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CATILINA

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Nome: Lucius Sergius Catilina
Nascita: 108 a.c. Roma
Morte: 62 a.c. Pistoia
Professione: Politico






Sallustio
"L. Catilina, nobili genere natus, fuit magna vi et animi et corporis, ingenio malo pravoque.
Huic ab adulescentia bella intestina, caedes, rapinae, discordia civilis grata fuerunt, ibique iuventutem suam exercuit. Corpus patiens inediae, algoris, vigiliae supra quam cuiquam credible est.
Animus audax, subdolus, varius, cuiuslibet rei simulator ac dissimulatur, alieni adpetens, sui profusus, ardens in cupidatibus; satis elquentiae, sapientiae parum. Vastus animus immoderata, incredibilia, nimis alta semper cupiebat.


Hunc post dominationem L. Sullae libido maxima invaserat rei publicae capiendae; neque id quibus modis adsequeretur, dum sibi regum pararet, quicquam pensi habebat.
Agitabatur magis magisque in dies animus ferox inopia rei familiaris et conscientia scelerum, quae utraque iis artibus auxerat, quas supra memoravi. Incitabant praeterea corrupti civitatis mores, quos pessimaac diversa inter se mala, luxuria atque avaritia, vexabant
".

(L. Catilina, nato di nobile stirpe, fu di grande vigore d'animo e di membra, ma d'ingegno malvagio e vizioso. Fin dalla prima giovinezza gli piacquero guerre intestine, stragi, rapine, discordie civili, e in esse spese tutta la sua gioventù. Il corpo resistente alla fame, al gelo, alle veglie oltre ogni immaginazione. Animo temerario, subdolo, mutevole, simulatore e dissimulatore di qualsivoglia cosa, avido dell'altrui, prodigo del suo, ardente nelle cupidigie, facile di parola, niente saggezza. Spirito vasto, anelava sempre alle cose smisurate, al fantastico, all'immenso. Dopo la dominazione di L. Silla, era stato invaso da una sfrenata cupidigia d'impadronirsi del potere, senza farsi scrupolo della scelta dei mezzi pur di procurarsi il regno. Sempre di più, di giorno in giorno quell'animo fiero era agitato dalla povertà del patrimonio e dal rimorso dei delitti, entrambi accresciuti dai vizi sopra ricordati. Lo incitavano, inoltre, i costumi d'una cittadinanza corrotta, tormentata da due mali funesti e fra loro discordi, il lusso e l'avidità.)



LE ORIGINI

Lucio Sergio Catilina, ovvero Lucius Sergius Catilina, nacque a Roma il 108 a.c., dal patrizio Lucio Sergio Silo e Belliena. I Sergii erano gens patrizia di antichissima origine e di glorioso passato, ma piuttosto decaduta, da molto tempo infatti non facevano più carriera politica nè occupavano posti di comando nell'esercito. Belliena era la sorella di Lucio Annio Bellieno, seguace di Silla a cui il dittatore ordinò di uccidere il suo ex generale Quinto Lucrezio Ofella.

Ebbe due mogli: la sorella di Marco Mario Gratidiano, nipote di Gaio Mario, e Aurelia Orestilla, figlia di Gneo Aufidio Oreste (console nel 71 a.c.). Dalla prima ebbe un figlio che, secondo Sallustio, uccise in quanto ostacolo alle nozze con Aurelia Orestilla, donna di grande bellezza.



LA CARRIERA

Sappiamo che nell'89 a.c. il giovane Catilina segue il generale Strabone nella guerra marsica contro le popolazioni italiche coalizzate contro Roma. Qui conosce conobbe Cicerone che all'epoca servì sotto Gneo Pompeo Strabone e Lucio Cornelio Silla durante le campagne della Guerra sociale,

Qui conobbe pure Pompeo, il cui padre era stato eletto console in quell'anno. Pompeo accompagnava il padre in ogni guerra, quindi si trovò coinvolto anche nella guerra Sociale ed era molto amico di Cicerone, che considerava suo protetto.

Nell'88 a.c. Catilina passa agli ordini di Silla, eletto console, e lo segue in Asia nella I Guerra Mitridatica. Quattro anni dopo, nell'84, Silla rientra a Roma per sterminare i populares nella Guerra civile romana, e Catilina lo segue nell'opera di epurazione con una spietatezza degna del dictator, uccidendo fra gli altri il cognato Marco Mario Gratidiano, nipote di Gaio Mario, da lui stesso torturato e decapitato. Lui stesso porta la testa a Roma e nel Foro la getta ai piedi di Silla.

Si narra che Graditiano fosse stato torturato e smembrato come si trattasse di un sacrificio umano, ma i romani non facevano sacrifici umani se non in un paio di circostanze in tutta la storia. Ma non fu un sacrificio bensì una vendetta, l'assassinio avvenne infatti presso la tomba di Quinto Lutazio Catulo, che era stato console nel 102 a.c. e che era stato costretto al suicidio nell'87 a.c. da Gratidiano, per concedere la ritorsione al figlio di Lutazio. 

Da notare che Catilina aveva sposato la sorella di Gratidiano, e cioè Gratidiana, da cui ebbe un figlio di cui poi si sbarazzò uccidendolo in quanto presunto ostacolo alle nozze con la moglie successiva: Aurelia Orestialia, insomma un filicidio, il più orrendo delitto che un essere umano possa compiere.
Dopo la morte di Silla però Catilina non solo non subì condanne, ma ottenne barie cariche politiche:
- questore nel 78, 
- legato in Macedonia nel 74, 
- edile nel 70,
- pretore nel 68
- governatore dell'Africa nel 67.





LA CONGIURA

C'era di che arricchirsi ma a Catilina i soldi non bastavano mai. Infatti tornato a Roma, nel 66 a.c., si candida a console, ma viene accusato di concussione e abuso di potere, viene processato e assolto. Ma nello stesso anno è accusato di una cospirazione con Autronio e Publio Cornelio Silla.

Autronio si era candidato ed era stato eletto console nel 65 a.c. insieme a Publio Cornelio Silla, nipote di Lucio Cornelio Silla, ma prima che avesse inizio il loro mandato furono accusati ambedue di brogli elettorali da Lucio Aurelio Cotta, seguace di Silla e zio di Giulio Cesare, e Lucio Manlio Torquato, console nel 65 a.c. con Aurelio Cotta. Riconosciuti colpevoli, venne invalidata l'elezione e furono eletti altri due consoli.

Fu allora che Autronio tentò una cospirazione assieme a Catilina per eliminare i nuovi consoli (66 a.c.), ma il piano fallì per errore di Catilina, che diede il segnale di intervenire ai congiurati prima che fossero tutti riuniti.

Cicerone si era rifiutato di difendere Autronio, suo collega nella questura del 75 a.c., accusato di partecipazione alla congiura di Catilina e di tentato omicidio nei confronti di Cicerone stesso (lex Plautia de vi), e testimonia invece contro di lui. Così Autronio è esiliato in Grecia, nell'Epiro. Quando poi fu esiliato lo stesso Cicerone nel 58 a.c., egli temette infatti che Autronio potesse ucciderlo.

Però poco dopo ma sempre nel 66 Cicerone tiene nei confronti di P. Cornelio Silla, accusato dei medesimi delitti, il comportamento opposto e lo difende. All'epoca Cicerone aveva 43 anni e Catilina era più vecchio di lui di 2 anni, quindi ne aveva 45.

Dunque Cornelio Silla è accusato di complicità con i catilinari da L. Manlio Torquato, mentre Q. Ortensio Ortalo fa parte del collegio di difesa. Durante il processo si svolge un violento alterco con l’accusatore Torquato, che poi Cicerone preferisce non presentare nell’edizione. Secondo alcuni non pubblica la testimonianza, come era solito fare per divulgare la sua bravura d'avvocato, per non rendere troppo evidente la diversità di comportamento da lui tenuto nei confronti di Autronio e di Silla. Da notare però che Cornelio Silla fornisce a Cicerone parte del denaro per l’acquisto della casa sul Palatino.

Poi L. Manlio Torquato (che nel 63 ha aiutato Cicerone contro Catilina) accusa ancora una volta Cicerone per l’uccisione dei catilinari e per aver modificato i verbali delle confessioni.
Il 3 dicembre i prigionieri vengono consegnati a Cicerone, che fa chiamare ed arrestare i capi della congiura, fa confiscare le armi, convoca nel tempio della Concordia il senato ed interroga i testimoni; il senato gli decreta un rendimento di grazie (supplicatio) per l’ottenuta salvezza da incendio e guerra.

Secondo altri autori Cicerone si limita invece ad interrogare i congiurati, senza pronunziare un discorso; la sera pronunzia invece la III Catilinaria davanti al popolo. Comunque Silla viene assolto. Poiché è ancora sotto processo, Catilina può ricandidarsi a console solo nel 64 a.c. per l'anno successivo, ma il Senato, allarmato dalla sua popolarità, gli oppone Cicerone, l'Homo novus. Nel suo discorso di candidatura Cicerone dipinge Catilina a fosche tinte, definendolo incestuoso, assassino e degenerato. Gli optimates, con l'aiuto dei loro clienti, fanno vincere Cicerone.

Catilina non molla e si ripresenta alle elezioni per il 62 a.c., ha l'appoggio della plebe e degli schiavi, promettendo una ridistribuzione delle terre demaniali e delle prede di guerra, appoggiato dai veterani di Silla, ormai in disgrazia ed emanando un editto per la remissione dei debiti (Tabulae novae). La perdita dei crediti allarma la classe senatoria e Cicerone, nell'orazione Pro Murena, denuncia di Catilina «...la ferocia, nel suo sguardo il delitto, nelle sue parole la tracotanza, come se avesse già agguantato il consolato».

Cicerone presenta in Senato delle lettere anonime che accusano Catilina di cospirazione contro la Repubblica, che abbia raccolto uomini in armi attorno a Fiesole, e che abbia fatto offerte a varie tribù in Gallia per allearsele, gli Allobrogi avrebbero rifiutato e avrebbero avvertito Cicerone.

Con un probabile broglio elettorale, nelle elezioni Catilina viene sconfitto dal generale Murena, gradito al Senato. Servio Sulpicio Rufo, un grande giurista apprezzatissimo da Cicerone, e Catone il Censore denunciano i brogli, si sa che Catone è uomo d'onore e ostile a Catilina, per cui molto credibile. Cicerone difende Murena dall'accusa e attacca Catilina, denunciandolo come congiurato; Catilina è costretto a una fuga in Etruria, presso il suo sostenitore Gaio Manlio, lasciando la guida della sua congiura ad alcuni uomini di fiducia, Publio Cornelio Lentulo Sura e Gaio Cornelio Cetego.



DISCORSO DI CATILINA AI CONGIURATI

«Se io non avessi sperimentato la vostra determinazione e la vostra fedeltà, invano si sarebbe presentata a noi questa occasione favorevole; inutile sarebbe la nostra grande aspettativa di potere, né io cercherei, attraverso uomini codardi e falsi, l'incertezza al posto della certezza. Ma siccome io conosco la vostra fortezza e la vostra fedeltà nei miei confronti in molti e ardui cimenti, proprio per questo il mio animo mi consente di intraprendere questa impresa davvero grande e gloriosa, anche perché ho constatato che condividete con me i possibili vantaggi ma anche i pericoli. Infatti una vera amicizia si basa sugli scopi e interessi comuni. »

(L. Sergio Catilina - De Catilinae - coniuratione - di Sallustio)




LE ORAZIONI CATILINARIE

E' Cicerone a darci la maggior parte delle informazioni su Catilina. Sfuggito all'attentato da parte dei congiurati di Catilina, che si erano presentati a casa sua con la scusa di salutarlo, Cicerone convoca il Senato nel tempio di Giove Statore.
Qui pronuncia la famosa allocuzione nota come Prima Catilinaria, la prima perchè seguita poi da altre tre, e tutte chiamate complessivamente le Orationes in Catilinam. E' l'8 novembre del 63 a.c., e Cicerone pronuncia la famosa allocuzione:
"Quousque tandem Catilina abutere patientia nostra?"
« Fino a quando abuserai, Catilina, della nostra pazienza? Per quanto tempo ancora cotesta tua condotta temeraria riuscirà a sfuggirci? A quali estremi oserà spingersi il tuo sfrenato ardire? Né il presidio notturno sul Palatino né le ronde per la città né il panico del popolo né l'opposizione unanime di tutti i cittadini onesti né il fatto che la seduta si tenga in questo edificio, il più sicuro, ti hanno sgomentato e neppure i volti, il contegno dei presenti? »
(Cicerone, incipit di Catilinariae orationes)

Sempre nella I orazione Cicerone tenta di convincere il Senato della necessità di condannare a morte Catilina:  "Ad mortem te, Catilina, duci iussu consulis iam pridem oportebat".   « la tua condanna a morte, o Catilina, avrebbe dovuto essere ordinata da lungo tempo dal Console. »
Le fonti non riferiscono chiaramente lo scopo dei cospiratori. Cicerone parla di un piano eversivo con incendio doloso e altro, oltre all'assassinio di personaggi politici, tra cui Cicerone.

La congiura si sarebbe organizzata attraverso vari incontri segreti - l'ultimo sarebbe avvenuto nella casa del senatore Leca il 6-7 novembre del 63 a.c., alla vigilia della prima Catilinaria. Come spesso avviene la segretezza non regge perchè a letto pochi tengono il segreto.

Così Quinto Curio, uno dei congiurati, narrò alla sua amante, una certa Fulvia, che stavano per fare una congiura. Quella, che sicuramente giurò di tenere il segreto, corse a riferire Cicerone e addio congiura.

Quella sera stessa due congiurati (Cornelio e Vargunteio) si sarebbero presentati a casa di Cicerone e, con il pretesto di salutarlo, avrebbero tentato di ucciderlo. Ma grazie a Fulvia, Cicerone sarebbe scampato agli assassini. Cicerone non risparmiò mezzi ed effetti speciali per mettere in cattiva luce Catilina. In attesa dell'esito della denuncia per brogli contro Murena, Cicerone si presentò al Campo Marzio circondato da una scorta e «...vestendo quella mia ampia e vistosa corazza, non perché essa mi proteggesse dai colpi, che io sapevo essere suo costume sferrare non al fianco o al ventre ma al capo o al collo, bensì per richiamare l'attenzione di tutti gli onesti».




SENATUSCONSULTUM

Alla fine Cicerone ottenne l'emanazione del senatusconsultum ultimum, (Senatus consultum de re publica defendenda, cioè "Decreto del Senato per la difesa dello stato"che dava ai consoli in carica, tra cui Cicerone, poteri di vita e di morte. Così Cetego e Lentulo, i catilinari rimasti a Roma, secondo l'accusa, per sollevare la plebe e la tribù degli Allobrogi, vennero condannati a morte e strangolati nel Carcere Mamertino. 
Come cittadini romani avrebbero avuto il diritto appellarsi al popolo: provocatio ad populum, la richiesta di grazia su cui dovevano pronunciarsi i comizi elettivi delle tribù, e il diritto a scegliere l'esilio invece della morte, anche se questo avrebbe comportato la confisca di tutti i loro beni.

Questa violazione alla Costituzione romana fu rimproverata a Cicerone da Gaio Giulio Cesare durante la seduta del Senato e alcuni anni dopo, su iniziativa del tribuno della plebe Publio Clodio Pulcro, Cicerone verrà esiliato per l'uccisione illegittima di cittadini romani.
La situazione è controversa, perchè il senato aveva dichiarato i congiurati nemici della Repubblica e dato pieni poteri al console Cicerone, per cui i nemici della repubblica cessavano di essere cittadini romani.

Lo storico Sallustio fece la cronistoria dell'episodio circa 20 anni dopo, nel De Catilinae coniuratione, senza però discostarsi significativamente dalle descrizioni di Cicerone, a parte la cronologia, forse errori involontari di Sallustio, o per scagionare Cesare dal sospetto di aver partecipato alla congiura.

Dal canto suo Cicerone non smise mai di vantare il proprio ruolo nella salvezza dello stato, come nel famoso brano: Cedant arma togae: "che le armi lascino il posto alla toga (del magistrato)"), grazie al ruolo svolto nel reprimere la congiura, ottenne un prestigio incredibile, che gli valse addirittura l'appellativo di pater patriae. 

I CONGIURATI


LE TRAME DI CATILINA

« Non è più degno morire da valorosi, piuttosto che trascorrere passivamente e con vergogna un'esistenza misera e senza onori, soggetti allo scherno e all'alterigia? »

Nell'orazione Pro Murena del 63 a.c. Cicerone denuncerà  il progetto politico di Catilina che affermò: «La Repubblica ha due corpi: uno fragile, con una testa malferma; l'altro vigoroso, ma senza testa affatto; non gli mancherà, finché vivo».

Secondo Catilina la Repubblica Romana viveva una scissione tra società e istituzioni. Il corpo fragile era il corpo elettorale romano, spaccato in clientele e bande (nell'88 a.c. tutti gli italici avevano avuto la cittadinanza romana, ma per votare occorreva recarsi a Roma); la testa malferma era il Senato, piuttosto dinastico, colluso con i grandi proprietari terrieri, e patrizio.

Il corpo vigoroso ma senza testa erano contribuenti, tassati e tartassati, per cui Catilina si propone come "testa" pensante, essendosi già fatto alleati non solo tra i plebei, ma anche tra gli equites, nonchè tra i senatori scontenti di Pompeo:
« Nel frattempo Manlio in Etruria istigava la plebe, desiderosa di cambiamenti allo stesso tempo per la miseria e per il risentimento dell'ingiustizia subita, poiché, durante la dittatura di Silla, aveva perso i campi e tutti i suoi beni; inoltre istigava i ladri di qualsiasi genere, di cui in quella regione c'era grande abbondanza, e alcuni coloni Sillani, ai quali, per dissolutezza e lussuria, non era rimasto nulla di ciò che avevano rubato. ......
.... E non era sconvolta solo la mente di coloro che erano i complici della congiura, bensì l'intera plebe, desiderosa di cambiamenti, approvava i propositi di Catilina. Così sembrava facesse ciò secondo il suo costume abituale. Infatti in uno Stato i poveri invidiano sempre i ricchi ed esaltano i malvagi; odiano le cose antiche, desiderano vivamente le novità; a causa dell'avversione alla loro situazione aspirano a sovvertire ogni cosa; si nutrono di tafferugli e di disordini, visto che la povertà rende facilmente senza perdite
. »
(Sallustio, De Catilinae coniuratione.)

Diversi anni dopo la morte di Catilina, nell'orazione Pro Caelio, (amico di Catilina) del 56 a.c., Cicerone ammetterà che Catilina aveva raccolto attorno a sé «anche persone forti e buone», che era di «qualche stimolo all'attività e all'impegno», e che in certi momenti era  «un buon cittadino, appassionato ammiratore degli uomini migliori, amico sicuro e leale».
Inoltre «era gaio, spavaldo, attorniato da uno stuolo di giovani» e «vi erano in quest'uomo caratteristiche singolari: la capacità di legare a sé l'animo di molti con l'amicizia, conservarseli con l'ossequio, far parte a tutti di ciò che aveva, prestar servigi a chiunque con il denaro, con le aderenze, con l'opera...».
Cicerone parlava secondo la propria convenienza e se rivalutava Catina forse voleva farsi benvolere dai suoi ex seguaci, ovvero dai seguaci di Silla, visto che il nuovo astro all'orizzonte era Giulio Cesare, l'Homo Novus dei populares.

IL RITROVAMENTO DEL CORPO DI CATILINA


LA BATTAGLIA DI PISTOIA

Il 5 gennaio del 62 a.c. Catilina e i suoi fedelissimi vengono intercettati dall'esercito romano comandato dal generale Marco Petreio, nella piana dell' Ager Pisternensis. Catilina è intrappolato nel passaggio degli Appennini alla Gallia cisalpina da Quinto Cecilio Metello Celere. Non ha speranze, ma pronuncia quest'ultimo discorso ai pochi seguaci rimasti:

« So assolutamente, o soldati, che le parole non aggiungono valore e che un esercito non diventa coraggioso da vile né forte da pavido per un discorso del generale. Quanto è grande il coraggio nell'animo di ciascuno per indole o per educazione, tanto grande è solito manifestarsi in guerra. Colui che né la gloria né i pericoli incitano, lo potresti esortare invano: il timore dell'animo tappa le orecchie. 

Ma io vi ho convocato per ammonirvi riguardo a poche cose e contemporaneamente esporvi il motivo del mio piano. Invero certamente sapete, o soldati, qual grave danno abbiano portato a noi la viltà e l'indolenza di Lentulo, e anche a lui stesso, e per quale modo mentre aspettavo rinforzi dalla città, non sono potuto partire per la Gallia. Ora dunque a quale punto sia la nostra situazione, voi tutti lo capite insieme a me. 

Due eserciti nemici ci sbarrano la strada, uno dalla città e uno dalla Gallia; rimanere più a lungo in questi luoghi, anche se il nostro animo lo desidera moltissimo, lo impedisce la mancanza di frumento e di altre cose. Dovunque ci piaccia andare, bisogna aprirsi la strada con le armi. Perciò vi esorto a essere forti e pronti e, quando entrerete in combattimento, a ricordare che voi portate nelle vostre mani destre ricchezze, onore, gloria, senza contare la libertà e la patria. 

Se vinceremo, non correremo più alcun pericolo; ci saranno vettovaglie in abbondanza, municipi e colonie spalancheranno le porte. Se, causa la paura, ci saremo ritirati, quei medesimi diventeranno ostili, nessun amico, nessun luogo potrà proteggere chi le armi non siano riuscite a proteggere. Inoltre, soldati, non è il medesimo bisogno a incombere su di noi e su di loro: noi combattiamo per la patria, per la libertà, per la vita; per loro è superfluo combattere per il potere di pochi. Perciò, attaccate con maggior audacia, memori dell'antico valore! 

Vi sarebbe stato concesso passare la vita in esilio con il massimo disonore: alcuni di voi avrebbero potuto bramare a Roma, dopo aver perso le proprie, le ricchezze di altri. Poiché quelle azioni sembravano turpi ed intollerabili agli uomini, avete deciso di seguire queste. Se volete abbandonare questa situazione, c’è bisogno di coraggio; nessuno, se non da vincitore, ha mai cambiato in pace una guerra. In guerra il massimo pericolo è quello di coloro che di più hanno paura; il coraggio è considerato come un muro. 

Quando vi guardo, o soldati, e quando considero le vostre azioni, mi prende una grande speranza di vittoria. L'animo, l'età, il valore vostri mi incoraggiano, e la necessità, inoltre, che rende coraggiosi anche i pavidi. E infatti l'inaccessibilità del luogo impedisce che la moltitudine dei nemici possa circondarci. Se la fortuna si sarà opposta al vostro valore, non fatevi ammazzare invendicati, e neppure, una volta catturati, non fatevi trucidare come bestie piuttosto che lasciare ai nemici una vittoria cruenta e luttuosa combattendo alla maniera degli eroi!»

Sallustio - De Coniuratione Catilinae

Catilina lascia scappare i cavalli per ribadire che mai si sarebbe ritirato, ed attese l'arrivo delle legioni romane. Combatte coraggiosamente e muore insieme a tutti i suoi 20000 soldati . Non c'è un solo superstite. Il corpo di Catilina venne gettato nel fiume, mentre la testa viene riportata a Roma da Antonio, uno dei congiurati di Catilina che li aveva traditi, assumendo il comando dell'esercito nella battaglia di Pistoia. Però poi si era finto malato per non combattere contro Catilina e soprattutto per non rischiare che questi ne rivelasse la partecipazione alla congiura, lasciando così il comando delle truppe romane a Marco Petreio.

In qualità di tribuno designato, Catone, sempre nello stesso anno, chiede e ottiene dal senato la condanna a morte per alcuni seguaci di Catilina (pena poi eseguita da Cicerone), in opposizione a Cesare, che proponeva pene più miti.


Corrnelio Lentulo 

Fu Console anziano nel 71 a.c. con Gneo Aufidio Oreste come collega giovane. Allo scadere del consolato venne espulso dal Senato per immoralità nel 70 a.c., ma riuscì a rientrare in Senato come Questore e infine Pretore urbano per il 62 a.c. Avendo molti debiti partecipò alla congiura di Catilina di cui era uno dei maggiori esponenti, denunciato da Quinto Curio in Senato e venne condannato a morte nel 62 a.c.

I Romani assegnavano un custode ai rei di Maiestas fino all'esecuzione della condanna, e il custode fu il consolare del 65 a.C. Lucio Giulio Cesare, fratello di sua moglie Giulia, madre del futuro triumviro Marco Antonio. L'esecuzione avvenne per strangolamento nel carcere Mamertino, insieme a Cetego, Statilio, Cepario, Volturcio e Gabinio Capitone, tutti congiurati di Catilina.

Cornelio Cetego

Fin da giovane aveva mostrato un carattere dissoluto, violento e dissipatore, per cui si era coperto di debiti.
Nel 63 a.c.  si alleò con Catilina e quando questi fuggì in Etruria, Cetego e Publio Cornelio Lentulo Sura presero le redini della congiura, e Cetego passò al comando di Lentulo Sura.

Cetego doveva uccidere i senatori più importanti, tra cui Cicerone, ma il ritardo di Lentulo non gli permise di eseguire gli ordini. Cetego venne arrestato e condannato a morte con gli altri congiurati. Come prova della sua congiura, venne trovata in casa sua una collezione di spade e pugnali ed una lettera con sigillo degli ambasciatori Allobrogi.

Grazie alla collaborazione degli ambasciatori dei Galli Allobrogi, Cicerone poté accusare Lentulo e Cetego davanti al senato. Vi era stato un finto arresto degli ambasciatori galli che avevano carte scritte dei congiurati in cui si promettevano grandi benefici se avessero appoggiato Catilina. Quei documenti finirono così nelle mani di Cicerone.

Per decidere la pena dei congiurati, vi fu un rovente dibattito tra i sosteniori della pena capitale e Gaio Giulio Cesare, che propose il confino e la confisca dei beni. Cesare aveva quasi convinto i senatori ma Marco Porcio Catone Uticense perorò con grande enfasi la necessità della pena di morte. I congiurati furono quindi giustiziati, e Cicerone annunziò la loro morte al popolo con la formula:
« Vixerunt » « Vissero » poiché era considerato di cattivo auspicio pronunciare la parola "morte" o espressioni come "sono morti" nel foro.


CULTO DI PROSERPINA - PERSEPHONE - KORE

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CORE

Per l’antica Grecia l’arrivo della primavera era connesso al mito del ritorno di Persephone dal regno notturno, dove era regina.

La Dea era caratterizzata da due aspetti: uno era Kore, la fanciulla, la figlia quasi indistinta dalla madre, un altro era Persephone, Regina degli Inferi, saggia Guida dell’aspetto oscuro delle cose.

PERSEFONE
"Io sono Kore: la giovinezza, l’innocenza, la leggerezza.

Sono la Dea del Fiore, una stagione nella natura e nella vita di ogni donna.

Io ho conosciuto l’oscurità dell’Ade, ho assaggiato i chicchi della melagrana

ritrovando così il mio nome: Persefone, la Terribile,
Silenziosa Signora del Regno dei Morti.

Solo dopo aver varcato la soglia del buio,
traversato il mondo delle ombre, posso risalire alla luce

tenendo fra le mani la sacra melagrana,
simbolo dell’eterno ritorno
" (Omero).

Dea greca, nei poemi omerici moglie di Ade, re dell'Tartaro, simile a Medusa; a lei, regina dei morti, si rivolgono gli uomini perchè le loro imprecazioni abbiano efficacia.

Dunque la Dea ha doppia valenza: ingenua e vergine fanciulla, e Regina del Dio oscuro, e lei stessa connessa alla magia e agli inferi. Insomma maga e dominatrice.

Come figlia di Demetra, Dea della terra apportatrice di vita, e di Zeus o, Poseidone o, secondo altri, di Stige, era una dolce fanciulla che giocava con le Ninfe e cogliere fiori. Infatti Core significa fanciulla.

Un giorno però venne fuori dalla terra Ade che la rapì su un cocchio tirato da 4 cavalli e la condusse negli abissi.

Il culto di Demetra passò nel territorio italico insieme ai suoi misteri, associandosi all'antica Cerere, con sua figlia Core o Proserpina o Persefone. Proserpina deriva dal latino "proserpere", cioè "serpeggiare", muoversi come un serpente.

Demetra, a causa del suo dolore, impedisce alla terra di dare frutti e tutti gli uomini rischiano di perire. Ma Zeus riesce a placare la Dea facendo sì che Persefone possa rimanere con la madre per alcuni mesi dell'anno.

Per Diodoro la Dea si è manifestata per prima sul suolo italico, ma in realtà si tratta di Cerere:

"Le Dee apparvero per la prima volta in quest’isola e la Sicilia per prima produsse il frutto del grano grazie alla fertilità della sua terra… 

E infatti nella piana di Lentini e in molti altri luoghi della Sicilia nasce anche ora il così detto grano selvatico. Insomma se si facesse un’indagine sulla scoperta del grano, cioè in qual parte della terra esso sia apparso per la prima volta, è verosimile che si riconosca il primato alla terra più fertile. Conformemente a quanto si è detto, è possibile constatare che le dee che hanno scoperto il grano sono straordinariamente venerate dai Sicelioti."



Diodoro:

"Dopo il ratto di Kore, Demetra, poiché non riusciva a trovare la figlia, accese le fiaccole dai crateri dell’Etna, si recò in molti luoghi della terra abitata e beneficò gli uomini che le offrirono la migliore ospitalità, dando loro in cambio il frutto del grano.

Gli Ateniesi accolsero la Dea con grandissima cortesia, e a loro per primi, dopo i Sicelioti, Demetra donò il frutto del grano, in cambio di ciò il popolo di Atene onorò la Dea molto più degli altri, la onorò con famosissimi sacrifici e con i misteri eleusini, i quali, superiori per antichità e sacralità, divennero famosi presso tutti gli uomini… 

Gli abitanti della Sicilia, avendo ricevuto per primi la scoperta del grano per la loro vicinanza con Demetra e Kore, istituirono in onore di ciascuna delle dee, sacrifici e feste cui dettero il nome di quelle e la cui data di celebrazione indicava chiaramente i doni ricevuti.
Fissarono, infatti, il ritorno di Kore sulla terra nel momento in cui il frutto del grano si trova ad essere perfettamente maturo. 


Scelsero per il sacrificio in onore di Demetra il periodo in cui si incomincia a seminare il grano. Celebrano per dieci giorni la festa che prende il nome della dea, una festa splendidissima per la magnificenza dell’allestimento, durante la cui celebrazione si attengono all’antico modo di vita. In questi giorni hanno l’abitudine di rivolgersi frasi oscene durante i colloqui, poiché la dea, addolorata per il ratto di Kore, scoppiò a ridere a causa di una frase oscena."

Dunque infanzia, erotismo, ed inferi, come dire Nascita, Accoppiamento, e Morte. Le fasi della vita. Nell'Asino d'oro di Apuleio si dice che Proserpina è la Dea dei Siciliani. Il suo nome è legato ai serpenti, rivelandola come Dea Primigenia, probabilmente più antica di quella greca. Comunque Diodoro precisa che alle due Dee erano riservati culti distinti, oltre a quelli eseguiti congiuntamente.

Persefone era solitamente raffigurata come una giovane Dea che tiene in mano dei covoni di grano e di una torcia fiammeggiante. Qualche volta è apparsa in compagnia di sua madre Demetra, e l'eroe Trittolemo, il maestro di agricoltura. Altre volte lei appare in trono accanto Haides.

TEMPIO DI PLUTONE E PROSERPINA A TIVOLI


TITO LIVIO

"Fu riferita in senato la lettera del pretore Q.Minucio, che governava la provincia dei Bruzi: tal tesoro di Proserpina nella città di Locri di notte era di nascosto stato sottratto del denaro, né v'era alcuna traccia del ladro. 

Con sdegno il senato sopportò questa cosa; al console C.Aurelio fu affidato l'incarico di scrivere al pretore nei Bruzi che il senato voleva che si facesse un'indagine sui tesori trafugati, che fossero puniti coloro che avevano rubato il denaro, e che si compissero sacrifici espiatori. 

I prodigi segnalati in più luoghi accrescevano la preoccupazione di espiare la profanazione di quel tempio.

Si riportava che tra i Lucani il cielo fosse divenuto ardente, nell'agro di Priverso il sole fosse tutto rosso, a Lanuvio nel tempi di Giunone Inviolata fosse sorto un grande rumore di notte.


I decenviri ordinarono che fossero considerati segni divini quelle che dopo questo prodigio erano avvenute. Avevano anche ordinato, infine, che un carme fosse cantato per la città per tre volte da vergini."

Frammento di un testo di Thurii, sud Italia, III sec.a.c, dei "Misteri di Proserpina"


Proserpina Stigiana

(l'adepto)
"Io vengo in purezza da un popolo puro,
Oh Regina della Morte;
e mi proclamo discendente della tua razza benedetta.
Ma il destino e il fulmine scagliato dalle stelle
mi hanno travolto, ed ora ho volato fuori
della triste e pesante ruota.
Mi muovo con passi ansiosi
di toccare la tua Corona, e sprofondare nel tuo grembo,
Mia Grande Signora; Oh Regina della Morte.
"

(Proserpina)
"Felice e benedetto sarai poi,
come un Dio, non più mortale.
Sarai come un bambino,
caduto nel mio dolce latte di madre."

Lei è la personificazione e divinizzazione del ciclo di vita.
In mano tiene un melograno, frutto legato al parto, nonché la sua capacità di rendere la terra fertile, di far crescere le creature e poi di dar loro la morte.


Demetra e i Misteri Eleusini

Dopo il ratto, la madre di Persephone, la Dea dell'agricoltura Demetra, vagando per la città stato di Eleusi divenne nurse di un bambino.

EDICOLE VOTIVE - TEMPIO DI DEMETRA E PROSERPINA
Quando si rivelò come Dea, gli Eleusini le costruirono un tempio.
Del famoso e venerato tempio di Cerere ad Enna non sono rimaste testimonianze visibili a causa dello sviluppo moderno della città. 

Ubicato all'interno dell'acropoli sommitale, oggi Castello di Lombardia, il tempio principale era affiancato nelle zone circostanti da sacelli e santuari ove veniva effettuata la maggior parte dei riti. 

La presenza di una via sacra è attestata nelle fonti storiche, estendendosi nel settore settentrionale che dalla cittadella sommitale si estende fino alla Rupe di Cerere.












DEMOCRAZIA NELL'IMPERO 1/4

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Spesso alcuni studiosi sono critici di fronte all'impero romano visto come uno strapotere dei forti sui deboli, nella guerra e nell'economia. Di solito certe considerazioni partono da visioni personali dovute a vissuti propri che nulla hanno a che fare con la storia. Il fatto poi che i dittatori in genere, da Mussolini a Hitler, ma pure i rivoluzionari come Napoleone si siano serviti nella loro liturgia propagandistica dei simboli della romanità, ha accentuato questa falsa visione della storia.

L'impero Romano fu il potere più democratico che sia esistito ai suoi tempi, e tutto sommato è più democratico di tanti stati attuali compreso quello italiano.

Le accuse che si muovono sono grosso modo che i Romani non avessero alcuna democrazia perchè:

1) I Romani avevano la schiavitù.
2) I Romani erano sempre in guerra perchè volevano conquistare tutto il mondo.
3) I Romani davano tutti i diritti e tutti i beni all'aristocrazia ignorando la plebe.
4) La crudeltà dei Romani nei circhi e con i Gladiatori.

Per ora esamineremo la schiavitù, e poi di seguito le altre voci.



LA SCHIAVITU'

La schiavitù è antichissima, se ne ha notizia storica dal IV millennio a.c., a partire dalle civiltà egizie e sumera, ed ha afflitto oriente e occidente, e molti si sono chiesti come sia nata. La risposta è semplice: la schiavitù nasce con la guerra. Quando un gruppo vince un altro gruppo provocando la morte di alcuni, tutti sanno che anche il resto del gruppo può morire, per cui possono essere disposti a fare qualsiasi cosa pur di sopravvivere. Così i vincitori si portano a casa un bottino vivente di cui possono fare ciò che vogliono pena le punizioni o la morte.

Dal momento in cui diventa lecito attaccare un altro popolo diviene lecita la schiavitù. Non si parla mai di schiavi romani, sia perchè in genere vincevano, sia perchè un guerriero romano spesso si uccideva pur di non cadere schiavo dei barbari.

In quanto al carattere della schiavitù i romani ne avevano due esempi molto vicini: gli Etruschi e i Greci, più lontani gli egizi e gli assiro-babilonesi, che molto prima dei Romani, usarono
abbondantemente gli schiavi.

La schiavitù fu ammessa perfino da Platone, da Aristotele e da altri filosofi.
La schiavitù era ammessa anche presso gli ebrei, ma solo per i non israeliti, visto che loro erano gli eletti del Signore.

Bada bene: GRECI ED ETRUSCHI ERANO I POPOLI PREROMANI OCCIDENTALI PIU' CIVILI CHE ESISTESSERO, PER QUESTO FACEVANO SCHIAVI. Infatti gli altri popoli non facevano schiavi per diversi motivi:

- Erano popoli nomadi, per cui non si potevano portare gli schiavi appresso, prima o poi sarebbero fuggiti.
- Erano tribù sempre al limite della sopravvivenza e non potevano mantenere degli schiavi.
- Essendo popoli primitivi avevano il vanto dei trofei di guerra consistenti nei crani o nelle armi dei vinti, per cui il numero degli uccisi dava loro prestigio nella tribù.
- Essendo molto feroci preferivano mutilare e torturare, uccidere quando andava bene, piuttosto che fare prigionieri.

I Romani promulgarono diverse leggi per mitigare l'asprezza della schiavitù:
- laLex Cornelia (82 a.c.) che proibiva al padrone di uccidere schiavi non colpevoli di delitto.
- La Lex Petronia (32 d.c.) cancellava l'obbligo di combattere nel circo se ordinato dal padrone.
- Il Senatus consultum Claudianum (52 d.c.) istituì l'obbligo di prestare cure mediche allo schiavo malato.

Rendiamoci conto che nel resto del mondo orientale ed occidentale IL CAPOFAMIGLIA AVEVA DIRITTO DI VITA E DI MORTE SU MOGLI E FIGLI.


Per i Greci la schiavitù era un istituto di "diritto naturale", per i Romani invece l'uomo non era schiavo "per natura" ma lo poteva diventare se la legge lo consentiva, oppure poteva essere liberato sempre secondo la legge.. Quindi, poiché non nasceva schiavo, a differenza che in Grecia, lo schiavo romano poteva essere liberato e ottenere la cittadinanza.

Con il cristianesimo si ammise anzi la schiavitù per i non “cristiani”. Si lottò solo per impedire che i “cristiani”, anche se prigionieri di guerra, fossero ridotti schiavi. Non dimentichiamo che i saraceni erano venduti dagli stessi “cristiani” nei pubblici mercati, e così poi avvenne il contrario e cioè che i cristiani, e soprattutto le donne come oggetti sessuali (ma pure i maschi per lo stesso fine), venissero venduti al mercato saraceno.

LA SCHIAVITU' NON TERMINO' CON LA CADUTA DELL'IMPERO, MA PROSEGUI' PER MOLTI SECOLI, FINO AL XIX SECOLO.
A parte la schiavitù dei neri d'America, la schiavitù non fu più praticata sui bianchi ma lo fu spesso rispetto alle colonie, tanto che molti abitanti dell'America meridionale preferirono suicidarsi che diventare schiavi dei bianchi.
E LA CHIESA CATTOLICA NON DENUNCIO' NE' NON FECE MAI NULLA CONTRO LA SCHIAVITU', DIFFIDANDO ADDIRITTURA I PRETI AD AGIRE IN TAL SENSO.

DA: CATTOLICESIMO REALE


La Chiesa ha praticato la schiavitù

– I nobili romani, benché convertiti, potevano continuare a avere schiavi e le Istituzioni del cristianissimo Giustiniano stabilivano “che i padroni abbiano diritto di vita e di morte sugli schiavi”.

- Nel Medioevo vari concili locali vietarono a vescovi e frati di vendere “case, schiavi e gli arnesi del ministero” di proprietà della Chiesa (Agde, 506). 
- Gregorio I Magno (590-604) ordinò di riportargli “gli schiavi fuggitivi appartenenti alla chiesa” (Epistola 9, 30). 
- Dal V secolo e per lungo tempo i preti che violavano il celibato, le loro amanti e i loro figli furono puniti con la riduzione in “schiavitù perpetua della Chiesa
- se i sacerdoti “ospitano donne sospette”, “il vescovo dovrà vendere le donne come schiave” (Toledo, V sec.);
-  “chi dal vescovo giù giù fino al suddiacono abbia generato dei figli da nozze esecrande, sia con una donna libera sia con una schiava, deve essere punito secondo la legge canonica; i figli generati da tale incesto devono appartenere per sempre come schiavi alla Chiesa” (Toledo, VII sec.).

- Il traffico di schiavi fu poi pratica costante dello Stato della Chiesa in età moderna, come attestano il fitto scambio epistolare di vari papi con funzionari vaticani per la compra-vendita di schiavi: a titolo di esempio citiamo la lettera con cui Innocenzo X informa nel 1645 mons. Raggi di aver ordinato “al Principe Nicolò Ludovisio generale delle nostre galere che le provegga di 100 schiavi Turchi” 
- e due lettere analoghe scritte nel 1788 e nel 1794 da Colelli, che aveva la carica già per sé significativa di “intendente pontificio per gli schiavi”.

La Chiesa l’ha legittimata 
– La pratica dello schiavismo non fu un abuso in contrasto con la dottrina cattolica ma, al contrario, fu legittimata da essa a partire dai testi che si dicono ispirati da Dio. Il Decalogo, fatto proprio dalla Chiesa, ordina di “non desiderare la moglie del tuo prossimo, né il suo schiavo, né la sua schiava, né il suo bue, né il suo asino” con ciò riconoscendole “proprietà” legittime e anzi da rispettare. 
- Paolo nella Lettera agli Efesini dice “Schiavi, obbedite ai vostri padroni secondo la carne con timore e tremore, con semplicità di spirito, come a Cristo” (6,5) 
- e nella Prima lettera a Timoteo: “Quelli poi che hanno padroni credenti, non manchino loro di riguardo perché sono fratelli, ma li servano ancora meglio” (6, 2).

- Nel V secolo Agostino afferma che Cristo “non ha preso i servi e ne ha fatto dei liberi, ma ha preso dei servi cattivi e ne ha fatto dei buoni.” 
- E aggiunge con involontario umorismo: “Quale debito hanno i ricchi verso Cristo per il modo come ha loro sistemato la casa!” (Esposizione sui salmi, 124, 7).

- Agostino sostiene poi, come ripeterà nel XIX secolo Leone XIII, che “a buon diritto la condizione servile è stata imposta all’uomo peccatore”. 
- La stessa giustificazione diede Tommaso d’Aquino (XIII secolo). 
- E alle soglie del Settecento, per il teologo Leander, è “di fede che questo tipo di schiavitù in cui un uomo serve il padrone come schiavo è del tutto legittimo” (1692).

I papi, pur episodicamente vietando di trarre in schiavitù questa o quella categoria (i cristiani, gli indi, i catecumeni ecc.), non condannarono la schiavitù in generale, anzi la giustificarono e la ordinarono. Qualche esempio: 
- il canone 27 del Concilio Lateranense III (1179) autorizza a ridurre in schiavitù le bande anticristiane della Brabanza, Aragona e Navarra
- Niccolò V “concede” al re del Portogallo di “ricercare, catturare, conquistare e soggiogare tutti i Saraceni e qualsiasi pagano e gli altri nemici di Cristo…e di gettarli in schiavitù perpetua” (Romanus pontifex, 1454). 
- Paolo III autorizza le ricche famiglie romane a usare schiavi (1549). 
- Secondo un’Istruzione del Santo Ufficio approvata da Pio IX, “Non è contrario alla legge naturale e divina che uno schiavo possa essere venduto, acquistato, scambiato o regalato” (1866).

- Una tardiva condanna  
Solo qualche decennio prima dell’Istruzione di Pio IX, e in contrasto con essa, Gregorio XVI condannò come “delitto” la schiavitù (In supremo, 1839), ormai bandita da tutti i maggiori paesi europei. Ma naturalmente, come farà più tardi Leone XIII, cercò di far credere che tale condanna fosse stata caratteristica della Chiesa fin dalle origini. Disse cioè una bugia.

- La condanna fu poi reiterata dal Concilio Vaticano II (Gaudium et Spes, 1965). E il Catechismo del 1992 indica come peccato contro il settimo comandamento quanto porta “all’asservimento di esseri umani…ad acquistarli, a venderli e a scambiarli come fossero merci” (2114) anche se, poche pagine dopo, per introdurre il decimo comandamento (2534) si cita il versetto biblico: “Non desiderare la casa del tuo prossimo, né il suo campo, né il suo schiavo, né la sua schiava, né il suo bue, né il suo asino, né alcune delle cose che sono del tuo prossimo” (Dt, 5, 21)…

La Chiesa cattolica, portatrice del messaggio di fratellanza e uguaglianza del Cristo, evita di condannare la schiavitù dilagante all'inizio dell'era cristiana e pure dopo, in molti casi la difende e la utilizza senza scrupoli.

In conclusione la Chiesa non ha abolito fin da principio la schiavitù anzi l’ha praticata per secoli, ha giustificato la sua conservazione e ha speso la sua influenza per perpetuarla. Anche quando si è decisa a condannarla, non ha ammesso di aver sbagliato e predicato l’errore per quasi due millenni. E non può ammetterlo, senza doversi riconoscere umanamente fallibile anziché divinamente ispirata.


AGGIUNGIAMO NOI:

Naturalmente non va confusa la Chiesa col messaggio del Cristo che non fa dell'elevazione dell'anima una rivoluzione sociale per cui invita a dare "a Cesare quel che è di Cesare e a Dio quel che è di Dio".

Completamente diversa la visione di Paolo  (Paolo di tarso, lettera ai Romani 13, 1-7): 
Doveri verso l’autorità:
Ognuno sia soggetto alle autorità superiori; poiché non c’è un’autorità che non venga da dio, e quelle che esistono sono costituite da dio

Perciò chi si oppone all’autorità resiste all’ordine stabilito da dio; e coloro che resistono attirano la condanna sopra sé stessi. 

I magistrati non son di timore per le buone azioni, ma per le cattive. Vuoi tu non aver paura dell’autorità? Diportati bene e riceverai la sua approvazione. 

Essa è infatti ministra di dio per il tuo bene. Se invece agisci male, temi; non per nulla essa porta la spada: è infatti ministra di dio, esecutrice di giustizia contro chi fa il male. E’ necessario, quindi, che siate soggetti, non solo per paura della punizione, ma anche per motivo di coscienza. 

Per questo dovete anche pagare le imposte: perché sono pubblici funzionari di dio, addetti interamente a tale ufficio

Rendete a tutti quanto è dovuto: a chi l’imposta, l’imposta; a chi la gabella, la gabella; a chi la riverenza, la riverenza; a chi l’onore, l’onore.”

Paolo smentisce completamente il Cristo che invita a distinguere il potere terreno da Dio, e invece sostiene che il potere terreno è voluto da Dio, e pertanto va obbedito!


Ancora  Paolo di Tarso, lettera ai Colossesi 3, 22-25:

Schiavi, obbedite in ogni cosa ai vostri padroni secondo la carne, non solo quando vi vedono, come per piacere agli uomini, ma con sincerità di cuore, per timore del signore. tutto quello che fate, fatelo di cuore, come per il signore e non per gli uomini, sapendo che riceverete in ricompensa l’eredità dalle mani stesse di dio. 

E’ a cristo signore che voi servite. 

Chiunque, invece, commette ingiustizia, commetterà secondo l’ingiustizia commessa: non vi sarà accettazione di persone.”


e Pietro 2, 18-21:

“Servi siate sottomessi con ogni rispetto ai vostri padroni, non solo a quelli che sono buoni o ragionevoli, ma anche a quelli di carattere intrattabile. poiché piace a dio che si sopportino afflizioni per riguardo verso di lui, quando si soffre ingiustamente. infatti che gloria vi è nel sopportare di essere battuti, quando si ha mancato? Ma se voi, pur avendo agito rettamente, sopportate sofferenze, questo è gradito davanti a dio. Anzi è appunto a questo che voi siete stati chiamati, perchè Cristo pure ha sofferto per voi, lasciandovi un esempio affinché ne seguiate le orme.”

Nei comportamenti familiari i cristiani applicarono gli insegnamenti di Pietro e Paolo e, malgrado l’affermazione di eguaglianza di tutti gli uomini dinnanzi a Dio, viene riconosciuta la sottomissione dello schiavo al padrone, della moglie al marito.

La podestà maritale dell'uomo sulla donna, che ne faceva in pratica una schiava, podestà tolta da Ottaviano Augusto, verrà tolta in Italia solo nel 1975.

Nel 1844 il Console inglese in Marocco chiese al Sultano di abolire la schiavitù o almeno di interrompere il traffico di schiavi. Il Sultano rispose:
 "il traffico di schiavi è materia su cui tutte le religioni e tutte le nazioni sono d'accordo fin dal tempo dei figli di Adamo".

E così fu.

Poi venne il medioevo e la servitù della gleba... che era peggio della schiavitù perchè si lavorava da morire come nella schiavitù ma senza vitto e alloggio assicurati.

ADONAEA - GIARDINI DI ADONE

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RICOSTRUZIONE DELL'ENTRATA ALL'ADONAEA, A DESTRA L'ARCO DI DOMIZIANO

"In un interessante frammento della Pianta di Roma N. XLIX, trovandosi disegnata una grande sala circondata da cinque file di colonne, con nel mezzo qualche indicazione di piantagioni, si stabilisce generalmente per la iscrizione che quantunque non intiera sta ivi scolpita, esservi rappresentati quei giardini di Adone, nei quali Domiziano ricevette Apollonio Tianeo dopo di aver sacrificato a Pallade: ma non bene però si conosce il luogo ove questi orti precisamente stavano situati. Considerando peraltro la grande estensione che si trova indicata dalla suddetta lapide avere occupati questi giardini, non so rinvenire altra località sul Palatino sufficiente a contenerli, che quell'area posta sull'alto del monte accanto alla sinistra parte del principale ingresso del Palazzo; massime che questo ingresso si giudica essere stato formato dallo stesso Domiziano nelle grandi ampliazioni da lui fatte, in luogo di quello edificato da Nerone, nel quale stava il gran colosso, e che si dice distrutto da Adriano per edificarvi il tempio di Venere e Roma."

Gli scavi realizzati recentemente sul Palatino dalla Soprintendenza Archeologica hanno riportato alla luce i resti di diversi edifici e complessi monumentali di grande rilievo, succedutisi nel settore nord-est del Palatino fin dall'alba dell'Impero romano, con edifici diversi ma sempre corredati da giardini.
Una delle caratteristiche più interessanti del parco del Pincio è senza dubbio l'obelisco egizio  conosciuto come obelisco Pinciano ma in realtà di Antinoo, perchè dedicato dall'imperatore Adriano al suo giovane amico annegato nel Nilo nel 130 d.c., forse per una devotio all'imperatore.

Il monolite, realizzato per volere di Adriano, fu collocato sul monumento funebre di Antinoo che, secondo una recente ipotesi, doveva trovarsi all'interno degli Adonaea sul Palatino. Ne consegue che la scritta, in stile egizio, sia di mano romana.

L'Adonaea, o Giardini di Adone, sicuramente ornava diverse domus o ville romane, ma famosa  era quella sul Palatino, attigua alla reggia augustale, più o meno dove fu poi fondato il tempio di Eliogabalo

A metà estate le donne greche mettevano immagini di Adone sui tetti, poi piantavano semi a rapida germinazione come frumento, lattuga e orzo in contenitori di fortuna come vecchi vasi rotti o cestini rovinati, e lì coltivavano per otto giorni. Dopodichè mettevano le giovani piantine germinate di fronte all'altarino e le lasciavano morire al sole e senza acqua, ricreando così il ciclo di nascita, vita e morte di Adone.

VIGNA BARBERINI LOCAZIONE DELL'ADONAEA
Ecco l'antesignano delle piantine nei barattoli di conserva sui davanzali delle case, i vasi di fortuna che divengono poi vasi di terracotta, di marmo e di pietra, sempre più elaborati e di dimensioni maggiorate, finchè a Roma, dove dominava il gusto dei giardini e del verde, nasce questo nuovo tipo di giardino, con piante in vaso, che prima coronano il giardino e poi ne diventano le protagoniste.

Platone cita i giardini di Adone per alludere a qualcosa di inconsistente e di poco valore, ma la festività, non riconosciuta ufficialmente e dapprima considerata un passatempo di donne e bambini, pian piano prende piede e si diffonde. La moglie di Tolomeo II, infatti, celebra il rito con una grande processione in cui Afrodite e Adone vengono condotti in giro per le strade seduti su troni d'argento. In fondo è la grande celebrazione della nascita, crescita e morte del figlio-vegetazione della Grande Madre Terra, che nasce al solstizio di inverno, cresce e poi muore per resuscitare all'equinozio di primavera, mito che la Chiesa Cattolica adotterà pari pari per Gesù Cristo.

VIGNA BARBERINI EX ELIOGABALUM
I vasi si diffondono e trionfano anche a Roma, dove coronano un ninfeo o sono al termine di un viale, o ai lati di un portale, finemente scolpiti e issati su erme di marmo. Oppure ornano le balaustre su parallelepipedi con mensole in pietra, o sono al culmine di una fontana, o alternano sedili ricurvi in una specie di salotto da giardino, o sono portati da ninfe che li poggiano graziosamente sul capo o sulla spalla, o stanno ai lati di un minuscolo tempietto, o al suo centro. Sul Palatino l'imperatore Domiziano ha una corte adornata di fiori che nascono in vasi disposti tutto intorno al tetto del cortile colonnato. Più tardi si troveranno usi simili anche a Pompei.

Questo tipo di giardino ha pochi alberi ma molte arcate e colonne ricoperte di fiori, un'architettura molto leggera, con bassi cespugli, corte e lunghe siepi ed aiuole di fiori, che sarà poi la base dei meravigliosi giardini rinascimentali italiani. Sembra peraltro che si facesse grande uso di pergolati allietati nella dovuta stagione da grappoli per la tavola o per il vino.

VIGNA BARBERINI (palatino)
Sul colle Palatino infatti, su un'area terrazzata attigua al grande Palazzo, come testimonia la Forma Urbis Severiana. sorgevano i Giardini di Adone, giardini pensili circondati da portici con un grande lato curvilineo, che prendono il nome dal giovane Adone amato di Afrodite. La Forma Urbis evidenzia l'Adonea come una grande forma quadrangolare, con una serie di punti allineati in file regolari, con al centro un doppio allineamento di linee parallele, ai lati di un elemento rettangolare allungato.

Sembra che il giardino fosse splendido, coronato di giganteschi vasi di marmo da cui spuntavano fiori di vari colori, spesso circondati di verdi e bassi cespugli, con vialetti incorniciati da colonne scanalate e trionfi di fiori in vasi preziosi, con aiuole, panchine e tavolinetti di marmo variamente istoriati. Un giardino a base di vasi come un gigantesco terrazzo, bello da essere degno di un imperatore.

 
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TEMPIO VITTORIA PALATINA

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PALAZZO DI CALIGOLA (sinistra) TEMPIO DELLA VITTORIA (destra)
ll tempio della Vittoria (latino: aedes Victoria) era un tempio romano edificato nella parte sud ovest del Palatino, a Roma, dedicato alla dea Vittoria. Era adiacente al tempio della Magna Mater e al santuario di Victoria Virgo (Livio 29.14.13: in aedem Victoriae).

Vasi:
"L'altro principale accesso del Palatino si dava col mezzo del clivo della Vittoria, nella di cui parte inferiore, vi stava la porta Romana, secondo la spiegazione di questo nome data da Festo. Questo clivo, con le fabbriche che gli stavano nei lati, si trova tracciato nell'interessante frammento dell'antica Pianta di Roma N. XLVII dal quale si deduce l'epoca in cui fu questa eseguita. Ciò che si trova rappresentato in tale lapide bene si adatta alla località posta nel declivo del colle verso l'Esquilino; ed ivi vicino doveva trovarsi il tempio della Vittoria, dal quale prendeva il nome il detto clivo. Questo tempio, se non era quello registrato tra i primi edifizj della regione ottava nei cataloghi dei Regionarj, stato edificato sotto la Velia, dove prima stava la casa di Valerio Publicola, supponendone un altro sul Palatino innalzato sino dai primi tempi di Roma, non poteva però essere situato al di sopra di costruzioni imperiali, come si è giudicato ultimamente nel trovare ivi traccie di un edifizio rotondo."

Non c'è memoria del restauro di questo tempio e la sua esatta collocazione è incerta. Alcuni identificarono il tempio con le fondazioni rinvenute vicino all'arco di Tito. Esso si trovava senza dubbio nel Clivus Victoriae, e i resti di due iscrizioni dedicatorie, reperite a circa 50 m ad ovest dell'attuale chiesa di San Teodoro potrebbe indicarne la posizione.

Il Clivo della Vittoria (Clivus Victoriae) che gira intorno all'angolo nord del Palatino, passando a fianco della Domus Tiberiana e si collega al clivo Palatino di fronte alla Domus Flavia, era la strada principale che dava accesso al colle Palatino per chi proveniva dal Velabro. Secondo la tradizione il nome deriverebbe dal tempio della Vittoria, un tempio più antico della stessa Roma.

Durante gli anni 204‑191, mentre si stava costruendo il tempio della Magna Mater, la pietra sacra di questa Dea venne custodito nel tempio della Vittoria affinchè il popolo potesse intanto venerarla. La Magna Mater Cibele, avrebbe dovuto, secondo i Libri Sibillini, proteggere i Romani dall'avanzata di Annibale. Nei pressi di questo tempio, come narra Livio, Marco Porcio Catone costruì il tempio di Victoria Virgo.



IL MITO

"Stige, figlia di Oceano, generò, unita a Pallante,
Rivalitàà e Vittoria dalle belle caviglie, dentro il palazzo di lui,
e Potere e Forza generò, illustri suoi figli,
lontano dai quali di Zeus non c’è casa né sede,
né c’è via per cui ad essi il dio non comandi,
ma sempre presso Zeus che tuona profondo hanno la loro dimora"


La tradizione voleva fosse stato costruito da Evandro (Dion. Hal., Ant. Rom. 1.32.5), riedificato poi (oppure costruito di sana pianta) da Lucio Postumio Megello  (Livy 10.33.9) con i soldi delle multe che aveva comminato durante la sua edilità, e dedicato il 1º agosto 294 a.c., anno in cui fu console  (come concorda anche Livio).

Negli anni 204-191 a.c ospitò il betilo della Magna Mater, mentre il tempio della dea era in costruzione Nei pressi di questo tempio, Marco Porcio Catone costruì il tempio di Victoria Virgo.

I RESTI
Secondo la tradizione virgiliana la città di Pallante sul Palatino faceva parte del regno dell’arcade Evandro e di suo figlio Pallante. Sia Livio (Ab Urbe condita) che Ovidio (I Fasti) narrano di una migrazione dalla città greca di Argo, guidata da Evandro.

La città che questi fondò sul Palatino si chiamava Pallante o Pallanteo, in onore del nonno. Ma il personaggio e la sua città rivestono anche un’importanza che probabilmente esula da quella esclusivamente mitologica. Dal nome della città potrebbe infatti essere derivato lo stesso toponimo di Palatino. La coincidenza poi che le feste “Palilie” si celebrassero nella stessa data della fondazione di Roma può far pensare ad un’ipotesi di accordo e di spartizione del territorio tra la gente di Romolo, stanziata sul Germalo, l’altura settentrionale del Palatino, e quella di Evandro, stabilitasi sul Palatino vero e proprio, più a sud, facendo della Velia, l’altura orientale, probabilmente un'area cimiteriale, come i reperti archeologici suggeriscono.

Gli scavi archeologici effettuati dal 1937 nell’area di S. Omobono, all’incrocio tra le attuali via L. Petroselli e Vico Jugario, hanno portato in luce reperti di origine greca, risalenti alla metà dell’VIII secolo a.c., quindi dell’epoca della fondazione di Roma. Forse le origini argive in cui rientra il mito di Ercole e le antiche aedes degli Argei hanno un fondamento storico.




LA STORIA

ALTRI RESTI DEL TEMPIO
Il culto di Victoria crebbe verso la fine della Repubblica, e sia Silla che Giulio Cesare istituirono giochi in onore della Dea. Nella curia del Senato romano, a partire dall'anno 29 a.c. in onore della disfatta di Antonio, c'era un altare con la statua d'oro della Vittoria strappata ai Tarantini. La statua ritraeva un donna alata che portava una palma ed una corona di lauro. La Victoria Augusti fu sotto l'impero la costante divinità titolare degli imperatori. Nel 382, l'imperatore cristiano Graziano decise di fare togliere l'altare dal Senato. Questo fatto oppose in aspra polemica il pagano senatore Quinto Aurelio Simmaco al vescovo Ambrogio di Milano. Vinse la chiesa e la Nike d'oro venne fusa.



LA DEA

NIKE DI EFESO
Il fatto che Porcio Catone avesse intitolato un tempio alla Victoria Virgo, fa presupporre trattarsi di una Dea Vergine, cioè di una Grande Madre Genitrice, che era sempre vergine pur essendo madre, in quanto, come sottolinea l'imperatore Giuliano nell'Inno alla Madre degli Dei, non ha marito.
Doveva essere perciò una Dea molto antica e quindi un santuario molto antico. Ma di quale Dea si tratta?
Per capirlo ci rifacciamo alla Vittoria greca, alla Nike, con ali, alloro, veste corta e un seno scoperto, come le amazzoni. E' chiaro che si tratta di Dea arcaica, prima che i Greci togliessero il voto alle donne e le obbligassero al peplo, insomma all'incirca nel 2500 a.c. Era una Dea combattiva, tanto è vero che Zeus la pone alla guida del suo carro divino.



LA STRUTTURA

Pertanto il suo tempio doveva essere vagamente greco e dell'VIII sec. a.c., quindi antecedente alla fondazione di Roma, con mattoni di argilla essiccata al sole, con travi in legno strutturale come sostegno e con tetto ordito in legno a falde sensibilmente inclinate. All'esterno aveva un peristilio di sostegni lignei, affinché la cella in materiali deperibili fosse protetta dalle sporgenti falde del tetto, ma anche per conferire maggiore solennità sacrale al tempio. Nel VII sec. a.c. greci ed etruschi si inventarono le tegole di terracotta per la copertura e le colonne divennero di tufo o di pietra per sostenere tanto peso.

Il tempio aveva un podio in opus quadratum (c. 33 x 19 m) e si suppone che in origine fosse esastilo, successivamente  periptero con una doppia fila di colonne lungo la facciata (Pensabene 1988, 54-57; id., LTUR).
In epoca imperiale era ancora un tempio tetrastilo sia pure con blocchi e colonne di marmo. Le colonne erano ancora in stile dorico come nel tempio più antico, era innalzato su alto podio cui si accedeva con una lunga scalinata, con due bassi muri ai lati su cui venivano posti bracieri di bronzo e al centro un'ara su cui si svolgevano i sacrifici e le cerimonie,     
Di questo tempio non si hanno più notizie fino al 294 a.c. quando venne ricostruito dal console Lucio Postumio Megello, poi restaurato nella tarda Republica o nella prima era augustana (Pensabene 1988, 55), forse per l'incendio del 3 d.c. (Papi). e in seguito da Caligola.

Sostanzialmente fu identificato al Tempio di Victoria per simili locazione, grandezza, e materiale epigrafico pertinente a Victoria (CIL VI 31059, 31060), includendo frammenti di capitelli corinzi ed altri elementi in travertino, che suggeriscono un restauro verso la fine del I sec. a.c.. (Pensabene, LTUR). Il restauro mantenne lo stesso piano ma aumentò le fondazioni della cella per supportare un colonnato interno, e rimpiazzare le sovrastrutture di tufo con un ordine di colonne corinzie. (Pensabene 1988, 55).

RITRATTI DEL FAYUM

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FAYUM (fig.1)

I famosissimi ritratti del Fayum sono circa 600 ritratti funebri, di grande impatto artistico, fortemente realistici, straordinariamente attuali, realizzati per lo più su tavole lignee, che ricoprivano i volti di alcune mummie egizie d'età romana.

Il nome deriva dalla pseudo-oasi del Fayum, o Madinat Al Fayoum, o anche Faiyum, Fayyum o, francesizzato, Fayoum, la località da cui proviene la maggior parte delle opere.
Questi ritratti, insieme agli affreschi di Ercolano e Pompei, sono tra gli esempi meglio conservati di pittura dell'antichità.

Sembra che in Egitto al tempo dei Tolemei la popolazione del Fayyum fosse composta per il 30% da greci e per il resto egizi. I ritratti del Fayyum, dunque, raffigurerebbero i discendenti di quei primi coloni greci che sposarono donne egizie e che adottarono il pantheon egiziano seguendone i vari riti.

Ma “l'ellenizzazione” dell'Egitto avvenne soprattutto con l'arrivo dei Romani.

Nel II sec. d.c., l'usanza di mummificare i corpi dei defunti restò molto popolare, facendo fiorire così un particolare tipo di pittura che virò decisamente sullo stile greco romano, che è come dire pompeiano, visto che Pompei stava nella Magna Grecia felicemente invasa e arricchita dai romani.

Fa pertanto un certo effetto mirare certe mummie con le bende dipinte a divinità e simboli egizi e la tavola raffigurante il morto che riproduce un volto dai tratti dell'alto Mediterraneo.

Trattasi dunque delle maschere funebri già in uso da lungo tempo presso gli egizi, ma realizzati in modo del tutto nuovo ed originale. Infatti questa ritrattistica sembra più che altro romana, con quella stupenda e sconcertante fedeltà al vero che solo i romani seppero usare in modo così mirabile e spesso impietoso.

Fossero infatti sia pure imperatori o generali, i volti venivano riprodotti senza il minimo ritocco, con la bellezza o bruttezza che li caratterizzava, e senza nemmeno nascondere aspetti popolini e tutt'altro che aristocratici.

I dipinti coprirebbero un periodo che va dalla fine del I sec. alla metà del III sec. d.c. quando improvvisamente cessò questo tipo di produzione artistica per cause a noi ignote.

I ritratti vennero eseguiti in due tecniche principali, a encausto o a tempera a base di uovo.Talvolta trattavasi di qualche tecnica diversa, talvolta le tecniche erano miste.

FAYUM (fig.2)
Le opere a encausto hanno colori molto più vivi, talvolta misti a foglie di oro per raffigurare gioielli e corone, con variazioni di tonalità per indicare la provenienza della luce.

La maggior parte dei ritratti è dipinta su tavole di legno duro, soprattutto mediterraneo: quercia, tiglio, sicomoro, cedro, cipresso e fico.

Alcune tavole sono ridipinte o dipinte da ambo i lati, forse perchè i ritratti erano stati eseguiti quando il soggetto era ancora in vita. Alcuni ritratti sono realizzati direttamente sulle tele e le bende usate per la mummificazione, con una maestria eccezionale.

Ogni tavola veniva poi applicata al volto del defunto inserendola tra le bende e nel British Museum si conservano ancora alcune mummie con la tavola ancora applicata, come si osserva nel defunto in alto.

Di solito viene raffigurato il volto di una sola persona, posta frontalmente. Lo sfondo è solitamente di un unico colore, a volte arricchito da alcuni elementi decorativi.

E' difficile alludere a una qualche corrente stilistica, se non riconoscere l'abilità ritrattistica che coglie sia i particolari precisi che l'intensità del carattere come nella statuaria romana.


ETRURIA - POLIMNIA (fig.3)
 Naturalmente come il clima particolarmente secco dell'Egitto ha permesso la conservazione di queste tavole, non è accaduto altrettanto con la pittura dei luoghi umidi del mediterraneo.

L'unico raffronto possibile è con i volti degli affreschi di Pompei, di Boscoreale e di Ercolano, nonchè di alcune pitture etrusche come questa splendida, meravigliosa Musa Polimnia, sempre a encausto, riprodotta qui sopra (fig.3), che nulla ha da invidiare ai grandi pittori del Rinascimento.

Diciamo anzi che il Rinascimento è sorto proprio grazie alla riscoperta della statuaria e della pittura romana, ammirate e copiate da Raffaello, Michelangelo, Leonardo ecc.

L'encausto, usato sia negli affreschi che nella decorazione, è una tecnica in cui i colori si miscelano alla cera per mezzo del calore.

Il dipinto una volta eseguito viene scaldato (encaustizzato) per fare penetrare la cera nei colori, che in questo modo rimangono fissati, acquistando forza e splendore.

FAYUM (fig.4)
Nella figura del ritratto 1 notiamo una mescolanza un po' dissonante tra le decorazioni della mummia e il volto del defunto. Ieratiche, delicate e solenni le prime, fortemente calcato ma sfumato, pienamente caratterizzato, caldo e istintivo il secondo.

E' talmente viva la figura che sembra imprigionata nelle bende, e il suo sguardo sembra chiedere se non una liberazione dalle bende della morte, il legame del non essere dimenticato. 

Questa pittura di Fayum ha ispirato tutto il Rinascimento, da qui tutti hanno imparato tutto, gli sguardi pensosi, la purezza degli sguardi, l'intensità espressiva, ma pure la mestizia e la rassegnazione, anche perchè era lo sguardo con cui i morti guardano i vivi, in un mondo ritenuto sempre un po' sbiadito rispetto alla vita terrena.

Gli autori di queste raffigurazioni erano grandi artisti, degni ancora oggi di insegnare ai contemporanei che infatti ancora attingono da loro.

Nell'immagine non c'è sfondo nè ambientazione, nessun dettaglio, perchè i dettagli sono tutti nel volto dai grandi occhi spalancati. 

Quest'immagine di donna, la fig.4, dalle sopracciglia marcate e bistrate, ha un raffinato copricapo da cui scendono pendenti d'oro, e una collanina di corallo o di pasta vitrea con un pendente centrale.

Anche la sua veste è elaborata, con veli e ricami in oro, ma nulla di ostentato, tutto di una raffinata e preziosa sobrietà.

FAYUM (fig.5)    CAMPIGLI (fig.6)


La donna ha il vestito bello della festa, ma il suo volto esprime un'intensità che sottende un trattenuto rimpianto. Lei appartiene ormai a un'altra dimensione, lontana dagli affetti e dai luoghi in cui ha intessuto la sua vita.

FAYUM (fig.7)
Dentro quello sguardo c'è un'intensità che va aldilà delle lagrime, perchè quando si piange c'è qualcuno che ci può consolare, ma lei è eternamente tagliata fuori non dal dolore ma dall'espressione del dolore. 

Tutto è destinato a scomparire per queste figure che sembrano apparire tra le bende come un ultimo attimo di visione, di contatto, prima che la bara venga chiusa sul loro corpo e sulla loro vita, troppo spesso una vita ancor giovane, col dolore e il rimpianto di non aver potuto godere di tutte quelle gioe che la gioventù sogna.

Sembra di vedere in ogni figura le figure che verranno, come nella figura sottostante (fig.5) di giovane fanciulla morta nel fiore degli anni si può potare il riscontro fino a Campigli (fig.6).

Viso triangolare, naso lungo e sottile, pettinatura compatta e ordinata, gioielli sottili ed eleganti, negli orecchini a bottone da cui partono fili e perline, alla collana a sottile torciglione in oro massiccio, ma soprattutto occhi spalancati e smarriti, perchè tutto che poteva essere detto e compiuto, non può più essere detto o compiuto.

Ora tutto il resto è silenzio.

Questi ritratti funebri non sono stati eseguiti per essere esposti, né tanto meno come opere d’arte da tenere nella propria casa. Quel che colpisce di più infatti di queste stupende opere è che erano destinate a essere precluse per sempre alla vista dei vivi. venivano sepolte insieme ai corpi dei defunti.

Naturalmente uno scopo l'avevano: facevano parte dei complessi rituali funebri egizi e servivano a ricoprire e identificare i volti dei defunti. Identificare non per il mondo dei vivi, ma per il passaggio nel mondo dei morti, la parentesi di una simil vita che sarebbe poi un giorno nuovamente cambiata riportando in vita la creatura mummificata.

FAYUM (fig.8)
Infatti queste immagini erano in genere accompagnate da iscrizioni che specificavano il nome e l'età, come accade per le foto che ornano le tombe dei nostri cimiteri. Solo che qui il passaggio era più complesso e misterioso.

Ed ecco il ritratto di un uomo, anch'esso giovane, dal volto un po' magrebino, munito sul capo di una coroncina d'oro, quindi un personaggio di tutto rispetto, sicuramente anch'esso della buona società greco romana che si era inserita nel mondo egizio subendone in parte il fascino e i costumi. (fig.7)

Anche qui naso lungo e fino, labbra piccole e carnose e occhi quietamente spalancati, ma con una quiete carica di rimpianti trattenuti, come l'ultimo sguardo del defunto nel mondo dei vivi, uno sguardo di addio mesto e intenso, un lungo addio che sbiadisce nella nebbia.

Queste pitture, più ancora della scultura, ci permette non solo di ritrovare i lineamenti di persone vissute duemila anni fa, ma anche di gettare uno sguardo sulla loro vita, non la storia della vita, ma la storia interiore.

Si dice che La Gioconda di Da Vinci abbia lo sguardo con cui i morti guardano i vivi, ma la consapevolezza della gioconda le dona una serenità che le consente un sorriso di benevola adulta su un mondo di irrequieti bambini, mentre queste persone non sono al disopra dell'umano, anzi ne conservano ancora i desideri e le passioni. 

Pure hanno la consapevolezza del passaggio, come se stessero in quell'istante varcando una porta di cui già intravedono si la dimensione diversa che li attende, ma con un sospiro di rimpianto per il mondo che lasciano.
FAYUM (fig.9)   COPPIA DI SPOSI - POMPEI (fig.10)

Ma una delle immagini che più commuovono è questa del bimbo, che lascia dei genitori da cui non avrebbe mai voluto scostarsi, dallo sguardo sperduto e disperato. (fig.8)
Colpisce l'idea che nessuno sia veramente consolabile della mancanza della vita, anche se l'Amenti egizio prometteva un certo paradiso.

Ma qui prevale il sentimento che l'artista ha trasfuso al defunto, con quella sensibilità particolare che i veri artisti, pur non esercitandola a volte nella vita, hanno nelle loro opere, come se tutti i loro sentimenti potessero avere via d'uscita solo nell'opera d'arte e non con gli altri.
Dal momento del ritrovamento nel corso degli scavi archeologici di fine ’800 questi ritratti, più di seicento, sono ora sparsi nei musei di tutto il mondo.

Moltissimo è stato scritto su queste figure e molti di questi studi sono stati riassunti per la mostra ” Misteriosi volti dall'Egitto” tenutasi nel 1998  dalla Fondazione Memmo di Roma.

FAYUM (fig.11)
Molti di questi volti potrebbero appartenere al popolo napoletano, come il volto femminile ritratto nella fig.9, con i suoi gioielli ottocenteschi, o così potrebbero essere, il che ci dice quanto anche la gioielleria abbia attinto dagli antichi, e con un volto e pure un po' un'acconciatura che somiglia non poco a quella della donna ritratta nella famosa coppia di Pompei, vedi fig.10.

Ciò che rende unici questi dipinti, oltre la bellezza, la maestria, l'intensità e le tecniche, è un particolare raramente usato: la maggior parte di queste pitture guardano fisso chi le guarda, come a voler provocare intenzionalmente un grande coinvolgimento emotivo.

E' come se il defunto dicesse:

 "Guardami, sono qui, e sto morendo. Sto morendo e non sono pronto. Sto morendo e non posso farci nulla e nemmeno tu puoi farci nulla."

E' l'eterno dramma del distacco dai nostri cari, o di noi stessi dalla vita, che poi è la stessa cosa.
Quindi è il dramma più antico e doloroso del mondo, e nello stesso tempo il più misterioso: il dramma della morte.
Questo sembra dire il ritratto della fig.11,: si sta svolgendo un dramma ma non posso farci nulla e nessuno può farci nulla.

Forse per questo nei film e nei libri cerchiamo sempre il lieto fine, perchè sappiamo che la vita non avrà un lieto fine, perchè siamo a termine, e nessuna religione può consolarci davvero di questo.
Nell'istante in cui sono fissati sul legno con la tempera questi personaggi, per magia del loro autore, sono ancora rivolti al mondo che lasciano, ma con un piede già nel mondo misterioso dell'aldilà.



http://erewhon.ticonuno.it/arch/rivi/colore/fayum.htm

I ritratti su mummia e la ritrattistica romana
di Susan Walker

Il ritratto come riproduzione dell'apparenza di un individuo durante la vita è stato a lungo considerato uno dei generi più duraturi e di maggior successo dell'arte romana.

FAYUM (fig.12)
Tuttora, i più non hanno difficoltà a riconoscere, per esempio, Giulio Cesare nei suoi ritratti, tanto forte è il senso di identità personale conservato nelle sue immagini su monete, gemme e busti.

Alcuni ritratti venivano posti in aree pubbliche, come le moderne statue commemorative di personaggi importanti. 

Molti venivano deposti nelle tombe, così come ai giorni nostri, in alcune società moderne, i defunti vengono ricordati con immagini che li mostrano quando ancora erano in vita.

Nella Roma repubblicana i ritratti funebri erano appannaggio della nobiltà o delle famiglie dei magistrati: avevano un significato esemplare per i membri più giovani della famiglia, dovevano instillare in loro le virtù che erano state dei loro importanti predecessori. 

Durante l'Impero la funzione specifica dei ritratti cade in disuso gradualmente e la ritrattistica diventa uno dei molti mezzi per esprimere lealtà all'imperatore e alla sua famiglia: alcune volte i cittadini imitavano addirittura la fisionomia imperiale.

E' il tipo di ritratto più tardo quello che viene importato in Egitto alla metà del I secolo d.c. e che rimane in uso per circa due secoli. 

FAYUM (fig.13)
In Egitto i ritratti sono usati con la specifica funzione di coprire la testa del defunto mummificato; per questo motivo sono dipinti su pannelli di legno inseriti all'interno delle bende o su sudari di lino, che ricoprivano la mummia.

Ritratti venivano anche dipinti su teste in gesso, che erano attaccate ai vari materiali usati per racchiudere e proteggere il corpo: sudari, coperchi lignei di sarcofago, contenitori di lino o anche cartonnage e contenitori di fango. 

Qualsiasi fosse il materiale, lo scopo del ritratto rimaneva invariato: essere testimonianza dell'apparenza del defunto durante la vita.

Grazie all'accuratezza nel riprodurre le acconciature, gli abiti e i gioielli del personaggio, è stato possibile datare i ritratti molto precisamente, in alcuni casi all'interno di un decennio, riferendosi a oggetti simili ritrovati in altre zone e datati sicuramente durante l'Impero Romano. 

Questo è un aspetto di per sé interessante della cultura romana ed è, in un certo senso, l'antenato del fenomeno "jeans e coca-cola" universalmente riconosciuto ai giorni nostri.

FAYUM (fig.14)
Anche nelle province più lontane dell'Impero si cercava di imitare la "moda imperiale", e certi oggetti e aspetti legati all'uso comune e alla vita quotidiana (non solo abiti, ma anche tovaglie e modo di scrivere il latino) appaiono in forme molto simili in tutta l'area dell'Impero. 

La stretta relazione dei ritratti con la moda romana metropolitana può essere spiegata con il fatto che i personaggi ritratti erano fortemente legati a Roma, essendo impiegati nell'amministrazione della provincia.

Avevano così una motivazione e, attraverso contatti personali e ufficiali, i mezzi per vestire allo stesso modo dei Romani che vivevano a Roma. 

Tipi simili di ritratti, che riflettono fortemente l'influenza romana, ma sono specificatamente realizzati per uso locale ed esattamente contemporanei ai ritratti su mummia, sono quelli ritrovati a Palmira, in Siria, e in Cirenaica, Libia Orientale.

Comunque, uno studio accurato delle tavole rivela che le caratteristiche fisiche del soggetto offrono un'immagine più varia ancora dei loro abiti. Appare chiaro che gli artisti che li dipinsero (di cui non sappiamo nulla) registrarono fedelmente l'aspetto dei loro clienti. 

Così i ritratti della stessa tomba a er-Rubayat sono innanzitutto legati dalla somiglianza di alcuni caratteri somatici: occhi, menti con fossetta, fossette sopra e sotto le labbra, che sono esse stesse molto simili.

FAYUM (fig.15)
Adesso che è noto dall'evidenza documentaria che le pitture provengono dalla stessa tomba, si possono forse fare altre ipotesi: probabilmente il pittore è lo stesso per tutti i ritratti, come fu suggerito sessanta anni fa.

I personaggi ritratti appartengono alla stessa famiglia (alla differenza d'età si tratta probabilmente di madre e figlio) e può essere congetturato che lo stesso artista venisse impiegato per dipingere un certo numero di ritratti dello stesso gruppo. 

Inoltre, le tavole rappresentano tratti somatici in dettaglio; il ritratto di un giovane, fino a ora considerato difficilmente databile per la mancanza di una qualsiasi caratteristica cronologicamente determinante, può essere oggi datato in relazione al ritratto di una donna, che include gioielli, abiti e pettinatura secondo la moda del tardo Il o inizio del III secolo d.c..

Altre "coppie" possono essere associate allo stesso modo, anche se non c'è, purtroppo, evidenza documentaria che accerti la loro provenienza dalla stessa tomba. 

Esempi di pitture che mostrano tratti somatici personali includono un pannello da Hawara, che ritrae una donna con lineamenti molto mascolini, un uomo robusto da Kafr Ammar e un giovane uomo, forse con una paralisi facciale, soggetto di un raffinato ritratto da Hawara. 

FAYUM (fig.16)
Molte altre tavole mostrano una ricerca dell'individualità: colore della pelle, barba, struttura ossea sono meticolosamente registrati e, all'interno del corpus, variano sensibilmente.
Va osservato che spesso i soggetti sembrano piuttosto giovani: questo ci fa concludere che le pitture venivano commissionate durante la vita dei personaggi.
Tuttavia questa conclusione ci rende difficile dare un'interpretazione delle immagini dipinte sui sudari o sui sarcofagi e dei ritratti dei bambini, che certamente morirono abbastanza all'improvviso. 

Sebbene vi siano eccezioni, le indagini T.A.C. effettuate sulle mummie complete di questo corpus rivelano una corrispondenza di età, e in determinati casi di sesso, tra il corpo e l'immagine. 

Sono sopravvissute alcune effigi di persone di mezza età o anziane, ma si deve concludere che molti pannelli rispecchiano un'età media piuttosto bassa, registrata anche nei censimenti dell'Egitto di epoca romana.

Relativa alla nozione che i ritratti venissero dipinti durante la vita dei personaggi è l'idea che fossero appesi nelle abitazioni prima di essere posti sulle mummie. 

Certamente i pannelli erano tagliati da una forma rettangolare, in forma arcuata, con gli angoli superiori tagliati o in una forma che seguiva la linea delle spalle, a seconda della tradizione locale, di Hawara, er-Rubayat e Antinoopolis. 

FAYUM (fig.17)
Comunque, erano dipinti in scala 1:1, e il solo ritratto con cornice sopravvissuto è troppo piccolo perché fosse realmente posto sul corpo del defunto. 

Non esiste alcuna evidenza che mostri come e quando questo tipo di immagine fosse commissionata, ma è possibile che fosse dipinta all'epoca della morte per essere portata in processione (ekphorà) attraverso il villaggio o la città di provenienza del defunto, da dove poi era portata, assieme al corpo, all'imbalsamatore per la mummificazione e il taglio del pannello a misura delle bende. 

Questo avvenimento, che è implicito nell'evidenza papirologica come sequenza di eventi durante i funerali delle classi abbienti dell'Egitto romano, potrebbe spiegare l'esistenza di ritratti dipinti su entrambi i lati, che probabilmente venivano portati in processione, come l'esistenza di tre ritratti dello stesso giovane uomo ritrovati assieme a una delle mummie scavate ad Hawara e l'evidenza del taglio dei pannelli. 

E' ben possibile che i corpi, dopo essere stati mummificati, fossero deposti nelle tombe.
L'uso egiziano di "cenare con i defunti", riportato dagli autori greci e latini, avveniva non in casa, ma in un padiglione associato alla tomba, esempi del quale sono stati recentemente scavati a Marina el-Alamein.












BATTAGLIA DI TEUTOBURGO

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CLADES VARIANA

Velleio Patercolo, Storia romana:
« un esercito fortissimo, il primo tra le truppe romane per addestramento, valore ed esperienza, fu accerchiato a sorpresa, a causa dell'indolenza del comandante, della falsità del nemico e dell'ingiustizia del destino.. E così l'esercito romano, chiuso tra foreste, paludi e agguati, fu massacrato fino all'ultimo uomo da un nemico che aveva sempre battuto a suo piacimento... »

Strabone, Geographia
« i Cherusci ed i loro alleati, nel cui paese tre legioni romane, insieme al loro comandante Varo, sono state annientate dopo un agguato, in violazione di un patto... »

La battaglia della Foresta di Teutoburgo, detta Clades Variana, ovvero la disfatta di Varo, dagli storici romani, avvenne il 9 d.c. tra l'esercito romano comandato da Publio Quintilio Varo e una coalizione di tribù germaniche comandate da Arminio, capo dei Cherusci, tribù della valle del Reno e delle pianure e foreste della Germania nord-occidentale.



PUBLIO QUINTILIO VARO  (47 o 46 a.c. – 9 d.c.)

Fu un politico e generale romano, di nobile gens decaduta, che riuscì a intraprendere la carriera politica grazie al favore di Augusto.

RICOSTRUZIONE DEL VOLTO DI P. QUINTILIO VARO
L'imperatore gli aveva consentito di salire i gradini del cursus honorum, dove d'altronde Quintilio aveva espresso grandi capacità e sagacia.

Per giunta lo aveva accolto nella sua famiglia dandogli in sposa la figlia di suo genero, Marco Vipsanio Agrippa.

Nel 22 a.c. Varo accompagnò Augusto nel corso del suo viaggio in Oriente. Console nel 13 a.c., divenne proconsole in Africa e, più tardi, legatus Augusti pro praetore in Siria. Nel 7 d.c. fu inviato come governatore in Germania dove trovò la morte.

La battaglia ebbe luogo nei pressi dell'odierna località di Kalkriese, nella Bassa Sassonia, e si risolse in una delle più gravi disfatte subite dai romani: tre intere legioni (la XVII, la XVIII e la XIX) furono annientate, oltre a 6 coorti di fanteria e 3 ali di cavalleria ausiliaria.


XXIII, XVIII e XIX legione

Le legioni XVII, XVIII e XIX furono probabilmente reclutate da Ottaviano nel 41 o 40 a.c., dopo la battaglia di Filippi per combattere contro Sesto Pompeo, figlio di Pompeo Magno. 

La XVIII legione sembra ricevette in cambio, come congedo dei veterani, delle terre in Veneto.
Negli anni successivi la legione XVII fu stanziata forse in Alsazia, spostata poi sul basso corso del Reno insieme alla XVI Gallica e alla XVIII. 

Dovette partecipare alle campagne germaniche di Druso maggiore (13-9 a.c.) e di Tiberio (8 a.c. e 4-5 d.c.), partecipando anche alla repressione della rivolta in Pannonia.

La XIX partecipò alla conquista della Rezia, territorio alpino a ovest dell'Italia, intorno al 15 a.c., come attestato dai ritrovamenti archeologici a Oberammergau, in Baviera, mentre tra il 15 e il 9 a.c. rimase di stanza a Dangstetten, lungo l'alto corso del Reno.

Nel 9 partecipò alla spedizione di Publio Quintilio Varo e finì distrutta nella battaglia di Teutoburgo insieme alle legioni XVIII e XIX.



ARMINIO

Arminio (17-16 a.c.) era figlio del capo cherusco, pertanto una specie di principe, ovvero un aspirante capo tribù che divenne prefetto di una coorte cherusca dell'esercito romano, e poi condottiero della popolazione dei Germani contro Roma.

MONUMENTO DI ARMINIO A TEUTOBURGO
Come tanti figli di capi tribù o regnanti, i vinti venivano portati a Roma, mandati a scuola e ambientati nell'impero dove venivano qualificati nella vita che preferivano. 

In genere si dedicavano alla guerra seguendo un cursus honorum che permetteva loro una buona collocazione sociale.

Questa strategia in genere faceva si che i figli dei capi stranieri prendessero in simpatia la dolce vita dei romani e non macchinassero più conto Roma ma che anzi ne divenissero difensori e alleati. 

Tuttavia per qualche oscura ragione la tattica non funzionò.

Arminio finse di adattarsi ed anzi finse molto bene, tanto da conquistarsi l'amicizia dei suoi compagni, il rispetto dei suoi sottoposti e la stima dei suoi superiori.

Vi riuscì così bene che Quintilio Varo si legò a lui con grande affetto, stimandolo talmente tanto da non sospettare di lui neppure quando altri lo misero in guardia. Viene da chiedersi di che tipo di affettività si trattasse, così forte da bendare gli occhi del non più giovanissimo generale che aveva una trentina d'anni più del suo protetto.

Il fratello di Arminio, Flavo, che come lui militava nell'esercito romano rimase, anche successivamente alla battaglia di Teutoburgo, un leale e fedele ufficiale delle legioni.

Arminio servì nell'esercito romano, prima probabilmente sotto Tiberio in Germania, poi trasferito in Pannonia, come luogotenente di cavalleria, combattè coi Romani, nella rivolta dalmato pannonica, guidando un contingente di truppe ausiliarie cherusce.



ARMINIO E QUINTILIO VARO (7-9)

ARMINIO
Ottenuta anche la cittadinanza romana, attorno al 7/8, Arminio tornò nella Germania settentrionale, dove i Romani avevano conquistato i territori compresi tra il fiume Reno ed Elba, governati da Publio Quintilio Varo.

Arminio aveva scaltramente conquistato la fiducia di Varo, che non ascoltò le accuse di tradimento dei romani che sospettavano di lui e lo promosse invece suo consigliere militare. 

Anche questo fa sospettare che il sentimento che Varo nutriva verso il giovane non fosse proprio paterno. Varo era un anziano generale, aveva combattuto molto bene e vinto numerose battaglie. 

Sembra impossibile che si lasciasse imbottigliare da un giovane straniero ponendosi addirittura nelle sue mani.

Arminio iniziò segretamente a unire sotto la sua guida diverse tribù di Germani, pur mantenendo il suo incarico di ufficiale della Legione e conquistò talmente la fiducia di Varo, che affidò ai suoi suggerimenti la campagna militare.



LA ROMANIZZAZIONE

Dopo che Tiberio, figlio adottivo di Augusto, aveva completato la conquista della parte settentrionale della Germania con le campagne del 4-5, e domato la rivolta de Cheruscis, i territori compresi tra i fiumi Reno ed Elba erano ormai una vera e propria provincia. La conquista era durata quasi un ventennio.

Sembrava giunto il momento di introdurre nella provincia il diritto e le istituzioni romane. Augusto decise di affidare questo compito a Publio Quintilio Varo. Forse Augusto si aspettava che Publio così colto e di bei modi sapesse trovare il comportamento giusto per accattivarsi la simpatia dei germani, ma non fu così.

MASCHERA ROMANA DA PARATA
RECUPERATA A TEUTOBURGO
Cassio Dione, Storia romana
« …i soldati romani si trovavano là (in Germania) a svernare, e delle città stavano per essere fondate, mentre i barbari si stavano adattando al nuovo tenore di vita, frequentavano le piazze e si ritrovavano pacificamente... non avevano tuttavia dimenticato i loro antichi costumi … ma perdevano per strada progressivamente le loro tradizioni… ma quando Varo assunse il comando dell'esercito che si trovava in Germania … li forzò ad adeguarsi ad un cambiamento troppo violento, imponendo loro ordini come se si rivolgesse a degli schiavi e costringendoli ad una tassazione esagerata, come accade per gli stati sottomessi. I Germani non tollerarono questa situazione, poiché i loro capi miravano a ripristinare l'antico e tradizionale stato di cose, mentre i loro popoli preferivano i precedenti ordinamenti al dominio di un popolo straniero. Pur tuttavia non si ribellarono apertamente… »

Varo non si accorse del  rancore che suscitava con i suoi modi rudi nella popolazione. Era già accaduto, anche se non a lui, nella rivolta dalmato-pannonica a causa dei tributi eccessivi e una cattiva amministrazione provinciale.
Fu esplicativa la frase del capo rivolta, Batone il Dalmata che, catturato da Tiberio,spiegò il perché della ribellione:
« Siete voi i responsabili di questa guerra, poiché in difesa delle vostre greggi inviate come custodi dei lupi anziché dei cani e dei pastori. ».
La rivolta terminò solo dopo 4 lunghi anni di guerra sanguinosa.

Velleio Patercolo, Storia romana
« …Varo credeva che (i Germani) potessero essere civilizzati con il diritto, questo popolo che non si era potuto domare con le armi. Con questa convinzione egli si inoltrò in Germania come se si trovasse tra uomini che godono della serenità della pace e trascorreva il periodo estivo esercitando la giustizia... davanti al suo tribunale… ma i Germani, molto astuti nella loro estrema ferocia e fingendo [di essersi adeguati alla legge romana]... indussero Varo ad una tale disattenzione ai problemi reali, che Varo si immaginava di amministrare la giustizia quasi fosse un Pretore urbano nel Foro romano, non il comandante di un esercito in Germania...»

LEGIONI ROMANE IN VIAGGIO


IL VIAGGIO

Nel settembre dell'anno 9, Varo, finita la stagione di guerra (da marzo ad ottobre), partì verso i campi invernali, che si trovavano ad Haltern, sulla Lippe (tra il fiume Weser e la parte sud-ovest della Selva di Teutoburgo), a Castra Vetera (Xanten) un accampamento semi-permanente in terra e legno posto lungo il Reno, e a Colonia, sempre sul Reno.

Il percorso abituale sarebbe stato quello di scendere dal fiume Weser, attraversare il passo di Doren, e raggiungere l'alto corso della Lippe presso Anreppen, proseguendo fino ad Haltern (la romana Aliso) e di qui al Reno.

Da notare che l'intera area archeologica di Haltern, una serie di campi militari romani in località Haltern am See, ha regalato al mondo un patrimonio di reperti archeologici romani:

- un tesoro di monete (4 d'oro, 309 d'argento e 2561 di bronzo),
- utensileria varia (lampade, candelabri, chiavi, ceramiche pregiate, vetri colorati, pedine da gioco, asce, zappe, tenaglie, falci, uncini da muro, fili a piombo, lingotti di piombo, lingotti di bronzo, incudini, trapano a mano, martelli, seghe)
- armi (pugnali, elmi, umboni degli scudi, foderi di spada, punte di freccia, proiettili per fionda, pilum, frecce per catapulte, tegulae della legio XIX, ecc.),
- oggetti per la cucina (brocche, pentole, ciotole, piatti, tazze, anfore, cucchiaioni, setacci, ecc.),
- oggetti di culto (urne cinerarie, statuette dei Larii, ecc.),
- utensili medici del campo (barattoli per le medicine, pinzette, boccette, bricco, ecc.)
- gioielli (collane, bottoni, anelli, gemme, amuleti, ecc.),
- borchie per i cavalli, campane di bronzo, ecc.

ARMINIO

IL TRADIMENTO

Al comando di tre legioni (la XVII, la XVIII e la XIX), reparti ausiliari (3 ali di cavalleria e 6 coorti di fanteria) e numerosi civili, Varo si spinse verso ovest, affidandosi alle indicazioni degli indigeni poiché non conosceva né il nuovo percorso, né la regione.

Non solo non sospettava che Arminio, ma anzi si riteneva al riparo dai pericoli, ritenendo Arminio di assoluta fedeltà. Tanto che, sia Velleio Patercolo, sia Dione ci raccontano che non prestò fede ad alcuno, incluso Segeste, futuro suocero di Arminio, che lo aveva informato dell'agguato:

Velleio Patercolo, Storia romana:
« …Segeste, un uomo di quel popolo (i Cherusci) rimasto fedele ai Romani, insisteva che i congiurati venissero incatenati. Ma il fato aveva preso il sopravvento ed aveva offuscato l'intelligenza di Varo... egli riteneva che tale manifestazione di fedeltà nei suoi riguardi [da parte di Arminio] fosse una prova delle sue qualità... »

Torna la domanda: perchè Varo era così cieco da non accorgersi di quello di cui tanti altri si accorgevano? Anche se non si fosse lasciato convincere avrebbe preso comunque le sue precauzioni. Solo chi è innamorato rifiuta di credere alle critiche degli altri anche contro l'evidenza.

Cassio Dione Cocceiano, Storia romana:
« ...[Varo] pose la sua fiducia su entrambi [Arminio ed il padre Sigimero], e poiché non si aspettava nessuna aggressione, non solo non credette a tutti quelli che sospettavano del tradimento e che lo invitavano a guardarsi alle spalle, anzi li rimproverò per aver creato un inutile clima di tensione e di aver calunniato i Germani... »

Arminio aveva fatto arrivare la falsa notizia di una rivolta nei pressi del massiccio calcareo di Kalkriese, nel territorio dei Bructeri, e Varo senza dar credito alle voci sospette di un possibile agguato al suo esercito in marcia, per giunta su un percorso fino ad ora mai esplorato, all'interno di una foresta circondata da acquitrini, non utilizzò nè un piano nè una precauzione.

Velleio Patercolo
« ...Varo, certamente uomo serio e di sani principi morali, rovinò se stesso ed un esercito magnifico per la mancanza di cautela, abilità, astuzia proprie di un generale, che per il valore dei suoi soldati... »

Così Arminio condusse le tre legioni romane dentro la trappola che aveva preparato. Praticamente organizzò entrambi gli eserciti avversari. Infatti i legionari romani non solo non furono schierati in assetto di combattimento ma, contro tutte le regole militari romane, furono fatti addentrare in un territorio ostile in normale assetto di marcia e con gli zaini.

Cassio Dione Cocceiano, Storia romana
« ...il piano procedeva come stabilito. [Arminio ed i suoi scortarono Varo] ...e dopo aver ottenuto il permesso di fermarsi ad organizzare le forze alleate per poi andargli in aiuto, presero il comando delle truppe [nascoste nella selva di Teutoburgo], già pronte sul luogo stabilito  ...dopo di ciò le singole tribù uccisero i soldati che erano stati lasciati a presidio dei loro territori... e poi assalirono Varo che si trovava nel mezzo di una foresta da cui era difficile uscirne... e là... si rivelarono nemici... »




LA BATTAGLIA

Varo disponeva di tre intere legioni: la XVII, XVIII e XIX, oltre ad alcune unità ausiliarie (3 ali e 6 coorti), pari a circa 15.000 legionari e 5.000 ausiliari (a ranghi completi).

I Germani di Arminio potevano invece contare su circa 20.000/25.000 guerrieri delle tribù dei Cherusci, Bructeri, oltre probabilmente a Sigambri, Usipeti, Marsi, Camavi, Angrivari e Catti.

L'IMBOSCATA

- I GIORNO-  ATTACCO DEI GERMANI NELLA FORESTA

Varo stava percorrendo un terreno, a lui del tutto sconosciuto, con molti ostacoli e poca visibilità con un esercito che per avanzare si dovette allungare per oltre 3 km e mezzo.

Cassio Dione Cocceiano, Storia romana
« ... il terreno era sconnesso ed intervallato da dirupi e con piante molto fitte ed alte... i Romani erano impegnati nell'abbattimento della vegetazione ancor prima che i Germani li attaccassero... portavano con sé molti carri, bestie da soma... non pochi bambini, donne ed un certo numero di schiavi... nel frattempo si abbatteva su di loro una violenta pioggia ed un forte vento che dispersero ancor di più la colonna in marcia... il terreno così diventava ancor più sdrucciolevole... e l'avanzata sempre più difficile...»

Arminio aveva predisposto con estrema cura tutti i dettagli dell'imboscata:
- aveva scelto il luogo dell'agguato, vale a dire il punto in cui la grande palude a nord, si avvicinava di più alla collina calcarea di Kalkriese, e dove il passaggio era ristretto a soli 80-120 m;
- fatto deviare il normale tracciato della strada, con lo scopo di condurre l'esercito romano in un imbuto, senza uscita;
- fatto costruire un terrapieno (lungo circa 500-600 metri e largo 4-5), dietro cui nascondere parte delle sue truppe ( 20/25.000 armati), lungo i fianchi della collina del Kalkriese (alta circa 100 m), da cui potevano attaccare il fianco sinistro delle truppe romane.

Qui vennero attaccati dai Germani, una coalizione di popoli, sotto il comando di Arminio, che conosceva ottimamente le tattiche belliche romane, avendo egli stesso militato nelle Truppe ausiliarie dell'esercito romano durante la rivolta dalmato-pannonica.

Cassio Dione Cocceiano, Storia romana:
« ... i barbari, grazie alla loro ottima conoscenza dei sentieri, d'improvviso circondarono i Romani con un'azione preordinata, muovendosi all'interno della foresta ed in un primo momento li colpirono da lontano (evidentemente con un continuo lancio di giavellotti, aste e frecce) ma successivamente, poiché nessuno si difendeva e molti erano stati feriti, li assalirono. I Romani, infatti, avanzavano in modo disordinato nel loro schieramento, con i carri e soprattutto con gli uomini che non avevano indossato l'armamento necessario, e poiché non potevano raggrupparsi [a causa del terreno sconnesso e degli spazi ridotti del sentiero che seguivano] oltre ad essere numericamente inferiori rispetto ai Germani che si gettavano nella mischia contro di loro, subivano molte perdite senza riuscire ad infliggerne altrettante... »

Alla fine della giornata, dopo le molte perdite subite, Varo cercò di riorganizzare l'esercito, accampandosi in una zona favorevole, per quanto fosse possibile, su un'altura boscosa.




- II GIORNO - LA DIFESA DI VARO

Il secondo giorno, dopo essersi riposati, bruciarono i carri con la maggior parte dei bagagli per non lasciarli al nemico e continuarono la marcia. Sapevano che sarebbero stati di nuovo attaccati e che avrebbero subito molte perdite, ma ancora speravano di potersi salvare, anche se in pochi. Tentavano di avvicinarsi il più possibile all'accampamento di Castra Vetera sul Reno, dove forse il legato, Asprenate, avrebbe potuto raggiungerli e salvarli.
Ma Asprenate riuscì solamente con le due legioni al suo comando a Castra Vetera, a bloccare sul nascere ogni possibile invasione della Gallia da parte dei rivoltosi germanici.

I Romani avanzarono disposti in schieramenti più ordinati cercando di raggiungere una località in campo aperto, ma sempre combattendo e sempre subendo perdite.

 Arminio sapeva di non dover permettere ai Romani di organizzarsi e schierarsi, perchè avrebbero vinto. Invece nella foresta per quanto cercassero di serrare i ranghi, lo spazio era troppo limitato.

Cassio Dione Cocceiano, Storia romana:
« ...i Romani avevano serrato i ranghi in uno spazio assai stretto, in modo tale che sia i cavalieri sia i fanti attaccassero i nemici con uno schieramento compatto, ma in parte si scontravano tra loro ed in parte andavano ad urtare gli alberi... »




- III GIORNO - MORTE DI VARO E STRAGE DEI ROMANI

Il terzo giorno fu l'ultimo atto della tragedia, i romani già stremati e ridotti dalla guerriglia erano esposti a pioggia e vento battenti, impedendo ai soldati romani di avanzare oltre e di costruire un nuovo accampamento, facendo fatica anche a brandire le armi.

I Germani erano avvantaggiati per armamento più leggero, inoltre attaccavano e fuggivano nella foresta, territorio a loro noto. Inoltre ricevettero aiuti da altre tribù che cominciavano ad avere notizie della battaglia. La fine era ormai scontata.

Cassio Dione Cocceiano, Storia romana:
« ...per questi motivi Varo, e gli altri ufficiali di alto rango, nel timore di essere catturati vivi o di morire per mano dei Germani... compirono un suicidio collettivo ... »

Velleio Patercolo, Storia Romana:
« ...(Quintilio Varo) si mostrò più coraggioso nell'uccidersi che nel combattere... e si trafisse con la spada... »

Non appena si diffuse la notizia, molti soldati romani smisero di combattere preferendo uccidersi o fuggire per non venire catturati. La maggior parte dei romani fu uccisa senza potersi difendere.



I BARBARI E LA BARBARIE

Velleio Patercolo, Storia Romana:
« ...Lucio Eggio diede un esempio di valore al contrario di Ceionio che... propose la resa e preferì morire torturato piuttosto che in battaglia... Vala Numonio, legato di Varo, responsabile di un fatto crudele, abbandonando la fanteria senza l'appoggio della cavalleria, poiché provò a fuggire con le ali di cavalleria verso il Reno, ma il destino vendicò questo suo gesto vigliacco... e morì da traditore... »

« ...Poiché i Germani sfogavano la loro crudeltà sui prigionieri romani, Caldo Celio (caduto prigioniero), un giovane degno della nobiltà della sua famiglia, compì un gesto straordinario. Afferrate le catene che lo tenevano legato, se le diede sulla testa con tale violenza da morire velocemente per la fuoriuscita di copioso sangue e delle cervella... »

I germani infatti si lasciarono andare ad atrocità, e le testimonianze dei pochi sopravvissuti riferirono di torture e mutilazioni perpetrate sui legionari catturati.
Floro, Epitome de T. Livio Bellorum omnium annorum
« ...nulla di più cruento di quel massacro fra le paludi e nelle foreste... ad alcuni soldati romani strapparono gli occhi, ad altri tagliarono le mani, di uno fu cucita la bocca dopo avergli tagliato la lingua... »
Gran parte dei superstiti vennero sacrificati alle divinità germaniche o scambiati con prigionieri germanici o riscattati, visto che durante la spedizione del 15, sei anni dopo, Germanico si fece ricondurre sul campo di Kalkriese valendosi dei pochissimi superstiti della battaglia per riconoscere il luogo, onde dare degna sepoltura ai soldati morti sei anni prima. E qui vide lo scempio crudele e il massacro.

Cornelio Tacito, Annali
« [Germanico vide che] ...nel mezzo del campo biancheggiavano le ossa ammucchiate e disperse... sparsi intorno... sui tronchi degli alberi erano conficcati teschi umani. Nei vicini boschi sacri si vedevano altari su cui i Germani avevano sacrificato i tribuni ed i principali centurioni... »

Quindi a capo di una coalizione formata da Cherusci, Marsi, Catti e Bructeri, il giovanissimo Arminio (aveva 25 anni) aveva annientato l'esercito di Varo di 20.000 unità nella battaglia di Teutoburgo, circa 20 Km a nord-est di Osnabrück.



IL SEGUITO IN GERMANIA

Cassio Dione Cocceiano
« I barbari si impadronirono di tutti i forti [romani] tranne uno, nei pressi del quale furono impegnati, non poterono attraversare il Reno ed invadere la Gallia... la ragione per cui non riuscirono ad occupare il forte romano è da attribuirsi alla loro incapacità nel condurre un assedio, mentre i Romani facevano un grande utilizzo di arcieri, respingendo ed infliggendo numerose perdite ai barbari... e si ritirarono quando vennero a sapere che i Romani avevano posto una nuova guarnigione a guardia del Reno [ Asprenate] e dell'arrivo di Tiberio, che sopraggiungeva con un nuovo esercito... »

Velleio Patercolo 
« ...Meritevole di lode è anche il valore di un certo Lucio Cedicio, prefetto del campo di Aliso e dei soldati con lui rinchiusi, i quali furono assediati da soverchianti forze germaniche, ma superate tutte le difficoltà, che parevano insuperabili per la forza del nemico germanico... colto il momento favorevole, si conquistarono con le armi la possibilità di ritornare tra i loro... [Castra Vetera] »
E questo fu l'unico forte a scampare il massacro.



IL SEGUITO A ROMA

La notizia, giunta a Roma a soli cinque giorni dal trionfo su Dalmati e Pannoni, come narra Svetonio, sconvolse non solo i romani abituati alle continue vittorie, ma anche Augusto,  ormai anziano e debole, che da allora non volle più germani accanto a sé:

Svetonio, Vite dei dodici Cesari
« Quando giunse la notizia... dicono che Augusto si mostrasse così avvilito da lasciarsi crescere la barba ed i capelli, sbattendo, di tanto in tanto, la testa contro le porte e gridando: "Varo rendimi le mie legioni!". Dicono anche che considerò l'anniversario di quella disfatta come un giorno di lutto e tristezza. »

Cassio Dione Cocceiano, Storia Romana
« ...Augusto quando seppe quello che era accaduto a Varo, stando alla testimonianza di alcuni, si strappò la veste e fu colto da grande disperazione non solo per coloro che erano morti, ma anche per il timore che provava per la Gallia e la Germania, ma soprattutto perché credeva che i Germani potessero marciare contro l'Italia e la stessa Roma.»

« ...Augusto poiché a Roma vi era un numero elevato di Galli e Germani... nella Guardia Pretoriana... temendo che potessero insorgere... li mandò in esilio in diverse isole, mentre a coloro che erano privi di armi ordinò di allontanarsi dalla città.... »

Ovidio, Tristia
« [Arminio] tese ai nostri un'imboscata, in modo sleale, coprendosi il volto ispido con i lunghi capelli. Egli fece sacrificare i prigionieri ad un dio che li rifiutava..»



IL TIMORE DELLA VENDETTA

Dopo questa vittoria, Arminio tentò inutilmente di creare un'alleanza permanente dei popoli germanici con cui far fronte all'inevitabile vendetta romana.
Incoraggiato dal grande successo militare, avrebbe voluto incalzare il nemico, alleandosi con l'altro grande
sovrano germano Maroboduo, il re dei Marcomanni, un grande re e condottiero.

DINAMICHE DELLA BATTAGLIA (cartina zommabile)
Velleio Patercolo, Storia romana:
« In breve Maroboduo condusse ad altissimo prestigio le sue forze militari che difendevano il suo regno, tanto da essere temibile anche al nostro impero, e le abituò, con continui esercizi, ad un tipo di disciplina quasi simile a quella romana. Nei confronti dei Romani egli si comportava in modo da non provocarci a battaglia, ma da mostrare che non gli sarebbe mancata né la forza né la volontà di resistere, qualora fosse stato da noi attaccato... In tutto si comportava come un rivale, pur cercando di non darlo a vedere, esercitando con guerre continue contro i popoli limitrofi, il suo esercito composto da 70.000 fanti e 4.000 cavalieri... »

Tiberio studiava di attaccarlo con ben 8-9 legioni quando scoppiò la rivolta di Pannonia e Dalmazia. Allora concluse in fretta un trattato di alleanza con Maroboduo per dedicarsi alla rivolta.

Arminio tentò di convincerlo ad allearsi con lui per invadere l'impero romano (Arminio dal Reno e Maroboduo dal Danubio), inviandogli la testa del generale Publio Quintilio Varo. Un'invasione su due fronti sarebbe stato difficile da gestire anche per i romani. Ma Maroboduo non raccolse l'invito, tenendo fede ai patti stipulati con Tiberio.

Maroboduo avrà riflettuto che Roma in passato, quando era stata in pocinto di soccombere contro Annibale, era infine riuscita a distruggere completamente Cartagine. Maroboduo sapeva che Roma, se avesse resistito, per ritorsione avrebbe distrutto il suo regno inglobandone i territori. Meglio quindi rimanerne alleato e regnare per altri anni. E così fu.

Velleio Patercolo:
« La crudeltà dei nemici germani aveva fatto a pezzi il cadavere, quasi completamente carbonizzato, di Varo, e la sua testa, una volta tagliata, fu portata a Maroboduo, il quale la inviò a Tiberio Cesare, perché fosse seppellita con onore.... »



DOPO LA SCONFITTA

Per Roma fu una fortuna che Maroboduo mantenne i patti, ma non per lui. Infatti nel 18, Arminio, a capo di una confederazione di genti germane, lo sfidò e lo sconfisse.

Il re ormai solo, fuggì e si rifugiò a Ravenna da dove chiese asilo politico a Tiberio e l'imperatore glielo accordò. (17-18)

Ora però necessitava una reazione militare immediata o la debolezza dell'Impero avrebbe potuto incoraggiare i nemici a invadere i territori della Gallia e magari dell'Italia. Roma stessa era a rischio.

Per reclutare un nuovo esercito Augusto fu costretto anche ad arruolare liberti:
Cassio Dione Cocceiano:
« ...Augusto organizzò comunque le rimanenti forze con ciò che aveva a disposizione... arruolò nuovi uomini... tra veterani e liberti e poi li inviò con la massima urgenza, insieme a Tiberio, nella provincia di Germania.... »

Svetonio, Augustus
« ..due volte soltanto arruolò i liberti come soldati: la prima volta fu per proteggere le colonie vicine dell'Illirico, la seconda per sorvegliare la riva del Reno. Erano schiavi che provenivano da uomini e donne facoltosi, ma egli preferì affrancarli subito e li collocò in prima linea, senza mescolarli ai soldati di origine libera (peregrini) e senza dar loro le stesse armi.»



TIBERIO

Il figlio adottivo di Augusto, Tiberio non si dimostrò poi un valente imperatore, però prima di diventarlo si dimostrò un valentissimo generale che non conobbe sconfitte.

TIBERIO
Velleio Patercolo
« ... (Tiberio) viene inviato in Germania, e qui rafforza le Gallie, prepara e riorganizza gli eserciti, fortifica i presidi e avendo coscienza dei propri mezzi, non timoroso di un nemico che minacciava l'Italia con un'invasione simile a quella dei Cimbri e dei Teutoni, attraversava il Reno con l'esercito e passava al contrattacco, mentre al padre Augusto ed alla patria sarebbe bastato di tenersi sulla difensiva. Tiberio avanza così in territorio germano, si apre nuove strade, devasta campi, brucia case, manda in fuga quanti lo affrontano e con grandissima gloria torna ai quartieri d'inverno senza perdere nessuno di quanti aveva condotto al di là del Reno.... »

Non solo, negli anni successivi, dal 10 al 12, guidò gli eserciti ancora al di là del Reno:
Velleio Patercolo
« ...abbatté le forze nemiche in Germania, con spedizioni navali e terrestri, e placate più con la fermezza che con i castighi la pericolosissima situazione nella Gallia e la ribellione sorta tra la popolazione degli Allobrogi... »

Siamo nell'11 d.c., i germani vengono attaccati di nuovo, ma senza grande successo. Le campagne che seguirono, sotto il comando di Tiberio a cui partecipò anche Germanico, figlio adottivo di Tiberio, volute da Augusto, dovevano scoraggiare sia l'invasione germanica, sia sommosse in Gallia, profittando della momentanea debolezza dell'impero.

Cassio Dione Cocceiano
«  ...Tiberio e Germanico, quest'ultimo in veste di proconsole, invasero la Germania e ne devastarono alcuni territori, tuttavia non riportarono alcuna vittoria, poiché nessuno gli si era opposto, né soggiogarono alcuna tribù... nel timore di cadere vittime di un nuovo disastro non avanzarono molto oltre il fiume Reno. »

VESSILLO DELLE LEGIONI ROMANE

L'ONORE DI ROMA

Nel 14 muore Augusto e gli succede Tiberio che consentì a Germanico, figlio del fratello scomparso Druso, di compiere tre nuove campagne nel territorio dei Germani, dal 14 al 16.

Gli affidò pertanto ben 8 legioni oltre alle truppe ausiliarie, per togliere l'onta delle tre aquile legionarie sottratte nella battaglia di Teutoburgo.

Di queste una fu trovata da un soldato di Germanico, che ritrovò l'aquila della Legio XIX recuperandola dai Bructeri nel 15; la seconda aquila Germanico la ritrovò interrogando  il capo dei Marsi fatto prigioniero dopo la battaglia di Idistaviso nel 16.

Non ritrovò invece la terza insegna, che venne recuparata solo nel 41 da Publio Gabinio presso i Cauci, secondo Dione Cassio Cocceiano nella sua storia romana e secondoTacito, negli Annales, al tempo dell'imperatore Claudio, fratello di Germanico.

Può apparire strano che si muova un esercito solo per recuperare i vessilli delle legioni, ma questi, cioè le aquile erano il simbolo di Roma e nessuno poteva vantarsi di averle strappate a una legione romana. Ovvero poteva ma l'avrebbe pagato caro.

L'onore di Roma era legato anche a queste insegne e nessun romano si sarebbe sentito tranquillo finchè quelle insegne non fossero tornate in patria.

Si può pensare che le aquile potessero essere semplicemente scomparse, magari sotterrate da pioggia e polvere, ma tutti gli stranieri sapevano il valore di quelle aquile e averle era un grande segno di potere, perchè significava aver sconfitto Roma.

Per questo quelle aquile dovevano tornare all'esercito romano.



ARMINIO E GERMANICO (14-16)

Negli anni 14-16 le armate romane, guidate da Germanico, degno figlio del valoroso padre, si recarono in Germania, con vittorie e devastazioni, ma soprattutto sconfiggendo Arminio e le sue tribù alleate.

Nel 16 Germanico sconfisse nfatti Arminio in due battaglie presso il fiume Weser: prima nella piana di Idistaviso e subito dopo di fronte al Vallo degli Angrivari.

GERMANICO
Arminio sembrava ormai totalmente sconfitto quando Germanico venne richiamato a Roma dall'imperatore Tiberio. Qualcuno pensò per invidia altri per rispetto dei consigli di Augusto, ma soprattutto perchè la Germania era povera, i bottini scarsi e la sua gente troppo bellicosa. Non ne valeva la pena.

L'anno successivo, nel 19, Arminio fu assassinato dai suoi sudditi, che temevano il suo crescente potere:

« Apprendo dagli storici e dai senatori contemporanei agli eventi che in Senato fu letta una lettera di Adgandestrio, capo dei Catti, con la quale prometteva la morte di Arminio se gli fosse stato inviato un veleno adatto all'assassinio. Gli fu risposto che il popolo romano si vendicava dei suoi nemici non con la frode o con trame occulte, ma apertamente e con le armi [...] del resto Arminio, aspirando al regno mentre i Romani si stavano ritirando a seguito della cacciata di Maroboduo, ebbe a suo sfavore l'amore per la libertà del suo popolo, e assalito con le armi mentre combatteva con esito incerto, cadde tradito dai suoi collaboratori. Indubbiamente fu il liberatore della Germania, uno che ingaggiò guerra non al popolo romano ai suoi inizi, come altri re e comandanti, ma ad un Impero nel suo massimo splendore. Ebbe fortuna alterna in battaglia, ma non fu vinto in guerra. Visse trentasette anni e per dodici fu potente. Anche ora è cantato nelle saghe dei barbari, ignorato nelle storie dei Greci che ammirano solo le proprie imprese, da noi Romani non è celebrato ancora come si dovrebbe, noi che mentre esaltiamo l'antichità non badiamo ai fatti recenti. »



LA RINUNCIA AL SUOLO GERMANICO

La clades variana, considerata una delle più grandi disfatte subite dall'Impero romano anche se non ai livelli della battaglia di Canne, dove il nemico aveva invaso il suolo italico, probabilmente fece rinunciare ad Augusto e ai suoi successori, la conquista dei territori germani compresi tra il Reno ed il fiume Elba. 

Forse perchè Augusto aveva ormai 72 anni, si che consigliò nelle Res Gestae Divi Augusti a Tiberio, di non ritentare conquiste oltre il Reno e il Danubio). Ma pure perchè il territorio germanico, ricoperto da foreste ed acquitrini, e con poche materie prime, non valeva la candela.

C'era stata poi la rivolta dalmato-pannonica, soli 5 giorni prima della clades variana, costata l'intervento di ben 10 legioni e 4 anni di guerra, oltre alla nuova rivolta in Gallia tra gli Allobrogi, con il rischio che si estendesse all'intera provincia; in più l'urgenza di conquistare la Boemia, per portare i confini sull'Elba.

Le ragioni che portarono a questa decisione furono in primo luogo il consilium coercendi intra terminos imperii di Augusto, ovvero alla decisione di mantenere i confini dell'impero invariati, cercando di salvaguardare i territori interni e di assicurarne la PAX ROMANA.

I Romani non tentarono più di conquistare le terre al di là del Reno, che segnò per secoli il confine tra l'Impero e il mondo barbarico. I romani stupirono che si potesse scegliere di restare presso un popolo barbaro e sanguinario piuttosto che diventare agiato in un contesto civile come quello di Roma.

E si fa fatica a capirlo ancora oggi, visto che la vera tirannia non era quella romana ma quella dei capi tribù che avevano diritto di vita e di morte su tutti i membri della tribù che a loro volta avevano diritto di vita e di morte su mogli e figli.

Gli imperatori romani che si susseguirono nei secoli decisero di non battezzare più altre legioni con il nome delle tre sfortunate legioni annientate a Teutoburgo (XVII, XVIII e XIX). 




A MEMORIA DELLA BATTAGLIA

Il materiale archeologico trovato sull'area della battaglia, in una superficie complessiva di 5 per 6 km, fu di oltre 4.000 oggetti di epoca romana:

- 3.100 pezzi militari come parti di spade, pugnali, punte di lance e frecce, proiettili utilizzati dalle fionde delle truppe ausiliarie romane, dardi per catapulte, parti di elmi, parti di scudi, una maschera da parata in ferro ricoperta d'argento, chiodi di ferro delle calzature dei legionari, piccozze, falcetti, vestiario, bardature di cavalli e muli, strumenti chirurgici;
- alcuni oggetti femminili come forcine, spille e fermagli a testimonianza della presenza di donne tra le file dell'esercito romano in marcia;
- 1.200 monete, coniate tutte prima del 14 d.c.;
- numerosi frammenti ossei di uomini ed animali (muli e cavalli);
- un terrapieno lungo 600 metri e largo 4,5 metri, che si estendeva alla base della colline di Kalkriese in direzione est-ovest, dove i Germani si appostarono aspettando le legioni, dal quale sferrarono il primo attacco, nel punto più stretto tra la collina e la Grande palude ora una piccola valle.

 Per riscattare l'onore dell'esercito sconfitto, i Romani avevano fatto una guerra durata sette anni, al termine della quale rinunciarono a ogni ulteriore tentativo di conquista della Germania. Il Reno si consolidò come definitivo confine nord-orientale dell'Impero per i successivi 400 anni.



OGGI IN GERMANIA

Berlino ricorda la sconfitta romana.
Duemila anni dopo, un 55 centesimi sottolinea la battaglia per la quale il generale Publio Quintilio Varo si uccise

"Una battaglia leggendaria, cui la tradizione lega la fine del predominio romano in Germania. 

Duemila anni dopo è difficile capire se lo scontro tra le truppe dirette dal governatore e generale imperiale Publio Quintilio Varo e le tribù locali guidate dal principe dei cheruschi Arminio fu decisivo.

Ma tant’è: cominciato il 9 settembre del 9 d.C. nella selva di Teutoburgo, a metà strada tra le attuali Dortmund e Hannover, fu tragico. 

Si concluse solo due giorni dopo con la totale sconfitta dei legionari al servizio di Roma e la morte dello stesso Varo, uccisosi dopo essere stato ferito.

Le iniziative per il bimillenario prevedono, fra l’altro, un francobollo da 55 centesimi in uscita oggi. Offre una maschera, il busto dell’imperatore Augusto e, in uno sfondo che richiama la foresta, lo storico monumento ad Arminio, edificato nel 1875
."



COMMENTO

L'Hermannsdenkmal, è la statua in rame di Arminio, divenuto eroe nazionale tedesco, alta 26 metri, situata a Detmold nella regione westfalica. Un eroe che vinse tradendo chi per anni aveva creduto in lui, a cominciare dal suo capitano e a finire con tutti i suoi compagni. Arminio divenne, in qualità di liberatore della Germania, eroe nazionale, ma non vinse in guerra, vinse perchè fu falso e ambizioso.

E' evidente che la ragione del suo tradimento fu la speranza di diventare capo dei Germani. Cesare disse che era meglio essere il primo di una tribù che essere secondo a Roma. Ma Cesare era Cesare e divenne primo combattendo e non brigando tradimenti e sotterfugi.

Arminio aveva combattuto per anni e anni a favore dei romani, con i romani. Aveva palpitato per le stesse battaglie, era vissuto a Roma, aveva amato le donne romane, studiato il diritto romano, ammirato l'arte romana, e soprattutto aveva visto la città più bella del mondo, del mondo di ieri e di oggi: Roma.

Un eroe non può essere un traditore. Ne fa testo la grande dignità romana: - in Senato fu letta una lettera di Adgandestrio, capo dei Catti, con la quale prometteva la morte di Arminio se gli fosse stato inviato un veleno adatto all'assassinio. Gli fu risposto che il popolo romano si vendicava dei suoi nemici non con la frode o con trame occulte, ma apertamente e con le armi. -

L'importanza della battaglia di Teutoburgo fu celebrata dall'Impero tedesco e, successivamente, dal regime nazista come momento di nazionalismo tedesco. Nella zona dove si svolse la battaglia della foresta di Teutoburgo è stato eretto, tra il 1841 e il 1875, un monumento ad Arminio chiamato Hermannsdenkmal (letteralmente Monumento di Arminio).

Ricordiamo, nel 2009, la faccia giuliva della Merkel che in TV esibiva i festeggiamenti per il bimillenario della sconfitta romana. Cosa curiosa, dopo circa una settimana, la stessa ministra mostrava con la stessa euforia in TV un piede di marmo e una mascella, dissepolte durante scavi archeologici. Brandendo il piede con tanto di sandalo romano disse che forse era un piede di Augusto e che forse anche la mascella era sua.

Tanta euforia per un piede? Eh si, perchè evitando l'occupazione romana la Germania non solo ha rinunciato a tanti reperti romani che tutti cercano e valorizzano, ma ha evitato soprattutto che la sua terra si civilizzasse.

L'ha privata del diritto, della cultura e dell'arte. Per questa mancanza una parte della Germania è rimasta un po' barbara. Non si capisce guardando le sue città peraltro molto ben tenute, nè la sua amministrazione, peraltro molto migliore di tante altre a cominciare dalla nostra, ma si capisce leggendo la storia, dai cavalieri teutonici all'impero austro-ungarico, e alle atrocità dell'ultima guerra, dove si perseguitarono uomini solo per questioni di razza pura.

 Quel piede forse potrebbe appartenere a un grandissimo imperatore romano che accolse ogni razza e ogni religione nel suo potentissimo impero. "Il resto è silenzio"

MONUMENTO FUNERARIO DEI RABIRI

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Un blocco marmoreo con iscrizione funeraria e i ritratti dei defunti venne rinvenuto sul lato destro della via Appia, fu murato, nella ricostruzione fatta dal Canina del sepolcro dei Rabirii, insieme ad altri frammenti superstiti della decorazione architettonica. Il marmo di altezza cm 88, larghezza cm 183 e spessore cm 34, fu trasportato nel 1972 nel Museo Nazionale Romano, è attualmente conservato nell’aula III del Chiostro di Michelangelo, nelle Terme di Diocleziano. Presso il sepolcro invece è stato collocato un calco.

Iscrizione:
C(aius) Rabirius, Post(umi) l(ibertus),
Hermodorus;
Rabiria
Demaris;
Usia Prima, sac(erdos)
Isidis.

che significa:
Gaio Rabirio Ermodoro, liberto di Postumo; Rabiria Demaris; Usia Prima, sacerdotessa di Iside.

Questo tipo di rilievo, che veniva inserito esternamente sulla fronte del sepolcro per ricordare i defunti tramite il ritratto e in alcuni casi con il supporto dell’iscrizione, era una produzione funeraria in voga tra la fine della repubblica ed i primissimi anni dell’impero. I tre ritratti, a mezzo busto, sono scolpiti entro una nicchia piuttosto profonda, con i due personaggi sulla sinistra, un uomo ed una donna, che fanno gruppo a sè e sono i titolari del sepolcro, con una omogeneità nella raffigurazione della maniera tardo-repubblicana, che bada poco alle caratteristiche personali, come farà al massimo nel periodo imperiale, ma molto al ruolo e al rigore.

I due volgono la testa leggermente verso sinistra, lui ha il volto con gli zigomi alti e sporgenti, la fronte solcata da rughe e le labbra serrate; lei ha una pettinatura austera, con i capelli divisi da una scriminatura centrale in due bande strettamente attorcigliate, che partono dalla nuca e si serrano anteriormente in un nodo, che costituisce una variante dell’acconciatura con trecce a cerchio, tipica dell’età repubblicana.

Sulla destra invece c'è un terzo personaggio, una donna con la testa leggermente volta verso destra, piuttosto diversa rispetto agli altri due. Si nota che il personaggio, pur essendo donna, è stato ricavato dalla rilavorazione di un busto maschile di togato, predisposto nella bottega del lapicida, forse per eventuali successivi defunti. Anche il piano di fondo del ritratto è stato notevolmente ribassato per ottenere le raffigurazioni del sistro, lo strumento musicale a scuotimento di Iside e della patera, il piatto delle offerte rituali, simboli del culto di Iside riferibili al sacerdozio della defunta, come di dichiara nell’iscrizione. Il modellato più morbido, l’uso del trapano nella realizzazione della capigliatura, e la stessa acconciatura inseriscono questo ritratto in età claudia, cioè intorno alla prima metà del I sec. d.c.

Esaminando l’iscrizione, si legge che i defunti originari sono il liberto C. Rabirio Ermodoro e Rabiria Demaris. Anche quest’ultima, che non dichiara la sua condizione, è probabilmente una liberta, come fa sospettare il nome greco Demaris, forse compagna di schiavitù (poi liberata) ed evidentemente di vita del personaggio maschile.



LA CAUSA DI RABIRIO

In questa iscrizione il patronus di Ermodoro è verosimilmente un personaggio noto, identificato dagli studiosi con il cavaliere di età cesariana Caio Curzio Postumo, della gens Curzia, che, a seguito di adozione testamentaria da parte di uno zio materno, nel 54 a.c., assunse il cognomen di Rabirio. Pertanto il liberto Ermodoro, secondo gli usi, prese a sua volta questo gentilizio e fu affrancato dopo il 54 a.c..

Questo personaggio consente di ricostruire alcuni aspetti della sua vita e di chiarire questa iscrizione: infatti sappiamo da Cicerone, il noto avvocato e oratore romano del I sec. a.c.,  che scrisse in difesa di C. Rabirio Postumo la “Pro Rabirio”, orazione che da lui prende nome, che egli soggiornò a lungo ad Alessandria d’Egitto.

Gaius Rabirius fu un senatore coinvolto nella morte di Lucius Appuleius Saturninus. Titus Labienus (il cui zio aveva perso la vita ad opera dei seguaci di Saturninus), venne posto da Julius Caesar come accusatore di Rabirius per l'implicazione nell'omicidio.
Lo scopo di Cesare era di mettere in guardia il senato contro le interferenze dei movimenti popolari, per affermare la sovranità del popolo e l'inviolabilità della persona dei tribuni, al tempo della congiura di Lucio Sergio Catilina  L'accusa obsoleta di perduellio fu rilanciata, e vennero ascoltati per primi Cesare e suo cugino Lucius Julius Caesar come commissari speciali (duoviri perduellionis). Rabirius venne condannato, e il popolo, al quale l'accusato aveva rivolto il diritto di appello, fu sul punto di ratificare la decisione, quando Quintus Caecilius Metellus Celer tirò giù la bandiera militare del Gianicolo, segno di scioglimento dell'assemblea. Cesare, avendo ottenuto lo scopo, lasciò cadere la questione. La difesa fu presa da Marcus Tullius Cicero, console quell'anno; the speech is extant: Pro Rabirio reo perduellionis.
, e il caso è stato sentito prima Cesare e il suo cugino Lucio Giulio Cesare come appositamente nominato commissari (duoviri perduellionis). Rabirio è stato condannato, e il popolo, al quale l'accusa aveva esercitato il diritto di appello, erano sul punto di ratifica della decisione, Quinto Cecilio Metello Celere Quando tirato giù la bandiera militare dal Gianicolo, che era in forma di scioglimento del montaggio. Cesare beens oggetti Dopo aver raggiunto, quindi la questione è stata lasciata cadere. La difesa è stata presa da Marco Tullio Cicerone, console, al momento, il discorso è ancora esistente: Pro Rabirio perduellionis reo.

Con ogni probabilità dall’Egitto, culla del culto di Iside, da cui si è diffuso nel territorio italico e poi a Roma attraverso i mercanti della Penisola che vi entravano in contatto durante i commerci con il mondo greco orientale, Gaio Rabirio Postumo condusse con sé a Roma in schiavitù dei seguaci della dea, quali dovettero essere Hermodorus e Demaris, come suggerirebbe la presenza, nel loro sepolcro, di Usia Prima, che di Iside è sacerdotessa. 
Infatti, per la donna, morta successivamente alla predisposizione della sepoltura, come suggerito inequivocabilmente dal ritratto e dai caratteri dell’iscrizione, ambedue aggiunti in un secondo momento riadattando il rilievo, si può ipotizzare con loro o con i loro eredi che ne hanno consentito la sepoltura nello stesso sepolcro, un rapporto nato nell’ambito del culto di Iside, diffuso soprattutto tra schiavi e liberti e negli strati più umili della popolazione romana. L’iscrizione dei Rabiri è quindi databile nella seconda metà del I secolo a.c., quella di Usia Prima intorno alla metà del I secolo d.c.

Ma ciò che colpisce particolarmente del sepolcro è che metà di esso venne occupato dalla coppia, e l'altra metà dalla donna che tuttavia non è al centro della seconda parte del sarcofago ma lascia accanto a sè un posto in più, ma troppo stretto per essere occupato da altri. Il posto in effetti è occupato, ma non da un uomo, bensì da una patera, ovvero da un "umbone solare".

Essendo stato lasciato libero mezzo sepolcro la donna poteva occuparne un terzo lasciando un ulteriore posto libero per qualcun altro, tanto più che la spalla destra della sacerdotessa è molto più larga non solo della sua spalla sinistra ma persino di quella di Hermodorus. Invece il quarto posto fu occupato da un emblema, quello del sole. Questo emblema lo troviamo spesso ai lati delle erme romane, da un lato c'è una brocca e dall'altro c'è il sole.
Come dire  l'acqua e il fuoco, o il maschile e il femminile. Anch'essa dunque è in coppia, ma col suo maschile interiore, direbbe Freud, come dire che si è realizzata interiormente attraverso la via spirituale connessa al cammino misterico dei veri deguaci di Iside.


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OCRICULUM - OTRICOLI (Umbria)

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COPIA DEI MOSAICI DI OTRICOLI ALL'HEREMITAGE DI PIETROBURGO

Comune romano della Regio VI, situato sulle rive del Tevere, nella attuale provincia di Terni. Originariamente era un centro umbro posto sul colle dove sorge l'attuale Otricoli, e venne ricostruito in epoca romana nel fondovalle, più vicino al Tevere.

La città romana, situata dunque nelle vicinanze di una grande ansa del Tevere, era munita di un porto detto “Porto dell’Olio”. Ciò contribuì non poco alla prosperità di Ocricoli, per gli abbondanti commerci in prodotti fittili, e naturalmente in olio, di cui la terra circostante è tutt'ora ottima produttrice.

In età imperiale ebbe il suo massimo splendore con un’economia basata sull’agricoltura, sul commercio e sull’industria figulina: famose le particolari coppe a rilievo dette “coppe di Popilio” e le fabbriche di tegole e bolli.

Ma il porto era inoltre importante per il resto dell’Umbria, visto il fiume era da qui facilmente navigabile, per arrivare soprattutto a Roma.

In epoca imperiale la storia del fiume è legata alla rete commerciale del Mediterraneo, avente come fulcro il Porto di Ostia e come secondo scalo portuale del Tevere: “il Porto dell’Olio” di Ocriculum che rimase una fondamentale arteria di trasporto fino a tutto il ‘700.

Si ritiene che il percorso dell’antica Via Flaminia seguisse l’attuale strada statale e comunale ad est di Ocriculum, proseguendo poi sul crinale che porta all’attuale Otricoli, dove costeggiava le mura del centro umbro-medioevale ricco di reimpieghi romani.

IL GIOVE DI OCRICULUM
E' possibile inoltre che la strada che dalla statale, si dirige verso Ocriculum per attraversarla e poi ricongiungersi con la strada attuale poco oltre verso nord, fosse uno, se non il principale percorso della consolare Flaminia, tanto più che questa via era costeggiata da ben diciassette monumenti funerari prima di entrare nella città romana.
 
Dei mausolei superstiti, di cui, numerosi con pianta quadrangolare, sono singolari “il Torrone” con forma di torre circolare, e, a nord dell’anfiteatro, un imponente struttura a tamburo su plinto quadrato.

L'area archeologica che si può visitare si trova vicina a Otricoli, città che si alza sopra le rovine del primo insediamento Sabino-umbro. Nell'area archeologica si possono visitare i resti di una antica città romana, senza mura, con notevolissimi edifici pubblici. 

L’insediamento romano nacque probabilmente dopo la guerra che alla fine del IV sec. a.c. vide la distruzione del centro umbro fortificato, di cui si trovano testimonianze nell’agglomerato medievale di Otricoli, attualmente abitato. 

Questi imponenti resti vennero conosciuti fin dal Rinascimento ma non sappiamo con quali asportazioni o demolizioni.

Dal 1700 poi vennero eseguiti degli scavi, riportando alla luce una quantità enorme di opere d'arte e di iscrizioni. Celeberrimo ritrovamento fu la bellissima statua del Giove di Otricoli, nonchè gli splendidi musei delle Terme, oggi custoditi nei Musei Vaticani assieme a molti altri reperti della città.



I primi scavi regolari furono condotti durante il pontificato di Pio VI e fecero emerrgere molti edifici monumentali, coma la Basilica e le Terme ma tutte le numerose opere d’arte rinvenute (mosaici, sculture, iscrizioni) furono trasportate ai Musei Vaticani; in particolare un mosaico policromo. rinvenuto integro nelle Terme e talmente bello che l'Heremitage ne conserva una copia, nonchè la testa colossale di Giove alta 58 cm, trasportate a Roma per via fluviale.

Nonostante la chiara identificazione dei monumenti fino ad oggi rinvenuti, non resta evidente però la topografia della città, dato che mancano scavi sistematici che possano restituirle il volto antico. Dalle razzie settecentesche molto poco è stato fatto.

Vi si possono ammirare i resti del:
- tempio di Giove datati nel sec. I a.c. 
- lo spettacolare teatro del I sec. d.c. 
- l'anfiteatro, sempre del I sec. d.c.
- una imponente Costruzione ad Arcate che sosteneva uno dei monumenti più importanti della città, forse il Capitolium.
- le terme, del II sec. d.c. un tempo ricche di mosaici figurati, costruite su una spianata artificiale, creata inserendo l'oggi sottostante rio San Vittore in un cunicolo sotterraneo.
- una fontana publica monumentale, 
- un ninfeo, 
- i resti di un mausoleo 
- un pezzo della via Flaminia. 
- un imponente ponte romano opera di Augusto sul fiume Nera, nella città di Narni, restaurato poco tempo fa, si erge a pochi km dal sito archeologico.

IL TEATRO

PICCOLE SOSTRUZIONI

Il percorso pedonale principale, entrando all’interno della città di Ocriculum, attraversa i resti di ambienti, in opera reticolata, le cosiddette Piccole Sostruzioni e raggiunge l’area del Foro e della Basilica, da cui provengono iscrizioni onorarie e di carattere pubblico, un gruppo statuario dell’età giulio claudia, trasportate ai Musei Vaticani e pertinenti alla Basilica, e altre effigi imperiali, recuperate durante gli scavi pontifici settecenteschi, che attestano la presenza di un secondo monumento pubblico adibito al culto imperiale. Tutti questi edifici non sono attualmente visibili, restano solo scarsi resti murari, affioranti in questo piano di campagna. 


GRANDI SOSTRUZIONI

Le “Grandi Sostruzioni”, situate a destra del percorso principale, rappresentano uno dei monumenti più caratteristici e imponenti di Ocriculum. Questo complesso, lungo circa 80 metri e costituito da 12 ambienti a volta disposti su due piani, fu costruito con lo scopo di contenere il terreno. In età tardo repubblicana, doveva sostenere un edificio pubblico di cui non rimane traccia: secondo alcuni era la base del capitolium, secondo altri, dati anche alcuni frammenti di reperti, un edificio che faceva parte di una grande terrazza probabilmente pertinente ad un santuario dedicato alla Dea Valentia.

Questa Dea sembra fosse adorata dagli aborigeni sul colle Palatino di Roma, e si tramanda che questo fosse il nome primevo, poi sostituito con Roma. Il nome segreto e impronunciabile sarebbe stato questo e da questo deriverebbe il saluto romano. Vale. Valentia era la Dea della guarigione.



IL TEATRO

TEATRO

Edificato in opus reticolatum è situato a destra delle Grandi Sostruzioni utilizzando il pendio del terreno retrostante, e risale al I sec. d.c. di età augustea. 
Esso è costituito da una cavea di circa m. 79 di diametro, divisa orizzontalmente in tre parti, sormontata da due ambulacri è collegata alla galleria tramite alcune aperture. Davanti alla cavea, su una spianata artificiale sorretta da sostruzioni, si trovava la scena (di cui non rimane nulla) adornata di statue e decorazioni tra cui probabilmente le due colossali Muse sedute ora conservate nella sala a croce dei Musei Vaticani. 


LE TERME

TERME

Le Terme sono l’unico monumento antico ricordato dalle fonti epigrafiche, relativamente alla sua costruzione, ai restauri e agli ampliamenti. Ne resta visibile la cosiddetta sala ottagonale: i quattro lati maggiori sono alternati a quattro minori su cui si aprono nicchie, porte e ingresso principale, la copertura è del tipo a “conchiglia”. Da questa sala proviene il mosaico policromo ora conservato nella Sala Rotonda del Vaticano raffigurante al centro una medusa e, in due fasce divise in otto settori, scene con lotta di centauri e Greci.
Accanto alla sala ottagonale è conservata una sala rotonda di 9 m. di diametro in opus latericium, sulla cui muratura esterna restano tracce di rivestimento in cocciopesto.  
Di questo bellissimo mosaico ne esiste una copia nel museo L'Heremitage di S.Pietroburgo in Russia.

IL PONTE DI AUGUSTO

PILONE MONUMENTALE

E' costituito da un’alta costruzione rettangolare in opera reticolata. Doveva essere uno dei piloni della porta monumentale che indicava l’ingresso all’area urbana; al di fuori di esso, infatti, sono ubicati soltanto i monumenti funerari, mentre, davanti si trovano gli edifici pubblici tra cui, alla sinistra, il Ninfeo.



NINFEO

Trattasi di una lunga sostruzione di m. 50 in opera cementizia con rivestimenti in opus reticolatum. Il monumento, caratterizzato da una elegante parete che conteneva tre fontane pubbliche nella sua alternanza di nicchie semicircolari e rettangolari, è collegato, attraverso un sistema di cunicoli sotterranei ancora funzionanti, alla cisterna ora visibile all’interno dell’Antiquarium Casale San Fulgenzio. 


VIA FLAMINIA

LA VIA FLAMINIA

La via Flaminia, a 44 miglia (70 km) da Roma, entra in Umbria, ad Otricoli, dopo aver attraversato il Tevere. Il tratto ora visibile (25x6 m.) della via è formato da grandi basoli di leucite provenienti da antiche cave delle vicinanze e conserva ancora evidenti i segni dei carri.



MONUMENTO FUNERARIO A TAMBURO

Il Monumento Funerario a tamburo, affacciato direttamente sulla via Flaminia, su base quadrata, in opera cementizia e rivestito di blocchi di travertino disposti per testa e per taglio. 
Accanto al monumento sono visibili: a destra la cosiddetta Tomba a torre e a sinistra una fonte pubblica.

MAUSOLEO


TOMBA A TORRE

La tomba a torre, di grandi dimensioni, ha la pianta quadrata, sormontata da un corpo circolare, con colombaia in alto che ha riutilizzato il monumento.



TOMBA A NICCHIA

L’ultimo monumento che si incontra uscendo da Ocriculum è una Tomba a nicchia di età imperiale, che emerge dalla terra fino all’imposta della volta; costruita in opera cementizia con grosse scaglie di tufo miste a malta, aveva un rivestimento in laterizio di cui rimangono soltanto alcuni tratti.



LA FONTANA PUBBLICA

La fontana, che si apre sulla Via Flaminia con un ingresso gradinato, è divisa all’interno da due balaustre in pietra, dove sono ancora visibili i segni delle funi dei secchi usati per l’approvvigionamento dell’acqua.


L'ANFITEATRO

L’ANFITEATRO

L’anfiteatro, i cui assi maggiori misurano circa 120x98 m., si presenta in parte costruito, in parte addossato alla collina, scavata per consentire l’appoggio delle strutture murarie. Tutta la parte esterna del monumento è scomparsa, ma della cavea rimangono alcuni tratti della galleria intermedia, delle gradinate, di una galleria più interna e di un basso corridoio. Rimangono inoltre i resti dei due ingressi principali sugli assi maggiori e, sul piano dell’arena, una parte del podio.




ANTIQUARIUM CASALE S. FULGENZIO

Il percorso pedonale all’interno dell’antica città di Ocriculum si conclude con la visita all’Antiquarium Casale S. Fulgenzio. 

L'ANTIQUARUM
L’edificio, acquisito e completamente ristrutturato dalla Soprintendenza Archeologica per l’Umbria, fu costruito su una cisterna romana a vista, costituita da un ambiente rettangolare coperto da una grande volta a botte, il tutto facente parte di una villa suburbana costruita in opera cementizia, di cui però non restano tracce. 

L’intero ambiente, di circa mq. 230, funge da Centro di accoglienza per le visite guidate all’area archeologica, con una sala adibita ai laboratori didattici e una mostra archeologica permanente di reperti inediti e di grande pregio rinvenuti durante le campagne di scavo, condotte nell’area archeologica di Ocriculum, dal 1960 al 2005.

Molto pregevoli i reperti archeologici della panchina votiva rinvenuta davanti al monumento funerario rotondo, i vasi preromani in bucchero, due urne cinerarie marmoree decorate, numerose terracotte architettoniche, i frammenti di un letto funebre in osso decorato e numerose iscrizioni, ritratti e sculture in marmo.


ANTIQUARIUM COMUNALE

Il Museo, però all’interno del Palazzo Priorale di Otricoli, conserva l’unico calco originale della testa colossale di Giove,, la riproduzione del mosaico policromo delle Terme di Ocriculum, una raccolta archeologica di superficie, una mensa da altare, quattro iscrizioni funerarie decorate, un sostegno da tavola e numerosi materiali lapidei precedentemente riutilizzati come materiale da decorazione o da costruzione nel centro storico.



DEMOCRAZIA NELL'IMPERO 2/4 - I CONQUISTATORI

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L'impero Romano fu il potere più democratico che sia esistito ai suoi tempi, e tutto sommato è più democratico di tanti stati attuali compreso quello italiano odierno.

Basti pensare a Giulio Cesare che fu dictator, dittatore, e comunque una delle figure più amate, considerate, rimpiante e celebrate dell'antichità.

Nessuno potrebbe definirlo un dittatore, o almeno non potrebbe nel significato odierno.

Cesare non governava con la forza, anche se si impose con la forza, ma pensò sempre al bene del suo popolo, tanto che il suo successore, Augusto, che non governò con la forza ma a sua volta si impose con la forza, per almeno un paio d'anni non fece che eseguire le riforme e le opere che Cesare aveva progettato sulla carta, certo che quel che avrebbe voluto Cesare sarebbe stato il bene di Roma. E così fu.



LE GUERRE

Tra le accuse che si muovono ai Romani c'è quella che non avessero alcuna democrazia perchè:

2) I Romani erano sempre in guerra perchè volevano conquistare tutto il mondo.

Ricordate l'inizio di Roma? All'inizio erano solo pastori di pecore.
Non esisteva moneta, lo scambio era in pecus (pecora) da cui il termine pecunia per indicare il denaro.

PASTORE CON ARIETE
Era un gruppo di gente asserragliata sull'isola Tiberina perchè aveva un solo guado e senza ponti.

Era pericoloso lasciare un passaggio tanto facile, mentre traversare un guado impegnava tempo e fatica e sulla riva un gruppo di combattenti avrebbe potuto affrontarli con grosso vantaggio.

Ma chi avrebbe potuto assalirli?

Tutti, perchè non c'erano leggi visto che non c'era nessuno che le potesse far rispettare.

All'epoca esistevano le tribù, in eterna lotta l'una con l'altra. Anche oggi le tribù rimaste si combattono in continuazione, basti pensare ai paesi africani o arabi.

La figura qui sopra è del III sec. d.c., reperita presso Porta Ostiense, e  somiglia tanto a quella riportata sotto e che stava nel vestibolo del Mitreo di San Clemente a Roma. (Dovrebbe trattarsi di una copia di opera ellenistica).

Un tempo quest'ultima stava nel mitreo perchè ne faceva parte, in quanto Mitra veniva raffigurato anche così ma con la dicitura del "Buon Pastore".

Quando gli si fece notare (e non credo siamo stati gli unici) che la statuetta era mitraica e non cristiana sparì e venne trasferita nelle catacombe di Santa Domitilla, così potè essere spacciata per cristiana alla faccia dell'archeologia.

Dunque le immagini del pastore derivano da divinità pastorali che erano caratteristiche delle società di allora, e cioè che vivevano di pastorizia. Tanto è vero che Marte fu prima per i romani il Dio dei giardini e dei campi, poi divenne Dio della guerra, il che significa che dovettero adattarsi alla guerra.

Dunque i romani erano pastori che si coprivano con pelli di pecora, che bevevano latte di pecora e che mangiavano carne di pecora. Il reato più frequente all'epoca era l'abigeato (furto di animali) e spesso delle tribù sconfinavano per razziare.

All'epoca dunque funzionava così: o si attaccava o si era attaccati. La ragione per cui Romolo istituì l'asylum per tutti i fuggiaschi o disperati fu che doveva ampliare il numero dei romani per non soccombere ai nemici.

Infatti anche l'Impero Romano fu sempre soggetto agli attacchi dei barbari ai suoi confini. Il famoso Metus Gallicus, il terrore dei Galli, risaliva al 390 a.c. quando i Galli fecero il "Sacco di Roma" penetrando nell'urbe, uccidendo i cittadini e saccheggiando la città.

Avevano fatto un bel viaggio dalla Gallia fino a Roma, ma qui c'era ricchezza, cioè armi cibo e gioielli, e i Galli vivevano, come quasi tutti i popoli barbari, di razzie. Meglio rubare bestiame che allevarlo.

All'inizio Romani, Latini, Sabini ed Etruschi combatterono per secoli e con alterne fortune alla conquista del suolo italico.


I Latini

La Lega albense fu la più antica fra le federazioni del Latium Vetus, con una trentina di centri situati sui colli Albani (populi albenses) con capitale Alba Longa, rasa al suolo attorno alla metà del VII secolo a.c. da Roma (al tempo di Tullo Ostilio), che si sostituì ad essa nella direzione della Lega. Ancora il quarto re di Roma, Anco Marzio, li vinse. Alla fine di questo stesso secolo e in quello successivo, molti altri centri latini furono assorbiti nello stato romano, allora governato da una dinastia etrusca.


I Sabini

INVASIONI ROMANE IN ITALIA (Zommabile)
I Sabini, in parte rappacificati coi Romani dopo il ratto delle sabine con la conseguente battaglia, continuarono nel V sec. a.c. ad infiltrarsi nella zona tra il Tevere e l'Aniene, approfittando dei momenti di difficoltà di Roma, o alleandosi alle popolazioni italiche in lotta contro Roma. Nel 494 a.c. i Sabini furono sconfitti dai Romani, ma nel 475 a.c. i Sabini si allearono con i Veienti contro Roma. 

Vennero sconfitti nella battaglia di Veio ma nel 468 a.c. i Sabini saccheggiarono i territori di Crustumerium, arrivando fin sotto porta Collina a Roma. In risposta i romani devastarono il territorio sabino, con un bottino ancora maggiore di quello fatto dai Sabini..

Nel 449 a.c. nuova battaglia contro i sabini e nel 290, dopo aver sconfitto i Sanniti, l'esercito romano attaccò i Sabini, giungendo fino al Mare Adriatico. Ampi territori nella pianura di Reate e Amiternum furono confiscati e distribuiti a romani, ma ai Sabini nel 268 a.c. fu concessa la cittadinanza romana con l'inclusione in due nuove tribù, la Quirina e la Velina.


Gli Etruschi

Una volta fondata Roma  i Romani divennero, secondo Livio, "così potenti da poter rivaleggiare militarmente con qualunque popolo dei dintorni". Una dopo l'altra caddero molte delle vicine città appartenenti alle popolazioni dei Ceninensi, gli Antemnati, i Crustumini ed i Sabini.

Gli abitanti dell'etrusca Fidene, ritenendo Roma ormai troppo vicina e potente, decisero di attaccarla,
Inoltre i Veienti compresero quanto sarebbe stato determinante il controllo delle saline dei septem pagi, poste alla foce del fiume e del commercio del sale che se ne ricavava. Roma, stava fra Veio e il mare, così decisero di sconfiggere i Romani, ma vennero sconfitti.


I Ceninensi

I Ceninensi, irati per il Ratto delle Sabine e quindi anche delle loro donne, dichiararono guerra a Roma, ma Romolo ne uccise in duello il re. Quindi i romani conquistarono Caenina e i suoi abitanti furono costretti ad abbattere le proprie case ed a trasferirsi a Roma, dove acquisirono gli stessi diritti degli altri romani.


Gli Antemnati

Nel 752-751 a.c. La loro città fu presa d'assalto ed occupata dai romani vittoriosi.

Così mano a mano i Romani si batterono con tutti i territori vicini, divenendo limitrofi ad altri territori. Ogni volta si trattò di rendere sicuri i confini dai barbari, e ogni volta i confini romani si estesero, a causa della bellicosità dei popoli dell'epoca.




COSA FECE DI UN POPOLO DI PECORARI LA PIU' GRANDE CIVILTA' DEL MONDO ?

1) Il sapersi integrare con tribù, popoli, razze, costumi e religioni diversi.

2) Il riuscire a imparare da ogni popolo straniero le abilità migliori, dall'uso delle armi alla costruzione delle navi, alla metallurgia, falegnameria, terracotta, bronzistica, gioielleria, arte, cucina ecc.

3) Il permettere alle tribù alleate, e pure a quelle nemiche sottomesse di mantenere i loro Dei e i loro credo.

4) Di essere dotati di un forte senso della realtà, per cui non furono mai fanatici o visionari, pur rispettando i loro Dei e i loro capi. I loro imperatori, seppur divinizzati, non erano esenti nè da critiche nè da sarcasmi soprattutto nei teatri pubblici. Cosa impensabile in qualsiasi altra civiltà.

5) La curiosità di voler provare di tutto ed anche di assaggiare di tutto, dal vestiario alle ricette culinarie e alla medicina i romani provavano, mescolavano e usavano di tutto, in continua scoperta ed evoluzione.

6) L'intelligenza metodica e riflessiva che portò ad una fantastica organizzazione, nella guerra anzitutto. Si diceva che i legionari potessero sostenere e vincere un gruppo di stranieri dieci volte superiore, e spesso fu così.

7) La straordinaria apertura mentale per cui i soldati, i generali e pure gli imperatori erano spesso in grado non solo di organizzare strategicamente un combattimento, ma di costruire o di progettare strade, ponti, palazzi e qualsiasi tipo di monumentale edificio.

8) Di non comandare con la crudeltà e il terrorismo dei popoli dell'Europa del nord e dell'oriente, ma di essere capaci di clemenza e di giustizia.

9) Di aver concepito il sistema legislativo di gran lunga il più razionale, illuminato e completo del mondo su cui si reggono tutte le società civili odierne.

10) Di essere stati, nonostante abili combattenti e menti molto razionali, grandissimi esteti, protettori di artisti, poeti e pensatori, creatori di tali capolavori che ancor oggi lasciano di stucco, nell'architettura, nella scultura e nella pittura.

11) Di aver consegnato la civiltà al mondo, perchè anche se esistettero altre civiltà fantastiche come quella egizia o greca o cinese, nessuna si preoccupò del benessere del popolo come i romani.

Mentre negli altri popoli c'erano i monumenti e la reggia, nell'impero romano ogni città era monumentale, non solo per gli edifici pubblici ma pure per quelli privati, dalle domus alle insule, cioè ai palazzi. Mentre negli altri popoli il monarca e i suoi potenti spadroneggiavano sul popolo, a Roma c'erano i tribunali, gli avvocati, e i giudici la cui parola era legge

12) Di aver riempito le città di fontane, giardini e terme, trasformandosi in un popolo raffinato ed estremamente pulito, visto che: le terme erano aperte a tutti, perfino agli schiavi; i romani si rasavano barba capelli e baffi e pure nel corpo; esistevano le lavanderie per chi non avesse i bagni in casa ed ogni palazzo aveva al suo interno un pozzo o una fontana, senza doversi recare fino alla fontana pubblica in piazza, come avvenne fino all'800.

Un'igiene che sparirà alla caduta dell'impero e che porterà la barbarie nel mondo, seppellendo nei meandri della superstizione ogni scienza acquisita nell'impero.

Così il "dividit et impera" divenne "rendili ignoranti e superstiziosi e comanda".
Non dimentichiamo che il Rinascimento nacque dalla scoperta delle antiche opere romane, accuratamente fatte a pezzi e sepolte dai cristiani che le vedevano peccaminose e demoniache.

13) Di aver vinto nel confronto senza dover imporre troppo pesantemente uno stile di vita. I romani costruivano meraviglie sui suoli conquistati e poi stabilivano scambi commerciali, così quel popolo conosceva le comodità, la bellezza, l'arte, i bei vestiti, la buona cucina e il piacere delle terme, cose che li conquistarono senza colpo ferire.

14) Di aver fatto del tutto per salvaguardare la vita dei soldati romani, che in battaglie memorabili accusarono perdite di centinaia di fronte alle perdite di molte migliaia dei loro nemici. Come disse Cesare "Guai a quei soldati il cui generale combatte con la forza anzichè con l'intelligenza"



NECESSE EST

Dunque i Romani dovettero combattere per non essere sopraffatti, i popoli vicini, o comunque non troppo lontani, fondarono colonie che man mano si estendevano e che avrebbero inglobato pure i romani. Basti pensare alla Magna Grecia che occupava in pratica tutta l'Italia meridionale.

Se non si fossero difesi spesso prima di essere attaccati, i romani non sarebbero durati molto, e difendersi all'epoca significava sovente attaccare per primi. Ma la prima grande iniziativa accadde nel 403, una di quelle risoluzioni che travalicano gli interessi di classe e che raccoglie un popolo nella sua totalità:

« I patrizi poi aggiunsero un dono quanto mai opportuno per la plebe: il senato, senza che mai prima plebe e tribuni via avessero fatto menzione, decretò che i soldati ricevessero uno stipendio tratto dalle casse dello Stato. Fino a quel momento ciascuno adempiva al servizio militare a proprie spese. A quanto risulta, nessun provvedimento fu accolto con tanta gioia dalla plebe.»

(Tito Livio, Ab Urbe condita libri, IV, 59-60, op. cit.)

I romani dovevano sempre dimostrare di essere i più forti, a cominciare da Cesare che genialmente fece costruire in 15 giorni un ponte monumentale sul Reno per dimostrare agli antichi germani quanto fossero capaci e potenti i romani.

Nel corso della storia, l'esercito romano fu "l'istituzione militare più efficace e più longeva che si conosca nella storia umana", (Enciclopedia Britannica), grazie a una continua evoluzione strutturale di organizzazione, mezzi e strategie diversissimi.

« Riguardo alla loro organizzazione militare, essi hanno questo grande impero come premio del loro valore, non come dono della fortuna. Non è infatti la guerra che li allena alle armi e neppure è solo al momento del bisogno che essi fanno guerra, al contrario vivono quasi fossero nati con le armi in mano, poiché non interrompono mai l'addestramento, né stanno ad aspettare di essere attaccati. Le loro manovre si svolgono con un impegno pari ad un vero combattimento, tanto che ogni giorno tutti i soldati si esercitano con il massimo dell'ardore, come se fossero in guerra costantemente. Per questi motivi essi affrontano le battaglie con la massima calma; nessun panico li fa uscire dai ranghi, nessuna paura li vince, nessuna fatica li affligge, portandoli così, sempre, ad una vittoria sicura contro i nemici. Non si sbaglierebbe chi chiamasse le loro manovre, battaglie senza spargimento di sangue e le loro battaglie esercitazioni sanguinarie.»

(Giuseppe Flavio, La guerra giudaica, III, 5.1.71-75.)

SI VIS PACEM PARA BELLUM

EFESO (Turchia)

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IL MAESTOSO TEMPIO DI ARTEMIDE AD EFESO,
UNA DELLE 7 MERAVIGLIE DEL MONDO ANTICO

Efeso (latino: Ephesus), oggi uno dei più grandi siti archeologici d'Europa, fu una delle più grandi città ioniche in Anatolia, situata in Lidia alla foce del fiume Caistro, sulla costa dell'odierna Turchia. Fu anche una delle città più popolose e ricche del mondo antico. Efeso è stata la terza città più potente del mondo antico dopo Roma e Alessandria d'Egitto.

Secondo la tradizione fu fondata dalle Amazzoni, anzi Strabone (60 a.c. - 23 d.c.) asserisce che il nome Efeso deriverebbe da quello di una regina delle Amazzoni. Storicamente risulta colonizzata dagli Ioni nell'XI sec. a.c., nel 334 a.c. fu liberata dai Persiani da Alessandro Magno. Passata sotto il dominio romano nel 129 a.c., divenne capitale della provincia dell'Asia.



DIANA CARIA

I primi abitanti di Efeso furono indigeni e anteriori ai Greci, con tutta probabilità Carii, poi vennero i Lelegi e per finire sottostettero al dominio di Atene. Efeso fu famosa e ricca soprattutto per il culto e il santuario di Artemide, corrispondente a Diana nel suolo italico e a Roma.

ARTEMIDE IMPERIOSA
Le più antiche rappresentazioni di Artemide  in età arcaica la ritraggono come "Potnia Theron" (La Signora delle belve): una dea alata che tiene in mano un cervo e un leopardo, oppure un leone e un leopardo.

Poi venne ritratta come vergine cacciatrice, con una gonna corta sopra al ginocchio, un seno scoperto, gli stivali da caccia, la faretra con le frecce d'argento e un arco. Spesso è ritratta mentre sta scoccando una freccia e insieme a lei vi sono o un cane o un cervo.

Vi sono rappresentazioni di Artemide vista anche come Dea delle danze delle fanciulle, e in questo caso tiene in mano una lira, oppure come Dea della luce mentre stringe in mano due torce accese e fiammeggianti. Solo più tardi Artemide porta la corona lunare, anche se da sempre fu la Dea Luna.

Ad Efeso Artemide fu adorata soprattutto come Dea della fertilità, come madre Natura che nutre tutte le creature senzienti.  I Carii furono adoratori di quella Artemide Caria, che nel suolo romano divenne Diana Caria, un tempo associata ai Misteri del Noce sacro.

Le sue sacerdotesse furono maghe e guaritrici, e come simbolo avevano il frutto del noce, che tanto somigliava nell'aspetto al cervello umano.

Poichè le sacerdotesse danzavano intorno al noce sacro, e poichè presso Benevento, nel suolo italico, resistè a lungo il culto di Diana Caria, nacque la leggenda delle streghe e del Sabba.

L'antica Artemide fu Dea della luna, della caccia e degli inferi, pertanto del cielo, della terra e dell'aldilà.

Poi prevalse ad Efeso il suo aspetto di Madre Terra, di Madre Natura, la plurimammellata, colei che nutre col suo latte tutti gli esseri viventi.

"Artemide era adorata e celebrata allo stesso modo in quasi tutte le zone della Grecia, ma i più importanti luoghi di culto a lei dedicati si trovavano a Delo (sua isola natale), BrauroneMunichia e a Sparta

Le fanciulle ateniesi di età compresa tra i cinque e dieci anni venivano mandate al santuario di Artemide a Braurone per servire la dea per un anno: durante questo periodo le ragazze erano conosciute come "arktoi" (orsette).
Una leggenda spiega le ragioni di questo periodo di servitù narrando che un orso aveva preso l'abitudine di entrare nella cittadina di Braurone e la gente aveva cominciato a nutrirlo, in modo che in breve tempo l'animale era diventato docile e addomesticato.

Una giovinetta prese a infastidire l'orso che, secondo una versione la uccise, secondo un'altra le strappò gli occhi. A ogni modo il fratello della ragazza uccise l'orso, Artemide andò per questo in collera e pretese che le ragazze prendessero il posto dell'orso nel suo santuario come riparazione per la morte dell'animale.

Naturalmente è pura invenzione, vero invece  è che Artemide era Arktoi, la Dea Orsa, da cui discese poi il re orso, ovvero Artoi, Artù. Pertanto le fanciulle erano le novizie delle sacerdotesse, che venivano ammesse al tempio per un anno per conoscerne le tendenze al sacerdozio. Le Orse venivano poi rimandate a casa e solo successivamente si sceglievano quelle che meglio stavano presso il tiaso delle sacerdotesse, quelle che non avrebbero sofferto troppo per essersi allontanate da casa.

Le prescelte si dedicavano poi ad Artemide Brauronia, dove tra l'altro si celebrava la prostituzione sacra. Si racconta che i suoi sacerdoti dovevano evirarsi perchè Artemide era vergine. Non è così.

La verginità di Artemide era di colei che non è sottomessa all'uomo, non di colei che si astiene. Anche la sua corrispondente Diana era vergine eppure nel santuario del lago di Nemi  nel Lazio, le sacerdotesse praticavano la prostituzione sacra, bagnandosi ritualmente ogni anno per tornare vergini.

ARTEMIDE

LA STORIA

Dagli scritti degli Ittiti del XIV sec. a.c. emerge il regno di Akhhiyava, fondato nella zona di Mileto, con l'importante città Apasas, che secondo alcuni era l'antico nome di Efeso. Secondo Strabone invece il nome Efeso deriverebbe da quello di una regina delle Amazzoni, le quali sarebbero le fondatrici della città.

Il vasellame di terracotta, trovato nelle tombe del periodo miceneo, e i più antichi reperti storici di Efeso, sono del XV e XIV secolo a.c., il che dimostrerebbe che gli abitanti di Micene avevano rapporti con Apasas.

Nel VII secolo a.c. Efeso come tutte le città della zona ionica fu invasa dai Cimmeri, che non si stanziarono definitivamente ma causarono molte devastazioni tra cui la distruzione del tempio della Dea, venerata come "Grande Madre" e le cui caratteristiche erano simili a quelle della Dea greca.

Nel VI sec. Efeso fu assediata dagli abitanti della Lidia, divenuta uno stato potente. Gli Efesini, sicuri della protezione di Cibele tesero una corda dal tempio fino alla porta della città e si radunarono da una parte senza preoccuparsi dell'attacco di Creso, re di Lidia, che però invase la città.

Creso non infierì sugli abitanti, anzi li aiutò nella ricostruzione del tempio di Cibele e in una delle colonne utilizzate fece incidere il suo nome. Licenziò poi i suoi soldati mercenari e ritornò a Sardi, ma poco dopo perse la guerra che gli mosse Ciro e fu preso prigioniero.

Le città ioniche stanche del dominio persiano si coalizzarono e rivolsero le armi contro i Persiani e la lotta finì nel 494 a.c. con la sconfitta della flotta degli Ioni nel golfo di Mileto, dopo di che distrussero e saccheggiarono Mileto e le altre città ioniche.

Nella guerra contro i Persiani Alessandro Magno entrò in Efeso e fu accolto come un Dio, dopo la sua morte Efeso nel 313 a.c. cadde sotto il dominio di Kyldop in nome dei Macedoni, però le lotte di potere si estesero a tutta l'Anatolia per diversi anni.

La guerra dei Persiani si estese alle città ioniche ed Efeso finì nelle loro mani. I persiani utilizzarono il porto e le navi di Efeso e imposero tasse gravose. Quando il regno di Pergamo venne donato ai Romani per il testamento di Attalo III, anche Efeso diviene romana, nel 129 a.c. quando M. Aquilio ottenne la provincia dell'Asia con Efeso capitale.


Gli Efesini però parteggiarono per Mitridate, obbedendo al suo ordine di uccidere in un sol giorno tutti i Romani ed Italici che vi fossero nell'Asia. Ma due anni dopo Efeso torna dalla parte di Roma e dichiara la guerra al re del Ponto; fedeltà a Roma riconfermata con un monumento a Giove Capitolino.

Gl'imperatori successivi continuano l'opera di Augusto, sotto Nerone per rendere praticabile il porto di Lisimaco; le numerose costruzioni e dediche offerte da due mecenati, Celso Polemeano e Vibio Salutare, sotto Domiziano e Traiano, il larghissimo favore di cui furono prodighi sia Adriano (appassionato della cultura greca), che per due volte visitò la città, compì lavori al porto e assicurò l'abitato dalle alluvioni del fiume, sia Antonino Pio, al cui regno appartengono le munificenze d'un altro ricco cittadino, P. Vedio Antonino.



LE EFESIE

Nel mese artemisio a Efeso si tenevano le Efesie, feste notturne in onore di Artemide. Notturne in quanto si rifacevano al lato notturno della Dea. Le feste Efesie erano feste pubbliche e private. 

Le pubbliche, dette anche Efesie o efesiache o Artemisie, venivano celebrate pubblicamente in primavera in onore di Artemide. 

Venivano compiuti sacrifici e si indicevano giochi, danze e concorsi letterari.

Le Efesie avevano un carattere misterico e magico, tanto è vero che le cosiddette lettere Efesie erano formule magiche che venivano incise su amuleti e che servivano a tenere lontane le malattie. 

Venivano così chiamate perché sarebbero state incise per la prima volta sul piedistallo della statua di Artemide a Efeso. 

Le Efesie private invece si svolgevano nei templi e nei tiasi (monasteri), ristrette alle sole sacerdotesse e i loro adepti. 

Qui si svolgeva la vera magia cerimoniale.
Le Efesie avevano un carattere orgiastico e vi prendevano parte uomini, donne non maritate e schiave. Questo fa capire che l'essere proibito alle maritate riguardava oltre alla fedeltà, il timore di rimanere incinte e portare figli altrui al consorte. Le non maritate invece potevano partecipare, perchè alle donne efesine non era richiesta la verginità, come del resto non era richiesta alle donne di Sparta. Fu Atene a trasformare le donne in prigioniere dei mariti.

L'invenzione delle Efesie fu attribuita ai Dattili Idei e che si diceva possedessero effetti magici. Per questo i simboli delle Efesie venivano incisi su amuleti da portare indosso.

Secondo la tradizione i Dattili, cinque maschi e cinque femmine, maghi e fabbri, erano al servizio della Gran Madre degli Dei, ed abitavano sul Monte Ida, a Creta, dove Rea, presa dalle doglie, avrebbe premuto le mani sul suolo del monte, dal quale sarebbero emersi i dieci Dattili che l’avrebbero assistita nel parto.

Sicuramente i Dattili erano esseri tra il sacerdotale e il mitico, appartenenti alla cultura più antica. I maschi sarebbero stati i fabbri e le sacerdotesse le maghe. Probabilmente le armi venivano rese magiche attraverso riti e glife incise sul metallo.



EFESO ROMANA

Marco Antonio dopo la Battaglia di Filippi venne ad Efeso dove fu accolto con feste dionisiache da lui gradite. Quando i suoi rapporti con Ottaviano cominciarono a peggiorare Antonio mandò il suo esercito in Cilicia e con Cleopatra tornò ad Efeso, le sue navi si unirono a quelle di Cleopatra e ci fu la Battaglia di Azio che sancì la vittoria di Ottaviano e la nascita dell'impero romano.

Nel tempo di Ottaviano, chiamato Augusto, Efeso divenne la capitale della provincia romana nell'Asia Minore, sede del prefetto romano e si trasformò in una metropoli ricca di commerci con più di 200.000 abitanti. (Le rovine rimaste oggi sono quasi tutte del tempo di Augusto). 

Nel 29 a.c. il proconsole Sextus Appuleius provvide alla pavimentazione stradale, mentre lo stesso Augusto finanziò la costruzione di due acquedotti. L'imperatore Adriano venne ad Efeso due volte, la seconda nel 129 d.c., e si occupò del dragaggio del porto nonchè di estaurare le opere pubbliche.

Nell'anno 262 una flotta di 200 navi di Goti invase Efeso dove distrusse bruciandolo il Tempio di Artemide.

Il tempio, considerato una delle Sette Meraviglie del mondo, fu ricostruito dagli Efesini.

Già nella prima metà del I secolo si era diffusa la nuova religione cristiana e San Paolo fu ad Efeso nel 53. - I commercianti che vendevano statuette di Artemide manifestarono contro San Paolo che aveva criticato la realizzazione delle statuette della dea al grido di "grande è la Diana degli Efesini!" (Atti, 18:23-21:16). - 
Ma non è vero, negli atti degli apostoli non sono citati commercianti nè statuette, ma solo che la gente si ribellò al tentativo di cambiare la loro fede. Dopo questo episodio, San Paolo partì per la Macedonia, in seguito tornò nella Ionia ma si stabilì a Mileto.

Nel 164 sono celebrate ad Efeso le nozze di L. Vero con Lucilla, e a ricordo delle vittorie partiche di M. Aurelio e L. Vero la città alza un grandioso monumento onorario.

Caracalla, ordinando che il proconsole debba fare il suo ingresso nella provincia sbarcando ad Efeso, mostra ritenere questa città la più importante dell'Asia. Fiorisce insieme per il commercio e per la cultura (famosi particolarmente ne erano i medici)

Il culto di Artemide la fa centro religioso di grande venerazione; giuochi e feste, alcune di antica fondazione, altre istituite di recente dagl'imperatori, vi raccolgono gente d'ogni parte dell'Asia.

Ma con l'avvento del cristianesimo tutto cambia " Il celebre Tempio di Artemide, una selle "Sette meraviglie del mondo antico" fu distrutto ancora una volta e definitivamente nel 401 per ordine del vescovo Nicola", ma è un errore in cui molti incorrono perchè Nicola, (San Nicola), fece distruggere si il tempio di Diana ma quello che stava a Mira e non quello di Efeso.

A Mira, la città di cui Nicola era vescovo, c’era un magnifico tempio della dea Artemide. Scrive al riguardo Michele Archimandrita:  "Mise a soqquadro i templi degli idoli scacciandovi i demoni e smascherando la loro ingannevole e scellerata impotenza. 

Divinamente ispirato pensò di portare a compimento una grossa impresa, quella di distruggere cioè il tempio di Diana che lì si ergeva imponente. 

Esso infatti era il maggiore di tutti i templi sia per altezza che per varietà di decorazioni, oltre che per presenza di demoni. 

 Circostanza che costituiva una grossa tentazione di empietà per i fuorviati. 

Così egli, minaccioso nei loro confronti, per la grazia di Cristo che era in lui, deciso ad estirpare e ad annientare dalla sua regione il florido culto dei demoni, si recò di persona dove si trovava questo tempio abominevole e, demolendo non solo le parti superiori ma distruggendolo dalle fondamenta, pose in fuga i dèmoni che vi si annidavano."

Invece fu Giovanni Crisostomo che raccogliendo fondi presso le donne ricche cristiane ordinò la demolizione dei Templi greci, e ad Efeso decretò la distruzione del famoso Tempio della Dea Artemide.
Infatti nel 392, a seguito dei Decreti teodosiani, Crisostomo (poi fatto Santo) aveva decretato una spedizione per demolire i templi e far uccidere gli idolatri. 

Le persecuzioni dei cristiani nel mondo greco orientale furono terribili. Ben 30000 seguaci della Dea Artemide vennero crocefissi perchè restii alla conversione.

Crisostomo si scagliò contro i pagani ma particolarmente conto i giudei: Per lui le sinagoghe sono «postriboli, caverne di ladri e tane di animali rapaci e sanguinari», i giudei sono infatti «animali che non servono per lavorare ma solo per il macello», anzi sono animali feroci: «mentre infatti le bestie danno la vita per salvare i loro piccoli, i giudei li massacrano con le proprie mani per onorare i demoni, nostri nemici, e ogni loro gesto traduce la loro bestialità». e i cristiani non devono avere «niente a che fare con quegli abominevoli giudei, gente rapace, bugiarda, ladra e omicida»

Nei verbali del concilio di Efeso del 431 si scrive che Giovanni prese con sé Maria e venne ad Efeso e si stabilì per un periodo a Museion che era proprio nel posto dove è la chiesa della Madonna. S.Giovanni nonostante l'età avanzata viaggiò in tutta l'Anatolia per diffondere il cristianesimo, mentre cresceva l'ostilità contro i Cristiani, per la loro efferatezza verso i pagani e i loro culti.

Infatti per reazione San Giovanni fu preso, torturato ed esiliato a Patmos dove, secondo la tradizione scrisse l'Apocalisse. Sempre secondo la tradizione tornò poi ad Efeso, scrisse il Vangelo, morì e fu sepolto, secondo quanto disposto nel suo testamento, dove si trova la chiesa a lui dedicata. Sembra infatti fosse Efeso il luogo in cui fu scritto il Vangelo di Giovanni, ma datano la sua realizzazione tra il 90 e il 100 d.c., lasciando quindi forti dubbi che a scriverla sia stato effettivamente l'apostolo.

Effettivamente Efeso fu uno degli scogli più duri per la conversione. Gli efesini preferivano morire che convertirsi al cristianesimo col grido di: "Grande è Diana, la Dea degli efesini". La storia dche tale grido appartenesse ai mercanti è pura invenzione cattolico propagandistica.

Nel 431 si tenne ad Efeso un concilio, su disposizione dell'imperatore Teodosio I, per sedare le due fazioni, una che sosteneva che Maria era la madre di Gesù Dio e quindi di Dio, l'altra che era madre solo di Gesù uomo. Al concilio parteciparono duecento vescovi.

Nel IV secolo sulla collina di Ayasuluk si era costruita una basilica e la popolazione di Efeso cominciò a trasferirsi sulle pendici della collina perché il porto aveva perduto la sua importanza ed Efeso stava declinando, mentre la collina aumentava di popolazione e d'importanza, favorita anche dalla costruzione della chiesa dedicata a San Giovanni sulla vecchia basilica decisa dall'imperatore Giustiniano.





GLI SCAVI

Col passare del tempo la città fu dimenticata del tutto, e solo la costruzione della ferrovia da Istanbul a Baghdad con la stazione di Ayasuluk fu la causa dei primi scavi nel 1869 alla ricerca del tempio di Artemide, scavi che furono abbandonati, poi ripresi più volte da varie spedizioni archeologiche europee.

Gli scavi condotti in campagne del 1904-1905 nel basamento del tempio, in uno strato precedente al 560 a.c., hanno portato alla luce il più importante documento monetario, consistente in un cospicuo gruppo di monete globulari in elettro (lega di oro e argento, a basso contenuto d'oro), recanti striature o tipi su di una sola faccia, mentre a rovescio è segnata da un punzone. Sembra si tratti del 640-630 a.c., ma non tutti sono d'accordo sulla data.



LE MURA

La città ellenistica e romana si stendeva sulle due colline, il Pìon (Panayir-Daǧ) e il Coresso (Bulbul-Daǧ). Si conservano ancora tratti di mura, fatte costruire da Lisimaco, edificate a un'altezza di circa 6 m e una larghezza di 2 m,  in grossi blocchi e intervallate con torri quadrangolari, e con diverse porte. Invece il totale delle mura è lungo 8 Km.e circonda tutta la città.

La torre di fronte al porto è a due piani ed è chiamata "la prigione di San Paolo". Le strade fuori delle mura erano fiancheggiate da sepolcri.

Con la pax romana di Augusto che durò dal I al III sec. non vi fu più bisogno di difendersi e le mura furono trascurate, mentre durante il periodo bizantino Efeso divenne povera e spopolata per cui la cinta muraria venne ristretta.

Delle mura si conoscono due porte, quella detta di Magnesia, nell'insellatura fra le due colline, da cui usciva la strada verso la valle del Meandro, e quella sotto le pendici settentrionali del Pion, per la quale si andava al santuario di Artemide: gli avanzi che oggi si vedono di quest'ultima appartengono peraltro al restauro bizantino.





LE PORTE

Porta di Mazeo e Mitridate - nella prima agorà due ricchi liberti, Mazeo e Mitridate, inseriscono una porta monumentale ma sobria e lineare dedicata allo stesso Augusto e a Livia (altre ristrutturazioni saranno attuate in età neroniana).

Porta di Magnesia - posta nell'insellatura fra le due colline, da cui usciva la strada verso la valle del Meandro.

La via Arcadiana,  alle due estremità del tronco principale, verso il teatro e verso il porto, conduceva a due porte: della prima restano lo zoccolo ed alcuni frammenti di rilievi; la seconda era a tre passaggi, il centrale architravato, i laterali arcuati, e aveva le fronti decorate da coppie di colonne ioniche in aggetto: sicuramente opera del I periodo romano.

Porta di Adriano




LE AGORA'

L'Agorà' Civile o Superiore

Quest'agorà, rispetto a quella "commerciale" più antica, si caratterizza come centro direzionale politico della città. Si interruppe la costruzione di un tempio di Dioniso già avviata da Antonio per realizzare questa piazza rettangolare, con un arco di ingresso a quattro fornici e, sul fronte esterno, un grande ninfeo, la "mostra d'acqua", nel punto dell'arrivo in città del fiume Marnas, costruito da Sestilio Pollione.

Sul lato nord si pose una basilica di forma stretta e lunga accompagnata dal bouleuterion, dal Prytaneion e da altri edifici. Si tratta di una piazza di 160 x 58 m. con l'asse lungo orientato a sud-ovest. La sistemazione risale all'epoca di Augusto: il lato nord prevedeva una lunga stoà-basilikè, una basilica, un edificio a tre navate dedicato tra il 4 e il 14 a.c. ad Artemide, Augusto e Tiberio da parte di un ricco evergete locale, C. Sextilius Pollio
.
A nord di questa basilica vi era un temenos (equivalente dell'aedes romano, uno spazio sacro), con due tempietti dedicati a Roma e Cesare inserito tra due tipici edifici greci: un Pritaneo e un Bouleuterion (un edificio che ospitava il consiglio della città greca).

Nella piazza fu costruito un tempietto dedicato al culto di Augusto dando perciò alla piazza l'aspetto di un vero Sebasteion (tempio usato nelle colonie romane per glorificare e divinizzare gli imperatori romani). In epoca antonina il culto dell'imperatore sarà trasferito nel tempio suburbano di Artemide.


L'Agorò Commerciale o inferiore

Questa piazza, di impianto ellenistico, rappresentava il vero centro della città, un quadrato con m. 160 di lato e con una clessidra al cen­tro. Era circondata di colonnati e dedicato al mercato tessile e alimentare. Si presentava come una grande piazza ricca di monumenti e decori a partir dall'età di Augusto ma anche a merito degli evergeti locali. In età neroniana fu costruita una via porticata che conduceva al vicino teatro.

Accanto al porticato della piazza si trovano importanti edifici come la Biblioteca di Celso e l'Altare degli Antonini, un monumento dalla forma simile all'Altare di Zeus di Pergamo ma di dimensioni ridotte. Il monumento, dedicato a Marco Aurelio e Lucio Vero con bassorilievi raffiguranti episodi delle Guerre Partiche e scena di apoteosi di Lucio Vero. Inoltre l’Odeon costruito da P. Vedio Antonino (II sec. d.c.), la basilica, ricostruita in età augustea, una fontana (II- IV sec.), e un tempio dedicato a Domiziano.

Tutto intorno correva una corridoio a due navate sovrapposte, cioè a due piani, sui cui tre lati si affacciavano le botteghe. Il lato orientale aveva colonne di ordine dorico. Due gli accessi principali: uno sul lato ovest, a doppio colonnato ionico; uno sul lato sud, con un altro corridoio a triplice passaggio.

La piazza divenne sempre più preziosa a causa dei successivi interventi imperiali, come il tempio di Adriano e quello di Traiano), oltre ad una lussuosa edilizia residenziale, nonchè il propylon (una costruzione davanti al corridoio d'ingresso) che divenne sempre più articolato e prezioso fino a costituire, come suo massimo esempio, edificata ortogonalmente all'ingresso della piazza.

Prima della porta di Magnesia, c’è la cosiddetta tomba di s. Luca, costruzione circolare di età classica trasformata in cappella cristiana.

CASE TERRAZZATE


LE CASE

Molte domus, come questa, erano elegantemente terrazzate, bellissime case nobiliari attualmente in ristrutturazione. Le pareti sono piene di meravigliosi affreschi e mosaici. Da ricordare soprattutto il complesso residenziale che si affaccia sul pendio sopra la Via dei Cureti, dalla parte opposta rispetto al tempio di Adriano.
Questi isolati sono particolarmente ampi e mirabilmente collegati fra loro, visto le planimetrie irregolari a causa della conformazione del terreno. All'interno di ogni isolato si possono trovare sia appartamenti, sia ricche domus dai numerosi ambienti, con bellissime pitture alle pareti.



LE TERME

Vi erano ben quattro impianti termali di grande rilievo, oltre alle terme private. Fu lo scavo del 1956 della Missione Italiana ad Efeso, a scoprire la basilica costantiniana e le terme.


Terme del Porto

Ovviamente il più grande situato a nord-ovest della agorà civile, qui si svolgeva un enorme transito di persone data la grande affluenza del porto. Furono realizzate nel III secolo e contengono, oltre ai consueti ambienti, due "sale marmoree" di transito dedicate alla figura dell'imperatore.

Adiacente alle terme del porto vi è il singolare Portico di Verulanus: un enorme piazzale con funzione di palestra, quadrato e circondato da portici, costruita al tempo di Adriano.


Terme di Vedius


RESTI DELLA BASILICA DEL CONCILIO DI EFESO
In un quartiere periferico vi erano le terme di P. Vedio Antonino, un edificio che accoglie in sè il greco e il romano, un po' del ginnasio e un po' delle terme.

 Esso ha già adottato il tipo planimetrico delle terme ad asse centrale, pur non raggiungendo la grandiosità di proporzioni che gli edifici del genere hanno in altre province dell'Impero romano.


Terme del Teatro

Poste in quartieri periferici


Terme di Vario.

Erano il primo l'edificio che s'incontrava durante l'ingresso in città. Aspetto molto comune per le città dell'epoca, una forma di accoglienza per i viaggiatori in arrivo da terre lontane.


Terme di Scolastica

Costruzione a tre piani del II° secolo, restaurata nel IV sec. dalla matrona che le ha dato il nome.
Il costume di offrire opere pubbliche a proprie spese fu un uso prettamente romano che aveva il fine di glorificare la propria gens o familia.

L'usanza di origine repubblicana e molto incentivata da Augusto si diffuse anche nelle colonie.
Tuttavia la ricca matrona Scholastikia (Scolastica) usò i marmi e gli ornamenti nonchè le statue del prytaneion, la sede del senato cittadino, e dell' odeion, spogliati nel III secolo dalla ricca dama cristiana, per la costruzione di un impianto termale sulla Via dei Cureti. Si calcola che potesse ospitare un centinaio di visitatori.



Terme Costantiniane

A nord dell'Arcadiana c'era invece un vero e proprio edificio termale, sorto originariamente nella seconda metà del I sec. d.c.., ma restaurato e trasformato da Costanzo II, donde il nome che gli dà un'epigrafe di Thermae Constantianae.

IL TEATRO GRANDE

I TEATRI


Il Teatro Grande

Situato nella parte orientale della città, tra l'agorà commerciale e le terme del teatro, l'impianto originale è ellenistico ma ha subito interventi successivi. Come in ogni teatro greco era ricavato in una conca naturale del terreno e la cavea era maggiore del semicerchio ed è appoggiata a un'altura. 

RICOSTRUZIONE DEL TEATRO GRANDE
La cavea fu ulteriormente ingrandita durante il periodo di Claudio e Nerone fece costruire i primi due ordini di una nuova della frons scaenae. La cavea viene completata con Traiano, la scena con Antonino Pio. Aveva una capienza di 24.000 spettatori.

La scena aveva, come in ogni teatro greco, un aspetto particolarmente complesso e strutturato, si che pur essendo crollata, è stato possibile ricostruirla in base ai numerosi elementi rinvenuti. E' celebre anche per l'episodio narrato negli Atti degli Apostoli in cui San Paolo venne duramente contestato dai venditori di statuine di Artemide al grido di "grande è la Diana degli Efesini".

Benché ampiamente trasformato dai Romani, conservò del più antico la forma della cavea, che supera il semicerchio. Fu invece soggetta a maggiori cambiamenti, la scena, dapprincipio con un proscenio basso, con tre porte, e pilastri con mezze colonne doriche tra queste, e da un muro di fondo più alto. Prevalse poi la visione romana ricevette con i tre ordini sovrapposti, i primi due del tempo di Nerone, il più alto a inizio III secolo.

IL TEATRO PICCOLO


L'Odeion o Teatro piccolo

Questo teatro minore era in grado di ospitare fino a circa 5.000 persone in piedi, 1450 seduti. Ha tre aperture che conducono al podio che è a un m di altezza. A differenza del teatro maggiore, questo non veniva usato per spettacoli, bensì per riunioni di stato. Fu costruito nel II sec. d.c per ordine del generale P. Vedio Antonio e di sua moglie Flavia Paiana, due ricchi cittadini di Efeso del tempo di Antonino Pio.



LE FONTANE

Fontana di Traiano

Si sono fatti scavi nelle terme di Scholastikia e nelle vie che le uniscono al Pritaneo, mettendo in luce un ninfeo nei pressi eretto in onore di Traiano e restaurato al tempo di Teodosio con facciata decorata. Il ninfeo comprendeva l'imponente statua dell'imperatore e la scritta che recita: "L'ho conquistato tutto, ora il mondo è ai miei piedi".

La fontana è stata rimessa insieme con molta buona volontà e perizia ma, mancando molti pezzi, la scala ne risulta rimpicciolita: un tempo infatti essa inquadrava la statua colosso dell'imperatore, di cui resta solamente un enorme piede marmoreo che poggia sul pianeta Terra o, perlomeno, su una sfera perfettamente tonda.


Fontana di Pollione

Ovvero un ninfeo dedicato in età augustea (con modifiche in età flavia) a Sestilio Pollione, costruttore dell'acquedotto proveniente dal fiume Marnas. Un'esedra decorata da statue si rivolge verso l'esterno, ma così alta da essere visibile anche dall'interno della piazza.

Le statue che decoravano l'esedra trattavano di Ulisse e Polifemo. Si suppone fossero state eseguite per il tempio di Dioniso, visto che Ulisse sconfigge il Ciclope col vino, progettato da Antonio ma poi interrotto.

La fontana era sovrastata da uno snello arco in marmo. Poco più avanti si scorge una lastra di marmo triangolare che era posta sul frontone della fontana. Si tratta di un'opera intatta del II secolo d.C. e i suoi splendidi bassorilievi riproducono una dea alata, la Nikè greca simbolo della Vittoria.



I PORTICI

Oltre a quelli delle due Agorà, altri portici, sul tipo delle stoài ellenistiche, furono costruiti in età romana in altre parti della città:
- uno a E dell'agorà;
- un altro, molto più ampio, quadrangolare (m 200 × 240) a N dell'Arcadiana, rivestito di marmi sotto Adriano dall'asiarca Claudio Verulano;
- un terzo avanti all'odèon, di età augustea, caratteristico per i capitelli delle sue colonne ornati di teste di tori.




LE STRADE

Le strade erano lunghe e diritte, fiancheggiate da portici, pavimentate a grandi lastre di calcare bianco.


VIA SACRA

La Via Sacra si trova immediatamente dopo li’ingresso inferiore e collega l’Anfiteatro con la Porta di Augusto. Gran parte della Via Sacra è affiancata dall’Agorà, che oggi si presenta come un grande spazio vuoto ma che nell’antichità ospitava il mercato ed era il centro commerciale della città. E’ sicuramente la parte meno spettacolare di Efeso. La pavimentazione è completamente in marmo.
La via Sacra terminava sull'Agorà con un embolos (cuneo) su cui si affacciavano a destra la Biblioteca di Celso e la monumentale Porta di Augusto, mentre a sinistra sfociava in via dei Cureti.


VIA DE CURETI

La via che collega l'agorà inferiore a quella superiore.


VIA DEL PORTO

Costruita dall'imperatore bizantino Arcadio, era la strada più elegante della città, con due file di colonne e lampade. Il sistema di fognature scorreva li fino al mare. C'è una colonna più alta di tutte le altre a simboleggiare dove un tempo iniziava il mare.


VIA MARMOREA

La via che partendo dal Teatro Grande scorre lungo tutta l'agorà inferiore.


VIA ARCADIANA (ARCADIANE')

Dal teatro, lungo il portico di Verulanus e le terme del porto, in direzione del porto partiva un'ampia strada porticata, la cui ultima sistemazione risale all'imperatore d'Oriente Arcadio. Era la via Arcadiana, che si snodava tra i maggiori edifici della città, fiancheggiata da un duplice porticato e chiusa ai due estremi da due porte.

Fu detta Arkadiané per i restauri del tempio di Arcadio, muoveva dal portico tramite una porta monumentale con colonne ioniche. Da essa ci s'immetteva nell'agorà commerciale, circondata nel III sec. da portici a due navate con botteghe e magazzini, dopo la quale, risalendo la seconda importante arteria, la via dei Cureti, che procedeva tra sepolcri, terme, templi, edifici pubblici e quar­tieri di abitazione. Da qui si poteva raggiungere l'agorà civile, dove era il teatro, un ginnasio-terme e il teatro ellenistico (ricostruito nel I-III sec. d.c.), per poi lasciare nuovamente il centro, uscendo dalla porta di Magnesia.


STOA' DI DAMIANO

Un'altra strada porticata, detta Dtoà di Damiano, dal sofista del II sec. d.c. che ne aveva curato la sistemazione secondo l'uso romano di spendere del proprio per migliorare o adornare la propria città. Questa congiungeva, fuori la porta di Magnesia, la città con il tempio di Artemide.

LA BIBLIOTECA DI CELSO


BIBLIOTECA DI CELSO

Simbolo di Efeso per eccellenza, la Biblioteca di Celso è uno dei monumenti più affascinanti del mondo ed è stata edificata dal figlio di Celso nel 114. situata presso l'agorà commerciale, vicina alla Porta di Mazeo e Mitridate. Dall’ingresso sud vi si accede passando per l’imponente Porta di Augusto che collega con l’Agorà.

Venne donata alla città dal console C. Giulio Aquila Polemeano, per onorare la memoria del padre, C. Giulio Celso Polemeano, senatore e magistrato del tempio di Traiano. L' edificio, come da epigrafi, fu completato nel 135 dagli eredi, come monumento sepolcrale. Poichè la sepoltura è entro le mura, sembra evidente che si intendesse conferire a Celso un culto di tipo eroico.

Esso sorgeva su una piccola piazzetta interna, comunicante con l'agorà a mezzo di una porta innalzata negli anni 4-3 a.c. da tali Mazeo e Mitridate in onore di Augusto, di Livia, di Agrippa e di Giulia.

SCULTURA DELLA BIBLIOTECA
La sua raffinatissima facciata è stata mirabilmente ricostruita da archeologi austriaci che ne recuperarono accuratamente e pazientemente ogni parte, statue comprese.
Era preceduta da una gradinata, aveva tre porte in basso e tre finestre al piano superiore: tra le porte erano nicchie precedute da coppie di colonne in avancorpo e contenenti statue allegoriche delle virtù del personaggio onorato; le finestre erano inquadrate da edicole sostenute pure esse da colonne.

Essa consta di due ordini, molto movimentata da sporgenze e rientranze, con nicchie, edicole, statue di divinità e personificazioni. Una movimentata decorazione architettonica dunque, caratteristica del periodo in cui fu ideata e costruita, il primo decennio del regno di Adriano, e resa ancor più preziosa dagli ornati delle lesene, delle cornici, della trabeazione.

Analoga la decorazione architettonica nell'interno: la vasta sala di lettura aveva alle pareti, su due ordini, ballatoi e scaffali per i "volumina". Infatti, con le sue circa 12.000 pergamene, i cui rotoli erano collocati nelle numerosi nicchie nelle pareti, era la terza biblioteca più grande del mondo, dopo quella di Alessandria d'Egitto e Pergamo.

Dinanzi alle pareti, nelle quali si aprivano le nicchie per gli armadi dei volumi, su tre ordini sovrapposti, correva un colonnato a due piani, che le nascondeva completamente: al di sopra del colonnato girava un ballatoio scoperto. Nel mezzo della parete di fondo si incurvava un'abside vuota, in corrispondenza della camera-cripta.
La sala era quadrangolare ed aperta verso est, con una parete doppia tutto intorno che isolava l'interno della sala proteggendola dall'umidità e che formava un corridoio. Da questo si accedeva da un lato al suddetto ballatoio scoperto, dall'altro alla camera sotterranea contenente la tomba a sarcofago di Celso Polemeano. Sulla parete di fondo, un'alta esedra ospitava la statua di Atena, sotto cui era stata posta la camera funeraria di Celso, col suo magnifico sarcofago a ghirlande.



I GINNASI

APOXYOMENOS
Ci sono diversi ginnasi-terme; l'edificio che presso i Greci era destinato particolarmente agli esercizi dell'ephebèia, accoglie ora, sotto l'influsso romano, gli ambienti per i bagni, e ne nasce un tipo che ha insieme del ginnasio e della terma.


Ginnasio di Vedio -

Risalente al II secolo d.c. e dotato di palestre, piste di atletica, piscine, terme e latrine. Fu fatto costruire da P. Vedius Antoninus ed è notevole soprattutto per le grandi dimensioni.


- Ginnasio dell'Est  

o ginnasio delle fanciulle (per via delle numerose statue di fanciulle che vi sono state ritrovate), risalente al II secolo d.c. Si tratta di un'importante istituzione scolastica corredata di bagni e luoghi per le attività sportive.


- Ginnasio del porto -

iniziato sotto Domiziano e completato, con una grande palestra scoperta, all'epoca di Adriano per impulso dell'asiarca (cioè del capo dei sacerdoti del culto imperiale in Asia) Claudius Verulanus.


- Ginnasio del Teatro -

 a N dell'Arcadiana, dal quale proviene una bella statua di Apoxyòmenos, (colui che si deterge con lo strigile), di Lisippo, ora a Vienna. 


IL TEMPIO DI ARTEMIDE


I TEMPLI


L'Artemisio o Tempio di Artemide 

Dalle rovine del tempio di Artemide ai piedi della collina di Ayasuluk (od. Selçuk), gli scavi hanno permesso di riconoscere le varie fasi di costruzione dell’Artemisio, che nel VI sec. a.c. era un grande tempio marmoreo, ionico, diptero (due file di colonne sui lati lunghi, ma con tre file di colonne sulla fronte).

Era lungo più di 400 piedi e largo 200, ( lungo 115 m e largo 55), di ordine ionico come tutti gli altri templi dell'Asia Minore. La sua costruzione sarebbe durata 120 anni, secondo alcuni storici 220.
Verso la metà del sec. VI a.c., il conquistatore Creso finanziò in larga parte la costruzione del primo grande Artemisio, costringendo gli Efesini al pagamento di un tributo.

Ma secondo la tradizione, una tradizione però molto supportata dagli antichi testi, l'Artemisio, o Tempio di Diana, fu costruito, in epoche molto remote, probabilmente in legno e argilla, dalle Amazzoni, grandi adoratrici di Diana, di cui imitavano l'uso dell'arco e la veste a seno scoperto.

Esso aveva otto colonne sul pronao, nove sull'opistodomo e ventuno sui fianchi.
Alcune delle colonne erano decorate a rilievo nella parte inferiore e di essere sostenute da dadi quadrangolari pure scolpiti: ne restano frammenti, ora nel British Museum, con figure gradienti di sacerdoti, sacerdotesse, offerenti.

Scavi condotti in campagne del 1904-1905 nel basamento del tempio, in uno strato precedente al 560 a.c., hanno portato alla luce il più importante documento monetario, un tesoro di monete globulari in elettro (lega di oro e argento, a basso contenuto d'oro), recanti striature o tipi su di una sola faccia, mentre sull'altra vi è un punzone (640-630 a.c.).

Considerato una delle sette meraviglie del mondo, nella versione storica, era stato progettato da Chesifrone di Cnosso, e la costruzione durò molti anni. Incendiato da Erostrato la notte stessa in cui nacque Alessandro Magno (21 luglio 356 a. c.), fu riedificato da Dinocrate.

Il tempio era di marmo bianco e rilucente d'oro, così alto che fu detto "alto come le nuvole", e vi posero la gigantesca statua di Artemide.

Era grande quattro volte il Partenone, ricco di sculture di Prassitele e di pitture di Parrasio e di Apelle. La statua della Dea era di legno d'ebano secondo Plinio o di cedro secondo Vitruvio.

Venne dunque distrutto da un incendio doloso nel 356 a.c. ad opera di Erostrato, un pastore che motivò il suo gesto deliberato con la sola intenzione di "passare alla storia". La leggenda afferma che Artemide stessa non abbia protetto il suo tempio in quanto troppo impegnata a sorvegliare la nascita di Alessandro Magno, che ebbe luogo nella stessa notte.

La storia appare poco credibile, perchè per incendiare un tempio di quella portata occorreva un nutrito gruppo di persone munite di molta legna e fascine, e per giunta senza alcuna sorveglianza del tempio, che sicuramente era custodito da sacerdotesse e custodi, considerato anche il valore delle offerte che sicuramente conteneva.

TEMPIO DI ARTEMIDE
Molto più probabile che sia avvenuto durante la III Guerra Sacra tra le varie città greche, ma che la data sia stata spostata per farla coincidere con la nascita di Alessandro Magno. Questi stesso contribuì alla riedificazione del tempio, che richiese, secondo le fonti 120 anni o addirittura 220.

Il nuovo edificio, di m 111 × 51, venne sopraelevato su un'alta piattaforma a livello notevolmente maggiore del precedente, pur mantenendo le identiche caratteristiche dell'altro, con le colonne con la parte inferiore scolpita: tali colonne in numero di sedici occupavano le due prime file della facciata, mentre venti dadi scolpiti sostenevano le colonne tra le ante e avanti ad esse. Tali elementi architettonici scolpiti, nel numero complessivo di trentasei, sono ricordati da Plinio.

Con Augusto Efeso conobbe molte opere pubbliche, Augusto fece infatti restaurare e abbellire l'Artemisio, nel cui recinto sorge uno dei primi centri di culto imperiale. Il grande tempio di Artemide fu ricostruito ma poi fu nuovamente distrutto dai Goti, nel 262 d.c. Ricostruito ancora una volta fu chiuso a seguito dell'editto di Teodosio che vietava i culti pagani.

Ma ciò non bastava perchè nel 401 venne infine distrutto dai cristiani guidati da Giovanni Crisostomo.

Sono ridotte a una singola colonna le testimonianze di quello che fu il più celebre monumento di Efeso.

Secondo Pausania il più grande edificio del mondo antico: il Tempio di Artemide, una delle Sette meraviglie del mondo, venne raso definitivamente al suolo nel 401 per ordine di Giovanni Crisostomo, arcivescovo di Costantinopoli, che ne fece abbattere pietra su pietra, affinchè nessuno potesse mai più osarne la ricostruzione. Infatti già all'epoca il potere religioso spadroneggiava su quello civile.

La scoperta dei resti del tempio avvenne nel 1860 per opera di John Turtle Wood in una spedizione finanziata dal British Museum.

Artemide a Diana furono odiatissime dai cristiani perchè i suoi seguaci opposero strenua opposizione alla conversione.


Tempio di Adriano

Tutta la via tra l'agorà e la porta di Magnesia è stata oggetto di scavi recenti che hanno messo in luce vari monumenti, e si è iniziata l'esplorazione dei quartieri di abitazioni sulle pendici del Panacir Daǧ; un tempio dedicato ad Adriano con pronao a due colonne fra due pilastri è riccamente decorato e sull'intercolunnio centrale la trabeazione si incurva ad arco.

TEMPIO DI ADRIANO
Fu dedicato nel 138 d.c. da Publio Quintilio all'imperatore Adriano, venuto a visitare la città di Atene nel 128 d.c. E' un piccolo tempio situato in Via dei Cureti La facciata del tempio ha 4 colonne corinzie che sostengono un arco al cui centro è scolpita in rilievo Tyche Dea della vittoria mentre le colonne laterali sono quadrate.


E' un tempio prostilo (colonne solo sulla facciata), con 4 basi che precedono la piccola cella, sostenenti due colonne e due pilastri in stile corinzio.

I piedistalli con le iscrizioni di fronte al tempio sono invece le basi delle statue degli Imperatori dal 293 al 305 d.c.: Diocleziano, Massimiano e Costantino 1, e Galerio. Però gli originali non sono stati trovati.

La trabeazione del tempio contiene un busto della dea Tyche. All'interno del tempio c'è una ricca decorazione e nella lunetta sopra la porta, una figura umana, probabilmente Medusa, è scolpita con ornamenti di foglie d'acanto.

Su entrambi i lati della porta vi sono scene raffigurante la fondazione di Efeso: Androclo che colpisce un orso, Dioniso in un corteo cerimoniale con le Amazzoni. La quarta scena ritrae due figure maschili, di cui una è Apollo; poi Athena Dea della luna; una figura femminile, Androclo (mitico fondatore di Efeso), Eracle, la moglie e il figlio di Teodosio e la Dea Athena.

In un altro blocco, probabilmente restaurato in epoca tarda, si raffigurano immagini di divinità e personaggi della famiglia imperiale dell'imperatore Teodosio I.Le figure che osserviamo sono copie mentre gli originali sono conservati nel Museo di Efeso.



Tempio di Traiano

edificato a opera di Adriano, il Traianeum, o tempio di Traiano divinizzato: per fargli posto vengono demolite alcune costruzioni di età ellenistica, ma l'impostazione architettonica d'insieme venne rispettata.


Tempio di Domiziano

Eretto dallo stesso Domiziano, un imponente ottastilo su alto podio, eretto a est dell'agorà, ma dedicato dopo la “damnatio memoriae” di quest’ultimo al padre Vespasiano divinizzato. Il tempio, con due stupende colonne erette e unite da un architrave che ne regge un altro paio simili a cariatidi. La vastità delle fondamenta di questo tempio ci dà la misura di quelle che dovevano essere le sue proporzioni.
Era posto sulle pendici del Bülbül Daǧ, ed era periptero octastilo con cella tetrastila e altare adorno di rilievi.


Tempio di Serapide

Viene riferito stupendo e vastissimo. Sul fianco sud il portico, a 35 m dal propileo dell'agorà, era interrotto con una scalinata che conduceva attraverso ad una porta a una grande piazza circondata da portici, sul cui lato sud sorgeva un grandioso tempio prostilo octastilo, largo m 29, con colonne alte m 15, monolitiche, che giacciono a terra in pezzi insieme a molti altri frammenti architettonici; la cella era coperta da una volta a botte. E' il tempio di Serapide, del Il sec. d.c., posto ad ovest dell'Agorà e chiuso entro un recinto.


Tempio di Hermes o Hermaion

Se ne hanno che scarsi avanzi. Era posto sullo sperone nord ovest del Coresso dedicato ad Hermes, donde il nome di Hermàion alla collina, e pure al tempio.


Santuario Rupestre della Magna Mater

Era posto ai piedi del Panacir Daǧ, caratterizzato da nicchie ricavate nel sasso, nelle quali è raffigurata la Dea insieme con Attis e con una divinità maschile barbata del tipo Zeus.

MONUMENTO DI MENNIO


MONUMENTO DI MENNIO

Per coloro che giungono dalla Via dei Cureti, prima dello slargo che precede l'ingresso nell'agorà civile, c'è una fontana e l'heroon dedicato a c. Memmius: personaggio di illustre famiglia, nipote di Silla e figlio di un altro C. Memmius che era stato propretore di Bitinia nel 57 a.c. e protettore di Catullo e Lucrezio.

Rivolgendosi a un artista greco, Avianus Evander, Memmius padre fece erigere questo monumento al figlio morto prematuramente fra 49 e 46 a.c.. Trattasi di un'alta struttura a pianta quadrata, decorata nella parte alta da rilievi raffiguranti divinità e personificazioni e  personaggi del ciclo troiano visti come mitici progenitori, nonchè le immagini del padre e del nonno del defunto. Della struttura originale resta ben poco, aveva 4 facciate e nel IV sec. d.c. vi fu aggiunta una fontana di piazza.



LO STADIO

Risalente al I o inizio II sec. d.c. e depredato delle sue pietre dai bizantini per costruire il castello sulla collina di Ayasuluk a Selçuk.  Appoggiato con uno dei lati lunghi ad una collina, risale certamente nel suo primo impianto all'età ellenistica, ma ebbe restauri sotto Nerone e in periodo bizantino, anche per ospitare, oltre alle corse dei carri, spettacoli gladiatori e spettacoli venatori.



IL PRITANEO

L'edificio pubblico dove in origine era ospitato il primo magistrato e dove era custodito il focolare sacro della città e potevano esservi accolti ospiti di particolare riguardo o cittadini benemeriti. Il prytaneion era la sede del senato cittadino, ed Hestia Boulaia (corrispondente a Vesta) era la divinità protettrice della boulè, cioè del senato.
Qui si svolgeano, oltre alle riunioni del senato, anche cerimonie, udienze, banchetti. Subito dopo era una piccola cavea teatrale interpretabile come odeion. Questi monumenti furono spogliati nel III secolo da una ricca dama cristiana (nota da epigrafi), Scolastica (Scholastikia), che usò i materiali per la costruzione di un impianto termale sulla Via dei Cureti.



L'ARA

Un monumento celebrativo della dinastia degli Antonini e che era (così come è stato ricostruito nel Kunsthistorisches Museum di Vienna) a forma di ferro di cavallo, sulla base del modello del Grande Altare di Pergamo. Noto come l’ara di Efeso, il suo ciclo figurativo, che commemora le vittorie di Marco Aurelio e Lucio Vero sui Prati, è prova dell'altissimo livello raggiunto dagli scultori efesini.
Nei pannelli dell’ara si fondono l’eleganza classica greca e il realismo preciso e vibrante del rilievo storico romano.

La raffigurazione verte su l'adozione di Antonino Pio da parte di Adriano alla presenza di Marco Aurelio giovinetto e di Lucio Vero fanciullo. Nella parte restante il fregio evoca le spedizioni partiche di Lucio Vero, con la raffigurazione, soprattutto, di una grande carica di cavalleria. Vi sono istoriate pure le personificazioni delle città sottomesse, e l'apoteosi dell'imperatore sul carro di Helios e dell'imperatrice, assimilata alla Dea, sul carro di Selene.


LATRINA DEGLI UOMINI

LE LATRINE
Struttura rettangolare con sedili in marmo scolpiti per far sedere comodamente gli ospiti.



L'ACQUEDOTTO

Si sa che venne fatto restaurare da Augusto.

Nella parte settentrionale del sito si intravedono sul suolo (alcune interrate, altre in superficie e altre ancora rotte) i resti dell'acquedotto costruito in terracotta che serviva l'intera città.

Nei pressi dell'agorà superiore, a meno che siano state rimosse o riutilizzate, si può vedere un enorme ammasso di elementi che un tempo facevano parte del complesso sistema.



L'ASCLEPION

L'ospedale cittadino. Il serpente, simbolo dei dottori, è scolpito sulla pietra.



IL BOULEUTERION

Il bouleuterion era un edificio che ospitava il consiglio (boulè) della polis greca. Veniva in genere annesso alla principale piazza cittadina, l'agorà. L'edificio era generalmente a pianta quadrata e al suo interno conteneva sedili su più file, interrotti da sostegni per il tetto.

I gradini dei sedili potevano essere allineati alle pareti, o disposti su tre lati a π oppure quello di Atene (fine V sec. a.c.) a ferro di cavallo.



IL PORTO

Augusto realizzò un nuovo e magnifico ingresso al porto settentrionale e vi inserì un monumento votivo marmoreo in forma di grande tripode, di cui si vedono ancora i resti della base. Il monumento fu eretto in onore di Apollo Aziaco, in quanto, secondo Augusto il Dio gli aveva consentito di vincere nella battaglia di Azio. Accanto a questo, venne inserito anche un monumento votivo minore.



IL POSTRIBOLO

Il postribolo era largamente usato ad efeso, soprattutto dagli stranieri, e siccome il santuario di Artemide era famosissimo, tutti vi si recavano in pellegrinaggio, chiedendo guarigioni e grazie varie.

Non essendo moralisti, i Greci non trovavano discordante il tempio con il postribolo, per cui accanto al santuario fiorirono i negozi di souvenir, un po' come chi va a San Pietro, trovando nei dintorni molti negozi di articoli sacri ed immagini varie della Dea miracolosa, misti a prodotti più frivoli.
Essendo molti i visitatori del monumento sacro molti erano anche gli avventori del postribolo, ma c'era la legge che proibiva ai troppo giovani di usufruire di quel servizio.

Però all'epoca non c'era la carta di identità, per cui la cosa era stata risolta attraverso questo piede modello scolpito nel marmo.

Si faceva poggiare al giovine il piede sull'impronta, se il piede era più piccolo dell'impronta questi non veniva ammesso ai piaceri della carne.
Semplice e ingegnoso.

Nel postribolo c'è un affresco rappresentante una dama discinta e ammiccante, una statuetta di Priapo nel pieno delle sue esuberanze ripescata nel pozzo della magione.



LA BASILICA

E' la basilica di Maria Madre di Dio detta anche basilica del Concilio di Efeso, proprio perchè qui avvenne il famoso concilio del 431 d.c. dove si affermò il ruolo e l'importanza della Vergine Maria, come Madre di Dio.

Secondo alcune fonti, l'apostolo Giovanni soggiornò ad Efeso; secondo altre fonti con lui avrebbe dovuto esserci anche Maria; tale ipotesi, non accertata, è negata da altri. Comunque sul sito a Efeso, considerato sede del sepolcro di Giovanni, fu costruita una basilica nel VI secolo, sotto l'imperatore Giustiniano, della quale oggi rimangono solo tracce. 

Ad alcuni km a sud di Efeso si trova una piccola cappella conosciuta come casa della Madre Maria. Preceduta da un vestibolo risalente all'VII sec., la piccola costruzione risale al secolo IV. Sono state trovate tracce di fondamenta risalenti probabilmente al I sec. d.c..

LA BASILICA

Il Concilio di Efeso

"Venne convocato a causa di Nestorio, che rifiutava a Maria... l’appellativo di Theotokos, Madre di Dio". Nella lettera ufficiale inviata dal Concilio alla città di Costantinopoli, dove Nestorio era vescovo, manca il verbo riferibile a Giovanni e a Maria.

Vi si legge infatti: “Nestorio, il rinnovatore dell’eresia empia [l’arianesimo], dopo essere giunto nella terra degli Efesini, là dove il teologo Giovanni e la Theotokos Vergine, la Santa Maria..., dopo una terza convocazione..., è stato condannato”.

Per molto tempo ci si è arrovellati sul significato di questa proposizione subordinata senza verbo. Ma pensiamo di aver mostrato che il verbo è sottinteso, ed è lo stesso che i vescovi del Concilio avevano riferito a Nestorio.

La frase va dunque così intesa: “Nestorio, il rinnovatore dell’eresia empia, dopo essere giunto nella terra degli Efesini, là dove erano giunti il teologo Giovanni e la Theotokos Vergine, la Santa Maria..., dopo una terza convocazione..., è stato condannato”.

La Basilica, situata nella parte settentrionale della città, fra il porto e la collina del tempio arcaico, sorse su un edificio antoniniano, di forma rettangolare allungata (m 265 × 30), orientato est ovest, diviso internamente da due file di colonne e terminato alle estremità da due sale absidate coperte a cupola: lo si è chiamato mousèion, ma a quale uso esso fosse destinato, se a mercato o a sede di scuole, è incerto. Distrutto verosimilmente dai Goti nel 263, fu parzialmente adattato al culto cristiano in epoca costantiniana o subito dopo.

INGRESSO ALLA BASILICA DI S. GIOVANNI


I MAUSOLEI

I sepolcri erano di varia forma: entro grotte naturali, a sarcofago, a mausoleo. Il cimitero in generale si sviluppò sopra e intorno ad una specie di catacomba di dieci stanze allineate sui fianchi di un corridoio senza traccia di sepolture. Probabilmente i cadaveri erano esposti imbalsamati. Quando più tardi sepolcri in muratura furono costruiti sopra il piano e contro le pareti delle stanze, una di esse, ornata di pitture, rimase come cappella.


L'OTTAGONO

Tra i monumenti che che si affacciavano sull'embolos che immetteva nell'Agorà c'erano due particolari edifici di particolare interesse: uno a pianta ottagonale, l’altro esagonale, ambedue monumenti funerari.

Il primo costituisce l'esempio orientale dei monumenti funerari a edicola che si attesteranno anche in Italia nella tarda repubblica e nella prima età imperiale. E' detto l’Ottagono, perchè su uno zoccolo si elevava un corpo centrale costituito da un porticato con otto colonne corinzie disposte attorno a un nucleo centrale pure ottagonale, sormontato, come elemento terminale da una cuspide piramidale.

Il monumento funerario, non a caso eretto accanto all'heroon dell’ecista (ecista = condottiero scelto da un gruppo di cittadini per guidarli alla colonizzazione di una terra), ha una datazione che va dal 50 al 20 circa a.c.


MAUSOLEO DI ABRADAS

Intorno alla metà del sec. V si formò in superficie il primo nucleo del cimitero, un edificio parte costruito e parte scavato nella roccia.
Esso comprendeva una sala quadrangolare al centro, e due ambienti più piccoli ai lati, uno dei quali destinato al culto; un altro ambiente verso occidente faceva da atrio. Il resto erano tombe: a cassa, a nicchia, in costruzione, o sotto il pavimento o entro le pareti. Il cimitero si estese poi sulle terrazze adiacenti; celebre il Mausoleo di Abradas, dal nome di questo personaggio inciso su un architrave, parte in muratura e parte scavato nella roccia.


MAUSOLEO DI BELEVI

Notevole il mausoleo del villaggio di Belevi (a nord est di Selçuk), ad alcuni km dalla città, che ripeteva molto da vicino il mausoleo di Alicarnasso. Uno zoccolo in grossi conci, che rivestiva un nucleo interno tagliato nella roccia, era coronato da un fregio dorico e sosteneva una cella contornata da un portico di otto colonne corinzie per lato.
Sopra la cornice del portico nel lato di fronte una serie di leoni affrontati posti ai lati di vasi; agli angoli, come acroteri, erano coppie di cavalli. Rilievi con scene di centauromachia e di giochi agonistici ornavano i lacunari del portico; manca totalmente la volta.

La camera sepolcrale, ricavata nella roccia, era preceduta da un vestibolo con una decorazione  a colonne e architravi ad aggetto o rientranti, con la rappresentazione, in pittura o a rilievo, della caduta di Fetonte, come dall'iscrizione di un frammento con la menzione delle Eliadi. Il sarcofago è del tipo a klìne, con un fregio di sirene e le figure dei defunti recumbenti.

L'edificio e il sarcofago non furono mai finiti. Poiché la data del monumento sembra del IV sec. a.c., si pensa abbia potuto appartenere a Mentore di Rodi, comandante dei mercenari greci di Artaserse III, e fratello di Memnone, lo sconfitto di Alessandro alla battaglia del Granico. Oppure Antioco II di Siria, morto ad Efeso nel 246 a.c.

DEMOCRAZIA DELL'IMPERO 3/4 - PATRIZI E PLEBEI

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L'impero Romano fu il potere più democratico che sia esistito ai suoi tempi, e tutto sommato è più democratico di tanti stati attuali compreso quello italiano odierno.

Tuttavia viene tacciato di essere stato un popolo despota e imperialista contro la povera gente. I ricchi patrizi non avrebbero lasciato nulla ai poveri plebei. Era la guerra tra gli Optimate (patrizi) e i Populares (plebei).



3)  I Romani davano tutti i diritti e tutti i beni all'aristocrazia ignorando la plebe.

Ricordiamo tanto per iniziare che Giulio Cesare fu esponente dei Populares contro la fazione degli Optimates.

Vediamo allora le leggi promulgate dai magistrati romani a favore della plebe, in un mondo dove c'erano monarchie assolute in oriente e capi tribù con poteri assoluti nell'Europa del nord.

Fin dall'età molto antica i plebei potevano essere ufficiali dell’esercito (tribuni militum) e membri aggiunti del senato (conscripti).

- 494 a.c. - TRIBUNIS PLEBIS - a seguito della prima ribellione della plebe, si ottenne il riconoscimento di un'importante magistratura, quella dei tribuni della plebe  (inizialmente furono solo due, poi il loro numero si stabilizzò in dieci).

La Secessio Plebis fu la lotta politica adottata dalla plebe, tra il V ed il III secolo a.c., per ottenere la parità di diritti con i patrizi. La secessione comportava che la plebe abbandonava in massa la città lasciando tutti i negozi e le botteghe artigiane chiuse. In tal modo non era nemmeno possibile convocare le leve militari che all'epoca si basavano molto sui plebei.

Secondo lo storico Publio Annio Floro le secessioni furono quattro: 494-493; 451-449; 445; 376-371.
I tribuni della plebe avevano i poteri di:

- ius auxilii (diritto d'aiuto: il tribuno poteva intervenire per salvare chiunque fosse minacciato da un magistrato)

- intercessio (il diritto di veto contro i decreti dei magistrati, le delibere dei comizi e i senatusconsulta in contrasto con gli interessi della plebe),

- sacrosanctitas inviolabilità personale.

SECESSIO PLEBIS

Sempre nel 494 a.c. venne creato il
- CONCULIM PLEBIS Concilio della Plebe, un'assemblea riservata ai plebei all'interno dei Comitia Tributa (una delle assemblee con poteri legislativi e giudiziari).

In seguito alla secessione della plebe sul Monte Sacro per rivendicare il diritto di partecipare alla vita politica della civitas. La plebe, oltre ai concilia plebis, e i tribuni della plebe, creano gli edili; le delibere della plebe raccolta nell'assemblea convocata dal tribuno della plebe prenderanno il nome di plebiscita (plebisciti). Da queste assemblee saranno esclusi i patrizi affinchè la plebe abbia una propria iniziativa politica.

- 451-450 a.c - Redazione da parte dei decemviri delle
DUODECIM TABULARIS LEGES
Leggi delle XII tavole,  raccolta di leggi scritte per evitare le interpretazioni di parte, affisse nel Foro pubblico. Così l’interpretazione del diritto venne esteso ai plebei che poterono finalmente partecipare all’approvazione degli atti dei comizi.
In pratica vennero messe per iscritto le leggi orali (le consuetudini). Cicerone narra che ancora ai suoi tempi (I sec. a.c.) il testo delle Tavole veniva imparato a memoria dai bambini come un poema d'obbligo, e Livio le definisce come “fonte di tutto il diritto pubblico e privato ”. Il linguaggio delle tavole è arcaico ed ellittico. Alcuni studiosi suppongono che le norme siano state scritte in metrica, per facilitare la memorizzazione.

- 445 a.c. - promulgazione della LEX CANULEIA. Si abolisce il divieto di matrimonio tra patrizi e plebei.
« Infatti all'inizio dell'anno il tribuno della plebe Gaio Canuleio presentò una legge sul matrimonio tra patrizi e plebei in seguito alla quale i patrizi ebbero a temere che il loro sangue fosse contaminato e ne fossero sconvolti i diritti detenuti dalle famiglie del patriziato. »
(Tito Livio, Ab Urbe condita)

- 444 a.c. - Deferimento della potestà consolare a TRIBUNI MILITUM CONSULARI POTESTATE esteso anche ai plebei.

- 409 a.c. - la carica di QUESTOR (questore) viene estesa anche alla plebe (importantissimo perchè chi era stato questore entrava a far parte di diritto del Senato). All'inizio questori, (magistrati minori) possedevano giurisdizione criminale (quaestores parricidii), in seguito competenze amministrative, supervisionando e gestendo il tesoro e le finanze

- 367 a.c. - LEGGI LICINIE-SESTIE (dai tribuni della plebe: Licinio Stolone e Sestio Laterano) stabilirono che:

- i plebei potevano accedere al consolato, anzi, ogni anno uno dei due consoli doveva necessariamente essere un plebeo (pratica non sempre seguita, ma la cosa importante era poter accedere al consolato);
- il possesso dell' ager publicus da parte dei privati non doveva superare i 500 iugeri (125 ettari). Questa legge prevedeva una redistribuziione delle terre, prerogativa dei patrizi, così che anche i plebei potessero usufruire delle terre coloniali;
- doveva essere limitata l'usura per i debiti contratti dai plebei con i patrizi.
Si iniziò a dare ai plebiscita, pur non votati da tutto il popolo, valore di lex publica, tale da vincolare l’intera cittadinanza (compresi i patrizi, ridotti ormai a una percentuale esigua).

- 356 a.c. - Viene nominato il primo DICTATOR (dittatore) plebeo.

- 339 a.c. - LEGES PUBLILIE Il primo dittatore plebeo nella storia romana, Publilio Filone, con le leggi Publilie trasformò i plebiscita, ovvero le deliberazioni dell'assemblea della sola plebe (Concilium plebis), in leggi dello Stato e quindi vincolanti per tutti, purché fossero stati approvati dal Senato.

- 339 a.c. - la carica di CENSOR (censore) viene estesa ai plebei.
« La censura si era resa necessaria non solo perché non si poteva più rimandare il censimento che da anni non veniva più fatto, ma anche perché i consoli, incalzati dall'incombere di tante guerre, non avevano il tempo per dedicarsi a questo ufficio. Fu presentata in senato una proposta: l'operazione, laboriosa e poco pertinente ai consoli, richiedeva una magistratura apposita, alla quale affidare i compiti di cancelleria e la custodia dei registri e che doveva stabilire le modalità del censimento. » (Tito Livio, Ab urbe condita, IV, 8)

- 337 a.c.- PRAETOR (Pretore) La carica della pretura viene estesa ai plebei. Il Pretore era un magistrato dotato di imperium (impartire ordini) e iurisdictio (impostare in termini giuridici la controversia). Il pretore poteva concedere l'actio, cioè lo strumento con cui si permetteva ad un cittadino romano che chiedeva tutela, nel caso in cui non ci fosse una lex che prevedesse la tutela, di agire in giudizio dinanzi al magistrato.
- 320 a.c. - tutte le magistrature vengono estese anche ai plebei.

- 326 a.c. LEX PETELIA secondo Tito Livio - 313 a.c. secondo Marco Terenzio Varrone con la legge Petelia fu abolito l'imprigionamento per debiti (nexum).

- 300 a.c.- LEX OGULNIA le cariche dei collegi sacerdotali (pontificato e augurato) con la Lex Ogulnia (promulgata per plebiscito) viene estesa anche ai plebei. Vennero aumentati i pontefici da 4 a 8, stabilendo che 4 fossero plebei, mentre gli auguri passarono da 4 a 9, dei quali 5 dovevano essere plebei.

GIURISTA GAIO
- 287 a.c. - secessione della plebe sul Gianicolo e conseguente Lex Hortensia, si sancì la parità tra plebei e patrizi, in quanto i plebiscita ebbero valore automatico di leggi, anche senza approvazione del senato.

- 254 a.c. - si ebbe il primo pontefice massimo plebeo.

- 172 a.c. -  si ebbero per la prima volta entrambi i consoli plebei,

- 131 a.c. - si ebbero due censori plebei.

-180 - Il giurista romano Gaio nelle sue Istituzioni dà la seguente definizione di plebiscitum comparandolo all'istituto della Lex:
G. 1.3: «Lex est quod populus iubet atque constituit; plebiscitum est quod plebs iubet atque constituit»
La Legge è ciò che il popolo comanda e stabilisce. Il plebiscito è ciò che la plebe comanda e stabilisce.
Nel I secolo a.c. il patriziato, che si stava progressivamente estinguendo, venne ampliato con l'immissione di nuove famiglie, le più ricche tra la plebe, nel Senato.



COMMENTO

Oggi potremmo definire patrizi i grandi capitalisti e i politici che li sostengono. Saremmo molto lieti se il popolo, cioè la plebe, avesse, in Italia ma non solo, gli stessi diritti degli attuali patrizi, nel pagamento delle tasse e nella giustizia.

Rammentiamo inoltre la miseria profonda in cui cadde il popolo con la caduta dell'impero, diviso tra nobili e alto clero e popolo miserevole, praticamente i servi della gleba. Così proseguì fino alle leggi del XIX e XX secolo che rimediarono a tante ingiustizie ma ne crearono altre e non meno gravi. 

Rammentiamo inoltre che non abbiamo nei vari parlamenti dei tribuni della plebe che si battano per i poveri e gli oppressi se non qualche raro partito che si oppone come può al grande strapotere delle maggioranze, in genere e con pochissime eccezioni, colluse col potere in ogni parte del mondo.

TARRACO - TARRAGONA (Spagna)

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Colonia di Cesare, confermata da Augusto a capoluogo della provincia nonché dell'omonimo conventus. L’antica Tarraco fu fondata nel 218 a.c., sulla costa del Mar Mediterraneo (Costa Dorada), su una altura rocciosa affacciata sul mare, ma ricevette un impulso definitivo a partire dal 26 a.c., quando vi si trasferì l’imperatore Augusto.
Oggi è ancora possibile trovare le tracce di quell'antico splendore e dell’importanza di Tarraco nella Spagna romana. Basta addentrarsi nella città catalana, sulle rive del Mediterraneo, e ammirare le ricche vestigia del centro storico attuale.

L'insieme archeologico della città di Tarragona è stato inserito nell'anno 2000 tra i Patrimoni mondiali dell'umanità dell'UNESCO.



LE ORIGINI

A partire dalla fine del V secolo a.c. è esistito un oppidum iberico (Kese o Kissa o Kissis), della tribù dei Cessetani, ma le origini della città risalgono alla II guerra punica.

AUGUSTO
Nel 218 a.c. una spedizione romana, sbarcata nella città greca di Emporion (oggi Ampurias) si dirige verso sud per controllare i territori a nord del fiume Ebro. 

La spedizione è guidata da Gneo Cornelio Scipione, a cui più tardi si aggiungerà il fratello Publio Cornelio Scipione: una guarnigione si insedia nei pressi dell'antico oppidum indigeno, che si trasformerà nella più importante base militare romana in Hispania, la città di Tarraco. 

Plinio testimonia che Tarragona nacque per opera degli Scipioni (Tarraco Scipionorum opus). La via Heraclea collegava la città ai Pirenei e prenderà più tardi il nome di via Augusta.

In età repubblicana la città era probabilmente suddivisa in un accampamento militare nella parte alta e una zona residenziale presso il villaggio iberico e il porto. La presenza militare portò con sè commercianti e cittadini romani che si stabiliscono nei nuovi territori conquistati. Era il paese delle nuove opportunità. Per giunta la penisola iberica ha sempre avuto un carattere molto affine ai romani prima e agli italiani dopo.

Dell'epoca si conservano principalmente le mura, costruite probabilmente intorno al 197 a.c., data di istituzione della provincia romana di Hispania Citerior. Intorno alla metà dello stesso secolo le mura furono consolidate e ampliate.

Nella guerra tra Cesare e Pompeo, Tarragona si schierò dalla parte di Cesare e pertanto divenne colonia nel 45 a.c., con il nome di Colonia Iulia Urbs Triumphalis Tarraco. Nel 27 a.c. divenne la capitale della provincia che prese il nome di Hispania Tarraconensis.

Negli anni 26-25 a.c. Augusto vi risiedette dirigendo le campagne militari che completarono la conquista in Cantabria e nelle Asturie. A causa dell'alto personaggio la città fu notevolmente abbellita e arricchita con la costruzione del teatro e di un monumentale foro cittadino.

Nel 73 d.c. alle province iberiche fu concessa la cittadinanza latina. In seguito alle trasformazioni amministrative, Tarraco, capitale provinciale, fu dotata, in aggiunta al foro coloniale, il vecchio foro cittadino, di un nuovo immenso foro provinciale, a cui pochi anni dopo si aggiunse il circo. Nel corso del II sec. venne inoltre costruito un anfiteatro.

La città subì il declino dell'impero nel III sec. e viene saccheggiata nel 260 dc. Nel IV sec. si ebbe una ripresa, con la costruzione di nuovi edifici pubblici e il restauro di quelli già esistenti.

Nel tardo impero perse il ruolo di capitale, pur essendo sede saltuariamente del comes Hispaniarum . Dopo la conquista visigota rimase ancora importante, come sede ecclesiastica arcivescovile e la conservazione delle installazioni portuali.

In era moderna i lavori per la costruzione del porto e gli scavi per lo sviluppo urbanistico portarono alle prime scoperte archeologiche e alla formazione di un Museo archeologico.




I MONUMENTI

Tra gli edifici principali vanno annoverati i bastioni edificati da Scipione; il recinto del culto imperiale; il Foro Provinciale, spazio aperto circondato da colonne; il circo, costruito con calcestruzzo romano (opus caementicium); il Foro della Colonia situato nel centro della città; il teatro, edificato su antiche cisterne e su quello che fu il mercato del porto; l’anfiteatro, costruito durante il regno di Traiano o di Adriano per ospitare un pubblico di circa 14.000 spettatori





LE MURA ROMANE

Le mura urbane furono edificate tra il 217 e il 197 a.c. Furono costruite in opera poligonale ed erano alte circa 6 m. Avevano un muro esterno e un muro interno, con un riempimento di terra e pietrame, fino a raggiungere uno spessore complessivo di 4,50 m. Erano rinforzate da torri quadrate, di cui restano oggi quelle di Cabiscol o del Seminario, di Minerva o di Sant Magí e dell'Arcivescovo.

Sulle mura ciclopiche compare a volte una apparecchiatura di massi bugnati con marche di scalpellino considerate lettere iberiche, ma simili a quelle che si trovano nelle Mura Serviane di Roma e, più ancora, nelle mura presillane di Pompei (specie la cosiddetta "bipenne").

Dionigi: “non so spiegarvi quale stupore mi cagionasse l’aspetto di quelle mura, che secondo le mie osservazioni istoriche fatte sugli autori, suppongo costruite dai Pelasgi e che ora vengon dette opera ciclopea, per denotare la grandiosità e robustezza con cui vennero fabbricate

Il fatto che le mura poligonali vengano attribuite ai romani ci lascia piuttosto perplessi. Ciò esula totalmente dagli usi e dalla precisa razionalità romana. Anche quando costruirono nel tufo i romani fecero pietre squadrate, e non più pesanti di quanto potesse sostenere le carriole dell'epoca (che appunto esistevano). Il tutto per rendere veloce e agevole la costruzione.

Alcune porzioni di mura ebbero decorazioni interne ed esterne, cancelli massicci e bastioni di difesa come le Torri di Minerva, di Capiscol e dell’Arcivescovo, che godono di un buono stato di conservazione.

Nella torre della Minerva era stato murato un bassorilievo frammentario raffigurante Minerva e all'interno è stato rinvenuta graffita in latino arcaico, la più antica iscrizione latina fuori dall'Italia, un'invocazione alla Dea. La torre conserva inoltre una serie di teste sommariamente scolpite nei blocchi, che rappresentano forse simboli dei nemici uccisi e la testimonianza dell'assimilazione degli usi locali da parte dei Romani. 

Presso la torre si conserva la principale porta di accesso, da cui entrava in città la via Heraclea.

Le mura furono probabilmente ampliate intorno alla metà del II sec. a.c., inglobando anche il porto e svolgendo, oltre che una funzione puramente difensiva per la guarnigione militare, quella di definizione dello spazio urbano, raggiungendo un perimetro di circa 4,5 km.

In questa seconda fase le mura raggiunsero un'altezza di 12 m e uno spessore complessivo di 6 m. Erano costituite da un basamento in grandi blocchi, alto tra 1,50 e 2 m, con due filari di blocchi, sopra il quale la costruzione proseguiva con n blocchi più piccoli.

Il riempimento tra il muro esterno e quello interno era in alcuni casi costituito in mattoni crudi. I blocchi recano sigle in alfabeto iberico, legate all'organizzazione del lavoro di costruzione. Nella parte inferiore si aprivano alcune piccole porte, dette "ciclopiche" a causa delle grandi dimensioni dei blocchi di pietra.

Nei secoli le mura subirono rifacimenti e trasformazioni, compresa l'apertura di nuove porte, come quella di Sant Antonio del XVIII sec. Delle rampe sul lato interno delle mura permettevano di raggiungere il cammino di ronda.  

In mancanza di un buon porto i Romani provvidero, già in età repubblicana, di sistemare un porto artificiale costruito in maniera simile ai porti ellenici.
Tuttavia la parte più interessante delle mura si trova nel Paseo Arqueologico (Parco Archeologico), dove se ne possono ancora vedere ampie pareti perfettamente conservate e che presentano uno zoccolo in blocchi megalitici, due delle sei postierle e una porta di accesso per il traffico su ruote.

IL FORO

IL FORO COLONIALE

La città aveva anche un proprio foro, utilizzato come sede amministrativa cittadina e centro commerciale. Il foro più antico fu creato in epoca repubblicana e fu poi monumentalizzato sotto Augusto. Venne infatti costruito nel III sec. a.c. sulle coste del mare mediterraneo.


la basilica

Su uno dei lati lunghi della piazza si apre la Basilica civile, di epoca augustea, con una navata centrale più alta circondata sui quattro lati dalle navate laterali, da cui era separata da colonne con capitelli corinzi (in totale 60, 14 sui lati lunghi e 4 sui lati corti). A causa forse di problemi di stabilità alle colonne angolari vennero addossate delle semicolonne.

Sul fondo della Basilica si aprivano una serie di 13 ambienti: quello centrale aveva maggiori dimensioni (13,07 m per 11,20 m) e ingresso ornato da due colonne. Si trattava probabilmente del tribunale nel quale si amministrava la giustizia. Sul fondo della sala un basamento doveva ospitare una statua dell'imperatore e la sala era probabilmente dedicata anche al culto imperiale. La pavimentazione era in lastre di marmo, con almeno due rifacimenti successivi. Gli altri ambienti più piccoli (3,90 m per 2,90 m) erano probabilmente utilizzati per le varie funzioni amministrative.


la cisterna

Alle spalle della Basilica si trovano le tracce di una cisterna precedente, non più utilizzata dopo la costruzione dell'edificio. La Basilica venne edificata sopra le cisterne e parte sopra il vecchio mercato.


il mercato

Alla fine del I sec. d.c. venne addossato al lato della piazza del Foro opposto alla Basilica un mercato, costituito da una piazza circondata da taberne. Alla fine del II sec. alcune delle taberne vennero chiuse per la realizzazione di un grande ninfeo. Il mercato venne abbandonato nella seconda metà del IV sec. e utilizzato come cava di materiale di reimpiego.


da scavare

La parte restante del Foro non è ancora completamente scavata: si tratta di una piazza più piccola annessa al foro vero e proprio, da dove sono stati rinvenuti i resti di alcune piattaforme con piedistalli di statue, che dovevano ospitare sculture di membri della famiglia imperiale e di una grande fondazione forse pertinente ad un tempio.

Nell'area archeologica attualmente messa in luce si trova inoltre una strada antica che porta alla piazza annessa al Foro, fiancheggiata da abitazioni disposte secondo un reticolo ortogonale.

Dalla piazza del Foro provengono basamenti di statue con iscrizioni, sculture in marmo e alcuni ritratti imperiali, attualmente conservati nel Museo Nazionale Archeologico.

Il Foro fu distrutto da un incendio, forse in seguito ad un'incursione di barbari, intorno all'anno 360 d.c.

IL FORO COME ERA


IL FORO PROVINCIALE

Tarraco, ormai capitale della provincia Hispania Citerior Tarraconensis, e sede del Consilium Provinciae Hispaniae Citerioris, una specie di succursale di Roma nella penisola iberica, ebbe ora la necessità di una degna sede amministrativa, e infatti il complesso monumentale del Foro provinciale venne edificato a partire dal 73 d.c., sotto l'imperatore Vespasiano, nella parte alta della città, che dall'epoca della fondazione era stato di proprietà statale, probabilmente come sede della guarnigione militare.

Usufruendo del naturale dislivello del terreno, il complesso fu articolato su due terrazze: quella superiore ospitava il recinto del culto imperiale, mentre quella inferiore costituiva la piazza forense.
In una terza terrazza sottostante si impiantò successivamente il circo.

PLASTICO DEL FORO

Il tempio di Roma e dell'imperatore

Nella II metà del I secolo d.c. l'Acropoli della città fu monumentalizzata con la costruzione del Foro provinciale e con la creazione del Circo, per una superficie di 7,5 ettari che fanno di questo centro storico il più grande in tutto il mondo romano.

Il Foro provinciale si aggiunse a quello locale per dare il giusto rilievo agli edifici pubblici e al culto religioso. L'edificazione romana di edifici grandiosi, ricchi di arte e di comodità (vedi i teatri e le terme) aveva i suoi scopi:
  • serviva a dare un'idea della grandezza dei romani come rispetto  e fedeltà ad un impero così potente.
  • serviva a far capire che stare sotto l'ala di roma era garantirsi da qualsiasi attacco esterno che sicuramente li avrebbe non solo saccheggiati ma riportati nella barbarie.
  • serviva ad abituare la provincia ai costumi romani, di sicuro molto piacevoli, mondani e divertenti.
  • serviva ad inculcare la grandezza dell'imperatore cui si doveva tanta ricchezza e protezione fino a divinizzarlo. Insomma si pubblicizzava il culto della personalità.
  • serviva a far capire che sotto Roma la vita era più agevole, lussuosa e divertente, oltre che a guadagnare nella cultura e nell'arte.
Il centro della città si suddivideva in due piazze su differenti altezze.
La piazza superiore (il complesso religioso) era circondata da un porticato del quale rimangono resti notevoli nel chiostro della Cattedrale. In posizione assiale si ergeva un fabbricato che fu identificato come il nucleo di un grandioso tempio dedicato al culto dell'imperatore.
Il recinto di culto era a pianta rettangolare (153 m X 136 ) ed era costituito da una piazza con portici sui tre lati, dominata dal tempio dedicato al culto dell'imperatore Augusto e della Dea Roma. Al recinto si accedeva per mezzo di un'ampia scalinata centrale. La piazza è attualmente occupata dalla Cattedrale.

La piazza del foro vera e propria sulla seconda terrazza, disposta in asse con quella superiore, era di straordinaria ampiezza (318 m per 175 m). Era circondata su tre lati da portici e la zona centrale era probabilmente sistemata a giardino: qui venivano erette le statue in onore dei personaggi più influenti della provincia e in particolare dei flamines, sacerdoti ufficiali della provincia per il culto imperiale.

Il primo tempio ad Augusto fu eretto da Tiberio, rinnovato, forse, da Vespasiano, al tempo di Adriano e di Settimio Severo. In quest'epoca fu costruita almeno la parte orientale del palazzo del legato (Torre de Pilatos), ovvero il palazzo del legato dell'imperatore.
Incerto rimane invece il tempio di Giove Capitolino, noto nelle fonti letterarie, ma non identificato. Lo stesso si può dire di quelli di Minerva, Venere, Serapide.


Tabularium

Dietro i portici che circondavano la piazza erano ospitati il tabularium, o archivio, e l'arca, o cassa, e gli altri edifici amministrativi.


Portici e torri

Per la naturale pendenza del terreno i portici laterali erano in parte costruiti su sostruzioni accessibili; delle torri scalarie alle estremità collegavano i diversi livelli di questo complesso amministrativo.

Una di queste torri, tuttora conservata, è il cosiddetto "Pretorio romano" (o anche "Castello del re", "Palazzo di Augusto" o "Torre di Pilato"). La torre, subì trasformazioni in epoca medioevale e nel XIV sec. ed era destinata a sede dei re di Catalogna nelle loro visite in città. In epoca moderna fu utilizzata come caserma fino al 1954 e successivamente fu restaurata e aperta al pubblico come sede del Museo di Storia della città.

Il complesso cessò di funzionare agli inizi del V sec. e venne progressivamente smantellato per il riutilizzo dei materiali, mentre la sede amministrativa, probabilmente ridotta, dovette spostarsi in un altro luogo.

IL CIRCO COME ERA

IL CIRCO

La cavea era separata dall'arena da un muro alto circa 2 m, che proteggeva gli spettatori dagli incidenti che accadevano durante le gare, interrotta dal pulvinar, la tribuna delle autorità. Su uno dei lati corti erano i carceres, strutture di partenza per le gare dei cavalli.

RESTI DEL CIRCO
Aveva una lunghezza di 325 m per una larghezza di 115 m. Le volte in muratura che sostenevano la cavea con i sedili, ospitavano i corridoi che permettevano l'afflusso e il deflusso degli spettatori e che si collegavano alle sostruzioni della soprastante piazza del Foro.

L'edificio, nel quale si tenevano le corse delle bighe o delle quadrighe, fu integrato nel complesso monumentale del Foro provinciale alla fine del I sec. d.c., sotto il regno dell'imperatore Domiziano, occupando una terza terrazza inferiore.

Anche il circo sembra cessasse di essere utilizzato nel corso del V sec., quando alcune abitazioni iniziarono ad installarsi sulle sue strutture.

In epoca medioevale il circo, inizialmente occupato da un piccolo borgo extraurbano (XII secolo), fu inglobato nelle fortificazioni cittadine, che si ampliano riutilizzandone la facciata (XIV secolo).

L'ANFITEATRO COME ERA

L'ANFITEATRO

All'inizio del II secolo uno dei flamines provinciales, sacerdoti incaricati del culto imperiale ufficiale della provincia, fece costruire il terzo edificio per spettacoli che insieme al teatro e al circo caratterizzava le città romane più importanti, dedicato ai combattimenti dei gladiatori o tra gli animali.

L'edificio sorse al di fuori del nucleo urbano, in prossimità della via Augusta al suo ingresso in città. Di pianta ellittica aveva un'estensione di 109,50 m per 86,50 m di ampiezza (l'arena era di 62,50 m per 38,50).

La cavea con le gradinate per gli spettatori era appoggiate alla roccia sul lato nord e sostenute da volte sugli atri lati. Era suddivisa in tre meniana: quello inferiore di tre file, quello intermedio di due file e quello superiore di 11 file.

La cavea era separata dall'arena da un podio di 3,25 m di altezza, costituito da grandi blocchi disposti in verticale, in origine probabilmente dipinti in rosso. Alle spalle del podio correva un corridoio coperto che permetteva la circolazione dl personale di servizio.

L'ANFITEATRO OGGI

Nell'arena era scavata una fossa, con due bracci disposti a croce, utilizzata per le attrezzature e le scene. Ad una delle estremità della fossa trasversale un sacello era dedicato alla Dea Nemesi, protettrice dei gladiatori, ornato da un affresco che la raffigurava.

Alle estremità dell'ellisse due porte consentivano di accedere direttamente nell'arena. Al centro delle gradinate sul lato rivolto al mare, una piattaforma che interrompeva le gradinate della cavea costituiva il pulpitum, o pulvinar, la tribuna per le autorità.

L’anfiteatro fu lo scenario di gare, giochi e di lotte tra i gladiatori. Sotto l’arena, scenario degli spettacoli, si trovano dei fossati che servivano per svolgere attività di preparazione e sgombero delle scene.
L'anfiteatro fu restaurato nel 221 sotto il regno di Eliogabalo: il podio venne rivestito da lastre in marmo e in calcare, con una lunghissima iscrizione per commemorare l'avvenimento.

Il 21 gennaio del 259 vi subirono il martirio il vescovo Fruttuoso e i suoi diaconi. Nel VI secolo venne costruita in memoria dei martiri sull'arena dell'anfiteatro abbandonato una basilica, visigota che lo deturpa. L'altare si trovava al centro della navata centrale, delimitato da un recinto costituito da muretti rivesti da lastre in pietra.

Le colonne che dividevano le navate poggiavano su un basamento in blocchi di reimpiego, tra i quali sono state rinvenute diverse statue di epoca imperiale fatte a pezzi. Anche l'abside fu costruita con blocchi di reimpiego, in particolare diversi con l'iscrizione del podio.

Presso la basilica si trova una piccola necropoli di 48 tombe, i cui recinti funerari si addossavano alle mura della chiesa.



IL TEATRO

Costruito agli inizi del I sec. d.c., ne sono visibili pochi resti della cavea e dell'orchestra, con al centro altare dedicato al numen di Augusto.

Gran parte degli elementi architettonici della scena e le sculture che la decoravano, rinvenuti negli scavi, sono conservati nel Museo Archeologico Nazionale.



LA NECROPOLI

In occasione della costruzione della manifattura dei tabacchi fu rinvenuta una vasta necropoli paleocristiana, con oltre 2.000 sepolture. Gli scavi proseguirono tra il 1926 e il 1933 e venne realizzato sul posto un museo tra il 1929 e il 1930.

La necropoli era una delle molte che in epoca romana si erano sviluppate lungo la via Augusta e si sviluppò grandemente in epoca paleocristiana, tra il III e il VI sec., probabilmente presso il luogo di sepoltura dei martiri Fruttuoso, Augure e Eulogio. Le sepolture hanno varie tipologie, dalle più semplici in anfore o in fosse rivestite da tegole, ai sarcofagi scolpiti, ai mausolei e cripte ornati di mosaici.





MUSEO NAZIONALE ARCHEOLOGICO

Esso comprende oltre al Museo archeologico, la necropoli e il Museo paleocristiani e le aree archeologiche delle ville di Centcelles e di El Munts.

I materiali provengono principalmente dai lavori di urbanizzazione pubblici e privati e dai primi scavi sistematici nel Foro coloniale e nella Necropoli paleocristiana negli anni 1920 e 1930. La rapida crescita della città portò ancora a numerosi rinvenimenti casuali che si affiancavano agli scavi archeologici in zone ristrette.


TARRACO VIVA è uno spettacolo organizzato a Tarragona che più che a divertire ha come scopo informare il pubblico di cosa fossero realmente e come si manifestassero gli antichi ludi gladiatorii.

Nei pressi di Tarragona si trovano altri splendidi reperti romani:

VILLA ROMANA DI CENTCELLES

Villa romana di Centcelles

Centcelles, cioè Centocelle, è un villaggio a 5 km da Tarragona presso cui si trovano le rovine di una grande villa romana del sec. III d.c., con rifacimenti del IV. 

Tra questi ultimi spicca una sala a cupola che conserva tracce di mosaici datati al 340-360 (con scene di caccia, o tratte dal Vecchio e dal Nuovo Testamento e allegorie delle stagioni). 

Si pensa possa trattarsi del mausoleo dell'imperatore Costante, ucciso in Spagna nel 350.


Villa romana di El Munts

EL MUNTS
La villa romana di El Munts (Altafulla) del i sec. d.c.. raggiunse il suo massimo splendore nel II sec. d.c.. 

Questo grazie ad un personaggio di alto rango della amministrazione locale, forse era la sede del governatore della provincia dell'Hispania Tarraconensis, che la abitò e abbellì. 
Nel III sec. subì un incendio che la danneggiò riducendola non più ad abitazione ma ad un edificio di produzione (fabrica). 

La sua produzione artigianale proseguì fino al VI VII sec. dopodichè fu abbandonata.



"Ponte del diavolo"

Viene così chiamato il ponte dell'acquedotto de Les Ferreres presso il fiume Francolí, a circa 4 km dalla città. L'acquedotto che portava in città le acque dalla località di Puigdelfi, risalente al I sec. d.c., superava una vallata con un ponte, alto 27 m e della lunghezza complessiva di 217 m, a due ordini di arcate in opera quadrata, tuttora conservate. 

Le arcate (luce di 6,30 m e altezza di 5,70 m) sono 11 inferiormente e 25 superiormente. Sopra gli archi superiori correva la conduttura, originariamente coperta.Cava romana del Mèdol: una delle cave da cui proveniva la pietra calcarea utilizzata per gli edifici della città. 

Attualmente è visibile una grande cavità di circa 200 m di profondità e larga tra i 10 e i 40 m, al centro della quale si conserva uno stretto pilastro di roccia non scavato, alto 17 m. Fu probabilmente utilizzata fino in epoca medioevale e ne furono estratti in totale circa 50.000 metri cubi di pietra.

IL PONTE DEL DIAVOLO

Arco di Berà

Un arco trionfale romano, o comunque onorifico, edificato a un unico fornice, con lesene (semicolonne) addossate ai piloni. Attualmente raggiunge un'altezza di 10.50 m.

ARCO I SECOLO A.C.
Scavalca il tracciato della via Augusta a circa 20 km a nord della città.  Fu restaurato nel 1820 e ancora nel 1926. 

La costruzione è di epoca augustea, ma un'iscrizione menziona il testamento di Lucio Licinio Sura, amico e generale dell'imperatore Traiano, il che dimostra una dedica successiva forse al generale romano.
Licinio Sura è patrono di Barcellona, dove probabilmente nacque, fu grande amico e consigliere militare di Traiano. Fu console per tre volte.

Correndo voce di un suo complotto contro Traiano, l'imperatore andò a pranzo da lui, mangiò tutto quello che gli venne servito, ed offrì la gola al rasoio del barbiere personale di Sura per farsi radere. Tanto evidentemente si fidava di lui.

Alla sua morte, l'amico fraterno Traiano ordinò in suo onore un funerale di stato e una sua statua nel Foro. L'immagine di Licinio è immortalata nel marmo della Colonna Traiana in Roma (107 - 113), mentre discute con il suo imperatore.


Il sepolcro della "Torre degli Scipioni"

E' un sepolcro della I metà del I sec. d.c. più tardo dunque dei personaggi da cui riprende il nome, sulla via Augusta a circa 6 km dalla città. 

In effetti all'epoca gli Scipioni erano estinti ed esisteva solo il ramo principale da cui si erano diramati gli Scipioni, cioè i Cornelii.

Dato che a Roma, nel sepolcro degli Scipioni, le ultime due sepolture furono effettuate agli inizi del I secolo d.c., quando, i Corneli Lentuli, ramo collaterale della famiglia degli Scipioni ormai estinti, decisero di riutilizzare il sepolcro.
E' possibile che un ramo collaterale si sia di nuovo riappropriato di qualcosa degli Scipioni, ma stavolta non la tomba bensì il nome.
È un sepolcro del tipo "a torre", a pianta quadrata (4,47 m per 4,72 m), formata da tre parti sovrapposte: il basamento inferiore, il corpo centrale decorato con figure in altorilievo, la parte superiore, che sarebbe dovuta finire con una struttura piramidale che non venne mai costruita. 

Sulla facciata dell corpo centrale c'è l'immagine in bassorilievo del Dio Attis e, presso il terzo corpo, un altorilievo con due figure, sicuramente raffiguranti le persone che vi sono sepolte con un'iscizione che li rivelerebbe come Scipioni.
Fu proclamato Monumento nazionale nel 1926.












L'EQUIPAGGIAMENTO DEI GLADIATORI

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Petronio - Satyricon:
- E poi abbiamo la prospettiva di goderci tre giorni di magnifico spettacolo: al posto dei gladiatori di professione un bel grappolo di liberti. Il nostro Tito ha un cuore grosso così ed è pieno di iniziative. Comunque, o questo o quello, alla fin fine qualcosa succederà. Non è tipo da fare le cose a metà, credete a me che con lui sono quasi un fratello. Farà gareggiare i più grossi campioni in duelli all'ultimo sangue, col gran massacro finale al centro, che possano vedere tutti gli spettatori. I mezzi per farlo li ha senza dubbio. Quando suo padre - pace all'anima sua - è morto, lui si è beccato trenta milioni di sesterzi. Se anche ne spende quattrocentomila, il suo gruzzolo certo non ne risente, ed il suo nome verrà ricordato in eterno. -

Parecchi furono le figure ovvero gli stili dei gladiatori nell'arena, tutti regolati da norme precise ed equipaggiamenti precisi:


TRAX


IL TRACE - TRAX

L'elmo:
La figura si ispirava ai guerrieri della Tracia (Bulgaria), con elmo dalla calotta emisferica a tesa larga sormontato da un alto cimiero  curvato in avanti e ornato da un grifone, con ai lati della calotta due forellini per inserire piume ornamentali.
La visiera era a grata, o estesa, o con due aperture circolari con grate per gli occhi.

L'armatura prevedeva:
- un bracciale di lamiera sul braccio destro, preventivamente fasciato;
- un piccolo scudo  rettangolare (parmula);
- gli schinieri, per stinchi e ginocchia, sempre fasciati ma che lasciavano liberi i pedi;
- fasce di cuoio o di metallo sulle cosce, preventivamente fasciate;

L'arma:
- L’ arma era  la sica secondo alcuni, in realtà era chiamata la "supina", breve spada con lama ricurva, anzi leggermente angolata, che consentiva di colpire le parti posteriori dell'avversario.

Il Trace insieme all’ Oplomaco erano gli avversari tipici del Mirmillone.

REZIARIO


IL REZIARIO

Il reziario (lat. retiarius, pl. retiarii, letteralmente "l'uomo con la rete" o "il combattente con la rete"), aveva un equipaggiamento simile a quello utilizzato dai pescatori, una rete munita di pesi per avvolgere l’avversario, un tridente (la fuscina) ed un pugnale (il pugio).

Lottava con un'armatura leggera:
- sul braccio con una manica loricata
- sulla spalla un parabraccio (il galerus)
- indossava un indumento di lino (il subligaculum), un sospensorio fissato alla vita mediante un ampio cinturone (il balteus).

Non portava alcuna protezione alla testa, né calzature.
Il reziario apparve per la prima volta nell'arena nel I sec. e divenne in seguito un’attrazione abituale dei giochi gladiatorii. Nell’arena affrontava di solito il secutor, un gladiatore pesantemente armato; agile e veloce, che adottava uno stile di combattimento elusivo, tendente a sfuggire agli attacchi dell’avversario, ma pronto in realtà a cogliere ogni opportunità di colpire.

Questa tattica, detestata dagli spettatori, che consideravano più nobile lo scambio diretto di colpi, unita ad una percezione di effeminatezza trasmessa dalla sua figura piuttosto esile, lo collocavano ad un livello basso della gerarchia gladiatoria.
Ma il fatto che gli spettatori potessero osservare i volti di questi lottatori portò gradualmente ad umanizzarli ed accrescerne la popolarità, tanto che il reziario divenne il tipo di gladiatore più famoso. Infatti, nell'arte romana e nei graffiti si ritrovano moltissimi riferimenti riferiti alla fama e la reputazione dei gladiatori per i quali gli uomini tifavano come oggi si fa per i giocatori di calcio, e le donne li colmavano di attenzioni amatorie.

MIRMILLONE


IL MIRMILLONE

Il mirmillone (in latino: murmillo, myrmillo o mirmillo) era una delle categorie gladiatorie più pesanti, per equipaggiamento e stile di lotta, questa classe di combattenti potrebbe entrare a buon merito nella cerchia dei "carri armati" della gladiatura.

Nella categoria dei mirmilloni venivano infatti arruolati i lottatori dal fisico più possente.

- Elmo: sul capo i mirmilloni portavano un grosso elmo che copriva interamente il volto, decorato con figure marine, dovute alla simbologia mitologica a cui ogni classe gladiatoria era legata.

- Avevano un largo, pesante scudo rettangolare ricurvo (simile ad una a tegola), molto simile a quello in dotazione alla fanteria romana; questo scudo schermava l'intero corpo, ad eccezione del volto e delle gambe,

- sulle gambe avevano per protezione un solo schiniere (ocrea).
- Aveva come unica arma d'attacco una corta spada, il gladio.

Durante la lotta, il mirmillone si teneva al riparo dietro il vasto scudo, esponendo solo volto e gambe, a loro volta corazzate, scostando lo scudo solo per brevi attacchi con il gladio.

Il mirmillone era per l'avversario una fortezza inespugnabile, di fronte.

L'unica possibilità, per il suo nemico, spesso il più agile trace, era trovare il modo di attaccarlo lateralmente, dove era vulnerabile, facendo affidamento sulla relativa lentezza del mirmillone.

PROVOCATOR


IL PROVOCATORE - PROVOCATOR

Il provocator è conosciuto fin dalla tarda Repubblica e, come gli equites, combatteva sempre contro gladiatori della stessa classe.

Tra il I sec. a.c. e il I sec. d.c. indossava un elmo che somigliava a quello dei legionari. Solo nel II e nel III sec. portava un elmo senza cimiero né la celata, ma con una visiera.

Questo gladiatore prendeva il nome dal verbo latino provocare, che nel linguaggio militare (sermo castrensis) indicava il legionario dotato di armatura leggera, e quindi facilmente mobile, che apriva il combattimento, lanciandosi contro il nemico e ritraendosi, schernendolo e insomma provocandolo in battaglia.

Erano quelli che "riscaldavano" il pubblico, erano proposti all'inizio dei combattimenti.
Il loro armamento ricordava proprio i legionari: erano dotati di gladio, grosso scudo trapezioidale curvo, elmo da legionario (con l'aggiunta di protezioni al viso), protezione al braccio armato e schiniere alla sola gamba sinistra.

Era equipaggiato con:
- uno scudo rettangolare di dimensioni medio-grandi (lo scutum),
- una protezione di metallo sul petto a forma di mezzaluna (il pectorale)
- una spada a lama corta e dritta (il gladius),
- uno schiniere nella gamba sinistra,
- una manica nel braccio destro.

L'HOPLOMACHUS


L'OPLOMACO - HOPLOMACHUS

In alternativa al confronto mirmillone contro trace c'era il confronto mirmillone contro hoplomachus.

- dall'armatura pesante somigliava nell'armamento e nell'abbigliamento protettivo al trace,
- con l'eccezione del piccolo scudo rotondo e dalla forma ricurva
- e di una lancia da usare nello scontro ravvicinato (l'hasta), riproducendo così il classico oplita greco.
- Era in aggiunta dotato di una spada corta, il gladius.

In rari casi poteva anche lottare contro il gladiatore trace.
Le categorie dei Secutores e degli Hoplomachi facevano parte dei Gladiatori sanniti.

SECUTOR


L'INSEGUITORE - SECUTOR 

(l'inseguitore) era, assieme al mirmillone, l'avversario standard del retiarius; per questa ragione esso veniva chiamato anche contraretiarius.

Il suo equipaggiamento prevedeva:
- un elmo tondo con calotta liscia e cresta, anch'essa liscia detto galea, per non concedere appigli alla rete del "reziario". Generalmente costruito in ferro o bronzo, era molto pesante e all'interno aveva imbottiture di cuoio o lana per essere più comodo; la visione inoltre era limitata da fori molto piccoli per poter avere una protezione migliore.

- uno scudo imponente e concavo che aveva la funzione di proteggere dal ginocchio al viso lasciando appena scoperti i fori per la visuale; lo stesso scudo sulla parte superiore si presentava tondeggiante senza appigli per lo stesso motivo della "galea".

- una manica costituita da scaglie/placche metalliche o di cuoio, che comunque limitava leggermente i movimenti era posta sul braccio destro dell'inseguitore ed aiutava ad evitare ferite al braccio esposto durante l'attacco affondando o usando di taglio la lama:

- sulle spalle c'era una placca di metallo ma per lo più di cuoio imbottito;

- la tibia era protetta da un gambale metallico posto sopra una spessa protezione di lana che aveva anche la funzione di assorbire i colpi.

- L'arma del secutor consisteva in un piccolo e maneggevole gladio che per le caratteristiche divenne la prediletta dai gladiatori, detto anche sica, che differisce dalla "supina" per l'angolatura della lama che veniva utilizzata dal gladiatore Trax.

Si ipotizza che il secutor ingaggiasse il retiarius incalzandolo costantemente per chiudere la distanza e colpirlo con la lama, deviando contemporaneamente con lo scudo i colpi di tridente per non offrire lo spazio al retiarius di lanciare la rete.
Questa tattica portava il reziario ad allontanarsi e a scappare poiché il suo equipaggiamento non prevedeva scudi; il Secutor quindi inseguiva l'avversario, da qui il suo nome.
Questo metodo di combattimento richiedeva una grande preparazione atletica per compiere lunghi scontri correndo e una grande potenza muscolare e fisicità per sopportare il carico dell'armamento. Se l'opponente però riusciva a scagliare il tridente il Secutor prontamente alzava o abbassava lo scudo a seconda dell'altezza del colpo per proteggersi.

SCISSOR

LO SCISSOR

Questo raro tipo di gladiatore poteva anche presentarsi come avversario del reziario. Lo Scissor era usato come supporto nei combattimenti tra Secutores e Retiarii. Di solito erano in due con due Secutores. 

- La loro caratteristica era una mezzaluna affilatissima sul braccio sinistro, usata per tagliare le reti dei Retiarii,  o parare i colpi del suo tridente. Infatti sul braccio sinistro indossava un tubo a forma di tronco di cono, che ricopriva l'intero avambraccio e da cui spuntava la lama a mezzaluna. Arma pericolosissima, con un colpo tagliente poteva quasi squarciare il proprio avversario.
- col braccio destro impugnavano un gladio o una sica. 
- L'elmo era simile a quello dei Secutores, cioè ovale con feritoie oculari,
-  il braccio destro era protetto da una manica.
- come protezione al busto avevano una lorica.
- non disponeva dello scudo (scutum),
- Dato che non poteva proteggere il proprio corpo con uno scudo, indossava una lorica hamata o una lorica squamata che scendeva fin oltre il ginocchio.

L'EQUIS


IL CAVALIERE - EQUES 

Gli equites aprivano con i loro combattimenti i giochi gladiatorii. Erano armati con:

- un elmo provvisto di tesa e visiera,
- uno scudo piatto e rotondo,
- una lancia
- ed una spada corta, il gladius.

A differenza di molti altri gladiatori che portavano un perizoma (il subligaculum), loro indossavano una tunica.
Cominciavano il combattimento a cavallo, quindi smontavano e continuavano la lotta con le spade. Nelle rappresentazioni pittoriche erano raffigurati principalmente nella fase finale della battaglia, ovvero mentre combattevano con le spade dopo esser scesi da cavallo.

SANNITA

IL SANNITA

Il suo equipaggiamento ricalcava quello di un guerriero del Sannio:

- una spada corta (il gladius),
- un scudo rettangolare (lo scutum),
- uno schiniere (l’ocrea),
- un elmo.

Comparvero nell'arena poco dopo la sconfitta del Sannio nel IV sec. a.c., una propaganda della forza e supremazia di Roma sugli altri popoli. Il sannita potrebbe essere stato il primo gladiatore a scendere nell'arena contro il reziario. Era piuttosto considerato perchè indossava un'armatura pesante.

Il gladiatore sannita fu uno dei gladiatori preferiti nella Repubblica romana. Poi si aggiunsero, con le guerre successive, il gallo ed il trace. Sotto Augusto, il Sannio divenne un alleato e parte integrante dell'Impero romano.così il gladiatore sannita cominciò a sparire dall'arena, ma fu sostituito da gladiatori armati in modo simile, tra cui l’hoplomachus, il murmillo ed il secutor.
Sembra che furono gli stessi gladiatori sanniti a specializzarsi in questi tre ruoli gladiatorii.

Secondo Tito Livio i gladiatori sanniti erano muniti di un elmo provvisto di cresta, la galea crestata, uno scudo alto ed uno schiniere sulla gamba sinistra. Tuttavia, la sua posizione nelle immagini mostra il gladiatore sannita, in contrasto ai guerrieri sanniti completamente armati, privo di spongia (uno scudo protettivo) e di tunica.

ESSEDARIUS


L'ESSEDARIUS

L'essedarius era un altro tipo di gladiatore che combatteva solo contro gladiatori della stessa classe.
Il nome deriva da essedum, termine che indicava un carro celtico. Si suppone che gli essedarii aprissero il combattimento sul carro e quindi, analogamente agli equites, scendessero e continuassero a combattere a piedi.
L'essedarius guidava il carro da guerra usato dai Galli e britannici. La regina degli Iceni, Boudicca, guidò il proprio carro da guerra nella rivolta britannica di 62 a.c, distruggendo una legione romana e il comando romano di Londra.
Combatteva dal carro trainato da due o quattro cavalli e guidato da un auriga. L’abilità del combattimento a piedi si univa in questi all’abilità del combattimento dei carri.

L'essedarius era equipaggiato
- con una manica nel braccio che brandiva
- la spada a lama corta, il gladius,
- uose o fasciature corte su entrambe le gambe.
- Indossava inoltre un elmo che nei primi tempi assomigliava a quello del legionario e successivamente a quello del secutor.

PONTARIUS


Il PONTIARIO - PONTARIUS

Il pontarius era una variante del reziario. Difendeva un piccolo ponte (il pons) avente due rampe d'accesso. Da entrambi i lati un secutor attaccava e cercava di salire su questa piattaforma.

In aggiunta al suo equipaggiamento abituale, ovvero il paraspalla galerus e il parabraccio lorica manica indossata sul braccio sinistro, il pontarius possedeva un grosso quantitativo di proiettili, presumibilmente pietre di media dimensione.

DIMACHAERUS

IL DIMACHAERUS

Il Dimachaerus derivava il nome da Di-màcheros, cioè chi nell’arena duellava con due corte spade (i macharai, da cui deriva il nome, o due siche).

Egli combatteva con:

- due spade corte, una sica (o sicca), corta spada ricurva e una spada di 16-18 pollici, usata sia dal Trace che dal Dimachaerius,
- fasciature sul braccio ove teneva il pugnale e nelle gambe,
- talvolta anche schinieri, il tutto in pelle,
- subligaculum indossato in una varietà di colori, sandali o piedi nudi,
- elmo leggero con visiera sagomata

Il resto del suo equipaggiamento come la sua stessa esistenza non sono certe, dato che è riportato solamente su due iscrizioni.

In genere i suoi oppositori furono il Murmillo e l' Hoplomachus che rivestivano pesanti armature.
A volte però combattevano tra Dimachaeri. Erano di grande effetto perchè combattevano con un'arma per mano, cosa che richiedeva grandi abilità.

VELES

IL VELES (o Velites)

Il veles era invece un gladiatore la cui menzione si ritrova solo in Isidoro di Siviglia (560-636), e in alcune iscrizioni riportanti l'abbreviazione VEL. Non si hanno raffigurazioni di questo gladiatore, la sua attestazione è piuttosto rara
Il nome ha origine da quello dei soldati romani dall'equipaggiamento minimo o assente, i velites al tempo delle guerre puniche, e si suppone che il loro modo di combattere corrisponda a quello di questi soldati.

Era un gladiatore dall'armatura leggera, quindi nel combattimento aveva il vantaggio dell'agilità e della velocità. Combatteva a piedi ed era armato con:

- una lancia, l'hasta amentata 
- un gladio, mentre non disponeva né di elmo, né di scudo.

Questa classe gladiatoria combatteva spesso contro gladiatori della stessa classe o in incontri in cui si battevano gruppi di gladiatori simili, che in questo caso prendevano il nome di catervarii.. Si suppone che i velites partecipassero alla prolusio, la fase che precedeva il ludo gladiatorio vero e proprio, con combattimenti incruenti di carattere militare, come quelli dei sagittarii o degli equites.

CATAPHRACTAURIUS

IL CATAFRATTARIO - CATAPHRACTAURIUS


Ebbe origine dalla cavalleria della Germania e della Parthia (Impero Persiano) e dai Sarmati della Russia e dell'Asia centrale. Il Cataphractarius era completamente coperto dall'armatura sia lui che il suo cavallo. L'imperatore Adriano (r.117 – 138) introdusse gli Equites cataphratarii nell'esercito romano che erano armati più pesantemente della cavalleria romana. 

Il termine 'cataphracta' fu spesso usato da Vegezio, che scrisse sull'equipaggiamento del I impero, descrivendo armature di ogni tipo, della fanteria, cavalleria, cavalli ed elefanti. Il gladiatore Cataphractarius aveva un'armatura pesante per sè e il suo cavallo simile al combattente Cataphractarius.

Cataphractarius che combatteva a piedi, aveva come opponenti gladiatori veloci con armature leggere, come il Retiarius, il Dimachaeri o Laquerarius.

Combatteva con :
- una lunga lancia (contus). Il contus era un'arma pesante, lunga e a due mani.
- una lorica squamata
- non aveva scudo
- aveva un elmetto a fibia originari della Germania.

CRUPELLARIUS

CRUPELLARIUS 

Il crupellarius è menzionato da Tacito come un combattente gallico. Una statuetta di bronzo proveniente dalla Francia potrebbe rappresentare uno di questi combattenti pesantemente armati.
Nel 21 d.c., in Gallia, durante la rivolta di Giulio Floro e Giulio Sacroviro (Capo degli Edui) oltre ai normali combattenti Gallici poveramente armati, vennero impiegati contro le legioni di Giulio Indo dei Guerrieri gladiatori pesantemente corazzati secondo le loro usanze, i Crupellarii.

Di essi Tacito scrive:
gli schiavi destinati al mestiere di gladiatore, che avevano, secondo la pratica di quella gente, un'armatura completa: li chiamano Crupellarii, poco adatti a menar colpi, ma impenetrabili a quelli degli avversari.”

Erano a causa della loro pesantezza poco efficaci a livello offensivo, mentre in formazione di difesa si dimostravano fortezze inespugnabili.

Infatti i Legionari Romani dopo aver spazzato via i Galli ribelli, e avendo trovato serie difficoltà contro i Crupellarii, riuscirono a prevalere e a far strage di loro utilizzando scuri e picconi come per demolire un muro.

“… ma i soldati, impugnati scuri e picconi, come per sfondare una muraglia, facevano a pezzi armature e corpi; alcuni con pertiche e forche abbattevano quelle masse inerti che, prostrate a terra, incapaci d'un minimo sforzo per rialzarsi, erano abbandonate lì come morte.

Giulio Floro ormai sconfitto si suicidò per non cadere vivo nelle mani delle legioni di Giulio Indo.

Negli anni seguenti, come consuetudine Romana, “Il Crupellarius “ venne inserito negli spettacoli gladiatorii come tutte le figure guerriere sconfitte, che in passato avevano sfidato il potere di Roma.

Tuttavia questa figura per totale mancanza di mosaici o reperti, doveva essere poco conosciuta nell’Impero, unica testimonianza una statuetta rinvenuta a Versigny in Francia.

PAEGNIARIUS

PAEGNIARIUS

Di questa figura gladiatoria si sa molto poco. Il paegniarius non era equipaggiato con armi mortali. Una scena in un mosaico di Nennig, in Germania, viene spesso interpretata come una rappresentazione di tale gladiatore.

I combattenti portano una frusta nella mano destra e una tavola di legno allacciata sul braccio sinistro. In un racconto di Svetonio l'imperatore Caligola, a mo' di divertimento, lasciò comparire nell'arena come gladiatori dei padri di famiglia che avevano una menomazione fisica.

Vista l'esistenza di rappresentazioni romane con gladiatori di piccola taglia dalle armi più disparate, questi appaiono probabilmente anche come paegniarii con armi spuntate per l'intrattenimento. Probabilmente i paegniarii apparivano durante la fase pre-combattimento (prolusio) e durante le venationes.

SAGITTARIUS

IL SAGITTARIUS

Il sagittarius (ovvero l'arciere) è rappresentato solamente su di un rilievo a Firenze dove due sagittarii corazzati e provvisti di elmo combattono tra di loro in un'arena.

LAQUEARIUS


LAQUEARIUS 

Il laquearius (il combattente con il lazo), che catturava coloro che fuggivano con un lazo, è menzionato unicamente da Isidoro di Siviglia. Tuttavia, era ritenuto più un inserviente dell'arena durante le esecuzioni capitali che nelle lotte gladiatorie.

VENATOR

VENATOR

Il venator combatteva contro gli animali selvatici, tuttavia non apparteneva alle vere e proprie classi di gladiatori. Le sue abilità erano molto diverse tra loro: combatteva cinghiali, orsi, leoni, tigri, tori, ecc. 

Talvolta cacciava stando su un cammello o su n elefante, usando soprattutto lance e frecce. A piedi usava spade e pugnali, in genere munito di elmo con visiera ma a volto scoperto.

A volte portava un'armatura leggera, ma senza scudo, oppure una semplice clamide ma in questo caso portava lo scudo.
Poteva indossare inoltre: un solo schiniere, un solo coprispalla, un solo bracciale.

Un aneddoto - In un'occasione l'imperatore Gallieno mandò una ghirlanda-premio a un "Venator" che per ben dodici volte aveva mancato un toro.
Il popolo si stupì che il premio venisse conferito ad un venator così maldestro, ma Gallieno fece spiegare attraverso un suo uomo "E' arduo non riuscire a colpire un toro per tante volte"


GLADIATRIX

GLADIATRIX

Un bassorilievo marmoreo del I o del II sec. trovato ad Alicarnasso (a Bodrum, in Turchia) e attualmente in mostra al British Museum, mostra due gladiatrici in combattimento della categoria provocatrices. Ciò testimonia che alcune donne hanno combattuto con armature pesanti. L'iscrizione ci indica i loro pseudonimi, rispettivamente Amazon e Achillia e ci dice che venne loro concessa la missio ossia la sospensione, avendo ambedue combattuto valorosamente nello scontro.

Potrebbero aver combattuto secondo una qualsiasi delle classi gladiatorie, ma entrambe le gladiatrices rappresentate indossavano un equipaggiamento da provocator.

Non indossano né l'elmo né una tunica (sono a seno nudo, come si raffigura nell'amazzonomachia).
Indossano invece:

- il subligaculum 
- gli schinieri 
- una manica. 
- Entrambe sono armate di una spada
- Entrambe hanno uno scudo.





ALTRI MINORI


CATERVARIUS

Derivava il nome dalla voce latina caterva, cioè confusa massa d’uomini. Diversi catervarii scendevano insieme nell’arena per battersi in mischia e confusione. Lo spettacolo era nel tumulto che ne seguiva, dove tutti erano contro tutti.

Oppure si mandavano sull'arena due gruppi di catervarii tra loro avversi ma non toglie che qualcuno più esperto riusciva a coordinare il proprio gruppo e sterminare quello avversario. Il coordinatore aveva così modo di mettersi molto in luce e avanzare di grado.


MERIDIANUS

Prendeva il nome dall’ora in cui scendeva nell’arena, per riempire il vuoto tra un’esibizione e l’altra, durante l’ora del pranzo, quella in cui parte del pubblico se ne andava a mangiare. Ovviamente si sceglievano gladiatori meno validi, o perchè troppo anziani, o perchè non troppo esperti nel combattimento. Era però anche una possibilità per mettersi in luce da parte dei più giovani.



RUDIARIUS

Prendeva il nome dalla piccola spada di legno, rudis, che gli veniva donata all’atto del congedo dall’anfiteatro per le vittorie riportate (almeno 16). Una volta congedato questo gladiatore non poteva essere costretto a rientrare nell’arena, ma a volte era il gladiatore stesso a chiedere di tornare, per necessità di soldi oppure per nostalgia di quella vita così emozionante, un po' come spesso i legionari congedati chiedevano di tornare a combattere.


CAESARIANUS

Prendeva nome da Caesar, voce passata ad indicare qualsiasi imperatore. I caesariani erano i gladiatori della truppa imperiale o i gladiatori che provenivano dalla caserma cesariana di Capua.


AULICUS

Prendeva il nome dalla voce latina "aula", che per antonomasia indicava la corte imperiale. Questo gladiatore era legato alla corte dell'imperatore in quanto apparteneva alla sua truppa. Questo avveniva perchè nella spartizione del bottino alcuni militari ricevevano o si sceglievano degli schiavi con un fisico possente che poi allenavano per scendere nell'arena, divenendo lanisti dei prigionieri vinti in battaglia.


NOBILES

Gli aristocratici che spinti dai debiti, o perchè costretti dal loro pazzo imperatore (una follia molto deprecata dal senato e dagli optimates), ma più spesso per conquistare fama e gloria, nonchè la ricchezza, scendevano a combattere nell'arena. Facevano scalpore e il pubblico correva a guardare, tra lo sdegno degli aristocratici ben pensanti e il divertimento della plebe. 


POSTULATICUS

Prendeva il nome dalla voce postulare, chiedere, poiché scendeva nell’arena a causa della gran richiesta del pubblico e col permesso dell’imperatore. Era un onore riservato ai gladiatori più bravi e pure più scenici, o più simpatici, insomma per quelli che facevano un ottimo spettacolo. Poichè gli spettacoli venivano per lo più offerti dall'imperatore era importante che il lanista da questi pagato offrisse uno spettacolo degno con qualche numero di particolare attrazione. 

Pertanto c'era sempre almeno un Postulaticus, e della sua presenza il pubblico sapeva attraverso le locandine. In genere si tardava appositamente a far scendere questo gladiatore nell'arena affinchè fosse il pubblico a reclamarlo a gran voce.


L'ANDABATA

L'andabata è nominato da Cicerone ma non compare più nel periodo imperiale. Non è chiaro se si trattasse di una figura gladiatoria a sé stante o se fosse una delle figure esistenti i cui occhi fossero stati in qualche modo bendati, sia tramite una fascia sugli occhi o tramite un elmo privo delle fessure oculari.

Questo gladiatore era fortemente vincolato al suo udito, poiché le possibili reazioni del pubblico o il rumore del respiro potevano dargli una indicazione sulla posizione del suo avversario. Per compensare alla sua difficoltà visiva era protetto da una pesante corazza. Poichè deriva dal greco con significato di colui che monta (una cavalcatura) si presuppone fosse una specie di giostra medievale a cavallo.

L’introduzione di tale specialità sviliva la qualità del combattimento riducendo il tutto ad una buffonata tra ciechi, anche se gli spettatori ne apprezzavano la goffaggine.



PEGMARIUS

Prendevano nome dalla parola greca pegma, che indicava una qualunque fortino. Nell’anfiteatro essa indicava la torre che gli inservienti (calones) alzavano nell’arena e che sui merli raccoglieva scudi e armi. I Pegmarii posti di fronte alla torre e divisi in schiere attaccavano o difendevano la torre simulando di attaccarla per impadronirsi delle armi in questione, mentre gli altri la difendevano. Faceva molto gioco il salire e scendere per le scale o con le funi, con scene acrobatiche e rocambolesche che divertivano molto il pubblico.




IL TERZIARIO - TERTIARIUS

Prendeva il nome dal numero tres, tre, perché la legge dell’arena li obbligava a prendere per tre volte nello stesso giorno il posto del gladiatore fuori combattimento per proseguire il duello con il vincitore.

Naturalmente essendo unicamente una riserva poteva essere di qualsiasi specialità. In genere decideva il lanista chi dovesse fare il terziario, perchè un bravo gladiatore poteva rialzate le sorti di un combattimento andato male, ma si doveva tener conto della stanchezza del o dei combattimenti precedenti che poteva provocare la morte del gladiatore troppo provato.



VENTILATOR

Questo gladiatore prendeva nome dalla voce latina ventilare, ovvero menare colpi contro avversari inesistenti. Le sue esibizioni con il tempo diventarono solo uno spettacolo da giocolieri e perse le caratteristiche dei veri gladiatori.


Il SESTERZIO - SESTERTIUS 

Il nome derivava della parola sestertium e indicava il suo basso premio d’ingaggio, perché giovane e  inesperto nell’uso delle armi, che poteva dunque facilmente morire o accrescere la sua bravura e farsiun avvenire. Però spesso indicava un combattente anziano dal fisico debilitato.

VILLA DI MASSENZIO

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CIRCO DI MASSENZIO

Massenzio, divenuto imperatore per acclamazione della guardia pretoriana, aveva riportato la capitale da Milano a Roma e qui si adoperò, nel corso del suo breve regno (306-312), in grandi opere pubbliche tra le quali la residenza imperiale, ovvero la Villa di Massenzio.

La Villa di Massenzio è il complesso monumentale che comprende il Mausoleo di Romolo, il Palazzo Imperiale e il Circo.

Massenzio raccolse, tra il 306 e il 312 d.c., in un unico complesso la sua residenza, un circo per i giochi, e il mausoleo di famiglia, che si godette però non a lungo, prima di essere definitivamente sconfitto da Costantino.

L'intero complesso fu realizzato in opus listatum, con alternanza di tufelli e mattoni.

IL MAUSOLEO DI ROMOLO

IL MAUSOLEO DI ROMOLO

I monumenti funerari erano presso i romani e non solo, un mezzo di rappresentazione del personaggio e del suo status, e in base a questa più o meno pronunciata celebrazione si distinguono quattro periodi:

I) In età repubblicana il senato consentiva i sepolcri monumentali solo se il defunto e le sue opere fossero estremamente degne.
II) Con il II sec. e  il I sec. a.c. i monumenti funerari entrano in competizione tra loro in ricchezza e bellezza, essendo in gara il prestigio delle varie gens o familiae.
III) Nel periodo augusteo e nel I sec. d.c.. svanì la competizione tra i membri dell'aristocrazia con tombe meno sontuose, ma in compenso si intensifica e migliora l'arredo delle tombe con significati personali e mitologici.
IV) Nella quarta fase, ovvero dal III al V sec., solo pochi membri della società si fanno costruire grandi mausolei che diventano simili a grandi sale per le feste nelle quali si rievocano con fasto i defunti.

Ovviamente il mausoleo di Romolo appartiene all'ultima tipologia.

IL MAUSOLEO (a sinistra) E PARTE DEL CIRCO (a destra)

Il mausoleo prende il nome dal figlio dell'imperatore Massenzio, morto nel 309 d.c. all’età di soli sette anni ed in seguito divinizzato, era stato concepito, secondo altri trasformato, in tomba dinastica per tutta la famiglia imperiale, visto il numero dei loculi che si trovano al suo interno.

Il mausoleo, un grandioso edificio a due piani in forma di tempio, doveva avere l’aspetto di un piccolo Pantheon: coperto da una cupola e preceduto da un colonnato, presentava al piano inferiore la cripta per i sarcofagi, costituita da un ambiente circolare che si snoda intorno ad un pilastro centrale, mentre al piano superiore, non più conservato, era la cella per il culto dell’imperatore divinizzato.

L'area in cui sorge è delimitata da un grande quadriportico in opera listata, con gli archi poggiati su pilastri adornate da semicolonne in laterizio, coperto da piccole volte a crociera. Oltre all'ingresso principale, sull'Appia antica si aprivano altre due porte, una in direzione del circo e una del palazzo.

Al centro del quadriportico e di fronte al Circo, sorge il mausoleo orientato sulla Via Appia, un edificio circolare di circa 33 m di diametro, preceduto da un pronao rettangolare con il fronte di sei colonne, sul quale nel XVIII sec. fu addossato un casale.

Non sono più visibili i blocchi di marmo del rivestimento, dei quali però restano alcuni frammenti sotto il piano di calpestio, mentre sono ben visibili i fori che sostenevano i travi di legno.



Come abbiamo detto il Mausoleo avrebbe dovuto essere simile al Pantheon, che era l'antica formula dei templi più antichi, con un corpo circolare e un pronao rettangolare e conseguente cupola.

Pertanto fu studiato dai più grandi architetti del passato, da Sebastiano Serlio a Raffaello al Palladio che vi si ispirò per costruire le sue celebri ville.

Entrando nel casale settecentesco ci si trova all'interno del pronao colonnato. Del mausoleo che era a due piani, resta solo il piano inferiore con la camera funeraria. Questa consiste di un ambiente circolare con al centro un enorme pilastro come usava nelle antiche tombe del IX VIII sec. a.c.

ESTERNO DEL MAUSOLEO
Qui però la tomba non è scavata nella roccia lasciando il pilastro scavato all'intorno, lasciando il sedile lungo la parete circolare per deporre i defunti e gli oggetti. 

Qui tutto è edificato e, nel muro perimetrale interno, anzichè avere il gradone dove si posero prima i corpi e più tardi i sarcofagi, si aprono delle nicchie, alternativamente rettangolari e semicircolari. 

I corpi dei defunti infatti si pongono all'interno delle nicchie nei sarcofagi.

Anche nel pilastro centrale, che si vede nella foto qui a lato, si aprono otto nicchie disposte secondo lo stesso schema.

La parte superiore del mausoleo è quasi del tutto scomparsa. Qui venne celebrato pubblicamente il figlio di Massenzio divenuto "Divo" dopo la sua morte. Il mito dell'Assunzione derivato dall'antichissimo mito di Smele. la Dea greca Luna, donna mortale e madre di Dioniso, riguarda la divinizzazione della donna assunta sull'Olimpo per entrare come Dea a far parte degli Dei.

INTERNO DEL MAUSOLEO
L'evento dell'assunzione venne poi trasferito a re e imperatori, e per ultimo alla Vergine Maria, però con una variante. La Madre di Dio venne portata in cielo ma non diventò nè Dea nè divina, perchè la misoginia cattolica permise l'assunzione solo a metà.

Il sepolcro era, come ogni mausoleo, coperto da una grande cupola, probabilmente ritratto in un alcune monete coniate da Massenzio in onore del figlio divinizzato.

Di tutto questo resta una terrazza pavimentata in sampietrini moderni, perchè la iconoclastia cristiana tese a cancellare, demolire o spogliare ove possibile ogni monumento romano in quanto pagano e demoniaco.

Una specie di Damnazio Memoriae investì ogni monumento, pittura, documento, opera d'arte romana, si che quando nel XV si scoprì che i ricchi stranieri erano disposti a pagare molto le opere romane si procedè al disseppellimento dei pezzi dei capolavori.

Così i grandi artisti dell'epoca poterono finalmente capire quale lungo e magnifico periodo di storia e quale arte sublime fossero state cancellate con i romani.

COMPLESSO DELLA VILLA DI MASSENZIO


SEPOLCRO DEI SERVILII

Si attribuisce tradizionalmente ai Servili un edificio, a destinazione funeraria, databile tra la fine del I secolo a.c. e l’età augustea, di cui si conservano resti presso il lato meridionale del recinto del mausoleo di Romolo al III miglio della Via Appia dalla cui costruzione fu in parte leso.

IL SEPOLCRO DEI SERVILII
Non sappiamo a quale ramo della gens appartenessero. 

Alcuni Servili di un ramo più modesto vennero incinerati in un colombario rinvenuto nel 1881 presso villa Wolkonsky, alle pendici dell’Esquilino. Ma la diffusione della gens è così vasta che non consente di verificare i collegamenti tra i vari Servilii e la famiglia principale.

Il cosiddetto sepolcro dei Servilii poggia sull lato sud-est del recinto della Tomba di Romolo che, nonostante risalisse al periodo augusteo, non venne demolito in quanto evidentemente i Servilii vantarono sempre un posto importante a Roma. Per incongruenza cronologica però non può essere confuso con il sepolcro dei Servilli menzionato dal Cicerone nelle Tuscolanae disputationes,

Il sepolcro è costituito da un basamento quadrato in calcestruzzo sormontato da un tamburo a nicchie, al cui interno la camera funeraria, sufficientemente ben conservata, è decorata da stucchi.

IL PALAZZO IMPERIALE


IL PALAZZO IMPERIALE

In posizione dominante sull'Appia, la Villa di Massenzio, detta anche palazzo imperiale di Massenzio, era stata una proprietà privata prima di essere annessa al patrimonio imperiale, apparteneva infatti in origine, tra l'altro, alla celebre villa di Erode Attico. 

RICOSTRUZIONE DEL PALAZZO
Ma mentre gli edifici del Triopio di Erode Attico erano sparsi nella campagna, Massenzio progettò invece un complesso unitario che comprendeva il palazzo, il circo e il mausoleo, strumenti del suo potere e del suo divertimento, nonchè della sacralità della figura dell’imperatore.

Dei tre edifici che compongono la villa imperiale, il palazzo è quello meno conservato. Era collocato su una collinetta fornita di un terrazzamento sostenuto da un criptoportico.

Da questa sommità si godeva la vista del circo, posto invece un leggero affossamento naturale, nonché la tomba della famiglia imperiale con l'ingresso rivolto verso l'Appia, la via dei sepolcreti.

Dell'edificio imperiale restano in piedi solo le parti absidali di tre grandi ambienti. Di questi il centrale è identificato come tempio di Venere e Cupido, la sala più importante dell'edificio in quanto "aula palatina" ovvero sala delle udienze imperiali.

Quest'aula era preceduta da un atrio che a sua volta comunicava con un porticato lungo circa 200 m e coperto di affreschi, che permetteva all'imperatore di passare direttamente dall'abitazione al palco imperiale del circo.

ABSIDE AULA PALATINA
Il palazzo, come abbiamo detto, si imposta su resti di edifici precedenti che subirono diversi rimaneggiamenti dall'originale a cominciare dagli Annii nel I sec a.c. fino all'insediamento dell'imperatore agli inizi del IV sec. d.c.

La villa originaria dotata di ampio criptoportico risale al I sec. a.c., mentre sono di età Giulio-Claudia i due ninfei in opera reticolata che si affacciano sulla via Appia. Nel punto più alto della collina una grande cisterna forniva l'acqua agli abitanti del complesso.

Nel II sec d.c. Erode Attico, proprietario dell'area, ristrutturando la villa, fece edificare i due gruppi di ambienti  visibili ai lati della più tarda "aula palatina" e il complesso termale, di cui rimangono ancora oggi visibili tre vasche rivestite di marmo. 

La quarta fase edilizia è quella di Massenzio che trasformò la villa in Palazzo imperiale, con l'aggiunta di grandi ambienti prestigiosi e rappresentativi in opera listata. A tutto ciò aggiunse anche il Mausoleo e il circo.

RICOSTRUZIONE DEL CIRCO

IL CIRCO

Tutto lascia supporre che questo imperatore non amasse i fasti della corte romana, per cui come diversi altri imperatori, preferì isolarsi fuori dell'Urbe, circondandosi però di tutti gli agi dovuti al suo status.

Non poteva pertanto mancare il circo dove venivano organizzati gli spettacoli per la famiglia imperiale e la corte che qui abitava.

Il Circo di Massenzio, edificato nel 311 d.c. e detto impropriamente nel Medioevo circo di Caracalla, infatti non era pubblico, bensì riservato alla persona dell’imperatore ed alla sua residenza. 

LE TORRI DEL CIRCO
Pertanto era di proporzioni ridotte, poteva pertanto accogliere circa 10000 persone quando il circo Massimo ne conteneva 150000.

Il circo, che aveva però la forma di un ippodromo, fu costruito colmando una piccola valle con lo sbancamento della collina della Caffarella dove ora spicca una grande cisterna.

Questa cisterna  doveva essere in origine sotterranea, per cui venne poi rinforzata con un bordo in blocchi di tufo. Il circo mostra ancora in buono stato i vari elementi.

Le gradinate celavano, all'interno del cemento delle volte di sostegno, delle anfore di terracotta che servivano ad alleggerire la struttura.
La spina è la struttura longitudinale che costituisce l’asse centrale del circo.

Essa era lunga 296 m. e delimitata da due mete semicircolari, con una raffinatezza unica, infatti aveva in mezzo un canale suddiviso in dieci vasche per rinfrescare che qualcuno suppone dovessero rinfrescare gli equipaggi durante la gara.

LA PORTA DEI CARRI
Noi pensiamo invece che le vasche servissero non solo per abbeverare i cavalli ma soprattutto per l'innaffiamento del campo, altrimenti la polvere sollevata dai cavalli rovinava la visuale oltre ad infastidire gli spettatori.

Queste vasche comunicanti tra loro costituivano un canale (euripus), ed erano intramezzate da due edicole su colonne che sostenevano le sette uova e i sette defini, destinati ad indicare i giri di pista da compiere.

Dell’impianto, lungo complessivamente 520 m. e largo 92 m., si conservano le due torri che si ergevano ai lati dei dodici stalli da cui partivano i cavalli.
Esse erano di pianta quadrata, con il lato verso la facciata curvo. Altri due ingressi per gli spettatori si aprivano tra le torri e le gradinate, e un altro lungo il lato sud, di fronte alla tribuna dell'imperatore.

La tribuna destinata all'imperatore e alla sua famiglia (pulvinar) sorgeva infatti sul lato nord-est del circo, dove un lungo porticato lo collegava al palazzo imperiale.

Del circo si conservano pure le gradinate rivestite di marmi e travertino, e la spina, intorno alla quale i carri compivano i sette giri della corsa.

SCORCIO ATTRAVERSO L'INGRESSO DEL CIRCO
Al centro della spina era collocato un obelisco che fu poi utilizzato dal Bernini nel 1650 per abbellire la Fontana dei Quattro Fiumi a piazza Navona.

L’ingresso principale al circo per gli spettatori era costituito dall’arco che si apre nel lato curvo verso la Caffarella, e preceduto verso l’esterno da una gradinata.

Dalla porta posta al centro del lato di testa, partiva la processione di carri, in pratica l’anteprima delle gare vere e proprie, con atleti, danzatori e acrobati, con in testa il magistrato che aveva offerto i giochi.
L'INGRESSO DEL CIRCO
La tribuna imperiale, situata nel lato settentrionale, era collegata al palazzo attraverso un corridoio porticato che permetteva all’imperatore di assistere ai giochi del circo senza uscire dalla sua residenza.

Nell'ambito del circo furono rinvenute diverse statue tra cui quella erma fallica di Demostene che è rappresentata più in basso, ma pure statue delle divinità protettrici, e innanzi tutto quella della Magna Mater, visto che gli spettacoli erano anche cerimonie religiose.

Probabilmente il circo non è stato addirittura mai usato, poichè negli scavi non si sono trovate tracce della sabbia che avrebbe dovuto coprire la pista. 
Evidentemente la morte prematura dell'imperatore nella battaglia di ponte Milvio provocò l'abbandono della villa.












DEMOCRAZIA DELL'IMPERO 4/4 - LA CRUDELTA' DEGLI SPETTACOLI

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Spesso i Romani sono stati accusati di non avere alcuna democrazia perchè:

1) I Romani avevano la schiavitù.
2) I Romani erano sempre in guerra perchè volevano conquistare tutto il mondo.
3) I Romani davano tutti i diritti e tutti i beni all'aristocrazia ignorando la plebe.

Avendo risposto ai primi tre, ci accingiamo a rispondere all'ultima accusa, la IV:
4) La crudeltà dei Romani nei circhi e con i Gladiatori.


I gladiatori romani, cioè combattenti con la spada romana "gladius", erano prigionieri di guerra, schiavi o condannati a morte, ma talvolta anche uomini liberi, attratti dalle ricompense e dalla gloria, chiunque scegliesse liberamente di diventare gladiatore automaticamente veniva considerato "infamis" per la legge, ma se aveva successo diventava un eroe, invitato e cercato da tutti, carico di ricompense e doni, pagato più di un generale dell'esercito.

Ovviamente nessuno mandava a combattere nell'arena uno schiavo se non avesse la corporatura e l'esperienza di un combattente, insomma solitamente si mandava a combattere nell'arena chi già sapeva combattere. Nè era necessario farlo per togliersi di mezzo lo schiavo, perchè lo si poteva vendere a tanto o a poco al mercato degli schiavi.

La diceria che i gladiatori venissero maltrattati è infondata. I gladiatori venivano acquistati da imprenditori che li affittavano ai circhi, un vero e proprio business, e bastava un solo gladiatore che giungesse al successo che l'imprenditore diventava ricco.

E' come se un allevatore di cavalli maltrattasse i cavalli per farli correre. Si sa che sarebbe controproducente, un gladiatore traumatizzato o picchiato, o denutrito avrebbe reso molto poco. Non risponde neppure a verità che le compagnie gladiatorie fossero dell'Imperatore se non in rari casi. Dunque la trattativa degli schiavi era molto selezionata, anche perchè il loro "lanario", cioè il loro imprenditore, attraverso i gladiatori che metteva sull'arena si faceva un nome.

Poichè infatti esistevano piccoli e grossi lanari, spesso l'imprenditore più ricco comprava dal più povero, ma se questi metteva in campo scarsi combattenti, il ricco imprenditore sceglieva altrove, perchè doveva rispondere dello spettacolo a chi organizzava i giochi, che a sua volta ne rispondeva all'imperatore.
Per giunta a Roma venne approvata una legge per cui nessuno schiavo poteva essere obbligato dal suo padrone a combattere nell'arena.

Nei primi del '900 molti uomini bianchi si recarono in Africa per cacciare le belve e portarne a casa i trofei. All'epoca questo tipo di caccia, seppure ben organizzato con i locali, era piuttosto pericolosa, ma il gusto di farla era proprio questo, aver vinto la paura e aver dimostrato a tutti il proprio coraggio.

Gli inglesi furono maestri in questo, presto seguiti da personaggi nobili o comunque potenti. Non a caso tutti i padiglioni di caccia antichi erano sormontati da teste di animali esotici e pericolosi. Delle bestie se ne fregavano tutti, ieri come oggi, dove ancora si uccidono animali per il piacere di farne capi di abbigliamento.

Pertanto non scandalizziamoci di quel che si faceva in passato se si fa ancora oggi, perchè anche se molti hanno sostituito la caccia con la fotografia, esistono ancora tanti occidentali che si divertono con le battute di caccia alle cosiddette bestie feroci.

Per non parlare degli stessi africani che ammazzano oranghi ed elefanti anche se proibito dalla legge.

A volte, come si è detto, il combattimento nel circo veniva offerto ai condannati a morte, naturalmente dovevano avere una prestanza fisica e un'esperienza di combattimento, altrimenti chi lo proponeva ci passava i guai. Naturalmente il condannato era generalmente ben felice della possibilità e accettava di buon grado. Se si giudica crudele pensiamo che rimaneva comunque una possibilità di sopravvivere e trovare la libertà cosa che oggi i condannati a morte o all'ergastolo non hanno.

Un'altra leggenda da sfatare è quella dell'ecatombe di gladiatori nei circhi. I gladiatori dovevano essere allenati, nutriti e calzati, per cui costavano. Per diverso tempo venivano allenati affinchè riuscissero a tener testa al nemico nell'arena, e più erano bravi più venivano allenati, perchè avevano molte probabilità di arricchire il loro lanario.

Questo lo sapeva anche l'imperatore e pure il popolo, per cui è infondato che si ordinasse da parte dell'imperatore o del pubblico la morte del gladiatore, perchè un bravo gladiatore si forgiava combattendo, e se si uccideva non diventava mai esperto. Sarebbe stato come uccidere un soldato perchè non combatteva da subito come un veterano.

Anche il pollice rivolto verso il basso o l'alto per la sentenza fu una tarda invenzione cattolica, al massimo l'imperatore poteva dichiarare libero il gladiatore bravissimo, ripagando però il suo menager. In genere si offriva al gladiatore liberato la possibilità di entrare nell'esercito rifacendosi così una vita degna.

Vero è invece che molti morivano in combattimento venivano avvicinati da due schiavi travestiti da Caronte e da Ermete Psicopompo: uno ne verificava il decesso toccandoli con un ferro rovente, l'altro, eventualmente, dava loro il colpo finale facendo poi segno ai "libitinarii" di portar via il corpo su una rete trascinata con un uncino.

I gladiatori feriti venivano portati via e curati dai medici, e non era raro che un gladiatore molto bravo ricevesse le cure dei medici personali di grossi personaggi, imperatore compreso.

Sfatiamo anche il caso Spartacus, che effettivamente tenne in scacco Roma sollevando la rivolta degli schiavi, ma non dimentichiamo che era un disertore. Si era volontariamente arruolato nell'esercito romano ed aveva disertato. Venne preso e avrebbe dovuto morire e invece gli fu offerto in cambio di fare il gladiatore, ma scappò anche da lì. Spartacus forse non sapeva adattarsi alla disciplina, perchè era scappato da un compito che lui stesso si era scelto.

Di Marco Valerio Marziale
Quei due gladiatori, Priscus e Verus, sono davvero valorosi! Adesso tutto il pubblico si è alzato in piedi e sta gridando a gran voce di fare terminare lo spettacolo, tanto si è capito che il valore dei due è tale, che nessuno dei due può soccombere. Ma ecco finalmente intervenire l’imperatore. Ha dato ordine di togliere ai due combattenti gli scudi. Vuole farli lottare a mani nude, fino a quando uno dei due non alzerà il dito per indicare la resa. Per ora li fa riposare un momento e manda a tutti e due cibi e doni. Ecco stanno ricominciando. Niente da fare: sono caduti tutte e due insieme a terra stremati. All’imperatore il combattimento di questi due schiavi deve essere molto piaciuto perché sta facendo mandare a tutti e due la palma della vittoria. Li ha anche resi uomini liberi per il loro ingegno ed il loro valore. Non si era mai visto uno spettacolo di gladiatori finire in questo modo. Tutti e due i combattenti hanno vinto!"

I vincitori venivano dunque premiati con palme d'oro, denaro e dall'immensa popolarità che gli procurava donne e inviti nelle case patrizie; se il gladiatore vincitore era uno schiavo (che aveva scelto di combattere nell'arena), dopo dieci vittorie, che venivano segnate su un collare di metallo, diventava libero per legge; egli allora poteva decidere se continuare a combattere per soldi o intraprendere altre attività tipo l'istruttore nelle scuole per gladiatori. In ogni caso, come in questo caso, l'imperatore poteva fare del gladiatore un uomo libero se aveva combattuto bene e generosamente.

Effettivamente col cristianesimo vennero proibiti i crudeli giochi gladiatori, ma venne proibito anche il teatro perchè licenzioso. Gli ultimi a cadere furono le corse dei cavalli, che poi si fanno anche oggi. Al posto dei giochi gladiatori abbiamo messo la boxe che non è esente dalla violenza.

Ricordiamo che Roma equiparò i diritti dei plebei a quelli dei patrizi secoli prima della venuta del cattolicesimo che viceversa cancellò i diritti acquisiti. Il cristianesimo fu un salto nel buio che cancellò diritti, scienze e istruzione, il tutto sostituito da superstizione.

Intorno all'impero romano il re o il capotribù disponeva dei suoi sudditi senza interpellare nessuno. Aveva diritto di vita e di morte su chiunque senza dover nemmeno fare un'accusa. Così come ogni generale aveva potere assoluto sui sottoposti e ogni capofamiglia su moglie e figli.

Il diritto nacque a Roma come l'arte nacque in Grecia. Anche se la Grecia ebbe la sua democrazia fu Roma a studiare e approfondire e migliorare e ampliare meticolosamente le leggi, e fu Roma a portare il diritto nel mondo.

Il diritto è civiltà e senza Roma non vi sarebbero state civiltà nè diritti in alcuna parte del mondo.

DELO (Grecia)

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IL MITO

Secondo la mitologia greca Delo era inizialmente un'isola galleggiante dove si rifugiò Latona per partorire lontano dall'ira di Era. È pertanto considerata il luogo di nascita del Dio Apollo e della Dea Artemide, figli di Latona.

Asteria, figlia della titanide Febe e del titano Ceo, fu la sposa del titano Perse, e gli diede una figlia che chiamarono Ecate. Per sfuggire all'amore di Zeus, Asteria si trasformò in una quaglia, ma la fuga precipitosa la fece precipitare nel mar Egeo, come un astro (Asteria).

Zeus addolorato trasformò Asteria in un'isola, che si chiama anche Ortigia, ovvero "isola delle quaglie". Allora il re degli Dei ripiegò sulla sorella Leto, e al momento dell'unione trasformò Leto e se stesso in quaglie. Era, Regina degli Dei e moglie di Zeus, ordinò a Pitone il drago-serpente che custodiva l'oracolo di Delfi) di perseguitare la donna, che non avrebbe potuto partorire su nessuna terra dove avesse brillato il sole. 

Ma l'isola di Delo era invisibile perchè avvolta di nebbia e vi approdò Leto, sorella di Asteria, e figlia dei Titani Ceo e Febee, e qui partorì Apollo e Artemide. Secondo altri Posidone la fece uscire dalle acque affinché Latona trovasse un asilo in cui poter mettere al mondo i gemelli. Perciò alle donne era proibito partorire in quest’isola sacra e non vi si potevano neppure sotterrare i morti, che venivano trasportati nella vicina isola di Rinia.

La prima a nascere fu Artemide, che aiutò la madre a partorire il fratello Apollo. E siccome per la nascita di Apollo, Dio del Sole, l'isola fu tutta circonfusa di luce, fu, da allora, chiamata Delo, dal verbo greco deloo “mostrare", poiché prima era invisibile.

LA VIA DEI LEONI


L'ISOLA

Delo (Delos) è un'isola della Grecia estesa appena 3,4 km², posta nel Mar Egeo e precisamente nell'arcipelago delle Cicladi, vicino all'isola di Mykonos.

 L'isola è oggi praticamente disabitata ma è diventato un enorme sito archeologico che richiama turisti ed appassionati di archeologia da ogni parte del mondo. Nel 1990 è entrato nell'elenco dei patrimoni dell'umanità dell'UNESCO, e soltanto agli archeologi è permesso pernottare sull’isola.

L’isola appare immobile nel tempo e ancora simile all’originale, anche perché secondo la tradizione, derivante da un responso di un oracolo,  in questo luogo sacro non è permesso nascere e nemmeno morire. 



LA STORIA

Delos fu un importante centro religioso e commerciale, dato che si trovava al centro delle rotte marittime.
Anticamente si chiamava Ortigia (Ortyghia) e fu abitata fin dal 3000 a.c. Una colonizzazione da parte dei cosiddetti "iperborei", circa nel 1000 a.c., vi portarono il culto di Apollo, dio del sole e della musica. Ed è dal I millennio a.c. che si celebrarono a Delos le famose feste panelleniche.

TEMPIO DI ISIDE
Essendo Delo sede di un celebre oracolo di Apollo ogni quattro anni gli Ateniesi inviavano a Delo unateoria, o deputazione sacra.

Dopo essersi difesa nelle guerre persiane, fu sede della Lega di Delo (o Lega delio-attica) dal 478 fino al 454 a.c. quando fu conquistata dagli ateniesi fino al IV sec. a.c.

Con le battaglie di Alessandro Magno (365-323) ottenne nuovamente l’indipendenza e il suo potere economico, tornando al centro dei commerci del mediterraneo orientale.

Nel 325 a.c, tornata indipendente nell’epoca macedone, fu retta a repubblica democratica e protetta dai sovrani di Macedonia, divenendo magazzino di cereali.

Roma la restituì ad Atene nel 166 a.c., ma con i privilegi commerciali del porto franco che attirava commercianti da tutto il Mediterraneo.

Decadde dopo il saccheggio di Mitridate VI, re del Ponto (86 a.c.), i suoi monumenti vennero distrutti e tutti i suoi 20.000 abitanti vennero quasi tutti barbaramente uccisi. 

« Mitridate, re del Ponto, uomo che non può passare sotto silenzio e che occorre ricordare con una certa lode, fortissimo in guerra, di grandissimo valore, molto fortunato ma sempre per il suo coraggio, vero comandante nelle sue decisioni, vero soldato nel fare le cose, altro Annibale per il suo odio contro i Romani, occupò l'Asia e vi fece massacrare tutti i cittadini romani.»
(Velleio Patercolo, Historiae Romanae ad M. Vinicium libri duo, II, 18.1.)

Vent’anni dopo i pirati deportarono i pochi superstiti come schiavi.  L’isola decadde totalmente e dal VII sec. d.c. venne completamente abbandonata. Solamente nel 1873, grazie alla scuola francese di archeologia, la Grecia permise l’apertura di siti archeologici.



APOLLO

Ebbe in Delo un santuario che divenne il più importante fra gli insulari della Grecia.

Nell'inno omerico ad Apollo Delio, VIII o VII sec., il santuario è già menzionato.

Nel VII sec. a.c. gli Ioni delle isole e della costa anatolica tenevano nel santuario di Apollo assemblee religiose, feste con giochi ginnici e un mercato.

Probabilmente Delo fu la sede religiosa della federazione delle Cicladi, che aveva anche importanza politica.

Nel 478 il tempio di Apollo divenne centro della confederazione attico-delia, che propio nel tempio custodiva il tesoro federale, amministrato da funzionari ateniesi.

Nel 454 il tesoro fu trasferito ad Atene, e nel 426 a.c. avvenne la purificazione dell'isola:' i morti con i loro corredi furono deposti in una grande fossa scavata nella vicina isola di Renea e si stabilì che in quell'isola fossero trasportate tutte le donne vicine al parto e i moribondi.

Delo passò alla dominazione di Sparta (403 a.c.) per breve tempo e poi nuovamente fu dominio ateniese per quasi un secolo, per passare successivamente sotto l'influenza dei regni di Egitto e della Macedonia, da cui ottenne maggiore libertà che per l'innanzi.

Nel 166 a.c. Roma, dopo la guerra di Perseo, consegnò l'isola agli Ateniesi e per rovinare il commercio di Rodi istituì a Delo il porto franco.

Dopo la distruzione di Corinto Delo divenne il porto maggiore dell'Egeo, anche per il commercio degli schiavi, amministrato da Ateniesi e popolato oltre che da questi anche da "Italiani", che così si designano nelle iscrizioni, e da greco-orientali, tutti riuniti in confraternite religiose. Nell'88 e nel 69 a.c. l'isola fu saccheggiata da Mitridate e dai pirati suoi alleati e non si riebbe più. 

Alla fine del I sec. d.c. Atene mandava ancora processioni a Delo, ma il sacerdote di Apollo Delio abitava non più la deserta terra malarica di Delo, ma si era trasferito ad Atene.



ARTEMIDE 

Qui accanto abbiamo la statua in marmo pario della Dea greca Artemide rinvenuta a Delo e oggi conservata presso il Museo archeologico nazionale di Atene.

La Dea indossa un chitone, un peplo e un himation. 

La cinghia indossata diagonalmente sul petto indica che portava una faretra piena di frecce. 

Artemide era sorella di Apollo e Dea della Luna, molto venerata a Delo insieme al suo divino fratello.

Il poeta Callimaco (310 - 240 a.c.), nel suo Inno ad Artemide, ci racconta che la Dea, a tre anni, sedutasi sulle ginocchia di Zeus, chiese al padre: di rimanere sempre vergine e di avere molti nomi, come suo fratello Apollo.

Chiese poi di avere un arco ricurvo forgiato dai Ciclopi; di concederle sessanta Oceanine di nove anni come ancelle e venti ninfe figlie del fiume Amnìso perché si curino dei suoi calzari e dei suoi cani quando non caccia.


Chiese ancora di darle tutti i monti e quante città vorrà lui dedicarle, tenendo conto che lei abiterà sui monti e raramente andrà in città.

Zeus accontentò la figlia e inoltre le donò tre città che avrebbero onorato soltanto lei e la nominò custode delle strade e dei porti.



GLI SCAVI 

Dal 1872 la Scuola archeologica francese iniziò nell'isola scavi sistematici che ancora oggi continuano. L'isola è un'immensa area archeologica, a cominciare dalla parte occidentale, dove nell'antichità si trovava il porto sacro.

Gli scavi hanno individuato 4 aree principali: 
- la pianura costiera nella parte nordorientale dell’isola dove si trovano il Santuario di Apollo, l’Agorà dei Compitaliasts, l’Agorà dei Delians, l’area del Lago Sacro, con l’Agorà di Teofrasto, l’Agorà degli italiani, la celebre Terrazza dei Leoni, 
- l’istituzione del Poseidoniasts di Berytos, 
- la zona del Monte Kynthos comprende la Terrazza dei Santuari degli Dei esteri e l’Heraion, 
- la quarta area custodisce i resti del teatro.

La statua di questo personaggio romano qui a fianco, alta 2,25 metri, proveniente da Delos, è conservata al Museo archeologico nazionale di Atene. 

E' un pezzo di grande valore della statuaria romana, tra i prototipi delle statue cosiddette "achillee" (termine usato da Plinio), dove un ritratto realistico di un personaggio era posto su un corpo nudo in atteggiamento eroico. 

È databile agli ultimi decenni del II secolo a.C., prima della perdita di importanza di Delos in seguito alle guerre mitridatiche.

La statua proviene dal porto franco di Delos, luogo di incontro tra mercanti orientali e negotiatores italici. Il corpo si rifà alle raffigurazioni classiche di eroi, atleti o divinità, dalla postura morbida a guisa dei modelli di Prassitele. 

La testa invece è decisamente ritrattistica, al contrario del corpo idealizzato, con la mascella quadrata e il doppio mento, il cranio calvo, le orecchie sporgenti.

Queste opere d'arte di committenza di ceto intermedio, procurarono una certa sintesi tra le esigenze ritrattistiche e il retaggio scultoreo classico, dapprima un'imitazione dei modelli di grande profondità psichica dell'arte greca, in seguito altissimi ritratti privi di idealizzazione ma con grande attenzione all'espressività e alla realtà del personaggio.

Con il ritorno dei negotiatores in patria a Roma, nacque in seguito il tipico ritratto "repubblicano" romano, espressione delle nuove classi aristocratiche che lasceranno una nuova e splendida imponta artistica nella storia.

Ben 160 sculture, frammenti a parte, vennero rinvenute nell'isola, oltre a una fonditura di bronzisti, per il fulcra (basi) ed altre applicazioni di bronzo, nonchè statuette varie. Ma non mancarono nemmeno i fabbricanti di mobili in legno con varie applicazioni. Con la distruzione di Delos i suoi artigiani, fatti schiavi, vennero comprati a Roma dove riuscirono a rifarsi la loro bottega, la loro arte e la loro libertà, perchè Roma era la città che offriva tutte le occasioni.



IL PORTO

L'isola possiede uno degli esempi più antichi di moli di protezione, in blocchi di granito locale che si estende per circa 100 m. e luogo di attracco delle antiche delegazioni inviate alle cerimonie religiose, che risale all'VIII sec. a.c. Nella seconda metà del III sec. a.c., Delo era già un porto importante, mercato centrale del grano, sede di banchieri, emporio frequentato da genti diverse dell'Egeo e dell'Oriente.




I PROPILEI

Nella parte nord-occidentale si trovano i Propilei e l'Agorà dei Compitaliasti o Ermesiasti che fu fondata nel II secolo a.c. e veniva usata dai commercianti romani e dai liberti i quali vi si radunavano e onoravano i Lares compitales, cioè le divinità dei crocicchi. Ci sono diverse piazze.
La ellenistica Agorà dei Competaliasts del Porto Sacro mantiene i buchi di palo per le tende di mercato nella sua pavimentazione in pietra. Due potenti corporazioni mercantili italiche vi dedicarono dedicate statue e colonne.

Subito dopo, la Via Sacra con le basi degli ex voto.
Ad ovest c'era la grande Stoà di Filippo, costruita intorno al 210 a.c.

Nella parte opposta c'è il cosiddetto Portico Sud (III secolo a.c.) e l'Agorà Sud o Agorà dei Delii.




I TEMPLI



TEMPIO DI APOLLO

Il santuario di Apollo si trovava a nord-est della Stoà di Filippo insieme a tre templi dedicati al Dio.

Il tempio, o Oikos dei Nassi, immediatamente ad est dei propilei, è un edificio rettangolare allungato con entrata ad ovest.
Ha una cella con fila mediana di colonne su alta base cilindrica fronteggiato da quattro colonne ioniche.

La costruzione  risale al VII sec. a.c..
Il pavimento di marmo della cella e del colonnato sono un'aggiunta del VI secolo.

L'edificio aveva una copertura in tegole di marmo.

C'è anche un edificio precedente, simile ma di lunghezza minore e diviso in tre navate mediante due file di colonne ioniche in legno. Si ritiene che la base sia stata spostata.

Il colosso fu segato in varî pezzi dai Veneziani per poter essere trasportato; restano  frammenti del torso, delle cosce e una mano; un piede è a Londra. Il tipo è quello del koùros più arcaico; le mani erano stese lungo le cosce. 


Portico di Filippo

Al margine ovest del santuario di Apollo sono due ampi monumenti, il portico di Filippo e il portico angolare dei Nassi.

FONTANA MINOICA
Il primo fu costruito da Filippo V di Macedonia fra il 216 e il 201 a.c. e dedicato ad Apollo, come dice l'iscrizione su blocchi dell'architrave.

Aveva sedici colonne doriche, sfaccettate per un terzo del fusto, racchiuse fra due corpi di fabbrica sormontati da un attico e ornati con finestre a tre parastadi fra ante.

Nel II sec. a.c. furono addossati sul retro un altro portico d'ordine dorico e, a nord, un'ala con colonnato centrale di colonne ioniche binate.

Il monumento è di alto interesse per la conoscenza dell'architettura dell'ellenismo. Il portico dei Nassî, del VI sec. a.c., originariamente chiudeva il santuario e contornava un piazzale lastricato. Ivi era la palma di bronzo dedicata nel 417 a.c. dall'ateniese Nicia.

Secondo Plutarco un terremoto la rovesciò e insieme con essa crollò una statua colossale di marmo rappresentante Apollo. La base di questa, con la dedica dei Nassi in caratteri dell'inizio del VI sec. a.c., è oggi presso l'Oikos dei Nassî e misura m 3,50 in larghezza, m 5,11 in lunghezza e 0,80 in altezza.

- Lo hieròn d'Apollo era un trapezio irregolare di m 180 per 130; l'entrata principale era a sud, costituita da un propileo dorico a 4 colonne, eretto, come dice l'iscrizione, dagli Ateniesi. La costruzione attuale è del II sec. a.c. ma ricalca un impianto più antico.

- Il tempio di Apollo è nel piazzale centrale. Dorico, a sei colonne sulla fronte, di modeste dimensioni (m 29,50 × 13,55), non fu mai finito.

Infatti le colonne furono scanalate solo alla nascenza del fusto e nel capitello; sono alte m 5,20 e hanno alla base un diametro di cm 95.

La costruzione del V sec. a.c. fu sospesa dopo il trasferimento del tesoro federale ad Atene e ripresa dopo l'abbandono dell'isola da parte degli Ateniesi nel 315 a.c.

Con metope liscie e la cimasa decorata a palmette e protomi leonine. Il tempio si compone di cella, pronao e retro con due colonne tra il prolungamento dei muri.

-  il terzo dei templi, di cui si conservano le fondazioni, è noto come "Tempio degli Ateniesi". 




TEMPIO DEGLI ATENIESI

Probabilmente un tesoro eretto dall'ateniese Nicia nel 417 a.c., ove si conservavano le corone d'oro dedicate durante le feste penteteriche delle Delie, quando gli Ateniesi mandavano a Delo la solenne processione con la nave sacra, sospendendo ogni esecuzione capitale in patria durante l'assenza della nave.

Ivi furono trasportate anche sette statue crisoelefantine di divinità dedicate nel santuario da Pisistrato.
Il tempio aveva un doppio portico, avanti e dietro con 6 colonne ciascuno, dorico (m 18,80 × 11,40); a ovest aveva un vestibolo con quattro pilastri fra le ante.

Nell'interno una base emiciclica in pietra di Eleusi sorreggeva le sette statue crisoelefantine; esternamente il muro della cella presenta quattro lesene aggettanti in asse con i quattro pilastri del pronao.

Della decorazione del tempio rimangono gli acroterî centrali raffiguranti scene di ratto (Borea e Orizia; Aurora e Kephalos) di tipo fidiaco.

Vicino era il tempio arcaico di tufo, del VI sec. a.c., di m 15,70 × 10, prostilo ionico (probabilmente un capitello ionico d'angolo è da identificarsi con quello che attualmente si trova presso i propilei del santuario). 

Ivi era la statua del culto, forse crisoelefantina, opera degli artisti di Nasso, Tektaios e Angelion, in seguito trasportata nel grande tempio di Apollo. Il Dio teneva l'arco nella destra e le tre Canti nella sinistra. Originariamente qui era la base semicircolare in pietra di Eleusi in seguito adattata nel tempio degli Ateniesi.


Portico di Antigono

Dietro al Tempio degli Ateniesi c'era il portico di Antigono, edificato dal re macedone Antigono Gonata (246-239 a.c.). Esso chiudeva il santuario a nord, era lungo 125 m e aveva 48 colonne doriche sulla facciata con due propilei alle estremità. L'interno era diviso in due navate da 19 colonne ioniche; le colonne seguivano l'inclinazione del tetto. Nell'interasse erano tre triglifi, di cui il mediano era ornato con una protome di toro. Il portico non aveva destinazione commerciale, ma votiva, come si apprende dall'iscrizione sull'epistilio. Il monumento è importante perché ben datato. 


Fontana Minoica

A nord fuori del recinto sacro, e quasi addossata al portico di Antigono, è la fontana Minoe, o minoica,  che esisteva già nel V sec. a.c. perché  ricostruita nel 166 a.c., secondo un'iscrizione. Il colonnato fronteggiava una scalinata che portava a un pozzo; nel centro della scalinata era una colonna che sosteneva il tetto.
Per alcuni è considerato solo un pozzo pubblico, rettangolare e ben scavato nella roccia, con una colonna centrale. Ci sono invece prove che fosse una fonte sacra. Il corso d'acqua che scorre tra due muri  può ancora essere raggiunta da una scalinata laterale.



TEMPIO DEI DELI

Tempio di Apollo, Dorico, periptero, 6 x 13 colonne, con un primo tempio dell'VIII secolo a.c.: un piccolo oikos con zoccolo in pietra, elevato in mattoni e aperto verso nord, cui è forse pertinante un muro di peribolos che delimita un'area a sud.



TEMPIO DI ARTEMIDE

A nord-est del Keraton c'è il tempio di Artemide (II sec. a.c.), costruito sui ruderi di un tempio precedente.
La zona nord ovest del santuario di Apollo è occupata dall'Artemision con un portico piegato a gomito, d'ordine ionico, e il tempio della Dea, pure ionico, innalzato nell'età arcaica e ricostruito nel II sec. a.c. Infatti nell'interno del tempio visibile attualmente, sono contenuti gli avanzi di un tempietto arcaico (fine VIII-inizio VII sec.) e nell'interno quelli di un naòs miceneo.

Intorno si trovano abitazioni, ma soprattutto locali per riunioni religiose e per trattazioni commerciali.



TEMPIO DI AFRODITE

A nord di questi tre edifici di culto erano cinque piccole costruzioni rettangolari in cui, senza fondatezza, si riconoscono dei Tesori oppure degli hestiatòria: luoghi di ritrovo dei pellegrini.



TEMPIO DI HERA

Il Tempio di Hera, all'incirca del 500 a.c., è una ricostruzione di un Heraion precedente sul sito.



IL TEMPIO DEGLI DEI DI SAMOTRACIA

A ovest del Sarapièion era il Kabörion, ossia il santuario dei grandi Dei di Samotracia, dove pure si celebravano misteri. Nel IV sec. a.c. esso era una semplice camera rettangolare prospicente su una terrazza presso l'Inopo. 

V'erano onorati insieme i Cabiri e i Dioscuri. Al principio del II sec. a.c. si trovava un tempio a cella poco profonda con quattro colonne tra due ante innalzato su una scalinata e di lato era un triportico.


Nel 112-101 a.c. fu eretta, secondo l'iscrizione, una cappella in antis d'ordine ionico a Mitridate Eupatore, adorato come Dioniso.

Nel centro del frontone era un medaglione con l'effigie del re e nel fondo della cella era una statua loricata dello stesso; in alto internamente correva un fregio di medaglioni con immagini di generali e amici del re. Nel cortile si trovava un altare a pozzo, specie di mundus, dove il sacerdote sacrificava agli Dei inferi.

Di fronte alla stoà di Antigono, a metà circa della sua lunghezza in fondazioni semicircolari antichissime, forse pre-elleniche, si riconosce il sèma delle Vergini Iperboree che, secondo Erodoto (iv, 34-35), portarono offerte a Delo prima e dopo la nascita di Apollo, venendo dalla Scizia. Su quella tomba giovanette e fanciulle deponevano una ciocca dei loro capelli. 

Ivi si rinvennero immagini di Artemide, fra cui una di stile dedalico (seconda metà VII sec. a.c.) dedicata da Nicandre, ora al Museo Naz. di Atene. La statua, di tipo xoanico, di una struttura squadrata e con superfici appiattite, ha le trecce scendenti sul petto, veste il peplo e doveva essere riccamente dipinta; eretta su una stretta base, teneva probabilmente al guinzaglio due leoni.

Un'altra bella scultura, di poco più tarda, rappresenta una Nike nello schema della "corsa in ginocchio", ossia col torso di prospetto e le gambe molto piegate di profilo. È fra le opere più significative del periodo fra il primitivismo dedalico e il gusto delle kòrai attiche ed è ora al Museo Naz. di Atene.



TEMPIO DI DIONISO

A nord del Monumento del toro c'è il tempio di Dionisio (inizi III sec.) ed il portico che si dice sia stato fondato da Antigono Gonata alla fine del III sec. a.c.



TEMPIO DI ISIDE

Il Tempio dorico di Iside è stato costruito su una collina all'inizio del periodo romano a venerare la trinità familiare di Iside, alessandrino Serapide e Anubi.



SANTUARIO DI LATONA

Nei pressi dell'Agorà degli Italiani erano il santuario di Latona, ch'è divinità asiatica e il Dodekatheon, piccolo tempio anfiprostilo, esastilo, dorico, della fine del IV sec. a.c., con basi per statue. Ivi fu rinvenuta una testa colossale che taluno ritiene di una statua di Demetrio Poliorcete. .



STOIBADEION

La piattaforma dello Stoibadeion dedicato a Dioniso reca una statua del Dio con ai lati due pilastri, uno con un fallo colossale, l'altro decorato con scene dionisiache.

STOIBADEION
La piattaforma fu eretta ca. 300 a.c. per celebrare l'opera teatrale.

La statua di Dioniso in origine era affiancata da quelle di due attori personificanti i Papposilenoi (conservato nel Museo Delos).

I Papposilenoi sono maschere teatrali indossate dagli attori che agivano da commentatori, o da spalla agli altri attori pincipali.

Il teatro marmo è una ricostruzione di un teatro più vecchio, preesistente al 300 a.c., anno del suo rifacimento.

Il fallo monumentale, che sarebbe il simbolo di Dioniso, è accompagnato dal gallo, che qualcuno ha interpretato come simbolo di elevata attività sessuale, in quanto si accoppierebbe 30 volte al giorno.

A noi questa interpretazione sembra azzardata, perchè il gallo è da sempre il simbolo del risveglio, tanto è vero che i romani chiamavano talvolta il cimitero Novo Die (nuovo giorno) e vi sono stati trovati come simboli sia il gallo che il pene in eiaculazione.

PAPPOSILENO
Il gallo era associato al risveglio dato che l'animale canta all'alba e fu usato con questa simbologia anche dagli alchimisti..

Dioniso a Delo era d'altronde associato ai misteri di Samotracia, legati prima agli Dei Cabiri e poi alla Triade Demetra Core e Dioniso-Ade.

Qui si celebravano appunto i misteri della morte e della rinascita.


Ovvero si celebravano la discesa negli inferi e la rinascita sulla terra legate al rinnovarsi annuale della vegetazione, associata talvolta alla rinascita di Ade ctonio in Dioniso che si accoppia con la Core.


La Via dei Leoni 

Nella parte Ovest c'erano varie edifici l"Ekklesiasterion", luogo di riunione della Bulè e del Demos dei Delii ed il "Tesmoforion", costruzione del V sec., collegato al culto di Demetra.


SANTUARIO DEI TORI

Troviamo inoltre nel Monte Cinto (Kynthos) resti del santuario di Zeus del Cinto e quello di Atena del Cinto. Ad est presso il muro del recinto c'è un edificio lungo e stretto diviso in tre parti a sud: un vestibolo esastilo lastricato in marmo nero, un vano centrale racchiudente un bacino profondo cm 50 e illuminato da finestre inquadrate da pilastri dorici, a nord un santuario con un altare triangolare, illuminato da un lucernario.

Si pensa che un sovrano ellenistico, forse Demetrio Poliorcete, abbia dedicato come ex voto la sua nave ammiraglia dopo qualche vittoria navale. 

Questo non è noto col nome di Santuario dei Tori per le protomi di tori inginocchiati sormontanti i capitelli dei pilastri fra il vano di mezzo e il santuario ed è identificato dal Vallois col Pöthion menzionato dalle iscrizioni. Il motivo delle protomi di tori si ritrova nell'architettura orientale. 





GLI ALTARI


ALTARE KERATON

A nord del tempio di Apollo  c'è l'altare Keraton.



IL LAGO SACRO

Nella parte nord del santuario, nel quartiere del lago si trovava L'Agorà di Teofrasto, il santuario dei dodici dei dell'Olimpo, il tempio di Latona e prima dell’agorà degli Italiani c’è il lago Sacro (prosciugato nel 1925), cui segue appunto l'Agorà degli italiani.



VIA DEI LEONI

Dal tempio di Latona, a nord del Lago Sacro, una strada portava alla famosa Via dei Leoni, ex voto dei Nessi del VII secolo a.c., consistente in 9 leoni di marmo dei quali se ne conservano solo cinque. Un sesto si trova all'ingresso della Grande Porta dell'Arsenale di Venezia, preso dall'Ammiraglio Francesco Morosini nel 1687. Dei leoni rimangono però solamente le basi, essendo stati trasportati all’interno del museo.

La Terrazza dei Leoni dedicati ad Apollo dagli abitanti di Naxos poco prima 600 a.c., aveva inizialmente dodici leoni di marmo, accovacciati e ringhiosi custodi della la Via Sacra.

Uno di loro fu inserito sopra il portone principale dell'Arsenale di Venezia. I leoni creano un viale monumentale paragonabile ai viali di sfingi egiziane.

Un po' più in basso si trovava il lago sacro dove, nell'antichità, nuotavano i cigni di Apollo, coperto con terra nel 1926 dopo un'epidemia di malaria.

 A nord-ovest della Via dei Leoni si trovava la sede dei Poseidoniasti di Beirut, centro di commercianti che adoravano Poseidone, due palestre, il santuario dell'Archegeta, il Ginnasio e lo Stadio.




IL TEATRO

A Nord-Ovest della Casa delle Maschere si conservano le vestigia del Teatro che aveva una capienza di 5.500 posti, costruzione del II sec. a.c.



L'AGORA' DEGLI ITALIANI

Vicino al Lago Sacro, piccolo stagno di forma ovale, formatosi probabilmente come risorgiva del fiumiciattolo Inopo, si trova l'agorà degli Italiani, grande edificio rettangolare di cui il lato lungo misura 100 m, con esedre prospettanti un peristilio dorico che sosteneva un colonnato ionico.

CASA DI HERMES
V'erano monumenti votivi, mosaici e statue. Una, di Gaio Ofellio, caduta presso la sua base, reca la firma di noti artisti ateniesi, Dionysios e Timarchides, del 100 circa a.c., esponenti del gusto manierista del tardo ellenismo.

 Nell'edificio fu trovata una statua di Galata nudo, combattente, ora al Museo Nazionale di Atene, col ginocchio appoggiato a terra e lo scudo innalzato a protezione della testa dalla parte sinistra.

Opera accurata, ma non nuova come ispirazione e in certo modo fredda nell'esecuzione, potrebbe essere contemporanea alla fondazione dell'agorà degli Italiani che è di poco anteriore al 100 a.c., e pertanto appartenere al gusto del virtuosismo veristico, ultima espressione dell'arte ellenistica, ma potrebbe avere anche qualche decennio di più ed essere ritenuta un acquisto per decorare l'agorà.

Altri la ritengono opera contemporanea al primo donario pergameno (v. Pergamo) e la riferiscono all'artista Nikeratos, che lavorò a Delo.

Sul lato ovest dello stagno si trovava una terrazza di 50 m di lunghezza con 9 leoni arcaici del VII sec. a.c., di cui uno è ora collocato davanti all'Arsenale di Venezia e altri cinque sono tuttora in situ. Sono di carattere mostruoso, non naturalistico, con una magrezza stilizzata e ricordano tipi asiatici. Ultimamente sono stati asportati per ripararli nel museo di Delo.



MURO DI TRIARIO

A nord del Lago Sacro sono la palestra del Lago e la palestra di granito cui si appoggia il cosiddetto muro di Triario, fortificazione eretta dal legato romano di questo nome verso il 66 a.c. per difendere il luogo dai pirati. Altri resti del muro si trovano a sud nel quartiere del teatro. 

Negli scavi fu trovato un gruppo di Afrodite che minaccia con la pantofola l'aggressivo Pan, databile, per i caratteri dell'iscrizione, nell'età della costruzione dell'edificio, cioè verso il 100 a. C. È opera classicheggiante che, per il contrasto fra la frontalità della dea e la profondità spaziale in cui è posto il corpo del Pan, rivela il gusto cosiddetto "dei ritmi centrifughi"; vi si trovano commisti residui del colorismo "barocco" con motivi di derivazione "classica" e, nel volto arguto della dea, del virtuosismo "veristico".

Oltrepassati l'ekklesiastèrion già esistente nel VI-V sec. e un edificio del V sec. con il peristilio centrale e due sale ipostile ai lati, di cui è proposta l'identificazione colthesmophòrion ricordato dalle iscrizioni, si entra nell'agorà di Teofrasto, detta così dall'epimeleta ateniese che nel II sec. a.c. la sistemò.




STOA' DI POSEIDONE

Il più importante monumento della zona è la sala ipostila, luogo di contrattazione degli affari di borsa. Nelle iscrizioni la sala è detta la "stoà del Poseidon", e dai conti degli hieropoiòi risulta che essa era sostanzialmente finita nel 208 a.c.

La pianta è rettangolare con la facciata a sud formata da 15 colonne doriche scanalate fra due paraste. Nell'interno è un ampio giro di colonne doriche su dado di base (5 sui lati corti e 9 sui lunghi); quindi, più internamente, sono disposte due file di 7 colonne ioniche con capitelli schematici che in origine erano dipinti, e, da ultimo, nel mezzo, una fila di 6 colonne anch'esse ioniche.

Il centro è lasciato libero ed è sopraelevato da pilastri che reggono un tetto più alto, formando un lucernario. La sala ipostila è di derivazione orientale e interessa il problema delle origini della basilica romana. Dopo la distruzione dell'edificio, nel II sec. d.c., sorse nell'area una ricca casa con corte a peristilio.

La sala riunione dei Poseidoniasts ospitava una associazione di mercanti, magazzinieri, armatori e proprietari durante i primi anni di egemonia romana, fine del II secolo a.c. I Romani hanno lasciato intatti loro culti riguardanti due triadi a protezione dell'isola: una di Baal, Poseidon e Astarte, l'altra di Afrodite, Echmoun e Asklepios, limitandosi ad aggiungervi la Dea Roma di cui resta la statua acefala.



MEGARON

A nord del santuario una larga strada conduce al tèmenos dell'archegètes Anios, che si compone di sette tombe arcaiche, non soggette alla purificazione del 425 (suppellettile intatta) e quindi sacre non solo ai Delî, ma agli stessi Ateniesi; di una fila di ambienti di età diversa (i vani a nord sono più recenti) e di un recinto quadrangolare, lastricato, con eschàra al centro, il cui accesso era interdetto agli stranieri.

Questo tèmenos che si potrebbe indicare col nome di mègaron (= recinto o edificio sacro ospitante sacrifici segreti) è del tipo dei posteriori mègara di Despoina a Lykosoura e dei Cureti a Messene.

Il megaron è in genere composto di un unico vasto locale in cui il sovrano riceveva gli ospiti, consumava i banchetti rituali e ascoltava i racconti o la musica epica. Quando un nobile entrava si trovava davanti ad un immenso fuoco, eskare, in un focolare circondato da quattro colonne sulle quali potevano eventualmente essere appese le armi.



GINNASIO

Più a ord è il Ginnasio, del III sec. a.c., con ampia corte a peristilio.



STADIO

Nell'angolo nord est del ginnasio è lo xystòn che corre parallelo allo stadio. Lo stadio, che presenta al centro resti della tribuna della giuria, ha la parte orientale sostenuta da un poderoso analemma. 

Ad E dello stadio, verso il mare, si stende un quartiere di abitazioni private di dimensioni minori e tono più dimesso delle case del quartiere del teatro. Quivi è anche una sinagoga giudaica (?) con ampia corte in cui sta un trono marmoreo.

A sud del santuario, presso il Porto Sacro, è l'agorà di S chiusa da un portico a gomito a due piani, di cui il superiore ionico, del II sec. a.c., e da un portico trasverso più antico, forse di Attalo I. Fra questo e il portico di Filippo passava la via delle Processioni, ornata di statue e di esedre. Vicino stava il pritaneo del V sec. a.c. ove erano gli altari di Apollo Pizio, di Estia, del Demos e della Dea Roma e, a nord di questo, il Bouleutèrion. Nei pressi sorgeva l'altare di Zeus Polièus.


Nella zona a S dell'agorà si trova il quartiere del teatro, dove era il maggiore agglomerato urbano, e il quartiere del porto, con le banchine, i moli e i magazzini. Il teatro, iniziato alla fine del IV sec. a.c., rientra nel tipo dei grandiosi teatri ellenistici. Particolarmente notevole è il fregio dorico dell'epistilio, con decorazione di tripodi e bucrani. 




IL CINTO

L'abitato è chiuso dalla valle dell'Inopo e qui si eleva il Cinto, che era una vera montagna sacra per i numerosi santuarî di divinità greche ed orientali che conteneva. V'erano sentieri e scalini scavati nella roccia per la comodità dei pellegrini e cappelle dove questi riposavano.


Sulla sommità era il santuario di Zeus e di Atena, il cui culto è attestato sin dall'VIII sec.; nei pressi era quello di Artemide Ilizia, protettrice delle partorienti ed altri di dimensioni minori (Dei di Ascalon, Zeus Höpsistos, ecc.). 



ANTRO SACRO

Sul fianco del monte si trova l'antro sacro, ampia spaccatura della roccia coperta con un tetto a doppio spiovente di dieci enormi lastre di granito. L'antro era chiuso da una porta e nell'interno era una statua su base di granito. Sul davanti è una terrazza in cui un anello di marmo designa uno spazio particolarmente sacro, forse un altare. Fu il primo monumento dell'isola ad essere scavato (1873). 

Tutto l'insieme appare primitivo, ma non sembra che si possa metterlo in relazione col luogo della nascita di Apollo, dove, secondo l'Odissea, si elevava una bellissima palma che Ulisse descrive; l'ultima sistemazione del santuario rupestre non è ad ogni modo anteriore al III sec. a.c. per il culto di Eracle e dei Cabiri. 



HERAION

Fra i numeròsi altri santuarî di divinità del Cinto, è da segnalare particolarmente l'Heràion che nell'VIII sec. a. c. era una semplice cappella rettangolare e nel VI sec. divenne un tempio di marmo dorico in antis. Si sono trovate statuette femminili d'arte dedalica in calcare fine, terrecotte votive rappresentanti sirene, Hera in trono o sdraiata, Zeus e Hera in trono sotto il velo nuziale, e protomi di dea di tipo rodio. 
Vi è stato rinvenuto anche un vero tesoro ceramico, formato soprattutto di piccoli vasi; la maggior parte sono vasi attici a figure nere. Interessanti i piatti policromi con scene mitiche.



TERRAZZA DEGLI DEI STRANIERI

Presso l'Heràion è una grande terrazza detta degli Dei stranieri. La parte nord è occupata dal santuario degli Dei siriaci, costituito da un grande cortile su cui si aprono portici, esedre e un piccolo teatro da cui si assisteva ai misteri. In una cisterna erano nutriti pesci rossi.

La tecnica edilizia è molto povera. Nel santuario era venerata la coppia sacra di Bambyke-Hierapolis, ossia Hadad e Atargatis detta Afrodite la Santa.

In origine di carattere privato e orgiastico, nel III sec. a.c. il culto guadagnò molti proseliti, anche fra gli schiavi; Atene impose un sacerdote ateniese e represse i riti licenziosi.

CASA DI CLEOPATRA


SANTUARIO DEGLI DEI EGIZI

A sud della terrazza degli Dei stranieri, più vicino all'Inopo, che si riteneva derivato dalle acque del Nilo per via sotterranea, era il santuario degli Dei egizî, onoratissimi a partire dal II sec. a.c. quali Dei salutiferi e salvatori dei naviganti. Vi si dedicavano vasi d'argento, statuette, ex voto di vario genere.

Degli Dei egizî la divinità nota era Iside, ma non ebbe culto importante se non dopo la sua associazione con Serapide, il Dio prediletto dai Tolomei. Il più antico Sarapièion fu costruito da un egiziano all'inizio del II sec., raccogliendo offerte fra i fedeli; seguirono altri due santuari, di cui l'ultimo è il più importante.

In un grande cortile lastricato e chiuso per tre lati da portici ionici erano tre piccoli templi dedicati a Serapide, Iside e Anubis. Davanti al tempio di Iside era un altare per profumi.

A sud si trova, fra due portici, una via sacra con altari in muratura alternati a sfingi.



I TESORI

Nella parte Nord del tempio di Artemide si trovano i cosiddetti "Tesori"



PRYTANEION

Ad Est dei Tesori si ergeva il Prytaneion (metà del V sec. a.c.) e ad ovest il Monumento del toro (IV-III sec. a.c.).



ALTARE DI ZEUS SALVATORE

A sud-est del monumento del toro, l'altare di Zeus Salvatore protettore dei marinai.



CASA DI HERMES


LE CASE

Le case sono costruite in gran parte con pietra granitica dell'isola in blocchetti distribuiti in apparecchio pseudoisodomico, senza calce, talora con riempimenti di scaglie piatte fra blocco e blocco.

Gli angoli sono più curati: infatti i blocchi sono più grandi e più regolari.

In generale si può dire che nell'edilizia sia monumentale sia privata di Delo, fino al IV sec. a.c., furono impiegati granito e tufo, e solo più tardi il marmo.

Le case si trovano un po' dappertutto, ma il nucleo principale è quello del quartiere del teatro.

Non si tratta di una città monumentale ma di un modesto abitato dove le vie, tutte in salita, strette, pavimentate con lastre di gneiss, non erano adatte ai veicoli. Le case sono distribuite in insulae, ma senza un reticolato ortogonale.

Nella casa delia il cortile è di regola e spesso vi si trova un vestibolo, coperto e non coperto. Si trovano cortili senza peristilio con pavimentazione in lastre di gneiss o in opus segmentatum, mai in tessellatum, o cortili con peristilio, quasi sempre di marmo.

CASA DEI TRITONI
Il peristilio è a forma quadrata o allungata, generalmente di quattro portici. Esistono anche peristilî incompleti a tre, a due, a un solo portico.

Le colonne sono generalmente di stile dorico, a fusto liscio o sfaccettato o scanalato e altissime, fino al rapporto di otto diametri inferiori; si trovano anche colonne ioniche.

Nei fusti delle colonne sono talora inserite mensole, protomi di tori o di leoni.

Nel mezzo del peristilio è l'impluvium con la cisterna. Sul vestibolo si apre qualche stanza e sono collocate le latrine che avevano gli scoli nella strada. Sul peristilio prospettano sale ma non delle stesse dimensioni.

C'è sempre una sala maggiore, l'oecus, decorata, su cui si aprono camere minori, gabinetti di lavoro, esedre, ossia cellae ad colloquendum. 

I cubicula dovevano essere nel piano superiore, ma certo anche nell'inferiore e si distinguono dalle cellae degli schiavi perché sono decorati. Si trovano nei muri alcune nicchie per collocare le lucerne e mensole negli angoli.

Vicino alla porta è quasi sempre un altare con pitture rituali rappresentanti un sacrificio e altre con simboli apotropaici. Le porte hanno spesso stipiti ad ante rastremate, soglie di marmo e architrave monolitico con specchiatura. 

I capitelli dell'anta sono decorati e dipinti. I cardini sono a vaschetta di bronzo. Le finestre sono rettangolari con architrave e cornicetta sagomata e inferriata. Si trovano anche bifore.

Le scale erano in legno, poche in pietra. I pozzi hanno vere di marmo, talora con edicola. Sono al centro dell'impluvio o sotto il colonnato del peristilio. Si trovano cisterne col tetto sopportato da pilastri. 

L'intonaco delle pareti è bianco con fasce in rilievo o a falsi conci, delineati con incisioni. Le decorazioni e la policromia sono della tradizione classica.

I pavimenti nelle stanze, oltre che in opus segmentatum, sono anche a mosaico in opus tessellatum, bianco e nero con motivi di meandri e di spirali, talora con begli emblemata nel centro.

Il quartiere più abitato era quello del Teatro. Molte sono le abitazioni di età ellenistica e romana ornate con mosaici i pavimenti musivi: Casa dei Delfini, Casa delle Maschere, Casa del Tridente, Casa di Dionisio.



CASA DIONISUS
CASA DEL LAGO

Così chiamata perchè collocata accanto al lago sacro che era in realtà una palude interna dell'isola.



CASA DEL DIADUMENO

detta così perché ivi fu trovata una buona replica del Diadoùmenos di Policleto, ora al Museo Nazionale di Atene



CASA DEI NASSI

Nelle vicinanze, un po' prima del tempio di Apollo, si trova la Casa dei Nassi (metà del VI sec. a.c.).

 

CASA DELLE MASCHERE
Molto importanti sono i mosaici della Casa delle Maschere, anteriori al 100 a.c.: con straordinario rigore cromatico sono rappresentati Dioniso sulla pantera, centauri, maschere teatrali, sileni e anfore.



CASA DEL TRIDENTE
La Casa del Tridente ha mosaici con il tridente e con un'ancora intorno a cui si avvolge con la coda un delfino.



CASA DEI DELFINI

La Casa dei delfini prende nome da un mosaico che vi è posto dove degli eroti guidano dei delfini; il suo proprietario fenicio commissionò pure un mosaico pavimentale di Tanit nel suo vestibolo..



AGORA' COMPIETIALISTS
CASA DI CLEOPATRA

Nella Casa di Cleopatra rimangono su una base le statue acefale di questa donna ateniese e di suo marito Dioscuride della seconda metà del II sec. a.c. 

Questa casa, dell'ateniese Cleopatra, è importante perché, essendo sicuramente datata nel 139 a.c., ci fa conoscere la data della moda dell'abito trasparente di molte statue ellenistiche.



CASA DI DIONISO

La casa di Dioniso è una magnifica casa privata del II sec. così chiamata dal mosaico raffigurante Dioniso che guida una pantera.

CASA DI DIONISO


IL MUSEO E LE STATUE

Il museo sul luogo raccoglie statue e materiali varî provenienti dagli scavi, mentre alcune sculture più importanti sono passate al Museo Nazionale di Atene.

I ritratti ritrovati a Delo rappresentano sia Greci, con espressioni più sentimentali che patetiche dell'ultimo ellenismo, sia Romani resi con espressioni psicologiche più rudi.

Da notare la cosiddetta Nike di Delo. Ce ne sono due immagini, una alata e una senza ali. Quella alata, che osserviamo qui a fianco, fu detta da Plinio "La prima a cui vennero poste le ali"

Ma ce n'è pure un'altra nella stessa posizione ma senza ali.

Della figura che viene descritta come "quella che corre in ginocchio", dobbiamo rifarci ad un'immagine egizia di tre Anubis in ginocchio,
o quella della Gorgone - Medusa di Siracusa.

La figura che tocca terra con un unico ginocchio, dove le braccia sono spesso una alzata e l'altra abbassata come in una svastica, sono un'immagine della Natura, o del Divenire, del Transeunte.

La Grande Madre corre, ovvero scorre il tempo ma lei è immortale e non cambia mai.

Cambia invece sua figlia/o, la vegetazione annuale che nasce cresce e muore in  un continuum di morte e rinascita.

Gli antichi nei Sacri Misteri usavano distinguere una Natura Naturans e una Natura Maturata.

La prima è lo spirito della natura, la seconda è l'aspetto che ne osserviamo.

Lei è la Ruota del Divenire, ovvero la ruota della vita. Era la figura classica del matriarcato che fu non poco sostituita e mostrata in fase patriarcale.

In questa fase patriarcale però la Dea diventa terribile, come Gorgone o Medusa, perchè portatrice del concetto di transizione e quindi  di morte.

Il fatto che Anubis rappresenti la Dea triforme, o trina, di nascita, crescita e morte, non deve stupire.

Il Dio nero è la faccia oscura della Dea, così come esistono le Madonne nere che rieditano in realtà la Diana Nera, o Luna nera.

Diciamo che col patriarcato alcune immagini femminili divennero maschili.

Qui a fianco, sempre da Delo l'altra Nike senza ali, che si presume sia opera di Archemos.

Questa è la posizione cosiddetta a Svastica, un antichissimo simbolo caro tanto ai veda, all'induismo e al buddismo, simbolo anch'esso del divenire universale, ovvero dell'avvicendarsi vita-morte-vita nell'eterno divenire della natura.

Qui a fianco ne abbiamo posto uno degli antichi simboli indiani.

Come si vede la svastica ripete lo schema del movimento, esattamente come  le due Nike "che corrono" o come  i tre Anubis della religione egiziana o la Gorgone della Magna Grecia in Sicilia.

Qui accanto osserviamo infatti il triplice Anubis che, alcuni studiosi riferiscono, stiano danzando.

Già verrebbe da esprimere qualche dubbio, perchè nella Nike si corre e qui si danza con un ginocchio a terra, ma soprattutto come mai gli Anubis sono tre, quando il Dio Anubis era solo uno?

Ora sappiamo che la triplice era solo la Luna, anzi la Dea, come colei che dava la vita, nutriva e dava la morte.

Era la Dea Trina da cui fu estratta nel cristianesimo la ss. trinità fatta guarda caso da tre maschi. Altrettanto per questi tre Anubis.

C'è poi la famosissima Afrodite di Delo, nella composizione con Pan ed Eros, mentre il Dio caprino tenta di fare avances alla bella Dea appena uscita dal bagno e con la testa avvolta da un panno.

Il piccolo Eros svolazzante che sembra più un erote che un Eros, sfiora le corna del Pan-satiro, più satiro che Pan.

A detta di alcuni critici starebbe difendendo Afrodite ma il viso sorridente e il gesto della mano che trae a sè indicherebbe invece che stia invitando il satiro ad avvicinarsi alla Dea.

Costei tuttavia è di parere diverso, tanto è vero che, toltosi un sandalo, lo brandisce minacciando il satiro.


Il volto della Dea però non sembra troppo corrucciata dalle insistenze di Pan che, contrariamente ad altre sue immagini scultoree, è piccolo e piuttosto animalesco.

Anzi la Dea sembra leggermente sorridente,  ma con una sfumatura ironica, come trovasse ridicolo e per nulla pericoloso il tentativo di Pan di ottenere le sue grazie.

Mentre la Dea, per nulla spaventata, sembra sicura di poter tenere a bada lo spasimante, questi ha un'aria bramosa ma da supplice, insomma non sembra affatto pericoloso.

La composizione conserva numerose tracce della pittura originale.












TEMPIO VITTORIA PALATINA

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PALAZZO DI CALIGOLA (sinistra) TEMPIO DELLA VITTORIA (destra)
ll tempio della Vittoria (latino: aedes Victoria) era un tempio romano edificato nella parte sud ovest del Palatino, a Roma, dedicato alla dea Vittoria. Era adiacente al tempio della Magna Mater e al santuario di Victoria Virgo (Livio 29.14.13: in aedem Victoriae).

Vasi:
"L'altro principale accesso del Palatino si dava col mezzo del clivo della Vittoria, nella di cui parte inferiore, vi stava la porta Romana, secondo la spiegazione di questo nome data da Festo. Questo clivo, con le fabbriche che gli stavano nei lati, si trova tracciato nell'interessante frammento dell'antica Pianta di Roma N. XLVII dal quale si deduce l'epoca in cui fu questa eseguita. Ciò che si trova rappresentato in tale lapide bene si adatta alla località posta nel declivo del colle verso l'Esquilino; ed ivi vicino doveva trovarsi il tempio della Vittoria, dal quale prendeva il nome il detto clivo. Questo tempio, se non era quello registrato tra i primi edifizj della regione ottava nei cataloghi dei Regionarj, stato edificato sotto la Velia, dove prima stava la casa di Valerio Publicola, supponendone un altro sul Palatino innalzato sino dai primi tempi di Roma, non poteva però essere situato al di sopra di costruzioni imperiali, come si è giudicato ultimamente nel trovare ivi traccie di un edifizio rotondo."

Non c'è memoria del restauro di questo tempio e la sua esatta collocazione è incerta. Alcuni identificarono il tempio con le fondazioni rinvenute vicino all'arco di Tito. Esso si trovava senza dubbio nel Clivus Victoriae, e i resti di due iscrizioni dedicatorie, reperite a circa 50 m ad ovest dell'attuale chiesa di San Teodoro potrebbe indicarne la posizione.

Il Clivo della Vittoria (Clivus Victoriae) che gira intorno all'angolo nord del Palatino, passando a fianco della Domus Tiberiana e si collega al clivo Palatino di fronte alla Domus Flavia, era la strada principale che dava accesso al colle Palatino per chi proveniva dal Velabro. Secondo la tradizione il nome deriverebbe dal tempio della Vittoria, un tempio più antico della stessa Roma.

Durante gli anni 204‑191, mentre si stava costruendo il tempio della Magna Mater, la pietra sacra di questa Dea venne custodito nel tempio della Vittoria affinchè il popolo potesse intanto venerarla. La Magna Mater Cibele, avrebbe dovuto, secondo i Libri Sibillini, proteggere i Romani dall'avanzata di Annibale. Nei pressi di questo tempio, come narra Livio, Marco Porcio Catone costruì il tempio di Victoria Virgo.



IL MITO

"Stige, figlia di Oceano, generò, unita a Pallante,
Rivalitàà e Vittoria dalle belle caviglie, dentro il palazzo di lui,
e Potere e Forza generò, illustri suoi figli,
lontano dai quali di Zeus non c’è casa né sede,
né c’è via per cui ad essi il dio non comandi,
ma sempre presso Zeus che tuona profondo hanno la loro dimora"


La tradizione voleva fosse stato costruito da Evandro (Dion. Hal., Ant. Rom. 1.32.5), riedificato poi (oppure costruito di sana pianta) da Lucio Postumio Megello  (Livy 10.33.9) con i soldi delle multe che aveva comminato durante la sua edilità, e dedicato il 1º agosto 294 a.c., anno in cui fu console  (come concorda anche Livio).

Negli anni 204-191 a.c ospitò il betilo della Magna Mater, mentre il tempio della dea era in costruzione Nei pressi di questo tempio, Marco Porcio Catone costruì il tempio di Victoria Virgo.

I RESTI
Secondo la tradizione virgiliana la città di Pallante sul Palatino faceva parte del regno dell’arcade Evandro e di suo figlio Pallante. Sia Livio (Ab Urbe condita) che Ovidio (I Fasti) narrano di una migrazione dalla città greca di Argo, guidata da Evandro.

La città che questi fondò sul Palatino si chiamava Pallante o Pallanteo, in onore del nonno. Ma il personaggio e la sua città rivestono anche un’importanza che probabilmente esula da quella esclusivamente mitologica. Dal nome della città potrebbe infatti essere derivato lo stesso toponimo di Palatino. La coincidenza poi che le feste “Palilie” si celebrassero nella stessa data della fondazione di Roma può far pensare ad un’ipotesi di accordo e di spartizione del territorio tra la gente di Romolo, stanziata sul Germalo, l’altura settentrionale del Palatino, e quella di Evandro, stabilitasi sul Palatino vero e proprio, più a sud, facendo della Velia, l’altura orientale, probabilmente un'area cimiteriale, come i reperti archeologici suggeriscono.

Gli scavi archeologici effettuati dal 1937 nell’area di S. Omobono, all’incrocio tra le attuali via L. Petroselli e Vico Jugario, hanno portato in luce reperti di origine greca, risalenti alla metà dell’VIII secolo a.c., quindi dell’epoca della fondazione di Roma. Forse le origini argive in cui rientra il mito di Ercole e le antiche aedes degli Argei hanno un fondamento storico.




LA STORIA

ALTRI RESTI DEL TEMPIO
Il culto di Victoria crebbe verso la fine della Repubblica, e sia Silla che Giulio Cesare istituirono giochi in onore della Dea. Nella curia del Senato romano, a partire dall'anno 29 a.c. in onore della disfatta di Antonio, c'era un altare con la statua d'oro della Vittoria strappata ai Tarantini. La statua ritraeva un donna alata che portava una palma ed una corona di lauro. La Victoria Augusti fu sotto l'impero la costante divinità titolare degli imperatori. Nel 382, l'imperatore cristiano Graziano decise di fare togliere l'altare dal Senato. Questo fatto oppose in aspra polemica il pagano senatore Quinto Aurelio Simmaco al vescovo Ambrogio di Milano. Vinse la chiesa e la Nike d'oro venne fusa.



LA DEA

NIKE DI EFESO
Il fatto che Porcio Catone avesse intitolato un tempio alla Victoria Virgo, fa presupporre trattarsi di una Dea Vergine, cioè di una Grande Madre Genitrice, che era sempre vergine pur essendo madre, in quanto, come sottolinea l'imperatore Giuliano nell'Inno alla Madre degli Dei, non ha marito.
Doveva essere perciò una Dea molto antica e quindi un santuario molto antico. Ma di quale Dea si tratta?
Per capirlo ci rifacciamo alla Vittoria greca, alla Nike, con ali, alloro, veste corta e un seno scoperto, come le amazzoni. E' chiaro che si tratta di Dea arcaica, prima che i Greci togliessero il voto alle donne e le obbligassero al peplo, insomma all'incirca nel 2500 a.c. Era una Dea combattiva, tanto è vero che Zeus la pone alla guida del suo carro divino.



LA STRUTTURA

Pertanto il suo tempio doveva essere vagamente greco e dell'VIII sec. a.c., quindi antecedente alla fondazione di Roma, con mattoni di argilla essiccata al sole, con travi in legno strutturale come sostegno e con tetto ordito in legno a falde sensibilmente inclinate. All'esterno aveva un peristilio di sostegni lignei, affinché la cella in materiali deperibili fosse protetta dalle sporgenti falde del tetto, ma anche per conferire maggiore solennità sacrale al tempio. Nel VII sec. a.c. greci ed etruschi si inventarono le tegole di terracotta per la copertura e le colonne divennero di tufo o di pietra per sostenere tanto peso.

Il tempio aveva un podio in opus quadratum (c. 33 x 19 m) e si suppone che in origine fosse esastilo, successivamente  periptero con una doppia fila di colonne lungo la facciata (Pensabene 1988, 54-57; id., LTUR).
In epoca imperiale era ancora un tempio tetrastilo sia pure con blocchi e colonne di marmo. Le colonne erano ancora in stile dorico come nel tempio più antico, era innalzato su alto podio cui si accedeva con una lunga scalinata, con due bassi muri ai lati su cui venivano posti bracieri di bronzo e al centro un'ara su cui si svolgevano i sacrifici e le cerimonie,     
Di questo tempio non si hanno più notizie fino al 294 a.c. quando venne ricostruito dal console Lucio Postumio Megello, poi restaurato nella tarda Republica o nella prima era augustana (Pensabene 1988, 55), forse per l'incendio del 3 d.c. (Papi). e in seguito da Caligola.

Sostanzialmente fu identificato al Tempio di Victoria per simili locazione, grandezza, e materiale epigrafico pertinente a Victoria (CIL VI 31059, 31060), includendo frammenti di capitelli corinzi ed altri elementi in travertino, che suggeriscono un restauro verso la fine del I sec. a.c.. (Pensabene, LTUR). Il restauro mantenne lo stesso piano ma aumentò le fondazioni della cella per supportare un colonnato interno, e rimpiazzare le sovrastrutture di tufo con un ordine di colonne corinzie. (Pensabene 1988, 55).

LOLLIANO MAVORZIO

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Nome: Quintus Flavius Maesius Egnatius Lollianus
Nascita: 300 d.c.
Morte: 356 d.c.
Professione: Militare e politico

MAVORZIO
Quinto Flavio Mesio Egnazio Lolliano detto Mavorzio, ovvero Quintus Flavius Maesius Egnatius Lollianus; 300 – 356) è stato un politico e militare romano, di età imperiale.

Lolliano era pagano nonchè un uomo colto e interessato all'archeologia, tanto che incoraggiò lo scrittore siciliano di rango senatoriale Giulio Firmico Materno a scrivere un trattato astrologico, il Matheseos libri VIII, che infatti gli fu poi dedicato.

- Fu un valente generale, numerose iscrizioni ci attestano il suo cursus honorum, e in quanto tale, ma pure per l'enorme simpatia e stima che l'imperatore aveva di lui, venne nominato da Costantino Comes Orientis dal 328 al 335. 
La diocesi d'Oriente riuniva le province del Medio Oriente occidentale, tra il mar Mediterraneo e la Mesopotamia. 

Era molto importante dal punto di vista militare, in quanto al confine con i Sasanidi e con le tribù nomadi del deserto.
La diocesi d'Oriente rientrava nella Prefettura del pretorio d'Oriente e aveva come capitale Antiochia, dove risiedeva il governatore, il quale aveva il titolo speciale di Comes Orientis.

Un incarico molto prestigioso e Costantino dovette apprezzarlo molto con tutto che fosse pagano. Del resto Costantino privilegiò la religione cristiana eleggendola a religione consentita e sovvenzionata dallo stato, ma lui stesso continuava a professare riti pagani, come ad esempio quello del Sol Invictus, nè mai si convertì al cristianesimo, nemmeno in punto di morte. 

- Lolliano venne poi nominato Proconsul Africae nel 335 fino al 337 d.c.. Con poteri persino superiore al vicario della diocesi corrispondente, questi diventava:l'unico proconsole d'Africa ( moderna Tunisia) nell'Impero romano d'occidente.

- Successivamente, ma prima del 339, fu nominato consularis Campaniae (governatore della Campania), una zona molto ricca.

- Divenne poi "praefectus urbi" nel 342. In pratica era il prefetto di Roma.

- Fu poi praefectus praetorio dal 354 al 355. I prefetti del pretorio all’epoca di Costantino e dei suoi successori svolgevano le seguenti funzioni:
1) la suprema amministrazione della giustizia e delle finanze.
2) l’applicazione e la modifica degli editti generali.
3) il controllo dei governatori delle province, che poteva destituire o punire per negligenza o corruzione.
Inoltre il tribunale del prefetto poteva giudicare ogni questione importante, civile o penale, e la sua sentenza era considerata definitiva, al punto che neanche gli imperatori osavano lamentarsi della sentenza del prefetto.

- Secondo Firmico Materno, già Costantino gli doveva aver promesso, prima del 337, il consolato, carica che gli arrivò come consul ordinarius nel 355.

Ebbe contemporaneamente altri incarichi amministrativi e di controllo come:

- consularis albei Tiberis et cloacarum, addetto alla manutenzione dell'alveo del Tevere e delle fognature.

Ma ricoprì anche cariche nel palazzo: 

- comes Flavialis,  direttore della corte imperiale dei Flavii
- comes nostrorum Augustorum et Caesarum, cioè sacerdote del culto degl'imperatori.
- comes intra palatium, amministratore dei conti imperiali,
- vice sacra iudicans, cioè prefetto interno alla corte,
- comes ordinis primi intra palatium; cioè primo magistrato all'interno del palazzo,
- le iscrizioni costantiniane gli attribuiscono il titolo di augur publicus populi Romani Quiritium, taciuto tuttavia nelle iscrizioni del periodo di Costanzo.



CURIOSITA'

Nel 1704 fu scavata a Pozzuoli, per l'edificazione della chiesa di san Giuseppe e nel giardino dell'exvicerè D. Pietro di Toledo, detto "della malva", una statua acefala alta 9 palmi, su una base alta 5, dedicata a Lolliano.
Come d'uso all'epoca, il capo mancante fu reintegrato, ma da una testa sproporzionatamente piccola rispetto al corpo che conferiva alla statua un'aria imbambolata.

MAMOZIO
Posta nella piazza della città, l'iscrizione Mavortivs, le valse il nome popolare di Mamozo, o Mamozio, ancora in uso per designare una grossa e goffa scultura, anche se la statua, per quanto frammentaria, sia di elegante fattura.

Un'altra statua, anch'essa acefala, alta m 1,85, fu scavata nel 1885; anch'essa aveva sulla base l'iscrizione con il nome dello stesso console. Tanto in questo caso quanto nel precedente le basi erano state reiscritte; anche le statue, cui le teste erano state applicate, erano sicuramente più antiche e trasformate in Lolliano.

La statua venne collocata nella piazza del mercato, nelle vicinanze di una statua raffigurante il vescovo Martín de León Cárdenas, e veniva chiamata dal popolo con il nome di "santo Mamozio", che divenne un po' il protettore dei verdummari (gli ortolani) del luogo, i quali gli rivolgevano suppliche e pare anche che gli lanciassero, quando la stagione era propizia, offerte di fichi e pomodori.
Un aneddoto narra che un contadino che aveva portato un cesto di fichi per ingraziarsi il santo, gli lanciò una manciata di fichi. 

Vide allora che quelli maturi si erano appiccicati alla statua, mentre quelli acerbi cadevano ai suoi piedi, per cui disse, nel suo dialetto:

« Santo Mamozio, quelli buoni te li mangi e quelli più duri me li rendi»

Questi gesti frequenti indussero le autorità nel 1918 a spostare la statua nell'anfiteatro flavio di Pozzuoli per proteggerla da possibili danni.

Da allora questo titolo è stato trasferito alla statua del vescovo spagnolo presente nella stessa piazza. Ed ecco dunque San Mamozio che fa l'ok al popolo. 

Di Sauro Troniello 1814. Olio su tela. Convento di San Mamozio in Peano.


Mamozio oltre Pozzuoli

A Procida la tradizione popolare usava il nome Mamozio per un mascherone sul portone del palazzo Emanuele del XIX secolo.

A Ponza prese il nome di Mamozio una statua romana del 1700, decapitata nel 1809 da un soldato francese, reintegrata nel 1844 da uno scultore locale, e poi rimossa definitivamente.

A Isernia, a guardia dell'arco che traversa la torre campanaria della Cattedrale, in zona di mercato, si trovano quattro statue romane, originariamente acefale e in seguito integrate da teste più piccole pertanto grottesche, e conosciute nella tradizione locale come Mamozi.

CIRCO VARIANO

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 "Esquiliae allora", di Girolamo Milanese:
"Benché io abbia già discorso di questo argomento nell'Itinerario di Eins. p. 59, pure mi è necessario fare ricordo del circo Variano, e del suo obelisco, e delle scoperte avvenute nella prima metà del secolo nella vigna".



RODOLFO LANCIANI

- « Cavandosi alle spese di monsignor Sebastiano Gualtieri vescovo Viterbense dalla parte di dietro dell'Horto di Santa croce in Hierosolyme, in  certi belli edifici rovinati, vi furono trovate le statue et della Diva Helena, et del grande Constantino et de figliuoli armate et quella della Helena era vestita d'una stola longa insino alli piedi et palliata ciò è con un bello mantello attorno ... 

La base ridotta nella chiesa di santa croce » [Ligorio, Torin, XV, e. 119]. 

- La sostanza di questo racconto è vera.
Nella cripta di santa Croce esiste presentemente una grande base dedicata alla imperatrice Elena da lulius Maximilianus, base che lo Smet ed altri dicono scavata nel giardino del monastero.

Dall'istesso luogo deve prevenire un secondo piedistallo di statua, dedicato alla stessa augusta da Flavius Pistus suo segretario e amministratore privato, impiegata poi a sostenere una colonna di una cappella cristiana vicino a ss. Sanctorum. 

(COMMENTO:  Strano che il Lanciani non riconobbe la statua romana che oggi è riconosciuta come Giunone e che ancora adesso viene passata come statua di Santa Elena dopo averle messo una improbabile croce tra le braccia)

POSIZIONE DEL CIRCO RISPETTO I PALAZZI ODIERNI


LE CITAZIONI SUL CIRCO VARIANO

- Vedi CIL. 1134, 1135. Il Ciacconio a e. 89' e 90' del cod. barb. delinea un bellissimo busto, che egli attribuisce alla diva Elena, e che a me pare piuttosto di Mammea o di Otacilia 

« ex marmoreo capite a Hieronymo Mutiano pletore insigni in vinca sua invento ad Exquilias ». 

- La nota dice: 

« Appresso a sancta ierusalem in quel basso trovate sotto tera dove dicano fu sepolta santa elena»

Mi ricordo che appresso alla porta di santa Croce in Gerusalemme vi era un'anticaglia fabbricata assai sotterra, nella quale sono molti santi dipinti, e li Cristiani se ne sono serviti per chiesa. 

Ora è minata o conversa in vigne. Appresso di essa vi fu scoperta un'antica strada selciata e molto spaziosa: e viddi che si partiva da porta Maggiore e andava a s. Gio. in Laterano (la via che traversa la Villa AVolkousky, parallelamente, e al nord degli archi neroniani, passando davanti al colombaio dell'architetto Tiberius Claudius Vitalis. Vedi F. U. li. tav. 34). 

- Sopra di essa vi fu trovata una grossa colonna di granito bigio (vista io stesso nel 1869, esplorando col defunto marchese Achille Savorelli il cuniculo dell'acquedotto pontificio Lateranense) compagna di quelle che sono in opera nella detta chiesa di s. Giovanni alla nave degli Apostoli [ora murate nel vivo dei pilastri] Mi do a credere che quando il magno Costantino fabbricò il Laterano, spogliasse qualche edifizio fuori di porta Maggiore » Vacca, Mem. 114.

- Anche la fabbrica della Hierusalem mostrava essere stata messa insieme con materiale raccogliticcio. 

- Vedi Giovanni Alberti cod. Collacchioui, e. 7 : « le doi base sono isa ierusalem. sono di tutta grandezza, le colonne che posano in ditte base son state di altri detìtii . . . a me e parso far queste per le piu belle ». 

- un'altra base come questa sta sopra della chiavica della dogana «.Vedi Lanciani, Itin. Eins. p. 6, e Sangallo giuniore sch. fior. 899, ove ricorda alcuni motivi della decorazione dell'aula con la postilla: «archi aperti ichrostati di marmo porfido serpentino. Stava chosi ». 


I RESTI
- Per quanto concerne l'altro edificio monumentale degli Orti, detto volgarmente tempio di Venere e Cupidine, io credo che la pianta Ligoriana in cod. vai. 3429 f. 32 meriti una certa fiducia, a causa di taluni particolari che hanno tutta l'apparenza di verità. Cosi i due goffi speroni dell'abside sono con ragione chiamati « fortezze p p ruinà templi ob grandes finestras » . 

- Le note del Panvinio ricordano « bases capitula ord. còpositi . . . Dea e statua e christallo . . . columnae e marmore svenite s. granito rosso ». La tradizione riferisce a questa contrada del Sessorio il rinvenimento del simulacro di Afrodite, il cui volto oltre qualche rassomiglianza con i lineamenti di Sallustia Barbia Orbiana, simulacro noto sotto il nome di Venere e Cupido, e trasferito in Belvedere sino dai tempi di Giulio II. Vedi Ann. List. 1890, p. 13 e seg. e CIL. 781, 782.)

- Aderente al Circo (l'catrium Sessorianum del Bufalini), e forse in capo al medesimo (come si vede nel Canopo di villa Adriana) v'era un ninfeo a doppio recesso rotondo, delineato da Antonio da Sangallo il giovine nella sch. tìor. 900, insieme all'obelisco che apparisce rotto in due pezzi.
(COMMENTO: Il ninfeo doveva pertanto combaciare con il lato diritto del Circo)

- La postilla dice: 
«1'obelischo e fuora di porta maiore 1° mezo miglio apresso li aquidotto duo tiri di mano I uno circo navale (?) quale da la banda delli acquidotti diverso la porta s. Ianni nella vigna di mes. girolamo milanese che ci lavora rugieri scarpellino ». 





- Nell'anno 1570 « obelisci fragmenta diu prostrata Curtius Saccoccius et Marcellus fratres, ad perpetuam huius Circi memoriam erigi curarunt ».

- Dall' iscrizione dell' obelisco, ora pinciano, rettamente interpretata dall' Erman [ivi, p. 115 seg.], si apprende come l'obelisco stesso fosse stato eretto originalmente in memoria di Antinoo « im Grenz felde der Herrin des Genusses (?) Rome » cioè all'estremo confine della città, vicino al mausoleo di Adriano, dove erano state deposte le spoglie di Antinoo. Elagabalo, o qualche altro membro della gente Varia, fabbricando il Circo in « orientaliori Urbis angulo », si è impossessato, secondo il vezzo de' tempi, di un obelisco già esistente, e non sacro a divinità, per collocarlo sulla spina. 

- Così fece più tardi Massenzio trasferendo al proprio Circo sull'Appia l'obelisco di Domiziano, che già decorava lo Stadio. E come questo secondo obelisco è tornato ad occupare il sito originario, sino dal tempo di papa Pamfili, cosi l'obelisco di Antinoo si trova nuovamente eretto « im Grenz felde der Herrin des Genusses Rome » nella publica passeggiata del Pincio."

RESTI DEL CIRCO



IL CIRCO VARIANO

Il Circo Variano, (o circus Varianus) era un circo di Roma, che prese il nome dall'imperatore Eliogabalo (Sesto Vario Avito Bassiano).

Fu costruito nel complesso residenziale imperiale detto Ad Spem Veterem, nella parte orientale di Roma.
Era lungo 565 m e largo 125 m, quindi era più piccolo del Circo Massimo ma più grande del circo di Massenzio. Sulla spina del circo era collocato l'obelisco di Antinoo, il ragazzo amato da Adriano, fatto trasportare dall'Egitto da Adriano ed eretto sulla via Labicana in onore dell'amante dell'imperatore e qui riportato da Eliogabalo.

La sua edificazione iniziò ad opera dell'imperatore Settimio Severo che costruì una grande villa con giardino (193-211), detto Horti Spei Veteris che collegò, inglobandoli, i vari Horti dell'area esquilina a partire dall'epoca di mecenate.

La residenza viene ampliata da Caracalla e, soprattutto, da Elagabalo (Sesto Vario Avito Bassiano - 218-222), che fece completare il circo ed erigere un piccolo anfiteatro dotato di sotterranei, l'anfiteatro castrense.  

Questo complesso comprendeva anche il Palazzo Sessoriano e l'anfiteatro Castrense: nell'anfiteatro e nel circo si tenevano i giochi gladiatorii e le corse dei carri di cui Eliogabalo era grande appassionato, tanto che partecipò ad alcune gare.

C'era anche un grande atrio (poi trasformato nella chiesa).
Si trattava di una villa a nuclei monumentali, articolati in un vasto parco e collegati tra loro da un corridoio carrabile, conosciuta anche come Horti Variani. In seguito il circo continuò ad essere utilizzato, sia per spettacolo che per le manovre militari in onore dell'imperatore, fin quando non vennero costruite le Mura Aureliane, a oriente della moderna basilica di Santa Croce in Gerusalemme. Si ritiene potesse contenere circa 10000 persone.
Quando Aureliano costruì le mura (dal 271) tagliò il complesso, lasciando fuori buona parte.

Invece le Terme di Elena erano un insieme di cisterne, ovvero la grande cisterna di Via Eleniana, costituita da dodici ambienti comunicanti tra loro tramite aperture ad arco. Facevano parte di un impianto termale pubblico sempre di epoca severiana ma collocato al di fuori degli horti. Esso è conservato solo in parte ma la sua forma è conosciuta grazie ai disegni degli artisti rinascimentali Andrea Palladio e Antonio da Sangallo il Giovane.

Circa cento anni dopo Costantino trasformò la villa in palazzo imperiale, alternativo a quello sul Palatino e vicino alla nuova sede papale e alla cattedrale Basilica Salvatoris, (San Giovanni). Il luogo, che diventa poi la residenza della madre Elena, prende il nome di Palatium Sessorianum o Sessorium (luogo di riunioni).

Questo palazzo era  l'estremità di un gigantesco possedimento (praedium) imperiale sviluppato lungo la via Labicana (Casilina) e chiamato Ad duas lauros: al III miglio della Labicana si trova, non a caso, il grande rudere del Mausoleo di Elena, noto popolarmente come Torre delle pignatte (da cui il toponimo della zona, Torpignattara).
All'estremità nord-orientale del palazzo, proprio a ridosso delle Mura Aureliane, viene edificato il quartiere residenziale destinato i membri della corte.  Due di queste abitazioni domus, con pavimenti in mosaico e denominate "Domus dei Ritratti" e "Domus della Fontana", sono state scoperte nel 1959.

La parte occidentale del circo, il lato della partenza, è stato ritrovato all'interno delle mura, mentre il lato orientale incurvato si trovava all'altezza di via Alcamo; il lato settentrionale del circo ha fornito poi il sostegno per l'ultimo tratto dell'Acqua Felice.
I suoi resti furono trovati in scavi successivi, l'ultimo dei quali è avvenuto nel 1959.

Invece il circo Variano viene trasformato in area di servizio, di collegamento e forse di residenza della servitù della corte imperiale. E' stato possibile desumere la pianta del circo in quanto furono ritrovati nel giardino della ex caserma dei granatieri delle murature in opera laterizia che delimitavano due file di camere disposte in due piani con scale e tubazioni. Antonio Maria Colini ha ricostruito le dimensioni dell'edificio che probabilmente doveva essere di circa 600 metri di lunghezza con le carceres in prossimità del palazzo Sessorio, probabilmente aveva anche una spina

Infine la trasformazione di un atrio degli Horti Variani in una chiesa, oggi Santa Croce in Gerusalemme, ad opera di Costantino.


Circus Varianum (Circus Hortorum) 

Da circa diciotto anni sono in corso attività di scavo, studio e restauro in un'area archeologica tra le più ricche, e sconosciute, di Roma: Santa Croce in Gerusalemme. Sconosciute perchè i prelati che la detengono non la fanno visitare, pure avendo scavato, scoperto e restaurato splendidi monumenti, e ristrutturati e riabbelliti i giardini, il tutto a spese dello stato italiano.
Siamo alle estreme propaggini dell'Esquilino, adiacenti alle Mura Aureliane e in prossimità del Laterano.

Il circo di Vario, esattamente come l’anfiteatro Castrense, venne integrato nelle mura aureliane per ridurre i costi della costruzione delle mura, ma anche per evitare la distruzione del circo. Le mura attraversano il circo per i gradini e così tenevano un quinto dell’edificio all’interno di Roma.

Nel centro della spina venne eretto l' obelisco di Antinoo nell’onore dell’amante dell’Imperatore Adriano, di cui la tomba era accanto al circo. L’obelisco venne spostato solo nel III secolo per ornare la spina del circo di Vario.

Nel 1570 Curzio e Marcello Saccoccio ritrovarono un obelisco nella loro vigna che era dove oggi è la via Nuoro, probabilmente questo obelisco era in prossimità del circo, ma al di fuori del lato curvo.

Nel Circo Variano all’inizio del 2014, nel corso di un saggio per un intervento dell’Acea, è stata rimessa in luce una porzione della torre occidentale del circo. Il ritrovamento della struttura rivela anche il posizionamento delle cabine di partenza dei carri, che erano affiancate alla torre. E’ stato così possibile stabilire che l’impianto originario del Circo aveva una lunghezza superiore a quella del Circo Massimo (circa 630 metri, almeno 9 in più del Circo Massimo).

La sua estensione fu poi ridotta dal successore di Caracalla, Elagabalo.

- Dall' iscrizione dell' obelisco, ora pinciano, rettamente interpretata dall' Erman [ivi, p. 115 seg.], si apprende come l'obelisco stesso fosse stato eretto originalmente in memoria di Antinoo « im Grenz felde der Herrin des Genusses (?) Rome » cioè all'estremo confine della città, vicino al mausoleo di Adriano, dove erano state deposte le spoglie di Antinoo. Elagabalo, o qualche altro membro della gente Varia, fabbricando il Circo in « orientaliori Urbis angulo », si è impossessato, secondo il vezzo de' tempi, di un obelisco già esistente, e non sacro a divinità, per collocarlo sulla spina. 



L'OBELISCO DEL CIRCO VARIANO

Adriano aveva fatto edificare nel 121 sulla Velia il Tempio della Fortuna Romana (o Tempio della Dea Roma) dove avrebbe fatto porre un obelisco egizio proveniente da Antinopoli che celebrava le virtù di Antinoo-Osiride sulla tomba dello stesso Antinoo.

OBELISCO DEL CIRCO VARIANO
Ma si pensa invece che Antinoo sia stato sepolto a Villa Adriana a decorare un monumento dedicato al giovane dopo la sua morte in Egitto, dove l'imperatore ne avrebbe così avuto vicino il ricordo. Eliogabalo poi lo fece spostare per ornare la spina del circo Variano nella sua residenza suburbana.

«1'obelischo e fuora di porta maiore 1° mezo miglio apresso li aquidotto duo tiri di mano I uno circo navale (?) quale da la banda delli acquidotti diverso la porta s. Ianni nella vigna di mes. girolamo milanese che ci lavora rugieri scarpellino ».

- Aderente al Circo (il castrium Sessorianum del Bufalini), e forse in capo al medesimo (come si vede nel Canopo di villa Adriana) v'era un ninfeo a doppio recesso rotondo, delineato da Antonio da Sangallo il giovine nella sch. tìor. 900, insieme all'obelisco che apparisce rotto in due pezzi. -

- Così fece più tardi Massenzio trasferendo al proprio Circo sull'Appia l'obelisco di Domiziano, che già decorava lo Stadio. E come questo secondo obelisco è tornato ad occupare il sito originario, sino dal tempo di papa Pamfili, cosi l'obelisco di Antinoo si trova nuovamente eretto « im Grenz felde der Herrin des Genusses Rome » nella publica passeggiata del Pincio. -

- Nell'anno 1570 « obelisci fragmenta diu prostrata Curtius Saccoccius et Marcellus fratres, ad perpetuam huius Circi memoriam erigi curarunt ».

L'obelisco è alto 9,24 m. con la stella in cima e il basamento sotto raggiunge  m 17,26. Rinvenuto nel XVI sec. fuori Porta Maggiore (presso le mura aureliane, per cui viene chiamato "obelisco Aureliano"), poi spostato dai Barberini nel loro palazzo, infine venne innalzato solo nel 1822 nei giardini del Pincio.


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