Cosenza che era, come pare, la sede della federazione dei Sabelli stanziati nella Magna Grecia, cadde nelle sue mani. Invano i Sanniti vennero in aiuto dei Lucani, Alessandro sconfisse i loro eserciti uniti presso Pesto (Paestum), vinse i Danni a Liponto, i Messapii a sud-est della penisola; e cosi padrone dall'uno all'altro mare era già in procinto di porgere la mano ai Romani per attaccare unitamente a loro i Sanniti nelle loro sedi originarie.
Ma questi inaspettati successi spiacquero e spaventarono i mercanti tarentini e scoppiò la guerra tra essi e il loro capitano il quale, venuto in Italia al soldo dei Tarentini, voleva fondare un regno ellenico in occidente come suo nipote voleva fondarne uno greco in Oriente.
Alessandro fu dapprima fortunato: egli tolse Eraclea ai Tarentini, Turio e pare che avesse invitato con un proclama tutti gli altri Greci italici ad unirsi sotto la sua protezione contro i Tarentini e nello stesso tempo cercasse di metter pace tra i Greci e le popolazioni sabelliche.
Ma i suoi grandiosi progetti trovarono solo debole appoggio presso i degeneri e disanimati Greci, e il cambiamento di parte impostogli dalla necessità alienò da lui quella parte dei Lucani che fino allora gli era stata favorevole. Egli cadde presso Pandosia per mano d'un esule lucano.
Morte di AlessandroColla morte sua le cose ritornarono di nuovo nell'antico stato. Le
città greche si videro nuovamente smembrate e ridotte al punto di proteggersi dai nemici col mezzo di trattati, di tributi od anche collo
aiuto straniero; così, ad esempio, Crotone nel 430 (= 324) respinse i
Bruzii coll'aiuto di Siracusa. Le schiatte sannitiche ebbero di nuovo
il primato, non avendo a temere i Greci, poterono rivolgere i loro
pensieri alla Campania e al Lazio.
Ma in questo breve tempo si era qui compiuto un notevole · cambiamento.
La confederazione latina era spezzata ed infranta, rotta
l'ultima resistenza dei Volsci, ed il paese campano, il più ricco ed
il più bello della penisola, si trovava in possesso incontrastato e ben
assicurato dei Romani, e così la seconda città d'Italia posta sotto la
clientela romana.
Mentre i Greci ed i Sanniti lottavano fra loro, Roma
si era, quasi senza contrasto, elevata a tale saldezza di potenza che
nessuno dei popoli della penisola aveva da solo la forza di abbatterla;
tutti erano ormai minacciati dal pericolo di cadere sotto il giogo romano e solo uno sforzo di comune accordo poteva forse ancora spezzare le catene, prima che si ribadissero intieramente.
Ma la chiaroveggenza, il coraggio, la rassegnazione, come richiedeva una tale coalizione, composta di tanti comuni popolari e urbani, stati sino allora per la maggior parte nemici e stranieri gli uni agli altri, non si trovarono allora o si trovarono solo quando era troppo tardi.
§ - COALIZIONE DEGLI ITALICI CONTRO ROMA
(Italici: antica denominazione dei popoli dell'Italia centro-meridionale, eccettuati gli abitanti delle Puglie, o Iapigi, gli Etruschi e i coloni greci. o Italioti. trapiantatisi nelle colonie dell'Italia meridionale, o Magna Grecia).In seguito allo sfasciamento della potenza etrusca ed in seguito allo indebolimento delle repubbliche italo-greche, la confederazione sannitica era, senza dubbio, dopo Roma, la più ragguardevole potenza in Italia e nello stesso tempo quella che prima e più immediatamente delle altre era minacciata dalle usurpazioni romane.
Ad essa spettava dunque il primo posto ed il più grave peso nella guerra per la libertà e la nazionalità che gli Italici dovevano intraprendere contro Roma. Essa poteva dunque fare assegnamento sulle piccole popolazioni sabelliche dei Vestini, dei Frentani, dei Marrucini e di altri minori distretti che vivevano in contadinesco isolamento fra le loro montagne, ma che non sarebbero stati sordi ad afferrare le armi alla chiamata di una schiatta affine per la difesa dei beni comuni.
Di maggior importanza sarebbe stato l'aiuto degli Elleni stanziati nella Campania e nella Magna Grecia, e particolarmente quello dei Tarantini e dei potenti Lucani e dei Bruzii; ma in parte la fiacchezza e la trascuratezza dei demagoghi signoreggianti in Taranto e l'impaccio in cui si trovava avvolta la città per gli affari di Sicilia, in parte le dissensioni intestine della confederazione lucana, in parte e più di tutto le secolari e profonde inimicizie degli Elleni dell'Italia inferiore coi Lucani loro oppressori lasciavano appena sperare che Taranto e la Lucania si potessero unire in società coi Sanniti.
Dai Sabini e dai Marsi, come i più prossimi ai Romani e già da lungo tempo in pacifiche relazioni con Roma, non si potevano attendere che fiacchi soccorsi o la neutralità; gli A pulii, antichi ed inaspriti avversari dei Sabelli, erano naturali alleati dei Romani. Era per contro a credere che, conseguito un primo successo, gli Etruschi si unirebbero alla confederazione e in questo si poteva anche sperare una sollevazione nel Lazio e nel paese dei Volsci e degli Ernici.
Prima di ogni altra cosa dovevano i Sanniti, gli Etoli d'Italia in cui viveva ancora intatta la forza nazionale, confidare nel proprio valore e porre nella lotta ineguale una perseveranza, che lasciasse agli altri popoli il tempo ad un nobile pudore, alla riflessione, alla raccolta delle forze, e allora un solo successo fortunato avrebbe potuto accendere intorno a Roma la fiamma della guerra e della sollevazione. La storia non deve negare al nobile popolo sannitico la testimonianza che esso ha compreso il suo dovere e lo ha adempito.
§ - ALLEANZA DEI ROMANI COI LUCANI
Già da parecchi anni tra Roma e il Sannio nascevano ad ogni tratto contese per le continue usurpazioni che i Romani si permettevano sul Liri, e tra le quali l'ultima e la più importante fu la fondazione di Fregelle (426 328). Ma allo scoppio della guerra diedero cagione i Greci stanziati nella Campania.
Dopoché Cuma e Capua erano divenute romane, nulla premeva piü vivamente ai Romani che la sottomissione della cittå greca Neapoli, la quale dominava pure le isole greche nel golfo ed era l'unica non ancora soggiogata cittå in mezzo al territorio della potenza romana.
Conquista di Neapolis
I Tarantini ed i Sanniti, informati del progetto dei Romani d'impadronirsi di questa cittå, deeisero di prevenirli; e se i Tarantini, causa la loro lontananza e la loro lentezza, non furono pronti ad eseguiretale risoluzione, i Sanniti perchè vi posero un forte presidio. I Romani dichiararono bentosto la guerra in apparenza ai Neapoliti, in fatto però ai Sanniti e incominciarono l'assedio di Neapoli (427 327).
Da qualche tempo i Greci della Campania tolleravano a fatica il turbamento dei commerci e l'occupazione straniera, ed i Romani che in ogni modo s'ingegnavano di allontanare, maneggiando pratiche separate, gli stati di secondo e di terzo ordine dalla lega che andavan preparando con gran premura, appena i Greci aderirono alle trattative, offrirono loro le pih vantaggiose condizioni: piena uguaglianza di diritto, esenzione dalla milizia territoriale, uguale lega e pace perpetua.
Su queste basi fu conchiuso il trattato dopoché i Neapoliti (428 z: 326) si furono liberati coll'astuzia dalla guarnigione. Al principio della guerra le città sabelliche a mezzodì del Volturno, Nola, Nocera, Ercolano, Pompei tenevano pel Sannio, ma tanto per la loro posizione
molto esposta, quanto per i maneggi dei Romani, che per mezzo della
leva dell'astuzia e dell'interesse cercarono di trarre dalla loro parte
la fazione ottimista, e che trovavano un potente aiuto nell'esempio di
Capua, fecero sì che tutte le città sopra menzionate non tardarono
lungo tempo, dopo il caso di Neapoli, a collegàrsi con Roma oppure
a dichiararsi neutrali.
Lega Romana con la Lucania
Un ancora più importante successo riuscirono ad ottenere i Romani
nella Lucania. Anche qui il popolo seguendo il suo giusto istinto propendeva per la lega sannitica, ma siccome la lega coi Sanniti traeva
seco anche la pace con Taranto e per la maggior parte dei signori
Lucani non era conveniente il far cessare le lucrose scorrerie dei predoni, così riuscì ai Romani di stringere una lega con la Lucania che
fu di somma importanza, perchè con essa si dava molto da fare ai
Tarantini e rimanevano disponibili contro il Sannio tutte le forze dei
Romani.
Caudzne e pace Caudine
II Sannio rimaneva cosi completamente isolato, solo qualcuno dei distretti montuosi orientali gli mandò un contingente. Coll'anno 428 (z: 326) incominciö la guerra entro lo stesso paese sannitico; alcune cittå ai confini della Campania come Rufre (tra Venafro e Teano) e Allife furono occupate dai Romani. Negli anni seguenti gli eserciti romani combattendo e saccheggiando traversarono il Sannio nel territorio dei Vestini, inoltrandosi Sino all' Apulia, ove furono accolti a braccia aperte, riportando dappertutto i più decisivi vantaggi.
I Sanniti si perdettero d'animo; rimandarono i prigionieri romani e con essi il cadavere del capo del partito della guerra Brutolo Papio, il quale aveva prevenuto i carnefici romani dopo che la repubblica sannitica ebbe deliberato di domandare la pace al nemico e mediante la consegna del più valoroso loro duce di ottenere più miti condizioni. Ma siccome l'umile e quasi supplichevole preghiera (432 322) non trovò ascolto presso il popolo romano, i Sanniti si riarmarono e, sotto il loro nuovo duce Gavio Ponzio, si prepararono a disperata difesa.
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L'IMBOSCATA SANNITA |
L'imboscata sannita
L'esercito romano il quale capitanato da ambedue i consoli del seguente anno Spurio Postumio e Tito Veturio, era accampato presso Calazia (tra Caserta e Maddaloni), ebbe notizia, confermata da gran numero di prigionieri, che i Sanniti avevano assediata Luceria e che l'importante città, da cui dipendeva il possesso dell' Apulia, era in grave pericolo.
Per giungere a tempo non si poteva prendere che una via, la quale attraversava il territorio nemieo, lå dove più tardi in continuazione della via Appia fu poi costrutta la via romana che da Capua per Benevento riesce all' Apulia. Questa via conduceva fra i monti che stanno fra le attuali borgate
di Arpaia e di Montesarchio (Caudium) e metteva ad un fondo umido,
d'ogni intorno circondato da alte e scoscese colline selvose e dove
l'entrata e l'uscita erano possibili solo per mezzo di angustissime gole.
Qui i Sanniti si erano posti in imboscate. I Romani entrati senza ostacolo nella valle trovarono sbarrato con un trinceramento d'alberi abbattuti e saldamente difeso il capo della valle, ritornando indietro si
accorsero che l'ingresso era chiuso nello stesso modo e che nello stesso
tempo le creste dei monti si coronavano in giro di coorti sannitiche.
Troppo tardi i Romani compresero che si erano lasciati ingannare da
uno stratagemma di guerra e che i Sanniti non li aspettavano presso
Luceria, ma nelle fatali strette di Caudio. Si combattè, ma senza speranza di successo e senza serio scopo; l'esercìto romano era nell'assoluta impossibilità di manovrare, e fu vinto pienamente senza combattere.
Solo goffi retoricanti poterono immaginare che il capitano dei Sanniti
fosse in dubbio nella scelta tra il congedo o lo sterminio dell'armata
romana, in cui erano raccolte tutte le forze attive della Repubblica
coi due supremi duci.
Così gli si apriva la via alla Campania e al Lazio e nelle condizioni
d'allora, in cui i Volsci e gli Ernici e la maggior parte dai Latini lo
avrebbero accolto a braccia aperte, l'esistenza politica di Roma sarebbe stata seriamente compromessa.
Ma invece di seguir questa via e di conchiudere una convenzione
militare Gavio Ponzio pensò di poter finir presto la contesa con un
buon trattato di pace, sia che dividesse la poco assennata smania dei
confederati per la pace onde l'anno prima era stato vittima Brutolo
Papio, sia che non fosse in grado di resistere al partito avverso alla
guerra, che gli mandò a male una vittoria che non aveva l'eguale.
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LE FORCHE CAUDINE |
§ - LE FORCHE CAUDINE
Le
condizioni proposte erano abbastanza moderate: Roma doveva demolire
le piazze forti di Cales, di Fregelle, costrutte contro il tenore dei
trattati e rinnovare la federazione d'uguaglianza col Sannio. Dopo
che i duci romani ebbero accettate queste condizioni, di cui garantirono la fedele esecuzione con seicento ostaggi scelti nella cavalleria
e col giuramento prestato dai supremi capitani e da tutti gli ufficiali
dello stato maggiore, l'esercito romano fu lasciato partire illeso, ma
disonorato, poichè l'esercito sannitico, ebbro della vittoria, non potè
essere indotto a condonare agli odiati nemici l'ontosa cerimonia della
deposizione delle anni e di passare sotto la forca.
Ma il senato romano,
incurante del giuramento degli ufficiali e della sorte degli ostaggi,
cassò la capitolazione e si limitò a consegnare al nemico coloro che
l'avevano conchiusa come personalmente responsabili della sua esecuzione. Alla storia imparziale deve importar poco che la scienza casistica dei giureconsulti e della pretoria romana abbia con ciò rispettata
la lettera del diritto o che il senato abbia risolutamente rotto i patti;
ma considerando questo fatto sotto l'aspetto politico, non
pare che essa debba essere di biasimo ai Romani.
Il Senato rifiuta il trattato di Pace
E cosa assai indifferente che il generale fosse o non fosse autorizzato, secondo la formale
ragion di stato, a conchiudere la pace, senza riservarne la ratificazione
alla Repubblica, e per vero, secondo lo spirito e la pratica della costituzione, era fuor di dubbio che qualunque trattato, il quale non fosse
puramente militare, dovesse considerarsi di competenza del potere
civile.
Era ben più grande l'errore del capitano dei Sanniti il quale
aveva lasciato ai consoli la scelta tra la salvezza dell'esercito e la
violazione dei poteri, che non l'errore dei consoli i quali non ebbero
la magnanimità di respingere assolutamente quest'ultima tentazione;
ed era cosa giusta e necessaria che il senato romano rifiutasse di
sanzionare questo trattato.
Nessun grande popolo dona quel che possiede senza l'obbligo di una suprema necessità; tutti i trattati di cessione sono una prova di necessità e non obblighi morali. Se ogni
nazione ripone il suo onore nel lacerare colle armi i trattati umilianti,
come poteva l'onore imporre ai Romani di rassegnarsi ad un trattato
come quello di Candio, a cui fu costretto da una violenza morale un
infelice capitano, mentre ardeva la recente vergogna e la forza esisteva ancora, non spezzata?
Vittorie dei Romani
Nuove fortezze nell'Apulia e nella Campania.
Questo trattato di Caudio portò non già la pace, che gli entusiasti
del partito pacifico nel Sannio avevano stolidamente perorato, ma invece
sempre nuove guerre, essendosi da ambe le parti cresciute le cagioni
dell'odio per il rimpianto d'essersi lasciata sfuggire l'occasione propizia, per l'accusa di mancata fede, per il vilipeso onore delle armi e
per l'abbandono degli ostaggi.
Gli ufficiali romani consegnati ai Sanniti non furono da questi accettati, perchè essi, oltre l'innata generosità che li impediva di sfogare la loro vendetta su questi infelici,
accettando queste vittime espiatrici avrebbero ammesso in faccia ai
Romani che la convenzione poteva obbligare solo quelli che avevano
dato la promessa con giuramento, non lo Stato romano.
I generosi Sanniti rispettarono persino gli ostaggi, i quali, secondo
la legge marziale, meritavano la morte, e volsero tosto il pensiero alle
armi.
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LUCIO PAPIRIO CURSORE |
Lucio Papirio Cursore
Occuparono Luceria, sorpresero Fregelle (434 = 320), prima
che i Romani avessero riorganizzato l'esercito quasi disfatto; ciò che
essi avrebbero potuto ottenere se non si fossero lasciato sfuggire il
momento propizio, ce lo prova il passaggio dei Satricani alla parte
dei Sanniti. Ma le forze di Roma erano solo momentaneamente paralizzate, non scemate. La vergogna e lo sdegno stimolavano la virtù
e Roma raccoglieva tutte le sue forze, e alla testa del nuovo esercito
poneva, come supremo capitano, Lucio Papirio Cursore, soldato e condottiero di esperimentato valore.
L'esercito fu diviso; l'una metà si
diresse alla volta di Luceria attraverso la Sabina e il litorale adriatico, l'altra metà attraversò il Sannio per riuscire alla stessa città e
secondata da felici combattimenti cacciava innanzi a sè l'esercito sannitico.
Assedio di Lucera
I due eserciti si ricongiunsero sotto le mura di Luceria, il cui
assedio fu condotto con molto rigore, perchè nella città si trovavano
prigionieri i cavalieri romani; gli Apuli e particolarmente gli Arpani
prestarono ai Romani un importante aiuto segnatamente col trasporto dei viveri.
I Sanniti, per liberare Luceria dall'assedio arrischiarono una battaglia e la perdettero, dopo di che Luceria si diede ai Romani ( 435
= 319). Papirio ebbe la doppia gioia di liberare gli ostaggi creduti
già perduti e di rendere alla guarnigione sannitica di Luceria la pariglia delle forche caudine (435-437 = 319-317).
Negli anni seguenti la guerra fu combattuta più nei paesi limitrofi
che nel Sannio.
I Romani punirono dapprima gli alleati dei Sanniti nell'Apulia e
nel Frentano e strinsero nuove leghe coi Teanesi di Apulia e coi
Canusini. Al tempo stesso Satrico fu ridotta in servitù e seriamente punita della sua slealtà. La guerra si ridusse quindi verso la Campania, dove i Romani acquistarono la città di Saticula (forse Sant'Agata
de' Goti) (438 = 316). ·
Ma dopo questa vittoria parve che la fortuna si volgesse nuovamente
contro essi. I Sanniti trassero dalla loro parte i Nucerini (438 = 316)
e poco dopo i Nolani; sul Liri superiore i Sorani scacciarono lo stesso
presidio romano (439 = 315); si preparava una sollevazione degli
Ausoni, la quale minacciava l'importante città di Cales, e nella stessa
Capua si agitavano vivamente gli animi mal disposti contro i Romani.
Sora riconquistataUn esercito sannitico s'avanzò nella Campania e si accampò alle
porte della città nella speranza di dare colla sua presenza la preponderanza al partito dell'indipendenza (440 = 314). Ma i Romani attaccarono subito Sora e, battuto l'esercito sannitico accorso a liberarla
(440 = 314), la presero nuovamente.
L'agitazione fra gli Ausoni fu
repressa con inesorabile severità prima che venisse ad aperta ribellione, e nello stesso tempo fu nominato un apposito dittatore per fare i
processi politici contro i capi del partito sannitico e per giudicarli, di
modo che i più ragguardevoli fra di essi si diedero volontariamente
la morte per sfuggire il carnefice romano (440 = 314).
L'esercito sannitico accampato sotto Capua fu battuto e costretto
alla partenza dalla Campania; i Romani inseguendo con impeto i nemici, valicarono il Matese e si attendarono nell'inverno del 440 (= 314)
innanzi a Boviano, capitale del Sannio. Nola fu abbandonata dai confederati ed i Romani furono abbastanza accorti per staccare per sempre
questa città dal partito sannitico col mezzo del favorevolissimo trattato d'alleanza, simile a quello già conchiuso con Napoli (441 = 313).
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RESTI DI FREGELLAE (Lazio) |
La Punizione di Fregelle
Fregelle, che dal tempo della catastrofe presso Candio era rimasta
nelle mani del partito antiromano, e il suo principale castello situato
nel paese sul Liri caddero finalmente in potere di Roma otto anni
dopo la presa dei Sanniti ( 441 = 313). Duecento cittadini, i più distinti
del partito nazionale, furono condotti a Roma e decapitati in aperto
Forn, come ammonizione ed esempio ai patrioti che dappertutto avversavano Roma.
L'Apulia e la Campania caddero nello stesso modo nelle mani dei
Romani.
A guarentigia finale ed a stabile dominazione del territorio conquistato, i Romani vi fondarono, negli anni dal 440 fino al 442 (= 314-312), una quantità di nuove fortezze. Luceria nell'Apulia, dove
a causa della esposta ed isolata sua posizione fu mandata a stabile
presidio una mezza legione; indi Pontia (le isole di Ponza), per assicurare le acque della Campania; Saticula, sul confine campano-sannitico quale antimurale contro il Sannio; finalmente Interamna presso
Monte Cassino e Suessa Aurunca (Sessa) sulla via da Roma a Capua.
Oltre a ciò vennero guernite di presidii Calazia, Sora ed altre importanti piazze militari. La grande strada militare da Roma a Capua
che il censore Appio Claudio fece selciare l'anno 442 (= 312), e l'argine
da lui costrutto attraverso le paludi Pontine completarono la conquista
della Campania. Sempre più compiuto si manifestava l'intento dei
Romani; si trattava di assoggettarsi tutta l'Italia, che d'anno in anno
veniva sempre più avviluppata dalla rete delle strade e delle fortezze
romane.
Da ambe le parti i Sanniti erano circondati dai Romani; la linea
da Roma a Luceria già separava l'Italia settentrionale dalla meridionale, come una volta le piazze forti di Norba e di Signia avevano
separato i Volsci e gli Equi; e come allora sugli Ernici, Roma si appoggiava ora sugli Arpini. Gli Italici dovevano riconoscere che la
loro libertà era perduta se il Sannio soccombeva, che non vi era tempo da perdere e che bisognava finalmente, con tutte le forze unite, accorrere in aiuto di quei valorosi montanari, i quali già da quindici anni
sostenevano la lotta contro i Romani.
§ - INTERVENTO DEI TARANTINI
I Tarantini sarebbero stati i più prossimi alleati dei Sanniti, ma la
fatalità che pendeva sul Sannio e sull'Italia in generale, fece sì che
in questo momento, che era per determinare il futuro, la decisione
stesse nelle mani di questi Ateniesi italici.
Dacchè Taranto si era ridotta alla più perfetta democrazia, la costituzione, che per l'antica sua origine dorica, era rigidamente aristocratica, venne corrompendosi con incredibile rapidità e l'educazione
e le quotidiane occupazioni del popolo tarantino, più ricco che intraprendente, e composto per la maggior parte di barcaiuoli, di pescatori e di artieri, allontanavano tutti i gravi pensieri della vita o li
addormentavano colle arguzie e coll'affaccendata e rumorosa operosità
di modo che la loro mente fluttuava incerta tra la più grandiosa temerità di propositi e la più geniale elevazione d'idee e tra la più vergognosa leggerezza ed i più puerili capricci.
E non sarà inopportuno qui ricordare, in connessione con quanto appunto notammo quando
si trattò dell'essere o non essere di nazioni dotate di grandi e belle
qualità e di antica fama, come Platone, il quale venne a Taranto
circa sessant'anni prima di questa epoca, trovasse, secondo la sua
testimonianza, nell'occasione della festa di Dionisio, l'intiera città
ubbriaca, e come la farsa parodiata, la così detta tragedia burlesca, fosse stata inventata in Taranto appunto al tempo della grande guerra sannitica.
A complemento di queste abitudini di vita scioperata
e di poesia buffonesca dei colti ed eleganti Tarantini, si aggiungeva
la tentennante, petulante e cieca politica dei demagoghi di Taranto, i
quali si mostravano attivi dove nulla avevano a fare, e si ecclissavano
quando li chiamava il più prossimo loro interesse.
Quando dopo la
catastrofe caudina i Romani ed i Sanniti stavano alle prese nell'Apulia,
i Tarantini avevano mandato colà degli ambasciatori che comandavano alle due parti di deporre le armi.
Questa intromissione diplomatica in una lotta decisiva per l'Italia
non poteva essere ragionevolmente considerata che come la prova che
Taranto si deciderebbe fìnalmente ad uscire dalla passività in cui si
era fino allora tenuta.
Ciò era davvero necessario per quanto pure
riuscisse difficile e pericoloso ai Tarantini d'impicciarsi in questa guerra;
dacchè l'indirizzo democratico aveva ridotto le forze dello Stato quasi intieramente alla marineria, la quale col sussidio del numeroso naviglio
acquistava a Taranto il primo posto fra le potenze marittime della Magna
Grecia, dove l'esercito di terra, in cui stava tutta l'importanza della
guerra sannitica, era essenzialmente composto di mercenari assoldati e
si trovava in profonda decadenza.
Per tutte queste circostanze non era facile compito per la repubblica
tarantina il partecipare alla lotta tra Roma e il Sannio, anche senza tener
conto delle inimicizie, per lo meno moleste, nelle quali la politica romana aveva saputo avvolgere i Tarantini coi Lucani. Però con una forte volontà questi ostacoli non erano poi insuperabili, e ambedue le
parti avversarie giudicarono l'invito degli ambasciatori tarantini esser
principio di una politica più attiva.
Gli ambasciatori Tarantini non dichiarano guerra a RomaI Sanniti, come i più deboli, si mostrarono disposti di accettare l'invito, i Romani invece risposero alla
intimazione dando il segnale della battaglia. Il senno e l'onore avrebbero
imposto ai Tarantini di far eseguire immantinente l'arrogante intimazione dei loro ambasciatori una dichiarazione di guerra a Roma; ma in
Taranto si mancava appunto di senno e d'onore e vi si trattavano molto
puerilmente le cose della più alta importanza.
La dichiarazione di guerra
contro Roma non ebbe luogo, si preferì invece d'impegnarsi a sostenere
la fazione delle città siciliane contro Agatocle di Siracusa, che era già
stato prima al loro servizio ed era caduto in disgrazia, e seguendo
l'esempio di Sparta, si mandò una flotta in Sicilia che avrebbe potuto
rendere migliori servizi nel mare della Campania (440 = 314).
Gli Etruschi contro RomaPiù energicamente agirono i popoli stanziati al settentrione e nel
cuore d'Italia, i quali, come pare, furono particolarmente scossi dalla
fondazione della fortezza di Luceria. Dapprima (443 = 311) sorsero gli
Etruschi, il cui trattato d'armistizio del 403 (= 351), era scaduto già
da alcuni anni.
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ENTRATA DEL TEATRO A SUTRI |
Sutri
La fortezza romana di confine, Sutrio, ebbe a sostenere
un assedio di due anni e nei violenti combattimenti, che accaddero
sotto le sue mura, erano d'ordinario i Romani che ne andavano colla
peggio, fin che il console dell'anno 444 (= 310), Quinto Fabio Rulliano,
condottiero esperimentato nelle guerre sannitiche, non solo procacciò la
preponderanza alle armi romane nell'Etruria romana, ma penetrò audacemente anche nel paese degli Etruschi, fino allora rimasto straniero
ai Romani per la diversità della lingua e per le poche comunicazioni.
Il passaggio per la foresta Ciminia, che nessun esercito romano aveva
sino allora varcata, e il saccheggio del ricco territorio da lungo rimasto
intatto e salvo dalle miserie della guerra, fece armare l'intera Etruria,
ed il governo romano, che disapprovava seriamente questa inconsulta
spedizione, e che aveva troppo tardi interdetto al temerario duce il passaggio dei confini, raccolse per far fronte all'inatteso cozzo delle forze
etrusche riunite in tutta fretta nuove legioni.
§ - VITTORIA DEL LAGO VIDIMONE
Ma un'opportuna e finale vittoria di Rulliano nella battaglia combattuta sulle rive del lago Vadimone, di cui il popolo serbò lungo ricordo, fece dell'incauto principio delle ostilità una celebrata azione
eroica ed infranse la resistenza degli Etruschi.
Dissimili dai Sanniti,
i quali ormai da diciotto anni combattevano con forze ineguali, tre
delle più potenti città etrusche, Perusia, Cortona e Arretium, si accontentarono appena dopo la prima sconfitta di negoziare una pace separata di trecento mesi (444 = 310), e dopo che nell'anno seguente i
Romani vinsero ancora una volta presso Perusia gli altri Etruschi,
anche i Tarquinesi acconsentirono ad una pace di 400 mesi ( 446 = 308);
dopo di ciò anche le altre città si astennero dal guerreggiare ed in
Etruria provvisoriamente ebbero posa le armi.
Mentre questi fatti accadevano nell' Etruria, la guerra non cessò
neanche nel Sannio. La campagna del 443 si era limitata fin qui all'assedio e alla espugnazione di alcune piazze sannitiche, ma nel seguente anno la guerra prese una più viva piega. La pericolosa posizione di Rulliano nell'Etruria e le voci sparse sopra la disfatta dell'esercito romano nel settentrione, animarono i Sanniti a nuovi sforzi;
il console romano Gaio Marcio Rutilo fu da essi vinto e gravemente
ferito, ma il cambiamento delle cose in Etruria distrusse le rinascenti
speranze.
Vittoria di Lucio Papirio Cursore contro i Sanniti
Ricomparve Lucio Papirio Cursore alla testa delle legioni
romane inviate contro i Sanniti, il quale fu ancora vincitore in una
grande e decisiva battaglia (445 = 309) in cui i confederati avevano
impiegato le ultime loro forze. Il nerbo della loro armata, che componevasi delle schiere dalle sopravesti screziate e dagli scudi d'oro e di
quelle dalle sopravesti bianche e dagli scudi d'argento, fu qui distrutto
e da allora in poi le splendide armature ornavano nelle grandi solennità le botteghe lungo il Foro romano.
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NUCERIA ALFATERNA |
Resa di Nuceria
Sempre più grande si faceva
la miseria, sempre più disperata diveniva la lotta. Nell'anno seguente
( 446 = 308) gli Etruschi deposero le armi e, dopo essere nello stesso tempo investita per mare e per terra, si diede nel medesimo anno con
favorevoli condizioni ai Romani, Nuceria, ultima città della Campania
che tenesse ancora pei Sanniti. Questi trovarono bensì nuovi alleati
negli Umbri stanziati nell'Italia settentrionale, nei Marsi e nei Peligni
nell'Italia centrale e gli stessi Ernici trassero numerosi volontariamente
sotto le loro insegne.
Ma ciò che avrebbe potuto essere di grave peso
nella bilancia a danno di Roma se gli Etruschi fossero stati ancora
sotto le armi, aumentava ora i successi della vittoria dei Romani senza
renderla veramente più difficile.
Sconfitta degli UmbriAgli Umbri che s'apprestavano a correre
su Roma, Rulliano sbarrò la via sul Tevere superiore coll'esercito destinato contro il Sannio, senza che i deboli Sanniti lo potessero impedire, e questo bastò per disperdere la leva in massa degli Umbri.
Allora la guerra si scatenò di nuovo sull'Italia centrale.
Sconfitta dei Peligni e dei MarsiI Peligni e i
Marsi furono vinti e sebbene le altre schiatte sabelliche rimanessero
ancora di nome nemiche dei Romani, il Sannio si trovava da quel
lato a poco a poco effettivamente isolato. Ma inaspettatamente venne
ai Sanniti un aiuto dal territorio del Tevere.
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GUERRIERI ERNICI |
§ - GLI ERNICI DICHIARANO GUERRA AI ROMANI
La confederazione degli
Emici, chiamata a giustificarsi verso Roma perchè fra i prigionieri
di guerra sannitici si trovassero militi ad essa appartenenti, dichiarò
la guerra ai Romani (448 = 306) più per disperazione che per
riflessione.
Alcuni dei più ragguardevoli comuni ernici si astennero sin dal
principio dal prender parte alla guerra, ma Anagni, la più importante
città ernica, diede la dichiarazione di guerra. Militarmente era in quel
momento sommamente difficile la posizione dei Romani per l'inattesa
insurrezione ernica alle spalle dell'esercito che trovavasi occupato nell'assedio delle fortezze nel Sannio.
Ancora una volta la fortuna delle
armi fu favorevole ai Sanniti; Sora e Calazia caddero nelle loro mani,
ma gli Anagnini soggiacquero più presto che non lo si aspettasse alle
milizie mandate da Roma che opportunamente aprirono la via anche
all'esercito che trovavasi nel Sannio; tutto era perduto. I Sanniti chiesero la pace, ma invano, non era ancora possibile un accordo.
Solo
la campagna del 449 (= 305) portò la decisione finale. I due eserciti
consolari romani penetrarono nel Sannio: l'uno capitanato da Tiberio
Minucio e dopo la sua caduta da Marco Fulvio, partendo dalla Campania e passando attraverso i gioghi dei monti; l'altro condotto da
Lucio Postumio venendo dal mare Adriatico e rimontando il Biferno
per riunirsi innanzi a Boviano, capitale del Sannio.
Qui fu riportata
una decisiva vittoria, il generale sannitico Stazio Gellio fu fatto prigioniero e Boviano venne espugnata.
La caduta della principale piazza d'armi pose fine alla guerra che
aveva durato ventidue anni. I Sanniti ritrassero i loro presidii da Sora
e da Arpino e mandarono ambasciatori a Roma per chiedere la
pace; il loro esempio fu seguìto dalle schiatte sabelliche dei Marsi,
dei Marrucini, dei Peligni, dei Frentani, dei Vestini, dei Piceni.
Le
condizioni concesse da Roma erano tollerabili; furono bensì chieste
concessioni di territorio, come ad esempio dai Peligni, ma pare che
esse non siano state molto importanti. La stessa alleanza fu rinnovata
tra gli Stati sabellici ed i Romani (450 = 304),
Pace col Sannio e con TarantoProbabilmente verso quello stesso tempo e in conseguenza della pace
sannitica, fu fatta la pace anche tra Roma e Taranto. Per vero le due
città non erano uscite apertamente in campo l'una contro l'altra; i
Tarantini si erano mantenuti dal principio alla fine della lunga lotta
tra Roma e il Sannio inattivi spettatori e avevano solo continuata la
lotta in lega coi Salentini contro i Lucani, confederati dei Romani.
I Tarantini avevano bensì lasciato sospettare ancora una volta negli
ultimi anni della guerra sannitica di volersi intromettere più energicamente. Ma parte la triste posizione nella quale i continui assalti dei
Lucani li avevano ridotti, e parte anche la sempre più penetrante persuasione che il totale soggiogamento del Sannio minacciava anche la
loro propria indipendenza, li aveva decisi, malgrado le tristi esperienze
fatte con Alessandro, di affidarsi ancora una volta ad un condottiero.
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PRINCIPE SPARTANO CLEONIMO
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Cleonimo
Venne alla loro chiamata il principe spartano Cleonimo con 5000 mercenari, ai quali aggiunse una schiera di ugual forza arruolata in Italia
e fortemente aumentata fino a 22.00 uomini coi rinforzi dei Messapii,
delle piccole città greche e più di tutto coll'esercito dei cittadini Tarantini. Alla testa di questo considerevole esercito egli costrinse i Lucani a far la pace con Taranto e ad istituire un governo devoto ai
Sanniti, per cui certo fu a loro liberamente sacrificata Metaponto.
Quando questo accadde, i Sanniti erano ancora in armi, nulla impediva allo spartano di venir loro in aiuto e di mettere la sua strategia
ed il suo forte esercito al servizio della libertà dei popoli e delle città
italiane. Ma Taranto non agi come in simile caso avrebbe agito Roma,
e il principe Cleonimo non era nè un Alessandro, nè un Pirro. Egli
non s'affrettò a cominciare una guerra nella quale erano da aspettarsi
più sconfitte che bottino, ma fece piuttosto causa comune coi Lucani
contro Metaponto, e si compiacque del soggiorno di questa città, accennando ad una spedizione contro Agatocle da Siracusa e alla liberazione dei Greci siciliani.
Allora i Sanniti fecero pace e quando dopo
questa conclusione Roma incominciò ad occuparsi più seriamente del
sud-est della penisola, allorchè ad esempio nell'anno 447 (= 307) una
schiera di truppe romane metteva a contribuzione il paese dei Sallentini
o piuttosto vi faceva un'esplorazione per ordine superiore, il condottiero
spartano s'imbarcò coi suoi mercenari e approdò per sorpresa all'isola
di Corcira, che era eccellentemente situata, per esercitarvi la pirateria
contro la Grecia e contro l'Italia.
Abbandonati per tal modo dal loro condottiero e nello stesso tempo privi dei loro confederati nell'Italia
centrale, non rimaneva ormai ai Tarantini ed ai loro alleati italici,
i Lucani ed i Sallentini, che di sollecitare un accordo con Roma,
che pare essere stato concesso a tollerabili condizioni. Poco dopo (451
= 303) i Sallentini coll'aiuto dei Romani respinsero anche un'invasione di Cleonimo, il quale era sbarcato sul territorio sallentino ed
aveva assediato Uria.
CONSOLIDAMENTO DELLA SIGNORIA DEI ROMANI NELL' ITALIA CENTRALE
Roma ebbe piena vittoria e ne approfittò largamente. Non per magnanimità, che i Romani non conoscevano, ma per saggio e manifesto
calcolo furono imposte così moderate condizioni ai Sanniti, ai Tarentini e in generale a tutte le altre più lontane popolazioni.
Innanzi tutto non trattavasi tanto di costringere al più presto possibile l' Italia
meridionale al formale riconoscimento della supremazia romana, quanto
di compiere la conquista dell'Italia centrale, di cui erano state poste
le fondamenta colla costruzione delle strade militari e con le fortezze
già fondate nella Campania e nell'Apulia durante l'ultima guerra e
riuscendo con ciò a separare gli Italici stanziati nel settentrione da
quelli del mezzodì della penisola, riducendoli militarmente a due masse
separate l'una dall'altra da ogni immediato contatto.
A ciò miravano
anche le prossime imprese dei Romani con energica conseguenza. E
prima di tutto si colse o si procurò l'occasione per sciogliere la lega
degli Equi e degli Ernici rivaleggianti nella regione Tiberina colla monopotenza romana, e mai pienamente vinte.
Pace col Sannio e guerra cogli EquiNello stesso anno in cui ebbe
la pace col Sannio ( 450 = 304), il console Pubblio Sempronio Sofo portò guerra agli Equi; quaranta paesi si sottomisero m cinquanta
giorni; tutto il territorio, ad eccezione della stretta ed aspra Valle
montana, che oggi ancora porta l' antico nome popolare (Cicolano),
divenne proprietà romana, e qui, sull'orlo settentrionale del lago Fucino, venne fondata l'anno dopo la fortezza di Alba, con una guarnigione di 6000 uomini, che fu quindi l'antemurale contro i nemici e la fortezza dell'Italia media; e due anni più tardi fu fondata
Turano, e più vicina a Roma, Carsioli, ambedue comuni federali secondo il diritto latino.
Il fatto che degli Emici almeno Anagni abbia
preso parte all'ultimo stadio della guerra sannitica, porse il desiderato
pretesto di sciogliere gli antichi patti della lega.
La sorte degli Anagnini fu naturalmente di gran lunga più dura
di quella che, una generazione prima, in pari circostanza era toccata
ai comuni latini.
Essi dovettero non solo accontentarsi della passiva
cittadinanza romana, ma, come i Ceriti, perdettero la propria autonomia; su una parte del loro territorio posto sull'alto Trero (Sacco)
fu inoltre stabilita una nuova tribù cittadina, e contemporaneamente
un'altra sull'Aniene inferiore (455 = 299).
Rincresceva solo che i tre
più ragguardevoli comuni emici dopo Anagni, Aletrio, Verole e Ferentino, non si fossero essi pure staccati, poiché avendo essi cortesemente
declinata l'insinuazione di entrare liberamente nei vincoli della cittadinanza romana e mancando ogni pretesto per costringerveli, si dovette
lasciar loro non solo l'autonomia, ma anche il diritto federativo e
quello di comunanza dei matrimoni e lasciare con ciò ancora un'ombra
dell'antica lega ernica.
Nella parte del paese dei Volsci, posseduta fino allora dai Sanniti,
non si era obbligati a simili riguardi. Quivi Arpino e Frosinone erano
state soggiogate e quest'ultima città ridotta di un terzo del suo contado; inoltre sul Liri superiore presso Fregelle, la città volsca di Sora,
la quale già prima aveva ricevuto presidio romano, fu a questi tempi
mutata in una fortezza latina e quivi venne posta una legione di 4000
uomini.
Così fu pienamente soggiogato l'antico territorio dei Volsci e
si progrediva con rapido passo alla sua romanizzazione. Nel paese che
divide il Sannio dall'Etruria furono costruite due strade militari ed
entrambe assicurate per mezzo di fortezze. La settentrionale, che più
tardi fu la via Flaminia, dominava la linea del Tevere; essa conduceva attraverso Otricoli, alleata di Roma, a Narni, nome con cui i
Romani ribattezzarono l'antica fortezza umbrica di Nequino quando
vi posero una colonia militare (455 = 299).
La meridionale, che fu
più tardi via Valeria, passava lungo il lago Fucino sopra le menzionate
Carsioli e Alba. Le piccole popolazioni sul cui territorio avevano luogo
queste disposizioni, gli Umbri i quali difendevano pertinacemente Nequino, gli Equi che attaccavano ancora una volta Alba, i Marsi che
investivano Carsioli, non potevano arrestare Roma nel suo cammino;
ond'è che quelle due potenti sbarre si avanzavano quasi liberamente
tra il Sannio e l'Etruria.
Fu già accennato alle grandi istituzioni stradali e di fortificazioni
per assicurare lo stabile possesso dell'Apulia, e più di tutti quello della
Campania; per esse il Sannio fu avviluppato dalla rete delle fortezze romane ad una maggior distanza verso oriente e verso occidente. È
notevole che i Romani, per la relativa debolezza dell'Etruria, non stimarono necessario di assicurarsi i passi attraverso la for esta Ciminia
per mezzo di una strada militare e di opportune fortezze.
La fortezza
di confine, Sutri, rimase come in passato il punto estremo della linea
militare romana, e Roma si limitò a far tenere dai comuni limitrofi in
buon stato per uso militare la strada che da quel punto conduceva ad
Arezzo.
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CAVALLI ALATI DI TARQUINIA |
§ - NUOVO SCOPPIO DELLA GUERRA SANNITICA ETRUSCA
La generosa nazione sannitica comprese che la pace conchiusa era
più rovinosa della più rovinosa guerra e, quel che più importa, essa
non tardò ad agire. Nell'Italia superiore i Celti incominciarono appunto ad agitarsi dopo una lunga tregua, oltre a ciò parecchi comuni
etruschi, benchè sparsi ed isolati, erano in armi contro Roma e si
alternavano brevi armistizi con accaniti combattimenti, ma senza successo.
L'Italia centrale era ancora tutta in fermento e in parte in
aperta sollevazione, le fortezze erano ancora in costruzione e la via
fra l'Etruria ed il Sannio non ancora completamente sbarrata. Forse
non era ancora troppo tardi per salvare la libertà, ma non si doveva
indugiare. La difficoltà dell'attacco cresceva, la forza degli assalitori
scemava ad ogni anno della prolungata pace.
Appena da cinque anni
avevano posate le armi ed ancora dovevano sanguinare tutte le ferite
che ventidue anni di guerra avevano cagionato ai contadini del Sannio,
quando nell'anno 456 (= 298) la confederazione sannitica rinnovò la
lotta.
L'ultima guerra era stata decisa principalmente dalla lega della
Lucania con Roma e dalla conseguente inazione di Taranto nell'interesse di Roma; per questo i Sanniti volsero le loro armi prima di
tutto e con tutte le loro forze sopra i Lucani, e portarono al potere
un governo che seguisse la loro parte e conchiusero una lega colla
Lucania.
Naturalmente i Romani dichiararono tosto la guerra, nel
Sannio non s'era aspettato altro. Valga a provare i sentimenti di quel
popolo la dichiarazione fatta dal governo sannitico agli ambasciatori
romani, che esso non sarebbe in grado di garantire la loro inviolabilità, se fossero entrati nel territorio sannitico.
Vittoria romana sui LucaniLa guerra cominciò quindi
nuovamente (456 = 298), e mentre un secondo esercito combatteva
nell'Etruria, il grande esercito romano attraversava il Sannio e costringeva i Lucani a far la pace ed a mandare ostaggi a Roma.
Roma in pericoloL'anno
seguente ambedue i consoli poterono volgere le loro armi contro il
Sannio: Rulliano vinse presso Tiferno; il suo fedele compagno d'armi,
Publio Decio Mure, presso Malevento, e durante cinque mesi i due eserciti romani accamparono nel paese nemico.
Ciò fu possibile perchè
gli Stati etruschi avevano di propria mano intavolato trattative di pace
con Roma. I Sanniti, che dovevano aver visto l'unica possibilità di
vittoria contro Roma nell'unione di tutta l'Italia, fecero ogni sforzo
per istornare la minacciosa pace tra l'Etruria e Roma, e quando finalmente il loro duce Gellio Ignazio offrì agli Etruschi di portar loro
aiuto nel loro proprio, paese, il consiglio federale etrusco assentì a
perseverar e ad invocare ancora una volta la decisione delle armi.
Il Sannio fece i più poderosi sforzi per porre in campo ad un tempo
tre eserciti: l'uno era destinato alla difesa del proprio territorio, il secondo all'entrata nella Campania, il terzo ed il più forte nell'Etruria;
e veramente nell'anno 458 (= 296) quest'ultimo, condotto da Ignazio
stesso, attraversando i territori marso e umbro, i cui abitanti favorivano la lega, arrivò illeso nell'Etruria.
I Romani presero intanto alcune piazze forti nel Sannio e fiaccarono l'influenza del partito sannitico nella Lucania; ma non seppero impedire la marcia dell'esercito
condotto da Ignazio. Quando giunse a Roma la notizia che ai Sanniti
era riuscito di render vani tutti gli immensi sforzi fatti per la separazione degli Italici del settentrione da quelli del mezzodì, che l' arrivo delle schiere sannitiche nell'Etruria era divenuto il segnale di
una quasi generale sollevazione contro Roma, che i comuni etruschi
si affrettavano a render pronti alla guerra le proprie milizie e ad assoldare schiere galliche, allora anche in Roma ogni cuore si scosse.
Si formarono delle coorti di liberti ed ammogliati e da ogni parte si
sentiva che la decisione era imminente. Però l'anno 458 (:= 296)
passò, come pare, in preparativi e marcie; per il seguente 459 (== 295)
i Romani misero i due loro migliori generali, Publio Decio Mure e il
vecchio Quinto Fabio Rulliano alla testa dell'esercito in Etruria, il
quale fu rinforzato da tutte le truppe superflue nella Campania sommanti almeno a 60.000 uomini, per un terzo cittadini romani; oltre a
ciò fu formata una doppia riserva, la prima presso Falerii, la seconda
sotto le mura della capitale.
La piazza d'armi degli Italici era l'Umbria,
dove convergevano le strade dei territori gallico, etrusco e sabellico;
verso l'Umbria diressero anche i consoli, parte sulla sinistra, parte
sulla destra del Tevere le loro maggiori forze, mentre nel tempo
stesso la prima riserva moveva contro l'Etruria per far richiamare
possibilmente le truppe etrusche dal luogo ove dovevano decidersi le
sorti della guerra, alla difesa della patria.
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SFINGE ETRUSCA |
Sconfitta romana a Chiusi
Il primo scontro non fu
fortunato pei Romani, la loro avanguardia fu battuta nel territorio di
Chiusi dalle forze congiunte dei Galli e dei Sanniti. Ma la diversione
a danno dell'Etruria raggiunse il suo scopo; meno generosi dei Sanniti che avevano attraversato le ruine delle loro città, per non mancare alla battaglia, una gran parte delle milizie etrusche abbandonò
l'esercito federale alla notizia dell'invasione della riserva dei Romani
nell'Etruria; e le fila degli alleati erano assai diradate, quando si venne
alla battaglia decisiva presso Sentino sul pendìo orientale dell' Appennino.
Pure la lotta fu ardente. Sull'ala destra dei Romani, dove Rulliano
combatteva con le sue due legioni contro l'esercito sannitico, la battaglia
rimase a lungo indecisa. Sulla sinistra, comandata da Publio Decio,
la cavalleria romana fu messa in confusione dai carri di guerra dei
Galli e già anche le legioni cominciavano a piegare.
Sacrificio di Decio MureAllora il console
chiamò il sacerdote Marco Livio e gli impose di votare agli Dei infernali la testa del duce romano e l'esercito nemico, e precipitandosi nel folto delle schiere galliche cercò e trovò la morte (devotio).
Questa eroica
disperazione del grand'uomo, dell'amato duce, non fu inutile. I soldati
fuggenti si fermarono i più valorosi si precipitarono sulle orme del
generale nelle file nemiche per vendicarlo o per morire con lui, ed
appunto nel giusto momento giunse sulla pericolante ala sinistra,
inviato da Rulliano, il consolare Lucio Scipione con la riserva romana.
L'eccellente cavalleria campana, che colpì i Galli ai fianchi ed alle
spalle, diede qui il tracollo; i Galli fuggirono e finalmente piegarono
anche i Sanniti il cui duce Ignazio cadde sull'ingresso del campo.
Novemila romani coprivano il campo di battaglia, ma la vittoria, riportata a sì caro prezzo, valeva tale sacrifizio.
L'Umbria è conquistata dai RomaniL'esercito della coalizione
si sciolse e con esso la coalizione stessa; l'Umbria rimase in potere
dei Romani, i Galli si dispersero, le reliquie dei Sanniti si ritirarono
ancora in buon ordine nel loro paese attraversando gli Abruzzi. La
Campania, che i Sanniti avevano inondata durante la guerra etrusca,
fu, dopo questa conclusione, occupata dai Romani con poca fatica.
Nel seguente anno ( 460 = 294) l''Etruria chiese la pace; Volsinii,
Perugia, Arezzo e in generale tutte le città unite nella lega contro
Roma, promisero un armistizio di quattrocento mesi.
264 a.c. Sconfitta romana a Luceri ad opera sannita
Ma i Sanniti pensavano diversamente. Essi si preparavano ad una disperata difesa con quel coraggio di uomini liberi che non può costringere la fortuna, ma però svergognarla. Quando nell'anno 460 = 264 i due eserciti consolari irruppero nel Sannio, essi trovarono dappertutto la massima resistenza, anzi Marco Atilio subì una sconfitta presso Luceria ed i Sanniti poterono penetrare nella Campania e devastare il territorio della colonia romana Interamna posta sul Liri.
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SANNITI |
263 a.c. Vittoria romana sui SannitiNell'anno seguente Lucio Papirio Cursore, il figlio dell'eroe della prima guerra sannitica, e Spurio Carvilio diedero presso Aquilonia una grande battaglia campale all'esercito sannitico, il nocciolo del quale, i 16.000 dalle sopravesti bianche, avevano giurato con sacro giuramento di preferire la morte alla fuga. Ma l'inesorabile destino non bada nè a giuramenti, nè a disperate preghiere; i Romani vinsero ed assaltarono le fortezze nelle quali i Sanniti si erano rifugiati colle loro ricchezze.
Ma perfino dopo questa grave sconfitta si difese la lega sannitica contro i sempre più potenti nemici per lunghi anni ancora, con una perseveranza senza esempio, nelle sue fortezze e nelle sue montagne, e riportò ancora qua e là parecchi vantaggi. Si ricorse ancora una volta ( 462 = 292) all'esperto braccio del vecchio Rulliano contro di essi, e Gavio Ponzio, forse il figlio del vincitore di Caudio, riportò pel suo popolo persino un'ultima vittoria, che i Romani abbastanza vili vendicarono sopra di lui facendolo morire in carcere, quando poco dopo cadde prigione (463 = 291).
Allora più nulla si mosse in Italia, poichè la guerra cominciata da Fa1erii nel 461 (= 293) non merita nemmeno questo nome. Si saranno bensì nel Sannio rivolti bramosi sguardi su Taranto, la sola che fosse ancora in grado di prestare aiuto, ma fu speranza vana. Furono le stesse cause di prima che imposero a Taranto l'inazione, il malgoverno interno ed il nuovo passaggio dei Lucani alla parte romana nell'anno 456 (= 298); a questo si aggiunge ancora il non infondato timore di Agatocle da Siracusa, il quale allora appunto si trovava all'apogeo della sua potenza e incominciava a volgersi verso l'Italia.
Verso l'anno 455 (= 299) egli prese stanza a Corcira, di dove Cleonimo era stato cacciato da Demetrio l'Assediatore, ed ora minacciava i Tarantini tanto dal mare Adriatico quanto dall'Jonio. La cessione dell'isola a Pirro re d'Epiro, avvenuta nell'anno 459 (= 295), rimosse nella massima parte quelle inquietudini; ma gli affari di Corcira continuarono ad occupare i Tarantini, come essi aiutarono l'anno 464 (= 290) a difendere re Pirro nel possesso dell'isola contro Demetrio, e così Agatocle non cessò d'inquietare con la sua politica italica i Tarantini.
Morto Agatocle (465 = 289) e tramontata con lui la potenza dei Siracusani in Italia, era già troppo tardi perchè Taranto potesse opporsi ai Romani. Il Sannio, stanco della lotta che durava da trentasette anni, aveva l'anno prima, 464 (= 290), conchiusa la pace col console romano Manio Curio Dentato e rinnovata per forma la lega con Roma. Anche questa volta, come nella pace del 450 (= 304), fu dai Romani imposta a quel valoroso popolo nessuna condizione ingiuriosa e umiliante, e pare che neanche questa volta abbiano avuto luogo cessioni di territorio.
La ragion di stato dei Romani preferiva di seguire la via fin qui tenuta e di stringere sempre più fortemente a Roma il litorale campano e adriatico, prima di andare alla conquista immediata del paese interno. La Campania era, a dir vero, assoggettata già da lungo tempo, ma 1a perspicace politica romana trovò necessario alla sicurezza delle spiagge campane di costruire due nuove fortezze litoranee, Minturno e Sinuessa (459 = 295), le cui nuove cittadinanze, secondo l'esistente principio per le colonie litorali, entrarono nel pieno diritto di cittadini romani.
Roma sottomette Equi ed Ernici |
GUERRIERO ERNICO |
Ancora più energicamente procedeva lo
sviluppo della signoria romana nell'Italia centrale. Come la sottomissione degli Equi e degli Ernici fu l'immediata conseguenza della
I guerra sannitica, così alla fine della II si aggiunse quella
dei Sabini. Lo stesso capitano che infine soggiogò i Sanniti, Manio
Curio, ruppe nello stesso anno (464 = 290) la loro breve e impotente
resistenza, e costrinse i Sabini ad una sottomissione incondizionata.
Una gran parte del territorio sottomesso fu subito occupato dai vincitori e distribuito fra i cittadini romani; e agli altri comuni di Cure,
Reate, Amiterno, Nursia fu imposto il diritto di sudditanza romana
(civitas sine suffragio). Città federali con gli stessi diritti non vennero
qui fondate; piuttosto il territorio venne sotto l'immediata sovranità
di Roma, la quale così si estendeva fino all'Appennino e ai monti
Umbri. Ma già non si limitavano più al territorio di qua dei monti;
l'ultima guerra aveva troppo chiaramente dimostrato che la signoria
romana sull'Italia centrale era assicurata solo se andava da mare a
mare.
Lo stabilirsi dei Romani al di là dell'Appennino incominciò con
la fondazione della possente fortezza di Hatria (Atri) nell'anno 465
(= 289), sul declivio settentrionale degli Abruzzi, verso la pianura picena, il ragguardevole numero di 20.000 coloni; questa città, posta sui limiti tra il Sannio, l'Apulia e la Lucania, in una fortissima posizione
sulla grande strada tra Taranto ed il Sannio, era destinata ad essere
la bastiglia delle popolazioni stanziate in quelle regioni, e prima di
tutto ad interrompere le relazioni fra i due più potenti nemici di Roma
nell'Italia meridionale.
Senza dubbio nello stesso tempo anche la strada
meridionale, che Appio Claudio aveva condotta fino a Capua, fu di là
prolungata fino a Venusia. Così si estese il territorio romano, chiuso
e composto cioè esclusivamente di comuni di diritto romano o latino,
alla fine delle guerre sannitiche: verso settentrione sino alla selva Ciminia, verso oriente sino agli Abruzzi, verso sud fino a Capua, mentre
i due posti avanzati di Luceria e di Venusia, sorgenti verso oriente e
verso mezzodì sulle linee di contatto degli avversari, li isolavano in
ogni direzione.
Roma non era più soltanto la prima, ma già la potenza dominante sulla penisola, quando alla fine del quinto secolo le
città di quelle nazioni, che il favore degli Dei ed il proprio valore
avevano chiamato ciascuna a capo del proprio paese, cominciarono ad
avvicinarsi le une e le altre nel consiglio e sul campo di battaglia, e
come in Olimpia i precedenti vincitori si preparavano ad una seconda
e più seria battaglia, così ora si preparavano all'ultima e decisiva non immediata sulla costa e quindi di diritto latino, ma prossima al mare e pietra di confine del possente cuneo che separa l'Italia
settentrionale dalla meridionale.
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VENUSIA |
Venusia (Venosa)
In egual modo e di ancora più grande
importanza fu la fondazione di Venusia (463 = 291 ), dove fu accolto il ragguardevole numero di 20.000 coloni; questa città, posta sui limiti tra il Sannio, l'Apulia e la Lucania, in una fortissima posizione
sulla grande strada tra Taranto ed il Sannio, era destinata ad essere
la bastiglia delle popolazioni stanziate in quelle regioni, e prima di
tutto ad interrompere le relazioni fra i due più potenti nemici di Roma
nell'Italia meridionale. Senza dubbio nello stesso tempo anche la strada
meridionale, che Appio Claudio aveva condotta fino a Capua, fu di là
prolungata fino a Venusia.
Così si estese il territorio romano, chiuso
e composto cioè esclusivamente di comuni di diritto romano o latino, alla fine delle guerre sannitiche: verso settentrione sino alla selva Ciminia, verso oriente sino agli Abruzzi, verso sud fino a Capua, mentre
i due posti avanzati di Luceria e di Venusia, sorgenti verso oriente e
verso mezzodì sulle linee di contatto degli avversari, li isolavano in
ogni direzione.
Roma non era più soltanto la prima, ma già la potenza dominante sulla penisola, quando alla fine del quinto secolo le
città di quelle nazioni, che il favore degli Dei ed il proprio valore
avevano chiamato ciascuna a capo del proprio paese, cominciarono ad
avvicinarsi le une e le altre nel consiglio e sul campo di battaglia, e
come in Olimpia i precedenti vincitori si preparavano ad una seconda
e più seria battaglia, così ora si preparavano all'ultima e decisiva prova
in una più grande arena, Cartagine, la Macedonia e Roma.
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LUCANI |
§ - RELAZIONI DELL' ORIENTE COLL'OCCIDENTE
Ai tempi dell'incontrastata signoria mondiale di Roma i Greci, per
indispettire i loro romani padroni, solevano qualificare come cagione
della grandezza romana la febbre di cui morì in Babilonia Alessandro
il Macedone 1'11 giugno 431 (=323). Non essendo loro troppo consolante il ripensare all'accaduto, essi indugiavano volentieri nel pensiero di ciò che sarebbe potuto avvenire se il gran re, come doveva
essere stata sua intenzione poco prima di morire, si fosse volto contro
l'occidente ed avesse disputato colle sue flotte il mare ai Cartaginesi
e coi suoi eserciti la terra ai Romani.
Non è impossibile che Alessandro
maturasse tale pensiero, e non occorre per chiarircelo ricordare che
un autocrate, il quale è bramoso di guerra e munito di soldati e di
navi, trova solo difficilmente il confine alla propria potenza militare.
Era veramente un compito degno di un gran re greco quello di proteggere gli Elleni della Sicilia contro Cartagine, i Tarantini contro
Roma e di por fine alla pirateria sui due mari.
Le ambasciate italiche
come quelle dei Bruzii, dei Lucani, degli Etruschi, le quali con
numerose altre apparvero in Babilonia, offrono abbastanza occasione
a far conoscere le relazioni della penisola. Cartagine intimamente legata
coll'Oriente doveva necessariamente attrarre lo sguardo del grand'uomo,
ed è verosimile che egli avesse intenzione di convertire in vera la
supremazia nominale del re dei Persi sopra la colonia di Tiro; di
questo dovevano aver avuto sospetto i Cartaginesi, come ce lo prova
la spia fenicia da essi mandata alla corte di Alessandro.
Tuttavia,
fossero questi o sogni o piani, il re morì senza essersi occupato degli
affari d'occidente e ogni pensiero discese con lui nella tomba. Il solo
Alessandro, e per pochi brevi anni, tenne raccolta nelle sue mani tutta
la forza intellettuale dell'Ellade, tutta la forza materiale. dell'Oriente;
colla sua morte però non andò in alcun modo perduta l'opera della
sua vita, il fondamento dell'ellenismo in Oriente, ma l'impero appena
unito si divise ben tosto, e tra le continue contese dei diversi Stati,
che si formavano da queste rovine, la propaganda della coltura greca
in oriente non fu abbandonata, ma indebolita e rallentata.
Con tali
relazioni non potevano nè gli Stati greci, nè gli asiatico-egizi provarsi
a fermare il piede in occidente e volgersi contro i Romani o contro
i Cartaginesi. Per sistema gli Stati orientali ed occidentali si reggevano l'uno accanto all'altro senza che politicamente venissero neppur
quasi a toccarsi, e Roma specialmente rimase essenzialmente straniera
alle complicazioni dell'età dei Diadochi.
Solo si stabilirono relazioni
economiche; così, ad esempio, la repubblica di Rodi, che teneva il
primo posto tra gli Stati marittimi della Grecia, e che in quel tempo
di continue guerre era come la mediatrice universale del commercio,
concluse l'anno 448 (=306) un trattato con Roma, naturalmente un
trattato commerciale, quale poteva essere tra un popolo di mercanti
e i padroni delle marine di Cere e della Campania.
Anche nell'arruolamento dei mercenarii, i quali dall'Ellade, che era
allora mercato generale d'ingaggio, andavano verso l'Italia e specialmente verso Taranto, influivano le relazioni politiche, quelle per esempio
che sussistevano fra Taranto e la città madre Sparta, solo in modo
molto subordinato; in complesso questi arruolamenti non erano che
affari commerciali, e Sparta d'ordinario, sebbene somministrasse ai
Tarantini i capitani per le guerre d'Italia, non trascorse perciò a nessuna ostilità contro gli Italici, come nella guerra dell'indipendenza
americana gli Stati della Germania non entrarono in alcuna lotta con
gli Stati dell'Unione, benchè vendessero i propri sudditi ai loro avversari.
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PIRRO |
§ - POSIZIONE STORICA DI PIRRO
Pirro, re d'Epiro, non era che un avventuroso condottiero. Benchè
egli facesse risalire la sua genealogia fino ad Eaco e ad Achille, e non
gli mancasse la possibilità, se fosse stato d'indole più riposata, di vivere
e morire come " re " d'un piccolo popolo di montanari, sotto l'alto
dominio dei Macedoni, o anche, forse, in isolata libertà, Pirro tuttavia
non fu che un cavaliere di ventura.
Vi fu anche chi lo volle paragonare ad Alessandro di Macedonia, e veramente non si può negare
che formasse il concetto della fondazione d'un regno ellenico d'occidente,
di cui l'Epiro, la Magna Grecia e la Sicilia avrebbero formato il nerbo, e
che avrebbe avuto la signoria sui due mari italici, e retrospinto Roma
e Cartagine a confondersi col mondo barbaro, che cingeva come un
nebbioso orizzonte la sfera degli Stati ellenici ; un tale concetto era grande e audace non meno di quello che condusse il re di Macedonia
al di là dell'Ellesponto. Ma non è solo il diverso esito che distingue
la spedizione orientale dalla spedizione occidentale.
Alessandro col
suo esercito macedone, dove sotto di lui serviva buon numero di
ufficiali superiori, poteva venire benissimo a paragone col gran re;
ma il re dell'Epiro, che, a ragion di forze, stava alla Macedonia forse
come starebbe ora l'Assi alla Prussia, non riuscì a riunire intorno
a sé un esercito che potesse esser degno di questo nome, se non reclutando mercenari e questuando alleanze che si fondavano su effimere
combinazioni politiche.
Alessandro invase la Persia da conquistatore, Pirro venne in Italia come capitano al soldo d'una federazione di
Stati di secondo ordine; Alessandro lasciò il suo paese ereditario
sicuro da ogni attacco, per la compiuta sottomissione ella Grecia e e il numeroso esercito rimastovi sotto gli ordini di Antipatro; Pirro
non aveva altra sicurtà per l'integrità del proprio territorio, che la
parola d'un vicino sospetto.
Per ambedue i conquistatori, se la loro
impresa riusciva, era necessario abbandonare la patria, la quale non
poteva essere il centro del nuovo Stato; ma sarebbe riuscito assai
meno difficile trapiantare la sede della monarchia macedone in Babilonia, che fondare una dinastia militare in Taranto o in Siracusa.
Perchè era affatto impossibile di ridurre la democrazia delle repubbliche greche, da molti anni in eterna agonia, alle forme strette d'uno
stato militare; Filippo sapeva bene perchè non volle incorporare le
repubbliche greche nel suo regno.
In oriente invece non si doveva
temere alcuna opposizione nazionale; in quelle vaste regioni vivevano
da lungo tempo schiatte dominanti e schiatte serve, le une presso alle
altre, e il mutar signore riusciva alle varie moltitudini indifferente e
talora desiderato. In occidente era ben possibile vincere i Romani, i
Sanniti e i Cartaginesi, ma nessun conquistatore avrebbe potuto mutar e
gli Italici in altrettanti Fellah egiziani, o ridurre i contadini romani
a livellarii d'una baronia ellenica.
Tutto ben considerato, la propria
potenza, gli alleati, le forze degli avversari, il concetto del Macedone,
guardato sotto ogni aspetto, ci si presenta come un'impresa eseguibile,
quello dell'Epirota come un'impresa impossibile; l'uno ci appare come
il compimento d'una grande missione storica, l'altro come un memorabile errore; l'uno come la pietra fondamentale d'un nuovo sistema
di Stati e di una nuova fase di civiltà, l'altro come un puro episodio
storico.
L'opera d'Alessandro sopravvisse tuttochè il suo creatore ne
fosse morto prematuramente; Pirro, prima di morire, vide cogli occhi
propri crollare tutto il suo edifizio. Furono due audaci e due grandi
nature d'uomini; ma Pirro non era che il primo capitano del suo tempo, Alessandro era innanzi tutto, e principalmente, il più gran genio politico
dell'epoca; e se la perspicacia di distinguere il possibile dall'impossibile è quella che differenzia gli eroi dagli avventurieri, bisogna annoverare Pirro tra questi ultimi, e non si può metterlo a paragone
d'Alessandro, suo parente e maggiore, come non si saprebbe paragonare
il Connestabile di Borbone a Luigi XI.
E pure il nome dell'Epirote risveglia in noi un certo senso di meraviglia, e quasi esercita sulle
menti un fascino, che ben si spiega, e per la cavalleresca e seducente
sua personalità, e perchè egli fu il primo greco che si misurasse coi
Romani sui campi di battaglia. Da Pirro cominciano quelle relazioni
tra Roma e l'Ellade, a cui è dovuto tutto l'indirizzo successivo dell'antica civiltà, e che perciò sono anche uno dei principali fattori della
civiltà moderna.
La lotta tra falangi e coorti, tra eserciti mercenari e
milizie nazionali, tra monarchia militare e governo senatorio, tra il
genio personale e la forza nazionale, questa lotta tra Roma e l'ellenismo fu prima combattuta nelle battaglie tra Pirro e i duci romani;
e sebbene la parte soccombente abbia più volte rinnovato l'appello
alla decisione delle armi, ogni nuova prova non fece altro che confermare il già pronunziato giudizio.
Ma se i Greci rimasero soccombenti nel campo e nella curia, fuori della politica venne loro assicurata una incontrastabile superiorità, il che già faceva presentire che la vittoria riportata da Roma sugli Elleni sarebbe stata diversa da
quella da essa riportata sui Galli e sui Fenici, ma che ad ogni modo
la magia d'Afrodite non comincia ad operare, se non quando la lancia
è spezzata e l'elmo e lo scudo sono messi in disparte.
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MOSAICO DI TARANTO |
§ - CARATTERE E STORIA ANTECEDENTE DI PIRRO
Re Pirro era figlio di Eacide, signore dei Molossi (intorno a Lanina),
il quale, risparmiato da Alessandro come suo parente e suo fedele, fu,
dopo la morte di lui,
trabalzato nel vortice Roma (Museo Capitolino)
della guerra per la
successione della Macedonia, onde prima
ne perdette il regno,
poi la vita (441 ==
313).
Suo figlio, che
aveva allora sei anni,
fu salvato da Glaucia, signore dei Taulanti illirici, e ancora
adolescente, combattendosi la guerra pel
possesso della Macedonia, fu da Demetrio
l' Assediatore riposto
nel suo principato
(447 = 307), che di
nuovo perdette pochi
anni dopo pel soprammontar e della fazione
a lui contraria (verso
l'anno 452 = 302);
onde egli, come principe fuoruscito, cominciò, al seguito
dei capitani macedoni, la sua carriera
militare. Presto egli
si fece notar e per le
sue qualità personali.
Egli combattè le ultime campagne di Antigono, sotto la scuola di questo antico generale
di Alessandro, che tutto si compiaceva scoprendo nel giovinetto il guerriero nato, a cui, secondo quello che pronosticava il vecchio condottiero, non mancava che l'età per essere fino d'allora il primo soldato
del suo tempo.
L'infelice battaglia presso Isso lo condusse ostaggio in
Alessandria, alla corte del fondatore della dinastia dei Lagidi, dove,
con le ardite e risolute sue maniere, con la sua indole soldatesca, sprezzatrice di tutto quello che non s'attenesse al mestiere delle armi,
seppe attirare non solo l'attenzione di re Tolomeo, sagace estimatore
degli uomini, ma per la maschia sua bellezza, che non era scemata
dal selvaggio aspetto e dal possente passo, anche la simpatia delle
dame reali.
Il temerario Demetrio stava appunto allora ritentando
di farsi un nuovo regno, e naturalmente in Macedonia, nell'intento di
rinnovare colà la monarchia di Alessandro. Bisognava impedire quei
vasti disegni e tener occupato Demetrio nei propri paesi. Il Lagide,
che sapeva da fino politico trar partito dai caratteri ardenti, come era
quello del giovane Epirota, non solo fece cosa ben accetta alla regina
Berenice sua moglie, ma provvide anche ai casi suoi sposando al giovane principe la principessa Antigone, sua figliastra, e proteggendo
colla sua possente influenza l'amato " figlio "' perchè potesse ritornare in patria e nello Stato ( 458 = 296).
Così rimesso nel retaggio paterno, tutti si strinsero intorno a lui. I
valorosi Epiroti, gli Albanesi dell'antichità, rinfocolando la tradizionale
fedeltà con nuovo .entusiasmo, pendevano dai cenni dell'animoso giovane, cui diedero il soprannome di " Aquila ". Durante i tumulti e le
guerre che in Macedonia (457 = 297) tennero dietro alla morte di Cassandro, l'Epirota allargò il suo territorio; a poco a poco acquistò i
territori sul golfo anibracico, l'isola Corcira e anche una parte del
territorio macedone, e, con non piccola meraviglia degli stessi Macedoni,
tenne testa a re Demetrio, con forze molto inferiori alle sue.
E quando
Demetrio, per la sua stoltezza, precipitò dal trono macedone, la dignità
reale fu spontaneamente offerta al cavalleresco suo rivale e congiunto,
che infine era degli Alessandridi (467 = 287).
Infatti nessuno era più degno di Pirro di portare il diadema reale
di Filippo e di Alessandro. In un'epoca profondamente depravata,
nella quale la sovranità e la bassezza incominciavano a diventar sinonimi, il carattere di Pirro, personalmente immacolato e puro, luceva
chiaramente.
Per i liberi contadini del paese macedonico, i quali, benché
diminuiti e impoveriti, pur si tenevano lontani dal decadimento dei
costumi e del valore che il governo dei Diadochi aveva introdotto in
Grecia ed in Asia, Pirro pareva proprio un re specialmente creato;
egli, che, pari ad Alessandro, nella sua casa, nella cerchia degli amici,
conservava il suo cuore aperto a tutte le relazioni umane, e che aveva
sempre tenuto lontano da sé il fare di sultano orientale, così odioso
in Macedonia; egli che, pari ad Alessandro, er a riconosciuto come il
primo tattico del suo tempo.
Ma il sentimento nazionale, straordinariamente esagerato tra i Macedoni, per cui il più meschino signore macedone era preferito al più valente straniero, e l'irragionevole avversione delle truppe macedoni contro ogni condottiero non macedone,
avversione che già aveva perduto il più grande capitano della scuola
di Alessandria, Eumene Cardiano, preparava una rapida fine anche
alla signoria del principe Epirota.
Pirro, che non poteva tenere con
la volontà dei Macedoni la signoria della Macedonia e che era troppo
debole, e forse anche troppo generoso, per imporsi contro la volontà
del popolo, abbandonò dopo sette mesi il paese al suo mal governo
nazionale e tornò ai suoi fedeli Epiroti (467 = 287).
Ma l'uomo, che aveva portato la corona di Alessandro, il cognato di Demetrio, il genero del Lagide e di Agatocle di Siracusa, il coltissimo stratega, che
scrisse memorie e trattati scientifici sull'arte della guerra, non poteva
certamente finir la sua vita, rivedendo in un tempo stabilito nell'anno
i conti del reale amministrator e del bestiame e accettando dai suoi
bravi Epiroti gli usati doni di buoi e di pecore, per poi far da loro
rinnovare all'altare di Giove il giuramento di fedeltà e ripetere esso
il giuramento di mantener le leggi, passando poi con loro la notte
banchettando per meglio confermare questi patti.
Se per lui non v'era
posto sul trono macedone, nemmeno poteva egli rimanere nella patria;
egli poteva esser e il primo e dunque non il secondo. Così i suoi
sguardi si volsero più lontano. I re che si disputavano il possesso della
Macedonia, benché non fossero mai d'accordo, pure erano pronti ad
agevolare insieme la partenza volontaria di un così pericoloso competitore; ed egli era pur certo che i suoi fedeli compagni di guerra
l'avrebbero seguito dovunque egli andasse.
Appunto allora le condizioni italiche erano tali da far credere possibile l'impresa che quarant'anni prima aveva avuto in mente Alessandro d'Epiro, parente di
Pirro e cugino di suo padre, e proprio in quel momento suo suocero
Agatocle; e così Pirro decise di rinunciare ai suoi disegni macedonici,
e di fondare in occidente una nuova signoria per sé e per la nazione
ellenica.
§ - SOLLEVAZIONE DEGLI ITALICI CONTRO ROMA: LUCANI, ETRUSCHI, CELTI E SANNITI -
L'armistizio che la pace col Sannio aveva prodotto in Italia nell'anno 464=290, fu di breve durata; l'incitamento alla formazione
d'una nuova lega contro la prepotenza romana venne questa volta
dai Lucani. A questa popolazione che, col suo parteggiare per Roma,
aveva paralizzato i Tarantini durante la guerra sannitica, cooperando
così alla decisione di questa, erano dai Romani state abbandonate tutte
le città greche che si trovavano nel suo territorio; e in conseguenza
di ciò dopo conchlusa la pace, i Lucani si erano alleati coi Bruzzii
per ridurre ad obbedienza ad una ad una le dette città.
I Turini,
ripetutamente assaliti dal generale dei Lucani Stenia Statilio e spinti
all'estremo, si rivolsero al senato romano, chiedendo aiuto contro i
Lucani, proprio come già i Campani avevano chiesto l'aiuto di Roma
contro i Sanniti, e senza dubbio anch'essi a prezzo della libertà e dell'indipendenza. Poichè l'alleanza coi Turini era divenuta indispensabile
per Roma dopo la fondazione della fortezza di Venusia, i Romani concessero ciò che essi chiedevano, e comandarono ai loro amici ed alleati
di non molestare la città che si era arresa ai Romani.
I Lucani ed i
Bruzzii, ingannati così dai loro possenti alleati circa la partecipazione
al bottino comune, incominciarono a trattare col partito d'opposizione
sannita-tarantina, per formare una nuova coalizione degli Italici; e
quando i Romani mandarono loro un'ambasciata per ammonirli, essi
fecero prigionieri gli ambasciatori e incominciarono la guerra contro
Roma. con un nuovo attacco verso Turii ( 469 = 285), invitando nello stesso tempo non solo i Sanniti e i Tarantini, ma anche i norditalici,
gli Etruschi, gli Umbri, i Galli, a riunirsi con loro nella guerra per
la libertà.
Infatti la lega etrusca si levò e assoldò numerose schiere galliche;
l'esercito romano, che il pretore Lucio Cecilio guidava in aiuto agli
Aretini, rimasti fedeli, fu distrutto sotto le mura di Arezzo dai mercenari senoni degli Etruschi; lo stesso capitano cadde con 13.000 dei
suoi soldati (470=284).
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GALLI SENONI |
Galli Senoni
I Senoni erano tra gli alleati di Roma; quindi i Romani mandarono loro degli ambasciatori a lamentarsi perchè impiegavano disertori
contro Roma, ed esigevano la gratuita restituzione dei prigionieri. Ma
per comando del capo dei Senoni Britomari, che aveva da vendicare
la morte di suo padre contro i Romani, i Senoni uccisero i messi
romani, e si dichiararono apertamente per gli Etruschi.
Tutta l'Italia
settentrionale, gli Etruschi, gli Umbri, i Galli, furono quindi in anni
contro Roma; grandi avrebbero potuto essere i successi, se i paesi
meridionali avessero approfittato di questo momento e se quelli che
non lo avevano ancor fatto, si fossero dichiarati contro Roma. Infatti
i Sanniti, sempre pronti a combattere per la libertà, pare abbiano dichiarato la guerra ai Romani, ma, indeboliti e chiusi come erano da
ogni lato, poco profitto poterono dare alla lega, e Taranto esitava come
al solito.
Mentre fra i nemici si trattavano alleanze, si stabilivano
trattati di sussidio, si adunavano mercenari, i Romani agivano.
Prima di tutti toccò ai Senoni di provare come era difficile di vincere i Romani. Il console Pubblio Cornelio Dolabella penetrò con un
forte esercito nel loro territorio; gli abitanti che non furono passati
a fil di spada, furon cacciati dal paese, e questa tribù fu cancellata
dalla lista delle nazioni italiche ( 4 71 = 283).
Una tale cacciata in massa è abbastanza verosimile per un popolo
vivente specialmente delle proprie greggi; probabilmente questi Senoni,
cacciati dall'Italia, aiutarono a formarsi quelle torme galliche che poco
dopo invasero l'estuario del Danubio, la Macedonia, la Grecia e l'Asia
Minore.
I più prossimi vicini ed affini di razza dei Senoni, i Boi, spaventati ed irritati da questa improvvisa catastrofe, si unirono immediatamente con gli Etruschi, i quali continuarono ancora la guerra,
ed i cui mercenari Senoni non combattevano più contro i Romani
come gente assoldata, ma come disperati vendicatori della patria; un
possente esercito etrusco-gallo trasse verso Roma per far vendetta della
distruzione della tribù dei Senoni sulla capitale dei nemici, e per radere al suolo Roma, assai più compiutamente di ciò che aveva fatto
un giorno il re condottiero degli stessi Senoni.
Però al passaggio sul
Tevere, in vicinanza del lago Vadimone, l'esercito alleato fu interamente battuto dai Romani (471=283). Dopochè essi l'anno appresso
ebbero tentato ancora una volta a Populonia con non migliore successo la sorte delle armi, i Boi abbandonarono i loro alleati e conchiusero coi Romani la pace ( 472 = 282).
Così il più pericoloso membro della lega, il popolo dei Galli, fu
singolarmente sopraffatto, prima ancora che la lega si riunisse pienamente, e così fu dato a Roma man libera sull'Italia meridionale, dove,
negli anni 469-471 (= 285-283) non era stata seriamente condotta la
lotta.
Mentre fino allora il debole esercito romano aveva durato fatica a
sostenersi in Turii contro i Lucani ed i Brezzii, apparve ora (472= 282)
il console Gaio Fabricio Luscino davanti alla città con un forte esercito,
la liberò, battè i Lucani in una grande battaglia, e fece prigioniero
il loro capitano Statilio. Le minori città greche non doriche, che riconoscevano nei Romani i loro liberatori, si diedero a questi spontaneamente; presidii romani rimasero nei posti più importanti, in Locri,
Crotone, Turii e specialmente in Reggio, alla quale ultima città: pareva
avessero la mira anche i Cartaginesi.
Dappertutto Roma era in vantaggio. La distruzione dei Senoni aveva
dato nelle mani dei Romani un tratto importante del litorale dell' Adriatico; certo per riguardo all'ostilità con Taranto, che senza dubbio
già covava sotto la cenere, e alla già minacciante invasione degli Epiroti,
si affrettarono i Romani a rendersi sicuri di questa costa e del mare
Adriatico.
Intorno al 4 71 (= 283) fu guidata una colonia cittadina verso
il porto di Sena (Sinigallia), già capitale del distretto senonico, e nello
stesso tempo una flotta romana veleggiava dal mare Tirreno verso le
acque orientali, certamente per stazionare nell'Adriatico e coprirvi le
esistenti colonie romane.
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NAVI DA GUERRA ROMANE - POMPEI |
§ - ROTTURA TRA ROMA E TARANTO
I Tarantini avevano vissuto in pace con Roma fin dal trattato del
450 (= 304) conchiuso con Roma. Essi avevano assistito alla lunga agonia
dei Sanniti, alla rapida distruzione dei Senoni ed avevano sopportato
senza far opposizione la fondazione di Venusia, Atria, Sena e i presidii di Turii e Reggio; ma quand'ora la flotta romana giunse nel suo
viaggio dal Tirreno all'Adriatico nelle acque di Taranto e gettò l'ancora nel porto della città amica, l'irritazione, da lungo tempo contenuta, traboccò; gli antichi trattati, che proibivano ai vascelli romani
da guerra di spingersi ad oriente del promontorio Lacinio, furono richiamati alla memoria dai demagoghi nelle assemblee cittadine; furibonda la moltitudine si precipitò sulle navi da guerra romane, le quali,
attaccate all'improvviso, secondo il costume dei pirati, soggiacquero
alla lotta violenta; cinque navi furono prese, e il loro equipaggio fu
giustiziato o venduto in schiavitù, lo stesso ammiraglio romano cadde
nella zuffa.
Solo la somma follia e la somma incoscienza del dominio
della plebe spiega questi vergognosi fatti. Quei trattati appartenevano ad un'epoca che da molto tempo era
trascorsa e dimenticata; è evidente che essi non avevano più alcun
significato, almeno alla fondazione di Atria e di Sena e che i Romani entrarono nel golfo in buona fede sull'esistente alleanza coi Tarantini; anzi era nel loro interesse, come lo dimostra il successivo
svolgersi dei fatti, di non dare ai Tarantini alcun pretesto ad una
dichiarazione di guerra.
Se gli uomini politici di Taranto volevano
dichiarar guerra a Roma, essi non facevano altro se non quello che
avrebbe già dovuto accadere da molto tempo, e se preferivano di fondare la dichiarazione di guerra sopra una formale rottura dei trattati,
invece che sul vero motivo, nulla si può a ciò contrapporre, poichè
la diplomazia di tutti i tempi ha creduto esser cosa inferiore alla sua
dignità il dire semplicemente le semplici cose.
Però che invece di intimare all'ammiraglio il ritorno, si sia assalita la flotta a mano armata
e per sorpresa, fu non meno una pazzia che una barbarie, una di
quelle orribili barbarie della civiltà, nelle quali la moralità perde
improvvisamente il timone e ci si rivela nuda la volgarità, quasi per
ammonirci contro la credenza puerile che la civiltà valga a sradicare
dalla natura umana la bestialità.
E come se con ciò non si fosse fatto
abbastanza, dopo questa eroica azione, i Tarantini assalirono Turii,
la cui guarnigione romana capitolò, perchè presa alla sprovveduta
(nell'inverno 472 473=282-281), e punirono duramente i Turini per
aver disertato il partito ellenico in pro dei barbari, quegli stessi che
la politica tarantina aveva abbandonato ai Lucani e costretto violentemente alla sottomissione verso Roma.
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MOSAICO TARANTINO |
§ - TENTATIVI DI PACE
Quelli che i Greci chiamavano barbari usarono però tanta moderazione che, pensando alle loro forze e alle ingiurie patite, non si può
fare a meno di ammirare. Era nell'interesse di Roma di aver quanto
più a lungo fosse possibile la neutralità di Taranto, e gli uomini che
in senato maneggiavano la politica, non assentirono perciò alle proposizioni fatte da alcuni senatori, nel primo e naturale impeto di sdegno,
di dichiarar subito guerra ai Tarantini.
Al rovescio, dai Romani si
misero innanzi domande piene di moderazione e quali appena salvassero l'onore di Roma, offrendosi di conservare la pace, se si
liberassero i prigionieri, si restituisse Turii, e si consegnassero i provocatori dell'aggressione della flotta.
Questi patti furono recati a
Taranto da un'ambasciata romana (473 = 281), e nello stesso tempo
per dare forza alle parole, un esercito entrava nel Sannio sotto il
comando del console Lucio Emilio. I Tarantini potevano, senza perder
nulla della propria indipendenza, accettare queste condizioni, e in
Roma, dove si conosceva la poca velleità bellicosa della ricca città
mercantile, si poteva credere con ragione che fosse possibile ancor a
un accomodamento.
Ma il tentativo di mantener la pace naufragò, sia
per l'opposizione di quei Tarantini che vedevano la necessità di opporsi al più presto con le armi alla potenza di Roma, sia per l'indisciplinatezza della plebe cittadina, la quale, con la solita arroganza greca,
si attaccò in maniera indegna alla stessa persona dell'ambasciatore.
Allora il console penetrò nel territorio tarantino; ma, invece di aprire
subito le ostilità, offerse ancora la pace alle stesse condizioni, e poichè
anche questo fu vano, incominciò bensì a devastar e i campi e le ville
e battè le milizie cittadine, ma i più ragguardevoli prigionieri vennero rilasciati senza riscatto, e non si abbandonò la speranza che i disagi
della guerra dessero il sopravvento al partito aristocratico della città,
ottenendo così la pace.
La causa di questa moderazione era che i Romani non volevano
spingere la città fra le braccia del re degli Epiroti. Le intenzioni di
questi sull'Italia non erano più un mistero. Già un'ambasceria tarantina era andata da Pirro, e ne era ritornata senza aver nulla concluso;
il re aveva chiesto più di quello che essi, come plenipotenziari, potessero accordar e bisognava risolversi.
Che le milizie cittadine non fossero buone ad altro che a fuggire innanzi ai Romani, lo si sapeva a
sazietà; non rimaneva dunque altra scelta che tra la pace con Roma,
che i Romani erano sempre pronti a concedere a miti condizioni, e il
trattato con Pirro, accettando i suoi patti; era dunque per scelta la
sottomissione o alla sovranità romana o alla tirannide di un soldato
greco.
Nella città i partiti si equilibravano quasi; ma prevalse finalmente
il partito nazionale, e, oltre fu buona ragione di darsi - se la necessità
voleva che Taranto avesse un padrone - piuttosto ad un greco che ad
un barbaro, certo contribuì non poco anche il timore dei demagoghi,
che Roma, nonostante la moderazione impostale in quel momento dalle
circostanze, non avrebbe a tempo opportuno lasciato di vendicare gli
obbrobrii commessi dalla plebaglia di Taranto.
La città dunque preferì
l'alleanza di Pirro. Egli fu gridato supremo capitano delle truppe dei
Tarantini e degli altri Italioti in armi contro Roma, e a lui fu inoltre
accordato il diritto di por guarnigione in Taranto. Si capisce che la
città sopportò le spese della guerra. Pirro in ricambio promise di non
rimanere in Italia più del tempo necessario, riservandosi, probabilmente,
in cuor suo, di giudicare a suo senno quanto e come egli avesse a starvi.
Ciò non pertanto poco mancò che non gli sfuggisse dalle mani la
preda. Mentre che gli ambasciatori tarantini - i quali senza dubbio
dovevano essere i caporioni del partito della guerra - si trovavano ancora m Epiro, gli umori nella città, che in quei giorni era messa
alle strette dai Romani, mutarono, e già il supremo comando era stato
deferito a Agide, che parteggiava pei Romani, quando il ritorno dell'ambasceria, apportatrice · del concluso trattato ed accompagnata da
Cinea fido ministro di Pirro, ricondusse il partito della guerra di bel
nuovo al governo.
Non andò molto che una mano più ferma afferrò le redini dello Stato e
mise fine a questo deplorabile tergiversare. Nell'autunno del 473 (=281)
sbarcò Milone, generale di Pirro, alla testa di 3000 Epiroti e occupò
la cittadella di Taranto; in principio del 474 (=270) gli tenne dietro
il re stesso dopo un tragitto procelloso, che era costato numerose vittime.
Esso condusse a Taranto un esercito ragguardevole, ma composto
di variatissimi elementi, parte truppe indigene, Molossi, Tesproti, Caonii,
Ambracesi, parte fanteria macedone e cavalleria tessalica, che il re
Tolomeo di Macedonia gli aveva ceduto per trattato, parte anche gente
raccogliticcia assoldata nell'Etolia, nell' Acarnania e nell' Atamania; in
tutto 20.000 falangiti, 2000 sagittari, 500 frombolieri, 3000 cavalieri
e 20 elefanti; esercito che non era molto inferiore a quello, col quale
cinquant'anni prima Alessandro aveva passato l'Ellesponto.
Quando giunse il re gli affari della lega non erano troppo bene
avviati. Vero è che il console romano, allorché invece della milizia
tarantina si vide a fronte i soldati di Filone, smesso il pensiero di
attaccare Taranto, si era ritirato nell'Apulia; ma ad eccezione del
territorio di Taranto, i Romani signoreggiavano quasi su tutta l'Italia.
La lega non aveva nell'Italia inferiore alcun esercito pronto a campeggiare, e anche nell'Italia superiore gli Etruschi, i soli che rimanessero
ancora in armi, non avevano raccolto nell'inutile campagna (473=281)
altro che sconfitte. Gli alleati avevano dato al re, prima ancora ch'ei
s'imbarcasse, il supremo comando di tutte le loro truppe, e dichiarato
di poter porre in campo un esercito di 350.000 fanti e di 20.000 cavalieri; ma tra queste millanterie e i fatti correva una grandissima
differenza.
Il grand'esercito, di cui si era dato il comando a Pirro,
restava ancora a crearsi e per allora non potevasi fare assegnamento
che sulle forze di Taranto. Il re ordinò l'arruolamento d'un esercito
italico di mercenari pagati coll'oro di Taranto e chiamò a scriversi
anche in città tutti gli uomini atti alle armi. Ma i Tarantini non avevano inteso il trattato a quel modo.
Essi credevano di aver comperata
la vittoria col loro danaro, come si compera qualsiasi altra merce, e
riguardarono la cosa come una specie di lesione di contratto, poiché
il re li voleva costringere a guadagnare combattendo la vittoria. E
quanto si erano rallegrati, appena giunto Milone co' suoi, di vedersi
liberi dalle molestie della vita militare, altrettanto parve loro ostico il
dover scriversi nelle milizie di Pirro, sicché si ebbe perfino a minacciare la pena capitale contro i renitenti.
Allora tutti d'accordo a
rimpianger la pace e dar ragione a chi la consigliava: anzi furono
tentati, o parve almeno che si volessero tentare, accordi con Roma.
Pirro, che s'aspettava queste opposizioni, prese d'allora in poi a trattare
Taranto come paese conquistato, mandò i soldati a quartiere per le
case de' cittadini, sospese le adunanze del popolo e i convegni politici che erano in buon numero, fece chiudere i teatri, sbarrare le passeggiate, dar le porte della città in guardia a' suoi Epiroti.
Di quei che governavano parecchi furono mandati come ostaggi oltremare, parecchi altri si sottrassero alla medesima sorte fuggendo verso i Romani. Parvero necessarie le precauzioni severe, perchè non potevasi aver alcuna fede nella costanza dei Tarantini. Dopo di che il re, padrone davvero di quella ricchissima città, si sentì in grado di dar principio alle sue operazioni strategiche.
§ - AL MOMENTO IN ROMA -
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I VOLSCI |
Non ignoravano i Romani l'importanza della lotta che stava per cominciare. Anch'essi innanzi tutto vollero pigliar sicurtà della fede dei confederati, o come meglio avrebbero potuto chiamarsi, dei sudditi: onde si mandarono presidii romani a guardia delle città dubbie, e i capi del partito dell'indipendenza furono catturati o dannati del capo; così ad esempio si spacciarono parecchi senatori di Preneste.
Per la guerra stessa furono fatti grandi sforzi; fu decretata una tassa di guerra, vennero chiamati sotto le armi i contingenti di tutti i sudditi e confederati, anzi gli stessi proletari, che erano esenti dall'obbligo militare, vennero chiamati sotto le armi. Un esercito romano rimase come riserva nella capitale.
Un secondo esercito condotto dal console Tiberio Coruncanio, penetrò nell'Etruria, e respinse insieme i Volsci e i Volsiniesi. Le forze principali erano naturalmente destinate all'Italia meridionale; si affrettò la loro partenza quanto era possibile, per raggiungere Pirro ancora nella regione di Taranto e impedirgli di congiungere con le sue truppe i Sanniti e gli altri popoli dell'Italia meridionale armati contro Roma.
Le guarnigioni romane, che stavano nelle città greche dell'Italia meridionale, dovevano intanto formare un argine contro i progressi di Pirro. Frattanto la ribellione delle truppe stanziate in Reggio (era una delle legioni levate fra i sudditi Campani di Roma, sotto un capitano campano, Decio) tolse di mano ai Romani questa importante città, senza però darla in balia a Pirro.
Se da un lato in questa sommossa militare ebbe parte senza alcun dubbio l'odio nazionale dei Campani contro i Romani, anche Pirro, che era venuto per mare a difesa degli Elleni, non poteva certo accogliere nella lega quella truppa che aveva abbattuto i suoi ospiti Reggiani nelle proprie case; e così essa rimase sola, stretta in alleanza coi suoi compagni di razza e di delitti, i Mamertini, mercenari campani di Agatocle, che avevano acquistato nel medesimo modo Messana, sulla spiaggia opposta, e così uniti saccheggiarono e devastarono per proprio conto le greche città circostanti, Crotone dove la guarnigione romana fu abbattuta, Caulonia che fu distrutta.
Riuscì invece ai Romani, con un debole corpo di truppa, spinto ai confini lucani, e per mezzo del presidio di Venusia, d'impedire la riunione dei Lucani e dei Sanniti con Pirro, mentre il nerbo delle forze, che pare fosse ·di quattro legioni ed era dunque forte di almeno 50.000 uomini col rispettivo numero delle truppe alleate; marciava contro Pirro sotto il comando del console Publio Levino.
Pirro si era accampato colle sue proprie truppe e con le tarantine tra le città di Eraclea e Pandosia, per coprire la colonia tarantina di Eraclea (474=280). I Romani, coprendo la loro cavalleria, conquistarono il passaggio sul Siri, ed incominciarono la battaglia con un impetuoso e fortunato assalto di cavalleria; il re, che conduceva egli stesso i suoi cavalieri, cadde, e i cavalieri greci, messi in iscompiglio dalla sparizione del condottiero, cedettero il campo agli squadroni nemici.
Frattanto Pirro si pose alla testa della sua fanteria, e di nuovo incominciò una mischia più decisiva. Sette volte le legioni si urtarono con le falangi, e sempre durava il combattimento. Allora cadde Megacle, uno dei migliori ufficiali del re, e siccome egli in quella terribile giornata aveva portato l'armatura del re, l'esercite per la seconda volta credette che Pirro fosse caduto; le schiere divennero malsicure, e già Levino credeva d'aver in mano la vittoria, e rovesciò la sua cavalleria sul fianco dei Greci.
Ma Pirro, percorrendo a capo scoperto le file della fanteria, animò il cadente coraggio dei suoi. Gli elefanti, fino allora ritenuti, furono spinti contro i cavalieri; i cavalli s'impaurirono davanti ad essi, i soldati non sapevano come avvicinarsi ai poderosi animali, e si volsero in fuga.
Le schiere della cavalleria, rotte e confuse, gli elefanti inseguenti, sgominarono infine anche le file serrate della fanteria romana, e gli elefanti uniti all'eccellente cavalleria tessalica, fecero grande strage tra i fuggiaschi. Se un valoroso soldato romano, Gaio Minucio, primo astato della quarta legione, non avesse ferito un elefante e posto così in iscompiglio le truppe inseguenti, l'esercito romano sarebbe stato distrutto; così si poté ricondurre al di là del Siri il resto delle truppe romane.
La loro perdita era grande: 7000 romani furono trovati dai vincitori morti o feriti sul campo, 2000 furono condotti prigionieri; i Romani stessi, calcolando certo i feriti riportati dal campo di battaglia, stimarono la loro perdita di 15,000 uomini. Ma anche l'esercito di Pino non aveva sofferto meno; circa4000 dei suoi migliori soldati coprivano il campo di battaglia, e parecchi dei suoi migliori ufficiali erano caduti.
Considerando che la sua perdita comprendeva specialmente soldati che avevan già servito e che quindi erano assai più difficili a sostituirsi che non la fanteria romana, e che egli doveva la vittoria solo alla sorpresa dell'attacco degli elefanti, la quale non si sarebbe potuto ripetere spesso, può bene il re, da quel critico stratega che egli era, aver definito più tardi questa vittoria come una sconfitta; sebbene egli non potesse essere così pazzo, come poi novellarono i poeti romani, da far nota al pubblico questa critica di sè stesso nell'iscrizione da lui posta sul dono votivo collocato a Taranto.
Politicamente del resto poco importava sapere quali vittime fossecostata la vittoria; piuttosto il vantaggio di una prima battaglia contro i Romani fu per Pirro di inestimabile conseguenza. Il suo genio di capitano si era dimostrato splendidamente su questo nuovo campo di battaglia, e la vittoria di Eraclea doveva inspirare unità ed energia alla agonizzante lega degli Italici.
Ma anche le conseguenze immediate della vittoria furono importanti e durevoli. La Lucania fu perduta per
i Romani; Levino richiamò le truppe là stanziate e andò verso l'Apulia.
I Brezzii, i Lucani ed i Sanniti si unirono, senza esserne impediti, a
Pirro. Ad eccezione di Reggio, che gemeva sotto l'oppressione dei rivoltosi Campani, tutte le città greche si diedero a Pirro, anzi Locri
gli consegnò volontariamente il presidio romano, poichè erano persuasi
e con ragione che egli non li avrebbe consegnati agli Italici.
I Sabelli
ed i Greci passarono dunque a Pirro, ma la vittoria non ebbe altre
conseguenze. Fra i Latini non si mostrò alcuna disposizione a liberarsi
dalla signoria romana, per quanto potesse esser dura, con l'aiuto di un
dinasta straniero. Venusia, sebbene circondata tutt'intorno da nemici,
si tenne incrollabilmente unita a Roma.
Ai prigionieri fatti sul Siri,
ed il cui valoroso contegno il re cavalleresco ricompensò con un trattamento molto onorevole, egli offrì, secondo il greco costume, di entrare
nel suo proprio esercito; ma allora egli apprese che non combatteva
già con mercenari, ma con un popolo. Neppur uno, romano o latino,
prese servizio da lui.
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LUCERIA |
§ - TENTATIVI DI PACE - PIRRO CONTRO ROMA
Pirro offrì ai Romani la pace. Egli era un soldato troppo avveduto
per non conoscere la difficoltà della sua posizione, ed un politico troppo
accorto per non approfittare del momento che gli era più favorevole
per conchiudere a tempo un trattato di pace. Ora egli sperava che
sotto la prima impressione della terribile battaglia avrebbe potuto ottenere da Roma la libertà delle città greche in Italia e la costituzione
di una serie di Stati di secondo e terzo grado, posti fra quelle e
Roma, come alleati dipendenti della nuova potenza greca; poiché le
sue pretese erano queste: libertà di tutte le città greche, e specialmente dunque delle campane e lucane, dall'autorità romana, e restituzione del territorio ai Sanniti, ai Dauni, ai Lucani, ai Bruzii, il che
significava la cessione di Luceria e di Venusia.
Seppure un'altra lotta
con Roma potesse venire difficilmente evitata, pure era desiderabile
d'incominciarla quando gli Elleni occidentali fossero stati uniti sotto
un padrone, e la Sicilia fosse stata guadagnata, e forse conquistata
l'Africa. Munito di queste istruzioni, il tessalo Cinea, fidato ministro
di Pirro, si recò a Roma.
L'esperto negoziatore, che i contemporanei paragonavano a Demostene, per quanto un retore possa venir paragonato a un uomo di stato,
il servo d'un re ad un capo di popolo, aveva ordine di mostrare in
tutti i modi la stima grandissima in cui il vincitore di Eraclea teneva
i suoi vinti, di lasciar intendere che il re stesso avrebbe desiderato di
venir a Roma; di inclinar e gli animi in favore del suo signore colle
lodi, che suonano sì gradite sulle labbra del nemico, colle lusinghe e,
data l'occasione, coi doni distribuiti a proposito; in breve di sperimentare coi Romani tutte le arti della politica di gabinetto, per cui erano
celebri le corti d'Alessandria e d'Antiochia.
Il senato tentennava, a
parecchi pareva prudenza far un passo indietro e aspettare, finchè il pericoloso rivale si trovasse ulteriormente impacciato oppure cessasse
di esistere. Frattanto il vecchio e cieco consolare Appio Claudio (censore 442=312 console 447. 458 = 307. 296), il quale da lungo tempo
si era ritirato dagli affari di stato, ma che in questo decisivo momento
s'era fatto condurre nel senato, trasfuse, colle sue parole di fuoco,
l'incrollabile energia di una possente natura nell'anima della giovane
generazione.
Si rispose al re la superba parola, che qui si udì allora
per la prima volta e che divenne poi principio di stato: che Roma
non poteva trattare, finche le truppe straniere erano sul territorio italico, e per far valere queste parole, si cacciò tosto l'ambasciatore dalla città.
Lo scopo dell'ambasciata era fallito, e l'abile diplomatico, invece di
produrre il desiderato effetto con la sua eloquenza, si era piuttosto
lasciato imporre da questa maschia gravità dopo si dura sconfitta:
tornato in patria egli dichiarò che in Roma ogni cittadino gli era apparso come un re; infatti il cortigiano aveva veduto un popolo libero.
Pirro, che durante queste trattative era penetrato nella Campania,
appena seppe della rottura di esse, si volse verso Roma, per dar mano
agli Etruschi, scuotere gli alleati di Roma e minacciare la città stessa.
Ma i Romani non si lasciarono nè spaventare, nè guadagnare. Al grido
del banditore " di farsi inscrivere al posto dei caduti " subito dopo la
battaglia di Eraclea i giovani si erano affollati alla leva; con le due
legioni formate di nuovo, e con le truppe ritirate dalla Lucania, Levino, più forte di prima, seguì la marcia del re; egli assicurò Capua
contro di lui e rese vani i suoi tentativi di annodare relazioni con
Napoli.
L'attitudine dei Romani era cosi ferma, che, al di fuori dei
Greci dell'Italia inferiore, nessun ragguardevole Stato federale osò staccarsi dall'alleanza romana. Allora Pirro si volse contro la stessa Roma.
Attraverso il ricco paese, di cui egli con meraviglia guardava la fiorente condizione, Pirro venne sopra Fregelle, che egli sorprese, sforzò
il passaggio sul Liri, e giunse ad Anagni, che non è più lontana da
Roma di otto miglia tedesche.
Nessun esercito gli si fece incontro, ma
dappertutto le città del Lazio gli chiudevano le porte, e a passo misurato lo seguiva Levino dalla Campania, mentre dal nord il console
Tiberio Coruncanio, il quale appunto aveva conchiuso con gli Etruschi
un opportuno trattato di pace, conduceva con sé un secondo esercito
romano e in Roma stessa la riserva si preparava al combattimento
sotto il dittatore Gneo Domizio Calvino.
Così nulla era da fare; al re
non rimaneva altro che ritirarsi. Per qualche tempo rimase egli ancora
nella Campania, inerte di fronte agli eserciti riuniti dei due consoli;
ma non gli si offrì alcuna occasione per una battaglia campale. Quando
l'inverno si avvicinò il re sgombrò il territorio nemico, e distribuì le
sue truppe nelle città amiche; egli stesso pose a Taranto il suo quartier
invernale. Allora anche i Romani cessarono le loro operazioni; l'esercito
prese alloggiamento .presso Fermo, nel Piceno, dove per ordine del
senato, le legioni battute sul Liri accamparono per castigo tutto l'inverno sotto le tende.
§ - SECONDA CAMPAGNA
Così finì la campagna dell'anno 474 (=280). La pace separata che
l' Etruria aveva conchiuso con Roma nel momento decisivo e l'inattesa
ritirata del re, che deluse intieramente le alte speranze degli alleati
italici, controbilanciarono in gran parte l'impressione della vittoria di
Eraclea. Gli Italici si lagnarono dei pesi della guerra e specialmente
della cattiva disciplina dei mercenari acquartierati presso di loro, e il
re, stanco dei meschini litigi e del contegno nè politico nè militare
de' suoi alleati, incominciò a presentire che il compito toccatogli potesse
essere politicamente insolubile nonostante tutti i successi della sua tattica.
L'arrivo di un'ambasceria romana di tre consolari, fra i quali il
vincitore di Turii, Gaio Fabricio, ridestò per un momento in lui le speranze di pace; ma presto si dimostrò che gli ambasciatori avevano
solo facoltà di trattare per il riscatto o lo scambio dei prigionieri.
Pirro rifiutò tale esigenza, ma egli licenziò sulla loro parola d'onore
tutti i prigionieri, perchè potessero assistere alla festa dei Saturnali;
più tardi si esaltò in un modo così significativo la fede, che i prigionieri mantennero ed il rifiuto dell'ambasciatore romano contro un tentativo di corruzione, che queste lodi provano piuttosto la corruttela dei
tempi posteriori che non l'onoratezza dei precedenti.
Nella primavera del 475(=279) Pirro riprese ancora l'offensiva e
penetrò nell'Apulia, dove l'esercito romano gli mosse incontro. Nella
speranza di scuotere con una vittoria decisiva la simmachia romana
in questi paesi, il re offrì una seconda battaglia e i Romani non la
rifiutarono.
I due eserciti s'incontrarono presso Ausculum (Ascoli di
Puglia). Sotto le bandiere di Pirro combatterono oltre le sue truppe epirote e macedoni, anche i mercenari italici, la milizia della cittadina di
Taranto (i cosiddetti scudi bianchi), e gli alleati Lucani, Bruzzii e Sanniti, un insieme di 70.000 uomini a piedi, 16.000 dei quali eran
greci ed epiroti; oltre 8000 cavalieri e 19 elefanti.
Coi Romani stettero in quella giornata i Latini, i Campani, i Volsci,
i Sabini, gli Umbri, i Marrucini, i Peligni, i Frentani e gli Arpani;
anch'essi contavano oltre a 70.000 uomini, dei quali 20.000 cittadini
romani, e 8000 cavalieri. Le due parti avevano fatto cambiamenti
nell'ordine della milizia. Pirro, riconoscendo col suo acuto occhio di
soldato i vantaggi della disposizione in manipoli, adottata dai Romani,
aveva sostituita sulle ali la lunga fronte delle sue falangi con un allineamento interrotto, imitato dalle coorti romane, e forse non meno per
motivi politici che militari, aveva intercalato fra le divisioni della sua
propria gente le coorti tarantine e sannitiche; nel centro solo stava la
falange epirota in linea serrata.
I Romani per difendersi dagli elefanti
conducevano una specie di carri da guerra, dai quali sporgevano bracieri ardenti sopra aste di ferro ed ai quali erano unite antenne di
ferro, mobili ed atte ad essere abbassate; erano in certo modo il modello di quei ponti d'arrembaggio che nella prima guerra punica
dovevano avere tanta importanza.
Secondo la relazione greca, che sembra meno parziale della romana,
che pur teniamo sott'occhio, i Greci ebbero nel primo giorno la peggio,
poiché non riuscirono nè a distendere la loro fanteria sulle sponde
scoscese e paludose dei fiumi, dove furono costretti ad accettar la battaglia, nè a spingere nella mischia la cavalleria e gli elefanti.
Nel secondo giorno invece Pirro prevenne i Romani nell'occupazione del
terreno, e raggiunse così senza perdite la pianura, dove egli potè con
agio dispiegare la falange. Invano i Romani si precipitarono con disperato coraggio con le loro spade sui sarissofori; la falange resistette
incrollabile ad ogni attacco, ma nemmeno essa potè far piegare le legioni romane.
Appena quando la numerosa scorta degli elefanti ebbe
cacciati con frecce e sassi i Romani combattenti sui carri da guerra
e tagliate le corregge dei gioghi, cosicchè gli elefanti poterono lanciarsi
contro la fanteria romana, questa cominciò a tentennare. I guardiani
dei carri voltisi in fuga diedero il segnale della rotta, che però non
costò molte vittime, poiché il campo vicino accolse i fuggiaschi.
Che
poi, mentre ferveva la gran battaglia, una mano di Arpani, staccatisi
dall'esercito romano, abbia assaltato e arso il campo degli Epiroti, che
era stato lasciato con poca guardia, è cosa che troviamo ricordata solo
dalla cronaca romana; ma ad ogni modo i Romani hanno sostenuto
a torto che la battaglia sia rimasta indecisa.
Le due relazioni sono
anzi d'accordo nel dire, che l'esercito romano si ritirasse al di là
del fiume lasciando Pirro padrone del campo di battaglia. Il numero dei
caduti fu, secondo la relazione greca di 6000 Romani e 3505 greci;
tra i feriti trovavasi il re stesso, cui un giavellotto aveva passato il
braccio, mentre egli, come era solito, combatteva nel più fitto della
mischia.
Certo questa fu un'altra vittoria di Pirro; ma gli allori non
portarono frutto, e il fatto procacciò onore al re come a buon capitano
e a prode soldato, ma ne' rispetti politici non lo avvicinò d'un passo alla sua meta. Pirro abbisognava d'uno splendido trionfo, che avesse
a sterminare l'esercito romano e dare occasione e spinta ai tentennanti
alleati di Roma a dichiararsi per lui ma siccome l'esercito e la lega
di Roma rimasero in piedi, siccome l'oste greca, di cui Pirro era l'anima
o l'unità, si trovava per la sua ferita inabile per molto tempo a campeggiare, così egli dovette rassegnarsi a considerare la campagna come
perduta e a riprendere i quartieri d'inverno, che il re prese in Taranto,
i Romani questa volta nell'Apulia.
Sempre più chiaramente manifestavasi che militarmente le risorse su cui poteva contare il re non
pareggiavano quelle dei Romani, e che, quanto alla politica, la rilassata e ricalcitrante coalizione non poteva per niun conto raffrontarsi
colla simmachia romana fondata su basi solide e profonde. La tattica greca, la novità degli arnesi di guerra che i Greci impiegavano,
l'impetuosità delle loro mosse, il genio del capitano che li guidava,
potevano ben ottenere altre vittorie come quelle riportate ad Eraclea
e ad Ascoli, ma ogni nuova vittoria avrebbe logorato l'esercito vittorioso; ed era evidente che i Romani, dopo la giornata d'Ascoli, si sentivano già i più forti e attendevano con coraggiosa pazienza la vittoria finale.
Questa guerra non rassomigliava alle guerre di raffinata
destrezza che si facevano dai principi greci; in questa guerra tutte
le combinazioni strategiche riuscivano vane a fronte della piena e
poderosa energia della milizia. Pirro si accorse dello stato delle
cose e sazio di vincere senza frutto, disprezzando i suoi alleati, egli
non mirava più che a garantire contro i barbari i suoi clienti per
abbandonare l'Italia, ove l'onore militare gli imponeva di fermarsi
ancora. E già poteva prevedersi, che coll'impaziente suo carattere egli
avrebbe afferrato il primo pretesto per liberarsi dall'ingrato impegno,
quando gli affari di Sicilia gli offrirono il destro di allontanarsi dall'Italia.
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SIARACUSA |
§ - CONDIZIONI DELLA SICILIA, SIRACUSA E CARTAGINE
- Terza campagna -
Dopo la morte d'Agatocle ( 465 = 289) venne meno ai Greci della
Sicilia ogni forza direttiva. Mentre in ciascuna città si avvicendavano al
governo inetti demagoghi ed inetti tiranni, i Cartaginesi, che da gran
tempo possedevano la punta occidentale dell'isola, venivano chetamente
allargando il loro dominio. Ma dopo ch' essi ebbero fermato il piede
in Agrigento, credettero venuto il tempo di correr scopertamente alla
meta a cui miravano da secoli, e di ridurre in loro potere tutta l'isola e però si volsero direttamente contro Siracusa.
Questa città, che aveva
già conteso co' suoi eserciti e colle sue flotte il possesso dell'isola a
Cartagine, era caduta, causa le intestine contese e la debolezza del
governo, sì profondamente, ch'essa appena poteva sperare di difendersi
dietro le sue mura, e però doveva volgersi a cercar soccorsi stranieri
che nessuno, fuori del re Pirro, poteva accordarle.
Pirro era genero d'Agatocle, suo figlio Alessandro, allora diciottenne,
era nipote d'Agatocle, ambedue e per sangue e per grandezza d'animo erano gli eredi naturali dei vasti disegni del signore di Siracusa; e se
mai Siracusa non poteva più reggersi a libertà, almeno poteva trovar
un compenso col diventar metropoli del gran regno ellenico occidentale.
I Siracusani si offrirono spontanei a Pirro, come due anni innanzi
i Tarantini, e alle stesse condizioni (intorno al 475 == 279). Così per
un singolare riscontro di cose pareva che tutto concorresse ad aiutare
i vasti concetti del re degli Epiroti, che aveva fondato tutto il suo
piano sul possesso di Taranto e di Siracusa.
Questa unione dei Greci italici e siciliani sotto lo stesso signore ebbe
per effetto immediato di far più intima la congiunzione dei loro avversari.
I Cartaginesi ed i Romani trasformarono i loro trattati di commercio
in una lega offensiva e difensiva contro Pirro ( 4 75 = 279). Si convenne
che se Pino avesse messo piede sul territorio d'uno dei confederati,
l'altro avrebbe mandato pronti soccorsi e pagato le truppe ausiliarie;
che Cartagine somministrerebbe le navi di trasporto e assisterebbe
i Romani anche colla flotta, senza obbligo però di arrischiare l'equipaggio in fazioni di terra; finalmente i due alleati proposero di non
accordarsi con Pirro separatamente.
Lo scopo della convenzione fu da
parte dei Romani quello di rendere possibile un attacco contro Taranto e di tagliare a Pirro le comunicazioni con la sua patria, ciò
che non era possibile senza il concorso della flotta punica; da parte
dei Cartaginesi lo scopo era di trattenere il re in Italia per poter
effettuare senza contrasto i loro disegni sopra Siracusa. Nell' interesse delle due potenze era dunque il disegno di assicurarsi del mare
fra l'Italia e la Sicilia.
Una parte della flotta cartaginese, di 120 vele,
sotto gli ordini dell'ammiraglio Magone, partì da Ostia, ove pare che
Magone si sia recato per conchiudere quel trattato, verso lo stretto di Sicilia. I Mamertini, che per i delitti commessi contro la popolazione
greca di Messina, non potevano che aspettare il giusto castigo quando
Pirro fosse giunto al governo di Sicilia e d' Italia, si allearono strettamente ai Romani e ai Cartaginesi, e assicurarono loro il litorale siciliano dello stretto.
Volentieri si sarebbero gli alleati impossessati anche
di Reggio, sulla spiaggia opposta; ma Roma non poteva assolutamente
perdonare alla guarnigione campana, ed un tentativo dei Romani e
Cartaginesi alleati, per impadronirsi a mano armata della città, andò
a vuoto. Di là la flotta cartaginese veleggiò per Siracusa e bloccò la
città dal lato del mare, mentre nello stesso tempo un forte esercito
fenicio ne incominciava l'assedio dal lato di terra (476 = 278).
Era urgente il bisogno che Pirro giungesse a Siracusa, eppure le
cose d'Italia eran tali, che egli e le sue truppe potevano esservi necessari. I due consoli dell'anno 4 76 (= 278), Gaio Fabrizio Luscino e
Quinto Emilio Papo, entrambi generali esperimentati, avevano cominciata energicamente la nuova campagna, e sebbene fino allor a i Romani
non avessero in questa guerra toccato che sconfitte, non erano già
essi, ma i vincitori che si sentivano spossati e desideravano la pace.
Pirro
fece ancora un tentativo per ottenere un sopportabile accomodamento.
Il console Fabricio aveva spedito al re un miserabile che gli aveva
fatto la proposta di avvelenare il re per una buona mercede. In
riconoscenza il re non solo liberò senza riscatto tutti i prigionieri romani, ma si sentì così rapito dalla magnanimità de' suoi valorosi
avversari, che egli stesso propose loro una pace infinitamente equa e
favorevole.
Cinea pare sia andato ancor una volta a Roma, e Cartagine
pare abbia temuto seriamente che Roma si adattasse a far pace. Ma
il senato rimase fermo e ripetè la sua prima risposta. Se il re non
voleva lasciar cadere Siracusa nelle mani dei Cartaginesi, e con ciò fare
distruggere il suo grandioso disegno, non gli rimaneva altro che abbandonare i suoi alleati italici e limitarsi per allora al possesso dei
porti più importanti, specialmente a quelli di Taranto e di Locri.
Invano i Lucani e i Sanniti lo scongiurarono di non abbandonarli;
invano i Tarentini gli ingiunsero o di compiere il suo dovere di
capitano, o di restituir loro la città. Ai lamenti e ai rimproveri il re
oppose o conforti di speranze in tempi migliori, o acerbi rifiuti: Milone
rimase a Taranto, il figlio del re, Alessandro, a Locri, e Pirro colla
maggior parte delle sue truppe, s'imbarcò nella primavera del 476
(= 278) a Taranto per Siracusa.
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ERACLEA LUCANA |
§ - ASSOPIMENTO DELLA GUERRA IN ITALIA Per la partenza di Pirro i Romani ebbero man libera in Italia, dove
nessuno osava resistere loro in campo aperto, e gli avversari si rinchiudevano dappertutto nelle loro fortezze o nelle loro foreste. Pure
la lotta non terminò così presto come si era potuto sperare, sia per la
natura di queste guerre di montagna e di assedi, sia per la spossatezza dei
Romani, delle cui terribili perdite è una prova il censo dal 4 73 (= 281)
al 479 (=275), che dinota una diminuzione di 17.000 cittadini.
Nell'anno
476 (= 278), riuscì al console Gaio Fabricio di indurre la ragguardevole
colonia tarentina di Eraclea ad una pace separata., che le fu concessa a
favorevolissime condizioni. Durante la campagna del 477 (= 277) si continuò a combattere nel Sannio, dove un attacco, intrapreso spensieratamente contro le alture trincerate, costò molta gente ai Romani; quindi
la guerra si volse all'Italia meridionale dove i Lucani e i Brezzii furono
battuti.
Milone invece, partendo da Taranto, riuscì a prevenire i Romani in un tentativo di prendere Crotone per sorpresa, e gli Epiroti
fecero anzi una sortita fortunata contro l'esercito assediante. Però il
console riuscì con uno strattagemma di determinare il presidio ad allontanarsi, e prese così la città rimasta senza difesa (477 =277).
Più
importante fu il fatto dei Locresi, i quali avevano già consegnato al
re precedentemente la guarnigione romana, ed ora, espiando il tradimento col tradimento, trucidarono gli Epiroti, così che tutta la spiaggia
meridionale, ad eccezione di Reggio e Taranto, fu nelle mani dei Romani. Nonostante questi successi assai poco si era guadagnato nell'essenziale.
L'Italia inferiore era da gran tempo indifesa; Pirro non poteva
dirsi vinto, finché Taranto si trovava in suo potere, così che gli rimanevano i mezzi per rinnovare la guerra a piacimento, nè i Romani
potevano pensare ad un assedio di questa città.
Poichè oltre la considerazione che i Romani in fatto d'espugnazioni e d'assedi, dopo che Filippo il Macedone e Demetrio l'Assediatore avevano mutata la strategia in una guerra di fortezze, dovevano trovarsi inferiori ad un
esperto e risoluto capitano greco, mancavano anche di un sufficiente
naviglio; e sebbene i Cartaginesi avessero per trattato promesso di
aiutare i Romani sul mare, i fatti di Sicilia non volgevano sì propizi
per essi, da lasciar loro modo di mantenere quella promessa.
Lo sbarco di Pirro nell'isola, compiuto felicemente ad onta della
flotta cartaginese, vi aveva cambiato a un tratto l'aspetto delle cose.
Pirro liberò tosto Siracusa dall'assedio, ridusse in breve tempo in suo
potere tutte le città greche, e come capo della confederazione sicula
ritolse ai Cartaginesi quasi tutte le loro conquiste.
Minacciati e combattuti senza posa, appena riuscirono a mantenersi a Lilibeo i Cartaginesi e i Mamertini infessana con l'aiuto della flotta punica, che
allora dominava senza contrasto sul Mediterraneo. In tali circostanze,
badando al tenore del trattato del 475 (= 279), sarebbe stato più agevole a Roma di prestare soccorso in Sicilia ai Cartagine, che a Cartagine colla sua flotta di aiutare Roma ad espugnare Taranto; ma
pare che i due alleati non si curassero troppo di assicurarsi reciprocamente la potenza, e tanto meno di ampliarla.
Cartagine aveva
offerto il soccorso ai Romani soltanto allora che lo stringente pericolo
di Roma era già passato; i Romani dal canto loro non avevano fatto
nulla per impedire la partenza del Re dall'Italia e la caduta della
potenza cartaginese in Sicilia. Anzi in aperta violazione del trattato
Cartagine aveva perfino mosso pratiche per un accordo particolare col
re, offrendogli di rinunciare a tutte le conquiste siciliane pur che le
fosse lasciato il possesso del Lilibeo, di fornire al re danaro e navi
da guerra, le quali, come è ben naturale, dovevano servire per tornare
in Italia e rinnovare la guerra contro Roma.
Era però troppo chiaro
che, conservando Lilibeo e allontanando il re, Cartagine avrebbe
subito riacquistato nell'isola quel posto che essa teneva prima dello
sbarco degli Epiroti; le città greche, abbandonate a sè stesse, nulla
potevano, e il perduto territorio era facile a riconquistarsi. Perciò Pirro
respinse le perfide proposizioni, che da ambe le parti gli erano state
fatte, e prese la risoluzione di formarsi una flotta.
Soltanto la leggerezza
e il poco accorgimento hanno poi biasimato codesto concetto; il quale
non solo rispondeva ad una necessità, ma pei mezzi che offriva
l'isola, poteva facilmente porsi ad effetto. Anche a non voler riflettere
che il sovrano di Ambracia, di Taranto e Siracusa, non poteva essere
senza una potenza marittima, Pirro aveva bisogno di una flotta per espugnare Lilibeo, per proteggere Taranto e infine per attaccare Cartagine
in Africa, come prima e dopo lo fecero con sì grande successo Agatocle, Regolo, Scipione.
Pirro non fu mai sì vicino alla sua meta come
nell'estate del 478 (= 276), quando ei vedevasi innanzi Cartagine umiliata, la Sicilia raccolta sotto la sua signoria, Taranto, porta d'Italia,
assicurata nelle sue mani, e quando la flotta da lui creata e che doveva
annodare insieme tutti i suoi possessi, assicurare e aumentare i suoi
acquisti, stava ancorata nel porto di Siracusa pronta a salpare.
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CARTAGINE |
§ - PIRRO IN SICILIA
Il lato debole di tutti i disegni di Pirro era la viziosa politica interna.
Egli reggeva la Sicilia come aveva veduto Tolomeo reggere l' Egitto;
non rispettava le costituzioni de' comuni, nominava a suo talento i
suoi fidi a governare le città, quando e fin che a lui piacesse, eleggeva in luogo dei giurati del paese i suoi cortigiani all'ufficio di giudici, pronunziava a suo arbitrio confische, esili, pene capitali, persino
contro quelli che avevano vivamente promosso la sua venuta in Sicilia,
metteva presidii nelle città e dominava in Sicilia non come il capo della
lega nazionale, ma come re.
Benchè secondo le idee dell'oriente ellenico egli possa essersi creduto un principe buono e savio - e forse
lo era in fatto - i Greci sopportavano con tutta l'impazienza d'un
popolo disvezzato d'ogni disciplina in una lunga agonia di libertà questo
trapiantamento del sistema dei Diadochi in Siracusa; nè andò molto
che allo stolido popolo parve più sopportabile il giogo cartaginese
che non il nuovo governo soldatesco.
Le più ragguardevoli città strinsero lega coi Cartaginesi e persino coi Mamertini; un forte esercito
cartaginese ricomparve nell'isola, e, aiutato dappertutto dai Greci, fece
rapidi progressi. La fortuna delle battaglie fu, a dir vero, come sempre,
favorevole all'"Aquila" ma era chiaro. ormai, che gli isolani avevano
preso in odio il loro liberatore, ed era facile argomentare quello che
avrebbe potuto e dovuto avvenire, quando il re si assentasse dalla
Sicilia.
A questo primo ed essenzialissimo errore Pirro ne aggiunge un altro:
andò colla flotta a Taranto invece di andare a Lilibeo. Cogli umori,
che allora correvano in Sicilia, era troppo evidente la necessità di
sradicare affatto dall'isola i Cartaginesi e toglier così ai malcontenti
l'ultimo asilo prima di distrarre le sue forze nell'impresa d'Italia, dove
non v'era alcun pericolo imminente, poiché Taranto era abbastanza
sicura e non s'aveva a far troppo conto degli altri confederati, che già
erano stati lasciati in abbandono.
Non è difficile però comprendere,
come l'indole soldatesca di Pirro lo tirasse a cancellare con una brillante riapparizione la partenza non molto onorevole dell'anno 476
(= 278), e come il suo cuore sanguinasse quando gli giunsero i lamenti
dei Lucani e dei Sanniti. Però imprese come quelle immaginate da
Pirro possono venir compiute solo da ferree nature, che possono padroneggiare la compassione e perfino il sentimento dell'onore; tale
non era Pirro.
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PERSEFONE TRAFUGATA ED ESPOSTA A BERLINO |
§ - CADUTA DEL REGNO SICILIANO
Il fatale imbarco avvenne verso la fine dell'anno 478 (=276). Frattanto la nuova flotta siracusana ebbe a sostenere con la cartaginese
un formidabile combattimento e vi perdette un considerevole numero di navi. La lontananza del re e la notizia di questo primo disastro
bastarono per la caduta del regno siculo; tutte le città si rifiutarono
di somministrare uomini e denaro al re assente, e lo splendido Stato si sfasciò in tempo più breve che non fosse sorto, parte perchè il re
stesso aveva sepolto nel cuore de' suoi sudditi l'amore e la fedeltà sulla
quale riposa ogni organismo comunale, parte perchè al popolo mancava
la devozione di rinunciare, fosse pur per breve tempo, alla libertà per
salvare la nazionalità.
Così l'impresa di Pirro era naufragata, il progetto della sua vita era perduto senza speranza; d'ora in poi egli è
un avventuriere che sente di essere stato molto e non è più nulla, e
che continua la guerra non più come mezzo ad uno scopo, ma per
stordirsi in quel terribile gioco di dadi e possibilmente per trovare nel
tumulto della battaglia la morte del soldato.
Arrivato alla costa italica, il re incominciò con un tentativo a impadronirsi di Reggio, ma, con l'aiuto dei Mamertini, i Campani respinsero
l'attacco, e nell'ardore della mischia, dinanzi alla città, il re stesso
venne ferito, mentre gittava di sella un ufficiale nemico. Invece potè
egli sorprendere Locri, i cui abitatori espiarono duramente la strage
della guarnigione epirota, e vi saccheggiò il ricco tesoro del tempio di
Persefone per riempire la sua cassa vuota.
Così egli giunse a Taranto,
probabilmente con 20.000 uomini a piedi e 3000 cavalieri. Ma non
erano più i provati veterani di prima, e gli Italici non salutarono
più in essi i loro salvatori; la fiducia e la speranza con cui era stato
accolto il re cinque anni prima, erano scomparse, e gli alleati erano
senz'armi e senza soldati.
In aiuto dei Sanniti, gravemente minacciati, nel cui territorio i Romani avevano svernato nel 478-79 (= 276-75), il re entrò in campo
nella primavera del 479 (= 275) e costrinse il console Manio Curio
alla battaglia di Benevento nei campi Arusini, prima che egli potesse
riunirsi col suo collega tornante dalla Lucania.
Ma la divisione che
era destinata ad attaccare il fianco dei Romani si smarrì durante la
marcia notturna nei boschi e mancò nel momento decisivo; e dopo
un violento combattimento gli elefanti decisero nuovamente la battaglia, ma questa volta in favore dei Romani; poichè, spaventati dai
sagittarii disposti a custodia del campo, si gettarono sulla loro propria
gente.
I vincitori occuparono il campo; nelle loro mani caddero 1300
prigionieri e 4 elefanti, i primi che Roma vide, inoltre un inestimabile bottino, il cui prezzo bastò a fabbricare più tardi in Roma l'acquedotto che da Tivoli conduceva a Roma l'acqua dell'Aniene. Pirro,
senza truppe per tenere il campo e senza denaro, chiese soccorso ai
re di Macedonia e d'Asia, che lo avevano aiutato nel passaggio verso
l'Italia; ma anche in patria non lo si temeva più e gli si rifiutò la
domanda.
Disperando della sua impresa contro Roma e irritato da questi rifiuti, Pirro lasciò una guarnigione in Taranto e tornò in quello stesso
anno (479 = 275) nella sua Grecia, dove più facilmente che in Italia,
ove le condizioni erano costanti e misurate, poteva aprirsi all'avventuriere disperato una qualche speranza.
Infatti non solo egli riguadagnò
presto ciò che era stato strappato al suo regno, ma egli stese ancora una volta la mano, e non senza successo, verso il trono macedone,
ma i suoi ultimi progetti naufragarono contro la calma e astuta politica di Antigono Gonata, e più ancora contro la propria impetuosità e
incapacità di dominare il suo animo superbo; egli guadagnò bensì ancor a delle battaglie, ma senza alcun durevole successo, e fini la sua
vita in un miserabile combattimento per le vie d'Argo nel Peloponneso
(482 = 272).
§ - GLI ULTIMI COMBATTIMENTI IN ITALIA
In Italia la guerra finisce con la battaglia di Benevento; le ultime
convulsioni del partito nazionale terminano lentamente. Veramente,
sinchè il principe della guerra, il cui braccio possente aveva osato di
prendere le redini del destino, era ancora tra i viventi, egli tenne,
anche assente, la forte rocca di Taranto contro Roma.
Dopo la partenza di Pirro il partito della pace prese il sopravvento, ma Milone,
che vi aveva il comando in nome di Pirro, rifiutò ogni consiglio e
lasciò che i cittadini partigiani di Roma conchiudessero per conto
proprio e come a loro piaceva la pace con Roma nel castello che essi
avevano costrutto nel territorio di Taranto, senza però aprire le sue
porte.
Ma quando, dopo la morte di Pirro, una flotta cartaginese
entrò nel porto e Milone vide la cittadinanza in procinto di cedere la città ai Cartaginesi, egli preferì di cedere la rocca al console romano
Lucio Papirio (482 = 272) e· per tal modo ottenere per sè ed i suoi
libera uscita. Questa fu pe' Romani un'immensa fortuna.
Dopo gli esperimenti
fatti da Filippo dinanzi a Perinto e Bisanzio, da Demetrio sotto Rodi,
da Pirro a Lilibeo, si può ragionevolmente dubitare, se colla strategia
di quei tempi sarebbe stato possibile ai Romani di espugnare una 'città
regolarmente fortificata e difesa e col libero accesso dalla parte del
mare; e nessuno può dire come sarebbero andate le cose, se Taranto
avesse potuto diventare pei Fenici in Italia, ciò che per essi era stato
Lilibeo in Sicilia.
Ma il fatto non si poteva ornai mutare. L'ammiraglio cartaginese, vedendo la rocca in potere de' Romani, dichiarò di
essere venuto a Taranto solamente per aiutare, a tenore del trattato,
gli alleati nell'espugnare la città, e s'imbarcò alla volta dell'Africa; e
l'ambasciata de' Romani mandata a Cartagine per domandare schiarimenti e per protestare contro la tentata occupazione di Taranto, non ne
cavò che giuramenti e proteste, ad altro non essersi pensato mai, che
a far opera di leali confederati; di che per allora anche i Romani
mostrarono accontentarsi.
I Tarantini ottennero dai Romani, a petizione
come pare de' loro emigrati, di conservare l'autonomia, ma dovettero
consegnare le armi e le navi e veder rase le mura della città.
Nello stesso anno in cui Taranto divenne romana si sottomisero
finalmente anche i Sanniti, i Lucani ed i Brezzii, i quali ultimi dovettero cedere metà della ricca foresta della Sila, tanto importante per le
costruzioni navali.
Finalmente la banda che da dieci anni tiranneggiava la città di Reggio, scontò i suoi delitti meritamente punita
e come sleale a Roma e spergiura alle bandiere e come colpevole dell'assassinio dei cittadini di Reggio e del presidio di Cotrone.
Era
nello stesso tempo la causa comune degli Elleni contro i barbari
quella che Roma difendeva; il nuovo signore di Siracusa, Gerone, aiutò.
i Romani, che erano a campo sotto Reggio, mandando loro vettovaglie
e uomini e movendo nel tempo stesso e d' accordo con loro una spedizione contro i Mamertini di Messana, complici e quasi compaesani
degli assassini di Reggio.
L'assedio di Messana andò molto a lungo:
Reggio invece fu dai Romani presa d'assalto nel 484 (= 270), nonostante la valorosa e pertinace difesa dei ribelli. Quei di loro, che furono fatti prigionieri, vennero flagellati e decapitati sul Foro romano; gli antichi
abitanti di Reggio richiamati e, per quanto fu possibile, rimessi in
possesso dei loro beni.
Così nell'anno 484 (= 270) fu ridotta all'ubbidienza tutta l'Italia. Solo i Sanniti, i più ostinati avversari di Roma,
continuarono, ad onta del formale trattato di pace, come briganti, la
guerra, così che nell'anno 485 = 269) fu necessario mandare contro
essi ambedue i consoli.
Ma anche il più generoso coraggio e la più
eroica disperazione a lungo andare vengono meno; il ferro ed il
patibolo ricondussero alla fine la tranquillità anche nelle montagne
sannitiche.
Per assicurare questi immensi acquisti furono condotte parecchie
nuove colonie: Pesto e Cosa (481 = 273) nella Lucania, Benevento
(486 = 268) ed Esmia (verso il 491 = 263) come bastiglie per il
Sannio, Arimino (486 = 268) e nel Piceno Firmo (verso il 490 = 264)
e la colonia cittadina Castro novo posti avanzati contro i Galli; venne
inoltre continuata la grande strada meridionale sino ai porti di Taranto e di Brundisio, colla fortezza di Benevento che servisse come
nuova stazione intermediaria tra Capua e Venusia, e finalmente fu
predisposta la colonizzazione del posto marittimo di Brundisio, che la
politica romana aveva scelto ad umiliare Taranto e succedere a quel
ricchissimo emporio.
Nel costruire queste nuove fortezze e le strade
s'ebbe ancora a combattere contro le piccole popolazioni, di cui con
quelle opere si sminuivano o tagliavano i territori; per questa ragione
si guerreggiò coi Picentini (485. 486=269. 268), buon numero de' quali
fu trapiantato nei dintorni di Salerno, co' Salentini intorno a Brundisio
(487. 488 = 267. 266), e coi Sassinati Umbri (487. 488 = 267. 266)
i quali, a quanto pare, avevano occupato il territorio d' Arimino dopo
la cacciata dei Senoni. Roma estese con quest' arti la sua signoria su
tutto il territorio qella bassa Italia dall'Appennino al Mare Jonio e
sino al confine celtico.
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NAVE ROMANA RITROVATA IN SERBIA |
§ - LA FLOTTA ROMANA
Prima di rappresentare l'ordinamento politico, secondo il quale
l'Italia così unita veniva governata da Roma, ci rimangono ancora a considerare le condizioni marittime nel quarto e nel quinto secolo. In
quell'età due erano in sostanza le città, che si disputavano la signoria
del mare d'occidente: Siracusa e Cartagine.
Ma quest'ultima, nonostante i successi favorevoli, che per qualche tempo avevano ottenuto
sul mare Dionigi (dal 348 al 389 = 406-365), Agatocle (dal 437 al 465
= 317-289) e Pirro (dal 476 al 478 = 278-276), veniva acquistando
sempre maggior prevalenza sulla rivale, che rapidamente declinava a
non aver più che una marineria di secondo ordine. I
n quanto all'Etrnria, la sua importanza marittima era intieramente finita; la Corsica, rimasta per lungo tempo sotto la dominazione etrusca, venne, se
non in possesso de' Cartaginesi, certo sotto il loro primato marittimo.
Taranto, che per qualche tempo si era pur sostenuta, fu affranta dall'occupazione dei Romani. I valorosi Massalioti durarono bensì padroni
del proprio mare, ma non presero una parte diretta negli avvenimenti
che mutavano le sorti d'Italia.
Delle altre città marittime non si
faceva quasi alcun caso.
Alla stessa sorte non potè sottrarsi nemmeno Roma, nei suoi stessi
mari dominavano pure navigli stranieri.
Certo Roma era stata in origine una città marittima e nel tempo
della sua maggior fortuna non era mai divenuta così infedele alle antiche tradizioni, da trascurare intieramente la marina di guerra e non
era mai stata così stolta da voler diventare soltanto una potenza continentale.
Il Lazio offriva per le costruzioni navali i più bei tronchi
d'albero, che sorpassavano di gran lunga quelli famosi dell'Italia meridionale, e i cantieri di Roma, continuamente attivi, dimostrano pure
che non si era mai rinunciato a possedere una propria flotta. Frattanto
durante le crisi pericolose che la cacciata dei re, le scosse interne
nella confederazione romano - latina e le infelici guerre contro gli
Etruschi ed i Celti ebbero portato su Roma, i Romani poterono occuparsi poco dello stato delle cose sul Mediterraneo, e durante l'indirizzo
sempre più spiccato della politica romana circa la sottomissione del continente italico, la potenza marittima decadde ancor più.
Sino alla fine
dcl quarto secolo, appena si fa parola delle navi da guerra latine,
eccetto che si ricorda la nave che portò a Delfo il dono votivo tolto
dalla preda fatta sui Veienti (360 == 394). Gli Anziati naturalmente
continuarono il loro commercio su navi armate, per poter quindi occasionalmente esercitare anche il loro mestiere di pirati e il " corsaro
tirreno ", Postumio, preso da Timoleonte nell'anno 415, potrebbe bene essere stato un Anziate; ma essi non contavano probabilmente fra le potenze marittime dell'epoca, e se pur fosse, considerando
la posizione di Anzio verso Roma, questo fatto sarebbe stato tutt'altro
che un vantaggio.
Di quanto fosse scaduta la potenza marittima romana intorno all'anno 404 (= 350), lo dimostra il saccheggio delle
coste latine per mezzo d'una flotta greca, probabilmente sicula, nell'anno 405 (= 349), mentre nello stesso tempo alcune bande celtiche
percorrevano, mettendolo a ferro e a fuoco, il paese latino.
L' anno
dopo (406 = 348), e senza dubbio sotto l'immediata impressione di
questi gravi avvenimenti, il comune romano e i Fenici di Cartagine
conchiusero un trattato di commercio e di navigazione per sè e per gli alleati loro dipendenti; e questo è il più antico documento romano
il cui testo, naturalmente tradotto in greco, sia pervenuto fino a noi.
I Romani si obbligavano in esso di non navigar e, salvo nei casi di
necessità, sulla costa libica ad occidente dal bel promontorio (Capo Bon);
in contraccambio essi ottennero libero commercio, come gli indigeni,
nella Sicilia cartaginese, e in Africa e in Sardegna almeno il diritto
di vendere le loro merci ai prezzi che sarebbero stati stabiliti dagli
ufficiali cartaginesi e garantiti dalla Repubblica cartaginese.
Pare che
ai Cartaginesi venisse assicurato commercio libero almeno in Roma, e
forse anche in tutto il Lazio, sotto la condizione di non usar violenza
ai comuni latini dipendenti da Roma, e nel caso divenissero nemici,
di non pernottare sul territorio latino, e quindi di non estendere le
loro scorrerie nell'interno, e di non costruire fortezze nel paese latino.
Probabilmente a quest'epoca appartiene pure il già menzionato trattato
fra Roma e Taranto, e della cui origine si sa soltanto che esso fu
conchiuso assai prima del 472 (= 282); col medesimo si obbligavano
i Romani, non si sa contro quali promesse da parte dei Tarantini, di
non navigare nelle acque a oriente del capo Lacinio, così che essi
rimanevano compiutamente esclusi dal bacino orientale del Mediterraneo.
Queste erano vere sconfitte, proprio come quelle sull' Allia, ed
anche il senato romano pare le abbia intese così, e il corso favorevole
che le condizioni italiche presero tosto per Roma, dopo la conclusione
degli umilianti trattati con Cartagine e Taranto, pare sia stato energicamente rivolto a migliorare la posizione marittima assai depressa.
Le più importanti città della costa furono occupate da colonie romane: Pirgi, porto di Cere, la cui colonizzazione cade probabilmente
in quest'epoca; sulla costa occidentale Anzio, nell'anno 415 (= 329);
Terracina nell'anno 415 (=329); l'isola di P onza (441 =313); cosicchè
avendo già prima Ardea e Oirceii ricevuto coloni romani, tutte le
più importanti città marittime nel territorio dei Rutuli e dei Volsci
divennero colonie latine o cittadine; più oltre Minturno e Sinuessa
nell'anno 459 (= 295); Pesto e Cosa nel 481 (= 273); nella Lucania
e sul littorale Adriatico Sena Gallica e Castro novo verso l'anno
471 (=283); Arimino l'anno 486 (= 268), e ultima l'occupazione di
Brundisio subito dopo la fine della guerra pirrica.
Nella maggior parte
di queste città, nelle colonie cittadine o marittime i giovani erano
dispensati dal servizio delle legioni, come quelli che erano destinati
soltanto a guardia delle coste marine.
Nel tempo stesso i privilegi
ben ponderati, con cui si gratificavano i Greci della bassa Italia in
confronto dei loro vicini sabellici, e specialmente i favori accordati alle
più importanti comunità, come a Napoli, a Reggio, a Locri, a Turio,
ad Eraclea, e l'eguale esenzione dalla leva per l'esercito di terra, concessa alle condizioni soprammentovate, formavano il compimento della
rete, che i Romani tesero ed assicurarono tutt'intorno ai lidi d'Italia.
Ma gli uomini di stato che allora reggevano la cosa pubblica riconobbero, e le posteriori generazioni avrebbero potuto prenderne esempio,
che tutte queste fortificazioni litoranee e guarda-coste erano di poco
momento senza una marineria da guerra che potesse tenere in rispetto
i nemici.
Dopo la sottomissione d'Anzio (416 = 338), quante galee vi si trovarono atte alla guerra vennero riarmate negli arsenali di Roma,
e l'ordine preso in quello stesso tempo, che gli Anziati non potessero
attendere neppure al traffico marittimo, prova chiaramente quanto
i Romani si sentissero ancora deboli sul mare e come la loro politica
marittima fosse ancora incerta, quand'essi occuparono le fortezze della
costiera.
Entrate che furono di poi le città greche del mezzodì nella
clientela romana, Napoli la prima nel 428 (= 326), le navi da guerra,
che ognuna si era obbligata di fornire ai Romani come contingente federale, servirono, se non altro, ad ingrossare quel primo nucleo, intorno a cui veniva formandosi la flotta romana. Nell'anno 443 (= 311)
furono oltre a ciò, per deliberazione pubblica e presa appositamente,
eletti due ammiragli (duoviri navales).
Le forze di mare cominciarono
nella guerra co' Sanniti a dar mano a quella di terra, concorrendo
all'espugnazione di Nuceria. E forse si deve riferire a questi tempi
anche la famosa spedizione di una flotta romana di venticinque vele
per fondare una colonia in Corsica, della quale spedizione parla Teofrasto nella sua " Storia delle piante " l'anno 447 (== 307).
Il nuovo
trattato concluso con Cartagine l'anno 448 (= 306) prova però quanto
poco si sia raggiunto direttamente con questi mezzi. Mentre i capitoli
del primo trattato dell'anno 406 (= 348), che riferivansi all'Italia e
alla Sicilia, furono conservati nel nuovo trattato, venne in esso vietato
ai Romani non solo di navigare nelle acque orientali, ma anche di
spingersi nel mare Atlantico, ciò che prima era stato concesso, e di
trafficare coi sudditi cartaginesi in Sardegna e in Africa, e fors'anche di prendere stabile dimora in Corsica, tal che non rimanevano aperti ai commerci di Roma altri paesi fuor della Sicilia cartaginese e di Cartagine stessa.
In tutto questo ci si manifesta la gelosia dominatrice del mare, che cresceva con l'estendersi della signoria romana sulle coste; essa costrinse i Romani a rassegnarsi al sistema proibitivo ed a lasciarsi escludere dagli scali del commercio sì nel levante che nello occidente (e forse è qui luogo di riferire quel che si racconta del premio accordato per pubblico decreto ad un marinaio fenicio, il quale, mettendo per perduta la propria barca, tirò su un banco di sabbia una nave romana, la quale lo andava seguendo sull'Oceano Atlantico).
I Romani non poterono allora far altro che adattarsi senza però tralasciare gli sforzi per strappare la loro marineria a quello stato di impotenza in cui era venuta. Un provvedimento efficace riuscì la creazione dei quattro nuovi questori della flotta. (Quaestores classici), decretata l'anno 487 (= 267), il primo dei quali ebbe sua stanza in Ostia, porto della città di Roma; il secondo fu deputato a vigilare da Cales, allora capitale della Campania romana, i posti campani e quei della Magna Grecia; il terzo doveva da Arimino sorvegliare i porti transappennini; non si conosce quale fosse l'incombenza del quarto.
Questi nuovi ufficiali stabili non erano incaricati solo di sorvegliare le coste e di formare una marina da guerra per difenderle, ma certo era questo uno dei loro compiti. L'intenzione del senato romano di riconquistare l'indipendenza sul mare e parte di tagliare le relazioni marittime di Taranto, parte di chiudere il mare Adriatico alle flotte venienti dall'Epiro, e parte ancora di emanciparsi dalla supremazia cartaginese, è quindi chiaramente manifesta.
Già le relazioni con Cartagine, durante l'ultima guerra italica, mostrano qualche indizio di ciò. Bensì il re Pirro costrinse ancora una volta, e fu l'ultima, alla conclusione d'un'alleanza offensiva; ma la tiepidezza e la slealtà di questa lega, i tentativi dei Cartaginesi di stabilirsi a Reggio e a Taranto, l'immediata occupazione di Brindisi da parte dei Romani dopo la fine della guerra, dimostrano chiaramente come gli interessi delle due parti si urtassero già gravemente.
Si comprende che Roma cercasse di appoggiarsi agli Stati marittimi ellenici nelle sue difese contro Cartagine. Con Massalia continuava ininterrotta l'antica e stretta relazione amichevole. Il dono votivo mandato da Roma a Delfi, dopo la conquista di Veio, veniva conservato nella tesoreria dei Massalioti.
Dopo la presa di Roma, per mezzo dei Celti fu fatta in Massalia una colletta per gliincendiati, e la cassa pubblica diè prima l' esempio; in compenso di ciò il senato romano concesse poi ai mercanti massalioti alcuni privilegi commerciali, e nelle pubbliche feste dei giochi nel Foro i massalioti ebbero un posto d'onore presso la tribuna dei senatori (grmcostasis).
Dello stesso genere sono i trattati di commercio e d'amicizia conchiusi dai Romani con Rodi nell'anno 448 (= 306), e non molto dopo con Apollonia, una ragguardevole città commerciale sulla spiaggia epirota, e principalmente l'avvicinamento di Roma con Siracusa; che aveva un grave significato per Cartagine e che ebbe luogo appena finita la guerra con Pirro. Se dunque la potenza dei Romani sul mare non segue neppur lontanamente l'enorme sviluppo della loro potenza in terra, se specialmente la propria marina di guerra dei Romani non era certamente quello che avrebbe dovuto essere secondo la posizione geografica e commerciale dello Stato, tuttavia essa incominciava a rialzarsi gradatamente dall'assoluto annichilimento in cui era caduta intorno all'anno 400 (= 354); e considerando i grandi mezzi di cui disponeva l'Italia, potevano bene i Fenici seguire con qualche preoccupazione queste tendenze.
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ORIGINI ROMANE DELL'ITALIA |
§ - L'ITALIA UNITA
La crisi per la signoria sulle acque italiche si avvicinava; per terra la lotta era già decisa. Per la prima volta l'Italia fu riunita in uno Stato sotto la signoria del comune romano. Quali politici diritti il comune romano togliesse con ciò agli altri Italici, impossessandosene unicamente, cioè quale idea di diritto politico si possa associare a questa signoria di Roma, non vien detto chiaramente in nessun luogo, e manca anzi in modo significativo e chiaro un'espressione generalmente valida per questo concetto.
Certamente vi si devono comprendere i diritti di far guerra, di stipulare trattati e di batter moneta, così che nessun comune italico poteva dichiarar guerra ad uno Stato estero o trattare con esso o battere moneta, mentre ogni dichiarazione di guerra fatta dal comune romano ed ogni contratto politico da esso conchiuso legava tutte le comunità italiche, e la moneta d'argento romana aveva corso legale in tutta Italia; ed è verosimile che i diritti formulati del comune principale non andassero più oltre.
Ora necessariamente a questi si dovevano congiungere molti altri diritti di signoria assai più estesi. Nei casi particolari le relazioni degli Italici col comune principale erano molto disuguali, e da questo punto di vista, oltre alla piena cittadinanza romana, bisogna distinguere tre diverse classi di sudditi.
Cittadinanza romanaLa cittadinanza assoluta aveva tutta quell'estensione che era possibile darle senza distruggere interamente il concetto d'una Repubblica cittadina per il comune romano. Il vecchio territorio civile era stato fino allora principalmente esteso mediante le singole assegnazioni in modo che l'Etruria meridionale fin verso Cere e Falerii, i territorii sul Sacco e sull'Aniene tolti agli Ernici, la maggior parte della campagna sabina e grandi tratti di quella che era stata dei Volsci, e specialmente la pianura pontina, erano stati trasformati in territorio agricolo romano e per i loro abitanti si erano formati nuovi distretti cittadini.
Ciò era anzi accaduto già col distretto di Falerno sul Volturno, ceduto da Capua. Tutti questi cittadini domiciliati al difuori di Roma non avevano un proprio ordinamento comunale ed una amministrazione propria; sul territorio assegnato sorgevano al più piccoli mercati (fora et conciliabula); in posizione non troppo diversa si trovavano i cittadini
mandati alle cosiddette colonie marittime già menzionate, ad essi rimase
pure l'assoluto diritto di cittadinanza romana e la loro amministrazione autonoma contava poco.
Estensione della cittadinanzaVerso la fine di questo periodo pare che il comune romano abbia
incominciato a concedere ai prossimi comuni cittadini-passivi, di pari
e di affine nazionalità, il diritto di cittadinanza assoluta; ciò che ottenne probabilmente anzitutto Tuscolo, e lo stesso accadde probabilmente anche per gli altri comuni di cittadinanza passiva nel Lazio
propriamente detto, e questo principio fu quindi esteso al fine di questo
periodo alle città sabine, le quali senza dubbio eran già allor a sostanzialmente latinizzate, e avevano manifestato sufficientemente la loro
fedeltà nell'ultima grave guerra.
A queste città rimase la limitata
amministrazione autonoma, che già avevano nel loro precedente ordinamento giuridico, anche dopo il loro ingresso nella lega cittadina romana: i singoli comuni esistenti nell'interno della piena cittadinanza
romana furono originati assai più da queste città che non dalle colonie
marittime, e così nel corso del tempo da essi fu formato l'ordinamento
municipale romano.
Quindi la cittadinanza romana assoluta si sarà
estesa a quest'epoca a settentrione sino nella vicinanza di Cere, a
oriente fino all'Appennino, a mezzogiorno fino a Terracina, benchè
naturalmente non si possa qui parlare propriamente di un confine, e
che una quantità di città alleate secondo il diritto romano latino, come
Tibur, Preneste, Signia, Norba e Cfrceii, si trovavano entro questi
confini, e parte si trovavano al di fuori di esse; gli abitanti di Minturno, Sinuessa, quelli del territorio di Falerno, di Sena Gallica e di
altri luoghi possedevano pure pieno diritto di cittadinanza, -mentre
altre famiglie di cittadini romani, o isolati, o riuniti in villaggi, probabilmente si trovavano fin d'ora dispersi per tutta Italia.
Cittadini senza suffragio
Fra i comuni soggetti stanno i cittadini passivi (cities sine suffragio),
i quali, meno il diritto attivo e passivo di elezione, erano pari ai veri
cittadini in diritti e in doveri. La loro protezione giuridica era regolata dalle decisioni dei comizi romani e dalle norme pronunciate per
essi dal pretore romano, pure mettendo indubbiamente come fondamento di tutto ci ò gli ordinamenti durati fino allora.
Il pretore romano
li giudicava oppure il prefetto, mandato in sua vece nei singoli comuni.
Alle città meglio collocate, a Capua, ad esempio, rimase l'amministrazione autonoma, e così pure l'uso della propria lingua e i singoli impiegati destinati alle imposte e al censimento.
Ai comuni di minore importanza, come, ad esempio, a Cere, fu tolta anche l'amministrazione propria, e questa senza dubbio era la forma più opprimente
della sudditanza. Pure, come già abbiamo notato, alla fin e di questo
periodo si mostra la tendenza di incorporare questi comuni, in quan to
che erano latini di fatto, nella cittadinanza assoluta.
La classe più
favorita e più considerata fra i comuni soggetti era quella delle città
latine, le quali ottennero copioso e ragguardevole incremento fra i
comuni autonomi fondati dentro e anche fuori d'Italia, cioè fra le
cosiddette colonie latine, e aumentarono sempre mediante nuove fondazioni di questa specie.
Città di diritto latino
Questi nuovi comuni cittadini, di origine romana, ma di diritto latino, divennero sempre più i veri sostegni
della signoria romana in Italia.
Questi latini non erano già quelli, coi quali si combattè sulle sponde
del lago Regillo e presso Trifano, non quegli antichi membri della
lega d'Alba, che da principio si stimavano eguali se non migliori dei
Romani, e che, come lo provano le severissime misure di sicurezza
prese contro Preneste nei primordi della guerra pirrica, e le lunghe contenzioni, che si agitavano particolarmente con quei dell'accennata
città, trovavano grave il giogo della signoria romana.
L'antico Lazio
era stato assorbito specialmente sotto Roma o da Roma, e contava solo
pochi comuni indipendenti, politicamente di nessuna importanza, ad
eccezione di Preneste e Tibur.
Il Lazio della più tarda età repubblicana componevasi quasi esclusivamente dei comuni, i quali sino dalla
loro origine avevano imparato a riguardar Roma come la loro metropoli, anzi come madre patria, i quali, piantati in mezzo a paesi di
lingue e di costumi diversi, erano vincolati alla capitale per la comunanza della lingua, delle leggi e dei costumi, i quali, come piccoli
tiranni dei paesi circonvicini, erano costretti di tenersi uniti con Roma
per la propria esistenza, come i posti avanzati tengono al grosso dell'esercito, i quali alla fine dai crescenti vantaggi materiali dei cittadini
romani traevano pur essi grandissimo utile, giacchè, mercè il loro
pareggiamento politico coi Romani, sebbene limitato, tenevano, ad
esempio, come usuari una parte dei domini pubblici, ed era loro permesso come ai cittadini romani di concorrere agli appalti dello Stato.
Venusia e Benevento Nemmeno qui furono evitate interamente le conseguenze della indipendenza loro concessa. Inscrizioni venusine dal tempo della Repubblica romana ed altre beneventane, venute da poco alla luce, insegnano che Venusia ha avuto, come Roma, la sua plebe e i suoi tribuni
del popolo. E che ufficiali superiori di Benevento, almeno all'epoca della
guerra con Annibale, portavano il titolo di console.
Entrambi questi
comuni appartengono alle più recenti fra le colonie latine di antico
diritto; si vede quali esigenze si destassero in essi alla metà del quinto
secolo: anche questi cosiddetti latini, derivati dalla cittadinanza romana,
e che sotto ogni aspetto si consideravano pari ad essi, incominciavano
già a sentire malvolentieri il loro diritto di alleanza subordinato, e già
tendevano al pareggiamento assoluto.
Perciò quindi il senato era affaccendato ad opprimere quant'era
possibile, nei loro diritti e privilegi, questi comuni latini, e di trasformare la loro posizione di alleati in quella di sudditi, almeno in quanto
che ciò poteva accadere senza togliere la barriera che esisteva fra
quelli e i comuni non-latini d'Italia.
L'abolizione della lega dei comuni
latini, come pure quella del pareggiamento giuridico d'un tempo e la
perdita dei più importanti diritti politici, sono già stati narrati; con
la compiuta sottomissione d'Italia si fece pure un passo a vanti e si
incominciò a limitare pure anche i diritti individuali del singolo uomo
latino, e specialmente quello importante del libero andare e venire. Per il comune di Arimino, fondato nell'anno 486 (= 268), come pure
per tutti i comuni autonomi privato, e a quello dei cittadini romani in commercio, cambiamento di domicilio e diritto di successione.
Probabilmente intorno a questo tempo fu limitato il pieno diritto concesso prima ai già fondati comuni latini, per il quale ogni cittadino, che si trasferisse a Roma, vi poteva acquistare l'assoluta cittadinanza, e per le colonie latine, fondate più tardi, questo diritto venne elargito solo a quelle persone che nella loro patria erano giunte alla suprema carica nella Repubblica; soltanto a queste fu permesso di scambiare il loro diritto coloniale di cittadinanza col romano. Qui appare chiara la compiuta trasformazione della posizione di Roma.
Roma
Finchè Roma rimase bensì il primo, ma pur sempre uno dei tanti comuni italici, l'ingresso nell'illimitato diritto di cittadinanza romana venne considerato come un guadagno per il comune accogliente, e l'acquisto di questo diritto di cittadinanza era stato facilitato in tutti i modi ai non-cittadini, anzi qualche volta era stato loro imposto come punizione.
Ma dacchè il comune romano imperava da solo e tutti gli altri gli servivano, le condizioni si invertirono: il comune romano incominciò a conservare gelosamente il suo diritto di cittadinanza, e fece così cessare l'antica libertà di andare e venire; benchè gli uomini politici di quest'epoca fossero pure abbastanza intelligenti di aprire legalmente almeno ai più insigni uomini dei più alti comuni soggetti l'ingresso di diritto di cittadinanza romana.
Anche i Latini quindi ebbero a provare che Roma, dopo avere principalmente col mezzo loro sottomessa l'Italia, non aveva ora più, come prima, bisogno di loro. Le relazioni poi tra Roma e le comunità federate che non avevano il diritto latino, andavano soggette, come si può facilmente immaginare, alle più variate norme, appunto come le speciali convenzioni federative da cui nascevano.
Parecchie di queste eterne leghe, come ad esempio quella dei comuni emici, e quelle di Napoli, di Nola, di Eraclea, garantivano diritti larghissimi, specialmente in paragone del modo con cui erano governate altre comunità, che pure erano legate a Roma da patti federali, i quali però, come ad esempio quei di Taranto e del Sannio, dovevano condurre ad un quasi assoluto dispotismo.
Del resto si deve credere che fu una massima generale di politica dichiarare sciolto il diritto e annullati di fatto tutti i consorzi particolari tra i popoli italiani, come erano già state sciolte le federazioni tra i Latini e quella degli Emici, di cui parla la tradizione; e questa massima ha dovuto essere rigorosamente applicata a tutte le altre leghe, di modo che nessuna comunità italiana conservò la facoltà di porsi in relazione politica colle altre comunità, come non era pur concessa la libertà dei connubii di cittadini di comunità diverse e la facoltà di consultare e prendere deliberazioni insieme.
Comunità federate non-latineSi sarà inoltre fatto il possibile che le forze materiali di tutte le comunità italiche, in modi varii, secondo i casi e le diverse costituzioni, fossero tutte messe a disposizione del comune egemonico. Sebbene continuassero sempre a considerarsi come parte integrante ed essenziale dell'esercito romano, i soldati cittadini da un lato, dall'altro i contingenti " di nome latino " e sebbene con ciò si volesse conservare all'esercito il suo carattere nazionale, furono tutta via chiamati
ad ingrossarlo, non solo i cittadini passivi romani, ma anche le comunità federate non-latine, le quali erano obbligate o a fornire navi
da guerra, come le città greche, o a dar milizie di leva, in proporzione dei registri che tenevano nota di tutti gli italiani (formula togatorum), come o subito dopo la conquista, o a poco a poco deve
essere stato prescritto per i comuni pugliesi, sabellici ed etruschi.
Pare
che questa misura del contingente sia stata stabilita dappertutto secondo norme fisse, appunto come quelle del contingente latino, senza
però che Roma si legasse le mani, nè potesse, in caso di bisogno, chiamare maggior numero di soldati. Questi contingenti riuscivano nel
tempo stesso una imposta indiretta, poichè ogni comune aveva l'obbligo di dar il soldo e il fornimento dei suoi soldati.
Non senza ragione furono quindi assegnate di preferenza le più dispendiose prestazioni di guerra ai comuni latini o ai federali non-latini, la marineria
di guerra fu lasciata a carico delle città greche, e nella cavalleria
furono numerosi, almeno coll'andar del tempo, i federati in tripla proporzione dei cittadini romani, mentre per la fanteria fu mantenuta,
almeno per lungo tempo, l'antica massima, che il contingente federale
non dovesse superare mai di numero l'esercito cittadino.
§ - SISTEMA DI GOVERNO
Colle scarse notizie che ce ne giunsero non potremmo specificare
il sistema con il quale questo edifizio fu connesso e tenuto assieme. E
non sapremmo nemmeno per approssimazione fissare la ragione numerica in cui stavano le tre classi dei sudditi tra loro e in confronto
dei cittadini originari, e così si conosce solo imperfettamente la
distribuzione geografica di queste categorie nelle diverse regioni italiche.
I concetti che servirono di base a quest'edifizio sono invece così
chiari, che non occorre consumare intorno troppe parole. Prima di
tutto fu esteso il territorio del comune dominante alla maggior distanza possibile per non iscardinare Roma, che era e doveva rimanere una repubblica urbana.
Quando poi il sistema di effettiva incorporazione nella città toccò i confini, che le erano assegnati dalla
possibilità effettiva di coesistenza urbana, confini che furono anche
troppo allargati, le comunità, che vennero di poi aggregandosi alla
città di Roma, furono costrette di rassegnarsi ad una condizione di
sudditanza, poichè la semplice egemonia nello interno assestamento
d'uno Stato è impossibile.
Fine delle federazioni italicheCosì venne formandosi a fianco della classe
di cittadini dominanti una seconda classe di cittadini sudditi, non
già per ingordigia di potere e istinto dispotico dei Romani, ma per
l'irresistibile forza delle cose. Nè può negarsi del resto, che fra le arti della signoria romana non
fosse prima fra tutte quella di dividere i sudditi, come si fece, sciogliendo le federazioni italiche, istituendo gran numero di comunjtà di
poco conto e graduando la gravezza del dominio secondo le diverse
categorie dei sudditi.
Nel modo stesso che Catone governava la sua
famiglia in modo da non permettere che gli schiavi fossero in troppa
concordia tra loro, e anzi si studiava di mantener vivi i dissidii e le
gare, così faceva anche Roma; il mezzo non era bello, ma era efficace.
E una più larga e generale applicazione di questo politico avvedimento produsse la ricostituzione di quant'erano le comunità vassalle
sullo stesso tipo di Roma, per modo che il governo dei municipii rimanesse affidato alle famiglie nobili e ricche, le quali naturalmente
vennero a trovarsi in più o meno recisa opposizione colle moltitudini,
e che tanto a cagione dei loro interessi economici, quanto della loro
situazione politica, nel comune, non potevano far altro che appoggiarsi
su Roma.
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CAPUA VETERE |
Capua
Ne abbiamo chiarissimo esempio nel modo con cui vennero
assestate le cose a Capua, la quale, siccome pareva la sola fra le città
italiane che potesse competere con Roma, così fu trattata fin da principio colla più previdente diffidenza. Della nobiltà capuana si fece,
sotto ogni aspetto, un corpo privilegiato; tribunali speciali, luoghi distinti per raccogliersi a consulta, e persino larghi assegni sull' erario
della comunità; v' erano mille e seicento pensionari, a ciascuno dei
quali si dovevano pagare 450 stadelli (circa 200 talleri).
Furono questi
cavalieri campani quelli che, stando fuori della grande sollevazione
latino-campana nel 414 (= 340), in gran parte ebbero il merito di farla
riuscire a vuoto; furono le loro buone spade che decisero nel 459 (= 295), la vittoria di Sentino; mentre invece i fanti campani furono
i primi nella guerra pirrica a voltarsi contro Roma togliendole Reggio.
VolsiniiUn altro documento importante per conoscere come Roma sapesse l'arte
di approfittare dei dissensi intestini dei suoi sudditi, dando nel suo
proprio interesse favore agli ottimati, lo troviamo nel modo con cui
aggiustò Volsinii nell'anno 489 (= 265 ).
In questa città, come a Roma,
pare che dopo le solite lotte fra antichi e nuovi cittadini, si fosse
stabilita l'eguaglianza politica delle due classi. Ma gli anziani ricorsero al senato romano pregandolo di restaurare gli antichi ordinamenti
della città; e questo, a quelli che reggevano allora Volsinii, parve, ed
era giusto, caso di delitto, di cui furono chiamati a scolparsi coloro
che avevano fatto quelle pratiche con Roma.
Il senato sostenne gli
anziani, e siccome quelli di Volsinii non seppero acconciarsi a quella
intromissione, i Romani non solo abolirono gli ordinamenti, coi quali
si reggeva Volsinii, ma rasero al suolo la città che era stata capitale
dell'Etruria; esempio tremendo che mostrava agli Italiani ciò che
importasse la signoria di Roma.
Esenzione delle tasseSi deve però notare che il senato romano aveva troppo senno per
non sentire come non vi fosse altra via per rendere durevole l'assoluta podestà che la moderazione di quei che l'usano. Perciò alle comunità venute in soggezione di Roma, in luogo dell'indipendenza che
avevano perduta, o fu accordato il pieno diritto di cittadinanza romana, o un reggimento proprio che riuniva in sè i vantaggi più reali di partecipare alla grandezza militare e politica di Roma, e soprattutto
di aver e una liberissima costituzione comunale; negli Stati federali
d'Italia non si trova indizio d'una comunità d'iloti.
Per questo Roma
fin da principio rinunciò, con una magnanimità di cui non si trova
esempio nella storia, al più odioso di tutti i diritti politici, quello di
imporre gravezze ai sudditi. Tutt'al più si può supporre che fu posta
qualche angheria sui paesi celtici soggetti a Roma, ma entro la confederazione italica non esisteva alcun comune tributario.
I bottini di guerraPer lo stesso
motivo, se fu imposto a tutti i soci e sudditi il dovere di concorrere
alla difesa dello Stato, non ne furono esenti i cittadini del comune
dominante, anzi, in proporzione, essi ne furono assai più gravati che
la confederazione, e in questa probabilmente il complesso dei latini
più ancora che non i comuni non la tini della lega; così che poi, nel
ripartire le prede di guerra, parve quasi giusto che prima venisse
Roma, poi i Latini, ultimi gli altri.
A vigilare quella moltitudine di comuni soggetti, affinchè tenessero
in numero le milizie e le inviassero a tempo, il governo romano provvedeva, o col mezzo dei quattro questori italici, o estendendo la giurisdizione della censura romana a tutte le comunità italiane.
Ai questori della flotta, oltre gli ordinari uffici, fu dato incarico di riscuotere le rendite dei nuovi domini, e di riscontrare se fossero a ruolo
tutti i contingenti dei nuovi soci; furono questi i primi ufficiali romani che per legge avessero sede o giurisdizione fuori di Roma, e che
di necessità si trovassero in mezzo fra il senato r omano e le comunità
italiane.
CensimentoI supremi magistrati d'ogni comunità italiana, sotto qualunque
nome venissero, erano obbligati di fare il censimento ogni quattro
o cinque anni: istituzione che certo doveva ricever e le mosse da Roma,
e che non poteva avere altro scopo se non quello di fornire al senato un quadro compendioso delle forze militari e delle pubbliche
ricchezze di tutta Italia in corrispondenza al censimento romano.
Con questa unione militare amministrativa di tutte le genti stanziate di qua dell'Appennino sino al capo Iapigico e allo stretto di
Reggio, comincia a stabilirsi e a divulgarsi anche un nome nuovo e
comune a tutte queste popolazioni, quello cioè di " uomini togati ",
che è la più antica designazione dei Romani e degli Italici, la quale
si trovò originariamente usata dai Greci, e che venne poscia ordinariamente adottata.
Le diverse nazioni che abitavano queste regioni
devono per la prima volta aver avvertito la loro unità, e devono essersi sentite congiunger e fra loro da una forza naturale, sia per contrapporsi agli Elleni, e ciò anche più frequentemente e più risolutamente, per difendersi contro i Celti; poichè se pure accadeva talvolta
che qualche comune italiano facesse causa comune con i barbari contro
Roma e cercasse approfittare di quest'occasione per ricuperar e la perduta indipendenza, il sentimento nazionale prevaleva.
Nel modo che
il paese gallico sin nei tempi più tardi ci si presenta come la legale
antitesi del paese italico, anche gli " uomini togati " sono così chiamati per antitesi ai Celti " uomini bracati " (bracati) ; ed è possibile
che per ottenere l'accentramento delle forze militari d'Italia nelle proprie mani, Roma abbia in tutte le pratiche fatto valere principalmente,
come causa, o come pretesto, la necessità di difendersi contro le invasioni celtiche.
§ - L'ITALIA, DOMINIO DI ROMACosì durante le lunghe e ripetute guerre, nelle quali
i Romani si mettevano alla testa della difesa nazionale, e obbligarono
poi gli Etruschi, i Latini, i Sabelli, gli Apuli e gli Elleni a concorrervi secondo le loro forze e dentro i confini loro assegnati di volta
in volta, quella unità, che sino allora era stata vacillante e più che
altro virtuale, acquistava una saldezza definita e basata sul diritto pubblico, e il nome d'Italia, che in origine, anzi sino al quinto secolo, gli
autori greci davano solo al paese che ora si chiama Calabria, come
può vedersi in Aristotile, venne anche esteso a tutte le regioni abitate
dalla gente togata.
I più antichi confini della federazione militare capitanata da Roma,
che è come dire della nuova Italia sui lidi occidentali, non giungevano alla foce dell'Arno, fermandosi vicino al luogo dove ora sorge
Livorno, e sui lidi orientali toccavano l'Esino poco sopra Ancona; i
luoghi posti fuori di questi confini, colonizzati da Italici, come Sena
Gallica e Arimino al di là dell'Appennino, e Messana in Sicilia,
erano considerati nella geografia politica come fuori d'Italia, benchè
fossero ammessi, come Arimino, nella confederazione, o fossero, come
Sena, comunità col diritto di cittadinanza romana.
Tanto meno poi
potevano riguardarsi come paesi italiani quelli abitati dai Celti posti
oltre l'Appennino, benchè forse alcuni di quei paesi fossero già fin
d'allora nella clientela di Roma.
La nuova Italia adunque era diventata una unità politica, ed era
avviata a diventare una unità nazionale.
Già la nazionalità latina dominante si era assimilata i Latini e i Volsci ed aveva sparsi numerosi comuni latini su tutta l'Italia; fu solo lo sviluppo di questi germi
che col volgere degli anni contribuì a fare della lingua latina l'idioma
di tutti coloro che portavano la toga latina. Che poi i Romani riconoscessero già fin d'ora chiaramente questo scopo, lo dimostra l'estensione consuetudinale del nome latino su tutta la confederazione italica
obbligata al servizio militare.
Edificio politico romanoCiò che si può ancora riconoscere di
questo grandioso edifizio politico, rivela ancora l'alta intelligenza politica dei suoi numerosi architetti e la non comune solidità che questa
confederazione, composta di tanti e così diversi elementi, ha conservato più tardi nelle scosse più gravi, impresse al suo alto valore il
suggello del successo.
Dopochè le fila di questa rete non meno fina che forte, avvolgente
tutta l'Italia, furono tutte raccolte nelle mani del comune latino, questo
divenne una grande potenza e nel sistema degli Stati del Mediterraneo
sottentrò a Taranto, alla Lucania, e alle altre piccole e mediocri repubbliche che le ultime guerre avevano cancellato dal numero delle
potenze.
Questa nuova posizione di Roma venne in certo modo ufficialmente riconosciuta dalle due solenni ambascerie che nell'anno 481
(= 273) andarono da Alessandria a Roma e poi da Roma ad Alessandria, e benchè esse non avessero da regolare altro che le relazioni
commerciali, pure prepararono senza alcun dubbio un'alleanza politica.
Come Cartagine lottava col Governo egiziano per il possesso di Cirene, e presto avrebbe dovuto lottare coi Romani per il dominio
della Sicilia, così la Macedonia disputava all'Egitto il predominio della
Grecia, e in breve doveva contendere con Roma per la signoria delle
coste adriatiche; nè poteva mancare che le nuove lotte, che si andavano preparando da ogni parte, non si intralciassero, e che Roma,
come padrona dell'Italia, non fosse trascinata nel vasto circo che le
vittorie e i disegni del grande Alessandro avevano lasciato aperto alle
gare dei suoi successori.
(STORIA ANTICA ROMANA . Theodor Mommmsen)
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THEODOR MOMMMSEN |
Theodor Mommsen
Giurista di formazione, Mommsen dedicò le sue ricerche principalmente a tre campi:
- la storia di Roma antica, di cui è tuttora considerato uno dei più insigni specialisti e in cui produsse il suo capolavoro, la Storia di Roma che gli valse il Nobel;
- l'epigrafia romana, pioniere e promotore dell'impresa scientifica ed editoriale del Corpus Inscriptionum Latinarum [CIL], per raccogliere e pubblicare tutte le iscrizioni latine;
- il diritto romano, disciplina di cui fu anche docente e a cui dedicò importanti saggi e trattati.
Gli vennero conferiti:
- nel 1902 il Premio Nobel per la letteratura per la monumentale opera sulla storia di Roma Römische Geschichte.
- Per la sua attività di numismatico nel 1895 gli fu assegnata la medaglia della Royal Numismatic Society.
- Nel 1871 ricevette la Medaglia dell'Ordine di Massimiliano per le scienze e le arti.
- Gli venne dedicato l'asteroide 52293 Mommsen.