I FABII IN MARCIA |
La gens Fabia derivò il nome dalla faba, cioè le fave, la cui coltivazione era assai diffusa in età arcaica. In proposito, Plinio il Vecchio ricorda che molte antiche famiglie romane derivarono il proprio nomen dai legumi che prediligevano, o alla cui coltivazione erano dediti maggiormente; ad esempio i Lentuli (da lentes, "lenticchie"), ramo dei Cornelii, i Pisoni, ramo dei Calpurnii, ed ancora i Ciceri.
La gens Fabia comprendeva diversi rami. Il più illustre fu quello dei Fabii Massimi, che presero il cognomen dall'Ara Massima di Ercole, presso la quale avevano la propria dimora (nell'area dell'attuale basilica di Santa Maria in Cosmedin). I Fabii Massimi si vantavano di discendere da un Fabius figlio del Dio Ercole, nato sotto il regno del mitico re Evandro. Si ricordano inoltre i Fabii Ambusti, i Fabii Pittori, i Fabii Vibulani.
I membri di questa illustre gens ricoprirono durante la repubblica tutte le magistrature, e il consolato per ben 66 volte, con un atteggiamento molto conservatore, tendente ad escludere i plebei dalle magistrature. Sul piano militare assunsero la difesa di Roma contro Veio, probabilmente molto coraggiosi ma privi di un comandante responsabile ed esperto, per cui vennero sterminati nella terribile disfatta nella battaglia del Cremera nel 477 a.c..
FABII ILLUSTRI
- Quinto Fabio Vibulano - V secolo a.c., uno dei pochissimi sopravvissuti della disfatta del Cremera, console nel 467 e nel 465 a.c., sconfisse gli Equi e vinse altre battaglie. Nel 450 a.c. fu uno dei decemviri legibus scribundis, partecipando alla stesura del primo codice di leggi scritte di Roma, le Leggi delle XII tavole.
- Quinto Fabio Massimo Rulliano - figlio di Marco Fabio Ambusto, IV-III secolo a.c., per 5 volte eletto console, riportò importanti vittorie sui Sanniti, vincendo la decisiva battaglia di Sentino con Decio Mure nel 295 a.c.
TITO LIVIO - I FABII
I FABII
"L'elogium testimonia che Q. Fabio Massimo fu dittatore nell’anno 220 a.c. e si scelse c. Flaminio in qualità di subalterno. Tre anni dopo, però, allorché si presentò una nuova situazione d’emergenza, il Senato, per evitare che lo stesso Fabio potesse scegliersi come vice un altro fra gli outsider politici legati al proprio clan gentilizio, approvò l’aberrante rogatio elettiva del magister equitum. Tra l’altro, siccome l’unico console in vita, Gneo Servilio, conduceva le operazioni belliche sul mare e a causa di ciò non poteva essere in patria in quel momento per nominare un dictator, a Fabio Massimo fu conferito un "imperium pro dictatore".
"La dittatura di Q. Fabio Massimo nel 217 a. c a seguito della famosa battaglia del Trasimeno in cui morì il console C. Flaminio avvenne per 'interregni causa', ossia a seguito di un interregnum (morte e/o impossibilità dei due consoli)".
- Quinto Fabio Vibulano - V secolo a.c., uno dei pochissimi sopravvissuti della disfatta del Cremera, console nel 467 e nel 465 a.c., sconfisse gli Equi e vinse altre battaglie. Nel 450 a.c. fu uno dei decemviri legibus scribundis, partecipando alla stesura del primo codice di leggi scritte di Roma, le Leggi delle XII tavole.
- Quinto Fabio Ambusto Vibulano - console nel 412 a.c.
- Marco Fabio Ambusto - tribuno consolare nel 380 a.c.
- Marco Fabio Ambusto - IV secolo a.c., tribuno militare con potestà consolare nel 381 e 369 a.c.; fece un'alleanza politica con la Gens Licinia, plebea, e sostenne le Leggi Licinie-Sestie, che stabilirono l'accesso dei plebei alle assegnazioni di Ager Publicus e alla magistratura Consolare.
Fu console tre volte, nel 360, 356. e 354 a.c..
Nel 360 a.c. vinse nella campagna contro gli Ernici, e per questo gli fu concessa un'ovazione. Rieletto console nel 356 a.c.. combattè contro Falisci e Tarquinesi, alleatesi contro i romani, e nonostante le sconfitte iniziali riuscì infine a vincere con un grande bottino.
Eletto console per la terza volta nel 354 a.c.vinse sui Tiburtini e sui Tarquinesi, con tanta facilità, che i Sanniti vennero a Roma a chiedere la pace.
Tra il 355 e il 351 a.c. fu interrex. Nel 351 a.c. fu nominato dittatore perché fosse rispettata la legge per l'elezione dei consoli. Nel 322 a.c. fu magister equitum del dittatore Aulo Cornelio Cosso Arvina, per combattere contro i Sanniti. Marco Fabio condusse i cavalieri romani alla vittoria contro i cavalieri Sanniti, e quindi alla decisiva vittoria contro i Sanniti.
Fu console tre volte, nel 360, 356. e 354 a.c..
Nel 360 a.c. vinse nella campagna contro gli Ernici, e per questo gli fu concessa un'ovazione. Rieletto console nel 356 a.c.. combattè contro Falisci e Tarquinesi, alleatesi contro i romani, e nonostante le sconfitte iniziali riuscì infine a vincere con un grande bottino.
Eletto console per la terza volta nel 354 a.c.vinse sui Tiburtini e sui Tarquinesi, con tanta facilità, che i Sanniti vennero a Roma a chiedere la pace.
Tra il 355 e il 351 a.c. fu interrex. Nel 351 a.c. fu nominato dittatore perché fosse rispettata la legge per l'elezione dei consoli. Nel 322 a.c. fu magister equitum del dittatore Aulo Cornelio Cosso Arvina, per combattere contro i Sanniti. Marco Fabio condusse i cavalieri romani alla vittoria contro i cavalieri Sanniti, e quindi alla decisiva vittoria contro i Sanniti.
- Gaio Fabio Ambusto - console nel 358 a.c.
- Quinto Fabio Massimo Rulliano - figlio di Marco Fabio Ambusto, IV-III secolo a.c., per 5 volte eletto console, riportò importanti vittorie sui Sanniti, vincendo la decisiva battaglia di Sentino con Decio Mure nel 295 a.c.
- Quinto Fabio Massimo - detto il Temporeggiatore (latino: cunctator), III secolo a.c., console per ben cinque volte, censore, princeps del senato e dittatore nel 217 a.c. post sconfitta romana della battaglia del Lago Trasimeno ad opera di Annibale. Contro il generale cartaginese ideò una tattica di logoramento basata su scaramucce ed ostacoli agli approvvigionamenti, che finì per indebolire Annibale, dando tempo ai Romani di riorganizzare le proprie forze. Morì nel 203 a.c.
- Quinto Fabio Pittore - III secolo a.c., politico e storico, scrisse in greco una Storia di Roma facendone risalire le origini alla leggenda di Enea.
- Quinto Fabio Massimo Allobrogico - II secolo a.c., questore, riportò una grande vittoria sui Galli Allobrogi dai quali prese il soprannome. Celebrò un grande trionfo facendo costruire nel Foro un arco a lui dedicato (Fornix Fabianus).
- Fabiola - fu una matrona discendente dalla gens Fabia che, rimasta vedova, si consacrò alla preghiera e alla penitenza. È venerata come santa dalla Chiesa cattolica.
TITO LIVIO - I FABII
I FABII
Allora la gente Fabia si presentò di fronte al senato. Il console parlò a nome della propria famiglia:
" Nella guerra contro Veio, come voi sapete, o padri coscritti, la costanza dello sforzo militare conta più della quantità di uomini impiegati. Voi occupatevi delle altre guerre e lasciate che i Fabi se la vedano coi Veienti. Per quel che ci concerne, vi garantiamo di tutelare l'onore del popolo romano. E’ nostra ferma intenzione trattare questa guerra alla stregua di una questione di famiglia e di accollarcene tutte le spese: lo Stato non deve preoccuparsi né dei soldati né del denaro."
Seguì un coro unanime di ringraziamenti. Il console uscì dalla curia e se ne tornò a casa scortato da un nutrito drappello di Fabi, i quali avevano aspettato il verdetto del senato nel vestibolo della curia. Quindi, ricevuto l'ordine di trovarsi il giorno dopo, armati di tutto punto, di fronte alla porta del console, rientrarono tutti nelle proprie case.
La notizia fece il giro della città e i Fabi vennero portati alle stelle: una famiglia si era assunta da sola l'onere di sostenere lo Stato e la guerra contro i Veienti si era trasformata in una faccenda privata e combattuta con armi private. Se in città ci fossero state altre due famiglie così forti, una si sarebbe occupata dei Volsci e l'altra degli Equi e il popolo romano si sarebbe goduto beatamente la pace una volta sottomessi tutti i vicini.
Il giorno successivo i Fabi si presentano all'appuntamento armati di tutto punto. Il console, uscito nel vestibolo in uniforme da guerra, vede schierati tutti i membri della sua famiglia e, postovisi a capo, dà ordine di mettersi in marcia. Per le vie di Roma non sfilò mai in passato nessun altro esercito meno numeroso ma nel contempo così acclamato e ammirato dalla gente. Trecentosei soldati, tutti patrizi, tutti della stessa famiglia, ciascuno dei quali più che degno di esserne al comando, e capaci insieme di formare, in qualsiasi momento, un'eccellente assemblea, avanzarono a passo di marcia minacciando l'esistenza del popolo di Veio con le forze di una sola famiglia.
Li seguiva una folla in parte costituita da parenti e amici, gente straordinaria che volgeva l'animo non alla speranza o alla preoccupazione, ma solo a sentimenti sublimi, e in parte da gente qualunque spinta dall'ansia di partecipare e piena di entusiasmo e ammirazione. Tutti auguravano loro di essere sostenuti dal coraggio e dalla fortuna e di riportare un successo degno dell'impresa; e una volta di nuovo in patria, avrebbero potuto contare su consolati e trionfi, e su ogni forma di premio e riconoscimento.
Quando passarono davanti al Campidoglio, alla cittadella e agli altri templi, supplicarono tutte le divinità che sfilavano davanti ai loro occhi, e quelle che venivano loro in mente, di accordare a quella schiera favore e fortuna e di restituirla intatta e in breve tempo alla patria e ai parenti. Ma vane furono le preghiere.
Partiti lungo la Via Infelice e passati dall'arcata destra della porta Carmentale, arrivarono alla riva del torrente Cremera. La posizione sembrò indicata per la costruzione di un campo fortificato. Dopo questi episodi furono eletti consoli Lucio Emilio e Caio Servilio. Finché si trattò soltanto di razzie, i Fabi non solo garantirono una sicura protezione al loro campo fortificato, ma in tutta l'area di confine tra la campagna romana e quella etrusca resero sicura la propria zona e, con continui sconfinamenti, crearono un clima di pericolo costante nel territorio nemico.
Quindi le razzie cessarono per un breve tempo, finché i Veienti, reclutato un esercito in Etruria, attaccarono il presidio di Cremera e le legioni romane agli ordini del console Lucio Emilio li affrontarono in uno scontro all'arma bianca; a dir la verità, i Veienti ebbero così poco tempo per schierarsi in ordine di battaglia che, quando nel disordine delle manovre iniziali era in corso l'allineamento dietro le insegne e la collocazione dei riservisti al loro posto, la cavalleria romana li caricò all'improvviso sul fianco, togliendo loro la possibilità non solo di attaccare per primi, ma anche di mantenere la posizione.
Respinti in fuga fino al loro accampamento a Saxa Rubra, implorarono la pace. Ma per la debolezza tipica del loro carattere, si pentirono di averla ottenuta prima che la guarnigione romana avesse evacuato il campo di Cremera. Il popolo di Veio si trovò di nuovo nella necessità di vedersela coi Fabi, senza però essere meglio preparato alla guerra; e non si trattava più soltanto di razzie nelle campagne e di repentine rappresaglie contro i razziatori, ma si combatté non poche volte in campo aperto e a ranghi serrati, e una famiglia romana, pur misurandosi da sola, ebbe più volte la meglio su quella città etrusca allora potentissima.
Sulle prime ai Veienti ciò parve umiliante e penoso; poi però, studiando la situazione, decisero di giocare d'astuzia contro quel nemico irriducibile, anche perché vedevano con piacere che i reiterati successi avevano raddoppiato l'audacia dei Fabi. Così, parecchie volte, quando questi ultimi si avventuravano in razzie, facevano trovare loro, come per pura coincidenza, del bestiame sulla strada; vaste estensioni di terra venivano abbandonate dai proprietari e i distaccamenti inviati ad arginare le razzie fuggivano con un terrore più spesso simulato che reale.
E ormai i Fabi si erano fatti un'idea tale del nemico da non ritenerlo in grado di sostenere le loro armi vittoriose, qualunque fossero stati l'occasione e il luogo dello scontro. Quest'illusione li portò ad uscire allo scoperto, nonostante la presenza in zona del nemico, per catturare una mandria avvistata a notevole distanza dal campo di Cremera.
Dopo aver superato, senza però rendersene conto vista la velocità con cui procedevano, un'imboscata proprio sulla loro strada, si dispersero nel tentativo di catturare il bestiame che, come sempre succede quando reagisce spaventato, correva all'impazzata in tutte le direzioni; proprio in quel momento, si trovarono all'improvviso di fronte i nemici saltati fuori dovunque dai loro nascondigli.
Prima fu il terrore per l'urlo di guerra levatosi intorno a loro, poi cominciarono a volare proiettili da ogni parte; e mentre gli Etruschi con una manovra centripeta li chiusero in una fila ininterrotta di uomini, in modo che a ogni loro passo avanti corrispondeva una riduzione dello spazio concentrico in cui i Romani si potevano muovere, questa mossa ne mise in chiara luce l'inconsistenza numerica esaltando invece la massa compatta degli Etruschi che sembravano il doppio in quella stretta fascia di terra.
Allora, rinunciando alla resistenza che avevano sostenuto in tutti i settori, si concentrarono in un unico punto dove, grazie alla forza d'urto e alla loro perizia militare, riuscirono a fare breccia con una formazione a cuneo. In quella direzione arrivarono a un'altura appena accennata. Dove in un primo tempo riuscirono a resistere; poi, dato che la posizione sopraelevata permise loro di tirare il fiato e di riprendersi dal grande spavento, respinsero anche i nemici che pressavano da sotto; quel pugno di uomini stava avendo la meglio grazie alla posizione vantaggiosa, quando i Veienti furono spediti ad aggirare l'altura emersero da dietro sulla cima.
Quindi permisero ai compagni di riprendere in mano la situazione. I Fabi vennero massacrati dal primo all'ultimo e il loro campo venne espugnato. Nessun dubbio: morirono in trecentosei; se ne salvò soltanto uno, poco più di un ragazzo, destinato a mantenere in vita la stirpe dei Fabi e a diventare per Roma, nei momenti più cupi in pace e in guerra, un sostegno fondamentale. Al momento di questo disastro, Gaio Orazio e Tito Menenio erano già consoli.
La notizia fece il giro della città e i Fabi vennero portati alle stelle: una famiglia si era assunta da sola l'onere di sostenere lo Stato e la guerra contro i Veienti si era trasformata in una faccenda privata e combattuta con armi private. Se in città ci fossero state altre due famiglie così forti, una si sarebbe occupata dei Volsci e l'altra degli Equi e il popolo romano si sarebbe goduto beatamente la pace una volta sottomessi tutti i vicini.
LA BATTAGLIA DI CREMERA |
Li seguiva una folla in parte costituita da parenti e amici, gente straordinaria che volgeva l'animo non alla speranza o alla preoccupazione, ma solo a sentimenti sublimi, e in parte da gente qualunque spinta dall'ansia di partecipare e piena di entusiasmo e ammirazione. Tutti auguravano loro di essere sostenuti dal coraggio e dalla fortuna e di riportare un successo degno dell'impresa; e una volta di nuovo in patria, avrebbero potuto contare su consolati e trionfi, e su ogni forma di premio e riconoscimento.
Quando passarono davanti al Campidoglio, alla cittadella e agli altri templi, supplicarono tutte le divinità che sfilavano davanti ai loro occhi, e quelle che venivano loro in mente, di accordare a quella schiera favore e fortuna e di restituirla intatta e in breve tempo alla patria e ai parenti. Ma vane furono le preghiere.
Partiti lungo la Via Infelice e passati dall'arcata destra della porta Carmentale, arrivarono alla riva del torrente Cremera. La posizione sembrò indicata per la costruzione di un campo fortificato. Dopo questi episodi furono eletti consoli Lucio Emilio e Caio Servilio. Finché si trattò soltanto di razzie, i Fabi non solo garantirono una sicura protezione al loro campo fortificato, ma in tutta l'area di confine tra la campagna romana e quella etrusca resero sicura la propria zona e, con continui sconfinamenti, crearono un clima di pericolo costante nel territorio nemico.
Quindi le razzie cessarono per un breve tempo, finché i Veienti, reclutato un esercito in Etruria, attaccarono il presidio di Cremera e le legioni romane agli ordini del console Lucio Emilio li affrontarono in uno scontro all'arma bianca; a dir la verità, i Veienti ebbero così poco tempo per schierarsi in ordine di battaglia che, quando nel disordine delle manovre iniziali era in corso l'allineamento dietro le insegne e la collocazione dei riservisti al loro posto, la cavalleria romana li caricò all'improvviso sul fianco, togliendo loro la possibilità non solo di attaccare per primi, ma anche di mantenere la posizione.
QUINTO FABIO MASSIMO VERRUCOSO |
Sulle prime ai Veienti ciò parve umiliante e penoso; poi però, studiando la situazione, decisero di giocare d'astuzia contro quel nemico irriducibile, anche perché vedevano con piacere che i reiterati successi avevano raddoppiato l'audacia dei Fabi. Così, parecchie volte, quando questi ultimi si avventuravano in razzie, facevano trovare loro, come per pura coincidenza, del bestiame sulla strada; vaste estensioni di terra venivano abbandonate dai proprietari e i distaccamenti inviati ad arginare le razzie fuggivano con un terrore più spesso simulato che reale.
E ormai i Fabi si erano fatti un'idea tale del nemico da non ritenerlo in grado di sostenere le loro armi vittoriose, qualunque fossero stati l'occasione e il luogo dello scontro. Quest'illusione li portò ad uscire allo scoperto, nonostante la presenza in zona del nemico, per catturare una mandria avvistata a notevole distanza dal campo di Cremera.
Dopo aver superato, senza però rendersene conto vista la velocità con cui procedevano, un'imboscata proprio sulla loro strada, si dispersero nel tentativo di catturare il bestiame che, come sempre succede quando reagisce spaventato, correva all'impazzata in tutte le direzioni; proprio in quel momento, si trovarono all'improvviso di fronte i nemici saltati fuori dovunque dai loro nascondigli.
Prima fu il terrore per l'urlo di guerra levatosi intorno a loro, poi cominciarono a volare proiettili da ogni parte; e mentre gli Etruschi con una manovra centripeta li chiusero in una fila ininterrotta di uomini, in modo che a ogni loro passo avanti corrispondeva una riduzione dello spazio concentrico in cui i Romani si potevano muovere, questa mossa ne mise in chiara luce l'inconsistenza numerica esaltando invece la massa compatta degli Etruschi che sembravano il doppio in quella stretta fascia di terra.
Allora, rinunciando alla resistenza che avevano sostenuto in tutti i settori, si concentrarono in un unico punto dove, grazie alla forza d'urto e alla loro perizia militare, riuscirono a fare breccia con una formazione a cuneo. In quella direzione arrivarono a un'altura appena accennata. Dove in un primo tempo riuscirono a resistere; poi, dato che la posizione sopraelevata permise loro di tirare il fiato e di riprendersi dal grande spavento, respinsero anche i nemici che pressavano da sotto; quel pugno di uomini stava avendo la meglio grazie alla posizione vantaggiosa, quando i Veienti furono spediti ad aggirare l'altura emersero da dietro sulla cima.
Quindi permisero ai compagni di riprendere in mano la situazione. I Fabi vennero massacrati dal primo all'ultimo e il loro campo venne espugnato. Nessun dubbio: morirono in trecentosei; se ne salvò soltanto uno, poco più di un ragazzo, destinato a mantenere in vita la stirpe dei Fabi e a diventare per Roma, nei momenti più cupi in pace e in guerra, un sostegno fondamentale. Al momento di questo disastro, Gaio Orazio e Tito Menenio erano già consoli.
ELOGIUM FABII - TABULA ONORARIA, MARMO (2 A.C. – 14 D.C.) |
"La dittatura di Q. Fabio Massimo nel 217 a. c a seguito della famosa battaglia del Trasimeno in cui morì il console C. Flaminio avvenne per 'interregni causa', ossia a seguito di un interregnum (morte e/o impossibilità dei due consoli)".