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I LUPANARE

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AFFRESCO POMPEIANO

IL LUPANARE

"A Pompei sono stati riconosciuti oltre trenta bordelli, alcuni molto modesti, altri posti nei piani superiori delle cauponae, altri appositamente costruiti e organizzati per questo tipo di attività.

Nel 2006  è stato riaperto al pubblico uno degli edifici più noti dell’antica Pompei, il Lupanare il più importante dei numerosi bordelli di Pompei, l’unico costruito con questa finalità. Era il luogo del piacere erotico trasgressivo, una casa d’appuntamento, quella che chiamiamo “casa a luci rosse”.



STANZA DI UN LUPANARE
Il lupanare è un piccolo edificio all’incrocio di due strade secondarie, costituito da un piano terra e un primo piano. Entrambi gli ingressi conducevano in una specie di saletta centrale, intorno alla quale si aprivano cinque cellae meretriciae con i letti in muratura. Le pareti delle celle erano intonacate di bianco e  coperte da graffiti incisi sia dagli avventori che dalle ragazze che vi lavoravano.

Le pareti della saletta centrale erano decorate con riquadri e ghirlande stilizzate su fondo bianco, ma al disopra delle porte d’ingresso alle celle, erano sistemate pitture murali erotiche che costituivano un catalogo sulle prestazioni delle prostitute.

Al piano superiore si poteva accedere tramite una scaletta posta nella stradina che scendeva dal Foro. La scala permetteva l’accesso ad altre cinque stanze con una decorazione più ricercata, in IV stile, prive però di scene erotiche e riservate ad una clientela di rango più elevato. Il lupanare era l’unico luogo in cui si praticava la prostituzione, come definita dal diritto romano: “in maniera notoria e indiscriminata” cioè, senza la possibilità di scegliersi i clienti.

A Roma i lupanari erano personalizzati da una particolare lanterna e dagli organi maschili scolpiti, mentre gli interni erano caratterizzati da un desolante squallore. Il lupanare era un’istituzione sociale tesa a soddisfare le molteplici tendenze della sfera sessuale dei romani con assoluta e totale tolleranza ed è per questo motivo che si trovavano anche i lupanari per gli omosessuali dove si recavano schiavi e gladiatori.

La prostituzione a Roma come a Pompei e come d'altronde in tutto il mondo romano, seppur molto diffusa, era comunque considerata infamante al pari del mestiere di attore o di chi praticava l’usura ed è per questo che qualche patrizio preferiva non farsi riconoscere in questo caso si serviva di una parrucca e si copriva il volto con una maschera.

Intorno al I secolo d.c., come conseguenza del divieto d’introdurre all’interno dei lupanari monete con l’effige imperiale, furono battute apposite monete che presero il nome di spintria, erano più precisamente tesserae eroticae, con le quali era possibile pagare le prestazioni sessuali alle prostitute ".

LUPANARE A POMPEI
"Secondo la cultura romana la prostituzione non era moralmente negativa, tanto che diversi ricercatori ne conferiscono proprio ai Romani l’ideazione,  come un “settore di mercato” che rappresentava una parte significativa nell’economia dell’Impero, con prostitute, per la maggior parte schiave straniere, che venivano regolarmente iscritte, con il proprio nome, nel registro degli edili, pratica questa che si diffuse a dismisura fino a coinvolgere, durante il primo impero, il fior fiore delle matrone patrizie. 

La pratica dell’iscrizione nel registro degli edili spiega: poiché le prostitute non potevano contrarre matrimonio e l’adulterii crimen veniva per loro a cessare, l’iscrizione in questo registro consentiva a ogni donna che ne avesse fatto richiesta di eludere l’incriminazione per il reato d’adulterio. Tiberio, Domiziano e Adriano affrontarono la prostituzione con l’obiettivo realistico di contenere gli eccessi, e ricorsero a provvedimenti indiretti tra cui l’imposizione di una tassa.

Nel corso di tutta l’epoca romana, i luoghi designati al piacere sessuale mercenario furono i lupanari vere e proprie case d’appuntamento o bordelli che erano  posti sotto la tutela e il controllo dello Stato. A Roma le zone dove erano diffusi i bordelli si trovavano nella Suburra, una zona abitata dalla plebe, o nei luoghi adiacenti il Circo Massimo. Oltre che nei lupanari, la prostituzione si praticava nei bagni pubblici, nelle taverne e nelle botteghe
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LE SPINTRIE

LE SPINTRIE

"Intorno al I secolo d.c. (tra la fine del regno di Augusto e quello di Tiberio), furono battute apposite monete che presero il nome di spintria, più precisamente si trattava di tesserae eroticae, con le quali era possibile pagare le prestazioni sessuali alle prostitute. 


MONETE ORIGINALI
(INGRANDIBILE)
Un passo si Svetonio (Vita di Tiberio LVIII) dice che nelle latrine e nei bordelli l’Imperatore proibì l’uso di monete e di anelli recanti l’effige imperiale.

La spintria era una tessera in bronzo, di circa 20-23 mm, caratterizzata da raffigurazioni erotiche sul lato diritto (conio d’incudine), accompagnate sul lato rovescio (conio di martello) da un numerale romano, generalmente da I a XVI, una specie di contromarca con un preciso valore economico espresso in assi.

A causa della componente erotica riprodotta,  le spintriae, considerate molto rare, furono molto ricercate dai collezionisti. Con ogni probabilità molte tesserae furono imitate sia in epoca romana sia al tempo rinascimentale e post-rinascimentale rendendo molto difficile riconoscere l’autenticità delle stesse.

I Musei italiani che custodiscono alcuni esemplari di questa moneta sono pochi e si trovano soprattutto a Roma, Firenze, Bologna, Forlì (Collezione Piancastelli), Padova e Milano; sono presenti degli esemplari anche nella Galleria Estense di Modena. Non mancano esemplari nei vari musei europei come quelli del British Museum di Londra
" .

Samantha Lombardi

IL LUPANARE

LE LUPE

Con questo termine venivano indicate le prostitute, cioè per l'etimologia della parola, le istituite - pro.. Si allude pertanto a un'istituzione pubblica e laica derivante però da un'istituzione sacerdotale. Perchè non solo i Romani erano i figli della lupa, ma le Lupe soprattutto erano le figlie, o almeno le sacerdotesse della Dea Lupa.

MONETE ORIGINALI
(INGRANDIBILE)
Tutti i  miti sono un rimaneggiamento nonchè occultamento di un culto più arcaico, quello della Dea Lupa, la Grande Madre Natura che nutriva uomini e bestie, e presso i cui templi si esercitava la ierodulia, o prostituzione sacra. Il rito italico era molto sentito nei Castelli Romani e a Roma stessa, quando era ancora agli albori.

Le sacerdotesse della Dea Lupa venivano chiamate Lupe, nome che passerà poi alle prostitute profane di Roma. Nel passaggio dal matriarcato al patriarcato molte cose cambiarono, nei costumi, nelle religioni e nei miti. Fu proprio studiando la storia e la mitologia romana che Bachofen comprese la derivazione del patriarcato da un matriarcato precedente, in cui il potere femminile era più sacro e sacerdotale che civile.

Poichè i templi avevano locali annessi per la prostituzione, questi locali presero il nome di Lupanare, nome usato nell'antica Roma e a tutt'oggi per indicare il postribolo. Poichè la Dea aveva sovente il tempio nei trivii, incroci fra tre vie, in onore della sua triplicità, o trinità poi ripresa dalla religione cattolica, essa era chiamata Trivia, come Diana Trivia e Ecate Trivia, ma poichè vi si esercitava la ierolulia, ne derivò in epoca patriarcale l'aggettivo di "triviale" con un certo disprezzo.

La lupa in questione fu per alcuni una contadina e per altri, in memoria della sacra prostituzione, una prostituta però profana: ACCA LARENTIA, una benefattrice che aveva regalato terre ai romani, e per questo era venerata, aveva una statua nel foro e a lei erano dedicate le feste larentalia. Ma davvero si può credere alla storia di una prostituta venerata nei secoli?



PROSTITUZIONE SACRA - I LUPERCALIA

Il rito dei lupercali, in onore del Dio Luperco, mezzo lupo e mezzo capro, prevedeva la corsa di giovani seminudi che, coperti solo con le pelli delle capre sacrificate, colpivano con strisce di pellame le donne del Palatino per purificarle e favorire la fecondità. Ancora nel 496 d.c. i Lupercalia dovevano essere celebrati, se papa Gelasio scrive un trattato per ottenerne l’abolizione.

La storia dei Lupercalia andò così:

MONETE ORIGINALI
(INGRANDIBILE)
Secondo Ovidio, al tempo di re Romolo vi sarebbe stato un prolungato periodo di sterilità nelle donne. Donne e uomini si recarono perciò in processione fino al bosco sacro di Giunone, ai piedi dell'Esquilino, e qui supplicarono. Attraverso lo stormire delle fronde, la Dea rispose che le donne dovevano essere penetrate da un sacro caprone sgomentando le donne, ma un augure etrusco interpretò l'oracolo nel giusto senso sacrificando un capro e tagliando dalla sua pelle delle strisce con cui colpì la schiena delle donne e dopo dieci mesi lunari le donne partorirono.

Così la lupa, o Dea Lupa, quella italica per cui negli antichi Lupercali, nella zona dei Castelli Romani, le sacerdotesse, vestite di sola pelle di lupo, ululavano nei templi e praticavano la prostituzione sacra, venne dimenticata.

Eppure le prostitute romane, quelle profane, perchè quelle sacre erano state abolite, ancora facevano il verso del lupo per attirare i passanti, e i postriboli si chiamavano, guarda caso, "lupanare", termine conservato a tutt'oggi. Ma non dimentichiamoci di Giunone Caprotina, l'antica Dea conservata nei musei capitolini con la testa e la pelle di capra sul capo, anch'essa assimilazione di un'antica Dea Italica, la Dea Capra, fertile e lussuriosa, che sicuramente amava il sesso e l'accoppiamento e non la fustigazione delle donne.

Il rito dei lupercali passò quindi a una divinità maschile, non capro nè lupo, il Dio Luperco, ma guarda caso mezzo lupo e mezzo capro, un Dio che secondo alcuni difendeva le greggi dai lupi. Poco credibile perchè un lupo azzannerebbe il gregge e un caprone non era in grado di difendersi dai lupi, che operavano sempre in branco.

Guarda caso occorreva purificare le donne, da cosa? Forse dalla prostituzione sacra che veniva praticata per un periodo, dopodichè tornavano e si sposavano, senza l'odioso obbligo della verginità, già persa nel tempio.



PROSTITUZIONE PROFANA - I LUPANARE

Avendo i Romani abolito la prostituzione sacra che lasciava troppa libertà alle donne, rimaneva il problema dei desideri degli uomini. Come si poteva conciliare l'esigenza di donne vergini e timorate da sposare con quella di donne spregiudicate con cui fare sesso?

MONETE ORIGINALI
(INGRANDIBILE)
La soluzione fu prima quella della ierodulia, il sesso sacro, dove le prostitute erano pagate ma rispettate e venerate, e successivamente la prostituzione profana, dove le ragazzine venivano sposate vergini, talvolta a 12 e fino a 10 anni (pedofilia), ma il sesso libero si faceva con le prostitute profane schiave e maltrattate.

La Chiesa contribuì bollando il sesso come peccato, ma dandone la colpa maggiore alle donne perchè erano lo strumento del diavolo.

I Pagani invece, a parte lo sfruttamento degli schiavi, non avevano pregiudizi sul sesso, e lo praticavano con disinvoltura nei vari lupanare. La richiesta pertanto era cospicua, il business era sicuro, per cui, con la solita razionalità e organizzazione romana, si escogitò un sistema pratico e veloce per il ticket del sesso.

Già l'imperatore (Augusto o Tiberio, ma più probabile Augusto, più attaccato agli antichi mores) nel I sec. d.c., aveva proibito d’introdurre all’interno dei lupanari monete con l’effige imperiale, per cui furono battute apposite monete col nome di spintria, una specie di tesserae eroticae, con cui pagare le prestazioni sessuali alle prostitute.

COPIE DI SPINTRIAE ROMANE

IL SESSO IN DETTAGLIO

Queste monete avevano una numerazione che si dice corrispondente al costo della prestazione e delle figure che illustravano i modi delle prestazioni sessuali, vale a dire le varie posizioni.

Questi modi, che spesso erano raffigurati con un affresco posto in alto sulla parete della cella postribolare, avevano un costo diverso, e ci si doveva attenere a quanto illustrato.

Ma la cosa non è da prendere alla lettera. Innanzi tutto perchè i modi basilari erano il sesso vis-a-vis, il sesso anale e il coito orale, e queste prestazioni potevano avere prezzi diversi.

Ma soprattutto costava diversamente il lupanare, a seconda della categoria o delle varie stanze, più trasandate o meglio allestite e con più comodità.

Guai comunque all'avventore che avesse richiesto prestazioni che esulavano a quanto illustrato sulla moneta, ogni pratica aveva il suo prezzo e il prezzo andava rispettato. 

In caso contrario il trasgressore, tradito dalle urla della meretrice, sarebbe stato cacciato in malo modo dal buttafuori che talvolta era il padrone stesso del lupanare. Ma i romani di solito conoscevano le regole e si adeguavano.

Come si osserva dalle figure i letti erano a volte in legno e a volte in muratura. Ovviamente quelli in legno appartenevano a stanze più rifinire, e pure con biancheria migliore.

Anche la pulizia del locale e delle lenzuola dipendevano dal prezzo e pure la stigliatura che anche se era semplice non poteva mancare.

C'era solitamente un catino e una brocca con un porta asciugamano per lavarsi tra un rapporto e l'altro, un po' come usava un secolo fa.

Di solito catino e brocca erano di rame o di bronzo, più o meno semplici o lavorati a seconda della qualità del lupanare. In più c'era una sedia e/o un tavolinetto ove poggiare l'abito da togliere. Da un lato una piccola cassa dove porre la coperta, gli asciugamani e la veste di ricambio per la prostituta. Un piccolo stipo o una mensola poteva accogliere dell'olio e dei profumi per i lupanari più decenti, a parte le torce e le candele.


GLI STUCCHI ROMANI

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TERME STABIANE
Le decorazioni in stucco d'età romana costituiscono un genere di manifestazione d'arte (o Se si vuole, e forse personalmente preferirei, di artigianato) che ha fin qui scarsamente attirato l'interesse degli studiosi: molto il materiale ancora inedito, rari i lavori di sintesi sull'argomento. Tali sono 
le giuste considerazioni con le quali il Mielsch inizia, in questo volume, il discorso sui rilievi in stucco romani. Ma se ciò avviene non è senza motivo se si pensi alla stessa fragilità della materia adoperata, nel caso estremamente raro che si conservini soffitti e volte che quegli stucchi decoravano, 

Del resto, anche una volta recuperati e rimessi in luce con lo scavo archeologico, gli stucchi sono soggetti a deterioramento o addirittura a distruzione (analoghe considerazioni fa A. Allroggen-Bedel nella recensione a questo volume in «Gymnasium' 83, 1976, 372 D'altro canto, l'opera di sintesi e di classificazione urta contro varie difficoltà quando, per esempio, si vogliano fissare ben chiari, determinati e determinanti, i caratteri distintivi dei manufatti nelle varie epoche e nei vari ambienti d'arte, come è invece possibile fare per altre manifestazioni artistiche e artigianali. 

TERME DI POMPEI
Per quando riguarda il rilievo in stucco in ambiente romano, durante l'età repubblicana e la prima augustea, esso, a cominciare da quello di 'primo stile', trova i suoi precedenti nell'arte greca, nel cui 
ambito però l'ipotesi d'origine alessandrina del rilievo decorativo in stucco non è ancora provata. In Italia poi si registra uno sviluppo con il passaggio al 'secondo stile' mentre in Grecia il 'primo stile' perdura fino agli ultimi decenni del I secolo a.c. 

Oltre a ciò i soffitti a travature ed ancor più le volte a botte, tipiche dell'ambiente romano, consentivano particolare varietà di effetti plastici. Il M. poi fa rilevare come vadano di pari passo nello sviluppo stilistico e come si integrino nel sistema decorativo degli ambienti lo stucco e 1a pittura. Esempi per questo periodo sono a Roma la Casa dei grifi, la casa di Augusto sul Palatino, la villa di Livia a Prima Porta, a Pompei la Casa del Criptoportico, la Casa del Menandro. 

Nell'età giulio-claudia (25—38) il M. avverte differenze stilistiche rispetto alla prima età augustea; una più regolare partizione dello spazio, il rilievo piuttosto basso, influenzato dal rilievo classico, una preferenza per i quadri mitologici ed idillici, ma la cosa più importante è forse il fatto che si diverse mani di artisti. 

( Römische Stuckreliefs by Harald Mielsch - Review by: Alfonso de Franciscis Gnomon)



OPUS ALBARIUM

Detto tectorium, o albariam opus, è il tipo di pittura parietale a base di calce e pozzolana, miste a polvere di marmo o gesso che si adoperò per rivestire di uno strato di intonaco una superficie qualsiasi di opera architettonica o statuaria, per una successiva applicazione di colori. Vitruvio (VII, 3) e Plinio (Nat. Hist., XXXVI, 176) suggeriscono le norme per un buon impasto di stucco.

Il gesso più diffuso era quello cotto o per intonacatori, ottenuto cuocendo a una temperatura di circa 160 ° le rocce gessose (come la selenite). È anche documentato l'uso del canarino, costituito da una miscela di intonaci, selenite finemente tritata e colla animale: l'aggiunta di tali additivi era raccomandata non solo per aumentare la plasticità e la presa della velocità e rallentando invece l'indurimento, ma anche per migliorare la resistenza meccanica.



Per i soffitti si ricorreva in genere a matrici di grandi dimensioni simili a timbri pressati sullo stucco ancora fresco, permettendo di modellare elementi complessi in tempi brevissimi e seriale come greci, festoni di foglie o piccoli putti.

La bontà dello stucco per intonaco aumenta con il numero degli strati, nonché della quantità e finezza della polvere di marmo, che conferisce allo stucco uniformità e bianchezza lucente.

Ma lo stucco plastico è applicato sul fondo di pareti o di volte al soffitto, non per uno strato omogeneo, ma per composizioni in rilievo (caelatura tectorii). Già nel palazzo minoico di Cnosso si trovarono decorazioni parietali in stucco gessoso (1600 circa a.c.).
Lo stucco plastico applicato a decorazioni parietali si sviluppò soprattutto in zone dove il marmo mancava o scarseggiava.

A Vulci, nell'Etruria, si trova uno dei più antichi esempi di stucco plastico nella decorazione ai lati della porta della Tomba François, celebre per le sue pitture (del 300 circa a.c.), o della Tomba dei Rilievi.


Lo stucco plastico era già conosciuto nel mondo ellenico. Pausania ricorda (VIII, 22, 5)  che nel tempio di Artemide a Stinfale (Arcadia)  c'erano rilievi che non capiva fossero eseguiti in legno o in stucco gessoso.

Però la grandezza e la versatilità, la molteplicità e l’abbondanza dell'uso, la diffusione e la razionalizzazione dell’arte dello stucco trovano il loro posto insuperato nel mondo romano. 
A Pompei e a Roma, dove si hanno finora i massimi esempi di stucco plastico, la tecnica dello stucco deve stata trasmessa dall'Etruria, mentre gli artefici specialisti possono anche essere venuti dall'Oriente ellenistico.

Lo stucco plastico si usava:

a) per decorazione di superficie esterne, o facciate, di edifici e di monumenti, soprattutto sepolcrali;

b) per decorazione di ambienti interni, specialmente soggetti a sbalzi di temperatura, umidità e fumosità (come gli edifici termali);

c) per decorazione di ambienti sotterranei (specialmente ipogei sepolcrali), esposti all'umidità permanente del terreno.

TOMBA PLATORINI - ROMA

IL MARMORINO

Già nei reperti di scavo dei monumenti della Grecia del periodo arcaico e classico e della Magna Grecia si rileva che la copertura a marmorino veniva effettuata anche come pulimento su elementi di pietra calcareae conchiglifera caraterizzati, pertanto, da corrosioni e lacunose porosità.

Anche allora si ricorreva allo stucco per gli occhi decorati a rilievo ed anche colorati (es.tombe macedoni); anzi, la copertura a marmorino facilitava la colorazione offrendone la base più idonea.

L'impasto di calce e pozzolana, miste a polvere di marmo, dilagò in epoca romana, soprattutto nelle zone dove non è facile reperire il marmo. E' la moda tutta romana del "marmorino". 

STUCCO ROMANO - CHICAGO - I sec.
Gli scavi di Pompei e di Ercolano hanno messo in evidenza un uso del marmorino equivalente se non maggiore a quello del marmo, anzi, sicuramente maggiore soprattutto dopo terremoti (non dimentichiamo quello devastante del '62) o per i grandi restauri.

A Pompei infatti, in seguito al terremoto del 63 d.c., dovendo ricostruire quasi da zero, si ricorse ampiamente al riutilizzo del materiale suscettibile di reimpiego attraverso le tecniche più raffinate. Il riciclaggio del materiale era razionalizzato al massimo: tutto il marmo, o la pietra calcarea non più integri o reintegrabili vennero macinati per diventare marmorino.

STUCCO ROMANO - CHICAGO - I sec.

LA LAVORAZIONE

Lo stucco plastico, manipolato come una poltiglia molle, veniva applicato con una spatola alla superficie. Essendo lo stucco di lenta essiccazione, permetteva di modellare la materia con spatole più o meno sottili, o con stecche, arrotondate e non, ma anche con le dita, soprattutto con i pollici.
In molti casi si doveva usare una specie di bulino, perchè il lavoro sembrava fatto a cesello, come fosse un oggetto di oreficeria, spesso per figure esili e minute.

Nel caso di cornici o di motivi ornamentali ricorrenti, si faceva uso di appositi stampi o matrici, in metallo o terracotta. Del resto già gli etruschi usavano delle cornici a rilievo e pure policrome nelle loro tombe.

Il rilievo figurato romano non supera mai i due centimetri. Per finiture particolari, specie per le cornici di un aggetto maggiore (fino a 10 cm. e oltre), si faceva invece uso di perni di ferro sporgenti che fungevano da armatura dello stucco.

Per le grandi pareti o per le vòlte, si eseguiva anzitutto la riquadratura generale. Le immagini erano dapprima un abbozzo a larghi tratti di spatola, sull'intonaco ancora fresco, e ricoperto quindi a poco a poco dal rilievo, ma pure modificandolo durante il lavoro.

MUSEO NAZIONALE ROMANO
A parte i rivestimenti architettonici, lineari (stile "d'incrostazione"), gli stucchi di rivestimento più belli li osserviamo a Pompei dagli edifici termali: Terme Stabiane, del Foro, Centrali.

Nelle Terme Stabiane le volte dell'apodyterium (spogliatoio) e dell'atrio erano ripartite in lacunari o cassettoni, quadrangolari e ottagonali, con clipei e motivi araldici a rilievo in stucco bianco.

Lo stucco veniva anche usato come decorazione parietale a partire da una certa altezza, in modo che nessuno toccandolo lo deteriorasse, soprattutto nel cosiddetto "terzo stile". Per questo si trovano interi colonnati di mattoni rivestiti d’intonaco di cotto e quindi lisciati a marmorino, a perfetta imitazione di quelli di marmo vero. Del marmo, infatti, essi ripetono il candore o il colore, anche con le venature, dato che detto intonaco è già, secondo Vitruvio, la conditio sine qua non per la pittura a fresco.

L’impiego dello stucco da materiali di recupero o di risulta dalla lavorazione nei cantieri diventa perciò una colossale impresa economica, poichè si raggiungono gli scopi della solidità e della bellezza senza ricorrere a materiali nuovi (marmi e pietra), il cui costo di cava, di trasporto, di modulazione, doveva essere, tanto più allora, molto alto

Tuttavia, per non ricorrere a materiali di primo impiego, in ogni epoca, s’è perpetrata la demolizione sistematica di splendidi e irripetibili monumenti (primo fra tutti il celeberrimo Mausoleo di Alicarnasso, a Misala, nella capitale degli Ecatomnidi finchè purtroppo non venne demolito per il riutilizzo dei materiali da parte dei poco colti Cavalieri di San Giovanni. 
 STUCCO DI EROTE - DA POZZUOLI - BRITISH MUSEUM
Gli stili architettonici si arricchiscono nell'elemento decorativo di rivestimento e nello stile delle superfici, poichè ha il vantaggio di essere molto plastico: a lisciatura piana, a rilievo (alto e basso, a tutto tondo), a modanature, a motivi stilistici richiedenti una forte aggettazione.
Nella Roma repubblicana ed imperiale, già impregnata di civiltà etrusca, arrivano maestranze dall’Attica, dalla Ionia, dalle famose isole dell’Egeo, che accrescono la loro arte attraverso il marmorino, usato come materiale da modellare, nelle terme, le case, le aule, i mausolei, che si rivestono di motivi vegetali, di festoni, di cornucopie, di personaggi e fatti che allacciano il presente ai miti del passato.
I motivi ripetitivi a stampo, modanature intagliate, fregi decorati, ecc., venivano pure eseguiti a fresco, applicando sull'intonaco le opportune quantità di marmorino corrispondenti alla lunghezza del sigillo; questo veniva debitamente unto; con esso si imprimeva il marmorino, quando cominciava ad indurirsi, rifinendolo, di seguito, con le stecche metalliche.
Il decoro ed il racconto murale a stucco si accompagnano all'affresco e al rilievo marmoreo, come nella Villa dei Misteri di Pompei nel cui grande portico meridionale emergono ancora colonne scanalate e supporti murali rivestiti di stucco-marmorino. Anche il suo affresco è intonaco di marmorino.
Gli stessi palazzi imperiali godettero a Roma la bellezza degli stucchi. Resti di volte stuccate, ripartite in cassettoni con figure ed emblemi vari, ravvivate da colori, da dorature e in origine anche da pietre variegate, si conservano così tra i ruderi grandiosi del Palatino (supposta casa di Tiberio, Criptoportico, case sotto il palazzo dei Flavi).

Ma superbi stucchi decorarono pure gli edifici della Domus Aurea di Nerone, come quelli della villa di Domiziano, a Castel Gandolfo. Anche gli ambulacri dell'anfiteatro Flavio (Colosseo) e le "grandi terme" della villa tiburtina di Adriano conservano tracce di stucchi.



STUCCHI DELLA FARNESINA

Uno dei lavori più importanti e significativi venne reperito nel 1879, nella villa di età cesariana-augustea, detta della Farnesina, in Trastevere (Roma), ora conservato nel Museo Nazionale Romano. 

Sono ampie superfici di volte, simmetricamente ripartite in specchi quadrangolari di varia grandezza: i riquadri maggiori incorniciano scene mitologiche, soprattutto bacchiche o paesaggistiche; i riquadri minori invece figure allegoriche o motivi floreali.

Queste decorazioni sono conservate oggi al Museo Archeologico Nazionale di Palazzo Massimo a Roma e constavano di stucco e dipinti che decoravano una delle più lussuose residenze suburbane d’età augustea, fatta costruire da Ottaviano forse in occasione delle nozze della figlia Giulia con Marco Vipsanio Agrippa nel 21 a.c..

FARNESINA
"La delicatezza e la naturalezza del modellato, reso con uno stile impressionistico e disinvolto, hanno permesso di elaborare complessi schemi ornamentali, con campiture di forme diverse, che inquadrano scene ispirate a riti di iniziazione misterica; paesaggi idillico-sacrali e soggetti dionisiaci, spesso tratti dalla pittura coeva.

Purtroppo ad oggi non esiste una pubblicazione esaustiva che spieghi al meglio i soggetti trattati nella decorazione a rilievo dei soffitti e del notevole repertorio iconografico, vario e fantasioso, ma sembra chiaro che questi siano molto interessanti e suggestivi.

Alcuni soggetti rappresentati e la qualità della lavorazione, un impasto di calce e polvere di marmo, plasmato in maniera eccellente, avvicinano gli stucchi imperiali di Villa Farnesina a quelli della Basilica Neopitagorica di Porta Maggiore, risalente ai primi decenni del I secolo d.c., suggerendo l’ipotesi di una stessa provenienza delle maestranze impiegate nei due prestigiosi cantieri."

(Claudia Viggiani)


La Villa Farnesina venne poi abbandonata a causa delle continue esondazioni del Tevere che ogni volta costringevano all'abbandono e al restauro della villa e venne riscoperta solo nel 1879, dopo ben 1900 anni di oblio, durante i lavori di sistemazione degli argini del fiume

Gli stucchi romani ricordano per la loro finezza un'opera di cesello o di oreficeria, arricchito di fine e delicata arte pittorica. Vi è un delicato lavoro a stecca, a spatola e a legni ricurvi. Come si vede dalle parti mancanti lo strato di stucco marmorino è molto leggero, ma di grande efficacia e durata.

Ma per tutta l'età imperiale il rilievo a stucco riguarda soprattutto la decorazione di sepolcri: dalla via fuori la Porta Ercolanese a Pompei, fra cui quello di Umbricio Scauro, che aveva all'esterno rilievi ispirati agli spettacoli gladiatori, a quelli romani della Farnesina, a quelli basilica sotterranea di Porta Maggiore.

STUCCHI DELLA BASILICA DI PORTA MAGGIORE

BASILICA DI PORTA MAGGIORE

La decorazione, in stucco bianco a rilievi, occupava al completo, e tuttora si conserva in gran parte, le pareti, le volte e i pilastri, di un'ampia sala rettangolare a tre navate (metri 12 × 9), nonché del vestibolo di accesso.

La consumata maestria con cui sono ripartite in riquadri le varie superficie del sotterraneo, l'eleganza in genere dei numerosissimi motivi figurati, mitologici e vari, è davvero incredibile.
La finezza di esecuzione specialmente dei rilievi della volta principale, valgono a far assegnare senza difficoltà il monumento all'età migliore dell'arte romana, cioè alla prima metà del sec. I dell'impero.

La composizione figurata dell'abside, col suicidio di Saffo che si getta dallo scoglio di Leucade, è la più grandiosa e la più vasta composizione in cui si sia cimentato un maestro dell'arte.

Le lacune del quadro, corrispondenti alle parti di rilievo cadute, hanno rimesso allo scoperto i segni tracciati alla brava sull'intonaco fresco, a titolo di traccia o di abbozzo preparatorio. Tutto è stupendamente drammatico.

TOMBA DEI PANCRAZI

TOMBA DEI PANCRAZI

Al contrario di quella dei Valeri, della tomba dei Pancrazi, della prima metà del II sec., non sono rimaste le strutture superiori se non una parte del mosaico. In ogni caso non doveva essere molto differente. Le camere sepolcrali invece sono una vera e propria opera d'arte.

Nella prima stanza, a terra c'era un mosaico e poi, addossate alle pareti, diverse nicchie in cui venivano riposte le giare con le ceneri dei defunti. Sopra le nicchie invece c'era ancora un sarcofago strigilato con un iscrizione e i volti di due persone.

Volti però rimasti incompiuti, probabilmente perché i defunti dovevano essere morti prima che l'artista avesse il tempo di imprimere i loro lineamenti nel marmo.
Il soffitto, ben affrescato, aveva un'apertura per comunicare con il piano superiore. Questo perché quando i parenti venivano a banchettare, lasciavano delle offerte calandole nella tomba. Offerte che poi col tempo finivano nel tombino in mezzo alla sala.

Passiamo nell'altra sala e lo spettacolo è ancora maggiore: un enormemente sarcofago occupa quasi tutto lo spazio. È stato fatto così proprio per impedirne il furto: in pratica prima hanno fatto la stanza e riposto il sarcofago, poi l'hanno chiusa dall'alto costruendoci sopra la tomba.

SOFFITTO TOMBA PANCRAZI
Il soffitto è arricchito così tanto da affreschi e stucchi che sembra quasi la tomba di un imperatore. La più bella che abbia mai visto. Non si riesce a staccare gli occhi dal soffitto e quasi non mi accorgo nemmeno dei mosaici che stanno sul pavimento.


Di fattura piuttosto scadente e di età certamente più tarda dei precedenti sono gli stucchi decorativi degli ipogei sepolcrali rinvenuti intorno al 1915 sotto la Basilica di S. Sebastiano ad Catacumbas sulla Via Appia. 

Di questi ipogei uno presenta la volta ripartita in cassettoni esagonali con rosette, sviluppati intorno a un cassettone centrale del pari a motivi ornamentali geometrici; l'altro, con finti pilastrini alle pareti, ha tutta la volta, a crociera, occupata da una fantasiosa decorazione di rami di vite, con pampini e grappoli, partenti da vasi posti agli spigoli della volta.

Decorazioni affini, con lacunari in rilievo e rosette, ricoprono anche le volte di corridoi vicini. D'altronde, come già espresso la nuova religione dette un colpo notevolissimo all'arte romana, in parte perchè i grandi artisti non venivano più richiesti in quanto l'arte, a meno che non fosse a scopi religiosi, era vanità e peccato.

Ma c'era di più: poichè la religione cristiana prevedeva un'abnegazione totale e un'esaltazione mistica, o almeno una forte spiritualità, gli artisti, non provando dentro di sè tale afflato, finirono per creare figure immobili e fisse, prive di sentimenti e fluidità, cosa che si affermerà ancora di più nello stile bizantino.

TOMBA DEI VALERI

TOMBA DEI VALERI A VIA LATINA

La tomba dei "Valerî" del II sec. d.c., è distinta, nella volta, da una decorazione a grandi cassettoni quadrati, alternati a medaglioni tondi: nell'interno di questi è ripetuto con varianti il motivo, trattato con grande finezza di tocco, della Naiade seduta sul dorso di un Tritone o altro mostro marino. Graziose figure di Ninfe danzanti, inquadrate dentro motivi floreali, occupano le lunette estreme delle opposte pareti. 

D'una finezza d'esecuzione minore sembrano gli stucchi dell'altra camera sepolcrale, i quali però risultano tuttora abbelliti dai vivi colori, impiegati sia come fondi delle figure in rilievo, sia per esecuzione di quadretti dipinti veri e propri, su piani lisci, alternati ai cassettoni in rilievo. Interessanti tra questi, quattro originali riquadri di soggetto mitologico. Di una riuscita complessità risulta anche la decorazione policroma delle lunette.

TOMBA DEI VALERI
È una ricostruzione dell'ottocento, ma rende perfettamente l'idea di come doveva essere il sepolcro: un recinto circondava la tomba, alta due piani. Al livello del terreno c'era una sala che veniva utilizzata per i banchetti nei giorni in cui la famiglia si riuniva per stare vicina ai defunti.

Scendendo le scale invece si entrava nella tomba vera e propria, la camera dove venivano depositati i sarcofagi o le giare, a seconda se il morto aveva deciso di farsi cremare oppure no. Nella tomba dei Valeri si possono vedere pochissimi resti dei sontuosi marmi che ricoprivano la stanza, ma sul soffitto ci sono ancora degli stucchi in pasta di marmo molto ben conservati.

Sulla volta sono rappresentate moltissime figure e, a eccezione di tutte le sculture romane che erano coloratissime, qui invece era stato lasciato volutamente tutto in bianco. Dalla parte opposta della camera funeraria principale c'è anche un'altra stanza, le cui decorazioni sono completamente scomparse.

VENERE - POZZUOLI

GLI STUCCHI DI POZZUOLI

Degli ipogei sepolcrali fuori Roma, d'età imperiale, si ricorda l'ipogeo di Pozzuoli, in Via delle Vigne, nel 1926, del I del sec. d.c.. La mancanza assoluta di veri e propri stucchi decorativi nei cimiteri sotterranei cristiani fu dovuta non all'alto costo, come alcuni hanno scritto. perchè esistevano cristiani ricchissimi, ma per la decadenza dell'arte in genere con l'avvento del cristianesimo.


BIBLIO

- G. B., Le vòlte a stucco di ant. edifici romani, in Archit. e arti decorative, 1922-23
- G. Wilpert, Le pitture delle Catacombe, Roma 1903
E. L. Wadsworth, Stucco reliefs of the first and second centuries still extant in Rome, in Memoirs of the American Academy, IV, Roma 1924
- G. Bendinelli, Il monumento sotterraneo di Porta Maggiore, in Monumenti dei Lincei, XXXI, 1927

LAMBAESIS - TAZOULT (Algeria)

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RICOSTRUZIONE DI LAMBAESIS (Jean-Claude Golvin)
Lambaesis era il nome dell'antica fortezza legionaria della provincia romana d'Africa proconsolare, che corrisponde all'odierna città algerina di Tazoult, situato nella provincia di Batna. Lambaesis era posizionata in Numidia, edificata a 622 m slm sulla piana e sugli speroni della montagna algerina del Djebel, a nord dei monti dell'Aurès, di fronte alle tribù berbere dei Getuli.

PLANIMETRIA DELLE PARTI EMERSE

TETTIO GIULIANO

Lambaesis fu prima forte ausiliario sotto i Flavi. Giuliano fu un grande militare, poiché già nel 68-69 era comandante della legio VII Claudia. Nel 70, quand'era pretore, Licinio Muciano riuscì a convincere il Senato Romano a poter presiedere la prima seduta, togliendo così l'onore a Giuliano. Sembra, infatti, che il primo castrum di Lamabaesis sia stato costruito da Tettio Giuliano nell'81 circa, quando servì nella guardia pretoriana per poi essere inviato in Numidia.

Fedele a Roma ma molto impetuoso, venne giustamente apprezzato dall'imperatore Domiziano (51 - 96) che gli affidò il comando di una nuova campagna militare contro i Daci di Decebalo. Egli utilizzando il castrum di Viminacium (in Serbia) come suo quartier generale, riuscì a raggiungere Sarmizegetusa Regia (il più importante centro dell'antica Dacia), capitale di Decebalo, dopo aver sconfitto i Daci sia a Carnsebers, presso le Porte di Ferro, sia nella successiva e decisiva battaglia di Tape nell'88..

IL COSIDDETTO PRETORIO
Pur risultando la guerra molto favorevole a Roma, venne interrotta bruscamente a causa dello scoppio di una nuova guerra lungo il fronte del medio Danubio contro le popolazioni suebiche di Quadi e Marcomanni. Pertanto venne conclusa concluso rapidamente un trattato di pace poco favorevole a Roma, che salvò, ancora per un quindicennio, i Daci di Decebalo dalla conquista romana, avvenuta poi sotto Traiano (53 - 117).

E' proprio sotto Traiano che Lambaesis divenne la fortezza legionaria della III Augusta, dopo che quest'ultima era stata per lungo tempo posizionata prima ad Ammaedara (oggi Haidra) e poi dal 75 a Theveste. Lambaesis divenne così la sua definitiva destinazione a partire dall'anno 100 fino alla conquista dei Vandali.



LA LEGIO III AUGUSTA

Lambaesis divenne il campo della Legio III Augusta, a cui dovette la sua origine in pietra, fondata nel 123-129, al tempo dell'Imperatore Adriano, per lo stanziamento dei suoi soldati, come fu trovato inciso su un pilastro in un secondo accampamento a ovest del grande accampamento ancora esistente.

Tuttavia, altre prove suggeriscono ad alcuni studiosi che l'accampamento del Lambaesis sia molto più antico, sicuramente in legno, e che sia stato edificato addirittura durante le guerre puniche. Gli archeologi sono ora concordi nel dire che l'edificio ospitava la sede della Legio III Augusta.

Nel 100 d.c. l'imperatore Traiano trasferì la legione a Lambaesis da Teveste, una città più vicina al confine odierno con la Tunisia, non lontano da Sufetula. Allo stesso tempo, Traiano fondò Thamugadi, una città tra Lambaesis e Theveste dove si stabilirono i veterani della Legio Ulpia Victrix, rafforzando così il controllo romano sulle tribù che vivevano nel deserto del Sahara, simili ai libici Garamantes.

L'ARCO DI SETTIMIO SEVERO
Sembra sia stato poi l'imperatore Marco Aurelio (121 - 180) a costruire la città vera e propria intorno al castro che, sotto Settimio Severo, divenne una residenza imperiale del legato di Numidia. Lambaesis, fu per un tempo la capitale di Numidia, con una popolazione di oltre 1862 civili (solo maschi, oltre le femmine). 
Nel 166 d.c. vengono menzionati i decurioni di un vicus, di cui 10 curie sono note per nome; e il vicus divenne un municipium probabilmente al tempo in cui divenne la capitale della provincia della Numidia di recente fondazione. In città il latino la lingua ufficiale e comunemente usata (anche se i berberi locali parlavano la loro lingua mista a latinismi).
La III Augusta fu sciolta da Gordiano III e i legionari si dispersero tra le province nordafricane. Ma la legione fu restaurata nel 250 d.c. da Valeriano e Gallieno e da allora la legione fu conosciuta come Augusta Restituta. La sua partenza definitiva ebbe luogo dopo il 392 d.c. privando la città fu privata del suo maggiore sostegno economico.
Nel V secolo la città fu distrutta dai berberi ( indigeni nel Nord Africa e di alcune parti settentrionali dell'Africa occidentale) e scomparve quasi completamente sotto i bizantini. 

PONTE ROMANO DI TALZOUT

LO SCEMPIO

Nel gennaio 1850, i francesi stabilirono una colonia penale, sorvegliata da un distaccamento del III reggimento Zuavi. Le rovine che coprivano più di 800 ettari furono usate per costruire la prigione e la città (sig!). Un villaggio popolato da operai, artigiani e mercanti formati attorno alla prigione.

Dopo l' indipendenza, Lambaesis, o Lambèse, fu ribattezzato e divenne noto come Tazoult. La prigione di Lambaesis, nota per le sue dure condizioni, ospitò nazionalisti algerini durante la guerra d'indipendenza algerina.

I resti della città romana, e più in particolare del campo romano, nonostante il vandalismo sfrenato effettuato nei secoli, antichi ma soprattutto recenti) sono comunque tra le rovine più interessanti dell'Africa settentrionale.

I RESTI DELL'ANFITEATRO

LE TESTIMONIANZE

I viaggiatori del passato hanno avuto l'opportunità di vedere le rovine di Lambaesis in uno stato molto migliore di quello che sono oggi. James Bruce lasciò alcune note sul 1765:
"Qui doveva essere riparato il "Lambaesitanorum Colonia", che, secondo le centinaia di iscrizioni latine rimaste sul posto, è stato attestato. Ora si chiama Tezzout; le rovine della città sono molto estese. Vi sono ancora sette porte ancora in piedi e grandi pezzi di muri sono stati costruiti solidamente con muratura quadrata senza calce."

R. L. Playfair lo descrisse nel 1875:
"Era una delle città più importanti all'interno di Numidia, ed era in epoca romana il quartier generale della Terza Legione, Augusta, che fu di stanza qui per quasi tre secoli in Africa. Fu il grande centro militare di cui furono spediti per mantenere l'ordine o reprimere l'insurrezione. Copriva o proteggeva tutto il Nord Numidia e permetteva agli insediamenti romani di raggiungere un certo grado di importanza in qualsiasi altra provincia del Nord Africa. Al momento restano pochissime rovine per testimoniare la sua forma di magnificenza... La rovina principale qui, e l'unica immaginata da Bruce, è quella chiamata Pretorio".

Nel 1895 aggiunse nel Manuale di Murray:
"Lambessa è costituita da un piccolo villaggio moderno vicino alle rovine romane. L'edificio principale è la prigione. Questo era precedentemente utilizzato per oppositori politici, ed era solo parzialmente odioso per l'Impero francese (alcuni monumenti erano inclusi nel muro della prigione e non sono più visibili). (..) Le mura (dell'antica città) sono state distrutte dai francesi, per costruire le fattorie vicine, e la loro stessa direzione ed estensione difficilmente possono essere accertate."



I RESTI

Le rovine sono situate sulle terrazze inferiori dei Monti Aures e sono costituite da archi trionfali (uno a Settimio Severo, un altro a Commodo), oltre a templi, acquedotti, vestigia di un anfiteatro, terme e un'immensa quantità di murature appartenenti a case private. 
A nord e ad est si trovano ampi cimiteri con le pietre in piedi nei loro allineamenti originali; a ovest c'è un'area simile, dalla quale, tuttavia, le pietre sono state in gran parte rimosse per edificare il villaggio moderno.
Del tempio di Esculapius solo una colonna è in piedi, anche se a metà del XIX secolo la sua facciata era intera. Il tempio capitolino dedicato a Giove, Giunone e Minerva, che è stato rimosso dai detriti, ha un portico con otto colonne. 

L'ARCO DI COMMODO
Il campo risiede su un terreno pianeggiante a circa due terzi di miglio dal centro della città antica, il cui sito oggi è occupato dal penitenziario e dai suoi giardini. Questo misura 1.640 piedi per 1.476 piedi (450 m) ed è chiamato, erroneamente, il pretorio.
Questo nobile edificio, che risale al 268, è lungo 92 piedi (28 m) lungo 66 piedi (20 m) di altezza e 49 piedi (15 m) di altezza; la sua facciata meridionale presenta uno splendido peristilio a metà dell'altezza del muro, costituito da una fila di massicce colonne ioniche e una fila di pilastri corinzi.
Dietro questo edificio (che era coperto), c'è una grande corte che dà accesso ad altri edifici, uno dei quali è l'arsenale. In esso sono state trovate molte migliaia di proiettili. A sud-est sono i resti delle terme cittadine. 



LE ISCRIZIONI

Le rovine della città e del campo hanno prodotto molte iscrizioni (Renier a cura del 1500, e ci sono 4185 in CIL viii); e, sebbene una proporzione molto grande siano gli epitaffi del tipo più scarso, queste sono le parti più importanti della storia del luogo.

Sono state decifrate oltre 2.500 iscrizioni relative al campo. In un museo nel villaggio e oggetti di antichità scoperti nelle vicinanze. Oltre alle iscrizioni e alle statue, ci sono alcuni bei mosaici trovati nel 1905 vicino all'arco di Settimio Severo. Le statue includono quelle di Esculapius e Hygieia, prese dal tempio di Esculapius.

LUCIO ARTORIO CASTO - LUCIUS ARTORIUS CASTUS

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IL PERSONAGGIO DI ARTORIUS NEL FILM

Nome:
Lucius Artorius Castus
Nascita: III secolo (Campania felix?)
Morte: ?
Professione: Generale romano


Tutto ciò che sappiamo di Lucio Artorio Casto è davvero poco, in quanto proviene da un´epigrafe ritrovata a Podstrana, sulla costa della Dalmazia, in Croazia, composta di 2 frammenti poco leggibili. Sembra tuttavia che si tratti di parte della stele proveniente dal sarcofago di Lucio Artorio Casto, come riportato sui frammenti.

Una seconda iscrizione più breve, incisa su una targa commemorativa nella stessa località, riporta pochi dati ma simili a quelli del sarcofago.
Una terza iscrizione (di dubbia autenticità), reca il solo nome di Lucio Artorio Casto, fu ritrovata a Roma, ed ora è (tanto per cambiare) conservata al museo del Louvre.

Abbiamo valide ragioni per supporre che Casto, membro della gens Artoria, probabilmente originario della Campania, o delle zone limitrofe, sia vissuto nel III secolo d.c.



GENS ARTORIA

I  membri della gens artotia vissero tra il III sec. a.c. fino al V-VI sec. d.c. quando ormai l’impero d’Occidente era perduto.

Sull’origine di questa gens alcuni farebbero derivare il nome dall’etrusco Arnthur, altri hanno cercato una derivazione latina, traducendo il nome come "contadino" (il cui equivalente era però Arator, non Artor).

Per altri ancora il  nome della gens Artoria é di origine messapica, dunque probabilmente illirica.

Non possiamo escludere però la derivazione da Artois, nome gallico dell'orso, che per noi è la più probabile, derivata dall'antica Dea Orsa, una Dea Madre Celtica che invasava col suo furore i re e i guerrieri in battaglia.

Il re Orso era colui che si faceva inebriare dal furore selvaggio della Dea Orsa divenendo irresistibile in battaglia, perchè l'invasamento divino lo rendeva pericoloso e invulnerabile fintanto che durava.



IL SARCOFAGO

Secondo il lungo testo dell’iscrizione del sarcofago, Artorio Casto era stato un centurione della III Legione Gallica, poi passato alla VI Ferrata, poi alla II Audiutrix, successivamente alla V Macedonica, di cui divenne il primo pilo, il che dimostra il suo valore. Fu incaricato poi come preposto della flotta di Miseno (Napoli), e divenne infine prefetto della VI Victrix. Insomma era uno che si faceva notare.

ARTORIUS INTERPRETATO DA CLIVE OWEN
In questa legione ebbe infatti modo di assurgere ai gradi più elevati come alto ufficiale, fino a essere nominato “dux legionum Britaniciniarum," (in Britannia) titolo dato a chi si distingueva per aver compiuto eccezionali imprese. Dunque si trattava di un tipo già un po' leggendario.

Risulta infatti, nel 185 d.c., che abbia partecipato a una spedizione in Bretagna, Armorica e Normandia, al cui comando era Ulpio Marcello, come riportato da Cassio Dione. Se Casto, come sembra, partecipò alla vittoriosa campagna guidata da Ulpio Marcello (forse un suo parente, dato che la gens Ulpia era imparentata con la gens Artoria) contro i Caledoni, e a difesa del Vallo Adriano, era possibilmente stazionato assieme ad un contingente di cavalieri Sarmati.

In effetti, la V Macedonica era schierata sul fronte danubiano, contro Daci e Sarmati al tempo di Marco Aurelio e Commodo. Dunque, un contatto con reparti della cavalleria sarmata, passati al soldo delle legioni, é plausibile. La VI Victrix, poi, era, in effetti, stanziata in Britannia, come zona operativa.

Si ritirò infine dall´esercito divenendo procurator centenarius (governatore di una provincia che rendeva 100.000 sesterzi annui) della Liburnia (parte settentrionale della Dalmazia), dove, con molta probabilità, terminò la sua vita, facendosi seppellire a Salonae Palatium (Salona, Dalmazia).

LA TAVOLA ROTONDA

IL MITO

Re Artù è un leggendario condottiero britannico che, secondo alcune storie medievali, difese la Gran Bretagna dagli invasori sassoni, popolo germanico piuttosto feroce, tra la fine del V sec. e l'inizio del VI. Lo sfondo storico delle vicende relative ad Artù è descritto in varie fonti, tra cui:
- gli Annales Cambriae (annali del Galles, dal 447 al 954), 
- la Historia Brittonum (Storia dei Brittonici, un testo sulla storia dell'Inghilterra del IX sec. che narra le vicende dell'Inghilterra dopo la partenza delle legioni romane fino alle invasioni sassoni).
- gli scritti di Gildas di Rhuys, un abate (494 - 570) che descrisse la disastrosa situazione della Britannia a seguito del ritiro delle legioni romane.

Nelle citazioni più antiche che lo riguardano e nei testi in gallese non viene mai definito re, ma dux bellorum ("signore delle guerre"). Antichi testi alto-medievali in gallese lo chiamano ameraudur ("imperatore"), prendendo il termine dal latino, che potrebbe anche significare "signore della guerra". Il nome di Artù si ritrova anche nelle più antiche fonti poetiche come il poema Y Gododdin, un regno sorto agli inizi del V sec. nella Britannia nord-orientale dopo l'abbandono dei Romani.

ARTORIUS
Secondo alcuni studiosi questa interpretazione porterebbe all'identificazione del personaggio con il “Re Artù” storico: vissuto attorno al V-VI d.c, e che documenti, quali la Historia Brittonum di Jeoffrey di Monmouth (IX d.c), riferiscono di origine romana e riportano come vittorioso sulle invasioni dei sassoni.

L'identificazione di Casto con Artù fu avanzata per la prima volta da Kemp Malone nel 1924. Sebbene infatti Casto non visse al tempo delle invasioni sassoni in Britannia (V sec.), si potrebbe pensare che il ricordo delle gesta di Casto, tramandate nelle tradizioni locali, andarono crescendo col tempo fino a formare le prime tradizioni arturiane.

La prima apparizione del personaggio "Arthur", qualificato "dux" così come Artorius nell'epigrafe, nella Historia Brittonum del IX sec., secondo lo storico Leslie Alcock era tratta da un poema gallese, originariamente privo di un riferimento cronologico preciso, come pure di una indicazione degli avversari contro cui combatté le sue dodici vittoriose battaglie.

Di certo però sappiamo che il centurione Casto ebbe una strepitosa carriera, e che legó il suo nome indissolubilmente alla VI Ferrata, dove ebbe agio di dimostrare il suo grande valore unito a un grande ingegno e a una personalità così forte da essere carismatica per i suoi pari e i suoi sottoposti.



STELE DI LUCIUS ARTORIUS CASTUS

1) CIL 3, 1919 - PROVINZ:  DALMATIA     ORT: STOBREC  EPETIUM

D(is) M(anibus)  L(ucius)  ARTORIUS  CASTUS  (centurio) LEG(ionis)   III  GALLICAE  ITEM (centurio) LEG(ionis)  VI FERRATAE  ITEM  (centurio)  LEG(ionis)  II ADIUTR(icis)  ITEM (centurio)  LEG(ionis) V  MAC(edonicae)  ITEM  P(rimus)  P(ilus)  EIUSDEM  PRAEPOSITO CLASSIS  MISENATIUM  PRAEFE(ctus)  LEG(ionis) VI VICTRICIS  DU  LEGG(ionum)  TRIUM  BRITAN(n)IC(i)  (mi)LIARUM  ADVERSUS  ARMENIOS  PROC(urator)  CENTENARI PROVINCIAE  LIBURNIAE  IURE  GLADI(i)  VIVUS  IPSE  SIBI  ET  SUIS 3 EX  TESTAMENTO

2) CIL 03, 12791 - PROVINZ: DALMATIA   ORT: PODSTRANA

L(ucius) ARTORIUS / CASTUS  P(rimus)  P(ilus)   LEG(ionis) V MAC(edonicae)  PRAEFECT[t]US  LEG(ionis)  VI  VICTRIC(is)

LA SPADA NELLA ROCCIA

LA FIGURA STORICA

E' ancora acceso il dibattito sulla questione se Re Artù fosse o meno una reale figura storica. 
Tale dibattito iniziò dal Rinascimento quando la dimensione storica di Artù fu strenuamente difesa, in special modo dalla dinastia dei Tudor, anche perchè avevano legato la loro discendenza a quella di Artù.

Gli studiosi moderni sostengono che ci furono persone realmente esistite mescolate ad alcune leggende, secondo cui Artù dovrebbe aver acquistato la fama di cavaliere combattendo contro gli invasori germanici nel tardo V secolo e nei primi anni del VI secolo. Tuttavia, fin quando non si troveranno delle prove storiche concrete il dibattito resterà incerto.

Comunque, non possiamo dimenticare l’influenza che Re Artù ha avuto sulla letteratura, l’arte, la musica e la società dal medioevo fino ai giorni nostri, visto le diverse saghe mitiche, con un fondo misterico di evoluzione spirituale.

E' in fondo il retaggio della via del guerriero, che in quanto eroe vine accolto nei miti nordici dalla Dea Morrigon che lo salva dal calderone dove mescola tutti i corpi e le anime dei caduti, per inviarlo nella sacra e benedetta terra dei suoi avi, o degli antichi Greci che spedivano gli eroi nei Campi Elisi.



GLI EVENTI

Nel 175, l'imperatore Marco Aurelio arruolò 8.000 sarmati nell'esercito romano, 5.500 dei quali furono poi inviati lungo il confine settentrionale della Britannia romana dove si unirono alla Legio VI Victrix, in cui prestava servizio Lucio Artorio Casto, generale della cavalleria romana, (secondo alcuni alla base del personaggio di Re Artù), anche se sembra che sia sempre rimasto fedele a Roma.

Invece di rimandare a casa questi guerrieri una volta terminati i loro 20 anni di servizio, le autorità romane li insediarono in una colonia militare nell'odierno Lancashire, dove fonti storiche del 428 attesterebbero all'epoca dei loro discendenti detti "truppa dei veterani sarmati".

Inoltre, come già detto, un'epigrafe lacunosa e in due frammenti venne rinvenuta a Podstrana, sulla costa dalmata, riconosciuta come lastra del sarcofago di Artorio. 

La seconda iscrizione, una targa commemorativa della stessa località, riporta dati simili. 

Un'altra epigrafe ancora, recante il solo nome di Lucio Artorio Casto, fu invece ritrovata a Roma.

Secondo l'iscrizione del sarcofago, Artorio Casto, membro della gens Artoria,  probabilmente originario della Campania Felix, era stato un centurione della III legione Gallica, poi passato alla VI legione Ferrata, alla II legione Adiutrice e alla V legione Macedonica, di cui divenne primo pilo. 

Fu poi Praepositus della flotta di Miseno, la forza navale della Baia di Napoli, e infine Prefetto della VI legione Vitrix. Qui ottenne il titolo di "dux", riservato a chi si era distinto per imprese eccezionali.
Casto si ritirò poi dall'esercito, divenne procurator centenarius, cioè governatore della Liburnia (Dalmazia settentr.), dove concluse la sua vita, sepolto nella necropoli di Salonae Palatium (Spalato).



RE ARTU'

La figura del sovrano appare infatti in moltissime leggende, poemi e racconti, conosciuti complessivamente con il nome di Materia di Britannia, una saga comprendente il Ciclo bretone e il Ciclo arturiano.

La leggenda nacque e si arricchì a partire dal Basso Medioevo, con aggiunte continue di numerosi autori antichi ma anche moderni, come Mark Twain, John Steinbeck, Marion Zimmer Bradley, Jack Whyte e T. H. White.

Questa letteratura ebbe particolare seguito nel XII secolo nella Francia settentrionale insieme all'epopea delle canzone di gesta (chanson de geste). La materia di Bretagna inizia dalla Historia regum Britanniae, scritta nel 1135 da un chierico gallese, Goffredo di Monmouth, dove si mescolano amori, battaglie, magie e avventure. Il più noto tra questi scrittori fu Chrétien de Troyes, grande interprete degli ideali cavallereschi.

Il ciclo bretone presenta profonde differenze dal genere della Chanson de geste tipica del ciclo carolingio. e ha come motivo principale non la lotta collettiva contro gli infedeli, ma l'amore e la ricerca individuale di avventure. 

Il cavaliere della Tavola Rotonda alla corte di re Artù non è più l'Orlando della Chanson de Roland che muore con tutta la sua schiera a Roncisvalle come un martire, ma è un solitario cavaliere errante che va alla ricerca di prove sempre più difficili per esaltare se stesso e per conquistare la donna amata.

Tra le storie più celebri si ricordano Merlino, la spada Excalibur, l'origine prodigiosa del regno di Artù, l'amore tra Lancillotto e la regina Ginevra, l'amore drammatico di Tristano e Isotta, la fata Morgana e suo figlio Mordred, i cavalieri della Tavola Rotonda, tra cui Lancillotto, Parsifal Tristano, Palamede il Saraceno, e soprattutto il tema del Graal. 

In cima all'epica del Graal c'è Artù, speranza degli uomini e poi loro guida, che cade e non può nè vivere né morire, finchè un cavaliere non riesca a portargli il mitico calice del santo Graal.


BIBLIO

- Kemp Malone, Artorius, in "Modern Philology" 23 (1924–1925),
- Scott C. Littleton - Linda Malcor, From Scythia to Camelot, New York 1994
- Xavier Loriot, Un mythe historiographique: l'expédition d'Artorius Castus contre les Armoricains, in "Bulletin de la Société nationale des antiquaires de France", 1997, pp. 85–86
- Linda Malcor - Lucius Artorius Castus - Part 1: An Officer and an Equestrian - Heroic Age - 1999 -
- Linda Malcor - Lucius Artorius Castus - Part 2: The Battles in Britain - Heroic Age - 1999 -
- Scott C. Littleton, Linda Malcor - From Scythia to Camelot: A Radical Reassessment of the Legends of King Arthur, the Knights of the Round Table and the Holy Grail - New York - 2000 -
- Nenad Cambi, John Matthews - Lucije Artorije Kast I Legenda o kralju Arturu – Lucius artorius Castus and the King Arthur Legend - Split - Knjizevni krug - Podstrana -  Matica hrvatska - Ogranak - 2014 -

DEA DIA - ARVALI (17 Maggio)

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LA DEA
«Romolo per primo istituì i sacerdoti Arvali e chiamò se stesso dodicesimo fratello tra quelli generati da Acca Larenzia, sua nutrice...»
(Plinio il Vecchio)



FRATRES ARVALES

La Dea Dia era un'antichissima divinità protettrice della fertilità della terra. Venne identificata con la Madre Terra ed ebbe un tempio a lei dedicato prima sul Palatino, poi al V miglio della Via Portuense, in un tempio di cui restano solo pochi ruderi.

I sacerdoti addetti al suo culto erano i Fratres Arvali, i Fratelli Arvali, un'antichissima confraternita sacerdotale romana, restaurata da Augusto, composta di 12 membri scelti tra la classe senatoria per lo più per cooptatio, cioè scelto dall'organo collegiale senza elezioni. La cooptatio era caratteristica dell'ordinamento giuridico aristocratico, diffusissimo nel diritto romano arcaico. A capo dei Frates c'era un magister assistito da un flamen.

La cosa particolare è che gli Arvali, che essendo sacerdoti ufficiali venivano stipendiati dallo stato, ricevevano anzitutto un vitalizio, per cui erano pagati anche se non erano in grado di officiare per la vecchiaia, che non perdevano neppure in caso di esilio, nè a causa di una qualsiasi condanna, e neppure se cadeva prigioniero di un nemico.



IL BOSCO SACRO

A sud di Roma, al V miglio, all'incrocio tra Via Portuensis e Via Campania, c'era un boschetto sacro dedicato alla Dea, chiamato "Lucus Deae Diae", nel cui ambito era stato eretto un grande tempio di pianta circolare, sopraelevato su alto podio.

IL BOSCO SACRO
In questo luogo i fratelli Arvali si incontrano e registrano i loro nomi e tutto ciò che riguarda il culto, che non è segreto e che quindi può essere pubblicato, sulle tavole di marmo apposte all'esterno del Tempio.

Il Lucus era compreso in una più ampia distesa boschiva, la Silva Moesia, un tempo sotto il dominio degli Etruschi di Vejo.
Macrobio identifica il Pastore Faustolo, marito di Acca Larentia nutrice di Romolo, con il personaggio etrusco di Tarunzio, leggendario possessore di quelle terre (Saturnalia, I-10).
Tito Livio invece riporta l’incontro etrusco-romano al tempo di Anco Marzio, quando gli Etruschi dovettero abbandonare la Selva ai Romani (“Silva Moesia Vejentibus adempta”, Historiae, I-33).

Il Bosco sacro si sviluppava in pendìo (clivus), dall’ansa fluviale della Magliana Vecchia risalendo la collina di Monte delle Piche. La parte rivierasca, chiamata Antelucum, ospitava gli edifici sacri minori e di servizio (CaesareumTetrastylumBalneumPapiliones e il Circo).

Il complesso ebbe diverse fasi costruttive, tra le quali un’importante sistemazione è stata datata ad epoca flavia (metà del I sec. d.c.) seguita da un’integrale ristrutturazione effettuata sotto Alessandro Severo (222-235 d.c.).



AEDES DEA DIAE

La parte centrale, intersecata dalla Via Campana, ospitava il grandioso Tempio rotondo di Dia (Aedes Deae Diae) e quello più antico di Fors-Fortuna.

AEDES DEA DIAE - RICOSTRUZIONE DI R. LANCIANI
Il Tempio di Dia (o degli Arvali), o quel che ne resta, è un santuario di epoca augustea, sito nella via Tempio degli Arvali, presso il ristorante La Tavernaccia, alla Magliana vecchia.

Infine, vi era una parte in pendenza, che si arrampicava con un’organizzazione a terrazze, fino alla sommità della collina, dove si trovava l’Ara sacra dei Lari. La sua conformazione è nota attraverso gli Acta Fratrum Arvalium, di epoca imperiale.

Oggi la proprietà del terreno che ospita il sito, pur essendo di interesse archeologico, ed essendo stata studiata dalla Soprintendenza Archeologica di Roma, non è stata mai espropriata ed è rimasta privata, per cui non è visitabile e non è visibile nemmeno dalla strada, visto che è al di sotto del piano stradale. Quand'è che lo stato si occuperà di salvare un sito così storicamente importante?

- Il CESAREUM era un complesso del III - II sec. d.c., dedicato agli imperatori defunti e divinizzati, ove s'immolavano vittime in loro onore. Vi si riunivano a banchetto gli Arvali nel secondo giorno delle feste ambarvali. Nel Cesareum dovevano essere esposte le statue degli imperatori di cui furono infatti rinvenute nel XVI secolo alcuni piedistalli con relative iscrizioni.

- Il TETRASTYLUM, effigiato nella monetazione di Tiberio, era uno dei templi minori del Lucus deæ Diæ, nominati negli atti degli Arvali. Lo studioso Peruzzi ne rimanda la fondazione a Romolo (“hoc sacellum ordinatum fuit a Romolo”).
Il tempio aveva quattro colonne senza muri poste agli angoli di un basamento quadrato, a sostegno delle travi angolari e del tetto (“Tetrastyla sunt, quae subiectis sub trabibus angularibus columnis et utilitatem trabibus et firmitatem praestant”. Vitruvio, De architectura VI, 3.3).
All’interno dovevano trovarsi un idolo e i “triclinia” per i confratelli arvali. Peruzzi ipotizza fosse dedicato ai riti tradizionali della benedizione del grano e del suolo (“ad benedicendum granum et agrum”) e riferisce di un basamento rettangolare, tra il Tempio di Dia e le Terme, ritenendola una riedificazione del Tetrastylon in epoca antoniniana (“sic restauratum ab Antonino”), ma potrebbe appartenere al Cæsareum.

- Il BALNEUM era l’edificio termale, sopra il quale insiste in parte l’attuale Casale Agolini, rimesso alla luce negli scavi dei francesi nell'estensione della sua planimetria, con il vestibolo, le sale riscaldate, le latrine e il frigidarium che conservava ancora i resti della decorazione a mosaico policromo di una delle vasche.
Il complesso era già in stato di abbandono nel IV secolo, tanto che in uno degli ambienti del balneum nel V secolo si impiantò una fornace di laterizi mentre il resto delle strutture venne distrutto. Molti dei materiali andarono dispersi, fra i quali alcuni frammenti di iscrizioni degli acta riutilizzati a chiusura di alcuni loculi nelle vicine catacombe di Generosa, o ancora le numerose antefisse in marmo probabilmente pertinenti alla decorazione del tempio.

- I PAPILIONES ricordavano le tende in cui si accampavano gli Arvales con i loro assistenti e sicuramente con le autorità cittadine. Probabilmente un tempo erano reali tende militari poi sostituite da vani dietro il lato curvo del portico monumentale utilizzati dai membri del collegio come luogo di soggiorno provvisorio.

- Il CIRCUS era un piccolo circo per il rito, gli spettacoli e la corsa dei cavalli. Ancora dubbia la sua ubicazione, pur ricordato negli acta, probabilmente da collocare nella zona ad occidente del santuario.

Comunque i Fratelli Arvali officiavano certi riti nella casa del magister, e pure nel Tempio di Giove Capitolino.

LUCIO VERO SACERDOTE ARVALE
Per la festa del 17 Maggio i Frates Arvales si recavano nel sacro boschetto a sud di Roma, per eseguire i riti pubblici della festa. Li seguivano i rappresentanti dell'amministrazione e il popolo che giungeva a piedi o in carrozza.

Al mattino i sacerdoti sacrificavano due maialini e una mucca con la pelle bianca. La carne dei sacrifici veniva distribuita agli astanti, con il brindisi e l'augurio di propiziare i raccolti; col sangue delle vittime si facevano invece delle salsicce che sarebbero state consumate l'anno successivo, mentre nel banchetto rituale si consumavano quelle dell'anno precedente.

Più tardi, coperti da un velo, gli Arvales sacrificavano pubblicamente una pecora nel boschetto, si crede per propiziare la pastorizia, in epoca arcaica basata sulle pecore. Anche questo cibo veniva distribuito tra il pubblico.

Successivamente i sacerdoti si recavano nel tempio dove erano stati preparati molti vasi e pentole di fango crudo cotto al sole, evidentemente a ricordare il vasellame dell'epoca più arcaica, pieni di spighe, prodotti vegetali e vino. I sacerdoti pronunciano una preghiera e quindi gettano il vasellame giù dalla scalinata del tempio, distruggendoli insieme ai loro contenuti.

Ciò fa pensare a riti arcaicissimi che non contemplavano il sacrificio degli animali ma solo l'offerta delle primizie con la creazione dei recipienti che venivano anch'essi sacrificati. Usanza che troviamo anche nelle patere degli etruschi spesso spezzate nelle tombe.

Nel pomeriggio gli Arvales si recavano nel Cesareum, all'interno del tempo, dove il pubblico non poteva entrare nè vedere perchè le porte del tempio venivano chiuse, e dove consumano un pane comune chiamato pane laureato, fatto con lauro, evidentemente connesso agli imperatori divinizzati. Quindi cantavano una litania, il canto dei defunti, ma diretta agli Dei, che ai tempi dell'impero era diventata quasi intelligibile, era il Carmen Arvale.

Sono stati rinvenuti vari frammenti degli "Acta Arvalium", nei quali venivano annotati e registrati i principali eventi dell'Urbe. Tra i riti è pervenuta anche la formula della cerimonia, incisa su marmo, degli Arvali, negli Acta epigrafici dell’anno 218 d.c., curati annualmente dalla confraternita, la cui arcaicità linguistica rimanda ai primordi della religione romana:

«enos Lases iuvate - (Lari aiutateci)
enos Lases iuvate - (Lari aiutateci)
enos Lases iuvate - (Lari aiutateci)

neve lue rue Marmar sins incurrere in pleoris - (non permettere, Marte, che la rovina cada su molti)
neve lue rue Marmar sins incurrere in pleoris - (non permettere, Marte, che la rovina cada su molti)
neve lue rue Marmar sins incurrere in pleoris - (non permettere, Marte, che la rovina cada su molti)

satur fu, fere Mars, limen sali, sta berber - (Sii sazio, feroce Marte. Balza oltre la soglia. Rimani lì)
satur fu, fere Mars, limen sali, sta berber - (Sii sazio, feroce Marte. Balza oltre la soglia. Rimani lì)
satur fu, fere Mars, limen sali, sta berber - (Sii sazio, feroce Marte. Balza oltre la soglia. Rimani lì) 

semunis alterni advocapit conctos - Invocate a turno tutti gli Dei delle sementi.
semunis alterni advocapit conctos - Invocate a turno tutti gli Dei delle sementi.
semunis alterni advocapit conctos - Invocate a turno tutti gli Dei delle sementi. 

enos Marmor iuvato - (Aiutaci Marte)
enos Marmor iuvato - (Aiutaci Marte)
enos Marmor iuvato - (Aiutaci Marte) 

triumpe triumpe triumpe triumpe triumpe.- (Trionfo, trionfo, trionfo, trionfo, trionfo)»

FASTI E DECRETI DEI FRATELLI ARVALI
Noi interpretiamo questo come un'invocazione all'antico Marmar, il Dio Lupo figlio della Dea Lupa, cioè la cupidigia che distrugge le sementi messe da parte per la semina futura. Per questo gli si intima di non varcare il confine del tempio, affinchè le semenze non vengano toccate, nè dai topi, nè dagli uomini, nè dalle malattie. Infatti vengono poi invocati gli Dei delle sementi, i Semoni, affinchè aiutino a preservare i semi conservati nelle olle.

Subito dopo i sacerdoti Arvali uscivano dal tempio eseguendo dinanzi al pubblico una danza arcaica e primitiva al ritmo ternario, chiamato "tripudium", si suppone fosse il dolore per gli imperatori defunti e il successivi tripudio per la loro divinazione.

Finita la danza, sia gli Arvales che il pubblico si recavano al circo dove si svolgeva uno spettacolo di acrobati e funamboli, ma pure cavalli con i desultores, degli auriga che cavalcavano due cavalli alla volta, senza sella e volteggiando tra entrambi. Seguivano poi le corse vere e proprie di cavalli che mandavano in visibilio gli spettatori. Di solito gli Arvali distribuivano tra gli assistenti del pubblico cibo, fiori e persino denaro.

A questa festa seguiranno poi le Ambavaralia, del 29, 30 e 31 Maggio e la festa del 17 Dicembre.
Il magister presiede a tutti i riti e giochi di queste feste. Il 17 Maggio inoltre, il resto dei fratelli sceglie chi sarà il nuovo magister, che viene eletto ogni anno, e che prenderà possesso della sua posizione il 17 dicembre - il giorno in cui si celebra un altro rito in onore della Dea Dia. Il culto della Dea rimase fino al III - IV sec. d.c.

COLUMNA LACTARIA - COLONNA LATTARIA

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RICOSTRUZIONE DELLA COLONNA LATTARIA

ANTICA GRECIA

Nell'antica Grecia, l'abbandono dei neonati era ammesso, tanto che questo, col tempo, divento' pratica comune. Molti erano i motivi per cui alcuni bambini venivano rifiutati dai genitori: problemi economici creati dal nuovo nato, la presenza di una malformazione fisica, l'essere il frutto di una violenza, di un incesto o di una relazione illecita.

Le femmine erano più abbandonate dei maschi in quanto destinate a diventare comunque un peso per la famiglia: se si sposavano infatti, dovevano essere fornite di dote; ma se al contrario rimanevano nella casa d'origine, avrebbero pesato gravemente sul bilancio familiare: la legge prevedeva addirittura che un padre potesse vendere come schiava la figlia diventata vergine "attempata".

Spesso ai piedi di questa colonna, la sorte che attendeva i bambini abbandonati, era la morte per fame o la schiavitù presso chi li raccoglieva. Immaginiamo il dolore delle madri romane che dovevano staccarsi dal piccolo e dovevano continuare a vivere accanto all'assassino dei loro figli. Insieme al figlio moriva un po' anche la madre.

FORO OLITORIO, LA COLONNA LATTARIA A SINISTRA (DI GIUSEPPE GATTESCHI)

ANTICA ROMA

Nell'antica Roma il costume era pressoché identico, i figli venivano abbandonati per le stesse cause e motivazioni dei greci, e l'abbandono non era considerato delitto; i Romani, al padre che non voleva accettare il figlio come proprio, consentivano di portarlo ai piedi di una colonna ( la "columna lactaria"), affinchè fosse "esposto" all'attenzione e alla pietà di chi passava.

La Columna Lactaria era dunque un punto di riferimento posto nel Forum Holitorium, o mercato dei prodotti. Il grammatico romano Festo dice che era così chiamato "perché avrebbero portato i bambini lì per essere nutriti con latte".

Chi infatti si commuoveva al piccolo se non poteva prenderlo poteva almeno offrirgli del latte, cosa che sicuramente faceva, se poteva, la propria madre, oppure mandava ogni giorno e in gran segreto la propria schiava. Parecchi bambini, se non malformati, venivano presi come schiavi, o per adoperarli o per rivenderli non appena cresciuti, infatti potevano costituire un'occasione per guadagnare denaro.

L'esposizione dei bambini diventò così frequente da attivare tra la popolazione addirittura la vendita di appositi panieri di vimini dove adagiare i neonati prima dell'abbandono. D'altronde la società dell'epoca attribuiva notevole importanza alla castità e alla fedeltà della donna, tanto che quella sposata, non esitava a far sparire con ogni mezzo la prova della sua libertà sessuale, così pure per una violenza subita che si sarebbe comunque riversata su di lei, pena la sua emarginazione se non l'uccisione.



L'ADOZIONE

C'erano poi alcune donne che non avevano figli, per cui qualcuna si poteva prendere cura del piccolo, adottandolo, sempre che avesse marito e questi fosse d'accordo, perchè le vedove non potevano adottare. 

Naturalmente il modo c'era, perchè si facevano adottare da una coppia di schiavi che vivevano con la vedova. Poi si faceva una donazione di beni al piccolo che successivamente veniva liberato divenendo liberto.

POSSIBILI LUOGHI IN CUI SI TROVAVA LA COLONNA LATTARIA

LA COLONNA LATTARIA 

La Columna Lactaria si ergeva su di un ambiente che proteggeva il piccolo dalle intemperie della pioggia e della neve o del sole cocente. Sul tetto del locale sembra vi fossero le statue delle antiche Dee Antevorta e Postvorta, antiche divinità della vita e della morte. 

La colonna si trovava vicino al Tempio della Dea Pietas, che si dice contenesse un dipinto sul tema della Caritas Romana ("Carità Romana"), su una donna che dava il latte materno a un genitore anziano. Strano che si trovasse pietoso allattare il genitore ma non muovesse a pietà un piccolo affamato. 

La colonna fu probabilmente distrutta dalla costruzione del Teatro di Marcello, a partire dagli anni '40 a.c., come venne raso al suolo l'adiacente Vicus Sobrius, dove gli abitanti offrivano libagioni di latte a un Dio punico romanizzato come Mercurius Sobrius. 

Questa comunità avrebbe ereditato e mantenuto la Columna Lactaria e si dice che ancora all'inizio del XX secolo, in piazza Montanara adiacente al teatro, fossero ancora visibili i resti dell'antica colonna.

Plutarco ritiene la povertà dei genitori un'attenuante dell'abbandono e lo storico Musonio Rufo denuncia i genitori ricchi che in epoca imperiale, per assicurare il benessere ai figli che allevano "uccidono i loro fratelli" con l'esposizione, equiparata ad una condanna a morte. Del resto in epoca feudale i figli cadetti (non primogeniti) delle nobili famiglie verranno espulsi dalla famiglia dirottandoli nella carriera militare o in quella ecclesiastica.



I DELITTI

Altri luoghi dove in genere i neonati venivano abbandonati, erano frequentati da uomini senza scrupoli chiamati "nutricatores" perchè si impossessavano degli innocenti abbandonati, li nutrivano servendosene poi per loschi commerci di pedofilia e pratiche superstiziose.

Le femmine venivano utilizzate nei lavori domestici, a volte vendute come schiave o destinate alla prostituzione; i maschi venivano avviati alle attività gladiatorie nei circhi o evirati per farne uomini dalle così dette voci "bianche"; addirittura la mutilazione dei piccoli abbandonati, non era considerata delitto nemmeno da filosofi come Lucio Anneo Seneca, poichè i bambini "esposti", non appartenevano a nessun censo.

Secondo Seneca , in De Ira I, XV, 2 , il bambino non accettato dal padre veniva eliminato annegandolo: "portentoso feto extinimus, liberta quartina, se debole mostrosique editi sunt, mergimus; nec ira sed ratio est  sanem ab inutile secernere". 
"Distruggiamo i mostruosi feti, anche i nostri figli, se nascono malati o malformati, li anneghiamo; ma non la rabbia, ma la ragione, che separa l'inutile dagli elementi sani". 
D'altronde un figlio maschio non sano non poteva combattere per la patria e una femmina non sana avrebbe potuto partorire figli non sani.

L'area della Colonna Lattaria era una zona molto frequentata, accanto al mercato e sulla strada per il forum. Qui i bambini esposti accanto alla colonna venivano visti da molte persone, in modo che potessero essere raccolti da coppie che non potevano avere figli, per allevarli da bambini, ma potevano anche essere raccolti per essere destinati a schiavitù o prostituzione. Nel
peggiore dei casi morivano di freddo o di fame.

IL LOCO OGGI

L'IMPERATORE AUGUSTO

L'Imperatore Augusto inveendo con la nota esclamazione " per gli esposti sia gioia la morte e sia supplizio la vita", mostrò tutto il suo disprezzo nei confronti di questi sfortunati. E lo dimostrò coi fatti esponendo suo nipote al freddo e alla fame, pur essendo figlio di sua figlia Iulia, che condannò poi all'esilio per la sua condotta libertina. Non ebbe neppure la pietà di farlo esporre alla Colonna Lattaria dove avrebbe potuto avere una possibilità di vita.



IL CRISTIANESIMO

Con l’avvento del Cristianesimo venne punto l'infanticidio e i bambini abbandonati vennero accolti nei brefotrofi, in Medio Oriente come in Occidente, ed a Milano nel 787 fu istituito il primo ospizio per i neonati abbandonati.

Purtroppo i brefotrofi furono spesso luoghi di sopraffazione ed orrore, e parecchi lo sono anche oggi, consegnati in genere alle suore che vengono rimborsate lautamente dallo stato, in genere molto più lautamente di quanto venga concesso in valore ai bambini. Spesso inoltre divennero appannaggio dei preti che ne abusarono significativamente.

CHERSONESUS TAURUCA - CHERSON (Crimea)

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IL FORTILIZIO
Cherson era un'antica città ubicata nella parte sud-ovest dell'attuale penisola di Crimea. Già colonia greca nella Tauride, venne fondata 2,500 anni fa da colonizzatori provenienti dalla Heraclea Pontica, antica città sulla costa di Bitinia nell'Asia Minore.

Il suo nome originale era Cheronesus Taurica, dove Cheronesus in greco significa "penisola". Nel 2013, il sito di Chersonesus è stato classificato come Patrimonio dell'Umanità.

Chersonesus era una democrazia governata da un gruppo di Arconti eletti e da un consiglio chiamato Demiurgoi. Col passare del tempo, il governo divenne sempre più oligarchico, con il potere concentrato nelle mani degli arconti. Una forma di giuramento prestato da tutti i cittadini dal III secolo a.c. è sopravvissuto fino ai giorni nostri.

Conquistata in seguito dall'impero romano, fu assoggettata, dopo la divisione dell'impero dai Bizantini che la resero capoluogo della penisola di Crimea, una regione dell'Impero Bizantino che divenne il trentesimo Thema.


L'insediamento romano è stato saccheggiato dall'orda Mongola più volte nei secoli XIII e XIV, ed infine venne totalmente abbandonato.Oggi la città ha preso il nome di Sebastopoli, in russo e in ucraino chiamata Севастопол.

La popolazione di Cherson fu spesso autrice di sommosse, sempre sedate dai Bizantini. Famoso fu il caso di "Giustiniano II Rinotmeto" (669 – 711) l'imperatore bizantino che regnò per due volte, nel 685-695 e dal 705 alla morte.

Figlio di Costantino IV e di Anastasia, fu l'ultimo rappresentante della dinastia eracliana. A lui si deve tra l'altro la definitiva unificazione degli uffici di imperatore e di console, cui conseguì l'effettiva abolizione del secondo titolo.

La sua collocazione la rendeva, comunque, un insediamento di importanza vitale per l'impero. Durante il X secolo, come già detto, fu considerato come il trentesimo Thema, su trentuno esistenti. I Thema erano le circoscrizioni che nel VII secolo furono create per opera dell'imperatore bizantino Eraclio I (610-641), onde rinnovare l'assetto amministrativo e territoriale dell'impero.

BASILICA
Però già all'epoca di Giustiniano I il Thema si era trasformato in un comando militare ispirandosi all'esarcato, dove l'autorità politica e militare si fondevano nella persona dell'esarca, mentre nel modello tardo-romano (di Diocleziano e poi di Costantino I) vi era una netta separazione fra autorità politica e militare nelle province e nelle diocesi.

La diocesi era una divisione amministrativa del tardo impero romano (284-476), al cui interno erano raggruppate diverse province, ed era subordinata ad una prefettura del pretorio, che costituiva la massima divisione amministrativa dell'impero. La diocesi, perciò, era ad un livello intermedio fra le province e le suddette prefetture.

Successivamente il termine venne usato dalla chiesa cattolica per indicare la circoscrizione su cui il vescovo esplica il suo potere sia spirituale che economico e organizzativo.

A capo della regione subentrò lo stratego, un'alta carica delle gerarchie militari dell'antica Grecia, dei regni ellenistici e infine dell'Impero bizantino, corrispondente all'odierno capo militare o generale.
Lo strategos di questa regione otteneva il suo stipendio dalle tasse versate dai soldati-contadini.



LE ORIGINI REMOTE

Per comprendere le origini di Cheronesus Taurica, ovvero Cherson Taurica, occorre risalire all'antico mito di Ippolito, risalente all'età monarchica romana. Il primo re di Nemi fu secondo la tradizione Ippolito figlio di Teseo, quello che aveva ucciso il minotauro con l'aiuto del filo di Arianna, re di Atene. Si ha notizia poi che ci fu anche Virbio come Rex Nemorensis figlio di Teseo e Aricia.



ARTEMIDE TAURICA

ARTEMIDE TAURICA
VI SECOLO A.C.
Il mito fa pensare a un capo tribale che mantiene il suo ruolo finché un altro campione non lo sfidi e lo vinca.

Nel contesto il pretendente avrebbe tentato di sposare la regina per ereditare il trono, fallito il colpo va a fondare con i suoi seguaci un'altra città.

Servio narra di come il rito fosse percepito remoto e barbaro dai romani, facendolo derivare dai cruenti sacrifici offerti ad Artemide Taurica.

Tali sacrifici vennero descritti nella tragedia di Euripide, l’ "Ifigenia in Tauride", ovvero la figlia di Agamennone e Clitennestra che venne sacrificata dal padre poco paterno al Dio Nettuno per placare una tempesta.

Anche se è vero che la Dea Artemide poi salvò la sua protetta, è anche vero che il tempio, ovvero le sacerdotesse e/o i sacerdoti a lei dedicati avevano la barbara usanza di sacrificare alla Dea tutti gli stranieri che approdassero in quella terra.

Secondo il mito Oreste, colpevole di matricidio, forse commesso per sbaglio, aveva condotto nel bosco aricino la statua di Artemide dal Chersoneso, o Artemide Taurica, con il suo culto, appunto, cruento e straniero, divenendo il primo rex nemorensis. I seguaci della Dea nel Chersoneso (penisola di Crimea) avrebbero infatti ucciso e immolato alla Dea qualsiasi straniero fosse approdato in quella terra.

L'ANFITEATRO
Nelle Argonautiche di Valerio Flacco, Oreste narra esplicitamente di essere fuggito dalla crudele Diana Taurica, divenendo il re di Aricia e del bosco di Egeria, quindi un rex nemorensis. Con la differenza che là doveva uccidere gli intrusi mentre qua doveva difendersi dall'aspirante re.

Frazer in proposito scrisse "Il ramo d'oro", un celeberrimo libro di antropologia tradotto in tutte le lingue, dove definisce d’oro il ramo di Nemi, pensando erroneamente di riconoscere l’albero sacro con una quercia, da un passo virgiliano, mentre il ramo d’oro sarebbe stato del vischio che cresceva abbarbicato ad essa, un ramo che sembra dorato per le sue bacche gialle.

Insomma si trattava di un ramo di un certo albero ma con certezza non si sa quale, a parte che nei lucus, cioè nei boschi sacri, era proibito per chiunque tagliare e perfino raccogliere rami. Solo il sacerdote poteva farlo in vista di certe festività distribuendoli al popolo. Un po' come fa oggi la Chiesa Cattolica nella Domenica delle Palme.

Praticamente un condannato che sfuggiva alla sua pena poteva rifugiarsi nel bosco sacro per salvare la vita, finché altri non lo sfidasse. Secondo alcune tradizioni il re poteva venire sfidato ogni cinque anni, durante i quali egli era inviolabile, e sembra una tradizione attendibile.



POCO SACERDOTE E POCO RE

Strabone, anch'egli riferito alla storia di Oreste fuggiasco e inseguito dalle Furie, sottolinea l’elemento “barbaro” percepito nel cruento rituale di successione del rex e nel fatto che questi si muovesse sempre armato all'interno del santuario, caratteristica che lo rendeva del tutto anomalo agli occhi dei contemporanei, sia come sacerdote che come re, in quanto ambedue inviolabili per le leggi romane.

L'usanza, ovvero il rito poco romano, si giustificava col fatto che in genere i re fossero schiavi e non cittadini romani. Pertanto uno schiavo fuggitivo poteva sfidare il rex in carica e sperare di vincere guadagnando almeno cinque anni di vita. 

Sembra peraltro che Caligola tifasse per un nuovo pretendente al rex del Nemus affinchè abbattesse il precedente rex, in carica, a suo dire, da troppo tempo: "Nullus denique tam abiectae condicionis tamque extremae sortis fuit, cuius non commodis [Caligula] obtrectaret: Nemorensi regi, quod multos iam annos potiretur sacerdotio, validiorem adversarium subornavit."

Non sappiamo chi abbia vinto ma conosciamo la follia di Caligola, anche se forse esagerata dalle cronache cristiane. Comunque in era imperiale, la successione al seggio Nemorensis avveniva in un modo ormai incomprensibile per i romani, disavvezzi a tali culti vagamente tribali. In effetti, le origini del sacerdozio dovevano risalire all’età regia, e il mondo romano da allora era molto cambiato.



IL RIFUGIO DEI PIRATI

Cherson sembra sia stata a lungo un rifugio dei pirati, attività piuttosto seguita e in linea con il carattere del popolo. Il Periplo del Ponto Eusino (o Periplus Ponti Euxini) è un periplo o guida con le indicazioni delle destinazioni che i visitatori incontravano quando viaggiavano sulle coste del Mar Nero. 

Il testo fu redatto da Arriano di Nicomedia dal 130 al 131. Sembra dal frammento del Periplus in nostro possesso, che questo luogo si chiamasse Athenæon. Ai tempi di Arriano era comunque già desertico.

- Dal porto del Tauro-Scythæ ad Halmitis Taurica correvano 600 stadi e sembra che Arriano abbia proceduto passo passo dal celebre promontorio di Criu-Metopon, che si trova tra il porto già citato e la Halmitis Taurica, ed è quasi apposto al promontorio di Carambis che divide il mare di Ponto Eusino in due parti.

- Da Halmitis al Symboli Portus corrono 520 stadi e si trattava, secondo Strabone, di un porto piratico, appartenente agli antichi Sciti.

- Da Symboli Portus a Cherroneſus Taurica corrono 180 stadi. Questa era una colonia di Heraclea, situata nella parte sud-ovest del penisola. E' stato chiamato Cherſon dagli scrittori tardivi, come Zonaras, Procopio, e altri.

- Da Cherroneſus Taurica a Cercinetis corrono 600 stadi.

- Da Cercinetis a Calus 700 stadi.

- Da Calus a Tamyraca 300 stadi. C'è qui una strada o stazione per navi, secondo Strabone. Questo luogo era, in un primo periodo, la capitale di Sarmatia Europæa.

PONTE ROMANO DI CENDERE (Turchia)

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A circa 10 km dal Karakuş Tümülüs (Turchia), si attraversa il fiume Cendere mediante un ponte moderno. Sulla sinistra si vede un imponente ponte romano a schiena d'asino risalente al II secolo d.c. Dalla stele con l'iscrizione latina si apprende che fu costruito in onore dell'imperatore romano Settimio Severo. Delle quattro colonne corinzie originarie (due per ogni estremità), ne sono rimaste tre.

Il ponte Severiano (noto anche come Ponte Chabinas o Ponte Cendere o Ponte Settimio Severo; Turco: Cendere Köprüsü ) è un ponte tardo romano situato vicino all'antica città di Arsameia (oggi Eskikale, già sede reale del regno di Commagene), 55 km (34 miglia) a nord-est di Adıyaman in Turchia sud-orientale.


Il ponte attraversa il Cendere Çayı (Chabinas Creek), un affluente del Kâhta Creek, sulla strada provinciale 02-03 da Kâhta a Sincik nella provincia di Adiyaman. Questo ponte fu descritto e raffigurato nel 1883 dagli archeologi Osman Hamdi Bey e Osgan Efendi.

Cendere fu anzitutto il nome di un piccolo fiume e di una località che divenne sede di un ponte romano, costruito dalla XVI legione Flavia Firma. Il ponte romano fu edificato negli ultimi anni del secondo secolo, dopo che l'imperatore Settimio Severo aveva sconfitto i Parti, aveva catturato Ctesifonte e aveva aggiunto la Mesopotamia all'Impero Romano. 


La vecchia linea di difesa lungo l'Eufrate superiore non era più necessaria. L'area fu riorganizzata e il fiume Chabinas (l'attuale Cendere Suyu) fu attraversato dai soldati della sedicesima legione Flavia Firma mediante la costruzione di un ponte.

LA STELE
La costruzione era lunga 118 metri e fa parte della strada per Nemrud Daği, lungo cui giaceva la tomba del re Antioco I Teos di Commagene (r. 70-31 a.c.), famosa per le sue particolari sculture.

Su ciascuna delle due teste di ponte c'erano due pilastri con una statua, dedicata all'imperatore, a sua moglie Giulia Domna (170-2179 e ai loro figli Caracalla (186-217). e Geta (189 - 211). 

Le colonne erette sulle estremità furono fatte costruire dai figli dell’imperatore, Caracalla e Geta.
Quando quest'ultimo fu assassinato dal fratello, la sua statua fu rimossa e il suo nome cancellato dalle iscrizioni per la damnatio memoria.

Il ponte è costruito come un semplice, maestoso, unico arco maestoso su due rocce nel punto più stretto del torrente. 

Presenta 34,2 m (112 piedi) di luce libera, la struttura è probabilmente per grandezza è il secondo ponte ad arco romano esistente. 

È lungo 120 metri, equivalenti a 390 piedi, e 7 metri, equivalenti a 23 piedi di larghezza.

Il ponte fu ricostruito dalla Legio XVI Gallica, la legione derivata dalla XVI Flavia Firma, presidiata nell'antica città di Samosata (oggi Samsat) per iniziare una guerra con la Parthia. 

Le città Commagene (del regno armeno di Commagene), costruirono sul ponte quattro colonne corinzie, in onore dell'imperatore romano Lucio Settimio Severo (193–211), della sua seconda moglie Giulia Domna e dei loro figli Caracalla e Publio Settimio Geta, come riportato sull'iscrizione in latino sul ponte. 

A SINISTRA ISCRIZIONE CHE CITA LA XVI FLAVIA FIRMA
Due colonne sul lato Kâhta sono dedicate a Settimio Severo stesso e sua moglie, e altre due sul lato Sincik sono dedicate a Caracalla e Geta, tutte in 9-10 m di altezza. 

La colonna di Geta, tuttavia, fu rimossa dopo l'assassinio da suo fratello Caracalla, che maledisse la memoria di Geta e ordinò che il suo nome fosse rimosso da tutte le iscrizioni.

Il ponte serviva anche per recarsi in vista della cima del Monte Nemrut, alto 2.150 metri, considerata la montagna più alta della Mesopotamia del nord, dove è situato il gigantesco santuario funerario eretto nel I sec. a.c. dal Re Antioco I di Commagene. 


L'ingegnosità dimostrata per creare questo tumulo  artificiale, fiancheggiato da terrazze ove posano le colossali statue di Apollo, Giove, Ercole, Tyche, Antioco costituiscono uno spettacolo mozzafiato. 

Il tempo ha purtroppo danneggiato queste sculture che nessuno ha mai pensato di proteggere; i torsi e le teste così ben scolpiti, giacciono davanti ai loro piedi, e nessuno si è preoccupato di rialzarle, o di farne copie per porre gli originali in un museo.

Nell'antica Arsameia di Nymphaios, (Eskikale), un magnifico rilievo rappresenta Ercole che saluta Mitridate, Re di Commagene. I letterati pensano che queste vestigia siano quelle del Palazzo.

Il Severan Bridge è situato all'interno di uno dei più importanti parchi nazionali della Turchia, che contiene Nemrut Dağı con in cima i famosi resti della civiltà Commagena, dichiarati patrimonio mondiale dell'umanità dall'UNESCO. Nel 1997 il ponte fu restaurato.


REGIO IX AUGUSTEA - LIGURIA

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LUNI
«Questa regione... ha gli abitanti che vivono sparsi in villaggi, dove arano e zappano una terra dura, o come dice Posidonio, "tagliando i sassi". Il territorio è ben popolato e da qui vengono una gran parte fanti e di cavalieri, che anche il Senato romano recluta nei suoi ranghi

(Strabone - Geografia - V -)

«Patet ora Liguriae inter amnes Varum et Macram XXXI Milia passuum. Haec regio ex descriptione Augusti nona est.
(Si estende ora la Liguria fra i fiumi Varum e Macram tra cui passano 31 miglia. Questa regione nella descrizione di Augusto è la nona)

(Plinio - Naturalis Historia - II -)

La regio IX augustea comprendeva il solo territorio dei ligures, che andava dal fiume Varo (ad occidente) al fiume Magra ai confini con l'Etruria (ad oriente), comprendendo le zone a occidente delle Alpi e l’area tra l’Appennino e il fiume Po. Questa regione era più ridotta rispetto all'originale area occupata dai Liguri in epoca preistorica.

L’odierna regione infatti rappresenta, ma non tutta, la fascia costiera dell’antico territorio dei Liguri. Ecateo di Mileto nel VI secolo a.c. ci tramanda infatti che Monaco e Marsiglia erano città liguri e gli Elisici, popolo stanziato tra Rodano e Pirenei, erano un misto di Liguri e Iberi.

Con la I guerra punica (II secolo a.c.) i Liguri si divisero tra alleati di Cartagine e alleati di Roma. Fu quando i Romani conquistarono questo territorio, con l'aiuto dei loro federati Genuates, che lo si chiamò Liguria, corrispondente alla IX Regio dell'Impero romano, la quale si estendeva dalle Alpi Marittime e Cozie, al Po, al Trebbia e al Magra.

Nel 180 a.c. i Romani, per poter disporre della Liguria nella loro conquista della Gallia, dovettero deportare 47.000 Liguri Apuani, irriducibili ribelli, deportandoli in area Sannitica, nel territorio compreso tra Avellino e Benevento.

Sappiamo che in età storica, la IX Regio si estendeva a nord oltre la catena degli Appennini fino al Po; a est confinava con i Tyrrhenoi, secondo una linea di demarcazione data dall’Arno; a ovest si spingeva al di là delle Alpi fino al Rodano, con il mondo ellenizzato e celtico.



I COMMERCI

Le relazioni tra la Liguria e il mondo etrusco nel corso del VII e VI sec. a.c. non hanno trovato adeguati ritrovamenti, mentre con la costa francese (Linguadoca e Provenza), già dalla fine del VII sec. a.c., ci si approvvigionava di materie prime (oro, argento, piombo, rame, stagno).

Nel VI-V sec. a.c. iniziano in Liguria le popolazioni d’altura nell'interno e verso la costa con l’utilizzazione anche di nuovi siti.

Tra la fine del IV e gli inizi del III sec. a.c. nella parte estrema della Liguria orientale i Celti spingono i Liguri a oltrepassare il fiume Magra e a inoltrarsi lungo le valli appenniniche fino alla pianura versiliese. erse.

La circolazione nel II sec. a.c. di oboli cisalpini d’argento collegati alla monetazione preromana padana e derivati dal tipo della dracma massaliota, è segno che i Liguri cercavano di conservare un'autonomia locale nei confronti del controllo romano.

Per la romanizzazione si nota che Ventimiglia (Albintimilium), Albenga (Albingaunum), Vado Ligure (Vada Sabatia), e Genova svilupparono l’impianto urbano in aree occupate dai Liguri secondo modalità e forme indipendenti. Solo Luni diventa colonia nel II sec. a.c..

ALBINTIMILIUM

LA VILLA MARITIMA

Sulla costa di levante sorge nel I sec. a.c. il fenomeno della villa residenziale, ubicata in punti panoramici e favorevoli allo sfruttamento agricolo. Alla foce del Magra (loc. Bocca di Magra) sono stati riportati alla luce resti di una villa maritima, disposta su terrazze ricavate dal pendio naturale. La villa, molto danneggiata durante la II guerra mondiale, si collocano tra la fine del I sec. a.c. e il IV sec. d.c.

Non si conoscono l’orientamento né l’intero sviluppo planimetrico; resti di suspensurae in alcuni ambienti sulla terrazza mediana hanno fatto supporre un balneum. Vi si trovavano la sigillata aretina e la sigillata tardo italica, da ceramica comune da cucina, alle brocche trilobate di argilla grigia, ad anfore, vetri e lucerne. Si segnalano due capitelli di marmo bianco lunense di diverse dimensioni ma di uguale decorazione a foglie d’acqua, nonché frammenti di intonaco dipinto.

La villa maritima rimessa in luce sulla punta del Varignano, che chiude a ovest il Golfo della Spezia, può rappresentare un esempio di questi complessi residenziali costieri collegati allo sfruttamento di fundus. Al primo impianto del II sec. a.c. si devono riferire i resti di colonne in laterizio, inglobate nelle strutture successive, e di pavimenti in signino. In età sillana la villa viene ristrutturata, e ancora, nel I sec. d.c., l’ala residenziale intorno all'atrio corinzio viene adibita a balneum.

La villa continua fino al V-VI sec. d.c. Un hortus quadrato separa la pars residenziale dalla pars fructuaria (cella olearia, torcularium, piccola corte). Nel I sec. d.c. venne costruita a nord-ovest la cisterna in opera laterizia, a pianta rettangolare, divisa in due navate mediante cinque arcate a sesto ribassato, sostenute da pilastri; l’esterno sul lato a valle presenta sette contrafforti di pietre e laterizi.

Nella villa si conservano resti di pavimentazione tardo repubblicana a mosaico, in signino e cocciopesto, con ceramica a vernice nera usata nel primo periodo di vita della villa e ceramica di erra sigillata aretina. Si segnalano anfore, da quelle tardo repubblicane alle africane del IV sec. d.c. Tra i materiali marmorei prevalgono le lastre di rivestimento; per quanto riguarda la scultura una statua femminile di dimensioni inferiori al normale è stata identificata come Igea (II sec. d.c.).

AUGUSTA BAGIENNORUM
Ed ecco i centri maggiori della Liguria:

- Alba Pompeia(Alba) -

divenne municipio con l'editto del console Gneo Pompeo Strabone, venne battezzata Alba Pompeia, fu inserita nella Regio IX Liguria e ascritta alla Gens Camilia. I ritrovamenti romani dei primi 2 secoli dell'impero testimoniano la fioritura commerciale di Alba, già cinta di mura ciclopiche, dove si creò tra l'altro un acquedotto, per le acque in città e la rete fognaria.
Alba era amministrata in modo autonomo, con una propria magistratura, i decurioni, i cittadini più facoltosi, gli augustali, cavalieri, appaltatori e liberti. Infine la plebe, divisa in collegia di arti e mestieri. Oltre al collegio dei fabbri vi erano i centonari, fabbricanti di lana e stoffe, i dendrogradi, che fornivano legname per le case e le navi.
Il materiale epigrafico e archeologico di Alba Pompeia descrive la vita di una vasta classe medio-alta, formata sia da gentes romane, sia da discendenti celto-liguri. Le attività principali erano l'agricoltura e l'allevamento del bestiame. Gaio Plinio Secondo ne descrive una raffinata tecnica agricola applicata alla viticoltura.


- Albintimilium (Ventimiglia) -


- Albingaunum (Albenga) 


Aquae Statiellorum(Acqui Terme)

Abitata dai Liguri, tra il II ed il I secolo a.c. si formò il centro urbano denominato Aquae Statiellae o Aquae Statiellensium, ormai romanizzato. L'importanza della città crebbe nel 109 a.c. con la via Aemilia Scauri, che si chiamò poi Julia Augusta, che univa la pianura padana con la Gallia Narbonense e la Spagna.
Acquae ottenne lo ius Latii nell'89 a.c. e il municipium in età cesariana, assegnato alla tribù Tromentina, inserita nella Regione IX augustea. Gaio Plinio Secondo ricorda le sue acque termali tra le più importanti dell'epoca, con tre impianti di cui sopravvivono alcuni resti. Un monumentale acquedotto, inoltre, garantiva l'approvvigionamento di acqua della città.

PONTE ROMANO DI CASTRUM BOBIUM
Augusta Bagiennorum (Bene Vagienna)


Carrea Potentia (Chieri)

Risale al II secolo a.c., quando i romani vi fondarono un presidio militare di poco antecedente ad Augusta Taurinorum, collocandolo tra la parte sudorientale della collina di Torino e le ultime propaggini del Monferrato, a circa 15 chilometri ad est dal capoluogo, a sud del Po.


- Derthona (Tortona)

Già oppidum dei Liguri Statielli tra VIII e il V secolo a.c., con il nome di Dertona, divenne colonia romana intorno al 120 a.c., trasformandosi in florido centro agricolo e commerciale, all'incrocio di importanti vie di comunicazione: la via Postumia, la via Fulvia e la via Aemilia Scauri.
Eretta una seconda volta in colonia da Augusto, venne ribattezzata come Julia Dertona e fece parte della Regio IX Liguria. Fiorì fino alla caduta dell'Impero romano come dimostrano i numerosi reperti.


- Castrum Bobium (Bobbio)

E' un comune oggi posto in Emilia-Romagna. Abitato fin dal neolitico con insediamenti celto-liguri, venne conquistato dai romani nel 14 a.c. e nel IV secolo d.c. divenne il borgo fortificato di Castrum Bobium,

PONTE ROMANO DELLE FATE

- Forum Fulvii (Villa del Foro) 

«Forum Fulvii quod Valentinum dicitur» (Plinio il Vecchio). Oggi sta in Piemonte, provincia di Alessandria e venne fondata alla fine del II secolo a.c. dal console M. Fulvio Flacco. Nel 125 - 123 a.c. combattè nel Monferrato contro le popolazioni di Salluvii e Vocontii in aiuto di Massalia (Marsiglia). Fece parte dei centri fondati lungo il percorso della via Fulvia, e diversi suoi territori vennero lottizzati e concessi ai veterani (assegnazioni viritane)
Forum Fulvii fu assegnato alla Tribus Pollia e otterrà la cittadinanza romana nel 49 a.c. Inserito all'interno della Regio IX Liguria in seguito alla riforma di Augusto, divenne municipium. Prosperò nel I e II secolo d.c. a mezzo delle risorse agricole, le attività artigianali connesse alla lavorazione dell'argilla e del ferro e con il commercio, testimoniati dai ritrovamenti di domus di pregio. A partire dal III secolo d.c., iniziò il suo inesorabile declino.


- Genua (Genova)

Genova venne fondata sul più antico insediamento dell'oppidum detto "di Castello" (Sarzano), sul colle che domina l'antico porto (oggi piazza Cavour), fondato agli inizi del V secolo a.c.. Una volta sconfitta Cartagine, Roma volle espandersi verso la Gallia, per cui si servì di Genova come base di appoggio per incursioni, tra il 191 e il 154 a.c., contro le tribù liguri dell'entroterra, già alleate con Cartagine. 
In questo periodo fiorì porto di Genova, grazie ai traffici con le più importanti città romane dell'entroterra: Tortona (Derthona) e Piacenza (Placentia). La romanizzazione portò l'espansione della città dal castrum alla zona di Santa Maria di Castello e del promontorio del Molo, verso la zona dell'attuale San Lorenzo e del Mandraccio. In età augustea Genova, con la Liguria, venne iscritta alla Regio IX,


- Hasta (Asti)

Già oppidum della tribù ligure degli Statielli, nel I secolo a.c., venne acquisita da Roma che le concesse con il diritto di latinitas. Con Giulio Cesare (49 a.c.) la città ottenne il diritto di cittadinanza, fu iscritta nelle circoscrizioni elettorali e venne rimodellata sulla griglia romana a valle dell'oppidum arroccato sull'altura a nord della nuova città.  Plinio il Vecchio, nella sua Naturalis Historia, descrive Asti come grande centro manifatturiero, specialmente per il vasellame e gli oggetti in vetro, tali da sviluppare una vera e propria industria artigianale.
Secondo il Muratori, ad Asti erano onorate le divinità di Giove, Diana, Giunone Annea, Giunone Clivana e Nettuno. È probabile che i templi dedicati a Giunone fossero nei pressi dell'attuale cattedrale, infatti nell'area sono state rinvenute durante gli scavi della cattedrale alcune iscrizioni che citano tale divinità.
Inoltre nel XIX secolo il canonico Stefano Giuseppe Incisa, descrisse il rinvenimento di un mosaico di tessere policrome su un supporto in terracotta con al centro raffigurata una scena teatrale tipica degli "emblemata", con tanto di disegno, il tutto inviato al Museo di Torino, ma da quel momento se ne persero le tracce. Per il Tempio dedicato a Diana, per molti secoli, si è creduto che il battistero di San Pietro derivasse da questo antico tempio vista la sua forma circolare, ma la tesi non comprovata.


- Industria (Monteu da Po)



- Iria (Voghera)

Il territorio di Voghera è situato nella parte sud-occidentale della Lombardia, a sud del fiume Po. Sorge sulle rive del torrente Staffora all'inizio della pianura padana, a pochi Km dalla prima fascia collinare appenninica. L'antica Voghera era la romana Iria, edificata sopra un precedente villaggio abitato da popolazioni iberiche, celtiche e da Liguri Iriati (da cui il nome). Nel corso degli anni venne ripetutamente devastato dal passaggio di vari eserciti, tra i quali quelli di Magno Massimo (387), di Attila (452), dei Burgundi e dei Rugi (fine IV secolo), e più volte ricostruito.

LIBARNA

Libarna


- Luni


- Monilia (Moneglia)

E' situato sulla Riviera di Levante, ad est di Genova, a circa 30 km dalla Spezia e a circa 60 km da Genova. Il borgo, già abitato dalla popolazione dei Liguri Lapicini, fu un centro molto importante in epoca romana grazie alla sua posizione strategica sull'antica Via Aurelia. Menzionata in una carta dell'Impero dell'anno 14 e nella "tabula alimentaria" del 117 (in quest'ultimo documento si cita espressamente la zona di Lemmelius, l'attuale frazione di Lemeglio),


- Pollentia (Pollenzo)

L'antica Pollenzo, la città romana di Pollentia, già citata da Plinio il Vecchio, venne fondata nel II secolo a.c. Nel 402 vi si svolse la battaglia di Pollenzo, dove i Visigoti di Alarico vennero sconfitti dal generale romano Stilicone, e obbligate a ritirarsi nell'Illiria.
«O Pollenzia, degna dei miei canti per i secoli eterni!
O nome insigne, o luogo di felici trionfi!
O suolo destinato alle vittorie, o memorando sepolcro
di barbari! Spesso in quei confini, su quella terra
piena tornò la vendetta ai Quiriti sfidati
(Claudiano, De Bello Gothico)
Claudiano nel carme fonde la vittoria di Gaio Mario sui Cimbri nella Battaglia dei Campi Raudii del 101 a.c. con quella di Stilicone sui Goti posteriore di mezzo millennio, citando appunto Pollenzo.


- Portus Delphini (Portofino)

Il comune è situato nella parte occidentale del golfo del Tigullio, in una baia ai piedi dell'omonimo promontorio, ad est di Genova, facendo da confine geografico tra il Golfo Paradiso e il Tigullio. I Tigullii infatti abitarono l’area della Val Fontanabuona e dell’attuale Golfo Tigullio fino al Promontorio di Portofino.
Questi Celti-Liguri già dall’VIII secolo a.c., commerciavano via mare con altre popolazioni del Mediterraneo. Secondo Plinio il Vecchio, il borgo di Portofino durante l'Impero romano si chiamava Portus Delphini, posto tra Genova e il golfo del Tigullio dovuto, si pensa, si trovava una folta popolazione di delfini che nuotavano nel golfo del Tigullio.


- Portus Veneris (Porto Venere)

Scritto anche Portovenere, sorge all'estremità meridionale di una penisola che distaccandosi dalla riviera ligure di levante, forma la sponda occidentale del golfo della Spezia. Anche se le sue origini risalgono sino al VI secolo a.c. e ai Liguri, le prime datazioni storiche ce le riportano Claudio Tolomeo (150 d.c.) e l'Itinerario Marittimo (Itinerarium Maritimum Imperatoris Antonini Augusti) dell'imperatore Antonino Pio del 161 d.c. dove viene chiamato come vicus (scalo) e poi castrum, collocata tra Segesta Tigulliorum (Sestri Levante) e Luni.
Il nome di Veneris Portus deriva dal tempio dedicato a Venere Ericina, che sorgeva esattamente dove è stata sovrapposta la chiesa di San Pietro. La dedica a Venere era legata alla Dea nata dalla spuma del mare, e quindi protettrice dei naviganti.
Il borgo, in epoca romana e bizantina, sorgeva nell'odierno piazzale Spallanzani ma è stato totalmente cancellato. Da semplice località di pescatori, Porto Venere divenne base navale della flotta bizantina, ma fu assalita e devastata da Rotari re dei Longobardi nel 643.


- Segesta (Sestri Levante)

Anticamente Sestri Levante era un isolotto e solo in età moderna è stato unito alla terraferma da un istmo formato dai depositi delle alluvioni del torrente Gromolo e dall'azione del mare.
In epoca romana Sedesta è citata come Segesta Tigulliorum o Segeste, e divenne un importante centro commerciale, specie per i traffici marittimi e pure via terra. 
Infatti i vicini collegamenti stradali con il passo del Bracco e il colle di Velva consentivano un folto scambio di materie prime con le valli interne di Petronio, Graveglia, Vara e Lunigiana.

VILLA ROMANA DEL VARIGNANO (LA SPEZIA)

- Spedia (La Spezia)

Fu anzitutto abitata dalle popolazioni Liguri Apuane, finchè non vennero sottomessi nel 155 a.c. dal console Marco Claudio Marcello che per questo ottenne il trionfo. Le origini della Spezia sono legate alla colonizzazione romana e si intrecciano con le vicende di Luni, il centro senza dubbio più importante di tutta la zona. Con la caduta dell'Impero romano, dopo il V secolo si ebbe la devastazione da parte dei barbari (Eruli e Goti).


- Vada Sabatia (Vado Ligure)

Vado Ligure, chiamato anticamente Vada Sabatia, si sviluppò nel II secolo a.c. intorno ad un campo militare romano, uno dei primi della colonizzazione romana in Liguria. Divenne quindi municipium  e importante nodo viario e commerciale anche grazie all'imponente bonifica delle paludi eseguita dai Romani.
Il suo nome è citato  in una lettera del I secolo a.c. di Bruto a Cicerone (Vada); nonchè dallo storico Strabone (Vada Sabatium), da Plinio il Vecchio (Portus Vadorum Sabatium) e del geografo Pomponio Mela nel I secolo. Altre testimonianze della dominazione romana sul territorio sono state rinvenute nelle frazioni di San Genesio e di Sant'Ermete.
Nel 109 a.c. Vado venne collegata con il centro di Luni e Roma dalla Via Aemilia Scauri, che valicava gli Appennini liguri per mezzo del passo di Cadibona per poi scendere verso il passo della Cisa nel territorio di La Spezia. Tracce d'epoca bizantina sono state rinvenute nella frazione di San Genesio che sembra fu sede di un castrum; verso la costa, un'altra presenza bizantina è documentata nel "borgo Romano" di Porto Vado.


Vardacate (Casale Monferrato)

Locato oggi nella provincia di Alessandria in Piemonte, divenne municipium romano col nome di Vardacate e divenne il centro più importante del circondario. I suoi primi abitanti furono i Liguri che si insediarono sulle rive del Po. Erano divisi in tribù: gli Stazielli, gli Insubri, i Libui, i Dutunini, gli Jadatini e i Gabieni. In seguito si stanziarono i Celto-Galli. Successivamente, il vescovo di Asti sant'Evasio convertì al cristianesimo il borgo, e fondò la chiesa di San Lorenzo (edificata sul luogo dell'attuale cattedrale)



BIBLIO

- Plinio il Vecchio - Naturalis Historia -
- Strabone - Geografia -
- S. Finocchi (ed.) - Libarna - Alessandria - 1995 -
- F. Filippi (ed.) - Alba Pompeia - Archeologia della città dalla fondazione alla tarda antichità - Torino - 1997 -
- G. Mennella - Vada Sabatia - Regio IX - Liguria, in Supplementa Italica, Roma 1983 -
- A. Surace - Diano Marina - Archeologia in Liguria - II - Genova - 1984 -
- G. Mennella - Albingaunum - Regio IX - Liguria - in Supplementa Italica - IV - Roma - 1988 -
- M. Milanese - Genova romana - Roma - 1993 -
- E. Riccardi, F. Ciciliot - Un "latino" chargé d'ardoise coulé à l'Ile Gallinaria (Albenga, Italie) - «Cahiers d'Archéologie Subaque» - XII - 1994 -

TITO POMPONIO ATTICO - TITUS POMPONIUS ATTICUS

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TITO POMPONIO ATTICO

Nome: Titus Pomponius Atticus
Nascita: Roma, 110 a.c.
Morte: Roma, 31 marzo del 32 a.c.
Moglie: Caecilia Pilea
Figli: Pomponia Cecilia Attica, Titus Pomponius Atticus
Madre: Caecilia Metella
Padre: Tito Pomponio
Professione: Scrittore


Tito Pomponio Attico (110 a.c. – Roma, 31 marzo 32 a.c.) fu cavaliere romano, ma pure finanziere, promotore culturale e scrittore, confidente e consigliere dei potenti dell'epoca. Le notizie sulla sua vita emergono dalla Vita di Attico di Cornelio Nepote e dalle Lettere ad Attico di Cicerone (queste ritrovate da Petrarca).

Di «stirpe romana di antichissima origine, conservò per tutta la vita la dignità equestre, retaggio degli antenati». Fin da ragazzo, Pomponio rivelò la sua brillante natura nella filosofia e nella retorica, conquistandosi le simpatie di Lucio Manlio Torquato (console nel 65 a.c.), Gaio Mario il Giovane (figlio del famoso omonimo) e Marco Tullio Cicerone.



L'EPICUREO

Fu alunno del filosofo epicureo Fedro, su cui orientò le sue scelte di vita. Fu lui a far conoscere Lucrezio a Cicerone, e qualcuno ha ipotizzato che potesse essere lui il vero autore del De rerum natura, di Lucrezio, evidentemente poco sensibile alla personalità di quest'ultimo.

Rimasto orfano di padre si trasferì nell'autunno dell’86 a.c. ad Atene, dove visse un ventennio guadagnandosi il soprannome di “Attico”, per approfondire i suoi studi ma soprattutto per evitare la guerra civile dell’88 a.c., essendo parente del tribuno della plebe Publio Sulpicio Rufo, sostenitore di Mario contro Silla. Seppur fuggiasco aiutò Mario il giovane, dichiarato nemico pubblico, donandogli denaro durante il suo esilio.

T. POMPONIO ATTICO


VITA ATENIESE

Trasferito il suo ingente patrimonio ad Atene, Tito Pomponio si guadagnò la simpatia e la stima degli ateniesi distribuendo gratuitamente frumento e prestando denaro al le finanze pubbliche, sempre pronto ad elargire un nuovo prestito, se il vecchio non poteva essere onorato, a onesti interessi. 

Per questo più volte gli venne offerta la cittadinanza che lui declinò per non perdere la cittadinanza romana.
Silla, comprendendo il suo valore, espugnata Atene il primo marzo dell’86 a.c., voleva portarselo a Roma, ma Pomponio lo dissuase: 

Ti prego, non portarmi contro coloro dai quali mi sono allontanato, lasciando l’Italia per non essere loro compagno contro di te”. 



L'EPISTOLARIO CON CICERONE

Quando poi Cicerone, nel 79 a.c., trascorse sei mesi ad Atene, la loro amicizia si rinsaldò, si da dar luogo a un fittissimo e duraturo scambio di lettere, a partire dal novembre del 68 a.c.. Il tutto ampliato dal matrimonio tra suo fratello Q.Tullio e la sorella di Attico. Inoltre Pomponio fu grande amico del grande oratore Q. Ortensio, uno dei massimi esperti di eloquenza. 

Tornò più volte a Roma ma solo per sostenere i suoi amici durante le elezioni, senza peraltro esserne coinvolto. Secondo il principio epicureo per cui «Tra i beni che la saggezza si procura per raggiungere la felicità, nell'intero corso della vita, l’acquisto dell’amicizia è di gran lunga il più grande».
Scrive Attico a Cicerone: «Per me una certa voglia di brigare ha fatto da guida nella scalata ansiosa alle cariche pubbliche, invece a te un orientamento spirituale tutto diverso, che non è affatto da biasimarsi, ha aperto la strada verso il ritiro tranquillo e onorato nella vita privata».
Infatti Attico, aveva scelto un onestum otium, all'attività militare e politica di Cicerone, che in fondo esecra chi si astiene dalle lotte politiche, tuttavia riconoscendo all'amico, colpevole di essere epicureo, notevoli virtù, come la liberalità, l'onestà, la continenza. 


LA RES PUBLICA IN PERICOLO

Le lettere di Cicerone ad Attico, raccolte in sedici volumi, rivelano comunque i suoi forti timori per la salus rei publicae, cioè che qualcuno per la sua ambizione faccia cadere, come poi fu, la repubblica.

TITO LUCREZIO CARO
Nel 65 a.c. Attico tornò definitivamente a Roma, restò fuori dalla vita pubblica, pur tenendo per gli Ottimati.

Conservò un atteggiamento di assoluta neutralità anche durante la guerra civile romana di Cesare (49-45 a.c.), che, difatti, non importunò Attico, sebbene questi avesse elargito denaro ai suoi amici in partenza per raggiungere Pompeo. 
Dopo l'uccisione di Cesare (Idi di marzo del 44 a.c.), ebbe rapporti amichevoli con Bruto, ma rifiutò l'alleanza politica, pur offrendo
loro denaro.

Aiutò poi i familiari di Antonio quando, dopo la guerra di Modena del 43 a.c., venne dichiarato nemico pubblico e Antonio, divenuto triumviro nell'ottobre dello stesso anno, non solo non pose Attico nelle liste di proscrizione, nonostante fosse amico di Bruto e Cicerone, ma combinò il matrimonio della figlia di Attico, Pomponia Cecilia Attica, con un intimo amico di Ottaviano, Marco Vipsanio Agrippa.


OTTAVIANO

Ottaviano ebbe grande stima di Attico, che frequentò e spesso consultò anche attraverso una corrispondenza epistolare: inoltre fece sposare la figlia di Attico, al suo figliastro Tiberio una nipote di Attico, la figlia di Agrippa, Vipsania Agrippina, anche se il futuro imperatore l'avrebbe, poi, dovuta ripudiare per ragione di Stato. Attico fu in grado di ottenere la benevolenza sia di Ottaviano che di Antonio, pure essendo nemici tra loro.


L'IMPRENDITORE E LO SCRITTORE

Ormai ricco Attico aveva acquistato nel 68 a.c. una vasta tenuta in Epiro, nella regione di Buthrotum (Butrinto) che fu addetta alla vendita di prodotti agricoli e di bestiame, inoltre ereditò un ricco patrimonio da uno zio materno, Quinto Cecilio di dieci milioni di sesterzi oltre alla domus Tanfiliana sul colle Quirinale. Si circondò di schiavi eruditissimi, lettori ottimi e moltissimi copisti. In più guadagnava dai prestiti bancari e da scuole di addestramento dei gladiatori. 

Nella sua enorme ricchezza Pomponio non cambiò mai il suo stile di vita di vita, creando poi nella villa Tanfiliana un notevole centro culturale con «eccellenti lettori e numerosi copisti». Attico stesso fu scrittore prolifico, anche se dei suoi scritti non ci è pervenuto nulla a causa delle devastazioni barbare e religiose.

Seguì puntualmente la storia antica, con il Liber Annalis, dove registrò le magistrature, le leggi, le guerre e altre vicende importanti. Scrisse, poi, ispirandosi a Varrone, le Imagines, schede pinacografiche (rassegna di composizioni erudite greche e romane) di uomini illustri accompagnati da un epigramma (iscrizione poetica encomiastica o dedicatoria). 

Infine, su commissione, scrisse genealogie di prestigiose famiglie romane, e un libro in greco sul consolato di Cicerone.
Attico pubblicò la corrispondenza con Cicerone ma senza la parte scritta da lui, ligio al principio di rimanere nell'ombra.

RESTI DI BUTRINTO

LA MORTE


Pomponio godette costantemente di buona salute, ma all'età di settantasette anni contrasse una violenta malattia intestinale che lo indusse in breve tempo alla morte. Si astenne dal cibo il più possibile dal cibo per evitare di aggravare la malattia, ma dopo quattro giorni dacché aveva preso la decisione di morire e morì pacificamente.

Ciò dimostra che il suo epicureismo non fu una soluzione mentale  per darsi un certo equilibrio, ma qualcosa di vero e sentito interiormente raggiunto. Come da lui predisposto, il suo funerale fu all'insegna della sobrietà senza pompe funebri, ma accompagnato da un’immensa folla popolare.


BIBLIO

- Pierre Grimal - Les mémoires de Titus Pomponius Atticus - Belles Lettres - 1976 -
- M. T. Cicerone - Epistole ad Attico - a cura di C. Di Spigno - Torino - UTET - 1998 -
- Cornelio Nepote - Gli uomini illustri - a cura di L. Canali - Roma-Bari - Laterza - 1983 - 
- Cornelio Nepote - Vita di Attico -  trad. a cura di L. Canali: alere morbum -
- M. Pani - Sul rapporto cittadino, politica a Roma fra repubblica e principato - in Politica Antica - Pisa - Carocci editore - 2011 -

    QUANDO REX COMITIAVIT FAS (24 Marzo - 24 Maggio)

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    COMITIA CALATA

    Q.R.C.F. = Quando Rex Comitiavit Fas

    Erano il 24 Marzo e il 24 Maggio, considerati fasti solo dopo che il rex sacrorum aveva dichiarato i 'comitia calata' sciolti. I comizi calati (in latino: Comitia Callata o Comitia Calata), era la più antica delle assemblee romane, ed era di carattere religioso.

    Non si conosce molto di queste assemblee; la cosa è dibattuta, ma sembra che a loro venisse affidata la nomina del rex sacrorum, dei flamini e delle vestali, ma secondo altri studiosi venivano convocati (da calare, chiamare) solo per dare pubblicità a degli avvenimenti, come le nomine di cui sopra.

    Risulta che si radunassero sul Campidoglio basandosi sull'organizzazione delle trenta curiae e che l'assemblea fosse presieduta dal Re o dal Pontifex Maximus. Le curie, fondate da Romolo, all'inizio erano trenta, dieci per ognuna delle tre tribù dei Tities (sabini, da Tito Tazio), Ramnes (gli autoctoni, da Romolo) e Luceres (etruschi da Lucumon)..

    Secondo un'altra interpretazione non si tratterebbe di una determinata tipologia di assemblea, ma di una modalità di convocazione, per chiamata, dei Comizi centuriati e dei Comizi curiati.

    In Epoca regia, trattandosi dell'unica assemblea cittadina, la sua competenza si estendeva a tutte le questioni per le quali il re chiedeva la collaborazione dei cittadini in assemblea. Con la nascita delle altre assemblee romane, assunse un carattere prettamente religioso, fino a rimanere solo un simulacro delle antiche tradizioni.

    "Isdem comitiis, quae ‘calata’ appellari diximus, et 'sacrorum detestatio' et 'testamenta' fieri solebant" Gli stessi comizi che dicemmo chiamarsi calata, solevano effettuare sia la 'sacrorum detestatio', sia i 'testamenta'.
    L'ASSEMBLEA

    I TESTAMENTI

    Davanti ai "Comitia Calati", se presieduti dal Pontefice Massimo potevano essere redatti pubblicamente i "testamenta" (l’atto unilaterale, redatto oralmente o in forma scritta, compiuto alla presenza di testimoni, attraverso il quale il pater familias disponeva dei propri beni per il momento successivo alla sua morte e i "testamenta calatis comitiis".

    Questi ultimi riguardavano la forma più antica del diritto romano. Secondo fonti autorevoli conteneva sempre e soltanto disposizioni a titolo particolare, mentre l’heredis institutio (istituzione dell'erede) sarebbe stata caratteristica del 'testamentum per aes et libram', dove il testatore, mediante una sua dichiarazione (nuncupàtio), consegnava semplicemente il testamento al 'familiae emptor'.

    I 'testamenta calatis comitiis' coincidevano spesso nella adozione di un 'pater familias' da parte di un altro pater familias, compiuta alla presenza dei comizi calati, che venivano a questo scopo convocati dal pòntifex maximus due volte all’anno (24 marzo e 24 maggio).
    Per effetto dell’adozione, l’adottato diveniva erede dell’adottante, ma mentre gli effetti "dell’adrogatio" (per cui un cittadino poteva assumere sotto la propria potestas un altro cittadino libero consenziente, il quale ne diveniva pertanto filius familias) si producevano durante la vita dell’adottante, il "testamentum calatis comitiis" era destinato a produrre effetti soltanto dopo la morte dell’adrogàtor. 

    Inoltre la famiglia dell'adrogato assumeva il culto osservato dall'adrogante ed era tenuta a praticarlo, il che spiega la presenza del Pontifex Maximus, colui che aveva l'autorità per presiedere sui fatti religiosi.

    MATRIMONIO

    DETESTATIO SACRORUM

    Nei Comitia Calata si procedeva anche alla "Detestatio Sacrorum", cioè all'uscita di un patrizio dalla sua familia, ovvero l’abbandono dei sacra familiari, mediante una rinuncia solenne e pubblica. Essa, nel periodo regio ma pure alto repubblicano avrebbe costituito il presupposto necessario, da attuarsi sotto il controllo dei pontefici, per il «transito» ai sacra di un’altra gens, come ad esempio nell’adrogatio.
    Per effetto della 'detestatio sacrorum', il culto familiare del soggetto che si avviava ad essere adrogàtus si estingueva. Con l’adrogatio a Roma, e solo a Roma, si poteva adottare un cittadino romano, mediante un rito solenne che prevedeva una triplice interrogazione. Il pontefice che presiedeva i comizi calati, infatti, chiedeva al pater adrogans se volesse l’adottando come suo figlio legittimo, all’adottando se intendesse subire ciò, e, infine, al popolo, sulla sua volontà di autorizzare il compimento dell’atto.

    Si ebbe anche il caso di patrizi che si fecero adottare da popularis per candidarsi come tribuni della plebe. In tal caso l'adottato perdeva il suo rango di patrizio, così come il plebeo, adottato da un patrizio diventava patrizio (ma secondo diversi studiosi questo non era fattibile).

    Il 'testamentum calatis comitiis' avveniva ‘in populi contione’, cioè davanti all'assemblea del popolo riunito. Tuttavia nel testamentum non si potevano adottare le donne, nè i tutori i propri pupilli, nè i maschi impuberi. Neppure le donne potevano adottare, ma sotto Diocleziano le cose cambiarono e le donne potettero adottare ed essere adottate.

    Ma anche nel matrimonio interveniva la 'detestatio sacrorum' in quanto la donna abbandonava i suoi culti familiari, cioè di Lari e Penati, per abbracciare quelli del marito. Pertanto i vari geni che l'avessero seguita fino ad ora l'avrebbero abbandonata, mentre l'avrebbero presa in carico i Lari e i Penati della familia del consorte, che ella avrebbe d'ora in poi pregato per rafforzarli e ottenere protezione.



    IL CALENDARIO

    I 'comitia calata' erano poi convocati mensilmente alle calende ed alle none per annunciare al popolo il calendario, cioè quando cadevano le idi e quali feste mobili si potessero e si dovessero osservare. I comitia si raccoglievano sul Campidoglio basandosi sull'organizzazione delle trenta curiae e l'assemblea fveniva presieduta dal Pontifex Maximus, il quale poteva investire o meno per l'occasione i nuovi sacerdoti e le vergini vestali. .

    BIBLIO

    Institutiones - Gaio
    Il melangolo - Andrea Carandini
    Notti Attiche - Gellio

    TEMPLI DEI LARI A ROMA

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    I LARI (LARARIO DI POMPEI)

    LA DEA LARA

    « [Apuleio] afferma inoltre che l'anima umana è un demone e che gli uomini divengono Lari se hanno fatto del bene, fantasmi o spettri se hanno fatto del male e che sono considerati Dei Mani se è incerta la loro qualificazione. »
    (Agostino di Ippona, La città di Dio)

    Lara era la Dea del silenzio, quindi portatrice dei Sacri Misteri che chiedevano assoluta segretezza.
    Secondo la tradizione era la ninfa dell'Almone, affluente del Tevere che sgorga dai Colli Albani.
    Lara rifiutò di aiutare Giove, che aveva chiesto alle divinità fluviali di aiutarlo a rapire la ninfa Giuturna per farle violenza.

    Lara non solo rifiutò ma mise in guardia Giuturna da Giove. Adirato il Dio le strappò la lingua ed ordinò a Mercurio di condurla negli Inferi, dove sarebbe stata la ninfa delle acque nel regno dei morti.
    Come non bastasse, durante il viaggio Mercurio la violentò mettendola incinta di due gemelli, i Lares Compitales, protettori della famiglia.

    Dunque è un'antica Dea declassata a divinità minore e poi quasi scomparsa, però i suoi figli nel loro ruolo di protettori vennero ereditati di buon grado dai romani. In origine i Lari erano probabilmente legati alla difesa dei confini e dei passaggi e per questo erano venerati anche come protettori dei campi e dei crocicchi. Furono identificati con i Lari anche Romolo e Remo.

    Il santuario dei Lari può essere identificato con il Sacellum Larum o Sacellum Larundae, uno dei quattro punti angolari - quello di nordovest - fra i quali fu tracciato il solco della Roma quadrata di Romolo. Il Sacellum è stato recentemente identificato nel corso di scavi archeologici che hanno interessato l'area della Via Nova e della Domus Vestae.

    Secondo Valerio Massimo, Cicerone e Plinio l'ara della Dea Orbona a Roma era posta vicino al tempio dei Lari, e accanto al sacello della Dea Februa, vicino all'accesso della via Sacra al Palatino, presso l'arco di Tito che vi fu costruito in seguito.


    DEA LARA CON LARI E SERPENTE SACRO

    RICERCHE E SCAVI IN CORSO SULLE PENDICI SETTENTRIONALI DEL PALATINO
    Dunia Filippi

    "Lo scavo alle pendici settentrionali del Palatino, iniziato nel 1985 come collaborazione tra la Soprintendenza Archeologica di Roma e l'Universitå di Pisa, è proseguito dal 1990 con IUniversitå di Roma "La Sapienza", avvalendosi di studenti provenienti anche da altre Universitå, sia italiane che straniere. L'indagine ha avuto come primo Obiettivo lo studio di un quartiere del centro della cittå antica, compreso tra Varco di Tito e l'Atrium Vestae imperiale. 

    Presso la Casa delle Vestali c'è l'Aedes Larum, sotto la cui cella è stata documentata una serie ininterrotta di focolari databili dalla metà dell'VIII secolo a tutto il VII secolo a.c., la cui vicinanza alla suddetta domus (da noi definita Domud Regia) permette di ipotizzare uno stretto collegamento tra le due strutture."



    PUBLIO RUTILIO RUFO

    Rufo nella VIII Regione pone Templum Larum e Vittore nella stessa Regione mette il Sacellun Larum, che essere lo stesso di quello di Rufo sembra non restar luogo a dubitare, e che Varrone definisce trovarsi sulla Via Nuova: Varrone definirebbe il sacello de' Lari verso la estremità della via Nuova, "unde ascendehant ad runuim", cioè al luogo dell'allattamcnto di Romolo e Remo, verso l'angolo del Palatino che domina il Foro Romano.

    Ma si oppone a Varrone Solino, che afferma di Anco Marzio avere abitato "in summa sacra via ubi aedes Larium est". Che questi però fossero due luoghi distinti in due diverse regioni non lungi l'uno dall'altro, ed ambedue consacrati ai lari sembra chiaro.

    Questo solco girando in maniera attorno al monte, ed essendo il monte stesso quadrato, diede origine alla denominazione di Roma Quadrata dato da scrittori antichissimi alla Roma di Romolo e questa città fu cinta con fossa e ripari già distinti, in due diverse regioni non lungi uno dall'altro, ed ambedue consacrati ai Lari, non è da meravigliarsi, quando si rifletta essere stati in Roma in varie regioni altri luoghi consagrati ai Lari, e di un Lucus Larii sull'Esquilino fa menzione poco dopo Varrone stesso.



    PUBLIO CORNELIO TACITO

    Se poi Tacito intendesse parlare, o di quello sulla Via Sacra, o dì quello sulla Via Nuova non è cosa facile determinarsi potendo egualmente ai due luoghi convenire il solco: noi però propendiamo piuttosto pel secondo, per il sacello sulla Via Nuova, e perchè questo si dice sacello come Varrone e Vittore lo nominano, e perchè è più vicino al principio del solco; mentre l'altro sulla somma Sacra Via lascerebbe un troppo grande intervallo, e non Sacellum ma Aedes si dice. anche Plutarco nella vita di Romulo ci conservò questo nome, dicendo nel capo IX che Romulo fabbricò la così detta Roma Quadrata, e questo volle cingere di mura, quando Remo vi si oppose.

    Nel descrivere la linea del pomerio originale, Tacito (Annali) dà quattro punti, magna Herculis ara, Ara Consi, veteres curiae, sacello Larum, presumibilmente i quattro angoli del quadrilatero. Ovidio conferma che alle calende di maggio, si onorasse la dedica di un altare dei Lari Praestites:
    "Praestitibus Maiae Laribus videre kalendae
    Aram constitui signaque parva deum".

    LARARI PRIVATI A POMPEI

    PUBLIO OVIDIO NASONE

    Si è pensato che Ovidio, nelle sue Metamorfosi, alludesse allo stesso Santuario, e che il 1 maggio fosse la festa del tempio, mentre il 27 giugno fu quello del restauro di Augusto. E' anche possibile che il sacello Larum di Tacito possa essere Aedes in Sacra summa via, e che per qualche motivo sconosciuto ha preferito segnare la linea del pomerio,  piuttosto che al nord-ovest.

    Però due basi in marmo con iscrizioni dedicatorie :
    - CIL VI.456: Laribus Publicis sacro imp. Cesare Augusto ex stipe quam populus ei contulit k. Ianuar. Apsenti; (reperito vicino all'ingresso nel forum nei giardini Farnese  nel 1555, cioè un po 'a nord-ovest dell'Arco di Tito, un punto corrispondente alla summa Sacra via;
    - VI.30954: Laribus agosto sacro - ritrovato nel 1879 di fronte alla SS. Cosma e Damiano.

    LARARIO PUBBLICO A POMPEI

    TEMPLI DEI LARI A ROMA

    Viene pertanto da credere con buone ragioni che i templi dei Lari a Roma fossero almeno due:
    -  uno nell'area della Via Nova e della Domus Vestae
    - un altro all'estremità della summa Via Sacra, accanto all'Arco di Tito.

    In quanto al loro aspetto dobbiamo rifarci ai Lari delle case private che in genere sono delle piccole copie dei templi, con colonne, trabeazione, tetto e scalinata, e con al loro interno le statue dipinte dei Lari.

    Tra le immagini dei Lari venivano rappresentati talvolta Mercurio, Apollo e Diana, nonchè la Dea Lara. Erano gli stessi Dei o semidivinità che apparivano nei crocicchi come oggi noi vi poniamo le immagini delle Madonnelle e altro.

    Nel larario di cui sopra vi è la Dea Lara al centro, i due Lari ai lati, con le coppe a cornucopia per le libagioni e il secchiello come attingitoio. Alle estremità invece si collocano Mercurio riconoscibile dal suo inseparabile caduceo e Diana col suo consueto cane cirneco.

    Questi Lari naturalmente erano pubblici, protettori di Roma e dell'impero romano, simili ma non uguali a quelli privati che albergavano ed erano onorati in ogni casa. Al culto pubblico ovviamente provvedeva lo stato che ne organizzava le feste e le ricorrenze.

    MAGNA GRECIA (Nemici di Roma)

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    La Magna Grecia è l'area della penisola italica meridionale anticamente colonizzata dai Greci a partire dall'VIII secolo a.c. La colonizzazione della Magna Grecia fu molto diversa da quella della Sicilia greca.



    LA SICILIA

    La Sicilia, colonizzata come la Grecia a partire dell'VIII secolo a.c. ebbe le sue prime colonie greche nella Sicilia orientale:

    -  I Greci Calcidesi fondarono nella parte sud-orientale:
    Zancle (Messana - Messina),
    Naxos (sito archeologico di Nasso - Messina),
    Leontinoi (Lentini) e Katane (Catania).
    - I Greci Corinzi fondarono:
    Syrakousai (Siracusa) 
    - i Greci Megaresi fondarono:
    Megara Hyblaea (Megara Iblea), nella costa meridionale, nel 688 a.c.. 
    - I Greci Cretesi e Rodii fondarono:
    Ghelas (Gela), e così terminò la prima fase della colonizzazione greca in Sicilia.

    Polibio riferisce che la Magna Grecia iniziò a denominarsi così (Megálē Hellàs) nel VI sec. a.c., anche se il nome è riscontrato solo nel II secolo a.c..

    LA COLONIZZAZIONE GRECA
    SUOLO ITALICO

    I Greci emigrarono in Italia nell’VIII secolo a.c. da: Eubea, Argolide, Locride, Creta e le isole Egee.
    E si stabilirono sulle coste meridionali:
    - dalla Campania all’Apulia, e nel sud ed est della Sicilia dove fondarono ricche colonie basate sull'agricoltura e il commercio.
    A volte si allearono tra di loro contro nemici comuni ma in genere furono rivali tra loro.



    I POPOLI CHE VI MIGRARONO

    - gli Achei, di origine Dorica, che fondarono:
    Taranto, Metaponto, Posidonia (Paestum), Crotone, Sibari, Laos, Terina.
    gli Ioni che fondarono:
     Reggio sulla sponda dello stretto e dall'altra parte Zancle, l'odierna Messina.
     - i Locri e i Calcedoni da Euboea, che fondarono:
    Naxos (Taormina), Zancle (Messina), Pitecusa (Ischia), e Cuma in Campania.
    - i Corinzi fondarono:
    Siracusa,
    - i Megari fondarono:
    Megara Iblea nel golfo di Augusta,
    - i Foci fondarono:
    Elea (Velia) in Campania.
    - i Locresi fondarono:
    Locri. 

    L'insieme delle colonie fondate da questi popoli greci nell’Italia meridionale e nella Sicilia fu chiamato Magna Grecia. I loro abitanti si chiamarono Italioti e Sicelioti. La colonizzazione interessò le regioni della Puglia, Basilicata, Calabria, Campania e Sicilia.



    Le colonie più importanti furono :
    Ischia, Cuma, Reggio, Napoli, Siracusa, Agrigento, Sibari, Crotone, Metaponto e Taranto.

    1) ISCHIA - Queste genti stabilirono la colonia di Pithecussai (popolata dalle scimmie) sull'attuale isola d'Ischia, nella prima metà dell'VIII secolo a.c. (775 a.c. ca.), per opera dei Greci di Eretria e di Calcide (sull'Eubea).

    2) CUMA - Sulle coste Italiche fondarono diverse città: Kyme (=colomba), in latino Cumae, cioè Cuma, fondata intorno al 740 a.c., dagli Eubei di Calcide, che sotto la guida di Ippocle di Cuma e Megastene di Calcide, scelsero di approdare in quel punto della costa perché attratti dal volo di una colomba o secondo altri da un fragore di cembali.

    3) METAPONTION - fondata da coloni greci dell'Acaia nella seconda metà del VII secolo a.c., su richiesta della madre patria, da parte di Sibari (Calabria), per proteggersi dall'espansione di Taranto. Oppure, secondo altre fonti, sarebbe stata fondata dall'eroe greco Nestore di ritorno dalla guerra di Troia.

    4) TARAS, (Taranto) - che, secondo Eusebio di Cesarea (265 - 340), fu fondata nel 706 a.c.., dallo spartano Falanto, figlio del nobile Arato e discendente di Eracle di VIII generazione, e di altri compatrioti detti Partheni (figli delle vergini di Sparta), per necessità di espansione o per questioni commerciali.

    5) RHEGION (Reggio Calabria) - fondata nell'VIII secolo a.c., i calcidesi fondarono una colonia greca mantenendo il preesistente nome di Rhegion (Capo del Re), già noto come Erythrà (Ερυθρά, La Rossa).

    Queste colonie furono indipendenti dalla madrepatria che però le denominò Magna Grecia, e crebbero in vari settori, come l'arte, la scienza, la filosofia. L'invasione greca nell'Italia meridionale non fu pacifica, perchè cacciò le divinità italiche coi loro sacerdoti innalzando templi alle divinità del Pantheon greco. Successivamente però vi fu un'integrazione tra i vari popoli con una sovrapposizione dei culti e delle tradizioni indigene ed elleniche, e pure con le religioni animistiche.



    LA SCELTA DELLA COLONIA

    PERSEFONE
    Le spedizioni venivano guidate da un ecista, capo dei Greci colonizzatori, il quale prima della partenza veniva mandato a interrogare l'oracolo di Delfo, per avere istruzioni su dove fondare la nuova colonia.

    La fondazione di una città non era lasciata all'iniziativa individuale dell'ecista o di un ristretto gruppo, ma era organizzata dalla madrepatria, che forniva tutti i mezzi, dalle navi al cibo, alle armi, agli ingegneri e agli architetti necessari. Ma alla Magna Grecia pervennero anche le navi provenienti dall'Asia e dalla Grecia, per cui fiorì nei commerci nell'arte e nella scienza.

    I coloni trovarono in Magna Grecia un clima secco e mite, simile a quelli della madrepatria, e una terra ricca di boschi e corsi d'acqua. Predilessero così le zone pianeggianti, ricche di acque e che si addicevano all'edificazione di porti.



    LE DIVINITA' PIU' ARCAICHE

    A confermare l'ipotesi di apporti minoici e micenei con divinità femminili riscontriamo numerosi santuari extraurbani eretti in onore di Hera, divinità del Pantheon miceneo, insieme ai santuari dedicati ad altri numi arcaici, come Persefone, Afrodite, Dioniso, con i riti pastorali e agrari del mondo arcaico.

    Erano soprattutto le divinità femminili a proteggere i luoghi di approdo e i punti di passaggio, alle porte della città.

    PATTO TRA HERA E ATHENA - SICILIA

    HERA

    Hera, sorella e moglie di Zeus, era anticamente signora della natura, sovrana degli animali, protettrice delle nozze e del parto, liberatrice dalla schiavitù, e garantiva l'armonia della polis, ma dall'altro lato sosteneva il nuovo ordine imposto con la violenza ai popoli sottomessi. 

    Il culto della Dea era seguito soprattutto dagli Achei che lo esportarono nelle terre d'Occidente. Gli Heraia furono eretti nelle colonie ioniche di Crotone (santuari dì Capocolonna e di Vigna Nuova), Sibari (santuario dedicato ad Hera Leucadia) e Metaponto (Heraion delle Tavole Palatine).

    Il santuario di Hera Lacinia a Capocolonna era un asylon, un luogo di rifugio e affrancamento degli schiavi tra più celebri del mondo antico. L'antica tradizione del pellegrinaggio al santuario di Hera Lacinia si è tramandata nel corso dei secoli con la processione di molti fedeli che ogni anno nella seconda domenica di maggio si recano a piedi al santuario di Capocolonna per venerare la celebre Madonna bizantina. 


    PERSEFONE

    Persefone, divinità greca degli inferi, figlia di Zeus, rappresentava l'amore nuziale e fecondo, protettrice dei raccolti. Fu venerata a Locri (santuario della Mannella) e a Satyrion, primo stanziamento dei coloni laconici, i quali poi si spostarono più ad ovest per fondare la colonia di Taranto.


    AFRODITE

    PERSEFONE DI LOCRI
    Afrodite Dea dell'amore e della sessualità, nacque dalla schiuma del mare e come tale era anche Dea dei naviganti. Il suo culto fiorì soprattutto nei pressi dei grandi empori, vicino ai porti dove si praticava la prostituzione sacra (la stoà di Locri sacra ad Afrodite identificata come lupanare).


    ATHENA

    Athena, in antico figlia di Temi, divenne figlia di Zeus e nacque dalla sua testa; rinunciò alla sua femminilità rimanendo vergine e vestendo i panni della Dea guerriera. Era venerata in tutta la Grecia, ma particolarmente nell'Attica. In occasione delle Panatenee, feste celebrate in suo onore ogni quattro anni, le fanciulle di Atene le facevano dono di un peplo sontuosamente ricamato.
    Gli Achei portarono il suo culto nelle colonie di Taranto, Siri, Sibari, Crotone e Locri.


    ARTEMIDE

    Artemide, Dea della caccia, a Reggio prese il nome di Artemis Phakelitis (da phakelon, fasci di sarmenti, vegetali delle paludi).

    Tra le divinità maschili erano venerati:


    ZEUS

    Zeus era il padre e il signore degli Dei, a lui veniva dedicata l'agora (la piazza della città).


    APOLLO

    Apollo, fratello di Artemide, era considerato il Dio del bene e della bellezza, che mantiene l'ordine e fa rispettare le leggi. Celebre l'oracolo di Delfo, che veniva consultato prima della fondazione delle colonie. Il culto di Apollo delfico era venerato Crotone.

    Nelle monete della città era riportato il tripode delfico, uno dei simboli di Apollo Pizio; questo titolo onorifico gli fu attribuito dai Greci per aver ucciso Pitone, un drago mostruoso nato dal fango, che devastava il territorio di Delfo.

    Il culto fu portato a Crotone da Pitagora, e con la venuta del filosofo a Metaponto, Apollo fu venerato anche in questa città e nelle colonie di fondazione achea. Il santuario di Apollo Alaios presso Punta Alice sembrava rafforzare il confine crotoniate lungo il limite del fiume Nicà, che lo separava dal territorio di Sibari.

    ERACLE UCCIDE UN'AMAZZONE

    HERMES

    Hermes era la guida nei cammini e nei viaggi, protettore dei pastori, dei ladri, degli adolescenti, e dei morti nel passaggio verso l'aldilà.


    DIONISO

    Il culto di Dioniso, Dio del vino, era originario della Tracia e aveva un carattere estatico; veniva celebrato soprattutto dalle donne, le famose Baccanti, che vestite di pelli di animali, celebravano con urla e danze le loro orge notturne.

    I Tarantini erano grandi seguaci del culto arcaico di Dioniso. Platone in visita alla città scrisse: 
    "A Taranto nella nostra colonia ho potuto assistere allo spettacolo di tutta la città in ebbrezza per le feste di Dioniso, nulla di simile accade da noi". Anche ad Heraklea era particolarmente sentito il culto di Dioniso, testimoniato dai resti del tempio e dal rinvenimento delle celebri tavole bronzee databili al IV secolo a.c.



    L'ARTE

    L’architettura della Magna Grecia è caratterizzata da monumentalità e predilezione per lo stile dorico, come si vede a Paestum, che conserva caratteri arcaici rispetto a quello della Grecia.

    In epoca romana si sviluppano anche gli ordini ionico e corinzio. Caratteristiche della religiosità magnogreca erano l'impronta arcaica, in cui i templi più antichi erano dedicati a divinità femminili, forse perchè i primi coloni, antecedenti ai Greci, furono Micenei, o addirittura i minoici (XIII-VIII sec. a.c.).

    Fiorirono i rivestimenti fittili policromi (grondaie, acroteri, fornici, gruppi di grandi proporzioni), di tavolette votive, statuette in terra cotta o in calcare e sculture in bronzo. Sotto l'influenza etrusca, nelle tombe osco-campane e apule (Paestum, Cuma, Capua, Nola) si ebbero ipogei dipinti con scene di gladiatori, guerrieri e danze (secc. V-III).

    La produzione ceramica, nata nel V sec., ebbe caratteristiche stilistiche e figurative differenti nelle regioni apula, campana e lucana e pure da quelle limitrofe. Notevole è pure la produzione di rivestimenti fittili (di argilla) policromi, di tavolette votive, di statuette in terracotta o in calcare e di sculture in bronzo.

    HERA E ZEUS

    L'EDIFICAZIONE DELLE CITTA'

    Fondata la colonia si procedeva alla costruzione di una cinta muraria, seguiva l'assegnazione dei lotti di terra ai coloni e l'edificazione dei grandi templi.

    L'area dell'acropoli, "la città alta" con le dimore degli dei ed i larghi spazi riservati alle cerimonie religiose e ai sacrifici, contrastava con la disposizione irregolare e caotica dei quartieri della "città bassa" che presentava: strade strette, case assiepate, e rari pozzi d'acqua.

    I nuovi coloni, una volta approdati con le loro navi, si trovarono di fronte al problema dei rapporti con le popolazioni del posto che erano:
    Ausoni, Enotri, Itali, Siculi, Coi Messapi, Iapigi, che vivevano di pastorizia e di agricoltura ed erano organizzati in tribù.

    Essi non avevano niente a che vedere con la più avanzata organizzazione politica, sociale ed economica delle poleis greche. Si venne così a creare un urto violento tra gli abitanti dell'Italia meridionale ed i nuovi colonizzatori che volevano appropriarsi delle loro terre.
    Le città magnogreche raggiunsero uno splendore maggiore della stessa Grecia, dove fiorirono i grandi intellettuali elleni tra il V e il IV sec. a.c., e dove si recò in visita Platone e vi si stabilirono Pitagora, Erodoto e Senofane.

    Come le poleis greche godevano di una loro indipendenza e autonomia, e spesso erano in contrasto tra loro per motivi politici e di conquista, altrettanto accadde alle colonie della Magna Grecia causando la distruzione di fiorenti città (come Sibari, Siris). Le lotte intestine e l'eterna rivalità le poleis, porteranno, infine, ad un indebolimento delle città magnogreche che diverranno facile preda dei conquistatori romani.

    TEATRO DI TAORMINA

    LA CONQUISTA ROMANA DELLA MAGNA GRECIA

    Roma per espandersi al sud, dovette scontrarsi con le città della Magna Grecia e con Taranto, così, per soccorrere la città di Turi, Roma violò intenzionalmente un trattato stipulato con Taranto nel 303 a.c., ben sapendo di scatenare una guerra.

    Nel IV secolo a.c., la Magna Grecia subì molti attacchi dai Bruzi e dai Lucani, pertanto Taranto dovette assoldare mercenari greci, inoltre stipularono un trattato con Roma, che si suppone del 325 a.c., per cui le navi romane non potevano superare ad Oriente il promontorio Lacinio (oggi capo Colonna, presso Crotone). 

    Per fronteggiare i nuovi attacchi Lucani, i Tarentini ingaggiarono mercenari greci guidati da Cleonimo di Sparta (303-302 a.c.), che fu, però, sconfitto dalle popolazioni italiche. Il successivo generale greco, Agatocle di Siracusa, però sconfisse i Bruzi (298-295 a.c.), intanto Roma si era alleata con i Lucani ed aveva già vinto al nord su Sanniti, Etruschi e Celti.

    Morto Agatocle di Siracusa nel 289 a.c., Thurii chiese aiuto a Roma contro i Lucani nel 285 a.c. e nel 282 a.c. Allora venne inviato il console Gaio Fabricio Luscino per respingere i Lucani, già alleati dei Romani, ma poi ribellatisi a Roma. Fabricio pose a Thurii una guarnigione romana. Poi sconfisse il principe lucano Stenio Stallio e sulla città di Reggio venne posta una guarnigione romana di 4.000 armati. Anche Locri e Crotone chiesero allora di essere poste sotto la protezione di Roma.

    L’aiuto accordato da Roma a Thurii fu visto dai Tarantini come una violazione dell’accordo di pace, sebbene le operazioni militari romane fossero via terra, Thurii s'affacciava sul golfo di Taranto, a nord della linea di demarcazione stabilita presso il capo Lacinio; Taranto temeva di perdere il controllo delle altre città italiche.

    Roma tuttavia, in aperta violazione degli accordi, nell'autunno del 282 a.c. inviò una piccola flotta duumvirale di dieci imbarcazioni da osservazione nel golfo di Taranto, guidate dall'ammiraglio Lucio Valerio Flacco (o dall’ex console Publio Cornelio Dolabella) dirette a Thurii o verso Taranto, con intenzioni amichevoli.

    I Tarantini, che stavano celebrando in un teatro affacciato sul mare le feste in onore di Dioniso, in preda all'ebbrezza, scorte le navi romane, le credettero nemiche e le attaccarono: ne affondarono quattro e una fu catturata, mentre cinque riuscirono a fuggire; tra i Romani catturati, alcuni furono imprigionati, altri mandati a morte.

    Poi i Tarantini, ormai in guerra, marciarono contro Thurii, che fu presa e saccheggiata e la guarnigione romana a tutela della città venne scacciata assieme all'aristocrazia locale. La rappresaglia romana era inevitabile per cui i Tarentini invocarono l’aiuto del re d’Epiro Pirro, che, giunto in Italia nel 280 a.c. con un esercito e numerosi elefanti, riuscì a sconfiggere i Romani a Heraclea e ad Ascoli, seppure a costo di gravissime perdite.

    Successivamente però Pirro fu duramente sconfitto dai romani a Maleventum nel 275 a.c. e costretto a tornare oltre l’Adriatico. Taranto, dunque, fu nuovamente assediata nel 275 a.c. e costretta alla resa nel 272 a.c.: Roma divenne così potenza egemone nella Magna Grecia.



    BIBLIO

    - Plinio- Naturalis historia -
    - Biagio Pace - Arte e Civiltà della Sicilia antica - Roma - 1935 -
    - Storia di Roma, - I - Dalle origini ad Azio - Bologna - Pàtron - 1997 -
    - Theodore Mommsen - Storia di Roma - ed. 2015 -
    - Lorenzo Braccesi - Guida allo studio della storia greca - Roma-Bari - Laterza - 2005 -
    - André Piganiol - Le conquiste dei romani. Fondazione e ascesa di una grande civiltà Il Saggiatore - Milano - 1998 -

    LO SCUDO ROMANO

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    LO SCUTUM
    Lo Scudo romano, dal latino scutum, detto però anche clipeus, venne usato dall'esercito romano nel corso dei dodici secoli e oltre della sua storia, dalla fondazione della città nel 753 a.c. alla fine dell'Impero romano d'Occidente, del 476, fino alla caduta di Costantinopoli del 1453 subendo però molte modifiche sia nella forma, che nei materiali e nelle dimensioni.

    La sua funzione era quella di coprire il corpo del fante e del cavaliere romano dalle armi d'offesa del nemico. I primi scudi erano in legno talvolta rivestiti con placche di bronzo, però ciò li rendeva molto pesanti.

    Allora alcuni scudi romani vennero rafforzati rivestendo i loro bordi con una lega di rame, più leggero del bronzo in quanto più malleabile, cioè riducibile ad uno spessore più sottile, ma anche questo sistema alla fine fu abbandonato a favore dell'uso di cuoio grezzo cucito, che legava gli scudi in modo più efficace.

    Gli scudi romani presentavano anche una prominenza, ovvero un umbone (lat. umbo), piuttosto spessa, rotonda, di legno o di metallo che deviava i colpi e serviva come incavo dove alloggiare l'impugnatura. Una delle sue peculiarità fu quella di consentire l'adozione della formazione difensiva, chiamata "a falange".

    IL SOLDATO ROMANO AD INIZIO EPOCA MONARCHICA

    L'OPLON E LA FALANGE

    Hoplon e falange comparvero in una data che spazia tra l'VIII ed il VII secolo a.c..

    MILITARE ETRUSCO-ROMANO 500 A.C.
    Secondo lo storico Diodoro Siculo, l'hoplon e la falange sarebbero stati ideati nella città di Argo che li adoperò in battaglia per sconfiggere gli Spartani durante la Seconda guerra messenica, nel tentativo di rivolta dei Messeni iniziato probabilmente nel 685 a.c. e terminato attorno al 669 a.c. dopo la sconfitta inflitta a Sparta da Argo a Isie.

    La sconfitta dei grandi guerrieri spartani fece epoca e i romani esaminarono immediatamente le armi e le strategie usate in battaglia. Il nuovo "scudo argivo" si diffuse nelle altre città della Grecia prima e poi in Sicilia, si propagò nella Magna Grecia e giunse nel VI secolo fino a Roma insieme alla formazione a falange. In Italia più a nord era già passata agli etruschi e da questi ancora ai romani.

    Si trattava di un scudo in forma di disco concavo, del diametro di 90–100 cm, realizzato in legno di noce (legno molto compatto e resistente all'acqua) e rivestito, esternamente, da una lamina di bronzo ed internamente dal cuoio. Il peso complessivo arrivava a 9-10 kg. Pezze di cuoio potevano coprire il bordo inferiore onde evitare abrasioni sulla coscia dell'oplita durante la mischia.

    L'impugnatura dell'oplon si trovava vicino al bordo esterno ed era in cuoio o corda. Un secondo passante, posizionato al centro dello scudo ed in forma di bracciale in metallo avvolgeva l'avambraccio del guerriero per maggior sicurezza.

    Un intreccio di corda lungo il bordo interno permetteva poi di agganciare lo scudo quando non era imbracciato.



    GLI EMBLEMI

    L'HOPLON o OPLON
    La superficie esterna degli oplon poteva essere liscia (scaramantica, per riflettere sull'avversario la malasorte) o decorata da un simbolo, spesso mitologico:

    - Gli opliti spartani decoravano i loro scudi con una  maiuscola (Λ), corrispondente alla nostra lettera L che stava per Lacedemone;
    - gli Ateniesi vi raffiguravano la civetta, simbolo della Dea Athena;
    - i Tebani vi ponevano la sfinge o la clava di Eracle;
    - gli Argivi vi raffiguravano un'idra su fondo bianco.



    L'ASSETTO

    Nell'esercito romano gli opliti della prima fila si coprivano in parte con gli scudi rotondi parzialmente sovrapposti, in modo che il loro fianco destro venisse protetto dallo scudo del vicino, armati di lancia e spada, con scudo, elmo e corazza. I comandanti romani erano spesso in prima linea, per dimostrare il proprio coraggio ai propri soldati, e incoraggiarli nella battaglia, rischiando spesso la morte.

    L'obiettivo era di far cedere lo schieramento opposto e spezzarne le file. Le formazioni più arretrate si accalcavano e spingevano la prima fila contro la prima fila nemica. Qui l'avanzamento coraggioso del singolo combattente era pericoloso, potendo portare alla rottura dello schieramento con conseguenze disastrose. 

    LA FALANGE OPLITICA GRECA

    LA FALANGE OPLITICA

    Riforma di Servio Tullio (580 a.c. circa)

    Tito Livio racconta quale fosse l'ordine di marcia dell'esercito romano in territorio nemico, ovvero l'agmen quadratum, che prevedeva:
    - in testa e in coda  le due legioni consolari,
    - ai lati le ali dei socii
    - al centro i bagagli di tutte le unità (impedimenta delle legio I e II e delle due ali).

    Quest'ordine di marcia fu utilizzato fin dall'inizio della Repubblica, anche durante le guerre sannitiche, la guerra annibalica, la guerra giugurtina, e la battaglia di Carre. Mettere i bagagli al centro significava infatti evitare le scorribande nemiche che sottraevano parte dei bagagli, quindi armi, vettovaglie ecc., importantissime per la prosecuzione della guerra.
    L'Oplon venne utilizzato fin dai tempi di Romolo, i romani avevano l'intelligenza di copiare sempre gli strumenti migliori, soprattutto in guerra. Fu solo a partire dal IV secolo a.c. che l'uso dell'oplon, insieme alla falange "classica", cominciò a tramontare.
    Gli opliti (portatori di oplon) della prima si coprivano una parte con gli scudi rotondi parzialmente sovrapposti, in modo che il loro fianco destro venisse protetto dallo scudo del vicino, armati di lancia e spada, con scudo, elmo e corazza. I comandanti romani erano spesso in prima linea, per dimostrare il proprio coraggio ai propri soldati, e incoraggiarli nella battaglia, rischiando spesso la morte.

    L'obiettivo era di far cedere lo schieramento opposto e spezzarne le file. Le formazioni più arretrate si accalcavano e spingevano la prima fila contro la prima fila nemica. Qui l'avanzamento coraggioso del singolo combattente era pericoloso, potendo portare alla rottura dello schieramento con conseguenze disastrose.



    FALANGE OBLIQUA

    Già nel IV secolo si ebbe una sostituzione della falange tradizionale con quella obliqua. Questa tecnica di combattimento fu inventata dal generale tebano Epaminonda (418 a.c. - 362 a.c.) e utilizzata per la prima volta nella battaglia di Leuttra (371 a.c.), in cui i Tebani sconfissero clamorosamente gli Spartani.

    La falange obliqua era una variante della falange oplitica tradizionale, in cui si attaccava da sinistra la destra dell'avversario. La tattica consisteva nell'assottigliare il centro e la destra, al fine di sferrare un attacco massiccio con una profondità di 50 ranghi sulla sinistra (il lato debole nell'ordine di battaglia classico). Ma anche questa tattica tramontò perchè, combattendo con i sabini, i romani capirono che il loro scudo era più funzionale di quello romano.

    MONETA CON AUGUSTO E SUL RETRO CAETRA E ARMI (TRA IL 500 E IL 300 A.C.)

    CAETRA

    C'era anche uno scudo usato dagli ausiliari detto Caetra, uno scudo circolare con umbone centrale, circondato da quattro settori semicircolari, che a loro volta comprendono due settori concentrici, con o senza un contorno punteggiato, oppure delle linee radiali. 
    Era realizzato in genere in cuoio, o legno leggero rivestito in cuoio e venne usato dagli Iberici, i Celtiberi e i Lusitani, di un diametro tra i 30 cm e i 90 cm.



    RIFORMA DI SERVIO TULLIO SULLO SCUDO 

    Secondo la riforma operata da Servio Tullio:
    - la prima classe venne munita di armamento pesante costituito da elmo, clipeus, scudo rotondo argolico, schinieri, corazza in bronzo o ferro; come armi d'offesa un'hasta ed una spada;
    - la seconda aveva: elmo, lo scutum, scudo rettangolare o oblungo a maggior protezione per la mancanza di una corazza, oltre a schinieri; come armi d'offesa un'hasta e una spada;
    - la terza era equipaggiata con elmo e scutum, scudo rettangolare o oblungo; come armi d'offesa avevano un'hasta ed una spada;
    - la quarta e la quinta classe non avevano scudi ma solo armi da lancio.

    L'EVOLUZIONE DELL'ARMATURA E DELLO SCUDO IN EPOCA MONARCHICO-REPUBBLICANA
    (ILLUSTRAZIONE DI SANDRA DELGADO)

    RIFORMA REPUBBLICANA

    Durante la repubblica si usarono: 

    - uno scudo ligneo, piatto e ovaliforme, con le parti superiore e inferiore tondeggianti, 

    - oppure ovale italico o semi-circolare, percorsi da una nervatura rilevata (spina) in legno con al centro una borchia metallica (umbo), formato da due strati di legno, coperto da tela e pelle di vitello; copriva quasi interamente il soldato, misurando 120 cm x 75, con un peso dai 5 ai 10 kg. 

    All'esterno era coperto da tessuto di lino e di pelle di vitello o pecora, con i bordi superiore e inferiore  rafforzati in ferro o rame, contro i colpi delle lame nemiche.

    Se se ne attestano anche bronzei di altre fogge in epoca alto-repubblicana:

    - rotondi i Villanoviani, Etruschi, Sannitici, Celtici, 
    - a mezzaluna, come i peltasta Macedoni, scudo ligneo a forma di mezza luna, privo di bordatura, ricoperto in genere di cuoio o anche in feltro;

    - trapezoidali, tutti riccamente decorati;

    LEGIONARI ROMANI CON CLIPEUS

    CLIPEUS

    Le battaglie contro i sabini diedero il loro frutto. Si scoprì che lo scudo sabino era migliore di quello argivo, e veniva chiamato clipeus. Con l'abbandono dello schieramento a falange di tipo ellenico, i militi romani vennero dotati di un nuovo tipo di scudo con una forma ovale convessa, con due piedi e mezzo di larghezza e quattro in lunghezza. 
    Lo spessore dell'orlo esterno poteva raggiungere il palmo. Lo scudo era formato da assi di legno, tenute insieme con la colla, ed aveva un umbone al centro che serviva a rinforzare lo scudo e a deviare i colpi da lancio. 
    L'esterno dello scudo era ricoperto da un tessuto di lino con sopra un altro di cuoio di vitello. I bordi erano rafforzati da lamiera di ferro, che lo rendeva più resistente a colpi, e consentiva d'appoggiarlo a terra senza danno.

    La fanteria leggera invece continuò ad adottare il tipico scudo rotondo, di tre piedi di diametro. Questo scudo fu probabilmente abbandonato quando ai soldati fu pagato per la prima volta lo stipendio, verso la fine del V secolo a.c.
    GLI SCUTUM DELLE LEGIONI ROMANE E DEI PRETORIANI

    LO SCUDO DEI CAVALIERI

    All'epoca la cavalleria romana era una sorta di fanteria oplitica mobile. Tito Livio racconta che ancora nel 499 a.c., nella battaglia del lago Regillo, il dittatore Aulo Postumio Albo Regillense, ordinò ai cavalieri di scendere dai cavalli ed aiutare la fanteria contro quella dei Latini in prima linea.
    «Essi obbedirono all'ordine; balzati da cavallo volarono nelle prime file e andarono a porre i loro piccoli scudi davanti ai portatori di insegne. Questo ridiede morale ai fanti, perché vedevano i giovani della nobiltà combattere come loro e condividere i pericoli. I Latini dovettero retrocedere e il loro schieramento dovette ripiegare
    (Tito Livio, Ab Urbe condita libri, II, 20.)
    I piccoli scudi sembra fossero all'epoca rotondi, del resto la cavalleria portò sempre scudi più piccoli per non intralciare il movimento sui cavalli. Ma mentre all'inzio i loro scudi erano in pelle di bue, di scarsa consistenza, vennero poi sostituiti con gli scudi greci, gli oplon, molto più solidi e saldi, utili sia contro attacchi da lontano, sia contro assalti da vicino.


    SCUTUM IMPERIALE

    LO SCUTUM

    Con l'inizio del I secolo l'armamento del legionario romano cambiò nuovamente, compreso lo scudo, ora di forma rettangolare per i fanti, mentre restò rotondo e più piccolo per la cavalleria, onde non intralciare il movimento dei cavalli.

    LEGIONARIO CON SCUTUM
    Lo scutum dei fanti legionari portava gli emblemi e il nome della propria legione, incisi sullo stesso per identificare un'unità. Ve ne erano tipi in pelle con rinforzo di piastre metalliche e tipi tutti in bronzo, i Romani elaborarono per la fanteria un'ottimo scudo di vimini intrecciato con rivestimento di metallo o cuoio.

    Quest'ultimo si rivelò molto efficace in quanto molto resistente ma più leggero e parzialmente elastico per cui, anche se in piccola parte, attutiva il colpo nemico inferto sullo scudo.
    L'unico esemplare di scutum scoperto e conservato a tutt'oggi, proviene da Doura Europos, antica città della Mesopotamia, oggi in Siria, databile al III secolo. Era costituito da tre strati di sottili strisce di legno incollati tra loro. La superficie interna era ancora rinforzata da altre simili strisce; al centro della più robusta parte centrale, in quanto vi era uno spessore maggiore di strisce in legno, era fissata l'impugnatura.

    La tecnica delle strisce di legno, del tutto romana, sostituiva l'antico intreccio di vimini che se da un lato attutiva il colpo dall'altro si rivelava piuttosto fragile in quanto i vimini, col tempo, con la pioggia e con gli urti si sfilacciava. Peraltro la tecnica di incollate i diversi strati consentiva al legno di non deformarsi col tempo.

    Infatti il legno per non incurvarsi (imbarcarsi in termine di falegnameria) o doveva essere stagionato per anni o doveva essere incollato uno strato sull'altro, come del resto fecero i mobili in legno del '900 che ricorsero all'impiallacciatura, incollando il legno di una qualità su un altro strato di legno diverso.

    SCUDO DI DOURA EUROPOS
    All'esterno e corrispondente all'impugnatura, c' era una grossa borchia metallica, un umbone, come ulteriore protezione. L'espediente non solo proteggeva ulteriormente la mano di chi imbracciava lo scudo, ma spesso deviava il colpo nemico facendolo scivolare dallo scudo, Il tutto era ricoperto di cuoio, sul quale era incollato uno strato di tela.

    Queste due coperture servivano, oltre che a rinforzare lo scudo, ad attutire leggermente il colpo donando un minimo di elasticità. Viceversa l'umbone non veniva ricoperto ma veniva lasciato molto liscio per favorire, come già detto, lo scivolamento del colpo di spada o di lancia.

    I bordi invece, per tutto il I e II secolo erano di bronzo, raramente di rame, mentre successivamente, per ovvie ragioni economiche, tali bordi vennero fatti di cuoio molto pesante, cucito nel legno. Al contrario le truppe ausiliarie, in particolare la loro cavalleria, e pure la cavalleria legionaria, portavano di solito scudi di forma ogivale (parma), o circolare (clipeus).

    TESTUGGINE ROMANA

    LA TESTUGGINE

    L'allineamento a "testuggine" venne ideato appositamente per un drappello di legionari, armati con il gladio e con l'ampio e robusto scudo quadrangolare in dotazione alle legioni.
    In questo allineamento i soldati della prima fila tenevano gli scudi alzati a protezione frontale, con lo scudo che arrivava sotto agli occhi, in modo da formare una barriera senza interruzioni. Lo stesso facevano i componenti laterali dello schieramento, coprendo il fianco e tutta la testa.

    All'interno della testuggine, a partire dalla seconda fila e a file alternate, perchè ogni scudo orizzontale copriva due uomini, gli scudi venivano tenuti sollevati in modo da proteggere in alto i fanti sottostanti sia della fila immediatamente precedente che di quella immediatamente successiva.

    Con questa formazione si poteva avanzare fino al contatto con le prime file nemiche riparandosi da frecce e proiettili e occultando il reale numero dei componenti, magari con un effetto sorpresa. Nello schieramento, di forma rettangolare o quadrata, si susseguivano più file di fanti pesanti, dotati dei grandi scudi rettangolari e allineati spalla a spalla.


    In questo modo si presentava al nemico una massa compatta e protetta in modo impenetrabile (gli unici lati vulnerabili erano quello posteriore e quello inferiore, corrispondente alle gambe dei soldati) somigliante al carapace delle tartarughe, da cui il nome di testuggine.

    I legionari potevano così marciare in modo sicuro e agevole, senza affaticarsi troppo, fino a una distanza minima dalle linee nemiche, quando lo schieramento veniva rotto e si iniziava il combattimento corpo a corpo. Ciò evitava soprattutto la pioggia di pietre e frecce che i barbari usavano copiosamente colpendo da lontano mentre la schiera romana avanzava.

    Ovviamente la testuggine era una formazione lenta, che era spesso utilizzata negli assedi, per avvicinarsi alle mura avversarie, oppure in battaglia in campo aperto, quando si era circondati da ogni lato, come accadde nella campagna partica di Marco Antonio.

    Viene ricordata ancora da Livio durante le guerre sannitiche o da Gaio Sallustio Crispo durante la guerra giugurtina. Ma questa figura bellica per essere realizzata e restare efficace al massimo, richiedeva anzitutto un grande affiatamento di reparto, ma anche una perfetta coordinazione nei movimenti che solo dei soldati precisi, razionali, ordinati, obbedienti e nello stesso tempo valorosi e tenaci come i romani potevano ottenere.

    SCUDO ESAGONALE

    LO SCUDO ESAGONALE

    Erano presenti comunque in epoca imperiale e tardo imperiale, anche scudi esagonali, probabilmente di origine germanica, che sarebbero stati utilizzati sia dalla cavalleria ausiliaria romana fin dal I sec. a.c. che dai pretoriani.



    NEL III SECOLO

    Dalla seconda metà del III secolo d.c. l'esercito, a causa delle numerose immissioni nell'esercito romano di soldati barbari poco inclini all'allenamento e alla disciplina, era diventato sempre più barbarizzato e di conseguenza molto meno efficace.

    AUSILIARIO CON CLIPEO - COLONNA TRAIANA
    La ragione di tali reclutamento risiedeva nel fatto la popolazione era stata decimata dalla peste e dal fatto che l'avanzare del cristianesimo aveva cambiato la mentalità guerriera dei romani, molto più occupati a salvarsi l'anima che non di salvare la patria.

    In parte anche perchè gli ausiliari, stranieri, venivano pagati molto meno dei soldati romani.

    La tipica uniforme venne sostituita da una cotta di maglia portata sopra la tunica, il gladio spesso venne sostituito con la spada, e, al posto del pilum e dello scutum presero posto:

    - lancia e parma (scudo tondo) 
    - oppure un clipeus rotondo o ovale, composto di assi di legno con rinforzi di ferro munito di umbone, 
    - oppure un clipeus totalmente metallico, con un rinforzo piatto e tondo, sovrastato da un altro rinforzo più piccolo quadrato;
    - rimase comunque lo scutum rettangolare con rilievo metallico trasversale e umbone ancora all'inizio del III secolo.
    MILIZIA CON PARMA

    LA PARMA

    Parma o parmula era un tipo di scudo rotondo o ellittico usato dall'esercito Romano, specialmente durante il tardo periodo Imperiale. Veniva usato in particolare dai cavalieri per ragioni di movimento e di bilanciamento.

    LA PARMA
    Misurava 1 metro o meno e l'intelaiatura era in ferro. Il vantaggio del ferro sul bronzo era la maggiore leggerezza unita a una maggiore resistenza agli urti e ai tagli.

    Aveva altresì lo svantaggio della ruggine, ma nello zaino dei soldati c'era sempre una riserva di grasso o di olio per ungere armi e scudo, cosa che facevano scrupolosamente.

    Nella parte frontale vi era il famoso umbone metallico con funzione di rinforzo e a protezione della mano che sosteneva la parma, ma questo si tendeva a conservarlo in bronzo.

    Era usata inizialmente dai velites, poi principalmente dalla cavalleria e dalla fanteria ausiliaria, i legionari però preferivano il più pesante e più protettivo scutum.

    Il parma era inoltre lo scudo caratteristico del signifer, il portainsegne.

    SCUDI DEL 320 D.C. EPOCA COSTANTINIANA

    IMPERO BIZANTINO

    L'impero bizantino dominò dal V al XV secolo. Per la maggior parte di questo periodo, l'Impero ebbe l'esercito più formidabile di tutta l'Europa, altamente organizzato, eccezionalmente ben armato e diviso in diverse unità. L'esatta armatura e le armi che i soldati dovevano usare in ciascuna unità bizantina erano ben definite nei manuali bizantini.

    Come altri accessori, anche gli scudi sono stati specificati per i soldati di diverse unità allo scopo di servirli al meglio sul campo di battaglia. La progettazione e lo sviluppo di scudi nell'impero bizantino accettarono influenze da una varietà di fonti. 

    Il disegno di scudo di base che l'Impero bizantino usò nei primi secoli fu per lo più derivato direttamente dal disegno di scudo del soldato romano. Col tempo, l'Impero sembra aver preso in prestito disegni di scudi dall'Impero Occidentale e dall'Asia Minore.
    SKOUTARION  IV - V SECOLO

    LO SKOUTARION

    Gli scudi rotondi chiamati skoutaria erano tra i tipi più popolari di scudi usati dai soldati bizantini.
    Questo tipo di scudo era piuttosto leggero e veniva perciò spesso trasportato dai cavalieri bizantini sul campo di battaglia per la libertà che comportava.

    La forma di tali scudi era tipicamente a cupola o, in alcuni casi, addirittura conica. Il diametro medio degli scudi rotondi era di 90 cm.
    Vi sono prove piuttosto importanti sul fatto che i fanti bizantini abbiano usato anche scudi così leggeri e di forma rotonda nelle loro battaglie nei Balcani.

    SCUDO A MANDORLA - DAL X SECOLO

    SCUDO AQUILONE O SCUDO A MANDORLA

    La corazza di tipo lamellare fa la sua comparsa nell'estremo oriente già dal V sec. a.c. e si diffuse via via tra le popolazioni asiatiche mongole, poi passò all'impero persiano, e infine si diffuse nell'impero romano d'oriente nelle forme e nelle varietà più disparate. 

    SAN GIORGIO, XI SEC. - MONASTERO DI VATOPEDY (GRECIA)
    Nel X secolo le lamelle vengono dapprima fissate su delle strisce di cuoio mediante un rivetto nella parte alta arrotondata. In seguito le "righe" vengono unite l'una all'altra mediante lacci di cuoio fatti correre attraverso fori praticati nelle lamelle dell'una e dell'altra "riga". 

    Cambiata la corazza cambia pure lo scudo che diventa meno ingombrante, di diverse fogge ma di dimensioni ridotte.

    Il tipo più comune di scudo utilizzato dai soldati bizantini tra il X e il XII secolo fu lo scudo aquilone, originariamente evoluto da una specie di scudo bizantino di forma triangolare e abbastanza lungo da proteggere le gambe del soldato.

    Una delle varianti più notevoli dello scudo aquilone fu uno scudo a forma di mandorla che aveva una cima leggermente rialzata e che era abbastanza popolare nell'impero bizantino durante l'XI secolo. 

    Sebbene di grandi dimensioni, lo scudo a mandorla non era troppo pesante e poteva essere portato da un soldato sulla schiena quando non doveva usarlo, molto utile soprattutto nelle usuali lunghe marce dell'esercito.

    CAVALIERE BIZANTINO XIII - XIV SECOLO

    SCUDO AQUILONE PIATTO

    Intorno alla metà a fine del XII secolo, gli scudi aquilone tradizionali sono stati in gran parte sostituiti da una variante in cui la parte superiore era piatta, e non arrotondata. Questo cambiamento rese più facile al soldato il tenere lo scudo in posizione verticale, senza limitare il suo campo visivo. 

    IMPUGNATURA DELL'ENARMES
    Gli scudi aquilone piatti furono poi eliminati dalla maggior parte degli eserciti dell'Europa occidentale a favore di scudi molto più piccoli e più compatti. Tuttavia, furono in uso ancora tra i fanti bizantini durante il XIII secolo.

    Per compensare la loro natura scomoda, gli scudi aquilone erano dotati di enarmes, delle impugnature che fissato lo scudo saldamente al braccio, potevano mantenerlo in posizione anche a braccio rilassato; questo è stato un grande cambiamento dalla maggior parte degli scudi circolari, che possedevano una sola maniglia.

    La schermatura del riscaldatore (o scudo a forma di ferro da stiro) è una forma medievale di scudo europeo, mentre per lo sviluppo del medievale scudo aquilone dobbiamo attendere il XII secolo, come raffigurato nella grande tenuta di Riccardo I e Giovanni. Il termine è un neologismo, creato da antiquari vittoriani a causa della somiglianza nella forma ad un ferro da stiro.

    Questo scudo, era più piccolo ma più maneggevole e poteva essere utilizzato sia montato che a piedi.

    MILIZIA BIZANTINA DEL XIV SECOLO CON SCUDI A MANDORLA E SCUDI AQUILONE

    GLI SCUDI DI FERRO

    La maggior parte degli scudi utilizzati dai soldati bizantini erano realizzati con materiali relativamente leggeri come il legno. Tuttavia, ci sono alcune menzioni storiche di scudi di ferro usati dai soldati bizantini durante il combattimento navale.

    Ciò era in genere reso necessario dal frequente pericolo di lancio di frecce infuocate durante i conflitti navali, per cui gli scudi di ferro erano più adatti alla difesa. In ogni modo, questi scudi erano significativamente più pesanti delle loro controparti in legno.

    Ciò probabilmente ha dettato la costruzione di scudi di ferro più piccoli che sarebbero stati usati solo occasionalmente durante i conflitti navali. Tuttavia non bisogna dimenticare che i romani conoscevano già un tipo di acciaio.



    ACCIAIO ROMANO

    CATAFRATTO BIZANTINO DEL IX - X SECOLO
    CON PICCOLO SCUDO CIRCOLARE
    Per ottenere il “ferro duro” o acciaio, i romani usavano carbone di legna in pezzi più grossi e in maggior quantità di quanto usato per produrre il ferro normale. In tal modo si prolungava il tempo di fusione e si riduceva il tiraggio fino a ottenere il grado di carburazione desiderato.  

    I Romani, con i loro forni a tino, suole e forge adattate per le varie operazioni, come la fusione, la carburazione e la saldatura, seppero abilmente perfezionare processi tramandati dai fabbri dell’antico Vicino Oriente e della Gallia. Tuttavia in generale lo Stato romano era autosufficiente per quanto riguardava i metalli: soltanto alcuni prodotti speciali, come l’acciaio serico e quello persiano, venivano importati. 

    Ma oltre a queste costose importazioni, piuttosto limitate, vigeva nell'impero l’antico processo di cementazione, che consentiva di ottenere, mediante carburazione in una forgia, uno strato esterno di acciaio sul ferro saldato che lo rendeva molto resistente ai colpi e alla ruggine, e questo veniva prodotto a un costo non elevato, per cui era molto diffuso anche per gli scudi che in tal modo diventavano molto più leggeri e resistenti. 



    ACCIAIO NORICO

    L'acciaio norico (lat. chalybs noricus) era un acciaio pregiatissimo, ad alto contenuto di carbonio, quindi durissimo, dell'antica regione norica e famoso in tutto l'Impero romano, dove era impiegato per la produzione di armi.

    La proverbiale durezza dell'acciaio norico è espressa da Ovidio: "durior ferro quod noricus excoquit ignis" cioè "Più duro del ferro temperato dal fuoco norico". Il minerale ferroso era estratto da due montagne ancora note come Erzberg, "montagne minerarie", una a Hüttenberg, in Carinzia (oggi Austria), l'altra a Eisenerz, in Stiria (Austria), a 70 km di distanza l'una dall'altra.

    Una spada ritrovata a Krenovica, in Moravia (Repubblica Ceca, risalente circa al 300 a.c., è stata identificata da Buchwald come un esempio primitivo di acciaio norico. Un'altra spada, del 100 a.c. e rinvenuta a Zemplín, nella Slovacchia orientale, lunga quasi un metro (0,95m) reca inciso in latino una dicitura tradotta in "bella spada in acciaio norico".

    SCUDI TRATTI DALLA NOTITIA DIGNITATUM (TARDO IMPERO)

    GLI ORNAMENTI

    In ogni epoca gli ornamenti furono certamente riservati ai soldati più ricchi e corrispondentemente di grado più elevato. Basti pensare in epoca omerica allo scudo di Achille. 

    I romani però non furono mai troppo esagerati, per quel principio che era sostenuto anche e soprattutto dalla nobiltà per cui si richiedeva continenza e sobrietà. 

    Ciò che distinse gli scudi dei grandi generali era l'emblema della propria gens, in genere un animale spesso mitico o un essere mitologico riferito alle origini della casata. Il tutto lavorato a sbalzo con fregi vari e dorature, ma in genere nulla di più.

    Le cose cambiano per i bizantini, dato il notevole influsso orientale, che indulge nelle dorature, nei ricami e nelle volute che occupano tutto lo spazio possibile. Molto articolato e spesso di ottima fattura, ma senza più la classica bellezza e sobrietà del gusto romano occidentale.

    Il materiale di base utilizzato nella costruzione della maggior parte degli scudi bizantini era il legno. Altri materiali come una vasta gamma di pelli e pezzi metallici sono stati spesso utilizzati per rafforzare questa struttura di base. Lo scudo di aquiloni più grande era realizzato quasi interamente in legno poiché l'uso di qualsiasi altro materiale lo avrebbe reso troppo pesante per un pratico combattimento.

    La pelle indurita è stata usata per rafforzare lo scudo di aquiloni senza incorrere in un peso eccessivo. Lo scudo rotondo è stato realizzato principalmente in legno con sporgenza in ferro utilizzata nel design. I soldati bizantini potrebbero aver usato strisce di metallo per rafforzare i loro scudi rotondi che in genere non pesavano molto e sarebbero stati pratici per l'uso anche con significativi rinforzi metallici.


    BIBLIO

    - Diodoro Siculo - Bibliotheca historica -
    - Erodoto - Le Storie -
    - Ateneo di Naucrati - I Deipnosofisti o I dotti a banchetto -
    - Pausania il Periegeta - Periegesi della Grecia -
    - Cassio Dione Cocceiano - Storie - XLIX -
    - Tito Livio - Ab Urbe condita - I e II -
    - David Edge, John Paddock - Arms & Armor of the Medieval Knight - New York - Crescent Books - 1988 -
    - George Grazebrook - The Dates of Variously-shaped Shields With Coincident Dates and Examples - 1890 -- Peter Connolly - The Greek Armies - Macdonald Educational -1977 -
    - Peter Connolly - The Roman Army - Macdonald Educational - 1975 -

    VIA TRAIANA - VIA FRENTANA

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    VIA TRAIANA

    IL MOLISE

    La regione del Molise fu abitata dai Sanniti, organizzati nelle due entità etnico-politiche dei Pentri (concentrati intorno al massiccio del Matese) e dei Frentani (insediati nella zona costiera). Il territorio molisano passò definitivamente sotto il dominio romano agli inizi del sec. III a.c., in seguito alla sconfitta subita dalla coalizione italica, di cui i Sanniti erano parte, nella decisiva battaglia di Sentino (295 a.c.).

    Nel sec. I a.c., la riorganizzazione amministrativa augustea incluse il Molise nella IV regione (Samnium), a eccezione della parte costiera a Sud del fiume Biferno, inglobata nella II regione (Apulia).



    I FRENTANI IN ABRUZZO E MOLISE

    I Frentani (o Ferentani) erano un antico popolo italico di lingua osca insediato sulla regione costiera adriatica centrale, tra le foci dei fiumi Sangro e Biferno, negli attuali Abruzzo sud-orientale e nel basso Molise. Entrati in conflitto con Roma alla fine del IV sec. a.c., dovettero entrare in alleanza con Roma, conservando però un'autonomia interna.

    A differenza di altri popoli osco-umbri, dopo la sottomissione rimasero fedeli a Roma in occasione delle Guerre pirriche, ( 280 - 275 a.c.) nelle quali cadde il generale romano di origine frentana Oplacus, che si battè nella battaglia presso Eraclea (Policoro) e Pandosia nel Golfo di Taranto contro i Greci di Pirro.

    Uomini illustri, condottieri, esponenti della cultura, amministratori dell'Erario pubblico, fiorirono in Histonium, città della Frentania, scrivendo spesso nel grande libro della storia della civiltà di Roma capitoli illustri di cui si ha indelebile traccia negli annali.

    Fra i tanti condottieri della gente Hosidia, di stirpe Histoniense, spicca il nome del guerriero Oplaco Hosidio, protagonista di un epico avvenimento durante la guerra fra Roma e il re Pirro, nella battaglia di Eraclea.

    Pirro sbarcò a Taranto nella primavera dell'anno 280 a.c., forte di un esercito di 25 mila uomini e 20 elefanti. I Romani opponevano due legioni con 20 mila armati, di cui faceva parte un contingente frentano, al comando di Publio Valerio Levino.

    DENARIO IN ARGENTO RITRAENTE TRAIANO E LA VIA TRAIANA ( 98-117 D.C.)
    Lo scontro avvenne presso Eraclea, e i romani ressero all'urto delle falangi epirote, quando, improvvisamente comparvero gli elefanti bardati di pesanti armature su cui erano posti nuclei di arcieri che presero a flagellare le schiere romane. A questo punto l'esercito di P. Valerio Levino cominciò a sbandare perché, prima di allora, non aveva visto gli elefanti corazzati, ed anche perché la cavalleria tessala ne approfittò per travolgere l'esercito romano più che mai terrorizzato.

    La sconfitta costò a Roma la perdita di 10 mila uomini. In questo cruento scontro si innesta l'episodio che ha per protagonista l'histoniense Oplaco Hosidio. Questo era Prefetto delle milizie di una delle due legioni romane. Durante una furibonda mischia Oplaco Hosidio riconobbe Pirro e lo inseguì a cavallo del suo destriero nero dai garretti bianchi.

    Appena a tiro scagliò contro il re epirota la sua lancia che, invece di centrare Pirro, colpì al collo il suo cavallo. Frattanto i cavalieri tessali, sgomenti, avevano assistito alla scena, sorpresi per il coraggio dimostrato dal guerriero frentano e, appena ripresisi, intervennero in gran numero circondando il prode Hosidio.

    Un cavaliere tessalo, di nome Leonato, fu pronto a trafiggerlo, prima che avesse il tempo di impugnare un'altra lancia per colpire Pirro che, frattanto, era stato disarcionato a causa della caduta del suo cavallo ferito.

    ACROPOLI DI FERENTINO

    OPLACUS HOSIDIUS

    Narra Plutarco in Vite Parallele - Pirro, che il macedone Leonnato si era accorto di un italico che aveva preso di mira Pirro, indirizzava il proprio cavallo contro di lui, ne seguiva i movimenti e disse: "Vedi lì quel barbaro, mio re, in sella a quel cavallo con le zampe bianche? Ha l'aspetto di uno che ha in mente un progetto grande e pericoloso. Ti guarda, ti ha preso di mira è pieno di coraggio e di fuoco e non si preoccupa di nessun altro. Stai attento a quell'uomo."

    Pirro rispose: "Leonnato è impossibile sfuggire al proprio destino. Tuttavia né questo, né altro italico avrà a che fare con me senza rimanere impunito!
    Mentre i due così parlavano, l'italico Oplacus afferrò la sua lancia, spronò il suo cavallo e si scagliò contro Pirro. Trafisse con la lancia il cavallo del re, contemporaneamente Leonnato accorso trafisse con la propria il suo. I due cavalli caddero, Pirro fu circondato dai suoi che lo portarono via ed uccisero l'italico che si difese con coraggio.

    I Frentani combatterono poi al fianco di Roma alla II Guerra Punica partecipando nel 225 a.c. a un contingente di 4000 cavalieri insieme a Marrucini, Marsi e Vestini.
    Nel I sec. a.c., l'estensione a tutti gli Italici della cittadinanza romana, decisa in seguito alla Guerra sociale (91 - 88 a.c.) alla quale avevano preso parte anche i Frentani, accelerò la romanizzazione del popolo frentano, da un punto di vista sia architettonico che culturale e politico.

    AFFIORA LA VIA TRAIANA A BARI

    LA RETE STRADALE ABRUZZESE

    La rete stradale nasce, in Abruzzo come nel resto d'Italia, con i Romani, per scopi militari e commerciali. Ai tempi di Diocleziano, ben trenta strade consolari si diramano da Roma e circa altre quattrocento costituiscono l’intera rete dell’Impero. Roma è la caput mundi, ed il perfezionamento della rete stradale è fondamentale per il controllo dei territori. 

    Ma i romani prestano la massima attenzione anche alla manutenzione delle strade, tanto che i realizzatori, siano essi, a seconda dell’epoca, consoli o imperatori, riscuotono popolarità più grazie alla restitutio che alla realizzazione ex novo (non dimentichiamo che il giovane Giulio Cesare, che da grande diverrà imperatore, è all’inizio sovrintendente alla via Appia). Le strade consolari sono cosiddette in quanto la loro costruzione viene decisa dai consoli, che ben conoscono le esigenze della guerra oltre che della pace.

    La fitta rete stradale romana favorisce lungo i tragitti la nascita di nuove strutture, urbane, rurali o luoghi di culto che siano. In Abruzzo, prima dell’avvento dei romani, già esisteva una rete viaria: quella dei tratturi, e i romani ne utilizzano alcuni dei calles oviariaes per costruire una rete stradale primaria (viae publicae) che collega praefecturae, municipia, villae e templi, e che, nei secoli successivi, collegherà castelli, monasteri e mercati.



    CASTRUM TRUENTINUM (ATERNUM)

    Truentum, l'antica Martinsicuro, in epoca romana era un importante porto del Piceno meridionale, snodo cruciale per gli scambi commerciali sia dell'attuale territorio teramano che di quello ascolano.

    Qui confluivano inoltre due delle principali vie consolari: la Salaria (strada di collegamento tra la costa adriatica e la Capitale) e la Traiana (che invece univa la Flaminia alla Tiburtina).

    E fu proprio la posizione strategica della cittadina a spingere i romani a fortificare, nel III secolo a. c., la zona portuale che prese il nome di Castrum Truentinum.

    Il tratto da Castrum Truentinum fino ad Aternum prenderà il nome, in epoca successiva, di via Frentana e, ancora più tardi, all’epoca di Traiano, di via Traiana-Frentana, quando cioè l’imperatore Traiano la porterà (transitando per Anxanum-Lanciano) fino al Fortore ed oltre, verso l’Apulia, tracciando così il percorso della futura odierna statale Adriatica.



    LA VIA FRENTANA ODIERNA

    DA NON CONFONDERSI CON LA VIA FERENTANA LAZIALE

    La strada statale 84 Frentana (SS 84) ha oggi un percorso interamente abruzzese, nato dal vecchio tracciato della Strada nazionale del Regno d'Italia 76 Frentana. Essa parte dalla S.S. 17 Appulo-Sannitica (L'Aquila-Foggia, che nacque come diramazione della via Salaria, probabilmente con il nome di via Cecilia), nel territorio di Roccaraso.

    Traversati l'Altopiano delle Cinquemiglia, l'Altopiano del Quarto Grande e l'Altopiano di Quarto Santa Chiara, con a sud-est i Monti Pizzi, passato il valico della Forchetta, percorre la valle del fiume Aventino, sul versante meridionale della Majella.

    Trascorsi circa 47 km, presso Casoli (prov. di Chieti), si dirama nella S.S. 81 Piceno-Aprutina (già via Viscerale) e, dopo altri 7 km, arriva nei pressi dello svincolo della S.S. 652 "Fondovalle Sangro", vicino Selva di Altino (fondata nel 452 da profughi veneti sfuggiti ad Attila), che collega l'interno del Molise, abitato dai Sanniti alla costa adriatica.

    Da qui prosegue attraversando i territori di Casoli (loc. Guarenna) quindi Sant'Eusanio del Sangro, Castel Frentano, Lanciano, Treglio e San Vito Chietino, fino alla SS 16 Adriatica.
    La via Frentana attraversa oggi i comuni di Roccaraso, Rivisondoli, Pescocostanzo (provi. dell'Aquila), Palena, Lama dei Peligni, Taranta Peligna, Civitella Messer Raimondo, Gessopalena, Casoli, Altino, Sant'Eusanio del Sangro, Castel Frentano, Lanciano, Treglio, San Vito Chietino (prov. Chieti).



    "STORIA DI VASTO, CITTA' IN ABRUZZO CITERIORE - Luigi Marchesani"

    "Sfuggi la città nostra alla memoria ed al sapere del greco geografo Strabone pervenuto a gran fama circa gli  anni trenta avanti Gesù Cristo?
    Ei scrisse stare in Frentania Orzio, scoglio di pirati, i quali acconciano i loro abituri con gli avanzi de’naufragii, e vivono vita .bestiale, A qual città fra quelle marine della Frentania si dovesse applicare la umiliante epigrafe di Strabone, fu ciò di acre contesa argomento. 

    RESTI CASTRUM TRUENTINUM
    Ortona e Vasto ebbero a difensore il Romanelli, che conchiuse esser Tremiti l’Orzio di Strabone. Ben volentieri la città nostra avrebbe rinunziato all'onore della Straboniana menzione per evitare una macchia nella riputazione. Se fede meritano i codici manoscritti osservali in  Parigi da Du Theil, Strabone non ci trascurò: in essi non Orzion, ma Histonion sta grecamente scritto nel riferito testo di Strabone. 

    Che un lontano geografo, nativo di altra nazione, errato avesse sulle usanze, su i costumi e sulla civilizzazione di città da lui giammai visitata, non è da meravigliarsene assai; ma che il Romanelli (vissuto tra noi lungamente qual Canonico di S. Pietro, e conoscitore anche delle viscere della patria nostra ) cangiando parere, si uniformasse alla sentenza di Strabone, ciò ne dee sorprendere. Egli, che la giustizia della storia coltivava, risponder doveva a Strabone o che lo scoglio di Pirati non era Istonio, o che gl’Istoniesi erano ben altra gente che Pirati. 

    Come chiamar pirati, selvaggi quegl'lstoniesi, i quali, mentre Strabone la sua geografia componeva, viveano sotto civile amministrazione modellata su quella di Roma, godevano privilegi di romani municipi, albergavano le nobili legioni gravi Magistrati romani, ad insigni uomini statue innalzavano, marmi onorifici iscrivevano? 

    Di naufraghi avanzi non abbisognava città adorna di Campidoglio, di Tempii, di Naumachia, di vaste cisterne, di consolare strada e di quanti altri edifizii servono alla vita ed al lusso. Scoglio questa città, di cui il fida spianato, aperto, grandeggiava per fabbriche della più ricercata costruzione! Tante cose ben conobbe, anzi descrisse il Romanelli nelle citate opere sue." 


    EMPORIAE - AMPURIAS (Spagna)

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    RICOSTRUZIONE DELLA CITTA'
    Emporiae consiste in diversi insediamenti:

    - La Palaiopolis o Città Vecchia, venne fondata da emigranti greci Greek provenienti da Marsiglia o da un'isola accanto alla Costa Brava Costa Brava presso i Pirenei, alla foce del fiume Fluvià. Essa si chiama ora Sant Martí d'Empúries, ed è abitata per cui è difficile eseguire gli scavi.

    - Neapolis o Città Nuova venne fondata più tardi sulla terraferma, con una superficie di circa 4 ettari. Il molo e gli strati superiori, dal I e II secolo a.c., sono stati scavati; gli strati più bassi sono meno conosciuti.
    - La città romana, venne fondata dopo il 195 a.c., sul posto di un insediamento nativo conosciuto come Indikê. Misurava circa 22 ettari e mezzo 22½ incluso un anfiteatro, e solo una piccola parte ne è stata scavata.
    - I cimiteri fuori delle mura.



    NEAPOLIS

    Emporiae (in greco: ᾽Εμπόριον, "porto commerciale") ha tre insediamenti Greco-Romani locati nel nord-ovest della Spagna, oggi chiamati Ampurias in Spagnolo e Empúries in Catalano. Essa è oggi una località nel comune di L'Escala in Catalogna.

    Il sito è stato dapprima colonizzato dai Greci a partire dalla prima metà del VI secolo a.c. (il nome Emporion sta anche a significare mercato), quindi dai Romani che ne furono prima alleati poi occupanti. Fiorente fino alla metà circa del II secolo, decadde successivamente. Con la caduta dell'Impero romano d'Occidente fu conquistata prima dai Visigoti, poi dagli Arabi.

    Venne fondata dai Focesi di Massalia (Marsiglia) nella prima metà del VI secolo a.c. sul golfo di Roses, il cui antico insediamento greco, Rhodas, dette successivamente il nome all'attuale centro abitato.

    I RESTI
    La città era inizialmente situata su una penisola chiamata oggi Sant Martí d'Empúries, conosciuta dagli archeologi come Paleàpolis o città vecchia. Non si trattava però di una città completamente nuova: la tribù iberica degli Indigetes viveva già lì.

    Le due nazioni sembrano essere andate abbastanza d'accordo, pur senza essersi troppo mescolate: gli indigeni hanno ottenuto merci preziose dall'est, mentre i greci hanno ottenuto un porto di scalo nella loro rete in espansione nella parte occidentale del Mediterraneo. Questo era simile a quello dei Fenici, che avevano già visitato il luogo, ma che avevano deciso di non stabilirvisi. 

    I più antichi reperti archeologici importati dalla Grecia fanno pensare che i primi contatti commerciali siano avvenuti intorno al 600 a.c. La città stessa deve essere stata fondata un po' più tardi, forse nel secondo quarto del VI secolo.

    NEAPOLIS - SERAPEO
    La città era nota per un tempio dedicato alla famosa dea Artemide di Efeso; non è stato ancora identificato, ma dovrebbe trovarsi sotto l'attuale chiesa, costruita sulle fondamenta di un grande edificio antico. Si sa che le chiese cristiane vennero spesso edificate sulle demolizioni e lo spolio dei templi pagani.

    Successivamente il primo insediamento si ampliò, fino a trasformarsi in un centro abitato contiguo e prese il nome di Neápolis. Fin dall'inizio ebbe un'economia prettamente commerciale per cui da subito si riempì non solo di mercanti fenici ed etruschi ma pure di una massiccia popolazione eterogenea, non solo ellenica, ma anche iberica. 

    Quest'ultima però, pur convivendo pacificamente coi greci, non era a questi molto gradita, per cui venne segregata in una parte della città, o in una vera e propria città "parallela".

    NEAPOLIS - CASA DEL PERISTLIO
    Circondata da una potente cinta muraria, Εμπόριον fiorì particolarmente fra il V e il IV secolo a.c., grazie soprattutto allo sviluppo del commercio di cereali che, prodotti nella valle dell'Ebro, venivano esportati in molti centri mediterranei, fra cui Marsiglia, Atene e Siracusa. 

    Il centro ibero di Ullastret, posto a meno di venti km da Empuries, serviva da centro di raccolta e di stoccaggio dei cereali e di altre derrate agricole che successivamente venivano trasportate ad Empúries per la vendita e l'imbarco. Attorno alla metà del IV secolo a.c. in città si iniziarono a coniare le prime monete.

    Nel momento della sua massima espansione (IV secolo a.c.) Empúries raggiunse una superficie di circa cinque ettari, di cui tre completamente urbanizzati. La sua popolazione doveva aggirarsi, secondo i calcoli più attendibili, fra un minimo di tremila e un massimo di quattromila duecento cinquanta abitanti.

    IL TEMPIO NEL FORO
    A tutt'oggi sono visibili diversi resti della città greca, vale a dire:

    - il santuario di Asclepio, con all'interno una statua del Dio che attualmente si trova nel Museo Archeologico di Barcellona,
    - un tempio dedicato a Serapide, eretto in età ellenistica a fianco del santuario di Asclepio,
    - un recinto sacro,
    - una torre di guardia,
    - cisterne per l'acqua,
    - diverse case,
    - l'agorà
    - un colonnato detto Stoa (portici)
    - i resti della più antica basilica paleocristiana (presso la Stoà)

    Ci sono inoltre pervenuti alcuni mosaici con iscrizioni greche: una di queste, perfettamente leggibile, augura al morto Dolci sogni (ΗΔΨΚΟΙΤΟΣ).

    RICOSTRUZIONE DEL FORO

    EMPORIAE - LA CITTA' ROMANA

    Durante la II guerra punica, Empúries si schierò apertamente dalla parte di Roma Roma e l'urbe non lo dimenticò. Nel 218 a.c. un esercito romano venne dunque abilitata a sbarcare nel suo porto e la città divenne uno dei più solidi punti di appoggio dell'Urbe in Hispania. 
    Per lungo tempo Εμπόριον mantenne lo status di città alleata, pur divenendo, di fatto, una grande fortezza per un poderoso presidio romano addetto al controllo del territorio nord-est peninsulare. A partire dal 200 a.c. si iniziò a conformare la città romana, adiacente alla precedente, che ricevette un ulteriore impulso dopo il 49 a.c., quando, per ordine di Giulio Cesare, venne dedotta sul posto una colonia di veterani che avevano combattuto al suo fianco nella penisola iberica. 
    La Empuriae romana eclissò in poco tempo la Εμπόριον greca anche se questa mantenne la propria lingua fino ad età augustea. I romani non impedivano alle città occupate di adorare i loro Dei e di parlare la loro lingua, purchè consentissero la coesistenza di templi con divinità romane e imparassero anche a parlare latino. Anche in epoca imperiale la città conservò una certa prosperità fino almeno alla metà del II secolo.



    LA CITTA' GRECA

    Forse meno di una generazione dopo il loro arrivo sull'isola, gli abitanti greci fondarono la nuova città, chiamata Neapolis, sulla terraferma, più vicina ad un'altra città natale chiamata Indikê (derivata da "Indigetes"). 

    È possibile che la cattura di Phocaea, la città madre di Massilia, da parte dei Persiani, dopo il 547, abbia portato ad una migrazione di profughi verso ovest. Questo tipo di insediamento "a gradoni", in cui i coloni prima occuparono un'isola e poi si trasferirono sulla terraferma, è noto dall'Italia e dalla Cirenaica. L'insediamento originario ha continuato ad essere in uso e lo è ancora oggi.

    Uno dei santuari della nuova città è stato scavato, ma non ne abbiamo molte informazioni, poiché nel IV secolo è stato sostituito da un altro tempio. Il primo santuario sembra essere stato eretto al di fuori delle mura originali, il che lo rendeva accessibile anche agli Indigetes (o Indigoti). Il santuario potrebbe essere stato utilizzato da entrambi i gruppi etnici.

    LE TERME
    Il secondo tempio fu costruito su un'alta terrazza e dedicato ad Asclepio, il Dio della guarigione. Ormai la città si era ampliata, tanto che si trovava all'interno delle mura. Si dà il caso che la statua del culto, più grande del mondo, sopravviva: fu collocata in una cisterna, probabilmente dai fedeli che volevano proteggerla. Essendo fatta di marmi bianchi pentelici importati dalla madrepatria greca, era eccezionalmente preziosa r così è giunta fino a noi.

    PERSEFONE E PEGASO 240 A.C.
    Nel corso dei secoli la Neapolis si è estesa a sud; il muro che oggi si può vedere risale al II secolo, ma a nord di esso sono state trovate tracce di mura del V e IV secolo. Apparentemente, queste mura erano necessarie: i rapporti tra i greci e gli indigeni non sempre dovevano essere facili. (Cf. Tito Livio, Storia di Roma dalla sua fondazione 34.9; cfr. Strabone, 3.4.8.).

    Ormai i tre insediamenti - Palaiapolis, Neapolis, Indikê - erano tutti e tre importanti. Uno dei principali partner commerciali era Cartagine, e forse non è un caso che la moneta della città somigli alle monete di Cartagine: da un lato si vede una Persefone con una spiga di grano, dall'altro un cavallo alato. 
    L'ANFITEATRO
    Dopo la prima guerra punica (264-241), i cartaginesi conquistarono gran parte della Spagna, e gli emporioti sostituirono Persefone con Aretusa di Siracusa, che potrebbe essere espressione di una politica anti cartaginese. 

    La ricostruzione delle mura suggerisce la stessa cosa, in quanto gli abitanti  di Emporiae avevano apprezzato il trattamento riservato a loro dai romani molto più di quanto avessero gradito il rapporto coi cartaginesi.

    Ciò è dimostrato anche dal fatto che nel famoso Trattato dell'Ebro (226) i Romani stabilirono che Emporiae non apparteneva alla zona di influenza cartaginese e Cartagine lo dovette accettare.

    MOSAICO ROMANO

    LA CITTA' ROMANA

    Durante la seconda guerra punica, i Romani conquistarono la prima Catalogna. Quando le tribù locali si ribellarono all'inizio del secondo secolo, i romani mandarono Marcus Porcius Cato per ristabilire l'ordine, e dopo il 195, sul sito di Indikê fu costruito un grande insediamento militare. 

    Questo divenne il centro della parte romana di quella che oggi è conosciuta come Emporiae - il plurale è necessario perché ora ci sono due città vicine. Le tombe dei soldati, trovate nella necropoli di Les Corts, sono piene di beni romani.

    Quando una legione era di stanza a Indikê, c'erano circa 4.000 uomini che vivevano lì, che ricevevano tutti una paga che dovevano spendere da qualche parte. Questo creava una domanda consistente e creava opportunità di commercio per Neapolis. 


    Il porto fu quindi ampliato e fu aggiunto un molo ad est. I profitti furono investiti in nuove mura, in una nuova fase di costruzione dell'Asclepio, in un tempio di Iside e Serapide, in una grande cisterna pubblica, in una fabbrica di salatura e nella piazza del mercato con la sua stoa. 

    La lussuosa Casa del Peristilio e diversi palazzi simili tra l'insediamento civile greco e quello militare romano potrebbero essere state le residenze di ricchi mercanti ed ex ufficiali che avevano deciso di rimanere.

    Emporiae, conquistata nel 218, divenne una delle più importanti basi militari: da qui i romani potevano tagliare le linee di comunicazione di Annibale. Più tardi, Tarraco e Cartagine Nova si aggiunsero ai possedimenti romani, seguiti dalla conquista dell'Andalusia.

    STATUA DI ASCLEPIO
    L'insediamento romano, situato in posizione dominante e adiacente a quello greco, iniziò a svilupparsi prima come accampamento militare e progressivamente come forte nel II secolo a.c.. 
    La base militare fu smantellata a cavallo tra il secondo e il primo secolo e fu costruita una nuova città civile. 

    Aveva la forma di un lungo rettangolo, non diversamente da Cáceres, una città spagnola dell'Estremadura, anch'essa fondata per sostituire un precedente insediamento militare. 

    La nuova città misurava circa 22,5 ettari, che tuttavia non è molto grande, ma questo potrebbe essere stato parte del progetto più ampio, iniziato nel 118, per sviluppare la zona tra le foci dell'Ebro e del Rodano, zona servita dall'importante Via Domitia.


    Nel 45 a.c., Giulio Cesare rifondò Emporiae, vi insediò nuovi coloni, cioè i suoi veterani, e la città gemella ricevette un'unica muraglia. Il foro nella parte romana della città fu riorganizzato e nuovi templi furono aggiunti al santuario principale, che divenne un santuario per il culto imperiale. 

    Secondo lo stile romano la città venne abbellita di molti monumenti e dotata di ogni confort di tipo romano. Purtroppo solo una parte della città rifondata è stata scavata, perchè sappiamo che tra il I secolo a.c. e il I secolo d.c. vi vennero eretti:

    - il foro
    - la cui parte meridionale era occupata da negozi e botteghe di vario genere fra cui un importante panificio di cui si può ancora ammirare una macina di mulino in discreto stato di conservazione,
    - nella parte settentrionale del foro sorgeva un mercato con due lunghe file di posti,
    - la strada principale (il cardo),
    - l'anfiteatro,
    - la palestra,
    - le terme
    - le vie porticate, 
    - diversi palazzi con splendidi mosaici,
    - le ville romane, tra queste sono riemerse due ville romane nell'area urbana con pavimenti adorni di mosaici del I secolo, oggi perfettamente visibili anche se di mediocre qualità artistica (probabilmente di maestranze locali).

    RESTI DEL FORO
    L'anfiteatro e la palestra possono essere datati dopo il 50 a.c.. Non sono molto grandi: anche se l'arena misura 75x44 metri, non c'erano più di 3300 posti a sedere, il che fa pensare che il progetto iniziale sia stato a un certo punto sostituito da un progetto più modesto. 

    All'inizio del II secolo, durante il regno di Traiano, alcune parti della Neapolis erano già state abbandonate. Il declino continuò e l'invasione dei Galli nel 265 sembra essere stato il colpo finale per Emporiae. Eppure, ci sono prove che c'era ancora gente che viveva lì, e sappiamo che nel IV secolo, vicino all'agorà della Neapolis, fu costruito un piccolo santuario cristiano. 

    Tuttavia, l'unico sito che sembra essere rimasto permanentemente occupato è stato quello di Sant Martí d'Empúries: il Palaiapolis, dove tutto era iniziato. Il porto era ancora in uso. Rimase una sede vescovile che ebbe una certa importanza in epoca visigota.

    Gli scavi del sito sono iniziati nel 1908; fino ad oggi è stato scavato circa il 25% del sito. Comunque la zona è oggi un museo quasi totalmente all'aria aperta, visitabile dal pubblico: nella sua parte interna suggestive proiezioni ricostruiscono la storia di Empúries antica.

    MARCO CELIO RUFO - M. CAELIUS RUFUS

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    ORATORE

    Nome: Marcus Caelius Rufus
    Nascita: 82 a.C., Interamnia Praetuttiorum
    Morte: 48 a.C., Thurii
    Professione: Politico ed oratore



    L'AVVOCATO

    Marco Celio Rufo (Interamnia Praetuttiorum, 82 a.c. – Thurii, 48 a.c.) è stato un politico e oratore romano. Nacque probabilmente a Interamnia Praetuttiorum, (oggi Teramo) nell'82 a.c. da una famiglia di ceto equestre; apprese l'arte retorica da Marco Licinio Crasso ( 115 a.c. – 53 a.c.), politico e generale romano ma soprattutto da Marco Tullio Cicerone, con il quale instaurò una profonda amicizia. Grazie alle sue doti di oratore, tentò di intraprendere come homo novus la carriera politica.

    Allievo e amico di Marco Tullio Cicerone, che gli fu maestro nell'arte oratoria, viene ricordato per il suo coraggio e le sue abilità, per aver intentato, ancorchè giovane, alcuni processi contro importanti esponenti dell'aristocrazia senatoria.

    CATILINA

    FORSE CONGIURATO

    Vi sono seri dubbi sul suo comportamento rispetto alla congiura di Catilina del 63 a.c., a cui probabilmente aveva preso parte; tuttavia egli abbandonò i congiurati prima che avvenisse il misfatto, partendo per l'Africa con la spedizione di Q. Pompeo Rufo.



    CAUSA CONTRO IBRIDA

    Nel 59 a.c., quando, ancora molto giovane, su indicazione di Gaio Giulio Cesare e di Gneo Pompeo Magno, Celio accusò di concussione e di lesa maestà Gaio Antonio Ibrida, che era appena rientrato a Roma dalla provincia di Macedonia, che aveva governato come proconsole dal 62 al 61 a.c.

    Probabilmente l'accusa secondaria di partecipazione alla congiura di Catilina fu determinante per la vittoria della causa da parte di Celio, anche se i catilinarii esultarono per la condanna poiché Antonio li avrebbe traditi, assumendo, nel 62 a.c., il comando dell'esercito nella battaglia di Pistoia.

    Antonio Ibrida, fratello minore di Marco Antonio Cretico, proconsole, governatore della Macedonia (62/61 a.c.) e console con Cicerone nel 63 a.c., venne accusato nel 59 a.c. di lesa maestà e concussione da Celio Rufo che vinse la causa. Da questo processo ottenne una grande fama, in quanto il difensore dell'accusato era il grande Cicerone.

    LESBIA

    CLODIA - LESBIA

    In quegli anni Celio Rufo abitò presso il Palatino nella casa di Publio Clodio Pulcro e intraprese una breve relazione amorosa con Clodia, sorella di Clodio Pulcro. La donna, più grande di Celio di circa dieci anni, fu la famosa Lesbia cantata da Catullo nel suo Liber Catullianus.

    Al principio del 56 a.c. Celio accusò Lucio Calpurnio Bestia (console nel 111 a.c.) "de ambitu", ovvero per i brogli elettorali che questi avrebbe compiuto nella campagna elettorale per l'edilità del 57 a.c., ma stavolta fu la difesa di Cicerone a vincere.



    DE VI

    Nello stesso anno Celio venne accusato, da Clodia, ora ex amante, di aver partecipato ad atti di violenza compiuti ai danni degli ambasciatori di Tolomeo XII Aulete, (un faraone egizio del periodo tolemaico, regnante dall'80 al 58 a.c. e dal 55 a.c. alla sua morte), ma venne difeso da Cicerone, che pronunciò la brillante orazione Pro Caelio, e che lo fece assolvere.

    Celio accusò di nuovo, nel 56 a.c., Calpurnio Bestia, di brogli elettorali nella campagna elettorale dello stesso 56 a.c., ma il processo non si fece perchè il figlio di Calpurnio, Lucio Sempronio Atrantino, insieme a L. Erennio Balbo e Publio Clodio, accusò Celio di aver partecipato agli atti di violenza contro gli ambasciatori alessandrini giunti a Roma per impedire che il re di Alessandria, Tolomeo XII Aulete, appena destituito, fosse ricondotto al potere grazie a Pompeo.

    L'accusa "de vi" (di violenza su persone inviolabili) era molto grave si che ebbe la precedenza e si tenne durante i ludi Megalenses. Al processo partecipò anche Clodia che accusò Celio di averle sottratto denaro e gioielli, e che avesse tentato di avvelenarla. Celio venne difeso da se stesso, poi da Crasso e infine da Cicerone, che lo fece assolvere con la famosa orazione Pro Caelio, in cui diffamò pesantemente Clodia.

    CICERONE

    IL TRIBUNO DELLA PLEBE

    Finalmente libero, Celio nel 52 a.c. divenne tribuno della plebe ma presto venne coinvolto nell'uccisione di Clodio per mano di Tito Annio Milone, difese Milone di fronte al popolo facendo apparire Clodio come provocatore dello scontro in cui rimase ucciso dagli uomini di Milone. Per l'occasione sostenne i senatori contro Pompeo.

    Nel 51 a.c., partendo per il proconsolato in Cilicia, Cicerone chiese a Celio di tenerlo informato sugli avvenimenti dell'Urbe; le diciassette lettere che Celio inviò a Cicerone vennero raccolte nell'VIII libro delle "Epistulae ad familiares", narrando la vita di Celio fino al febbraio del 48 a.c.



    L'EDILE CURULE

    Nel 51 a.c. fu inoltre eletto edile curule per l'anno successivo per cui organizzò pubblici giochi, per i quali richiese a Cicerone l'invio dalla provincia di alcune pantere, e si impegnò a risolvere gli abusi relativi all'erogazione delle acque pubbliche. Fu inoltre coinvolto in un reciproco scambio di accuse con il censore Appio Claudio Pulcro (97 a.c. -  49 a.c.) che aveva in un primo momento appoggiato.

    GIULIO CESARE

    PRO CESARE

    Sebbene nelle lettere inviate a Cicerone avesse manifestato simpatia per l'aristocrazia senatoria e avversione per Cesare, Celio mutò con grande franchezza e cinismo i suoi orientamenti alla vigilia dello scoppio della guerra civile: il 1º gennaio del 49 a.c. in senato si propose di deliberare che Cesare dovesse lasciare il comando del suo esercito per non essere dichiarato nemico della patria, ma Celio si oppose al decreto, e in seguito al "senatusconsultum ultimum" del 7 gennaio lasciò Roma per raggiungere Cesare a Ravenna.

    Celio confessò a Cicerone di essere passato dalla parte dei Cesariani per via del risentimento verso l'aristocratico Appio Claudio Pulcro e per l'amicizia che invece lo univa al cesariano Gaio Scribonio Curione (90 a.c. - 49 a.c.). Ma dopo un anno già manifestò un profondo disprezzo per i nuovi compagni.



    PRETORE PEREGRINO

    Tornato a Roma nel 48 a.c., venne nominato pretore peregrino, ma ne restò deluso e con la morte di Curione e Appio Claudio Pulcro, abdicò al partito cesariano e si oppose al pretore urbano Gaio Trebonio che tentava di applicare i provvedimenti economici a favore della plebe emanati da Cesare l'anno precedente.

    Alora Celio propose una legge per il condono di un anno di pigione per i locatari, fino ad arrivare a chiedere la totale cancellazione dei debiti; come risultato Trebonio fu scacciato dal suo tribunale, ma il console Publio Servilio Vatia Isaurico radunò delle truppe a Roma e fece pressioni sul senato, circondando la curia, perché approvasse un senatusconsultum ultimum che gli affidasse la difesa della città.

    Celio fu dunque deposto dalla carica ed espulso dal senato. Le leggi che egli aveva fatto approvare furono abrogate, e, mentre tentava di difendersi nel Foro, fu scaraventato giù dai rostri mentre la sua sella curule veniva distrutta.

    Celio lasciò Roma e andò nel Sud Italia, dove aveva chiesto a Milone, in esilio a Marsiglia  per l'uccisione di Clodio, di raggiungerlo. Milone aveva organizzato ludi gladiatori nella zona, e vi possedeva ancora un certo numero di combattenti; Celio lo inviò a Thurii (presso Sibari in Sicilia) per sollevare le popolazioni afflitte da recessione economica contro Cesare.

    Egli cercò intanto di rientrare a Roma, ma i suoi uomini, che stavano tentando di prendere Napoli, furono scoperti e Celio fu dichiarato nemico di Roma e dovette fuggire. Milone inviò lettere ai municipi vicini a Thurii invitando chi era oppresso dai debiti a sollevarsi, e liberò gli schiavi dagli ergastula e attaccò la città di Compsa.

    L'ANTICA COMPSA
    Venne però attaccato dal pretore Quinto Pedio, nipote di Giulio Cesare, sotto cui servì durante le campagne militari di conquista della Gallia (58 51/50 a.c.). con la sua legione e Milone fu colpito da un sasso scagliato dalle mura della città e ucciso; segno che la gente non fosse proprio a suo favore. 

    Non appena gli giunse la notizia della morte di Milone, Celio, senza far tesoro degli accadimenti, si recò presso i Bruzi per convincerli a rivoltarsi, ma, giunto a Thurii, fu trucidato dalla popolazione oltre che dai militari.
    Della capacità oratoria di Celio ci restano solo alcuni frammenti, e il suo personaggio venne apprezzato da alcuni e criticato da altri.



    CLODIA - LESBIA

    Si ritiene che Clodia sia stata la Lesbia catulliana e qualcuno ipotizza che Celio Rufo, suo amante dal 59 al 56 a.c., sia il Rufo di cui parlano i carmina 69 e 77 del Liber di Catullo; ma il solo cognomen non prova si tratti del Rufo catulliano, e si ha certezza che il Celio dei carmina 58 e 100 non fosse Celio Rufo. Questi potrebbe invece essere il personaggio amico di Catullo, definito «flos Veronensum iuvenum» («fiore dei giovani veronesi»)..

    Che vi sia stato un legame amoroso tra Celio e Clodia è notificato solo da Cicerone nella Pro Caelio, ma potrebbe trattarsi di un'invenzione di Cicerone per screditarla nel processo contro Celio.



    CELIO ORATORE

    L'abilità oratoria di Celio è testimoniata da Cicerone, Quintiliano e Tacito. Cicerone lo definì «lectissimus adulescens», ovvero «giovane eccellente», perfettamente padrone dell'ars rethorica. Marco Fabio Quintiliano (il primo maestro di retorica stipendiato dal fiscus imperiale) informa che Celio nei suoi discorsi era spesso sarcastico e pure umoristico ridicolizzando gli avversari, rinforzando le sue orazioni con aneddoti divertenti, di modo che il pubblico lo ascoltasse con piacere e simpatia.
    Secondo Lucio Anneo Seneca invece fu un tipo molto iracondo, che attaccava briga con chiunque, mentre per Ambrogio Teodosio Macrobio fu uno che tendeva a fomentare disordini tra la folla. Sicuramente c'era del vero, vista la perseveranza con cui si scagliò contro Cesare quando ormai si trattava di una battaglia persa.


    BIBLIO

    - Luca Canali - Una giovinezza piena di speranze. Autobiografia di Marco Celio Rufo - Milano -Bompiani - 2001 -
    - Cicerone - Pro Caelio -
    - Quintiliano - Institutio oratoria - VI -
    - D. Bowder - Dizionario dei personaggi dell'antica Roma - Newton Compton editori - 2001 -
    - Alberto Cavarzere - Introduzione al libro VIII - in Cicerone, Lettere ai familiari - BUR - 2009 -
    - Catullo - Carmina -
    - Cesare - De bello civili -

    OPERE DI CATULLO

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    GAIO VALERIO CATULLO

    Vedi anche: VITA DI CATULLO

    Il liber (libro) di Catullo non fu ordinato da lui stesso, che non aveva visto l'opera come un corpo unico, ma da un editore successivo (si pensa a Cornelio Nepote a cui è stata dedicata la prima parte dell'opera) che lo divise in tre parti secondo un criterio di tipo metrico:
    - i carmi da 1 a 60, sotto il nome di "nugae" (letteralmente "sciocchezze"), brevi carmi polimetri, per lo più faleci e trimetri giambici;
    - i carmi da 61 a 68, i cosiddetti "carmina docta" d'impronta alessandrina e per lo più in esametri e distici elegiaci;
    - i carmi dal 69 al 116 sono gli epigrammi ("epigrammata"), in distici elegiaci.

    Nelle nugae e negli epigrammata il tema dominante è dato dall'amore per Lesbia, rappresentata come una donna d'eccezionale fascino e cultura.
    Nei carmina docta, invece, torna il classico, dove il mito rappresenta un modello etico e di valori che Catullo sente minacciati nella vita del suo tempo.



    I TEMI DEL LIBER

    La parte più importante del Liber catulliano è costituita dal sentimento amoroso per Lesbia, con cui ebbe un inizio molto felice ma in seguito funestato dai numerosi tradimenti della donna, alternando momenti di gioia a momenti di cupa infelicità.

    Nella tradizione dell'epoca il vero amore apparteneva solo al matrimonio, peer Catullo, invece il rapporto con Lesbia, anche se trasgressivo per i moralisti (carme 5), è fondato su un "patto" (foedus) di lealtà, stima e fedeltà per cui non ha meno valore del matrimonio.

    Amare e bene velle, il desiderio carnale e l'affetto, sono aspetti complementari ed indivisibili del rapporto: l'infedeltà annienta l'inviolabilità del bene velle ed acuisce il desiderio, ora trasformato in sofferenza. Odio et amo, in un turbinio di emozioni che portano alla follia e alla disperazione. Catullo porta la poesia ad un livello sublime di profondità psichica e dolore lancinante.

    Catullo fa uso nella sua opera di più linguaggi, che fonde assieme per creare una lingua letteraria che comprenda tanto forme colte e dotte quanto forme "volgari e oscene", proprie del sermo familiaris, con diminutivi, grecismi, interiezioni, onomatopee ed espressioni della lingua parlata. Ma pure se il linguaggio è quotidiano e familiare, esso è rielaborato con fine gusto letterario. Per la scorrevolezza dello scritto egli fa uso di dialoghi, allocuzioni, iterazioni, metafore, diminutivi e così via.

    Molto gli giovò la fondazione dei "Poeti Nuovi" che avevano una mentalità anticonformista e che lavoravano allo svecchiamento della poesia romana, ancora legata alle idealità civili dell’epica arcaica.



    ELENCO DEI CARMINA  


    NUGAE carmi senza pretese

    Carme I - Dedica a Cornelio Nepote
    Carme II - Il passero di Lesbia
    Carme III - Morte del passerotto
    Carme IV - Il battello di Catullo
    Carme V - A Lesbia
    Carme VI - Flavi, delicias tuas Catullo
    Carme VII - A Lesbia
    Carme VIII - A se stesso
    Carme IX - A Veranio
    Carme X - A Furio e Aurelio
    Carme XI - Furi et Aureli, comites Catulli
    Carme XII - Contro Marrucino, ladro di fazzoletti
    Carme XIII - Invito a cena a Fabullo con doppia sorpresa
    Carme XIV - Ni te plus oculis meis amarem 
    Carme XIVb - Si qui forte mearum ineptiarum 
    Carme XV - Commendo tibi me ac meos amores 
    Carme XVI Ad Aurelio e Furio 
    Carme XVII O Colonia, quae cupis ponte ludere longo 
    Carme XXI Ad Aurelio 
    Carme XXII A Varo 
    Carme XXIII Furi, cui neque servus est neque arca 
    Carme XXIV O qui flosculus es Iuventiorum 
    Carme XXV Cinaede Thalle, mollior cuniculi capillo 
    Carme XXVI - La villetta "esposta" 
    Carme XXVII Ad un giovane coppiere 
    Carme XXVIII Pisonis comites, cohors inanis 
    Carme XXIX Quis hoc potest videre, quis potest pati 
    Carme XXX Alfene immemor atque unanimis false sodalibus 
    Carme XXXI A Sirmione 
    Carme XXXII Ad Ipsitilla
    Carme XXXIII O furum optime balneariorum
    Carme XXXIV Inno a Diana
    Carme XXXV Poeta tenero, meo sodali
    Carme XXXVI Gli Annali di Volusio
    Carme XXXVII La taverna di Lesbia
    Carme XXXVIII Rimprovero a Cornificio
    Carme XXXIX I denti bianchi di Egnazio
    Carme XL Quaenam te mala mens, miselle Rauide
    Carme XLI Ameana
    Carme XLII Adeste, hendecasyllabi, quot estis
    Carme XLIII Ad Ameana
    Carme XLIV O funde noster seu Sabine seu Tiburs
    Carme XLV Acmen Septimius suos amores
    Carme XLVI Il ritorno della primavera
    Carme XLVII Porci et Socration, duae sinistrae
    Carme XLVIII A Giovenzio
    Carme XLIX A Cicerone
    Carme L Hesterno, Licini, die otiosi
    Carme LI La sindrome amorosa
    Carme LII Cose insopportabili
    Carme LIII Risi nescio quem modo e corona
    Carme LIV Othonis caput oppido est pusillum
    Carme LV Oramus, si forte non molestum est
    Carme LVI O rem ridiculam, Cato, et iocosam
    Carme LVII Pulchre conuenit improbis cinaedis
    Carme LVIII Contro Lesbia
    Carme LVIIIb Non custos si fingar ille Cretum
    Carme LIX La bolognese Rufa
    Carme LX Contro una donna crudele


    CARMINA DOCTADI argomento erudito e richiamo al modello ellenistico
     
    Carme LXI Per le nozze di Lucio Manlio Torquato e Vinia Aurunculeia
    Carme LXII Vesper adest
    Carme LXIII Attis
    Carme LXIV Le nozze di Peleo e Teti
    Carme LXV Epistola ad Ortalo
    Carme LXVI La chioma di Berenice
    Carme LXVII Il carme della ianua
    Carme LXVIII Quod mihi fortuna casuque oppressus acerbo
    Carme LXIX
    Carme LXX Promesse di donna
    Carme LXXI
    Carme LXXII A Lesbia
    Carme LXXIII Ingratitudine generale
    Carme LXXIV
    Carme LXXV A Lesbia
    Carme LXXVI
    Carme LXXVII
    Carme LXXVIII
    Carme LXXVIII b
    Carme LXXIX
    Carme LXXX
    Carme LXXXI
    Carme LXXXII
    Carme LXXXIII
    Carme LXXXIV La pronuncia di Arrio
    Carme LXXXV Odi et amo
    Carme LXXXVI Lesbia è la più bella
    Carme LXXXVII A Lesbia
    Carme LXXXVIII
    Carme LXXXIX Contro Gellio
    Carme XC
    Carme XCI
    Carme XCII A Lesbia
    Carme XCIII Disinteresse per Cesare
    Carme XCIV A Minchia-Mamurra
    Carme XCV La Smirna di Cinna
    Carme XCVb
    Carme XCVI
    Carme XCVII
    Carme XCVIII
    Carme IC
    Carme C
    Carme CI Per la morte del fratello
    Carme CII
    Carme CIII
    Carme CIV Come posso maledire Lesbia?
    Carme CV
    Carme CVI
    Carme CVII Il ritorno di Lesbia
    Carme CVIII
    Carme CIX Speranza di amore eterno
    Carme CX
    Carme CXI
    Carme CXII
    Carme CXIII
    Carme CXIV
    Carme CXV
    Carme CXVI


      Codici catulliani

      - Il Thuanensis, dal nome del possessore J. A. de Thou, florilegio del IX secolo contenente, del Liber, il solo carme 62.
      - L'Oxoniensis, del XIV secolo
      - Il Sangermanensis, dall'abbazia di Saint-Germain-des-Prés, della fine del XIV secolo
      - Il Datanus (1463) dal nome del possessore nel XVII secolo Luigi Dati

         

        I CARMINA


        1)  Carmen I - Dedica a Cornelio Nepote

        «Cui dono lepidum novum libellum
        arida modo pumice expolitum?
        Corneli, tibi: namque tu solebas
        meas esse aliquid putare nugas
        iam tum cum ausus es unus Italorum
        omne aevum tribus explicare cartis
        doctis, Iuppiter, et laboriosis.
        Quare habe tibi quicquid hoc libelli
        qualecumque; quod, patrona virgo,
        plus uno maneat perenne saeclo

        «A chi dono il mio libretto nuovo elegante
        appena levigato dalla dura pietra pomice?
        A te, Cornelio: e infatti tu eri solito
        pensare che le mie sciocchezze valessero qualcosa
        già allora, quando hai avuto il coraggio, unico fra gli Italici,
        di esporre tutta la storia in tre libri
        eruditi, per Giove, e laboriosi.
        Per questa ragione prendi questo libretto, qualunque cosa
        e quale il suo valore; perchè nella vergine madre
        possa rimanere più di un solo secolo.»



        2)  Carmen II - Il passero di Lesbia

        Egli aderisce alla poesia neoterica, un movimento letterario dell'età di Cesare. I suoi poeti erano chiamati neoteroi (o poetae novi), cosìddetti da Cicerone in modo ironico, disapprovando il distacco dalla tradizione della poesia romana arcaica. Nel Carmen II il poeta evoca quel poco di gioia che il passerotto procura a Lesbia che gioca con lui, e che potrebbe dar sollievo alla sua malinconia.

        «Passer, deliciae meae puellae,
        quicum ludere, quem in sinu tenere,
        cui primum digitum dare adpetenti
        et acris solet incitare morsus,
        cum desiderio meo nitenti
        carum nescioquid libet iocari
        ...tam gratum est mihi quam ferunt puellae
        pernici aureolum fuisse malum
        quod zolam solvit diu ligatam
        ...et solaciolum sui doloris
        credo, tum gravis acquiescet ardor
        Tecum ludere sicut ipsa possem
        et tristis animi levare curas


        "Passero, passero dell'amor mio:
        ti tiene in seno, gioca con te,
        porge le dita al tuo assalto,
        provoca le tue beccate rabbiose.
        Come si diverta l'anima mia
        in questo gioco, trovando conforto
        al suo dolore, non so; ma come lei,
        quando si placa l'affanno d'amore,
        anch'io vorrei giocare con te
        e strapparmi dal cuore la malinconia."



        3)  Carmen III - Morte del passerotto

        L’adesione all'ambiente romano è in effetti difficile, Catullo rifiuta ogni impegno personale in ambito politico. Lo stesso viaggio in Bitinia, intrapreso nel 57 a.c., al seguito del governatore Gaio Memmio, fu vissuto con insofferenza: forse il poeta era troppo tormentato dalla sua storia d’amore. L’evento di gran lunga più significativo della vita e della poesia di Catullo fu, infatti, l’incontro con una donna che nel suo canzoniere porta lo pseudonimo di Lesbia.

        «Lugete, o Veneres Cupidinesque
        Et quantum est hominum venustiorum!
        Passer mortuus est meae puellae,
        Passer, deliciae meae puellae,
        Quem plus illa oculis suis amabat;
        Nam mellitus erat, suamque norat
        Ipsam tam bene quam puella matrem,
        Nec sese a gremio illius movebat,
        Sed circumsiliens modo huc modo illuc
        Ad solam dominam usque pipiabat.
        Qui nunc it per iter tenebricosum
        Illuc, unde negant redire quemquam.
        At uobis male sit, malae tenebrae
        Orci, quae omnia bella deuoratis;
        Tam bellum mihi passerem abstulistis.
        O factum male! io miselle passer!
        Tua nunc opera meae puellae
        Flendo turgiduli rubent ocelli.
        »

        «Pianga Venere, piangano Amore
        e tutti gli uomini gentili:
        è morto il passero del mio amore,
        morto il passero che il mio amore
        amava più degli occhi suoi.
        Dolcissimo, la riconosceva
        come una bambina la madre,
        non si staccava dal suo grembo,
        le saltellava intorno
        e soltanto per lei cinguettava.
        Ora se ne va per quella strada oscura
        da cui, giurano, non torna nessuno.
        Siate maledette, maledette tenebre
        dell'Orco che ogni cosa bella divorate:
        una delizia di passero m'avete strappato.
        Maledette, passerotto infelice:
        ora per te gli occhi, perle del mio amore,
        si arrossano un poco, gonfi di pianto.»



        4)  Carmen IV -  Flavi, delicias tuas Catullo

        «Phaselus ille, quem videtis, hospites,
        ait fuisse navium celerrimus,
        neque ullus natantis impetum trabis
        nequisse praeterire, sive palmulis
        opus foret volare sive linteo.
        Et hoc negat minacis hadriatici
        negare litus insulasve Cycladas
        Rhodumque nobilem horridamque Thraciam
        Propontida trucemve Ponticum sinum,
        ubi iste post phaselus antea fuit
        comata silva; nam Cyrotioin iugo
        loquente saepe sibilum edidit coma.
        Amastri Pontica et Cytore buxifer,
        tibi haec fuisse et esse cognitissima
        ait phaselus, ultima ex origine
        tuo stetisse dicit in cacumine,
        tuo imbuisse palmulas in aequore,
        et inde tot per impotentia freta
        erum tulisse, laeva sive dextera
        vocaret aura, sive utrumque Iuppiter
        simul secundus incidisset in pedem;
        neque ulla vota litoralibus deis
        sibi esse facta, cum veniret a mari
        novissimo hunc ad usque limpidum lacum.
        Sed haec prius fuere; nunc recondita
        senet quiete seque dedicat tibi,
        gemelle Castor et gemelle Castoris

        «Questo battello che vedete, amici,
        si vanta d'essere stato una nave
        cosí veloce che mai nessun legno
        poté superarlo in gara, volando
        con le ali dei remi o delle vele.
        Certo ne possono far fede i porti
        dell'Adriatico infido o le Cicladi,
        la luminosa Rodi, il mar di Marmara
        agitato o l'orribile mar Nero
        dove fu, prima d'essere battello,
        foresta oscura: sul monte Citoro
        la sua voce fischiava tra le foglie.
        Questo, Amastri, questo tu lo sapevi,
        dice a battello, e i bossi del Citoro
        lo sanno ancora, sin dal tempo in cui
        si alzava sopra la tua cima o quando
        immerse i remi dentro le tue acque
        e poi di là per mari tempestosi
        condusse il suo padrone sulla rotta
        dove spirava il vento col favore
        che nelle vele v'imprimeva Giove:
        nessun voto agli dei dovette rendere
        nei porti, navigando da quel mare
        del diavolo a questo limpido lago.
        Acqua passata: ora solitario
        invecchia in pace e si dedica a voi,
        a te Castore e al gemello tuo.»



        5)  Carmen V -  A Lesbia

        L'amore di Catullo è Clodia (come ci informa Apuleio), sorella del tribuno Publio Clodio Pulcro, moglie di Quinto Metello Celere, che rimase vedova nel 59 a.c. Una donna che fu libera e di costumi emancipati, pienamente a suo agio nella vita galante della capitale, sempre al centro di nuove relazioni.

        Non si sa quando la conobbe Catullo; ma ne divenne l’amante mentre il marito era ancora in vita, la loro relazione ebbe un seguito turbolento, all’insegna di un precario equilibrio dell’odi et amo del carme 85.

        «Vivamus mea Lesbia, atque amemus
        Rumoresque senum severiorum
        Omnes unius aestimemus assis .
        Soles occidere et redire possunt:
        nobis cum semel occidit brevis lux,
        nox est perpetua una dormienda.
        Da mihi basia mille, deinde centum,
        dein mille altera, dein secunda centum
        deinde usque altera mille, deinde centum.
        Dein, cum milia multa fecerimus,
        conturbabimus illa, ne sciamus,
        aut ne quis malus invidere possit,
        cum tantum sciat esse basiorum
        »

        «Viviamo mia Lesbia ed amiamoci
        E consideriamo un soldo bucato
        I mormorii dei vecchi troppo severi.
        I giorni possono morire e ritornare
        Ma, quando per noi questa breve luce
        Muore dovremo dormire una notte eterna..
        Dammi mille baci e ancora cento
        E poi altre mille e ancora cento
        Sempre, sempre mille e ancora cento.
        E quando alla fine saranno migliaia, li mescoleremo
        Tutti, per dimenticare
        E perchè nessuno ci possa invidiare sapendo
        Che esiste un così grande numero di baci.»



        6)  Carmen VI  - A se stesso

        Catullo, per la morte del fratello avvenuta nel 59, prova un cocente dolore, e dovette interrompere il soggiorno romano per fare ritorno a Verona per le esequie del fratello.

        «Flaui, delicias tuas Catullo,
        Ni sint inlepidae atque inelegantes,
        Velles dicere, nec tacere posses.
        Verum nescio quid febriculosi
        Scorti diligis: hoc pudet fateri.
        Nam te non uiduas iacere noctes
        Nequiquam tacitum cubile clamat
        Sertis ac Syrio fragrans oliuo,
        Puluinusque peraeque et hic et ille
        Attritus, tremulique quassa lecti
        Argutatio inambulatioque.
        Nam nil stupra valet, nihil, tacere.
        Cur? non tam latera ecfututa pandas,
        Ni tu quid facias ineptiarum.
        Quare, quidquid habes boni malique,
        Dic nobis: uolo te ac tuos amores
        Ad caelum lepido uocare uersu


        «Flavio, se l'amor tuo non fosse privo
        di grazia e di finezza lo vorresti dire
        a Catullo, non sapresti tacere.
        Ma certo tu ami qualche puttana
        malandata: per questo ti vergogni.
        Che tu non giaccia in solitudine la notte,
        anche se tace, lo rivela la tua camera
        fragrante di ghirlande e di profumi assiri,
        il cuscino gualcito da ogni parte,
        lo scricchiolare agitato del letto
        che trema tutto e non trova pace.
        Inutile tacere: non ti serve.
        Non mostreresti fianchi così smunti
        se non facessi un monte di sciocchezze.
        E allora quello che hai, bello o brutto,
        dimmelo. Voglio con un gioco di parole
        portare te e il tuo amore alle stelle.»



        7)  Carmen VII -  A Lesbia

        Uno dei carmina più belli e famosi di Catullo. I baci di Lesbia possono togliere quell'ansia che il poeta si porta appresso da sempre.

        «Quaeris, quot mihi basiationes
        Tuae, Lesbia, sint satis superque.
        Quam magnus numerus Libyssae harenae
        Lasarpiciferis iacet Cyrenis,
        Oraclum Iouis inter aestuosi
        Et Batti ueteris sacrum sepulcrum,
        Aut quam sidera multa, cum tacet nox,
        Furtiuos hominum uident amores,
        Tam te basia multa basiare
        Vesano satis et super Catullo est,
        Quae nec pernumerare curiosi
        Possint nec mala fascinare lingua.
        »

        «Mi chiedi con quanti baci, Lesbia,
        tu possa giungere a saziarmi:
        quanti sono i granelli di sabbia
        che a Cirene assediano i filari di silfio
        tra l'oracolo arroventato di Giove
        e l'urna sacra dell'antico Batto,
        o quante, nel silenzio della notte, le stelle
        che vegliano i nostri amori furtivi.
        Se tu mi baci con così tanti baci
        che i curiosi non possano contarli
        o le malelingue gettarvi una malia,
        allora si placherà il delirio di Catullo.»



        8)  Carmen VIII A se stesso

        Lesbia non sopporta l'allontanamento di Catullo, sia pure per una ragione così dolorosa e lo rimpiazza con un nuovo amante. O forse era già stanca di lui e approfitta dell'assenza per lasciarlo. Fatto sta che Catullo ne è distrutto.

        «Miser Catulle, desinas ineptire,
        Et quod uides perisse perditum ducas.
        Fulsere quondam candidi tibi soles,
        Cum uentitabas quo puella ducebat
        Amata nobis quantum amabitur nulla.
        Ibi illa multa cum iocosa fiebant,
        Quae tu uolebas nec puella nolebat.
        Fulsere uere candidi tibi soles.
        Nunc iam illa non uult: tu quoque inpotens, noli,
        Nec quae fugit sectare, nec miser uiue,
        Sed obstinata mente perfer, obdura.
        Vale, puella! iam Catullus obdurat,
        Nec te requiret nec rogabit inuitam:
        At tu dolebis, cum rogaberis nulla.
        Scelesta, uae te! quae tibi manet vita!
        Quis nunc te adibit? cui uideberis bella?
        Quem nunc amabis? cuius esse diceris?
        Quem basiabis? cui labella mordebis?
        At tu, Catulle, destinatus obdura.
        »

        «Misero Catullo, smetti di vaneggiare
        E stima perduto ciò che è perduto.
        Ci furono giorni felici un tempo
        Quando correvi dove voleva il tuo amore
        amato come nessuna sarà amata;
        allora nascevano molti giochi d'amore
        che tu volevi e che lei non negava.
        Ci furono per te giorni felici un tempo.
        Ora lei non vuole più; anche tu, impotente,
        non volere, non inseguire lei che fugge,
        non vivere miseramente, ma resisti
        con tutta la tua volontà, non cedere.
        Addio amore - Catullo non cede più,
        non ti cercherà, non ti vorrà per forza;
        ma tu soffrirai perchè non sarai più desiderata.
        Scellerata, guai a te; cosa ti può dare la vita?
        Chi ti vorrà? Per chi ti fai bella?
        Chi amerai? Di chi sarai detta tu essere?
        Chi bacerai? A chi morderai le labbra?
        Ma tu, Catullo, ostinato, non cedere.»



        9)  Carme IX A Veranio

        « Verani, omnibus e meis amicis
        Antistans mihi milibus trecentis,
        Venistine domum ad tuos penates
        Fratresque unanimos anumque matrem?
        Venisti! o mihi nuntii beati!
        Visam te incolumem audiamque Hiberum
        Narrantem loca, facta, nationes,
        Vt mos est tuus, applicansque collum
        Iucundum os oculosque sauiabor.
        O, quantum est hominum beatiorem,
        Quid me laetius est beatiusue?
        »

        «O Veranio, a tutti tra i miei amici
        superiore per me, fossero anche trecentomila,
        sei venuto a casa dai tuoi Penati
        e dai fratelli unanimi e dalla vecchia madre?
        Sei venuto! O notizie per me beate!
        Ti vedrò incolume e ti ascolterò narrare
        i luoghi, le azioni, i popoli degli Iberi
        come è tuo costume, e stringendomi al tuo collo
        ti bacerò la dolce bocca e gli occhi.
        Tra tutte le persone più felici
        che cosa c’è di più lieto o più beato di me?»



        10)  Carmen X - A Furio e Aurelio

        Pur nel dolore lo spirito di Catullo non vine mai meno e riesce a ridere di se stesso traendone un carme gustoso e sorridente.

        «Varus me meus ad suos amores
        Visum duxerat e foro otiosum,
        Scortillum, ut mihi tunc repente uisum est,
        Non sane inlepidum neque inuenustum.
        Huc ut uenimus, incidere nobis
        Sermones uarii, in quibus, quid esset
        Iam Bithynia, quo modo se haberet,
        Ecquonam mihi profuisset aere.
        Respondi id quod erat, nihil neque ipsis
        Nec praetoribus esse nec cohorti,
        Cur quisquam caput unctius referret,–
        Praesertim quibus esset irrumator
        Praetor nec faceret pili cohortem.
        'At certe tamen' inquiunt, 'quod illic
        Natum dicitur esse, comparasti,
        Ad lecticam homines.' Ego, ut puellae
        Vnum me facerem beatiorem,
        'Non' inquam, 'mihi tam fuit maligne,
        Vt, prouincia quod mala incidisset,
        Non possem octo homines parare rectos.'
        At mi nullus erat neque hic neque illic
        Fractum qui ueteris pedem grabati
        In collo sibi conlocare posset.
        Hic illa, ut decuit cinaediorem,
        'Quaeso' inquit, 'mihi, mi Catulle, paulum
        Istos commoda: nam uolo ad Serapim
        Deferri.''Mane,' inquii puellae,
        'Istud quod modo dixeram, me habere,
        Fugit me ratio: meus sodalis
        Cinna est Gaius; is sibi parauit.
        Verum, utrum illius an mei, quid ad me?
        Vtor tam bene quam mihi pararim.
        Sed tu insulsa male et molesta uiuis,
        Per quam non licet esse neglegentem.»

        «Dal Foro dove ciondolavo il mio buon Varo
        mi porta a casa di una sua ragazza,
        una fichina che a prima vista mi parve
        non priva di qualche grazia, quasi carina.
        Giunti da lei ci si mise a parlare
        di tante cose e fra queste della Bitinia,
        il suo stato, le sue condizioni politiche,
        i guadagni che mi avrebbe fruttato.
        Risposi la verità: a nessuno di noi,
        pretori o gente del seguito, era toccato
        di tornarsene col capo piú profumato,
        vedi poi se ti capita in sorte un fottuto
        di pretore che del seguito se ne infischia.
        'Ma almeno' m'interrompono 'avrai comprato
        ciò che dicono la specialità del luogo,
        dei portatori di lettiga.' Io per farmi
        con la donna un po' piú fortunato degli altri:
        'Non mi è andata poi cosí male,' le rispondo
        'considerata quella terra maledetta:
        ne ho cavato otto uomini robusti.'
        In realtà non ne avevo neppure uno,
        qui a Roma o laggiù, in grado di reggere
        sul collo una vecchia brandina sgangherata.
        E quella con la sua faccia tosta mi fa:
        'Catullo mio, dovresti prestarmeli un attimo,
        te ne prego, voglio farmi portare al tempio
        di Seràpide.''Un momento, dico, ragazza,
        ciò che poco fa ho detto di possedere,
        m'ero distratto: è un amico mio,
        Gaio Cinna, che se l'è procurato.
        D'altra parte, suoi o miei, che importa?
        Me ne servo come fossero miei.
        Ma tu sei proprio sciocca e impertinente
        se non ammetti che ci si possa distrarre.»




        11)  Carmen XI - Furi et Aureli, comites Catulli

        Qui inizia il calvario del poeta, che implora, si chiude, maledice e spera, con l'animo sempre più disperato. Durante tutta la sua vita Catullo compone circa centosedici carmi per un totale di ben duemilatrecento versi, pubblicati in un'unica opera il "Liber".

        « Furi et Aureli, comites Catulli,
        Siue in extremos penetrabit Indos,
        Litus ut longe resonante Eoa
        Tunditur unda,
        Siue in Hyrcanos Arabesue molles,
        Seu Sacas sagittiferosue Parthos,
        Siue quae septemgeminus colorat
        Aequora Nilus,
        Siue trans altas gradietur Alpes
        Caesaris uisens monimenta magni,
        Gallicum Rhenum, horribile aequor, ulti-
        mosque Britannos,
        Omnia haec, quaecumque feret uoluntas
        Caelitum, temptare simul parati,
        Pauca nuntiate meae puellae
        Non bona dicta.
        Cum suis uiuat ualeatque moechis,
        Quos simul complexa tenet trecentos,
        Nullum amans uere, sed identidem omnium
        Ilia rumpens;
        Nec meum respectet, ut ante, amorem,
        Qui illius culpa cecidit uelut prati
        Ultimi flos, praetereunte postquam
        Tactus aratro est.»


        «Furio, Aurelio, che miei compagni
        sino all'estremo dell'India verreste
        alle cui rive lontane batte sonoro
        il mare d'Oriente,
        tra gli Arabi indolenti, gli Ircani,
        gli Sciti, i Parti armati di frecce
        o sino alle acque che il Nilo trascolora
        con le sue sette foci;
        e oltre i monti aspri delle Alpi
        per visitare i luoghi dove vinse Cesare,
        il Reno di Gallia, i Britanni
        orribili e sperduti;
        voi che con me, qualunque sia il volere
        degli dei, sopportereste ogni mia pena,
        ripetete all'amore mio queste poche
        parole amare.
        Se ne viva felice con i suoi amanti
        e in un solo abbraccio, svuotandoli
        d'ogni vigore, ne possieda quanti vuole
        senza amarne nessuno,
        ma non mi chieda l'amore di un tempo:
        per colpa sua è caduto come il fiore
        al margine di un prato se lo tocca
        il vomere passando.»



        12)  Carme XII - Contro Marrucino, ladro di fazzoletti

        Ancora lo spirito arguto e caustico del poeta

        « Marrucine Asini, manu sinistra
        Non belle uteris in ioco atque uino:
        Tollis lintea neglegentiorum.
        Hoc salsum esse putas? Fugit te, inepte!
        Quamuis sordida res et inuenusta est.
        Non credis mihi? Crede Pollioni
        Fratri, qui tua furta uel talento
        Mutari uelit; est enim leporum
        Disertus puer ac facetiarum.
        Quare aut hendecasyllabos trecentos
        Exspecta, aut mihi linteum remitte,
        Quod me non mouet aestimatione,
        Verum est mnemosynum mei sodalis.
        Nam sudaria Saetaba ex Hiberis
        Miserunt mihi muneri Fabullus
        Et Veranius: haec amem necesse est
        Ut Veraniolum meum et Fabullum.»

        «Asino Marrucino, fai un uso
        non molto fine della mano sinistra
        nel gioco e nel vino:
        rubi i fazzoletti degli sbadati.
        Pensi che questo sia spiritoso?
        Ti inganni, sciocco:
        è una cosa quanto vuoi squallida e grossolana.
        Non mi credi? Credi a (tuo) fratello Pollione,
        che vorrebbe ripagare i tuoi furti
        anche con un talento:
        è infatti un ragazzo che di buon gusto
        e di spirito se ne intende.
        Perciò, aspettati trecento endecasillabi
        o dammi indietro il fazzoletto;
        e questo non mi colpisce per il valore (che ha),
        ma è un ricordo di un mio amico.
        Infatti Fabullo e Veranio
        mi hanno mandato in regalo dalla Spagna
        dei fazzoletti di Setabi;
        io devo amarli
        come amo il mio piccolo Veranio e Fabullo.»



        13)  Carme XIII - Invito a cena a Fabullo con doppia sorpresa

        Nel Carme XIII,  in endecasillabi faleci, c'è uno strano invito a cena, non perchè l'amico non sia gradito, ma perchè Catullo è in difficoltà finanziarie.


        «Cenabis bene, mi Fabulle, apud me
        paucis, si tibi di favent, diebus,
        si tecum attuleris bonam atque magnam
        cenam, non sine candida puella
        et vino et sale et omnibus cachinnis.
        Haec si, inquam, attuleris, venuste noster,
        cenabis bene; nam tui Catulli
        plenus sacculus est aranearum.
        Sed contra accipies meros amores
        seu quid suavius elegantiusve est;
        nam unguentum dabo, quod meae puellae
        donarunt Veneres Cupidinesque,
        quod tu cum olfacies, deos rogabis,
        totum ut te faciant, Fabulle, nasum.»

        «Cenerai bene, mio Fabullo, da me,
        tra pochi giorni se gli Dei ti sono favorevoli,
        e se con te porti una cena buona e ricca
        non senza una bellissima ragazza
        e vino e spirito e ogni risa.
        Se queste cose, dico, porterai, bello mio,
        cenerai bene. Infatti, del tuo Catullo
        è pieno il borsellino di ragnatele.
        Ma in cambio riceverai veri amori
        o quanto di piacevole o elegante c'è:
        ti darò infatti un unguento (un profumo) che alla mia ragazza
        hanno donato le Veneri e i Cupidi,
        e quando tu l'annuserai, pregherai gli dei
        di farti diventare, Fabullo, tutto naso.»



        14)  Carme XIV - Ni te plus oculis meis amarem

        Catullo racconta di aver ricevuto dall’amico poeta Calvo un’antologia di poetastri, un affronto per un vero poeta come Catullo, che il giorno successivo  regala a Calvo le opere dei peggiori poeti del tempo. Ma Calvo è un amico e il tutto è solo uno scherzo.


        "Ni te plus oculis meis amarem,
        iucundissime Calve, munere isto
        odissem te odio Vatiniano:
        nam quid feci ego quidve sum locutus,
        cur me tot male perderes poetis?
        Isti di mala multa dent clienti,
        qui tantum tibi misit impiorum.
        Quod si, ut suspicor, hoc novum ac repertum
        munus dat tibi Sulla litterator,
        non est mi male, sed bene ac beate,
        quod non dispereunt tui labores.
        Di magni, horribilem et sacrum libellum!
        Quem tu scilicet ad tuum Catullum
        misti, continuo ut die periret,
        Saturnalibus, optimo dierum!
        non non hoc tibi, salse, sic abibit.
        Nam si luxerit ad librariorum
        curram scrinia, Caesios, Aquinos,
        Suffenum, omnia colligam venena
        ac te his suppliciis remunerabor.
        Vos hinc interea valete, abite
        illuc, unde malum pedem attulistis,
        saecli incommoda, pessimi poetae
        ».

        "Se non ti amassi più degli occhi miei,
        spiritosissimo Calvo, per questo dono
        ti odierei con un odio degno di Vatinio:
        ma cosa ho fatto, cosa ho detto
        per rovinarmi con tanti poeti?
        Gli Dèi possano dare molti malanni a ‘sto cliente
        che ti ha mandato una quantità di sciagurati.
        Perché se, come sospetto, questa bella scoperta
        te la dà in dono il maestrino Silla,
        non mi sta male, anzi ne sono ben felice,
        perché non vanno perse le tue fatiche.
        Grandi Dèi! Che orribile e abietto libello!
        Che tu ovviamente hai mandato al tuo Catullo,
        perché morisse sul colpo nel giorno
        dei Saturnali, il più bello dei giorni!
        No no, non te la caverai, spiritosone.
        Appena farà giorno andrò alle botteghe
        dei librai, raccoglierò i Cesii, gli Aquini,
        Suffeno, tutti i veleni
        e ti ripagherò con questi supplizi.
        Voi, intanto, addio, andatevene
        là da dove avete mosso i vostri sciagurati passi
        malanni del secolo, pessimi poeti.»



        15)  Carmen XV - Commendo tibi

        Il carme XV invece è dedicato all'amore per l'efebo, e le sue paure che qualcun altro lo possieda o voglia possederlo.

        « Commendo tibi me ac meos amores,
        Aureli. Veniam peto pudentem,
        Vt, si quicquam animo tuo cupisti
        Quod castum expeteres et integellum,
        Conserues puerum mihi pudice,
        Non dico a populo: nihil ueremur
        Istos qui in platea modo huc modo illuc
        In re praetereunt sua occupati;
        Verum a te metuo tuoque pene
        Infesto pueris bonis malisque.
        Quem tu qua lubet, ut lubet moueto
        Quantum uis, ubi erit foris paratum:
        Hunc unum excipio, ut puto, pudenter.
        Quod si te mala mens furorque uecors
        In tantam impulerit, sceleste, culpam,
        Vt nostrum insidiis caput lacessas,
        Ah tum te miserum malique fati,
        Quem attractis pedibus patente porta
        Percurrent raphanique mugilesque


        «A te come me stesso affido il mio amore,
        Aurelio. Un piccolo favore che ti chiedo:
        se mai qualcuno amasti in cuore tuo
        che tu desiderassi casto e puro,
        conservami pulito questo mio ragazzo.
        Non dico dalla gente, che non ho pensiero
        di chi corre su e giù per la via
        tutto occupato nelle sue faccende;
        ma di te ho timore e del tuo cazzo
        nemico d'ogni ragazzo, buono o cattivo
        che sia. Quando comanda ficcalo dove
        e come vuoi, se è ritto e sguainato.
        Ti proibisco lui solo, non credo molto.
        Ma se la tua pazzia, una passione insana
        ti spingesse, scellerato, tanto nel crimine
        da insidiare la stessa mia persona,
        povero te, la sorte che ti viene:
        divaricate le gambe, per quella porta
        radici e pesci ti ficcherò dentro.»



        15 bis)  Carmen XIV bis - Si qui forte mearum ineptiarum

        « Si qui forte mearum ineptiarum
        Lectores eritis manusque vestras
        Non horrebitis admouere nobis,
         »

        «Se per caso lettori voi sarete
        di queste mie sciocchezze e non avrete orrore
        d'avvicinarmi con le vostre mani.»




        16) Carmen XVI - Ad Aurelio e Furio 

        Nel carme XVI le paure diventano minacce.

        « Pedicabo ego vos et irrumabo,
        Aureli pathice et cinaede Furi,
        Qui me ex versiculis meis putastis,
        Quod sunt molliculi, parum pudicum.
        Nam castum esse decet pium poetam
        Ipsum, uersiculos nihil necesse est,
        Qui tum denique habent salem ac leporem,
        Si sunt molliculi ac parum pudici
        Et quod pruriat incitare possunt,
        Non dico pueris, sed his pilosis,
        Qui duros nequeunt mouere lumbos.
        Vos quod milia multa basiorum
        Legistis, male me marem putatis?
        Pedicabo ego vos et irrumabo.
        »

        «In bocca e in culo ve lo ficcherò,
        Furio ed Aurelio, checche bocchinare
        che per due pùsiole libertine
        quasi un degenerato mi considerate.
        Che debba esser pudico il pùta è giusto,
        ma perchè lo dovrebbero i suoi versi?
        Hanno una loro grazia ed eleganza
        solo se son lascivi, spudorati
        e riescono a svegliare un poco di prurito,
        non dico nei fanciulli, ma in qualche caprone
        con le reni inchiodate dall'artrite.
        E voi, perchè leggete nei miei versi baci
        su baci, mi ritenete un effeminato?
        In bocca e in culo ve lo ficcherò.»



        17)  Carmen XVII - O Colonia

        « O Colonia, quae cupis ponte ludere longo,
        et salire paratum habes, sed vereris inepta
        crura ponticuli axulis stantis in redivivis,
        ne supinus eat cavaque in palude recumbat:
        sic tibi bonus ex tua pons libidine fiat,
        in quo vel Salisubsali sacra suscipiantur,
        munus hoc mihi maximi da, Colonia, risus.
        Quendam municipem meum de tuo volo ponte
        ire praecipitem in lutum per caputque pedesque,
        verum totius ut lacus putidaeque paludis
        lividissima maximeque est profunda vorago.
        Insulsissimus est homo, nec sapit pueri instar
        bimuli tremula patris dormientis in ulna.
        cui cum sit viridissimo nupta flore puella
        et puella tenellulo delicatior haedo,
        adseruanda nigerrimis diligentius vuis,
        ludere hanc sinit ut lubet, nec pili facit uni,
        nec se sublevat ex sua parte, sed velut alnus
        in fossa Liguri iacet suppernata securi,
        tantundem omnia sentiens quam si nulla sit usquam;
        talis iste meus stupor nil videt, nihil audit,
        ipse qui sit, utrum sit an non sit, id quoque nescit.
        Nunc eum volo de tuo ponte mittere pronum,
        si pote stolidum repente excitare veternum,
        et supinum animum in gravi derelinquere caeno,
        ferream ut soleam tenaci in voragine mula
        . »

        «Tu desideri far festa, Verona, sul tuo Pontelungo
        e già sei pronta a ballare, ma le gambe fragili di un ponticello
        che si regge su tavolette riparate ti fan temere che crolli
        e precipiti in fondo alla palude. Sia pure esaudita questa voglia
        e tu abbia un ponte cosí solido da sostenere anche i Salii
        nelle loro sarabande sacre, ma in cambio voglio da te, Verona,
        un regalo che mi diverta da morire: buttami giú da quel tuo ponte
        un certo mio concittadino capofitto nel fango dalla testa ai piedi
        là dove l'abisso delle acque è piú profondo, il piú livido
        di tutta questa fetida palude.
        È un uomo d'una stupidità tale che non ha piú giudizio del bambino
        cullato tra le braccia di suo padre. Sposata una fanciulla
        in tutto il fiore dei suoi anni, una fanciulla delicata
        e tenera piú d'un agnellino d'averne tanta cura
        come dell'uva che è matura, lascia che lei si diverta
        nel modo preferito e non gliene importa nulla,
        non inalbera il suo diritto, ma come un ontano, abbattuto
        dalla scure di un Ligure, giace in fondo ad un fossato,
        questo mio incredibile stupido, sensibile a tutto come se non esistesse,
        non vede, non sente nulla, non sa nemmeno chi egli sia
        o se per caso sia o non sia.
        Ora io voglio scaraventarlo giú da quel tuo ponte,
        se mai è possibile che d'un colpo si riscuota dal suo torpore assurdo
        e nelle profondità del fango smarrisca la sua apatia,
        come una mula lo zoccolo di ferro in un pantano scivoloso.»



        18)  Carmen XVIII - Priapo

        «Hunc lucum tibi dedico consecroque, Priape, 
        qua domus tua Lampsaci est quaque … 
        Priape. Nam te praecipue in suis urbibus colit ora 
        Hellespontia, ceteris ostriosior oris.»

        «A te, Priapo, questa selva ti dedico e consacro, 
        come a Lampsaco è la tua casa e quale … 
        Priapo. Infatti te adora nelle sue città 
        l’Ellesponto, più abbondante d’ostriche che gli altri lidi.»



        19)  Carmen IXX - l'arguzia di Catullo

        « De meo ligurrire libido est »

        « Assaggiare dal mio è un piacere. »



        20)  Carmen XX - i giambi di Catullo

        « At non effugies meos iambos»

        « Non sfuggirai ai miei giambi
        »



        21)  Carmen XXI - Aureli, pater esuritionum

        Il carme XXI è dettato dalla gelosia, ma non verso Lesbia, bensì verso il giovinetto di cui Catullo si è invaghito, pur non cessando di amare la sua Lesbia.

        « Aureli, pater esuritionum,
        Non harum modo, sed quot aut fuerunt
        Aut sunt aut aliis erunt in annis,
        Pedicare cupis meos amores.
        Nec clam: nam simul es, iocaris una,
        Haerens ad latus omnia experiris.
        Frustra: nam insidias mihi instruentem
        Tangam te prior irrumatione.
        Atque id si faceres satur, tacerem:
        Nunc ipsum id doleo, quod esurire,
        Ah me me, puer et sitire discet.
        Quare desine, dum licet pudico,
        Ne finem facias, sed irrumatus


        «Padre di tutti gli affamati che conosci
        e di quelli che furono, sono e saranno
        negli anni da venire, tu Aurelio,
        desideri inculare l'amor mio
        e non ne fai mistero: appiccicato a lui,
        giochi, ti strofini, le provi tutte.
        Non servirá: mentre mi tendi queste insidie
        io prima te lo ficcherò in bocca.
        E pace se tu lo facessi a pancia piena,
        ma non posso tollerare, accidenti a me,
        che il mio ragazzo impari a patir fame e sete.
        Piantala dunque, giusto finchè sei in tempo,
        che tu non debba farlo a cazzo in bocca.»



        22)  Carme XXII - Suffenus

        Suffeno è un pessimo letterato

        « Suffenus iste, Vare, quem probe nostri,
        homo est venustus et dicax et urbanus,
        idemque longe plurimos facit versus.
        Puto esse ego illi milia aut decem aut plura
        perscripta, nec sic ut fit in palimpsesto
        relata: cartae regiae, novi libri,
        novi umbilici, lora rubra, membranae,
        derecta plumbo et pumice omnia aequata.
        Haec cum legas tu, bellus ille et urbanus
        suffenus unus caprimulgus aut fossor
        rursus videtur: tantum abhorret ac mutat.
        Hoc quid putemus esse? Qui modo scurra
        aut si quid hac re scitius videbatur,
        idem infaceto est infacetior rure,
        simul poemata attigit, neque idem umquam
        aeque est beatus ac poema cum scribit:
        tam gaudet in se tamque se ipse miratur.
        Nimirum idem omnes fallimur, neque est quisquam
        quem non in aliqua re videre Suffenum
        possis. Suus cuique attributus est error;
        sed non videmus manticae quod tergo est.
        »

        «Quel Suffeno, Varo, che tu conosci bene,
        è un uomo di spirito, garbato e civile,
        ma purtroppo sforna versi su versi.
        Io credo che n'abbia già scritti diecimila
        o forse piú e non su scartafacci
        come usa: la carta è la migliore, i libri
        nuovi, nuove le bacchette, di cuoio i lacci
        e il tutto squadrato e levigato a dovere.
        Se poi li leggi, quel Suffeno spiritoso
        e civile ti diventa allora un guardiano
        di capre, un villano, tanto è diverso e muta.
        È incredibile: quell'uomo di mondo
        che ti sembrava tanto raffinato,
        appena tocca un verso diventa piú rozzo
        di un rozzo contadino; eppure non è mai
        cosí felice come quando scrive versi,
        tanto è soddisfatto di sé e tanto si ammira.
        Del resto tutti sbagliamo: non c'è nessuno
        in cui, se ci pensi, tu non possa vedere
        Suffeno. Ognuno ha un suo difetto, ma la gobba
        che ci sta sulla schiena noi non la vediamo.»



        23)  Carmen XXIII -  Furi, cui neque servus est neque arca

        Un apprezzamento acidissimo e arguto.

        «Furi, cui neque servus est neque arca
        nec cimex neque araneus neque ignis,
        verum est et pater et noverca, quorum
        dentes vel silicem comesse possunt,
        est pulcre tibi cum tuo parente
        et cum coniuge lignea parentis.
        Nec mirum: bene nam valetis omnes,
        pulcre concoquitis, nihil timetis,
        non incendia, non graves ruinas,
        non facta impia, non dolos veneni,
        non casus alios periculorum.
        Atqui corpora sicciora cornu
        aut si quid magis aridum est habetis
        sole et frigore et esuritione.
        Quare non tibi sit bene ac beate?
        A te sudor abest, abest saliva,
        mucusque et mala pituita nasi.
        Hanc ad munditiem adde mundiorem,
        quod culus tibi purior salillo est,
        nec toto decies cacas in anno;
        atque id durius est faba et lapillis;
        quod tu si manibus teras fricesque,
        non umquam digitum inquinare posses.
        Haec tu commoda tam beata, Furi,
        noli spernere nec putare parvi,
        et sestertia quae soles precari
        centum desine: nam sat es beatus.»

        «Furio mio, tu non hai schiavi, non hai denari,
        non hai cimici o ragni, nè di che scaldarti,
        ma hai un padre e una matrigna che coi denti
        potrebbero macinare anche le pietre,
        e con questo tuo genitore e la sua donna,
        rinsecchita come un legno, tu vivi bene.
        Non fa meraviglia: scoppiate di salute,
        digerite d'incanto, non temete nulla,
        nè gli incendi nè il crollo della casa
        nè la malvagitá, l'insidia del veleno
        o il pericolo di qualche altro incidente.
        E in più, grazie al sole al freddo e alla fame,
        avete il corpo più secco di un corno
        o di quanto più arido vi sia.
        Perchè mai non dovresti essere felice?
        Non sudi, non hai una goccia in più di saliva,
        nè un poco di catarro o di moccolo al naso.
        E a questo candore aggiungine un altro:
        poichè non cachi dieci volte all'anno
        il tuo culo è più lindo di un cristallo
        e ciò che fai è più duro di fave e ghiaia,
        tanto che se lo stropicciassi fra le mani
        non ti potresti sporcare nemmeno un dito.
        Tutte queste comoditá non disprezzarle,
        Furio mio, non considerarle una sciocchezza
        mendicando di continuo quei centomila
        sesterzi: smettila, sei ricco quanto basta.»



        24) Carmen XXIV - O qui flosculus es Iuventiorum 

        «O qui flosculus es Iuuentiorum,
        Non horum modo, sed quot aut fuerunt
        Aut posthac aliis erunt in annis,
        Mallem diuitias Midae dedisses
        Isti cui neque seruus est neque arca,
        Quam sic te sineres ab illo amari.
        “Quid? Non est homo bellus?” inquies. Est.
        Sed bello huic neque seruus est neque arca.
        Hoc tu quam libet abice eleuaque:
        Nec seruum tamen ille habet neque arcam.»

        «Io avrei voluto che tu, fior fiore
        di tutti i Giovenzi che sono, furono
        e saranno in tutti gli anni a venire,
        avessi donato l'oro di Mida
        a costui senza un servo né denari,
        piuttosto che piegarti al suo amore.
        'Perché? non è affascinante?' Certo,
        lo è, ma senza un servo né denari.
        Tu puoi minimizzare quanto vuoi,
        ma resta senza un servo né denari.»



        25)  Carmen XXV - Cinaede Thalle, mollior cuniculi capillo 

        «Cinaede Thalle, mollior cuniculi capillo 
        vel anseris medullula vel imula oricilla 
        vel pene languido senis situque araneoso, idemque, 
        Thalle, turbida rapacior procella, 
        cum diva mulierarios ostendit oscitantes, 
        remitte pallium mihi meum, quod involasti, 
        sudariumque Saetabum catagraphosque Thynos, 
        inepte, quae palam soles habere tamquam avita. 
        Quae nunc tuis ab unguibus reglutina et remitte, 
        ne laneum latusculum manusque mollicellas 
        inusta turpiter tibi flagella conscribillent, 
        et insolenter aestues, velut minuta magno 
        deprensa navis in mari, vesaniente vento.» 

        «Cinedo Thallo, molle più del pelo di un coniglio,
        di un midollino d’oca o anche di un lobo d’orecchiuccia,
        di un vecchio pene languido, e putredine di ragni, ma più rapace,
        Thallo, tu, di tromba turbinosa se mai la dea rivela rivela
        donnaioli un po’ distratti, ridammi il mio mantello,
        che ti sei involato, e pure il lino già dei Sètabi
        e i carnet per note Tinici, che, sciocco,
        sfoggi in giro come avito patrimonio.
        E dunque ora dalle unghie tue riscollali e ridalli,
        se non vuoi fruste in fiamme a scribacchiare,
        a tua vergogna le mani mollicelle e quel fiancuccio tuo di lana,
        in un ondeggiamento tutto nuovo, come nave
        minuta in mare magno, da violento vento avvòlta.»



        26)  Carmen XXVI - la casetta esposta

        «Furi, villula vestra non ad Austriflatus
        opposita est neque ad Favoni
        nec saevi Boreae aut Apheliotae,
        verum ad milia quindecim et ducentos.
        O ventum horribilem atque pestilentem!»

        «La vostra casetta, Furio, non è esposta
        al vento di scirocco o di ponente,
        né di una tramontana gelida o di euro,
        ma a quello di quindicimiladuecento sesterzi
        ed è vento tremendo, una vera pestilenza!.»



        27)  Carmen XXVII - Ad un giovane coppiere 

        «Minister vetuli puer Falerni
        inger mi calices amariores,
        ut lex Postumiae iubet magistrae
        ebriosa acina ebriosioris.
        At vos quo lubet hinc abite,
        lymphae vini pernicies,
        et ad severos migrate.
        Hic merus est Thyonianus»


        «Ragazzo, se versi un vino vecchio
        riempine i calici del piú amaro,
        come vuole Postumia, la nostra regina
        ubriaca piú di un acino ubriaco.
        E l'acqua se ne vada dove le pare
        a rovinare il vino, lontano,
        fra gli astemi: questo è vino puro.»



        28)  Carmen XXVIII - Pisonis comites, cohors inanis 

        «Pisonis comites, cohors inanis
        Aptis sarcinulis et expeditis,
        Verani optime tuque mi Fabulle,
        Quid rerum geritis? Satisne cum isto
        Vappa frigoraque et famem tulistis?
        Ecquidnam in tabulis patet lucelli
        Expensum, ut mihi, qui meum secutus
        Praetorem refero datum lucello,
        “O Memmi, bene me ac diu supinum
        Tota ista trabe lentus irrumasti.”
        Sed, quantum uideo, pari fuistis
        Casu: nam nihilo minore uerpa
        Farti estis. Pete nobiles amicos.
        At uobis mala multa di deaeque
        Dent, opprobria Romuli Remique.»

        «Veranio carissimo e tu Fabullo mio,
        che al seguito di Pisone, privi di tutto,
        vi portate appresso le vostre quattro cose,
        come state? Vi ha fatto sopportare tutto,
        il freddo, la fame, vero, quella canaglia?
        Dite, segnate pure voi i profitti in perdita,
        come ho fatto io, seguendo il mio pretore,
        che registro a profitto soltanto le spese?
        O Memmio, m'hai proprio fottuto a modo tuo,
        supino, con in bocca tutta la tua trave.
        Ma a voi non è toccata una sorte migliore,
        mi pare: quello che vi opprime non è manico
        diverso. Cercali i tuoi amici famosi!
        E che tutti gli dei li possano sommergere
        di guai, questa vergogna di Romolo e Remo.»



        29)  Carmen XXIX - Quis hoc potest videre, quis potest pati 

        «Quis hoc potest videre, quis potest pati,
        nisi impudicus et vorax et aleo,
        Mamurram habere quod Comata Gallia
        habebat ante et ultima Britannia?
        Cinaede Romule, haec videbis et feres?
        Et ille nunc superbus et superfluens
        perambulabit omnium cubilia,
        ut albulus columbus aut Adoneus?
        Cinaede Romule, haec videbis et feres?
        Es impudicus et vorax et aleo.
        Eone nomine, imperator unice,
        fuisti in ultima occidentis insula,
        ut ista vostra diffututa mentula
        ducenties comesset aut trecenties?
        Quid est alid sinistra liberalitas?
        Parum expatravit an parum elluatus est?
        Paterna prima lancinata sunt bona;
        secunda praeda Pontica, inde tertia
        Hibera, quam scit amnis aurifer Tagus.
        Et hunc timentque Galliae et Britanniae.
        Quid hunc malum fovetis? Aut quid hic potest,
        nisi uncta devorare patrimonia?
        Eone nomine, urbis o putissimei
        socer generque, perdidistis omnia?»

        «Chi se non un ingordo svergognato e baro
        potrebbe mai permettere in coscienza
        che abbia Mamurra ciò che fu della Gallia
        o della lontanissima Britannia?
        Lo vedi, no, Romolo fottuto, e sopporti?
        Cosí questa colomba bianca, questo Adone
        passerà con noncuranza da un letto all'altro
        vomitando tutta la sua superbia?
        Lo vedi, no, Romolo fottuto, e sopporti?
        Sei uno svergognato ingordo e baro.
        E tu, generalissimo, saresti andato
        nella piú lontana isola d'occidente
        perché questo vostro coglione rammollito
        divorasse milioni su milioni?
        Non è questa la generosità dei ladri?
        O forse non ha dilapidato abbastanza?
        Prima si è fatto fuori i beni di suo padre,
        poi il bottino dell'Asia e quello di Spagna,
        testimone il bacino aurifero del Tago.
        Ora terrorizza Gallia e Britannia.
        E voi proteggete un ribaldo simile?
        un tale distruttore di ricchezze?
        voi, genero-suocero, padroni di Roma,
        in nome suo avete saccheggiato il mondo?»



        30)  Carmen XXX - Alfene immemor atque unanimis false sodalibus 

        «Alfene immemor atque unanimis false sodalibus, 
        iam te nil miseret, dure, tui dulcis amiculi? 
        Iam me prodere, iam non dubitas fallere, perfide? 
        Nec facta impia fallacum hominum caelicolis placent. 
        Quae tu neglegis ac me miserum deseris in malis. 
        Eheu quid faciant, dic, homines cuive habeant fidem? 
        Certe tute iubebas animam tradere, inique, 
        inducens in amorem, quasi tuta omnia mi forent. 
        Idem nunc retrahis te ac tua dicta omnia factaque ventos 
        irrita ferre ac nebulas aereas sinis. 
        Si tu oblitus es, at di meminerunt, meminit Fides, 
        quae te ut paeniteat postmodo facti faciet tui.» 

        «Falso, o Alfeno, coi tuoi concordi amici, e anche non memore,
        duro, già non compiangi il dolce e il povero amico tuo,
        già a tradirmi non sei in dubbio, o a ingannar già me, o perfido?
        Ma, degli uomini falsi, atti e empietà non piacciono agli dèi.
        Tutto ciò non t’importa, e me infelice ecco abbandoni ai guai.
        Ahiahi, che resterà agli uomini di’, o da chi sperar lealtà?
        Certo tu, tu premevi, improbo, a che a te aprissi l’anima,
        inducendo a un affetto all'apparenza in tutto placido: 
        tu stesso ora ti fai indietro e ogni detto e fatto lasci che te lo portino, 
        vano, i venti e le aeree nuvole. Se tu scordi, 
        ricordo hanno gli dèi, e ha pure la Lealtà, 
        e lei si curerà che del tuo atto abbia a pentirti, poi.» 



        31)  Carmen XXXI - a Sirmione

        Catullo racconta del ritorno nel 56 a.c. nella nativa Sirmione.

        «Paene insularum, Sirmio, insularumque
        Ocelle, quascumque in liquentibus stagnis
        Marique uasto fert uterque Neptunus,
        Quam te libenter quamque laetus inuiso,
        Vix mi ipse credens Thyniam atque Bithynos
        Liquisse campos et uidere te in tuto!
        O quid solutis est beatius curis,
        Cum mens onus reponit, ac peregrino
        Labore fessi uenimus larem ad nostrum
        Desideratoque acquiscimus lecto?
        Hoc est quod unum est pro laboribus tantis.
        Salue, o uenusta Sirmio, atque ero gaude;
        Gaudete, uosque, o Lydiae lacus undae;
        Ridete, quidquid est domi cachinnorum.»

        «Sirmione, perla delle penisole e delle isole,
        di tutte quante, sulla distesa di un lago trasparente o del mare
        senza confini, offre il Nettuno delle acque dolci e delle salate,
        con quale piacere, con quale gioia torno a rivederti;
        a stento mi persuado d'avere lasciato la Tinia e le contrade di Bitinia,
        e di poterti guardare in tutta pace.
        Ma c'è cosa più felice dell'essersi liberato dagli affanni,
        quando la mente depone il fardello e stanchi
        di un viaggio in straniere regioni siamo tornati al nostro focolare
        e ci stendiamo nel letto desiderato?
        Questa, in cambio di tante fatiche, è l'unica soddisfazione.
        Salve, amabile Sirmione, festeggia il padrone,
        e voi, onde del lago di Lidia, festeggiatelo:
        voglio da voi uno scroscio di risate, di tutte le risate che avete.»



        32)  Carmen XXXII - a Ipsililla

        «Amabo, mea dulcis Ipsitilla,
        meae deliciae, mei lepores,
        iube ad te veniam meridiatum.
        Et si iusseris, illud adiuvato,
        ne quis liminis obseret tabellam,
        neu tibi lubeat foras abire,
        sed domi maneas paresque nobis
        novem continuas fututiones.
        Verum si quid ages, statim iubeto:
        nam pransus iaceo et satur supinus
        pertundo tunicamque palliumque.»

        «Ti prego, mia dolce Ipsililla,
        amore mio, cocchina mia,
        invitami da te nel pomeriggio.
        Ma se decidi così, per favore,
        non farmi trovare la porta giá sprangata
        e cerca di non uscire, se puoi,
        restatene in casa e preparami
        nove scopate senza mai fermarci.
        Se ne hai voglia, per˜, fallo subito:
        sto qui disteso sazio dopo pranzo
        e pancia all'aria sfondo tunica e mantello.»



        33)  Carmen XXXIII - O furum optime balneariorum

        «O furum optime balneariorum
        Vibenni pater, et cinaede fili,
        (Nam dextra pater inquinatiore,
        Culo filius est uoraciore)
        Cur non exilium malasque in oras
        Itis, quandoquidem patris rapinae
        notae sunt populo, et natis pilosas,
        fili, non potes asse uenditare?»

        «Di tutti i ladri d'albergo Vibennio è il re,
        come lo è di tutti i pederasti il figlio:
        piú son luride le mani del padre
        e piú famelico è il culo del figlio.
        Perché mai non ve ne andate in esilio,
        in terre maledette? Ormai i suoi furti
        sono arcinoti e le tue natiche pelose
        non valgono un soldo, figliolo mio.»



        34)  Carmen XXXIV - Inno a Diana

        «Dianae sumus in fide puellae et pueri integri:
        puellaeque canamus. O Latonia, maximi 
        magna progenies Iovis, quam mater 
        prope Deliam deposivit olivam,»

        «Di Diana siamo in fede intatti fanciulle e fanciulle: 
        e fanciulle cantiamo. O Latònia, del massimo 
        Giove grande progenie, che la propria madre
        ha deposto là, all'olivo di Delo,»



        35)  Carmen XXXV - Poeta tenero, meo sodali 

        «Poetae tenero, meo sodali,
        velim Caecilio, papyre, dicas
        Veronam veniat, Novi relinquens
        Comi moenia Lariumque litus.
        Nam quasdam volo cogitationes
        amici accipiat sui meique.
        Quare, si sapiet, viam vorabit,
        quamvis candida milies puella
        euntem revocet, manusque collo
        ambas iniciens roget morari.
        Quae nunc, si mihi vera nuntiantur,
        illum deperit impotente amore.
        Nam quo tempore legit incohatam
        Dindymi dominam, ex eo misellae
        ignes interiorem edunt medullam.
        Ignosco tibi, Sapphica puella
        musa doctior; est enim venuste
        Magna Caecilio incohata Mater.»

        «Al poeta d'amore Cecilio, mio compagno,
        papiro, questo devi dire:
        venga a Verona
        e lasci le mura nuove di Como, le rive del Lario:
        voglio che ascolti certe fantasie
        di un amico suo e mio.
        Se ragiona, divorerà la strada
        anche se mille volte, quando parte,
        la sua dolce innamorata lo richiama
        e con le braccia intorno al collo lo scongiura di restare,
        vero, come dicono,
        che muore per lui d'amore disperato.
        Da quando poi ha letto i primi versi
        per la signora di Díndimo,
        un fuoco consuma quella poveretta in fondo al cuore.
        Capisco: tu conosci troppo bene, ragazza,
        la poesia di Saffo e questa di Cecilio a Cibele
        ha un inizio splendido.»



        36) Carmen XXXVI - Gli annali di Volusio

        «Annales Volusi, cacata carta,
        votum solvite pro mea puella.
        Nam sanctae Veneri Cupidinque
        vovit, si sibi restitutus essem
        dessemque truces vibrare iambos,
        electissima pessimi poetae
        scripta tardipedi deo daturam
        infelicibus ustulanda lignis.
        Et hoc pessima se puella vidit
        iocose lepide vovere divis.
        Nunc o caeruleo creata ponto,
        quae sanctum Idalium Uriosque apertos
        quaeque Ancona Cnidumque harundinosam
        colis quaeque Amanthunta quaeque Golgos
        quaeque Durrachium Hadriae tabernum,
        acceptum face redditumque votum,
        si non illepidum neque invenustum est.
        At vos interea venite in ignem,
        pleni ruris et infacetiarum
        annales Volusi, cacata carta.»


        «Annali di Volusio, cartacce di merda,
        sciogliete la promessa della donna mia,
        che a Venere e a Cupido ha fatto voto,
        se da lei fossi tornato accettando
        una tregua al mio violento sarcasmo,
        di sacrificare alle fiamme di Vulcano
        i versi migliori di un pessimo pùta
        perchè bruciassero su maledetta legna.
        Quella dolce canaglia sapeva benissimo
        di fare voti come fossero uno scherzo.
        E allora tu, figlia del mare azzurro,
        tu che abiti sui monti sacri di Cipro,
        nelle baie del Gargano, in Ancona,
        nei canneti di Cnido, ad Amatunta e Golgi,
        a Durazzo, emporio di tutto l'Adriatico,
        se questo voto ha una sua grazia spiritosa,
        accettalo e ritienilo pagato.
        Ma ora tocca a voi: andatevene al rogo,
        con tutta la vostra rozza stupiditá,
        Annali di Volusio, cartacce di merda.»



        37)  Carmen XXXVII - La taverna di Lesbia 

        «Salax taberna vosque contubernales,
        a pilleatis nona fratribus pila,
        solis putatis esse mentulas uobis,
        solis licere, quidquid est puellarum,
        confutuere et putare ceteros hircos?
        an, continenter quod sedetis insulsi
        centum an ducenti, non putatis ausurum
        me una ducentos irrumare sessores?
        atqui putate: namque totius uobis
        frontem tabernae sopionibus scribam.
        puella nam mi, quae meo sinu fugit,
        amata tantum quantum amabitur nulla,
        pro qua mihi sunt magna bella pugnata,
        consedit istic. hanc boni beatique
        omnes amatis, et quidem, quod indignum est,
        omnes pusilli et semitarii moechi;
        tu praeter omnes une de capillatis,
        cuniculosae Celtiberiae fili,
        Egnati. opaca quem bonum facit barba
        et dens Hibera defricatus urina.»

        «Puttanieri di quell'ignobile taverna
        nove colonne oltre il tempio dei Dioscuri,
        credete d'avere l'uccello solo voi,
        di poter fottere le donne solo voi,
        considerandoci tutti cornuti?
        O forse perchè sedete cento o duecento
        in fila come tanti idioti, non credete
        che potrei incularvi tutti e duecento?
        Credetelo, credetelo: su ogni muro
        qui fuori scriverò che avete il culo rotto.
        Fuggitami dalle braccia, la donna mia,
        amata come amata non sarà nessuna,
        anche lei, che mi costrinse a tante battaglie,
        siede tra voi. E come se ne foste degni
        la chiavate tutti e non siete, maledetti,
        che mezze canaglie, puttanieri da strada:
        tu più di tutti, tu Egnazio, capellone
        modello, nato fra i conigli della Spagna,
        che ti fai bello di una barba incolta
        e di denti sciacquati con la tua urina.»



        38)  Carmen XXXVIII - rimprovero a Cornificio

        «Malest, Cornifici, tuo Catullo
        malest, me hercule, et laboriose,
        et magis magis in dies et horas.
        Quem tu, quod minimum facillimumque est,
        qua solatus es allocutione?
        Irascor tibi. Sic meos amores?
        Paulum quid lubet allocutionis,
        maestius lacrimis Simonideis.»


        «Sta male, Cornificio, il tuo Catullo,
        sta male, mio dio, e soffre
        ogni giorno, ogni ora di più.
        E tu nemmeno una parola,
        quella che costa meno, la più facile.
        Ti odio. Questo il tuo amore?
        Una parola, una parola qualunque
        più triste del pianto di Simonide..»



        39) Carmen IXL - I denti bianchi di Egnazio 

        «Egnatius, quod candidos habet dentes, renidet usque quaque. 
        Si ad rei ventum est subsellium, cum orator excitat fletum, renidet ille; 
        si ad pii rogum fili lugetur, orba cum flet unicum mater, renidet ille. 
        Quicquid est, ubicumquest, quodcumque agit, renidet: hunc habet morbum, 
        neque elegantem, ut arbitror, neque urbanum. Quare monendum est mihi, 
        bone Egnati. Si urbanus esses aut Sabinus aut Tiburs  aut pinguis Umber 
        aut obesus Etruscus aut Lanuvinus ater atque dentatus aut Transpadanus, 
        ut meos quoque attingam, aut quilubet, qui puriter lavit dentes, 
        tamen renidere usque quaque te nollem: nam risu inepto res ineptior nulla est. 
        Nunc Celtiber : Celtiberia in terra, quod quisque minxit, 
        hoc sibi solet mane dentem atque russam defricare gingivam, 
        ut quo iste voster expolitior dens est, hoc te amplius bibisse praedicet loti.

        «Egnazio, poiché candidi ci ha quei denti, sorride ovunque vada. 
        Se si è al banco d’accusa e la difesa vuol destar pianto, sorride, lui. 
        Se del pio figlio sul rogo si geme e, orbata, piange mamma il suo unico, 
        sorride, lui. Ciò che sia, sia, dov’è, ovunque, qualunque cosa fa, sorride: 
        ha un bel morbo non elegante, a quanto penso, né urbano. 
        Perciò ammonirti, o buon Egnazio, mi tocca: se fossi urbano, o di Sabina,
        o di Tivoli, o un Umbro parco, o invece Etrusco di pancia,
        o un Lanuvino scuro e pieno di denti, o un Transpadano
        (sì che pure i miei tocchi)… o chi vuoi, che in igiene lavi i suoi denti,
        che tu sorrida ovunque non vorrei già: di un riso idiota niente, infatti, è più idiota.
        Ma se di Celtibèria, terra in cui usa, appena alzato, ognuno con ciò che piscia
        sfregarsi bene dente e rossa gengiva! E allora, più smagliante sarà a voi il dente
        più griderà che hai tracannato gran piscio. »



        40)  Carmen XL - Quaenam te mala mens, miselle Rauide 

        «Quaenam te mala mens, miselle Ravide,
        agit praecipitem in meos iambos?
        Quis deus tibi non bene
        advocatus vecordem parat excitare rixam?
        An ut pervenias in ora vulgi?
        Quid vis? Qualubet esse notus optas?
        Eris, quandoquidem meos amores
        cum longa voluisti amare poena.»

        «Quale strana pazzia ti getta, Rávido,
        come uno sciocco in bocca alla mia collera?
        Quale dio invocato malamente
        ti spinge a questa stupida contesa?
        per correre sulle labbra di tutti?
        Che vuoi? esser famoso ad ogni costo?
        Lo sarai, ma per la follia d'amare
        chi amo, tu lo sarai con infamia.»




        41)  Carmen XLI - Ameana

        «Ameana puella defututa
        tota milia me decem poposcit,
        ista turpiculo puella naso,
        decoctoris amica Formiani.
        propinqui, quibus est puella curae,
        amicos medicosque convocate:
        non est sana puella, nec rogare
        qualis sit solet aes imaginosum.»


        «Diecimila sesterzi tondi m'ha chiesto
        Ameana, quella puttanella fottuta,
        quella puttanella dal naso deforme
        mammola del gran fallito di Formia.
        Parenti che l'avete in tutela,
        convocate i medici e gli amici:
        quella è matta. Non si guarda mai
        in uno specchio? Farnetica.»



        42)   Carmen XLII - Accorrete versetti

        Catullo invoca i suoi versi, che vadano a chiedere indietro alla donna tutte le poesie che le ha dedicato. Non è uno sfoggio di bravura, perchè il poeta conosce perfettamente il suo valore, ma è un'accusa verso la donna ingrata:

        «Adeste, hendecasyllabi, quot estis
        omnes undique, quotquot estis omnes.
        iocum me putat esse moecha turpis,
        et negat mihi nostra reddituram
        pugillaria, si pati potestis.
        persequamur eam et reflagitemus.
        quae sit, quaeritis? illa, quam videtis
        turpe incedere, mimice ac moleste
        ridentem catuli ore Gallicani.
        circumsistite eam, et reflagitate,
        “moecha putida, redde codicillos,
        redde, putida moecha, codicillos!”
        non assis facis? o lutum, lupanar,
        aut si perditius potes quid esse.».


        «Accorrete, endecasillabi, quanti voi siete
        da ogni luogo tutti, tutti quanti, ovunque voi siete.
        Una disgustosa puttana pensa ch’io sia il suo zimbello
        e si rifiuta di ridarmi i nostri versetti,
        se solo voi poteste tollerarlo.
        Inseguiamola, e non diamole tregua.
        Chi mai sia, voi chiedete: quella, che vedete
        incedere turpe, sembra un pagliaccio
        e con quella boccaccia dalla risata molesta
        par essere un cucciolo di cane di Gallia.
        Circondatela, e non datele tregua:
        ‘Fetida d’una puttana, restituisci i versetti,
        restituiscili tutti, puttana putrefatta’.
        Te ne freghi? Oh che zozza, che gran troia,
        la più degenerata che possa esistere.
        Ma credo che questo non sia ancora sufficiente.
        Se non altro che noi la si possa
        far bruciare di vergogna,
        quella cagna dura come il ferro.
        Strillate ancora, urlate più forte:
        ‘Fetida d’una puttana, restituisci i versetti,
        restituiscili tutti, puttana putrefatta’.
        Ma niente, non si ottiene niente, nulla la smuove.
        È ragionevole per noi cambiar metodo e maniera,
        se vogliamo sperare di ottener qualcosa:
        ‘O fonte d’immacolata bontà casta e pura,
        ridammi i versetti».



        43)  Carme XLIII - Ad Ameana

        «Salve, nec minimo puella naso
        nec bello pede nec nigris ocellis
        nec longis digitis nec ore sicco
        nec sane nimis elegante lingua,
        decoctoris amica Formiani.
        ten provincia narrat esse bellam?
        tecum Lesbia nostra comparatur?
        o saeclum insapiens et infacetum!»


        «Dio ci salvi, ragazza, con quel nasone,
        quei piedacci, con gli occhi spenti,
        quelle dita tozze e la bocca molle,
        con quel tuo linguaggio volgare,
        proprio te, puttanella di quel fallito
        di Formia, dicono bella i provinciali?
        e ti paragonano alla mia Lesbia?
        O società imbecille e senza gusto.»



        44)  Carmen XLIV - O funde noster seu Sabine seu Tiburs 

        «O funde noster seu Sabine seu Tiburs
        (nam te esse Tiburtem autumant, quibus non est
        cordi Catullum laedere; at quibus cordi est,
        quovis Sabinum pignore esse contendunt),
        sed seu Sabine sive verius Tiburs,
        fui libenter in tua suburbana
        villa, malamque pectore expuli tussim,
        non inmerenti quam mihi meus venter,
        dum sumptuosas appeto, dedit, cenas.
        Nam, Sestianus dum volo esse conuiua,
        orationem in Antium petitorem
        plenam veneni et pestilentiae legi.
        Hic me gravedo frigida et frequens tussis
        quassait usque, dum in tuum sinum fugi,
        et me recuravi otioque et urtica.
        Quare refectus maximas tibi grates
        ago, meum quod non es ulta peccatum.
        Nec deprecor iam, si nefaria scripta
        Sesti recepso, quin gravedinem et tussim
        non mihi, sed ipsi Sestio ferat frigus,
        qui tunc vocat me, cum malum librum legi.»


        «O nostro fondo, di Sabina o di Tivoli
        (ti attesta «Tiburtino» chi non ha a cuore
        di far male a Catullo, ma, chi l’ha a cuore,
        «Sabino» a tutti costi insiste tu sia), be’,
        di Sabina sia o – piuttosto – di Tivoli,
        nel suburbano tuo con gioia son stato,
        e la maligna tosse ho espulso dal petto che,
        non immeritata, mi causò il ventre,
        andando io dietro a certe cene di lusso.
        Per esser convitato, infatti, di Sestio,
        la Contro Anzio candidato sua ho letto,
        che di malanni e di veleni è strapiena.
        Di colpo mi scoppia un raffreddore,
        una tosse secca, finchè non son fuggito qui da te
        per curarmi con riposo e decotti.
        Ora sto bene e posso quindi ringraziarti
        di non aver punito la mia colpa.
        Se dovessi subire ancora i suoi libelli
        voglio che il loro livore procuri a lui,
        non a me, lividi e tosse, quello m'invita
        solo per leggere i suoi maledetti scritti.»



        45)  Carmen XLV - Acmen Septimius suos amores 

        «Acmen Septimius suos amores
        Tenens in gremio ‘Mea’ inquit, ‘Acme,
        Ni te perdite amo atque amare porro
        Omnes sum adsidue paratus annos
        Quantum qui pote plurimum perire,,
        Solus in Libya Indiaque tosta
        Caesio veniam obvius leoni.’
        Hoc ut dixit, Amor sinistra ut ante,
        Dextra sternuit approbationem.
        At Acme leuiter caput reflectens
        Et dulcis pueri ebrios ocellos
        Illo purpureo ore suauiata
        ‘Sic’ inquit, ‘mea vita, Septimille,
        Huic uni domino usque serviamus,
        Vt multo mihi maior acriorque
        Ignis mollibus ardet in medullis.’
        Hoc ut dixit, Amor sinistra ut ante,
        Dextra sternuit approbationem.
        Nunc ab auspicio bono profecti
        Mutuis animis amant amantur.
        Vnam Septimius misellus Acmen
        Mauult quam Syrias Britanniasque:
        Vno in Septimio fidelis Acme
        Facit delicias libidinisque.
        Quis ullos homines beatiores
        Vidit, quis Venerem auspicatiorem?»


        «Stringendosi fra le braccia Acme, Settimio
        sussurra al suo amore: 'Acme, Acme mia,
        se da morirne non ti amo o t'amerò
        per tutti, tutti gli anni da venire
        come chi amando d'amore può morire,
        gettatemi in Libia, nei deserti dell'India,
        solo davanti agli occhi verdi di un leone'.
        Quando tacque, come prima a sinistra,
        a destra starnutí Amore il suo consenso.
        Acme allora, piegando leggermente il capo,
        con le sue labbra di rosa bacia sugli occhi
        inebriati d'amore il suo dolce amante:
        'Sempre,' gli dice 'Settimillo anima mia,
        dovremo servire quest'unico signore,
        come sempre piú forte e violento mi brucia
        in corpo un desiderio senza freni'.
        Quando tacque, a sinistra, come prima
        a destra, starnutí Amore il suo consenso.
        Ora spinti da cosí buoni auspici,
        un'anima sola, amano, sono amati.
        Piú di tutte le Sirie e le Britannie
        il povero Settimio vuole solo Acme;
        la fedele Acme solo in Settimio
        trova piacere e la voglia d'amare.
        Chi ha mai visto coppia piú felice,
        un amore sotto migliori auspici?»



        46)  Carmen XLVI - Il ritorno della primavera

        «Iam ver egelidos refert tepores,
        iam caeli furor aequinoctalis
        iucundis Zephyri silescit aureis.
        Linquantur Phrygii, Catulle, campi
        nicaeaeque ager uber aestuosae:
        ad claras asiae volemus urbes.
        Iam mens praetrepidans avet vagari,
        iam laeti studio pedes vigescunt.
        O dulces comitum valete coetus,
        longe quos simul a domo profectos
        diversae varie viae reportant»

        «È primavera, tornano i giorni miti
        e la brezza leggera dello zefiro
        spegne nel cielo la furia dell'inverno.
        Lasciamo i campi della Frigia, Catullo,
        le pianure fertili e afose di Nicea;
        via in volo per le città luminose dell'Asia.
        Irrequieto ti brucia una febbre di andare
        e nel desiderio ritrovi la tua forza.
        Addio, dolce compagnia di amici:
        partiti insieme dalla patria lontana,
        ognuno per strade diverse ritorneremo.»



        47)  Carmen XLVII - Porci et Socration, duae sinistrae 

        «Ad Porcium et Socrationem Porci 
        et Socration, duae sinistrae Pisonis, 
        scabies famesque mundi, 
        uos Veraniolo meo et Fabullo 
        uerpus praeposuit Priapus ille? 
        uos conuiuia lauta sumptuose de die facitis, 
        mei sodales quaerunt in triuio uocationes?»

        «Voi mani ladre di Pisone, Porcio,
        Socrazio, rogna e flagello del mondo,
        quel lurido Priapo ha preferito
        al mio dolce Veranio, al mio Fabullo?
        Voi, quando ancora è giorno, imbandite
        banchetti prelibati; i miei amici
        mendicano un invito per le strade.»




        48)  Carmen IIL - a Giovenzio

        «Mellitos oculos tuos, Iuventi,
        si quis me sinat usque basiare,
        usque ad milia basiem trecenta
        nec numquam videar satur futurus,
        non si densior aridis aristis
        sit nostrae seges osculationis.
        »

        «Se i tuoi occhi di miele, Giovenzio,
        mi fosse lecito baciare,
        migliaia di volte io li bacerei
        e non potrei esserne mai sazio,
        anche se più fitta di spighe mature
        fosse la messe dei miei baci.»



        49)  Carmen IL - A Cicerone

        «Disertissime Romuli nepotum,
        quot sunt quotque fuere, Marce Tulli,
        quotque post aliis erunt in annis,
        gratias tibi maximas Catullus
        agit pessimus omnium poeta,
        tanto pessimus omnium poeta,
        quanto tu optimus omnium patronus.»

        «Verbosissimo fra tutti i romani
        che a Roma sono, furono e saranno,
        Marco Tullio, in tutti gli anni a venire,
        a te porge il suo grazie piú sentito
        Catullo, il peggior poeta del mondo,
        il peggior poeta del mondo come
        tu del mondo sei il migliore avvocato.»



        50)  Carmen LX - A Lesbia 

        «Una leonessa sui monti di Libia o Scilla
        che dentro ringhia sordamente, chi,
        chi t'ha generato con l'animo così inumano
        e duro da disprezzare il grido che t'implora
        nella sventura estrema, cuore, cuore selvaggio?»



        50 bis)  Carmen L - Hesterno, Licini, die otiosi

        «Hesterno, Licini, die otiosi
        multum lusimus in meis tabellis,
        ut convenerat esse delicatos:
        scribens versiculos uterque nostrum
        ludebat numero modo hoc modo illoc,
        reddens mutua per iocum atque vinum.
        Atque illinc abii tuo lepore
        incensus, Licini, facetiisque,
        ut nec me miserum cibus iuvaret
        nec somnus tegeret quiete ocellos,
        sed toto indomitus furore lecto
        versarer, cupiens videre lucem,
        ut tecum loquerer simulque ut essem.
        At defessa labore membra postquam
        semimortua lectulo iacebant,
        hoc, iucunde, tibi poema feci,
        ex quo perspiceres meum dolorem.
        Nunc audax cave sis, precesque nostras,
        oramus, cave despuas, ocelle,
        ne poenas Nemesis reposcat a te.
        Est vemens dea: laedere hanc caveto.»

        «Ieri, Licinio, per passare il tempo
        ci siamo divertiti a improvvisare
        sui miei quaderni in delizioso accordo.
        Scrivendo versi abbiamo perso l'anima
        a misurarci su questo o quel metro,
        uno dopo l'altro, nell'allegria del vino.
        E me ne sono andato di là incantato,
        Licinio, dalla grazia del tuo spirito,
        cosí stranito da scordarmi di cenare,
        da non riuscire nemmeno a chiudere occhio:
        vinto dall'emozione mi son rivoltato
        dentro il letto smaniando che facesse giorno
        per poterti parlare, per stare con te.
        Ma ora che, morto di stanchezza, il mio corpo
        senza più forze sul letto ha trovato pace,
        ho scritto per te, amico mio, questi versi,
        perché tu potessi capire la mia pena.
        Non essere sprezzante, non respingere
        di grazia, occhi miei, le mie preghiere:
        provocheresti il castigo di Nemesi.
        È una dea terribile, non offenderla.»


        51)  Carmen LI - La sindrome amorosa 

        Il carmen 51 è una emulazione del fr. 31 di Saffo

        «Ille mi par esse deo videtur,
        ille, si fas est, superare divos,
        qui sedens adversus identidem te
        spectat et audit dulce ridentem, 
        misero quod omnis eripit sensus mihi: 
        nam simul te, Lesbia, aspexi, nihil est 
        super mi vocis in ore,
        lingua sed torpet, tenuis sub artus
        flamma demanat, sonitu suopte
        tintinant aures, gemina teguntur
        lumina nocte. 
        »

        «Mi sembra che sia simile ad un Dio
        O se è lecito, più di un Dio
        Colui che, sedendoti accanto
        Ti osserva e ti ascolta ridere
        Dolcemente; e ciò a me misero
        Strappa ogni sensazione: infatti
        Quando ti guardo, Lesbia,
        non mi rimane neanche un po'
        di voce, ma la lingua si intorpidisce,
        un fuoco sottile mi cola nelle ossa
        le orecchie mi ronzano
        e i due occhi si coprono di notte.»



        51 bis)  LI b - Cose insopportabili 

        «Otium, Catulle, tibi molestum est: 
        otio exsultas nimiumque gestis:otium 
        et reges prius et beatas perdidit urbes.»

        «L'ozio, Catullo, questo è il tuo pericolo,
        nell'ozio ti esalti sino a goderne;
        l'ozio che anche re e città potenti
        portò a rovina.»



        52)  Carmen LVII - 

        «Una bella coppia di canaglie fottute
        quel finocchio di Mamurra e tu, Cesare.
        Non è strano: macchiati delle stesse infamie,
        a Formia o qui a Roma, se le portano
        impresse e niente potrá cancellarle:
        due gemelli infarciti di letteratura
        sui vizi comuni allo stesso letto,
        l'uno più avido dell'altro nel corrompere,
        rivali e soci delle ragazzine.
        Una bella coppia di canaglie fottute.»



        53)  Carmen LXIII - Gaio Licinio Calvo, poeta e oratore

        «Risi nescio quem modo e corona, 
        qui, cum mirifice Vatiniana meus 
        crimina Calvos explicasset admirans 
        ait haec manusque tollens, 
        “di magni, salaputium disertum!»

        «Vuoi ridere? poco fa, accusandolo
        in tribunale, il mio Calvo inchioda
        Vatinio ai suoi delitti: entusiasta
        uno del pubblico si sbraccia e grida:
        'Gran dio, che oratore quel cazzetto!»



        53 b)  Carmen LVIII b. 

        «Non custos si fingar ille Cretum, 
        non si Pegaseo ferar volatu, 
        non Ladas ego pinnipesve Perseus, 
        non Rhesi niveae citaeque bigae… 
        Adde huc plumipedas volatilesque, 
        ventorumque simul require cursum, 
        quos vinctos, Cameri, mihi dicares… 
        Defessus tamen omnibus medullis 
        et multis languoribus peresus 
        essem te mihi, amice, quaeritando. »

        «Nemmeno se mi fingessi quel custode di Creta,
        nemmeno se corressi in volo come Pègaso,
        nemmeno se fossi Lada o il pié-pennuto Perseo,
        nemmeno se corressi con le nivee e veloci bighe di Reso…
        E a ciò aggiungi plumipedi e volatili, che cercano la rotta dei venti,
        che insieme avvinti, Camerio, a me dicessi...
        Tuttavia demolito fino all’osso
        e da molta spossatezza eroso
        resterei ricercandoti, amico.»



        54)  Carmen LIV - Othonis caput oppido est pusillum 

        «Othonis caput oppido est pusillum,
        et Heri rustice semilauta crura,
        subtile et leve peditum Libonis,
        si non omnia, displicere vellem
        tibi et Sufficio seni recocto…
        irascere iterum meis iambis
        inmerentibus, unice imperator.»


        «Il miserabile cazzo di Ottone,
        le gambe sporche e rozze d'Erio, il peto
        sinistramente lieve di Libone,
        a te e a Sufficio, quel vecchio rifatto,
        almeno questo dovrebbe spiacere.
        E torna pure ad incazzarti Cesare
        generalissimo, contro i miei versi
        innocenti.»



        55)  Carme LV - Oramus, si forte non molestum est 

        «Oramus, si forte non molestum est, 
        demonstres ubi sint tuae tenebrae. 
        Te Campo quaesimus in minore, 
        te in Circo, te H in omnibus libellis, 
        te in templo summi Iovis sacrato. 
        In Magni simul ambulatione 
        femellas omnes, amice, prendi, 
        quas vultu vidi tamen sereno. 
        Avens te sic ipse flagitabam: 
        «Camerium mihi, pessimae puellae!». 
        Quaedam inquit: «Nudum reclude < pectus>: 
        em!, H hic in roseis latet papillis». 
        Sed te iam ferre Herculei labos est, 
        Tanto te in fastu negas, amice? 
        Dic nobis ubi sis futurus, ede 
        audacter, committe, crede luci. 
        Nunc te lacteolae tenent puellae? 
        Si linguam clauso tenes in ore, 
        fructus proicies amoris omnes: 
        verbosa gaudet Venus loquella. 
        Vel, si vis, licet obseres palatum, 
        dum vestri sim particeps amoris.»

        «Per pietà, se non disturba troppo,
        mostra a noi dove siano le tue tenebre.
        Te cercammo nel minore Campo te nel Circo,
        te in mezzo a tutti i libri,
        te nel tempio sacro al Sommo Giove.
        E nel Portico, intanto, di Pompeo, tutte ho prese,
         amico, le pulzelle quelle almeno viste in volto liete,
        e, cercando te, così chiedevo:
        «Fuori a me il mio Camerio, sgualdrinelle».
        Al che, una: «Schiudi a nudo il petto:
        ecco, latita qui, fra i rosei seni!»
        Ma acchiapparti, ormai, è fatica erculea.
        Tanto grande boria a noi ti nega?
        Dicci dove verrai a spuntare, svelalo
        con audacia, rischia, vieni in luce.
        Son ragazze di latte che ti tengono?
        Se la lingua freni in chiusa bocca,
        vai a gettare d’amore tutti i frutti:
        di un parlare sciolto gode Venere.
        O il palato rinserra, se vuoi…
        a patto ch’io del vostro amore sia partecipe!»



        56)   Carmen LVI - O rem ridiculam, Cato, et iocosam 

        «O rem ridiculam, Cato, et iocosam,
        dignamque auribus et tuo cachinno!
        ride quidquid amas, Cato, Catullum:
        res est ridicula et nimis iocosa.
        deprendi modo pupulum puellae
        trusantem; hunc ego, si placet Dionae,
        protelo rigida mea cecidi.»


        «Scherzo così divertente, Catone,
        è giusto che tu lo sappia e ne rida.
        Ridine per l'amore che mi porti:
        credi, è uno scherzo troppo divertente.
        Sorpreso un ragazzino che si fotte
        una fanciulla, io, Venere mia,
        col cazzo ritto, un fulmine, l'inculo.»



        57) Carme LVII - Mumurra e Cesare

        «Pulcre convenit improbis cinaedis,
        Mamurrae pathicoque Caesarique.
        nec mirum: maculae pares utrisque,
        urbana altera et illa Formiana,
        impressae resident nec eluentur:
        morbosi pariter, gemelli utrique,
        uno in lecticulo erudituli ambo,
        non hic quam ille magis vorax adulter,
        rivales socii puellularum.
        Pulcre convenit improbis cinaedis.»


        «Una bella coppia di canaglie fottute
        quel finocchio di Mamurra e tu, Cesare.
        Non è strano: macchiati delle stesse infamie,
        a Formia o qui a Roma, se le portano
        impresse e niente potrà cancellarle:
        due gemelli infarciti di letteratura
        sui vizi comuni allo stesso letto,
        l'uno piú avido dell'altro nel corrompere,
        rivali e soci delle ragazzine.
        Una bella coppia di canaglie fottute.»




        58)  Carmen LVIII -  Contro Lesbia 

        All’amico Celio, Catullo mostra la sua dolorosa amarezza quando scopre che la “sua” Lesbia si aggira per l’Urbe, sollazzando i ragazzi di Roma:

        «Caeli, Lesbia nostra, Lesbia illa, 
        illa Lesbia, quam Catullus unam plus quam 
        se atque suos amavit omnes: nunc in quadriviis 
        et angiportis glubit magnanimos Remi nepotes.»

        «Celio, la mia Lesbia, quella Lesbia,
        quella sola Lesbia che amavo
        più di ogni cosa e di me stesso,
        ora all'angolo dei vicoli spreme
        questa gioventù dorata di Remo.»



        59)  Carmen LIX La bolognese Rufa

        «Num te te leaena montibus Libystinis
        aut Scylla latrans infima inguinum 
        parte tam mente dura procreavit 
        ac taetra, ut supplicis vocem 
        in novissimo casu contemptam
        haberes, a nimis fero corde?
        »

        «Si succhia il cazzo di un tribuno
        la rossa bolognese moglie di Menenio,
        quella che nei cimiteri vedi ogni giorno
        rubare il cibo ai roghi
        e mentre si getta sul pane
        che rotola dal fuoco,
        frustata da un crematore rasato
        per punizione.»



        60)   Carmen LX

        «Num te te leaena montibus Libystinis
        aut Scylla latrans infima inguinum parte
        tam mente dura procreavit ac taetra,
        ut supplicis vocem in novissimo casu
        contemptam haberes, a nimis fero corde?
        »

        «Forse ti ha generato una leonessa sui monti libici
        o Scilla latrante nella parte bassa dell’inguine
        con cuore talmente duro e feroce,
        da considerare disprezzata la voce d’un supplice
        in una disgrazia eccezionale, 
        ahi, dal cuore troppo selvaggio.»



        61)   Carmina Docta  LXI

        Di ispirazione saffica, fa parte dei Cartmina docta, ed è un epitalamio (canto di nozze) in cui non mancano toni scherzosi e maliziosi ma anche accenti delicati e dolcissimi come nell’augurio agli sposi di dare presto alla luce un figlio. Catullo suscita sentimenti ed emozioni profonde nel lettore, anche attraverso la pratica del vertere, rielaborando pezzi poetici di particolare rilevanza formale o intensità emozionale e tematica, come anche i carmina 61 e 62, ispirati agli epitalami (canti nuziali) saffici.

        «Collis o Heliconii, cultor, Uraniae genus,
        qui rapis teneram ad virum virginem, o Hymenaee
        Hymen, o Hymen Hymenaee; cinge tempora floribus
        suave olentis amaraci, flammeum cape laetus, huc
        huc veni, niveo gerens luteum pede soccum; 
        excitusque hilari die, nuptialia concinens
        voce carmina tinnula, pelle humum pedibus, manu
        pineam quate taedam. namque Iunia Manlio,
        qualis Idalium colens venit ad Phrygium Venus
        iudicem, bona cum bona nubet alite virgo, 
        floridis velut enitens myrtus Asia ramulis
        quos Hamadryades deae ludicrum sibi roscido
        nutriunt umore.quare age, huc aditum ferens,
        perge linquere Thespiae rupis Aonios specus,
        nympha quos super irrigat frigerans Aganippe.
        ac domum dominam voca coniugis cupidam novi,
        mentem amore revinciens, ut tenax hedera huc et huc
        arborem implicat errans. vosque item simul, integrae
        virgines, quibus advenit par dies, agite in modum
        dicite, o Hymenaee Hymen, o Hymen Hymenaee.
        ut libentius, audiens se citarier ad suum
        munus, huc aditum ferat dux bonae Veneris, 
        boni poliptoto coniugator amoris. quis deus magis 
        est amatis petendus amantibus? quem colent 
        homines magis caelitum, o Hymenaee Hymen,
        o Hymen Hymenaee? te suis tremulus parens
        invocat, tibi virgines zonula solvunt sinus,
        te timens cupida novos captat aure maritus. 
        tu fero iuveni in manus floridam ipse puellulam
        dedis a gremio suae matris, o Hymenaee Hymen,
        o Hymen Hymenaee. nil potest sine te Venus,
        fama quod bona comprobet, commodi capere, 
        at potest te volente. quis huic deo compararier ausit? 
        nulla quit sine te domus liberos dare, nec parens
        stirpe nitier; ac potest te volente. quis huic deo
        compararier ausit? quae tuis careat sacris,
        non queat dare praesides terra finibus: at queat
        te volente. quis huic deo compararier ausit? 
        claustra pandite ianuae. virgo adest. viden 
        ut faces splendidas quatiunt comas?
        ........
        tardet ingenuus pudor. quem tamen magis audiens,
        flet quod ire necesse est. flere desine. non tibi 
        Aurunculeia periculum est, ne qua femina pulcrior
        clarum ab Oceano diem viderit venientem.
        talis in vario solet divitis domini hortulo
        stare flos hyacinthinus. sed moraris, abit dies.
        prodeas nova nupta. prodeas nova nupta, si
        iam videtur, et audias nostra verba. viden? 
        Faces aureas quatiunt comas:prodeas nova nupta.
        non tuus levis in mala deditus vir adultera,
        probra turpia persequens, a tuis teneris volet
        secubare papillis, lenta sed velut adsitas
        vitis implicat arbores, implicabitur in tuum
        complexum. sed abit dies: prodeas nova nupta.
        o cubile, quod omnibus
        ......................
        candido pede lecti, quae tuo veniunt ero,
        quanta gaudia, quae vaga nocte, quae medio die
        gaudeat! sed abit dies: prodeas nova nupta.
        tollite, o pueri, faces: flammeum video venire.
        ite concinite in modum “io Hymen Hymenaee io,
        io Hymen Hymenaee.” ne diu taceat procax
        Fescennina iocatio, nec nuces pueris neget
        desertum dominiaudiens concubinus amorem.
        da nuces pueris, iners concubine! satis diu
        lusisti nucibus: lubet iam servire Talasio.
        concubine, nuces da. sordebant tibi villicae,
        concubine, hodie atque heri: nunc tuum 
        cinerarius tondet os. miser a miser
        concubine, nuces da. diceris male te a tuis
        unguentate glabris marite abstinere, sed
        abstine. io Hymen Hymenaee io,
        io Hymen Hymenaee. scimus haec tibi 
        quae licent sola cognita, sed marito
        ista non eadem licent. io Hymen Hymenaee io,
        io Hymen Hymenaee. nupta, tu quoque quae tuus
        vir petet cave ne neges, ni petitum aliunde eat.
        io Hymen Hymenaee io, io Hymen Hymenaee.
        en tibi domus ut potens et beata viri tui,
        quae tibi sine serviat (io Hymen Hymenaee io,
        io Hymen Hymenaee) usque dum tremulum 
        movens cana tempus anilitas omnia omnibus 
        annuit. io Hymen Hymenaee io, io Hymen 
        Hymenaee. transfer omine cum bono
        limen aureolos pedes, rasilemque subi forem.
        io Hymen Hymenaee io, io Hymen Hymenaee.
        aspice intus ut accubans vir tuus Tyrio in toro
        totus immineat tibi. io Hymen Hymenaee io,
        io Hymen Hymenaee. illi non minus ac tibi
        pectore uritur intimo flamma, sed penite magis.
        io Hymen Hymenaee io, io Hymen Hymenaee.
        mitte brachiolum teres, praetextate, puellulae:
        iam cubile adeat viri.
        io Hymen Hymenaee io, io Hymen Hymenaee.
        vos bonae senibus viris cognitae bene
        feminae, collocate puellulam.
        io Hymen Hymenaee io, io Hymen Hymenaee.
        iam licet venias, marite: uxor in thalamo tibi est,
        ore floridulo nitens, alba parthenice velut
        luteumve papaver. at, marite, ita me iuvent
        caelites, nihilo minus pulcer es, neque te Venus
        neglegit. sed abit dies: perge, ne remorare.
        non diu remoratus es: iam venis. bona te Venus
        iuverit, quoniam palam quod cupis cupis, et bonum
        non abscondis amorem. ille pulveris Africi
        siderumque micantium subducat numerum prius,
        qui vestri numerare volt multa milia ludi.
        ludite ut lubet, et brevi liberos date. non decet
        tam vetus sine liberis nomen esse, sed indidem
        semper ingenerari. Torquatus volo parvulus
        matris e gremio suae porrigens teneras manus
        dulce rideat ad patrem semihiante labello.
        sit suo similis patri Manlio et facile insciis
        noscitetur ab omnibus, et pudicitiam suae
        matris indicet ore. talis illius a bona
        matre laus genus approbet, qualis unica
        ab optima matre Telemacho manet
        fama Penelopeo. claudite ostia, virgines:
        lusimus satis. at boni coniuges, bene vivite et
        munere assiduo valentem exercete iuventam.
        »

        «Tu che vivi, figlio d'Urania, sol colle d'Elicona e affidi
        all'uomo la tenera vergine rapita, o Imeneo Imen,
        o Imen Imeneo, cingi le tempie con i fiori
        di maggiorana profumata, prendi il velo di fiamma e qui
        lieto, qui vieni col tuo piede bianco fasciato d'oro:
        eccitato dall'allegria del giorno, con voce squillante
        canta gli inni nuziali, batti coi piedi la terra e impugna
        la fiaccola di pino.
        Oggi Vinia a Manlio va sposa, bella come la dea di Cipro
        quando andò al giudizio di Paride, vergine che si sposa
        con gli auspici migliori, splendente come nella Misia
        ramoscello di mirto in fiore, che le dee degli alberi nutrono
        con gocce di rugiada per poterne godere.
        Vieni dunque e senza fermarti lascia le grotte delle Muse
        sulla montagna di Tespie, bagnate dalle fresche acque
        della fonte Aganippe, e chiama a casa la padrona,
        stringendo in un nodo d'amore il desiderio dello sposo,
        come intorno al tronco si avvinghia con la sua forza l'edera.
        E anche voi, candide vergini, che avrete un giorno come questo,
        seguendo il ritmo cantate in coro 'o Imeneo Imen,o Imen Imeneo', 
        perché piú volentieri, sentendosi chiamare al rito,
        lui che ispira onesti piaceri, che ogni amore onesto annoda,
        accorra qui fra noi. Nessun dio è piú implorato
        da un amante riamato, nessuno è piú onorato in cielo
        da noi, o Imeneo Imen, o Imen Imeneo.
        Per i figli t'invoca il padre tremando, in tuo onore sciolgono
        le vergini la loro veste, col timore del desiderio
        ti ascoltano i mariti. E tu, strappandola dal grembo
        della madre, abbandoni a un giovane brutale una fanciulla appena
        in fiore, o Imeneo Imen, o Imen Imeneo.
        Nessun piacere che sia lecito può prendere senza di te
        l'amore: solo se tu vuoi è possibile. Non è facile essere come te.
        Senza di te nessuna casa può dare figli che sostengano
        il padre: solo se tu vuoi è possibile. Non è facile essere come te.
        Una terra senza i tuoi riti non avrà difensori ai suoi
        confini: solo se tu vuoi potrà averli. Non è facile essere come te.
        Spalancate le porte: vieni, fanciulla, e guarda come splende
        la fiamma delle torce al vento.
        Il suo pudore la trattiene e, sentendone il richiamo, piange
        ora che deve andare. Non piangere, non c'è pericolo
        che una donna piú bella di te, Aurunculeia,
        veda sorgere dall'Oceano i bagliori del giorno.
        Bella come un giacinto fra i mille colori dei fiori
        in uno splendido giardino, dove sei? il giorno se ne va:
        esci, sposa bambina. Esci, esci bambina. Ascoltami,
        se credi che sia giunto il tempo. Guarda come s'è fatta d'oro
        la fiamma delle torce al vento: esci, esci bambina.
        Non hai un marito irrequieto che per cercare in qualche avventura
        il piacere del tradimento, voglia riposare lontano dal tuo giovane seno.
        E come la vite flessuosa si avvince agli alberi vicini,
        lui dal tuo abbraccio sarà vinto. Ma il giorno se ne va: 
        esci, esci bambina. O letto, letto dell'amore
        letto bianco d'avorio, quanta gioia procurerai
        al tuo padrone e quanta lui ne godrà nel volo di notti e
        giorni. Ma il giorno se ne va: esci, esci bambina.
        Alzate le torce, fanciulli, ecco, viene il velo di fiamma.
        Cantate, cantate con noi 'Io Imeneo Imen Io,
        Io Imen Imeneo'. Scoppieranno tutti gli scherzi
        pungenti del canto di nozze e tu, ragazzo, lascia, lascia
        le noci ai bambini: l'amore del padrone è finito.
        Su, dà queste noci ai bambini, languido amico: hai giocato
        fin troppo con le noci: ora dovrai adattarti a Talasio.
        Dai le noci, ragazzo. Sino ad oggi, ragazzo mio,
        disprezzavi le contadine: ora chi ti faceva i riccioli
        te li taglia. Povero, povero ragazzo, dà le noci.
        Si dice, sposo profumato, che tu non sappia rinunciare
        ai ragazzi; ma devi farlo. Io Imeneo Imen Io,
        Io Imen Imeneo. Certo, solo piaceri leciti
        erano i tuoi, ma ad un marito nemmeno questi sono leciti.
        Io Imeneo Imen Io, Io Imen Imeneo.
        E tu, sposa, non rifiutare a tuo marito ciò che chiede,
        mai o andrà a cercarselo altrove.
        lo Imeneo Imen Io, Io Imen Imeneo.
        Ecco la casa del tuo uomo, cosí potente e fortunata:
        lascia che sia come desideri, lo Imeneo Imen lo,
        Io Imen Imeneo, finché la candida vecchiaia
        con il tremito delle tempie dica di sí a tutti, a tutto.
        Io Imeneo Imen Io, Io Imen Imeneo.
        Varcando questa porta liscia, per augurio, oltre la soglia
        posa il tuo piedino dorato. Io Imeneo Imen Io,
        Io Imen Imeneo. Vedi, in casa c'è tuo marito
        sdraiato sul letto di porpora e ti tende le braccia.
        Io Imeneo Imen Io, Io Imen Imeneo.
        Anche dentro il suo petto brucia la stessa fiamma che ti brucia,
        ma piú profondamente. O Imeneo Imen Io,
        o Imen Imeneo. Lascia libero il braccio morbido
        di questa bambina, ragazzo: il letto nuziale l'attende.
        Io Imeneo Imen Io, Io Imen Imeneo.
        E voi che siete state amate solo dai vostri vecchi sposi,
        coricatela nel suo letto. Io Imeneo Imen lo,
        Io Imen Imeneo. Ora può venire lo sposo:
        tua moglie è nel letto nuziale e il suo viso in fiore risplende
        bianco come una margherita,
        rosso come il papavero. E tu (mi assistano gli dei)
        sei ugualmente bello: Venere non si è certo dimenticata
        di te. Ma il giorno se ne va: avanti, non tardare.
        No, tu non hai tardato molto: sei qui. Venere sarà dolce
        con te, perché ciò che tu vuoi lo vuoi al sole e il tuo amore
        non nascondi a nessuno. Si provi a sommare i granelli
        di sabbia nei deserti d'Africa, le stelle che brillano in cielo,
        chi vuol contare i vostri mille e mille giochi d'amore.
        Godetevi il piacere e presto fate figlioli. Una famiglia
        cosí antica non può vivere senza figli, ma dal suo sangue
        sempre deve rinascere. Voglio che un piccolo Torquato,
        tendendogli le mani dal grembo della madre,
        dolcemente, le labbra schiuse, al padre suo sorrida.
        E somigli tanto a suo padre, a Manlio, che senza fatica
        tutti lo riconoscano, e rispecchi nel volto
        l'onestà della madre. E per virtú di madre
        abbia sempre lode il suo sangue, come eternamente a Telemaco
        per la purezza di sua madre rimane onore raro.
        Sprangate le porte, fanciulle: lo scherzo è finito. Ma voi,
        dolci sposi, siate felici: godetevi la giovinezza
        nei piaceri d'amore.»

        Catullo incita gli sposi a ritirarsi nella camera nuziale per fare sesso.
        «Claudite ostia, virgines: 
        lusimus satis. At boni coniuges, 
        bene vivite et munere assiduo 
        valentem exercete iuventam. »

        «Basta canti, ora, o vergini!
        Siano chiuse le porte: e a voi, buoni sposi,
        un buon vivere e, costanti nel compito,
        valenti esercitate la vostra gioventù»



        62)  Carmina Docta  LXII

        Si tratta si un epitalamio non composto però come l’altro per una determinata occasione, ma impostato come un contrasto tra un gruppo di ragazzi e uno di fanciullo che in un canto amebeo (alterno) si scambiano battute sul tema delle nozzeAnche questo, come il precedente si avvale della pratica del 'vertere' risalendo alla poetica saffica che il poeta apprezza grandemente.

        «Vesper adest, iuvenes, consurgite: Vesper Olympo
        exspectata diu vix tandem lumina tollit.
        surgere iam tempus, iam pinguis linquere mensas,
        iam veniet virgo, iam dicetur hymenaeus.
        Hymen o Hymenaee, Hymen ades o Hymenaee!
        Cernitis, innuptae, iuvenes? consurgite contra;
        nimirum Oetaeos ostendit Noctifer ignes.
        sic certest; viden ut perniciter exsiluere?
        non temere exsiluere, canent quod vincere par est.
        Hymen o Hymenaee, Hymen ades o Hymenaee!
        non facilis nobis, aequales, palma parata est:
        aspicite, innuptae secum ut meditata requirunt.
        non frustra meditantur: habent
        memorabile quod sit; nec mirum, penitus quae 
        tota mente laborant. nos alio mentes, alio divisimus aures;
        iure igitur vincemur: amat victoria curam.
        quare nunc animos saltem convertite vestros;
        dicere iam incipient, iam respondere decebit.
        Hymen o Hymenaee, Hymen ades o Hymenaee!
        Hespere, quis caelo fertur crudelior ignis?
        qui natam possis complexu avellere matris,
        complexu matris retinentem avellere natam,
        et iuveni ardenti castam donare puellam.
        quid faciunt hostes capta crudelius urbe?
        Hymen o Hymenaee, Hymen ades o Hymenaee!
        Hespere, quis caelo lucet iucundior ignis?
        qui desponsa tua firmes conubia flamma,
        quae pepigere viri, pepigerunt ante parentes,
        nec iunxere prius quam se tuus extulit ardor.
        quid datur a divis felici optatius hora?
        Hymen o Hymenaee, Hymen ades o Hymenaee!
        Hesperus e nobis, aequales, abstulit unam.
        .........................

        namque tuo adventu vigilat custodia semper,
        nocte latent fures, quos idem saepe revertens,
        Hespere, mutato comprendis nomine Eous;
        at lubet innuptis ficto te carpere questu.
        quid tum, si carpunt, tacita quem mente requirunt?
        Hymen o Hymenaee, Hymen ades o Hymenaee!
        Ut flos in saeptis secretus nascitur hortis,
        ignotus pecori, nullo convolsus aratro,
        quem mulcent aurae, firmat sol, educat imber;
        multi illum pueri, multae optavere puellae:
        idem cum tenui carptus defloruit ungui,
        nulli illum pueri, nullae optavere puellae:
        sic virgo, dum intacta manet, dum cara suis est;
        cum castum amisit polluto corpore florem,
        nec pueris iucunda manet, nec cara puellis.
        Hymen o Hymenaee, Hymen ades o Hymenaee!
        Ut vidua in nudo vitis quae nascitur arvo,
        numquam se extollit, numquam mitem educat uvam,
        sed tenerum prono deflectens pondere corpus
        iam iam contingit summum radice flagellum;
        hanc nulli agricolae, nulli coluere iuvenci:at si
        forte eadem est ulmo coniuncta marito,
        multi illam agricolae, multi coluere iuvenci:
        sic virgo dum intacta manet, dum inculta senescit;
        cum par conubium maturo tempore adepta est,
        cara viro magis et minus est invisa parenti.
        Hymen o Hymenaee, Hymen ades o Hymenaee!
        Et tu ne pugna cum tali coniuge virgo.
        non aequom est pugnare, pater cui tradidit ipse,
        ipse pater cum matre, quibus parere necesse est.
        virginitas non tota tua est, ex parte parentum est,
        tertia pars patrest, pars est data tertia matri,
        tertia sola tua est: noli pugnare duobus,
        qui genero suo iura simul cum dote dederunt.
        Hymen o Hymenaee, Hymen ades o Hymenaee!"


        «Viene la sera e Vespero nel cielo
        dopo estenuante attesa accende la sua luce.
        In piedi, in piedi, ragazzi; via dalle mense:
        qui verrà la vergine, si canterà l'imeneo.
        Imen o Imeneo, Imen vieni o Imeneo.
        Guardateli, ragazze, alzatevi con loro;
        sull'Eta brilla di luce la stella della sera.
        Sí, è cosí, sono balzati in piedi;
        in piedi canteranno e dovremo ascoltarli.
        Imen o Imeneo, Imen vieni o Imeneo.
        Non avremo vittoria facile, compagni.
        Osservate come ripetono e ripetono
        il loro canto: sarà memorabile,
        v'impegnano tutte le loro forze.
        E noi abbiamo la mente rivolta altrove:
        vinceranno, meritano questa vittoria.
        Ma almeno ora prestate un po' d'attenzione:
        cominciano a cantare, dovremo rispondere.
        Imen o Imeneo, Imen vieni o Imeneo.
        Non vola in cielo stella piú crudele, Espero,
        se puoi strappare una figlia all'abbraccio di sua madre,
        strapparla a quell'abbraccio che non vuol lasciare,
        per abbandonarla innocente all'ardore di un giovane.
        Un nemico non è piú crudele coi vinti.
        Imen o Imeneo, Imen vieni o Imeneo.
        Non splende in cielo stella piú gentile, Espero,
        se con la tua luce suggelli quelle nozze
        che sposo e genitori avevano deciso,
        ma non strinsero prima che si alzasse la tua fiamma.
        Puoi chiedere al cielo un'ora piú felice di questa?
        Imen o Imeneo, Imen vieni o Imeneo.
        Espero ha rapito una di noi, compagne.
        Al tuo apparire vegliano i custodi.
        La notte cela i ladri, ma tu, Espero,
        rispuntando al mattino, li sorprendi.
        E le ragazze in pianto fingono di maledirti,
        anche se maledicono chi invocano in segreto.
        Imen o Imeneo, Imen vieni o Imeneo.
        Come in un giardino germoglia solitario un fiore
        sfuggito al gregge e mai sfiorato dall'aratro,
        e il vento lo accarezza, lo nutrono sole e pioggia,
        tutti i giovani vorrebbero coglierlo;
        ma se sfiorisce divelto da un'unghia aguzza,
        di tutti loro non lo desidera piú nessuno:
        cosí una vergine è cara finché rimane pura,
        ma quando violata perde il suo primo fiore,
        non è piú gradita e cara a nessuno.
        Imen o Imeneo, Imen vieni o Imeneo.
        Come la vite che nasce isolata in terra spoglia
        non riesce ad alzarsi né a maturare l'uva,
        ma piegandosi sotto il peso del tenero fusto
        quasi sfiora con le sue radici il tralcio piú alto
        e da nessuno, contadini o buoi, è presa a cuore,
        se per caso si lega in matrimonio all'olmo
        tutti, contadini o buoi, l'hanno a cuore;
        cosí invecchia trascurata una fanciulla vergine,
        ma se a tempo debito stringe giuste nozze,
        eluso l'odio del padre, avrà l'amore di un uomo.
        Imen o Imeneo, Imen vieni o Imeneo.
        Dunque non opporti, vergine, a questo sposo
        che ti ha dato tuo padre, non opporti:
        a padre e madre si deve obbedire.
        La verginità non è solo e tutta tua:
        un terzo è del padre, un terzo della madre,
        solo un terzo è tuo: non puoi opporti a loro
        che con la dote al genero ti hanno data.
        Imen o Imeneo, Imen vieni o Imeneo.»



        63)  Carmina Docta  LXIII  - Attis

        «Super alta vectus Attis celeri rate maria, 
        Phrygium ut nemus citato cupide pede tetigit,
        adiitque opaca silvis redimita loca deae, 
        stimulatus ibi furenti rabie, vagus animis, 
        devolvit ile acuto sibi pondere silicis.
        Itaque ut relicta sensit sibi membra sine viro, 
        etiam recente terrae sola sanguine maculans, 
        niveis citata cepit manibus leve typanum, 
        typanum tuum, Cybebe, tua, mater initia, 
        quatiensque terga tauri teneris cava digitis
        canere haec suis adorta est tremibunda comitibus: 
        «Agite ite ad alta, Gallae, Cybeles nemora simul, simul ite, 
        Dindymenae dominae vaga pecora, 
        aliena quae petentes velut exules loca 
        sectam meam exsecutae duce me mihi comites
        rapidum salum tulistis truculentaque pelagi 
        et corpus evirastis Veneris nimio odio; 
        hilarate erae citatis erroribus animum. 
        Mora tarda mente cedat: simul ite, 
        sequimini Phrygiam ad domum Cybebes, 
        Phrygia ad nemora deae, ubi cymbalum sonat vox, 
        ubi tympana reboant, tibicen 
        ubi canit Phryx curvo grave calamo, 
        ubi capita Maenades vi iaciunt hederigerae, 
        ubi sacra sancta acutis ululatibus agitant, 
        ubi suevit illa divae volitare vaga cohors,
        quo nos decet citatis celerare tripudiis». 
        Simul haec comitibus Attis cecinit, notha mulier, 
        thiasus repente linguis trepidantibus ululat, 
        leve tympanum remugit, cava cymbala recrepant. 
        viridem citus adit Idam properante pede chorus.
        Furibunda simul anhelans vaga vadit, animam agens, 
        comitata tympano Attis per opaca nemora dux, 
        ueluti iuvenca vitans onus indomita iugi, 
        rapidae ducem sequuntur Gallae properipedem. 
        Itaque, ut domum Cybebes tetigere lassulae,
        nimio e labore somnum capiunt sine Cerere. 
        Piger his labante languore oculos sopor operit; 
        abit in quiete molli rabidus furor animi. 
        Sed ubi oris aurei Sol radiantibus oculis 
        lustravit aethera album, sola dura, mare ferum,
        pepulitque noctis umbras vegetis sonipedibus, 
        ibi Somnus excitum Attin fugiens citus abiit: 
        trepidante eum recepit dea Pasithea sinu. 
        Ita de quiete molli rapida sine rabie simul 
        ipse pectore Attis sua facta recoluit,
        liquidaque mente vidit sine quis ubique foret, 
        animo aestuante rursum reditum ad vada tetulit. 
        Ibi maria vasta visens lacrimantibus oculis, 
        patriam allocuta maesta est ita voce miseriter: 
        «Patria o mei creatrix, patria o mea genetrix,
        ego quam miser relinquens, 
        dominos ut erifugae famuli solent, 
        ad Idae tetuli nemora pedem, 
        ut apud nivem et ferarum gelida stabula forem, 
        et earum operta adirem furibunda latibula, 
        ubinam aut quibus locis te positam, patria, reor?
        Cupit ipsa pupula ad te sibi derigere aciem, 
        rabie fera carens dum breve tempus animus est. 
        Egone a mea remota haec ferar in nemora domo? 
        Patria, bonis, amicis, genitoribus abero? 
        Abero foro, palaestra, stadio et gyminasiis?
        Miser, a miser, querendum est etiam atque etiam, anime. 
        Quod enim genus figurae est, ego non quod obierim? 
        Ego mulier, ego adulescens, ego ephebus, ego puer, 
        ego gymnasi fui flos, ego eram decus olei: 
        mihi ianuae frequentes, mihi limina tepida,
        mihi floridis corollis redimita domus erat, 
        linquendum ubi esset orto mihi sole cubiculum. 
        Ego nunc deum ministra et Cybeles famula ferar? 
        Ego Maenas, ego mei pars, ego vir sterilis ero? 
        Ego viridis algida Idae nive amicta loca colam?
        Ego vitam agam sub altis Phrygiae columinibus, 
        ubi cerva silvicultrix, ubi aper nemorivagus? 
        Iam iam dolet quod egi, iam iamque paenitet». 
        Roseis ut hinc labellis sonitus abiit, 
        geminas deorum ad aures nova nuntia referens,
        ibi iuncta iuga resolvens Cybele leonibus laevumque 
        pecoris hostem stimulans ita loquitur: 
        «Agedum», inquit «age ferox , fac ut hunc furor, 
        fac uti furoris ictu reditum in nemora ferat, 
        mea libere nimis qui fugere imperia cupit.
        Age caede terga cauda, tua verbera patere, 
        fac cuncta mugienti fremitu loca retonent, 
        rutilam ferox torosa cervice quate iubam». 
        Ait haec minax Cybebe religatque iuga manu; 
        ferus ipse sese adhortans rapidum incitat animo, 
        vadit, fremit, refringit virgulta pede vago. 
        At ubi umida albicantis loca litoris adiit,
        teneramque vidit Attin prope marmora pelagi, facit impetum. 
        Ille demens fugit in nemora fera; 
        bi semper, omne vitae spatium, famula fuit.
        Dea magna, dea Cybebe, dea domina Dindymi, 
        procul a mea tuus sit furor omnis, era, domo: 
        alios age incitatos, alios age rabidos..»

        «Oltre mari fondi, Attis, trasportato da nave celere,
         come, cupido, in concitato passo, il frigio bosco toccò e fu lì,
        agli ombrosi luoghi, della dea cinti di selve, pungolato,
        allora, da folle furia, e d’animi errabondo,
        con aguzzo e grosso sasso trasse via a sè i genitali.
        Sentì cosí ogni forza d'uomo sfuggirgli dal corpo
        (goccia a goccia il suo sangue bagnava la terra);
        strinse nelle mani candide il piccolo tamburo
        di Cibele (il tuo tamburo, dei tuoi misteri, madre)
        e battendo con dita delicate la sua pelle
        in un tremito si rivolse alle compagne:
        'Venite, Galle, venite tra i boschi di Cibele,
        venite tutte, gregge errante della dea di Dindimo:
        cercando esuli terre lontane, al mio comando
        per seguirmi vi siete affidate, voi mie compagne,
        che avete sfidato la furia rabbiosa del mare
        e per orrore di Venere vi siete evirate,
        rallegrate di corse pazze il cuore della dea.
        No, no, nessun indugio, venite tutte, seguitemi
        alla casa frigia di Cibele, alle sue foreste,
        dove rombano i tamburi, dove squillano i cembali,
        dove risuonano cupe le melodie del flauto,
        dove, cinte d'edera, si dimenano le Mènadi,
        dove con acute grida si celebrano i riti,
        dove svolazza l'orda vagabonda della dea:
        là con le nostre danze impetuose dobbiamo andare'.
        Il canto di Attis ermafrodito alle compagne
        provoca nella schiera un urlo scomposto di voci,
        brontolano i tamburi, strepitano i cembali,
        e corrono tutte al verde Ida come impazzite.
        Perduta in un delirio se ne va Attis affannata,
        guidandole tra boschi oscuri al suono del tamburo,
        come una giovenca selvaggia che rifiuti il giogo:
        dietro la sua furia si precipitano le Galle.
        Raggiunto il tempio di Cibele cadono sfinite
        e morte di fatica si addormentano digiune.
        Languidamente un torpore suggella i loro occhi
        e spegne nel sonno la furia rabbiosa del cuore.
        Ma quando i raggi dorati del sole si diffusero
        nell'alba livida sulla terra e il mare in tempesta,
        diradando in un baleno le ombre della notte,
        Attis si scuote e il sonno veloce s'allontana
        fuggendo tra le braccia impazienti di Pasitea.
        Svanito nelle nebbie del riposo il suo furore,
        Attis rimugina in cuore ciò che aveva fatto
        e a mente fredda comprende come s'era ridotto:
        con l'animo in tumulto allora ritorna alla spiaggia.
        E guardando il mare immenso, gli occhi pieni di lacrime,
        con voce affranta si rivolge in pianto alla sua terra:
        'Patria che m'hai creato, patria che m'hai generato,
        come uno schiavo dannato che fugge dal padrone
        t'ho abbandonato fuggendo ai boschi dell'Ida
        per vivere tra la neve, in tane di belve
        cacciandomi furiosa in ogni loro covo:
        dove, dove potrò cercarti, patria mia?
        Verso di te corrono gli occhi a volgere lo sguardo
        se per un attimo questa rabbia mi dà respiro.
        E dovrò dunque vivere in questi luoghi sperduti,
        senza piú casa patria beni amici genitori,
        senza piú fori palestre stadi e ginnasi?
        Maledetta, lamentati piangi, anima mia.
        Non c'è un aspetto che io, io non abbia assunto: donna,
        uomo, giovinetto, ragazzo, tutto sono stato,
        il fiore dei ginnasi, la gloria delle palestre.
        Il calore della gente riempiva la mia casa
        e quando al sorgere del sole lasciavo il mio letto
        tutte le stanze erano ornate di fiori. Ora,
        ordinata schiava di Cibele, questo sarò,
        una Mènade, un rottame d'uomo, un eunuco
        che vive tra le nevi gelide del verde Ida.
        E trascinerò la vita sui monti della Frigia
        tra cerve di foresta e cinghiali selvatici.
        E piango, piango, mi dispero: non l'avessi fatto'.
        Quando il grido sfuggitogli dalle labbra di rosa
        giunse alle orecchie degli dei come una folgore,
        subito sciolse Cibele i suoi leoni, aizzando
        quello alla sua sinistra, quel predatore d'agnelli:
        'Via, gettati contro di lui, che senta il tuo furore,
        che costretto dalla tua furia ritorni nei boschi,
        quello sciocco che sogna di sfuggire al mio potere.
        Via, sfèrzati il dorso con la coda, battiti, battiti,
        che tutta la terra sia assordata dal tuo ruggito,
        atterrita dal fiammeggiare della tua criniera'.
        Dopo le minacce Cibele libera la belva
        e quella fulminea, scatenando la sua ferocia,
        si getta alla caccia, ruggisce, fa strage di piante.
        Giunta sulla riva umida e bianca della spiaggia
        scorge il tenero Attis nel riverbero del mare
        e scatta: quello impazzito fugge nella foresta.
        Lí schiava rimase per tutto il resto della vita.
        O dea, dea grande, dea Cibele, dea di Díndimo,
        signora, allontana dalla mia casa il tuo furore:
        scatena altri ai tuoi deliri, altri alla tua rabbia.»



        64)  Carmina docta  LXIV

        «Peliaco quondam prognatae vertice pinus dicuntur 
        liquidas Neptuni nasse per undas Phasidos ad fluctus 
        et fines Aeetaeos, cum lecti iuvenes, 
        Argivae robora pubis, auratam optantes 
        Colchis avertere pellem ausi sunt vada salsa cita decurrere puppi,
         caerula verrentes abiegnis aequora palmis. 
        Diva quibus retinens in summis urbibus arces ipsa levi 
        fecit volitantem flamine currum, 
        pinea coniungens inflexae texta carinae. 
        Illa rudem cursu prima imbuit Amphitriten; 
        quae simul ac rostro ventosum proscidit aequor tortaque 
        remigio spumis incanuit unda, emersere freti candenti 
        e gurgite vultus aequoreae monstrum Nereides admirantes

        «Narrano che i pini prole dei picchi del Pelio
        una volta lungo le limpide onde di Nettuno
        nuotarono fino ai flutti del Fasi ed agli eetèi confini quando,
        forze di argivi ragazzi giovani scelti,
        desiderando carpire ai Colchi il vello dorato,
        su poppa rapida i guadi salmastri osarono correre
        con palme in legno d’abete spazzando le piane cerulee.
        Loro, per cui la dea stessa che nelle città, in cima,
        tiene le rocche, un carro forgiò pronto al volo ad un lieve spirare,
        congiungendo a incurvata carena testure di pino:
        quella per prima Anfitrìte inesperta iniziò a una rotta
        e non appena fendette col rostro la piana ventosa e,
        rovesciata dai remi, mutò l’onda in bianco di schiume,
        dall’ora candido gorgo delle acque
        levarono i volti le marine Nerèidi, stupite del prodigio. »


        65)  Carmina docta  LXV

        Catullo nel carme 65, compone una rielaborazione della Chioma di Berenice di Callimaco, che viene ripreso per mostrare l'adesione ad una raffinata elaborazione stilistica, mitologica e linguistica ed infine la brevitas dei componimenti, con la convinzione che solo un carme di breve durata può essere un'opera raffinata e preziosa.
        E' un'epistola indirizzata all'oratore Ortensio Ortalo,amico e rivale di Cicerone, difensore dei poeti e poeta egli stesso, traduzione dell'opera di Callimaco "La chioma di Berenice", fatta da Catullo allo stesso Ortalo.
        Il Carmen  fa parte dei Cartmina docta, che vanno dal LXI al LXVIII, d'impronta alessandrina e per lo più in esametri e distici elegiaci. Si tratta di un epillio in esametri ed è il più ampio di tutti i componimenti (circa 400 versi). 
        Narra le nozze di Pèleo con la Dea Tètide; per l'occasione inserisce il racconto di Arianna innamorata di Tèseo, giunto a Creta per uccidere il Minotauro, e la disperazione dell’eroina abbandonata. Dopo il racconto della punizione che toccò a Tèseo per il tradimento, si torna alle nozze di Pèleo e Tètide. 
        Nel finale il poeta esprime il suo rimpianto per il tempo mitico degli eroi, quando gli Dei si mostravano agli uomini e si facevano garanti dei valori morali e religiosi, primo fra tutti la fides (peraltro tradita da Lesbia).

        «Etsi me assiduo confectum cura dolore
        sevocat a doctis, Ortale, virginibus,
        nec potis est dulcis Musarum expromere fetus
        mens animi, (tantis fluctuat ipsa malis
        namque mei nuper Lethaeo in gurgite fratris
        pallidulum manans alluit unda pedem,
        Troia Rhoeteo quem subter litore tellus
        ereptum nostris obterit ex oculis.
        Alloquar ,audiero numquam tua facta loquentem,
        numquam ego te, vita frater amabilior,
        aspiciam posthac? at certe semper amabo,
        semper maesta tua carmina morte canam,
        qualia sub densis ramorum concinit umbris
        Daulias, absumpti fata gemens Ityli)
        sed tamen in tantis maeroribus, Ortale, mitto
        haec expressa tibi carmina Battiadae,
        ne tua dicta vagis nequiquam credita ventis
        effluxisse meo forte putes animo,
        ut missum sponsi furtivo munere malum
        procurrit casto virginis e gremio,
        quod miserae oblitae molli sub veste locatum,
        dum adventu matris prosilit, excutitur,
        atque illud prono praeceps agitur decursu,
        huic manat tristi conscius ore rubor.»


        «L'angoscia sfibrante di un dolore senza tregua
        mi distoglie, Ortalo, da ogni volontá di vivere
        e nell'incertezza di questa sofferenza non penso più
        di trovare nelle parole il conforto della poesia:
        l'onda che nasce dal gorgo di Lete ora, ora
        bagna il piede pallido ora di mio fratello:
        strappato ai miei occhi, la terra di Troia
        ora lo dissolve sotto il peso della sua collina.
        Ti parlerò e non ti sentirò parlare,
        mai, mai più ti rivedrò, fratello mio:
        amato più della mia vita, sempre ti amerò,
        sempre mi terrò in cuore il pianto per la tua morte,
        come l'usignolo tra le ombre più folte dei rami
        piange nel suo canto la sorte straziante di Iti.
        Ma anche in così grande tristezza, Ortalo,
        eccoti questi versi tradotti da Callimaco,
        perchè tu non creda che, disperse nel vento,
        le tue parole mi siano sfuggite dalla mente,
        come scivola dal grembo di una ragazzina
        il pomo che in segreto le donò l'innamorato,
        quando, scordatasi d'averlo fra le pieghe della veste,
        sussulta trasognata all'arrivo della madre
        e le sguscia via: cade in terra il pomo rotolando
        e il suo viso afflitto avvampa di vergogna.»



        66)  Carmina docta  LXVI

        E' la traduzione di un’elegia di Callìmaco contenuta negli Aìtia, la “Chioma di Berenice” in cui ad Alessandria d’Egitto l’astronomo di corte individua nel cielo una nuova costellazione corrispondente a un ricciolo di Berenice, offerto in voto agli Dei per propiziare il ritorno dalla guerra dello sposo. Anche qui sono esaltati l’amore e la fedeltà coniugali. Con questo carme si conclude la serie dei carmina docta, molto ispirati ai modelli greci con raffinata sperimentazione stilistica.

        «Omnia qui magni dispexit lumina mundi,
        qui stellarum ortus comperit atque obitus,
        flammeus ut rapidi solis nitor obscuretur,
        ut cedant certis sidera temporibus,
        ut Triviam furtim sub Latmia saxa relegans
        dulcis amor gyro devocet aereo: idem me ille
        Conon caelesti in lumine vidit
        e Beroniceo vertice caesariem
        fulgentem clare, quam multis illa deorum
        levia protendens brachia pollicita est,
        qua rex tempestate novo auctus hymenaeo
        vastatum finis iverat Assyrios,
        dulcia nocturnae portans vestigia rixae,
        quam de virgineis gesserat exuviis.
        estne novis nuptis odio Venus? anne parentum 1
        frustrantur falsis gaudia lacrimulis,
        ubertim thalami quas intra limina fundunt?
        non, ita me divi, vera gemunt, iverint.
        id mea me multis docuit regina querellis
        invisente novo proelia torva viro.
        et tu non orbum luxti deserta cubile,
        sed fratris cari flebile discidium?
        quam penitus maestas exedit cura medullas!
        ut tibi tunc toto pectore sollicitae
        sensibus ereptis mens excidit! at ego certe
        cognoram a parva virgine magnanimam.
        anne bonum oblita es facinus, quo regium adepta
        es coniugium, quod non fortior ausit alis?
        sed tum maesta virum mittens quae verba locuta est!
        Iuppiter, ut tristi lumina saepe manu!
        quis te mutavit tantus deus? an quod amantes
        non longe a caro corpore abesse volunt?
        atque ibi me cunctis pro dulci coniuge divis
        non sine taurino sanguine pollicita es,
        si reditum tetulisset. is haut in tempore longo
        captam Asiam Aegypti finibus addiderat.
        quis ego pro factis caelesti reddita coetu
        pristina vota novo munere dissolvo. allitterazione
        invita, o regina, tuo de vertice cessi, anafora
        invita: adiuro teque tuumque caput,
        digna ferat quod si quis inaniter adiurarit:
        sed qui se ferro postulet esse parem?
        ille quoque eversus mons est, quem maximum in
        oris progenies Thiae clara supervehitur,
        cum Medi peperere novum mare, cumque iuventus
        per medium classi barbara navit Athon.
        quid facient crines, cum ferro talia cedant?
        Iuppiter, ut Chalybon omne genus pereat,
        et qui principio sub terra quaerere venas
        institit ac ferri stringere duritiem!
        abiunctae paulo ante comae mea fata sorores
        lugebant, cum se Memnonis Aethiopis
        unigena impellens nutantibus aera pennis
        obtulit Arsinoes Locridis ales equos,
        isque per aetherias me tollens avolat umbras
        et Veneris casto collocat in gremio.
        ipsa suum Zephyritis eo famulum legarat
        Graia Canopitis incola litoribus.
        hic dii vario ne solum in lumine caeli
        ex Ariadnaeis aurea temporibus
        fixa corona foret, sed nos quoque fulgeremus
        devotae flavi verticis exuviae,
        uvidulam a fluctu cedentem ad templa deum me
        sidus in antiquis diva novum posuit. Virginis
        et saevi contingens namque Leonis
        lumina, Callisto iuncta Lycaoniae,
        vertor in occasum, tardum dux ante Booten,
        qui vix sero alto mergitur Oceano.
        sed quamquam me nocte premunt vestigia divum,
        lux autem canae Tethyi restituit
        (pace tua fari hic liceat, Ramnusia virgo,
        namque ego non ullo vera timore tegam,
        nec si me infestis discerpent sidera dictis,
        condita quin vere pectoris evolvam),
        non his tam laetor rebus, quam me afore semper,
        afore me a dominae vertice discrucior,
        quicum ego, dum virgo quondam fuit omnibus expers
        unguentis, una milia multa bibi. nunc
        vos, optato quas iunxit lumine taeda,
        non prius unanimis corpora coniugibus
        tradite nudantes reiecta veste papillas,
        quam iucunda mihi munera libet onyx,
        vester onyx, casto colitis quae iura
        cubili. sed quae se impuro dedit adulterio,
        illius a mala dona levis bibat irrita pulvis:
        namque ego ab indignis praemia nulla peto.
        sed magis, o nuptae, semper concordia vestras,
        semper amor sedes incolat assiduus.
        tu vero, regina, tuens cum sidera divam
        placabis festis luminibus Venerem,
        unguinis expertem non siris esse tuam me,
        sed potius largis affice muneribus.
        sidera corruerint utinam! coma regia fiam,
        proximus Hydrochoi fulgeret Oarion!
        »

        «Chi dell'universo distinse tutte le luci
        e scoprí il sorgere e il tramontare delle stelle,
        come si oscura in un lampo la fiamma del sole
        e in che giorni dell'anno si nascondono gli astri,
        come per tenero amore la luna dall'orbita
        tra le rupi di Latmo furtiva s'allontana;
        proprio quello, grazie agli dei, Conone mi vide,
        staccata dal capo di Berenice, brillare
        di luce, la chioma che lei, tendendo le braccia
        morbide, promise in voto ad ogni dea del cielo,
        quando il suo re, reso piú grande da queste nozze,
        partí per devastare le terre degli Assiri,
        col ricordo in cuore della lotta sostenuta
        per vincere la sua verginità quella notte.
        Ma detestano l'amore queste spose o frustrano
        la gioia dei genitori con tutte le lacrime
        false che spargono davanti al letto nuziale?
        Testimonino gli dei, se quel pianto è vero.
        Me lo rivelò coi suoi lamenti la regina,
        quando il marito si accinse ad una guerra atroce.
        Certo non piangevi solo per un letto vuoto,
        ma per l'angoscia che ti lasciasse il tuo amore.
        Un'ansia senza fine ti divorava dentro
        e ti tremava il cuore, ti sentivi svenire,
        impazzivi. Ma fin da quando eri bambina
        io ti ritenevo coraggiosa: non ricordi
        dunque l'impresa che nessun uomo avrebbe osato,
        quella che ti permise di essere regina?
        Come ti lamentavi salutando il marito
        mio dio, quante lacrime asciugò la tua mano.
        Ma chi degli dei ti ha cosí mutata? O forse
        gli amanti non sanno proprio vivere lontani?
        Sacrificando un toro mi promettesti allora
        a tutti quanti gli dei, se fosse ritornato
        il tuo amato sposo. E lui poco tempo dopo,
        conquistata l'Asia, l'uní al regno egiziano.
        Ora per questa impresa accolta in mezzo ai celesti,
        sciolgo con un dono insolito il voto promesso.
        Non volevo, regina, lasciare la tua fronte,
        non volevo: lo giuro su di te, sul tuo capo
        e chi giura il falso abbia la pena che si merita:
        ma chi può pretendere d'essere uguale al ferro?
        Anche quel monte, il piú alto su cui batte il figlio
        luminoso di Thia, fu spezzato dal ferro,
        quando i Medi crearono un nuovo mare e i barbari
        passarono con le loro navi in mezzo all'Athos.
        Come resistere, se anche i monti si arrendono
        al ferro? Stermina, Giove, il popolo dei Càlibi,
        che per primi cercarono il ferro sottoterra
        tentando ostinati di piegarne la durezza.
        I capelli da cui ero recisa piangevano
        la mia sorte, quando il cavallo alato di Arsínoe,
        nato con l'etiope Mèmnone da stessa madre,
        battendo le ali a fendere l'aria, mi prese
        e sollevandomi in volo attraverso le tenebre
        celesti, mi pose nel grembo casto di Venere.
        La greca abitatrice dei lidi di Canòpo,
        Venere Zefirítide stessa l'ha mandato,
        perché fra tutte le stelle del cielo divino
        non fosse posta soltanto la corona d'oro
        tolta alle tempie di Arianna, ma anch'io risplendessi,
        chioma recisa per voto da una testa bionda.
        E ancora umida di pianto la dea mi pose
        nel firmamento, nuova stella fra quelle antiche.
        Io, sfiorando le costellazioni della Vergine
        e dell'ardente Leone, insieme con Callisto
        volgo ad occidente guidando il lento Boòte,
        che solo all'alba s'immerge nel profondo Oceano.
        Ma benché di notte senta il passo degli dei
        e l'alba mi restituisca alla bianca Teti,
        questo non mi rallegra: sapermi ormai lontana
        (lasciami parlare, ti prego, vergine Nemesi:
        non so tacere la mia verità per paura,
        gli astri possono coprirmi di maledizioni,
        ripeterò la verità che nascondo in cuore),
        sapermi lontana dal capo di Berenice,
        questo mi angoscia: quand'era fanciulla i profumi
        non servivano, anche se poi ne provai migliaia.
        E voi, giunte alle nozze com'era il desiderio,
        non offrite allo sposo adorato il vostro corpo
        lasciando cadere la veste a scoprire il seno,
        prima di donare a me la gioia di un profumo,
        il vostro profumo, voi che onorate l'amore.
        Ma i doni nefasti di chi commette adulterio
        li beva senza frutto la polvere leggera:
        io certo non chiedo nulla a chi non ne sia degno.
        Voglio piuttosto che la concordia dell'amore
        in eterno sempre, sempre abiti con voi.
        E se guardando le stelle placherai, regina,
        nelle notti di festa la tua divina Venere,
        non lasciarla senza sacrifici, perché tua
        per le tue offerte io possa essere ancora.
        Tornino com'erano le stelle ed io regina
        con Berenice, o splenda Orione dentro l'Aquario.»



        67)  Carmina docta  LXVII

        Si tratta di una breve elegia sugli scandali di una famiglia veronese. Si tratta del lamento dell'amante di fronte alla porta chiusa dell'amato, dove una porta racconta le vicende della moglie del padrone e delle sue relazioni adulterine. L'ultimo componimento racconta della vicenda mitica riguardante Protesilao e Laodamia, ovvero la morte di un congiunto (la scomparsa del fratello) e l'amore disperato e carnale (la passione per Lesbia).

        «O dulci iucunda viro, iucunda parenti, salve,
        teque bona Iuppiter auctet ope, ianua,
        quam Balbo dicunt servisse benigne olim, 
        cum sedes ipse senex tenuit, quamque ferunt 
        rursus gnato servisse maligne, 
        postquam es porrecto facta marita sene. 
        dic agedum nobis, quare mutata feraris 
        in dominum veterem deseruisse fidem. 
        ‘Non (ita Caecilio placeam, cui tradita nunc sum) 
        culpa mea est, quamquam dicitur esse mea, 
        nec peccatum a me quisquam pote dicere quicquam: 
        verum istius populi ianua qui te facit, qui, 
        quacumque aliquid reperitur non bene factum, 
        ad me omnes clamant: ianua, culpa tua est.’ 
        non istuc satis est uno te dicere verbo, 
        sed facere ut quivis sentiat et videat. 
        ‘Qui possum? nemo quaerit nec scire laborat.’ 
        Nos volumus: nobis dicere ne dubita. 
        ‘Primum igitur, virgo quod fertur tradita nobis, 
        falsum est. non illam vir prior attigerit, 
        languidior tenera cui pendens sicula beta 
        numquam se mediam sustulit ad tunicam; 
        sed pater illius gnati violasse cubile dicitur 
        et miseram conscelerasse domum,
        sive quod impia mens caeco flagrabat amore, 
        seu quod iners sterili semine natus erat, 
        ut quaerendum unde unde foret nervosius illud, 
        quod posset zonam solvere virgineam.’ 
        Egregium narras mira pietate parentem, 
        qui ipse sui gnati minxerit in gremium. 
        ‘Atqui non solum hoc dicit se cognitum 
        habere Brixia Cycneae supposita speculae, 
        flavus quam molli praecurrit flumine Mella, 
        Brixia Veronae mater amata meae, sed de 
        Postumio et Corneli narrat amore, 
        cum quibus illa malum fecit adulterium. 
        dixerit hic aliquis: quid? tu istaec, ianua, 
        nosti, cui numquam domini limine abesse licet, 
        nec populum auscultare, sed hic suffixa tigillo 
        tantum operire soles aut aperire domum? 
        saepe illam audivi furtiva voce loquentem 
        solam cum ancillis haec sua flagitia, 
        nomine dicentem quos diximus, utpote 
        quae mi speraret nec linguam esse nec 
        auriculam. praeterea addebat quendam, 
        quem dicere nolo nomine, ne tollat rubra supercilia. 
        longus homo est, magnas cui lites intulit olim 
        falsum mendaci ventre puerperium.»

        «Salute a te, porta, cosí cara a un buon marito,
        a un padre: ti benedica Giove.
        Si dice che un tempo tu abbia servito onestamente
        il vecchio Balbo finché visse in questa casa,
        ma anche che tu abbia poi disonorato questa fede,
        quando, stecchito il vecchio, hai stretto un altro vincolo.
        Avanti, dimmi tutto. Tu sei cambiata:
        dov'è finita la tua proverbiale fedeltà
        al padrone? La colpa non è mia,
        anche se dicono cosí (mi perdoni Cecilio
        a cui ora appartengo). Nessuno può dire
        che io abbia sulla coscienza qualche peccato.
        Ma per certa gente è sempre la porta
        la causa di tutto e qualunque malefatta si scopra
        tutti mi gridano: 'porta, la colpa è tua'.
        Non basta dirlo: è una parola.
        Dovresti fare in modo che ognuno se ne rendesse conto.
        E come? Non gliene frega a nessuno
        di saperlo. Ma a me sí:
        avanti, dimmi come stanno le cose.
        Primo: se dicono che quella mi è stata affidata vergine,
        è falso. Non può certo averla toccata
        per primo il marito con quel cosino pendente,
        piú moscio di una bietola lessa, che non ha mai sollevato
        di tanto la sua tunica. Sembra piuttosto
        che sia stato il padre a violare il letto del figlio,
        disonorando quella gente disgraziata.
        Forse una passione insana ardeva nel suo cuore sciagurato
        o forse l'impotenza, che rendeva sterile il figlio,
        l'indusse a credere che fosse necessario un piolo
        capace di sciogliere il nodo della vergine.
        Un padre straordinario, mi dici,
        di una bontà cosí incredibile da bagnare lui stesso
        l'orto del figliolo. Non è tutto.
        Sembra che sotto il castello chineo, a Brescia,
        attraversata pigramente dalle acque gialle del Mella,
        a Brescia, l'amata madre della mia Verona,
        si sappia ben altro; di Postumio,
        della passione di Cornelio, coi quali, si mormora,
        lei avrebbe consumato infami adulteri.
        'E tu come lo sai?' si dirà.
        'Una porta non può staccarsi dalla soglia del padrone,
        né origliare ciò che dice la gente; infissa nell'architrave
        non fa altro che aprire o chiudere la casa.'
        Lo so, perché l'ho sentita parlare a bassa voce, in un canto
        con le sue servette di queste vergogne,
        e faceva i nomi di quelli che ho detto,
        convinta che non avessi né orecchie né lingua.
        Ed anche di un altro, del quale non faccio il nome,
        perché non aggrotti le sue rosse sopracciglia.
        È un tipo alto, che un tempo ha subíto
        un processo famoso per il figlio inventato
        da una falsa gestante.»



        68)  Carmina docta  LXVIII

        Catullo esprime la sua affettuosa riconoscenza verso un amico che gli è venuto in soccorso agli inizi del suo amore per Lesbia, favorendo il primo incontro tra i due. Come exemplum viene citato un mito: Lesbia venne allora tra le braccia di Catullo come la mitica Laodamìa si era unita allo sposo Protesilào, senza che i riti nuziali fossero compiuti in conformità alle prescrizioni divine; perciò ella perse lo sposo, caduto sotto le mura di Troia.

        Quod mihi fortuna casuque oppressus acerbo
        conscriptum hoc lacrimis mittis epistolium,
        naufragum ut eiectum spumantibus aequoris
        undis sublevem et a mortis limine restituam,
        quem neque sancta Venus molli requiescere somno
        desertum in lecto caelibe perpetitur,
        nec veterum dulci scriptorum carmine Musae
        oblectant, cum mens anxia pervigilat:
        id gratum est mihi, me quoniam tibi dicis amicum,
        muneraque et Musarum hinc petis et Veneris.
        sed tibi ne mea sint ignota incommoda, Mani,
        neu me odisse putes hospitis officium,
        accipe, quis merser fortunae fluctibus ipse,
        ne amplius a misero dona beata petas.
        tempore quo primum vestis mihi tradita 
        pura est, iucundum cum aetas florida ver ageret,
        multa satis lusi: non est dea nescia nostri,
        quae dulcem curis miscet amaritiem.
        sed totum hoc studium luctu fraterna mihi mors
        abstulit. o misero frater adempte mihi,
        tu mea tu moriens fregisti commoda, frater,
        tecum una tota est nostra sepulta domus,
        omnia tecum una perierunt gaudia nostra,
        quae tuus in vita dulcis alebat amor.
        cuius ego interitu tota de mente fugavi
        haec studia atque omnes delicias animi.
        quare, quod scribis Veronae turpe Catullo
        esse, quod hic quisquis de meliore nota
        frigida deserto tepefactet membra cubili,
        id, Mani, non est turpe, magis miserum est.
        ignosces igitur si, quae mihi luctus ademit,
        haec tibi non tribuo munera, cum nequeo.
        nam, quod scriptorum non magna est copia apud
        me, hoc fit, quod Romae vivimus: illa domus,
        illa mihi sedes, illic mea carpitur aetas;
        huc una ex multis capsula me sequitur.
        quod cum ita sit, nolim statuas nos mente maligna
        id facere aut animo non satis ingenuo,
        quod tibi non utriusque petenti copia posta est:
        ultro ego deferrem, copia siqua foret.
        Non possum reticere, deae, qua me Allius in re
        iuverit aut quantis iuverit officiis,
        ne fugiens saeclis obliviscentibus aetas
        illius hoc caeca nocte tegat studium:
        sed dicam vobis, vos porro dicite multis
        milibus et facite haec carta loquatur anus.
        ..............................

        notescatque magis mortuus atque magis,
        nec tenuem texens sublimis aranea telam
        in deserto Alli nomine opus faciat. nam, 
        mihi quam dederit duplex Amathusia curam,
        scitis, et in quo me torruerit genere,
        cum tantum arderem quantum Trinacria rupes
        lymphaque in Oetaeis Malia Thermopylis,
        maesta neque assiduo tabescere lumina fletu
        cessarent. tristique imbre madere genae.
        qualis in aerii perlucens vertice montis
        rivus muscoso prosilit e lapide,
        qui cum de prona praeceps est valle volutus,
        per medium densi transit iter populi,
        dulce viatori lasso in sudore levamen,
        cum gravis exustos aestus hiulcat agros:
        hic, velut in nigro iactatis turbine nautis
        lenius aspirans aura secunda venit
        iam prece Pollucis, iam Castoris implorata,
        tale fuit nobis Allius auxilium.
        is clausum lato patefecit limite campum,
        isque domum nobis isque dedit dominae,
        ad quam communes exerceremus amores.
        quo mea se molli candida diva pede
        intulit et trito fulgentem in limine plantam
        innixa arguta constituit solea, coniugis ut
        quondam flagrans advenit amore
        Protesilaeam Laodamia domum
        inceptam frustra, nondum cum sanguine sacro
        hostia caelestis pacificasset eros.
        nil mihi tam valde placeat, Ramnusia virgo,
        quod temere invitis suscipiatur eris.
        quam ieiuna pium desideret ara cruorem,
        docta est amisso Laodamia viro,
        coniugis ante coacta novi dimittere collum,
        quam veniens una atque altera rursus hiems
        noctibus in longis avidum saturasset amorem,
        posset ut abrupto vivere coniugio,
        quod scibant Parcae non longo tempore abesse,
        si miles muros isset ad Iliacos.
        nam tum Helenae raptu primores Argivorum
        coeperat ad sese Troia ciere viros,
        Troia (nefas!) commune sepulcrum Asiae 
        Europaeque, Troia virum et virtutum omnium 
        acerba cinis, quaene etiam nostro letum 
        miserabile fratri attulit. ei misero frater 
        adempte mihi ei misero fratri iucundum 
        lumen ademptum, tecum una tota est nostra 
        sepulta domus, omnia tecum una perierunt 
        gaudia nostra, quae tuus in vita dulcis alebat amor.
        quem nunc tam longe non inter nota sepulcra
        nec prope cognatos compositum cineres,
        sed Troia obscena, Troia infelice sepultum
        detinet extremo terra aliena solo. ad quam 
        tum properans fertur undique pubes
        Graecae penetralis deseruisse focos,
        ne Paris abducta gavisus libera moecha
        otia pacato degeret in thalamo.
        quo tibi tum casu, pulcerrima Laodamia,
        ereptum est vita dulcius atque anima
        coniugium: tanto te absorbens vertice amoris
        aestus in abruptum detulerat barathrum,
        quale ferunt Grai Pheneum prope Cylleneum
        siccare emulsa pingue palude solum,
        quod quondam caesis montis fodisse medullis
        audit falsiparens Amphitryoniades,
        tempore quo certa Stymphalia monstra sagitta
        perculit imperio deterioris eri, pluribus ut caeli 
        tereretur ianua divis, Hebe nec longa virginitate 
        foret. sed tuus altus amor barathro fuit altior illo,
        qui tamen indomitam ferre iugum docuit.
        nam nec tam carum confecto aetate parenti
        una caput seri nata nepotis alit, qui cum divitiis 
        vix tandem inventus avitis nomen testatas 
        intulit in tabulas, impia derisi gentilis gaudia 
        tollens, suscitat a cano volturium capiti:
        nec tantum niveo gavisa est ulla columbo
        compar, quae multo dicitur improbius
        oscula mordenti semper decerpere rostro,
        quam quae praecipue multivola est mulier.
        sed tu horum magnos vicisti sola furores,
        ut semel es flavo conciliata viro.
        aut nihil aut paulum cui tum concedere digna
        lux mea se nostrum contulit in gremium,
        quam circumcursans hinc illinc saepe Cupido
        fulgebat crocina candidus in tunica.
        quae tamen etsi uno non est contenta 
        Catullo, rara verecundae furta feremus erae
        ne nimium simus stultorum more molesti.
        saepe etiam Iuno, maxima caelicolum,
        coniugis in culpa flagrantem concoquit iram,
        noscens omnivoli plurima furta Iovis.
        atqui nec divis homines componier aequum est,
        ingratum tremuli tolle parentis onus.
        nec tamen illa mihi dextra deducta paterna
        fragrantem Assyrio venit odore domum,
        sed furtiva dedit mira munuscula nocte,
        ipsius ex ipso dempta viri gremio.
        quare illud satis est, si nobis is datur unus
        quem lapide illa diem candidiore notat.
        hoc tibi, quod potui, confectum carmine munus
        pro multis, Alli, redditur officiis, ne vestrum
        scabra tangat rubigine nomen haec atque illa 
        dies atque alia atque alia.huc addent 
        divi quam plurima, quae Themis olim
        antiquis solita est munera ferre piis.
        sitis felices et tu simul et tua vita,
        et domus in qua lusimus et domina,
        et qui principio nobis terram dedit aufert,
        a quo sunt primo omnia nata bona,
        et longe ante omnes mihi quae me carior 
        ipso est, lux mea, qua viva vivere dulce mihi est."

        «Che tu sconvolto dal dolore della tua sventura
        mi scriva questa lettera impregnata di lacrime,
        perché come un naufrago travolto dalla violenza
        del mare io ti soccorra e ti salvi in punto di morte,
        ora che nella solitudine del letto Venere
        non ti concede di trovare la pace del sonno
        e le Muse piú non ti rallegrano nell'angoscia
        della veglia con la dolcezza dei poeti antichi,
        mi è caro, caro che a me, come amico sincero,
        tu chieda il conforto affettuoso della poesia.
        Ma perché anche tu, Allio, conosca le mie amarezze
        e non creda che io rinneghi i doveri dell'ospite,
        ascolta in che traversie io stesso sono immerso
        e non chiedere a un infelice di donarti gioia.
        Al tempo della mia prima toga candida, quando
        l'età fiorita si godeva la sua primavera,
        mi abbandonai a vivere e certo lo sa la dea
        che dolce e amaro mescola in ogni affanno d'amore,
        ma tutto, tutto nel pianto la morte del fratello
        ha cancellato. Ahimè fratello, fratello mio,
        tu con la tua morte tu ogni gioia m'hai spezzato,
        con te tutta la nostra casa con te hai sepolto,
        con te ogni mia felicità, che nella tua vita
        tu di dolce amore ti nutrivi, con te è finita.
        E con la sua morte io ho bandito dalla mente
        le mie fantasie, ogni piacere dello spirito.
        Ora tu mi scrivi 'è indegno restare a Verona,
        Catullo, mentre qui uno dei tuoi piú vecchi amici
        cerca calore nella solitudine di un letto';
        no, Allio, non è indegno, ma triste, questo sí.
        Mi perdonerai dunque se non ti offro quei doni
        che il lutto anche a me ha tolto, ma non mi è possibile.
        E poi non ho con me i miei libri, le mie poesie,
        perché io vivo a Roma, lo sai, e lí è la casa
        dove abito, dove si consuma la mia vita:
        qui di tanti libri non ne ho che una dozzina.
        Stando cosí le cose, non vorrei che tu pensassi
        ad una forma di grettezza o di falsa amicizia,
        se non ti mando nessuno dei doni che mi chiedi:
        ti donerei anche di piú, se mi fosse possibile.
        Ma non posso certo tacere, o dee, quanto, come
        e con quale tenerezza Allio m'abbia aiutato,
        e perché il tempo fuggendo verso l'oblio dei secoli
        non ricopra di nera notte questo suo affetto,
        io lo dirò a voi e voi dovrete dirlo a tutti:
        fate che queste carte continuino a parlarne
        e sempre, sempre piú in morte diventi famoso,
        non lasciate che tessendo la sua trama sottile
        il ragno avvolga di indifferenza il nome di Albo.
        E voi sapete che tormenti m'abbia dato Venere
        con la sua ambiguità, a che punto m'abbia ridotto,
        quando io bruciavo come la rupe di Sicilia
        o la sorgente Màlia alle Termopili dell'Eta,
        o gli occhi dolenti si consumavano nel pianto
        bagnando le guance di una amara pioggia di lacrime,
        come dalla cima di un monte che si perde in cielo
        sgorga limpido un ruscello tra i muschi delle rocce
        che, precipitando a valle lungo tutto il pendio,
        penetra attraverso le strade affollate di gente,
        alleviando la stanchezza e il sudore dei viandanti
        quando il caldo opprimente screpola i campi riarsi.
        E come nel buio della tempesta i marinai
        sentono arrivare in un soffio il vento favorevole
        invocato nelle preghiere a Castore e Polluce,
        cosí fu per me l'aiuto che mi venne da Allio.
        Egli mi aprì davanti un campo che m'era vietato:
        a me, alla mia donna egli diede la sua casa,
        perché lí vivessimo il nostro reciproco amore.
        E lí entrando con passo leggero la mia dea
        si fermò bianca di luce sulla soglia consunta,
        puntando il suo piede nel sandalo con un fruscio;
        cosí un tempo bruciando per lui d'amore entrò
        Laodamía nella casa di Protesilào,
        una casa costruita invano perché col sangue
        mai vittima aveva conciliato gli dei del cielo.
        Nessun desiderio, vergine Nemesi, mi spinga
        a rischiare tanto contro il volere degli dei.
        Che sete abbia di sangue un altare senza vittime
        l'apprese Laodamía perdendo suo marito,
        quando dovette staccarsi dal collo dello sposo
        prima che inverno dopo inverno potesse saziarne
        nelle sue notti interminabili l'ansia d'amore,
        perché riuscisse a vivere separata da lui
        (ma le Parche sapevano che fine avrebbe fatto,
        se fosse andato in armi sotto le mura di Troia).
        Allora, per il ratto di Elena, proprio allora
        Troia chiamava a sé i migliori uomini di Grecia,
        Troia, infame, fossa comune d'Asia e d'Europa,
        Troia, cenere amara d'eroi e d'ogni eroismo,
        quella, quella che anche mio fratello ha spinto a morte
        senza perdono. Ahimè fratello, fratello mio,
        persa anche la gioia della luce, fratello mio,
        con te tutta la nostra casa con te hai sepolto,
        con te ogni mia felicità, che nella tua vita
        tu di dolce amore ti nutrivi, con te è finita.
        Ed ora lui fra sepolcri sconosciuti lontano,
        composto lontano dalle ceneri dei parenti,
        in questa Troia oscena, in questa Troia maledetta,
        terra straniera lo incatena ai confini del mondo.
        Là da ogni parte accorse tutta la gioventú greca
        abbandonando il proprio focolare, perché Paride
        non trascorresse indisturbato in un letto tranquillo
        i suoi ozi, godendosi la femmina rapita.
        E per questa sventura, Laodamía bellissima,
        ti fu strappato uno sposo piú dolce della vita,
        del tuo stesso respiro: inghiottendoti nel suo vortice
        la passione ti gettò in un baratro senza fondo,
        come quello che a Fèneo sotto il Cillène prosciuga,
        secondo i Greci, il terreno assorbendone gli umori,
        quello che si dice abbia scavato il falso figlio
        di Anfitrione attraverso le viscere del monte,
        nei giorni in cui abbatté con le sue frecce infallibili
        i mostri di Stínfalo per ordine di un tiranno,
        perché alle porte del cielo salissero altri dei
        ed Ebe non rimanesse vergine eternamente.
        Ma piú profondo d'ogni baratro fu il tuo amore,
        che t'insegnò a sopportare mansueta quel giogo:
        niente è cosí caro a un padre incalzato dagli anni
        come il nipote inatteso nato alla sua figliola,
        che riconosciuto erede di tutte le ricchezze
        e incluso col suo nome nel testamento del nonno,
        troncando la turpe gioia del parente deriso,
        dal capo bianco fa volar via quell'avvoltoio;
        né mai del suo candido compagno prende piacere
        cosí grande la colomba, che a furia di beccate
        strappa un bacio dopo l'altro con un'avidità
        che non possiede la piú insaziabile delle donne;
        ma tu, tu da sola hai superato l'intensità
        del loro amore, quando abbracciasti il tuo biondo eroe.
        E affascinante o quasi come te in quegli istanti,
        la luce mia in un abbraccio si strinse al mio grembo,
        e volandole tutto intorno candido di luce
        risplendeva Amore nella sua tunica di croco.
        Anche se non le basta Catullo, sopporterò,
        purché sia donna discreta, qualche amore furtivo
        per non rendermi noioso come fanno gli sciocchi.
        Giunone stessa, regina dei cieli, seppe vincere,
        abituata com'era all'infedeltà di Giove,
        l'ira per le colpe del suo capriccioso marito.
        Ma non si può paragonare gli uomini agli dei:
        smettila con queste pose da vecchio rimbambito,
        non fu certo la mano del padre che la condusse,
        avvolta di profumi orientali, nella mia casa,
        ma lei stessa, fuggendo dalle braccia del marito,
        a me si donò furtiva in una notte di sogno.
        E questo mi basta, se lei ricorderà felici
        quegli istanti che solo a me, a me solo ha donato.
        Per tutto quello che m'hai dato dunque, accetta in dono
        questi versi, Allio, scritti come meglio ho potuto,
        perché in tutto il tempo a venire nessun giorno mai
        possa corrodere di ruggine nera il tuo nome.
        Ed infiniti vi aggiungeranno gli dei quei doni,
        che Temi dava un tempo in premio agli uomini giusti.
        Siate felici, tu e l'anima della tua vita,
        e la casa in cui ci amammo io e la donna mia,
        e chi da allora mi concede e mi nega rifugio
        perché da lui viene la ragione d'ogni mio bene,
        ma innanzi a tutti lei, piú cara di me stesso, lei,
        la luce mia, che con la sua mi fa dolce la vita.»



        69)  Carmen LXIX

        «Noli admirari, quare tibi femina nulla,
        Rufe, velit tenerum supposuisse femur,
        non si illam rarae labefactes munere vestis
        aut perluciduli deliciis lapidis.
        laedit te quaedam mala fabula, qua tibi fertur
        valle sub alarum trux habitare caper.
        hunc metuunt omnes, neque mirum: nam mala valde est
        bestia, nec quicum bella puella cubet.
        quare aut crudelem nasorum interfice pestem,
        aut admirari desine cur fugiunt.»


        «Non ti stupire se nessuna donna, Rufo,
        vuol concederti il suo tenero corpo,
        nemmeno se la tenti col dono prezioso
        di una veste o la malia di un gioiello.
        Hai una triste fama: sotto le tue ascelle
        pare che viva un orrido caprone.
        Questo il timore. Certo: è una mala bestia
        e le belle donne con lei non dormono.
        Allontana l'incubo di questo fetore
        o non stupirti se quelle ti fuggono.»



        70)  Carmen LXX

        «Nulli se dicit mulier mea nubere malle
        quam mihi, non si se Iuppiter ipse petat.
        Dicit: sed mulier cupido quod dicit amanti,
        in vento et rapida scribere oportet aqua.»


        «La mia donna dice che non vorrebbe unirsi a nessuno
        se non a me, nemmeno se Giove in persona lo chiedesse.
        Lo dice: ma ciò che la donna dice al bramoso amante
        scrivilo nel vento e nell'acqua che scorre.»



        71)   Carmen LXXI

        «Si cui iure bono sacer alarum obstitit hircus,
        aut si quem merito tarda podagra secat.
        aemulus iste tuus, qui vestrum exercet amorem,
        mirifice est a te nactus utrumque malum.
        nam quotiens futuit, totiens ulciscitur ambos:
        illam affligit odore, ipse perit podagra.»


        «Se è giusto che un fetore animale l'affligga nelle ascelle
        o che il torpore della gotta a ragione lo tormenti,
        questo tuo rivale, che si fotte la tua amante,
        per un prodigio ha contratto da te tutti e due i malanni.
        Cosí tutte le volte che chiava, ti vendica d'entrambi:
        col fetore appesta lei e lui di gotta se ne muore.»



        72)  Carmen LXXII


        «Dicebas quondam solum te nosse Catullum,
        Lesbia, nec prae me velle tenere Iovem.
        Dilexi tum te non tantum ut vulgus amicam,
        sed pater ut gnatos diligit et generos.
        Nunc te cognovi: quare etsi impensius uror,
        multo mi tamen es vilior et levior.
        Qui potis est, inquis? Quod amantem iniuria talis
        cogit amare magis, sed bene velle minus.»


        «Dicevi di far l'amore solo con me, una volta,
        e di non aver voglia, Lesbia, neppure di Giove.
        E io ti ho amato non come tutti un'amante,
        ma come un padre ama ognuno dei suoi figli.
        Ora so chi sei: e anche se piú intenso è il desiderio
        ti sei ridotta per me sempre piú insignificante e vile.
        Come mai, mi chiedi? Queste offese costringono,
        vedi, ad amare di piú, ma con minore amore.»



        73)  Carmen  LXXIII

        «Desine de quoquam quicquam bene velle 
        mereri aut aliquem fieri posse putare 
        pium. omnia sunt ingrata, nihil fecisse 
        benigne immo etiam taedet obestque magis;
        ut mihi, quem nemo gravius nec acerbius 
        urget, quam modo qui me unum atque 
        unicum amicum habuit.»

        «Smetti di credere che, il voler bene,
        qualcosa da alcuno possa ottenere,
        o che alcuno possa trovarsi di pio.
        Tutto è ingratitudine, e niente
        aver fatto del bene, e anzi, se mai, 
        stomaca e nuoce di più; come per me, 
        che nessuno in un modo più greve o aspro 
        schiaccia, di chi finora mi ha avuto 
        per solo ed unico amore.»



        74)  Carmen LXXIV

        «Gellius audierat patruum obiurgare solere,
        si quis delicias diceret aut faceret.
        hoc ne ipsi accideret, patrui perdepsuit ipsam
        uxorem, et patruum reddidit Arpocratem.
        quod voluit fecit: nam, quamvis irrumet ipsum
        nunc patruum, verbum non faciet patruus.»

        «Gellio udiva sempre lo zio riprendere
        chi parlasse o godesse d'amore.
        Per evitarlo gli chiavò la moglie
        rendendolo immagine stessa del silenzio.
        Era il suo scopo: ora potrebbe anche
        ficcarglielo in bocca, lo zio non fiaterebbe.»



        75)  Carmen LXXV

        «Huc est mens deducta tua mea, Lesbia, 
        culpa atque ita se officio perdidit 
        ipsa suo, ut iam nec bene velle queat tibi, 
        si optima fias, nec desistere amare, 
        omnia si facias.»

        «Cosí per colpa tua, mia Lesbia,
        mi è caduto il cuore
        e cosí si è logorato nella sua fedeltà,
        che ormai non potrebbe piú volerti bene
        anche se fossi migliore
        o cessare d'amarti
        per quanto tu faccia.»



        76)  Carmen LXXVI - per dimenticare Lesbia

        «Siqua recordanti benefacta priora voluptas est homini,
        cum se cogitat esse pium, nec sanctam violasse fidem, 
        nec foedere nullo divum ad fallendos numine 
        abusum homines, multa parata manent in longa aetate, 
        Catulle, ex hoc ingrato gaudia amore tibi. »

        «Tutto il bene che a un essere umano è possibile
        fare o dire, tu l'hai detto e fatto: e tutto
        si è perduto per l'ingratitudine di un cuore.
        Perché dunque continui a tormentarti?
        e non cerchi con tutta la volontà di liberarti
        di una infelicità che gli dei non approvano?
        Difficile troncare a un tratto un lungo amore,
        difficile certo, ma in qualche modo dovrai riuscire.
        È l'unica salvezza, quindi devi ottenerla:
        che sia possibile o no, devi riuscirci.
        Se vi è pietà in voi, dei, se in punto di morte,
        nell'ora estrema, recaste mai aiuto a qualcuno,
        guardate la mia infelicità e se ho vissuto onestamente
        strappatemi da questo male che mi consuma,
        che insinuatosi dentro di me nel piú profondo
        come un torpore ha cancellato ogni gioia dal mio cuore.
        Non chiedo piú che lei ricambi il mio amore,
        né l'impossibile, che mi rimanga fedele:
        voglio solo guarire e scordarmi di questo male oscuro.
        O dei, per la mia devozione, esauditemi. »



        77)  Carmen LXXVII

        «Rufe, mihi frustra ac nequiquam credite amice
        (frustra? immo magno cum pretio atque malo),
        sicine subrepsti mi, atque intestina perurens
        ei misero eripuisti omnia nostra bona?
        eripuisti, heu heu nostrae crudele venenum
        vitae, heu nostrae pestis amicitiae.»

        «Per un trascurabile errore ti ho creduto amico.
        Trascurabile, Rufo? e il prezzo del dolore?
        Sei scivolato in me bruciandomi le viscere,
        strappandomi ogni miserabile bene che avevo.
        Ogni bene, tu che spietato mi avveleni la vita,
        male incurabile della nostra amicizia.»



        78)  Carmen LXXVIII

        «Gallus habet fratres, quorum 
        est lepidissima coniunx alterius, 
        lepidus filius alterius. Gallus homo est bellus: 
        nam dulces iungit amores, 
        cum puero ut bello bella puella cubet. 
        Gallus homo est stultus,
        nec se videt esse maritum,
        qui patruus patrui monstret adulterium.»

        «Gallo ha due fratelli:
        con una moglie adorabile il primo,
        l'altro con un amore di figliolo.
        Gallo è un uomo tenero:
        intreccia il loro dolce amore
        e quel ragazzo tenero
        la donna tenera si gode.
        Gallo è un uomo sciocco:
        non ricorda piú d'aver moglie
        e a suo nipote insegna
        come cornificar lo zio.»



        78 bis)  Carmen LXXVIII bis

        «Sed nunc id doleo, quod purae pura puellae
        suavia comminxit spurca saliva tua.
        verum id non impune feres: nam te
        omnia saecla noscent et, 
        qui sis, fama loquetur anus.»

        «Ma questo ora m'addolora, che le labbra pure
        di una bambina il tuo sudicio sperma abbia macchiato.
        Avrai il tuo castigo: ti ricorderanno nei secoli
        e anche decrepita la fama griderà chi sei.»



        79)  Carmen LXXIX

        «Lesbius est pulcer. quid ni? quem 
        Lesbia malit quam te cum tota gente, 
        Catulle, tua. sed tamen hic pulcer 
        vendat cum gente Catullum,
        si tria natorum suavia reppererit.»

        «Lesbio deve esser proprio bello.
        Certo: Lesbia lo preferisce
        a Catullo e a tutti i suoi amici.
        Ma questo bello
        venda schiavi Catullo e i suoi amici,
        se rimedia anche solo un bacio
        fra tre che lo conoscono.»



        80)  Carmen LXXX

        «Quid dicam, Gelli, quare rosea ista labella
        hiberna fiant candidiora nive, 
        mane domo cum exis et cum te octava quiete 
        et molli longo suscitat hora die? 
        nescio quid certe est: an vere fama susurrat 
        grandia te medii tenta vorare viri? sic certe est: 
        clamant Victoris rupta miselli ilia, 
        et emulso labra notata sero

        «Come mai, Gellio queste tue labbrucce di rosa
        si fan più bianche della neve d'inverno,
        quando il mattino esci di casa o quando verso sera
        nei giorni d'estate ti scuoti dal tuo dolce riposo?
        Non capisco. O forse è vero, come si mormora,
        che sei ginocchioni un divoratore di cazzi?
        Certo è così: lo gridano le reni rotte di Vittorio,
        poveretto, e le tue labbra macchiate
        dello sperma succhiato.»



        81)  Carmen LXXXI

        «Nemone in tanto potuit populo esse,
        Iuventi, bellus homo, quem tu diligere inciperes.
        praeterquam iste tuus moribunda ab sede
        Pisauri hospes inaurata palladior statua,
        qui tibi nunc cordi est, quem tu praeponere
        nobis audes, et nescis quod facinus facias?»

        «Possibile che fra tanti non vi fosse, Giovenzio,
        un uomo garbato che tu desiderassi amare,
        se non questo tuo ospite giunto da quel sepolcro
        di Pesaro, piú pallido di una statua dorata?
        Ora lo tieni in cuore e ormai piú di me stesso tu,
        tu lo desideri: non sai che delitto commetti.»



        82)  Carmen LXXXII

        «Quinti, si tibi vis oculos debere Catullum 
        aut aliud si quid carius est oculis, 
        eripere ei noli, multo quod carius illi 
        est oculis seu quid carius est oculis.»

        «Se vuoi, Quinzio, che Catullo ti debba gli occhi
        o cosa vi sia piú caro degli occhi,
        non togliergli ciò che piú, piú degli occhi
        o di cosa vi sia piú caro degli occhi, gli è caro.»



        83)  Carmen LXXXIII

        «Lesbia mi praesente viro mala plurima dicit: 
        haec illi fatuo maxima laetitia est. mule, 
        nihil sentis? si nostri oblita taceret, sana esset: 
        nunc quod gannit et obloquitur, non solum 
        meminit, sed, quae multo acrior est res, 
        irata est. hoc est, uritur et loquitur.»

        «Col marito Lesbia mi travolge d'ingiurie
        e quello sciocco ne trae una gioia profonda.
        Stronzo, non capisci? Tacesse, m'avrebbe dimenticato,
        sarebbe guarita, invece sbraita e m'insulta:
        non solo ricorda, ma cosa ben più grave
        è furente. Brucia d'amore, per questo parla.»



        84)  Carmen LXXXIV

        « Chommoda dicebat, si quando commoda 
        vellet dicere, et insidias Arrius hinsidias,
        et tum mirifice sperabat se esse locutum,
        cum quantum poterat dixerat hinsidias.credo, 
        sic mater, sic liber avunculus eius.sic maternus 
        avus dixerat atque avia.hoc misso in Syriam 
        requierant omnibus auresaudibant eadem 
        haec leniter et leviter, nec sibi 
        postilla metuebant talia verba,cum subito 
        affertur nuntius horribilis,Ionios fluctus, 
        postquam illuc Arrius isset,iam 
        non Ionios esse sed Hionios.»

        «Volendo dire comodi Arrio diceva
        homodi e in luogo d'insidie hinsidie,
        convinto di parlare a perfezione
        quando con tutto il fiato urlava hinsidie.
        Credo proprio che sua madre, lo zio materno
        ed anche i suoi nonni parlassero cosí.
        Mandato in Siria, riposavano le orecchie
        e riudivan le parole col giusto suono
        senza piú temere d'ascoltarle storpiate.
        D'un tratto ecco la notizia orribile:
        Arrio ha solcato i flutti dello Ionio
        e Ionio questo piú non è, ma Hionio.»



        85)  Carmen LXXXV

        Il carme è composto da un solo distico elegiaco. Per la prima volta si dichiara la coabitazione tra Eros e Tanatos, ovvero le pulsioni di vita e di morte individuate poi da S. Frueud.

        «Odi et amo. Quare id faciam, fortasse requiris. 
         Nescio sed fieri sentio et excrucior.» 

        «Odio e amo. Com’è che ci riesca forse ti chiedi. 
         Lo ignoro. Ma sento che riesce, e ci sto crocifisso.»



        86) Carmen LXXXVI

        «Quintia formosa est multis. mihi candida, 
        longa,recta est: haec ego sic singula confiteor.
        totum illud formosa nego: nam nulla venustas,
        nulla in tam magno est corpore mica salis.
        Lesbia formosa est, quae cum pulcerrima 
        tota est,tum omnibus una omnis surripuit Veneres.»

        «Per molti Quinzia è bella, per me bianca, dritta,
        slanciata. Questi pregi li riconosco,
        ma non dirò certo che è bella: non ha grazia,
        né un pizzico di sale in quel corpo superbo.
        Bella è Lesbia, bellissima tutta fra tutte
        a ognuna ha rapito ogni possibile grazia.»



        87)  Carme LXXXVII

        «Nulla potest mulier tantum 
        se dicere amatam vere, quantum a me 
        Lesbia amata mea est.nulla fides ullo 
        fuit umquam foedere tanta, quanta 
        in amore tuo ex parte reperta mea est.»

        «Mia Lesbia sei stata amata
        da me in modo così totale
        che in modo uguale amata
        non c'è donna e non ci sarà.
        Non si vedrà mai più
        in amorosi legami
        tanto rigore di fedeltà
        quanto si vide in me
        nell'amore che ti portai.»



        88) Carmen  LXXXVIII

        «Quid facit is, Gelli, qui cum matre atque 
        sororeprurit, et abiectis pervigilat tunicis?
        quid facit is, patruum qui non sinit esse maritum?
        ecquid scis quantum suscipiat sceleris?
        suscipit, o Gelli, quantum non ultima 
        Tethysnec genitor Nympharum abluit 
        Oceanus:nam nihil est quicquam sceleris, 
        quo prodeat ultra,non si demisso se ipse voret capite.»

        «Come chiamare, Gellio, chi passa le sue notti
        a chiavarsi, tutto nudo, madre e sorella?
        Come chiamare chi vieta allo zio d'essere marito?
        Senti l'enormità dell'infamia che commette?
        Un'infamia che nemmeno Teti ai confini del mondo
        o il padre delle ninfe Oceano potrebbe lavare.
        Non vi è infamia che vada oltre questa,
        nemmeno se piegato il capo divorassi te stesso.»



        89)  Carmen  LXXXIX

        «Gellius est tenuis: quid ni? cui tam bona 
        matertamque valens vivat tamque venusta 
        sorortamque bonus patruus tamque omnia 
        plena puelliscognatis, quare is desinat esse macer?
        qui ut nihil attingat, nisi quod fas tangere non est,
        quantumvis quare sit macer invenies.»


        «Gellio è ridotto uno scheletro. Certo, con una madre
        cosí attraente e sfrenata, quell'incantevole sorella,
        con uno zio tanto accomodante e tutta quella schiera
        di ragazze sue parenti, che sia stremato è naturale.
        Anche se non toccasse niente oltre ciò che è proibito,
        vi son fin troppe ragioni perché sia cosí stremato.»



        90)  Carmen XC

        «Nascatur magus ex Gelli matrisque nefando
        coniugio et discat Persicum aruspicium:nam 
        magus ex matre et gnato gignatur oportet,
        si vera est Persarum impia religio,gnatus 
        ut accepto veneretur carmine divosomentum 
        in flamma pingue liquefaciens.»

        «Un mago nasca dall'unione nefanda di Gellio
        con la madre e apprenda l'arte persiana dei presagi.
        Se l'infame religione dei Persiani è vera,
        solo da madre e figlio potrà nascere un mago
        che con i suoi scongiuri ottenga il favore degli dei
        sciogliendo tra le fiamme il grasso delle viscere.»



        91)  Carmen XCI

        «Non ideo, Gelli, sperabam te mihi fidumin misero 
        hoc nostro, hoc perdito amore fore,quod te 
        cognossem bene constantemve putaremaut posse 
        a turpi mentem inhibere probro; sed neque quod 
        matrem nec germanam esse videbamhanc tibi, cuius 
        me magnus edebat amor.et quamvis tecum multo 
        coniungerer usu, non satis id causae credideram esse 
        tibi.tu satis id duxti: tantum tibi gaudium in omni 
        culpa est, in quacumque est aliquid sceleris»

        «Nel mio infelice, nel disperato amore mio
        certo non speravo, Gellio, che tu mi fossi amico
        perché ti leggessi nel cuore o ti ritenessi fedele
        e incapace di tramare le infamie piú turpi,
        ma perché, pensavo, non ti è né madre né sorella
        questa donna che d'amore forsennato mi divora.
        E malgrado lunga consuetudine mi legasse a te,
        non credevo che ciò fosse per te sufficiente.
        Ma lo è stato: tanto è il piacere che tu provi
        in ogni colpa dove vi sia un margine d'orrore.»



        92) Carmen XCII

        «Lesbia mi dicit semper male nec tacet umquam
        de me: Lesbia me dispeream nisi amat.
        Quo signo? Quia sunt totidem mea: deprecor illam
        assidue, verum dispeream nisi amo.»


        «Lesbia sparla sempre di me, senza respiro
        di me: morissi se Lesbia non mi ama.
        Lo so, son come lei: la copro ogni giorno
        d'insulti, ma morissi se io non l'amo.»



        93)  Carmen XCIII

        «Nil nimium studeo, Caesar, tibi velle placere,
        nec scire utrum sis albus an ater homo.»


        «Non me ne importa niente di piacerti, Cesare,
        nè di sapere se sei bianco o nero.»



        94)  Carmen XCIV

        «Mentula moechatur. Moechatur mentula certe.
        Hoc est quod dicunt, ipsa olera olla legit.»

        «Cazzo chiava, chiava cazzo; cosí
        dev'essere: ad ogni erba la sua pentola.»



        95)  Carmen VC

        « Zmyrna mei Cinnae nonam post denique messem
        quam coepta est nonamque edita post hiemem,
        milia cum interea quingenta Hortensius uno. . . . . . .
        Zmyrna cavas Satrachi penitus mittetur ad undas,
        Zmyrnam cana diu saecula pervoluent.
        at Volusi annales Paduam morientur ad ipsam
        et laxas scombris saepe dabunt tunicas.»


        «Dopo nove inverni e nove estati di lavoro
        finalmente la Zmyrna del mio Cinna è pubblicata,
        mentre Ortensio mezzo milione di versi scrive all'anno...
        La Zmyrna arriverá sino alle acque profonde
        del Sátraco e ancora in secoli lontani sará letta.
        Gli Annali di Volusio invece moriranno a Padova
        o forniranno cartaccia per avvolgere gli sgombri.
        Mi rimanga dunque in cuore il suo piccolo gioiello
        e i profani si godano pure l'enfasi di Antimaco.»



        95 bis)  Carmen XCV bis

        «Mi rimanga dunque in cuore il suo piccolo gioiello
        e i profani si godano pure l'enfasi di Antímaco.»



        96)  Carmen XCVI

        «Si quicquam mutis gratum acceptumve 
        sepulcris accidere a nostro, Calve, dolore potest, 
        quo desiderio veteres renovamus amores 
        atque olim missas flemus amicitias, 
        certe non tanto mors immatura dolori est 
        Quintiliae, quantum gaudet amore tuo. »

        «Se mai può forse qualcosa tornare ai muti sepolcri 
        bene accetta o gradita dal nostro, Calvo, dolore, 
        dal desiderio con cui rinnoviamo gli amori passati 
        e le amicizie piangiamo che un giorno abbiamo perduto certo, 
        di fronte alla morte immatura non prova Quintilia 
        tanto dolore quanto gioia di fronte al tuo amore.»



        97)  Carmen XCVII

        « Non (ita me di ament) quicquam referre putavi,
        utrumne os an culum olfacerem Æmilio.
        nilo mundius hoc, nihiloque immundius illud,
        verum etiam culus mundior et melior:
        nam sine dentibus est. hic dentis sesquipedalis,
        gingivas uero ploxeni habet veteris,
        præterea rictum qualem diffissus in æstu
        meientis mulæ cunnus habere solet.
        hic futuit multas et se facit esse venustum
        et non pistrino traditur atque asino?
        quem siqua attingit, non illam posse putemus
        ægroti culum lingere carnificis? »


        «Non è, buon dio, che credessi differente
        l'odore della bocca e del culo di Emilio.
        L'una non è piú pulita o sporca dell'altro,
        ma forse è meglio e piú pulito il culo:
        se non altro è senza denti: la bocca ha zanne
        enormi e le gengive come un carro vecchio,
        spalancata poi sembra la fica slabbrata
        di una mula in calore quando piscia.
        E lui ne fotte molte, si crede stupendo:
        ma mandatelo a far l'asino nei mulini.
        Quella che va con lui si leccherebbe
        anche il culo di un boia appestato.»



        98)  Carmen IIC - A Vezio

        «In te, si in quemquam, dici pote, putide Victi,
        Id quod uerbosis dicitur et fatuis:
        Ista cum lingua, si usus veniat tibi, possis
        Culos et crepidas lingere carpatinas.
        Si nos omnino uis omnes perdere, Victi,
        Hiscas: omnino quod cupis efficies.»


        «A nessuno peggiore di te, Vezio schifoso, si può dire
        quel che si dice a ciarlatani e sciocchi:
        se mai ne avessi bisogno, potresti leccar culi
        e scarponi con questa tua linguaccia.
        E se in un colpo, Vezio, vorrai ammazzarci tutti,
        apri la bocca: otterrai in un colpo ciò che tu vuoi.»



        99)  Carmen IC

        « Surripui tibi, dum ludis, mellite Iuventi,
        suaviolum dulci dulcius ambrosia.
        verum id non impune tuli: namque amplius horam
        suffixum in summa me memini esse cruce,
        dum tibi me purgo nec possum fletibus ullis
        tantillum vestrae demere saevitiae.
        nam simul id factum est, multis diluta labella
        guttis abstersisti omnibus articulis,
        ne quicquam nostro contractam ex ore maneret,
        tamquam commictae spurca saliva lupae.
        praeterea infesto miserum me tradere amori
        non cessasti omnique excruciare modo,
        ut mi ex ambrosia mutatum iam foret illud
        suaviolum tristi tristius elleboro.
        quam quoniam poenam misero proponis amori,
        numquam iam posthac basia surripiam.»


        «Mentre tu giocavi, dolcissimo Giovenzio,
        io t'ho rubato un bacio più dolce del miele.
        Ma l'ho pagato caro: crocifisso
        per più di un'ora sono rimasto, ricordo,
        a scusarmi con te senza che le mie lacrime
        potessero spegnere la tua collera.
        Subito ti sei asciugato le labbra umide
        d'ogni goccia con tutte e due le mani,
        perchè non restasse traccia della mia bocca
        quasi fosse la sborrata d'una puttana.
        E m'hai fatto subire tutte le torture
        d'amore, ogni supplizio possibile:
        così quel bacio che m'era sembrato tanto
        dolce, si è rivelato più amaro del fiele.
        Se questa è la pena a cui condanni un amore
        infelice, mai più ti ruberò un bacio.»



        100)  Carmen C

        « Caelius Aufilenum et Quintius Aufilenam
        Flos Veronensum depereunt iuuenum,
        Hic fratrem, ille sororem. Hoc est quod dicitur illud
        Fraternum uere dulce sodalicium.
        Cui faveam potius? Caeli, tibi: nam tua nobis
        Per facta exhibita est unica amicitia
        Cum uesana meas torreret flamma medullas.
        Sis felix, Caeli, sis in amore potens. »


        «Per Aufileno e Aufilena, fratello e sorella,
        muoion d'amore i piú bei giovani di Verona,
        per lui Celio, per lei Quinzio: puoi dirlo,
        certo, un sodalizio dolcemente fraterno.
        Chi preferire? te, Celio, che senza riserve
        m'hai offerto la tua straordinaria amicizia
        quando una fiamma feroce mi bruciava il cuore:
        sii felice, Celio, e possa arriderti l'amore.»



        101)  Carmen CI

        « Multas per gentes et multa per aequora vectus
        Advenio has miseras, frater, ad inferias,
        Ut te postremo donarem munere mortis
        Et mutam - nequiquam! - adloquerer cinerem,
        Quandoquidem fortuna mihi tete abstulit ipsum,
        Heu miser indigne frater adempte mihi.
        Nunc tamen interea haec, prisco quae more parentum
        Tradita sunt tristi munere ad inferias,
        Accipe fraterno multum manantia fletu
        Atque in perpetuum, frater, ave atque Vale.»


        «Di mare in mare, da un popolo all'altro
        vengo a queste tue misere esequie, fratello,
        per donarti l'ultima offerta che si deve ai morti
        e invano parlare alle tue ceneri mute:
        ora che la sorte a me ti ha strappato,
        cosí crudelmente strappato, fratello infelice.
        Pure, amaro dono per un rito estremo,
        nell'uso antico dei padri accogli l'offerta
        che ora ti affido: cosí intrisa del mio pianto.
        E in eterno riposa, fratello mio, addio.»



        102)  Carmen CII

        « Si quicquam tacito commissum est fido ab amico
        Cuius sit penitus nota fides animi,
        Meque esse inuenies illorum iure sacratum,
        Corneli, et factum me esse puta Harpocratem »


        «Se fiducioso un amico poté affidare all'altro
        un segreto, sicuro della sua discreta fedeltà,
        me stesso vedrai consacrato a questo giuramento
        e credimi, Cornelio, muto come una statua.»



        103)  Carmen CIII

        « Aut sodes mihi redde decem sestertia, Silo,
        deinde esto quamvis saevus et indomitus:
        aut, si te nummi delectant, desine quaeso
        leno esse atque idem saevus et indomitus.»

        «Se vuoi, rendimi quei diecimila sesterzi, Silone,
        e poi inalbera pure tutta la tua arroganza;
        ma se a te piace il denaro, non fare il ruffiano
        e smettila con tutta quella tua arroganza.»



        104)  Carmen CIV

        « Credis me potuisse meae maledicere vitae,
        ambobus mihi quae carior est oculis?
        non potui, nec, si possem, tam perdite amarem:
        sed tu cum Tappone omnia monstra facis.»


        «Come avrei potuto maledire la mia vita
        se degli stessi occhi mi è piú cara?
        Fosse cosí non ti amerei con questa rabbia:
        ma tu d'ogni sciocchezza fai un dramma.»



        105)  Carmen CV - l'odio di Catullo

        « Mentula conatur Pipleum scandere montem:
        Musae furcillis praecipitem eiciunt.»

        «Fa di tutto quel cazzone per montare sul Pimpleo,
        ma a colpi di forca giù lo precipitano le Muse.»



        106) Carmen CVI - i bei ragazzi si fanno pagare

        « Cum puero bello praeconem qui videt esse,
        Quid credat, nisi se vendere discupere?»


        «Quando col banditore vedi un bel ragazzo,
        cosa credi, che rifiuti di vendersi?»



        107)  Carmen CVII - che Lesbia torni

        « Si quicquam cupido optantique obtigit umquam
        insperanti, hoc est gratum animo proprie.
        quare hoc est gratum nobis quoque, carius auro
        quod te restituis, Lesbia, mi cupido.
        restituis cupido atque insperanti, ipsa refers te
        nobis. o lucem candidiore nota!
        quis me uno vivit felicior, aut magis hac est
        optandus vita dicere quis poterit?»


        «Se contro ogni speranza ottieni
        ciò che desideravi in cuore,
        una gioia insolita ti prende.
        E questa è la mia gioia,
        più preziosa dell'oro:
        a me tu ritorni, a me, Lesbia,
        a un desiderio ormai senza speranza,
        al mio desiderio ritorni,
        a me, a me tu ti ridai.
        O giorno luminoso!
        Chi vivrá più felice?
        chi potrá mai pensare vita
        più, più desiderabile di questa?»



        108)  Carmen CVIII - Speranza di amore eterno

        « Si, Comini, populi arbitrio tua cana senectus
        spurcata impuris moribus intereat,
        non equidem dubito quin primum inimica bonorum
        lingua exsecta avido sit data vulturio,
        effossos oculos voret atro gutture corvus,
        intestina canes, cetera membra lupi. »


        «Se la tua bianca vecchiaia,
        sporcata da vizi immondi,
        dovesse, Cominio, essere troncata
        per giudizio di popolo,
        ti mozzerebbero questa tua lingua disonesta
        per gettarla a un avvoltoio ingordo,
        ti caverebbero gli occhi
        perché li divorasse un corvo
        nella sua gola nera,
        ai cani lascerebbero i visceri,
        ai lupi il resto.»



        109)   Carmen CIX

        « Iucundum, mea uita, mihi proponis amorem
        Hunc nostrum inter nos perpetuumque fore.
        Di magni, facite ut uere promittere possit
        Atque id sincere dicat et ex animo,
        Vt liceat nobis tota perducere uita
        Aeternum hoc sanctae foedus amicitiae. »

        «Eterno, anima mia, senza ombre
        mi prometti questo nostro amore.
        Mio dio, fa' che prometta il vero
        e lo dica sinceramente, col cuore.
        Potesse durare tutta la vita
        questo eterno giuramento d'amore.»



        110)  Carmen CX

        « Aufilena, bonae semper laudantur amicae:
        Accipiunt pretium quod facere instituunt.
        Tu, quod promisti mihi, quod mentita, inimica es;
        Quod nec das et fers saepe, facis facinus.
        Aut facere ingenuae est, aut non promisse pudicae,
        Aufilena, fuit: sed data corripere
        Fraudando †efficit plus quam meretricis auarae est,
        Quae sese toto corpore prostituit. »


        «Le buone femmine, Aufilena, son sempre da lodare:
        accettano denaro per ciò che decidono di fare.
        Ma tu prometti sapendo di mentire: non sei un'amica,
        prendi solo e non la dai: sei una vergogna.
        Concedersi è leale, non promettere sarebbe stato
        da virtuosa; ma impadronirsi del denaro
        con la frode, è peggio di quanto farebbe una puttana
        che con tutto il suo corpo si prostituisce.»



        111)  Carmen CXI

        « Aufilena, uiro contentam uiuere solo
        Nuptarum laus e laudibus eximiis:
        Sed cuiuis quamuis potius succumbere par est
        Quam matrem fratres ex patruo parere.»

        «Accontentarsi di un uomo solo, Aufilena,
        è fra le lodi la lode d'ogni donna;
        ma meglio è concedersi come e a chi tu vuoi
        che partorire cugini al proprio zio.»



        112)  Carmen CXII

        « Multus homo es, Naso, neque tecum multus homo est quin
        te scindat: Naso, multus es et pathicus.»


        «Grand'uomo, Nasone; ma un grand'uomo non è
        chi ti fotte: che gran finocchio sei, Nasone.»



        113)  Carmen CXIII

        « Consule Pompeio primum duo, Cinna, solebant
        Maeciliam: facto consule nunc iterum
        manserunt duo, sed creverunt milia in unum
        singula. fecundum semen adulterio. »


        «Nel primo consolato di Pompeo due, Cinna,
        scopavano Mecilia: ora console di nuovo
        due sono rimasti, ma cresciuti ognuno
        sino a mille: buon seme l'adulterio.»


        114)  Carmen CXIV

        « Firmanus saltu non falso Mentula diues
        Fertur, qui tot res in se habet egregias,
        Aucupium omne genus, piscis, prata, arva, ferasque.
        Nequiquam: fructus sumptibus exsuperat.
        Quare concedo sit diues, dum omnia desint;
        Saltum laudemus, dum domo ipse egeat.»


        «La tenuta di Fermo
        non è considerata ricca a torto,
        Cazzomamurra,
        piena com'è di cose singolari:
        cacciagione, pesci d'ogni specie,
        prati, campi e selvaggina.
        Non conta nulla:
        con le spese si mangia il reddito.
        Ammetto anche che sia ricca,
        ma vi manca tutto.
        Una bella tenuta,
        ma col padrone in miseria.»



        115)  Carmen CXV

        « Mentula habet iuxta triginta iugera prati,
        Quadraginta arui: cetera sunt maria.
        Cur non diuitiis Croesum superare potis sit
        Vno qui in saltu tot bona possideat,
        Prata, arua, ingentis siluas saltusque paludesque
        Vsque ad Hyperboreos et mare ad Oceanum?
        Omnia magna haec sunt, tamen ipse est maximus ultro,
        Non homo, sed uero mentula magna minax »


        «Cazzomamurra ha circa trenta iugeri di prato
        e quaranta di campi: il resto è mare.
        E perché non potrebbe superare Creso in ricchezza
        chi in un fondo solo possiede tutte queste meraviglie,
        prati, campi, boschi immensi, pascoli e acquitrini
        dai popoli del Nord sino al mare Oceano?
        Tutte cose grandi, ma lui è piú grande ancora,
        non è un uomo, è un grande cazzo minaccioso.»



        116)  Carmen CXVI

        « Saepe tibi studioso animo venante requirens
        carmina uti possem mittere Battiadae
        qui te lenirem nobis, neu conarere
        tela infesta mittere in usque caput,
        hunc video mihi nunc frustra sumptum esse laborem,
        Gelli, nec nostras hic valuisse preces.
        contra nos tela ista tua evitabimus amictu
        at fixus nostris tu dabis supplicium.»


        «Con tutta la mia attenzione ho sperimentato
        la forma in cui offrirti i canti di Callimaco
        per renderti piú dolce e toglierti il desiderio
        di colpirmi con le tue frecce rabbiose.
        Ma vedo l'inutilità di questa fatica,
        Gellio, e di averti pregato invano.
        Con un mantello dunque eviterò i tuoi colpi,
        ma i miei ti inchioderanno alla morte.»

        FESTA HONORALIA ( 29 Maggio )

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        Le Honoralia si festeggiano post dies XV Idus Maias (29 maggio), ed è la festa di Honos e Virtus, Onore e Virtù. Se Minerva era a Roma la Dea della guerra intelligente, e cioè delle strategie sul campo di battaglia, vanto dei grandi e numerosissimi generali romani, Marte è il Dio dell'impeto guerriero dell'esercito, del suo coraggio e della sua forza.

        I romani sono figli di Marte e di Rea Silvia, e pure della Lupa Capitolina, per cui di coraggio e volontà guerriera ne avevano da vendere e su questi criteri erano basati l'ordinamento statale e le carriere politiche, perchè senza il cursus honorum nell'esercito non si ottenevano nè cariche politiche nè cariche amministrative. 

        Pertanto, la festa Honoralia era la festa di Honos et Virtus, le divinità ispiratrici  dell'onore e della virtù dei romani, in teoria in tutti i campi, ma nella realtà in battaglia. Infatti la festeggiavano i legionari che giravano per la città ricevendo i complimenti e i ringraziamenti di tutti se la loro legione era stata vincitrice e ancor più se aveva ottenuto meriti in battaglia. 

        Maggiori onori venivano attribuiti ai reduci se avevano ottenuto qualche onorificenza in quella specifica battaglia. La popolazione non solo li onorava e li ringraziava, ma li riempivano di doni, quasi sempre mangerecci per non parlare dei vini. Quel giorno il militare che andava a fare la spesa praticamente non pagava e le loro matrone ne erano fiere.



        Non solo le matrone ne erano fiere, e non solo i figli, ma pure gli schiavi dichiaravano con orgoglio di avere un padrone tanto onorato, come se quell'onore spettasse di conseguenza un po' anche a loro. Insomma era bello girare per le strade vestiti da combattimento e con le mostre della legione (ma senza armi) e soprattutto se giovani cogliere lo sguardo delle ragazze ammirate. A quel tempo la divisa faceva effetto molto più che ad oggi.

        Una volta giracchiato per la città ci si recava al tempio, già ornato con nastri, fiori e ghirlande, a rendere grazie agli Dei e magari depositarvi un voto se la divinità era stata benigna. I sacerdoti officiavano la cerimonia ed eseguivano i sacrifici. La processione poteva procedere prima o dopo la cerimonia, a discrezione dell'autorità sacerdotale.

        Nella processio non mancavano naturalmente i legionari con le insegne della legione, e cioè aquile, stendardi, falere e quant'altro, tra le ali della folla plaudente, e non mancavano nemmeno ufficiali e generali, tutti bardati con le insegne, le falere e le torques o le corone attenute per meriti in battaglia, cosa che faceva delirare la folla. 

        In quel giorno di festa anche i Lari agli incroci delle strade venivano infiorati, le bancarelle offrivano le loro merci e cibi pronti in abbondanza, si che le strade si riempivano di cartoccetti gettati agli angoli e bucce di lupini ovunque. Le famiglie che avevano almeno un legionario, cioè quasi tutte,  organizzavano banchetti per condividere la festa con parenti altrettanto onorati.


        L'ONORE DELLE FALERE
        Peraltro, se c'erano legionari che avessero subito una sconfitta, quel giorno se ne stavano a casa con le loro famiglie per non subire disprezzo o addirittura insulti dal pubblico. I romani erano molto sensibili all'esito delle battaglie, ma soprattutto a quanto i legionari si fossero battuti con onore.

        Del resto una battaglia perduta senza un motivo evidente, era il senato stesso a condurre in giudizio il generale o i generali delle legioni in questione. Nel processo comunque si stabiliva il saggio operato dei generali e il valoroso comportamento dei soldati o il loro contrario. 

        Se fallo c'era nessuno la passava liscia, si potevano subire degradazioni e i generali potevano essere condannati a multe pesanti, mentre le legioni potevano venire sciolte per integrare altre legioni con una nota di demerito che, se non cancellata da  comportamenti molto virtuosi potevano sfociare in cacciata dall'esercito con ignominia, o si poteva giungere fino alla pensione col rischio di non ottenere la terra per la sopravvivenza.

        Insomma per i Romani le Honoralia le potevano festeggiare allegramente solo i legionari valorosi, e in genere così era, perchè l'indegnità era l'eccezione. 

        L'impero romano si reggeva sulle guerre e i romani lo sapevano bene.

        « Seseque ei perire mavolunt ibidem quam cum stupro redire ad suos popularis. »

        « Ed essi preferiscono morire lì sul posto piuttosto che tornare con vergogna presso i concittadini. »

        (Gaio Nevio - Brllum Poenicum)




        BIBLIO

        - Howard Hayes Scullard - Festivals and ceremonies of the Roman republic - 1981 -
        - Carcopino - Si vis pacem, para bellum - Storia romana e storia moderna - Fasi in prospettiva, a cura di Mario Pani - Bari - Edipuglia - 2005 -
        - Fasti triumphales - AE 1930 -
        - Gaio Nevio - Bellum Poenicum -
        - II International Congress of Roman Frontier Studies - a cura di E. Swoboda - Graz-Colonia 1956 -

        ARGENTOMAGUS - ARGENTON-SUR-CREUSE (Francia)

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        ARGENTOMAGUS (by Gean Claude Golvin)
        Argentomagus fu un oppidum del popolo gallico di Bituriges che fu poi occupato dai romani intorno al 50 a.c. Si trova sul territorio del comune di Saint-Marcel (vicino a Argenton-sur-Creuse ), nel dipartimento di Indre, nella regione del Centro-Valle della Loira. In epoca pre-romana e romana, il sito di Argentomagus apparteneva alla tribù dei Bituriges (il loro nome significa "re del mondo").

        IL FORO (by Gean Claude Golvin)

        I CUBI BITURIGI

        I Cubi Bituriges (in latino Bituriges Cubii, in greco Bitoúriges oi Koũboi) erano un popolo gallico che occupava un territorio della Gallia centrale situato tra la Loira e il Massiccio Centrale nella Gallia celtica. La loro capitale, Avaricon (latino Avaricum), dal nome del fiume Yevre (Avara), si trovava nell'attuale sito di Bourges.

        Durante le guerre galliche volute da Giulio Cesare, i Cubi erano membri della Confederazione Edutiana, in quanto clienti degli Edui, un popolo che aveva come capitale Bibracte. Dopo la vittoria romana, avvenuta intorno al 50 a.c., divennero una città della provincia della Gallia Aquitania. 

        Il territorio biturige corrisponde quindi approssimativamente all'ex provincia di Berry. Dal nome di Bituriges derivano i nomi di questa provincia, della città di Bourges e dei loro abitanti, i Berrichons e i Berruyers.

        IL FORO (by Gean Claude Golvin)
        La città romana di Argentomagus si trovava nell'altopiano di Mersans, nella Francia centrale, nel punto strategico sulla riva nord del fiume Creuse, dove un tempo passava un ponte romano. Si trovava all'incrocio di due strade - cenabum (Orléans) fino ad Augustoritum (Limoges) e Limonum (Poitiers) fino ad Avaricum (Bourges). Il nome latino della città significava "Mercato dell'argento". La città moderna di Argenton prende il nome dall'antico sito di Argentomagus.

        Alla fine del periodo classico il centro abitato si trasferì sulla riva sud e il sito originale fu ricostruito solo in seguito. L'attuale villaggio di Saint Marcel occupa solo una piccola parte della posizione originaria. A causa di questo Argentomagus è oggi un sito archeologico di notevole importanza.

        IL TEATRO IERI ED OGGI (by Gean Claude Golvin)

        SAN MARCELLO   

        ogni località che si rispetti ha i suoi martiri e Argentomagus non fa eccezioni. Secondo la leggenda, San Marcello fu decapitato sotto l'imperatore Valeriano (253-260) per aver distrutto gli idoli pagani in un accesso di misticismo iconoclasta. 

        Valeriano però emanò due editti, nel 257 e nel 258, che prevedevano la confisca dei terreni religiosi e la condanna dei seguaci del Cristianesimo; ma solo quelli della gerarchia ecclesiastica escludendo quindi i fedeli. Pertanto la storia di San Marcello è inventata.

        VILLA NOBILIARE DI ARGENTOMAGUS

        GLI DEI PAGANI

        Il culto di Mercurio era popolare tra gli abitanti, che erano attivi nella fusione dei metalli e nella lavorazione del bronzo. Altre figure di culto erano la Madre della Terra, Venere, eroi guerrieri e varie divinità locali.
        MUSEO DI ARGENTOMAGUS
        La città raggiunse l'apice durante il periodo gallo-romano del II e III secolo. Il sito archeologico è di primo interesse in quanto mostra come la città si è evoluta da un insediamento gallico in una città romana. Durante il tardo Impero la Notitia Dignitatum indicava una fabbrica di armi gestita dal governo della città.
        Sono state scavate aree sostanziali delle rovine, tra cui un anfiteatro, una villa romana, un cimitero, una sorgente termale. Sono stati recuperati reperti unici, come un piedistallo per altare circolare. Un museo locale relativo al sito esiste a Mersans.

        L'edificio è stato registrato come monumento storico il 5 aprile 1990. Le prime ricerche sull'antico centro risalgono al 1566 con una descrizione della parte ancora visibile del luogo di Jean Chaumeau.
        Ma i primi scavi furono eseguiti solo nel 1820 su richiesta del prefetto di Indre. Il centro urbano è stato registrato come monumento storico, il 5 aprile 1990.

        FONTANA ROMANA

        LE ORIGINI DEL NOME

        Molti siti gallici e romano-gallici, come quelli di Argenton-les-Vallées (dipartimento di DeuxSèvres), Argenton-l'Église, Argentonnay, Argenton-Notre-Dame (nella Mayenne), Argenton (dipartimento di Lot-et-Garonne), o Argentino (nell'Orne), possiedono la stessa radice toponimica. Il sito romano-gallo di Argentomagus ( Bituriges Cubi civitas), proviene da questo tipo e deriva dagli Argantomagos gallici, dove si producevano e scambiavano monete.
        Si tratta di argentone, detto anche alpacca, una lega di rame, nichel, zinco e talvolta piombo ma in quantità molto ridotte, apprezzato per il suo aspetto argenteo o il suo riflesso bianco metallico che richiama l'argento. 
        Questo metallo oggi in disuso provocò anche molte truffe, perchè, magari coperto da una argentatura veniva contrabbandato per argento. Jean-Marie Pailler stabilisce, soprattutto per il sito dell'Orne e dello Cher, un collegamento diretto tra questi nomi di luoghi e la quantità di monete galliche e romane che gli scavi hanno messo in evidenza. 
        IL SITO ARGENTOMAGUS
        Secondo la tesi di Pailler: 
        "Tutto accade come se questo secondo punto, dove troviamo alcune fortificazioni di epoca romana, fosse servito da luogo di controllo per il passaggio della "strada dello stagno "(ma pure dell'oro) nel "mercato semplice" di Argantomagos / Argentan. Più a sud, nel territorio di Allonnes (Sarthe, vicino a Le Mans, tra gli Aulcs Cenomans), c'è un posto chiamato Argenton. 
        Il sito si trova 1 km a ovest del Chaoué e vicino al santuario di Marte Mullo, in un'area abbastanza densamente popolata di La Tène B2 e C2, dove sono stati osservati e studiati alcuni pozzi. Potrebbe essere stato un "mercato dell'oro", da cui i prodotti in metallo, probabilmente provenienti dalla miniera di Rouez, furono facilmente trasportati nella Loira o, dal guado a nord-est, nel cuore della regione Cenoman."
        (Jean-Marie Pailler, 2006, p. 219)  

        LA STORIA
        Nel 51 a.c. alla fine della guerra dei Galli, i Biturigi sono ancora in guerra contro Giulio Cesare che interviene rapidamente, a partire da gennaio, e li sottomette. Dopo la vittoria di Cesare, i Biturigi vengono attaccati dai Carnuti, i loro vicini del nord, ma essendo ormai territorio romano Cesare interverrà con due legioni e li libererà con la solita efficienza e rapidità. 
        È dopo questi eventi che avviene la separazione tra Bituriges Cubes e Bituriges Vivisques, questi ultimi migrando alla foce della Gironda per fondare Burdigala, la futura città di Bordeaux. L'Aquitania si divide in tre zone:
        DEA BITURIGIA ACCOLTA DAI ROMANI
        - Aquitania Prima, a est (Massiccio Centrale e Berry),
        - Aquitania Seconda (Aquitanica secunda o Aquitania secunda), sulla costa atlantica tra la foce della Gironda e la Loira (Charentes e Poitou),
        - Aquitania Terza, Novempopulanie (Novempopulania - Paese dei Nove Popoli) o Aquitanica tertia o Aquitania tertia, tra la Garonna e i Pirenei).

        Argentomagus fece parte della provincia Aquitania Prima.

        Dopo la guerra dei Galli, i Bituriges Cubes, la cui civitas è citata da Plinio il Vecchio come libera, sembrano non venire coinvolti nelle successive rivolte che avvengono in Gallia, come quella di Iulius Sacrovir nel 21 d.c.
        Nella riorganizzazione della Gallia sotto Augusto, la loro civitas viene integrata nella provincia dell'Aquitania, per diventare poi, sotto Diocleziano, una parte della provincia dell'Aquitania. 
        Il tutto è confermato all'inizio del v secolo dalla Notitia Galliarum ovvero la Notitia provinciarum et civitatum Galliae, un elenco, compilato alla fine del IV secolo e all'inizio del V secolo, delle diciassette province della Gallia con centoquindici civitates, sette castra e un portus. Secondo Theodor Mommsen (1817-1903), sarebbe un documento di origine ecclesiastica, che riproduce la distribuzione dei seggi episcopali tra le province della Gallia.


        I RESTI
        - L'oppidum;
        - Le terme;
        - Il ponte romano;
        - L'anfiteatro, non scavato;
        - Il teatro, che poteva ospitare da 6 a 7000 spettatori, venne edificato nel II quarto del I secolo d.c.
        - Le mura
        - I templi; il tempio 3 è di età tiberiana;
        - La monumentale fontana quadrata, cui si accede da due scale; La grande fontana è stata sormontata da una tensostruttura posta a protezione dei marmi, delle lastre di alabastro e dei pilastri angolari; al momento, la valorizzazione del sito ha comportato unicamente il riallestimento del Plateau de Mersans ma, prossimamente, un’estensione del progetto di musealizzazione investirà anche gli altri monumenti; il progetto originario ha previsto la collocazione di pannelli informativi, a volte arricchiti da immagini di riconfigurazione delle preesistenze archeologiche in rovina
        - La necropoli;
        - La casa di Quinto.
        EPIGRAFE DEDICATA A MERCURIO
        IL MUSEO

        Il museo archeologico di Saint-Marcel è stato aperto nel 1990 ed espone gli oggetti scoperti sul sito. Tra questi oggetti possiamo vedere statuette, monete, giocattoli, decorazioni murali e ceramiche. Uno di questi, un'olla di terra nera reca l' iscrizione gallo-latino : "ERGOBRETOS READDAS" che significa: "il vergobret ha fatto il sacrificio". (il vergobret era il capo-tribù)

        Il vergobret era la suprema magistratura in molte città galliche, in particolare tra gli Edui. Cesare informa del suo ruolo nei suoi "Commentari sulla guerra gallica" (De bello gallico) designandolo come princeps civitatis, principatus, magistratus.

        Eletto ogni anno sotto l'egida dei Druidi, il vergobret aveva il diritto di vita e di morte, e di comandare l'esercito per un'azione difensiva. Gli era proibito invece di lasciare i limiti del territorio del suo popolo: "Le leggi degli Eduenses proibivano a coloro che gestivano la suprema magistratura di attraversare le frontiere".

        Non potendo comandare l'esercito oltre le frontiere, doveva nominare un generale il che gli impediva di prendere il potere oltre il suo mandato. Il vergobret fu scelto tra i personaggi più potenti e si trovarono valute con la loro effigie tra gli Eduens.



        TESSERA SPINTRIANA DI ARGENTOMAGUS

        Fu presentato a lungo tra le monete antiche esposte al "piccolo museo" vicino alla chiesa di Saint-Marcel, ma pochi furono allora i visitatori che se ne accorsero. Attualmente, nel negozio del museo viene offerta una cartolina che riproduce la scena erotica ma il gettone stesso non è più presentato al pubblico.

        TESSERA SPINTRIANA DI ARGENTOMAGUS
        Ha la forma di una moneta di bronzo con un diametro di 21 mm. Il suo spessore varia tra 2 e 2,3 mm e il suo peso è di 4.921 g. La faccia principale mostra il rapporto sessuale di una coppia su un letto il cui materasso è chiaramente visibile, i quattro piedi appoggiati a terra e una linea semicircolare che rappresenta un ornamento del mobile.

        Numismatici e specialisti chiamano questi pezzi "spintrie". Sconosciuto nell'antichità, questo nome moderno deriva dalla parola latina spintria (dissoluto, pederasta), un termine usato dagli storici Svetonio e Tacito per descrivere la dissolutezza a cui l'imperatore Tiberio si sarebbe arreso sull'isola di Capri. 

        Queste tessere spintriche sono caratterizzate da una scena licenziosa da un lato e una figura che varia da I a XVI dall'altro. Particolarmente rari sono stati spesso tenuti in gabinetti segreti e sono stati oggetto di un numero limitato di studi. 

        La sintesi più recente e più completa che li riguarda è dovuta a due ricercatori italiani, Bono Simonetta e Renzo Riva, che nel 1981 pubblicò un opuscolo intitolato "Tessere Erotiche Romane" (spintriae). Questa pubblicazione di riferimento classifica queste tessere in tre gruppi (A, B, C) e, in base alle posizioni dei protagonisti, in 15 scene. 

        Il gettone Argentomagus appartiene al gruppo C, il più numeroso, e corrisponde alla scena 6. 
        Qualcuno ha immaginato fossero gettoni di entrata ai postriboli la cui camera era adibita ad un tipo particolare di sessualità, ma non ci sono prove sufficienti per sostenerlo.
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