IL PORTO DI CAESAREA MARITIMA |
Un Porto è una struttura naturale o artificiale posta sul litorale marittimo, lacustre o fluviale, che consenta l'approdo, l'ormeggio e la protezione dalle tempeste ai mezzi marittimi, facilitando il carico e lo scarico di merci e di persone.
Nelle costruzioni di porti, moli, magazzini ecc. i Romani svilupparono una branca importante della loro grandiosa maestria di architetti ed edificatori, con tecniche straordinarie ed innovative, sia nell'ingegneria navale, che nell'ingegneria marittima e costiera.
In tutte le coste del Mediterraneo e dell’Oceano costruirono nuovi porti marittimi e fluviali, ristrutturando e ampliando i vecchi con la costruzione di moli, dighe e scali, non solo seguendo i canoni descritti da Vitruvio nel suo trattato sull’architettura, ma creandone di nuovi.
Ve ne sono ampie testimonianze su tutte le coste che appartennero all’impero romano, che tuttora custodiscono molti resti di porti e fari dell’antica Roma, in parte studiati e recuperati, in parte visibili solo sott'acqua, coperti dal mare per il lento fenomeno del bradisismo sul Tirreno che nasconde e mette a repentaglio opere d'arte incommensurabili.
La costa tirrenica è piena di moli, torri e resti di ville romane sulle spiagge, barbaramente distrutte dai vari palazzinari col beneplacito dei comuni e dello stato, o lasciate a a marcire sott'acqua per non salvare opere eccezionali come le ville imperiali di Posillipo.
Ma la maggior parte, ed è un bene, giace sepolta sotto terra o sotto le spiagge, perchè lo stato non reputa vantaggioso investire nell'archeologia, nonostante abbiamo un patrimonio apprezzato in tutto il mondo. Diciamo che è un bene perchè dall'Italia prendono il volo misteriosamente statue alte 4 m e mezzo, vedi la statua di Vibia, che pesano svariate tonnellate e che svaniscono dai musei senza che nessuno sappia nulla, come se un visitatore se le fosse messe sotto braccio e via fuori dal museo.
I TIPI DI PORTI
Portus era il porto edificato dall'uomo, e plagia gli approdi naturali, cioè tratti di costa favorevoli per il riparo e il rifornimento delle navi, prive di parti edificate. Di solito i porti nascevano e si sviluppavano accanto alle città, oppure accanto ad un santuario famoso, o iniziava come scalo commerciale di una vasta zona retrostante, e la città si sviluppava accanto ad essi.
Quando poi la città per ragioni di difesa,sorgeva nell'entro terra, a non grande distanza dal mare, il porto veniva realizzato sulla costa ad essa più vicina. Spesso poi la città importante sorgeva su un fiume, non troppo lontano dalla sua foce al mare. Così il commercio e il traffico in genere iniziava dal fiume per proseguire direttamente in mare.
Col tempo i porti si arricchirono di nuove strutture: l’ emporio per il commercio e l’arsenale per la costruzione, il ricovero e la manutenzione dei navigli, soprattutto da guerra. Queste strutture divennero così preziose da includerle dentro entro le mura della città stessa, salvandoli così dalle rapine dei pirati o dei nemici.
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Le infrastrutture dei porti come moli, banchine e ormeggi ebbero due importanti funzioni, una marittima e una militare. Con il perfezionamento della tecnica costruttiva dei Romani, questi poterono costruire i porti non solo dove il terreno li favoriva, ma anche del tutto artificialmente.
I Romani, infatti, rivoluzionarono l'edificabilità dei porti (e non solo), attraverso la costruzione di strutture monolitiche subacquee servendosi di una tecnica di invenzione romana: l’ opus caementicium. Questa permise loro di realizzare dighe solide di geometria variabile, anche curvilinea, a difesa di porti totalmente esterni.
Oggi le coste del Mediterraneo conservano numerose tracce di questa eredità, alcune delle quali sommerse o semisommerse; altre, invece, rioccupate e trasformate in età tardoantica, medioevale, rinascimentale, e talune ancora utilizzate.
IL PORTO DI LEPTIS MAGNA |
TECNICHE COSTRUTTIVE
Le tecniche costruttive ci vengono narrate da Vitruvuio ;le infrastrutture portuali. potevano essere costruite in tre “modi” fondamentali. Egli descrive la tecnica dell’impasto delle malte idrauliche, ottenute mediante l’impiego della calce mescolata con la pozzolana invece che con la sabbia. La qualità dell’impasto era dovuta all’utilizzo della pozzolana, pulvis puteolanus, d’origine vulcanica tipico sia dei Campi flegrei che dell'area tra Cuma e Sorrento.
1) Cassaforma mondata
Un primo tipo di cassaforma per malta idraulica veniva costruita direttamente in acqua: il iniziava col conficcare sul fondale dei pali verticali (destinae) che dovevano sostenere e ancorare la struttura al fondo marino. A questi pali verticali venivano collegate travi trasversali (catenae), per contenere le spinte esercitate dall’interno all’esterno dalla cassaforma mentre il cemento era ancora fresco..
Quindi, lungo il perimetro esterno di questi travi verticali e orizzontali, venivano serrati i tavolati che costituivano le pareti della cassaforma (arca), collegati alle catenae. All'esterno dei tavolati venivano posti altri travi, questa volta di quercia e obliqui, conficcati nel fondale (stipites), che fungevano da speroni per ulteriore contenimento delle spinte interno-esterno..
A questo punto, il cemento misto a pietre, calce e pozzolana, veniva gettato in acqua.dentro la cassaforma, come confermano le impronte delle assi di legno nei resti archeologici. Si procedeva poi per casseforme accostate.
2) Cassaforma stagnata
In assenza di pozzolana, Vitruvio suggerisce la cassa-forma stagnata, realizzata da pareti a doppia paratia con l’intercapedine riempita di argilla mista ad alghe di palude. Prima di introdurre il composto, la cassaforma doveva essere svuotata dall’acqua mediante una coclea (= vite di Archimede) e ruote acquarie, poi si lasciava asciugare per quanto possibile. Si procedeva poi allo scavo delle fondazioni e si riempiva il tutto con un conglomerato di sabbia e calce. Questo metodo sostituiva le lunghe murature dei moli, con la costruzione di pilae.
3) Costruzione a "blocchi prefabbricati"
Come si vede i blocchi prefabbricati non sono di ideazione moderna perchè già li aveva ideati Vitruvio. da far cadere in mare direttamente dalla terraferma o dal limitare delle banchine, per limitare l’avanzamento dell'acqua:
"Qualora invece, per via delle onde e della forza del mare aperto, le palificate non avessero potuto trattenere le casseforme, allora dalla terraferma o dalla banchina si costruisca quanto più solidamente possibile un basamento; questo basamento si costruisca in modo che abbia una superficie, per meno della metà in piano, e il resto, la parte verso la spiaggia, inclinata. Quindi, sul fronte a mare e sui lati si costruiscano al basamento degli argini, allo stesso livello della superficie in piano descritta sopra, larghi circa un piede e mezzo; poi l'inclinazione sia riportata con della sabbia alla quota dell'argine e del piano del basamento. Quindi sopra questo piano si costruisca un blocco, grande quanto si sarà stabilito; quando sarà pronto, lo si lasci a tirare per almeno due mesi. Allora si demolisca l'argine che contiene la sabbia; in questo modo la sabbia, dilavata dalle onde, provocherà la caduta in mare del blocco. Con questo sistema, ogni volta che servirà si potrà ottenere un avanzamento in mare"
(''Sin autem propter fluctus aut impetus aperti pelagi destinae arcas non potuerint continere, tunc ab ipsa terra sive crepidine puivinus quam firmissime struatur, isque puivinus exaequata strnatur planitia minus quam dimidiae partis, reliquum, quod est proxime litus, proclinatum latus habeat. Deinde ab ipsam aquam et latera puivino circiter sesquipedales margines strnantur aequilibres ex planitia, quae est su pra scritta; tunc proclinatio ea impleatur harena et exaequetur cum margine et planitia puivini. Deinde insuper eam exaequationem pila, quam magna constituta faerit, ibi strnatur; eaque cum erit extrurta, relinquatur ne minus duos menses, ut siccescat. Tunc autem succidatur margo, qune sustinet harenam; ita harena fluctibus subruta efficiet in mare pilue praecipitationem. Hac ratione, quotienscumque opus fuerit, in aquam poterit esse progressus.'')
(Vitruvio - De architectura (V, XII)
4) Altri metodi
Accanto all'uso dell’opus caementicium vi fu però anche quello classico greco dei blocchi di pietra rafforzati però con la malta, come si usò ad esempio per il porto di Leptis Magna in Libia.
Oppure venivano costruite delle casseforme in blocchi di pietra riempite con gettate cementizie, come si è notato in diversi restauri condotti dai Romani in strutture portuali greche.
In altri siti gli impianti portuali venivano scavati direttamente in banchi rocciosi: come ad esempio nel porto di Ventotene.
Alcune strutture invece vennero costruite totalmente in legno, in ambiente fluviale e lacustre; con casseforme lignee riempite di terra e detriti, come ad esempio nel porto di Marsiglia in Francia.
Le opere in cementizio furono comunque le più utilizzate grazie alla facilità di assemblaggio delle casseforme lignee che, appoggiandosi a strutture già solide, si potevano adoperare casseforme con solo tre o due lati, a volte anche con una sola parete; praticamente una costruzione di moli a moduli
I MOLI
RESTI DI UN MOLO ROMANO A SAN CATALDO |
I moli potevano essere esterni ed interni.
I moli esterni, in genere protetti da blocchi di cemento o da grandi pietre frangiflutti servivano per proteggere dalle onde. I moli interni e le banchine servivano per attraccare le navi e consentire di salire e scendere o caricare e scaricare.
LE BANCHINE
La Banchina portuale è quella parte del porto o della rada prospiciente all'acqua che permette di accostare in sicurezza alla terraferma navi o natanti e fissarli per l'imbarco e lo sbarco delle persone o delle merci al riparo del moto ondoso. Può essere realizzata in cemento armato o in legno. Per consentire l'ormeggio, la banchina è attrezzata con anelli di ormeggio.
LE DARSENE
La darsena, nei porti militari o mercantili, è uno specchio d'acqua interno al porto, limitato da dighe e banchine, attrezzato per il ricovero di navi in avaria o in disuso. Di ampio uso già in epoca romana, non mancava mai nei grandi porti..
LE DIGHE FORANEE
Una diga foranea è un'opera di sbarramento prospiciente un porto, onde proteggere la costa smorzando l'intensità del moto ondoso ma può anche avere il compito di garantire protezione militare. Veniva usata in alternanza ai moli. Le dighe foranee sono di solito costruite sul mare, ma ne esistono anche di lacustri.
Il termine foranea indica la natura della costruzione, che attiene al porto ma si trova al di fuori di esso. La diga foranea era già conosciuta ed applicata in epoca romana, e ne è stata reperita una attinente al porto di Rimini
PORTO DI PUTEOLI TRATTO DA UN AFFRESCO ROMANO |
IL PORTO DI PUTEOLI
Tra le installazioni portuali romane, una delle più rappresentative della capacità tecnica dei Romani è certamente quella di Pozzuoli, l’antica Puteoli.
La buona posizione geografica e la vicinanza con Roma, permisero alla città flegrea di diventare, nel giro di pochi anni, il principale porto di Roma.
Divenne infatti tappa obbligata delle merci provenienti dall’Oriente e, successivamente, dai mercati occidentali.
Ai piedi dell’attuale Rione Terra il porto si divideva in due parti: a sud, i bacini, dove ancora oggi con mare calmo e limpido si intravedono i resti sommersi di una doppia fila di pilae che dovevano servire da strutture frangiflutti e, a nord, lo scalo vero e proprio, l’emporium. cioè i magazzini per lo stoccaggio, i mercati e le taverne, aperto sul mare ma protetto contro i venti di scirocco dal cosiddetto molo “caligoliano”.
Tale struttura era costituita da almeno quindici pilastri (pilae) costruiti in opera a getto cementata con la pozzolana mista a mattoni e piccole pietre di tufo amalgamate nel cementizio o solo tufo e cementizio e collegati da arcate.
Queste sono edificate col medesimo materiale adoperato per i piloni salvo le grandi pietre o mattoni degli archivolti; la larghezza del molo era di circa 15 metri e la lunghezza complessiva di 372 metri. La struttura si concludeva con un arco di trionfo e forse un faro, così come viene rappresentato nell’iconografia antica.
PORTO DI CLAUDIO AD OSTIA |
IL PORTO DI CLAUDIO DI OSTIA
Il porto ostiense di Claudio, inaugurato nel 64 d.c., è rappresentato nelle monete battute in occasione dell’inaugurazione della struttura ai tempi di Nerone. Purtroppo ci sono diverse raffigurazioni dello stesso soggetto, ma ciononostante si riesce a farsi un’idea della struttura generale.
Il bacino portuale è racchiuso a sinistra da un braccio su cui poggiano edifici e un portico a volte, che rappresenta probabilmente un fronte di fabbricati di servizio portuale, simile a quelli che si scorgono su altre monete e che compaiono nelle stesse illustrazioni della Tabula; in un altro moneta con lo stesso porto rappresentato, si nota che il lato sinistro si trasforma in un portico colonnato, mentre il braccio destro ha l''aspetto di molo ad arcate.
Il bacino portuale, di circa 150 ettari, fu scavato in parte nella terra ferma, in parte racchiuso verso mare da due moli curvilinei convergenti verso l’ingresso. Qui, su un’isola artificiale, sorgeva un gigantesco faro, simile al celebre faro di Alessandria d’Egitto, che segnalava ai naviganti l’ingresso del bacino. Almeno due canali artificiali (le fossae ricordate da un’iscrizione del 46 d.c.) assicuravano il collegamento tra il mare, il porto di Claudio e il Tevere.
Il bacino portuale, di circa 150 ettari, fu scavato in parte nella terra ferma, in parte racchiuso verso mare da due moli curvilinei convergenti verso l’ingresso. Qui, su un’isola artificiale, sorgeva un gigantesco faro, simile al celebre faro di Alessandria d’Egitto, che segnalava ai naviganti l’ingresso del bacino. Almeno due canali artificiali (le fossae ricordate da un’iscrizione del 46 d.c.) assicuravano il collegamento tra il mare, il porto di Claudio e il Tevere.
Le fondazioni del molo destro (o settentrionale) sono ancor oggi visibili alle spalle del Museo delle Navi per un’estensione di circa un chilometro verso occidente. Mentre sulla banchina che delimitava il bacino portuale verso terra sono visitabili alcune delle strutture portuali come la Capitaneria di porto, una cisterna e degli edifici termali, tutte realizzate, però, in un’epoca posteriore (II sec. d.c.) all’impianto di Claudio.
IL PORTO TRAIANO DI OSTIA
Dopo la costruzione del Porto di Claudio, le accresciute esigenze di rifornimento di Roma imposero la realizzazione di un nuovo bacino portuale costruito dall’Imperatore Traiano fra il 110 ed il 114 d.c.
Il nuovo porto di forma esagonale fu collegato con un nuovo canale al Tevere in modo da facilitare il trasferimento delle derrate a Roma.
Vennero mantenuti il faro e i due canali già realizzati per il porto di Claudio per alleggerire l’efflusso del Tevere e impedire l’impaludamento in caso di alluvione.
Il nuovo porto di forma esagonale fu collegato con un nuovo canale al Tevere in modo da facilitare il trasferimento delle derrate a Roma.
Vennero mantenuti il faro e i due canali già realizzati per il porto di Claudio per alleggerire l’efflusso del Tevere e impedire l’impaludamento in caso di alluvione.
Il centro della nuova struttura fu il bacino esagonale (Portus Traiani), scavato nella terraferma, con una diagonale di 716 m e lati di 357, che consentiva l'ormeggio a circa duecento naves onerariae di diversa stazza; la profondità di almeno cinque m e la decantazione operata dal più antico ed esterno bacino di Claudione ne rendevano difficile l’interramento. Considerando anche le banchine, la darsena e il nuovo canale scavato da Traiano, vi potevano trovare sicuro approdo quasi quattrocento imbarcazioni da carico.
VISTA GENERALE DEL PORTO |
In qualità di porto importante divenne, per le numerose possibilità di lavoro, un centro abitato di Portus, con monumentali edifici pubblici e grandi caseggiati a più piani. Entrate le navi nel bacino, le merci venivano stoccate in enormi magazzini spesso muniti di portici (horrea, con una capienza stimata fra le 1600 e le 2430 tonnellate di grano) per poi essere avviate a Roma via fiume, oppure trasbordate direttamente sulle piccole imbarcazioni (caudicariae) che risalivano il Tevere sino al cuore dell’Urbe, di norma trainate controcorrente da pariglie di buoi.
Il successo del Portus Urbis, oltre ai nuovo ampliamenti volute da Traiano a Centumcellae (Civitavecchia) e Terracina, portarono al declino di Puteoli (Pozzuoli). La costa oggi dista circa 3 Km dall’impianto antico di Portus, che si trova stretto in mezzo alle infrastrutture dell’Aereoporto, ae i percorsi stradali e autostradali, all’avanzamento dell’urbanizzazione. In questo contesto, l’area archeologica costituisce un’oasi archeologica e naturalistica. immersa nel verde.
Il successo del Portus Urbis, oltre ai nuovo ampliamenti volute da Traiano a Centumcellae (Civitavecchia) e Terracina, portarono al declino di Puteoli (Pozzuoli). La costa oggi dista circa 3 Km dall’impianto antico di Portus, che si trova stretto in mezzo alle infrastrutture dell’Aereoporto, ae i percorsi stradali e autostradali, all’avanzamento dell’urbanizzazione. In questo contesto, l’area archeologica costituisce un’oasi archeologica e naturalistica. immersa nel verde.
La città antica si estendeva per circa 65 ettari, ma la zona oggi di proprietà demaniale, di soli 32 ettari, comprende solo una parte della città antica di Portus essendo l’esagono e tutto il suburbio ancora in proprietà privata. Esso comprende le mura di V sec., i magazzini di Claudio e di Traiano, la Darsena antica e i magazzini della fase Severiana fino al grande Bacino Esagonale.
Ma ci chiediamo: come mai il comune non ha espropriato una zona così importante dal punto di vista storico e soprattutto archeologico, rischiando che venga totalmente scavata dagli abusivi, come sicuramente è già avvenuto?
IL PORTO DI ANZIO
Come narra Svetonio, l’imperatore Nerone, nativo di Anzio, dedusse nella città una colonia di veterani e vi fece costruire un porto, spendendo enormi somme. Le imponenti rovine di esso divennero materia di ricerca e di interesse antiquario quando, alla fine del 1600, il papa Innocenzo XII intraprese l’edificazione del porto moderno. Infatti lo installò su parte dell’impianto antico, del quale riutilizzò alcune strutture murarie.
Il bacino principale era costituito da due moli convergenti, ciascuno ancorato ad un promontorio naturale: quello sul quale sorge il Faro, verso ovest e quello dove si trova il belvedere di Villa Albani, verso est.
Il molo orientale era perpendicolare alla riva, mentre il molo occidentale formava una curva sopravanzando la testata del molo orientale, a proteggere la bocca orientale del porto.
Le rovine dei moli sono conservate in mare ad una profondità variabile fra 1 e 8 m; all’estremità verso terra della banchina occidentale è ancora visibile una platea in calcestruzzo con le cosiddette “grotte”, i resti di una serie di ambienti comunicanti fra loro, costruiti a ridosso delle pareti del promontorio.
Della banchina orientale rimangono due grossi blocchi, uno è montato dal molo moderno, l’altro, staccatosi, si trova in mare, di poco emergente dal pelo dell’acqua. Le strutture murarie del porto sono costruite in opera cementizia, di scapoli di tufo e malta di calce e pozzolana. Era quest’ultimo elemento a rendere la malta idraulica, ovvero capace di solidificare in acqua.
Su tutti i ruderi si notano un grande numero di cavità lasciate nell’opera cementizia dai legnami usati nella fabbricazione. Il calcestruzzo, infatti, è stato gettato entro cassaforme di legno, con le pareti di assi tenute insieme da pali piantati nel fondale, ai quali erano legate travi orizzontali. Talvolta è stata accertata la presenza di altri pali verticali, piantati lungo il perimetro esterno della cassaforma. Le parti delle banchine emergenti furono realizzate in muratura con paramento di mattoni.
La planimetria del porto era articolata in due moli affiancati, del quale l’orientale (più piccolo) è stato in seguito occupato dal porto di Innocenzo XII. A delimitazione della baia ad est del bacino principale era un ulteriore molo dell’età di Nerone, al quale si ancorò nel XVIII secolo il cosiddetto Moletto Panfili, attualmente sepolto dalle banchine della “Riviera di Levante”.
IL PORTO DI EMPORIUM (Testaccio)
A Roma esistevano naturalmente anche i porti fluviali sul Tevere. Nel II secolo a.c. l'Urbe si era decisamente arricchita e ingrandita, che il vecchio porto fluviale del Foro Boario non era più sufficiente. Così nel 193 a.c. gli edili Marco Emilio Lepido e Lucio Emilio Paolo fecero edificare un nuovo porto a sud dell'Aventino.
IL PORTO DI AQUILEIA
Subito dopo la fondazione della colonia romana nel 181 a.c. di Aquileia, il suo porto svolse un ruolo fondamentale nei commerci marittimi dell’area del nord Adriatico, soprattutto grazie alla sua posizione geografica che lo collocava come naturale apertura al mare. La presenza di un fiume navigabile è stato un elemento determinante per la scelta del luogo in cui fondare la colonia di Aquileia; infatti la costruzione di punti di approdo fu pressoché contemporanea alla creazione della città.
Il canale Anfora, chiamato così dal Medioevo per le anfore ritrovatevi, era collegato alla portualità di Aquileia poiché congiungeva la sua zona occidentale con il mare, rendendo possibile la risalita delle barche tramite l'alaggio: le imbarcazioni erano trascinate con funi lungo tragitti costruiti appositamente, le viae helciariae, qualora non fosse possibile sfruttare la forza del vento e le maree.
Il bacino del porto era formato dalla confluenza di due corsi d’acqua, e la rete di canali artificiali unita ai corsi fluviali presenti rese facile nell'antichità il collegamento con il mare e probabilmente consentì la circumnavigazione della città.
Durante gli scavi Giovanni Brusin ha scoperto delle strutture probabilmente databili all’età repubblicana, coperte dalle costruzioni del porto monumentale: due fasce di lastricato e tre gradini che risalgono verso il fiume, la prima sistemazione delle rive, e delle tavole sostenute da pali di legno, i primi tentativi di arginare il fiume.
Si giunge al porto fluviale percorrendo la via Sacra, posta nell’alveo del fiume e lunga circa un km, creata con la terra di risulta degli scavi e lungo la quale sono stati collocati resti architettonici e monumentali. Il porto, scoperto nella parte orientale della città, ha un bacino largo 48 m e dista dal mare circa 10 km;
La sistemazione del porto monumentale risale probabilmente alla fine del I sec. d.c. Giovanni Brusin l'aveva ipotizzato studiando i moduli dei mattoni, riferibili all'età di Claudio per la struttura e anche per la fama di questo imperatore in campo di impianti portuali. La banchina della sponda occidentale del porto è lunga 380 m ed è costituita da lastre verticali in pietra d’Istria.
Vi è un primo piano di carico sovrapposto a questi lastroni e composto da blocchi con grandi anelli di ormeggio a foro passante verticale; il secondo piano di carico, 2 m più in basso, è costituito da un marciapiede lastricato largo circa 2 m e fornito di anelli di ormeggio a foro passante orizzontale.
Due diversi piani di carico rendevano possibile accogliere imbarcazioni di stazza grande o piccola, e l'utilizzo anche nei periodi di bassa marea. Dalla banchina partono tre vie di accesso alla città che conducono ognuna ad un diverso decumano:
La riva orientale del porto La riva orientale è stata scavata per un breve periodo negli anni Trenta e ne sono stati riportati alla luce poco più di 150 m, anche perché ad un certo punto la struttura si itnerrompe. La banchina è molto stretta e composta da parallelepipedi di pietra, vi si notano solo quattro scalinate inserite nel muro e alcune pietre di ormeggio; dietro sono situati degli edifici, possibili magazzini o uffici.
Probabilmente nel 361, quando la città si schierò con Costanzo II e fu assediata da Giuliano l’Apostata, il fiume fu deviato per motivi strategici e di conseguenza la portata d’acqua diminuì. Queste opere provocarono poi un’alluvione, che fu la causa dell’abbandono del quartiere orientale.In epoca tardo-antica, verso la fine del IV secolo, furono realizzate altre opere difensive e di queste mura è stato ritrovato il lato orientale sulla banchina, costruite in grande fretta, con materiali di recupero. Nel periodo che va dal IV al VI secolo d.c.., Aquileia era il porto principale dell'alto Adriatico all'inizio, mentre sembra essere del tutto scomparso alla fine di quest'epoca.
Il complesso ha forma quadrata, con il lato di circa 150 m, composto da due parti collegate tra loro con ambienti porticati, corridoi e absidi disposti intorno ad un cortile in lastre di arenaria, quadrato nella parte settentrionale, rettangolare nell’altro; si può ipotizzare che alcuni di questi ambienti fossero usati come magazzini o come uffici.
I magazzini sono situati a sud della Basilica e sono horrea, cioè magazzini di grano, in seguito al ritrovamento di alcuni strati di grano bruciato. L’edificio è rettangolare, di circa 90 m per 66, ed è costituito da due spazi allungati separati da un cortile centrale. Probabilmente la copertura del magazzino era sorretta da pilastri.
Nella parte settentrionale si trovavano gli accessi dal cortile centrale e la comunicazione tra le due ali del magazzino, mentre nella parte meridionale si trovava un corridoio trasversale. Questo edificio sottolinea anche le grandi capacità dei costruttori romani verso la fine del III secolo d.c. poiché aveva spessi muri perimetrali che raggiungevano i 2 m e profonde fondamenta, di almeno 5 metri profonde.
IL PORTO DI MISENO
In latino Sinus Militum, era un porto naturale nel golfo di Napoli, in realtà un antico cratere vulcanico, già porto cumano nel IV sec. a.c., che divenne importante con la impraticabilità del Portus Iulius, nella baia di Puteoli, utilizzato all'epoca da Ottaviano e Agrippa durante la guerra contro Sesto Pompeo
PORTO DI ANZIO |
Come narra Svetonio, l’imperatore Nerone, nativo di Anzio, dedusse nella città una colonia di veterani e vi fece costruire un porto, spendendo enormi somme. Le imponenti rovine di esso divennero materia di ricerca e di interesse antiquario quando, alla fine del 1600, il papa Innocenzo XII intraprese l’edificazione del porto moderno. Infatti lo installò su parte dell’impianto antico, del quale riutilizzò alcune strutture murarie.
Il bacino principale era costituito da due moli convergenti, ciascuno ancorato ad un promontorio naturale: quello sul quale sorge il Faro, verso ovest e quello dove si trova il belvedere di Villa Albani, verso est.
Il molo orientale era perpendicolare alla riva, mentre il molo occidentale formava una curva sopravanzando la testata del molo orientale, a proteggere la bocca orientale del porto.
Le rovine dei moli sono conservate in mare ad una profondità variabile fra 1 e 8 m; all’estremità verso terra della banchina occidentale è ancora visibile una platea in calcestruzzo con le cosiddette “grotte”, i resti di una serie di ambienti comunicanti fra loro, costruiti a ridosso delle pareti del promontorio.
Della banchina orientale rimangono due grossi blocchi, uno è montato dal molo moderno, l’altro, staccatosi, si trova in mare, di poco emergente dal pelo dell’acqua. Le strutture murarie del porto sono costruite in opera cementizia, di scapoli di tufo e malta di calce e pozzolana. Era quest’ultimo elemento a rendere la malta idraulica, ovvero capace di solidificare in acqua.
Su tutti i ruderi si notano un grande numero di cavità lasciate nell’opera cementizia dai legnami usati nella fabbricazione. Il calcestruzzo, infatti, è stato gettato entro cassaforme di legno, con le pareti di assi tenute insieme da pali piantati nel fondale, ai quali erano legate travi orizzontali. Talvolta è stata accertata la presenza di altri pali verticali, piantati lungo il perimetro esterno della cassaforma. Le parti delle banchine emergenti furono realizzate in muratura con paramento di mattoni.
La planimetria del porto era articolata in due moli affiancati, del quale l’orientale (più piccolo) è stato in seguito occupato dal porto di Innocenzo XII. A delimitazione della baia ad est del bacino principale era un ulteriore molo dell’età di Nerone, al quale si ancorò nel XVIII secolo il cosiddetto Moletto Panfili, attualmente sepolto dalle banchine della “Riviera di Levante”.
TESTACCIO (Roma) |
IL PORTO DI EMPORIUM (Testaccio)
A Roma esistevano naturalmente anche i porti fluviali sul Tevere. Nel II secolo a.c. l'Urbe si era decisamente arricchita e ingrandita, che il vecchio porto fluviale del Foro Boario non era più sufficiente. Così nel 193 a.c. gli edili Marco Emilio Lepido e Lucio Emilio Paolo fecero edificare un nuovo porto a sud dell'Aventino.
Nel 174 a.c. l'Emporium venne lastricato in pietra e fu suddiviso da barriere con scalinate che scendevano al Tevere. Qui approdavano le merci, soprattutto marmi, grano, vino, olio, che, arrivate via mare dal porto di Ostia, risalivano il Tevere su chiatte rimorchiate dai bufali (alaggio).
Il porto lavorò a così alto ritmo che i cocci di anfore che si rompevano nello stoccaggio, erano talmente tanti da venir accumulati a collina, formando il Mons Testaceum, il "Monte dei cocci", Il numero delle anfore accatastate è stimato attorno ai 25 milioni e la collina è alta 54 metri..
Sotto Traiano le strutture furono rifatte in opera mista. Il porto era principalmente costituito da banchine con piani inclinati, scale, anelli per ormeggio. Trattavasi di "ripae" costruite lungo gli argini del fiume. In correlazione ad esse si trovavano i magazzini ("horrea", "cellae") per lo stoccaggio delle merci. soprattutto nella pianura del Testaccio. Sorsero così i magazzini annonari, per le distribuzioni gratuite di grano e altri generi alimentari alla popolazione cittadina, con l'Horrea Sempronia, Galbana, Lolliana, Seiana, e Aniciana.
MONTE DEI COCCI (Roma) |
Il porto fu scavato nel 1868-1870 durante i lavori di riarginatura e di nuovo per la costruzione del Palazzo dell’Anagrafe negli anni 1936-1937, che rivelarono un quartiere di magazzini di età traianea, costruiti interamente in laterizio e travertino. Resti simili sono stati scoperti sull’altro lato della strada (ancora visibili nei cortili degli edifici moderni).
Tutto questo complesso riguarderebbe un rifacimento imperiale degli (Horrea) Aemiliana, magazzino annonario edificato da Scipione Emiliano nel 142 a.c., che dovette servire soprattutto come deposito del grano destinato alle distribuzioni gratuite alla plebe romana.
Altri scavi risalgono al 1952, poi, stranamente, più nulla. Dei resti del porto sopravvivono il "Monte dei Cocci" e alcuni tratti visibili incassati nel muraglione del Lungotevere Testaccio: una banchina lunga circa 500 metri e profonda 90 con gradinate e rampe verso il fiume, con blocchi di travertino sporgenti per fori dove ormeggiare le navi.
RIVA ORIENTALE DEL PORTO DI AQUILEIA |
IL PORTO DI AQUILEIA
Subito dopo la fondazione della colonia romana nel 181 a.c. di Aquileia, il suo porto svolse un ruolo fondamentale nei commerci marittimi dell’area del nord Adriatico, soprattutto grazie alla sua posizione geografica che lo collocava come naturale apertura al mare. La presenza di un fiume navigabile è stato un elemento determinante per la scelta del luogo in cui fondare la colonia di Aquileia; infatti la costruzione di punti di approdo fu pressoché contemporanea alla creazione della città.
Il canale Anfora, chiamato così dal Medioevo per le anfore ritrovatevi, era collegato alla portualità di Aquileia poiché congiungeva la sua zona occidentale con il mare, rendendo possibile la risalita delle barche tramite l'alaggio: le imbarcazioni erano trascinate con funi lungo tragitti costruiti appositamente, le viae helciariae, qualora non fosse possibile sfruttare la forza del vento e le maree.
Il bacino del porto era formato dalla confluenza di due corsi d’acqua, e la rete di canali artificiali unita ai corsi fluviali presenti rese facile nell'antichità il collegamento con il mare e probabilmente consentì la circumnavigazione della città.
Durante gli scavi Giovanni Brusin ha scoperto delle strutture probabilmente databili all’età repubblicana, coperte dalle costruzioni del porto monumentale: due fasce di lastricato e tre gradini che risalgono verso il fiume, la prima sistemazione delle rive, e delle tavole sostenute da pali di legno, i primi tentativi di arginare il fiume.
IL PORTO FLUVIALE |
La sistemazione del porto monumentale risale probabilmente alla fine del I sec. d.c. Giovanni Brusin l'aveva ipotizzato studiando i moduli dei mattoni, riferibili all'età di Claudio per la struttura e anche per la fama di questo imperatore in campo di impianti portuali. La banchina della sponda occidentale del porto è lunga 380 m ed è costituita da lastre verticali in pietra d’Istria.
Vi è un primo piano di carico sovrapposto a questi lastroni e composto da blocchi con grandi anelli di ormeggio a foro passante verticale; il secondo piano di carico, 2 m più in basso, è costituito da un marciapiede lastricato largo circa 2 m e fornito di anelli di ormeggio a foro passante orizzontale.
Due diversi piani di carico rendevano possibile accogliere imbarcazioni di stazza grande o piccola, e l'utilizzo anche nei periodi di bassa marea. Dalla banchina partono tre vie di accesso alla città che conducono ognuna ad un diverso decumano:
La riva orientale del porto La riva orientale è stata scavata per un breve periodo negli anni Trenta e ne sono stati riportati alla luce poco più di 150 m, anche perché ad un certo punto la struttura si itnerrompe. La banchina è molto stretta e composta da parallelepipedi di pietra, vi si notano solo quattro scalinate inserite nel muro e alcune pietre di ormeggio; dietro sono situati degli edifici, possibili magazzini o uffici.
Probabilmente nel 361, quando la città si schierò con Costanzo II e fu assediata da Giuliano l’Apostata, il fiume fu deviato per motivi strategici e di conseguenza la portata d’acqua diminuì. Queste opere provocarono poi un’alluvione, che fu la causa dell’abbandono del quartiere orientale.In epoca tardo-antica, verso la fine del IV secolo, furono realizzate altre opere difensive e di queste mura è stato ritrovato il lato orientale sulla banchina, costruite in grande fretta, con materiali di recupero. Nel periodo che va dal IV al VI secolo d.c.., Aquileia era il porto principale dell'alto Adriatico all'inizio, mentre sembra essere del tutto scomparso alla fine di quest'epoca.
Il complesso ha forma quadrata, con il lato di circa 150 m, composto da due parti collegate tra loro con ambienti porticati, corridoi e absidi disposti intorno ad un cortile in lastre di arenaria, quadrato nella parte settentrionale, rettangolare nell’altro; si può ipotizzare che alcuni di questi ambienti fossero usati come magazzini o come uffici.
I magazzini sono situati a sud della Basilica e sono horrea, cioè magazzini di grano, in seguito al ritrovamento di alcuni strati di grano bruciato. L’edificio è rettangolare, di circa 90 m per 66, ed è costituito da due spazi allungati separati da un cortile centrale. Probabilmente la copertura del magazzino era sorretta da pilastri.
Nella parte settentrionale si trovavano gli accessi dal cortile centrale e la comunicazione tra le due ali del magazzino, mentre nella parte meridionale si trovava un corridoio trasversale. Questo edificio sottolinea anche le grandi capacità dei costruttori romani verso la fine del III secolo d.c. poiché aveva spessi muri perimetrali che raggiungevano i 2 m e profonde fondamenta, di almeno 5 metri profonde.
RESTI DEL PORTO DI MISENO |
IL PORTO DI MISENO
In latino Sinus Militum, era un porto naturale nel golfo di Napoli, in realtà un antico cratere vulcanico, già porto cumano nel IV sec. a.c., che divenne importante con la impraticabilità del Portus Iulius, nella baia di Puteoli, utilizzato all'epoca da Ottaviano e Agrippa durante la guerra contro Sesto Pompeo
Ospitò la prima flotta imperiale, la Classis Praetoria Misenensis, poi chiamata Classis Praetoria Misenensis Pia Vindex, la flotta imperiale romana istituita da Augusto nel 27 a.c.., di stanza a Miseno. Era la prima flotta dell'Impero per importanza ed aveva il compito di sorvegliare la parte occidentale del Mediterraneo.
Il porto sfruttava un doppio bacino naturale, quello più interno di circa 3 km di circonferenza (detto Maremorto o Lago Miseno), in epoca antica dedicato ai cantieri e alla manutenzione navale, e quello più esterno, che era il porto vero e proprio.
Questo poteva contenere almeno fino 250 imbarcazioni, come quello di Classe a Ravenna. Il numero degli effettivi della flotta si aggirava intorno ai 10.000 tra legionari e ausiliari e tra i due bacini dovevano esserci gli impianti navali e gli alloggiamenti della classis Misenensis.
Per approvvigionare di acqua le numerose navi della Misenensis venne interamente scavata nel tufo della collina la più grande cisterna nota mai costruita dagli antichi romani, chiamata in seguito la "Piscina mirabilis"
La cisterna, scavata nella collina prospiciente il porto, ad 8 metri sul livello del mare, era pianta rettangolare, alta 15 metri, lunga 70 e larga 25, con una capacità di 12.000 mc con un soffitto con volte a botte, sorretto da 48 pilastri a sezione cruciforme, disposti su quattro file da 12.
Le navi della flotta rimanevano al sicuro nella base in autunno e inverno: la navigazione iniziava il 5 marzo con la festa detta Isidis Navigium in onore della Dea egizia Iside, patrona del mare, dei marinai e delle attività marinare.
Ebbe poi alcuni suoi distaccamenti nei principali porti del Mediterraneo, come ad esempio nella vicina Centumcellae (Civitavecchia), nel mar Egeo al Pireo (Atene), o nel mare Adriatico a Salona.
IL PORTO DI CIVITAVECCHIA
Per facilitare con un altro approdo sicuro il piano annonario a favore di Roma Traiano ordinò il Porto di Civitavecchia e i lavori vennero progettati dall'architetto Apollodoro di Damasco. L'impianto originale del porto rispecchiava i criteri architettonici del tempo con un grande bacino quasi circolare di circa 500 metri, due grandi moli e un antemurale, un'isola artificiale protesa in mare a protezione del bacino. L'intera struttura era sormontata da due torri contrapposte, in seguito dette del Bicchiere e del Lazzaretto (ancora visibile, e ricostruita da Sangallo).
La darsena romana è la parte più interna e più antica del porto; ha forma di un ampio rettangolo, di epoca traianea, e da recenti studi è stato calcolato che il materiale estratto per ricavare il bacino, era la stessa quantità necessaria per la costruzione dell’isola artificiale, che quindi verosimilmente fu costruita con questo stesso materiale cavato.
Ebbe poi alcuni suoi distaccamenti nei principali porti del Mediterraneo, come ad esempio nella vicina Centumcellae (Civitavecchia), nel mar Egeo al Pireo (Atene), o nel mare Adriatico a Salona.
RICOSTRUZIONE GRAFICA DEL PORTO DI CIVITAVECCHIA |
IL PORTO DI CIVITAVECCHIA
Per facilitare con un altro approdo sicuro il piano annonario a favore di Roma Traiano ordinò il Porto di Civitavecchia e i lavori vennero progettati dall'architetto Apollodoro di Damasco. L'impianto originale del porto rispecchiava i criteri architettonici del tempo con un grande bacino quasi circolare di circa 500 metri, due grandi moli e un antemurale, un'isola artificiale protesa in mare a protezione del bacino. L'intera struttura era sormontata da due torri contrapposte, in seguito dette del Bicchiere e del Lazzaretto (ancora visibile, e ricostruita da Sangallo).
LA DARSENA DI CIVITAVECCHIA |
Il molo era attraversato da gallerie che costituivano un sistema di ricambio continuo delle acque che serviva a mantenere pulito il fondale e ad evitare l’interramento della darsena. Il Lazzaretto è un chiaro esempio dell’abilità ingegneristica dei Romani; un sistema che svolge tuttora la sua funzione restando unico al mondo.
Presumibilmente il faro vero e proprio, visibile a grande distanza, doveva essere posto su di una diga avanzata in mare aperto, mentre sui moli si trovavano le lanterne, che col faro principale permettevano l’avvicinamento e l’entrata sicura nella notte.
IL PORTO TORRES
Nel periodo romano iniziò l'ascesa turritana, già colonia fenicia, con la fondazione, nel 46 a.c., da parte di Giulio Cesare Ottaviano (durante un suo soggiorno in Sardegna) o di Marco Lurio, prefetto della Sardegna tra il 44 ed il 40 a.c., fedele collaboratore di Ottaviano, della colonia iulia Turris Libisonis (unica colonia nell'isola).
Nel periodo romano iniziò l'ascesa turritana, già colonia fenicia, con la fondazione, nel 46 a.c., da parte di Giulio Cesare Ottaviano (durante un suo soggiorno in Sardegna) o di Marco Lurio, prefetto della Sardegna tra il 44 ed il 40 a.c., fedele collaboratore di Ottaviano, della colonia iulia Turris Libisonis (unica colonia nell'isola).
Il nome della colonia compare per la prima volta nella Naturalis Historia di Plinio il vecchio.
Importante fu per la città il rio Mannu, che era navigabile per alcuni chilometri; in un successivo momento si aprì il bacino portuale, situato nei pressi dell'odierno molo antico.
Fu forte in zona il culto di Iside, Dea protettrice dei naviganti, la quale veniva festeggiata i primi giorni di marzo (navigium Isidis). Con questa celebrazione si apriva il periodo propizio alla navigazione, che si concludeva l'undici novembre. In era cristiana Iside venne sostituita con la madonna che divenne anch'ella la protettrice dei marinai.
IL PORTO DI CALIPSO
La Secca delle Fumose sita a Lucrino, a 700 metri dalla costa, è famosa perchè sul suo fondale si trovano 28 torri (opus Pilarum) su due file ad angolo retto che, nonostante la lontananza odierna dalla terraferma (che in tempi antichi, però, era solo di 300 metri), lì ci fosse sorretto qualcosa inerente all’isola di Calipso. Nel 1668 si reperì a Roma un Disegno di un affresco del III secolo d.c., poi perduto ma documentato da disegni ed incisioni, a colori e in bianco e nero, tra cui la copia acquerellata di Francesco Bartoli, conservata nell’Eton College Library.
Immagini ricavate nel 2007 dal side-scan sonar mostrano un’area di 160 m per 100, a 750 m dalla riva attuale, con i resti di grandi piloni, di un molo e di una banchina. Dopo questi rilievi l’archeologo Piero Alfredo Gianfrotta mise in relazione le scansioni con un’interessante pittura di Stabiae. Lo strato di massi visibili sul fondale non derivava da crolli, ma era una struttura edificata dai romani come “base” per una costruzione successiva, i due moli erano il limite costiero dell’antico Lucrino e l’isolotto sarebbe stato la protezione del canale d’accesso a Lucrino nonchè la base di un faro.
Il PORTO DI SEBASTESImmagini ricavate nel 2007 dal side-scan sonar mostrano un’area di 160 m per 100, a 750 m dalla riva attuale, con i resti di grandi piloni, di un molo e di una banchina. Dopo questi rilievi l’archeologo Piero Alfredo Gianfrotta mise in relazione le scansioni con un’interessante pittura di Stabiae. Lo strato di massi visibili sul fondale non derivava da crolli, ma era una struttura edificata dai romani come “base” per una costruzione successiva, i due moli erano il limite costiero dell’antico Lucrino e l’isolotto sarebbe stato la protezione del canale d’accesso a Lucrino nonchè la base di un faro.
L’archeologo Gianfrotta risalì allora a Marco Licinio Crasso Frugi, console nel 64 d.c. che, come si legge nel “Naturalis Historia” di Plinio, fu proprietario di Baia e “di particolari terme in mezzo ai flutti“. Pausania scrive che di fronte Dicearchia (ora Pozzuoli) c'erano terme collocate su un’isola artificiale che sfruttavano l’acqua sgorgante in mezzo al mare. A questo punto ci si rivolse agli affreschi di Stabia con raffigurazioni di ville marittime.
Colpì un paesaggio costiero, con tanto di isolotto artificiale retto da arcate ed occupato da un tempietto, probabilmente destinato a divinità minori connesse alle acque termali. L’unica differenza tra l’affresco e la realtà furono i portici, le cui tracce non sono emerse nel sito archeologico, sebbene questo tipo di componenti spesso erano solo indicazione di un porto, senza corrispondenza reale.
Ma l’opera più importante è il Disegno Bellori, del pittore antiquario Pietro Sante Bartoli, che lo ricopiò da un affresco del III sec. d.c. ritrovato sul colle Esquilino a Roma. Fu ripreso da Giovan Battista Bellori e inserito in una sua pubblicazione nel 1673, poi ristampata molte volte. Si trattava di Pozzuoli, nella parte di mare antistante Lucrino. Il dipinto infatti venne portato ad Anzio e collocato in un casino della famiglia Pamfili, in visione per dotti e curiosi, per poi sparire sotto una nuova pittura o addirittura un po’ di calce.
Ricomparve sul colle Esquilino e nel confronto con la costa puteolana, divenne evidente la stessa identità del luogo. Per dargli un nome ci si rifece all’antico mito di Ulisse e Calipso, quando durante il viaggio verso Itaca l’eroe greco approdò su un isola, dove incontrò la Ninfa Calipso che si innamorò di lui. Secondo Omero, Calipso viveva sull’isola di Ogigia, situata dagli studiosi di fronte Gibilterra o in una grotta nei pressi di Malta.
In uno scritto del 2000 G. Camodeca nota: ” I luoghi connessi alle vicende di Calipso alludono sempre in modo generico all’area e al mare flegreo, anzi si precisa il riferimento a un’isola di Calipso”, riferendosi a Lucio Cassio Dione in merito ad un prodigio operato da un simulacro di Calipso (“a cui quella regione è consacrata”) durante i lavori per la realizzazione di Porto Giulio.
Nella prima metà del I sec. d.c. si era pensato genialmente di sfruttare queste proprietà gettando cemento “nei flutti”, dando vita ad un’isola artificiale destinata a sorreggere un edificio termale che stupì il mondo romano. Ma dopo la caduta dell’impero, il bradisismo, come a confermare il lutto, fece sprofondare tutto, erodendo i resti tra le onde.
L’isola era diventata una semplice secca, sfruttata dai pescatori per l’abbondanza di pesci nei fondali. Addirittura nel XIII secolo questo tratto di mare passò alla Chiesa, quando una coppia di Puteolani donò questo “pezzo di mare” alla Santa Congregazione di Pozzuoli in cambio di preghiere per evitare le pene del Purgatorio. Si è dovuto attendere il 2001 perchè qualcosa risalisse a galla, quando l’archeologo E. Scognamiglio segnalò la presenza di una pietra d’ormeggio su uno dei piloni.
Colpì un paesaggio costiero, con tanto di isolotto artificiale retto da arcate ed occupato da un tempietto, probabilmente destinato a divinità minori connesse alle acque termali. L’unica differenza tra l’affresco e la realtà furono i portici, le cui tracce non sono emerse nel sito archeologico, sebbene questo tipo di componenti spesso erano solo indicazione di un porto, senza corrispondenza reale.
Ma l’opera più importante è il Disegno Bellori, del pittore antiquario Pietro Sante Bartoli, che lo ricopiò da un affresco del III sec. d.c. ritrovato sul colle Esquilino a Roma. Fu ripreso da Giovan Battista Bellori e inserito in una sua pubblicazione nel 1673, poi ristampata molte volte. Si trattava di Pozzuoli, nella parte di mare antistante Lucrino. Il dipinto infatti venne portato ad Anzio e collocato in un casino della famiglia Pamfili, in visione per dotti e curiosi, per poi sparire sotto una nuova pittura o addirittura un po’ di calce.
Ricomparve sul colle Esquilino e nel confronto con la costa puteolana, divenne evidente la stessa identità del luogo. Per dargli un nome ci si rifece all’antico mito di Ulisse e Calipso, quando durante il viaggio verso Itaca l’eroe greco approdò su un isola, dove incontrò la Ninfa Calipso che si innamorò di lui. Secondo Omero, Calipso viveva sull’isola di Ogigia, situata dagli studiosi di fronte Gibilterra o in una grotta nei pressi di Malta.
In uno scritto del 2000 G. Camodeca nota: ” I luoghi connessi alle vicende di Calipso alludono sempre in modo generico all’area e al mare flegreo, anzi si precisa il riferimento a un’isola di Calipso”, riferendosi a Lucio Cassio Dione in merito ad un prodigio operato da un simulacro di Calipso (“a cui quella regione è consacrata”) durante i lavori per la realizzazione di Porto Giulio.
Nella prima metà del I sec. d.c. si era pensato genialmente di sfruttare queste proprietà gettando cemento “nei flutti”, dando vita ad un’isola artificiale destinata a sorreggere un edificio termale che stupì il mondo romano. Ma dopo la caduta dell’impero, il bradisismo, come a confermare il lutto, fece sprofondare tutto, erodendo i resti tra le onde.
L’isola era diventata una semplice secca, sfruttata dai pescatori per l’abbondanza di pesci nei fondali. Addirittura nel XIII secolo questo tratto di mare passò alla Chiesa, quando una coppia di Puteolani donò questo “pezzo di mare” alla Santa Congregazione di Pozzuoli in cambio di preghiere per evitare le pene del Purgatorio. Si è dovuto attendere il 2001 perchè qualcosa risalisse a galla, quando l’archeologo E. Scognamiglio segnalò la presenza di una pietra d’ormeggio su uno dei piloni.
Per il porto di Sebastos, a Cesarea Maritima, Erode importò oltre 24.000 mc di pozzolana da Pozzuoli, Italia, per la costruzione delle due dighe: di 500 m di lunghezza a sud e 275 m di lunghezza a nord.
Una spedizione di queste dimensioni deve aver richiesto almeno 44 navi cariche di 400 tonnellate ciascuna. Erode aveva anche 12.000 m3 di pietra arenaria (il kurkar) di cava per fare macerie e 12.000 m3 di grassello di calce mista a pozzolana. Gli architetti devono essersi ingegnati per gettare le forme di legno per il posizionamento del calcestruzzo subacqueo.
Una tecnica era quello di guidare pali nel terreno per fare una scatola e poi riempirlo di pozzolana.
Il metodo però richiede molti subacquei a martellare le assi sott'acqua e grandi quantità di pozzolana . Un'altra tecnica è il metodo del doppio fasciame utilizzato nella diga nord. Sulla terra, i carpentieri avrebbero costruito una scatola con travi a tenuta stagna, e un doppia parete sulla parte esterna. Questo doppio muro aveva un gap di 23 cm (9 in) tra lo strato interno e l'esterno.
Anche se la scatola non aveva fondo, poteva galleggiare in mare a causa dello spazio tra le pareti interna ed esterna. Una volta posizionata, si versava la pozzolana nella fessura tra le pareti e la scatola facendola affondare sul fondo del mare. L'area interna allagata veniva poi riempita da sommozzatori a poco a poco con pozzolana-malta di calce e detriti di roccia arenaria fino a quando non era riempita.
Sul molo sud, è stata utilizzata la costruzione di chiatte. Il lato meridionale di Sebastos era molto più esposto rispetto al lato nord, per cui richiedeva frangiflutti più robusti. Per questo affondarono delle chiatte piene di strati di pozzolana cemento e malta di calce e sabbia.
Le chiatte erano simili a scatole senza coperchio, e sono stati costruiti utilizzando mortasa e tenone (incastro usato in falegnameria composto da un maschio "tenone" e dall'alloggio corrispondente "mortasa"), la stessa tecnica usata in barche antiche, al fine di garantirne la tenuta stagna. Le chiatte vennero zavorrate con 0,5 m di pozzolana e calcestruzzi a base di calce fino a farla affondare e riempirla fino alla superficie.
I FARI
Il Faro è una struttura, in genere a torre, atta a segnalare ai naviganti l'esistenza di un ostacolo o di un rischio per mezzo di segnali luminosi.
Il nome deriva dall'isola di Pharos, di fronte ad Alessandria d'Egitto, dove nel III secolo a.c. era stata costruita una torre sulla quale ardeva costantemente un gran fuoco, in modo che i naviganti su quei fondali potessero districarsi dalla retrostante palude Mareotide.
L'uso di accendere fuochi in un punto prominente della costa, ad indicare ai naviganti punti critici o punti d'approdo, è antichissimo e i fari antichi venivano dedicati agli Dei.
I segnali emessi erano in origine esclusivamente luminosi, e stabili.
L'applicazione di uno specchio (e poi di una lente) alla fonte luminosa, in modo da estendere la portata luminosa del manufatto, fu per lungo tempo la sua unica evoluzione sostanziale.
FARO DI OSTIA
Il Faro è una struttura, in genere a torre, atta a segnalare ai naviganti l'esistenza di un ostacolo o di un rischio per mezzo di segnali luminosi.
Il nome deriva dall'isola di Pharos, di fronte ad Alessandria d'Egitto, dove nel III secolo a.c. era stata costruita una torre sulla quale ardeva costantemente un gran fuoco, in modo che i naviganti su quei fondali potessero districarsi dalla retrostante palude Mareotide.
L'uso di accendere fuochi in un punto prominente della costa, ad indicare ai naviganti punti critici o punti d'approdo, è antichissimo e i fari antichi venivano dedicati agli Dei.
I segnali emessi erano in origine esclusivamente luminosi, e stabili.
L'applicazione di uno specchio (e poi di una lente) alla fonte luminosa, in modo da estendere la portata luminosa del manufatto, fu per lungo tempo la sua unica evoluzione sostanziale.
FARO DI OSTIA
Il faro di Ostia era quello che segnalava l’entrata nel porto principale dell’Impero, il grande centro del traffico marittimo che riforniva la città di Roma. Si trovava vicino alla capitale, nei pressi della foce del fiume Tevere, nella zona di Ostia.
Lì si trovava Fiumicino, il canale che dà il nome al luogo che nel passato serviva per collegare il Portus Traiani con il fiume Tevere, attraverso il quale le chiatte trainate da buoi portavano la mercanzia – il grano dalla Sicilia, l’olio dalla Betica o le gigantesche colonne di marmo dall'Egitto - fino alla capitale dell’Impero. Paradossalmente, la pista principale dell’aeroporto Leonardo da Vinci termina laddove sorgeva il faro costruito da Claudio, sul modello di quello di Alessandria.
Trovato l’antico faro del porto imperiale di Roma
Pubblicato Da: net1newson: marzo 19, 2012In: scoop
Si è appreso solo ora, dalla pubblicazione di uno studio scientifico, che le ricerche archeologiche degli anni 2001-2007 nell’area anticamente del bacino portuale costruito dall’imperatore Claudio hanno consentito di localizzare la posizione dell’isola artificiale sulla quale era stato eretto l’imponente faro monumentale che segnalava l’ingresso al porto imperiale.
La grande mole di dati acquisiti mediante scavi e carotaggi, ha anche permesso di individuare l’intero percorso dei due lunghi moli che delimitavano a nord (molo lungo 1.600 m) ed a sud (1.320 m) il bacino del porto, la cui complessiva superficie era di oltre 200 ettari.
E’ noto dalle fonti antiche che l’isola sulla quale sorgeva il faro era stata costruita utilizzando, per aggregare l’intera struttura, la gigantesca nave che l’imperatore Caligola aveva fatto costruire per portare da Alessandria il grande obelisco, ai piedi del monte Vaticano.
La nave venne dunque riempita di cassoni di cemento idraulico (la pozzolana), caricati a Pozzuoli, e venne poi affondata davanti all’imboccatura del nuovo porto di Claudio per costruirvi sopra l’intera isola. I risultati dello studio degli archeologi è stato valutato positivamente, anche perché conferma sia le fonti antiche, sia quelle rinascimentali che avevano descritto l’antico porto sulla base dei resti ancora visibili.
FARO DI MESSINA
Il faro di Messina si trovava nella zona a nord-est della Sicilia, sul capo di Pelorus e controllava il traffico marittimo tra l’isola e la penisola Italica. Su due monete di Sesto Pompeo dell'anno 35 d.c. è raffigurata una torre cilindrica che termina con una cupola in cima alla quale si trovava la statua di Nettuno con un tridente.
Strabone citandola in relazione alle colonne d’Ercole dice: “...era un'antica usanza segnare i confini con simili monumenti; esempio di ciò è la piccola torre che gli abitanti di Regium hanno eretto a mo’ di colonna, sullo stretto di Sicilia, simile a quella di Pelorus, che si trova sul lato opposto.”
FARO DELLE CENTUMCELLAE (Civitavecchia)
L’espansione dell’Impero durante il I sec. d.c. fece sì che il porto di Ostia non fosse più in grado di soddisfare l’intenso traffico marittimo generato tra Roma e le provincie, per cui si rese necessaria la costruzione di nuovi porti verso i quali poter deviare parte del traffico marittimo e alleggerire così il porto di Ostia.
Sorsero, pertanto, il porto di Centumcellae a Civitavecchia e il faro che si costruì su un’isola artificiale in grado di proteggere i moli dagli attacchi delle onde.