IL FIDANZAMENTO
Chi desiderava prendere moglie chiedeva a chi aveva la tutela della donna una formale promessa ed a sua volta prometteva. Questa contrattazione si chiamava "sponsalia" (fidanzamento). Se le promesse venivano rotte senza giusta causa un giudice condannava la parte inadempiente ad una pena pecuniaria. Questi ordinamenti rimasero in vigore fino alla legge Giulia del 90 a.c.
Quindi il fidanzamento avveniva secondo le forme della "stipulazio" in base alla quale sia il pater della donna sia il fidanzo si impegnano a garantire il compimento delle nozze. Presi gli accordi i
due fidanzati si scambiavano un bacio casto definito "bacio di religione" che non offendeva le antiche tradizioni. In tal caso la cerimonia degli sponsali era definita "osculo interveniente" (cioè è avvenuto lo scambio del bacio) a cui seguiva lo scambio dei doni, di solito stoffe pregiate, tappeti, tendaggi o cuscini per l'arredamento o per le vesti, dopodiché l'uomo donava alla donna l'"Anulus Pronubus" cioè l'anello di fidanzamento.
Questo consisteva in un anello di ferro rivestito d'oro, oppure interamente d'oro, che veniva infilato durante la cerimonia all'anulare o come dice Giovenale «nel dito vicino al mignolo della mano sinistra» Cosa che accade anche oggi.
L'uso dell'anello all'anulare (anularius) lo spiega Aulo Gellio: « Quando si apre il corpo umano, come fanno gli Egiziani, e si operano le dissezioni, ἁνατομαί, per parlare come i Greci, si trova un nervo molto sottile, che parte dall'anulare e arriva al cuore. Si ritiene opportuno dare l'onore di portare l'anello a questo dito piuttosto che ad altri, per la stretta connessione, per quel certo legame che lo unisce all'organo principale ». In effetti ancora oggi la mano sinistra è considerata la mano del cuore.
Il fidanzamento era così diffuso che Plinio il Giovane si lamenta del fatto che i Romani, invece di dedicarsi a cose più costruttive, perdano tempo a celebrare questa cerimonia che secondo i suoi severi costumi, che ricopiavano molto quelli del suo padre adottivo Plinio il Vecchio, si riduceva a una chiassosa festa tra parenti ed amici, interessati più al banchetto che agli sposi stessi.
IL CORTEGGIAMENTO
La frequentazione tra i fidanzati diventa imprescindibile in età imperiale, l'uomo corteggia la fanciulla portandole fiori e pensierini e se la cosa procede anche regali più sostanziosi. Lei accetta di vederlo in casa sorvegliata alla distanza dalla nutrice o dalla madre, perchè la sua verginità va preservata, e se le aggrada può accettare l'invito a uscire con lui e farsi vedere insieme dalla gente, che è già un atteggiamento compromissorio, ma questo avviene quando si comprende che i due si piacciono, per la divulgazione degli "sponsalia", cioè il fidanzamento, dove tutti vedono i promessi in giro per il foro e pure i gioielli che lui le ha donato, gioielli che lei sfoggerà sempre in pubblico.
Le romane vanno pazze per i gioielli, li indossano fin da bambine, iniziando con quelli in bronzo o in ferro o in argento a seconda delle possibilità familiari. Non viene reputato sconveniente che un'adolescente si abbigli con i gioielli, anzi ne esistono per questi anche anelli di ambra, di avorio o di pasta vitrea, ma non indossati frequentemente perchè delicati, diciamo che si sfoggiano durante le feste o le visite tra parenti.
Non dimentichiamo che le romane indossano un anello per dito, talvolta anche alle dita dei piedi, e che oltre a orecchini e collane portano le cavigliere e che i bracciali non li indossano solo tra il gomito e i polsi come li portiamo noi ma pure tra la spalla e il gomito, le cosiddette serpentine. Ma come non bastasse sfoggiano diademi e collane pure sui capelli, per non parlare delle preziose fibule o bottoni che ornano le loro vesti, le loro borsette e le loro cinture, talvolta anche le scarpe.
Nel fidanzamento la donna ha il suo peso, perchè lui deve conquistarla non solo coi regali ma pure coi madrigali, scritti da lui o da altri che egli le recita dopo averle scritte sul papiro, in modo che ella possa conservarli e magari riguardarli. Inoltre sarà sua premura portarle dolci prelibati e olii profumati per la pelle e i capelli.
Se i due fidanzati sono invitati alla medesima cena essi non avranno il diritto di giacere l'uno accanto all'altro nel triclinium, ma potranno alzarsi e sedersi ogni tanto sul triclinio dell'altro per scambiare parole e scherzi. Nessuno dei due però scherzerà con altri nè siederà presso i triclini altrui perchè offenderebbe il partner.
LE NUPTIAE
Nel Lazio antico invece tra le gentes e le altre tribù doveva essere frequente «il passaggio dallo scambio (in seguito mercificato) al ratto e viceversa». La legge dell'esogamia appartiene ad ogni luogo, la donna doveva sposandosi uscire di casa e dalla tribù per seguire la tribù del marito portandosi appresso una dote tanto più ingente quanto meno ella fosse ambita. Infatti la dote era frutto di contrattazione e generava in genere legami tra le varie tribù con alleanze in caso di guerra.
Con sparizione delle tribù e l'allargamento della comunità subentrò invece una esogamia familiare che vietava il matrimonio con parenti entro un certo grado. I due divieti si riferiscono per i romani, in successione di tempo, alle tribù, alle gentes e alle familiae.
Nel regime patrimoniale della famiglia c'è una progressiva attenuazione dell’incapacità patrimoniale del figlio e della donna tramite la dote e i peculia, ed una corrispondente diminuzione della signoria del pater.
- Infine l'auspex, nel religioso silenzio degli astanti, annunzia (se c'è) il favore degli Dei, e solo allora l'auspex e i testimoni, solitamente una decina, pongono il loro sigillo sull'atto di matrimonio (che però può anche non esserci). Nel corso della cerimonia, lo sposo solleva il velo della sposa, il flemmum, che viene poi sollevato e teso anche sul capo dello sposo. A questo punto i due giovani a volto scoperto, suggellando il momento con una stretta di mano, che era un segno molto intimo, visto che i romani nei saluti non si toccavano mai, con una regola diciamo molto più igienica e piacevole di quella dei tempi nostri.
L'uso dell'anello all'anulare (anularius) lo spiega Aulo Gellio: « Quando si apre il corpo umano, come fanno gli Egiziani, e si operano le dissezioni, ἁνατομαί, per parlare come i Greci, si trova un nervo molto sottile, che parte dall'anulare e arriva al cuore. Si ritiene opportuno dare l'onore di portare l'anello a questo dito piuttosto che ad altri, per la stretta connessione, per quel certo legame che lo unisce all'organo principale ». In effetti ancora oggi la mano sinistra è considerata la mano del cuore.
Fino all'epoca imperiale sono i genitori a decidere le nozze dei figli, dopodichè il costume si modifica e i genitori non decidono tanto sui figli quanto sulle figlie. Nel senso che i genitori propongono un matrimonio al figlio che può rifiutare ma che in genere accetta la proposta di frequentare la fanciulla, o perchè è gradevole o perchè è ricca.
L'accondiscendenza dei figli verso i genitori sul matrimonio è tanto più dovuta quanto più la classe sociale è alta, perchè in taluni casi il matrimonio stipula una specie di alleanza tra due famiglie che si sosterranno pertanto sia in battaglia che in tempo di pace per aiutare le carriere dei figli o altro.
Il fidanzamento era così diffuso che Plinio il Giovane si lamenta del fatto che i Romani, invece di dedicarsi a cose più costruttive, perdano tempo a celebrare questa cerimonia che secondo i suoi severi costumi, che ricopiavano molto quelli del suo padre adottivo Plinio il Vecchio, si riduceva a una chiassosa festa tra parenti ed amici, interessati più al banchetto che agli sposi stessi.
IL CORTEGGIAMENTO
La frequentazione tra i fidanzati diventa imprescindibile in età imperiale, l'uomo corteggia la fanciulla portandole fiori e pensierini e se la cosa procede anche regali più sostanziosi. Lei accetta di vederlo in casa sorvegliata alla distanza dalla nutrice o dalla madre, perchè la sua verginità va preservata, e se le aggrada può accettare l'invito a uscire con lui e farsi vedere insieme dalla gente, che è già un atteggiamento compromissorio, ma questo avviene quando si comprende che i due si piacciono, per la divulgazione degli "sponsalia", cioè il fidanzamento, dove tutti vedono i promessi in giro per il foro e pure i gioielli che lui le ha donato, gioielli che lei sfoggerà sempre in pubblico.
Le romane vanno pazze per i gioielli, li indossano fin da bambine, iniziando con quelli in bronzo o in ferro o in argento a seconda delle possibilità familiari. Non viene reputato sconveniente che un'adolescente si abbigli con i gioielli, anzi ne esistono per questi anche anelli di ambra, di avorio o di pasta vitrea, ma non indossati frequentemente perchè delicati, diciamo che si sfoggiano durante le feste o le visite tra parenti.
Non dimentichiamo che le romane indossano un anello per dito, talvolta anche alle dita dei piedi, e che oltre a orecchini e collane portano le cavigliere e che i bracciali non li indossano solo tra il gomito e i polsi come li portiamo noi ma pure tra la spalla e il gomito, le cosiddette serpentine. Ma come non bastasse sfoggiano diademi e collane pure sui capelli, per non parlare delle preziose fibule o bottoni che ornano le loro vesti, le loro borsette e le loro cinture, talvolta anche le scarpe.
Nel fidanzamento la donna ha il suo peso, perchè lui deve conquistarla non solo coi regali ma pure coi madrigali, scritti da lui o da altri che egli le recita dopo averle scritte sul papiro, in modo che ella possa conservarli e magari riguardarli. Inoltre sarà sua premura portarle dolci prelibati e olii profumati per la pelle e i capelli.
Se i due fidanzati sono invitati alla medesima cena essi non avranno il diritto di giacere l'uno accanto all'altro nel triclinium, ma potranno alzarsi e sedersi ogni tanto sul triclinio dell'altro per scambiare parole e scherzi. Nessuno dei due però scherzerà con altri nè siederà presso i triclini altrui perchè offenderebbe il partner.
LE NUPTIAE
Nel Lazio antico invece tra le gentes e le altre tribù doveva essere frequente «il passaggio dallo scambio (in seguito mercificato) al ratto e viceversa». La legge dell'esogamia appartiene ad ogni luogo, la donna doveva sposandosi uscire di casa e dalla tribù per seguire la tribù del marito portandosi appresso una dote tanto più ingente quanto meno ella fosse ambita. Infatti la dote era frutto di contrattazione e generava in genere legami tra le varie tribù con alleanze in caso di guerra.
Con sparizione delle tribù e l'allargamento della comunità subentrò invece una esogamia familiare che vietava il matrimonio con parenti entro un certo grado. I due divieti si riferiscono per i romani, in successione di tempo, alle tribù, alle gentes e alle familiae.
Nel regime patrimoniale della famiglia c'è una progressiva attenuazione dell’incapacità patrimoniale del figlio e della donna tramite la dote e i peculia, ed una corrispondente diminuzione della signoria del pater.
Poiché l'uso del denaro era raro tra i Romani, ma la loro ricchezza nel bestiame era grande; nei contratti vocali del fidanzamento si prometteva la consegna di peculia, da pecus, bestiame (in realtà il primo bestiame furono le pecorema per estensione il nome riguardò tutti gli animali da allevamento). E avevano stampato sui loro soldi più antichi un bue, una pecora o un maiale; E soprannominarono i figli a seconda degli animali che custodivano Suillii (che allevavano suini), e Bubulci (che allevavano buoi).
MATRIMONIUM IUSTUM
Secondo i requisiti dell’istituto, elencati nei "Tituli ex corpore Ulpiani": il "Matrimonium Iustum" (cioè legale) era la capacità a sposarsi ("conubium"), l’età pubere, il consenso dei nubendi se "sui iuris", o degli ascendenti qualora fossero alieni iuris. Nelle fonti antiche il termine nuptiae indica più frequentemente le cerimonie celebrative mentre il termine "matrimonium" suggerisce piuttosto uno status, una causa o uno scopo.
« Il matrimonio è legittimo se tra coloro che contraggono le nozze abbiano lo "ius connubii", e che tanto il maschio che la femmina siano in grado di generare figli, e che ambedue siano consenzienti, se siano responsabili di sé giuridicamente, o che lo siano i loro genitori se ancora sono sotto la loro tutela»
La sussistenza di questi elementi, tuttavia, non basta perché si abbiano "iustae nuptiae", vi deve essere concretamente la convivenza che inizia con la "deductio in domum" (trasferimento nella casa) della donna nella casa del marito. La "deductio" non è una formalità costitutiva del matrimonio ma la prova del suo inizio, ancorché accompagnata da cerimonie e feste a seconda dello stato socioeconomico degli sposi.
Perché esista realmente il matrimonio è necessaria poi non una manifestazione iniziale di volontà ma il continuo esercizio della volontà di condurre il matrimonio: la cosiddetta "affectio maritalis" senza la quale l'unione dei due soggetti era considerata concubinato.
IL CONUBIUM
Anticamente con il "Conubium" si accede allo scambio matrimoniale con riti di fertilità in un periodo precivico. Le fonti sul Lazio antico dichiarano « la consapevolezza che il fondamento arcaico del conubium risiedeva su una convenzione espressa o tacita della comunità - passibile di rottura violenta e di pacifico rinnovo - la cui attuazione nel caso concreto non subiva mediazioni mercantili ma era garantita da cerimonie religiose ».
La funzionalità del conubium per la riproduzione umana fa dipendere l’interesse dal ruolo dei gruppi di parentela. Se prima il conubium era lasciato ai rapporti tra gruppi precivici, in seguito viene regolamentato dello stato per allargare, restringere o rimuovere l’area di scambio matrimoniale.
La famiglia in età arcaica gestisce le strategie riproduttive, per cui la prole rappresenta il patrimonio della famiglia e non del singolo. In tale contesto la dote risulta essere un «fattore di funzionalità», che agevolava i matrimoni.
L'integrazione della moglie nella familia del marito, usus, confarreatio e coemptio, sono stati elaborati su base consuetudinaria e per offrire modelli alle famiglie con ampio margine di scelta per controllare i conflitti di potere. Integrata attraverso la conventio in manum nella famiglia del marito, l’uxor fin dal periodo arcaico partecipava di fatto all’economia domestica. Anche gli aspetti patrimoniali erano in partecipazione con la moglie, tanto è vero che esisteva fin da allora il divieto di donazione tra i coniugi.
Lo ius civile, partendo dal conubium, perviene al matrimonium iustum. Fu la giurisprudenza pontificale a regolare l’antico matrimonio in quanto presupposto per riconoscere la legittimità della prole e il riconoscimento all’interno della famiglia del marito come suus heres. Ma quando con l’andare del tempo le nuptiae religiose non rappresentano più una garanzia della stabilità e continuità della famiglia, intervengono le leggi.
MATRIMONIO CUM MANU E SINE MANU
Quello di cui si è parlato fino ad ora è una forma di matrimonio sine manu, ossia priva del potere di manus del marito sulla moglie. Questo tipo di matrimonio non concedeva al marito alcun tipo di potere sulla donna, che restava legata alla propria famiglia di origine e, quindi, non poteva avere nessuna aspettativa ereditaria dalla famiglia del marito.
Il marito poteva acquisire la manus sulla moglie a seguito della celebrazione di particolari cerimonie nuziali (la confarreatio o la coemptio) o comunque se sussistevano determinate condizioni (questo è il caso dell'usus).
I poteri della manus arrivavano a comprendere il diritto di uccidere la propria moglie, come stabilito da una legge attribuita a Romolo, nel caso in cui avesse commesso adulterio o avesse bevuto vino.
CONFERREATIO
Tra i riti nuziali con i quali il marito acquisiva la manus, la confarreatio, così chiamata perché gli sposi facevano offerta di una focaccia di farro a Giove Capitolino, è sicuramente il più antico, che la tradizione faceva risalire a Romolo.
Gli sposi operavano un sacrificio bruciando poi la carne dell'animale sacrificato. Dalla fiamma traevano gli auspici del matrimonio: se essa si innalzava pura e risplendente verso il cielo, l’unione sarebbe stata fortunata; altrimenti la felicità era breve.
Gli sposi giravano attorno all’Ara, da destra a sinistra. pronunciando le parole rituali, preceduti dal giovane figlio di un Sacerdote e di una Sacerdotessa che portava in un vaso i granelli di farro che dovevano essere gettati nel fuoco, e con la focaccia di farro, che doveva essere assaggiata dagli Sposi e poi bruciata.
Dopodichè il matrimonio era concluso. Allora la sposa, seduta sopra una pelle di agnello, riceveva i complimenti e gli auguri dei parenti. Seguiva poi il banchetto nuziale, alla fine del quale venivano distribuite piccole Focacce di Farro.
Il rito apparteneva solo alle classi sociali più elevate e richiedeva la presenza del Pontifex Maximus e del Flamen Dialis. Per questi motivi la confarreatio entrò presto in disuso, sostituita da altri rituali più pratici come la coemptio. La confarreatio era così caduta in disuso tanto che al tempo di Tiberio risultavano solo tre patrizi nati da un matrimonio di questa forma.
COEMPTIO
La coemptio era un adattamento della mancipatio, il negozio anticamente usato per l'acquisto delle cose di maggior valore (res mancipi).
In origine era una celebrazione del matrimonio per compera, (coemptio deriva da cum emptio, "con la compera"). Il padre plebeo metteva in atto una vendita fittizia della figlia, così emancipandola, al marito. La coemptio era quindi accessibile anche ai plebei, ai quali la confarreatio era invece preclusa.
Nel corso della cerimonia la futura sposa esattamente come un oggetto, veniva venduta dal pater familias allo sposo che reggeva una bilancia (stadera) su cui gettava il prezzo per comprare la moglie.
La donna sposata con questo rito non veniva chiamata "matrona" come nella confarreatio, ma semplicemente "uxor".
Tuttavia, quando la confarreatio cadde in disuso, la coemptio venne spesso usata anche dai patrizi. L'ultimo esempio di matrimonio secondo la coemptio risale all'epoca del secondo triumvirato (43 a.c.), dopodichè scomparve.
USUS
L'usus, invece, era una forma di matrimonio per usucapione. Nelle XII tavole si stabiliva che le cose mobili potessero essere usucapite dopo un anno. Così, dopo un anno di convivenza, il marito "usucapiva" la manus sulla moglie.
La coabitazione ininterrotta di un anno ad esempio di un plebeo con una patrizia era considerata un matrimonio legale. L'usus fu abolito da Augusto.
TRINOCTIUM
Nei casi in cui si volesse contrarre matrimonio senza acquisire la manus, si ricorreva all'istituto della trinoctis usurpatio (o semplicemente trinoctium). La donna si allontanava ogni anno per tre notti dalla casa coniugale prima che scadesse il termine dell'usus così da impedire che l'usucapione si compisse.
LA CERIMONIA
La cerimonia del matrimonio si svolgeva in varie tappe:
- Il giorno prima delle nozze la fanciulla consacrava in un tempio ad una divinità di sua scelta i balocchi della sua infanzia, poi si toglieva la toga pretexta (con le due strisce di porpora che la rendeva inviolabile) e la donava alla Fortuna Virginalis.
MATRIMONIUM IUSTUM
Secondo i requisiti dell’istituto, elencati nei "Tituli ex corpore Ulpiani": il "Matrimonium Iustum" (cioè legale) era la capacità a sposarsi ("conubium"), l’età pubere, il consenso dei nubendi se "sui iuris", o degli ascendenti qualora fossero alieni iuris. Nelle fonti antiche il termine nuptiae indica più frequentemente le cerimonie celebrative mentre il termine "matrimonium" suggerisce piuttosto uno status, una causa o uno scopo.
« Il matrimonio è legittimo se tra coloro che contraggono le nozze abbiano lo "ius connubii", e che tanto il maschio che la femmina siano in grado di generare figli, e che ambedue siano consenzienti, se siano responsabili di sé giuridicamente, o che lo siano i loro genitori se ancora sono sotto la loro tutela»
La sussistenza di questi elementi, tuttavia, non basta perché si abbiano "iustae nuptiae", vi deve essere concretamente la convivenza che inizia con la "deductio in domum" (trasferimento nella casa) della donna nella casa del marito. La "deductio" non è una formalità costitutiva del matrimonio ma la prova del suo inizio, ancorché accompagnata da cerimonie e feste a seconda dello stato socioeconomico degli sposi.
Perché esista realmente il matrimonio è necessaria poi non una manifestazione iniziale di volontà ma il continuo esercizio della volontà di condurre il matrimonio: la cosiddetta "affectio maritalis" senza la quale l'unione dei due soggetti era considerata concubinato.
IL CONUBIUM
Anticamente con il "Conubium" si accede allo scambio matrimoniale con riti di fertilità in un periodo precivico. Le fonti sul Lazio antico dichiarano « la consapevolezza che il fondamento arcaico del conubium risiedeva su una convenzione espressa o tacita della comunità - passibile di rottura violenta e di pacifico rinnovo - la cui attuazione nel caso concreto non subiva mediazioni mercantili ma era garantita da cerimonie religiose ».
La funzionalità del conubium per la riproduzione umana fa dipendere l’interesse dal ruolo dei gruppi di parentela. Se prima il conubium era lasciato ai rapporti tra gruppi precivici, in seguito viene regolamentato dello stato per allargare, restringere o rimuovere l’area di scambio matrimoniale.
La famiglia in età arcaica gestisce le strategie riproduttive, per cui la prole rappresenta il patrimonio della famiglia e non del singolo. In tale contesto la dote risulta essere un «fattore di funzionalità», che agevolava i matrimoni.
L'integrazione della moglie nella familia del marito, usus, confarreatio e coemptio, sono stati elaborati su base consuetudinaria e per offrire modelli alle famiglie con ampio margine di scelta per controllare i conflitti di potere. Integrata attraverso la conventio in manum nella famiglia del marito, l’uxor fin dal periodo arcaico partecipava di fatto all’economia domestica. Anche gli aspetti patrimoniali erano in partecipazione con la moglie, tanto è vero che esisteva fin da allora il divieto di donazione tra i coniugi.
Lo ius civile, partendo dal conubium, perviene al matrimonium iustum. Fu la giurisprudenza pontificale a regolare l’antico matrimonio in quanto presupposto per riconoscere la legittimità della prole e il riconoscimento all’interno della famiglia del marito come suus heres. Ma quando con l’andare del tempo le nuptiae religiose non rappresentano più una garanzia della stabilità e continuità della famiglia, intervengono le leggi.
MATRIMONIO CUM MANU E SINE MANU
Quello di cui si è parlato fino ad ora è una forma di matrimonio sine manu, ossia priva del potere di manus del marito sulla moglie. Questo tipo di matrimonio non concedeva al marito alcun tipo di potere sulla donna, che restava legata alla propria famiglia di origine e, quindi, non poteva avere nessuna aspettativa ereditaria dalla famiglia del marito.
Il marito poteva acquisire la manus sulla moglie a seguito della celebrazione di particolari cerimonie nuziali (la confarreatio o la coemptio) o comunque se sussistevano determinate condizioni (questo è il caso dell'usus).
I poteri della manus arrivavano a comprendere il diritto di uccidere la propria moglie, come stabilito da una legge attribuita a Romolo, nel caso in cui avesse commesso adulterio o avesse bevuto vino.
CONFERREATIO
Tra i riti nuziali con i quali il marito acquisiva la manus, la confarreatio, così chiamata perché gli sposi facevano offerta di una focaccia di farro a Giove Capitolino, è sicuramente il più antico, che la tradizione faceva risalire a Romolo.
Gli sposi operavano un sacrificio bruciando poi la carne dell'animale sacrificato. Dalla fiamma traevano gli auspici del matrimonio: se essa si innalzava pura e risplendente verso il cielo, l’unione sarebbe stata fortunata; altrimenti la felicità era breve.
Gli sposi giravano attorno all’Ara, da destra a sinistra. pronunciando le parole rituali, preceduti dal giovane figlio di un Sacerdote e di una Sacerdotessa che portava in un vaso i granelli di farro che dovevano essere gettati nel fuoco, e con la focaccia di farro, che doveva essere assaggiata dagli Sposi e poi bruciata.
Dopodichè il matrimonio era concluso. Allora la sposa, seduta sopra una pelle di agnello, riceveva i complimenti e gli auguri dei parenti. Seguiva poi il banchetto nuziale, alla fine del quale venivano distribuite piccole Focacce di Farro.
Il rito apparteneva solo alle classi sociali più elevate e richiedeva la presenza del Pontifex Maximus e del Flamen Dialis. Per questi motivi la confarreatio entrò presto in disuso, sostituita da altri rituali più pratici come la coemptio. La confarreatio era così caduta in disuso tanto che al tempo di Tiberio risultavano solo tre patrizi nati da un matrimonio di questa forma.
COEMPTIO
La coemptio era un adattamento della mancipatio, il negozio anticamente usato per l'acquisto delle cose di maggior valore (res mancipi).
In origine era una celebrazione del matrimonio per compera, (coemptio deriva da cum emptio, "con la compera"). Il padre plebeo metteva in atto una vendita fittizia della figlia, così emancipandola, al marito. La coemptio era quindi accessibile anche ai plebei, ai quali la confarreatio era invece preclusa.
Nel corso della cerimonia la futura sposa esattamente come un oggetto, veniva venduta dal pater familias allo sposo che reggeva una bilancia (stadera) su cui gettava il prezzo per comprare la moglie.
La donna sposata con questo rito non veniva chiamata "matrona" come nella confarreatio, ma semplicemente "uxor".
Tuttavia, quando la confarreatio cadde in disuso, la coemptio venne spesso usata anche dai patrizi. L'ultimo esempio di matrimonio secondo la coemptio risale all'epoca del secondo triumvirato (43 a.c.), dopodichè scomparve.
USUS
L'usus, invece, era una forma di matrimonio per usucapione. Nelle XII tavole si stabiliva che le cose mobili potessero essere usucapite dopo un anno. Così, dopo un anno di convivenza, il marito "usucapiva" la manus sulla moglie.
La coabitazione ininterrotta di un anno ad esempio di un plebeo con una patrizia era considerata un matrimonio legale. L'usus fu abolito da Augusto.
TRINOCTIUM
Nei casi in cui si volesse contrarre matrimonio senza acquisire la manus, si ricorreva all'istituto della trinoctis usurpatio (o semplicemente trinoctium). La donna si allontanava ogni anno per tre notti dalla casa coniugale prima che scadesse il termine dell'usus così da impedire che l'usucapione si compisse.
LA CERIMONIA
La cerimonia del matrimonio si svolgeva in varie tappe:
- Il giorno prima delle nozze la fanciulla consacrava in un tempio ad una divinità di sua scelta i balocchi della sua infanzia, poi si toglieva la toga pretexta (con le due strisce di porpora che la rendeva inviolabile) e la donava alla Fortuna Virginalis.
- Il giorno delle nozze, la fidanzata, che la sera prima aveva raccolto i capelli in una reticella rossa, indossava una tunica senza orli (tunica recta), fissata con una cintura di lana con un nodo doppio (cingulum herculeum), e un mantello (palla) color zafferano, ai piedi sandali dello stesso colore, al collo una collana di metallo e sulla testa un'acconciatura, come quella delle Vestali, formata da sei cercini posticci separati da piccole fasce (seni crines), avvolta in un velo dal color arancio al rosso (flammeum) che copre la parte superiore del viso; sul velo una corona intrecciata di maggiorana e verbena, al tempo di Cesare e d'Augusto, più tardi di mirto e fiori d'arancio.
- Le nozze si svolgono in casa della sposa, infatti, quando ha finito di vestirsi la fidanzata riceve il fidanzato, la famiglia e gli amici di lui: tutti assieme poi sacrificano agli Dei nell'atrium della casa o presso un tempio vicino. Durante il sacrificio della pecora o di un bue, più frequentemente di un maiale, l'auspex, che non è un sacerdote né un funzionario, esamina le interiora per vedere se gli Dei gradiscano quanto è stato celebrato: se così non fosse il matrimonio sarebbe annullato.
- L'atto di unire le mani è un gesto importante nel matrimonio romano, infatti compare più volte nei bassorilievi soprattutto funebri o semplicemente commemorativi, come gesto nuziale e pure affettivo, ed è il gesto preciso che usiamo oggi per stringere la mano a qualcuno. Giustamente i romani lo consideravano un gesto molto intimo, visto che c'è un contatto reciproco di pelle e che riguarda i palmi della mano. Infatti i romani usavano il gesto solo per il matrimonio e, curiosamente, veniva usato tra i seguaci di Mitra che si riconoscevano tramite questo gesto.
- Durante il cammino la sposa lancia ai ragazzini accorsi delle noci come quelle con cui giocava da bambina. Alla testa del corteo sono tre amici dello sposo, uno il pronubus, porta una torcia intrecciata di biancospini, e gli altri due prendono la sposa e senza farle toccare i piedi in terra la sollevano al di là della soglia della casa ornata con paramenti bianchi e verdi fronde.
- Tre amiche della novella sposa entrano anche loro in casa, una porta la conocchia, un'altra il fuso, chiari simboli di quelle che saranno le sue attività casalinghe, mentre la terza, la più importante, accompagna la sposa al letto nuziale dov'è il marito che le toglie il mantello e le scioglie il triplice nodo della cintura che ferma la tunica mentre tutti gli invitati si defilano lasciandoli soli.
L'EMANCIPAZIONE DELLA DONNA
Le spose romane venivano promesse spesso da bambine, per poi essere consegnate al fidanzato quando raggiungevano i 12-13 anni. In età repubblicana, la moglie romana non si differenziava molto da quella greca in quanto passava dall’autorità del padre a quella del marito, ma a differenza della donna greca, la matrona romana veniva istruita e in età imperiale si emancipò, riuscendo ad ottenere notevoli diritti giuridici e libertà personali.
Quando poi s'instaurò il programma demografico di Augusto, con una normativa della legislazione sociale (Ius trium liberorum, "diritto dei tre figli") che puntava a rendere più numerose le famiglie, ogni donna che avesse già avuto tre figli veniva esentata dalla tutela, anche avesse abortito involontariamente o comunque uno o più figli non fossero nati.
Al tempo di Adriano questo processo di liberazione giuridica della donna prevede che essa non abbia più bisogno del tutore per redigere il suo testamento e i padri hanno perso ogni capacità d'imporre alle figlie il matrimonio o di contrastare la loro volontà di sposarsi perché, come dice il grande giureconsulto Salvio Giuliano, nel matrimonio conta il libero consenso della donna e non la costrizione: « nuptiae consensu contrahentium fiunt; nuptis filiam familias consentire oportet».
- Il matrimonio è ufficialmente legale quando gli sposi pronunciano la formula di rito: "Ubi tu Gaius, ego Gaia". (Ovunque tu sarai Gaio ci sarò anch'io Gaia)
Ora la cerimonia è conclusa e gli invitati e i parenti festeggiano gli sposi innalzando grida augurali: feliciter («Felicità!») o Talasius ("Talasio!" antico Dio Italico del matrimonio) e la sposa viene condotta a casa dello sposo con una processione aperta da suonatori di flauto e cinque tedofori mentre si levano canzoni licenziose e gioiose.
Ora la cerimonia è conclusa e gli invitati e i parenti festeggiano gli sposi innalzando grida augurali: feliciter («Felicità!») o Talasius ("Talasio!" antico Dio Italico del matrimonio) e la sposa viene condotta a casa dello sposo con una processione aperta da suonatori di flauto e cinque tedofori mentre si levano canzoni licenziose e gioiose.
- Durante il cammino la sposa lancia ai ragazzini accorsi delle noci come quelle con cui giocava da bambina. Alla testa del corteo sono tre amici dello sposo, uno il pronubus, porta una torcia intrecciata di biancospini, e gli altri due prendono la sposa e senza farle toccare i piedi in terra la sollevano al di là della soglia della casa ornata con paramenti bianchi e verdi fronde.
- Tre amiche della novella sposa entrano anche loro in casa, una porta la conocchia, un'altra il fuso, chiari simboli di quelle che saranno le sue attività casalinghe, mentre la terza, la più importante, accompagna la sposa al letto nuziale dov'è il marito che le toglie il mantello e le scioglie il triplice nodo della cintura che ferma la tunica mentre tutti gli invitati si defilano lasciandoli soli.
IL VELO DELLA SPOSA
Il velo della sposa era rosso, arancione o giallo, a simboleggiare i colori del fuoco, come del resto i colori di Roma più usati nell'edilizia furono il rosso e il giallo. Questo perchè la donna romana, in tempi molto arcaici, rappresentava nelle cerimonie sacerdotali al Dea in terra, e cioè Estia, la Dea del fuoco, che cambiò poi il suo nome in Vesta, da cui le sacerdotesse vestali.
Solo che le sacerdotesse di Estia vestivano di rosso e non avevano alcun obbligo alla verginità, anzi, come in tutti gli antichi templi mediterranei e oltre, esercitavano la prostituzione sacra. All'epoca il sesso non era peccato e mettere al mondo figli era un aiuto alla comunità piuttosto esigua.
Fino all'ultimo la donna romana indossò nel matrimonio il "Flammeum" la fiamma, ma la religione cristiana pensò di togliere anche quest'ultimo attributo obbligando le donne a indossare un abito e un velo bianco, simbolo di quella verginità che avevano obbligato le donne a rispettare fino al matrimonio.
Oggi il velo è bianco come l'abito della sposa, in segno della su verginità, a cui peraltro la donna non è più disumanamente obbligata. Al tempo dei romani invece era molto importante per cui i romani, specie patrizi, e pure di età avanzata, prendevano in moglie le ragazzine dai 12 ai 15 anni, praticamente delle bambine, che sicuramente non erano affatto liete di accompagnarsi ad uomini attempati.
Oggi il velo è bianco come l'abito della sposa, in segno della su verginità, a cui peraltro la donna non è più disumanamente obbligata. Al tempo dei romani invece era molto importante per cui i romani, specie patrizi, e pure di età avanzata, prendevano in moglie le ragazzine dai 12 ai 15 anni, praticamente delle bambine, che sicuramente non erano affatto liete di accompagnarsi ad uomini attempati.
L'EMANCIPAZIONE DELLA DONNA
Per gli antichi la donna era considerata una creatura per natura irresponsabile da tenere continuamente sotto tutela. Nel matrimonio cum manu essa si liberava dalla soggezione dei parenti per cadere sotto quella del marito, in quello sine manu restava sottoposta al tutore "legittimo", designato dalla legge, scelto tra i suoi agnati, alla morte dell'ultimo ascendente in linea diretta. In seguito però, anche in quella sine manu la tutela legittima decadde. Bastava infatti che una donna prendesse a pretesto una disattenzione del tutore legittimo che il pretore compiacente ne indicasse un altro più gradito.
Quando poi s'instaurò il programma demografico di Augusto, con una normativa della legislazione sociale (Ius trium liberorum, "diritto dei tre figli") che puntava a rendere più numerose le famiglie, ogni donna che avesse già avuto tre figli veniva esentata dalla tutela, anche avesse abortito involontariamente o comunque uno o più figli non fossero nati.
Naturalmente questo andò insieme al diritto delle donne di divorziare, cosa in cui ebbe peso significativo di Livia che fece il possibile per liberare le donne dall'oppressione maschile.
Prima di allora solo l'uomo poteva "ripudiare la moglie" per cause previste dalla legge ma che era molto facile evitare, ma la moglie non poteva lasciare il marito.
Insomma sotto Augusto erano sufficienti tre parti per liberarsi dell'autorità maritale, autorità patriarcale rimessa immediatamente dalla Chiesa che si affrettò anche a togliere il divorzio, e solo due millenni dopo la civiltà legale tornò in Italia, esattamente nel 1970, quando venne reintrodotto il divorzio in Italia, e nel 1975 quando la legge italiana fece decadere la podestà maritale sulla moglie.
Al tempo di Adriano questo processo di liberazione giuridica della donna prevede che essa non abbia più bisogno del tutore per redigere il suo testamento e i padri hanno perso ogni capacità d'imporre alle figlie il matrimonio o di contrastare la loro volontà di sposarsi perché, come dice il grande giureconsulto Salvio Giuliano, nel matrimonio conta il libero consenso della donna e non la costrizione: « nuptiae consensu contrahentium fiunt; nuptis filiam familias consentire oportet».