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OPERE DI CATULLO

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GAIO VALERIO CATULLO

Vedi anche: VITA DI CATULLO

Il liber (libro) di Catullo non fu ordinato da lui stesso, che non aveva visto l'opera come un corpo unico, ma da un editore successivo (si pensa a Cornelio Nepote a cui è stata dedicata la prima parte dell'opera) che lo divise in tre parti secondo un criterio di tipo metrico:
- i carmi da 1 a 60, sotto il nome di "nugae" (letteralmente "sciocchezze"), brevi carmi polimetri, per lo più faleci e trimetri giambici;
- i carmi da 61 a 68, i cosiddetti "carmina docta" d'impronta alessandrina e per lo più in esametri e distici elegiaci;
- i carmi dal 69 al 116 sono gli epigrammi ("epigrammata"), in distici elegiaci.

Nelle nugae e negli epigrammata il tema dominante è dato dall'amore per Lesbia, rappresentata come una donna d'eccezionale fascino e cultura.
Nei carmina docta, invece, torna il classico, dove il mito rappresenta un modello etico e di valori che Catullo sente minacciati nella vita del suo tempo.



I TEMI DEL LIBER

La parte più importante del Liber catulliano è costituita dal sentimento amoroso per Lesbia, con cui ebbe un inizio molto felice ma in seguito funestato dai numerosi tradimenti della donna, alternando momenti di gioia a momenti di cupa infelicità.

Nella tradizione dell'epoca il vero amore apparteneva solo al matrimonio, peer Catullo, invece il rapporto con Lesbia, anche se trasgressivo per i moralisti (carme 5), è fondato su un "patto" (foedus) di lealtà, stima e fedeltà per cui non ha meno valore del matrimonio.

Amare e bene velle, il desiderio carnale e l'affetto, sono aspetti complementari ed indivisibili del rapporto: l'infedeltà annienta l'inviolabilità del bene velle ed acuisce il desiderio, ora trasformato in sofferenza. Odio et amo, in un turbinio di emozioni che portano alla follia e alla disperazione. Catullo porta la poesia ad un livello sublime di profondità psichica e dolore lancinante.

Catullo fa uso nella sua opera di più linguaggi, che fonde assieme per creare una lingua letteraria che comprenda tanto forme colte e dotte quanto forme "volgari e oscene", proprie del sermo familiaris, con diminutivi, grecismi, interiezioni, onomatopee ed espressioni della lingua parlata. Ma pure se il linguaggio è quotidiano e familiare, esso è rielaborato con fine gusto letterario. Per la scorrevolezza dello scritto egli fa uso di dialoghi, allocuzioni, iterazioni, metafore, diminutivi e così via.

Molto gli giovò la fondazione dei "Poeti Nuovi" che avevano una mentalità anticonformista e che lavoravano allo svecchiamento della poesia romana, ancora legata alle idealità civili dell’epica arcaica.



ELENCO DEI CARMINA  


NUGAE carmi senza pretese

Carme I - Dedica a Cornelio Nepote
Carme II - Il passero di Lesbia
Carme III - Morte del passerotto
Carme IV - Il battello di Catullo
Carme V - A Lesbia
Carme VI - Flavi, delicias tuas Catullo
Carme VII - A Lesbia
Carme VIII - A se stesso
Carme IX - A Veranio
Carme X - A Furio e Aurelio
Carme XI - Furi et Aureli, comites Catulli
Carme XII - Contro Marrucino, ladro di fazzoletti
Carme XIII - Invito a cena a Fabullo con doppia sorpresa
Carme XIV - Ni te plus oculis meis amarem 
Carme XIVb - Si qui forte mearum ineptiarum 
Carme XV - Commendo tibi me ac meos amores 
Carme XVI Ad Aurelio e Furio 
Carme XVII O Colonia, quae cupis ponte ludere longo 
Carme XXI Ad Aurelio 
Carme XXII A Varo 
Carme XXIII Furi, cui neque servus est neque arca 
Carme XXIV O qui flosculus es Iuventiorum 
Carme XXV Cinaede Thalle, mollior cuniculi capillo 
Carme XXVI - La villetta "esposta" 
Carme XXVII Ad un giovane coppiere 
Carme XXVIII Pisonis comites, cohors inanis 
Carme XXIX Quis hoc potest videre, quis potest pati 
Carme XXX Alfene immemor atque unanimis false sodalibus 
Carme XXXI A Sirmione 
Carme XXXII Ad Ipsitilla
Carme XXXIII O furum optime balneariorum
Carme XXXIV Inno a Diana
Carme XXXV Poeta tenero, meo sodali
Carme XXXVI Gli Annali di Volusio
Carme XXXVII La taverna di Lesbia
Carme XXXVIII Rimprovero a Cornificio
Carme XXXIX I denti bianchi di Egnazio
Carme XL Quaenam te mala mens, miselle Rauide
Carme XLI Ameana
Carme XLII Adeste, hendecasyllabi, quot estis
Carme XLIII Ad Ameana
Carme XLIV O funde noster seu Sabine seu Tiburs
Carme XLV Acmen Septimius suos amores
Carme XLVI Il ritorno della primavera
Carme XLVII Porci et Socration, duae sinistrae
Carme XLVIII A Giovenzio
Carme XLIX A Cicerone
Carme L Hesterno, Licini, die otiosi
Carme LI La sindrome amorosa
Carme LII Cose insopportabili
Carme LIII Risi nescio quem modo e corona
Carme LIV Othonis caput oppido est pusillum
Carme LV Oramus, si forte non molestum est
Carme LVI O rem ridiculam, Cato, et iocosam
Carme LVII Pulchre conuenit improbis cinaedis
Carme LVIII Contro Lesbia
Carme LVIIIb Non custos si fingar ille Cretum
Carme LIX La bolognese Rufa
Carme LX Contro una donna crudele


CARMINA DOCTADI argomento erudito e richiamo al modello ellenistico
 
Carme LXI Per le nozze di Lucio Manlio Torquato e Vinia Aurunculeia
Carme LXII Vesper adest
Carme LXIII Attis
Carme LXIV Le nozze di Peleo e Teti
Carme LXV Epistola ad Ortalo
Carme LXVI La chioma di Berenice
Carme LXVII Il carme della ianua
Carme LXVIII Quod mihi fortuna casuque oppressus acerbo
Carme LXIX
Carme LXX Promesse di donna
Carme LXXI
Carme LXXII A Lesbia
Carme LXXIII Ingratitudine generale
Carme LXXIV
Carme LXXV A Lesbia
Carme LXXVI
Carme LXXVII
Carme LXXVIII
Carme LXXVIII b
Carme LXXIX
Carme LXXX
Carme LXXXI
Carme LXXXII
Carme LXXXIII
Carme LXXXIV La pronuncia di Arrio
Carme LXXXV Odi et amo
Carme LXXXVI Lesbia è la più bella
Carme LXXXVII A Lesbia
Carme LXXXVIII
Carme LXXXIX Contro Gellio
Carme XC
Carme XCI
Carme XCII A Lesbia
Carme XCIII Disinteresse per Cesare
Carme XCIV A Minchia-Mamurra
Carme XCV La Smirna di Cinna
Carme XCVb
Carme XCVI
Carme XCVII
Carme XCVIII
Carme IC
Carme C
Carme CI Per la morte del fratello
Carme CII
Carme CIII
Carme CIV Come posso maledire Lesbia?
Carme CV
Carme CVI
Carme CVII Il ritorno di Lesbia
Carme CVIII
Carme CIX Speranza di amore eterno
Carme CX
Carme CXI
Carme CXII
Carme CXIII
Carme CXIV
Carme CXV
Carme CXVI


    Codici catulliani

    - Il Thuanensis, dal nome del possessore J. A. de Thou, florilegio del IX secolo contenente, del Liber, il solo carme 62.
    - L'Oxoniensis, del XIV secolo
    - Il Sangermanensis, dall'abbazia di Saint-Germain-des-Prés, della fine del XIV secolo
    - Il Datanus (1463) dal nome del possessore nel XVII secolo Luigi Dati

       

      I CARMINA


      1)  Carmen I - Dedica a Cornelio Nepote

      «Cui dono lepidum novum libellum
      arida modo pumice expolitum?
      Corneli, tibi: namque tu solebas
      meas esse aliquid putare nugas
      iam tum cum ausus es unus Italorum
      omne aevum tribus explicare cartis
      doctis, Iuppiter, et laboriosis.
      Quare habe tibi quicquid hoc libelli
      qualecumque; quod, patrona virgo,
      plus uno maneat perenne saeclo

      «A chi dono il mio libretto nuovo elegante
      appena levigato dalla dura pietra pomice?
      A te, Cornelio: e infatti tu eri solito
      pensare che le mie sciocchezze valessero qualcosa
      già allora, quando hai avuto il coraggio, unico fra gli Italici,
      di esporre tutta la storia in tre libri
      eruditi, per Giove, e laboriosi.
      Per questa ragione prendi questo libretto, qualunque cosa
      e quale il suo valore; perchè nella vergine madre
      possa rimanere più di un solo secolo.»



      2)  Carmen II - Il passero di Lesbia

      Egli aderisce alla poesia neoterica, un movimento letterario dell'età di Cesare. I suoi poeti erano chiamati neoteroi (o poetae novi), cosìddetti da Cicerone in modo ironico, disapprovando il distacco dalla tradizione della poesia romana arcaica. Nel Carmen II il poeta evoca quel poco di gioia che il passerotto procura a Lesbia che gioca con lui, e che potrebbe dar sollievo alla sua malinconia.

      «Passer, deliciae meae puellae,
      quicum ludere, quem in sinu tenere,
      cui primum digitum dare adpetenti
      et acris solet incitare morsus,
      cum desiderio meo nitenti
      carum nescioquid libet iocari
      ...tam gratum est mihi quam ferunt puellae
      pernici aureolum fuisse malum
      quod zolam solvit diu ligatam
      ...et solaciolum sui doloris
      credo, tum gravis acquiescet ardor
      Tecum ludere sicut ipsa possem
      et tristis animi levare curas


      "Passero, passero dell'amor mio:
      ti tiene in seno, gioca con te,
      porge le dita al tuo assalto,
      provoca le tue beccate rabbiose.
      Come si diverta l'anima mia
      in questo gioco, trovando conforto
      al suo dolore, non so; ma come lei,
      quando si placa l'affanno d'amore,
      anch'io vorrei giocare con te
      e strapparmi dal cuore la malinconia."



      3)  Carmen III - Morte del passerotto

      L’adesione all'ambiente romano è in effetti difficile, Catullo rifiuta ogni impegno personale in ambito politico. Lo stesso viaggio in Bitinia, intrapreso nel 57 a.c., al seguito del governatore Gaio Memmio, fu vissuto con insofferenza: forse il poeta era troppo tormentato dalla sua storia d’amore. L’evento di gran lunga più significativo della vita e della poesia di Catullo fu, infatti, l’incontro con una donna che nel suo canzoniere porta lo pseudonimo di Lesbia.

      «Lugete, o Veneres Cupidinesque
      Et quantum est hominum venustiorum!
      Passer mortuus est meae puellae,
      Passer, deliciae meae puellae,
      Quem plus illa oculis suis amabat;
      Nam mellitus erat, suamque norat
      Ipsam tam bene quam puella matrem,
      Nec sese a gremio illius movebat,
      Sed circumsiliens modo huc modo illuc
      Ad solam dominam usque pipiabat.
      Qui nunc it per iter tenebricosum
      Illuc, unde negant redire quemquam.
      At uobis male sit, malae tenebrae
      Orci, quae omnia bella deuoratis;
      Tam bellum mihi passerem abstulistis.
      O factum male! io miselle passer!
      Tua nunc opera meae puellae
      Flendo turgiduli rubent ocelli.
      »

      «Pianga Venere, piangano Amore
      e tutti gli uomini gentili:
      è morto il passero del mio amore,
      morto il passero che il mio amore
      amava più degli occhi suoi.
      Dolcissimo, la riconosceva
      come una bambina la madre,
      non si staccava dal suo grembo,
      le saltellava intorno
      e soltanto per lei cinguettava.
      Ora se ne va per quella strada oscura
      da cui, giurano, non torna nessuno.
      Siate maledette, maledette tenebre
      dell'Orco che ogni cosa bella divorate:
      una delizia di passero m'avete strappato.
      Maledette, passerotto infelice:
      ora per te gli occhi, perle del mio amore,
      si arrossano un poco, gonfi di pianto.»



      4)  Carmen IV -  Flavi, delicias tuas Catullo

      «Phaselus ille, quem videtis, hospites,
      ait fuisse navium celerrimus,
      neque ullus natantis impetum trabis
      nequisse praeterire, sive palmulis
      opus foret volare sive linteo.
      Et hoc negat minacis hadriatici
      negare litus insulasve Cycladas
      Rhodumque nobilem horridamque Thraciam
      Propontida trucemve Ponticum sinum,
      ubi iste post phaselus antea fuit
      comata silva; nam Cyrotioin iugo
      loquente saepe sibilum edidit coma.
      Amastri Pontica et Cytore buxifer,
      tibi haec fuisse et esse cognitissima
      ait phaselus, ultima ex origine
      tuo stetisse dicit in cacumine,
      tuo imbuisse palmulas in aequore,
      et inde tot per impotentia freta
      erum tulisse, laeva sive dextera
      vocaret aura, sive utrumque Iuppiter
      simul secundus incidisset in pedem;
      neque ulla vota litoralibus deis
      sibi esse facta, cum veniret a mari
      novissimo hunc ad usque limpidum lacum.
      Sed haec prius fuere; nunc recondita
      senet quiete seque dedicat tibi,
      gemelle Castor et gemelle Castoris

      «Questo battello che vedete, amici,
      si vanta d'essere stato una nave
      cosí veloce che mai nessun legno
      poté superarlo in gara, volando
      con le ali dei remi o delle vele.
      Certo ne possono far fede i porti
      dell'Adriatico infido o le Cicladi,
      la luminosa Rodi, il mar di Marmara
      agitato o l'orribile mar Nero
      dove fu, prima d'essere battello,
      foresta oscura: sul monte Citoro
      la sua voce fischiava tra le foglie.
      Questo, Amastri, questo tu lo sapevi,
      dice a battello, e i bossi del Citoro
      lo sanno ancora, sin dal tempo in cui
      si alzava sopra la tua cima o quando
      immerse i remi dentro le tue acque
      e poi di là per mari tempestosi
      condusse il suo padrone sulla rotta
      dove spirava il vento col favore
      che nelle vele v'imprimeva Giove:
      nessun voto agli dei dovette rendere
      nei porti, navigando da quel mare
      del diavolo a questo limpido lago.
      Acqua passata: ora solitario
      invecchia in pace e si dedica a voi,
      a te Castore e al gemello tuo.»



      5)  Carmen V -  A Lesbia

      L'amore di Catullo è Clodia (come ci informa Apuleio), sorella del tribuno Publio Clodio Pulcro, moglie di Quinto Metello Celere, che rimase vedova nel 59 a.c. Una donna che fu libera e di costumi emancipati, pienamente a suo agio nella vita galante della capitale, sempre al centro di nuove relazioni.

      Non si sa quando la conobbe Catullo; ma ne divenne l’amante mentre il marito era ancora in vita, la loro relazione ebbe un seguito turbolento, all’insegna di un precario equilibrio dell’odi et amo del carme 85.

      «Vivamus mea Lesbia, atque amemus
      Rumoresque senum severiorum
      Omnes unius aestimemus assis .
      Soles occidere et redire possunt:
      nobis cum semel occidit brevis lux,
      nox est perpetua una dormienda.
      Da mihi basia mille, deinde centum,
      dein mille altera, dein secunda centum
      deinde usque altera mille, deinde centum.
      Dein, cum milia multa fecerimus,
      conturbabimus illa, ne sciamus,
      aut ne quis malus invidere possit,
      cum tantum sciat esse basiorum
      »

      «Viviamo mia Lesbia ed amiamoci
      E consideriamo un soldo bucato
      I mormorii dei vecchi troppo severi.
      I giorni possono morire e ritornare
      Ma, quando per noi questa breve luce
      Muore dovremo dormire una notte eterna..
      Dammi mille baci e ancora cento
      E poi altre mille e ancora cento
      Sempre, sempre mille e ancora cento.
      E quando alla fine saranno migliaia, li mescoleremo
      Tutti, per dimenticare
      E perchè nessuno ci possa invidiare sapendo
      Che esiste un così grande numero di baci.»



      6)  Carmen VI  - A se stesso

      Catullo, per la morte del fratello avvenuta nel 59, prova un cocente dolore, e dovette interrompere il soggiorno romano per fare ritorno a Verona per le esequie del fratello.

      «Flaui, delicias tuas Catullo,
      Ni sint inlepidae atque inelegantes,
      Velles dicere, nec tacere posses.
      Verum nescio quid febriculosi
      Scorti diligis: hoc pudet fateri.
      Nam te non uiduas iacere noctes
      Nequiquam tacitum cubile clamat
      Sertis ac Syrio fragrans oliuo,
      Puluinusque peraeque et hic et ille
      Attritus, tremulique quassa lecti
      Argutatio inambulatioque.
      Nam nil stupra valet, nihil, tacere.
      Cur? non tam latera ecfututa pandas,
      Ni tu quid facias ineptiarum.
      Quare, quidquid habes boni malique,
      Dic nobis: uolo te ac tuos amores
      Ad caelum lepido uocare uersu


      «Flavio, se l'amor tuo non fosse privo
      di grazia e di finezza lo vorresti dire
      a Catullo, non sapresti tacere.
      Ma certo tu ami qualche puttana
      malandata: per questo ti vergogni.
      Che tu non giaccia in solitudine la notte,
      anche se tace, lo rivela la tua camera
      fragrante di ghirlande e di profumi assiri,
      il cuscino gualcito da ogni parte,
      lo scricchiolare agitato del letto
      che trema tutto e non trova pace.
      Inutile tacere: non ti serve.
      Non mostreresti fianchi così smunti
      se non facessi un monte di sciocchezze.
      E allora quello che hai, bello o brutto,
      dimmelo. Voglio con un gioco di parole
      portare te e il tuo amore alle stelle.»



      7)  Carmen VII -  A Lesbia

      Uno dei carmina più belli e famosi di Catullo. I baci di Lesbia possono togliere quell'ansia che il poeta si porta appresso da sempre.

      «Quaeris, quot mihi basiationes
      Tuae, Lesbia, sint satis superque.
      Quam magnus numerus Libyssae harenae
      Lasarpiciferis iacet Cyrenis,
      Oraclum Iouis inter aestuosi
      Et Batti ueteris sacrum sepulcrum,
      Aut quam sidera multa, cum tacet nox,
      Furtiuos hominum uident amores,
      Tam te basia multa basiare
      Vesano satis et super Catullo est,
      Quae nec pernumerare curiosi
      Possint nec mala fascinare lingua.
      »

      «Mi chiedi con quanti baci, Lesbia,
      tu possa giungere a saziarmi:
      quanti sono i granelli di sabbia
      che a Cirene assediano i filari di silfio
      tra l'oracolo arroventato di Giove
      e l'urna sacra dell'antico Batto,
      o quante, nel silenzio della notte, le stelle
      che vegliano i nostri amori furtivi.
      Se tu mi baci con così tanti baci
      che i curiosi non possano contarli
      o le malelingue gettarvi una malia,
      allora si placherà il delirio di Catullo.»



      8)  Carmen VIII A se stesso

      Lesbia non sopporta l'allontanamento di Catullo, sia pure per una ragione così dolorosa e lo rimpiazza con un nuovo amante. O forse era già stanca di lui e approfitta dell'assenza per lasciarlo. Fatto sta che Catullo ne è distrutto.

      «Miser Catulle, desinas ineptire,
      Et quod uides perisse perditum ducas.
      Fulsere quondam candidi tibi soles,
      Cum uentitabas quo puella ducebat
      Amata nobis quantum amabitur nulla.
      Ibi illa multa cum iocosa fiebant,
      Quae tu uolebas nec puella nolebat.
      Fulsere uere candidi tibi soles.
      Nunc iam illa non uult: tu quoque inpotens, noli,
      Nec quae fugit sectare, nec miser uiue,
      Sed obstinata mente perfer, obdura.
      Vale, puella! iam Catullus obdurat,
      Nec te requiret nec rogabit inuitam:
      At tu dolebis, cum rogaberis nulla.
      Scelesta, uae te! quae tibi manet vita!
      Quis nunc te adibit? cui uideberis bella?
      Quem nunc amabis? cuius esse diceris?
      Quem basiabis? cui labella mordebis?
      At tu, Catulle, destinatus obdura.
      »

      «Misero Catullo, smetti di vaneggiare
      E stima perduto ciò che è perduto.
      Ci furono giorni felici un tempo
      Quando correvi dove voleva il tuo amore
      amato come nessuna sarà amata;
      allora nascevano molti giochi d'amore
      che tu volevi e che lei non negava.
      Ci furono per te giorni felici un tempo.
      Ora lei non vuole più; anche tu, impotente,
      non volere, non inseguire lei che fugge,
      non vivere miseramente, ma resisti
      con tutta la tua volontà, non cedere.
      Addio amore - Catullo non cede più,
      non ti cercherà, non ti vorrà per forza;
      ma tu soffrirai perchè non sarai più desiderata.
      Scellerata, guai a te; cosa ti può dare la vita?
      Chi ti vorrà? Per chi ti fai bella?
      Chi amerai? Di chi sarai detta tu essere?
      Chi bacerai? A chi morderai le labbra?
      Ma tu, Catullo, ostinato, non cedere.»



      9)  Carme IX A Veranio

      « Verani, omnibus e meis amicis
      Antistans mihi milibus trecentis,
      Venistine domum ad tuos penates
      Fratresque unanimos anumque matrem?
      Venisti! o mihi nuntii beati!
      Visam te incolumem audiamque Hiberum
      Narrantem loca, facta, nationes,
      Vt mos est tuus, applicansque collum
      Iucundum os oculosque sauiabor.
      O, quantum est hominum beatiorem,
      Quid me laetius est beatiusue?
      »

      «O Veranio, a tutti tra i miei amici
      superiore per me, fossero anche trecentomila,
      sei venuto a casa dai tuoi Penati
      e dai fratelli unanimi e dalla vecchia madre?
      Sei venuto! O notizie per me beate!
      Ti vedrò incolume e ti ascolterò narrare
      i luoghi, le azioni, i popoli degli Iberi
      come è tuo costume, e stringendomi al tuo collo
      ti bacerò la dolce bocca e gli occhi.
      Tra tutte le persone più felici
      che cosa c’è di più lieto o più beato di me?»



      10)  Carmen X - A Furio e Aurelio

      Pur nel dolore lo spirito di Catullo non vine mai meno e riesce a ridere di se stesso traendone un carme gustoso e sorridente.

      «Varus me meus ad suos amores
      Visum duxerat e foro otiosum,
      Scortillum, ut mihi tunc repente uisum est,
      Non sane inlepidum neque inuenustum.
      Huc ut uenimus, incidere nobis
      Sermones uarii, in quibus, quid esset
      Iam Bithynia, quo modo se haberet,
      Ecquonam mihi profuisset aere.
      Respondi id quod erat, nihil neque ipsis
      Nec praetoribus esse nec cohorti,
      Cur quisquam caput unctius referret,–
      Praesertim quibus esset irrumator
      Praetor nec faceret pili cohortem.
      'At certe tamen' inquiunt, 'quod illic
      Natum dicitur esse, comparasti,
      Ad lecticam homines.' Ego, ut puellae
      Vnum me facerem beatiorem,
      'Non' inquam, 'mihi tam fuit maligne,
      Vt, prouincia quod mala incidisset,
      Non possem octo homines parare rectos.'
      At mi nullus erat neque hic neque illic
      Fractum qui ueteris pedem grabati
      In collo sibi conlocare posset.
      Hic illa, ut decuit cinaediorem,
      'Quaeso' inquit, 'mihi, mi Catulle, paulum
      Istos commoda: nam uolo ad Serapim
      Deferri.''Mane,' inquii puellae,
      'Istud quod modo dixeram, me habere,
      Fugit me ratio: meus sodalis
      Cinna est Gaius; is sibi parauit.
      Verum, utrum illius an mei, quid ad me?
      Vtor tam bene quam mihi pararim.
      Sed tu insulsa male et molesta uiuis,
      Per quam non licet esse neglegentem.»

      «Dal Foro dove ciondolavo il mio buon Varo
      mi porta a casa di una sua ragazza,
      una fichina che a prima vista mi parve
      non priva di qualche grazia, quasi carina.
      Giunti da lei ci si mise a parlare
      di tante cose e fra queste della Bitinia,
      il suo stato, le sue condizioni politiche,
      i guadagni che mi avrebbe fruttato.
      Risposi la verità: a nessuno di noi,
      pretori o gente del seguito, era toccato
      di tornarsene col capo piú profumato,
      vedi poi se ti capita in sorte un fottuto
      di pretore che del seguito se ne infischia.
      'Ma almeno' m'interrompono 'avrai comprato
      ciò che dicono la specialità del luogo,
      dei portatori di lettiga.' Io per farmi
      con la donna un po' piú fortunato degli altri:
      'Non mi è andata poi cosí male,' le rispondo
      'considerata quella terra maledetta:
      ne ho cavato otto uomini robusti.'
      In realtà non ne avevo neppure uno,
      qui a Roma o laggiù, in grado di reggere
      sul collo una vecchia brandina sgangherata.
      E quella con la sua faccia tosta mi fa:
      'Catullo mio, dovresti prestarmeli un attimo,
      te ne prego, voglio farmi portare al tempio
      di Seràpide.''Un momento, dico, ragazza,
      ciò che poco fa ho detto di possedere,
      m'ero distratto: è un amico mio,
      Gaio Cinna, che se l'è procurato.
      D'altra parte, suoi o miei, che importa?
      Me ne servo come fossero miei.
      Ma tu sei proprio sciocca e impertinente
      se non ammetti che ci si possa distrarre.»




      11)  Carmen XI - Furi et Aureli, comites Catulli

      Qui inizia il calvario del poeta, che implora, si chiude, maledice e spera, con l'animo sempre più disperato. Durante tutta la sua vita Catullo compone circa centosedici carmi per un totale di ben duemilatrecento versi, pubblicati in un'unica opera il "Liber".

      « Furi et Aureli, comites Catulli,
      Siue in extremos penetrabit Indos,
      Litus ut longe resonante Eoa
      Tunditur unda,
      Siue in Hyrcanos Arabesue molles,
      Seu Sacas sagittiferosue Parthos,
      Siue quae septemgeminus colorat
      Aequora Nilus,
      Siue trans altas gradietur Alpes
      Caesaris uisens monimenta magni,
      Gallicum Rhenum, horribile aequor, ulti-
      mosque Britannos,
      Omnia haec, quaecumque feret uoluntas
      Caelitum, temptare simul parati,
      Pauca nuntiate meae puellae
      Non bona dicta.
      Cum suis uiuat ualeatque moechis,
      Quos simul complexa tenet trecentos,
      Nullum amans uere, sed identidem omnium
      Ilia rumpens;
      Nec meum respectet, ut ante, amorem,
      Qui illius culpa cecidit uelut prati
      Ultimi flos, praetereunte postquam
      Tactus aratro est.»


      «Furio, Aurelio, che miei compagni
      sino all'estremo dell'India verreste
      alle cui rive lontane batte sonoro
      il mare d'Oriente,
      tra gli Arabi indolenti, gli Ircani,
      gli Sciti, i Parti armati di frecce
      o sino alle acque che il Nilo trascolora
      con le sue sette foci;
      e oltre i monti aspri delle Alpi
      per visitare i luoghi dove vinse Cesare,
      il Reno di Gallia, i Britanni
      orribili e sperduti;
      voi che con me, qualunque sia il volere
      degli dei, sopportereste ogni mia pena,
      ripetete all'amore mio queste poche
      parole amare.
      Se ne viva felice con i suoi amanti
      e in un solo abbraccio, svuotandoli
      d'ogni vigore, ne possieda quanti vuole
      senza amarne nessuno,
      ma non mi chieda l'amore di un tempo:
      per colpa sua è caduto come il fiore
      al margine di un prato se lo tocca
      il vomere passando.»



      12)  Carme XII - Contro Marrucino, ladro di fazzoletti

      Ancora lo spirito arguto e caustico del poeta

      « Marrucine Asini, manu sinistra
      Non belle uteris in ioco atque uino:
      Tollis lintea neglegentiorum.
      Hoc salsum esse putas? Fugit te, inepte!
      Quamuis sordida res et inuenusta est.
      Non credis mihi? Crede Pollioni
      Fratri, qui tua furta uel talento
      Mutari uelit; est enim leporum
      Disertus puer ac facetiarum.
      Quare aut hendecasyllabos trecentos
      Exspecta, aut mihi linteum remitte,
      Quod me non mouet aestimatione,
      Verum est mnemosynum mei sodalis.
      Nam sudaria Saetaba ex Hiberis
      Miserunt mihi muneri Fabullus
      Et Veranius: haec amem necesse est
      Ut Veraniolum meum et Fabullum.»

      «Asino Marrucino, fai un uso
      non molto fine della mano sinistra
      nel gioco e nel vino:
      rubi i fazzoletti degli sbadati.
      Pensi che questo sia spiritoso?
      Ti inganni, sciocco:
      è una cosa quanto vuoi squallida e grossolana.
      Non mi credi? Credi a (tuo) fratello Pollione,
      che vorrebbe ripagare i tuoi furti
      anche con un talento:
      è infatti un ragazzo che di buon gusto
      e di spirito se ne intende.
      Perciò, aspettati trecento endecasillabi
      o dammi indietro il fazzoletto;
      e questo non mi colpisce per il valore (che ha),
      ma è un ricordo di un mio amico.
      Infatti Fabullo e Veranio
      mi hanno mandato in regalo dalla Spagna
      dei fazzoletti di Setabi;
      io devo amarli
      come amo il mio piccolo Veranio e Fabullo.»



      13)  Carme XIII - Invito a cena a Fabullo con doppia sorpresa

      Nel Carme XIII,  in endecasillabi faleci, c'è uno strano invito a cena, non perchè l'amico non sia gradito, ma perchè Catullo è in difficoltà finanziarie.


      «Cenabis bene, mi Fabulle, apud me
      paucis, si tibi di favent, diebus,
      si tecum attuleris bonam atque magnam
      cenam, non sine candida puella
      et vino et sale et omnibus cachinnis.
      Haec si, inquam, attuleris, venuste noster,
      cenabis bene; nam tui Catulli
      plenus sacculus est aranearum.
      Sed contra accipies meros amores
      seu quid suavius elegantiusve est;
      nam unguentum dabo, quod meae puellae
      donarunt Veneres Cupidinesque,
      quod tu cum olfacies, deos rogabis,
      totum ut te faciant, Fabulle, nasum.»

      «Cenerai bene, mio Fabullo, da me,
      tra pochi giorni se gli Dei ti sono favorevoli,
      e se con te porti una cena buona e ricca
      non senza una bellissima ragazza
      e vino e spirito e ogni risa.
      Se queste cose, dico, porterai, bello mio,
      cenerai bene. Infatti, del tuo Catullo
      è pieno il borsellino di ragnatele.
      Ma in cambio riceverai veri amori
      o quanto di piacevole o elegante c'è:
      ti darò infatti un unguento (un profumo) che alla mia ragazza
      hanno donato le Veneri e i Cupidi,
      e quando tu l'annuserai, pregherai gli dei
      di farti diventare, Fabullo, tutto naso.»



      14)  Carme XIV - Ni te plus oculis meis amarem

      Catullo racconta di aver ricevuto dall’amico poeta Calvo un’antologia di poetastri, un affronto per un vero poeta come Catullo, che il giorno successivo  regala a Calvo le opere dei peggiori poeti del tempo. Ma Calvo è un amico e il tutto è solo uno scherzo.


      "Ni te plus oculis meis amarem,
      iucundissime Calve, munere isto
      odissem te odio Vatiniano:
      nam quid feci ego quidve sum locutus,
      cur me tot male perderes poetis?
      Isti di mala multa dent clienti,
      qui tantum tibi misit impiorum.
      Quod si, ut suspicor, hoc novum ac repertum
      munus dat tibi Sulla litterator,
      non est mi male, sed bene ac beate,
      quod non dispereunt tui labores.
      Di magni, horribilem et sacrum libellum!
      Quem tu scilicet ad tuum Catullum
      misti, continuo ut die periret,
      Saturnalibus, optimo dierum!
      non non hoc tibi, salse, sic abibit.
      Nam si luxerit ad librariorum
      curram scrinia, Caesios, Aquinos,
      Suffenum, omnia colligam venena
      ac te his suppliciis remunerabor.
      Vos hinc interea valete, abite
      illuc, unde malum pedem attulistis,
      saecli incommoda, pessimi poetae
      ».

      "Se non ti amassi più degli occhi miei,
      spiritosissimo Calvo, per questo dono
      ti odierei con un odio degno di Vatinio:
      ma cosa ho fatto, cosa ho detto
      per rovinarmi con tanti poeti?
      Gli Dèi possano dare molti malanni a ‘sto cliente
      che ti ha mandato una quantità di sciagurati.
      Perché se, come sospetto, questa bella scoperta
      te la dà in dono il maestrino Silla,
      non mi sta male, anzi ne sono ben felice,
      perché non vanno perse le tue fatiche.
      Grandi Dèi! Che orribile e abietto libello!
      Che tu ovviamente hai mandato al tuo Catullo,
      perché morisse sul colpo nel giorno
      dei Saturnali, il più bello dei giorni!
      No no, non te la caverai, spiritosone.
      Appena farà giorno andrò alle botteghe
      dei librai, raccoglierò i Cesii, gli Aquini,
      Suffeno, tutti i veleni
      e ti ripagherò con questi supplizi.
      Voi, intanto, addio, andatevene
      là da dove avete mosso i vostri sciagurati passi
      malanni del secolo, pessimi poeti.»



      15)  Carmen XV - Commendo tibi

      Il carme XV invece è dedicato all'amore per l'efebo, e le sue paure che qualcun altro lo possieda o voglia possederlo.

      « Commendo tibi me ac meos amores,
      Aureli. Veniam peto pudentem,
      Vt, si quicquam animo tuo cupisti
      Quod castum expeteres et integellum,
      Conserues puerum mihi pudice,
      Non dico a populo: nihil ueremur
      Istos qui in platea modo huc modo illuc
      In re praetereunt sua occupati;
      Verum a te metuo tuoque pene
      Infesto pueris bonis malisque.
      Quem tu qua lubet, ut lubet moueto
      Quantum uis, ubi erit foris paratum:
      Hunc unum excipio, ut puto, pudenter.
      Quod si te mala mens furorque uecors
      In tantam impulerit, sceleste, culpam,
      Vt nostrum insidiis caput lacessas,
      Ah tum te miserum malique fati,
      Quem attractis pedibus patente porta
      Percurrent raphanique mugilesque


      «A te come me stesso affido il mio amore,
      Aurelio. Un piccolo favore che ti chiedo:
      se mai qualcuno amasti in cuore tuo
      che tu desiderassi casto e puro,
      conservami pulito questo mio ragazzo.
      Non dico dalla gente, che non ho pensiero
      di chi corre su e giù per la via
      tutto occupato nelle sue faccende;
      ma di te ho timore e del tuo cazzo
      nemico d'ogni ragazzo, buono o cattivo
      che sia. Quando comanda ficcalo dove
      e come vuoi, se è ritto e sguainato.
      Ti proibisco lui solo, non credo molto.
      Ma se la tua pazzia, una passione insana
      ti spingesse, scellerato, tanto nel crimine
      da insidiare la stessa mia persona,
      povero te, la sorte che ti viene:
      divaricate le gambe, per quella porta
      radici e pesci ti ficcherò dentro.»



      15 bis)  Carmen XIV bis - Si qui forte mearum ineptiarum

      « Si qui forte mearum ineptiarum
      Lectores eritis manusque vestras
      Non horrebitis admouere nobis,
       »

      «Se per caso lettori voi sarete
      di queste mie sciocchezze e non avrete orrore
      d'avvicinarmi con le vostre mani.»




      16) Carmen XVI - Ad Aurelio e Furio 

      Nel carme XVI le paure diventano minacce.

      « Pedicabo ego vos et irrumabo,
      Aureli pathice et cinaede Furi,
      Qui me ex versiculis meis putastis,
      Quod sunt molliculi, parum pudicum.
      Nam castum esse decet pium poetam
      Ipsum, uersiculos nihil necesse est,
      Qui tum denique habent salem ac leporem,
      Si sunt molliculi ac parum pudici
      Et quod pruriat incitare possunt,
      Non dico pueris, sed his pilosis,
      Qui duros nequeunt mouere lumbos.
      Vos quod milia multa basiorum
      Legistis, male me marem putatis?
      Pedicabo ego vos et irrumabo.
      »

      «In bocca e in culo ve lo ficcherò,
      Furio ed Aurelio, checche bocchinare
      che per due pùsiole libertine
      quasi un degenerato mi considerate.
      Che debba esser pudico il pùta è giusto,
      ma perchè lo dovrebbero i suoi versi?
      Hanno una loro grazia ed eleganza
      solo se son lascivi, spudorati
      e riescono a svegliare un poco di prurito,
      non dico nei fanciulli, ma in qualche caprone
      con le reni inchiodate dall'artrite.
      E voi, perchè leggete nei miei versi baci
      su baci, mi ritenete un effeminato?
      In bocca e in culo ve lo ficcherò.»



      17)  Carmen XVII - O Colonia

      « O Colonia, quae cupis ponte ludere longo,
      et salire paratum habes, sed vereris inepta
      crura ponticuli axulis stantis in redivivis,
      ne supinus eat cavaque in palude recumbat:
      sic tibi bonus ex tua pons libidine fiat,
      in quo vel Salisubsali sacra suscipiantur,
      munus hoc mihi maximi da, Colonia, risus.
      Quendam municipem meum de tuo volo ponte
      ire praecipitem in lutum per caputque pedesque,
      verum totius ut lacus putidaeque paludis
      lividissima maximeque est profunda vorago.
      Insulsissimus est homo, nec sapit pueri instar
      bimuli tremula patris dormientis in ulna.
      cui cum sit viridissimo nupta flore puella
      et puella tenellulo delicatior haedo,
      adseruanda nigerrimis diligentius vuis,
      ludere hanc sinit ut lubet, nec pili facit uni,
      nec se sublevat ex sua parte, sed velut alnus
      in fossa Liguri iacet suppernata securi,
      tantundem omnia sentiens quam si nulla sit usquam;
      talis iste meus stupor nil videt, nihil audit,
      ipse qui sit, utrum sit an non sit, id quoque nescit.
      Nunc eum volo de tuo ponte mittere pronum,
      si pote stolidum repente excitare veternum,
      et supinum animum in gravi derelinquere caeno,
      ferream ut soleam tenaci in voragine mula
      . »

      «Tu desideri far festa, Verona, sul tuo Pontelungo
      e già sei pronta a ballare, ma le gambe fragili di un ponticello
      che si regge su tavolette riparate ti fan temere che crolli
      e precipiti in fondo alla palude. Sia pure esaudita questa voglia
      e tu abbia un ponte cosí solido da sostenere anche i Salii
      nelle loro sarabande sacre, ma in cambio voglio da te, Verona,
      un regalo che mi diverta da morire: buttami giú da quel tuo ponte
      un certo mio concittadino capofitto nel fango dalla testa ai piedi
      là dove l'abisso delle acque è piú profondo, il piú livido
      di tutta questa fetida palude.
      È un uomo d'una stupidità tale che non ha piú giudizio del bambino
      cullato tra le braccia di suo padre. Sposata una fanciulla
      in tutto il fiore dei suoi anni, una fanciulla delicata
      e tenera piú d'un agnellino d'averne tanta cura
      come dell'uva che è matura, lascia che lei si diverta
      nel modo preferito e non gliene importa nulla,
      non inalbera il suo diritto, ma come un ontano, abbattuto
      dalla scure di un Ligure, giace in fondo ad un fossato,
      questo mio incredibile stupido, sensibile a tutto come se non esistesse,
      non vede, non sente nulla, non sa nemmeno chi egli sia
      o se per caso sia o non sia.
      Ora io voglio scaraventarlo giú da quel tuo ponte,
      se mai è possibile che d'un colpo si riscuota dal suo torpore assurdo
      e nelle profondità del fango smarrisca la sua apatia,
      come una mula lo zoccolo di ferro in un pantano scivoloso.»



      18)  Carmen XVIII - Priapo

      «Hunc lucum tibi dedico consecroque, Priape, 
      qua domus tua Lampsaci est quaque … 
      Priape. Nam te praecipue in suis urbibus colit ora 
      Hellespontia, ceteris ostriosior oris.»

      «A te, Priapo, questa selva ti dedico e consacro, 
      come a Lampsaco è la tua casa e quale … 
      Priapo. Infatti te adora nelle sue città 
      l’Ellesponto, più abbondante d’ostriche che gli altri lidi.»



      19)  Carmen IXX - l'arguzia di Catullo

      « De meo ligurrire libido est »

      « Assaggiare dal mio è un piacere. »



      20)  Carmen XX - i giambi di Catullo

      « At non effugies meos iambos»

      « Non sfuggirai ai miei giambi
      »



      21)  Carmen XXI - Aureli, pater esuritionum

      Il carme XXI è dettato dalla gelosia, ma non verso Lesbia, bensì verso il giovinetto di cui Catullo si è invaghito, pur non cessando di amare la sua Lesbia.

      « Aureli, pater esuritionum,
      Non harum modo, sed quot aut fuerunt
      Aut sunt aut aliis erunt in annis,
      Pedicare cupis meos amores.
      Nec clam: nam simul es, iocaris una,
      Haerens ad latus omnia experiris.
      Frustra: nam insidias mihi instruentem
      Tangam te prior irrumatione.
      Atque id si faceres satur, tacerem:
      Nunc ipsum id doleo, quod esurire,
      Ah me me, puer et sitire discet.
      Quare desine, dum licet pudico,
      Ne finem facias, sed irrumatus


      «Padre di tutti gli affamati che conosci
      e di quelli che furono, sono e saranno
      negli anni da venire, tu Aurelio,
      desideri inculare l'amor mio
      e non ne fai mistero: appiccicato a lui,
      giochi, ti strofini, le provi tutte.
      Non servirá: mentre mi tendi queste insidie
      io prima te lo ficcherò in bocca.
      E pace se tu lo facessi a pancia piena,
      ma non posso tollerare, accidenti a me,
      che il mio ragazzo impari a patir fame e sete.
      Piantala dunque, giusto finchè sei in tempo,
      che tu non debba farlo a cazzo in bocca.»



      22)  Carme XXII - Suffenus

      Suffeno è un pessimo letterato

      « Suffenus iste, Vare, quem probe nostri,
      homo est venustus et dicax et urbanus,
      idemque longe plurimos facit versus.
      Puto esse ego illi milia aut decem aut plura
      perscripta, nec sic ut fit in palimpsesto
      relata: cartae regiae, novi libri,
      novi umbilici, lora rubra, membranae,
      derecta plumbo et pumice omnia aequata.
      Haec cum legas tu, bellus ille et urbanus
      suffenus unus caprimulgus aut fossor
      rursus videtur: tantum abhorret ac mutat.
      Hoc quid putemus esse? Qui modo scurra
      aut si quid hac re scitius videbatur,
      idem infaceto est infacetior rure,
      simul poemata attigit, neque idem umquam
      aeque est beatus ac poema cum scribit:
      tam gaudet in se tamque se ipse miratur.
      Nimirum idem omnes fallimur, neque est quisquam
      quem non in aliqua re videre Suffenum
      possis. Suus cuique attributus est error;
      sed non videmus manticae quod tergo est.
      »

      «Quel Suffeno, Varo, che tu conosci bene,
      è un uomo di spirito, garbato e civile,
      ma purtroppo sforna versi su versi.
      Io credo che n'abbia già scritti diecimila
      o forse piú e non su scartafacci
      come usa: la carta è la migliore, i libri
      nuovi, nuove le bacchette, di cuoio i lacci
      e il tutto squadrato e levigato a dovere.
      Se poi li leggi, quel Suffeno spiritoso
      e civile ti diventa allora un guardiano
      di capre, un villano, tanto è diverso e muta.
      È incredibile: quell'uomo di mondo
      che ti sembrava tanto raffinato,
      appena tocca un verso diventa piú rozzo
      di un rozzo contadino; eppure non è mai
      cosí felice come quando scrive versi,
      tanto è soddisfatto di sé e tanto si ammira.
      Del resto tutti sbagliamo: non c'è nessuno
      in cui, se ci pensi, tu non possa vedere
      Suffeno. Ognuno ha un suo difetto, ma la gobba
      che ci sta sulla schiena noi non la vediamo.»



      23)  Carmen XXIII -  Furi, cui neque servus est neque arca

      Un apprezzamento acidissimo e arguto.

      «Furi, cui neque servus est neque arca
      nec cimex neque araneus neque ignis,
      verum est et pater et noverca, quorum
      dentes vel silicem comesse possunt,
      est pulcre tibi cum tuo parente
      et cum coniuge lignea parentis.
      Nec mirum: bene nam valetis omnes,
      pulcre concoquitis, nihil timetis,
      non incendia, non graves ruinas,
      non facta impia, non dolos veneni,
      non casus alios periculorum.
      Atqui corpora sicciora cornu
      aut si quid magis aridum est habetis
      sole et frigore et esuritione.
      Quare non tibi sit bene ac beate?
      A te sudor abest, abest saliva,
      mucusque et mala pituita nasi.
      Hanc ad munditiem adde mundiorem,
      quod culus tibi purior salillo est,
      nec toto decies cacas in anno;
      atque id durius est faba et lapillis;
      quod tu si manibus teras fricesque,
      non umquam digitum inquinare posses.
      Haec tu commoda tam beata, Furi,
      noli spernere nec putare parvi,
      et sestertia quae soles precari
      centum desine: nam sat es beatus.»

      «Furio mio, tu non hai schiavi, non hai denari,
      non hai cimici o ragni, nè di che scaldarti,
      ma hai un padre e una matrigna che coi denti
      potrebbero macinare anche le pietre,
      e con questo tuo genitore e la sua donna,
      rinsecchita come un legno, tu vivi bene.
      Non fa meraviglia: scoppiate di salute,
      digerite d'incanto, non temete nulla,
      nè gli incendi nè il crollo della casa
      nè la malvagitá, l'insidia del veleno
      o il pericolo di qualche altro incidente.
      E in più, grazie al sole al freddo e alla fame,
      avete il corpo più secco di un corno
      o di quanto più arido vi sia.
      Perchè mai non dovresti essere felice?
      Non sudi, non hai una goccia in più di saliva,
      nè un poco di catarro o di moccolo al naso.
      E a questo candore aggiungine un altro:
      poichè non cachi dieci volte all'anno
      il tuo culo è più lindo di un cristallo
      e ciò che fai è più duro di fave e ghiaia,
      tanto che se lo stropicciassi fra le mani
      non ti potresti sporcare nemmeno un dito.
      Tutte queste comoditá non disprezzarle,
      Furio mio, non considerarle una sciocchezza
      mendicando di continuo quei centomila
      sesterzi: smettila, sei ricco quanto basta.»



      24) Carmen XXIV - O qui flosculus es Iuventiorum 

      «O qui flosculus es Iuuentiorum,
      Non horum modo, sed quot aut fuerunt
      Aut posthac aliis erunt in annis,
      Mallem diuitias Midae dedisses
      Isti cui neque seruus est neque arca,
      Quam sic te sineres ab illo amari.
      “Quid? Non est homo bellus?” inquies. Est.
      Sed bello huic neque seruus est neque arca.
      Hoc tu quam libet abice eleuaque:
      Nec seruum tamen ille habet neque arcam.»

      «Io avrei voluto che tu, fior fiore
      di tutti i Giovenzi che sono, furono
      e saranno in tutti gli anni a venire,
      avessi donato l'oro di Mida
      a costui senza un servo né denari,
      piuttosto che piegarti al suo amore.
      'Perché? non è affascinante?' Certo,
      lo è, ma senza un servo né denari.
      Tu puoi minimizzare quanto vuoi,
      ma resta senza un servo né denari.»



      25)  Carmen XXV - Cinaede Thalle, mollior cuniculi capillo 

      «Cinaede Thalle, mollior cuniculi capillo 
      vel anseris medullula vel imula oricilla 
      vel pene languido senis situque araneoso, idemque, 
      Thalle, turbida rapacior procella, 
      cum diva mulierarios ostendit oscitantes, 
      remitte pallium mihi meum, quod involasti, 
      sudariumque Saetabum catagraphosque Thynos, 
      inepte, quae palam soles habere tamquam avita. 
      Quae nunc tuis ab unguibus reglutina et remitte, 
      ne laneum latusculum manusque mollicellas 
      inusta turpiter tibi flagella conscribillent, 
      et insolenter aestues, velut minuta magno 
      deprensa navis in mari, vesaniente vento.» 

      «Cinedo Thallo, molle più del pelo di un coniglio,
      di un midollino d’oca o anche di un lobo d’orecchiuccia,
      di un vecchio pene languido, e putredine di ragni, ma più rapace,
      Thallo, tu, di tromba turbinosa se mai la dea rivela rivela
      donnaioli un po’ distratti, ridammi il mio mantello,
      che ti sei involato, e pure il lino già dei Sètabi
      e i carnet per note Tinici, che, sciocco,
      sfoggi in giro come avito patrimonio.
      E dunque ora dalle unghie tue riscollali e ridalli,
      se non vuoi fruste in fiamme a scribacchiare,
      a tua vergogna le mani mollicelle e quel fiancuccio tuo di lana,
      in un ondeggiamento tutto nuovo, come nave
      minuta in mare magno, da violento vento avvòlta.»



      26)  Carmen XXVI - la casetta esposta

      «Furi, villula vestra non ad Austriflatus
      opposita est neque ad Favoni
      nec saevi Boreae aut Apheliotae,
      verum ad milia quindecim et ducentos.
      O ventum horribilem atque pestilentem!»

      «La vostra casetta, Furio, non è esposta
      al vento di scirocco o di ponente,
      né di una tramontana gelida o di euro,
      ma a quello di quindicimiladuecento sesterzi
      ed è vento tremendo, una vera pestilenza!.»



      27)  Carmen XXVII - Ad un giovane coppiere 

      «Minister vetuli puer Falerni
      inger mi calices amariores,
      ut lex Postumiae iubet magistrae
      ebriosa acina ebriosioris.
      At vos quo lubet hinc abite,
      lymphae vini pernicies,
      et ad severos migrate.
      Hic merus est Thyonianus»


      «Ragazzo, se versi un vino vecchio
      riempine i calici del piú amaro,
      come vuole Postumia, la nostra regina
      ubriaca piú di un acino ubriaco.
      E l'acqua se ne vada dove le pare
      a rovinare il vino, lontano,
      fra gli astemi: questo è vino puro.»



      28)  Carmen XXVIII - Pisonis comites, cohors inanis 

      «Pisonis comites, cohors inanis
      Aptis sarcinulis et expeditis,
      Verani optime tuque mi Fabulle,
      Quid rerum geritis? Satisne cum isto
      Vappa frigoraque et famem tulistis?
      Ecquidnam in tabulis patet lucelli
      Expensum, ut mihi, qui meum secutus
      Praetorem refero datum lucello,
      “O Memmi, bene me ac diu supinum
      Tota ista trabe lentus irrumasti.”
      Sed, quantum uideo, pari fuistis
      Casu: nam nihilo minore uerpa
      Farti estis. Pete nobiles amicos.
      At uobis mala multa di deaeque
      Dent, opprobria Romuli Remique.»

      «Veranio carissimo e tu Fabullo mio,
      che al seguito di Pisone, privi di tutto,
      vi portate appresso le vostre quattro cose,
      come state? Vi ha fatto sopportare tutto,
      il freddo, la fame, vero, quella canaglia?
      Dite, segnate pure voi i profitti in perdita,
      come ho fatto io, seguendo il mio pretore,
      che registro a profitto soltanto le spese?
      O Memmio, m'hai proprio fottuto a modo tuo,
      supino, con in bocca tutta la tua trave.
      Ma a voi non è toccata una sorte migliore,
      mi pare: quello che vi opprime non è manico
      diverso. Cercali i tuoi amici famosi!
      E che tutti gli dei li possano sommergere
      di guai, questa vergogna di Romolo e Remo.»



      29)  Carmen XXIX - Quis hoc potest videre, quis potest pati 

      «Quis hoc potest videre, quis potest pati,
      nisi impudicus et vorax et aleo,
      Mamurram habere quod Comata Gallia
      habebat ante et ultima Britannia?
      Cinaede Romule, haec videbis et feres?
      Et ille nunc superbus et superfluens
      perambulabit omnium cubilia,
      ut albulus columbus aut Adoneus?
      Cinaede Romule, haec videbis et feres?
      Es impudicus et vorax et aleo.
      Eone nomine, imperator unice,
      fuisti in ultima occidentis insula,
      ut ista vostra diffututa mentula
      ducenties comesset aut trecenties?
      Quid est alid sinistra liberalitas?
      Parum expatravit an parum elluatus est?
      Paterna prima lancinata sunt bona;
      secunda praeda Pontica, inde tertia
      Hibera, quam scit amnis aurifer Tagus.
      Et hunc timentque Galliae et Britanniae.
      Quid hunc malum fovetis? Aut quid hic potest,
      nisi uncta devorare patrimonia?
      Eone nomine, urbis o putissimei
      socer generque, perdidistis omnia?»

      «Chi se non un ingordo svergognato e baro
      potrebbe mai permettere in coscienza
      che abbia Mamurra ciò che fu della Gallia
      o della lontanissima Britannia?
      Lo vedi, no, Romolo fottuto, e sopporti?
      Cosí questa colomba bianca, questo Adone
      passerà con noncuranza da un letto all'altro
      vomitando tutta la sua superbia?
      Lo vedi, no, Romolo fottuto, e sopporti?
      Sei uno svergognato ingordo e baro.
      E tu, generalissimo, saresti andato
      nella piú lontana isola d'occidente
      perché questo vostro coglione rammollito
      divorasse milioni su milioni?
      Non è questa la generosità dei ladri?
      O forse non ha dilapidato abbastanza?
      Prima si è fatto fuori i beni di suo padre,
      poi il bottino dell'Asia e quello di Spagna,
      testimone il bacino aurifero del Tago.
      Ora terrorizza Gallia e Britannia.
      E voi proteggete un ribaldo simile?
      un tale distruttore di ricchezze?
      voi, genero-suocero, padroni di Roma,
      in nome suo avete saccheggiato il mondo?»



      30)  Carmen XXX - Alfene immemor atque unanimis false sodalibus 

      «Alfene immemor atque unanimis false sodalibus, 
      iam te nil miseret, dure, tui dulcis amiculi? 
      Iam me prodere, iam non dubitas fallere, perfide? 
      Nec facta impia fallacum hominum caelicolis placent. 
      Quae tu neglegis ac me miserum deseris in malis. 
      Eheu quid faciant, dic, homines cuive habeant fidem? 
      Certe tute iubebas animam tradere, inique, 
      inducens in amorem, quasi tuta omnia mi forent. 
      Idem nunc retrahis te ac tua dicta omnia factaque ventos 
      irrita ferre ac nebulas aereas sinis. 
      Si tu oblitus es, at di meminerunt, meminit Fides, 
      quae te ut paeniteat postmodo facti faciet tui.» 

      «Falso, o Alfeno, coi tuoi concordi amici, e anche non memore,
      duro, già non compiangi il dolce e il povero amico tuo,
      già a tradirmi non sei in dubbio, o a ingannar già me, o perfido?
      Ma, degli uomini falsi, atti e empietà non piacciono agli dèi.
      Tutto ciò non t’importa, e me infelice ecco abbandoni ai guai.
      Ahiahi, che resterà agli uomini di’, o da chi sperar lealtà?
      Certo tu, tu premevi, improbo, a che a te aprissi l’anima,
      inducendo a un affetto all'apparenza in tutto placido: 
      tu stesso ora ti fai indietro e ogni detto e fatto lasci che te lo portino, 
      vano, i venti e le aeree nuvole. Se tu scordi, 
      ricordo hanno gli dèi, e ha pure la Lealtà, 
      e lei si curerà che del tuo atto abbia a pentirti, poi.» 



      31)  Carmen XXXI - a Sirmione

      Catullo racconta del ritorno nel 56 a.c. nella nativa Sirmione.

      «Paene insularum, Sirmio, insularumque
      Ocelle, quascumque in liquentibus stagnis
      Marique uasto fert uterque Neptunus,
      Quam te libenter quamque laetus inuiso,
      Vix mi ipse credens Thyniam atque Bithynos
      Liquisse campos et uidere te in tuto!
      O quid solutis est beatius curis,
      Cum mens onus reponit, ac peregrino
      Labore fessi uenimus larem ad nostrum
      Desideratoque acquiscimus lecto?
      Hoc est quod unum est pro laboribus tantis.
      Salue, o uenusta Sirmio, atque ero gaude;
      Gaudete, uosque, o Lydiae lacus undae;
      Ridete, quidquid est domi cachinnorum.»

      «Sirmione, perla delle penisole e delle isole,
      di tutte quante, sulla distesa di un lago trasparente o del mare
      senza confini, offre il Nettuno delle acque dolci e delle salate,
      con quale piacere, con quale gioia torno a rivederti;
      a stento mi persuado d'avere lasciato la Tinia e le contrade di Bitinia,
      e di poterti guardare in tutta pace.
      Ma c'è cosa più felice dell'essersi liberato dagli affanni,
      quando la mente depone il fardello e stanchi
      di un viaggio in straniere regioni siamo tornati al nostro focolare
      e ci stendiamo nel letto desiderato?
      Questa, in cambio di tante fatiche, è l'unica soddisfazione.
      Salve, amabile Sirmione, festeggia il padrone,
      e voi, onde del lago di Lidia, festeggiatelo:
      voglio da voi uno scroscio di risate, di tutte le risate che avete.»



      32)  Carmen XXXII - a Ipsililla

      «Amabo, mea dulcis Ipsitilla,
      meae deliciae, mei lepores,
      iube ad te veniam meridiatum.
      Et si iusseris, illud adiuvato,
      ne quis liminis obseret tabellam,
      neu tibi lubeat foras abire,
      sed domi maneas paresque nobis
      novem continuas fututiones.
      Verum si quid ages, statim iubeto:
      nam pransus iaceo et satur supinus
      pertundo tunicamque palliumque.»

      «Ti prego, mia dolce Ipsililla,
      amore mio, cocchina mia,
      invitami da te nel pomeriggio.
      Ma se decidi così, per favore,
      non farmi trovare la porta giá sprangata
      e cerca di non uscire, se puoi,
      restatene in casa e preparami
      nove scopate senza mai fermarci.
      Se ne hai voglia, per˜, fallo subito:
      sto qui disteso sazio dopo pranzo
      e pancia all'aria sfondo tunica e mantello.»



      33)  Carmen XXXIII - O furum optime balneariorum

      «O furum optime balneariorum
      Vibenni pater, et cinaede fili,
      (Nam dextra pater inquinatiore,
      Culo filius est uoraciore)
      Cur non exilium malasque in oras
      Itis, quandoquidem patris rapinae
      notae sunt populo, et natis pilosas,
      fili, non potes asse uenditare?»

      «Di tutti i ladri d'albergo Vibennio è il re,
      come lo è di tutti i pederasti il figlio:
      piú son luride le mani del padre
      e piú famelico è il culo del figlio.
      Perché mai non ve ne andate in esilio,
      in terre maledette? Ormai i suoi furti
      sono arcinoti e le tue natiche pelose
      non valgono un soldo, figliolo mio.»



      34)  Carmen XXXIV - Inno a Diana

      «Dianae sumus in fide puellae et pueri integri:
      puellaeque canamus. O Latonia, maximi 
      magna progenies Iovis, quam mater 
      prope Deliam deposivit olivam,»

      «Di Diana siamo in fede intatti fanciulle e fanciulle: 
      e fanciulle cantiamo. O Latònia, del massimo 
      Giove grande progenie, che la propria madre
      ha deposto là, all'olivo di Delo,»



      35)  Carmen XXXV - Poeta tenero, meo sodali 

      «Poetae tenero, meo sodali,
      velim Caecilio, papyre, dicas
      Veronam veniat, Novi relinquens
      Comi moenia Lariumque litus.
      Nam quasdam volo cogitationes
      amici accipiat sui meique.
      Quare, si sapiet, viam vorabit,
      quamvis candida milies puella
      euntem revocet, manusque collo
      ambas iniciens roget morari.
      Quae nunc, si mihi vera nuntiantur,
      illum deperit impotente amore.
      Nam quo tempore legit incohatam
      Dindymi dominam, ex eo misellae
      ignes interiorem edunt medullam.
      Ignosco tibi, Sapphica puella
      musa doctior; est enim venuste
      Magna Caecilio incohata Mater.»

      «Al poeta d'amore Cecilio, mio compagno,
      papiro, questo devi dire:
      venga a Verona
      e lasci le mura nuove di Como, le rive del Lario:
      voglio che ascolti certe fantasie
      di un amico suo e mio.
      Se ragiona, divorerà la strada
      anche se mille volte, quando parte,
      la sua dolce innamorata lo richiama
      e con le braccia intorno al collo lo scongiura di restare,
      vero, come dicono,
      che muore per lui d'amore disperato.
      Da quando poi ha letto i primi versi
      per la signora di Díndimo,
      un fuoco consuma quella poveretta in fondo al cuore.
      Capisco: tu conosci troppo bene, ragazza,
      la poesia di Saffo e questa di Cecilio a Cibele
      ha un inizio splendido.»



      36) Carmen XXXVI - Gli annali di Volusio

      «Annales Volusi, cacata carta,
      votum solvite pro mea puella.
      Nam sanctae Veneri Cupidinque
      vovit, si sibi restitutus essem
      dessemque truces vibrare iambos,
      electissima pessimi poetae
      scripta tardipedi deo daturam
      infelicibus ustulanda lignis.
      Et hoc pessima se puella vidit
      iocose lepide vovere divis.
      Nunc o caeruleo creata ponto,
      quae sanctum Idalium Uriosque apertos
      quaeque Ancona Cnidumque harundinosam
      colis quaeque Amanthunta quaeque Golgos
      quaeque Durrachium Hadriae tabernum,
      acceptum face redditumque votum,
      si non illepidum neque invenustum est.
      At vos interea venite in ignem,
      pleni ruris et infacetiarum
      annales Volusi, cacata carta.»


      «Annali di Volusio, cartacce di merda,
      sciogliete la promessa della donna mia,
      che a Venere e a Cupido ha fatto voto,
      se da lei fossi tornato accettando
      una tregua al mio violento sarcasmo,
      di sacrificare alle fiamme di Vulcano
      i versi migliori di un pessimo pùta
      perchè bruciassero su maledetta legna.
      Quella dolce canaglia sapeva benissimo
      di fare voti come fossero uno scherzo.
      E allora tu, figlia del mare azzurro,
      tu che abiti sui monti sacri di Cipro,
      nelle baie del Gargano, in Ancona,
      nei canneti di Cnido, ad Amatunta e Golgi,
      a Durazzo, emporio di tutto l'Adriatico,
      se questo voto ha una sua grazia spiritosa,
      accettalo e ritienilo pagato.
      Ma ora tocca a voi: andatevene al rogo,
      con tutta la vostra rozza stupiditá,
      Annali di Volusio, cartacce di merda.»



      37)  Carmen XXXVII - La taverna di Lesbia 

      «Salax taberna vosque contubernales,
      a pilleatis nona fratribus pila,
      solis putatis esse mentulas uobis,
      solis licere, quidquid est puellarum,
      confutuere et putare ceteros hircos?
      an, continenter quod sedetis insulsi
      centum an ducenti, non putatis ausurum
      me una ducentos irrumare sessores?
      atqui putate: namque totius uobis
      frontem tabernae sopionibus scribam.
      puella nam mi, quae meo sinu fugit,
      amata tantum quantum amabitur nulla,
      pro qua mihi sunt magna bella pugnata,
      consedit istic. hanc boni beatique
      omnes amatis, et quidem, quod indignum est,
      omnes pusilli et semitarii moechi;
      tu praeter omnes une de capillatis,
      cuniculosae Celtiberiae fili,
      Egnati. opaca quem bonum facit barba
      et dens Hibera defricatus urina.»

      «Puttanieri di quell'ignobile taverna
      nove colonne oltre il tempio dei Dioscuri,
      credete d'avere l'uccello solo voi,
      di poter fottere le donne solo voi,
      considerandoci tutti cornuti?
      O forse perchè sedete cento o duecento
      in fila come tanti idioti, non credete
      che potrei incularvi tutti e duecento?
      Credetelo, credetelo: su ogni muro
      qui fuori scriverò che avete il culo rotto.
      Fuggitami dalle braccia, la donna mia,
      amata come amata non sarà nessuna,
      anche lei, che mi costrinse a tante battaglie,
      siede tra voi. E come se ne foste degni
      la chiavate tutti e non siete, maledetti,
      che mezze canaglie, puttanieri da strada:
      tu più di tutti, tu Egnazio, capellone
      modello, nato fra i conigli della Spagna,
      che ti fai bello di una barba incolta
      e di denti sciacquati con la tua urina.»



      38)  Carmen XXXVIII - rimprovero a Cornificio

      «Malest, Cornifici, tuo Catullo
      malest, me hercule, et laboriose,
      et magis magis in dies et horas.
      Quem tu, quod minimum facillimumque est,
      qua solatus es allocutione?
      Irascor tibi. Sic meos amores?
      Paulum quid lubet allocutionis,
      maestius lacrimis Simonideis.»


      «Sta male, Cornificio, il tuo Catullo,
      sta male, mio dio, e soffre
      ogni giorno, ogni ora di più.
      E tu nemmeno una parola,
      quella che costa meno, la più facile.
      Ti odio. Questo il tuo amore?
      Una parola, una parola qualunque
      più triste del pianto di Simonide..»



      39) Carmen IXL - I denti bianchi di Egnazio 

      «Egnatius, quod candidos habet dentes, renidet usque quaque. 
      Si ad rei ventum est subsellium, cum orator excitat fletum, renidet ille; 
      si ad pii rogum fili lugetur, orba cum flet unicum mater, renidet ille. 
      Quicquid est, ubicumquest, quodcumque agit, renidet: hunc habet morbum, 
      neque elegantem, ut arbitror, neque urbanum. Quare monendum est mihi, 
      bone Egnati. Si urbanus esses aut Sabinus aut Tiburs  aut pinguis Umber 
      aut obesus Etruscus aut Lanuvinus ater atque dentatus aut Transpadanus, 
      ut meos quoque attingam, aut quilubet, qui puriter lavit dentes, 
      tamen renidere usque quaque te nollem: nam risu inepto res ineptior nulla est. 
      Nunc Celtiber : Celtiberia in terra, quod quisque minxit, 
      hoc sibi solet mane dentem atque russam defricare gingivam, 
      ut quo iste voster expolitior dens est, hoc te amplius bibisse praedicet loti.

      «Egnazio, poiché candidi ci ha quei denti, sorride ovunque vada. 
      Se si è al banco d’accusa e la difesa vuol destar pianto, sorride, lui. 
      Se del pio figlio sul rogo si geme e, orbata, piange mamma il suo unico, 
      sorride, lui. Ciò che sia, sia, dov’è, ovunque, qualunque cosa fa, sorride: 
      ha un bel morbo non elegante, a quanto penso, né urbano. 
      Perciò ammonirti, o buon Egnazio, mi tocca: se fossi urbano, o di Sabina,
      o di Tivoli, o un Umbro parco, o invece Etrusco di pancia,
      o un Lanuvino scuro e pieno di denti, o un Transpadano
      (sì che pure i miei tocchi)… o chi vuoi, che in igiene lavi i suoi denti,
      che tu sorrida ovunque non vorrei già: di un riso idiota niente, infatti, è più idiota.
      Ma se di Celtibèria, terra in cui usa, appena alzato, ognuno con ciò che piscia
      sfregarsi bene dente e rossa gengiva! E allora, più smagliante sarà a voi il dente
      più griderà che hai tracannato gran piscio. »



      40)  Carmen XL - Quaenam te mala mens, miselle Rauide 

      «Quaenam te mala mens, miselle Ravide,
      agit praecipitem in meos iambos?
      Quis deus tibi non bene
      advocatus vecordem parat excitare rixam?
      An ut pervenias in ora vulgi?
      Quid vis? Qualubet esse notus optas?
      Eris, quandoquidem meos amores
      cum longa voluisti amare poena.»

      «Quale strana pazzia ti getta, Rávido,
      come uno sciocco in bocca alla mia collera?
      Quale dio invocato malamente
      ti spinge a questa stupida contesa?
      per correre sulle labbra di tutti?
      Che vuoi? esser famoso ad ogni costo?
      Lo sarai, ma per la follia d'amare
      chi amo, tu lo sarai con infamia.»




      41)  Carmen XLI - Ameana

      «Ameana puella defututa
      tota milia me decem poposcit,
      ista turpiculo puella naso,
      decoctoris amica Formiani.
      propinqui, quibus est puella curae,
      amicos medicosque convocate:
      non est sana puella, nec rogare
      qualis sit solet aes imaginosum.»


      «Diecimila sesterzi tondi m'ha chiesto
      Ameana, quella puttanella fottuta,
      quella puttanella dal naso deforme
      mammola del gran fallito di Formia.
      Parenti che l'avete in tutela,
      convocate i medici e gli amici:
      quella è matta. Non si guarda mai
      in uno specchio? Farnetica.»



      42)   Carmen XLII - Accorrete versetti

      Catullo invoca i suoi versi, che vadano a chiedere indietro alla donna tutte le poesie che le ha dedicato. Non è uno sfoggio di bravura, perchè il poeta conosce perfettamente il suo valore, ma è un'accusa verso la donna ingrata:

      «Adeste, hendecasyllabi, quot estis
      omnes undique, quotquot estis omnes.
      iocum me putat esse moecha turpis,
      et negat mihi nostra reddituram
      pugillaria, si pati potestis.
      persequamur eam et reflagitemus.
      quae sit, quaeritis? illa, quam videtis
      turpe incedere, mimice ac moleste
      ridentem catuli ore Gallicani.
      circumsistite eam, et reflagitate,
      “moecha putida, redde codicillos,
      redde, putida moecha, codicillos!”
      non assis facis? o lutum, lupanar,
      aut si perditius potes quid esse.».


      «Accorrete, endecasillabi, quanti voi siete
      da ogni luogo tutti, tutti quanti, ovunque voi siete.
      Una disgustosa puttana pensa ch’io sia il suo zimbello
      e si rifiuta di ridarmi i nostri versetti,
      se solo voi poteste tollerarlo.
      Inseguiamola, e non diamole tregua.
      Chi mai sia, voi chiedete: quella, che vedete
      incedere turpe, sembra un pagliaccio
      e con quella boccaccia dalla risata molesta
      par essere un cucciolo di cane di Gallia.
      Circondatela, e non datele tregua:
      ‘Fetida d’una puttana, restituisci i versetti,
      restituiscili tutti, puttana putrefatta’.
      Te ne freghi? Oh che zozza, che gran troia,
      la più degenerata che possa esistere.
      Ma credo che questo non sia ancora sufficiente.
      Se non altro che noi la si possa
      far bruciare di vergogna,
      quella cagna dura come il ferro.
      Strillate ancora, urlate più forte:
      ‘Fetida d’una puttana, restituisci i versetti,
      restituiscili tutti, puttana putrefatta’.
      Ma niente, non si ottiene niente, nulla la smuove.
      È ragionevole per noi cambiar metodo e maniera,
      se vogliamo sperare di ottener qualcosa:
      ‘O fonte d’immacolata bontà casta e pura,
      ridammi i versetti».



      43)  Carme XLIII - Ad Ameana

      «Salve, nec minimo puella naso
      nec bello pede nec nigris ocellis
      nec longis digitis nec ore sicco
      nec sane nimis elegante lingua,
      decoctoris amica Formiani.
      ten provincia narrat esse bellam?
      tecum Lesbia nostra comparatur?
      o saeclum insapiens et infacetum!»


      «Dio ci salvi, ragazza, con quel nasone,
      quei piedacci, con gli occhi spenti,
      quelle dita tozze e la bocca molle,
      con quel tuo linguaggio volgare,
      proprio te, puttanella di quel fallito
      di Formia, dicono bella i provinciali?
      e ti paragonano alla mia Lesbia?
      O società imbecille e senza gusto.»



      44)  Carmen XLIV - O funde noster seu Sabine seu Tiburs 

      «O funde noster seu Sabine seu Tiburs
      (nam te esse Tiburtem autumant, quibus non est
      cordi Catullum laedere; at quibus cordi est,
      quovis Sabinum pignore esse contendunt),
      sed seu Sabine sive verius Tiburs,
      fui libenter in tua suburbana
      villa, malamque pectore expuli tussim,
      non inmerenti quam mihi meus venter,
      dum sumptuosas appeto, dedit, cenas.
      Nam, Sestianus dum volo esse conuiua,
      orationem in Antium petitorem
      plenam veneni et pestilentiae legi.
      Hic me gravedo frigida et frequens tussis
      quassait usque, dum in tuum sinum fugi,
      et me recuravi otioque et urtica.
      Quare refectus maximas tibi grates
      ago, meum quod non es ulta peccatum.
      Nec deprecor iam, si nefaria scripta
      Sesti recepso, quin gravedinem et tussim
      non mihi, sed ipsi Sestio ferat frigus,
      qui tunc vocat me, cum malum librum legi.»


      «O nostro fondo, di Sabina o di Tivoli
      (ti attesta «Tiburtino» chi non ha a cuore
      di far male a Catullo, ma, chi l’ha a cuore,
      «Sabino» a tutti costi insiste tu sia), be’,
      di Sabina sia o – piuttosto – di Tivoli,
      nel suburbano tuo con gioia son stato,
      e la maligna tosse ho espulso dal petto che,
      non immeritata, mi causò il ventre,
      andando io dietro a certe cene di lusso.
      Per esser convitato, infatti, di Sestio,
      la Contro Anzio candidato sua ho letto,
      che di malanni e di veleni è strapiena.
      Di colpo mi scoppia un raffreddore,
      una tosse secca, finchè non son fuggito qui da te
      per curarmi con riposo e decotti.
      Ora sto bene e posso quindi ringraziarti
      di non aver punito la mia colpa.
      Se dovessi subire ancora i suoi libelli
      voglio che il loro livore procuri a lui,
      non a me, lividi e tosse, quello m'invita
      solo per leggere i suoi maledetti scritti.»



      45)  Carmen XLV - Acmen Septimius suos amores 

      «Acmen Septimius suos amores
      Tenens in gremio ‘Mea’ inquit, ‘Acme,
      Ni te perdite amo atque amare porro
      Omnes sum adsidue paratus annos
      Quantum qui pote plurimum perire,,
      Solus in Libya Indiaque tosta
      Caesio veniam obvius leoni.’
      Hoc ut dixit, Amor sinistra ut ante,
      Dextra sternuit approbationem.
      At Acme leuiter caput reflectens
      Et dulcis pueri ebrios ocellos
      Illo purpureo ore suauiata
      ‘Sic’ inquit, ‘mea vita, Septimille,
      Huic uni domino usque serviamus,
      Vt multo mihi maior acriorque
      Ignis mollibus ardet in medullis.’
      Hoc ut dixit, Amor sinistra ut ante,
      Dextra sternuit approbationem.
      Nunc ab auspicio bono profecti
      Mutuis animis amant amantur.
      Vnam Septimius misellus Acmen
      Mauult quam Syrias Britanniasque:
      Vno in Septimio fidelis Acme
      Facit delicias libidinisque.
      Quis ullos homines beatiores
      Vidit, quis Venerem auspicatiorem?»


      «Stringendosi fra le braccia Acme, Settimio
      sussurra al suo amore: 'Acme, Acme mia,
      se da morirne non ti amo o t'amerò
      per tutti, tutti gli anni da venire
      come chi amando d'amore può morire,
      gettatemi in Libia, nei deserti dell'India,
      solo davanti agli occhi verdi di un leone'.
      Quando tacque, come prima a sinistra,
      a destra starnutí Amore il suo consenso.
      Acme allora, piegando leggermente il capo,
      con le sue labbra di rosa bacia sugli occhi
      inebriati d'amore il suo dolce amante:
      'Sempre,' gli dice 'Settimillo anima mia,
      dovremo servire quest'unico signore,
      come sempre piú forte e violento mi brucia
      in corpo un desiderio senza freni'.
      Quando tacque, a sinistra, come prima
      a destra, starnutí Amore il suo consenso.
      Ora spinti da cosí buoni auspici,
      un'anima sola, amano, sono amati.
      Piú di tutte le Sirie e le Britannie
      il povero Settimio vuole solo Acme;
      la fedele Acme solo in Settimio
      trova piacere e la voglia d'amare.
      Chi ha mai visto coppia piú felice,
      un amore sotto migliori auspici?»



      46)  Carmen XLVI - Il ritorno della primavera

      «Iam ver egelidos refert tepores,
      iam caeli furor aequinoctalis
      iucundis Zephyri silescit aureis.
      Linquantur Phrygii, Catulle, campi
      nicaeaeque ager uber aestuosae:
      ad claras asiae volemus urbes.
      Iam mens praetrepidans avet vagari,
      iam laeti studio pedes vigescunt.
      O dulces comitum valete coetus,
      longe quos simul a domo profectos
      diversae varie viae reportant»

      «È primavera, tornano i giorni miti
      e la brezza leggera dello zefiro
      spegne nel cielo la furia dell'inverno.
      Lasciamo i campi della Frigia, Catullo,
      le pianure fertili e afose di Nicea;
      via in volo per le città luminose dell'Asia.
      Irrequieto ti brucia una febbre di andare
      e nel desiderio ritrovi la tua forza.
      Addio, dolce compagnia di amici:
      partiti insieme dalla patria lontana,
      ognuno per strade diverse ritorneremo.»



      47)  Carmen XLVII - Porci et Socration, duae sinistrae 

      «Ad Porcium et Socrationem Porci 
      et Socration, duae sinistrae Pisonis, 
      scabies famesque mundi, 
      uos Veraniolo meo et Fabullo 
      uerpus praeposuit Priapus ille? 
      uos conuiuia lauta sumptuose de die facitis, 
      mei sodales quaerunt in triuio uocationes?»

      «Voi mani ladre di Pisone, Porcio,
      Socrazio, rogna e flagello del mondo,
      quel lurido Priapo ha preferito
      al mio dolce Veranio, al mio Fabullo?
      Voi, quando ancora è giorno, imbandite
      banchetti prelibati; i miei amici
      mendicano un invito per le strade.»




      48)  Carmen IIL - a Giovenzio

      «Mellitos oculos tuos, Iuventi,
      si quis me sinat usque basiare,
      usque ad milia basiem trecenta
      nec numquam videar satur futurus,
      non si densior aridis aristis
      sit nostrae seges osculationis.
      »

      «Se i tuoi occhi di miele, Giovenzio,
      mi fosse lecito baciare,
      migliaia di volte io li bacerei
      e non potrei esserne mai sazio,
      anche se più fitta di spighe mature
      fosse la messe dei miei baci.»



      49)  Carmen IL - A Cicerone

      «Disertissime Romuli nepotum,
      quot sunt quotque fuere, Marce Tulli,
      quotque post aliis erunt in annis,
      gratias tibi maximas Catullus
      agit pessimus omnium poeta,
      tanto pessimus omnium poeta,
      quanto tu optimus omnium patronus.»

      «Verbosissimo fra tutti i romani
      che a Roma sono, furono e saranno,
      Marco Tullio, in tutti gli anni a venire,
      a te porge il suo grazie piú sentito
      Catullo, il peggior poeta del mondo,
      il peggior poeta del mondo come
      tu del mondo sei il migliore avvocato.»



      50)  Carmen LX - A Lesbia 

      «Una leonessa sui monti di Libia o Scilla
      che dentro ringhia sordamente, chi,
      chi t'ha generato con l'animo così inumano
      e duro da disprezzare il grido che t'implora
      nella sventura estrema, cuore, cuore selvaggio?»



      50 bis)  Carmen L - Hesterno, Licini, die otiosi

      «Hesterno, Licini, die otiosi
      multum lusimus in meis tabellis,
      ut convenerat esse delicatos:
      scribens versiculos uterque nostrum
      ludebat numero modo hoc modo illoc,
      reddens mutua per iocum atque vinum.
      Atque illinc abii tuo lepore
      incensus, Licini, facetiisque,
      ut nec me miserum cibus iuvaret
      nec somnus tegeret quiete ocellos,
      sed toto indomitus furore lecto
      versarer, cupiens videre lucem,
      ut tecum loquerer simulque ut essem.
      At defessa labore membra postquam
      semimortua lectulo iacebant,
      hoc, iucunde, tibi poema feci,
      ex quo perspiceres meum dolorem.
      Nunc audax cave sis, precesque nostras,
      oramus, cave despuas, ocelle,
      ne poenas Nemesis reposcat a te.
      Est vemens dea: laedere hanc caveto.»

      «Ieri, Licinio, per passare il tempo
      ci siamo divertiti a improvvisare
      sui miei quaderni in delizioso accordo.
      Scrivendo versi abbiamo perso l'anima
      a misurarci su questo o quel metro,
      uno dopo l'altro, nell'allegria del vino.
      E me ne sono andato di là incantato,
      Licinio, dalla grazia del tuo spirito,
      cosí stranito da scordarmi di cenare,
      da non riuscire nemmeno a chiudere occhio:
      vinto dall'emozione mi son rivoltato
      dentro il letto smaniando che facesse giorno
      per poterti parlare, per stare con te.
      Ma ora che, morto di stanchezza, il mio corpo
      senza più forze sul letto ha trovato pace,
      ho scritto per te, amico mio, questi versi,
      perché tu potessi capire la mia pena.
      Non essere sprezzante, non respingere
      di grazia, occhi miei, le mie preghiere:
      provocheresti il castigo di Nemesi.
      È una dea terribile, non offenderla.»


      51)  Carmen LI - La sindrome amorosa 

      Il carmen 51 è una emulazione del fr. 31 di Saffo

      «Ille mi par esse deo videtur,
      ille, si fas est, superare divos,
      qui sedens adversus identidem te
      spectat et audit dulce ridentem, 
      misero quod omnis eripit sensus mihi: 
      nam simul te, Lesbia, aspexi, nihil est 
      super mi vocis in ore,
      lingua sed torpet, tenuis sub artus
      flamma demanat, sonitu suopte
      tintinant aures, gemina teguntur
      lumina nocte. 
      »

      «Mi sembra che sia simile ad un Dio
      O se è lecito, più di un Dio
      Colui che, sedendoti accanto
      Ti osserva e ti ascolta ridere
      Dolcemente; e ciò a me misero
      Strappa ogni sensazione: infatti
      Quando ti guardo, Lesbia,
      non mi rimane neanche un po'
      di voce, ma la lingua si intorpidisce,
      un fuoco sottile mi cola nelle ossa
      le orecchie mi ronzano
      e i due occhi si coprono di notte.»



      51 bis)  LI b - Cose insopportabili 

      «Otium, Catulle, tibi molestum est: 
      otio exsultas nimiumque gestis:otium 
      et reges prius et beatas perdidit urbes.»

      «L'ozio, Catullo, questo è il tuo pericolo,
      nell'ozio ti esalti sino a goderne;
      l'ozio che anche re e città potenti
      portò a rovina.»



      52)  Carmen LVII - 

      «Una bella coppia di canaglie fottute
      quel finocchio di Mamurra e tu, Cesare.
      Non è strano: macchiati delle stesse infamie,
      a Formia o qui a Roma, se le portano
      impresse e niente potrá cancellarle:
      due gemelli infarciti di letteratura
      sui vizi comuni allo stesso letto,
      l'uno più avido dell'altro nel corrompere,
      rivali e soci delle ragazzine.
      Una bella coppia di canaglie fottute.»



      53)  Carmen LXIII - Gaio Licinio Calvo, poeta e oratore

      «Risi nescio quem modo e corona, 
      qui, cum mirifice Vatiniana meus 
      crimina Calvos explicasset admirans 
      ait haec manusque tollens, 
      “di magni, salaputium disertum!»

      «Vuoi ridere? poco fa, accusandolo
      in tribunale, il mio Calvo inchioda
      Vatinio ai suoi delitti: entusiasta
      uno del pubblico si sbraccia e grida:
      'Gran dio, che oratore quel cazzetto!»



      53 b)  Carmen LVIII b. 

      «Non custos si fingar ille Cretum, 
      non si Pegaseo ferar volatu, 
      non Ladas ego pinnipesve Perseus, 
      non Rhesi niveae citaeque bigae… 
      Adde huc plumipedas volatilesque, 
      ventorumque simul require cursum, 
      quos vinctos, Cameri, mihi dicares… 
      Defessus tamen omnibus medullis 
      et multis languoribus peresus 
      essem te mihi, amice, quaeritando. »

      «Nemmeno se mi fingessi quel custode di Creta,
      nemmeno se corressi in volo come Pègaso,
      nemmeno se fossi Lada o il pié-pennuto Perseo,
      nemmeno se corressi con le nivee e veloci bighe di Reso…
      E a ciò aggiungi plumipedi e volatili, che cercano la rotta dei venti,
      che insieme avvinti, Camerio, a me dicessi...
      Tuttavia demolito fino all’osso
      e da molta spossatezza eroso
      resterei ricercandoti, amico.»



      54)  Carmen LIV - Othonis caput oppido est pusillum 

      «Othonis caput oppido est pusillum,
      et Heri rustice semilauta crura,
      subtile et leve peditum Libonis,
      si non omnia, displicere vellem
      tibi et Sufficio seni recocto…
      irascere iterum meis iambis
      inmerentibus, unice imperator.»


      «Il miserabile cazzo di Ottone,
      le gambe sporche e rozze d'Erio, il peto
      sinistramente lieve di Libone,
      a te e a Sufficio, quel vecchio rifatto,
      almeno questo dovrebbe spiacere.
      E torna pure ad incazzarti Cesare
      generalissimo, contro i miei versi
      innocenti.»



      55)  Carme LV - Oramus, si forte non molestum est 

      «Oramus, si forte non molestum est, 
      demonstres ubi sint tuae tenebrae. 
      Te Campo quaesimus in minore, 
      te in Circo, te H in omnibus libellis, 
      te in templo summi Iovis sacrato. 
      In Magni simul ambulatione 
      femellas omnes, amice, prendi, 
      quas vultu vidi tamen sereno. 
      Avens te sic ipse flagitabam: 
      «Camerium mihi, pessimae puellae!». 
      Quaedam inquit: «Nudum reclude < pectus>: 
      em!, H hic in roseis latet papillis». 
      Sed te iam ferre Herculei labos est, 
      Tanto te in fastu negas, amice? 
      Dic nobis ubi sis futurus, ede 
      audacter, committe, crede luci. 
      Nunc te lacteolae tenent puellae? 
      Si linguam clauso tenes in ore, 
      fructus proicies amoris omnes: 
      verbosa gaudet Venus loquella. 
      Vel, si vis, licet obseres palatum, 
      dum vestri sim particeps amoris.»

      «Per pietà, se non disturba troppo,
      mostra a noi dove siano le tue tenebre.
      Te cercammo nel minore Campo te nel Circo,
      te in mezzo a tutti i libri,
      te nel tempio sacro al Sommo Giove.
      E nel Portico, intanto, di Pompeo, tutte ho prese,
       amico, le pulzelle quelle almeno viste in volto liete,
      e, cercando te, così chiedevo:
      «Fuori a me il mio Camerio, sgualdrinelle».
      Al che, una: «Schiudi a nudo il petto:
      ecco, latita qui, fra i rosei seni!»
      Ma acchiapparti, ormai, è fatica erculea.
      Tanto grande boria a noi ti nega?
      Dicci dove verrai a spuntare, svelalo
      con audacia, rischia, vieni in luce.
      Son ragazze di latte che ti tengono?
      Se la lingua freni in chiusa bocca,
      vai a gettare d’amore tutti i frutti:
      di un parlare sciolto gode Venere.
      O il palato rinserra, se vuoi…
      a patto ch’io del vostro amore sia partecipe!»



      56)   Carmen LVI - O rem ridiculam, Cato, et iocosam 

      «O rem ridiculam, Cato, et iocosam,
      dignamque auribus et tuo cachinno!
      ride quidquid amas, Cato, Catullum:
      res est ridicula et nimis iocosa.
      deprendi modo pupulum puellae
      trusantem; hunc ego, si placet Dionae,
      protelo rigida mea cecidi.»


      «Scherzo così divertente, Catone,
      è giusto che tu lo sappia e ne rida.
      Ridine per l'amore che mi porti:
      credi, è uno scherzo troppo divertente.
      Sorpreso un ragazzino che si fotte
      una fanciulla, io, Venere mia,
      col cazzo ritto, un fulmine, l'inculo.»



      57) Carme LVII - Mumurra e Cesare

      «Pulcre convenit improbis cinaedis,
      Mamurrae pathicoque Caesarique.
      nec mirum: maculae pares utrisque,
      urbana altera et illa Formiana,
      impressae resident nec eluentur:
      morbosi pariter, gemelli utrique,
      uno in lecticulo erudituli ambo,
      non hic quam ille magis vorax adulter,
      rivales socii puellularum.
      Pulcre convenit improbis cinaedis.»


      «Una bella coppia di canaglie fottute
      quel finocchio di Mamurra e tu, Cesare.
      Non è strano: macchiati delle stesse infamie,
      a Formia o qui a Roma, se le portano
      impresse e niente potrà cancellarle:
      due gemelli infarciti di letteratura
      sui vizi comuni allo stesso letto,
      l'uno piú avido dell'altro nel corrompere,
      rivali e soci delle ragazzine.
      Una bella coppia di canaglie fottute.»




      58)  Carmen LVIII -  Contro Lesbia 

      All’amico Celio, Catullo mostra la sua dolorosa amarezza quando scopre che la “sua” Lesbia si aggira per l’Urbe, sollazzando i ragazzi di Roma:

      «Caeli, Lesbia nostra, Lesbia illa, 
      illa Lesbia, quam Catullus unam plus quam 
      se atque suos amavit omnes: nunc in quadriviis 
      et angiportis glubit magnanimos Remi nepotes.»

      «Celio, la mia Lesbia, quella Lesbia,
      quella sola Lesbia che amavo
      più di ogni cosa e di me stesso,
      ora all'angolo dei vicoli spreme
      questa gioventù dorata di Remo.»



      59)  Carmen LIX La bolognese Rufa

      «Num te te leaena montibus Libystinis
      aut Scylla latrans infima inguinum 
      parte tam mente dura procreavit 
      ac taetra, ut supplicis vocem 
      in novissimo casu contemptam
      haberes, a nimis fero corde?
      »

      «Si succhia il cazzo di un tribuno
      la rossa bolognese moglie di Menenio,
      quella che nei cimiteri vedi ogni giorno
      rubare il cibo ai roghi
      e mentre si getta sul pane
      che rotola dal fuoco,
      frustata da un crematore rasato
      per punizione.»



      60)   Carmen LX

      «Num te te leaena montibus Libystinis
      aut Scylla latrans infima inguinum parte
      tam mente dura procreavit ac taetra,
      ut supplicis vocem in novissimo casu
      contemptam haberes, a nimis fero corde?
      »

      «Forse ti ha generato una leonessa sui monti libici
      o Scilla latrante nella parte bassa dell’inguine
      con cuore talmente duro e feroce,
      da considerare disprezzata la voce d’un supplice
      in una disgrazia eccezionale, 
      ahi, dal cuore troppo selvaggio.»



      61)   Carmina Docta  LXI

      Di ispirazione saffica, fa parte dei Cartmina docta, ed è un epitalamio (canto di nozze) in cui non mancano toni scherzosi e maliziosi ma anche accenti delicati e dolcissimi come nell’augurio agli sposi di dare presto alla luce un figlio. Catullo suscita sentimenti ed emozioni profonde nel lettore, anche attraverso la pratica del vertere, rielaborando pezzi poetici di particolare rilevanza formale o intensità emozionale e tematica, come anche i carmina 61 e 62, ispirati agli epitalami (canti nuziali) saffici.

      «Collis o Heliconii, cultor, Uraniae genus,
      qui rapis teneram ad virum virginem, o Hymenaee
      Hymen, o Hymen Hymenaee; cinge tempora floribus
      suave olentis amaraci, flammeum cape laetus, huc
      huc veni, niveo gerens luteum pede soccum; 
      excitusque hilari die, nuptialia concinens
      voce carmina tinnula, pelle humum pedibus, manu
      pineam quate taedam. namque Iunia Manlio,
      qualis Idalium colens venit ad Phrygium Venus
      iudicem, bona cum bona nubet alite virgo, 
      floridis velut enitens myrtus Asia ramulis
      quos Hamadryades deae ludicrum sibi roscido
      nutriunt umore.quare age, huc aditum ferens,
      perge linquere Thespiae rupis Aonios specus,
      nympha quos super irrigat frigerans Aganippe.
      ac domum dominam voca coniugis cupidam novi,
      mentem amore revinciens, ut tenax hedera huc et huc
      arborem implicat errans. vosque item simul, integrae
      virgines, quibus advenit par dies, agite in modum
      dicite, o Hymenaee Hymen, o Hymen Hymenaee.
      ut libentius, audiens se citarier ad suum
      munus, huc aditum ferat dux bonae Veneris, 
      boni poliptoto coniugator amoris. quis deus magis 
      est amatis petendus amantibus? quem colent 
      homines magis caelitum, o Hymenaee Hymen,
      o Hymen Hymenaee? te suis tremulus parens
      invocat, tibi virgines zonula solvunt sinus,
      te timens cupida novos captat aure maritus. 
      tu fero iuveni in manus floridam ipse puellulam
      dedis a gremio suae matris, o Hymenaee Hymen,
      o Hymen Hymenaee. nil potest sine te Venus,
      fama quod bona comprobet, commodi capere, 
      at potest te volente. quis huic deo compararier ausit? 
      nulla quit sine te domus liberos dare, nec parens
      stirpe nitier; ac potest te volente. quis huic deo
      compararier ausit? quae tuis careat sacris,
      non queat dare praesides terra finibus: at queat
      te volente. quis huic deo compararier ausit? 
      claustra pandite ianuae. virgo adest. viden 
      ut faces splendidas quatiunt comas?
      ........
      tardet ingenuus pudor. quem tamen magis audiens,
      flet quod ire necesse est. flere desine. non tibi 
      Aurunculeia periculum est, ne qua femina pulcrior
      clarum ab Oceano diem viderit venientem.
      talis in vario solet divitis domini hortulo
      stare flos hyacinthinus. sed moraris, abit dies.
      prodeas nova nupta. prodeas nova nupta, si
      iam videtur, et audias nostra verba. viden? 
      Faces aureas quatiunt comas:prodeas nova nupta.
      non tuus levis in mala deditus vir adultera,
      probra turpia persequens, a tuis teneris volet
      secubare papillis, lenta sed velut adsitas
      vitis implicat arbores, implicabitur in tuum
      complexum. sed abit dies: prodeas nova nupta.
      o cubile, quod omnibus
      ......................
      candido pede lecti, quae tuo veniunt ero,
      quanta gaudia, quae vaga nocte, quae medio die
      gaudeat! sed abit dies: prodeas nova nupta.
      tollite, o pueri, faces: flammeum video venire.
      ite concinite in modum “io Hymen Hymenaee io,
      io Hymen Hymenaee.” ne diu taceat procax
      Fescennina iocatio, nec nuces pueris neget
      desertum dominiaudiens concubinus amorem.
      da nuces pueris, iners concubine! satis diu
      lusisti nucibus: lubet iam servire Talasio.
      concubine, nuces da. sordebant tibi villicae,
      concubine, hodie atque heri: nunc tuum 
      cinerarius tondet os. miser a miser
      concubine, nuces da. diceris male te a tuis
      unguentate glabris marite abstinere, sed
      abstine. io Hymen Hymenaee io,
      io Hymen Hymenaee. scimus haec tibi 
      quae licent sola cognita, sed marito
      ista non eadem licent. io Hymen Hymenaee io,
      io Hymen Hymenaee. nupta, tu quoque quae tuus
      vir petet cave ne neges, ni petitum aliunde eat.
      io Hymen Hymenaee io, io Hymen Hymenaee.
      en tibi domus ut potens et beata viri tui,
      quae tibi sine serviat (io Hymen Hymenaee io,
      io Hymen Hymenaee) usque dum tremulum 
      movens cana tempus anilitas omnia omnibus 
      annuit. io Hymen Hymenaee io, io Hymen 
      Hymenaee. transfer omine cum bono
      limen aureolos pedes, rasilemque subi forem.
      io Hymen Hymenaee io, io Hymen Hymenaee.
      aspice intus ut accubans vir tuus Tyrio in toro
      totus immineat tibi. io Hymen Hymenaee io,
      io Hymen Hymenaee. illi non minus ac tibi
      pectore uritur intimo flamma, sed penite magis.
      io Hymen Hymenaee io, io Hymen Hymenaee.
      mitte brachiolum teres, praetextate, puellulae:
      iam cubile adeat viri.
      io Hymen Hymenaee io, io Hymen Hymenaee.
      vos bonae senibus viris cognitae bene
      feminae, collocate puellulam.
      io Hymen Hymenaee io, io Hymen Hymenaee.
      iam licet venias, marite: uxor in thalamo tibi est,
      ore floridulo nitens, alba parthenice velut
      luteumve papaver. at, marite, ita me iuvent
      caelites, nihilo minus pulcer es, neque te Venus
      neglegit. sed abit dies: perge, ne remorare.
      non diu remoratus es: iam venis. bona te Venus
      iuverit, quoniam palam quod cupis cupis, et bonum
      non abscondis amorem. ille pulveris Africi
      siderumque micantium subducat numerum prius,
      qui vestri numerare volt multa milia ludi.
      ludite ut lubet, et brevi liberos date. non decet
      tam vetus sine liberis nomen esse, sed indidem
      semper ingenerari. Torquatus volo parvulus
      matris e gremio suae porrigens teneras manus
      dulce rideat ad patrem semihiante labello.
      sit suo similis patri Manlio et facile insciis
      noscitetur ab omnibus, et pudicitiam suae
      matris indicet ore. talis illius a bona
      matre laus genus approbet, qualis unica
      ab optima matre Telemacho manet
      fama Penelopeo. claudite ostia, virgines:
      lusimus satis. at boni coniuges, bene vivite et
      munere assiduo valentem exercete iuventam.
      »

      «Tu che vivi, figlio d'Urania, sol colle d'Elicona e affidi
      all'uomo la tenera vergine rapita, o Imeneo Imen,
      o Imen Imeneo, cingi le tempie con i fiori
      di maggiorana profumata, prendi il velo di fiamma e qui
      lieto, qui vieni col tuo piede bianco fasciato d'oro:
      eccitato dall'allegria del giorno, con voce squillante
      canta gli inni nuziali, batti coi piedi la terra e impugna
      la fiaccola di pino.
      Oggi Vinia a Manlio va sposa, bella come la dea di Cipro
      quando andò al giudizio di Paride, vergine che si sposa
      con gli auspici migliori, splendente come nella Misia
      ramoscello di mirto in fiore, che le dee degli alberi nutrono
      con gocce di rugiada per poterne godere.
      Vieni dunque e senza fermarti lascia le grotte delle Muse
      sulla montagna di Tespie, bagnate dalle fresche acque
      della fonte Aganippe, e chiama a casa la padrona,
      stringendo in un nodo d'amore il desiderio dello sposo,
      come intorno al tronco si avvinghia con la sua forza l'edera.
      E anche voi, candide vergini, che avrete un giorno come questo,
      seguendo il ritmo cantate in coro 'o Imeneo Imen,o Imen Imeneo', 
      perché piú volentieri, sentendosi chiamare al rito,
      lui che ispira onesti piaceri, che ogni amore onesto annoda,
      accorra qui fra noi. Nessun dio è piú implorato
      da un amante riamato, nessuno è piú onorato in cielo
      da noi, o Imeneo Imen, o Imen Imeneo.
      Per i figli t'invoca il padre tremando, in tuo onore sciolgono
      le vergini la loro veste, col timore del desiderio
      ti ascoltano i mariti. E tu, strappandola dal grembo
      della madre, abbandoni a un giovane brutale una fanciulla appena
      in fiore, o Imeneo Imen, o Imen Imeneo.
      Nessun piacere che sia lecito può prendere senza di te
      l'amore: solo se tu vuoi è possibile. Non è facile essere come te.
      Senza di te nessuna casa può dare figli che sostengano
      il padre: solo se tu vuoi è possibile. Non è facile essere come te.
      Una terra senza i tuoi riti non avrà difensori ai suoi
      confini: solo se tu vuoi potrà averli. Non è facile essere come te.
      Spalancate le porte: vieni, fanciulla, e guarda come splende
      la fiamma delle torce al vento.
      Il suo pudore la trattiene e, sentendone il richiamo, piange
      ora che deve andare. Non piangere, non c'è pericolo
      che una donna piú bella di te, Aurunculeia,
      veda sorgere dall'Oceano i bagliori del giorno.
      Bella come un giacinto fra i mille colori dei fiori
      in uno splendido giardino, dove sei? il giorno se ne va:
      esci, sposa bambina. Esci, esci bambina. Ascoltami,
      se credi che sia giunto il tempo. Guarda come s'è fatta d'oro
      la fiamma delle torce al vento: esci, esci bambina.
      Non hai un marito irrequieto che per cercare in qualche avventura
      il piacere del tradimento, voglia riposare lontano dal tuo giovane seno.
      E come la vite flessuosa si avvince agli alberi vicini,
      lui dal tuo abbraccio sarà vinto. Ma il giorno se ne va: 
      esci, esci bambina. O letto, letto dell'amore
      letto bianco d'avorio, quanta gioia procurerai
      al tuo padrone e quanta lui ne godrà nel volo di notti e
      giorni. Ma il giorno se ne va: esci, esci bambina.
      Alzate le torce, fanciulli, ecco, viene il velo di fiamma.
      Cantate, cantate con noi 'Io Imeneo Imen Io,
      Io Imen Imeneo'. Scoppieranno tutti gli scherzi
      pungenti del canto di nozze e tu, ragazzo, lascia, lascia
      le noci ai bambini: l'amore del padrone è finito.
      Su, dà queste noci ai bambini, languido amico: hai giocato
      fin troppo con le noci: ora dovrai adattarti a Talasio.
      Dai le noci, ragazzo. Sino ad oggi, ragazzo mio,
      disprezzavi le contadine: ora chi ti faceva i riccioli
      te li taglia. Povero, povero ragazzo, dà le noci.
      Si dice, sposo profumato, che tu non sappia rinunciare
      ai ragazzi; ma devi farlo. Io Imeneo Imen Io,
      Io Imen Imeneo. Certo, solo piaceri leciti
      erano i tuoi, ma ad un marito nemmeno questi sono leciti.
      Io Imeneo Imen Io, Io Imen Imeneo.
      E tu, sposa, non rifiutare a tuo marito ciò che chiede,
      mai o andrà a cercarselo altrove.
      lo Imeneo Imen Io, Io Imen Imeneo.
      Ecco la casa del tuo uomo, cosí potente e fortunata:
      lascia che sia come desideri, lo Imeneo Imen lo,
      Io Imen Imeneo, finché la candida vecchiaia
      con il tremito delle tempie dica di sí a tutti, a tutto.
      Io Imeneo Imen Io, Io Imen Imeneo.
      Varcando questa porta liscia, per augurio, oltre la soglia
      posa il tuo piedino dorato. Io Imeneo Imen Io,
      Io Imen Imeneo. Vedi, in casa c'è tuo marito
      sdraiato sul letto di porpora e ti tende le braccia.
      Io Imeneo Imen Io, Io Imen Imeneo.
      Anche dentro il suo petto brucia la stessa fiamma che ti brucia,
      ma piú profondamente. O Imeneo Imen Io,
      o Imen Imeneo. Lascia libero il braccio morbido
      di questa bambina, ragazzo: il letto nuziale l'attende.
      Io Imeneo Imen Io, Io Imen Imeneo.
      E voi che siete state amate solo dai vostri vecchi sposi,
      coricatela nel suo letto. Io Imeneo Imen lo,
      Io Imen Imeneo. Ora può venire lo sposo:
      tua moglie è nel letto nuziale e il suo viso in fiore risplende
      bianco come una margherita,
      rosso come il papavero. E tu (mi assistano gli dei)
      sei ugualmente bello: Venere non si è certo dimenticata
      di te. Ma il giorno se ne va: avanti, non tardare.
      No, tu non hai tardato molto: sei qui. Venere sarà dolce
      con te, perché ciò che tu vuoi lo vuoi al sole e il tuo amore
      non nascondi a nessuno. Si provi a sommare i granelli
      di sabbia nei deserti d'Africa, le stelle che brillano in cielo,
      chi vuol contare i vostri mille e mille giochi d'amore.
      Godetevi il piacere e presto fate figlioli. Una famiglia
      cosí antica non può vivere senza figli, ma dal suo sangue
      sempre deve rinascere. Voglio che un piccolo Torquato,
      tendendogli le mani dal grembo della madre,
      dolcemente, le labbra schiuse, al padre suo sorrida.
      E somigli tanto a suo padre, a Manlio, che senza fatica
      tutti lo riconoscano, e rispecchi nel volto
      l'onestà della madre. E per virtú di madre
      abbia sempre lode il suo sangue, come eternamente a Telemaco
      per la purezza di sua madre rimane onore raro.
      Sprangate le porte, fanciulle: lo scherzo è finito. Ma voi,
      dolci sposi, siate felici: godetevi la giovinezza
      nei piaceri d'amore.»

      Catullo incita gli sposi a ritirarsi nella camera nuziale per fare sesso.
      «Claudite ostia, virgines: 
      lusimus satis. At boni coniuges, 
      bene vivite et munere assiduo 
      valentem exercete iuventam. »

      «Basta canti, ora, o vergini!
      Siano chiuse le porte: e a voi, buoni sposi,
      un buon vivere e, costanti nel compito,
      valenti esercitate la vostra gioventù»



      62)  Carmina Docta  LXII

      Si tratta si un epitalamio non composto però come l’altro per una determinata occasione, ma impostato come un contrasto tra un gruppo di ragazzi e uno di fanciullo che in un canto amebeo (alterno) si scambiano battute sul tema delle nozzeAnche questo, come il precedente si avvale della pratica del 'vertere' risalendo alla poetica saffica che il poeta apprezza grandemente.

      «Vesper adest, iuvenes, consurgite: Vesper Olympo
      exspectata diu vix tandem lumina tollit.
      surgere iam tempus, iam pinguis linquere mensas,
      iam veniet virgo, iam dicetur hymenaeus.
      Hymen o Hymenaee, Hymen ades o Hymenaee!
      Cernitis, innuptae, iuvenes? consurgite contra;
      nimirum Oetaeos ostendit Noctifer ignes.
      sic certest; viden ut perniciter exsiluere?
      non temere exsiluere, canent quod vincere par est.
      Hymen o Hymenaee, Hymen ades o Hymenaee!
      non facilis nobis, aequales, palma parata est:
      aspicite, innuptae secum ut meditata requirunt.
      non frustra meditantur: habent
      memorabile quod sit; nec mirum, penitus quae 
      tota mente laborant. nos alio mentes, alio divisimus aures;
      iure igitur vincemur: amat victoria curam.
      quare nunc animos saltem convertite vestros;
      dicere iam incipient, iam respondere decebit.
      Hymen o Hymenaee, Hymen ades o Hymenaee!
      Hespere, quis caelo fertur crudelior ignis?
      qui natam possis complexu avellere matris,
      complexu matris retinentem avellere natam,
      et iuveni ardenti castam donare puellam.
      quid faciunt hostes capta crudelius urbe?
      Hymen o Hymenaee, Hymen ades o Hymenaee!
      Hespere, quis caelo lucet iucundior ignis?
      qui desponsa tua firmes conubia flamma,
      quae pepigere viri, pepigerunt ante parentes,
      nec iunxere prius quam se tuus extulit ardor.
      quid datur a divis felici optatius hora?
      Hymen o Hymenaee, Hymen ades o Hymenaee!
      Hesperus e nobis, aequales, abstulit unam.
      .........................

      namque tuo adventu vigilat custodia semper,
      nocte latent fures, quos idem saepe revertens,
      Hespere, mutato comprendis nomine Eous;
      at lubet innuptis ficto te carpere questu.
      quid tum, si carpunt, tacita quem mente requirunt?
      Hymen o Hymenaee, Hymen ades o Hymenaee!
      Ut flos in saeptis secretus nascitur hortis,
      ignotus pecori, nullo convolsus aratro,
      quem mulcent aurae, firmat sol, educat imber;
      multi illum pueri, multae optavere puellae:
      idem cum tenui carptus defloruit ungui,
      nulli illum pueri, nullae optavere puellae:
      sic virgo, dum intacta manet, dum cara suis est;
      cum castum amisit polluto corpore florem,
      nec pueris iucunda manet, nec cara puellis.
      Hymen o Hymenaee, Hymen ades o Hymenaee!
      Ut vidua in nudo vitis quae nascitur arvo,
      numquam se extollit, numquam mitem educat uvam,
      sed tenerum prono deflectens pondere corpus
      iam iam contingit summum radice flagellum;
      hanc nulli agricolae, nulli coluere iuvenci:at si
      forte eadem est ulmo coniuncta marito,
      multi illam agricolae, multi coluere iuvenci:
      sic virgo dum intacta manet, dum inculta senescit;
      cum par conubium maturo tempore adepta est,
      cara viro magis et minus est invisa parenti.
      Hymen o Hymenaee, Hymen ades o Hymenaee!
      Et tu ne pugna cum tali coniuge virgo.
      non aequom est pugnare, pater cui tradidit ipse,
      ipse pater cum matre, quibus parere necesse est.
      virginitas non tota tua est, ex parte parentum est,
      tertia pars patrest, pars est data tertia matri,
      tertia sola tua est: noli pugnare duobus,
      qui genero suo iura simul cum dote dederunt.
      Hymen o Hymenaee, Hymen ades o Hymenaee!"


      «Viene la sera e Vespero nel cielo
      dopo estenuante attesa accende la sua luce.
      In piedi, in piedi, ragazzi; via dalle mense:
      qui verrà la vergine, si canterà l'imeneo.
      Imen o Imeneo, Imen vieni o Imeneo.
      Guardateli, ragazze, alzatevi con loro;
      sull'Eta brilla di luce la stella della sera.
      Sí, è cosí, sono balzati in piedi;
      in piedi canteranno e dovremo ascoltarli.
      Imen o Imeneo, Imen vieni o Imeneo.
      Non avremo vittoria facile, compagni.
      Osservate come ripetono e ripetono
      il loro canto: sarà memorabile,
      v'impegnano tutte le loro forze.
      E noi abbiamo la mente rivolta altrove:
      vinceranno, meritano questa vittoria.
      Ma almeno ora prestate un po' d'attenzione:
      cominciano a cantare, dovremo rispondere.
      Imen o Imeneo, Imen vieni o Imeneo.
      Non vola in cielo stella piú crudele, Espero,
      se puoi strappare una figlia all'abbraccio di sua madre,
      strapparla a quell'abbraccio che non vuol lasciare,
      per abbandonarla innocente all'ardore di un giovane.
      Un nemico non è piú crudele coi vinti.
      Imen o Imeneo, Imen vieni o Imeneo.
      Non splende in cielo stella piú gentile, Espero,
      se con la tua luce suggelli quelle nozze
      che sposo e genitori avevano deciso,
      ma non strinsero prima che si alzasse la tua fiamma.
      Puoi chiedere al cielo un'ora piú felice di questa?
      Imen o Imeneo, Imen vieni o Imeneo.
      Espero ha rapito una di noi, compagne.
      Al tuo apparire vegliano i custodi.
      La notte cela i ladri, ma tu, Espero,
      rispuntando al mattino, li sorprendi.
      E le ragazze in pianto fingono di maledirti,
      anche se maledicono chi invocano in segreto.
      Imen o Imeneo, Imen vieni o Imeneo.
      Come in un giardino germoglia solitario un fiore
      sfuggito al gregge e mai sfiorato dall'aratro,
      e il vento lo accarezza, lo nutrono sole e pioggia,
      tutti i giovani vorrebbero coglierlo;
      ma se sfiorisce divelto da un'unghia aguzza,
      di tutti loro non lo desidera piú nessuno:
      cosí una vergine è cara finché rimane pura,
      ma quando violata perde il suo primo fiore,
      non è piú gradita e cara a nessuno.
      Imen o Imeneo, Imen vieni o Imeneo.
      Come la vite che nasce isolata in terra spoglia
      non riesce ad alzarsi né a maturare l'uva,
      ma piegandosi sotto il peso del tenero fusto
      quasi sfiora con le sue radici il tralcio piú alto
      e da nessuno, contadini o buoi, è presa a cuore,
      se per caso si lega in matrimonio all'olmo
      tutti, contadini o buoi, l'hanno a cuore;
      cosí invecchia trascurata una fanciulla vergine,
      ma se a tempo debito stringe giuste nozze,
      eluso l'odio del padre, avrà l'amore di un uomo.
      Imen o Imeneo, Imen vieni o Imeneo.
      Dunque non opporti, vergine, a questo sposo
      che ti ha dato tuo padre, non opporti:
      a padre e madre si deve obbedire.
      La verginità non è solo e tutta tua:
      un terzo è del padre, un terzo della madre,
      solo un terzo è tuo: non puoi opporti a loro
      che con la dote al genero ti hanno data.
      Imen o Imeneo, Imen vieni o Imeneo.»



      63)  Carmina Docta  LXIII  - Attis

      «Super alta vectus Attis celeri rate maria, 
      Phrygium ut nemus citato cupide pede tetigit,
      adiitque opaca silvis redimita loca deae, 
      stimulatus ibi furenti rabie, vagus animis, 
      devolvit ile acuto sibi pondere silicis.
      Itaque ut relicta sensit sibi membra sine viro, 
      etiam recente terrae sola sanguine maculans, 
      niveis citata cepit manibus leve typanum, 
      typanum tuum, Cybebe, tua, mater initia, 
      quatiensque terga tauri teneris cava digitis
      canere haec suis adorta est tremibunda comitibus: 
      «Agite ite ad alta, Gallae, Cybeles nemora simul, simul ite, 
      Dindymenae dominae vaga pecora, 
      aliena quae petentes velut exules loca 
      sectam meam exsecutae duce me mihi comites
      rapidum salum tulistis truculentaque pelagi 
      et corpus evirastis Veneris nimio odio; 
      hilarate erae citatis erroribus animum. 
      Mora tarda mente cedat: simul ite, 
      sequimini Phrygiam ad domum Cybebes, 
      Phrygia ad nemora deae, ubi cymbalum sonat vox, 
      ubi tympana reboant, tibicen 
      ubi canit Phryx curvo grave calamo, 
      ubi capita Maenades vi iaciunt hederigerae, 
      ubi sacra sancta acutis ululatibus agitant, 
      ubi suevit illa divae volitare vaga cohors,
      quo nos decet citatis celerare tripudiis». 
      Simul haec comitibus Attis cecinit, notha mulier, 
      thiasus repente linguis trepidantibus ululat, 
      leve tympanum remugit, cava cymbala recrepant. 
      viridem citus adit Idam properante pede chorus.
      Furibunda simul anhelans vaga vadit, animam agens, 
      comitata tympano Attis per opaca nemora dux, 
      ueluti iuvenca vitans onus indomita iugi, 
      rapidae ducem sequuntur Gallae properipedem. 
      Itaque, ut domum Cybebes tetigere lassulae,
      nimio e labore somnum capiunt sine Cerere. 
      Piger his labante languore oculos sopor operit; 
      abit in quiete molli rabidus furor animi. 
      Sed ubi oris aurei Sol radiantibus oculis 
      lustravit aethera album, sola dura, mare ferum,
      pepulitque noctis umbras vegetis sonipedibus, 
      ibi Somnus excitum Attin fugiens citus abiit: 
      trepidante eum recepit dea Pasithea sinu. 
      Ita de quiete molli rapida sine rabie simul 
      ipse pectore Attis sua facta recoluit,
      liquidaque mente vidit sine quis ubique foret, 
      animo aestuante rursum reditum ad vada tetulit. 
      Ibi maria vasta visens lacrimantibus oculis, 
      patriam allocuta maesta est ita voce miseriter: 
      «Patria o mei creatrix, patria o mea genetrix,
      ego quam miser relinquens, 
      dominos ut erifugae famuli solent, 
      ad Idae tetuli nemora pedem, 
      ut apud nivem et ferarum gelida stabula forem, 
      et earum operta adirem furibunda latibula, 
      ubinam aut quibus locis te positam, patria, reor?
      Cupit ipsa pupula ad te sibi derigere aciem, 
      rabie fera carens dum breve tempus animus est. 
      Egone a mea remota haec ferar in nemora domo? 
      Patria, bonis, amicis, genitoribus abero? 
      Abero foro, palaestra, stadio et gyminasiis?
      Miser, a miser, querendum est etiam atque etiam, anime. 
      Quod enim genus figurae est, ego non quod obierim? 
      Ego mulier, ego adulescens, ego ephebus, ego puer, 
      ego gymnasi fui flos, ego eram decus olei: 
      mihi ianuae frequentes, mihi limina tepida,
      mihi floridis corollis redimita domus erat, 
      linquendum ubi esset orto mihi sole cubiculum. 
      Ego nunc deum ministra et Cybeles famula ferar? 
      Ego Maenas, ego mei pars, ego vir sterilis ero? 
      Ego viridis algida Idae nive amicta loca colam?
      Ego vitam agam sub altis Phrygiae columinibus, 
      ubi cerva silvicultrix, ubi aper nemorivagus? 
      Iam iam dolet quod egi, iam iamque paenitet». 
      Roseis ut hinc labellis sonitus abiit, 
      geminas deorum ad aures nova nuntia referens,
      ibi iuncta iuga resolvens Cybele leonibus laevumque 
      pecoris hostem stimulans ita loquitur: 
      «Agedum», inquit «age ferox , fac ut hunc furor, 
      fac uti furoris ictu reditum in nemora ferat, 
      mea libere nimis qui fugere imperia cupit.
      Age caede terga cauda, tua verbera patere, 
      fac cuncta mugienti fremitu loca retonent, 
      rutilam ferox torosa cervice quate iubam». 
      Ait haec minax Cybebe religatque iuga manu; 
      ferus ipse sese adhortans rapidum incitat animo, 
      vadit, fremit, refringit virgulta pede vago. 
      At ubi umida albicantis loca litoris adiit,
      teneramque vidit Attin prope marmora pelagi, facit impetum. 
      Ille demens fugit in nemora fera; 
      bi semper, omne vitae spatium, famula fuit.
      Dea magna, dea Cybebe, dea domina Dindymi, 
      procul a mea tuus sit furor omnis, era, domo: 
      alios age incitatos, alios age rabidos..»

      «Oltre mari fondi, Attis, trasportato da nave celere,
       come, cupido, in concitato passo, il frigio bosco toccò e fu lì,
      agli ombrosi luoghi, della dea cinti di selve, pungolato,
      allora, da folle furia, e d’animi errabondo,
      con aguzzo e grosso sasso trasse via a sè i genitali.
      Sentì cosí ogni forza d'uomo sfuggirgli dal corpo
      (goccia a goccia il suo sangue bagnava la terra);
      strinse nelle mani candide il piccolo tamburo
      di Cibele (il tuo tamburo, dei tuoi misteri, madre)
      e battendo con dita delicate la sua pelle
      in un tremito si rivolse alle compagne:
      'Venite, Galle, venite tra i boschi di Cibele,
      venite tutte, gregge errante della dea di Dindimo:
      cercando esuli terre lontane, al mio comando
      per seguirmi vi siete affidate, voi mie compagne,
      che avete sfidato la furia rabbiosa del mare
      e per orrore di Venere vi siete evirate,
      rallegrate di corse pazze il cuore della dea.
      No, no, nessun indugio, venite tutte, seguitemi
      alla casa frigia di Cibele, alle sue foreste,
      dove rombano i tamburi, dove squillano i cembali,
      dove risuonano cupe le melodie del flauto,
      dove, cinte d'edera, si dimenano le Mènadi,
      dove con acute grida si celebrano i riti,
      dove svolazza l'orda vagabonda della dea:
      là con le nostre danze impetuose dobbiamo andare'.
      Il canto di Attis ermafrodito alle compagne
      provoca nella schiera un urlo scomposto di voci,
      brontolano i tamburi, strepitano i cembali,
      e corrono tutte al verde Ida come impazzite.
      Perduta in un delirio se ne va Attis affannata,
      guidandole tra boschi oscuri al suono del tamburo,
      come una giovenca selvaggia che rifiuti il giogo:
      dietro la sua furia si precipitano le Galle.
      Raggiunto il tempio di Cibele cadono sfinite
      e morte di fatica si addormentano digiune.
      Languidamente un torpore suggella i loro occhi
      e spegne nel sonno la furia rabbiosa del cuore.
      Ma quando i raggi dorati del sole si diffusero
      nell'alba livida sulla terra e il mare in tempesta,
      diradando in un baleno le ombre della notte,
      Attis si scuote e il sonno veloce s'allontana
      fuggendo tra le braccia impazienti di Pasitea.
      Svanito nelle nebbie del riposo il suo furore,
      Attis rimugina in cuore ciò che aveva fatto
      e a mente fredda comprende come s'era ridotto:
      con l'animo in tumulto allora ritorna alla spiaggia.
      E guardando il mare immenso, gli occhi pieni di lacrime,
      con voce affranta si rivolge in pianto alla sua terra:
      'Patria che m'hai creato, patria che m'hai generato,
      come uno schiavo dannato che fugge dal padrone
      t'ho abbandonato fuggendo ai boschi dell'Ida
      per vivere tra la neve, in tane di belve
      cacciandomi furiosa in ogni loro covo:
      dove, dove potrò cercarti, patria mia?
      Verso di te corrono gli occhi a volgere lo sguardo
      se per un attimo questa rabbia mi dà respiro.
      E dovrò dunque vivere in questi luoghi sperduti,
      senza piú casa patria beni amici genitori,
      senza piú fori palestre stadi e ginnasi?
      Maledetta, lamentati piangi, anima mia.
      Non c'è un aspetto che io, io non abbia assunto: donna,
      uomo, giovinetto, ragazzo, tutto sono stato,
      il fiore dei ginnasi, la gloria delle palestre.
      Il calore della gente riempiva la mia casa
      e quando al sorgere del sole lasciavo il mio letto
      tutte le stanze erano ornate di fiori. Ora,
      ordinata schiava di Cibele, questo sarò,
      una Mènade, un rottame d'uomo, un eunuco
      che vive tra le nevi gelide del verde Ida.
      E trascinerò la vita sui monti della Frigia
      tra cerve di foresta e cinghiali selvatici.
      E piango, piango, mi dispero: non l'avessi fatto'.
      Quando il grido sfuggitogli dalle labbra di rosa
      giunse alle orecchie degli dei come una folgore,
      subito sciolse Cibele i suoi leoni, aizzando
      quello alla sua sinistra, quel predatore d'agnelli:
      'Via, gettati contro di lui, che senta il tuo furore,
      che costretto dalla tua furia ritorni nei boschi,
      quello sciocco che sogna di sfuggire al mio potere.
      Via, sfèrzati il dorso con la coda, battiti, battiti,
      che tutta la terra sia assordata dal tuo ruggito,
      atterrita dal fiammeggiare della tua criniera'.
      Dopo le minacce Cibele libera la belva
      e quella fulminea, scatenando la sua ferocia,
      si getta alla caccia, ruggisce, fa strage di piante.
      Giunta sulla riva umida e bianca della spiaggia
      scorge il tenero Attis nel riverbero del mare
      e scatta: quello impazzito fugge nella foresta.
      Lí schiava rimase per tutto il resto della vita.
      O dea, dea grande, dea Cibele, dea di Díndimo,
      signora, allontana dalla mia casa il tuo furore:
      scatena altri ai tuoi deliri, altri alla tua rabbia.»



      64)  Carmina docta  LXIV

      «Peliaco quondam prognatae vertice pinus dicuntur 
      liquidas Neptuni nasse per undas Phasidos ad fluctus 
      et fines Aeetaeos, cum lecti iuvenes, 
      Argivae robora pubis, auratam optantes 
      Colchis avertere pellem ausi sunt vada salsa cita decurrere puppi,
       caerula verrentes abiegnis aequora palmis. 
      Diva quibus retinens in summis urbibus arces ipsa levi 
      fecit volitantem flamine currum, 
      pinea coniungens inflexae texta carinae. 
      Illa rudem cursu prima imbuit Amphitriten; 
      quae simul ac rostro ventosum proscidit aequor tortaque 
      remigio spumis incanuit unda, emersere freti candenti 
      e gurgite vultus aequoreae monstrum Nereides admirantes

      «Narrano che i pini prole dei picchi del Pelio
      una volta lungo le limpide onde di Nettuno
      nuotarono fino ai flutti del Fasi ed agli eetèi confini quando,
      forze di argivi ragazzi giovani scelti,
      desiderando carpire ai Colchi il vello dorato,
      su poppa rapida i guadi salmastri osarono correre
      con palme in legno d’abete spazzando le piane cerulee.
      Loro, per cui la dea stessa che nelle città, in cima,
      tiene le rocche, un carro forgiò pronto al volo ad un lieve spirare,
      congiungendo a incurvata carena testure di pino:
      quella per prima Anfitrìte inesperta iniziò a una rotta
      e non appena fendette col rostro la piana ventosa e,
      rovesciata dai remi, mutò l’onda in bianco di schiume,
      dall’ora candido gorgo delle acque
      levarono i volti le marine Nerèidi, stupite del prodigio. »


      65)  Carmina docta  LXV

      Catullo nel carme 65, compone una rielaborazione della Chioma di Berenice di Callimaco, che viene ripreso per mostrare l'adesione ad una raffinata elaborazione stilistica, mitologica e linguistica ed infine la brevitas dei componimenti, con la convinzione che solo un carme di breve durata può essere un'opera raffinata e preziosa.
      E' un'epistola indirizzata all'oratore Ortensio Ortalo,amico e rivale di Cicerone, difensore dei poeti e poeta egli stesso, traduzione dell'opera di Callimaco "La chioma di Berenice", fatta da Catullo allo stesso Ortalo.
      Il Carmen  fa parte dei Cartmina docta, che vanno dal LXI al LXVIII, d'impronta alessandrina e per lo più in esametri e distici elegiaci. Si tratta di un epillio in esametri ed è il più ampio di tutti i componimenti (circa 400 versi). 
      Narra le nozze di Pèleo con la Dea Tètide; per l'occasione inserisce il racconto di Arianna innamorata di Tèseo, giunto a Creta per uccidere il Minotauro, e la disperazione dell’eroina abbandonata. Dopo il racconto della punizione che toccò a Tèseo per il tradimento, si torna alle nozze di Pèleo e Tètide. 
      Nel finale il poeta esprime il suo rimpianto per il tempo mitico degli eroi, quando gli Dei si mostravano agli uomini e si facevano garanti dei valori morali e religiosi, primo fra tutti la fides (peraltro tradita da Lesbia).

      «Etsi me assiduo confectum cura dolore
      sevocat a doctis, Ortale, virginibus,
      nec potis est dulcis Musarum expromere fetus
      mens animi, (tantis fluctuat ipsa malis
      namque mei nuper Lethaeo in gurgite fratris
      pallidulum manans alluit unda pedem,
      Troia Rhoeteo quem subter litore tellus
      ereptum nostris obterit ex oculis.
      Alloquar ,audiero numquam tua facta loquentem,
      numquam ego te, vita frater amabilior,
      aspiciam posthac? at certe semper amabo,
      semper maesta tua carmina morte canam,
      qualia sub densis ramorum concinit umbris
      Daulias, absumpti fata gemens Ityli)
      sed tamen in tantis maeroribus, Ortale, mitto
      haec expressa tibi carmina Battiadae,
      ne tua dicta vagis nequiquam credita ventis
      effluxisse meo forte putes animo,
      ut missum sponsi furtivo munere malum
      procurrit casto virginis e gremio,
      quod miserae oblitae molli sub veste locatum,
      dum adventu matris prosilit, excutitur,
      atque illud prono praeceps agitur decursu,
      huic manat tristi conscius ore rubor.»


      «L'angoscia sfibrante di un dolore senza tregua
      mi distoglie, Ortalo, da ogni volontá di vivere
      e nell'incertezza di questa sofferenza non penso più
      di trovare nelle parole il conforto della poesia:
      l'onda che nasce dal gorgo di Lete ora, ora
      bagna il piede pallido ora di mio fratello:
      strappato ai miei occhi, la terra di Troia
      ora lo dissolve sotto il peso della sua collina.
      Ti parlerò e non ti sentirò parlare,
      mai, mai più ti rivedrò, fratello mio:
      amato più della mia vita, sempre ti amerò,
      sempre mi terrò in cuore il pianto per la tua morte,
      come l'usignolo tra le ombre più folte dei rami
      piange nel suo canto la sorte straziante di Iti.
      Ma anche in così grande tristezza, Ortalo,
      eccoti questi versi tradotti da Callimaco,
      perchè tu non creda che, disperse nel vento,
      le tue parole mi siano sfuggite dalla mente,
      come scivola dal grembo di una ragazzina
      il pomo che in segreto le donò l'innamorato,
      quando, scordatasi d'averlo fra le pieghe della veste,
      sussulta trasognata all'arrivo della madre
      e le sguscia via: cade in terra il pomo rotolando
      e il suo viso afflitto avvampa di vergogna.»



      66)  Carmina docta  LXVI

      E' la traduzione di un’elegia di Callìmaco contenuta negli Aìtia, la “Chioma di Berenice” in cui ad Alessandria d’Egitto l’astronomo di corte individua nel cielo una nuova costellazione corrispondente a un ricciolo di Berenice, offerto in voto agli Dei per propiziare il ritorno dalla guerra dello sposo. Anche qui sono esaltati l’amore e la fedeltà coniugali. Con questo carme si conclude la serie dei carmina docta, molto ispirati ai modelli greci con raffinata sperimentazione stilistica.

      «Omnia qui magni dispexit lumina mundi,
      qui stellarum ortus comperit atque obitus,
      flammeus ut rapidi solis nitor obscuretur,
      ut cedant certis sidera temporibus,
      ut Triviam furtim sub Latmia saxa relegans
      dulcis amor gyro devocet aereo: idem me ille
      Conon caelesti in lumine vidit
      e Beroniceo vertice caesariem
      fulgentem clare, quam multis illa deorum
      levia protendens brachia pollicita est,
      qua rex tempestate novo auctus hymenaeo
      vastatum finis iverat Assyrios,
      dulcia nocturnae portans vestigia rixae,
      quam de virgineis gesserat exuviis.
      estne novis nuptis odio Venus? anne parentum 1
      frustrantur falsis gaudia lacrimulis,
      ubertim thalami quas intra limina fundunt?
      non, ita me divi, vera gemunt, iverint.
      id mea me multis docuit regina querellis
      invisente novo proelia torva viro.
      et tu non orbum luxti deserta cubile,
      sed fratris cari flebile discidium?
      quam penitus maestas exedit cura medullas!
      ut tibi tunc toto pectore sollicitae
      sensibus ereptis mens excidit! at ego certe
      cognoram a parva virgine magnanimam.
      anne bonum oblita es facinus, quo regium adepta
      es coniugium, quod non fortior ausit alis?
      sed tum maesta virum mittens quae verba locuta est!
      Iuppiter, ut tristi lumina saepe manu!
      quis te mutavit tantus deus? an quod amantes
      non longe a caro corpore abesse volunt?
      atque ibi me cunctis pro dulci coniuge divis
      non sine taurino sanguine pollicita es,
      si reditum tetulisset. is haut in tempore longo
      captam Asiam Aegypti finibus addiderat.
      quis ego pro factis caelesti reddita coetu
      pristina vota novo munere dissolvo. allitterazione
      invita, o regina, tuo de vertice cessi, anafora
      invita: adiuro teque tuumque caput,
      digna ferat quod si quis inaniter adiurarit:
      sed qui se ferro postulet esse parem?
      ille quoque eversus mons est, quem maximum in
      oris progenies Thiae clara supervehitur,
      cum Medi peperere novum mare, cumque iuventus
      per medium classi barbara navit Athon.
      quid facient crines, cum ferro talia cedant?
      Iuppiter, ut Chalybon omne genus pereat,
      et qui principio sub terra quaerere venas
      institit ac ferri stringere duritiem!
      abiunctae paulo ante comae mea fata sorores
      lugebant, cum se Memnonis Aethiopis
      unigena impellens nutantibus aera pennis
      obtulit Arsinoes Locridis ales equos,
      isque per aetherias me tollens avolat umbras
      et Veneris casto collocat in gremio.
      ipsa suum Zephyritis eo famulum legarat
      Graia Canopitis incola litoribus.
      hic dii vario ne solum in lumine caeli
      ex Ariadnaeis aurea temporibus
      fixa corona foret, sed nos quoque fulgeremus
      devotae flavi verticis exuviae,
      uvidulam a fluctu cedentem ad templa deum me
      sidus in antiquis diva novum posuit. Virginis
      et saevi contingens namque Leonis
      lumina, Callisto iuncta Lycaoniae,
      vertor in occasum, tardum dux ante Booten,
      qui vix sero alto mergitur Oceano.
      sed quamquam me nocte premunt vestigia divum,
      lux autem canae Tethyi restituit
      (pace tua fari hic liceat, Ramnusia virgo,
      namque ego non ullo vera timore tegam,
      nec si me infestis discerpent sidera dictis,
      condita quin vere pectoris evolvam),
      non his tam laetor rebus, quam me afore semper,
      afore me a dominae vertice discrucior,
      quicum ego, dum virgo quondam fuit omnibus expers
      unguentis, una milia multa bibi. nunc
      vos, optato quas iunxit lumine taeda,
      non prius unanimis corpora coniugibus
      tradite nudantes reiecta veste papillas,
      quam iucunda mihi munera libet onyx,
      vester onyx, casto colitis quae iura
      cubili. sed quae se impuro dedit adulterio,
      illius a mala dona levis bibat irrita pulvis:
      namque ego ab indignis praemia nulla peto.
      sed magis, o nuptae, semper concordia vestras,
      semper amor sedes incolat assiduus.
      tu vero, regina, tuens cum sidera divam
      placabis festis luminibus Venerem,
      unguinis expertem non siris esse tuam me,
      sed potius largis affice muneribus.
      sidera corruerint utinam! coma regia fiam,
      proximus Hydrochoi fulgeret Oarion!
      »

      «Chi dell'universo distinse tutte le luci
      e scoprí il sorgere e il tramontare delle stelle,
      come si oscura in un lampo la fiamma del sole
      e in che giorni dell'anno si nascondono gli astri,
      come per tenero amore la luna dall'orbita
      tra le rupi di Latmo furtiva s'allontana;
      proprio quello, grazie agli dei, Conone mi vide,
      staccata dal capo di Berenice, brillare
      di luce, la chioma che lei, tendendo le braccia
      morbide, promise in voto ad ogni dea del cielo,
      quando il suo re, reso piú grande da queste nozze,
      partí per devastare le terre degli Assiri,
      col ricordo in cuore della lotta sostenuta
      per vincere la sua verginità quella notte.
      Ma detestano l'amore queste spose o frustrano
      la gioia dei genitori con tutte le lacrime
      false che spargono davanti al letto nuziale?
      Testimonino gli dei, se quel pianto è vero.
      Me lo rivelò coi suoi lamenti la regina,
      quando il marito si accinse ad una guerra atroce.
      Certo non piangevi solo per un letto vuoto,
      ma per l'angoscia che ti lasciasse il tuo amore.
      Un'ansia senza fine ti divorava dentro
      e ti tremava il cuore, ti sentivi svenire,
      impazzivi. Ma fin da quando eri bambina
      io ti ritenevo coraggiosa: non ricordi
      dunque l'impresa che nessun uomo avrebbe osato,
      quella che ti permise di essere regina?
      Come ti lamentavi salutando il marito
      mio dio, quante lacrime asciugò la tua mano.
      Ma chi degli dei ti ha cosí mutata? O forse
      gli amanti non sanno proprio vivere lontani?
      Sacrificando un toro mi promettesti allora
      a tutti quanti gli dei, se fosse ritornato
      il tuo amato sposo. E lui poco tempo dopo,
      conquistata l'Asia, l'uní al regno egiziano.
      Ora per questa impresa accolta in mezzo ai celesti,
      sciolgo con un dono insolito il voto promesso.
      Non volevo, regina, lasciare la tua fronte,
      non volevo: lo giuro su di te, sul tuo capo
      e chi giura il falso abbia la pena che si merita:
      ma chi può pretendere d'essere uguale al ferro?
      Anche quel monte, il piú alto su cui batte il figlio
      luminoso di Thia, fu spezzato dal ferro,
      quando i Medi crearono un nuovo mare e i barbari
      passarono con le loro navi in mezzo all'Athos.
      Come resistere, se anche i monti si arrendono
      al ferro? Stermina, Giove, il popolo dei Càlibi,
      che per primi cercarono il ferro sottoterra
      tentando ostinati di piegarne la durezza.
      I capelli da cui ero recisa piangevano
      la mia sorte, quando il cavallo alato di Arsínoe,
      nato con l'etiope Mèmnone da stessa madre,
      battendo le ali a fendere l'aria, mi prese
      e sollevandomi in volo attraverso le tenebre
      celesti, mi pose nel grembo casto di Venere.
      La greca abitatrice dei lidi di Canòpo,
      Venere Zefirítide stessa l'ha mandato,
      perché fra tutte le stelle del cielo divino
      non fosse posta soltanto la corona d'oro
      tolta alle tempie di Arianna, ma anch'io risplendessi,
      chioma recisa per voto da una testa bionda.
      E ancora umida di pianto la dea mi pose
      nel firmamento, nuova stella fra quelle antiche.
      Io, sfiorando le costellazioni della Vergine
      e dell'ardente Leone, insieme con Callisto
      volgo ad occidente guidando il lento Boòte,
      che solo all'alba s'immerge nel profondo Oceano.
      Ma benché di notte senta il passo degli dei
      e l'alba mi restituisca alla bianca Teti,
      questo non mi rallegra: sapermi ormai lontana
      (lasciami parlare, ti prego, vergine Nemesi:
      non so tacere la mia verità per paura,
      gli astri possono coprirmi di maledizioni,
      ripeterò la verità che nascondo in cuore),
      sapermi lontana dal capo di Berenice,
      questo mi angoscia: quand'era fanciulla i profumi
      non servivano, anche se poi ne provai migliaia.
      E voi, giunte alle nozze com'era il desiderio,
      non offrite allo sposo adorato il vostro corpo
      lasciando cadere la veste a scoprire il seno,
      prima di donare a me la gioia di un profumo,
      il vostro profumo, voi che onorate l'amore.
      Ma i doni nefasti di chi commette adulterio
      li beva senza frutto la polvere leggera:
      io certo non chiedo nulla a chi non ne sia degno.
      Voglio piuttosto che la concordia dell'amore
      in eterno sempre, sempre abiti con voi.
      E se guardando le stelle placherai, regina,
      nelle notti di festa la tua divina Venere,
      non lasciarla senza sacrifici, perché tua
      per le tue offerte io possa essere ancora.
      Tornino com'erano le stelle ed io regina
      con Berenice, o splenda Orione dentro l'Aquario.»



      67)  Carmina docta  LXVII

      Si tratta di una breve elegia sugli scandali di una famiglia veronese. Si tratta del lamento dell'amante di fronte alla porta chiusa dell'amato, dove una porta racconta le vicende della moglie del padrone e delle sue relazioni adulterine. L'ultimo componimento racconta della vicenda mitica riguardante Protesilao e Laodamia, ovvero la morte di un congiunto (la scomparsa del fratello) e l'amore disperato e carnale (la passione per Lesbia).

      «O dulci iucunda viro, iucunda parenti, salve,
      teque bona Iuppiter auctet ope, ianua,
      quam Balbo dicunt servisse benigne olim, 
      cum sedes ipse senex tenuit, quamque ferunt 
      rursus gnato servisse maligne, 
      postquam es porrecto facta marita sene. 
      dic agedum nobis, quare mutata feraris 
      in dominum veterem deseruisse fidem. 
      ‘Non (ita Caecilio placeam, cui tradita nunc sum) 
      culpa mea est, quamquam dicitur esse mea, 
      nec peccatum a me quisquam pote dicere quicquam: 
      verum istius populi ianua qui te facit, qui, 
      quacumque aliquid reperitur non bene factum, 
      ad me omnes clamant: ianua, culpa tua est.’ 
      non istuc satis est uno te dicere verbo, 
      sed facere ut quivis sentiat et videat. 
      ‘Qui possum? nemo quaerit nec scire laborat.’ 
      Nos volumus: nobis dicere ne dubita. 
      ‘Primum igitur, virgo quod fertur tradita nobis, 
      falsum est. non illam vir prior attigerit, 
      languidior tenera cui pendens sicula beta 
      numquam se mediam sustulit ad tunicam; 
      sed pater illius gnati violasse cubile dicitur 
      et miseram conscelerasse domum,
      sive quod impia mens caeco flagrabat amore, 
      seu quod iners sterili semine natus erat, 
      ut quaerendum unde unde foret nervosius illud, 
      quod posset zonam solvere virgineam.’ 
      Egregium narras mira pietate parentem, 
      qui ipse sui gnati minxerit in gremium. 
      ‘Atqui non solum hoc dicit se cognitum 
      habere Brixia Cycneae supposita speculae, 
      flavus quam molli praecurrit flumine Mella, 
      Brixia Veronae mater amata meae, sed de 
      Postumio et Corneli narrat amore, 
      cum quibus illa malum fecit adulterium. 
      dixerit hic aliquis: quid? tu istaec, ianua, 
      nosti, cui numquam domini limine abesse licet, 
      nec populum auscultare, sed hic suffixa tigillo 
      tantum operire soles aut aperire domum? 
      saepe illam audivi furtiva voce loquentem 
      solam cum ancillis haec sua flagitia, 
      nomine dicentem quos diximus, utpote 
      quae mi speraret nec linguam esse nec 
      auriculam. praeterea addebat quendam, 
      quem dicere nolo nomine, ne tollat rubra supercilia. 
      longus homo est, magnas cui lites intulit olim 
      falsum mendaci ventre puerperium.»

      «Salute a te, porta, cosí cara a un buon marito,
      a un padre: ti benedica Giove.
      Si dice che un tempo tu abbia servito onestamente
      il vecchio Balbo finché visse in questa casa,
      ma anche che tu abbia poi disonorato questa fede,
      quando, stecchito il vecchio, hai stretto un altro vincolo.
      Avanti, dimmi tutto. Tu sei cambiata:
      dov'è finita la tua proverbiale fedeltà
      al padrone? La colpa non è mia,
      anche se dicono cosí (mi perdoni Cecilio
      a cui ora appartengo). Nessuno può dire
      che io abbia sulla coscienza qualche peccato.
      Ma per certa gente è sempre la porta
      la causa di tutto e qualunque malefatta si scopra
      tutti mi gridano: 'porta, la colpa è tua'.
      Non basta dirlo: è una parola.
      Dovresti fare in modo che ognuno se ne rendesse conto.
      E come? Non gliene frega a nessuno
      di saperlo. Ma a me sí:
      avanti, dimmi come stanno le cose.
      Primo: se dicono che quella mi è stata affidata vergine,
      è falso. Non può certo averla toccata
      per primo il marito con quel cosino pendente,
      piú moscio di una bietola lessa, che non ha mai sollevato
      di tanto la sua tunica. Sembra piuttosto
      che sia stato il padre a violare il letto del figlio,
      disonorando quella gente disgraziata.
      Forse una passione insana ardeva nel suo cuore sciagurato
      o forse l'impotenza, che rendeva sterile il figlio,
      l'indusse a credere che fosse necessario un piolo
      capace di sciogliere il nodo della vergine.
      Un padre straordinario, mi dici,
      di una bontà cosí incredibile da bagnare lui stesso
      l'orto del figliolo. Non è tutto.
      Sembra che sotto il castello chineo, a Brescia,
      attraversata pigramente dalle acque gialle del Mella,
      a Brescia, l'amata madre della mia Verona,
      si sappia ben altro; di Postumio,
      della passione di Cornelio, coi quali, si mormora,
      lei avrebbe consumato infami adulteri.
      'E tu come lo sai?' si dirà.
      'Una porta non può staccarsi dalla soglia del padrone,
      né origliare ciò che dice la gente; infissa nell'architrave
      non fa altro che aprire o chiudere la casa.'
      Lo so, perché l'ho sentita parlare a bassa voce, in un canto
      con le sue servette di queste vergogne,
      e faceva i nomi di quelli che ho detto,
      convinta che non avessi né orecchie né lingua.
      Ed anche di un altro, del quale non faccio il nome,
      perché non aggrotti le sue rosse sopracciglia.
      È un tipo alto, che un tempo ha subíto
      un processo famoso per il figlio inventato
      da una falsa gestante.»



      68)  Carmina docta  LXVIII

      Catullo esprime la sua affettuosa riconoscenza verso un amico che gli è venuto in soccorso agli inizi del suo amore per Lesbia, favorendo il primo incontro tra i due. Come exemplum viene citato un mito: Lesbia venne allora tra le braccia di Catullo come la mitica Laodamìa si era unita allo sposo Protesilào, senza che i riti nuziali fossero compiuti in conformità alle prescrizioni divine; perciò ella perse lo sposo, caduto sotto le mura di Troia.

      Quod mihi fortuna casuque oppressus acerbo
      conscriptum hoc lacrimis mittis epistolium,
      naufragum ut eiectum spumantibus aequoris
      undis sublevem et a mortis limine restituam,
      quem neque sancta Venus molli requiescere somno
      desertum in lecto caelibe perpetitur,
      nec veterum dulci scriptorum carmine Musae
      oblectant, cum mens anxia pervigilat:
      id gratum est mihi, me quoniam tibi dicis amicum,
      muneraque et Musarum hinc petis et Veneris.
      sed tibi ne mea sint ignota incommoda, Mani,
      neu me odisse putes hospitis officium,
      accipe, quis merser fortunae fluctibus ipse,
      ne amplius a misero dona beata petas.
      tempore quo primum vestis mihi tradita 
      pura est, iucundum cum aetas florida ver ageret,
      multa satis lusi: non est dea nescia nostri,
      quae dulcem curis miscet amaritiem.
      sed totum hoc studium luctu fraterna mihi mors
      abstulit. o misero frater adempte mihi,
      tu mea tu moriens fregisti commoda, frater,
      tecum una tota est nostra sepulta domus,
      omnia tecum una perierunt gaudia nostra,
      quae tuus in vita dulcis alebat amor.
      cuius ego interitu tota de mente fugavi
      haec studia atque omnes delicias animi.
      quare, quod scribis Veronae turpe Catullo
      esse, quod hic quisquis de meliore nota
      frigida deserto tepefactet membra cubili,
      id, Mani, non est turpe, magis miserum est.
      ignosces igitur si, quae mihi luctus ademit,
      haec tibi non tribuo munera, cum nequeo.
      nam, quod scriptorum non magna est copia apud
      me, hoc fit, quod Romae vivimus: illa domus,
      illa mihi sedes, illic mea carpitur aetas;
      huc una ex multis capsula me sequitur.
      quod cum ita sit, nolim statuas nos mente maligna
      id facere aut animo non satis ingenuo,
      quod tibi non utriusque petenti copia posta est:
      ultro ego deferrem, copia siqua foret.
      Non possum reticere, deae, qua me Allius in re
      iuverit aut quantis iuverit officiis,
      ne fugiens saeclis obliviscentibus aetas
      illius hoc caeca nocte tegat studium:
      sed dicam vobis, vos porro dicite multis
      milibus et facite haec carta loquatur anus.
      ..............................

      notescatque magis mortuus atque magis,
      nec tenuem texens sublimis aranea telam
      in deserto Alli nomine opus faciat. nam, 
      mihi quam dederit duplex Amathusia curam,
      scitis, et in quo me torruerit genere,
      cum tantum arderem quantum Trinacria rupes
      lymphaque in Oetaeis Malia Thermopylis,
      maesta neque assiduo tabescere lumina fletu
      cessarent. tristique imbre madere genae.
      qualis in aerii perlucens vertice montis
      rivus muscoso prosilit e lapide,
      qui cum de prona praeceps est valle volutus,
      per medium densi transit iter populi,
      dulce viatori lasso in sudore levamen,
      cum gravis exustos aestus hiulcat agros:
      hic, velut in nigro iactatis turbine nautis
      lenius aspirans aura secunda venit
      iam prece Pollucis, iam Castoris implorata,
      tale fuit nobis Allius auxilium.
      is clausum lato patefecit limite campum,
      isque domum nobis isque dedit dominae,
      ad quam communes exerceremus amores.
      quo mea se molli candida diva pede
      intulit et trito fulgentem in limine plantam
      innixa arguta constituit solea, coniugis ut
      quondam flagrans advenit amore
      Protesilaeam Laodamia domum
      inceptam frustra, nondum cum sanguine sacro
      hostia caelestis pacificasset eros.
      nil mihi tam valde placeat, Ramnusia virgo,
      quod temere invitis suscipiatur eris.
      quam ieiuna pium desideret ara cruorem,
      docta est amisso Laodamia viro,
      coniugis ante coacta novi dimittere collum,
      quam veniens una atque altera rursus hiems
      noctibus in longis avidum saturasset amorem,
      posset ut abrupto vivere coniugio,
      quod scibant Parcae non longo tempore abesse,
      si miles muros isset ad Iliacos.
      nam tum Helenae raptu primores Argivorum
      coeperat ad sese Troia ciere viros,
      Troia (nefas!) commune sepulcrum Asiae 
      Europaeque, Troia virum et virtutum omnium 
      acerba cinis, quaene etiam nostro letum 
      miserabile fratri attulit. ei misero frater 
      adempte mihi ei misero fratri iucundum 
      lumen ademptum, tecum una tota est nostra 
      sepulta domus, omnia tecum una perierunt 
      gaudia nostra, quae tuus in vita dulcis alebat amor.
      quem nunc tam longe non inter nota sepulcra
      nec prope cognatos compositum cineres,
      sed Troia obscena, Troia infelice sepultum
      detinet extremo terra aliena solo. ad quam 
      tum properans fertur undique pubes
      Graecae penetralis deseruisse focos,
      ne Paris abducta gavisus libera moecha
      otia pacato degeret in thalamo.
      quo tibi tum casu, pulcerrima Laodamia,
      ereptum est vita dulcius atque anima
      coniugium: tanto te absorbens vertice amoris
      aestus in abruptum detulerat barathrum,
      quale ferunt Grai Pheneum prope Cylleneum
      siccare emulsa pingue palude solum,
      quod quondam caesis montis fodisse medullis
      audit falsiparens Amphitryoniades,
      tempore quo certa Stymphalia monstra sagitta
      perculit imperio deterioris eri, pluribus ut caeli 
      tereretur ianua divis, Hebe nec longa virginitate 
      foret. sed tuus altus amor barathro fuit altior illo,
      qui tamen indomitam ferre iugum docuit.
      nam nec tam carum confecto aetate parenti
      una caput seri nata nepotis alit, qui cum divitiis 
      vix tandem inventus avitis nomen testatas 
      intulit in tabulas, impia derisi gentilis gaudia 
      tollens, suscitat a cano volturium capiti:
      nec tantum niveo gavisa est ulla columbo
      compar, quae multo dicitur improbius
      oscula mordenti semper decerpere rostro,
      quam quae praecipue multivola est mulier.
      sed tu horum magnos vicisti sola furores,
      ut semel es flavo conciliata viro.
      aut nihil aut paulum cui tum concedere digna
      lux mea se nostrum contulit in gremium,
      quam circumcursans hinc illinc saepe Cupido
      fulgebat crocina candidus in tunica.
      quae tamen etsi uno non est contenta 
      Catullo, rara verecundae furta feremus erae
      ne nimium simus stultorum more molesti.
      saepe etiam Iuno, maxima caelicolum,
      coniugis in culpa flagrantem concoquit iram,
      noscens omnivoli plurima furta Iovis.
      atqui nec divis homines componier aequum est,
      ingratum tremuli tolle parentis onus.
      nec tamen illa mihi dextra deducta paterna
      fragrantem Assyrio venit odore domum,
      sed furtiva dedit mira munuscula nocte,
      ipsius ex ipso dempta viri gremio.
      quare illud satis est, si nobis is datur unus
      quem lapide illa diem candidiore notat.
      hoc tibi, quod potui, confectum carmine munus
      pro multis, Alli, redditur officiis, ne vestrum
      scabra tangat rubigine nomen haec atque illa 
      dies atque alia atque alia.huc addent 
      divi quam plurima, quae Themis olim
      antiquis solita est munera ferre piis.
      sitis felices et tu simul et tua vita,
      et domus in qua lusimus et domina,
      et qui principio nobis terram dedit aufert,
      a quo sunt primo omnia nata bona,
      et longe ante omnes mihi quae me carior 
      ipso est, lux mea, qua viva vivere dulce mihi est."

      «Che tu sconvolto dal dolore della tua sventura
      mi scriva questa lettera impregnata di lacrime,
      perché come un naufrago travolto dalla violenza
      del mare io ti soccorra e ti salvi in punto di morte,
      ora che nella solitudine del letto Venere
      non ti concede di trovare la pace del sonno
      e le Muse piú non ti rallegrano nell'angoscia
      della veglia con la dolcezza dei poeti antichi,
      mi è caro, caro che a me, come amico sincero,
      tu chieda il conforto affettuoso della poesia.
      Ma perché anche tu, Allio, conosca le mie amarezze
      e non creda che io rinneghi i doveri dell'ospite,
      ascolta in che traversie io stesso sono immerso
      e non chiedere a un infelice di donarti gioia.
      Al tempo della mia prima toga candida, quando
      l'età fiorita si godeva la sua primavera,
      mi abbandonai a vivere e certo lo sa la dea
      che dolce e amaro mescola in ogni affanno d'amore,
      ma tutto, tutto nel pianto la morte del fratello
      ha cancellato. Ahimè fratello, fratello mio,
      tu con la tua morte tu ogni gioia m'hai spezzato,
      con te tutta la nostra casa con te hai sepolto,
      con te ogni mia felicità, che nella tua vita
      tu di dolce amore ti nutrivi, con te è finita.
      E con la sua morte io ho bandito dalla mente
      le mie fantasie, ogni piacere dello spirito.
      Ora tu mi scrivi 'è indegno restare a Verona,
      Catullo, mentre qui uno dei tuoi piú vecchi amici
      cerca calore nella solitudine di un letto';
      no, Allio, non è indegno, ma triste, questo sí.
      Mi perdonerai dunque se non ti offro quei doni
      che il lutto anche a me ha tolto, ma non mi è possibile.
      E poi non ho con me i miei libri, le mie poesie,
      perché io vivo a Roma, lo sai, e lí è la casa
      dove abito, dove si consuma la mia vita:
      qui di tanti libri non ne ho che una dozzina.
      Stando cosí le cose, non vorrei che tu pensassi
      ad una forma di grettezza o di falsa amicizia,
      se non ti mando nessuno dei doni che mi chiedi:
      ti donerei anche di piú, se mi fosse possibile.
      Ma non posso certo tacere, o dee, quanto, come
      e con quale tenerezza Allio m'abbia aiutato,
      e perché il tempo fuggendo verso l'oblio dei secoli
      non ricopra di nera notte questo suo affetto,
      io lo dirò a voi e voi dovrete dirlo a tutti:
      fate che queste carte continuino a parlarne
      e sempre, sempre piú in morte diventi famoso,
      non lasciate che tessendo la sua trama sottile
      il ragno avvolga di indifferenza il nome di Albo.
      E voi sapete che tormenti m'abbia dato Venere
      con la sua ambiguità, a che punto m'abbia ridotto,
      quando io bruciavo come la rupe di Sicilia
      o la sorgente Màlia alle Termopili dell'Eta,
      o gli occhi dolenti si consumavano nel pianto
      bagnando le guance di una amara pioggia di lacrime,
      come dalla cima di un monte che si perde in cielo
      sgorga limpido un ruscello tra i muschi delle rocce
      che, precipitando a valle lungo tutto il pendio,
      penetra attraverso le strade affollate di gente,
      alleviando la stanchezza e il sudore dei viandanti
      quando il caldo opprimente screpola i campi riarsi.
      E come nel buio della tempesta i marinai
      sentono arrivare in un soffio il vento favorevole
      invocato nelle preghiere a Castore e Polluce,
      cosí fu per me l'aiuto che mi venne da Allio.
      Egli mi aprì davanti un campo che m'era vietato:
      a me, alla mia donna egli diede la sua casa,
      perché lí vivessimo il nostro reciproco amore.
      E lí entrando con passo leggero la mia dea
      si fermò bianca di luce sulla soglia consunta,
      puntando il suo piede nel sandalo con un fruscio;
      cosí un tempo bruciando per lui d'amore entrò
      Laodamía nella casa di Protesilào,
      una casa costruita invano perché col sangue
      mai vittima aveva conciliato gli dei del cielo.
      Nessun desiderio, vergine Nemesi, mi spinga
      a rischiare tanto contro il volere degli dei.
      Che sete abbia di sangue un altare senza vittime
      l'apprese Laodamía perdendo suo marito,
      quando dovette staccarsi dal collo dello sposo
      prima che inverno dopo inverno potesse saziarne
      nelle sue notti interminabili l'ansia d'amore,
      perché riuscisse a vivere separata da lui
      (ma le Parche sapevano che fine avrebbe fatto,
      se fosse andato in armi sotto le mura di Troia).
      Allora, per il ratto di Elena, proprio allora
      Troia chiamava a sé i migliori uomini di Grecia,
      Troia, infame, fossa comune d'Asia e d'Europa,
      Troia, cenere amara d'eroi e d'ogni eroismo,
      quella, quella che anche mio fratello ha spinto a morte
      senza perdono. Ahimè fratello, fratello mio,
      persa anche la gioia della luce, fratello mio,
      con te tutta la nostra casa con te hai sepolto,
      con te ogni mia felicità, che nella tua vita
      tu di dolce amore ti nutrivi, con te è finita.
      Ed ora lui fra sepolcri sconosciuti lontano,
      composto lontano dalle ceneri dei parenti,
      in questa Troia oscena, in questa Troia maledetta,
      terra straniera lo incatena ai confini del mondo.
      Là da ogni parte accorse tutta la gioventú greca
      abbandonando il proprio focolare, perché Paride
      non trascorresse indisturbato in un letto tranquillo
      i suoi ozi, godendosi la femmina rapita.
      E per questa sventura, Laodamía bellissima,
      ti fu strappato uno sposo piú dolce della vita,
      del tuo stesso respiro: inghiottendoti nel suo vortice
      la passione ti gettò in un baratro senza fondo,
      come quello che a Fèneo sotto il Cillène prosciuga,
      secondo i Greci, il terreno assorbendone gli umori,
      quello che si dice abbia scavato il falso figlio
      di Anfitrione attraverso le viscere del monte,
      nei giorni in cui abbatté con le sue frecce infallibili
      i mostri di Stínfalo per ordine di un tiranno,
      perché alle porte del cielo salissero altri dei
      ed Ebe non rimanesse vergine eternamente.
      Ma piú profondo d'ogni baratro fu il tuo amore,
      che t'insegnò a sopportare mansueta quel giogo:
      niente è cosí caro a un padre incalzato dagli anni
      come il nipote inatteso nato alla sua figliola,
      che riconosciuto erede di tutte le ricchezze
      e incluso col suo nome nel testamento del nonno,
      troncando la turpe gioia del parente deriso,
      dal capo bianco fa volar via quell'avvoltoio;
      né mai del suo candido compagno prende piacere
      cosí grande la colomba, che a furia di beccate
      strappa un bacio dopo l'altro con un'avidità
      che non possiede la piú insaziabile delle donne;
      ma tu, tu da sola hai superato l'intensità
      del loro amore, quando abbracciasti il tuo biondo eroe.
      E affascinante o quasi come te in quegli istanti,
      la luce mia in un abbraccio si strinse al mio grembo,
      e volandole tutto intorno candido di luce
      risplendeva Amore nella sua tunica di croco.
      Anche se non le basta Catullo, sopporterò,
      purché sia donna discreta, qualche amore furtivo
      per non rendermi noioso come fanno gli sciocchi.
      Giunone stessa, regina dei cieli, seppe vincere,
      abituata com'era all'infedeltà di Giove,
      l'ira per le colpe del suo capriccioso marito.
      Ma non si può paragonare gli uomini agli dei:
      smettila con queste pose da vecchio rimbambito,
      non fu certo la mano del padre che la condusse,
      avvolta di profumi orientali, nella mia casa,
      ma lei stessa, fuggendo dalle braccia del marito,
      a me si donò furtiva in una notte di sogno.
      E questo mi basta, se lei ricorderà felici
      quegli istanti che solo a me, a me solo ha donato.
      Per tutto quello che m'hai dato dunque, accetta in dono
      questi versi, Allio, scritti come meglio ho potuto,
      perché in tutto il tempo a venire nessun giorno mai
      possa corrodere di ruggine nera il tuo nome.
      Ed infiniti vi aggiungeranno gli dei quei doni,
      che Temi dava un tempo in premio agli uomini giusti.
      Siate felici, tu e l'anima della tua vita,
      e la casa in cui ci amammo io e la donna mia,
      e chi da allora mi concede e mi nega rifugio
      perché da lui viene la ragione d'ogni mio bene,
      ma innanzi a tutti lei, piú cara di me stesso, lei,
      la luce mia, che con la sua mi fa dolce la vita.»



      69)  Carmen LXIX

      «Noli admirari, quare tibi femina nulla,
      Rufe, velit tenerum supposuisse femur,
      non si illam rarae labefactes munere vestis
      aut perluciduli deliciis lapidis.
      laedit te quaedam mala fabula, qua tibi fertur
      valle sub alarum trux habitare caper.
      hunc metuunt omnes, neque mirum: nam mala valde est
      bestia, nec quicum bella puella cubet.
      quare aut crudelem nasorum interfice pestem,
      aut admirari desine cur fugiunt.»


      «Non ti stupire se nessuna donna, Rufo,
      vuol concederti il suo tenero corpo,
      nemmeno se la tenti col dono prezioso
      di una veste o la malia di un gioiello.
      Hai una triste fama: sotto le tue ascelle
      pare che viva un orrido caprone.
      Questo il timore. Certo: è una mala bestia
      e le belle donne con lei non dormono.
      Allontana l'incubo di questo fetore
      o non stupirti se quelle ti fuggono.»



      70)  Carmen LXX

      «Nulli se dicit mulier mea nubere malle
      quam mihi, non si se Iuppiter ipse petat.
      Dicit: sed mulier cupido quod dicit amanti,
      in vento et rapida scribere oportet aqua.»


      «La mia donna dice che non vorrebbe unirsi a nessuno
      se non a me, nemmeno se Giove in persona lo chiedesse.
      Lo dice: ma ciò che la donna dice al bramoso amante
      scrivilo nel vento e nell'acqua che scorre.»



      71)   Carmen LXXI

      «Si cui iure bono sacer alarum obstitit hircus,
      aut si quem merito tarda podagra secat.
      aemulus iste tuus, qui vestrum exercet amorem,
      mirifice est a te nactus utrumque malum.
      nam quotiens futuit, totiens ulciscitur ambos:
      illam affligit odore, ipse perit podagra.»


      «Se è giusto che un fetore animale l'affligga nelle ascelle
      o che il torpore della gotta a ragione lo tormenti,
      questo tuo rivale, che si fotte la tua amante,
      per un prodigio ha contratto da te tutti e due i malanni.
      Cosí tutte le volte che chiava, ti vendica d'entrambi:
      col fetore appesta lei e lui di gotta se ne muore.»



      72)  Carmen LXXII


      «Dicebas quondam solum te nosse Catullum,
      Lesbia, nec prae me velle tenere Iovem.
      Dilexi tum te non tantum ut vulgus amicam,
      sed pater ut gnatos diligit et generos.
      Nunc te cognovi: quare etsi impensius uror,
      multo mi tamen es vilior et levior.
      Qui potis est, inquis? Quod amantem iniuria talis
      cogit amare magis, sed bene velle minus.»


      «Dicevi di far l'amore solo con me, una volta,
      e di non aver voglia, Lesbia, neppure di Giove.
      E io ti ho amato non come tutti un'amante,
      ma come un padre ama ognuno dei suoi figli.
      Ora so chi sei: e anche se piú intenso è il desiderio
      ti sei ridotta per me sempre piú insignificante e vile.
      Come mai, mi chiedi? Queste offese costringono,
      vedi, ad amare di piú, ma con minore amore.»



      73)  Carmen  LXXIII

      «Desine de quoquam quicquam bene velle 
      mereri aut aliquem fieri posse putare 
      pium. omnia sunt ingrata, nihil fecisse 
      benigne immo etiam taedet obestque magis;
      ut mihi, quem nemo gravius nec acerbius 
      urget, quam modo qui me unum atque 
      unicum amicum habuit.»

      «Smetti di credere che, il voler bene,
      qualcosa da alcuno possa ottenere,
      o che alcuno possa trovarsi di pio.
      Tutto è ingratitudine, e niente
      aver fatto del bene, e anzi, se mai, 
      stomaca e nuoce di più; come per me, 
      che nessuno in un modo più greve o aspro 
      schiaccia, di chi finora mi ha avuto 
      per solo ed unico amore.»



      74)  Carmen LXXIV

      «Gellius audierat patruum obiurgare solere,
      si quis delicias diceret aut faceret.
      hoc ne ipsi accideret, patrui perdepsuit ipsam
      uxorem, et patruum reddidit Arpocratem.
      quod voluit fecit: nam, quamvis irrumet ipsum
      nunc patruum, verbum non faciet patruus.»

      «Gellio udiva sempre lo zio riprendere
      chi parlasse o godesse d'amore.
      Per evitarlo gli chiavò la moglie
      rendendolo immagine stessa del silenzio.
      Era il suo scopo: ora potrebbe anche
      ficcarglielo in bocca, lo zio non fiaterebbe.»



      75)  Carmen LXXV

      «Huc est mens deducta tua mea, Lesbia, 
      culpa atque ita se officio perdidit 
      ipsa suo, ut iam nec bene velle queat tibi, 
      si optima fias, nec desistere amare, 
      omnia si facias.»

      «Cosí per colpa tua, mia Lesbia,
      mi è caduto il cuore
      e cosí si è logorato nella sua fedeltà,
      che ormai non potrebbe piú volerti bene
      anche se fossi migliore
      o cessare d'amarti
      per quanto tu faccia.»



      76)  Carmen LXXVI - per dimenticare Lesbia

      «Siqua recordanti benefacta priora voluptas est homini,
      cum se cogitat esse pium, nec sanctam violasse fidem, 
      nec foedere nullo divum ad fallendos numine 
      abusum homines, multa parata manent in longa aetate, 
      Catulle, ex hoc ingrato gaudia amore tibi. »

      «Tutto il bene che a un essere umano è possibile
      fare o dire, tu l'hai detto e fatto: e tutto
      si è perduto per l'ingratitudine di un cuore.
      Perché dunque continui a tormentarti?
      e non cerchi con tutta la volontà di liberarti
      di una infelicità che gli dei non approvano?
      Difficile troncare a un tratto un lungo amore,
      difficile certo, ma in qualche modo dovrai riuscire.
      È l'unica salvezza, quindi devi ottenerla:
      che sia possibile o no, devi riuscirci.
      Se vi è pietà in voi, dei, se in punto di morte,
      nell'ora estrema, recaste mai aiuto a qualcuno,
      guardate la mia infelicità e se ho vissuto onestamente
      strappatemi da questo male che mi consuma,
      che insinuatosi dentro di me nel piú profondo
      come un torpore ha cancellato ogni gioia dal mio cuore.
      Non chiedo piú che lei ricambi il mio amore,
      né l'impossibile, che mi rimanga fedele:
      voglio solo guarire e scordarmi di questo male oscuro.
      O dei, per la mia devozione, esauditemi. »



      77)  Carmen LXXVII

      «Rufe, mihi frustra ac nequiquam credite amice
      (frustra? immo magno cum pretio atque malo),
      sicine subrepsti mi, atque intestina perurens
      ei misero eripuisti omnia nostra bona?
      eripuisti, heu heu nostrae crudele venenum
      vitae, heu nostrae pestis amicitiae.»

      «Per un trascurabile errore ti ho creduto amico.
      Trascurabile, Rufo? e il prezzo del dolore?
      Sei scivolato in me bruciandomi le viscere,
      strappandomi ogni miserabile bene che avevo.
      Ogni bene, tu che spietato mi avveleni la vita,
      male incurabile della nostra amicizia.»



      78)  Carmen LXXVIII

      «Gallus habet fratres, quorum 
      est lepidissima coniunx alterius, 
      lepidus filius alterius. Gallus homo est bellus: 
      nam dulces iungit amores, 
      cum puero ut bello bella puella cubet. 
      Gallus homo est stultus,
      nec se videt esse maritum,
      qui patruus patrui monstret adulterium.»

      «Gallo ha due fratelli:
      con una moglie adorabile il primo,
      l'altro con un amore di figliolo.
      Gallo è un uomo tenero:
      intreccia il loro dolce amore
      e quel ragazzo tenero
      la donna tenera si gode.
      Gallo è un uomo sciocco:
      non ricorda piú d'aver moglie
      e a suo nipote insegna
      come cornificar lo zio.»



      78 bis)  Carmen LXXVIII bis

      «Sed nunc id doleo, quod purae pura puellae
      suavia comminxit spurca saliva tua.
      verum id non impune feres: nam te
      omnia saecla noscent et, 
      qui sis, fama loquetur anus.»

      «Ma questo ora m'addolora, che le labbra pure
      di una bambina il tuo sudicio sperma abbia macchiato.
      Avrai il tuo castigo: ti ricorderanno nei secoli
      e anche decrepita la fama griderà chi sei.»



      79)  Carmen LXXIX

      «Lesbius est pulcer. quid ni? quem 
      Lesbia malit quam te cum tota gente, 
      Catulle, tua. sed tamen hic pulcer 
      vendat cum gente Catullum,
      si tria natorum suavia reppererit.»

      «Lesbio deve esser proprio bello.
      Certo: Lesbia lo preferisce
      a Catullo e a tutti i suoi amici.
      Ma questo bello
      venda schiavi Catullo e i suoi amici,
      se rimedia anche solo un bacio
      fra tre che lo conoscono.»



      80)  Carmen LXXX

      «Quid dicam, Gelli, quare rosea ista labella
      hiberna fiant candidiora nive, 
      mane domo cum exis et cum te octava quiete 
      et molli longo suscitat hora die? 
      nescio quid certe est: an vere fama susurrat 
      grandia te medii tenta vorare viri? sic certe est: 
      clamant Victoris rupta miselli ilia, 
      et emulso labra notata sero

      «Come mai, Gellio queste tue labbrucce di rosa
      si fan più bianche della neve d'inverno,
      quando il mattino esci di casa o quando verso sera
      nei giorni d'estate ti scuoti dal tuo dolce riposo?
      Non capisco. O forse è vero, come si mormora,
      che sei ginocchioni un divoratore di cazzi?
      Certo è così: lo gridano le reni rotte di Vittorio,
      poveretto, e le tue labbra macchiate
      dello sperma succhiato.»



      81)  Carmen LXXXI

      «Nemone in tanto potuit populo esse,
      Iuventi, bellus homo, quem tu diligere inciperes.
      praeterquam iste tuus moribunda ab sede
      Pisauri hospes inaurata palladior statua,
      qui tibi nunc cordi est, quem tu praeponere
      nobis audes, et nescis quod facinus facias?»

      «Possibile che fra tanti non vi fosse, Giovenzio,
      un uomo garbato che tu desiderassi amare,
      se non questo tuo ospite giunto da quel sepolcro
      di Pesaro, piú pallido di una statua dorata?
      Ora lo tieni in cuore e ormai piú di me stesso tu,
      tu lo desideri: non sai che delitto commetti.»



      82)  Carmen LXXXII

      «Quinti, si tibi vis oculos debere Catullum 
      aut aliud si quid carius est oculis, 
      eripere ei noli, multo quod carius illi 
      est oculis seu quid carius est oculis.»

      «Se vuoi, Quinzio, che Catullo ti debba gli occhi
      o cosa vi sia piú caro degli occhi,
      non togliergli ciò che piú, piú degli occhi
      o di cosa vi sia piú caro degli occhi, gli è caro.»



      83)  Carmen LXXXIII

      «Lesbia mi praesente viro mala plurima dicit: 
      haec illi fatuo maxima laetitia est. mule, 
      nihil sentis? si nostri oblita taceret, sana esset: 
      nunc quod gannit et obloquitur, non solum 
      meminit, sed, quae multo acrior est res, 
      irata est. hoc est, uritur et loquitur.»

      «Col marito Lesbia mi travolge d'ingiurie
      e quello sciocco ne trae una gioia profonda.
      Stronzo, non capisci? Tacesse, m'avrebbe dimenticato,
      sarebbe guarita, invece sbraita e m'insulta:
      non solo ricorda, ma cosa ben più grave
      è furente. Brucia d'amore, per questo parla.»



      84)  Carmen LXXXIV

      « Chommoda dicebat, si quando commoda 
      vellet dicere, et insidias Arrius hinsidias,
      et tum mirifice sperabat se esse locutum,
      cum quantum poterat dixerat hinsidias.credo, 
      sic mater, sic liber avunculus eius.sic maternus 
      avus dixerat atque avia.hoc misso in Syriam 
      requierant omnibus auresaudibant eadem 
      haec leniter et leviter, nec sibi 
      postilla metuebant talia verba,cum subito 
      affertur nuntius horribilis,Ionios fluctus, 
      postquam illuc Arrius isset,iam 
      non Ionios esse sed Hionios.»

      «Volendo dire comodi Arrio diceva
      homodi e in luogo d'insidie hinsidie,
      convinto di parlare a perfezione
      quando con tutto il fiato urlava hinsidie.
      Credo proprio che sua madre, lo zio materno
      ed anche i suoi nonni parlassero cosí.
      Mandato in Siria, riposavano le orecchie
      e riudivan le parole col giusto suono
      senza piú temere d'ascoltarle storpiate.
      D'un tratto ecco la notizia orribile:
      Arrio ha solcato i flutti dello Ionio
      e Ionio questo piú non è, ma Hionio.»



      85)  Carmen LXXXV

      Il carme è composto da un solo distico elegiaco. Per la prima volta si dichiara la coabitazione tra Eros e Tanatos, ovvero le pulsioni di vita e di morte individuate poi da S. Frueud.

      «Odi et amo. Quare id faciam, fortasse requiris. 
       Nescio sed fieri sentio et excrucior.» 

      «Odio e amo. Com’è che ci riesca forse ti chiedi. 
       Lo ignoro. Ma sento che riesce, e ci sto crocifisso.»



      86) Carmen LXXXVI

      «Quintia formosa est multis. mihi candida, 
      longa,recta est: haec ego sic singula confiteor.
      totum illud formosa nego: nam nulla venustas,
      nulla in tam magno est corpore mica salis.
      Lesbia formosa est, quae cum pulcerrima 
      tota est,tum omnibus una omnis surripuit Veneres.»

      «Per molti Quinzia è bella, per me bianca, dritta,
      slanciata. Questi pregi li riconosco,
      ma non dirò certo che è bella: non ha grazia,
      né un pizzico di sale in quel corpo superbo.
      Bella è Lesbia, bellissima tutta fra tutte
      a ognuna ha rapito ogni possibile grazia.»



      87)  Carme LXXXVII

      «Nulla potest mulier tantum 
      se dicere amatam vere, quantum a me 
      Lesbia amata mea est.nulla fides ullo 
      fuit umquam foedere tanta, quanta 
      in amore tuo ex parte reperta mea est.»

      «Mia Lesbia sei stata amata
      da me in modo così totale
      che in modo uguale amata
      non c'è donna e non ci sarà.
      Non si vedrà mai più
      in amorosi legami
      tanto rigore di fedeltà
      quanto si vide in me
      nell'amore che ti portai.»



      88) Carmen  LXXXVIII

      «Quid facit is, Gelli, qui cum matre atque 
      sororeprurit, et abiectis pervigilat tunicis?
      quid facit is, patruum qui non sinit esse maritum?
      ecquid scis quantum suscipiat sceleris?
      suscipit, o Gelli, quantum non ultima 
      Tethysnec genitor Nympharum abluit 
      Oceanus:nam nihil est quicquam sceleris, 
      quo prodeat ultra,non si demisso se ipse voret capite.»

      «Come chiamare, Gellio, chi passa le sue notti
      a chiavarsi, tutto nudo, madre e sorella?
      Come chiamare chi vieta allo zio d'essere marito?
      Senti l'enormità dell'infamia che commette?
      Un'infamia che nemmeno Teti ai confini del mondo
      o il padre delle ninfe Oceano potrebbe lavare.
      Non vi è infamia che vada oltre questa,
      nemmeno se piegato il capo divorassi te stesso.»



      89)  Carmen  LXXXIX

      «Gellius est tenuis: quid ni? cui tam bona 
      matertamque valens vivat tamque venusta 
      sorortamque bonus patruus tamque omnia 
      plena puelliscognatis, quare is desinat esse macer?
      qui ut nihil attingat, nisi quod fas tangere non est,
      quantumvis quare sit macer invenies.»


      «Gellio è ridotto uno scheletro. Certo, con una madre
      cosí attraente e sfrenata, quell'incantevole sorella,
      con uno zio tanto accomodante e tutta quella schiera
      di ragazze sue parenti, che sia stremato è naturale.
      Anche se non toccasse niente oltre ciò che è proibito,
      vi son fin troppe ragioni perché sia cosí stremato.»



      90)  Carmen XC

      «Nascatur magus ex Gelli matrisque nefando
      coniugio et discat Persicum aruspicium:nam 
      magus ex matre et gnato gignatur oportet,
      si vera est Persarum impia religio,gnatus 
      ut accepto veneretur carmine divosomentum 
      in flamma pingue liquefaciens.»

      «Un mago nasca dall'unione nefanda di Gellio
      con la madre e apprenda l'arte persiana dei presagi.
      Se l'infame religione dei Persiani è vera,
      solo da madre e figlio potrà nascere un mago
      che con i suoi scongiuri ottenga il favore degli dei
      sciogliendo tra le fiamme il grasso delle viscere.»



      91)  Carmen XCI

      «Non ideo, Gelli, sperabam te mihi fidumin misero 
      hoc nostro, hoc perdito amore fore,quod te 
      cognossem bene constantemve putaremaut posse 
      a turpi mentem inhibere probro; sed neque quod 
      matrem nec germanam esse videbamhanc tibi, cuius 
      me magnus edebat amor.et quamvis tecum multo 
      coniungerer usu, non satis id causae credideram esse 
      tibi.tu satis id duxti: tantum tibi gaudium in omni 
      culpa est, in quacumque est aliquid sceleris»

      «Nel mio infelice, nel disperato amore mio
      certo non speravo, Gellio, che tu mi fossi amico
      perché ti leggessi nel cuore o ti ritenessi fedele
      e incapace di tramare le infamie piú turpi,
      ma perché, pensavo, non ti è né madre né sorella
      questa donna che d'amore forsennato mi divora.
      E malgrado lunga consuetudine mi legasse a te,
      non credevo che ciò fosse per te sufficiente.
      Ma lo è stato: tanto è il piacere che tu provi
      in ogni colpa dove vi sia un margine d'orrore.»



      92) Carmen XCII

      «Lesbia mi dicit semper male nec tacet umquam
      de me: Lesbia me dispeream nisi amat.
      Quo signo? Quia sunt totidem mea: deprecor illam
      assidue, verum dispeream nisi amo.»


      «Lesbia sparla sempre di me, senza respiro
      di me: morissi se Lesbia non mi ama.
      Lo so, son come lei: la copro ogni giorno
      d'insulti, ma morissi se io non l'amo.»



      93)  Carmen XCIII

      «Nil nimium studeo, Caesar, tibi velle placere,
      nec scire utrum sis albus an ater homo.»


      «Non me ne importa niente di piacerti, Cesare,
      nè di sapere se sei bianco o nero.»



      94)  Carmen XCIV

      «Mentula moechatur. Moechatur mentula certe.
      Hoc est quod dicunt, ipsa olera olla legit.»

      «Cazzo chiava, chiava cazzo; cosí
      dev'essere: ad ogni erba la sua pentola.»



      95)  Carmen VC

      « Zmyrna mei Cinnae nonam post denique messem
      quam coepta est nonamque edita post hiemem,
      milia cum interea quingenta Hortensius uno. . . . . . .
      Zmyrna cavas Satrachi penitus mittetur ad undas,
      Zmyrnam cana diu saecula pervoluent.
      at Volusi annales Paduam morientur ad ipsam
      et laxas scombris saepe dabunt tunicas.»


      «Dopo nove inverni e nove estati di lavoro
      finalmente la Zmyrna del mio Cinna è pubblicata,
      mentre Ortensio mezzo milione di versi scrive all'anno...
      La Zmyrna arriverá sino alle acque profonde
      del Sátraco e ancora in secoli lontani sará letta.
      Gli Annali di Volusio invece moriranno a Padova
      o forniranno cartaccia per avvolgere gli sgombri.
      Mi rimanga dunque in cuore il suo piccolo gioiello
      e i profani si godano pure l'enfasi di Antimaco.»



      95 bis)  Carmen XCV bis

      «Mi rimanga dunque in cuore il suo piccolo gioiello
      e i profani si godano pure l'enfasi di Antímaco.»



      96)  Carmen XCVI

      «Si quicquam mutis gratum acceptumve 
      sepulcris accidere a nostro, Calve, dolore potest, 
      quo desiderio veteres renovamus amores 
      atque olim missas flemus amicitias, 
      certe non tanto mors immatura dolori est 
      Quintiliae, quantum gaudet amore tuo. »

      «Se mai può forse qualcosa tornare ai muti sepolcri 
      bene accetta o gradita dal nostro, Calvo, dolore, 
      dal desiderio con cui rinnoviamo gli amori passati 
      e le amicizie piangiamo che un giorno abbiamo perduto certo, 
      di fronte alla morte immatura non prova Quintilia 
      tanto dolore quanto gioia di fronte al tuo amore.»



      97)  Carmen XCVII

      « Non (ita me di ament) quicquam referre putavi,
      utrumne os an culum olfacerem Æmilio.
      nilo mundius hoc, nihiloque immundius illud,
      verum etiam culus mundior et melior:
      nam sine dentibus est. hic dentis sesquipedalis,
      gingivas uero ploxeni habet veteris,
      præterea rictum qualem diffissus in æstu
      meientis mulæ cunnus habere solet.
      hic futuit multas et se facit esse venustum
      et non pistrino traditur atque asino?
      quem siqua attingit, non illam posse putemus
      ægroti culum lingere carnificis? »


      «Non è, buon dio, che credessi differente
      l'odore della bocca e del culo di Emilio.
      L'una non è piú pulita o sporca dell'altro,
      ma forse è meglio e piú pulito il culo:
      se non altro è senza denti: la bocca ha zanne
      enormi e le gengive come un carro vecchio,
      spalancata poi sembra la fica slabbrata
      di una mula in calore quando piscia.
      E lui ne fotte molte, si crede stupendo:
      ma mandatelo a far l'asino nei mulini.
      Quella che va con lui si leccherebbe
      anche il culo di un boia appestato.»



      98)  Carmen IIC - A Vezio

      «In te, si in quemquam, dici pote, putide Victi,
      Id quod uerbosis dicitur et fatuis:
      Ista cum lingua, si usus veniat tibi, possis
      Culos et crepidas lingere carpatinas.
      Si nos omnino uis omnes perdere, Victi,
      Hiscas: omnino quod cupis efficies.»


      «A nessuno peggiore di te, Vezio schifoso, si può dire
      quel che si dice a ciarlatani e sciocchi:
      se mai ne avessi bisogno, potresti leccar culi
      e scarponi con questa tua linguaccia.
      E se in un colpo, Vezio, vorrai ammazzarci tutti,
      apri la bocca: otterrai in un colpo ciò che tu vuoi.»



      99)  Carmen IC

      « Surripui tibi, dum ludis, mellite Iuventi,
      suaviolum dulci dulcius ambrosia.
      verum id non impune tuli: namque amplius horam
      suffixum in summa me memini esse cruce,
      dum tibi me purgo nec possum fletibus ullis
      tantillum vestrae demere saevitiae.
      nam simul id factum est, multis diluta labella
      guttis abstersisti omnibus articulis,
      ne quicquam nostro contractam ex ore maneret,
      tamquam commictae spurca saliva lupae.
      praeterea infesto miserum me tradere amori
      non cessasti omnique excruciare modo,
      ut mi ex ambrosia mutatum iam foret illud
      suaviolum tristi tristius elleboro.
      quam quoniam poenam misero proponis amori,
      numquam iam posthac basia surripiam.»


      «Mentre tu giocavi, dolcissimo Giovenzio,
      io t'ho rubato un bacio più dolce del miele.
      Ma l'ho pagato caro: crocifisso
      per più di un'ora sono rimasto, ricordo,
      a scusarmi con te senza che le mie lacrime
      potessero spegnere la tua collera.
      Subito ti sei asciugato le labbra umide
      d'ogni goccia con tutte e due le mani,
      perchè non restasse traccia della mia bocca
      quasi fosse la sborrata d'una puttana.
      E m'hai fatto subire tutte le torture
      d'amore, ogni supplizio possibile:
      così quel bacio che m'era sembrato tanto
      dolce, si è rivelato più amaro del fiele.
      Se questa è la pena a cui condanni un amore
      infelice, mai più ti ruberò un bacio.»



      100)  Carmen C

      « Caelius Aufilenum et Quintius Aufilenam
      Flos Veronensum depereunt iuuenum,
      Hic fratrem, ille sororem. Hoc est quod dicitur illud
      Fraternum uere dulce sodalicium.
      Cui faveam potius? Caeli, tibi: nam tua nobis
      Per facta exhibita est unica amicitia
      Cum uesana meas torreret flamma medullas.
      Sis felix, Caeli, sis in amore potens. »


      «Per Aufileno e Aufilena, fratello e sorella,
      muoion d'amore i piú bei giovani di Verona,
      per lui Celio, per lei Quinzio: puoi dirlo,
      certo, un sodalizio dolcemente fraterno.
      Chi preferire? te, Celio, che senza riserve
      m'hai offerto la tua straordinaria amicizia
      quando una fiamma feroce mi bruciava il cuore:
      sii felice, Celio, e possa arriderti l'amore.»



      101)  Carmen CI

      « Multas per gentes et multa per aequora vectus
      Advenio has miseras, frater, ad inferias,
      Ut te postremo donarem munere mortis
      Et mutam - nequiquam! - adloquerer cinerem,
      Quandoquidem fortuna mihi tete abstulit ipsum,
      Heu miser indigne frater adempte mihi.
      Nunc tamen interea haec, prisco quae more parentum
      Tradita sunt tristi munere ad inferias,
      Accipe fraterno multum manantia fletu
      Atque in perpetuum, frater, ave atque Vale.»


      «Di mare in mare, da un popolo all'altro
      vengo a queste tue misere esequie, fratello,
      per donarti l'ultima offerta che si deve ai morti
      e invano parlare alle tue ceneri mute:
      ora che la sorte a me ti ha strappato,
      cosí crudelmente strappato, fratello infelice.
      Pure, amaro dono per un rito estremo,
      nell'uso antico dei padri accogli l'offerta
      che ora ti affido: cosí intrisa del mio pianto.
      E in eterno riposa, fratello mio, addio.»



      102)  Carmen CII

      « Si quicquam tacito commissum est fido ab amico
      Cuius sit penitus nota fides animi,
      Meque esse inuenies illorum iure sacratum,
      Corneli, et factum me esse puta Harpocratem »


      «Se fiducioso un amico poté affidare all'altro
      un segreto, sicuro della sua discreta fedeltà,
      me stesso vedrai consacrato a questo giuramento
      e credimi, Cornelio, muto come una statua.»



      103)  Carmen CIII

      « Aut sodes mihi redde decem sestertia, Silo,
      deinde esto quamvis saevus et indomitus:
      aut, si te nummi delectant, desine quaeso
      leno esse atque idem saevus et indomitus.»

      «Se vuoi, rendimi quei diecimila sesterzi, Silone,
      e poi inalbera pure tutta la tua arroganza;
      ma se a te piace il denaro, non fare il ruffiano
      e smettila con tutta quella tua arroganza.»



      104)  Carmen CIV

      « Credis me potuisse meae maledicere vitae,
      ambobus mihi quae carior est oculis?
      non potui, nec, si possem, tam perdite amarem:
      sed tu cum Tappone omnia monstra facis.»


      «Come avrei potuto maledire la mia vita
      se degli stessi occhi mi è piú cara?
      Fosse cosí non ti amerei con questa rabbia:
      ma tu d'ogni sciocchezza fai un dramma.»



      105)  Carmen CV - l'odio di Catullo

      « Mentula conatur Pipleum scandere montem:
      Musae furcillis praecipitem eiciunt.»

      «Fa di tutto quel cazzone per montare sul Pimpleo,
      ma a colpi di forca giù lo precipitano le Muse.»



      106) Carmen CVI - i bei ragazzi si fanno pagare

      « Cum puero bello praeconem qui videt esse,
      Quid credat, nisi se vendere discupere?»


      «Quando col banditore vedi un bel ragazzo,
      cosa credi, che rifiuti di vendersi?»



      107)  Carmen CVII - che Lesbia torni

      « Si quicquam cupido optantique obtigit umquam
      insperanti, hoc est gratum animo proprie.
      quare hoc est gratum nobis quoque, carius auro
      quod te restituis, Lesbia, mi cupido.
      restituis cupido atque insperanti, ipsa refers te
      nobis. o lucem candidiore nota!
      quis me uno vivit felicior, aut magis hac est
      optandus vita dicere quis poterit?»


      «Se contro ogni speranza ottieni
      ciò che desideravi in cuore,
      una gioia insolita ti prende.
      E questa è la mia gioia,
      più preziosa dell'oro:
      a me tu ritorni, a me, Lesbia,
      a un desiderio ormai senza speranza,
      al mio desiderio ritorni,
      a me, a me tu ti ridai.
      O giorno luminoso!
      Chi vivrá più felice?
      chi potrá mai pensare vita
      più, più desiderabile di questa?»



      108)  Carmen CVIII - Speranza di amore eterno

      « Si, Comini, populi arbitrio tua cana senectus
      spurcata impuris moribus intereat,
      non equidem dubito quin primum inimica bonorum
      lingua exsecta avido sit data vulturio,
      effossos oculos voret atro gutture corvus,
      intestina canes, cetera membra lupi. »


      «Se la tua bianca vecchiaia,
      sporcata da vizi immondi,
      dovesse, Cominio, essere troncata
      per giudizio di popolo,
      ti mozzerebbero questa tua lingua disonesta
      per gettarla a un avvoltoio ingordo,
      ti caverebbero gli occhi
      perché li divorasse un corvo
      nella sua gola nera,
      ai cani lascerebbero i visceri,
      ai lupi il resto.»



      109)   Carmen CIX

      « Iucundum, mea uita, mihi proponis amorem
      Hunc nostrum inter nos perpetuumque fore.
      Di magni, facite ut uere promittere possit
      Atque id sincere dicat et ex animo,
      Vt liceat nobis tota perducere uita
      Aeternum hoc sanctae foedus amicitiae. »

      «Eterno, anima mia, senza ombre
      mi prometti questo nostro amore.
      Mio dio, fa' che prometta il vero
      e lo dica sinceramente, col cuore.
      Potesse durare tutta la vita
      questo eterno giuramento d'amore.»



      110)  Carmen CX

      « Aufilena, bonae semper laudantur amicae:
      Accipiunt pretium quod facere instituunt.
      Tu, quod promisti mihi, quod mentita, inimica es;
      Quod nec das et fers saepe, facis facinus.
      Aut facere ingenuae est, aut non promisse pudicae,
      Aufilena, fuit: sed data corripere
      Fraudando †efficit plus quam meretricis auarae est,
      Quae sese toto corpore prostituit. »


      «Le buone femmine, Aufilena, son sempre da lodare:
      accettano denaro per ciò che decidono di fare.
      Ma tu prometti sapendo di mentire: non sei un'amica,
      prendi solo e non la dai: sei una vergogna.
      Concedersi è leale, non promettere sarebbe stato
      da virtuosa; ma impadronirsi del denaro
      con la frode, è peggio di quanto farebbe una puttana
      che con tutto il suo corpo si prostituisce.»



      111)  Carmen CXI

      « Aufilena, uiro contentam uiuere solo
      Nuptarum laus e laudibus eximiis:
      Sed cuiuis quamuis potius succumbere par est
      Quam matrem fratres ex patruo parere.»

      «Accontentarsi di un uomo solo, Aufilena,
      è fra le lodi la lode d'ogni donna;
      ma meglio è concedersi come e a chi tu vuoi
      che partorire cugini al proprio zio.»



      112)  Carmen CXII

      « Multus homo es, Naso, neque tecum multus homo est quin
      te scindat: Naso, multus es et pathicus.»


      «Grand'uomo, Nasone; ma un grand'uomo non è
      chi ti fotte: che gran finocchio sei, Nasone.»



      113)  Carmen CXIII

      « Consule Pompeio primum duo, Cinna, solebant
      Maeciliam: facto consule nunc iterum
      manserunt duo, sed creverunt milia in unum
      singula. fecundum semen adulterio. »


      «Nel primo consolato di Pompeo due, Cinna,
      scopavano Mecilia: ora console di nuovo
      due sono rimasti, ma cresciuti ognuno
      sino a mille: buon seme l'adulterio.»


      114)  Carmen CXIV

      « Firmanus saltu non falso Mentula diues
      Fertur, qui tot res in se habet egregias,
      Aucupium omne genus, piscis, prata, arva, ferasque.
      Nequiquam: fructus sumptibus exsuperat.
      Quare concedo sit diues, dum omnia desint;
      Saltum laudemus, dum domo ipse egeat.»


      «La tenuta di Fermo
      non è considerata ricca a torto,
      Cazzomamurra,
      piena com'è di cose singolari:
      cacciagione, pesci d'ogni specie,
      prati, campi e selvaggina.
      Non conta nulla:
      con le spese si mangia il reddito.
      Ammetto anche che sia ricca,
      ma vi manca tutto.
      Una bella tenuta,
      ma col padrone in miseria.»



      115)  Carmen CXV

      « Mentula habet iuxta triginta iugera prati,
      Quadraginta arui: cetera sunt maria.
      Cur non diuitiis Croesum superare potis sit
      Vno qui in saltu tot bona possideat,
      Prata, arua, ingentis siluas saltusque paludesque
      Vsque ad Hyperboreos et mare ad Oceanum?
      Omnia magna haec sunt, tamen ipse est maximus ultro,
      Non homo, sed uero mentula magna minax »


      «Cazzomamurra ha circa trenta iugeri di prato
      e quaranta di campi: il resto è mare.
      E perché non potrebbe superare Creso in ricchezza
      chi in un fondo solo possiede tutte queste meraviglie,
      prati, campi, boschi immensi, pascoli e acquitrini
      dai popoli del Nord sino al mare Oceano?
      Tutte cose grandi, ma lui è piú grande ancora,
      non è un uomo, è un grande cazzo minaccioso.»



      116)  Carmen CXVI

      « Saepe tibi studioso animo venante requirens
      carmina uti possem mittere Battiadae
      qui te lenirem nobis, neu conarere
      tela infesta mittere in usque caput,
      hunc video mihi nunc frustra sumptum esse laborem,
      Gelli, nec nostras hic valuisse preces.
      contra nos tela ista tua evitabimus amictu
      at fixus nostris tu dabis supplicium.»


      «Con tutta la mia attenzione ho sperimentato
      la forma in cui offrirti i canti di Callimaco
      per renderti piú dolce e toglierti il desiderio
      di colpirmi con le tue frecce rabbiose.
      Ma vedo l'inutilità di questa fatica,
      Gellio, e di averti pregato invano.
      Con un mantello dunque eviterò i tuoi colpi,
      ma i miei ti inchioderanno alla morte.»


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