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MARCO CLAUDIO MARCELLO ( 222 - 208 a.c.)

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MARCELLO GIOVANE

Nome: Marcus Claudius Marcellus
Nascita: 268 a.c.
Morte: 208 a.c., Venosa
Professione: Politico e Generale


Marco Claudio Marcello, ovvero Marcus Claudius Marcellus, nacque dal ramo dei gloriosi Marcelli della famosa gens claudia. Quest'ultima ebbe rami sia patrizi che plebei, ma per quel che riguarda Marco e la sua familia di sicuro doveva essere patrizia per le ambiziose carriere svolte.

Fu un grande generale romano che combattè durante la II Guerra Punica e che conquistò Siracusa. La sua vita e i suoi trionfi furono narrati con piena ammirazione da Tito Livio, che lo definì "la spada di Roma", e non esagerò.

Marco Claudio Marcello. ovvero Marcus Claudius Marcellus; (268 circa – Venosa, 208 a.c.) è stato un politico ma soprattutto un grande generale romano, console per ben cinque volte, vincitore dei Galli insubri, combattè durante la II guerra punica e sopravvisse alla disfatta di Canne. Fu il conquistatore di Siracusa e della Sicilia. Venne eletto console negli anni 222 a.c, 215 a.c., 214 a.c., 210 a.c. e 208 a.c.

Fu nipote di Marco Claudio Marcello, console nel 292 a.c., e pronipote di Marco Claudio Marcello, console nel 331 a.c., nonchè padre di Marco Claudio Marcello, console nel 196 a.c. e nonno di Marco Claudio Marcello, console nel 166 a.c. La familia di Marco fu dunque prestigiosa per valore e gloria e conseguentemente di ceto senatoriale e consolare. Di lui esiste un ritratto reale, impresso su una moneta coniata da un suo discendente nel 42 a.c., ma pure un suo ritratto da giovane pontefice.

Nelle "Vite Parallele", anche Plutarco descrive Marcello come "uomo esperto nelle cose di guerra, esperto nelle armi, forte nella persona, pronto di mano, e per natura, amico della guerra. Nel combattere corpo a corpo, fu in certo modo, superiore a sé stesso, perché non rifiutò mai disfide e sempre quanti lo provocavano, uccise. Soleva dire Annibale che Fabio Massimo temeva come di maestro, e Marcello, come avversario, perché dall'uno gli si era impedito di far male ad altri, e dall'altro era danneggiato pur egli."



GUERRA CONTRO GLI INSUBRI

Marco era il nipote dell'omonimo e glorioso Console del 287 a.c., e fu molto apprezzato per il suo coraggio e la sua abilità, tanto che fu nominato Edile Curule, Pretore ed infine Console per la prima volta nel 222, tutto nello stesso anno.

Condusse con il suo collega Gneo Cornelio Scipione Calvo, zio dell'Africano, la guerra contro gli Insubri e i Gesati, guidati da Virdumaro, che fu ucciso dallo stesso Marcello mentre combattevano per la conquista di Clastidium (Casteggio).

Il suo collega Gneo Cornelio Scipione Calvo combatté nella II guerra punica in Iberia (Spagna) dal 217 al 211, e venne ucciso nella battaglia della Betica Superiore nel 211 a.c. poco dopo la morte di suo fratello minore. Triste destino per i due fratelli: entrambi comandanti capaci, entrambi eletti consoli ed entrambi uccisi in Spagna dopo che i loro eserciti si erano separati.

Comunque Marco li vendicò e vendicò pure Gaio Flaminio Nepote che era stato sconfitto dagli Insubri che uscivano da Acerra attaccando e ritirandosi (226 circa). Per quanto Gaio Flamnio li avesse poi sconfitti in battaglia, il nome di Roma era stato oltraggiato. Nessun popolo poteva vantarsi impunemente di aver inflitto a Roma una sconfitta. Poteva essere un precedente pericoloso per altri tentativi del genere.

Già tre anni prima Marco Claudio Marcello aveva combattuto gli Insubri, che avevano condotto una pericolosissima offensiva contro gli stessi Romani, fermata a Talamone con una delle battaglie che, per le forze in campo, fu considerata tra le maggiori dell'antichità. I Romani, respinte le proposte di pace degli Insubri, assediavano Acerrae, località tra il Po e le Alpi presso Pizzighettone, tra Cremona e Lodi.

Così Marco assediò il fortino insubre di Acerrae (presso Pizzighettone) per stanare gli insubri dalle loro fortezze e altrettanto fece a  Clastidium (Casteggio) dove addirittura trionfò ottenendo le spoliae opimae: il massimo onore per un generale romano, conseguito per la terza ed ultima volta nella storia romana con l'uccisione durante un corpo a corpo con Viridomaro (o Virdumaro).

I Romani riconobbero solo tre casi in cui vennero elargite le spolia opima. In realtà furono due, perchè nel primo caso Romolo se le elargì da solo, quando vinse Acrone, re dei Ceninensi.

All'epoca ancora usava che i combattimenti si risolvessero talvolta con la sfida tra i capi o tra i campioni, come ad esempio tra Orazi e Curiazi. Per cui un capo doveva essere forte, bravo nelle armi e disposto a morire. Con l'allargamento dell'esercito poi i Romani privilegiarono i comandanti che sapessero fare strategie militari.



LA SPOLIA OPIMA

Plutarco:
« Romolo tagliò all'interno dell'accampamento romano una quercia molto grande, dandole la forma di un trofeo e vi appese le armi di Acrone... egli personalmente, indossata una veste, mise sulla testa dai lunghi capelli, una corona di alloro. Sollevando il trofeo, che teneva appoggiato sulla spalla destra, camminò intonando i canti della vittoria, seguito dall'esercito e accolto dai cittadini con gioia e stupore. Questa processione costituì un modello a cui ispirarsi per quelle future da celebrare. Il trofeo fu dedicato a Giove Feretrio. »
(Plutarco, Vita di Romolo.)

CONIO CELEBRATIVO PER MARCELLO, IN RICORDO
DELLA CONQUISTA DELLA SICILIA
Il secondo fu Aulo Cornelio Cosso (Console nel 428 a.c.) che nella battaglia di Fidene uccise il re di Veio Tolumnio, re di Veio nel 437 a.c, e il terzo fu Marco Claudio Marcello che uccise Viridomaro, re degli Insubri della Gallia cisalpina. E sembra che Cosso e Marcello abbiano sfilato su una quadriga, trasportando personalmente i trofei.

Così Marco Claudio Marcello sconfisse gli Insubri e i loro alleati Comensi, uccidendo ben 40.000 nemici. Sono 28 i centri limitrofi (castella), dipendenti dalla città fortificata di Como (Comun Oppidum), che si arresero ai Romani.

Con un successivo scontro con Insubri e Boi (191) si chiuse per lungo tempo la lotta tra Romani e Galli.
La guerra finì poco dopo con la vittoria dei Romani e l'occupazione da parte dei due Consoli di Mediolanum (Milano).

L'onore del trionfo di Marco viene così ricordato nei Fasti triumphales capitolini:

M. CLAUDIUS M. F. M. N. MARCELLUS AN. DXXXI
COS. DE GALLEIS INSUBRIBUS ET GERMAN
K. MART. ISQUE SPOLIA OPIMA RETTULIT
REGE HOSTIUM VIRDUMARO AD CLASTIDIUM
INTERFECTO



BATTAGLIA DI TALAMONE

Per l'occasione venne formata la più grande coalizione celtica mai realizzata contro i romani; gli emiliani Boi, i lombardi Insubri ed i piemontesi Taurini oltre a molti mercenari, chiamati Gesati, che combattevano completamente nudi con il solo torque al collo..

Il confine settentrionale dell'impero romano non era affatto sicuro. I Galli Boi favevano scorrerie sul territorio romano. I Romani, per contro, avevano sconfitto i Liguri nel 233 a.c. Inoltre il Senato, approvando una legge voluta dal tribuno Gaio Flaminio Nepote, stabiliva di dividere i territori sottratti ai Galli tra la plebe. Per i Galli fu una provocazione; e radunarono un'armata composta dalle varie popolazioni ostili a Roma.

Polibio narra che nella battaglia si riunirono 50.000 fanti e 25.000 cavalieri. L'esercito alleato era comunque inferiore di numero a quello romano. L'alleanza ebbe anche l'appoggio dei Liguri; gli Etruschi consentirono l'avanzata verso sud dei celti in armi, e i Gesati si ricongiungono con le truppe dei celti cisalpini sul Po. I comandanti dell'esercito celtico, i re Concolitano ed Aneroesto, diedero l'ordine di marciare verso Roma passando per il territorio etrusco.

I Romani disponevano di quattro legioni di Gaio Atilio Regolo e Lucio Emilio Papo e di due corpi d'armata alleati: uno sabino-etrusco e l'altro veneto-cenomane.
L'esercito celtico si diresse verso l'Argentario, forse in vista di uno sbarco di Cartaginesi alleati; ma vennero attaccati prima dalle legioni romane presso Talamone.


Polibio - Storie:

« I Celti si erano preparati proteggendo le retroguardie, da cui si aspettavano un attacco di Emilio, provenendo i Gesati dalle Alpi e dietro di loro gli Insubri; di fronte a loro in direzione opposta, pronti a respingere l'attacco delle legioni di Gaio, misero i Taurisci ed i Boi sulla riva destra del Po. 

I loro carri stazionavano all'estremità di una delle ali, mentre adunarono il bottino su una delle colline circostanti con soldati a protezione. 
Gli Insubri ed i Boi indossavano pantaloni e lucenti mantelli, mentre i Gesati avevano evitato gli indumenti per orgoglio, tanto da rimanere nudi, con indosso solo le armi, pensando che il terreno era coperto di rovi dove potevano impigliarsi i vestiti e impedire l'uso delle armi. 
Dapprima la battaglia fu limitata alla sola zona collinare, dove tutti gli eserciti si erano rivolti. Tanto grande era il numero di cavalieri da ogni parte che la lotta risultò confusa. In questa azione il console Caio cadde, combattendo con estremo coraggio, e la sua testa fu portata al capo dei Celti, ma la cavalleria romana, dopo una lotta senza sosta, alla fine prevalse sul nemico e riuscì a occupare la collina.

La battaglia si sviluppò tra tre eserciti. I Celti, con il nemico che avanzava su di loro da entrambi i lati, erano in posizione pericolosa ma avevano anche uno schieramento più efficace, in quanto combattevano contro i loro nemici, e proteggevano entrambi le retrovie; vero che non avevano alcuna possibilità di ritirata o fuga in caso di sconfitta, a causa della formazione su due fronti.

I Romani erano stati da un lato incoraggiati, avendo stretto il nemico tra i due eserciti, ma dall'altra erano terrorizzati per la fine del loro comandante, oltreché dal terribile frastuono dei Celti, che avevano numerosi suonatori di corno e trombettieri, e tutto l'esercito alzava il grido di guerra. Molto terrificanti erano anche l'aspetto e i gesti dei guerrieri celti, nudi davanti ai Romani, tutti di grande vigore fisico coi loro capi riccamente ornati con torques e bracciali d'oro. 
Al tempo stesso la prospettiva di ottenere questi oggetti come bottino, rese i romani due volte più forti nella lotta. Quando gli hastati avanzarono, dai ranghi delle legioni romane cominciarono a lanciare i giavellotti, i Celti delle retroguardie risultavano ben protetti dai loro pantaloni e mantelli, ma le prime file, dove erano i guerrieri nudi si trovavano in situazione difficile.
E poiché gli scudi dei Galli non proteggevano l'intero corpo, ciò si trasformò in uno svantaggio, e più erano grossi e più rischiavano di essere colpiti. Alla fine, incapaci di evitare la pioggia di giavellotti a causa della distanza ravvicinata, alcuni di loro, nella rabbia impotente, si lanciarono selvaggiamente sul nemico, sacrificando le loro vite, mentre altri, ritirandosi verso le file dei loro compagni, provocarono un grande disordine per la loro codardia. 


Allora furonoi Gesati ad avanzare verso gli hastati romani, ma il corpo principale degli Insubri, Boi e Taurisci, una volta che gli hastati si erano ritirati nei ranghi (dietro i principes), furono attaccati dai manipoli romani, in un terribile "corpo a corpo". Infatti, pur essendo stati fatti quasi a pezzi, riuscivano a mantenere la posizione contro il nemico, grazie ad una forza pari al loro coraggio, inferiore solo nel combattimento individuale per le loro armi. Gli scudi romani erano molto più utili per la difesa e le loro spade per l'attacco, mentre la spada gallica va bene solo di taglio, non di punta. Alla fine, attaccati da una vicina collina sul loro fianco dalla cavalleria romana, guidata alla carica in modo vigoroso, la fanteria celtica fu fatta a pezzi, mentre la cavalleria fu messa in fuga.»

I FASTI CAPITOLINI (frammento)
Circa 40.000 Celti furono uccisi ed almeno 10.000 fatti prigionieri, tra i quali il loro re Concolitano. L'altro re, Aneroesto, riuscì a fuggire e si suicidò con i suoi compagni.  Anche il console Gaio Atilio Regolo fu ucciso.
Il console Emilio Papo, raccolto il bottino, lo inviò a Roma, restituendo il bottino dei Galli ai legittimi proprietari. Con le sue legioni, attraversata la Liguria, invase il territorio dei Boi, e dopo aver permesso il loro saccheggio ai suoi uomini, tornò a Roma. Inviò, quale trofeo sul Campidoglio, le collane d'oro dei Galli, mentre il resto del bottino e dei prigionieri fu usato per il suo ingresso in Roma e ad ornare il suo trionfo.

Così furono distrutti i Celti, che con la loro invasione avevano minacciato i popoli italici ed i Romani. Questo successo incoraggiò i Romani, tanto da credere possibile espellere completamente i Celti dalla pianura del Po. 
Entrambi i consoli dell'anno successivo, Quinto Fulvio e Tito Manlio, furono quindi inviati contro di loro con una grossa forza di spedizione, costringendo i Boi a chiedere la pace a Roma, sebbene il resto della campagna non ebbe ulteriori successi, a causa delle piogge incessanti e di una violenta epidemia.

Per soccorrere Acerrae circondata dai Romani, gli Insubri, rafforzati da circa trentamila mercenari della valle del Rodano, i gesati, tentarono una diversione su Clastidium, importante località dei liguri che,  per timore degli Insubri, già l'anno prima avevano accettato l'alleanza con Roma.



BATTAGLIA DI CLASTIDIUM

Saputa la notizia i Romani, non abbandonando gli Insubri e l'assedio di Acerrae, inviarono la cavalleria con parte dei fanti a soccorrere gli alleati. 

Gli Insubri, lasciata Clastidium, avanzarono contro il nemico, ma furono attaccati violentemente dalla cavalleria romana. 
Dopo una certa resistenza, attaccati anche alle spalle e alle ali dai Romani, dovettero ritirarsi disordinatamente, e furono spinti verso un fiume, dove in gran numero trovarono la morte. 

Gli altri furono invece uccisi dai Romani. Lo stesso console Marcello, riconosciuto il re nemico Virdumaro dalle ricche vesti, lo attaccò uccidendolo di persona.
Allora i Romani raggiunsero Mediolanum (Milano), capitale nemica, e la conquistarono dopo breve assedio. 

Così Marcello, che consacrò le spolia opima (ricche vesti) di Virdumaro a Giove Feretrio, divenne protagonista di una delle più antiche opere della letteratura latina, la fabula praetexta di Nevio, intitolata appunto Clastidium.

L'avvenimento fu registrato nei Fasti Capitolini e raccontato da Tito Livio e Plutarco.

« M. CLAUDIUS M. F. M. N. MARCELLUS AN. DXXXI
COS. DE GALLEIS INSUBRIBUS ET GERMAN
K. MART. ISQUE SPOLIA OPIMA RETTULIT
REGE HOSTIUM VIRDUMARO AD CLASTIDIUM
INTERFECTO »
(Inscriptiones Italiae, XIII, I, Ib)

Marcello ebbe l'onore del trionfo, ricordato nei Fasti triumphales capitolini con le seguenti parole:
"Insieme al collega Scipione Calvo prese infine Milano, capitale insubre, ponendo fine alla guerra".

La Battaglia di Clastidium  ebbe luogo nel 222 a.c., probabilmente il 1º marzo, e venne descritta nei particolari da Polibio e, in modo un po' più romanzato, da Plutarco (Marcellus), ma venne ricordata pure da Cicerone (Tusculanae), Tito Livio, Valerio Massimo (Memorabilia), e vi allusero gli epitomatori (autori di compendi) Floro ed Eutropio.

Anche Virgilio nell'Eneide ricorda l'impresa di Marcello:
« Aspice, ut insignis spoliis Marcellus opimis
ingreditur uictorque uiros supereminet omnis.
Hic rem Romanam magno turbante tumultu
sistet eques, sternet Poenos Gallumque rebellem,
tertiaque arma patri suspendet capta Quirino.
» 

"Osserva come Marcello, insigne per le spoglie opime, 
avanza e da vincitore supera tutti gli eroi. 
Costui, da cavaliere, per primo sistemerà lo stato romano, 
sconvolto da un grande tumulto, 
per secondo vincerà i Puni ed il Gallo ribelle, 
e per terzo appenderà al padre Quirino le armi catturate."

SPOLIA OPIMA DI MARCO


IN SICILIA

Durante la I guerra punica Marco si era battuto contro il generale cartaginese Amilcare Barca (270 – 226 a.c.in Sicilia. Nel 216 a.c., durante la II guerra punica, dopo la disastrosa sconfitta a Canne, prese il comando di ciò che rimaneva dell'esercito romano a Canusium (Canosa). Non salvò Capua, ma protesse Nola e la Campania meridionale.

Nel 215 fu nominato console suffectus. Nel 214 andò in Sicilia come console, mentre l'altro console era Quinto Fabio Massimo Verrucoso, detto il Temporeggiatore, durante la sommossa dei Siracusani. Attaccò Leontini ed assediò Siracusa, ma l'abilità del matematico Archimede respinse tutti i suoi attacchi contro la città.

Dopo un assedio di due anni l'esercito romano riuscì a conquistare la città nel 212 a.c. nonostante l'arrivo di rinforzi cartaginesi. Plutarco ci descrive Marcello come un amante della lingua e della cultura greca e riferisce il suo dispiacere nel lasciare che i propri soldati saccheggiassero Siracusa.

Marcello, da uomo generoso qual'era, risparmiò le vite di gran parte degli abitanti ordinando ai suoi soldati di non ucciderli. Nonostante ciò, Archimede morì per errore.  Marcello condusse i tesori d'arte a Roma, ottenendo un'ovazione.



ARCHIMEDE

Plutarco narra che dopo l'uccisione del grande matematico siracusano, Marcello  "distolse lo sguardo dall'uccisore di Archimede come da un sacrilego", in seguito il soldato venne ucciso per squartamento.

Marcello portò i tesori d'arte a Roma, ma nulla tenne per sè consegnando le spoglie nei templi di Honor e Virtus.Tra questi tesori vi era anche il famoso planetario di Archimede di cui si persero poi le tracce.

Un ingranaggio probabilmente appartenuto al planetario di Archimede è stato rinvenuto nel luglio del 2006 a Olbia. Secondo una ricostruzione il planetario, che sarebbe stato tramandato ai discendenti del conquistatore di Marcello, potrebbe essere andato perso nel sottosuolo cittadino di Olbia (probabile scalo del viaggio) prima del naufragio della nave che trasportava Marco Claudio Marcello (console 166 a.c.) in Numidia.



LA II GUERRA PUNICA

ANNIBALE CHE RITROVA IL CORPO ESANIME DI MARCELLO
le battaglie:
(219 a.c.) Sagunto
(218) Cissa – Ticino – Trebbia
(217) Ebro - Lago Trasimeno
(216) Canne – Selva Litana - I Nola
(215) II Nola
(214) III Nola
(212) I Capua – Silaro – I Herdonia – Siracusa
(211) Baetis superiore – II Capua
(210) II Herdonia – Numistro
(209 a.C.) Ascoli – Cartagena
(208 a.C.) Baecula
(207.) Grumento – Metauro
(206) Ilipa
(204.) Crotone
(203) Campi Magni
(202 a.c.) Zama

Claudio Marcello dedicò due templi alle divinità di Honos (Onore) e di Virtus (Virtù militare), poi fu nominato nuovamente Console nel 210, stavolta insieme a Marco Valerio Levino, e conquistò Salapia in Apulia, che si era rivoltata a favore di Annibale. Catturò la città con l'aiuto della fazione romana là presente e annientò la guarnigione numida.

Di nuovo console nel 210, Claudio Marcello riprese Salapia in Apulia, che si era rivoltata a favore di Annibale.
Proconsole nel 209, attaccò Annibale nelle campagne di Strapellum (Rapolla) vicino a Venusia e a quanto narra Plutarco, dopo la sconfitta subita, Marcello arringò i soldati, spronandoli a combattere, insegnando ai soldati a vergognarsi se si salvavano a prezzo della sconfitta.
Comunque dopo una battaglia disperata si ritirò nella città. Fu per questo accusato di comando carente e dovette lasciare l'esercito per difendersi dall'accusa a Roma. Ma evidentemente si difese benissimo, perchè Marco fu sempre un romano coraggiosissimo e un saggio generale. Infatti non solo fu assolto ma in riconoscimento del suo valore gli venne conferito il consolato per l'anno successivo.

 A quanto narra Plutarco, dopo la sconfitta subita, Marcello arringò i soldati, spronandoli a combattere, insegnando ai soldati a vergognarsi se si salvavano a prezzo della sconfitta. Fu comunque accusato di comando carente dai soliti invidiosi che speravano il comando al suo posto, e dovette lasciare l'esercito per difendersi a Roma. Fu scagionato e riconosciuto nella sua abilità e bravura tanto è vero che riottenne il consolato nel 208 a.c.



LA MORTE

Nel suo ultimo consolato (208), mentre Marco era in ricognizione con il suo collega Tito Quinzio Crispino e alcuni cavalieri per ispezionare una collina posta tra i due accampamenti, che pensava di occupare, nei pressi di Venusia, furono entrambi attaccati di sorpresa dai nemici e Marcello rimase ucciso colpito da una lancia.

Alcune fonti ritengono che Marcello morì a Petelia, la città lucana, i cui resti si trovano su un ampio terrazzo a Strongoli. Si ritiene che la sua tomba sia nei pressi di Strongoli in località Battaglia, dove sono stati ritrovati in una tomba resti di uno scheletro con l’elsa di una spada, un anello e due vasi crematoi. Molte altre fonti invece fanno morire Marcello a Venosa, in provincia di Potenza, dove si trova un antico tumulo romano, chiamato appunto, "Tomba di Marcello".

Nel Seminario Vescovile di Nola, si conserva ancora una lapide di gratitudine che il Senato Nolano fece scolpire in onore di Marcello, il vincitore di Annibale. In essa è scritto: "M.CL. MARCELLO ROMANORUM ENSI - FUGATO HANNIBALE DIREPSIT SYRACUSIS/V CONS./S P Q NOLANUS".

Annibale, che era un uomo d'onore e rispettava i grandi combattenti, fece cremare il suo corpo all'uso romano, depose le ceneri in un'urna d'argento e le restituì al figlio. Egli era stato, come lo chiamò Tito Livio, "la spada di Roma".


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