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REATE - RIETI (Lazio)

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Il centro di Rieti sorge su una piccola collina al margine di una pianura, la Piana Reatina, di circa 90 km², alta 405 m s.l.m.
La piana anticamente era occupata delle acque del Lacus Velinus e fu bonificata in età romana aprendo un varco tra il calcare accumulatosi negli anni presso Marmore, generando così l'omonima cascata. Di questo lago oggi restano solo specchi d'acqua minori: il lago di Piediluco (Provincia di Terni), quello di Ventina e quelli Lungo (o di Cantalice) e di Ripasottile.

Gli ultimi due oggi sono inseriti in una riserva naturale. La piana è racchiusa dal Monte Terminillo e dai Monti Reatini, di cui fa parte, ad est, dai Monti Sabini ad ovest ed è tagliata dal Fiume Velino che riceve, in essa, le acque dei fiumi Salto e Turano.

Le tracce della fondazione di Rieti si perdono all'inizio dell'età
del ferro, quando Reate, che la leggenda vuole fondata dalla dea Rea, da cui deriva anche il nome della città, sorse intorno al IX-VIII secolo a.c. fra le terre abitate dagli umbri, per essere poi conquistate dagli aborigeni, una popolazione di origini incerte, e infine dai Sabini che, secondo i ritrovamenti archeologici, arrivarono fino al Tevere.


In epoca preromana era malsana e sempre allagata. le acque del fiume Velino, ricche di sostanze minerali, avevano nel corso dei secoli incrostato le rocce, creando una barriera travertinosa che impediva il deflusso delle stesse a valle.

Il Console Romano (290 a.C.) Marco Curio Dentato fece eseguire il taglio delle Marmore, consentendo così al fiume di precipitare nel Nera e liberare la pianura di Rieti dalle acque del lacus Velinus. Con l'estensione del suffragio ai sabini e ai reatini nel 268 a.c., la città partecipa alle vicende del popolo romano.



UMBILICUS ITALIAE


Rieti rivendica il centro d'Italia nella centralissima Piazza San Rufo, ove un "discutibile" monumento (la famosissima Caciotta) circolare segnala l'Umbilicus Italiae.


"Cutilia era nominata dai narratori antichi in modo diverso e talune volte anche superficialmente, come se non fosse mai esistita. Cutilia, nella zona, era considerata una metropoli importante in quanto capoluogo religioso di tutta la zona del Reatino, se non addirittura di tutta la Sabina. 
Varrone, invece, considerava metropoli Lista, altro centro degli Aborigeni, che però non risulta avere avuto uguale importanza religiosa. 

UMBELICULUS ITALIAE
Lo stesso Varrone riporta altre opinioni espresse da vari autori precedenti a lui sull'origine di Cutilia, e sulla provenienza degli Aborigeni: o indigeni o immigrati, venuti dalla Liguria od ancora dalla stessa Grecia. Questo però, contrasterebbe con la tradizione sull'oracolo rilasciato ai Pelasgi, che li trovarono già stabili con le città di Cutilia e di Lista. Varrone, nel narrare la nascita di Roma, tende a “romanizzare” anche i luoghi toponomastici della zona di Cutilia. 

Anche se nativo di Reate (116 a.c.) e attaccato alla sua patria Sabina, nei suoi racconti Varrone tende sempre a mettere in risalto l'importanza di Roma a scapito della verità storica. Altre volte nei suoi racconti invece mette Roma e il Lazio in subordine rispetto alla Sabina in quanto regione.



AQUAE CUTILIAE

fonte minerale e lago, così detto da Cutilia, città che già esistette nel Samnium ad oriente di Reate (presso Civita Ducale). Questo lago era reputato l'ombelico (UMBILICUS) d'Italia. La sua superficie era di 4 iugeri e la profondità inesplorabile; aveva poi un'isola natante di circa 20 m. di diametro, fornita di una vegetazione meravigliosa. Il lago era sacro alla Dea Vittoria, alla quale persone destinate a questo fine facevano sacrifici nell'isola. Questa fu veduta anche da Seneca, mentre oggi è scomparsa.

Da Paterno scende una stradina verso la vallata: chi la segue giunge dopo un breve cammino nel luogodove sorgono le rovina dell'antichissima Cotilia, di cui si legge nel primo libro delle historie di Dionigi di Alicarnasso, retore e storico greco del tempo di Ottaviano Augusto. Già cospicua all'epoca degli Aborigeni, primitiva popolazione Italica e, successivamente, sotto gli Umbri prima e Sabini poi, che ne ereditarono il dominio, la città era celebre dopo la conquista romana per le sue acque sulfuree, menzionate da Strabonio e altri autori latini e molto frequentate dalla brillante società della Roma Imperiale. L'Imperatore Vespasiano, come racconta Svetonio, ogni anno si recava a Falacrine, una sua villa nel Reatino alla quale aveva dato lo stesso nome del suo paese nativo, per giovarsi delle proprietà medicinali delle acque di Cotilia; e qui morì nel 79 d.c..

"Nel suo nono consolato era stato colto nella Campania da lievi agitazioni febbrili onde, tornato subito a Roma, si recò a Cutiliae nella campagna di Rieti, ove soleva ogni anno trascorrere l'estate."

Ancora più antica è la storia del lago, e si perde nella leggenda! Un oracolo come Apollo in Dodona, città dell'Epiro, che fu la sede del più antico santuario greco, come narra Dionigi, circa 14 secoli prima della venuta di Cristo promise ai raminghi Pelasgi che abitavano le terre settentrionali della Grecia primitiva, che proprio vicino a queso lago con l'isoletta fluttuante, nella terra degli Aborigeni, avrebbero trovato da vivere in pace e prosperità. 

Essi, dunque abbandonarono la loro patria e veleggiarono per l'Adriatico. Approdati in Italia e scavalcate le giogaie dell'Appennino, giunsero fino al lago di Paterno, dove riconobbero l'isola vaticinata dall'oracolo. Gli abitanti del luogo, nel vederli armati, si spaventarono e si prepararono a difendersi, ma i Pelasgi, alzando ramoscelli d'olivo, mostrarono l'oracolo di Dodona che l'aveva indirizzati lì ed implorarono amicizia ed ospitalità. 

Parve, allora, agli Aborigeni che essi dovessero ubbidire al dio Apollo e, pertanto, accolsero benevolmente i nuovi arrivati: offrirono loro campi da coltivare e se li fecero alleati contro i Siculi, popolazione con la quale erano in guerra. Le parole dell'oracolo furono incise con antichi caratteri su di un tripode, ossia su un recipiente votivo a tre piedi, e conservate gelosamente nel tempio di Giove, laddove Lucio Mamio giurò di averle lette:

Pergite quaerentes Siculum Saturnia rura atque Aboriginum Cotylen
ubi se inxula vectat Queis mixti, decimas Clario transmittite Phoebo


Le cose andarono proprio come l'oracolo aveva profetizzato e quel territorio, in parte paludoso e infecondo, tornò a rifiorire. A testimonianza della sua origine ellenica, il primo nome di Cutilia fu greco:Kwtiliai. Al tempo, però in cui scrisse Dionigi di Alicarnasso, quel territorio, già passato sotto la dominazione Umbra e poi Sabina, era entrato da parecchio tempo a far parte dell'Impero Romano: la città aveva quindi dimenticato il nome greco per assumere quello latino di Cutilia.

VESPASIANO
Dell'isoletta fluttuante del lago a breve distanza da Cutilia, hanno parlato anche scrittori latini, da Plinio (Hist. nat. lib.II, c 96) a Varrone (De lin. lat. lib.III, p.17), a Macrobio (Saturn. lib. I e VII) a Seneca (Natur. quaest. lib. II c 25). Tito Livio l'accenna nella sua «Storia di Roma» quando descrive la strada percorsa da Annibale, il grande condottiero cartaginese, da Amiternum a Roma.

Trascorso il I sec. dc., Cutilia cominciò a perdere molta della sua importanza, finchè essendole rimasta solo la fama delle sue acque terapeutiche, la città fu distinta nelle tavole itinerarie solo con il nome di Acquae Cutiliae. Non si sa con sicurezza quando la città sia stata distrutta: alcuni autori sostengono nell'anno 475 dell'era Cristiana, ma si tratta di una semplice congettura non confortata da alcuna prova.
Per la sua ubicazione, quasi al centro della penisola Italica, il lago di Paterno con la sua isola galleggiante fece ritenere a Varrone e Plino che esso fosse l'ombelico d'Italia. Si legge infatti in Plinio (Hist. nat. lib.III, 17):

«In agro Reatino, Cutiliae lacum in quo fluctuat insula Italiae umbilicum esse: M Varro tradit».

Sempre a proposito del lago di Paterno, alcuni autori (Capmartin da Chaupy, Biondo, Bucciolotti) hanno ritenuto che ad esso volesse riferirsi Virgilio quando nel libro VII dell'Eneide, descrivendo l'Italia centrale ai tempi di Enea, parla di un lago chiamato Ampsanctus, situato ai piedi di alti monti e circondato da fitti boschi percorsi da un fragoroso torrente. Li si aprivano un'orrenda spelonca e un lago pestilenziale, attraverso l'Ancheronte infernale sbucava di sottoterra:

«Est locus Italiae medio sub montibus altis, nobilis et fama multis memoratus in oris,
Ampsanctis valles: densis hunc frondibus atrum Urget utrimque latus memoris,
medioque fragosus dat sonitum saxis et torto vortice torrens. Hic specus horrendum
et saevi spiracula Ditis monstrantur, ruptoque ingens Acheronte vorago.
Pestiferas aperit fauces.
... » (Eneide)

"C'è nel centro d'Italia, sotto alti monti, un luogo celebre e ricordato per fama in molte regioni, le valli d'Amsanto: il fianco d'una selva, oscuro per denso fogliame, circonda questo dall'una a dall'altra parte e nel mezzo un torrente rumoroso rimbomba per salti e per rotanti vortici. Qui si aprono una spelonca orrenda e gli spiragli del terribile Dite ed una voragine immensa per il prorompere dell'Acheronte apre pestifere fauci. "

L'identificazione del lago nominato da Virgilio con il lago di Paterno, o comunque con le acque solfuree di Cotilia, non sembra però accettabile alla maggior parte dei critici perchè, se al detto lago corrisponde il fatto di trovarsi nel centro d'Italia, non corrispondono ugualmente le altre caratteristiche. 

L'opinione più accreditata, pertanto, cui aderisce anche il Momnsen, è quella che ritiene trattarsi del lago oggi detto d'Ansante o le Moffette: lago metifico adagiato nel cratere di un vulcano spento, in Campania, a sud del passo di Eclano, nei pressi di Frigento (Avellino). Tale ipotesi, forse la più solida, poggia su le parole di Cicerone e di Plinio, che posero chiaramente l'Ampsanctus in Irpinia.

Vale la pena visitare Paterno, il suo lago e le sue contrade: qui sono state scritte alcune tra le primissime pagine della storia d'Italia, dalle antiche civiltà Umbra e Sabina fino alla storica cavalcata di Annibale e agli imperatori della dinastia Flavia. La leggenda, poi, ha consacrato questi luoghi e li ha colorati di mistero: quanto ci sia di vero in essa non lo sappiamo e non lo sapremo mai, ma le parole dell'oracolo continuano a vivere del loro pieno valore fantastico e ci riempiono di un sacro rispetto che non sappiamo spiegare.

" Pergite quaerentes Syculos Saturnia in arva
illam Aborigenum Cotylam cui natat in undis Insula
"

"andate a cercare la terra dei Siculi, quella di Saturno e Cutilia degli Aborigeni, dove si muove un'isola"



LE MARMORE

Il fiume Velino percorreva una vasta sezione dell'altopiano che circonda Rieti scontrandosi però più a valle con una serie di massicci calcarei che ne invadono il letto disperdendolo nelle terre; questa ingestita dispersione di acque provocò nel reatino la formazione una palude stagnante nociva alla salubrità dei luoghi.

Per questo nel 271 a.c., il console romano Manio Curio Dentato ordinè la costruzione di un canale (il Cavo Curiano) per far defluire le acque stagnanti in direzione del salto naturale delle Marmore, da cui l'acqua precipitava direttamente nel fiume Nera, affluente del Tevere.

Ma il problema fu risolto solo in parte poichè, le abbondanti e annue piene del Velino, trascinando a loro volta un'enorme quantità d'acqua trasportata dal Nera, minacciava di invadere il centro abitato di Terni. 

Iniziò così una diatriba tra le due città, tanto che nel 54 a.c. venne posta la questione direttamente al Senato Romano: Rieti era rappresentata da Cicerone, Terni da Aulo Pompeo. Ma la questione non trovò soluzione e la causa si risolse con un nulla di fatto per diversi secoli successivi.



I SABINI

Plutarco, Vita di Romolo, 14,5:
"Il segnale convenuto per l'assalto era questo: Romolo si sarebbe alzato, avrebbe ripiegato il mantello, poi l'avrebbe di nuovo indossato. Molti armati di spada con gli occhi fissi su di lui, al segnale sguainano le spade e urlando si slanciano sulle figlie dei Sabini"

Insomma i Romani erano a corto di donne, non si sa perchè, a meno che, come in tanti popoli primitivi dediti alla guerra, le bambine venissero in parte eliminate, ma in parte perchè vi erano molti avventurieri e rifugiati politici, per cui decisero di rapire le Sabine.

La leggenda narra insomma che nel quarto anno dalla fondazione dell'Urbe, Romolo, nel tentativo di trovare mogli ai suoi uomini, organizzò il famoso ratto delle Sabine. Il ratto delle sabine sembra non sia proprio leggendario: la città di Roma era infatti sorta da poco e Romolo, in cerca di alleanze e donne per popolare la città, pensò di sfruttare la festa della Consulia, alla quale parteciparono anche i Sabini, per rapire le donne di cui Roma aveva bisogno per crescere.

La conseguenza fu la guerra fra Roma e i suoi vicini, i quali vennero sconfitti ad eccezione dei Sabini. Lo scontro si fermò quando le donne rapite si gettarono fra le armi dei contendenti imponendo la tregua fra Romolo e Tito Tazio e la nascita di una collaborazione fra i due popoli.

SOTTERRANEI
Sembra che i Romani però cercassero di corteggiarle trattandole degnamente, e c'è da crederlo, perchè all'epoca le donne erano abituate al rispetto, non a caso quando questo venne meno in epoca greca, molte di loro di fecero Amazzoni conquistando, come asserì Giulio Cesare, tutta l'Asia.


Quindi pian piano le donne accettarono i matrimoni mentre i Sabini ci pensarono su, e ci pensarono parecchio, visto che quando mossero guerra le donne avevano già figli. Perchè passarono tanti mesi la storia non lo dice, o semplicemente il mito è inventato e vi fu guerra tra i due popoli seguita dalla pace.

Comunque il mito prosegue raccontando che le donne sabine, allo scontro tra i due popoli, uscirono dalla città vestite a lutto. Alcune con in braccio o al seguito i bambini piccoli. Raggiunsero piangendo il campo dei Sabini e il consiglio degli anziani, e qui si gettarono ai piedi del re. I Sabini le rimproverarono, infine si decise per la pace.

I Romani dal canto loro stabilirono per contratto il trattamento delle donne: non dovranno mai lavorare per i loro mariti, salvo filare la lana; per la strada gli uomini dovranno cedere loro il passo; nulla di sconveniente sarà detto a loro o in loro presenza; nessun uomo potrà mostrarsi nudo davanti a loro; i loro figli avranno una veste speciale (praetexta) e un ciondolo d'oro (bulla aurea). Il che fa pensare che vennero adottate le usanze sabine, che d'altronde avevano reminiscenze matriarcali, peccato che questi diritti vennero poi dimenticati.


"Non viene pattuita solo la pace, ma anche la fusione dei due popoli. Il regno diventa uno solo. Furono istituite anche le tre centurie di cavalieri, Ramnensi da Romolo, Tiziensi da Tazio e, quanto ai Luceri, è incerta l'origine. Da allora i due re esercitarono il potere non solo in comune ma anche in perfetta concordia." (T. Livio I,13).

I due re governarono insieme e le culture si fusero. Il Dio dei sabini Quirino, divenne anche Dio dei romani. Successivamente Rieti e il suo territorio vennero conquistati da Roma nel 290 a.c. per opera del console Manio Curio Dentato, rimanendo prefettura fino al 27 a.c. e divenendo poi Tribù Quirinae. In breve l'intera sabina venne presa.


Nel corso del tempo molte furono le antiche famiglie sabine che diedero lustro alla città di Roma e ne seguirono le sorti. Da ricordare l'ascesa della Gens Flavia, il cui esponente più noto, l'Imperatore Tito Flavio Vespasiano, era appunto nativo di rieti. Degno di essere ricordato è, altresì, il grandissimo scrittore Marco Terenzio Varrone, nato anche lui a Rieti, per cui sovente ricordato con l'appellativo de "Il Reatino" e "padre della romana erudizione".

L'antica Reate fu una delle più antiche e principali città dei Sabini. 

Nel 211 a.c. Annibale passò sotto le sue mura sulla via di Roma; nel 205 Reate assieme con gli altri Sabini contribuì volontariamente ai rifornimenti di Scipione. Certamente fu mantenuta al grado di prefettura fino al tempo augusteo; in tempi imperiali fu elevata tuttavia a municipio, e sotto Vespasiano accolse un gran numero di veterani, senza avere però il titolo di colonia.

Il fertilissimo territorio reatino, bagnato dalle acque del Velino e dei suoi affluenti Turano e Salto, soggetto a lavori idraulici per la regolazione dei corsi dei fiumi sino dalla conquista della Sabina da parte di M. Curio Dentato, fu causa di gravi e secolari dispute fra la città e la vicina Interamna (Terni), dispute per le quali una volta fu chiamato a patrono di Reate Cicerone, che difese la sua causa davanti agli arbitri nominati dal Senato.

COME APPARIVA IL PONTE ROMANO ALL'INIZIO DEL 1900


IL PONTE ROMANO

I resti del Ponte romano (III sec. a.c.), giacciono nelle acque del Velino da quando fu assurdamente demolito negli anni trenta. 

QUEL CHE NE RIMANE
Si trattava di un ponte a tre luci a schiena d'asino (forse per questo fu demolito in quanto non permetteva il passaggio delle barche), realizzato in opus quadratum con grossi blocchi di calcare  travertinoide di circa un m, posti di testa e di taglio. 

Lungo 38,90 m e largo 6,20, con larghezza dei piloni è di 2,60 m. il ponte, detto appunto "Ponte romano" era un ponte arcuato e bianco, raro esempio rimasto dei ponti romani a schiena d'asino, semplici e indistruttibili, forse demolito nei primi del '900 per la viabilità del fiume che a tutt'oggi non esiste. Infatti seppur demolito il ponte non venne mai asportato.

Ci chiediamo allora come mai l'antico ponte, anche se malsicuro, non sia stato chiuso al traffico ma lasciato intatto dato il suo prezioso valore storico.

Il ponte venne costruito nella Roma repubblicana, nel III sec. ac., come parte dell'antica Via Salaria, attraverso cui giungeva a Roma il sale dall'Adriatico, il che dette il nome alla via. 

IL PONTE NUOVO
Subito dopo il ponte, la Salaria proseguiva con un viadotto (tracciato dell'attuale via Roma) e conduceva al foro di Reate (attuale piazza Vittorio Emanuele II). 

Infatti sotto Via Roma anticamente si trovavano dei poderosi archi che sostenevano il piano inclinato che ancora oggi dal ponte conduce all’attuale Piazza V. Emanuele II.

Quest'opera architettonica si inserisce nel rinnovamento urbano di Reate voluto dai romani dopo la conquista della Sabina ( 290 a.c.), per l'importanza economica del territorio grazie alla fertilità dei terreni bonificati dal taglio delle Marmore, operato da Manio Curio Dentato.

Il ponte fu restaurato o rifatto nel I sec. d.c, come testimonia un'iscrizione datata 42 d.c. attribuita a Claudio, e quindi evidentemente sotto l'imperatore Claudio. In ogni caso però, anche se rifatto, venne costruito secondo il modello arcaico.

SOTTERRANEI DI RIETI


I SOTTERRANEI REATINI

Della Rieti romana resta poco; se non la Rieti sotterranea, un percorso nelle cantine di alcuni palazzi di via Roma, dove si possono osservare i resti dell'antica via Salaria risalenti al III secolo a.c.avanzi di mura in via Pescheria, in via Roma, in via Pellicceria e altrove, da cui si può ricostruire il tracciato della cinta romana. 

Altri resti cospicui di mura perimetrali di una vasta costruzione furono trovati, recentemente, a circa 4 m di profondità, nei lavori di sbancamento compiuti sulla piazza Vittorio Emanuele e sono ancora visibili.

Sotto l'odierna via Roma, è possibile ammirare un meraviglioso scorcio dell'Italia sotterrane: i resti del viadotto romano costruito nel III sec. a.c. come conseguenza della conquista romana ed affiancato all'opera di bonifica della piana. 

Questo manufatto, superando il fiume Velino, permetteva alla Via Salaria, l'antica via del sale, di raggiungere la città evitando allagamenti ed impaludamenti, assumendo così un ruolo di estrema importanza per la Reate romana che necessitava di un diretto collegamento con l'Urbe. 

La struttura, inglobata nei sotterranei di alcune nobili dimore reatine, è formata da grandiosi fornici costruiti con enormi blocchi squadrati di travertino caverno, a sostegno del piano stradale. 

La consolare Salaria dopo aver superato il fiume Velino, attraverso il solido ponte in pietra dove sono ancora visibili i profondi solchi lasciati dalle ruote dei carri utilizzati per il trasporto del sale, raggiungeva il foro, situato dove si estende oggi piazza Vittorio Emanuele II, e piegando a destra sulla via Garibaldi formava gli antichi cardo e decumanus.

Proseguimento in via del Porto, nel passato via d'acqua, oggetto di spiegazioni sul funzionamento del porto fluviale della città di Rieti considerata la "Venezia d'acqua dolce". 

Successivamente nei locali sotterranei di casa Parasassi e di casa Rosati-Colarieti proseguono i resti dell'antico viadotto romano costruito nel III secolo a.c.
Un imponente muro e blocchi squadrati di travertino, testimoniano il piano di inclinazione della struttura che permetteva di raggiungere il foro. 

Seguono gli ampi ambienti di palazzo Napoleoni, sotterranei dell' edificio appoggiato verticalmente alla struttura romana che conducono ad uno dei poderosi archi che costituiscono il viadotto.



RIETI – Forse scoperta la villa di Vespasiano - 9/4/2013 -

''Le ville di quest'epoca generalmente non riportano iscrizioni, il che rende difficile identificarne i proprietari'', ha detto all'AFP il professore Filippo Coarelli dell'Universita' di Perugia, che dirige gli scavi.

''Ma ci sono molti indizi, compresa la sua collocazione geografica, che fanno pensare che si tratti della villa in cui Vespasiano e' nato''. Formata da un complesso di 14 mila metri quadrati, l'edificio colpisce per il suo lusso, con le sale dei ricevimenti decorati con marmi policromi e con le terme private. Secondo gli archeologi, una villa del genere non poteva che essere stata realizzata per una famiglia ricca, come quella del padre di Vespasiano.

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Nell’anno che festeggia il bi-millenario della nascita dell’imperatore Vespasiano viene forse ritrovata la sua residenza di campagna che potrebbe coincidere con la villa d’epoca romana recentemente venuta alla luce in provincia di Rieti, nelle regioni dell’antica Sabina. 

Infatti, Tito Flavio Vespasiano, ovvero l’imperatore che a Roma fece erigere il Colosseo, realizzare un nuovo foro, costruire i bagni pubblici a lui dedicati e il meraviglioso Tempio della Pace, era originario di un’umile famiglia proveniente dai territori sabini. 

Nato nel piccolo villaggio di Falacrinae, come molti provinciali diventati importanti, volle far ritorno al paese e esibire a coloro che l’avevano visto crescere un segno della sua vittoria.

L’esistenza di Falacrinae ci è nota grazie alle testimonianze letterarie, ma fino ad oggi non esistevano tracce concrete. 

PAVIMENTAZIONE DELLA VILLA
Filippo Coarelli, professore di antichità greche e romane presso l’Università di Perugia, sta guidando un’equipe formata da giovani archeologi italiani e inglesi – gli scavi vedono il coinvolgimento dell’Università di Perugia e della British School at Rome, nonché il supporto della Soprintendenza Archeologica per il Lazio – poco fuori Rieti.

Gli scavi hanno restituito subito importanti risultati: infatti, vicino a un antico cimitero e a una piccola chiesa di origine medievale, se non più antica, è emerso il perimetro di una villa dotata di sale di ricevimento, colonnati e terme. 

La pavimentazione dell’ambiente principale è in ottimo stato di conservazione e presenta intarsi di preziosissimi marmi policromi originari da cave dell’Africa Settentrionale delle quali oggi si è persa ogni traccia. 

Proprio lo splendore di questo locale, che doveva possedere rivestimenti marmorei anche sulle pareti, preceduto da altri due ambienti dove la pavimentazione è mosaicata, fa supporre che la villa fosse appartenuta all’imperatore Vespasiano.


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