Tomba di Nerone (al VI miglio della via Cassia - fine II secolo - inizio III secolo d.c.)
Come risulta dall’iscrizione orientata a favore della antica via e visibile dal lato opposto a dove scorre oggi la Cassia, si tratta del sepolcro del Prefetto Publio Vibio Mariano e della moglie Reginia Massima realizzato dalla loro figlia ed erede Vibia Maria Massima.
Venne detto Tomba di Nerone dopo che papa Pasquale II nel XII secolo ordinò di abbattere la vera tomba di Nerone, il sepolcro dei Domizi, ubicata dove ora sorge Santa Maria del Popolo.
Si pensa che questo papa fosse molto superstizioso e vedendo dei corvi volteggiare nei pressi della tomba dei Domizi ed in base ad altri casuali riscontri cabalistici dai quali si deduceva che Nerone si sarebbe reincarnato nell’Anticristo di cui narra Giovanni nell’Apocalisse, avesse deciso di farlo abbattere.
In realtà il cristianesimo avversò qualsiasi ricordo o affezione del passato romano, non a caso venne deposta la presunta urna di Giulio Cesare, la palla che sta al Palazzo dei Consevatori, perchè i pellegrini del Vaticano andavano là ad omaggiare il grande generale di Roma.
Infatti il popolo romano, che ancora amava la figura dell' Imperatore Nerone, in grazia dei sontuosi spettacoli che aveva sempre e generosamente offerto al popolo, era solito portare i fiori alla tomba il 9 Luglio, anniversario della morte di Nero.
Così il Papa ordinò di distruggere il monumento. La cosa però dispiacque molto al popolo che manifestò contro il capo della Chiesa con molto vigore.
Allora, per placare il malcontento popolare, venne artatamente diffusa la voce che le ceneri fossero state traslate in un mausoleo sulla Cassia, abbastanza lontano per sperare che cessasse la tradizione di portare i fiori sulla tomba al 9 di Luglio.
La speranza però restò disillusa, perchè i romani affrontarono il viaggio continuando ad omaggiare l'imperatore, e la cosa si protrasse talmente che ancora oggi la località che ospita il sepolcro si chiama "Tomba di Nerone"
L’epigrafe riporta:
D(iis) M(anibus) S(acrum)
P.VIBI [P.] F. MARIANI E.M.V. PROC.
ET PRAESIDI PROV. SARDINIAE P.P. BIS
TRIB. COH. II [PR.] XI URB. IIII VIG. PRAEF. LEG.
II ITAL. P.P. LEG. III GALL. [---] FRUMENT.
ORDIUNDO EX ITAL. IUL. DERTONA
PATRI DULCISSIMO
ET REGINIAE MAXIME MATRI
KARISSIMAE
VIBIA MARIA MAXIMA C.F. FIL. ET HER.
Sacro agli dei Mani
a Publio Vibio Mariano figlio di Publio eminentissimo uomo, Procuratore
e Presidente della provincia di Sardegna, due volte Pro Pretore,
Tribuno della Coorte X Pretoriana, XI Urbana, IV dei Vigili, Prefetto della Legione
II Italica, Pro Pretore della Legione III Gallica, Centurione dei Frumentarii,
oriundo dalla colonia italica Iulia Dertona
padre dolcissimo
e a Reginia Massima madre
carissima
la figlia ed erede Vibia Maria Massima ebbe cura di costruire.
GIOACCHINO BELLI
Nel 1831 Gioacchino Belli scrisse il sonetto, "un deposito", con soggetto la tomba; il poeta, come lui stesso spiega, da' voce al punto di vista del popolano rozzo e ignorante:
«Io qui ritraggo le idee di una plebe ignorante, comunque in gran parte concettosa ed arguta, e le ritraggo, dirò, col concorso di un idiotismo continuo, di una favella tutta guasta e corrotta, di una lingua infine non italiana e neppur romana, ma romanesca. Questi idioti o nulla sanno o quasi nulla: e quel pochissimo che imparano per tradizione serve appunto a rilevare la ignoranza loro: in tanto buio di fallacie si ravvolge. Sterili pertanto d’idee, limitate ne sono le forme del dire e scarsi i vocaboli.»
(Giuseppe Gioachino Belli, introduzione alla raccolta dei sonetti).
Ed ecco il sonetto del Belli:
Dove nasce la cassia, a mmanimanca, nò a ppontemollo, tre mmía piú llontano, ce sta ccome un casson de pietra bbianca
o nnera, cor P. P. der posa-piano.
Lí, a Rromavecchia, ha dditto l’artebbianca, ce sotterronno un certo sor Mariano, che mmorze de ’na palla in una scianca a la guerra indov’era capitano.
Duncue, o cqui er morto è stato sbarattato;
10e allora me stordisco de raggione
ch’er governo nun ciabbi arimediato.
O cchi ha scritto er pitaffio era un cojjone:
perché, da sí cch’er monno s’è ccreato,
questa è la sepportura de Nerone.
Lí, a Rromavecchia, ha dditto l’artebbianca, ce sotterronno un certo sor Mariano, che mmorze de ’na palla in una scianca a la guerra indov’era capitano.
Duncue, o cqui er morto è stato sbarattato;
10e allora me stordisco de raggione
ch’er governo nun ciabbi arimediato.
O cchi ha scritto er pitaffio era un cojjone:
perché, da sí cch’er monno s’è ccreato,
questa è la sepportura de Nerone.
L’iscrizione in latino è carica di abbreviazioni che la rendono di non semplice interpretazione o almeno con possibili sarcastici equivoci. Ad esempio "er P P der posa piano", dove essere un "PosaPiano, nel dialetto romanesco, indica una persona molto lenta e svogliata, termine tratto dal linguaggio dei trasporti dove è scritto Posa Piano per intendere di maneggiare con calma e attenzione.
Nonostante gli errori qualche popolano più acculturato riesce a darne una traduzione in fondo veritiera, secondo la quale, come racconta il fornaio (l’arte bianca), il sepolcro che si trova sulla Cassia, tre miglia dopo ponte Milvio (ponte mollo), risulterebbe d’un certo sor Mariano (il signor Mariano, Publio Vibio), capitano morto in guerra per una palla di fucile che lo ferì ad una coscia (lascianca).
Siccome però il monumento era noto come tomba di Nerone, il popolano, che si crede arguto ma è invece più ingenuo degli altri, arriva a pensare che o hanno scambiato il morto (er morto è stato sbarattato) o chi ha scritto l’epitaffio era un asino ignorante, perchè lo sanno tutti che quella è la tomba di Nerone.
Insomma, ci dice il Belli, nonostante l’epigrafe fosse ben visibile definendo in modo chiaro chi fosse il reale proprietario del monumento, lo sciocco popolino arrivava a pensare che si trattasse realmente della tomba di Nerone e che piuttosto l’epigrafe fosse sbagliata.
DESCRIZIONE
Si tratta di un sarcofago ad arca, con tetto a doppio spiovente ed acroteri angolari, interamente in marmo decorato con bassorilievi e posto su di un alto basamento originariamente rivestito di marmo e oggi rivestito in mattoni; lo stile delle sculture e dell’iscrizione, non raffinatissime ma comunque belle, lo fanno datare al III secolo d.c..