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PUBLIO ANNIO FLORO

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GARA DI POESIE

Nome: Plubius Annius Florus
Nascita: Africa, 70/75
Morte: Roma, 145
Professione: poeta e scrittore

Publio Annio Floro, detto anche Lucio Anneo Floro o anche Giulio Floro (in latino Publius Annius Florus, Lucius Annaeus Florus, Julius Florus; Africa, 70/75 circa – Roma, 145 circa), è stato uno storico e poeta romano, di origini africane, autore dell'opera "Bellorum omnium annorum septingentorum libri duo".

Non si ha la matematica certezza, da parte degli studiosi, che i diversi nomi, fino a tre diversi Floro autori delle opere pervenute, siano la stessa persona, ma grosso modo il personaggio è questo. Comunque doveva provenire dalla gens Annia, un'antica famiglia plebea romana.

Della sua vita si sa solo quel poco che lo stesso Floro dice nel dialogo, di genere autobiografico, Vergilius orator an poeta (Virgilio oratore o poeta), di cui possediamo solo la parte iniziale.

Egli si dichiara di origine africana, e partecipò a Roma a una gara di poesia nella quale ingiustamente non fu premiato per la gelosia di Domiziano. Non sappiamo se veramente vi fu l'ingiustizia, però sappiamo che l'imperatore non era alieno a queste invidie.

Floro, fortemente deluso, partì da Roma  e viaggiò a lungo nel Mediterraneo; si fermò diversi anni in Spagna, a Tarragona, dove fra l'altro insegnò retorica.

Ritornato a roma trovò una situazione molto diversa, a Domiziano era succeduto Traiano a cui si legò in amicizia e successivamente conobbe il suo successore Adriano, divenendo amico anche di questo imperatore.

Si dedicò alla storia ed alla poesia, preannunciando la nuova svolta della poesia coi poetae novelli.
Questi costituirono una scuola poetica latina, sbocciata a Roma nel II sec. d.c., e precisamente all'epoca dell'imperatore Adriano (117-138).

Oggi si dubita dell'esistenza storica di un cenacolo o di un movimento letterario con questo nome questo nome. Tuttavia le testimonianze, spesso frammentarie, della poesia del II secolo, mostrano delle costanti piuttosto riconoscibili. Si ebbe un cambiamento nel gusto della poesia latina per cui sono stati usati i termini di poesia novella, novellismo e poeti novelli.
Floro sentì l'esigenza letteraria di un cambiamento, soprattutto nei modelli storiografici tradizionali, o per lo meno di uscire da uno schema quasi fisso, in modo da poter aggiungere al testo particolari e dettagli che potessero arricchire la scena, e a volte riuscì creando delle svolte nei fatti o nei personaggi, altre volte invece furono inserimenti forzati e inutili che creavano solo un appesantimento del testo di base.

Fu infatti un po' discontinuo nel suo stile, forse a causa di sue insicurezze. Ebbe un rapporto di amicizia con Svetonio con cui condivise la medesima ricerca letteraria del nuovo stile. Non si sa con precisione la sua data di morte, forse intorno al 145.


BELLORUM OMNIUM ANNORUM DCC o EPITOMAE DE TITO LIVIO

La sua opera storica "Bellorum omnium annorum DCC", è il compendio di 700 anni di guerre romane da Romolo ad Augusto, ed ha, come "Epitomae de Tito Livio" (anche Epitoma o Epitome), un titolo sicuramente non originale ma aggiunto successivamente e inadeguatamente, perché l'autore pur basandosi molto su Livio, ha differente l'impostazione e la visione delle cose, e inoltre utilizza molte altre fonti, quali Sallustio, Cesare e Seneca il Retore, riportando anche eventi successivi a Livio.

POETI D'ARCADIA
Floro usa come modello la dottrina stoica dei cicli e della palingenesi, e divide la storia romana in quattro età, come quelle della vita umana, secondo un criterio che aveva adottato Seneca il Vecchio nelle sue Historiae, e sarebbero:
- il periodo monarchico (infanzia),
- l'età repubblicana fino alla conquista di tutta le penisola italica (adolescenza),
- la costruzione di un impero e la pacificazione di Augusto (maturità),
- l'età imperiale fino ad Adriano (vecchiaia),
- per ultimo però con Traiano all'Impero romano viene restituita una nuova giovinezza.

L'opera è un vero e proprio panegirico, pieno di retorica e di enfasi, dove esalta soprattutto il valore militare del popolo romano, di cui esalta le gesta fin dalle origini.
Il valore storico dell'opera però è di scarso valore, molto intrisa di fini retorici e moralistici, e molto connessi con la propaganda imperiale del suo periodo.

Insomma Floro elogia più che raccontare e si lamenta solo che il presente non sia come l'epoca delle guerre puniche, quando regnavano l'onestà e il coraggio, mentre nel suo tempo la società romana sguazzava nel lusso e nella ricchezza che infiacchiscono gli animi.

Viene il sospetto che Floro si sentisse povero rispetto alla ricchezza che lo circondava e che ciò gli suscitasse un po' di invidia.

Lo stile particolarmente enfatico della sua opera, fu un'anticipazione e in parte un'ispirazione di ciò che sarà la letteratura africana, pagana e soprattutto cristiana, dei secoli successivi. Una letteratura decadente, colorita ma enfatica, molto formale e molto staccata dai sentimenti. Una falsa razionalità camuffata da sentimento.

Di Floro poeta ci sono rimasti alcuni epigrammi in trimetri trocaici e alcuni versi scherzosi indirizzati ad Adriano con relativa ed ironica risposta dell'imperatore-poeta.


FLORI EPITOMANE Libro I - incipit -

"Populus Romanus a rege Romulo in Caesarem Augustum septingentos per annos tantum operum pace belloque gessit, ut, si quis magnitudinem imperii cum annis conferat, aetatem ultra putet. Ita late per orbem terrarum arma circumtulit, ut qui res illius legunt non unius populi, sed generis humani facta condiscant.

Tot in laboribus periculisque iactatus est, ut ad constituendum eius imperium contendisse Virtus et Fortuna videatur.
Qua re, cum, si quid aliud, hoc quoque operare pretium sit cognoscere, tamen, quia ipsa sibi obstat magnitudo rerumque diversitas aciem intentionis abrumpit, faciam quod solent qui terrarum situs pingunt: in brevi quasi tabella totam eius imaginem amplectar, non nihil ut spero, ad admirationem principis populi conlaturus, si pariter atque in semel universam magnitudinem eius ostendero."


Traduzione:

"Il popolo romano nel corso degli anni dal re Romolo a Cesare Augusto, in settecento anni ha gestito un'opera così grande in pace e in guerra, di modo che, se qualcuno riferisse ad un anno la grandezza dell'impero, ne prenderebbe in considerazione l'età. Avendo operato con le armi in lungo e in largo in tutto il mondo, ne consegue che coloro che leggano le loro gesta, non di un solo popolo, ma di tutta la razza umana starebbe imparando gli accadimenti.
Tanti si lanciarono nelle fatiche e nei pericoli, affinchè si stabilisse l' impero di cui si potesse ammiarere la Virtù e la Fortuna.
Questa cosa, che se non altro, fa conoscere il prezzo di questo operare, ma anche che di per sè rende la grandezza degli argomenti, nonchè la diversità delle intenzioni nelle azioni, io farò, allo stesso modo che usano coloro che sono abituati ad annotare geograficamente i vari paesi: in breve raffigurando l'immagine come una tela, da cui nulla spero eemrga, se non l'ammirazione che il principe dei popoli ci guadagnerà, quando nello stesso modo, tutto in una volta mostrerò la sua grandezza.



LO STILE

Libro II, capitolo I. La prima guerra punica:
Attilio Regolo, il terrore dei Romani davanti al solo nome del mare Punico, la Sicilia romana.


Da come si evince dal testo qua sotto, il suo stile è ampollosamente celebrativo, esasperatamente glorificante ed esaltatato, come se l'impero romano avesse in sè tutto il buono, il coraggio, la gloria, l'eroismo, la virtù, l'abnegazione, la fedeltà e l'onestà del mondo, mentre nei nemici dell'impero vi fosse tutto il negativo.

"... E già sotto il comando di Marco Attilio Regolo la guerra si spostava in Africa. Né mancò fra i Romani chi si terrorizzava solo a sentire nominare il mare Punico. Tale era al riguardo il timore del tribuno Mauzio che solo la minaccia fattagli dal console di usare la scure riuscì a dargli con il timore della morte l’audacia del navigare.

Quindi la navigazione delle navi romane si fece più spedita per l’uso più deciso dei remi e delle vele e lo sbarco nemico terrorizzò a tal punto i Punici, che per poco Cartagine non fu presa con le porte ancora aperte. Premio della guerra fu la città di Clipea; questa è infatti la prima città che s’incontra sul litorale punico, quasi come roccaforte e immagine di quell’area.

Questa ed oltre trecento fortezze furono distrutte. Ma non si dovettero combattere solo uomini, ma anche mostri; infatti, un serpente di grandi dimensioni, quasi vindice dell’Africa, minacciò l’accampamento che i Romani avevano posto presso il fiume Bàgrada.

Ma l’invincibile Regolo, avendo diffuso ovunque il terrore del suo nome ed avendo ucciso o messo in catene la maggior parte dei nemici più validi insieme ai loro stessi comandanti, inviò la flotta a Roma carica di un gran bottino, premessa di un prossimo trionfo.

E già cingeva d’assedio Cartagine, origine della guerra, ed era sotto le sue porte. A questo punto per qualche tempo la sorte voltò le spalle ai Romani, ma solo quel tanto necessario per far meglio risaltare il loro valore, che si dimostra tanto più grande quando più grande è la disgrazia. Infatti, i nemici avendo richiesto l’aiuto di stranieri, e avendo questi inviato lo spartano Santippo, fummo vinti da quell’espertissimo uomo d’armi.

Ed allora i Romani ebbero a subìre una disfatta mai prima provata: il validissimo comandante cadde vivo nelle mani dei nemici. Ma egli fu all’altezza di tanta disgrazia; infatti, non fu il suo animo piegato né dalla prigionia punica né dall’ambasceria che aveva accettato. Poiché consigliò i Romani di tenere un comportamento diverso da quello per cui i nemici l’avevano inviato: non fare la pace e non accettare lo scambio dei prigionieri.

Ma né il volontario ritorno in mano nemica né l’estremo carcere con il supplizio della croce intaccarono la sua grandezza, rendendolo ammirevole su tutti. Che vi è di più grande che vinto trionfare dei vincitori e della stessa sorte, anche se Cartagine era ancora in piedi? Ma il popolo romano si mostrò molto più ardito e determinato per il desiderio di vendicare Regolo che per ottenere la vittoria.

Sotto il consolato di Metello, quindi, mentre i Punici confidavano in una più favorevole sorte, divenuta la Sicilia nuovamente campo di battaglia, furono così duramente battuti presso Palermo, che furono costretti a non pensare più all’isola.

Prova della grande vittoria riportata dai Romani fu la cattura di circa cento elefanti: una preda così ricca che sarebbe stata ragguardevole anche se non fosse stata fatta in guerra, ma a caccia
… "


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