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PUBLIO OVIDIO NASONE

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Nome: Publius Ovidius Naso
Nascita: Sulmona, 20 marzo 43 a.C.
Morte: Tomi, 17
Mestiere: poeta/scrittore














LE ORIGINI

Brunetto Latini scrisse di lui:
"E in un ricco manto
vidi Ovidio Maggiore
che gli atti de l'amore
rassembra e mette in versi"

Publio Ovidio Nasone, poeta latino, nacque a Sulmona nel 43 a.c., da un'antica e ricca famiglia equestre, come narra in un'elegia dei "Tristia" (Sulmo Mihi Patria Est) e fu uno tra i maggiori poeti elegiaci. Seneca il Vecchio ricorda che Ovidio declamava raramente, per lo più suasorie, declamazioni su "quaestiones infinitae", cioè su una situazione storica o mitica interloquendo con un personaggio per indurlo o dissuaderlo dal compiere un atto esistenziale, con due distinti discorsi pro e contro, ad esempio se Alessandro Magno deve affrontare o no il viaggio attraverso l'oceano; se i trecento spartani alle Termopili devono resistere o fuggire; se Cicerone deve o meno bruciare i propri scritti in cambio della salvezza dalla vendetta di Antonio.

Ebbe una forte tendenza alla galanteria, allo stile ammiccante all'erotismo, ad un certo ateismo di maniera, (rifiutò l'aiuto di Apollo o delle Muse per ispirare i suoi scritti) e l'indifferenza alla vita politica caratteristici della ricca gioventù dell'epoca, che certamente non piacquero ad Augusto, rispettoso degli Dei, della tradizione e della morale.

Ovidio è il più giovane dei poeti elegiaci ma si differenzia da loro in quanto, pur ribellandosi alle tradizioni tradizioni, usufruivano dei loro benefici, Ovidio rifiuta questa contraddizione, poiché rifiuta i valori rigidi della vecchia società per aprirsi alle mode del tempo, cercando di assecondare il gusto volubile del pubblico.
Pertanto propone nei suoi testi un'etica sessuale molto libera, come si può capire già dal titolo degli Amores, dove non c'è una sola donna al centro della narrazione e dirà egli stesso che una donna non gli basta, pur ammettendo che non sarebbe giusto. Non rimprovera né critica chi segue la morale tradizionale, ma lui non la segue.
L'amore non è l'unico tema dei suoi scritti, come l'elegìa non è l'unico genere letterario che usa.

Ovidio si sposa per tre volte: ma se, nei primi due casi, divorzia presto, ma ne ottiene la figlia Ovidia, a sua volta scrittrice e colta. Il terzo matrimonio avviene con Fabia, fedele consorte nella gioia e nel dolore, amata, si dice, teneramente fino alla fine. Comunque durante il suo esilio la moglie restò a Roma, il che fa porre in dubbio questo grande amore.

Gli affetti familiari non impedirono che Ovidio si dedicasse alla vita romana del tempo, mondana e salottiera. Lo scrittore ne diventò uno dei protagonisti, già famoso e ricercato a venti anni. giocano a suo favore La sua sensibilità, lo spirito arguto e la signorilità, che gli aprirono le porte dei salotti culturali romani. Forse anche sua moglie ci aveva preso gusto e non se la sentì di abbandonare gli agi di Roma.



poeta doctus
GLI STUDI

Si recò a Roma insieme al fratello Lucio (morto poi prematuramente), nel 31 a.c., all'età di 12 anni, e qui studiò grammatica e retorica presso grandi maestri, come Arellio Fusco e Porcio Latrone. Forse la famiglia voleva per lui una carriera forense e politica, secondo alcuni il padre premeva perchè diventasse comunque un oratore, ma Ovidio percepì che il suo destino era nella poesia, al punto che tutto ciò che tentava di dire, come egli stesso narra, lo esprimeva in versi  "et quod temptabam dicere versus erat".

Più tardi Ovidio, all'età di 18 anni, com'era costume di ogni erudito, andò ad Atene per approfondire gli studi, visitando durante il viaggio di ritorno le città dell'Asia minore; si recò anche in Egitto e per un anno soggiornò in Sicilia.



L'ESORDIO

"Presi un pugno di sabbia e glielo porsi, scioccamente chiedendo un anno di vita per ogni granello; mi scordai di chiedere che fossero anni di giovinezza."

Tornato a Roma, Ovidio intraprese la carriera pubblica, ma senza eccellere, divenendo uno dei decemviri stilibus iudicandis e dei tresviri, una sorta di polizia giudiziaria. Non aspirando al Senato, contrariamente al fratello e contro la volontà di suo padre, perseguì invece gli studi letterari venendo a contatto con il circolo di Messalla Corvino (filorepubblicano e poi filoaugusteo) e poi nel circolo di Mecenate (filoaugusteo), conoscendo i più importanti poeti del tempo: Orazio, Properzio, Gallo, Tibullo e, seppure per poco tempo, Virgilio. Qui Ovidio trovò amicizia, serenità e creatività poetica.

Ovidio esordì con una raccolta di elegie, Amores, in cinque libri, composta fra il 23 ed il 14 a.c. ed in seguito ridotta a tre libri. Vi si canta una donna  chiamata Corinna, che non si sa sia reale o meno. Compose poi una "summa" di lettere fittizie, le Heroides, scritte da donne leggendarie (Didone, Fedra, ecc.) ai propri innamorati, di ispirazione alessandrina che rispecchia l'evoluzione sociale femminile nel mondo romano dell'epoca. L'arte di amare gli ispirò tre opere: la famosa Ars amatoria, i Remedia, e un poemetto sui belletti femminili: De medicamine faciei feminae.

La vera ambizione di Ovidio era comunque quella di comporre un'epopea e dopo una Gigantomachia scrisse le Metamorfosi. Nei suoi quindici libri Ovidio muove dal caos primevo e segue la storia del mondo fino a Cesare. Forse lo muoveva una fede neopitagorica per cui il concetto di mutamento diventa il principio del divenire universale.



LE OPERE

"Io non avrei il coraggio di difendere costumi disonesti e di impugnare armi ingannatrici in difesa delle mie colpe. Anzi, confesso, se confessare i peccati può in qualche modo giovare; ma ora, dopo la confessione, ricado come un insensato nelle mie colpe"
(Amores, Libro Secondo)

Si dividono in tre gruppi: 

1) Opere giovanili o amorose:
  •  Amores, in tre libri: 49 carmi che narrano la storia d'amore per una donna chiamata Corinna (personaggio forse solo letterario), secondo lo stile e le convenzioni dell'elegia amorosa: il poeta è asservito alla domina, soffre per le sue infedeltà, è geloso degli altri ammiratori e contrappone la vita militare alla vita amorosa. Ma Ovidio non soffre drammaticamente come Catullo e mantiene sempre un certo distacco intellettuale: vede l'amore come un gioco ribaltando così i temi tradizionali, giungendo ad amare due donne contemporaneamente, chiedendo all'amata di non essergli fedele ma di nascondergli i tradimenti affinché lui possa fingere di non sapere.
  • Medea: tragedia a noi non pervenuta, ma lodata dai contemporanei.
  • Heroides: 21 lettere che Ovidio immagina scritte da eroine ai loro amanti. Tre lettere hanno anche la risposta da parte dell'uomo amato. Un filone totalmente nuovo: il filone erotico-mitologico che viene per la prima volta svolto in forma epistolare (forse in analogia con le suasoriae). Vi sono numerosi parallelismi con l'epica e con la tragedia, soprattutto nei monologhi delle eroine euripidee, con rivisitazioni e riscritture di alcuni miti (come nella lettera di Fedra a Ippolito, lettera di una scaltra seduttrice anzichè di una donna disperata).
  • Ars amatoria, in tre libri.
    "Quanto più amore mi trafisse,
    quanto più crudelmente m'arse, su di lui
    tanto più grande prenderò vendetta"

    Un capolavoro della poesia erotica latina in cui Ovidio si fa praeceptor amoris, con uno stile elegante e ironico. I primi due libri sono dedicati agli uomini, per la conquista della donna con le tecniche di seduzione, e come far durare l'amore. Il III libro  dà consigli alle donne, in cui l'oggetto della caccia non è più l'amore, ma il sesso. Ovidio consiglia di non innamorarsi, ma di giocare all'amore, perciò ammette anche il tradimento che è anzi incoraggiato: "fallite fallentes" (ingannate gli ingannatori), perchè tanto il tradimeno è sucuro. Ovidio specifica che non si riferisce al rapporto del matrimonio e neanche alle donne perbene, bensi alle liberte, alle schiave e alle cortigiane, menzionando tramite l'abbigliamento le donne che per statuto morale e sociale non possono accedervi, cioè le vestali e le fanciulle vergini, le sole che usassero bende di lana per cingere il capo e annodare sul collo. Le matrone invece usavano l'instita, che applicata alla parte posteriore della stola, scendeva fino a i piedi. Questi indumenti erano vietati alle cortigiane, alle libertae e alle libertinae, o schiave libere. In tal modo, ai lettori, che conoscevano queste usanze, giungeva chiaro il proposito del poeta, di rivolgersi soltanto alle donne libere, che fossero giovani o mature. Secondo Ovidio le donne giovani sono più esigenti e difficili da conquistare, mentre le donne in età più avanzata, sfiorite dal tempo, sono esse stesse a concedersi e a voler conquistare. Nonostante le precisazioni si sa bene che saranno le matrone a leggere il libro e che è alle matrone che esso si rivolge. Abbastanza per scandalizzare il moralizzatore Augusto.
  • Medicamina Faciei Feminae:  sui cosmetici delle donne, di cui sono pervenuti solo 100 versi: i primi 50 costituiscono il proemio, i successivi 50 propongono 5 ricette di creme da applicare sul viso.
  • Remedia amoris: 400 distici elegiaci per resistere all'amore o liberarsene.


2) Opere maggiori o della maturità 
  • Metamorfosi, in 15 libri di esametri. Il capolavoro di Ovidio, ultimato poco prima dell'esilio, contiene più di 250 miti di trasformazioni mitiche, dal Caos all'apoteosi di Cesare e Augusto. L'opera si chiude con una preghiera agli Dei, affinché preservino a lungo l'imperatore Augusto. Scritto in esametri, in quindici libri, vi si trova tutta la storia mitica greco-romana, ma riorganizzata da Ovidio in una serie di racconti concatenati da un ordine cronologico, anche se con eventi anteriori al fatto narrato o posteriori. Le storie si legano tra loro in base a rapporti familiari, parentele, affinità o diversità. Un racconto molto articolato, talvolta artificioso, con una straordinaria capacità di dare un filo logico alle storie più disparate. Sono storie di metamorfosi, in cui i personaggi "narrati" diventano narratori a loro volta intrecciando la propria ad altre vicende. L'opera ebbe un gran successo.
  • Fasti, in 6 libri. Avrebbe dovuto essere di 12 libri, uno per ogni mese dell'anno, ma Ovidio ne scrisse solo 6 (da gennaio a giugno) a causa dell'esilio. Un'opera di erudizione per illustrare le feste religiose e le ricorrenze del calendario romano introdotto da Cesare, dove Ovidio esponeva le cause mitiche delle cerimonie rituali, con aneddoti, episodi mitici di Roma, nozioni di astronomia, nonchè usanze e tradizioni popolari. Ma l'intento celebrativo rimane un po' freddo, mancando all'autore l'interesse storico, il sentimento religioso, e soprattutto il senso patriottico della grandezza di Roma.

3) Opere dell'esilio:
  • Tristia, in 5 libri di distici elegiaci ed Epistulae ex Ponto, in 4 libri. Ovidio riprende qui un tratto tipico della poesia elegiaca, il lamento. Ne derivano un centinaio di componimenti, raggruppati in questi 5 libri. Le elegie dei Tristia sono senza destinatario, mentre quelle delle Epistulae sono indirizzate a vari personaggi romani (tra cui la terza moglie del poeta, rimasta a Roma) affinché potessero intercedere presso l'imperatore per porre fine all'esilio o almeno trasferire il poeta in una località più vicina a Roma. Ma si tratta di elegie monotone e autocommiserative.
  • Epistulae ex Ponto, lettere poetiche indirizzate a vari personaggi romani.
  • Ibis, carme imprecatorio contro un anonimo avversario di Ovidio, prima suo amico e poi calunniatore.
  • Halieutica, poemetto sulla pesca nel Ponto.
  • Phaenomena, poema astronomico non pervenuto.

Inoltre carmi vari, a cui allude nelle Epistulae ex Ponto; sono: 
  • carme in lingua getica, in onore di Augusto e della famiglia imperiale (De Caesare);
  • carme, sempre in lingua getica, in onore di Tiberio, vincitore degli Illiri;
  • elogio funebre di Messalla Corvino;
  • epitalamio per le nozze dell'amico Paolo Fabio Massimo.

Opere erroneamente attribuite

Non sono di Ovidio, né il poemetto Nux di 182 versi (elegia in cui un noce si lamenta delle sassate che riceve ingiustamente dai passanti), né una Consolatio ad Liviam di 474 versi, carme consolatorio alla moglie di Augusto per la morte del figlio Druso, nel 9 a.c.



IL DECLINO

Nell'8 d.c., al culmine del suo successo, il poeta fu colpito da un ordine di Augusto, che non fu revocato nemmeno dal successore Tiberio, che lo relegava a Tomi, l'attuale Costanza, sulle coste del Ponto (il Mar Nero), colonia romana già sottomessa da Pompeo nel 64 a.c.. Si trattò, è vero, di una "relegatio" che, a differenza dell’ "exilium", non prevedeva la perdita dei diritti di cittadino e la confisca dei beni. nonostante le ripetute suppliche, sue e dei suoi amici, all'imperatore affinché fosse sottratto da quell'esilio a mezzo di genti barbare.

Secondo alcuni non furono i libri le cause del suo esilio, e le ipotesi  congegnate sono state le più assurde, non dettate dalla situazione ma a seconda delle simpatie nutrite verso Augusto e l'impero, senza alcun riferimento storico.

Nei Tristia, scrive:
"Perdiderint cum me duo crimina, carmen et error
alterius facti culpa silenda mihi"
"Due crimini mi hanno perduto, un carme e un errore:
di questo debbo tacere la colpa"

Il poeta dunque attribuisce l'esilio ad un carmen et error, ma tale vaga espressione ha favorito il proliferare di interpretazioni diverse, alcune probabili, altre più fantasiose, riguardo al possibile errore:

  • Ovidio avrebbe avuto illecite relazioni con l'imperatrice Livia Drusilla, cantata negli Amores con lo pseudonimo di Corinna;
  • si ipotizzò che Ovidio  avesse avuto una relazione con Giulia, figlia di Ottaviano e che Ottaviano si fosse vendicato, ma l'amante di Giulia era ampiamente conosciuto.
  • che avesse involontariamente assistito ad una scena incestuosa fra Giulia ed Ottaviano e questa denota solo un odio verso il personaggio di Augusto che fu uomo estremamente corretto e pulito.
  • sarebbe stato sospettato di favoreggiamento e forse di correità nelle relazioni di Giulia iunior, nipote di Augusto e moglie di Lucio Emilio Paolo, col giovane patrizio Decimo Bruto Silano; nello stesso anno, pure Giulia minore, nipote di Augusto, fu relegata nelle isole Tremiti, accusata di adulterio con un giovane patrizio.
  • avrebbe scoperto illeciti rapporti di Augusto a corte o avrebbe curiosato imprudentemente sulla condotta privata e sulle abitudini intime dell'imperatrice Livia;
  • avrebbe assistito a qualcuno degli sfoghi di ira a cui era soggetto Augusto, specialmente dopo il disastro di Publio Quintilio Varo;
  • avrebbe partecipato alla congiura di Agrippa Pòstumo, pretendente al trono contro Tiberio, sostenuto dalla madre Livia, o avrebbe difeso Germanico contro Augusto.
Nel "carmen" si allude evidentemente all’ "Ars amatoria", il suo trattato sull'amore libertino che, contemporaneamente alla condanna, venne ritirato dalle biblioteche pubbliche: trattato, evidentemente, in contrasto col programma augusteo di restaurazione morale dei costumi. Riguardo l’ "error", l'ipotesi più accreditata è che Ovidio sia stato coinvolto, come testimone o  complice, in uno scandalo di corte, che l'imperatore desiderava restasse segreto.
Se però si fosse trattato di uno scandalo l'esilio non avrebbe garantito ad Augusto la segretezza, e non gli sarebbe stato difficile farlo morire in modo poco visibile.

Sembra trattarsi piuttosto di una punizione a monito, per aver tentato di corrompere la moralità della famiglia e pure per essersi fatto beffe degli Dei che Augusto con tanta solerzia voleva ristabilire nei culti e nella fede. E visto che la fede pagana non venne mai obbligata presso la popolazione ma piuttosto favorita, l'imperatore doveva togliere dai salotti culturali di Roma un simile sobillatore di costumi.

Ma forse c'è di più, Ovidio scriveva ciò che faceva o cercava di fare, di certo amava le avventure e non solo con liberte o schiave, ma anche con affascinanti matrone. Se avesse osato sfiorare la famiglia di Augusto avrebbe avuto molto di più della relegatio, ma di certo avrà insidiato il talamo di qualche amico di Augusto, che di certo non approvava certe licenze, visto che neanche lui, e tanto meno Livia si consentivano. La relegatio è stata la punizione di tanta audacia.



LA MORTE

Morì a Tomi, oggi Costanza, nel 18 d.c., sotto il regno di Tiberio, dopo 10 anni di esilio.

Nel 1923, J.J. Hartmann propose una nuova teoria: che Ovidio in realtà non abbia mai patito la relegatio, e che il riferimento all'esilio sia il prodotto della sua fervida immaginazione. Questa teoria è stata sostenuta e respinta negli anni '30 del '900, soprattutto da autori olandesi.
Nel 1985, uno studio di Fitton Brown ha avanzato nuove argomentazioni a sostegno dell'ipotesi, con polemiche e confutazioni.. L'esilio in effetti non viene mai menzionato da Ovidio, e vi sono riferimenti ad esso nemmeno dagli storici che hanno trattato l'età di Augusto come Tacito o Svetonio. Le eccezioni, di poco posteriori alla morte di Ovidio, sono costituite da due brevissimi passaggi in Plinio il Vecchio, e in Stazio. Poi, più niente fino al IV secolo, con brevi menzioni in Girolamo e nell'Epitome de Caesaribus.
Oggi, tuttavia, la maggior parte degli studiosi ritiene poco credibili le ipotesi che negano la realtà dell'esilio di Ovidio.


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