dell'omonimo Marco Emilio Lepido,  il console del 78 a.c, .e fratello del console Lucio Emilio Paolo, console nel 50 a.c.. Provocò la nomina a dittatore di Cesare, desiderando vendicare la morte del padre vittima dell'aristocrazia.

Nel 52 a.c., subito dopo la morte di Publio Clodio Pulcro, esponente dell'importante gens aristocratica dei Claudii, fu nominato interrex dal Senato. L'interex era un magistrato nominato dal Senato romano esclusivamente per convocare i comitia centuriata, le assemblee popolari della Res Publica Romana, onde eleggere i nuovi consoli o i nuovi tribuni consolari, quando i loro predecessori non avevano potuto.

Roma però si trovava in uno stato di anarchia e Lepido rifiutò la convocazione dei comizi per l'elezione dei consoli; per tale motivo la sua casa venne assediata dai partigiani di Clodio e lui a stento riuscì a salvarsi.



IL CURSUS HONORUM

Successivamente compì un rapido cursus honorum che lo vide pretore nel 49 a.c., governatore della Spagna Citeriore nel 48-47 a.c. dimostrando ottime doti di governatore e soprattutto di generale, per cui ebbe l'acclamazione a imperator e il trionfo.

Venne nominato console nel 46 a.c. insieme a Giulio Cesare e grazie all'appoggio di Giulio Cesare. Negli anni 46-44 a.c. la collaborazione con Cesare divenne ancora più stretta con la nomina di Lepido a magister equitum nel 45 a.c., la seconda carica dello Stato.



MORTE DI CESARE

Alla morte di Cesare nel 44 a.c. Lepido era a Roma con una legione, fatto che lo poneva in una situazione di netto vantaggio potendo minacciare vendetta nei confronti dei cesaricidi. Appoggiò e sostenne Marco Antonio che gli conferì la più alta carica religiosa lasciata vacante dall'assassinio di Cesare, quella di pontifex maximus.

Patrocinò la riconciliazione fra Sesto Pompeo e Antonio nel 43, suscitando le ire di Cicerone per aver tentato di conciliare Antonio e il senato. Poiché continuava a parteggiare per Antonio, fu dichiarato nemico pubblico.

MARCO EMILIO LEPIDO PONTEFICE MASSIMO

IL II TRIUNVIRATO

Però con l'arrivo a Roma dell'erede di Cesare, Ottaviano, Lepido seguì le sorti di Marco Antonio presentandosi come garante fra i due contendenti alla successione del defunto dittatore, e stipulando un'alleanza il 26 novembre del 43 a.c. che riguardava Ottaviano Augusto, Marco Antonio e Marco Emilio Lepido. Questa alleanza durò dieci anni, fino al 33 a.c., ma non venne rinnovata.

Però a differenza del Primo triumvirato, che era solo un accordo privato, il Secondo Triumvirato fu una organizzazione ufficiale, anche se extracostituzionale, che ricevette l'Imperium Maius e, in questo accordo stretto a Bologna, Marco Lepido assunse il governo della Spagna, dell'Italia e di una parte della Gallia. e successivamente dell'Africa settentrionale.

Fu console per la seconda volta nel 42 a.c. e dette alcune legioni ai colleghi per la guerra contro Bruto e Cassio. Nel 40 a.c., con la pace di Brindisi, ottenne le province africane dalla divisione della repubblica con gli altri triumviri. Durante la battaglia di Filippi rimase a guardia di Roma.
Aveva sposato Giunia, sorella di Bruto, da cui ebbe un figlio, Marco, che tentò di assassinare Ottaviano (30 a.c.): scoperto da Mecenate, fu ucciso.



ESCLUSIONE DAL TRIUNVIRATO

Fu però messo in disparte nel 39, e, dopo aver partecipato con Ottaviano alla lotta contro Sesto Pompeo, reclamò per sé l'Africa e la Sicilia. In realtà, avendo poi fornito un aiuto a Sesto Pompeo, venne abbandonato dai soldati e sopraffatto da Ottaviano, e fu escluso dal triunvirato nel 36. Costretto a un volontario esilio al Circeo, conservò solo la carica di pontefice massimo e si ritirò a vita privata.

La sua effigie compare in molte monete datate dai numismatici tra il 43 ed il 36 a.c. Tuttavia queste si somigliano poco, al punto che ne possiamo distinguere tre tipi.
- Il primo (monete di Mussidio Longo, Vibio Varo, P. Clodio) ha un'età media, dai tratti piuttosto convenzionali;
- il secondo (monete di Livineio Regolo) presenta un volto giovanile, di influsso ellenistico;
- il terzo (monete africane tra il 40 ed il 36 a.c.) artisticamente piuttosto rozze, vagamente ellenistiche.

A parte ciò sono state identificate con Emilio Lepido:
- una statua di togato da Velleia (Parma, Palazzo Farnese),
- una testa in bronzo da Ercolano (Napoli, Museo Naz.),
- una testa della Gliptoteca Ny Carlsberg di Copenaghen
- ed infine la figura di pontefice massimo che è sul fregio dell'Ara Pacis.



LA MORTE

Morì nel 13 a.c., sembra per cause naturali.

TERGESTE - TRIESTE (Friuli Venezia Giulia)

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L'ANTICA TERGESTE
Sotto alla Trieste moderna giacciono i resti della colonia romana di Tergeste, fondata verso la metà del I secolo a.c. e posta sul versante nord-occidentale del colle di San Giusto, ai piedi di un'imponente scarpata che dall'altopiano del Carso degrada bruscamente verso il mare Adriatico. La costa era più arretrata rispetto all’attuale e vestigia delle strutture portuali sono state individuate lungo via del Teatro Romano e via Cavana.

La banchina del porto, costruita in lastre di arenaria nel I o inizi II secolo d.c., rimase in funzione almeno fino al V secolo e alcuni resti sono ancora visibili sotto la moderna pavimentazione di esercizi commerciali e alberghi della zona.

Tergeste si sviluppò progressivamente, raggiungendo la sua massima espansione durante l'impero di Traiano, con una popolazione che, secondo lo storico Pietro Kandler, contava 12.000 abitanti. Etimologicamente, il toponimo di Trieste deriva dal venetico Tergeste, formato da - terg - "mercato" ed - este - suffisso tipico dei toponimi venetici.

RICOSTRUZIONE DEL PORTO (dal dvd La città invisibile. Frammenti di Trieste romana)

L'ACCAMPAMENTO ROMANO

Se un tempo si pensava che la Tergeste romana fosse sorta sul colle di San Giusto, in un'area che offrisse riparo dal vento, nel 2013, grazie a un radar ottico chiamato lidar (light detection and ranging), montato su un aeroplano, e a un georadar per lo studio del paesaggio, sono emersi dei nuovi insediamenti situati tra Montedoro e la baia di Muggia, porto naturale.

La scoperta, che ha portato alla luce un accampamento romano con due castrum minori risalenti al 180 a.c., si deve all'archeologo Federico Bernardini dell'Istituto Internazionale di Fisica Teoretica Abdus Salam di Trieste e del Museo Storico della Fisica e Centro di Studi e Ricerche Enrico Fermi a Roma. Annunciata sulla rivista dell'Accademia di Scienze degli Stati Uniti (Pnas), il ritrovamento avrebbe quindi portato alla luce la "prima" Tergeste romana.

Il fortilizio romano, con un grande campo centrale (San Rocco), era affiancato da due fortificazioni minori. I più antichi ritrovamenti archeologici, tra cui un'anfora greco-italica prodotto nel Lazio o in Campania, forniscono una cronologia relativa per la prima installazione delle strutture tra la fine del III secolo a.c. e i primi decenni del II secolo a.c. mentre altri materiali, come le anfore Lamboglia  e un chiodo militare per calzature (tipo D di Alesia), indicano almeno la metà del I secolo a.c.

I siti risalgono alla conquista romana della penisola istriana nel 178-177 a.c. e furono in uso, forse non continuativamente, almeno fino alla fondazione di Tergeste,  a metà del I secolo a.c. Il sito di San Rocco, con le sue eccezionali dimensioni e le imponenti fortificazioni, è la principale testimonianza romana nota del triestino in questa fase e potrebbe corrispondere alla localizzazione del primo insediamento di Tergeste prima della fondazione della colonia.

Questa ipotesi sarebbe supportata anche da fonti letterarie che la descrivono come un frourion (Strabone, V, 1, 9, 9, C 215), termine usato dagli scrittori antichi per designare le fortificazioni dell'esercito romano.

VASCHE VOTIVE DEL TEMPIO DELLA DEA BONA

TARGESTE

I fatti che precedono l'invasione romana del territorio ricordano gli Istri e la loro alleanza con Demetrio di Faro (Lèsina) contro Roma, che condusse ad una prima azione militare da parte dei romani (220 a.c.). Non si hanno notizie se a questa battaglia, nelle file degli Istri, abbiano partecipato anche gli abitanti dell'antica Tergeste.

Nel 183 a.c., Roma iniziò una seconda campagna contro gli Istri, da sempre alleati dei loro nemici e costante minaccia dei territori conquistati. La guerra del 183 venne interrotta per ragioni politiche, ma riprese due anni più tardi quando gli Istri cercarono di ostacolare la costituzione della colonia aquileiense. I tergestini a quel tempo erano governati dal re degli Istri Aipulone o Epulone, o Regulus Aepulus, come dice Tito Livio.

Furono i Veneti a chiedere a Roma aiuto contro il comune nemico, il popolo degli Istri, dedito alla pirateria e al saccheggio. I Romani nel 181 a.c. fondarono la strategica colonia di Aquileia, base per la guerra contro gli Istri che, dopo aver sottoscritto un concordato con Roma, dimostrarono ben presto di non volervi tener fede.

Nel 178 a.c. il console Aulo Manlio Vulsone, ricevuto il proconsolato della Gallia, intraprese, senza l'autorizzazione del Senato, una nuova guerra contro le popolazioni dell'Istria, a protezione anche della nuova colonia di Aquileia. Aveva come alleato Catmelo, re dei Taurisci, che secondo Plinio il Vecchio sarebbero i Norici, forte di 3.000 armati.

PRIAPO DI VIA MALCANTON I SEC. D.C.
Nella battaglia che ne seguì venne sconfitta la seconda legione del pretore Strabone. 

Gli Istri sferrarono l'attacco la mattina presto, quando era ancora buio, gettando nel panico i soldati romani che, colti di sorpresa, si misero in fuga. 

Rimasero nel campo solo 600 uomini, il pretore e gli ufficiali, che vennero travolti e trucidati. 

Gli Istri, dopo la vittoria, avendo trovato nel campo viveri e vino, si misero a banchettare e a ubriacarsi.

Questo consentì ai Romani di riorganizzarsi e di sferrare un micidiale contrattacco dopo qualche ora, gli Istri sopravvissuti si ritirarono disperdendosi nei vari villaggi.

Non ottenendo grande successo all'inzio del nuovo anno, col supporto dell'altro console Marco Giunio Bruto riprese le operazioni militari, ottenendo stavolta buoni risultati, ma senza concludere la campagna, in quanto sostituiti sostituiti dal nuovo console Gaio Claudio Pulcro, console del 177 a.c..

"Pervenuti all'orecchie di Claudio Pulcro i progressi che M. Giunio ed A. Manlio facevano nell'Istria, temendo non gli levassero con la Provincia anco l'esercito fatto consapevole di quanto passava Tito Sempronio suo collega, si partì precipitosamente di notte tempo a quella volta. 

Posciachè, dopo aver rinfacciato Giunio che si fosse con infame lega unito a Manlio, gli comandò che lasciata quella Provincia dovesse subito partire per altre parti altrimenti non eseguendo i suoi ordini come contumaci gli avrebbe mandati cinti di catene a Roma. 

Poco curarono le sue minacce li due anzi che invece di obbedire a quanto loro impose fecero che sbeffato e vilipeso da tutti con suo crepacuore ritornasse coll'istessa nave nella qual era venuto prima in Aquileja ed indi a Roma. 

Fermossi tre giorni Claudio nella Reggia ove raccolto col furore di Tito Sempronio suo collega quel numero di soldati già prima dal Senato destinati in ajuto di quella guerra e levati i debiti ordini con non minor celerità di prima fece ritorno nell'Istria. 

Arrivato in questa Provincia senz'altro ritardo fece indi partire Manlio e Giunio col loro esercito i quali pochi giorni prima, posto l'assedio a Nesazio, l'avevano ridotto molto alle strette e proseguendo egli l'impresa circondò quel Castello con due nuove legioni seco condotte di sì fatta maniera che in breve lo ridusse all'estremo ma perchè il fiume che lo cingeva e bagnava le mura serviva di gran comodità ed aiuto agli assediati ed al suo esercito ed a lui d'impedimento, determinò cangiargli il letto rivolgendolo dopo molte fatiche in altra parte. 

Attoniti gli assediati e fuor di se stessi per tal novità non aspettata, disperati di ottenere più la pace, deliberarono di trucidare colle mogli anche i propri figliuoli i quali tagliati a pezzi gettaronli fuori delle mura nel campo nemico. Fece tal crudeltà stupire oltremodo i Romani i quali eccitati da così orrendo ed abominevole spettacolo e dalli compassionevoli lamenti di quelle misere femmine e fanciulli sforzate incontamente con grande impeto le mura entrarono a viva forza nel Castello. 

Dopo tal successo il Re Epulone volle piuttosto trapassandosi con un pugnale il petto di venir misera preda della morte che rimanendo in vita restar prigione de suoi nemici. Gli altri tutti parte restarono prigioni e parte uccisi."

La guerra si svolse tra il 178 e il 177 a.c. e si concluse con la totale disfatta degli Istri i quali preferirono il suicidio (col massacro di mogli e figli) alla perdita dell’autonomia. 



LA COLONIA 

Sembra che nell’89 a.c., in seguito alla cosiddetta Lex Pompeia, anche Tergeste, come altri centri transpadani, abbia ricevuto il ius Latii, una forma di cittadinanza con diritti ridotti. Gli studiosi ritengono che poco prima il 52 a.c. (anno dell’incursione dei Giapidi che distrusse la città) Tergeste fosse divenuta una colonia, i cui abitanti erano cittadini romani a tutti gli effetti. 

Dopo le guerre contro i Giapidi del 33-32 a.c. condotte da Ottaviano (il futuro Augusto) il confine nord-orientale dell’Italia fu ampliato e portato nell’Istria meridionale. Così Tergeste, al di fuori delle lotte di conquista, poté realizzare un rapido sviluppo demografico ed economico, come centro nodale di raccordo tra i traffici marittimi e le regioni danubiane.

Negli stessi anni la città era stata circondata dalle mura, che persero man mano la loro funzionalità, usate solo come terrazzamenti del pendio. Presso il porto sorse un’area legata al commercio, poi un quartiere residenziale sul versante e il centro politico, amministrativo e religioso sopra al colle.

In epoca neroniana-flavia (54-96 d.c.) Tergeste ebbe il suo Foro, la Basilica, il Propileo e l'Arco di Riccardo. In seguito la città venne arricchita dalla risistemazione del Teatro intrapresa all’inizio dell’età traianea (102-106). 

Nel II secolo poi si ebbero ancora alcuni interventi di ristrutturazione e abbellimento, soprattutto all’epoca di Adriano e di Marco Aurelio, come la ricostruzione della Basilica forense (167-168) e altri edifici dei quali rimangono solo le testimonianze epigrafiche. Due acquedotti alimentavano la città, quello di Bagnoli e quello di San Giovanni di Guardiella.

PIANTA E SEZIONI DEL TEMPIO DELLA DEA BONA


GLI SCAVI ARCHEOLOGICI

1843) - Nel 1843 venne inaugurato ufficialmente l'Orto Lapidario. Il direttore, Pietro Kandler predispose il primo nucleo di reperti in esposizione: quattro sarcofaghi, otto bassorilievi, otto teste ritratto, capitelli, cornici e un'ottantina di iscrizioni, provenienti anche da Aquileia e dal Litorale istriano.

Della Trieste romana è possibile una ricostruzione storica e geografica grazie ai numerosi resti e reperti archeologici venuti alla luce, dal Colle di San Giusto fino al mare. Le strutture portuali rinvenute lungo via del Teatro Romano e via Cavana, risalenti al I - II° secolo d.c., utilizzate almeno fino al V secolo, ci rivelano che il mare era parecchio più avanzato di quanto lo sia oggi.

La città era suddivisa in tre aree: vicino al porto si svolgevano i commerci, nel primo entroterra la zona residenziale e sul colle di San Giusto il centro politico e religioso.
Le antiche mura romane, risalenti al 30 a.c., persa la funzione difensiva, vennero riutilizzate come strutture di terrazzamento e di contenimento.
Sul Colle si trovano i " Templi ", dedicati a Giove ed Atena (alcune strutture architettoniche sono nelle fondamenta della Cattedrale) e la " Basilica Paleocristiana ", edificata fra il IV e il V secolo.

1907) - Dagli scavi di via Bramante del 1907, emersero una serie di monete del I secolo d.c. e  lungo la via per l'Istria, dei locali adibiti ad usi artigianali, tra cui un fabbro, una panetteria con un piccolo forno, un pozzo, una latrina  e una serie di tombe a inumazione di epoca tarda.


1909) - Durante gli scavi del 1909-1912 per le fondamenta del Palazzo Greinitz, in via Santa Caterina, venne alla luce un edificio composto da un recinto quadrilatero con all'interno un piccolo tempio con pronao a quattro colonne, era il Tempio della Bona Dea, risalente ai primi anni dell'Impero e in uso fino al IV secolo d.c.

1911 ) - In diverse zone della città scavando per costruire edifici comparvero tracce di edifici romani: scavando per costruire il grande palazzo della RAS vennero fuori dei mosaici a esagoni e rosette, conservati in quattro pannelli e replicati modernamente nell'atrio del palazzo.

1913) - Nel 1913, durante la demolizione di alcune case nella piazzetta di Riccardo, per la liberazione dell'Arco, emerse  un tempio dedicato alla Dea Cibele o Mater Magna, risalente al primo quarto del I sec. d.c..

1982) - Negli scavi del 1982 in via Donota, vennero rinvenute due monete romane in bronzo: Costanzo II e Costanzo II per Costanzo Gallo (351-354 d.c.), entrambe riconducibili per la tipologia di sepolture, in casse e anfore, all'ultima utilizzazione del sepolcreto, databili entro il IV sec. d.c..

TEATRO ROMANO

IL TEATRO ROMANO

"Un vero monumento si profilerà un giorno nel cielo triestino, risorgendo dalla sconcia e disonorante sepoltura, in cui giace coperto da un agglomerato di case, di catapecchie e di lupanari, tra le vie di Pozzàcchera, di Rena, di Donota e di Riborgo, nella città vecchia. 
È la vasta rovina del teatro romano, di cui sotto le case sono conservati interi piani, gran parte della platea, frammenti di gradinate, due ordini di corridoi o gallerie sovrapposti l’uno all’altro. Tra via di Pozzàcchera e quella di Rena (da arena?), arcuate come sono, seguono ancora la curva delle gallerie sepolte. 
Il Generini afferma che sin verso il 1850 in Pozzàcchera si vedeva un pezzo della cinta del teatro, alto, disposto a curva, il quale continuava nell’interno delle case e terminava a Riborgo. Si vede ancora che una parte delle mura, nel medioevo, fu fondata sulle rovine del teatro. 
Una casa al principio di via Pozzàcchera è costruita sopra porzione del teatro stesso. Un corridoio sotterraneo metteva capo, or non è molto, in androna del Buso e un frammento di gradinata si vedeva in androna degli Scalini. Il diametro del teatro, la cui topografia è facilmente visibile nella sua totalità, misura circa sessanta metri. 
Ireneo della Croce, dopo aver descritto quanto si vedeva delle rovine ai suoi tempi, diede un’immagine di queste in un rame della sua opera e ricordò i risultati di alcuni scavi operati nell’orto Chicchio e alla casa Garzaroli, sulla linea di fronte del teatro, lungo la via Riborgo. Un’iscrizione, di cui esistettero due esemplari, uno in Riborgo e l’altro sulla parte posteriore del teatro, porta il nome di Quinto Petronio Modesto, triestino, ufficiale del tempo di Nerva e di Traiano: gli si attribuì, di fantasia, la costruzione del teatro. 
La città deve aver posseduto anche un anfiteatro, poiché esiste un’iscrizione triestina che rammenta i giochi gladiatori."

(Attilio Tamaro - Storia di Trieste - Vol. I)


"I ruderi dell’antico Teatro romano, oggi sepolti dalle casupole delle vie di Pozzacchera, di Rena, di Donota, di Riborgo, dànno un’idea della sua vastità: Pietro Nobile ne valutava il diametro a 57 metri e calcolava che potesse contenere circa 6000 persone, ciò che permette di concludere che non intervenivano solo i cittadini, ma anche gli abitanti dei paesi vicini. 
Impropriamente, il teatro fu chiamato più tardi Arena ed il quartiere ne prese il nome, con aferesi veneta, di Rena, ma sembra fosse più adatto alle rappresentazioni sceniche, che ai ludi gladiatori."

(Carlo Curiel - Trieste settecentesca)


Il Teatro, di fine I secolo a.c. o inizio II secolo, che venne ampliato sotto Traiano, è posto ai piedi del colle di San Giusto, tra via Donota e via del Teatro Romano. La sua costruzione viene attribuita al procuratore Quinto Petronio Modesto, sacerdote di Marco Ulpio Nerva Traiano che però ne curò solamente alcuni interventi di rinnovamento.

All'epoca della sua costruzione, il teatro, si trovava in riva al mare, che a quel tempo arrivava quasi a lambirlo (sono stati rinvenuti moli di attracco), e le sue gradinate, costruite sfruttando la naturale pendenza del colle, potevano accogliere, secondo le fonti dai 3.500 ai 6.000 spettatori.

PIANTA DEL TEATRO
Il teatro romano era costruito in piano e non su un declivio naturale come quello greco, con una forma chiusa, che non consentiva la copertura con un velarium. Le gradinate semicircolari della cavea sono collegate alla scena con loggiati laterali poggianti su archi e volte realizzati in muratura.

La facciata della scena era a numerosi piani e decorata con prismi triangolari rotabili con i lati dipinti con una scena tragica su un lato, comica su un altro e satiresca sul terzo.

La facciata esterna era ornata da statue.

DETTAGLIO DEL TEATRO
La cavea utilizzava una piccola collina o pendio, con muri di contenimento.

Con il trascorrere dei secoli, in stato di totale abbandono, il teatro triestino venne ricoperto da edificazioni abitative.

Ne rimangono la parte inferiore delle gradinate in mattoni (parzialmente rifatte), il grande muro che chiudeva a semicerchio la parte destinata al pubblico, mentre del palcoscenico, che era ricoperto in legno, rimane la “fossa” e della scena solo alcune strutture: doveva essere alta due piani, mossa da porte, colonne e sculture (ora esposte presso il Lapidario Tergestino, nel Castello di San Giusto).

In tre iscrizioni dell’epoca di Traiano compare il nome di Q. Petronio Modesto, un illustre personaggio tergestino che finanziò i lavori di ristrutturazione e abbellimento del teatro nei primi anni del II secolo d.c.

Come gli altri monumenti romani subì la spoliazione delle pietre pregiate e divenne il solido fondamento per le case che vi si costruirono sopra. Fu individuato nel 1814 dall'architetto Pietro Nobile, guidato dal nome del luogo “Rena vecia” (Arena vecchia), ma solo nel 1938 venne portato alla luce in seguito ai grandi lavori di demolizione e di riqualificazione urbana.

Le statue e le iscrizioni rinvenute durante gli scavi sono conservate presso il Lapidario Tergestino al Castello di san Giusto. Il teatro oggi è utilizzato talvolta per spettacoli pubblici, perlopiù rappresentazioni teatrali estive.



ANFITEATRO

La città deve aver posseduto anche un anfiteatro, poiché esiste un’iscrizione triestina che rammenta i giochi gladiatori, però ancora non se ne è trovata la traccia.

ARCO DI RICCARDO

ARCO DI RICCARDO

Si tratta si una porta romana della metà del I secolo d.c., che si apriva sulle mura della città, fatte costruire da Augusto nel 33-32 a.c.. È una costruzione lineare e massiccia, alta m. 7,20 e larga m. 5,30, ornata da lesene e da un motivo vegetale nell'interno dell'arco. La tradizione vuole che il suo nome sia legato al leggendario passaggio in città di Re Carlo Magno o di Riccardo Cuor di Leone. Più probabilmente deriva dalla corruzione del nome del “cardo”, una delle due vie principali delle città romane che incrociava il decumano.



LAPIDARIO TERGESTINO

Nella prosa ridondante e pomposa del II sec. d.c. il consiglio municipale ricorda i meriti del senatore tergestino Lucio Fabio Severo, che nonostante la sua giovane età era già riuscito a operare con grande competenza e abilità per il bene della sua città patrocinando le cause dei Tergestini anche presso l’imperatore. Tra i suoi meriti più grandi vi fu la concessione da parte dell’imperatore Antonino Pio (138-161 d.c.) che i membri più ricchi e nobili dei Carni e dei Catali – due popolazioni indigene stanziate in un’area non meglio precisata del Carso – potessero acquisire la cittadinanza romana. Essi passarono così dal pagamento di una tassa (probabilmente per l’occupazione del suolo) alla condivisione degli oneri (munera) che gravavano sui membri del consiglio municipale incrementando in tal modo le entrate della colonia. Per tale ragione in onore del senatore, come dice il testo, fu stabilito di erigergli nel punto più frequentato del Foro una statua dorata, sulla cui base fosse inciso anche il decreto onorario, l’unico atto pubblico di Tergeste di cui conserviamo memoria.”

(Commento museale all'epigrafe) 

All’interno del cinquecentesco Bastione Lalio del Castello viene esposta la Tergeste romana che va dai monumenti dall'area capitolina (area di S. Giusto: Basilica civile, Foro e Propileo), ai luoghi di culto (con dediche a Giove, Cibele, Silvano, Bona Dea, Ercole e Minerva), alle mura, al Teatro (le statue dalla scena) e alle necropoli: are, stele, cippi, urne e sarcofagi con i nomi degli antichi tergestini. Una sala è dedicata ai mosaici provenienti dalla lussuosa villa marittima rinvenuta lungo la costa, presso Barcola (scavi non visibili). Databili tra la fine del I secolo a.c. e la metà del I secolo d.c., documentano il gusto raffinato dei ricchi proprietari che vollero imitare le ville di Augusto, Tiberio e Nerone.


Due frammenti contigui di blocco in calcare rinvenuti rispettivamente nel giardino Czvietovich, davanti al monastero dei Santi Martiri nel 1838, e in una casa di via della Corte nel 1925. 33-32 a.c.
[Imp(erator) Caesar] co(n)s(ul) desig(natus) tert(ium),
[IIIvir r(ei) p(ublicae)] c(onstituendae) iter(um),
murum turresque fecit.
L’imperatore Cesare (Ottaviano), console designato per la terza volta,
triumviro per la fondazione dello stato per la seconda volta,
fece le mura e le torri.

All’interno del cinquecentesco Bastione Lalio del Castello di San Giusto è ospitato dal 2001 il Lapidario Tergestino composto da 130 reperti lapidei romani, tra monumenti iscritti a carattere onorario o funerario, sculture a bassorilievo e a tutto tondo accanto ad alcuni frammenti architettonici. Questo materiale era esposto finora all'aperto nel giardino dell’Orto Lapidario, dove stava subendo un progressivo degrado causato dagli agenti atmosferici e dall'inquinamento.
Al fine di preservarne la conservazione e, al contempo, valorizzarne l’esposizione, è stato ricoverato al coperto negli ambienti del Castello. Le lapidi iscritte e le statue sono i documenti che, accanto alle notizie archeologiche, permettono di dare un volto alla Tergeste romana in un quadro storico ricostruito dagli studiosi sin dalla fine dell’Ottocento, ma che più recenti analisi hanno rimesso in discussione.

Pertanto la possibilità ora di studiare questo materiale, ora riunito e presentato in sezioni che classificano i reperti per area di provenienza, è facilitata anche dalle nuove attribuzioni e scoperte avvenute sia durante lo spostamento del materiale, sia per le fonti d'archivio, sia per i risultati dei recenti scavi archeologici tuttora aperti in Città Vecchia. 

Le prime due sale del Bastione sono dedicate ai monumenti dell’area capitolina, mentre la terza grande sala è suddivisa in zona sepolcrale, area sacra e materiale dal teatro romano. Accanto ai reperti lapidei, una serie di tabelloni illustra la storia dei ritrovamenti cittadini con le più accreditate ipotesi di interpretazione. Le didascalie riportano per ogni singolo reperto le notizie sul rinvenimento, la datazione, la trascrizione del testo e magari un breve commento critico.

ANTIQUARIO O SEPOLCRETO

ANTIQUARIUM  

In via del Seminario è ora visibile una porzione delle antiche mura costituite da blocchetti di arenaria, alla cui base si trova un canale per il deflusso delle acque provenienti dal fianco del colle. Scendendo di un centinaio di metri via del Seminario, in via di Donota troviamo l’Antiquarium, costituito da una zona archeologica e da una espositiva, con reperti provenienti dagli scavi di recupero edilizio, iniziati negli anni '80.

L’Antiquarium è costituito da una zona archeologica e da una espositiva, quest’ultima collocata nella torre delle mura medievali, detta di Donota. I reperti esposti provengono dagli scavi effettuati a partire dagli anni ’80 del secolo scorso nella zona retrostante il Teatro Romano, lungo la via Donota e le sue adiacenze, nell’ambito di un esteso recupero edilizio.

Gli scavi hanno portato alla luce a monte del Teatro, fuori dalla probabile cinta muraria romana, i resti di un’abitazione, costruita su piani diversi sfruttando il declivio della collina. L’edificio era sicuramente abitato nei primi decenni del I secolo d.c. e i ritrovamenti di intonaco affrescato, di una decorazione architettonica in stucco, oltre alla ceramica fine da mensa, testimoniano il livello di vita degli abitanti.

Alla metà del II secolo sulle strutture abitative completamente sepolte venne inserito un recinto di lastre calcaree di probabile destinazione funeraria. Dal IV al VI secolo l’area venne intensamente riutilizzata con la creazione di tombe a cassa e a fossa e per la sepoltura di bambini in anfore. Queste tombe riempirono tutto lo spazio e si estesero anche fuori dal recinto.

BASILICA FORENSE

PROPILEI E BASILICA ROMANA

I principali monumenti della Trieste romana vennero edificati in cima al colle di San Giusto e verso la fine del I secolo d.c., vi sorsero il Propileo e la Basilica civile. Il Propileo era il monumentale ingresso ad un’area sacra recintata, che doveva ospitare il tempio capitolino con due grandiose strutture laterali colonnate e al centro una scalinata.

Attualmente sono in parte inglobati nel campanile della cattedrale, mentre la parte sepolta nello spiazzo antistante, la scalinata e la struttura di destra, sono visibili scendendo nel cunicolo che si apre nel giardino dell’Orto Lapidario.

RICOSTRUZIONE DEL PROPILEO
Nei lavori di sterro effettuati tra il 1929 ed il 1934 sono emersi, sul lato sinistro del Propileo, i resti della Basilica civile, o Basilica Forense, destinata al tribunale e ai mercati. un edificio a tre navate di m 88 x 23,5 con una platea lastricata, cioè il Foro affacciato sul lato del mare.

Nel Medio Evo, sopra la Basilica romana e con la totale spoliazione dei monumenti romani, sorsero il vescovado, un monastero e la chiesa di San Sergio, anch'essi scomparsi, mentre ai lati furono edificati la Cattedrale e il Castello (che ospita il Lapidario Tergestino con i resti lapidei provenienti dagli scavi della città).



BASILICA PALEOCRISTIANA DELLA MADONNA DEL MARE

In via Madonna del Mare al numero civico 11, sono stati ritrovati i resti di una Basilica paleocristiana con due pavimenti musivi sovrapposti, uno della fine del IV, inizi V secolo e uno del VI secolo, con iscrizioni inserite nel pavimento dove viene nominata per la prima volta la Sancta Ecclesia Tergestina e alcuni nomi di donatori, anche di origine greca e orientale.

Nel presbiterio, sopraelevato rispetto all'aula, si riconosce un loculo per le reliquie, posto probabilmente sotto la lastra dell’altare. A lato la foto di un pavimento musivo policromo rimasto pressochè intatto.



SANTA MARIA DEL MARE  

La chiesa di cui nel 1825 Domenico Rossetti vide i mosaici dell'abside, fu riscoperta e portata alla luce nel 1963 e si trova sotto l'edificio che ospita il Carducci.

La Basilica, con impianto cruciforme con transetto, abside e presbiterio sopraelevati, conobbe due fasi principali corrispondenti a due pavimenti gettati a pochi centimetri l'uno dall'altro, di cui alcuni pezzi sono stati staccati ed esposti nell'atrio.

Il primo più antico di inizio V secolo, è un mosaico bianconero suddiviso in tre corsie decorato a motivi geometrici con le epigrafi degli offerenti, di cui rimangono quattro che riportano le dimensioni del tessellato offerto.

Il successivo mosaico policromo è più recente, forse inizi del VI secolo, decorato al centro con il motivo dell'"onda marina" e ai lati da cerchi ottagoni e rombi coi nomi degli offerenti.

Nell'abside c'erano i subsidia, i sedili per il clero: davanti all'abside c'è il presbiterio leggermente sopraelevato, dove ancor oggi si vedono due sarcofagi interrati ed un pozzo per reliquie.

Tracce di incendio sul mosaico policromo potrebbero riferirsi ad un incendio; fra il VI e il IX secolo non ci sono più notizie della chiesa, che ricompare nel 1150 con l'intitolazione a santa Maria del Mare.



BASILICA DI SAN GIOVANNI IN TUBA

RESTI ROMANI
La Basilica di S. Giovanni in Tuba, in stile gotico, fu edificata nel XV secolo dai conti di Walsee, signori di Duino, in un’area che aveva già ospitato un tempio pagano di cui ci rimangono testimonianze epigrafiche e alcuni resti. 

Il tempio era già sovrastato da una basilica paleocristiana del V secolo d.c., della quale si conservano nel presbiterio della chiesa un pavimento a mosaico con elementi geometrici simili a quelli di Grado e Aquileia, a sua volta sovrastata dalla Basilica di S. Giovenni in Tuba.



ZONA CROSADA

Nella zona di Crosada sono venuti alla luce resti archeologici della fine del I secolo a.c. come muri e canali di scolo ottenuti da anfore capovolte, nonchè un sistema di terrazzamento su cui poggiavano le abitazioni soprastanti, come le prestigiose domus di via Barbacan, articolate su terrazzamenti e divise in una zona rustica destinata alle attività domestiche e un settore residenziale, decorato da raffinati mosaici e affreschi. L’area è stata protetta per una futura valorizzazione.


VIA DEI CAPITELLI

Alla base della via dei Capitelli, è riemersa la parte inferiore di una porta monumentale che segnava il passaggio tra l’area vicina al porto e il quartiere residenziale sulle pendici dell’altura, costituita da quattro pilastri in pietra d’Aurisina, decorati con motivi vegetali e colonne scanalate agli angoli. In epoca tardoantica venne murata con finalità difensive.

Al numero civico 8 della stessa strada è visibile un frantoio per olive del V secolo utilizzando un blocco parallelepipedo decorato appartenuto a un monumento funerario di I secolo d.c. Nella stessa area è stato riconosciuto un tratto di strada coeva con una porta della cinta tarda, riconosciuta poco a monte, all'incrocio con via Crosada.




VIE DI DONOTA, DEL BOSCO PONTINI E G. CIAMICIAN

Recentemente, nel quadro degli interventi di recupero di Città Vecchia, sono venuti alla luce i resti di diversi edifici privati databili tra la prima metà del I secolo e il II secolo d.c., con spazi e decorazioni di lusso. Nel II secolo le case di via di Donota e del Bosco Pontini e poi quelle di via G. Ciamician vennero abbandonate e tra i loro ruderi furono ricavate tombe e sepolcreti familiari, per evidente regresso dell’abitato nell’area e ritorno al nucleo originario sul colle di San Giusto.



BASILICA DI SAN GIUSTO

In epoca antica Tergeste era percorsa da una strada commerciale che seguiva la riva del mare  fino al porto romano. A monte di essa era presente una grande Basilica paleocristiana che probabilmente era nata come basilica martiriale per ospitare le reliquie forse dello stesso san Giusto, il cui corpo, come dal racconto della Passio del santo, fu ritrovato sulla riva del mare proprio su quella spiaggia. La via continuava verso la necropoli fra tombe ed edifici funerari.




AREA DIETRO IL TEATRO

L’area retrostante via del Teatro romano, che comprende via Donota, via Battaglia, via del Crocefisso, via del Seminario, oltre ad essere nota per il rinvenimento del Teatro e degli edifici di destinazione sepolcrale e funeraria, è stata oggetto di numerose campagne di scavo tra il 1982-1987, in conseguenza degli interventi di emergenza e manutenzione fognaria. Varia la tipologia sia dei manufatti sia delle sepolture rinvenute, queste ultime ricoperte da lastroni di reimpiego, da mattoni, da coppi, in anfore o in contenitori di fortuna. Di rilievo, inoltre, la documentazione epigrafica.



SANTA MARIA MAGGIORE

Alla base della scalinata della chiesa di Santa Maria Maggiore, ci sono i resti di un torrione della cinta difensiva, della fine IV e inizio V secolo d.c., con materiali di recupero appartenenti a monumenti funerari e forse del Teatro Romano.



BARCOLA E GRIGNANO

Nel passato sono stati rinvenuti a Barcola, Grignano e altre località della costa resti di ville, erette nel I e II secolo d.c. La riviera di Barcola, in particolare, attrasse l'attenzione dei romani sia per la posizione incantevole sia perché nell'ampia insenatura, a riparo dai venti, il mare è più quieto consentendo l'attracco delle navi. La chiamarono Vallicula poiché si estendeva in un avvallamento, poi il nome si contrasse in Valcula.

STRADA BARCOLANA
Nell'autunno del 1887, a Barcola, all'altezza del porticciolo del Cedas, durante gli scavi per costruire il muro di cinta della fabbrica di ghiaccio, vennero alla luce dei mosaici che fecero supporre fossero i resti di un complesso romano risalente al I-II sec. a.c.

La prima campagna di scavi, ebbe luogo nel 1888-1889, e vennero alla luce i resti di una grande villa romana che si estendeva su una superficie di oltre quattromila metri quadrati, con un fronte a mare di 140 metri. L’edificio, disposto su più terrazze, era composto da numerosi ambienti residenziali e di servizio: un peristilio, impianti termali, un’esedra, una palestra, un giardino e un ninfeo. La grandezza del complesso, la ricchezza delle decorazioni e dei mosaici, indica che la villa apparteneva a personaggi di alto rango.

La scoperta indusse a proseguire le ricerche negli anni successivi (1888-1889; 1890-1891) individuando una notevole documentazione epigrafica. Vennero rinvenute diverse monete le quali furono d'aiuto per la datazione del sito. Si suppose che il complesso doveva risultare dalla fusione di due ville costruite in tempi successivi: quella a monte, con mosaici di pregevole fattura, risalente al primo secolo, la seconda villa, più vasta della prima, a emiciclo panoramico, forse adibita a residenza estiva, del secondo o terzo secolo.

Durante gli scavi effettuati tra il 1888 e il 1889, venne rinvenuta una statua di marmo in vari pezzi che probabilmente era collocata nella palestra. In base alla statua l'edificio si chiamò “Villa della Statua”. Era una splendida scultura in marmo greco, alta 1,24 m. è realizzata in varie parti tenute assieme con dei perni di ferro di cui si scorgono le tracce. Dietro la gamba destra si conserva una parte del sostegno originale.

Si tratta di una replica del Diadoumenos (in greco "che si cinge la fronte con la benda della vittoria") di Policleto, (V sec. a.c.), e rappresenta un giovane atleta poggiato sulla gamba destra, la sinistra flessa e portata in avanti, nella classica posizione a chiasma caratteristica del mondo greco.

MOSAICO DELLA VILLA

VILLA ROMANA DI BARCOLA

All’interno del cinquecentesco Bastione Lalio del Castello si espongono i mosaici provenienti dalla lussuosa villa marittima rinvenuta lungo la costa, presso Barcola (scavi non visibili). Databili tra la fine del I secolo a.c. e la metà del I secolo d.c., documentano il gusto raffinato dei ricchi proprietari che vollero imitare le ville di Augusto, Tiberio e Nerone.  

I resti della villa residenziale romana sono emersi alla fine del XIX secolo a Barcola, allora un modesto villaggio della costa a nord-ovest della città di Trieste, allora oggetto di uno sviluppo edilizio speculativo che non rese possibile la conservazione in loco dei resti archeologici, che vennero rinterrati dopo i rilievi e il recupero dei mosaici.

Gli scavi, iniziati nel 1887, hanno portato alla luce due nuclei di ambienti residenziali di cui uno indicato come Villa della Statua (scavi 1888-1889) e l’altro come Palestra e Ninfeo (scavi 1890-1891). Oggi, data la vicinanza delle due zone e l’omogeneità dei mosaici e dei materiali rinvenuti, vengono connessi e considerati come parti di un’unica villa marittima.

La Villa, che si apriva lungo la riva del mare, comprendeva una zona di rappresentanza, una residenziale appartata, un giardino, e alcune strutture aperte sul mare, collegate ad ambienti termali e di servizio, il tutto disposto lungo il declivio della collina, forse su terrazzamenti successivi, in uno spettacolare effetto scenografico. 



ZONA COSTIERA

Nella zona costiera, fino a Sistiana, specialmente dove si trovavano approdi per le navi, sono stati rinvenuti numerosi resti romani, appartenenti anche a ville rustiche, probabilmente in relazione con l'attività estrattiva della pietra. Nel territorio carsico, più ci si allontana dal mare, più i resti di vasellame (anfore e vasi di uso domestico) si fanno scarsi e sono riconducibili ad attività agricole e pastorali.

Per le ville affacciate o vicine al mare, sono riemersi piccoli porticcioli che consentivano i trasporti marittimi. Tale sistema, estensibile almeno fino a Sistiana e in molte località costiere dell’Istria, rivela la presenza di una organizzazione produttiva e commerciale.

Cassiodoro, in una sua epistola del 537, ritiene Tergeste non inferiore per bellezza all'incantevole Baja, dove gli imperatori e i patrizi Romani si ritiravano a godere la vita degli Dei: "l'Istria era ornamento dell'impero d'Italia".

Con l'estrazione litica di Aurisina, il materiale da costruzione per le ville non mancava. Le pietre estratte venivano calate per mezzo di giganteschi scivoli, costituiti da lastre di piombo, lungo il ciglione carsico e giungevano a destinazione via mare.

Marziale racconta che intorno al Timavo si producevano grandi quantitativi di lana grezza, e quindi dovevano esserci consistenti allevamenti ovini, con produzione anche di derivati del latte, quale il formaggio, ipotesi confermata dal rinvenimento dei caratteristici contenitori in coccio.


I vari processi di lavorazione si svolgevano naturalmente nelle ville. Plinio ci riporta notizie della produzione di un uvaggio, il Pucino, che si ritiene vinificato nella zona tra Duino e il Villaggio del Pescatore.

La maggior parte di queste ville hanno un tipico schema ad U, con una vasta area centrale scoperta che fungeva da centro di collegamento dell’edificio. I terrazzi inferiori, disposti su corridoi porticati, sono ornati di mosaici, e si affacciavano su un’area interna scoperta.

In molte di queste ville sotto il pavimento, in opus spicatum (mattoni rettangolari disposti di taglio a spina di pesce), circolava dell’aria calda; come nel Calidarium delle terme.
Il porto romano era situato in zona Campo Marzio, con una serie di scali di più modeste dimensioni lungo il litorale: sotto San Vito, a Grignano, a Santa Croce, ecc..

FORO OLITORIO - FORUM HOLITORIUM

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MERCATO OLITORIO CON TEATRO MARCELLO E COLONNA LATTARIA
Il Foro Olitorio era l'antico mercato delle erbe, alle pendici del Campidoglio, tra il Teatro di Marcello e il Foro Boario. In età antica era in realtà il mercato dei legumi, della verdura e della frutta, così come l'area dell'adiacente foro boario era il mercato della carne.



ANTONIO NIBBY - Le Mura di roma

« Ma di più vi sono testimonianze di antichi Scrittori, che chiaramente pongono il Foro Olitorio come noi dicemmo extra muros, o per meglio esprimersi fuori della porta Carmentale: Asconio Pediano nelle sue note alla Orazione di Cicerone detta Toga Candìda e siccome della posizione del teatro di Marcello non resta dubbio ed il foro Olitorio è posto concordemente dalli antiquari a S. Nicola in Carcere, di maniera, che i tre tempi, sopra i quali quella chiesa è fondata, probabilmente sono quelli della Pietà, della quale solo pochi frammenti rimangono, dichiara la porta Carmeutale fra il Foro Olitorio, ed il Circo Flaminio, lasciandoli però fuori:

"Ne tamen erretis quod his temporibus Acdes Apollinis in Palatio sit nobilissiini ad nolendi estis,
non hanc a Cicerone significari ut puto, quam post mortem etiam Ciceronis multis anni; Inperator Caesar, que nunc Dìvum Augustum dicimus, post Actianam victoriam fccerit: sed illam demonstrari, quae est extra portam Carme sunt dem inter Forum Olitorium et Circun Flaminium. Eu entra sola tuin demum Romae Apollinis aedes." »


ELEPHAS HERBARIUS

Lasciato il foro Boario dirigendosi verso il foro Olitorio, si incontrava, appena prima di passare la porta Carmenta, un piccolo insieme di templi, con una piazza ed altari. A sinistra, il tempio della Fortuna ed a destra, il tempio di Mater Matuta. Tra i due si ergeva una porta trionfale sormontata da un tempietto.

Qui di fianco al foro olitorio, si elevava il famoso Elephas herbarius, un piedistallo sormontato da una grande statua di elefante, così chiamato, si suppone, in quanto stava mangiando erba. Se il Foro Boario aveva come emblema un bue, il Foro Olitorio aveva un elefante.

IL FORO OLITORIO EVIDENZIATO DALLA FRECCIA

COLONNA LATTARIA (Columna Lactaria)

Nel Foro si ergeva anche la Colonna Lattaria, un locale di modeste dimensioni, sormontato da una colonna, dove si ponevano i bambini abbandonati che qualcuno desiderasse prendere o allattare. All'interno del Foro si trovava anche un'area sacra comprendente i tre tempietti dedicati a Speranza, a Giunone Sospita e a Giano.



AREA SACRA

Era una piccola piazza compresa tra le pendici del Campidoglio il Teatro di Marcello e l’antico Porto Tiberino, dove oggi sorge il Palazzo dell'Anagrafe. Risale all'età repubblicana (esattamente tra le due guerre puniche) l'edificazione dell'area sacra del foro, con tre templi rivolti al Campidoglio successivamente sottoposti a rifacimenti nel I secolo a.c., oggi ai lati e all'interno della Chiesa di San Nicola in Carcere. 

Un quarto tempio, costruito da Manio Acilio Glabrione, console nel 191 a.c.e dedicato a Pietas ma pure a Diana, era situato di fianco al tempio di Giano, venne fatto abbattere da Cesare durante i lavori di costruzione del teatro di Marcello (poi completati da Augusto). Scarsi resti strutturali di questo tempio sono recentemente stati portati alla luce a nord dei tre templi conservati.



Nel corso di recenti scavi condotti in Piazza di Monte Savello sono stati rinvenuti una base di marmo bianco di grandi dimensioni scolpita con scene relative al mito di Ercole ed i resti del piccolo porticato dei templi di Apollo e Bellona. Del Foro Olitorio se ne ebbero le prime notizie nell'XI secolo nel Liber Pontificalis.

I tre templi, con le facciate rivolte al Campidoglio, e restaurati o rifatti agli inizi del I secolo a.c., sono della Speranza, di Giunone Sospita e di Giano.

Il tempio della Speranza o Spes, costruito da Aulo Atilio Calatino durante la I guerra punica, è il più piccolo e più meridionale dei templi, di cui restano la trabeazione) sei delle undici colonne doriche in travertino originariamente rivestite di stucco a finto marmo, con una cella di metri 25 x 11 con sei colonne sulla fronte e una gradinata. Venne restaurato nel 212 a.c. e poi nel 17 a.c. da Germanico.

TEATRO MARCELLO COL FORO OLITORIO OGGI
Del secondo tempio, quello centrale e più il grande, restano il muro di fondazione, la sottofondazione in travertino della gradinata frontale con la platea (in travertino) dove era situato l'altare, tre colonne con capitelli ionici del pronao; tratti di muro della cella e resti del podio con basi di colonne. 


Il tempio, dedicato a Giunone Sospita di metri 30 x 15, doveva avere tre file di colonne sul lato anteriore e due su quello posteriore; fu costruito tra il 197 e il 194 a.c. e restaurato nel 20 a.c. 

Del terzo tempio, dedicato a Giano, restano il podio in opera cementizia già rivestito il travertino (ripristinato parzialmente) con due colonne e tre basi di colonne del lato settentrionale, mentre nel muro della chiesa sono inserite altre sette colonne oltre a un pilastro d'anta del lato meridionale con la trabeazione. 

SAN NICOLA IN CARCERE
Di metri 26 x 15, vi si accedeva tramite una gradinata frontale, aveva la cella preceduta da un pronao con due file di sei colonne ioniche in peperino, scanalate e stuccate in stile finto marmo, e fiancheggiata da una fila di colonne sui lati lunghi. Venne costruito da Caio Duilio durante la I guerra punica e poi restaurato da Tiberio nel 17 a.c. 

I santuari vennero tutti distrutti nel I sec. a.c. per far posto al teatro di Marcello ma furono rifatti spostandoli a sudest, con ornamenti e statue, ad eccezione del tempio della Pietà per il quale non c’era lo spazio sufficiente e non fu più ricostruito. 

I tre templi sono tuttora parzialmente visibili essendo stati inglobati nella chiesa di S. Nicola in Carcere, mentre il quarto è stato individuato scavando nell’area limitrofa. Nella zona immediatamente adiacente, lungo il fiume si sviluppava il Porto Tiberino con i suoi magazzini, dai quali si attingevano le merci da portare al mercato.



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