Quantcast
Channel: romanoimpero.com

VENNONETI (Nemici di Roma)

$
0
0
ARCO ONORARIO DI SUSA PER AUGUSTO

I Vennoneti erano un antico popolo alpino stanziato in Valtellina, corrispondente al bacino idrico del fiume Adda a monte del lago di Como, nella regione Lombardia, e nella Svizzera orientale, corrispondente ai cantoni Glarona, Sciaffusa, Appenzello Esterno, Appenzello Interno, San Gallo, Grigioni, Turgovia. Secondo il Lexicon Universale di Johann Jacob Hofmann (1698) il termine "Vennoni" era sinonimo di "Vennoneti".

Grande fautore della conquista del fronte alpino orientale fu Publio Silio Nerva, governatore dell'Illirico, che procedette all'assoggettamento delle valli da Como al Lago di Garda. Intimo amico di Augusto con cui condivideva la passione del gioco, nel 17-16 a.c. fu nominato, probabilmente dallo stesso Augusto extra sortem (senza l'estrazione a sorte), proconsole di Illirico, dove sconfisse e sottomise le tribù alpine ribelli dei Camunni e dei Vennones, e contrastò efficacemente insieme ai suoi luogotenenti un'incursione in Istria dei Pannoni e dei Norici, i quali vennero poi sottomessi.

IN VERDE L'AREA DEI VENNONETI
(INGRANDIBILE)
I Vennonetes vennero però definitivamente sottomessi a Roma, sempre nelle campagne di conquista di Augusto di Rezia e arco alpino, condotte dai suoi generali Druso maggiore (nipote e figlio adottivo di Augusto) e Tiberio (figlio adottivo di Augusto e futuro imperatore) contro i popoli alpini tra il 16 e il 15 a.c. 

Nel 15 a.c. l'azione congiunta di Drudo Maggiore e di Tiberio che avanzarono fino alle sorgenti del Danubio, dove ottennero l'ultima e definitiva vittoria sui Vindelici, permisero ad Augusto di sottomettere le popolazioni dell'arco alpino fino al Danubio, e gli valsero una nuova acclamazione imperatoria, mentre Druso, figliastro prediletto di Augusto, per questa ed altre vittorie, poté più tardi ottenere il trionfo. 

Su una montagna vicino a Monaco, presso l'attuale La Turbie, venne eretto un trofeo delle Alpi.
Infatti il nome dei Vennoneti è ricordato in quarta posizione nel Trofeo delle Alpi ("Tropaeum Alpium"), monumento romano eretto nel 7-6 a.c. per celebrare la sottomissione delle popolazioni alpine e situato presso la città francese di La Turbie:

(LA)
«GENTES ALPINAE DEVICTAE TRVMPILINI · CAMVNNI · VENOSTES · VENNONETES [...].»
(IT)
«Popoli alpini sottomessi: Triumpilini, Camuni, Venosti, Vennoneti [...].»

(Trofeo delle Alpi, Iscrizione frontale)


BIBLIO

- Valerio Lugani - Meravigliosa Italia, enciclopedia delle regioni, volume Trentino Alto Adige - edizioni Aristea -
- Giuseppe Morandini - Trentino-Alto Adige - edizioni UTET - 1971 - 
- Sergio Marazzi - Atlante Orografico delle Alpi - SOIUSA - Pavone Canavese (TO), Priuli & Verlucca editori - 2005 -


CULTO DI AESCULANUS

$
0
0
DEA TEMI ANTICA AESCULANA

Aescolanus fu una remota divinità romana, protettrice dei mercanti, preposta alla coniazione delle monete. Pertanto era una divinità che presiedeva alla fabbricazione delle monete di rame, la prima coniazione di monete che sostituiva il baratto fu in realtà in bronzo, e andò dalla fondazione di Roma nel 753 a.c. a tutto il periodo monarchico dal 753 al 509 a.c. e parte del periodo repubblicano, praticamente fino al III secolo a.c.,

Allora il commercio, precedentemente basato sullo scambio delle pecore (pecus da cui pecunia) non si basava sulla moneta, ma su una specie di baratto o di pseudo monetazione per cui il mezzo di scambio erano gli scarti di lavorazione del bronzo (aes rude), in base al valore e al peso del metallo.

Codesta divinità però (che all'inizio doveva chiamarsi Aesculana), per quanto ora fosse maschile, veniva ancora rappresentata sotto la figura di donna maestosa che si ergeva in piedi con la mano sinistra appoggiala su un'asta e una bilancia nella destra. 

MONETA DI RAME


E' evidente che il Dio era un tempo una Dea, che l'asta era l'immagine del suo aspetto guerriero e pertanto punitivo in caso di offesa alla legge, e che la bilancia nella destra simboleggiava però il suo aspetto di giustizia, come colei che faceva rispettare la legge. Pertanto la Dea era colei che faceva rispettare l'uso della moneta, uso non facile da instaurare dovendo sostituire il baratto usato fino ad allora.

L'asta era il simbolo dell'arma usata in battaglia, quindi la necessità di combattere per sopravvivere, dove era difficile distinguere la difesa dall'offesa, perchè chi attaccava per primo non era benedetto dagli Dei però più facilmente vinceva. 

Pertanto l'antica divinità da un lato combatteva ma dall'altro lato aveva il simbolo della misura e delle giustizia, quindi della continenza in tutte le sue espressioni per non lasciarsi andare agli eccessi. In tal caso garantiva la giusta equivalenza del denaro, una garanzia che doveva essere per forza divina affinchè gli uomini potessero fidarsi.

AESCULANUS SULLA COLONNA DI SINISTRA RAPPRESENTATO
IN UNA STAMPA MEDIEVALE

Quindi una Dea della Guerra ma pure della Giustizia, ovvero colei che rispondeva per giustizia in quanto offesa, per cui conduceva guerre giuste, fatte per difesa e non per smania di potere, ed esercitava la sua giustizia anche in merito all'equità dei commerci e celle monete di scambio. La divinità col tempo divenne maschile in quanto il patriarcato rafforzò sempre di più il potere del maschio, pur conservando i suoi simboli femminili.

Augustine of Hippo (354 - 430), De Civitate Dei 4.21, 28: "Allo stesso modo, infatti, essi presentarono il loro caso ad Escolano, padre di Argentino, perché il denaro di rame (o di bronzo) era entrato in uso per primo e l'argento per ultimo" (nam ideo patrem Argentini Aescolanum posuerunt, quia prius aerea pecunia in usu esse coepit, post argentea).

Esculano, ovvero Aesculanus divenne dunque il Dio delle monete di rame (aes) e padre di Argentino. il Dio delle monete d'argento, visto che alla moneta di rame seguì quella d'argento che non la soppiantò ma solo l'affiancò. La necessità di portare agevolmente grandi valori fece infatti creare una moneta di metallo più prezioso che consentiva perciò di portare meno peso e meno ingombro.



BIBLIO

- Gian Guido Belloni - La moneta romana. Società, politica, cultura - Firenze - NIS - 1993 -
- Italo Vecchi - Italian Cast Coinage. A descriptive catalogue of the cast coinage of Rome and Italy - Ancient Coins - London - 2013 -
- Alberto Banti - Corpus Nummorum Romanorum. Monetazione repubblicana - Firenze, Banti ed. - 1980 -
- H.A. Seaby, Roman Silver Coins - vol I: Republic to Augustus - Londra - 1989 -
- William Boyne - A Manual of Roman Coins: from the earliest period to the extinction of the empire - W. H. Johnston - 1865 -
Edward Allen Sydenham, The Coinage of the Roman Republic, New York, 1952 -

BRACARA AUGUSTA - BRAGA (Portogallo)

$
0
0
L'ANTICA BACARA AUGUSTA

Negli anni 138 - 136 a.c., morto il celebre condottiero lusitano Viriato, ebbe luogo la prima spedizione militare a nord-ovest della penisola iberica, comandata dal console romano Decimo Júnio Bruto Galaico, che vinse una grande battaglia contro i galiziani Bracaros, descritti come grandi guerrieri, con donne altrettanto guerriere, che preferivano morire piuttosto che essere catturati.
 
I Romani conquistarono Bracara nel 137-136 a.c. ma la sottomisero del tutto solamente sotto Augusto. Con le guerre cantabriche, finiscono infatti le operazioni di conquista e inizia la vera romanizzazione del territorio con la fondazione di grandi città e la costruzione di strade per operazioni commerciale e militari, e per la completa integrazione delle popolazioni nel mondo romano.

LA POSIZIONE

Fu a questo scopo che, durante il soggiorno di Augusto nel territorio peninsulare fu fondata la città di Bracara Augusta per promuovere e diffondere la cultura romana nei numerosi centri vicini. Alcuni autori sostengono l'esistenza di un castro, o di un ''oppidum'' (un esteso luogo fortificato, citato da Plinio il Vecchio, come oppidum dei Bracari), prima della fondazione della città di Braga.

Infatti nel 2002 venne rinvenuto uno stabilimento di terme sotto la stazione ferroviaria, a 300 m dal muro dalla città romana di Bracara Augusta. È stato scoperto durante gli scavi della nuova stazione ferroviaria di Braga. È lungo circa 4 m x 2 m di larghezza e, secondo gli archeologi, fu costruito durante il periodo preromano nel nord-ovest della penisola iberica.

BRACARA AUGUSTA RENDE OMAGGIO AL SUO FONDATORE

Lo stabilimento balneare era semi interrato, tipico dei castra dell'epoca, con muri in pietra e soffitto in lastre di pietra che si incastravano alle pareti esterne e trave centrale in legno. L'interno era suddiviso in tre zone: una sauna, un forno e una stanza di transizione intermedia. 

Tra il locale intermedio e la sauna c'è un grande solaio con apertura semicircolare, che permetterebbe l'ingresso e l'uscita dalla stessa. La lastra tratteneva il calore proveniente dalla sauna. All'esterno c'è un patio con un acquaio.

LA CINTA MURARIA

L'acqua che scorreva nel cortile serviva per bagni freddi e lavaggi, e proveniva da una linea d'acqua che scendeva dall'attuale centro cittadino fino al fiume Cávado.. All'interno delle terme, piccole pietre o ciottoli venivano posti nel forno, dove venivano riscaldati onde provocare i vapori che venivano convogliati nella sauna.

Quindi, se questo ''oppidum'' esiste, non è stato ancora scoperto, quindi il sito potrebbe quindi essere stato occupato da:

- Accampamento militare romano, come nel caso di Astorga e Lugo.
- Un luogo di incontro per i vari castros della regione, dove capi e anziani si riunivano per prendere decisioni importanti o risolvere disaccordi
- Un luogo sacro (con occasionale tempio, albero, masso) come luogo di incontro religioso, visto l'esistenza, su un lato della città, della Fonte doidolo, (luogo eretto da Celicus Franto, colono “romanizzato” di Ascobriga, a divinità pagane nel I secolo d.c.) ma che potrebbe già essere stata già sacra, e dall'altra le terme, altro presunto luogo di culto.
- Un mercato, un luogo di incontro ma anche di scambio.

PERSONIFICAZIONE DELLA CITTA' DEA BRACARA

Ad ogni modo questo spazio centrale con tanti castros intorno, potrebbe essere stato un luogo di incontro, una fiera, un luogo in parte sacro e anche con edifici precari. Tuttavia, è molto probabile che le terme non siano l'unico monumento preromano della zona, e che ci sia ancora molto da scoprire.

La città è stata costruita in modo pianificato in modo ortogonale  orientate nord-ovest/sud-est. Era suddiviso in blocchi quadrati, con un'area costruita di 120 x 120 piedi (35,52 m per 35,52 m), occupando complessivamente un'area rettangolare di 29,85 ha. 

GEIRA (VIA NOVA)

La sua origine è civile e il governo condiviso con le élite bracari. I primi decenni della città furono segnati da una grande crescita. Fu costruita la prima infrastruttura urbana con la cloaca, furono edificate le strade, si svilupparono attività economiche (metallurgia, ceramica e commercio) e nuovi quartieri. 

A Bracara Augusta si acquartierarono militari e immigrati che ben presto formarono famiglie. Già negli anni '50 d.c. il commercio svolgeva un ruolo fondamentale nella città e nella regione per l'aumeno della popolazione e soprattutto per l'aumento delle strade.

LE TERME

LA CITTA'  FLVIO-ANTONINA (dal 68 al 192 d.c.)

L'ampliarsi della produzione e del commercio fa si che e Bracara si crea un nuovo collegamento con Astorga mediante la Via Nova (Geira). Contemporaneamente prosegue la costruzione di edifici pubblici e la “monumentalizzazione” della città con teatro, terme, templi, anfiteatro. I quartieri crebbero e le persone benestanti si stabilirono nella parte orientale della città.

Sappiamo da Plínio il Vecchio che il convento di Braga era diviso in 24 civitates con una popolazione di 285.000 persone libere, essendo il più popolato del nord-ovest della penisola. C'era la promozione legale dei pellegrini alla cittadinanza romana, le élite della città e della regione circostante.

Il forte commercio è caratterizzato da importazioni di vetro, ceramica e oggetti di ornamento, alcuni prodotti importati erano di grande qualità e gusto raffinato, il che suggerisce l'esistenza di una potente élite. Le esportazioni sono state caratterizzate da ceramiche e metalli di qualità. La città dell'Alto Impero era già un riferimento a livello peninsulare.

Poco dopo il saccheggio della città di Tarragona da parte dei Franchi durante il regno di Galiano (218 - 268), attorno al centro della città di Bracara (oltre 48 ettari) fu costruita un'imponente cinta muraria larga 5 - 6 m, con torrette, mentre alcune case e monumenti come il teatro e l'anfiteatro vennero parzialmente distrutte per utilizzare la pietra per la nuova costruzione.

TERME DI MAXIMOS PRESSO BRACARA

L'imperatore Caracalla (188-217) creò la nuova provincia di “ Hispania Nova Citerior Antonina ”, futura Galécia, regione del nord-ovest dell'antica Hispania, corrispondente al moderno Portogallo settentrionale alla Galizia, alle Asturie e a León in Spagna. 

Dopo la conquista romana fece parte della provincia romana di Hispania Tarraconense e successivamente si trasformò in una provincia autonoma nota come Hispania Galécia. Tra le città romane della regione c'erano Bracara Augusta (Braga), Portucale (Porto), i centri amministrativi di Bracara Augusta.

Tra il 284 e il 289 d.c., per ordine di Diocleziano, Bracara Augusta diventa capoluogo della Galécia, che comprendeva i tre conventi del nord-ovest della penisola: Convento Braga, Convento Lucense e Convento Asturicense, e parte del convento di Clunia. A Bracara vengono ristrutturati e realizzati edifici pubblici, strade e ville private. Sembra che nel 385 Bracara Augusta avesse già un vescovado così diventa capoluogo della provincia ecclesiastica.

RESTI DEL TEATRO

L'ECONOMIA

Oltre alla produzione agricola, Bracara in epoca romana sviluppò una grande attività nella lavorazione del vetro, della ceramica (lampade ad olio (lucernas), ceramica comune e fine, anfore, dolia, materiali da costruzione.Tra i vari laboratori spicca il marchio “LUCRETIUS”, che riforniva il mercato della Galécia e della Lusitania settentrionale.

Ma la principale fonte di ricchezza per il convento di Braga era l'estrazione di metalli come stagno, ferro, piombo e argento, ma soprattutto oro, estratto dai i fiumi Douro e Sabor, il convento aveva 50 miniere attive, soprattutto a Trás os Montes come Tresminas (Vila Pouca de Aguiar) e Poço das Freitas (Boticas), e nel “Grande Porto” con le miniere di Fojo das Pombas nella Serra de Santa Justa e Pias (Valongo) e le miniere di Castromil (miniere d'oro di Paredes). 

I Romani estrassero da miniere sia a cielo aperto che nel sottosuolo con ingente forza lavoro. ma pure con macchinari come mulini idraulici (martelli) per la frantumazione del minerale grezzo. Le miniere furono sotto il controllo imperiale, con un procuratore metallorum nelle Asturie e in Galizia, responsabile fino a metà II e inizi III secolo, per la grave crisi dell'impero romano. Una fitta rete viaria del convento di Braga assicurava la rapida partenza dei metalli estratti.



IL NODO VIARIO

Braga era legata al triangolo politico-amministrativo, istituito da Augusto, su tre città: Bracara Augusta (Braga), Lucus Augusti (Lugo) e Astúrica Augusta (Astorga) per diversi percorsi:- la Via XVII : Braga-Astorga via Chaves.
- la Via XIX : Braga-Astorga via Lugo.
- la Via XX : Braga-Astorga, in parte via fiume e via mare.
- la Via XVI : Braga-Emerita
- la Via XVIII o Via Nova: Braga-Astorga, il percorso più diretto che taglia tra Serra Amarela e Serra do Gerês.


BIBLIO

- Marques - O Castelo de Braga (1350-1450) - Braga - 1986 -
- Fernando Mota de Matos - Terme romane di Maximinos in "Portugal: Heritage" - Vol I - Á. Duarte de Almeida, Duarte Belo, Círculo de Leitores, Rio de Mouro - 2007 -
- Topografia e urbanistica fondazionale di Bracara Augusta - M. M. Uminho, UAUM; C. Ribeiro UMinho; OH; J. Ribeiro FCT; U. e R. M. Università Rovira i Virgili - Tarragona -
- Gibbone Edoardo - Declino e caduta dell'Impero Romano - Chicago: Encycl. Britannica - collezione "Great Books" - 1952 -

QUINTO SERVILIO FIDENATE - Q. SERVILIUS PRISCUS

$
0
0
TRIBUNO CONSOLARE

Nome: Quinto Servilio Prisco Fidenate. ovvero Quintus Servilius Priscus
Nascita: ... - ... V secolo a.c.
Morte: ... - ... V secolo a.c.
Politico: tribuno consolare nel 402/398/395/390/388/386
Gens: Servilia

TRIBUNI CONSOLARI

I "tribuni militum consulari potestate", cioè i tribuni militari con potestà consolare, o semplicemente i tribuni consolari, aventi quindi i poteri di un console, vennero istituiti durante il cosiddetto "conflitto degli ordini" che nella Repubblica romana iniziò nel 444 a.c. e poi si riaccese dall'anno 398 a.c. al 394 a.c. e dall'anno 391 a.c. fino al 367 a.c.



IL CONFLITTO DEGLI ORDINI

Si trattò di uno scontro politico dibattuto e combattuto fra i plebei e i patrizi al tempo della Repubblica, per un principio di equità della plebe che voleva il diritto alle alte cariche governative e alla parità politica. 

Ci vollero ben due secoli per raggiungere quel risultato che divenne diritto solo nel 287 a.c. con la lex Hortensia, o lex Hortensia de plebiscitiis. Questa legge imporrà infatti che le deliberazioni prese durante il Concilio della plebe, vincolassero il popolo romano, equiparando così i Plebiscita dei concilia plebis tributa, alle leges rogatae, deliberate dai comitia centuriata.

Per Tito Livio e Dionigi di Alicarnasso la magistratura dei tribuni consolari fu creata, insieme alla carica di censore, nel "conflitto degli ordini" onde permettere ai plebei l'accesso alle più alte cariche del governo senza riformare la carica di console che il patriziato difendeva come riservata al suo ordine.



IL PRIMO TRIBUNO CONSOLARE PLEBEO  

La prima nomina avvenne nel 444 a.c. ma solo nel 400 a.c. venne nominato un plebeo, Publio Licinio Calvo Esquilino, alla magistratura del tribunato consolare.

« tuttavia - solo per esercitare il diritto di cui godevano - non si andò più in là dell'elezione a tribuno militare con poteri consolari di un unico plebeo di nome Publio Licinio Calvo. Gli altri eletti erano patrizi e si trattava di Publio Manlio, Lucio Titinio, Publio Melio, Lucio Furio Medullino e Lucio Publilio Volsco. La plebe stessa si stupì di aver ottenuto un tale successo, non meno dell'eletto in persona, uomo privo in precedenza di cariche, semplice senatore anziano e già piuttosto avanti con gli anni. Non si conosce con certezza il motivo per il quale fosse toccato proprio a lui l'onore di godere per primo dell'ebbrezza di quel nuovo incarico
(Tito Livio, "Ab Urbe Condita", V, 12.)

Publio Licino sarebbe stato eletto, per il suo secondo tribunato militare, nel 396 a.c., se non vi avesse rinunciato a favore del figlio, Publio Licinio Calvo Esquilino.

«Se però con i miei colleghi voi scegliete gli stessi uomini di allora trovandoli ancora migliorati grazie al peso dell'esperienza, in me invece non potrete più avere lo stesso Publio Licinio di una volta perché di quell'uomo adesso sono rimasti solo l'ombra e il nome. Il fisico non ha più forza, vista e udito si sono indeboliti, la memoria vacilla e la lucidità mentale si è affievolita». 

Poi, stringendo a sé il figlio, aggiunse: «Eccovi un giovane che è il perfetto ritratto dell'uomo che tempo fa voi avete voluto fosse il primo plebeo a ricoprire la carica di tribuno militare. Questo giovane che io ho cresciuto secondo i miei princìpi di vita lo offro e lo consacro al paese come mio legittimo sostituto e supplico voi, o Quiriti, affinché affidiate a lui che la richiede e per il quale io aggiungo le mie raccomandazioni questa carica che mi è stata offerta senza che io la sollecitassi»

(Tito Livio, "Ab Urbe Condita", V, 2, 18.)



LEGES LICINIAIE SESTIAE

La scelta della forma di governo, consoli o tribuni consolari, di un dato anno, la decideva il popolo al momento delle elezioni, per cui Roma talvolta era guidata da consoli e talvolta dai tribuni consolari, vale a dire scegliendo più le "persone" che i "tipi di carica".

Il numero dei tribuni consolari variò da 3 a 6 ma poiché venivano considerati anche colleghi dei censori, talvolta si parla di "otto tribuni". L'elezione dei tribuni consolari finì nel 367 a.c., con l'approvazione delle leges Liciniae Sextiae, con cui la plebe riuscì ad ottenere l'accesso alla carica di console, regolamentato poi dalla lex Genucia del 342 a.c.



PRIMO TRIBUNATO CONSOLARE

Nel 402 a.c. Quinto Servilio Fidenate venne eletto tribuno consolare con Gaio Servilio Strutto Ahala, Lucio Verginio Tricosto Esquilino, Quinto Sulpicio Camerino Cornuto, Aulo Manlio Vulsone Capitolino e Manio Sergio Fidenate.

Mentre Roma assediava Veio vennero in soccorso della città contingenti di Capenati e Falisci, che attaccarono la zona comandata da Sergio Fidenate, mettendolo subito in difficoltà, anche per l'arrivo di rinforzi veienti.

L'astio tra Sergio Fidenate e Lucio Verginio, che comandava l'accampamento più vicino alle zone del combattimento, causarono la disfatta per l'esercito romano, che vide distrutto l'accampamento dove risiedevano i soldati di Sergio Fidenate.

«L'arroganza di Verginio era pari all'ostinazione di Sergio, il quale, per non dare l'impressione di chiedere aiuto al suo avversario, preferì lasciarsi vincere dal nemico piuttosto che vincere grazie all'intervento di un concittadino. Il massacro dei soldati romani presi nel mezzo durò a lungo
(Tito Livio, "Ab Urbe Condita", V, 8.)

Allora il Senato decise di anticipare la nomina dei tribuni consolari alle calende di ottobre, invece che alle idi di dicembre, e in quell'anno il presidio armato di Anxur fu sopraffatto dai Volsci. le cose andavano male per Roma.

LUCIO FURIO MEDULLINO

SECONDO TRIBUNATO CONSOLARE

Nel 398 a.c. Quinto Servilio Fidenate per la sua saggezza, valore e capacità venne eletto nuovamente tribuno consolare con Lucio Valerio Potito, Marco Furio Camillo (il salvatore della patria), Lucio Furio Medullino, Marco Valerio Lactucino Massimo e Quinto Sulpicio Camerino Cornuto.

I romani continuarono nell'assedio di Veio e, sotto il comando di Valerio Potito e Furio Camillo, saccheggiarono Falerii e Capena, alleate degli etruschi. Intanto si alzarono le acque del lago Albano, e venne interrogato l'oracolo di Delfi, anche se un vecchio augure di Veio, aveva vaticiniato:

«i Romani non si sarebbero mai impadroniti di Veio prima che le acque del lago Albano fossero tornate al livello di sempre.»
(Tito Livio, "Ab Urbe Condita", V, 2, 15)



TERZO TRIBUNATO CONSOLARE

Nel 395 a.c. Quinto Servilio Fidenate, amato dal popolo e stimato da molti senatori, venne ancora rieletto tribuno consolare con Publio Cornelio Scipione, Cesone Fabio Ambusto, Lucio Furio Medullino, Publio Cornelio Maluginense Cosso e Marco Valerio Lactucino Massimo.

Ai due fratelli, Cornelio Maluginese e Cornelio Scipione, fu affidata la campagna contro i Falisci, che però non portò a risultati definitivi, mentre a Valerio Lactuciono e Quinto Servilio toccò la campagna contro i Capenati, che furono vinti e costretti a chiedere la pace.

In città, dove infuriavano le polemiche sulla suddivisione del bottino ricavato di Veio dell'anno prima, si inasprirono ancor più gli animi per la proposta del tribuno della plebe Veio Tito Sicinio di trasferire parte della popolazione romana a Veio, con la ferma opposizione del senato.



QUARTO TRIBUNATO CONSOLARE

Nel 390 a.c. nuovamente Quinto Servilio venne eletto tribuno consolare, stavolta con Quinto Fabio Ambusto, Cesone Fabio Ambusto, Numerio Fabio Ambusto, Quinto Sulpicio Longo e Publio Cornelio Maluginense.

A Quinto Servilio, e agli altri Tribuni, Tito Livio addossa le maggiori responsabilità della sconfitta romana alla battaglia del fiume Allia, prologo del Sacco di Roma ad opera dei Galli Senoni condotti da Brenno. E Quinto Servilio, insieme agli altri Tribuni consolari, fu tra i più strenui sostenitori della proposta di lasciare Roma per stabilirsi a Veio, dopo che i Galli erano stati sconfitti.

«Dopo averla salvata in tempo di guerra, Camillo salvò di nuovo la propria città quando, in tempo di pace, impedì un'emigrazione in massa a Veio, non ostante i tribuni - ora che Roma era un cumulo di cenere - fossero più che mai accaniti in quest'iniziativa e la plebe la appoggiasse già di per sé in maniera ancora più netta»
(Tito Livio, "Ab Urbe Condita", V, 4, 49.)



QUINTO TRIBUNATO CONSOLARE

Nonostante tutto nel 388 a.c. Quinto Servilio venne ancora eletto tribuno consolare, stavolta con Tito Quinzio Cincinnato Capitolino, Lucio Giulio Iullo, Lucio Lucrezio Tricipitino Flavo, Lucio Aquilio Corvo e Servio Sulpicio Rufo.

I tribuni per rivalsa contro gli assalitori guidarono i romani in una serie di razzie nei territori degli Equi e in quelli di Tarquinia, dove presero con la forza Cortuosa e Contenebra, che furono saccheggiate.

«Con un secondo esercito, invasero invece il territorio di Tarquinia, dove presero con la forza le città etrusche di Cortuosa e Contenebra. A Cortuosa non vi fu lotta: con un attacco a sorpresa la presero al primo urlo di guerra e al primo assalto, per poi saccheggiarla e quindi darla alle fiamme.»
(Tito Livio, "Ab Urbe Condita", VI, 4.)

«Contenebra resse invece l'assedio per alcuni giorni, ma l'incessante impegno armato, giorno e notte, senza alcuna tregua ebbe ragione dei suoi abitanti. Siccome l'esercito romano era stato diviso in sei contingenti ciascuno dei quali combatteva per sei ore a turno mentre gli assediati erano così pochi che toccava sempre agli stessi uomini stremati il cómpito di opporsi a forze sempre fresche, alla fine questi ultimi cedettero, e i Romani furono in grado di irrompere in città»
(Tito Livio, "Ab Urbe Condita", VI, 4.)

Intanto a Roma i tribuni della plebe volevano discutere sulla suddivisione dell'agro pontino, strappato ai Volsci nell'anno passato.

MARCO FURIO CAMILLO

SESTO TRIBUNATO CONSOLARE

Ancora due anni dopo, nel 386 a.c. Quinto Seervilio fu eletto tribuno consolare con Marco Furio Camillo, Lucio Orazio Pulvillo, Servio Cornelio Maluginense, Lucio Quinzio Cincinnato Capitolino e Publio Valerio Potito Publicola.

In quell'anno Anzio si rivoltò contro Roma, sostenuta da Latini ed Ernici, il Senato decise allora di affidare le operazioni belliche a Furio Camillo per quanto avanti negli anni, che accettò ma volle con sé il collega Publio Valerio. 

A Quinto Servilio fu affidato il compito di organizzare un esercito da porre nella campagna romana, a difesa della città da possibili attacchi degli Etruschi. Invece Lucio Quinzio ebbe il compito di presidiare le mura cittadine, e Lucio Orazio di organizzare tutto l'approvvigionamento di guerra. Infine a Servio Cornelio venne affidata l'amministrazione della città che egli eseguì con scrupolo ed onore, e non fu pertanto inferiore ai combattenti.


BIBLIO

- Tito Livio - Ab Urbe Condita - V -
- Eutropii Breviarium - Historia Romana - Bien - 1821 -
- Andrea Giardini - con F. Pesando - Roma caput mundi. Una città tra dominio e integrazione - Milano - Electa - 2013 -
- Antonio de Puente y Franco, José Francisco Díaz - Historia de las leyes, plebiscitos y senadoconsultos más notables des de la fundación de Roma hasta Justiniano - 1840 -

TEATRO DI NERONE

$
0
0
FOTO SOPRAINTENDENZA SPECIALE DI ROMA
 
I lavori eseguiti per il parcheggio di un hotel di lusso a Roma, nel cortile di palazzo della Rovere, un edificio rinascimentale del XV secolo, hanno dissotterrato una parte del famoso teatro dell'imperatore Nerone, un teatro di 2000 anni fa. La grandezza dell'edificio, la bellezza delle decorazioni e la preziosità dei materiali fanno pensare a un edificio pubblico, sicuramente il teatro di Nerone, così come venne descritto da Plinio, Svetonio e Tacito, come dichiarato anche da Alessio de Cristofaro, uno degli archeologi comunali che ha partecipato agli scavi.



I NERONIA

Svetonio scrive che durante i Neronia l'imperatore promise di esibirsi in hortis ("nei giardini"), un riferimento indiretto al suo teatro, e Tacito afferma che durante i Ludi Juvenales Nerone cantò per domum aut hortos. I Neronia erano giochi istituiti da Nerone che voleva imitare le Olimpiadi Greche e che si rifacevano a Giulio Cesare e ad Augusto che avevano organizzato giochi celebrativi per festeggiare l'anniversario del loro regno.

NEL CORTILE

La festa era divisa in tre parti: la prima dedicata a musica, oratoria e poesia, la seconda alla ginnastica e la terza alle corse dei cavalli. Sotto Nerone venne indetta due volte, nel 54 e nel 68. Nerone vi partecipava personalmente e costringeva i suoi senatori a partecipare, per esaltarsi quando li superava in molte discipline e il popolo lo acclamava estasiato, come un vero e proprio mito. 

Il popolo romano era molto attaccato all'imperatore perchè gli offriva continuamente spettacoli di ogni genere. Il teatro, oggi nel cortile di palazzo della Rovere, ovvero i suoi resti, durante i lavori di scavo hanno rivelato tracce della decorazione dell'edificio, come pitture murali ed enormi colonne di marmo, che dimostrano la grandezza e la magnificenza di questa costruzione del I secolo d.c..

Il teatro fu costruito sull'area degli Horti di Agrippina Maggiore, madre dell'imperatore Caligola, una grande proprietà della famiglia imperiale giulio-claudia dove fu costruito un enorme circo adibito soprattutto alle corse dei cavalli.

LE COLONNE IONICHE

AGRIPPINA MAGGIORE

Nel 15 d.c. nelle guarnigioni romane sulla frontiera del Reno si era diffusa la voce che una spedizione in territorio barbaro fosse stata sconfitta dai Germani e che questi si stavano preparando a invadere la Gallia. Risaliva solo a sei anni prima la tragica disfatta di Teutoburgo che aveva reso invalicabile la frontiera del Reno.

La notizia era falsa, ma i legionari si preparavano a tagliare il ponte che univa le sponde del fiume per mettersi in salvo. Ma intervenne una donna, Giulia Vipsania Agrippina, moglie del comandante romano Germanico, che in quel momento era assente, che con grande coraggio e determinazione, come narra Tacito, impedì alle truppe il taglio del ponte e, «assumendo le funzioni di comandante, ricevette i soldati di ritorno «ponendosi a capo del ponte e dispensando lodi e ringraziamenti alle legioni che ritornavano».

Ma a Tiberio temeva che Agrippina cercasse il favore dei soldati per suo marito Germanico, e poi; «non rimaneva più alcuna autorità ai comandanti se una donna passava in rassegna i manipoli, si poneva accanto alle insegne, ricorreva al sistema dei donativi» e Tacito era d'accordo.

L'UBICAZIONE

IL TEATRO

Il Teatro di Nerone (Theatrum Neronis) era il teatro privato eretto dall'imperatore Nerone a Roma, conosciuto fino ad oggi solo attraverso le fonti letterarie, ma ora suoi resti sono stati riportati alla luce dagli scavi del 2020-2023 dalla Soprintendenza Speciale Archeologia Belle Arti e Paesaggio di Roma.

Qualcuno ha pensato che la "domestica scaena" citata da Tacito come luogo da cui Nerone ammirò il grande incendio di Roma del 64 d.c. non si riferisca alla torre di Gaio Mecenate sull'Esquilino, ma bensì alla scena del suo teatro, dato che, trovandosi sulla riva destra del Tevere, era ben lontano dalle zone colpite, e quindi un punto di osservazione sicuro, a differenza della torre, che si trovava nel mezzo dell'incendio con possibili rischi.

All'inizio del II secolo d.c., l'edificio venne distrutto per recuperarne i materiali, come testimoniano le cinque colonne di marmo abbandonate in terra. Dalle testimonianze di Plinio, Svetonio e Tacito si sapeva ampiamente dell'esistenza del teatro in quest'area, ma i molti edifici del quartiere, di notevole valore artistico e culturale, ha reso difficile procedere agli scavi archeologici dell'edificio.

LE COLONNE

I resti portati alla luce da sotto palazzo della Rovere del teatro di Nerone riguardano il lato sinistro della cavea e del palcoscenico con elementi architettonici come parti di colonne ioniche scanalate di epoca giulio-claudia (27 a.c.-68 d.c.), marmi bianchi e colorati, stucchi ricoperti di foglia d'oro che evidenziano la grandiosità dell'edificio, oltre poi a vari oggetti d'epoca come vari calici di vetro, brocche e ceramiche.

Nel cortile del palazzo rinascimentale sono state rinvenute due strutture in opus latericium che si affacciavano su un cortile aperto che doveva essere circondato da un portico. Gli edifici devono essere datati all'età giulio-claudia grazie alla testimonianza dei bolli laterizi trovati sui mattoni.

La prima struttura ha una pianta a emiciclo (semicircolare), con ingressi radiali e scale e pareti, che pertanto può essere identificata con la cavea del teatro, dove si trovavano le gradinate per il pubblico. La Scaenae frons (fronte scena) era orientata verso ovest. 

Come già detto, l'apparato decorativo era d'ordine ionico e dai resti si deduce che era rivestito di marmi bianchi e colorati e di stucchi ricoperti da foglia d'oro, come nella Domus Aurea. Il secondo edificio, invece, perpendicolare al primo, era adibito a funzioni di servizio e ospitava forse le scenografie e i costumi.


BIBLIO

- Plinius - Naturalis Historia -
- Suetonius - Nero -
- Tacitus - Annales -
- Paolo Liverani - Due note di topografia vaticana: il theatrum Neronis e i toponimi legati alla tomba di S. Pietro - Pontificia Accademia Romana di Archeologia .  2000–2001, -
- Paolo Liverani - Neronis Theatrum - Lexicon Topographicum Urbis Romae. Suburbium - Quasar - Rom - 2006 -

AGER PUBLICUS

$
0
0


AGER ROMANUS E AGER PEREGRINUS

L’ ager romanus, esteso talvolta a indicare tutto il territorio romano di proprietà quiritaria, è in genere identificato con il più antico territorio di Roma, verso la fine dell’età regia. Esso, indicato anche come a. antiquus, rimase pure in seguito la sola sede atta alla celebrazione di alcuni atti solenni della vita pubblica.

Ager peregrinus è il territorio di Stati stranieri alleati o riconosciuti, su cui sussistono legittimi diritti degli stranieri, mentre l’ a. hosticus indica il territorio di Stati in guerra con Roma o, comunque, privi di qualsiasi relazione con essa.



AGER PRIVATUS E AGER PUBLICUS

Nel territorio di Roma, occorre invece distinguere fra ager privatus e ager publicus populi Romani.
L’ ager privatus è costituito dai terreni in piena proprietà privata (dominium ex iure Quiritium), e da quelli oggetto di una durevole signoria dei privati, tenuti però al pagamento di un vectigal (canone periodico) allo Stato (a. privatus vectigalisque).

Nel diritto romano, l'ager publicus, agro pubblico, era costituito da porzioni di territorio (terreni, fondi, latifondi) con lo stato giuridico di proprietà dello stato. L'Ager era esterno alla città, delimitata dal pomerio. L'ager publicus, nel diritto romano, era dunque l'insieme di porzioni di territorio di proprietà dello stato romano. Lo stato acquistava questi territori soprattutto attraverso l'occupazione militare di altri territori ma talvolta anche attraverso opere di occupazione consenziente. 




LA DEDITIO

Nel IV secolo a.c., la città di Capua Vetere venne assediata dai Sanniti, per cui inviò un'ambasceria a Roma chiedendone la protezione, ma il Senato romano, che aveva in precedenza stipulato un trattato di non belligeranza con i Sanniti, fu costretto a respingere la proposta.

Gli ambasciatori della città campana, disperati perchè conoscevano la ferocia e la distruttività dei Sanniti, decisero di consegnare l'intera città, i suoi abitanti, i campi, gli averi e ogni altra cosa, nelle mani di Roma. Era la cosiddetta "Deditio", per cui Capua diventava territorio romano e come tale doveva essere difesa a tutti i costi.

Infatti Roma si sentì obbligata ad intervenire in sua difesa, dando inizio alla I Guerra Sannita, nel 343 a.c. che terminò con la vittoria romana. Nel 338 a.c. poi Roma le concesse la civitas sine suffragio, ovvero la cittadinanza senza l'esercizio del diritto di voto.



AGRO POPLICO

La prima menzione di ager publicus si trova nel II secolo a.c. nello storico romano Lucio Cassio Emina, che lo usa nei suoi Annales, ma pure l'agro poplico nell'Elogio di Polla e agrum poplicum nella Tavola di Polcevera del 117 a.v.. Tuttavia il termine ager publicus non voleva significare "agro publico" ma "agro conquistato" o "devastato". Publicus derivava dal verbo populare che, come Mommsen spiega, originariamente aveva il significato proprio di "devastare". Infatti alcune fonti parlano di questo ager come ager nemico occupato militarmente.


AGRO PUBLICO

L'accezione di "agro publico" si avrà in età gracchiana quando il termine ager publicus sarà usato per la prima volta, nel 111 a.c. anche nella lex agraria epigrafica. Per Tiberio Gracco l'ager publicus si chiamava così per distinguerlo dall'ager privatus cioè i terreni appartenenti a privati. 

Parte dei territorio in ager publicus veniva concessa ai privati, dopo la centurizzazione da parte dei censori, in:
- 1) proprietà piena (ager divisus et adsignatus per limites in centuriis) dietro il pagamento di un compenso allo stato vectigal, 
- 2) una parte veniva concessa solo in godimento. 
- 3) una parte veniva destinata a scopi religiosi, per la destinazione di templi, 
- 4) una parte veniva destinata alla realizzazione di colonie romane o latine.



ADSIGNATIO

L'acquisto della proprietà a titolo originario era basato sul perdurare per un determinato periodo di tempo del possesso di un bene. Esistevano però diverse forme di ager publicus a seconda della adsignatio (assegnazione):

- ager occupatorius: con e senza corrispettivo in denaro (cioè con o senza canone periodico), forse in origine venne assegnato ai soli patrizi, non dava però luogo ad usucapione, in latino usucapio, un modo di acquisto della proprietà a titolo originario basato sul perdurare per un determinato periodo di tempo del possesso sul bene in causa.

ager scripturarius: terreno concesso a pascolo con pagamento della scriptura, una somma fissa per ciascun animale che avrebbe pascolato in quel territorio;

- ager compascuus: simile all'ager scripturarius, ma assegnato a comunità o a soggetti plurimi (spesso proprietari di fondi confinanti), forse anche senza obbligo di un canone in origine, e utilizzato col mandarvi i propri animali a pascolare. Fu un territorio lasciato ai vicini per il pascolo comune degli animali. Fu la lex Sempronia Agraria a sciogliere i dubbi, classificando il compascolo come ager publicus;

- ager quaestorius: venduto dai questori, conservava il carattere di pubblico e il privato acquistava il possesso tutelato da interdetti e revocabile, pagando il vectigal a titolo di ricognizione;

ager censorius: locato dai censori;

- ager vectigalis: sottoposto al pagamento di un vectigal (canone periodico), si assegnava al privato questo ager dapprima per 5 anni e poi, successivamente, in perpetuo.

- agri redditi: denominazione di un terreno demaniale composto da terreni dei paesi conquistati, che veniva restituito ai vinti dietro il pagamento di un tributo.



AGER ROMANUS

I Romani designavano Ager Romanus antiquus il territorio attorno alla città, per un raggio di cinque o sei miglia dal Campidoglio; la zona era delimitata da confini sacri, rimasti inalterati nonostante le successive conquiste, perché ad essi erano connessi gli auspicia. 



AGER ARICINUS

L'ager contiguo ad Aricia, da essa amministrativamente dipendente e gravitante sui laghi di Albano e di Nemi, con i centri moderni di Albano Laziale e di Genzano. Dell’epigrafia del sacro aricina, vi sono
80 epigrafi per lo più sacre, la maggior parte dedicate alla Dea Diana, ovviamente di Nemi.


AGER VEIENTANUS

(INGRANDIBILE)
Ager Veientanus veniva chiamato il territorio immediatamente a nord, di forma più o meno trapezoidale, dominato da Veio. Il limite con l’Ager Romanus era dato da un modesto corso d’acqua, il Cremera, a est giungeva alla sponda destra del Tevere, a nord era delimitato dalle zone di influenza dei Capenati e dei Falisci, a ovest giungeva fino al settore sud-orientale del lago di Bracciano, al limite con un’altra zona di pertinenza etrusca, quella di Caere.

Il territorio è composto dalle vulcaniti dell’apparato sabatino, dalla cui alterazione sono derivati suoli piuttosto fertili, tanto che già prima della conquista romana l’agricoltura aveva prevalso sulla pastorizia. Le ricerche della British School of Rome hanno accertato la presenza di 16 siti abitativi tra il X e il VII secolo a.c., saliti a 137 nei due secoli seguenti. Oltre a Veio, peraltro, si aveva un solo insediamento di una certa entità, sul monte S. Angelo, che limita a est la conca di Baccano.

Dopo la conquista romana solo Veio, nonostante l’iniziale distruzione, sopravvisse come insediamento di tipo urbano, ma si moltiplicarono i siti di popolamento agricolo nelle campagne: oltre 240 secondo gli studiosi inglesi nel II secolo a.c., saliti a oltre 300 agli inizi dell’era cristiana. Col IV secolo cominciò un declino, ulteriormente aggravato con la caduta dell’Impero Romano d’Occidente e le invasioni barbariche.



AGER CAMPANUS

Capua possedeva in origine un territorio vastissimo: l'ager Campanus che si estendeva, a nord, fino alle pendici del monte Massico e includeva anche l'Ager Falernus, che rimase proprietà della città almeno fino al 338 a.c. quando, entrata a far parte della confederazione romana, dovette cedere quel territorio a Roma.

Tra i provvedimenti punitivi contro Capua, presi da Roma nel 211 a.c. durante la II Guerra Punica per l'alleanza della città con Annibale, il più grave fu l'espropriazione dell'intero ager Campanus, la cui estensione doveva essere di 200.000 iugeri, e che fu dichiarato ager publicus.

Poiché però nel 173 a.c. molta terra era tornata in mano ai privati, Roma effettuò la centuriazione del territorio che venne diviso in appezzamenti di 20 actus x 20 (m. 715 x 715) con strade incrociantesi ad angolo retto.

Poichè nel 130 parte della piana Campana era ancora occupata da abusivi e il senato non riusciva a porvi rimedio, una commissione composta da Gaio Gracco, Appio Claudio e Licinio Grasso tresviri agris iudicandis adsignandis, identificò e e delimitò i terreni pubblici.

LE LEGGI ROMANE

LEGGI LICINIE SESTIE

Le Leggi Licinie Sestie del 367 a.c. ponevano dei limiti allo sfruttamento dell'agro Pubblico, ma i ricchi proprietari che da sempre lo occupavano illecitamente si batterono per non farsi togliere questo privilegio aristocratico. Le leggi erano tre:

- De aere alieno: che le usure pagate si computassero a diminuzione del capitale e che i debitori potessero soddisfare i loro creditori in tre rate annue uguali;
- De modo agrorum: che fosse vietato di possedere più di 500 iugeri di ager publicus e di far pascolare sui terreni pubblici più di 100 capi di bestiame grosso e 500 di minuto, e che ci si dovesse servire di una certa aliquota di lavoro libero. Tale disposizione ebbe in realtà fortune alterne, considerando che in epoca successiva a regolare nuovamente la materia fu emessa la lex Sempronia Agraria;
- De consule plebeio.

Quest'ultima consentiva ai plebei di accedere al consolato e nel 342 a.c. i plebei ottennero che uno dei due seggi del consolato fosse riservato ai plebei. Le leggi, scritte dopo la conquista romana di Veio, sancirono che i suoi territori venissero distribuiti tra la popolazione bisognosa, formando 4 nuove tribù. 

La legge stabiliva inoltre la quantità massima di terreno che un privato poteva occupare: 500 iugeri (circa 125 ettari). Pochi anni prima Brenno e i suoi Galli avevano distrutto la città di Roma e molti plebei si erano indebitati per ricostruire le proprie case. Secondo le leggi delle dodici tavole il creditore poteva rendere schiavo il debitore ed anche ucciderlo, dunque molti plebei rischiavano di divenir schiavi. La legge prevedeva che la cifra prestata fosse restituita in tre anni.

TIBERIO E CAIO GRACCO

LEX SEMPRONIA

A causa dell'abbandono delle campagne, una minoranza di nobili. con a capo Tiberio e Caio Gracco, sostenne una riforma per migliorare le condizioni del popolo e bloccare la crisi agraria. Tiberio, nel 133 a.c. riuscì a farsi eleggere tribuno della plebee presentò la lex Sempronia, che prevedeva che a ogni colono fosse dato un lotto di terra quattro volte maggiore di quello tradizionale (30 iugeri, anziché solo 7) che però sarebbe restato proprietà dello Stato.

La legge limitava a 500 iugeri la terra dell’agro pubblico che un senatore o un nobile poteva occupare temporaneamente. Le terre occupate illegalmente, sarebbero state distribuite ai cittadini meno abbienti.
Ma i senatori convinsero o corruppero l’altro tribuno della plebe, collega di Tiberio Gracco, e cioè Marco Ottavio a porre il veto. Allora Tiberio convocò l’assemblea della plebe e lo fece destituire. La riforma fu subito approvata e il triumvirato agrario iniziò i lavori.

Il senato negò allora i finanziamenti necessari ma Tiberio propose di utilizzare il tesoro del re di Pergamo, Attalo III, che era morto lasciando il suo regno in eredità a Roma, per finanziare tutte le spese I senatori accusarono allora Tiberio di avere violato, con la destituzione di Marco Ottavio, il principio di inviolabilità dei tribuni della plebe e di mirare al potere regio.

I senatori assassinarono Tiberio ma dieci anni dopo, nel 123 a.c., il progetto di riforma fu rilanciato dal fratello Gaio, ma fece la stessa fine: un corpo di arcieri cretesi assaltò l’Aventino, dove i riformatori si erano rifugiati e nel massacro morirono Gaio, suicidatosi per non cadere vivo nelle mani dei nemici, e tremila uomini.

Dopo il massacro, il senato smontò le riforme: i lotti di terra già assegnati ai poveri divennero alienabili, e furono riacquistati dai grandi proprietari (spesso con violenza e minacce); si interruppero il recupero dell’agro pubblico e la ridistribuzione ai nullatenenti; i grandi possessori dell’agro pubblico ottennero il diritto di conservare per sempre le terre occupate in cambio di un canone di affitto molto basso, che presto fu del tutto abolito. Per questa legge agraria morirono poi molti altri rappresentanti della plebe, solo Caio Giulio Cesare riuscirà a varare la legge.

BIBLIO

- L. Capogrossi Colognesi, Persistenza e innovazione nelle strutture territoriali dell’Italia romana - Jovene editore - Napoli - 2002 -
- Carcopino J. - The Political Origins of the Agrarian Program - Problems in European Civilization - Lexington - Heath and Company - 1970 -
- Mommsen T. - Storia di Roma antica - Firenze - Sansoni - 1960 -
- Giovanni Rotondi - Leges publicae populi Romani. Elenco cronologico con introduz. sull'attività legisl. dei comizi romani - Milano - Società Editrice Libraria - 1912 -
- Gabba E. - Il tentativo dei Gracchi - Storia romana - 1990 -

CULTO DI CAMULUS

$
0
0
MARS CAMULUS

Camalus era un Dio celtico conosciuto attraverso delle iscrizioni e delle rappresentazioni (C. VI 46) col Mars romano: BRh. 164 = 0. 1977, di Rindem presso Olivia:

"MARTI CAMULO SACRUM PRO SALUTE TIBERI CLAUDI CAESARIS AUGUSTI GERMANICI IMPERATORIS CIVES REMI QUI TEMPLUM EOMSTITUERUNT;

C. VI 46: ARDUINNE, CAMULO lOVI, MERCURIO, HERCULIS MARCUS QUARTIANUS MARCI FILIUS CIVES SAHINUS REMUS MILES COHORTIS"

Nella mitologia celtica, Camulo (in latino Camulus o Camulos) era la divinità della guerra dei Remi, una tribù celtica, britannica e gallica che abitava nell'area dell'attuale Belgio. Tracce di questo culto sono ritrovate anche in Gran Bretagna. Germania, Croazia, Italia, Francia, Romania, Scozia e Inghilterra.. Cesare narra che i Remi furono fedeli alleati dei romani e offrirono ostaggi e vettovaglie per il suo esercito. (De bello Gallico, II, 3.)

È più spesso equiparato al Marte romano ed è la divinità patrona di Camulodunum (Colchester). La città di Camulodunum, antica fortezza legionaria della provincia romana della Britannia, che corrisponde all'odierna città britannica di Colchester, e poi al centro romano di Colonia Claudia Victricensis. Era posizionata nel territorio dell'antica tribù celtico-belgica dei Trinovanti. Potrebbe anche essere stato patrono dei campioni, soprattutto nei giochi gladiatori.

Camulos è noto grazie alle epigrafi rinvenute in tutta Europa: a Magonza e Rindern, in Germania, dove è equiparato a Marte; a Solin, in Croazia, dove è equiparato a Marte e associato a Giove ed Epona; a Roma, associato ad Arduinna, Giove, Mercurio ed Ercole e a Reims, in Francia. La pietra di Rindern è decorata con un albero su entrambi i lati e un contorno di foglie di quercia. 

Ma le molte iscrizioni in Belgio, nelle regioni di Arlon e Kruishoutern, fanno supporre che Camulos fosse una divinità importante per i Remi, una tribù belga della regione, dai quali era denominato Camulos della Spada Invincibile. Il suo nome deriva dal celtico"Camuloduon", che significa "La Rocca di Camulo" dove Camulo rapprersentava il corrispettivo celtico di Marte, il Dio romano della guerra. 

Il suo nome fu alla base della città leggendaria di Camelot col suo castello d'oro e d'argento. I tolleranti Romani identificato Camulo con Marte e ne accolsero il culto, ma quando subentrò l'intransigente cristianesimo, gli Dei celtici vennero demoliti e i loro templi distrutti come tutti gli altri Dei.
Nelle immagini successive è stato talvolta raffigurato con le corna di un ariete e un invincibile con la  spada. 

CAMULUS RIPRESO DA UNA MONETA CELTICA

Vari reperti riguardanti la divinità sono stati rinvenuti: 
- a Reims (Durocortorum - Gallia Belgica), 
- Arlon (Orolaunum - Gallia Belgica), 
- Kruishoutem e Rindern (Harenatium nella Germania inferiore), 
- Mainz (Mogontiacum nel Germania Superior), 
- Kilsyth/ Bar Hill presso il Vallo Antonino in Scozia, 
- Sarmizegetusa (Colonia Ulpia Traiana Augusta Dacica Sarmizegetusa nella Dacia)  
- Southwark, Londra. 

Queste iscrizioni menzionano Marte Camulo. Si fa spesso riferimento a una pietra votiva a Roma, eretta da Marco Quartinio di Reims che prestò servizio con la guardia pretoriana, dove Camulo sarebbe menzionato senza il collegamento con Marte, ma questo non dimostra nulla. 

- Un'iscrizione trovata a Bar Hill, nel Dunbartonshire, sul muro di Antoine, recita Deo Marti Camulo.      -  Una seconda iscrizione che recita Marti Camulo è stata trovata a Croy Hill.                                            Per il resto, le prove provengono dai nomi dei luoghi:                                                                                  - Camulodunum (Forte di Camulo) oggi Colchester,                                                                                     - Essex e Camulodunum oggi Almondbury, Yorkshire.                                                                                - Anche il toponimo Camulosessa Præsidium (sede di Camulos), identificato come Castle Greg, nel West Lothian, in Scozia, sembra associato a questa divinità,                                                                                  - e la vicina Camilty, che, come Cameltree (XVIII secolo), potrebbe derivare dal brittico Camulos Tref, che significa "villaggio di Camulos".

La recente scoperta di una targa con una nuova iscrizione dedicata a Camulos a Londra recita:                  NVM AVGG DEO MARTI CAMVLO TIBERINIVS CELERIANVS C BELL MORITIX LONDINIENSIVM MVS                                                                                                                         (Per gli spiriti degli imperatori e per il dio Martius Camulos, Tiberinius Celerianus, custode dei guerrieri, Moritex del popolo di Londinium, [offre] questo memoriale in adempimento di un voto).        Moritex, il dedicatario dell'iscrizione, si descrive come custode dei guerrieri, probabilmente coinvolto con i gladiatori di Londra.     
                                                                                                                                                                  Data la possibile etimologia del nome Camulos come "Il Campione" (dalla stessa radice del cimbro camwr [campione] e campwr uno che compie imprese), si può associare Camulos ai gladiatori londinesi. L'interpretazione di Camulos come "campione" può anche alludere alla preferenza dei Celti per i conflitti individuali dei campioni piuttosto che la guerra.

Colonia Victricensis, o semplicemente Colonia, fu la prima delle tre colonie che i Romani fondarono in Britannia (C. in Essex), posta in un oppidum (forte) conosciuto come Camulodunum che significa “luogo fortificato di Camulus”, il dio celtico della guerra. Camulodunum era l’insediamento principale dei Trinovantes e comprendeva il più vasto complesso di terrapieni difensivi esistenti allora in Britannia. 


Dal 10 al 40, fu la sede di Cunobelinus, il più potente tra i re della Britannia. Nel 43 l'imperatore Claudio entrò a Camulodunum, quindi tornò a Roma per celebrarvi il trionfo. Vi fu costruita una fortezza per la legio XX. Nel 49  la legione fu ritirata e fu creata la colonia. La maggior parte delle vie venne conservata e molte caserme furono trasformate in case. 

Le difese legionarie furono rase al suolo e nella parte orientale, al posto degli abitati, vennero costruiti alcuni edifici pubblici. Tra essi vi erano un teatro e un grande tempio dedicato a Claudio. Nel 60/1 i Trinovantes si unirono alla vicina tribù degli Iceni e, guidati dalla regina Boudicca, incendiarono gli insediamenti romani di Camulus, Londinium (Londra) e Verulamium (St. Albans). 

Trent’anni più tardi la colonia di Camulus fu ricostituita e munita di un muro difensivo e di un fossato. Il tempio di Claudio fu restaurato e vi fu ristabilito il culto imperiale, benché sia possibile che nel frattempo Londinium fosse già divenuta più importante di Camulus

Dalla metà del II al III sec. si ebbe un periodo di relativa prosperità. Le abitazioni divennero più grandi e meglio costruite, molte dotate di un cortile o di padiglioni laterali, con pavimenti a mosaico. Vennero edificati diversi templi celtico-romani, il più importante si trovava a Gosbecks, dove era stato costruito un santuario sopra l’oppidum. Intorno al 275 vennero rinforzate le difese della città allargando il fossato e chiudendo tre porte cittadine per ostacolare le incursioni sulla costa orientale. I sobborghi si ridussero fin quasi a scomparire e gli abitanti diminuirono sempre più. 

Una chiesa costruita nel 330 presso un vasto cimitero cristiano dimostra che verso la metà del IV secolo vi doveva essere una notevole comunità cristiana nella colonia. Intorno alla metà del V secolo gli abitanti romano-britanni vennero assorbiti dalla cultura sassone straniera. All’interno delle mura comparvero capanne sparse mentre nelle antiche zone cimiteriali romane si trovano cremazioni sassoni con scudi e armi.



MITOLOGIA

Amando la bellissima Muirné, ma suo padre il druido Tagd è contrario, Cumhal deve rapirla. Allora il druido, per punire il figlio disobbediente, fa entrare il re d' Irlanda , Conn Cetchathach (Conn "alle cento battaglie"), che uccide il rapitore. 

Nella mitologia celtica irlandese , Cumhal (o Cumaill ) è un Dio guerriero molto temuto. È figlio del re dei Tuatha Dé Danann Nuada , marito di Muirné e padre di Finn Mac Cumaill , chiamato Deimne quando era bambino. Cumhal, come il Dio gallico noto come Camulos o Camulus , è stato paragonato a Marte , il Dio romano della guerra.



CAMULUS E MARTE

In Gallia, c'è un Dio Camulos, che i romani assoceranno a Marte. Questo nome è vicino a Cumhal per cui l'eroe "Cumhal" sarebbe solo una figura del Dio della guerra "Camulos" ma non è certo,
I Camulos sono cognomines relativi al Dio romano della guerra Marte, è possibile che Cumhal fosse in definitiva solo un eroico doppio di suo padre, il re degli dei Nuada



I REMI

I Remi, il cui nome significa "i primi" erano un popolo della Gallia Belgica meridionale, posti nella Piccardia francese. La loro capitale fu prima Vieux Reims, a Variscourt, e poi Durocortorum, oggi Reims. Cesare cita l'oppidum remo di Bibrax, presso cui, nel 57 a.c., ottenne un'importante vittoria contro i ribelli della Gallia Belgica. Menzionati più volte da Cesare nel suo De bello Gallico, di cui rimasero sempre fedeli alleati durante tutto il periodo della sua conquista della Gallia .

Dunque Cesare in soli dodici giorni allestisce uomini animali e salmerie, e in soli 15 giorni di marcia serrata raggiunge il territorio, il che fa tremare i Remi, gli abitanti dell'attuale territorio di Reimsche che gli inviano come ambasciatori Iccio ed Andecumborio, capi della nazione, a dire che si rimettono al popolo romano, "che loro non s'erano accordati con gli altri Belgi né si erano alleati contro il popolo romano, che erano pronti a dare ostaggi, obbedire agli ordini, accoglierli nelle città e aiutarli con frumento ed altri beni"



BIBLIO
 
- Un Dizionario di mitologia celtica - Oxford University Press - 2004 -
- Cesare - De bello Gallico -
- N. Crummy, Ph. Crummy,C. Crossan - Excavations of Roman and Later Cemeteries, Churches and Monastic Sites in Colchester - 1871-88 - Colchester - 1993 -
Ph. Crummy et al. - Camulodunum - Colchester - 1995 -

VIA ARIMINENSIS

$
0
0

La via Ariminensis fu un'importante strada consolare romana, che oggi esiste ancora nel suo percorso su reti provinciali attraverso l’Appennino, da Arezzo fino a Rimini. La via venne fatta costruire per scopi militari da Marco Livio Salinatore verso la fine del III secolo a.c. sul tracciato di un antichissimo percorso che collegava l’Etruria alla Val Padana, da cui più volte i Galli scesero per attaccare Roma.

Essa collegava Arezzo, caposaldo a difesa dei confini settentrionali, a Rimini e ai porti dell’Adriatico consentendo un rapido spostamento delle legioni, e la rapidità per l'esercito romano era fondamentale, ma anche un migliore transito commerciale tra Etruria e Valle Padana. 

Inoltre, raccordandosi alla Cassia, che da Arezzo conduceva a Florentia (Firenze) e da qui fino a Lucca (già romana, Livio narra che nel 28 a.c. il console Sempronio Longo si rifugiò a Lucca per sfuggire ad Annibale).

La via si snodava poi fino a Luni, raggiungeva il Mar Tirreno, toccando così entrambi i mari, finchè poi divenne una semplice strada vicinalis in epoca imperiale.

IL PERCORSO

IL PERCORSO

- Uscita da Arezzo in prossimità di Porta San Biagio la via Arimensis attraversava il borgo La Catona (dove sono stati rinvenuti moltissimi reperti archeologici di epoca etrusco romana) e toccava:

- Praedium Tricotianum (Tregozzano), 

- Praedium Camperianum (Campriano), 

- poi, piegando a destra (statale della Libbia), attraverso il passo della Scheggia giungeva al Castello di Montauto.

Poi si biforcava: 
- un ramo si dirigeva verso Castrum Angularium (Anghiari) per poi scendere verso la valle del Tevere, Sansepolcro e Città di Castello (Tifernum Tiberinum);
 
- l’altro ramo procedeva verso Ponte alla Piera, Praedium Asilianum (Sigliano) e Pieve Santo Stefano, ricongiungendosi all'altro ramo.

La strada aveva probabilmente due varianti per entrare in Valmarecchia: 

- la Via Major (risaliva al Passo di Viamaggio e poi, attraversato il territorio di Badia Tedalda  (con antica abbazia costruita su resti romani vicino al castello dei Tedaldi), scendeva al Ranco e seguiva il corso del fiume Marecchia per raggiungere Verucchio e Rimini); 

- la via di Frassineto (dopo l’omonimo valico toccava i territori delle attuali frazioni di Caprile, Fresciano e Rofelle per ricongiungersi con la Via Major al Ranco).

VIA ARIMINENSIS


LA VIA DEL SALE

La località del Ranco fu importante crocevia per la “via del sale” e “dei pescivendoli” verso le abbazie di Camaldoli e Montecoronaro, sede di dogana ma anche di fiere e di mercati, dove si incontravano gli abitanti delle vallate circostanti di Romagna, Marche e Toscana. Da qui la via seguiva il percorso del torrente Marecchia (fluvius Ariminus) lungo la riva destra fino a Rimini.

PORTA MONTANARA, DOVE LA VIA ARIMINENSIS ENTRAVA A RIMINI


PORTA MONTANARA

Il moderno tracciato segue abbastanza fedelmente quello dell’antica via romana e conta numerosi siti archeologici. La costruzione della Porta Montanara di Rimini, detta anche di Sant'Andrea, risale al I secolo a.c. e presenta un arco a tutto sesto, in blocchi di arenaria, che consentiva l'accesso alla città per chi proveniva dalla via Aretina. Il doppio fornice agevolava la viabilità, incanalando in passaggi paralleli il percorso in uscita da Ariminum, attraverso il cardine massimo, e quello in entrata.

Viene attribuito al sistema difensivo cittadino attribuito a Silla. La porta rientrerebbe nell’ambito delle ricostruzioni che nei primi decenni del secolo, seguirono alle rappresaglie nei confronti della città, già sostenitrice di Mario, suo avversario nella guerra civile.

PILONE SUPERSTITE DEL PONTE

IL PONTE ROMANO

Il ponte era costituito originariamente di 5 arcate, su di esso transitò la V coorte di Marco Antonio, luogotenente di Cesare, diretto ad Arezzo per sottometterla dopo il passaggio del Rubicone. Oggi rimane solo un pilone superstite del ponte sul Tevere della Ariminensis all'altezza della frazione di Sigliano a Pieve Santo Stefano AR.



RINTRACCIANDO L'ANTICA VIA

- Il sentiero ha inizio a Badia Tedalda dal “Parco della Memoria”, sopra i campi sportivi.

- Si segue la strada per Tramarecchia per circa 1 km, quindi la si lascia per prendere a destra la vecchia strada che scende a San Patrignano e prosegue poi su sentiero fino alla strada asfaltata per Rofelle (in prossimità del ponte sul Marecchia). 

- Si scende ancora su asfalto e si attraversa il ponte, risalendo in direzione di Rofelle per circa 700 m. 
- A questo punto si lascia l’asfalto e si prende a destra la strada per Giuncheto.

- Dopo poco si prende di nuovo a destra il sentiero CAI 15 con cui si scende fino a guadare un piccolo torrente.

- Ora la traccia e i segnavia si perdono su un campo incolto, ma seguendo il margine del campo delimitato dal bosco, con ampia curva a destra si ritrovano i segnavia poco prima del guado sul Marecchia. 

- Anche traversando diagonalmente il campo, oltre il dosso, è visibile il segnavia che immette sull’ampia traccia che porta al guado. 

- Siamo sempre sul sentiero CAI 15 che conduce alla storica frazione del Ranco, alla confluenza tra il Marecchia e il Presale.

- Dal Ranco si prosegue sempre sul CAI 15 che ricalca ora lo storico tracciato romano fino alla frazione di Mondatio.

- Poi ancora avanti fino alla strada asfaltata che va da Badia Tedalda a Rofelle. 

- Giunti all’asfalto si prende a sinistra e in poco più di 1 km si rientra a Badia.

Lungezza totale: 7,5 km.



Alla scoperta dell'antico tracciato della via Ariminensis, visita guidata al sito archeologico

Una mattina di visite guidate alla scoperta del sito archeologico tra Corpolò e Villa Verucchio che mette in luce l’antico tracciato della via Ariminensis.

La Soprintendenza Archeologia, Belle Arti e Paesaggio di Ravenna, in collaborazione con Scm Group S.p.A., con la ditta adArte Srl e con il supporto dei Musei Comunali di Rimini e del Museo Civico Archeologico di Verucchio, organizza per sabato 8 ottobre tre visite guidate allo scavo archeologico in corso tra Corpolò e Villa Verucchio.

L’indagine archeologica è collegata con un intervento di nuova edificazione da realizzare da parte di Scm Group S.p.A., che tramite alcune indagini a carattere preventivo ha portato al rinvenimento di un interessante sito archeologico con evidenze di epoca romana. 

In particolare, gli scavi hanno messo in luce per la prima volta l’antico tracciato stradale della via che univa la colonia di Rimini alla città di Arezzo (via Ariminensis) e un gruppo di sepolture di epoca romana imperiale.

Le visite guidate, condotte dalla Soprintendenza Archeologia, Belle Arti e Paesaggio di Ravenna e dalla ditta adArte Srl, prevedono la presentazione dello scavo da parte degli archeologi che lavorano sul campo e l’esposizione dei reperti dei corredi tombali recuperati.



Portati alla luce resti della via Ariminensis

Resti della via Ariminensis, che collegava in epoca romana Arezzo con la colonia Ariminum, oggi Rimini, sull’Adriatico, sono stati rinvenuti grazie alla Soprintendenza Archeologia Belle Arti e Paesaggio per le province di Ravenna, Forlì-Cesena e Rimini, a SCM Group e AdArte Srl di Rimini. 

Questa strada, realizzata probabilmente per scopi militari nel III sec. a.C., si impiantava su un percorso precedente che collegava l’Etruria e l’Umbria con la Val Padana già tra il IX e l’VIII sec. a.C.


BIBLIO

- Salvatore Aurigemma - Rimini guida ai più notevoli monumenti romani e al museo archeologico comunale - Cappelli - Bologna - 1934 -

HISTORIUM - VASTO (Abruzzo)

$
0
0
RESTI DI VILLA ROMANA

La storica Histonium (Ἱστόνιον Histónion in greco antico), corrispondente all'odierna Vasto, della provincia di Chieti in Abruzzo, era un'antica città del popolo italico dei Frentani, con un territorio che iniziava a sud del porto di Ostia Aterni (Pescara) e si estendeva fino al Fortore.  I Frentani erano antico popolo italico di lingua osca della costa adriatica centrale, molto affini ai Sanniti, posti nell'Abruzzo sud-orientale e nel basso Molise.

 Histonium, secondo la tradizione mitica, viene fatta fondare da Diomede, il condottiero greco, esule dopo la guerra e la distruzione di Troia. Questi nel suo peregrinare nel Mediterraneo, sbarcò con i suoi reduci nell'Italia meridionale dove fondò diverse città. I coloni greci furono indotti a stabilirsi in loco per via dell'industria ed il commercio della lana. 


IL NOME

La denominazione potrebbe provenire dal greco HERCOS (recinto fortificato) oppure ERCE  dal latino ARX (sommità), ipotizzare ci fosse un'acropoli o una roccaforte; oppure il nome deriverebbe da ARKHAIOS (cioè antico) perchè in queste zone esisteva una colonizza greca, prima dell'arrivo degli italici. 

In località Selvotta venne rinvenuta la lapide che riporta: 
HERRCVLI EX VOTO ARAM / L.SCANTIVS / L LIB.MODESTVS.MAG. / AVG.MAG.LARVM. AVGVST. / M AG. / CERIALLIVM VRBANORVM, riferita a Lucio Scanzio Modesto, capo dei cereali urbani (sacerdoti addetti alla città di Historium).


LA STORIA

Si batterono con la Repubblica romana alla fine del IV secolo a.c., da cui vennero costretti a un' alleanza con Roma, in posizione subordinata. I Frentani erano una popolazione italica che occupava gran parte dell'attuale costa abruzzese meridionale. In seguito alla conquista romana (305 a.c.) il centro frentano si dotò di vari edifici pubblici, in parte ancora visibili.

Tuttavia Roma lasciò loro una certa autonomia interna fino al I secolo a.c., quando si estese a tutti gli Italici la cittadinanza romana, in seguito alla guerra sociale a cui avevano preso parte anche i Frentani. Da allora si accelerò la loro romanizzazione, inquadrati nelle strutture politico-culturali di Roma.

 Nel 91 a.c. il popolo di Histonium, insieme a tutti i popoli italici prese parte alla confederazione dei popoli italici per ottenere il titolo di municipio.

La città fu ricostruita e, nel 117 venne inserita nella regio Sannio. In seguito la città man mano perse d'importanza e decadde. I vari edifici romani furono saccheggiati durante le "Invasioni barbariche" subendone anche le lotte che si susseguirono fino in epoca feudale.

 L'antico nome di Histon da lui dato sarebbe dovuto al fatto che il suo promontorio dal mare ricordasse all'eroe troiano il monte Histone di Corfù.

MOSAICO DI NETTUNO ALLE TERME

In effetti i coloni greci furono indotti a stabilirsi in loco per via della posizione adatta al commercio della lana che già praticavano da Troia. Historium fu infine municipio romano iscritto alla tribù Arnensis. Tra i culti religiosi sono testimoniati quelli di Ercole, di Cerere, del Sole, di Giove Dolicheno. 

In seguito alla conquista romana del 305 a.c. il centro frentano si dotò di vari edifici pubblici, in parte ancora visibili oggi. Nel 91 a.c. il popolo di Histonium, insieme a tutti i popoli italici prese parte alla confederazione dei popoli italici per ottenere il titolo di municipio, che ottenne venendo iscritto alla tribù Arnensis. Le famiglie maggiori di Histonium erano i Didia, gli Helvidia e i Vibia.

Fabio Massimo fece restaurare il campidoglio. La città fu devastata da Silla nella lotta contro Mario. La città fu ricostruita e, nel 117 venne inserita nella regione del Sannio. L'area archeologica del quartiere Gisone sorto sulla città romana è compreso tra via Roma (fuori Porta Nuova) a nord, e via Barbarotta a sud, dentro cui si ergono quattro file di due isolati rettangolari su strade perfettamente ortogonali. 

Il Corso Palizzi è considerato il cardo maximus, e il Corso Dante il decumanus maximus, mentre altri cardi sono costituiti da Corso Plebiscito e di via Adriatica. Presso l'ospedale si trovano alcuni resti murari di un edificio della fine del I-metà del II secolo d.c.,



IL SITO ARCHEOLOGICO

La città antica corrisponde alla città vecchia, che ne ha conservato la pianta almeno in parte. Restano le vestigia di: teatro, anfiteatro, terme, vari acquedotti, serbatoi idrici, mura civiche reticolate, pregiati pavimenti, statue, colonnati di granito orientale, templi.

Nella città moderna si trovano i resti della remota città romana in gran parte riutilizzati sia nelle chiese (Madonna delle Grazie, San Pietro, piazza del Popolo), sia nelle strade e nelle piazze cittadine (Ospedale, Tagliamento, Sant'Antonio, piazza Dante Gabriele Rossetti).

La zona settentrionale della città attuale, vale a dire il centro storico, ricalca  l'antico impianto urbanistico romano. La città antica è infatti corrispondente alla città vecchia, che ne ha conservato la pianta almeno in parte. In quest'area ubicata sulla collina prospiciente il mare si innalzavano i templi e il Campidoglio. 


L'ANFITEATRO

La Piazza Rossetti conserva la forma ellissoidale dell'anfiteatro che fu costruito tra la fine del I e la metà del II secolo Alcuni resti dell'edificio sono tuttavia visibili  visibile sotto teca di vetro allo sbocco di via Cavour sulla piazza, in opus reticolatum inglobati nei sotterranei del castello di Vasto ed in parte nelle mura che si affacciano nel lato orientale della piazza stessa. 

Vi sono anche atri tratti dell'anfiteatro presso la Torre di Bassano e in un negozio della piazza. I resti visibili sono parte dell'ingresso e parte del perimetro ellissoidale dell'anfiteatro. L'anfiteatro di cui una porzione è fuori dal perimetro urbano, realizzato in opus cementizia: misurava circa 225 piedi (67 m ca.) di lunghezza per 210 (62 m) di larghezza. Gli edifici situati nella parte nord-est della piazza sorgono a forma ellittica, presso la Torre di Bassano, segno che dopo la caduta di Roma, l'anfiteatro fu smantellato per ricavarci materiale di costruzione di nuove case. 

La presenza vicino alla piazza di via Naumachia, a fianco della chiesa dell'Addolorata, ha fatto ipotizzare che l'anfiteatro fosse stato usato anche per le celebri battaglie navali. Un'alluvione nel tardo impero romano ricoperse l'anfiteatro di fango, determinandone l'abbandono.

Presso Via S. e F. Ciccarone vi è un rudere detto cappella della Madonna del Soccorso da cui proviene la lastra funeraria di Gaio Osidio Veterano (Caius Hosidius Veteranus) ora posta nel museo archeologico di Vasto. Il sito venne trasformato nel 1442 in carcere ed in seguito, nel 1614, nella cappella di Santa Maria del Soccorso. Nel 1794 risulta abbandonata.


Nel 1817 la porta viene murata, indi, mediante un'apertura sulla volta viene usata come tumulazione per neonati non battezzati e per impenitenti. L'esterno ha una muratura in calcestruzzo di manifattura romana. L'interno con volta a botte presenta un'intonacatura e pavimentazione moderne. 

Nella parte di via Anelli, all'altezza della Scuola d'Arte, è ancora visibile un muro di 20 metri risalente all'epoca romana, nella facciata di una casa civile; in via Tagliamento affiorano resti di un muro in opus caementitia. In via B. Laccetti la chiesetta della Trinità poggia su fondamenta di un'abitazione romana, con visibili resti sulla destra. 

In seguito la città man mano perse d'importanza e decadde. I vari edifici romani furono saccheggiati durante le invasioni barbariche subendone anche le lotte che si susseguirono fino in epoca feudale.

Nella seconda metà del XVI secolo sul pianoro intorno a Santa Maria della Penna erano visibili fra gli altri i resti di due templi e di un teatro, il che potrebbe ricollegare il contesto al noto complesso di Pietrabbondante, e ancora oggi sono visibili i resti di un abitato e forse dello stesso luogo di culto, databili fra IV-III e I secolo a.c.



I TEMPLI

I culti testimoniati a Historium sono quelli di Ercole, di Cerere, del Sole, di Giove Dolicheno. In Via Antonio Bosco 16 vi è un tempietto romano, scoperto nel 1975 in seguito a lavori a palazzi della stessa via, con forma a V e vertice ad ovest. I lati a sud ed a nord misurano 4,90 e 4,30 m, il primo lato ha un basamento di 25 cm ed una cortina di 10 cm, mentre il secondo ha il basamento e la cortina 10-50 cm. I muri interni ed esterni sono in cortina laterizia con mattoni di 25 cm X 15 X 3 con colori dal rosso vivace all'ocra.

I templi, di cui si ha riferimento da antichi documenti, vennero riordinati dallo storico Luigi Marchesani: 
- un Tempio dedicato al Dio Elio presso la chiesa di Sant'Antonio di Padova, sopra cui oggi poggia la cappella della Madonna delle Grazie, 
- quello della Dea Cerere nell'area dove venne eretta la chiesa collegiata di San Pietro, 
- il tempio di Giove Delicheno o Ammone sorgeva presso Piazza del Popolo, 
- insieme al vicino tempio di Bacco. 
- In località Selvotta si trovava il tempio di Ercole, con la lapide conservata nel Museo archeologico del Palazzo d'Avalos.

Nel 1888 fu rinvenuta, presso la chiesa di Santa Maria della Penna in località Punta Penna, una lastra di rivestimento in terracotta appartenente ad un edificio templare, oggi conservata presso il Museo Civico Archeologico di Vasto. 

 Il motivo principale consiste in due teste contornate da elementi vegetali: in quella di sinistra appare riconoscibile Ercole con la clava sulla destra, l'altra con volto largo e piatto e capelli a fiamma, sembra attribuibile ad una figura femminile inquadrate da una cornice di motivi vegetali, con grossi fiori a forma di campanula. 

CAVALLUCCIO MARINO

LE TERME

Nella zona del Muro delle Lame, dopo la frana del 1956 che inghiottì parte del quartiere, ci fu l'affioramento di un pavimento a mosaico di grande valore, e delle fondamenta dell'edificio termale presso l'ex convento di San Francesco. In Via Adriatica le terme del II secolo d.c. sono divise in tre livelli. Il restauro eseguito a partire dal 1994 ha ricollocato in situ un mosaico riportato alla luce nel 1974 un mosaico con raffigurazioni di Nettuno col tridente.

Da queste terme il mosaico di Nettuno, di ben 13.50 x 12.60 m, per un totale di 170 mq, uno dei più estesi mosaici mai rinvenuti lungo l'intera costa adriatica, ha una decorazione molto articolata, basata su un raffinato intreccio di elementi vegetali stilizzati all'interno del quale campeggia la possente figura del Nettuno con il tridente e quattro Nereidi, due in sella a cavalli, una ad un drago, e una ad un cavallo marino. 

Il mosaico è tessere bianche su sfondo scuro e risale alla prima metà del II secolo d.c. 
 Gli scavi del 1997 hanno riportato alla luce quattro ambienti destinati ad essere riscaldati e il praefurnium, la fornace che riscaldava i locali presso l'ingresso. 

L'ANFITEATRO SOTTO PIAZZA ROSSETTI

 ANFITEATRO 

La Piazza Rossetti conserva la forma ellissoidale dell'anfiteatro. L'anfiteatro fu costruito tra fine I secolo e metà II secolo d.c.. Alcuni resti dell'edificio sono tuttavia visibili, trattasi di resti in opus reticolatum inglobati nei sotterranei del castello di Vasto ed in parte nelle mura che si affacciano nel lato orientale della piazza stessa, ma vi sono anche atri tratti dell'anfiteatro presso la Torre di Bassano e in un negozio della piazza. 

I resti visibili sono parte dell'ingresso e parte del perimetro ellissoidale dell'anfiteatro. In via Pampani nel 1854 venne estratto un pavimento musivo, lungo via Santa Maria Maggiore sono visibili tracce di antiche fondazioni, che corrispondono all'anfiteatro di Piazza Rossetti, di cui una porzione è visibile sotto teca di vetro allo sbocco di via Cavour sulla piazza) fuori dal perimetro urbano, realizzato in opus cementizia.

Il teatro misurava circa 225 piedi X 210 (67 X 62 m). Gli edifici situati nella parte nord-est della piazza sono a forma ellittica, presso la Torre di Bassano, segno che dopo la caduta di Roma, l'anfiteatro fu smantellato per ricavarci materiale di costruzione di nuove case. 

La presenza vicino alla piazza di tal via Naumachia, a fianco della chiesa dell'Addolorata, ha fatto ipotizzare che l'anfiteatro fosse stato usato anche per le celebri battaglie navali, data la presenza degli acquedotti di alimentazione idrica. Un'alluvione avvenuta nel tardo impero romano coprì l'anfiteatro di fango, determinandone l'abbandono.
 

ACQUEDOTTI E CISTERNE

Nel 1614 furono rinvenute in via Lago delle condotte, che si dirigevano verso le chiese di San Giovanni dei Templari e di San Pietro (il Murello), mentre l'acquedotto delle Luci invece era già disseccato.
In via Cavour sono presenti i ruderi delle cisterne di Santa Chiara realizzate in opus signinum. Le cisterne erano alimentate dall'acquedotto delle Luci. Le cisterne erano degli ambienti rettangolari con volta a botte comunicanti tra loro mediante arcate. Anche in Via V. Laccetti vi sono delle Piccole Cisterne.

PARCO ARCHEOLOGICO SOMMERSO DI VASTO (HISTONIUM)

IL PARCO SUBACQUEO

Importanti presenze archeologiche dell'antica città come muri, absidi, colonne e resti di edifici attendono di essere ammirati a Histonium nel piccolo paradiso del Parco archeologico sommerso nel tratto di costa vastese compreso tra il Monumento alla Bagnante e il trabocco “Concarerella”, centro portuale dell'antica città.

Lo storico Luigi Marchesani riferisce che i resti murari attualmente sommersi riemersero nel 1816 e che furono quindi visti dai Vastesi quando le acque del mare si ritirarono a causa dell’innalzamento del fondale, avvenuto in coincidenza di un’enorme frana che sconvolse il settore orientale del promontorio su cui sorge Vasto. Nel 2014 è stato pubblicato per la prima volta un saggio che documenta ed inquadra storicamente l’esistenza del centro.

 
EPIGRAFI

Il materiale archeologico, proveniente dalla città e dai dintorni, e in particolare la ricca collezione epigrafica, sono esposti nel Museo Civico. 
- Notevoli due lastrine bronzee con iscrizioni osche, che testimoniano l'esistenza dell'abitato in età preromana.
- Caio Hosidio Geta, che nel 43 fu legato dell'Imperatore Claudio, al comando dell'esercito romano, sbaragliando i nemici in Inghilterra; divenne console e ricevette le insegne del trionfo a carico dell'impero, testimonianza se ne ha dai resti del monumento pedestre che gli venne dedicato a Histonium.
- Publio Paquio Sceva, questore e giudice, pretore dell'erario e proconsole di Cipro. Il suo sepolcro si conserva nel museo del Palazzo d'Avalos, insieme alla moglie Flavia. 
- Marco Bebio che fu edile della città, e questore e sacerdote, nominato dall'imperatore Tito Flavio Vespasiano. Alla sua morte gli histoniensi gli eressero una statua, di cui si conservano elementi nei musi civici.
- Il più famoso fu però il poeta decorato d'alloro al Campidoglio nel 106 d.c., Lucio Valerio Pudente, nominato da Antonino Pio procuratore delle imposte a Isernia. 



 NECROPOLI

La necropoli più grande risale al V-II sec a.c. e si trovava lungo viale Incoronata, le sepolture erano allineate lungo la via del tratturo che collegava le città di Egnazia, Anxanum, Ortona, Larinum, Cliternia. Presso la città, le tombe si dispongono lungo i lati nord e ovest, e una via lastricata che  scendeva al mare presso la chiesa della Madonna delle Grazie, dove si scoprirono due tratti che racchiudevano l'area di un grande cimitero.

TOMBA DI PAQUIUS SCEVA
La prima parte comprende via Crispi e via Roma sud, il vallone San Sebastiano ad ovest e la chiesa della Madonna delle Grazie ad est, con tombe a tegoloni, pavimento musivi, in opus spicatum e cementizia, con rivestimento in opus reticulatum; dal vallone di San Sebastiano le tombe proseguono in Piazza Diamante, scendendo sino a Piazza Barbacani. 

Le tombe sono a l'inumazione, l'incinerazione  è rara, i sepolcri sono a tegoloni, con copertura a cappuccina, ma anche di altri tipi, come il sarcofago monumentale di P. Paquius Sceva. 

Il monumento più importante è infatti il grandioso sarcofago dove erano sepolti P. Pacuvio Sceva e la moglie Flavia. All'interno del sarcofago, sui lati rispettivi, sono incise le iscrizioni che si riferiscono ai due defunti. In quella di Sceva è riportata la brillante carriera del personaggio. Il sarcofago appartiene ad un raro tipo di età augustea, utilizzato da personaggi che preferivano l'inumazione in un periodo di quasi universale diffusione della cremazione.

Molte tombe nell'area di Santa Maria del Soccorso, dove si trova una cappella, con pavimenti musivi rinvenuti fuori dall'abitato, coincidendo nell'area della Madonna delle Grazie con opus spicatum, e nei sepolcri rinvenuti nell'area conventuale di Santa Lucia, fuori Vasto. In contrada "Incoronata"è venuta alla luce una necropoli molto interessante.

Alcune lapidi, tra le meglio leggibili, riportano di :
- Faustina, vissuta 15 anni. 
- Caio Figellio Frontone vissuto 9 anni otto mesi e due giorni (presso la chiesa di Santa Maria Maggiore - Tito Giulio Hilari Pudente (presso la raccolta dei baroni Genova Rulli).
- Mevia Vittoria dedicata alla sorella Cassandra (in Piazza Barbacani).

Il monumento più importante è però il grandioso sarcofago dove erano sepolti P. Pacuvio Sceva e la moglie Flavia. All'interno del sarcofago, sui lati rispettivi, sono incise le iscrizioni che si riferiscono ai due defunti. In quella di Sceva è riportata la brillante carriera del personaggio. Il sarcofago è a inumazione. 

Nel Palazzo d'Avalos, insieme a sculture come il busto in marmo con basamento, che componeva la scultura del poeta vastese Lucio Valerio Pudente, un busto acefalo di donna, diverse statue e lucerne in terracotta, idoli in bronzo. 


BIBLIO

- AA. VV., Histonium, resti della città romana, in Musei e siti archeologici d'Abruzzo e Molise, Pescara, Carsa edizioni, 2001 -
- A. Marinucci, Le iscrizioni del Gabinetto Archeologico di Vasto, in "Documenti di antichità italiche e romane" Vol. 4, Tipografia Centanri 1973 -
- A.R. Staffa, Dall'antica Histonium al castello del Vasto, Fasano di Brindisi: Schena Editore, 1995 -
- L. Marchesani, Storia di Vasto. Città in Abruzzo Citeriore, Napoli 1838 -
- AAVV - Dall'antica Histonium al Castello del Vasto - a cura di A.R. Staffa - Fasano di Brindisi - 1995 -
- AA.VV - Parco Archeologico delle Terme Romane - Vasto, in Trigno Sinello, Amore a prima visita, Brochure Trigno-Sinello Card - Vasto - 2007 -

CARPI (Nemici di Roma)

$
0
0

I Carpi o Carpiani erano una tribù dacica che risiedeva nella Romania orientale, in Moldavia, dal 140 circa fino almeno al 318. Sembra che i Carpi fossero una tribù della nazione dacica, per altri erano una serie di gruppi etnici, tra cui Sarmati, Traci, Slavi, popoli germanici, Balti e Celti.

I Romani li chiamavano Carpi o Carpiani. La prima menzione di questi popoli, come Carpiani, si trova nella Geographia del geografo Tolomeo del II secolo d.c.. Il nome potrebbe derivare dalla catena montuosa dei Carpazi che essi occupavano, anch'essa citata per la prima volta da Tolomeo con il nome di Καρπάτης - Karpátēs. Oppure significava "popolo dei Carpazi", o ancora potrebbe derivare dalla parola slava krepu che significa "forte" o "coraggioso".

L'iscrizione sulla lapide di Publio Elio Proculino, centurione della Cohors VII Praetoria (Philippiana) "mancato nella guerra dacica a Castellum Carporum", secondo Bichir e altri, si riferisce alla guerra contro i Carpi condotta dall'imperatore Filippo l'Arabo nel 246/7, e il castellum Carporum è la roccaforte dei Carpi, menzionata da Zosimo, dove si svolse la battaglia finale della campagna. Ciò dimostrerebbe che i Carpi fossero Daci. Ma altri identificano il castellum Carporum come un forte ausiliario romano sul basso Danubio,

Lo studioso rumeno Vasile Pârvan ha ritenuto che i seguenti popoli registrati nelle fonti antiche corrispondano ai Karpiani di Tolomeo;
- i Kallipidai, menzionati nelle Storie di Erodoto del 430 a.c.. come residenti nella regione del fiume Borysthenes (Dnieper);
- i Karpídai, intorno alla foce del fiume Tyras (Dniester), ricordati nello Pseudo-Scymnus del 90 a.c.;
- gli Harpii, situati vicino al delta del Danubio, citati da Tolomeo.
In tal caso i Carpi sarebbero migrati verso ovest nel periodo 400 a.c. - 140 d.c.

GUERRE DACICHE

- 106 - 318 - Dalla conquista romana della Dacia, Bichir identifica due culture distinte in Moldavia, una cultura sedentaria, "daco-carpica", iniziò intorno al 106 e scomparve intorno al 318 e una cultura più piccola simile ai popoli nomadi delle steppe eurasiatiche, "sarmatica".

- 230 - I Sarmati e i Bastarnae sono attestati in Valacchia, Moldavia e Bessarabia. Vi furono ripetute incursioni dei Carpi a sud del Danubio scontrandosi con i Romani nel III secolo, è probabile che verso il 230 i Carpi avessero esteso la loro egemonia sulla Valacchia orientale, precedentemente dominata dai Roxolani.

- 250 - 270 -Tolomeo, che li cita come pacifici nei confronti di Roma, nel 238 li menziona come uno dei nemici più persistenti di Roma. Nel 250-270 i Carpi si coalizzarono con tribù barbare transdanubiane che comprendevano anche elementi germanici e sarmati, autori della "crisi del terzo secolo".

- 270 - 318 - gli "imperatori militari" romani li sconfissero nel 273, nel 297, nel 298-308 e nel 317, trasferendoli poi con la forza nella Pannonia (Ungheria occidentale), per ripopolare le province danubiane devastate con le tribù barbare arrese. Poiché i Carpi non sono più menzionati dopo il 318, è possibile che i Carpi siano stati in gran parte rimossi dalla regione dei Carpazi verso il 318 o, se ne sono rimasti, si mescolarono con altri popoli residenti o immigrarono in Moldavia, come i Sarmati o i Goti.



GLI INSEDIAMENTI

Nel 1976 erano stati identificati 117 insediamenti sedentari, 89 dei quali a ovest del Siret, all'interno dei confini della Dacia definiti da Tolomeo. Vivevano sia in abitazioni di superficie sia in capanne con il pavimento infossato: 
- le abitazioni di superficie, a una sola stanza, erano in argilla e terra battuta, rettangolare o quadrata, tra i 9 e i 30 mq. con un focolare in argilla al centro della stanza.
- le capanne in terra cruda, più numerose, sono invece ovali o tonde. Cremavano i loro morti, ponendo le ceneri dentro le urne. 
Alcune tombe contenevano corredi funerari, ma nessuna arma a parte un unico pugnale. Tra i beni comuni vi sono coltelli, chiavi e fibbie per cinture; specchi, orecchini d'argento, pendenti e perline d'oro.

La cultura sedentaria non emetteva moneta, ma la moneta romana circolò "intensamente" nel loro territorio, come dimostrano  90 ripostigli di monete rinvenuti in Moldavia e circa 100 monete isolate. Ma la circolazione delle monete romane  cessò dopo il 218, dato che non sono stati trovati depositi di monete e solo 7 monete isolate dopo Caracalla (211-218).

Le tombe della cultura nomade sono prevalentemente di inumazione e sono state trovate, nel 1976, in 38 località della Moldavia. Si trovano prevalentemente in pianura, singolarmente o in piccoli gruppi di 2-13 tombe. La grande maggioranza delle tombe della cultura nomade è piatta e contiene sempre corredi funerari, armi e specchi incisi. I sedentari costituivano la maggioranza della popolazione della Moldavia.

FILIPPO L'ARABO

I NEMICI DI ROMA

- 200 - Intorno al 200 iniziarono i grandi spostamenti barbarici forse per la Peste Antonina (165-180), che uccise15-30% degli abitanti dell'impero romano. I Carpi Vengono descritti da Jordanes come "una razza di uomini molto desiderosi di fare la guerra e spesso ostili ai Romani".

- 238 - I Carpi attaccano i romani a sud del Danubio, sotto Gordiano III e i senatori Balbino e Pupieno Massimo, perchè il governatore della Moesia Inferiore, Tullio Menofilo, non vuole versare il sussidio annuale per mantenere la pace. Tuttavia, il governatore riuscì a scacciare i Carpi nel 239.

- 245-247 - sotto Filippo l'Arabo (244-249) i Carpi devastarono la Moesia inferiore. Poichè i governatori non riuscirono a respingere l'invasione, l'imperatore assunse il comando e lanciò il contrattacco ricacciandoli oltre il Danubio. Il corpo principale dei Carpi si rifugiò in una grande roccaforte, dove furono circondati e assediati da Filippo. Gli assediati inscenarono una sortita per distrarre i Romani dall'avvicinarsi dei soccorsi. Ma gli equites Maurorum di Filippo (cavalleria leggera berbera proveniente dal Nord Africa) li intercettarono, costringendo i Carpi a chiedere la pace. Filippo fu acclamato Carpicus Maximus.

- 250-251 - I Carpi parteciparono a una massiccia invasione transdanubiana della Moesia e della Tracia sotto la guida del re goto Kniva limitandosi però al saccheggio: la cattura del maggior numero possibile di schiavi, cavalli, tesori e altri beni da portare nelle loro terre d'origine oltre il Danubio. Nel 250, i Goti si erano spostati a sud, nell'Ucraina occidentale, e compivano frequenti incursioni nell'impero insieme alle tribù locali.

L'orda di Kniva pare comprendesse Goti, Taifali, Vandali, Roxolani, oltre ad alcuni veterani rinnegati dell'esercito romano. Goti e Bastarnae entrarono nella Moesia inferiore, guidata dai due luogotenenti di Kniva. L’assedio di Marcianopoli da parte di una delle colonne di Cniva è respinto, così come l’assedio di Novae, guidato da Cniva stesso. Qui Kniva sarà respinto dal futuro imperatore Treboniano Gallo.
Ancora, quando Kniva punta a sud verso Nicopoli sull’Istro, viene sconfitto in battaglia da Decio, seppur non in modo decisivo.

Il contingente di Carpi contava 3.000 uomini, a fronteggiare l'invasione c'era l'imperatore Decio Traiano, un generale esperto e comandante di Filippo sul fronte danubiano, succeduto al suo patrono dopo che quest'ultimo era stato assassinato da truppe ammutinate nel 249, e Caio Treboniano Gallo, nominato governatore della Moesia Superiore. A Gallo venne affidato il comando delle forze nei forti di frontiera lungo il Danubio, mentre l'imperatore comandava una forza mobile di assalto.

GOTI

Kniva a sorpresa attraversò inosservato le montagne dell'Haemus (Balcani) per entrare in Tracia, in gran parte indifesa. L'imperatore dovette portare il suo esercito in Tracia a marce forzate. A Beroe (Stara Zagora, Bulgaria), Kniva sferrò un attacco a sorpresa all'esercito romano esausto, infliggendogli una grave sconfitta. L'imperatore dovette ritirarsi nella Moesia inferiore e a lasciare che la Tracia al saccheggio dei barbari. L'orda di Kniva assaltò Philippopolis (Plovdiv, Bulgaria) e trascorse l'inverno del 250/251 nella provincia.

Intanto Decio ricostruì il suo esercito nella Moesia inferiore e nel 251, mentre l'esercito barbaro si dirigeva verso il Danubio, carico di un'enorme quantità di bottino, fu intercettato dall'imperatore ad Abrittus, nella Moesia inferiore. In una dura battaglia, il grosso delle forze di Kniva fu sbaragliato. 

L'imperatore guidò quindi i suoi uomini attraverso una palude per attaccare la forza di riserva di Kniva, che custodiva il bottino dei barbari. Ma i Romani si immobilizzarono nel pantano e morirono tutti, compreso l'imperatore e suo figlio, massacrati a lunga distanza dagli arcieri di Kniva o annegati.

Quando la notizia del disastro raggiunse le legioni rimaste sul Danubio, queste proclamarono imperatore il loro comandante Gallo che concluse una pace con i Goti, che permise loro di tornare in patria con il bottino intatto e garantì la ripresa dei sussidi. Ma l'esercito romano fu paralizzato da una devastante pandemia di vaiolo, (251 - 270 circa) peggiore dell'epidemia antonina, che uccise il 15-30% degli abitanti dell'impero. I barbari transdanubiani invasero più volte il territorio imperiale. 


- 252-253 - I Carpi si unirono ai Goti e a due tribù sarmatiche (Urugundi e Borani) devastando la Moesia e la Tracia e le forze romane del basso Danubio non furono in grado di impedirlo. 

Infine, furono intercettati sulla via del ritorno da Emiliano, comandante dell'esercito di Pannonia con un attacco a sorpresa che li sconfisse. 

Inseguirono i barbari nelle loro terre d'origine, recuperando grandi quantità di bottino e liberando migliaia di civili romani che erano stati rapiti. 

Caio Valerio Serapio infatti dedicò un altare ad Apulum (Alba Iulia), nella Dacia romana, come ringraziamento per essere stato liberato dai Carpi[

Emiliano fu acclamato imperatore dalle sue truppe vittoriose e marciò su Roma, dove le forze di Gallo uccisero il loro capo piuttosto che combattere contro l'esercito danubiano. 

Ma solo tre mesi dopo, Emiliano fu a sua volta assassinato dalle stesse truppe che si sottrassero a Valeriano (253-260), comandante delle forze sul Reno, che aveva marciato in Italia per salvare Gallo.

Valeriano fu proclamato imperatore ed elevò il figlio Gallieno (253-268) ad Augusto (co-imperatore). L'impero subì molteplici e massicce invasioni barbariche sul Reno, sul Danubio e in Oriente; almeno 11 generali lanciarono colpi di stato; l'impero fu diviso in tre parti autonome; lo stesso Valeriano fu catturato dai Persiani e morì dopo anni di prigionia.

- 256-257 - I Carpi, con gli stessi alleati del 253, invasero la Moesia, la Tracia e assediarono senza successo Tessalonica in Macedonia. Valeriano e Gallieno sono costretti a lasciare subalterni con forze inadeguate, essendo occupati, il primo contro i Persiani, il secondo sul Reno contro i Germani. Gli Ateniesi ricostruirono le loro mura già demolite da Silla nell'87 a.c.. I barbari vennero sbaragliati dal luogotenente di Gallieno, Aureolo, che portò a Roma molti prigionieri.

- 259-260 - Gli Sciti, compresi i Carpi, si divisero in due eserciti. Uno invase la Grecia e saccheggiarono Atene. L'altro giunse alle mura di Roma, dove il Senato romano armò la popolazione civile per presidiare i bastioni, poiché Gallieno era sul Reno a combattere l'usurpatore Postumo. I Goti passarono allora a devastare tutta l'Italia. Furono infine scacciati dal luogotenente di Gallieno, Macriano, che portò in Italia l'esercito del Reno.

- 256-268 - Altre grandi invasioni "scite" nel 265-266 e nel 267-268, che fu un'invasione marittima nel Mar Egeo, e che devastò la Tracia. Fu fermata dall'imperatore Claudio II Gothicus, che distrusse l'esercito barbaro a Naissus (268). 

Avvenne una ripresa militare dell'impero sotto il ferreo dominio dei cosiddetti "imperatori illirici", un gruppo affiatato di militari di carriera con origini comuni nelle province e nei reggimenti danubiani, che dominarono l'impero per oltre un secolo (268-379). Questi non solo sconfissero le tribù transdanubiane ma reinsediarono le tribù sconfitte nelle province danubiane dell'impero, devastate dalla peste e dalle invasioni barbariche.

AURELIANO

- 272 - L'imperatore Aureliano (270-275) vince i Carpi, e gli viene concesso dal Senato il titolo di Carpicus Maximus. In seguito reinsediò un gran numero di prigionieri carpigiani nei dintorni di Sopiana (Pécs, Ungheria), nella provincia romana della Pannonia.

- 296-305 - nel 296, l'imperatore Diocleziano (284-305) entrò in guerra contro i Carpi, vincendoli in modo schiacciante nel 297. Diocleziano diventa Carpicus Maximus. Nel 298, Diocleziano affidò il comando del basso Danubio al suo Cesare, cioè a Galerio che inflisse ai Carpi altre quattro sconfitte in due anni. 

- 305-311- Dopo essere stato nominato Augusto (imperatore a tutti gli effetti) nel 305, Galerio rivendica per la sesta volta il titolo di Carpicus, in un momento del suo regno.

- 318 - L'imperatore Costantino I il Grande (312-337) è registrato come detentore del titolo di Carpicus Maximus in un'iscrizione di quell'anno. Ognuna di queste acclamazioni probabilmente implicava l'uccisione di almeno 5.000 Carpi (come tradizionalmente richiesto per la concessione di un Trionfo a Roma). Per i Carpi, queste sconfitte furono accompagnate da deportazioni di massa e dal reinsediamento all'interno dell'impero, centinaia di migliaia di deportati. Secondo Victor, che scrive nel 361, l'intero popolo carpigiano rimasto fu trasferito nell'impero.

Dopo la morte di Costantino, la pianura valacca e la Moldavia caddero sotto il dominio del ramo dei Thervingi della nazione gotica, come dimostra l'esistenza di un consistente regno gotico alla metà del IV secolo. La Transilvania sembra essere stata dominata nel IV secolo da un gruppo, probabilmente germanico, i Taifali anche essi sotto tutela gotica.

- 350 - Dopo il 350, questi regni germanici furono sopraffatti dagli Unni, dando luogo alla grande migrazione dei Transdanubiani, guidata dai Goti, attraverso il Danubio, che culminò nel disastro romano della battaglia di Adrianopoli nel 378. I Carpi non sono menzionati da nessuna parte nel dettagliato resoconto di Ammiano di questi eventi epici, suggerendo che chi era rimasto a nord del Danubio aveva probabilmente perso la propria identità.


BIBLIO

- Bichir, Gh. - The History and Archaeology of the Carpi from the 2nd to the 4th centuries AD - 
- Zosimus - Historia Nova - 1976 -
- Halsall, Guy - Barbarian migrations and the Roman West, 376-568 - Cambridge Univ. Press - 2007 -
- Ammianus Marcellinus - Res Gestae -
- Eutropius - Historiae Romanae Breviarium -
- Anonymous - Historia Augusta -
- Ptolemy - Geographia -
- Gibbon, Edward (1792): The history of the decline and fall of the Roman empire

VILLA DI DESENZANO DEL GARDA (Lombardia)

$
0
0

Si sa che i romani si appropriavano dei posti più belli del mare e della campagna per farci su le loro magnifiche ville dell'otium e Desenzano del Garda è tra questi. La cosa era favorita dalla Via Emilia, strada consolare romana, appositamente costruita per velocizzare viaggi e spostamenti.

Il nome della località sembra provenga da Decentius, un ricco uomo romano dell'epoca, proprietario di una prestigiosa villa edificata nel IV secolo e tutt’ora visitabile. Ma le coste del lago erano luogo di villeggiatura di molti romani attratti dal clima mite e dalla bellezza del luogo.


Ed ecco tre importanti siti archeologici riemersi durante i lavori della Tav nella zona tra Montonale e San Lorenzino, non lontano dal Lavagnone: in epoca romana, un centro di attrazione e di sviluppo civile tra i più importanti del basso Garda. Anzitutto una villa di epoca romana, ritrovata in località Montelungo (accanto alla trattoria la Rossa), che ha già restituito numerosi reperti tra cui fibule, ornamenti, ceramiche.

Ma sono emerse anche tante monete, con l’effige degli imperatori che si sono susseguiti tra cui Costantino ed Augusto, dal I al IV secolo. Secondo gli archeologi, pur essendo dello stesso periodo, era molto diversa dalla villa romana riccamente decorata del centro storico di Desenzano:


"Oggi come allora l’area era un’importante zona di passaggio verso il Veneto, come una Tav dei tempi antichi - ha spiegato il funzionario archeologo della Soprintendenza Brescia Bergamo, Serena Solano - Stiamo analizzando tutti i dati per costruire un quadro preciso dell’epoca."

Tutti i materiali rilevanti sono ora in fase di restauro e verranno esposti al pubblico entro il 2022, nella sezione romana del museo Rambotti. Sempre in fase di studio il sito di Montonale, ma gli archeologi comunque concordano nel ritenerlo un edificio di culto di epoca romana.


Verso nord, all’interno del centro storico di Desenzano, si arriva dunque alla Villa Romana, un importante sito archeologico che è visitabile sia in estate che in inverno. Al suo interno vi è l’Antiquarium, un piccolo museo con due sale espositive contenenti alcuni reperti ritrovati nella Villa, tra cui statue e un antico frantoio. 

Seguono poi altri tre settori dove si possono ammirare i magnifici mosaici raffiguranti scene di amorini affaccendati nella vendemmia, corse di bighe, giochi vari e diversi animali selvatici. La Villa Romana è la più importante testimonianza archeologica delle grandi villae tardo antiche nell'Italia settentrionale .

I resti, scoperti a partire dal 1921-1923, sono riferibili a più fasi databili tra la fine del I sec. a.c. e il V sec. d.C. e si distinguono per l'eccezionale complesso delle pavimentazioni a mosaico. La villa aveva un'ottima posizione essendo situata poco a Nord della via Gallica, che collegava Bergomum, Brixia e Verona, in una splendida posizione lungo la riva meridionale del lago di Garda, che oggi dista poche decine di metri.



All'interno del perimetro dell'area archeologica, oltre ad un ampia zona di verde, si trova l'Antiquarium che espone una ricca selezione dei materiali provenienti dalla Villa. Il sito è un Istituto di proprietà statale ed è gestito dalla Direzione Regionale Musei Lombardia organo periferico del Ministero della Cultura.

Essa venne costruita in diverse fasi tra il I secolo a.c. e il IV secolo d.c.: le parti ancora oggi visibili risalgono naturalmente all'ultima fase, quando gli spazi all'interno della villa furono riorganizzati e suddivisi in diversi settori. 


Il complesso della villa si estendeva su una superficie di circa un ettaro, in cui i quartieri residenziali si affiancavano agli edifici agricoli e, all'epoca della sua costruzione, la villa si affacciava sul lago. Il paesaggio circostante deve essere stato l'elemento decisivo nella distribuzione delle stanze, che offrivano tutte una vista panoramica.

Il sito presentava una serie di ramificazioni costituite da moli e banchine, e probabilmente da stagni dove veniva allevato il pesce. Diversi pavimenti a mosaico colorato, affascinanti e ben conservati, raffigurano scene pagane.


FLAVIO MAGNO DECENZIO

Sebbene il nome del proprietario della villa non sia certo in modo assoluto, ci sono ottime possibilità che il proprietario, o almeno il committente di questa fase finale dei lavori sia stato il fratello dell'imperatore Magnenzio (350 - 353 d.c.) e cioè Flavio Magno Decenzio, usurpatore di origini barbariche, da cui oggi prende il nome la città di Desenzano.


I reperti più importanti rinvenuti nell'area della villa sono esposti nelle tre sale dell'Antiquarium:

- La prima ospita recipienti da cucina e da pranzo in ceramica e piccoli utensili in bronzo. 

- Nella seconda sala sono esposti frammenti delle statue che decoravano la villa. 

- Nella terza sala, due grandi pannelli espongono i frammenti di un affresco decorativo che ornava una delle stanze della villa.

La scultura in marmo bianco esposta nella seconda sala risale alla metà del II secolo d.c. Insieme alle altre effigi esposte in questa sala, ornava uno dei giardini della villa, in particolare quello aperto ai visitatori o quello riservato al proprietario e alla sua famiglia.



REPERTI

C'è una tazza di vetro, datata al IV secolo d.c., l'immagine della superficie esterna ritraeva il Cristo rivolgersi a un gallo. la scena notturna, che mostrava le stelle nel cielo, dovrebbe alludere al triplice diniego di Pietro nei riguardi del Cristo in accordo al famoso passaggio dai Gospels di origine popolare afro-americana su temi evangelici sviluppatosi nell'America nel XIX secolo.

C'è poi un busto di adolescente in marmo bianco di Carrara, proveniente da una statua a grandezza naturale. Si tratta probabilmente di una rappresentazione celebrativa di uno dei membri della famiglia proprietaria della villa nel II secolo d.c., secondo un'usanza comune alle varie domus e ville dell'epoca.

STATUA DI ERCOLE


BIBLIO

- Gino Benedetti, Desenzano dalla sponda del lago di Garda - storie e colori - Bornato - Sardini -1979 - 
- Attilio Mazza - Il Bresciano - Volume II - Le colline e i laghi - Bergamo - Bortolotti - 1986 -
- Ulisse Papa, La scomunica ed interdetto di Desenzano - Brescia - Tipografia F. Fiori - 1871 -

FORTE DI HISTRIA (Limes Pannonicus)

$
0
0
L'INSEDIAMENTO

Histria o Istros (greco antico: Ἰστρίη, Dio fluviale della Tracia, Danubio), era una colonia greca o polis (πόλις, città) vicino alle bocche del Danubio (noto come Ister in greco antico), sulla costa occidentale del Mar Nero. Fondato dai coloni milesi per facilitare il commercio con i nativi Getae, è considerato il più antico insediamento urbano sul territorio rumeno.

Venne fondato dai coloni milesi nel VII secolo a.c. e nell'antichità portava anche i nomi Istropolis, Istriopolis e Histriopolis (Ἰστρόπολις, Ἰστρία πόλις). Scymnus di Chios (110 a.c.), datava la sua fondazione al 630 a.c., mentre Eusebio di Cesarea la collocò durante i 33° Giochi Olimpici (657 – 656 a.c.). La prima valuta documentata su territorio rumeno è una dracma d'argento di 8 grammi, emessa intorno al 480 a.c.

L'antica Histria era situata su una penisola, a 5 km (3 miglia) a est del moderno comune rumeno dell'Istria, sulla costa della Dobrugia. Da allora l'antica riva del mare è stata trasformata nella sponda occidentale del lago Sinoe, poiché i depositi di limo del Danubio formavano una secca che chiudeva l'antica costa.


L'attuale lago Sinoe era all'epoca la baia settentrionale aperta, mentre un'altra baia sulla sponda meridionale fungeva da porto. L'acropoli con santuari venne eretta nel punto più alto della pianura costiera nel VI secolo, il centro si trovava a 800 metri a ovest dell'acropoli. L'insediamento aveva strade lastricate in pietra ed era protetto da forti mura. L'acqua veniva raccolta lungo acquedotti lunghi 20 km.

L'abitato era situato vicino a fertili terreni coltivabili e i commercianti raggiungevano l'interno attraverso Histria e la valle del Danubio, come dimostrano i ritrovamenti di ceramica attica a figure nere, monete, oggetti ornamentali, un lebeto ionico e molti frammenti di anfore. Anfore sono state trovate in grande quantità a Histria, alcune importate ma altre locali. La ceramica locale è stata prodotta dopo l'insediamento della colonia e sicuramente prima della metà del VI secolo.

Histria servì come porto commerciale subito dopo la sua fondazione, con la pesca e l'agricoltura come fonti di reddito aggiuntive ma nel 100 d.c., la pesca era diventata la principale fonte di entrate istriane. Come mostra la Tabula Peutingeriana si trova tra Tomis e Ad Stoma; 11 miglia da Tomis e 9 miglia da Ad Stoma.


Intorno al 30 d.c. Histria passò sotto il dominio romano e dal I al III secolo d.c., furono costruiti templi per gli dei romani, oltre a bagni pubblici e case per i ricchi. Il dominio romano durò dal I al III secolo d.c. e, con il nome di Histriopolis, divenne un fortilizio nella provincia romana della Mesia.

Complessivamente esistette ininterrottamente per circa 14 secoli, a partire dal periodo greco fino al periodo romano-bizantino. La baia di Halmyris dove fu fondata la città fu chiusa da depositi di sabbia e l'accesso al Mar Nero fu gradualmente interrotto. Il commercio continuò fino al VI secolo d.c.

L'invasione degli Avari e degli Slavi nel VII secolo d.c. distrusse quasi del tutto la rocca, infine la resero indifendibile e la città fu abbandonata. Gli istriani si dispersero; il nome e la città scomparvero dalle memorie storiche.

LE PORTE DELLA CITTA'

Le rovine dell'insediamento furono identificate per la prima volta nel 1868 dall'archeologo francese Ernest Desjardins. Gli scavi archeologici furono iniziati da Vasile Pârvan nel 1914 e continuarono dopo la sua morte nel 1927 da squadre di archeologi guidati successivamente da Scarlat e Marcelle Lambrino (1928-1943), Emil Condurachi (1949-1971), Dionisie Pippidi (1971-1989), Petre Alexandrescu (1990-1999), Alexandru Suceveanu (1990-2009), Alexandru Avram e Mircea Angelescu (a partire dal 2010).

Il Museo Histria, fondato nel 1982, espone alcuni di questi reperti mostrando una stratificazione di strati tra il periodo arcaico e quello classico:

STRUTTURA PUBBLICA

I GRECI ARCAICI

L'antica città greca copriva circa 60 ettari. La divinità principale era Apollo Ietros (Il Guaritore). Zeus (Gr. Polieus) era invece il protettore della città e si adorava anche Afrodite. Sembra che tutte e sei le tribù milesie fossero rappresentate nella colonia, ma solo quattro tribù sono attestate: Aigikoreis, Argadeis, Boreis e Geleontes. Il governo della città, come narra ìAristotele nella Politica, è un'oligarchia. All'inizio del VI a.c. secolo Histria era già una prospera colonia.


Greci arcaici II (600-550 a.c.)

Venne costruita una nuova cinta muraria intorno alla città, visto le frequenti incursioni degli sciti. L'Acropoli iniziò ad essere difesa da un muro, scoperto da Sc. Lambrino. Un'altra cinta muraria correva intorno all'Altopiano occidentale, difendendo anche il porto.



Greci arcaici III (550-500 a.c.)

L'età arcaica di Histria termina con la distruzione ad opera di una spedizione del generale persiano Mardonios (latino Mardonius) nel 479 a.c. con la battaglia di Platea. Secondo altri la distruzione della città avvenne nel 512 a.c., quando Dario I intraprese una guerra contro gli Sciti. Nel 2021 è stato pubblicato l'articolo "Of Human Sacrifice and Barbary: a case study of the Late Archaic Tumulus XVII at Istros" in cui M. Fowler presenta le prove nella necropoli settentrionale dell'insediamento greco del Ponto che vennero fatti sacrifici umani.



I GRECI CLASSICI

Durante il periodo classico vi fu continuità nei culti di Apollo Ietros; Zeus (Gr. Polieus) e Afrodite. Histria si trovò coinvolta nella lotta con gli Sciti per cui fu costretta a unirsi alla Lega di Delo. Nel V secolo aC queste colonie passarono dall'oligarchia alla democrazia e nacquero le prime monete istriane: un didramma, oboli e monete di bronzo.


Greci classici I (500–425 a.c.)

Quando la flotta ateniese giunse presso le colonie greche poste sulle rive del Pontos Euxeinos (Mar Nero) per riscuotere i contributi per il Tesoro di Delo (Tucidide) venne costruito un nuovo muro attorno all'acropoli istriana, probabilmente per la "rivoluzione" democratica di cui parla Aristotele nella Politica, e la cinta muraria, a protezione dell'insediamento e del porto, fu riparata.



Greci classici II (425–350 a.c.)

La città venne di nuovo distrutta nel IV secolo a.c., nella guerra tra il potente Ateas re degli Sciiti e il re Filippo II dei Macedoni, padre di Alessandro il Grande. che distrusse la cinta muraria che proteggeva l'Acropoli e quella che proteggeva l'intera città.


ELLENISTI CLASSICI

Durante il periodo ellenistico, continuarono i culti di Apollo Ietros, Zeus e Aphrodita e pure i culti di Atena, Poseidone, Helikonios, Taurios, Demetra, Hermes Agoraios, Heracles, Asclepios, Dioscurii e altri.. Fu costruito un nuovo tempio per una grande divinità e un nuovo muro, che proteggeva un'area di 10 ettari. Histria divenne un importante fornitore di grano per la Grecia. Tuttavia, il potere economico di Histria era rappresentato dal commercio. In età ellenistica furono eretti il ginnasio e il teatro.


Ellenisti classici I (350–300 a.c.)

La città venne di nuovo distrutta nel 339 a.c.. Nel periodo 313–309 a.c., ebbe luogo una ribellione di città Pontiche. Però Mileto conferì agli istriani pari diritti politici.


Ellenisti classici II (300–175 a.c.)

Intorno al 260 a.c., Bisanzio fu coinvolta in una disputa con Histria e Callatis (l'odierna Mangalia) su Tomis emporion (Εμπόριον, mercato) (odierna Constanţa). Un'altra distruzione della città, da qualche parte intorno al 175 a.c., probabilmente provocata dai Bastarni di passaggio dopo essere stati chiamati dal re macedone Filippo V o Perseo per rafforzare l'esercito.


Ellenisti classici III (175–100 a.c.)

Mitridate installò una guarnigione militare in Histria, che probabilmente causò la terza distruzione della città nel periodo ellenistico. Durante il regno di Mitridate in Histria vengono coniati gli stateri.

INSEDIAMENTI DACIO-ROMANI

Ellenisti classici IV (100–20 a.c.)

Burebista fu il re delle tribù Getae e Daci dall'82 al 45 a.c.,  unificando le tribù del regno dei Daci. Nel VII e VI secolo a.c. divenne la dimora dei popoli traci, inclusi i Getae ei Daci. Nel II secolo a.c. i Daci espulsero i Celti dalle loro terre. I Daci spesso combattevano con le tribù vicine, ma il relativo isolamento dei popoli Daci nei Carpazi permise loro di sopravvivere e persino di prosperare. Nel I secolo a.c. i Daci erano diventati la potenza dominante.

Gaius Antonius Hybrida, governatore della Macedonia, aveva inflitto molte ferite al territorio soggetto come a quello che era alleato con Roma, e dopo aver devastato i possedimenti dei Dardani e dei loro vicini, fingendo di ritirarsi per qualche scopo, si diede alla fuga; ma il nemico circondò i suoi fanti e li scacciò con la forza dal paese, togliendo loro anche il bottino. Il periodo ellenistico fu concluso da Marco Antonio, che era a capo del governo romano d'oriente, e fu sconfitto da Ottaviano ad Azio.


Ellenisti classici IA (30–100 d.c.)

Vennero costruite le nuove Thermae (Thermae I). Gli storici considerano questo periodo come una seconda fondazione della città.


Ellenisti classici IB (100–170 d.c.)

Intorno al 170 d.c., una parte della città venne distrutta.


Ellenisti classici IC (170–250 d.c.)

La città soffrì una vasta distruzione dalla quale non si riprese mai più. Si pensa venne distrutta da un'invasione di Goti e di Carpi. Alcuni pensano invece che sia stata distrutta da un terremoto.


Periodo Bulgariano (IX - X secolo)

I bulgari arrivarono in Scizia Minore alla fine del VII secolo. La Scizia Minore (in greco: Μικρά Σκυθία, romanizzata: Mikra Skythia) era una provincia romana corrispondente alle terre tra il Danubio e il Mar Nero, l'odierna Dobrugia divisa tra Romania e Bulgaria. Fu staccata dalla Mesia Inferiore dall'imperatore Diocleziano per formare una provincia separata tra il 286 e il 293 d.c. 

La capitale della provincia era Tomis (oggi Costanza). La provincia cessò di esistere intorno al 679-681, quando la regione fu invasa dai bulgari, che l'imperatore Costantino IV fu costretto a riconoscere nel 681.

Secondo il Laterculus Veronensis del 314 e la Notitia Dignitatum del 400, la Scizia apparteneva alla diocesi di Tracia. Il suo governatore deteneva il titolo di praeses e il suo dux comandava due legioni, Legio I Iovia e Legio II Herculia. L'ufficio di dux fu sostituito da quello di questore exercitus, coprendo un'area più ampia, nel 536. 

La popolazione della Scizia Minore era dacica e la loro cultura emerge anche nel VI secolo. Sono state rinvenute anche ville romane. Le città erano antiche fondazioni greche sulla costa (come Tomis) o più recenti fondazioni romane sul Danubio. Le fortificazioni romane risalgono per lo più alla tetrarchia o alla dinastia costantiniana. Sostanziali riparazioni furono effettuate sotto gli imperatori Anastasio I e Giustiniano I, che concessero alla provincia l'immunità fiscale. 

Nel V secolo, la maggior parte delle truppe di stanza in Scizia erano foederati di origine germanica, turca, unna o (forse) slava, una continua fonte di tensione nella provincia. Il cristianesimo fiorì in Scizia nel V e VI secolo e già nel IV secolo iniziò il culto dei martiri. Le chiese con numerose cripte di reliquie.

BIBLIO

- Erodoto - Storie -
- Justin - Epitome of Pompeius Trogus -
- Smith, W. - Istropolis - Dictionary of Greek and Roman Geography - London - John Murray - 1857 - 
- Fowler, Michael - Of Human Sacrifice and Barbarity: A Case Study of the Late Archaic Tumulus XVII  at Istros -  2021 -
- Memnon - History of Heracleia - Hellenistic Greek inscriptions of Istros in English translation
Greek cities on the western coast of the Black Sea -

ORTENSIA L'AVVOCATA ROMANA

$
0
0
ORTENSIA

La storia di Ortensia, l’avvocatessa delle matrone romane, si svolge nel periodo in cui i membri del secondo triumvirato, Ottaviano, Lepido e Antonio, nel cercare di reperire quanto più denaro possibile, per finanziare la guerra contro gli assassini di Giulio Cesare, padre adottante di Ottaviano, decisero di testa loro di tassare circa 1.400 matrone romane fra le più ricche, che fossero rimaste sole al mondo, quindi vittime designate in quanto prive quindi di una figura maschile in grado di tutelarle.

Sul termine avvocatessa o avvocata vi sono state diverse discussioni su cui i letterati non si sono messi d'accordo. Alcuni dicono che il termine giusto sia avvocata, per altri i termini avvocatessa o avvocata sono ugualmente accettabili, per cui ognuno è padrone di usare quel che preferisce, senza correrere pertanto in errore.

Le donne romane erano abituate a tacere sia in famiglia che fuori, anzi soprattutto fuori, tacere per la donna era un obbligo, così come non potevano bere vino, tante volte le rendessero troppo loquaci. Ne fa fede il culto di Tacita Muta, divinità degli inferi, divenuta in seguito la Dea del silenzio, una figura istituita dal secondo Re di Roma, ma con intenti misterici, in seguito divenuti intenti oppressivi nei riguardi delle romane.

Detto culto si ritrova nei “Fasti” di Ovidio, dove la bellissima ninfa Lala, desiderata da Giove, aveva osato respingere il re degli Dei, e per giunta osò denunciare l’accaduto, prima con la sorella e poi con Giunone, che, non osando arrabbiarsi col marito si sfogò sulla poveretta e per vendetta di non si sa cosa le strappò la lingua. 

DEA TACITA

Ma pure Giove si adontò per la delazione, e ordinò a Mercurio di condurla negli inferi per punizione, perchè non aveva ceduto e perchè l'aveva raccontato. Durante il tragitto Lala ormai muta, non potè nemmeno denunciare che Mercurio l’avesse violentata, a monito della delirante e ingiusta supremazia maschile.

Lala divenne però da ninfa si trasformò in una Dea, la Tacita Muta, madre di due gemelli, i Lares Compitales, due divintà protettive, figlie di uno stupro operato sulla via per gli inferi. A Roma il silenzio in pubblico per le donne era d'obbligo ma non era sancito da nessuna legge scritta, e qualche donna, come Ortensia, ne approfittò si che nel 42 a.c., divenne avvocatessa a difesa delle matrone romane.

Ma anche altre donne osarono difendersi da sole, lo storico Valerio Massimo, che non approva questo ardire, cita per esempio Afrania, descrivendola come: “un mostro, con la voce simile al latrare di un cane”, oppure Mesia, che a suo dire era simile a un uomo come carattere, e non era un complimento. Queste donne diedero quindi scandalo per aver alzato la testa e portato le loro ragioni in un tribunale senza che un uomo le patrocinasse.

Ci fu pure Gaia Afrania, della gens plebea Afrania, moglie del senatore Licinio Buccio, che difese se stessa in tribunale dimostrando buone capacità retoriche e buona conoscenza delle leggi. Fu talmente brava che diverse donne che si dovevano rivolgere al tribunale si riferirono a lei anziché agli avvocati maschi dell'epoca, un peccato imperdonabile. 



IL DISCORSO DI ORTENSIA 

Ortensia era figlia di Quinto Ortensio Ortale, un avvocato rivale di Cicerone, che divenuto console, permise alla propria figlia di ricevere un’istruzione superiore e di studiare la legge. Tali studi erano permessi solamente ai maschi, quindi un padre illuminato, ma per molti esecrabile.

Ortensia fa la sua orazione, ribadisce anzitutto il fallimento dell'intercessione delle mogli dei triumviri per legittimare la sua presenza nel foro, e qui non le si può dare torto. 

Sottolinea poi la rottura delle tradizioni familiari che prevedevano che fossero le mogli a dover parlare con i mariti. E nemmeno a questo ci si può opporre se si è tradizionalisti.

Il perorare la propria causa era un'attività dalla quale le donne avrebbero dovuto astenersi, aggiunge l'avvocata, perchè avrebbe determinato un'inversione del corretto funzionamento delle istituzioni pubbliche.

Ortensia afferma la tradizione ma supera questa preclusione affermando che, poiché le guerre civili le hanno private di padri, figli, mariti e fratelli, le donne sono "sui juris" ossia non hanno più alcun familiare maschile che le possa rappresentare davanti alla legge. 

Se i triunviri, oltre a privarle del loro diritto a difendersi, le priveranno anche dei loro beni, non potranno neanche mantenere la condizione economica sociale a cui i padri le avevano destinate. E i padri vanno ascoltati e obbediti nei costumi romani tradizionali,

L'ORATRICE

LA SENTENZA

Ortensia dimostrò di essere un'abile oratrice, seppe usare le argomentazioni del diritto romano secondo il quale alle donne era negato l'accesso al potere ed alle cariche di magistratura e se dal potere erano escluse allo stesso modo non si poteva chiedere loro il pagamento di tasse per il suo esercizio.

Ortensia riuscì a vincere in parte la causa tanto che furono tassate soltanto 400 matrone delle iniziali 1400. ma il fatto era sorprendente per la società romana; una donna che riusciva a far riconoscere le ragioni di altre donne davanti ad un tribunale maschile era una cosa mai avvenuta prima.

Il bello è che poi altre donne dovendosi difendere in tribunale ricorsero a lei e il fatto che in genere vinceva le cause fece risentire gli avvocati e in particolare Cicerone, era un sovvertimento inaccettabile, si che poi ne fecero un dibattito al senato che si concluse nel 48 a.c. con l'assoluto divieto alle donne di praticare la professione di avvocato.


BIBLIO

-  Vittoria Longoni - Ortensia - enciclopediadelledonne.it. URL - 2023 -
- La storica orazione di Ortensia, cancellata dalla storia - youtube.com. -
- Augusto Pierantoni - Gli avvocati dell'antica Roma - Tipografia elzeviriana - 1896 -
- Eva Cantarella - Passato prossimo: donne romane da Tacita a Sulpicia - Milano - Feltrinelli - 1998 -
- Francesca Cenerini - La donna romana: modelli e realtà - Bologna - il Mulino - 2002 -

FORTE EQUESTRE VEMANIA

$
0
0
RICOSTRUZIONE DEL CASTELLO ROMANO

L'ALTA SVEVIA

Nella Germania meridionale, tra l’Algovia e le Alpi sveve, il Lago di Costanza e il Danubio,  si trova l’Alta Svevia, ricca di centri storici e i popoli che l'abitarono. gli Svevi o Suebi (in latino Suēbi o Suevi) furono un popolo germanico proveniente dall'area del Mar Baltico, e le sue città principali sono Augusta e Tubinga. La Svevia venne invasa dagli Alamanni-Svevi nel III secolo d.c. insieme celto-romani con i Germani ebbe origine la popolazione svevo-alemanna. 

Allora il nome della regione fu Alamannia (come appare dall’Anonimo Ravennate e da Paolo Diacono), sostituito poi con Svevia. I romani vi arrivarono all'inizio del secolo e nel corso degli anni costruirono un sistema di sicurezza di confine che oggi è conosciuto come Limes. C'erano diversi corsi. Nella massima estensione dell'Impero Romano, il Limes correva via Aalen fino a Gunzenhausen e da poco prima di Ratisbona lungo il Danubio.

Dal III secolo, soprattutto sotto l'imperatore Diocleziano, i romani si ritirarono nel Danubio-Iller-Reno-Limes. Il corso precedente, noto come Limes germanico-retico superiore, fu abbandonato. Il Donau-Iller-Rhein-Limes correva dal Lago di Costanza via Bregenz fino a Kempten e poi lungo l'Iller. Tra Bregenz (Brigantium) e Kempten (Cambodunum) si trovava il forte di cavalleria Vemania  (anche Vimania), dove oggi si trova la cittadina di Bettmauer, che appartiene a Isny​​.

Questo Limes fu istituito dal 280 d.c. sotto l'imperatore Diocleziano - come nuovo confine e sostituto del Limes germanico-retico superiore che fu abbandonato alla fine del III secolo d.c. La fortificazione fu probabilmente anche il nucleo della successiva città di Isny, menzionata per la prima volta nel 1043.



LA RETIA II

La provincia romana protetta dal Limes era Raetia II, che comprendeva anche l'Alta Sveviae la città di Isny ​​è emersa dal forte abbandonato. Secondo alcuni Isny ​​derivava il suo nome dalla Dea Iside, oppure derivava dal nome del ferro. Tuttavia, il muro del letto potrebbe essere associato al forte, in quanto i resti del muro erano ancora lì fino al Medioevo. Bettmauer è stato menzionato come Bettmaur nel 1307 come punto di confine.

PLASTICO

IL FORTE VEMANIA

Il forte Vemania era un forte di cavalleria tardo romano nell'odierno comune di Isny ​​im Allgäu al confine di stato del Baden-Württemberg con la Baviera nel distretto di Ravensburg nel Baden Württemberg. Faceva parte della catena di forti del tardo antico Donau-Iller-Rhein-Limes nella provincia romana di Raetia II.

Vemania è generalmente identificata con il forte vicino a Isny/Burkwang ma potrebbe aver incluso anche un insediamento civile nell'area Gestratz-Maierhöfen-Grünenbach, che avrebbe potuto anche servire a proteggere.

L'area del forte si trovava due chilometri a est della periferia di Isny, ai piedi di un crinale (Adelegegg) tra Kleinhaslach, a circa 500 m a nord-nord-ovest della frazione di Bettmauer nel distretto di Burkwang. Da qui si godeva una buona visuale delle colline circostanti a nord ea ovest e di un vicino guado al di là del fiume. In epoca romana, il rigonfiamento risultante a est offriva protezione naturale, mentre i lati ovest e sud dovevano essere protetti dagli assalitori da un fossato.

Vemania è menzionata in diverse importanti fonti antiche: la Tabula Peutingeriana, l' Itinerarium Antonini e la Notitia Dignitatum. Quindi il posto doveva avere una certa importanza. Nell'Ottocento si credeva che il nome della città di Isny ​​derivasse da un tempio della Dea Iside, che si dice sorgesse un tempo nelle immediate vicinanze del castello. Significativi resti della muratura in aumento dovevano essere visibili fino al medioevo, poiché il nome dell'adiacente frazione "Bettmauer" si riferisce probabilmente ai ruderi del castello.

Il forte doveva essere di grande importanza ed è stato citato in varie fonti fin dall'antichità. Si trovava di fronte alla catena montuosa Adelegg. La pianta del forte è ancora visibile a tutt'oggi e misurava fino a 80 metri di lunghezza e fino a 45 metri di larghezza. Era un pentagono tagliato sulla sommità della collina morenica su cui sorgeva, all'epoca protetto dal terreno paludoso, ora prosciugato da fossati. 

Nelle vicinanze c'era un importante fiume affluente del Danubio, che a quel tempo poteva passare proprio accanto al forte. La posizione era ottima per controllare la zona. Il forte serviva principalmente a proteggere il confine e quindi la popolazione romana dalle invasioni germaniche. Molte persone si stabilirono anche nelle vicinanze del forte. C'era anche un insediamento vicino a Maierhöfen che era sotto la protezione del forte.

I legionari proteggevano il tratto fino a Bregenz e venivano inviati per ogni necessità. Anche le strade tra Leutkirch e Immenstadt, tra Kempten e Wangen ( "Piccolo pezzo di terra") erano particolarmente sorvegliate e protette dai nemici. L'unità di cavalleria di stanza qui doveva sorvegliare la sezione di Limes fino a Bregenz (Brigantium). La guarnigione del forte controllava quindi gli attraversamenti fluviali e un nodo stradale, da dove partivano i collegamenti stradali:
- Leutkirch a Immenstadt, 
- da Kempten (Cambodunum) 
- a Wangen e a Bregenz.
- Presumibilmente anche un percorso per Augusta (Augusta Vindelicorum) correva via "Viaca" prima che il confine imperiale fosse ritirato all'Iller, perché ciò risparmiava un'intera giornata di tappa rispetto al percorso un più lungo via Cambodunum



LE TORRI

C'erano diverse torri di sorveglianza presidiate, note come burgi. Circa 15 di queste torri di guardia furono assegnate al forte. La torre successiva era vicino a Nellenburg o vicino a Weitnau, probabilmente dove nel Medioevo sorgeva il castello di Alttrauchburg (Baviera). Si sa che vi operò l'ala II Valeria Sequanorum, nel IV e V secolo.

Il Castello di Vemania è stato più volte adattato alle circostanze nel corso dei decenni. Dopo che la struttura fu iniziata a metà del III secolo, i primi lavori di trasformazione furono già sotto l'imperatore Valentiniano. Gli scavi hanno rivelato ben sei fasi costruttive.



IL FOSSATO

Oltre alle mura difensive vi era anche un fossato,  probabilmente fu scavato all'inizio del fortilizio,  profondo oltre 1,50 metri. Il castello è stato ampliato nel corso degli anni ponendole torri agli angoli e in mezzo, che aumentavano di numero man mano che veniva ampliato. Lo spessore delle pareti misuravano fino a un metro.

C'era una porta nella parte nord-occidentale, protetta da torri sporgenti alte quattro metri. Inoltre, il fossato venne approfondito di tre metri sui lati occidentale e meridionale. Dopo aver scavato, gli eventuali aggressori dovevano superare un terrapieno fino a sette metri aldilà del quale trovavano un muro, mentre subivano i colpi e le frecce dall'alto.

Vemania aveva un sedile in muratura per il comandante (principia) e baracche in legno per soldati e artigiani. Il Principia misurava 15 metri per 19,5 metri. Le stanze dell'amministrazione erano situate nella parte orientale. Caserme e scuderie si trovavano a circa cinque metri di distanza nel resto del sito. A seconda dello stadio di espansione, questi hanno raggiunto dimensioni diverse.

Il forte era dotato di 200 cavalieri. Altri 300 furono formalmente assegnati al forte ma erano in servizio sulle torri di guardia della zona. Gli ausiliari erano spesso schierati lontano da dove provenivano per sedare le ribellioni. I soldati di Vemania erano Sequani, guerrieri celto-romani della Francia orientale. Furono inviati contro Cartagine dal 296 al 299.

IL LUOGO

GLI ALEMANNI

Nel 213 gli Alemanni sfondarono il limes retico, ma si spinsero nell'entroterra solo vent'anni dopo, quando le truppe romane di frontiera sul Reno e sul Danubio alla fine del III secolo si erano spostate in oriente per combattere i Sassanidi, sguarnendo le guarnigioni di confine. La popolazione del Limes alto germanico-retico era abbandonata a se stessa e i barbari saccheggiarono le ricche città e i possedimenti delle campagne.

Le truppe di frontiera romane erano state assottigliate a causa delle guerre in Medio Oriente, così gli Alemanni utilizzavano le infrastrutture romane e potevano muoversi rapidamente sulle strade asfaltate. Conquistarono Augsburg e Kempten e si spinsero a saccheggiare fino a Milano.

- Sotto l'imperatore Valeriano (299 - 260) e Gallieno (218 - 268), la pressione degli Alemanni divenne così forte che i Romani, sotto l'imperatore Diocleziano alla fine del III secolo, si ritirarono nel Danubio-Iller-Reno-Limes, per il quale Vemania era una base importante. Si pensa però che ci fosse già prima, nel 260 d.c., un insediamento romano a Vemania e  il precedente imperatore Probus fece quindi rafforzare e ampliare l'insediamento. 

- L'imperatore Massimino Trace (235-238) riuscì a stabilizzare nuovamente il Limes retico, ma sotto i suoi successori Valeriano (253-260) e Gallieno (253-268) le difese di confine in Rezia crollarono nuovamente per cui gli Alamanni devastarono la provincia senza ostacoli, distruggendo Augsburg e Kempten e avanzando fino a Milano (Mediolanum). Una prima fortificazione, forse provvisoria, fu costruita intorno al 260 d.c.

- Sotto l'imperatore Probus (276-282) fu costruita una nuova catena di forti dal Lago di Costanza alla foce dell'Iller, che comprendeva anche Vemania. Infine gli Alemanni distrussero il forte nel 282 e nel 302.

- La ricostruzione iniziò nel 306 e durò fino al 337. A quel tempo regnava Costantino I (306-337), da cui prese il nome la città di Costanza, dove c'era anche un forte. Nell'anno 350 il forte fu riparato e nel 360 ci fu un devastante incendio. Ma il castello di Vemania venne restaurato e poi abbandonato tra il 401 e il 406. 

L'equipaggio stesso del forte aveva ripulito l'accampamento da tutto ciò che poteva essere ancora utilizzato e gli aveva dato fuoco. Il reggente romano d'Occidente Flavio Stilicone (362 - 408) ritirò quasi tutte le truppe di frontiera per proteggere il cuore dell'Italia dall'esercito gotico di Alarico (370 - 410). I ruderi furono poi completamente rimossi nei secoli dai saccheggi.



IL CASTELLO

Un fossato largo 5 m e profondo 1,7 m (fossato A) del primo forte si trovava solo a nord. Nelle successive fasi costruttive e per l'ampliamento del forte, l'area dell'altopiano venne ampliata con terrapieni. Il muro di cinta largo da 1–1, 80 m, misurava 88 m ad est, rinforzato con tre torri angolari e due intermedie.

Il forte era accessibile solo a nord-ovest attraverso una porta fiancheggiata da due torri a ferro di cavallo, ciascuna di 4 m di diametro. Sul lato ovest e sud c'era un fossato difensivo largo 12 m e profondo 3, ancora visibile. A ovest e a sud venne creato un fossato largo 12 m e profondo 3 (Spitzgraben B), ancora visibile.

All'interno del forte si trovavano edifici in legno e a graticcio, posti lungo il muro difensivo. L'unico edificio costruito in pietra era il Principia cum praetorio (15 × 19,50 m), con stanze abitative o amministrative per il comandante, sulla parete est. Fino a cinque caserme a graticcio si trovavano a una distanza di 1,50-5 m dalle mura nord, sud e ovest, che servivano da alloggi per i soldati, officine e scuderie. Nelle officine si lavoravano principalmente ferro, bronzo e legno. L'approvvigionamento di acqua potabile era garantito da due pozzi.

La disposizione lineare delle torri di guardia garantiva il sistema di sicurezza del Donau-Iller-Rhein-Limes, per attraversare la zona di confine dalle città con una ottima rete di strade, controllate da una catena di forti e torri di guardia o Burgi. In caso di attacchi, si trasmettevano messaggi a tutte le unità di truppa disponibili di stanza lungo il Limes, attraverso i roghi che venivano accesi in successione sulle varie torri.  

I RITROVAMENTI

LA GUARNIGIONE

L'unità di guarnigione e il grado del comandante del campo sono noti dalla Notitia Dignitatum, dove è citato per "Vimania" il Praefectus alae secundae Valeriae Sequanorum, Vimania ("il prefetto del secondo squadrone di cavalleria valeriana dei Sequaniani in Vemania ").

Presumibilmente erano soprattutto Sequani celto-romani reclutati nell'area di Besançon (Vesontio), tra Saona e Giura della Svizzera occidentale), provincia di Maxima Sequanorum. Un'ala era composta da circa 500 cavalieri e un massimo di 200 soldati erano ospitati nel forte stesso. I restanti 300 uomini furono probabilmente divisi come guarnigione tra i dodici-quindici Burgi tra Vemania e Brigantium. Dal 296 al 299 d.c. l'unità combattè una campagna africana dell'imperatore Massimiano (240 - 286).
 


L'ABBANDONO DEL CASTELLO

Solo dal 401 e infine fino al 406 il forte di cavalleria Vemania fu abbandonato dai Romani. A questo punto i Romani distrussero essi stessi il complesso per non lasciare nulla di valore agli Alemanni in avvicinamento. 

Le truppe furono inviate sotto il comandante Flavio Stilicone contro il Goto Alarico, che era già penetrato molto nel cuore dell'Impero Romano. Le pietre del sistema difensivo furono riutilizzate in altri edifici, come era comune nel medioevo.



GLI SCAVI NEL CASTELLO

Nel 1490 il sito fu scavato per conto dell'abate Georg dal monastero di Isny ​​​​alla ricerca di tesori presumibilmente nascosti e in effetti rinvennero dei manufatti d'oro e d'argento. Nel 1855 iniziarono gli scavi archeologici. Tuttavia, cercavano principalmente i resti di un tempio di Iside per confermare la derivazione del nome della città di Isny ​​con Iside.

Gli scavi più importanti furono eseguiti tra il 1966 e il 1970 dalla Commissione per la ricerca archeologica dell'Accad. bavar. delle scienze di Monaco e dall'Uff. statale per la conservazione dei monumenti di Tubinga, presieduto da Jochen Garbsch, ritrovando 4 tesori:

- un ritrovamento smarrito presso la porta;
- uno di 387 monete nella caserma sulla parte meridionale del muro est, ambedue databili al 282/283;
- Un altro contenente 771 folles di Cartagine è stato rinvenuto nella caserma dell'equipaggio sulla parete nord:
- Un altro ancora composto da monete e gioielli femminili, rinvenuto all'estremità sud della stessa caserma composto da 157 monete conservate in un sacchetto di lino. Una selezione di collane, bracciali, orecchini e anelli d'oro era in una scatola di legno. Questi due reperti di tesoro sono databili agli anni 302/303.



MONUMENTO STORICO 

Il monumento al suolo è protetto come monumento culturale registrato ai sensi della legge sulla protezione dei monumenti dello Stato del Baden-Württemberg (DSchG) . La ricerca e la raccolta mirata di reperti sono soggette ad approvazione, reperti accidentali da segnalare alle autorità monumentali.


BIBLIO

- Eduard Paulus - Scavo del forte romano vicino a Isny - riviste trimestrali del Württemberg per la storia regionale - 1883 -
- Jochen Garbsch - Scavi e ritrovamenti nel forte tardo romano Vemania - Allgäu - 1973 -
- Winfried Piehler - I reperti ossei dal forte tardo romano Vemania - Dissertazione all'Università di Monaco - 1976 -
- Jochen Garbsch, Peter Kos - Il forte tardo romano Vemania vicino a Isny - Due tesori dell'inizio del IV secolo - Verlag Beck - Monaco - 1988 -
- Bernhard Overbeck - Il forte tardo romano Vemania vicino a Isny - Un tesoro di monete dal tempo di Probo - Beck -Monaco - 2009 -

TORRE DI ERCOLE

$
0
0

La Torre di Ercole (Torre de Hércules) è un faro di origine romana sulla penisola della città di Coruña, in Galizia, Spagna. La città, situata nel Magnus Portus Artabrorum dei geografi classici, e di probabile origine celtica, fu attivo porto all'epoca romana e ne conserva ancora lo splendido faro. Dal 2009 il faro è inserito tra i patrimoni dell'umanità dell'UNESCO, ed è considerato il più antico faro ancora funzionante esistente al mondo.

La Torre di Ercole fu costruita per assolvere alla funzione di faro per la navigazione nel II secolo durante il mandato dell'imperatore Traiano (53-117) o Adriano (76 - 138) come riporta l'iscrizione che si trova ai piedi della torre. La sua realizzazione si attribuisce all'architetto del II secolo Caio Servio Lupo, di origine portoghese (lusitano), come testimonia questa epigrafe sul monumento:

"MARTì /AGO[USTO] SACR[UM] /C[AIUS] SEVIUS /LUPUS /ARCHITECTUS /AEMININIENSIS /LUSITANO EX VO[TO]"
"Consacrato a Marte Augusto. Gaio Sevio Lupo, architetto dell'Eminio Lusitano in adempimento di una promessa"

Eminium (latino: Aeminium) è un'antica città romana costruita sul sito dell'attuale città portoghese di Coimbra, Il progetto fu dunque affidato a Caio Servio Lupo, un architetto romano ma di origine lusitana, chiamato a erigere un faro di segnalazione per le navi che costeggiavano la Penisola iberica, e che contemporaneamente servisse come punto di osservazione per l'antico porto di Brigantium, cioè l'attuale A Coruña. Secondo alcuni Servio Lupo fu anche l'architetto del criptoportico.


Secondo il progetto originale, la Torre di Ercole, di pianta quadrata, doveva avere muri laterali larghi 18 metri, per una altezza di 36, (ma l'attuale aspetto è di 48 m, che diventano 68 se ci si aggiunge la base), era suddivisa in tre piani e ogni piano aveva quattro stanze comunicanti tra loro con scala esterna, con sopra un pinnacolo di 4 metri, di forma cilindrica. 

Il faro fu consacrato al Dio della guerra, Marte, in quanto la sua funzione era anche di punto di avvistamento per proteggere il porto di Brigantium, l'odierna A Coruña. La torre è suddivisa in tre parti progressivamente più strette fino ad arrivare alla lanterna.

La luce che emana si scorge in mare da una distanza di 32 miglia. e all'epoca era prodotta dal fuoco che ardeva in alcuni bracieri intorno al pinnacolo. La Coruna romanizzata di Brigantium con la sua torre di Ercole fanno dunque parte dell'eredità della conquista dell'lmpero Romano in GaIlaecia (Galizia).

Che A Coruna fu sottoposta a romanizzazione, lo testimoniano:
- Un accampamento militare (la Cittadella di Sobrado),
- i ponti e le strade che ne strutturavano il territorio (la strada romana sul Ponte dos Brozos ad Arteixo),
- il porto che era un centro commerciale di grandi dimensioni.


La torre ha perso il suo uso come strumento utile per la navigazione nel corso del Medioevo quando fu convertita in fortificazione. L'aspetto odierno della fortificazione è del 1788, quando essa fu interessata da un restauro in stile neoclassico condotto dall'ingegnere navale (e successivamente governatore intendente del Paraguay) Eustaquio Giannini, per ordine del re Carlo IV.

La Torre romana all'esterno aveva un muro in pietra con due porte nella parte inferiore e finestre asimmetriche che lo attraversavano fino al piano superiore. L'interno presenta anch'esso una base quadrata, con 4 aperture interne. 

Gli spazi erano tutti ricoperti da volte a botte e secondo gli studiosi servivano come riparo per il personale che erano in servizio alla torre e che vi alloggiavano almeno temporaneamente, ma anche per conservare il combustibile che avrebbe bruciato nella parte superiore.

L’architetto Giannini rivestì l'antica Torre con una copertura in granito, che le conferì maggiore volume, ridistribuendo le finestre e le porte e costruendo una scala interna in pietra. Infine, smontò la cupola e al suo posto eresse un edificio ottagonale in cui ospitò il faro. Una fascia diagonale percorre attualmente la Torre d'Ercole in ricordo dell'originaria rampa.



I MITI


Nel corso dei secoli sono state raccontate molte storie mitiche sull'origine del faro.


I MITO

Secondo un mito che mescola elementi celtici e greco-romani, l'eroe Ercole uccise il gigante tiranno Gerione dopo tre giorni e tre notti di battaglia. Ercole quindi ordinò che fosse costruita una torre sul punto esatto in cui aveva seppellito la testa di Gerione con le sue armi. Il faro, sopra a un teschio e ossa incrociate che rappresentano la testa del nemico ucciso da Ercole, appare nello stemma della città di A Coruña.


II MITO

Invece nel Lebor Gabála Érenn, ovvero "Il libro della Presa dell'Irlanda" si dice che Breogán, un discendente del patriarca biblico Noè, costruì la torre, e che il figlio di Breogán, Ith, riuscì a vedere per la prima volta dalla torre l'Irlanda (!), che si trovava 900 Km a nord di A Coruñ. Successivamente Ith fu a capo della prima spedizione che partì dalla penisola iberica alla volta dell'Irlanda, che fu infine conquistata dai figli di Míl Espáine, pronipoti di Breogán.


III MITO

Breogán fu un mitico sovrano celtico proveniente dalla Galizia (Spagna), di cui sarebbe stato il fondatore. Era figlio di Brath. Secondo il Lebor Gabála Érenn (Il libro della presa dell'Irlanda), fondò la città di Brigantium (La Coruña), che avrebbe preso il nome da lui, e vi costruì una gigantesca torre, identificata con la Torre di Ercole.

Secondo la leggenda, suo figlio Ith riuscì a scorgere l'Irlanda dalla cima della torre, e lui e suo fratello Bile giunsero sull'isola verde, dove furono accolti dai Túatha Dé Danann (nelle tradizioni irlandesi uno dei sei popoli preistorici che invasero e colonizzarono l'Irlanda prima dei Gaeli), che in seguito uccisero Ith. Decenni dopo i pronipoti di Breogan, AmerSecondo il Lebor Gabála Érenn, Breogán ebbe dieci figli. Bile fu il padre di Míl Espáine, e Ith fu il padre di Lughaidh. 

Gli altri figli furono Breogha, Cuailgne, Muirtheimhne, Cualu, Fuad, Bladh, Eibhle e Nár. La maggior parte di essi sono ricordati in nomi di località o montagne irlandesi. L'idea secondo cui l'origine dei moderni irlandesi sia da tracciare nella Spagna settentrionale è basata probabilmente sulle similarità tra i nomi Iberia e Hibernia, e tra Galizia e Gaeli.

Al di là del mito, tuttavia, la conquista dell'Irlanda da parte di immigrati provenienti dalla penisola iberica in epoca preistorica si accorda con uno studio genetico condotto nel 2006 presso l'Università di Oxford, dove si notò che la maggior parte degli abitanti delle Isole britanniche discendono in realtà da pescatori neolitici che attraversarono il Golfo di Biscaglia provenienti dalle regioni costiere del nord della Spagna.

La storia di Breogán è ancora piuttosto popolare in Spagna, e in particolare in Galizia, dove è sentita l'origine celtica del popolo gallego (della Galizia). A La Coruña è stata posta vicino alla Torre di Ercole una statua che lo raffigura, e anche l'inno gallego cita molte volte il personaggio. Ma la torre di Ercole è squisitamente romana e stupisce ancora il mondo per la sua maestosità e bellezza.


BIBLIO

- Squire, Charles - Celtic Myth and Legend - Newcastle Publishing Co. - USA - 1975 - 
- Celts descended from Spanish fishermen, study finds - in The Independent - 2006 -
- Patricia Monaghan - The Encyclopedia of Celtic Mythology and Folklore - Infobase Publishing - 2004 -

CULTO DI LATERANUS

$
0
0
FORNO ROMANO A POMPEI

Lateranus è un antico Dio tutelare romano dei focolari (focus - foci) e un genio dei forni di mattoni, secondo un passaggio satirico dello scrittore cristiano Arnobio, un apologista cristiano di origini berbere durante il regno di Diocleziano (284–305).

"Lateranus, ut dicitis, deus est focorum et genius adiectus que hoc nomine, quod ex laterculis ab hominibus crudis caminorum istud exaedificetur genus. Quid ergo? si testa aut materia fuerint quacumque alia fabricati, foci genios non habebunt, et ab officio tutelae quisquis iste est Lateranus abscedet, quod regni sui possessio non luteis constructa est formis? et quid, quaeso, ut faciat, praesidatum focorum deus iste sortitus est? (Arnobe, Adversus Nationes)



FORNAX

La Dea Fornace era però una divinità preromana antichissima, precedente al Dio Lateranus, come colei che presiedeva alla cottura dei cibi e alla sessualità. Si ritiene che da lei venga il termine fornicare, cioè esercitare la sessualità, anch'essa collegata al calore. Grazie a Numa Pompilio venne introdotta una festa propiziatoria in onore della Dea Fornace, protettrice dei forni per il pane.

Il forno costruito con mattoni pieni che si scaldavano e si raffreddavano molto lentamente, permetteva dopo aver cotto il pane, di cucinare arrosti, verdure e dolci. Fornace (dal latino fornax) era dunque la Dea del forno in cui si cuoce il pane. In suo nome si festeggiavano le Fornacalia (19-20 e 21 gennaio), feste di ringraziamento per la tostatura del farro nei forni dei panificatori, infatti nel periodo più arcaico in territorio romano si coltivava il farro, solo successivamente si coltivò il grano, che era più nutriente e di sapore migliore. 

Le Fornicalia erano le feste in onore della Dea Fornix dove si cuoceva e si offriva la mola salsa alla Dea e il pane alla gente, dopo avervi impresso i segno del sole, un punto centrale coi raggi intorno. Soprattutto i poveri si giovavano di queste elargizioni festive pagate dallo stato. Si organizzava la processione con pane vino e latte che veniva offerto ai cittadini.

LA VENDITA DEL PANE

IL MATTONE

Il nome del Dio deriva da Lateritium, il mattone che da crudo diventa cotto ad alte temperature. Il Dio, o genio, controlla con quali tipi di legna si produca il calore nei focolari; dà forza e coesione ai vasi di creta, perché non volino in pezzi, vinti dalla violenza delle fiamme; si adopera affinchè il sapore dei cibi raggiunga il gusto del palato con la propria piacevolezza, fa la parte dell'assaggiatore, e prova se le salse siano state ben preparate.

Il nome Lateranus si basa infatti sulla radice latina che significa mattone, "later", come in "opus latericium", un tipo di muratura fatta di mattoni cotti dai romani per renderli resistenti alla pioggia e nel tempo. WH Roscher colloca Lateranus tra gli indigitamenta, l'elenco delle divinità mantenuto dai sacerdoti romani per assicurare che la divinità corretta fosse invocata per i rituali. 

Il Dio Laterano era dunque il Dio del forno a mattoni cotti ad alte temperature in grado di scaldare fortemente il forno e cuocere rapidamente e uniformemente i cibi. I forni diventano tabernae o thermopolii dove si cuociono e si vendono i cibi, 

L'artigianato diventa commercio, La Dea Fornax viene affiancata dal Dio Lateranus, la cucina romana, dapprima di area mediterranea si estese anche ai gusti dell'oriente formando una cucina varia e gustosa a tal punto da guadagnarsi oggi il titolo di patrimonio dell'UNESCO.



BIBLIO

- Renato Del Ponte - Dei e miti italici. Archetipi e forme della sacralità romano-italica - ECIG - Genova - 1985 -
- Georges Dumézil - Feste romane - Genova - Il Melangolo - 1989 -
- Howard Hayes Scullard - Festivals and ceremonies of the Roman republic - 1981 -
- W. Warde Fowler - The Roman Festivals of the Period of the Republic: An Introduction to the Study of the Religion of the Romans - London - Macmillan and Co. -1899 -
- J. Eckhel - Doctrina numorum veterum - IV - Vienna - 1794 -
- Jorg Rupke - Communicating with the Gods - A Companion to the Roman Republic - Blackwell - 2010 -

QUINTO FABIO MASSIMO E. - Q, FABIUS MAXIMUS AEMILIANUS

$
0
0

Nome: Quintus Fabius Mazimus Aemilianus, ovvero Quinto Fabio Massimo Emiliano 
Nascita: 186 a.c.
Morte: 130 a.c.
Professione: statista e console romano
Padre biologico: Lucius Aemilius Paulus Macedonicus
Madre biologica: Papiria Masonis
Padre adottante: il nipote di Quinto Fabio Massimo il Temporeggiatore 
Zia: Emilia Terzia, figlia di Lucio Emilio Paolo
Fratello minore: Scipio Aemilianus
Figlio: Quinto Fabio Massimo Allobrogico 


Quintus Fabius Mazimus Aemilianus, ovvero Quinto Fabio Massimo Emiliano fu uno statista e console romano (nel 145 a.c.). Quando il padre ebbe da un secondo matrimonio altri due figli, fece passare i due più grandi per adozione in altre gentes, cioè, il secondo nella gente Cornelia, con il nome di Publio Cornelio Scipione Emiliano, e il primo, maggiore di uno o due anni, nella gente Fabia, nel ramo dei Fabî Massimi e nella famiglia di Quinto Fabio Massimo il Temporeggiatore, perché molto probabilmente fu un nipote di questo che adottò il figlio maggiore. 

Dunque Fabius era per adozione un membro della gens patrizia Fabia, da un figlio o da un genero di Quinto Fabio Massimo Verrucoso, ovvero di Quintus Fabius Maximus Verrucosus, ma per nascita era il figlio maggiore di Lucio Emilio Paulo Macedonico, ovvero Lucius Aemilius Paulus Macedonicus, e di Papiria Masonis, la sua prima moglie. Inoltre era il padre di Quinto Fabio Massimo Allobrogico. 



III GUERRA MACEDONICA

Nella III Guerra Macedonica sia lui che Scipione prestarono servizio con distinzione sotto Paolo durante la campagna contro Perseo. Infatti appena diciottenne, Fabius accompagnò il padre biologico nella campagna contro la Macedonia e guidò insieme con Paolo Scipione Nasica l'aggiramento dell'esercito macedone. 

La battaglia di Pydna avvenuta nel 168 a.c., fu lo scontro decisivo della guerra macedonica, conclusa con la netta vittoria delle legioni romane guidate dal console Lucio Emilio Paolo, padre di Quinto Fabio Massimo, sull'esercito macedone del re Perseo. 

Ma Quinto Fabio divenne famoso tra il popolo per avere a proprie spese mostrato varie pitture e aver messo su varie scene che illustrassero le fasi salienti e più drammatiche della III Guerra Macedonica cui egli stesso aveva partecipato.



AMBASCERIA A ROMA

Questa vittoria portò alla fine della guerra e al passaggio di tutta la Grecia sotto il controllo romano, il padre naturale lo inviò a Roma per annunciare la sua vittoria. e visse in quei circoli in cui brillò il fratello, Scipione Emiliano l'Africano, e che accolsero con tanta simpatia Polibio. 



IN GRECIA

Tornato in Grecia, partecipò alle spedizioni punitive del 167 a. c. contro le città ribelli dell'interno della Macedonia e dell'Illiria. 



CONSOLE E PROCONSOLE

Nel 154 a.c. andò ambasciatore in Pergamo. Poi Fabius servì come pretore in Sicilia tra il 149 a.c. e il 148 a.c. e fu eletto console insieme con Lucio Ostilio Mancino per il 145 a.c.. Dopo il consolato si recò come proconsole in Hispania, dove combatté e sconfisse Viriato che aveva fatto prigioniero e fatto uccidere il pretore Caio Vetilio, ma non riuscì a catturarlo. 

Il comando delle due provincie spagnole fu allora riunito nelle mani di Fabius e fu suo merito aver compreso che invece di inseguire grandi successi, conveniva riordinare tutto l'esercito. 
La guerra continuò fino a quando suo fratello, Scipione Emiliano, prese la Numantia un decennio dopo.



AMBASCERIA ROMANA

Fece poi parte di quell'ambasceria romana alla quale fu sottoposta, come è ricordato in epigrafi (Dittenberger, Syll., 3ª ed., n. 6845 e Suppl. Ep. gr., II, 511, cfr. III, 775), una controversia confinaria fra Ierapitna e Itano, e in quello stesso torno di tempo indirizzò agli abitanti di Dime una lettera ordinante la punizione dei capi d'un tentativo rivoluzionario contro la costituzione data alla città dai Romani nel 146 a. C. (Dittenberger, op. cit., n. 684). 

Nel 145 venne eletto console insieme al magistrato e generale Lucius Hostilius Mancinus, insieme a cui illustrò al popolo la guerra macedonica.

Fabius e suo fratello furono allievi e patroni dello storico Polibio, che registrò il forte legame fraterno tra i fratelli, anche dopo la loro adozione in altre case. Nel 133 Fabio fu legato del fratello Scipione nella guerra numantina, e morì sicuramente prima di lui, verso il 130 a.c.


BIBLIO

- Cicero, Marcus Tullius - De Amicitia - Evelyn Shirley Shuckburgh - (ed.) Laelius; Elem. classics series - Oxford University. - 1885 -
- M. Hoffmann - De Viriathi Numantinorumque bello - Greifswald - 1865 -
- F. Münzer - in Pauly-Wissowa - Real-Encycl. - VI - 1791 -
- Harriet I. Flower - The Cambridge Companion to the Roman Republic - Cambridge University Press - 2014 -

BATTAGLIA DI ARAUSIO (105 a.C.)

$
0
0

L'INVASIONE

La battaglia di Arausio fu combattuta il 6 ottobre 105 a.c. nell'attuale città francese di Orange, in Provenza, fra l'esercito romano e le tribù nomadi di alcuni popoli germanici, Cimbri e Teutoni, i più numerosi, con Ambroni, Tigurini e Cimbri. Tra il 120 e il 115 a.c. la popolazione dei germani Cimbri abbandonò l’odierna Scandinavia, per cercare nuovi terreni verso l’Europa meridionale. Sono circa circa 300.000.

Nel 113 a.c, i germanici raggiungono il Danubio e si incontrarono con i Taurisci, alleati di Roma. I Taurisci, preoccupati per l'invasione dei loro territori, inviarono ambasciatori al Senato chiedendo aiuto. Il Console Gneo Papirio Carbone si recò così con un esercito in zona, i Cimbri e i Teutoni inviarono dei messaggeri, sostenendo che la loro occupazione del territorio dei Taurisci non voleva danneggiare la repubblica romana, non sapendo degli accordi tra i due popoli.

I Romani cercano di proteggere l’area danubiana, ma subiscono una prima sconfitta a Norea nel 113 a.c.: è solo l’inizio delle guerre romano-germaniche che si protrarranno per secoli.



L'IMBOSCATA

Carbone diede dunque l’ordine immediato di abbandonare i territori che erano stati occupati, per poi superare il fiume Danubio e ritornare nelle loro terre. I Germani accettarono l’ordine, ma mentre questi venivano condotti dalle guide a tornare nei loro territori, il Console Carbone senza aver consultato il senato di Roma organizzò un’imboscata per sterminarli, sperando in una gloria militare. 

Da notare che i germani avevano i guerrieri Ulfheonar (vestiti di lupo) che della mitologia norrena si coprivano esclusivamente con la pelle del lupo ucciso da loro stessi. Erano famosi per il loro impeto guerriero, concesso loro dal Dio Odino e dal lupo, loro animale totemico. 

Questi guerrieri prima del combattimento, assumevano: birra, un estratto di amanita muscaria (tossico e allucinogino) e digitale. Questo mix dava loro allucinazioni, e comportava un aumento della temperatura corporea, del battito cardiaco e dell'adrenalina. Dopo aver assunto queste sostanze, festeggiavano sino allo stremo e da lì si lanciavano in battaglia, combattendo come lupi.

Inoltre tra le file dei loro combattenti si annoverano anche le donne, coraggiose e capaci, per nulla inferiori ai maschi, delle vere e proprie “valchirie”. 



IL RIFIUTO DEL SENATO

Fatto sta che l'imboscata si rivelò uno sfacelo, i germani si difesero prima e poi attaccarono sconfiggendo i romani. Incoraggiati dalla vittoria i Cimbri e i teutoni si sentirono autorizzati a inviare messaggi al Senato richiedendo una terra in cui vivere. Il Senato rifiutò e le tribù germaniche si spostarono nella Gallia Narbonese, dove sconfissero anche il Console Marco Giunio Silano, lì giunto per arginare la loro migrazione. Ormai era guerra. Quello che una volta era il Metus Gallicus ora era diventato il Metus Teutonicus.



IL RIFIUTO DI PUBLIO RUFO

A Roma si scatenò il dibattito politico per decidere a quale generale assegnare la guerra. Il più anziano dei due Consoli di quell’anno, Publio Rutilio Rufo, era un generale esperto e, veterano della recente guerra di Numidia, ma decise di non farsi carico della campagna militare, rimanendo a Roma e lasciando la gestione del conflitto al suo collega più giovane e più inesperto Mallio Massimo.

L'esercito di Roma era dunque comandato dal console Gneo Mallio Massimo, un homo novus, e dal proconsole per la Gallia Quinto Servilio Cepione, che era stato console l'anno precedente nonchè esponente dell'aristocrazia.

Lo scontro, avvenuto nei pressi di Arausio nella Gallia Transalpina, seguiva di due anni la disfatta di Agen, evidenziando le difficoltà dei Romani di combattere in luoghi poco conosciuti e con la guerriglia
La differenza di status tra i due comandanti generò mancanza di coordinazione e dissidi, che inevitabilmente ebbero ripercussioni durante le manovre. 

Come console in carica per quell’anno, Massimo aveva una autorità superiore rispetto a quella di Cepione, e per legge avrebbe dovuto prendere l’ultima decisione sulla tattica da impiegare. Ma poiché massimo era un Homo Novus, Cepione, si rifiutò così di prestare servizio sotto di lui e si accampò di propria iniziativa sulla sponda opposta al fiume.

Poco prima del combattimento, due tra i maggiori contingenti romani disponibili nell’area erano accampati vicino al fiume Rodano, nei pressi della città di Arausio. Il primo contingente era guidato direttamente da Mallio Massimo, mentre l’altro dal proconsole Quinto Servilio Cepione. 



LE SCONFITTE ROMANE

Dopo l’ennesima vittoria, i Cimbri e i Teutoni decisero di allargare i loro alleati coinvolgono anche la popolazione dei Tigurini e degli Elvezi infliggendo un’ulteriore sconfitta ai romani a Burdigala, odierna Bordeaux, nel 107 a.c.



QUINTO SERVILIO CEPIONE

106 a.c. - Quinto Servilio Cepione, figlio dell'omonimo console del 140 a.c., nel 106 a.c. fu eletto console, promulgò una legge che reintegrava i senatori nelle giurie e marciò da Narbona con otto legioni contro le tribù cimbriche stanziate nella zona di Tolosa, che si erano ribellate a Roma impossessandosi di un'enorme somma di denaro custodita nei santuari dei templi (Oro di Tolosa o Aurum Tolosanum).

Il tesoro, che si diceva maledetto, di 50.000 lingotti d'oro pari a 15.000 talenti d'oro, 10.000 lingotti d'argento e macine interamente in argento per un valore di 10.000 talenti d'argento, fu rinvenuto vicino alla città. La maggior parte del bottino durante il trasporto verso Massilia (Marsiglia) fu prelevato dai predoni i quali si impadronirono dei 450 carri che trasportavano i lingotti d'oro. Secondo la leggenda l'aura di maledizione che accompagnava quel bottino sarebbe stata alla base della disfatta dei Romani nella battaglia di Arausio.



MARCO AURELIO SCAURO

Comandante della cavalleria dell'esercito di Gneo Mallio Massimo nella Gallia Narbonese. Il suo distaccamento, accampatosi a distanza dal resto dell'esercito, nella città di Arausio, fu il primo ad essere attaccato dai germani e fu completamente annientato; Scauro fu catturato e portato al cospetto dei capi germanici e lì, secondo Granio Liciniano, "non fece né disse nulla che non si addicesse a un romano che ricopriva un ruolo così elevato". 

Le epitomi di Tito Livio riferiscono che mentre cercava di dissuadere i germani dal valicare le Alpi, dicendo che sarebbe stato impossibile vincere Roma, Boiorige, un giovane germano carico di ferocia, lo uccise. Pochi giorni dopo l'esercito di Mallio e quello di Quinto Servilio Cepione, in conflitto tra l'oro per la detenzione del comando supremo, furono sconfitti e annientati nella battaglia di Arausio.

Theodor Mommsen commenta: "Mallio e Cepione si equivalgono come capacità militari: sono due perfette nullità."



LA BATTAGLIA

105 a.c. - Lo scontro ebbe luogo il 6 ottobre del 105 a.c. in una zona tra la città di Arausio, odierna Orange, Sud - Est dell’attuale Francia, e il fiume Rodano. La battaglia si verificò tra i due eserciti romani guidati dal proconsole Quinto Servilio Cepione e dal console Gneo Mallio Massimo contro le tribù germaniche dei Tigurini, degli Ambroni, dei Cimbri, guidati dal Re Boiorix, e i Teutoni guidati dal Re Teutobod.

Cepione, nonostante la gravità della situazione, ignorava tutte le disposizioni di Massimo, aspettando che fosse direttamente il Senato ad ordinargli di traversare il Rodano. 

Il primo scontro si ebbe a 65 km nord di Arausio (Orange in Francia), allorché Marco Aurelio Scauro, alla testa di 5.000 cavalieri, ingaggiò una prima battaglia perdendo contro le avanguardie della coalizione germanica. 

Inoltre, il territorio in cui combattevano divenne sfavorevole, dal momento che l’accampamento era stato posizionato con un fiume alle spalle, che impediva ogni fuga. All’attacco dei Cimbri, i romani tentarono di scappare in quella direzione, ma con le loro ingombranti armature, la loro fuga si trasformò in un suicidio. 

La battaglia di Arausio fu la peggiore sconfitta subita dalle armate di Roma nella sua storia (peggio della battaglia di Canne contro Annibale). Le perdite sono stimate da Tito Livio, che cita Valerio Antias, in 80.000 soldati, oltre ad altre 40 mila truppe ausiliarie, praticamente tutti i partecipanti alla battaglia. Pochissimi romani riuscirono a sopravvivere, compresi i servitori e gli addetti all’accampamento, che di solito contavano almeno la metà delle truppe effettive. 

Negli scontri successivi Cepione alla testa di sette legioni fu battuto a 48 km Nord di Arausio e poi Mallio con nove legioni subì una nuova disfatta. I Cimbri riuscirono addirittura a saccheggiare l’accampamento di Cepione, che rimase praticamente indifeso in balìa del nemico, anche se Cepione riuscì a fuggire dal campo di battaglia, illeso. Incoraggiati dalla straordinaria vittoria, i Cimbri attaccarono la forza comandata da Massimo. che aveva assistito impotente alla completa distruzione dei suoi commilitoni.



LA FINE

Quinto Servilio Cepione: si salva dal campo di battaglia e con un rapido viaggio si reca a Roma per spiegare la sua versione dei fatti. Messo sotto accusa dal Senato, per la vicenda dell'oro tolosano, perse la cittadinanza, gli furono confiscati i beni e fu condannato all'esilio. Morì a Smirne, in Asia minore.perde la cittadinanza romana e muore in esilio a Smirne (attuale Izmir in Turchia).

Gneo Mallio Massimo: viene salvato dal campo di battaglia dal figlio di Cepione, ma perde i suoi due figli. Rientrato a Roma di lui si perdono le tracce nella storia ufficiale.
Sebbene ai più ignota la Battaglia di Arausio fu la più grande sconfitta subita dalle legioni, nella secolare storia romana.



COLPA DELL'EMPIETA'

La disfatta aprì le porte della Gallia Narbonense e dell'Italia ai Teutoni e ai Cimbri. Alla sconfitta di Cepione è legata una tradizione semi-leggendaria, che la vorrebbe causata dal suo furto sacrilego dell'Aurum Tolosanum, il presunto bottino del santuario di Apollo a Delfi, saccheggiato durante la spedizione celtica in Grecia.

Cicerone nel De natura deorum cita il modo di dire "aurum habet Tolosanum" per intendere quelle disgrazie che derivano dal guadagno tratto in modo empio. Questa tremenda sconfitta verrà poi vendicata da Gaio Mario nelle successive celebri battaglie (battaglia di Aquae Sextiae e battaglia dei Campi Raudii) che posero definitivamente fine all'espansione dei Teutoni e dei Cimbri.


LE CONSEGUENZE

La sconfitta privò l’esercito di un grandissimo quantitativo di uomini e di manodopera. Il nemico, ormai incoraggiato dalle sue vittorie, era veramente ad un passo dalla invasione del nord Italia. Successivamente i Cimbri si scontrarono con gli Arverni e, dopo una dura lotta, partirono verso i Pirenei, il che dette ai romani il tempo di riorganizzarsi e di eleggere un nuovo generale che sarebbe diventato noto come il salvatore di Roma.

Il Senato romano, constatata la gravità della situazione, ignorò infatti i vincoli legali che impedivano ad un uomo politico di essere console per una seconda volta fino a quando non fossero trascorsi 10 anni dal suo primo incarico, e i patrizi ignorarono pure che fosse plebeo. e proposero l’elezione immediata dell’abilissimo generale Gaio Mario.

Mario avrebbe combattuto ed annientato quei popoli di lì a poco in due battaglie: la battaglia di Aquae Sextiae, 102 a.c, e la battaglia dei Campi Raudii, 101 a.c. Con queste due vittorie Caio Mario non solo entra nella storia di Roma, ma pone le basi per il cambiamento radicale della struttura dell’esercito romano. I Cimbri e Teutoni sono completamente annientati o resi schiavi.


BIBLIO

- Theodore Mommsen - Storia di Roma - volume II - Milano - Armando Curcio Editore - 1964 -
- Vincenzo De Vito - Calata dei Cimbri in Italia - Roma - 1886.-
- Lodovico Mangini - Historie di Asola, fortezza posta tra gli confini del ducato di Mantova, Brescia e Cremona - Vol. I - Mantova - 1999 -
- S. Fischer Fabian - I Germani - ed. Garzanti - 1985 -
- Giuseppe Antonelli - Gaio Mario - Newton - 1995 -
- Tacito - De origine et situ Germanorum - traduzione italiana del Progetto Ovidio -
- Fabian S.Fischer - I Germani - ed. Garzanti - 1985 -
- Maureen Carroll - Romans, Celts & Germans: the german provinces of Rome - Gloucestershire & Charleston - Tempus Pub Ltd - 2001 -

GAIO ATEIO CAPITONE - G. ATEIUS CAPITO

$
0
0
ATEIO MALEDICE CRASSO CHE VA A FARE UNA GUERRA PARTICA DISASTROSA

Nome: Gaio Ateio Capitone, ovvero Gaius Ateius Capito
Nascita: 38 a,c,
Morte:22 d.c.
Padre: Gaio Ateio Capitone
Console suffetto: anno 5 d.c.
Gens: Ateia
Professione: giurista

Figlio di Gaio Ateio Capitone, il tribuno della plebe che nel 55 a.c. ostacolò ed esecrò pubblicamente Marco Licinio Crasso che andava a combattere i Parti procurando a Roma una delle più grandi sconfitte della sua storia. Fu uno dei più distinti giuristi dell'età augustea, che fu console suffectus nell'anno 5.

Capitone divenne il più insigne giurista della prima età imperiale alla pari del suo più famoso rivale, Marco Antistio Labeone, ovvero Marcus Antistius Labeo (... – 10 o 11), dal quale si differenziava sia per le opinioni politiche, sia nei concetti della giurisprudenza.

Roma fu civilissima proprio perchè i suoi studiosi si applicavano per migliorare le fonti del diritto, onde dare ai cittadini una possibilità di uguaglianza almeno nei diritti fondamentali. In tal senso Roma fu la massima civiltà antica, civiltà che riportò non solo nel diritto ma anche nell'arte pittorica, scultorea, poetica, letteraria, storica e architettonica ancora oggi insuperate. 

Capitone e Labeone fondarono le due più importanti scuole di diritto della Roma antica, caratterizzate da un differente approccio al diritto (Cfr. D.1.2.2.47):
- la scuola dei Sabiniani, fondata da Ateio Capitone, si distingueva per un atteggiamento maggiormente conservatore rispetto al diritto.
- la scuola dei Proculiani, fondata da Labeone, caratterizzata da un atteggiamento più innovatore nei confronti del diritto da parte dei suoi adepti.

A questo proposito si racconta un aneddoto:
"Un barbiere che operava all’aperto, al di fuori della sua bottega, serviva un cliente radendolo sul marciapiede del foro; dei bambini, giocando fra loro, tirano una pallonata maldestra che colpisce la mano del barbiere che disgraziatamente taglia la gola dell’avventore. 
Il barbiere era responsabile della morte del cliente?
Se oggi la risposta può sembrare piuttosto scontata, altrettanto non era all’epoca: i Sabiniani ne sostenevano, infatti, l’innocenza, indicando come causa, piuttosto, il comportamento sprovveduto del cliente a farsi radere in un luogo esposto.
Molto più ragionevolmente la scuola di Labeone, ovviamente, sottolineava come fosse l’esercente dell’attività il responsabile, in quanto doveva svolgere la sua attività in luoghi idonei e sicuri, scegliendoli ed operando secondo la normale diligenza
."

Labeone si dimostrò più conservatore e difensore degli ideali repubblicani, Capitone aderì prontamente al nuovo ordine costituzionale romano legandosi ben presto ad Augusto, l'imperatore di Roma. Le sue idee politiche gli garantirono il favore di Ottaviano che lo ricompensò facendolo accedere al consolato (sebbene solo come consul suffectus) all'età di 43 anni, nel 5 d.c.

Tacito ci fornisce un giudizio alquanto negativo di Capitone, proprio in raffronto al rivale Labeone:
« Labeone serbava incorrotto il senso della libertà e godeva per questo di più larga rinomanza, mentre la condotta ossequiosa di Capitone lo rendeva più caro ai dominatori. Al primo, appunto perché non salì oltre la pretura, questa ingiustizia procurò maggior considerazione: il secondo, per avere ottenuto il consolato, si attirò l'odio che nasce dall'invidia. »
(Annales, III, 76)

Non si può però dimenticare che il dominio degli imperatori romani dette all'Impero un impulso notevolissimo non solo nell'estensione ma pure nei commerci, nelle innovazioni, nelle scoperte di terre e di scienza, di leggi e di diritto, di matematica e di medicina, di arte e di architettura.

LABEONE IL RIVALE DI CAPITONE

IL PEGGIOR NEMICO DI ATEIO

Iniziò circa duemila anni fa da alcune ambigue insinuazioni di Tacito, che hanno trasformato Capitone in un cortigiano ambizioso e corrotto e nota altresì che Capitone discendeva da un avo che era stato centurione di Silla e da un padre che non era andato oltre la carica di pretore, insomma un uomo da poco che nulla aveva a che vedere un homo novus perchè era pure un tradizionalista.



LE OPERE

Tutte le opere di Capitone sono andate perdute, purtroppo vi fu con il cristianesimo una devastazione totale di tutti i libri o scritti in quanto ritenuti pagani e fuorvianti dalla religione che, al contrario della religione pagana, prevaleva su ogni campo. Pertanto di queste preziose opere se ne conosce solo il titolo attraverso la citazione di autori della tarda antichità:

- De pontificio iure (Sulla legge del pontificato), di almeno sei libri;
- De iure sacrificiorum (Sulle leggi sui sacrifici);
- Coniectanea (Varie) almeno nove libri su tematiche varie;
- De officio senatorio (Sul ruolo senatorio)
- Un'opera il cui titolo è sconosciuto sugli auguri;
- Epistulae (Lettere).


BIBLIO

- Theodor Mommsen - Diritto pubblico romano - V volumi - 1888 -
- Theodor Mommsen - Diritto penale romano - 1899 -
- Theodor Mommsen - Codex Theodosianus - editore critico con Paul Meyer - 1905 -
- Alexander e Barbara Demandt - Storia di Roma imperiale. Dagli appunti delle lezioni del 1882/86 di Sebastian e Paul Hensel - 2004 -
- Melillo G., Palma A., Pennacchio C. - Labeone nella giurisprudenza romana. Le citazioni nei giuristi successivi, le Epitomi, i Pithana, i Posteriores - Edizioni scientifiche - 1995 -
- De Martino Francesco - Storia della Costituzione romana - ed. Iuvene - 1975 -

LUCUS JUNONIS LUCINAE

$
0
0
IL  LUCUS ROMANO

IL TEMPIO DI GIUNONE LUCINA

Prima dell'edificazione del tempio, sull'Esquilino il culto di Giunone Lucina era già attivo in un bosco sacro (lucus, da cui potrebbe derivare l'epiteto della dea Lucina); Varrone assegna l'introduzione del culto a Tito Tazio, re dei Sabini.

Nel VI secolo a.c. Servio Tullio aveva promulgato una legge che obbligava il versamento al tempio di Giunone lucina una moneta da parte dei genitori in occasione della nascita di ogni neonato al fine di avere una statistica delle nascite.

Ma il tempio di Giunone Lucina fu dedicato però il 1º marzo del 375 a.c. per cui non poteva trattarsi di quel tempio. Nel 190 a.v. il tempio fu colpito da un fulmine, che ne danneggiò il timpano e le porte, interpretato come segno della collera della Dea.

Nel 41 a.c., il questore Quinto Pedio costruì o ristrutturò un muro che probabilmente recintava sia il tempio sia il bosco sacro. Alcune iscrizioni ne testimoniano l'esistenza anche in età imperiale.

IL LUCUS DI GIUNONE LUCINA 

Di nessun altro bosco come di questo si è in grado di meglio fissare la posizione, conoscendosi con ogni certezza quella del tempio di Giunone Lucina, e del sesto sacello degli Argei che presso il bosco era situato. Sorgeva il tempio, come si può vedere nella tavola XXIII della F. TI. del chiaro professor Lanciani, sull'estremo lembo del Cispio, nel versante che guarda il vico Patricio, e precisamente tra le moderne vie in Selci ed Urbana, non lungi dal punto in cui dalla via Cavour si dirama la via G. Lanza. 

Ciò per molte ragioni che non giova ripetere, potendosi leggere nei libri di topografia romana; ma soprattutto per essersi ivi scoperta nel 1770 una iscrizione appartenente al tempio di Lucina, e ritrovata si può dire in situ. 

Infatti, benché la iscrizione sia tornata in luce, non proprio nel Cispio, ma nell' estremo confine dell'Oppio, fu però rinvenuta a così breve distanza dal Cispio, da far credere che nell'Oppio giacesse, perchè sbalzatavi nel cadere dall'alto di qualche parete, o perchè trasportatavi più tardi dal luogo ove si trovava originariamente.

Lì presso adunque si collocava dai topografi il Lucus ed il sesto sacello degli Argei, ciò essendo pure consigliato dalla ragione più volte accennata, che cioè i sacrari degli Argei dovevano anche topograficamente succedersi in quell'ordine con cui vengono enumerati nel testo varroniano. Pertanto, servendo il bosco di Lucina a determinare l'ultimo sacello della regione Esquilina, è chiaro che tanto il sacello quanto il bosco erano da ricercare all'estremità del Cispio, dove appunto passava la linea di confine tra la seconda regione Esquilina e la terza Collina.

Orbene, questa deduzione è stata mirabilmente confermata dalla scoperta (avvenuta nel 1888, ed illustrata con la solita erudizione dal ch. prof. Gr. Gatti nel Bull. com. di quello stesso anno) di uno dei sacelli compitalici eretti da Augusto nel luogo medesimo dove sorgevano gli antichi sacrari degli Argei, e rispettando anzi, per quanto era possibile, come  ha pure dimostrato la scoperta di cui parlo, la precedente costruzione. 

Il sacello tornato in luce nel 1888, a cagione del luogo in cui fa scoperto, dietro l'abside della chiesa di san Martino ai Monti altro non può essere se non il sesto della regione Esquilina. In quelle adiacenze, dunque, si deve collocare il sacro boschetto di Lucina, nel quale si sarebbe fatta udire la voce che prescrisse alle sterili Sabine di farsi battere dai Luperci per diventare feconde. Perciò la tradizione attribuiva la dedicazione del tempio alle matrone, e se ne celebrava la ricorrenza alle none di marzo. 

Del progressivo sparire del luous si lamenta Varrone nel passo che mi è servito di guida principale per fissare la posizione dei boschi dell'Esquilino; e ne incolpa l'avidità dei privati, i quali pur di accrescere l'area fabbricabile» non si astenevano dall'invadere i confini del lucus. Suppone perciò il Nibby che il muro, di cui parla la già ricordata iscrizione a proposito di .restauri fattivi, avesse precisamente lo scopo di proteggere il bosco dalle continue usurpazioni, di cui si lagna Varrone. 

E forse a questo muro si deve se qualche avanzo del lucus si potè conservare almeno fino ai tempi di Plinio il Vecchio, il quale riferisce che davanti al tempio di Lucina si vedevano ancora alcuni alberi di loto antichissimi, e che ad uno di questi, chiamato perciò "arbor cavillata", si appendevano i capelli che il pontefice massimo 'tagliava alle Vestali. 

Questi alberi si ritenevano più antichi dello stesso tempio, la costruzione del quale si fa da Plinio risalire all'anno 379 di E,. Anche se ciò non sia vero nel caso particolare, è però sempre una prova dell'anteriorità dei luci sui templi fabbricati.

BIBLIO

- R. Lanciani - Storia degli Scavi di Roma e le Notizie intorno alle Collezioni Romane di Antichità -
- Giuseppe Ragone - Dentro l'àlsos. Economia e tutela del bosco sacro nell'Antichità Classica in Il sistema uomo-ambiente tra passato e presente - Bari - 1998 -
- AA.VV. - Les bois sacrés - Actes du Colloque International, du Centre J. Bérard - Napoli - 1993 -
- Servio - Ad Aeneidem -

NEQUINUM - NARNI (Umbria)

$
0
0
FONTE FERONIA

Nequino, cittadina dell'Umbria posta sul fiume Nera, oggi Narnia, corrispondente all'attuale Narni. Sappiamo che Narnia divenne colonia latina all’inizio del III sec. a.c., che si arricchì e ampliò con la costruzione della via Flaminia, che doveva passare su una antica strada già esistente, tanto da avere un suo porto fluviale sul Nera, e ancor più prosperò dopo essere divenuta municipium. Tra l'altro ebbe l'onore di dare i natali all’imperatore Marco Cocceio Nerva (IMP·NERVA·CAES·AVG·PONT·MAX· TR·POT. 30 - 98 d.c.) 

PORTA ROMANA

LA NARNIA ROMANA

Tito Livio ci ha tramandato lo stratagemma col quale l’inespugnabile oppidum di Nequinum fu presa dai
romani nel 299 a.c. che l'avevano inutilmente assediata per più di un anno, attraverso l'esercito guidato dal console Quinto Appuleio Pansa. Attraverso il tradimento di due narnesi, che realizzarono un cunicolo nei pressi della loro abitazione posta nei pressi delle mura, i Romani riuscirono a entrare a Nequinum e conquistarla.

Recenti rinvenimenti di siti protostorici sulle alture intorno a Narni fanno ipotizzare che i romani abbiano conquistato un territorio controllato non da un unico centro abitato ma da una sorta di confederazione di villaggi, dei quali Nequinum rappresentava forse il centro strategico più importante.

Nequinum divenne così Narnia, colonia latina posta a controllo dello snodo strategico tra i centri sulla valle tiberina di Ocriculum e Ameria (Otricoli e Amelia) e l’Umbria interna, raggiungibile attraverso quella che diventerà presto la via Flaminia nelle due direzioni: quella a nord, verso Carsulae (che sarà resa più agevole con la costruzione del Ponte di Augusto), e quella verso nord-est diretta a Interamna – oggi Terni.


Da Nequinum a Narnia.

Sembra che i Romani, piuttosto superstiziosi, considerando il nome della città di cattivo auspicio, in latino nequeo significa “non posso”, cambiarono il nome in Narnia, proprio dal fiume Nar che vi scorre sotto. Del resto per la stessa ragione cambiarono il nome Maleventum in Beneventum, oggi Benevento.

Testimoniato anche dalle fonti e dai ritrovamenti archeologici si sa che la città godeva del porto di Narnia, prima di Nequinum, e soprattutto del cantiere navale costruito nei pressi dell’odierna Stifone, il borgo e il porto lungo le Gole del Nera. Sotto la rupe rocciosa su cui poggia il castello di Taizzano, oggi pressochè scomparso, ma in un luogo di bellezze naturalistiche e storiche.

La zona dove oggi insiste il borgo fu il porto fluviale di Narni già in epoca pre-romana e crebbe, nel
periodo successivo, con la realizzazione di un cantiere navale, probabilmente realizzato a partire dalla prima guerra punica. Tacito narra del viaggio verso Roma, con imbarco presso il porto di Narnia, del console Gneo Calpurnio Pisone nel 19 d.c. e alcuni ritrovamenti di sepolture e mosaici di età imperiale attestano che il porto divenne un luogo sempre più frequentato.

Fu probabilmente in uso prima della romanizzazione, e si presume vi furono costruite – al riparo dagli attacchi possibili sul Tevere – quelle navi che supportarono Roma nel conflitto contro Cartagine.
È certo che, come riferisce Tacito, il console Gneo Calpurnio Pisone nell’anno 19 d.c. raggiunse la capitale imbarcandosi proprio a Narni.

PONTE DI AUGUSTO

La Via Flaminia

La costruzione della via Flaminia, intorno al 220 a.c., con l’uso in parte di tracciati preesistenti, rappresentò uno sviluppo sul territorio, realizzato per fini militari, ma anche di sviluppo economico.
Purtroppo le tracce archeologiche della fase repubblicana sono poche e si limitano a quanto resta delle mura urbiche e ai pochi reperti mobili oggi conservati nel museo.

Di certo uno dei monumenti di questo periodo è, in Via dell’Arco Romano, quello che oggi è detto arco del Vescovo che doveva essere la porta principale di accesso alla città. Narnia, divenuta municipio dopo la guerra sociale del 90-88 a.c., fu ascritta alla tribù Papiria e inserita nella Regio VI in età augustea, quando l’opera degli ingegneri dell’imperatore edificarono l’opera più importante di cui oggi si conservano i monumentali resti: il Ponte di Augusto.

In questo periodo il fertile territorio di Narnia fu sfruttato per la costruzione di ville sia rustiche sia per l’otium, come quelle attestate dagli autori antichi, della ricchissima Pompeia Celerina, suocera di Plinio il Giovane.

ACQUEDOTTO DELLA FORMINA

- Tra il 24 e il 33 d.c. - venne edificata, sotto la direzione del curator aquae Marco Cocceio Nerva, avo del futuro imperatore, la mirabile opera idraulica dell’Acquedotto della Formina.

- Nel 30 d.c. - vi nacque Marco Cocceio Nerva, imperatore dal 96 al 98 per adozione da parte di Domiziano: fu l’ultimo di origini italiche tra gli imperatori romani e gli successe Traiano.

Per ciò che concerne gli edifici pubblici: un’ipotesi posizionerebbe l’anfiteatro a valle, nei pressi del ramo della Flaminia che va verso Terni; carte del XVII secolo fanno supporre che il teatro potesse essere disposto dove ora sorge il complesso della Beata Lucia, nei pressi di Piazza Galeotto Marzio.

Non si hanno notizie di luoghi di culto. Unico sito, il cui toponimo è legato a una divinità italico-sabina, è quello della Fonte Feronia, luogo votato al culto delle acque con strutture primitive del IV-III sec. a.c. poi più volte rimaneggiate. Nonostante le tradizioni orali ponessero sotto la Chiesa di Santa Maria Impensole un tempio dedicato a Bacco, e sotto Santa Maria Maggiore, poi San Domenico e oggi Auditorium Bortolotti, quello dedicato a Minerva, da recenti studi queste ipotesi non sono state confermate.

NARNI SOTTERRANEA

Secondo Tertulliano, che scrive alla fine del II secolo e si riferisce a un’opera perduta di Terenzio Varrone, a Narnia si venerava il Dio indigeno Visidianus (come a Ocriculum la dea Valentia).

Rare anche le aree funerarie che sono state rinvenute principalmente lungo la via Flaminia. L’area sepolcrale più importante è quella di fianco le mura lungo la via Flaminia dove per tradizione venne sepolto San Giovenale morto nel 376 e dove, alcuni anni dopo, venne edificato quel sacello che accolse i vescovi di Narnia e che fu la base su cui fu edificata la Cattedrale di Narni.


BIBLIO

- Christian Armadori -  Il Porto di Narnia e il Cantiere Navale Romano sul Fiume Nera - Ed. Quasar - 2012 -
- Alvaro Caponi - I segreti del porto etrusco e il cantiere navale di Narnia: ritrovamenti unici al mondo: Villa Pompeia Celerina - Ricerca obiettivo - 2006 -
- Structurae - "Ponte di Augusto (Narni) | Structurae" - En.structurae.de. 2013-03-26 -
- Holly Hartman - Narnia: A Look Back - factmonster.com -

 

ITALICI CONTRO ROMA

$
0
0

ROMA

Le Leghe Italiche furono alleanze di città-stato nell'Italia antica che si unirono per resistere al crescente dominio di Roma sulla penisola. Queste leghe rappresentavano un tentativo da parte delle città italiche di preservare la propria autonomia e indipendenza di fronte all'espansione romana. Le principali leghe italiche includono:

Lega Latina: La Lega Latina era un'alleanza di città-stato latine, composta principalmente da città della regione del Lazio. La lega era stata inizialmente un'organizzazione militare, ma in seguito divenne un'importante istituzione politica ed economica. Durante la Guerra Latina (340-338 a.C.), la Lega Latina si oppose a Roma, ma alla fine fu sconfitta e assorbita nell'orbita romana.

Lega Sannitica: La Lega Sannitica era un'alleanza di città-stato nell'Italia centrale e meridionale, guidata dai Sanniti. Durante il IV secolo a.C., la Lega Sannitica si scontrò ripetutamente con Roma in una serie di guerre sannitiche. Nonostante alcuni successi iniziali, la lega fu alla fine sconfitta da Roma, portando alla sottomissione dei Sanniti e delle città alleate sotto il dominio romano.

Lega Etrusca: La Lega Etrusca comprendeva le città-stato etrusche dell'Italia centrale e settentrionale. Anche se gli Etruschi non formarono una lega politica coesa come gli altri popoli italici, le città etrusche spesso collaboravano tra loro per difendere i propri interessi contro Roma. Tuttavia, Roma alla fine riuscì a sottomettere gli Etruschi e a incorporare le loro città nel suo dominio.

Altre Leghe: Oltre alle leghe sopra menzionate, vi erano altre alleanze e coalizioni di città-stato che cercavano di resistere al dominio di Roma. Tuttavia, nessuna di esse riuscì a impedire l'ascesa di Roma come potenza preminente nella penisola italica.

Nonostante gli sforzi delle leghe italiche per opporsi al dominio romano, alla fine Roma riuscì a sottometterle tutte attraverso una combinazione di forza militare, diplomazia e concessioni politiche. Questo segnò una tappa importante nella storia dell'espansione romana e nella creazione dell'Impero Romano.


GLI ITALICI CONTRO ROMA

STORIA DI ROMA ANTICA - DI THEODOR MOMMSEN


§ - GUERRE TRA SABELLI E TARANTINI

Mentre i Romani combattevano sulle sponde del Liri e del Volturno, altre guerre muovevano il sud-est della penisola. La ricca repubblica commerciale di Taranto, sempre più gravemente minacciata dalle popolazioni dei Lucani e dei Messapi, e diffidente, e con ragione, delle proprie armi, seppe con buone parole e miglior oro cattivarsi i capitani di ventura del proprio paese.


Archidamo

II re degli Spartani Archidamo, venuto in aiuto dei suoi compatrioti con un forte esercito, peri sotto le armi dei Lucani nello stesso giorno in cui Filippo vinse a Cheronea (i pii Greci pensarono che la sua morte fosse avvenuta come castigo, perché egli diciannove anni prima aveva partecipato colla sua gente al saccheggio del tempio di Delfo).


Alessandro il Molosso

Prese il suo posto un più potente capitano, Alessandro il Molosso, fratello d'Olimpia, madre d'Alessandro il Grande. Con le schiere che seco condusse Alessandro trasse sotto le sue insegne i contingenti delle città greche e particolarmente i Tarantini e i Metapontini; inoltre i Pediculi (intorno a Rubi ora Ruvo), i quali, come i Greci, si vedevano minacciati dalla nazione sabellica; finalmente gli stessi esiliati Lucani, il cui ragguardevole numero ci fa argomentare che forti dissensioni vide presto superiore al nemico. 

Cosenza che era, come pare, la sede della federazione dei Sabelli stanziati nella Magna Grecia, cadde nelle sue mani. Invano i Sanniti vennero in aiuto dei Lucani, Alessandro sconfisse i loro eserciti uniti presso Pesto (Paestum), vinse i Danni a Liponto, i Messapii a sud-est della penisola; e cosi padrone dall'uno all'altro mare era già in procinto di porgere la mano ai Romani per attaccare unitamente a loro i Sanniti nelle loro sedi originarie. 

Ma questi inaspettati successi spiacquero e spaventarono i mercanti tarentini e scoppiò la guerra tra essi e il loro capitano il quale, venuto in Italia al soldo dei Tarentini, voleva fondare un regno ellenico in occidente come suo nipote voleva fondarne uno greco in Oriente. 

Alessandro fu dapprima fortunato: egli tolse Eraclea ai Tarentini, Turio e pare che avesse invitato con un proclama tutti gli altri Greci italici ad unirsi sotto la sua protezione contro i Tarentini e nello stesso tempo cercasse di metter pace tra i Greci e le popolazioni sabelliche. 

Ma i suoi grandiosi progetti trovarono solo debole appoggio presso i degeneri e disanimati Greci, e il cambiamento di parte impostogli dalla necessità alienò da lui quella parte dei Lucani che fino allora gli era stata favorevole. Egli cadde presso Pandosia per mano d'un esule lucano.


Morte di Alessandro

Colla morte sua le cose ritornarono di nuovo nell'antico stato. Le città greche si videro nuovamente smembrate e ridotte al punto di proteggersi dai nemici col mezzo di trattati, di tributi od anche collo aiuto straniero; così, ad esempio, Crotone nel 430 (= 324) respinse i Bruzii coll'aiuto di Siracusa. Le schiatte sannitiche ebbero di nuovo il primato, non avendo a temere i Greci, poterono rivolgere i loro pensieri alla Campania e al Lazio. Ma in questo breve tempo si era qui compiuto un notevole · cambiamento. 

La confederazione latina era spezzata ed infranta, rotta l'ultima resistenza dei Volsci, ed il paese campano, il più ricco ed il più bello della penisola, si trovava in possesso incontrastato e ben assicurato dei Romani, e così la seconda città d'Italia posta sotto la clientela romana. 

Mentre i Greci ed i Sanniti lottavano fra loro, Roma si era, quasi senza contrasto, elevata a tale saldezza di potenza che nessuno dei popoli della penisola aveva da solo la forza di abbatterla; tutti erano ormai minacciati dal pericolo di cadere sotto il giogo romano e solo uno sforzo di comune accordo poteva forse ancora spezzare le catene, prima che si ribadissero intieramente. 

Ma la chiaroveggenza, il coraggio, la rassegnazione, come richiedeva una tale coalizione, composta di tanti comuni popolari e urbani, stati sino allora per la maggior parte nemici e stranieri gli uni agli altri, non si trovarono allora o si trovarono solo quando era troppo tardi.


§ - COALIZIONE DEGLI ITALICI CONTRO ROMA

(Italici: antica denominazione dei popoli dell'Italia centro-meridionale, eccettuati gli abitanti delle Puglie, o Iapigi, gli Etruschi e i coloni greci. o Italioti. trapiantatisi nelle colonie dell'Italia meridionale, o Magna Grecia).

In seguito allo sfasciamento della potenza etrusca ed in seguito allo indebolimento delle repubbliche italo-greche, la confederazione sannitica era, senza dubbio, dopo Roma, la più ragguardevole potenza in Italia e nello stesso tempo quella che prima e più immediatamente delle altre era minacciata dalle usurpazioni romane.

Ad essa spettava dunque il primo posto ed il più grave peso nella guerra per la libertà e la nazionalità che gli Italici dovevano intraprendere contro Roma. Essa poteva dunque fare assegnamento sulle piccole popolazioni sabelliche dei Vestini, dei Frentani, dei Marrucini e di altri minori distretti che vivevano in contadinesco isolamento fra le loro montagne, ma che non sarebbero stati sordi ad afferrare le armi alla chiamata di una schiatta affine per la difesa dei beni comuni. 

Di maggior importanza sarebbe stato l'aiuto degli Elleni stanziati nella Campania e nella Magna Grecia, e particolarmente quello dei Tarantini e dei potenti Lucani e dei Bruzii; ma in parte la fiacchezza e la trascuratezza dei demagoghi signoreggianti in Taranto e l'impaccio in cui si trovava avvolta la città per gli affari di Sicilia, in parte le dissensioni intestine della confederazione lucana, in parte e più di tutto le secolari e profonde inimicizie degli Elleni dell'Italia inferiore coi Lucani loro oppressori lasciavano appena sperare che Taranto e la Lucania si potessero unire in società coi Sanniti. 

Dai Sabini e dai Marsi, come i più prossimi ai Romani e già da lungo tempo in pacifiche relazioni con Roma, non si potevano attendere che fiacchi soccorsi o la neutralità; gli A pulii, antichi ed inaspriti avversari dei Sabelli, erano naturali alleati dei Romani. Era per contro a credere che, conseguito un primo successo, gli Etruschi si unirebbero alla confederazione e in questo si poteva anche sperare una sollevazione nel Lazio e nel paese dei Volsci e degli Ernici. 

Prima di ogni altra cosa dovevano i Sanniti, gli Etoli d'Italia in cui viveva ancora intatta la forza nazionale, confidare nel proprio valore e porre nella lotta ineguale una perseveranza, che lasciasse agli altri popoli il tempo ad un nobile pudore, alla riflessione, alla raccolta delle forze, e allora un solo successo fortunato avrebbe potuto accendere intorno a Roma la fiamma della guerra e della sollevazione. La storia non deve negare al nobile popolo sannitico la testimonianza che esso ha compreso il suo dovere e lo ha adempito. 


§ - ALLEANZA DEI ROMANI COI LUCANI

Già da parecchi anni tra Roma e il Sannio nascevano ad ogni tratto contese per le continue usurpazioni che i Romani si permettevano sul Liri, e tra le quali l'ultima e la più importante fu la fondazione di Fregelle (426 328). Ma allo scoppio della guerra diedero cagione i Greci stanziati nella Campania.

Dopoché Cuma e Capua erano divenute romane, nulla premeva piü vivamente ai Romani che la sottomissione della cittå greca Neapoli, la quale dominava pure le isole greche nel golfo ed era l'unica non ancora soggiogata cittå in mezzo al territorio della potenza romana.


Conquista di Neapolis

I Tarantini ed i Sanniti, informati del progetto dei Romani d'impadronirsi di questa cittå, deeisero di prevenirli; e se i Tarantini, causa la loro lontananza e la loro lentezza, non furono pronti ad eseguiretale risoluzione, i Sanniti perchè vi posero un forte presidio. I Romani dichiararono bentosto la guerra in apparenza ai Neapoliti, in fatto però ai Sanniti e incominciarono l'assedio di Neapoli (427 327). 

Da qualche tempo i Greci della Campania tolleravano a fatica il turbamento dei commerci e l'occupazione straniera, ed i Romani che in ogni modo s'ingegnavano di allontanare, maneggiando pratiche separate, gli stati di secondo e di terzo ordine dalla lega che andavan preparando con gran premura, appena i Greci aderirono alle trattative, offrirono loro le pih vantaggiose condizioni: piena uguaglianza di diritto, esenzione dalla milizia territoriale, uguale lega e pace perpetua. 

Su queste basi fu conchiuso il trattato dopoché i Neapoliti (428 z: 326) si furono liberati coll'astuzia dalla guarnigione. Al principio della guerra le città sabelliche a mezzodì del Volturno, Nola, Nocera, Ercolano, Pompei tenevano pel Sannio, ma tanto per la loro posizione molto esposta, quanto per i maneggi dei Romani, che per mezzo della leva dell'astuzia e dell'interesse cercarono di trarre dalla loro parte la fazione ottimista, e che trovavano un potente aiuto nell'esempio di Capua, fecero sì che tutte le città sopra menzionate non tardarono lungo tempo, dopo il caso di Neapoli, a collegàrsi con Roma oppure a dichiararsi neutrali.


Lega Romana con la Lucania

Un ancora più importante successo riuscirono ad ottenere i Romani nella Lucania. Anche qui il popolo seguendo il suo giusto istinto propendeva per la lega sannitica, ma siccome la lega coi Sanniti traeva seco anche la pace con Taranto e per la maggior parte dei signori Lucani non era conveniente il far cessare le lucrose scorrerie dei predoni, così riuscì ai Romani di stringere una lega con la Lucania che fu di somma importanza, perchè con essa si dava molto da fare ai Tarantini e rimanevano disponibili contro il Sannio tutte le forze dei Romani.


Caudzne e pace Caudine

II Sannio rimaneva cosi completamente isolato, solo qualcuno dei distretti montuosi orientali gli mandò un contingente. Coll'anno 428 (z: 326) incominciö la guerra entro lo stesso paese sannitico; alcune cittå ai confini della Campania come Rufre (tra Venafro e Teano) e Allife furono occupate dai Romani. Negli anni seguenti gli eserciti romani combattendo e saccheggiando traversarono il Sannio nel territorio dei Vestini, inoltrandosi Sino all' Apulia, ove furono accolti a braccia aperte, riportando dappertutto i più decisivi vantaggi.

I Sanniti si perdettero d'animo; rimandarono i prigionieri romani e con essi il cadavere del capo del partito della guerra Brutolo Papio, il quale aveva prevenuto i carnefici romani dopo che la repubblica sannitica ebbe deliberato di domandare la pace al nemico e mediante la consegna del più valoroso loro duce di ottenere più miti condizioni. Ma siccome l'umile e quasi supplichevole preghiera (432 322) non trovò ascolto presso il popolo romano, i Sanniti si riarmarono e, sotto il loro nuovo duce Gavio Ponzio, si prepararono a disperata difesa. 

L'IMBOSCATA SANNITA

L'imboscata sannita

L'esercito romano il quale capitanato da ambedue i consoli del seguente anno Spurio Postumio e Tito Veturio, era accampato presso Calazia (tra Caserta e Maddaloni), ebbe notizia, confermata da gran numero di prigionieri, che i Sanniti avevano assediata Luceria e che l'importante città, da cui dipendeva il possesso dell' Apulia, era in grave pericolo.

Per giungere a tempo non si poteva prendere che una via, la quale attraversava il territorio nemieo, lå dove più tardi in continuazione della via Appia fu poi costrutta la via romana che da Capua per Benevento riesce all' Apulia. Questa via conduceva fra i monti che stanno fra le attuali borgate di Arpaia e di Montesarchio (Caudium) e metteva ad un fondo umido, d'ogni intorno circondato da alte e scoscese colline selvose e dove l'entrata e l'uscita erano possibili solo per mezzo di angustissime gole. 

Qui i Sanniti si erano posti in imboscate. I Romani entrati senza ostacolo nella valle trovarono sbarrato con un trinceramento d'alberi abbattuti e saldamente difeso il capo della valle, ritornando indietro si accorsero che l'ingresso era chiuso nello stesso modo e che nello stesso tempo le creste dei monti si coronavano in giro di coorti sannitiche. 

Troppo tardi i Romani compresero che si erano lasciati ingannare da uno stratagemma di guerra e che i Sanniti non li aspettavano presso Luceria, ma nelle fatali strette di Caudio. Si combattè, ma senza speranza di successo e senza serio scopo; l'esercìto romano era nell'assoluta impossibilità di manovrare, e fu vinto pienamente senza combattere. 

Solo goffi retoricanti poterono immaginare che il capitano dei Sanniti fosse in dubbio nella scelta tra il congedo o lo sterminio dell'armata romana, in cui erano raccolte tutte le forze attive della Repubblica coi due supremi duci.

Così gli si apriva la via alla Campania e al Lazio e nelle condizioni d'allora, in cui i Volsci e gli Ernici e la maggior parte dai Latini lo avrebbero accolto a braccia aperte, l'esistenza politica di Roma sarebbe stata seriamente compromessa. Ma invece di seguir questa via e di conchiudere una convenzione militare Gavio Ponzio pensò di poter finir presto la contesa con un buon trattato di pace, sia che dividesse la poco assennata smania dei confederati per la pace onde l'anno prima era stato vittima Brutolo Papio, sia che non fosse in grado di resistere al partito avverso alla guerra, che gli mandò a male una vittoria che non aveva l'eguale. 

LE FORCHE CAUDINE

§ - LE FORCHE CAUDINE

Le condizioni proposte erano abbastanza moderate: Roma doveva demolire le piazze forti di Cales, di Fregelle, costrutte contro il tenore dei trattati e rinnovare la federazione d'uguaglianza col Sannio. Dopo che i duci romani ebbero accettate queste condizioni, di cui garantirono la fedele esecuzione con seicento ostaggi scelti nella cavalleria e col giuramento prestato dai supremi capitani e da tutti gli ufficiali dello stato maggiore, l'esercito romano fu lasciato partire illeso, ma disonorato, poichè l'esercito sannitico, ebbro della vittoria, non potè essere indotto a condonare agli odiati nemici l'ontosa cerimonia della deposizione delle anni e di passare sotto la forca. 

Ma il senato romano, incurante del giuramento degli ufficiali e della sorte degli ostaggi, cassò la capitolazione e si limitò a consegnare al nemico coloro che l'avevano conchiusa come personalmente responsabili della sua esecuzione. Alla storia imparziale deve importar poco che la scienza casistica dei giureconsulti e della pretoria romana abbia con ciò rispettata la lettera del diritto o che il senato abbia risolutamente rotto i patti; ma considerando questo fatto sotto l'aspetto politico, non pare che essa debba essere di biasimo ai Romani.


Il Senato rifiuta il trattato di Pace

E cosa assai indifferente che il generale fosse o non fosse autorizzato, secondo la formale ragion di stato, a conchiudere la pace, senza riservarne la ratificazione alla Repubblica, e per vero, secondo lo spirito e la pratica della costituzione, era fuor di dubbio che qualunque trattato, il quale non fosse puramente militare, dovesse considerarsi di competenza del potere civile. 

Era ben più grande l'errore del capitano dei Sanniti il quale aveva lasciato ai consoli la scelta tra la salvezza dell'esercito e la violazione dei poteri, che non l'errore dei consoli i quali non ebbero la magnanimità di respingere assolutamente quest'ultima tentazione; ed era cosa giusta e necessaria che il senato romano rifiutasse di sanzionare questo trattato. 

Nessun grande popolo dona quel che possiede senza l'obbligo di una suprema necessità; tutti i trattati di cessione sono una prova di necessità e non obblighi morali. Se ogni nazione ripone il suo onore nel lacerare colle armi i trattati umilianti, come poteva l'onore imporre ai Romani di rassegnarsi ad un trattato come quello di Candio, a cui fu costretto da una violenza morale un infelice capitano, mentre ardeva la recente vergogna e la forza esisteva ancora, non spezzata?


Vittorie dei Romani

Nuove fortezze nell'Apulia e nella Campania. Questo trattato di Caudio portò non già la pace, che gli entusiasti del partito pacifico nel Sannio avevano stolidamente perorato, ma invece sempre nuove guerre, essendosi da ambe le parti cresciute le cagioni dell'odio per il rimpianto d'essersi lasciata sfuggire l'occasione propizia, per l'accusa di mancata fede, per il vilipeso onore delle armi e per l'abbandono degli ostaggi. 

Gli ufficiali romani consegnati ai Sanniti non furono da questi accettati, perchè essi, oltre l'innata generosità che li impediva di sfogare la loro vendetta su questi infelici, accettando queste vittime espiatrici avrebbero ammesso in faccia ai Romani che la convenzione poteva obbligare solo quelli che avevano dato la promessa con giuramento, non lo Stato romano. I generosi Sanniti rispettarono persino gli ostaggi, i quali, secondo la legge marziale, meritavano la morte, e volsero tosto il pensiero alle armi. 

LUCIO PAPIRIO CURSORE

Lucio Papirio Cursore

Occuparono Luceria, sorpresero Fregelle (434 = 320), prima che i Romani avessero riorganizzato l'esercito quasi disfatto; ciò che essi avrebbero potuto ottenere se non si fossero lasciato sfuggire il momento propizio, ce lo prova il passaggio dei Satricani alla parte dei Sanniti. Ma le forze di Roma erano solo momentaneamente paralizzate, non scemate. La vergogna e lo sdegno stimolavano la virtù e Roma raccoglieva tutte le sue forze, e alla testa del nuovo esercito poneva, come supremo capitano, Lucio Papirio Cursore, soldato e condottiero di esperimentato valore. 

L'esercito fu diviso; l'una metà si diresse alla volta di Luceria attraverso la Sabina e il litorale adriatico, l'altra metà attraversò il Sannio per riuscire alla stessa città e secondata da felici combattimenti cacciava innanzi a sè l'esercito sannitico. 


Assedio di Lucera

I due eserciti si ricongiunsero sotto le mura di Luceria, il cui assedio fu condotto con molto rigore, perchè nella città si trovavano prigionieri i cavalieri romani; gli Apuli e particolarmente gli Arpani prestarono ai Romani un importante aiuto segnatamente col trasporto dei viveri. 

I Sanniti, per liberare Luceria dall'assedio arrischiarono una battaglia e la perdettero, dopo di che Luceria si diede ai Romani ( 435 = 319). Papirio ebbe la doppia gioia di liberare gli ostaggi creduti già perduti e di rendere alla guarnigione sannitica di Luceria la pariglia delle forche caudine (435-437 = 319-317). Negli anni seguenti la guerra fu combattuta più nei paesi limitrofi che nel Sannio. 

I Romani punirono dapprima gli alleati dei Sanniti nell'Apulia e nel Frentano e strinsero nuove leghe coi Teanesi di Apulia e coi Canusini. Al tempo stesso Satrico fu ridotta in servitù e seriamente punita della sua slealtà. La guerra si ridusse quindi verso la Campania, dove i Romani acquistarono la città di Saticula (forse Sant'Agata de' Goti) (438 = 316). ·

Ma dopo questa vittoria parve che la fortuna si volgesse nuovamente contro essi. I Sanniti trassero dalla loro parte i Nucerini (438 = 316) e poco dopo i Nolani; sul Liri superiore i Sorani scacciarono lo stesso presidio romano (439 = 315); si preparava una sollevazione degli Ausoni, la quale minacciava l'importante città di Cales, e nella stessa Capua si agitavano vivamente gli animi mal disposti contro i Romani. 


Sora riconquistata

Un esercito sannitico s'avanzò nella Campania e si accampò alle porte della città nella speranza di dare colla sua presenza la preponderanza al partito dell'indipendenza (440 = 314). Ma i Romani attaccarono subito Sora e, battuto l'esercito sannitico accorso a liberarla (440 = 314), la presero nuovamente. 

L'agitazione fra gli Ausoni fu repressa con inesorabile severità prima che venisse ad aperta ribellione, e nello stesso tempo fu nominato un apposito dittatore per fare i processi politici contro i capi del partito sannitico e per giudicarli, di modo che i più ragguardevoli fra di essi si diedero volontariamente la morte per sfuggire il carnefice romano (440 = 314). 

L'esercito sannitico accampato sotto Capua fu battuto e costretto alla partenza dalla Campania; i Romani inseguendo con impeto i nemici, valicarono il Matese e si attendarono nell'inverno del 440 (= 314) innanzi a Boviano, capitale del Sannio. Nola fu abbandonata dai confederati ed i Romani furono abbastanza accorti per staccare per sempre questa città dal partito sannitico col mezzo del favorevolissimo trattato d'alleanza, simile a quello già conchiuso con Napoli (441 = 313).  

RESTI DI FREGELLAE (Lazio)

La Punizione di Fregelle

Fregelle, che dal tempo della catastrofe presso Candio era rimasta nelle mani del partito antiromano, e il suo principale castello situato nel paese sul Liri caddero finalmente in potere di Roma otto anni dopo la presa dei Sanniti ( 441 = 313). Duecento cittadini, i più distinti del partito nazionale, furono condotti a Roma e decapitati in aperto Forn, come ammonizione ed esempio ai patrioti che dappertutto avversavano Roma. L'Apulia e la Campania caddero nello stesso modo nelle mani dei Romani. 

A guarentigia finale ed a stabile dominazione del territorio conquistato, i Romani vi fondarono, negli anni dal 440 fino al 442 (= 314-312), una quantità di nuove fortezze. Luceria nell'Apulia, dove a causa della esposta ed isolata sua posizione fu mandata a stabile presidio una mezza legione; indi Pontia (le isole di Ponza), per assicurare le acque della Campania; Saticula, sul confine campano-sannitico quale antimurale contro il Sannio; finalmente Interamna presso Monte Cassino e Suessa Aurunca (Sessa) sulla via da Roma a Capua. 

Oltre a ciò vennero guernite di presidii Calazia, Sora ed altre importanti piazze militari. La grande strada militare da Roma a Capua che il censore Appio Claudio fece selciare l'anno 442 (= 312), e l'argine da lui costrutto attraverso le paludi Pontine completarono la conquista della Campania. Sempre più compiuto si manifestava l'intento dei Romani; si trattava di assoggettarsi tutta l'Italia, che d'anno in anno veniva sempre più avviluppata dalla rete delle strade e delle fortezze romane.

Da ambe le parti i Sanniti erano circondati dai Romani; la linea da Roma a Luceria già separava l'Italia settentrionale dalla meridionale, come una volta le piazze forti di Norba e di Signia avevano separato i Volsci e gli Equi; e come allora sugli Ernici, Roma si appoggiava ora sugli Arpini. Gli Italici dovevano riconoscere che la loro libertà era perduta se il Sannio soccombeva, che non vi era tempo da perdere e che bisognava finalmente, con tutte le forze unite, accorrere in aiuto di quei valorosi montanari, i quali già da quindici anni sostenevano la lotta contro i Romani. 


§ - INTERVENTO DEI TARANTINI

I Tarantini sarebbero stati i più prossimi alleati dei Sanniti, ma la fatalità che pendeva sul Sannio e sull'Italia in generale, fece sì che in questo momento, che era per determinare il futuro, la decisione stesse nelle mani di questi Ateniesi italici. 

Dacchè Taranto si era ridotta alla più perfetta democrazia, la costituzione, che per l'antica sua origine dorica, era rigidamente aristocratica, venne corrompendosi con incredibile rapidità e l'educazione e le quotidiane occupazioni del popolo tarantino, più ricco che intraprendente, e composto per la maggior parte di barcaiuoli, di pescatori e di artieri, allontanavano tutti i gravi pensieri della vita o li addormentavano colle arguzie e coll'affaccendata e rumorosa operosità di modo che la loro mente fluttuava incerta tra la più grandiosa temerità di propositi e la più geniale elevazione d'idee e tra la più vergognosa leggerezza ed i più puerili capricci. 

E non sarà inopportuno qui ricordare, in connessione con quanto appunto notammo quando si trattò dell'essere o non essere di nazioni dotate di grandi e belle qualità e di antica fama, come Platone, il quale venne a Taranto circa sessant'anni prima di questa epoca, trovasse, secondo la sua testimonianza, nell'occasione della festa di Dionisio, l'intiera città ubbriaca, e come la farsa parodiata, la così detta  tragedia burlesca, fosse stata inventata in Taranto appunto al tempo della grande guerra sannitica. 

A complemento di queste abitudini di vita scioperata e di poesia buffonesca dei colti ed eleganti Tarantini, si aggiungeva la tentennante, petulante e cieca politica dei demagoghi di Taranto, i quali si mostravano attivi dove nulla avevano a fare, e si ecclissavano quando li chiamava il più prossimo loro interesse. 

Quando dopo la catastrofe caudina i Romani ed i Sanniti stavano alle prese nell'Apulia, i Tarantini avevano mandato colà degli ambasciatori che comandavano alle due parti di deporre le armi. Questa intromissione diplomatica in una lotta decisiva per l'Italia non poteva essere ragionevolmente considerata che come la prova che Taranto si deciderebbe fìnalmente ad uscire dalla passività in cui si era fino allora tenuta. 

Ciò era davvero necessario per quanto pure riuscisse difficile e pericoloso ai Tarantini d'impicciarsi in questa guerra; dacchè l'indirizzo democratico aveva ridotto le forze dello Stato quasi intieramente alla marineria, la quale col sussidio del numeroso naviglio acquistava a Taranto il primo posto fra le potenze marittime della Magna Grecia, dove l'esercito di terra, in cui stava tutta l'importanza della guerra sannitica, era essenzialmente composto di mercenari assoldati e si trovava in profonda decadenza. 

Per tutte queste circostanze non era facile compito per la repubblica tarantina il partecipare alla lotta tra Roma e il Sannio, anche senza tener conto delle inimicizie, per lo meno moleste, nelle quali la politica romana aveva saputo avvolgere i Tarantini coi Lucani. Però con una forte volontà questi ostacoli non erano poi insuperabili, e ambedue le parti avversarie giudicarono l'invito degli ambasciatori tarantini esser principio di una politica più attiva. 


Gli ambasciatori Tarantini non dichiarano guerra a Roma

I Sanniti, come i più deboli, si mostrarono disposti di accettare l'invito, i Romani invece risposero alla intimazione dando il segnale della battaglia. Il senno e l'onore avrebbero imposto ai Tarantini di far eseguire immantinente l'arrogante intimazione dei loro ambasciatori una dichiarazione di guerra a Roma; ma in Taranto si mancava appunto di senno e d'onore e vi si trattavano molto puerilmente le cose della più alta importanza. 

La dichiarazione di guerra contro Roma non ebbe luogo, si preferì invece d'impegnarsi a sostenere la fazione delle città siciliane contro Agatocle di Siracusa, che era già stato prima al loro servizio ed era caduto in disgrazia, e seguendo l'esempio di Sparta, si mandò una flotta in Sicilia che avrebbe potuto rendere migliori servizi nel mare della Campania (440 = 314).


Gli Etruschi contro Roma

Più energicamente agirono i popoli stanziati al settentrione e nel cuore d'Italia, i quali, come pare, furono particolarmente scossi dalla fondazione della fortezza di Luceria. Dapprima (443 = 311) sorsero gli Etruschi, il cui trattato d'armistizio del 403 (= 351), era scaduto già da alcuni anni. 

ENTRATA DEL TEATRO A SUTRI

Sutri

La fortezza romana di confine, Sutrio, ebbe a sostenere un assedio di due anni e nei violenti combattimenti, che accaddero sotto le sue mura, erano d'ordinario i Romani che ne andavano colla peggio, fin che il console dell'anno 444 (= 310), Quinto Fabio Rulliano, condottiero esperimentato nelle guerre sannitiche, non solo procacciò la preponderanza alle armi romane nell'Etruria romana, ma penetrò audacemente anche nel paese degli Etruschi, fino allora rimasto straniero ai Romani per la diversità della lingua e per le poche comunicazioni. 

Il passaggio per la foresta Ciminia, che nessun esercito romano aveva sino allora varcata, e il saccheggio del ricco territorio da lungo rimasto intatto e salvo dalle miserie della guerra, fece armare l'intera Etruria, ed il governo romano, che disapprovava seriamente questa inconsulta spedizione, e che aveva troppo tardi interdetto al temerario duce il passaggio dei confini, raccolse per far fronte all'inatteso cozzo delle forze etrusche riunite in tutta fretta nuove legioni. 


§ - VITTORIA DEL LAGO VIDIMONE 

Ma un'opportuna e finale vittoria di Rulliano nella battaglia combattuta sulle rive del lago Vadimone, di cui il popolo serbò lungo ricordo, fece dell'incauto principio delle ostilità una celebrata azione eroica ed infranse la resistenza degli Etruschi. 

Dissimili dai Sanniti, i quali ormai da diciotto anni combattevano con forze ineguali, tre delle più potenti città etrusche, Perusia, Cortona e Arretium, si accontentarono appena dopo la prima sconfitta di negoziare una pace separata di trecento mesi (444 = 310), e dopo che nell'anno seguente i Romani vinsero ancora una volta presso Perusia gli altri Etruschi, anche i Tarquinesi acconsentirono ad una pace di 400 mesi ( 446 = 308); dopo di ciò anche le altre città si astennero dal guerreggiare ed in Etruria provvisoriamente ebbero posa le armi. 

Mentre questi fatti accadevano nell' Etruria, la guerra non cessò neanche nel Sannio. La campagna del 443 si era limitata fin qui all'assedio e alla espugnazione di alcune piazze sannitiche, ma nel seguente anno la guerra prese una più viva piega. La pericolosa posizione di Rulliano nell'Etruria e le voci sparse sopra la disfatta dell'esercito romano nel settentrione, animarono i Sanniti a nuovi sforzi; il console romano Gaio Marcio Rutilo fu da essi vinto e gravemente ferito, ma il cambiamento delle cose in Etruria distrusse le rinascenti speranze. 


Vittoria di Lucio Papirio Cursore contro i Sanniti

Ricomparve Lucio Papirio Cursore alla testa delle legioni romane inviate contro i Sanniti, il quale fu ancora vincitore in una grande e decisiva battaglia (445 = 309) in cui i confederati avevano impiegato le ultime loro forze. Il nerbo della loro armata, che componevasi delle schiere dalle sopravesti screziate e dagli scudi d'oro e di quelle dalle sopravesti bianche e dagli scudi d'argento, fu qui distrutto e da allora in poi le splendide armature ornavano nelle grandi solennità le botteghe lungo il Foro romano. 

NUCERIA ALFATERNA

Resa di Nuceria

Sempre più grande si faceva la miseria, sempre più disperata diveniva la lotta. Nell'anno seguente ( 446 = 308) gli Etruschi deposero le armi e, dopo essere nello stesso tempo investita per mare e per terra, si diede nel medesimo anno con favorevoli condizioni ai Romani, Nuceria, ultima città della Campania che tenesse ancora pei Sanniti. Questi trovarono bensì nuovi alleati negli Umbri stanziati nell'Italia settentrionale, nei Marsi e nei Peligni nell'Italia centrale e gli stessi Ernici trassero numerosi volontariamente sotto le loro insegne. 

Ma ciò che avrebbe potuto essere di grave peso nella bilancia a danno di Roma se gli Etruschi fossero stati ancora sotto le armi, aumentava ora i successi della vittoria dei Romani senza renderla veramente più difficile. 


Sconfitta degli Umbri

Agli Umbri che s'apprestavano a correre su Roma, Rulliano sbarrò la via sul Tevere superiore coll'esercito destinato contro il Sannio, senza che i deboli Sanniti lo potessero impedire, e questo bastò per disperdere la leva in massa degli Umbri. Allora la guerra si scatenò di nuovo sull'Italia centrale. 


Sconfitta dei Peligni e dei Marsi

I Peligni e i Marsi furono vinti e sebbene le altre schiatte sabelliche rimanessero ancora di nome nemiche dei Romani, il Sannio si trovava da quel lato a poco a poco effettivamente isolato. Ma inaspettatamente venne ai Sanniti un aiuto dal territorio del Tevere. 

GUERRIERI ERNICI

§ - GLI ERNICI DICHIARANO GUERRA AI ROMANI

La confederazione degli Emici, chiamata a giustificarsi verso Roma perchè fra i prigionieri di guerra sannitici si trovassero militi ad essa appartenenti, dichiarò la guerra ai Romani (448 = 306) più per disperazione che per riflessione. 

Alcuni dei più ragguardevoli comuni ernici si astennero sin dal principio dal prender parte alla guerra, ma Anagni, la più importante città ernica, diede la dichiarazione di guerra. Militarmente era in quel momento sommamente difficile la posizione dei Romani per l'inattesa insurrezione ernica alle spalle dell'esercito che trovavasi occupato nell'assedio delle fortezze nel Sannio. 

Ancora una volta la fortuna delle armi fu favorevole ai Sanniti; Sora e Calazia caddero nelle loro mani, ma gli Anagnini soggiacquero più presto che non lo si aspettasse alle milizie mandate da Roma che opportunamente aprirono la via anche all'esercito che trovavasi nel Sannio; tutto era perduto. I Sanniti chiesero la pace, ma invano, non era ancora possibile un accordo. 

Solo la campagna del 449 (= 305) portò la decisione finale. I due eserciti consolari romani penetrarono nel Sannio: l'uno capitanato da Tiberio Minucio e dopo la sua caduta da Marco Fulvio, partendo dalla Campania e passando attraverso i gioghi dei monti; l'altro condotto da Lucio Postumio venendo dal mare Adriatico e rimontando il Biferno per riunirsi innanzi a Boviano, capitale del Sannio. 

Qui fu riportata una decisiva vittoria, il generale sannitico Stazio Gellio fu fatto prigioniero e Boviano venne espugnata. La caduta della principale piazza d'armi pose fine alla guerra che aveva durato ventidue anni. I Sanniti ritrassero i loro presidii da Sora e da Arpino e mandarono ambasciatori a Roma per chiedere la pace; il loro esempio fu seguìto dalle schiatte sabelliche dei Marsi, dei Marrucini, dei Peligni, dei Frentani, dei Vestini, dei Piceni. 

Le condizioni concesse da Roma erano tollerabili; furono bensì chieste concessioni di territorio, come ad esempio dai Peligni, ma pare che esse non siano state molto importanti. La stessa alleanza fu rinnovata tra gli Stati sabellici ed i Romani (450 = 304),


Pace col Sannio e con Taranto

Probabilmente verso quello stesso tempo e in conseguenza della pace sannitica, fu fatta la pace anche tra Roma e Taranto. Per vero le due città non erano uscite apertamente in campo l'una contro l'altra; i Tarantini si erano mantenuti dal principio alla fine della lunga lotta tra Roma e il Sannio inattivi spettatori e avevano solo continuata la lotta in lega coi Salentini contro i Lucani, confederati dei Romani. 

I Tarantini avevano bensì lasciato sospettare ancora una volta negli ultimi anni della guerra sannitica di volersi intromettere più energicamente. Ma parte la triste posizione nella quale i continui assalti dei Lucani li avevano ridotti, e parte anche la sempre più penetrante persuasione che il totale soggiogamento del Sannio minacciava anche la loro propria indipendenza, li aveva decisi, malgrado le tristi esperienze fatte con Alessandro, di affidarsi ancora una volta ad un condottiero. 

PRINCIPE SPARTANO CLEONIMO

Cleonimo

Venne alla loro chiamata il principe spartano Cleonimo con 5000 mercenari, ai quali aggiunse una schiera di ugual forza arruolata in Italia e fortemente aumentata fino a 22.00 uomini coi rinforzi dei Messapii, delle piccole città greche e più di tutto coll'esercito dei cittadini Tarantini. Alla testa di questo considerevole esercito egli costrinse i Lucani a far la pace con Taranto e ad istituire un governo devoto ai Sanniti, per cui certo fu a loro liberamente sacrificata Metaponto. 

Quando questo accadde, i Sanniti erano ancora in armi, nulla impediva allo spartano di venir loro in aiuto e di mettere la sua strategia ed il suo forte esercito al servizio della libertà dei popoli e delle città italiane. Ma Taranto non agi come in simile caso avrebbe agito Roma, e il principe Cleonimo non era nè un Alessandro, nè un Pirro. Egli non s'affrettò a cominciare una guerra nella quale erano da aspettarsi più sconfitte che bottino, ma fece piuttosto causa comune coi Lucani contro Metaponto, e si compiacque del soggiorno di questa città, accennando ad una spedizione contro Agatocle da Siracusa e alla liberazione dei Greci siciliani. 

Allora i Sanniti fecero pace e quando dopo questa conclusione Roma incominciò ad occuparsi più seriamente del sud-est della penisola, allorchè ad esempio nell'anno 447 (= 307) una schiera di truppe romane metteva a contribuzione il paese dei Sallentini o piuttosto vi faceva un'esplorazione per ordine superiore, il condottiero spartano s'imbarcò coi suoi mercenari e approdò per sorpresa all'isola di Corcira, che era eccellentemente situata, per esercitarvi la pirateria contro la Grecia e contro l'Italia. 

Abbandonati per tal modo dal loro condottiero e nello stesso tempo privi dei loro confederati nell'Italia centrale, non rimaneva ormai ai Tarantini ed ai loro alleati italici, i Lucani ed i Sallentini, che di sollecitare un accordo con Roma, che pare essere stato concesso a tollerabili condizioni. Poco dopo (451 = 303) i Sallentini coll'aiuto dei Romani respinsero anche un'invasione di Cleonimo, il quale era sbarcato sul territorio sallentino ed aveva assediato Uria.


CONSOLIDAMENTO DELLA SIGNORIA DEI ROMANI NELL' ITALIA CENTRALE 

Roma ebbe piena vittoria e ne approfittò largamente. Non per magnanimità, che i Romani non conoscevano, ma per saggio e manifesto calcolo furono imposte così moderate condizioni ai Sanniti, ai Tarentini e in generale a tutte le altre più lontane popolazioni. 

Innanzi tutto non trattavasi tanto di costringere al più presto possibile l' Italia meridionale al formale riconoscimento della supremazia romana, quanto di compiere la conquista dell'Italia centrale, di cui erano state poste le fondamenta colla costruzione delle strade militari e con le fortezze già fondate nella Campania e nell'Apulia durante l'ultima guerra e riuscendo con ciò a separare gli Italici stanziati nel settentrione da quelli del mezzodì della penisola, riducendoli militarmente a due masse separate l'una dall'altra da ogni immediato contatto. 

A ciò miravano anche le prossime imprese dei Romani con energica conseguenza. E prima di tutto si colse o si procurò l'occasione per sciogliere la lega degli Equi e degli Ernici rivaleggianti nella regione Tiberina colla monopotenza romana, e mai pienamente vinte. 


Pace col Sannio e guerra cogli Equi

Nello stesso anno in cui ebbe la pace col Sannio ( 450 = 304), il console Pubblio Sempronio Sofo portò guerra agli Equi; quaranta paesi si sottomisero m cinquanta giorni; tutto il territorio, ad eccezione della stretta ed aspra Valle montana, che oggi ancora porta l' antico nome popolare (Cicolano), divenne proprietà romana, e qui, sull'orlo settentrionale del lago Fucino, venne fondata l'anno dopo la fortezza di Alba, con una guarnigione di 6000 uomini, che fu quindi l'antemurale contro i nemici e la fortezza dell'Italia media; e due anni più tardi fu fondata Turano, e più vicina a Roma, Carsioli, ambedue comuni federali secondo il diritto latino. 

Il fatto che degli Emici almeno Anagni abbia preso parte all'ultimo stadio della guerra sannitica, porse il desiderato pretesto di sciogliere gli antichi patti della lega. La sorte degli Anagnini fu naturalmente di gran lunga più dura di quella che, una generazione prima, in pari circostanza era toccata ai comuni latini. 

Essi dovettero non solo accontentarsi della passiva cittadinanza romana, ma, come i Ceriti, perdettero la propria autonomia; su una parte del loro territorio posto sull'alto Trero (Sacco) fu inoltre stabilita una nuova tribù cittadina, e contemporaneamente un'altra sull'Aniene inferiore (455 = 299). 

Rincresceva solo che i tre più ragguardevoli comuni emici dopo Anagni, Aletrio, Verole e Ferentino, non si fossero essi pure staccati, poiché avendo essi cortesemente declinata l'insinuazione di entrare liberamente nei vincoli della cittadinanza romana e mancando ogni pretesto per costringerveli, si dovette lasciar loro non solo l'autonomia, ma anche il diritto federativo e quello di comunanza dei matrimoni e lasciare con ciò ancora un'ombra dell'antica lega ernica. 

Nella parte del paese dei Volsci, posseduta fino allora dai Sanniti, non si era obbligati a simili riguardi. Quivi Arpino e Frosinone erano state soggiogate e quest'ultima città ridotta di un terzo del suo contado; inoltre sul Liri superiore presso Fregelle, la città volsca di Sora, la quale già prima aveva ricevuto presidio romano, fu a questi tempi mutata in una fortezza latina e quivi venne posta una legione di 4000 uomini. 

Così fu pienamente soggiogato l'antico territorio dei Volsci e si progrediva con rapido passo alla sua romanizzazione. Nel paese che divide il Sannio dall'Etruria furono costruite due strade militari ed entrambe assicurate per mezzo di fortezze. La settentrionale, che più tardi fu la via Flaminia, dominava la linea del Tevere; essa conduceva attraverso Otricoli, alleata di Roma, a Narni, nome con cui i Romani ribattezzarono l'antica fortezza umbrica di Nequino quando vi posero una colonia militare (455 = 299). 

La meridionale, che fu più tardi via Valeria, passava lungo il lago Fucino sopra le menzionate Carsioli e Alba. Le piccole popolazioni sul cui territorio avevano luogo queste disposizioni, gli Umbri i quali difendevano pertinacemente Nequino, gli Equi che attaccavano ancora una volta Alba, i Marsi che investivano Carsioli, non potevano arrestare Roma nel suo cammino; ond'è che quelle due potenti sbarre si avanzavano quasi liberamente tra il Sannio e l'Etruria. 

Fu già accennato alle grandi istituzioni stradali e di fortificazioni per assicurare lo stabile possesso dell'Apulia, e più di tutti quello della Campania; per esse il Sannio fu avviluppato dalla rete delle fortezze romane ad una maggior distanza verso oriente e verso occidente. È notevole che i Romani, per la relativa debolezza dell'Etruria, non stimarono necessario di assicurarsi i passi attraverso la for esta Ciminia per mezzo di una strada militare e di opportune fortezze. 

La fortezza di confine, Sutri, rimase come in passato il punto estremo della linea militare romana, e Roma si limitò a far tenere dai comuni limitrofi in buon stato per uso militare la strada che da quel punto conduceva ad Arezzo. 

CAVALLI ALATI DI TARQUINIA

§ - NUOVO SCOPPIO DELLA GUERRA SANNITICA ETRUSCA 

La generosa nazione sannitica comprese che la pace conchiusa era più rovinosa della più rovinosa guerra e, quel che più importa, essa non tardò ad agire. Nell'Italia superiore i Celti incominciarono appunto ad agitarsi dopo una lunga tregua, oltre a ciò parecchi comuni etruschi, benchè sparsi ed isolati, erano in armi contro Roma e si alternavano brevi armistizi con accaniti combattimenti, ma senza successo. 

L'Italia centrale era ancora tutta in fermento e in parte in aperta sollevazione, le fortezze erano ancora in costruzione e la via fra l'Etruria ed il Sannio non ancora completamente sbarrata. Forse non era ancora troppo tardi per salvare la libertà, ma non si doveva indugiare. La difficoltà dell'attacco cresceva, la forza degli assalitori scemava ad ogni anno della prolungata pace. 

Appena da cinque anni avevano posate le armi ed ancora dovevano sanguinare tutte le ferite che ventidue anni di guerra avevano cagionato ai contadini del Sannio, quando nell'anno 456 (= 298) la confederazione sannitica rinnovò la lotta. 

L'ultima guerra era stata decisa principalmente dalla lega della Lucania con Roma e dalla conseguente inazione di Taranto nell'interesse di Roma; per questo i Sanniti volsero le loro armi prima di tutto e con tutte le loro forze sopra i Lucani, e portarono al potere un governo che seguisse la loro parte e conchiusero una lega colla Lucania. 

Naturalmente i Romani dichiararono tosto la guerra, nel Sannio non s'era aspettato altro. Valga a provare i sentimenti di quel popolo la dichiarazione fatta dal governo sannitico agli ambasciatori romani, che esso non sarebbe in grado di garantire la loro inviolabilità, se fossero entrati nel territorio sannitico. 


Vittoria romana sui Lucani

La guerra cominciò quindi nuovamente (456 = 298), e mentre un secondo esercito combatteva nell'Etruria, il grande esercito romano attraversava il Sannio e costringeva i Lucani a far la pace ed a mandare ostaggi a Roma. 


Roma in pericolo

L'anno seguente ambedue i consoli poterono volgere le loro armi contro il Sannio: Rulliano vinse presso Tiferno; il suo fedele compagno d'armi, Publio Decio Mure, presso Malevento, e durante cinque mesi i due eserciti romani accamparono nel paese nemico. 

Ciò fu possibile perchè gli Stati etruschi avevano di propria mano intavolato trattative di pace con Roma. I Sanniti, che dovevano aver visto l'unica possibilità di vittoria contro Roma nell'unione di tutta l'Italia, fecero ogni sforzo per istornare la minacciosa pace tra l'Etruria e Roma, e quando finalmente il loro duce Gellio Ignazio offrì agli Etruschi di portar loro aiuto nel loro proprio, paese, il consiglio federale etrusco assentì a perseverar e ad invocare ancora una volta la decisione delle armi. 

Il Sannio fece i più poderosi sforzi per porre in campo ad un tempo tre eserciti: l'uno era destinato alla difesa del proprio territorio, il secondo all'entrata nella Campania, il terzo ed il più forte nell'Etruria; e veramente nell'anno 458 (= 296) quest'ultimo, condotto da Ignazio stesso, attraversando i territori marso e umbro, i cui abitanti favorivano la lega, arrivò illeso nell'Etruria. 

I Romani presero intanto alcune piazze forti nel Sannio e fiaccarono l'influenza del partito sannitico nella Lucania; ma non seppero impedire la marcia dell'esercito condotto da Ignazio. Quando giunse a Roma la notizia che ai Sanniti era riuscito di render vani tutti gli immensi sforzi fatti per la separazione degli Italici del settentrione da quelli del mezzodì, che l' arrivo delle schiere sannitiche nell'Etruria era divenuto il segnale di una quasi generale sollevazione contro Roma, che i comuni etruschi si affrettavano a render pronti alla guerra le proprie milizie e ad assoldare schiere galliche, allora anche in Roma ogni cuore si scosse. 

Si formarono delle coorti di liberti ed ammogliati e da ogni parte si sentiva che la decisione era imminente. Però l'anno 458 (:= 296) passò, come pare, in preparativi e marcie; per il seguente 459 (== 295) i Romani misero i due loro migliori generali, Publio Decio Mure e il vecchio Quinto Fabio Rulliano alla testa dell'esercito in Etruria, il quale fu rinforzato da tutte le truppe superflue nella Campania sommanti almeno a 60.000 uomini, per un terzo cittadini romani; oltre a ciò fu formata una doppia riserva, la prima presso Falerii, la seconda sotto le mura della capitale. 

La piazza d'armi degli Italici era l'Umbria, dove convergevano le strade dei territori gallico, etrusco e sabellico; verso l'Umbria diressero anche i consoli, parte sulla sinistra, parte sulla destra del Tevere le loro maggiori forze, mentre nel tempo stesso la prima riserva moveva contro l'Etruria per far richiamare possibilmente le truppe etrusche dal luogo ove dovevano decidersi le sorti della guerra, alla difesa della patria. 

SFINGE ETRUSCA

Sconfitta romana a Chiusi

Il primo scontro non fu fortunato pei Romani, la loro avanguardia fu battuta nel territorio di Chiusi dalle forze congiunte dei Galli e dei Sanniti. Ma la diversione a danno dell'Etruria raggiunse il suo scopo; meno generosi dei Sanniti che avevano attraversato le ruine delle loro città, per non mancare alla battaglia, una gran parte delle milizie etrusche abbandonò l'esercito federale alla notizia dell'invasione della riserva dei Romani nell'Etruria; e le fila degli alleati erano assai diradate, quando si venne alla battaglia decisiva presso Sentino sul pendìo orientale dell' Appennino. 

Pure la lotta fu ardente. Sull'ala destra dei Romani, dove Rulliano combatteva con le sue due legioni contro l'esercito sannitico, la battaglia rimase a lungo indecisa. Sulla sinistra, comandata da Publio Decio, la cavalleria romana fu messa in confusione dai carri di guerra dei Galli e già anche le legioni cominciavano a piegare. 


Sacrificio di Decio Mure

Allora il console chiamò il sacerdote Marco Livio e gli impose di votare agli Dei infernali la testa del duce romano e l'esercito nemico, e precipitandosi nel folto delle schiere galliche cercò e trovò la morte (devotio). 

Questa eroica disperazione del grand'uomo, dell'amato duce, non fu inutile. I soldati fuggenti si fermarono i più valorosi si precipitarono sulle orme del generale nelle file nemiche per vendicarlo o per morire con lui, ed appunto nel giusto momento giunse sulla pericolante ala sinistra, inviato da Rulliano, il consolare Lucio Scipione con la riserva romana. 

L'eccellente cavalleria campana, che colpì i Galli ai fianchi ed alle spalle, diede qui il tracollo; i Galli fuggirono e finalmente piegarono anche i Sanniti il cui duce Ignazio cadde sull'ingresso del campo. Novemila romani coprivano il campo di battaglia, ma la vittoria, riportata a sì caro prezzo, valeva tale sacrifizio. 


L'Umbria è conquistata dai Romani

L'esercito della coalizione si sciolse e con esso la coalizione stessa; l'Umbria rimase in potere dei Romani, i Galli si dispersero, le reliquie dei Sanniti si ritirarono ancora in buon ordine nel loro paese attraversando gli Abruzzi. La Campania, che i Sanniti avevano inondata durante la guerra etrusca, fu, dopo questa conclusione, occupata dai Romani con poca fatica. Nel seguente anno ( 460 = 294) l''Etruria chiese la pace; Volsinii, Perugia, Arezzo e in generale tutte le città unite nella lega contro Roma, promisero un armistizio di quattrocento mesi. 


264 a.c. Sconfitta romana a Luceri ad opera sannita

Ma i Sanniti pensavano diversamente. Essi si preparavano ad una disperata difesa con quel coraggio di uomini liberi che non può costringere la fortuna, ma però svergognarla. Quando nell'anno 460 = 264 i due eserciti consolari irruppero nel Sannio, essi trovarono dappertutto la massima resistenza, anzi Marco Atilio subì una sconfitta presso Luceria ed i Sanniti poterono penetrare nella Campania e devastare il territorio della colonia romana Interamna posta sul Liri.

 
SANNITI

263 a.c. Vittoria romana sui Sanniti

Nell'anno seguente Lucio Papirio Cursore, il figlio dell'eroe della prima guerra sannitica, e Spurio Carvilio diedero presso Aquilonia una grande battaglia campale all'esercito sannitico, il nocciolo del quale, i 16.000 dalle sopravesti bianche, avevano giurato con sacro giuramento di preferire la morte alla fuga. Ma l'inesorabile destino non bada nè a giuramenti, nè a disperate preghiere; i Romani vinsero ed assaltarono le fortezze nelle quali i Sanniti si erano rifugiati colle loro ricchezze.

Ma perfino dopo questa grave sconfitta si difese la lega sannitica contro i sempre più potenti nemici per lunghi anni ancora, con una perseveranza senza esempio, nelle sue fortezze e nelle sue montagne, e riportò ancora qua e là parecchi vantaggi. Si ricorse ancora una volta ( 462 = 292) all'esperto braccio del vecchio Rulliano contro di essi, e Gavio Ponzio, forse il figlio del vincitore di Caudio, riportò pel suo popolo persino un'ultima vittoria, che i Romani abbastanza vili vendicarono sopra di lui facendolo morire in carcere, quando poco dopo cadde prigione (463 = 291).

Allora più nulla si mosse in Italia, poichè la guerra cominciata da Fa1erii nel 461 (= 293) non merita nemmeno questo nome. Si saranno bensì nel Sannio rivolti bramosi sguardi su Taranto, la sola che fosse ancora in grado di prestare aiuto, ma fu speranza vana. Furono le stesse cause di prima che imposero a Taranto l'inazione, il malgoverno interno ed il nuovo passaggio dei Lucani alla parte romana nell'anno 456 (= 298); a questo si aggiunge ancora il non infondato timore di Agatocle da Siracusa, il quale allora appunto si trovava all'apogeo della sua potenza e incominciava a volgersi verso l'Italia.

Verso l'anno 455 (= 299) egli prese stanza a Corcira, di dove Cleonimo era stato cacciato da Demetrio l'Assediatore, ed ora minacciava i Tarantini tanto dal mare Adriatico quanto dall'Jonio. La cessione dell'isola a Pirro re d'Epiro, avvenuta nell'anno 459 (= 295), rimosse nella massima parte quelle inquietudini; ma gli affari di Corcira continuarono ad occupare i Tarantini, come essi aiutarono l'anno 464 (= 290) a difendere re Pirro nel possesso dell'isola contro Demetrio, e così Agatocle non cessò d'inquietare con la sua politica italica i Tarantini.

Morto Agatocle (465 = 289) e tramontata con lui la potenza dei Siracusani in Italia, era già troppo tardi perchè Taranto potesse opporsi ai Romani. Il Sannio, stanco della lotta che durava da trentasette anni, aveva l'anno prima, 464 (= 290), conchiusa la pace col console romano Manio Curio Dentato e rinnovata per forma la lega con Roma. Anche questa volta, come nella pace del 450 (= 304), fu dai Romani imposta a quel valoroso popolo nessuna condizione ingiuriosa e umiliante, e pare che neanche questa volta abbiano avuto luogo cessioni di territorio.

La ragion di stato dei Romani preferiva di seguire la via fin qui tenuta e di stringere sempre più fortemente a Roma il litorale campano e adriatico, prima di andare alla conquista immediata del paese interno. La Campania era, a dir vero, assoggettata già da lungo tempo, ma 1a perspicace politica romana trovò necessario alla sicurezza delle spiagge campane di costruire due nuove fortezze litoranee, Minturno e Sinuessa (459 = 295), le cui nuove cittadinanze, secondo l'esistente principio per le colonie litorali, entrarono nel pieno diritto di cittadini romani.

 
Roma sottomette Equi ed Ernici

GUERRIERO ERNICO
Ancora più energicamente procedeva lo sviluppo della signoria romana nell'Italia centrale. Come la sottomissione degli Equi e degli Ernici fu l'immediata conseguenza della I guerra sannitica, così alla fine della II si aggiunse quella dei Sabini. Lo stesso capitano che infine soggiogò i Sanniti, Manio Curio, ruppe nello stesso anno (464 = 290) la loro breve e impotente resistenza, e costrinse i Sabini ad una sottomissione incondizionata. 

Una gran parte del territorio sottomesso fu subito occupato dai vincitori e distribuito fra i cittadini romani; e agli altri comuni di Cure, Reate, Amiterno, Nursia fu imposto il diritto di sudditanza romana (civitas sine suffragio). Città federali con gli stessi diritti non vennero qui fondate; piuttosto il territorio venne sotto l'immediata sovranità di Roma, la quale così si estendeva fino all'Appennino e ai monti Umbri. Ma già non si limitavano più al territorio di qua dei monti; l'ultima guerra aveva troppo chiaramente dimostrato che la signoria romana sull'Italia centrale era assicurata solo se andava da mare a mare. 

Lo stabilirsi dei Romani al di là dell'Appennino incominciò con la fondazione della possente fortezza di Hatria (Atri) nell'anno 465 (= 289), sul declivio settentrionale degli Abruzzi, verso la pianura picena, il ragguardevole numero di 20.000 coloni; questa città, posta sui limiti tra il Sannio, l'Apulia e la Lucania, in una fortissima posizione sulla grande strada tra Taranto ed il Sannio, era destinata ad essere la bastiglia delle popolazioni stanziate in quelle regioni, e prima di tutto ad interrompere le relazioni fra i due più potenti nemici di Roma nell'Italia meridionale. 

Senza dubbio nello stesso tempo anche la strada meridionale, che Appio Claudio aveva condotta fino a Capua, fu di là prolungata fino a Venusia. Così si estese il territorio romano, chiuso e composto cioè esclusivamente di comuni di diritto romano o latino, alla fine delle guerre sannitiche: verso settentrione sino alla selva Ciminia, verso oriente sino agli Abruzzi, verso sud fino a Capua, mentre i due posti avanzati di Luceria e di Venusia, sorgenti verso oriente e verso mezzodì sulle linee di contatto degli avversari, li isolavano in ogni direzione. 

Roma non era più soltanto la prima, ma già la potenza dominante sulla penisola, quando alla fine del quinto secolo le città di quelle nazioni, che il favore degli Dei ed il proprio valore avevano chiamato ciascuna a capo del proprio paese, cominciarono ad avvicinarsi le une e le altre nel consiglio e sul campo di battaglia, e come in Olimpia i precedenti vincitori si preparavano ad una seconda e più seria battaglia, così ora si preparavano all'ultima e decisiva non immediata sulla costa e quindi di diritto latino, ma prossima al mare e pietra di confine del possente cuneo che separa l'Italia settentrionale dalla meridionale. 

VENUSIA

Venusia (Venosa)

In egual modo e di ancora più grande importanza fu la fondazione di Venusia (463 = 291 ), dove fu accolto il ragguardevole numero di 20.000 coloni; questa città, posta sui limiti tra il Sannio, l'Apulia e la Lucania, in una fortissima posizione sulla grande strada tra Taranto ed il Sannio, era destinata ad essere la bastiglia delle popolazioni stanziate in quelle regioni, e prima di tutto ad interrompere le relazioni fra i due più potenti nemici di Roma nell'Italia meridionale. Senza dubbio nello stesso tempo anche la strada meridionale, che Appio Claudio aveva condotta fino a Capua, fu di là prolungata fino a Venusia. 

Così si estese il territorio romano, chiuso e composto cioè esclusivamente di comuni di diritto romano o latino, alla fine delle guerre sannitiche: verso settentrione sino alla selva Ciminia, verso oriente sino agli Abruzzi, verso sud fino a Capua, mentre i due posti avanzati di Luceria e di Venusia, sorgenti verso oriente e verso mezzodì sulle linee di contatto degli avversari, li isolavano in ogni direzione. 

Roma non era più soltanto la prima, ma già la potenza dominante sulla penisola, quando alla fine del quinto secolo le città di quelle nazioni, che il favore degli Dei ed il proprio valore avevano chiamato ciascuna a capo del proprio paese, cominciarono ad avvicinarsi le une e le altre nel consiglio e sul campo di battaglia, e come in Olimpia i precedenti vincitori si preparavano ad una seconda e più seria battaglia, così ora si preparavano all'ultima e decisiva prova in una più grande arena, Cartagine, la Macedonia e Roma.

LUCANI

§  - RELAZIONI DELL' ORIENTE COLL'OCCIDENTE

Ai tempi dell'incontrastata signoria mondiale di Roma i Greci, per indispettire i loro romani padroni, solevano qualificare come cagione della grandezza romana la febbre di cui morì in Babilonia Alessandro il Macedone 1'11 giugno 431 (=323). Non essendo loro troppo consolante il ripensare all'accaduto, essi indugiavano volentieri nel pensiero di ciò che sarebbe potuto avvenire se il gran re, come doveva essere stata sua intenzione poco prima di morire, si fosse volto contro l'occidente ed avesse disputato colle sue flotte il mare ai Cartaginesi e coi suoi eserciti la terra ai Romani. 

Non è impossibile che Alessandro maturasse tale pensiero, e non occorre per chiarircelo ricordare che un autocrate, il quale è bramoso di guerra e munito di soldati e di navi, trova solo difficilmente il confine alla propria potenza militare. Era veramente un compito degno di un gran re greco quello di proteggere gli Elleni della Sicilia contro Cartagine, i Tarantini contro Roma e di por fine alla pirateria sui due mari. 

Le ambasciate italiche come quelle dei Bruzii, dei Lucani, degli Etruschi, le quali con numerose altre apparvero in Babilonia, offrono abbastanza occasione a far conoscere le relazioni della penisola. Cartagine intimamente legata coll'Oriente doveva necessariamente attrarre lo sguardo del grand'uomo, ed è verosimile che egli avesse intenzione di convertire in vera la supremazia nominale del re dei Persi sopra la colonia di Tiro; di questo dovevano aver avuto sospetto i Cartaginesi, come ce lo prova la spia fenicia da essi mandata alla corte di Alessandro. 

Tuttavia, fossero questi o sogni o piani, il re morì senza essersi occupato degli affari d'occidente e ogni pensiero discese con lui nella tomba. Il solo Alessandro, e per pochi brevi anni, tenne raccolta nelle sue mani tutta la forza intellettuale dell'Ellade, tutta la forza materiale. dell'Oriente; colla sua morte però non andò in alcun modo perduta l'opera della sua vita, il fondamento dell'ellenismo in Oriente, ma l'impero appena unito si divise ben tosto, e tra le continue contese dei diversi Stati, che si formavano da queste rovine, la propaganda della coltura greca in oriente non fu abbandonata, ma indebolita e rallentata. 

Con tali relazioni non potevano nè gli Stati greci, nè gli asiatico-egizi provarsi a fermare il piede in occidente e volgersi contro i Romani o contro i Cartaginesi. Per sistema gli Stati orientali ed occidentali si reggevano l'uno accanto all'altro senza che politicamente venissero neppur quasi a toccarsi, e Roma specialmente rimase essenzialmente straniera alle complicazioni dell'età dei Diadochi. 

Solo si stabilirono relazioni economiche; così, ad esempio, la repubblica di Rodi, che teneva il primo posto tra gli Stati marittimi della Grecia, e che in quel tempo di continue guerre era come la mediatrice universale del commercio, concluse l'anno 448 (=306) un trattato con Roma, naturalmente un trattato commerciale, quale poteva essere tra un popolo di mercanti e i padroni delle marine di Cere e della Campania. 

Anche nell'arruolamento dei mercenarii, i quali dall'Ellade, che era allora mercato generale d'ingaggio, andavano verso l'Italia e specialmente verso Taranto, influivano le relazioni politiche, quelle per esempio che sussistevano fra Taranto e la città madre Sparta, solo in modo molto subordinato; in complesso questi arruolamenti non erano che affari commerciali, e Sparta d'ordinario, sebbene somministrasse ai Tarantini i capitani per le guerre d'Italia, non trascorse perciò a nessuna ostilità contro gli Italici, come nella guerra dell'indipendenza americana gli Stati della Germania non entrarono in alcuna lotta con gli Stati dell'Unione, benchè vendessero i propri sudditi ai loro avversari. 

PIRRO

§  - POSIZIONE STORICA DI PIRRO

Pirro, re d'Epiro, non era che un avventuroso condottiero. Benchè egli facesse risalire la sua genealogia fino ad Eaco e ad Achille, e non gli mancasse la possibilità, se fosse stato d'indole più riposata, di vivere e morire come " re " d'un piccolo popolo di montanari, sotto l'alto dominio dei Macedoni, o anche, forse, in isolata libertà, Pirro tuttavia non fu che un cavaliere di ventura. 

Vi fu anche chi lo volle paragonare ad Alessandro di Macedonia, e veramente non si può negare che formasse il concetto della fondazione d'un regno ellenico d'occidente, di cui l'Epiro, la Magna Grecia e la Sicilia avrebbero formato il nerbo, e che avrebbe avuto la signoria sui due mari italici, e retrospinto Roma e Cartagine a confondersi col mondo barbaro, che cingeva come un nebbioso orizzonte la sfera degli Stati ellenici ; un tale concetto era grande e audace non meno di quello che condusse il re di Macedonia al di là dell'Ellesponto. Ma non è solo il diverso esito che distingue la spedizione orientale dalla spedizione occidentale. 

Alessandro col suo esercito macedone, dove sotto di lui serviva buon numero di ufficiali superiori, poteva venire benissimo a paragone col gran re; ma il re dell'Epiro, che, a ragion di forze, stava alla Macedonia forse come starebbe ora l'Assi alla Prussia, non riuscì a riunire intorno a sé un esercito che potesse esser degno di questo nome, se non reclutando mercenari e questuando alleanze che si fondavano su effimere combinazioni politiche. 

Alessandro invase la Persia da conquistatore, Pirro venne in Italia come capitano al soldo d'una federazione di Stati di secondo ordine; Alessandro lasciò il suo paese ereditario sicuro da ogni attacco, per la compiuta sottomissione ella Grecia e e il numeroso esercito rimastovi sotto gli ordini di Antipatro; Pirro non aveva altra sicurtà per l'integrità del proprio territorio, che la parola d'un vicino sospetto. 

Per ambedue i conquistatori, se la loro impresa riusciva, era necessario abbandonare la patria, la quale non poteva essere il centro del nuovo Stato; ma sarebbe riuscito assai meno difficile trapiantare la sede della monarchia macedone in Babilonia, che fondare una dinastia militare in Taranto o in Siracusa. Perchè era affatto impossibile di ridurre la democrazia delle repubbliche greche, da molti anni in eterna agonia, alle forme strette d'uno stato militare; Filippo sapeva bene perchè non volle incorporare le repubbliche greche nel suo regno. 

In oriente invece non si doveva temere alcuna opposizione nazionale; in quelle vaste regioni vivevano da lungo tempo schiatte dominanti e schiatte serve, le une presso alle altre, e il mutar signore riusciva alle varie moltitudini indifferente e talora desiderato. In occidente era ben possibile vincere i Romani, i Sanniti e i Cartaginesi, ma nessun conquistatore avrebbe potuto mutar e gli Italici in altrettanti Fellah egiziani, o ridurre i contadini romani a livellarii d'una baronia ellenica. 

Tutto ben considerato, la propria potenza, gli alleati, le forze degli avversari, il concetto del Macedone, guardato sotto ogni aspetto, ci si presenta come un'impresa eseguibile, quello dell'Epirota come un'impresa impossibile; l'uno ci appare come il compimento d'una grande missione storica, l'altro come un memorabile errore; l'uno come la pietra fondamentale d'un nuovo sistema di Stati e di una nuova fase di civiltà, l'altro come un puro episodio storico. 

L'opera d'Alessandro sopravvisse tuttochè il suo creatore ne fosse morto prematuramente; Pirro, prima di morire, vide cogli occhi propri crollare tutto il suo edifizio. Furono due audaci e due grandi nature d'uomini; ma Pirro non era che il primo capitano del suo tempo, Alessandro era innanzi tutto, e principalmente, il più gran genio politico dell'epoca; e se la perspicacia di distinguere il possibile dall'impossibile è quella che differenzia gli eroi dagli avventurieri, bisogna annoverare Pirro tra questi ultimi, e non si può metterlo a paragone d'Alessandro, suo parente e maggiore, come non si saprebbe paragonare il Connestabile di Borbone a Luigi XI. 

E pure il nome dell'Epirote risveglia in noi un certo senso di meraviglia, e quasi esercita sulle menti un fascino, che ben si spiega, e per la cavalleresca e seducente sua personalità, e perchè egli fu il primo greco che si misurasse coi Romani sui campi di battaglia. Da Pirro cominciano quelle relazioni tra Roma e l'Ellade, a cui è dovuto tutto l'indirizzo successivo dell'antica civiltà, e che perciò sono anche uno dei principali fattori della civiltà moderna. 

La lotta tra falangi e coorti, tra eserciti mercenari e milizie nazionali, tra monarchia militare e governo senatorio, tra il genio personale e la forza nazionale, questa lotta tra Roma e l'ellenismo fu prima combattuta nelle battaglie tra Pirro e i duci romani; e sebbene la parte soccombente abbia più volte rinnovato l'appello alla decisione delle armi, ogni nuova prova non fece altro che confermare il già pronunziato giudizio. 

Ma se i Greci rimasero soccombenti nel campo e nella curia, fuori della politica venne loro assicurata una incontrastabile superiorità, il che già faceva presentire che la vittoria riportata da Roma sugli Elleni sarebbe stata diversa da quella da essa riportata sui Galli e sui Fenici, ma che ad ogni modo la magia d'Afrodite non comincia ad operare, se non quando la lancia è spezzata e l'elmo e lo scudo sono messi in disparte. 

MOSAICO DI TARANTO

§  - CARATTERE E STORIA ANTECEDENTE DI PIRRO

Re Pirro era figlio di Eacide, signore dei Molossi (intorno a Lanina), il quale, risparmiato da Alessandro come suo parente e suo fedele, fu, dopo la morte di lui, trabalzato nel vortice Roma (Museo Capitolino) della guerra per la successione della Macedonia, onde prima ne perdette il regno, poi la vita (441 == 313). 

Suo figlio, che aveva allora sei anni, fu salvato da Glaucia, signore dei Taulanti illirici, e ancora adolescente, combattendosi la guerra pel possesso della Macedonia, fu da Demetrio l' Assediatore riposto nel suo principato (447 = 307), che di nuovo perdette pochi anni dopo pel soprammontar e della fazione a lui contraria (verso l'anno 452 = 302); onde egli, come principe fuoruscito, cominciò, al seguito dei capitani macedoni, la sua carriera militare. Presto egli si fece notar e per le sue qualità personali. 

 Egli combattè le ultime campagne di Antigono, sotto la scuola di questo antico generale di Alessandro, che tutto si compiaceva scoprendo nel giovinetto il guerriero nato, a cui, secondo quello che pronosticava il vecchio condottiero, non mancava che l'età per essere fino d'allora il primo soldato del suo tempo. 

L'infelice battaglia presso Isso lo condusse ostaggio in Alessandria, alla corte del fondatore della dinastia dei Lagidi, dove, con le ardite e risolute sue maniere, con la sua indole soldatesca, sprezzatrice di tutto quello che non s'attenesse al mestiere delle armi, seppe attirare non solo l'attenzione di re Tolomeo, sagace estimatore degli uomini, ma per la maschia sua bellezza, che non era scemata dal selvaggio aspetto e dal possente passo, anche la simpatia delle dame reali. 

Il temerario Demetrio stava appunto allora ritentando di farsi un nuovo regno, e naturalmente in Macedonia, nell'intento di rinnovare colà la monarchia di Alessandro. Bisognava impedire quei vasti disegni e tener occupato Demetrio nei propri paesi. Il Lagide, che sapeva da fino politico trar partito dai caratteri ardenti, come era quello del giovane Epirota, non solo fece cosa ben accetta alla regina Berenice sua moglie, ma provvide anche ai casi suoi sposando al giovane principe la principessa Antigone, sua figliastra, e proteggendo colla sua possente influenza l'amato " figlio "' perchè potesse ritornare in patria e nello Stato ( 458 = 296). 

Così rimesso nel retaggio paterno, tutti si strinsero intorno a lui. I valorosi Epiroti, gli Albanesi dell'antichità, rinfocolando la tradizionale fedeltà con nuovo .entusiasmo, pendevano dai cenni dell'animoso giovane, cui diedero il soprannome di " Aquila ". Durante i tumulti e le guerre che in Macedonia (457 = 297) tennero dietro alla morte di Cassandro, l'Epirota allargò il suo territorio; a poco a poco acquistò i territori sul golfo anibracico, l'isola Corcira e anche una parte del territorio macedone, e, con non piccola meraviglia degli stessi Macedoni, tenne testa a re Demetrio, con forze molto inferiori alle sue. 

E quando Demetrio, per la sua stoltezza, precipitò dal trono macedone, la dignità reale fu spontaneamente offerta al cavalleresco suo rivale e congiunto, che infine era degli Alessandridi (467 = 287). Infatti nessuno era più degno di Pirro di portare il diadema reale di Filippo e di Alessandro. In un'epoca profondamente depravata, nella quale la sovranità e la bassezza incominciavano a diventar sinonimi, il carattere di Pirro, personalmente immacolato e puro, luceva chiaramente. 

Per i liberi contadini del paese macedonico, i quali, benché diminuiti e impoveriti, pur si tenevano lontani dal decadimento dei costumi e del valore che il governo dei Diadochi aveva introdotto in Grecia ed in Asia, Pirro pareva proprio un re specialmente creato; egli, che, pari ad Alessandro, nella sua casa, nella cerchia degli amici, conservava il suo cuore aperto a tutte le relazioni umane, e che aveva sempre tenuto lontano da sé il fare di sultano orientale, così odioso in Macedonia; egli che, pari ad Alessandro, er a riconosciuto come il primo tattico del suo tempo. 

Ma il sentimento nazionale, straordinariamente esagerato tra i Macedoni, per cui il più meschino signore macedone era preferito al più valente straniero, e l'irragionevole avversione delle truppe macedoni contro ogni condottiero non macedone, avversione che già aveva perduto il più grande capitano della scuola di Alessandria, Eumene Cardiano, preparava una rapida fine anche alla signoria del principe Epirota. 

Pirro, che non poteva tenere con la volontà dei Macedoni la signoria della Macedonia e che era troppo debole, e forse anche troppo generoso, per imporsi contro la volontà del popolo, abbandonò dopo sette mesi il paese al suo mal governo nazionale e tornò ai suoi fedeli Epiroti (467 = 287). 

Ma l'uomo, che aveva portato la corona di Alessandro, il cognato di Demetrio, il genero del Lagide e di Agatocle di Siracusa, il coltissimo stratega, che scrisse memorie e trattati scientifici sull'arte della guerra, non poteva certamente finir la sua vita, rivedendo in un tempo stabilito nell'anno i conti del reale amministrator e del bestiame e accettando dai suoi bravi Epiroti gli usati doni di buoi e di pecore, per poi far da loro rinnovare all'altare di Giove il giuramento di fedeltà e ripetere esso il giuramento di mantener le leggi, passando poi con loro la notte banchettando per meglio confermare questi patti. 

Se per lui non v'era posto sul trono macedone, nemmeno poteva egli rimanere nella patria; egli poteva esser e il primo e dunque non il secondo. Così i suoi sguardi si volsero più lontano. I re che si disputavano il possesso della Macedonia, benché non fossero mai d'accordo, pure erano pronti ad agevolare insieme la partenza volontaria di un così pericoloso competitore; ed egli era pur certo che i suoi fedeli compagni di guerra l'avrebbero seguito dovunque egli andasse. 

Appunto allora le condizioni italiche erano tali da far credere possibile l'impresa che quarant'anni prima aveva avuto in mente Alessandro d'Epiro, parente di Pirro e cugino di suo padre, e proprio in quel momento suo suocero Agatocle; e così Pirro decise di rinunciare ai suoi disegni macedonici, e di fondare in occidente una nuova signoria per sé e per la nazione ellenica. 


§  - SOLLEVAZIONE DEGLI ITALICI CONTRO ROMA:  LUCANI, ETRUSCHI, CELTI E SANNITI - 

L'armistizio che la pace col Sannio aveva prodotto in Italia nell'anno 464=290, fu di breve durata; l'incitamento alla formazione d'una nuova lega contro la prepotenza romana venne questa volta dai Lucani. A questa popolazione che, col suo parteggiare per Roma, aveva paralizzato i Tarantini durante la guerra sannitica, cooperando così alla decisione di questa, erano dai Romani state abbandonate tutte le città greche che si trovavano nel suo territorio; e in conseguenza di ciò dopo conchlusa la pace, i Lucani si erano alleati coi Bruzzii per ridurre ad obbedienza ad una ad una le dette città. 

I Turini, ripetutamente assaliti dal generale dei Lucani Stenia Statilio e spinti all'estremo, si rivolsero al senato romano, chiedendo aiuto contro i Lucani, proprio come già i Campani avevano chiesto l'aiuto di Roma contro i Sanniti, e senza dubbio anch'essi a prezzo della libertà e dell'indipendenza. Poichè l'alleanza coi Turini era divenuta indispensabile per Roma dopo la fondazione della fortezza di Venusia, i Romani concessero ciò che essi chiedevano, e comandarono ai loro amici ed alleati di non molestare la città che si era arresa ai Romani. 

I Lucani ed i Bruzzii, ingannati così dai loro possenti alleati circa la partecipazione al bottino comune, incominciarono a trattare col partito d'opposizione sannita-tarantina, per formare una nuova coalizione degli Italici; e quando i Romani mandarono loro un'ambasciata per ammonirli, essi fecero prigionieri gli ambasciatori e incominciarono la guerra contro Roma. con un nuovo attacco verso Turii ( 469 = 285), invitando nello stesso tempo non solo i Sanniti e i Tarantini, ma anche i norditalici, gli Etruschi, gli Umbri, i Galli, a riunirsi con loro nella guerra per la libertà. 

Infatti la lega etrusca si levò e assoldò numerose schiere galliche; l'esercito romano, che il pretore Lucio Cecilio guidava in aiuto agli Aretini, rimasti fedeli, fu distrutto sotto le mura di Arezzo dai mercenari senoni degli Etruschi; lo stesso capitano cadde con 13.000 dei suoi soldati (470=284). 

GALLI SENONI

Galli Senoni

I Senoni erano tra gli alleati di Roma; quindi i Romani mandarono loro degli ambasciatori a lamentarsi perchè impiegavano disertori contro Roma, ed esigevano la gratuita restituzione dei prigionieri. Ma per comando del capo dei Senoni Britomari, che aveva da vendicare la morte di suo padre contro i Romani, i Senoni uccisero i messi romani, e si dichiararono apertamente per gli Etruschi. 

Tutta l'Italia settentrionale, gli Etruschi, gli Umbri, i Galli, furono quindi in anni contro Roma; grandi avrebbero potuto essere i successi, se i paesi meridionali avessero approfittato di questo momento e se quelli che non lo avevano ancor fatto, si fossero dichiarati contro Roma. Infatti i Sanniti, sempre pronti a combattere per la libertà, pare abbiano dichiarato la guerra ai Romani, ma, indeboliti e chiusi come erano da ogni lato, poco profitto poterono dare alla lega, e Taranto esitava come al solito. 

Mentre fra i nemici si trattavano alleanze, si stabilivano trattati di sussidio, si adunavano mercenari, i Romani agivano. Prima di tutti toccò ai Senoni di provare come era difficile di vincere i Romani. Il console Pubblio Cornelio Dolabella penetrò con un forte esercito nel loro territorio; gli abitanti che non furono passati a fil di spada, furon cacciati dal paese, e questa tribù fu cancellata dalla lista delle nazioni italiche ( 4 71 = 283).

Una tale cacciata in massa è abbastanza verosimile per un popolo vivente specialmente delle proprie greggi; probabilmente questi Senoni, cacciati dall'Italia, aiutarono a formarsi quelle torme galliche che poco dopo invasero l'estuario del Danubio, la Macedonia, la Grecia e l'Asia Minore. 

I più prossimi vicini ed affini di razza dei Senoni, i Boi, spaventati ed irritati da questa improvvisa catastrofe, si unirono immediatamente con gli Etruschi, i quali continuarono ancora la guerra, ed i cui mercenari Senoni non combattevano più contro i Romani come gente assoldata, ma come disperati vendicatori della patria; un possente esercito etrusco-gallo trasse verso Roma per far vendetta della distruzione della tribù dei Senoni sulla capitale dei nemici, e per radere al suolo Roma, assai più compiutamente di ciò che aveva fatto un giorno il re condottiero degli stessi Senoni. 

Però al passaggio sul Tevere, in vicinanza del lago Vadimone, l'esercito alleato fu interamente battuto dai Romani (471=283). Dopochè essi l'anno appresso ebbero tentato ancora una volta a Populonia con non migliore successo la sorte delle armi, i Boi abbandonarono i loro alleati e conchiusero coi Romani la pace ( 472 = 282). Così il più pericoloso membro della lega, il popolo dei Galli, fu singolarmente sopraffatto, prima ancora che la lega si riunisse pienamente, e così fu dato a Roma man libera sull'Italia meridionale, dove, negli anni 469-471 (= 285-283) non era stata seriamente condotta la lotta. 

Mentre fino allora il debole esercito romano aveva durato fatica a sostenersi in Turii contro i Lucani ed i Brezzii, apparve ora (472= 282) il console Gaio Fabricio Luscino davanti alla città con un forte esercito, la liberò, battè i Lucani in una grande battaglia, e fece prigioniero il loro capitano Statilio. Le minori città greche non doriche, che riconoscevano nei Romani i loro liberatori, si diedero a questi spontaneamente; presidii romani rimasero nei posti più importanti, in Locri, Crotone, Turii e specialmente in Reggio, alla quale ultima città: pareva avessero la mira anche i Cartaginesi. 

Dappertutto Roma era in vantaggio. La distruzione dei Senoni aveva dato nelle mani dei Romani un tratto importante del litorale dell' Adriatico; certo per riguardo all'ostilità con Taranto, che senza dubbio già covava sotto la cenere, e alla già minacciante invasione degli Epiroti, si affrettarono i Romani a rendersi sicuri di questa costa e del mare Adriatico. 

Intorno al 4 71 (= 283) fu guidata una colonia cittadina verso il porto di Sena (Sinigallia), già capitale del distretto senonico, e nello stesso tempo una flotta romana veleggiava dal mare Tirreno verso le acque orientali, certamente per stazionare nell'Adriatico e coprirvi le esistenti colonie romane. 

NAVI DA GUERRA ROMANE - POMPEI

§ - ROTTURA TRA ROMA E TARANTO

I Tarantini avevano vissuto in pace con Roma fin dal trattato del 450 (= 304) conchiuso con Roma. Essi avevano assistito alla lunga agonia dei Sanniti, alla rapida distruzione dei Senoni ed avevano sopportato senza far opposizione la fondazione di Venusia, Atria, Sena e i presidii di Turii e Reggio; ma quand'ora la flotta romana giunse nel suo viaggio dal Tirreno all'Adriatico nelle acque di Taranto e gettò l'ancora nel porto della città amica, l'irritazione, da lungo tempo contenuta, traboccò; gli antichi trattati, che proibivano ai vascelli romani da guerra di spingersi ad oriente del promontorio Lacinio, furono richiamati alla memoria dai demagoghi nelle assemblee cittadine; furibonda la moltitudine si precipitò sulle navi da guerra romane, le quali, attaccate all'improvviso, secondo il costume dei pirati, soggiacquero alla lotta violenta; cinque navi furono prese, e il loro equipaggio fu giustiziato o venduto in schiavitù, lo stesso ammiraglio romano cadde nella zuffa. 

Solo la somma follia e la somma incoscienza del dominio della plebe spiega questi vergognosi fatti.  Quei trattati appartenevano ad un'epoca che da molto tempo era trascorsa e dimenticata; è evidente che essi non avevano più alcun significato, almeno alla fondazione di Atria e di Sena e che i Romani entrarono nel golfo in buona fede sull'esistente alleanza coi Tarantini; anzi era nel loro interesse, come lo dimostra il successivo svolgersi dei fatti, di non dare ai Tarantini alcun pretesto ad una dichiarazione di guerra. 

Se gli uomini politici di Taranto volevano dichiarar guerra a Roma, essi non facevano altro se non quello che avrebbe già dovuto accadere da molto tempo, e se preferivano di fondare la dichiarazione di guerra sopra una formale rottura dei trattati, invece che sul vero motivo, nulla si può a ciò contrapporre, poichè la diplomazia di tutti i tempi ha creduto esser cosa inferiore alla sua dignità il dire semplicemente le semplici cose. 

Però che invece di intimare all'ammiraglio il ritorno, si sia assalita la flotta a mano armata e per sorpresa, fu non meno una pazzia che una barbarie, una di quelle orribili barbarie della civiltà, nelle quali la moralità perde improvvisamente il timone e ci si rivela nuda la volgarità, quasi per ammonirci contro la credenza puerile che la civiltà valga a sradicare dalla natura umana la bestialità. 

E come se con ciò non si fosse fatto abbastanza, dopo questa eroica azione, i Tarantini assalirono Turii, la cui guarnigione romana capitolò, perchè presa alla sprovveduta (nell'inverno 472 473=282-281), e punirono duramente i Turini per aver disertato il partito ellenico in pro dei barbari, quegli stessi che la politica tarantina aveva abbandonato ai Lucani e costretto violentemente alla sottomissione verso Roma. 

MOSAICO TARANTINO

§  - TENTATIVI DI PACE 

Quelli che i Greci chiamavano barbari usarono però tanta moderazione che, pensando alle loro forze e alle ingiurie patite, non si può fare a meno di ammirare. Era nell'interesse di Roma di aver quanto più a lungo fosse possibile la neutralità di Taranto, e gli uomini che in senato maneggiavano la politica, non assentirono perciò alle proposizioni fatte da alcuni senatori, nel primo e naturale impeto di sdegno, di dichiarar subito guerra ai Tarantini. 

Al rovescio, dai Romani si misero innanzi domande piene di moderazione e quali appena salvassero l'onore di Roma, offrendosi di conservare la pace, se si liberassero i prigionieri, si restituisse Turii, e si consegnassero i provocatori dell'aggressione della flotta. 

Questi patti furono recati a Taranto da un'ambasciata romana (473 = 281), e nello stesso tempo per dare forza alle parole, un esercito entrava nel Sannio sotto il comando del console Lucio Emilio. I Tarantini potevano, senza perder nulla della propria indipendenza, accettare queste condizioni, e in Roma, dove si conosceva la poca velleità bellicosa della ricca città mercantile, si poteva credere con ragione che fosse possibile ancor a un accomodamento. 

Ma il tentativo di mantener la pace naufragò, sia per l'opposizione di quei Tarantini che vedevano la necessità di opporsi al più presto con le armi alla potenza di Roma, sia per l'indisciplinatezza della plebe cittadina, la quale, con la solita arroganza greca, si attaccò in maniera indegna alla stessa persona dell'ambasciatore. 

Allora il console penetrò nel territorio tarantino; ma, invece di aprire subito le ostilità, offerse ancora la pace alle stesse condizioni, e poichè anche questo fu vano, incominciò bensì a devastar e i campi e le ville e battè le milizie cittadine, ma i più ragguardevoli prigionieri vennero rilasciati senza riscatto, e non si abbandonò la speranza che i disagi della guerra dessero il sopravvento al partito aristocratico della città, ottenendo così la pace.

La causa di questa moderazione era che i Romani non volevano spingere la città fra le braccia del re degli Epiroti. Le intenzioni di questi sull'Italia non erano più un mistero. Già un'ambasceria tarantina era andata da Pirro, e ne era ritornata senza aver nulla concluso; il re aveva chiesto più di quello che essi, come plenipotenziari, potessero accordar e bisognava risolversi. 

Che le milizie cittadine non fossero buone ad altro che a fuggire innanzi ai Romani, lo si sapeva a sazietà; non rimaneva dunque altra scelta che tra la pace con Roma, che i Romani erano sempre pronti a concedere a miti condizioni, e il trattato con Pirro, accettando i suoi patti; era dunque per scelta la sottomissione o alla sovranità romana o alla tirannide di un soldato greco. 

Nella città i partiti si equilibravano quasi; ma prevalse finalmente il partito nazionale, e, oltre fu buona ragione di darsi - se la necessità voleva che Taranto avesse un padrone - piuttosto ad un greco che ad un barbaro, certo contribuì non poco anche il timore dei demagoghi, che Roma, nonostante la moderazione impostale in quel momento dalle circostanze, non avrebbe a tempo opportuno lasciato di vendicare gli obbrobrii commessi dalla plebaglia di Taranto. 

La città dunque preferì l'alleanza di Pirro. Egli fu gridato supremo capitano delle truppe dei Tarantini e degli altri Italioti in armi contro Roma, e a lui fu inoltre accordato il diritto di por guarnigione in Taranto. Si capisce che la città sopportò le spese della guerra. Pirro in ricambio promise di non rimanere in Italia più del tempo necessario, riservandosi, probabilmente, in cuor suo, di giudicare a suo senno quanto e come egli avesse a starvi. 

Ciò non pertanto poco mancò che non gli sfuggisse dalle mani la preda. Mentre che gli ambasciatori tarantini - i quali senza dubbio dovevano essere i caporioni del partito della guerra - si trovavano ancora m Epiro, gli umori nella città, che in quei giorni era messa alle strette dai Romani, mutarono, e già il supremo comando era stato deferito a Agide, che parteggiava pei Romani, quando il ritorno dell'ambasceria, apportatrice · del concluso trattato ed accompagnata da Cinea fido ministro di Pirro, ricondusse il partito della guerra di bel nuovo al governo. 

Non andò molto che una mano più ferma afferrò le redini dello Stato e mise fine a questo deplorabile tergiversare. Nell'autunno del 473 (=281) sbarcò Milone, generale di Pirro, alla testa di 3000 Epiroti e occupò la cittadella di Taranto; in principio del 474 (=270) gli tenne dietro il re stesso dopo un tragitto procelloso, che era costato numerose vittime. 

Esso condusse a Taranto un esercito ragguardevole, ma composto di variatissimi elementi, parte truppe indigene, Molossi, Tesproti, Caonii, Ambracesi, parte fanteria macedone e cavalleria tessalica, che il re Tolomeo di Macedonia gli aveva ceduto per trattato, parte anche gente raccogliticcia assoldata nell'Etolia, nell' Acarnania e nell' Atamania; in tutto 20.000 falangiti, 2000 sagittari, 500 frombolieri, 3000 cavalieri e 20 elefanti; esercito che non era molto inferiore a quello, col quale cinquant'anni prima Alessandro aveva passato l'Ellesponto. 

Quando giunse il re gli affari della lega non erano troppo bene avviati. Vero è che il console romano, allorché invece della milizia tarantina si vide a fronte i soldati di Filone, smesso il pensiero di attaccare Taranto, si era ritirato nell'Apulia; ma ad eccezione del territorio di Taranto, i Romani signoreggiavano quasi su tutta l'Italia. 

La lega non aveva nell'Italia inferiore alcun esercito pronto a campeggiare, e anche nell'Italia superiore gli Etruschi, i soli che rimanessero ancora in armi, non avevano raccolto nell'inutile campagna (473=281) altro che sconfitte. Gli alleati avevano dato al re, prima ancora ch'ei s'imbarcasse, il supremo comando di tutte le loro truppe, e dichiarato di poter porre in campo un esercito di 350.000 fanti e di 20.000 cavalieri; ma tra queste millanterie e i fatti correva una grandissima differenza. 

Il grand'esercito, di cui si era dato il comando a Pirro, restava ancora a crearsi e per allora non potevasi fare assegnamento che sulle forze di Taranto. Il re ordinò l'arruolamento d'un esercito italico di mercenari pagati coll'oro di Taranto e chiamò a scriversi anche in città tutti gli uomini atti alle armi. Ma i Tarantini non avevano inteso il trattato a quel modo. 

Essi credevano di aver comperata la vittoria col loro danaro, come si compera qualsiasi altra merce, e riguardarono la cosa come una specie di lesione di contratto, poiché il re li voleva costringere a guadagnare combattendo la vittoria. E quanto si erano rallegrati, appena giunto Milone co' suoi, di vedersi liberi dalle molestie della vita militare, altrettanto parve loro ostico il dover scriversi nelle milizie di Pirro, sicché si ebbe perfino a minacciare la pena capitale contro i renitenti. 

Allora tutti d'accordo a rimpianger la pace e dar ragione a chi la consigliava: anzi furono tentati, o parve almeno che si volessero tentare, accordi con Roma. Pirro, che s'aspettava queste opposizioni, prese d'allora in poi a trattare Taranto come paese conquistato, mandò i soldati a quartiere per le case de' cittadini, sospese le adunanze del popolo e i convegni politici che erano in buon numero, fece chiudere i teatri, sbarrare le passeggiate, dar le porte della città in guardia a' suoi Epiroti. 

Di quei che governavano parecchi furono mandati come ostaggi oltremare, parecchi altri si sottrassero alla medesima sorte fuggendo verso i Romani. Parvero necessarie le precauzioni severe, perchè non potevasi aver alcuna fede nella costanza dei Tarantini. Dopo di che il re, padrone davvero di quella ricchissima città, si sentì in grado di dar principio alle sue operazioni strategiche.


§  - AL MOMENTO IN ROMA -

I VOLSCI

Non ignoravano i Romani l'importanza della lotta che stava per cominciare. Anch'essi innanzi tutto vollero pigliar sicurtà della fede dei confederati, o come meglio avrebbero potuto chiamarsi, dei sudditi: onde si mandarono presidii romani a guardia delle città dubbie, e i capi del partito dell'indipendenza furono catturati o dannati del capo; così ad esempio si spacciarono parecchi senatori di Preneste. 

Per la guerra stessa furono fatti grandi sforzi; fu decretata una tassa di guerra, vennero chiamati sotto le armi i contingenti di tutti i sudditi e confederati, anzi gli stessi proletari, che erano esenti dall'obbligo militare, vennero chiamati sotto le armi. Un esercito romano rimase come riserva nella capitale.

Un secondo esercito condotto dal console Tiberio Coruncanio, penetrò nell'Etruria, e respinse insieme i Volsci e i Volsiniesi. Le forze principali erano naturalmente destinate all'Italia meridionale; si affrettò la loro partenza quanto era possibile, per raggiungere Pirro ancora nella regione di Taranto e impedirgli di congiungere con le sue truppe i Sanniti e gli altri popoli dell'Italia meridionale armati contro Roma. 

Le guarnigioni romane, che stavano nelle città greche dell'Italia meridionale, dovevano intanto formare un argine contro i progressi di Pirro. Frattanto la ribellione delle truppe stanziate in Reggio (era una delle legioni levate fra i sudditi Campani di Roma, sotto un capitano campano, Decio) tolse di mano ai Romani questa importante città, senza però darla in balia a Pirro. 

Se da un lato in questa sommossa militare ebbe parte senza alcun dubbio l'odio nazionale dei Campani contro i Romani, anche Pirro, che era venuto per mare a difesa degli Elleni, non poteva certo accogliere nella lega quella truppa che aveva abbattuto i suoi ospiti Reggiani nelle proprie case; e così essa rimase sola, stretta in alleanza coi suoi compagni di razza e di delitti, i Mamertini, mercenari campani di Agatocle, che avevano acquistato nel medesimo modo Messana, sulla spiaggia opposta, e così uniti saccheggiarono e devastarono per proprio conto le greche città circostanti, Crotone dove la guarnigione romana fu abbattuta, Caulonia che fu distrutta. 

Riuscì invece ai Romani, con un debole corpo di truppa, spinto ai confini lucani, e per mezzo del presidio di Venusia, d'impedire la riunione dei Lucani e dei Sanniti con Pirro, mentre il nerbo delle forze, che pare fosse ·di quattro legioni ed era dunque forte di almeno 50.000 uomini col rispettivo numero delle truppe alleate; marciava contro Pirro sotto il comando del console Publio Levino.

Pirro si era accampato colle sue proprie truppe e con le tarantine tra le città di Eraclea e Pandosia, per coprire la colonia tarantina di Eraclea (474=280). I Romani, coprendo la loro cavalleria, conquistarono il passaggio sul Siri, ed incominciarono la battaglia con un impetuoso e fortunato assalto di cavalleria; il re, che conduceva egli stesso i suoi cavalieri, cadde, e i cavalieri greci, messi in iscompiglio dalla sparizione del condottiero, cedettero il campo agli squadroni nemici. 

Frattanto Pirro si pose alla testa della sua fanteria, e di nuovo incominciò una mischia più decisiva. Sette volte le legioni si urtarono con le falangi, e sempre durava il combattimento. Allora cadde Megacle, uno dei migliori ufficiali del re, e siccome egli in quella terribile giornata aveva portato l'armatura del re, l'esercite per la seconda volta credette che Pirro fosse caduto; le schiere divennero malsicure, e già Levino credeva d'aver in mano la vittoria, e rovesciò la sua cavalleria sul fianco dei Greci. 

Ma Pirro, percorrendo a capo scoperto le file della fanteria, animò il cadente coraggio dei suoi. Gli elefanti, fino allora ritenuti, furono spinti contro i cavalieri; i cavalli s'impaurirono davanti ad essi, i soldati non sapevano come avvicinarsi ai poderosi animali, e si volsero in fuga. 

Le schiere della cavalleria, rotte e confuse, gli elefanti inseguenti, sgominarono infine anche le file serrate della fanteria romana, e gli elefanti uniti all'eccellente cavalleria tessalica, fecero grande strage tra i fuggiaschi. Se un valoroso soldato romano, Gaio Minucio, primo astato della quarta legione, non avesse ferito un elefante e posto così in iscompiglio le truppe inseguenti, l'esercito romano sarebbe stato distrutto; così si poté ricondurre al di là del Siri il resto delle truppe romane. 

La loro perdita era grande: 7000 romani furono trovati dai vincitori morti o feriti sul campo, 2000 furono condotti prigionieri; i Romani stessi, calcolando certo i feriti riportati dal campo di battaglia, stimarono la loro perdita di 15,000 uomini. Ma anche l'esercito di Pino non aveva sofferto meno; circa4000 dei suoi migliori soldati coprivano il campo di battaglia, e parecchi dei suoi migliori ufficiali erano caduti. 

Considerando che la sua perdita comprendeva specialmente soldati che avevan già servito e che quindi erano assai più difficili a sostituirsi che non la fanteria romana, e che egli doveva la vittoria solo alla sorpresa dell'attacco degli elefanti, la quale non si sarebbe potuto ripetere spesso, può bene il re, da quel critico stratega che egli era, aver definito più tardi questa vittoria come una sconfitta; sebbene egli non potesse essere così pazzo, come poi novellarono i poeti romani, da far nota al pubblico questa critica di sè stesso nell'iscrizione da lui posta sul dono votivo collocato a Taranto.

Politicamente del resto poco importava sapere quali vittime fossecostata la vittoria; piuttosto il vantaggio di una prima battaglia contro i Romani fu per Pirro di inestimabile conseguenza. Il suo genio di capitano si era dimostrato splendidamente su questo nuovo campo di battaglia, e la vittoria di Eraclea doveva inspirare unità ed energia alla agonizzante lega degli Italici. 

Ma anche le conseguenze immediate della vittoria furono importanti e durevoli. La Lucania fu perduta per i Romani; Levino richiamò le truppe là stanziate e andò verso l'Apulia. I Brezzii, i Lucani ed i Sanniti si unirono, senza esserne impediti, a Pirro. Ad eccezione di Reggio, che gemeva sotto l'oppressione dei rivoltosi Campani, tutte le città greche si diedero a Pirro, anzi Locri gli consegnò volontariamente il presidio romano, poichè erano persuasi e con ragione che egli non li avrebbe consegnati agli Italici. 

I Sabelli ed i Greci passarono dunque a Pirro, ma la vittoria non ebbe altre conseguenze. Fra i Latini non si mostrò alcuna disposizione a liberarsi dalla signoria romana, per quanto potesse esser dura, con l'aiuto di un dinasta straniero. Venusia, sebbene circondata tutt'intorno da nemici, si tenne incrollabilmente unita a Roma. 

Ai prigionieri fatti sul Siri, ed il cui valoroso contegno il re cavalleresco ricompensò con un trattamento molto onorevole, egli offrì, secondo il greco costume, di entrare nel suo proprio esercito; ma allora egli apprese che non combatteva già con mercenari, ma con un popolo. Neppur uno, romano o latino, prese servizio da lui. 

LUCERIA

§  - TENTATIVI DI PACE - PIRRO CONTRO ROMA 

Pirro offrì ai Romani la pace. Egli era un soldato troppo avveduto per non conoscere la difficoltà della sua posizione, ed un politico troppo accorto per non approfittare del momento che gli era più favorevole per conchiudere a tempo un trattato di pace. Ora egli sperava che sotto la prima impressione della terribile battaglia avrebbe potuto ottenere da Roma la libertà delle città greche in Italia e la costituzione di una serie di Stati di secondo e terzo grado, posti fra quelle e Roma, come alleati dipendenti della nuova potenza greca; poiché le sue pretese erano queste: libertà di tutte le città greche, e specialmente dunque delle campane e lucane, dall'autorità romana, e restituzione del territorio ai Sanniti, ai Dauni, ai Lucani, ai Bruzii, il che significava la cessione di Luceria e di Venusia. 

Seppure un'altra lotta con Roma potesse venire difficilmente evitata, pure era desiderabile d'incominciarla quando gli Elleni occidentali fossero stati uniti sotto un padrone, e la Sicilia fosse stata guadagnata, e forse conquistata l'Africa. Munito di queste istruzioni, il tessalo Cinea, fidato ministro di Pirro, si recò a Roma. 

L'esperto negoziatore, che i contemporanei paragonavano a Demostene, per quanto un retore possa venir paragonato a un uomo di stato, il servo d'un re ad un capo di popolo, aveva ordine di mostrare in tutti i modi la stima grandissima in cui il vincitore di Eraclea teneva i suoi vinti, di lasciar intendere che il re stesso avrebbe desiderato di venir a Roma; di inclinar e gli animi in favore del suo signore colle lodi, che suonano sì gradite sulle labbra del nemico, colle lusinghe e, data l'occasione, coi doni distribuiti a proposito; in breve di sperimentare coi Romani tutte le arti della politica di gabinetto, per cui erano celebri le corti d'Alessandria e d'Antiochia. 

Il senato tentennava, a parecchi pareva prudenza far un passo indietro e aspettare, finchè il pericoloso rivale si trovasse ulteriormente impacciato oppure cessasse di esistere. Frattanto il vecchio e cieco consolare Appio Claudio (censore 442=312 console 447. 458 = 307. 296), il quale da lungo tempo si era ritirato dagli affari di stato, ma che in questo decisivo momento s'era fatto condurre nel senato, trasfuse, colle sue parole di fuoco, l'incrollabile energia di una possente natura nell'anima della giovane generazione. 

Si rispose al re la superba parola, che qui si udì allora per la prima volta e che divenne poi principio di stato: che Roma non poteva trattare, finche le truppe straniere erano sul territorio italico, e per far valere queste parole, si cacciò tosto l'ambasciatore dalla città. Lo scopo dell'ambasciata era fallito, e l'abile diplomatico, invece di produrre il desiderato effetto con la sua eloquenza, si era piuttosto lasciato imporre da questa maschia gravità dopo si dura sconfitta: tornato in patria egli dichiarò che in Roma ogni cittadino gli era apparso come un re; infatti il cortigiano aveva veduto un popolo libero. 

Pirro, che durante queste trattative era penetrato nella Campania, appena seppe della rottura di esse, si volse verso Roma, per dar mano agli Etruschi, scuotere gli alleati di Roma e minacciare la città stessa. Ma i Romani non si lasciarono nè spaventare, nè guadagnare. Al grido del banditore " di farsi inscrivere al posto dei caduti " subito dopo la battaglia di Eraclea i giovani si erano affollati alla leva; con le due legioni formate di nuovo, e con le truppe ritirate dalla Lucania, Levino, più forte di prima, seguì la marcia del re; egli assicurò Capua contro di lui e rese vani i suoi tentativi di annodare relazioni con Napoli. 

L'attitudine dei Romani era cosi ferma, che, al di fuori dei Greci dell'Italia inferiore, nessun ragguardevole Stato federale osò staccarsi dall'alleanza romana. Allora Pirro si volse contro la stessa Roma. Attraverso il ricco paese, di cui egli con meraviglia guardava la fiorente condizione, Pirro venne sopra Fregelle, che egli sorprese, sforzò il passaggio sul Liri, e giunse ad Anagni, che non è più lontana da Roma di otto miglia tedesche. 

Nessun esercito gli si fece incontro, ma dappertutto le città del Lazio gli chiudevano le porte, e a passo misurato lo seguiva Levino dalla Campania, mentre dal nord il console Tiberio Coruncanio, il quale appunto aveva conchiuso con gli Etruschi un opportuno trattato di pace, conduceva con sé un secondo esercito romano e in Roma stessa la riserva si preparava al combattimento sotto il dittatore Gneo Domizio Calvino. 

Così nulla era da fare; al re non rimaneva altro che ritirarsi. Per qualche tempo rimase egli ancora nella Campania, inerte di fronte agli eserciti riuniti dei due consoli; ma non gli si offrì alcuna occasione per una battaglia campale. Quando l'inverno si avvicinò il re sgombrò il territorio nemico, e distribuì le sue truppe nelle città amiche; egli stesso pose a Taranto il suo quartier invernale. Allora anche i Romani cessarono le loro operazioni; l'esercito prese alloggiamento .presso Fermo, nel Piceno, dove per ordine del senato, le legioni battute sul Liri accamparono per castigo tutto l'inverno sotto le tende. 


§ - SECONDA CAMPAGNA 

Così finì la campagna dell'anno 474 (=280). La pace separata che l' Etruria aveva conchiuso con Roma nel momento decisivo e l'inattesa ritirata del re, che deluse intieramente le alte speranze degli alleati italici, controbilanciarono in gran parte l'impressione della vittoria di Eraclea. Gli Italici si lagnarono dei pesi della guerra e specialmente della cattiva disciplina dei mercenari acquartierati presso di loro, e il re, stanco dei meschini litigi e del contegno nè politico nè militare de' suoi alleati, incominciò a presentire che il compito toccatogli potesse essere politicamente insolubile nonostante tutti i successi della sua tattica. 

L'arrivo di un'ambasceria romana di tre consolari, fra i quali il vincitore di Turii, Gaio Fabricio, ridestò per un momento in lui le speranze di pace; ma presto si dimostrò che gli ambasciatori avevano solo facoltà di trattare per il riscatto o lo scambio dei prigionieri. Pirro rifiutò tale esigenza, ma egli licenziò sulla loro parola d'onore tutti i prigionieri, perchè potessero assistere alla festa dei Saturnali; più tardi si esaltò in un modo così significativo la fede, che i prigionieri mantennero ed il rifiuto dell'ambasciatore romano contro un tentativo di corruzione, che queste lodi provano piuttosto la corruttela dei tempi posteriori che non l'onoratezza dei precedenti. 

Nella primavera del 475(=279) Pirro riprese ancora l'offensiva e penetrò nell'Apulia, dove l'esercito romano gli mosse incontro. Nella speranza di scuotere con una vittoria decisiva la simmachia romana in questi paesi, il re offrì una seconda battaglia e i Romani non la rifiutarono. 

I due eserciti s'incontrarono presso Ausculum (Ascoli di Puglia). Sotto le bandiere di Pirro combatterono oltre le sue truppe epirote e macedoni, anche i mercenari italici, la milizia della cittadina di Taranto (i cosiddetti scudi bianchi), e gli alleati Lucani, Bruzzii e Sanniti, un insieme di 70.000 uomini a piedi, 16.000 dei quali eran greci ed epiroti; oltre 8000 cavalieri e 19 elefanti. 

Coi Romani stettero in quella giornata i Latini, i Campani, i Volsci, i Sabini, gli Umbri, i Marrucini, i Peligni, i Frentani e gli Arpani; anch'essi contavano oltre a 70.000 uomini, dei quali 20.000 cittadini romani, e 8000 cavalieri. Le due parti avevano fatto cambiamenti nell'ordine della milizia. Pirro, riconoscendo col suo acuto occhio di soldato i vantaggi della disposizione in manipoli, adottata dai Romani, aveva sostituita sulle ali la lunga fronte delle sue falangi con un allineamento interrotto, imitato dalle coorti romane, e forse non meno per motivi politici che militari, aveva intercalato fra le divisioni della sua propria gente le coorti tarantine e sannitiche; nel centro solo stava la falange epirota in linea serrata. 

I Romani per difendersi dagli elefanti conducevano una specie di carri da guerra, dai quali sporgevano bracieri ardenti sopra aste di ferro ed ai quali erano unite antenne di ferro, mobili ed atte ad essere abbassate; erano in certo modo il modello di quei ponti d'arrembaggio che nella prima guerra punica dovevano avere tanta importanza. Secondo la relazione greca, che sembra meno parziale della romana, che pur teniamo sott'occhio, i Greci ebbero nel primo giorno la peggio, poiché non riuscirono nè a distendere la loro fanteria sulle sponde scoscese e paludose dei fiumi, dove furono costretti ad accettar la battaglia, nè a spingere nella mischia la cavalleria e gli elefanti. 

Nel secondo giorno invece Pirro prevenne i Romani nell'occupazione del terreno, e raggiunse così senza perdite la pianura, dove egli potè con agio dispiegare la falange. Invano i Romani si precipitarono con disperato coraggio con le loro spade sui sarissofori; la falange resistette incrollabile ad ogni attacco, ma nemmeno essa potè far piegare le legioni romane. 

Appena quando la numerosa scorta degli elefanti ebbe cacciati con frecce e sassi i Romani combattenti sui carri da guerra e tagliate le corregge dei gioghi, cosicchè gli elefanti poterono lanciarsi contro la fanteria romana, questa cominciò a tentennare. I guardiani dei carri voltisi in fuga diedero il segnale della rotta, che però non costò molte vittime, poiché il campo vicino accolse i fuggiaschi. 

Che poi, mentre ferveva la gran battaglia, una mano di Arpani, staccatisi dall'esercito romano, abbia assaltato e arso il campo degli Epiroti, che era stato lasciato con poca guardia, è cosa che troviamo ricordata solo dalla cronaca romana; ma ad ogni modo i Romani hanno sostenuto a torto che la battaglia sia rimasta indecisa. 

Le due relazioni sono anzi d'accordo nel dire, che l'esercito romano si ritirasse al di là del fiume lasciando Pirro padrone del campo di battaglia. Il numero dei caduti fu, secondo la relazione greca di 6000 Romani e 3505 greci; tra i feriti trovavasi il re stesso, cui un giavellotto aveva passato il braccio, mentre egli, come era solito, combatteva nel più fitto della mischia. 

Certo questa fu un'altra vittoria di Pirro; ma gli allori non portarono frutto, e il fatto procacciò onore al re come a buon capitano e a prode soldato, ma ne' rispetti politici non lo avvicinò d'un passo alla sua meta. Pirro abbisognava d'uno splendido trionfo, che avesse a sterminare l'esercito romano e dare occasione e spinta ai tentennanti alleati di Roma a dichiararsi per lui ma siccome l'esercito e la lega di Roma rimasero in piedi, siccome l'oste greca, di cui Pirro era l'anima o l'unità, si trovava per la sua ferita inabile per molto tempo a campeggiare, così egli dovette rassegnarsi a considerare la campagna come perduta e a riprendere i quartieri d'inverno, che il re prese in Taranto, i Romani questa volta nell'Apulia. 

Sempre più chiaramente manifestavasi che militarmente le risorse su cui poteva contare il re non pareggiavano quelle dei Romani, e che, quanto alla politica, la rilassata e ricalcitrante coalizione non poteva per niun conto raffrontarsi colla simmachia romana fondata su basi solide e profonde. La tattica greca, la novità degli arnesi di guerra che i Greci impiegavano, l'impetuosità delle loro mosse, il genio del capitano che li guidava, potevano ben ottenere altre vittorie come quelle riportate ad Eraclea e ad Ascoli, ma ogni nuova vittoria avrebbe logorato l'esercito vittorioso; ed era evidente che i Romani, dopo la giornata d'Ascoli, si sentivano già i più forti e attendevano con coraggiosa pazienza la vittoria finale. 

Questa guerra non rassomigliava alle guerre di raffinata destrezza che si facevano dai principi greci; in questa guerra tutte le combinazioni strategiche riuscivano vane a fronte della piena e poderosa energia della milizia. Pirro si accorse dello stato delle cose e sazio di vincere senza frutto, disprezzando i suoi alleati, egli non mirava più che a garantire contro i barbari i suoi clienti per abbandonare l'Italia, ove l'onore militare gli imponeva di fermarsi ancora. E già poteva prevedersi, che coll'impaziente suo carattere egli avrebbe afferrato il primo pretesto per liberarsi dall'ingrato impegno, quando gli affari di Sicilia gli offrirono il destro di allontanarsi dall'Italia. 

SIARACUSA

§  - CONDIZIONI DELLA SICILIA, SIRACUSA E CARTAGINE 

- Terza campagna -

Dopo la morte d'Agatocle ( 465 = 289) venne meno ai Greci della Sicilia ogni forza direttiva. Mentre in ciascuna città si avvicendavano al governo inetti demagoghi ed inetti tiranni, i Cartaginesi, che da gran tempo possedevano la punta occidentale dell'isola, venivano chetamente allargando il loro dominio. Ma dopo ch' essi ebbero fermato il piede in Agrigento, credettero venuto il tempo di correr scopertamente alla meta a cui miravano da secoli, e di ridurre in loro potere tutta l'isola e però si volsero direttamente contro Siracusa. 

Questa città, che aveva già conteso co' suoi eserciti e colle sue flotte il possesso dell'isola a Cartagine, era caduta, causa le intestine contese e la debolezza del governo, sì profondamente, ch'essa appena poteva sperare di difendersi dietro le sue mura, e però doveva volgersi a cercar soccorsi stranieri che nessuno, fuori del re Pirro, poteva accordarle. 

Pirro era genero d'Agatocle, suo figlio Alessandro, allora diciottenne, era nipote d'Agatocle, ambedue e per sangue e per grandezza d'animo erano gli eredi naturali dei vasti disegni del signore di Siracusa; e se mai Siracusa non poteva più reggersi a libertà, almeno poteva trovar un compenso col diventar metropoli del gran regno ellenico occidentale. 

I Siracusani si offrirono spontanei a Pirro, come due anni innanzi i Tarantini, e alle stesse condizioni (intorno al 475 == 279). Così per un singolare riscontro di cose pareva che tutto concorresse ad aiutare i vasti concetti del re degli Epiroti, che aveva fondato tutto il suo piano sul possesso di Taranto e di Siracusa. 

Questa unione dei Greci italici e siciliani sotto lo stesso signore ebbe per effetto immediato di far più intima la congiunzione dei loro avversari. I Cartaginesi ed i Romani trasformarono i loro trattati di commercio in una lega offensiva e difensiva contro Pirro ( 4 75 = 279). Si convenne che se Pino avesse messo piede sul territorio d'uno dei confederati, l'altro avrebbe mandato pronti soccorsi e pagato le truppe ausiliarie; che Cartagine somministrerebbe le navi di trasporto e assisterebbe i Romani anche colla flotta, senza obbligo però di arrischiare l'equipaggio in fazioni di terra; finalmente i due alleati proposero di non accordarsi con Pirro separatamente. 

Lo scopo della convenzione fu da parte dei Romani quello di rendere possibile un attacco contro Taranto e di tagliare a Pirro le comunicazioni con la sua patria, ciò che non era possibile senza il concorso della flotta punica; da parte dei Cartaginesi lo scopo era di trattenere il re in Italia per poter effettuare senza contrasto i loro disegni sopra Siracusa. Nell' interesse delle due potenze era dunque il disegno di assicurarsi del mare fra l'Italia e la Sicilia. 

Una parte della flotta cartaginese, di 120 vele, sotto gli ordini dell'ammiraglio Magone, partì da Ostia, ove pare che Magone si sia recato per conchiudere quel trattato, verso lo stretto di Sicilia. I Mamertini, che per i delitti commessi contro la popolazione greca di Messina, non potevano che aspettare il giusto castigo quando Pirro fosse giunto al governo di Sicilia e d' Italia, si allearono strettamente ai Romani e ai Cartaginesi, e assicurarono loro il litorale siciliano dello stretto. 

Volentieri si sarebbero gli alleati impossessati anche di Reggio, sulla spiaggia opposta; ma Roma non poteva assolutamente perdonare alla guarnigione campana, ed un tentativo dei Romani e Cartaginesi alleati, per impadronirsi a mano armata della città, andò a vuoto. Di là la flotta cartaginese veleggiò per Siracusa e bloccò la città dal lato del mare, mentre nello stesso tempo un forte esercito fenicio ne incominciava l'assedio dal lato di terra (476 = 278). 

Era urgente il bisogno che Pirro giungesse a Siracusa, eppure le cose d'Italia eran tali, che egli e le sue truppe potevano esservi necessari. I due consoli dell'anno 4 76 (= 278), Gaio Fabrizio Luscino e Quinto Emilio Papo, entrambi generali esperimentati, avevano cominciata energicamente la nuova campagna, e sebbene fino allor a i Romani non avessero in questa guerra toccato che sconfitte, non erano già essi, ma i vincitori che si sentivano spossati e desideravano la pace. 

Pirro fece ancora un tentativo per ottenere un sopportabile accomodamento. Il console Fabricio aveva spedito al re un miserabile che gli aveva fatto la proposta di avvelenare il re per una buona mercede. In riconoscenza il re non solo liberò senza riscatto tutti i prigionieri romani, ma si sentì così rapito dalla magnanimità de' suoi valorosi avversari, che egli stesso propose loro una pace infinitamente equa e favorevole. 

Cinea pare sia andato ancor una volta a Roma, e Cartagine pare abbia temuto seriamente che Roma si adattasse a far pace. Ma il senato rimase fermo e ripetè la sua prima risposta. Se il re non voleva lasciar cadere Siracusa nelle mani dei Cartaginesi, e con ciò fare distruggere il suo grandioso disegno, non gli rimaneva altro che abbandonare i suoi alleati italici e limitarsi per allora al possesso dei porti più importanti, specialmente a quelli di Taranto e di Locri. 

Invano i Lucani e i Sanniti lo scongiurarono di non abbandonarli; invano i Tarentini gli ingiunsero o di compiere il suo dovere di capitano, o di restituir loro la città. Ai lamenti e ai rimproveri il re oppose o conforti di speranze in tempi migliori, o acerbi rifiuti: Milone rimase a Taranto, il figlio del re, Alessandro, a Locri, e Pirro colla maggior parte delle sue truppe, s'imbarcò nella primavera del 476 (= 278) a Taranto per Siracusa. 

ERACLEA LUCANA

§ - ASSOPIMENTO DELLA GUERRA IN ITALIA 

Per la partenza di Pirro i Romani ebbero man libera in Italia, dove nessuno osava resistere loro in campo aperto, e gli avversari si rinchiudevano dappertutto nelle loro fortezze o nelle loro foreste. Pure la lotta non terminò così presto come si era potuto sperare, sia per la natura di queste guerre di montagna e di assedi, sia per la spossatezza dei Romani, delle cui terribili perdite è una prova il censo dal 4 73 (= 281) al 479 (=275), che dinota una diminuzione di 17.000 cittadini. 

Nell'anno 476 (= 278), riuscì al console Gaio Fabricio di indurre la ragguardevole colonia tarentina di Eraclea ad una pace separata., che le fu concessa a favorevolissime condizioni. Durante la campagna del 477 (= 277) si continuò a combattere nel Sannio, dove un attacco, intrapreso spensieratamente contro le alture trincerate, costò molta gente ai Romani; quindi la guerra si volse all'Italia meridionale dove i Lucani e i Brezzii furono battuti. 

Milone invece, partendo da Taranto, riuscì a prevenire i Romani in un tentativo di prendere Crotone per sorpresa, e gli Epiroti fecero anzi una sortita fortunata contro l'esercito assediante. Però il console riuscì con uno strattagemma di determinare il presidio ad allontanarsi, e prese così la città rimasta senza difesa (477 =277). 

Più importante fu il fatto dei Locresi, i quali avevano già consegnato al re precedentemente la guarnigione romana, ed ora, espiando il tradimento col tradimento, trucidarono gli Epiroti, così che tutta la spiaggia meridionale, ad eccezione di Reggio e Taranto, fu nelle mani dei Romani. Nonostante questi successi assai poco si era guadagnato nell'essenziale. 

L'Italia inferiore era da gran tempo indifesa; Pirro non poteva dirsi vinto, finché Taranto si trovava in suo potere, così che gli rimanevano i mezzi per rinnovare la guerra a piacimento, nè i Romani potevano pensare ad un assedio di questa città. 

Poichè oltre la considerazione che i Romani in fatto d'espugnazioni e d'assedi, dopo che Filippo il Macedone e Demetrio l'Assediatore avevano mutata la strategia in una guerra di fortezze, dovevano trovarsi inferiori ad un esperto e risoluto capitano greco, mancavano anche di un sufficiente naviglio; e sebbene i Cartaginesi avessero per trattato promesso di aiutare i Romani sul mare, i fatti di Sicilia non volgevano sì propizi per essi, da lasciar loro modo di mantenere quella promessa. 

Lo sbarco di Pirro nell'isola, compiuto felicemente ad onta della flotta cartaginese, vi aveva cambiato a un tratto l'aspetto delle cose. Pirro liberò tosto Siracusa dall'assedio, ridusse in breve tempo in suo potere tutte le città greche, e come capo della confederazione sicula ritolse ai Cartaginesi quasi tutte le loro conquiste. 

Minacciati e combattuti senza posa, appena riuscirono a mantenersi a Lilibeo i Cartaginesi e i Mamertini infessana con l'aiuto della flotta punica, che allora dominava senza contrasto sul Mediterraneo. In tali circostanze, badando al tenore del trattato del 475 (= 279), sarebbe stato più agevole a Roma di prestare soccorso in Sicilia ai Cartagine, che a Cartagine colla sua flotta di aiutare Roma ad espugnare Taranto; ma pare che i due alleati non si curassero troppo di assicurarsi reciprocamente la potenza, e tanto meno di ampliarla. 

Cartagine aveva offerto il soccorso ai Romani soltanto allora che lo stringente pericolo di Roma era già passato; i Romani dal canto loro non avevano fatto nulla per impedire la partenza del Re dall'Italia e la caduta della potenza cartaginese in Sicilia. Anzi in aperta violazione del trattato Cartagine aveva perfino mosso pratiche per un accordo particolare col re, offrendogli di rinunciare a tutte le conquiste siciliane pur che le fosse lasciato il possesso del Lilibeo, di fornire al re danaro e navi da guerra, le quali, come è ben naturale, dovevano servire per tornare in Italia e rinnovare la guerra contro Roma. 

Era però troppo chiaro che, conservando Lilibeo e allontanando il re, Cartagine avrebbe subito riacquistato nell'isola quel posto che essa teneva prima dello sbarco degli Epiroti; le città greche, abbandonate a sè stesse, nulla potevano, e il perduto territorio era facile a riconquistarsi. Perciò Pirro respinse le perfide proposizioni, che da ambe le parti gli erano state fatte, e prese la risoluzione di formarsi una flotta. 

Soltanto la leggerezza e il poco accorgimento hanno poi biasimato codesto concetto; il quale non solo rispondeva ad una necessità, ma pei mezzi che offriva l'isola, poteva facilmente porsi ad effetto. Anche a non voler riflettere che il sovrano di Ambracia, di Taranto e Siracusa, non poteva essere senza una potenza marittima, Pirro aveva bisogno di una flotta per espugnare Lilibeo, per proteggere Taranto e infine per attaccare Cartagine in Africa, come prima e dopo lo fecero con sì grande successo Agatocle, Regolo, Scipione. 

Pirro non fu mai sì vicino alla sua meta come nell'estate del 478 (= 276), quando ei vedevasi innanzi Cartagine umiliata, la Sicilia raccolta sotto la sua signoria, Taranto, porta d'Italia, assicurata nelle sue mani, e quando la flotta da lui creata e che doveva annodare insieme tutti i suoi possessi, assicurare e aumentare i suoi acquisti, stava ancorata nel porto di Siracusa pronta a salpare.

CARTAGINE

§  -  PIRRO IN SICILIA 

Il lato debole di tutti i disegni di Pirro era la viziosa politica interna. Egli reggeva la Sicilia come aveva veduto Tolomeo reggere l' Egitto; non rispettava le costituzioni de' comuni, nominava a suo talento i suoi fidi a governare le città, quando e fin che a lui piacesse, eleggeva in luogo dei giurati del paese i suoi cortigiani all'ufficio di giudici, pronunziava a suo arbitrio confische, esili, pene capitali, persino contro quelli che avevano vivamente promosso la sua venuta in Sicilia, metteva presidii nelle città e dominava in Sicilia non come il capo della lega nazionale, ma come re. 

Benchè secondo le idee dell'oriente ellenico egli possa essersi creduto un principe buono e savio - e forse lo era in fatto - i Greci sopportavano con tutta l'impazienza d'un popolo disvezzato d'ogni disciplina in una lunga agonia di libertà questo trapiantamento del sistema dei Diadochi in Siracusa; nè andò molto che allo stolido popolo parve più sopportabile il giogo cartaginese che non il nuovo governo soldatesco. 

Le più ragguardevoli città strinsero lega coi Cartaginesi e persino coi Mamertini; un forte esercito cartaginese ricomparve nell'isola, e, aiutato dappertutto dai Greci, fece rapidi progressi. La fortuna delle battaglie fu, a dir vero, come sempre, favorevole all'"Aquila" ma era chiaro. ormai, che gli isolani avevano preso in odio il loro liberatore, ed era facile argomentare quello che avrebbe potuto e dovuto avvenire, quando il re si assentasse dalla Sicilia. 

A questo primo ed essenzialissimo errore Pirro ne aggiunge un altro: andò colla flotta a Taranto invece di andare a Lilibeo. Cogli umori, che allora correvano in Sicilia, era troppo evidente la necessità di sradicare affatto dall'isola i Cartaginesi e toglier così ai malcontenti l'ultimo asilo prima di distrarre le sue forze nell'impresa d'Italia, dove non v'era alcun pericolo imminente, poiché Taranto era abbastanza sicura e non s'aveva a far troppo conto degli altri confederati, che già erano stati lasciati in abbandono. 

Non è difficile però comprendere, come l'indole soldatesca di Pirro lo tirasse a cancellare con una brillante riapparizione la partenza non molto onorevole dell'anno 476 (= 278), e come il suo cuore sanguinasse quando gli giunsero i lamenti dei Lucani e dei Sanniti. Però imprese come quelle immaginate da Pirro possono venir compiute solo da ferree nature, che possono padroneggiare la compassione e perfino il sentimento dell'onore; tale non era Pirro. 

PERSEFONE TRAFUGATA ED ESPOSTA A BERLINO

§ - CADUTA DEL REGNO SICILIANO 

Il fatale imbarco avvenne verso la fine dell'anno 478 (=276). Frattanto la nuova flotta siracusana ebbe a sostenere con la cartaginese un formidabile combattimento e vi perdette un considerevole numero di navi. La lontananza del re e la notizia di questo primo disastro bastarono per la caduta del regno siculo; tutte le città si rifiutarono di somministrare uomini e denaro al re assente, e lo splendido Stato si sfasciò in tempo più breve che non fosse sorto, parte perchè il re stesso aveva sepolto nel cuore de' suoi sudditi l'amore e la fedeltà sulla quale riposa ogni organismo comunale, parte perchè al popolo mancava la devozione di rinunciare, fosse pur per breve tempo, alla libertà per salvare la nazionalità. 

Così l'impresa di Pirro era naufragata, il progetto della sua vita era perduto senza speranza; d'ora in poi egli è un avventuriere che sente di essere stato molto e non è più nulla, e che continua la guerra non più come mezzo ad uno scopo, ma per stordirsi in quel terribile gioco di dadi e possibilmente per trovare nel tumulto della battaglia la morte del soldato. 

Arrivato alla costa italica, il re incominciò con un tentativo a impadronirsi di Reggio, ma, con l'aiuto dei Mamertini, i Campani respinsero l'attacco, e nell'ardore della mischia, dinanzi alla città, il re stesso venne ferito, mentre gittava di sella un ufficiale nemico. Invece potè egli sorprendere Locri, i cui abitatori espiarono duramente la strage della guarnigione epirota, e vi saccheggiò il ricco tesoro del tempio di Persefone per riempire la sua cassa vuota. 

Così egli giunse a Taranto, probabilmente con 20.000 uomini a piedi e 3000 cavalieri. Ma non erano più i provati veterani di prima, e gli Italici non salutarono più in essi i loro salvatori; la fiducia e la speranza con cui era stato accolto il re cinque anni prima, erano scomparse, e gli alleati erano senz'armi e senza soldati. 

In aiuto dei Sanniti, gravemente minacciati, nel cui territorio i Romani avevano svernato nel 478-79 (= 276-75), il re entrò in campo nella primavera del 479 (= 275) e costrinse il console Manio Curio alla battaglia di Benevento nei campi Arusini, prima che egli potesse riunirsi col suo collega tornante dalla Lucania. 

Ma la divisione che era destinata ad attaccare il fianco dei Romani si smarrì durante la marcia notturna nei boschi e mancò nel momento decisivo; e dopo un violento combattimento gli elefanti decisero nuovamente la battaglia, ma questa volta in favore dei Romani; poichè, spaventati dai sagittarii disposti a custodia del campo, si gettarono sulla loro propria gente. 

I vincitori occuparono il campo; nelle loro mani caddero 1300 prigionieri e 4 elefanti, i primi che Roma vide, inoltre un inestimabile bottino, il cui prezzo bastò a fabbricare più tardi in Roma l'acquedotto che da Tivoli conduceva a Roma l'acqua dell'Aniene. Pirro, senza truppe per tenere il campo e senza denaro, chiese soccorso ai re di Macedonia e d'Asia, che lo avevano aiutato nel passaggio verso l'Italia; ma anche in patria non lo si temeva più e gli si rifiutò la domanda. 

Disperando della sua impresa contro Roma e irritato da questi rifiuti, Pirro lasciò una guarnigione in Taranto e tornò in quello stesso anno (479 = 275) nella sua Grecia, dove più facilmente che in Italia, ove le condizioni erano costanti e misurate, poteva aprirsi all'avventuriere disperato una qualche speranza. 

Infatti non solo egli riguadagnò presto ciò che era stato strappato al suo regno, ma egli stese ancora una volta la mano, e non senza successo, verso il trono macedone, ma i suoi ultimi progetti naufragarono contro la calma e astuta politica di Antigono Gonata, e più ancora contro la propria impetuosità e incapacità di dominare il suo animo superbo; egli guadagnò bensì ancor a delle battaglie, ma senza alcun durevole successo, e fini la sua vita in un miserabile combattimento per le vie d'Argo nel Peloponneso (482 = 272). 


§  - GLI ULTIMI COMBATTIMENTI IN ITALIA

In Italia la guerra finisce con la battaglia di Benevento; le ultime convulsioni del partito nazionale terminano lentamente. Veramente, sinchè il principe della guerra, il cui braccio possente aveva osato di prendere le redini del destino, era ancora tra i viventi, egli tenne, anche assente, la forte rocca di Taranto contro Roma. 

Dopo la partenza di Pirro il partito della pace prese il sopravvento, ma Milone, che vi aveva il comando in nome di Pirro, rifiutò ogni consiglio e lasciò che i cittadini partigiani di Roma conchiudessero per conto proprio e come a loro piaceva la pace con Roma nel castello che essi avevano costrutto nel territorio di Taranto, senza però aprire le sue porte. 

Ma quando, dopo la morte di Pirro, una flotta cartaginese entrò nel porto e Milone vide la cittadinanza in procinto di cedere la città ai Cartaginesi, egli preferì di cedere la rocca al console romano Lucio Papirio (482 = 272) e· per tal modo ottenere per sè ed i suoi libera uscita. Questa fu pe' Romani un'immensa fortuna. 

Dopo gli esperimenti fatti da Filippo dinanzi a Perinto e Bisanzio, da Demetrio sotto Rodi, da Pirro a Lilibeo, si può ragionevolmente dubitare, se colla strategia di quei tempi sarebbe stato possibile ai Romani di espugnare una 'città regolarmente fortificata e difesa e col libero accesso dalla parte del mare; e nessuno può dire come sarebbero andate le cose, se Taranto avesse potuto diventare pei Fenici in Italia, ciò che per essi era stato Lilibeo in Sicilia. 

Ma il fatto non si poteva ornai mutare. L'ammiraglio cartaginese, vedendo la rocca in potere de' Romani, dichiarò di essere venuto a Taranto solamente per aiutare, a tenore del trattato, gli alleati nell'espugnare la città, e s'imbarcò alla volta dell'Africa; e l'ambasciata de' Romani mandata a Cartagine per domandare schiarimenti e per protestare contro la tentata occupazione di Taranto, non ne cavò che giuramenti e proteste, ad altro non essersi pensato mai, che a far opera di leali confederati; di che per allora anche i Romani mostrarono accontentarsi. 

I Tarantini ottennero dai Romani, a petizione come pare de' loro emigrati, di conservare l'autonomia, ma dovettero consegnare le armi e le navi e veder rase le mura della città. Nello stesso anno in cui Taranto divenne romana si sottomisero finalmente anche i Sanniti, i Lucani ed i Brezzii, i quali ultimi dovettero cedere metà della ricca foresta della Sila, tanto importante per le costruzioni navali. 

Finalmente la banda che da dieci anni tiranneggiava la città di Reggio, scontò i suoi delitti meritamente punita e come sleale a Roma e spergiura alle bandiere e come colpevole dell'assassinio dei cittadini di Reggio e del presidio di Cotrone. 

Era nello stesso tempo la causa comune degli Elleni contro i barbari quella che Roma difendeva; il nuovo signore di Siracusa, Gerone, aiutò. i Romani, che erano a campo sotto Reggio, mandando loro vettovaglie e uomini e movendo nel tempo stesso e d' accordo con loro una spedizione contro i Mamertini di Messana, complici e quasi compaesani degli assassini di Reggio. 

L'assedio di Messana andò molto a lungo: Reggio invece fu dai Romani presa d'assalto nel 484 (= 270), nonostante la valorosa e pertinace difesa dei ribelli. Quei di loro, che furono fatti prigionieri, vennero flagellati e decapitati sul Foro romano; gli antichi abitanti di Reggio richiamati e, per quanto fu possibile, rimessi in possesso dei loro beni. 

Così nell'anno 484 (= 270) fu ridotta all'ubbidienza tutta l'Italia. Solo i Sanniti, i più ostinati avversari di Roma, continuarono, ad onta del formale trattato di pace, come briganti, la guerra, così che nell'anno 485 = 269) fu necessario mandare contro essi ambedue i consoli. 

Ma anche il più generoso coraggio e la più eroica disperazione a lungo andare vengono meno; il ferro ed il patibolo ricondussero alla fine la tranquillità anche nelle montagne sannitiche. Per assicurare questi immensi acquisti furono condotte parecchie nuove colonie: Pesto e Cosa (481 = 273) nella Lucania, Benevento (486 = 268) ed Esmia (verso il 491 = 263) come bastiglie per il Sannio, Arimino (486 = 268) e nel Piceno Firmo (verso il 490 = 264) e la colonia cittadina Castro novo posti avanzati contro i Galli; venne inoltre continuata la grande strada meridionale sino ai porti di Taranto e di Brundisio, colla fortezza di Benevento che servisse come nuova stazione intermediaria tra Capua e Venusia, e finalmente fu predisposta la colonizzazione del posto marittimo di Brundisio, che la politica romana aveva scelto ad umiliare Taranto e succedere a quel ricchissimo emporio. 

Nel costruire queste nuove fortezze e le strade s'ebbe ancora a combattere contro le piccole popolazioni, di cui con quelle opere si sminuivano o tagliavano i territori; per questa ragione si guerreggiò coi Picentini (485. 486=269. 268), buon numero de' quali fu trapiantato nei dintorni di Salerno, co' Salentini intorno a Brundisio (487. 488 = 267. 266), e coi Sassinati Umbri (487. 488 = 267. 266) i quali, a quanto pare, avevano occupato il territorio d' Arimino dopo la cacciata dei Senoni. Roma estese con quest' arti la sua signoria su tutto il territorio qella bassa Italia dall'Appennino al Mare Jonio e sino al confine celtico. 

NAVE ROMANA RITROVATA IN SERBIA

§  - LA FLOTTA ROMANA 

Prima di rappresentare l'ordinamento politico, secondo il quale l'Italia così unita veniva governata da Roma, ci rimangono ancora a considerare le condizioni marittime nel quarto e nel quinto secolo. In quell'età due erano in sostanza le città, che si disputavano la signoria del mare d'occidente: Siracusa e Cartagine. 

Ma quest'ultima, nonostante i successi favorevoli, che per qualche tempo avevano ottenuto sul mare Dionigi (dal 348 al 389 = 406-365), Agatocle (dal 437 al 465 = 317-289) e Pirro (dal 476 al 478 = 278-276), veniva acquistando sempre maggior prevalenza sulla rivale, che rapidamente declinava a non aver più che una marineria di secondo ordine. I

n quanto all'Etrnria, la sua importanza marittima era intieramente finita; la Corsica, rimasta per lungo tempo sotto la dominazione etrusca, venne, se non in possesso de' Cartaginesi, certo sotto il loro primato marittimo. Taranto, che per qualche tempo si era pur sostenuta, fu affranta dall'occupazione dei Romani. I valorosi Massalioti durarono bensì padroni del proprio mare, ma non presero una parte diretta negli avvenimenti che mutavano le sorti d'Italia. 

Delle altre città marittime non si faceva quasi alcun caso. Alla stessa sorte non potè sottrarsi nemmeno Roma, nei suoi stessi mari dominavano pure navigli stranieri. Certo Roma era stata in origine una città marittima e nel tempo della sua maggior fortuna non era mai divenuta così infedele alle antiche tradizioni, da trascurare intieramente la marina di guerra e non era mai stata così stolta da voler diventare soltanto una potenza continentale. 

Il Lazio offriva per le costruzioni navali i più bei tronchi d'albero, che sorpassavano di gran lunga quelli famosi dell'Italia meridionale, e i cantieri di Roma, continuamente attivi, dimostrano pure che non si era mai rinunciato a possedere una propria flotta. Frattanto durante le crisi pericolose che la cacciata dei re, le scosse interne nella confederazione romano - latina e le infelici guerre contro gli Etruschi ed i Celti ebbero portato su Roma, i Romani poterono occuparsi poco dello stato delle cose sul Mediterraneo, e durante l'indirizzo sempre più spiccato della politica romana circa la sottomissione del continente italico, la potenza marittima decadde ancor più. 

Sino alla fine dcl quarto secolo, appena si fa parola delle navi da guerra latine, eccetto che si ricorda la nave che portò a Delfo il dono votivo tolto dalla preda fatta sui Veienti (360 == 394). Gli Anziati naturalmente continuarono il loro commercio su navi armate, per poter quindi occasionalmente esercitare anche il loro mestiere di pirati e il " corsaro tirreno ", Postumio, preso da Timoleonte nell'anno 415, potrebbe bene essere stato un Anziate; ma essi non contavano probabilmente fra le potenze marittime dell'epoca, e se pur fosse, considerando la posizione di Anzio verso Roma, questo fatto sarebbe stato tutt'altro che un vantaggio. 

Di quanto fosse scaduta la potenza marittima romana intorno all'anno 404 (= 350), lo dimostra il saccheggio delle coste latine per mezzo d'una flotta greca, probabilmente sicula, nell'anno 405 (= 349), mentre nello stesso tempo alcune bande celtiche percorrevano, mettendolo a ferro e a fuoco, il paese latino. 

L' anno dopo (406 = 348), e senza dubbio sotto l'immediata impressione di questi gravi avvenimenti, il comune romano e i Fenici di Cartagine conchiusero un trattato di commercio e di navigazione per sè e per gli alleati loro dipendenti; e questo è il più antico documento romano il cui testo, naturalmente tradotto in greco, sia pervenuto fino a noi. 

I Romani si obbligavano in esso di non navigar e, salvo nei casi di necessità, sulla costa libica ad occidente dal bel promontorio (Capo Bon); in contraccambio essi ottennero libero commercio, come gli indigeni, nella Sicilia cartaginese, e in Africa e in Sardegna almeno il diritto di vendere le loro merci ai prezzi che sarebbero stati stabiliti dagli ufficiali cartaginesi e garantiti dalla Repubblica cartaginese.

Pare che ai Cartaginesi venisse assicurato commercio libero almeno in Roma, e forse anche in tutto il Lazio, sotto la condizione di non usar violenza ai comuni latini dipendenti da Roma, e nel caso divenissero nemici, di non pernottare sul territorio latino, e quindi di non estendere le loro scorrerie nell'interno, e di non costruire fortezze nel paese latino. 

Probabilmente a quest'epoca appartiene pure il già menzionato trattato fra Roma e Taranto, e della cui origine si sa soltanto che esso fu conchiuso assai prima del 472 (= 282); col medesimo si obbligavano i Romani, non si sa contro quali promesse da parte dei Tarantini, di non navigare nelle acque a oriente del capo Lacinio, così che essi rimanevano compiutamente esclusi dal bacino orientale del Mediterraneo.

Queste erano vere sconfitte, proprio come quelle sull' Allia, ed anche il senato romano pare le abbia intese così, e il corso favorevole che le condizioni italiche presero tosto per Roma, dopo la conclusione degli umilianti trattati con Cartagine e Taranto, pare sia stato energicamente rivolto a migliorare la posizione marittima assai depressa. 

Le più importanti città della costa furono occupate da colonie romane: Pirgi, porto di Cere, la cui colonizzazione cade probabilmente in quest'epoca; sulla costa occidentale Anzio, nell'anno 415 (= 329); Terracina nell'anno 415 (=329); l'isola di P onza (441 =313); cosicchè avendo già prima Ardea e Oirceii ricevuto coloni romani, tutte le più importanti città marittime nel territorio dei Rutuli e dei Volsci divennero colonie latine o cittadine; più oltre Minturno e Sinuessa nell'anno 459 (= 295); Pesto e Cosa nel 481 (= 273); nella Lucania e sul littorale Adriatico Sena Gallica e Castro novo verso l'anno 471 (=283); Arimino l'anno 486 (= 268), e ultima l'occupazione di Brundisio subito dopo la fine della guerra pirrica. 

Nella maggior parte di queste città, nelle colonie cittadine o marittime i giovani erano dispensati dal servizio delle legioni, come quelli che erano destinati soltanto a guardia delle coste marine. 

Nel tempo stesso i privilegi ben ponderati, con cui si gratificavano i Greci della bassa Italia in confronto dei loro vicini sabellici, e specialmente i favori accordati alle più importanti comunità, come a Napoli, a Reggio, a Locri, a Turio, ad Eraclea, e l'eguale esenzione dalla leva per l'esercito di terra, concessa alle condizioni soprammentovate, formavano il compimento della rete, che i Romani tesero ed assicurarono tutt'intorno ai lidi d'Italia. 

Ma gli uomini di stato che allora reggevano la cosa pubblica riconobbero, e le posteriori generazioni avrebbero potuto prenderne esempio, che tutte queste fortificazioni litoranee e guarda-coste erano di poco momento senza una marineria da guerra che potesse tenere in rispetto i nemici. 

Dopo la sottomissione d'Anzio (416 = 338), quante galee vi si trovarono atte alla guerra vennero riarmate negli arsenali di Roma, e l'ordine preso in quello stesso tempo, che gli Anziati non potessero attendere neppure al traffico marittimo, prova chiaramente quanto i Romani si sentissero ancora deboli sul mare e come la loro politica marittima fosse ancora incerta, quand'essi occuparono le fortezze della costiera. 

Entrate che furono di poi le città greche del mezzodì nella clientela romana, Napoli la prima nel 428 (= 326), le navi da guerra, che ognuna si era obbligata di fornire ai Romani come contingente federale, servirono, se non altro, ad ingrossare quel primo nucleo, intorno a cui veniva formandosi la flotta romana. Nell'anno 443 (= 311) furono oltre a ciò, per deliberazione pubblica e presa appositamente, eletti due ammiragli (duoviri navales). 

Le forze di mare cominciarono nella guerra co' Sanniti a dar mano a quella di terra, concorrendo all'espugnazione di Nuceria. E forse si deve riferire a questi tempi anche la famosa spedizione di una flotta romana di venticinque vele per fondare una colonia in Corsica, della quale spedizione parla Teofrasto nella sua " Storia delle piante " l'anno 447 (== 307). 

Il nuovo trattato concluso con Cartagine l'anno 448 (= 306) prova però quanto poco si sia raggiunto direttamente con questi mezzi. Mentre i capitoli del primo trattato dell'anno 406 (= 348), che riferivansi all'Italia e alla Sicilia, furono conservati nel nuovo trattato, venne in esso vietato ai Romani non solo di navigare nelle acque orientali, ma anche di spingersi nel mare Atlantico, ciò che prima era stato concesso, e di trafficare coi sudditi cartaginesi in Sardegna e in Africa, e fors'anche di prendere stabile dimora in Corsica, tal che non rimanevano aperti ai commerci di Roma altri paesi fuor della Sicilia cartaginese e di Cartagine stessa. 

In tutto questo ci si manifesta la gelosia dominatrice del mare, che cresceva con l'estendersi della signoria romana sulle coste; essa costrinse i Romani a rassegnarsi al sistema proibitivo ed a lasciarsi escludere dagli scali del commercio sì nel levante che nello occidente (e forse è qui luogo di riferire quel che si racconta del premio accordato per pubblico decreto ad un marinaio fenicio, il quale, mettendo per perduta la propria barca, tirò su un banco di sabbia una nave romana, la quale lo andava seguendo sull'Oceano Atlantico). 

I Romani non poterono allora far altro che adattarsi senza però tralasciare gli sforzi per strappare la loro marineria a quello stato di impotenza in cui era venuta. Un provvedimento efficace riuscì la creazione dei quattro nuovi questori della flotta. (Quaestores classici), decretata l'anno 487 (= 267), il primo dei quali ebbe sua stanza in Ostia, porto della città di Roma; il secondo fu deputato a vigilare da Cales, allora capitale della Campania romana, i posti campani e quei della Magna Grecia; il terzo doveva da Arimino sorvegliare i porti transappennini; non si conosce quale fosse l'incombenza del quarto. 

Questi nuovi ufficiali stabili non erano incaricati solo di sorvegliare le coste e di formare una marina da guerra per difenderle, ma certo era questo uno dei loro compiti. L'intenzione del senato romano di riconquistare l'indipendenza sul mare e parte di tagliare le relazioni marittime di Taranto, parte di chiudere il mare Adriatico alle flotte venienti dall'Epiro, e parte ancora di emanciparsi dalla supremazia cartaginese, è quindi chiaramente manifesta. 

Già le relazioni con Cartagine, durante l'ultima guerra italica, mostrano qualche indizio di ciò. Bensì il re Pirro costrinse ancora una volta, e fu l'ultima, alla conclusione d'un'alleanza offensiva; ma la tiepidezza e la slealtà di questa lega, i tentativi dei Cartaginesi di stabilirsi a Reggio e a Taranto, l'immediata occupazione di Brindisi da parte dei Romani dopo la fine della guerra, dimostrano chiaramente come gli interessi delle due parti si urtassero già gravemente. 

Si comprende che Roma cercasse di appoggiarsi agli Stati marittimi ellenici nelle sue difese contro Cartagine. Con Massalia continuava ininterrotta l'antica e stretta relazione amichevole. Il dono votivo mandato da Roma a Delfi, dopo la conquista di Veio, veniva conservato nella tesoreria dei Massalioti. 

Dopo la presa di Roma, per mezzo dei Celti fu fatta in Massalia una colletta per gliincendiati, e la cassa pubblica diè prima l' esempio; in compenso di ciò il senato romano concesse poi ai mercanti massalioti alcuni privilegi commerciali, e nelle pubbliche feste dei giochi nel Foro i massalioti ebbero un posto d'onore presso la tribuna dei senatori (grmcostasis). 

Dello stesso genere sono i trattati di commercio e d'amicizia conchiusi dai Romani con Rodi nell'anno 448 (= 306), e non molto dopo con Apollonia, una ragguardevole città commerciale sulla spiaggia epirota, e principalmente l'avvicinamento di Roma con Siracusa; che aveva un grave significato per Cartagine e che ebbe luogo appena finita la guerra con Pirro. Se dunque la potenza dei Romani sul mare non segue neppur lontanamente l'enorme sviluppo della loro potenza in terra, se specialmente la propria marina di guerra dei Romani non era certamente quello che avrebbe dovuto essere secondo la posizione geografica e commerciale dello Stato, tuttavia essa incominciava a rialzarsi gradatamente dall'assoluto annichilimento in cui era caduta intorno all'anno 400 (= 354); e considerando i grandi mezzi di cui disponeva l'Italia, potevano bene i Fenici seguire con qualche preoccupazione queste tendenze.

ORIGINI ROMANE DELL'ITALIA

§  - L'ITALIA UNITA 

La crisi per la signoria sulle acque italiche si avvicinava; per terra la lotta era già decisa. Per la prima volta l'Italia fu riunita in uno Stato sotto la signoria del comune romano. Quali politici diritti il comune romano togliesse con ciò agli altri Italici, impossessandosene unicamente, cioè quale idea di diritto politico si possa associare a questa signoria di Roma, non vien detto chiaramente in nessun luogo, e manca anzi in modo significativo e chiaro un'espressione generalmente valida per questo concetto.

Certamente vi si devono comprendere i diritti di far guerra, di stipulare trattati e di batter moneta, così che nessun comune italico poteva dichiarar guerra ad uno Stato estero o trattare con esso o battere moneta, mentre ogni dichiarazione di guerra fatta dal comune romano ed ogni contratto politico da esso conchiuso legava tutte le comunità italiche, e la moneta d'argento romana aveva corso legale in tutta Italia; ed è verosimile che i diritti formulati del comune principale non andassero più oltre. 

Ora necessariamente a questi si dovevano congiungere molti altri diritti di signoria assai più estesi. Nei casi particolari le relazioni degli Italici col comune principale erano molto disuguali, e da questo punto di vista, oltre alla piena cittadinanza romana, bisogna distinguere tre diverse classi di sudditi.


Cittadinanza romana

La cittadinanza assoluta aveva tutta quell'estensione che era possibile darle senza distruggere interamente il concetto d'una Repubblica cittadina per il comune romano. Il vecchio territorio civile era stato fino allora principalmente esteso mediante le singole assegnazioni in modo che l'Etruria meridionale fin verso Cere e Falerii, i territorii sul Sacco e sull'Aniene tolti agli Ernici, la maggior parte della campagna sabina e grandi tratti di quella che era stata dei Volsci, e specialmente la pianura pontina, erano stati trasformati in territorio agricolo romano e per i loro abitanti si erano formati nuovi distretti cittadini. 

Ciò era anzi accaduto già col distretto di Falerno sul Volturno, ceduto da Capua. Tutti questi cittadini domiciliati al difuori di Roma non avevano un proprio ordinamento comunale ed una amministrazione propria; sul territorio assegnato sorgevano al più piccoli mercati (fora et conciliabula); in posizione non troppo diversa si trovavano i cittadini mandati alle cosiddette colonie marittime già menzionate, ad essi rimase pure l'assoluto diritto di cittadinanza romana e la loro amministrazione autonoma contava poco.


Estensione della cittadinanza

Verso la fine di questo periodo pare che il comune romano abbia incominciato a concedere ai prossimi comuni cittadini-passivi, di pari e di affine nazionalità, il diritto di cittadinanza assoluta; ciò che ottenne probabilmente anzitutto Tuscolo, e lo stesso accadde probabilmente anche per gli altri comuni di cittadinanza passiva nel Lazio propriamente detto, e questo principio fu quindi esteso al fine di questo periodo alle città sabine, le quali senza dubbio eran già allor a sostanzialmente latinizzate, e avevano manifestato sufficientemente la loro fedeltà nell'ultima grave guerra. 

A queste città rimase la limitata amministrazione autonoma, che già avevano nel loro precedente ordinamento giuridico, anche dopo il loro ingresso nella lega cittadina romana: i singoli comuni esistenti nell'interno della piena cittadinanza romana furono originati assai più da queste città che non dalle colonie marittime, e così nel corso del tempo da essi fu formato l'ordinamento municipale romano. 

Quindi la cittadinanza romana assoluta si sarà estesa a quest'epoca a settentrione sino nella vicinanza di Cere, a oriente fino all'Appennino, a mezzogiorno fino a Terracina, benchè naturalmente non si possa qui parlare propriamente di un confine, e che una quantità di città alleate secondo il diritto romano latino, come Tibur, Preneste, Signia, Norba e Cfrceii, si trovavano entro questi confini, e parte si trovavano al di fuori di esse; gli abitanti di Minturno, Sinuessa, quelli del territorio di Falerno, di Sena Gallica e di altri luoghi possedevano pure pieno diritto di cittadinanza, -mentre altre famiglie di cittadini romani, o isolati, o riuniti in villaggi, probabilmente si trovavano fin d'ora dispersi per tutta Italia. 


Cittadini senza suffragio

Fra i comuni soggetti stanno i cittadini passivi (cities sine suffragio), i quali, meno il diritto attivo e passivo di elezione, erano pari ai veri cittadini in diritti e in doveri. La loro protezione giuridica era regolata dalle decisioni dei comizi romani e dalle norme pronunciate per essi dal pretore romano, pure mettendo indubbiamente come fondamento di tutto ci ò gli ordinamenti durati fino allora.

Il pretore romano li giudicava oppure il prefetto, mandato in sua vece nei singoli comuni. Alle città meglio collocate, a Capua, ad esempio, rimase l'amministrazione autonoma, e così pure l'uso della propria lingua e i singoli impiegati destinati alle imposte e al censimento. 

Ai comuni di minore importanza, come, ad esempio, a Cere, fu tolta anche l'amministrazione propria, e questa senza dubbio era la forma più opprimente della sudditanza. Pure, come già abbiamo notato, alla fin e di questo periodo si mostra la tendenza di incorporare questi comuni, in quan to che erano latini di fatto, nella cittadinanza assoluta. 

La classe più favorita e più considerata fra i comuni soggetti era quella delle città latine, le quali ottennero copioso e ragguardevole incremento fra i comuni autonomi fondati dentro e anche fuori d'Italia, cioè fra le cosiddette colonie latine, e aumentarono sempre mediante nuove fondazioni di questa specie. 


Città di diritto latino

Questi nuovi comuni cittadini, di origine romana, ma di diritto latino, divennero sempre più i veri sostegni della signoria romana in Italia. Questi latini non erano già quelli, coi quali si combattè sulle sponde del lago Regillo e presso Trifano, non quegli antichi membri della lega d'Alba, che da principio si stimavano eguali se non migliori dei Romani, e che, come lo provano le severissime misure di sicurezza prese contro Preneste nei primordi della guerra pirrica, e le lunghe contenzioni, che si agitavano particolarmente con quei dell'accennata città, trovavano grave il giogo della signoria romana. 

L'antico Lazio era stato assorbito specialmente sotto Roma o da Roma, e contava solo pochi comuni indipendenti, politicamente di nessuna importanza, ad eccezione di Preneste e Tibur. 

Il Lazio della più tarda età repubblicana componevasi quasi esclusivamente dei comuni, i quali sino dalla loro origine avevano imparato a riguardar Roma come la loro metropoli, anzi come madre patria, i quali, piantati in mezzo a paesi di lingue e di costumi diversi, erano vincolati alla capitale per la comunanza della lingua, delle leggi e dei costumi, i quali, come piccoli tiranni dei paesi circonvicini, erano costretti di tenersi uniti con Roma per la propria esistenza, come i posti avanzati tengono al grosso dell'esercito, i quali alla fine dai crescenti vantaggi materiali dei cittadini romani traevano pur essi grandissimo utile, giacchè, mercè il loro pareggiamento politico coi Romani, sebbene limitato, tenevano, ad esempio, come usuari una parte dei domini pubblici, ed era loro permesso come ai cittadini romani di concorrere agli appalti dello Stato.


Venusia e Benevento

Nemmeno qui furono evitate interamente le conseguenze della indipendenza loro concessa. Inscrizioni venusine dal tempo della Repubblica romana ed altre beneventane, venute da poco alla luce, insegnano che Venusia ha avuto, come Roma, la sua plebe e i suoi tribuni del popolo. E che ufficiali superiori di Benevento, almeno all'epoca della guerra con Annibale, portavano il titolo di console. 

Entrambi questi comuni appartengono alle più recenti fra le colonie latine di antico diritto; si vede quali esigenze si destassero in essi alla metà del quinto secolo: anche questi cosiddetti latini, derivati dalla cittadinanza romana, e che sotto ogni aspetto si consideravano pari ad essi, incominciavano già a sentire malvolentieri il loro diritto di alleanza subordinato, e già tendevano al pareggiamento assoluto. 

Perciò quindi il senato era affaccendato ad opprimere quant'era possibile, nei loro diritti e privilegi, questi comuni latini, e di trasformare la loro posizione di alleati in quella di sudditi, almeno in quanto che ciò poteva accadere senza togliere la barriera che esisteva fra quelli e i comuni non-latini d'Italia.

 L'abolizione della lega dei comuni latini, come pure quella del pareggiamento giuridico d'un tempo e la perdita dei più importanti diritti politici, sono già stati narrati; con la compiuta sottomissione d'Italia si fece pure un passo a vanti e si incominciò a limitare pure anche i diritti individuali del singolo uomo latino, e specialmente quello importante del libero andare e venire. Per il comune di Arimino, fondato nell'anno 486 (= 268), come pure per tutti i comuni autonomi privato, e a quello dei cittadini romani in commercio, cambiamento di domicilio e diritto di successione.

Probabilmente intorno a questo tempo fu limitato il pieno diritto concesso prima ai già fondati comuni latini, per il quale ogni cittadino, che si trasferisse a Roma, vi poteva acquistare l'assoluta cittadinanza, e per le colonie latine, fondate più tardi, questo diritto venne elargito solo a quelle persone che nella loro patria erano giunte alla suprema carica nella Repubblica; soltanto a queste fu permesso di scambiare il loro diritto coloniale di cittadinanza col romano. Qui appare chiara la compiuta trasformazione della posizione di Roma.


Roma

Finchè Roma rimase bensì il primo, ma pur sempre uno dei tanti comuni italici, l'ingresso nell'illimitato diritto di cittadinanza romana venne considerato come un guadagno per il comune accogliente, e l'acquisto di questo diritto di cittadinanza era stato facilitato in tutti i modi ai non-cittadini, anzi qualche volta era stato loro imposto come punizione. 

Ma dacchè il comune romano imperava da solo e tutti gli altri gli servivano, le condizioni si invertirono: il comune romano incominciò a conservare gelosamente il suo diritto di cittadinanza, e fece così cessare l'antica libertà di andare e venire; benchè gli uomini politici di quest'epoca fossero pure abbastanza intelligenti di aprire legalmente almeno ai più insigni uomini dei più alti comuni soggetti l'ingresso di diritto di cittadinanza romana. 

Anche i Latini quindi ebbero a provare che Roma, dopo avere principalmente col mezzo loro sottomessa l'Italia, non aveva ora più, come prima, bisogno di loro. Le relazioni poi tra Roma e le comunità federate che non avevano il diritto latino, andavano soggette, come si può facilmente immaginare, alle più variate norme, appunto come le speciali convenzioni federative da cui nascevano. 

Parecchie di queste eterne leghe, come ad esempio quella dei comuni emici, e quelle di Napoli, di Nola, di Eraclea, garantivano diritti larghissimi, specialmente in paragone del modo con cui erano governate altre comunità, che pure erano legate a Roma da patti federali, i quali però, come ad esempio quei di Taranto e del Sannio, dovevano condurre ad un quasi assoluto dispotismo.

Del resto si deve credere che fu una massima generale di politica dichiarare sciolto il diritto e annullati di fatto tutti i consorzi particolari tra i popoli italiani, come erano già state sciolte le federazioni tra i Latini e quella degli Emici, di cui parla la tradizione; e questa massima ha dovuto essere rigorosamente applicata a tutte le altre leghe, di modo che nessuna comunità italiana conservò la facoltà di porsi in relazione politica colle altre comunità, come non era pur concessa la libertà dei connubii di cittadini di comunità diverse e la facoltà di consultare e prendere deliberazioni insieme.


Comunità federate non-latine

Si sarà inoltre fatto il possibile che le forze materiali di tutte le comunità italiche, in modi varii, secondo i casi e le diverse costituzioni, fossero tutte messe a disposizione del comune egemonico. Sebbene continuassero sempre a considerarsi come parte integrante ed essenziale dell'esercito romano, i soldati cittadini da un lato, dall'altro i contingenti " di nome latino " e sebbene con ciò si volesse conservare all'esercito il suo carattere nazionale, furono tutta via chiamati ad ingrossarlo, non solo i cittadini passivi romani, ma anche le comunità federate non-latine, le quali erano obbligate o a fornire navi da guerra, come le città greche, o a dar milizie di leva, in proporzione dei registri che tenevano nota di tutti gli italiani (formula togatorum), come o subito dopo la conquista, o a poco a poco deve essere stato prescritto per i comuni pugliesi, sabellici ed etruschi. 

Pare che questa misura del contingente sia stata stabilita dappertutto secondo norme fisse, appunto come quelle del contingente latino, senza però che Roma si legasse le mani, nè potesse, in caso di bisogno, chiamare maggior numero di soldati. Questi contingenti riuscivano nel tempo stesso una imposta indiretta, poichè ogni comune aveva l'obbligo di dar il soldo e il fornimento dei suoi soldati. 

Non senza ragione furono quindi assegnate di preferenza le più dispendiose prestazioni di guerra ai comuni latini o ai federali non-latini, la marineria di guerra fu lasciata a carico delle città greche, e nella cavalleria furono numerosi, almeno coll'andar del tempo, i federati in tripla proporzione dei cittadini romani, mentre per la fanteria fu mantenuta, almeno per lungo tempo, l'antica massima, che il contingente federale non dovesse superare mai di numero l'esercito cittadino. 


§ - SISTEMA DI GOVERNO 

Colle scarse notizie che ce ne giunsero non potremmo specificare il sistema con il quale questo edifizio fu connesso e tenuto assieme. E non sapremmo nemmeno per approssimazione fissare la ragione numerica in cui stavano le tre classi dei sudditi tra loro e in confronto dei cittadini originari, e così si conosce solo imperfettamente la distribuzione geografica di queste categorie nelle diverse regioni italiche. 

I concetti che servirono di base a quest'edifizio sono invece così chiari, che non occorre consumare intorno troppe parole. Prima di tutto fu esteso il territorio del comune dominante alla maggior distanza possibile per non iscardinare Roma, che era e doveva rimanere una repubblica urbana. 

Quando poi il sistema di effettiva incorporazione nella città toccò i confini, che le erano assegnati dalla possibilità effettiva di coesistenza urbana, confini che furono anche troppo allargati, le comunità, che vennero di poi aggregandosi alla città di Roma, furono costrette di rassegnarsi ad una condizione di sudditanza, poichè la semplice egemonia nello interno assestamento d'uno Stato è impossibile. 


Fine delle federazioni italiche

Così venne formandosi a fianco della classe di cittadini dominanti una seconda classe di cittadini sudditi, non già per ingordigia di potere e istinto dispotico dei Romani, ma per l'irresistibile forza delle cose.  Nè può negarsi del resto, che fra le arti della signoria romana non fosse prima fra tutte quella di dividere i sudditi, come si fece, sciogliendo le federazioni italiche, istituendo gran numero di comunjtà di poco conto e graduando la gravezza del dominio secondo le diverse categorie dei sudditi. 

Nel modo stesso che Catone governava la sua famiglia in modo da non permettere che gli schiavi fossero in troppa concordia tra loro, e anzi si studiava di mantener vivi i dissidii e le gare, così faceva anche Roma; il mezzo non era bello, ma era efficace. 

E una più larga e generale applicazione di questo politico avvedimento produsse la ricostituzione di quant'erano le comunità vassalle sullo stesso tipo di Roma, per modo che il governo dei municipii rimanesse affidato alle famiglie nobili e ricche, le quali naturalmente vennero a trovarsi in più o meno recisa opposizione colle moltitudini, e che tanto a cagione dei loro interessi economici, quanto della loro situazione politica, nel comune, non potevano far altro che appoggiarsi su Roma. 

CAPUA VETERE

Capua

Ne abbiamo chiarissimo esempio nel modo con cui vennero assestate le cose a Capua, la quale, siccome pareva la sola fra le città italiane che potesse competere con Roma, così fu trattata fin da principio colla più previdente diffidenza. Della nobiltà capuana si fece, sotto ogni aspetto, un corpo privilegiato; tribunali speciali, luoghi distinti per raccogliersi a consulta, e persino larghi assegni sull' erario della comunità; v' erano mille e seicento pensionari, a ciascuno dei quali si dovevano pagare 450 stadelli (circa 200 talleri). 

Furono questi cavalieri campani quelli che, stando fuori della grande sollevazione latino-campana nel 414 (= 340), in gran parte ebbero il merito di farla riuscire a vuoto; furono le loro buone spade che decisero nel 459 (= 295), la vittoria di Sentino; mentre invece i fanti campani furono i primi nella guerra pirrica a voltarsi contro Roma togliendole Reggio. 


Volsinii

Un altro documento importante per conoscere come Roma sapesse l'arte di approfittare dei dissensi intestini dei suoi sudditi, dando nel suo proprio interesse favore agli ottimati, lo troviamo nel modo con cui aggiustò Volsinii nell'anno 489 (= 265 ). 

In questa città, come a Roma, pare che dopo le solite lotte fra antichi e nuovi cittadini, si fosse stabilita l'eguaglianza politica delle due classi. Ma gli anziani ricorsero al senato romano pregandolo di restaurare gli antichi ordinamenti della città; e questo, a quelli che reggevano allora Volsinii, parve, ed era giusto, caso di delitto, di cui furono chiamati a scolparsi coloro che avevano fatto quelle pratiche con Roma. 

Il senato sostenne gli anziani, e siccome quelli di Volsinii non seppero acconciarsi a quella intromissione, i Romani non solo abolirono gli ordinamenti, coi quali si reggeva Volsinii, ma rasero al suolo la città che era stata capitale dell'Etruria; esempio tremendo che mostrava agli Italiani ciò che importasse la signoria di Roma.


Esenzione delle tasse

Si deve però notare che il senato romano aveva troppo senno per non sentire come non vi fosse altra via per rendere durevole l'assoluta podestà che la moderazione di quei che l'usano. Perciò alle comunità venute in soggezione di Roma, in luogo dell'indipendenza che avevano perduta, o fu accordato il pieno diritto di cittadinanza romana, o un reggimento proprio che riuniva in sè i vantaggi più reali di partecipare alla grandezza militare e politica di Roma, e soprattutto di aver e una liberissima costituzione comunale; negli Stati federali d'Italia non si trova indizio d'una comunità d'iloti. 

Per questo Roma fin da principio rinunciò, con una magnanimità di cui non si trova esempio nella storia, al più odioso di tutti i diritti politici, quello di imporre gravezze ai sudditi. Tutt'al più si può supporre che fu posta qualche angheria sui paesi celtici soggetti a Roma, ma entro la confederazione italica non esisteva alcun comune tributario. 


I bottini di guerra

Per lo stesso motivo, se fu imposto a tutti i soci e sudditi il dovere di concorrere alla difesa dello Stato, non ne furono esenti i cittadini del comune dominante, anzi, in proporzione, essi ne furono assai più gravati che la confederazione, e in questa probabilmente il complesso dei latini più ancora che non i comuni non la tini della lega; così che poi, nel ripartire le prede di guerra, parve quasi giusto che prima venisse Roma, poi i Latini, ultimi gli altri. 

A vigilare quella moltitudine di comuni soggetti, affinchè tenessero in numero le milizie e le inviassero a tempo, il governo romano provvedeva, o col mezzo dei quattro questori italici, o estendendo la giurisdizione della censura romana a tutte le comunità italiane. 

Ai questori della flotta, oltre gli ordinari uffici, fu dato incarico di riscuotere le rendite dei nuovi domini, e di riscontrare se fossero a ruolo tutti i contingenti dei nuovi soci; furono questi i primi ufficiali romani che per legge avessero sede o giurisdizione fuori di Roma, e che di necessità si trovassero in mezzo fra il senato r omano e le comunità italiane. 


Censimento

I supremi magistrati d'ogni comunità italiana, sotto qualunque nome venissero, erano obbligati di fare il censimento ogni quattro o cinque anni: istituzione che certo doveva ricever e le mosse da Roma, e che non poteva avere altro scopo se non quello di fornire al senato un quadro compendioso delle forze militari e delle pubbliche ricchezze di tutta Italia in corrispondenza al censimento romano. 

Con questa unione militare amministrativa di tutte le genti stanziate di qua dell'Appennino sino al capo Iapigico e allo stretto di Reggio, comincia a stabilirsi e a divulgarsi anche un nome nuovo e comune a tutte queste popolazioni, quello cioè di " uomini togati ", che è la più antica designazione dei Romani e degli Italici, la quale si trovò originariamente usata dai Greci, e che venne poscia ordinariamente adottata. 

Le diverse nazioni che abitavano queste regioni devono per la prima volta aver avvertito la loro unità, e devono essersi sentite congiunger e fra loro da una forza naturale, sia per contrapporsi agli Elleni, e ciò anche più frequentemente e più risolutamente, per difendersi contro i Celti; poichè se pure accadeva talvolta che qualche comune italiano facesse causa comune con i barbari contro Roma e cercasse approfittare di quest'occasione per ricuperar e la perduta indipendenza, il sentimento nazionale prevaleva. 

Nel modo che il paese gallico sin nei tempi più tardi ci si presenta come la legale antitesi del paese italico, anche gli " uomini togati " sono così chiamati per antitesi ai Celti " uomini bracati " (bracati) ; ed è possibile che per ottenere l'accentramento delle forze militari d'Italia nelle proprie mani, Roma abbia in tutte le pratiche fatto valere principalmente, come causa, o come pretesto, la necessità di difendersi contro le invasioni celtiche. 



§  - L'ITALIA, DOMINIO DI ROMA

Così durante le lunghe e ripetute guerre, nelle quali i Romani si mettevano alla testa della difesa nazionale, e obbligarono poi gli Etruschi, i Latini, i Sabelli, gli Apuli e gli Elleni a concorrervi secondo le loro forze e dentro i confini loro assegnati di volta in volta, quella unità, che sino allora era stata vacillante e più che altro virtuale, acquistava una saldezza definita e basata sul diritto pubblico, e il nome d'Italia, che in origine, anzi sino al quinto secolo, gli autori greci davano solo al paese che ora si chiama Calabria, come può vedersi in Aristotile, venne anche esteso a tutte le regioni abitate dalla gente togata. 

I più antichi confini della federazione militare capitanata da Roma, che è come dire della nuova Italia sui lidi occidentali, non giungevano alla foce dell'Arno, fermandosi vicino al luogo dove ora sorge Livorno, e sui lidi orientali toccavano l'Esino poco sopra Ancona; i luoghi posti fuori di questi confini, colonizzati da Italici, come Sena Gallica e Arimino al di là dell'Appennino, e Messana in Sicilia, erano considerati nella geografia politica come fuori d'Italia, benchè fossero ammessi, come Arimino, nella confederazione, o fossero, come Sena, comunità col diritto di cittadinanza romana. 

Tanto meno poi potevano riguardarsi come paesi italiani quelli abitati dai Celti posti oltre l'Appennino, benchè forse alcuni di quei paesi fossero già fin d'allora nella clientela di Roma. La nuova Italia adunque era diventata una unità politica, ed era avviata a diventare una unità nazionale. 

Già la nazionalità latina dominante si era assimilata i Latini e i Volsci ed aveva sparsi numerosi comuni latini su tutta l'Italia; fu solo lo sviluppo di questi germi che col volgere degli anni contribuì a fare della lingua latina l'idioma di tutti coloro che portavano la toga latina. Che poi i Romani riconoscessero già fin d'ora chiaramente questo scopo, lo dimostra l'estensione consuetudinale del nome latino su tutta la confederazione italica obbligata al servizio militare.


Edificio politico romano

Ciò che si può ancora riconoscere di questo grandioso edifizio politico, rivela ancora l'alta intelligenza politica dei suoi numerosi architetti e la non comune solidità che questa confederazione, composta di tanti e così diversi elementi, ha conservato più tardi nelle scosse più gravi, impresse al suo alto valore il suggello del successo. 

Dopochè le fila di questa rete non meno fina che forte, avvolgente tutta l'Italia, furono tutte raccolte nelle mani del comune latino, questo divenne una grande potenza e nel sistema degli Stati del Mediterraneo sottentrò a Taranto, alla Lucania, e alle altre piccole e mediocri repubbliche che le ultime guerre avevano cancellato dal numero delle potenze. 

Questa nuova posizione di Roma venne in certo modo ufficialmente riconosciuta dalle due solenni ambascerie che nell'anno 481 (= 273) andarono da Alessandria a Roma e poi da Roma ad Alessandria, e benchè esse non avessero da regolare altro che le relazioni commerciali, pure prepararono senza alcun dubbio un'alleanza politica. 

Come Cartagine lottava col Governo egiziano per il possesso di Cirene, e presto avrebbe dovuto lottare coi Romani per il dominio della Sicilia, così la Macedonia disputava all'Egitto il predominio della Grecia, e in breve doveva contendere con Roma per la signoria delle coste adriatiche; nè poteva mancare che le nuove lotte, che si andavano preparando da ogni parte, non si intralciassero, e che Roma, come padrona dell'Italia, non fosse trascinata nel vasto circo che le vittorie e i disegni del grande Alessandro avevano lasciato aperto alle gare dei suoi successori.

(STORIA ANTICA ROMANA . Theodor Mommmsen)

THEODOR MOMMMSEN

Theodor Mommsen

Giurista di formazione, Mommsen dedicò le sue ricerche principalmente a tre campi:
- la storia di Roma antica, di cui è tuttora considerato uno dei più insigni specialisti e in cui produsse il suo capolavoro, la Storia di Roma che gli valse il Nobel;
- l'epigrafia romana, pioniere e promotore dell'impresa scientifica ed editoriale del Corpus Inscriptionum Latinarum [CIL], per raccogliere e pubblicare tutte le iscrizioni latine;
- il diritto romano, disciplina di cui fu anche docente e a cui dedicò importanti saggi e trattati.

Gli vennero conferiti:
- nel 1902 il Premio Nobel per la letteratura per la monumentale opera sulla storia di Roma Römische Geschichte.
- Per la sua attività di numismatico nel 1895 gli fu assegnata la medaglia della Royal Numismatic Society.
- Nel 1871 ricevette la Medaglia dell'Ordine di Massimiliano per le scienze e le arti.
- Gli venne dedicato l'asteroide 52293 Mommsen.


BIBLIO

Teodoro Mommsen - Storia di Roma Antica - Gli Italici contro Roma --

SAN LORENZO IN DAMASO

$
0
0

La Chiesa di San Lorenzo in Damaso, in Piazza della Cancelleria, è nota sin dall’antichità, dal sinodo di papa Simmaco, come Titulus Damasi. Secondo la tradizione San Lorenzo in Damaso fu costruita per la prima volta da papa Damaso I nella sua casa verso il 380 d.c..

L'edificio sacro compare come un'antica basilica civile romana, cioè una struttura a tre navate divise da pilastri (però quadrangolari), precedute da un vestibolo a cinque navate. Nel primo vestibolo c'è la tomba di Alessandro Voltrini, opera del Bernini (1598-1680), mentre nel secondo vestibolo c'è una statua di Carlo Borromeo opera di Stefano Maderno (1576-1636).

Nel vestibolo, a destra, c'è una cappella disegnata da Nicola Salvi, lo scultore di fontana di Trevi. Sempre nel vestibolo, a sinistra c'è la cappella del Sacramento, affrescata da Andrea Casali (1705-1784). La navata centrale termina con un'abside semicircolare, al centro della cui conca si trova un grande dipinto ad olio di Federico Zuccari (1540-1609) raffigurante l'Incoronazione di Maria e santi.

STATUA DI SANT'IPPOLITO

Al disotto dell'altare maggiore, che è sormontato da un ciborio neoclassico, sono custoditi i corpi
dei santi Eutichiano e Damaso, mentre alla sua sinistra c'è una statua di sant'Ippolito, copia di
quella che si trova nel Museo lateranense.

Il Palazzo della Cancelleria, di splendida architettura rinascimentale, fu iniziato intorno al 1485 per volere del cardinale Raffaele Riario, nominato da papa Sisto IV, suo zio, titolare della basilica di S. Lorenzo in Damaso. Avere un parente Papa era una benedizione per le famiglie aristocratiche, perchè questi nominava a raffica cardinali e vescovi i propri parenti, affidandogli i proventi di chiese e tenute varie, arricchendoli più di quanto fossero già benestanti.

I lavori, a cui secondo il Vasari prese parte il Bramante, comportarono la distruzione della precedente chiesa (che venne ricostruita ed inglobata nel nuovo edificio) e si conclusero, tra il 1511 ed il 1513, sotto il pontificato di Giulio II Della Rovere, il cui stemma araldico è visibile ai lati della facciata insieme a quello di Sisto IV, anch’egli appartenente alla famiglia Della Rovere. Ma poco dopo il suo completamento l’edificio venne confiscato ai Riario per divenire sede della Cancelleria Apostolica.

CERIMONIA MITRIACA


IL MITREO ROMANO

Ebbene, la chiesa è costruita su un mitreo romano; tagliati e deturpati dalle fondazioni del palazzo sono non solo il Mitreo, ma pure un cimitero cristiano in uso dall'VIII secolo fino a poco prima della costruzione dei palazzo. e le vestigia di una grande basilica paleocristiana che la tradizione vuole costruita sulla domus di Papa Damaso I (305-384).

Scavi sotto il cortile del palazzo della Cancelleria nel 1988 – 1991 hanno rivelato le fondazioni del IV e V secolo) della grande basilica fondata da papa Damaso I, una delle più importanti chiese paleocristiane di Roma. La chiesa paleocristiana aveva come particolarità una navata trasversale (transetto) posta dietro l'abside, sicché la basilica appariva circondata da portici.

IL LAGO SOTTERRANEO


LAGO SOTTERRANEO A PALAZZO DELLA CANCELLERIA

Scavi condotti intorno alla fine degli anni trenta nelle cantine del palazzo della Cancelleria
Apostolica hanno rivelato, agli occhi increduli degli operai, i resti di un sepolcro romano
sommerso da un placido laghetto color smeraldo, profondo dai 3 ai 6 metri.

IL LAGO
Il laghetto si è formato a seguito dell’ostruzione dell’ Euripus, canale impiegato per regolare il livello dell’acqua dello Stagnum Agrippae, la grande natatio (piscina per il nuoto) delle Termedi Agrippa alimentate dall’acqua Virgo.

L’Euripus attraversava tutto il Campo Marzio prima di gettarsi nel Tevere all’altezza
dell’attuale Ponte Vittorio Emanuele II, lì dove un tempo era il ponte di Nerone, e dove ora
sono gli alti muraglioni del Tevere che occludendo lo sbocco del canale hanno contribuito a
formare il suggestivo laghetto ipogeo alimentato anche dall’acqua di falda.

Numerosi sepolcri affacciavano lungo il canale dell’Euripus, costruiti per commemorare
la memoria degli estinti senza contenerne le spoglie mortali. Tra questi, inabissato sotto il palazzo della
Cancelleria è il sepolcro di Aulo Irzio, luogotenente di Cesare, scoperto casualmente nel 1938, attualmente in gran parte sommerso dalle acque dell’Euripus.

PREGEVOLI BASSORILIEVI ROMANI DEL PALAZZO

Con la costruzione dei muraglioni sul Tevere alla fine dell’Ottocento, furono ostruiti gli sbocchi al fiume dell’Euripus e di altri canali di scarico della zona, provocando così l’innalzamento e il ristagno delle acque. Il sepolcro, tagliato in parte dalle fondazioni del Palazzo della Cancelleria, è costituito da un recinto con basamento in tufo, da un muro in laterizi e da una copertura a doppio spiovente in travertino.

Alcuni cippi che delimitavano l’area funeraria, riportano il nome del console Aulo Irzio, luogotenente di Cesare morto insieme al collega Vibio Pansa nella battaglia di Modena contro Antonio del 43 a.c. Dopo l’eroica morte dei due consoli, il Senato romano decretò che fossero costruiti per loro due sepolcri nel Campo Marzio a spese pubbliche.

La tomba di Vibio Pansa dovrebbe dunque trovarsi nelle immediate vicinanze. Appoggiate al sepolcro furono inoltre rinvenute alcune lastre scolpite a rilievo, la cosiddetta "Ara dei Vicomagistri" di epoca claudia (41-54 d.c.) e i due rilievi della Cancelleria dell’epoca di Domiziano (81-96 d.c.). Queste opere, tra le più importanti dell’arte romana, sono esposte ora ai Musei Vaticani, mentre nel palazzo della Cancelleria sono conservati i calchi.

AFFRESCHI DEL VASARI CON CENSURA SULLE NUDITA'

Si narra che il palazzo della Cancelleria venne costruito dal cardinal Raffaele Riario, nipote e cancelliere di papa Sisto IV della Rovere, grazie alle sue vincite di una singola notte di gioco. Forse il titolo di cardinale non era sufficiente per inculcare una vita di virtù e moderazione cristiana.

Alla realizzazione del palazzo (1485-1515) contribuirono diversi architetti fra cui Baccio Pontelli, Andrea Bregno e Donato Bramante, al quale sono attribuiti anche l’esecuzione del cortile, che è tra le
più alte manifestazioni architettoniche del Rinascimento, e il restauro della contigua chiesa di
San Lorenzo in Damaso.

Nel 1546 il cardinal Alessandro Farnese commissionò a Giorgio Vasari di celebrare la memoria
di papa Paolo III Farnese decorando ad affresco la volta del salone centrale del palazzo. Quando
Vasari si vantò con Michelangelo di aver terminato il lavoro in soli 100 giorni, questi ironico
rispose: “E si vede!”.

Ma si sa che da un lato Vasari era bravissimo, e dall'altro Michelangelo, pur nella sua assoluta eccellenza, non aveva un buon carattere e peccava, senza motivo, di un po' di invidia.

BIBLIO

- Pietro da Cortona, A Design for a Quarantore - at San Lorenzo in Damaso -
- M. Armellini - Le chiese di Roma dal secolo IV al XIX -
- Frommel, Christoph Luitpold - L'architettura del Rinascimento italiano - Skira - 2009 -

LA NAVE DI ENEA

$
0
0
LA NAVE DI ENEA

ENEA

Fuggito dalla bellissima Troia ormai in fiamme, l’eroe troiano Enea. figlio della Dea Venere e del mortale Anchise, intraprende un lungo viaggio che lo porterà a toccare diverse sponde del Mediterraneo; sbarcherà in Sicilia, poi sarà sbattuto da una tempesta in Africa, e qui intreccerà una storia d’amore con la regina fenicia Didone, anch’essa esule, anch’essa impegnata a costruire nuove mura per i suoi compagni.

Enea, spinto dagli Dei a riprendere il mare, giungerà infine sulle coste del Lazio, dove lo attende una sposa di stirpe regale, la dolcissima Lavinia, ma anche una guerra per ottenere la sua mano; infine, dall’unione dell’eroe troiano e della principessa italica discenderà una stirpe destinata a raggiungere il proprio culmine, di lì a molti anni, nei due gemelli Romolo e Remo, fondatori della città di Roma che il fato chiama a governare su tutto il mondo conosciuto.

E' il grande poeta latino Virgilio, nella sua Eneide, a narrare della guerra di Troia, da cui il Enea doveva salvarsi, mentre altri grandi eroi come Achille o Ettore muoiono sul campo. Lo annuncia Posidone, nell’Iliade: allorché, intervenendo per sottrarre Enea ad uno scontro con Achille dal quale non sarebbe uscito vivo, spiega come Zeus abbia ritirato il suo favore a Priamo e alla sua stirpe, votandoli alla cancellazione, mentre Enea avrebbe avuto sorte migliore.

Enea fugge: dalle coste settentrionali della Grecia alla Sicilia e poi all’Italia, e nei secoli successivi saranno molte le città che si attribuiranno un’origine troiana, o i templi che si pretenderanno fondati dagli esuli frigi, così come si moltiplicheranno le tombe di Anchise e gli stessi sepolcri di Enea. Quel che è certo è che dalla sua progenie nascerà la città a cui tutti i popoli si inchinarono, l'eterna Roma.


PROCOPIO DI CESAREA

NAVALIA DELLA NAVE DI ENEA

Procopio di Cesarea (490 Costantinopoli - 560 circa), fu uno storico e generale bizantino, ma pure
avvocato, retore e sofista. Divenne consigliere del generale Belisario nel 527. Prese parte alla guerra iberica (526-532) contro i Sasanidi e alla guerra vandalica (533-534) contro i Vandali.

Procopio racconta poi di essere stato accompagnato dai pochi Romani del VI secolo residenti a Roma, che a stento vivevano ancora nell’ Urbe, a visitare lungo le rive del Tevere un arsenale navale o Navalia, dove pare essere stata conservata la nave di Enea con la quale l’eroe Troiano arrivò sulle rive del Lazio, circa 15 secoli prima dei fatti narrati, per compiere il suo destino.

Procopio inizia il suo racconto della visita all’ arsenale e alla nave, facendo prima gli elogi ai Romani dell’ epoca, come quelli, tra tutti i popoli, più amanti della propria Città, e così prosegue, Libro IV, Tomo XXII :

“Eppure più di ogni altro popolo, a nostra notizia, i Romani sono affezionati alla loro città e si dan premura di mantenere e di conservare ogni cosa patria, perchè nulla dell’ antica bellezza di Roma vada perduta. Ed invero, per quanto lungamente subissero l’ influsso barbarico, riuscirono a salvare gli edifici pubblici e la maggior parte dei pubblici ornamenti, quanti per si gran tratto di tempo, grazie al genio dei loro autori, poterono resistere, benché trasandati, come pure quanti monumenti o ricordi rimanessero della loro prosapia, fra i quali la nave di Enea, fondatore della città, esiste tuttavia, spettacolo oltre ogni credere interessante. 

ADDIO DI VENERE AD ENEA - TIEPOLO

Per quella fecero nel mezzo della città un cantiere sulla riva del Tevere, ove collocata da quel tempo, la conservano. Come essa sia fatta io, che l’ho vista, vengo a riferire. Ha un solo ordine di remi quella nave ed è assai estesa. Misura in lunghezza 120 piedi e in larghezza 25 ( circa 36 metri per 7,5 metri ), ed è alta tanto è possibile senza impedire la manovra dei remi. I legni che la compongono non sono nè incollati fra loro nè tenuti insieme per mezzo di ferri, ma sono tutti quanti di un solo pezzo, fatti sopra ogni credere ottimamente e quali a nostra notizia, non se ne vider mai se non in quella sola nave. 

Poiché la carena cavata da un sol tronco va da poppa a prua insensibilmente divenendo cava in modo mirabile e quindi nuovamente a poco a poco ridiviene retta e protesa. Tutte le grosse costole poi, che vengono adattate alla carena, si estendono ciascuna dall’ uno all’ altro fianco della nave, ed anche queste partendo da ambedue i bordi, si adagiano formando una curva d’assai bella forma, in conformità della curvatura della nave, sia che la natura stessa secondo i bisogni del loro uso abbia dato a quei legni già da se quel taglio e quella curvatura, sia che, con arte manuale e con altri ordigni, di piani fossero quei regoli fatti curvi. 

Inoltre ognuna delle tavole partendo dalla cima alla poppa giunge all’ altra estremità della nave, tutta di un sol pezzo e fornita di chiodi di ferro unicamente all’uopo d’essere commessa con la travatura in modo da formare la parete. Questa nave così fatta è mirabile a vedere più di quello che possa dirvi in parole; ed invero tutte le opere straordinarie sono sempre per natura difficili a descrivere, e tanto superiori al linguaggio quanto lo sono all’ ordinario pensiero. 

Di questi legni non ve n’è uno che sia imputridito, niuno che si vegga tarlato, ma quella nave sana in tutto ed integra come se uscisse pur ora dalle mani dell’ artefice, quale egli fosse, conservasi mirabilmente fino a questi giorni; e tanto sia detto di questa nave di Enea. "

(Procopio di Cesarea)

L'APPRODO DI ENEA SULLE COSTE LAZIALI

RODOLFO LANCIANI

NAVALIA

Sorgevano in quella parte del Campo Marzio, presso il Tevere, che è di fronte al monte Vaticano (Liv. 3, 26. Plin. nat. hist. 18, 20); specie di banchine della cui esistenza non si ha notizia prima del dittatore Lucius Quinctius Cincinnatus (Liv. 1. c), e in cui più che costruirsi, si conservavano le navi dello Stato (Liv. 8, 14, 12 ;45, 42, 12. Pint. Cato min. 39). 

Alia metà del secolo i a.c. fu amplificata dall'architetto greco Herraodorus (Cic. de or. 1, 14, 62). Procopio narra di avervi veduto ancora la nave con cui Enea venne in Italia (Goth. 4, 22). In relazione coi medesimi era certo la Porta navalis ricordata da Paolo Diacono (p. 179). 

(Rodolfo Lanciani)

I NAVALIA A ROMA

ANDREA CARANDINI

LA NAVE DI ENEA E IL SUO RICOVERO

I Greci per molto tempo hanno ignorato la leggenda di Roma e così si erano figurati che la città fosse stata fondata da Enea. Al contrario, nessuno storico romano ha mai creduto ciò, salvo Sallustio in una sua punta ellenizzante. ­­­­­

Quindi, mentre Enea era venerato a Lavinio, dove in una tomba di un re locale era stata riconosciuta intorno al 575 a.C. la sua tomba, a Roma si venerava Romolo, forse alla sua casa sul Cermalus, nel Volcanal al foro, dove il re era stato ucciso e squartato dai suoi consiglieri, e sul Quirinale, dove era il culto del dio Quirino al quale il fondatore era stato assimilato.

Invece nessun culto di Enea fondatore esiste a Roma. Esisteva tuttavia una sua memoria: la nave con la quale sarebbe approdato nel sito di Roma. Procopio (La guerra Gotica, 4.22.8) racconta di aver visto, lungo il Tevere e in mezzo alla città, un ricovero navale in cui era ospitata la reliquia integra della nave di Enea, nella descrizione della quale (un ordine di remi, lunga 120 e larga 25 piedi, ecc.) è possibile riconoscere una pentecontoros, cioè una nave di tipo arcaico.

Nei prata Flaminia, tra la aedes Castoris e il teatro di Marcello, davanti a magazzini porticati affacciati sul Tevere, era un edificio strano, lungo e stretto. Verso est era un’area di accesso circondato su tre lati da colonne, una scalinata affiancata da muri che culminavano in una esedra semicircolare, che forse conteneva una statua dell’eroe: un heroon di Enea?

Dietro l’esedra era il ricovero in cui era conservata la nave attribuita all’eroe. Abbiamo ricostruito il monumento, integrando la Forma Urbis Severiana, solo in parte conservata, immaginando un edificio sul genere dei navalia, anche perché in questa zona prospicente l’isola Tiberina erano stati un tempo i primi navalia (Livio, 3.26.8, 45.42.12; Valerio Massimo, 1.8.2).

Lì vicino, nel 291 a.c., aveva attraccato anche la trireme che aveva trasportato il serpente sacro da Epidauro, come mostra un medaglione di Antonino Pio.

L’edificio da noi identificato come il ricovero della nave di Enea, disposto in uno spazio non rettilineo, dove il Tevere ­­­­­piegava, fa pensare a un assetto non anteriore alla seconda metà del i secolo a.c., quando i navalia erano stati qui in gran parte smantellati.

Potrebbe trattarsi di una riviviscenza della leggenda di Enea a Roma, che bene si inquadrerebbe al tempo di Augusto, quando Virgilio nel libro viii dell’Eneide (29-19 a.c.) ha descritto Evandro che accoglie Enea approdato a Roma.

(Andrea Carandini)


BIBLIO

- Filippo Coarelli - Navalia, Tarentum e Campo Marzio - Studi di topografia romana - Roma - De Luca 1968 -
- Lucos Cozza - Pier Luigi Tucci - Navalia . Archeologia Classica - Erma di Bretschneider - 2006 -
- Christina Wawrzinek - In portum navigare: Römische Häfen an Flüssen und Seen - De Gruyter Akademie Forschung - 2014 -- Pier Luigi Tucci - Lucos Cozza - Navalia - Archeologia Classica 57 - 2006 -
- David Potter -The Roman Army and Navy - in Harriet I. Flower - The Cambridge Companion to the Roman Republic - Cambridge University Press - 2004 -

NINFEO DEGLI ANNIBALDI

$
0
0


Un ninfeo è in origine un edificio sacro dedicato a una ninfa, in genere posto presso una fontana o una sorgente d'acqua. Spesso anche antiche, le case private arricchirono i loro splendidi giardini creando dei ninfei che accoglievano anche immagini di amorini e soprattutto di almeno una ninfa.

Lungo via degli Annibaldi si trova una minuscola porticina che consente di entrare in un posto magico: il Ninfeo degli Annibaldi, angolo via del Fagutale che incrocia la via Nicola Salvi, nel Rione Monti, zona colle Oppio, risale al tempo di Augusto e dedicato alle ninfe, alle piante e all'atmosfera incantata dei boschi.

Varcando la piccola porticina su via degli Annibaldi e scendendo lungo una scala a chiocciola, si può entrare all’interno del ninfeo, o meglio all’interno di ciò che di esso oggi si è conservato: metà della struttura originale. La fontana è visitabile solo su prenotazione.


DOVEVA ESSERE SIMILE AL NINFEO DI ANNIA REGILLA

Nel 1895, durante i lavori per la realizzazione di via degli Annibaldi, fu scoperto un ninfeo (fontana monumentale) databile tra la fine del I a.c. e l’inizio del I secolo d.c., facente parte di una casa in seguito distrutta per far posto alla Domus Aurea di Nerone. Il cosiddetto Ninfeo degli Annibaldi faceva parte di una più ampia struttura, probabilmente un’abitazione aristocratica di I sec. a.c. che si articolava sul Colle Oppio.

Al monumento, oggi tagliato a metà dal muraglione di sostegno della strada moderna, si accede tramite una piccola scala a chiocciola posta al livello stradale. In origine il ninfeo aveva forma semiellittica, con una vasca al centro. Sulle pareti si trovano delle nicchie sormontate da medaglioni. Tutto l’ambiente è decorato con un mosaico ottenuto con conchiglie, smalto, pietra pomice e ghiaia, in modo da ricordare le grotte marine, che i ninfei cercavano appunto di riprodurre.

Il ninfeo aveva una pianta rettangolare con un abside su uno dei lati corti e una vasca con acqua al centro, mentre le parteti erano scandite da 9 nicchie decorate: doveva essere un luogo magico e nascosto ove riposarsi e trovare riparo dalla calura estiva. 

La sua parete ricurva è decorata con un mosaico volutamente rustico, le lesene sono ornate da file di conchiglie piccolissime, mentre altre più grandi sono incastrate al centro. Forse in origine aveva una forma semiellittica, inserita in un ambiente absidato con una vasca al centro, rivestita di marmo a lastre orizzontali, profonda circa un metro e mezzo.

L'ENTRATA DEL NINFEO

Il Ninfeo era ornato da nicchie, di cui quattro ancora visibili, la parete ricurva è decorata con un mosaico volutamente rustico, le lesene sono ornate da file di conchiglie piccolissime, mentre altre più grandi sono incastrate al centro. 

Vi sono anche sagomati capitelli e cornici, mentre altre decorazioni sono in madreperla e smalto con frammenti di pietra pomice e brecce. La fontana è databile tra la fine della repubblica e l'età di Augusto. Successivamente venne costruito il muro di rinforzo a mattoni, visibile sulla destra.

Vi sono anche capitelli e cornici, con altre decorazioni in madreperla, smalto, pasta vitrea, frammenti di pietra pomice e brecce. La fontana è databile tra la fine della repubblica e l'età di Augusto. Successivamente venne costruito il muro di rinforzo a mattoni, visibile sulla destra. 

Nel 1986, a cura della Ripartizione X del Comune di Roma, è stata eseguita una complessiva opera di risanamento delle pareti per fermare lo stato di degrado in cui si trovano le decorazioni. Il ninfeo degli Annibaldi è databile secondo il Coarelli all'età repubblicana, mentre di età Augustea secondo il Lugli.

LA DECORAZIONE

Il ninfeo degli Annibaldi è databile secondo il Coarelli all'età repubblicana, mentre di età Augustea secondo il Lugli. Il Lanciani attribuisce il ninfeo degli Annibaldi alla Domus Aurea, ma forse apparteneva ad una domus signorile situata tra il colle Oppio e la via delle Carine. 

Durante gli scavi sono stati rinvenuti frammenti di piccole statue che probabilmente ornavano le nicchie ed alcuni pezzi di cannelle in piombo per il getto dell'acqua. Nel 1986, a cura della Ripartizione X del Comune di Roma, è stata eseguita una complessiva opera di risanamento delle pareti del ninfeo per fermare lo stato di degrado in cui si trovano le decorazioni.

Tutte le pareti sono infatti ancora decorate da conchiglie, pietra pomice e ghiaia, elementi semplici che mescolati creano bellissimi motivi architettonici geometrici. Una decorazione non preziosa dunque come quella marmorea delle ricche domus imperiali, ma talmente suggestiva da ricreare quasi l’ambientazione dell’interno di una grotta.

Utilizzato tra il I sec. a.c. e il I sec. d.c., il ninfeo fu poi abbandonato, obliterato e parzialmente distrutto per l’impianto di un nuovo e imponente complesso abitativo, la Domus Aurea, una parte della quale si estendeva proprio sul Colle Oppio. 


Sarà riscoperto soltanto con i lavori per la realizzazione della strada moderna nel 1894. Il Ninfeo venne poi riportato alla luce nel 1895 durante i lavori per il taglio della via omonima ed è oggi sezionato a metà dal muraglione di sostegno della strada.

In origine aveva una forma semiellittica, con una vasca al centro, ed era ornato da nicchie, delle quali quattro sono tuttora visibili; sopra clipei e lesene. Tutta la parete ricurva è decorata con un mosaico volutamente rustico; le lesene sono ornate da file di conchiglie piccolissime, mentre altre più grandi sono incastrate al centro.

Ugualmente sono sagomati capitelli e cornici; altre decorazioni sono in madreperla e smalto con frammenti di pietra pomice e brecce. Il monumento è databile tra la fine della repubblica e l'età di Augusto. Successivamente venne costruito il muro di rinforzo a mattoni, visibile sulla destra.



Il Lanciani attribuisce il ninfeo degli Annibaldi alla Domus Aurea, ma forse apparteneva ad una domus signorile situata tra il colle Oppio e la via delle Carine, durante gli scavi sono stati rinvenuti frammenti di piccole statue che probabilmente ornavano le nicchie ed alcuni pezzi di cannelle in piombo per il getto dell'acqua.


ANDREA CARANDINI

Ninfeo di via degli Annibaldi: b. Ninfeo sulla c.d. via Tusculana; c. Diaeta Apollinis; d. Ninfeo degli horti Sallustiani; e. Ambulationes della porticus Liviae; f. Ambulatio del Sessorium; g. Ambulatio sull’Alta Semita; h-l. Ambulationes degli horti dell’Esquilino; m. Porticus Lentulorum/ Hecatostylum.


PIRRO LIGORIO

P. Ligorio, nel Codex Taurinensis, ff. 60, 62-63, descrivendo il nymphaeum: «...mirabile edificio... di sasso Tiburtino, et poscia ornato di marmi et bellissime statue, ...ove furono trovate vestiggi di statue di Venere e de le Nymphe de’ Fonti, et vi erano le Grazie, et l’opera dove erano locate le statue era incrostata di marmi oltremarini di diversi colori...»


BIBLIO

- S.B. Plattner e T. Ashby (a cura di) - Nymphaeum - A Topographical Dictionary of Rome -  penelope.uchicago.edu - 1929 -
- K. M. Coleman - Launching into history: aquatic displays in the Early Empire - Journal of Roman Studies - 1993 -
- A. Malissard - Les Romains et l’eau. Fontaines, salles de bains, thermes, égouts, aqueducs - Les Belles Lettres - Paris -