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CLAUDIO RUTILIO NAMAZIANO

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Nome: Claudius Rutilius Namatianus;
Nascita: Tolosa 414-415
Morte: -
Professione: Poeta e Politico


"… velocem potius reditum mirabere, lector, 
 tam cito Romuleis posse carere bonis. 
 Quid longum toto Romam venerantibus aevo! 
 Nil umquam longum est, quod sine fine placet". 

"…anzi, lettore, ti stupirai del veloce ritorno, 
che tanto rapidamente io possa privarmi dei beni di Roma.  
Cosa è lungo per chi onora Roma per tutta la vita ? 
Non dura mai troppo a lungo ciò che senza fine piace.  
Oh quanto e quante volte posso ritenere felici 
Quelli che per loro fortuna sono nati in questa terra feconda, 
e che, generosa stirpe dei grandi Romani, 
portano al più alto grado l’onore della nascita per la gloria della città.  
I semi di virtù caduti e trasmessi dal cielo 
non avrebbero potuto stabilirsi più degnamente in un altro luogo. 
Felici anche quelli che, dono quasi uguale al primo 
avuto in sorte, ottennero di abitare nel Lazio! 

La Curia venerabile si apre al merito dello straniero 
e non ritiene estranei quelli che sono degni di essere suoi. 
Godono del potere di quest’ordine e dei colleghi 
e così partecipano del Genio che venerano, 
come attraverso i poli eterei del mondo 
crediamo ci sia la forza unificatrice del sommo dio. 
Ma la mia sorte è strappata via dalla terra amata 
e richiamano i campi della Gallia chi lì è nato. 
Certo, troppo sono distrutti dalle lunghe guerre, 
ma, quanto meno belli, tanto più destano compianto. 

È una piccola colpa trascurare i propri conterranei, se sono in salvo: 
le sventure di tutti richiedono l’aiuto di ognuno. 
Presenti, dobbiamo lacrime ai tetti aviti, 
giova il lavoro suscitato spesso dal dolore; 
né è più oltre concesso ignorare le lunghe rovine, 
che il ritardo di un soccorso sospeso ha moltiplicato. 
E’ ormai tempo, dopo i furiosi incendi, nei fondi straziati 
di costruire almeno capanne di pastori. 
Che se le stesse fonti, anzi, potessero emettere voce, 
se i nostri alberi potessero parlare,   
potrebbero spingere con giusti lamenti me che mi attardo, 
e mettere vele al mio desiderio". 



LE ORIGINI

Nato forse a Tolosa, esponente dell'aristocrazia latifondista della Gallia, Damaziano fu praefectus urbi di Roma, carica prestigiosissima, nel 414, sotto Onorio.
Dopo aver trascorso l’infanzia in patria, seguì il padre in Italia, che aveva ottenuto la carica di governatore della Tuscia (l’odierna Toscana) e dell’Umbria, ma ben presto si trasferì a Roma per completare i suoi studi.

Nonostante fosse pagano, percorse una brillante carriera di funzionario statale alla corte cristiana di Onorio, il primo imperatore romano del solo Impero d’Occidente dalla morte del padre Teodosio I; raggiunse la carica di Magister Officiorum, nel 412 d.c. e quella di Praefectus Urbis nel 413-414.

L'altissima carica di Praefectus Urbis ne faceva un alto funzionario della burocrazia dell’Impero romano tardo-antico, in possesso di vasti poteri; poteva essere ricoperta solamente dai membri della classe senatoria ed era destinata ad amministrare e tutelare la città di Roma. Fu istituita da Augusto su suggerimento di Mecenate e colui che la ricopriva aveva tutti i poteri per garantire la pace e l’ordine, avendo la sovrintendenza di molte istituzione pubbliche con facoltà straordinaria di inviare a Roma i milites stationarii.

A Roma Rutilio frequentò gli ambienti dell’alta aristocrazia senatoriale con cui condivideva gli ideali patriottici e il sentimento religioso pagano. Soprattutto frequentò i circoli senatoriali dei Simmachi e dei Nicomachi, seguaci del paganesimo.

Infatti Virio Nicomaco Flaviano (334 – 394) fu un grammatico, storico e politico romano che collaborò con l'usurpatore Eugenio nell'ultimo tentativo di restaurare l'antica religione romana.
Quinto Aurelio Simmaco (340 -403), dell'aristocrazia senatoria pagana, ricoprì cariche di rilievo sotto diversi imperatori. Di lui si sono conservate: otto orazioni, e cinquanta lettere ufficiali inviate durante la sua prefettura , tra cui la famosa relazione III, in cui Simmaco si oppone alla rimozione dell'altare della Vittoria dal Senato che lo vide opposto ad Ambrogio da Milano.

Tra il 416 e il 418 tornò nella Gallia natia per provvedere ai possedimenti della famiglia. Suo padre, Lachanius, era stato proconsole in Toscana, e i Pisani gli avevano dedicato una statua in riconoscimento dei suoi buoni servigi.  Queste informazioni provengono dal libro stesso di Rutilio.
L'anno seguente o poco dopo fu costretto a lasciare Roma per far ritorno nei suoi possedimenti in Gallia devastata dall'invasione dei Vandali.

Si imbarcò a Portus, porto di Fiumicino, raggiungendo la sua terra tramite piccole imbarcazioni. L'opera è ricca di osservazioni topografiche e citazioni di classici latini e greci e sorge soprattutto dal grande disastro dall’agosto del 410 d.c.,quando i Goti di Alarico espugnarono e saccheggiarono Roma.

Rutilio viaggiò per fare ritorno ai suoi possedimenti in Provenza onde provvedere alle devastazioni provocate dal passaggio dei Goti.
Il viaggio, condotto per mare e con numerose soste sulla terra ferma, dato che le strade consolari erano impraticabili e insicure dopo l'invasione dei Goti. venne da lui descritto nel "De Reditu suo" (Il suo ritorno), un componimento in distici elegiaci, cioè un verso in esametro e uno in pentametro, giuntoci incompleto.

Infatti l'opera termina al LXVIII verso del II libro con l'arrivo di Claudio a Luni; ma recentemente è stato ritrovato un nuovo breve frammento che descrive la continuazione del viaggio fino ad Albenga. L'opera è un interessante documento di osservazioni topografiche nonchè ricca di citazioni di classici latini e greci.





LA RISCOPERTA

Il poemetto fu scoperto nel XV secolo, con grande dolore per  quando il clima di decadenza e di squallore sia artistica che culturale in cui versava l'ex impero per colpa sia dei Barbari che del trionfante Cristianesimo.

"Si sceglie il mare, perché le vie di terra, fradice in piano per i fiumi, sui monti sono
aspre di rocce: dopo che i campi di Tuscia, dopo che la via Aurelia, sofferte a
ferro e fuoco le orde dei Goti, non domano più le selve con locande, né i fiumi
con ponti, è meglio affidare le vele al mare, sebbene incerto….
…Salpiamo all’alba, in una luce ancora irrisolta, quando il colore, da poco
tornato sui campi,li lascia scorgere.
Tenendoci stretti alla costa avanziamo con piccole barche cui spesso la terra
a rifugio apra insenature.
D’estate escano in mare aperto le vele dei grossi carichi, d’autunno è più
cauto disporre di un’agile fuga"

Le notizie di stragi e invasioni avvenute in Gallia, nella zona dove aveva terre di proprietà, lo portarono a ritornarvi per sovrintendere l’opera di ricostruzione e dare una mano a riparare i danni.
Le invasioni dei Goti erano iniziate nel 410 con il saccheggio di Roma, poi salirono in Provenza e arrivarono fino nella penisola Iberica nel 415 d.c.
Nel novembre dell’anno 415 (alcune fonti parlano del 417) Rutilio partì da Ostia con una piccola flotta, organizzando una sorta di trasloco, costeggiando durante tutto il tragitto la coste dell’Italia e facendo frequenti scali nel Lazio, in Toscana e in Liguria, costretto a soste forzate dal maltempo.

Rutilio era pagano come una parte considerevole della società romana, sgomento dei disastri dell'impero, che attribuisce soprattutto alla nuova religione, con grande rimpianto delle vittorie e della religione degli Scipioni e dei Cesari. Egli adora la meravigliosa Roma pagana e odia il cristianesimo, erano le credenze ad influenzare le sue fortune politiche, per cui doveva coprire la sua avversione per la religione dominante.

Rutilio vede cadere intorno a sè le splendide dimore degli Dei, i monumenti di marmo, i templi e le basiliche, demoliti dall'intransigenza cristiana in contrapposizione alla civiltà e alla tolleranza romana che rispettava tutti credo del mondo, purchè venissero rispettati i diritti civili, che non voleva entrare nelle anime nè obbligarle a un credo che non piaceva.


Ancora una volta occorre sottolineare che la conversione al cristianesimo, nei primi tempi spontanea, fu poi obbligata dagli imperatori sotto pene severissime, morte compresa.
"Una volta vedevamo i corpi trasformarsi, ma ora le anime" grida esterrefatto. (Tunc mutabantur corpora, nunc animi!). A causa per la sua avversione al cristianesimo questo libro venne ignorato e tradotto unicamente in francese.

Namaziano fu l'ultimo autore del mondo letterario latino e pagano, prima che l'ombra nera del medioevo calasse sui fasti del passato impero.



DE REDITO SUO

Roma, ti dico addio,
Unica che abbia mai chiamato madre. 
Terra di gladiatori, sfarzo ed amor. 
I Penati prima della partenza bacio e 
Lacrime verso, allontanandomi dalla casa. 
Immenso il dolore di tornare in Gallia, che 
O, tu sai, Rutilio, non sarà mai Roma.


La maggioranza dei manoscritti di Rutilio esistenti deriva dall'antico manoscritto trovato nel monastero di Bobbio (Abbazia di S. Colombano), che durante l'Alto Medioevo Bobbio fu un importante centro culturale per la sua biblioteca o scriptorium, collegata con i vari monasteri sparsi in Italia e all'estero.
Il manoscritto venne poi del tutto ignorato fino a che il colto e intelligente generale Eugenio di Savoia ne entrò in possesso nel 1706.

Nel 1973 Mirella Ferrari trovò un frammento del poema nel manoscritto Torino F.iv.25, probabilmente parte di quello di Bobbio, che preserva 39 versi finali del secondo libro, il quale ha costretto i filologi a una rivalutazione non solo del testo ma della sua trasmissione.

Le principali edizioni da allora sono state quelle di : Barth (1623), P Bunyan (1731),Wernsdorf (1778), Zumpt (1840), Lucian Müller (1870), Vessereau (1904), ,Keene (1906). 

L'ultima e più completa edizione di Namaziano è di E. Doblhofer (Heidelberg, i, 1972; ii, 1977). Harold Isbell include una traduzione nella sua antologia, "L'Ultimo Poeta della Roma Imperiale" . Nel 2007, a dimostrare un sempre maggiore interesse per l'opera, è uscita un'edizione a cura di Wolff per  "Le Belle Lettere" che sostituisce quella classica di Vasserau.

Famoso è il celebre saluto a Roma (traduzione di Giosuè Carducci)


« Del tuo mondo, bellissima
regina, o Roma, ascolta;
ascolta, nell’empireo ciel accolta
madre, non pur degli uomini
ma dei celesti. Noi siam 
presso al cielo per i templi tuoi.
Ora te, quindi cantisi
sempre, finché si viva;
dimenticarti e vivere
chi mai potrebbe, o diva?
prima del sole negli uomini
vanisca ogni memoria,
che il ricordo, nel cuor, della tua gloria.
Già, come il sol risplendere
per tutto, ognor, tu sai.
Dovunque il vasto Oceano
ondeggia, ivi tu vai.
Febo che tutto domina
si volge a te: da sponde
romane muove, e nel tuo mar s’asconde.
Co’ suoi deserti Libia
non t’arrestò la corsa;
non ti respinse il gelido
vallo che cinge l’Orsa;
quanto paese agli uomini
vital, Natura diede,
tanta è la terra che pugnar ti vede.
Desti una patria ai popoli
dispersi in cento luoghi:
furon ventura ai barbari
le tue vittorie e i gioghi;
ché del tuo diritto ai sudditi
mentre il consorzio appresti,
di tutto il mondo una città facesti.»

(Claudio Rutilio Namaziano, DE REDITU SUO, libro primo)



LE TAPPE


Lo spettacolo della rovina di Roma è durissimo per l'autore che si aggrappa al mito dell'eterno imperium di Roma, la caput mundi che non può morire..
Riagganciarsi alla tradizione è come prolungare la vita di quella gloriosa Romanitas che il poeta vorrebbe assolutamente far vivere ancora.

 IL VIAGGIO DI RUTILIO
- I giorno - La prima tappa del viaggio è a Civitavecchia.
- II giorno - Di lì dopo breve sosta si imbarca di nuovo fino a Porto Ercole.
- III giorno -  Dopo aver veleggiato sotto costa nei pressi dell’Argentario e dell’isola del Giglio si ferma presso la foce dell’Ombrone.
- IV giorno - Una volta doppiata l’isola d’Elba, si ferma a Falesia.
- V giorno -  Si dirige verso Populonia, di cui descrive lo stato rovinoso. 
- VI giorno - Dopo 6 giorni di navigazione intravede i monti della Corsica, l’isola di Capraia e, quindi, sosta a Vada di Volterra.
- Ripartito raggiunge l’isola di Gorgona, quindi Triturrita dove sosta per incontrare un amico.
- Visita Pisa da dove, poi, ritorna a Triturrita e, per ingannare l’attesa legata al cattivo tempo partecipa a una caccia al cinghiale.
- Nel secondo libro si riprende il viaggio e la vista dell'Appennino lo porta a riflettere sulle difese naturali che non hanno impedito l’invasione gotica, a seguito del tradimento di Stilicone.

Interruzione brusca del racconto all’altezza di Luni.


"Baci e baci lasciamo sulle porte della città che dobbiamo abbandonare,
e i piedi controvoglia varcano le sacre soglie.
Con le lacrime imploriamo perdono, offriamo in sacrificio una lode
per quanto il pianto permetta alle parole di scorrere.
“Ascoltami, regina bellissima del mondo che è tuo,
Roma, accolta nelle volte stellate del cielo;
ascoltami, madre degli uomini, madre degli dei:
grazie ai tuoi templi non siamo lontani dal cielo. 

Te cantiamo e sempre, finché lo consentano i Fati, te canteremo:
nessuno può vivere e dimenticarsi di te.


 Potrà piuttosto un empio oblio sprofondare il sole 
prima che dal nostro cuore si spenga la lode per te. 
Tu infatti largisci doni pari ai raggi del sole 
dovunque fluttui l’ Oceano che ci circonda.
 Per te si volge lo stesso Febo che tutto in sé racchiude 
e dalle tue terre sorti, nelle tue terre nasconde i suoi cavalli. 
Te non fermò la Libia con le sue sabbie infuocate, 
non respinse l’Orsa armata del suo gelo: 
quanto la natura vivente si è estesa verso i poli, 
tanto la terra si è aperta al tuo valore. 

Hai fatto di diverse genti una sola unica patria; 
giovò ai popoli senza legge cadere sotto il tuo dominio. 
e offrendo ai vinti la partecipazione al tuo diritto 
un’ unica città hai fatto di ciò che prima era il mondo.
 Riconosciamo tuoi capostipiti Venere e Marte, 
la madre degli Eneadi, il padre dei Romulei. 
mitiga la forza delle armi la clemenza vincitrice, 
entrambi i nomi esprimono la tua essenza. 
Di qui la tua buona gioia del combattere e del perdonare: 
vince chi ha temuto, ama chi ha vinto. 

Si venerano colei che inventò l’olio, colui che scoprì il vino 
e il giovane che per primo solcò la terra con l’aratro; 
Ottenne la medicina altari per l’arte di Peone, 
anche Alcide divenne un dio per il suo valore. 
E tu che hai abbracciato il mondo con i tuoi trionfi che portano leggi, 
fai vivere tutto sotto un patto comune. 
Te, o dea, te celebra ogni angolo di terra romano, 
e sottomette il libero collo a un pacifico giogo 
Gli astri, che mantengono tutti le loro orbite eterne, 
mai hanno visto un impero più bello. 

Forse toccò alle armi assire mettere insieme qualcosa di simile, 
quando i Medi domarono i popoli vicini? 
I grandi re dei Parti e i tiranni macedoni, 
per alterne vicende, imposero gli uni agli altri le proprie leggi. 
E tu al tuo nascere non avevi più cuori e più braccia, 
ma più saggezza e più senno: 
con giuste cause di guerre e una pace non superba 
la tua nobile gloria è giunta alla massima potenza. 

Che tu regni conta di meno del fatto che meriti di regnare: 
superi con le tue imprese i grandi fati. 
Enumerare gli eccelsi monumenti con i loro molti trofei, 
è impresa di chi volesse contar le stelle, 
e gli sfolgoranti templi confondono gli occhi smarriti: 
potrei credere che così sono le dimore degli dei stessi."


DA GRECORIO SORGONA'

De Reditu – L’impossibile ritorno di Claudio Rutilio Namaziano


Questa opera di Claudio Bondì, passata pressoché sotto silenzio e realizzata con estrema economia di mezzi, ha il merito di mostrare come ancora si possano produrre lavori di qualità dal carattere storico senza ricorrere allo stile celebrativo così largamente in uso nella produzione cinematografica hollywoodiana e, più in generale, in tutte quelle forme di cinema che è soggetto ai condizionamenti delle lobby di potere. 

Il film si basa liberamente sulla principale opera poetica di uno degli ultimi scrittori pagani, il De reditu suo di Claudio Rutilio Namaziano, e ne segue il viaggio, pensato per terminare nella originaria terra di Gallia, lungo le campagne di un impero ormai andato in rovina e che Namaziano vorrebbe recuperare al suo ruolo storico attraverso un ultimo, disperato, tentativo di ribellione contro l’imperatore cristiano Onorio.

Il film mette al centro della sua riflessione il rapporto tra il mondo declinante della cultura pagana e la nuova religione, il cristianesimo, che dentro quel declino si inseriva da protagonista probabilmente agevolandone il crollo di fronte all’irrompere delle forze barbariche.

Il cammino di Namaziano lungo le coste dell’Italia centro-settentrionale ha alcuni tratti del viaggio di formazione, ma la formazione cui il nostro si avventura non ne cambia di una virgola le convinzioni profonde e il rimpianto di una era imperiale e gerarchica di cui sopravvivono i busti schiacciati a terra dall’iconoclastia della rivoluzione cristiana. 

Semmai la formazione e la verità cui il protagonista si approssima, ma troppo lentamente per poterla cogliere in pieno, è quella della illusorietà del proprio disegno politico, ma non del suo valore, tradito passo dopo passo da quegli stessi “eguali” – parenti o patrizi che siano – che hanno preferito l’assicurazione della propria esistenza, e il calcolo del rischio, al sogno di gloria di un eroismo romantico. 

Né, quindi, la figura dell’ex prefetto romano, ricercato dall’imperatore che ne reclama la testa, né, ancor meno, quella dell’elite patrizia subiscono delle forzose trasfigurazioni per renderli più graditi agli occhi di un presente purtroppo abituato alle schematizzazioni e alle contrapposizioni binarie, ma con estrema semplicità gli slanci eroici dell’individuo vengono tenuti insieme alle sue debolezze e alla miseria morale del contesto di appartenenza in cui agisce.


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