LA I BATTAGLIA DI ZELA (68 a.c.)
« Molte volte [Mitridate] mise in campo più di 400 navi, 50.000 cavalieri e 250.000 fanti, con macchine d'assedio in proporzione. Tra i suoi alleati vi fu il re di Armenia, i principi delle tribù degli Scitiche si trovano intorno al Ponto Eusino ed al mare di Azov e oltre fino al Bosforo tracio. Tenne comunicazioni con i generali delle guerre civili romane, che combatterono molto ferocemente, e con quelli che si erano ribellati in Spagna.
Stabilì rapporti di amicizia con i Galli a scopo di invadere l'Italia. Dalla Cilicia alle Colonne d'Ercole riempì il mare con i pirati, che provocarono la cessazione di ogni commercio e navigazione tra le città del Mediterraneo e causarono gravi carestie per lungo tempo. In breve, non lasciò nulla nel potere di qualunque uomo, che potesse iniziare un qualsiasi movimento possibile, da Oriente a Occidente, vessando, per così dire, il mondo intero, combattendo aggrovigliato nelle alleanze, molestato dai pirati, o infastidito dalla vicinanza della guerra.
Tale e così diversificata fu questa guerra, ma alla fine portò i maggiori benefici ai Romani, che spinsero i confini del loro dominio, dal tramonto del sole al fiume Eufrate. Fu impossibile distinguere tutti questi avvenimenti da parte delle popolazioni coinvolte, da quando iniziarono in contemporanea, e si intersecarono in modo complicato con altri avvenimenti. »
(Appiano, Guerre mitridatiche, 119.)
LUCIO LICINIO LUCULLO |
Mitridate dopo la vittoria su Lucio Licinio Murena volle tornare a sottomettere tutte le popolazioni libere attorno al Ponto Eusino. Nominato generale suo figlio Macare, si spinse alla conquista delle colonie greche al di là della Colchide. Ma la campagna fu disastrosa e dovette chiedere la pace a Roma.
Mitridate poi, venuto a conoscenza della morte di Silla, persuase il genero, Tigrane II d'Armenia, ad invadere la Cappadocia. Intanto Sertorio, il governatore della Spagna, sobillava la provincia e tutte le vicine popolazioni contro Roma, alleandosi poi con Mitridate.
Nell 74 a.c., Mitridate marciò contro la Paflagonia per poi di invadere a Bitinia, da poco provincia romana, il cui governatore provinciale, Marco Aurelio Cotta fuggì. Mitridate assediò Cizico ma fu sconfitto dal console Lucio Licinio Lucullo (73 a.c.).
Fuggito con la sua flotta, Mitridate, fu colpito da una terribile tempesta perdendo 10.000 uomini e sessanta navi, mentre il resto della flotta fu dispersa. Lucullo, secondo Plutarco, fu costretto a chiedere aiuto al regno di Galazia, che gli fornì approvvigionamenti di grano, poi sconfisse le truppe di Mitridate presso Cabira.
Appio Claudio, inviato da Tigrane II ad Antiochia, per chiedere la consegna del suocero, Mitridate VI, tornò da Lucullo senza successo. Contemporaneamente Mitridate e Tigrane stabilirono di invadere Cilicia e Licaonia, fino all'Asia, precorrendo una dichiarazione di guerra.
Nel 69 a.c. Lucullo, si diresse con sole due legioni e 500 cavalieri contro Tigrane, ma l'esercito era riluttante.
Infine Lucullo attraversò l'Eufrate, poi il Tigri ai confini dell'Armenia, e giunse nei pressi della capitale, Tigranocerta (Turchia). Sestilio assediò la città e Lucullo sconfisse Tigrane.
Plutarco racconta che 100.000 furono i morti tra gli Armeni, quasi tutti fanti, solo cinque tra i Romani ed un centinaio rimasti feriti.
Per Tito Livio mai i Romani erano risultati vincitori con forze pari a solo un ventesimo dei nemici, con Lucullo che aveva sconfitto Mitridate "temporeggiando", e Tigrane con la rapidità.
Conquistata Tigranocerta dai romani. molti sovrani orientali chiesero alleanza a Lucullo. Col nuovo anno Tigrane II e Mitridate VI chiesero aiuto al re dei Parti, ma Lucullo, accortosi dell'alleanza, voleva marciare contro di lui ma dovette rinunciare temendo l'ammutinamento dell'esercito in guerra da troppi anni. Puntò allora sulla seconda capitale, Artaxata.
Tigrane si accampò di fronte all'armata romana, sulla riva opposta del fiume Arsania, a protezione della città, e Lucullo, secondo Plutarco, traversò il fiume con 12 coorti, mentre le restanti rimanevano a protezione dei fianchi. Contro di loro fu lanciata la cavalleria armena, composta da arcieri a cavallo che però cedettero alla fanteria romana, infine fuggendo inseguiti dalla cavalleria romana.
I Romani fecero grande strage dei nemici per tutta la notte, infine stanchi di uccidere, di fare prigionieri e di accumulare bottino. A causa del freddo e del gelo Lucullo fu costretto a tornare indietro, però assediando e conquistando Nisibis. Intanto il senato romano decise di sostituire il proconsole Lucullo nel comando della sua provincia, e di mandare in congedo buona parte dei suoi soldati.
Frattanto Tigrane e Mitridate riguadagnarono alcuni dei loro territori. Poi fu Mitridate ad attaccare i Romani, contro un legatus di Lucullo, di nome Fabio, che per poco non fu massacrato insieme al suo esercito, se durante la battaglia Mitridate non fosse stato colpito da una pietra ad un ginocchio e da un dardo sotto l'occhio, costringendolo ad allontanarsi dal campo di battaglia e sospendere i combattimenti, permettendo così a Fabio ed ai Romani di salvarsi.
Poi Fabio fu chiuso ed assediato in Cabira e liberato da un secondo legato, Gaio Valerio Triario, che si trovava casualmente da quelle parti nella sua marcia dall'Asia verso Lucullo.
Fu, quindi, la volta del secondo legatus di Lucullo, Triario, che era venuto in soccorso a Fabio, con il suo esercito. Triario, deciso ad inseguire Mitridate, riuscì a battere il sovrano del Ponto nel corso di questo primo scontro, presso Comana. Poi giunse l'inverno, che interruppe ogni operazione militare da entrambe le parti.
Mitridate si accampò poi presso Gaziura di fronte all'esercito romano, sperando di attirarlo in battaglia prima che giungesse Lucullo, infine mandò alcuni suoi reparti a conquistare Dadasa, una fortezza dove erano ammassati i bagagli dei Romani, sperando che i romani corressero a difendere il luogo. Narra Dione:
« ....quando Triario seppe dell'assedio di Dadasa, ed i soldati preoccupati per quella piazzaforte cominciarono a lamentarsi, minacciando che, se nessuno li avesse guidati, essi sarebbero corsi a difenderla di propria iniziativa, si mosse, si pure contro voglia. I Pontici lo aggredirono, ora che si era messo in marcia, e con la preponderanza del loro numero lo circondarono e massacrarono quelli che si trovavano a loro contatto. Inoltre correvano tutto intorno con la cavalleria, ed uccisero tutti quelli che avevano cercato la fuga nella pianura, senza sapere che su quella era stato deviato un fiume.»
(Cassio Dione Cocceiano, Storia romana, XXXVI, 12.3-4.)
Appiano narra invece che durante questo scontro, si scatenò una terribile tempesta di vento, e Triario, attaccò Mitridate durante la notte. La battaglia si svolse presso Zela, dapprima con esito incerto ma infine Mitridate sfondò il fronte romano, massacrando tutto l'esercito.
Cassio Dione e Appiano narrano di un centurione romano procurò a Mitridate una grave ferita alla coscia. Il centurione fu ucciso ma molti Romani riuscirono a trovare scampo miracolosamente nel subbuglio. Mitridate fu allora portato nelle retrovie, poi venne richiamato l'esercito che fraintese pensando a un'altra battaglia. Infine si strinsero intorno al loro re nella grande pianura, fino a quando Timoteo, il suo medico, riuscì a fermare l'emorragia e sollevò il re in modo che tutti potessero vedere che stava bene, esattamente come era accaduto ad Alessandro Magno in India.
MITRIDATE VI |
Nell 74 a.c., Mitridate marciò contro la Paflagonia per poi di invadere a Bitinia, da poco provincia romana, il cui governatore provinciale, Marco Aurelio Cotta fuggì. Mitridate assediò Cizico ma fu sconfitto dal console Lucio Licinio Lucullo (73 a.c.).
Fuggito con la sua flotta, Mitridate, fu colpito da una terribile tempesta perdendo 10.000 uomini e sessanta navi, mentre il resto della flotta fu dispersa. Lucullo, secondo Plutarco, fu costretto a chiedere aiuto al regno di Galazia, che gli fornì approvvigionamenti di grano, poi sconfisse le truppe di Mitridate presso Cabira.
Appio Claudio, inviato da Tigrane II ad Antiochia, per chiedere la consegna del suocero, Mitridate VI, tornò da Lucullo senza successo. Contemporaneamente Mitridate e Tigrane stabilirono di invadere Cilicia e Licaonia, fino all'Asia, precorrendo una dichiarazione di guerra.
Nel 69 a.c. Lucullo, si diresse con sole due legioni e 500 cavalieri contro Tigrane, ma l'esercito era riluttante.
Infine Lucullo attraversò l'Eufrate, poi il Tigri ai confini dell'Armenia, e giunse nei pressi della capitale, Tigranocerta (Turchia). Sestilio assediò la città e Lucullo sconfisse Tigrane.
Plutarco racconta che 100.000 furono i morti tra gli Armeni, quasi tutti fanti, solo cinque tra i Romani ed un centinaio rimasti feriti.
Per Tito Livio mai i Romani erano risultati vincitori con forze pari a solo un ventesimo dei nemici, con Lucullo che aveva sconfitto Mitridate "temporeggiando", e Tigrane con la rapidità.
Conquistata Tigranocerta dai romani. molti sovrani orientali chiesero alleanza a Lucullo. Col nuovo anno Tigrane II e Mitridate VI chiesero aiuto al re dei Parti, ma Lucullo, accortosi dell'alleanza, voleva marciare contro di lui ma dovette rinunciare temendo l'ammutinamento dell'esercito in guerra da troppi anni. Puntò allora sulla seconda capitale, Artaxata.
Tigrane si accampò di fronte all'armata romana, sulla riva opposta del fiume Arsania, a protezione della città, e Lucullo, secondo Plutarco, traversò il fiume con 12 coorti, mentre le restanti rimanevano a protezione dei fianchi. Contro di loro fu lanciata la cavalleria armena, composta da arcieri a cavallo che però cedettero alla fanteria romana, infine fuggendo inseguiti dalla cavalleria romana.
I Romani fecero grande strage dei nemici per tutta la notte, infine stanchi di uccidere, di fare prigionieri e di accumulare bottino. A causa del freddo e del gelo Lucullo fu costretto a tornare indietro, però assediando e conquistando Nisibis. Intanto il senato romano decise di sostituire il proconsole Lucullo nel comando della sua provincia, e di mandare in congedo buona parte dei suoi soldati.
Frattanto Tigrane e Mitridate riguadagnarono alcuni dei loro territori. Poi fu Mitridate ad attaccare i Romani, contro un legatus di Lucullo, di nome Fabio, che per poco non fu massacrato insieme al suo esercito, se durante la battaglia Mitridate non fosse stato colpito da una pietra ad un ginocchio e da un dardo sotto l'occhio, costringendolo ad allontanarsi dal campo di battaglia e sospendere i combattimenti, permettendo così a Fabio ed ai Romani di salvarsi.
TOMBA DEI RE DEL PONTO |
Fu, quindi, la volta del secondo legatus di Lucullo, Triario, che era venuto in soccorso a Fabio, con il suo esercito. Triario, deciso ad inseguire Mitridate, riuscì a battere il sovrano del Ponto nel corso di questo primo scontro, presso Comana. Poi giunse l'inverno, che interruppe ogni operazione militare da entrambe le parti.
Mitridate si accampò poi presso Gaziura di fronte all'esercito romano, sperando di attirarlo in battaglia prima che giungesse Lucullo, infine mandò alcuni suoi reparti a conquistare Dadasa, una fortezza dove erano ammassati i bagagli dei Romani, sperando che i romani corressero a difendere il luogo. Narra Dione:
« ....quando Triario seppe dell'assedio di Dadasa, ed i soldati preoccupati per quella piazzaforte cominciarono a lamentarsi, minacciando che, se nessuno li avesse guidati, essi sarebbero corsi a difenderla di propria iniziativa, si mosse, si pure contro voglia. I Pontici lo aggredirono, ora che si era messo in marcia, e con la preponderanza del loro numero lo circondarono e massacrarono quelli che si trovavano a loro contatto. Inoltre correvano tutto intorno con la cavalleria, ed uccisero tutti quelli che avevano cercato la fuga nella pianura, senza sapere che su quella era stato deviato un fiume.»
(Cassio Dione Cocceiano, Storia romana, XXXVI, 12.3-4.)
Cassio Dione e Appiano narrano di un centurione romano procurò a Mitridate una grave ferita alla coscia. Il centurione fu ucciso ma molti Romani riuscirono a trovare scampo miracolosamente nel subbuglio. Mitridate fu allora portato nelle retrovie, poi venne richiamato l'esercito che fraintese pensando a un'altra battaglia. Infine si strinsero intorno al loro re nella grande pianura, fino a quando Timoteo, il suo medico, riuscì a fermare l'emorragia e sollevò il re in modo che tutti potessero vedere che stava bene, esattamente come era accaduto ad Alessandro Magno in India.
Non appena Mitridate si riprese, rimproverò coloro che avevano richiamato l'esercito dalla lotta, e condusse immediatamente i suoi uomini di nuovo, contro l'accampamento romano che era già fuggito. Nello spogliare i morti, furono trovati, tra i 7.000 legionari romani, ben 24 tribuni e 150 centurioni. Una delle più terribili sconfitte subite dai Romani.
Mitridate si ritirò nella piccola Armenia (sulle alture nei pressi Talauro), distruggendo tutto ciò che non era in grado di trasportare, in modo da evitare di essere raggiunto da Lucullo nella sua marcia. E mentre Lucullo era ormai accampato non distante da Mitridate, Roma lo esautorò dal comando e le legioni vennero sciolte.
Mitridate si ritirò nella piccola Armenia (sulle alture nei pressi Talauro), distruggendo tutto ciò che non era in grado di trasportare, in modo da evitare di essere raggiunto da Lucullo nella sua marcia. E mentre Lucullo era ormai accampato non distante da Mitridate, Roma lo esautorò dal comando e le legioni vennero sciolte.
II BATTAGLIA DI ZELA - VENI VIDI VICI - (4/ a.c.)
La battaglia di Zela, che prende il nome dall'omonima città (odierna Zile, nella Turchia orientale), si svolse nel 47 a.c. tra i Romani e i Pontici, guidati rispettivamente da Giulio Cesare e Farnace II, figlio di Mitridate VI e re del Ponto.
Ai romani bruciava ancora la sconfitta di quasi vent'anni prima sofferta dall'esercito romano di Triario ad opera di Mitridate. I romani non sopportavano di essere battuti, tutti i popoli che ritenevano i romani imbattibili potevano ribellarsi, e per giunta Roma aveva un grande orgoglio, occorreva vendetta.
Approfittando della guerra civile, Farnace, già prima della battaglia di Farsalo, aveva occupato Sinope; quindi invase la Colchide e occupò la piccola Armenia e la Cappadocia. I re scacciati si rivolsero per aiuto al luogotenente di Cesare in Asia Minore, che però fu battuto da Farnace presso Nicopoli (dicembre 48 a.c.) e dovette ritirarsi nella provincia d'Asia. Farnace allora invase il Ponto, la Paflagonia, la Cappadocia e la Bitinia.
Era troppo, Cesare dovette intervenire personalmente in Asia. Si recò prima ad Antiochia (giugno 47 a.c.), sottomise la Siria, passò in Cilicia e poi in Cappadocia, dirigendosi contro Farnace, a cui intanto si era ribellato il suo governatore nel regno bosporano, per cui tentò di trattare la pace con Cesare. Ma questi non era giunto in Asia Minore per nulla, per cui continuò la sua avanzata e sconfisse Farnace a Zela nella Cappadocia (2 agosto 47 a. c.) in una battaglia che durò appena 4 ore, quindi annunziò la sua vittoria a Roma col famoso "VENI, VIDI, VICI."
L'esercito di Farnace occupava la collina dominata da Zela, mentre Cesare recò il suo esercito in un'altura vicina. Mentre i Romani stavano ultimando la postazione, i nemici partirono improvvisamente contro di loro, cogliendoli alla sprovvista poiché i Romani reputavano illogico abbandonare una posizione vantaggiosa come quella di Zela per attaccare un accampamento in salita.
La battaglia di Zela non assunse i contorni storici che fecero di quella viennese una delle più importanti mai combattute: anzi, si tenne in una regione in fondo periferica dei domini romani, ben lontana da Roma e dal cuore del Mediterraneo.
Tuttavia, la perentorietà con cui Giulio Cesare intervenne ai confini della Respublica e l'acume con il quale, ancora una volta, seppe volgere a proprio favore una situazione tatticamente sfavorevole, si pongono a lode del suo leggendario genio bellico.
Dal messaggio“Veni, vidi, vici”spedito a Roma per annunciare la vittoria, traspaiono l'orgoglio smisurato e l'autoconsiderazione sublimata di Cesare: i tre bisillabi furono una testimonianza, fredda ed essenziale nella forma ma in realtà intensa e piena, della assoluta consapevolezza, da parte del grande Romano, di una personale superiorità rispetto a tutti i contemporanei.
(CARLO CIULLINI)
La frase di Cesare «Veni, vidi, vici» brevettata a sorpresa da un comune in Turchia
(di Vittorio Da Rold16 aprile 2012)
Siamo certi che il sindaco di Roma non la prenderà bene. Un comune turco, a sorpresa, si è appropriato, brevettandolo, del copyright di una delle frasi più famose dell'imperatore romano, Giulio Cesare: «Veni, vidi, vici».
La mossa è sorprendente perché la Turchia moderna ha sempre cercato di prendere le distanze dalla storia antica romana e di privilegiare le vicende dell'impero ottomano. Ma ora, evidentemente, le cose stanno cambiando.
Ci sono voluti due anni e mezzo per acquisire il brevetto, ha detto il sindaco di Zile, Lutfi Vidinel. «Ora il copyright della frase appartiene al nostro Comune per i prossimi 10 anni e stiamo progettando di rinnovarlo ogni decennio. Una multinazionale del tabacco sta usando questa frase come parte del suo logo del marchio e stiamo pensando di contattarli e chiedere la nostra quota di diritti d'autore per l'uso della frase». «I fondi che otterremo verranno usati per la lotta contro il tabagismo», ha detto Vidinel dando così prova di una certa sensibilità sociale.
LA BATTAGLIA
L'esercito di Farnace occupava la collina dominata da Zela, mentre Cesare recò il suo esercito in un'altura vicina. Mentre i Romani stavano ultimando la postazione, i nemici partirono improvvisamente contro di loro, cogliendoli alla sprovvista poiché i Romani reputavano illogico abbandonare una posizione vantaggiosa come quella di Zela per attaccare un accampamento in salita.
Dopo i primi momenti di confusione, nei quali i Romani ricevettero le maggiori perdite di uomini, Cesare riuscì a organizzare l'esercito (più addestrato ed esperto di quello nemico) in una linea di difesa, per poi passare al contrattacco.
Schierò le sue quattro legioni, la VI a destra, poi la legione Pontica, la legione di Deiotaro e infine la XXXVI legione sulla sinistra. L'esercito di Farnace fu costretto a retrocedere disordinatamente dalla collina, per poi essere completamente sconfitto.
Fu uno scontro sanguinoso, durato quattro o cinque ore: le legioni cesariane soffrirono molte perdite, ma l'esercito di Farnace, di 20.000 uomini, fu annientato completamente. Dopo la vittoria, Cesare si recò a Zela e da lì inviò a Roma il famoso messaggio "Veni, vidi, vici" (letteralmente Venni, vidi, vinsi). Queste sue parole furono incise su un cilindro di marmo,
CESARE A ZELA (Fonte)
“Alea iacta est”, “Veni, vidi, vici”...: sono le frasi di chi fu il protagonista assoluto di eventi epocali, e che non nutrì mai alcun dubbio circa l'iniziativa da intraprendere a corpo morto, con ardore e vigoria senza pari.
Zela, 47 a.c.: qui ebbe luogo la battaglia nella quale rifulsero, una volta di più, le sublimi doti militari di Cesare, che investì il nemico sorpreso dalla fulmineità dell'azione. Il generale proveniva dall'Egitto dove, assieme a Cleopatra, aveva sostenuto un assedio alla reggia alessandrina portato dalla fazione cittadina ostile alla regina.
Ma, pur non stornando lo sguardo dal Mediterraneo, Cesare veniva spinto dagli eventi in Asia Minore, non lontano dalle sponde del Mar Nero. A Zela già avevano cozzato le armi, nel 67 a.C., quando l'esercito pontico del re Mitridate, uno dei più fieri nemici che mai osteggiarono Roma, sbaragliò le legioni di Lucullo.
Mitridate, provato dagli anni e da una guerra ultra-trentennale contro la Respublica, ritenne giunto il momento di porre fine ai suoi giorni. Il Ponto divenne allora provincia romana, e il rispetto mostrato a Roma da parte dell'imbelle Farnace gli valse l'assegnazione di un piccolo regno, il Bosforo Cimmerio, l'odierna penisola di Crimea.
Da qui, formalmente alleato dell'Urbe, egli assistette da spettatore interessato al cruento evolversi della guerra civile tra Cesare e Pompeo, non intervenendo a fianco né dell'uno né dell'altro. Ma, sfortunatamente, Farsalo non arrise alla scelta di campo pompeiana dei due...Farnace, da parte sua, non poté che ringalluzzirsi, in segreto: i Romani se le davano di santa ragione tra loro, mentre i re vicini, impegnati in Tessaglia al fianco di Pompeo, avevano privato i propri reami delle migliori truppe per condurle in battaglia. Grazie a ciò, Farnace aveva rioccupato l'antico dominio del padre e mirava a nuovi possessi, appunto quelli di Deiotaro e Ariobarzane, lasciati pressoché incustoditi.
Domizio Calvino aveva tentato inutilmente, con le sue scarse truppe di stanza nel Ponto, di contrastare le mire del “vassallo-ribelle”: a Nicopoli il legatus era stato duramente sconfitto, e non pochi cives romani, commercianti per la maggior parte, ormai indifesi erano stati trucidati dai Pontici.
Urgeva l'intervento deciso di Cesare; ci rifacciamo, per la ricostruzione dei fatti, al “Bellum Alexandrinum”, un testo che, pur appartenendo al Corpus caesarianum, quasi sicuramente non fu scritto dal dittatore, ma da chi fu comunque testimone diretto delle vicende descritte: si fa il nome, al proposito, del fidato (ma quanto fide degno...?) luogotenente Aulo Irzio, che seguì il suo generale in tutte le principali campagne.
Cesare, riportano le pagine del “Bellum”, giunto a ritmi forzati in Anatolia dall'Egitto cleopatreo, incontrò al suo arrivo l'anziano Deiotaro che, in veste di supplice, chiese perdono per esser sceso in campo dalla parte sbagliata, quella di Pompeo e dei senatori conservatori.
Adesso, battuto con gli alleati a Farsalo, si inchinava al vincitore mettendosi nelle sue mani pietose: e anche stavolta Cesare non venne meno alla sua proverbiale clemenza, riaffidando al suo legittimo re la Galazia, minacciata dappresso da Farnace; chiese tuttavia al vassallo la consegna della Legio deioterana che, unita alle sue VI e XXXVI e agli scampati della Legio Ponticare reduce dalla disfatta di Nicopoli, poteva permettere una risistemazione delle cose d'Anatolia in favore della Respublica.
Lasciato il vecchio re dei Galati, Cesare si vide stavolta venire incontro gli ambasciatori di Farnace, incaricati di ammansire il grande condottiero, invero poco incline a un facile perdono: rifiutò da subito, infatti, la corona d'oro che gli venne mellifluamente offerta.
Parve inflessibile a prescindere, e niente affatto malleabile: il non aver Farnace preso le parti pompeiane non significava, ai suoi occhi, essersi emendato dalla colpa; il rampollo della casata mitridatica, infatti, aveva disatteso agli ordini partiti da Roma nel bel mezzo del caos legato alla guerra civile, e il suo conseguente, calcolato non-intervento sembrava al generale romano una mossa ben studiata in vista di un futuro rendiconto.
Cesare non offrì alternative ai messaggeri di Farnace: innanzitutto, il Ponto doveva esser sgombrato e tornare provincia romana; dopodiché, tutti i beni violentemente sottratti nella regione ai cives e agli alleati dovevano venir restituiti.
Farnace, appresa la risoluta risposta del Romano, tergiversò, riponendo silente la propria fiducia nel fatto che Cesare dovesse comunque lasciare l'Anatolia a giorni, per recarsi prontamente nella Capitale dove si esigeva la sua presenza per sbrogliare la caotica emergenza politico-istituzionale.
Ma il nuovo signore di Roma subodorò le intenzioni proditorie del re, e decise di agire di conseguenza, con impareggiabile efficacia e sollecitudine. In un luminoso giorno d'Agosto, a Zela, due colline poste l'una di fronte all'altra furono teatro di uno scontro protrattosi per poche ore, ma sanguinosissimo.
L'esercito pontico, forte di ventimila uomini, si era accampato su un'altura in cima alla quale si ergeva la cittadina di Zela; di fronte al nemico, Cesare, improvvisamente sopraggiunto, fece occupare dalle sue quattro legioni una collina della stessa altezza circa.
Pur sorpreso dall'improvviso arrivo delle armi romane, il figlio di Mitridate diede l'ordine ai suoi di scaraventarsi giù dalle proprie posizioni e di assalire repentinamente le linee legionarie, per quanto ciò richiedesse alle schiere pontiche un attacco tanto impetuoso quanto fiaccante: solo una poderosa ascesa dell'altura tenuta da Cesare poteva permettere di scontrarsi coi milites appena giunti, e dunque non ancora allineati.
I ruoli parvero così ribaltarsi: i Romani si smarrirono a loro volta per l'inattesa mossa avversaria, ritenendo un attacco ascendente da parte dei Pontici troppo dispendioso e per forza di cose destinato all'insuccesso. Le prime fasi della battaglia furono devastanti per i cesariani: le coorti, colte impreparate, non ebbero la prontezza di predisporre da subito una efficace reazione, e cominciarono a cedere il passo con gravi perdite.
Ma il genio tattico di Caio Giulio Cesare vegliava splendente e protettivo sopra i vexilla delle legioni: niente affatto persosi d'animo, il condottiero piazzò a destra la Legio VI, poi la Pontica, la Deioterana e, infine, la XXXVI sull'estrema sinistra. In breve tempo le parti si invertirono nuovamente: i Pontici, spossati dalla salita e dal non aver fatto crollare la resistenza romana al primo assalto (che avrebbe dovuto essere necessariamente anche quello decisivo), cominciarono a indietreggiare decimati.
In un baleno, la ritirata pontica si trasformò in una vera e propria rotta, con le schiere di Farnace incalzate senza pietà dai legionari: ben pochi furono quelli che riuscirono a guadagnare le posizioni di partenza, rifugiandosi nel campo posto alle porte di Zela.
Fu una salvezza solo momentanea, giacché i Romani penetrarono oltre il vallo facendo strage: Farnace riuscì comunque a salvar la pelle, galoppando spedito verso il proprio regnucolo, accompagnato da qualche centinaio di cavalieri.
Seppe mantenere la sovranità sui suoi limitati possessi per circa tre lustri, prima che un suo generale, Asandro, lo facesse fuori per sostituirlo sul trono. Non ancora soddisfatto, il regicida consolidò il nuovo assetto dinastico sposando la figlia dell'assassinato: per quieto vivere, ad ogni modo, Asandro giurò piena fedeltà a Roma, facendosene un vassallo su cui riporre piena fiducia.
Tenersi buona Roma, la padrona del mondo, risultava a quei tempi la terapia migliore per sopravvivere serenamente assiso su uno scranno regale. Cessato a Zela il clangore delle armi, Cesare spedì (pare al caro amico Gaio Mazio) il leggendario messaggio, tanto breve quanto significativo; fu eretto sul luogo della battaglia anche un cippo commemorativo, riportante le tre fatidiche parole: di recente, purtroppo, è misteriosamente scomparso nel nulla.
“Alea iacta est”, “Veni, vidi, vici”...: sono le frasi di chi fu il protagonista assoluto di eventi epocali, e che non nutrì mai alcun dubbio circa l'iniziativa da intraprendere a corpo morto, con ardore e vigoria senza pari.
Zela, 47 a.c.: qui ebbe luogo la battaglia nella quale rifulsero, una volta di più, le sublimi doti militari di Cesare, che investì il nemico sorpreso dalla fulmineità dell'azione. Il generale proveniva dall'Egitto dove, assieme a Cleopatra, aveva sostenuto un assedio alla reggia alessandrina portato dalla fazione cittadina ostile alla regina.
TERRITORI DEL PONTO DOPO LA BATTAGLIA DI ZELA IN VIOLA SCURO. IN VIOLA CHIARO IL TERRITORIO CONQUISTATO DA ROMA (cartina ingrandibile) |
Mitridate, provato dagli anni e da una guerra ultra-trentennale contro la Respublica, ritenne giunto il momento di porre fine ai suoi giorni. Il Ponto divenne allora provincia romana, e il rispetto mostrato a Roma da parte dell'imbelle Farnace gli valse l'assegnazione di un piccolo regno, il Bosforo Cimmerio, l'odierna penisola di Crimea.
Da qui, formalmente alleato dell'Urbe, egli assistette da spettatore interessato al cruento evolversi della guerra civile tra Cesare e Pompeo, non intervenendo a fianco né dell'uno né dell'altro. Ma, sfortunatamente, Farsalo non arrise alla scelta di campo pompeiana dei due...Farnace, da parte sua, non poté che ringalluzzirsi, in segreto: i Romani se le davano di santa ragione tra loro, mentre i re vicini, impegnati in Tessaglia al fianco di Pompeo, avevano privato i propri reami delle migliori truppe per condurle in battaglia. Grazie a ciò, Farnace aveva rioccupato l'antico dominio del padre e mirava a nuovi possessi, appunto quelli di Deiotaro e Ariobarzane, lasciati pressoché incustoditi.
Domizio Calvino aveva tentato inutilmente, con le sue scarse truppe di stanza nel Ponto, di contrastare le mire del “vassallo-ribelle”: a Nicopoli il legatus era stato duramente sconfitto, e non pochi cives romani, commercianti per la maggior parte, ormai indifesi erano stati trucidati dai Pontici.
Urgeva l'intervento deciso di Cesare; ci rifacciamo, per la ricostruzione dei fatti, al “Bellum Alexandrinum”, un testo che, pur appartenendo al Corpus caesarianum, quasi sicuramente non fu scritto dal dittatore, ma da chi fu comunque testimone diretto delle vicende descritte: si fa il nome, al proposito, del fidato (ma quanto fide degno...?) luogotenente Aulo Irzio, che seguì il suo generale in tutte le principali campagne.
Cesare, riportano le pagine del “Bellum”, giunto a ritmi forzati in Anatolia dall'Egitto cleopatreo, incontrò al suo arrivo l'anziano Deiotaro che, in veste di supplice, chiese perdono per esser sceso in campo dalla parte sbagliata, quella di Pompeo e dei senatori conservatori.
Adesso, battuto con gli alleati a Farsalo, si inchinava al vincitore mettendosi nelle sue mani pietose: e anche stavolta Cesare non venne meno alla sua proverbiale clemenza, riaffidando al suo legittimo re la Galazia, minacciata dappresso da Farnace; chiese tuttavia al vassallo la consegna della Legio deioterana che, unita alle sue VI e XXXVI e agli scampati della Legio Ponticare reduce dalla disfatta di Nicopoli, poteva permettere una risistemazione delle cose d'Anatolia in favore della Respublica.
CESARE |
Parve inflessibile a prescindere, e niente affatto malleabile: il non aver Farnace preso le parti pompeiane non significava, ai suoi occhi, essersi emendato dalla colpa; il rampollo della casata mitridatica, infatti, aveva disatteso agli ordini partiti da Roma nel bel mezzo del caos legato alla guerra civile, e il suo conseguente, calcolato non-intervento sembrava al generale romano una mossa ben studiata in vista di un futuro rendiconto.
Cesare non offrì alternative ai messaggeri di Farnace: innanzitutto, il Ponto doveva esser sgombrato e tornare provincia romana; dopodiché, tutti i beni violentemente sottratti nella regione ai cives e agli alleati dovevano venir restituiti.
Farnace, appresa la risoluta risposta del Romano, tergiversò, riponendo silente la propria fiducia nel fatto che Cesare dovesse comunque lasciare l'Anatolia a giorni, per recarsi prontamente nella Capitale dove si esigeva la sua presenza per sbrogliare la caotica emergenza politico-istituzionale.
Ma il nuovo signore di Roma subodorò le intenzioni proditorie del re, e decise di agire di conseguenza, con impareggiabile efficacia e sollecitudine. In un luminoso giorno d'Agosto, a Zela, due colline poste l'una di fronte all'altra furono teatro di uno scontro protrattosi per poche ore, ma sanguinosissimo.
L'esercito pontico, forte di ventimila uomini, si era accampato su un'altura in cima alla quale si ergeva la cittadina di Zela; di fronte al nemico, Cesare, improvvisamente sopraggiunto, fece occupare dalle sue quattro legioni una collina della stessa altezza circa.
Pur sorpreso dall'improvviso arrivo delle armi romane, il figlio di Mitridate diede l'ordine ai suoi di scaraventarsi giù dalle proprie posizioni e di assalire repentinamente le linee legionarie, per quanto ciò richiedesse alle schiere pontiche un attacco tanto impetuoso quanto fiaccante: solo una poderosa ascesa dell'altura tenuta da Cesare poteva permettere di scontrarsi coi milites appena giunti, e dunque non ancora allineati.
I ruoli parvero così ribaltarsi: i Romani si smarrirono a loro volta per l'inattesa mossa avversaria, ritenendo un attacco ascendente da parte dei Pontici troppo dispendioso e per forza di cose destinato all'insuccesso. Le prime fasi della battaglia furono devastanti per i cesariani: le coorti, colte impreparate, non ebbero la prontezza di predisporre da subito una efficace reazione, e cominciarono a cedere il passo con gravi perdite.
Ma il genio tattico di Caio Giulio Cesare vegliava splendente e protettivo sopra i vexilla delle legioni: niente affatto persosi d'animo, il condottiero piazzò a destra la Legio VI, poi la Pontica, la Deioterana e, infine, la XXXVI sull'estrema sinistra. In breve tempo le parti si invertirono nuovamente: i Pontici, spossati dalla salita e dal non aver fatto crollare la resistenza romana al primo assalto (che avrebbe dovuto essere necessariamente anche quello decisivo), cominciarono a indietreggiare decimati.
In un baleno, la ritirata pontica si trasformò in una vera e propria rotta, con le schiere di Farnace incalzate senza pietà dai legionari: ben pochi furono quelli che riuscirono a guadagnare le posizioni di partenza, rifugiandosi nel campo posto alle porte di Zela.
Fu una salvezza solo momentanea, giacché i Romani penetrarono oltre il vallo facendo strage: Farnace riuscì comunque a salvar la pelle, galoppando spedito verso il proprio regnucolo, accompagnato da qualche centinaio di cavalieri.
Seppe mantenere la sovranità sui suoi limitati possessi per circa tre lustri, prima che un suo generale, Asandro, lo facesse fuori per sostituirlo sul trono. Non ancora soddisfatto, il regicida consolidò il nuovo assetto dinastico sposando la figlia dell'assassinato: per quieto vivere, ad ogni modo, Asandro giurò piena fedeltà a Roma, facendosene un vassallo su cui riporre piena fiducia.
Tenersi buona Roma, la padrona del mondo, risultava a quei tempi la terapia migliore per sopravvivere serenamente assiso su uno scranno regale. Cessato a Zela il clangore delle armi, Cesare spedì (pare al caro amico Gaio Mazio) il leggendario messaggio, tanto breve quanto significativo; fu eretto sul luogo della battaglia anche un cippo commemorativo, riportante le tre fatidiche parole: di recente, purtroppo, è misteriosamente scomparso nel nulla.
La battaglia di Zela non assunse i contorni storici che fecero di quella viennese una delle più importanti mai combattute: anzi, si tenne in una regione in fondo periferica dei domini romani, ben lontana da Roma e dal cuore del Mediterraneo.
Tuttavia, la perentorietà con cui Giulio Cesare intervenne ai confini della Respublica e l'acume con il quale, ancora una volta, seppe volgere a proprio favore una situazione tatticamente sfavorevole, si pongono a lode del suo leggendario genio bellico.
Dal messaggio“Veni, vidi, vici”spedito a Roma per annunciare la vittoria, traspaiono l'orgoglio smisurato e l'autoconsiderazione sublimata di Cesare: i tre bisillabi furono una testimonianza, fredda ed essenziale nella forma ma in realtà intensa e piena, della assoluta consapevolezza, da parte del grande Romano, di una personale superiorità rispetto a tutti i contemporanei.
(CARLO CIULLINI)
La frase di Cesare «Veni, vidi, vici» brevettata a sorpresa da un comune in Turchia
(di Vittorio Da Rold16 aprile 2012)
Siamo certi che il sindaco di Roma non la prenderà bene. Un comune turco, a sorpresa, si è appropriato, brevettandolo, del copyright di una delle frasi più famose dell'imperatore romano, Giulio Cesare: «Veni, vidi, vici».
La mossa è sorprendente perché la Turchia moderna ha sempre cercato di prendere le distanze dalla storia antica romana e di privilegiare le vicende dell'impero ottomano. Ma ora, evidentemente, le cose stanno cambiando.