CORNELIO NEPOTE |
Nome: Cornelius Nepos
Nascita: 100 a.c. Hostilia
Morte: 27 a.c. Roma
Professione: Storico e biografo
CORNELIUS NEPOS cioè Cornelio Nepote (il prenome non è stato tramandato) nacque ad Hostilia, presso le banchine del Po o comunque nei dintorni di Pavia intorno al 100 a.c. Le notizie riguardanti la sua vita sono poche e lacunose: della sua discendenza non abbiamo notizie; ma dato le sue rispettabili conoscenze fin in giovane età, è probabile che fosse di buona estrazione.
Sappiamo solo che visse Roma e, pur tenendosi sempre lontano dalla politica, rivestì posizioni di prestigio negli ambienti colti dell'Urbe. Ebbe stretti rapporti di amicizia con Attico, Cicerone e Catullo, il quale gli dedicò il suo Liber (Carme I):
A chi potrei donare il grazioso e nuovo libricino
or ora levigato con la ruvida pomice?
A te, o Cornelio: infatti tu eri solito
ritenere che le mie "nugae" avessero un qualche valore
già allora, sei l'unico fra gli Italici che osa
svolgere un compendio di storia universale in tre libri
dotti, o Giove, e faticosi.
Perciò abbi tutto quanto contiene questo libretto,
qualunque sia il suo valore; che ciò, o Musa,
possa vivere durevolmente per più di una generazione.
(Catullo)
Alcuni autori riferiscono che avrebbe tre libri di Cronache, con un resoconto biografico di tutti i più famosi sovrani, generali e scrittori dell'antichità. Morì in un anno imprecisato durante il principato di Augusto.
Egli è l'autore della raccolta di biografie più antica tra quelle pervenuteci dal mondo Romano, il suo linguaggio è puro, il suo stile scorrevole, con una giusta misura tra descrizione ampia e concentrazione. Non si è attenuto alle stesse regole per il trattamento di ogni soggetto trattato; per alcuni la descrizione della loro vita è corta, tanto da far sospettare che sia stata mutilata, se non contenessero segni evidenti del loro completamento concentrato.
Il valore degli uomini non è lo stesso per tutti: "Costoro se non avranno imparato che le stesse cose non sono buone e cattive per tutti, ma che tutto giudicato secondo le tradizioni degli antenati, non si meraviglieranno che noi nell'esporre le qualità dei Greci abbiamo seguito i loro costumi. Infatti non fu brutto per Cimone, sommo uomo degli Ateniesi, avere in matrimonio la sorella germana, poiché i suoi concittadini usavano la stessa istituzione.
In Creta si ritiene di onore per i giovani aver avuto tantissimi amanti. A Sparta nessuna vedova tanto nobile che non esca ad un pranzo se non pagata con denaro. In grandi onori per tutta la Grecia fu essere proclamati vincitore ad Olimpia; ma uscire in scena ed essere di spettacolo al popolo nelle stesse popolazioni per nessuno fu di disonore. Ma tutte queste cose presso di noi in parte sono ritenute infamia, in parte basse e lontane dall'onore.
Al contrario per lo più quelle cose sono decorose per le nostre tradizioni, che presso di loro sono considerate disdicevoli. Chi infatti dei Romani si vergogna di portare la moglie ad un banchetto? O la madre di famiglia di chi non detiene il primo posto della casa e non si intrattiene in pubblico? Ma questo accade diversamente in Grecia. Infatti né si introduce ad un banchetto se non di parenti, e non siede se non nella parte interna della casa, che si chiama gineceo; dove nessuno accede se non congiunto da stretta parentela."
Dei suoi numerosi lavori bibliografici, a carattere enciclopedico, probabilmente in 16 libri, "De Viris Illustribus", del 34 a.c., ce ne restano purtroppo solo 22, che sono tutti di personaggi valorosi e meritevoli del mondo antico, tra cui condottieri, storici, poeti e grammatici, e solo.greci, eccetto due cartaginesi: Amilcare e Annibale; e due romani Marco Porcio Catone e Tito Pomponio Attico. Dei personaggi esegue una trattazione parallela derivata forse dalle "Imagines" di Varrone e ripresa, in seguito, nelle "Vite" di Plutarco.
Opere minori
Le biografie, secondo alcuni, intenderebbero rappresentare per il mondo romano, specie per quello più tradizionalista, un'apertura verso elementi culturali diversi, per dimostrare delle "convergenze etiche" tra mondo romano e greco.
Agesilao preferì la buona reputazione ad un regno molto potente e ritenne molto più glorioso, obbedire alle istituzioni della patria, che superare tutta l'Asia. Con questo animo allora portò le truppe oltre l’Ellesponto e ebbe tanta rapidità che in trenta giorni compì il tragitto che Serse aveva compiuto in tutto un anno.
Quando ormai si trovava poco distante dal Peloponneso, gli Ateniesi ed i Beoti tentarono ostacolarlo presso Coronea; egli li vinse tutti in un’aspra battaglia. Poiché moltissimi in fuga si rifugiarono nel tempio di Minerva ed i soldati gli chiedevano cosa volesse fare di loro, sebbene avesse ricevuto in battaglia alcune ferite e sembrasse adirato verso tutti coloro che si rifugiavano nel tempio, ordinò di perdonarli ed antepose il sentimento religioso all’ira.
E in verità non fece questo solo in Grecia, ma anche presso i barbari risparmiò, con grandissimo rispetto, i templi e le statue degli Dei. Infatti si meravigliava che non fossero nel novero dei sacrileghi e che non fossero accusati di empietà coloro che avessero recato danno a coloro che supplicano gli Dei o che coloro che offendevano la religione non venissero colpiti con pene più gravi di coloro che spogliavano i luoghi sacri.
Agesilao, re degli Spartani, conducendo l'esercito in Messenia, affinché con la potenza degli Spartani respingessero i Messeni, che venivano via dall'ordine di Sparta, mandarono avanti i cavalieri per esplorare i luoghi ed esaminare le intenzioni degli abitanti.
Andati ad Agesilao annunciarono che non solo gli uomini avrebbero preso le armi per la guerra ma anche donne, vecchi e servi, ai quali, se avessero combattuto valorosamente, avevano promesso la libertà.
Allora Agesilao, conosciute le intenzioni dei Messeni, affinché non conducesse i suoi soldati in pericolo, si ritirò dalla regione. Sa infatti che i Messene, perdendo ogni speranza per la vita e combattendo per la libertà, combatteranno per ciò con maggior forza.
ALCIBIALE MONSTRUM CON DUE NATURE
Alcibiade, imperatore coraggiosissimo, figlio di Clinia, era ateniese, molti credono che la natura abbia fatto miracoli in lui. si sa infatti che Alcibiade fosse stato tra i coetanei il superiore a tutti tanto nei vizi quanto in virtù. nato in una grandissima città da una nobile famiglia, fu di molto più bello dei suoi coetanei, adatto ad ogni cosa e pieno di saggezza, infatti fu sommo imperatore sia dei mari che della terra, eloquente a dire a tutti gli oratori più elegantemente su ogni argomento.
Tanta fu infatti la grazia della pronuncia e delle orazioni che nessuno gli resistette. fu anche piuttosto ricco, attivi, paziente, generoso, brillante non meno nella vita pubblica quanto nella vita privata affabile, blando che si adatta astutamente al cambiamento dei tempi. Ma ebbe dei brutti vizi: infatti si era mostrato anche lussurioso, indolente, capriccioso, incostante che tutti si stupirono che in un solo uomo ci fosse tanta differenza e un così diverso carattere.
ALCIBIADE FUGGE DOPO LA SCONFITTA DI ATENE
Alcibiade, pensando che quei luoghi non fossero sufficientemente sicuri per lui, dopo la disfatta degli ateniesi, si nascose all'interno della Tracia, oltre la Propontide, auspicando che lì molto facilmente avrebbe potuto tener nascosti i suoi averi.
Si sbagliava. Infatti quando i Traci si accorsero che era arrivato con una grande quantità di denaro, gli tesero un agguato: gli portarono via quello che aveva recato con sé, ma non riuscirono a prenderlo.
Alcibiade, rendendosi conto che nessun luogo nella Grecia era per lui sicuro per lo strapotere degli Spartani, passò in Asia da Farnabazo e lo legò talmente a sé con i suoi modi affabili, da divenire il suo più intimo amico.
E così gli concesse Grinio, un castello in Frigia, da cui ricavava un tributo di cinquanta talenti. Ma Alcibiade non si sentiva pago di questa fortuna e non riusciva a darsi pace che Atene vinta fosse sotto il giogo degli Spartani.
E così tutti i suoi pensieri erano rivolti a liberare la patria. Ma capiva che ciò non poteva realizzarsi senza il re di Persia e perciò desiderava farselo amico ed era certo che ci sarebbe riuscito se solo avesse avuto la possibilità di incontrarlo. Sapeva infatti che il fratello Ciro, gli preparava in segreto una guerra con l'aiuto degli Spartani; se glielo avesse rivelato, capiva che avrebbe conquistato pienamente il suo favore.
Durante la guerra del Peloponneso gli ateniesi per suggerimento e prestigio di costui dichiararono guerra ai Siracusani; e per guidarla lui stesso venne eletto comandante, e gli furono affiancati (dati) due colleghi, Nicia e Lamaco.
Mentre la si allestiva, prima che la flotta uscisse, accadde che in una sola notte tutte le Erme, che c’erano in città ad Atene, furono abbattute eccetto una, che era davanti alla casa di Andocide. E così in seguito quello fu chiacchierato il Mercurio di Andocide.
ALCIBIADE CADE IN DISGRAZIA DEGLI ATENIESI
Gli Ateniesi si erano persuasi che le precedenti disfatte e le attuali vittorie si erano verificate per opera di Alcibiade.
Così imputavano a propria colpa la perdita della Sicilia e le vittorie degli Spartani, dal momento che avevano allontanato dalla città un tale uomo. E sembravano pensare questo non senza ragione. Infatti, dopo che Alcibiade aveva cominciato ad essere a comando dell'esercito, né per terra né per mare i nemici avevano potuto essere all’altezza.
Tuttavia, questa buona sorte di Alcibiade non durò troppo a lungo. Infatti, dopo che gli erano state decretate tutte le cariche e affidata l’intero Stato e in pace e in guerra, giunto in Asia con la flotta, poiché non realizzò le aspettative, ricadde nell'odio: i concittadini ritenevano infatti che lui nulla potesse mandare ad effetto.
Ne conseguiva che gli imputassero a colpa tutti gli insuccessi. Pertanto, riteniamo che gli avesse nociuto soprattutto l'eccessiva considerazione dell'ingegno e del valore.
ALCIBIADE SI SOTTRAE ALLA MORTE FUGGENDO TRA LE FIAMME
Nello stesso tempo però Crizia e gli altri tiranni degli Ateniesi avevano mandato uomini fidati in Asia da Lisandro per avvisarlo che se non avesse tolto di mezzo Alcibiade, nessuno dei provvedimenti da lui presi per Atene sarebbe stato duraturo; per cui se voleva che la sua opera rimanesse, doveva dargli la caccia.
Lo Spartano, impressionato da questa notizia, stabilì di trattare in modo più stretto con Farnabazo. Dunque gli fa sapere che l'alleanza tra gli Spartani ed il re sarebbe stata annullata se non gli avesse consegnato vivo o morto Alcibiade. Il satrapo non seppe tener testa a costui e preferì violare lo spirito di umanità che vedere diminuita la potenza del re.
Così mandò Susamitre e Bageo ad uccidere Alcibiade, mentre lui era in Frigia e si apprestava ad andare dal re. Gli inviati incaricano segretamente alcuni che abitavano vicino ad Alcibiade, di ucciderlo. Siccome quelli non osavano attaccarlo con le armi, di notte accatastarono della legna intorno alla capanna in cui dormiva e le dettero fuoco in modo da uccidere con le fiamme quello che non erano sicuri di poter vincere con la spada.
Ma lui come fu svegliato dal crepitio delle fiamme, sebbene gli fosse stata portata via la spada, afferrò da un amico lo stiletto che portava sotto l'ascella: c'era infatti con lui un ospite dell'Arcadia che non aveva voluto mai separarsi da lui. Gli ordina di seguirlo e arraffa tutte le vesti che in quel momento poté trovare. Gettatele sul fuoco, poté sfuggire alla violenza delle fiamme.
ALCIBIADE PRESSO CHIUNQUE SI PONEVA COME UN PRINCIPE
Alcibiade, denigrato da molti, tre autorevolissimi storici lo esaltarono in sommo grado: Tucidide che fu suo contemporaneo; Teopompo, che visse qualche tempo dopo, e Timeo: questi due benché molto maldicenti, non so come mai, si trovano d'accordo nell'esaltare lui soltanto.
Infatti hanno celebrato le virtù di cui prima abbiamo parlato ed hanno aggiunto questo: benché nato nella splendidissima città di Atene, superò in splendore e prestigio tutti.
Quando, bandito dalla patria, andò a Tebe, si adattò tanto alle loro abitudini, che nessuno poteva uguagliarlo nella capacità di resistenza fisica, tutti i Beoti infatti tengono più alla robustezza dei corpo che all'acume dell'intelletto; parimenti a Sparta dove la più alta virtù era riposta nella capacità di sopportazione, si dedicò ad una vita austera tanto da superare gli Spartani nella frugalità del mangiare e del vestire; visse in mezzo ai Traci, ubriaconi e lussuriosi: superò anche loro in queste abitudini; si recò tra i Persiani, per i quali era somma gloria essere abili cacciatori e vivere sontuosamente: imitò così bene i loro costumi, da suscitare in questo la loro ammirazione.
Insomma con queste sue doti ottenne che, dovunque si trovasse, fosse considerato il primo e fosse molto amato.
ALCIBIADE ACCUSATO DI EMPIETA'
Durante la guerra del Peloponneso, mentre i Greci lottavano fra di loro, essendo la situazione in grande pericolo, gli Ateniesi dichiararono guerra ai Siracusani per aumentare il loro predominio sul mare; per questa guerra Alcibiade in persona fu delegato come capo in capo per condurre l'esercito.
I suoi nemici in Atene decisero di danneggiarlo mentre con una grandissima flotta naviga verso la Sicilia; e così gli organizzarono con grande astuzia, un stratagemma, con il quale speravano di screditare il giovane generale.
Ma non capirono che avrebbero rovinato anche la patria stessa. Dal momento che fu diffusa la notizia che Alcibiade era giunto sull'isola coloro che erano i suoi nemici lo accusarono di aver violato le leggi sacre e di aver violato le molto venerate immagini di Mercurio. Dopo che gli fu recapitato il mandato di presentarsi per tale, perché tornasse il più presto possibile ad Atene di sua volontà ad affrontare la causa, egli non volle disobbedire e salì su di una trireme.
Ma quando giunse a Turi e ritenne che fosse meglio per lui sottrarsi il pubblico giudizio e rintuzzare questi pericoli, fuggì presso i Lacedemoni, ai quali offrì sostegno contro gli Ateniesi; e così fu poi ritenuto traditore della sua patria.
Egli è l'autore della raccolta di biografie più antica tra quelle pervenuteci dal mondo Romano, il suo linguaggio è puro, il suo stile scorrevole, con una giusta misura tra descrizione ampia e concentrazione. Non si è attenuto alle stesse regole per il trattamento di ogni soggetto trattato; per alcuni la descrizione della loro vita è corta, tanto da far sospettare che sia stata mutilata, se non contenessero segni evidenti del loro completamento concentrato.
Il valore degli uomini non è lo stesso per tutti: "Costoro se non avranno imparato che le stesse cose non sono buone e cattive per tutti, ma che tutto giudicato secondo le tradizioni degli antenati, non si meraviglieranno che noi nell'esporre le qualità dei Greci abbiamo seguito i loro costumi. Infatti non fu brutto per Cimone, sommo uomo degli Ateniesi, avere in matrimonio la sorella germana, poiché i suoi concittadini usavano la stessa istituzione.
In Creta si ritiene di onore per i giovani aver avuto tantissimi amanti. A Sparta nessuna vedova tanto nobile che non esca ad un pranzo se non pagata con denaro. In grandi onori per tutta la Grecia fu essere proclamati vincitore ad Olimpia; ma uscire in scena ed essere di spettacolo al popolo nelle stesse popolazioni per nessuno fu di disonore. Ma tutte queste cose presso di noi in parte sono ritenute infamia, in parte basse e lontane dall'onore.
Al contrario per lo più quelle cose sono decorose per le nostre tradizioni, che presso di loro sono considerate disdicevoli. Chi infatti dei Romani si vergogna di portare la moglie ad un banchetto? O la madre di famiglia di chi non detiene il primo posto della casa e non si intrattiene in pubblico? Ma questo accade diversamente in Grecia. Infatti né si introduce ad un banchetto se non di parenti, e non siede se non nella parte interna della casa, che si chiama gineceo; dove nessuno accede se non congiunto da stretta parentela."
Dei suoi numerosi lavori bibliografici, a carattere enciclopedico, probabilmente in 16 libri, "De Viris Illustribus", del 34 a.c., ce ne restano purtroppo solo 22, che sono tutti di personaggi valorosi e meritevoli del mondo antico, tra cui condottieri, storici, poeti e grammatici, e solo.greci, eccetto due cartaginesi: Amilcare e Annibale; e due romani Marco Porcio Catone e Tito Pomponio Attico. Dei personaggi esegue una trattazione parallela derivata forse dalle "Imagines" di Varrone e ripresa, in seguito, nelle "Vite" di Plutarco.
Della sua stessa vita, la vita di colui che ha scritto la vita di tanti, non viene trasmesso alcun racconto; ma dalla molteplicità delle sue produzioni, possiamo concludere che era dedicato alla letteratura. Dell’opera ci restano numerosi frammenti: 2 vite (Catone il Vecchio e Attico) del "De historicis latinis" e l’intera sezione "De excellentibus ducibus exterarium gentium" (22 biografie di condottieri greci, asiatici e cartaginesi). L’autore esegue un confronto sistematico fra civiltà greca e romana, ma privo di nazionalismi.
- I "Chronica" (l'opera citata da Catullo), un breve compendio di storia universale in 3 libri probabilmente d'ispirazione greca, storia universale in 3 libri, forse in prosa, in cui - ispirandosi all'opera di Apollodoro di Atene - già affiorava l’esigenza di un confronto tra la civiltà romana con le altre
- Gli "Exempla", una raccolta di aneddoti e curiosità di vario genere che spaziavano dalla storia alla scienza, in 5 libri, a sfondo moraleggiante.
- "Vita di Catone il Vecchio", una completa biografia di catone il Censore, da cui Aulo Gellio trasse un aneddoto di Catone (IX 8)
- "Vita di Cicerone" Il libro deve essere stato scritto dopo la morte dell'oratore.
- Lettere a Cicerone, un estratto che sopravvive in Lattanzio. (Divinarum Institutionum Libri Septem III.15). Non sappiamo quando sia stato pubblicato..UN UOMO RISPETTOSO DELLA RELIGIONE (AGESILAO)
Quando ormai si trovava poco distante dal Peloponneso, gli Ateniesi ed i Beoti tentarono ostacolarlo presso Coronea; egli li vinse tutti in un’aspra battaglia. Poiché moltissimi in fuga si rifugiarono nel tempio di Minerva ed i soldati gli chiedevano cosa volesse fare di loro, sebbene avesse ricevuto in battaglia alcune ferite e sembrasse adirato verso tutti coloro che si rifugiavano nel tempio, ordinò di perdonarli ed antepose il sentimento religioso all’ira.
E in verità non fece questo solo in Grecia, ma anche presso i barbari risparmiò, con grandissimo rispetto, i templi e le statue degli Dei. Infatti si meravigliava che non fossero nel novero dei sacrileghi e che non fossero accusati di empietà coloro che avessero recato danno a coloro che supplicano gli Dei o che coloro che offendevano la religione non venissero colpiti con pene più gravi di coloro che spogliavano i luoghi sacri.
AGESILAO E I MESSENI
Andati ad Agesilao annunciarono che non solo gli uomini avrebbero preso le armi per la guerra ma anche donne, vecchi e servi, ai quali, se avessero combattuto valorosamente, avevano promesso la libertà.
Allora Agesilao, conosciute le intenzioni dei Messeni, affinché non conducesse i suoi soldati in pericolo, si ritirò dalla regione. Sa infatti che i Messene, perdendo ogni speranza per la vita e combattendo per la libertà, combatteranno per ciò con maggior forza.
ALTRE IMPRESE DI AGESILAO
Questo quando aveva in mente di partire contro i Persiani, ad Agesilao fu inviato dagli efori un messaggio, perché sia gli Ateniesi che i Beoti avevano dichiarato guerra agli Spartani.
Agesilao aveva grande fiducia sulla riuscita della guerra, poiché comandava truppe valorose e valide, ma dimostrò una grande modestia e ubbidì a comando degli efori.
Agesilao antepose ad un ricchissimo regno la buona fama e obbedì alle istituzioni della patria. Dopo che trasportò le truppe attraverso l'Ellesponto, gli Ateniesi e i Beoti e altri loro alleati lo bloccarono presso Coronea, Agesilao vinse con un aspro combattimento tutte le truppe degli Ateniesi e dei Beoti.
Molti fuggiaschi si rifugiarono nel tempio di Minerva, tuttavia Agesilao frenò la sua ira e li salvò, poiché non solo in Grecia i templi degli dei sono sacri, ma conservò anche con animo pio le statue e gli altari presso i barbari.
Questo quando aveva in mente di partire contro i Persiani, ad Agesilao fu inviato dagli efori un messaggio, perché sia gli Ateniesi che i Beoti avevano dichiarato guerra agli Spartani.
Agesilao aveva grande fiducia sulla riuscita della guerra, poiché comandava truppe valorose e valide, ma dimostrò una grande modestia e ubbidì a comando degli efori.
Agesilao antepose ad un ricchissimo regno la buona fama e obbedì alle istituzioni della patria. Dopo che trasportò le truppe attraverso l'Ellesponto, gli Ateniesi e i Beoti e altri loro alleati lo bloccarono presso Coronea, Agesilao vinse con un aspro combattimento tutte le truppe degli Ateniesi e dei Beoti.
Molti fuggiaschi si rifugiarono nel tempio di Minerva, tuttavia Agesilao frenò la sua ira e li salvò, poiché non solo in Grecia i templi degli dei sono sacri, ma conservò anche con animo pio le statue e gli altari presso i barbari.
ONESTA' DI AGESILAO
Dopo la battaglia di Leuttra, senza dubbio, gli Spartani non si riebbero più e non riacquistarono l'egemonia di prima; ma nel frattempo Agesilao giammai desisté di recare aiuto alla patria con tutti i mezzi che potesse.
Gli Spartani, per esempio, avevano assoluto bisogno di denaro; egli allora andò in soccorso di tutti quelli che si erano ribellati al re; ne ebbe in compenso molto denaro e recò sollievo alla patria.
Ed a questo proposito, fu soprattutto degno di ammirazione il fatto che quantunque fossero recati a lui ricchissimi doni dai re e dai dinasti e dalle città, egli mai nulla si portò a casa sua, nulla mutò del tenore di vita, nulla del modo di vestire degli Spartani.
Visse contento in quella stessa casa nella quale era vissuto Euristene, il capostipite dei suoi antenati; chi vi entrava non poteva scorgerci alcun segno di mollezza, né di lusso, invece moltissimi invece di austerità e di frugalità. Era infatti così messa che non differiva in nulla da quella di qualsiasi povero e privato cittadino.
Gli Spartani, per esempio, avevano assoluto bisogno di denaro; egli allora andò in soccorso di tutti quelli che si erano ribellati al re; ne ebbe in compenso molto denaro e recò sollievo alla patria.
Ed a questo proposito, fu soprattutto degno di ammirazione il fatto che quantunque fossero recati a lui ricchissimi doni dai re e dai dinasti e dalle città, egli mai nulla si portò a casa sua, nulla mutò del tenore di vita, nulla del modo di vestire degli Spartani.
Visse contento in quella stessa casa nella quale era vissuto Euristene, il capostipite dei suoi antenati; chi vi entrava non poteva scorgerci alcun segno di mollezza, né di lusso, invece moltissimi invece di austerità e di frugalità. Era infatti così messa che non differiva in nulla da quella di qualsiasi povero e privato cittadino.
ALCIBIADE RITORNA AD ATENE
Pur essendo l'intera città scesa al Pireo incontro a Trasibulo, Teramene e Alcibiade, l'attesa di vedere Alcibiade era in tutti tanto grande che la folla affluiva verso la sua trireme come se fosse arrivato lui solo. Il popolo infatti pensava che le avversità precedenti e le fortune presenti fossero accadute per opera sua. E così gli Ateniesi attribuivano ad una loro colpa sia la perdita della Sicilia sia le vittorie degli Spartani, poiché avevano espulso dalla città un tale uomo.
Infatti dopo che Alcibiade aveva cominciato a comandare l'esercito, i nemici non avevano potuto resistergli essergli pari né per terra né per mare. Appena Alcibiade uscì dalla nave, sebbene Teramene e Trasibulo fossero stati al comando delle medesime azioni e fossero giunti al Pireo insieme, tuttavia tutti accompagnavano in corteo lui solo, e, cosa che mai prima era stata in uso se non a Olimpia per i vincitori, donavano corone auree e bronzee.
Egli, piangendo, accettava una simile dimostrazione d'affetto dei suoi concittadini, memore della durezza del tempo passato.
Pur essendo l'intera città scesa al Pireo incontro a Trasibulo, Teramene e Alcibiade, l'attesa di vedere Alcibiade era in tutti tanto grande che la folla affluiva verso la sua trireme come se fosse arrivato lui solo. Il popolo infatti pensava che le avversità precedenti e le fortune presenti fossero accadute per opera sua. E così gli Ateniesi attribuivano ad una loro colpa sia la perdita della Sicilia sia le vittorie degli Spartani, poiché avevano espulso dalla città un tale uomo.
Infatti dopo che Alcibiade aveva cominciato a comandare l'esercito, i nemici non avevano potuto resistergli essergli pari né per terra né per mare. Appena Alcibiade uscì dalla nave, sebbene Teramene e Trasibulo fossero stati al comando delle medesime azioni e fossero giunti al Pireo insieme, tuttavia tutti accompagnavano in corteo lui solo, e, cosa che mai prima era stata in uso se non a Olimpia per i vincitori, donavano corone auree e bronzee.
Egli, piangendo, accettava una simile dimostrazione d'affetto dei suoi concittadini, memore della durezza del tempo passato.
ALCIBIALE MONSTRUM CON DUE NATURE
Alcibiade, imperatore coraggiosissimo, figlio di Clinia, era ateniese, molti credono che la natura abbia fatto miracoli in lui. si sa infatti che Alcibiade fosse stato tra i coetanei il superiore a tutti tanto nei vizi quanto in virtù. nato in una grandissima città da una nobile famiglia, fu di molto più bello dei suoi coetanei, adatto ad ogni cosa e pieno di saggezza, infatti fu sommo imperatore sia dei mari che della terra, eloquente a dire a tutti gli oratori più elegantemente su ogni argomento.
Tanta fu infatti la grazia della pronuncia e delle orazioni che nessuno gli resistette. fu anche piuttosto ricco, attivi, paziente, generoso, brillante non meno nella vita pubblica quanto nella vita privata affabile, blando che si adatta astutamente al cambiamento dei tempi. Ma ebbe dei brutti vizi: infatti si era mostrato anche lussurioso, indolente, capriccioso, incostante che tutti si stupirono che in un solo uomo ci fosse tanta differenza e un così diverso carattere.
ALCIBIADE FUGGE DOPO LA SCONFITTA DI ATENE
Alcibiade, pensando che quei luoghi non fossero sufficientemente sicuri per lui, dopo la disfatta degli ateniesi, si nascose all'interno della Tracia, oltre la Propontide, auspicando che lì molto facilmente avrebbe potuto tener nascosti i suoi averi.
Si sbagliava. Infatti quando i Traci si accorsero che era arrivato con una grande quantità di denaro, gli tesero un agguato: gli portarono via quello che aveva recato con sé, ma non riuscirono a prenderlo.
Alcibiade, rendendosi conto che nessun luogo nella Grecia era per lui sicuro per lo strapotere degli Spartani, passò in Asia da Farnabazo e lo legò talmente a sé con i suoi modi affabili, da divenire il suo più intimo amico.
E così gli concesse Grinio, un castello in Frigia, da cui ricavava un tributo di cinquanta talenti. Ma Alcibiade non si sentiva pago di questa fortuna e non riusciva a darsi pace che Atene vinta fosse sotto il giogo degli Spartani.
E così tutti i suoi pensieri erano rivolti a liberare la patria. Ma capiva che ciò non poteva realizzarsi senza il re di Persia e perciò desiderava farselo amico ed era certo che ci sarebbe riuscito se solo avesse avuto la possibilità di incontrarlo. Sapeva infatti che il fratello Ciro, gli preparava in segreto una guerra con l'aiuto degli Spartani; se glielo avesse rivelato, capiva che avrebbe conquistato pienamente il suo favore.
LA DISTRUZIONE DELLE ERME (ALCIBIADE)
Durante la guerra del Peloponneso gli ateniesi per suggerimento e prestigio di costui dichiararono guerra ai Siracusani; e per guidarla lui stesso venne eletto comandante, e gli furono affiancati (dati) due colleghi, Nicia e Lamaco.
Mentre la si allestiva, prima che la flotta uscisse, accadde che in una sola notte tutte le Erme, che c’erano in città ad Atene, furono abbattute eccetto una, che era davanti alla casa di Andocide. E così in seguito quello fu chiacchierato il Mercurio di Andocide.
Risultando che questo era stato fatto non senza un grande assenso di molti, che riguardava non una cosa privata ma pubblica, nella moltitudine fu insinuato un grande timore, che una qualche forza improvvisa sussistesse in città, che sopprimesse la libertà del popolo.
Questo sembrava accordarsi particolarmente verso Alcibiade, perché era considerato sia più potente sia maggiore di un privato. Infatti aveva legato molti con la prodigalità, parecchi pure li aveva resi suoi con l’attività forense.
Perciò accadeva, che gli occhi di tutti, ogniqualvolta fosse uscito in pubblico, li attirasse su di sé e che nessuno nella città si ponesse pari a lui. Così non solo avevano massima speranza in lui, ma anche timore, poiché poteva sia giovare che nuocere moltissimo. Si spargeva pure la cattiva fama, perché si diceva che in casa sua si celebravano misteri; e questo era sacrilego secondo la tradizione degli Ateniesi, e la stessa cosa si pensava non rivolgersi alla religione, ma alla congiura.
Questo sembrava accordarsi particolarmente verso Alcibiade, perché era considerato sia più potente sia maggiore di un privato. Infatti aveva legato molti con la prodigalità, parecchi pure li aveva resi suoi con l’attività forense.
Perciò accadeva, che gli occhi di tutti, ogniqualvolta fosse uscito in pubblico, li attirasse su di sé e che nessuno nella città si ponesse pari a lui. Così non solo avevano massima speranza in lui, ma anche timore, poiché poteva sia giovare che nuocere moltissimo. Si spargeva pure la cattiva fama, perché si diceva che in casa sua si celebravano misteri; e questo era sacrilego secondo la tradizione degli Ateniesi, e la stessa cosa si pensava non rivolgersi alla religione, ma alla congiura.
Gli Ateniesi si erano persuasi che le precedenti disfatte e le attuali vittorie si erano verificate per opera di Alcibiade.
Così imputavano a propria colpa la perdita della Sicilia e le vittorie degli Spartani, dal momento che avevano allontanato dalla città un tale uomo. E sembravano pensare questo non senza ragione. Infatti, dopo che Alcibiade aveva cominciato ad essere a comando dell'esercito, né per terra né per mare i nemici avevano potuto essere all’altezza.
Tuttavia, questa buona sorte di Alcibiade non durò troppo a lungo. Infatti, dopo che gli erano state decretate tutte le cariche e affidata l’intero Stato e in pace e in guerra, giunto in Asia con la flotta, poiché non realizzò le aspettative, ricadde nell'odio: i concittadini ritenevano infatti che lui nulla potesse mandare ad effetto.
Ne conseguiva che gli imputassero a colpa tutti gli insuccessi. Pertanto, riteniamo che gli avesse nociuto soprattutto l'eccessiva considerazione dell'ingegno e del valore.
Nello stesso tempo però Crizia e gli altri tiranni degli Ateniesi avevano mandato uomini fidati in Asia da Lisandro per avvisarlo che se non avesse tolto di mezzo Alcibiade, nessuno dei provvedimenti da lui presi per Atene sarebbe stato duraturo; per cui se voleva che la sua opera rimanesse, doveva dargli la caccia.
Lo Spartano, impressionato da questa notizia, stabilì di trattare in modo più stretto con Farnabazo. Dunque gli fa sapere che l'alleanza tra gli Spartani ed il re sarebbe stata annullata se non gli avesse consegnato vivo o morto Alcibiade. Il satrapo non seppe tener testa a costui e preferì violare lo spirito di umanità che vedere diminuita la potenza del re.
Così mandò Susamitre e Bageo ad uccidere Alcibiade, mentre lui era in Frigia e si apprestava ad andare dal re. Gli inviati incaricano segretamente alcuni che abitavano vicino ad Alcibiade, di ucciderlo. Siccome quelli non osavano attaccarlo con le armi, di notte accatastarono della legna intorno alla capanna in cui dormiva e le dettero fuoco in modo da uccidere con le fiamme quello che non erano sicuri di poter vincere con la spada.
Ma lui come fu svegliato dal crepitio delle fiamme, sebbene gli fosse stata portata via la spada, afferrò da un amico lo stiletto che portava sotto l'ascella: c'era infatti con lui un ospite dell'Arcadia che non aveva voluto mai separarsi da lui. Gli ordina di seguirlo e arraffa tutte le vesti che in quel momento poté trovare. Gettatele sul fuoco, poté sfuggire alla violenza delle fiamme.
ALCIBIADE PRESSO CHIUNQUE SI PONEVA COME UN PRINCIPE
Alcibiade, denigrato da molti, tre autorevolissimi storici lo esaltarono in sommo grado: Tucidide che fu suo contemporaneo; Teopompo, che visse qualche tempo dopo, e Timeo: questi due benché molto maldicenti, non so come mai, si trovano d'accordo nell'esaltare lui soltanto.
Infatti hanno celebrato le virtù di cui prima abbiamo parlato ed hanno aggiunto questo: benché nato nella splendidissima città di Atene, superò in splendore e prestigio tutti.
Quando, bandito dalla patria, andò a Tebe, si adattò tanto alle loro abitudini, che nessuno poteva uguagliarlo nella capacità di resistenza fisica, tutti i Beoti infatti tengono più alla robustezza dei corpo che all'acume dell'intelletto; parimenti a Sparta dove la più alta virtù era riposta nella capacità di sopportazione, si dedicò ad una vita austera tanto da superare gli Spartani nella frugalità del mangiare e del vestire; visse in mezzo ai Traci, ubriaconi e lussuriosi: superò anche loro in queste abitudini; si recò tra i Persiani, per i quali era somma gloria essere abili cacciatori e vivere sontuosamente: imitò così bene i loro costumi, da suscitare in questo la loro ammirazione.
Insomma con queste sue doti ottenne che, dovunque si trovasse, fosse considerato il primo e fosse molto amato.
Durante la guerra del Peloponneso, mentre i Greci lottavano fra di loro, essendo la situazione in grande pericolo, gli Ateniesi dichiararono guerra ai Siracusani per aumentare il loro predominio sul mare; per questa guerra Alcibiade in persona fu delegato come capo in capo per condurre l'esercito.
I suoi nemici in Atene decisero di danneggiarlo mentre con una grandissima flotta naviga verso la Sicilia; e così gli organizzarono con grande astuzia, un stratagemma, con il quale speravano di screditare il giovane generale.
Ma non capirono che avrebbero rovinato anche la patria stessa. Dal momento che fu diffusa la notizia che Alcibiade era giunto sull'isola coloro che erano i suoi nemici lo accusarono di aver violato le leggi sacre e di aver violato le molto venerate immagini di Mercurio. Dopo che gli fu recapitato il mandato di presentarsi per tale, perché tornasse il più presto possibile ad Atene di sua volontà ad affrontare la causa, egli non volle disobbedire e salì su di una trireme.
Ma quando giunse a Turi e ritenne che fosse meglio per lui sottrarsi il pubblico giudizio e rintuzzare questi pericoli, fuggì presso i Lacedemoni, ai quali offrì sostegno contro gli Ateniesi; e così fu poi ritenuto traditore della sua patria.
In Alcibiade, figlio di Clinia, Ateniese, sembra che la natura abbia sperimentato che cosa abbia la capacità di realizzare.
Nato in una nobilissima città, abile in tutte le attività e pieno di senno - infatti fu un grandissimo comandante sia per mare e per terra - fu loquace, ricco, operoso, tenace, generoso, affabile; sempre lui allo stesso tempo si mostrava dissoluto, sregolato, sfrenato, intemperante.
Fu allevato nella casa di Pericle - infatti si dice che fosse suo figliastro e fu istruito da Socrate.
Ebbe per suocero Ipponico, di gran lunga il più ricco di tutti i Greci. Durante la guerra del Peloponneso, gli Ateniesi, seguendo il suo autorevole parere, dichiararono guerra ai Siracusani; ed a condurla fu scelto come comandante lo stesso Alcibiade.
ALESSANDRO E' ECCITATO DAL VINO
Tutti si erano infervorati per il vino e così si alzarono ubriachi per incendiare la città che da armati avevano risparmiato.
Per primo il re appiccò il fuoco alla reggia e poi dopo di lui i commensali, i servitori e le cortigiane.
La reggia era stata costruita con una grande quantità di legno di cedro, la quale espanse largamente l'incendio una volta che era stato appiccato il fuoco e quando l'esercito che si accampava non lontano dalla città si accorse di quello ritenendolo causale corse per portare aiuto.
Ma quando si giunse al vestibolo della reggia, vedono il re stesso che ancora portava delle torce.
Deposta dunque l'acqua che avevano portato, iniziarono a gettare nell'incendio materiale adatto al fuoco.
Questa fine ebbe la reggia di tutto l'Oriente, da cui tante genti dapprima chiedevano leggi, patria di tanti re, un tempo unico terrore della Grecia, dopo aver allestito una flotta di mille navi ed eserciti con cui fu invasa l'Europa.
E non risorse nemmeno nel tanto lungo periodo che seguì la sua distruzione. I Macedoni si vergognavano che una così splendida città (Persepoli) fosse stata distrutta da un re gozzovigliante. Dicono che egli stesso, non appena il riposo restituì la ragione, si sia pentito.
AVIDITA' DEI GENERALI DI ALESSANDRO DOPO LA SUA MORTE
E' noto che i Macedoni affidarono ad Eumene la Cappadocia dopo la morte di Alessandro.
Con grande impegno Perdicca se lo fece alleato poiché vedeva in lui fedeltà e grande zelo. Infatti pensava che gli sarebbe stato utilissimo nei progetti che stava allestendo. Infatti sperava di impadronirsi di ogni parte dell'impero di Alessandro, cosa che quasi tutti desiderano fortemente nei grandi imperi.
E in verità non fece ciò lui soltanto, ma anche gli altri generali che erano stati amici di Alessandro. Gli storici narrano che Leonnato per primo ambì alla macedonia.
Egli circuì Eumene con molte e grandi promesse affinché lasciasse Perdicca e si alleasse con lui. Ma, poiché non poté convincerlo, cercò di ucciderlo: il che non avvenne. Raccontano infatti che Eumene sia fuggito di nascosto durante la notte dai suoi accampamenti senza nessun compagno.
Tutti si erano infervorati per il vino e così si alzarono ubriachi per incendiare la città che da armati avevano risparmiato.
Per primo il re appiccò il fuoco alla reggia e poi dopo di lui i commensali, i servitori e le cortigiane.
La reggia era stata costruita con una grande quantità di legno di cedro, la quale espanse largamente l'incendio una volta che era stato appiccato il fuoco e quando l'esercito che si accampava non lontano dalla città si accorse di quello ritenendolo causale corse per portare aiuto.
Ma quando si giunse al vestibolo della reggia, vedono il re stesso che ancora portava delle torce.
Deposta dunque l'acqua che avevano portato, iniziarono a gettare nell'incendio materiale adatto al fuoco.
Questa fine ebbe la reggia di tutto l'Oriente, da cui tante genti dapprima chiedevano leggi, patria di tanti re, un tempo unico terrore della Grecia, dopo aver allestito una flotta di mille navi ed eserciti con cui fu invasa l'Europa.
E non risorse nemmeno nel tanto lungo periodo che seguì la sua distruzione. I Macedoni si vergognavano che una così splendida città (Persepoli) fosse stata distrutta da un re gozzovigliante. Dicono che egli stesso, non appena il riposo restituì la ragione, si sia pentito.
AVIDITA' DEI GENERALI DI ALESSANDRO DOPO LA SUA MORTE
E' noto che i Macedoni affidarono ad Eumene la Cappadocia dopo la morte di Alessandro.
Con grande impegno Perdicca se lo fece alleato poiché vedeva in lui fedeltà e grande zelo. Infatti pensava che gli sarebbe stato utilissimo nei progetti che stava allestendo. Infatti sperava di impadronirsi di ogni parte dell'impero di Alessandro, cosa che quasi tutti desiderano fortemente nei grandi imperi.
E in verità non fece ciò lui soltanto, ma anche gli altri generali che erano stati amici di Alessandro. Gli storici narrano che Leonnato per primo ambì alla macedonia.
Egli circuì Eumene con molte e grandi promesse affinché lasciasse Perdicca e si alleasse con lui. Ma, poiché non poté convincerlo, cercò di ucciderlo: il che non avvenne. Raccontano infatti che Eumene sia fuggito di nascosto durante la notte dai suoi accampamenti senza nessun compagno.
AMILCARE SALVA CARTAGINE
Amilcare quando giunse a Cartagine trovò lo Stato che aveva bisogno di lui. Infatti a causa della durata della guerra esterna, scoppiò una guerra civile tanto grande che Cartagine mai si trovò ad essere in pericolo simile, se non quando fu distrutta.
Prima di tutto, si ribellarono i soldati mercenari, di cui si erano serviti contro i Romani ed il loro numero ammontava a ventimila. Questi chiamarono alla ribellione tutta l'Africa e dettero l'assalto alla stessa Cartagine. I Cartaginesi furono talmente atterriti da questi rovesci, che chiesero addirittura rinforzi ai Romani e li ottennero.
Ma da ultimo, quando erano quasi ormai giunti alla disperazione, fecero Amilcare comandante supremo. Questi non solo respinse i nemici dalle mura di Cartagine, sebbene i soldati fossero saliti a più di centomila, ma addirittura li ridusse al punto che, chiusi in luoghi molto angusti, morirono più per fame che per spada.
Riconquistò alla patria tutte le città ribelli, tra queste Utica ed Ippona, le più potenti di tutta l'Africa. E non si fermò qui, ma ampliò addirittura i confini dell'impero; in tutta l'Africa ristabilì tanta pace che sembrava che in essa non ci fosse stata alcuna guerra da tanti anni.
ANNIBALEAmilcare quando giunse a Cartagine trovò lo Stato che aveva bisogno di lui. Infatti a causa della durata della guerra esterna, scoppiò una guerra civile tanto grande che Cartagine mai si trovò ad essere in pericolo simile, se non quando fu distrutta.
Prima di tutto, si ribellarono i soldati mercenari, di cui si erano serviti contro i Romani ed il loro numero ammontava a ventimila. Questi chiamarono alla ribellione tutta l'Africa e dettero l'assalto alla stessa Cartagine. I Cartaginesi furono talmente atterriti da questi rovesci, che chiesero addirittura rinforzi ai Romani e li ottennero.
Ma da ultimo, quando erano quasi ormai giunti alla disperazione, fecero Amilcare comandante supremo. Questi non solo respinse i nemici dalle mura di Cartagine, sebbene i soldati fossero saliti a più di centomila, ma addirittura li ridusse al punto che, chiusi in luoghi molto angusti, morirono più per fame che per spada.
Riconquistò alla patria tutte le città ribelli, tra queste Utica ed Ippona, le più potenti di tutta l'Africa. E non si fermò qui, ma ampliò addirittura i confini dell'impero; in tutta l'Africa ristabilì tanta pace che sembrava che in essa non ci fosse stata alcuna guerra da tanti anni.
ANNIBALE |
Era in discordia con Annibale il re di Pergamo Eumene, molto legato ai Romani, e tra loro si combatteva una guerra sia per mare che per terra. Ma essendo Eumene più forte a causa dell'alleanza dei Romani, Annibale desiderava maggiormente sconfiggerlo.
Una volta rimossolo, riteneva che le altre cose sarebbero state per lui più agevoli. Escogitò ciò per ucciderlo. Entro pochi giorni avrebbero combattuto con la flotta e Annibale era inferiore per numero di navi; si doveva combattere con l’inganno, non essendo pari nelle armi.
Ordinò ai soldati di raccogliere quanti più serpenti velenosi vivi e di chiuderli in vasi di terracotta.
Dopo averne raccolto un gran numero, il giorno stesso, nel quale stava per intraprendere il combattimento navale, convoca i marinai e comanda loro di dirigere tutti verso la nave di Eumene il lancio dei vasi con i serpenti. Finalmente i soldati di Eumene, incredibile a dirsi, immediatamente dovettero fuggire.
ANNIBALE OLTREPASSA LE ALPI CON GLI ELEFANTI
Divenuto generale, Annibale non ancora venticinquenne, nei tre anni che seguirono sottomise con le armi tutte le genti della Spagna; espugnò con la forza Sagunto città alleata; allestì tre poderosi eserciti. Di questi uno ne mandò in Africa; un altro lo lasciò in Spagna col fratello Asdrubale; il terzo lo condusse con sé in Italia. Attraversò il valico dei Pirenei.
Dovunque passò, venne a conflitto con tutti gli abitanti; nessuno lasciò alle spalle se non sconfitto. Dopo che giunse alle Alpi, che dividono l'Italia dalla Gallia, che nessuno mai prima di lui, eccetto il Graio Ercole, aveva attraversato con un esercito, sterminò gli alpigiani che cercavano di impedirgli il passaggio, aprì i luoghi, fortificò i percorsi, fece sì che potesse passare un elefante equipaggiato, per dove prima a mala pena poteva arrampicarsi un uomo senza armi. Per questa via fece passare le truppe e giunse in Italia.
IL GIURAMENTO ANTIROMANO DI ANNIBALE
Infatti, per non omettere Filippo, che sebbene lontano, inimicò ai Romani, in quei tempi il re più potente di tutti fu Antioco. Lo riempì di tanto desiderio di combattere che cercò di portar guerra in Italia sino dal Mar Rosso.
Infatti, per non omettere Filippo, che sebbene lontano, inimicò ai Romani, in quei tempi il re più potente di tutti fu Antioco. Lo riempì di tanto desiderio di combattere che cercò di portar guerra in Italia sino dal Mar Rosso.
Essendosi recati da lui dei legati romani per indagare sulle sue intenzioni e darsi da fare con segrete macchinazioni, per rendere Annibale sospetto al re, come se, corrotto da loro stessi, Annibale nutrisse sentimenti diversi da quelli di prima, ed essendo riusciti nel loro intento e avendo Annibale saputo questo e avendo visto che lui stesso era tenuto lontano dalle riunioni riservate, offertasi l'occasione si rivolse al re, e avendogli ricordato le numerose prove della sua lealtà e del suo odio contro i Romani, aggiunse questo:
"Mio padre Amilcare quando io ero ancora me giovinetto, dato che non avevo più di 9 anni, partendo come generale da Cartagine verso la Spagna, immolava delle vittime a Giove ottimo massimo, mi chiese di scegliere di andare con lui nell'accampamento. Dopo che ebbi volentieri accettato ciò e che ho iniziato a chiedergli che non esitasse a condurmi con lui, in quel momento egli disse: " lo farò qualora tu mi avrai giurato quanto ti chiedo".
Nello stesso tempo mi condusse verso l'altare, davanti al quale avevo deciso di sacrificare, dopo aver allontanato gli altri, ordinò di promettere con giuramento: "Mai io sarò in amicizia con i romani!".
Io mantenni il giuramento fatto al padre sino a questo momento a tal punto che nessuno deve dubitare che nel tempo restante sarò della stessa opinione. Perciò, se penserai qualcosa amichevolmente sui Romani, non agirai imprudentemente se me lo nasconderai, quando invece preparerai la guerra ingannerai te stesso se non mi porrai a capo di essa".
ANNIBALE AVANZA VITTORIOSO DAL RODANO A CANNE
Presso il Rodano, si era scontrato con il console P. Cornelio Scipione e lo aveva respinto. Con questo stesso combatte a Casteggio presso il Po e da lì lo respinge ferito e fuggitivo. Per la terza volta lo stesso Scipione gli andò incontro col collega Tiberio Longo presso la Trebbia. Venne a battaglia con loro; li sbaragliò entrambi. Da lì attraverso la Liguria superò l'Appennino, diretto in Etruria. Durante questa marcia viene colpito da una malattia degli occhi tanto grave che poi dall'occhio destro non vide più bene.
Mentre ancora era affetto da questo malanno e veniva trasportato in lettiga, trasse in un agguato presso il Trasimeno il console Caio Flaminio con l'esercito e lo uccise e poco dopo il pretore Caio
Centenio che con truppe scelte presidiava i passi.
Da qui arrivò in Puglia. Là gli andarono incontro due consoli, Caio Terenzio e Lucio Emilio. In una sola battaglia sbaragliò gli eserciti dell'uno e dell'altro, uccise il console Paolo ed inoltre alquanti ex consoli, tra i quali Cneo Servilio Gèmino, che era stato console l'anno precedente.
ANNIBALE CON UNO STRATAGEMMA EVITA LO SCONTRO CON FABIO MASSIMO
Annibale combattuta questa battaglia andò a Roma senza fermata e negli imminenti monti della città si fermò. Avendo avuto là l’accampamento alcuni giorni ed essendo ritornato a Capua, Quinto Fabio Massimo, dittatore romano, si situò davanti a lui nel campo Faleno.
Questi chiuso nella strettezza dei luoghi di notte senza alcun detrimento dell’esercito si prese gioco di Fabio, abilissimo comandante. E infatti nell’oscurità della notte bruciò dei rami legati nelle corna dei buoi e mandò contro l’esercito romano una grande moltitudine di quel genere. Con quella repentina apparizione procurata suscitò tanto errore all’esercito dei romani che nessuno osò uscire fuori dallo steccato.
Dopo questa impresa non in così tanti giorni Marco Minuccio Rumo, capo della cavalleria uguale a quello del dittatore a comando fuggì indietro in battaglia per l’inganno. Sarebbe lungo contare tutte le battaglie. Per questo motivo questa sola osservazione sarà sufficiente così da poter essere compreso quanto grande egli sia.
ANNIBALE NOMINATO COMANDANTE DELL'ESERCITO MUOVE SULL'ITALIA
All'età, dunque, che abbiamo detto, egli partì con il padre per la Spagna, dopo la morte del quale, quando Asdrubale venne nominato comandante, comandò tutta la cavalleria.
Quando anche questo fu ucciso l'esercito gli affidò il comando supremo. Questa nomina, comunicata a Cartagine, venne ufficialmente approvata. Così, a meno di venticinque anni, Annibale venne eletto comandante supremo, e nei tre anni successivi aggiogò tutti i popoli della Spagna con una guerra, espugnò con la forza Sagunto, città alleata, e allestì tre grandissimi eserciti.
Di questi uno ne inviò in Africa, un altro lo lasciò in Spagna con il fratello Asdrubale, il terzo lo condusse con sé in Italia. Oltrepassò la catena dei Pirenei. Qualunque territorio attraversò, combatté con tutti gli abitanti: non lasciò andare nessuno se non vinto.
Dopo che arrivò alle Alpi, che dividono l'Italia dalla Gallia, che mai nessuno prima di lui aveva attraversato con un esercito, ad eccezione di Ercole Graio, per questo fatto ancora oggi quella catena è chiamata Graia, sterminò gli abitanti delle Alpi che cercavano di impedirgli il passaggio, rese praticabili quei luoghi, fece sì che un elefante con tutto l'equipaggiamento potesse passare là dove prima poteva passare un uomo solo senza armi. Per questo itinerario condusse le truppe e giunse in Italia.
INGRATITUDINE DEI CARTAGINESI VERSO ANNIBALE
Quando fece ritorno a Cartagine, fu eletto re, dopo che era stato supremo comandante per 22 anni; come infatti a Roma i consoli, così a Cartagine erano creati due re che duravano in carica per un anno.
In quella magistratura Annibale mostrò la stessa diligenza che aveva tenuto in guerra. Fece in modo infatti che dalle nuove entrate fiscali derivasse non solo il denaro, che sarebbe stato pagato dai Romani per il patto stipulato, ma che anche ne avanzasse e fosse riposto nell'erario.
Poi l'anno successivo, essendo consoli M. Claudio e L. Furio, giunsero ambasciatori a Cartagine da Roma. Quando Annibale seppe che erano stati mandati per chiederne l'estradizione, prima che il senato lo consegnasse a loro, salì su di una nave di nascosto e fuggì in Siria presso Antioco.
Scoperto ciò i Punici mandarono due navi per catturarlo, se fosse stato possibile raggiungerlo, confiscarono i suoi beni, demolirono la sua casa dalle fondamenta, e lo condannarono all'esilio.
Presso il Rodano, si era scontrato con il console P. Cornelio Scipione e lo aveva respinto. Con questo stesso combatte a Casteggio presso il Po e da lì lo respinge ferito e fuggitivo. Per la terza volta lo stesso Scipione gli andò incontro col collega Tiberio Longo presso la Trebbia. Venne a battaglia con loro; li sbaragliò entrambi. Da lì attraverso la Liguria superò l'Appennino, diretto in Etruria. Durante questa marcia viene colpito da una malattia degli occhi tanto grave che poi dall'occhio destro non vide più bene.
Mentre ancora era affetto da questo malanno e veniva trasportato in lettiga, trasse in un agguato presso il Trasimeno il console Caio Flaminio con l'esercito e lo uccise e poco dopo il pretore Caio
Centenio che con truppe scelte presidiava i passi.
Da qui arrivò in Puglia. Là gli andarono incontro due consoli, Caio Terenzio e Lucio Emilio. In una sola battaglia sbaragliò gli eserciti dell'uno e dell'altro, uccise il console Paolo ed inoltre alquanti ex consoli, tra i quali Cneo Servilio Gèmino, che era stato console l'anno precedente.
ANNIBALE CON UNO STRATAGEMMA EVITA LO SCONTRO CON FABIO MASSIMO
Annibale combattuta questa battaglia andò a Roma senza fermata e negli imminenti monti della città si fermò. Avendo avuto là l’accampamento alcuni giorni ed essendo ritornato a Capua, Quinto Fabio Massimo, dittatore romano, si situò davanti a lui nel campo Faleno.
Questi chiuso nella strettezza dei luoghi di notte senza alcun detrimento dell’esercito si prese gioco di Fabio, abilissimo comandante. E infatti nell’oscurità della notte bruciò dei rami legati nelle corna dei buoi e mandò contro l’esercito romano una grande moltitudine di quel genere. Con quella repentina apparizione procurata suscitò tanto errore all’esercito dei romani che nessuno osò uscire fuori dallo steccato.
Dopo questa impresa non in così tanti giorni Marco Minuccio Rumo, capo della cavalleria uguale a quello del dittatore a comando fuggì indietro in battaglia per l’inganno. Sarebbe lungo contare tutte le battaglie. Per questo motivo questa sola osservazione sarà sufficiente così da poter essere compreso quanto grande egli sia.
ANNIBALE NOMINATO COMANDANTE DELL'ESERCITO MUOVE SULL'ITALIA
All'età, dunque, che abbiamo detto, egli partì con il padre per la Spagna, dopo la morte del quale, quando Asdrubale venne nominato comandante, comandò tutta la cavalleria.
Quando anche questo fu ucciso l'esercito gli affidò il comando supremo. Questa nomina, comunicata a Cartagine, venne ufficialmente approvata. Così, a meno di venticinque anni, Annibale venne eletto comandante supremo, e nei tre anni successivi aggiogò tutti i popoli della Spagna con una guerra, espugnò con la forza Sagunto, città alleata, e allestì tre grandissimi eserciti.
Di questi uno ne inviò in Africa, un altro lo lasciò in Spagna con il fratello Asdrubale, il terzo lo condusse con sé in Italia. Oltrepassò la catena dei Pirenei. Qualunque territorio attraversò, combatté con tutti gli abitanti: non lasciò andare nessuno se non vinto.
Dopo che arrivò alle Alpi, che dividono l'Italia dalla Gallia, che mai nessuno prima di lui aveva attraversato con un esercito, ad eccezione di Ercole Graio, per questo fatto ancora oggi quella catena è chiamata Graia, sterminò gli abitanti delle Alpi che cercavano di impedirgli il passaggio, rese praticabili quei luoghi, fece sì che un elefante con tutto l'equipaggiamento potesse passare là dove prima poteva passare un uomo solo senza armi. Per questo itinerario condusse le truppe e giunse in Italia.
INGRATITUDINE DEI CARTAGINESI VERSO ANNIBALE
Quando fece ritorno a Cartagine, fu eletto re, dopo che era stato supremo comandante per 22 anni; come infatti a Roma i consoli, così a Cartagine erano creati due re che duravano in carica per un anno.
In quella magistratura Annibale mostrò la stessa diligenza che aveva tenuto in guerra. Fece in modo infatti che dalle nuove entrate fiscali derivasse non solo il denaro, che sarebbe stato pagato dai Romani per il patto stipulato, ma che anche ne avanzasse e fosse riposto nell'erario.
Poi l'anno successivo, essendo consoli M. Claudio e L. Furio, giunsero ambasciatori a Cartagine da Roma. Quando Annibale seppe che erano stati mandati per chiederne l'estradizione, prima che il senato lo consegnasse a loro, salì su di una nave di nascosto e fuggì in Siria presso Antioco.
Scoperto ciò i Punici mandarono due navi per catturarlo, se fosse stato possibile raggiungerlo, confiscarono i suoi beni, demolirono la sua casa dalle fondamenta, e lo condannarono all'esilio.
I luogotenenti di Prusia giungevano a Roma e, mentre cenavano nella villa di Quinzio Flaminio, facevano menzione di Annibale; dai funzionari Asiatici, ospiti dei Romani, Annibale era indicato vivo nel regno di Prusia. Flaminio mandava luogotenenti in Bitinia per la consegna di Annibale, poiché il comandante Africano era un violento nemico dei Romani e causa di molte scelleratezze.
Prusia era pronto per la consegna, ma non dava egli stesso il nemico ai Romani, poiché riteneva sacro il diritto dell'ospitalità. Annibale stava sempre in una fortezza della regione, che era concessa al comandante Africano da Prusia; la fortezza aveva mura solide e molte porte pronte alla fuga del comandante, se i nemici circondavano il luogo. Quando i luogotenenti Romani giungono presso la fortezza e circondano il luogo con un gran numero di soldati, un giovane schiavo vede dalla porta molti soldati e dà la notizia ad Annibale.
Poiché tutte le porte sono occupate dai Romani e non vi è neppure una piccola possibilità di fuga, Annibale decise la morte e, memore delle antiche virtù, prese del veleno. Così, con un ultima testimonianza di fierezza, depone la vita non solo un uomo coraggioso, comandante esperto, soldato fedele alla patria, vincitore di molti combattimenti e fiero nemico dei Romani, ma anche un uomo esperto di lingua Greca e autore di libri. Molti ricordano le imprese e il nome di Annibale.
LA MORTE DI CABRIA
Cabria morì in questo modo durante la guerra sociale. Gli Ateniesi assediavano da Chio. Cabria militava nella flotta come semplice cittadino, ma superava in prestigio tutti i comandanti effettivi, e i soldati avevano fiducia in lui più che in questi.
Ma ciò ne affrettò la morte. Infatti, mentre cercava di entrare per primo nel porto e ordinava al timoniere di dirigervi la nave, egli fu di rovina a sé stesso; infatti penetrandovi, nessuna delle altre navi lo seguì. Circondato perciò da nemici che lo assalivano, mentre lottava strenuamente, la sua nave speronata, cominciò ad affondare.
Cabria morì in questo modo durante la guerra sociale. Gli Ateniesi assediavano da Chio. Cabria militava nella flotta come semplice cittadino, ma superava in prestigio tutti i comandanti effettivi, e i soldati avevano fiducia in lui più che in questi.
Ma ciò ne affrettò la morte. Infatti, mentre cercava di entrare per primo nel porto e ordinava al timoniere di dirigervi la nave, egli fu di rovina a sé stesso; infatti penetrandovi, nessuna delle altre navi lo seguì. Circondato perciò da nemici che lo assalivano, mentre lottava strenuamente, la sua nave speronata, cominciò ad affondare.
Pur potendo fuggire di lì, se si fosse gettato in mare, perché si avvicinava la flotta degli Ateniesi, per raccogliere i naufraghi, preferì perire che, gettate le armi, abbandonare la nave, nella quale era stato trasportato. Gli altri non vollero fare ciò; ed essi nuotando giunsero al sicuro. Ma lui ritenendo fosse meglio una morte gloriosa che una vergognosa vita combattendo fu ucciso dalle armi dei nemici.
CATONE IL CENSORE
Marco Porcio Catone giovò molto allo stato romano in pace e in guerra. Quest'uomo aveva un aguzzo ingegno e una singolare operosità e diligenza in tutte le cose: infatti fu sia un agricoltore solerte, un esperto giure consulto, un grande generale, un lodevole oratore e un amante della letteratura. da adolescente partecipò alla seconda guerra punica e al combattimento presso Sena, nel quale fu ucciso Asdrubale fratello di Annibale. In questa battaglia fu stimato lodevole il suo operato.
Come console dalla Spagna riportò il trionfo. Publio Cornelio Scipione l'africano che allora deteneva il comando della città (Roma) tentò di scacciarlo dalla provincia e di succedergli egli stesso, ma non poté ottenere ciò attraverso il senato poiché lo stato veniva amministrato non col potere politico ma dalla legge.
L'asprezza dell'animo di Catone e l'integrità di vita furono lodate particolarmente. Nominato censore con Lucio Valerio Flacco, con cui aveva esercitato il consolato, esercitò severamente il suo mandato, infatti corresse i costumi corrotti dei suoi cittadini e disprezzò la lussuria e lo spreco fino alla vecchiaia avanzata non smise di esporsi per la repubblica; accusato da molti venne sempre scagionato da ogni crimine.
Si sa che egli stesso componesse orazioni dall'adolescenza, che abbia scritto libri di storia intitolati "origini" nei quali narrò le imprese del popolo romano senza nominare i comandanti delle guerre.
In tutte le cose fu di straordinaria operosità: infatti fu sia esperto agricoltore sia abile avvocato sia grande generale sia oratore valente sia molto amante degli studi letterari. Sebbene avesse intrapreso il loro studio piuttosto vecchio, tuttavia fece talmente tanti progressi che non si può facilmente trovare né di storia greca né di quella romana un fatto che gli sia rimasto sconosciuto. Fin dalla giovinezza compose orazioni.
Da vecchio cominciò a scrivere opere storiche. Di queste ne esistono sette libri. Il primo contiene le imprese dei re del popolo romano, il secondo e il terzo da dove ogni città italica abbia avuto origine: pare che sia questa la ragione per cui Catone abbia chiamato tutti i libri "Origini".
Nel quarto c'è la I guerra punica, nel quinto la II. E tutti questi fatti sono esposti per sommi capi. E allo stesso modo continuò a trattare le rimanenti guerre fino alla pretura di Servio Galba, che depredò i Lusitani: e di queste guerre non nominò i condottieri ma ne registrò i fatti senza i nomi.
CIMONE |
IMPRESE DI CIMONE
Cimone aveva abbastanza eloquenza, molta liberalità, molta esperienza nel diritto civile e nell'arte militare: perché aveva vissuto col padre da bambino nell'esercito.
Perciò tenne nel suo dominio il popolo della città e presso l'esercito ebbe massimo prestigio.
All'inizio della guerra, presso il fiume Strimone mise in fuga una grande truppa tracia; finita la guerra, fondò la città di Amfipoli.
Dopo, presso Micale, catturò una flotta di 200 navi dei ciprioti e dei fenici e nello stesso giorno si servì della stessa fortuna sulla terra, immediatamente fece uscire dalla sua flotta le truppe e con massima forza sconfisse i barbari.
Portata a termine questa vittoria s'impadronì di un grande tesoro e propagò l'impero ateniese.
INGRATITUDINE DEGLI ATENIESI VERSO CIMONE
Impadronitosi di un grande bottino con quella vittoria, quando tornò in patria, poiché alcune isole si erano ribellate a causa della durezza del dominio ateniese, riconfermò su quelle ben disposte, e costrinse le ribelli a ritornare al dovere.
Spopolò Sciro, che a quel tempo era popolata dai Dolopi, perché si erano comportati con eccessiva superbia, cacciò dalla città e dall'isola i vecchi abitanti e divise i campi tra i concittadini, con il suo arrivo sbaragliò gli abitanti di Taso, fiduciosi nella loro ricchezza. Da quel bottino, fu decorata la rocca di Atene, che volge a mezzogiorno.
E per questi motivi, godendo più di chiunque altro della massima reputazione, cadde nella medesima disgrazia che ci fu per suo padre e per tutti gli altri governatori ateniesi. Infatti con i voti dei cocci, che quelli chiamano "ostracismo", venne multato con dieci anni di esilio.
Di questo fatto si pentirono prima gli Ateniesi che lui stesso. Infatti essendo sottostato con grande coraggio alle calunnie degli ingrati cittadini e avendo dichiarato guerra agli Spartani, subito conseguì il rimpatrio del suo noto coraggio e così dopo il quinto anno che era espulso venne richiamato in patria.
Egli, poiché si serviva dell'ospitalità degli Spartani, ritenendo più opportuno rimanere a Sparta, si allontanò di sua spontanea volontà, e conciliò la pace tra le due potentissime civiltà.
GENEROSITA' DI CIMONE ATENIESE
Gli Ateniesi rimpiansero a lungo Cimone, figlio di Milziade, non solo in guerra ma anche in pace.
Egli infatti fu di così tanta generosità che, avendo in parecchie località poderi ed orti, non mise mai in essi un custode che sorvegliasse i frutti, affinché a nessuno venisse impedito di raccogliere i frutti che volesse. Lo seguirono sempre accompagnatori con monete affinché, se qualcuno avesse bisogno del suo aiuto, egli avesse subito cosa dare.
Impadronitosi di un grande bottino con quella vittoria, quando tornò in patria, poiché alcune isole si erano ribellate a causa della durezza del dominio ateniese, riconfermò su quelle ben disposte, e costrinse le ribelli a ritornare al dovere.
Spopolò Sciro, che a quel tempo era popolata dai Dolopi, perché si erano comportati con eccessiva superbia, cacciò dalla città e dall'isola i vecchi abitanti e divise i campi tra i concittadini, con il suo arrivo sbaragliò gli abitanti di Taso, fiduciosi nella loro ricchezza. Da quel bottino, fu decorata la rocca di Atene, che volge a mezzogiorno.
E per questi motivi, godendo più di chiunque altro della massima reputazione, cadde nella medesima disgrazia che ci fu per suo padre e per tutti gli altri governatori ateniesi. Infatti con i voti dei cocci, che quelli chiamano "ostracismo", venne multato con dieci anni di esilio.
Di questo fatto si pentirono prima gli Ateniesi che lui stesso. Infatti essendo sottostato con grande coraggio alle calunnie degli ingrati cittadini e avendo dichiarato guerra agli Spartani, subito conseguì il rimpatrio del suo noto coraggio e così dopo il quinto anno che era espulso venne richiamato in patria.
Egli, poiché si serviva dell'ospitalità degli Spartani, ritenendo più opportuno rimanere a Sparta, si allontanò di sua spontanea volontà, e conciliò la pace tra le due potentissime civiltà.
GENEROSITA' DI CIMONE ATENIESE
Gli Ateniesi rimpiansero a lungo Cimone, figlio di Milziade, non solo in guerra ma anche in pace.
Egli infatti fu di così tanta generosità che, avendo in parecchie località poderi ed orti, non mise mai in essi un custode che sorvegliasse i frutti, affinché a nessuno venisse impedito di raccogliere i frutti che volesse. Lo seguirono sempre accompagnatori con monete affinché, se qualcuno avesse bisogno del suo aiuto, egli avesse subito cosa dare.
Spesso, quando vedeva qualcuno vestito non bene, diede il suo mantello. Ogni giorno gli veniva cucinata una cena così sontuosa che poteva invitare tutti quelli che aveva visto non invitati nel foro; in nessun giorno ometteva di fare ciò.
A nessuno mancò la sua lealtà, a nessuno l'aiuto, a nessuno il patrimonio; arricchì molti, a tutti i concittadini offrì il suo aiuto nelle avversità. Pertanto la sua vita fu serena e la morte dolorosa per tutti.
A nessuno mancò la sua lealtà, a nessuno l'aiuto, a nessuno il patrimonio; arricchì molti, a tutti i concittadini offrì il suo aiuto nelle avversità. Pertanto la sua vita fu serena e la morte dolorosa per tutti.
ULTIMI ANNI DI VITA DI CONONE
Infatti avendo costituito per sé grande autorevolezza in quella battaglia navale, che aveva conseguito presso Cnido non solo tra i Barbari, ma anche tra tutti i cittadini della Grecia, iniziò ad impegnarsi in segreto, a restituire agli Ateniesi la Ionia e la Eolia.
Dato che tale piano era stato tenuto nascosto meno accuratamente, Tiribazo, che era a capo dei Sardi, chiamò Conone, facendo finta d'inviarlo presso il re per un grande progetto.
Essendo giunto secondo il volere di costui, fu gettato in catene, in cui si trovò per qualche tempo.
Perciò alcuni lasciarono scritto che lui fu condotto presso il re e qui lo uccisero.
Diversamente a quanto detto lo storico Dinone, verso cui noi abbiamo molta fiducia in merito agli avvenimenti Persiani, scrisse che fuggì.
Essendo giunto secondo il volere di costui, fu gettato in catene, in cui si trovò per qualche tempo.
Perciò alcuni lasciarono scritto che lui fu condotto presso il re e qui lo uccisero.
Diversamente a quanto detto lo storico Dinone, verso cui noi abbiamo molta fiducia in merito agli avvenimenti Persiani, scrisse che fuggì.
MORTE DI DATAME
Uomo pieno di ingegno, nemico del re di Persia, Datame una volta fu raggirato dall'astuzia di Mitridate, costui, il quale aveva promesso al re che lo avrebbe ucciso, fece amicizia con Datame, affinché in lui non nascesse alcun sospetto di inganno.
Infine gli mandò un'ambasciata perché venisse in un determinato luogo a parlare con lui della guerra contro il re. Mitridate, alcuni giorni prima, va in quel luogo e nasconde sotto terra, in diversi punti, separate le une dalle altre, delle spade e contrassegna attentamente quei punti.
Poi, il giorno stesso del colloquio, dopo che avevano parlato per un bel pò di tempo e si erano allontanati in direzioni opposte, e ormai Datarne era distante, Mitridate, affinché non nascesse alcun sospetto, tornò nello stesso posto e li, dove una spada era nascosta sottoterra, si sedette, come se volesse riposarsi per una qualche stanchezza.
Poi chiamò indietro Datame fingendo di avere dimenticato qualcosa nel colloquio. Quindi estrasse la spada che era nascosta e, dopo averla sfoderata, la occultò tra le vesti. A Datarne che arrivava disse che aveva notato un certo posto adatto per gli accampamenti. Mentre lo indicava col dito e quello si girava indietro a guardare, lo trafisse alle spalle con l'arma e lo finì prima che qualcuno potesse soccorrerlo.Uomo pieno di ingegno, nemico del re di Persia, Datame una volta fu raggirato dall'astuzia di Mitridate, costui, il quale aveva promesso al re che lo avrebbe ucciso, fece amicizia con Datame, affinché in lui non nascesse alcun sospetto di inganno.
Infine gli mandò un'ambasciata perché venisse in un determinato luogo a parlare con lui della guerra contro il re. Mitridate, alcuni giorni prima, va in quel luogo e nasconde sotto terra, in diversi punti, separate le une dalle altre, delle spade e contrassegna attentamente quei punti.
Poi, il giorno stesso del colloquio, dopo che avevano parlato per un bel pò di tempo e si erano allontanati in direzioni opposte, e ormai Datarne era distante, Mitridate, affinché non nascesse alcun sospetto, tornò nello stesso posto e li, dove una spada era nascosta sottoterra, si sedette, come se volesse riposarsi per una qualche stanchezza.
DIONE E DIONIGI
Infatti anche se a lui era sgradita la crudeltà di Dionigi, tuttavia desiderava la sua incolumità a causa della loro parentela, e ancor di più per i suoi familiari.
Lo assisteva nelle questioni rilevanti, e il tiranno era molto influenzato dalla sua saggezza, tranne nella situazione in cui si si era frapposta una sua più forte passione. Tuttavia tutte le ambascerie, che fossero di una certa risonanza, erano gestite per mano di Dione: egli incaricandosene sicuramente con zelo, gestendole con lealtà, nascondeva la crudelissima fama del tiranno con la sua affabilità.
I Cartaginesi lo ammirarono quando fu mandato da Dionigi tanto che non ammirarono di più mai nessuno che parlava la lingua Greca. Nè d’altra parte queste cose sfuggivano a Dionigi: infatti capiva di quanto grande onore fosse per lui. Per questo accadeva che solamente a lui accondiscendeva moltissimo e non lo amava diversamente dal figlio.
Nel frattempo Dionigi si ammalò. Lottando egli con una malattia grave, Dione chiese ai medici come stesse e chiese a loro allo stesso tempo che gli rivelassero se per caso stesse in un pericolo maggiore: infatti voleva parlare con lui sulla divisione del regno, poiché riteneva che i figli di sua sorella nati da lui dovessero avere una parte del regno.
I medici non tacquero su ciò e riferirono il discorso al figlio Dionigi. Quello, spinto da ciò, affinché Dione non avesse la possibilità di agire, costrinse i medici a dare al padre un sonnifero. L'ammalato, dopo averlo preso, come si assopì, morì. Tale fu l'inizio dell'ostilità tra Dione e Dionigi e questa fu fomentata da molte cose. Ma tuttavia nei primi tempi di tanto in tanto un’amicizia simulata si mantenne tra loro.
I medici non tacquero su ciò e riferirono il discorso al figlio Dionigi. Quello, spinto da ciò, affinché Dione non avesse la possibilità di agire, costrinse i medici a dare al padre un sonnifero. L'ammalato, dopo averlo preso, come si assopì, morì. Tale fu l'inizio dell'ostilità tra Dione e Dionigi e questa fu fomentata da molte cose. Ma tuttavia nei primi tempi di tanto in tanto un’amicizia simulata si mantenne tra loro.
Cartagine, rivale della fama di Roma, fu fondata da una donna. Infatti Didone Sidonia, il cui marito Sicheo era stato ucciso dal fratello Pigmalione, dopo aver abbandonato la patria, essendo giunta in Africa con la sorella e alcuni compagni di fuga e avendo lì ottenuto dal re Giarba tanta terra da poter far seccare una pelle di bue al sole, divise la pelle in sottili strisce e con esse delimitò con esse sufficiente territorio da costruire una rocca che chiamò Birsa.
Non distante da Giarba, che era caduto nell'amore di Didone, la nuova città Cartagine fu edificata e fu ornata con splendidi templi e con abitazioni. Nascono ancora nuove mura e l'opera è in gran fermento, Enea dopo che Troia fu presa e distrutta dai greci, profugo dalla patria, fu spinto da una tempesta in Africa.
LA RAFFINATA EDUCAZIONE DI EPAMINONDA
E infatti imparò a suonare la cetra e a cantare al suono delle corde da Dioniso il quale non fu meno importante per gloria in musica di Damone o di Lambro, dei quali i nomi sono divulgati, a cantare con i flauti da Olimpiodoro, a danzare da Callipone.
Ma ebbe come maestro di filosofia Liside di Taranto, Pitagorico, al quale fu veramente così dedito, che il giovane preferì l'accigliato e severo vecchio a tutti i suoi coetanei e non lo allontanò da sè prima di superare i condiscepoli nelle scienze filosofiche tanto che si poteva capire che Epaminonda avrebbe superato tutti nelle altre arti allo stesso modo.
E queste cose per nostra abitudine sono di poca importanza e preferibilmente trascurabili ma anticamente in Grecia erano senz’altro di grande lode. Quando giunse alla pubertà e cominciò a frequentare la palestra, non ebbe di mira tanto la robustezza quanto l'agilità quella infatti riteneva che servisse alla pratica dell'atletica, questa alle esigenze della guerra.
Pertanto si esercitava moltissimo nella corsa e nella lotta fino a tanto che gli riuscisse di avvinghiare e combattere con l'avversario rimanendo in piedi. Nelle armi invero profondeva il massimo impegno.
Lo stesso si era recato ad un'assemblea degli Arcadi per chieder loro che facessero alleanza con i Tebani e gli Argivi.
EPAMINONDA |
Allora Epaminonda, nella sua risposta dopo aver trattato degli altri argomenti, quando fu giunto alle due accuse infamanti, disse che si meravigliava della scempiaggine del retore attico, che non aveva fatto caso che quelli nati innocenti in patria, una volta commesso il delitto, furono cacciati dalla città ed accolti dagli Ateniesi.
Ma la sua eloquenza rifulse in modo straordinario quando fu ambasciatore a Sparta, prima della battaglia di Lèuttra".
Là erano convenuti gli inviati di tutti gli alleati e dinanzi alla affollatissima assemblea delle legazioni seppe stigmatizzare così bene la tirannide degli Spartani, che scosse la loro potenza non meno con quel discorso che con la battaglia di Leuttra. In quella occasione infatti, riuscì ad ottenere, come si vide poi, che gli Spartani rimanessero senza l'aiuto degli alleati.
Un certo Meneclide, poiché vedeva Epaminonda distinguersi nell'arte militare, aveva l'abitudine di esortare i Tebani, affinché anteponessero la pace alla guerra, affinché l'intervento di quel comandante non venisse richiesto.
Quello disse a questo: "Con la parola inganni i tuoi concittadini, perché li distogli dalla guerra: infatti con il pretesto della pace procuri la schiavitù. Infatti la pace viene prodotta dalla guerra. Perciò quelli che vogliono godere di una lunga pace, devono essere esercitati alla guerra. Per cui se volete essere i primi della Grecia, dovete ricorrere all'accampamento, non alla palestra".
Poiché quello stesso Meneclide lo tacciava di orgoglio, affermando che egli aveva conseguito la gloria militare di Agamennone, disse: "Poiché pensi che imito Agamennone, sbaglierai.
Infatti egli con tutta la Grecia in dieci anni occupò a malapena una sola città, io al contrario con una sola nostra città e in un solo giorno liberai tutta la Grecia, dopo aver fatto fuggire gli Spartani".
Febida Spartano, conducendo l'esercito ad Olinto e facendo un tragitto attraverso Tebe, occupò la rocca della Città con ausilio di pochi fra i tebani. Tuttavia intraprese l’occupazione con una sua personale decisione e non pubblica, così gli Spartani allontanarono Febida dall’esercito e gli diedero una sanzione pecuniaria, ma non restituirono la rocca ai Tebani.
Febida si rifugiò ad Atene con molti esuli Tebani capitanati da Pelopida e lì attese il momento e aspettò il tempo adatto alla vendetta. L’ estate seguente, pochi sicari, tra i quali Febida e Pelopida, giunsero a Tebe con un veloce viaggio da Atene con cani da caccia, reti e vesti contadine, infatti volevano fare il viaggio senza destare sospetto.
Come la notte avanzò ed i capi Spartani furono uccisi dai sicari, Pelopida chiamò il popolo alle armi. Allora il popolo, che per molti mesi era rimasto senza libertà accorse da ogni parte, scacciò il presidio degli Spartani dalla rocca e liberò la patria dalla schiavitù.
Lisandro, comandante della flotta poiché aveva agito molto crudelmente e avidamente in guerra e temeva che queste cose turpi fossero riferite ai suoi concittadini, chiese a Farnabazo di dargli un attestato della sua onestà per gli efori: con grande disinteresse aveva condotto la guerra e trattatogli alleati, quindi Farnabazo doveva scrivere sulla cosa accuratamente.
Egli promise volentieri: scrisse un grande libro con molte parole e con somme lodi esaltava Lisandro. Lisandro lesse gli scritti mentre apponeva il sigillo. Tuttavia Farnabazo sostituì il sigillo ad un altro libro di pari grandezza e somiglianza, nel quale aveva accusato alquanto accuratamente l'avidità e la malafede del comandante.
Non mi sembra inopportuno riferire quale ricompensa sia stata data a Milziade per questa vittoria, affinché possa essere compreso più facilmente che la natura di tutti i popoli è la stessa. Come infatti un tempo le onorificenze del popolo Romano furono rare e modeste e per questo motivo gloriose, ora invece diffuse e svilite, così scopriamo essere stato una volta presso gli Ateniesi.
Infatti a questo Milziade, che aveva liberato Atene e tutta la Grecia, fu attribuito un onore tale che nel portico, che si chiama Pecile, essendo dipinta la battaglia di Maratona, il suo ritratto fu posto per primo nel numero dei dieci comandanti ed egli esortò i soldati e attaccò battaglia.
Quello stesso popolo, dopo che ebbe raggiunto un potere maggiore e fu corrotto dalla prodigalità dei magistrati, decretò trecento statue a Demetrio Falereo.
Dopo questa battaglia inviano lo stesso Pausania con la flotta degli alleati a Cipro e nell'Ellesponto, con l'incarico di cacciare da quelle regioni le guarnigioni dei barbari. Avuto un esito ugualmente felice dell'impresa cominciò a comportarsi con molto orgoglio ed a prefiggersi mete più ambiziose.
Ed infatti quando, espugnata Bisanzio, catturò molti nobili Persiani e tra loro alcuni parenti del re, rispedì questi ultimi di nascosto a Serse, fingendo che fossero fuggiti dalle pubbliche prigioni, insieme con questi Gangilo di Eretria con l'incarico di consegnare al re le lettere, nelle quali erano scritte queste cose:
"Pausania, duce di Sparta, quelli che ha catturato a Bisanzio, dopoché ha appreso che sono tuoi parenti, te li ha mandati in dono e desidera imparentarsi con te; perciò, se ti sta bene, dagli in sposa la tua figliuola. Se farai così, io ti prometto di ridurre in tuo potere, col tuo aiuto, e Sparta e tutto il resto della Grecia."
Il re si rallegrò moltissimo e mandò da Pausania Artabazo con una lettera, nella quale lo colmava di lodi; chiede che nulla tralasci per realizzare quelle cose che prometteva quando fosse venuto in aiuto agli spartani; Pausania richiamato in patria fu accusato di delitto capitale ed assolto tuttavia infatti narrano che non fu condannato se non ad una ingente pena pecuniaria; e per questo non fu rimandato alla flotta.
LA VICENDA DI PAUSANIA GENERALE SPARTANO
Pausania, un uomo famoso a Sparta veniva sia lodato per la virtù sia biasimato per i vizi.
Annientò con un ingente esercito, a Platea Mardonio, satrapo dei medi. Respinse, con la stessa fortuna i presidi dei barbari, quando fu inviato con la flotta a Cipro e in Ellesponto.
I cittadini aspettavano un'occasione per punirlo e quindi così accadde. Infatti dopo che Pausania diede al fanciullo Argilio le lettere per Serse, il fanciullo aprì le lettere e scoperta la congiura ed il tradimento della patria, diede agli efori le lettere. Pausania si rifugiò nel tempio di Minerva ma serrato il tempio e il tetto fu demolito dagli efori, fu estratto morente dagli efori.
CULTURA E UMANITA' DI POMPONIO ATTICO
Parlava infatti in Greco in modo tale da sembrare nato ad Atene; ma era di tale gradevole lingua Latina che sembrava avesse in essa una qualche grazia nativa, non acquisita. Per le quali cose avvenne che Silla non lo allontanò mai da sé e desiderò condurlo con sé. Quando tentò di persuaderlo a ciò, "Non volere, ti prego" disse Pomponio" condurmi contro coloro, con i quali ho lasciato l'Italia per non prendere le armi contro di te".
Ma Siila, avendo lodato pubblicamente l'impegno del giovane, ordinò partendo che gli fossero concessi tutti gli uffici che aveva ricevuto ad Atene. Pomponio, trattenutosi qui per molti anni, e avendo dedicato tanto impegno alla famiglia, quanto un padre di famiglia premuroso deve, e avendo occupato tutto il tempo rimanente o nelle lettere o per la comunità Ateniese, per nulla di meno si occupò dei pubblici uffici per gli amici.
Infatti e era solito recarsi ai loro comizi e, se qualche fatto di maggior importanza fu compiuto, non si sottrasse. Come offrì una singolare fedeltà a Cicerone in tutti i suoi rischi: gli donò mentre fuggiva dalla patria duecentocinquantamila sesterzi.
E quell'uomo, in vero, non fu considerato meno esperto come padre di famiglia che come cittadino.
Infatti sebbene fosse benestante, nessuno meno di lui fu smanioso di comprare, meno desideroso di costruire. Tuttavia non ebbe una abitazione tra le migliori e non godette di tutte le comodità. Infatti abitò la casa sul Quirinale, lasciatagli in eredità dallo zio materno, la cui bellezza era costituita non tanto dall'edificio ma dal bosco.
ANTONIO RISPARMIA ATTICO DALLA PROSCRIZIONE
Quando Antonio tornò in Italia tutti ritenevano che Attico corresse un grande pericolo per l'intima familiarità Con Cicerone e Bruto.
Pertanto poco prima dell'arrivo dei generali aveva smesso di apparire in pubblico, temendo la proscrizione e stava nascosto presso P. Volumnio, al quale, come abbiamo detto, aveva prestato poco prima il suo aiuto (tanto grande fu in quei tempi la mutabilità della fortuna che ora l'uno ora l'altro veniva a trovarsi o all'apogeo del potere o nel massimo pericolo) ed aveva con sé Q. Gellio Cassio suo coetaneo ed in tutto simile a lui.
Anche questo sia un esempio della bontà di Attico: il fatto che con lui che aveva conosciuto fanciullo alla scuola, visse tanto affiatatamente, che la loro amicizia crebbe fino all'età estrema. Ma Antonio, sebbene fosse spinto da tanto odio contro Cicerone, da essere nemico non solo di lui ma anche di tutti i suoi amici e li volesse proscrivere, incoraggiato da molti, tuttavia fu memore del favore di Attico e informatosi dove fosse, gli scrisse di sua mano che non temesse e che andasse subito da lui: egli aveva infatti fatto togliere lui ed in grazia sua Canio dalla lista dei proscritti.
E perché non incappasse in qualche pericolo, dato che la cosa avveniva di notte, gli mandò una scorta.
CORRISPONDENZA DI OTTAVIANO E DI ANTONIO CON P. ATTICO
Ottaviano, non solo quando si trovava lontano dalla città, non mandava mai alcuna lettera ai suoi, senza scrivere ad Attico cosa facesse, specialmente cosa leggesse e in quali luoghi si trovasse e per quanto tempo vi si sarebbe fermato, ma anche, quando si trovava in città e a causa dei suoi infiniti impegni godeva della presenza di Attico meno spesso di quanto volesse, non passava nessun giorno in cui non gli scrivesse, poiché ora gli chiedeva qualche informazione sulla storia antica, ora gli proponeva una discussione poetica, talvolta scherzando lo induceva a scrivere lettere più lunghe.
Da ciò accadde che, essendo caduto in rovina a causa dalla vecchiaia e della trascuratezza, il tempio di Giove Feretrio, sul Campidoglio, costruito da Romolo, Cesare, dietro suggerimento di Attico, si impegnò nel restaurarlo.
Pronunciata quest’orazione in verità Agrippa piangendo e baciandolo pregava e scongiurava, che egli stesso non affrettasse anche per sé ciò, che la natura imponeva, e dato che allora poteva resistere anche alle circostanze, che si mantenesse in vita per sé e per i suoi, declinò con la propria taciturna ostinazione le preghiere di costui.
Così essendosi astenuto dal cibo per due giorni la febbre cessò repentinamente e la malattia cominciò ad essere più lieve. Nonostante ciò il proposito si realizzò non di meno. Pertanto nel quinto giorno dopo che era subentrata tale decisione.
Morì sotto i consoli Cn. Domizio e C. Sosio. Fu trasportato sulla lettiga, come egli stesso aveva prescritto, senza alcun corteo funebre, con tutti gli onesti che lo accompagnavano, con la massima affluenza del volgo. Venne sepolto nei pressi della via Appia sulla quinta pietra nella tomba di suo zio, Q. Cecilio.
TIMOLEONTE DIFENDE FINO ALL'ULTIMO LA LIBERTA' DI PAROLA
Timoleonte, essendo ormai anziano, senza alcuna malattia perse la vista.
Sopportò tale sciagura così moderatamente che nessuno lo sentì che si lamentava né partecipò meno alle faccende private e pubbliche.
Inoltre dalla sua bocca non uscì mai niente di arrogante né borioso. Il quale, quando udiva che venivano celebrate le sue lodi, non disse mai altro se non che in quella circostanza ringraziava sommamente gli Dei. Diceva, infatti, che nessuna delle cose umane poteva essere compiuta senza la volontà degli Dei. Per la sua onestà accadde che tutta la Sicilia ritenesse giorno di festa il giorno della sua nascita.
Un giorno un tale Lafistio, uomo sfacciato ed ingrato, volle imporre a costui l'impegno di comparire in giudizio. Essendo accorsi parecchi, che tentavano di reprimere con le mani l'insolenza dell'uomo, Timoleonte pregò tutti di non farlo. Disse infatti di avere affrontato grandissime fatiche ed estremi pericoli affinché ciò fosse possibile per chiunque; disse, infatti, che questo è il bello della libertà, se a tutti è possibile ricorrere alle leggi in ciò che ciascuno vuole.
UNA CORONA PER TRASIBULO
A Trasibulo, per tanti meriti, fu data una corona d'onore dal popolo, fatta da due ramoscelli d'ulivo: poichè aveva fatto uscire l'amore dei cittadini e non la forza, egli non ebbe invidia e fu di grande gloria. Quindi quel famoso Pittaco, che fu considerato nel numero dei 7 sapienti, dando a lui gli abitanti di Mitilene molte migliaia di jugeri di campo in dono disse:
"Non vogliate, vi prego, darmi ciò, che molti potrebbero invidiare, numerosi anche desiderare. Poichè tra codeste cose non voglio più che cento iugeri, che indichino anche la mia equità d'animo e la vostra volontà. Infatti i piccoli doni durevoli, sono soliti essere non propriamente ricchezze".
Dunque Trasibulo, contento, né pretese di più né ritenne di distinguesi in alcuna cosa per onore. Costui, qualche tempo dopo, essendo approdato un pretore con la flotta in Cilicia, affinché le guardie non giungessero abbastanza diligentemente nel suo accampamento, da barbari, fatta irruzione dalla città nella notte, fu ucciso nella tenda.
PELOPIDA
Dubito sulle virtù di Pelopida ad ogni modo io le esporrò, perché temo che, se comincerò a spiegare le cose, sembra che io non narri la sua vita, ma scriva la storia; se avrò toccato le essenze, appaia meno distintamente ai poco esperti quanto grande sia stato quell’uomo. Pelopida lottò anche contro la fortuna avversa.
Una volta persuase i tebani a partire per la Tessalia e a cacciare i tiranni dalla loro regione. Essendogli stata dato il comando di questa guerra e partito perciò con l’esercito, non dubitò, appena vide il nemico, di attaccare. In questo combattimento però come scoprì Alessandro, acceso d’ira spronò contro di lui il cavallo, ed uscito lontano dai suoi, trafitto dal lancio di giavellotti, cadde. Anche questo accadde essendo la vittoria favorevole: infatti le truppe dei tiranni erano già piegate. Per tale fatto tutte le città della Tessaglia donarono a Pepopida, ucciso, corone d’oro e statue di bronzo.
TEMISTOCLE E LA BATTAGLIA DI SALAMINA
Infatti egli con tutta la Grecia in dieci anni occupò a malapena una sola città, io al contrario con una sola nostra città e in un solo giorno liberai tutta la Grecia, dopo aver fatto fuggire gli Spartani".
DISINTERESSE DI EPAMINONDA PER IL DENARO
L' incorruttibilità di Epaminonda fu messa alla prova da Diomedonte di Cizio: egli infatti su richiesta del re Artaserse si era assunto il compito di corrompere Epaminonda col denaro. Venne a Tebe con grande quantità di oro e con cinque talenti conquistò alla sua volontà il giovinetto Micito che allora era grandemente amato da Epaminonda. Micito andò a trovare Epaminonda e gli manifestò il motivo della venuta di Diomedonte.
Ma egli a Diomedonte quando gli fu davanti: "Non c'è affatto bisogno di denaro", disse; "infatti se il re vuole cose utili per i Tebani, sono pronto a farle senza ricompensa; se invece cose dannose, non gli basta tutto l'oro e l'argento che ha. Non voglio ricevere le ricchezze di tutto il mondo in cambio dell'amore di patria. Che tu, non conoscendomi, mi abbia tentato e mi abbia ritenuto simile a te, non mi meraviglio e te ne scuso; ma esci immediatamente, perché non corrompa altri, non avendo potuto corrompere me. E tu, o Micito, rendi a costui l'argento, altrimenti, se non lo fai immediatamente, io ti consegnerò al magistrato".
E pregandolo Diomedonte di potersene andare con sicurezza e che gli fosse permesso di portare via quello che aveva recato con sé: "Codesto certo che lo farò", disse, "e non per te ma per me, perché, nel caso ti venga rubato il denaro, non si dica che sia pervenuto a me strappato con violenza quello che non avevo voluto accettare offertomi". Gli chiese dove volesse essere accompagnato e avendo quello detto Atene, gli dette una scorta, perché vi giungesse senza rischi.
L' incorruttibilità di Epaminonda fu messa alla prova da Diomedonte di Cizio: egli infatti su richiesta del re Artaserse si era assunto il compito di corrompere Epaminonda col denaro. Venne a Tebe con grande quantità di oro e con cinque talenti conquistò alla sua volontà il giovinetto Micito che allora era grandemente amato da Epaminonda. Micito andò a trovare Epaminonda e gli manifestò il motivo della venuta di Diomedonte.
Ma egli a Diomedonte quando gli fu davanti: "Non c'è affatto bisogno di denaro", disse; "infatti se il re vuole cose utili per i Tebani, sono pronto a farle senza ricompensa; se invece cose dannose, non gli basta tutto l'oro e l'argento che ha. Non voglio ricevere le ricchezze di tutto il mondo in cambio dell'amore di patria. Che tu, non conoscendomi, mi abbia tentato e mi abbia ritenuto simile a te, non mi meraviglio e te ne scuso; ma esci immediatamente, perché non corrompa altri, non avendo potuto corrompere me. E tu, o Micito, rendi a costui l'argento, altrimenti, se non lo fai immediatamente, io ti consegnerò al magistrato".
E pregandolo Diomedonte di potersene andare con sicurezza e che gli fosse permesso di portare via quello che aveva recato con sé: "Codesto certo che lo farò", disse, "e non per te ma per me, perché, nel caso ti venga rubato il denaro, non si dica che sia pervenuto a me strappato con violenza quello che non avevo voluto accettare offertomi". Gli chiese dove volesse essere accompagnato e avendo quello detto Atene, gli dette una scorta, perché vi giungesse senza rischi.
AMOR DI PATRIA DI EPAMINONDA
Non avendo voluto i suoi concittadini per invidia che lui comandasse l’esercito ed essendo stato eletto un comandante inesperto di guerra, e per il suo errore quella moltitudine di soldati era stata condotta al punto che tutti temessero per la salvezza, perché chiusi dai nemici in strettezze di luoghi, si cominciò a desiderare l’abilità di Epaminonda.
Infatti era lì nel numero dei soldati come privato cittadino. Chiedendo aiuto a lui, non ebbe nessun ricordo dell’offesa e l’esercito, liberato dall’assedio, lo ricondusse incolume in patria. Ma non fece questo una volta sola, ma piuttosto spesso. Ma specialmente fu cosa famosa, avendo guidato l’esercito nel Peloponneso contro i Lacedemoni e avendo due colleghi, di cui uno era Pelopida, uomo forte e valoroso.
Poiché essi per le accuse di avversari erano venuti tutti in odiosità e per tale cosa era stato tolto loro il comando ed al loro posto erano succeduti altri comandanti, Epaminonda non obbedì al decreto del popolo, e persuase i colleghi che facessero lo stesso e fece la guerra che aveva intrapresa. Infatti capiva che se non avesse fatto ciò, tutto l’esercito per l’incapacità dei comandanti e l’ignoranza della guerra sarebbe perito.
Non avendo voluto i suoi concittadini per invidia che lui comandasse l’esercito ed essendo stato eletto un comandante inesperto di guerra, e per il suo errore quella moltitudine di soldati era stata condotta al punto che tutti temessero per la salvezza, perché chiusi dai nemici in strettezze di luoghi, si cominciò a desiderare l’abilità di Epaminonda.
Infatti era lì nel numero dei soldati come privato cittadino. Chiedendo aiuto a lui, non ebbe nessun ricordo dell’offesa e l’esercito, liberato dall’assedio, lo ricondusse incolume in patria. Ma non fece questo una volta sola, ma piuttosto spesso. Ma specialmente fu cosa famosa, avendo guidato l’esercito nel Peloponneso contro i Lacedemoni e avendo due colleghi, di cui uno era Pelopida, uomo forte e valoroso.
Poiché essi per le accuse di avversari erano venuti tutti in odiosità e per tale cosa era stato tolto loro il comando ed al loro posto erano succeduti altri comandanti, Epaminonda non obbedì al decreto del popolo, e persuase i colleghi che facessero lo stesso e fece la guerra che aveva intrapresa. Infatti capiva che se non avesse fatto ciò, tutto l’esercito per l’incapacità dei comandanti e l’ignoranza della guerra sarebbe perito.
PUNIZIONE DI UN GENERALE (FEBIDA)
Febida si rifugiò ad Atene con molti esuli Tebani capitanati da Pelopida e lì attese il momento e aspettò il tempo adatto alla vendetta. L’ estate seguente, pochi sicari, tra i quali Febida e Pelopida, giunsero a Tebe con un veloce viaggio da Atene con cani da caccia, reti e vesti contadine, infatti volevano fare il viaggio senza destare sospetto.
Come la notte avanzò ed i capi Spartani furono uccisi dai sicari, Pelopida chiamò il popolo alle armi. Allora il popolo, che per molti mesi era rimasto senza libertà accorse da ogni parte, scacciò il presidio degli Spartani dalla rocca e liberò la patria dalla schiavitù.
IFICRATE
Fu inoltre grande sia d'animo che di corpo e di aspetto da comandante tanto che proprio con questo aspetto incuteva in chiunque l'ammirazione nei suoi confronti, ma fu troppo fiacco nel lavoro e poco resistente, come Teopompo ha tramandato, e fu davvero un buon cittadino e di grande lealtà.
Cosa che dimostrò in altre circostanze, innanzi tutto proteggendo i figli del macedone Aminta. E infatti Euridice, madre di Perdicca e di Filippo, essendo morto Aminta, si rifugiò con i suoi due figli presso Ificrate e fu difesa con le sue forze.
Visse fino alla vecchiaia in pace con l'animo dei propri concittadini. Una volta portò avanti una causa per un'accusa capitale, durante la guerra sociale, assieme a Timoteo, e fu assolto da quell'accusa.
Abbandonò il figlio, Menesteo, nato da una donna di Tracia, figlia del re Coti. Egli, quando gli fu chiesto chi stimasse di più, il padre o la madre, disse: "La madre". Poichè ciò a tutti sembrava strano, allora egli disse: "Lo faccio a buon merito: infatti il padre, per quanto stette a lui, mi ha generato Trace, invece la madre Ateniese."
Fu inoltre grande sia d'animo che di corpo e di aspetto da comandante tanto che proprio con questo aspetto incuteva in chiunque l'ammirazione nei suoi confronti, ma fu troppo fiacco nel lavoro e poco resistente, come Teopompo ha tramandato, e fu davvero un buon cittadino e di grande lealtà.
Cosa che dimostrò in altre circostanze, innanzi tutto proteggendo i figli del macedone Aminta. E infatti Euridice, madre di Perdicca e di Filippo, essendo morto Aminta, si rifugiò con i suoi due figli presso Ificrate e fu difesa con le sue forze.
Visse fino alla vecchiaia in pace con l'animo dei propri concittadini. Una volta portò avanti una causa per un'accusa capitale, durante la guerra sociale, assieme a Timoteo, e fu assolto da quell'accusa.
Abbandonò il figlio, Menesteo, nato da una donna di Tracia, figlia del re Coti. Egli, quando gli fu chiesto chi stimasse di più, il padre o la madre, disse: "La madre". Poichè ciò a tutti sembrava strano, allora egli disse: "Lo faccio a buon merito: infatti il padre, per quanto stette a lui, mi ha generato Trace, invece la madre Ateniese."
LISANDRO CADE NEL TRANELLO DI FARNABAZO
LISANDRO |
Egli promise volentieri: scrisse un grande libro con molte parole e con somme lodi esaltava Lisandro. Lisandro lesse gli scritti mentre apponeva il sigillo. Tuttavia Farnabazo sostituì il sigillo ad un altro libro di pari grandezza e somiglianza, nel quale aveva accusato alquanto accuratamente l'avidità e la malafede del comandante.
Lisandro ritornò a casa/in patria e quando lo portò dal magistrato sulle sue azioni, come conferma, porse il libro dato da Farnabazo. Così l'imprudente fu accusatore della sua crudeltà.
GLI ONORI TRIBUTATI A MILZIADE
Infatti a questo Milziade, che aveva liberato Atene e tutta la Grecia, fu attribuito un onore tale che nel portico, che si chiama Pecile, essendo dipinta la battaglia di Maratona, il suo ritratto fu posto per primo nel numero dei dieci comandanti ed egli esortò i soldati e attaccò battaglia.
Quello stesso popolo, dopo che ebbe raggiunto un potere maggiore e fu corrotto dalla prodigalità dei magistrati, decretò trecento statue a Demetrio Falereo.
MILZIADE E' ACCUSATO DI ASPIRARE ALLA TIRANNIDE
Miliziade, avendo passato molta parte della vita nelle cariche militari e politiche, non sembrava che potesse essere cittadino privato, tanto più che sembrava che fosse spinto dalla consuetudine al desiderio di potere.
Infatti per tutti quegli anni in cui aveva abitato nel Chersoneso, aveva ottenuto un dominio ininterrotto ed era stato chiamato tiranno, ma giusto. Infatti non l'aveva ottenuto con la forza, ma per volontà dei suoi, e deteneva quel potere con bontà. In verità sono chiamati e sono ritenuti tiranni tutti quelli che sono con un potere ininterrotto in quella città che ha usufruito della libertà.
Ma c'era in Milziade come una grandissima umanità così una mirabile affabilità, così che non c'era nessuno tanto umile a cui non fosse disponibile l'avvicinamento a lui; una grande autorevolezza presso tutte le popolazioni, una nobile fama, e una grandissima gloria dell'arte militare. Il popolo guardando a queste cose preferì che quello fosse punito innocente piuttosto di essere nella paura troppo a lungo.
MILZIADE OCCUPA IL CHERONESO
Milziade, figlio di Cimone, ateniese, si distinse moltissimo sia grazie all'antichità della stirpe sia per la gloria degli antenati sia per la sua modestia.
Poiché a quei tempi gli Ateniesi desideravano mandare coloni nel Chersoneso e molti popoli chiedevano l'alleanza dell'espatrio, consultarono l'oracolo di Apollo ed elessero Milziade comandante.
Allora Milziade guerreggiò con valorosi uomini presso il Chersoneso e in breve tempo distrusse le truppe dei barbari, occupò tutta la regione, fortificò con fortezze luoghi adatti, piazzò molti uomini nelle valli e si arricchì con continui saccheggi.
Dopo che i barbari furono superati in guerra grazie al valore dei soldati, con moderazione e saggezza Milziade fondò una colonia e lì decise di abitare: infatti aveva tra gli abitanti del Chersoneso dignità regale, sebbene gli mancasse il nome di re. Dopo ridusse sotto il potere degli Ateniesi con uguale successo le restanti isole, chiamate Cicladi.
Miliziade, avendo passato molta parte della vita nelle cariche militari e politiche, non sembrava che potesse essere cittadino privato, tanto più che sembrava che fosse spinto dalla consuetudine al desiderio di potere.
Infatti per tutti quegli anni in cui aveva abitato nel Chersoneso, aveva ottenuto un dominio ininterrotto ed era stato chiamato tiranno, ma giusto. Infatti non l'aveva ottenuto con la forza, ma per volontà dei suoi, e deteneva quel potere con bontà. In verità sono chiamati e sono ritenuti tiranni tutti quelli che sono con un potere ininterrotto in quella città che ha usufruito della libertà.
Ma c'era in Milziade come una grandissima umanità così una mirabile affabilità, così che non c'era nessuno tanto umile a cui non fosse disponibile l'avvicinamento a lui; una grande autorevolezza presso tutte le popolazioni, una nobile fama, e una grandissima gloria dell'arte militare. Il popolo guardando a queste cose preferì che quello fosse punito innocente piuttosto di essere nella paura troppo a lungo.
Poiché a quei tempi gli Ateniesi desideravano mandare coloni nel Chersoneso e molti popoli chiedevano l'alleanza dell'espatrio, consultarono l'oracolo di Apollo ed elessero Milziade comandante.
Allora Milziade guerreggiò con valorosi uomini presso il Chersoneso e in breve tempo distrusse le truppe dei barbari, occupò tutta la regione, fortificò con fortezze luoghi adatti, piazzò molti uomini nelle valli e si arricchì con continui saccheggi.
Dopo che i barbari furono superati in guerra grazie al valore dei soldati, con moderazione e saggezza Milziade fondò una colonia e lì decise di abitare: infatti aveva tra gli abitanti del Chersoneso dignità regale, sebbene gli mancasse il nome di re. Dopo ridusse sotto il potere degli Ateniesi con uguale successo le restanti isole, chiamate Cicladi.
TRISTE FINE DI MILZIADE
Dopo questo combattimento gli Ateniesi misero a disposizione dello stesso Milziade una flotta di settanta navi perché portasse la guerra a quelle isole che avevano aiutato i barbari. Durante questa missione ne costrinse molte a tornare all'obbedienza, alcune le prese con la forza.
Fra queste non riusciva convincere con i negoziati l'isola di Paro orgogliosa della sua potenza; allora fece sbarcare truppe dalle navi, cinse con opere d'assedio la città e la tagliò fuori da ogni approvvigionamento: poi piazzate vigne e testuggini si accostò alle mura. Quando stava per impadronirsi della città, lontano sul continente, un bosco che si vedeva dall'isola, non so per quale accidente, di notte prese fuoco.
Quando le fiamme furono viste dagli assediati e dagli assalitori, ad entrambi venne il sospetto che si trattasse di un segnale mandato dai marinai del re. Ne conseguì che i Parii non vollero più saperne di arrendersi e Milziade temendo che si avvicinasse la flotta del re, incendiate le opere d'assedio che aveva predisposto, con le stesse navi con cui era partito tornò ad Atene, con grande disappunto dei suoi concittadini.
Fu quindi accusato di tradimento perché. pur potendo espugnare Paro, se ne era andato senza portare a termine l'impresa, in quanto corrotto dal re. In quel tempo era sofferente per le ferite che aveva riportato nell'assalto alla città; così, non essendo egli in grado di difendersi personalmente, parlò per lui il fratello Steságora.
Fatto il processo, assolto dalla pena capitale, fu condannato a una multa che fu stabilita di cinquanta talenti, esattamente la somma impiegata per allestire la flotta. Siccome non era in grado di pagare sul momento questo denaro, fu gettato nelle carceri dello Stato e lì morì.
Dopo questo combattimento gli Ateniesi misero a disposizione dello stesso Milziade una flotta di settanta navi perché portasse la guerra a quelle isole che avevano aiutato i barbari. Durante questa missione ne costrinse molte a tornare all'obbedienza, alcune le prese con la forza.
Fra queste non riusciva convincere con i negoziati l'isola di Paro orgogliosa della sua potenza; allora fece sbarcare truppe dalle navi, cinse con opere d'assedio la città e la tagliò fuori da ogni approvvigionamento: poi piazzate vigne e testuggini si accostò alle mura. Quando stava per impadronirsi della città, lontano sul continente, un bosco che si vedeva dall'isola, non so per quale accidente, di notte prese fuoco.
Quando le fiamme furono viste dagli assediati e dagli assalitori, ad entrambi venne il sospetto che si trattasse di un segnale mandato dai marinai del re. Ne conseguì che i Parii non vollero più saperne di arrendersi e Milziade temendo che si avvicinasse la flotta del re, incendiate le opere d'assedio che aveva predisposto, con le stesse navi con cui era partito tornò ad Atene, con grande disappunto dei suoi concittadini.
Fu quindi accusato di tradimento perché. pur potendo espugnare Paro, se ne era andato senza portare a termine l'impresa, in quanto corrotto dal re. In quel tempo era sofferente per le ferite che aveva riportato nell'assalto alla città; così, non essendo egli in grado di difendersi personalmente, parlò per lui il fratello Steságora.
Fatto il processo, assolto dalla pena capitale, fu condannato a una multa che fu stabilita di cinquanta talenti, esattamente la somma impiegata per allestire la flotta. Siccome non era in grado di pagare sul momento questo denaro, fu gettato nelle carceri dello Stato e lì morì.
PAUSANIA SOSPETTATO DI TRADIMENTO
Ed infatti quando, espugnata Bisanzio, catturò molti nobili Persiani e tra loro alcuni parenti del re, rispedì questi ultimi di nascosto a Serse, fingendo che fossero fuggiti dalle pubbliche prigioni, insieme con questi Gangilo di Eretria con l'incarico di consegnare al re le lettere, nelle quali erano scritte queste cose:
"Pausania, duce di Sparta, quelli che ha catturato a Bisanzio, dopoché ha appreso che sono tuoi parenti, te li ha mandati in dono e desidera imparentarsi con te; perciò, se ti sta bene, dagli in sposa la tua figliuola. Se farai così, io ti prometto di ridurre in tuo potere, col tuo aiuto, e Sparta e tutto il resto della Grecia."
Il re si rallegrò moltissimo e mandò da Pausania Artabazo con una lettera, nella quale lo colmava di lodi; chiede che nulla tralasci per realizzare quelle cose che prometteva quando fosse venuto in aiuto agli spartani; Pausania richiamato in patria fu accusato di delitto capitale ed assolto tuttavia infatti narrano che non fu condannato se non ad una ingente pena pecuniaria; e per questo non fu rimandato alla flotta.
Pausania, un uomo famoso a Sparta veniva sia lodato per la virtù sia biasimato per i vizi.
Annientò con un ingente esercito, a Platea Mardonio, satrapo dei medi. Respinse, con la stessa fortuna i presidi dei barbari, quando fu inviato con la flotta a Cipro e in Ellesponto.
Intensificata la superbia, al re dei persiani Serse, egli rimandò indietro i parenti di Serse prigionieri con Gongilio il Cretese con una lettera per il re. questo era il contenuto della lettera
"Ho rimandato da te i tuoi familiari e con te sono interessato a legarmi con una parentela di matrimonio: io ti consegnerò Sparta e tutta la Grecia, se mi darai una figlia in sposa".
Ma Pausania andò in sospetto e fu messo in catene dagli efori.
Ma Pausania andò in sospetto e fu messo in catene dagli efori.
I cittadini aspettavano un'occasione per punirlo e quindi così accadde. Infatti dopo che Pausania diede al fanciullo Argilio le lettere per Serse, il fanciullo aprì le lettere e scoperta la congiura ed il tradimento della patria, diede agli efori le lettere. Pausania si rifugiò nel tempio di Minerva ma serrato il tempio e il tetto fu demolito dagli efori, fu estratto morente dagli efori.
IL GIOVANE POMPONIO ATTICO CONQUISTA LA SICILIA
Silla dopo che si allontanò dall'Asia essendo giunto in quel luogo, per tutto il tempo in cui stette qui, ebbe con sé Pomponio, poiché venne catturato dall'umanità e dalla dottrina dell'adolescente.
Infatti parlava in greco così, che sembrava che fosse nato ad Atene. Ma c'era tanta soavità nel parlare in latino, da sembrare che in lui ci fosse una certa grazia innata, non acquisita.
Egli stesso pronunciava i componimenti in versi sia in greco che in latino così, che non si poteva aggiungere nulla di più. Per tali motivazioni avvenne che Silla non lo lasciò in alcun modo andare da lui, e desiderò condurlo con sé.
Costui tentando di convincerlo, disse "Io Pomponio ti prego, non devi volermi condurre contro coloro con i quali, per non portare le armi contro di te, lasciai L'italia" Ma Silla, elogiato il senso del dovere del giovane, partendo ordinò che gli venissero concessi tutti i doni, che aveva ricevuto ad Atene.
Silla dopo che si allontanò dall'Asia essendo giunto in quel luogo, per tutto il tempo in cui stette qui, ebbe con sé Pomponio, poiché venne catturato dall'umanità e dalla dottrina dell'adolescente.
Infatti parlava in greco così, che sembrava che fosse nato ad Atene. Ma c'era tanta soavità nel parlare in latino, da sembrare che in lui ci fosse una certa grazia innata, non acquisita.
Egli stesso pronunciava i componimenti in versi sia in greco che in latino così, che non si poteva aggiungere nulla di più. Per tali motivazioni avvenne che Silla non lo lasciò in alcun modo andare da lui, e desiderò condurlo con sé.
Costui tentando di convincerlo, disse "Io Pomponio ti prego, non devi volermi condurre contro coloro con i quali, per non portare le armi contro di te, lasciai L'italia" Ma Silla, elogiato il senso del dovere del giovane, partendo ordinò che gli venissero concessi tutti i doni, che aveva ricevuto ad Atene.
POMPONIO ATTICO E IL CULTO LETTERARIO DEI MAIORES
Attico fu un grandissimo seguace del costume degli antenati e un amatore dell'antichità, che studiò con tale cura, da averla esposta interamente in quell'opera, con cui regolò le magistrature.
Non c'è infatti nessuna legge, né pace, né guerra né gloriosa azione del popolo Romano, che non sia stata annotata in essa e, cosa che fu assai ardua, vi inserì anche la genealogia delle famiglie, perché possiamo conoscere da essa le discendenze degli uomini illustri.
Attico fu un grandissimo seguace del costume degli antenati e un amatore dell'antichità, che studiò con tale cura, da averla esposta interamente in quell'opera, con cui regolò le magistrature.
Non c'è infatti nessuna legge, né pace, né guerra né gloriosa azione del popolo Romano, che non sia stata annotata in essa e, cosa che fu assai ardua, vi inserì anche la genealogia delle famiglie, perché possiamo conoscere da essa le discendenze degli uomini illustri.
Fece questa stessa cosa separatamente in altri libri, al punto che, su richiesta di Marco Bruto, passò in rassegna in ordine cronologico la famiglia Giunia dal capostipite alla nostra età, annotando da chi fosse nato, quali onori avesse ricevuto e in quali tempi.
POMPONIO ATTICO |
Ma Siila, avendo lodato pubblicamente l'impegno del giovane, ordinò partendo che gli fossero concessi tutti gli uffici che aveva ricevuto ad Atene. Pomponio, trattenutosi qui per molti anni, e avendo dedicato tanto impegno alla famiglia, quanto un padre di famiglia premuroso deve, e avendo occupato tutto il tempo rimanente o nelle lettere o per la comunità Ateniese, per nulla di meno si occupò dei pubblici uffici per gli amici.
Infatti e era solito recarsi ai loro comizi e, se qualche fatto di maggior importanza fu compiuto, non si sottrasse. Come offrì una singolare fedeltà a Cicerone in tutti i suoi rischi: gli donò mentre fuggiva dalla patria duecentocinquantamila sesterzi.
LA SEMPLICE E SOBRIA CASA DI POMPONIO ATTICO
Infatti sebbene fosse benestante, nessuno meno di lui fu smanioso di comprare, meno desideroso di costruire. Tuttavia non ebbe una abitazione tra le migliori e non godette di tutte le comodità. Infatti abitò la casa sul Quirinale, lasciatagli in eredità dallo zio materno, la cui bellezza era costituita non tanto dall'edificio ma dal bosco.
La stessa infatti di per sé, fatta in tempi antichi, aveva più buon gusto che sfarzo; in essa non cambiò nulla, se non quello che fu costretto a cambiare per la vetustà. Fu elegante, non magnifica; splendida, non sfarzosa; e tutta la cura manifestava finezza, non eccesso.
Modesto l'arredamento e non eccessivo. Non ebbe nessun giardino, nessuna villa sontuosa fuori città o al mare eccetto ad Arezzo e a Nomento, un podere di campagna, e tutta la sua entrata di denaro dipendeva in possedimenti urbani in Epiro.
Modesto l'arredamento e non eccessivo. Non ebbe nessun giardino, nessuna villa sontuosa fuori città o al mare eccetto ad Arezzo e a Nomento, un podere di campagna, e tutta la sua entrata di denaro dipendeva in possedimenti urbani in Epiro.
Quando Antonio tornò in Italia tutti ritenevano che Attico corresse un grande pericolo per l'intima familiarità Con Cicerone e Bruto.
Pertanto poco prima dell'arrivo dei generali aveva smesso di apparire in pubblico, temendo la proscrizione e stava nascosto presso P. Volumnio, al quale, come abbiamo detto, aveva prestato poco prima il suo aiuto (tanto grande fu in quei tempi la mutabilità della fortuna che ora l'uno ora l'altro veniva a trovarsi o all'apogeo del potere o nel massimo pericolo) ed aveva con sé Q. Gellio Cassio suo coetaneo ed in tutto simile a lui.
Anche questo sia un esempio della bontà di Attico: il fatto che con lui che aveva conosciuto fanciullo alla scuola, visse tanto affiatatamente, che la loro amicizia crebbe fino all'età estrema. Ma Antonio, sebbene fosse spinto da tanto odio contro Cicerone, da essere nemico non solo di lui ma anche di tutti i suoi amici e li volesse proscrivere, incoraggiato da molti, tuttavia fu memore del favore di Attico e informatosi dove fosse, gli scrisse di sua mano che non temesse e che andasse subito da lui: egli aveva infatti fatto togliere lui ed in grazia sua Canio dalla lista dei proscritti.
E perché non incappasse in qualche pericolo, dato che la cosa avveniva di notte, gli mandò una scorta.
CORRISPONDENZA DI OTTAVIANO E DI ANTONIO CON P. ATTICO
Ottaviano, non solo quando si trovava lontano dalla città, non mandava mai alcuna lettera ai suoi, senza scrivere ad Attico cosa facesse, specialmente cosa leggesse e in quali luoghi si trovasse e per quanto tempo vi si sarebbe fermato, ma anche, quando si trovava in città e a causa dei suoi infiniti impegni godeva della presenza di Attico meno spesso di quanto volesse, non passava nessun giorno in cui non gli scrivesse, poiché ora gli chiedeva qualche informazione sulla storia antica, ora gli proponeva una discussione poetica, talvolta scherzando lo induceva a scrivere lettere più lunghe.
Da ciò accadde che, essendo caduto in rovina a causa dalla vecchiaia e della trascuratezza, il tempio di Giove Feretrio, sul Campidoglio, costruito da Romolo, Cesare, dietro suggerimento di Attico, si impegnò nel restaurarlo.
E quando era lontano non riceveva per lettera minori attestazioni di stima da Marco Antonio, a tal punto che quello dalle più lontane regioni rendeva informato dettagliatamente per lettera Attico su cosa facesse e su quali incarichi avesse per sé.
MORTE DI POMPONIO ATTICO
Così essendosi astenuto dal cibo per due giorni la febbre cessò repentinamente e la malattia cominciò ad essere più lieve. Nonostante ciò il proposito si realizzò non di meno. Pertanto nel quinto giorno dopo che era subentrata tale decisione.
Morì sotto i consoli Cn. Domizio e C. Sosio. Fu trasportato sulla lettiga, come egli stesso aveva prescritto, senza alcun corteo funebre, con tutti gli onesti che lo accompagnavano, con la massima affluenza del volgo. Venne sepolto nei pressi della via Appia sulla quinta pietra nella tomba di suo zio, Q. Cecilio.
SAGGIO GOVERNO DI TIMOLEONTE IN SICILIA
Timoleonte, cacciato Dionisio e annientati i Cartaginesi, poiché, a causa della lunga durata della guerra, erano state abbandonate non solo le regioni, ma anche le città, in un primo momento mandò a chiamare i coloni dalla Sicilia, poi da Corinto, poiché da loro all'inizio era stata fondata Siracusa.
Restituì agli antichi cittadini i loro beni, e divise fra i nuovi i nuovi i possedimenti ottenuti dalla guerra, ricostruì le mura demolite delle città e i templi devastati dalle fondamenta, restituì alle città le leggi e la libertà: da un così devastante conflitto procurò all'intera isola una così grande tranquillità da essere giudicato egli stesso il fondatore di quelle città e non quelli che le fondarono all'origine.
Demolì dalle fondamenta la rocca che Dionisio aveva fortificato per sottomettere la città in suo potere, distrusse gli altri baluardi della tirannide e si adoperò perché non rimanesse traccia della schiavitù.
Pur avendo un potere così grande da poter comandare anche su quelli che non volevano e pur avendo, inoltre, un così grande affetto da tutti i Siciliani da poter ottenere il regno, preferì essere amato che temuto. Pertanto, non appena gli fu possibile abbandonò il potere e trascorse il resto della vita a Siracusa come un cittadino privato.
Timoleonte, cacciato Dionisio e annientati i Cartaginesi, poiché, a causa della lunga durata della guerra, erano state abbandonate non solo le regioni, ma anche le città, in un primo momento mandò a chiamare i coloni dalla Sicilia, poi da Corinto, poiché da loro all'inizio era stata fondata Siracusa.
Restituì agli antichi cittadini i loro beni, e divise fra i nuovi i nuovi i possedimenti ottenuti dalla guerra, ricostruì le mura demolite delle città e i templi devastati dalle fondamenta, restituì alle città le leggi e la libertà: da un così devastante conflitto procurò all'intera isola una così grande tranquillità da essere giudicato egli stesso il fondatore di quelle città e non quelli che le fondarono all'origine.
Demolì dalle fondamenta la rocca che Dionisio aveva fortificato per sottomettere la città in suo potere, distrusse gli altri baluardi della tirannide e si adoperò perché non rimanesse traccia della schiavitù.
Pur avendo un potere così grande da poter comandare anche su quelli che non volevano e pur avendo, inoltre, un così grande affetto da tutti i Siciliani da poter ottenere il regno, preferì essere amato che temuto. Pertanto, non appena gli fu possibile abbandonò il potere e trascorse il resto della vita a Siracusa come un cittadino privato.
Timoleonte, essendo ormai anziano, senza alcuna malattia perse la vista.
Sopportò tale sciagura così moderatamente che nessuno lo sentì che si lamentava né partecipò meno alle faccende private e pubbliche.
Inoltre dalla sua bocca non uscì mai niente di arrogante né borioso. Il quale, quando udiva che venivano celebrate le sue lodi, non disse mai altro se non che in quella circostanza ringraziava sommamente gli Dei. Diceva, infatti, che nessuna delle cose umane poteva essere compiuta senza la volontà degli Dei. Per la sua onestà accadde che tutta la Sicilia ritenesse giorno di festa il giorno della sua nascita.
Un giorno un tale Lafistio, uomo sfacciato ed ingrato, volle imporre a costui l'impegno di comparire in giudizio. Essendo accorsi parecchi, che tentavano di reprimere con le mani l'insolenza dell'uomo, Timoleonte pregò tutti di non farlo. Disse infatti di avere affrontato grandissime fatiche ed estremi pericoli affinché ciò fosse possibile per chiunque; disse, infatti, che questo è il bello della libertà, se a tutti è possibile ricorrere alle leggi in ciò che ciascuno vuole.
ALTERNE SORTI DELL'ATENIESE TIMOTEO
Contro Filippo Menesteo, figlio di Ificrate e genero di Timoteo, viene investito del comando di console con l'ordine di partire per la guerra; gli si danno come consulenti il padre e il suocero, uomini di particolare esperienza e avvedutezza e dotati di tanta autorità che si poteva ragionevolmente sperare di riacquistare per mezzo loro il perduto.
Poichè essi erano già partiti alla volta di Samo, Carete, non appena lo seppe, perché non sembrasse che si facesse qualche operazione senza di lui, vi si recò egli pure con tutte le sue forze. Ma accadde che, mentre si accostavano all'isola, si scatenasse una gran burrasca, per schivare la quale i due anziani comandanti giudicarono conveniente interrompere la navigazione.
Quello, invece, lasciandosi guidare dalla sua pazza temerarietà, come se la fortuna fosse alla sua mercè, non si piegò all'autorità dei più vecchi: giunse là dove voleva e mandò a dire a Timoteo e a Ificrate che lo raggiungessero. Ma l'impresa gli andò male, tanto che dovette tornare alla base di partenza con parecchie navi in meno. Mandò allora una relazione ufficiale ad Atene, affermando che la conquista di Samo gli sarebbe stata cosa facile se Timoteo e Ificrate non lo avessero piantato in asso.
Il popolo, irascibile, sospettoso e di conseguenza volubile, ostile e invidioso, anche la potenza era considerata una colpa, li richiama in patria e li mette sotto inchiesta per tradimento. In tale processo viene condannato Timoteo e l'ammenda è stabilita in cento talenti. Egli, esacerbato dall'odio della sua ingrata città, si stabilì a Calcide.
Dopo la sua morte, il popolo pentito del proprio giudizio, condonò i nove decimi della multa e ordinò al figlio Conone di pagare dieci talenti per rifare un certo tratto delle mura.
Contro Filippo Menesteo, figlio di Ificrate e genero di Timoteo, viene investito del comando di console con l'ordine di partire per la guerra; gli si danno come consulenti il padre e il suocero, uomini di particolare esperienza e avvedutezza e dotati di tanta autorità che si poteva ragionevolmente sperare di riacquistare per mezzo loro il perduto.
Poichè essi erano già partiti alla volta di Samo, Carete, non appena lo seppe, perché non sembrasse che si facesse qualche operazione senza di lui, vi si recò egli pure con tutte le sue forze. Ma accadde che, mentre si accostavano all'isola, si scatenasse una gran burrasca, per schivare la quale i due anziani comandanti giudicarono conveniente interrompere la navigazione.
Quello, invece, lasciandosi guidare dalla sua pazza temerarietà, come se la fortuna fosse alla sua mercè, non si piegò all'autorità dei più vecchi: giunse là dove voleva e mandò a dire a Timoteo e a Ificrate che lo raggiungessero. Ma l'impresa gli andò male, tanto che dovette tornare alla base di partenza con parecchie navi in meno. Mandò allora una relazione ufficiale ad Atene, affermando che la conquista di Samo gli sarebbe stata cosa facile se Timoteo e Ificrate non lo avessero piantato in asso.
Il popolo, irascibile, sospettoso e di conseguenza volubile, ostile e invidioso, anche la potenza era considerata una colpa, li richiama in patria e li mette sotto inchiesta per tradimento. In tale processo viene condannato Timoteo e l'ammenda è stabilita in cento talenti. Egli, esacerbato dall'odio della sua ingrata città, si stabilì a Calcide.
Dopo la sua morte, il popolo pentito del proprio giudizio, condonò i nove decimi della multa e ordinò al figlio Conone di pagare dieci talenti per rifare un certo tratto delle mura.
UNA CORONA PER TRASIBULO
A Trasibulo, per tanti meriti, fu data una corona d'onore dal popolo, fatta da due ramoscelli d'ulivo: poichè aveva fatto uscire l'amore dei cittadini e non la forza, egli non ebbe invidia e fu di grande gloria. Quindi quel famoso Pittaco, che fu considerato nel numero dei 7 sapienti, dando a lui gli abitanti di Mitilene molte migliaia di jugeri di campo in dono disse:
"Non vogliate, vi prego, darmi ciò, che molti potrebbero invidiare, numerosi anche desiderare. Poichè tra codeste cose non voglio più che cento iugeri, che indichino anche la mia equità d'animo e la vostra volontà. Infatti i piccoli doni durevoli, sono soliti essere non propriamente ricchezze".
Dunque Trasibulo, contento, né pretese di più né ritenne di distinguesi in alcuna cosa per onore. Costui, qualche tempo dopo, essendo approdato un pretore con la flotta in Cilicia, affinché le guardie non giungessero abbastanza diligentemente nel suo accampamento, da barbari, fatta irruzione dalla città nella notte, fu ucciso nella tenda.
UN GENERALE ODIATO E POI RIMPIANTO
Visto che era l'unico nella città a distinguersi in modo così eccellente per queste imprese, cadde nella stessa invidia di suo padre e degli altri principi ateniesi.
Così con il voto dei cocci, che quelli chiamano "ostracismo", fu condannato a 10 anni di esilio. Di questo, però, si pentirono gli Ateniesi prima ancora di lui. Infatti, mentre lui si era piegato con animo forte all'ostilità dei suoi ingrati concittadini, giacchè gli Spartani avevano dichiarato guerra agli Ateniesi subito si rimpianse il suo ben noto valore.
Così, dopo il quinto anno che era stato cacciato fu richiamato in patria. Egli che aveva approfittato dell'accoglienza degli Spartani, ritenendo più conveniente ritirarsi che combattere, per sua spontanea volontà avanzò a Sparta e mise pace tra le due potentissime città.
Non molto dopo, l'imperatore mandato con duecento navi a Cipro, dopo aver sottomesso la maggior parte dell'isola, caduto in malattia morì nella città di Cizio. Lo rimpiansero a lungo non solo durante la guerra ma anche in tempo di pace. Infatti aveva proprietà e terreni in molti luoghi, ma fu di tanta generosità che mai in quelli aveva messo dei custodi per preservarne i prodotti.
Visto che era l'unico nella città a distinguersi in modo così eccellente per queste imprese, cadde nella stessa invidia di suo padre e degli altri principi ateniesi.
Così con il voto dei cocci, che quelli chiamano "ostracismo", fu condannato a 10 anni di esilio. Di questo, però, si pentirono gli Ateniesi prima ancora di lui. Infatti, mentre lui si era piegato con animo forte all'ostilità dei suoi ingrati concittadini, giacchè gli Spartani avevano dichiarato guerra agli Ateniesi subito si rimpianse il suo ben noto valore.
Così, dopo il quinto anno che era stato cacciato fu richiamato in patria. Egli che aveva approfittato dell'accoglienza degli Spartani, ritenendo più conveniente ritirarsi che combattere, per sua spontanea volontà avanzò a Sparta e mise pace tra le due potentissime città.
Non molto dopo, l'imperatore mandato con duecento navi a Cipro, dopo aver sottomesso la maggior parte dell'isola, caduto in malattia morì nella città di Cizio. Lo rimpiansero a lungo non solo durante la guerra ma anche in tempo di pace. Infatti aveva proprietà e terreni in molti luoghi, ma fu di tanta generosità che mai in quelli aveva messo dei custodi per preservarne i prodotti.
Dubito sulle virtù di Pelopida ad ogni modo io le esporrò, perché temo che, se comincerò a spiegare le cose, sembra che io non narri la sua vita, ma scriva la storia; se avrò toccato le essenze, appaia meno distintamente ai poco esperti quanto grande sia stato quell’uomo. Pelopida lottò anche contro la fortuna avversa.
Una volta persuase i tebani a partire per la Tessalia e a cacciare i tiranni dalla loro regione. Essendogli stata dato il comando di questa guerra e partito perciò con l’esercito, non dubitò, appena vide il nemico, di attaccare. In questo combattimento però come scoprì Alessandro, acceso d’ira spronò contro di lui il cavallo, ed uscito lontano dai suoi, trafitto dal lancio di giavellotti, cadde. Anche questo accadde essendo la vittoria favorevole: infatti le truppe dei tiranni erano già piegate. Per tale fatto tutte le città della Tessaglia donarono a Pepopida, ucciso, corone d’oro e statue di bronzo.
TEMISTOCLE E LA BATTAGLIA DI SALAMINA
Serse espugnate le Termopili si avvicinò prontamente alla città e la distrusse con un incendio dato che nessuno la difendeva una volta uccisi i sacerdoti che aveva trovato sulla rocca.
I soldati della flotta, atterriti dalle fiamme, non osavano rimanere in quel luogo e moltissimi erano del parere di tornare alle proprie città e difendersi dentro le mura; ma Temistocle da solo si oppose affermando che tutti uniti potevano far fronte, divisi sarebbero sicuramente periti e sosteneva questa tesi davanti ad Euribiade, re degli Spartani che allora aveva il comando supremo.
Ma non riuscendo a convincerlo come voleva, di notte mandò al re persiano il suo servo più fidato, perché gli portasse a nome suo la notizia che i suoi nemici erano in fuga: ma se questi si fossero allontanati, avrebbe durato più fatica e più tempo a concludere la guerra, dovendo inseguirli singolarmente; mentre se li avesse attaccati subito, in breve li avrebbe sconfitti tutti.
Con questo stratagemma voleva che tutti fossero costretti loro malgrado a combattere. A questa notizia, il re credendo che non ci fosse sotto alcun inganno, il giorno dopo, in una posizione per lui del tutto sfavorevole e invece molto vantaggiosa per i Greci, si scontrò con loro in un braccio di mare così angusto che la sua numerosa flotta non poté attuare lo spiegamento. Così fu vinto più dallo stratagemma d Temistocle che dalle armi greche.
Per quello stesso timore per cui era stato condannato Milziade, cacciato dalla città per mezzo dell'ostracismo andò a vivere ad Argo.
Poiché questo viveva grazie alle sue molte virtù con grande dignità, gli Spartani mandarono ad Atene degli ambasciatori, che lo accusarono mentre era assente, di aver fatto un'alleanza con il re Perse per sottomettere la Grecia.
A causa di questo crimine fu condannato per tradimento in contumacia. Quando seppe ciò, poiché non gli sembrava di essere abbastanza al sicuro ad Argo, si trasferì a Corcìra. Qui, rendendosi conto che i cittadini più importanti temevano che a causa sua gli Spartani e gli Ateniesi gli avrebbero mosso guerra, si rivolse ad Admeto, re dei Molossi, con cui aveva un legame di ospitalità. Quando giunse là, poiché in quel momento il re non era era presente, perché, dopo averlo accolto, tenesse a riceverlo con maggiore apprensione, rapì la piccola figlia di questo e con quella si diresse al santuario, poiché era celebrata un'importante cerimonia.
Non uscì di lì prima che il re non lo ebbe accolto in fiducia dandogli la destra; e la mantenne. Infatti benché fosse reclamato a nome dello Stato dagli Spartani e dagli Ateniesi, non tradì il supplice e lo consigliò di provvedere alla sua incolumità; era infatti difficile per lui rimanersi al sicuro in un luogo così vicino.
Così lo fece accompagnare a Pidna e gli diede una scorta sufficiente per la sua sicurezza. Qui si imbarcò in incognito a tutto l'equipaggio. Una violenta tempesta spinse la nave verso Nasso dove era allora un esercito ateniese, per cui Temistocle capì che se fosse arrivato lì per lui sarebbe stata la fine. Trovandosi a mal partito, rivela la propria identità al comandante della nave, facendogli molte promesse se lo avesse salvato.
Quello allora preso da pietà per un uomo così famoso, per un giorno e una notte tenne la nave ancorata in una rada lontana dall'isola e non permise che alcuno ne scendesse. Quindi giunse ad Efeso e li sbarcò Temistocle. E questi in seguito gli mostrò una riconoscenza adeguata al beneficio.
Il primo passo di impegnarsi per lo stato fu nella guerra di Corcira; per guidarla eletto comandante dal popolo non solo nella guerra presente, ma anche nel tempo restante rese la città più fiera.
Infatti mentre il denaro pubblico, che rientrava dalle miniere, per la prodigalità dei magistrati annualmente periva, egli persuase il popolo che con quel denaro si allestisse una flotta di cento navi. Costruita questa velocemente dapprima spezzò i Corciresi, poi inseguendo i pirati marittimi rese il mare sicuro.
In questa cosa da una parte adornò di ricchezze, dall’altra pure rese gli Ateniesi espertissimi di guerra navale. Di quanta grande salvezza ciò sia stato per tutta la Grecia, si conobbe con la guerra persiana.
Infatti poiché Serse e per mare e per terra dichiarava guerra a tutta l’Europa con così grandi truppe, quante né prima né poi nessuno ebbe – la flotta di questi fu di mille e duecento navi da guerra, che migliaia di navi da carico seguivano; gli eserciti poi di terra furono di settecento migliaia di fanti, quattrocento migliaia di cavalieri.
TEMISTOCLE INTERPRETA ACCORTAMENTE UN VATICINIO DELLA PITIA
Ma c'era fra gli Ateniesi un uomo di recente nei cittadini dell'autore dell'era attuale o di cui era nome Temistocle ma gli impiegati chiamati figlio di Neocle.
Egli diceva che gli interpreti ufficiali non avrebbero richiesto tutto ciò che era necessario dire altrimenti, che se davvero l'oracolo avesse osservato quali aveva detti gli ateniesi non sarebbe apparso che il responso dato mitemente ma così: "Salamina divina", o "Maledetta Salamina", a condizione che tu abbia il diritto di noleggiare una nave.
Infatti, in modo corretto, l'oracolo dato dal Dio come riferito ai nemici e non agli Ateniesi; nell'inventario dunque dei preparativi per le navi della marina, perché proprio queste erano legate a Salamina.
Quando Temistocle chiarì in modo di senso del responso, molto preferibile a quella degli interpreti ufficiali, che il Dio concorda nella preparazione di una battaglia navale, ma non una resistenza senza contatto, così l'Attica conoscerà la stabilità in un altro paese.
TEMISTOCLE ABILE GENERALE E UOMO POLITICO
Temistocle essendo apprezzato poco dai genitori, sia perché viveva in maniera piuttosto libera sia perché trascurava il patrimonio familiare, fu diseredato dal padre.
Questo affronto però non lo piegò, anzi lo incoraggiò. Infatti, giacchè riteneva che questo non potesse essere cancellato senza grandissimo impegno, si diede interamente all'attività politica, dedicandosi con una certa diligenza agli amici e alla gloria. Si occupava molto di cause private, spesso si presentava all'assemblea del popolo; nessun affare di una certa importanza si trattava senza di lui; trovava facilmente quanto era necessario e lo chiariva con facilità di parola. E non era meno pronto nell'esecuzione che nell'ideazione, poichè, come dice Tucidide, non solo giudicava esattamente le situazioni presenti, ma anche prevedeva con grande abilità quelle future.
Perciò accadde che in breve tempo diventò famoso. il primo passo della sua carriera politica fu al tempo della guerra di Corcira: eletto stratego dal popolo per condurla, rese la città più ardita non solo nella guerra di allora ma anche per il futuro.
Siccome il denaro pubblico che si ricavava dalle miniere veniva sperperato ogni anno a causa delle elargizioni dei magistrati, convinse il popolo a impiegare quel denaro per costruire una flotta di cento navi. Allestita in breve una tale flotta, dapprima debellò i Corciresi, poi dette la caccia ai predoni marittimi finché rese il mare sicuro. Con che arricchì gli Ateníesi e nel contempo li rese espertissimi nella guerra navale. Quanto questo abbia contribuito alla salvezza di tutta quanta la Grecia, si vide nella guerra contro i Persiani.
Ma c'era fra gli Ateniesi un uomo di recente nei cittadini dell'autore dell'era attuale o di cui era nome Temistocle ma gli impiegati chiamati figlio di Neocle.
Egli diceva che gli interpreti ufficiali non avrebbero richiesto tutto ciò che era necessario dire altrimenti, che se davvero l'oracolo avesse osservato quali aveva detti gli ateniesi non sarebbe apparso che il responso dato mitemente ma così: "Salamina divina", o "Maledetta Salamina", a condizione che tu abbia il diritto di noleggiare una nave.
Infatti, in modo corretto, l'oracolo dato dal Dio come riferito ai nemici e non agli Ateniesi; nell'inventario dunque dei preparativi per le navi della marina, perché proprio queste erano legate a Salamina.
Quando Temistocle chiarì in modo di senso del responso, molto preferibile a quella degli interpreti ufficiali, che il Dio concorda nella preparazione di una battaglia navale, ma non una resistenza senza contatto, così l'Attica conoscerà la stabilità in un altro paese.
Temistocle essendo apprezzato poco dai genitori, sia perché viveva in maniera piuttosto libera sia perché trascurava il patrimonio familiare, fu diseredato dal padre.
Questo affronto però non lo piegò, anzi lo incoraggiò. Infatti, giacchè riteneva che questo non potesse essere cancellato senza grandissimo impegno, si diede interamente all'attività politica, dedicandosi con una certa diligenza agli amici e alla gloria. Si occupava molto di cause private, spesso si presentava all'assemblea del popolo; nessun affare di una certa importanza si trattava senza di lui; trovava facilmente quanto era necessario e lo chiariva con facilità di parola. E non era meno pronto nell'esecuzione che nell'ideazione, poichè, come dice Tucidide, non solo giudicava esattamente le situazioni presenti, ma anche prevedeva con grande abilità quelle future.
Perciò accadde che in breve tempo diventò famoso. il primo passo della sua carriera politica fu al tempo della guerra di Corcira: eletto stratego dal popolo per condurla, rese la città più ardita non solo nella guerra di allora ma anche per il futuro.
Siccome il denaro pubblico che si ricavava dalle miniere veniva sperperato ogni anno a causa delle elargizioni dei magistrati, convinse il popolo a impiegare quel denaro per costruire una flotta di cento navi. Allestita in breve una tale flotta, dapprima debellò i Corciresi, poi dette la caccia ai predoni marittimi finché rese il mare sicuro. Con che arricchì gli Ateníesi e nel contempo li rese espertissimi nella guerra navale. Quanto questo abbia contribuito alla salvezza di tutta quanta la Grecia, si vide nella guerra contro i Persiani.
Temistocle, figlio di Neocle, era un Ateniese. I suoi difetti dell'età giovanile furono corretti con le grandi virtù a tal punto che nessuno si anteponeva a lui, pochi erano ritenuti eguali.
Ma dobbiamo cominciare dal principio. Suo padre Neuclo fu generoso. Egli sposò una cittadina di Acarnana, Da cui ebbe Temistocle, che si dedicò interamente allo stato, mettendosi più diligentemente al servizio degli amici e della notorietà.
Prendeva spesso parte ai processi privati, si mostrava soventemente nell'assemblea del popolo; senza di lui non si trattava alcuna questione più importante, ed era pronto a compiere le azioni non di meno di escogitarle, perché, come disse Tucidide, giudicava molto rettamente in merito alle situazioni presenti e congetturava molto astutamente relativamente agli eventi futuri.
Ma il primo passo fu di darsi alla vita politica con la guerra di Corfù; per compierla fu eletto pretore dal popolo e non solo durante l'immediata guerra, ma anche nel tempo restante rese più fiera la città.
Infatti dato che la rendita pubblica, che veniva ricavata dalle miniere, a causa delle elargizioni annuali dei magistrati andò perduta, egli convinse il popolo che con tale rendita era stata costruita una flotta di cento navi. Compiuto velocemente tale affare prima di tutto disperse gli abitanti di Corfù, poi col dare la caccia ai pirati marittimi rese il mare sicuro. .
Ma il primo passo fu di darsi alla vita politica con la guerra di Corfù; per compierla fu eletto pretore dal popolo e non solo durante l'immediata guerra, ma anche nel tempo restante rese più fiera la città.
Infatti dato che la rendita pubblica, che veniva ricavata dalle miniere, a causa delle elargizioni annuali dei magistrati andò perduta, egli convinse il popolo che con tale rendita era stata costruita una flotta di cento navi. Compiuto velocemente tale affare prima di tutto disperse gli abitanti di Corfù, poi col dare la caccia ai pirati marittimi rese il mare sicuro. .