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I FRATELLI ARVALI

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FRATES ARVALES

Secondo la tradizione, il collegio degli Arvali era stato istituito da Romolo il fondatore e primo re di Roma, e ne facevano parte i dodici figli del pastore Faustolo, colui che aveva raccolto e allevato i due gemelli allattati dalla lupa. Per questo motivo i sacerdoti si sarebbero chiamati fratres, o "fratelli". Noi pensiamo invece che il termine non si riferisse ai due figli di Rea, ma al rapporto di fratellanza tra di loro, come usava nell'antica religione italica, dove i "Fratelli" giuravano col sangue il segreto del rito.

FLORA ERA COLLOCATA ALL'INTERNO
DEL TEMPIO DEGLI ARVALI
In reltà il sodalizio degli Arvali iniziò prima della fondazione della stessa Urbe, poiché i membri fondatori furono non i figli di Faustolo ma i 12 figli di Acca Larenzia, divinità italica (Dea Lupa) antecedente agli Dei romani. In seguito i dodici vennero scelti tra i membri dell’aristocrazia, presieduti da un Maestro eletto annualmente e rinnovantesi al suo interno per cooptazione. Poi ne divenne membro fisso l’imperatore che ne “suggeriva” anche gli avvicendamenti.

La loro sede era da sempre situata nel tempio di Dia, con annesso bosco sacro, a cinque miglia da Roma, circa nell’attuale quartiere della Magliana. In questo tempio erano conservati, incisi su lastre di pietra, gli Atti dei Fratelli Campestri. Tra i loro compiti vi era la celebrazione del Giro dei Campi o Ambarvali, un rito propiziatorio delle messi agricole e a protezione dei venti nocivi – descritti da Catone, Tibullo e Virgilio – ed una festa mobile che si svolgeva in tre giorni verso la fine di Maggio.

Questa leggenda è citata anche da Plinio il vecchio nella sua "Historia naturalis" dove riferisce che le insegne di quel sacerdozio erano costituite, fin dalle origini, da una grande ghirlanda di spighe e da bende bianche. Le spighe erano l'emblema della Bona Dea, la Dea Madre, poi assimilata anche a Cerere, mentre le bende bianche erano il simbolo della purezza e della fedeltà alla Dea, ai suoi riti e ai suoi fratelli. Sicuramente le bende immacolate vennero fin da empi molto antichi poste sulla fronte, o sul polso, o sul collo del sacerdote.

Nel 493 a.c, i Romani costruirono un grande tempio dedicato alla dea Cerere, all'interno del quale, i sacerdoti Arvali celebravano i loro riti e le loro funzioni, coltivando il culto della Dea che andava a sostituire l'antica Dia.         (Dea Flora tra le divinità del Lucus Diae)



LA SACRALITA' DEL NUMERO 12

« Aruorum sacerdotes Romulus in primis instituit seque duodecimum fratrem appellavit inter illos ab Acca Larentia nutrice sua genitos... » (Plinio il vecchio.)
« Romolo per primo istituì i sacerdoti Arvali e chiamò se stesso dodicesimo fratello tra quelli generati da Acca Larentia, sua nutrice... »
Dunque erano fratelli perchè figli di Acca Larentia, l'antica Dea Lupa.
 "Gli Arvales erano infatti un antico collegio sacerdotale di dodici membri, che secondo l'antica tradizione rappresentavano i dodici figli di Acca Larentia, e si suppone siano i dodici mesi dell'anno" (Plin., Nat. Hist., XVIII, 6; Gell., VII, 7,8) ma su questo avremmo da ridire. 

Non fa venire in mente il Cristo coi dodici apostoli? E anche di questo si è parlato dei dodici segni zodiacali, ma c'è un però, ed è che al tempo degli antichi Arvali, e pure al tempo di Gesù Cristo tra gli ebrei, c'era per entrambi il calendario lunare. Per il popolo ebreo sussiste anche oggi, e come allora l'anno consta (tranne eccezioni) di 13 mesi, mentre a Roma in origine c'era un calendario lunare diviso in 10 mesi con inizio alla luna piena di marzo, istituito da Romolo nel 753 a.c.. Questo calendario era di dieci mesi e i loro nomi erano: Martius, Aprilis, Maius, Iunius, Quintilis, Sextilis, September, October, November, December. Tanto è vero che Dicembre non è il decimo ma il dodicesimo mese.

Ma c'è di più, anche i Salii erano un antichissimo collegio sacerdotale romano, e si dividevano in Salii Palatini, con 12 sacerdoti, e Salii Quirinali, anch'essi di 12 sacerdoti, e 12 furono le tavole della Legge istituite da Romolo, e 12 sono le ore antimeridiane e pomeridiane, 12 erano i principali Dei dell'Olimpo, 12 le fatiche di Ercole ecc.

Diciamo che fin dai tempi più antichi i numeri sacri, o fondamentali, furono il tre e i multipli di tre, quindi il tre, il sei, il nove e il 12. Ovunque la Dea Madre fu triplice, poi sostituita  da tre Dei (vedi gli Dei di Romolo: Giove, Marte e Quirino, sostituita poi dalla Triade Giove, Giunone, Minerva. Anche la religione cattolica ha una trinità pur essendo monoteista.



SACRIFICI INCRUENTI

I Fratelli Arvali si definivano “figli della madre terra “, pertanto tutti fratelli, e nei loro rituali, oltre ad onorare la Dea Cerere, compivano sacrifici anche per il Dio Bacco, e si crede avvenisse nella speranza di una buona produzione delle messi e delle viti. I sacrifici, come usava in tempi più antichi, erano incruenti e avvenivano con l'offerta dei prodotti della terra che venivano bruciati o sparsi al vento nei campi o versati in terra dei liquidi, come acqua, latte o vino.

La ragione dei riti arvali erano comunque misteriche, o almeno anticamente lo erano. La prima Dea cui si rivolsero alle origini fu la Dea Dia, e Dia era la Dea Madre da cui derivò per estensione il termine Dius. Avevano anche il loro anno liturgico, che era anche l'anno di carica dei dignitarî del collegio, ed andava da una festa delle sementi all'altra (ex Saturnalibus primis ad Saturnalia secunda).

L'arcaico sacerdozio, sorto sul Palatino, conta nei documenti solo una breve menzione di Varrone (De lingua latina, V, 8), e di Masurio Sabino (presso Gellio, VI, 7,8), mentre ne troviamo parecchie iscrizioni lapidarie con gran parte della storia e degli atti del collegio, dai primi tempi dell'impero fino alla metà del sec. III. Questi scritti sono un'ampia serie di documenti epigrafici, di dediche ma anche funerarie, riesumate per caso o per scavi sistematici, iniziati nel sec. XVI, e compiuti nel secolo passato nel luogo ove si estendeva il lucus Deae Diae, il bosco sacro, e dove i fratelli Arvali si adunavano per compiere i loro principali sacrifici. Un patrizio romano del IV secolo, Lucius Digitius Bassus, di Paestum, compare a Roma nell'epigrafe 33 come frater Arvalis ancora nel 145 d.c.



LE EPIGRAFI

Il luogo sacro era la moderna vigna Ceccarelli, posta sulla destra della via Portuense (via Campana), oltrepassato di poco il V miglio dove, nel 1570, si fecero le prime scoperte epigrafiche con le basi delle statue dedicate agl'imperatori in qualità di fratelli Arvali. L'Istituto germanico di corrispondenza archeologica di Roma, negli anni 1867-69, riportò alla luce numerose tavole scritte e diversi resti degli antichi edifici arvalici. Altri frammenti tornarono in luce in scavi eseguiti dallo stesso Istituto nel 1882, oltre ad altre scoperte fortuite avvenute a Roma e oltre. Ma la maggior parte delle epigrafi venne rinvenuta nelle Catacombe di Santa Generosa.

Importante fu il ritrovamento di un frammento degli atti arvalici sotto la chiesa di S. Crisogono in Trastevere, e di un altro nelle demolizioni fatte per il risanamento del teatro di Marcello. Queste epigrafi si trovano in gran parte nel Museo Nazionale Romano delle Terme e in gran parte nel Museo Vaticano. Si tratta in tutto di circa cento resoconti dettagliati di adunanze degli Arvali, che vanno dall'anno 14 all'anno 241 d.c.



LE ORIGINI

Le origini degli Arvali secondo gli studiosi si collegano ad una primitiva religione riferita alla coltura dei campi (arva), per la cui buona riuscita si facevano cerimonie sacrificali. La Dea Dia, che essi veneravano, era forse la stessa Cerere,. I solenni sacrifici dei fratelli Arvali si celebravano precisamente nei giorni delle antichissime Ambarvalia e nel sito medesimo che segnava il confine del primitivo territorio di Roma, cioè tra il V e il VI miglio della città (Strab., V, 3,2, p. 230).

POSIZIONE DELLE TERME DEGLI ARVALI
In queste cerimonie era interdetto l'uso del ferro mentre si veneravano le rozze antiche olle fittili, nonché il testo del celebre carme arvalico in lingua arcaica, divenuta incomprensibile agli stessi Romani dell'età imperiale. I sodali avevano la denominazione di fratres, esclusiva di questo collegio. Il loro numero era il dodici; ma nell'età imperiale venne anche superato, soprattutto per gl'imperatori ed i membri della famiglia imperiale. L'ammissione nel collegio arvalico (cooptatio) aveva luogo o per libera elezione del collegio o per volontà imperiale (ex litteris imperatoris), cosa che avveniva spesso.

In realtà le ambarvalia erano le feste dei campi in cui i suddetti venivano aggirati a piedi nel loro perimetro, con processione solenne sacerdotale, sostituita poi da quella del capofamiglia e famiglia, per stabilire pubblicamente e religiosamente i confini e quindi la proprietà. Questa presa di possesso avveniva all'inizio nell'ereditare o acquistare un campo e ogni anno per ribadire o mutare la proprietà del padrone.
La stessa cosa si faceva anticamente per la città di cui si deambulava il perimetro primitivo per ristabilire il possesso della propria città. Quest'ultima cerimonia, che era pubblica ed eseguita dai sacerdoti addetti, appunto gli Arvali, che all'inizio facevano anche da testimoni alle proprietà private deambulandone i confini insieme al proprietario.
La deambulazione della città avveniva da parte di tutti gli uomini d'arme per ristabilire il senso della patria da difendere in caso di pericolo rinforzando la solidarietà tra i soldati. Pertanto il Sodalizio dei Fratelli Arvali, che all'inizio ratificò anche la proprietà privata, poi solo quella della polis, fu un primo stabilirsi del diritto pubblico e privato.



L'ORGANIZZAZIONE

Come quasi tutti i collegi, gli Arvali avevano a capo un magister eletto annualmente nel II giorno delle feste del maggio, ma che entrava in carica il 17 dicembre e vi rimaneva fino allo stesso giorno dell'anno seguente. Per lo stesso periodo di tempo era eletto un flamen, che assisteva il magister nei sacrificî. Se il magister non poteva presiedere delegava uno dei colleghi, che diventava in quell'occasione il promagister.

Come in tutti gli altri collegi sacerdotali maggiori, i fratelli Arvali erano assistiti nelle cerimonie sacre da speciali ministri. Quattro nobili fanciulli, con genitori viventi (patrimi et matrimi) assistevano alle cerimonie triduane in onore della Dea Dia, vestiti della pretesta fimbriata (ricinium). Considerati alla stregua di figli, prendevano parte ai banchetti e recavano dalla mensa alle are le fruges libatae dei sacerdoti, cioè servivano a tavola. Ma ogni membro del collegio aveva un calator personale, generalmente un servo manomesso, per assisterlo nelle cerimonie. 

Nei sacrifici piacolari nel bosco arvalico, il calator agiva in luogo del magister cui era addetto. Alcuni fra i servi appartenenti allo stato (servi publici) erano destinati a prestare servizio agli Arvali, come addetti al collegio, non ai singoli sacerdoti. Potevano essere trasferiti ad altri uffici della pubblica amministrazione. V'era infine un aedituus, custode del tempio collegiale della Dea Dia.



LUCUS DIAE

Il bosco sacro della Dea (lucus deae Diae) si trovava al quinto miglio della via Campana, in cima a un clivus del lato destro della via. Il principale edificio sacro che sorgeva nel bosco era il tempio della Dea Dia, situato sul declivio del colle. Sui suoi ruderi è costruito il villino della vigna attuale.

RIPRODUZIONE DEL TEMPIO DEGLI ARVALI
Era di forma circolare, come i templi più antichi, col fronte ad oriente, con davanti una mensa ad uso ara, su cui gli Arvali compivano i riti: avanti ad essa era un caespes, un'ara naturale, formata da zolle di terra con cespugli. Ai piedi del colle, sul limitare del lucus, v'era un'altra ara, sulla quale s'immolavano le porciliae piacolari, con il foculus, il tripode metallico su cui si immolava la vacca bianca.

C'era poi il Caesareum, dedicato agl'imperatori defunti e divinizzati, dove s'immolavano vittime in loro onore. Qui si riunivano a banchetto gli Arvali nel II giorno delle feste ambarvali. Questo Caesareum, come il tempio della Dea Dia, fu ricostruito nel II sec. dell'impero, o agl'inizî del III. Congiunto o vicino al Caesareum era il tetrastylum, entrambi ai piedi della collina, nel piano che si estende verso il Tevere, ove infatti furono trovate le statue imperiali che decoravano l'interno del Caesareum.

Nel tetrastylum, o portico a colonne rettangolari, erano i sabsellia su cui si adagiavano gli Arvali per banchettare, riunirsi e riposarsi, e i posti erano protetti dal sole e dalla pioggia per mezzo di tende (papiliones). V'era anche un circus, ove, dopo leepulae, avevano luogo le corse.



I FASTI DEL COLLEGIO

Le tavole marmoree, sulle quali venivano di anno in anno incisi i fasti del collegio, furono dapprima poste sullo stilobate del tempio della Dea Dia. Finito lo spazio si passò alle parti lisce nella parte inferiore di alcune tavole, poi si passò ad altri monumenti arvalici, e perfino sui sedili.

La redazione degli atti arvalici è più sobria nei primi tempi, poi, da Augusto a Domiziano, diviene poi più ricca di particolari nella relazione delle feste e delle cerimonie sacre. Sotto Gordiano III (circa a metà del sec. III) cessò l'incisione delle memorie arvaliche. Per ciascun atto registrato sono indicati i nomi dei fratelli Arvali presenti alla seduta o alla cerimonia.

Dopo l'abbandono del bosco arvalico, nel sec. IV, le tavole scritte andarono disperse. Ma poiché fu più a lungo rispettato il tempio, in confronto agli altri edifici minori, le tavole scritte fuori dell'imbasamento del tempio, e cioè posteriori agli Antonini (fine del sec. II), furono le prime ad andare disperse e a servire da materiale da costruzione nei luoghi più disparati di Roma e vicinanze. Fra le altre tavole marmoree scritte ne furono trovate, negli scavi degli anni 1867-1869, alcune contenenti parte del calendario romano e della serie dei consoli e dei pretori che furono in carica tra gli anni 2 a.c. e 37 d.c.



LE FESTE

Ogni anno, nel mese di gennaio, si promulgavano i giorni della festa annuale della Dea. I tre giorni delle feste arvaliche erano o il 17, 19, 20 o il 27, 29, 30 di maggio; i primi negli anni pari dell'era verroniana, i secondi nei dispari.



IL I e il II GIORNO

- Nel primo di quei giorni le feste si celebravano in città, nel secondo, parte nel bosco sacro e parte in città, nel terzo in città.

- Nel I giorno si eseguiva il sacrificio in casa del magister, oppure sul Palatino in aede divorum. In questa cerimonia si consacravano le messi aride e le verdi, cioè quelle dell'anno precedente e quelle della stagione; poi seguiva un banchetto.

- Nel II giorno si compivano tre cerimonie nel bosco sacro della via Campana, e una in città, in casa del magister. Nel bosco sacro s'immolavano due porciliae piacolari, in espiazione preventiva di ogni trasgressione alla sacra inviolabilità del luogo; seguiva il solenne sacrificio di una vacca bianca, fatto dal magister, quindi gli Arvali scendevano nel tetrastilo per riunirsi a banchetto.

- La cerimonia del pomeriggio era la più solenne, e ne abbiamo una descrizione dettagliata nelle due tavole con la relazione della festa degli anni 218 e 219. Si sacrificava una agna opima nel tempio della Dea, poi si faceva l'offerta dei thesauri o dei doni personali degli Arvali alla Dea, e si prestava il culto alle ollae.



IL CULTO DELLE OLLAE

Questo rito aveva origine dalla più remota antichità, si dice, quando l'uso dei metalli non era ancora introdotto nel Lazio. L'adorazione di questi vasi molto antichi e ormai malridotti ha fatto torcere il naso a molti, adducendo che allora le ollae erano importanti perchè ancora non c'erano i metalli, ma in Italia il rame è comparso al più tardi nel 3000 a.c., era davvero un culto così antico? E le rozze ollae (che non erano ermeticamente chiuse in una tomba) non si sarebbero sgretolate?

OLLA ROMANA
Dunque le olle non erano adorate perchè non ne avevano di meglio, cioè di metallo, anche perchè fare le olle di metallo non è consigliabile non solo per il costo ma per la conservazione del prodotto. Col metallo il freddo e il caldo si trasferiscono immediatamente all'interno.

Dunque le olle in questione erano adorate per il loro contenuto non per le olle stesse. E cosa contenevano? Semplice, le sementi per l'anno successivo. Non doveva essere facile convincere i contadini a mettere da parte il cerale per l'anno successivo, specie se l'annata non era andata bene e il cereale era poco. Ma quelle sementi erano la garanzia del prodotto dell'anno successivo e veniva conservato nel tempio, affinchè nessuno lo profanasse.

Le sementi erano dunque sacre e creavano un sodalizio, perchè se qualcuno aveva avuto un raccolto carente, qualcuno ne aveva avuto di più abbondante, e in ogni caso la redistribuzione della semina avveniva in egual modo, comunque fosse stata la consegna dei semi. Ecco il sodalizio dei semi ed ecco il sodalizio dei Fratelli Arvali.



IL RITO

Quindi solo i sacerdoti avevano ingresso al tempio dove era custodito il tesoro dei semi e solo i sacerdoti, chiusi nel tempio, leggevano cantando e danzando in ritmo di 3/4 (tripodatio) il celebre carme arvalico, per nostra fortuna trascritto per intiero nella tavola dell'anno 218 e scoperta nel 1778 a Roma.



IL CARME ARVALE

Scritto in versi saturnii, che costituisce uno dei testi più antichi della lingua latina. Il carattere arcaico di questo testo si mantenne anche in epoche più tarde, in quanto i Romani ritenevano che ogni cambiamento nei particolari di un rito religioso ne avrebbe diminuito l'efficacia.

- Enos Lases iuuate
- neue lue rue Marmar sins (sers) incurrere in pleores
- satur fu, fere Mars, limen sali, sia berber.
- semunis alternei aduocapit conctos.
- enos Marmor iuuato
- triumpe, triumpe, triumpe, trium(pe tri)umpe.

Ogni saturnio, salvo l'ultimo, era ripetuto tre volte. 
L'interpretazione, data l'oscurità del testo, non è che approssimativa: 

"O Lari aiutateci! 
Non permettere, o Marte, che la morte e la rovina piombino sul popolo! 
Sii sazio, fiero Marte! Salta sulla soglia! Fermati, o barbaro (??)! 
Egli (Marte o il magister fratrum) invocherà alternativamente tutti i Semoni. 
O Marte, aiutaci! 
Triumphe...". 

- Nel v. 1 enos = nos(cfr. ἐμοί, μοί), ma v'è chi pensa ad enom (cfr. umbr. enom = tum). 
- Lases = Lares è forma anteriore al rotacismo. (Varrone - "In molte parole in cui gli antichi dicevano s, in seguito dicono r")
- Nel v. 2 lue, rue = luem, ruem (ruinam). 
- Marmar è raddoppiamento di Mars. 
- Sins = sinas (la terza volta si ha sers = seiris, siris,siveris). 
- In pleores = in plures. 
- Nel v. 3 fu è imper. della rad. *bhu- (cfr. fui, forem).Berber vien confrontato con βόρβορος, βεβρός, βάρβαρος. 
- Nel v. 4 semunis =Semones, divinità della sementa. 
- Alternei = vicissim. 
- Aduocapit (scil. Mars omagister fratrum) = aduocabit (cfr. falisco cupa = cubat), futuro singolare: il Marx (Lucili carmina, II, ad v. 1322) intende cunctos aduocapit, facendo del nom.cunctos l'equivalente di quisque. 
- Nel v. 5 Marmor è dittologia di Marmar. 
- Nel v. 6 triumpe, senza aspirazione, è esclamazione trionfale.

Altra interpretazione: 

- Aiutateci o Lari!
- Aiutateci o Lari!
- Aiutateci o Lari!
- O Marte non permettere che la dissoluzione si abbatta sul Popolo!
- O Marte non permettere che la dissoluzione si abbatta sul Popolo!
- O Marte non permettere che la dissoluzione si abbatta sul Popolo!
- Sii appagato, feroce Marte, balza al confine, prendi posizione!
- Sii appagato, feroce Marte, balza al confine, prendi posizione!
- Sii appagato, feroce Marte, balza al confine, prendi posizione!
- Invocherete uno dopo l'altro i Semoni, tutti!
- Invocherete uno dopo l'altro i Semoni, tutti!
- Invocherete uno dopo l'altro i Semoni, tutti!
- Aiutaci, Marte!
- Aiutaci, Marte!
- Aiutaci, Marte!
- Vittoria!
- Vittoria!
- Vittoria!
- Vittoria!
- Vittoria!

E ancora:

« - Lari aiutateci,
- Lari aiutateci,
- Lari aiutateci,
- non permettere, Marte, che rovina cada su molti.
- non permettere, Marte, che rovina cada su molti.
- non permettere, Marte, che rovina cada su molti.
- Sii sazio, crudele Marte. Balza oltre la soglia. Rimani lì.
- Sii sazio, crudele Marte. Balza oltre la soglia. Rimani lì.
- Sii sazio, crudele Marte. Balza oltre la soglia. Rimani lì.
- Invocate a turno tutti gli dei delle sementi.
- Invocate a turno tutti gli dei delle sementi.
- Invocate a turno tutti gli dei delle sementi.
- Aiutaci Marte.
- Aiutaci Marte.
- Aiutaci Marte.
- Trionfo, trionfo, trionfo, trionfo, trionfo. »

Noi interpretiamo questo come un'invocazione all'antico Marmar, il Dio Lupo figlio della Dea Lupa, cioè la cupidigia che distrugge le sementi messe da parte per la semina futura. Per questo gli si intima di non varcare il confine del tempio, affinchè le semenze non vengano toccate, nè dai topi, nè dagli uomini, nè dalle malattie. Infatti vengono poi invocati gli Dei delle sementi, i Semoni, affinchè aiutino a preservare i semi conservati nelle olle.



IL TERZO GIORNO

Seguiva un'altra refezione nel tetrastilo e poi avevano luogo le corse dei cavalli nel circo annesso al bosco sacro. Gli Arvali sul tramonto facevano ritorno in città e chiudevano la giornata con un terzo banchetto nella casa del magister.

Nel terzo giorno gli Arvali si radunavano ugualmente in casa del magister per una cena destinata a consumare il sacrificio offerto il giorno innanzi alla Dea Dia. Si distribuivano infine le sportulae o gettoni di presenza in denaro ai singoli intervenuti.



IL CULTO IMPERIALE

Il collegio degli Arvali compiva anche altri sacrifici, riferiti al culto degl'imperatori e della famiglia imperiale. Il natalizio di Augusto si celebrava nei giorni 23 e 24 di settembre e i sacrifici erano offerti una volta sul Campidoglio e una volta sul Palatino. I sacrifici anniversarî per il natale degl'imperatori viventi e per i membri della famiglia imperiale avevano luogo nel massimo tempio capitolino.

IL GIOVANE CESARE
Altri sacrifici votivi straordinarî si celebravano dagli Arvali in occasione delle consecrationes degl'imperatori e delle imperatrici, il felice ritorno d'un imperatore da una lontana spedizione e così via.

Gli Arvali compivano sacrifici anche per solenni promesse votive, o annualmente per determinate ragioni, o straordinariamente per cause speciali.
Ordinariamente il 3 gennaio si soleva celebrare sul Campidoglio una cerimonia nella quale si scioglievano i voti fatti precedentemente e se ne promettevano nuovi per l'anno cominciato. 
Tali sacrifici votivi si facevano alle tre divinità capitoline per la salute dell'imperatore e per la felicità ed incolumità dello stato. In caso di morte d'un imperatore durante l'anno, i voti fatti per l'imperatore defunto al principio dell'anno erano rinnovati per la salute del nuovo principe dopo la sua assunzione al trono. 
I voti, oltre che alle tre maggiori divinità capitoline, erano fatti alla Salus publica, a Marte, alla Vittoria, a Vesta, a Nettuno e ad Ercole.



SACRIFICI ESPIATORI

Il collegio arvalico celebrava anche sacrifici espiatorî (piacula) nel bosco sacro, ogniqualvolta si doveva compiere un atto reputato contrario alla tradizionale rigidità dei loro riti. Ma si compivano in ogni caso, poichè c'era quasi un'ossessione per il corretto procedimento dei riti, e credendo che un solo errore potesse scatenare l'ira degli Dei oppure annullare i benefici del rito, si faceva insieme a questo un rito piaculare per annullare gli effetti negativi di qualsiasi errore.

Inoltre, nel secondo giorno delle feste annuali, prima d'incominciare i sacrifici in onore della Dea Dia, si potavano gli alberi e si faceva la pulizia di tutto il bosco. Ma per far ciò si dovevano mettere le mani sulle piante sacre ed intangibili, e si dovevano adoperare strumenti di ferro, contrariamente alle antiche prescrizioni rituali, per cui gli Arvali espiavano questo con i piacula, cioè un sacrificio, consistente nell'immolazione di due porchette (porciliae), le cui carni venivano poi consumate dai sacerdoti.

Altri sacrifici espiatorî erano fatti quando si incidevano col ferro sul marmo gli atti del compiuto anno del magistero, e ogniqualvolta fosse caduto un albero del bosco o per vecchiezza o perché abbattuto dal vento o dal fulmine.

Naturalmente il divieto di toccare ferro, che in realtà riguardava all'epoca l'intera popolazione, riguardava il divieto di fare guerra o di pubbliche esecuzioni, per non macchiare di sangue la purezza delle nuove sementi.

Il legno degli alberi e dei rami abbattuti serviva per fare il fuoco nei sacrifici arvalici. Altri sacrifici espiatorî si facevano nel bosco in casi straordinarî, o per la caduta di un fulmine, o per essere caduta qualche parte di uno degli edifici sacri, o per altre cause diverse.

Questi sacrifici si facevano con l'immolazione di una porca, di una pecora e di un toro (suovetaurilia), seguita dall'uccisione di due vacche in onore della Dea Dia e di due ovini per ciascuna delle diverse deità venerate nel bosco sacro. Infine si immolavano altrettanti animali (verbeces), quanti erano gl'imperatori e le imperatrici divinizzati, venerati nel Caesareum.



IL DECLINO

Il Collegio dei Fratelli Arvalicaduto nell’oblìo al tempo di Augusto, venne da questi ricodificato e da allora l'imperatore ne fece parte di diritto, tanto che talora il numero dei fratres superò i 12., ma, a cominciare dalla metà del sec. III, con l'avvento del cristianesimo, andò sempre più declinando, fino a sparire, insieme con tutti gli altri culti nazionali pagani, alla fine del sec. IV.



OGGI

I resti arvalici sono oggi privati, nonchè devastati, nonchè non visitabili, in compenso il Municipio di "Roma XV" è denominato "Arvalia Portuense" dai resti di un tempio d'età augustea sito in prossimità del Fiume Tevere. Ma quale tempio?

"La catacomba di Generosa fa parte di un complesso archeologico, ricco di testimonianze non solo cristiane, ma soprattutto pagane. Nel sopraterra infatti è stato individuato un recinto sacro (chiamato il boschetto sacro alla Magliana), comprendente l’antico collegio pagano dei fratres Arvales, associazione sacerdotale pagana, le cui origini risalgono all’epoca repubblicana romana, dedicata al culto della dea Dia, il cui tempio è stato individuato nello stesso recinto: gli Arvali registravano la loro vita religiosa e cultuale (gli Acta fratrium Arvalium) in tavole marmoree, molte delle quali sono giunte fino ai nostri tempi, grazie al loro riutilizzo come lastre di pavimentazione della basilica di Generosa.
La catacomba è posta all’interno di una collina, e si sviluppa su un solo livello. L’antico ingresso della catacomba, come per altre catacombe romane, era chiuso da una basilica, fatta costruire da Damaso nella seconda metà del IV secolo, i cui resti sono stati individuati da Giovanni Battista de Rossi nell’Ottocento. Nell’abside una fenestella confessionis permetteva di vedere il principale luogo di culto martiriale, mentre una porta laterale dava accesso alla catacomba.L’attuale ingresso alla catacomba è di recente costruzione, ed è costituito da una piccola struttura in mattoni chiusa da una porta di ferro."
Insomma la catacomba si visita, il complesso archeologico degli Arvali no.

I CATALOGHI REGIONARI

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I Cataloghi Regionari, tanto spesso citati anche da noi per orientarsi sulla mappa o sui monumenti dell'antica Roma, sono due redazioni, leggermente diverse tra loro, pervenute da un originario catalogo delle 14 regioni di Roma augustea. Delle due versioni la prima è la CURIOSUM URBIS ROMA REGIONUM XIIII, mentre la seconda, priva di titolo, è normalmente conosciuta come NOTITIA URBIS  ROMAE.

Entrambi  sono un elenco di monumenti suddivisi per ogni regione, per la maggior parte in ordine topografico, e quindi il numero dei vici (quartieri) e delle loro edicole compitali, dei vicomagistri e dei curatores della regione, delle abitazioni (domus e insulae), dei magazzini (horrea), degli impianti termali (balnea), degli specchi d'acqua (lacus) e dei forni (pistrina). Alla fine di ogni elenco si cita a lunghezza del perimetro della regione trattata. Segue un riassunto finale con il numero complessivo di monumenti e delle altre categorie di edifici cittadini.


Datazione

CARTINA DELLE REGIONI DI ROMA (zoommabile)
La datazione dell'elenco originale è discussa, pur riferendosi all'epoca augustea sono ritenuti in genere di epoca costantiniana nel 315-316,  rielaborato in ognuna delle due versioni a noi giunte.

Queste sono datate sulla base del più recente monumento  citato: per la Notitia, la statua equestre di Costantino, eretta nel 334, mentre per il Curiosum, l'obelisco eretto da Costanzo II nel Circo Massimo nel 357.

Secondo altri, invece, la menzione del corpo dei pretoriani, sciolto da Costantino, indicherebbe una redazione già sotto Diocleziano e forse collegata alle sue riforme amministrative.

In seguito nell'originario elenco si sarebbero inserite varie interpolazioni fino al testo del Curiosum, dal quale a sua volta sarebbe derivato il testo della Notitia, con voci più numerose e Costantino citato come divus, dopo la sua morte.

Dunque la citazione dell'obelisco di Costanzo II nel Curiosum sarebbe un'interpolazione successiva. Anche lo scopo dell'elenco e il criterio per la scelta dei monumenti da citare, che non sembrano essere tutti quelli importanti all'epoca, è incerto: si è proposto che i monumenti fossero riferimenti topografici per indicare i confini delle regioni o di loro successive suddivisioni, ma non convince. I riferimenti numerici sono probabilmente tratti da documenti ufficiali, redatti a scopo amministrativo.



MANOSCRITTI

 Le versioni manoscritte, attraverso le quali i due elenchi sono giunti fino a noi sono:

Per il Curiosum: -
  • Vaticano latino 3321 (in scrittura onciale, forse derivato da un manoscritto in scrittura capitale), VIII secolo; 
  • Vaticano latino 1984 (scritto da varie mani in tempi diversi), XI-XII secolo; 
  • Vaticano latino 3227 (in scrittura beneventana minuscola), forse appartenuto all'abbazia di Montecassino, tardo XI - primo XII secolo; Laurenziano 89 sup.67, selezione in forma compressa del testo presente nel manoscritto Spirense, oggi scomparso. 
 Per la Notitia: -
  • Vienna (collezione nazionale), latinus 162, del IX secolo; 
  • Cattedrale di Speyer, manoscritto dell'VIII-X secolo, perduto alla metà del XVI secolo ma con alcune copie di varia attendibilità. 
  •  La Cronografia del 354. 


LA CRONOGRAFIA DEL 354

 - Nell'antica roma un ricco aristocratico cristiano di nome Valentinus ricevette un codice contenente un calendario illustrato per l'anno 354, insieme a un gruppo di documenti non illustrati, inclusa una lista di nomi di consoli, prefetti e vescovi di Roma a quella data.

Altre sezioni illustrate includevano il ritratto del console di quell'anno e il suo segno zodiacale. La calligrafia era di eccezionale qualità, essendo opera del più famoso calligrafo del secolo, Furius Dionysius Filocalus. Infatti Filocalo, da seguace cristiano, aveva aggiunto il proprio nome a fianco degli auguri di benessere per Valentino, che ornavano la pagina di apertura del codice.

 Le illustrazioni che accompagnavano il testo erano le prime illustrazioni a piena pagina di un codice nella storia  dell'arte occidentale, e anche esse possono essere state eseguite da Filocalus. Il codice originale continuò ad essere usato a lungo dopo il "giorno di Valentino".

 - Polemius Silvius probabilmente lo consultò, almeno un secolo più tardi, per il proprio calendario del 449, e  nel VI sec. fu preparato un planisfero per l'anno 579, che sembra sia stato illustrato con copie di illustrazioni dal codice del  354.
 - Altre tracce della sua esistenza sono in S. Columbanus di Luxeuil che avrebbe copiato il suo ciclo pasquale nel 602, e un lavoro anglosassone del 639 può riferirsi ad esso.
 - L'antico codice esisteva ancora nel IX sec., quando, a causa delle sue associazioni con l'età di Constantino, venne fatta una copia completa e fedele, il Luxemburgensis, oggi perduto.

 - Allo stesso tempo fu eseguita una copia illustrata del testo, entrambi direttamente dall'originale o per un intermediario. Quest'ultimo è ora San Gallo 878.

Da questo momento non vi sono altre tracce dell'originale autografo; infatti nel IV sec. sono meno di 20 i codici sopravvissuti (vedi E. A. Lowe, Codices Latini Antiquiores, Oxford, 1934, vol. 1: codices I, IV, XIV-XV).

 - Nel Rinascimento, la scoperta della copia del IX sec. causò grande emozione, ispirando diverse copie nel XVI e XVII sec.. Sfortunatamente i fogli andarono perduti nel Rinascimento, e la copia migliore (il Romanus), che era stata eseguita sotto la supervisione dello scolaro Nicholas-Claude Fabri de Peiresc, venne eseguita dopo questo evento.
Alla morte di Peiresc il Luxemburgensis era perduto. La nostra conoscenza del testo  è quella delle copie superstiti del rinascimento, nessuna delle quali appare adeguata.



IL TESTO

Il testo è una raccolta preziosa di dati sulla società romana, meno noto di quanto meriti, ma non un singolo volume contiene una edizione stampata della Cronografia nel suo complesso.
Theodor Mommsen pubblicò la parte 6,  il calendario,  in Inscriptiones Latinae Antiquissimae. Pubblicò il rimanente, senza illustrazioni, nel Monumenta Germaniae Historica, Chronica Minora

Le illustrazioni appaiono solo nel recente volume di Michele Salzman, che consiste di fotografie di manoscritti in monocromo, senza dubbio in copyright. Il perduto Codex Luxemburgensis illustrato del IX sec., manoscritto copia dell'originale del IV sec. ha in B. una nota che lo indica appartenente a Jean Brenner.Brenner, genero di Remacle Huart, custode degli archivi di Lussemburgo.

La descrizione di Peiresc comprende anche i dettagli della sua esecuzione. Egli registra i colori degli inchiostri usati nelle varie sezioni, e aggiunge che il testo del calendario, le calende, idi e nomi delle feste celebrate in questi giorni, e le notazioni astrologiche dei movimenti del sole nei vari segni zodiacali sono state scritte in inchiostro rosso in caratteri maiuscoli.

Lo schema dei colori è coerente con la pratica carolingia, e, per il calendario, riproduce l'uso del rosso e nero come sui calendari scolpiti sui muri nell'antichità. Lo schema dei colori è riprodotto in una certa misura nelle copie.
Questo manoscritto, mandato ad Aleandro il giovane nel Dicembre 1620, contiene solo le illustrazioni delle città imperiali, le dediche, le illustrazioni dei due consoli per l'anno, e la decorazione architettonica per le liste che iniziano con il Natales Caesarum. 1620, Biblioteca Apostolica Vaticana Codex Vaticanus latinus 9135. Illustrato.



LE FONTI DELLA  CRONOGRAFIA

I manoscritti del testo non contengono tutti le sezioni stesse. Ecco un elenco di tutte le sezioni:

- I. Dedica a Valentinus. (R1, fol.1; B, fol. 197; V, fol. 1)
- II. le 4 città Tyches: immagunu dello spirito delle città di Roma, Alessandria, Constantinopoli, e Trier. (R1, fols. 2-5) III.
- III. Dedica imperiale. (R1 fol.6, poi Lista dei Natali dei Cesari, poi R1 fol. 7; B fol. 198) IV.
- IV. I 7 pianeti e le loro leggende. (R1, fols.8-12).
- V. Effetto XII Segni. (S, G, fol 241).
-  VI. Calendario. Illustrazioni e testo dei mesi.
- VII. Ritratti dei consoli, Augustus Constantius e Caesar Gallus. (R1, fols. 13, 14)
. VIII. Lista dei consoli dal 508 a.c. al 354 d.c..
- IX. Ciclo orientale d.c. 312-358, con una continuazione fino al 410.
- X. Lista di Prefetti Urbani di Roma dal 254 - 354 d.c., finendo con Vitrasius Orfitus, che prese il suo officio l'8 Dicembre 353.
- XI. Deposizioni dei Vescovi di Roma dal 255 al 352, finendo con la sconfitta del vescovo Julius, d. 352.
- XII. Deposizioni dei Martiri. (B, fol. 195v; V, fol. 44; A, fol. 1)
- XIII. Lista dei vescovi di Roma, finendo con Liberius che prese il suo ufficio nel 352.
- XIV. Regioni della città di Roma (Notitia), datata 334-357 d.c.
- XV. Liber generationis, dalla creazione al.334.
-  XVI. Chronica Urbis Romae, dai re di Roma fino alla morte di Licinius nel.324 d.c..
-  XVII. Fasti Vindobonenses,  390-573/575 d.c.

Il testo contiene pure statistiche amministrative, probabilmente della prefettura cittadina; non è nella forma originale ma in due forme più tarde.

La prima di queste non ha titolo nei manoscritti trovati ed è riferito dagli studiosi moderni come Notitia urbis Romae regionum XIV. L'altra ha un titolo che è: Curiosum urbis Romae regionum XIIII. Il termine curiosum è solo il lavoro di un barbaro copista.



LA NOTITIA

La Notitia data al 334 d.c. o più tardi, come si riferisce alla statua equestre di Constantino, dedicata in quell'anno. Può datarsi nel 357 d.c., quando fu eretto il sesto obelisco nel Circo Massimo da Costantino.



IL CURIOSUM

 Il Curiosum non menziona questo obelisco, il che significa che ha una data posteriore al 357. Polemius Silvius usa il Curiosum nel suo calendario scritto nel 449 d.c., cheè quindi ilterminusantequemper questarecensione. Alcuni suggeriscono che se manca la menzione alle mura restaurate da Honorius nel 403 esso è anche significativo; ma poi non si menzionano le mura costruite da Aureliano dal 270-82.
Nordh d'altra parte valutadue testia seconda di quantosi siano discostatidal suoipotetico testoprimitivo,piuttosto che dallapresenzaoassenza dimonumenti. Egli nota l'aggettivo "divus" assegnato a Constantino, che rende entrambe le versioni post-constatiniane. Egli giunse alla conclusione che il Curiosum fosse un testo precedente. Le statisiche della fine del testo non coincidono con le altre versioni.
Questo suggerisce che essi abbiano un'origine indipendente, o che si siano corrotti nella trasmissione.


I manoscritti del Curiosum:
  • Siglum Location Shelfmark; Notes Date / Century A Rome, Vatican Vatican latin 3321. 
  • Pergamena. Scritti in onciale, probabilmente nel centro Italia (Lowe, Cod. Lat. Antiquiores I, p. 6). Deve derivare da un manoscritto in capitoli. Fonti:  Sul frontespizio è il manoscritto di Fulvio Orsini: « Lexicon di voce sacre et profane con alcune operette di Isidoro Ispalense, et altri, scritto di Lettere maiuscole, in 4° in carta pergamena, tocco dal Panormita. Fulv. Urs.» Dopo il frontespizio vi sono due pagine non numerate in onciale. Glossarium Synonyma, con l'aggiunta più tarda di Differentiae verborum Hisidori iunioris, i.e. Etymologiae Nel centro, on ff. 225b-228b, il Curiosum. Sull'ultimo foglio vi sono le parole «Ant. Panormitae» VIII   B Roma, Vaticano Vaticano latino. 1984. 
  • Pergamena. scritto a varie mani e vari tempi. Fonti: Estratti del Breviarium di Eutropius, con l'aggiunta di Paolol il diacono e Landolfo Sagace. Curiosum, on ff. 7a-8b. Miraculum primum. Capitolium Roma. L'accordo di Worms. Una lista di imperatori da Augustus a Constantius II. L'inizio dei regni degli Assyrians, delle Amazzoni, e degli Sciti. La caduta di Troia. Un estratto della Historia Francorum Paolo il diacono, Historia Langobardorum (incompleta) Historia Apolloni regis Tyri Alexandri Macedonis epistulam ad Aristotlem Un altro estratto di Historia Langobardorum Estratti delle controversie dei Lombards coi papi. Il falso decreto di Adriano I. Estratti dal Liber Pontificalis di Zaccaria, Stefano II e III, Leone III "atti di pontefici mescolati ad annali romani" 11-12 C Rome, Vatican Vatican latin 3227.
  • Pergamena, in Beneventano minuscolo. Il codice sembra appartenesse all'abate di Monte Cassino. Sul margine 24a è scritto "Casinum" e sull'ultimo foglio "Raynaldus dei gratia", redatto 1137-1155. D'accordo con Lowe (Scritti Beneventanit, p. 362) è precedente al XII sec.; Bannister (Monumenti Vaticani di paleografia musicale latina, Lipsia, 1913, p. 125, n. 356) concorda. Fonti:                                        una nota di Fulvio Orsini: « Philippiche di Cicerone di Lettera Longobarda, Sogno di Scipione, et P. Vittore epitomato. Fui. Urs. ».                                                                                                        Cicero, Philippics Versus XII Sapientum (Poet. lat. min. ed. Baehrens, IV, p. 139, n. 141)               L'inno, O Roma nobilis, Poema amoroso: O admirabile Veneris ydolum, descrizione delle regioni di Roma,  ff. 81a-83a. Cicero, Somnium Scipionis 11-12 D Firenze, Biblioteca Mediceo-Laurenziana Laurentianus pluteo 89 sup. 67.
  • Pergamena. Sul margine si legge: Descriptiones terrarum et aquarum a romanis script[oribus].Il codice contiene una forma compressa di testi contenuti nel perduto manoscritto Spirensis della Notitia Dignitatum. Fonti: Ps. Eticus, Cosmographia (erratamente titolata Orthographia) Itinerarium Provintiarum Antonii (Antonini) Augusti Itinerarium maritimum, quae loca tangere navigaturus debeat Itinerarium portuum vel positio navium; De septem montibus Romanae urbis De aquarum ductibus Romam rigantibus Regiones urbis Romae cum breviariis suis (ff. 34b-37a) Una forma contaminata del testo. una commistione di Notitia e Curiosum. Vi è pure un testo siriaco.


 I MANOSCRITTI de LA NOTIZIA

sono: Siglum Location Shelfmark; Vienna, National collection Latin. 162. Pergamena - Fonti:
  1. - Catalogo delle regioni (ff. 1a-5a) 
  2. - Descrizione di Constantinopoli 
  3. - Latin-German glossary di Rabanus Maurus da Glossae spirituales iuxta Eucherium episcopum. IX   B perduto. Questo manoscritto fi perduto fin dal XVI sec. quando venne censurato. Gli ultimi 6 lavori vennero decorati con illustrazioni. Alcune copie li riproducono, con varia fedeltà, che possono essere controllati in quanto alcuni fogli illustrati sono finiti nel cottage Norfolk come quadri in cornici. La descrizione di Roma era prefissata con un'immagine di donna seduta in trono con la lancia un una mano e uno scudo nell'altra. In cima era stato aggiunto « Urbs quae aliquando desolata, nunc clariosior  piissimo im perio restaurato », probabilmente riferito alla restaurazione Carolingia dell'imperatore. Il manoscritto non può essere precedente all'VIII sec., quando scrisse Dicuil, o al più tardi nel X sec., quando se ne fecero delle copie. 
  4. - Situs et descriptio orbis terrarum (pseudo-Etico) 
  5. - Itinerarium Antonini De montibus et aquis urbis Romae 
  6. - Liber de mensura orbis terrae (Dicuil) 
  7. - Notitia Galliarum Laterculus Polemii Silvii 
  8. - De montibus, portis et viis urbis Romae 
  9. - De rebus bellicis Altercatio Hadriani Augusti et Epicteti philosophi 
  10. - Descriptio urbis Romae 
  11. - Descriptio urbis Constantinopolitanae 
  12. - De gradibus cognationum 
  13. - Notitia Dignitatum. 8-10 a Oxford, Bodleian.
  14. - Pergamena. Il nostro catalogo è in 81a-84a. Acquistato da Bodleian nel 1817;  precedentemente a Venezia. Alla fine dell'ultimo test è scritto: « Exemplata est hec cosmographia, que Scoti dicitur, cum picturis ex vetustissimo codice quem habui ex Spirensi bibliotheca, anno Domini mccccxxxvi, mense ianuario, dum ego Petrus Donatus, Dei pacientia episcopus Paduanus, vice sanctissimi domini Eugenii pape IIII generali Basiliensi concilio presiderem». Questa cosmografia, chiamata Scozzese, fu copiata con le pitture da un codice antichissimo avuta dalla libreria di Speyer, 1436, Gennaio, mentre Pietro Donato, per la pazienza di Dio vescovo di Padova, dal potere del santissimo papa  Eugenius IV mentre presiedeva il concilio generale a Basilea. Vanno fatte due aggiunte: 
  15. - La misura delle province che non era nei precedenti codici, ma tratta da antico libro, 
  16. - Cyriaci Anconitani de septem mundi spectaculis (in Greco e Latino, 1436 b Paris, Bibliothèque Nationale. 
  17. - Pergamena. Il nostro catalogo è in 66a-68a. Non copiato dalla copia di Donato. Un'immagine monocromatica di Roma, con i dettagli di Speyer presenti in Valentini,  p.161. 15 c Vienna, National library. Copia diretta dello Spirensis. Lat. 3103 (Salzburg, 18 b). Datato alla fine "anno Domini 1484". Il nostro catalogo è in 65b-67b. Furono lasciati fogli bianchi per le illustrazioni, però mai eseguite. 1484 d Munich, State library copia diretta dello Spirensis. Latin. 10291 (Palat. 291) 
  18. - Pergamena. Notitia su 81a-84a. Questa copia rimarchevole per l'eleganza dei caratteri e la bellezza delle illustrazioni, fu eseguita nel 1542, come è indicato sotto l'immagine di Roma. Sul frontespizio c'è questo avvertimento, scritto tra il 1544 e il 1551: « Hic liber, cui titulus Itinerarium Antonini, ad verum atque archetypum exemplar descriptus Illustrissimo Principi ac domino domino Othoni Henrico, Comiti Palatino Rheni, utriusque Bavarie Duci  tanquam anti quitatis amatori atque indagatori studiosissimo, a venerabilibus ac honestis Cathedralis Ecclesie Spirensis Decano atque Canonico [Canonicis ?] dono missus est». (questo libro, intitolato Itinerarium Antonini, copiato dal vero esemplare per i più illustri Principi e lord, Lord Otho Heinrich,  etc, ..., dal più venerabile e onesto diacono e canonico della cattedrale di Speyer, inviato come dono). Cf. Seeck, Hermes IX (1875) pp.218-28 per tutte queste copie. 
  19. - Nel 1890 H. Omont scoprì un foglio della Notitia Dignitatum tra le lettere di Sir Thomas Phillipps in Cheltenham (ms. 16397), intitolato Mappa Mundi, dove si legge alla fine: « Explicit Mappa Mundi scriptum per Antonium Angeli de Aquila, sub anno Domini Millesimo CCCCXXVII, de mense iulii, die XIII eiusdem mensis».   Se il testo fosse completo, indicherebbe una copia prima di qualsiasi ormai noto, e che una copia scritta nel 1427 esisteva è testimoniata da Girolamo Surita nella sua edizione di Itinerario di Antonino (Coloniae Agrippinae, 1600, p. 174): 
  20. - « codex bibliothecae Neapolitanorum regum, qui postea Cardinalis de Ursinis fuit, anno 1427 exscriptus».  ( manoscritto della biblioteca del re di Napoli, che in seguito appartenne al cardinale Orsini, scritta nel 1427 ) 1542 Munich, State library Ms. lat. 794 (vict. 99) Copiato da una copia di Spirensis. 
  21. - Madrid, Biblioteca Nazionale.  Copiato da una copia di Spirensis.  
  22. - Vienna, National Library Ms. 12825 (suppl. 14)  Copiato da una copia dello Spirensis.  
  23. - Paris, BNF Ms. nouv. acquis. 1424.  Copiato da una copia di Spirensis.  Un tempo appartenne al cardinal Francesco Soderini e probabilmente copiato da quello tra il dicembre 1523 e il 1524. 
  24. - Vienna, National Library Ms. lat. 3102 (Salisburg. 30 b). Copiato da 'c' (3103),   anche se dice il contrario, per ordine di Bernardo di Cles, vescovo di Trento, come la seguente nota sul f. 1 mostra: « Librum hunc a satis incorrectum, incorrecte etiam est iussu nostro transcriptum ex antiquo exemplari reperto in Bibliotheca Capitulari Spirensi, dum ibi essemus cum Serenissimo Rege Ferdinando. in conventu imperiali anno 1529. Bern. episcopus Trid. » 
  25. -  1529 Roma, Vaticano. Barberini lat. 809.  Copiato da una copia dello Spirensis . 16 C/V Vienna, National Library Ms. 3416 (hist. prof. 452). 
  26. - 1 Foglio.1-70 contiene la Chronografia del 354, includendo la Notitia.
  27. - Una nota a margine riporta la data del 1480, in accordo al Valentini (p.82). ff. 71 contiene:Chronica Polonorum di Vincent Kadlubek 
  28. - De origine Getarum of Jordanes1480 I seguenti manoscritti originali sono listati da Valentini come contenente materiale che liquida come di nessun valore, senza essere più preciso: Cambrai 554, sec. XII. Firenze, Laurenziana Aedil. Fior. Eccles. 87, XIII sec. Libreria Nazionale di Vienna lat. 609. 
  29. - Codice Gaddianò rei. 148 della bibl. Laurenziana di Firenze, sec. XIII. Cod. Vatican lat. 3191, sec. XV, mutilato. Il folio 15 contiene questa nota: « Publio Vittore, et altre cose, scritto di mano del med.mo [del med.mo è cancellato e nell' interlineo è stato scritto di Pomponio Leto] in papiro, in 4o. Fulv. Urs. ». Ma la mano non è di Pomponio Leto, come da comparazione con le sue copie conosciute. 
  30. - Cod. Vatican lat. 3851, sec. xv. Bibl. dell'Escorial S. III, 27, sec.XV. 
  31. -  Cod. Vatican Ottob. lat. 2072, saec. XV. 
  32. -  Cod. Vatican Ottob. lat. 2089, saec. XV. 
  33. -  Cod. Vatican Urbin. lat. 452, saec. xv. Bibl. Marciana, Venezia 3731, sec. XV. 
  34. -  Bibl. Naz. di Roma Sessor. 286, sec. XV. 
  35. - Bibl. Naz. di Napoli IV . D . 22, sec. XV. 
  36. -  National library, Vienna 3224, sec. XV. 
  37. - Oxford, Bodleian, Canon. miscell. lat. 214, saec. XV. 
  38. - La prima edizione delle 14 regioni fu di Gelenius, Notitia utraque cum orientis tum occidentis ultra Arcadii Honoriique caesarum tempora..., nel 1552, a Basilea, basata sulla collezione Spirensis.


    NOTITIA DIGNITATUM

    La Notitia Dignitatum è un documento unico delle cancellerie imperiali romane. Uno dei pochissimi sopravvissuti documenti del governo romano, esso descrive l'organizzazione amministrativa degli imperi di oriente e occidente dalla corte imperiale alle province.
    Generalmente si usa considerare la data dell'impero d'occidente il 420 d.c., e dell'impero d'oriente il 400. Comunque, nessuna data è assoluta, e vi sono omissioni e problemi. Fonti: compilato dall'editore da varie fonti.

    Un manoscritto ufficiale bizantino, contenente una lista di impegni di corte, civili e militari, con statistiche, etc.  una sorta di libro di stato compilato nel 410 d.c., editato da Seeck (Berlino 1876). Vedi Giuliano in  Mélanges d'Archéologie, i. 284; iii. 80. (references) Notitia Regiōnum Antiquities Notitia Regiōnum. Una sopravvivenza delle XIV regioni in cui Augusto divise Roma. Fu eseguito al tempo di Constantino e specifica i principali edifici nei quartieri. Consta di due liste, la prima chiamata Notitia e la seconda Curiosum Urbis Romae Regionum XIV. Vedi Jordan, Topographie der Stadt Rom, vol. ii. (Berlin, 1871), e id., Forma Urbis Romae Regionum XIIII. (Berlin, 1874). 


    CHIESE EDIFICATE SOPRA I TEMPLI 

    Nello studio dell’inserimento dei luoghi di culto cristiano a Roma in edifici preesistenti tra il IV e il IX secolo, si è preso coscienza  delle chiese interessate a questo fenomeno.

    - 1 - Il Liber Pontificalis
    Il più noto gruppo di fonti di particolare valore per l’archeologia cristiana è il Liber Pontificalis.
    Si tratta di una raccolta di bibliografie, composta attraverso i secoli da vari redattori, preziosa per le notizie in essa contenute; oltre alle informazioni consuete relative alla provenienza del papa o agli anni di pontificato, spesso, infatti, vi si trovano notazioni sulla costruzione di edifici di culto, interventi di restauro a chiese già esistenti, ricordi di donazioni con cui i pontefici arricchivano il corredo delle basiliche, oltre a indicazioni topografiche e toponimi del tessuto urbano di Roma.
    Da molti autori e per molto tempo questa compilazione fu attribuita a papa Damaso e ad Anastasio Bibliotecario vivente nel sec. IX. Monsignor Duchesne, alla fine del XIX secolo, seguito poi dal Grisar, ha dimostrato che essa è anonima, o meglio dovuta alla penna di più redattori, molti dei quali ebbero a disposizione materiale abbondante, altri invece, specialmente per le biografie dei primi pontefici, fonti scarne e di disuguale valore.

    - 2 - Archeologia Cristiana.
    Nozioni generali dalle origini alla fine del secolo VI, Bari 1980, p.3. 2 Ibidem, p. 24.Il Liber Pontificalis, di cui Duchesne pubblicò un’edizione critica.

    - 3 - Feliciana e Coroniana
    Comprende le vite dei papi da Pietro a Martino V (morto nel 1431). L’esistenza di vari manoscritti permise allo studioso di individuare una prima redazione dell’opera, caratterizzata dall’unitarietà compositiva, che dovette interrompersi con la biografia di Felice IV (morto nel 530), composta da un contemporaneo; questa è pervenuta sino a noi non nella versione originale, ma tramite due epitomi: una detta “Feliciana” perché giunge appunto sino al 530, elaborata evidentemente poco dopo quella data ed un’altra detta “Cononiana” dall’ultima vita riportata, quella di papa Conone (morto nel 687), composta, quindi aggiungendo al nucleo originario le altre biografie. Esiste poi una seconda redazione, elaborata sempre sulla  prima, ma rivista e arricchita, che si arresta però al tempo di papa Silverio (morto nel 537).
    Vari manoscritti hanno poi tramandato le biografie dei pontefici successivi, in genere da contemporanei, con le quali è stato possibile ampliare la raccolta fino al pontificato di Martino V. Nelle biografie dei vescovi di Roma ricorre spesso, come si diceva, la menzione delle opere compiute dai papi 4 e tra questeimteressanti le date e i fatti delle trasformazioni di vari edifici (domus o templi) in luoghi di culto.
     Nella biografia di Pio I (141-155) si riprende una notizia dagli Atti delle Sante Pudenziana e Prassede: Hic ex rogatu beate Praxedis dedicavit ecclesiam thermas Novati, in vico Patricii, in honore sororis sue sanctae Potentianae 

    - 5 . Presentando la vita di papa Marcello (308-309) si afferma: damnatus est in Catabulum (la scuderia e deposito di merci della corporazione dei pubblici spedizionieri). Matrona quaedam, nomine Lucina, vidua… quae domum suam nomine beati Marcelli titulum dedicavit…

    - 6 . Arrivati a papa Silvestro (314-335) si parla della chiesa titolare costruita sul fondo del presbitero Equizio iuxta thermas Domitianas, ma non si parla delle strutture preesistenti e le terme, in verità, sono di Traiano; di poi si presentano i doni fatti alla basilica lateranense e dopo aver presentato le basiliche di S. Pietro e di S. Paolo si afferma: Eodeam tempore fecit Costantinus Augustus basilicam in palatio Sessoriano, ubi etiam de ligno sanctae Crucis domini nostri Iesu Christi in auro et gemmis conclusit, ubi et nomen ecclesiae dedicavit, quae cognominatur usque in hodiernum diem Hierusalem

    - 7 - Liber Pontificalis
    Texte, introduction et commentaire, voll. III, Parigi 1886.
    - “Liber Pontificalis” e gli edifici ecclesiastici di Roma nella tarda antichità e nell’alto medioevo, Groningen 1975. L’Autore mette in evidenza il complesso di problemi filologici, storiografici e archeologici del Liber Pontificalis in modo particolare per quanto riguarda le biografie di Adriano I, Leone III e Gregorio IV.
    - Liber Pontificalis, I, 132 (d’ora in poi abbreviato in LP). Si fa riferimento ad Acta Sanctorum, maii, IV, 299. Osservazioni sugli edifici romani in cui si insediò l’ecclesia Pudentiana, in Ecclesiae Urbis, II, pp. 1033- 1071. 6 LP I, 164. 7 Ibidem, 179. Mi è sembrato importante segnalare la notizia di papa Sisto III (432-440) il quale ottiene il permesso imperiale per poter costruire una chiesa in onore di S. Lorenzo: fecit autem basilicam sancto Laurentio, quod Valentinianus Augustus concessit 

    - 8 .
    - Papa Felice IV (526-30) fecit basilicam Sanctorum Cosmae et Damiani in urbe Roma, in loco qui appellatur via Sacra, iuxta templum urbis Romae.  Si riteneva infatti che papa Felice IV avesse trasformato in chiesa l’antico edificio romano mediante la costruzione dell’abside, ma sembra che questa risalga al IV secolo. Felice ha solo decorato con mosaico l’abside, lasciando intatto l’edificio. Bisogna notare che il templum urbis Romae è quello di Venere e Roma.

    - 9 .
    - Gregorio Magno  fondò nel palazzo della sua famiglia tra il 575 e il 581, dunque molto prima della sua elezione a pontefice, un monastero: domum suam constituit monasterium. Trattasi del monastero in clivo Scauri.
     - Papa Bonifacio IV (608-615) Eodem tempore petiit a Focate principe templum qui appellatur Pantheum, in quo fecit ecclesiam Beatae Mariae semper virginis et omnium Martyrum
    Questa richiesta di Bonifacio IV, come l’autorizzazione data più tardi da Eraclio per la rimozione delle tegole del tempio di Roma, dimostra l’autorità imperiale a Roma nonostante le funzioni assunte dal papato nel governo cittadino con Gregorio Magno. Con l’acquisizione e dedicazione del Pantheon la Chiesa diventa proprietaria di uno dei più bei monumenti che fossero allora dentro la città.
    - Di papa Onorio (625-638) si dichiara fecit ecclesiam Beati Adriani in Tribus Fatis, quam et dedicavit… Fecit autem in domum suam iuxta 

    - 10.
    - Lateranis monasterium in honore sanctorum apostolorum Andreae et Bartholomei, qui appellatur Honorii. Si tratta della chiesa di S. Lorenzo in Lucina. Infatti l’intervento di Valentiniano è giustificato dalla concessione di un’area statale, quella cioè della meridiana di Augusto. Cfr. Hillnerr J.,
    - Le chiese di Roma e l’occupazione degli spazi pubblici, in Ecclesiae Urbis, I, pp. 321-329. , Nestori A.,   - Da Gregorio Magno (590-604) a Leone III (793-816).
    - Si veda anche Giovanni Diacono, Vita Sancti Gregorii (PL LXXV, 61ss, col 65). Il monastero fu dedicato a S. Andrea. Come monasterium S. Andreae qui appellatur clivum Scauri e simili denominazioni appare nel Liber Pontificalis I, 471, 480; II, 22 e in altri documenti dal VI al XII sec.
    Nella biografia di Gregorio Magno, Giovanni Diacono descrive, tra l’872 e l’882, il monastero molto dettagliatamente, inclusi i due oratori, uno dei quali dedicato alla Vergine Maria e l’altro a S. Barbara; lì presso era un triclinium, un atrio vicino a un nymphaeum con ritratti murali dei genitori di Gregorio accanto a S. Pietro e la cantina dei monaci con dentro una piccola abside che serbava un ritratto di S. Gregorio in un tondo di gesso (coll. 229,230). 12 LP I, 317.
    Il termine iuxta compare 166 volte, salvo omissioni, nel Liber Pontificalis ed il significato è: “accanto, vicino a…”. Il termine nella sua accezione topografica assume un valore elastico: si passa da “vicinissima” a “relativamente distante”. Si prosegue poi per il nostro argomento con Gregorio II (715-731) il quale post matris obitum domum propriam in honore sanctae Christi martyris Agathae, additis a fundamento cenaculis, vel quae monasterii erat necessaria, a novo construxit 
    L’accenno alla casa privata di Gregorio II trasformata in monastero pare difficile stabilire a quale delle sette chiese dedicate a S. Agata in Roma si possa riferire. Anche papa Paolo I (757-67) in sua propria domu monasterium a fundamentis in honore sancti Staphani, scilicet martyris atque pontificis, necnon et beati Silvestri, idem pontificis et confessoris Christi, construxit 

    - 11 .
    - Nell’abbondante biografia di papa Adriano I (772-795) si parla dell’ampliamento della diaconia di S. Maria in Cosmedin. Il pontefice utilizzò i materiali di un monumento antico distrutto con un immenso rogo: diaconia vero Sanctae Dei genetricis semperque virginis Mariae, quae appellatur Cosmidin, dudum breve in edificiis existens, sub ruinis posita, maximum monumentum de tubertinos tufos super ea dependens, per annum circuli plurima multitudo populi congregans, multorumque lignorum struem incendens, demolivit. Simulque collectio ruderum mundans, a fundamentis aedificans, praedictamque basilicam ultro citroque spatiose largans, tresque absidas in ea construens praecipuus antistes, veram Cosmidin amplissima noviter reparavit
    - Sotto Adriano I, dunque, un grande edificio a blocchi di tufo, in rovina e incombente sulla diaconia di S. Maria in Cosmedin, fu demolito; l’antica basilica, quindi, fu allargata di molto e ricostruita dalle fondamenta, con tre absidi. Il Liber Pontificalis parlando di seguito del restauro della basilica dei SS. Cosma e Damiano, la qualifica come sitam in Tribus Fatis. Invece nella biografia di Leone III (795-816) è la basilica di S. Martina ad essere collocata in Tribus Fatis. Elencando i doni di Leone III alla chiesa di “Gerusalemme” si specifica quae ponitur in Sussurrio.
    - Anche Leone IV (847-855) fa dei doni alla chiesa di “Jerusalem”: et in Suxorio fecit ciburium
    - Nella biografia di Stefano V (885-891) si parla ancora di offerte del pontefice in aecclesia quae vocatur Hierusalem in Sussurrio

    - 12 .
    - Infine nella continuazione del Liber Pontificalis di Pietro Guglielmo e nella recensione del XV secolo è la chiesa di S. Adriano ad essere posta in Tribus Fatis 23 quando sono elencate le chiese consacrate da papa Pasquale II (1099-1118). Le Tria Fata erano le statue femminili in bronzo che sorgevano nel Foro, presso i Rostra Augusti, di rimpetto alla Curia, non lontano dal tempio di Giano (forse le Carinae?). Tutti sanno che il redattore del Liber Pontificalis qualche volta potrebbe non essere del tutto obiettivo. Può accadere che, per ingraziarsi il personaggio del quale sta componendo la biografia, usi termini forse non aderenti alla realtà ed allora ci potremmo trovare di fronte ad indicazioni un poco enfatizzate. Tuttavia non si può mai parlare di un ribaltamento dello stato delle cose, perché scrivendo per dei contemporanei l’assertore delle notizie poteva essere subito smentito.

    Fonti ricavate da itinerari, cataloghi e sillogi. Per la grande quantità dei pellegrini che venivano a Roma, stupefatti dinanzi alla bellezza delle basiliche ed emozionati davanti alle reliquie dei martiri, si sentì il bisogno di tracciare semplici guide che fornissero le indispensabili informazioni topografiche e i nomi dei martiri.
    Altre composizioni, poi, le compilarono gli stessi pellegrini con l’intento di descrivere le cerimonie viste e i tesori dei monumenti visitati a ricordo del loro pellegrinaggio.
    Nacque così un gruppo speciale di lavori, detti dal loro contenuto itinerari, cataloghi e sillogi, vere e proprie guide ad uso dei pellegrini che si recavano a venerare le tombe dei martiri. Si tratta, in particolare per gli esemplari più antichi, di testi estremamente chiari che si distinguono per la precisione delle indicazioni riporate.

    - 13 .  Gesta regum Anglorum di Guglielmo di Malmesbury
    L’itinerario romano viene inserito da Guglielmo nel XII sec. nel testo Gesta regum Anglorum,  in Codice topografico della città di Roma, a cura di Valentini R. e Zucchetti G., II, Roma 1942, pp. 138-153, ma è decisamente più antico, come si deduce da alcuni particolari che un redattore medievale non avrebbe più potuto annotare ai suoi tempi a causa dell’abbandono in cui erano caduti molti cimiteri suburbani. Guglielmo di Malmesbury probabilmente era nato intorno al 1080 ed era monaco bibliotecario nell’abbazia benedettina di Malmesbury.

    L’incarico di bibliotecario gli diede la possibilità di conoscere non solo le fonti della storia inglese, ma anche quelle di altre regioni e degli scrittori classici e sacri in possesso delle biblioteche inglesi.
    Il testo Gesta regum Anglorum inizia dai tempi dell’occupazione romana ed arriva al regno di Enrico I. Nel IV libro l’Autore inserisce la cronaca della I crociata e parlando del passaggio delle soldatesche per l’Italia sotto il comando di Roberto, fratello del re d’Inghilterra, e dell’aiuto a Urbano II per rientrare a Roma, Guglielmo interrompe il suo racconto per una digressione sulla città eterna e un catalogo delle porte e dei luoghi santi di Roma.

    La digressione si chiude con la lamentela sullo scempio che si faceva allora dei luoghi sacri romani. L’Autore utilizza un documento a carattere topografico collocabile tra il 648 e il 682. Il documento, dopo aver presentato la XIV porta e la via Aurelia, descrive il monte Celio sottolineando il fatto che è intra urbem. In questo modo si evidenzia l’unico caso in cui i corpi dei martiri sono deposti in una sepoltura dentro la città.

    Infatti, i martiri Giovanni e Paolo sono posti in sua domo, quae est facta ecclesia post eorum martyrium; et Crispinus et Crispinianus, et sancta Benedicta 
    Si fa qui riferimento alla Passio dei SS. Giovanni e Paolo in cui è detto che Crispino, Crispiniano e Benedetta furono sepolti sul Celio in domo Ihoannis et Pauli, non longe ab ipsis

    - 14 . Mirabilia Urbis Romae
    Una speciale ammirazione era suggerita da questo itinerario ai pellegrini che si preparavano a visitare Roma anche con fantasiose leggende, non elaborate dalla immaginazione popolare, ma da eruditi medievali affascinati dalla città di Roma. Il libretto nato con funzione di guida per pellegrini, è costituito da una periegesi, seguita da un certo ordine topografico, con soste in luoghi di maggiore importanza: dal Vaticano si arriva al Campo Marzio, si sale al Campidoglio, per scendere al Foro Romano. Dal Palatino si scende al Colosseo e di lì all’Aventino, al Celio, al Laterano, al Viminale e al Quirinale. La rassegna termina con una visita a Trastevere. Il testo, nel medioevo, ebbe molta celebrità e diffusione.
    Dopo aver presentato le mura, le porte, gli archi trionfali, i colli, le terme, i palazzi e i teatri della città di Roma, si raccontano alcune leggende e si arriva al racconto di papa Bonifacio IV che chiede all’imperatore Foca il Pantheon.
    Siamo al cap. 16: Venit Bonifacius papa tempore Focae imperatoris christiani. Videns illud templum ita mirabile dedicatum ad honorem Cibeles, matris deorum, ante quod multotiens a daemonibus Christiani percutiebantur, rogavit papa imperatorem ut condonaret ei hoc templum; ut sicut in kalendis novembris dedicatum fuit ad honorem Cibeles, matris deorum, sic illud dedicaret in kalendis novembris ad honorem beatae Mariae semper virginis, quae est mater omnium sanctorum. Quod Caesar ei concessit 
    Al cap. 24 si dice: iuxta eum templum Fatale, id est sancta Martina; iuxta quod est templum Refugii, id est Sanctus Hadrianus; prope aliud templum Fatale…Templum Minervae cum arcu coniunctum est ei; nunc autem vocatur Sancti Laurentius de Mirandi. Da qui si ricava che il tempio, erroneamente denominato di Minerva, era unito ad un arco Iuxta eum Sancti Cosmatis ecclesia, quae fuit templum Asili. Retro fuit templum Pacis et Latonae; super idem templum Romuli. Purtroppo questa fonte ha nomi favolosi e talvolta inventati dei monumenti così si interrompe per sempre la trasmissione dei toponimi reali.

    Veniamo ora all’opera De Mirabilibus Urbis Romae
    compilata tra il XII e il XIII secolo da un erudito inglese: il “maestro Gregorio”. Formatosi culturalmente sugli scrittori classici, l’Autore affascinato dall’antica Roma non bada alla città cristiana e riferisce con passione artistica i monumenti pagani.
    Giunto alle porte di Roma, dall’altura di Monte Mario “così numerose sono le torri da sembrare spighe di grano, tante le costruzioni dei palazzi, che a nessun uomo riuscì mai a contarle”. Ho notato che Mastro Gregorio cita solo due templi tra i tanti presenti in città, soffermandosi, però, a spiegarli in dettaglio e con interesse. Le due strutture architettoniche hanno qualità di conservazione diverse: la prima, “il tempio di Pallade” andato in rovina già allora e ridotto a granaio, la seconda, il Pantheon, trasformato in chiesa cristiana appariva, al contrario, in perfetto stato, come è a tutt’oggi. Molte chiese medievali, come sappiamo, furono edificate su costruzioni preesistenti appartenenti a templi pagani ed il Pantheon rappresenta il caso di più grande interesse.
    Nel testo in esame si può annotare una grande confusione quando si parla dei templi antichi (tra le rovine romane ne vengono contati più di cento), ed il Pantheon viene considerato solo nella sua valenza cristiana, Mastro Gregorio non si sofferma, purtroppo, sulla trasformazione del tempio in chiesa, ma, di questo edificio, mostra un grande interesse per la struttura originaria della quale, primo fra tutti, offre una sommaria descrizione.
    Descrive poi le Mirabilia Urbis Romae in Codice topografico della città di Roma, III, p. 35. 29 Quest’arco venne demolito nel 1546. In esso si sono riconosciuti il fornix Fabianus e l’arco portico di Augusto.
    De Mirabilibus Urbis Romae in Codice topografico della città di Roma, III, pp. 143-167. 31 La descrizione è ricca di notizie sulla struttura e sulla storia del monumento, che si rivelano però insufficienti per permettere di identificare l’antico edificio con certezza.

    - 15.
    - Nardella C., Il fascino di Roma nel Medioevo,
    - le “Meraviglie di Roma” di mastro Gregorio, Roma 1998, pp. 78-80,
    - Il Panteon, le colonne che lo sostengono, le statue che decorano l’atrio, la larghezza del tempio per lui pari  a circa 43 m, la rovina del tetto originariamente risplendente per una copertura dorata (la rimozione delle tegole fu opera del bizantino Costante II, ma Gregorio la mette nel conto dell’avidità dei Romani)
    Specificatamente al cap.21
     (DePantheon) così è scritto: Pantheon autem brevi transitu praetereo, quod quondam erat idolium omnium deorum, immo daemonorum. Quae domus nunc dedicata ecclesia in honore omnium sanctorum Sancta Maria Rotunda vocantur, antonomastice quidem a prima et pociori parte, cum sit omnium sanctorum ecclesia. Haec quidem habet porticum spaciosam multis et mirae altitudinis columpnis marmoreis sustentatam. Ante quam conchae et vasa alia miranda de marmore porfirico et leones et cetera signa de eodem marmore usque in hodiernum diem perdurant. Huius domus latitudinem ipse mensus sum, habetque spacium CCLXVI pedes in latitudine. Cuius quondam tectum deauratum fuit per totum. Set inmoderatus amor habendi et auri sacra fames Romani popoli aurum abrasit et templum deorum suorum deturpavit. Qui ob inexplebilem cupiditatem, dum aurum sitivit et sitis, a nullo scelere manum retraxit aut retrhait.

    - 16. Petrarca
    Ora si lascia Roma e le leggende dei Mirabilia e si arriva agli umanisti che intendono risvegliare l’interesse per la città di Roma e le sue memorie. Il primo personaggio che si incontra è Francesco Petrarca che, con un brano del Familiarium rerum liber (VI,2,5-14), nei primi mesi del 1337 visitò Roma e ricevette un’impressione sconcertante, infatti agli amici  dovette confessare la propria incapacità di riprendersi dallo sbalordimento ricevuto “miraculo rerum et stuporis mole”. Il poeta sostò di nuovo a Roma in brevi soggiorni. In queste soste fuggevoli, nonostante le sue abbondanti conoscenze letterarie, il Petrarca, davanti alle rovine e ai monumenti dell’antica Roma dovette farsi solo un’idea imprecisa.
    Petrarca ricorda le passeggiate fatte tra le rovine di Roma con fra’ Giovanni Colonna dell’Ordine dei Predicatori, è piuttosto un susseguirsi di toponimi, di ricordi storici, che un itinerario che egli rincorre mentalmente. A noi interessa il riferimento al Pantheon, opera di Agrippa dedicato alla vera Madre di Dio: Hoc opus Agrippae, quod falsorum deorum matri veri Dei mater eripuit

    - 17. Giovanni Cavallini  nella suaPolistoria de virtutibus et dotibus Romanorum cerca di incoraggiare i Romani nello studio della storia della propria città. L’opera è dedicata a papa Clemente VI e composta dunque durante il suo pontificato (1343-1352). L’Autore è uomo di grande cultura grazie anche ai libri che ha potuto consultare sia a Roma che ad Avignone. Conosce molti autori latini. Dei medievali si avvale della Graphia 39 , cita leggende dei santi, emergono vicende di vita romana attinenti le famiglie romane più in vista. Il metodo di ricerca del Cavallini è meticoloso e ciò dà valore all’opera. Il capitolo 10° può avere dei riferimenti degni di attenzione per la mia ricerca. In esso si parla del rione De Campitello et Sancto Hadriano.
    Dopo aver spiegato il nome del quartiere “Campitelli” prosegue con la II pars regionis eiusdem dicitur regio Sancti [H]adriani, a nomine dicti sancti. Sed verius dicta est ab atriis et habitationibus ingentibus ipsius ecclesiae, quae fuit antea templum Asili, id est refugium a Romulo conditumac templum Cathellinae, ubi est hodie ecclesia Sanctae Mariae de Inferno et templum Mirandorum, ubi est hodie ecclesia Sancti Laurentii in Miranda, in qua egregia superiorum opera carmine comprehensa cantabant poetae huiusmodi mirandorum

    - 18.  Epistola
    Di Pier Paolo Vergerio il Vecchio 41 (1370-1444), pedagogista di Capodistria che visse a Firenze, viene riportata un’Epistola (LXXXVI). L’erudito vide per la prima volta Roma all’inizio del 1398. Facendo parte della delegazione diplomatica presso il papa Bonifacio IX, a nome di Francesco Novello da Carrara, ebbe l’occasione di visitare la città di Roma. L’impressione che ricevette fu molto negativa, dal punto di vista sia materiale sia morale. A Roma, però, il Vergerio si legò con vincoli di stima e di amicizia con Cosma Migliorati, il quale, una volta divenuto papa, lo riportò a Roma nella Curia Romana (giugno 1406) dove tenne il posto di segretario papale per tutto il breve pontificato di Innocenzo VII. Positivo invece è il giudizio sulla Roma cristiana.

    - 19. Ancora una volta il richiamo alla conversione di edifici romani in luoghi di culto è al Pantheon: Est praeterea templum mirificum Pantheon, ab Agrippa extructum, quod, ut olim Cybeli et reliquis daemonibus, ita nunc beatae Virgini et ceteris sanctis dicatum est. Quod a Foca Caesare impetratum Bonifacius quartus in nostram transtulit religionem. Anche questo passo è evidentemente debitore dei Mirabilia.

    - 20 . Tractatus de rebus antiquis et situ urbis Romae
    Di autore anonimo, da collocare al 1411 (si ricorda il restauro del corridoio tra Castel S. Angelo e il Vaticano). I documenti di riferimento sono i Graphia e i Mirabilia. L’Autore si è impegnato nell’evidenziare le corrispondenze tra la città antica e quella nuova. Mentre nei documenti precedenti, specie in quelli destinati ai pellegrini, abbiamo constatato un’egemonia lasciata alla Roma cristiana e alle chiese, qui incontriamo un carattere e un orientamento nuovi: la volontà di seguire l’antico testo dei Mirabilia nell’intento di identificare i singoli toponimi, cioè di illustrare la Roma classica. Delle mirabili chiese e famose reliquie neppure una parola. Si menziona una lunga lista di templi nei quali si sono inseriti i luoghi di culto cristiano. Gli esempi sono numerosi.
    Una citazione interessante si riferisce al Pantheon, idest templum Cybelis, et Sancta Maria Rotunda hodie vulgariter nominata, nulli dubium, ut patet in historia, fuit constructa per industriam Marci Agrippae et ex pecunia aerarii. Lucius Septimius et M. Aurelius Antoninus Pius, vetustate corrupta et incendio, restauraverunt eam ex omni cultu, ut per exhibita et epitaphia litterarum patet (dopo l’incendio il Pantheon fu restaurato da Adriano). Retro dictum locum Pantheonis fuit templum Minervae Calcidiae, videlicet vulgariter nunc est ecclesia Sanctae Mariae in Minerva, quae circa eam et in ea manifeste patet. Prosegue dicendo iuxta ipsum fuit templum Fatale publicum, idest ubi Sancti [H]adrianus. Ad sanctam Martinam fuit templum Refugii 44 …iuxta templum Faustinae et divi Antonini, quod Sanctus Laurentius in Miramento vocatur, est adhuc ecclesia Sancti Cosmae et Damiani, quae fuit aerarium imperatoris, et primo templum Latonae 

    - 21. De varietate Fortunae
    scritto da Poggio Bracciolini, che nacque nel 1380 a Terranova, non lontano da Arezzo. Studiò a Firenze. Nel 1403 si trovava a Roma dove Bonifacio IX gli offrì un posto nella cancelleria pontificia come scrittore delle lettere apostoliche. Era legato da vincoli di amicizia con Nicolò V. Proprio l’opera presa in considerazione è dedicata a questo pontefice e ha come scopo presentare la storia come un connettersi di sorti avverse e prospere. Vi è dunque l’idea di presentare la città di Roma come esempio del corso e ricorso della fortuna. Questo dà l’occasione a Poggio di presentare ai suoi contemporanei una minuziosa descrizione delle rovine della città di Roma per restituir loro un nome e una storia.
    Ormai sui documenti medievali, Mirabilia e Graphia, era stato gettato discredito e nessuno prestava più fede a questi libri. Il De veritate Fortunae è un dialogo tra l’Autore e un altro erudito Antonio Loschi. Roma con le sue rovine antiche appare come lo scheletro di un gigante abbattuto. Lo studioso si applica a ritrovare la corretta topografia. Oltre alle fonti classiche Poggio ha tenuto presenti anche le fonti medievali, gli Acta martyrum e il Liber Pontificalis.
     I passi interessanti sono i seguenti:
    Erat pone, Capitolium versus, Romuli templum, cuius pars muri vetustissima quadrato lapide nunc quoque mirandam speciem sui praebet, hodie Cosmae et Damiano consecratum. Huic proximum fuit divi Antonini, divaeque Faustinae templum, nunc beato Laurentio dicatum; cuius porticus plurimae marmoreae columnae ruinam effugerunt. Castoris insuper et Pollucis aedes contiguae, loco edito in via Sacra, altera occidentem, altera orientem versus (hodie Maria Novam appellant)… Placet quibusdam, neque abest a vero coniectura, fuisse Saturni templum iuxta forum, prisci aerarium vocabant, nunc Hadriano pontifici sacratum (erroneamente si chiama tempio di Saturno o erario la chiesa di S. Adriano). Stat ad hunc diem nobilis porticus aedis Mercurii, eam religio nostra ad Angelum Michaëlem transtulit, ubi est piscatorium forum (non si hanno notizie di un culto di Mercurio nel Foro “Piscium” e la chiesa di S. Angelo fu costruita nell’interno del portico di Ottavia) 
     Parlando delle terme romane si evidenzia: Alexandri Severi thermas scimus fuisse prope M. Agrippae Pantheum, quarum plura extant et preclara vestigia. Domitianas, quarum perpauca rudera conspiciuntur, fuisse in iis locis, ubi nunc Sylvestri ecclesia est, scriptum in vita Pontificum adverti 48 …Servavit religio nostra locum in foro dicatum Martinae martyri, quem quondam Secretarium Senatus Theodosii tempore fuisse, litterae incisae significant, ubi adhuc tabulis marmoreis antiquate caelaturae parietes undique exornantur

    - 22 . La Roma instaurata
     Ad uno studio  più scientifico arriva Flavio Biondo (1392-1463), di Forlì, umanista, storico e archeologo, nella sua Roma instaurata dedicata a papa Eugenio IV. L’Autore era convinto che Roma viveva solo dei ricordi presenti nelle sue rovine e la trasmissione di memorie romane sarebbe andata persa con il finire delle rovine  Scrisse anche l’Italia illustrata e la Roma triumphans sulle istituzioni e costumi dei Romani.stesse. Il Biondo si considera un restauratore e con molta scrupolosità consulta i documenti antichi per riportare alla luce la storia dell’Urbe. Diede coraggio ai cittadini di Roma nell’avere rispetto per le rovine della città. Apprezzabile fu anche il rigore scientifico con cui analizzò la Roma cristiana come la Roma pagana. Con lui la topografia fa passi da gigante: mette da parte i Mirabilia e la Graphia e prende come guida i Regionari.
    La Roma instaurata è condotta a termine nel settembre del 1446. Al cap. LXXVIII del I libro che riguarda “De ecclesiis quas nunc habet Caelius mons” si dice: Nunc vero nostri christiani ritus ecclesiis mons ipse in primis est ornatus. Nam ea in parte ad quam in Palatinum montem vergens clivum Scauri habet, hic monasterium est Sancti Gregorii, in paternis aedibus ab eodem aedificatum; inde est Sanctorum Iohannis et Pauli ecclesia, cuius superbi olim aedificii palatio, quod ex Romanis pontificibus inhabitaverint nonnulli, et nunc paene funditus diruto, continent curiae Hostiliae fundamenta.
    La Curia Hostilia è da ricordare che non ha avuto mai relazioni con il Celio; il Biondo localizza la presunta curia nella chiesa dei SS. Giovanni e Paolo forse per gli atti del loro martirio che sarebbe avvenuto “iuxta curiam Hostiliam”. Nel libro II al cap. VIII “Agrippinae thermae ubi fuerint” viene riportato che: Marcum Agrippam aedificasse Pantheum, quae nunc est Sancta Maria Rotunda, etsi prope vulgo notorium est, suo tamen loco ostendemus.
    Nel cap. LVII “Asilum ubi” dopo aver parlato della frana della rupe Tarpea si parla di un tempio trasformato nella chiesa di S. Maria Egiziaca: nec absurde videmur opinari vetustum illud templum, quod saxo ingenti quadrato extructum Sanctae Mariae Aegyptiacae dedicatum ad aream pontis Sanctae Mariae est, Asili templum fuisse
    Continua con il cap. LXVI “Aedes Concordiae ubi”: Aedem Concordiae ex praedictis fuisse apparebit eodem in Palatino colle contra templum Romuli sive Sanctorum Cosmae et Damiani, in illo extructam ecclesiam.
    Nel III libro al cap. LIIII si parla della chiesa di S. Adriano “in tribus foris”: unde ecclesia quae est Sancti Hadriani ad Honorio primo pontifice Romano temporibus Focae imperatoris aedificata in tribus foris a bibliothecario appellatur, quod ipsius ecclesiae locum ad dicta tria fora pertinuisse videamus (“in tribus foris” è denominazione posteriore all’altra più antica “in tribus Fatis”).
    Segue la descrizione della chiesa di S. Martina (“Sanctae Martinellae”) al cap. LV: est autem ipsius Sancti Hadriani ecclesiae propinqua alia ecclesia Sanctae Martinellae nunc appellata, quam vulgo fertur in Martis templo fuisse aedificatam: sed quod templum ibi Mars habuerit ignoramus. La chiesa di S. Martina non fu edificata, come sappiamo, sull’ara del tempio di Marte. L’errore proviene da un distico che si leggeva una volta sulla porta dell’antico edificio: Martyrii gestans virgo Martina coronam Eiecto hinc Martis numine templa tenes

    - 23 . Ye Solace of Pilgrimes
    Per i pellegrini inglesi fu composta una guida di Roma dall’agostiniano Giovanni Capgrave (1393-1464) dal titolo Ye Solace of Pilgrimes. L’Autore venne a Roma nell’Anno Santo del 1450 che vide l’afflusso di numerosi pellegrini. Alcuni di questi composero narrazioni della città eterna per proprio ricordo o per utilità dei futuri pellegrini. Quest’ultima motivazione mosse il Capgrave a scrivere la sua guida. Il sollazzo del pellegrino consta di tre parti.
    La prima riprende i Mirabilia e questa per noi è la parte meno interessante.
    Segue poi la seconda e la terza parte più degne di attenzione perché costruite sulle più recenti guide per pellegrini. Infatti la seconda parte elenca le chiese che i pellegrini devono visitare e le chiese stazionali dove hanno luogo i servizi liturgici. La terza parte descrive le altre chiese importanti, iniziando da quelle dedicate alla Beata Vergine Maria. Segue così uno dei comuni Libri indulgentiarum et reliquiarum. L’Autore è interessato all’archeologia per cui presta attenzione alle numerose iscrizioni che ricopia e traduce per i pellegrini. Ye Solace of Pilgrimes fu scritto in Inghilterra tra il 1450 e il 1453 come si evince da alcuni riferimenti storici.
    Nel capitolo Of Othis Holy Palaces Et Her Names Be For It Was Cristen  si dice: Quella chiesa che è chiamata S. Adriano, fu una volta il tempio del Rifugio…. Qui “Rifugio” può essere l’equivalente di “Asylium”. Segue il capitolo Of The Stacion At Cosmas And Damianus  che presenta l’origine della basilica: Il papa Felice VIII  fece costruire questa chiesa in Roma come ivi è scritto in versi, dei quali alcuni qui trascritti:
    Aula Dei claris radiat speciosa metallis…
    Martiribus medicis popolo spes certa salutis…
    Optulit hoc Domino Felix antistite dignum

    - 24 . Excerpta a Pomponio
    Pomponio Leto nacque in Basilicata nel 1428, trasferitosi a Roma, dove seguì le  lezioni di Lorenzo Valla, fece della sua casa sul Quirinale un centro per studiosi di antichità pagane e cristiane detta Accademia Romana fondata nel 1465. Insegnò a La Sapienza dal 1465-1466 e dal 1473 fino alla sua morte avvenuta nel 1497.
    Gli Excerpta a Pomponio dum inter ambulandum cuidam domino ultramontano reliquias ac ruinas Urbis ostenderet si dicono raccolti dalla viva voce di Pomponio mentre conduceva un forestiero a visitare i monumenti di Roma. Per un riferimento a Sisto IV la data degli Excerpta è da fissarsi dopo il 1479.
    Nel giro archeologico il nostro erudito nota che "Prope Forum, ubi nunc est hospitale Aromatarioum, fuit porticus Antonini imperatoris et Faustinae" e prosegue con la descrizione del Campidoglio, "qui in radicibus Capitolii supra forum Romanum, versus septentrionem, est carcer: nunc dicitur Sancti Petri: olim fuit illa pars carceris, quam construxit Tullus Hostilius et appellatur Tullianum. Ex altera parte Capitolii, versus meridiem, ubi est ecclesia Sancti Nicolai in Carcere, fuit post aedificatus carcer ibi a Claudio Decemviro: quem appellavit carcerem plebis Romanae"
    Non poteva mancare la descrizione del Pantheon: "Ubi nunc est ecclesia S. Mariae Rotundae, ibi fuit Pantheon, dicatum Iovi Victori cuius tegmen fuit e laminis argenteis. Illas laminas substulit Constans, nepos Heraclei, veniens ad urbem. Antipantheon appellatur prothyrion. M. Agrippa fecit illud" 
     Si continua con "Ubi est ecclesia Sancti Laurentii in Lucina cum hortis, ibi fuit campus appellatus Martius: in quo habebantur comitia. Et ubi est domus nova facta, quae est cappellanorum cuiusdam cappellae Sancti Laurentii, fuit basis horologii nominatissimi. In Campo Martio ubi est epitaphium capellanorum, ibi fuit efossum horologium: quod habeat .VII. grados circum, et lineas distinctas metallo inaurato. Et solum campi erat ex lapide amplo quadrato, et habeat lineas easdem: et in angulis quatuor venti ex opere musivo cum inscriptione, ut: BOREA SPIRAT" 
    Non lontano dal tempio di Ercole fatto demolire in parte da Sisto IV, "versus Aventinum montem, fuit alterum templum appellatum Ara Maxima", resti della quale sono stati scoperti nella cripta di S. Maria in Cosmedin

    - 25. Opusculum de mirabilibus novae et veteris urbis Romae
    L’opera  di Francesco Albertin si compone di due parti, come dice il titolo: la descrizione della Roma antica e quella della Roma nuova. L’Albertini era nato a Firenze e aveva ricevuto un’istruzione adatta per la carriera ecclesiastica. Nel 1502 si trasferisce a Roma dove studia nello “Studium Urbis” e diventa cappellano del Cardinale di S. Sabina. Morì tra il 1515-1520. Compose due opere famose come primi esempi di guide per le città italiane. Una di queste è appunto l’ Opusculum uscito il 4 febbraio del 1510. Martino V affidò la chiesa di S. Lorenzo in Miranda all’Università degli Speziali nel 1430; cfr. ibidem, p. 425. 61 Idem. 62 Ibidem, p. 426.
    L’orologio di Augusto aveva un obelisco trasportato a Roma da Eliopoli, contemporaneamente all’altro del circo Massimo, e collocato nel Campo Marzio, nelle vicinanze dell’odierna chiesa di S. Lorenzo in Lucina, dove servì da gnomone per una meridiana. Misura m. 21,79 ed oggi si trova in piazza Montecitorio. Cfr. Ibidem, p. 427. 64 Ibidem, p. 435.
    Opusculum de mirabilibus novae et veteris urbis Romae, ibidem, pp. 462-546.
     In ecclesia Sancti Laurentii in Lucina fuit basis nominatissima Urbis: non longe a qua est obeliscus magnus semisepultus: ubi effossum fuit horologium cum lineis et gradibus deauratis; in anguli vero .IIII. venti ex opere musivo sculpti visebantur cum hac incriptione cubitalibus litteris, ut: BOREA SPIRAT 
    Probabilmente la fonte è Pomponio Leto. Al capitolo “De Templis Urbis”, dopo la descrizione del Pantheon con relativa iscrizione, senza notare comunque che è una chiesa dedicata alla Beata Vergine Maria, si passa a descrivere il tempio rettangolare sulla riva sinistra del Tevere: "templum et sacellum Pudicitiae adhuc apparet integrum apud pontem Sanctae Mariae, ad honorem beatae Mariae Aegypticae dicatum; nonnulla volunt fuisse templum Fortunae sive Dianae. Haec duo templa, scilicet Sanctae Mariae Aegypticae et Sancti Stephani, unum in honorem Dianae sive Aurorae, alterum vero Fortunae… Templum Herculis Victoris in foro Boario erat rotundum, in quo loco repertum fuit simulachrum Herculis deauratum, tempore Syxti IIII, post ecclesiam Sanctae Mariae in Cosmedin ut apparet in epythaphii, non longe a quo erat Ara Maxima"
    Seguono le descrizioni del "Templum Faustinae adhuc vestigia nonnulla extant in ecclesia Sancti Laurentii in Miranda, ubi ingentes columnae cum hac inscriptione apud ecclesia Sanctorum Cosmae et Damiani visuntur: DIVO ANTONINO ET DIVAE FAVSTINAE EX S. C"

    - 26 . Historia delle stationi di Roma
    Infine riporto delle citazioni di Pompeo Ugonio romano, professore di retorica nell’Arciginnasio del “La Sapienza” e bibliotecario del cardinale Ascanio Colonna. Lo studioso morì il 28 aprile 1614. Le sue opere a stampa consistono quasi esclusivamente in discorsi tenuti nell’Arciginnasio fra il 1586 ed i1 1601. Per il mio studio è importante la Historia delle stationi di Roma che si celebrano la quadragesima, dove oltre le vite dei Santi, alle chiese de’ quali è statione, si tratta delle origini, fondationi, riti, restaurationi, reliquie e memorie di esse chiese, antiche e maderne. L’opera fu pubblicata a Roma nel 1588.
    I - Dopo l’introduzione l’Autore inizia con il primo giorno di quaresima: mercoledì delle ceneri e la prima stazione, come è tradizione, si situa a S. Sabina. In questo contesto, credendo la chiesa dell’Aventino inserita in un tempio, si riportano informazioni interessanti sulle motivazioni di questo uso.
     Si parte da Costantino che, una volta ricevuto il Battesimo da papa Silvestro, comandato per tutte le parti del Romano Imperio il culto del vero Dio, i templij degl’Idoli, quali erano particolarmente in Roma numero infiniti,  per magnificenza mirabili, non furono tutti subitamente destrutti, ma li chiusero, à quelli fu vietato l’entrarvi dentro secondo la Conftitutione di Costantino che nelle leggi habbiamo, dove scrivendo a Tauro.Prefetto del Pretorio così dice. “Placuit in omnibus locis, atque vrbibus vniverfis claudi protinus, templa acceffu vestito, omnibus licentiam delinquendi perditis denegrari”.
    Et poco piu giu vi è la legge di Arcadio Honorio la quale specifica che le fabbriche pubbliche no li distruggessero, ma solo si astenessero da sacrificij: “sicut sacrificia prohibemus ita volumus publicorum operum ornamenta ferari”. Ne però si può negare che molti templij de falsi Dei no fussero in quel primo fervore della fede christiana del tutto gettati a terra. Ma bene si dice, che buona parte di quelli concedendosi ad un certo affetto de cittadini nuovamente fatti Christiani, per no estinguer le superbe memorie de padri loro, furono lasciati in piede, i quali nondimeno come scrive S. Gironimo restando abbandonati, di fuligine; di tele di aragne coperti divennero nidi di gufi e di nottole.

    Poscia, si come suole dal male Iddio ritrarne bene, quelle istesse fabbriche de falsi Dei rimaste deserte, vacue, furono in tempo da Christiani con concessione de gl’Imperatori  del Senato occupate; consacrate sotto il nome di alcun Santo o Santa trasferite al culto della nostra Religione. Al qual costume par che riguardi la Constitutione di Theodofio II, la quale trattando di questa materia cosi dice. “Cuncta corum fama, templa, delubra si qua etiam nunc restant integra, precepto Magistratuum destrui, collocatione, venerandae Christianae Religionis signi expiari praecipium”.
    Et piu espressamente S. Gregorio nell’epift. 71 del 9 lib. scrivendo à Mellito Vescovo commanda che i templi de gl’antichi Dei no li distruggano, ma con le debite cerimonie li purghino; introdottovi le Reliquie de Santi li consacrino. L’Autore così giunge alla conclusione che “non è fuori di ragione” che la chiesa di S. Sabina sia stata edificata sopra le rovine e le vestigia dell’antico tempio di Diana.

    III - Nella terza stazione quaresimale ci troviamo ai SS. Giovanni e Paolo sul Celio. L’Ugonio inizia cercando di dare un’identità al famoso Pammachio fondatore della chiesa e viene identificato con l’amico di S. Girolamo. Poi si parla della chiesa che insieme al monastero fu sopra qualche fabrica antica essere edificata. Imperochè da più bande si scoprono gran vestigij di vecchie muraglie. Lo studioso le ritiene essere o la Curia Hoftilia oppure che questo medesimo loco fu la casa paterna dei SS. Giovanni e Paolo, dove come s’è mostro di sopra furono ammazzati e sepolti
    XIII - La tredicesima stazione si tiene a S. Clemente a via Labicana. L’Autore riportando una citazione del Liber Pontificalis nella biografia di papa Damaso dice che quefta chiesa già fu la casa sua paterna; egli stesso la confacrò.
    XV - Nella quindicesima stazione siamo a S. Cecilia a Tratevere, l’Ugonio riportando la vita della Santa scritta da Pietro Natale riferisce che santa Cecilia avanti che morisse pregò S. Vurbano Papa che dapoi che ella fusse passata di questa vita, volesse la sua casa consacrare in Chiesa, il che dicono esser da Papa Vrbano stato eseguito.
    XXI - Nella XXI stazione si riporta la notizia della trasformazione delle Terme di Novato “fratello di Timoteo e delle Sante Pudenziana e Prassede” in chiesa. La vergine Prassede rimasta erede delle fraterne Terme, fece influenza à S. Pio papa I che le dette Terme fussero voltate in chiesa ad honore di S. Pudentiana sua sorella, come si dice nel Liber Pontificalis.
    XXIII - La chiesa dei SS. Cosma e Damiano è riportata nella XXIII stazione quaresimale. L’Ugonio inizia dicendo che tutti i cultori di cose antiche sono d’accordo nel ritenere che davanti la chiesa passasse la famosa Via Sacra. Invece tra gli eruditi il dubbio rimane sul fatto che la chiesa si fosse insediata in un antico tempio e quale tempio fosse. Riportando l’opinione di Martin Polacco tra le altre sue falsità lasciò scritto che quefto era il tempio dell’Afilio, che è come a dire della Misericordia ò della franchigia, il quale fu instituito da Romolo à fine di ingrandire la città, ciò il raccettare, assicurare in Roma quelli che altronde erano per haver commesso alcun delitto discacciati. Ma l’Asilo, ricorda l’Autore, era vicino alla chiesa di S. Giovanni decollato. Raffaele Volterrano, viene riferito, ritiene che la chiesa dei Santi Medici fosse il tempio di Castore e Polluce. Tutti gli Antiquarij che io habbia visto si accordano, che questa chiesa fusse il tempio di Roma, altrimenti di Romolo, over di Romolo e Remo
    XXIV - Venendo alla chiesa di S. Lorenzo in Lucina nella XXIV stazione interessante è la notizia del ritrovamento dell’obelisco consacrato, per l’Ugonio, da Augusto al Sole, scolpito con lettere egizie, alto 110 piedi, posto come gnomone dell’orologio. L’obelisco per ordine di Sisto V nel 1586 fu ritrovato dietro la chiesa sotto le case della famiglia dei Conti. Ma poichè portava i segni di un incendio ed era molto rovinato e dovendosi abbattere molte case per riportarlo completamente alla luce, non parve portasse la spesa à tirarlo fuora, onde dopo pochi giorni che stette scoperto, di nuovo fu con la medesima terra nello stesso luogo sotterrato.
    Circa ottant’anni prima nello stesso luogo fu trovato, come testimonia Pompeo Leto, un Horologio bellifsimo; grande di metallo, che haveva i gradi, le linee indorate, con il suolo intorno di pietre quadrate… e negli angoli i quattro venti fatti à Musaico con questa inscritione: Vt Borea spirat.
    Di modo che da tutte queste cose che dette abbiamo, si conosce che al tempo de Gentili il sito di questa chiesa il fuo circuito fu da nobili edifitij; da opere superbe; magnifiche occupato. Volendo in seguito papa Sisto III, dedicare in questo luogo la chiesa a S. Lorenzo Martire, in quanto entro le mura della città nel 435 non vi era nessuna chiesa dedicata al santo martire, prese il consenso di Valentiniano Imperatore, il quale sopra l’antiche fabriche de Romani haveva il dominio. Così si legge nella vita di esso Sisto appresso Anastasio Bibliohtecario: “fece ancor Sisto un’altra Basilica al B. Lorenzo, la quale Valentiniano Augusto gli concesse
    XXV - Alla XXV stazione ci troviamo a S. Susanna. Ugonio riferisce che molti scrittori ecclesiastici sono soliti chiamare questa chiesa ad duas domos. Alcuni perché ritengono che qui vi fossero le case di Casso, Catullo e di Aquilio, altri, ed è anche l’opinione del nostro Autore, perché come attesta S. Ambrogio, qui furono congiunte le due case, quella di S. Gabino padre di S. Susanna e quella di S. Caio papa suo zio. Le quali case furono voltate in chiese dette poi di S. Gabino e S. Sufanna. Si cita appresso il passo della Passio di S. Susanna che riporta questa notizia
    XXVI - La chiesa di S. Croce in Gerusaemme interessa la XXVI stazione. L’Autore è molto interessato a narrare gli episodi miracolosi della vittoria di Costantino su Massenzio e il ritrovamento del legno della S. Croce a Gerusalemme da parte di Elena, la madre dell’imperatore, come fondamenti ideologici alla costruzione della basilica. Riporta invero che intorno alla chiesa vi sono molte vestigia antiche, ma preferisce non dilungarsi troppo su questi resti per andare direttamente ai racconti che possono edificare i suoi lettori. Riferisce anche un’iscrizione in terracotta colorata in azzurro fatta, dice l’Ugonio, 90 anni prima dal Cardinale Titolare.
    Nell’iscrizione si dice: questa è la sacra Cappella detta Girusalemme, perché santa Melena, madre del gran Costantino Imperatore, tornando di Girusalem intorno 325 anni doppo la venuta del Signore, avendo ritrovate le insegne del Trofeo di Chrifto la fabricò nella sua propria camera…
    XXXVI -  S. Marcello in via Lata è la meta della XXXVI stazione quaresimale. In questo medesimo luogo al tempo di Massentio imperatore hebbe la casa sua una nobile gentildonna romana chiamata Lucina, la quale circa gli anni di Chrifto 350 ne fece dono à S. Marcello papa, acciò ivi confacrasse una chiesa in honore di Christo; la quale fu poi da Massentio profanata; voltata in uso di stalla; ricovero di sporchi animali, dove condannato à stare S. Marcello
    LII -  La penultima stazione quaresimale (LII) si tiene a S. Maria Rotonda, in Campo Marzio. Questa chiesa fu già tempio de Gentili, il quale 39 anni a.c. fabbricò M. Agrippa genero di Cesare Augusto, nel terzo suo Confolato  lo dedicò, come Plinio scrive nel lib. 36 al cap. 15 a Giove Vendicatore…ma come Dione narra nel lib. 53 era insieme sacro a Cybele tenuta madre de i Dei; a tutti i Dei.
    Qui l’Autore si dilunga nello spiegare l’etimologia del termine Pantheon (tutti gli dei) e a presentare il luogo come ricettacolo di tutte le superstizioni del tempo e abitazione dei demoni. Poi riferice come Bonifacio IV nel 606 chise esso tempio in gratia a Foca imperatore, per dedicarlo al culto della nostra Religione; l’ottenne… e toltone via le profane statue che vi erano; purgatolo da ogni superftitioso culto co solenne cerimonia lo dedicò alla gloriosa Vergine Maria madre di Dio; a tutti i Santi Martiri.



    LE ISCRIZIONI

     Con l’età costantiniana la comunità cristiana di Roma si impossessa di una pratica di scrittura molto particolare: l’epigrafia monumentale che si inserisce su un monumento di pubblica frequentazione per trasmettere un messaggio. Dopo un secolo di epigrafia funeraria e quindi privata, la Chiesa si appropria di un mezzo di comunicazione scritta tipica del mondo romano funzionale all’essere esposta al pubblico. Iscrizioni si trovavano nella basilica vaticana e nella basilica di S. Agnese sulla Nomentana con dediche ai fondatori dei luoghi di culto.
    Nella II metà del IV sec. papa Damaso fa compiere l’elaborazione di componimenti in versi per la diffusione del culto dei martiri, il popolo è abituato ai vari Dei e un Dio unico non basta, o si trovano sostituzioni o tornano agli antichi Dei.. Nel V sec., dopo il sacco di Alarico, a Roma  invece di imbracciare le armi si aumenta l’attività edilizia religiosa, con la scrittura monumentale. Si riduce l’incisione su marmo e si diffonde la tecnica dell’epigrafia a mosaico, vedi l'iscrizione dedicatoria nella basilica di S. Sabina.
    Sempre in uno spazio chiuso della basilica di S. Maria Maggiore si può notare l’iscrizione dedicatoria nell’arco trionfale (Xystus episcopus plebi Dei). L’iscrizione del VI sec. nella basilica dei SS. Cosma e Damiano, ancora in situ, è fonte autorevole sull’inserimento della chiesa in un edificio preesistente.
    Nella basilica dei SS. Cosma e Damiano l’iscrizione è in tre pagine di due righe ciascuna separate da una grande croce latina. La decorazione rappresenta una Maiestas Domini con la figura di Cristo che regge nella mano sinistra il rotolo chiuso. L’iscrizione esalta “la luce preziosa” della fede dei due santi medici, che risplende più alta di quella che emana dalla decorazione a mosaico e celebra negli ultimi due versi l’offerta (dignum manus) dell’antistes Felix:
    AVLA DEI CLARIS RADIAT SPECIOSA METALLIS/ IN QUA PLVS FIDEI LVX PRETIOSA MICAT/ MARTYRIBUS MEDICIS POPVLO SPES CERTA SALVTIS/ VENIT ET EX SACRO CREVIT HONORE LOCVS/ OPTVLIT HOC DOMINO FELIX ANTISTITE DIGNVM/ MUNUS VT AETHERIA VIVAT IN ARCE POLI
    Rispetto alla tradizione dell’iscrizione monumentale di apparato, di norma destinata a superfici piane e ad un andamento rettilineo, questa iscrizione ricalca l’articolazione dei testi in pagine e si ricollega più alla prassi libraria che non a quella epigrafica e dunque ad una lettura individuale più che ad una lettura collettiva. In questa stessa epoca, per influsso dei codici miniati tardoantichi, si assiste ad una massiccia presenza, negli apparati decorativi degli edifici di culto, della scritta come didascalia.
    Nell’abside dei SS. Cosma e Damiano le scritte didascaliche si accompagnano non solo alle figure dei SS. Felice e Teodoro, ma anche all’immagine del fiume Giordano e ai quattro fiumi paradisiaci. Nel catino absidale Cristo appare su una scala di nubi, che conduce verso un paradiso racchiuso da palme e percorso dal Giordano; i principi degli apostoli presentano i due santi titolari, mentre incedono ai due lati estremi il papa committente con S. Teodoro.
    In questa Maiestas Domini si nota una rappresentazione più gelida e bizantina che formulerà il linguaggio artistico dei secoli a venire. Un’altra iscrizione antica si trovava nell’abside dell’aula della basilica di S. Andrea in Catabarbara:
    IVNIUS BASSVS .V.C. CONSVL ORDINARIUS PROPRIA IMPENSA A SOLO FECIT ET DEDICAVIT FELICITER
    Inscriptiones christianae Urbis Romae septimo seculo antiquiores, II, Roma 1888, p.71.

    Citazione da GAGIANO DE AZEVEDO M.,
    La datazione delle tarsie della basilica di Giunio Basso, in Rendiconti della Pontificia Accademia di Archeologia, serie 3 a , 40 (1967-1968), p. 151.Questa fu ricostruita dal De Rossi e potè stabilire che l’edificio era stato fondato nel IV sec. da uno Iunius Bassus durante il suo consolato,  una acquisizione testamentaria verificatasi dopo la morte di Valila posteriore al 471 ma prima di papa Simplicio 483:
    HAEC TIBI MENS VALILAE DECREVIT PRAEDIA, CHRISTE, CUI TESTATOR OPES DETULIT ILLE SUAS, SIMPLICIUS QUAE PAPA SACRIS COELESTIBUS APTANS EFFECIT VERE MUNERIS ESSE TUI; ET QUOD APOSTOLICI DEESSENT LIMINA NOBIS, MARTYRIS ANDREAE NOMINE COMPOSUIT. UTITUR HAC HERES TITULIS ECCLESIA IUSTIS, SUCCEDENSQUE DOMO MYSTICA IURA LOCAT. PLEBS DEVOTA VENI, PERQUE HAEC COMMERCIA DISCE, TERRENO CENSU REGNA SUPERNA PETI

    L’iscrizione fu aggiunta successivamente nella stessa abside (insieme al mosaico di soggetto cristiano) e collegandola ad una precisa notizia del Liber Pontificalis 84 il De Rossi potè stabilire che, poco dopo la metà del V sec., il proprietario era un patricius goto romanizzato di nome Valila, detto anche Flavius Theodosius che poi donò l’edificio al papa Simplicio (468-483) il quale infine ne trasformò, come sappiamo, l’aula absidata nella basilica di S. Andrea 85




    REGIONE I - PORTA CAPENA


    "I limiti di questa regione, chiamata Porta Capena dalla porta di simil nome situata nel recinto di Servio, sono molto controversi; imperocchè si vedono da alcuni topografi protratti persino al luogo detto la Caffarella, posto distante dall'attuale porta della Città di circa due miglia, onde includervi alcuni edifizi che stanno in quel d'intorno. Ma trovandosi prescritto da Rufo il perimetro di questa regione essere stato di 13223 piedi, e da Vittore come pure dalla Notizia di soli dodicimila e duecentoventi, si deduce che dal luogo ove stava l'antica porta Capena, il quale si riconosce sotto alla villa già dei Mattei prima di giungere alle terme Antoniane, la regione non si potesse estendere più lungi dalla porta Appia o S. Sebastiano. Sembra inoltre che tale regione si trovasse interamente situata fuori dell'antico recinto delle mura di Servio, ma però contenuta in quello di Aureliano, occupando nel piano lo spazio che sta tra il luogo in cui si trovava la nominata porta Capena e la porta Appia, con parte dei due monti che costeggiano tale situazione al di là delle terme Antoniane."


    PUBLIO VITTORE

    - VICUS ET AEDES CAMENARUM
    - VICUS DRUSIANUS
    - VICUS SULPICI ULTERIORIS
    - VICUS SULPICI CITERIORIS
    - VICUS FORTUNAE OBSEQUENTIS
    - VICUS PULVERARIUS
    - VICUS HONORIS ET VIRTUTIS
    - VICUS TRIUM ARARUM
    - VICUS FABRICI
    - AEDES MARTIS
    - AEDES MINERVAE
    - AEDES TEMPESTATIS
    - AREA APOLLONIS
    - AREA SPEI
    - AREA  GALLI, SIVE THALLI
    - AREA  GALLI, SIVE GALLIAE
    - AREA PINARIA
    - AREA CARSURAE
    - LACUS PROMETHEI
    - LACUS VESPASIANI
    - BALINEUM TORQUATI 
    - BALINEUM VECTII 
    - BALINEUM BOLANI
    - BALINEUM MAMERTINI
    - BALINEUM  ABASCANTIANI
    - BALINEUM ANTIOCHIANI
    - THERMAE SEVERIANAE
    - THERMAE COMMODIANAE
    - ARCUS D. VERI PARTHICI
    - ARCUS D. TRAJANI
    - ARCUS DRUSI
    - MUTATORIUM CAESARIS
    - ALMO FLUVIUS
    - VICI IX.
    - AEDICULAE X.
    - VICOMAGISTRI XXXVI.
    - CURATORES II. 
    - DENUNCIATORES II
    - INSULAE IIII. M. CC. L. 
    - DOMUS CXX. 
    - HORREA XIII. 
    - BALINEAE PRIVATAE LXXXII
    - LACUS LXXXIII
    - PISTRINA XX
    - REGIO IN AMBITU CONTINET PEDES XII. M. CC. XXII.


    SESTO RUFO

    - VICUS HONORIS ET VIRTUTIS
    - VICUS FORTUNAE OBSEQUENTIS
    - VICUS SULPICI CITERIORIS
    - VICUS DRUSIANUS
    - VICUS SULPICI ULTERIORIS
    - VICUS PULVERARIUS
    - VICUS TRIUM. ARARUM
    - VICUS FABRICI
    - AEDES MARTIS
    - AEDES MINERVAE
    - AEDES TEMPESTATIS
    - AEDES MERCURII
    - AEDES APOLLINIS
    - AREA MERCURII CUM ARA
    - AREA SPEI
    - AREA GALLIAE
    - AREA ISIDIS
    . AREA PINARIA
    - AREA CARSURAE
    - LACUS PROMETHEI
    - LACUS SANCTUS
    - LACUS VESPASIANI
    - LACUS SUDANS
    - LACUS TORQUATI
    - LACUS PUBLICUS
    - LACUS BIVIUS
    - LACUS SPEI
    - LACUS GRATIAE
    - LACUS MAMERTINI
    - LACUS SALUTARIS
    - LACUS LXXI. SINE NOMINE
    - BALINEUM TORQUATI
    - BALINEUM VETTI 
    - BALINEUM BOLANI
    - BALINEUM ABASCANTIANI
    - BALINEUM MAMERTINI
    - BALINEUM METTIANI
    - BALINEUM ANTIOCHIANI
    -THERMAE COMMODIANAE
    - THERMAE SEVERIANAE
    - ARCUS DRUSIANUS
    - ARCUS VERI 
    - ARCUS AUGUSTI 
    - ARCUS TRAIANI
    - ARCUS BIFRONS
    - MUTATORIUM CAESARIS
    - ALMO FLUVIUS
    - ARA ISIDIS
    - TEMPLUM ISIDIS
    - TEMPLUM SERAPIDIS
    - TEMPLUM FORTUNAE VIATORUM
    - VICI IX.
    - AEDICULAE X.
    - VICOMAGISTRI XXXVI
    - CURATORES II.
    - DENUNCIATORES II.
    - INSULAE IIII. M. CC. L.
    - DOMUS C. XXI.
    - HORREA XIIII.
    - BALINEAE PRIVATAE LXXXII.
    - PISTRINA XII.
    - REGIO IN AMBITU CONTINET PEDES XIII. M. CC. XXIII.


    NOTIZIA DELL'IMPERO

    - AEDEM HONORIS ET VIRTUTIS
    - AEDEM CAMENAS
    - LACUM PROMETHEI. 
    - BALINEUM TORQUATI
    - THERMAS SEVERIANAS ET COMMODIANAS
    - AREAM APOLLINIS
    - AREAM APOLLINIS ET SPLENIS
    - VICUM VITRIARIUM
    - AREAM PANNARIAM
    - AREAM MUTATORIUM CAESARIS
    - BALINEUM ABASCANTI ET MAMERTINI. 
    - AREAM CARRUCAE
    - AEDEM MARTIS
    - AEDEM FLUMEN ALMONIS
    - ARCUM DIVI VERI. ET TRAIANI. ET DRUSI
    - VICI. X. AED. X.
    - VICOMAGISTRI XLVIII. CUR. II.
    - INSULAE III. M. CC. L.
    - DOMUS CXX. HORREA XVI.
    - BALINEA LXXXVI.
    - LACOS LXXXI
    - PISTRINA XX. 
    - CONTINET PEDES XII. M. CC. XI.




    REGIONE II - CELIMONTANA


    "Il perimetro della regione Celimontana, così chiamata dal nome del monte Celio su cui era situata, viene ad essere determinato dalla forma dello stesso monte; imperocchè il giro di questo si trova incirca a corrispondere ai dodici o tredici mila e duecento piedi, che dai regionari si prescrive. Perciò rimane escluso quell'altro monte situato verso la porta Latina e considerato aver fatto parte della regione antecedente, che diversi topografi lo hanno creduto il Celiolo degli antichi; e così anche non può esser compreso in questa regione il piano posto verso l'Esquilino, nel quale il Nardini stabilisce esservi stata l'antica Subura."


    PUBLIO VITTORE

    - TEMPLUM CLAUDII
    - MACELLUM MAGNUM
    - CAMPUS MARTIALIS 
    . CAMPUS LUPARIAE
    - ANTRUM CYCLOPIS
    - CASTRA PEREGRINA
    - CAPUT AFRICAE
    - ARBOR SANCTA
    - DOMUS PHILIPPI
    - DOMUS VICTILIANA
    - REGIA TULLI HOSTILII TEMPLUMQUE QUOD IS IN CURIAM REDEGIT ORDINE A SE ANCTO IDEST PATRIBUS MINORUM GENTIUM
    - MANSIONES ALBANAE 
    - MICA AUREA
    - ARMAMENTARIUM
    - SPOLIUM SAMARIUM
    - LUDUS MATUTINUS
    - LUDUS GALLICUS
    - COHORTES QUINQUE VIGILUM
    - VICI VII
    - AEDILI.VIII 
    - VICOMAGISTRI XXVIII
    - CURATORES II
    - DENUNCIATORES II 
    - INSULAE III. M.
    - DOMUS CXXXIII
    - HORREA XXIII
    - BALINEAE PRIVATAE XX
    - PISTRINA XII 
    - REGIO IN AMBITU CONTINET PEDES XII M. CC.


    SESTO RUFO

    - TEMPLUM BACCHI
    - TEMPLUM FAUNI
    - TEMPLUM DIVI CLAUDII
    - CAMPUS MARTIALIS FONTINARUM
    - MACELLUM MAGNUM
    - CAMPUS LUPARIAE
    - ANTRUM CYCLOPIS 
    - CASTRA PEREGRINA
    - CAPUT AFRICAE
    - ARBOR SANCTA
    - DOMUS VITELLIANA
    - DOMUS PHILIPPI 
    - REGIA TULLI CUM TEMPLO
    - MANSIONES ALBANAE
    - MICA AUREA
    - ARMAMENTARIUM
    - COELIOLUM
    - SPOLIUM SAMARIUM
    - LUDUS MATUTINUS
    - LUDUS GALLICUS
    - CAMPUS CAELIMONTANUS 
    - TERMAE PUBLICAE
    - DOMUS PARTHORUM 
    - DOMUS LATERANI
    - COHORTES V. VIGILUM
    - SUBURA
    - VICI VIII
    - AEDES. VIII
    - VICOMAG. XXXII
    - CURATORES II 
    - DENUNCIATORES II 
    - DOMUS CXXIII
    - HORREA XXIIII
    - BALINEAE PRIVATAE XX
    - PISTRINA XXII
    - LACUS FUND. XI. SINE NOMINE
    - REGIO IN CIRCUITU CONTINET PED. XII. M. CC.


    NOTIZIA DELL'IMPERO

    - TEMPLUM CLAUDIUM
    - MACELLUM MAGNUM
    - LUPARIOS VEL LUPANARIOS
    - ATRIUM CYCLOPIS
    - COHORTES V. VIGILUM
    - CAPUT AFRICES
    - ARBOREM SANCTAM
    - CASTRA PEREGRINA
    - DOMUM PHILIPPI
    - DOMUM VICTILIANA 
    - LUDUM MATUTINUM
    - LUDUM MATUTINUMET DACICUM
    - SPOLIARUM SANIARIUM
    - MICAM AVREAM
    - VICI VII
    - AEDES VII
    - VICOMAG. XLVIII
    - CUR. Il
    - INSULAE IIII M. DC
    - DOMUS CXXVII
    - HORREA XXVII
    - BALNEA LXXXV
    - LACOS LXV. 
    - PISTRINA XV
    - REGIO CONTINET PED. XII. M. CC.




    REGIONE III - ISIDE E SERAPIDE


    "La posizione della III regione, denominata Iside e Serapide da qualche tempio a tali divinità dedicato, di cui più non si conosce la sua posizione, sembra potersi stabilire dai monumenti che conteneva avere occupato quella parte in forma quasi triangolare del monte Esquilino, che si crede esser quella distinta dagli antichi col nome di Oppio; come pure di essersi estesa nel piano posto tra questa parte dell'Esquilino ed il Celio che dall'Anfiteatro Flavio giunge sino vicino a S. Giovanni Laterano. II giro di questa regione si determina dai Regionari essere stato di 12450 piedi, e questa misura si trova approssimativamente a confrontare nella descritta località."


    PUBLIO VITTORE

    - AMPHITHEATRUM QUOD CAPIT LOCA LXXXVII.M
    - LUDUS MAGNUS. 
    - LUDUS DACICUS
    - DOMUS BRYTTIANA
    - SAMIUM CHORAGIUM
    - PRAETURA PRAESENTISSIMA
    - THERMAE TITI CAES. AUG.
    - THERMAE TRAIANI CAES. AUG. PHILIPPI CAES.AUG.
    - LACUS PASTORIS
    - SCHOLA QUAESTORUM CAPULATORUM
    - PORTICUS LIVIA
    - CASTRA MISENATIUM
    - SUBURA
    - VICI VIII. 
    - AEDICULAE VIII
    - VICOMAG. XXIV
    - CUR. II
    - DENUNCIATORES II.
    - INSULAE II. M. DCC. LVII
    - DOMUS CLX-HORREA XVIII
    - BALINEAE PRIVATAE LXXX
    - LACUS LXV-PISTRINA XII
    - REGIO IN AMBITU CONTINET PEDES XII. M. CCC. L.


    SESTO RUFO

    - AMPHITHEATRUM FLAVII
    - LUDUS MAGNUS
    - MAMERTINUS
    - DACICUS
    -TRIBUS GRATIAE AREAE
    - DOMUS BRYTTIANA-
    - SUMMUM CHORAGIUM
    - PRAETVRA PRAESENTISSIMA
    - THERMAE TITI CAES.
    - TRAIANI 
    - NYMPHEUM CLAUDII AGU.
    - LACUS PASTORIS
    - SCHOLA QUAESTORUM. GALLI
    - PORTICUS LIVIAE
    - TEMPLUM CONCORDIAE
    - CASTRA MISENATIUM
    - CAPUT SUBURRAE
    - VICI VIII
    - VICUS ALBUS
    - VICUS FORTUNAE VICINAE
    - VICUS ANCIPORTUS
    - VICUS BASSIANUS
    - VICUS STRUCTORUM
    - ASELLUS
    - LANARIUS
    - PRIMIGENIUS
    - AEDICULAE VIlI
    - BONAE SPEI
    - SERAPIDIS
    - SANGI FIDONI
    - MINERVAE
    - ISIDIS
    -VENERIS
    - AESCULAPII
    - VULCANI
    -VICOMAGISTRI XXIV CUR. Il
    - DENUNC. Il
    - INSULAE II. M. DCCC. VII
    - DOMUS CLX. HORREA XIX
    - BALINEAE PRIVATAE XXC
    - LACUS XXV. SINE NOMINE. PISTRINA XXIII
    - REGIO CONTINET PEDES XII. M. CCCC. L.


    NOTIZIA DELL'IMPERO

    - MONETAM
    - AMPHITHEATRUM QUI CAPIT LOCA LXXXVII. M
    - LUDUM MAGNUM
    - DOMUM BRITTI
    - PRAESENTIS SUMUM CHORAGIUM
    - LACUM PASTORUM
    - SCHOLAM QUAESTORUM ET CAPLATORUM
    -THERMAS TITIANAS ET TRAIANAS
    - PORTICUM LIBIES SEU LIVIAE
    - CASTRA MISENATIUM
    - VICI XII
    - AED. XII
    - VICOMAG. XLVIII
    - CUR. Il
    - INSULAE II. M. DCCLVII.
    - DOMUS LX
    - HORREA XVIII-BALNEA LXXX
    - LACOS LXV
    - PISTRINA XVI
    - CONTINET PEDES XII. M. CCC. L.




    REGIONE IV - TEMPIO DELLA PACE O VIA SACRA


    "La regione quarta si trova essere stata denominata dagli antichi ora Tempio della Pace, ed ora Via Sacra; ed i suoi limiti sono comunemente stabiliti più ristretti di quanto si prescrive dai Regionarj. Benchè nei cataloghi di questi vi si vedano differenze nell'assegnarne la misura, e benchè per il molto fabbricato che si trovava nella regione, rendendo il giro evidentemente alquanto tortuoso, venisse aumentato il perimetro in proporzione dello spazio che occupava, conviene però supporre essere stata almeno la regione protratta dalla via Sacra o dal tempio di Venere e Roma, ove aveva principio, sino verso la moderna Subura, occupando ivi il piano posto tra l'Esquilino ed il Quirinale; come ancor estendendosi in quella parte dell'Esquilino stesso, su cui si è situato il portico di Livia col tempio della Concordia. Il giro di tale spazio si trova avvicinare di più alla misura dei tredicimila piedi, che Vittore e la Notizia dell'Impero prescrivono al perimetro di questa regione, di quello che si stabilisce comunemente."


    PUBLIO VITTORE

    - TEMPLUM PACIS
    - TEMPLUM REMI
    - TEMPLUM VENERIS
    - TEMPLUM FAUSTINAE
    - TEMPLUM TELLURIS
    - VIA SACRA
    - BASILICA CONSTANTINI
    - BASILICA PAULLI AEMILII
    - SACRIPORTUS o SACRIPORTICUS
    - FORUM TRANSITORIUM
    - BALINEUM DAPHNIDIS
    - PORTICUS ABSIDATA
    - AREA VULCANI CUM VULCANALI, UBI LOTUS A ROMULO SATA IN QUA AREA SANGUINE PER BIDUUM PLUIT
    - BUCCINA AUREA VEL BUCCINUM AUREUM
    - APOLLO SANDALARIUS
    - HORREA CARTHAREA, VEL TASTARIA, VEL TESTARIA
    - SORORIUM TIGILLUM
    - COLOSSUS ALTUS CII. SEMIS HABENS IN CAPITE RADIOS VII. SINGULIS XII SEMIS
    - META SUDANS
    - CARINAE
    - DOMUS POMPEII
    - AVITA CICERONUM DOMUS
    - VICI VIII
    - AEDICULAE VIII
    - VICOMAG.XXXII
    - CURATORES II
    - DENUNCIATORES II.
    - INSULAE II. M. DCC. LVII
    - DOMUS CXXXVIII
    - HORREA VIII
    - BALINEAE PRIVATAE LXXV
    - LACUS LXXVIII
    - PISTRINA XII
    -REGIO IN AMBITU CONTINET PEDES XIII. M.


    SESTO RUFO

    - TEMPLUM PACIS
    - TEMPLUM REMI
    - TEMPLUM DIVAE FAUSTINAE
    - TEMPLUM URBIS ROMAE ET AUGUSTI
    - TEMPLUM VENERIS
    - TEMPLUM TELLURIS
    - TEMPLUM SOLIS
    - TEMPLUM LUNAE
    - TEMPLUM CONCORDIAE IN PORTICU LIVIAE
    - BASILICA CONSTANTINI
    - VIA SACRA
    - BASILICA PAULLI
    - SACRIPORTICUS ALIAS SACRIPORTUS
    - FORUM TRANSITORIUM CUM TEMPLO D. NERVAE
    - BALNEA DAPHNIDIS
    - VOLCANALE
    - PORTICUS ABSIDATA
    - BUCENA AUREA
    - APOLLO SANDALARIUS
    - HORREA TESTARIA
    - SACELLUM STRENUAE
    - SORORIUM TIGILLUM
    - META SUDANS
    - CAPUT LYNCO
    - CARINAE CAPUT
    - DOMUS POMPEI
    - AVITA CICERONUM
    . AEQUIMELIUM
    - AREA VICTORIAE
    - ARCUS TITI
    - VICI VIII.
    - VICUS SCELERATUS
    - VICUS EROS
    - VICUS VENERIS
    - VICUS APOLLONIS
    - VICUS TRIUM VIARUM
    - VICUS ANCIPORTUS MINOR
    - VICUS FORTUNATUS MINOR
    - VICUS SANDALARIUS
    - AEDICULAE VIII
    - AEDICULA MUSARUM
    - AEDICULA SPEI
    - AEDICULA MERCURII
    - AEDICULA IUVENTUTIS
    - AEDICULA LUCINAE VALERIANAE
    - AEDICULA IUNONIS LUCINAE
    -AEDICULA MAVORTII
    - AEDICULA ISIDIS
    - VICOMAG. XXXII
    - CUR. II
    - DENUNC. II
    - INSULAE II. M. DCC. LVIII
    - DOMUS CXXXVIII
    - HORREA XVIII
    - BALINEAE PRIVATAE LXXV
    - LACUS LXXIX
    - PISTRINA XXIII
    - REGIO IN CIRCUITU CONTINET PEDES XVIII.. M.


    NOTIZIA DELL'IMPERO

    - PORTICUM ABSIDATAM
    - AURA BUCINUM
    - APOLLINEM SANDALARIUM
    - TEMPLUM TELLURIS
    - VIGILUM SORORUM
    - COLOSSUM ALTUM PEDES CII. S. HABET IN CAPITE RADIA VII SINGULA PEDUM XXII. S.
    - METAM SUDANTEM
    - TEMPLUM ROMAE
    - AEDEM IOVIS
    - VIAM SACRAM
    - BASILICAM NOVAM ET PAULI
    - TEMPLUM FAUSTINAE
    - FORUM TRANSITORIUM
    - SUBURAM
    - BALNEUM DAPHNIDIS
    - VICI VIII
    - AED. VIII
    - VICOMAG. XLVIII
    - CUR. II
    - INS. II. M. DCLVII
    - DOMUS LXXXVIII
    - HORR. XVIII. BALINEA LXXV
    - LACOS LXXI
    - PISTRINA XV
    - CONTINET PED. XIII. M.




    REGIONE V - ESQUILINA


    "La regione quinta, detta Esquilina dal monte su cui si trovava in parte collocata, si estendeva dal colle Viminale e dalla sommità dell'Esquilino, denominata dagli antichi Cispio, sino al recinto delle mura di Aureliano. Ma nel perimetro prescritto dai Regionari, di quindici in sedici mila piedi, non potevano esser compresi alcuni edifizj situati assai distanti dalla nominata località, i quali si trovano registrati nei cataloghi dei Regionari o per aggiunte posteriori, o perchè appartenevano per giurisdizione a questa regione."


    PUBLIO VITTORE

    - LACUS PROMETHEI
    - MACELLUM LIVIANI
    - NYMPHAEUM D. ALEXANDRI
    - COHORTES VII. VIGILUM
    - AEDES VENERIS ERYCINAE AD PORTAM COLLINAM
    - HORTI PLANCIANI VEL PLAUTIANI, MECAENATIS
    - REGIA SERVII TULLII
    - HERCULES SULLANUS
    - AMPHITHEATRUM CASTRENSE
    - CAMPUS ESQUILINUS ET LUCUS
    - CAMPUS VIMINALIS SUB AGGERE
    - LUCUS PETELINUS
    - TEMPLUM IUNONIS LUCINAE
    - LUCUS FAGUTALIS
    - DOMUS AQUILII I. C.
    - DOMUS Q. CATULI, ET M. CRASSI
    - ARA IOVIS VIMINEI
    - ARA MINERVA MEDICA
    - ARA ISIS PATRICIA
    - LAVACRUM AGRIPPINAE
    - THERMAE OLYMPIADIS
    - VICI XV
    - AEDICULAE TOTIDEM
    - VICOMAG. LX
    - CUR. II
    - DENUNC. II
    - INSULAE III. M. DCCC. L
    - DOMUS C. XXX
    - LACUS LXXIX
    - HORREA XXIII
    - BALINEAE LXXV
    - PISTRINA XII
    - REGIO IN AMBITU CONTINET PEDES XV. M. DCCCC.


    SESTO RUFO

    - TEMPLUM IOVIS VIMINEI
    - AEDES VENERIS ERYCINAE
    - HORTI PLANTIANI
    - LACUS PROMETHEI
    - MACELLUM LIVIANUM
    - NYMPHEUM ALEXANDRI
    - STATION. COHOR. VII. VIGILUM
    - HORTI MECAENATIS
    - REGIA SERVII TULLII
    - AMPHITHEATRUM CASTRENSE
    - TRES TABERNAE
    - CAMPUS VIMINALIS SUB AGGERE
    - CAMPUS ESQUILINUS
    - LUCUS PETILINUS
    - FAGUTALIS
    - TEMPLUM IUNONIS LUCINAE
    - DOMUS AQUILII IURECONSULTI
    - ARA IOVIS VIMINEI
    - ARA MINERVA MEDICA
    - ARA PANTHEUM
    - ARA ISIS PATRICIA
    - TEMPLUM SILVANI
    - TEMPLUM AESCULAPII
    - THERMAE OLYMPIADIS
    - LAVACRUM AGRIPPINAE
    - VICI XV
    - VICUS SUCUSANUS
    - VICUS URSI PILEATI
    - VICUS MINERVAE
    - VICUS USTRINUS
    - VICUS PALLORIS
    - VICUS SEIUS
    - VICUS SILVANI
    - VICUS CAPULATORUM
    - VICUS TRAGOEDUS
    - VICUS UNGUENTARIUS
    - VICUS PAULLINUS
    - VICUS PASTORIS
    - VICUS CATICARIUS
    - VICUS VENERIS PLACIDAE
    - VICUS IUNONIS.
    - AED. XV.
    - AEDES SEIAE
    - AEDES VENERIS PLACIDAE
    - AEDES CASTORIS
    - AEDES PALLORIS
    - AEDES SILVANI
    - AEDES APOLLINIS
    - AEDES CLOACINAE
    - AEDES HERCULIS
    - AEDES MERCURII
    - AEDES MARTIS
    - AEDES LUNAE
    - AEDES SERAPIDIS
    - AEDES VESTAE
    - AEDES CERERIS
    - AEDES PROSERPINAE
    - VICOMAG. LX
    - CUR. II. DEN. II
    - INSULAE III. M. D. CCC
    - DOMUS CLXX
    - LACUS LXXXIX
    - HOR. XVII
    - BALINEAE PRIVATAE LXXV
    - PISTRINA XXXII
    - REGIO CONTINET PEDES XV. M. DCCCC. L.


    NOTIZIA DELL'IMPERO

    - LACUM ORFEI
    - MACELLUM LIVIANI
    - NYMPHAEUM ALEXANDRI
    - COHORTES II VIGILUM
    - HORTOS PALLANTIANOS
    - HERCULEM SULLANUM
    - AMPHITHEATRUM CASTRENSE
    - CAMPUM VIMINALEM SUB AGGERE
    - MINERVAM MEDICAM
    - ISIDEM PATRICIAM
    - VICI XV
    - VICOMAG. XLVIII
    - CUR. II
    - INSULAE III. M. DCCC. L
    - DOMUS CLXXX
    - HORREA XXIII
    - BALINEA LXXV
    - LACOS LXXIV
    - PISTRINA XV
    - CONTINET PED. XV. DC.




    REGIONE VI - ALTA SEMITA


    "La sesta regione, denominata Alta Semita da qualche piccola via posta sull'alto del monte, occupava quasi per intero il colle Quirinale e parte di quello degli Orti, con la valle sottoposta che separa l'uno dall'altro colle. In tale località si trova confrontare il giro dei circa quindicimila seicento piedi, che si prescrive dai Regionari a questa regione."


    PUBLIO VITTORE

    - VICUS BELLONAE
    - VICUS MAMURI
    - TEMPLUM SALUTIS IN COLLE QUIRINALE
    - TEMPLUM SERAPEUM
    - TEMPLUM APOLLINIS ET CLATRAE
    - TEMPLUM FLORAE
    - CIRCUS FLORALIS
    - CAPITOLIUM VETUS
    - AEDES DIVI FIDII IN COLLE
    - FORUM SALLUSTII
    - FORTUNA PUBLICA IN COLLE
    - STATUA MAMURI PLUMBEA
    - TEMPLUM QUIRINI
    - DOMUS ATTICI
    - MALUM PUNICUM AD QUOD DOMITIANUS DD
    - TEMPLUM GENTIS FLAVIAE, ET ERAT DOMUS EIUS
    - HORTI SALLUSTIANI
    - SENACULUM MULIERUM
    -THERMAE DIOCLETIANAE
    - CONSTANTINIANAE
    - BALINEA PAULI
    - DECEM TABERNAE AD GALLINAS ALBAS
    - AREA CALLIDII
    - COHORTES III. VIGILUM
    - VICI XII-AEDICULAE XVI
    - VICOMAG. XLVIII
    - CUR. II
    - DENUNC. II
    - INSULAE III. M. D. V
    - DOMUS CXLV
    - HORREA XVIII
    - BALINEAE PRIVATAE LXXV
    - LACUS LXXVI
    - PISTRINA XII
    - REGIO IN AMBITU CONTINET PEDES XV. M. DC.


    SESTO RUFO

    - VICUS BELLONAE
    - VICUS MAMURCI
    - CIRCUS FLORAE
    - TEMPLUM FLORAE
    - TEMPLUM SALUTIS
    -TEMPLUM SERAPEUM
    -TEMPLUM FIDEI
    - TEMPLUM APOLLINIS ET CLATRAE
    - TEMPLUM SALUTIS IN COLLE QUIRINALI
    - AEDES D. FIDII
    - TEMPLUM FORTUNAE LIBERAE
    - TEMPLUM FORTUNAE STATAE
    - TEMPLUM FORTUNAE REDUCIS
    - FORUM SALLUSTII
    - TEMPLUM VENERIS IN HORTULIS SALLUSTIANIS
    - STATUA MAMURI
    - AEDES FORTUNAE PUBLICAE IN COLLE
    - STATUA QUIRINI ALTA PED. XX.
    - TEMPLUM QUIRINI
    - DOMUS ATTICI
    - DOMUS FLAVII
    - MALUM PUNICUM
    - TEMPLUM MINERVAE
    - SENACULUM MULIERUM
    - THERMAE DIOCLETIANAE ET MAXIMIANAE
    - BALINEUM PAULI
    - DECEM TABERNAE
    - AD GALLINAS ALBAS
    - AREA CALLIDII
    - COHORTES III-VIGILUM
    - VICI XII
    - VICUS ALBUS
    - VICUS PUBLICUS
    - VICUS FLORAE
    - VICUS QUIRINI
    - VICUS FLAVII
    - VICUS MAMURI
    - VICUS FORTUNARUM
    - VICUS PACCIUS
    - VICUS TIBURTINUS
    - VICUS SALUTIS
    - VICUS CALLIDIANUS
    - VICUS MAXIMUS
    - VICOMAG. XLVIII
    - CUR. II
    - DENUNC. Il
    - AEDICULAE XVI
    - AEDICULA FORTUNAE PARVAE
    - AEDICULA GENII LIBERORUM
    - AEDICULA GENII LARUM
    - AEDICULA DIANAE VALERIANAE
    - AEDICULA JUNONIS IULIAE
    - AEDICULA SPEI
    - AEDICULA SANGI
    - AEDICULA SILVANI
    - AEDICULA VENERIS
    - AEDICULA HERCULIS
    - AEDICULA VICTORIAE
    - AEDICULA MATUTAE
    - AEDICULA LIBERI PATRIS
    - AEDICULA SATURNI
    - AEDICULA IOVIS
    - AEDICULA MINERVAE
    - INS. III. M. DV
    - LACUS LXXVI
    - DOMUS CXLV
    - HORREA XIX
    - BALINEAE PRIVATAE LXV
    - PISTRINA XXIII
    - REGIO CONTINET IN CIRCUITU PED. XV. M. DC.


    NOTIZIA DELL'IMPERO

    TEMPLUM SALUTIS ET SERAPIS-FLORAM-CAPITOLIUM ANTIQUUM-THERMAS CONSTANTINIANAS-STATUAM MAMURI-TEMPLUM DEI QUIRINI-HORTOS SALLUSTIANOS-GENTEM FLAVIAM-THERMAS DIOCLETIANAS-COHORTES III-VIGILUM. X. TABERNAS. GALLINAS ALBAS-VICI XVII-VICOMAG. XLVIII-BALINEA LXXV-LACOS LXXIII-PISTRINA XVI-CONTINET PEDES XV. D. CC.




    REGIONE VII - VIA LATA


    "La settima regione era chiamata Via Lata da una via larga che vi transitava, la quale stava evidentemente in principio della Flaminia, e doveva corrispondere alla parte superiore dell'attuale via del Corso; poichè la chiesa di S. Maria ivi posta ne conserva tuttora l'antica denominazione. La regione da tale luogo, posto presso al Campidoglio, si estendeva lungo la stessa via sino dove esisteva l'arco di L. Vero e di Marco vicino al palazzo Fiano, ed occupava tutto il piano tra la detta Via Lata e la parte occidentale del Quirinale. In tal modo sembra che il perimetro di questa regione verso il monte fosse prescritto dal giro che tenevano le mura di Servio per il tratto posto tra il foro di Trajano ed il circo di Flora; e verso il piano dal piede del colle Pinciano, vicino agli orti di Lucullo, giungesse sino all'indicato arco di Marco, e da questo punto arrivasse al Campidoglio seguendo la moderna via del Corso. Tale perimetro, aggiungendovi le tortuosità prodotte dal molto fabbricato che vi si trovava, poteva benissimo formare la misura di circa tredicimila e settecento piedi che si prescrive dai Regionari. Questa regione in tal modo si trovava intieramente fuori del recinto di Servio: ma per i molti vici che si vedono registrati nel catalogo di Rufo doveva essere però molto abitata."


    PUBLIO VITTORE

    - LACUS GANYMEDIS
    - COHORTES VII
    - VIGILUM ALITER PRIMORUM VIGILUM
    - ARCUS NOVUS-NYMPHAEUM IOVIS
    - AEDICULA CAPRARIA-CAMPUS AGRIPPAE
    - TEMPLUM SOLIS
    - CASTRA GENTIANA ALITER GYPSIANA
    - PORTICUS CONSTANTINI
    - TEMPLUM NOVUM SPEI. FORTUNAE
    - QUIRINI
    - SACELLUM GENII SANGI
    - EQUI AENEI TYRIDATIS
    - FORUM SUARIUM
    - ARCHEMORIUM
    - HORTI ARGIANI
    - PILA TIBURTINA
    - AD MANSUETOS
    - LAPIS PERTUSUS
    - VICI X-VICOMAG. XL
    - CURATORES II
    - DENUNC. II
    - INSULAE III. M. CCC. LXXXV
    - DOMUS CXX
    - HORREA XXV
    - PISTRINA XVI
    - BALINEAE PRIVATAE LXXV
    - LACUS LXXVI
    - REGIO IN AMBITU CONTINET PED. XII. M. DCC.


    SESTO RUFO

    - VICUS GANYMEDIS
    - VICUS GORDIANI MINOR
    - VICUS NOVUS ALIAS NOVOS
    - VICUS CAPRARIUS
    - VICUS SOLIS
    - VICUS GENTIANUS
    - VICUS SANGI ALIAS SANCI
    - VICUS HERBARIUS
    -  VICUS MANSUETUS
    - SUGILLARIUS MINOR
    - VICUS SOLATARIUS
    - VICUS FORTUNAE
    - VICUS SPEI MAIORIS
    - VICUS NOVUS ULTERIOR
    - VICUS LIBERTORUM
    - VICUS PUBLII
    - VICUS NOVUS
    - VICUS CITERIOR
    - VICUS STATUAE VENERIS
    - VICUS ARCHEMORIUM ALIAS ARCHEMONIUM
    - VICUS AEMILIANUS
    - VICUS PISCARIUS
    - VICUS CAELATUS
    - VICUS VICTORIAE
    - VICUS VICINUS
    - VICUS GRAECUS
    - VICUS LANARIUS ULTERIOR
    - VICUS POMONAE
    - VICUS CAPUT MINERVAE
    - VICUS TROIANUS
    - VICUS PEREGRINUS
    - VICUS CASTUS
    - VICUS MINOR
    - VICUS PUTEALUM
    - VICUS SCIPIONIS
    - VICUS IUNONIS
    - VICUS SELLARIUS
    - VICUS ISIDIS
    - VICUS TABELLARIUS
    - VICUS MANCINUS
    - VICUS LOTARIUS
    - LACUS GANYMEDIS
    - LACUS PERTUSUS
    - ARCUS GORDIANI
    - ARCUS NOVUS
    - ARCUS VERI ET MARCI AUGG.
    - NYMPHAEUM IOVIS
    - AEDICULA CAPRARIA
    - CAMPUS AGRIPPAE
    - TEMPLUM SOLIS
    - CASTRA GENTIANA
    - CASTRA GYPSIANA
    - PORTICUS CONSTANTINI
    - TEMPLUM NOVUM SPEI
    - TEMPLUM FORTUNAE
    - TEMPLUM QUIRINI
    - SACELLUM GENII SANGI
    - COHORTES VII
    - VIGILUM
    - AEQUIS AENEI TYRIDATIS
    - FORUM SUARIUM
    - ARCHEMORIUM
    - HORTI ARGIANI
    - PILA TIBURTINA
    - LAPIS PERTUSUS
    - INS. III. M. CCC. LXXXV
    - DOMVS CXX
    - HORREA XXV
    - CUR. II-
    - DEN. II
    - VICOMAG. CXX
    - BALINEAE PRIV. LXXXV
    - PISTRINA XXVII
    - LACUS LXXVI.
    - REGIO CONTINET IN CIRCUITU PED. XIII. M. D. CC.


    NOTIZIA DELL'IMPERO

    - LACUM GANYMEDIS
    - COHORTES V VIGILUM
    - ARCUM NOVUM
    - NYMPHEUM IOVIS
    - AEDICULA CAPRARIA
    - CAMPUM AGRIPPAE
    - TEMPLUM SOLIS ET CASTRA
    - PORTICUM GYPSIANI ET CONSTANTINI
    - EQUOS TYRIDATIS REGIS ARMENIORUM
    - FORUM SUARIUM
    - FORUM MANSUETAS
    - LAPIDEM PERTUSUM
    - VICI XV
    - AEDICULAE XV
    - VICOMAG. XLVIII.
    - CUR II
    - INSULAE III. DCCC. V
    - DOMUS CXX
    - HORREA LXV
    - BALNEA LXXV
    - LACOS LXXXVI
    - PISTRINA XVI
    - CONTINET PEDES XIII. M. CCC.




    REGIONE VIII - FORO ROMANO


    "La regione VIII, chiamata Foro Romano dal nome di questo celebre foro che conteneva, abbracciava nel suo giro l'intiero monte Capitolino con il piano, che sta tra questo e gli altri due colli Palatino e Quirinale, confinando colla regione IX nella parte occidentale del Campidoglio, colla XI verso il Tevere, colla X sotto il lato occidentale del Palatino, colla IV tra l'angolo settentrionale del detto colle Palatino ed il meridionale del Quirinale, colla VI a piedi del medesimo colle Quirinale, e colla VII nel breve tratto di spazio che separa il Campidoglio dal Quirinale verso Settentrione. La misura assegnata dai Regionari di 12 in 13000 piedi si trova approssimativamente confrontare nel descritto giro. Questa regione, per la moltiplicità dei monumenti che conteneva, e per la sua centrale situazione, doveva essere certamente la più interessante. Intorno la disposizione dei suoi monumenti, e specialmente di quelli che stavano nel giro del foro Romano, insorsero in ogni tempo molte controversie, in modo che lo scoprimento solo dell'antico suolo potrà mostrare la verità. Pertanto per non trascurare questa parte interessante della città se ne indicherà quivi le principali sue disposizioni."


    PUBLIO VITTORE

    - ROSTRA POPULI ROMANI
    - AEDES VICTORIAE CUM ALIA AEDICULA VICTORIAE VIRGINIS DD. A PORCIO CATONE
    - TEMPLUM IULII CAESARIS IN FORO
    - VICTORIAE AUREAE STATUA IN TEMPLO IOVIS OPT. MAX
    .- FICUS RUMINALIS ET LUPERCAL VIRGINIS
    - COLUMNA CUM STATUA M. LUDII
    - GRAECOSTASIS
    - AEDES OPIS ET SATURNI IN VICO IUGARIO
    - MILLIARIUM AUREUM
    - SENATULUM AUREUM
    - PILA HORATIA UBI TROPEA LOCATA NUNCUPANTUR
    - CURIA
    - TEMPLUM CASTORUM AD LACUM IUTURNAE
    - TEMPLUM CONCORDIAE
    - EQUUS AENEUS DOMITIANI
    - ATRIUM MINERVAE
    - LUDUS AEMILIANUS
    - IULIA PORTICUS
    - ARCUS FABIANUS
    - PUTEAL LIBONIS
    - IANI DUO CELEBRIS MERCATORUM LOCUS
    - REGIA NUMAE
    -TEMPLUM VESTAE
    - TEMPLUM DEORUM PENATIUM
    -TEMPLUM ROMULI
    - TEMPLUM IANI
    - FORUM CAESARIS
    - STATIONES MUNICIPIORUM
    - FORUM AUGUSTI CUM AEDE MARTIS ULTORIS
    -TRAJANI CUM TEMPLO ET EQUO AENEO ET COLUMNA COCHLIDE QUAE EST ALTA PEDES CXXVIII HABETQUE INTUS GRADUS CLXXXV FENESTELLAS XLV
    - COHORTES SEX VIGILUM
    - AEDICULA CONCORDIAE SUPRA GRAECOSTASIM
    - LACUS CURTIUS
    - BASILICA ARGENTARIA
    - UMBILICUS URBIS ROMAE
    - TEMPLUM TITI ET VESPASIANI
    - BASILICA PAULLI CUM PHRYGIIS COLUMNIS
    - FICUS RUMINALIS IN COMITIO UBI ET LUPERCAL
    - AEDES VEIOVIS INTER ARCEM ET CAPITOLIUM PROPE ASYLUM
    - VICUS LIGURUM
    - APOLLO TRANSLATUS EX APOLLONIA A LUCULLO XXX. CUB
    .- DELUBRUM MINERVAE
    - AEDICULA INVENTAE
    - PORTA CARMENTALIS VERSUS CIRCUM FLAMINIUM
    - TEMPLUM CARMENTAE
    - CAPITOLIUM UBI OMNIUM DEORUM SIMULACRA CELEBRANTUR
    - CURIA CALABRA, UBI PONTIFEX MINOR DIES PRONUNCIABAT
    - TEMPLUM IOVIS OPTIMI MAXIMI
    - AEDIS IOVIS TONANTIS AB AUG. DD. IN CLIVO CAPITOLINO
    - SIGNUM IOVIS IMPERATORIS A PRAENESTE DEVECTUM
    - ASYLUM
    - TEMPLUM VETUS MINERVAE
    - HORREA GERMANICA
    - HORREA AGRIPPINA
    - AQUA CERNENS QUATRUOR SCAUROS
    - FORUM BOARIUM
    - SACELLUM PUDICITIAE PATRICIAE
    - AEDES HERCULIS VICTORIS DUAE
    - ALTERA AD PORTAM TRIGEMICAM
    - ALTERA IN FORO BOARIO COGNOMINE ROTUNDA ET PARVA
    - FORUM PISCARIUM
    - AEDES MATUTAE
    -VICUS IUGARIUS IDEM ET THURARIUS UBI SUNT ARAE OPIS ET CERERIS CUM SIGNO VERTUMNI
    - CARCER IMMINENS FORO A TULLO HOSTILIO AEDIFICATUS MEDIA URBE
    - PORTICUS MARGARITARIA
    - LUDI LITTERARII
    - VICUS UNGUENTARIUS
    - AEDES VERTUMNI IN VICO THUSCO
    - ELEPHANTUS HERBARIUS
    - VICI XII
    - AEDICULAE TOTIDEM
    - VICOMAG. XLVIII
    - CUR. II
    - DENUNCIATORES II
    - INSULAE III. M. DCCC. LXXX
    - DOMUS CL
    - BALINEAE PRIVATAE LXVI
    - HORREA XVIII
    - LACUS CXX
    - PISTRINA XX
    - REGIO IN AMBITU CONTINET PED. XII. M. DCCC. LXVII.


    SESTO RUFO

    - ROSTRA POPULI ROMANI
    - FIDES CANDIDA
    - AEDES VICTORIAE
    - AEDICULA VICTORIAE
    - TEMPLUM ROMULI
    - CONCORDIAE
    - VESPASIANI
    - MIVERVAE
    - VESTAE
    - SATURNI
    - IULII
    - AUGUSTI
    - IUNONIS MARTIALIS
    - CASTORUM
    - SENACULUM AUREUM
    - PUTEAL LIBONIS
    - COMITIUM
    - SCHOLA XANTHA
    - LIVIAE PORTICUS
    - ARCUS FABIANUS
    - LACUS CURTIUS
    - REGIA NUMAE
    - TEMPLUM DEUM PENATIUM
    - TEMPLUM LARUM
    - FORUM CAESARIS
    - FICUS RUMINALIS
    - VICUS IUGARIS ALIAS LIGURIUS
    - VIA NOVA
    - LUCUS VESTAE
    - ALIAS LOCUTIOS
    - DELUBRVM MINERVAE
    - BASILICA PAULLI
    - TEMPLUM IANI
    - FORUM PISCARIUM. BOARIUM
    - CARCER
    - FORUM AUGUSTI
    - TRAIANI
    - CAPITOLIUM CUM ARCE
    - CURIA CALABRA
    - TEMPLUM IOVIS CAPITOLINI
    - ASYLUM
    - TEMPLUM IOVIS FERETRII
    - TEMPLUM VENERIS CALVAE
    - CURIA HOSTILIA SUB VETERIBUS
    - DELUBRUM LARUM-AEDES IUNONIS
    - AEDICULA MATRIS ROMAE
    - COLUMNA DIVI IULII
    - EQUUS AENEUS DOMITIANI
    - COLUMN. MAGN. LUDI SAECUL
    - ARA SATURNI.
    - TEMPLUM VENERIS ET ANCHISAE
    - TEMPLUM IANI PUBLICI
    - TEMPLUM EQUA CERNENS QUATUOR SATYROS
    - VICUS NOVUS
    - LUDI LITTERARII
    - VICUS UNGUENTARIUS MINOR
    - TUSCUS .... TUSCO.
    - BASIL....
    - MACELL.....
    - VICI XII
    - VICOMAG. XLIX
    - CUR II
    - DENUNC. Il
    - INSUL.... IL. DCCC. LXXX.


    NOTIZIA DELL'IMPERO

    - ROSTRAS III
    - GENIUM POPULI ROMANI
    - SENATUM
    - ATRIUM MINERVAE
    - FORUM CAESARIS
    - AUGUSTI
    - NERVAE
    - TRAIANI
    - TEMPLUM TRAIANI ET COLUMNAM COCHLIDEM ALTAM PEDES CXXVII. SEMIS. GRADOS INTUS HABET CLXXX. FENESTRAS XLV
    - COHORTES VI. VIGILUM
    - BASILICAM ARGENTARIAM
    - TEMPLUM CONCORDIAE ET SATURNI, ET VESPASIANI, ET TITI
    - CAPITOLIUM
    - MILIARIUM AUREUM
    - VICUM IUGARIUM
    - GRAECOSTADIUM
    - BASILICA IULIA
    -TEMPLUM CASTORUM
    - TEMPLUM MINERVAE
    - TEMPLUM VESTAM
    - HORREA AGRIPPIANA
    - AQUAM CERNENTEM. IIII.
    - SCAUROS SUB EADE
    - ATRIUM CACI
    - PORTICUM MARGARITARIAM
    - ELEPHANTUM HERBARIUM
    - VICI XV
    - AEDES XXXIV
    - VICOMAG. XLVIII
    - CUR. II
    - INSULAE III. M. CCCC. LXXX
    - DOMUS CXXX.
    - HORREA XVIII
    - BALNEA LXXXVI
    - LACOS CXX
    - PISTRINA XX
    - CONTINET PED. XIIII. M. LXVII.




    REGIONE IX - CIRCO FLAMINIO




    "Nello spazio occupato dalla regione IX, detta Circo Flaminio da questo edifizio che conteneva, si trova ora situata la più grande parte del fabbricato di Roma moderna. Questa regione si estendeva in grandezza più delle finora altre descritte regioni; poichè il suo giro si vede stabilito da Vittore di 30500 piedi, e dalla Notizia di trentadue e cinquecento; e si trovava intieramente fuori del recinto di Servio. Abbracciava nel suo giro il celebre Campo Marzio, costeggiando da una parte il corso del Tevere, e dall'altra confinando colla settima regione, e per piccolo tratto coll'ottava sotto al Campidoglio, e colla undecima verso il foro Olitorio. È da osservarsi inoltre che tre sono principalmente le direzioni state date alle antiche fabbriche di questa regione. Quelle situate circa nel mezzo della medesima verso il Campo Marzio sono state collocate maestrevolmente a seconda della linea meridionale, quelle poste verso l'VIII regione, nel luogo denominato propriamente Circo Flaminio, inclinavano per poco verso Oriente; e quelle situate dalla parte della settima regione secondavano la direzione della via Lata, ossia della moderna via del Corso."



    PUBLIO VITTORE

    - STABULA IIII. FACTIONUM
    - AEDIS ANTIQUA APOLLINIS CUM LAVACRO
    - AEDIS HERCULI MAGNO CUSTODI CIRCI FLAMINII
    - PORTICUS PHILIPPI
    - AEDIS VULCANI IN CIRCO FLAMINIO
    - MIMITIA VETUS
    - MIMITIA FRUMENTARIA
    - PORTICUS CORINTHIA CN. OCTAVII QUAE PRIMA DUPLEX FUIT
    - CRYPTA BALBI
    - THEATRUM BALBI CAPIT LOCA XXX. M. XCV. CL. CAESAR DEDICAVIT ET APPELLATUR A VICINITATE
    - IUPITER POMPEIANUS
    - THEATRUM MARCELLI CAPIT LOCA XXX. M. UBI ERAT ALIUD TEMPLUM IANI
    - DELUBRUM CN. DOMITII
    - CARCER CL. XXVIR
    - TEMPLUM BRUTI CALLAICI
    - VILLA PUBLICA UBI PRIMUM POPULI CENSUS EST ACTUS IN CAMPO MARTIO
    - CAMPUS MARTIS
    - AEDIS IUTURNAE AD AQUAM VIRG.
    - SEPTA TRIGARIA
    - EQUIRIA
    - HORTI LUCULLANI
    - FONS SCIPIONUM
    - SEPULCRUM AUGUSTORUM
    - CICONIAE NIXAE
    - PANTHEON
    - THEATRUM POMPEI
    - BASILICA MACIDII
    - MARTIANI
    - TEMPLUM D. ANTONINI CUM COCHLIDE COLUMNA QUAE EST ALTA PEDES CLXXV. HABET INTUS GRADUS CCVI. ET FENESTELLAS LVI.
    - THERMAE ADRIANI
    - THERMAE NERONIANAE, QUAE POSTEA ALEXANDRINAE
    - THERMAE AGRIPPAE
    - TEMPLUM BONI EVENTUS
    - AEDES BELLONAE VERSUS PORTAM CARMENTALEM, ANTE HANC AEDEM COLUMNA INDEX BELLI INFERENDI
    - PORTICUS ARGONAUTARUM
    - PORTICUS MELEAGRICUM
    - PORTICUS ISEUM
    - PORTICUS SERAPEUM
    - PORTICUS MINERVIUM
    - MINERVA CHALCIDICA
    - INSULA PHELIDII SIVE PHELIDIS
    - VICI XXX
    - AED. TOTID
    - VICOMAG. CCXX
    - CURAT. II
    - DEN. II
    - INSULAE III. M. DCCLXXXVIII
    - DOMUS CXL
    - BALINEAE PRIVATAE LXIII
    - HORREA XXII
    - PISTRINA XX.
    - REGIO IN AMBITU HABET PED. XXX. M. D.


    SESTO RUFO

    - CIRCUS FLAMINIUS
    - AEDES ANTIQUA APOLLINIS CUM COLOSSO LAVACRUM APOLLINIS
    - STABULA QUATUOR FACTIONUM
    - HERCULI MAGNO CUSTODI
    - PORTICUS PHILIPPI
    - AEDES VOLCANI IN CIRCO FLAMINIO
    - MIMITIA VETUS
    - THEATRUM BALBI
    - CRYPTA BALBI
    - PORTICUS CORINTHIA CN. OCTAVII
    - THEATRUM LAPIDEUM
    - MIMITIA FRUMENTARIA
    - LUCUS MAVORTIANUS
    - MINERVA VETUS CUM LUCO
    - LUCUS POETILINUS
    - FONS SCIPIONUM .... TIS.
    ............
    - SEPULC...
    - AEDES APOLLINIS
    - THERMAE HADRIANI
    - VILLA PUBLICA
    - THEATRUM POMPEII
    - EQUIRIA
    - STADIUM
    - AMPHITHEATRUM TAURI STATILII
    - IUPITER POMPEIANUS
    - THEATRUM MARCELLI
    - DELUBRUM CN. DOMITII
    - CARCER C. VIRORUM
    - HORTI LUCULLANI
    - CAMPUS MARTIS
    - SEPTA TRIGARIA
    - AEDES NEPTUNI
    - AEDES IUTURNAE AD AQUAM VIRGINEM
    - TEMPLUM BRUTI CALLAICI
    - LUCUS VICTORIAE VETUS.
    - HORTI ET TERMAE AGRIPPAE
    - DOMUS ET CIRCUS ALEXANDRI PII IMPERATORIS
    - LACUS THERMAR. NERON....


    NOTIZIA DELL'IMPERO

    - STABULA IIII. FACTIONUM
    - PORTICUM PHILIPPI
    - MINUCIAM VETEREM ET FRUMENTARIAM
    - CRYPTA BALBI
    - THEATRA III.
    - IN PRIMIS T BALBI, QUOD CAPIT LOCA XI. M. DX.
    - T POMPEII CAPIT LOCA XVII. M. DLXXX.
    - T MARCELLI CAPIT XX. M
    - ODEUM CAPIT LOCA X. M. DC
    - STADIUM CAPIT LOCA XXX. M. LXXXVII.
    - CAMPUM MARTIUM
    - TRIGARIUM
    - CICONIAS NIXAS
    - PANTHEUM
    - BASILICAS NEPTUNI, MATIDIES, MARCIANI
    - TEMPLUM ANTONINI, ET COLUMNAM COCHLIDEM ALTAM PEDES CLXXX. S. GRADUS INTUS HABET CCIII. FENESTRAS LVI
    - THERMAS ALEXANDRINAS ET AGRIPPINAS
    - PORTICUM ARGONAUTARUM ET MELEAGRI
    - ISEUM ET SERAPEUM
    - MINERVAM CHALCIDICAM
    - DIVORUM MENSULE FELICLES
    - VICI XXXV-AED. XXVV.
    - VICOMAG. XLVIII
    - CUR. II.
    - INSULAE II. M. DCCLXXVII
    - DOMUS CXL
    - HORREA XXVII-BALNEA LXIII
    - LACOS CXX
    - PISTRINA XX.
    - CONTINET PED. XXXII. M. D.




    REGIONE X - PALAZZO


    "La regione X occupava per intiero il monte Palatino; e dal Palazzo che stava ivi collocato ne riceveva il nome. I suoi limiti nella parte del foro Romano, ed in quella del Circo Massimo si trovano chiaramente stabiliti dalla posizione degli edifizj situati nel confine delle due regioni. Nella parte verso l'Esquilino questa regione giungeva probabilmente sino alla via Sacra; ed in quella posta verso il Celio doveva occupare evidentemente per intiero la valle che divide i due colli con qualche piccola parte del Celio stesso, onde dare al suo perimetro la misura degli 11600 piedi stabilita dai Regionari. Sul monte Palatino, che formava la parte principale di questa regione, stava edificata la primitiva Roma. Quindi questo colle dalle più vili abitazioni che componevano la prima Città, passò nel tempo della grandezza Romana a contenere le più magnifiche fabbriche che mai si potessero eseguire, e che formavano il Palazzo Imperiale. Sotto questo aspetto viene in miglior modo considerata nel parlare delle abitazioni dei Romani in particolare nell'indicata opera dell'Architettura antica. Pertanto quivi, secondo il piano stabilito, indicherò la posizione dei principali monumenti che conteneva."


    PUBLIO VITTORE

    - VICUS PADI
    - VICUS CURIARUM
    - VICUS FORTUNAE RESPICIENTIS
    - VICUS SALUTARIS,
    - VICUS APOLLINIS
    - VICUSHUIUSQUE DIEI
    - ROMA QUADRATA
    - AEDES IOVIS STATORIS
    - CASA ROMULI
    - PRATA BACCHI UBI FUERUNT AEDES VITRUVII FUNDANI
    - ARA FEBRIS
    - TEMPLUM FIDEI
    - AEDIS MATRIS DEUM
    - HUIC FUIT CONTERMINUM DELUBRUM SOSPITAE IUNONIS
    - DOMUS CEIONIORUM
    - SUELIA
    - IOVIS COENATIO
    - AEDIS APOLLINIS UBI LYCIINI PENDEBANT INSTAR ARBORIS MALA FERENTIS
    - AEDIS DEAE VIRIPLACAE IN PALATIO
    - BIBLIOTECAE
    - AEDES RHAMNUSIAE
    - PENTAPYLON IOVIS ARBITRATORIS
    - DOMUS AUGUSTANA
    - DOMUS TIBERIANA
    - SEDES IMPERII ROMANI
    - AUGURATORIUM
    - AD MAMMAEAM, HOC EST DIETAE MAMMAEAE
    - ARA PALATINA
    - AEDES IOVIS VICTORIS
    - DOMUS DIONYSII
    - DOMUS Q. CATULI
    - DOMUS CICERONIS
    - AEDES DIIOVIS
    - VELIA
    - CURIA VETUS
    - FORTUNA RESPICIENS
    - SEPTIZONIUM SEVERI
    - VICTORIA GERMANICIANA
    - LUPERCAL
    - VICI VI
    - AED TOTIDEM
    - VICOMAG . XXIIII
    - CUR. II
    - DENUNC. II
    - INSULAE II. M. DC. XLIIII
    - DOMUS LXXXVIII
    - LACUS LXXX
    - HORREA XLVIII
    - PISTRINA XX
    - BALINAEAE PRIVATAE XXXVI
    - REGIO IN AMBITU HABET PED. XII. M. DC.


    SESTO RUFO

    Non pervenuta.


    NOTIZIA DELL'IMPERO

    - CASAM ROMULI
    - AEDEM MATRIS DEUM ET APOLLINIS RHAMNUSII. PENTAPYLUS
    - DOMVM AUGUSTANAM ET TIBERIANAM
    - AEDEM IOVIS.
     - CURIAM VETEREM
    - FORTUNAM RESPICIENTEM
    - SEPTIZONIUM DIVI SEVERI
    - VICTORIAM GERMANIANAM
    - LUPERCAL
    - VICI XX
    - AEDES XX.
    - VICOMAG. XLVIII
    - CUR. II
    - INSULAE II. M. DCC. XLII
    - DOMUS LXXXIX.
    - HORREA XLVIII
    - BALINEA XLIIII
    - LACOS XC
    - PISTRINA XX
    - CONTINET PED. XI. M. D. X.




    REGIONE XI - CIRCO MASSIMO


    "La regione XI che era distinta collo stesso nome del Circo Massimo in essa contenuto, oltre lo spazio compreso fra il monte Palatino e l'Aventino, occupato quasi per intiero dal detto Circo, si estendeva ancora nel piano situato lungo il corso del Tevere e posto tra le due estremità delle mura del recinto di Servio; cioè dalla porta Trigemina alla Flumentana. In tale località veniva a formare un giro di circa 11500 piedi come si trova registrato dai Regionari."


    PUBLIO VITTORE

    - CIRCUS MAXIMUS QUI CAPIT LOCA CCCLXXXV. M. XII. PORTAE.
    - TEMPLUM MERCURI
    - AEDES DITIS PATRIS
    - AEDES CERERIS
    - VENERIS OPUS FABII GURGITIS
    - PORTUMNI AD PONTEM AEMILI OLIM SUBLICI.
    - PORTA TRIGEMINA
    - SALINAE
    - APOLLO COELISPEX
    - AEDES PORTUMNI
    - HERCULES OLIVARIUS
    - ARA MAXIMA
    - TEMPLUM CASTORIS.
    - AEDES CERERIS
    - AEDES POMPEI
    - OBELISCI II IACET ALTER, ALTER ERECTUS
    - AEDES MURCIAE
    - AEDES CONSI SUBTERRANEA
    - FORUM OLITORIUM. IN EO COLUMNA EST LACTARIA AD QUAM INFANTES LACTE ALENDOS DEFERUNT
    - AEDES PIETATIS IN FORO OLITORIO
    - AEDES JUNONIS MATUTAE
    - VELABRUM MAIUS-VICI VIII
    - AED. TOTID
    - VICOMAG. XXXII
    - CUR. Il
    - DENUNC. II
    - INSULAE M. DC
    - DOMUS LXXXIX.
    - BALINEAE PRIVATAE XV
    - HORREA XVI
    - LACUS LX
    - PISTRINA XII.
    - REGIO IN AMBITU CONTINET PED. XI. M. D.


    SESTO RUFO

    - APOLLO COELISPEX
    - SALINAE
    - PORTA TRIGEMINA
    - LUCUS SEMELIS MINOR
    - AEDES PORTUMNI AD PONTEM SUBLICII
    - DITIS PATRIS
    - CERERIS
    - PROSERPINAE
    - TEMPLUM MERCURII
    - HERCULIS
    - HERCULES TRIUMPHALIS
    - CIRCUS MAXIMUS
    - HERCULES OLIVARIUS
    - ARA MAXIMA
    - TEMPLUM CASTORIS .... MUR...
    - BALISICA CAII ET LUCII ... PUD... IUNO ...
    - AEDES CONSI
    - VICUS CONSINIUS
    - VICUS PROSERPINAE
    - VICUS CERERIS
    - VICUS ARGAEI PISCARIUS
    - VICUS PARCARUM
    - VICUS VENERIS
    - VICUS SANCTUS
    - FORUM OLITORIUM.
    - COLUMNA LACTARIA
    - AEDES PIETATIS
    - AEDES MATUTAE
    - VELABRUM MAIUS IN FORO OLITORIO
    - SACRARIUM SATURNI CUM LUCO
    - AREA SANCTA
    - AEDES XII
    - VENERIS
    - IUNONIS ....


    NOTIZIA DELL'IMPERO

    - TEMPLUM SOLIS, ET LUNAE, ET MERCURII
    - AEDEM MATRIS DEUM ET IOVIS
    - CEREREM. XII PORTAS
    - PORTAM TRIGEMINAM
    - APOLLINEM CAELISPICEM
    - HERCULEM OLIVARIM
    - VELABRUM
    - ARCUM CONSTANTINI
    - VICI XXI
    - AED.XXI
    - VICOMAG.XLVIII
    - CUR. II
    - INSULAE II M. D. DOMUS LXXXVIII.
    - HORREA XVI
    - BALNEA XV.
    - LACOS XX
    - PISTRINA XVI
    - CONTINET. PED. XI. M. D.




    REGIONE XII - PISCINA PUBLICA


    "La regione XII era chiamata Piscina Pubblica da un grande luogo per bagni ch'era stato fatto per comodo di esercitarsi al nuoto la gioventù; ed occupava nella sua larghezza lo spazio posto tra il Celio e l'Aventino, confinando ivi con la II e la XIII regione, che poste sui detti monti ne portavano lo stesso nome; ma però onde stabilirle un più conveniente spazio di quello che le si attribuisce, il quale si trova occupato in gran parte dalle sole terme Antoniane, doveva estendersi pure su quella parte dell'Aventino che resta disgiunta verso Oriente dal medesimo colle Aventino propriamente detto, e dove ora stanno le Chiese di S Sabina e di S. Balbina. In lunghezza poi dal Circo Massimo doveva giungere poco oltre il lato meridionale delle terme Antoniane, ove cominciava per tale parte la regione I. Il suo giro da Vittore e dalla Notizia si prescrive di 12000 piedi, e nella indicata località si trova confrontare incirca tale misura."


    PUBLIO VITTORE

    - VICUS VENERIS ALMAE
    - VICUS PISCINAE PUBLICAE
    - VICUS DIANAE
    - VICUS CEIOS. TRIARI
    - VICUS AQUAE SALIENTIS
    - VICUS LACI TECTI
    - VICUS LACI FORTUNAE MAMMOSAE
    - VICUS COLAPETI PASTORIS
    - PORTAE RADUSCULANAE
    - PORTAE NEVIAE
    - VICTORIS
    - HORTI ASINIANI
    - AREA RADICARIA
    - CAPUT VIAE NOVAE
    - FORTUNA MAMMOSA
    - ISIS ATHENODORIA
    - AEDES BONAE DEAE SUBSAXANAE.
    - SIGNUM DELPHINI
    - THERMAE ANTONINIANAE
    - SEPTEM DOMUS PARTHORUM
    - CAMPUS LANATARIUS
    - DOMUS CHILONIS
    - COHORTES III. VIGILUM
    - DOMUS CORNIFICI
    - PRIVATA HADRIANI
    - VICI XII
    - AEDIC. TOTID
    - VICOMAG. XLVIII
    - CUR. Il.
    - DENUNC. II.
    - INSULAE II. M. CCCC. LXXXVI.
    - DOMUS C. XIIII.
    - BALINEAE PRIVATAE XLIII.
    - LACUS LXXX.
    - HORREA XXVI.
    - PISTRINA XX.
    - REGIO IN AMBITU HABET PED. XII. M


    SESTO RUFO

    Non pervenuta.


    NOTIZIA DELL'IMPERO

    - AREAM RADICARIAM
    - VIAM NOVAM
    - FORTUNAM MAMMOSAM.
    - ISIDEM ATHENODORIAM
    - AEDEM BONAE DEAE SUBSAXANAE
    - CLIVUM DELFINI
    - THERMAS ANTONINIANAS
    - VII DOMUS PARTHORUM
    - CAMPUM LANATARIUM
    - DOMUM CILONIS
    - COHORTES IIII. VIGILUM
    - DOMUM CORNIFICIES
    - PRIVATA HADRIANI
    - VICI XVII.
    - AED. XVII.
    - VICOMAG. XLVIII.
    - CUR. II.
    - INSULAE II. M. CCC. LXXXVII.
    - DOMUS CXIII.
    - HORREA XXVII.
    -BALNEA LXXIII.
    - LACOS LXX.
    - PISTRINA XXV.
    -  CONTINET PED. XII. M.




    REGIONE XIII - AVENTINA


    "La XIII regione, oltre lo spazio che occupava sul monte Aventino, dal quale ne traeva la sua denominazione, si estendeva ancora nel piano posto verso il Tevere e contenuto entro il recinto delle mura, nel di cui mezzo s'innalza il Testaccio. Il giro di questa regione si prescrive da Vittore essere stato di 6200 piedi; e tale misura si trova confrontare nella descritta località, non però comprendendo la parte del monte, che si stende disgiunta verso Oriente, stata considerata nell'antecedente regione."


    PUBLIO VITTORE

    - VICUS FIDII
    - VICUS FRUMENTARIUS
    - VICUS TRIUM VIARUM
    - VICUS CESETI
    - VICUS VALERII.
    - VICUS LACI MILIARII
    - VICUS FORTUNATI
    - VICUS CAPITIS CANTERI
    - VICUS TRIUM ALITUM
    - VICUS NOVUS
    - VICUS LORETI MINORIS
    - ARMILUSTRI
    - AEDES CONSI
    - VICUS COLUMNAE LIGNEAE
    - VICUS MINERVA IN AVENTINO
    - VICUS MATERIUS
    - VICUS MUNDICIEI.
    - VICUS LORETI MAIORIS UBI ERAT VERTUMNUS
    - VICUS  FORTUNAE DUBIAE
    - ARMILUSTRUM
    - TEMPLUM LUNAE IN AVENTINO
    - COMMUNAE DIANAE.
    - THERMAE VARIANAE
    - TEMPLUM LIBERTATIS
    - DOLIOLUM
    - AEDES BONAE DEAE IN AVENTINO
    - PRIVATA TRAIANI
    - REMURIA
    - ATRIUM LIBERTATIS IN AVENTINO
    - MAPPA AUREA
    - PLANTANON
    - HORREA ANICETI
    - SCALAE GEMONIAE
    - PORTICUS FABRARIA
    - SCHOLA CASSII
    -TEMPLUM IUNONIS REGINAE A CAMILLO DD. VEIIS CAPITIS
    - FORUM PISTORIUM
    - VICI XVII.
    - AED. TOTID.
    - VICOMAG. LXXIIII.
    - CURAT. II.
    - DENUNCIATORES II.
    - INSULAE II. M. CCCC. LXXXVIII.
    - DOMUS CIII.
    - BALINEAE PRIVATAE LXIIII
    - LACUS LXXVIII
    - HORREA XXVI
    - PISTRINA XX
    - REGIO IN AMBITU HABET PED. XVI. M. CC.


    SESTO RUFO

    Non pervenuta.


    NOTIZIA DELL'IMPERO

    - ARMILUSTRIUM
    - TEMPLUM DIANAE ET MINERVAE
    - NYMPHEA III.
    - THERMAS SYRES ET DECIANAS
    - DOLOCENUM
    - MAPPA AUREA
    - PLATANONIS
    - HORREA GALBES ET ANICIANA
    - PORTICUM FABARIAM
    - SCALAM CASSII
    - FORUM PISTORUM
    - VICI XVIII
    - AED. XVIII
    - VICOMAG. XLVIII
    - CUR. II.
    - INSULAE II. M. CCCC. LXXXVII.
    - HORREA XXXV.
    - BALNEA XLIIII
    - LACOS LXXXIX
    - PISTRINA XX
    - CONTINET. PED. XXIII. M.




    REGIONE XIV - TRANSTIBERINA


    "L'ultima regione denominata Transtiberina dal luogo in cui stava posta al di là del Tevere, avendo un perimetro di circa 30000 piedi, come si trova registrato nel catalogo di Vittore, non poteva perciò essere contenuta nel solo spazio del Trastevere, che era circondato dal recinto Aureliano: ma sembra che si estendesse ancora verso il Vaticano, e che occupasse incirca quanto si trova ora rinchiuso dalle moderne mura."


    PUBLIO VITTORE

    - VICUS CENSORI
    - VICUS GEMINI
    - VICUS ROSTRATI
    - VICUS LONGI AQUILAE
    - VICUS STATUAE SICCIANAE
    - VICUS QUADRATI
    - VICUS RACILIANI MAIORIS
    - VICUS RACILIANI MINORIS
    - VICUS JANICULENSIS
    - VICUS BRUCTANUS
    - VICUS LARUM RURALIUM
    - VICUS STATUAE VALERIANAE
    - VICUS SALUTARIS
    - VICUS PAULI
    - VICUS SEX. LUCEI
    - VICUS SIMI PUBLICI
    - VICUS PATRATILLI
    - VICUS LACI RESTITUTI
    - VICUS SAUFEI
    - VICUS SERGI
    - VICUS PLOTI
    - VICUS VIBERINI
    - VICUS GAIANUM
    - IN INSULA AEDES IOVIS ET AESCULAPII ET AEDES FAUNI
    - NAUMACHIAE
    - CORNISCAE
    - VATICANUS
    - HORTI DOMITIAE
    - IANICULUM
    - MANIAE SACELLUM
    - BALINEUM AMPELIDIS
    - BALINEUM PRISCILLIANAE
    - STATUA VALERIANA.
    - STATUA SICCIANA
    - SEPULCRUM NUMAE
    - COHORTES VII. VIGILUM
    - CAPUT GORGONIS
    - TEMPLUM FORTIS FORTUNAE
    - AREA SEPTIMIANA
    - HERCULES CUBANS
    - CAMPUS BRUTANUS
    - CAMPUS CODETANUS
    - HORTI GETAE
    - CASTRA LECTICARIORUM
    - VICI XXII.
    - AED. TOTID.
    - VICOMAG. LXXVIII.
    - CUR. II
    - DENUNC. Il.
    - INSULAE IIII. M. CCCC. V.
    - DOMUS CC.
    - BALINEAE PRIVATAE LXXXVI.
    - LACUS CLXXX.
    - HORREA XXII.
    - REGIO IN AMBITU HABET PEDES XXXIII. M. CCCC. LXX. VIII.


    SESTO RUFO

    Non pervenuta.


    NOTIZIA DELL'IMPERO

    - GAJANUM ET FRYGIANUM
    - NAUMACHIAS V. ET VATICANUM
    - HORTOS DOMITIES
    - MOLINAS
    - BALINEUM AMPELIDIS, ET DIANES
    - COHORTES VII. VIGILUM
    - STATUAM VALERIANAM
    - CAPUT GORGONIS
    - FORTIS FORTUNA
    - CORARIAM SEPTIMIANAM
    - HERCULEM SUBTERRAM MEDIUM CUBANTEM SUB QUEM PLURIMUM AURUM POSITUM EST
    - CAMPUM BRUTTIANUM ET CODETANUM
    - HORTOS GETES
    - CASTRA LECTICARIORUM
    - VICI LXXVIII
    - AEDES LXXVIII.
    - VICOMAG. XLVIII.
    - CUR. II.
    - INSULAE IIII. M. CCCC. V.
    - DOMUS CL.
    - HORREA XXII.
    - BALNEA LXXVII.
    - LACOS CLXXX.
    - PISTRINA XXIIII.
    - CONTINET PED. XXIII. M.

    PLAUTO

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    Nome: Titus Maccius Plautus
    Nascita: Sarsina, 250 a.c.
    Morte: 184 a.c.












    Da Alularia:
    Non fate meraviglie:
    in due parole vi dirò chi sono.
    Sono il Lare domestico di quella
    casa, da cui m'avete visto uscire.
    Già da molt'anni l'abito e la guardo
    per l'avo e per il padre
    di quello che ora la possiede. Il nonno
    in gran segreto e con grandi preghiere
    un bel gruzzolo d'oro m'affidò
    seppellendolo in mezzo al focolare
    e pregando che ben lo custodissi.




    LE ORIGINI

    Questi versi sono di Plauto, un autore latino tra i più conosciuti per le opere ma più sconosciuto per la vita. Egli nasce A Sarsina, allora in Umbria, oggi in Emilia Romagna, nel 250. Cicerone, nel "De senectute", afferma che Plauto compose da "senex" alcune commedie fra cui lo "Pseudulus": nel 191 a.c., doveva essere quindi già vecchio e sempre Cicerone ( Brutus, XV, 60 ) ci fa sapere che Plauto morì nel 184 a.c., le uniche notizie certe sulla vita di Plauto sono dunque la nascita e la morte. Per il resto si possono fare e si sono fatte solo supposizioni.

    Anzitutto il nome: I codici, che contengono le sue commedie ci hanno tramandato il suo nome completo, Tito Maccio Plauto, ovvero Titus Maccius Plautus, nome praticamente impossibile per un italico qual era il poeta, in quanto i tre nomi spettavano solo ai cittadini romani. Ma il nomen Maccius "Maccio", il prototipo dello sciocco, deriverebbe dall'omonima maschera atellana; lo stesso termine "Plautus" può significare o "piedi piatti" oppure "orecchie lunghe e penzoloni". 

    Molto probabilmente, quindi, si tratta di nomi d’arte che Plauto aveva usato durante l’attività di attore. Forse lo stesso Plauto aveva corretto burlescamente Maccus in Maccius cioè “della gens Marcia”: una sorta di gentilizio con cui il poeta si attribuiva scherzosamente dei nobili natali; La Gens Marcia era tra le cento gentes originarie ricordate dallo storico Tito Livio, ma Plauto era nato in Umbria, oppure è un’invenzione dei biografi che nel nomen Maccius indicavano la sua attività drammaturgica.

    Altri dubbi rimangono su Plauto e la sua opera, sulla data di composizione, sulla prima rappresentazione delle singole commedie e sui rapporti con Nevio, che fu in un certo senso il suo predecessore, poichè dai frammenti delle sue opere a noi giunti si nota una colorita inventiva verbale che sembra anticipare Plauto.
    Girolamo anticipa la sua data di morte al 200 a.c., ma un accenno della Càsina assicura che Plauto era vivo nel 186, quando avvenne lo “scandalo dei Baccanali”. 
    Da un altro passo di Cicerone ( Cato maior , XIV, 50 ) si evince una data di nascita oscillante tra il 255 e il 251 a.c. Altre notizie su Plauto si ricavano da altre fonti, come da Aulo Gellio che attinse da Varrone. Nell’epitaffio del poeta citato da Gellio (pytdo da Varrone) si dice che, alla morte di Plauto.: "numeri innumeri simul omnes conlacrimarunt" ("scoppiarono in pianto tutti insieme ritmi innumerevoli").

    Gli storici antichi derivarono notizie dalle sue opere sulla base di vaghissime allusioni autobiografiche. Gellio racconta che Plauto, avendo perduto, a causa di traffici sfortunati, il denaro guadagnato, e per questo indebitato, divenne schiavo del creditore che gli assegnò di girare la macina del mulino. Durante la schiavitù Plauto avrebbe scritto tre commedie. Per altri anche se non in schiavitù, cominciò a comporre commedie trovandosi in ristrettezze, fra cui il "Saturio" (Il pancia piena) e l’ "Addictus" (schiavo per debiti), che già dai titoli richiamano rovesci finanziari; e una terza, dal titolo sconosciuto, che, rappresentate con successo, furono l’inizio di una fortunata attività teatrale durata oltre un quarantennio.
    È ancora Gellio a riferirci che Plauto avrebbe passato la giovinezza in una compagnia di comici, da cui avrebbe appreso il mestiere di teatrante e che, dopo aver raggiunto la fama come autore, avrebbe continuato occasionalmente a vestire i panni dell’attore, ma anche questa è supposizione.

    Ebbe fama anche perchè fu il primo autore latino a dedicarsi a un solo genere letterario. Fu alieno della politica, anche se non insensibile agli avvenimenti del tempo, la sua produzione si svolse, del resto, praticamente durante la II guerra punica, evitando così le pene che ebbe a soffrire Gneo Nevio che venne per questo imprigionato ed esiliato. Visse interamente della sua arte, con instancabile fervore creativo e con molto successo. Se come dicono scriveva per vivere, dovette vivere piuttosto agiatamente.
    "Allora, la comicità originale nasce proprio nel contatto fra la materia dell’intreccio e l’aprirsi di "occasioni" in cui l’azione si fa libero gioco creativo, diventa "lirismo comico" (Barchiesi)



    LA PRODUZIONE LETTERARIA

    Che noi sappiamo fece solo commedie, e di grande successo, visto che ancor oggi si trasmettono nei teatri. Certamente sono state alla base del teatro successivo non tragico. Perfino Shakespeare attinse da lui, anche se tutto lascia supporre che l'autore inglese fosse in realtà italiano e anzi siciliano, ma questo è un discorso a parte.
    Alla sua morte, entrarono in circolazione tutta una serie di commedie a suo nome, molte delle quali rivelatesi in seguito dei falsi. Nel I sec. a.c., ne circolavano 130 titoli e la tradizione gliene attribuiva ben 140. Un erudito dell’epoca, Marco Terenzio Varrone, le studiò ("De comoedis Plautinis") e le suddivise in tre gruppi:

    - 21 certamente plautine (dette appunto "Fabulae Varronianae");
    - 19 di attribuzione incerta
    - tutte le altre considerate spurie.

    PLAUTO
    Probabilmente essendo nome di successo, dei capocomici rappresentavano commedie di altri autori dichiarandole di Plauto. Per mettere ordine sul materiale tramandato nel nome di Plauto, nel I sec. a.c. l’erudito latino Varrone fissò un numero di commedie certe, basandosi sul linguaggio e sullo stile. Egli considerò come sicuramente plautine 21 commedie e l’autorità di Varrone fu tale che si continuarono a ricopiare solo le 21 autentiche. Tuttavia, da varie testimonianze degli antichi, si è indotti a pensare che esistessero altre commedie sicuramente plautine, e oggi perdute: quali "Commorientes", "Colax", "Gemini lenones", "Condalium", "Anus", "Agroecus", "Faerenatrix", "Acharistio", "Parasitus piger", "Artemo", "Frivolaria", "Sitellitergus", "Astraba". Fra quelle più rappresentate ricordiamo Anfitrione, Bacchides, Miles Gloriosus, Pseudolus e Menaechmi, pervenute per intero.

    Attraverso le relative "didascalie" (le brevi notizie che i grammatici davano in base alle indicazioni trovate nei copioni delle compagnie drammatiche, intorno alla prima rappresentazione, alla sua esecuzione e al suo esito), sappiamo la data di composizione solo dello "Stichus" (200 a.c.) e dello "Pseudulus" (191 a.c.): la cronologia delle altre si può stabilire ipotizzando un’evoluzione del suo teatro dalla "farsa" ad una specie di "opera buffa", ma senza certezze.

    Provando comunque ad azzardare un ordine cronologico, questo potrebbe essere: "Asinaria" (212), "Mercator" (212-10), "Rudens" (211-205), "Amphitruo" (206), "Menaechmi" (206), "Miles gloriosus" (206-5), "Cistellaria" (204), "Stichus" (200), "Persa" (dopo il 196), "Epidicus" (195-4), "Aulularia" (194), "Mostellaria" (inc.), "Curculio" (200-191?), "Pseudolus" (191), "Captivi" (191-90), "Bacchides" (189), "Truculentus" (189), "Poenulus" (189-8), "Trinummus" (188), "Casina" (186-5); in più la "Vidularia" pervenuta in parte.

    I titoli delle 21 commedie attribuite a Plauto sono: Anfitrione, La commedia degli asini, La commedia della pentola, Le Bacchidi, I prigionieri, La ragazza dal profumo di cannella, La commedia della cesta, Gorgoglione, Epidico, I Menecmi, Il mercante, Il soldato spaccone, La commedia del fantasma, Il cartaginese, Pseudolo, La gomena, Stilo, Le tre monete, Lo zoticone, La commedia del baule,

    Tutte queste commedie sono state oggetto di studio e catalogate in sei gruppi:

    dei Simillini (o dei Sosia): riguarda lo scambio di persona, dello specchio e del doppio;
    dell'Agnizione: alla fine di questo tipo di commedie avviene un riconoscimento improvviso ed imprevedibile dell'identità di un personaggio;
    della beffa: in questo tipo sono organizzati scherzi e beffe, bonari o meno;
    del romanzesco: dove compaiono i temi dell' avventura e del viaggio;
    della caricatura (o dei Caratteri): contenenti una rappresentazione iperbolica, esagerata di un personaggio;
    composita: che racchiude al suo interno uno o più elementi delle sopraccitate tipologie.


    LA COMICITA' 

    Sulla scena del teatro plautino non compaiono romani perchè i personaggi non indossano la toga ma il pallium. Plauto, infatti, ma il discorso vale per tutti i poeti comici latini, traduce testi greci per la scena romana. Tuttavia, pur rifacendosi ai modelli della commedia greca, vi ha trasposto aspetti e personaggi della società romana con freschezza e brio.

    Per indicare il modo con cui propone al pubblico i modelli greci, usa l’espressione vortit barbare, “traduce in una lingua straniera”, cioè in latino. Il termine vertere sta per volgere, infatti Plauto non si limita a proporre in latino i testi greci, ma li rielabora adattandoli alla lingua e ai costumi dei romani. Non ci sono pervenuti gli originali greci da cui derivano le commedie plautine, per cui non possiamo valutare l’indipendenza e l’originalità  rispetto ai modelli greci. Conosciamo però il Menandro.

    Una delle differenze fondamentali con la commedia di Menandro, è che, mentre quello cerca la coerenza e l’organicità degli intrecci, Plauto sacrifica verosimiglianza e logica a favore degli effetti comici. Altra differenza è che il teatro di Menandro è un teatro personalistico e psicologico, mentre Plauto accentua i tratti caricaturali dei personaggi per ricavarne maschere grottesche. C'è un rovesciamento e un paradosso della realtà, in cui sono i giovani a trionfare sui vecchi, le mogli sui mariti; ma con ciò Plauto non mette in discussione la società romana, perchè vuole solamente far divertire. Plauto è un'anima leggera, anche se arguta, così la sua opera è leggera e arguta.

    Ed ecco alcuni espedienti:

    1. inserimento di parti cantate,  come avverrà poi per l’operetta
    2. mescolanza di parti di commedie diverse
    3. giochi di parole, metafore, accostamento di termini raffinati e rozzi
    4. coinvolgimento diretto del pubblico tramite un personaggio che gli si rivolge direttamente.
    5. scambi di personaggi e colpi di scena
    6. ampio uso del meta teatro
    7. mescolanza dei linguaggi e dei registri linguistici (quotidiano, rustico, letterario, raffinato; linguaggio giuridico, sacrale, carmina).
    8. l’accentuazione caricaturale e macchiettistica dei difetti dei protagonisti;
    9. battute volgari ed esasperazione di sentimenti naturali.
    10. l'uso frequente di espressioni greche o grecizzanti, parole mezzo latine e mezzo greche, inusitate e ridicole (ad es. "pultifagus" = "mangiapolenta"), grecismi con terminazione latina ("atticissare" = "parlare greco"), parole formate da più radici ("turpilucricupidus" = "desideroso di turpi guadagni"), oltre a neologismi veri e propri ("dentifrangibula", riferito ai pugni che "rompono i denti"; "emissicius", che si manda alla scoperta di qualcosa e perciò, riferito agli occhi, curioso, da spia); superlativi iperbolici e ridicoli ("ipsissimus", stessissimo; "occisissimus", uccisissimo).
    11. I giochi di parole, identificazioni scherzose (ad es. "Ma è forse fumo questa ragazza che stai abbracciando?" "Perché mai?" "Perché ti stanno lacrimando gli occhi!" Asin.619).
    12. i doppi sensi, soprattutto a sfondo sessuale. 
    13. I "numeri innumeri", gli "infiniti metri", la predilezione per le forme "cantate". Ne deriva uno stile è vario e polifonico. P. non dipende esclusivamente dallo stile di alcun modello e anzi, come già detto, dà sfoggio di ampia originalità: ristrutturazione metrica, cancellazione della divisione in atti, completa trasformazione del sistema onomastico.
    Malgrado ciò, la lingua di Plauto ha una certa raffinatezza, come quella che si udiva nelle discussioni del Senato, nelle assemblee del popolo e dei tribunali, più fine della parlata popolare, ma schietta e diretta. Non dimentichiamo che gli spettatori romani parlavano il latino piuttosto bene e pure il greco, visto che l'alfabetizzazione del popolo era equivalente a quella odierna. Poi col cristianesimo le scuole chiusero e la gente dimenticò non solo il greco ma pure il latino, dando luogo a un guazzabuglio di lingue volgari diverse.

    Plauto dà spazio a musica e canto, due terzi dei versi erano accompagnati dal suono del flauto, mentre nelle commedie di Menandro sono scarse le parti in metri lunghi o in metri lirici. In Plauto troviamo i "cantica", metri lirici cantati e parti in metri lunghi recitati e accompagnati dal flauto. Nella metrica, Plauto è un maestro: mescola metri nelle due forme del "deverbium" (parti recitate senza accompagnamento) e del "canticum" (recitativo accompagnato), liberamente alternate, riscrivendo parti che in Menandro erano destinate solo alla recitazione. Le parti liriche e polimetriche, dai ritmi assai variati, mossi e vivaci occupano circa 3000 versi, per esprimere concitazione ed emotività, come si è fatto e si fa ancora nei films.



    GLI INTRECCI

    Gl'intrecci delle commedie plautine derivano da originali greci, complicati ma ripetitivi. 16 su 20 presentano la stessa situazione di base: l'amore ostacolato di un adulescens per una giovane cortigiana: l’ostacolo è la mancanza di denaro (l’adulescens dipende economicamente dal padre) per ottenerne i favori o per "riscattarla". Può essere innamorato anche di una fanciulla onesta ma senza dote, e, in questo caso, gli ostacoli sono gli impedimenti sociali che ne derivano. L’adulescens lotta per far trionfare l’amore contro un antagonista, padre, lenone, miles gloriosus, o mercenario che sia.

    Come aiuto ha un amico, un vecchio comprensivo o un parassita, ma, più di ogni altro, il "servus callidus" (scaltro). Spesso la commedia si risolve per gli inganni organizzati di quest'ultimo per ingannare il padrone e carpirgli il denaro necessario all’adulescens. Ogni commedia è a lieto fine: i giovani vengono perdonati dai padri, che si riconciliano anche con i servi; i danni e le beffe restano insomma ai personaggi esterni alla famiglia, quali il miles e il lenone. Spesso si sposano in seguito all' "agnizione" o "riconoscimento", tipo la ragazza era nata libera da genitori benestanti, ma esposta o rapita dai pirati. In questo modo vivono l'amore e la speranza giovanile di un mondo migliore, ma non si intaccano i valori indiscutibili della famiglia e delle classi sociali.



    I PERSONAGGI


    "Musas plautino sermone locuturas fuisse, si latine loqui vellent." ("Se le Muse avessero voluto esprimersi in latino avrebbero parlato con la lingua di Plauto): così Quintiliano, nella sua "Instituto oratoria", ci tramanda il giudizio critico di Elio Stilone, filologo latino del II sec. a.c. .

    I personaggi di Plauto come abbiamo detto non sono caratteri individuali ma maschere fisse,  per questo già noti al pubblico come si presentano sulla scena: anche i nomi propri ribadiscono il loro ruolo. tipo:
    • il servus callidus,  servo astuto e fedele al padroncino, che aiuta con gli intrighi a realizzare il desiderio d’amore; 
    • l’adulescens, o attor giovine, sempre innamorato e con poche risorse, economiche e intellettuali,
    • il senex avaro e immorale; 
    • il lenone, avido e senza cuore,
    • la meretrix, ossia l’etera oggetto del desiderio: in genere superficiale, calcolatrice, e con poco cervello
    • oppure la fanciulla innocente rapita e costretta
    • il parassita, uno spiantato disposto a tutto pur di ottenere un pasto gratuito
    • il miles, smargiasso e vanesio.
    che insieme ripropongono i soliti schemi:

    1. lo scontro fra il senex e l’adulescens per la conquista del denaro e della donna amata: il denaro per riscattare la ragazza, che nella maggior parte dei casi è alle dipendenze di un lenone che, insieme al senex, è l’oppositore del giovane; 
    2. il giovane è spalleggiato dal servus;
    3. il lieto fine con il coronamento del sogno d’amore del ragazzo.

    Se la trama è vecchia gli inganni, le beffe, gli scambi di persona, gli equivoci e i riconoscimenti sono però nuovi e vari. Frequente l’agnizione o riconoscimento, che permette lo scioglimento dell’intreccio proprio quando le cose volgono al peggio: per esempio l’etera è una fanciulla di nobili origini e che appena nata era stata esposta con alcuni oggetti, che servono al suo riconoscimento.

    Il vero protagonista della commedia però è il servus: da lui dipende la soluzione dell’intreccio, grazie ai suoi colpi di genio, padrone assoluto della scena: il destino dei personaggi dipende da lui, persino quello del dominus, che nonostante le terribili minacce rivolte all’indirizzo delle schiavo, è da questo tenuto sotto scacco.

    Se a ciò si aggiunge che anche l’adulescens inganna il padre impunemente, allora in ogni commedia plautina si assiste a una sorta di rovesciamento carnevalesco della realtà sociale in cui i servi trionfano sui padroni, i padri insidiano le donne dei figli, persone libere sono trattate come schiave, i figli prevalgono sui genitori, insomma un vero e proprio mondo alla rovescia in cui gli anelli più deboli della catena sociale, servi e giovani, diventano i trionfatori. L'inconscio con le sue istanze libertarie trova così un modo di espressione in cui il popolo può lasciarsi andare: è la catarsi.
    Frequenti i riferimenti ad usi e costumi romani: ad es., nelle similitudini e nelle metafore di tipo militare: il servo presenta spesso la sua lotta contro i suddetti "antagonisti" come una battaglia o una guerra in cui egli fa parte del generale vittorioso, senza però mai sfiorare i grandi avvenimenti dell’epoca: Canne, Zama, le guerre contro la Macedonia, la Siria, l’Etolia. Plauto lasciava fuori la realtà e il pubblico con lui.

    Tutta l'arte teatrale successiva risentirà di Plauto, da Moliere a Goldoni, a Scarpetta, al Barbiere di Siviglia rossiniano, e un po' anche in Shakespeare, come nel Mercante di Venezia, dove l'amore trionfa grazie alle
    astuzie del servo o del barbiere, o dell'amico, e i giovani si sposano ingannando il vecchio avaro e libidinoso.




    LE OPERE


    AMPHITRUO  (Anfitrione)

    la storia narra di Anfitrione e del suo servo Sosia (da cui il termine omonimo, usato come doppio identico), i quali partono da Tebe in guerra contro i Teleboi. E' l’unica commedia a soggetto mitologico: Giove, invaghitosi di Alcmena, le si presenta sotto le spoglie del marito Anfitrione e trascorre con lei una notte d’amore. Mercurio accompagna Giove e sta di guardia, assumendo le sembianze di Sosia. Mentre Giove giace con Alcmena, ritorna però Anfitrione, che manda Sosia alla reggia per avvertire del suo arrivo, ma qui s'incontra con Mercurio che ha le sue stesse sembianze. Da questa situazione nascono una serie di comici equivoci. Sosia ha una crisi d'identità, perchè Mercurio quasi lo convince di non essere Sosia.

    Sosia comincia a dubitare del proprio essere e si chiede: 

    - chi è lui, lo schiavo arrivato dal porto alla casa di Anfitrione;
    - dove sono morto? Se costui ha la mia imago, significa forse che è il mio fantasma e che io sono morto?
    - dove sono stato trasformato? Pensa d'essere oggetto di una stregonera che ha mutato il suo aspetto
    c’è un altro che ha preso il suo posto... ma
    - ci sarà ancora un padrone che lo attende presso le navi?
    - forse no, ma è meglio: non essere più Sosia potrebbe dire non essere più schiavo.
      Sosia ironizza sulla controfigura che indossa la sua maschera immaginando che gli venga tributato da vivo un onore che nessuno gli renderà da morto, perché schiavo e non nobile.
      Successivamente arriva Anfitrione, che non crede al racconto di Sosia, trova Alcmena, vittima dell'inganno, e fra i due nasce un diverbio che dura fino al ritorno di Giove. Il povero generale non sa che fare, quando  un'ancella di Alcmena gli racconta che la donna ha partorito miracolosamente due gemelli, uno dei quali tanto forte da uccidere due serpenti; La vicenda si conclude con il disvelamento finale ed il tipico deus ex machina: Giove infine appare nel suo vero aspetto, confessa l'adulterio e spiega come si sono svolti i fatti dicendo che dei gemelli uno, Ercole, è suo figlio, l'altro, Ificle, è figlio di Anfitrione, così, si fa per dire, sono tutti soddisfatti.

      Il tema greco dell’amore ricorre spesso nelle commedie plautine, una compulsione e una forza che non lascia scampo né agli uomini né agli Dei, perchè Cupido si sa, colpisce chi vuole. Ma anche questo a volte è comico, per il tono elegiaco dell'ignorante che piazza termini a sproposito, o il rozzo spasimante che parla della sua brama sessuale in termini ridicolmente romantici. Oppure per il marito cornuto che deve sottostare agli Dei come i seri ai padroni, però gli Dei pagani sanno essere riconoscenti dei sacrifici, ripagando direttamente in vita.



      ASINARIA  (La commedia degli asini)

      Il giovane Argirippo è innamorato della cortigiana Filenio, figlia dell’avara Cleareta che pretende in giornata la somma di venti mine, altrimenti darà la figlia al rivale Diabolo. Filenio però è anche desiderata dal padre di Argirippo, che incorre così nelle ire di sua moglie. Sarà lo stesso padre a venire in soccorso di Argirippo, incaricando due servi di casa di procurarsi il denaro a danno della sua ricca e avara moglie. Uno dei servi fingerà di essere l’amministratore della padrona e riuscirà a riscuotere le venti mine che un mercante deve a quella per l’acquisto di certi asini. La commedia [dall' "Onagos" di Demofilo] è giunta assai mutila e con un certo numero di contraddizioni interne.



      ALULARIA  (La commedia della pentola)

      un ricco ed avaro signore, Euclione, ha nascosto in una pentola il tesoro di casa, da lui improvvisamente ritrovato, e per avarizia vive comunque nella più squallida povertà. Per timore che gliela possano rubare, egli la nasconde nel tempio della Buona Fede e successivamente nel bosco di Silvano. Ma Strobilo, servo del giovane Liconide, lo spia e se ne impadronisce. Euclione ha una figlia che vuole sposare con il ricco e anziano Megadoro, ma il giovane Liconide ne è innamorato e ricambiato. Il vecchio è fuori di sé dalla disperazione, tanto più che Liconide confessa di aver messo incinta Fedria, sua figlia. Qui la commedia si interrompe, ma la conclusione è scontata: in cambio dell’oro, Euclione concede la mano della figlia a Liconide, che a sua volta darà la libertà al servo Strobilo.
      L’originale greco è ignoto, ma è probabile che fosse una commedia di Menandro in cui l’avaro aveva nome Smicrine.



      BACCHIDES (Le Bacchidi)

      Deriva dalle "Evantides" di Filemone o da "Il doppio inganno" di Menandro. Due sorelle gemelle sono cortigiane, entrambe chiamate Bacchide, vivono l’una a Samo, l’altra ad Atene. Il giovane Mnesiloco, di passaggio a Samo, s’innamora della prima Bacchide, di cui si impadronisce tuttavia un ricco miles, che la conduce con sé ad Atene. 

      Mnesiloco dà incarico di recuperarla all’amico Pistoclero, che dopo averla trovata si fa sedurre dalla seconda Bacchide. Mnesiloco, che crede di essere stato tradito dall’amico, dà al servo Crisalo l’incarico di trovare il denaro per riscattare l’amata. 
      Mnesiloco e il suo amico Pistoclero per avere il denaro con cui riscattare una delle sorelle da un prestito che la tiene legata al soldato Cleomaco, si servono dunque dell'astuto servo di Mnesiloco, Crisalo, che raggira per ben due volte il padre del giovane per ottenere la somma. Alla fine i severi padri dei giovani, Nicobulo e Filosseno, accondiscendono agli amori dei loro figli e anzi paiono cedere essi stessi alle grazie delle due avvenenti cortigiane.

      Il servo Crisalo, ingegnoso e scaltro, si rende comico nella glorificazione di se stesso. Ad esempio nel descrivere le modalità della propria impresa la paragona all’impresa con cui i Greci sottomisero la città di Troia:
      a. gli Atridi hanno conquistato la città di Priamo dopo anni di assedio e con un immenso esercito? Lui ha fatto di meglio perché è riuscito a impossessarsi dell’oro del vecchio senza l’aiuto di alcuno e in pochissimo tempo.
      b. Lo stratagemma che ha escogitato è paragonabile a quello escogitato da Ulisse, quindi Crisalo si pone sullo stesso piano.
      c. le donne troiane intonarono un triste compianto funebre su Pergamo un tempo superba e ora ridotta  a un  cumulo di macerie? Lui lo intonerà per il vecchio che sta per essere spogliato del suo oro.



      CAPTIVI  (I prigionieri)

      è l'unica commedia senza vicende amorose. Durante la guerra tra Elide ed Etolia, un ricco proprietario terriero dell'Etolia, Egione, scopre che il figlio è stato fatto prigioniero. Compra così molti Elei per uno scambio, tra i quali anche Filocrate, figlio di un latifondista Eleo, con il servo Tindaro, che hanno tuttavia deciso di scambiare le parti. Egione decide di mandare il servo per chiedere del figlio, ma credendo di inviare in Elide il servo, manda invece il padrone. Scoperto l’inganno, getta in catene il povero Tindaro. Ma Filocrate ritorna con il figlio di Egione ormai libero; in aggiunta, si scopre che anche Tindaro è figlio di Egione, rapito in tenera età e venduto come schiavo in Elide. "Captivi" è una commedia diversa, priva di vicende amorose e fondata sul tema dell’amicizia e della lealtà e non vi compare alcuna donna.



      CASINA  (La ragazza dal profumo di cannella)

      il tema è il contrasto tra un giovane e un vecchio (Lisidamo, padre del giovane, un senex libertino) che s'innamorano della stessa ragazza, Casina, una trovatella raccolta in casa da Lisidamo e da sua moglie Cleostrata. Essi hanno indotto, l’uno il proprio fattore, l’altro il proprio scudiero, a chiedere la mano della fanciulla, per poterne poi essi stessi disporre. Lisidamo, vistasi intralciare la strada dal figlio, lo spedisce all’estero, ma la moglie del vecchio, che ha capito, prende le parti del figlio assente. Poiché Lisidamo e sua moglie non riescono ad accordarsi, decidono di ricorrere alla sorte che favorisce il fattore. Si preparano le nozze, ma in luogo di Casina viene presentato come sposa Calino, lo scudiero, travestito da donna, che, approfittando dell’oscurità della stanza in cui viene condotto, bastona il fattore e Lisidamo. Naturalmente il conflitto si risolve al favore del giovane, a causa anche della ingegnosa opposizione di Cleostrata, che in questa commedia incarna la figura della uxor morosa ("moglie scorbutica, intrattabile").
      Casina è tra le commedie più "libere", più comiche e più riuscite commedie. Deriva da una commedia di Difilo, "Clerumenoe", cioè "I sorteggianti".



      CISTELLARIA  (La commedia della cesta): 

      Il giovane Alcesimarco ama Selenio, trovatella allevata da una cortigiana; ma il padre gli impone di sposare un’altra ragazza, figlia del vicino Demifone, a sua volta alla ricerca di un’altra figlia avuta molti anni prima da una donna e abbandonata in una cassetta con dei contrassegni. Selenio rivolgendosi alla compagna e cortigiana Ginnasio, le confida la sua pena d’amore, che le consuma il cuore come un morbo dal quale dispera di poter guarire, perché non esiste medico che possa curare un simile male. 
      Alcesimarco intanto, tenuto lontano dalla sua Selenio perché il padre vuole costringerlo a sposare una ragazza di buona famiglia, sfoga nel canto tutta la sua infelicità. Infine si scopre che la ragazza abbandonata è Selenio, che ora Alcesimarco può sposare con l’assenso del padre. Nonostante una lunga lacuna (più di seicento versi) l’intreccio di questa commedia è abbastanza chiaro. L’originale greco sembra di Menandro.



      CURCULIO  (Gorgoglione, propriamente verme roditore del grano)

      Curculio (tradotto anche in Pidocchio) è un parassita che aiuta il suo protettore, il giovane Fedromo, innamorato della cortigiana Planesio, a coronare il suo sogno d'amore, cercando di riscattarla dal lenone Cappadoce. Il parassita, che veste anche la parte del "servus currens", scopre che un miles ha già comprato la ragazza, depositando presso un banchiere la somma, che verrà pagata a chi presenterà una lettera sigillata con l’anello del soldato. Curculio, travestito da soldato, si impadronisce ai dadi dell’anello, confeziona una falsa lettera e riscatta la ragazza.
      Nel frattempo, sul palcoscenico sale l’impresario della compagnia recitante, timoroso di non rivedere più il vestito che ha prestato a Curculio. Sopraggiunge furibondo il soldato, ma Planesio identifica nell’anello del miles quello che era solito portare il padre, dal quale era stata un giorno rapita: il soldato viene riconosciuto come suo fratello, e Fedromo può felicemente sposare la donna.
      La commedia prende il titolo dal parassita protagonista Gorgoglione, d’insaziabile voracità: il "curculio" è, infatti, il verme roditore del frumento. Il "Curculio" contiene, inoltre, la famosa "serenata dei chiavistelli " (atto
      I, scena III), che il giovane Fedromo rivolge alla porta dell’amata, perché dischiuda i suoi battenti.
      La serenata ai chiavistelli è una variante di un tipo di componimento noto alla lirica greca, il paraklausithuron, una composizione assai ricorrente nella letteratura greca e latina e consiste in un lamento che un personaggio rivolge alla porta chiusa dell’amata.
      Un’altra celebre variazione sul tema è quella proposta da Properzio: a prendere la parola è addirittura la porta, che si lamenta dei turpi costumi della nuova padrona di casa, che la costringono ad assistere all’indegno spettacolo di giovani che litigano, schiamazzano o piangono rivolgendosi a lei, la porta, costretta a sopportare tutto questo senza poter battere ciglio, lei che un tempo era appartenuta alla dimora di un illustre condottiero carico di trionfi.
      Nel "Curculio" poi, l'omonimo protagonista, egli stesso greco, sta attraversando una via e gli danno fastidio questi Greci che hanno invaso le vie della città e vanno in giro col capo coperto, carichi di libri, confabulando fra loro e affollando le osterie in cerca di chi possa offrire loro in bicchiere di vino. Plauto sfrutta a fini comici una certa ostilità nei confronti dei Greci, tipica di una parte della società romana e che aveva trovato portavoce in Catone. Plauto conia addirittura un verbo, "pergraecari", che significa più o meno "gozzovigliare alla greca", vivere in modo dissoluto, proprio come farebbero i Greci.



      EPIDICUS  (Epidico)

      Epidico è un servo che, con la sua scaltrezza, permette al suo padroncino Stratippocle di sposare una suonatrice di cetra. Non manca nella commedia il riconoscimento di una sorella di Stratippocle, una prigioniera conosciuta dal giovane in guerra.
      Il giovane Stratippocle s'innamora in due tempi diversi di due cortigiane, affidando al "servus" Epidico l’incombenza di trovare ogni volta il denaro necessario a riscattarle. Epidico riesce ripetutamente ad ingannare il vecchio Perifane, padre di Stratippocle, carpendogli il denaro di cui ha bisogno. Ma quando i suoi raggiri stanno per essere scoperti, una delle due ragazze viene riconosciuta figlia di Perifane e sorella di Stratippocle, che ripiega dunque sull’altra cortigiana mentre Epidico viene affrancato per meriti d’ingegno.
      L’intreccio è più complicato del solito. Ma l’interesse della commedia sta soprattutto nella figura d’Epidico: il più abile, astuto, diabolicamente scaltro dei servi che il teatro abbia mai dato.



      MENAECHMI  (I Menecmi)

      Si racconta di due fratelli gemelli (Menecmo e Sosicle), nativi si Siracusa, che hanno vissuto in famiglie separate e casualmente s'incontrano, tipica commedia degli equivoci dovuti a scambio di persona.  Uno dei due, in occasione di una solennità, viene condotto a Taranto dal padre, l’altro rimane a casa con il nonno. Nella confusione della festa, il ragazzo si smarrisce, e il padre, dopo averlo cercato per giorni, non sopravvive al dolore della perdita. 
      Il fanciullo sperduto incontra un mercante di Epidamno che lo adotta e lo conduce con sé. Il nonno, addolorato per la perdita del figlio e nipote, dà al gemello sopravvissuto il nome del fratellino scomparso, Menecmo. L’altro intanto si è fatto uomo e ha sposato una ragazza di buona famiglia, ricca ma gelosissima; ha intrecciato una relazione con la cortigiana Erotio, alla quale ha regalato un manto sottratto al guardaroba della moglie.
      La vicenda si svolge ad Epidammo, dove in casa di Erotio si sta preparando un banchetto cui la donna intende invitare Menecmo e il suo parassita. Il cuoco della ragazza, uscito per fare spesa, incontra Menecmo II, il quale non ha mai interrotto le ricerche del fratello scomparso ed è giunto occasionalmente a Epidamno. Il cuoco, scambiandolo per Menecmo I, gli rivolge la parola. Di tutto il discorso però comprende assai poco, al punto da convincersi che il solo scopo dello sconosciuto è di attirarlo in casa di una cortigiana.
      Si decide a seguirlo in casa di Erotio, e poiché la donna lo accoglie con affettuosa confidenza, crede di aver fatto colpo su di lei e lo invita a pranzo.
      Gli equivoci vanno a ripetizione, a pranzo Erotio chiede a Menecmo II di far apportare modifiche al manto e quello acconsente, pensando sia il compenso che chiede da lui e si reca a farlo aggiustare. Uscito di casa, con il capo ancora incoronato dalla corona conviviale, Menecmo II viene scorto da Poeniculus, che crede di trovarsi di fronte Menecmo I, colpevole di essersi goduto il pranzo senza invitarlo. Deciso a vendicarsi, rivela alla moglie e al suocero la tresca di Menecmo I; questi, inconsapevole di ciò che lo attende, viene assalito dalla moglie, che pretende la restituzione del manto.
      Menecmo I, sperando di riportare la pace in famiglia, si reca da Erotio per farselo restituire; la cortigiana, convinta che voglia prenderla in giro, lo caccia in malo modo, affermando di avergli consegnato il mantello poco prima.
      Torna Menecmo II che, fatto aggiustare il manto, torna da Erotio, ma viene assalito dalla moglie di Menecmo e dal padre di questa. Alle disperate proteste di Menecmo II, che cerca di dimostrare la propria identità, nel suocero comincia a farsi strada il pensiero che il genero sia impazzito. Quando Menecmo II si accorge che nessuno gli crede e che il suocero minaccia di farlo legare, simula un attacco di pazzia furiosa e, fingendo di sentire delle voci divine che gli impongono di cavare gli occhi alla moglie e di fare a pezzi il suocero con l’ascia, mette in fuga entrambi.

      Le rocambolesche situazioni si succedono in un’irresistibile tensione comica. Quando già i due Menecmi sono ritenuti pazzi e ci si rivolge ormai ai medici, essi si trovano l’uno dinanzi all’altro davanti alla casa di Erozio e tutto si chiarisce. La lunga serie di peripezie rende questa commedia tra le più animate del teatro classico: un susseguirsi ininterrotto di saporose battute, di botte e risposte, di capovolgimenti di situazioni, senza un solo attimo di stasi. 
      Benché non si conosca l’originale greco da cui essa sia derivata, si sa che una non piccola schiera di commediografi greci Menandro, Antifane, Posidippo, s’ispirò a questo motivo dell’identità di due persone. Del resto, il motivo non è nuovo neppure in Plauto: si pensi solo al Mercurio-Sosia e al Giove-Anfitrione dello stesso Amphitruo. Ma in tempi passati vi si è ispirato più volte il cinema americano.



      MERCATOR  (Il mercante): 

      stesso tema di Casina con uguale epilogo. Un giovane (Carino) e il padre del giovane (Demifone) si invaghiscono della stessa ragazza, una bella schiava, Pasicompsa, che Carino ha condotto da Rodi dove si era recato per commercio. Demifone, che ha avuto un sogno premonitore, fa comprare al porto la fanciulla dall’amico Lisimaco, che la dovrà custodire in casa sua per un giorno, profittando dell’assenza della moglie Dorippa. Ma questa ritorna, l’equivoco deve essere per forza spiegato e il vecchio Demifone cede il posto al figlio. Alla fine le cose si mettono a posto e si suggerisce una scherzosa legge per i vecchi, imponendo a coloro che hanno compiuto 60 anni, siano sposati o scapoli, di non impelagarsi in avventure amorose.
      Deriva dall’ "Emporos" di Filemone. 



      MILES GLORIOSUS  (Il soldato spaccone)

      Il soldato Pirgopolinice, millantatore e spaccone, nonchè grande libertino, viene beffato da un suo servo, l'ingegnoso Palestrione, che riesce a far ricongiungere il suo ex padroncino (Pleusicle) con la ragazza amata (Filocomasio).  Il primo atto ha lo scopo di presentare il personaggio: il miles si pavoneggia come un divo e si lascia lusingare dal parassita, che per guadagnarsi da vivere, lo copre di lodi, inventando gesta belliche e amorose che il protettore non ha mai intrapreso. Secondo lui  Pirgopolinice sarebbe capace di sfondare la pelle di un elefante con un pugno.

      Il giovane Pleusicle ama la bella Filocomasio, una giovane etera in possesso di Pirgopolinice, che vive in un appartamento del soldato fatto sorvegliare a Sceledro. Durante un’assenza del giovane, la ragazza era stata rapita dal "miles" Pirgopolinice, soldato smargiasso e fanfarone, a cui il parassita Artotrogo fa credere di essere irresistibile con le donne. Palestrione, servo di Pleusicle, parte per avvertire il padrone di ciò che è accaduto, ma viene rapito dai pirati e finisce per essere donato proprio al miles.
      Pleusicle, avvertito di nascosto da Palestrione, si fa ospitare da Pericleptomeno, un amico del padre, in una casa contigua a quella stessa del miles.
      Palestrione pratica una breccia nel muro di confine tra le due case, consentendo agli amanti di incontrarsi. Ma Sceledro, servo del miles, li scorge mentre si baciano, e costringe Palestrione a escogitare una serie di inganni per salvare i due amanti, fingendo che esista una gemella di Filocomasio.
      Sceledro, vedendo che Filocomasio non lo riconosce, teme di aver perduto il possesso di sé, e Palestrione rincara la dose: e se qualcuno li avesse immutati, cioè trasformati a sua insaputa, così da non essere più riconoscibili alle persone note?
      Palestrione, poi, organizza una feroce beffa ai danni di Pirgopolinice: gli fa credere che la moglie di Periplectomeno sia pazzamente innamorata di lui; il miles, così, licenzia in un sol colpo Filocomasio e Palestrione, dando loro la libertà, ma, entrato nella casa di Periplectomeno per un appuntamento galante, trova un marito furibondo e i servi pronti a fustigarlo ignominiosamente come adultero.

      Gran parte della trama proviene dalla commedia greca "Alazon" ("Il vanaglorioso"), ma è probabile che P. abbia largamente applicato la "contaminatio", assumendo da un altro dramma il motivo del foro nel muro e della sorella gemella.
      Secondo alcuni studiosi è la caricatura non tanto del soldato romano quanto del soldato mercenario greco. Questi infatti era una figura sconosciuta a Roma, dove all’epoca di Plauto il servizio militare era dovere di ogni cittadino. Il miles è gloriosus, cioè fanfarone, che si vanta di imprese mai compiute, spacciandosi per gran seduttore: un conquistatore immaginario di nemici e di donne, ma sempre smentito dai fatti. Ridendo di questi milites, i romani si sentivano orgogliosi del proprio valore militare..



      MOSTELLARIA  (La commedia del fantasma)

      Mentre il padre Teopropide, un ricco mercante di Atene, è assente da lungo tempo per affari, il giovane Filolachete si dà alla pazza gioia con l’amico Callidamate, assistito dal servus Tranione, che ha anche dovuto procurarsi un prestito per riscattare la bella Filemazio, una cortigiana amata dal padroncino.

      Torna inaspettatamente il padre, mentre è in corso un gran banchetto. Tranione spranga la porta, e per impedire a Teopropide di entrare inventa che la casa è abitata da un fantasma. Giunge nel frattempo un usuraio per riscuotere un credito, e Tranione è costretto ancora a mentire, affermando che il denaro è servito a comprare un’altra abitazione. Teopropide chiede di vederla, e il servo escogita nuovi geniali trucchi per mostrargliela, ingannando anche il vero proprietario. Infine la verità viene a galla, e solo l’intervento di Callidamate che promette di soddisfare personalmente a ogni debito, salva Tranione dall’irosa furia di Teopropide.
      Si pensa che la "Mostellaria" derivi dal "Phasma" di Filemone o di un autore minore, Teogneto.



      PERSA (Il persiano)

      E' la storia di un astuto servo (Sagaristione), che, travestito da persiano, libera una ragazza (Lemniselenide) dal lenone Dordalo, per favorire i desideri di un amico, anch'egli servo (Tossilo). La caratteristica più importante di questa commedia è che i protagonisti sono eccezionalmente solo dei servi (oltre al lenone infine beffato).
      Dunque il servo Tossilo riscatta dal lenone Dordalo una ragazza che ama. Poi traveste da orientale la figlia di un parassita e finge di venderla allo stesso Dordalo, che cade nel tranello. La somma ricavata serve a cancellare il debito iniziale. Il parassita trascina in tribunale il lenone, reo di aver comprato una ragazza libera. La commedia si conclude con una grande festa, durante la quale Dordalo viene beffato e bastonato per la sua insipienza e Tossilo può giustamente trionfare. E', per definizione, la "commedia degli schiavi", dei quali Plauto ha saputo ritrarre linguaggio, licenziosità e malizie.



      POENULUS  (Il cartaginese)

      Agorastocle, un giovane cartaginese rapito all'età di sette anni, vive in Etolia, adottato da un ricco signore. Accanto a lui abitano due sorelle, anch'esse rapite da piccole e ancora sfruttate dal loro padrone. Il giovane si innamora di una delle due sorelle, Adelfasio, ma se il giovinetto, innamorato di Adelfasio, è ricco, le due fanciulle conducono invece una vita misera, in potere dello sfruttatore Lico. Una ben architettata trappola, ordita da Milfione, servo di Agorastocle, e recitata dal villico Collibisco, offre il modo di citare lo sfruttatore in tribunale. Giunge frattanto da Cartagine, in cerca delle figlie scomparse, il padre Annone: egli si incontra con Agorastocle ed è condotto da questi in casa di Lico, dove può riconoscere e riabbracciare le figliole. Alla fine interviene il cartaginese Annone che riconosce in Agorastocle suo nipote e nelle sorelle le sue due figlie rapite. Agorastocle si sposa così con la cugina Adelfasio.
      Modello della commedia è stato il "Carchedonios" di Menandro. Una prima redazione del Poenulus doveva aver titolo "Patruos" (Lo zio). E' interessante l'uso della lingua punica da parte del giovane protagonista.


      Tutto inizia nel disordine e nell'equivoco, ma gli eventi non sono così brutti come appaiono, perchè c'è una sorte nascosta e benevola che rimette in sesto le cose. E' importante quindi ricordare che niente riuscirebbe al servo, o alla sua astuzia, senza l'ausilio determinante della "fortuna" (Tyche), che ne contempera il merito del successo, contribuendo  a "rimettere le cose a posto". Tutto si sana dunque senza violare i costumi o il sistema cui la società è avvezza.



      PSEUDOLUS  (Pseudolo)

      Pseudolo è il nome dello schiavo protagonista, assieme al lenone Ballione, della commedia. Quest'ultimo ha pattuito di cedere ad un soldato macedone per venti mine la cortigiana Fenicia, di cui è innamorato Calidoro, padroncino di Pseudolo. Lo scaltrissimo servo riesce con i suoi raggiri a beffare il lenone e a consegnare la ragazza amata al suo padrone.

      Dunque Calidoro ama Fenicia, che il lenone Ballione ha già venduto ad un miles per venti mine: quindici anticipate, più cinque che un messo del soldato sborserà entro la sera. Pseudolo si mette all’opera, dopo aver elaborato il piano d’attacco con cui espugnare la casa del lenone, assiste all’arrivo di un personaggio incaricato dal miles di ritirare la ragazza, costringendolo a rivedere i suoi piani. Infatti, il servo plautino, vero deus ex machina dell’intreccio, è anche una figura sovversiva, perché i suoi stratagemmi determinano una sovversione di tutto ciò che è considerato normale: i servi infatti dominano sui padroni e i giovani sui vecchi genitori: tutto il contrario di ciò che accade nella realtà quotidiana, in cui:

      1. i figli scapoli corteggiano le donne

      2. i vecchi lasciano in pace le donne desiderate dai figli;

      3. i figli accettano l’autorità paterna senza drammi, per quanto severa essa sia.
      Pseudolus, riconoscendo il fallimento del suo progetto, si abbandona a una considerazione filosofica sul ruolo preponderante della Fortuna sulle vicende umane, con una riflessione sul linguaggio filosofico, al motivo del contrasto fra sapere umano e sapere divino: l’uomo, finché il suo destino non si compie – ha una grande stima di sé e nutre vane speranze: il povero nella ricchezza, il malato è convinto di guarire, e così via. Con tutto ciò Pseudolo sgomina ogni ostacolo e vince addirittura un’impossibile scommessa con Simia, padre di Calidoro. Ballione perde la ragazza, è costretto a restituire il denaro al messo del miles e a sborsare per giunta altre venti mine a Simia per un'altra scommessa perduta.



      RUDENS  (La gomena)

      in questa palliata di ambientazione marinaresca due cortigiane del lenone Labrace, naufragano durante una tempesta di mare e si rifugiano in un tempio, inseguite dal lenone. Un pescatore di nome Gripo, servo di Damone, che poi risulterà essere padre di una delle due ragazze, trascina con una gomena (rudens) un baule, preso nella rete in mare. Le ragazze scoprono, dai segni nel baule, che sono libere, quindi non di proprietà del lenone.
      Questi infatti, dopo aver promesso la bella fanciulla ad un giovane innamorato di lei, da cui aveva ricevuto un lauto anticipo, era fuggito durante la notte per sfruttare altrove la ragazza. Ma la tempesta ributtò sulla riva i partenti. La ragazza si rifugia con la propria ancella nel tempio di Venere, a poca distanza dal quale vive un uomo a cui un tempo è stata rapita la propria figlia. Segue naturalmente il riconoscimento: la ragazza che, sottratta all’avido lenone, può finalmente riabbracciare il padre e sposare il suo innamorato.

      Derivata da una commedia di Difilo, quest'opera ha una scena diversa, anziché la solita piazzetta su cui s’affacciano le case dei personaggi, ha una spiaggia battuta dal mare in tempesta, e un ambiente di pescatori che vivono di stenti, com’è detto nel coro ch'è al principio del II atto, l’unico coro della Commedia latina. Quanto all’atmosfera, il comico è quasi del tutto assente nel "Rudens", in cui predomina al contrario un tono tra il patetico e il solenne, che sfiora in qualche punto la tragedia.



      STICHUS  (Stico)

      è una commedia sulla fedeltà coniugale, o almeno passava per tale. Due spose, Panegiride e Panfila, che hanno i mariti (Epignomo e Panfilippo, tra di loro fratelli) in viaggio oltremare per ricostituire un patrimonio in rovina, da tre anni non hanno più notizie di loro. Il padre vorrebbe farle risposare, ma esse, novelle Penelopi, resistono alle tentazioni, e c'è pure un parassita, Gelasimo, che da tre anni patisce la fame.
      Loro non cedono e alla fine giunge in porto la nave dei due uomini, carichi di merci e di ricchezze. Assieme a loro c’è anche il servo Stico, che organizza grandi festeggiamenti. I due mariti si rappacificano con il vecchio suocero, soddisfatto del successo dei loro affari. Solo il parassita non riesce a farsi invitare da nessuno, e comicamente continua a restare deluso nella sua ormai annosa brama di cibo. "Stichus" deriverebbe dall’ "Adelphoe" di Menandro.



      TRINUMMUS  (Le tre monete)

      Mentre il vecchio Carmide è in viaggio d’affari, suo figlio, un ragazzo scialacquatore (Lesbonico) sperpera il patrimonio paterno e venderebbe anche la casa, ad un altro senex, Callicle, che per fortuna è un leale amico di Carmide, e decide di salvaguardare per il ritorno dell’amico un tesoro segreto sepolto nella casa dal padre del giovane. Nel frattempo un altro giovane, Lisitele, ama la sorella di Callicle, e chiede di poterla sposare pur senza dote: Lesbonico, che è in fondo un giovane di nobili costumi, non può accettare, e decide di affidare in dote alla sorella l’ultima cosa che gli è rimasta, un podere fuori città. Allora Callicle assolda un messo a cui, appunto per tre dracme (onde il titolo della commedia), dà l’incarico di giungere in città fingendo di portare per conto di Carmide una somma, che in realtà Callicle ha prelevato dal tesoro.
      Carmide è inaspettatamente tornato, ed è proprio lui a ricevere il finto messo. Gli equivoci e gli ingiusti sospetti sono dissipati dal commovente incontro fra i due vecchi. La commedia si conclude con due matrimoni: di Lisitele con la figlia di Carmide e di Lesbonico con quella di Callicle. L’originale di Filemone prendeva titolo dal "tesoro" nascosto in casa.



      TRUCULENTUS  (Lo zoticone)

      La commedia, molto lacunosa, prende titolo dal nome del rustico e brutale schiavo Truculento di Strabace, un giovane fattore che è vittima, insieme all’ateniese Diniarco e al soldato Stratofane, della sfrontata cupidigia della cortigiana Fronesio.la protagonista della commedia, che inganna tre amanti, dipinta da Plauto come prostituta rapace e insaziabile, capace però di rendersi conto, in un bellissimo monologo, delle miserie della sua vita. Secondo Cicerone (De senectute 50) Plauto si compiaceva molto, da vecchio, di questa sua commedia, che ricava il titolo da un personaggio secondario, il servo rude e zotico di Strabace, uno degli innamorati della cortigiana.
      L’intreccio si lascia intravedere appena. Fronesio vuol gabellare a Stratofane, come fosse suo figlio, un bambino abbandonato, ma si scopre che quello è invece figlio di Diniarco e di una libera cittadina ateniese.



      VIDULARIA  (La commedia del baule)

      i pochi frammenti della commedia (poco più di 100 versi) parlano di un baule (in latino vidulus), scomparso in mare durante un naufragio e poi ritrovato da un pescatore, che contiene oggetti atti a far riconoscere
      (agnitio) il giovane Nicodemo. Non mancano punti di contatto con la trama della Rudens.





      I PERSONAGGI CLASSICI


      L'ADULESCENS

      giovane innamorato languido e dolente ma incapace di superare gli ostacoli. Il suo linguaggio tocca molto spesso i registri "alti" e patetici della tragedia, naturalmente con effetti comici e parodistici,. Plauto non prende mai sul serio la sua storia né i suoi lamenti d’amore: lo guarda divertito, costringendolo spesso a subire i lazzi spiritosi del servus.



      IL SENEX

      MONUMENTO ALLA COMMEDIA DI PLAUTO (Sarsina)
      Padre severo e perennemente beffato, che cerca inutilmente di impedire i costosi amori dei figli, (come nella "Mostellaria"); ma talvolta è anche un ridicolo e grottesco concorrente dei figli per la conquista della donna desiderata (come nell’ "Asinaria" o nella "Casina"). Nelle vesti dell’amico o del vicino, può essere alleato dei giovani (come nel "Miles gloriosus") oppure fornire un burlesco doppio del senex innamorato (come nel "Mercator"). Sovente ha l’ossessione del denaro. Euclione, dopo aver trovato una pentola d’oro, è ossessionato dal timore di perderla, al punto che, quando Megadoro gli chiede la mano della figlia, egli crede che questi in realtà miri solo alla sua pentola d’oro. Rimanda molto all'Avaro di Moliere.



      LA MERETRIX

      di minore importanza i ruoli femminili, anche perché non è infrequente che la ragazza desiderata non compaia mai in scena (come nella "Casina") o svolga una particina marginale. Il ruolo femminile più importante è quello della "cortigiana", figura sconosciuta in Roma prima che nascesse la palliata (La commedia greca riedita alla romana), e che era invece consueta nel mondo greco. Nella "palliata" plautina possono essere sia libere che schiave, e allora appartenere ad avidi e crudeli lenoni, che le mettono in vendita al miglior offerente. In questo caso il loro più grande desiderio è quello di essere riscattate dall’amante. Naturalmente, l’espediente dell’ "agnizione" può consentire loro il felice passaggio dalla condizione di amanti a quella di spose. Alcune di loro, poi, sono abilissime e sfrontate (come nel "Truculentus"), altre dolci e sensibili (ed è questo il caso più frequente).



      LA MATRONA

      accanto alla figura dell’etera, quella della matrona, madre dell’adulescens e sposa del senex, quasi sempre autoritaria e dispotica, soprattutto se provvista di dote. La donna quando accampa diritti è a dir poco noiosa. Accade che spesso il senex sia vittima delle sue ire furibonde (come nell’ "Asinaria"). Non manca qualche eccezione: la nobile figura di Alcmena nell’ "Amphitruo" o le due spose fedeli nello "Stichus".



      IL PARASITUS

      presente in ben nove commedie di P., il parassita è uno dei tipi più buffi e curiosi della "palliata", caratterizzato dalla fame insaziabile e dalla rapacità distruttiva, spesso fonte di rovina economica per il disgraziato che ha deciso di mantenerlo a sue spese. Esuberante e vitale, il parassita non lesina lodi iperboliche e servizi di ogni genere nei confronti dei suoi benefattori, che naturalmente sono anche vittime delle sue sfavillanti battute, come accade nella famosa scena d’esordio del "Miles gloriosus".
      Anche il parassita, come il miles, allude a una figura assai familiare al pubblico romano: il cliens, o cliente. In questo brano il parassita Gelasimo si incarica di spiegare il significato del suo nome: ridiculus homo, che rappresenta con precisione il suo carattere e lo scopo della sua vita: fare il buffone in cambio di cibo.

      Anche in questo brano si possono cogliere alcuni meccanismi tipici della parodia; uno di questi è l’iperbole: Gelasimo esagera a tal punto la fame da dichiarare di essere figlio della Fame in persona; nessuno d’altra parte potrà mai uguagliare il suo amore filiale, perché se è vero che una madre tiene nel proprio grembo il nascituro per dieci mesi, lui sono più di 10 anni che la porta nel suo ventre. Il brano inoltre offre un esempio di parodia tragica: allude a una situazione tipica della tragedia, in cui l’eroe, oppresso e perseguitato dal destino avverso, innalza un lamento accorato sulla propria sventura.

      Interessante è anche la metafora in cui Gelasimo afferma di essere in vendita con tutti i finimenti: come un cavallo addestrato a ubbidire agli ordini del cavaliere e nutrito per questo con abbondante foraggio.



      IL MILES GLORIOSUS

      come la cortigiana, anche il miles, soldato mercenario al servizio di chi lo paga meglio, era una figura consueta nei regni ellenistici ma sconosciuta in Roma, dove all’epoca di Plauto il servizio militare era dovere di ogni cittadino. Il miles si presenta quasi sempre nelle vesti del "gloriosus", cioè del millantatore, del fanfarone che si vanta di grandi imprese mai compiute, spacciandosi per giunta per gran seduttore: è insomma un conquistatore immaginario di nemici e di donne, prontamente smentito dagli avvenimenti. E’ probabile che i Romani, ridendo di questi milites ellenistici, si sentissero invece orgogliosi del proprio valore militare.



      IL LENO

      anche il lenone, commerciante di schiave e sfruttatore di prostitute, era una figura sconosciuta presso i Romani. Plauto ne fa la figura più odiosa, anche perché costituisce il maggior ostacolo ai desideri del giovane innamorato. Ma nel teatro plautino non esistono personaggi buoni o cattivi, perché non esiste una partecipazione e un coinvolgimento emotivo nelle vicende, già scontate fin dall’inizio: l’odiosità, come l’avidità, sono solo i caratteri fissi che definiscono la maschera del lenone, irrevocabilmente destinato alla sconfitta e alla beffa. Colpisce molto di più, invece, la sua formidabile vitalità, la sua capacità di esser superiore a ogni giudizio morale, come rivela la bellissima gara di insulti che adulescens e servus ingaggiano contro di lui dello "Pseudolus". Ma nonostante i personaggi plautini siano spesso aldifuori della morale, non lo sono gli spettatori, che nonostante le trame siano un deja vu, s'immedesimano nella commedia parteggiando e intervenendo. Faranno altrettanto, su questa falsariga, l'avanspettacolo italiano col suo colloquio col pubblico, dove si prendeva di tutto, dai fischi, alle parolacce, agli apprezzamenti a volte pesanti e ai fiori. E sulla falsariga ancor più farà la Sceneggiata napoletana, che soesso aleggia i personaggi e i colpi di scena plautini.



      IL SERVUS

      la figura più grandiosa, il protagonista, personaggio sfrontato e geniale, spavaldo orditore di incredibili inganni a favore dell’adulescens e contro l’arcigna taccagneria dei senes o l’avidità dei formidabili lenoni. Senza di lui, non ci sarebbe storia; il deus ex machina in effetti è lui. Plauto lo definisce in vari luoghi come un "architetto" (Palestrione, nel "Miles Gloriosus"), un "poeta" (Pseudolo, nello "Pseudolus"), un "generale" (ancora in riferimento a Pseudolo e Palestrione), finendo palesemente per identificarsi nella sua figura. A noi ricorda un po' Arlecchino e Pulcinella, sempre spiantati ma con una lucida visione degli eventi e da un’ironia dissacrante, che non risparmia niente e nessuno, nemmeno l’amato padroncino per il quale il servo rischia ogni volta le ire del vecchio padrone.

      La sua forza è la giocosità creativa delle sue invenzioni, la gratuità un po’ folle e anarchica delle sue scommesse, naturalmente sempre vinte; su di lui incombe perennemente la minaccia delle sferze e delle catene, a cui il servo plautino risponde coi suoi geniali raggiri. Fiero e orgoglioso delle proprie mosse, si autoglorifica spesso, rivolgendosi al pubblico nella posa plateale di chi ambisce a un applauso.

      Plauto ce ne dà un ritratto fisico, una maschera: "rosso di pelo, panciuto, gambe grosse, pelle nerastra, una grande testa, occhi vivaci, rubicondo in faccia, piedi enormi" ("Pseudolus", 1218-1220). Brutto ma intelligente e atuto, di quell'intelligenza e astuzia che nasce dall'esigenza di dover dtrappare la vita brano a brano per sopravvivere, ma con uno spirito e un brio da eroe. Aristotele aveva scritto che gli schiavi sono più vicini agli animali che agli uomini. Il servo plautino, mostruoso nel corpo, dirompente nel linguaggio (spesso osceno e volgare), spudorato negli atteggiamenti, animalesco nei suoi istinti, dimostra di essere anche il più intelligente, e pure anche il più simpatico, quello per il quale il pubblico "tifa" fin dall’inizio.



      IL METATEATRO

      Caratteristica del teatro plautino è la cosiddetta rottura dell’illusione scenica, che si ha quando il pubblico che assiste a uno spettacolo cessa di immedesimarsi nella vicenda rappresentata, perché viene invitato dai personaggi stessi a prendere atto del carattere fittizio dello spettacolo. Ciò accade per esempio quando uno dei personaggi, nel bel mezzo della rappresentazione, si mette a dialogare con il pubblico.

      In genere, infatti, quando assistiamo a un film drammatico, lo spettatore è portato a lasciarsi coinvolgere dalla tensione e dalla forza drammatica della vicenda, a soffrire con i personaggi. Ciò non è altro che il risultato dell’illusione scenica. Per tutta la durata della rappresentazione accettiamo di credere alla veridicità della scena. Questa illusione è legata alla presenza di una quarta parete, cioè di una barriera invisibile che separa il palcoscenico dalla platea. Tutte le volte in cui questa illusione viene meno, come nell’esempio di prima, è come se la parete venisse abbattuta: il pubblico diviene un personaggio del dramma, anche se a un livello diverso da quello in cui si trovano gli altri personaggi: il pubblico è invitato dall’autore, attraverso uno o più dei personaggi del dramma, a riflettere su alcune questioni che non hanno nessuna relazione con la vicenda rappresentata.

      La commedia che più di ogni altra esalta la figura del servus e in cui maggiore è l’identificazione fra servo e poeta è Pseudolo, un nome parlante, che significa ingannatore, e che allude non solo alle sue ingegnose trovate ma anche alla finzione poetica, rendendo palese la sua identificazione con il poeta. In questo modo il poeta, rappresentando il servo, fornisce al pubblico una rappresentazione ideale di sé e chiarisce i principi fondamentale della sua poetica, svelando i meccanismi su cui si fonda la rappresentazione teatrale.

      In rapporto al metateatro sono soprattutto i seguenti elementi presenti nel testo:
       - il fatto che Pseudolo si rivolga direttamente agli spettatori;
       - il riferimento esplicito alla commedia e al suo svolgersi nel tempo;
       - il riferimento alla creatività e alle innovazioni necessarie sulla scena;
       - il riferimento all’incapacità o abilità di chi è in scena.

      Inoltre l’espressione novo modo novom aliquid inventum adferre può essere considerata la legge fondamentale della drammaturgia plautina, il segreto del suo ritmo scenico e verbale che non dà tregua allo spettatore e al lettore.
      L’attore recita due parti: una per il pubblico, come portavoce dell’autore, una per gli altri personaggi che sono sulla scena. A questa situazione viene dato il nome di metateatro.

      Elementi meta teatrali sono assai frequenti in Plauto. Frequenti cioè sono i casi in cui nella commedia, che è ambientata in Grecia, i personaggi fanno esplicito riferimento a elementi della cultura e della società romana: il personaggio parla da romano rivolgendosi a un pubblico romano. 
      Un clamoroso di metateatro nel senso che abbiamo appena indicato, cioè di teatro che medita su se stesso, ci viene offerto dallo Pseudolus.
      Pseudolus ha appena promesso a Calidoro di procurargli il denaro che gli è stato richiesto dal lenone Ballione per il riscatto dell’amata Fenicio. Egli, in realtà, non sa ancora come fare a mantenere la promessa e,rimasto solo, si abbandona a una riflessione che si sviluppa in due monologhi.
      Come il poeta, quando si pone di fronte al foglio bianco, cerca ciò che non esiste in nessun luogo eppure lo trova, trasformando la finzione in verità, così lui diventerà poeta e le 20 mine – che non esistono in nessun luogo al mondo – le farà balzar fuori.

      Ma su che cosa si basa la sua sicurezza? Egli sa solo che ciò che ha promesso accadrà: è infatti legge che il personaggio che si presenta sulla scena rechi in forma nuova una qualche invenzione: se non è capace di farlo, ceda il posto a chi possiede questa facoltà.

      “Ho il sospetto che ora voi sospettiate che io vi prometto simili imprese per divertirvi, fino a portare a termine questa commedia, e che non sia capace di fare quel che v’avevo promesso. Non mi ritratterò. Per altro, che io sappia, quanto al modo in cui io possa riuscirvi, non so ancor nulla di preciso; so soltanto che la cosa mi riuscirà. Chi si presenta sulla scena deve portare, in modo nuovo, qualche nuova trovata; se non ne è capace, lasci il posto a chi ne è capace”.

      Ricorda un po' i Sei personaggi in cerca d'autore di Pirandello, neanche lì l'autore sa cosa accadrà, non gli resta che seguire i suoi personaggi, perchè sarà il loro carattere a determinare gli eventi. Ma in realtà sarà il carattere e l'estro di Pirandello a determinarli sulla scena. Così ora Il servo che deve portare a termine l'opera senza sapere come è Plauto stesso, la cui inventiva escogita situazioni che portano a situazioni successive. Il servo Plauto svela così che alla base dell’intreccio delle sue commedie c’è un inganno, e che il servo è l’artefice principale della beffa; come infatti il servo architetta l’inganno organizzandolo nei minimi dettagli e istruendo i suoi complici su di essi, così il poeta mette in scena la commedia, delineandone l’intreccio e istruendo gli attori. E così la capacità vantata dal servo di trovare soluzioni a vicende ingarbugliate è metafora (traduzione scenica) della capacità inventiva del poeta.



      I DETTI DI PLAUTO

      - Una mente paziente è il migliore rimedio contro le avversità.
      - Dove sono gli amici, là sono le ricchezze.
      - (sulle donne) Pensa a quanto è saggio un topolino: non affida mai la sua vita a un solo buco.
      - La povertà insegna tutte le arti.
      - La merce buona trova facilmente un compratore.



      L'ISCRIZIONE SEPOLCRALE

      L’iscrizione sepolcrale, riportata da Gellio ( III, 3, 14 ), testimonia il vuoto lasciato dalla morte di Plauto sulla scena teatrale romana:
      "Postquam est mortem aptus Plautus, Comoedia luget,
      Scaena est deserta, dein Risus, Ludus Iocusque 
      et Numeri innumeri simul omnes conlacrimarunt"
      "Dopo la morte di Plauto, la Commedia piange, la Scena è deserta, il Riso, lo Scherzo e il Divertimento, i Ritmi innumerevoli si sono messi tutti insieme a piangere”.
      A parte il rilievo dato alla gioiosità della commedia plautina, si sottolinea la straordinaria abilità in campo metrico (numeri innumeri) dell’arte plautina.

      ELOGIA ROMANI

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      ELOGIA COME NOTIZIE

      Gli elogia romani erano appunto elogi funebri di persone decedute, in quel tempo o in tempi precedenti, che venivano incisi sulle epigrafi poste sul monumento funerario o sulle statue dedicatorie.

      Gli elogia sono stati uno strumento di informazione e di propaganda per le aristocratiche familiae romane, ma anche una fonte di informazione per i posteri, cioè per noi. Infatti ci rivelano ad esempio, che Marcus Valerius Maximus (dict.494) (E9), Marcus Furius Camillus (dict.396) (EIO); Caius  Duilius (eo,.260) (EIS); Quintus Fabius Maximus (eo,.233) (El6); Lucius Aemilius Paullus (co,. 182) (E19); Caius Marius (E22); e Lucius Liciuius Lucullus (eos.74) (E26) celebrarono dei trionfi per le loro vittorie
      in guerra.



      IL FORO DI AUGUSTO

      Le fonti informano che Augustus volle il Foro a lui dedicato, il Foror Augusto, e per esso comprò a sue spese la terra dove sarebbero stati costruiti entrambi i templi di Marte U1tore, ed il Foro. I templi furono costruiti a spese dello Stato, ma la terra, la costosissima ed estesissima terra sul colle Palatino venne pagata da Augusto di tasca sua, cosa incredibile ai nostri tempi, o almeno con i nostri politici.

      Sia Svetonio che Diodoro asseriscono che Augusto decretò pure le cose che dovevano essere poste nella struttura, e lo storico suggerisce che Augusto avrebbe avuto un ruolo nella selezione di tutti coloro che dovevano essere onorati con statue poste nel Foro. Svetonio o no, l'imperatore decideva tutto ciò che voleva e uno attento alla propaganda come Augusto di certo non si faceva scappare l'occasione.

      Sicuramente Augusto si coinvolse nell'intero progetto, un po' perchè si interessava continuamente dell'abbellimento di Roma, un po' perchè voleva seguire le orme del venerato zio e come lui fare un Foro dedicato a se stesso, ma soprattutto perchè era molto attento alla propaganda, tristemente memore dell'assassinio di Cesare nonostante fosse molto amato dalla popolazione.
      Augusto sicuramente scelse il disegno architettonico del foro, la sistemazione delle statue del Forum, i templi e pure le iscrizioni e gli Elogia.



      AUGUSTO

      Tutto questo gli fu attribuito dagli storiografi o biografi dell'epoca, come Virgilio. Secondo altri due storici e biografi romani, Marcus Terentius Varro e Titus Pomponius Atticus, avrebbe se non diretto, influenzato la scelta della statuaria e delle iscrizioni del Foro.

      Nel 39 a.c., Varrone completò le sue Imagines, una collezione di 700 ritratti di uomini famosi, sia greci che romani. La collezione includeva ritratti di re e uomini di stato, generali. filosofi, storici, letterati, artisti e chiunque meritasse di passare ai posteri.

      Sotto ad ogni ritratto, Varrone fece scrivere le conquiste del personaggio in un breve epigramma, purtroppo non abbiamo la lista completa degli epigrammi, non essendo sopravvissuta la collezione, si sa solo che tra i personaggi romani vi erano gli Scipios e la famiglia dei Fabii, tutti con la propria statua nel Forum.

      Le biografie di Pomponius Atticus, a imitazione di quelle di Varrone, compilò un album con i ritratti e i relativi epigrammi di 4 o 5 righe ciascuno. Fu l'avvio per i grandi Elogia romani: dalla compilazione di Atticus derivarono tutti gli elogi futuri che presero spunto da quelli. Probabilmente Augusto si sarà ispirato o avrà imitato lo stile di Varro e di Atticus, per comporre gli altri elogi nel Foro.



      VIRGILIO

      Si sa che Augustus aveva letto l'Eneide e che Virgilio aveva letto diversi brani di sue opere all'imperatore, il quale potè rimanerne influenzato. Due passaggi dell'Eneide, uno sul VI libro e uno sul VII, contengono molte similarità con la disposizione del Foro, di modo che Virgilio può essere considerato una fonte per il disegno del complesso.

      Si crede che il disegno del Forum, volto ad onorare l'imperatore, ebbe inizio da una scena del libro VI dell'Eneide, quando si mostra Enea, discendente dal padre Anchise, coi suoi discendenti e o grandi romani del futuro. In questa "Parata di Eroi", Enea riconosce un numero di re albani, incluso Aeneas Silvius, e re Procas.
      Quindi scorge le figure di Romulus, i primi re di Roma, e gli eroi del periodo repubblicano. Tra questi le figure di M. Furius Camillus, L. Aemilius Paullus, i Gracchi, gli Scipios, C. Fabricius Luscinus, Q. Fabius Maximus, e il giovane M. Claudius Marcellus.



      OVIDIO

      Questo è l'ordine esatto che usa Ovidio per descrivere il Forum, visto attraverso gli occhi del Dio Marte che disceso dai cieli, vide Enea e i suoi discendenti, poi vide Romulus, e infine i summi viri con i loro Elogia.

      Ovidio basò la sua descrizione su Virgilio, ma più probabilmente sulle strutture del Foro, che fu aperto 6 o 7 anni prima che egli scrivesse i Fasti, ciò gli dette il tempo di frequentare assiduamente il Foro, con la collocazione delle statue e di quella di Marte sopra al tempio. Nella 'Parata degli Eroi,' Virgilio non cita tutti i nomi degli eroi, ma ne ricorda dei successi. Per esempio, Camillus è ricordato perchè concquistò 7 stendardi, Paullus perchè distrusse Argos e Fabius per le sue tattiche che salvarono lo stato.

      Quando Enea e il suo equipaggio raggiunsero il Lazio, re Latino li ricevette nel suo palazzo. La descrizione di Virgilio della reggia contiene numerosi paralleli col Foro. Nella reggia latina, riceveva i simboli delle sua autorità, incontrava il senato, si eseguivano le cerimonie religiose, e si partecipava ai banchetti sacri, un po' tutte le funzioni che Augusto decretò dovessero avvenire nel Foro. Anche se ci sono somiglianze tra le due strutture, è il disegno del palazzo di Latino e gli oggetti in esso contenuti, che richiamano il Foro di Augusto.

      Nel vestibolo del palazzo di re Latino poi Enea videù le statue degli antenati di Latino, e di altri che avevano combattuto per il suo regno, e c'erano nel cortile le spoglie dei nemici vinti. Questa descrizione ha molte analogie col Foro, dove figure ancestrali, insieme agli antichi re, venivano onorati con statue. Inoltre, entrambe le strutture fungevano da depositi per bottino dei successi militari.

      Si è pensato che Virgilio conoscesse il progetto del Forum, o la costruzione aveva già iniziato prima della morte di il poeta nel 19 ac., ma questa ipotesi è stata smentita dagli studiosi. Le tre fonti letterarie esaminati, Varrone, Atticus, e Virgilio, anteriore al Forum, rappresentano comunque impressionanti similitudini con il programma scultoreo della struttura augustea. Sembrerebbe quindi che Augusto potrebbe essere stato influenzato, direttamente o indirettamente, da questi lavori nel pianificare il modo in cui le statue e gli Elogia dovevano essere visualizzati nel suo Foro.



      GLI ANTENATI

      Polibio, scrivendo berso la metà del II sec. ac, narra che l'immagine di una persona deceduta veniva eseguita in cera dopo le cerimonie funebri, poi racchiusa in una teca di legno, e risposta nell'atrio. A un nuovo decesso in famiglia, le maschere, indossate da attori, facevano parte del corteo funebre.

      E ' evidente che le immages, nei i cortei funebri e nell'atrio con nomi ed imprese specificati, dovevano fornire esempi ai vivi, affinchè i giovani emulassero i loro gloriosi antenati. Lo stesso motivo per cui, afferma Svetonio, Augusto scelse di erigere le statue nel suo Forum, cioè per i posteri.

      L'atrio romano era come la Hall di un albergo, da cui si evince l'importanza di tutto il resto. Quindi il lignaggio e l'opulenza di una familia si esprimeva proprio nell'atrio, attraverso le immagina e i tituli, nonchè la ricchezza delle decorazioni.

      Il Forum di Augusto aveva lo stesso intento con le statue e gli Elogia raffiguranti la discendenza e le imprese degli antenati di Augusto, nonchè di altri individui gloriosi che dimostravano il grande destino di Roma. Insomma il Foro poteva essere il pubblico atrio della Gens Julia.



      GLI ELOGIA DEI CIMITERI

      Purtroppo non un solo titolo statuario è giunto fino a noi, ma dagli Elogia reperiti nei cimiteri repubblicani si è potuto ricostruire qualcosa, come ad esempio dalla tomba degli Scipioni. La maggior parte degli Elogia erano costituite in due parti, la prima forniva il nome e tutti gli incarichi pubblici che gli erano stati conferiti, la seconda tendeva a lodare il defunto, menzionando le conquiste o certe qualità particolari che l'avevano distinto in vita. Ma anche i tituli degli antenati mostrati nell'atrio tendevano un po' a questa celebrazione. Ciò è evidente nella tomba degli Scipioni.

      Gli Elogia trovati in questa tomba, nella forma e nel contenuto, sono stati i modelli su cui si basano gli elogia del Forum, ma è difficile dire se gli Elogia augustei si basavano sul tiluli, o se il tiluli erano basati su la struttura e i contenuti degli Elogia del sepolcro degli Scipioni.

      Augusto probabilmente ebbe un ruolo di supervisione, su la disposizione della statuaria, nella selezione degli individui da onorare, e nella composizione e contenuto degli elogia. A sua volta Augusto avrà avuto numerosi consiglieri, anche se Ottaviano non era tuttavia molto suggestionabile dai consigli altrui, se non in parte da quelli di Livia e Mecenate.

      Le opere di Varrone, Atticus, e Virgilio non solo hanno influenzato il modo in cui erano disposte le statue e Elogia nel Forum, ma anche per la selezione dei Summi viri, e per il contenuto delle iscrizioni. Il commento  di Plinio (vedi p.7 n. 32) suggerisce che Augusto ha scritto gli Elogia egli stesso. Gli augustei Elogia, con le statue erette nel Foro, commemoravano la vita e le realizzazioni dei Summi viri, con le cariche della sua carriera politica, e altri atti per i quali sono stati ricordati gli individui.



      TOMBA DEGLI SCIPIONI

      La tomba degli Scipioni fu costruita dopo il 312 ac., lungo la Via Appia, visto che in questa data venne costruita detta via da A. Claudius Caecus, fuori Porta Capena. Sembra che la struttura sia stata completata entro la vita di L. Scipione Cornelins Batbatus (cos. 298). Vedi Flower (1996), 160-161, e Coarelli nel corso dei secoli III e II, e conteneva i corpi di circa trenta membri della famiglia Scipione.

      Sui loro sarcofagi, gli elogia indicarono i nomi  e altre informazioni. Il nome della persona si presenta al nominativo, nella struttura tria nomina. Il prenome, che era abbreviato, era seguito dal gentilicum, almeno un patronimo, e infine il cognomen. In tre casi, cognomina supplementari sono stati inclusi anche nella nomenclatura. In un caso, un patronimo aggiuntivo che indica la discesa da un nonno. (1972), 43.

      Il luogo della tomba fu notato da Livio e Cicerone. Livio (38.56.4) la colloca extra Portam Capenam ('fuori Porta Capena'), e Cicerone (Tuse. I. 7.13) lo conferma: an tu egressus porta Capena cum Caiatini, Scipionum, Serviliorum, Afetellorum, sepulcra vides, miseros pufas illos (giungendo fuori Porta Capena, si vedono le tombe dei Calatinii, Scipiones, Servilii,  MeteIlii, riflettete su quegli uomini riprovevoli?')

      L'elogio di L. Cornelius Scipio Barbatus (lLS 1) ricorda che Taurasia Cisauna samnio cepit, subigit omne Loucanam opsidesque abdoucil ('egli catturò Tauarasia e Cisauna nel Samnium, conquistò tutta la Loucana e ne riportò molti ostaggi'); l'epitaffio di L. Cornelius Scipio Coarelli (1972), 60, stima che da 32 a 34 corpi erano seppelliti nella tomba. Ogni elogio della tomba di Scipione include l'indicazione di colui da cui discende e tre iscrizioni.

      L'elogio di L. Cornelius Scipio Barbatos (ILS 1) è il primo esempio dell'uso del cognome negli onomastici romani. (Vedi 1. Kajanto, The Latin Cognomina Helsinki, 1965), J 9. 27
      I cognomi vengono concessi per qualche virtù " e in due altri, cognomina aggettivali, indicanti sia un soprannome che un tratto personale, sono inclusi nella nomenclatura.'"

      In tre delle iscrizioni, le cariche ricoperte dai soggetti seguono immediatamente dopo il nome, ma non vi è alcuna regola certa nel modo in cui gli uffici sono elencati. Dopo il nome e le magistrature, le iscrizioni elogiavano il defunto per le virtù e i successi del defunto. In generale, la maggior parte del testo in ogni iscrizione è dedicata alla lode di qualità morali, ma soprattutto alle realizzazioni, come le vittorie in guerra e la costruzione dei templi, 12 sono anche raccontati.



      ELOGIA DEL FORO AUGUSTO

      Costruito sulla struttura e il contenuto suggeriti dagli Elogia Scipionis, le iscrizioni augustee contenevano quei dettagli che più efficacemente descrivessero i summi viri come modelli di grandezza.
      Tra queste, le magistrature, le vittorie militari, i programmi di costruzione, onori distintivi e altre realizzazioni che ritraevano gli individui come cittadini esemplari. Questi uomini erano exempla, pertanto cercati in tutte le possibili fonti di consultazione. Il risultato di questa ricerca è stato storicamente accurato e, a differenza di molte altre fonti, è sopravvissuto.. Gli augustea Elogia hanno cinque caratteristiche identificabili:


      I) nomenclatura;
       2) elenco delle magistrature possedute;
       3) conquiste militari;
       4) realizzazioni civili personale;
       5) la costruzione di programmi o altre informazioni.

      In genere ogni iscrizione comprende  primi: causa, nomo e Magistratura, le ultime 3 compaiono variamente. La nomenclatura nella sopravvivenza augustea Elogia segue la struttura trovata negli epitaffi Scipionici. I nomi sono riportati nel nominativo, i praenomina sono abbreviati, i gentilicia sono forniti, e la filiazione è indicata mediante l'utilizzo di patronymus.

      I cognomina erano inclusi, e in alcuni casi, vi erano cognomina aggiuntivi. Subito dopo il nome, la II sezione degli elogia gli uffici svolti in forma abbraviata. Se uno era stato console, o dittatore, o censore, questi uffici venivano listati per primi, senza tuttavia spiegare se avevano svolto la carica. Seguivano le liste degli interrex, 22  in ordine decrescente, sono quindi ricordati gli altri magistrati del cursus honorum. Venivano elencati pure i tribuni militari. gli auguri e i pontefici.

      Le magistrature elencati negli Elogia sopravvissuti, e quelli che possono essere determinati da altre fonti, rivelano che la maggior parte dei summi viri tennero le posizioni più importanti dello stato romano. Otto di loro furono dittatori, quindici Consoli, nove Censori, e quattro interrex. Alcuni di loro avevano svolto questi uffici più di una volta. Gli altri Magistrati del cursus honorum, pretore, edile, e questore, erano anch'essi annotati negli Elogia.

      Quando integrati da altre evidenze, questi tre uffici sembrano essere stati quasi equamente rappresentati nel Forum dai Summi viri. Tre altri uffici appaiono frequentemente nel Elogia. Il tribunato militare è stato tenuto da almeno undici degli individui, e cinque di loro ricoprirono la carica più di una volta.

      La frequenza con cui questo ufficio è stato ritrovato negli Elogia può essere correlata alle funzioni militari associate con, ed eseguite, per il Tempio di Marte Ultore e dentro i confini del Foro. E 'anche certo che otto dei summi viri avevano appartenuto al collegio di auguri, e tre nel record degli Elogia che pevedeva la posizione del pontefice. E' possibile che i sacerdoti siano stati inclusi negli Elogia, al fine di sottolineare l'importanza religiosa, e di funzioni religiose, del Forum.

      Si è suggerito pure che l'ufficio di augure sia stato incluso negli Elogia perché Romolo, la figura centrale di una esedra, si diceva aver iniziato la lettura degli auspici. Per la lista delle magistrature, la terza sezione degli Elogia si concentra sui successi militari dei summi viri. In questa sezione, vittorie militari, importanti battaglie, la cattura delle città, il sottomettere dei nemici di Roma, e la celebrazione dei trionfi sono i più citati.

      Questa sezione registra anche le azioni eseguite in un contesto militare, ma che non aderiscono di cui sopra. Questi tendono a illustrare qualche risultato specifico o particolare azione, che ha distinto l'individuo tra gli altri summi viri.

      La IV sezione degli elogia augustani presenta ciò che è stato considerato esempio di virtù. Questo esempio di virtù  è stato il motivo principale che aveva spinto Augusto a celebrarlo poichè voleva tali i futuri dirigenti di Roma. Anche se ogni esempio è unico, può rappresentare un'azione in cui l'individuo, in un periodo di crisi, ha salvato lo stato romano.

      L'ultima componente della Elogia non è comune a tutte le iscrizioni, ma da quelle che non comprendono questa parte, due temi sembrano essere comuni. Uno si occupa dei programmi sponsorizzati dai summi viri, e l'altro si concentra su particolari onori e posizioni di certi individui.

      In tre delle iscrizioni, che commemorano la costruzione dei templi, acquedotti e strade. In 3 degli elogi. le iscrizioni ricordano gli "Eccezionali Onori Dati a Uomini Morti nel Loro Servizio per Roma". Inoltre, i testi ricordano "Che a causa dei summi viri furono Ricordati  nel Forum con Una statua e un Elogio, chiamati ognuno princeps senatus".



      CAIO MARIO

      Un'ulteriore annotazione sull'elogio di C. Marius, che non sembra conforme a uno di questi temi. L'iscrizione Ricorda  "Mario Entrò in Senato in tenuta Trionfale", e Plutarco aggiunge "Che lo Fece Dopo la Celebrazione del Suo trionfo su Giugurta". Plutarco è incerto se Mario volle sfidare la sua buona fortuna o se l'avesse fatto inavvertitamente, ma ma una qualsiasi ragione delle due non sarebbe stata inclusa negli elogia.

      Livio suggerisce allora che Mario fosse garantito da un privilegio che gli accordava di entrare in senato con la veste di trionfatore, cosa mai concessa prima a Roma.

      Gaio Mario, console per sette volte, pretore, tribuno della plebe, questore, augure e tribuno militare. Come console, egli mosse guerra contro Giugurta, re di Numidia, lo catturò e mentre celebrava un trionfo nel suo II consolato, ordinò che Giugurta fosse condotto dietro al suo carro. Mentre era assente, fu eletto console per la III volta. Come console la IV volta distrusse l'esercito dei Teutoni. Come console la V volta vinse e trionfò su Cimbri e Teutoni. Come console la VI volta, ha protetto lo stato dalla insurrezione del tribuno della plebe e il pretore che avevano occupato il Campidoglio. Dopo 70 anni fu espulso dal paese dalla guerra civile, fu reintegrato e fatto console una VII volta. Come un vincitore, ha costruito un tempio per l'onore e Virtus delle spoglie del Cimbri e Teutoni.

      Questi, dunque, sono stati i precedenti che dovevano fornire il exempla su cui i Romani dovevano trarre a modello per la loro vita. Le informazioni della Elogia, e in particolare i registri di magistrature, ha svolto un ruolo importante nella ricostruzione delle carriere politiche e le realizzazioni dei summi viri. La ragione principale è che il Elogia contiene numerosi dettagli riguardanti le carriere dei politici repubblicani che non sono attestate altrove.



      VALERIO MASSIMO

      L'elogium di Marco Valerio Massimo (dict.494) (E9) conclude notando che era stato nominato princeps senatus. Valerio è anche accreditato, nell'iscrizione, di aver ristabilito l'accordo tra la plebe e il Senato nel 494 ac Vi è, tuttavia, un'altra tradizione:.. Sia Livio e Dionigi affermano che Valerio non era responsabile di aver posto fine alla secessione. Forse coloro che compongono gli Elogia dovevano scegliere una versione.



      APPIO CLAUDIO

      Molti dettagli della carriera politica di Appio Claudio Cieco (cos.307) (E13) sono conosciute solo dal suo elogium.

      La sua dittatura non è menzionata nelle fonti letterarie, né lo sono i suoi secondo e terzo incarichi interrex. Inoltre l'elogio è l'unica evidenza della sua carica di pretore, edile, questore e tribuno militare.
      Nota l'iscrizione che Cieco, come console nel 296 ac, sconfisse gli Etruschi e Sabini. Tuttavia, nessuna prova riporta la presenza dei Sabini nel conflitto, e quindi questo dettaglio dal elogium è stato respinto come errore storico. ·



      FABIO MASSIMO

      L'elogium di Q. Fabio Massimo (cos.233) (E16) è l'unica prova per i suoi due incarichi di interrex, la sua edilità, le sue cariche di questore, e i suoi due tribunati militari militare, l'edilità,  la questura e il tribunato del comando militare.



      SCIPIONE ASIATICO

      Cornelio Scipione Asiatico sono noti solo dal suo elogium, e l'iscrizione di L. Emilio Paolo, fornisce l'unica prova che è stato nominato interrex, fu questore, e ricopre la carica di tribuno militare tre volte.



      GIULIO CESARE SENIOR

      Anche se il 52 elogium di Iulius Caesar (pr.ca.92), il padre del dittatore, è frammentaria, le abbreviazioni per gli uffici del questore e tribuno militare sono chiaramente visibili. Le fonti letterarie, tuttavia, non menzionano che Cesare tiene questi offices.
      L'ultima riga delle registrazioni elogium che Cesare era responsabile per la composizione coloni sull'isola di Cercina.  Questo non è registrata altrove, ma è stato suggerito che questa colonia è stata fondata, secondo la normativa Direttiva agraria.
      Questo non è registrata altrove, ma è stato suggerito che questa colonia fu fondata secondo la legislazione agraria di L.Appuleius Saturnino.
      Cesare fu apparentemente un membro della commissione (decemviri) che effettuò le leggi di Saturninus. Nominato anche per questa commissione era C. lulius Cesare Strabone (aed.cur. 90). Tutti i restauri di elogium di Strabone, anche se frammentarie, comprendono la sua appartenenza a questo decemvirato. L'iscrizione conferma che Strabone ha tenuto queste magistrature.



      LICINIO LUCULLO 

      L'elogio di L. Licinius Lucullus  fornisce anch'esso notizie non provenienti da altre fonti, che fu un tribuno militare e che fece parte di un collegio di auguri.

      Evidentemente fu tribuno militare sotto il comando di Sulla, durante la Guerra Sociale. Anche se l'annotazione è di Plutarco, alcuni sono scettisci sulla notizia, poichè non ha altre fonti.



      NERO CLAUDIUS DRUSUS 

      Il sacerdozio augurale di Nero Claudius Drusus è assente dalle fonti, inoltre fu tribuno militare in due occasioni.
      Sembra probabile che chi è stato responsabile delle iscrizioni abbia attinto da fonti non sopravvissute. Questi potrebbero essere opere di Varrone e Atticus, entrambi inclusi brevi descrizioni verbali riguardanti la vita e le realizzazioni degli individui raffigurati. È stato anche suggerito che una versione augustea degli Annales Maximi può aver fornito alcune delle informazioni che si trovano nel Elogia.



      ANNALES PONTIFICUM MAXIMORUM

      Gli Annales Maximi erano una cronaca mantenuta dal pontifex maximus che comteneva le liste annuali dei prodigi di cui erano stati testimoni, e anche registrato altri eventi storici. Questi elenchi annuali originarono nel periodo monarchico, quando Anco Marzio fece il pontifex per visualizzare una tabula di marmo bianco che conteneva una sintesi degli eventi che hanno avuto luogo nel corso dell'anno precedente. La tabula, come gli augustea Elogia, elencava le varie magistrature e i nomi delle persone che hanno tenuto gli uffici.

      Alla fine dell'anno, i contenuti della tabula venivano registrati in quello che è diventato noto come il Libri Annales Pontificum Maximorum. Questa pratica sembra aver continuato fino alla fine del II sec. RC., Quando il pontefice P. Muzio Scevola cessò di costituire la tabula annuale.
      Le liste dei magistrati negli Annales, e gli altri dettagli storici, può essere stata una fonte per gli storici antichi, ma non vi è alcuna indicazione di come fossero accessibili, o in che misura fossero consultati. Se le liste pontefici prima erano disponibili, avrebbero potuto essere consultati da colui cui era affidata la ricerca di pertinenza, e la composizione, della augustea Elogia
      Poiché sembra che gli Annales Maximi contenesse informazioni poi inclusi negli Elogia, questi elenchi possono fornire gran parte delle informazioni che non può essere trovata in altre fonti.



      LE RES GESTAE

      Svetonio afferma che Augusto decretò che le persone ritratte nel Foro erano destinate a fungere da esempio per i futuri leader di Roma, e, soprattutto, dovevano essere i modelli con cui Augusto, e i suoi, dovevano essere confrontati e da cui dovevano essere giudicati '. Questa dichiarazione è stata fatta da Augusto nel 2 dc, ma fu solo dopo la sua morte, il 19 agosto 14 dc, che il popolo romano venne fornito con il documento che ha fornito i dettagli del suo governo, e che ha consentito un confronto diretto con coloro che era stato ritenuti exempla.

      Il documento è le Res Gestae, rendiconto dell'imperatore del suo mandato come governatore del mondo romano. Questo capitolo esamina i vari collegamenti tra la Res Gestae, le statue, e il Elogia del Forum. Deve essere dimostrato che tutti e tre sono stati impiegati da Augusto per illustrare e annunciare, che era il leader di maggior successo, e distinto, nella storia di Roma.

      La Res Gestae e il Foro di Augusto, con la sua statuaria e Elogia, devono essere considerati come interdipendenti e complementari. Nel Forum, la preminenza di Augusto su quelli che lo avevano preceduto si rileva immediatamente da chi entra nel Forum. Situato direttamente di fronte al Tempio di Marte Ultore, e centrato tra le sale colonnate, era la statua di una quadriga con il titolo di pater patriae inscritto sulla sua base. Augusto conferma che la statua è stata istituita nel Foro a seguito di un decreto del Senato, e che il titolo di 'padre della patria' è stato dato a lui dal senato, i cavalieri, e il popolo di Roma.

      Non si sa se vi fosse sulla quadriga la statua dell'imperatore, ma in ogni caso i Romani avrebbero associato la statua con l'imperatore. L'iscrizione del pater patriae titolo sulla base della statua era in suo onore. Tutti i romani avevano apparentemente partecipato a conferire questo titolo su di Augusto, il 5 febbraio 2 dc: e pèeretanto chi entra nel forum avrebbe facilmente riconosciuto i successi, e l'importanza, del loro imperatore.

      Il carro trainato da quattro cavalli era, a partire intorno al 30 ac, impiegato nel linguaggio figurato trionfale che commemora i successi di Augusto. L'immagine della quadriga è inserita in una serie di archi, e su un certo numero di monete emesse dopo il 30 ac

      Diodoro conferma che gli archi sono stati costruiti nel 30 ac. per celebrare la vittoria di Azio, nel 27 ac., e conferma che il Senato decretò, nel 20 ac, che un arco doveva essere costruito per commemorare la vittoria di Augusto sui Parti. Un denaro emesso circa il 29 ac, rivela che uno degli archi costruiti in onore di Azio era sormontata da una statua di quattro cavalli essendo guidato da Augusto · L' immagine è stata inclusa anche su almeno uno degli archi eretto in onore delle riparazioni stradali della Flaminia che Augusto ha intrapreso nel 27 ac. Emesso circa 18 ac., un denaro commemora queste riparazioni raffigura un viadotto e un arco, su cui siede una quadriga.

      Dal momento che il titolo era stato assegnato solo a pochi eletti, Augusto, dal 2 ac, si distingue dalla maggior parte dei suoi predecessori, è evidente che la statuaria e Elogia sono stati impiegati da Augusto a ritrarre se stesso come il leader più illustri, e di successo, nella storia di Roma.

      Di conseguenza, Augusto istituì statue nel Foro che pubblicizzato la sua ascendenza. Nel centro del nord-ovest esedra, una statua di Enea era circondato dai re Albani, e altri membri della linea Julia. Di fronte ad Enea, al centro dell'esedra sud-est, era una statua di Romolo. Il nome di Augusto era inciso sull'architrave del Tempio di Marte Ultore,  e sembra che l'architrave fosse posizionato esattamente parallelo alle statue di Enea e di Romolo.

      L'effetto risultante era che Augusto sembrava collegato ad entrambi Enea e Romolo, e il legame tra gli Julii ed Enea e Romolo era stato precedentemente stabilito, ma Augusto lo rafforzò col forum. Augusto, scelse di includere nel foro gli antenati delle famiglie dominanti tradizionali di Roma, e ha sostenuto, come notato da Svetonio, che questi individui erano stati inclusi perché i loro successi, il valore, e il comportamento sono stati i modelli su cui aveva basato la propria vita, e su cui gli altri dovrebbero modellare la loro.
      Anche se gli eroi repubblicani possono essere stati scelti per le loro qualità esemplari, l'inserimento di questi uomini nel Foro ha inoltre permesso Augusto di associare se stesso, e la sua famiglia, con i grandi uomini del passato di Roma.

      La familia Julia non ebbe successo, almeno politicamente, durante la Repubblica, e nel tentativo di alleviare queste carenze, Augusto cercò di collegare la famiglia Iulia con le famiglie eminenti della Repubblica.  Circondando le statue della sua famiglia con quelli del summi viri, Augusto associò il destino di Roma, e tutti gli eventi della storia di Roma, con la gens Julia.

      Egli era responsabile della costruzione del Foro, in cui i suoi antenati giocavano come statue un ruolo preminente, e il suo nome adornava il tempio di Marte Ultore. Comunque fu il senato a chiedere una quadriga con Augusto e la Vittoria che dominasse tutto il foro, e fu il popolo a chiedere per lui il titolo di Padre della Patria inciso sotto la sua statua, lo stesso titolo che appartenne a Cesare, il suo padre adottivo.
       La quadriga significò la preminenza di Augusto su ogni leader romano e divenne il punto focale dell'intero complesso, punto di arrivo della progressione storica della gens Iulia, e dei summi viri, coll'intento anzitutto di definire il ruolo della sua gens nella storia, poi di fare gli Elogia di sè attraverso le epigrafi del Forum prima e delle Res Gestae poi.

      Un confronto tra la fraseologia impiegata sia nella Res Gestae e la elogia rivela che ci sono analogie compositive tra i due documenti. "Per esempio, l'elogio di Q. Fabio Massimo (cos.233) (E16) Ricorda che egli venne in aiuto dell'esercito quando era stato vinto dal nemico, nelle Res Gestae Augusto descrive la sua vittoria sull'esercito dei Daci.

      L 'elogium di C. Marius (E22) nota "che egli, durante il VI consolato, ha liberato lo Stato da un'insurrezione". Augusto usa Gli Stessi termini quando descrive la vittoria su Antonio.
       L'iscrizione di Mario Ricorda che "con il bottino di guerra costrui un tempio dell'Onore e Virtus". Così Augusto asseri di aver costruito il tempio di Marte Ultore e il Forum con i profitti delle guerre.

       Inoltre, Augusto sembra interessato a ritrarre se stesso come uno che supera le realizzazioni dei suoi predecessori. Ad esempio, elogium (E22) registra Marius che aveva portato re Giugurta dietro al suo carro in una processione trionfale. L'iscrizione che Mario fu console 7 Volte, comporta che Augusto  ha trascinato prigionieri regali dietro al suo carro a ben 9 processioni trionfali, per giunta era stato console di Stato 13 volte, e anche che era stato Principe del Senato per 40 Anni. Più di Q. Fabio Massimo, il cui record elogium che era princeps senatus due volte.

      E 'chiaro che le Res Gestae dovevano raffigurare Augusto come capo degli esempi. In tutti gli aspetti, siano essi realizzazioni, incarichi ricoperti, onori, Augusto superara i suoi predecessori. Sembra che le Res Gestae non solo sono state modellate sulle iscrizioni, ma è stato volutamente composto in modo che Augusto sia sempre di gran lunga maggiore rispetto a quelli del Forum.

      Svetonio afferma che la Res Gestae è uno dei tre documenti che Augusto ha affidato alla cura delle Vestali nel mese di aprile, il 13 dc. Svetonio afferma che Augusto aveva scritto un resoconto della sua vita nel 26 ac. ", e Augusto aveva enumerato i suoi successi in un manoscritto che lesse al Senato. Ciò suggerirebbe che Augusto si occupava di fornire la storia della sua vita per i posteri molto prima, fosse dall'inizio della sua carriera, continuamente aggiornato e modificato, fino a quando non è stato depositato presso le Vestali.

      Le somiglianze nel contenuto tra gli Elogia e le Res Gestae sembrano essere state intenzionali. Augusto con le Res Gestae voleva non solo a proclamare il suo contributo alla storia romana, ma voleva sancire che nelle sue realizzazioni Augusto aveva superato tutti quelli che lo avevano preceduto.




       LE VIRTU' DI AUGUSTO E GLI ELOGIA

      Nel 27 ac, il senato e il popolo di Roma onorarono Augusto con uno scudo d'oro, chiamato il virtutis Clupeus. Questo scudo, posto nella Curia Julia, venne dato ad Augusto a causa delle sue virtus: clementia, iustitia e pietas. "clupeus aureus in curia Julia positus, quem mih; senaturn populumque Romanum osare virtutis ciementiaeque et iustitiae et pielatis caussa testatum est per eius cIupei inscripiionem" ('uno scudo d'oro è stata collocata nella Curia Iulia, che, come la iscrizione di tale scudo testimoniato, è stato dato a me dal senato e popolo romano per premio di coraggio, clemenza, giustizia e pietà. Queste erano le virtù su cui Augusto scelse di basare la sua vita, e che continuamente si sforzò di dimostrare attraverso le sue azioni e il suo comportamento.

      La pratica di attribuire canoni delle virtù di una persona, sembra abbia avuto origine nel periodo tardo arcaico in Grecia. Platone, nella Repubblica, ha stabilito la dottrina della quattro virtù del quale uno Stato deve possedere, saggezza, giustizia, il coraggio, e la moderazione.  Altre virtù, tuttavia, come la pietà, potrebbero essere inclusi, se il contesto lo richiede.

      Gli Elogia dalla tomba degli Scipioni (ILS 1-10) rivela che le virtù sono state attribuite ai singoli nella Repubblica. Virtus è notata nelle iscrizioni, e sono incluse anche altre virtù, come honos e sapientia. Sembra probabile, tuttavia, che Augusto scelse questa virtù per emulare Cesare, che fu lodato e onorato soptattutto per la sua clementia.

      In Augusto 'Virtus è illustrata all'inizio della Res Gestae. Nel primo paragrafo, Augusto è ritratto come il giovane coraggioso che prende su di sé l'onere per difendere la res publica. È nel paragrafo seguente, le due vittorie contro Bruto e Cassio ancora definiscono Augusto come il generale eroico.'  Il tema di Augusto del coraggioso generale che affronts tutti i nemici per il bene di Roma è mantenuta in tutto il documento.

      La  Clemenza di Augusto è chiarita all'inizio della Res Gestae in quanto ha mostrato misericordia a entrambi cittadini romani e stranieri.  Justitia era, se applicato a un uomo di Stato, indicativo di uno che governa in modo giusto, e conduce se stesso secondo le tradizioni consolidate.
      Augusto applica il concetto di Iustitia belle legalità romane per condannare Bruto e Cassius. In entrambi i casi Augusto è ritratto come il solo statista che è conforme ai costumi romani, al fine di raggiungere il potere, e si affida sulla giustizia per realizzare i suoi obiettivi.

      Anche se Augusto include altri aspetti della sua Iustitia, è il rispetto delle leggi romane, e i costumi, che sono raffigurate più spesso in Res Gestae. La riverenza Augusto 'per la tradizione romana è chiaramente illustrato dal suo rifiuto di occupare qualsiasi posizione che era in contrasto con il mos maiorom.

      Richiamando l'attenzione sul fatto che tutti gli aspetti del suo governo erano stati autorizzati dallo Stato, Augusto ha sottolineato la validità della sua posizione, e afferma di non aver mai combattuta una guerra ingiusta, dal momento che la tradizione romana prescriveva solo guerre giuste,

      Quando una carenza di grano minacciò Roma, Augustus nota che ha intrapreso la posizione del curatore annonae e rapidamente ha alleviato il problema. L'ultima virtù attribuita ad Augusto sul Clupeus virtutis è pietas. Anche se questa virtù, per i romani, denota rispetto per gli Dei, e il senso del dovere, per la famiglia e la patria.  In questo caso, la pietas di Augusto è illustrata dal suo senso del dovere, che gli imponeva di vendicare la morte del padre.

      Uno dei sottoprodotti della sua campagna di successo è stato il Tempio di Marte Vltor che Augusto aveva, nel perseguire gli assassini di suo padre, promesso di costruire se il Dio gli permesse il suo atto di pietà, cioè la vendetta.
      Il Tempio di Marte Ultor, e la sua menzione nella Res Gestae, espone la pietas Augusta su due livelli. Da un lato, Augusto dimostra il rispetto per gli Dei costruendo il tempio, ma d'altra parte, la struttura serviva come testimonial di Augusto per la sua devozione al padre.

      Augusto, come è raffigurato nella Res Gestae, ha mostrato rispetto per gli Dei, e per la religione romana nel suo complesso. Augusto, come riferito dalle Res Gestae, restaurò ottantadue templi, altri ne costruì e occupò vari uffici religiosi onde perpetuare la pax deorum.
      La 'pace degli Dei "è stata mantenuta attraverso la corretta osservanza delle procedure religiose che avevano lo scopo di placare gli Dei. Augustus pietas verso gli Dei, dunque, sembra essere strettamente collegato alla sua pietas verso lo stato. Da un lato le azioni  di Augusto rivelano la sua devozione agli Dei, ma d'altra parte le sue offerte alle divinità, la sua partecipazione a cerimonie religiose, e le sue edificazioni religiose contribuirono al mantenimento della pax deorom che, ovviamente, ha beneficiato l'intero stato.

      Insomma Augusto, nella Res Gestae, chiaramente dimostra che le sue virtù di gran lunga hanno superato quelle dei suoi predecessori. Così il Foro venne costruito per snellire la congestione dei tribunali e quella dei fori, ma con la statuaria divenne un monumento ai successi di Augusto, e simbolicamente lo proclamò come apice della storia romana. Gli Elogia furono un mezzo importante della capacità Augusto di presentare un'ottima immagine di se stesso.

      Le statue e gli Elogia pertanto hanno consentito ad Augusto di collegarsi agli eroi del passato di Roma, e presentarsi come apice della storia. Inoltre gli Elogia, confrontando Augusto con i summi viri, ne esce come la massima gloria della storia romana.

      Svetonio afferma che Augusto aveva depositato presso le vestali, oltre le sue Res Gestae, anche le indicazioni per il suo funerale. In effetti nel suo corteo funebre, il suo corpo e tre sue immagini furono posti in prima linea nel corteo, seguiti dalle immagina degli antenati di Augusto, poi un'immagine di Romolo e le immagina di altri romani di spicco, tra cui quella di Pompeo Magno.  Tradizionalmente, le immagina degli antenati del defunto precedevano il corpo, e non si includevano immagini aldifuori dei parenti.



      LE STATUE DEL FORO DI AUGUSTO 


      AENEAS  ( ENEA)
       "Aen[e]a[s Venerisf(ilius)] Latin[orum rex]. Regnav[it annos III]."
      Enea divenne re dei latini dopo la morte di re Latino. (Dion. Hal. Livio). la durata del suo regno è confermata da Dion. Hal..

      Nel foro di Pompei c'è un altro elogio:

      "Aenea(s Ven]eris 1 et Anchisa[e j(ilius) Troia]nos
      qui capta Tr[oia bello s]uper
       [fiJe ]rant in It[a/iam adduxit.
      BellJum su[scepil- -I --]en[ - - 1 --]
      bu[ - - -]1 [oppidum Lavinium] cond[idit 1 
      et ibi regnavit an]nos tris. 
      In [bel]lo Lauren[ti subi]lo non eonl[pa]ruit appel[latus]
      q(ue) est Indigens I [palter et in deo[rum n]umero relatus."

      (Enea, figlio di Venere e di Anchise, scappò coi troiani, che erano sopravvissuti quando Trioa era caduta, in Italia. Egli affrontò una guerra.. fondò la città di Lavinio e qui regnò per tre anni. Nella guerra contro Laurento scomparì improvvisamente e fu chiamato Padre degli Indiges e considerato nel ruolo degli Dei.)


      SILVIUS AENAS  (SILVIO ENEA) 
      Silvius Aeneas 1 Aeneae et Lavilniae filius. (Silvio Enea, figlio di Enea e Lavinia - Lavino). 


      AENAS SILVIUS  (ENEA SILVIO)
      [Aeneas] Sil[vius I Iuli]j{ilius) I [Aeneae ne]po[s. I Regnavit a]nn(os) XXXI. 
      (Enea Silvio, figlio di Giulio, nipote di Enea. Regnò per 31 anni. - Foro Romano)


      ALBA SILVIUS  (ALBA SILVIO)
      [Al]ba [Silvius Latini J(ilius). Regnavit ann(os) XXXIX). 
      (Alba Silvio, figlio di Latino. Regnò 31 anni).


      SILVIUS  (SILVIO) 
      [- - - Si]lviij{ilius). I [RegnaviJt Albae ann(os) [- --}
      ( ... figlio di Silvio. [Regnò] su Alba per ..... anni. Foro augustano


      PROCA SILVIUS  (PROCA SILVIO)
      [Pr]oca [Silvius Aventini ftilius). Regnavit Albae ann(os) XXIII]. 
      (Proca Silvio, figlio di Aventino. Regnò su Alba per 33 anni. - Foro augustano)


      ROMULUS  (ROMOLO)
      Romulus Martis I [f]ilius. Urbem Romam I [condi]dit et regnavit annos j duodequadraginta. Isque I primus dux duce hostium I Acrone rege Caeninensium I interfecto spolia opi[ma] Jovi Feretrio consecra[vil] I receptusque in deoru[m] I numerum Quirinu[s] I appellatu[s est].
      (Romolo, figlio di Marte, fondò la città di Roma e regnò per 38 anni. Fu il primo capo che, dopo che il capo del nemico, Acron, re dei Caeninenses, venne distrutto, dedicò la spolia opima a Jupiter Feretrius.  Dopo essere stato accolto nel rango degli Dei,  fu chiamato Quirino. - Foro di Pompei )


      A. POSTUMIO REGILLENSIS  (A.POSTUMIO REGILLENSE)
      "Lalin[or]um exercitum [- - -] I cae [sis m]ulli[s milit]ibu[s- - -] I Supe[rhifJiliis et gen[tilihus- - -] I omn[- - - p]ernlmfp- - - ] I spem [ademit- - -] I aed[em Castoris- - -] I ex sfpoliis hostium vovit]" 
      (Un esercito dei Latini ..... [quando] molti [soldati erano stati uccisi]. .... con i figli e i parenti di Superbo ... [che era scappato] speranza .... [devolse] al tempio [di Castore] dalle [spoglie dei nemici - Foro augustano).

      "[Faenore gravi] I populum sen[atus] I hoc auctore /[iberavit]. I Sellae curnli[s locus] I ipsi posteri[ sque ad] I Murciae s[pectandi] I caussa pub [lice datus] I est. Prin[ ceps in senatum] I semell[ ectus est].
      Il senato [sollevò] il popolo [di debito oneroso] con lui come sponsor. Con una sedia curule, [a scopo di vegliare], era [fornito] a spese pubbliche per lui e per i suoi discendenti [vicino] al tempio di Murcia. [E stato nominato] come Princeps [al Senato] una volta.


      MARCUS VALERIUS MAXIMUS  (MARCO VALERIO MASSIMO)
      M (Anius) Valerius I Volusi.f (Ilius) I Maximus I dittatore ed augure. Primus quam ho Ullum magistratum gereret ho dittatore dictus est Triumphavit I de Sabini et Medullinis. Foro Romano
      Plebem I de sacro monte deduxit gratiam I cum patribus reconciliavit. hlelnore gravi populum senatus hoc I eius rei auctore liberavit. Sellae I curulis locus ipsi posterisque I ad Murciae spectandi caussa datus I est. Princeps in senatum semeillectus est. 

      (Manio Valerio Massimo, figlio di Volusus, dittatore ed augure. Prima di tenere qualsiasi magistratura, è stato dichiarato dittatore. Ha celebrato un trionfo sui Sabini e la Medullini. Ha guidato la plebe giù dal monte sacro quando ristabilito un rapporto di amicizia con i Padri.
      Il senato ha rilasciato la gente dal debito pesante con lui come lo sponsor di quel movimento. Un luogo con una sedia curule, con lo scopo di osservare, è stato fornito per lui e per i suoi discendenti vicino il tempio di Murcia. E 'stato nominato come Princeps al Senato una volta.)


      MARCUS FURIUS CAMILLIUS  (MARCO FURIO CAMILLO)
       "M. Furius Camillus. Veios post urbem I captam commigralri passus non est. I Etruscis ad Sutrium I [d]evictis Aequis et I [V1olscis subactis I tertium triumph[a]lvit. Quart(um) se[dato] I Velitern[orum hello et Gallis in Alhano agro caesis - - - ]"

      Non permise una migrazione a Veio dopo che la città era stata catturata. Dopo aver sottomesso gli Etruschi vicino Sutrium e dopo aver conquistato gli Equi e i Volsci, ha festeggiato il terzo trionfo. (Ha celebrato) un quarto [dopo che si era conclusa la guerra con l'] Velitemians [e dopo aver distrutto i Galli nel territorio Alban ... ].

      "[Cum Galli ab) siderent Capitoliurn I [virgines Ve] stales Caere deduxit I [ibi sacra at] que ritus sollemnes ne ho [intermitte] rentur curai sibi habuit I [urbe recup] Erata sacra et virgines I [Romam rev]"
       [Quando i Galli] assediato il Campidoglio, ha scortato la Vestale [vergini J di Caere. [In quel luogo] egli stesso esercitato cura in modo che i vasi sacri [] e le cerimonie religiose non possono [essere trascurate]. [Quando la città era stata ripresa portò] le vergini e dei vasi sacri [a Roma].

      Veio cadde ad opera dei Romani nel 396 (Livio 5.22.8) e, successivamente, nel 395, la plebe propose una migrazione verso questa regione, al fine di stabilire una colonia (Livio 5.24.4-7). Questa proposta fu vanificata da Camillo (Livio 5.25.4-8). Nel 390, quando Roma fu catturato dai Galli (Livio 5.41.4-43.1), Camillo liberò la città (Livio, Plut Cam;.. De vir ill..).

      In seguito, con la città distrutta, i tribuni della plebe avevano esortato a non ricostruire Roma, ma piuttosto di migrare a Veio (Livio). Camillo si oppose nuovamente impedendo la migrazione verso la città etrusca (Livio,.. De vir malato).
      Nel 389, Camillo sconfisse gli Etruschi e i Volsci.
      Nel 388, Camillo celebrato un trionfo a causa delle sue vittorie.
      Nel 367, Camillo sconfisse i Galli e concluse la rivolta a Velitrae, e successivamente celebrò un trionfo.


      QUINTUS FABIUS AMBUSTUS  (QUINTO FABIO AMBUSTO)
       "Bello Samnitium I cum auspicii repeltendi caussa Romam I redisset atque intelrim Q. Fabius Amb[ust(i).fi.ilius»)
      I Maximus mag[ister) I equitum iniu[ssu I eiuJs proelio c[ onflixisset- - -)".
      (Nella guerra sannitica, quando lui era tornato a Roma per bene ripetere gli auspici, nel frattempo il mastro cavaliere Quinto Fabio Massimo, figlio di Ambustus, in contrasto con i suoi ordini, si era impegnato in battaglia).

      Il Cursore fu nominato dittatore al fine di proseguire la guerra contro i Sanniti. Cursore partì da Roma, ma a causa di auspici poco chiare tornò a Roma per riprendere gli auspici. Livio conferma che il cursore ha ordinato al luogotenente (identificato come Quinto Fabio Massimo Rulliano da Tito Livio; Fabio Massimo Rulliano dalla Val Max) di non impegnare il nemico.


      APPIUS CLAUDIUS CAECUS  (APPIO CLAUDIO CECO)
      " [Comp/u]ra oppi[da de Samni]tib[us cepit. Sabinoru]m el Tus[corum exercil]um [ludi!. P]ac[em fie]ri culm Pyrrho rege prohibuil.] In ce[nsura viam Appiam stravit e]t aq[ uam in urbem adduxit. Aedem Bellon ]ae fer cit]."
      (Prese molte città dai Sanniti. Ha indirizzato l'esercito contro Sabini ed Etruschi. Vietò pace  con il re Pirro. Nella sua censura posò la via Appia e portò l'acqua nella città. Ha costruito il tempio di Bellona - Foro augustano)

       "Appius Claudius I C(aius)f(ilius) Caecus I censor co(n)s(ul) bis dict(ator) interrex (ter) I pr(aetor) (bis) aed(ilis) cur(ulis) (bis) q(uaestor) tr(ibunus) mil(itum) (ter). ComlfJlura oppida de Samnitibus cepit I Sabinorum et Tuscorum exerciltumfodit. Pacem fieri cum [p[yrrho I rege prohibuit. In censura viam I Appiam slravit et aquam in urbem adduxit. Aedem Bellonae I fecit."
      (Appio Claudio Cieco, figlio di Gaio, censore, due volte console, dittatore, tre volte interrex, due volte pretore, due volte aedile curule, questore, tribuno militare tre volte. Ha preso molte città dai Sanniti. Ha indirizzato l'esercito contro Sabini ed Etruschi. Egli proibì la pace con il re Pirro. Nella sua censura pose la via Appia e portò l'acqua nella città. Ha costruito il tempio di Bellona).


      CAIUS FABRICIUS LUSCINUS (CAIO FABRIZIO LUSCINO)
      Forum Romanum (Basilica Aemilia)
      "[C(aius) Fabricius C(aii).f(ilius) C(aii) n(epos) Luscinus] 1 [- - -] 1 [- - - Lucanos Bruttiosque 1 devicit] et ite[rum de eis triumphavit 1 aerari]o ex isdem [praedam intulit HS - - -I missus] ad Pyrrh[um regem ut captivos 1 redi]meret e.ffe[cit ut ei populo Romano 1 gratis redJderentu[r - - -]."
      (Gaius Fabricius Luscinus, figlio di Gaius, nipote di Gaius, ... sconfisse i Lucani e i Bruttii, e su di loro nuovamente celebrò un trionfo. Dal bottino preso in guerra, depositatò i sesterzi nel tesoro. .. fu mandato a re Pirro perché potesse riscattare i prigionieri e riportò quei prigionieri che vennero restituiti senza pagamento al popolo romano). Forum Romanum (Basilica Aemilia)

      Fabrizio Luscino fu console nel 282 e nel 278. Come console nel 282, Fabricius sconfisse i Samniti,i  Lucani, e i Brutti.  Dion. Hal. narra che celebrò un trionfo dopo le sue vittorie.
      L'ammontare dei tesori del bottino raccolto da Fabricius è calcolato da Dione 400 talenti. Come legato ambasciatore nel 280, Fabrizio negoziò con successo il rilascio dei romani presi prigionieri da Pirro.


      CAIUS DUILIUS  (CAIO DUILIO)
      2-3) Pri [mus --- triumphum n] ava / [em
      4) [s] tatua q [uoque] Dessau.

      Come console nel 260, C. Duilio M. f M. sconfisse le forze navali di Annibale al largo della costa della Sicilia. Le fonti narrano che questa fu la prima vittoria navale di Roma. Dopo aver celebrato il suo trionfo, Duilio, secondo le fonti, portò a casa dei tedofori e zampognari.  - Foro augusto
      A quell'uomo fu permesso di tornare a casa da un banchetto con un flautista e un dadoforo (portatore di torcia) e una statua con una colonna fu istituita per lui presso la corte di Vu1cano.
      Le fonti tacciono sulla statua di Duilio, comunque, la colonna onorifica (columna rostrata) è riferita da entrambe le fonti, di Sil. e Plinio.


      QUINTUS FABIUS MAXIMUS  (QUINTO FABIO MASSIMO)
      "[Q(uintus) Fabius Q(uinti)f(ilius)] Maxim[us I dictator bis co(n)s(ul) qui]nquien[s I censor interrex b]is aed(ilis) cu[r(ulis) q(uaestor) bis tr(ibunus) mil(itum) bis pontif(ex) aug(ur)]" 

      "[Quintus Fabius] Maximus, [son of Quintus, twice dictator, consul five times, censor,] twice [interrex,] curule aedile, [twice quaestor, twice military tribune, pontifex, and augur]"


      "[Q(uintus) Fabius] I Q(uinti)f(ilius) Maximus I dictator bis co(n)s(ul) (quinquiens) cenlsor interrex (bis) aed(ilis) cur(ulis) I q(uaestor) b(is) tr(ibunus) mil(itum) (bis) pontifex augur. I Primo consulatu Ligures subelgit ex iis triumphavit. Tertia et I quarto Hanllibalem complurilbus victoris ferocem subsequenldD coercuit. Dictator magistro I equitum Minucio quoius popullus imperium cum dictatoris I imperio aequaverat et exercitui I projliglito subwinit et eo nomilne ab exercitli Minuciano palter appel/alus est. Consul quinltum Tarentum cepit triumphalvit. Dux aetatis suae cautissilmus el re[i] militaris peritissimus I habitus est. Princeps in senatum I duobus iustris lectus est"

      ([Quintus Fabius] Maximus, figlio di Quintus, due volte dittatore, console per cinque volte, censore, due volte interrex, curule aedile, due volte al questore, tribuno militare due volte, pontifex, e augure. Nel suo I consolato, sottomise i Liguri e celebrò il trionfo su di loro. Nel suo III e IV consolati, tenne in scacco Annibale con diverse vittorie seguendolo in giro. Il dittatore è venuto in aiuto a Minucius, il luogotenente, il cui imperium era pari all'imperium del dittatore, ed è venuto in aiuto dell'esercito dopo che erano stati conquistati, e per questa ragione egli fu chiamato padre dall'esercito Minuciano. Come console per la V volta ha catturato Taranto, ha celebrato un trionfo.
      Era considerato il comandante più cauta della sua generazione e il più esperto in questioni militari. Venne nominato Princeps del Senato per due periodi di cinque anni).


      CORNELIUS CETHEGUS  (CORNELIO CETEGO)
      C. Cornelius L. f M. n. Cethegus fu console nel 197 .

      "Klio  [- - -] et Cenom[anos - - -1- - -dJucem eo [rum - --]. ... and the Cenomani .... their leader.. .."
      (Come console gli fu assegnato il compito di risolvere la rivolta dei Cenomani e degli Insubri nella Gallia Cisalpina. Cethegus sconfisse le tribù e celebrò un trionfo per la sua vittoria) (Basilica Aemilia)


      LUCIUS SCIPIO ASIATICUS  (LUCIO SCIPIONE ASIATICO)
       "[L(ucius) Comeli]us P(ublii)f(ilius) S[cipio 1 Asia]ticus 1 [co(n)s(ul) pr(aetor) aed(i/is) cu]r(ulis) q(uaestor) tr(ibunus) [mil(itum)- --]. [Lucius Cornelius] Scipio Asiaticus, son of Pub Ii us, [consul, praetor, curule aedile,] quaestor, [military] tribune ..."
      (L. Cornelius P. f. L. n. Scipio Asiaticus fu console nel 190, pretore nel  193, curule edile nel 195, e questore nel 196. Quando Scipio tornò dall'Asia nel 189, dopo aver sconfitto Antiochus, ricevette il nome di Asiaticus)


       AEMILIUS PAULLUS  (EMILIO PAOLO)
      "Priore consu[/atu de Liguribus - - - ] Iris triumfphavit a/tero consu/atu I de Macedonibus et rege Perse triu ]mphavit I [- - -] consu/al[tu - - -llanos. In his first consulship, he celebrated a triumph ... [over the Ligurians. In his second consulship] he celebrated a triumph [over the Macedonians and king Perseus]. .. in his consulship ..."

      "L(ucius) Aemilius I L(ucii)f(ilius) Paullus I co(n)s(ut) (bis) cens(or) interrex pr(aetor) aed(ilis) I cur(ulis) q(uaestor) tr{ibunus) mil(itum) tertio aug(ur). I Liguribus domitis priore I consu/atu triumphavit. Ilte17Jm co(n)s(ul) ut cum rege I [Per ]se bellum gereret a p[ olpuJo !Jactus est. Copias regis I [decem dieb Jus quibus Mac [ eldoniam atti]git delev[it I regem cum liberi]s cep[it].

      (Lucius Aemilius Paullus, figlio di Lucius, due volte console, censore, interrex, pretore, curule edile, questore, tre volte tribuno militare, e augure. Dopo aver sottomesso i Liguri nel suo primo consolato, egli celebrò un trionfo. Fu scelto come console dal popolo per la seconda volta cosicchè potè condurre la guerra contro re Perseus. Conquistò la Macedonia in 10 giorni Macedonia dopo aver vinto le forze del re. Lucius catturò il re e i suoi figli.)
      (Forum Romanum - Basilica Aemilia)


      TIBERIUS SEMPRONIUS GRACCHUS (TIBERIO SEMPRONIO GRACCO)
      "[Ti(iberius) SJempronius P(ublii)ft.ilius) I Graccus [- --]"
       (Tiberius] Sempronius Gracchus, figlio di Pub Ii us)


      QUINTUS CAECILIUS METELLUS NUMIDICUS  (QUINTO CECILIO METELLO NUMIDIO)
      "Q(uintus) Caec[ilius Q(uinti)j(ilius) Metellus I Numidicus I censor co(n)s(ul) pr(aetor)- --]"
      (Quintus CaeciJius Metellus Numidicus, figlio di Quintus, censore, console, pretore) 


      LUCIUS EQUITUS  (LUCIO EQUITO)
      "[- - -]statem[ - - I - ce ]nsor L. Eq[ uitium censu prohibuit- - I -]s[ - - -]. ... statem ... as censor [he excluded]"
      (Lucius Equitius.... escluse dalla lista dei cittadini..)
      (Foro augusto)


      GAIUS MARIUS  (GAIO MARIO)
      "[C(aius) Marius C(aii).f(ilius) I co(n)s(ul) (septies) pr(aetor) tr(ibunus) pl(ebis) q(uaestor) a]ugur tr(ibunus) mi/(itum). Extra I [sortem bellum cum I]ugurtha rege Numid(iae) '[co(n)s(ul) gessit eum cepit et] triumphans in' [secunda consulatu] ante currum suum I [duci iussit. Tertium co]nsul apsens creatus I [est. Quartum co(n)s(ul) Teut]onorum exercitum I [delevit. Quintum co(n)s(ul)] Cimbrosfugavit ex ieis ell [leutonis iterum triump ]havit. Rem p(ublicam) turbatam , [s]edit[ionibus Iribuni plebei et praetoris] I quei arm[ati Capifolium oceupaverant I sextum] eo(n)s(ul) vindi[cavit. Post LXX annum patriaperarma I eivilia ex pulsus armis restitutus septimum I co(n)s(ul)faetus est. De manubieis Cimbric(is) et Teuton(icis) I aedem Honori et Virtuti victor fecit. Veste I triumphali ca/ceis patriciis I"

      "[in senatum venit] . C(aius) Marius C(aii).f(i/ius) I co(n)s(ul) (septies) pr(aetor) tr(ibunus) pl(ebis) q(uaestor) augur tr(ibunus) militum.1 Extra sortem bellum cum Iugurta I rege Numidiae co(n)s(ul) gessit eum cepit let triumphans in secundo consulatu I ante currum suum duci iussit.1 Tertium co(n)s(ul) absens creatus est. I (Quartum) co(n)s(ul) Teutonorum exercitum I delevit. (Quintum) co(n)s(ul) Cimbrosfudit ex I iis et Teutonis iterum triumph[avit]. I Rem pub(licam) turbatam seditionibus tr(ibuni) pl(ebis)I et praetor(is) qui armati Capitolium I occupaverant (sextum) co(n)s(ul) vindicavit. I Post LXX annum putria per arma I civilia ex pulsus armis restitutus I (septimum) co(n)s(ul)factus est. De manubiis I Cimbric(is) et Teuton(icis) aedem Honori I et Virtuti victor fecit. Veste I triumphali calceis patriciis I"


      GAIUS IULIUS CAESAR  (GAIO GIULIO CESARE padre del dittatore)
      "[C(aius)/u]lius [C(aii).f(ilius) Caesar] l paterdi[vilulii] I [p)r(aetor) q(uaestor) tr(ibunus) [mil(itum)--]"
      (Gaius Iulius Caesar, filgio di Gaius, padre del deificato Giulio pretore, questore e tribuno militare)

      Egli condusse i coloni a Cercena.
      2) [Plater d[ivi Iulii pr(aetor)]
      - [PJater d[ivi Iulii proc(onsul) -
      3) [aed(ilis) cu)r(ulis) q(uaestor) tr(ibunus) [mil(itum)]
      - [p]r(aetor) q(uaestor) Ir(ibunus) [mil(itum) (decem)vir -
      4) Cerce[ios -
      - Cerce[inam -
      La pretura di C. Julius C. f III Caesar, venne concessa nel 92, secondo altri nell'anno 100, o ancora dopo ma prima del 92. La riga finale dell'iscrizione riferisce che il ruolo di Cesare come membro della commissione dovette eseguire la legislazione di L. Appuleius Saturninus.
      (Foro augusto)

      "C(aius) Iulius L(uci) j(ilius) Caesar I Strabo I aed(ilis) cur(ulis) q(uaestor) tr(ibunus) mil(itum) his (decem)vir I agr(is) dand(is) adtr(ihuendis) iud(icandis) pontij(ex)"
      (Gaius lulius Caesar Strabo, figlio di Lucius, curule aedile, quaestor, due volte tribuno militare, membro di una commissione di decemviri per garantire, attribuire, e determinare  territorie, e pontefice)


      LUCIUS CORNELIUS SULLA  (LUCIO CORNELIO SILLA)
      L. Cornelius L. f. P. n. Sulla Felix questore nel  107, fu pretore nel 93 e fu console nell'88, fu dittatore tra gli anni 82 e 79. Nell'82 si proclamò dittatore, e nell'81-80 trionfò su Mithridate, ed emise le sue riforme amministrative e constituzionali. Nel 79, Sulla lasciò la dittatura.
      Plutarco afferma che Sulla, nel 79, ordinò che fosse chiamto Felix ('Fortunato') per la buona fortuna che aveva accompagnato i suoi successi.

      "[L(ucius) Cornelius L(ucii) fiilius) Sulla] Felix [dict(ator)] co(n)[s(ul) bis pr(ae/or) q(uaestor)]" 
      (Lucius Cornelius Sulla Felix, figlio di Lucius, dittatore, due volte console, pretore e questore)


      LUCIUS LICINIUS LUCULLUS  (LUCIO LICINIO LUCULLO)
      "L(ucius) Licinius L(ucii)j{ilius) I Lucullus I
      co(n)s(ul) pr(aetor) aed(ilis) cur(ulis) q(uaestor)
      I tr(ibunus) militum aug(ur).
      I Triumphavit de rege Ponti Mithridate
      I et de rege Armeniae{ e} Tigrane magnis I
      utriusque regis copUs conp/uribus prolelis terra marique superatis.
      Conlelgam suum pu/sum a rege Milhridat[e II
       cum se is Calchadona contulisset I
      opsidione liberavit"
      (Lucius Licinius Lucullus, figlio di Lucius, console, pretore, curule edile, questore, tribuno militare, ed augure. Celebrò un trionfo su Mithridate, re del Ponto, e su Tigrane, re dell'Armenia dopo che ebbe sottomesso le forze di ogni re in diverse battaglie di terra e di mare. Quando quell'uomo raggiunse la Calcedonia, liberò il suo collega che era stato spinto indietro da un blocco armato per mano del re Mitridate)

      Lucullus fu console nel 74 ed ebbe la pretura nel 78, divenne edile con suo fratello nel 79 e fu questore nell'88. La data del suo tribunato è incerta. Le fonti tacciono su Lucullus augure . Lucullus, ottenuta la proroga del consolato, tornò a Roma nel 66, ma non celebrò il suo trionfo fino al 63. 

      Lucullus, come  proconsole in Asia, Cilicia, Bithynia, e Pontus tra gli anni 73 e 66, comandò con successo la guerra contro Mithridate. L'iscrizione riferisce a Lucullo numerose  vittorie in oriente. Queste includerebbero ad esempio, la distruzione dell'esercito di Mithridate vicino a Cyzicus nel 73, di Mithridates a Cabira nel 72, e gli eventi del 69 quando, nel perseguire Mithridates, Lucullus entrò in Armenia e sconfisse le armate di Tigrane and Mithridate. Nel 74, Lucullus, dopo che M. Aurelius Cotta fu sonfitto da Mithridate ed assediato a Chalcedon, corse in aiuto del suo collega consolare.


      MARCUS CLAUDIUS  (MARCO CLAUDIO)
      "[M(arcus) ClaudJius [C(aius)fi..i1ius) Marc]ellu[s aed(i1is) eur(ulis)J pont[ij(ex)]. [Marcus Claudius Marcellus, son of Gaius, curule aedile, and] pontifex.
      M. Claudius C. f. Marcellus fu curule aedile nel 23 e pontifex nel 24.


      LUCIO CORNELIO SCIPIONE BARBATO

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      TOMBA BARBATO


      Nome: Lucius Cornelius Scipio Barbatus
      Nascita: --
      Morte: 280 a.c.
      Consolato: 298 a.c.

      Fu uno dei due consoli del 298 e guidò l'esercito romano alla vittoria contro gli Etruschi presso Volterra. Fu padre di Lucius Cornelius Scipio e Gnaeus Cornelius Scipio Asina e nonno di Scipione l'Africano.

      Si mise in luce come ufficiale patrizio della repubblica durante la III Guerra Sannitica quando Roma si dovette difendere da una coalizione di stati confinanti: Etruschi, Umbri e Sanniti alleati dei Galli.



      BATTAGLIA DI VOLTERRA 298 ac

      Prima del 298 ac, la guerra era già scoppiata tra Roma e l'Etruria, quando gli Etruschi decisero di invadere Roma, con alcuni alleati Galli che avevano pagato. L'attacco previsto era una violazione di un precedente trattato con Roma. I Galli rinnegati e gli Etruschi si trovarono di fronte un esercito romano guidato dal console Tito Manlio, che però morì dopo una caduta da cavallo, sostituito dal console Marco Valerio Corvo. Marco fece irruzioni nel territorio degli Etruschi per provocarli a combattere, ma questi rifiutarono.

      CORNELIUS
      Nel 298 ac Appio Claudio e Publio Sulpicio divennero interreges per motivi sconosciuti. Nella Roma repubblicana l'interrex era un magistrato nominato dal Senato per convocare i comitia centuriata, le assemblee popolari della Res Publica Romana, onde eleggere i nuovi consoli o i nuovi tribuni consolari, quando i loro predecessori non avessero potuto provvedere durante il loro mandato. L'eletto riceveva l'imperium, che gli dava diritto di verificare se gli auspicia fossero favorevoli.

      Sulpicio indisse le elezioni che nominarono consoli Barbato e Gneo Fulvio Massimo Centumatus. I Lucani parlarono davanti al Senato dicendo che i Sanniti devastavano il loro paese e chiedendo la protezione di Roma in cambio di un trattato e ostaggi. Il Senato acconsentì e spedì araldi per intimare i Sanniti a ritirarsi, ma questi vennero uccisi, pertanto il Senato dichiarò guerra Sannio. 
      Barbatus prese il comando dell 'esercito in Etruria, mentre Centumatus intraprese la campagna iniziale nella III guerra sannitica.
      Gli etruschi attaccarono Volterra. La giornata di battaglia non potò, ma nella notte gli Etruschi si ritirarono nelle loro città fortificate che lasciano il loro accampamento e le attrezzature ai Romani. Accampato il suo esercito al confine etrusco Barbato ha portato una forza leggermente armato nella devastazione della campagna.



      BATTAGLIA DI TIFERNUM, 297 ac.

      L'anno dopo gli Etruschi chiesero la pace. I nuovi consoli del 297 ac, Quintus Fabius Maximus e Decius Mus portarono la guerra nel Sannio, mentre Barbatus divenne legatus sotto Maximus. 

      Per far avanzare i romani, i sanniti avevano nascosto il grosso dell'esercito nelle colline alle spalle per incinearli in un trabocchetto. Ma  Fabio fiutò l'inganno e pose il suo esercito in formazione quadrangolare prima del "nascondiglio" dei Sanniti, che allora scesero a combattere linea contro linea.

      Non potendo ottenere la vittoria, Fabius ritirò i lancieri della I Legione dalla linea e li inviò a Barbato furtivamente girando il fianco nemico nelle colline alle spalle, da cui quest'ultimo era già disceso. Venne ordinato di coordinare un attacco da dietro con una carica di cavalleria particolarmente vigorosa verso la parte anteriore della linea sannita. Il piano andò male: la carica era venuta troppo presto e fu respinta. Un contrattacco cominciava a rompere la linea romana quando degli 'uomini apparvero sulle colline e vennero scambiati per il secondo esercito romano sotto Mus, un disastro per i Sanniti." Erano invece gli uomini di Barbatus ma i Sanniti spaventati abbandonato il campo di gran fretta lasciando dietro di sé 23 insegne e 3400 uccisi, mentre 830 furono fatti prigionieri. Infatti Publio Decio Mure era lontano nel Sannio sud.





      CAMPAGNE SOTTO CLAUDIUS E FLAMMA, 296 a.c.

      Avendo inviato all'esercito sannita due consoli, si procedette alla riduzione sistematica del Sannio per un periodo di cinque mesi fino alle elezioni successive. Mus viaggiò operando con 45 campi in successione, mentre Massimo ne utilizzò 86. 

      Dopo le elezioni i nuovi consoli ordinò loro di continuare la guerra nel Sannio per sei mesi, ciascuno con il grado di proconsole. L'esercito sannita sotto Gellio Egnazio, non potendo rimanere nel Sannio, offrì i suoi servizi a Etruria, che sono stati accettati, sotto la guida di Egnazio  Degli Umbri erano stati arruolati  e mercenari galli erano stati assunti. Chiamati in riunione i capi dell'Etruria Egnazio ha dichiarato che la guerra per la libertà era meglio della pace con servitù ed annunciò la sua intenzione di attaccare Roma. Gli Etruschi concordarono.

      Avuto notizia del pericolo il senato inviò in Etruriale legioni I e IV con 12,000 soldati di truppe alleate. Diverse scaramucce inconcludenti furono combattute. Il II console nel 296, Lucio Volumnio Flamma, assisteva i due proconsoli nella riduzione del Sannio quando i Lucani disertarono, influenzati da un appello dalla gente del Sannio. Flamma affermò di aver ricevuto una lettera da Claudio che chiedeva assistenza militare,  richiesta successivamente smentita da Claudio. 
      Maximus con Barbato venne inviato alla riduzione della Lucania partì per l'Etruria.

      Claudio voleva cacciarlo via ma tutti gli ufficiali del suo esercito insisterono perchè restasse. Il clamore richiamò i nemici alla battaglia.  I Romani attaccarono così ferocemente con Claudio in prima fila insieme con gli uomini e continuamente invocando la dea della guerra, Bellona, con le mani alzate al cielo, che i romani uccisero 7300 e presero 2.120 prigionieri.

      Nel frattempo le forze ridotte di Massimo e Mus non riuscirono a trattenere i Sanniti, che con un nuovo esercito invasero e saccheggiarono la Campania. Arrivando a marce forzate Flamma, apprese che l'esercito sannita era accampato al fiume Volturno. Nella battaglia di Volturno del 296 ac l'esercito di Flamma attesero per un agguato al di fuori dei cancelli del campo sannita. Flamma aveva inviato spie  la sera prima, da cui aveva appreso che i Sanniti avrebbe fatto marcia all'alba.

      Infine Flamma consentì a parte dell'esercito sannita di uscire, dividendo le loro forze, prima di lanciare un attacco dentro al campo nemico. 7400 prigionieri romani presi in precedenza dai Sanniti si liberarono e si unirono nei combattimenti. Alla fine della giornata i romani avevano ucciso 6000, preso 2.500 prigionieri, tra cui quattro tribuni militari e il comandante, Stazio Minacius, e catturato 30 stendardi. Ridistribuirono il bottino sannita ai richiedenti e regalò le proprietà non reclamate ai soldati. Alle speranze sannite del sud era stato inferto un colpo fatale.

      Tuttavia giunsero notizie a Roma che Gellio Egnazio aveva sollevato un altro esercito nel nord composto da Sanniti, Etruschi, Umbri e Galli. Il Senato si preparò a mobilitare l'ultima delle forze romane: tutti i maschi, inclusi gli adolescenti, gli anziani e i figli dei liberti. Per la prima volta si cominciò a discutere lo spopolamento permanente del Sannio, che fu effettuato solo in parte.

      INTERNO DELLA TOMBA


      LA SVOLTA 295 ac.

      Con le elezioni del 295 ac. Flamma fu richiamato a condurre i romani. Maximus e Mus furono eletti, con Appius Claudius con la carica di pretore. .
      Maximus insistè per il comando in Etruria finchè il Senato acconsentì alla sua richiesta. Claudio venne sollevato dall'incarico e mandato a casa perchè aveva permesso ai suoi uomini di stare in campo senza addestramento, senza marce per il pattugliamento e la formazione. Grazie a Claudio, Massimo fu presto richiamato a spiegare la sua condotta nella campagna etrusca e ricevere eventuali ulteriori ordini. Barbato compare improvvisamente perchè era stato sotto il comando di Massimo per tutto il tempo. Massimo assegna Barbato come propretore della II Legione di stanza temporaneamente a Chiusi. Si parte quindi per Roma.


      Censore Patrizio

      All'epoca della sua morte Barbatus fu censore patrizio nel 280 ac. Fu un censorato notevole perchè il primo che ricordiamo.


      Epitaffio

      Il suo sarcofago fu scoperto nella Tomba degli Scipioni, l'unica trovata intatta, scritta in latino antico, ed ora si trova nel Museo Vaticano. Versi Saturni: CORNELIVS·LVCIVS·SCIPIO·BARBATVS·GNAIVOD
      PATREPROGNATVS·FORTIS·VIR·SAPIENSQVE
      QVOIVS·FORMA·VIRTVTEI·PARISVMAFVIT
      CONSOL CENSOR·AIDILIS·QVEI·FVIT·APVD·VOS
      TAVRASIA·CISAVNASAMNIO·CEPIT
      SVBIGIT·OMNE·LOVCANA·OPSIDESQVE·ABDOVCIT

      MILETUS - MILETO ( Turchia )

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      INGRESSO DEL MERCATO, RICOSTRUZIONE (BERLINO)

      Mileto è una città costiera della regione Caria in Asia Minore, famosa nel mondo antico per la sua vita intellettuale, artistica, economica e politica.

      Posta in posizione strategica sulla costa sud-occidentale dell'Anatolia, su un promontorio prossimo alla foce del fiume Meandro, ospitava un'importante via carovaniera che collegava la Mesopotamia alle coste del mare Egeo e alle sue numerose e floride isole. Mileto commerciava infatti con decine di colonie poste sulle sponde del mare di Marmara e del mar Nero. 



      LA FONDAZIONE

      Le prime tracce della popolazione greca si riscontrano nei resti micenei risalenti a circa 1300 anni ac., emersi dalla collina di Kalabak-Tepè dove poi si sviluppò la città greca arcaica: altri però ritiengono che questi resti micenei appartengano a civiltà Pregreche. 

      Comunque sicuramente  prima del 1000 ac. gli Ioni erano già insediati in Mileto, come un po' in tutta la costa dell'Asia Minore, e se Omero dice che Mileto è abitata dai Carî, lo fa, secondo alcuni per tener fede a un mito.

      Questi Ioni venivano dalla Grecia centrale e più precisamente dalla Beozia e dall'Attica e portarono con sé il culto di Poseidone Eliconio, dal nome del monte Elicona in Beozia. Forse fu quello stesso Poseidone che ad Atene aveva già perso ai voti contro la protettrice della città Atena.

      Fondatore della città era ritenuto talvolta Anax, più spesso Neleo. In realtà l'uno e l'altro nome non erano in origine che un appellativo di Poseidone considerato come divinità infera. 

      Tanto Anax ( principe) quanto Neleo (senza pietà) sono nomi di attributi che seguono spesso il nome della divinità infere, a cui appartengono non solo i morti ma pure i semi maturati nel sottosuolo, e pertanto generatrici di vita, spesso indicati, come in genere accade, capostipite delle tribù e poi fondatore di città.
      Ma sappiamo pure che spesso i capi tribù più famosi venivano divinizzati e adorati dai posteri che ne dimenticavano le origini terrestri.

      Quando il Dio Neleo fu umanizzato e considerato re di Pilo nel Peloponneso si scrisse dell'origine pilia dei Milesî, ma in realtà la questione è controversa. 

      In Mileto venne adorato, oltre a Poseidone, anche l'altra divinità della stirpe ionica, Apollo, a cui era dedicato in un sobborgo (Didime) uno dei più celebri santuarî con oracolo del mondo antico. Non è da dimenticare inoltre un mito ancora più antico, quello di Diana Caria cui era sacro il noce e che fu detentrice, col suo santuario di sole sacerdotesse, dei Sacri Misteri.

      Non a caso nella Magna Grecia dei coloni recarono il culto della Dea presso quel di Maleventum (Benevento), coi riti che dettero origine all'esisenza delle streghe medievali tristamente poi condannate sui roghi.

      Secondo il MARMUM PARIUM, Mileto fu fondata tra il 1077 e il 1075. 
      Secondo il matematico, geografo e astronomo Erastotene fu invece fondata nel 1044.

      Il Marmor parium è un'iscrizione greca, metà III sec. a.c., incisa su una lastra di marmo di 2 m x 70 cm ritrovata in frammenti nell’isola di Paro.
      Di autore ignoto, essa riporta numerosi avvenimenti della storia greca, forse scritto tra il 264 ed il 245 a.c.

      Si tratterebbe di una compilazione ateniese della quale l’iscrizione era una copia ad uso dei cittadini di Paro, che iniziava col regno di Cecrope fino al 264 ac. per uno spazio di 1318 anni circa.



      LA STORIA

      Nell'Iliade Mileto è ancora una città Caria e i suoi abitanti combattono contro gli Achei, e non abbiamo a nostro avviso motivo di dubitarne, poi durante la prima colonizzazione greca, la città fu rifondata da colonizzatori Ioni che sottrassero il territorio ai Carii. 

      Rimase fino all'VIII sec. a.c. sotto il controllo della dinastia dei Nelidi, provenienti forse da Atene. 
      In seguito il governo fu esercitato dall'aristocrazia, che fece di Mileto un attivissimo centro di scambi commerciali.

      INTERNO DEL MERCATO
      Nel VII sec. a.c. fece parte della Lega Ionia, per resistere all'impero persiano. 

      Poi nel 590 a.c. per alcuni  dovette subire l'ingerenza di Creso re della Lidia, ma solo per pochi decenni. Successivamente si ebbe un governo di tipo teocratico sotto l'autorità dei sacerdoti di Apollo Delphinios, fino alla conquista dell'imperatore persiano Ciro.

      Un'insurrezione popolare (499 - 494 ac.) contro i Persiani fece si che la città fosse distrutta e saccheggiata dai Persiani, ma dopo la vittoria greca nel 479 a.c.sui persiani portò alla ricostruzione della città, che rimase sotto l'influenza ateniese fino al 412 a.c., quando Mileto abbandonò Atene e si alleò con Sparta.

      Nel 401 a.c. tornò sotto l'egemonia persiana di Ciro il Giovane, ma venne liberata nel 334 a.c. da Alessandro il Grande.

      Con l'età ellenistica Mileto tornò ad essere uno dei maggiori centri dell'Asia Minore e i re Seleucidi, colti e illuminati, per quasi tutto il sec. III la incorporano nel loro territorio, favorendo le arti e i commerci e accordando loro una relativa autonomia. 

      L'invasione dei Galati con il saccheggio del tempio di Didime nel 277-6 fu una breve parentesi che non portò alla dominazione dei Galati.

      Invece il nascente regno di Pergamo per attirare Mileto nella sua orbita ne accrebbe la prosperità e lo splendore con continui donativi.

      In effetti intorno al 190, quando iniziano pure le relazioni con i Romani, Mileto era inserita nel regno di Pergamo, naturalmente come città autonoma.

      Mileto entrò a far parte, come città libera, della provincia romana d'Asia nel 133 a.c..

      Il passaggio al dominio romano segna per la città un periodo di decadimento commerciale.
      Mileto si trasformava in una città di provincia e i cittadini si ribellarono appoggiando Mitridate contro Roma.

      Questo tuttavia peggiorò la situazione perchè Mileto perdette la libertà nel 78 a.c., proprio per l'appoggio dato a Mitridate nella guerra contro Roma.

      I Romani, ormai egemoni dell'Asia, imposero alla città un governo oligarchico, il governo dei 50 arconti. 

      Antonio, nel 38 ac., restituì l'autonomia alla città, dando inizio ad una nuova politica romana verso la provincia di Asia onde favorirne l'incremento, e per tutto il periodo imperiale Mileto godrà di grande prosperità, testimoniata dal suo patrimonio monumentale, le cui rovine sono in gran parte visibili percorrendone la Via Sacra.

      Nella Lega ionica rinnovata da Alessandro e poi da Augusto, Mileto avrà ora una posizione di preminenza anche per il crescente prestigio del santuario di Didime: essa sarà considerata e chiamata la metropoli della Ionia.

      Nel 263 dc. i Goti invadendo l'Asia procurando a Mileto il primo segno della decadenza, anche se, in pratica, essa rimase intatta nei suoi edifici, a causa della miracolosa protezione di Apollo sulla città, o almeno così si credette.

      A partire dal VI sec. iniziò la sua decadenza, fino al X sec., quando fu distrutta da un terremoto.

      TEATRO GRECO ROMANO



      DESCRIZIONE

      I resti della città di epoca arcaica si trovano sulla collina di Kalabaktepe: sono tracce di fortificazioni, di edifici d'abitazione e di un tempietto ionico in antis, della II metà del sec VI ac.

      In quell'epoca la larghezza massima dell'abitato andava da 800 a 1000 m.; la lunghezza massima era di m. 2500 circa.

      L'impianto urbano della città del sec. V a.c. si estendeva invece su tutto il promontorio ed era costituito da una serie di isolati regolari, disimpegnati da strade tra loro parallele e ortogonali.

      PARTICOLARE DEL TEATRO
      Il porto principale di Mileto, il porto dei Leoni così chiamato a causa delle sue grandi statue di leoni, era fronteggiato da una piazza su cui si ergeva il santuario del Dio patrono della città, Apollo Delphinios.

      Il grande recinto porticato (iniziato verso il 470 - 450 ac.),  un recinto rettangolare di m. 50 × 60, scoperto, con edificio rotondo centrale circondato da peristilio, e con grande altare sull'asse, fungeva anche da archivio di stato, contenendo inoltre numerose iscrizioni, rilievi votivi e statue onorarie. 

      Di seguito a sud c'erano le terme romane di Cneo Vergilio Capitone e un ginnasio o palestra di età ellenistica.


      Al centro della piazza svettava la grande fontana monumentale, o ninfeo, di età traianea, la cui fronte costituiva una scenografia grandiosa a tre ordini di nicchie adorne di statue e divise da colonne.

      Quindi un santuario di Asclepio. Dalla parte opposta della piazza, a nord ovest, sorgeva l'agorà settentrionale, con portico interno continuo.
      Dalla piazza del porto iniziava poi la grande strada che conduceva al santuario di Apollo a Didima.

      TEATRO
      Presso di essa si trovavano le piazze principali di Mileto, in mezzo a un complesso di edifici pubblici e privati.
      Il vero e proprio centro della città era la piazza in cui sorgeva il Buleuterio (175-164 ac.), contenente all'interno una gradinata semicircolare capace di ospitare ben 1200 persone.

      Il buleuterio (senato), consistente in un vano originariamente chiuso, occupato da una cavea semicircolare a gradini come quella di un teatro, con un cortile d'ingresso, che porta nel centro un tempietto sepolcrale (heroon). 

      Un'agorà molto più grande della prima, anzi la più grande che si conosca (m. 164 × 197), con portici e tabernae, chiudeva a sud questa zona monumentale, con la quale comunicava per mezzo di un ingresso di aspetto solenne, a tre fornici e due ordini di colonne, di età romana.

      Dalla piazza del Buleuterio si passava dunque a questa vastissima agorà attraverso una porta monumentale, di età antonina, i cui elementi sono stati pressoché interamente trasportati e ricomposti nel museo di Pergamo a Berlino.

      L'agorà era fiancheggiata da grandi porticati. 

      Presso il porto più interno sorgeva un grande complesso termale, donato da Faustina (probabilmente la moglie di Marco Aurelio), che conteneva numerose e preziose opere d'arte.

      Il teatro era uno dei più grandi dell'Asia Minore, con 140 m di diametro, iniziato alla fine del sec. IV ac.

      Trattavasi di un bellissimo teatro romano, ricostruito su quello ellenico antico, eretto sul fianco della collina dominante la sponda settentrionale del porto del teatro, riedificato su un teatro simile più antico.

      CAVEA DEI GLADIATORI
      La cavea del teatro, ancora oggi ben conservato, poteva contenere 25.000 spettatori.

      C'era poi lo stadio per le corse dei cavalli, rettangolare, lungo 194,5 m, capace di ospitare sulle gradinate circa 14.000 persone.

      La via processionale che partiva dalla piazza del porto dei Leoni, passava per il sobborgo occidentale di Panormos e raggiungeva dopo circa 16 km Didima, la sede del tempio di Apollo Pbílesios, uno dei più importanti santuari oracolari del mondo antico.

      All'angolo nord est dello stadio sorgeva invece il santuario di Iside e Serapide, il Serapeum e ad est delle terme.

      L'AGORA'
      Gli scavi hanno riportato alla luce i resti prepersiani (sec. VII ac.) degli edifici, e inoltre un cospicuo numero di statue virili sedute, disposte lungo la via sacra, risalenti al sec. VI ac.

      L'edificio del tempio, ricostruito integralmente in età ellenistica, era uno dei più imponenti e ammirati dell'antichità: un grandioso tempio ionico diptero, a cui si lavorava ancora sotto Caligola, e non fu mai portato a compimento a causa dell'eccessiva ampiezza.

      Il tempio ellenistico è di tipo ionico, dittero e decastilo, con 10 colonne su ciascuna fronte e 21 sui lati lunghi.
      Le sue dimensioni erano di m. 109 × 51, con colonne dell'altezza di m. 17,55 sopra uno stilobate di sette gradini.

      LE TERME DI FAUSTINA
      Le basi superstiti sono modellate e scolpite secondo disegni originali e svariati.
      Proporzionatamente ricchi, a protomi umane e animalesche, erano i capitelli. Il solo pronao risulta occupato da 12 colonne su tre file.

      Dalla grande porta si accedeva in una specie di anticamera, con scale e corridoi di accesso al piano superiore. 

      Segue quindi tuttora una scala in discesa di 22 gradini, larga m. 15,50, di raccordo con l'adyton, cioè con l'interno del santuario che era ipetrale, cioè completamente scoperto.

      Nel fondo dell'adyton sorgeva un tempietto, tetrastilo, pure di stile ionico, dove si venerava la celebre statua di Apollo Filesio, opera dello scultore Canaco.

      A sud della città, tra le mura di fortificazione e la collina di Kalabak-Tepè, già compresa nello stesso sistema fortificato, si stendeva la necropoli.

      Dalla Porta Sacra, sul tratto meridionale delle mura, partiva invece la Via Sacra la quale, dopo un percorso di 18 km., raggiungeva l'antico porto di Panormo (Porto Kovella); dove approdavano i pellegrini per recarsi a Didime.

      Poco più a sud ovest, si trovava santuario di Apollo Didimeo, dove si venerava l'oracolo che fece Mileto famosa e ricca.
      L'altra Via Sacra, di 5 km. circa, da Panormo al tempio, era fiancheggiata da monumenti sepolcrali varî.

      Quivi furono rinvenute le statue dette dei Branchidi (la famiglia sacerdotale che ebbe l'amministrazione del santuario fino all'invasione persiana), che T. Newton tolse di là nel 1858: - ben dieci statue sedute, più altre sculture che portò al British Museum, dove contano fra le opere più antiche e più notevoli della scultura ionica.

      Fu distrutto da un terremoto verso l'anno 1000. 

      GAIO SULPICIO GALLO

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      Nome: Caius Sulpicius Gallus
      Nascita: -
      Morte: -
      Interessi: Astronomia









      Gaio Sulpicio Gallo (... – ...) è stato un console romano, noto anche per i suoi interessi astronomici.

      Gaio Sulpicio Gallo lo troviamo nelle fonti per la prima volta nel 170 a.c., quando fu scelto dai delegati delle popolazioni iberiche presso il Senato romano come uno dei quattro patroni che avrebbero dovuto rappresentarli nel processo contro i magistrati romani accusati di prevaricazione nei loro confronti.

      Nel 222 a.c. i comandanti romani Marco Claudio Marcello e Gneo Cornelio Scipione avevano conquistato l'intera zona macedonica,  ma Gaio Sulpicio, nominato Pretore urbano nel 169 a.c., l’anno successivo, nel 168, nominato tribuno militare, partecipò alla battaglia di Pidna sotto il console Lucio Emilio Paolo, e, nominato console nel 166,  sconfisse definitivamente i Liguri consolidando definitivamente la conquista.

      Nello stesso anno del 166, per la vittoria sui Liguri gli venne decretato il trionfo. Nel 164 a.c. fu inviato dal Senato in Grecia, a Pergamo, insieme a Gaio Manio Sergio, con una delicata missione: dirimere una disputa sorta tra Megalopoli e Sparta per questioni territoriali e, soprattutto, indagare sul comportamento di Eumene II e Antioco IV, sospettati di preparare un attacco contro Roma.

      Le sue qualità morali sono lodate da Marco Tullio Cicerone nel "De amicitia". Tuttavia si sa che egli ripudiò la moglie solo per aver saputo che si era intrattenuto fuori casa a capo scoperto, visto che solo il marito doveva godere della bellezza di sua moglie, se ella si faceva guardare dagli altri il suo comportamento era sospetto. Ma certi maschilismi Cicerone li apprezzava non poco.



      L'ASTRONOMIA DI SULPICIO

      Sulpicio Gallo preannuncia l'imminente eclissi di luna:

      (Tacito - Tito Livio) "Caius Sulpicius Gallus, tribunus militum secundae legionis, qui praetor superiore anno fuerat, consulis permissu ad contionem militibus vocatis, ..."

      "Caio Sulpicio Gallo, tribuno dei soldati della II legione, che era stato l'anno prima pretore, con il permesso del console, chiamati i soldati a parlamento, annunciò loro che la notte seguente, perchà qualcuno non lo prendesse come un prodigio, dall'ora II fino alla IV la luna si sarebbe oscurata; questo poichè accadeva per l'ordine naturale ed in certi tempi definiti, lo si poteva sapere e predire in anticipo.
      E così, come ad esempio nessuno di meraviglia che la luna splenda ora con un disco pieno, ora invecchiando con un corno sottile, conoscendosi con certezza il sorgere e il tramontare del sole e della luna, così non dovevano ritenere un prodigio che essa si oscurasse immergendosi nell'ombra della terra.
      La botte che precedette le none di settembre, all'ora indicata, quando la luna si oscurò, parve ai romani quasi divina la scienza di Gaio Gallo, colpì invece i Macedoni, come tristo prodigio che indicava la caduta del regno e la rovina. Si ebbero grida ed urla nei campi dei Macedoni, fino a quando la lina non riprese il suo chiarore.

      Aopra ogni cosa Gaio Sulpicio venne ricordato dalle fonti per i suoi interessi astronomici.

      Si racconta che alla vigilia della battaglia di Pidna abbia predetto un’eclissi lunare, evitando che le truppe fossero intimorite dal fenomeno.

      Secondo la testimonianza di Plinio aveva anche scritto un libro sull’argomento delle eclissi e si era occupato delle dottrine astronomiche pitagoriche.

      RICOSTRUZIONE PLANETARIO ANTIKYTHERA



      IL PLANETARIO DI ARCHIMEDE

      Nel 166 a.c. ebbe l’occasione di esaminare il planetario di Archimede, mostratogli dal suo collega di consolato Marco Claudio Marcello.

      Questi, nipote del Marco Claudio Marcello conquistatore di Siracusa, lo aveva infatti ereditato dal nonno, che l’aveva portato a Roma come bottino di guerra.

      Informazioni su quest'oggetto sono fornite da Cicerone, il quale scrive che nell'anno 212 a.c., quando Siracusa fu saccheggiata dalle truppe romane, il console Marco Claudio Marcello portò a Roma un apparecchio costruito da Archimede che riproduceva la volta del cielo su una sfera e un altro che prediceva il moto apparente del sole, della luna e dei pianeti, equivalente quindi a un moderno planetario.

      Le notizie più attendibili sullo strumento progettato da Archimede le dobbiamo a questo console romano. Egli ne lasciò infatti una descrizione che è in parte riferita da Cicerone a proposito della Sapienza, nel De re publica:
      "tutta la cura che si porrà nello studio delle cose oneste e degne di essere apprese, sarà giustamente lodata. Così nell'astronomia fece Gaio Sulpicio, per quanto ho sentito dire, e nella geometria Sesto Pompeo, che io stesso conobbi, e molti nella dialettica e più ancora nel diritto civile; le quali arti tutte hanno di mira la ricerca del vero.."
      Del famoso planetario di Archimede si persero le tracce negli anni successivi.

      Cato Maior " De Senectute": "Vedevamo Gaio Gallo, amico di tuo padre, Scipione, struggersi nello sforzo di misurare quasi il cielo e la terra. Quante volte la luce del giorno lo sorprese a tracciare disegni iniziati di notte, quante volte la notte quando aveva iniziato al mattino! Come gli piaceva predirci con largo anticipo le eclissi di sole e di luna!"

      La sua dottrina astronomica fu poi tenuta in gran conto, soprattutto per misurare le distanze tra gli astri e la terra. E' attestata la familiarità di Gaio col padre di Scipione e probabilmente anche col figlio.

      Un ingranaggio probabilmente identificabile come appartenuto al planetario di Archimede è stato rinvenuto nel luglio del 2006 a Olbia. Secondo una ricostruzione il planetario, che sarebbe stato tramandato ai discendenti del conquistatore di Marcello, potrebbe essere andato perso nel sottosuolo cittadino di Olbia (probabile scalo del viaggio) prima del naufragio della nave che trasportava Marco Claudio Marcello (console 166 a.c.) in Numidia.

      Cicerone scrisse che già il filosofo Posidonio aveva realizzato un globo che mostrava i moti del Sole, delle stelle e dei pianeti come appaiono in cielo. E che pure Archimede aveva concepito un modello che imitava i movimenti dei corpi celesti.

      Una recente analisi, basata su scansioni ai raggi-X del meccanismo, fatta da Michael Wright, curatore dell Istituto di Ingegneria meccanica al Museo delle Scienza di Londra, ha portato all'individuazione dell'esatta posizione di ogni ingranaggio.

      Wright ha trovato prove che il meccanismo di Antikythera sarebbe stato in grado di riprodurre accuratamente il moto del sole e della luna, usando un modello epiciclico elaborato da Ipparco, e dei pianeti Mercurio e Venere, usando un modello epiciclico elaborato da Apollonio di Perga. Ha inoltre dichiarato che il meccanismo deve essere stato costruito mediante l'ausilio di antichi attrezzi, anche se la realizzazione di una ruota metallica dentata implica l'utilizzo di lame sofisticate ed un altissima abilità.
      In suo onore un cratere lunare porta il suo nome.


      http://www.filosofiscienza.it/pdf/mathesis12.pdf

      Da Olbia un frammento del planetario di Archimede

      di GIOVANNI PASTORE

      "Nel luglio del 2006, durante uno scavo d’emergenza nella piazza del Mercato civico nell’abitato di Olbia, fu raccolto un frammento di una ruota dentata con denti che parvero allora di profilo triangolare. Dopo lunghi e approfonditi studi, sono emerse tre novità principali: il frammento risale alla fine del III o
      inizio del II secolo a.c.; il profilo dei piccoli denti è risultato curvo, non triangolare; il materiale di cui è composto non è bronzo ma ottone.

      PLANETARIO ANTIKYTHERA
      Poiché nello scavo sono stati trovati unicamente reperti che vanno dalla fine del III all’inizio del II secolo a.c., la cronologia del frammento è del tutto compatibile con la fine del III secolo a.c., e cioè con il culmine dell’attività di Archimede, che corrisponde proprio alla fase apicale della scienza ellenistica.

      Attualmente è il più antico ingranaggio della storia e non stupisce, quindi, che stia suscitando un grandissimo interesse nella comunità scientifica internazionale.

      Dopo il ritrovamento Calcolatore di Antikythera, avvenuto nel 1902, per cinquant’anni non si è capito cosa fosse. Nel 1951 Derek John De Solla Price (1922-1983) cominciò, per la prima volta, a studiare il meccanismo nei dettagli anche con radiografie ai raggi gamma e, dopo circa 20 anni di ricerche, riuscì a capire come funzionava definendolo un calcolatore astronomico, cioè un planetario meccanico, il più antico calcolatore analogico conosciuto della storia. Aveva la funzione di riprodurre le fasi lunari e il moto del Sole e della Luna fra le costellazioni dello zodiaco.

      Probabilmente poteva rappresentare anche il moto attorno al Sole dei pianeti visibili ad occhio nudo (Mercurio, Venere, Marte, Giove, Saturno). Poteva servire sia come strumento per la navigazione sia come strumento per indagini astronomiche. Gli ingranaggi di bronzo sono stati realizzati con la tecnologia all’epoca disponibile, comunque insufficiente per la precisione che si poteva ottenere.


      Il Calcolatore di Antikythera è ad oggi l’unico planetario giunto fino a noi, ma le fonti classiche ne citano un altro ben più antico, costruito da Archimede nel III sec. a.c., anch’esso presumibilmente con meccanismi ad ingranaggi.

      Infatti Cicerone (106-43 a.c., contemporaneo quindi all’affondamento del Calcolatore di Antikythera) riferisce (De Re Publica, I, 14, ed inoltre anche 21 e 22; Tusculanae disputationes, I, 63) che, dopo la conquista di Siracusa nel 212 a.c., il console romano Marcello aveva portato a Roma un globo celeste e un planetario costruiti da Archimede (287-212 a.c.).

      Questo planetario è menzionato anche da Ovidio (I sec. a.c.) nei Fasti (VI, 263-283), da Lattanzio (IV sec. d.c.) nelle Divinae institutiones (II, 5, 18) e in un epigramma di Claudiano (IV sec. dc.)
      intitolato In sphaeram Archimedis.

      In particolare, Claudiano aggiunge che lo strumento era racchiuso in una sfera stellata di vetro.

      I planetari meccanici ad ingranaggi, come quello di Antikythera o di Archimede, funzionavano come un calcolatore portatile a programma fisso nel senso che si inserivano i dati, i giri della manovella corrispondenti ai giorni, e la macchina, che era già “programmata nell’hardware” per quegli algoritmi di calcolo, dava direttamente le informazioni attinenti, cioè le posizioni del Sole e della Luna rispetto alle costellazioni (e forse anche le posizioni degli altri pianeti).

      I planetari ad ingranaggi, come pure le calcolatrici meccaniche, sono sistemi a logica fissa dove cioè il software, e quindi gli algoritmi di calcolo, è insito nella macchina stessa (hardware). Per modificare tali algoritmi bisogna sostituire le leve e gli ingranaggi. Invece, nei sistemi a logica programmabile, come i moderni planetari elettronici o gli attuali computer, è possibile modificare gli algoritmi di calcolo utilizzati per la simulazione del moto dei corpi celesti modificando solo il software, pur restando inalterato l’hardware.

      Nel planetario di Antikythera il moto del Sole e della Luna è rappresentato da due lancette che ruotano a differenti velocità sul quadrante anteriore su cui sono riportate le costellazioni dello zodiaco. Purtroppo non è rimasta alcuna descrizione dettagliata dei meccanismi che animavano il planetario di Archimede in
      quanto la sua opera Sulla costruzione della Sfera, in cui descriveva i principi seguiti nella costruzione, è andata perduta. Notizie dell’esistenza di quest’opera ci pervengono da Pappo.

      RICOSTRUZIONE DEL PLANETARIO ( MUSEO DI SIRACUSA)
      I denti dell’ingranaggio di Olbia, prima del restauro, apparivano a forma triangolare, come quelli del reperto di Antikythera e come quelli di tutti gli altri ingranaggi realizzati nei secoli successivi, perfino come quelli disegnati da Leonardo da Vinci per le sue macchine. Con grande stupore, invece, dal restauro è emersa una evidenza inaspettata e ben più importante: il profilo dei denti dell’ingranaggio non è risultato triangolare, ma curvo, e per di più straordinariamente simile, nella forma e nelle dimensioni, a quello dei denti degli ingranaggi moderni.

      La perfezione dell’ingranamento, senza giochi eccessivi e interferenze, si raggiunge negli ingranaggi moderni il cui profilo coniugato è il risultato di studi matematici accurati e profondi.
      I denti triangolari degli ingranaggi come quelli del Calcolatore di Antikythera. e dell’astrolabio bizantino, invece, permettono ugualmente l’ingranamento, ma in modo molto grossolano per l’eccessivo gioco fra i denti in presa e per problemi di interferenza, che provocano impuntamenti nella rotazione.

      Al computer è stato ricostruito il profilo della corona dentata del reperto e a questo sono stati sovrapposti, comparativamente, sia il profilo triangolare di una identica ruota e sia il profilo moderno di una analoga ruota dentata avente gli stessi elementi caratteristici (modulo, numero dei denti, diametro primitivo).

      Dalle misurazioni comparate sui profili risulta una impressionante coincidenza del profilo dei denti di Olbia con quelli degli ingranaggi moderni, mentre sono molto marcate le differenze dimensionali con gli ingranaggi a profilo triangolare.

      Il reperto di Olbia presenta anche un dente rotto con inizio rottura a metà altezza, proprio dove comincia ad essere rilevante la sollecitazione di flessione, prova inconfutabile che l’ingranaggio faceva parte di un meccanismo che ha lavorato.

      Recentemente è stata eseguita l’analisi chimica spettrografica del materiale ed è emersa un’altra sorpresa inattesa.

      Il frammento metallico che si pensava fosse bronzo, una lega di rame e stagno molto diffusa e utilizzata nell’antichità, così come quello degli ingranaggi di Antikythera o degli altri meccanismi antichi, è risultato invece ottone, una lega di rame e zinco.

      L’ottone era molto più prezioso del bronzo, ma più appropriato per la costruzione di organi molto sollecitati come le ruote dentate, per le sue migliori proprietà meccaniche e tecnologiche, così come infatti è avvenuto per la costruzione della maggior parte degli strumenti scientifici fin dal tardo Medioevo.

      Il reperto evidenzia anche una straordinaria precisione costruttiva, nonostante sia stato realizzato manualmente in un mondo in cui la tecnologia meccanica era di livello molto basso rispetto a quello attuale, e comunque insufficiente per un meccanismo così complesso cinematicamente, per la mancanza all’epoca di speciali attrezzature, macchine utensili e strumenti di misura, elementi indispensabili per eseguire una corretta lavorazione metalmeccanica.

      A questo punto è sorto spontaneo il sospetto che a costruire questo ingranaggio, compreso tutto il meccanismo di cui faceva parte, sia stata una mente geniale, il cui pensiero scientifico, dall’astronomia alla matematica e alla scienza dei materiali, era avanti di secoli, se non addirittura di millenni, rispetto al suo tempo. Dalle fonti al momento disponibili, un uomo che corrispondeva a questa descrizione era Archimede di Siracusa, il matematico e inventore più stimato del suo tempo. Data la pregevole fattura del reperto, le piccole dimensioni e tutte le conoscenze scientifiche che la sua realizzazione presuppone, è ovvio pensare che fosse un frammento del tanto celebrato planetario di Archimede, anche perché il
      meccanismo o parte di esso non è mai stato ritrovato.

      Dal momento che la pertinenza di questi congegni doveva essere fortemente elitaria e che dopo la conquista della Sardegna nel 238 a.c. Roma vi invia merci, milizie e la migliore aristocrazia con funzioni di governo, è facile intuire che gli esponenti in sede locale erano intenti a dispiegare il maggiore apparato
      possibile di esibizione del rango in termini di mezzi, uomini e beni di prestigio.

      In questo quadro è del tutto plausibile individuare in uno di questi aristocratici provenienti da Roma e residente ad Olbia, o anche solo di passaggio da o per le province occidentali, il possessore del dispositivo esibito in loco sfruttandone le capacità previsionali di fenomeni celesti come segno di conoscenza superiore
      del cosmo, se non proprio di rapporto privilegiato con esso o, se del caso, per prevenire momenti di sbigottimento del popolo per fenomeni astrali ritenuti segno di sciagura.
      In un mondo in cui dominava la superstizione e con conoscenze scientifiche molto limitate e solo patrimonio di pochi, per qualunque individuo del mondo antico un congegno del genere avrebbe avuto un valore incalcolabile.

      ARCHIMEDE
      Capire il movimento del Sole e della Luna nel cielo equivaleva ad entrare nella mente degli Dei. Per i sacerdoti e gli astrologi dell’epoca, questa macchina straordinaria doveva essere una finestra sugli Dei. Non pare plausibile immaginare che la presenza a Olbia del meccanismo sia dovuta a fattori accidentali quali un saccheggio, un furto o simili, perchè il valore dell’oggetto poteva essere compreso solo da chi ne fosse esperto.

      Nella stessa direzione va la constatazione che esso fu dismesso in seguito alla cessata funzionalità dovuta all’uso prolungato, e ciò non sarebbe avvenuto se, a Olbia o altrove, da ultimo fosse stato detenuto da chi non lo sapeva usare.
      Va perciò presupposto il possesso e l’uso da parte di esperti della materia che, come detto sopra, sono personaggi del vertice della società o studiosi ad essi legati.

      Da approfondite ricerche storiche e comparando i dati con le scarse fonti letterarie disponibili risulta che proprio Marco Claudio Marcello, nipote dell’omonimo generale romano conquistatore di Siracusa, è stato l’ultimo possessore conosciuto del Planetario di Archimede.

      L’esibizione in Roma di questo straordinario strumento astronomico pervenuto col console Marcello nel 212 a.c., subito dopo l’occupazione e la distruzione di Siracusa, deve avere avuto un grande impatto sull’aristocrazia romana.

      Mostrato con orgoglio dal possessore e motivo di vanto tale che la famiglia, nella figura dell’omonimo nipote di Marcello, lo detiene ancora funzionante nel 166 a.c., secondo quanto scritto da Cicerone che fa riferimento all’opera, ora perduta, di Gaio Sulpicio Gallo che aveva potuto osservarlo grazie alla cortesia del suo collega di consolato.

      È noto che Marco Claudio Marcello, nipote dell’omonimo generale, è stato inviato da Roma in Spagna nel 152 ac. e in Numidia nel 148 a.c., dove, nel viaggio di andata, naufragò.

      È evidente che in tali occasioni sicuramente avrà fatto scalo ad Olbia, e non avrebbe potuto non portare con sé il Planetario di Archimede da ostentare quale status symbol del potere personale oltre che familiare e, più in generale, dell’intera Roma.

      Il planetario sicuramente poteva essere utilizzato anche per prevedere le eclissi e così impressionare e intimorire i nemici, o per rassicurare i soldati romani che gli eventi imminenti non erano nefasti, come fece per esempio Gaio Sulpicio Galloche previde un’eclissi lunare alla vigilia della battaglia di Pidna, ed evitò che le truppe romane fossero intimorite dal fenomeno.

      A questo proposito, visto che il console Gaio Sulpicio Gallo è proprio l’autore dell’opera citata da Cicerone, è quanto meno molto probabile che la sua previsione di eclisse fosse basata sui dati ottenuti direttamente tramite il planetario in possesso di Marcello.

      Alla luce dello scenario ipotizzato e considerata la perfetta concordanza tra le evidenze scientifiche e le risultanze storiche, letterarie e archeologiche, non sembra per nulla azzardato concludere che quel frammento che sinora abbiamo affermato far parte di un ipotetico Calcolatore di Olbia fosse invece parte integrante del Planetario di Archimede.

      Evidentemente il Planetario, in occasione di uno scalo ad Olbia, forse durante una esibizione in onore delle autorità locali, ha subito danni irreparabili ed è finito così, in tutto o in parte, nel sottosuolo cittadino.

      Tale evento ha dato un notevole contributo alla conoscenza del genio di quello che possiamo considerare il più grande scienziato del periodo ellenistico. Ci permette, inoltre, di comprendere ancor più il motivo che avrebbe indotto Marcello, comandante dell’esercito romano durante l’assedio di Siracusa, ad ordinare ai suoi soldati di salvare la vita dell’illustre scienziato siracusano, probabilmente
      affinché anche Roma potesse usufruire dei servizi di cotanto genio. Con la sua morte gran parte della sua sapienza è andata perduta per sempre.

      I Pitagorici, infatti, tranne alcuni (come proprio Archimede, anche se molte delle sue opere sono andate perdute), tramandavano solo oralmente le loro conoscenze e solo a pochi iniziati e ciò ha portato alla perdita di gran parte del loro sapere.

      CICERO SCOPRE LA TOMBA DI ARCHIMEDE

      Queste conclusioni servono poi a suffragare quanto da più scrittori sostenuto nelle loro opere letterarie, a partire da Cicerone, circa l’esistenza del Planetario di Archimede e della fama di tale dispositivo ancora dopo molti secoli dalla sua scomparsa, a testimonianza del valore che il mondo romano assegnava alle
      meraviglie scientifiche prodotte dagli scienziati di origine greca.

      Infine, i tanti riferimenti esistenti nella letteratura latina, suffragati dalle risultanze delle nostre ricerche, ci permettono di raccogliere una maggiore evidenza delle forme di esibizione del rango che le élites di Roma adottavano per l’acquisizione di prestigio agli occhi sia dei Romani stessi che dei popoli di recente annessione al nascente impero.

      Anche se di piccole dimensioni, il reperto di Olbia è di notevole valore archeologico e scientifico in quanto va a retrodatare di più di un secolo le conoscenze tecnico-scientifico-astronomiche che il Calcolatore astronomico di Antikythera già presupponeva.

      Il fatto, poi, che l’Ingranaggio di Olbia risulta essere, come già detto, ancora più evoluto rispetto a quello di Antikythera, apre una luce nuova e inattesa. In particolare si evidenzia la grande levatura scientifica dello scienziato siracusano. La rivoluzione iniziata da Archimede in matematica e geometria indubbiamente è stata necessaria per quelli che, successivamente, hanno inventato il Calcolatore di Antikythera. La sua morte segnò l’inizio di un rapido declino delle grandi invenzioni e della scienza d’età ellenistica.

      Probabilmente altre apparecchiature del genere sono state prodotte e sono andate, forse definitivamente, perdute, in particolare nell’incendio della Biblioteca di Alessandria (e non solo), o sono ancora nascoste nel sottosuolo o in fondo al mare oppure, cosa ancora più frustrante, giacciono in qualche deposito museale perché non riconosciute.

      Se un gruppo di pescatori di spugne non si fosse imbattuto nel relitto della nave di Antikythera circa un secolo fa, quel calcolatore sarebbe ancora in fondo al mare a disintegrarsi lentamente per la corrosione, ma, una volta ripescato, se il meccanismo non avesse “trovato” un archeologo che era anche un fisico, quale il De Solla Price, tacerebbe ancora anonimo in un deposito del museo di Atene.

      Così pure se un avveduto archeologo, come Rubens D’Oriano, non avesse dato la giusta importanza ad un apparentemente insignificante e ossidato frammento metallico, non avremmo potuto conoscere quanto questo studio ci ha rivelato.

      Fonti: Tito Livio, Ab Urbe condita libri, XLIII, 2, 5; XLVI (epitome). Polibio, Storie, XXXI, 1, 6-8. Plinio il Vecchio, Naturalis Historia, II, 9, 19, 83. Cicerone, De amicitia, 9, 21, 101. Cicerone, De re publica, I, 21-22.

      LE COHORTI ROMANE

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      Le COORTI, dal significato originario di "recinto, corte, cortile", cioè un'accoglienza di persone con lo stesso fine, pertanto una schiera. Fino al I sec. a. c. designò l'unità militare della fanteria degli alleati italici dei Romani.

      Dopodichè Gaio Mario, il geniale zio di Giulio Cesare, riformò con esse tutto l'esercito, abbandonando l'organizzazione a manipolo adottata fin dal tempo delle Guerre sannitiche.
      In realtà la coorte erano stata ideata da un altro geniale generale, Scipione l'Africano, che durante la campagna iberica, ne saggiò la maggiore flessibilità e resistenza durante le battaglie.

      Così Mario la introdusse in tutto l'esercito di Roma, dopo aver esteso l'arruolamento a tutti i cittadini romani senza distinzioni di censo.



      RIFORMA MARIANA

      Rispetto al manipolo che permetteva maggiore agilità su terreni impervii, come appunto le colline del Sannio, la coorte era una formidabile arma da guerra adatta alle battaglie in campo aperto.

      Poichè la maggior parte delle battaglie avveniva ormai in campo, Mario ritenne opportuno creare questo nuovo schieramento che era non solo più potente, ma che permetteva di salvare molte più vite ai romani, anche perchè un soldato veterano ne valeva almeno cinque dei novizi ed erano un patrimonio che andava salvaguardato.

      I velites furono aboliti e le truppe leggere furono sostituite dagli auxilia (ausiliari), soldati reclutati nelle province romane. La cavalleria proveniva invece dai confederati italici.

      La Struttura dell'Unità comprese in diverse epoche:
      • contubernium
      • centuria
      • manipolo
      • coorte
      • vexillatio

        LA COORTE

        •  
        • La coorte era formata da 600 uomini, per cui dall'unione di 3 manipoli, formata da legionari provenienti dalle vecchie unità di Astati, Principes e Triari. 
        • La legione venne divisa in 10 coorti, numerate da I a X, in tutto 6000 legionari, decurtati poi a 5000 per una migliore gestibilità. 
        • La prima coorte di ogni legione fu costituita da un numero doppio di soldati (1000), la cohors milliaria mentre le altre coorti erano di 500 soldati, quingenariae. 
        • I soldati della legione coortale erano di fanteria pesante. 


        SCHIERAMENTO

        Era su tre linee, a scacchiera, cosicché i legionari della II e III fila potessero subentrare facilmente in I linea se necessario.

        La lista delle coorti:
        • Cohors alaria - unità di alleati o ausiliari.
        • Cohors classica - unità ausiliaria di marinai e navigatori.
        • Cohors equitata, quingenaria o milliaria - mista di fanteria e cavalleri, con 500 o 1000 soldati.
        • Cohors Germanorum - guardia del corpo imperiale reclutata in Germania.
        • Cohors palatina - unità alleati a cavallo per guardia pretoria durante la tetrarchia.
        • Cohors peditata, quingenaria o milliaria - appiedata, quindi di soli fanti, di 500 o 1000 soldati.
        • Cohors praetoria - guardia del corpo dell'imperatore, servizi segreti.
        • Cohors speculatorum - unità di Marco Antonio con esploratori.
        • Cohors togata - pretoriani in veste civile che pattugliavano il ponerium (armi proibite)
        • Cohors torquata - unità di soldati decorati con torques per valore militare.
        • Cohors tumultuaria - unità ausiliaria irregolare.
        • Cohors urbana - polizia militare che pattugiava le vie dell'urbe.
        • Cohors vigilum - polizia urbana per spegnere incendi o sedare tumulti. 
        • Cohors sagittaria - che univa fanteria e arcieri.


        RIFORMA AUGUSTEA

        Gradi superiori, comando:
        • legatus legionis - di rango senatoriale, in genere un ex pretore,  mentre il legatus propretor era un ex console cui venuva concesso il governo di una provincia romana.
        • praefectus legionis - solo ai comandanti dell'ordine equestre per le legioni di Egitto e Mesopotamia
        • procurator pro legato - carica straordinaria dei procuratori presidiali nell'Alto impero romano, dal I al III sec.
        • tribunus angusticlavius - ufficiale della classe euqstre, 5 per legione.
        • tribunus laticlavius - uno dei sei tribuni militari che prestavano servizio nel periodo repubblicano ma pure nell'alto Impero romano in ogni legione.
        • praefectus castrorum - ufficiale responsabile del castrum.
        • praefectus fabrum - presente solo nelle legioni (non nelle truppe ausiliarie), per di comandare e coordinare il genio militare almeno fino al II sec- a.c.
        Gradi medi, ufficiali:
        • primus pilus - primo centurione
        • centurio - centurione, che comanda la centuria
        • decurio  . decurione, ufficiale di cavalleria.
        Sotto-ufficiali - principales:
        • optio - attendente del centurione
        • discens - specializzando dell'esercito
        • discens architecti - in architettura.
        • discens armaturae - nelle armi.
        • discens aquiliferum (o aquiliferorum) - nel portare le insegne delle aquile
        • discens bucinatorem - suonare la tromba.
        • discens capsariorum - in medicina.
        • discens epibatae - in marina.
        • discens equitum - in cavalleria.
        • discens lanchiariorum - in lacio del giavellotto.
        • discens mensorem - in agrimensura.
        • discens phalangarium - falangista con armi da taglio o da punta.
        • discens signiferorum (or discentes signiferorum) - nel portare gli stendardi.
        • imaginifer - portatore di immagini della legione
        • campidoctor - istruttore nel campo
        • cornicularius - ufficiale amministrativo
        • signifer e vexillifer - portatore di insegna o vessillo
        • tubicen - suonatore di tuba
        • cornicen - suonatore di strumento a fiato per gli ordini
        • bucinator - duonatore di buccina
        • beneficiarius - con mansioni speciali
        • medicus - medico
        • tesserarius - conegnatario della parola d'ordine
        • evocatus - miltare tenuto in servizio oltre il dovuto per qualità speciali
        Gradi inferiori (soldati semplici o munifex ed immunes):
        • miles munifex - il rango più basso
        • eques legionis - cavalleria
        • architectus - architetto
        • ballistarius manovratore di ballista
        • custos armorum - custode delle armi
        • decanus - il primo tra 10 contubernium
        • frumentarius - addetto al reperimento del frumento
        • librarius . addetto alla contabilità
        • mensor - agrimensore
        • sagittarius - aeciere ausiliario a piedi
        • speculator . incaricato specile, spia
           Comandi minori complementari:
          • cavalleria legionaria
          • genio militare
          • personale medico 
          Armi ed armature nelle diverse epoche:
          • elmo
          • lorica hamata
          • lorica manica
          • lorica musculata
          • lorica segmentata
          • lorica squamata
          • scutum 
          • gladius
          • hasta, pilum e pugio
          • spatha 
          La remunerazione del legionario nelle varie epoche:
          • stipendium
          • annona militaris
          • donativa
          • honesta missio
          • veteranus (soldato in congedo)
          • ricompense



          COHORS SENZA NUMERAZIONE
          • Cohors Apula - (un distaccamento della cohors Apuleia sotto Arriano)
          • Cohors Apuleia civium Romanorum - era in Cappadocia con Arriano governatore nel 134. Comandata dal Dux Armeniae.
          • Coorte Cirenaica - parte sotto il comando di Pulcro, parte sotto Arriano.
          • Cohors Ausetenorum
          • Cohors Baetica - del 29 a.c. reclutata nella Hispania Baetica
          • Cohors Belgica - Germania superiore.
          • Cohors Nemetum - posta in Germania superiore. Non si sa dove e quando.
          • Cohors Raetorum et Vindelicorum - nella Germania superiore, a Mogontiacum, forse durante il primo periodo augusteo.
          • Cohors Trumplinorum - probabilmente formata da Augusto dopo le campagne alpine e stazionata nella Vindelicia (nord del Danubio).
          • Cohors Usiporum - non è chiaro dove fosse, forse in Britannia per un certo periodo.



          CON NUMERAZIONE


          COHORS I 








          • Cohors I Afrorum civium Romanorum (ausiliaria) - era in Britannia nel 122. 
          • Cohors I Alpinorum Peditata quingenaria - la troviamo dislocata sotto Domiziano in Pannonia inferiore (diplomi del 80, 85, 114 e 167). È possibile che sia la stessa dislocata per un breve periodo in Britannia e in Moesia superiore (diplomi del 103 e 122). 
          • Cohors I Antiochensium - risulta nel 93 in Mesia superiore. Partecipò alla conquista della Dacia a Drobeta, dove rimarrà almeno fino ad Adriano. 
          • Cohors I Aquitanorum quingenaria - (ausiliaria) probabilmente la stessa I Aquitanorum Biturigium, in Germania superiore, probabilmente ad Arae Flaviae (diplomi del 74, 90, 116 e 134) durante il principato di Nerone; trasferita sotto Vespasiano in Dalmazia; torna in Germania sup. nel Friedberg poco prima delle campagne dell'83-84; va sul fronte danubiano tra l'86-92, alla sconfitta subita dalle truppe romane contro i Daci di Decebalo o contro i Sarmati. La troviamo per breve periodo in Britannia, al tempo della costruzione del vallo di Adriano (diploma del 122); la troviamo ancora in Germania superiore, a Langenhain al tempo di Commodo. 
          • Cohors I Flavia Bessorum - Moesia sup. e Macedonia.
          • Cohors I Aresacum
          • Cohors I Asturum - mosse nel Norico nel forte di Astura (vicino a Comagena) non più tardi del 106. La troviamo in Dacia inferiore nel 125.
          • Cohors I Asturum et Callaecorum - nell'Illirico nel 61. La troviamo in Mauretania Tingitana nel 109 e nel 161. 
          • Cohors I Augusta Pannaniorum - in Syria 
          • Cohors I Baetasiorum (o Betasiorum) civium Romanorum - reclutata tra i Baetasii nella Germania inferiore ad ovest di Novaesium. Si hanno notizie di una sua permanenza in Britannia nel 103 (probabilmente già in zona Manchester), nel 122 e 124. Attorno al 139 muove sul vallo di Antonino. Nel tardo periodo antonino fu inviata a Maryport, dal III era impiegata a difesa della Costa sassone, a Regulbium. 
          • Cohors I Bataviorum - in Britannia 
          • Cohors I Bataviorum Milliaria Pia Fidelis - in Pannonia e Dacia.
          • Cohors I Bosporiana - Pannonia sup.
          • Cohors I Bracaraugustanorum - impiegata in Dalmazia nella rivolta dalmato-pannonica del 6-9; partirà attorno all'86, in seguito al disastro contro i Daci di Decebalo, per il fronte danubiano in Mesia inferiore (come da diploma del 99). Verrà posizionata con Traiano, insieme alla I Hispanorum a Breţcu. 
          • Cohors I Breucorum civium romanorum - con ausiliari Breuci della Pannonia, si trovava in Oriente in un periodo a noi sconosciuto; la troviamo i Britannia ai tempi di Adriano. 
          • Cohors I Britannica o Brittonum - di cui: Cohors I Britannica milliaria Civium romanorum formata  da Claudio come cohors quingenaria, poi trasformata dai Flavi in milliaria. Posizionata in Pannonia (71 circa),  spostata in Dacia sotto il governatore Decimo Terenzio Scauriano dal 106-110.
          • Cohors I Brittonum Flavia - creata ed inviata in Dalmazia dopo l'86 circa; partirà tra l'86-92, in seguito al disastro contro i Daci di Decebalo o contro i Sarmati, per il fronte danubiano; partecipa almeno alla II guerra dacica di Traiano. A questo punto potrebbe essere stata trasformata in Milliaria da Adriano dando vita alla I Aelia Brittonum Milliaria, poi anche Antoniana ed inviata nel Norico, dove troviamo sue tracce a Virunum. 
          • Cohors I Brittonum Augusta Nervia pacensis milliaria - posizionata in Dacia almeno tra il 145-161. 
          • Cohors I Brittonum - (poi Ulpia Torquata pia fidelis in seguito alle campagne del 105-106) milliaria civium romanorum è posizionata per un certo periodo a Vetus Salina in Pannonia inferiore (almeno nel 105). Viene, quindi, trasferita in Dacia sotto Decimo Terenzio Scauriano dal 106-110 a Porolissum (l'attuale Moigrad). Questa unità ausiliaria potrebbe coincidere con la futura Cohors I Brittonum Aurelia milliaria sempre posizionata in Dacia. 
          • Cohors I Brittorum Aelia milliaria - creata da Adriano (probabilmente dopo la costruzione del vallum) trasformando la Cohors I Brittonum Flavia da quingenaria in milliaria, e posizionandola subito nel Norico a Faviana (oggi Mautern), con alcuni distaccamenti ad Arlapa e forse a Virunum (durante guerre marcomanniche). Risulta da un diploma ancora dislocata nel Norico nel 267. 
          • Cohors I Brittonum Aurelia milliaria - sempre in Dacia potrebbe coincidere con la stessa Ulpia Torquata. 
          • Cohors I Campanorum Volontariorum Civium romanorum - Pannonia inf.
          • Cohors I Caesariensis Aelia milliaria sagittaria -  Pannonia superiore nel 133.
          • Cohors I Campana - probabilmente impiegata in Dalmazia nella rivolta dalmato-pannonica del 6-9; partirà attorno all'86, in seguito al disastro contro i Daci di Decebalo, per il fronte danubiano;
          • Cohors I Campanorum Voluntariorum Antonianae - in Pannonia inferiore nel 156, probabilmente ad Acumincum dove rimase almeno fino all'epoca di Caracalla. 
          • Cohors I Celtiberorum quingenaria -  dislocata in Britannia per tutta la prima parte del II secolo, come risulta dai diplomi del 105, 122, 127, 155, 158, 178 e 179. Sembra fu trasferita sotto Traiano in Mauretania Tingitana già dal 105 ( diploma del 109), per poi fare ritorno in Britannia nel 122. Per un breve periodo una sua vexillatio fu inviata in Hispania Citerior, probabilmente a Cidadela, durante il principato congiunto di Marco Aurelio e Lucio Vero (161-169).
          • Cohors I Classica Aelia - con marinai della flotta da Adriano e posizionata in Britannia (diploma del 158) e nel IV sec. a Tunnocelum. Era forse la stessa Cohors I Classica stanziata ad Ara Ubiorum (Colonia) dove c'era la Classis germanica lungo il fiume Reno.
          • Cohors I Cornoviorum - formata tra la tribù dei Cornovii della Britannia. Sue tracce risalgono solo al IV secolo sempre in Britannia a Newcastle-upon-Tyne. 
          • Cohors I Cugernorum (coincide con la Cugerrnorum Ulpia Traiana civium Romanorum) è posizionata in Britannia come da diplomi del 103, 122 e 124. È probabilmente posizionata a Newbridge vicino a Cramond da un miglio datato 140-144 (nei pressi del Vallo di Antonino). È stato anche trovato un altare di un soldato post 161 a Brocolitia (Carrawburgh) sul Vallo di Adriano. La troviamo poi a Newcastle-upon-Tyne nel 213 circa (in seguito alle campagne di Severo in Scozia). 
          DIPLOMA HONESTIA MISSIO
          • Cohors I Dacorum Aelia milliaria - fondata dopo le guerre vittoriose di Traiano. Dislocata in Britannia dove vi sono diplomi che ne attestano la sua presenza nel 126 e 158. Con Adriano è dislocata prima a Bewcastle (lungo il Vallo di Adriano), poi ad High Rochester, ed ancora sul Vallo. È possibile che durante le guerre marcomanniche sia stata inviata nel Norico a Lauriacum, prima che venisse occupato dalla legio II Italica. Attorno al regno di Severo Alessandro fu posizionata a Banna dove rimarrà fino al IV secolo (Notitia Dignitatum). 
          • Cohors I Dardanorum Aurelia - da Marco Aurelio, stazionò per un certo periodo in Dalmazia durante le guerre marcomanniche attorno alle colline del Kosmaj vicino a Guberevci. In seguito sarà trasferita in zona Naisso. 
          • Cohors I Delmatarum milliaria - da Marco Aurelio e stanziata subito in Dalmazia vicino ad Uzice durante le guerre marcomanniche e qui rimase almeno fino al termine del regno di Gallieno. 
          • Cohors I Fida Vardullorum milliaria civium Romanorum - posizionata in Britannia nel 105 e nel 122. 
          • Cohors I Frisiavonum quingenaria - in Britannia. Diplomi militari ne attestano in questa provincia la sua presenza nel: 105, 122, 124, 126, 127, 158, 178 e Notitia dignitatum (sul vallum Hadriani). Nel II-III sec. l'unità ausiliaria era posizionata a Melandra Castle, Manchester (Mamucium) e Brocolitia. 
          • Cohors I Gaesatorum Aelia milliaria - probabilmente formata sotto Adriano, o dall'epoca Flavia. Viene dislocata in Dacia (diploma del 145). Nel 161 la troviamo in Pannonia superiore, dislocata forse a Crumerum. 
          • Cohors I Gallorum - in Aquitania. Non sappiamo quando, probabilmente dai tempi di Augusto. 
          • Cohors I Gallorum Dacica - stanziata in Dacia nel 157. Non sappiamo dove fosse in precedenza. 
          • Cohors I Germanorum Nervia milliaria civium Romanorum - posizionata a Capidava, un forte di 92 x 146 m, in Mesia inferiore dal 142-143. Sembra sia la stessa che soggiornò in Germania superiore: diplomi militari dell'82, 116 e 134. Per un breve periodo fu trasterita in Britannia, al tempo della costruzione del vallo di Adriano (diploma del 122). 
          • Cohors I Hamiorum saggitariorum - reclutata in Siria. Partecipa all'invasione in Britannia del 43. L'unica coorte di arcieri presente in Britannia. Sotto Adriano (diplomi del 122, 124, 126 e 158) era a Carvoran dove rimane almeno fino a Marco Aurelio, a parte un breve periodo sotto Antonino Pio a Bar Hill (sul Vallo di Antonino). Probabilmente con Commodo è trasferita a Housesteads. 
          • Cohors I Helvetiorum - presente sul limes germano-retico a Böckingen nel 148. 
          • Cohors I Hispanorum - (in seguito Pia et Fidelis, sotto Traiano, nel 107) era in Germania inferiore, a Remagen, all'inizio del principato di Traiano. Trasferita dopo la prima campagna di Dacia in Mesia superiore prima del 105, sotto il nuovo governatore Erennio Saturnino. Secondo alcuni coincide con la Cohors I Hispanorum pia et fidelis che stette in Dacia sotto Decimo Terenzio Scauriano dal 106-110. È la stessa che troviamo in Dacia Porolissensis nel 158 e 165 (tegolae di una generica I Hispanorum sono state trovate a Porolissum). Per un breve periodo fu trasferita (forse solo come vexillatio) in Britannia, al tempo della costruzione del vallo di Adriano (diploma del 122). 
          • Cohors I Hispanorum Flavia Ulpia milliaria - (Flavia e successivamente ottenne i titoli di Ulpia e Civium romanorum) è creata ed inviata immediatamente in Dalmazia attorno all'85/86 circa; poco dopo, già dall'86 o poco dopo, fu posizionata, in seguito al disastro romano subito contro i Daci di Burebista, per il fronte danubiano in Mesia. La troviamo in Mesia superiore nel 93 e 100. Nel 106 era a Buridava (Stolniceni). Posta in Dacia dovesi riscontra nel 110. 
          • Cohors I Italica voluntariorum civum Romanorum - in Cappadocia con Arriano governatore nel 134. 
          • Cohors I Ituraeorum civium romanorum - potrebbe coincidere con la Cohors I Ituraeorum sagittaria, quindi potrebbe non essere coorte equitata (vale a dire un corpo misto di cavalieri e fanti). La troviamo in Siria nell'88 sotto Domiziano, poi in Mauretania Tingitana almeno da Traiano (diplomi del 109, 122, 131, 153, 157 e 161 (sotto Antonino Pio). 
          • Cohors I Latobicorum et Varcianorum - forse equitata, si trovava ad Ara Ubiorum in Germania inferiore, tra il 97 ed il 152.
          • Cohors I Lemavorum civium Romanorum - originaria della Spagna romana e reclutata da Vespasiano o da Domiziano tra i Lemavi, popolazione gallica che viveva nella Tarraconensis. Fu quindi inviata nella Mauretania Tingitana, come da diplomi degli anni 86, 105, 109, 122, 135, 153, 157, 161. Venne acquartierata a Sala. Ottenne il titolo onorifico di civium romanorum per la grande combattività dimostrata ai tempi di Antonino Pio e Marco Aurelio. Probabilmente distrutta all'epoca di Commodo.
          • Cohors I Lucensium - impiegata in Dalmazia nella guerra dalmato-pannonica del 6-9; partirà per il fronte del basso-Danubio in seguito alla guerra dacica nell'86 circa; a Gerulata (Rusovce) potrebbe aver risieduto per alcuni anni.
          • Cohors I Mattiacorum - posizionata in Mesia inferiore nel 99. La sua creazione sarebbe antecedente all'occupazione da parte di Domiziano degli Agri Decumates. 
          • Cohors I Maurorum milliaria - sotto Marco Aurelio ed è stanziata Ad Mauros (Eferding) nel Norico sotto Marco Aurelio (171 circa). 
          • Cohors I Menapiorum - posizionata in Britannia. Ne attestano la sua presenza nell'isola diplomi militari del 122 e 124. 
          • Cohors I Montanorum - forse una doppia coorte: Cohors I Montanorum è probabilmente impiegata in Dalmazia nella rivolta dalmato-pannonica del 6-9; probabile accompagnasse la legio VII Claudia in Mesia nel 56/57; nel Norico fino a poco prima dell'85, poi mosse in Pannonia, ed infine viene trasferita in Dacia sotto Decimo Terenzio Scauriano (106-110).
          • Cohors I Montanorum civium romanorum quingenaria - non dovrebbe coincidere con la precedente. La troviamo in Pannonia inferiore come da diplomi degli anni 80, 84, 85, 98, 114 e 167. 
          • Cohors I Morinorum - posizionata in Britannia. Ne attestano la sua presenza diplomi militari del 103, 122 e la Notitia Dignitatum (a Ravenglass). 
          • Cohors I Musulamiorum Flavia - arruolata o dopo la fine della rivolta di Tacfarinas del 17-24 o durante la dinastia dei Flavi. La troviamo posizionata nel 69-70 in Giudea, durante la prima guerra giudaica, in Siria durante il regno di Domiziano, e lungo i confini della Numidia e della Mauretania Caesariensis sotto Traiano; sotto Adriano in Licia e Panfilia. 
          • Cohors I Nerviorum Augusta - formata già dai tempi di Cesare ed ordinata da Ottaviano Augusto. Viene inviata in Britannia dopo la rivolta di Gaio Giulio Civile, con Quinto Petilio Ceriale. Qui la troviamo comunque nel 105. Possibile che sotto Adriano sia stata spostata a Netherby. Troviamo sue tracce anche a Caer Gai e Chesterholm, senza datazione. È ancora dislocata in Britannia nel 178 e 179. 
          • Cohors I Pasinatum Aurelia nova - stazionò per un certo periodo in Dalmazia durante le guerre marcomanniche attorno alle colline del Kosmaj vicino a Guberevci. Nasce con Marco Aurelio. 
          • Cohors I Pannoniorum quingenaria - in Germania superiore all'epoca di Claudio a Bingen am Rhein. Potrebbe, pertanto, aver partecipato alla conquista della Britannia, dove la troviamo sul Vallo di Adriano nel 253-258 a Burgh-by-Sands, in compagnia del numerus Maurorum. 
          • Cohors I Raetorum quingenaria - nasce con Ottaviano Augusto. È possibile che sia arrivata dalla Siria con Muciano nel 69-70; la troviamo dislocata in Rezia nel 107 e 166. Era posizionata sotto gli Antonini a Katwijk in Germania superiore e in Germania inferiore ad Ara Ubiorum.
          • Cohors I Sacorum Aurelia nova - stazionò per un certo periodo in Dalmazia durante le guerre marcomanniche attorno alle colline del Kosmaj vicino a Guberevci. Nasce con Marco Aurelio. 
          • Cohors I Sebastena milliaria - in Giudea durante la Terza guerra giudaica del 132-135, probabilmente insieme alla cohors IV Bracarum, la cohors I Flavia civium Romanorum equitata e l'ala VII Phrygum. La ritroviamo in Syria Palestina sotto il legato Iulio Lepidiano, insieme alla IV Bracarum nell'anno 186. 
          • Cohors I Sugambrorum Claudia tironum veterana - prima Gallia belgica, poi in Mesia sotto Vespasiano nel 77, poi in Mesia inferiore sotto Domiziano nel 91, Nerva nel 96-98 e sotto Antonino Pio nel 139 e nel 145. In Siria nel 157. 
          • Cohors I Sunicorum (o Sunucorum) quingenaria - da Giulio Civile per la prima volta durante la rivolta del 69. La troviamo in Britannia come da diplomi del 122, 124 e 126. Attestata a Caernarfon tra il 198 ed il 209. 
          • Cohors I Treverorum - solo presunta. Costituita forse sotto Caracalla. 
          • Cohors I Tungrorum milliaria - dislocata in Britannia sotto i Flavi (diplomi del 98, 103, 122, 124 e 126). In precedenza nella Germania Inferiore. Con Adriano è divisa tra i due forti a Chesterholm e Brocolitia lungo il Vallo di Adriano. Sembra che per un breve periodo siano state inviate sue vexillationes nel Norico tra il 122-124. Sotto Antonino Pio è a Castlecary. Nel III sec., almeno dal 205, è destinata a Housesteads, dove rimarrà fino al IV sec. secondo la Notitia Dignitatum. 
          • Cohors I Vindelicorum - dislocata in Germania inferiore ad Ara Ubiorum. Tu trasformata in milliaria è posizionata in Dacia sotto Decimo Terenzio Scauriano dal 106-110, dove rimase almeno fino al 157. 



          COHORS II 
          • Cohors II Afrorum Flavia - in Numidia per testimonianze epigrafiche nel 197-198; 
          • Cohors II Asturum et Callaecorum - in Pannonia inferiore al tempo di Traiano, Antonino Pio, Marco Aurelio, e Settimio Severo nel 202. Nasce probabilmente dall'unione di 2 untità. 
          • Cohors II Bessorum Flavia - menzionata e null'altro si sa; 
          • Cohors II Biturigiumn - probabilmente nei pressi di Mogontiacum dopo il 43 sotto l'imperatore Claudio, quando venne trasferita la legio IV Macedonica.
          • Cohors II Bracaraugustanorum - menzionata la sua esistenza agli inizi del II sec. 
          • Cohors II Breucorum - costituita con ausiliari Breuci della Pannonia, si trovava in Mauretania Caesariensis nel 107 sotto Traiano, nel 243 e nel 283 sotto Marco Aurelio Carino. 
          • Cohors II Brittonum quingenarie o milliarie
          • Cohors II Brittonum Flavia - stanziata dai tempi di Domiziano (88) a Durostorum. La troviamo ancora in Mesia inferiore nel 99 e nel 230. 
          • Cohors II Brittonum - dislocata in Mauretania Caesariensis nel 107. È possibile che sia da identificarsi con la Cohors II Brittonum Flavia (dislocata nella Mesia e per un breve periodo inviata in Mauretania). 
          • Cohors II Brittonum(o Britannorum) milliaria civium romanorum pia fidelis - posizionata in Germania inferiore a Xanten nel 98. La troviamo durante la conquista della Dacia in Mesia nel 103. Stanziata in Dacia sotto Decimo Terenzio Scauriano dal 106-110. Forse da identificarsi con la Cohors II Brittonum Flavia. 
          • Cohors II Brittonum milliaria Nervia pacensis - posizionata in Pannonia inferiore nel 114, nel 145-160, probabilmente ad Alisca (Ocseny). 
          • Cohors II Commagenorum sagittorum Flavia - di arcieri è posizionata durante il principato di Tiberio in Oriente. La troviamo in Dacia sotto Scaurianus dal 106-110. 
          • Cohors II Cyrrhestarum - probabilmente impiegata in Dalmazia nella guerra dalmato-pannonica del 6-9; parte per la Germania inferiore a causa della rivolta di Gaio Giulio Civile attorno al 70; 
          • Cohors II Dacorum Aurelia - creata da Marco Aurelio per le guerre marcomanniche. È dislocata in Pannonia inferiore a Cornacum probabilmente all'epoca di Caracalla ed anche prima.
          • Cohors II Dardanorum Aurelia - di Marco Aurelio e la troviamo a Timacum Minus (oggi Ravna) in probabile sostituzione della cohors I Trachum Syriaca (arrivata ai tempi di Vespasiano nel 69). Durante le guerre marcomanni che un'orda di barbari Costoboci fu qui interecettata ed annientata presso Scupi.
          • Cohors II Delmatarum milliaria - di Marco Aurelio e stanziata subito in Dalmazia durante le guerre marcomanniche e vi rimase almeno fino al termine del regno di Gallieno. 
          • Cohors II Gallica o Gallorum: Cohors II Gallorum - posizionata in Mauretania Caesariensis (diploma del 107). Per un breve periodo in Britannia, al tempo della costruzione del vallo di Adriano (diploma del 122). Nella Hispania Tarraconensis al tempo della Notitia Dignitatum. 
          • Cohors II Gallorum et Ubiorum - posizionata in Mesia inferiore nel 99. 
          • Cohors II Hamiorum - in Numidia per testimonianze epigrafiche in periodo non specificato; 
          • Cohors II Hispanorum peditata Pia Fidelis - all'epoca dell'imperatore Traiano in Germania inferiore, ad Utrecht.
          • Cohors II Hispana civium Romanorum - da non confondere con la cohors II Hispanorum equitata, anch'essa presente in Mauretania Tingitana. Della cohors Hispana sappiamo che era in Tingitata negli anni 109, 122, 131, 157 e 161. 
          • Cohors II Mattiacorum -a in Mesia inferiore (diplomi del 99, 134 e 138). Dal 113 viene trasferita da Traiano a Barbosi a nord del Danubio, sempre nella Mesia inferiore. La sua creazione potrebbe essere antecedente all'occupazione da parte di Domiziano degli Agri Decumati. 
          • Cohors II Maurorum milliaria - di Marco Aurelio, posizionata a Matrica (Pannonia inferiore) in sostituzione della cohors I Alpinorum equitata partente per la vicina Vetus Salina con l'inizio delle guerre marcomanniche sotto Marco Aurelio (171). 
          • Cohors II Maurorum - in Numidia per testimonianze epigrafiche nel 208; 
          • Cohors II Nerviorum civium romanorum - (più tardi milliaria) formata già dai tempi di Cesare ed ordinata da Augusto. Viene inviata in Britannia dopo la rivolta di Civile con P.Ceriale. Troviamo numerose iscrizioni a Brough under Stainmore (Verteris). Ne attestano la sua presenza nell'isola diplomi militari del 98, 122, 125, 127 e 131, dove la troviamo posizionata a Wallsend sul Vallo di Adriano. Vi sarebbero sue evidenze epigrafiche a Vindolandia. Fu trasferita, forse solo per pochi anni, in Pannonia inferiore attorno al 148. La troviamo ancora sotto Caracalla in Britannia (213 e poi 214-217), posizionata probabilmente a Whitley Castle con distaccamenti a Brocolitia e Chesterholm. 
          • Cohors II Pannoniorum - in Britannia come da diplomi del 105 e 126 (a Beckfoot in Cumbria). Vi sono suoi retaggi sul Vallum Hadriani tra Housesteads e Great Chesters. 
          • Cohors II Raetorum - di Augusto. La troviamo dislocata prima nel distretto di Germania (diploma dell'82) e poi in Rezia come da diplomi del 107, post 145, 162 e 166. 
          • Cohors II Sardorum - in Numidia per testimonianze epigrafiche in periodo non specificato; 
          • Cohors II Sugambrorum - si presume sia esistita vista l'esistenza della I e IV Sugambrorum. 
          • Cohors II Syrorum sagittariorum milliaria - in Mauretania Tingitana nel 105, 122, 135, 153, 157, 161. 
          • Cohors II Thracum - si trovava al tempo di Traiano in Germania inferiore a Mannaricium (l'attuale Buren-Maurik). La troviamo al tempo della costruzione del vallo di Adriano in Britannia (diploma del 122). 
          • Cohors II Thracum Nerviorum - in Egitto nel 157.
          • Cohors II Tungrorum milliaria - si ipotizza la sua esistenza per la presenza della IV Tungrorum 
          • Cohors II Treverorum -costituita sotto Antonino Pio. 
          • Cohors II Varcianorum civium Romanorum - in Germania inferiore, dove vi sono evidenze di una sua permanenza a Krefeld (l'antica Gelduba), Remagen (Rigomagus]) e Colonia (Ara Ubiorum), in un periodo compreso tra gli imperatori Traiano e Antonino Pio. 
          • Cohors II Vindelicorum - supposta la sua esistenza in presenza della IV Vindelicorum. Il suo arruolamento potrebbe risalire al periodo di Tiberio-Claudio. 


          COHORS III
          • Cohors III Asturum civium Romanorum - da non confondere con l'omonima ala di cavalleria, entrambe presenti in Mauretania Tingitana per molti anni assieme. Della cohors ricordiamo i diplomi degli anni 86, 109, 122, 157 e 161. 
          • Cohors III Bracaraugustanorum - costituita con ausiliari Breuci della Pannonia, è in Britannia almeno sul principio del II secolo (diplomi del 103, 122, 124 e 126). È difficile che sia stata impiegata in Retia sotto Adriano, per un breve soggiorno. Viene impiegata in Giudea durante la rivolta del 132-136. La ritroviamo in Britannia nel 158. Gli accampamenti utilizzati sono quelli nei pressi di Manchester e Castleshaw. 
          • Cohors III Breucorum - in Germania inferiore (a Woerden) da Domiziano ad Antonino Pio fino a Eliogabalo.
          • Cohors III Britannorum - posizionata in Retia (diplomi del 107, 145, 166) ed forse anche negli anni successivi. 
          • Cohors III Brittonum - in Mesia superiore nel 103, successivamente la troviamo in Dacia. 
          • Cohors III Campestris - troviamo una sua iscrizione a Cuppae in Mesia superiore; a Napoca in Dacia. Si trova in Mesia Superiore nel 160/161. 
          • Cohors III Gallorum - posizionata nel distretto militare della Germania, prima della divisione in superiore ed inferiore (diploma del 74). In seguito sembra sia stata inviata in Mesia inferiore. Esiste ancora sotto gli imperatori Antonino Pio / Marco Aurelio e potrebbe essere ora posizionata in Spagna. 
          • Cohors III Lusitanorum - in Germania inferiore al tempo di Traiano in località Novaesium e/o Ara Ubiorum.
          • Cohors III Nerviorum civium romanorum - posizionata in Britannia - presenze epigrafiche a Vindolandia ed a Trimontium (Newstead), diplomi militari del 122, 125, 127, 131, 135, e 155, oltre che nella Notitia Dignitatum (forse a Lancaster). 
          • Cohors III Raetorum quingenaria - si suppone la sua esistenza, considerando la numerazione successiva, fino alla cohors VIII. Nasce molto probabilmente con Augusto. 
          • Cohors III Sugambrorum - si presume sia esistita vista l'esistenza della I e IV Sugambrorum. Potrebbe essere stata formata da Tiberio dopo le campagne del 4-5 o forse prima, sotto il fratello Druso nel 10-9 a.c.. 
          • Cohors III Tungrorum milliaria-  si ipotizza la sua esistenza per la presenza della IV Tungrorum 
          • Cohors III Thracum civium Romanorum - posizionata con Adriano a Künzing in Rezia. Parte insieme alla Cohors I Breucorum (coorte equitata?) civium Romanorum e III Bracaraugustanorum per le campagne di Adriano in Giudea dal 132-136. Tornerà non più a Künzing in Retia, ma a Gnotzheim (dove  iscrizioni a partire dal 144). 
          • Cohors III Vindelicorum - supposta la sua esistenza, dall'esistenza della IV Vindelicorum. È possibile sia stata arruolata sotto Tiberio-Claudio o più probabilmente sotto Augusto dopo le campagne in Rezia. 


          COHORS IV
          • Cohors IV Bracaraum - nell'88 in Siria. Forse trasferita in Giudea per sedare la rivolta di Bar-Kochba del 132-136, probabilmente insieme alla cohors I Sebastena milliaria, la cohors I Flavia civium Romanorum equitata e l'ala VII Phrygum. La ritroviamo in Syria Palestina nel 139 e sotto il legato Giulio Lepidiano, insieme alla I Sebastena nell'anno 186. 
          • Cohors IV Breucorum - costituita con ausiliari Breuci della Pannonia, inviata in Germania inferiore ad Ara Ubiorum. poi in Britannia nel 122, 127 sotto Adriano ed ancora all'epoca di Caracalla. 
          • Cohors IV Brittonum - si suppone per l'esistenza della III e VI Brittonum. Dove sia stata dislocata non è possibile saperlo al momento attuale. 
          • Cohors IV Callaecorum Lucensium - la troviamo in Siria nell'89 e 157. 
          • Cohors IV Gallorum - forse posizionata dal 71 a Traiano in Britannia. Testimonianza di sue vexillationes insieme alla cohors II Nerviorum ad High Rochcester. Forse con la guerra dacica è trasferita in Mesia inferiore (diploma del 105 e Notitia Dignitatum). La stessa o la sua gemella (?), la troviamo per un certo periodo in Retia dal 107 a Marco Aurelio (diplomi del 107 e 166). Sembra tornò in Britannia per un breve soggiorno, al tempo della costruzione del vallo di Adriano (diploma del 122). 
          • Cohors IV Nerviorum - forse posizionata come la I, II, III e VI in Britannia. Troviamo infatti un suo diploma del 135. È possibile sia stata formata da Adriano. 
          • Cohors IV Raetorum quingenaria - di Augusto, dislocata in Mesia superiore, come da diplomi del 93, 103 e durante le guerre marcomanniche. 
          • Cohors IV Sugambrorum quingenaria - in Mauretania Caesariensis sotto Traiano (nel 107). 
          • Cohors IV Tungrorum milliaria la troviamo sotto Domiziano nel Norico (dipl. del 94) e poi in Rezia (dipl. del 129, 139 e 140). Inviò alcune sue vexillationes in Mauretania Tingitana, come risulta da numerosi diplomi degli anni 153, 157 e 161. 
          • Cohors IV Thracum Pia Fidelis - posizionata in Germania inferiore a Valkenburg all'epoca di Traiano.
          • Cohors IV Vindelicorum - presente in Germania superiore (diplomi 74,[ 90, 116 e v134), posizionata nel tempo a Großkrotzenburg, Heddernheim (Nida), Niedernberg (Confluentes)e Obernburg am Main. In precedenza potrebbe essere stata dislocata in Germania inferiore ad Ara Ubiorum.
          • Cohors IV Voluntariorum - probabilmente in Pannonia a Quadrata nel II secolo. 


          COHORS V
          • Cohors V Asturum - in Germania inferiore a Bonna.
          • Cohors V Brittonum - si suppone sia esistita per l'esistenza della III e VI Brittonum. La sua dislocazione, al momento, è incerta. 
          • Cohors V Breucorum - ausiliaria, costituita con Breuci della Pannonia, si trovava nel Norico nel 76 sotto Vespasiano ed alla fine del regno di Adriano. 
          • Cohors V Callaecorum Lucensium - posizionata in Pannonia superiore nel 116, 133, 139, 154 e 161.
          • Cohors V Gallorum - nella stessa località prima attribuita alla provincia di Pannonia (fino all'86) ed in seguito a causa della crisi dacica, alla Mesia superiore (diplomi del 93 e 103 fino al II sec., poiché la regione di Sirmio fu trasferita attorno all'86 dalla provincia pannonica a quella mesica superiore, appena creata. Fu trasferita per un breve periodo in Britannia, al tempo della costruzione del vallo di Adriano (diploma del 122). 
          • Cohors V Hispanorum - ausiliaria della Spagna romana, si trovava nel 74 nel distretto militare di Germania. I diplomi del 90, 92, 100, 101, 112, 114, fino al 160 era in Mesia superiore. L'anno successivo (nel 161) potrebbe essere stata spostata in Mesia inferiore (forse per un breve periodo). La troviamo in Numidia per un breve periodo non specificato.
          • Cohors V Nerviorum - si presume sia esistita, e forse era posizionata come la I, II, III e VI in Britannia. È possibile sia stata formata da Adriano. 
          • Cohors V Raetorum quingenaria di Augusto o Tiberio. Non si conosce la sua dislocazione iniziale. La troviamo da un diploma del 122 in Britannia. 


          COHORS VI
          • Cohors VI Breucorum - con ausiliari Breuci della Pannonia era forse a Viminacium in epoca giulio-claudia; poi trasferita in Germania inferiore nel 97-98 sotto Traiano e sotto Adriano a Alphen aan den Rijn.
          • Cohors VI Brittonum - formata dopo la conquista della Britannia ma non si conosce la sua dislocazione al momento. 
          • Cohors VI Gallorum -ausiliaria della Hispania Tarraconensis attorno al 150. Cohors VI Ingenuorum era posizionata al tempo di Antonino Pio (nel 151) a Xanten, in Germania inferiore, ad Ara Ubiorum o forse a Colonia Ulpia Traiana.
          • Cohors VI Ituraeorum - ricordata in una lapide - dell'anno 136 d.c. - del tempio egizio di Dakka, secondo la testimonianza di G. B. Belzoni.
          • Cohors VI Nerviorum civium romanorum - posizionata in Britannia. Ne attestano la sua presenza nell'isola diplomi militari del 122, 125, 127, 131, 135, 155, e la Notitia Dignitatum. È possibile sia stata arruolata da Adriano insieme alla IV e V Nerviorum. Troviamo sue evidenze epigrafiche ad Aesica (Great Chester) e Carvoran. Sotto Antonino Pio (dopo il 142-143) è posizionata sul Vallo di Adriano. Nel 205 era posizionata a Brough-by-Bainbridge, dove la troviamo fino alla Notitia Dignitatum. 
          • Cohors VI Raetorum quingenaria - di Augusto o Tiberio. Posizionata in Germania superiore (diploma del 94), la troviamo poi in Britannia a Great Chesters, ed infine, in Rezia all'epoca della Notitia Dignitatum. 
          • Cohors VI Thracum - posizionata in Dacia sotto Decimo Terenzio Scauriano dal 106-110. In data sconosciuta è in Britannia a Glouchester. 
          • Cohors VI Voluntariorum - impiegata in Dalmazia durante la rivolta dalmato-pannonica del 6-9; partirà per nuova destinazione, forse in Pannonia, dal 15-19. 



          COHORS VII
          • Cohors VII Breucorum civium romanorum - costituita con ausiliari Breuci della Pannonia fu dislocata inizialmente a Viminacium in epoca giulio-claudia; in seguito fu trasferita in Germania superiore in zona Mogontiacum probabilmente all'epoca della guerra contro i Catti di Domiziano dell83-84; trasferita in Pannonia inferiore in seguito alla crisi dacica dell'86 e qui la troviamo ancora nel 143, nel 192 sotto Commodo, nel 203 sotto Settimio Severo. 
          • Cohors VII Gallorum - posizionata in Mesia inferiore fino alla terza guerra giudaica del 132, quando Adriano la ritira e trasferisce in Siria (diploma del 157). 
          • Cohors VII Raetorum - di Augusto. La troviamo dislocata nel distretto di Germania nel 74 e nell'82.
          • Cohors VII Thracum - posizionata in Britannia dai diplomi ritrovati del 122, 126 e 158. 
          • Cohors VII Belgarum - Germania inferiore.


          COHORS VIII
          • Cohors VIII Breucorum - con ausiliari Breuci della Pannonia, era dislocata in Germania inferiore ad Ara Ubiorum e a Remagen.
          • Cohors VIII Fida - in Numidia per testimonianze epigrafiche nel 262-263. 
          • Cohors VIII Gallorum - ausiliaria, si presume essere esistita dalla numerazione fino alla XI. Quando e dove non si sa. 
          • Cohors VIII Raetorum civium romanorum - posta al tempo di Domiziano in Pannonia ed in seguito viene dislocata in Dacia sotto Decimo Terenzio Scauriano dal 106-110. 
          • Cohors VIII Voluntariorum Civium Romanorum - posizionata nell'Illirico molto probabilmente durante la rivolta dalmato-pannonica del 6-9. La troviamo ancora in Dalmazia nel 94, durante le guerre marcomanniche di Marco Aurelio e sotto Filippo l'Arabo, a Tilurium. Potrebbe essere stata trasferita in Oriente nel 270 al seguito di Aureliano. 


          COHORS IX
          • Cohors IX Gallorum - ausiliaria si presume essere esistita dalla numerazione fino alla XI. Quando e dove non si sa. 
          • Cohors IX Maurorum - ausiliaria, la troviamo nella provincia di Mesopotamia dal 197. 


          COHORS X - XI - XII - XV - XVIII - XXX - XXXII
          • Cohors X Gallorum - ausiliaria, si presume essere esistita dalla numerazione fino alla XI. Quando e dove non si sa. 
          • Cohors XIGallorum - ausiliaria, attestata in Dalmazia per la sola rivolta dalmato-pannonica del 6-9. Torna alla sua sede originaria in Germania inferiore o Germania superiore, dove rimane almeno fino al 70. 
          • Cohors XII Palaestinorum - si trova nella provincia di Mesopotamia dal 197. 
          • Cohors XVVoluntariorum civium romanorum - in Germania inferiore, probabilmente a Woerden, o a Ara Ubiorum dove rimase almeno per tutto il II sec.
          • Cohors XVIIIVoluntariorum - posizionata in Pannonia superiore nel 139, 154 e 161, probabilmente a Gerulata (Rusovce). Stazionò per un certo periodo in Dalmazia durante le guerre marcomanniche attorno alle colline del Kosmaj vicino a Guberevci. 
          • Cohors XXXVoluntariorum - posizionata in Germania Superiore sotto Marco Aurelio. 
          • Cohors XXXIIVoluntariorum - trasferita sul Reno dalla Pannonia al tempo di Vespasiano / Domiziano (tra il 72-83). 




          COORTI EQUITATE - QUINGENARIE - MILIARIE

          Prive di numerazione
          • Cohors Ituraeorum sagittariorum equitata - era in Cappadocia con Arriano governatore nel 134. Potrebbe trattarsi della cohors IV o V o VI di cui non esistono testimonianze epigrafiche certe. 
          • Cohors I equitata 

            COHORS I [...] con il nome dell'Imperatore che la formò o riorganizzo, ma apparentemente priva della regione di appartenenza:
            • Cohors I [...] Aelia Sagittariorum milliaria equitata - costituita dall'imperatore Adriano, stanziata nel Norico come da diploma del 139, probabilmente ad Astura ( diplomi del 159) fino ai Severi. Vi sono indizi di sue vexillationes o di uno spostamento provvisorio (es. guerre marcomanniche) nella vicina Cannabiaca (Klosterneuburg) o anche a Vindobona[-Schwechat e Carnuntum. Trasferita in toto o solo sue vexillationes ad Ala Nova (Schwechat) negli anni successivi.
            • Cohors I [...] Augusta Ituraeorum equitata - stanziata forse nel I sec. in Germania superiore, zona Mogontiacum. In Pannonia sotto Tito nel 79, sotto Traiano nei diplomi del 98 e 103 forse a Brigetio. È in Dacia come I Ituraeorum Augusta nel 110, zona Porolissum ed nel 137 sotto Adriano, nel 144 e 158 sotto Antonino Pio, fino almeno a Marco Aurelio nel 179. 
            • Cohors I [...] Flavia equitata - in Numidia per testimonianze epigrafiche nel 128. 
            • Cohors I [...] Flavia civium Romanorum equitata - in Giudea per sedare la rivolta di Bar-Kochba del 132-135, probabilmente insieme alla cohors IV Bracarum, alla cohors I Sebastena milliaria e l'ala VII Phrygum. 
            • Cohors I Alpinorum equitata quingenaria - dislocata sotto Domiziano in Pannonia inferiore (diplomi del 80, 85, 114, 154-160) a Matrica fino alle guerre marcomanniche, poi a Vetus Salina. Sostituita da una cohors milliaria Maurorum a Matrica, forse la stessa dislocata in Dacia nel 205. 
            • Cohors I Aquitanorum quingenaria equitata - in Britannia già con Adriano (diplomi del 122 e 124) a Brocolitia. Sotto Antonino Pio è destinata al Derbyshire (158 circa). Al tempo della difesa del Litorale sassone è posizionata a Branodunum. 
            • Cohors I Aquitanorum quingenaria equitata veterana -  in Germania superiore (diplomi del 74, 82, 90, 116 e 134), probabilmente in località Stockstadt am Main. 
            • Cohors I Asturum equitata -  in Germania nel 74 e nell'82, probabilmente a Mainhardt; la troviamo ancora in Germania superiore nel 90, 116 e 134. 
            • Cohors I Batavorum quingenaria equitata poi milliaria - dislocata fino al tempo di Claudio in Germania inf. Partecipa alle campagne militari in Britannia di Aulo Plauzio del 43, di Svetonio Paolino (60 circa) e forse di Vettio Bolano (69). In seguito allo scoppio della guerra civile tra Otone e Vitellio viene richiamata da quest'ultimo per lo scontro finale. Nella guerra civile in corso, parteciperà alla rivolta “indipendentista” di Giulio Civile del 69-70, per cui fu sciolta da Vespasiano. Ripristinata come milliaria e dislocata sotto Traiano in Pannonia superiore nel 116. Fu trasferita per un breve periodo in Britannia, al tempo della costruzione del vallo di Adriano (diploma del 122). 
            • Cohors I Belgica equitata - o I Belgarum, destinata in Germania superiore, nei pressi di Mogontiacum e poi di Feldberg, poi in Gallia Aquitania. All'inizio del II sec. si trovava in Dalmazia: a Bigeste (dove rimarrà per tutto il II sec. diploma del 173), Tilurium, Burnum, Salona, Narona, Andetrium , Hardomilje, Sotto Settimio Severo, fu nominata Cohors I Gallia Belgica Septimia. Potrebbe essere stata trasferita nel 241, al tempo di Gordiano III, sul fronte retico ad Öhringen in seguito alla crisi Alemanna.
            • Cohors I Bessorum Flavia - era in Mesia Superiore nel 100, poi  in Macedonia nel 120. 
            • Cohors I Chalcidenorum equitata - in Numidia per testimonianze epigrafiche nel 78, 164 e 194; durante la rivolta giudaica del 132 trasferita in Siria, non si sa per quanto tempo. 
            • Cohors I Cretum sagittariorum equitata - in Mesia superiore sotto Domiziano nel 93. Partecipa probabilmente alla conquista della Dacia, ed in seguito è posizionata ad Egeta dove la troviamo ancora nel 160-161. 
            • Cohors I Delmatarum equitata - esisteva certamente all'epoca di Vespasiano, si trovava in Britannia ai tempi di Adriano (diploma del 122 ed iscrizione databile al 125 ed Antonino Pio). 
            • Cohors I Damascenorum Flavia milliaria equitata sagittariorum - almeno dal 79 in Germania sup. (forse a Bingen) e trasferita nel Friedberg con le campagne dell'83-84. Rimarrà in questa provincia almeno fino al 134, o più probabilmente fino all'abbandono degli agri decumates nel 260. 
            • Cohors I Hemesenorum equitata milliaria sagittaria civium Romanorum - lungo il medio limes danubiano al tempo delle guerre marcomanniche, più precisamente in Pannonia inferiore ad Intercisa.
            • Cohors I Gallica equitata - stazionata in Tarraconense secondo la Notitia Dignitatum. 
            • Cohors I Hispanorum veterana equitata - in Moesia inferiore nel 99. Prima di questa data in Macedonia a Stobi, quindi  in Mesia inferiore. È possibile sia da identificarsi con la stessa I Hispanorum veterana che dal diploma del 129, è posizionata in Dacia inferiore a Brectu (Buridava), molto vicina al castra legionario di Troesmis, sembrerebbe in compagnia della cohors I Bracaraugustorum. 
            • Cohors I Hispanorum Flavia equitata Pia Fidelis Gordiana Philippiana - arruolata come cohors quingenaria in Spagna, forse nella dinastia dei Flavi. Si trovava in Germania inferiore sotto Traiano. Fu trasferita poco dopo in Britannia sotto Traiano (diplomi del 98, 103 e 105). È trasformata da Adriano nel 122 in Milliaria, destinandola probabilmente a Maryport. Potrebbe essere tornata in Germania inferiore, a Remagen nel III secolo.
            • Cohors I Hispanorum equitata - un'altra coorte di ispanici, posizionata al tempo di Traiano in Egitto, lungo il Nilo tra Tebe e Syene.
            • Cohors I Ligurum equitata quingenaria - nelle Alpi Marittime sotto Augusto, in seguito verrà a costituire la cohors I Ligurum et Hispanorum in Germania superiore, diplomi del 116 e 134.
            • Cohors I Lingonum equitata - poi Gordiana, posizionata in Britannia. Arruolata nella Germania superiore, ne attestano la sua presenza i diplomi militari del 105, 122 e 142. La troviamo sotto Adriano a Lanchester. Sotto Antonino Pio è sul vallo di Adriano ad High Rochester (tra il 139-143). È possibile che in un periodo successivo ad Antonino Pio sia stata dislocata a Corbridge nel Northumberland. Nel III sec. al tempo di Gordiano III la troviamo ancora a Lanchester. 
            • Cohors I Numdiarum equitata - in Cappadocia con Arriano governatore nel 134. 
            • Cohors I Pannoniorum equitata.
            • Cohors I Pannoniorum Ulpia milliaria equitata - in Pannonia superiore nel 133, 139, 154 e 161, forse posizionata a Gerulata (Rusovce). 
            • Cohors I Pannoniorum et Delmatarum equitata civium Romanorum - in Germania inferiore sotto Traiano e Antonino Pio, probabilmente in zona Xanten.
            • Cohors I Raetorum equitata - nasce molto probabilmente con Augusto. Era in Cappadocia con Arriano governatore nel 134. 
            • Cohors I Sequanorum et Rauracorum equitata quingenaria - in Germania Superiore, diploma militare del 191. È molto probabile che questo reggimento sia stato formato durante le guerre marcomanniche, dopo il 167.
            • Cohors I Sugambrorum Veterana equitata quingenaria - posizionata prima in Mesia inferiore nel 99, poi dislocata in Siria, probabilmente attorno al 157 (vedi anche I Sugambrorum Claudia, da cui sembra distinguersi). 
            • Cohors I Thracum - una serie di differenti coorti omonime, come segue:                                 - Cohors I Thracum equitata civium Romanorum - Germania inferiore ad Ara Ubiorum sotto Claudio, e/o Deutz e/o Remagen. I diplomi del 74 e dell'82 la attestano ancora in Germania. Con Vespasiano la troviamo ad Offenburg negli anni 73-74. Nell'80, 82 ed 83 era nel distretto delle due Germanie, poi con la divisione dell'88-89 in quella superiore (diploma del 91). Sotto Traiano è nuovamente in Germania inferiore (diploma del 98). Con Adriano fu inviata in Britannia, inizialmente a Wroxeter almeno dal 103, diplomi del 122, 124 e 158. Partecipò alla costruzione del Vallo di Adriano, tanto che ne è attestata la sua presenza tra Newcastel-Pons Aelius e Benwell in questo periodo. Potrebbe essere tornata nella Germania superiore (attorno al 130). La troviamo ancora in Britannia sotto Settimio Severo e Caracalla (forse al tempo delle campagne in Caledonia) tra Camboglanna (Birdoswald; in compagnia della cohors I Dacorum Aelia nel 205-208 a Birdoswald,) e Lavatrae (Bowes).                                                                                 - Cohors I Thracum civium Romanorum equitata - in Pannonia superiore nella prima metà del II secolo, come risulta dai diplomi del 127, 133, 139, 146, 154 e 161, posizionata forse ad Ulcisa Castra. Per un breve periodo fu trasferita nella vicina Pannonia inferiore (diplomi del 136, 143 e 156) probabilmente a Burgenae. Torna in Pannonia superiore alla fine del regno di Antonino Pio/inizi di quello di Marco Aurelio (nel 161), come da diploma del 164).                                                 - Cohors I Thracum Germanica equitata civium Romanorum - sotto i Giulio-Claudi dislocata nelle province germaniche (da qui il nome di Germanica), con la metà del II secolo la troviamo in Pannonia inferiore sotto Antonino Pio (diplomi del 148, 155 e 156) Marco Aurelio e Lucio Vero (nel 167), e sotto Commodo nel 192. La troviamo ad Annamatia (Baracs) al tempo di Massimino Trace (nel 238), in precedenza potrebbe essere stata dislocata a Lussonium (Paks).                   - Cohors I Thracum sagittaria equitata - posizionata in Dacia con la sua annessione nel 106 (dove la troviamo ancora nel 110). Era ancora in Dacia superiore attorno al 137. Troviamo un diploma del 158 che ne attesterebbe una sua permanenza (forse provvisoria), ancora in Dacia superiore, sempre che si tratti di una cohors sagittaria.                                                            - Cohors I Thracum Syriaca equitata - posizionata a Timacum Minus (Ravna sul fiume Timok) dal 71-73, proveniva dalla Siria dove era forse posizionata dai tempi di Claudio. Questa unità potrebbe essere rimasta in Mesia superiore almeno fino a Marco Aurelio (diploma del 78, 136, e 145), anche se non figura nel diploma del 160. Fu certamente in Mesia inferiore nel 157. 
            • Cohors I Ubiorum equitata -  una delle prime coorti miste create sotto Augusto. Posizionata all'epoca di Claudio nel Norico, sotto Domiziano e Nerva si trovava nella Mesia inferiore; spostata in seguito alle guerre di Traiano in Dacia, qui la troviamo ancora nel 179, sotto l'imperatore Marco Aurelio ed il governatore Publio Elvio Pertinace. 
            • Cohors I Vangionum equitata milliaria -  inviata in Britannia e dislocata per un breve periodo a Benwell (Condercum) e poi a Risingham (Habitancum) dove rimase almeno fino agli inizi del III secolo. Risulta posizionata nell'isola anche dai diplomi del 103, 122, 124, 158, 178 e 179. 
            • Cohors I Vasconorum equitata civium Romanorum - un'unità presunta considerando l'esistenza della II. È arruolata da Galba in Spagna nel 68. Combatte in Germania durante la rivolta di Giulio Civile. La troviamo in Britannia al tempo della costruzione del vallo di Adriano (diploma del 122). 


            COHORS II EQUITATA 

            Cohors II [...] equitata con il nome dell'Imperatore che la formò o riorganizzo, ma apparentemente priva della regione di appartenenza:
            • Cohors II [...]  Ulpiae equitatae Commodianae - posizionata a Dura Europos all'epoca dell'imperatore Commodo (180-192). 
            • Cohors II Alpinorum equitata quingenaria - dislocata sotto Nerone in Pannonia superiore (diplomi del 60, 84, 133, 139, 148, 149, 154 e 161), probabilmente a Ad Flexum (Magyarovar). Si trovava forse in età giulio-claudia in Germania inferiore ad Ara Ubiorum. 
            • Cohors II Aquitanorum quingenaria equitata - dislocata in Germania superiore attorno alla metà del II sec. (come da diplomi dell'82, 162 e 166), ed in seguito in Rezia (forse dopo le guerre marcomanniche). 
            • Cohors II Asturum equitata - in Germania inferiore ad Ara Ubiorum al tempo di Traiano. Fu trasferita in Britannia (più precisamente nel sud del Galles) già dal principio del II secolo come da diplomie del 105, 122, 124, e 126. Con gli inizi del III secolo fino al IV è spostata sul Vallo di Adriano.
            • Cohors II Batavorum Victrix quingenaria equitata poi milliaria - dislocata presumibilmente fino al tempo di Claudio in Germania inferiore ad Utrecht. Partecipa alle campagne militari in Britannia di Aulo Plauzio dal 43 al 47, e poi di Gaio Svetonio Paolino (dal 58 al 61) e di Marco Vettio Bolano (69-71). In seguito allo scoppio della guerra civile tra Otone e Vitellio fu richiamata da quest'ultimo a rinforzare le file del suo esercito, in vista dello scontro finale. Approfittando della guerra civile in corso, parteciperà alla rivolta “indipendentista” di Giulio Civile del 69-70. In seguito a questi avvenimenti fu inizialmente sciolta da Vespasiano, per poi essere riformata come milliaria ed inviata in Pannonia superiore (a Cannabiaca-Klosterneuburg) come risulta dal diploma del 116.
            • Cohors II Cyrenaica Augusta equitata - creata al tempo dell'imperatore Augusto. Venne dislocata in Germania superiore almeno a partire da Vespasinao (come da diplomi del 74, 90, 116 e 134). Il forte che ospità l'unità era forse quello di Butzbach. 
            • Cohors II Delmatarum equitata - nel 105 si trovava in Britannia sotto Traiano, come pure nel 122 e 126 sotto Adriano. Con il III sec. fu posizionata a Carvoran nel Northumberland. 
            • Cohors II Hispanorum Vasconorum equitata civium Romanorum - in Britannia nel 105. La troviamo più tardi in Mauretania Tingitana (diplomi del 109, 122, 135, 161). 
            • Cohors II Ituraeorum equitata insieme alla III Ituraeorum in Egitto già dall'epoca di Germanico nel 18. È qui attestata ancora nell'82 sotto Domiziano, nel 106 sotto Traiano ed ancora sotto Antonino Pio nel 157. 
            • Cohors II Lingonum equitata -  posizionata in Britannia al tempo della costruzione del vallo di Adriano (diploma militare del 122). 


            COHORS III EQUITATA
            AUSILIARIO
            • Cohors III Aquitanorum quingenaria equitata Civium Romanorum - dislocata nel distretto militare della Germania (prima della suddivisione in superiore ed inferiore) nel 74, e poi nella Germania superiore nell'82, 90, 116, 134, fino all'epoca dei Severi. I forti che occupò in questi anni erano probabilmente Neckarburken, ma soprattutto Osterburken.
            • Cohors III Delmatarum equitata - la IIII, la V, ecc. sono trasformate dai Flavi in milliarie. Si trovava prima in Germania inferiore (ad Ara Ubiorum), poi in Germania superiore (forse ad Arae Flaviae, l'attuale Rottweil) nel 90 sotto Domiziano, nel 116 sotto Traiano e nel 130 sotto Adriano. È trasferita più tardi in Dacia a Ad Mediam (l'attuale Mehadia), certamente sotto Severo Alessandro e poi sotto Gallieno. 
            • Cohors III Gallorum Felix equitata - in Germania inferiore probabilmente in epoca giulio-claudia. Venne, poi, trasferita nella Mauretania Tingitana, come risulta da numerosi diplomi degli anni 122, 153, 157 e 161. 
            • Cohors III Ituraeorum equitata - la troviamo all'epoca di Domiziano (82.), di Traiano nel 106 ed Antonino Pio in Egitto. In un'epoca non precisata potrebbe trovarsi a Wiesnau, nei pressi di Mogontiacum.
            • Cohors III Lingonum equitata - posizionata in Britannia al tempo della costruzione del vallo di Adriano (diploma militare del 122). 


            COHORS IV EQUITATA
            • Cohors IV Aquitanorum quingenaria equitata Civium Romanorum - dislocata nel distretto militare della Germania (prima della suddivisione in superiore ed inferiore) nel 74, e poi nella Germania superiore nell'82, 90, 116, 134, fino all'epoca dei Severi. Il forte che occupò in questi anni fu Obernburg am Main.
            • Cohors IV Delmatarum milliaria equitata - in Germania Superiore a Bingium (l'attuale Bingerbruck) sotto la dinastia dei Flavi. È trasferita più tardi in Britannia, dove la troviamo sotto Traiano nel 103, ed Adriano (diploma del 122). 
            • Cohors IV Gallorum equitata civium Romanorum - in Mauretania Tingitana nell'86, 109, 122, 135 e 157. 
            • Cohors IV Ituraeorum - della sua esistenza lo sappiamo dalla presenza della sua omonima, la VII. 
            • Cohors IV Lingonum equitata - posizionata in Britannia al tempo della costruzione del vallo di Adriano (diploma militare del 122). 


            COHORS V EQUITATA
            • Cohors V Delmatarum (o Dalmatarum) milliaria equitata civium Romanorum - nel distretto di Germania nel 74. Pochi anni più tardi la troviamo in Mauretania Tingitana sotto Domiziano nell'87 e 90. Tornò in Germania superiore sotto Traiano (ad Aquae Mattiacorum, l'attuale Wiesbaden) dove sembra rimase fino all'inizio del regno di Adriano. Tornò nuovamente in Mauretania Tingitana come dimostrano i diplomi del 122, 131 e 161. Al tempo di Commodo la troviamo ancora in Germania superiore. Resta il dubbio che non si trattasse di due distinte cohortes V Dalmatarum. 
            • Cohors V Ituraeorum - della sua esistenza lo sappiamo dalla presenza della sua omonima, la VII. 


            COHORS VI EQUITATA
            • Cohors VI Delmatarum milliaria equitata - in Mauretania Caesariensis (a Cherchell) in un periodo non specificato. 
            • Cohors VI Ituraeorum - della sua esistenza lo sappiamo dalla presenza della sua omonima, la VII.


            COHORS VII EQUITATA
            • Cohors VII Delmatarum milliaria equitata - in Mauretania Caesariensis (a Cherchell, l'antica Caesarea ovvero la capitale della provincia) in un periodo non specificato.
            • Cohors VII Ituraeorum - in Egitto (a Tebe), forse nel II sec.

            ALBIO TIBULLO

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            Nome: Albius Tibullus
            Nascita: 55 a.c.
            Morte: 15 a.c.
            Professione: Poeta


            "La fortuna è messa in moto dal veloce giro di una ruota instabile". (Albio Tibullo)

            Albio Tibullo, ovvero Albius Tibullus, nacque a  Gabii o Pedum, nel 54 a.c. e morì a Roma il 19 a.c.) è stato un poeta romano del I secolo a.c., tra i maggiori esponenti dell'elegia erotica.

            Scarse le notizie sulla sua vita, tanto che non ne conosciamo neppure il prenomen. Nacque probabilmente nel Lazio, forse a Gabii, tra il 55 e il 50 a.c. da una ricca famiglia di censo equestre. Orazio lo descrive bello e dotato di ogni bene, mentre s'aggira nella campagna di Pedum (nei pressi di Tivoli) troppo immerso in penosi pensieri, ridotto come un "corpo senz'anima".

            Nel 44 a.c. fu vittima come tanti altri dell'ondata di confische di terre a favore dei veterani di Filippi, ma tuttavia conservò del suo patrimonio quel tanto che gli permise di condurre un'esistenza confortevole. Dopo la prematura scomparsa del padre (nelle elegie il poeta si dice già dalla giovane età amministratore del patrimonio familiare), si trasferì a Roma, dove conobbe uno dei rappresentanti di maggior rilievo della parte repubblicana, Valerio Messalla Corvino, cui si legò con intensa amicizia e del cui circolo romano fu il principale rappresentante, fino alla morte.

            Pur avversando la vita militare, Tibullo accettò di accompagnarlo in due spedizioni militari, una in Siria, nel corso della quale dovette fermarsi, ammalato, a Corcira (Corfù) (elegia I, 3); l'altra in Aquitania, ove si distinse per meriti militari.

            Nel 27 a.c. infatti assistè a Roma al trionfo di Messalla, celebrato il 25 settembre. Terminati i viaggi e le spedizioni militari, dividendo la sua vita fra la città e la campagna, Tibullo strinse amicizia con Orazio,
            che gli dedicò due suoi componimenti: il carme I, 33, e l'epistola I, 4.
            Da un epigramma, attribuito a Domizio Marso, si apprende che morì ancora giovane, poco dopo Virgilio, nell'anno 19 o 18 a.c., probabilmente a Roma.



            OPERE

            A Tibullo sono attribuiti due libri di elegie, per un totale di 1.238 versi (619 distici elegiaci) che insieme costituiscono il CORPUS TIBULLIANUM. Tutti i componimenti nacquero nella cerchia letteraria di Messalla Corvino, circolo che si tenne lontano da quella calda adesione ai programmi politici di Augusto, che caratterizza invece i poeti raccolti intorno a Mecenate.
            I primi due libri contengono le elegie di Tibullo, mentre il terzo contiene componimenti di vari poeti minori, anonimi o coperti da pseudonimi, le cui identità sono impossibili da accertare.


            Il I libro

            Il primo libro, pubblicato probabilmente nel 26 o nel 25 a.c., contiene 10 elegie di varia estensione, i cui temi principali sono l'amore per Delia (pseudonimo di Plania, come sappiamo da Apuleio, Apologia 10) e per il giovinetto Marato, il rifiuto della guerra e della violenza, nonchè l'amore per la campagna.

            La prima elegia è programmatica, una sorta di presentazione e di manifesto della poetica e della personalità di Tibullo. Rivolgendosi a Messalla, introduce alla tematica dell'amore per Delia, l'amore per la vita in campagna e per la pace.

            La seconda elegia, un paraklaysíthyron, svolge uno dei temi tipici della poesia erotica. Davanti alla porta chiusa di Delia si svolge il canto del poeta, una sorta di serenata. Tibullo malato è costretto ad abbandonare Messalla, in viaggio verso l'Egeo.

            In un'ansia di morte, Tibullo ripensa le ultime ore passate con Delia a Roma, immagina lei rimasta sola che prega per lui. In uno dei pochi excursus mitologici della sua opera, Tibullo illustra i miti dell'età dell'oro.

            Viene introdotto il tema dell'amore omosessuale per Marato. Tibullo, chiesto consiglio ad una statua del dio Priapo, viene istruito sull'arte di sedurre i giovinetti.

            Ancora un paraklaysíthyron. Delia, lasciato Tibullo, ha un amante più vecchio e più ricco. Con questa elegia si chiude il "romanzo di Delia". Delia tradisce il marito con Tibullo, che qui fornisce una sorta di precettistica del tradimento.

            Elegia in onore di Messalla, in occasione del suo compleanno. Si esorta una fanciulla, Foloe, a ricambiare le attenzioni di Marato. Marato tradisce Tibullo con un amante più ricco. Invettiva contro i due, sul modello della poesia giambica. Tibullo, richiamato sotto le armi, maledice la guerra ed elogia la vita in campagna e l'amore.


            Il II libro

            Il secondo libro contiene 6 elegie. La donna cantata non è più Delia, bensì la crudele e sensuale Nemesi. Componimento dedicato alla festa degli Ambarvalia. Elegia dedicata all'amico Cornuto in occasione del suo compleanno.

            Fa la sua comparsa Nemesi, che si trova con un amante nella casa di campagna di lui. Tibullo dà sfogo alla sofferenza della gelosia. Si svolge il tema della "servitù d'amore": Tibullo è succube di Nemesi, ed è disposto a tutto per soddisfarne le richieste.

            Delle elegie rimanenti, una canta il compleanno dell'amico Cornuto (2), un'altra la celebrazione degli Ambarvalia (1) e la (5) celebra la nomina del primogenito di Messalla, Messalino, nel collegio sacerdotale dei quindecemviri sacris faciundis.

            Elegia dedicata a Messalino, figlio di Messalla, in occasione della sua investitura sacerdotale. L'amico Macro deve partire militare. Tibullo, riluttante, è disposto ad accompagnarlo, pur di dimenticare la crudele Nemesi.
            Nella speranza che l'amata diventi più tenera verso di lui, Tibullo rievoca l'immagine della sorellina di lei, morta cadendo da una finestra.

            Negli Ambivaralia si celebra la campagna che, con la sua idillica pace, si contrappone agli avidi guadagni e al fragore delle armi; Tibullo non cerca la ricchezza e detesta la guerra, nella quale vede un mezzo di arricchimento, non di diffusione della civiltà: al contrario, egli s'accontenta di un' "aurea mediocritas", che gli consenta una vita moderatamente agiata e soprattutto tranquilla, nel segno di un profondo e desiderato "disimpegno".

            La religiosità di Tibullo è quella degli riti antichi del mondo rurale, alla fede della sua infanzia, agli Dei della campagna e del focolare: i Lari (ai cui piedi egli correva, da bambino) e Silvano e Priapo e Bacco, e poi Cerere e Pale. La campagna coi suoi riti è per lui l'approdo sicuro, si manifestano gli affetti domestici e i sacri vincoli della famiglia. Anche la già affermata esaltazione di Roma, presente nel II libro, si risolve nella rievocazione della religiosità agreste del Lazio primitivo.
            Venerate piamente le Dee e gli Dei dei campi e dei boschi: essi riceveranno i vostri doni, proteggeranno i vostri campi, scacceranno le malattie, aiuteranno le vostre famiglie; vivete felici nei vostri villaggi senza preoccupazioni”.


            Libro Terzo 

            A Tibullo si devono anche alcuni componimenti del III libro del Corpus Tibullianum l'insieme delle opere di Tibullo e degli altri poeti del circolo di Messalla. Avvertenza: alcuni editori, sulla falsariga di una suddivisione umanistica, considerano come "terzo libro" le sole elegie di Ligdamo, e intitolano "quarto libro" i componimenti successivi, dal Panegirico di Messalla compreso fino alla fine dell'opera.

            Ligdamo

            Il Corpus comincia con 6 elegie dell'ignoto Ligdamo, probabilmente uno pseudonimo, forse di Tibullo, oppure di Ovidio: tuttavia l'identità di Ligdamo non è accertabile. Ligdamo è un buon dilettante, che riesce a sviluppare il discorso elegiaco senza scadere nel banale, ma senza raggiungere alti livelli
            .
            Il Panegirico di Messalla

            Il Panegirico di Messalla, poemetto di modesto valore risalente al 31-30 a.c., è l'unico componimento in esametri dell'intera raccolta. Il panegirista, ignoto, tesse lodi sperticate di Messalla come condottiero e come oratore. Il Panegirico apre l'attuale IV libro del Corpus. E’ stato attribuito a Tibullo giovane, ma sembra troppo lontano dalla sua arte. Il caratteristico divagare tibulliano qui scade in una retorica, adulatrice esaltazione di Messalla, oratore (nella I parte) e condottiero (nella II), con l'aggiunta di pedanti digressioni sull'Odissea e sulle cinque zone climatiche.

            Il "Romanzo di Sulpicia"

            La raccolta continua con 11 componimenti, suddivisibili in due gruppi, composti da un autore ignoto e da Sulpicia. Nei manoscritti li si trovano in quest'ordine, benché sia chiaro che la composizione degli elegidia (dal greco, "piccole elegie") di Sulpicia sia cronologicamente precedente. Sulpicia, una nipote di Messalla, unica poetessa della letteratura latina, donna colta e di nobilissima famiglia, compose sei brevi componimenti in forma di messaggi amorosi rivolti a Cerinto, mostrando una tale spontaneità e forza di sentimenti da essere attribuita per lungo tempo a Tibullo. Altri 5 componimenti rielaborano i temi della storia d'amore di Sulpicia con una tecnica più esperta.

            Chiudono l'opera una elegia e un epigramma attribuiti a Tibullo, nei quali si affrontano i temi della dichiarazione d'amore e del tradimento.


            Lingua e stile

            Lo stile di Tibullo, tersus atque elegans (chiaro ed elegante), come lo definisce Quintiliano (X, 1, 93), è uno dei modelli della classicità. Tibullo lavora con un lessico limitato e con un numero ristretto di temi, variando i quali riesce a creare effetti sempre diversi, sfumando dal dolce al malinconico, talvolta al rabbioso. Non fa sfoggio invece di quell'erudizione mitologica che caratterizza lo stile del suo contemporaneo Properzio. La lingua di Tibullo è priva di arcaismi, grecismi e neologismi, nonché di anomalie morfologiche. L'andamento vago, ondeggiante del testo poetico si combina con un linguaggio chiaro, sobrio e semplice, ma in realtà risultato di un sorvegliatissimo, dotto studio, espressione consumata di quel senso della misura caratteristico del classicismo augusteo. Armonioso e musicale è infine il suo distico; forse anche un po' "monotono".


            Fonti 

            Tibullo stesso ci fornisce diverse informazioni su di sé, nella propria opera. Inoltre, il testo di Tibullo, nei manoscritti che ce lo tramandano, è accompagnato da un epigramma scritto da Domizio Marso e da una Vita anonima. Il primo ci fornisce l'indicazione della data di morte. La seconda ci informa della sua origine, dei suoi rapporti con Messalla, dice che fisicamente era bellissimo e che multorum iudicio principem inter elegiographos obtinet locum (a giudizio di molti, ha il primo posto tra gli scrittori di elegie).

            L'epistola I, 4 di Orazio è rivolta ad un Albio, sicuramente Tibullo, ritraendolo pensoso a comporre ed elogiandolo, concludendo con un invito a fargli visita. L'elegia III, 9 degli Amores di Ovidio è un epicedio per la morte di Tibullo. Ovidio si immagina il funerale, dove Delia e Nemesi si contendono il primato nel cuore del defunto. Il testo contiene varie citazioni e rimandi al testo di Tibullo. Ancora Ovidio fa il nome di Tibullo insieme a quelli di Virgilio, Orazio, Cornelio Gallo e Properzio nell'elegia IV,10 dei Tristia, lamentando che il destino non gli ha concesso abbastanza tempo per stringere amicizia con lui.

            Qui Ovidio, seguendo una consuetudine antica, stabilisce una "successione" dei poeti elegiaci: Gallo, Tibullo, Properzio e sé stesso come quarta "generazione":
            Virgilium vidi tantum: nec avara Tibullo
            tempus amicitiae fata dedere meae.
            successor fuit hic tibi, Galle, Propertius illi;
            quartus ab his serie temporis ipse fui. 

            (Virgilio lo vidi soltanto; né la morte prematura diede a Tibullo il tempo per la mia amicizia. Fu il tuo successore, o Gallo, e Properzio successe a lui. Dopo costoro, in ordine di tempo io sono il quarto).


            Tradizione e critica del testo

            Benché Tibullo fosse molto apprezzato nell'antichità, nel Medio Evo la sua opera ha scarsa circolazione, e per lo più in antologie. Solo alla fine del XIV secolo l'opera torna ad avere una vasta circolazione nella sua integrità.


            Manoscritti

            Non sono sopravvissuti manoscritti tardoantichi né medievali. Da un archetipo O - perduto - derivano tutti i manoscritti rinascimentali, circa 100.




            CITAZIONI

            Altri accumuli per sé ricchezze di biondo oro,
            e possegga molti iugeri di terreno coltivato,
            e costui l'agitazione continua per il vicino nemico atterrisce,
            e a lui le marziali trombe squillanti impediscano i sonni,
            me il mio modesto stato guidi a vita tranquilla,
            purché il mio focolare risplenda di fuoco ininterrotto.
            (Elegie)
            Periuria ridet amantum Iuppiter. Giove si fa gioco delle false promesse degli amanti.

            Parva seges satis est.È sufficiente un piccolo raccolto.



            (Liber I,10) GUERRA E PACE


            Quis fuit horrendos ...

            Chi fu il primo ad inventare le terribili spade? 
            Quanto davvero ferino e ferreo egli fu! 
            Da allora sono nate le stragi per il genere umano, 
            da allora i combattimenti, ed è stata aperta 
            una via più breve alla morte terribile. 
            O forse quel miserevole non ebbe nessuna colpa: 
            noi abbiamo volto a nostro male 
            ciò che egli inventò contro le terribili bestie? 

            Questo è colpa dell'oro che arricchisce, 
            e non c'erano guerre quando una coppa di faggio 
            stava davanti alla mensa, non c'erano rocche, 
            nè trincee, ed il pastore faceva sogni 
            sicuro fra le pecore dai vari colori. 
            Allora sarei vissuto felicemente, 
            non avrei conosciuto le tristi armi 
            e non avrei udito il suono di tuba 
            con il cuore in tumulto. 
            Ora sono spinto di forza alle guerre, 
            e già forse un nemico porta le frecce 
            destinate a piantarsi nel mio fianco. 
            Lari patrii, salvatemi: voi stessi mi avete anche allevato, 
            quando bambinello sgambettavo davanti ai vostri piedi. 
            Non vergognatevi di essere fatti di legno antico: 
            così abitaste la dimora del mio antico avo.
            Allora tennero meglio fede, quando un dio di legno 
            era in una piccola nicchia con modesto culto; 
            quest'ultimo era pago sia che qualcuno gli avesse fatto offerte d'uva, 
            sia che gli avesse posto sulla sacra chioma coroncine di spighe; 
            e qualcuno di persona gli portava - esaudito nel voto - focacce: 
            e dopo di lui veniva la piccola figlia 
            portando come compagna un favo puro. 

            E da me scacciate i dardi di bronzo. 
            Ci sarà un maiale dal ricolmo porcile come offerta rustica; 
            io la seguirò con una veste pura, 
            porterò un canestro cinto di mirto, 
            anch'io col capo circondato di mirto.
            Così io possa piacervi, qualcun altro sia forte nelle armi 
            ed abbatta i comandanti avversari con il favore di Marte, 
            perchè possa raccontarmi mentre bevo le sue imprese di soldato 
            e dipingere con il vino l'accampamento sul tavolo. 
            Quale pazzia è affrettare con le guerre la morte terribile? 
            Incombe già e viene con piede silenzioso di nascosto. 
            Laggiù non ci sono campi seminati e coltivazioni di vigne, 
            ma Cerbero feroce e lo squallido nocchiero della palude Stigia; 
            lì erra per le acque oscure una folla spettrale 
            con le gote lacerate ed i capelli ustionati. 
            Quanto piuttosto si deve lodare chi, 
            dopo essersi procurata una prole, 
            la lenta vecchiaia raggiunge nella propria casa! 
            Egli stesso accompagna le sue pecore, ed il figlio gli agnelli, 
            e la moglie prepara l'acqua calda per lui stanco. 
            Così possa essere io! E mi sia concesso incanutire nel capo 
            con i capelli bianchi, e da vecchio raccontare fatti del tempo antico. 

            Nel frattempo la Pace renda fecondi i campi; 
            la candida Pace per la prima volta condusse 
            ad arare i buoi sotto i gioghi ricurvi; 
            la Pace fece crescere le viti e ripose i succhi d'uva, 
            affinchè l'anfora del padre possa versare vino per il figlio; 
            quando c'è pace la marra ed il bidente splendono, 
            mentre la ruggine si impadronisce delle tristi armi 
            del duro soldato nelle tenebre.



            COME UN CONTADINO

            Altri accumuli ricchezze d'oro zecchino e 
            tenga a coltura molti iugeri di terra, 
            sì che un'angoscia continua l'assilli 
            per la presenza del nemico, 
            e gli squilli delle trombe di guerra gli tolgano il sonno. 
            Una vita tranquilla conceda invece a me la misura, 
            purché sul mio focolare splenda sempre una fiamma. 

            Come un contadino vorrei io stesso 
            piantare a tempo e luogo i tralci della vite 
            e con mano sapiente gli alberi da frutta, 
            senza che la speranza mi tradisca, 
            ma via via mi conceda covoni di grano 
            e vendemmie abbondanti che colmino i tini. 

            Non c'è tronco solitario nei campi 
            o pietra antica di trivio con ghirlande di fiori 
            ch'io non veneri, e qualunque frutto mi dona 
            la nuova stagione, come primizia 
            io l'offro alle divinità della campagna. 

            Appesa alla porta del tuo tempio, mia bionda Cerere, 
            sarà sempre una corona di spighe  
            raccolte nei miei campi e a guardia del frutteto 
            sarà posto un Priapo rosso fuoco, 
            che con la sua macabra falce atterrisca gli uccelli. 

            Anche voi, Lari, custodi di questo povero podere, 
            un tempo cosí ricco, prendetevi i doni 
            che vi sono dovuti. Allora una vitella 
            col suo sacrificio purificava 
            innumerevoli giovenchi, ora un'agnella 
            è l'umile vittima d'un fazzoletto di terra. 

            Cadrà dunque in vostro onore un'agnella 
            e intorno a lei griderà la gioventú di campagna: 
            'Salute a voi, dateci messi e vino buono'. 
            Potessi finalmente vivere 
            felice del poco che ho e non essere costretto
            continuamente a viaggiare in terre lontane; 
            potessi evitare il sorgere della canicola estiva 
            all'ombra di un albero vicino a un rivolo d'acqua. 

            Non mi vergognerei d'impugnare a volte la vanga 
            o d'incitare col pungolo i buoi quando s'attardano; 
            non mi lamenterei di riportare a casa, 
            stretta al seno, un'agnella o il piccolo di una capretta 
             abbandonato dalla madre smemorata. 

            Ma voi, ladri e lupi, risparmiate il mio minuscolo gregge: 
            la preda va tolta a una mandria numerosa. 
            Qui ogni anno purifico i miei pastori 
            e aspergo di latte, perché si plachi, la dea Pale. 
            Assistetemi, dei, non disprezzate i doni 
            che a voi vengono da un povero desco  
            in disadorne stoviglie d'argilla. 

            D'argilla era la coppa che si foggiarono un tempo 
            i contadini, plasmandola con la molle creta. 
            Io non pretendo le ricchezze dei miei padri, 
            né i frutti che il raccolto procurava a quegli antichi: 
            mi basta poca roba e, se è possibile, dormire
            nel mio letto, ritemprando le membra sul solito guanciale. 

            Che gioia ascoltare, coricato, i venti che infuriano 
            e teneramente stringersi al petto l'amata o, 
            quando d'inverno lo scirocco rovescia la sua pioggia gelida, 
             abbandonarsi in pace al sonno, mentre ti cullano le gocce! 
            Questo mi tocchi in sorte: è giusto che diventi ricco 
            chi sa sfidare la furia del mare e la tristezza della pioggia.

            Scompaiano tutto l'oro e gli smeraldi del mondo, 
            piuttosto che una fanciulla pianga per i miei viaggi. 
            In terra e in mare tu porti guerra, Messalla,
            perché nella tua casa si mostrino le spoglie nemiche; 
            io qui sono avvinto dalle catene d'una fanciulla seducente e siedo 
            come un portiere davanti alla sua porta sbarrata. 

            Io, mia Delia, non inseguo la gloria: pur di restare con te 
            non m'importa che mi chiamino incapace e indolente. 
            Voglio specchiarmi in te quando verrà la morte 
            e in fin di vita tenerti con la mano che s'abbandona.  
            Mi piangerai, Delia, e composto sul letto del rogo 
            coi baci verserai lacrime amare. 

            Mi piangerai: il tuo petto non è cinto di ferro, 
            nel tuo tenero cuore non hai infissa una pietra. 
            Da quel funerale non ci saranno giovani, 
            né fanciulle che possano tornare a casa 
            senza lacrime agli occhi. 

            E tu, mia Delia, non contristare la mia ombra, abbi pietà: 
            non sciogliere i capelli, risparmia le tue morbide guance. 
            Intanto, finché il fato lo consente, 
            facciamo insieme l'amore: presto verrà la morte, 
            col capo coperto di tenebre, presto subentrerà 
            l'età dell'impotenza, e coi capelli bianchi 
            non sarà piú decoroso l'amore o blandirsi a parole. 

            Ora, ora è il tempo di darci senza pensieri all'amore, 
            finché non è vergogna infrangere le porte 
            e dolce è intrecciare litigi. In questo campo
            io sono condottiero e soldato valente; 
            voi, trombe e vessilli, sparite, via: 

            a chi ama l'avventura procurate ferite 
            e con queste la ricchezza. Io, spensierato, 
            col mio raccolto nel granaio, 
            riderò dei ricchi, riderò della fame. 



            IL SOGNO

            Fato miglior mi volgano gli Dei,                              
            E l’orribile sogno non s’avveri                                  
            Che s’offerse sull’alba agli occhi miei.                      

            Itene lungi, o mobili e leggeri
            Della notte fantasimi; chè vani
            Io vi conosco a prova e menzogneri.

            Solo gli Dei rivelano gli arcani;
            E leggon segno de’ venturi mali
            Nelle fumanti viscere i Toscani.

            Per l’aria tenebrosa incerte l’ali
            Battono i sogni, e di folli paure
            Conturbano il riposo de’ mortali.

            Ma la schiatta dell’uom nata alle cure
            Con farro e sal, che crepita sul foco,
            Placa le larve della notte oscure.

            E nondimen, sia che ne’ sogni loco
            Abbiasi il vero; sia che frodolenti
            De’ mortali la fè prendansi a gioco,

            Della trascorsa notte i rei portenti
            Volga in meglio Lucina, e non permetta
            Ch’io scevro d’ogni colpa invan paventi;

            Se mai non fu d’alcuna macchia infetta
            Questa mia destra; nè parola altera
            Contro gli Dei con empio labbro ho detta.

            Già notte avea della stellata sfera
            Compiuto il giro e nell’equoree spume
            Lavava gli assi alla quadriga nera;

            E non ancora le tranquille piume
            Il sonno sul mio capo avea distese,
            A’ travagliati non amico nume.

            Alfin nell’ora che il mattino ascese
            In oriente, sullo stanco letto
            Un sopore dolcissimo mi prese.

            Qui veder mi pareva un giovinetto
            Cinto le tempie d’immortale alloro
            Scendere a tacita orma entro il mio tetto.

            Più schietta leggiadrìa, pari decoro
            Mai non fu visto dall’antiche genti;
            Nè mai l’arti sudaro egual lavoro.

            Gl’intonsi crini, lunghi e rilucenti
            Sovra il collo cadevano stillanti
            Larga rugiada d’odorosi unguenti.

            Diffuso era un candor ne’ bei sembianti
            Qual è quel della luna; e neve e rosa
            Era il bel corpo che sdegnava ammanti.

            Tale il colore di novella sposa,
            Quando nel velo nascondendo il ciglio
            Segue il marito onesta e vergognosa:

            Tale il color, se l’amaranto al giglio
            Accoppian le fanciulle; e tale il melo
            Fassi in autunno candido e vermiglio.

            Adombravano il piede, che del cielo
            Dai nitidi sereni si diparte,
            Gli aerei fluttuanti orli del velo.

            Una lira, lavor raro dell’arte,
            Tutta d’oro e testuggine contesta
            Portava appesa alla sinistra parte.

            Come innanzi mi fu, trasse da questa
            Lento un preludio e sciolse all’aure un canto
            Onde anco la dolcezza in cor mi resta.

            Poi che le corde seguitaro alquanto
            L’inno celeste, il roseo labbro ei schiuse
            In questi detti a me nunzî di pianto:

            «Salve, amore de’ numi; chè le Muse
            E Bacco e Febo arridono al cantore
            In cui candide voglie il cielo infuse.

            Ma la prole di Semele e le Suore
            Abitatrici dell’ascrea pendice
            Dell’avvenir non leggono il tenore.

            Antiveder gli eventi a me sol lice;
            È di Giove mio padre inclito dono
            Se soltanto il mio labbro il ver predice.

            De’ detti miei non mai fallaci il suono
            Odi, o poeta; e ti riponi in seno
            Quanto io nume di Cinto ti ragiono.

            Colei che tu cotanto ami, che meno
            Tenera figlia alla sua madre è cara,
            Giovinetta all’amante è cara meno;

            Colei per cui de’ numi innanzi all’ara
            Tu fai voti; colei che giorni ed anni
            Viver t’astringe in incertezza amara;

            Ed allor che la notte co’ suoi vanni
            Il mondo oscura, alla tua mente illusa
            Mille tesse amorosi acerbi inganni;

            Quella bella Neera, alla tua musa
            Argomento perenne, altri, spergiura,
            In cor vagheggia, e l’amor tuo ricusa.

            Empia! E trafitta da novella cura
            Lascive nozze medita; nè gode
            Più le sante abitar natali mura.

            Ah, tutte d’un color, se il ver se n’ode,
            Perfida razza e senza core! Pera
            Qual ordisce all’amante iniqua frode!

            Pur, come sai, mutabile è Neera:
            Donna è pronta alle paci. Or tu la speme
            Desta e lagrime aggiungi alla preghiera.

            Un indomito amor fatiche estreme
            Insegna a tollerar: verghe e tormenti,
            Quando spira verace, amor non teme.

            Ch’io d’Admeto pascessi i bianchi armenti
            Fatto pastor, non credere che sia
            Fola canora di giocose menti.

            Meco non era allor la cetra mia;
            Nè potea de’ sonanti inni la piena
            Disposar delle corde all’armonia;

            Ma sovra rozza boschereccia avena
            Io, di Latona il gran figlio e di Giove,
            Rustico carme modulava appena.

            Nella corte d’amor sono ben nove
            L’orme tue, giovanetto, se non sai
            Curvar le spalle a simiglianti prove.

            Dunque persisti, nè ritrarti mai
            Dalla preghiera: non è cor sì duro
            Che alfin non ceda agli amorosi lai.

            Che se da’ miei delubri non oscuro
            Esce il responso, e quanto il ferreo dito
            Scrive de’ fati io leggo nel futuro,

            Dille: nel cielo è questo nodo ordito;
            Fortunata Neera, un Dio t’avverte,
            Se in traccia non andrai d’altro marito.»

            Disse. Veloce dalla salma inerte
            Il sonno dileguossi. Ah, ch’io non miri
            Tante e sì gravi mie sventure aperte!

            Ch’io non sappia giammai che i tuoi desiri
            A’ miei sono contrari; che mentita
            La pietà, che fur falsi i tuoi sospiri.

            Già tu non sei da’ tempestosi uscita
            Gorghi del mare, nè le divampanti
            Fauci della chimera a te dier vita;

            Nè te Cerbero cinto di fischianti
            Colubri la tergemina sua testa;
            E non Scilla, terror de’ naviganti;

            Nè nudriro in inospite foresta
            Le fulve leonesse, in suol romano
            Te nata di gentil progenie onesta.

            E tal t’è madre, di cui cerchi invano
            Altra più mite; e tal t’è genitore,
            Se altri visse giammai, dolce ed umano.

            Che se premio si deve a un fido amore,
            Gli Dei cangino in riso il mio sgomento,
            E l’orribile sogno ingannatore
            Pel remoto oceàn dissipi il vento.



            LE CATENE DI VENERE

            Versa vino schietto e col vino 
            scaccia i dolori che t'assalgono, 
            sì che premendo gli occhi di chi è stanco vinca il sonno: 
            nessuno svegli chi ha la mente stordita dal vino, 
            finché l'angoscia dell'amore non si plachi. 
            Alla mia fanciulla è stata imposta una custodia spietata 
            e con una spranga di ferro, impenetrabile, 
            è sbarrata la porta. Ti sferzi la pioggia, 
            porta d'un intrattabile padrone, 
            ti colpiscano i fulmini scagliati 
            per volere di Giove. 

            Porta, porta, sciogliti ai miei lamenti, 
            apriti per me, per me solo, 
            e girando sui cardini furtiva 
            schiuditi senza far rumore; 
            se nella mia follia ti ho lanciato male parole, 
            perdonami: sul mio capo pregherò che ricadano. 
            Non puoi non ricordare tutto ciò 
            che supplicandoti ti dissi, 
            quando ai tuoi stipiti offrivo serti di fiori. 

            E anche tu, Delia, inganna senza timore i guardiani. 
            Osare si deve: Venere stessa aiuta chi ha coraggio. 
            Se un giovane tenta per primo una soglia, lei l'asseconda 
            e se una fanciulla coi denti di una chiave 
            socchiude la porta, è lei che le insegna 
            a strisciare furtiva dal morbido letto, 
            ad appoggiare il piede senza far rumore, 
            a scambiare davanti al suo uomo cenni eloquenti,  
            e a nascondere messaggi d'amore 
            in gesti convenuti. 

            Ma non a tutti l'insegna: 
            solo a chi l'indolenza non l'attarda 
            o a chi il timore non gli vieta 
            di levarsi dal letto in una notte oscura. 
            Così per tutta la città 
            timoroso m'aggiro fra le tenebre 
             ... 
            lei non permette che m'imbatta 
            in chi di ferro ferisca il mio corpo 
            o cerchi bottino rubandomi la veste. 

            Chi è in potere d'amore, in ogni luogo 
            può andarsene indenne e sicuro: 
            agguati non deve temere. 
            Non mi nuoce il freddo incombente 
            delle notti invernali e non la pioggia, 
            quando cade a rovesci: se Delia schiude la porta 
            e senza parlare mi chiama schioccando le dita, 
            non è, questa, fatica che mi pesa. 
            Fate finta di non vedermi, 
            uomini o donne, voi che m'incontrate: 
            Venere vuole celati i suoi amori furtivi.
            Non spaventatemi col rumore dei vostri passi,
            non chiedetemi il nome, 
            non avvicinate la luce ardente delle torce. 
            E se qualcuno per caso m'ha visto, 
            mantenga il segreto e per gli dei tutti 
            affermi di non ricordare:  facendone parola proverà 
            come Venere sia nata dal sangue 
            e dal mare impetuoso. 
            Tanto non potrà credergli 
            l'uomo che vive con te: cosí in verità 
            mi promise un'indovina coi suoi magici riti. 

            Dal cielo l'ho vista io trarre giú le stelle; 
            e può con gli incantesimi invertire 
            il corso rapido dei fiumi, 
            con la parola spaccare la terra, 
            evocare dai sepolcri le ombre, 
            strappare ai roghi fumanti le ossa; 
            ora con un sibilo magico 
            aduna le schiere infernali, 
            ora, aspergendole di latte, 
            al suo comando le disperde. 

            Quando vuole, spazza dal cielo imbronciato le nubi, 
            quando vuole, in piena estate fa scendere la neve. 
            Lei sola, dicono, possiede i filtri di Medea,
            lei sola di Ècate sa domare i cani rabbiosi. 
            Le formule m'ha dettato con cui puoi allestire inganni: 
            pronunciale tre volte e tre volte sputa quando l'hai dette. 
            A nessuno che ci denunci potrà credere il tuo uomo, 
            no, nemmeno a sé stesso, 
            se insieme ci vedrà in un letto morbido. 

            Ma tu non andare con altri: lui vedrà ogni cosa; 
            solo se sei accanto a me non s'avvedrà di nulla. 
            'Devo crederlo?' Certo: lei stessa in grado si disse  
            con filtri e incanti di sciogliere il mio amore; 
            con le fiaccole m'ha purificato 
            e una vittima nera per gli dei della magia 
            cadde in una notte serena. 
            E pregavo non tanto che s'annullasse l'amore,
            ma che mi fosse ricambiato: 
            fare a meno di te non vorrei esserne capace. 

            Fu di ferro chi, potendoti avere, 
            preferí, come uno stolto, inseguire prede e armi. 
            Davanti a sé spinga pure in catene 
            le schiere dei cilici e sulle terre conquistate 
            pianti le sue tende di guerra, 
            inforcando a briglia sciolta un cavallo 
            per farsi ammirare tutto vestito d'oro e argento. 
            Se invece io potessi, mia Delia, 
            con te aggiogare i buoi e pascere le greggi 
            sul monte che sai, e mi fosse consentito 
            tenerti con amore fra le braccia, 
            dolce sarebbe il mio sonno anche sulla nuda terra. 
            Che vale distendersi su un letto di porpora 
            senza un amore ricambiato, 
            quando viene la notte e una veglia di pianto?

            Nemmeno piume o coperte a ricami, 
            nemmeno il mormorio d'un placido ruscello 
            potrebbero indurti a dormire. 
            Forse con parole di fuoco ho violato il nume di Venere 
            e ora la lingua sacrilega ne sconta la pena? 
            o mi si accusa d'essere entrato con empietà  nel tempio degli dei 
            e d'aver strappato corone ai sacri focolari? 

            Se io lo meritassi, 
            non esiterei a prosternarmi nei templi 
            e a imprimere di baci la soglia sacrata, 
            a trascinarmi supplicando per terra, in ginocchio, 
            e a percuotere in tormento col capo 
            la porta consacrata. 
            Ma tu, che lieto sorridi delle nostre sventure, 
            attento a te per il futuro: 
            non colpirà uno solo la divinità.
            Chi irrideva gli amori infelici dei giovani, 
            l'ho visto, vecchio, piegare il collo alle catene di Venere, 
            ordire con voce tremante parole d'amore, 
            tentando con la mano 
            d'aggiustarsi i capelli bianchi; 
            non provava vergogna 
            d'attendere impalato davanti a una porta 
            o di fermare in mezzo al foro 
            l'ancella della donna amata. 

            Ragazzi e giovani gli si accalcano intorno 
            e ognuno sputa, 
            sputa nelle morbide pieghe della propria veste. 
            Fammi grazia, Venere: a te devota 
            è consacrata sempre la mia mente. 
            Perché, crudele, bruci le tue messi? 



            IN TERRE SCONOSCIUTE

            TIBULLO
            Sull'onde dell'Egeo senza di me, Messalla,
            voi ve ne andrete. Oh, se almeno tu e gli amici
            vi ricordaste di me! Qui, tra i feaci, ammalato
            mi trattiene una terra sconosciuta.
            Allontana le tue avide mani,
            morte tenebrosa; tienle lontane,
            ti prego, nera morte. Qui non c'è mia madre,
            che mesta nel grembo raccolga le ossa bruciate,
            né mia sorella, che sulle ceneri sparga
            profumi di Siria e con i capelli sciolti
            pianga alle mie esequie. E neppure c'è Delia,
            che prima di lasciarmi partire da Roma,
            dicono che consultasse tutti gli dei.
            Tre volte dalle mani di un ragazzo
            estrasse a sorte i presagi e tre volte
            quello le diede responsi innegabili:
            tutti promettevano il mio ritorno,
            ma lei non seppe trattenere il pianto,
            guardando con ansia al mio viaggio.
            Ed io, per tentare di consolarla,
            quando avevo ormai predisposto tutto,
            cercavo angosciato ogni motivo per ritardare,
            adducendo a pretesto ora gli auspici,
            ora i presagi infausti o infine che mi tratteneva
            la maledizione del giorno di Saturno.
            Quante volte, messomi in cammino, mi sono detto:
            'Inciampare col piede sulla soglia 
             è certo un segnale di malaugurio!'
            Nessuno mai tenti di allontanarsi,
            contro la volontà di Amore, oppure sappia
            che parte con la proibizione del dio.
            Che mi giova, Delia, la tua Iside ora?
            che mi giovano quei bronzi che tante volte
            la tua mano ha agitato
            o quel tuo purificarti nell'acqua,
            seguendo piamente il rito,
            quel tuo dormire da sola, ricordo,
            in un letto illibato?
            Ora, ora, dea, soccorrimi (che tu mi possa guarire
            lo mostrano tutti gli ex voto dei tuoi templi);
            in cambio la mia Delia, sciogliendo i suoi voti,
            sederà vestita di lino
            davanti all'ingresso sacrato
            e, sciolti i capelli, due volte al giorno
            canterà le tue lodi come ti è dovuto,
            distinguendosi tra la folla degli egizi.
            Invece a me spetterà venerare i Penati paterni
            e ogni mese offrire l'incenso al Lare antico.
            Com'era felice la vita sotto il regno di Saturno,
            prima che la terra fosse aperta a viaggi lontani!
            Sfidato ancora non aveva il pino
            le onde azzurre del mare e offerto al vento
            vele spiegate, né in cerca di lucro,
            battendo terre sconosciute, un marinaio
            aveva colmato la nave di merci straniere. 
            Mai in quel tempo un toro
            sottomise al giogo la propria forza,
            né un cavallo con la bocca domata morse il freno;
            nessuna casa aveva porte e
            non si piantavano pietre nei campi
            per fissare confini invalicabili ai poderi.
            Stillavano miele le querce
            e spontaneamente le agnelle
            gonfie di latte offrivano le poppe
            alla gente serena.
            Non c'era esercito, né rabbia, guerre
            o un fabbro disumano
            che con arte crudele foggiasse le spade.
            Ora sotto la signoria di Giove
            non vi sono che ferite ed eccidi,
            ora il mare, ora le mille vie
            d'una morte improvvisa.
            Padre mio, risparmiami! Timorato come sono
            non mi rimordono spergiuri
            o empie parole contro la santità degli dei.
            Se oggi ho compiuto gli anni assegnati dal fato,
            concedi che sulle mie ossa
            si erga una lapide con questo inciso:
            'Qui giace, consunto da morte crudele, Tibullo,
            mentre seguiva Messalla per terra e mare'.
            Ma, poiché sempre m'arrendo alle carezze d'amore,
            Venere in persona mi guiderà nei campi Elisi.
            Qui regnano danze e canzoni, 
             intrecciando voli, gli uccelli
            con voce acuta intonano i loro dolci gorgheggi;
            il suolo incolto genera cannella
            e per tutta la campagna la terra
            a profusione fiorisce di rose profumate,
            mentre schiere di giovani folleggiano
            insieme a fanciulle in fiore e l'amore
            accende continue battaglie.
            Tutti quaggiú sono gli amanti
            che la rapacità della morte raggiunse
            e sui capelli lucenti recano corone di mirto.
            La sede dei reprobi invece
            giace nascosta nella profondità della notte
            circondata dal cupo rumore dei fiumi;
            scarmigliata v'imperversa Tisífone,
            che per capelli ha feroci serpenti,
            e la turba degli empi si disperde in ogni dove.
            All'ingresso con le fauci di drago
            nero sibila Cerbero,
            che dinnanzi ai battenti di bronzo monta la guardia.
            Nel vortice di una ruota laggiú
            gira il corpo scellerato d'Issione,
            che non si peritò d'insidiare Giunone;
            e disteso su nove iugeri di terra
            Tizio con le sue nere viscere
            nutre gli uccelli che imperversano.
            Laggiú è Tantalo e intorno ha uno stagno,
            ma quando è sul punto di bere l'acqua 
            elude la sua sete pungente;
            e la prole di Dànao,
            che ha offeso le leggi di Venere,
            porta in botti senza fondo le acque del Lete.
            Laggiú, laggiú finisca
            chi tentò di violare il mio amore,
            augurandomi una milizia senza fine.
            Ma tu conservati pura, ti prego,
            e custode del tuo casto pudore,
            ti sieda sempre vicino una vecchia premurosa,
            che raccontandoti favole, alla luce della lucerna,
            tragga dalla gonfia conocchia
            l'interminabile suo filo,
            finché accanto la giovane,
            al suo compito faticoso intenta,
            non sia vinta dal sonno a poco a poco
            e lasci in terra cadere il lavoro.
            A quel punto vorrei d'improvviso arrivare,
            senza che prima nessuno mi annunci,
            comparirti davanti come piovuto dal cielo.
            A quel punto, cosí come sarai,
            con i lunghi capelli scarmigliati,
            a piedi scalzi corrimi incontro, mia Delia.
            Questo io prego: che su cavalli dorati
            splendente l'aurora mi porti
            l'alba radiosa di un giorno cosí



            IL FUOCO DI MARATO

            'T'auguro, Priapo, di stare sotto una pergola ombrosa,
            perché sole e neve non t'affliggono il capo.
            Qual è l'abilità che hai nel sedurre i giovani in fiore?
            Certo, non hai barba che splenda, capelli curati;
            nudo te ne stai nel freddo della bruma invernale,
            nudo nella siccità della canicola estiva.'
            Così gli dissi; e il figlio di Bacco, rustico nume
            armato della sua falce ricurva, cosí mi rispose:
            'Mai, non affidarti mai alla sensibilità dei giovani:
            hanno sempre una scusa che giustifica l'amore.
            Questo piace perché serrando le brighe frena il cavallo,
            questo perché col petto di neve fende le onde tranquille,
            questo ti prende perché come un prode dà prova d'audacia;
            quello, invece, perché sulle sue guance morbide
            ha diffuso un pudore verginale.
            Ma tu non infastidirti se accade
            che all'inizio si neghi: a poco a poco
            offrirà lui stesso a giogo il suo collo.
            Tempo occorre che i leoni imparino i comandi dell'uomo,
            tempo occorre che le gocce d'acqua corrodano le pietre;
            un anno su colline assolate l'uva matura,,
            un anno con alternanza immutata
            riporta le stelle lucenti.
            Non temere di fare giuramenti:
            il vento disperde gli spergiuri di Venere
            per le terre e sul mare, rendendoli vani.
            Grazie infinite a Giove! Il Padre stesso decretò 
            che non avesse valore il giuramento
            pronunciato con passione da un insensato amante;
            impunemente ti consente di giurare Diana
            per le sue frecce e Minerva per le sue chiome.
            Ma fallirai se agirai con lentezza:
            passerà il tempo, e quanto presto!
            Il giorno non indugia e non ritorna.
            Quanto presto perde la terra i colori di porpora,
            quanto presto il pioppo svettante le sue belle chiome!
            Come giace il cavallo, che fuori dal recinto di Elea
            un tempo si lanciava, quando viene
            il fato della malferma vecchiaia.
            Ho visto gente, ormai sotto il peso degli anni,
            dolersi d'avere in gioventú con stoltezza
            bruciato i propri giorni. O dei spietati!
            Cambiando pelle il serpente si spoglia dei suoi anni,
            ma alla bellezza i fati nessuna durata hanno concesso.
            Solo a Bacco e Febo fu data eterna giovinezza
            e solo a loro si addicono capelli folti e fluenti.
            Tu, qualunque capriccio verrà in mente al tuo ragazzo,
            cedi: con l'arrendevolezza
            amore vincerà infiniti ostacoli.
            Non rifiutare d'essergli compagno
            per quanto sia lunga la strada
            e l'arsura dell'estate bruci i campi di sete;
            per quanto, orlando il cielo d'un tratto di porpora,
            l'arcobaleno, che l'annuncia,
            ammanti la pioggia imminente. 
             Se vorrà andare in barca sull'azzurro delle onde,
            tu stesso coi remi spingi sull'acqua quel legno leggero.
            Non lamentarti di subire fatiche inumane
            o di logorarti le mani in lavori non tuoi;
            se intende cingere di reti il fondo della valle,
            pur di piacergli, non negarti di portarle in spalla.
            Se preferisce la scherma, battiti con mano leggera,
            offrendogli, perché vinca, il fianco scoperto.
            Sarà remissivo allora con te
            e potrai strappargli baci d'amore:
            resisterà, ma poi te li darà come tu vuoi.
            Prima dovrai carpirglieli, ma se lo preghi,
            te li offrirà lui stesso e infine
            vorrà cingerti il collo con le braccia.
            Ahimè! questa generazione d'oggi
            non ha riguardo alcuno per l'arte d'amare:
            già in tenera età questi giovani
            si sono abituati a chiedere regali.
            Ma a te, che per primo insegnasti a vendere l'amore,
            chiunque tu sia, sciagurato,
            una pietra tombale pesi sulle ossa.
            Amate le Pièridi, ragazzi, l'afflato dei poeti,
            e sulle Pièridi non prevalgano i doni d'oro.
            Grazie alla poesia, di porpora è la chioma di Niso;
            se poesia non ci fosse,
            non brillerebbe l'avorio sulla spalla di Pèlope.
            Chi è celebrato dalle Muse
            vivrà finché saranno querce sulla terra, 
             stelle in cielo e acque nei fiumi.
            Ma chi non ascolta le Muse e commercia l'amore,
            dovrà seguire sull'Ida il carro di Opi,
            riparare nei suoi vagabondaggi in trecento città
            e recidersi il membro disprezzato
            al ritmo del flauto di Frigia.
            Venere stessa vuole che alle carezze si ceda,
            accordando favore alle suppliche di chi si lamenta
            e al pianto degli sventurati'.
            Questo mi disse il dio, perché lo ripetessi a Tizio,
            ma a lui la moglie impedisce di ricordarsene.
            E Tizio le obbedisca! Ma come maestro
            celebratemi voi, voi che uno scaltro giovinetto
            maltratta continuamente con le sue arti.
            A ciascuno la sua gloria; vengano a consultarmi
            gli amanti respinti: per tutti è aperta la mia porta.
            Tempo verrà, che una schiera attenta di giovani
            mi seguirà, quando, ormai vecchio,
            impartirò i precetti dell'amore.
            Ahimè! di quale lento fuoco mi tortura Màrato!
            Mi mancano le arti, mi mancano gli inganni.
            Pietà, ragazzo, ti prego: che io con vergogna
            non diventi la favola di tutti,
            quando del mio sterile magistero rideranno.



            L'AMORE PERDUTO

            Furioso, questo ero: mi dicevo
            che bene avrei sopportato il distacco,
            ma ora lontano è da me il vanto d'avere coraggio:
            sto girando come una trottola,
            mossa sul selciato a colpi di frusta,
            che un fanciullo nel vortice sospinge
            con la destrezza che gli è nota.
            Brucialo questo ribelle, torturalo,
            che in futuro non possa piú vantarsi;
            doma questo suo squallido linguaggio.
            Ma tu non infierire, te ne prego,
            per il patto segreto che ci uní a letto,
            per Venere e le nostre teste posate vicine.
            Sono io che, quando giacevi
            colpita da un male crudele,
            con i miei voti, è risaputo,
            ti ho strappata alla morte;
            sono io che, bruciando intorno a te
            zolfo vergine, ti ho purificata,
            dopo che la vecchia aveva intonato
            le sue formule magiche;
            sono io che da te le visioni funeste
            ho rimosso, perché non ti nuocessero,
            scongiurandole tre volte col farro consacrato;
            sono io che con la tunica sciolta
            e vestito di lino
            ho nel silenzio della notte offerto a Trivia nove voti.
            E tutti li ho sciolti, ma un altro
            ora si gode il tuo amore,
            giovandosi felice delle mie preghiere.
            Come un pazzo sognavo per me una vita felice,
            se tu fossi guarita, ma un dio si opponeva.
            'Lavorerò in campagna e accanto a me
            sarà la mia Delia a custodire le biade,
            mentre sull'aia al calore del sole
            si trebbieranno le messi, o sorveglierà
            nei tini ricolmi la mia vendemmia
            e lo spumeggiare del mosto
            spremuto dal ritmo dei piedi;
            si abituerà a contare le mie greggi;
            e lo stesso schiavetto impertinente
            si abituerà a giocare in grembo
            ad una padrona che l'ama.
            E lei imparerà ad offrire
            agli dèi dei contadini i grappoli per la vite,
            le spighe per la messe, il cibo per il gregge;
            e comanderà su tutti, si curerà di tutto,
            mentre in tutta la casa
            felice sarò io di non contar piú nulla.
            Qui verrà il mio Messalla e per lui Delia
            dalle piante migliori raccoglierà la frutta matura;
            e piena di rispetto per un uomo cosí illustre,
            se ne occuperà con premura,
            gli preparerà un banchetto e lo servirà lei stessa.' 
             Questi i miei sogni; ma ora Euro e Noto
            li disperdono tra i profumi dell'Armenia.
            Spesso ho tentato di cacciare gli affanni col vino,
            ma il dolore m'ha mutato ogni vino in pianto.
            Spesso ho tenuto fra le braccia un'altra,
            ma quando già ero vicino al piacere
            Venere mi evocò l'amata abbandonandomi;
            e quell'altra, staccandosi da me,
            allora mi disse stregato:
            anche se si vergogna, racconta che la mia donna
            conosce pratiche indicibili.
            No, non mi seduce con sortilegi,
            ma col suo viso, con le sue tenere braccia
            la mia donna mi strega, con i suoi capelli biondi.
            Così un giorno Teti, nereide azzurra,
            su un pesce imbrigliato fu trasportata
            verso Peleo, re dell'Emonia.
            Questo il mio male. Se un amante ricco sta con lei,
            a mia rovina venne un'astuta mezzana:
            come vorrei che si cibasse di carne squartata
            e con la bocca imbrattata di sangue
            vuotasse colmi di fiele calici amari;
            che intorno le volassero le anime
            che piangono il loro destino,
            mentre sul tetto senza posa
            un gufo soffia la sua rabbia;
            che, aizzata dai morsi della fame,
            cercasse fra i sepolcri erbe 
            e ossa abbandonate dai lupi crudeli;
            e che corresse ululando per tutta la città
            con gli inguini scoperti,
            inseguita da una muta di cani,
            che implacabili la cacciano da un crocicchio all'altro.
            Così avverrà: un dio me l'annunzia.
            Ogni innamorato ha i suoi numi, e Venere,
            se viene a torto abbandonata, non perdona.
            Ma tu dimentica al piú presto
            gli insegnamenti interessati di questa tua maga.
            E forse con i doni che si guadagna l'amore?
            Un amante povero sarà sempre ai tuoi comandi;
            un amante povero sarà il primo a presentarsi
            e starà instancabile al tuo giovane fianco;
            un amante povero nella ressa della gente,
            compagno fedele, ti darà il braccio aprendoti la strada;
            un amante povero in casa di amici discreti
            ti accompagnerà di nascosto
            e dai piedi color di neve
            egli stesso ti slaccerà i calzari.
            Ahimè, inutilmente canto:
            vinta dalle parole non si apre la porta:
            a mani colme va bussata.
            Ma tu, che oggi a me sei preferito,
            trema per ciò che m'hai rubato:
            in un solo giro di ruota, un attimo
            e cambia la fortuna.
            Non senza ragione già ora sulla soglia 
             s'arresta a curiosare un uomo,
            lancia qualche sguardo e scompare,
            finge d'andarsene oltre la casa,
            ma subito torna sui passi, solitario,
            e tossisce ogni volta davanti alla porta.
            Non so cosa in segreto ti prepari Amore.
            Dunque approfitta finché t'è concesso:
            la barca galleggia in acque tranquille. 




            L'INFEDELTA' DI DELIA

            Sempre, per ingannarmi,
            mi mostri il volto sorridente, Amore;
            poi, per mia sventura, diventi scontroso e severo.
            Perché tanto crudele sei con me?
            Torna forse a maggior vanto di un dio
            tramare insidie a un uomo?
            Mi si tendono lacci:
            già di nascosto Delia, nel silenzio della notte,
            con astuzia si scalda in seno non so quale amante.
            Eppure lei quante volte lo nega;
            non è facile crederle, perché anche al suo uomo
            sul mio conto nega, continuamente nega.
            Io stesso le ho insegnato, per sventura,
            come si possa ingannare un guardiano.
            Ed ora, ahimè, dalle mie arti sono avvinto.
            Ora sa fingere pretesti
            per dormire da sola, e sa come far girare una porta
            senza che cigolino i cardini;
            allora io le ho dato estratti d'erbe
            per cancellare i lividi
            che, con il segno dei denti, il mutuo amore produce.
            Ma tu, uomo incauto di quella fanciulla bugiarda,
            bada anche a me, guarda che lei non commetta peccati:
            evita che intrattenga giovani
            conversando a lungo con loro,
            che stia adagiata con la veste slacciata e il seno scoperto;
            bada che non t'inganni con un cenno,
            che intingendo un dito nel vino
            non tracci segni sul piano del desco.
            E stai all'erta ogni volta che esce,
            anche se dice di voler assistere
            ai riti in onore della dea Bona,
            dove gli uomini non possono entrare.
            Ma se tu l'affidassi a me,
            sarei il solo a seguirla sino agli altari
            e non avrei timore di perdere gli occhi.
            Spesso fingendo d'esaminare gemme e sigillo,
            con questo pretesto ricordo
            d'averle toccato la mano;
            spesso col vino puro t'ho piegato al sonno,
            mentre io, per vincerti, bevevo sobriamente
            bicchieri riempiti di nascosto con l'acqua.
            Non ti ho offeso a cuor leggero: perdona a chi confessa;
            Amore me l'ha imposto. Chi combatterebbe contro gli dei?
            Sono io (non mi vergogno piú d'ammettere il vero)
            quello contro cui tutta la notte la tua cagna abbaiava.
            Che bisogno hai d'una giovane compagna,
            se non sai guardare i tuoi beni?
            Non ha senso avere una chiave nella toppa.
            Ti tiene fra le braccia, ma sospira altri amori lontani
            e simula che all'improvviso le venga un cerchio alla testa.
            E dammela in custodia:
            io non rifiuto d'essere percosso a sangue,
            io non ricuso le catene ai piedi.
            Statemi lontani voi che con arte curate i capelli
            e lasciate che fluente la toga
            cada in una miriade di pieghe;
            e chi ci viene incontro, se non vuol essere in colpa,
            si fermi lontano, si fermi, lo prego, in un'altra strada.
            Ordina cosí la divinità
            e cosí con voce ispirata
            la grande sacerdotessa m'ha divinato:
            Quando l'impulso di Bellona la colpisce,
            nel suo delirio non teme l'ardore della fiamma,
            né i colpi della sferza;
            lei stessa rabbiosa si ferisce le braccia
            con la scure e senza soffrire
            bagna col sangue che scorre la dea;
            col fianco trafitto dal ferro resta salda in piedi,
            in piedi ferita nel petto,
            e predice gli eventi come la gran dea comanda: 
            'Non azzardatevi a violare una fanciulla
            che Amore custodisce,
            perché nel tempo per vostra disgrazia
            non dobbiate dolervi di saperlo;
            a chi la tocca le ricchezze si dilegueranno,
            come il sangue dalle nostre ferite,
            come questa cenere è dispersa dai venti'.
            E a te, mia Delia, predisse non so quali castighi;
            ma anche se commetti una colpa,
            io la prego che abbia indulgenza.
            No, non è per te che m'impietosisco:
            mi commuove tua madre,
            quella vecchia d'oro disarma la mia collera;
            lei nelle tenebre a me ti conduce
            e piena di paura, di nascosto,
            ci congiunge senza una parola le mani;
            lei m'attende la notte, immobile dietro la porta,
            e quando m'avvicino,
            di lontano riconosce il rumore dei miei passi.
            Possa tu vivere a lungo, vecchina mia:
            se ciò fosse possibile,
            vorrei ai tuoi aggiungere i miei anni;
            sempre t'amerò e per amor tuo amerò tua figlia:
            faccia quel che faccia, 
            è pur sempre sangue del tuo sangue.
            Ma che sia casta, questo insegnale,
            anche se un nastro non le ferma in un nodo i capelli
            e lunga sino ai piedi non ha la sua stola.
            Mi siano pure imposte le leggi piú dure: 
            ch'io non possa lodare donna,
            senza che lei si avventi agli occhi miei;
            e se crede ch'io l'abbia tradita, anche se innocente,
            che sia preso per i capelli
            e trascinato giú lungo le strade.
            Non vorrei mai percuoterti,
            ma se un tale furore m'assalisse,
            il desiderio sarebbe di non avere mani.
            Non essere però casta per timore di pene:
            l'amore a tua volta ti conservi fedele
            anche quando sono lontano.
            La donna, che a nessuno fu fedele,
            negli anni, spossata dalla vecchiaia,
            ridotta in miseria, con la mano tremante
            torce e ritorce i fili, annoda i licci
            per ordire una tela tessuta a mercede,
            carda e monda la lana di un vello color di neve.
            Godono in cuore, osservandola, le schiere dei giovani:
            'È giusto', commentano, 'che da vecchia
            lei sopporti tanti malanni';
            e mentre piange, dalla cima dell'Olimpo
            altera Venere l'osserva
            e le rammenta quanto sia severa con chi la tradisce.
            Altri, altri colpiscano queste maledizioni:
            noi siamo l'un l'altro esempio d'amore,
            anche quando bianchi avremo i capelli.



            A MESSALLA PER AUGURIO

            Questo è il giorno che le Parche predissero,
            filando gli stami del fato,
            che nessun dio mai può recidere;
            questo, che avrebbe sconfitto le genti d'Aquitania
            e atterrito l'Àtace, vinto da un esercito di prodi.
            Cosí è stato, e ancora una volta la gioventú romana
            poté ammirare i trionfi e i condottieri nemici
            con le braccia in catene,
            mentre, tirato da cavalli scalpitanti,
            un cocchio d'avorio ti portava, Messalla,
            fregiato col lauro dei vincitori.
            Non senza il mio braccio ti venne questo onore:
            testimoni sono i Pirenei dei tarbelli
            e il lido dei sàntoni che guarda l'Oceano;
            testimoni la Saona e il rapido Rodano,
            la vasta Garonna e la Loira,
            onda azzurra del biondo càrnuto.
            Dovrò dunque cantarti, Cidno,
            che in silenzio dolcemente fluendo
            serpeggi azzurro in un letto d'acque tranquille?
            o dire a quali altezze i picchi del gelido Tauro,
            che nutre gl'irsuti cilici,
            tocchino le nubi del cielo?
            Perché ricordare come la candida colomba,
            sacra ai siri di Palestina,
            volteggi intoccabile sulle città popolose?
            o come Tiro, la prima città 
             che seppe affidare ai venti una nave,
            dall'alto delle sue torri sorvegli
            l'immensa distesa del mare?
            o ancora come il Nilo diventi fecondo
            gonfiandosi d'acqua in estate,
            quando Sirio spacca i campi riarsi?
            Per qual motivo e in quali terre,
            padre Nilo, potrei mai dire
            che nascondi le tue sorgenti?
            Grazie a te non chiede mai pioggia la tua terra,
            né l'erba inaridita l'invoca da Giove.
            La gioventú straniera,
            che piange il bue di Menfi,
            ti celebra onorando il suo Osiride.
            Osiride, che per primo con mano accorta
            costruí un aratro e col ferro
            arò le zolle della terra;
            che a questa ancora vergine
            per primo affidò le sementi,
            cogliendo frutti da piante mai conosciute.
            E che insegnò come legare ai pali i tralci della vite,
            come sfrondarne con la lama del falcetto
            l'esuberanza delle foglie.
            A lui per primo, spremute a caso dai piedi,
            le uve mature offrirono gradevoli sapori.
            E quel liquore insegnò a modulare le voci nel canto,
            a muovere le membra inesperte scandendo il ritmo;
            e al cuore del contadino, spossato da grandi fatiche, 
             largí il vino l'evasione dalla tristezza:
            anche se le caviglie
            risuonano percosse da dure catene,
            il vino dona pace ai mortali infelici.
            Non ti si addice, Osiride,
            la tristezza degli affanni e del pianto,
            ma il canto, la danza e un amore spensierato,
            e ancora i fiori variopinti,
            la fronte incoronata di corimbi,
            e un mantello giallo che cade su giovani piedi,
            e vesti di Tiro e il suono dolce del flauto,
            e canestri leggeri, che celano i simboli
            di riti misteriosi.
            Qui vieni e con cento scherzi, con danze
            celebra il Genio e tutte di vino bagna le tempie.
            Dai suoi capelli lucenti stillino aromi
            e sulla testa, intorno al collo
            indossi morbide corone.
            Cosí vieni, dio del presente,
            ch'io possa offrirti in onore l'incenso
            e porgerti dolci focacce di miele mopsopio.
            A te, invece, cresca una prole,
            che estenda le imprese del padre,
            e in venerazione ti faccia corona da vecchio.
            Chi abita di Tuscolo la terra
            e la candida Alba dell'antico Lare,
            non ometta il ricordo della strada,
            perché qui a tue spese vengono stesi 
            e pressati mucchi di ghiaia,
            congiunte le selci a regola d'arte.
            Canta le tue lodi il contadino, quando alla sera
            torna dalla grande città,
            riportando salvi i suoi piedi.
            Ma tu, perché per anni innumerevoli
            ti si possa celebrare, Genio natale,
            torna a noi piú luminoso, piú luminoso sempre.
            I 8, Tibullo, A Fòloe per Màrato
            Non mi è possibile certo ignorare
            cosa annuncino il cenno di un innamorato
            o le parole sussurrate con voce suadente:
            non dispongo d'oracoli o di viscere
            che rivelino il volere divino;
            neppure il canto degli uccelli
            mi predice il futuro;
            ma Venere stessa, legandomi le braccia
            con nodi magici alla schiena,
            a suon di frusta m'ha istruito.
            E non far finta di nulla: spietata
            la dea brucia di piú chi contro voglia
            vede piegarsi ai suoi comandi.
            Che ti giova ormai aver cura dei tuoi capelli sottili,
            cambiare continuamente la loro acconciatura,
            imbellettare le guance di rosso vivo,
            farti tagliare le unghie da chi 
            per professione ha mano esperta?
            Muti veste invano ormai, invano mantello,
            invano stretti calzari comprimono i tuoi piedi.
            Lei invece resta seducente,
            anche se si presenta senza trucco in volto
            o senza essersi acconciato il capo luminoso
            con snervanti artifici.
            Forse con incantesimi o con erbe,
            che fanno impallidire,
            ti ha stregato una vecchia
            nel cuore silenzioso della notte?
            Gli incantesimi al campo del vicino
            sottraggono le biade;
            gli incantesimi arrestano il cammino
            del serpente irritato;
            gli incantesimi tentano di trarre giú la luna
            dal suo carro e ci riuscirebbero
            se di colpi non tuonassero i bronzi.
            Ma perché lagnarsi, se incantesimi o erbe
            ti hanno per disgrazia nociuto?
            A magici aiuti la beltà non ricorre:
            ciò che ti nuoce è averne accarezzato il corpo,
            averla baciata e baciata,
            avere intrecciato alle sue gambe le tue.
            Ma tu ricorda di non essere fredda con un ragazzo:
            Venere infligge castighi a chi si mostra scontrosa.
            E non chiedergli doni: questi deve offrirli
            l'amante dai capelli bianchi per scaldare 
            il torpore del suo membro
            contro un morbido seno.
            Un giovane è piú prezioso dell'oro,
            gli brilla liscio il volto
            e una barba irsuta non offende l'amplesso.
            Sotto le sue spalle ponigli le tue braccia splendide
            e fa' che non esistano
            le immense ricchezze dei re.
            Trova Venere sempre il modo
            che di nascosto il ragazzo giaccia con te
            e, malgrado il timore, con ritmo incessante,
            fecondi il tuo morbido grembo;
            che anelando e tormentandoti con la lingua,
            ti bagni di baci e sul collo
            t'imprima il segno dei suoi morsi.
            Non servono pietre preziose e gemme
            a una donna che indifferente dorme sola
            e di nessun uomo suscita il desiderio.
            Troppo, troppo tardi si rimpiange l'amore,
            troppo tardi la giovinezza,
            quando la vecchiaia, guastandolo,
            imbianca un volto segnato dagli anni.
            Allora, allora si vorrebbe essere belli
            e cambiare capigliatura,
            perché, tinta col mallo verde della noce,
            dissimuli i tuoi anni;
            nasce allora la voglia di strappare
            sin dalle radici i capelli bianchi 
             e di mostrare un volto nuovo
            lisciandosi la pelle.
            Ma tu, finché l'età della giovinezza fiorisce,
            approfittane: senza indugi, di corsa sparisce;
            e non affliggere Màrato: che gloria ti reca
            l'avere vinto un giovane?
            Sii dura con i vegliardi, fanciulla, e
            risparmia questo virgulto, ti prego.
            Non è una malattia pericolosa,
            ma un amore straziante
            la causa del pallore che gli sbianca il volto.
            Quante volte, anche in tua assenza,
            ti rivolge quel poveretto i suoi mesti sospiri,
            e ogni cosa intorno a lui si bagna di lacrime.
            'Perché mi disprezzi?' dice. 'I guardiani
            potevamo eluderli: la divinità
            a concesso agli amanti il dono dell'inganno.
            Conosco l'amore furtivo:
            so come si trattiene in un soffio il respiro,
            so come si rubano i baci senza far rumore;
            e sono in grado di strisciare
            nel cuore della notte,
            di aprire di nascosto e senza strepito una porta.
            Ma queste astuzie che mi servono,
            se spietata disprezza la fanciulla
            l'innamorato infelice e fugge via dal suo letto?
            E quand'anche promette
            quella perfida subito m'inganna e a vegliare 
            sono costretto fra interminabili tormenti;
            qualunque cosa si muova, quando sogno che venga,
            m'illudo che sia il rumore dei suoi passi.'
            Smettila di piangere, ragazzo: lei non si piega;
            e stanchi ormai di lacrimare
            si gonfiano i tuoi occhi.
            T'avverto, Fòloe: gli dei odiano i superbi e
            non serve offrire incenso ai loro focolari.
            Màrato, proprio Màrato
            un tempo derideva gli innamorati infelici,
            ignaro che la vendetta divina gli stava alle spalle.
            Dicono anche che spesso ridesse
            delle lacrime di chi si doleva
            e che tenesse a bada chi l'amava,
            inventando pretesti;
            ora detesta ogni tipo d'orgoglio,
            ora l'amareggia qualunque porta
            che ostinatamente sprangata gli si opponga.
            Ma un castigo t'attende:
            se non la smetti di far la superba,
            quanto, quanto vorrai con i tuoi voti
            richiamare a te questo giorno!



            I RITI DELLA CAMPAGNA

            Tutti i presenti osservino il silenzio.
            Come prescrive il rito tramandatoci dagli avi,
            purifichiamo biade e campi.
            Vieni, Bacco: dalle tue corna penda
            l'uva matura, e cinga Cerere
            le sue tempie di spighe.
            In questo giorno consacrato
            riposi la terra, riposi il contadino
            e, appeso il vomere, s'interrompa l'aspra fatica.
            Sciogliete la cinghia dei gioghi:
            ora con corone sul capo,
            davanti a greppie ricolme devono stare i buoi.
            Tutto si compia in onore del dio;
            nessuna donna, ponendo mano ai pennecchi,
            s'azzardi a filare la lana.
            E voi pure invito a stare lontani:
            non s'avvicini agli altari chi nella notte
            da Venere ha tratto piacere.
            La castità piace agli dei;
            e dunque con vesti pure venite,
            con mani pure attingete acqua di fonte.
            Osservate come l'agnello consacrato
            si avvii all'altare sfolgorante di luce,
            seguito da una folla vestita di bianco 
            e con le chiome cinte d'olivo.
            Noi, o divinità dei nostri padri,
            purifichiamo i campi,
            purifichiamo i contadini;
            voi dal nostro suolo allontanate i malanni:
            con erbe ingannatrici i campi
            non rendano vane le messi
            e non tema l'agnella che s'attarda
            le scorrerie dei lupi.
            Vestito a festa allora il contadino,
            confidando nella prosperità dei campi,
            getterà legna in quantità tra le spire del fuoco,
            e una folla di schiavi,
            chiaro sintomo di colono benestante,
            si divertirà a erigervi innanzi
            capanne con i ramoscelli.
            Invoco solo ciò che può accadere:
            non vedi come in viscere propizie
            gli auspici delle fibre
            rivelino il favore degli dei?
            Portatemi ora un falerno affumicato
            di un consolato antico
            e stappate un orcio di Chio.
            Si celebri col vino questo giorno:
            non c'è da arrossire se in una festa
            si è un poco brilli
            e si muovono a fatica i piedi malfermi.
            Cosí dica ognuno brindando: 'Alla salute di Messalla', 
            e il nome dell'assente risuoni in bocca a tutti.
            Famoso per i trionfi sul popolo aquitano
            e onore grande con le tue vittorie
            di remoti antenati, vieni qui, Messalla,
            e ispirami, mentre col canto
            rendo grazie alle divinità contadine.
            Io canto la campagna e di questa gli dei.
            Sotto la loro guida
            l'umanità smise di scacciare la fame
            con le ghiande di quercia;
            per primi ci insegnarono a connettere le travi
            e a coprire col verde delle fronde
            le nostre piccole capanne;
            e si dice che sempre loro
            insegnarono ai buoi come servire,
            adattando sotto il carro le ruote.
            Sparirono allora gli alimenti selvatici,
            si piantarono gli alberi da frutta
            e, bevendo acque d'irrigazione,
            l'orto divenne fertile.
            L'uva dorata allora, spremuta dai piedi,
            ci donò il suo liquore
            e per temperarlo, rendendolo garbato,
            fu mescolata acqua al vino.
            Messi ci porta la campagna,
            quando d'anno in anno la terra
            al calore dell'astro estivo depone i suoi biondi capelli.
            Nelle campagne a primavera
            l'ape riempie leggera le celle di fiori,
            per colmare instancabile
            di miele dolcissimo i favi.
            Spossato dalla continua aratura,
            fu un contadino il primo
            a cantare rozze parole su un ritmo fissato
            e, dopo pranzo, a modulare
            sulla canna secca una musica
            da intonare in onore degli dei.
            Fu un contadino tinto di rosso scarlatto
            il primo, Bacco, a guidare le danze
            con arte ancora incerta:
            e gli fu assegnato, memorabile dono,
            il duce irsuto del gregge, tratto da un ovile affollato,
            un caprone che aveva guidato le pecore.
            Nei campi di primavera un fanciullo
            per la prima volta intrecciò una corona di fiori
            e la pose sul capo degli antichi Lari;
            nei campi la candida agnella
            reca sul dorso un vello morbido,
            che causerà fatica alle fanciulle delicate:
            viene di qui il lavoro femminile,
            di qui i pennecchi, le conocchie e il fuso
            che, spinto dal pollice, avvolge il filo,
            mentre, attendendo senza tregua
            al lavoro di Minerva, una tessitrice canta e, 
            percosso di lato dal pettine, risuona il telaio.
            Anche Cupido si dice che sia nato nei campi,
            tra gli armenti e le cavalle ribelli;
            qui, senza averlo mai usato prima,
            si esercitò nell'arco: ahimè,
            che mani abili possiede ormai!
            Non colpisce, come un tempo, le greggi:
            ora esulta nel trafiggere le fanciulle,
            nel soggiogare l'audacia degli uomini;
            spoglia il giovane del suo patrimonio,
            costringe il vecchio a pronunciare,
            sulla soglia di una donna adirata,
            parole di cui vergognarsi.
            Passando sui guardiani addormentati,
            con la sua guida la fanciulla
            da sola nelle tenebre
            raggiunge di nascosto il suo ragazzo:
            saggia coi piedi il cammino, in forse per il timore,
            e con la mano in avanti esplora il cieco percorso.
            Ah, misero chi questo dio feroce incalza!
            Felice invece l'uomo,
            cui soavemente spira sereno Amore.
            Vieni, divino, al banchetto festivo,
            ma deponi le frecce e lontano di qui
            nascondi, ti prego, le tue fiaccole ardenti.
            Celebrate col canto questo dio
            e per il gregge invocatelo ad alta voce:
            apertamente per il gregge, in segreto ognuno per sé;
            o apertamente anche per sé:
            tanto la folla fra gli scherzi
            e il curvo flauto di Frigia fanno fracasso.
            Siate felici: ormai la Notte aggioga i suoi cavalli
            e in un tripudio di danze le bionde stelle
            seguono il cocchio della madre;
            dietro in silenzio vengono,
            avvolto di ali oscure, il Sonno
            e con passo labile i Sogni tenebrosi.

            PROVINCE DELL'ASIA

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            GIORDANIA ROMANA

            Agli inizi del sec. I d.c. il territorio dell'Asia Minore occidentale, dalla Licia fino alla Pisidia, formava la provincia romana dell'Asia. A Sud essa era delimitata dal fiume Indo, che la separava dalla Licia; a Nord aveva per confine la Propontide e una linea da Cizico a Dorilea, sopra cui stava la provincia della Bitinia.

            Il confine orientale invece, divideva la provincia dell'Asia dalla Galazia e dalla Licaonia, un territorio unificato dal lato amministrativo, e discretamente ellenizzato.

            Nella parte più meridionale, compresa fra l'Indo (Dalaman) e il Grande Meandro (Menderes) si estendeva la CARIA.
            L'Asia (anche Asia Proconsolare o Asiana) divenne una provincia romana istituita nel 132 a.c. mediante un senatoconsulto (deliberazione del senato), con il quale venivano annessi i territori del regno di Pergamo. Il territorio divenne "ager publicus populi romani".



            LE ZONE

            - La provincia comprese i territori del regno di Pergamo,  cui si aggiunse la parte della Caria che era rimasta sotto il dominio di Rodi fino al 168 a.c. .
            - La Licaonia venne assegnata alla Cappadocia.

            - La Frigia venne assegnata al Ponto fino alla morte di Mitridate III (121-116 a.c.).
            - La Licia, una confederazione di città rimase indipendente lafino al 44 a.c.

            - Il Chersoneso Tracico venne annesso probabilmente alla provincia di Macedonia.

            - Le isole che avevano fatto parte del regno di Pergamo furono annesse alla nuova provincia, mentre le altre rimasero libere.

            - Il territorio della Troade venne ceduto dai re di Pergamo alla repubblica romana. Sotto l'impero, il territorio della Troade divenne parte della provincia d'Asia. Con l'impero bizantino la Troade venne inclusa nelle Isole Egee, finchè fece parte dell'impero ottomano.

            - Pario, fondata da coloni greci, fece parte della Lega delio-attica. Dopo la morte di Alessandro Magno (323 a.c.) passò a Lisimaco e poi sotto la dinastia degli Attalidi. Dopo che Attalo III, l'ultimo re di Pergamo, nel 133 a.c. lasciò in eredità il suo regno a Roma, nel 129 a.c. la regione entrò a far parte della provincia romana dell'Asia. Allorché questa provincia fu smembrata, nel IV secolo, Pario entrò a far parte della provincia dell'Ellesponto.

            - Tralles fece parte della regione della Caria e poi della Lidia, per passare poi all'impero di Alessandro Magno, presa nel 301 a.c. da Lisimaco; in seguito appartenne ai Seleucidi (che nel 281 a.c. la ribattezzarono Seleucia) e agli Attalidi, fino alla conquista da parte di Roma. Sotto Augusto (27 a.c.) fu distrutta da un terremoto, ma immediatamente ricostruita come Cesarea.

            - Non vennero annesse né la Panfilia né la Pisidia.



            L'EREDITA' ROMANA

            FAUSTINA MAGGIORE
            ASIA MINORE
            Nel suo testamento in favore di Roma Attalo III salvaguardò le libertà cittadine, ma furono poche le città esenti da tributi (civitates liberae et immunes) o alleate del popolo romano (civitates foederatae).

            La situazione cambiò secondo le alleanze delle città durante le guerre mitridatiche e le guerre civili (tra Mario e Silla, tra Cesare e Pompeo e tra Ottaviano e Marco Antonio).

            Le città libere conservarono il diritto di coniare monete in argento, mentre quelle tributarie solo monete in bronzo.

            Sotto Augusto alcune città ottennero la condizione di colonia romana (Alessandria Troade con il nome di Colonia Augusta, Pario, con il nome di Colonia Iulia Pariana, e Tralles, con il nome di Caesarea Tralles).



            L'ASSETTO ROMANO

            La provincia fu governata da un propretore e solo in tempo di guerra vi veniva inviato un console o un proconsole.

            Con la riforma augustea del 27 a.c. fu classificata tra le province senatorie con un proconsole. Il governatore era assistito da un questore propretore e da tre legati.

            La capitale passò da Pergamo a Efeso. Venne divisa in distretti giudiziari (conventus), secondo la lista di Plinio:
            Laodicea al Lico,
            Synnada,
            Apamea di Frigia,
            Alabanda,
            Sardi,
            Smirne,
            Pergamo.



            ETA' REPUBLICANA

            L'ultimo dei re Attalidi, Attalo III, alla sua morte nel 133 a.c., lasciò in eredità il suo regno a Roma. Nel testamento Attalo lasciava alla città di Pergamo ed a altre città, la libertà ed i territori circostanti, oltre all'esenzione dei tributi, mentre a Roma lasciava i suoi tesori e le sue proprietà, ma soprattutto gran parte dei territori.

            Il testamento era condizionato dall'assenso della Repubblica romana, assenso che però tardava ad arrivare. Al testamento di Attalo III però si ribellò Aristonico con l'appoggio della plebe contro i proprietari fondiari, trovando alleanze nella Mysia e Caria.

            In risposta Roma nel 131 a.c., inviò Publio Licinio Crasso, che fu sconfitto ed ucciso. Inviarono allora il console romano, Marco Ebuzio Perperna, il quale fece prigioniero Aristonico, per impadronirsi poi di Pergamo e del suo tesoro.

            Successivamente il senato romano fu costretto ad inviare il console Manio Aquilio per sedare una rivolta nell'ex-regno di Attalo III, e in questo caso dovette trasformare i suoi territori in I Provincia Romana dell'area asiatica (nel 132 ac.).

            Antioco III il Grande era stato costretto a cedere l'Asia quando venne sconfitto nella battaglia di Magnesia, nel 190 a.c. Nel trattato di Apamea (188 a.c.) il limite del regno seleucide giungeva al fiume Tauro, mentre il resto dell'Asia Minore andava al regno di Pergamo, alleato dei Romani.

            GUERRA DI MITRIDATE


            LA RIORGANIZZAZIONE

            - lasciò parte dei territori dell'antico regno: Mysia, Lydia, Frigia e parte della Caria;
            - i territori del Chersoneso Tracico e dell'isola di Egina furono aggregati alla provincia di Macedonia;
            - la Lycaonia e la Cilicia Trachea furono lasciate al regno di Cappadocia;
            - la Frigia maggiore a Mitridate III del Ponto,
            - Roma annetteva tutti i territori occidentali, collegandoli attraverso la costruzione di rete stradale che si irraggiava da Efeso veso Pergamo, Sardi, ecc..

            I territori orientali, montuosi e difficili da controllare, furono concessi al regno del Ponto ed a quello di Cappadocia.

            Nel 123 a.c. con la riforma di Gaio Gracco al tributo fisso, ereditato dal regno attalide, venne sostituita la decima, e l'esazione venne data in appalto, in genere per un quinquennio, a società di pubblicani della classe dei cavalieri. La riforma diede luogo ad abusi, a cui fecero seguito numerose controversie.

            Nell'89 a.c. Mitridate VI, re del Ponto, venuto a conflitto con Nicomede IV di Bitinia, invase la provincia e la conquistò, massacrando i residenti italici nell'88 a.c.

            Mitridate, sconfitto da Silla a Cheronea e a Orcomeno, fu costretto alla pace di Dardano dell'85 a.c. e le città ribelli furono costrette al pagamento delle imposte arretrate e di una pesante indennità. Le condizioni finanziarie dalla provincia rimasero precarie per tutto il periodo repubblicano, e furono ancora aggravate dalle esazioni a cui vennero sottoposte durante la II e la III guerra mitridatica e durante le guerre civili.

            RUDERI DEL TEATRO ORCOMENO


            ETA' IMPERIALE

            La forma di governo non cambiò fino alla riorganizzazione dell'Impero romano con la riforma di Diocleziano, alla fine del III sec.;

            - il territorio della provincia dell'Asia fu aggiunto a quello della Licia e Panfilia per formare la diocesi d'Asia, a sua volta aggiunta alla Prefettura del pretorio d'Oriente, poi suddivisa in province più piccole: Asia (da cui fu scorporato l'Ellesponto, fino a comprendere solo la costa turca dell'Egeo):

            - Lidia,
            - Caria,
            - Frigia, suddivisa in Frigia Pacaziana e Frigia Salutare,
            - Isole.



            COSTANTINOPOLI

            MURA DI COSTANTINOPOLI
            Dopo il 326, quando l'imperatore Costantino I trasferì la capitale a Bisanzio (che rifondò nuovamente ribattezzandola Costantinopoli), la  rovincia asiatica era politicamente ed economicamente centrale nell'impero, e rimase un centro di cultura romana ed ellenistica in oriente per secoli. Lo scrittore e storico Eutropio fu proconsole d'Asia nel 371-2. Il territorio fu parte dell'Impero bizantino sino al XV secolo.

            I centri più importanti divennero allora:

            - Laodicea al Lico,
            - Synnada,
            - Apamea di Frigia,
            - Alabanda,
            - Sardi,
            - Smirne e
            - Pergamo,
            - Efeso.


            LA RELIGIONE

            Il culto dinastico riservato al monarca si trasferì al culto di Roma e del Senato, alle dediche delle città asiatiche a Roma e a Giove Capitolino, al culto della Dea Roma e al culto dell'imperatore romano spesso connesso a importanti santuari, come il koinon d'Asia, una lega delle città della provincia, che divenne un'assemblea provinciale con lo scopo del culto di Roma e di Augusto.




            LISTA DEI GOVERNATORI ROMANI 


             REPUBBLICANI (133 — 27 a.c.)

            - Publio Licinio Crasso Dive Muciano (131—130 a.c.)
            - Marco Perperna (130—129 ac.)
            - Manlius Aquillius (129—126 ac.)
            - Quintus Mucius Scaevola (120 a.c.) (Propraetor)
            - Gnaeus Papirius Carbo (116 a.c.) (Propraetor)
            - Marcus Antonius (112 a.c.) (Quaestor propraetore)
            - Gaius Billienus (c.106 a.c.)
            - Gaius Cluvius (104 a.c.)
            - Lucius Calpurnius Piso Caesoninus (c.100 a.c.)
            - Quintus Mucius Scaevola (97 a.c.)
            - Lucius Gellius Poplicola (c. 93 a.c.)
            - Lucius Valerius Flaccus (c.92 a.c.)
            - Gaius Julius Caesar (c. 91 a.c.)
            - Lucius Lucilius (90 a.c.)
            - Gaius Cassius (89—88 a.c.)
            - Lucius Cornelius Sulla (88—84 a.c.)
            - Lucius Licinius Murena (84—83 a.c.) (Propraetor)
            - Lucius Cornelius Lentulus (82—81 a.c.)
            - Marcus Minucius Thermus (81—80 a.c.)
            - Publius Claudius Nero (80 a.c.)
            - Terentius Varro (77—76 a.c.)
            - Marcus Junius Silanus (76—75 a.c.)
            - Marcus Juncus (75 a.c.)
            - Lucius Licinius Lucullus (73—69 a.c.)
            - Publius Cornelius Dolabella (68—67 a.c.)
            - Lucius Manlius Torquatus (67—66 a.c.)
            - Titus Aufidius (66—65 a.c.)
            - Publius Varinius (65—64 a.c.) (Propraetor)
            - Publius Orbius (64—63 a.c.) (Propraetor)
            - Publius Servilius Globulus (63—62 a.c.) (Propraetor)
            - Lucius Valerius Flaccus (62—61 a.c.) (Propraetor)
            - Quintus Tullius Cicero (61—58 a.c.)
            - Lucius (? Titus) Ampius Balbus (58—57 a.c.)
            - Gaius Fabius Hadrianus (57—56 a.c.)
            - Gaius Septimius (56—55 a.c.)
            - Gaius Claudius Pulcher (55—53 a.c.)
            - Quintus Minucius Thermus (53—50 a.c.) (Propraetor)
            - Lucius Antonius (50—49 a.c.) (Proquaestor propraetore)
            - Gaius Fannius (49—48 a.c.)
            - Gnaeus Domitius Calvinus (47—46 a.c.)
            - Publius Servilius Isauricus (46—44 a.c.)
            - Gaius Trebonius (44—43 a.c.)
            - Marcus Turius (42—40 a.c.)
            - Lucius Munatius Plancus (40—38 a.c.)
            - Marcus Cocceius Nerva (38 a.c.)
            - Gaius Furnius (36—35 a.c.)
            - Marcus Titius (35—34 a.c.)
            - Asinius Marrucinus (34—33 a.c.)
            - Marcus Herennius Picens (33 a.c.)
            - Vedius Pollio (? 31—30 a.c.)
            - Gaius Memmius (after 30 a.c.) 




            I IMPERO (27 a.c. — 285 dc-)


            SOTTO AUGUSTO

            - Lucius Vinicius (27—25 a.c.)
            - Potitus Valerius Messalla (25—23 a.c.)
            - Sextus Appuleius (23—21 a.c.)
            - Gaius Norbanus Flaccus (18—17 a.c.) or (17—16 a.c.)
            - Quintus Aemilius Lepidus (15 a.c.)
            - Gaius Sentius Saturninus (14—13 a.c.)
            - Marcus Vicinius (12—10 a.c.)
            - Paullus Fabius Maximus (10—8 a.c.)
            - Iullus Antonius (7—6 a.c.)
            - Gaius Asinius Gallus Saloninus (6—5 a.c.)
            - Publius Cornelius Scipio (tra 15 e 4 a.c.)
            - Gnaeus Cornelius Lentulus Augur (2—1 a.c.)
            - Lucius Calpurnius Piso (c. 1)
            - Publius Sulpicius Quirinius (c. 2)
            - Publius Vinicius (c. 2)
            - Gaius Marcius Censorinus (2—3)
            - Marcus Plautius Silvanus (4—5)
            - Publius Marcellinus (tra 5 e 12)
            - Gaius Asinius Pollio (tra 5 e 12)
            - Lucius Calpurnius Piso Caesoninus (tra 5 e 12)
            - Gaius Antistius Vetus (c. 6)
            - Lucius Volusius Saturninus (9—10)
            - Lucius Valerius Messalla Volesus (11— 12)
            - Gaius Vibius Postumus (12—15)


            SOTTO TIBERIO

            Sextus Nonius Quinctilianus (16—17)
            Gaius Junius Silanus (20—21)
            Manius Aemilius Lepidus (21—22)
            Gaius Fonteius Capito (22—23)
            Gaius Norbanus Flaccus (24)
            Marcus Aemilius Lepidus (c. 26/28)
            Sextus Pompeius (c. 27/30)
            Publius Petronius (c. 29/35)
            Lucius Munatius Plancus (34—35)
            Cotta Maximus Messalinus (35—36)
            Gaius Vibius Rufinus (36—37)


            SOTTO CALIGOLA

            - Gaius Calpurnius Aviola (37—38)
            - Gaius Asinius Pollio (c. 38/39)
            - Marcus Vinicius (c. 38/39)
            - Publius Vinicius (c. 38/39)
            - Gaius Cassius Longinus (40—41)


            SOTTO CLAUDIO

            - Gaius Trebonius (43)
            - Paullus Fabius Persicus (43—44)
            - Publius Memmius Regulus (48—49)
            - Gaius Pompeius Longus Gallus (49—50)
            - Aulus Didius Gallus (c. 50/52)
            - Gnaeus Domitius Corbulo (52—53)
            - Publius Suillius Rufus (53—54)
            - Marcus Junius Silanus Torquatus (54)


            SOTTO NERONE

            - Tiberius Plautius Silvanus Aelianus (55—56)
            - Lucius Vipstanus Poplicola (58—59)
            - Gaius Vipstanus Messalla Gallus (59—60)
            - Quintus Marcius Barea Soranus (c. 61/62)
            - Gaius Rubellius Plautus (c. 61/62)
            - Publius Volasenna (62—63)
            - Lucius Salvius Otho Titianus (63—64)
            - Lucius Antistius Vertus (64—65)
            - Manius Acilius Aviola (65—66)
            - Gaius Fonteius Agrippa (68—69)


            SOTTO VESPASIANO E TITO

            - Marcus Suillius Nerullinus (69—70)
            - Titus Clodius Eprius Marcellus (70—73)
            - Marcus Apponius Saturninus (73—74)
            - Marcus Vettius Bolanus (75—76)
            - Tiberius Catius Asconius Silius Italicus (77—78)
            - Gaius Laecanius Bassus Caecina Paetus (78—79)
            - Marcus Ulpius Traianus (79—80)
            - Gnaeus (? Publius) Arrius Antoninus (c. 81)


            SOTTO DOMIZIANO E NERVA

            - Marcus Maecius Rufus (83)
            - Sextus Julius Frontius (85—86)
            - Gaius Vettulenus Civica Cerialis (87—88)
            - Lucius Mestrius Florus (88—89)
            - Marcus Fulvius Gillo (89—90)
            - Publius Calvisius Ruso (92—93)
            - Lucius Junius Caesennius Paetus (93—94)
            - Marcus Atilius Postumus Bradua (94—95)
            - Sextus Carminius Vetus (96—98)
            - Gnaeus Pedanius Fuscus Salinator (98—99)
            - Marcus Aquillius Regulus (data sconosciuta)


            SOTTO TRAIANO

            - Quintus Julius Balbus (100—102)
            - Tiberius Julius Celsus Polemaeanus (105—106)
            - Lucius Dasumius Hadrianus (106—107)
            - Lucius Nonius Calpurnius Torquatus Asprenas (107—108)
            - Marcus Lollius Paullinus Decimus Valerius Asiaticus Saturninus (c. 108/109)
            - Gaius Cornelius Rarus (c. 108/109)
            - Gaius Antius Aulus Julius Quadratus (110)
            - Lucius Baebius Tullus (110—111)
            - Quintus Fabius Postuminus (111—112)
            - Cornelius Tacitus (112—113)
            - Quintus Vibius Secundus (113)
            - Aulus Vicirius Martialis (113—114)
            - Marcus Ostorius Scapula (114—115)
            - Quintus Fulvius Gillo Bittius Proculus (115—116)
            - Galeo Tettienus Severus Marcus Eppuleius Proculus Tiberius Caepio Hispo (c. 117/118)
            - Publius Metilius Secundus (data sconosciuta)


            SOTTO ADRIANO

            - Gaius Sertorius Brocchus Quintus Servaeus Innocens (c. 117/118)
            - Tiberius Caepio Hispo (c. 118/119)
            - Quintus Licinius Silvanus Granianus (121—122)
            - Gaius Minucius Fundanus (122—123)
            - Serenius Granianus (123—124)
            - Lucius Hedius Rufus Lollianus Avitus (128—129)
            - Afrianus Flavianus (130—131)
            - Gaius Julius Alexeer Berenicianus (132—133)
            - Titus Aurelius Fulvus Antoninus (134—135)
            - Quintus Pompeius Falco (data sconosciuta)


            SOTTO ANTONINO PIO

            - Lucius Venuleius Apronianus Octavius Princus (138—139)
            - Lucius Antonius Albus (146—147)
            - Glabrio (148—149)
            - Popilius Priscus (149—150)
            - Titus Vitrasius Pollio (152)
            - Lucius Statius Quadratus (156—157)
            - Titus Statilius Maximus (157—158)


            SOTTO MARCO AURELIO

            - Gaius Popillius Carus Pedo (162—163)
            - Quintus Pompeius Senecio Sosius Priscus (c. 163/164)
            - Gaius Pompeius Longus Gallus (c. 163/164)
            - Marcus Gavius Squilla Gallicanus (165)
            - Statius Quadratus (c. 167)
            - Titus Pomponius Proculus Vitrasius Pollio (167—168)
            - Lucius Sergius Paullus (168)
            - Sextus Quintilius Valerius Maximus (168—169)
            - Aulus Junius Rufinus (169—170)
            - Servilius Paulus (170)
            - Marcus Nonius Macrinus (170—171)
            - Marcus Junius Rufinus Sabinianus (172—173)
            - Sextus Sulpicius Tertullus (173—174)


            SOTTO COMMODO 

            - Titus Flavius Claudius Sulpicianus (186)
            - Lucius Hedius Rufus Lollianus (before 193)
            - Sulpicius Crassus (data sconosciuta)


            SOTTO SETTIMIO SEVERO

            Lucius Albinus Saturninus (c. 190/200)
            Asellius Aemilianus (192—193)
            (?) Marcus Gavius Galicanus (? c. 195/200)
            Quintus Licinius Nepos (c. 198/208)
            Quintus Aurelius Polus Terentianus (c. 198/208)
            Quintus Tineius Sacerdos (c. 199/211)
            Quintus Hedius Rufus Lollianus Gentianus (201—202)
            Tarius Titianus (c. 202/205)
            Lucius Calpurnius Proculus (c. 202/205)
            Popilius Pedo Apropianus (c. 204/206)
            Quintus Caecilius Secundus Servilianus (208—209)
            Titus Manilius Fuscus (209—210)
            Decimus Caelius Calvinus Balbinus (data sconosciuta)
            Sextius Magius Lateranus (data sconosciuta)


            SOTTO CARACALLA

            - Gaius Gabinius Barbarus Pompeianus (c. 211/213)
            - Gavius Tranquillus (c. 211/213)
            - Marcus Junius Consessus Aemilianus (c. 213/214)
            - Lucius Marius Maximus Perpetuus Aurelianus (213—215) or (214—216)
            - Gaius Julius Avitus Alexianus (216—217)
            - Gaius Julius Asper (217) (designatus)


            SOTTO MACRINO E ELIOGABALO

            - Quintus Anicius Faustus (217—218)
            - Lucius Marius Perpetuus (c. 218/219)
            - Marcus Nummius Umbrius Primus Senecio Albinus (c. 221)
            - Marcus Aufidius Fronto (c. 219/222)
            - Gaius Aufidius Marcellus (c. 219/222)


            SOTTO ALESSANDRO SEVERO

            - Quintus Hedius Lollianus Plautius Avitus (c. 224)
            - Quintus Aiacius Modestinus Crescentianus (c. 222/235)
            - Quintus Virius (? Vibius) Egnatius Sulpicius Priscus (c. 222/235)
            - Marcus Clodius Pupienus Maximus (before 234)
            - Amicus (c. 230/232)


            SOTTO MASSIMINO TRACE

            - Lucius Valerius Messalla Apollinaris (c. 236/238)


            SOTTO GIORDANO III

            - Marcus Triarius Rufinus Asinius Sabinianus (c. 238/240)
            - Lucius Egnatius Victor Lollianus (242—245)


            SOTTO DECIO

            - Gaius Julius Flavius Proculus Quintilianus (249—250) 


            SOTTO VALERIANO

            - Gaius Julius Octavius Volusenna Rogatianus (c. 253/256)
            - Maximillianus (? 260)
            - Tiberius Pollenius Armenius Peregrinus (unknown date)


            SOTTO MARCO AURELIO PROBO

            - Arellius Fuscus (275)
            - Faltonius Probus (276)
            - Julius Proculus (276) 


            SOTTO CARO

            - Asclepiodotus (283)


            SOTTO DIOCLEZIANO 

            - Aurelius Hermogenianus (c. 286/305)
            - Titus Flavius Festus (c. 286/293)
            - Priscus (c. 286/305)
            - Lucius Artorius Pius Maximus (c. 287/298)
            - Junius Tiberianus (c. 293/303)
            - Annius Epifanius (c. 293/305)


            SOTTO COSTANTINO I

            - Amnius Manius Caesonius Nicomachus Anicius Paulinus (c. 324/334)
            - Titus Fabius Titianus (c. 324/337)


            SOTTO COSTANZO II

            - Lucius Caelius Montius (c. 340/350)
            - Marinus (c. 351/354)
            - Flavius Magnus (c. 354/359)
            - Mantitheus (before 355)
            - Julianus (360)


            SOTTO GIULIANO E GIOVIANO

            - Aelius Claudius Dulcitius (361—363)
            - Vitalius (363)


            SOTTO VALENTE

            - Helpidius (364)
            - Hormisdas (365)
            - Clearchus (366—367)
            - Eutropius (c. 371/372)
            - Festus (372—378)


            SOTTO  TEODOSIO I

            - Septimius Maeadius (c. 379/386)
            - Nummius Aemilianus Dexter (c. 379/387)
            - Auxonius (381)
            - Nicomachus Flavianus (382—383)
            - Victorius (392—394)
            - Aurelianus (395)




            DIVISIONE TRA OCCIDENTE E ORIENTE (395 — 491) 


            SOTTO ARCADIO

            - Aeternalis (396)
            - Simplicius (396)
            - Nebridius (396)
            - Julianus (397)
            - Anatolius (c. 395/408)
            - Flavius Anthemius Isidorus (c. 405/410)


            SOTTO TEODOSIO II

            - Flavius Heliodorus (c. 439/442)
            - Proculus (449)


            GOVERNATORI DI DATA INCERTA

            - Scaurianus (III secolo)
            - Cassianus (III/IV secolo)
            - Cossinius Rufinus (III secolo)
            - Axiochus (IV secolo)
            - Ambrosius (IV secolo)
            - Messalinus (IV/V secolo)
            - Aristus (IV/V secolo)
            - Constantinus (IV/V secolo)
            - Nonnus (V secolo)
            - Ignatius ( V secolo)
            - Zosimianus ( V secolo)
            - Andreas (V secolo)
            - Flavius Axius Arcadius Phlegethius (VI secolo)
            - Damocharis (IV/VI secolo)
            - Theodosius (V/VI secolo)



            LE REGIONI


            CARIA 

            Alicarnasso Eraclea, Antiochia Myndo, Laodicea, Alinda Alabanda. 
            L'insalubrità del clima e la mancanza di comunicazioni hanno reso questa regione quasi deserta; anticamente in zone costiere, oggi paludose e malsane, sorgevano centri abitati, fiorenti per commercio e per la coltivazione delle vallate circostanti. 

            Fra tutti Mileto, che secondo Plinio (Nat. hist., v; 31 al. 29), era capitale della Jonia e possedeva colonie sparse un po' dovunque fin nel Mar Nero e nel Mar di Marmara. Venne poi invasa dal Meandro che con le sue piene la separarò in seguito dal mare provocandone il declino 

            Poi Alicarnasso, antica colonia dorica, di fronte all'isola di Cos. Mentre lungo la costa e nelle isole adiacenti prevaleva già da secoli l'elemento greco, particolarmente di stirpe ionica, nel retroterra ancora ai tempi dell'Impero sopravvivevano i discendenti degli antichi Carii, celebri per il loro carattere bellicoso che li raccomandava come soldati mercenari. Essi, prima che il greco soppiantasse l'idioma indigeno, parlavano una lingua di cui restano solo poche tracce; era molto affine al licio, d'indole preindo-europea. Già Omero nell'Iliade aveva chiamato i Carii parlanti barbaricamente (Iliade, II, 867). 



            LIDIA 

            Al contrario, anche prima di Alessandro, era ellenizzata quasi totalmente la LIDIA, la regione situata fra la Caria, la Misia e la Frigia, con confini incerti e spesso modificati. Questa ricca regione, contenente i bacini del Caistro (Piccolo Meandro) e dell'Ermo (Gediz chay) doveva la sua importanza al'essere ponte di passaggio fra il continente europeo e l'Asia anteriore, con un attivissimo commercio attraverso le città costiere della Lidia, quasi tutte antiche colonie greche.

            Le più celebri erano Efeso, Colofone, Clazomene, Smime, e Magnesia, l'odierna Manisa alle falde del Sipilo.

            Nel retroterra Sardi, alle falde del monte Tmolo, era stata la capitale del regno Lidio, ma aveva perduto il suo prestigio dopo il fiorire delle città vicine, specialmente Efeso e Pergamo. Le meraviglie che scrittori classici narrano di Efeso sono state riscontrate in parte nei recenti scavi praticati nella sua zona, oggi lontana dal mare a causa dell'insabbiamento prodotto dal Caistro e tutta di aspetto desolato.

            ROVINE IN SARDES
            Fra altri rinvenimenti, si sono trovati i resti monumentali del teatro addossato al monte Pion, dove sboccava l'arteria della città, la via Arcadiana; nell'ampia cavea di questo teatro, che poteva contenere circa 23.000 persone.

            Molti edifici, quali un'agorà ellenistica a Sud del teatro con un grande orologio probabilmente idraulico, un'altra agorà romana con colonnati e propilei, più ginnasi, uno stadio ed altre superbe costruzioni, abbellivano la capitale della provincia dell'Asia.

            Dopo un lungo periodo di guerre e miserie, Efeso sotto Augusto tornava a godere di benefica pace. I favori dell'imperatore rinnovavano quasi i tempi di Lisimaco, il diadoco che aveva data grande incremento alla città del Caistro, cingendola di mura e richiamandovi abitanti dai due centri vicini, Lebedo e Colofone.

            Il suo porto, già minacciato dalle sabbie del fiume ma fino allora il più vasto della provincia, era animatissimo: nei suoi ampi magazzini, disposti lungo le rive del fiume e sulle pendici del monte Coressos, affluivano merci di ogni genere dall'Oriente e dall'Occidente: merci d'oro e d'argento, di pietre preziose, di perle, di lino fino, di porpora, di seta, di scarlatto, di legno odoroso, di oggetti di avorio, di rame, di ferro, e di marmo, e la cannella e l'amomo e i profumi e gli unguenti e l'incenso e il vino e l'olio e il fior di farina e il grano.

            Ma di celebrità anche maggiore godeva Efeso per il suo carattere di città sacra ad Artemide, di cui possedeva un famoso tempio. Fino al 1869 si conoscevano soltanto le ditirambiche lodi che gli antichi scrittori avevano tributato a questo tempio, ma in quell'anno l'archeologo inglese Wood riuscì a riconoscerne il preciso sito. Gli scavi, che in realtà risultarono meno fruttuosi di quanto si sarebbe potuto aspettare, hanno confermato genericamente la grandiosità della costruzione.

            TEMPIO ARTEMISIA IN SARDES
            L'Artemision, situato fra le due colline di Aya-Soluk e del Pion, era uno dei più vasti dell'antichità, le sue origini sono, naturalmente, leggendarie. 
            Quando Creso nel 559. ac. s'impadronì di Efeso, non solo risparmiò la città per il suo carattere sacro, ma promosse un rifacimento totale del tempio, che risultò splendido non meno di quello successivo descrittoci da Plinio.

            Nel 356 il suntuoso edificio del tempo di Creso finì incendiato, proprio la notte stessa in cui la dea assisteva alla nascita di Alessandro Magno.

            La ricostruzione successiva questa volta fu lentissima, ma fu anche magnifica.. 
            Il nuovo tempio, secondo Plinio, accoglieva 127 colonne, donate dai vari re, alta ognuna 60 piedi, e 36 di esse avevano bassorilievi scolpiti; i migliori artisti greci, Policleto, Prassitele, Scopa, vi avevano eseguito queste magnifiche opere.


            LA GRANDE DEA

            I Romani poi non furono da meno: Augusto vi stabilì un recinto in onore della Dea Roma e di Giulio Cesare, unendo il culto dell'imperatore a quello di Artemide; più tardi s'introdussero anche culti di divinità straniere, come Iside. La Dea Artemide aveva lì innumerevoli mammelle (multimammia): bestiarum et viventium esse nutricem. La Grande Madre il cui simulacro era caduto dal cielo.

            Le mammelle numerose, come  da diverse riproduzioni conservate a Roma e altrove, fanno pensare alla Magna Mater frigia o alla Astarte fenicia; una delle divinità naturistiche personificatrice della fecondità. In suo onore si celebravano molte feste durante l'anno.

            Nel santuario di Ortigia, a sud del Coressos e presso il monte Solmissos, si celebravano particolari misteri per rievocare la nascita della Dea, in quanto Artemide: in questi misteri la parte principale sembra fosse sostenuta dal collegio sacro dei Cureti.

            Processioni notturne tenute in primavera rievocavano la nascita dei due gemelli, Apollo e Artemide; vi si alzavano forti grida, per spaventare la gelosa Era, che insidiava alla loro genitrice Latona. 

            Autori greci, come Strabone, parlano di orgie sfrenate tenute in occasione del rito. Il culto della Dea era affidato a sacerdotesse che per la durata del loro servizio dovevano conservare la verginità.

            Il tempio godeva del «diritto d'asilo», e perciò non mancavano malfattori di ogni sorta che per sfuggire alla giustizia si rifugiavano nel suo recinto; quando sotto Tiberio si pensò d'abolire questo privilegio, una legazione di Efesi si affrettò a patrocinare il diritto acquisito. 

            Oltre che d'asilo, il tempio serviva come banca, sia per le molteplici offerte che vi affluivano da ogni parte, sia per i depositi che persone private vi lasciavano per garantirne la sicurezza.

            Gli Ephesia grammata erano piccoli gruppi di lettere d'alfabeto, o di parole, o brevi formule, a cui si attribuivano virtù magiche in materia di malattie, di giuoco, di amore, ecc.: da principio furono, probabilmente, la ricopiatura dei suoni inarticolati e privi di significato che emettevano gli indovini del tempio; poi man mano sorse tutta un'industria di siffatti foglietti o libretti, che portati addosso potevano essere utili in mille circostanze della vita.

            Dopo la morte di Creso, avversario di Ciro il Grande, la Lidia subì la sorte dei paesi vicini, passando sotto le dominazioni persiana, greca e romana.



            MISIA

            Oggi è una regione nell'attuale Turchia nord-occidentale. Le sue coste furono colonizzate dai Greci, che vi fondarono parecchie città, mentre l'interno fu abitato da epoche remote da vari popoli, fra i quali i Misi che le diedero il nome.

            PERGAMO
            Anticamente era posta a nord della Lidia, fra la Troade, la Frigia Minore ed il Mar Egeo, era situata la MISIA che aveva nel suo territorio molte colonie greche, sul bordo della frastagliatissima fascia costiera, ed importanti città nell'entroterra.

            Fra queste città ricordiamo Tiatira, rinomata per il suo commercio di porpora, una colonia macedone situata nella parte più meridionale della Misia, ai confini con la sottostante Lidia.

            Poi c'era Pergamo già capitale del regno omonimo: i liberali re Attalidi abbellirono questa città con stupendi monumenti, in parte ritrovati dall'indagine archeologica, che attestano il raffinato ellenismo di questi regnanti.

            Fra i porti fu famoso Adramittio, nell'ampio golfo omonimo, dove si tenevano le assise (conventus) del
            distretto occidentale dell'Asia Minore.

            Attalo III, l'ultimo re di Pergamo, nel 133 a.c. lasciò in eredità il suo regno, e quindi anche la Misia, a Roma, e quindi nel 129 a.c. la regione entrò a far parte della provincia romana dell'Asia.



            TROADE

            L'estremità nord-occidentale della «provincia dell'Asia» e di tutta l'Asia Minore era occupata dalla TROADE, nome storico della penisola di Biga, piccola regione limitata dal golfo di Adramittio e dall'Ellesponto, percorsa dalla catena montuosa del leggendario Ida e dai non meno celebri fiumi Scamandro e Simoenta.

            In questa regione, disseminata di colonie elleniche, sorgeva l'importante Alessandria Troade, che ricevette ogni privilegio dai discendenti della gens Julia per i ricordi omerici collegati con l'origine della famiglia, e già ai suoi tempi Giulio Cesare pensava di farne addirittura la capitale dell'Impero romano (Svetonio, Divus Iulius, 79).

            Augusto ne fece una colonia romana. Gli avventurosi e avventurati scavi dello Schliemann riportarono alla luce sulla collina di Hissarlik gli avanzi di Troia-Ilio, la città dei poemi omerici. Le ricerche archeologiche proseguite dall'Università di Cincinnati hanno permesso di seguire l'avvicendarsi di successive civiltà nel medesimo sito; dalle epoche più remote fino a quella romana.

            Oltre alle numerosissime isole, fra le quali le grandi Rodi, Samo, Chio, Lesbo, celebri nella cultura greca, apparteneva ancora alla provincia dell'Asia la penisola del Chersoneso Tracico, facente parte del continente europeo. Oggi occupa la parte nord occidentale della Turchia.



            FRIGIA

            A Settentrione e à Levante di tutte le altre regioni (Troade, Misia, Lidia, Caria) costituenti la «provincia dell'Asia», si estendeva la FRIGIA, che dall'Ellesponto raggiunse in certe epoche il fiume Halys; a Nord la Frigia confinava con la provincia della Bitinia, a Est e a Sud-Est con la Galazia e la Licaonia, a Sud con la Pisidia, abbracciando l'altipiano occidentale dell'Asia Minore.

            ARTE DELL'ASIA MINORE
            Gli antichi Greci parlano di un antichissimo regno frigio, formato da emigrati dalla Tracia (Erodoto, VII, 73, Strabone, VII, 3, 2) prima della distruzione di Troia; ma ben poco si sa di quest'epoca favolosa, come pure della civiltà primitiva di questo popolo. Seguì la sorte degli altri gruppi etnici passando da una dominazione all'altra fino a quella dei Romani.

            La vasta regione, anche prima che l'imperatore Diocleziano per motivi amministrativi la suddividesse in Frigia prima e secunda, o Pacatiana e Salutaris, era considerata divisa in Frigia Minore sotto la Propontide e Frigia Maggiore nel massiccio centrale.

            Fra le città della Frigia: Laodicea, Colossi e Jerapoli. Laodicea il cui nome le fu imposto dal fondatore, il seleucida Antioco II (261-246 av. Cr.), in onore della propria moglie. Strabone (XII, 8, 16) la descrive come città ricchissima a causa del suo attivo commercio, con fiorente allevamento di bestiame. Duramente colpita da un terremoto nel 60 d. Cr., senza soccorsi stranieri riparò con le sue ricchezze ai gravi danni sofferti (Tacito, Annal., XVI, 27). Oggi non ne restano che squallide rovine ad Eski-Hissar.

            L'incremento progressivo di Laodicea causò il declino della vicina città di Colossi, sella riva dell'alto Lico. La sua importanza era dovuta al fatto di essere situata sulla strada commerciale, che univa Sardi con Apamea. Strabone la chiama una piccola città, ma Plinio la nomina fra gli oppida celeberrima.

            Notizie ancora più scarse si hanno su Jerapoli «città sacra», celebre anche per le sue acque minerali, ricche di sali e calcari, e per una pietra molto simile al travertino. Assai progredita vi era l'industria della lana e della tintoria, il cui centro principale però era a Laodicea.

            Su tutte queste regioni, profondamente ellenizzate, Roma aveva cominciato a estendere la sua influenza fin dall'inizio del sec. II ac.; ma solamente dal testamento di Attalo III re di Pergamo, il popolo romano acquistò. in eredità i territori posseduti dalla dinastia Attalida (133 acr.). Roma stabilì saldamente il suo dominio su quell'altipiano dell'Asia Minore, erigendolo a provincia.

            Nella sua riordinazione dell'Impero, Augusto dichiarò l'Asia, depauperata dalle ripercussioni delle guerre civili, provincia senatoria, concedendole favori e privilegi: fu l'Asia proconsularis, perché, come per la provincia dell'Africa, l'ufficio di governatore era affidata ad un ex-console, cui era concesso il privilegio di dodici fasci littori.

            Il proconsole, al quale erano devolute le ordinarie attribuzioni di un governatore di provincia, risiedeva ad Efeso e ispezionava i capoluoghi dei vari distretti giudiziari (conventus) per esercitarvi la giustizia. Secondo Plinio tali assemblee giudiziarie si tenevano a Laodicea (o a Cibira), Sinnada, Apamea, Alabanda, Sardi, Smirne, Efeso, Adramittio e Pergamo.

            La riscossione delle imposte e dei vari tributi era affidata ad appaltatori, ai quali sottostava una turba di pubblicani, che con abusi e sopraffazioni dissanguavano la provincia, come risulta dall'orazione di Cicerone pro Flacco, e in altri testi di storici romani.

            In Asia, come altrove, non mancavano le città dichiarate immuni, esenti dall'obbligo di pagare la fondiaria al fisco imperiale, e libere, con ampia autonomia nell'eleggere i magistrati e le leggi. I Romani, si riservavano sempre il diritto di revocare i privilegi di libertà e di immunità, e tale diritto fu spesso esercitato nei riguardi di città che mostravano poca sottomissione a Roma.


            ASSEMBLEA ASIATICA

            Un'antica istituzione di carattere religioso acquistò grande sviluppo ed importanza al tempo di Augusto, e fu l'assemblea asiatica, che si riuniva a periodi non ben determinati, cui spettava provvedere al culto della dea Roma, a cui si aggiunse il culto dell'imperatore.

            Questa assemblea, a cui ogni città principale inviava i propri rappresentanti, era accompagnata da feste e giuochi solenni; oltre alle questioni di carattere religioso, essa poteva manifestare il proprio parere anche in materia amministrativa, lodare a biasimare un governatore, invocare la modifica di qualche legge o lo sgravio di pesanti tributi: ma, in realtà, il suo potere era molto limitato. Il presidente di tale assemblea aveva l'ambito titolo di «asiarca»: a lui incombeva la direzione delle feste e dei giuochi in onore dell'imperatore, e spesso anche l'onere delle spese.

            Il carattere religioso dell'assemblea è ricordato dal titolo di sommo sacerdote dell'Asia, che sembra praticamente sinonimo di «asiarca», ed era dato talvolta al presidente. Per il moltiplicarsi di città «neocore», ossia dotate del privilegio di erigere un tempio in onore dell'imperatore, e per l'ambizione di titoli onorifici fra gli Asiatici, tale onorificenza fu attribuita a moltissime persone, anche perché conservavano tale titolo pure quelli che avevano deposto la carica. Grazie alla politica oculata e tollerante dei Romani, si può dire che nel sec. I dc.. la «provincia dell'Asia» godesse di tutti i benefizi della pax romana.

            Si legge la lode che si attribuisce Augusto nel Monumento Ancirano:
            "Nei templi di tutte le città della provincia dell'Asia io, vincitore, ricollocai gli ornamenti, dei quali si era impossessato, spogliatine i templi, colui contro il quale avevo guerreggiato. Cicerone: L'Asia è così ricca e fertile, da superare senza dubbio tutte le altre regioni per la fecondità dei campi, per la varietà delle coltivazioni, per l'estensione dei suoi pascoli e per l'abbondanza delle esportazioni."


            GYMNASIUM DI SARDA

            GALAZIA

            Nel centro dell’Asia Minore la regione confinante, con limiti alquanto incerti, a Nord con la Bitinia, ad Est con la Cappadocia, e ad Ovest con la Frigia; si chiamava ai tempi romani GALAZIA. Anche geologicamente la Galazia è un paese di transizione fra il montuoso altipiano occidentale e la distesa orientale più pianeggiante; le cime montane non raggiungono i 2.000 metri, mentre sono più estese le vallate alluvionali formate da fiumi, Halys, il Delice e il Sakarya (l'antico fiume sacro Sangarius), né mancano zone da steppa e aridi altipiani calcarei.

            Predomina la pastorizia, con pendii coltivati a cereali. Nella II metà del sec. III ac. fu invasa da popolazioni celtiche, che spargevano il terrore e che divisero il territorio fra le tre stirpi da cui erano composti, ossia i Tolistobogi, che si fissarono ad Occidente intorno a Pessinunte (Pessinus), i Trocmi ad Oriente con capitale Tavio (Tavium), ed i Tectosagi nel centro attorno ad Ancira (Ankara).

            Di carattere bellicoso, parteciparono essi a quasi tutte le guerre che si svolsero lungo il sec. II ac. fra i piccoli monarchi dell’Asia Minore, giacché per il loro coraggio erano ricercati come mercenari. Nella II metà del sec. 1 ac. Deiotaro, tetrarca dei Tolistobogi, respinse l'invasore Eumaco, satrapo del Ponto, e riunì sotto il suo dominio le tre stirpi celtiche nel comune territorio, chiamato ormai Galazia.

            Pompeo riconobbe il titolo di re a questo alleato dei Romani nella guerra Mitridatica, e ampliò il suo territorio. Dopo la morte del re il regno passò al suo segretario Aminta.

            Il triumviro Antonio favorì il nuovo re, donandogli parti della Pisidia, della Licaonia e della Pamfilia. Successivamente Aminta estese il suo dominio sull'Isauria e sulla Cilicia Montana.

            Augusto riconobbe questi possedimenti al re, che ad Azio si unì col suo partito; ma dopo la morte di Aminta, nel 25 ac., staccò dal regno, di lui le parti della Cilicia e della Pamfilia e formò una provincia romana.

            Questa provincia, accresciuta di alcuni distretti della Paflagonia, fu costituita dalla Galazia propriamente detta, dalla Licaonia, dalla Pisidia e dall'Isauria e così rimase fino ai tempi di Vespasiano, quando subì modificazioni.

            La designazione di regione Galatica si riportava al territorio occupato originariamente dai Galati, ossia alla parte settentrionale della provincia; da questo territorio, infatti, era contraddistinta la Frigia, sebbene ambedue appartenessero alla provincia della Galazia. Questa distinzione delle varie regioni componenti la provincia è confermata dal fatta che, almeno nel sec.

            Finora è documentata la coesistenza della Licaonia, insieme con quello della Galazia che si adunava ad Ancira o a Pessinunte. La Galazia, insieme con uno scarso elemento romano, albergava una mescolanza degli invasori Celti-Galli, con Frigi e Greci precedenti abitanti del luogo.



            LICAONIA

            A Sud della regione della Galazia si estendeva la LICAONIA, altipiano a 1.000 m sul mare, fra i monti della Frigia e dell'Isauria, limitato a Sud dalla catena del Tauro e a Nord-Est dalla Cappadocia.

            Quest'altipiano contiene ampi laghi salati, come quello di Tuz. In antica la Licaonia passò sotto varie dominazioni straniere, finché i Romani la incorporarono con la provincia della Galazia, con cui rimase unita almeno fino ad Antonino Pio. Non vi è accordo neppure fra gli scrittori antichi circa l'attribuzione, o alla Frigia o alla Licaonia, dell'importante città di Iconio.

            I Romani concessero Iconio a Polemone re di Cilicia; ma presto essa riappare unita alla provincia di Galazia. L'imperatore Claudio, le concesse il nome onorifico di Claudiconium. Adriano ne fece una Colonia Aelia Hadriana Augusta Iconiensis.

            Alle falde del vulcano spento Kara Dagh si adagia la cittadina di Listra, che, dopo la morte di Aminta, era stata aggregata alla Galazia, collocandovi un presidio militare contro i ladroni delle montagne vicine. Ogni traccia di Listra si era perduta fino al 1885, quando lo Sterret ne riconobbe i ruderi presso l'odierna Katyn Serai; il solo ritrovamento archeologico di qualche rilievo è una rozza pietra da altare pagano, con una iscrizione dedicata ad Augusto dai decurioni della colonia romana.

            Apparteneva alla Licaonia anche la cittadina di Derbe, che agli inizi del sec. I dc. doveva essere un piccolo centro con presidio militare. In onore di Claudio si chiamò Claudioderbe; ceduta da Caligola ad Antioco IV re della Commagene nell'anno 38; ma poco dopo Antioco fu detronizzato dallo stesso Caligola, e successivamente rimesso in trono da Claudio nel 41.



            PISIDIA

            A Nord della Pamfilia, e della Licia, altre due piccole regioni si estendevano fra la Licaonia, la Frigia e la Caria: erano la PISIDIA nella parte occidentale, e l'ISAURIA in quella orientale. Di carattere montagnoso ma con grandi laghi.

            Nel sec. I dc. Pisidia ed Isauria, insieme con la Licaonia, fecero parte della provincia della Galazia; tuttavia conservarono, particolarmente la Pisidia, una certa autonomia amministrativa, accentuata dalla presenza di numerose colonie romane fondatevi da Augusto, quali Sagalasso, Olbasa, Comana, Cremna e Antiochia, situata in territorio frigio; i suoi ruderi sono stati ritrovati presso il villaggio turco di Yavolach, a Nord del lago di Egherdir, sopra un'altura prospiciente la catena del Sultan Dagh. La città fu fondata da Seleuco Nicatore, versa il 286 ac., sul luogo di un villaggio abitato da emigrati di Magnesia al Meandro.

            I Romani fin dal tempo di Antioco il Grande la dichiararono città libera (189 ac.), e se ne servirono come posto di frontiera. Augusto vi stabilì una colonia di veterani, e da allora il nome ufficiale fu Colonia Caesarea Antiochia. Gli scavi hanno riportato alla luce tracce del vetusto culto del dio lunare Men - diventato Lunus in latino - e di altre divinità frigie, particolarmente di Cibele. Grandi propilei e l'acquedotto ramano testimoniano ancora l'importanza della città. Fra i ricordi dell'imperatore Augusto hanno particolare valore molti frammenti delle sue Res Gestae, con i quali si è potuto completare in alcuni passi il Monumento Ancirano.



            ISAURIA

            Gli abitanti dell'Isauria erano noti per la loro ferocia, per cui i Greci prima e i Romani dopo, curarono diversi posti di sorveglianza per difendere i valichi. Dopo la morte del re vassallo Aminta (25 ac.) i romani ne presero il governo diretto.

            La sua zona costiera era a carattere cosmopolitico, mentre quella interna dell'altipiano, restava più indigena. Nei centri minori, sparsi fra le montagne della Frigia o lungo la catena del Tauro o nelle piane della Galazia, l'elemento predominante era l'indigeno, nonostante il continuo espandersi dell'ellenismo.

            Lungo la costa, invece, e in genere nelle grandi città dell'immediato retroterra, come Sardi, Pergamo, Filadelfia, Laodicea, Apamea, ecc., situate lungo le principali arterie stradali, prevaleva l'elemento greco, che in tempi lontani ne aveva fondato le città.

            Erano colonie antichissime, che avevano lottato contro la Persia, rimanendo attaccate alla madrepatria. per la comunanza di linguaggio e di cultura; giacché la più antica letteratura greca in quasi tutte le sue forme aveva avuto inizio proprio in queste colonie lontane.

            In prevalenza appartenevano ad emigrazioni di antichi Joni, onde il nome di Jonia dato abitualmente alla fascia costiera più vicina al continente europeo; ma non mancavano Dori ed Eoli.

            PONTE ROMANO DI ADARA


            SIRIA

            Confinava a Nord con il limite meridionale dell'Asia Minore (una linea ideale che andava dal golfo di Alessandretta all'Eufrate), all'Ovest col Mediterraneo, a Sud con la Palestina e all'Est col deserto arabico e con l'Eufrate.

            E' una pianura che si sviluppa sulla costa con pochi monti e un altipiano interno, a sud invece ha un profondo avvallamento fra Libano e Antilibano, che prosegue più a sud nel Ghor dove scorre il Giordano; nella parte settentrionale si elevano i monti che separano dalla Cilicia.

            Il fiume principale è l'Oronte che si allarga presso Antiochia in un ampio bacino alluvionale. La Siria fu durante millenni il necessario ponte di passaggio fra l'Egitto e le regioni Mesopotamiche, ossia fra i due centri delle più antiche civiltà umane come Byblos, Tiro; Sidone, Aleppo, ecc.

            Nel periodo greco­romano la città principale di tutta la Siria fu Antiochia sull'Oronte, col vicino porto di Seleucia; altre fiorenti città erano Apamea, Laodicea e più a Sud Damasco, tutte lungo la soglia del deserto arabo.

            Dopo il dominio persiano, la Siria divenne regno dei Seleucidi, finché dopo varie guerre passò sotto la dominazione romana. Pompeo, già in Asia, approfittò dell'anarchia generale e nel 64 ac. riorganizzò la Siria, costituendola provincia romana.

            La ricchezza naturale della Siria, e la sua posizione di confine di fronte ai Parti tradizionali nemici di Roma, conferirono a questa provincia grande importanza. Augusto nel 20 ac. vi compì un viaggio durante il quale elargì grandi favori, donando la libertà a molte città ed introducendo vari cambiamenti nell'amministrazione.

            La Siria fu provincia imperiale, il suo governatore, legatus Augusti pro pretore, aveva sotto il suo comando rilevanti forze armate per difendere i confini dai Parti e dai Nabatei, e di solito era scelto fra gli appartenenti al ceto consolare, al termine della loro carriera.

            Antiochia, sede del governatore, ebbe origini molto umili. Alla fine del sec. IV ac. Seleuco Nicatore sostituì il nome originario di Antigonia con Antiochia in onore di suo padre Antioco. I seguenti Seleucidi andarono a gara nell'abbellire la capitale; il porto di Seleucia, a soli 35 km. e di comodo accesso per la navigabilità dell'Oronte, metteva la città in comunicazione con ogni porto del Mediterraneo, mentre numerose vie carovaniere la collegavano con le immense regioni del retroterra, di là dall'Eufrate e fino all'India.

            Ma, più che città commerciale, Antiochia era il luogo del piacere. A una decina di km dalla città, dopo un susseguirsi di ville e giardini, si giungeva a Daphne, dove in mezzo a densi boschetti di lauro che era proibito tagliare, sorgeva il tempio di Apollo, con vari riti religiosi ierodulia compreasa. 

            Molti si recavano, da Antiochia e da luoghi più lontani, ad onorare Apollo ed Artemide in quel tempio privilegiato, come altri templi, del diritto di asilo, spesso con grande scandalo del cristianesimo. Dopo Roma ed Alessandria, ed esclusa anche Atene benché ormai in decadenza, nessuna città poteva contendere con Antiochia per bellezze monumentali.

            L'isoletta a settentrione, formata dall'Oronte, era ricoperta dalla splendida reggia, dimora dei re Seleucidi e poi dei governatori romani. Una lunghissima strada, la «via delle colonne», traversava da Est ad Ovest tutta la città che Erode il Grande aveva fatto lastricare di marmo e ornare con colonnati coperti per la lunghezza di venti stadi

            Un'altra strada da Nord a Sud, egualmente ornata di colonne, correva tra suntuosi edifici, abbelliti da capolavori dell'arte greca, mentre la zona meridionale e le pendici del Silpio contenevano le splendide ville dei ricchi.

            Una potente cerchia di mura, innalzate da Antioco IV Epifane, di 30 km, con torri colossali intercalate, garantiva la città. L'abbondanza di acque, che zampillavano nei ninfei, ed una sfarzosa illuminazione notturna, almeno al tempo del retore Libanio, accrescevano l'incanto. La popolazione, amante di feste e spettacoli secondo le testimonianze di Erodiano, avevano una particolare danza, propria degli Antiocheni, descritta da Luciano.



            DAMASCO

            Oggi capitale della Siria, sorge al margine del deserto, nella pianura fiancheggiata ad Ovest dai contrafforti dell'Antilibano e a Sud dal Gebel el-Aswad. Grazie ad una sapiente irrigazione, in uso già in tempi antichissimi, Damasco fu sempre circondata da orti e giardini, una vera oasi nel deserto.
            Damasco ha sempre occupato un posto importante nelle varie civiltà fin dal II millennio ac., entrando nel dominio di Roma quando Pompeo durante la campagna in Armenia la fece occupare da Lollio e Metello nel 65 ac., facendone parte della provincia romana della Siria.

            Secondo Plinio e Tolomeo Damasco appartenne alle città confederate della Decapoli e ai tempi di Adriano portò il titolo di «metropoli»; sotto Alessandro Severo divenne colonia romana, col diritto di coniare moneta. La popolazione della Siria era ellenizzata come quella dell'Asia Minore, conalcuni elementi semitici.

            Molti semiti Giudei vi giunsero dalla Palestina, sentendosi meno stranieri che in altre regioni e godendo degli stessi diritti di cittadinanza dei Greci.



            PERGAMO

            Il Regno ellenistico di Pergamo ebbe come capitale Pergamo. Venne fondato da Filetero agli inizi del III sec. a.c., capostipite della dinastia degli Attalidi, adorato poi come una divinità. Il regno si espanse in particolare dopo la Pace di Apamea, del 188 a.c., ma nel 133 a.c. l'ultimo sovrano, Attalo III, cedette il regno a Roma.


            DINASTIA DEGLI ATTALIDI

            Il primo re di Pergamo, Filetero, nel 282 a.c. si impossessò della città di Pergamo, nella Troade (Asia Minore) e dopo aver tradito Lisimaco, alla sua morte passò dalla parte di Seleuco I.

            Quando anche questi morì (280 a.c.), Filetero rimase fedele al figlio di Seleuco.

            A Filetero successe Eumene I, poi Attalo I (241-197) che rifiutò di pagare il tributo alla tribù celtica dei Galati, alleata di Antioco III seleucide. 

            Questi mossero guerra ma furono sconfitti e Pergamo conquistò molti territori seleucidi. Nel 232 a.c. con la vittoria sui Tolistobogi, altra tribù celtica della Galazia, Attalo I cacciò definitivamente i celti.

            Venne quindi stipulata una alleanza con i romani, di cui rimasero alleati dinastici e la città conobbe una notevole fioritura artistica.

            Ad Attalo I succedette Eumene II (197-159) che protesse arti e cultura, fondando la biblioteca di Pergamo ed erigendo il famoso Altare di Zeus. Nella guerra tra Roma ed Antioco III, suo figlio, Seleuco IV, assediò la città di Pergamo.

            Nel 167 a.c. si recò a Roma, vincitrice contro il re di Macedonia Perseo, ma non fu ricevuto, perchè sospettato favorevole a Perseo. Vinse contro i Galati nel 166 a.c, ma Roma li protesse e li liberò. Nel 164 a.c. venne inviato a Sardi il console Gaio Sulpicio Gallo, affinchè Eumene II non si alleasse con Antioco Epifane, sovrano del regno seleucide.

            Nel 161 a.c. ambasciatori di Prusia II di Bitinia e dei Galati, giunsero a Roma per accusare Eumene II che per discolparsi inviò il fratello Attalo II. Questi alla morte di Eumene II, salì al trono come tutore di Attalo III, ma di fatto re di Pergamo. Poi giunse a Roma nel 159 a.c., si discolpò dalle accuse dei Galati e consolidò l’alleanza con i Romani.

            Attalo II nel 156 a.c. fu costretto a difendersi da un attacco di Prusia II, re di Bitinia, che riuscì ad avvicinarsi alla stessa Pergamo. I Romani inviarono come legati, Lucio Apuleio e Gaio Petronio nel 155 a.c., che dettero ragione ad Attalo e Roma diffidò Prusia (nel 154 a.c.).


            LA PROVINCIA ROMANA

            Il Senato romano fu costretto ad inviare il console Manio Aquilio per sedare una rivolta e trasformare i suoi territori in prima provincia romana dell'Asia (129 a.c.). La repubblica romana annettè tutti i territori occidentali, esclusi gli orientali.

            Si ribellò Eumene III e organizzò una strenue resistenza con i poveri e schiavi del regno, trovando alleanze nella Misia e Caria. Roma nel 131 a.c. inviò Publio Licinio Crasso, il quale però fu sconfitto, così inviò il console romano, Marco Ebuzio Perperna, il quale riuscì invece a far prigioniero Aristonico, a impadronirsi di Pergamo e del suo tesoro.

            Ad Attalo II successe Attalo III (138-133 a.c.), che alla sua morte lasciò il regno in eredità ai Romani, come provincia romana d'Asia. Nel testamento Attalo lasciava alla città di Pergamo ed a altre città, la libertà ed i territori circostanti, oltre all'esenzione dei tributi, mentre a Roma lasciava i suoi tesori e le sue proprietà, ma soprattutto gran parte dei territori. 
            Il testamento era condizionato dall'assenso del senato romano che accettò trasformandola in provincia romana. Finì così la dinastia degli Attalidi.

            PORTA MAGGIORE

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            LA PORTA COME APPARIVA IN EPOCA IMPERIALE
            In epoca romana vi era un celebre sito, posto nel quartiere Esquilino,  che si chiamava “ad spem veterem”, cioè “alla speranza antica”, letteralmente "alla vecchia Speranza", e si riferiva ad un antico tempio innalzatovi nel 477 a.c. in onore della Dea Spes, dove  confluivano otto fra gli acquedotti, che in tutto erano 11, per rifornire d'acqua l'Urbe. Il sito era quello di Porta Maggiore, nei pressi sorgeva il tempio all'ultima Dea (Spes ultima Dea), chiamata veterem riferendosi non alla Dea ma all'antichità del tempio.

            LA PORTA ROMANA IN ORIGINE
            Porta Maggiore, così denominata a causa della sua grandezza e monumentalità, era stata costruita soprattutto per monumentalizzare l’acquedotto claudio mentre superava la via Labicana e la via Prenestina, facendo di ogni arcata dell’acquedotto un arco trionfale. Era il retaggio di Augusto che aveva stupito il mondo rivestendo la capitale di edifici colossali e marmi preziosi. Claudio, come molti imperatori, non volle essergli da meno e abbellì Roma riempiendola a sua volta di epigrafi che ricordassero le sue opere, emulo di Augusto.

            La Porta era un enorme arco a due fornici, con i pilastri che presentano delle aperture inquadrate da edicole con timpano e semicolonne in stile corinzio. L’intera costruzione è stata realizzata in travertino e segue il modello del caratteristico bugnato rustico dell’epoca in cui regnava Claudio.

            Successivamente, quando si dovette annettere la porta all’interno delle mura aureliane, proprio per volere dello stesso Aureliano nel 272 d.c., come era stato deciso anche per la Piramide Cestia e i Castra Pretoria, altri due storici monumenti, divenne ovvio usarla come porta di accesso, e fu denominata Porta Prenestina o Labicana.

            Fu poi fortificata dall'imperatore Onorio, nel 402, avanzando le due aperture verso l'esterno e fecendo costruire un bastione davanti alla porta, suddividendola in due porte distinte, la Praenestina a destra e la Labicana a sinistra, rinforzate a scopo difensivo, da torri quadrate poste ai lati e da un bastione cilindrico al centro, ed erano sormontate da finestrelle ad arco, quattro sulla Praenestina e cinque sulla Labicana.

            La nuova struttura era però asimmetrica e inelegante, a causa dei diversi livelli delle due strade (la Labicana era più in basso), per cui le torri erano disallineate e le finestre, con le relative camere di manovra, fuori piano.




            DESCRIZIONE

            La porta è realizzata interamente in opera quadrata di travertino con blocchi in bugnato rustico, secondo gli studiosi per seguire lo stile dell'epoca, ma in realtà utilizzando materiale di risulta anche se di pregio.

            FORTIFICAZIONI NEL XVIII SECOLO RICOPRONO LA PORTA
            È una grande unica struttura con due fornici, con finestre sui piloni, inserite in edicole con timpano e semicolonne di stile corinzio. Ii fornice di sinistra permetteva il passaggio della via Labicana, oggi via Casilina, e l'altro della via Prenestina.

            L’attico è diviso da tre marcapiani in tre fasce: quelle di sopra equivalgono ai canali dell’acquedotto Ania Novus (in posizione elevata) e Claudio (in posizione inferiore), cioè la parte al centro. Sono presenti sull’attico due scritte su entrambe le facciate, fatte da Claudio nella zona superiore, cioè sul canale dell’acquedotto Ania Novus, e fatte da Vespasiano per la ristrutturazione del 71 d.c. sull’acquedotto dell’aqua claudia, e sotto, la scritta di Tito alla base dell’attico, per la ristrutturazione dell’anno 82 d.c.


            L'appalto della Porta

            Dal V secolo e almeno fino al XV, è attestato come prassi normale l'istituto della concessione in appalto o della vendita a privati delle porte cittadine e della riscossione del pedaggio per il relativo transito. Il libero impero romano non esisteva più e tutto era diventato occasione di guadagni o di sfruttamento.

            SUCCESSIVA TRASFORMAZIONE CON DEMOLIZIONE
            IN PARTE DELLE STRUTTURE ANTISTANTI
            In un bando del 1467 sono specificate le modalità di vendita all’asta delle porte cittadine per un periodo di un anno. Da un altro documento, del 1474, apprendiamo che il prezzo d’appalto per la porta Maggiore era pari a ”fiorini 96, sollidi 13, den. 4 per sextaria” (rata semestrale); si trattava di un prezzo molto alto, il più caro dell’elenco di tariffe presenti nel documento, e alto doveva quindi essere anche il traffico cittadino per quel passaggio, per poter assicurare un congruo guadagno al compratore.

            Esistevano precise tabelle per la tariffa di ogni tipo di merce, ma con grandi variazioni per abusi, a giudicare dalla quantità di gride, editti e minacce che venivano emessi.

            Nel 537-538, in occasione dell’assedio dei Goti di Vitige, la porta fu chiusa, come anche altre, per limitare il numero delle aperture da difendere; ma era chiusa anche nel 966, limitatamente al fornice Labicano, che comunque sembra essere stato quasi sempre chiuso, forse già da poco dopo i lavori di Onorio.

            STAMPA OTTOCENTESCA DOPO IL RESTAURO
            DI PAPA GREGORIO XVI
            Nel 1838 papa Gregorio XVI fece finalmente restaurare la porta, demolendo la struttura onoriana, forse anche perché troppo brutta, così asimmetrica e squilibrata,  ripristinando l'antico assetto aureliano, come si precisa in un’iscrizione all'estrema sinistra.

            Ma gli archi erano così grandi, 6 m di larghezza per 14 di altezza, che l'eventuale difesa di esse diventava difficile, per cui si fece restringere le aperture con la costruzione di altrettante quinte merlate, il cui effetto estetico era paragonabile alla bruttura onoriana che si era voluta eliminare.



            IL SEPOLCRO DEL FORNAIO EURISACE

            Nel corso dell’intervento del 1838 venne in luce, rimasto inglobato nella torre cilindrica tra i due archi ed ora visibile subito fuori della porta, il sepolcro di Marco Virgilio Eurisace, fornaio e probabilmente liberto arricchito, e di sua moglie Atistia, databile intorno al 30 a.c.

            LA TOMBA DEL FORNAIO
            Il monumento rappresenta un antico forno per cuocere il pane, come testimonia l’incisione su di esso:
            “EST HOC MONUMENTUM MARCEI VERGILEI EURYSACIS PISTORIS
            REDEMPTORES APPARET “, cioè:

            Questo sepolcro appartiene a Marco Virgilio Eurisace, fornaio, appaltatore, apparitore”.
            Ciò vuol dire che egli distribuiva la sua produzione allo stato e che aveva la carica di ufficiale secondario, detto apparitore, di un uomo della magistratura o di un sacerdote.

            Il suo lavoro risulta ancora più evidente se si osserva l’urna contenente i resti della sua consorte di nome Atistia, che si trovano attualmente al museo delle terme. Essa infatti aveva la forma di una madia da pane, detta anche panarium nell’iscrizione posta sopra. Poi un fregio che si trova in tutto il sepolcro rappresenta tutti i diversi momenti della panificazione: si comincia con la pesatura e la molitura del frumento, poi si passa al setaccio della farina e alla realizzazione dell’impasto, infine si procede con la pezzatura e mettendo nel forno le forme di pane. Il sepolcro risale al periodo conclusivo repubblicano e l’inizio dell’età imperiale, circa 30 a.c. La parte centrale di esso è formata nella parte inferiore da blocchi di tufo, e nella parte superiore di cemento.
            Informazioni aggiuntive: LA TOMBA DEL FORNAIO



            LE BONIFICHE PETRIGNANI

            LA PORTA OGGI RESTITUITA ALLE ORIGINI
            Nel 1915 il Comune di Roma effettuò dei lavori per la sistemazione del piazzale, demolendo la residua struttura eretta da Gregorio XVI, ma solo nel 1956, a seguito dei lavori effettuati dall'architetto Petrignani, la porta tornò all'antico assetto originario e la piazza all'antico livello, riscoprendo il basolato della due strade e i resti dell'antiporta.

            Sulle lastre di basalto del basolato, ancora esistenti sotto la porta, sono tuttora visibili i grandi solchi lasciati dal passaggio dei carri per la Porta Prenestina sulla sinistra e per quella Labicana sulla destra. Probabilmente sempre in questo periodo fu costruita la controporta le cui tracce furono ritrovate durante alcuni lavori sul piazzale svolti poco tempo fa.


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            CULTO DI SILVIA

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            REA E MARTE

            "Il Maes ha pubblicato nel Cracas, una lettera dell'Amaduzzi all'abate Visconti, con la quale richiede notizie circa la sorte toccata alle seguenti sculture della villa. 
             « La statua di Giunone che il Boissai'do accenna come già esistente nel portico di Ottavia, e che riporta incisa in rame
             — La statua della dea Silvia, turrita, velata, polimammia, formata ad uso di termine, accennata dal Boissardo e dallo Scotto
             — La statua di Cerere riportata dal P. Montfaucon 
            — La statua di Venero col cigno, riportata dallo stesso 
            — La statua di Ercole venuta da Civita Lavinia, mentovata nei conti camerali 
            — La testa di Caracalla mentovata nei medesimi conti 
            — L'Erma d'alabastro orientale bianchissimo col petto di marmo cotognino e variegato,lodato da Boissardo 
            — Le colonne di verde mischio trovate alle acque Albule . . . 

            Si bramerebbe sapere se, essendo toccata porzione della villa Giulia al gran duca di Toscana, ed essendo andata in quella sua celebre galleria l'Erma di Eraclito, d'Aristofane, d' Isocrate, e di Cameade, come apparisce dalla raccolta dei ritratti antichi degli uomini illustri di Achille Stazio, del Fabbio e dell'Orsini, siavi andato anche quello di Milziade, che, oltre il suo nome, porta inciso anche un epigramma greco" .
            Per mala sorte la risposta ai quesiti dell'Amaduzzi non è stata trovata.



            LA DEA TURRITA

            Si parla dunque di una Dea Silvia turrita, velata, polimammia, formata ad uso di termine, accennata dal Boissardo e dallo Scotto.

            CIBELE TURRITA
            Le Dee turrite non sono molte, nel suolo italico c'era Cibele, in genere seduta su un trono con due leoni al suo fianco, o su un carro trainato da due leoni.

            Ma c'era anche la Dea Greca Tiche, personificazione della sorte, generalmente intesa in senso positivo.

            Dall’età ellenistica assunse grande importanza come forza misteriosa in grado di guidare gli eventi e venne attribuita una loro propria Tiche a ciascuna città.
            Suoi attributi erano la cornucopia, la spiga, il timone e la corona turrita. Il suo corrispettivo latino era la dea Fortuna. Pertanto a Roma anche la Dea Fortuna era turrita.

            A cosa allude il simbolo delle torri? Alla propria terra, quella atavica, quella difesa e da difendere. Questa terra è il suolo dove abitare e il suolo da coltivare, è la madre terra che dà vita, nutrimento e morte.



            LA DEA VELATA

            Chi è la Dea velata? E' la Diana, la Dea Dia, la Dea per eccellenza, insomma la Grande Madre. Fu spesso rappresentata anche dalla Iside velata.

            "Io sono colei che è, che è sempre stata e sempre sarà, e nessun uomo ha mai osato sollevare il mio velo" La Dea è mistero inconoscibile, con una parte visibile ed una invisibile.

            E' velata perchè inconoscibile, possiamo vederne le manifestazioni ma non l'essenza, anche se noi facciamo parte di essa. Ne facciamo parte ma non ce ne accorgiamo, se e quando ce ne accorgiamo sparisce la paura della morte.



            MULTIMAMMIA

            Cioè con tante mammelle, come era rappresentata anche la Diana Efesina, in qualità di nutrice di tutte le creature viventi. Torna di nuovo la triplice Dea, che dà la vita, che nutre e fa crescere uomini, animali e piante, e dà la morte a questi stessi esseri.

            Infatti è la Terra, la Dea Tellus, chiamata pure Dea Silvia, con tutti gli attributi della divinità, o Rea Silvia cioè la Dea declassata a donna.

            La Dea Silvia era anche detta Silvana, o Dea delle selve, per sottolinearne il lato selvaggio.



            FOGGIATA AD USO DI TERMINE

            Il Dio Termine, sostituito poi spesso dal Dio Hermes, cioè Mercueio, fu usato spesso nella scultura per indicare la fine di un terreno, il suo limen, il suo termine, come fosse insomma garante dei limiti della proprietà.

            Sostituito dal Dio Hermes diede luogo alle Erme, statue col busto di un personaggio edificato su un blocco di pietra parallelepipedo oppure leggermente rastremato verso l'alto. In questo modo il personaggio faceva blocco unico col terreno, indicando un sicuro riferimento con la terra.

            Pertanto la statua della Dea Silvia posta ad uso di erma indica la caratteristica terrestre della Dea, pertanto raffigurante la natura e la Dea Terra.

            MARTE E REA SILVIA (Palazzo Mattei)


            REA SILVIA

            Rea Silvia fu la madre dei gemelli Romolo e Remo, fondatori di Roma; morì sepolta viva da Amulio. Le sue vicende ci sono raccontate nel I libro Ab urbe condita di Tito Livio, in frammenti dagli Annales di Ennio e da Fabio Pittore.

            SILVIA - ANFITEATRO DI CARTAGENA
            1) Secondo una versione il Dio Marte si invaghì della ragazza e la sedusse in un bosco.
            2) Livio invece riporta che Rea Silvia venne stuprata, e che per rendere meno turpe il fatto, ne dichiarò la responsabilità del Dio.
            3) Stando al racconto di Livio, Rea Silvia era la figlia di Numitore, discendente di Enea e re di Alba Longa.

            Il fratello minore di Numitore, Amulio, usurpò il trono e, uccise i figli maschi del fratello, e costrinse Rea Silvia a diventare una sacerdotessa della Dea Vesta, per impedirle di avere una discendenza, dato che le vestali avevano l'obbligo
            della castità per trent'anni.

            Quando lo zio seppe della nascita dei due gemelli di Rea la fece arrestare e ordinò a una serva di uccidere Romolo e Remo.
            La serva, tuttavia, ne ebbe pietà, li mise in una cesta e li affidò alle acque del Tevere.

            4) Sempre Livio, racconta invece che l'ordine di gettare i gemelli al fiume venne da Amulio.
            La cesta, miracolosamente, navigò tranquilla per il fiume e si arenò nel luogo dove più tardi i gemelli avrebbero fondato Roma.



            IL NOME SILVIA

            REA SILVIA
            Il nome Silvia sarebbe derivato da Silvana, cioè Dea delle selve, il lato selvaggio della natura.

            Lo storico tedesco Niebuhr propose che il nome Rea significasse semplicemente colpevole e stesse a indicare, genericamente, la donna che aveva ceduto alla seduzione adulterina in un bosco, ma commise un enorme sbaglio, perchè Rea era l'antico nome di una titanide della mitologia greca, madre di Ade, Demetra, Era, Estia, Poseidone e Zeus.

            Questa divinità faceva parte degli Dei che precedettero gli Dei Oplimpici, Dei antichissimi dunque dei quali solo pochi sopravvissero e tra questi vi fu appunto Rea. Tale nome è stato riversato anche sulla madre di Romolo e Remo, Rea Silvia..

            L'origine è ignota. Le ipotesi proposte lo riconducono al greco antico ‘Ρεια (Rheia), forse proveniente da ρεω (rheo) "scorrere [dell'acqua]" o ρεος (rheos) "ruscello, corrente", col possibile significato di "fluente", "che scorre", oppure su ερα (era), "terra", "suolo".



            IL SOGNO DI ILIA

            Negli Annales del poeta Ennio viene chiamata col nome di Ilia. A lei è dedicato uno dei brani più lunghi che ci siano giunti del Liber I, il cosiddetto "sogno di Ilia". La lunga citazione di Ennio proviene dagli Annales (vv. 34-50 Skutsch).

            Ilia è l'altro nome con cui veniva chiamata Rea Silvia, madre di Romolo e Remo e figlia di Numitore, re di Alba.

            CIBELE
            La leggenda narra che Amulio, usurpato il trono a Numitore, avesse obbligato la nipote Ilia, a fare voto di castità come vestale, in modo che si estinguesse la dinastia.
            La giovane donna venne però fecondata dal Dio Marte e dalla loro unione nacquero i gemelli Romolo e Remo.

            Negli Annales di Ennio (versi 34-50) è riportato Il sogno di Ilia, in cui parla appunto Iliafiglia di Enea e Lavinia e futura madre di Romolo e Remo (si tratta della Rea Silvia del racconto di Livio, Ab Urbe condita I, 4).

            Il suo sogno, che produce ancora nel lettore un senso di solitudine e sgomento, preconizza il suo incontro con il Dio Marte, l'abbandono dei neonati Romolo e Remo e la loro salvezza. Il Fatum prepara sul sangue di Rea Silvia il destino glorioso di Roma.

            La vecchia tutta tremante portò in fretta una lucerna;
            mentre lei così parlava e piangeva, svegliandosi in preda al terrore:
            ‘Figlia di Euridice, che nostro padre ha tanto amato,
            la vita e le forze abbandonano tutto il mio povero corpo.
            Mi è parso che un uomo bellissimo mi trascinasse attraverso un bosco
            di salici, per rive e luoghi ignoti. E poi, sorella,
            mi sembrava di vagare da sola, con passo lento
            cercando e ricercando di te, e non riuscendo
            a trovarti — nessun sentiero solido sorreggeva il mio passo.
            Poi mi parve di sentire la voce di mio padre che mi chiamava
            dicendo: ‘Figlia mia, prima dovrai sopportare
            grandi sventure, ma poi dal fiume ti verrà la fortuna.’
            Dette queste parole, sorella, il padre scomparve,
            né, per quanto desiderato, più si offrì alla mia vista,
            benché tanto tendessi le mani verso gli spazi celesti
            del cielo piangendo, e lo chiamassi con voce amorosa.

            Alla fine il sogno mi lasciò con la pena nel cuore.”

            BASILICATA

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            METAPONTUM

            La prima colonizzazione greca in Basilicata avvenne con la costruzione di Siris, presso il fiume omonimo oggi detto Sinni, fine VIII sec. a.c., ad opera di profughi da Colofone, fuggiti in Occidente per scampare alla dominazione lidia.

            Con la fondazione di Metaponto, del 630 a.c. da parte di coloni di stirpe achea, si estende la colonizzazione a tutta la costa ionica lucana. Molti insediamenti dell'VIII-VII sec. a.c., in Vallo di Diano e in Val d'Agri, con ricche e numerose necropoli.

            Del VIII sec.a.c. è pure la necropoli di Colle dei Greci presso Latronico.

            Sul Tirreno sorge il villaggio di Capo la Timpa, quelli sul colle Palecastro di Blanda Iulia  e di Tortora e un altro  identificabile con la città di Sirinos (Rivello).

            Nella colonizzazione indigena della costa, gli Enotri sfruttarono la fondazione delle colonie greche sul Tirreno, in particolare Velia e Pyxous, per riavviare i loro commerci marittimi.

            Di Blanda ne parla Plinio ne la sua Naturalis historia, nel III libro:
            « Sul litorale Bruzio, la città di Blanda, il fiume Baletum, il porto Partenio Focenio e il golfo Vibonese »

            Plinio colloca la città nel Bruzio, tra le terre degli Osci, ignorandone l'esatta collocazione.
            Tolomeo, nella sua Geografia, pone la città di Blanda nell’interno della Lucania, nelle vicinanze di Potentia.


            BLANDA IULIA
            Tito Livio, parlando della guerra contro i Cartaginesi, elenca delle città espugnate dal console Quinto Fabio, tra cui Blanda:
            « oppida vi capta Conpulteria, Telesia, Compsa inde, Fugifulae et Orbitanum ex Lucanis; Blanda et Apulorum Aecae oppugnatea »

            Nel corso del VI sec a.c. ognuna delle due città aveva un territorio molto vasto che si estendevano nell'entroterra fino a Pisticci,  Bernalda e Montescaglioso, per Metaponto e fino a Pandosia e Montalbano Jonico, detta Siritide, per Siris.

            Per Pandosia si narra che nel 330 a.c. il re epirota Alessandro il Molosso, venne sconfitto ed ucciso dai Lucani, sulle rive del fiume Acheronte (attuale Agri). Tito Livio:

            « Trovandosi il re non molto discosto dalla città di Pandosia, vicino ai confini dei Bruzi e dei Lucani, si pose su tre monticelli alquanto, l'uno dall'altro divisi e lontani, per scorrere quindi in qual parte volesse delle terre dei nemici; aveva intorno a se per sua guardia un duecento lucani sbanditi, come persone fedelissime, ma di quella sorte di uomini, che hanno, come avviene, la fede insieme con la fortuna mutabile. 

            Avendo le continue piogge, allagato tutto il piano, diviso l'esercito posto in tre parti, in guisa che l'una all'altra non poteva porgere aiuto, due di quelle bande poste sopra i colli, le quali erano senza la persona del re, furono oppresse e rotte dalla subita venuta ad assalto dei nemici, i quali poi tutti si volsero all'assedio del re, e mandarono alcuni messaggi ai lucani loro sbanditi, i quali avendo pattuito di essere restituiti alla patria, promisero di dar loro nelle mani il re vivo o morto. 

            Ma egli con una compagnia di uomini scelti fece un'ardita impresa che urtando si mise a passare, combattendo, fra mezzo dei nemici; ed ammazzò il capitano dei lucani, che d'appresso lo aveva assaltato; ed avendo raccolto i suoi dalla fuga, tra essi ristretto, giunse al fiume, il quale mostrava qual fosse il cammino con le fresche riune del ponte, che la furia delle acque aveva menato via. 

            Il qual fiume, passandolo la gente senza sapere il certo guado, un soldato stanco ed affamato, quasi rimbrottandolo e rimproverandogli il suo abominevole nome, disse: Dirittamente sei chiamato Acheronte. 

            TOMBA SIRITIDE
            La qual parola, posciaché pervenne alle orecchie del re, incontamente lo fece ricordare del suo destino, e stare alquando sospeso e dubbio, se si doveva mettere a passare. 

            Allora, Sotimo, un ministro dei paggi del re, lo domandò che stesse a badare e l'ammonì che i lucani cercavano d'ingannarlo; i quali poiché il re vide da lungi venire alla sua volta, in uno stuolo trasse fuori la spada ed urtando il cavallo, si mise arditamente per mezzo del fiume per passare; è già uscito dalle profondità delle acque, era giunto nel guado sicuro, quando uno sbadito lucano lo passò dell'un canto all'altro con un dardo. 

            Onde essendo caduto, fu poi trasportato il corpo esamine dalle onde, con la medesima asta insino alle poste dei nemici, ove ei fu crudelmente lacerato, perché tagliato pel mezzo, ne andarono una parte a Cosenza, e l'altra serbarono per straziarla; la quale mentre era percossa da sassi e dardi per scherno, una donna mescolandosi con la turba, che fuori di ogni modo della umana rabbia incrudeliva, pregò che alquanto si fermassero, e piangendo disse: 

            Che aveva il marito ed i figliuoli nelle mani dei nemici e che sperava con quel corpo del re, così straziato come gli era, poterli ricomprare. 

            Questa fu la fine dello strazio; e quel tanto che vi avanzò dei membri fu seppellito in Cosenza, per cura di una sola donna, e le ossa furono rimandate a Metaponto ai nemici. 

            Quindi quindi poi riportate nell'Epiro a Cleopatra sua donna, e ad Olimpiade sua sorella; delle quali l'una fu madre e l'altra sorella di Alessandro Magno »



            GLI SCAVI

            Gli scavi condotti ad Alianello, Armento, Roccanova, Incoronata, Cozzo Presepe, Pisticci e Serra di Vaglio, mostrano la Lucania interna quale importante crocevia di popoli e culture diversi.

            Altro nodo importante era costituito dall'area del Melfese che, grazie al fiume Ofanto, incrociava importanti itinerari di scambi. La conferma  arriva dagli scavi delle  necropoli di Pisciolo e Chiuchiari e in quelle di Ruvo del Monte dove, i ricchi corredi funerari, presentano i segni e le influenze del mondo dauno, etrusco e greco.

            Fra il VI ed il V sec. a.c. però alcuni degli insediamenti più fiorenti, ricaduti nel potere delle città greche, scompaiono (Incoronata e Pandosia), mentre altri, soprattutto nelle zone più interne, fioriscono (Pisticci, Ferrandina, Montescaglioso, Timmari, Garaguso, Ripacandida e Satriano) con cinte fortificate e alcuni importanti santuari, presso le sorgenti e prevalentemente votati a divinità femminili.

            Le ostilità si aprono tragicamente nel 510 a.c. con la distruzione di Sibari da parte di Crotone.

            MUSEO SARTIDE


            I ROMANI

            I Romani ebbero i primi contatti con i Lucani intorno al 330 a.c, quando formarono un'alleanza a contro i Sanniti che attaccavano a norda nord. Ma i Romani trovarono la loro occasione nel 285 a.c. e poi nel 282 a.c., quando la città magno-greca di Thurii, assediata dal principe lucano Stenio Stallio
            chiese aiuto ai Romani.

            I Lucani, dapprima alleati ma successivamente ribellatisi, vennero sconfitti dalle truppe del console Gaio Fabricio Luscino, che stanziò nella città una guarnigione, come riportano i Fasti triumphales. Fabricio, console nel 282 a.c., rifiutò per due volte, nel 282 a.c. dai Sanniti, e nel 280 da Pirro, cospicui doni rivolti a corromperlo.

            Successivamente una squadra marittima romana, perlustrando il mar Ionio, entrò in conflitto con i Tarentini che, irritati, distrussero quattro navi catturandone una.

            In difesa della città ionica sbarcò a Taranto Pirro, re dell'Epiro che, appoggiato dai Lucani, Bruzzi e Sanniti ottenne una vittoria di misura nella battaglia fra Pandosia ed Heraclea nel 280 ac..
            Dopo appena quattro anni, nel 275 a.c. Pirro venne sconfitto a Maleventum e tornò in Epiro.

            MONTENURRO
            Taranto si arrese ai Romani nel 272 a.c., così il dominio della repubblica romana si estese su tutte le colonie greche dell'Italia meridionale.

            In conseguenza di ciò, nella regione lucana si ebbe un declino economico, provocato dalla politica di sfruttamento dei territori conquistati, acquisiti come suoli di proprietà dei vincitori.

            Dopo un tentativo di riscatto mediante l'aiuto fornito ad Annibale nel III sec. a.c., l'ennesima sconfitta provocò un inasprimento della sottomissione da parte dei romani e nel territorio lucano vennero dedotte le colonie di Potentia e di Grumentum, dove furono reclusi i ribelli lucani e brutii sottomessi dai romani.

            Nel II sec. a.c. i Romani operarono il prolungamento della via Appia fino a Brindisi e un tratto di acquedotto, con lo sviluppo dei centri romani sul percorso della via, tra i quali Venosa, patria di Orazio.

            A questa si affiancò la Via Popilia, che attraversava l'Appennino lucano, attraversando Sirinos e Nerulum, e una sua diramazione, che da Paestum congiungeva le colonie tirreniche Velia, Buxentum, Cesernia, Blanda Julia e Laos a Cosenza.


            Capo La Timpa
            - Età del bronzo con capanne, Età del Ferro, l’abitato si ricostituisce nel VI sec. a.c.


            Colle dei Greci
             l'altura di Colle dei Greci sembra essere stata occupata tra il VII e il V sec. a.c. da piccoli gruppi di stirpe enotria. In tale sito sono state individuate varie zone cimiteriali dalle quali sono state dissepolte a più riprese vasi di tipo greco, spade, pugnali, fuseruole, alari, statuette, elmi, ambre, bacili in bronzo.


            Tricarico 
            - prov.Matera. All'interno dell'attuale perimetro della città sono presenti testimonianze archeologiche datate al VI-V secolo a.c. (ritrovamenti nel rione dei Cappuccini, presso il cinquecentesco monastero di Santa Maria delle Grazie). Fu assoggettata dai Romani


            Grumento Nova
            - prov. Potenza - assoggettata dai Romani.


            Heraclea- prov. di Matera - assoggetata ai Romani.


            Policoro
            - prov. di Matera - assoggetata ai Romani.


            METAPONTO
            Incoronata
            - prov. Matera. L'Area Archeologica dell'Incoronata, detta anche Incoronata - San Teodoro, è un sito archeologico situato in territorio di Pisticci, in località San Teodoro, abitata a lungo dagli Enotri..
            È un'area collinare sulla riva destra del Basento interessata da scavi archeologici che hanno portato alla luce i resti di un villaggio enotro risalente al IX sec. ac.


            Metapontum  
            Metaponto - fondata da coloni greci dell'Acaia II metà VII sec. ac., come colonia della madre patria, richiesta dai Sibari per proteggersi dall'espansione di Taranto. Divenne molto presto una delle città più importanti della Magna Grecia. -Matera - Romani


            Pisticci
            area collinare sulla riva destra del Basento che hanno portato alla luce resti di un villaggio enotrio risalente al IX secolo ac.


            Rossano di Vaglio
            - prov. Potenza, area sacra che costituiva il santuario federale dei Lucani nel IV sec, ac., sorto in un'area coperta di fitti boschi e in prossimità di una sorgente, alla congiunzione di diversi tratturi.
            Il santuario era dedicato a Mefite, Dea osca alla quale veniva attribuito un potere taumaturgico legato alle acque. Al culto della Dea era affiancato anche quello del Dio Mamerte, testimoniato dalle iscrizioni.


            Serra di Vaglio
            - prov. di Potenza - Lucani


            Siris 
            - nata sulla riva sinistra del fiume Sinni nei pressi della foce, al confine tra il comune di Policoro e quello di Rotondella (Matera) - Magna Grecia


            Tortora
            giacimento preistorico all'aperto risalente al Paleolitico Inferiore datato a circa 150.000 anni fa, uno dei più antichi siti preistorici italiani. In questo sito sono stati rinvenuti un migliaio di strumenti litici.

            AUGUSTA BAGIENNORUM - BENE VAGIENNA (Piemonte)

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            Augusta Bagiennorum fu fondata in età romana do un'antica cittadella celtica. l'oppidum del dei Liguri Bagienni, alla fine del I sec. a.c. pressochè insieme all'Augusta Taurinorum (Torino) e ad Augusta Praetoria (Aosta), e, Regio IX dell’ordinamento augusteo, costituì insieme ai centri di Pollentia (Pollenzo) e di Alba Pompeia (Alba) i centri romani dell'organizzazionee e dello sfruttamento del territorio.

            Il centro era diimportanza strategica per il controllo del transito tra la pianura padana, le valli degli affluenti del Po ed i valichi alpini, asse viario di collegamento tra la valle del Tanaro e Pedona (Borgo San Dalmazzo), sede della Quadragesima Galliarum, e quindi con il valico della Maddalena.

            AUGUSTA BAGIENNORUM
            L’originaria Bene Vagienna, capitale dei liguri bagienni, divenne municipium romano e prese il nome di Julia Augusta Bagiennorum.

            Il centro sorgeva su un pianoro, a nord del torrente Mondalavia e i suoi resti sono in parte visibili in frazione Roncaglia, con un foro cittadino, un teatro, un anfiteatro, un tempio, le terme e l'acquedotto. Era una delle più importanti città dell'Italia Nord-Occidentale, indicata dai Romani come Gallia Cisalpina.

            I primi incontri con Roma avvennero nel III sec. a.c  con battaglie e trattati ma solo verso la metà del II sec. a.c. vennero sottomessi dai Romani, anche se la guerra continuò a causa delle lotte tra Mario e Silla. Tarde e scarse notizie si hanno dell'epoca dell'Impero e delle età successive.

            RICOSTRUZIONE DEL FORO
            Caduta lall’epoca delle invasioni barbariche, Augusta venne seppellita dal tempo e nella memoria, e solo nel 901, si ritrova il primo documento della storia medievale di Bene, chiamata poi Bene Vagienna dal 1862.

            Fu infatti in una pianura delimitata dalla Stura e dal Tanaro che Giuseppe Assandria e Giovanni Vacchetta, due studiosi locali, iniziarono le ricerche e con ripetuti scavi reperirono un primo rilievo della antica città sepolta sotto poco più di 50 cm. di terra. I due benemeriti riportarono alla luce Augusta tra il 1894 e il 1925, scoprendo un vasto sito capace di ospitare nelle varie epoche da 5.000 a 17.000 abitanti.



            DESCRIZIONE

            Citata da Plinio il Vecchio, la città non sembra, allo stato attuale delle indagini, essere stata fondata su un insediamento preromano. Augusta era edificata sul ciglio di una parete scoscesa scavata da un piccolo torrente, creando così da quel lato un'ottima difesa naturale. Non si conosce il modo ed il periodo della sua distruzione, se violenta o progressiva; è certo però che le massime distruzioni dei suoi resti avvennero a causa dell'asportazione del materiale laterizio.

            Solo una ristretta parte di Augusta è oggi visitabile. La città ricopriva infatti una superficie di 21 ettari sulla Piana della Roncaglia, e la via che inizia dalla chiesa quattrocentesca di San Pietro, edificata sui resti  dell’acquedotto romano, corrisponde per un tratto al decumano massimo traversando una necropoli con resti di monumenti funerari, fino alla porta decumana che si apre sul Foro.

            La città era cinta di mura, delle quali sono state ritrovate due porte e quattro torri formanti gli angoli di un trapezio costituente il perimetro della città.

            Il reticolato stradale mostra isolati non sempre uguali dei quali alcuni misurano m 100 x 80, quindi di dimensioni notevoli.

            Il decumano massimo, di cui si conserva parte del basolato, traversava il centro della città passando per il foro e davanti al tempio principale. Il Foro si apre davanti al tempio ed è circondato da un largo marciapiede rialzato nonchè da un portico che si snoda sui due lati più lunghi.

            Lo spazio forense, collocato nel settore centrale dell’impianto urbano, era articolato in tre parti, tempio-piazza-edificio civile, secondo lo schema classico romano, con una piazza rettangolare di m 115 x 36.

            Circondavano la piazza vari edifici pubblici, fonora poco esplorati, quali le terme a sud e la basilica posta sul lato corto orientale del foro, mentre sul lato breve occidentale, era l’area sacra dove si ergeva il complesso del Capitolium o Tempio Maggiore, dedicato alla triade capitolina. Ad est del Foro e della basilica sorgevano il teatro e altri edifici. Sono ono  riconoscibili vari ambienti e sale aperte sul portico, con ricchi e vari decori, con intonaci dipinti a colori vivaci, con traccia di fregi ornamentali, probabilmente si trattava di botteghe.



            ANFITEATRO

            Augusta Bagiennorum aveva un anfiteatro per spettacoli vari, compresi i gladiatori. Dell’edificio che sorgeva all’esterno delle mura, lungo una delle vie di accesso alla città, è visibile il settore ovest su cui stanno operando gli archeologi.

            Costruito su un terrapieno artificiale subito dopo la fondazione della colonia ed utilizzato per tutto il II secolo d.c.., aveva una cavea ellittica  di m 105 x 77, divisa in due ordini di gradinate e delimitata da un muro perimetrale, conservato in elevato per circa due metri, cui si addossava all’esterno un prospetto ad archi, per accogliere pubblico e taberne.



            IL MUSEO

            BASILICA CRISTIANA VII VIII SEC.
            In paese, il Museo Civico Archeologico, raro esempio di allestimento d’inizio ‘900, e situato nel centro storico, ne conserva i reperti. Al primo piano comprende la Sala Assandria, già allestita agli inizi del Novecento, per ospitare i reperti provenienti dagli scavi di Augusta Bagiennorum.
            Vi sono murati gli stipiti in marmo di due delle tre porte che decoravano la scena del teatro, oltre a frammenti architettonici in marmo e stucco (cornici, capitelli, ecc.), antefisse in terracotta, epigrafi e laterizi con bollo provenienti da vari edifici della città antica.
            Al centro, una grande vetrina conserva i corredi delle sepolture rinvenute nella necropoli meridionale (I secolo d.c.), ceramica fine (Terra sigillata) e di uso comune, vetri, lucerne, utensili ed oggetti di ornamento (fibule, anelli, appliques) in bronzo, monete, oltre ad alcune teste in marmo, tra cui un'ermetta di Sileno e statuette in bronzo di piccole dimensioni (Mercurio nell’iconografia sia stante sia seduto, una pantera e un pavone).
             Al piano terreno, una manica con tre sale sarà dedicata al territorio ed alla città, vista attraverso i monumenti pubblici meglio conosciuti (teatro, anfiteatro, tempio) e i documenti della vita quotidiana (anfore, ceramica, suppellettile di vario genere).

            IL MANIPOLO

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            Il Manipolo era formato da due Centurie, comandato da un centurione detto Prior e composto da 120 legionari Hastati della prima linea, altrettanti Principes che formavano la seconda linea e da 60 Triari (della terza fila della legione).

            Secondo la tradizione, la tattica manipolare fu introdotta nell'esercito romano dall'eroe romano Marco Furio Camillo. Il manipolo rimase l'unità base dell'esercito fino alla II guerra punica, fino alla riforma di Gaio Mario che creò una nuova unità detta cohors cioè la coorte ovvero l'unione di tre manipoli.



            LA GERARCHIA

            Gradi superiori (comando):
            • legatus legionis
            • praefectus legionis (per le legioni di Egitto e Mesopotamia)
            • procurator pro legato
            • tribunus angusticlavius
            • tribunus laticlavius
            • praefectus castrorum
            • praefectus fabrum

            Gradi intermedi (ufficiali):
            • primus pilus
            • centurio
            • decurio (dal III secolo d.c.) 

            Sotto-ufficiali - principales:
            • optio
            • discens
            • aquilifer
            • imaginifer
            • campidoctor
            • cornicularius
            • signifer e vexillifer
            • tubicen
            • cornicen
            • bucinator
            • beneficiarius
            • medicus
            • tesserarius
            • evocatus 

            Gradi inferiori (soldati semplici o munifex e  immunes):
            • miles munifex
            • eques legionis
            • architectus
            • ballistarius
            • custos armorum
            • decanus
            • frumentarius
            • librarius
            • mensor
            • sagittarius
            • speculator

            Comandi minori complementari:
            • cavalleria legionaria
            • genio militare
            • personale medico 

            Struttura Unità:
            • contubernium
            • centuria
            • manipolo
            • coorte
            • vexillatio 

            Varie Armi ed armature per la difesa:
            • elmo
            • lorica hamata
            • lorica manica
            • lorica musculata
            • lorica segmentata
            • lorica squamata
            • scutum 
            • gladius
            • hasta
            • pilum
            • pugio
            • spatha


            CENTURIE

            Erano una suddivisione della legione romana, creata come unità tattica elementare per ottenere un ordinamento articolato della legione su 3 linee distanziate; ogni m. fu costituito con 2 delle 60 centurie che formavano la legione: questa ebbe così 30 m., 10 per ciascuno dei 3 ordini degli astati, principi e triari.
            Il m. dei 2 primi ordini era formato da 120 uomini, quello dei triari da 60: aveva 2 centurioni (uno per ciascuna centuria), dei quali quello di destra (centurio prior) comandava l’intero manipolo.
            I m. si numeravano con l’ordinale, da I a X, per cui le centurie erano indicate come 1a e 2a del manipolo.



            IL TERMINE MANIPOLO

            Il termine Manipulus indica letteralmente una manciata di fieno o di spighe, come quello che nella mietitura a mano veniva afferrato di volta in volta dal mietitore.

            Con questa parola s'indicava anche una suddivisione della legione romana ( Ovidio, Fasti, III, 187)  creata come unità tattica elementare quando nell’esercito romano si rese evidente la necessità di un ordinamento articolato della legione su 3 linee distanziate; ogni m. fu costituito con 2 delle 60 centurie che formavano la legione: questa ebbe così 30 m., 10 per ciascuno dei 3 ordini degli astati, principi e triari..

            Il Primipilo Centurione capo della prima centuria della prima schiera dei pili (o triari) era il più elevato rango dei centurioni della legione, che partecipava con il legato e i tribuni al consiglio di guerra del generale. Nell’esercito romano, il portatore delle insegne delle coorti e centurie, si distingueva dall’aquilifero (che portava l’aquila della legione) e dall’immaginifero (che portava l’immagine dell’imperatore).

            Il m. dei 2 primi ordini era formato da 120 uomini, quello dei triari da 60: aveva 2 centurioni (uno per ciascuna centuria), dei quali quello di destra (centurio prior) comandava l’intero manipolo.

            I m. si numeravano con l’ordinale, da I a X per ogni ordine; le centurie erano indicate come I e II del manipolo. Quando l’ordinamento per coorti sostituì quello manipolare, i 3 m. dei 3 ordini dello stesso numero formarono la coorte, ma il m. rimase distinto anche per funzione tattica. Il m. non è più ricordato dopo il 3° sec. d.c



            GUERRA ANNIBALICA

            Dopo la terribile sconfitta di Canne del 216 a.c., ci si rese conto che l'esercito romano non poteva più basarsi sulla sola fanteria pesante posta al centro dello schieramento, ma bisognava rafforzare i reparti di cavalleria ai fianchi, per non essere circondati dal nemico.

            Annibale era riuscito ad annientare un esercito romano tre volte superiore, usando magistralmente la cavalleria. Durante la battaglia il centro cartaginese, che aveva assorbito la carica romana indietreggiando, aveva consentito che i suoi lati si allungassero. I Romani, avanzando centralmente, avevano creduto di poter sfondare facilmente la formazione avversaria.

            Frattanto la cavalleria punica, nettamente superiore in numero e per qualità tattiche quella romana, la annientava. E mentre la fanteria romana si incuneava pericolosamente al centro dello schieramento cartaginese, la cavalleria punica circondava la fanteria romana e la caricava da dietro. 80.000 soldati romani persero così la vita nello scontro. La peggior sconfitta dell'intera storia romana.

            - Il riscatto si ebbe nella battaglia di Zama, dove Publio Cornelio Scipione si trovò per la prima volta in netta superiorità numerica come  cavalleria, 4.000 dei quali forniti dall'alleato numida, Massinissa.
            La battaglia iniziò con una carica cartaginese di 80 elefanti da guerra per sfondare al centro lo schieramento romano. Allora Scipione pose i triarii  nelle retrovie, lasciando i velites schierati, per evitare che Annibale si accorgesse che principes ed hastati erano disposti "in colonna", lasciando tra i  manipoli dei corridoi per infilarci la carica degli elefanti. Esaurito l'impeto della carica, i legionari affrontarono i veterani di Annibale, schierati dietro le prime file. Scipione fece serrare i ranghi per sopportare l'urto della fanteria pesante, mentre la cavalleria attaccava le ali avversarie. Questa prima disposizione tattica fu l'antecedente delle cohorti vere e proprie.



            GUERRA SANNITICA

            Ai tempi della III guerra sannitica, i Sanniti avevano un esercito molto simile a quello romano, tanto che Livio parlava di “legioni” sannite organizzate in coorti di 400 uomini, combatteva in manipoli e aveva un'ottima cavalleria.

            « lo scudo sannitico oblungo non faceva parte del nostro equipaggiamento nazionale, né avevamo ancora i giavellotti, ma si combatteva con scudi rotondi e lance.  Ma quando ci siamo trovati in guerra con i Sanniti, ci siamo armati come loro con gli scudi oblunghi e i giavellotti e copiando le armi nemiche siamo diventati padroni di tutti quelli che avevano una così alta opinione di se stessi. »
            (Ineditum Vaticanum, H. Von Arnim (1892), Hermes 27: 118.)

            I successi iniziali dei Sanniti sul terreno montuoso, confermano come essi usassero un ordine di battaglia flessibile e aperto, piuttosto che schierare una falange serrata. 
            Nel corso della guerra contro i sanniti, intorno al 340 a.c., i romani sostituirono la falange oplitica, di  grande forza d'urto ma poco manovrabile, con i manipoli, che se occorreva potevano combattere anche da soli, e che resteranno la struttura dell'esercito romano per alcuni secoli, fino alle coorti. L'equipaggiamento del soldato, uguale per tutti, ora consisteva in :
            • una spada da punta e da taglio, 
            • una corazza, 
            • l'elmo 
            • gli schinieri, 
            • lancia da getto (pilum), 
            • quella da urto (hasta) viene lasciata solo alla terza fila dello schieramento (i triarii) 
            • si sostituisce lo scudo rotondo di bronzo con uno rettangolare in legno.
            Inoltre i manipoli delle prime due linee (principes e hastati) si schierarono su un fronte di 12 uomini per una profondità di 10, quindi un totale di 120 uomini.
            In combattimento le centurie di ogni legione si disponevano in numero di 20 per linea, cioè in 10 manipoli di 120 uomini ciascuno.
            La legione era composta in genere di circa 4.000 uomini, ma poteva arrivare anche a 6.000.

            L'armamento era uguali per tutti. L'esercito romano era molto forte non solo a motivo della capacità di risolvere prontamente i limiti tattici e strategici, ma anche perché era un esercito di cittadini, non di mercenari, ed era anche un esercito di alleati (latini e italici, almeno sino al II sec. a.c., poi chiunque poté diventare alleato). Agli alleati spesso venivano assegnati compiti specifici sulla base delle loro abilità o specialità tradizionali: p.es. i cretesi venivano impiegati come arcieri, gli spagnoli come frombolieri ecc.

            I romani non creavano reparti con uomini della stessa etnia, ma gli alleati erano mescolati con diverse provenienze onde evitare che si amalgamassero troppo tra loro e si ribellassero.

            Le truppe ausiliarie raddoppiavano gli effettivi di una legione, al punto che tra romani e alleati il potenziale umano mobilitabile era di circa 800-900.000 soldati (circa il 6-7% degli arruolabili era annualmente sotto le armi). Fino al II sec. a.c., non si avevano più di due legioni per console, anche se in alcuni momenti delle guerre puniche arrivarono a oltre 20 unità.

            I consoli comandarono sulle legioni solo fino al I sec. a.c., dopodiché vennero sostituiti dai tribuni che sceglievano i centurioni, di solito di bassa estrazione, ma con esperienza e bravi nel comando, che erano responsabili della disciplina, dell'addestramento e del comando di ogni centuria.

            Nacquero così le prime colonie di veterani, e la romanizzazione delle province. Durante la fase espansionistica il soldato prendeva un denario al giorno e partecipava, in misura crescente del suo grado, alla spartizione del bottino. Un centurione poteva arrivare a più di 100 denari al mese; un tribuno a più di 200. Quanto più militava nell'esercito, tanto più la terra lavorata in Italia veniva abbandonata e tra i lavoratori agricoli aumentava la proletarizzazione dei ceti più deboli.

            La legione ebbe 30 manipoli, distinti in 10 manipoli di hastati, 10 di principes, 10 di triarii; le centurie degli hastati e dei princeps comprendevano ciascuna 60 soldati (un manipolo 120), mentre le centurie dei triarii comprendevano 30 soldati (un manipolo 60). Il numero dei cavalieri fu fissato a 300, divisi in 10 squadroni ciascuno di 30 uomini, suddivisi a loro volta in 3 decurie di 10 uomini ciascuna.

            Non fu più il censo, ma l'età ad assegnare ai soldati il rispettivo posto: infatti i più giovani formavano la prima linea di hastati, gli uomini fatti la seconda linea di principes, i più anziani la terza linea di triarii. Per quanto riguarda l’armamento, gli hastati, i principes ed i triarii avevano in comune un elmo di bronzo con pennacchio (crista) molto alto e diritto, formato da penne rosse o nere o da una coda equina, la corazza a maglie di ferro o un pettorale di bronzo fissato ad un corsetto di cuoio, lo scutum al posto del clipeus e gli schinieri, che coprivano le gambe dal ginocchio in giù.

            Come armi offensive avevano in comune il gladius; oltre questo, gli hastati ed i principes avevano il pilum ed i triarii l'hasta. Ma dovette esserci senz'altro un tempo in cui gli hastati avevano l'asta, da cui deriva il loro nome; i triarii, detti anche pilani avevano il pilum; e i principes, cioè “i primi” erano schierati in prima linea. L'armamento dei triarii può essere ricondotto a quello della fanteria pesante della falange oplitica.



            ORDINE DI MARCIA DEL MANIPOLO DURANTE LA REPUBBLICA
             (350 a.c. circa)


            Polibio informa l'ordine di marcia "base" dell'esercito romano consolare, formato da due legioni romane e due di alleati (socii):
            UNA LEGIONE
            • in testa alla "colonna" un'avanguardia di soldati scelti tra le truppe alleate (socii delecti), 
            • poi seguiva l'ala dextra sociorum, 
            • poi i bagagli alleati (impedimenta sociorum alae dextrae), 
            • la legio I consolare, 
            • i bagagli legionari (impedimenta legionis I), 
            • la legio II consolare, 
            • i bagagli legionari (impedimenta legionis II), 
            • poi i bagagli alleati (impedimenta sociorum alae sinistrae) 
            • infine l'ala sinistra sociorum.
            Polibio,  Floro e Cesare, riferiscono però che durante  il I anno della guerra annibalica e il II anno delle guerre cimbriche, e pure il III della conquista della Gallia, si fece uso di un ordine a tre differenti "colonne" o "linee", ciascuna costituita rispettivamente da manipoli di hastati (I colonna,o I linea), principes (II colonna) e triarii (III colonna), intervallati con i rispettivi bagagli (impedimenta). In caso di necessità i bagagli sfilavano sul retro della terza colonna di triarii, mentre l'esercito romano si trovava già schierato.

            « In un altro caso gli hastati, i principes e i triarii formano tre colonne parallele, i bagagli di ogni singolo manipolo davanti a loro, quelli dei secondi manipoli dietro i primi manipoli, quelli del terzo manipolo dietro il secondo, e così via, con i bagagli sempre intercalati tra i corpi di truppa. Con questo ordine di marcia, quando la colonna è minacciata, possono affrontare il nemico sia a sinistra sia a destra, e appare evidente che il bagaglio può essere protetto dal nemico da qualunque parte egli appaia. Così che molto rapidamente, e con un movimento della fanteria, si forma l'ordine di battaglia (tranne forse che gli hastati possono ruotare attorno agli altri), mentre animali, bagagli e loro accompagnatori, vengono coperti dalla linea di truppe durante la battaglia. »
            (Polibio, Storie, VI, 11-14.) 



            IL CAMPO O CASTRUM

            « Pirro re dell'Epiro, per primo raccolse l'esercito all'interno di una struttura difensiva. I Romani, quindi, che lo avevano sconfitto ai Campi Ausini nei pressi di Malevento, una volta occupato il suo campo militare ed osservata la sua struttura, arrivarono a tracciare con gradualità quel campo che oggi a noi è noto. »
            (Sesto Giulio Frontino, Stratagemata, IX, 1.14.)

            Ma i romani non solo copiarono il campo ma ne crearono un altro: l'accampamento militare da marcia fortificato, per proteggere le armate romane al suo interno, un accampamento che veniva montato e smontato durante i periodi di marcia, con grande capacità, forza e velocità.



            ASSEDI

             - Nel 250 a.c. nell'assedio di Lilibeo si esplicarono tutte le tecniche d'assedio apprese durante le guerre pirriche, tra cui torri d'assedio, arieti e vinea. Le macchine da lancio invece furono introdotte dalla prima guerra punica, poichè i Cartaginesi avevano imponenti mura e potente artiglieria.

             - Nel 214-212 a.c. i Romani dovettero affrontare l'assedio di Siracusa, ad opera del console Marco Claudio Marcello, scontrandosi con le tecniche innovative difensive adottate dal famoso matematico Archimede, che preparò la difesa della città, lungo 27 km di mura difensive, con nuovi mezzi d'artiglieria: baliste, catapulte, scorpioni, manus ferrea e specchi ustori.

            MANUS FERREA
            « I Romani, allestiti questi mezzi, pensavano di dare l'assalto alle torri, ma Archimede, avendo preparato macchine per lanciare dardi a ogni distanza, mirando agli assalitori con le baliste e con catapulte che colpivano più lontano e sicuro, ferì molti soldati e diffuse grave scompiglio e disordine in tutto l'esercito; quando poi le macchine lanciavano troppo lontano, ricorreva ad altre meno potenti che colpissero alla distanza richiesta. 

            Quando i Romani furono entro il tiro dei dardi, Archimede architettò un'altra macchina contro i soldati imbarcati sulle navi: dalla parte interna del muro fece aprire frequenti feritoie dell'altezza di un uomo, larghe circa un palmo dalla parte esterna: presso di queste fece disporre arcieri e scorpioncini e colpendoli attraverso le feritoie metteva fuori combattimento i soldati imbarcati. 

            Quando essi tentavano di sollevare le sambuche, ricorreva a macchine che aveva fatto preparare lungo il muro e che, di solito invisibili, al momento del bisogno si legavano minacciose al di sopra del muro e sporgevano per gran tratto con le corna fuori dai merli: queste potevano sollevare pietre del peso di dieci talenti e anche blocchi di piombo. 
            Quando le sambuche si avvicinavano, facevano girare con una corda nella direzione richiesta l'estremità della macchina e con una molla scagliavano una pietra: ne seguiva che non soltanto la sambuca veniva infranta ma pure la nave che la trasportava e i marinai correvano estremo pericolo. »
            (Polibio, Le Storie, VIII, 5.)

            L'assedio si protrasse per ben 18 mesi, tanto che la parte filoromana architettò il tradimento, aprendo ai Romani in piena notte i cancelli della zona nord della città. Siracusa cadde e fu saccheggiata, non però la vicina isola di Ortigia, ben protetta da altre mura, che resistette ancora per poco. In quell'occasione trovò la morte anche il grande scienziato siracusano Archimede, che fu ucciso per errore da un soldato.

             - Nel 212-211 ac. durante la II guerra punica, seppure Annibale avesse minacciato di assediare la stessa Roma:
            « I Romani che erano assediati da Annibale e a loro volta assediavano Capua, disposero con decreto che l'esercito mantenesse quella posizione, fin quando la città non fosse stata espugnata.»
            (Frontino, Stratagemata, III, 18, 3.)
            Così Annibale, constatato che le difese di Roma erano assai forti e gli assedianti romani di Capua non "rompevano l'assedio", abbandonò la città campana, che cadde poco dopo in mano romana.

             - Nel 209 a.c., nel mezzo della II guerra punica, Publio Cornelio Scipione riuscì ad espugnare Cartagine, dove al suo interno furono trovate macchine da lancio per 120 catapulte grandi, 281 piccole, 23 baliste grandi e 52 piccole, e molti scorpioni.

            - Nel 146 a.c. durante la III guerra punica, Appiano di Alessandria narra che i soldati di Publio Cornelio Scipione Emiliano, catturarono più di 2.000 macchine da lancio tra: catapulte, baliste e scorpioni nella sola capitale cartaginese.

            - Negli anni 134-133 a.c. a Numanzia, il console Publio Cornelio Scipione Emiliano, eroe della III guerra punica, dopo aver saccheggiato il paese dei Vaccei, cinse d'assedio la città. L'armata comandata da Scipione era integrata da un nutrito contingente di cavalleria numidica, fornita dall'alleato Micipsa, al cui comando si trovava il giovane nipote del re, Giugurta. Scipione si adoperò per rincuorare e riorganizzare l'esercito scoraggiato dall'ostinata ed efficace resistenza della città ribelle; poi, nella certezza che la cittadella poteva essere presa solo per fame, fece costruire un muro di 10 km tutto intorno per bloccare a Numanzia qualsiasi rifornimento. Affinchè gli Iberi non le prestassero aiuto obbligò la città di Lutia alla sottomissione e alla consegna di ostaggi. Dopo quasi un anno di assedio, i Numantini, ridotti alla fame, sapendo che Scipione avrebbe accettato solo una resa incondizionata, assalirono con disperazione le fortificazioni romane, quindi si dice, essi stessi bruciarono la città suicidandosi. I resti dell'oppidum furono rasi al suolo come Cartagine pochi anni prima.

             - Seppure la cavalleria non fu mai l'arma principale nello schieramento romano, crebbe di importanza dopo l'esito vittorioso di Zama. I cavalieri romani, spesso ausiliari alleati, si rivelarono fondamentali ad esempio nel corso della conquista della Gallia di Cesare. 
            Durante l'assedio di Alesia, quando sembrò che le sorti della battaglia erano pari, Cesare, a sorpresa, inviò lungo un fianco dello schieramento gallico la cavalleria germanica, la quale riuscì non solo a respingere il nemico, ma a far strage degli arcieri che si erano mischiati alla cavalleria, inseguendone le retroguardie fino al campo dei Galli. L'esercito di Vercingetorige che si era precipitato fuori dalle mura di Alesia, fu costretto a tornare all'interno della città, quasi senza colpo ferire.


            IL TRIBUNO QUINTO CECIDIO ( 258 a.c. )

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            CATONE IL CENSORE ( premessa )

            L'opposizione di Catone ai brillanti e innovativi Scipioni e alla cultura greca ne fa arguire un'intransigenza moralistica e caparbia. Catone non mise in discussione il ruolo dirigente degli aristocratici, ma volle riformarlo nei contenuti morali. Egli vedeva nell’ascesa e nel culto di singoli individui un pericolo per la comunità, in quanto il potere e il successo conseguiti nel coso dei secoli da Roma non erano dovuti al valore di pochi condottieri, ma al valore di tutto il popolo.

            TRIBUNO ROMANO
            In realtà Roma si era distinta per i suoi valorosi e intelligenti generali che con lungimiranza avevano saputo fare strategie, combattere e addestrare le truppe. Impedendo la loro ascesa si metteva in ombra la loro competenza e la possibilità di sfruttarla.

            Catone era contro il culto del personaggio, era contro le donne, contro la gloria e i meriti dei più bravi, ed era contro il lusso causa secondo lui della degenerazione dei costumi. Egli esaltava la parsimonia, la moderatezza, l’esperienza della campagna, il disinteresse nell’esercizio delle cariche pubbliche, la resistenza al lavoro e alla fatica e ne faceva la base per lo sviluppo e il mantenimento di una società sana e forte. Ma era contrario alla libertà femminile, al mostrarsi in pubblico agghindate mentre le avrebbe volute murate in casa come ai vecchi tempi.

            Inoltre odiava la diffusione del culto ellenistico, perché esaltava le individualità, perchè si poneva domande anzichè accettare di sana pianta le tradizioni, perchè apprezzavano la bellezza e il nudo femminile e cercavano il gusto estetico anzichè la sobrietà spartana.

            Catone rifiutò di celebrare dunque le grandi personalità che si erano distinte nel corso delle guerre di Roma, come era invece uso comune anche nei carmina convivalia, da parte degli esponenti dell'aristocrazia.
            Cicerone:
            "Nelle Origines, quell'autorevolissimo scrittore che è Catone ci dice che ai banchetti dei nostri antenati vigeva questa usanza: quelli che sedevano dovevano cantare a turno, accompagnati dal flauto, le nobili imprese e le virtù dei grandi uomini, Questa è una prova evidente che anche allora esistevano la musica e la poesia."Egli invece, polemicamente e con una punta di invidia, evitò di citare i nomi di qualsiasi condottiero o magistrato, limitandosi a riportarne la qualifica istituzionale.

            Catone riproponeva così l'interpretazione della storia romana, come realizzazione operata da un intero popolo tramite la graduale instaurazione di un solido sistema statale. Sembra che in tutta l'opera Catone nominasse solamente l'oscuro tribuno militare Quinto Cedicio, che diviene nel suo eroismo il simbolo dell'intero popolo romano e portatore dei valori tradizionali.

            Nelle Origini Catone infatti narra come il tribuno militare Quinto Cecidio, durante le operazioni in Sicilia della prima guerra punica, propose di distogliere l'attenzione del nemico con un manipolo di quattrocento uomini votati alla morte e si offri volontario per il comando del manipolo. L'azione diversiva permise al console di portare in salvo l'esercito che si trovava in posizione sfavorevole e Cecidio, stando a Catone, si salvò miracolosamente nonostante le molte ferite.




            QUINTO CECIDIO

            Siamo dunque nel 258 a.c., in era repubblicana, e la guerra è iniziata da 8 anni, Roma combatte i cartaginesi in Sicilia, probabilmente poco prima della Battaglia di Erice, e le legioni romane si vengono a trovare in posizione sfavorevole e pericolosa.
            Il console Caio Sulpicio Patercolo è in una situazione addirittura disperata occupando con le truppe una stretta pianura costiera, fronteggiata da un'altura tenuta dai cartaginesi. I romani erano intrappolati, per giunta in estate col caldo che aumentava di ora in ora. Romani e punici attendevano la mossa dell'avversario prima di combattere, ma non appena i romani fossero avanzati, i cartaginesi li avrebbero bersagliati dall'alto e attaccati con maggiore slancio scendendo di corsa. Se invece i punici fossero rimasti fermi sul colle, per i romani sarebbe stata dura farli sloggiare. Oppure i cartaginesi avrebbero bloccato i romani fra la loro posizione e il mare fino a che i capitolini si fossero stufati e avrebbero dovuto attaccare per non morire di sete.

            Al che il valoroso tribuno Quinto Cecidio, in un atto di assoluta dedizione alla Patria ed alla Repubblica, si offrì per guidare una manovra diversiva che impegnasse i cartaginesi e permettesse al grosso dei romani di disimpegnarsi. Chiesti al console 400 uomini, Cedicio si staccò dallo schieramento romano, occupò la collina più bassa e si fece massacrare dai cartaginesi, che, alquanto imprudentemente, attaccarono subito e tutti insieme il manipolo di valorosi romani, abbandonando la loro favorevole posizione. Nel frattempo Patercolo, guidò le legioni in colonna, occupando il colle tenuto fino a poco prima dai cartaginesi. Ora erano i romani ad essere in vantaggio e ad aver bloccato i nemici.

            Narra Gellio:
            "Un comandante cartaginese in terra siciliana, durante la Prima Guerra Punica, sopravanzò tanto celeramente l'esercito romano da occupare per primo i colli e i luoghi più ideonei alla battaglia. Un certo tribuno romano venne (allora) dal console per mostrargli quanto insidioso fosse il luogo dove i romani si erano schierati. Disse al comandante: "Se desideri conservare il comando ordina che 400 soldati occupino il monte meno elevato. Una volta avanzati i nemici, e quando (gli stessi) avranno visto ciò, si affretteranno per combattere dalle loro posizioni favorevoli contro di loro. Nel frattempo, mentre i nemici saranno occupati in quel massacro, avrai il tempo di far marciare le truppe su una posizione più vantaggiosa. Non c'è altra via di salvezza se non questa". Rispose il console: "Ma chi mai sarà colui che condurrà questi 400 uomini?". "Se non troverai nessuno tra gli altri (6 tribuni della legione), io sono pronto: per questa cosa offro la mia vita a te ed alla Repubblica". Il console espresse al tribuno ringraziamenti e lodi. Il tribuno e i restanti (400) soldati tenuti come riserva andarono incontro a morte certa."

            Comunque Cecidio sopravvisse, rinvenuto ferito, dopo che l'esercito romano aveva vinto i cartaginesi, sotto un monte di cadaveri. Curato attentamente fece poi ritorno a Roma dove venne premiato con una corona d'oro, la cosiddetta corona triumphalis assegnata solitamente al generale vittorioso.

            SABRATHA (Libia)

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            Tripoli, 16 maggio 2013:

            Un team del Dipartimento delle Antichità ha visitato oggi l'antico sito romano di Sabratha, per vedere se vi siano danni intercorsi nel terremoto della scorsa settimana.

            "Si tratta di un controllo visivo preliminare," capo dell'ufficio Unesco in Libia, Ludovico Folin Calabi, ha detto alla Libia Herald di oggi. "L'ispettore locale ha detto che non ci sono danni apparenti, ma il Dipartimento delle Antichità è l'invio di una squadra per fare ulteriori controlli."

            Ha aggiunto che l'Unesco sarebbe fare una più approfondita visita ai primi di giugno, per avviare un'analisi strutturale, che è necessario per stabilire l'entità di eventuali danni, che non può essere visto ad occhio nudo.

            "Abbiamo bisogno di controllare l'intera città, ma soprattutto il teatro", ha detto Folin Calabi. Infatti il sito archeologico di Sabratha è stato inserito dall'Unesco tra i patrimoni artistici dell'umanità.



            IL LUOGO

            Sabrata è una città della Libia nord-occidentale, a circa 70 km a ovest di Tripoli e a circa 100 km dal confine con la Tunisia. Città della costa della Tripolitania, nacque da un emporio fenicio verso la prima metà del I millennio a.c. per il commercio che dall'interno del continente, attraverso Cydamus, scendeva al mare. Insieme a Oea (Tripoli) e Leptis Magna è una delle tre città che hanno dato il nome alla Tripolitania.

            Nei pressi della città moderna restano le rovine dell'antica città che nel 1982 sono state inserite nella lista dei Patrimoni dell'Umanità dell'UNESCO.

            Questo sito archeologico è situato sulla costa mediterranea, a circa 1,5 km a nord ovest dal centro della moderna Sabratha, in Libia.

            Esso è stato riportato alla luce nel 1920 dagli archeologi italiani, diretti da Renato Bartoccini, che hanno anche parzialmente ricostruito gran parte dei reperti oggi presenti nell'area.

            Il più antico stanziamento fenicio e la prima città punica sono nell'area più tardi occupata dal Foro e sue adiacenze.

            Lo dimostrano i resti di vasi attici a figure rosse, forse del V sec. a.c. e i resti di costruzioni pre-romane in pietra e mattoni crudi, rivelati dai saggi in profondità eseguiti in questa zona, e dalla ubicazione della zona stessa rispetto allo specchio d'acqua chiuso tra il litorale e una antistante fila di scogli, unico posto ove potessero rifugiarsi le navi.

            Dell'impianto più antico il quartiere mantenne anche più tardi l'irregolare conformazione, solo parzialmente corretta dall'apertura del Foro e dalla costruzione degli edifici con esso connessi.

            Tracce di un muro di età punica sembra siano state riconosciute circa sulla linea settentrionale del Foro stesso, ma certo già da questo periodo l'abitato dovette notevolmente estendersi, come prova anche la necropoli scoperta dal Bartoccini circa 300 m a S del teatro, con tombe a inumazione e a cremazione; una sola di queste tombe era a camera con pozzo verticale di accesso, del tipo frequente nel mondo punico e punico-romano.

            La suppellettile, non ricca, di ceramiche (brocche, anfore, balsamari, lucerne) di uso comune, di pochi vetri e, in una tomba, di elementi di collana in pasta vitrea con figurine di chiara provenienza egizia, ci riporta ai secoli immediatamente precedenti la nostra èra (III-II a.c.).

            TEATRO


            LA STORIA

            Sabratha fu fondata nel VII sec. a.c. dai Fenici di Tiro in uno dei pochi porti naturali della Tripolitania e divenne ben presto un avamposto commerciale allo sbocco di un'importante via carovaniera.

            Per questa sua posizione strategica, Sabratha conobbe un rapido sviluppo e cadde ben presto sotto il controllo di Cartagine.

            Con Leptis ed Oea costituì così nell'impero marittimo di Cartagine la regione degli Emporia, che, tra la II e la III guerra punica, Massinissa aggregò al regno di Numidia; è incerto se, come Leptis, passasse dalla parte di Roma durante la guerra di Giugurta.

            Fu solo nel 46 a.c. che, avendo Cesare posto fine al regno di Numidia, entrò a far parte della provincia romana d'Africa.

            Dopo un periodo di influenza greca, la città subì gravi danni da un terremoto (attorno al 65-70 dc), che fornisce l'impulso per una completa ristrutturazione romana.

            Questa è stata intrapresa da Marco Aurelio e figlio Commodo, che ha colto l'occasione per demolire alcune parti della vecchia città punica edificandovi i nuovi imponenti edifici pubblici.

            CONCORDIA AFRICANUS
            Intorno al 158 fu celebrato a Sabratha, avanti al tribunale del proconsole Claudio Massimo, il processo contro Apuleio che, accusato di magia, si difese con l'Apologia, scritto arguto e divertente, in cui appaiono alcuni aspetti della vita cittadina sabratesca.

            Già fiorente al tempo di Augusto, come provano le monete di questo periodo e le prime costruzioni del Foro, raggiunse un alto grado di prosperità nella II metà del II sec. d.c.: epoca del quartiere del teatro, il teatro stesso ed altri edifici religiosi e civili della città

            Poco dopo le venne concesso il diritto di colonia da parte di Antonino Pio.

            Continuò la prosperità della città anche nel secolo seguente, infatti è del principio del III sec. la statio Sabratensium del piazzale delle corporazioni di Ostia, testimone dei rapporti commerciali tra Sabratha e Roma in questo tempo.

            La maggior parte della città romana fu però distrutta da terremoti nel 306-10 dc e ancora nel 365 dc, dopo di che è stato ripreso dai cristiani bizantini, e poi occupata dai Vandali.

            Il magnifico teatro romano, monumento principale di Sabratha e il più grande edificio così in Africa, è stato scavato e ricostruito dagli archeologi italiani nel 1930.

            Numerosi edifici pubblici vennero ricoperti di preziosi marmi, mentre a quell'epoca risale il monumentale teatro in riva al mare. Nel momento del suo apogeo, Sabratha contava circa 20.000 abitanti.

            Il declino iniziò nel IV secolo, con la graduale decadenza dell'impero romano e le prime incursioni di popolazioni berbere:  il commercio con l'Africa era meno attivo, la città fu devastata da dispute religiose, in particolare le discordie religiose fra cattolici e donatisti che portarono a sommosse ed eccidi, e gran parte fu distrutta da terremoti, in particolare quello del 365 dc.

            Ricevette un colpo gravissimo dalle incursioni degli Austuriani del 363-366; dei danni di esse e degli sforzi fatti dai Sabratensi per rialzarsi da tanto colpo, grazie anche agli aiuti sollecitati dal governo imperiale, abbiamo molteplici prove da testi epigrafici e dai restauri che ebbero allora varî monumenti, soprattutto nella zona del Foro.

            I Vandali di Genserico, che si impadronirono della Tripolitania nel 449 - 455, abbatterono le mura della città, disinteressandosi completamente di essa e della regione.

            La città conobbe altro breve periodo di vigore soltanto con la riconquista bizantina: è a Giustiniano che si deve la costruzione della basilica dal magnifico mosaico pavimentale.

            Poi, con le invasioni arabe del sec. VII e dell'XI, la città fu del tutto abbandonata, a vantaggio di Oea, divenuta il solo grande centro abitato della regione fra le due Sirti.




            GLI SCAVI

            Gli scavi archeologici hanno scoperto più di metà della superficie della città antica, tra cui l'area forum, molte delle installazioni sul porto, e un grande quartiere residenziale del II sec. dc. adiacente ad un teatro.

            Durante il II e III sec. dc. avvenne la costruzione dei grandiosi monumenti, di cui il più celebre è quella del teatro, probabilmente costruito durante il regno dell'imperatore Commodo (161-92 dc), con i suoi tre ordini di colonne della frons scenae.

            Altri edifici romani includono terme, i templi, e fontane; vestigia cristiane comprendono una catacomba e quattro chiese.

            Tempio di Liber Pater, Basilica di Giustiniano, e Mosaici della Casa di Giasone Magno, Capitolium, il Tempio di Serapide, il Tempio di Ercole e il Tempio di Iside.

            Fu eseguito un programma di ricostruzione, ma la città occupava ora un'area molto più piccola.
            I Vandali invasero Sabratha in 455 e demolirono le mura.

            La riconquista bizantina non ha, tuttavia, segnano l'inizio di una vera e propria rinascita e la città fu definitivamente abbandonata dopo le invasioni arabe del VII e XI sec.



            LA CITTA' ROMANA

            La città romana si sviluppò invece sia al di sopra di quella punica, sia allargandosia sud e ad est  di essa, come si evince facilmente dai nuovi quartieri ad assi ortogonali.

            Il decumano massimo ne costituì la grande strada che costeggiava il mare. Questo, venendo da oriente, piegava verso sud-ovest, tra il quartiere nuovo e la città vecchia, con un tetrapilo di cui restano pochi avanzi, che ne sottolineava il cambiamento di direzione.

            LA SVASTICA
            Il cardine massimo invece, è da identificare con quello su cui fu più tardi aperta la porta bizantina, all'incirca all'estremità dell'area del Foro, probabilmente corrispondente all'ultimo tratto della carovaniera proveniente dal sud. Lo sviluppo del quartiere orientale avvenne verso la metà del II sec. dc., l'età del teatro, del tempio di Ercole, delle Terme di Oceano e di molti altri monumenti.

            Se la città avesse mura nell'alto Impero Romano non si sa. ma si sa che nel IV sec., dopo le incursioni degli Austuriani, fu costruita la cerchia di cui restano alcuni avanzi ad oriente, presso il tempio di Iside, che da essa rimase in parte tagliato fuori.

            Dopo la conquista giustinianea i Bizantini si limitarono, come al loro solito, a difendere con una nuova cinta muraria solo l'abitato più prossimo al porto; delle mura bizantine restano alcuni tratti e una porta nella parte meridionale.

            Di pietra intonacata furono assai spesso fatti anche gli elementi architettonici, colonne, basi, capitelli; ma nel periodo migliore, a cominciare dal II sec., abbastanza largamente fu usato anche il marmo, breccia corallina, cipollino, marmo di Simitthu, marmo bianco, tutti importati di fuori.

            Considerata nell'aspetto complessivo, Sabratha non presenta particolari caratteristiche di impianto e di decorazioni che la differenzino dal maggior numero delle città romane dell'Africa settentrionale; somigliando soprattutto a quelle della Bizacena e della Tripolitania occidentale.

            Nettamente invece si distingue da Leptis e forse anche, a giudicare dal non molto che ne conosciamo, da Oea, più simili, per grandiosità e ricchezza di monumenti, alle città della parte orientale dell'Impero.

            I materiali usati nelle costruzioni non furono dei migliori, le proporzioni furono modeste, gli elementi decorativi non raggiunsero il raffinato gusto romano, ad eccezione di pochi, dovuti probabilmente ad artisti o artigiani importati da Roma o dalla Grecia.

            Non brilla neppure per l'esecuzione, non solo delle statue onorarie e di divinità rinvenute nei diversi edifici, ma anche della fronte del pulpito del teatro, che pure, nel fatto stesso di averla voluta così decorata, denota una notevole importanza, insomma il carattere dell'ambiente sabratense era piuttosto provinciale, come d'altronde in quasi tutte le province romane.

            Anche i mosaici, seppur molto ricchi di motivi geometrici e figurati, degli edifici più ricchi, e nemmeno i resti di pitture del teatro e di alcune case, importanti perchè numerosi e ben conservati più che altrove.

            Ciò tuttavia dipende dal fatto che il deserto aveva avuto cura di coprirli alla iconoclastia cristiana, e pure dal fatto che lo scavo sia avvenuto molto tardi, quando era più apprezzato il loro valore, e più evolute erano le tecniche del rinvenimento, per cui si è avuto molta cura nel raccoglierli e poi nel restaurarli.

            In più non essendoci leggi restrittive in merito come avviene nella cultura occidentale, pur rispettando e mettendo in evidenza l'antico, si è voluto ripristinare quanto più possibile delle parti mancanti, con grande piacere visivo dei turisti, cosa che è considerata blasfema in Italia, dove molti monumenti, soprattutto a Roma, se restaurati delle parti mancanti potrebbero sia dare un'idea molto più chiara della antica romanità.

            Questi rifacimenti parziali permetterebbero inoltre una conservazione molto migliore dei monumenti, e sia consentirebbero un infinitamente maggiore afflusso dei turisti.

            Il che consentirebbe di operare tutti quegli scavi che oggi non solo non si operano una volta scoperti i tesori sotterranei, ma spesso se ne lascia il compito ai tombaroli o ad altro che preferiamo non menzionare.

            C'è da aggiungere poi, per ciò che riguarda Sabratha, che gli scavi operati sono tuttora minimi rispetto al complesso, per cui sarebbe arrischiato giudicare gli schemi decorativi e lo stile preferito nella città, perchè molto potrebbe ancora sorprenderci.

            Alcuni di essi sono stati datati al II sec., altri al IV: in effetti i primi mostrano una certa tal quale, sia pure contenuta, maestria di chiaroscuro e un'efficacia impressionistica, che gli altri invece sono ben lungi dall'avere, ridotti come sono a semplici disegni colorati.

            Quanto agli schemi decorativi desta meraviglia, nelle pareti della Casa dell'Attore Tragico, l'insieme di architettura e pittura molto vicina a quelle del II stile e del IV: tuttavia la casa è inserita nel quartiere sviluppatosi nel corso del Il sec. d.c.

            Unica vera opera che si solleva al di sopra del più comune livello dei prodotti artistici sabratensi è il mosaico della basilica giustinianea, probabilmente opera di un artista estraneo all'ambiente.




            LA RIAPPROPRIAZIONE DELLA STORIA


            E 'una delle più straordinarie attrazioni turistiche della Libia. La città romana di Sabratha, vecchia di 2000 anni, è una delle più perfettamente conservate dal mondo antico. Ha templi, un forum e uno splendido teatro sulle rive del mar mediterraneo con le sue onde di turchese che lambiscono dolcemente le coste.

            Venerdì scorso un piccolo plotone di combattenti dell'opposizione liberato ufficialmente, salendo sul retro della spettacolare facciata colonnata del teatro. Al vertice hanno strappato la bandiera verde svolazzante sopra le rovine, un simbolo del regime odiato di Muammar Gheddafi, ancora aggrappato al potere per circa 45 Km lungo la costa.

            "Gheddafi è la storia repressa. La maggior parte della storia prima del 1969 è scomparsa da qui," Sefakes Faties, un ragazzo di 23 anni, studente di medicina, ha detto, osservando un paesaggio di colonne di acanto e un tempio di Dioniso. "Tutto ciò che è stato è stato cancellato dalla realtà. Niente è più vero. Gheddafi ha manipolato la nostra storia. Ora vogliamo la nostra storia indietro."

            Altro splendido sito archeologico della Libia, la città romana di Leptis Magna, che si trova nei pressi di Zlitan - est di Tripoli - che i ribelli hanno affermato di controllo il Venerdì.

            Nell'auditorium gigante del teatro Sabratha i ribelli hanno cercato di impostare la luce sulla bandiera. Dietro di loro c'era una serie di bellissimi pannelli romani. Vi sono raffigurati muse, dei, tre grazie carnose - uno con un impressionante fondo e un altro in possesso di uno specchio ovale e una serie di attori comici mascherati. 

            Faties disse che aveva visitato Sabratha dieci anni fa in gita scolastica. 

            Le forze anti-Gheddafi hanno preso Sabratha il Mercoledì dopo tre giorni di battaglia furiosa, con mortai e cannoni antiaerei sollevate attraverso le strade principali. 

            Fori di proiettile crivellarono la chiesa all'italiana e il municipio dipinto di bianco e pistacchio. 

            I ribelli hanno sequestrato un edificio centrale e un caffè - i piani superiori di un rudere fumante - poi avanzarono sotto il fuoco a quattro punte della città.

            Uno dei protagonisti ribelli era Akram Mohamad, 43 anni, un tester MOT da Manchester. Mohamad è un attivista anti-Gheddafi che è tornato in patria dal Regno Unito due mesi fa. 

            Ha detto che la battaglia è conclusa alle 07:00 il Mercoledì, quando l'accampamento militare della Nato ha polverizzato Sabratha. "Mr Nato venne e mise sei missili su di esso", ha detto, aggiungendo: ". Senza la coalizione non staremmo vincendo lo sanno tutti."

            Venerdì scorso il campo era una fisarmonica schiacciata di muratura e metallo contorto. 

            Le bombe sbarcati direttamente sulla mensa ufficiali. Due soldati di Gheddafi sono stati uccisi, Mohamad ha detto, con gli altri in fuga. 

            A $ 180-a-notte l'hotel Gamer Sabratha dalle porte di ingresso in vetro miracolosamente ancora aperti. 

            Nella hall le milizie dell'opposizione stavano dormendo sui divani arancioni. Manifesti turistici ornavano le pareti. 

            Hanno incluso foto di attrazioni libici e slogan accattivanti in inglese - "Io amo la Libia", "Benvenuti in archeologia, la Libia è un sogno ad occhi aperti" e "serenità e armonia, fascino ed emozione".

            I verniciatori ribelli, però, avevano già avuto modo di lavorare. Accanto ai manifesti sono stati nuovi slogan in arabo, "Free Libya" e "Abbasso Gheddafi".

            "Sono così felice. Abbiamo avuto 40 anni di ingiustizia", ​​ha detto. Quanto tempo è che i turisti sono tornati? "Forse un anno", ha suggerito.

            Bandiere del Governo giacevano sulla strada principale, accanto alle copie strappate del Libro Verde, trattati eccentrici di Gheddafi sulla filosofia politica. 

            Le copie - preparati da "il centro del mondo per gli studi e le ricerche del Libro Verde" - erano in diverse lingue, tra cui russo, e comprendeva diverse frasi: "Il Parlamento è una fortificazione di democrazia" e "La democrazia è una direzione del popolo, e non auto-espressione del popolo ".

            Tornando al teatro Faties ha detto di sperare che la nuova Libia avrebbe preso più cura del suo patrimonio antico - fenicia, greca, romana, bizantina. "E 'così antica. Tutto è stato cambiato dagli anni. D'ora in poi conservarla e prendersene cura."

            MAPPA DEL SITO (zommabile)


            SITI DI INTERESSE ARCHEOLOGICO

            - Tempio di Iside
            - Basilica (greca-berbara) di  Apuleius di Madora (Basilica del tribunale)
            - Tempio di Serapide
            - Museo romano
            - Mausoleo di Bes
            - Basilica di Giustiniano
            - Il Foro
            - Il teatro
            - Le Terme accanto alla spiaggia
            - Il Tempio di padre libero
            - Il Capitolium
            . Le Mura bizantine
            - La Curia
            - Il Tempio di Antonino
            - L'anfiteatro
            - La casa del Peristilio

            TEATRO


            IL TEATRO

            Il monumento più importante del sito è il teatro romano, costruito in terreno pianeggiante nel quartiere orientale tra la fine del II sec. e il principio del III, e cioè tra l'età degli Antonini e quella di Severo.

            La cavea, rivolta a settentrione, è sorretta da sostruzioni a tre ordini sovrapposti di arcate (due soli in parte ricostruiti), incorniciate da pilastri tuscanici e scandite da basse lesene corinzie sostenenti la trabeazione. Non si conosce lo stile del III ordine, ma si sa che aveva una fila di mensole a sostegno dei pali del velario.

            Dietro le arcate dell'ordine più basso girava, tutto intorno all'emiciclo, un ambulacro, dal quale si poteva salirsi ai piani superiori o passare in un secondo ambulacro concentrico, più interno. Forse vi erano inserite delle tabernae. Le due arcate alle estremità immettevano direttamente nell'orchestra.

            La cavea era spartita in tre meniani, ed ognuno di questi in sei cunei; la coronava in alto un portico a colonne; alla base di essa, e da essa invece divisi da una balaustra, stavano nell'orchestra i tre bassi gradini destinati ad accogliere i seggi mobili della proedria.

            Il pulpito, a nicchie rettangolari e semicircolari alternate, con due scale alle estremità per salire dall'orchestra al piano della scena, è decorato a rilievo con grande cura con scene e figure isolate; il rilievo è ora più ora meno accentuato.

            Nella grande nicchia semicircolare al centro è una scena riguardante Roma e Sabratha, con la storica concessione del diritto di colonia alla città, con una scena di sacrificio e un'altra di libazione ai lati, e le la Dea Roma con elmo e scudo, vestita come un Amazzone, al suo fianco c'è la Tychè Sabratha e ai lati militari in divisa.

            Le altre due nicchie semicircolari hanno invece scene di soggetto mitologico: le Muse da una parte, le tre Grazie e il giudizio di Paride dall'altra. Nelle nicchie rettangolari, più piccole, infine scene di commedia e di mimi, e negli avancorpi tra nicchia e nicchia figure isolate di divinità o di danzatrici.

            Uno stretto canale dietro la fronte del pulpito serviva per la manovra del velano. Il pulpito, largo m 8,55, aveva in origine il piano tutto in legno sostenuto da travi; forse nei restauri del IV sec. lungo i bordi di esso fu disteso un rozzo mosaico a grosse tessere.

            La fronte-scena, ricostruita nei due ordini inferiori e in parte del terzo, è in tre grandi nicchie semicircolari,  chiusa sui due lati dalle versurae, con al fondo delle nicchie tre porte, la regalis al centro, lehospitales ai lati.

            Lungo tutta la fronte e nelle versurae si distendevano tre ordini sovrapposti di colonne diverse di marmo e nel fusto, bianche e colorate, lisce, scanalate e tortili: in corrispondenza delle tre porte esse formavano dei protiri rettilinei, che interrompevano l'alternanza di linee rette e curve determinata dalle nicchie semicircolari e dagli avancorpi tra esse.

            Dietro alla scena, oltre alle tre porte, se ne aprivano altre secondarie che davano accesso agli ambienti di risulta tra nicchia e nicchia e, alle estremità, a due scale per salire sull'alto della costruzione, per la manutenzione e per le necessità degli spettacoli. Di un'iscrizione che correva sull'architrave dell'ordine inferiore non resta che una parola, "lacuna".

            RETRO DEL TEATRO

            L'edificio della scena era integrato da due ampie sale rettangolari ai lati, per usi degli spettacoli, data la connessione con il pulpito.

            Sul retro correva un portico, che, con le sue due ali laterali, chiudeva uno spazio quadrangolare in parte sistemato a giardino.

            Da frammenti di intonaco dipinto con figure, rinvenuti durante lo scavo in vari punti dell'edificio, dobbiamo dedurre che varie parti di esso erano decorate di pitture.

            La parte più spettacolare e meglio conservata è la scena, ricomposta con frammenti originali e suddivisa su tre livelli con colonne di marmo sovrapposti.

            La scalinata è ben conservata e sui suoi 11 gradini circolari potevano trovare posto circa 5.000 persone.



            IL FORO

            Il Foro con i suoi annessi occupa il centro del nucleo più antico.
            Esso comprende, oltre la piazza vera e propria, due templi, la basilica, la curia; ma altri templi sorgevano nelle immediate sue adiacenze, a sud ed a nord.

            La piazza, la cui prima sistemazione risale verosimilmente al principio dell'Impero, era in origine fiancheggiata da tabernae, solo più tardi, nel II sec., sostituite da portici a colonne.

            Tra gli edifici che lo circondano, i più antichi sembrano essere il tempio di Liber Pater ad oriente e quello di Serapide all'angolo nord-occidentale.

            A sud e a nord della piazza si innalzano rispettivamente la basilica e la curia.



            LE TERME

            Pur non essendo state rinvenute, almeno fino ad ora delle grandi terme pubbliche, sono però emersi
            quattro stabilimenti di bagni di piccole e medie dimensioni.

            Vicino al mare vi è l'edificio più grande, le cosiddette Terme a mare a nord-est del Foro, e poi un altro minore, non lontano dal tempio di Iside, le Terme dette di Oceano per la grande testa di Oceano che orna una grande sala absidata, forse un tepidario, verso l'estremità orientale della Città. Diversi mosaici colorati molto ben conservati sono visibili in queste terme prospicienti la spiaggia.

            Un terzo edificio balneare è stato rinvenuto nel quartiere a nord del teatro; mentre un quarto a sud presso l'ingresso agli scavi; anche se quest'ultimo poteva essere uno stabilimento privato.

            Di nessuno di essi abbiamo una pianta esatta e completa, ma avevano stanze con vasche, latrine, apodyteria ecc. Tutti sono decorati di mosaici geometrici o a figure: nel primo furono rinvenute anche due statue di Liber Pater e di ninfa velata.

            MAUSOLEO DI BES


            IL MAUSOLEO DI BES

            Nella zona ovest, al di qua' delle mura bizantine che circondano il Forum ed i templi romani, si trova il mausoleo di Bes, del II secolo a.c., di architettura punico - ellenistica.

            Questo mausoleo è stato in gran parte ricostruito da archeologi libici dopo il 1920.




            I TEMPLI

            Nella zona ovest sono posti invece il Forum con alcuni templi e altri monumenti. Fra questi il tempio di Antonino, il tempio di Giove e la Basilica cristiana fatta costruire da Giustiniano con il pavimento a mosaico (visibile nel museo).

            Altri interessanti monumenti di epoca romana sono: il Tempio di Liber Pater, il Tempio di Serapide, il Tempio di Ercole e, nella zona est, sul mare, il Tempio di Iside.

            Altri due templi sono a sud del Foro. Uno subito dietro la basilica, della quale anzi determinò, quando fu costruito nella seconda metà del II sec., la soppressione dell'abside dell'esedra originaria.
            Non si sa a quale divinità fosse dedicato.
            Si alzava contro il muro di fondo di una corte, con portici sugli altri tre lati, accessibile, come nel tempio precedente, da levante.
            Le due ali laterali del portico terminavano ad abside, conforme una disposizione che ritorna anche in altri templi dell'Africa.

            CAPITOLIUM

            Il Capitolium

            Tra i templi, posizione e aspetto prevalente ha il tempio del lato ovest, e cioè il Capitolium. Il tempio era di tipo italico: sorgeva su un alto podio, nel quale erano ricavate delle favisse, e presentava sulla fronte, rivolta a levante, una piattaforma accessibile da due scale laterali.

            Probabilmente probabile che essa servisse, come sovente, da tribuna per gli oratori; una seconda scala, che si sviluppava su tutta la larghezza della fronte, metteva in comunicazione la piattaforma con la cella.

            A questa si entrava per tre porte e probabilmente essa era anche all'interno divisa in tre ambienti.

            All'esterno sei colonne sulla fronte e quattro sui lati la circondavano, mentre un muro continuo ne chiudeva il tergo e le due ali dei colonnati laterali, da cui dovevano sporgere dallo stesso muro di fondo due semicolonne o due pilastri.

            L'edificio, costruito interamente in pietra nella prima metà del I sec. d. c., fu in gran parte rifatto in marmo nel II secolo.



            Tempio al Dio Pater Liberus

            PATER LIBER - GIOVE
            Corrispondeva al Capitolium, sul lato opposto della piazza del Foro, un altro tempio, dedicato sembra a Liber Pater, una delle divinità più venerate nell'Africa, ipostasi dello Shadrapa punico.

            Il tempio, preceduto verso la piazza dal portico di questa, era circondato sugli altri tre lati da un colonnato doppio, ionico e tuscanico, alquanto sopraelevato sul piano da cui spiccava il podio dell'edificio.

            Probabilmente il portico deriva da un restauro di età post-costantiniana, appunto menzionato in un'iscrizione.

            Una gradinata sulla fronte dava accesso alla cella, in origine circondata da colonne su tre lati, più tardi su tutti i quattro lati.

            Del tempio più antico resta qualche avanzo entro il podio di quello attuale, insieme con le tracce di un altro edificio ancora più antico, probabilmente una casa, il cui diverso orientamento prova essere stata innalzata prima che la zona ricevesse la sistemazione rimasta poi invariata per tutto l'Impero.

            TEMPIO DI SERAPIDE

            Tempio di Serapide

            Nello stesso quartiere del Foro, nelle immediate adiacenze della piazza, sono stati messi in luce altri tre templi, tutti con la medesima planimetria, e cioè con la cella al centro o al fondo di una corte porticata.

            Il più vicino alla piazza è il tempio che sorge all'angolo nord-occidentale di essa, tra il Capitolium e la curia.

            Il suo orientamento, leggermente diverso da quello di questi altri edifici e della piazza stessa, lo fa supporre anteriore alla sistemazione di questa.

            Da un'immagine del Dio ritrovata al suo interno si desume fosse dedicato a Serapide.

            Il tempio vero e proprio è al centro della corte, con la fronte a levante preceduta da una gradinata, e probabilmente tetrastila. Gli altri muri esterni della cella erano ornati di pilastri o lesene in stucco.


            Tempio Antoniniano

            Altro tempio importante per dimensione e fattura,  è quello denominato "Tempio antoniniano", perché eretto sotto l'impero di M. Aurelio e L. Vero dal proconsole M'. Acilio Glabrione, si apre su una piccola piazza, ornata di una fontana, tra la basilica, il tempio testé descritto e il Foro.

            La sua fronte era rivolta ad occidente; anch'esso si alzava al fondo di una corte preceduta da un vestibolo, o propileo a colonne; il podio era molto alto e in esso erano ricavate due stanze; una lunga scalinata saliva al pronao, tetrastilo, ma con due altre colonne al posto delle ante.

            I muri della cella erano esternamente decorati da pilastri scanalati; l'interno fu in tempi molto tardi trasformato in sepolcro, il che lo salvò dalla distruzione.


            Tempio di Ercole

            Dagli scavi è emerso anche un sesto tempio, sempre dello stesso tipo, e cioè con la cella su podio al fondo di una corte, le cui ali terminano ad abside, locato nel quartiere a nord del teatro, con la fronte sul decumano massimo.

            Vanne costruito nel 186 d.c. e dedicato ad Ercole, una cui immagine, del tipo dell'Epitrapezios, sta ancora avanti la gradinata.

            Era riccamente ornato, non solo di marmi policromi, di pitture nelle pareti dei portici e nelle absidi al fondo di questi.

            RICOSTRUZIONE IN ARANCIONE


            Tempio di Iside

            Il tempio vero e proprio stava al centro di una corte circondata da colonne corinzie su tutti i quattro lati, sopraelevate di quattro gradini al di sopra del piano della corte stessa.

            Il tempio, situato vicino al mare, al margine orientale della città, era totalmente diverso dagli altri.

            TERME
            Costruito sotto il proconsolato di G. Paccio Africano probabilmente su una più piccola cappella già dedicata alla Dea, aveva attorno al tempio un recinto, a cui si accedeva da est attraverso un ampio vestibolo, preceduto da una gradinata.

            Il vestibolo disponeva di due file di colonne. La prima fila di era ininterrotta per tutto il vestibolo, la seconda era invece interrotta, al centro e ai lati, da tre porte che immettevano nell'interno del santuario. Altre due porte si aprivano nel muro meridionale del recinto.

            Come di solito, il tempio sorgeva su podio piuttosto alto, con gradinata sulla fronte, e ai lati del vestibolo si alzavano due torri quadrangolari, con la loro interno due sale ad esedre rettangolari. Altri ambienti di diversa grandezza si affacciavano sul lato interno del recinto opposto a quello dell'ingresso, evidentemente riservati al culto della Dea o di altre divinità, come mostra una esedra con basi per statue, oltre a un pozzo-altare per il culto.

             All'esterno del tempio tre coppie di cubi quadrangolari, in corrispondenza delle tre porte del vestibolo, interrompevano sul lato est le file dei gradini.

            All'interno del podio, accessibile da una porta sul retro, si aprivano un corridoio perimetrale e due stanze a volta al centro; un altro corridoio lo attraversava in corrispondenza dell'ultimo gradino della scalinata portando a un'ampia cisterna sotterranea.
            È probabile che la cella fosse divisa, per la lunghezza, in due ambienti, corrispondenti alle due stanze del podio.

            Una frana del terreno e la cinta di età tarda, che  in questo punto veniva a cadere sul mare, hanno distrutto o alterato la fronte e l'angolo nord-est dell'edificio.

            IL TEATRO


            LA CURIA

            Si presenta oggi come dopo i danni dell'invasione degli Austuriani, ma è da credere che, almeno l'aula vera e propria delle adunanze, fosse grosso modo collocata come l'odierna.
            Essa ripete infatti lo schema degli edifici pubblici romani: una sala quadrangolare, preceduta da un breve vestibolo, nella quale corrono sui due lati maggiori tre gradini destinati ad accogliere i seggi mobili dei decurioni; lungo il lato di fondo sta la piattaforma sopraelevata per la presidenza; lungo tutte le pareti sono nicchie per statue.

            Singolare tuttavia qui a sud il fatto che l'aula delle adunanze non si apriva direttamente sulla piazza, ma su una corte porticata piuttosto ampia, di cui l'aula stessa occupava non il lato di fondo, ma un fianco, quello di ponente.

            La corte, circondata da colonne, aveva invece nel lato di fronte agli ingressi dalla piazza un'esedra rettangolare, absidata, ornata di due colonne, evidentemente destinata ad accogliere l'immagine di una divinità.

            La diversità di materiale, il reimpiego di marmi provenienti da altri edifici, lo stile stesso del mosaico a grosse tessere adoperato per il pavimento di alcune parti dell'edificio, sono tutte prove del restauro che questo subì in età tarda.

            CASA DEL PERISTILIO


            LA BASILICA GIUDIZIARIA

            La basilica giudiziaria, sul lato meridionale del Foro, ha subito anch'essa notevoli modifiche attraverso i tempi, prima di essere trasformata in chiesa cristiana e, come tale, venire ancora snaturata.

            La sua prima costruzione risale alla metà del I sec. d.c., un'aula di forma quadrangolare accessibile da una porta al centro del lato lungo verso la piazza e circondata tutto all'intorno sui quattro lati da un colonnato.

            Lo spazio centrale doveva essere coperto da un lucernario e da un tetto di legno, più alto dei tetti delle ali circostanti, come nel tipo delle basiliche più antiche.

            A questi antichi modelli di basilica riporta infatti anche l'ampia esedra absidata, con ambienti minori ai lati che, preceduta da quattro colonne, si apriva di fronte all'ingresso.

            Sul secondo lato lungo dell'edificio è probabile che l'esedra servisse, oltreché da tribunale, anche da cappella per il culto imperiale, come Vitruvio ci dice per la basilica di Fano, dato che in essa furono rinvenute numerose statue imperiali loricate dell'età dei Flavi e di Traiano.

            Nella seconda metà del II sec., col rivestimento marmoreo dell'edificio, questo, abolita l'abside dell'esedra primitiva, venne ampliato ad ovest con una nuova tribuna absidata, fiancheggiata  da due stanze più piccole. Infine nel IV sec., dopo le distruzioni degli Austuriani, la basilica, rimpicciolita in larghezza e in lunghezza, assunse la forma della basilica a due absidi contrapposte, usufruendo in parte dei muri originari e in parte costruendone di nuovi.



            LE 4 BASILICHE CRISTIANE


            La prima basilica

            Quattro basiliche sono tornate in luce, due nel quartiere del Foro, e altre due nel quartiere a nord del teatro. Delle prime l'una, più antica, fu adattata nella I metà del V sec., e cioè non molto tempo dopo che l'edificio era stato restaurato dai danni delle incursioni degli Austuriani, nella basilica civile a sud del Foro.

            DIO OCEANO
            Si trattò di un adattamento e di un rifacimento dell'edificio abbandonando per circa un terzo la parte orientale di esso con la relativa abside.

            Venne riedificato il muro settentrionale, e costruita una nuova abside avanti a quella occidentale, la chiesa cristiana fu notevolmente più piccola di quella che era stata la basilica civile; ebbe l'abside ad occidente e la fronte, con le tre porte di ingresso, rivolta ad oriente.

            Due nuovi colonnati, costituiti ognuno da file di colonne binate, ne dividevano l'interno in tre navate; quasi al centro della navata centrale stava l'altare, probabilmente ligneo, sotto un ciborio sostenuto da colonnine.

            L'abside, sopraelevata, era scandita all'apertura da due pilastri di recupero, come del resto tutti gli altri elementi architettonici dell'edificio: quello dei pilastri ancora superstite presenta una decorazione a volute di acanto e animali fra esse, dello stile ritenuto afrodisense, analogo cioè a quello dei pilastri della basilica severiana di Leptis Magna, ma forse di qualche decennio anteriore.

            L'abside occidentale originale della basilica civile, rimasta divisa dalla nuova abside da uno spazio scoperto, accolse una piccola vasca quadrangolare per il battistero. Sia questo spazio, sia la parte ad oriente esclusa dalla chiesa, furono adibiti a cimitero.

            Dopo la riconquista bizantina fu rifatto, rialzandolo, il pavimento; sotto il ciborio l'altare, ora di marmo, fu posto al di sopra di una piattaforma messa insieme, ahimè, con basi di colonne rovesciate: un piccolo incavo al centro era destinato ad accogliere un reliquiario; la navata centrale venne, mediante una transenna o balaustra, isolata dalle laterali.
            Abbandonato il battistero primitivo, e messo al suo posto un altare sormontato da un ciborio, un nuovo fonte fu sistemato al centro della sala a crociera attigua alla basilica, già servita come luogo di adunanze; esso ebbe la forma a croce, così frequente nella stessa Tripolitania e nel resto dell'Africa dal VI sec. in poi.


            La seconda basilica

            La seconda basilica del quartiere del Foro fu costruita ex novo in età bizantina, a nord della curia, fra questa e il mare, dedicata da Giustiniano, e ricordata da Procopio.

            Essa appare assemblata con materiali di recupero, e il calcare usato in alcune parti fu sicuramente preso dalle cave di Leptis. La fronte è a ponente e, affacciata su una piccola piazza, è preceduta da un portico a colonne.
            L'interno, cui, oltre che dalle tre porte della facciata, si accedeva anche da due porte sui lati lunghi, è diviso in tre navate da colonne con arcate.

            Il presbiterio, rialzato, era chiuso da una balaustra; al centro era l'altare, con incavo per le reliquie, e sormontato da un ciborio; nella navata centrale, poco avanti il presbiterio, è ancora in situ l'umbone ricavato da un blocco marmoreo già pertinente alla trabeazione del Capitolium.

            Plutei marmorei e alcune colonne con croci e monogrammi rivelano chiaramente l'età della chiesa.

            Ma la ricchezza e la bellezza di questa sono determinate soprattutto dai mosaici che ne decoravano per intero il pavimento, nella navata centrale, nelle laterali e nel presbiterio.

            Di vivace policromia, quello della navata centrale (ora nel museo), dalle larghe volute di tralci di vite carichi di pampini e grappoli, in mezzo ai quali volano e scherzano uccelli variopinti, e che definiscono campi occupati dai più varî motivi: un pavone dalla larga coda gemmata dispiegata in tutta la sua magnificenza, una gabbia ecc.

            Più semplici, ma non meno leggiadri i motivi delle altre parti del pavimento, tra cui quello della parte anteriore delle navate laterali con cipressetti stilizzati sormontati da una crocetta a braccia espanse: l'origine orientale di tutta questa decorazione è così palese ed accentuata da far pensare all'opera di artisti venuti direttamente da quelle regioni.


            La terza basilica

            Le due basiliche a nord del teatro, certamente più antiche, ci riportano nella loro disposizione a quella adattata nella basilica giudiziaria a sud del Foro. Anch'esse sorsero entro e al di sopra di edifici preesistenti, tra cui uno stabilimento termale e, la seconda, più piccola, in un edificio di analoga pianta basilicale, forse di carattere commerciale.

            TEPIDARIUM
            Le due chiese sono certamente coeve e, con l'ampio sepolcreto e le altre costruzioni annessse, costituivano verosimilmente un solo, grande complesso sacro, come tanti altri nell'Africa stessa (Cuicul, Theveste) e fuori (Salona); ambedue presentano un'analoga successione di due fasi costruttive. Sono ambedue rivolte con la fronte a levante.

             - La prima, la maggiore, è preceduta da un portico quadrangolare ed è internamente divisa in tre navate; il presbiterio, chiuso da un recinto, occupava la parte estrema della nave centrale, ed aveva in mezzo l'altare; l'abside, sopraelevata, era preceduta da due colonne sostenenti una specie di arco trionfale, e vi si accedeva da una scala aperta sul lato sinistro.

            Il pavimento di essa, come quello dello spazio fra l'abside stessa e l'altare, è ornato di un mosaico, a motivi geometrici e vegetali, e l'iscrizione di un Fl(avius) Boni(fatius...) exceptor, che lo donò.

            Due stanze si appoggiavano all'edificio dal lato meridionale, una contenente un battistero, l'altra servita come sagrestia. La costruzione originale, da datare in base a molteplici elementi,all'inizio del V sec.,  subì modifiche in età bizantina.

            Con l'innalzamento di due nuovi muri, furono ristrette le navate laterali; l'abside fu sopraelevata con una scala dalla stessa navata centrale: un nuovo battistero fu sistemato entro una specie di ciborio decorato di pilastri intonacati, all'interno di alcune stanze situate a nord della basilica.

             - La seconda chiesa, più piccola, adiacente alla prima verso nord-est, era a tre navate con presbiterio e altare nella nave centrale. L'abside, sopraelevata, è fiancheggiata da due camere e chiusa esternamente da un muro rettilineo.

            Anche intorno a questa chiesa si stendeva un cimitero; un altro era immediatamente a oriente del teatro.



            LA CATACOMBA


            LA CATACOMBA
            Infine un cimitero suburbano, in forma di catacomba, fu messo in luce, pure da questa parte, a 500 m circa ad oriente del teatro: si tratta di varie gallerie con loculi nelle pareti e sarcofagi fatti di rozze lastre di pietra sul pavimento.

            Taluni dei loculi hanno decorazione dipinta e iscrizioni; la presenza del monogramma nella sua forma originaria e l'assenza invece della croce monogrammata fanno assegnare la catacomba ad età piuttosto antica.



            LA SALA CRUCIFORME

            Attigua alla basilica, all'estremità del portico meridionale della piazza, fu costruita nel II sec. una sala cruciforme: nel braccio orientale di essa si apriva l'ingresso scandito da due colonne; negli altri tre bracci un podio, sporgente dalla parete, sosteneva due colonne sormontate da una trabeazione finemente scolpita.

            L'uso di questa sala è sconosciuto, tuttavia nel IV sec. fu trasformata in ambiente per adunanze, assai simile nella disposizione interna alla curia

            Sul lato di fondo fu ricavato il banco della presidenza, mentre, sulle due pareti laterali, aboliti i podî primitivi, furono disposti dei gradini: quale corpo o collegio vi si riunisse non sappiamo; infine in età bizantina vi fu sistemato un battistero.



            L'ANFITEATRO

            A meno di un Km dal sito, in direzione ovest, alla periferia della città, si trovano i resti dell'anfiteatro romano, posto nei pressi del teatro.

            L'anfiteatro era, come spesso, fuori della città, dalla parte di oriente, sistemato nelle cavità di una precedente latomia, una di quelle che circondano quasi da ogni parte la città.

            ANFITEATRO
            I Sabratensi non disposero infatti di altri materiali per le loro costruzioni che della pietra arenaria ricavata dal suolo stesso: una pietra tenera e porosa, che tendeva a sgretolarsi all'esterno portandosi appresso l'intonacatura.

            Da ciò il facile guasto dei monumenti hanno subito nei secoli, e soprattutto il rapido deterioramento cui anche oggi vanno soggetti i restauri più recenti. Un tempo erano più protetti perchè ricoperti di sabbia.

            L'anfiteatro poteva ospitare circa 10.000 spettatori, con l'arena dove un tempo i gladiatori affrontavano gli animali selvaggi feroci, combattendo fino alla morte.
            Un corridoio interno, costruito nel II sec. d.c. e coperto a volta, girava tutto intorno all'arena, comunicando sia con questa sia con le entrate principali alle estremità dell'asse maggiore; ai lati di queste entrate erano stanze ricavate dal terreno naturale di roccia e destinate alle gabbie degli animali e a deposito di macchinari.

            Il piano sotto l'arena (m 65 × 49) era tagliato da due gallerie incrociantisi ad angolo retto; un passaggio coperto sboccava da sud nella galleria dell'asse minore.

            Aveva l'asse maggiore in direzione est-ovest, e la cavea divisa verticalmente in due meniani.

            Dall'esterno si poteva scendere, attraverso passaggi coperti ricavati al di sotto delle gradinate superiori, alla praecinctio di divisione tra i due meniani, o salire mediante scale al meniano più alto, le cui gradinate erano in parte probabilmente in legname.

            Le gradinate sono abbastanza ben conservate e sono ben visibile le gallerie sotterranee utilizzate per far entrare le belve nell'arena.




            EDIFICI PRIVATI

            - Case e impianti di carattere industriale (presse per olive), ambienti per magazzini sono tornati in luce nel nucleo più antico della città, tra il Foro e il mare, e nel quartiere del teatro.

            - case di età bizantina a sud del Foro. Una a sud ovest del teatro, e il suo orientamento, diverso da quello del quartiere circostante, fa supporre che sia precedente all'impianto di questo, cioè al II sec. d. c.

            E' detta Casa del peristilio per un peristilio a colonne, che ne occupa il centro: di forma quadrangolare, ma con uno dei lati corti leggermente curvilinei, è circondato da colonne in pietra intonacate, con capitello corinzio.

            Al di sotto di esso corre un criptoportico che dà accesso a camere sotterranee, pavimentate a mosaico; analoga alla disposizione di questo piano inferiore era quella del piano del peristilio, intorno a cui si distribuivano altre camere.

            - Di nessuna delle case possediamo piante precise; sappiamo solo che, oltre che di mosaici nei pavimenti, erano ornate di pitture nelle pareti e nei soffitti: molti frammenti di queste sono stati recuperati e restaurati, e da esse le case stesse sono state denominate: Casa dell'Attore Tragico, Casa di Leda, Casa di Arianna, ecc. (v. oltre).




            L'ACQUEDOTTO

            Di un acquedotto che portava l'acqua nella città restano avanzi piuttosto modesti a S di questa; tali resti, che si seguono per qualche chilometro in direzione S-S-E, consistono in un canale a volta, costruito in muratura di terra e sassi, che di tratto in tratto è interrotto da piccole camere con pozzi di areazione.

            Rinvenuta anche una piccola piazza colonnata, al centro della quale erano un altare e un'edicola ornata di pitture.



            I MUSEI

            Il sito è completato da due musei: il Museo Romano ed il Museo Punico.
            Il primo contiene oggetti ritrovati nelle tombe di Sabratha, mosaici e statue. Notevole un busto di Giove.
            Nel museo punico il reperto più interessante è una statua che rappresenta il Dio Bes.

            Dopo una chiusura prolungata a causa di lavori di manutenzione e strutturale, Museo Sabratha è ora aperto al pubblico.
            I due musei sono sorti sugli oggetti  rinvenuti durante gli scavi, come corredi funerari, monete, porcellane, mosaici del periodo bizantino, statue di epoca romana e reperti fenici.

            Il museo, una volta era conosciuta come Sabratha Classica Museo romano, originariamente aperto nel 1932, poi è stato riaperto nel 1966, e ora nel 2009. 

            Tuttavia, siamo stati in grado di accedere solo due gallerie (al luglio 2009), nonché l'ingresso.  
            Ci sono altre tre gallerie che sono ancora chiuse e prevede di aprire a tempo debito.

            Come si entra nel palazzo, la gallery in fondo al corridoio (l'ala meridionale) è la Chiesa, che ospita enormi pannelli a parete e pavimenti a mosaico dalla basilica cristiana di Giustiniano. 

            Alcune delle statue e colonne vengono visualizzate all'aperto nel cortile, come quelle visibili tra le colonne d'ingresso (secondo da destra: Serapide).
            Altri invece vengono visualizzati in sala come si entra nel museo. 

            La sala galleria principale (aperto) contiene bellissimi affreschi murali bizantine, per lo più provengono da una casa privata di un ricco cittadino di antica Sabratha.
            Inoltre pannelli di mosaico e statue provenienti da vari templi, tra cui il Tempio di Zeus e di Serapide.

            La presentazione del sito archeologico di Sabratha ha una serie di fotografie fornite da Bridget Goldsmith e David Trump, a partire da uno dei mosaici ben conservati e una panoramica di una parte di una zona residenziale.

            Segue una serie di immagini del teatro favoloso, con i suoi 3 piani fondale palco soppalco, e decorazioni riccamente scolpiti, tutti in pietra color oro.

            Altre foto mostrano il tempio di Iside con le sue rierette colonne, in piedi accanto alla riva, seguito da una singola immagine del grande (ma piuttosto abbandonato), anfiteatro, situato a una certa distanza a est del capoluogo.

            Torna nel centro della città la presentazione continua, mostrando alcuni dei mosaici, il lussuoso edificio latrina esagonale le Terme del Foro, e la raccolta di edifici pubblici al centro della città.

            Tra questi anzitutto il Forum (con le sue colonne di granito) e l'adiacente Campidoglio, con la sua reeretta fila di colonne nella parte anteriore dell'edificio.

            Passata per breve tempo al Regno di Numidia sotto Massinissa, Sabratha fu presa dai romani nel 46 a.c. sotto i quali godette molta prosperità e all'epoca dei Severi la città venne completamente ricostruita ed abbellita soprattutto grazie al fatto che l'imperatore Settimio Severo era nativo della vicina Leptis Magna.











            AD SPEM VETEREM

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            "Celeberrimo è il luogo detto la Speranza vecchia, estramuraneo ai tempi di Frontino, attraversato dipoi dalle mura aureliane, e che ho delineato nella tav. ni, 1. Vi facean capo otto aquedotti principali, compresa l'alessandrina, ed un gruppo di strade di non minore importanza, quali la prenestina, la labicana, i due pomeri aurelianei interiore ed esteriore, la via che seguiva la linea degli archi celimontani, quella che dirigevasi al Sessorio etc. 
            Alla frequente menzione che gli scrittori fanno di questo luogo famoso, si aggiunge ora un documento epigrafico, un fondo di tazza aretina trovato nel sepolcreto di vigna Boiardi, sul quale è grafita la memoria: 

            TYCHICI SVTORIS A SPE VETERE. 

            Nel Bull, munic, 2,203 ho attribuito all'appia lo speco trovato più o meno precisamente « ad Spem veterem » l'anno 1860, fra le vie labicana e prenestina, a met. 420 di distanza dalla porta maggiore, che reca tutti i caratteri di remota antichità. 
            Questo speco non apparteneva all'appia, sibbene all'anione vetere, e lo dimostra, fra tante ragioni, il fatto della sua altitudine superiore di m. 25 circa a quella della foce dell'appia, presso Parco della Salara. Il punto preciso nel quale lo speco attraversava la contrada della Speranza vecchia è indicato da Frontino « in confinio hortorum Torquatianorum (et) norum» ed aggiunge che si denominava « ad Gemellos ».
            Ora siccome Frontino più volte riferisce il corso dei suoi aquedotti al sito dei vari giardini dell'Esquilino, credo necessario stabilirne fino da ora la posizione relativa.... 


            Di quelli di Torquato è fatto cenno soltanto nel passo citato di sopra in relazione coi Gemelli, qui locus est infra Spem ueterem. Benché la vetusta topografia di questa parte della regione V sia stata sconvolta nei tre ultimi secoli dell'impero, mi sembra poter stabilire: 
            a) che i giardini di Fallante erano a sinistra della via prenestina uscendo di città: 
            b) che detta via separava i giardini di Fallante da quei di Epafrodito, i quali avranno occupato lo spazio compreso fra la prenestina e la labicana: 
            c-) che i giardini di Torquato erano verosimilmente a destra della labicana; tutti e tre poi sul limite settentrionale della contrada denominata Speranza vecchia: 
            d) finalmente che la lacuna nel testo ove è descritta la riunione dell'appia con l'augusta dovrà supplirsi: « in confino hoitorum Torquatianorum et Epaphroditia)nontm ». "


            L’area ad Spem Veterem per molti secoli fu utilizzata per lo più come area cimiteriale di poveri e ricchi e fu così denominata per la presenza in zona di un edificio sacro dedicato dal console Orazio nel 477 a.c. al culto
            di Spes Vetus in seguito ad una battaglia avvenuta tra Roma e la vicina città di Veio: l’esatta posizione del tempio non è mai stata individuata.


            Il tempio di Spes

            In realtà non fu Orazio a erigere il tempio perchè Gaio Orazio, tale era il suo nome, venne eletto console giusto nell'anno 477 a.c. insieme con Tito Menenio Agrippa Lanato. Il Senato gli affidò la guerra contro i Volsci, mentre Agrippa andò contro gli Etruschi di Veio, che avevano massacrato tutti i Fabii nella battaglia del Cremera.

            I Veienti sconfissero Tito e poi si diressero verso Roma accampandosi sul Gianicolo, allora il senato richiamò Gaio Orazio per difendere Roma e battersi presso il tempio della Speranza, cioè ad Spem Veterem, ma senza risultati e poi presso Porta Collina riportando stavolta la vittoria sul nemico.
            Viene da chiedersi perchè Orazio avesse voluto dedicare il tempio alla Dea visto che:
            la battaglia era avvenuta nello stesso anno, quindi non c'era il tempo necessario tra il voto, la costruzione e l'inaugurazione, cioè la dedica, e sembra strano avesse fatto la dedica proprio a Spes se proprio accanto al suo tempio non aveva potuto vincere.
            La cosa più probabile è che Orazio abbia fatto il voto di restaurare un edificio templare giù esistente, il che spiegherebbe la brevità del tempo dei lavori.


            Il nodo viario

            L'area era pertinente al Celio ma per la sua posizione periferica rispetto al colle Palatino, ebbe fin dal IX sec. a.c. una destinazione soprattutto funeraria. A partire dal V sec. a.c., la zona compresa tra porta Maggiore e S. Giovanni divenne un importante smistamento di grandi strade, come la Labicana, la Prenestina e la Celimontana. Inoltre, trattandosi di uno dei punti più alti della città, vi confluirono ben otto acquedotti, tra cui quello Claudio che, costruito su alte arcate in opera quadrata di tufo, rimane una tra le più antiche testimonianze monumentali del comprensorio (52 d.c.).


            Da area cimiteriale a zona di lusso

            Tra il 42 e il 38 a.c., nell'ambito di un generale riassetto urbanistico dell'Esquilino, Mecenate trasformò quest'area in un quartiere residenziale, dando il via col suo esempio, alle grandi villae e domus delle più facoltose famiglie del tempo. Alla fine del II sec. d.c., una parte dei giardini (horti) ad Spem Veterem divenne proprietà della famiglia dei Varii, da cui deriva il termine horti Variani e, subito dopo, entrò a far parte del demanio imperiale.


            La Spes Augusta

            Le statue della dea Speranza erano diverse ma in genere tenevano sulla mano destra un mazzo di fiori e sulla sinistra un lembo di veste. Il tempio della Spes Vetus sorgeva secondo alcuni sul Vicus Longus sull'Esquilino, connesso, come riferisce Livio, alla vittoria di Orazio contro gli Etruschi nel 477 a.c. Sembra che il tempio andò distrutto nel 39 a.c. per essere poi ricostruito da Augusto. che molto teneva agli antichi Dei tanto da ricostruirne i templi e aggiungervi il suo nome, cosa che accadde nel 19 d.c. La Dea Spes diventò infatti la Spes Augusta e tale apparve sulle monete.
            Per quel che si sa il tempio sorgeva nell'angolo più orientale della cinta muraria, area un tempo chiamata ad Spes Veterem, secondo altri nel punto dove via Casilina incrocia viale Castrense.


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            CULTO DI SILVANO

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            PAN GRECO

            Pan era lo spirito di tutte le creature e i luoghi naturali, con evocazioni di foresta, Grande Madre Natura, istinto e quindi abisso, il profondo interiore che fa paura.
            Dal suo nome deriva il termine panico, infatti il si divertiva ad emettere suoni improvvisi spaventando i pastori, tutto sommato era un mattacchione.

            PAN
            Secondo l'Inno omerico, i suoi genitori erano Ermes e Driope, la ninfa della quercia, e secondo il mito descritto da Plutarco un grido di terrore annunciò ai marinai egei, il declino degli Dei antichi e la fine dell'Olimpo:

            "Il grande Pan è morto!!!"

            Dio potente e selvaggio, con zampe irsute e zoccoli, con coda e corna caprine, busto umano e volto è barbuto, agile e rapido, vaga per i boschi, spesso per inseguire le ninfe con cui brama accoppiarsi, ma non disdegnava neppure i maschi, e spesso si abbandonava a pratiche oscene, ma si dava anche alla musica con lo zufolo e alla danza.

            Mezzo uomo e mezzo caprone non alberga nell'Olimpo ma nei campi e nelle selve, soprattutto nell'ora meridiana, a proteggere greggi ed armenti, spesso gli vengono consacrate le cime dei monti, ponendovi sul cocuzzolo alti pali a forma di tau o di croce.

            Pan vagava per i monti d'Arcadia, dove pascolava greggi e allevava api. Era allegro, venerato e pure temuto, carnale e primitivo, spesso rappresentato come Priapo con un grande fallo, ma quando non riusciva ad accoppiarsi si masturbava. Era legato alla terra, alla fertilità dei campi e alla Luna, probabilmente un tempo figlio della Grande Madre Pandroso, o Pandora, o Pandoro, una divinità ellenica poi declassata a donna, da cui Pan trasse il nome.
            I Romani lo identificarono con il loro dio Fauno.



            FAUNO  ITALICO

            La festa dedicata a Roma al Dio Fauno si celebrava il 15 febbraio, quando anticamente si approssimava l'anno nuovo che all'epoca iniziava a marzo, quando le giornate si allungano e la vegetazione risorge.
            Per celebrare questo passaggio delicato, al mattino del 15 febbraio, la confraternita dei Luperci, vestiti però di pelli di capre (il februum) appena immolate, occupava il Palatino in nome del Dio Fauno.

            FAUNO
            I Luperci, una specie di giovani sacerdoti, tramite i riti e i sacrifici, avrebbero allontanato i lupi dalla comunità e protetto le greggi in nome di Fauno. Nella corsa  che seguiva, narrata da Plutarco, i luperci colpivano soprattutto le donne con fruste di pelle caprina che avevano il potere di fertilizzarle. Poi a due giovani nobili veniva toccata la fronte con la lana sacrificale ancora sanguinante, successivamente asciugata con un fiocco di lana bagnato nel latte.

            Sembra ci fosse una commistione tra il Dio Luperco e il Dio Fauno, perchè la capra è lagata al Dio Fauno e pure al Dio Silvano e alla fecondità, e spesso l'animale sacro era quello immolato, ma il contatto col sangue e col latte sembra rimandare al contatto con la madre e col figlio, dove sacrificare la madre è nutrirsi delle creature della madre, dei prodotti della terra, di cui però siamo anche noi figli. A questo cerimoniale seguiva la risata rituale dei due, che fa pensare a una presa di coscienza che pone fine al dramma della vita e della morte.

            L'aspetto del Dio Fauno, che successivamente nella mitologia romana diventa una stirpe numerosa e semidivina che scorrazza per monti e valli a caccia di ninfe, è stato trasformato dalla chiesa cattolica nell'immagine del diavolo, identica in ogni particolare, dalle gambe irsute da capro, le corna, la coda, gli zoccoli. I fauni rappresentano il lato selvaggio, istintuale e sessuale della natura e dell'uomo, ma nell'uomo diventa demoniaco perchè l'istinto è peccato.



            SILVANO ITALICO E ROMANO

            Silvano era un Dio antichissimo, non dimentichiamo che uno degli appellativi di Diana era Silvana, e che era una dea Vergine e che come tutte le Dee vergini era stata una Grande Madre che partoriva senza avere avuto un marito (questo era il significato di virgo), e il figlio-vegetazione poi moriva nel solstizio di inverno per risorgere all'equinozio di primavera, appunto come la vegetazione.

            SILVANO CON IL FALCETTO
            ED IL CANE
            Silvano fu spesso assimilato a Fauno che per lungo tempo lo soppiantò. Tuttavia il suo aspetto era molto diverso da quello di Fauno. Silvano non è metà capro e metà umano, è solo umano anche se di aspetto primitivo, quasi sempre raffigurato nudo, barbuto, con capelli lunghi, con una corona di pino sul capo, una pelle caprina sulle spalle che scendeva sorretta da un braccio a fare da cesto ad uva, pomi e pigne. Oppure portava con ambedue le braccia un cesto di frutta, in qualità di custode degli orti, oltre che protettore degli armenti e dei campi. Aveva calzari da contadino e lo accompagnava un cane.

            Con la mano sinistra teneva il ramo di pino, con l'altra un coltello ricurvo, un pennato (la falx arboraria dei latini), lo strumento dei boscaioli, con breve impugnatura, con lama larga, lunga 30/40 cm, e la punta ricurva in avanti.

            A Pesaro è stata rinvenuta un'ara dedicata a Silvano Augusto, dove sopra era la statua del Dio,con raffigurazioni sulla base di: un gallo sul lato destro, un lituus (il pastorale) sul lato sinistro e una fistula (zampogna), mentre sul retro aveva una coppa e una brocca, evidentemente gli attributi del Dio. La dedica riporta:
            "A Silvano Augusto consacrato. Ligo e Anencleto, schiavi di Quinto Alfio, sciolsero il voto lieti per il beneficio ricevuto."



            nomi

            lar agrestus
            arvorum pecorunsque deus
            luporum exactor
            marte silvano
            sanctus silvanus pantheus

            SILVANO
            I contadini del Lazio sacrificavano a Silvano giochi e statue, in autunno edificavano altari al Dio e immolavano vittime. Allora il padre così diceva ai figli: 
            "Ornate gli altari, ornate di rami di pini il simulacro del Dio!" 
            Silvano infatti ama i rami di pino. Poi così implorava il Dio:
             "O Silvano, proteggi i campi e i boschi, scaccia le malattie, custodisci e conserva le ville e le famiglie." Alla fine il contadino tornava al villaggio.

            In un bassorilievo oggi a Berlino Silvano è rappresentato tra due pini che demarcano i confini tra due terreni, i cui proprietari unitamente offrono al Dio il sacrificio.

            Un'antichissima statua di legno di Silvano era posta a Roma sotto un fico presso il tempio di Saturno e a Silvano e ad Ercole Domiziano consacrò un tempio sulla via Appia all''VIII miglio, anche se il culto del Dio fu riportato in auge da Traiano.

            ARA DEDICATA A SILVANO
            Dunque Silvano protegge animali e piante ma anche gli uomini dalle malattie, ma occorre guardarsi da lui, perchè è pericoloso per i neonati, e quando una donna ha partorito si pongono tre guardiani che di notte girano attorno al perimetro della casa, che colpiscono con la scure, poi col pestello, e infine spazzano con la scopa.

            I tre rappresentano tre divinità già invocate in soccorso del neonato e della madre, e cioè Intercidona con la scure, Pilunno col pestello e Deverra con la scopa, tre divinità occupate a salvare il neonato e pure sua madre dalle furie di Silvano.

            Nel museo del Marmo di Carrara si conserva una stele votiva trovata a Luni, dove in bassorilievo c'è  un uomo barbuto con un pennato nella destra e un ramo d’albero nella sinistra, un’immagine del Dio Silvano  venerato nel territorio di Luni. Nel 1924 fu scoperta presso la cava di Gioia (Carrara) un bassorilievo con un’altra immagine del Dio Silvano, che ha nella mano destra un pennato e nella mano sinistra un ramo d’albero, esattamente come a Luni.

            Alcuni studiosi ritengono Silvano un Dio italo-etrusco di  provenienza toscana, pertanto protettore anche del sottosuolo, ciò di cave e miniere di cui il territorio abbondava.

            CARALES - CAGLIARI (Sardegna)

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            SARDINIA

            Roma occupò la Sardegna fra la prima e la seconda guerra punica. Già nel 259 a.c, il suo esercito aveva tentato la conquista dell'isola, giungendovi dalla Corsica, ma il console Lucio Cornelio Scipione, dopo essersi impadronito di Olbia, aveva dovuto ritirarsi.

            Dal 241 a.c. l'isola rimase sotto Cartagine che dal canto suo, avendo già perso la Sicilia, non mirò più al possesso di terre che la ponesse di nuovo in conflitto con avversari tanto pericolosi. I mercenari stanziati da Cartagine in Sardegna però s'impadronirono dell'isola, con tanta crudeltà che i Sardi, insorsero e li cacciarono.

            Roma allora accusò Cartagine di preparare l'invasione del Lazio e, nel 238 a.c. inviò le legioni in Sardegna, ma nel 235 i Sardi si ribellarono, sopraffatti dai romani di Manlio Torquato. Nel 233 altre rivolte furono represse dal Console Carvilio Massimo, e nel 232 dal console Manio Pomponio, finchè nel 231 furono inviati due eserciti consolari: uno contro i Corsi, comandato da Papirio Masone, e uno da Marco Pomponio Matone, contro i Sardi, ma senza risultati.

            Dal 227, l'isola ottenne la forma giuridica ed il rango di Provincia e vi fu inviato un pretore per governarla. Per i nuovi insorti fu inviato il Console Caio Attilio Regolo, nel 225 a.c.


            Ampsicora

            La più importante rivolta però fu quella del 215 a.c. dopo le vittorie di Annibale in Italia. Un autorevole esponente dell'aristocrazia terriera sardo-punica, Ampsicora, aveva riunito un esercito consistente, e rinforzi da Cartagine che inviò una flotta al comando di Asdrubale il Calvo.

            AMPSICORA
            Il piano di Ampsicora era di dare battaglia quando tutte le forze si fossero riunite e lasciò il comando al figlio Iosto a Cornus con una parte dell'esercito. I rinforzi di Cartagine però non arrivarono in tempo per colpa di una tempesta e Iosto accettò la battaglia offerta dal comandante Manlio Torquato. L'esercito sardo fu sconfitto subendo la perdita di 3.000 soldati, 800 furono fatti prigionieri.

            Asdrubale il Calvo intanto raggiunse la Sardegna, sbarcò a Tharros e respinse i Romani verso Caralis. A loro si unì Ampsicora con il resto dell'esercito. Nella piana del Campidano la coalizione sardo-punica fu duramente sconfitta. Morirono 12.000 tra Sardi e Cartaginesi e 3.700 furono fatti prigionieri fra i quali Asdrubale il Calvo ed Annone. Iosto morì in battaglia. Ampsicora affranto dal dolore per la morte del figlio, non volendo finire nelle mani dei Romani si uccise. I superstiti si rifugiarono a Cornus dove prepararono un'ultima inutile resistenza, ma questa volta vinsero i sardi. La città fu rasa al suolo e la popolazione fuggì verso l'interno dell'Isola.

            La resistenza dei Sardi si protrasse ancora nel II secolo a.c. quando nel 177/176 a.c., il Senato inviò il console Tiberio Sempronio Gracco con due legioni di 5.200 fanti ciascuna, più 300 cavalieri, cui si associarono altri 1.200 fanti e 600 cavalieri fra alleati e Latini. In questa rivolta persero la vita 27.000 sardi; in seguito alla sconfitta, a queste comunità fu raddoppiato il gravame delle tasse, mentre Gracco ottenne il trionfo. Tra le ultime rivolte quelle del 126 e del 122 col trionfo di Lucio Aurelio, nonchè di Marco Cecilio Metello nel 111 a.c.


            Le Guerre Sociali

            Durante le guerre civili romane l'isola fu prima spinta verso la fazione mariana, poi indotta a schierarsi nel campo opposto dal partito di Silla. Morto questo, il pretore mantenne la Sardegna fedele a Pompeo, finché Carales (Cagliari) non si schierò con Cesare, imitata poco dopo da tutta l'isola.

            Fu scacciato il luogotenente di Pompeo, Marco Cotta, e fu accolto favorevolmente quello di Cesare, Quinto Valerio Orca. I pompeiani non si diedero per vinti e iniziarono una serie di azioni per la riconquista delle città costiere. Sulcis si arrese mentre Carales resistette, così Cesare, che vi soggiornò tra il 16 ed il 28 aprile del 46, punì la prima e premiò la seconda. Nel 44 a.c., la Sardegna, assegnata ad Ottaviano, fu invece occupata da Sesto Pompeo che la tenne come base per la lotta contro i cesariani fino al 38 a.c., quando, tradito dal suo luogotenente, fu soppiantato da Ottaviano nel possesso dell'isola.


            L'Impero

            Nel 27 a.c. le province dell'Impero Romano furono ripartite tra le province affidate all'Imperatore Augusto, governate da legati di rango senatorio, e province affidate al senato, governate da proconsoli di rango senatorio.

            LA FULLONICA
            La violenza di questa rivolta costrinse Augusto a rimuovere i senatori dal comando dell'isola ed a prenderne lui stesso il controllo diretto ma la rivolta non durò molto. Infatti nel 19 Tiberio sostituì il distaccamento di legionari con 4000 liberti (o figli di liberti) ebrei. La situazione tornò tranquilla e Claudio ridette il comando al senato. Nel 68-69 vennero distribuite terre per coltivare ai barbari dell'interno che ben presto si romanizzarono.

            Il II sec. fu un momento di sviluppo e di prosperità, I Romani ebbero la possibilità di ricostruire e migliorare la rete stradale punica spingendola anche all'interno, costruirono terme, anfiteatri, ponti, acquedotti, colonie e monumenti. La ricchezza della Sardegna era agricola e mineraria, esportando piombo, ferro, acciaio e argento grazie alle sue miniere, e grano per 250.000 persone. Nel 170, l'isola era sotto il controllo senatoriale.Nel 211, come in tutto l'impero, riprese il malcontento della popolazione e le rivolte.

            I Romani, nei secoli in cui dominarono l'isola, fondarono molte nuove città come Turris Libisonis (Porto Torres) e fecero sviluppare molti centri abitati soprattutto nelle coste, come Carales, Olbia, Fanum Carisii (Orosei), Nora e Tharros, ma anche nell'interno, come Forum Traiani (Fordongianus), Forum Augustis (Austis), Valentia (Nuragus), Colonia Julia Uselis (Usellus).


            La decadenza

            Nel 212 grazie a Caracalla i Sardi, come tutti gli abitanti dell'Impero, ottennero la cittadinanza romana, ma la situazione peggiorò 280 d.c. una flotta di Franchi saccheggiò le città costiere di tutto il Mar Mediterraneo e i Sardi, che per secoli si erano ritenuti al sicuro da ogni pericolo esterno all'Impero, tornarono all'interno dell'isola e quelli che restarono sulle coste chiusero i porti e cinsero di mura le città.

            Successivamente la "provincia della Sardegna e della Corsica" fu divisa e dal quel momento mai più si sarebbero unite. Le tasse aumentarono fino al 456 quando i Vandali, dopo aver saccheggiato Roma, la conquistarono e l'annetterono al loro regno. Ma vinsero solo sulle coste, poiché i Sardi dell'interno si ribellarono ai Vandali impedendo loro di entrare nella loro zona.



            CARALES

            Cagliari (Carales o Karalis) era la città più importante della Sardegna. Il suo centro vitale, come in tutte le città romane, era il Foro, dove sorgevano i principali edifici pubblici e religiosi: la curia municipale, l'archivio provinciale, la sede del governatore, la basilica, il tempio di Giove Capitolino. Purtroppo non si conosce la localizzazione esatta di questi monumenti: si sa però che il Foro doveva essere situato nell'attuale Piazza del Carmine.

            Da qui partivano ben quattro strade che traversavano l'intera isola dal sud al nord, rendendo Carales un centro strategico importante per le rotte commerciali del Mediterraneo occidentale, ospitando un distaccamento della flotta di Miseno, e da qui partiva il grano per l'approvvigionamento di Roma.

            La zona abitata si sviluppava sulla costa per circa 300 ettari, con una popolazione di 20.000 abitanti. I punti estremi di questo territorio erano l'attuale Viale Sant'Avendrace e la regione di Bonaria, dove si locavano le necropoli. Per la legge romana, infatti, i sepolcri non potevano essere ospitati all'interno delle zone urbane.

            La città ebbe molti interventi edilizi di pubblica utilità come la realizzazione della rete fognaria e la pavimentazione di strade e piazze, la costruzione di un acquedotto (nel 140 d.c.), e nel I sec d.c. fu dotata di portici e divenne municipium, ossia una città autonoma con cittadinanza romana. Nel II sec. d.c. fu costruito l'anfiteatro, ancora utilizzato per gli spettacoli ad oggi, semi-scavato nella roccia, che poteva ospitare fino a 10.000 persone.

            I quartieri signorili sorgevano nel territorio a nord di Sant'Avendrace e nell'area di San Lucifero, con le terme, i templi, alcuni teatri e numerose ricche abitazioni; i quartieri mercantili si trovavano nella zona della Marina e i quartieri popolari erano vicino al porto, fra l'odierna via Roma e il Corso Vittorio Emanuele.

            Qui vennero ritrovate ricche abitazioni (Casa del Tablino Dipinto e Casa degli Stucchi), nel sito che viene tradizionalmente chiamato la Villa di Tigellio. Nell'attuale Via Malta è stato invece riportato alla luce un tempio con annesso un teatro per le rappresentazioni legate al culto: è di impianto punico, ma è stato utilizzato anche in età romana.
            Il quartiere mercantile si trovava probabilmente nella zona della Marina, come sembrerebbero confermare gli scavi praticati sotto la chiesa di Sant'Eulalia, mentre il quartiere popolare era probabilmente vicino al porto, fra l'odierna Via Roma e il Corso Vittorio Emanuele.



            L'ECONOMIA

            Le fonti letterarie ed archeologiche parlano delle ricche pianure esistenti nel fertile entroterra, gestite a latifondo, i cui prodotti dovevano confluire nel porto cagliaritano ed erano destinati all’approvvigionamento granario di Roma. Ancora in età tardo-antica, si accenna alla necessità di fornire vettovagliamenti ai porti dell’Italia centro-meridionale (Epistola di Paolino da Nola, 49). Dall'esame dei carichi delle navi naufragate i più comuni erano le anfore. soprattutto le vinarie greco-italiche, apule, galliche, rinvenute insieme al vasellame da mensa collocato negli interstizi tra un’anfora e l’altra.

            È attestata anche l’importazione di olio sia dalla penisola iberica che, in epoca medio e tardo-imperiale, dalle regioni nord-africane, da cui proveniva pure in abbondanza la ceramica da mensa definita sigillata africana, dal II al VI secolo d.c., con produzione vinicola locale di età medio-imperiale, unitamente al trasporto di olio, olive, salsa di pesce (garum). Altra fonte di ricchezza i prodotti minerari, il cui commercio si svolgeva dai vari porti sudoccidentali dell’isola al continente, gestito, come del resto gli altri prodotti, da corpora naviculariorum, cioè gruppi associati per i servizi di rifornimento dello stato romano.

            Si produceva e si esportava piombo argentifero, ferro, rame, ma anche granito spesso rinvenuto in prodotti non finiti (capitelli, colonne, macine ecc.). Il rinvenimento di lingotti in piombo e stagno testimonia il commercio del prodotto attraverso l’asse Spagna-Sardegna, in età imperiale.

            Una “constitutio” di Valentiniano III attesta, nel V sec. d.c., l’esportazione di buoi, cavalli e carne suina; il sale era un altro prodotto importante: la sua estrazione era a carico di società di lavorazione-trasporto del prodotto che avevano l’appalto per la gestione delle saline ed il suo commercio. Vi era poi la produzione locale di manufatti ceramici. Lo sfruttamento delle materie prime quali l’argilla ed il calcare offriva un’industria a livello locale.



            LE FONTI STORICHE

            Livio cita Carales per gli avvenimenti del 215 a.c., in occasione della rivolta di Ampsicora, ricordando lo sbarco di c. Manlio Torquato, la devastazione nel 210 a.c., del suo retroterra ad opera dei Cartaginesi capeggiati da Amilcare; la fonda della flotta di Tiberio Claudio Nerone nell’inverno del 202 a.c. ed infine l’alleanza con Roma durante gli avvenimenti del 178-177 a.c. (rivolta delle popolazioni dei Balari e Iliensi dell’interno dell’isola), contrariamente a Floro, riferendo della punizione subita dalla città per aver sostenuto la rivolta, in seguito repressa da Tiberio Sempronio Gracco.

            Nella guerra civile tra Cesare e Pompeo la città che si schiera da parte cesariana, osteggiando il pompeiano Marco Aurelio Cotta (Caes. Bell. Civ.) ed accogliendo lo stesso Cesare, nel 46 a.c., dopo la vittoria sui pompeiani a Tapso in Cilicia. Le vicende successive vedono la città occupata dal legato di Pompeo, Menas, secondo quanto riporta lo storico Cassio Dione.

            Sulla elevazione allo “status municipalis”, Plinio (Naturalis Historia) data il provvedimento intorno al I secolo d.c.; probabilmente un periodo posteriore al 38 a.c. per volere di Ottaviano Augusto dopo la liberazione dell’isola dai pompeiani. Inoltre, varie iscrizioni attestano la presenza di liberti municipali con il “nomen Iulius” da cui si potrebbe ipotizzare, vista la denominazione di “municipium iulium civium romanorum”, un provvedimento da parte di Ottaviano preso prima del 27 a.c., anno in cui egli assume la “tribunicia potestas” ed il titolo di “Augustus”.

            Strabone la menziona come la città più importante dell’isola assieme a Sulci, mentre alla fine del IV secolo d.c. il suo porto è ricordato da Claudiano, per l’accoglienza della flotta di Stilicone, nel 397, durante la guerra contro il comes d’Africa Gildone. Il municipio di cittadini romani risulterebbe iscritto alla tribù Quirina, retto da un collegio di quattuorviri, due dei quali, i “quattuorviri iure dicendo”, sono addetti all’amministrazione della giustizia, gli altri, i “quattuorviri aedilicia protestate”, alla cura delle infrastrutture pubbliche.

            RICOSTRUZIONE DELL'ANFITEATRO

            L'ANFITEATRO

            L'Anfiteatro poggia su una valletta naturale alle pendici occidentali del colle di Buon Cammino. I costruttori adattarono le caratteristiche del terreno alla configurazione dell'edificio, ricavando le gradinate dal banco roccioso per una capienza stimata in circa diecimila spettatori.

            Come negli altri anfiteatri, anche in quello Cagliaritano le gradinate sono divise in ordini diversi, riservati a differenti classi sociali che vi accedevano da diversi passaggi. Sul piano dell'arena corre un lungo corridoio da cui si affacciavano i vani che custodivano gli animali, nei piani sotterranei venivano custoditi i macchinari per il cambio di scena.

            Subito a ridosso dell’arena, su un largo podium, prendevano posto i decuriones, cioè la classe dirigente cittadina; sui gradini del primo anello, chiamato ima cavea o maenianum primum, si accomodavano i loro
            familiari e i cittadini liberi distinti per censo; il secondo anello, detto media cavea o maenianum secundum imum, era per tutti gli altri uomini di nascita libera meno abbienti; infine nella summa cavea o maenianum secundum summum, il terzo anello, in appositi settori venivano relegati le donne e gli schiavi.

            In origine l'Anfiteatro, per metà scavato nella roccia e per metà in calcare bianco, era provvisto di una monumentale facciata nel lato sud alta circa 20 m a cui si opponeva un settore con corridoi e gradinate che sormontavano la stretta gola rocciosa. Le gradinate che furono scavate nella roccia sono le uniche parti del monumento superstiti.

            Il resto, edificato in muratura utilizzando tecniche diverse, fu completamente demolito nel corso dei secoli per recuperare il materiale da costruzione. Nel corso del medioevo e della prima età moderna, tutti i muri in opera quadrata dell’anfiteatro furono smantellati fino ai piani di posa incisi nella roccia.

            L'anfiteatro ospitava combattimenti tra animali, tra gladiatori e tra combattenti specializzati che venivano reclutati anche fuori dalla Sardegna. In egual misura venivano eseguite le pene capitali davanti alla folla esultante.

            Gli scavi hanno restituito, oltre a monete ed altri reperti, una gran quantità di sottili lastre di marmo, prova che i gradini erano rivestiti di materiale pregiato. Infatti per secoli furono asportate le gradinate ed utilizzate come materiale da costruzione e solo alla metà del secolo scorso si cominciò un lavoro di restauro. Attualmente il monumento è allestito con una struttura lignea realizzata per la stagione estiva degli spettacoli.



            AREA ARCHEOLOGICA SANTA EULALIA

            Sotto i pavimenti della chiesa di S. Eulalia sono riemersi un tratto di strada lastricata largo più di quattro metri e i resti di alcuni importanti edifici di cui sono visibili parte della soglia ed un lembo del prospetto, con rovine e reperti di epoche diverse:
            • ai primi secoli dell'Impero appartengono un tratto di strada lastricata con probabile funzione di percorso cerimoniale, risalente al IV secolo,  e i resti di un edificio che si affaccia su questa.
            • alla seconda metà del V sec: i resti di due costruzioni monumentali, dalla planimetria piuttosto complessa, realizzate con materiale di spoglio
            • alla seconda metà del VI sec: cospicui resti di pasto (valve di molluschi e ossa di animali), frammenti di stoviglie, anfore vinarie e tantissime lucerne testimoniano un'intensa frequentazione. 
            • Le rovine di un tempio del II-III secolo a.c.
            • un colonnato di epoca tardo-repubblicana.
            Le decorazioni delle lucerne rinvenute, sono tratte dal repertorio iconografico cristiano. Questo fa pensare che nelle vicinanze ci fosse un luogo di culto.


            CRIPTA DI SANTA RESTITUTA


            CRIPTA DI SANTA RESTITUTA

            Trattasi di un ipogeo in parte naturale e in parte scavata nella roccia, di epoca tardo-punica, III sec. a.c., a pianta irregolare con svariati vani di diverse forme e dimensioni, utilizzati come altari o cisterne. Dopo un periodo di abbandono nel XIII sec. la cripta venne decorata con affreschi bizantineggianti di cui rimangono alcuni brandelli raffiguranti S. Giovanni Battista.

            Nel '600, durante gli scavi per la ricerca dei Corpi Santi, fu ritrovata un'olla in terracotta contenente le reliquie di Santa Restituta, di origine africana, giunte nell'isola nel V sec.

            Agli inizi del XVII sec. alla statua di marmo della Santa vennero attribuiti onori e origini locali, come madre di S. Eusebio, e fu costruita una piccola cripta per ospitare la cosiddetta colonna del martirio, in seguito vennero costruiti altri altari in pietra e malta decorati nel frontespizio in pietra. In realtà la colonna non è una colonna ma un'ara scavata nella roccia, sicuramente preromana e punica.
            Durante una persecuzione anticristiana, ordinata da Diocleziano nel 304, molti cristiani di Cartagine e Biserta, furono arrestati e trascinati in catene a Cartagine e condannati a morte: fra loro c'era anche Restituta.

            Pietro Suddiacono, nel X sec. scrisse il processo, la condanna e il martirio della santa che, stremata dalle torture, fu posta su una barca carica di stoppa, resina e pece che fu data alle fiamme, la santa rimase illesa, mentre il fuoco annientò l'altra imbarcazione con i suoi occupanti. Restituta contenta ringraziò il Signore, castigo degli empi, e invocò che un angelo la accompagnasse durante la traversata: esaudita e riconoscente domandò di morire e fu accontentata.

            Secondo un'altra tradizione la barca approdò ad Ischia, dove viveva una matrona cristiana di nome Lucina che avvertita in sogno dall'angelo, si recò sulla spiaggia, dove trovò l'imbarcazione arenata e in essa il corpo intatto e splendente di Restituta. Radunata la popolazione, venne data solenne sepoltura alla martire nel luogo detto Eraclius, dove sono conservati i ruderi di una basilica paleocristiana, e dove sorge oggi un santuario dedicato alla Santa. La leggenda racconta che quando la barca toccò la spiaggia per miracolo questa si riempì di gigli bianchi: i gigli di Santa Restituta.

            Comunque il culto di santa Restituta è legato alla persecuzione vandalica del 429 in Nordafrica, ordinata dal re Genserico e descritta da Vittore di Vita. Nei vari luoghi dove trovarono rifugio gli esuli cartaginesi, ebbe origine la devozione alla martire africana: Lacco Ameno (Ischia), Napoli, Cagliari, Palermo, Calenzana (Corsica), Montalcino e Oricola.Borbona(Rieti).



            FULLONICA

            Gli scavi hanno riportato alla luce i resti di un'ambiente con un pozzo e alcune vasche che, secondo gli studiosi, era un laboratorio adibito al lavaggio e alla tintura delle stoffe, in cui il ciclo di lavorazione prevedeva l'immersione dei tessuti in vasche contenenti miscele sbiancanti o coloranti.

            Il locale era pavimentato con un lastricato in pietra e una fascia di cocciopesto nella quale erano inseriti piccoli tasselli di marmo colorato e pannelli di mosaico, che presentavano motivi marini come delfini, ancore e alligatori. Ai piedi di un banco in muratura c'era l'iscrizione che indicava il proprietario dello stabilimento.

            Al di sotto del palazzo dell'INPS è racchiuso un lembo dell'area archeologica che comprende una parte del pavimento in cocciopesto, un mosaico, un pozzo e due vasche.



            LATOMIE

            Nel 1595 in prossimità dell'Anfiteatro romano i frati Cappuccini fondarono il loro primo convento sardo, che attirò l'attenzione degli studiosi per la presenza di alcune monumentali cisterne scavate nella roccia calcarea attribuite al periodo punico.

            Si trattava invece di antiche latomie, ovvero cave per l'estrazione di blocchi utilizzati per la costruzione del vicino Anfiteatro romano. Solo in un periodo successivo furono adibite a cisterne e rese impermeabili con il cocciopesto, un intonaco di calce mista a cocci triturati. La più ampia, nota come Cisternone Vittorio Emanuele II, poteva contenere fino ad un milione di litri d'acqua piovana proveniente dall'anfiteatro attraverso un cunicolo sotterraneo tuttora percorribile.
            La cavità subì un ulteriore riadattamento a carcere, come testimoniano le numerose anelle osservabili lungo le pareti, destinate al fissaggio delle catene.



            VILLA DI TIGELLIO

            PIANTA DELLA VILLA
            Il complesso, noto con il nome di Villa di Tigellio perché originariamente attribuito al ricco cantore romano, comprende in realtà i resti di un elegante quartiere residenziale romano di età imperiale.

            Nell’area sono visibili i resti di una struttura termale, di cui sono conservati resti del pavimento del calidarium, la stanza dei bagni d'acqua o di vapore, e di tre abitazioni signorili. Due di questo sono dette Casa del Tablino dipinto (lo studiolo del padrone di casa), nella quale sono stati ritrovati resti di pavimentazione a mosaico, e Casa degli Stucchi così detta dai resti delle decorazioni murali; della terza casa non rimane invece quasi nulla. L'età va dalla: fine del I sec. a.c. fino al VI/VII sec. d.c.

            Sono attualmente visibili i resti di tre abitazioni adiacenti affiancate ad uno stretto vicolo che le separa da un'area in cui sorgeva un complesso termale, di cui sono conservati resti del pavimento del calidarium, stanza dei bagni d'acqua o di vapore.

            Le tipologie edilizie richiamano quelle della domus romana, articolata longitudinalmente in vani la cui disposizione e funzione obbedivano a canoni ben determinati. Nelle domus cagliaritane è ben riconoscibile l'atrio, in cui l'impluvium, sorretto da quattro colonne, consentiva la raccolta dell'acqua piovana in una cisterna posta al di sotto del pavimento, e, comunicante con l'atrio, il tablino, sorta di studiolo di pertinenza del padrone di casa. Piccoli ambienti destinati alla notte, i cubicula, erano disposti ai lati o posteriormente all'atrio.


            Gli scavi

            Effettuati in varie riprese a partire dall'Ottocento, avevano restituito decorazioni murali e mosaici pavimentali di pregio, da cui erano derivate, a due delle domus, le denominazioni di "casa degli stucchi" e "casa del tablino dipinto" (il tablino era una sorta di studiolo di pertinenza del padrone di casa, ben riconoscibile nelle domus cagliaritane).

            Attualmente sono visibili alcuni frammenti di affreschi, un lembo di mosaico pavimentale policromo, un pavimento costruito con la tecnica dell'opus signinum, con tessere in marmo bianco inglobate nel cocciopesto.



            GROTTA DELLA VIPERA

            COME APPARE OGGI
            Costruita tra il I e il II secolo d. C., essa riproduce la facciata di un tempio con colonne: è chiamata così per la presenza, ai lati del frontone, di due serpenti, antichi simboli della Madre Terra molto usati anche a Pompei.

            Il monumento, scavato nella roccia, fu dedicato dal romano Lucio Cassio Filippo alla moglie Atilia Pomptilla, per ricordarne in eterno la memoria e l'amore dimostratogli.

            La leggenda narra infatti che Atilia avesse pregato gli dei perché prendessero la sua vita in cambio di quella del marito, gravemente ammalato. Gli dei, impietositi, la accontentarono: Filippo poté continuare a vivere grazie all'estremo sacrificio della moglie.

            La storia viene ricordata anche sulla parete della grotta, dove, in un'iscrizione in lingua greca, si legge:

            "Possano, le tue ceneri, o Pomptilla, tramutarsi in viole e in gigli,
            e fiorire nei germogli delle rose, del croco odoroso e dell'eterno amaranto.

            RICOSTRUZIONE, COME DOVEVA APPARIRE

            Possa tu rinascere nei bei fiori del garofano,
            affinché il tempo, così come per Narciso e Giacinto,
            conservi anche il tuo fiore tra coloro che verranno.

            Mentre infatti, il respiro di lei si affievoliva,
            accostandosi Filippo alle estremità delle sue labbra,
            ne accoglieva l'anima;
            così Pomptilla, stando accanto al marito che respirava a fatica,

            scambiava la sua morte con la vita di quello."



            LE EPIGRAFI

            La storia della Carales romana è attestata soprattutto dai rinvenimenti epigrafici di l’età imperiale che ricordano azioni evergetiche da parte di personaggi politicamente influenti:
            PARTICOLARE DELLA GROTTA DELLA VIPERA
            • un’iscrizione datata in un periodo precedente al 6 a.c. ricorda la costruzione di “campum et ambulationes” da parte di Cecilio Metello Cretico, cioè luoghi per il passeggio e di esercitazione sportiva e militare;
            • restauri di fogne, strade, itinera sono intrapresi da parte del “procurator Augusti,  praefectus provinciae Sardiniae”, 
            • itinera sotto Domiziano; tra il 200 ed il 209 d.c.
            • Domizio Tertullo restaura le terme cosiddette Rufiane, 
            • Lucio Ceionio Alieno costruisce e successivamente restaura horrea imperiali tra il 212 ed il 217 d.c., ovvero i granai pubblici presenti in città, luogo di stivamento dei prodotti cerealicoli provenienti dal fertile Campidano.
            • Le attestazioni epigrafiche riguardanti gruppi di “classiarii” militanti nella flotta misenate testimoniano, inoltre, l’importanza del porto di Carales come base militare di distaccamento per il presidio di questa porzione del Mediterraneo centro-occidentale. 
            • Due iscrizioni di età augustea, attesterebbero la costruzione di un edificio di incerta identificazione eretto da un Iulius M. f., 
            • l’altra, la costruzione di un mercato da parte di L. Alfitenus L. f. Quir. 
            • un’iscrizione documenta ancora la sede del praetorium, 
            • la presenza di un tabularius in un altro documento epigrafico potrebbe testimoniare un edificio pubblico con funzione di archivio provinciale in Carales.
            • Dalle passioni medievali di Efisio e Lussorio apprendiamo l’esistenza di un tribunale e di un carcere dove i due martiri sarebbero stati giudicati ed avrebbero scontato la pena loro assegnata prima disubire il martirio.
            • Di recente alcune scoperte in una delle grotte presenti nel complesso dei Cappuccini, in vico I Merello ha fatto ipotizzare la presenza del carcere in un’area prossima all’anfiteatro, dove i condannati avrebbero potuto subire il martirio nell’ambito dei giochi circensi. Però Vitruvio afferma: “Aerarium, carcer, curia foro sunt coniugenda, sed ita uti magnitudo symmetriae eorum foro respondeant”, cioè: “l’erario, il carcere e la curia debbono essere congiunti al foro, ma in modo che le loro dimensioni e i rapporti modulari siano proporzionati al foro” (De Architectura). 
            È ipotizzabile l’esistenza del capitolium, in base alla persistenza del toponimo derivato dall’intitolatura di una chiesa dedicata a San Nicola in Capitolio, presente sino alla seconda metà dell’800 all’inizio dell’attuale via Sassari.

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