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LATRINA ROMANA DI VIA GARIBALDI

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Nel 1963 alle pendici del Gianicolo si rinvennero, alla profondità di 4 m, due muri perpendicolari di un ambiente semipogeo, individuato come latrina. Dell'ambiente, orientato in senso NO-SE, si conservano soltanto due muri, in opera mista, tra loro ortogonali interrotti alle estremità. Infatti, la realizzazione del muraglione di sostegno, che sappiamo essere stato eretto nel 1605 quando fu sistemato anche l'accesso alla chiesa, causò evidentemente la perdita del lato est dell'ambiente e danneggiò le altre murature.

Lungo le pareti e sul lato sud, sull’attuale ingresso, sono visibili un canale, largo circa 0.40 m e profondo m 0.80, che corre su tre lati.

Esso ha il fondo rivestito di bipedali e le sponde di cocciopesto, per lo scorrimento dell’acqua, e costeggia una pavimentazione a mosaico geometrico in bianco e nero, decorato da un ottagono centrale con una stella a quattro punte, conservata in parte.

Tutta la parte est dell’ambiente, invece, era già andata perduta, probabilmente asportata o inglobata durante la costruzione del muraglione moderno del piazzale. Sicuramente l’ambiente doveva appartenere a un complesso più ampio.

Una canaletta anch’essa in cocciopesto, attualmente deteriorata, più piccola rispetto al precedente canale, destinata allo scorrimento di acqua pulita, corre parallela alle sponde del canale a ridosso della pavimentazione a mosaico: essa era destinata per la pulizie del servizio igienico e per immergervi le spugne immanicate utilizzate per l’igiene corporea (come riferito da Seneca e da Marziale).

I RESTI
Lungo le pareti, in corrispondenza del canale e a copertura di esso, erano disposti i sedili forati nella parte superiore. le sellae pertusae, generalmente in materiale lapideo, ma in questo caso, ipotizzabili in legno. Si trattava, probabilmente, di una serie di tavole mobili, poggianti sopra supporti collocati su sporgenze, le cui tracce sono conservate lungo il canale di scarico.

Di solito sul canale di scarico, dove scorreva perennemente l'acqua, erano disposti i sedili in pietra, in genere di marmo, detti sellae pertusae, forati nella parte superiore per ovvi motivi, ma qui non ne è stata rinvenuta traccia, per cui si ritiene che una serie di tavole mobili forate, disposte su supporti collocati probabilmente su sporgenze, di cui se ne conservano due lungo il muro ovest, costituissero i sedili.

Sul lato sinistro della parete di fondo, a ridosso della parete ovest, è visibile il vano di una porta, ora tamponata, comunicante con un secondo ambiente, non scavato.

Su questo lato l'intonaco dipinto è stato notevolmente danneggiato dai lavori di sottofondazione del muraglione della soprastante piazza. Per questo stesso motivo fu demolita la parte nord della pavimentazione a mosaico, danneggiando il canale di scolo, per far posto a due grossi pilastri di cemento che furono addossati al muro nord.

Le pareti affrescate presentano frammenti di una prima fase pittorica ornata da candelabri vegetali, di cui uno  sormontato da una piccola figura femminile alata. I due lacerti conservati, di elevata qualità tecnica, mostrano assonanze con modelli pittorici riferibili alla seconda metà del I sec. d.c., come ad esempio gli affreschi degli ambienti di via Genova a Roma.

È possibile pensare che solo in un secondo momento l’ambiente fu trasformato in latrina. In quest’occasione, il vano fu nuovamente intonacato e affrescato con una decorazione pittorica a schema geometrico, inquadrabile nell’ambito della pittura romana della prima metà del III sec. d.C., quando si diffuse uno stile detto «rosso e verde lineare».

Lo schema decorativo vede una divisione a registri sovrapposti e campi rettangolari delimitati da fasce di colore rosso giallo, verde e blu che inquadrano pannelli con al centro motivi decorativi di genere (ghirlande disposte ad arco e schematici cespi di foglie) dipinti in maniera piuttosto sommaria. A questi si aggiunge la raffigurazione di uno stambecco realizzato sicuramente da una mano diversa per qualità e per tecnica da quella del resto dell’affresco.

In base a confronti stilistici con altri edifici affrescati di Roma (ad esempio in via Eleniana, nella casa sotto la Basilica di S. Giovanni in Laterano, quelli della seconda fase del criptoportico della domus sulla Velia sotto il giardino del Pio Istituto Rivaldi), gli affreschi si possono attribuire a un arco di tempo compreso tra la seconda metà del II e i primi due decenni del III sec. d.c., periodo a cui dovrebbe risalire il cambiamento di destinazione di uso di un ambiente già esistente.

Quest’ultimo, sulla base della tecnica edilizia e dello stile pittorico degli affreschi rimasti, potrebbe risalire al periodo traianeo, al massimo ai primi anni di quello adrianeo. Di particolare interesse sono le numerose incisioni di natura spontanea, tracciate con le dita sull’intonaco ancora fresco, traslando in alcuni punti anche il colore, evidentemente appena steso, e raffiguranti quadrupedi, barche, falli, figure umane stilizzate, nonché iscrizioni.

Tra queste ve ne sono due in greco di contenuto osceno e una in latino, tracciata con uno stilo e con una grafia alquanto impacciata e in cui si legge:

pos tantas epulas et suava / vina / ut cunnum lingas / quo cula quo venter.

La massima, di natura salutistica, può essere tradotta: "dopo aver goduto dei piaceri della tavola è bene fare un salto qui prima di dedicarsi poi, leggeri, ai piaceri del sesso orale e anale". I romani erano spiritosi e amavano esprimersi sui muri.

Il problema è che nessuno può vederla, nè la scritta nè la latrina. La stradina per arrivarci è praticamente scomparsa e per accedere davanti a una porta di ferro, si deve percorrere un pericoloso sentiero sconnesso e privo di gradini o ringhiere.Come al solito i Beni artistici e culturali di Roma, dovrebbero riaprire il sito, scoperto nel 1963 e chiuso da tempo immemore.




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