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IL PATER FAMILIAS

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Il padre romano era il custode delle memorie degli antenati, nonché del fuoco domestico, accanto al quale si veneravano gli dei della famiglia o lares; l'unico che poteva disporre del patrimonio della gens (bestiame, casa, schiavitù, campi). Tuttavia nell'antica storia di Roma il valore assegnato al padre gli dava un potere enorme che era il fondamento però dell'autorità cui si doveva obbedienza assoluta.

Questo perchè gli antichi Romani erano, più dei Greci, sensibilissimi al valore civile e a quello militare, ma molto meno al valore dei figli. Quindi nell’antica Roma il rapporto padre figlio era alquanto rilevante e si fondava sul concetto di pater familias e di patria potestas, dove la familia era intesa come “società familiare” e comprendeva tutti coloro che vivevano sotto la tutela del pater familias nella stessa casa, comprendendo quindi anche ascendenti, discendenti, parenti e schiavi.

I diritti del pater familias, nei primi secoli della storia di Roma, erano molto ampi, dall’aspetto economico e politico a quello educativo e religioso. Il pater familias aveva il diritto di esercitare la legge all’interno della sua familia come un magistrato, infliggendo sanzioni non solo per reati che avevano attinenza con la famiglia ma anche per crimini pubblici.

Sulla patria potestas si esprime il giurista Gaio (II secolo d.c.)
"Non vi sono altri uomini al mondo che hanno sui figli lo stesso potere che abbiamo noi".

Mentre in Grecia terminava con la maggiore età dei figli, a Roma perdurava fino alla morte dei padri. Il pater familias esercitava il potere giuridico in quattro diritti fondamentali: 
- lo ius exponendi, cioè il diritto di esporre i figli neonati;
- lo ius vendendi, ovvero il diritto di vendere come schiavo il figlio all’estero per mero lucro;
- lo ius noxae dandi, che consisteva nel cedere ad altri un figlio per liberarsi delle conseguenze giudiziarie di un atto illecito commesso dal padre,
- lo ius vitae et necis, il diritto di vita e di morte sul figlio che riguardava però i figli grandi.

Il padre era poi un sacerdote all’interno della familia in quanto compiva sacrifici agli Dei della casa per assicurare la loro protezione sull’ambiente domestico. Anche il riconoscimento del figlio spettava al padre che in segno di gradimento sollevava il figlio da terra, già deposto dalla balia davanti al pater familias.

Intorno ai sette anni il padre cominciava a occuparsi personalmente della sua educazione, dell’addestramento e della sua istruzione. Il figlio, non ancora adolescente, seguiva il padre nella vita pubblica osservandone i comportamenti e studiandone le relazioni. A diciassette anni il ragazzo romano abbandonava la toga praetexta per indossare quella virilis. Questo avveniva con una cerimonia che segnava la fine dell’età dei giochi e l’inizio dell’età adulta. 

Plinio il Giovane ricorda che "Ciascuno aveva come maestro il proprio padre" (ma egli fu fortunato col saggio e generoso Plinio il Vecchio), e in segno di riconoscimento per l’educazione ricevuta, il primo compito che il figlio adulto si assumeva era di attaccare in tribunale uno dei nemici del padre. 

Pertanto il filius familias non aveva alcuna autonomia e il padre era vissuto dal figlio come opprimente e duro, come colui che poteva decidere sulla sua vita o sulla sua morte e per questo a volte accadeva che il rapporto si complicasse così tanto da sfociare in delitto e in particolare in parricidio, un reato a quel tempo non insolito. 

Un giovane orfano aveva infatti molta più libertà rispetto a un filius familias che non poteva  concludere un contratto, né affrancare uno schiavo, né fare testamento, né possedere nulla oltre il suo peculio, proprio come uno schiavo. In più correva anche il rischio di essere diseredato. 

Se il padre moriva per cause naturali il ragazzo poteva diventare capofamiglia anche all’età di vent’anni ma se ciò non accadeva restava minore fino alla morte del padre. Questa situazione veniva vissuta dai figli, ormai divenuti adulti, come ingiusta e frustrante. Naturalmente esistevano padri buoni e generosi e padri severi fino alla crudeltà. 
Cicerone al contrario sottolineò il rapporto padre-figlio in termini di reciprocità: padre e figlio sono orgogliosi delle gesta positive compiute dall’altro ma entrambi subiscono anche le conseguenze delle azioni disdicevoli.

I figli pertanto diventavano uomini adulti senza autonomia economica né diritti giuridici finché era in vita il padre. Pertanto la morte del padre sovente diventava desiderio. “Sexagenarii de ponte” (I sessantenni giù dal ponte), recita un vecchio detto romano alludendo alla pratica di buttare dal ponte Sublicio statuette di giunco modellate in forma umana nel Tevere, in una società in cui i sessant'anni erano considerati estrema vecchiaia. Pratica che in età Imperiale venne dismessa.

Dalla realtà giuridica è anche facile capirne i motivi: padri unici titolari dei diritti e figli adulti costretti ancora a dipendere. Figli che, se maschi e se maggiorenni, godevano tuttavia di diritti minori, quale il diritto a partecipare alle assemblee, o a ricoprire cariche pubbliche, incongruenza che generava non pochi equivoci.

Ci è di esempio Caio Flaminio, tribuno, che promulga una legge agraria nonostante l'opposizione del Senato il quale minaccia di scatenargli contro l'esercito, ma lui non cambia idea. Coraggioso, temerario, Caio Flaminio porta avanti la legge. Un giorno però, proprio quando sta riferendo in assemblea, arriva il padre che lo trascina giù dai rostri e lo porta via come un qualsiasi bambino bizzoso. E il figlio senza protestare deve rimettersi alla volontà paterna.

Da una legge attribuita a Romolo veniamo a sapere che a Roma i padri sui figli avevano diritto di: incarcerarli, percuoterli, costringerli a lavorare nel proprio fondo, venderli e ucciderli.



VARI PADRI

- Cicerone - A Roma si legava la riuscita del primogenito maschio alla reputazione dell’intera famiglia. Pertanto i padri seguivano molto da vicino l'educazione del figlio. Cicerone, per esempio, non solo affida suo figlio Marco a insegnanti di prim’ordine, ma controlla personalmente il suo apprendimento,  e l’operato dei maestri, dedicando poi al figlio l’opera De Officiis, in cui gli fornisce consigli e insegnamenti di ordine morale, etico e civico. 

Marco, unico figlio e ventenne, aveva già militato nell’esercito di Pompeo, comandando un piccolo reparto di cavalleria e facendosi onore. In seguito avrebbe voluto seguire Cesare in Spagna ma il padre che non aveva simpatia per Cesare, si oppose e lo mandò ad Atene a studiare eloquenza con Gorgia e filosofia con Cratippo. «Se non che Gorgia, più bisognoso di guida che capace di far da guida, trascinava l’alunno ai piaceri e al bere più che al bello scrivere e all’ornato parlare. Il padre, sgomento, a gran fatica distaccò da lui il figliolo, e l’affidò tutto alle cure di Cratippo, valoroso e intemerato maestro. Marco non era d’indole cattiva: era volubile, leggero, più inclinato allo spendere e al godere che alla moderazione e allo studio. Sicché nell’animo di Cicerone, le afflizioni del cittadino si confondevano con le inquietudini del padre»

Di certo il rapporto del padre con le femmine era assai meno conflittuale, e quindi, forse, più affettivo; tuttavia non si possono ignorare alcuni episodi famosi di spietata durezza da parte del padre nei confronti della figlia. Cicerone si mostra invece molto tenero non solo nei confronti del figlio maschio ma anche in quelli della femmina, l’adorata Tulliola, l’unica persona che lui non criticò mai ed amò svisceratamente.

- Orazio, nelle sue Satire, ricorda il suo rapporto con il padre: "Se nessuno in buona fede può rinfacciarmi avidità, sordidezza o pratica di bordelli; se io vivo, tanto da darmi lode, immune da colpe e caro agli amici; di tutto questo ha merito mio padre che, pur con le magre risorse di un piccolo podere, non solo non volle mandarmi alla scuola di Flavio, che frequentavano, con borse e taccuini sotto il braccio, i figli illustri dei più illustri centurioni, pagando otto assi alle Idi di ogni mese, ma ebbe il coraggio di portarmi a Roma, poco più che fanciullo, per farmi impartire quell’istruzione, che cavalieri e senatori fanno impartire ai propri figli.

 - Seneca ci informa sul diverso atteggiamento del padre e della madre verso i fanciulli: "Non vedi quanto siano diversamente accondiscendenti i padri e le madri? I padri pretendono che i figli si sveglino presto per attendere ai loro doveri, non permettono ad essi di starsene oziosi neanche nei giorni di festa, e ne strappano sudore e talvolta lacrime; invece le madri vogliono riscaldarserli al seno, coccolarli nell’ombra, desiderano che non siano mai tristi, non piangano mai, non si affatichino mai.

- Quintiliano parla delle cure che fin dai primi anni dell’infanzia, ad un fanciullo di buona famiglia e destinato a diventare oratore. Il bambino deve essere circondato da persone che parlino bene e usino un linguaggio corretto e la moralità dei fanciulli va salvaguardata attraverso una cura attenta e costante da parte dei genitori. 

- Giovenale dedica la XIV Satira all’educazione paterna e rammenta i vizi che i genitori attraverso l’esempio trasmettono ai figli. Se il pernicioso gioco dei dadi piace ad un vecchio, gioca anche l’erede ancora bambino. E non lascerà sperare meglio di sé ai parenti un giovane che da suo padre, sfaticato e goloso di vecchia data, ha appreso a raschiare i tartufi, a condire i funghi e a far nuotare nella salsa i beccafichi. Quando il fanciullo compirà sette anni e non avrà ancora messo i denti definitivi, già sarà inutile mettergli accanto mille maestri che gli insegnino la morigeratezza: egli pretenderà sempre di cenare nel lusso e non si staccherà mai dall’abitudine di una grassa cucina.

E come ci si può aspettare che in una casa dove il pater familias fa frustare gli schiavi o li marchia a fuoco per ogni minima mancanza, i suoi figli crescano con un’indole sensibile e tollerante?  Per cui «Nulla che sia turpe a dirsi o a vedersi entri nella casa dove ci sia un padre», perché «al fanciullo è dovuto il massimo rispetto».
«Quando a un giovane dici che è sciocco chi fa un dono a un amico, chi dà conforto e sollievo alla povertà di un parente, tu gli insegni a rubare, a ingannare e a procurar la ricchezza con ogni delitto». 
Inoltre «Le donne romane, fiere educatrici dei loro figli, e fiere di ogni affermazione della virilità di questi (…), trasmettevano ai figli mentalità, principi e modelli di comportamento di un mondo pensato dagli uomini». 

- Claudia Vergine - "Grandi effetti di pietà son questi veramente, ma io non so già se io mi debba dire, che quello, che fece Claudia Vergine avanzi di valore o di animosità tutto quello che feron i sopraddetti, costei vedendo, i Tribuni della plebe, violentemente si sforzarono di tirare a terra il carro, il suo padre, trionfante con meravigliosa prestezza, cacciandosi in mezzo tra il padre e i Tribuni, ributtò quel magistrato, che era di tanta autorità a Roma, e intanto acceso contro di quello, per gli Iddi, o per le inimicizie che erano tra loro. In questo modo adunque il padre, li condusse in Campidoglio, e la figliuola se ne tornò nel Tempio della Dea Vesta, col medesimo honore, e malagevole a giudicare, quale dei due meritasse maggior lode, o il padre, che ebbe in compagnia la vittoria, o la figliuola che dalla pietà fu accompagnata".



Esempi di crudeltà verso i figli

Questi esempi di inflessibilità da parte di magistrati romani hanno vittime particolari, i loro stessi familiari. Nella tradizione romana l’istituzione dello stato era più importante di quella della famiglia, e quindi il dovere del magistrato prevaleva sul comportamento del padre.

Valerio Massimo, a quell’uomo saggio veniva in mente che si usa mettere le effigie degli antenati nella parte frontale della casa perché i posteri non solo leggano, ma imitino le loro virtù.

Lucio Bruto, pari per gloria a Romolo, perché l’uno fondò la città, l’altro la libertà di Roma, quando aveva il potere supremo fece arrestare, frustare davanti alla sua tenda, legare al palo e uccidere con la scure i suoi figli che cercavano di reintrodurre in Roma il dominio dei Tarquini da lui cacciati. Si tolse le vesti del padre per vestire quelle del console, e preferì vivere senza famiglia piuttosto che sottrarsi al dovere di compiere la pubblica vendetta.

Emulò il suo esempio Cassio nei confronti del figlio Spurio Cassio che da tribuno della plebe era stato il primo a proporre una legge agraria e con molti altri interventi popolari teneva avvinti gli uomini a sé. Dopo che questi era uscito di carica si consigliò con parenti e amici e lo condannò in un processo casalingo per l’accusa di aspirare alla tirannide, lo fece frustare e uccidere e consacrò la sua eredità a Cerere.

Tito Manlio Torquato, uomo di straordinario prestigio per le sue molte imprese, espertissimo di diritto civile e religioso, in una circostanza simile non ritenne neppure di aver bisogno del consiglio dei parenti. Poiché la Macedonia aveva sollevato al senato tramite ambasceria lagnanze contro suo figlio Decimo Silano, che ne era stato governatore, chiese ai senatori di non deliberare niente su quell’argomento prima che lui stesso avesse studiato la causa tra suo figlio e i Macedoni.

Assunta l’istruttoria con il consenso sia dell’augusta assemblea, sia di quelli che sollevavano le lagnanze, per due giorni, solo giudice nella sua casa, diede ascolto alle due parti; al terzo, dopo aver sentito i testimoni con la massima diligenza, pronunziò questa sentenza:
 “Essendo per me provato che mio figlio Silano ha ricevuto denaro dagli alleati, lo giudico indegno dello stato e della mia casa e gli ordino di uscire immediatamente dalla mia vista”.

Colpito da una così dura sentenza del padre, Silano non sopportò più di vivere e la notte successiva si impiccò. Torquato aveva già adempiuto ai compiti di giudice severo e scrupoloso, lo stato aveva avuto giustizia, la Macedonia vendetta, e a quel punto con il suicidio per vergogna del figlio, avrebbe potuto piegare il rigore paterno; ma lui non volle neppure partecipare alle esequie del giovane e proprio mentre venivano celebrate diede udienza a chi voleva interpellarlo. Sapeva di sedere in quello stesso atrio dove spiccava l’immagine di quel Torquato famoso per la sua severità.

Lucio Bruto fu il primo console della repubblica romana insieme a Lucio Tarquinio Collatino dopo la cacciata di Tarquinio il Superbo (509 a.c.). L’aristocrazia romana, che voleva riaccogliere i Tarquini, organizzò una congiura, a cui presero parte anche i figli di Lucio Giunio Bruto, Tito e Tiberio. Il padre quindi fece uccidere i propri figli.

Tito Manlio Torquato, già console nel 347 a.c., nel 340, di nuovo console, condannò a morte il figlio Tito Manlio Torquato per la vittoria contro il suo sfidante latino, conseguita senza il suo permesso (Tito Livio, Ab urbe condita VIII, 7, 13-22). 10 Copyright © 2010 Zanichelli editore S.p.A., Bologna [9308]
La cosa andò così: nella guerra latina era stato proclamato dai consoli che i soldati non combattessero contro il nemico senza l'ordine. Per caso Manlio, figlio dell'altro console, giovan di esimio aspetto e virtù, uscendo dall'accampamento con i compagni, fu chiamato dal prefetto dei cavalieri e fu sfidato ad un singolare duello. Era vergognoso allora rifiutare il duello, e così Manlio, spinto dal pudore e dall'ira, immemore dell'editto dei consoli, lottò con il nemico e lo sconfisse. Il giovane vincitore, pieno delle spoglie del nemico ucciso, tornò all'accampamento con i compagni che esultavano, essendo stato il padre informato di quello che era successo, convocò l'assemblea dei soldati e verso tutti disse: tu, Manlio, hai combattuto il nemico senza l'ordine dei consoli, e hai infranto la disciplina romana, devi pagare la pena con la morte. Saremo un triste esempio ma molto utile e sano ai posteri. Così (nutu) del console percosse il giovane con la scure.

Marco Scauro, luce e gloria della patria, quando le truppe di cavalleria respinte dai Cimbri sull’Adige si diressero vilmente verso la città abbandonando il console Catulo, mandò a dire a suo figlio, anche lui partecipe di quella fuga, che avrebbe visto più volentieri le ossa di un figlio morto in battaglia che non lui stesso reo di una fuga così vergognosa, e dunque se gli restava in petto un po’ di pudore, evitasse la vista di un padre da cui tanto tralignava: il ricordo della sua giovinezza gli insegnava chi dovesse considerare figlio e chi disprezzare. Ricevuta notizia di ciò, il giovane si trovò costretto a usare contro se stesso la spada in modo più valoroso di come l’aveva usata contro il nemico.

Non meno coraggiosamente di quanto Scauro rimproverò il figlio che fuggiva dalla battaglia, Aulo Fulvio, membro del senato, trattenne il figlio che invece vi andava. Questo giovane che spiccava tra i suoi coetanei per ingegno, cultura, bellezza, aveva preso il pessimo consiglio di seguire Catilina, ma mentre con temerario impeto si stava precipitando verso il suo accampamento, il padre lo fece intercettare nel percorso e uccidere dicendo che non l’aveva generato per Catilina contro la patria ma per la patria contro Catilina. Eppure avrebbe potuto tenerlo chiuso finché non fosse passata la rabbia della guerra civile: la storia avrebbe parlato di lui come di un padre prudente, mentre così ne parla come di un padre severo.

Viene da pensare che questa non fosse severità ma odio verso i figli. Nessun padre, degno di tale nome farebbe ciò a un figlio. Il cosiddetto conflitto generazionale, che si esplica soprattutto tra padre e figli maschi, è l'invidia per le capacità e la giovinezza dell'altro. Pertanto può essere esempio di mancata paternità e di efferata crudeltà, non di giustizia.



IL BUON PATER FAMILIAS

Nel diritto romano, il pater familias era l'uomo libero e cittadino, che non avesse più in vita alcun ascendente diretto in linea maschile, o che fosse stato emancipato da chi aveva su di lui la patria potestas, e che non fosse assoggettato alla potestà di un estraneo, in qualità di figlio adottivo. Egli riuniva in sé tre poteri: la patria potestà nei riguardi dei figli e dei nipoti; la manus maritalis nei riguardi della moglie e delle nuore; la dominica potestas nei riguardi dei servi e delle cose appartenenti alla familia.

Vi era però a Roma il mito della Clementia, correlata alla Benevolentia e alla Magnitudo animi. È il comportamento dell'uomo di potere, come nel caso del padre coi figli, che non si fa dominare dall'ira e dalla crudeltà ma dalla benevolenza, è il rapporto del buon pater familias nei confronti dei figli alieni iuris subiectae, che sono assoggettati per legge.

- Catone - Diceva che chi batte moglie o figlio alza le mani sulle cose più sacre. Dopo la nascita del figlio nessun affare era cosi urgente, ad eccezione di qualcuno di ordine politico, da impedirgli di assistere la moglie quando lavava o fasciava il bambino. Appena il ragazzo cominciò a capire, Catone lo prese con sé e gli insegnò a leggere e scrivere. Perciò si trasformò in maestro di grammatica, di diritto, di ginnastica e insegnò al figlio la scherma, l'equitazione, persino il pugilato, a resistere al caldo e al freddo, ad attraversare a nuoto agevolmente le onde vorticose e impetuose del Tevere.
Narra egli stesso di avere composto e trascritto di propria mano, a grossi caratteri, la storia di Roma, affinché il fanciullo trovasse in casa un aiuto per conoscere il passato della sua patria; dice poi di essersi sempre guardato dal pronunziare frasi sconvenienti in presenza del figlio non meno che in presenza delle Vestali e di non essersi mai lavato con lui.
Catone svolse il nobile compito di plasmare e guidare il figlio verso l'acquisizione della virtù; il ragazzo da parte sua ebbe grande desiderio di imparare, e un'indole docile, ma il corpo appariva troppo delicato per sostenere le fatiche eccessive, e pertanto Catone allentò per lui la tensione e il rigore del metodo educativo. Ma, pur stando cosi le cose, divenne ugualmente un buon soldato.

- Plutarco - Siccome Plutarco adempi esattamente a tutti i doveri della vita civile, e fu del pari
buon figliuolo, buon fratello, buon padre, buon marito, buon padrone, e buon cittadino; così ebbe eziandio la consolazione di trovare in casa, e nell'interno di sua famiglia tutta la pace e la soddisfazione che poteva desiderare.

- Cesezio - Il cavaliere Cesezio osò contrapporsi a Cesare in difesa del proprio figlio. Cesare gli aveva ordinato di ripudiarlo, perché questi, in qualità di tribuno della plebe, lo aveva accusato di mirare alla tirannide. Ma Cesezio, coraggiosamente, rispose: «Mi strapperai tutti i miei figli, o Cesare, prima che io ne cancelli uno solo dalla mia lista». 

- Plinio il Giovane - «Un tale rimproverava aspramente suo figlio perché spendeva troppo per comprare cavalli e cani. Quando il ragazzo fu uscito, io dissi al padre: «Ma tu non hai mai fatto niente che potesse esserti rimproverato da tuo padre?». 


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