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LUCREZIO CARO

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TITUS LUCRETIUS CARUS

Nome: Titus Lucretius Carus
Nascita: 98 a.c., Campania
Morte: 55 a.c., Roma
Professione: Poeta e filosofo


Lucrezio - Inno a Venere - (De rerum natura 1-49)

- Madre di Enèadi, piacere di uomini e Dei, Venere vivificante,
che sotto le mobili costellazioni celesti ravvivi il mare portatore di navi,
la terra che reca le messi, poiché grazie a te ogni genere di esseri animati
è concepito e vede la luce del sole:
te, dea, fuggono i venti e le nuvole del cielo,
per te la terra industriosa fa crescere fiori soavi,
per te sorridono le distese marine, e,
rasserenato, brilla di luce il cielo.
Infatti, non appena la bellezza della primavera si svela,
ed il soffio di Zeffiro prende forza,
per prima cosa gli uccelli del cielo annunciano te e il tuo arrivo,
o dea, colpiti in cuore dalla tua potenza.
Quindi le bestie feroci balzano per i pascoli rigogliosi
e attraversano i fiumi vorticosi: così prese dal fascino,
ti seguono desiderose ovunque tu voglia condurle.
Infine per mari e monti e fiumi impetuosi
e frondose dimore di uccelli e campi verdeggianti,
ispirando a tutti nel cuore un soave amore,
fai sì che con desiderio perpetuino le stirpi.
Tu puoi bastare da sola a reggere il mondo,
e solo per le tue grazie a noi è dato ammirare
tutto quello che esiste di dolce ed amabile. -

(Lucrezio - De Rerum natura - libro III)

- E spesso per la paura della morte, l'odio della vita
e della vista della luce colpisce a tal punto gli uomini
che essi si danno la morte con animo straziato,
non ricordando che è questo timore la fonte degli affanni,
che questo distrugge il pudore, che questo rompe i legami d'amicizia,
e, insomma, convince a distruggere la pietas. -

Lucrezio a Venere:
"Quando tu vieni, fuggono i venti e si dileguano le nuvole; 
per te la terra la fiorire il leggiadro ornamento dei fiori, 
per te sorride lo specchio delle acque del mare, 
e gli spazi lucenti del cielo splendono in silenzio ".

Tito Lucrezio Caro (in latino Titus Lucretius Carus) nacque in Campania, nel 98 a.c. o secondo altri nel 96 a.c. e morì a Roma, nel 55 a.c. o secondo altri nel 53 a.c.. Fu un grande poeta e filosofo romano.

Della vita di Lucrezio ci è ignoto quasi tutto: egli non compare mai sulla scena politica romana né sembra esistere negli scritti dei contemporanei in cui non viene mai citato, eccezion fatta per la lettera di Cicerone "ad Quintum fratrem II", contenuta nella sezione "Ad familiares", dove dà notizia dell'edizione postuma del poema di Lucrezio, che egli starebbe curando.

Un'altra fonte che lo cita è San Girolamo nel suo Chronicon, in cui ci dice che circa nel 94 a.c.
"Titus Lucretius Carus nascitur, qui postea a poculo amatorio in furorem versus et per intervalla insaniae cum aliquot libros conscripsisset, quos postea Cicero emendavit, sua manu se interfecit anno 44"
("nasce il poeta Tito Lucrezio, che dopo essere impazzito per un filtro d'amore e aver scritto alcuni libri negli intervalli della follia, che Cicerone pubblicò postumi, si suicidò all'età di quarantaquattro anni").

Questo dato però non concorda con Elio Donato (IV d.c.), maestro di San Gerolamo, secondo cui Lucrezio sarebbe morto quando Virgilio (nato nel 70 a.c.) indossò a 15 anni la toga virile, nell'anno in cui erano consoli per la seconda volta Crasso e Pompeo. Si crede dunque che Lucrezio nacque nel 98 a.c. per poi morire nel 55 a.c., all'età di quarantaquattro anni. Si sa inoltre che Gerolamo era poco obiettivo con i pagani, e di certo un Lucrezio che non crede negli Dei è peggiore di quelli che ci credono, in quanto questi ultimi sono pagani ma il primo è ateo, pertanto molto più biasimevole, e sembra logico che un ateo si suicidi.

Ignoto risulta anche il luogo di nascita, che tuttavia taluni hanno creduto essere la Campania e più precisamente Pompei o Ercolano, per la presenza di un Giardino Epicureo in quest'ultima città. Si ignora pure la sua condizione sociale, sebbene i tria nomina e il suo anelito pacifista facciano optare nascita aristocratica. Non si conoscono neppure le sue idee politiche in quanto il suo desiderio di pace prima non rievoca il rimpianto rancoroso aristocratico che vede sgretolarsi la Repubblica e la libertà, ma più il desiderio dell'epicureo, che vede nella pace e il benessere di tutti una vita serena.

« Oh misere menti degli uomini, oh animi ciechi! [alla dottrina di Epicuro]
In quale tenebrosa esistenza e fra quanto grandi pericoli
si trascorre questa breve vita! »
Tale era, del resto, il suo desiderio di pace da auspicare alla fine del proemio della sua opera un "placida pace" per i Romani. Questo anelito così forte alla pace è peraltro riscontrabile non solo in Lucrezio, ma anche in Catullo, Sallustio, Cicerone, Catone l'Uticense e perfino in Cesare: esso rappresenta il desiderio di un'intera società dilaniata da un secolo di guerre civili e lotte intestine.

LUCRETIUS (Brughes)

LE IPOTESI

Il latinista Luca Canali ha avanzato una tesi piuttosto bizzarra (per alcuni da intendere come provocazione) ripresa da un'affermazione di San Girolamo, secondo la quale l'autore del De rerum natura sarebbe un Cicerone giovane, mentre Lucrezio non sarebbe mai esistito.

Tale tesi ha il difetto di non tenere nel dovuto conto gli aspetti stilistici, non ciceroniani, dell'opera.

Si ipotizza che Cicerone, poco convinto dell'opera, l'avrebbe pubblicata sotto lo pseudonimo di "Lucrezio", in una specie di rinnegamento dei suoi scritti giovanili.
La tesi si basa principalmente sul fatto che Cicerone è l'unico contemporaneo a parlare di Lucrezio. Inoltre: fu Cicerone a pubblicare il De rerum Natura per primo, con una nota introduttiva che disprezzava l'opera, proponendola come esempio da non imitare, anche se, nel 54 a.c. in una lettera al fratello Quinto cicerone scrisse:
"Lucretii poemata, ut scribis,ita sunt: multis luminibus ingenii, multae tamen artis"
(le poesie di Lucrezio, come tu mi scrivi, sono dotate di molti lumi di talento, e pure di molta arte).

Il prestigio del nome di Cicerone come autore, sostenuto da San Girolamo, avrebbe così salvato l'opera in quanto ritenuta, appunto, di Cicerone. C'è anche da aggiungere che l'ecclesiastico San Girolamo,  cercò di denigrare Lucrezio che era pagano, non credeva tanto negli Dei, ed essendo un atomista, non credeva nell'immortalità dell'anima.

Secondo Lucrezio, e non solo, le più forti correnti stoiche, ostili all'epicureismo, avevano permeato la classe dirigente romana in quanto più conformi alla tradizione guerriera dell'Urbe.

VENERE
La natura poetica del De rerum natura fa sì che Lucrezio col suo pessimismo esistenziale avanzi profezie apocalittiche, visioni quasi allucinati, critiche e ambigue espressioni, che accompagnano il poema. Alcuni teologi cristiani come San Girolamo ed altri, hanno dato di lui l'immagine di un ateo psicotico in preda alle forze del male. Appoggiandosi impropriamente alla psicoanalisi qualcuno ha sostenuto che in certi bruschi cambiamenti di immagine e di pensiero ci fossero i sintomi di una pazzia delirante.. Strano che nessun psicoanalista abbia invece diagnosticato la follia dell'Apocalisse di San Giovanni che è chiaramente psicotica.

In realtà l'ipotizzata pazzia di Lucrezio potrebbe essere un tentativo di mistificazione per screditare il poeta, così come la presunta morte per suicidio sarebbe stato l'esito di un modo di pensare perverso, che travia chi lo segue. L'ipotesi dell'epilessia poi, viene avanzata sulla base dell'arcaica credenza che il poeta fosse sempre un invasato; elemento quest'ultimo da collegare alla credenza che gli epilettici fossero sacri ad Apollo e da lui ispirati nelle loro creazioni. Del resto si disse che anche Cesare era epilettico senza averne una prova.

Comunque altri scrittori cristiani come Arnobio e Lattanzio affermarono che egli non fosse pazzo e che non si fosse ucciso. L'ipotesi della follia e del suicidio attestata dal Chronicon di San Girolamo si fondava su illazioni di Svetonio, peraltro di difficile verifica. Potrebbe anche esserci stata una confusione dovuta all'abbreviazione Luc., impiegata indifferentemente nei codici latini per indicare i nomi di Lucillius, Lucullus e Lucretius. Plutarco scrisse infatti di un certo Licinio Lucullo, politico, generale e cultore dei piaceri, che morì dopo essere impazzito a causa di un filtro d'amore. L'errore di interpretazione dell'abbreviazione Luc. potrebbe così aver prodotto lo scambio dei due personaggi.

L'intento di Lucrezio nel De rerum natura, è di divulgare la filosofia epicurea, invitando il lettore alla pratica di essa, nonchè il tentativo di spingerlo a liberarsi dall'angoscia della morte e degli Dei. Nel contempo Lucrezio è ottimista, vi sono guerre e conflitti ma nel futuro la situazione politica migliorerà.

Egli dunque si prospettava di rivoluzionare il cammino di Roma, riportandolo all'epicureismo che aveva declinato in favore dello stoicismo. La prima cosa da distruggere era la convinzione provvidenzialistica stoica e più propriamente romana: non c'era un dovere romano di civilizzare il mondo; egli crede in un mondo che non è unico nell'universo, che peraltro è infinito, anzi esso stesso è uno dei possibili mondi tutti esistenti o che esisteranno.

Non c'è quindi nessun fine provvidenziale di Roma, essa è una Grande fra le Grandi, ed un giorno perirà nel suo tempo. La religione, considerata come Instrumentum regni, deve essere non distrutta, ma integrata nel contesto del viver civile come utile ma falsa. Egli afferma fin dal I libro del De rerum natura:

« Tanto male poté suggerire la religione. Ma anche tu forse un giorno, vinto dai terribili detti Dei vati, forse cercherai di staccarti da noi. Davvero, infatti, quante favole sanno inventare, tali da poter sconvolgere le norme della vita e turbare ogni tuo benessere con vani timori!»
( De rerum natura, vv. 101-106)

Lucrezio colpiva direttamente la credenza negli Dei latini sostenendo che non c'è preghiera che schiuda le fauci di una tempesta, giacché essa è regolata da leggi fisiche e gli Dei, seppur esistenti e anche loro composti da atomi così sottili che ne assicurano l'immortalità, non si curano del mondo né lo reggono; ma la religione deve essere inglobata nella scoperta e nello studio della natura, che rasserena l'animo e fa comprendere la vera natura delle cose: infatti l'unico principio divino che regge il mondo è la Divina Voluptas: il piacere, la vita stessa intesa come animazione regge l'universo, ed è l'unica cosa in grado di fermare lo sfacelo che sta portando Roma alla fine: Marte, ovvero la Guerra.

Proprio per questo, egli elogia Atene, creatrice di quegli intelletti più grandi che hanno illuminato la natura e quindi l'uomo stesso, ed in ultima istanza Epicuro, sole invitto della conoscenza rasserenatrice. Non solo, egli stesso si sente quasi un poeta rasserenatore delle tempeste umane e proprio per questo affine ai poeti delle origini, soprattutto ad Empedocle (secondo per elogi solo a Epicuro) ma con una sola grande differenza: egli non è portatore di una verità divina fra le umane genti, ma di una verità prettamente umana, universale e per tutti, che diventerà ben presto per la salvezza di Roma.

Il dedicatario dell'opera è il Claris Memmiadis Propago, ovvero il rampollo della famiglia dei Memmi, che solitamente si fa indicare con Gaio Memmio. Più in generale, si può dire che il destinatario che l'autore si prefigge di conquistare è proprio il giovane aperto e pronto ad ogni esperienza che un giorno prenderà il posto dei politici e attuerà quella rivoluzione propugnata con così tanto fervore da Lucrezio.

Ma, almeno con Memmio, egli fallì. Questi infatti da adulto divenne un dissoluto, fraintendendo il significato di piacere catastematico epicureo, e fu allontanato dal Senato "Probi Causa", ovvero per immoralità. Dopo di ciò si riparò in Grecia, dove scrisse poesie licenziose, e dove lo cita anche Cicerone (Ad Familiares), pronto a voler distruggere la casa e il giardino dove proprio Epicuro risiedette, suscitando lo sdegno degli epicurei che fecero istanza a Cicerone di intervenire per impedirglielo, cosa in cui anche Cicerone fallirà.

In un simile progetto Lucrezio scelse di doversi rifare ad un modello di stile arcaico, che vedeva in Livio Andronico, ma soprattutto in Ennio e in Pacuvio i modelli emuli, per motivi fra loro quanto meno vari: l'egestas linguae (povertà della lingua), lo vede costretto a dover arrangiare le lacune terminologiche e tecnicistiche con l'arcaismo, per quanto proprio Lucrezio, insieme a Cicerone, sia uno dei fondatori del lessico astratto e filosofico latino, e a colmare e ancor meglio comprendere l'oscurità del filosofo con la mielosa luce della poesia.

Dovette affrontare il problema di tradurre i termini filosofici greci in latino, evitando la semplice translitterazione (ad es. "Atomus" per Ατομος), usando invece termini latini dandogli altra accezione, o ricorrendo all'arcaico neologismo. Lucrezio non si limitò a trasmettere il messaggio di Epicuro con un razionale scritto filosofico, ma attraverso un poetico mondo di immagini.



DE RERUM NATURAE

EPICURO
Poema didascalico, di natura scientifica-filosofica, in esametri, suddiviso in sei libri (raccolti in diadi), dedicato a Gaio Memmio, sul modello prosastico e filosofico epicureo e la struttura del poema Περὶ φύσεως di Empedocle.
Secondo i filologi l'opera corrisponderebbe ad un gusto alessandrino.

L'opera infatti è suddivisa in tre diadi, che hanno tutte un inizio solare ed una fine tragica. Ogni diade comincia con un inno ad Epicuro e l'ultimo libro termina con un altro inno ad Epicuro, mentre il II libro inizia con un inno alla scienza e il III libro con l'esposizione dell'estetica di Lucrezio.

Essendo un poema didascalico, ha come modello Esiodo ed Empedocle, che aveva preso il modello esiodeo come massimo strumento per l'insegnamento della filosofia. Altri modelli potrebbero essere i poeti ellenistici Arato e Nicandro di Colofone, che usavano il poema didascalico come sfoggio di erudizione letteraria.


Critiche

Per molti critici il De Rerum Natura sia un libro incompiuto. Infatti se Lucrezio voleva trasmettere un'etica, egli non ne rese note le leggi o le caratteristiche. Questa fu invece la grandezza di Lucrezio: trasmettere, attraverso l'analisi del cosmo, un'etica implicita che proponesse valori predefiniti, ma l'arte del pensare e dell'avere dubbi, cercando non solo le verità ma cosa sia più onesto credere.


La Legge sui Corpi

Sul piano teorico l'opera di Lucrezio è geniale perchè più che assicurare teorie si fa domande:
« Perciò è sempre più necessario che i corpi deviino un poco; ma non più del minimo, affinché non ci sembri di poter immaginare movimenti obliqui che la manifesta realtà smentisce. Infatti è evidente, a portata della nostra vista, che i corpi gravi in se stessi non possono spostarsi di sghembo quando precipitano dall’alto, come è facile constatare. Ma chi può scorgere che essi non compiono affatto alcuna deviazione dalla linea retta del loro percorso?»
( Lucrezio, La natura delle cose)

E aldilà delle leggi della fisica:
« Infine, se ogni moto è legato sempre ad altri e quello nuovo sorge dal moto precedente in ordine certo, se i germi primordiali con l’inclinarsi non determinano un qualche inizio di movimento che infranga le leggi del fato così che da tempo infinito causa non sussegua a causa, donde ha origine sulla terra per i viventi questo libero arbitrio, donde proviene, io dico, codesta volontà indipendente dai fati, in virtù della quale procediamo dove il piacere ci guida, e deviamo il nostro percorso non in un momento esatto, né in un punto preciso dello spazio, ma quando lo decide la mente? Infatti senza alcun dubbio a ciascuno un proprio volere suggerisce l’inizio di questi moti che da esso si irradiano nelle membra. »


Anima e Corpo

Geniale anche l'intuizione che nella separazione tra corpo e anima vi può essere solo morte. Non è un caso che gli psicotici gravi tendano sempre al suicidio.
« Così è difficile rescindere da tutto il corpo le nature dell'animo e dell'anima, senza che tutto si dissolva. Con particelle elementari così intrecciate tra loro fin dall’origine, si producono insieme fornite d’una vita di eguale destino: ed è chiaro che ognuna di per sé, senza l’energia dell’altra, le facoltà del corpo e dell’anima separate, non potrebbero aver senso: ma con moti reciprocamente comuni spira dall’una e dall’altra quel senso acceso in noi attraverso gli organi. »
(De rerum, vv.329-336 )


La Religione

Ancora fuori degli schemi è il suo concetto sulla religione:
Secondo Lucrezio, che riprende Epicuro, la religione è la causa dei mali dell'uomo e della sua ignoranza. Egli ritiene che la religione offuschi la ragione impedendo all'uomo di realizzarsi degnamente e, soprattutto, di poter accedere alla felicità.

Il poema osserva la lacerante antinomia fra ratio e religio. La ratio è vista da Lucrezio come quella chiarità folgorante della verità «che squarcia le tenebre dell'oscurità», è il discorso razionale sulla natura del mondo e dell'uomo, quindi la dottrina epicurea, mentre la religio è ottundimento gnoseologico e cieca ignoranza, che lo stesso Lucrezio denomina spesso "superstitio", come insieme di credenze e comportamenti umani "superstiziosi" nei confronti degli Dei.

Poiché la religio non si basa sulla ratio essa è falsa e pericolosa, Lucrezio denuncia le nefaste conseguenze della religione  portando ad esempio esempio Ifigenia, ed afferma che il mito è una rappresentazione falsata della realtà (cfr. Evemerismo). La religione è perciò la causa principale dell'ignoranza e dell'infelicità degli uomini.

« Tanto male poté suggerire la religione. Ma anche tu forse un giorno, vinto dai terribili detti Dei vati, forse cercherai di staccarti da noi. Davvero, infatti, quante favole sanno inventare, tali da poter sconvolgere le norme della vita e turbare ogni tuo benessere con vani timori! Giustamente, poiché se gli uomini vedessero la sicura fine dei loro travagli, in qualche modo potrebbero contrastare le superstizioni e insieme le minacce dei vati... Queste tenebre, dunque, e questo terrore dell'animo occorre che non i raggi del sole né i dardi lucenti del giorno disperdano, bensì la realtà naturale e la scienza... E perciò, quando avremo veduto che nulla può nascere dal nulla, allora già più agevolmente di qui potremo scoprire l'oggetto delle nostre ricerche, da cosa abbia vita ogni essenza, e in qual modo ciascuna si compia senza opera alcuna di dèi. »


La Dottrina Epicurea

Epicuro è per lui il sommo che non ha paragoni:
E dunque trionfò la vivida forza del suo animo. E si spinse lontano, oltre le mura fiammeggianti del mondo. E percorse con il cuore e la mente l'immenso universo, da cui riporta a noi vittorioso quel che può nascere, quel che non può, e infine per quale ragione ogni cosa ha un potere definito e un termine profondamente connaturato. Perciò a sua volta abbattuta sotto i piedi la religione è calpestata, mentre la vittoria ci eguaglia al cielo. "

Lucrezio riprende i temi principali della dottrina epicurea, che sono:
- l'aggregazione atomistica
- la parenklisis (che egli ribattezza clinamen),
- la liberazione dalla paura della morte,
- la spiegazione dei fenomeni naturali in termini meramente fisici e biologici.

Vi associa però un elemento di pessimismo, assente in Epicuro, dovuto probabilmente a un suo stato depressivo.

Per Lucrezio, tutte le specie viventi (animali e vegetali) sono state "partorite" dalla Terra grazie al calore e all'umidità originari. Ma egli avanza anche un nuovo criterio evoluzionistico: le specie così prodotte sono infatti mutate nel corso del tempo, perché quelle malformate si sono estinte, mentre quelle dotate degli organi necessari alla conservazione della vita sono riuscite a riprodursi. il che in un certo senso è vero, anche se alcune specie si estinguono non perchè malformate ma perchè sono cambiate le condizioni dell'ambiente.


Il Progresso dell'Uomo

Lucrezio nega ogni sorta di creazione, di provvidenza e di beatitudine originaria e afferma che l'uomo si è affrancato dalla condizione di bisogno tramite la produzione di tecniche, che sono trasposizioni della natura. Tuttavia il progresso non è positivo a priori, ma solo finché libera l'uomo dall'oppressione. Se è invece fonte di degradazione morale, è da condannare.


Anima e Animus

Lucrezio chiarisce nel III libro del De rerum  il concetto di animus in rapporto a quello di anima:
« Vi sono dunque calore e aria vitale nella sostanza stessa del corpo, che abbandona i nostri arti morenti. Perciò, trovata quale sia la natura dell'animo e dell'anima - quasi una parte dell'uomo -, rigetta il nome di armonia, recato ai musicisti già dall'alto Elicona, o che essi hanno forse tratto d'altrove e trasferito a una cosa che prima non aveva un suo nome. Tu ascolta le mie parole. Ora affermo che l'anima e l'animo sono tenuti Avvinti tra loro, e formano tra sé una stessa natura. Ma è il capo, per così dire, è il pensiero a dominare tutto il corpo: quello che noi denominiamo animo e mente e che ha stabile sede nella zona centrale del petto. Qui palpitano infatti l'angoscia e il timore, qui intorno le gioie provocano dolcezza; qui è dunque la mente, l’animo. La restante parte dell’anima, diffusa per tutto il corpo, obbedisce e si muove al volere e all’impulso della mente. Questa da sé sola prende conoscenza, e da sé gioisce, quando nessuna cosa stimola l’anima e il corpo. »
(De rerum natura, III, vv. 130-146)

Lucrezio riprende il concetto ellenico di anima come "soffio vitale che vivifica ed anima il corpo, ciò che i greci chiamavano psyché. Questo soffio pervade tutto il corpo in ogni sua parte e lo abbandona solo “con l’ultimo respiro". L’"animus" invece è identificabile col "noùs" ellenico, traducibile in latino con mens. Dunque animus e mens paiono essere o la stessa cosa o due elementi coniugati dell’unità mentale. L’indicazione della “zona centrale del petto” come sede fa pensare al concetto di “cuore”, ricorrente ancora oggi nel linguaggio comune per indicare la sensibilità umana, centro dell’emozione e del sentimento. Parrebbe allora che l’animus sia insieme e conoscenza e emozione, mentre l'anima è soffio vitale.


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