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SESTO PROPERZIO

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Nome latino: Sextus Propertius
Nascita: 47 a.c. Assisi
Morte: 15 a.c. Roma
Professione: poeta



"Di te, Cinzia, sarò vivo, di te morrò!"


LE ORIGINI

« Cinzia per prima con i cari occhi mi prese, misero,
prima nessuna passione mi aveva sfiorato.
 »

Sesto Aurelio Properzio nacque quasi certamente ad Assisi, 47 a.c. e da alcuni riferimenti si può dedurre che morì poco dopo il 15 a.c., a Roma, a circa 35 anni.  Fu un poeta romano, uno dei maggiori poeti d'amore. "Umbra la patria" lo dice Properzio stesso (IV,1, 121), "presso Perugia, tra la nebulosa Mevania (Bevagna) e il lago".

Nacque ad Assisi, come dichiara nell'elegia proemiale del IV libro e come suggeriscono recenti acquisizioni epigrafiche recanti il nome di P. Passennus Blaesus, parente di Properzio e suo conterraneo (a quanto attesta Plinio il Vecchio), e l'indicazione della tribù Sergia (Assisi era l'unico municipio umbro a essere iscritto in questa tribù).

Alcuni archeologi, inoltre, sostengono di aver trovato la casa del poeta, una lussuosa villa con affreschi mitologici ed iscrizioni in greco, sotto la basilica di Santa Maria Maggiore.



LE RISTRETTEZZE ECONOMICHE

"La medicina è rimedio a tutti gli umani dolori, solo l'amore è un male che non vuole altra cura."
Il padre apparteneva all'ordine equestre, quindi di buona agiatezza, ma la ripartizione delle terre operata da Augusto dopo la battaglia di Filippi, nel 41–40 a.c., lo pose in ristrettezze economiche. Inoltre il padre morì che Properzio era ancora fanciullo; la madre di conseguenza lo portò a Roma per fargli intraprendere la carriera forense, ma morì poco dopo che egli ebbe presa la toga virile.

Ormai in condizioni disagiate, sentì tuttavia una profonda avversione agli studi forensi, e si diede alla poesia. Evidentemente la poesia gli aprì l'animo, ai sentimenti e all'amore. Ma gli fece guadagnare anche dei soldi, perchè pubblicò il suo primo libro di poesie alla giovane età di 16 anni, ed ebbe successo.

Da qui possiamo comprendere quanto fosse vasta la cultura dell'epoca, se anche un giovinetto qualsiasi potesse avere un così vasto successo.



L'AMORE

"L'amore non è sincero se non scende in guerra: se la tengano gli altri una donna indifferente."


Il primo e breve amore lo ebbe non appena deposta la toga pretesta, sui sedici o diciassette anni, per una schiava Licinna, "la lupetta", esperta di voluttà, ma spontanea e affettuosa.

Ma a 18 anni conobbe Cinzia, la padrona di Licinna, il grande e doloroso amore della sua vita. Al poeta sembrò di amare la prima volta, non solo con la sensualità ma pure con la passione. Siamo nel 29, e nello stesso anno scrive il suo primo libro delle elegie, che lo porta immediatamente alla ribalta e lo inserisce nei circoli mondano-letterari della capitale. Fine della miseria e nascita del grande amore

Come la Lesbia di Catullo, Cinzia era men giovine dell'amante; esperta in amore lo dominò: " Cuncta tuus sepelivit amor ". Il tuo amore ha seppellito tutti gli altri; e nessun altro dopo aver messo catene dolci sul mio collo" .Ma fu davvero così?

Cinzia viene ritenuta da alcuni una cortigiana, ma è poco probabile, sia perchè non sarebbe stato tenuto all'anonimato (il nome fittizio non era per esigenza poetica ma soprattutto per ragioni di opportunità), sia perchè la sua donna era molto raffinata nelle cultura e nell'arte, come difficilmente lo sarebbe stata una cortigiana, anche se maggiormente colta di qualsiasi matrona.

Cinzia aveva una vita brillante, con un gusto squisito per il canto, la poesia e la danza, esattamente all'uso greco. Ma guarda caso, per quanto Properzio fosse innamorato, fu proprio a causa di un suo tradimento che accadde la prima rottura.

Il poeta pianse molto la severità di un intero anno di separazione da parte dell'amata, per il tradimento di una sola notte. Tra poesia e vita mondana, il primo periodo dell'amore per Cinzia durò cinque anni. Tuttavia, dopo qualche tempo, i due ricominciarono a frequentarsi, ma stavolta è Cinzia a non essere fedele, e dopo cinque anni di tormenti, viene la rottura definitiva, e come per Catullo, gli spezza il cuore.

Se ella volesse concedermi talvolta di tali notti, anche un anno di vita sarà lungo.
Se poi me ne concederà molte, allora in esse diverrò immortale:
chiunque in una sola notte può trasformarsi in un Dio
”.



LA GLORIA

"Il vero amore non ha mai conosciuta alcuna misura."

Da questo momento però Properzio si dedica a uno studio impegnativo: vuole cantare il passato di Roma, le leggende italiche, i fatti e personaggi della romanità. Di animo generoso e per nulla invidioso dell'altrui bravura, salutò l'Eneide con gli splendidi versi: Nescio quid maius nascitur Iliade, si appagò di essere il Callimaco e il Fileta romano; l'emulo e il continuatore, nello spirito della latinità, dei due più famosi elegiaci ellenistici. P., poeta di passione del cuore, il suo primo libro lo rese ben presto famoso. Con l'amore e la poesia venne la gloria. Gloria di cenacoli letterari, con le protezioni influenti, e le amicizie artistiche. Come Virgilio, fu del circolo di Mecenate, con Virgilio, Gallo, Pontico, Basso.



LE ELEGIE

Le Elegie, in quattro libri, nei quali si distribuiscono i novantadue componimenti complessivi, tutti in distici elegiaci. Molti editori suggeriscono tuttavia una scansione diversa, che determinerebbe un aumento del numero totale di componimenti. L'avvicinamento di Properzio a Mecenate e al suo famoso circolo avvenne forse nel 28 a.c., dopo la pubblicazione del primo canzoniere. Il poeta fu amico di Virgilio e, soprattutto, di Ovidio.

La sua vita fu breve (come quella di Catullo e di Tibullo). Non sono presenti nei suoi versi riferimenti cronologici posteriori al 16 a.c., data probabile della morte. Forse, Properzio è il seccatore adombrato nella IX Satira di Orazio, che pare non lo potesse soffrire.

Detta in latino Elegiarum libri IV, o più semplicemente Elegiae, l'opera venne pubblicata nella II metà del I secolo a.c. Il loro successo fu immediato e la sua poesia non solo fu molto apprezzata dai contemporanei, ma ebbe un notevole influsso sulla lirica dei secoli successivi e furono il modello elegiaco imitato dal grande poeta latino Ovidio che lo emulò nella sua prima opera elegiaca dal titolo “Amores”.



LA GLORIA FUTURA

"Sempre l'assenza è un pungolo per il desiderio".

Nel Medioevo le tracce della sua presenza sono deboli e sporadiche. 
Già all'età di Quintiliano (Inst. orat., X,1, 93) Properzio era un classico dell'elegia e si discuteva chi fosse maggior poeta tra lui e Tibullo. Ma Tibullo ha un'originalità spontanea e discreta, profonda e intima che Properzio, più vario e passionale, non ha, perchè talvolta l'erudizione ne blocca la spontaneità.

Se vuol persuadere a Cinzia una bellezza senza adornamenti, ricordandole che Leucippe e Ilaira si fecero amare per una grazia pura e ingenua, che Calipso, Issipile, Evadne, dimenticarono d'ornarsi nella genuinità del loro dolore, è egli stesso ridondante nella sua poetica puntigliosa. Mentre Tibullo evoca Dei ed eroi con l'atavico culto della religione rustica, o con il fervore dei recenti culti orgiastici dell'oriente: gli dei e i personaggi mitici di Properzio appartengono alla poesia erudita, per poco sentimento e troppa raffinatezza letteraria.

Quando descrive i fascini di Cinzia, Properzio elenca minuziosamente echi mitologici e letterari, di Arianna, Andromeda, Antiope, Ermione, Andromaca, Briseide, con una poesia ornamentale e fredda. Fu però rivalutato dalla poesia umanistica. Con Ariosto, Tasso, Pierre de Ronsard e, soprattutto, nel Settecento neoclassico, la poesia di Properzio conobbe più ampia diffusione e fortuna, per toccare - con Goethe - il suo punto più alto.


Cynthia

Difficile ricostruire la realtà biografica della protagonista della "Monobiblos" di Properzio, anche perchè il nome della donna, se libera e soprattutto se nobile, non poteva essere diffamato.

Lo scrittore latino Apuleio (Apologia, 10) la identifica con una certa Hostia, e secondo alcuni avrebbe preso l'equivalenza di sillabe tra il nome fittizio e il nome reale; il nome di Cynthia inoltre, secondo alcuni studiosi, rievocava Apollo Cinzio (ovvero nato sul Monte Cinto, nell'isola di Delo), ma secondo noi, e ci sembra molto evidente, rievocava l'antico nome della luna, derivante da Artemide, anche lei nata sul monte Cinto. Cinzia era pertanto un appellativo ad Artemide (Diana) e il nome della Luna.

Properzio accenna inoltre ad un antenato poeta nella famiglia dell'amata, ritenuto essere Hostius, autore, probabilmente poco dopo il 129 a.c., di un poema epico-storico sul Bellum Histricum e della stessa famiglia riportata da Apuleio.



IL I LIBRO

Il I libro (Monobiblos, "libro unico"), costituito da ventidue elegie, noto anche sotto il titolo di Cynthia (nei manoscritti), rappresenta la prima raccolta di elegie pubblicata nel 28 a.c. e dedicata alla donna amata, appunto a Cynthia, secondo la tradizione dei poeti alessandrini. 

Se però gli alessandrini insistevano sulla raffinatezza e l'eleganza dei metodi espressivi e stilistici, Properzio sembra più vicino ai neoretici, che fiorirono in quell'epoca a Roma, con uno stile elegante si ma passionale e diretto (vedi Catullo). Vi si canta prevalentemente l'amore impossibile per Cinzia con l'aiuto di un ricco repertorio di figure mitologiche.



IL II LIBRO

Anche nel II libro, in trentaquattro componimenti, prevale di gran lunga, sugli altri temi, l'amore per Cinzia. È un romanzo commosso, talvolta invece un po' troppo letterario, dominato da questa affascinatrice bionda, dalle belle mani, graziosa, affascinante e appassionata. 



IL III LIBRO

Nei venticinque componimenti di cui consta il III libro, invece, alle poesie d'amore si affiancano dichiarazioni di poetica e poesie d'argomento politico e civile. La parte di Cinzia si fa sempre minore e le note d'amore divengono più generiche, dispettose, vendicatrici. Il poeta parla della sua arte, si preconizza la gloria, piange illustri morti romani, rende omaggio a Mecenate e ad Augusto. La poesia langue.



IL IV LIBRO

Questo libro rivela un'ambizione nuova, Properzio vuol essere il Callimaco romano (Callimaco fu l'autore dei Pinakes, o Tavole, della storia letteraria dei Greci), cantare le leggende della latinità, con uno spirito tra callimacheo e virgiliano. Vengono rievocati il Dio Vertumno, Giove Feretrio, Ercole, Tarpeia, ma solo quest'ultima colpisce per il dramma del suo amore tragico e colpevole.

L'elegia in cui Cinzia, da poco defunta, appare nella visione notturna al poeta, rispolvera il poeta sensibile appassionato. Rievoca gli occhi dell'amata colmi di passione ardente, i suoi biondi capelli, la veste bruciacchiata dal rogo, le labbra rese livide dall'onda del Lete.

Cinzia vi compare gelosa, ma è pure orgogliosa di essere l'unica amata, vorrebbe ancora vivere ancora sulla terra e amare; invece le tocca la tristezza squallida della tenebra. Rimpianto, ribellione alla morte, e dolore in cui Cinzia prega accoratamente l'amante di strappare dalla sua fossa l'edera che le fa male, stringendo le sue ossa in una morsa. 

Negli undici componimenti, i temi civili e la propaganda augustea diventano tuttavia preponderanti, in particolare nelle cosiddette Elegie romane. Qui Properzio intende ispirarsi al modello principale dell'alessandrinismo, Callimaco, riprendendo in particolare gli "Aitia" (Le Cause), in cui si illustravano le origini di miti e culti religiosi. Ora si ispira al mito e alla storia; la celebrazione riguarda ormai solo Roma, con il suo orgoglio di eroici legionari, le sue capacità di conquista e civilizzazione, il più bel faro di arte, diritto e civiltà nel mondo.



ELEGIA ALLA PORTA 
(parla la porta di Cinzia)

Io che un tempo mi ero aperta ai grandi trionfi, 
porta nota all’onestà di Tarpea, 
le cui soglie calcarono i carri cinti di alloro, 
bagnate dalle supplichevoli lacrime dei vinti, 
ora io, ferita dalle risse notturne degli ubriachi, 
spesso mi lamento toccata da mani indegne; 
e turpi corone non mancano sempre di essere appese e fiaccole, 
segno di un innamorato respinto, di giacere a terra. 

Né posso difendere le notti dell’infame padrona, 
io nobile sommersa da canti osceni. 
Nè tuttavia essa si guarda bene dall’onorare la sua reputazione 
e di non vivere come una svergognata nel libertinaggio del tempo. 
Nel frattempo sono costretta presa dalla tristezza a piangere 
le ahimè lunghe veglie di un pretendente che supplica. 

Egli non lascia mai in pace i miei battenti 
intonando canti di un’arguzia carezzevole: 
“Porta, più crudele anche della padrona che sta dentro, 
perché non mi parli chiusa nel tuo impervio passaggio? 
Perché mai aperta non accogli il mio amore, 
incapace di tener conto commossa delle furtive preghiere? 
Nessuna fine sarà concessa al mio dolore? 
E il mio sonno sarà triste e sulla tiepida soglia? 

Hanno pietà di me che giaccio le mezzenotti, 
le stelle che calano e la fredda brezza col suo gelo orientale. 
Tu sola, mai impietosita dei dolori umani, 
rispondi coerente con i muti cardini. 
Volesse il cielo che la mia flebile voce 
passando attraverso uno spiraglio entrasse 
nelle orecchie della padrona dopo averle raggiunte! 

Per quanto essa sia più dura dell’Etna, 
sia per quanto sia più dura anche del ferro e dell’acciaio: 
non potrà tuttavia chiudere gli occhi 
ed emetterà un sospiro mentre piange controvoglia. 
Ora giace avvinta dal braccio felice di un altro 
mentre le mie parole si perdono nella brezza notturna. 
Ma tu sola, o porta, sei la più grande causa 
del mio dolore, mai vinta dai miei doni. 

Nessuna petulanza della mia lingua ti offese, 
quelle parole volgari che suol dire lì per lì un adirato. 
Come puoi tollerare che io con la voce affievolita per un lamento 
così lungo vegli soffrendo su una strada? 
Eppure spesso ti dedicai canti dal verso nuovo 
e stampai baci prostrato sulla tua soglia. 

Quante volte, ingrata, mi volsi ai tuoi battenti 
e ti feci le dovute offerte senza che gli altri se ne accorgessero!”. 
Questo mi dice e, se qualcosa sapete voi amanti infelici, 
lo va strepitando pure agli uccelli mattutini. 
Così io ora a causa dei vizi della padrona e dei pianti 
di chi è sempre innamorato sono oggetto di eterna impopolarità. -



ELEGIE, I, 12
(Cinzia sarà l'unico amore)

Perché non smetti di intentarmi, Pontico, l'accusa di pigrizia
che a Roma, a sentir te, mi tratterrebbe?
È lei che è ormai lontana dal mio letto tante miglia
quanto dista l'Ipani dal veneto Eridano;
Cinzia ora più non nutre il nostro amore nei consueti amplessi
né più al mio orecchio dolcemente parla. 

Un tempo le ero caro: in quei giorni, a nessun altro avvenne
d'amare con altrettanta fiduciosa certezza.
Fummo oggetto d'invidia: fu un dio che mi fece sprofondare,
o fu quell'erba, sul Caucaso raccolta, che divide gli amanti?
Non son più quel che ero: lunghi viaggi trasformano le amanti.
In poco tempo, quale grande amore se n'è fuggito! 

Per la prima volta son costretto a conoscere da solo le lunghe notti,
e ad essere molesto io stesso alle mie orecchie.
O felice colui che davanti all'amata poté versare lacrime
(s'allieta Amore alle lacrime sparse),
ma felice anche colui che, disprezzato, poté mutare i suoi affetti
(c'è un po' di gioia anche a cambiar padrone!).
Per me sta scritto che non potrò amare un'altra, né staccarmi da lei:
Cinzia fu la prima, Cinzia sarà anche la fine.


(I dolori di Properzio)

Cinzia per prima m’irretì, sventurato, con i suoi dolci occhi,
quand’ero ancora intatto dai desideri della passione.
Allora Amore abbassò il consueto orgoglio del mio sguardo
e mi oppresse il capo sottoponendolo al dominio dei suoi passi,
finché m’insegnò crudele a odiare le fanciulle caste
e a condurre una vita priva di qualsiasi saggezza.
E ormai da un anno intero questa follia non mi abbandona
mentre sono costretto ad avere gli Dei avversi.
Milanione, o Tullo, disposto a non fuggire nessun travaglio,
infranse la crudeltà della dura figlia di Iasio.
Egli infatti errava talora, folle, per gli anfratti
del Partenio, e andava a scovare le irsute fiere;
e anche, percosso da un colpo di clava dal centauro Ileo,
giacque ferito e gemente sulle rupi d’Arcadia.
Dunque poté così domare la veloce fanciulla:
tanto in amore valgono le preghiere e i benefizi.
Per me Amore impigrito non escogita alcun espediente,
né ricorda di percorrere, come prima, le note vie.
Ma voi che traete giù dal cielo con ingannevoli arti
la luna, e compite riti propiziatorii sui magici fuochi,
orsù mutate l’animo di colei che mi signoreggia,
e fate che il suo volto divenga più pallido del mio!
Allora crederò che voi potete guidare il corso
degli astri e dei fiumi con gli incantesimi della donna di Cytaia (?).
E voi amici, che tardaste troppo a sollevare il caduto,
cercate aiuti per un cuore ormai infermo.
Sopporterò con saldezza le torture del ferro e del fuoco,
purché sia libero di dire ciò che l’ira mi detta.
Portatemi in mezzo a popoli e a mari remoti,
dove nessuna donna possa conoscere il mio cammino:
voi, il cui dio accondiscende con favorevole orecchio,
rimanete, e l’amore vi sia sempre sicuro e reciproco.
Quanto, a me, la mia Venere mi travaglia con amare notti,
e Amore non mi abbandona mai lasciandomi libero.
Vi ammonisco, evitate questo male: ognuno indugi
nella propria passione, né si stacchi da un sentimento consueto.
Che se alcuno tarderà ad ascoltare i miei ammonimenti,
ahi, con quanto dolore ricorderà le mie parole!


Elegia XIX (Non temo la morte ma la mancanza d'amore)

Adorata Cinzia, non temo i tristi Mani,
né voglio ritardare i fati dovuti all’estremo rogo;
ma che una volta spirato, per caso rimanga privo del tuo amore,
ciò temo, più duro della stessa morte.
Non così lievemente il dio fanciullo s’impresse
sui miei occhi al punto che la mia polvere ne sia priva,
smemorata d’affetto. Laggiù, nei tenebrosi recessi,
l’eroe filàcide non poté dimenticare l’amata sposa,
ma desiderosa di stringere in un vano abbraccio la sua fonte di gioia,
il Tessalo, ormai ombra, raggiunse l’antica dimora.
Laggiù, comunque sarò, sia pure soltanto fantasma,
sarò detto tuo: un grande amore varca anche le rive fatali.
Laggiù vengano in coro le belle eroine,
parte del bottino dardanio agli eroi argivi,
nessuna di loro, o Cinzia, mi sarà più gradita
della tua bellezza e (ciò mi conceda la giusta Terra)
anche se ti trattenga una sorte di lunga vecchiezza,
le tue ossa saranno sempre care al mio pianto.
Possa tu, viva, sentire ciò sul rogo che mi arde.
Allora la morte non mi sarebbe amara dovunque.
Ma come temo, o Cinzia, che spregiato il sepolcro,
Amore crudele ti distolga dalle mie ceneri e t’induca
ad asciugare malvolentieri le fluenti lagrime! Una fanciulla,
per quanto fedele, si piega ad assidue minacce.
Perciò noi amanti, finché si può, godiamo:
mai nessuno tempo l’amore è lungo abbastanza.


Libro II
Elegia XV (le gioie dell'amore)

Oh me felice, o notte per me splendida,
e dolce letto reso beato dalla mia delizia!
Quante parole ci siamo detti distesi accanto alla lucerna,
e quante battaglie d’amore abbiamo ingaggiato,
allontanato il lume. Infatti ella ora lottava con me
a seni nudi, ora indugiava a lungo coperta dalla tunica.
Ella con le labbra mi aprì gli occhi assonnati,
e disse: “Così, insensibile, giaci?”.
Come abbiamo intrecciato le braccia in diverse forme d’amplesso!
Quanti lunghi baci ho impresso sulle tue labbra!
Non giova guastare i piaceri di Venere con movimenti ciechi;
se non lo sai, gli occhi sono la guida dell’amore.
Si dice che lo stesso Paride si consunse vedendo nuda la Spartana,
mentre si alzava dal talamo di Menelao;
nudo anche Endimione, narrano, conquistò la sorella di Febo,
e giacque a sua volta insieme con la dea nuda.
Se invece tu con animo ostinato ti adagerai vestita,
ti strapperò la veste e proverai la forza delle mie mani;
e anzi se l’ira da te provocata mi spingerà a trascendere,
dovrai mostrare a tua madre le braccia ferite.
Non ancora dei seni cadenti ti impediscono tali giochi:
badi a queste cose colei che si vergogna di avere già partorito.
Finché i fati ce lo permettono, saziamoci gli occhi di amore:
viene per te una lunga notte, e il giorno non tornerà. 
Oh volessi che una catena ci avvincesse
così che nessun giorno ci potesse più separare.
Ti siano d’esempio le colombe congiunte in amore,
il maschio e la femmina stretti in un connubio totale.
Erra colui che cerca la fine di un folle amore:
un amore vero non conosce alcun limite né misura.
La terra ingannerà con false messi gli aratori,
e più presto il sole spingerà i cavalli neri,
e i fiumi cominceranno a far rifluire le acque alla sorgente,
e i pesci saranno asciutti nei gorghi disseccati,
che io possa rivolgere altrove i miei affanni d’amore;
di lei sarò vivo, di lei morrò!
Se ella volesse concedermi talvolta di tali notti,
anche un anno di vita sarà lungo.
Se poi me ne concederà molte, allora in esse diverrò immortale:
chiunque in una sola notte può trasformarsi in un dio.
Se tutti desiderassero trascorrere una tale vita,
e giacere con le membra oppresse da molto vino,
non vi sarebbe il crudele ferro né una nave da guerra,
e il mare di Azio non travolgerebbe le nostre ossa,
né Roma espugnata tante volte dai propri trionfi,
sarebbe stanca di sciogliere i suoi capelli.
Questo certo potranno elogiare di me i miei discendenti:
le mie coppe non hanno mai offeso alcuno degli Dei.
Tu ora, mentre il giorno splende, non lasciare i frutti della vita:
se mi darai tutti i tuoi baci, me ne darai pochi.
E come i petali si distaccano dai serti avvizziti,
e li vedi galleggiare sparsi nelle coppe,
così per noi, che ora amanti nutriamo un vasto sentimento,
forse il domani concluderà i fati.


Libro III
Elegia I (novello Callimaco)

Spirito di Callimaco, e sacri riti del coo Filita,
vi prego, permettetemi di entrare nel vostro bosco,
per primo io, sacerdote, mi accingo a guidare dalla pura fonte
tra i misteri italici la schiera greca.
Ditemi, in quale antro entrambe modulaste i carmi?
Con quale piede entraste? Quale acqua beveste?
Ah, lontano da me chiunque trattiene Febo tra le armi!
Scorra levigato con sottile pomice il verso
per cui la sublime Gloria mi solleva da terra,
e la Musa nata da me trionfa sui cavalli inghirlandati,
e sul cocchio gli Amori fanciulli sono trasportati con me,
e una folla di scrittori fa da corteggio alle mie ruote …
Perché contendete con me inutilmente a briglia sciolta?
Non è dato correre alle Muse per un’ampia via.
Molti, o Roma, aggiungeranno agli annali la tua gloria,
e molti canteranno che Bactra sarà il confine dell’impero:
ma un’opera che tu possa leggere in tempo di pace,
la mia pagina l’ha tratta giù dal monte delle Sorelle
per una via sinora non percorsa. Date, o Pegasidi, molli corone
al vostro poeta; non si confà al mio capo un duro serto.
Ma ciò che a me vivo ha sottratto l’invida turba,
dopo la morte me lo renderà l’Onore in misura raddoppiata.
Il tempo dopo il trapasso fa divenire tutte le cose più grandi,
dopo le esequie, la rinomanza corre più vasta sulle bocche.
Infatti chi saprebbe che una rocca fu abbattuta da un cavallo di abete,
e che i fiumi contrastarono l’eroe emonio,
l’idèo Simoenta e lo Scamandro, prole di Giove?
E che Ettore insanguinò tre volte le ruote che lo trascinavano sui campi?
A stento Deifobo ed Eleno e Polidamante e Paride,
qualunque ne fosse il valore nelle armi, sarebbero noti alla loro terra.
Ora si parlerebbe appena di te, Ilio, e di te,
Troia, abbattuta due volte dalla potenza del dio etèo.
E quell’illustre Omero, cantore della tua fine,
sentì accrescersi la fama dalla sua opera tra i posteri.
Me Roma loderà fra i suoi tardi nipoti.
Io stesso prevedo quel giorno, quando sarò cenere.
A una pietra che indichi le mie ossa in un sepolcro non spregiato,
ho provveduto io, se il dio licio esaudisce i miei voti.


Elegia II (il poeta rende eterna l'amata)

Intanto ritorniamo nel cerchio della nostra poesia;
si compiaccia la fanciulla emozionata dal consueto canto.
Tramandano che Orfeo con la sua lira tracia trattenesse le fiere
e arrestasse i fiumi resi impetuosi dalla piena.
E narrano che le rocce del Citerone mosse per virtù di magia
si unirono spontaneamente per formare le mura di Tebe,
e anzi, o Polifemo, alle pendici del selvaggio Etna,
Galatea piegò al tuo canto i madidi cavalli:
e ci stupiremo dunque se con il favore di Bacco e di Apollo
lo stuolo delle fanciulle venera le mie parole?
Certo la mia casa non poggia su colonne di marmo tenario,
né possiede soffitti dorati fra eburnee travi,
né i miei giardini eguagliano quelli dei Feaci,
l’acquedotto marcio non irriga le mie grotte istoriate;
ma mi tengono compagnia le Muse, e i carmi cari al lettore,
e v’è Calliope, ormai sazia dei miei ritmi.
Fortunata colei chiunque sia, se la celebrano i miei versi!
I miei carmi saranno durevole testimonianza della tua bellezza.
Infatti né il fasto delle piramidi elevate fino alle stelle,
né il tempio di Giove elèo che emula il cielo,
né il tesoro sontuoso del sepolcro di Mausolo,
possono scampare alla estrema condizione della morte.
Le fiamme o le piogge cancelleranno ogni sorta di pregio,
o cadranno vinti dal peso degli anni, sotto i loro colpi.
Ma la fama conquistata con l’ingegno non sarà annullata dal tempo:
l’ingegno ha una sua gloria immune dalla morte.


Elegia XXV (il poeta sbeffeggiato)

Ero divenuto oggetto di riso tra i convitati nei banchetti
e chiunque poteva divertirsi a sparlare di me.
Ho potuto servirti fedelmente per cinque anni:
rimpiangerai spesso la mia fedeltà mordendoti le unghie.
Non mi lascio commuovere dalle lacrime: conosco già l’inganno della tua arte;
il tuo pianto, o Cinzia, scaturisce sempre da una insidia.
Piangerò, allontanandomi, ma l’offesa è più forte delle lacrime:
tu non vuoi che il nostro legame proceda felice, conveniente ad entrambi.
Ora addio, soglia lacrimante per le mie parole,
addio porta, malgrado tutto, non infranta dalla mia mano irata.
Ma te incalzi la tarda età, se pur celerai gli anni,
e sopraggiungano le squallide rughe della tua bellezza!
Allora possa tu desiderare di svellere dalla radice i capelli bianchi,
mentre lo specchio, ahimè, rimprovererà il tuo volto grinzoso,
e a tua volta respinta, sopportare l’altero disprezzo,
e vecchia lamentarti di subire ciò che un tempo infliggesti.
La mia pagina ti predice tale funesta sorte:
apprendi a temere il destino della tua bellezza.


Libro IV
Elegia VII (Cinzia fa il suo testamento).

“Così con le lagrime della morte saniamo gli amori della vita,
ed io nascondo le molte colpe della tua perfidia.
Ma ora ti affido le mie volontà, se per caso ti lasci commuovere,
e se l’erba magica di Clori non ti possiede tutto.
La nutrice Partenie non manchi di nulla nei suoi tremuli anni:
non è mai stata avida con te, e lo avrebbe potuto.
La mia dolce Latri, che trae il nome dal suo lavoro,
non debba porgere lo specchio alla nuova padrona.
E tutti i versi che hai composto nel mio nome,
bruciali per me: cessa di tenere con te le mie lodi!
Strappa dal sepolcro l’edera che nei suoi pugnaci corimbi
si lega alle mie tenere ossa con implicate chiome.
Dove l’Aniene fecondo di frutti si distende nei campi alberati,
e mai sbiadisce l’avorio per la protezione di Ercole,
scrivi su una colonna un’epigrafe degna di me,
ma breve, che possa leggerla il viandante che proviene frettoloso dalla città:
- Qui in terra tiburtina giace la splendida Cinzia;
gloria, o Aniene, s’è aggiunta alle tue rive -.
E tu non disprezzare i sogni che giungono dalle porte dei beati:
se vengono, tali sacri sogni, devono avere un senso.
Di notte vaghiamo, la notte rende libere le ombre rinchiuse;
tolte le sbarre, anche Cerbero erra.
All’alba l’inferna legge c’impone di tornare agli stagni del Lete:
c’imbarchiamo, e il nocchiero soppesa il carico.
Ora ti possiedano altre; ben ti avrò io sola:
sarai con me, e consumerò le tue ossa con le mie ad esse mischiate”.
Dopo che finì di parlarmi con tono di dolente rimprovero,
l’ombra si dileguò nel mezzo del mio abbraccio.


Elegia XI
(Parla Cornelia rivolgendosi al marito Paolo)

Se poi egli memore si appagherà di restare fedele alla mia ombra,
e stimerà che tanto valgono le mie ceneri,
sin da ora imparate a preoccuparvi della sua futura vecchiaia,
e nulla tralasciate per lenire i suoi affanni di vedovo.
Il tempo che è stato sottratto a me, si aggiunga ai vostri anni:
così, grazie alla mia prole, Paolo si consoli di essere vecchio.
E’ bene così: io madre non ho mai vestito a lutto:
e tutta la schiera dei congiunti venne alle mie esequie.
Ho finito di perorare la mia causa. Testimoni in pianto per me,
alzatevi, mentre la terra benigna mi ripaga del sacrificio della vita.
Il cielo si apre alle caste indoli: possa con i miei meriti
essere degna che le mie ossa siano portate tra gli illustri avi.


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