Dieci anni dopo il rinvenimento totale della Villa di Poppea, nel 1974, a 250 metri dalla Villa “A”, fu scoperto un nuovo edificio su due piani con un peristilio centrale: si trattava di una Villa rustica, cioè contadina, chiamata di Lucius Crassus Tertius o Villa “B”.
La villa, che si ritiene di epoca sannitica, risale al III o II sec. a.c. e deve il nome a un sigillo in bronzo lì rinvenuto che reca questo nome. Venne scoperta nel 1974 durante i lavori di costruzione di una scuola. Lo scavo dell'edificio non è ancora terminato e non è a tutt'oggi visitabile. Si ritiene si tratti di una villa rustica, sia per il tipo di struttura che per i reperti ritrovati.
La villa si sviluppa intorno ad uno splendido peristilio, di cui la ricostruzione più in basso, con un porticato di colonne doriche a due ordini di colonne doriche in tufo grigio di Nocera, circondato da ambienti rustici in opera incerta. Il tutto completamente affrescato con i colori predominanti dell'azzurro, del rosso e del giallo, con scene fantastiche e mitologiche.
Sul lato est si trova l'ingresso ed il profondo incastro derivante dall'usura su una delle colonne, insieme ai solchi tracciati sul pavimento dalle ruote dei carri, fanno pensare a frequenti passaggi.
Intorno si aprono stanze adibite a magazzini, contenenti suppellettili, pelli, ceramica, paglia carbonizzata e molti melograni evidentemente utilizzati, come usava, per la concia delle pelli.
Vi è stato rinvenuto anche un fornello in pietra con una pentola contenente resine di conifere, utilizzata per la manutenzione delle anfore: infatti si sono rinvenute ben 400 anfore per il trasporto del vino. La villa era abitata al momento dell'eruzione; infatti nelle stanze adiacenti, soffittate a volta, sono stati trovati i corpi di 54 umani oltre a gioielli e monete, in oro e in argento.
Il piano superiore della villa era invece la zona residenziale della domus, con ambienti decorati in parte in IV stile, con architetture improbabili, come andava all'epoca, bidimensionali e puramente decorative, dal tratto fortemente calligrafico.
In parte era invece decorato in II stile, cioè con cornici e fregi a tralci vegetali che vengono ad essere dipinti invece che realizzati in stucco, riproponendo così, con abile gioco illusionistico di colori e ombre, ciò che durante il primo stile si realizzava in rilievo.
L'uso del profumo divenne smodato, o almeno così si pensava tanto che nel corso del II secolo a.c. venne contrastata per limitare le importazioni di profumi dai paesi orientali in un momento di crisi per la repubblica romana. Plinio il Vecchio ne distingue l’uso, in oli, unguenti e balsami. Gli unguentari di Oplontis però, a differenza di quelli di Pompei, erano prodotti con materie prime di migliore qualità, come l’olio essenziale di Pogostemon cablin, noto come patchouli, importato dall’India, e del limone, all’epoca ritenuto un frutto esclusivamente curativo.
Il IV stile predomina negli ambienti di soggiorno tuttavia con scarse testimonianze decorative, tra le quali vi è un raro esempio di II stile, cosiddetto "schematizzato” e di età repubblicana, caratterizzato dalla presenza di esili elementi "a candelabri", su uno sfondo che imita il marmo. C'è anche una pittura nilotica frammentaria, in seguito coperta da un dipinto del Quarto stile, e un larario dipinto.
Alle pietre preziose si attribuivano proprietà magiche e perciò venivano impiegate come amuleti ed incise con immagini per lo più di divinità ed animali. Ma oltre alle pietre preziose si usavano pure le paste vitree a cabochon, cioè a mezza sfera o quasi, con diversi colori e diverse trasparenze.
Gli orecchini sono un ornamento femminile di origine antichissima e molto diffuso in tutte le età. Il tipo a “spicchio a sfera”, forse è il più caratteristico della produzione Romana, sia liscio, secondo lo stile tardo-Etrusco, sia puntinato ottenuto a sbalzo, ad imitare la tecnica della granulazione.
Dagli scheletri ritrovati in loco sono stati realizzati due calchi di giovani donne, una ritrovata a poca distanza dall'uscio dell'ambiente 10, è stato eseguito in gesso, l'altro fu eseguito in "Fiberglass" nel 1984-85 dal restauratore Amedeo Cecchitti. Si può così vedere questo scheletro adornato di gioielli mentre stringe in mano un sacchetto di monete: è la "fanciulla di Oplonti".
Il procedimento consiste nel realizzare prima un calco in cera, intorno al quale si costruisce una matrice in gesso; quindi, con una tecnica simile a quella della «cera perduta», si sostituisce alla cera la resina epossidica. Si ottiene, in tal modo, un calco piú resistente, piú facile da trasportare e che, grazie alla sua semitrasparenza, consente di vedere i piccoli oggetti che, eventualmente, la persona indossava.
Così, in questo caso, si è potuto recuperare, sostituendoli con copie, il bracciale che la fanciulla aveva al braccio e il borsellino con monete, e gemme, che era accanto alla mano. All'interno, ricoperte e fermate dalla resina, restano, in tutta la loro tragica testimonianza, le ossa ed il teschio.Nei pressi della Villa di Lucius Crassius Tertius, furono ritrovate un tratto di strada e diverse piccole costruzioni, tra cui i resti di un centro termale.
Rispetto al primo stile, l'innovazione è fornita dall'effetto di trompe l'œil (una pittura che crea l'illusione di stare guardando oggetti reali e tridimensionali su una parte bidimensionale) che si crea sulle pareti, dove al posto dello zoccolo si dipingono in primo piano podi con finti colonnati, edicole e porte dietro i quali si aprono vedute prospettiche. con la tecnica schematizzata, risalente all'età repubblicana. Infatti va dall'80 a.c. alla fine del I secolo a.c. circa.
Dal piano superiore proviene anche una scatoletta in legno contenente gioielli in oro ed argento, 170 monete, unguentari, stecche in osso e diversi splendidi monili.
Tra i gioielli si riconoscono orecchini di tipo a spicchio di sfera, a canestro con quarzi incastonati oppure pendenti con perle, collane molto lunghe con grani in oro e smeraldo, bracciali di tipo tubolare decorati con gemme e smeraldi ed anelli con gemme lisce o incise con figure di animali o divinità.
In uno degli ambienti della Villa è stata ritrovata un’altra cassa che conteneva, oltre a materiali organici, una sorta di cassettina beauty-case con unguentari di vetro, una stecca cosmetica in osso, tre dadi da gioco ed alcuni oggetti di ornamento.
In uno degli ambienti della Villa è stata ritrovata un’altra cassa che conteneva, oltre a materiali organici, una sorta di cassettina beauty-case con unguentari di vetro, una stecca cosmetica in osso, tre dadi da gioco ed alcuni oggetti di ornamento.
Alcuni balsamari erano contenuti nella cassetta rinvenuta nell’ambiente 15, altri nella borsa di cuoio dell’ambiente 10: insieme ai gioielli, alle argenterie. C'erano degli strumenti legati alla toeletta; utilizzati per contenere e mescolare cosmetici, la pisside e l’ago, o per detergere la pelle, lo strigile. Il profumo se da un lato emanava piacevoli odori, dall’altro era considerato terapeutico.
L'uso del profumo divenne smodato, o almeno così si pensava tanto che nel corso del II secolo a.c. venne contrastata per limitare le importazioni di profumi dai paesi orientali in un momento di crisi per la repubblica romana. Plinio il Vecchio ne distingue l’uso, in oli, unguenti e balsami. Gli unguentari di Oplontis però, a differenza di quelli di Pompei, erano prodotti con materie prime di migliore qualità, come l’olio essenziale di Pogostemon cablin, noto come patchouli, importato dall’India, e del limone, all’epoca ritenuto un frutto esclusivamente curativo.
A nord della villa sono presenti alcuni edifici a due piani: si tratta probabilmente di soluzioni indipendenti dalla villa, che si affacciano direttamente sulla strada.
Con molta probabilità queste costruzioni venivano usate come botteghe con abitazione al piano superiore, come usava all'epoca.
La villa B era destinata all'immagazzinamento e allo smercio dei prodotti agricoli. Negli ambienti intorno al peristilio sono stati infatti trovati cumuli di anfore da vino, pesi di pietra, noci, nocelle e alcuni modii per la misurazione del grano e di imballaggi, mucchi di piccoli melograni acerbi disposti a strati nelle foglie a seccare, che venivano anche usati per estrarre tannino che serviva per la lavorazione dei tessuti.
Sul lato nord gli unici ambienti di soggiorno del piano terra e quindi tutta una serie di grandi ambienti coperti a volta che venivano usati come deposito di merce. Sempre sul lato est, un'ampia scala portava al primo piano. Il piano superiore, collegato al lato Nord col piano terra da un'ampia scala, è occupato da un quartiere signorile, evidentemente la parte residenziale della famiglia.
A testimoniare ulteriormente che la famiglia soggiornava in questi ambienti è il ritrovamento di pentole da cucina in bronzo, in terracotta e bruciatori. E forse cadde proprio da questo piano la splendida cassaforte in legno e metalli preziosi trovata presso la parete Est del peristilio.
IL COMMERCIO VINARIO
Lungo i bracci del peristilio della villa B, sono state rinvenute più di quattrocento anfore vinarie, messe lì capovolte ed impilate ad asciugare per essere riempite. Vicino ad esse un fornellino, sul quale poggiava una pentola in cui veniva sciolta la resina conifera utilizzata per rivestire gli interni delle anfore.
Questo fa pensare che l'attività prevalente fosse il commercio del vino, attivissimo al momento dell'eruzione. Nella Villa, luogo di smercio e non di produzione, perché non sono stati trovati macchinari per la lavorazione, si conservava e si distribuiva vino anche nella vicina Pompei.
Lungo i bracci del peristilio della villa B, sono state rinvenute più di quattrocento anfore vinarie, messe lì capovolte ed impilate ad asciugare per essere riempite. Vicino ad esse un fornellino, sul quale poggiava una pentola in cui veniva sciolta la resina conifera utilizzata per rivestire gli interni delle anfore.
LE BOTTEGHE |
Era abitudine mescolare il vino con il miele e perfino con acqua di mare e aromatizzarlo con resina, olii profumati e pece. Veniva anche annacquato perché essendo molte le libagioni, se ne potesse bere in maggiori quantità. Un vino molto decantato era quello pompeiano VITIS HOLCONIA.
Su alcune anfore sono state rilevate indicazioni di qualità di vini; vino di LESBO, di produzione locale e di pregiata fattura, proveniente dai vigneti vesuviani. Su altre anfore la scritta ANICETUS, nome noto nel commercio vinario di Pompei, rappresentava la garanzia del prodotto; su altre JUNIOR per indicare che conteneva vino novello.
L'OGGETTISTICA
Dagli studi effettuati dal Laboratorio di Scienze applicate della Soprintendenza archeologica di Pompei sui materiali organici della Villa B, sono stati evidenziati i pollini di grandi quantità di specie vegetali presenti nella zona. Il notevole numero di pentolame in bronzo e terracotta, insieme a due bellissime lucerne dal manico cesellato a testa di cavallo e a foglia a cuore, sono un’ulteriore riprova che al momento dell’eruzione la Villa era abitata.
Tra i pezzi da poco restaurati sono brocche per acqua e vino, pentole da fuoco, un tegame largo con coperchio, una coppa in terracotta invetriata decorata a bassorilievo, un candelabro in bronzo a piantana, perfino contenitori in vetro. L’oggettistica in vetro è stata salvata miracolosamente dal crollo di una porzione di parete che ha creato una specie di intercapedine, provvidenziale riparo. Tanti altri i reperti ancora da restaurare, dai fermi delle porte ai cardini, tutti sono fonti eloquenti del nostro passato.
IL TESORO
Durante gli scavi condotti nel 1984, in due degli ambienti del piano terra vennero trovate circa 1200 monete, tra cui un aureo di Nerone, circa 100 d'oro , 900 di argento e il resto di bronzo. Un primo nucleo di monete, insieme ad oggetti d'oro, venne trovato nel peristilio, caduto dal crollo del piano superiore, frammisto ai resti di una cassaforte di legno e ferro.
Nella villa sono stati rinvenuti dunque due tesori: Il primo era contenuto, insieme a monete e oggetti da toilette femminili, in una cassetta lignea crollata dal piano superiore all’interno dell’ambiente 15 del peristilio della villa.
Il secondo, più numeroso, venne rinvenuto all’interno dell’ambiente 10, uno dei grandi magazzini posti sul lato sud della Villa B, vicini all’approdo sul mare. I due gruppi raccontano due storie diverse legate alla catastrofe del 79 d.c. “I monili rinvenuti nell’ambiente 15 erano contenuti in una cassetta che evidentemente non era stato possibile svuotare completamente nelle concitate ore dell’eruzione.
I monili dell’ambiente 10 ci raccontano invece una storia ben più drammatica. Qui, in attesa dei soccorsi che dovevano giungere dal mare, si radunarono cinquantaquattro persone divise in due gruppi: uno privo di qualsiasi oggetto personale, l’altro composto da individui che portavano con sé monete e preziosi: orecchini, collane, anelli e braccialetti.
La maggior parte dei gioielli si trovava accanto ai corpi, evidentemente erano indossati dai fuggiaschi, altri erano contenuti in un piccola borsa di cuoio rinvenuta nell’ambiente. Il maremoto e le nubi ardenti impedirono l’arrivo dei soccorritori e i rifugiati trovarono qui la morte."
LA PREZIOSA CASSAFORTE |
La grande cassa in legno e metalli preziosi ritrovata presso la parete Est del peristilio, è un magnifico, elegante esempio di arte ellenistica con decorazioni ad agemina in oro, argento e rame con sportello sul lato superiore ed un sistema di apertura talmente particolare da essere oggetto di studio.
Sulla parte superiore una testa femminile entro un tondo, appliques in bronzo raffiguranti due cani accovacciati, come a guardia, due busti di fanciulli che funzionano da manopole girevoli, un’anatra. Sulla faccia anteriore una decorazione in lamina bronzea, nel mezzo della quale, tra girali di acanto, si leggono le firme degli artefici: Pythonimos, Pytheas e Nikokrates. Al di sotto la testa di un sileno tra foglie e rami di vite. Insieme a questa, ma nell’ambiente del lato Sud, furono ritrovati i resti di un’altra cassa, con ori e argenti e oggetti per cosmesi.
Altre casse sono state ritrovate nell’ambiente 10, portate forse da quelli che vi si erano rifugiati, di queste è stato possibile eseguire il calco. Una presenta una sorta di imbracatura con cordicelle, l’altra sembra avvolta in stoffa e poi legata. Dovevano contenere materiali organici che non si sono conservati. La terza cassa conteneva un beauty-case.
Sulla parte superiore una testa femminile entro un tondo, appliques in bronzo raffiguranti due cani accovacciati, come a guardia, due busti di fanciulli che funzionano da manopole girevoli, un’anatra. Sulla faccia anteriore una decorazione in lamina bronzea, nel mezzo della quale, tra girali di acanto, si leggono le firme degli artefici: Pythonimos, Pytheas e Nikokrates. Al di sotto la testa di un sileno tra foglie e rami di vite. Insieme a questa, ma nell’ambiente del lato Sud, furono ritrovati i resti di un’altra cassa, con ori e argenti e oggetti per cosmesi.
Altre casse sono state ritrovate nell’ambiente 10, portate forse da quelli che vi si erano rifugiati, di queste è stato possibile eseguire il calco. Una presenta una sorta di imbracatura con cordicelle, l’altra sembra avvolta in stoffa e poi legata. Dovevano contenere materiali organici che non si sono conservati. La terza cassa conteneva un beauty-case.
GLI ORI DI OPLONTIS
Il secondo gruppo è venuto alla luce nel corso dello scavo dell'ambiente 10, rifugio delle persone, anche esterne alla Villa. Vicino a questi scheletri sono state trovate moltissime monete ed altri gioielli in resti di borselli di stoffa e cuoio. Le monete sono importantissime anche dal punto di vista storico perché vi si trovano impresse le effigi di quasi tutti gli imperatori di Roma.
Gli ori sono stati ritrovati addosso o vicino a scheletri di donne, dato che all'epoca tutte si ingioiellavano, cambiava la preziosità del metallo e delle pietre, ma era come indossare delle vesti, li usavano tutte, e pure gli uomini. I gioielli, per carattere e tipologia, non si discostano da quelli di Pompei e Ercolano. Sono lavorati su superfici lisce con gemme, non troppo costosi, nonostante il prezzo sempre alto dell’oro.
Gli anelli sono i più numerosi tra i monili ritrovati, del resto le donne romane ne indossavano pure alle dita dei piedi. Venivano portati in età imperiale da uomini e donne di vari ceti sociali, anche medio-bassi, tranne che dagli schiavi. C’era l’abitudine, nonostante le leggi repubblicane tese a frenare il lusso, di portare più anelli; uno degli scheletri dell’ambiente 10 portava tre anelli di cui due al mignolo. Il tipo più semplice è quello in oro o argento con verga a fascetta e castone ovoidale liscio o inciso.
Particolare è l’anello ornato da una maschera di attore comico e quelli in filo godronato con o senza perla che riportano figure di uccelli. Gli anelli a serpente si rifanno a modelli ellenistici e sono con più spirali o a due teste affrontate. Molto frequente il tipo ornato con gemma, liscia o incisa. L’uso delle gemme iniziò a diffondersi a partire dal I secolo a.c. con l’intensificarsi dei rapporti con l’Oriente.
Alle pietre preziose si attribuivano proprietà magiche e perciò venivano impiegate come amuleti ed incise con immagini per lo più di divinità ed animali. Ma oltre alle pietre preziose si usavano pure le paste vitree a cabochon, cioè a mezza sfera o quasi, con diversi colori e diverse trasparenze.
Gli orecchini sono un ornamento femminile di origine antichissima e molto diffuso in tutte le età. Il tipo a “spicchio a sfera”, forse è il più caratteristico della produzione Romana, sia liscio, secondo lo stile tardo-Etrusco, sia puntinato ottenuto a sbalzo, ad imitare la tecnica della granulazione.
Meno diffuso è il tipo con piccoli quarzi disposti a canestro. Secondo Seneca e Plinio il Vecchio, il tipo con pendente ornato da perle era molto amato dalle donne Romane. Infine vanno notati orecchini in semplice filo d’oro liscio annodati a cerchio.
I bracciali “armillae” venivano portati su entrambe le braccia, ma pure ai polsi e alle caviglie. Le collane erano corte “monilia” o lunghe “catellae”, che arrivavano fino ai fianchi, intrecciandosi sul petto dove potevano essere fissate da fermagli scorrevoli in forma di borchie.
Diffuso era anche il “pendente”, a forma di ruota o di crescente lunare con globetti all’estremità, di origine Siriana. Molto prezioso ma poco diffuso era il crescente lunare decorato con perline e grani di smeraldo. Le collane a “giro collo” vanno da una semplice catenina, a quelle d'oro con smeraldi.
LA FANCIULLA DI OPLONTIS
Lo scheletro della giovane donna venne trovato, insieme ad altre vittime dell’ eruzione del 79 d.c., nello stesso ambiente dove, accanto ad alcune di queste vittime, furono trovati i gioielli. Sì tratta di un calco eseguito con una tecnica ideata dal restauratore Amedeo Cicchitti e sperimentata per la prima volta ad Oplontis nel 1984, che al gesso, materiale usato tradizionalmente fin dal 1863 quando il Fiorelli introdusse il sistema dei calchi, sostituisce una resina epossidica.
Il procedimento consiste nel realizzare prima un calco in cera, intorno al quale si costruisce una matrice in gesso; quindi, con una tecnica simile a quella della «cera perduta», si sostituisce alla cera la resina epossidica. Si ottiene, in tal modo, un calco piú resistente, piú facile da trasportare e che, grazie alla sua semitrasparenza, consente di vedere i piccoli oggetti che, eventualmente, la persona indossava.
Così, in questo caso, si è potuto recuperare, sostituendoli con copie, il bracciale che la fanciulla aveva al braccio e il borsellino con monete, e gemme, che era accanto alla mano. All'interno, ricoperte e fermate dalla resina, restano, in tutta la loro tragica testimonianza, le ossa ed il teschio.