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PORTA NAVALIA - NAVALIS

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NAVI DA GUERRA ROMANE A SECCO NEI NAVALIA
Con il termine “navalia” i Romani indicavano tanto le strutture specializzate che avevano funzione di arsenale, quanto la base navale della flotta romana. Come accade anche oggi, l'arsenale provvede alle manutenzioni ed alle riparazioni delle navi, mentre la base navale accoglie le unità della flotta al rientro dalla loro attività in mare.

Qui pertanto avveniva il rimessaggio di tutte le navi, che venivano tirate a secco sugli scali d’alaggio coperti che conosciamo attraverso varie rappresentazioni iconografiche antiche: quelle che mostrano una serie di archi sotto ai quali spuntano le prore rostrate delle navi.

Talvolta negli scali venivano impostate nuove costruzioni navali, dando ai navalia anche la funzione di cantieri navali, ma come funzione accessoria e non esclusiva. Sappiamo infatti che nell'antichità intere flotte potevano essere costruite anche su scali di fortuna sistemati su di una spiaggia marina, o sul greto di un fiume, o sulla riva di un lago, purché in vicinanza di una foresta da cui trarre i legnami necessari.

RICOSTRUZIONE DEI NAVALIA

L'ABILITA' DEI CANTIERI ROMANI
"Le capacità tecnico-meccaniche dei romani, apprese spesso dai popoli vinti ed elaborate successivamente ‘dall’Impero’ a livelli mai visti prima. Acquisizioni che superano, a volte, abbondantemente, tecniche e tecnologie manifestate sia da Leonardo che da tutto il Nostro Rinascimento, arrivando ad equipararsi a quelle di concezione Ottocentesca".
(Mario Palmieri)

La posizione dei Navalia appare confermata dal racconto del ritorno a Roma della trireme recante il simbolo di Esculapio prelevato ad Epidauro (291 a.c.): quando la nave giunse al proprio approdo, il sacro serpente si tuffò nel fiume per raggiungere la vicina isola Tiberina, ove andava eretto il tempio del Dio.

Le prime notizie storiche sulle abilità costruttive delle navi romane vengono menzionate all'inizio con la cattura delle navi di Anzio (340 a.c.), che vennero in parte immesse nei già esistenti Navalia di Roma.

Ancor più capaci, nella I guerra Punica, quando i Romani misero in cantiere la loro prima grande flotta di quinqueremi, replicando lo scafo di una nave cartaginese arenata, o magari avvalendosi di maestranze di popoli alleati. Ma i migliori fabbricanti erano però proprio i cartaginesi.

I fabri navales romani costruirono una quinquereme molto più veloce e di facile manovra, evolvendosi con progressi costanti, e giungendo, in epoca imperiale, a livelli di indubbia eccellenza, sia per la quantità delle navi varate, sia per la qualità del naviglio.

Ne avemmo la prova con i relitti delle due gigantesche navi di Nemi, recuperate dal lago negli anni ’30 e poi purtroppo incendiate durante la guerra. Per fortuna ci fu il tempo di sottoporre quegli scafi a dei rilevi alquanto accurati, che hanno fornito l’evidenza della perfezione tecnica raggiunta dall’architettura navale romana, delle innovazioni tecnologiche introdotte a bordo e della raffinatezza degli allestimenti.

Lo dimostrano a tutt'oggi il Museo Nazionale Romano, nel Palazzo Massimo (primo piano, Sala X) a Roma, ed il Museo delle Navi Romane di Nemi, sulla riva settentrionale del lago.


LA NAVE DI ENEA

Una parte dei Navalia risulta ancora presente nel VI sec. d.c., tanto che lo storiografo bizantino Procopio di Cesarea vi si recò e poté ammirarvi un'antichissima nave, conosciuta come la "Nave di Enea". L’ampio edificio che la custodiva era un’arcaica pentecontera, che ne costituì il primo museo navale dell'Urbe.

La pentecontera era una nave sospinta sia dalla vela che dalla voga e fu la prima imbarcazione adatta alle lunghe navigazioni. Il suo nome deriva proprio dai cinquanta vogatori disposti, venticinque per lato e in un unico ordine, sui due fianchi della nave. L'esemplare più famoso appartiene al mito: la nave Argo e i suoi (circa) cinquanta Argonauti.


LA PORTA NAVALIS
I Navalia di Roma furono collocati sulla riva sinistra del Tevere, lungo la sponda del Campo Marzio, in un primo tempo di fronte all'isola Tiberina, poi si estesero giungendo fino all'altezza del ponte Elio (ora S. Angelo), quindi al di fuori delle mura repubblicane.

Dopo la risistemazione dell'antica cinta muraria di Roma, avvenuta nel III sec. a.c., il tratto delle vecchie mura parallelo al fiume fra le pendici del Campidoglio e quelle dell'Aventino (lasciando fuori dalle mura il Portus Tiberinus) venne abbattuto. 
Perciò le mura interrotte vennero prolungate fino alla più vicina riva del fiume, e cioè dal Campidoglio al Tevere (all'estremità nord del porto fluviale) e dall'Aventino al fiume (all'altezza del Ponte Sublicio). Così il Portus Tiberinus venne inglobato nella cinta muraria di Roma, mentre i Navalia continuarono a rimanerne fuori.

Per consentire poi il passaggio dal porto ai Navalia, venne aperta una porta nel tratto di mura più vicino al fiume: la "Porta Navale", ricostruita poi all'epoca di Augusto: il relativo arco era probabilmente ancora visibile nei pressi del Teatro di Marcello fino al XV secolo, come dimostra una stampa dell'epoca. La Porta viene menzionata nel II sec. d.c., dal grammatico Sesto Pompeo Festo come Navalis porta.
"Si ha in Festo che li Navalia avevano vicina una porta che da essi prese il nome di Navale: 'Navalis porta item Navalis regio videtur utraque ab Navalium vicinia appellata' così sembra evidentissimo che questa porta del Trastevere equivalente alla Portuense fra i Navali ed il ponte Sublicio debba dirsi Navalis e non Mutia."
(Stefano Piale Romano - Delle Mura Aureliane di Roma - 1822)

Nel 44 a.c., alla morte di Giulio Cesare “i Navalia ed altri luoghi furono colpiti da fulmini”. Questa notizia è stata da taluni interpretata come la fine del porto militare di Roma, dando per scontato che la folgore avesse provocato un incendio devastante. 
In realtà quello non è un funesto annuncio, ma l’evento più innocuo fra una serie di sciagure segnalate alla morte di Cesare e che Giulio Ossequente ha tratto da Livio per compilare il suo libro dei “Prodigi”: terremoti, trombe d’aria, tetti scoperchiati, alberi sradicati, una grande stella, tre soli, una cometa e luce affievolita per molti mesi. Se i Navalia fossero andati a fuoco, Livio l’avrebbe scritto e Ossequente non l’avrebbe certamente taciuto.
Alla fine dello stesso anno Cicerone, nel redigere il suo ultimo trattato filosofico, includeva i Navalia fra le opere di pubblica utilità sulle quali lo Stato doveva a giusto titolo investire nell'interesse dell'Urbe.
TRIREME ROMANA CON SERPENTE SACRO

IL TEMPIO DI NETTUNO

Non lungi dalla Porta stava il Tempio di Nettuno, collocato tra il Campo Marzio ed il Circo Flaminio; orientato in direzione dei Navalia per il collegamento con la flotta da guerra romana, prevalentemente basata nell’Urbe nei secoli dal IV al II a.c. e poi più distaccata per esigenze di Stato.

E' evidente il collegamento tra le navi romane e la protezione del Dio del mare affinchè compissero illese i loro viaggi e che soprattutto uscissero vincitrici nelle battaglie. Nella religio romana, molto razionale e organizzata, funzionava un sano "DO UT DES", uno scambio tra uomini e divinità che potevano mantenersi o diventare protettrici e benevolenti, o almeno cessare di essere ostili, attraverso sacrifici di animali e cerimonie particolari.


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