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ASSEDIO DI VEIO (406 -396)

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BATTAGLIA DEL 406 A.C.

«Già i Giochi e le Ferie Latine erano stati rinnovati, già l'acqua del lago Albano era stata dispersa per i campi, già il destino incombeva su Veio
(Tito Livio, Ab Urbe condita libri, V)

Nel 407 a.c., secondo Livio, nel 406 a.c., secondo Diodoro, ebbe inizio l'ultima lotta di Roma contro Veio, quando Roma dichiara finalmente guerra alla potente città di Veio e l'anno dopo iniziò il decennale assedio della città etrusca. Da parte loro i Veienti non riuscirono a trovare alleati nelle altre città etrusche. Veio è imprendibile ma nel 403 a.c. i romani iniziarono a costruire fortini per controllare il territorio veiente, e terrapieni e macchine d’assedio (vinea, torri e testuggini) per stringere l’assedio alla città.

I Romani aumentarono il numero dei tribuni militari con potere consolare a otto, cosa mai accaduta: Manio Emilio Mamerco, Lucio Valerio Potito, Appio Claudio Crasso, Marco Quintilio Varo, Lucio Giulio Iulo, Marco Postumio, Marco Furio Camillo e Marco Postumio Albino. I Veienti, invece, nauseati dalle solite beghe elettorali nominarono un re. Una scelta che non piacque agli Etruschi, soprattutto per il sovrano eletto.
Confidando nell'assedio più che nell'assalto, venne iniziata la costruzione di baraccamenti invernali e si decise di continuare la guerra, per evitare che le armi e strutture di assedio, lasciate incustodite, fossero rubate o distrutte dai nemici, quando solitamente i cittadini-soldati tornavano in città per attendere alle proprie cose. 

Nonostante la decisa opposizione dei Tribuni della plebe, si giunse alla straordinaria decisione di mantenere l’esercito in armi ad assediare Veio finché questa non sarebbe caduta; ai soldati in armi la città avrebbe garantito il soldo grazie ad una nuova imposizione straordinaria. Veio dal canto suo trovò l’appoggio dei Capenati e dei Falisci, nel 402 a.c. e nel 399 a.c., appoggio che inizialmente non riuscì ad allentare la pressione dell’assedio romano.
Cambiarono i tribuni militari con potestà consolare nell'anno successivo, e furono Gaio Servilio Aala, Quinto Servilio, Lucio Verginio, Quinto Sulpicio, Aulo Manlio e Manio Sergio, che si preoccupavano più più dei contrasti sorti tra di loro che dei loro nemici.

Capenati e Falisci, credendo che caduta Veio sarebbero stati i più esposti a un'aggressione armata da parte di Roma (soprattutto i Falisci, per aver partecipato alla guerra dei Fidenati), dopo vari accordi, si presentarono all'improvviso a Veio con gli eserciti, assalendo l'accampamento nella zona comandata dal tribuno militare Manio Sergio e vi seminarono il terrore, facendo credere ai Romani che l'intera Etruria fosse scesa in campo, cosa che credettero anche i Veienti chiusi in città. Così l'accampamento romano era attaccato su due fronti.
Ma a capo dell'accampamento c'era Verginio che per ragioni personali detestava Sergio e, nonostante fosse arrivata la notizia che buona parte dei fortini era stata assalita, che i dispositivi di difesa erano stati scavalcati trattenne gli uomini con le armi in pugno, sostenendo che se il collega avesse avuto bisogno di aiuto gliene avrebbe fatto richiesta. Sergio poi, per non dare l'impressione di chiedere aiuto al suo avversario, preferì lasciarsi vincere dal nemico piuttosto che vincere grazie all'altro. Il massacro dei soldati romani presi nel mezzo durò a lungo. Alla fine, quando ormai i dispositivi di difesa erano stati abbandonati, in pochissimi ripararono nell'accampamento centrale, mentre la maggior parte dei superstiti e lo stesso Sergio si diressero verso Roma.

ASSEDIO DI VEIO

MARCO FURIO CAMILLO

Marcus Furius Camillus fu censore nel 403 a.c., celebrò il trionfo ben quattro volte, cinque volte fu dittatore, quindi sempre in guerra, e fu onorato con il titolo di Pater Patriae, nonchè di Secondo fondatore di Roma. Fu sei volte tribuno militare con potestà consolare tra gli anni 401 e 381.

Egli divenne popolare da un'azione di combattimento, quando Roma era in guerra contro Volsci e Equi sotto il comando del dittatore Tubero Postumio, dove, essendo Camillo comandante della cavalleria, salvò il dittatore già ferito a una coscia, combattendo da solo contro i diversi nemici che lo attorniavano. Secondo Plutarco ciò gli valse la nomina a censore. Secondo Tito Livio, invece fu eletto tribuno con poteri consolari per la prima volta nell'anno 403 a.c.

Il senato nominò Furio Camillo dittatore e questi scelse come magister equitum Publio Cornelio Scipione (antenato dell'Africano). Il nuovo comandante punì chi era fuggito, indisse una nuova leva, si recò personalmente a Veio per controllare la situazione e incoraggiare i soldati. Accettò persino l'aiuto di Latini ed Ernici e fece grandi voti di sacri giochi alla fine della guerra e di restaurare e riconsacrare il tempio della Madre Matuta nel Foro Boario.



CAMILLO DITTATORE
Camillo rieletto di nuovo dittatore durante la guerra contro Veio, che assediata, con un'irruzione notturna aveva bruciato l'accampamento dei Romani. A questo punto ci fu una dura reazione e tutti i giovani dell'Urbe chiesero di combattere e di non tornare se Veio non fosse stata distrutta.
"Erano entrati i Volsci e gli Equi con gli eserciti loro ne’ confini romani. Mandossi loro allo incontro i Consoli. Talché, nel travagliare la zuffa, lo esercito de’ Volsci, del quale era capo Vezio Messio, si trovò, ad un tratto, rinchiuso intra gli steccati suoi, occupati dai Romani, e l’altro esercito romano; e veggendo come gli bisognava o morire o farsi la via con il ferro, disse a’ suoi soldati queste parole:
« Venite con me, nè muro, nè vallo, nè uomini armati sono di ostacolo agli armati; la virtù splende come l'ultimo e il massimo giavellotto, perchè la necessità rende superiori."
Sì che questa necessità è chiamata da Tito Livio « ultimum ac maximum telum » (ultimo e massimo giavellotto)

Camillo, prudentissimo come tutti i capitani romani, essendo già dentro nella città de’ Veienti con il suo esercito, per facilitare il pigliare quella, e torre ai nimici una ultima necessità di difendersi, comandò, in modo che i Veienti udirono, che nessuno offendessi quegli che fussono disarmati; talché, gittate l’armi in terra, si prese quella città quasi sanza sangue. Il quale modo fu dipoi da molti capitani osservato."

ANTEFISSA VEIENTE (PROBABILE DEA TURAN,  LA VENERE ETRUSCA)

Furio Camillo, dopo essersi coperto le spalle sbaragliando Capenati e Falisci, intensificò l’assedio di Veio, iniziando anche la costruzione di una galleria sotterranea, che arrivava fin sotto la cittadella di Veio. "Sotto il tuo comando, o Apollo Pizio, e ispirato al tuo volere, mi accingo a distruggere la città di Veio e a te dedico la decima parte del bottino che ne verrà tratto. Ma nello stesso tempo imploro te, o Giunone Regina, che adesso dimori a Veio, di seguire noi vincitori nella nostra città presto destinata a diventare anche la tua, dove ti accoglierà un tempio degno della tua grandezza". 

Dopo aver innalzato queste preghiere, il dittatore, con un forte di un numero di uomini, si buttò all'assalto della città aggredendola da ogni parte, in maniera tale che gli abitanti si rendessero conto il meno possibile del pericolo che incombeva sulle loro teste dalla galleria sotterranea. Completata l’opera, il dittatore attaccò in forze e in più punti le mura della città, per dissimulare la presenza di soldati nella galleria sotterranea.

« La galleria, piena com’era in quel momento di truppe scelte, all’improvviso riversò il suo carico di armati all’interno del tempio di Giunone sulla cittadella di Veio: parte di quegli uomini prese alle spalle i nemici piazzati sulle mura, parte andò a svellere dai cardini le sbarre che chiudevano le porte e altri ancora appiccarono il fuoco alle case dai cui tetti i servi e le donne scagliavano una gragnuola di sassi e tegole. »
(Tito Livio, Ab Urbe Condita, V, 2, 21.)

Furio Camillo fece voto, se avesse conquistato Veio, di riedificare a Roma il tempio della Mater Matuta, e così dopo l'assedio e le varie battaglie durati ben 10 anni, riuscì a vincere, scavando un cunicolo che portava dentro la cittadella, e contemporaneamente attaccando le mura per distrarre i Veienti.

Al comando di Camillo parte del suo esercito andò a svellere dai cardini le sbarre che chiudevano le porte e altri appiccarono il fuoco alle case dai cui tetti i servi e le donne scagliavano una gragnuola di sassi e tegole. Dovunque il frastuono degli aggressori con le lacrime delle donne e dei bambini. In un attimo tutti gli uomini armati vennero scaraventati già dai vari punti delle mura e le porte si spalancarono, permettendo così a parte dei Romani di riversarsi all'interno in formazione compatta e ad altri di scalare le mura ormai prive di difesa. 

Infine  il dittatore attraverso gli araldi ordinò agli uomini di risparmiare chi non era armato. Questa mossa pose fine alla carneficina. Quanti non portavano armi iniziarono allora a consegnarsi spontaneamente, mentre i soldati romani ottennero dal dittatore via libera al saccheggio. Il giorno dopo il dittatore vendette come schiavi tutti gli abitanti di condizione libera. La somma che se ne ricavò fu il solo denaro finito nel tesoro dello Stato, non senza ira della plebe. 

Quanto poi al bottino che i soldati riuscirono a portarsi a casa, dissero di non doverlo né al comandante, reo di aver rimesso al senato una decisione di sua competenza, per trovare dei responsabili per la sua avara distribuzione, né tantomeno al senato, bensì soltanto alla famiglia Licinia, tra i cui membri c'era stato un figlio relatore al senato di una legge così favorevole al popolo e proposta dal padre. 

Quando i beni privati erano già stati asportati da Veio, i vincitori cominciarono a portarsi via anche i tesori degli dei e gli dei stessi, e pure i suoi sacerdoti auruspici etruschi. pur facendolo però con spirito di autentica devozione e non con foga da razziatori. Infatti all'interno di tutto l'esercito vennero scelti dei giovani che, dopo essersi lavati accuratamente e aver indossato una veste bianca, ebbero l'incarico di trasferire a Roma Giunone Regina. Una volta entrati nel tempio pieni di reverenza, essi in un primo tempo accostarono piamente le mani al simulacro della dea perché secondo la tradizione etrusca quell'immagine non doveva esser toccata se non da un sacerdote proveniente da una certa famiglia. 

Poi, quando uno di essi disse, rivolto al simulacro: "Vuoi venire a Roma, Giunone?", tutti gli altri gridarono festanti che la dea aveva fatto un cenno di assenso con la testa. In seguito alla storia venne anche aggiunto il particolare che era stata udita la voce della dea rispondere di sé. Di certo però sappiamo che non ci vollero grossi sforzi per rimuoverla dalla sua sede: facile e leggera a trasportarsi, la dea approdò integra sull'Aventino, in quella zona cioè che le preghiere del dittatore avevano invocato come la sede naturale a lei destinata per l'eternità e dove in seguito Camillo le dedicò il tempio da lui stesso promesso nel pieno della guerra.

Veio fu così conquistata, con grande bottino per i romani, che con questa vittoria posero le basi della propria supremazia sull’altra sponda del Tevere, fino ad allora controllata da popolazioni etrusche.

TRIONFO DI FURIO CAMILLO

Eutropio, Breviarium ab Urbe condita:
"Dal Senato fu inviato in qualità di dittatore contro i Veienti, che dopo vent'anni si erano ribellati, Furio Camillo. Egli li vinse prima in battaglia, quindi conquistò anche la loro città."

Dunque nel 406 a.c., Veio viene sconfitta da Roma, ma molti la datano al 396 a.c., dopo un assedio di 10 anni. Livio narra che Veio fu presa solo perchè vi fu un traditore che permise alle truppe romane di entrare in città attraverso un cunicolo che sbucava all'interno del tempio di Giunone Regina, localizzato a sud-est del pianoro.

Che il cunicolo fosse già esistente è molto probabile perchè Veio era costruita su un costone di tufo, che non solo non era tenero da scavare, ma sicuramente in qualche modo sarebbe stato udito. Spesso gli etruschi scavavano nel tufo dei passaggi molto stetti per lo scolo delle acque piovane. Il che dimostra quanto Veio fosse ben protetta da mura e combattenti, per cui solo con l'inganno avrebbe potuto cedere.

Marco Furio Camillo, che guidava le truppe romane, saccheggiò il santuario pieno di ori e argenti e ne trasferì la statua di culto a Roma per mezzo del rito della evocatio, avvenuta, come si narra, con il "consenso" di Giunone, espresso - narrano le fonti - con un cenno del capo (secondo altre fonti fece udire il suo "si").

Nel frattempo Volsci ed Equi inviarono dei delegati a intavolare trattative di pace: e se essa venne concessa, non fu tanto perché ne fossero degni coloro che la richiedevano, quanto piuttosto perché il paese avesse modo di riprendere fiato stremato com'era dopo una guerra così lunga.

Una parte del territorio veientano venne assegnata a cittadini romani. Gli scampati al massacro del
396 a.c. non furono ridotti in schiavitù ma anzi ottennero anch'essi la cittadinanza romana dando origine alle tribù Stellatina, Tromentina, Sabatina e Arniensis. Come suo solito Roma era accorta e lungimirante, e pertanto accoglieva e si ingrandiva per estendere il suo dominio sul mondo.


BIBLIO

- Livio - Ab Urbe condita libri -
- Polibio - Storie - Milano - Rizzoli - 2001 -
- Massimo Pallottino - Origini e storia primitiva di Roma - Milano - Bompiani - 2000 -
- Mommsen T. - Storia di Roma antica - Milano - Sansoni - 2001 -

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