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VIA VEIENTANA

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PARTI DELLA VIA VEIENTANA
La via Veientana (o Vejentana) era una strada etrusca che dall'antica città di Veio conduceva al fiume Tevere, all'altezza dell'attuale Ponte Milvio, seguendo i percorsi della via Cassia, della via Clodia e della Via Flaminia.

Nel 1692 papa Alessandro VII (Fabio Chigi) volle il catasto dell'Agro Romano che venne affidato al perito agrario di Urbino Giovanni Battista Cingolani, il quale realizzò un pregevole rilievo, dato alla stampa per la prima volta nello stesso anno, in cui comparve l'intero percorso della Veientana. Nel 1704 Padre Ridolfino Venuti pubblicò la carta a cui aggiunse il catalogo alfabetico delle tenute col nome dei possessori e l'area di ciascuna.
Sulla via Veientana-Cassia antica, che è il primo tratto della via dal Ponte Milvio in poi, questa segue il tracciato della collina passando attraverso il fosso detto dell'Acqua Traversa, citato dal Nibby in relazione al ponte sulla Cassia, nelle vicinanze del quale avrebbe sostato Annibale con le sue truppe, prima di saccheggiare il ricchissimo tempio di Lucus Feroniae.

Nella tenuta dell'Acquatraversa, di proprietà della famiglia Borghese, nel periodo compreso tra il pontificato di Papa Paolo V e quello di Papa Clemente X, (1605 - 1676) furono condotte diverse ricerche archeologiche che portarono alla scoperta di diversi reperti, tra cui: un busto di Lucio Vero, una Venere, resti di due statue colossali (Marco Aurelio e Lucio Vero), alcune colonne di alabastro, e parte di una condotta in piombo.

La Veientana proseguiva poi fino al Fosso del Fontaniletto proseguendo fino all'affluente del Tevere, il Cremera, luogo della omonima battaglia fra romani e veienti del 477 a.c., quando venne quasi totalmente distrutta la romana gens Fabia.

GROTTA DI GROTTAROSSA
Nel "Thesaurus antiquitatum et historiarum Italiae" del 1723 venne citata una «prisca via cognomento Vejentana à Cassia deductar, ut signatur in Tabula Peutingeriana» e nella mappa seicentesca è in effetti ben visibile il tracciato della Veientana.

Essa compare come un diverticolo della Cassia che passa sopra il Fosso del Fontaniletto, dividendosi all'altezza della moderna Via di Grottarossa, la "Viatrium ad Flaminiam" (Trivio alla Flaminia), che collega ala Cassia e la Veientana con la Flaminia
Il percorso del Viatrium è riscontrabile nel tratto della via Grottarossa moderna che scende la collina verso la Flaminia, costeggiando le antiche grotte del neolitico, passando attraverso la zona di Rubrae, da cui la moderna Saxa Rubra, nome corrotto poi in Lubrae, oggi Labaro, erroneamente attribuito nel nome al labaro sognato da Costantino nell'accampamento da cui sarebbe partita la battaglia di Ponte Milvio.

L'archeologo Sir William Gell, nello scritto "Avanzi di Veji", ne descrisse il percorso di 12 miglia romane che separavano Roma da Veio: «dobbiamo ora seguirla giù pel ciglione fino all'unione con il ruscello chiamato Fosso dei Fossi con il Cremera o Formello, dopo che le acque riunite prendono il nome di Valca o Varca, e sono ancora visibili i vestigi della via Vejentana»
(Sir William Gell, 1832)
PARCO DI VEIO
Partendo da Ponte Milvio, collocato sul lato sinistro, si ergeva la villa dell'Imperatore Lucio Vero sulla via Veientana già trasformata in via Cassia). La via Veientana si staccava dalla Cassia all'altezza del V miglio, in zona Tomba di Nerone. Oggi l'urbanizzazione della zona ha fatto scomparire l'originale percorso della strada etrusca.

Come scrisse William Gell: «dalle tracce della strada che ogni nuovo anno tende a cancellare, sembra che la via Vejentana si diramasse dalla Cassia presso il sepolcro detto volgarmente di Nerone, non lungi dal quinto miglio moderno».
In prossimità di Veio, vennero impiantate nel I secolo due mansiones, stazioni di posta, una al IX miglio (ad nonas, all’incrocio tra Cassia e Clodia, e non lontano dalla confluenza con la Trionfale) e una al XXI (baccanae, all’incrocio con la Via Amerina), e lo sfruttamento di queste due strutture per i primi secoli dell’impero testimoniano il movimento e la vita di queste terre. 
A partire dal IV secolo accanto ad esse sorsero delle strutture funerarie cristiane (Baccano anche una Basilica Martiriale dedicata al Vescovo Alessandro). La mansio di Baccano venne poi trascurata in favore del nascente Burgus Baccani (noto solamente da fonti del XI secolo) e mai analizzato archeologicamente.

VIA VEIENTANA


LE NECROPOLI

Lungo la Veientana sono state rinvenute anche una necropoli etrusca chiamata Volusia (dal nome della strada ove è situata) e delle tombe etrusche tra via di Quarto Annunziata e la zona di Labaro, che presuppongono una via di congiunzione, la "Viatrium ad Flaminiam". Secondo alcuni studiosi invece la via proseguirebbe verso nord passando per il paese di Isola Farnese e quello di Formello fino a raggiungere i resti di Veio.Nel IV secolo la comunità cristiana veientana si dotò di nuove sepolture attraverso la Catacomba di
Monte Stallone, il che portava più presenze sia sulla via Ceientana che nelle due mansiones.



I MONUMENTI

Sulla via Veientana sono emerse alcune ville romane distribuite nell'Agro Veientano, oggi chiamato Parco di Veio, come Villa di Campetti e Villa di Ospedaletto Annunziata e inoltre il Sepolcro dei Veienti struttura funeraria del periodo del primo impero che domina la via nei pressi del Parco Papacci a Grottarossa, nonché la Villa di Grottarossa che già si affaccia sulla via Flaminia



LE IPOTESI

William Gell ha ipotizzato che la Via Veientana superasse la città di Veio per concludersi nella vicina lucumonia etrusca di Sutri: «alla porta di Sutri, o Galeria, rimaneva pochi anni sono il pavimento della strada, che era la continuazione della Via Vejentana», ma è tutta da provare.
(William Gell, 1832)

Alcuni studiosi degli anni '90 hanno ritenuto la Veientana un nome alternativo della via Amerina ed altri come un tratto del tracciato della via Flaminia.



LA VIA VEIENTANA ESISTE

In occasione della manutenzione del Grande Raccordo Anulare, all'altezza del torrente Crescenza, già sin dal 1962 furono scoperti un mausoleo e un tratto del basolato romano dell'antica via Veientana. Nel 2008, con la costruzione di un pilastro del viadotto del GRA sul torrente della Crescenza ci sono stati ulteriori ritrovamenti archeologici tra cui una Mansio romana con un pavimento a mosaico in bianco e nero con motivi marini e un nuovo pezzo della via, che dopo il '62 era stata lasciata all'incuria lasciandola coprire dalla vegetazione. La scoperta ha confermato definitivamente l'esistenza della Veientana, contraddicendo gli studiosi che ne hanno negato l'esistenza..

Con la scomparsa dell'antica strada etrusco-romana, oggi il toponimo di Vejentana viene usato per indicare la SS 2 bis, strada a percorrenza veloce che porta dal GRA fino alla città di Viterbo.


BUSTUM AUGUSTI - USTRINUM DOMUS AUGUSTAE

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LA CREMAZIONE DI AUGUSTO
"L'ustrinum, o crematorio, appartenente al mausoleo di Augusto nel campus Marzio, chiamato Bustum Augusti o Ustrinum Domus Augustae, o Ustrinum della Casa di Augusto, è descritto da Strabone (V.3.9, p.236) come un recinto di travertino con una griglia metallica, presumibilmente in cima al muro, e piantato all'interno con pioppi neri."
(Topographical Dictionary of Ancient Rome di Platner e Ashby)

LA FRECCIA ROSSA INDICA LA POSIZIONE DELL'USTRINUM

IL RITO DELLA CREMAZIONE

Il rito della cremazione (crematio) si svolgeva così. Gettati fiori o corone sulla catasta lignea (rogus), le si dava fuoco fra nenie di lamento e si versavano sulle fiamme vino o profumi. Spente le brace, si raccoglievano fra le ceneri le ossa combuste del morto; che talvolta si aspergevano con vino o con miele. 

Accuratamente asciugate, si racchiudevano nell'olla o nell'urna, che veniva deposta nel sepolcro con alcuni vasetti di olio o di unguenti. Eccezionalmente si costruirono entro Roma, a parte l'Ustrinum imperiale presso il mausoleo di Augusto (Augusteum) nel Campo Marzio, il Bustum Adrianum e il grandioso Ustrinum Antoninorum, anch'esso nel Campo Marzio, identificato nel 1703 dall'architetto Francesco Bianchini, nei pressi della piazza di Montecitorio e precisamente dove sorgeva la chiesa e la casa dei Missionarii.

Un altro ustrinum imperiale fu messo in luce, vicino al precedente, nel 1910 durante i lavori di fondazione del nuovo braccio del palazzo di Montecitorio, dove ora sorge l'aula parlamentare. Questi ustrina erano formati da un recinto quadrato a pilastri di travertino con inferriata, di circa m. 30 di lato (100 piedi romani). Seguiva un secondo recinto di 23 m. di lato; nel mezzo vi era una base quadrata di 13 m. di lato (cfr. Herodian, IV, 1). 



L'USTRINO DI AUGUSTO

Il sito della pira funeraria dell'imperatore Augusto, l'ustrino della casa di Augusto, era situato nel Campo Marzio, vicino al Mausoleo di Augusto, e il suo ustrinum era invece che quadrato, di forma circolare (Strab., V, 3, 8).

Anche le colonne rostrate erette presso l'ustrino di Augusto, cosi come di quelle di Antonino Pio e di Marco Aurelio, significativamente vicine agli ustrini imperiali, hanno un significato funebre. II ruolo di elevare un uomo sopra gli altri, riconosciuto dagli autori antichi alle colonne onorarie, si adatta del resto perfettamente alla concezione imperiale della morte del principe come apoteosi, evocata nel noto rilievo della base della Colonna di Antonino Pio.


I CIPPI

Gli scavi del 1777 all'angolo tra il Corso e via degli Otto Cantonia portarono alla luce sei grandi cippi rettangolari di travertino, con iscrizioni di vari membri della domus Augusta, dei tre figli di Germanico, di sua figlia, di Tiberio figlio di Druso e di un certo Vespasiano (CIL VI.888-893) e di una bella urna di alabastro (HF 213).

È molto probabile che questi cippi, o comunque i primi tre, che terminano tutti con la formula "hic crematus est", appartenessero all'ustrinum, e che questo giacesse sul lato est del mausoleo (HJ 620); mentre il quarto e il quinto, che portano la formula "hic situs (o sita) est", possano essere appartenuti al mausoleo. Hirschfeld, tuttavia, esclude questa possibilità, soprattutto per il materiale e la forma dei cippi (Berl. Sitz. Ber. 1886, 1155-1156 = Kleine Schriften, 458-459).

Questi cippi avevano iscrizioni di vari membri della famiglia imperiale, i tre figli e una figlia di Germanico, Tiberio figlio di Druso, e un certo Vespasiano non meglio identificato. È molto probabile che questi cippi, o comunque i primi tre, che terminano tutti con la formula "hic crematus est", appartenessero all'ustrinum. Ciò collocherebbe l'ustrino sul lato est del mausoleo.

Se questa ipotesi è realistica, il quarto e il quinto cippi, che portano la formula "hic situs (o sita) est", potrebbero essere appartenuti al mausoleo. L'archeologo tedesco Otto Hirschfeld, tuttavia, esclude questa possibilità, soprattutto a causa del materiale e della forma dei cippi.

Il governo di Mussolini scelse l'area intorno al Mausoleo di Augusto come sede della ricostituita Ara Pacis. Diversi isolati della città furono quindi rielaborati per l'occasione, ed è per questo che la Piazza degli Otto Cantoni fu ribattezzata Piazza di Augusto Imperatore.

Vedi anche: MAUSOLEO DI AUGUSTO


BIBLIO

- F. Carlos Noreña - Locating the "Ustrinum" of Augustus - Memoirs of the American Academy in Rome - Vol. 58 - University of Michigan Press -  2013 -
- Sesto Aurelio Vittore - De Caesaribus -
- Gaio Svetonio Tranquillo - Vite dei Cesari -
- Santo Mazzarino - L'Impero romano - Roma-Bari - Laterza - 1973 -
- Howard Hayes Scullard - Festivals and ceremonies of the Roman republic - 1981 -

ASSEDIO DI VEIO

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I FABII IN MARCIA

I FABII

A partire dal V secolo a.c. crebbero i motivi di attrito tra Veio e Roma, soprattutto per il possesso di
Fidenae, città alleata di Veio. Allora la gente Fabia si presentò di fronte al senato e il console parlò a nome della propria famiglia:

Nella guerra contro Veio, come voi sapete, o padri coscritti, la costanza dello sforzo militare conta più della quantità di uomini impiegati. Voi occupatevi delle altre guerre e lasciate che i Fabi se la vedano coi Veienti. Per quel che ci concerne, vi garantiamo di tutelare l'onore del popolo romano. E’ nostra ferma intenzione trattare questa guerra alla stregua di una questione di famiglia e di accollarcene tutte le spese: lo Stato non deve preoccuparsi né dei soldati né del denaro."

Seguì un coro unanime di ringraziamenti. Il console uscì dalla curia e se ne tornò a casa scortato da un nutrito drappello di Fabi, i quali avevano aspettato il verdetto del senato nel vestibolo della curia. Quindi, ricevuto l'ordine di trovarsi il giorno dopo, armati di tutto punto, di fronte alla porta del console, rientrarono tutti nelle proprie case.

La notizia fece il giro della città e i Fabi vennero portati alle stelle: una famiglia si era assunta da sola l'onere di sostenere lo Stato e la guerra contro i Veienti si era trasformata in una faccenda privata e combattuta con armi private. 

Nessuno dei Fabii fece ritorno a casa. Nel 477 a.c. la gens romana dei Fabii venne sterminata in un agguato nella battaglia del Cremera.



VEIO CONTRO ROMA

- Nel 420 a.c. Veio chiese aiuto, contro Roma, a tutte le città etrusche riunite al Fanum Voltumnae, vicino Orvieto, ma l'aiuto fu negato. Forse perchè Veio era governata da un re, mentre le altre città avevano un governo repubblicano.

Secondo altri le città etrusche negarono l'aiuto in quanto impegnate contro degli invasori Galli, che minacciavano di scendere da nord. Alleate di Veio rimasero Fidenae, Falerii e Capena. A Roma sono tribuni consolari Lucio Furio Medullino, Lucio Quinzio Cincinnato, Marco Manlio Vulsone e Aulo Sempronio Atratino, l'allarme è iniziato.

- Nel 406 a.c., Roma dichiara finalmente guerra alla potente città di Veio e l'anno dopo iniziò il decennale assedio della città etrusca. Da parte loro i Veienti non riuscirono a trovare alleati nelle altre città etrusche.

Veio è imprendibile ma nel 403 a.c. i romani iniziarono a costruire fortini per controllare il territorio veiente, e terrapieni e macchine d’assedio (vinea, torri e testuggini) per stringere l’assedio alla città.


Il compimento di queste opere comportò la necessità di mantenere i soldati in armi anche durante l’autunno e l’inverno, quando solitamente i cittadini-soldati tornavano in città per attendere alle proprie cose, per evitare che le stesse, lasciate incustodite, fossero disfatte o distrutte dai nemici.

Nonostante la decisa opposizione dei Tribuni della plebe, si giunse alla straordinaria decisione di mantenere l’esercito in armi ad assediare Veio finché questa non sarebbe caduta; ai soldati in armi la città avrebbe garantito il soldo grazie ad una nuova imposizione straordinaria. Veio dal canto suo trovò l’appoggio dei Capenati e dei Falisci, nel 402 a.c. e nel 399 a.c., appoggio che inizialmente non riuscì ad allentare la pressione dell’assedio romano.

Nel 396 a.c. però i Capenati e i Falisci riuscirono a sorprendere i romani in un’imboscata, dove insieme a molti soldati, trovò la morte anche Gneo Genucio Augurino, uno dei 6 tribuni consolari eletti per quell’anno; come per altre situazioni di crisi Roma reagì nominando un dittatore, che questa volta fu trovato nella persona di Marco Furio Camillo.

ASSEDIO DI VEIO

MARCO FURIO CAMILLO

Marcus Furius Camillus fu censore nel 403 a.c., celebrò il trionfo ben quattro volte, cinque volte fu dittatore, quindi sempre in guerra, e fu onorato con il titolo di Pater Patriae, nonchè di Secondo fondatore di Roma. Fu sei volte tribuno militare con potestà consolare tra gli anni 401 e 381.

Egli divenne popolare da un'azione di combattimento, quando Roma era in guerra contro Volsci e Equi sotto il comando del dittatore Tubero Postumio, dove, essendo Camillo comandante della cavalleria, salvò il dittatore già ferito a una coscia, combattendo da solo contro i diversi nemici che lo attorniavano. Secondo Plutarco ciò gli valse la nomina a censore. Secondo Tito Livio, invece fu eletto tribuno con poteri consolari per la prima volta nell'anno 403 a.c.

Furio Camillo venne eletto di nuovo dittatore durante la guerra contro Veio, che assediata, con un'irruzione notturna aveva bruciato l'accampamento dei Romani. A questo punto ci fu una dura reazione e tutti i giovani dell'Urbe chiesero di combattere e di non tornare se Veio non fosse stata distrutta.

"Erano entrati i Volsci e gli Equi con gli eserciti loro ne’ confini romani. Mandossi loro allo incontro i Consoli. Talché, nel travagliare la zuffa, lo esercito de’ Volsci, del quale era capo Vezio Messio, si trovò, ad un tratto, rinchiuso intra gli steccati suoi, occupati dai Romani, e l’altro esercito romano; e veggendo come gli bisognava o morire o farsi la via con il ferro, disse a’ suoi soldati queste parole:

« Ite mecum; non murus nec vallum, armati armatis obstant; virtute pares, quae ultimum ac maximum telum est, necessitate superiores estis ». 
(Venite con me, nè muro, nè vallo, nè uomini armati sono di ostacolo agli armati; la virtù splende come l'ultimo e il massimo giavellotto, perchè la necessità rende superiori)."


Sì che questa necessità è chiamata da Tito Livio « ultimum ac maximum telum » (ultimo e massimo giavellotto)

Camillo, prudentissimo come tutti i capitani romani, essendo già dentro nella città de’ Veienti con il suo esercito, per facilitare il pigliare quella, e torre ai nimici una ultima necessità di difendersi, comandò, in modo che i Veienti udirono, che nessuno offendessi quegli che fussono disarmati; talché, gittate l’armi in terra, si prese quella città quasi sanza sangue. Il quale modo fu dipoi da molti capitani osservato."

ANTEFISSA VEIENTE (PROBABILE DEA TURAN,  LA VENERE ETRUSCA)
Furio Camillo, dopo essersi coperto le spalle sbaragliando Capenati e Falisci, intensificò l’assedio di Veio, iniziando anche la costruzione di una galleria sotterranea, che arrivava fin sotto la cittadella di Veio. Completata l’opera, il dittatore attaccò in forze e in più punti le mura della città, per dissimulare la presenza di soldati nella galleria sotterranea.

« La galleria, piena com’era in quel momento di truppe scelte, all’improvviso riversò il suo carico di armati all’interno del tempio di Giunone sulla cittadella di Veio: parte di quegli uomini prese alle spalle i nemici piazzati sulle mura, parte andò a svellere dai cardini le sbarre che chiudevano le porte e altri ancora appiccarono il fuoco alle case dai cui tetti i servi e le donne scagliavano una gragnuola di sassi e tegole. »
(Tito Livio, Ab Urbe Condita, V, 2, 21.)

Furio Camillo fece voto, se avesse conquistato Veio, di riedificare a Roma il tempio della Mater Matuta, e dopo l'assedio e le varie battaglie durati ben 10 anni, riuscì a vincere, scavando un cunicolo che portava dentro la cittadella, e contemporaneamente attaccando le mura per distrarre i Veienti.

Come aveva appreso da notizie di nemici corrotti, il cunicolo portava direttamente nel tempio di Giunone, da cui irruppero nella città. Conquistata la città, per evitare ulteriori guerre contro gli irriducibili veienti, rase al suolo Veio riportandone grande bottino, tra cui la bellissima statua di Giunone corredata dai sacerdoti auruspici etruschi.

Veio fu così conquistata, con grande bottino per i romani, che con questa vittoria posero le basi della propria supremazia sull’altra sponda del Tevere, fino ad allora controllata da popolazioni etrusche.

TRIONFO DI FURIO CAMILLO
Eutropio, Breviarium ab Urbe condita:
"Dal Senato fu inviato in qualità di dittatore contro i Veienti, che dopo vent'anni si erano ribellati, Furio Camillo. Egli li vinse prima in battaglia, quindi conquistò anche la loro città."

Dunque nel 406 a.c., Veio viene sconfitta da Roma, ma molti la datano al 396 a.c., dopo un assedio di 10 anni. Livio narra che Veio fu presa solo perchè vi fu un traditore che permise alle truppe romane di entrare in città attraverso un cunicolo che sbucava all'interno del tempio di Giunone Regina, localizzato a sud-est del pianoro.

Che il cunicolo fosse già esistente è molto probabile perchè Veio era costruita su un costone di tufo, che non solo non era tenero da scavare, ma sicuramente in qualche modo sarebbe stato udito. Il che dimostra quanto Veio fosse ben protetta da mura e combattenti, per cui solo con l'inganno avrebbe potuto cedere.

Marco Furio Camillo, che guidava le truppe romane, saccheggiò il santuario pieno di ori e argenti e ne trasferì la statua di culto a Roma per mezzo del rito della evocatio, avvenuta, come si narra, con il "consenso" di Giunone, espresso - narrano le fonti - con un cenno del capo (secondo altre fonti fece udire il suo "si").

Una parte del territorio veientano venne assegnata a cittadini romani. Gli scampati al massacro del
396 a.c. ottennero anch'essi la cittadinanza romana e non furono ridotti in schiavitù, ma diedero origine alle tribù Stellatina, Tromentina, Sabatina e Arniensis. Come suo solito Roma lungimirante accoglieva e si ingrandiva per estendere il suo dominio sul mondo. .

ELENIO ACRONE - HELENIUS ACRO

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Nome: Helenius Acro 
Nascita: II secolo 
Morte: III secolo
Professione: grammatico romano

Elenio Acrone (in greco antico: Helenius Acro; II secolo – III secolo) è stato un grammatico romano.
Fu contemporaneo di Aulo Gellio (125 - 180), probabilmente visse tra il II e III secolo d.c. e si occupò di poeti "classici" della commedia e della satira, specializzandosi su Terenzio (190 - 159), forse su Persio (34 - 62) e soprattutto su Orazio (65 a.c. - 8.a.c.) 



LE OPERE

- Scrisse un commento a Terenzio "Adelphoe ed Eunuchus" che è andato perduto, ma in parte riutilizzato nella tradizione grammaticale posteriore.- La inscriptio "Acronis commentum super satyras Persii" che nel codice Ambrosiano I, 38, supportano quegli scolî al poeta di Volterra i quali sono generalmente detti di Cornuto, farebbe pensare a un suo "Commento a Persio".

- Tracce del suo celebre commento su Orazio si trovano nelle varie recensioni degli scoli (un insieme di annotazioni e glosse, cioè l'interpretazione di parole oscure in quanto in disuso, che si trovano spesso annotate sui margini dei codici medioevali delle opere della letteratura greca e latina. L'autore delle annotazioni è indicato come scoliaste), in particolare in Porfirione, che ne fa uso.

CICERO CONTRO VERRE - SATIRA

Pomponio Porfirione

Pomponio Porfirione fu un grammatico latino e un erudito, discepolo di Elenio Acrone (o Pseudo-Acrone), vissuto all'inizio del III secolo d.c., scrisse un commento, giunto sino a noi, sulle "Satire di Orazio" (di Quinto Orazio Flacco, che l'autore chiamò Sermones) per essere usato nelle scuole di grammatica per l'insegnamento.

Infatti, dopo brevi cenni biografici, vi si illustra il significato, il metodo stilistico e la poetica (gli intenti espressivo-contenutistici che un artista, attraverso un'"estetica" esplica nelle sue opere) dell'opera oraziana. In base alla lingua e allo stile dell'opera, si suppone che fosse africano.» «

Il suo non è il commento più antico, ma i precedenti, come quello di Quinto Terenzio Scauro [(il più illustre grammatico del suo tempo, ebbe rapporti con Plinio il Giovane e con l'imperatore Adriano, che si rivolgevano a lui per questioni letterarie e grammaticali, fiorito durante i principati di Traiano (98-117) e di Adriano (117-138)], sono andati perduti e anche quello di Porfirione si è spesso mescolato con gli scritti di Acrone.



Pseudo-Acrone
 
Comunque, in una biografia del poeta è riportato proprio che il suo fosse il miglior commento oraziano tra quelli disponibili. Tuttavia, gli scoli a Orazio tramandati con il suo nome, sono una rielaborazione posteriore (detta, perciò, "Pseudo-Acrone") di autori medievali.

Le opere di Acrone disponibili oggi: 

- Pseudacronis Scholia in Horatium Vetustiora - Vol. 1: Schol. AV in Carmina Et Epodos (Classic Reprint) - di Helenius Acron -
- Eclogae - di Quintus Horatius Flaccus, Helenius Acro - di Quintus Horatius Flaccus (Autore), Helenius Acro (Autore), e William Baxter (Autore)
- Acronis et Porphinionis Commentarii in Q. Horatium Flaccum - Vol II - di Helenius Acro (Autore), e Pomponius Porphyrio (Autore).
- V. Ussani - Acrone, in Enciclopedia Italiana - Roma, Istituto della Enciclopedia Italian, 1929, vol. 1. Ad Orazio, Satire, I 1, 85. -
- Schmidt, Peter L. (Constance), Helenius Acron, in Brill’s New Pauly, Antiquity volumes edited by: Hubert Cancik and Helmuth Schneider, English Edition by Christine F. Salazar, Classical Tradition volumes edited by Manfred Landfester, English Edition by Francis G. Gentry.



BIBLIO 

- Otto Keller, Über Porphyrion, Pseudoacron und Fulgentius, scoliasten des Horaz, in Symbola philologorum Bonnensium in honorem Friderici Ritschelii collecta - Leipzig, Teubner - 1864-7 -
- Pseudacronis scholia - in Horatium vetustiora - ed. Otto Keller, Leipzig, Teubner, 1902, 2 voll.
- Chiara Formenti - Il commento pseudacroneo A' e lo studio di Orazio nella scuola tardoantica, tesi di dottorato in Antichistica - Curriculum Filologia, Letteratura, Glottologia - Ciclo XXVIII - Milano - Università degli Studi - a.a. 2015-2016 -
- L. Müller - Zu Acro und Porphyrio - in "RhM" - n. 25 - 1870 -
- G. C. Giardina - Note a Porfirione - in "Museum Criticum" - n. 18 - 1983 -

CULTO DI CARNEA - APOLLO CARNEO

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APOLLO CARNEO

APOLLO CARNEO

Il culto di Apollo Carneo in tempi molto arcaici era diffuso nella maggior parte delle città greche doriche, come ad esempio a Sparta. Le feste dedicate a questo Dio comportavano l'astensione o la sospensione delle operazioni militari per tutta la loro durata.

Ne parlano Erodoto e di Tucidide, secondo cui gli Spartani non giunsero in aiuto degli Ateniesi nella battaglia di Maratona perché dovevano attendere la fine delle celebrazioni delle Carnee prima di partire (Hdt. VI 106,3); gli Spartani inviarono alle Termopili un piccolo contingente agli ordini di Leonida proprio perché in quel periodo si svolgevano le Carnee e non poteva essere inviato tutto l'esercito (Hdt. VII 206).

Altrettanto durante la guerra del Peloponneso gli Spartani interrompevano l'attività bellica durante la celebrazione delle Carnee, mentre gli Argivi cercarono, con un artificio nel computo dei giorni, di rimandare l'inizio del mese Carneo, mese sacro ai Dori secondo Tucidide, per poter concludere un'incursione nel territorio di Epidauro (Thuc. V 54; V 75; V 76,1).



DEA CARNEA

Alla divinità era addirittura dedicato un mese il che fa pensare a una primitiva Dea Madre, appunto Carnea, i cui attributi siano stati poi conferiti ad Apollo che del resto aveva già assorbito le antiche Dee Muse riducendole a sue ancelle.

CARNEA
Nella moneta di cui sopra infatti Apollo ha le corna caprine in genere riservate alla Dea Capra (vedi Giunone caprotina), la Dea che nutre gli esseri col suo latte, che diventa poi caprone e negativo nella cultura religiosa medievale.

Tutto fa pensare che nell'invasione dorica del XIII sec. a.c., che soppresse molte divinità femminili sostituendole con quelle maschili, in particolare con Giove, Apollo ed Ercole, le nuove divinità di fregiarono delle proprietà delle antiche divinità, come del resto Giove strappò l'attributo del corno caprino alla Dea Amaltea trasformandola in capra vera e propria e nutrice del Dio bambino.

Conferma ciò il fatto che la moneta di cui sopra ha nel retro una spiga e una civetta, simboli delle Dee greche  Demetra e Athena. A Roma Carnea, che era Dea della salute, e che assisteva i bambini (chiara allusione alla carne da proteggere), proteggeva la salute dei bambini confondendosi a volte con la Dea Cardea che aveva protetto il bimbo Proco dalle Arpie.

Anch'essa era Dea del biancospino si che i contadini vi recintavano i propri campi affinchè li proteggesse. Sicuramente in parte i campi venivano protetti perchè il biancospino rende siepi molto fitte e irte di grosse spine che tengono lontani gli animali.

Era molto implicata nella salute dei bambini che non solo proteggeva da incidenti ma che a volte guariva miracolosamente da malattie anche gravi. I suoi templi infatti erano colmi degli exvoto per i bambini miracolosamente salvati dalla Dea.
ARCUS MANUS CARNEA

ARCO MANUS CARNEA

Aldilà delle fantasiose favole cristiane sugli improbabili miracoli, il nome dell'antico Arco è latino e si riferisce al vocabolo manus plurale manibus, che significa mano, modalità e molto altro, e carnea che non ha senso interpretare come una aggettivo, anche perchè nella maggior parte degli scritti il vocabolo è "carneae", che non è di certo interpretabile come "mano di carne".

Con tutta probabilità ci si riferisce alla Dea Carnea protettrice dei bambini. La mano di Carnea (manus Carneae, giustamente al genitivo) antica Dea italica, potrebbe essere indicazione di una protezione divina della Dea, anche se non vi sono prove in proposito per cui per ora è solo un'ipotesi.


BIBLIO


- Mirabilia Urbis Romae - 
- Liber politicus - Ordo Romanorum -
- Graphia Aureae Urbis -
- Le Miracole de Roma -
- De Mirabilibus Civitatis Romae -

I GUERRA PUNICA (264 - 241 a.c.)

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CARTAGINESI

LE GUERRE PUNICHE

La prima guerra punica (264 - 241 a.c.) fu la prima di tre guerre combattute tra la città di Cartagine e la Repubblica romana. Le guerre vennero dette Puniche, dal nome in latino con il quale venivano chiamati i cartaginesi: Puniciderivato da Phoenici, cioè Fenici.

La I Guerra Punica durò 20 anni, con alti costi sia di soldati che di denaro, e la posta in gioco fu il predominio del Mediterraneo occidentale.

Dapprima Roma e Cartagine furono in ottimi rapporti sia commerciali che politici, il tutto ratificato da diversi patti per i quali:

- Roma non avrebbe dovuto approdare su terre cartaginesi se non per pochi giorni e per valide giustificazioni;
- Cartagine, invece, da parte sua, non avrebbe dovuto interferire nella politica delle città latine;
- le due potenze si sarebbero impegnate a combattere nemici comuni alleandosi. Infatti el 279 a.c. Roma e Cartagine si allearono contro Pirro, re dell'Epiro, chiamato in Italia dalla città di Taranto contro i Romani e poi in Sicilia da Siracusa contro i Cartaginesi. 

Tuttavia Roma temeva la stabilità politica delle terre conquistate, messa in repentaglio dalla possibile conquista delle città greche in Sicilia da parte dei Cartaginesi, che avrebbero potuto scatenare la rivolta delle vicine città latine. Sia Cartagine che il Senato desideravano annettersi le terre Siciliane.

CARTAGINE

CARTAGINE

Cartagine era stata fondata nell'814 a.c. presso Tunisi da coloni provenienti da Tiro, la potente città fenicia. Grazie alla favorevole posizione geografica divenne porto importante e ricco abitato. Secondo il mito i coloni vennero guidati da Elissa (la regina Didone). E' probabile che ci fosse del vero, nel senso che anticamente il potere sacerdotale era in mano alle donne che spesso ispiravano i re sulla condotta da seguire.

D'altronde i fenici adoravano la Dea Fenicia Tanit, che veniva spesso incisa sull'atrio della casa in senso bene-augurale un po' come si faceva un tempo dove sopra la porta di casa, all'interno, si poneva l'immagine o del Sacro Cuore di Gesù o della Madonna, con la lucetta perennemente accesa sotto l'immagine. Della Dea esistono centinaia e centinaia di immagini, per quante ne siano state accanitamente distrutte.

LE IMMAGINI DI TANIT
Quando poi gli Assiri conquistarono Tiro nel 573 a.c., Cartagine divenne la guida politica di tutte le colonie fenicie nel Mediterraneo, tra cui Olbia e Palermo in Italia e Cadice in Spagna.

Cartagine disponeva della più potente flotta del Mediterraneo, oltre al suo esercito composto da mercenari con cui riuscì a frenare l'espansionismo greco nel Mediterraneo, specie in Sardegna e nella Sicilia occidentale, ma non nell' Italia meridionale e nella Sicilia.

Occorre visitare Cartagine per comprendere l'alto grado di civiltà della zona. I quartieri residenziali, organizzati secondo una pianta a scacchiera con strade larghe e rettilinee, in gran parte costruiti utilizzando una specie di cemento mescolato a coccio, utilizzato sia per i pavimenti che in alcuni muri.

Le case erano fornite di corridoi e scale in legno per accedere al piano superiore. L’acqua piovana era raccolta mediante canali in cisterne poste in un cortile centrale. Non esisteva una rete fognaria, ma venivano utilizzate fosse settiche.

L’entrata della abitazioni di Birsa, detto quartiere di Annibale, è molto stretta, con un lungo corridoio che immette su un cortile dotato di cisterna, attorno al quale si sviluppa l’edificio. Sul fronte c'è uno spazio dedicato al commercio; una scala conduce ai piani superiori. Varie fonti sostengono che gli edifici avevano fino a sei piani.

L’approvvigionamento idrico è gestito privatamente dai cittadini, ed ogni residenza individuale era dotata di una cisterna che costituisce oggi una preziosa guida per gli archeologi nella ricostruzione della topografia urbana. Nel sito di Kerkouane si è rilevato che ogni casa possedeva una sala da bagno posta vicino all’ingresso, pavimentata a mosaico e dotata di vasca da bagno in pietra con uno o due sedili e lavandino.

I CARTAGINESI

I CARTAGINESI

Cartagine era una repubblica oligarchica con tre organi principali:


- 1) - I SUFFETI

I nobili cartaginesi appartenevano a una classe aristocratica proprietaria di terre che in parte però divenne una ricca classe di commercianti via mare. Questi due gruppi elitari erano rappresentati da due magistrati, eletti annualmente, tra le famiglie dei ricchi mercanti e dei proprietari terrieri, ed erano chiamati Sufeti, cioè “giudici”.
Essi:
- presiedevano il senato, 
- amministravano la giustizia, 
- promuovevano le leggi 
- convocano il senato e l'assemblea del popolo.
Erano eletti da un’assemblea dei cittadini che poteva prendere decisioni in caso di divergenze tra i sufeti e il senato. Il senato promulgava le leggi, dirigeva la politica estera e reclutava gli eserciti, ed era sostanzialmente un organo aristocratico, formato esclusivamente da nobili cittadini che restavano in carica a vita.


- 2) - IL SENATO

 era composto da 300 membri. Esso:
- si occupava di questioni di guerra e di pace;
- controllava l'operato dei suffeti.
- era poi diviso in commissioni di cinque membri che eleggevano “la corte dei cento” formato da circa cento senatori cui si conferivano poteri illimitati.

Rispetto alla cultura romana possedevano meno democrazia e soprattutto poca considerazione dei plebei. Sul piano culturale era a tutti gli effetti una città fenicia, che parlava fenicio, che scriveva in fenicio, che seguiva usi e i costumi fenici e che venerava gli Dei fenici.


-3) - L'ASSEMBLEA DEL POPOLO

- eleggeva i suffeti;
- eleggeva i generali;
- pronunciava le condanne all'esilio.

LE ROVINE DI CARTAGINE

LE CITTA' STATO

I fenici sapevano tracciare le rotte marine, sapevano navigare navigare di notte, riferendosi all'Orsa Maggiore. Naturalmente navigavano seguendo il costa a costa, per poter attraccare in caso di difficoltà, fare rifornimento di acqua dolce e viveri e commerciare con le popolazioni locali. Seppero produrre, con il legno di cedro, navi snelle e robuste, che potevano contenere grandi quantità di merci e navigare velocemente.

La loro potenza era soprattutto per mare, dove erano abili combattenti, molto meno attrezzati a combattere sulla terra ferma, dove usavano soldati mercenari assoldati di volta in volta. Viceversa i romani, abituati ad espandersi sul suolo italico, erano poco pratici in mare ma efficientissimi sulla terra ferma, tanto più che possedevano un esercito stanziale che passava la vita ad allenarsi.

Inoltre mentre a Roma c'era come base la figura del cittadino soldato, base per qualsiasi desiderio di intraprendere la carriera politica in quanto base del rispetto romano, a Cartagine il combattimento era esercitato solo da alcune famiglie nobili che ne tenevano il privilegi in qualità di comandanti. Pertanto disposero di ottimi generali ma di combattenti meno bravi e soprattutto meno motivati dei romani che si battevano per la patria.

Le città-stato cartaginesi erano fondate sui promontori della costa, con uno o più porti e con un'entroterra che si spingeva fino alle montagne. Venivano utilizzati anche gli isolotti antistanti la costa, per essere meglio fortificati. Il clima era d'inverno e secco d'estate, ma i cartaginesi sapevano irrigare i campi. 

L'economia si basava principalmente sull'agricoltura con la coltivazione del grano, dell'ulivo, della vite e della frutta, soprattutto fichi e sicomori. Erano anche esperti nella lavorazione del legno e crearono molte industrie per la lavorazione del pesce, in special modo del tonno. Erano inoltre esperti di tecniche della lavorazione del bronzo, dell'avorio, ma furono anche abili fabbri e orafi, soprattutto nell'oro e nell'argento. 

Divennero poi molto abili nelle attività tessili, soprattutto per i tessuti colorati con la porpora, un colorante naturale ottenuto da un mollusco, il murice. Ebbero dunque e produssero risorse notevoli, utilizzabili però totalmente in un contesto di scambi.

Vi erano poi i piccoli agricoltori, i pescatori, gli artigiani e gli operai che lavoravano, insieme agli schiavi (prigionieri di guerra o di azioni di pirateria), nelle fabbriche, nei cantieri navali e nelle grandi proprietà terriere dei nobili. Gli stranieri che vivevano a Cartagine erano detti "meticci" meticci, non avevano diritti politici, ma erano ben integrati nella vita economica, culturale e religiosa della città.

NAVI PUNICHE

IL COMMERCIO PUNICO

Nelle commedie greche il commerciante cartaginese veniva dipinto come un tipo divertente, imbonitore e pacifico, intento a scucire più denaro possibile al nobile e innocente affibbiandogli qualsiasi merce.. I mercanti cartaginesi attraccavano in ogni porto del Mediterraneo, comprando e vendendo, stabilendo magazzini, o sciorinando le loro merci nei mercatini all'aperto appena scesi dalle loro navi.

Sembra che gli Etruschi furono per parecchi secoli clienti e fornitori di Cartagine, molto prima della espansione di Roma. Le città-stato etrusche furono partner commerciali di Cartagine oltre che, a volte, alleate in operazioni militari. Si intendevano tra loro per l'arte del commercio e la raffinatezza, nonchè lo spirito libero delle città-stato.

Occorre andare a visitare Cartagine per comprendere quella civiltà. I quartieri residenziali utilizzavano spesso una specie di cemento mescolato a coccio, sia per i pavimenti che in alcuni muri. Le case erano fornite di corridoi e scale in legno per accedere al piano superiore. L’acqua piovana era raccolta mediante canali in cisterne poste in un cortile centrale. Non esisteva una rete fognaria, ma venivano utilizzate le fosse settiche.



LA STORIA

Dall'VIII fino al V a.c. in Sicilia coabitarono delle etnie fenicio-puniche, soprattutto a Mozia, sull'isola di San Pantaleo, a Solunto, città ellenistica sulla costa settentrionale della Sicilia, sul Monte Catalfano e a Palermo, che durante la guerra contro l'isola di Mozia, insieme a Solunto, Segesta ed Entella si dichiarò fedele a Cartagine e nemica di Dionisio, quindi venne attaccata dai greci di Siracusa, dai Popoli preellenici e dall'etnia greca e saccheggiata.

IL MEDITERRANEO NEL 264 A.C. (INGRANDIBILE)
Le campagne di espansione greca verso l'occidente crearono spesso contrasti e battaglie tra le due etnie, soprattutto tra le città di Selinunte (greca) e Segesta (alleata dei Fenici). Spesso Cartagine forniva mezzi e uomini a supporto dei Fenici isolani, fino ad intervenire in diversi scontri. Il terreno di battaglia fu spesso la Sicilia, come nella celebre battaglia di Hymaera, nel 480 a.c. dove ebbero la meglio i greci, ma non mancarono scontri navali.

All'inizio del V secolo a.c., Cartagine era il centro commerciale della regione, avendo conquistato i territori delle antiche colonie fenicie come Adrumeto (oggi Susa in Tunisia), Utica (città costiera tunisina, Kerkouane (antico sito cartaginese), e delle tribù libiche, conquistando tutta la costa dell'Africa dal Marocco ai confini dell'Egitto. 

Sul Mar Mediterraneo aveva ottenuto il controllo di alcune aree costiere della Sardegna, di Malta, delle isole Baleari e della parte occidentale della Sicilia, e pure alcune colonie in Spagna. In tutto il Mediterraneo occidentale resistevano a Cartaginese solo Marsiglia (colonia greca focese), le colonie greche della costa italiana e i commercianti etruschi.



I SACRIFICI UMANI

SIMBOLO DELLA DEA ASTARTE
"C’era una statua di Cronos in bronzo, dalle mani stese con le palme in alto e inclinate verso il suolo, in modo che il bambino posto su esse rotolava e cadeva in una fossa piena di fuoco" narra Diodoro Siculo, ma si sa che i nemici vengono spesso demonizzati, la stessa cosa si disse degli ebrei e dei cristiani, ambedue sacrificatori di bambini.

La credenza è basata sui Tofet, i cimiteri dei bambini, tra l'altro dedicati alla Dea Madre Tanit e le Dee Madri non volevano certo sacrifici umani..

E' come dire che le tombe di bambini trovate fuori delle tombe a camera etrusche, e ce ne sono parecchie, non si trovino all'interno con quelle degli adulti in quanto sacrificati.

E poi, dato l'odio dei romani per i rivali cartaginesi, figuriamoci se Catone e altri non avrebbero invocato l'abominio per giustificare e spronare all'agognata guerra.

Non esiste la minima prova di codesti sacrifici umani, ma la Chiesa cattolica si è molto data da fare per farlo credere.

Sulla chiesa di Alatri un'epigrafe avverte che un tempo lì sorgesse un tempio di Baal dove si eseguivano i sacrifici dei bambini, notizia assolutamente inventata.



LA SITUAZIONE

Nel 280 a.c. Roma aveva vinto e debellato gli Etruschi, i Sabini, i Volsci, mentre con i Marsi, gli Apuli, i Vestini aveva stretto alleanze, come aveva stretto accordi di alleanza o di non-interferenza con varie popolazioni italiche e con le colonie greche dell'Adriatico.

Per contro non possedeva una vera Marina e per i commerci si affidava agli Etruschi e ai Greci. Gli abitanti di Tarentum, in lotta con i Thurii (coloni magna-greci che stavano tra il Pollino e lo Ionio) che avevano chiesto aiuto a Roma, dal momento che la coalizione con Sanniti, Bruzi e Lucani non riusciva a battere Roma, chiesero aiuto a Pirro, re dell'Epiro.

Pirro, grande condottiero e stratega dei Molossi, aveva perso il trono nel 302 a.c. ed era stato mandato quale ostaggio alla corte egiziana di Tolomeo I che però lo aiutò a rientrare nel suo regno. Chiamato dalla città greca di Taranto contro Roma che aveva rotto un trattato, giunse in Italia nel 280 a.c. con un esercito di 25.500 uomini e 20 elefanti da guerra.

Pirro sconfisse i romani, terrorizzati dagli elefanti, guidati dal console Publio Valerio Levino, nella battaglia di Heraclea e poi sconfisse l'esercito romano guidato da Publio Decio Mure e Publio Sulpicio Saverrione nella battaglia di Ascoli di Puglia, nonostante la "devotio" di Decio Mure.

Giunse poi in Sicilia a favore delle colonie greche contro i cartaginesi, ma venne tradito dai suoi stessi alleati, per tema del suo dominio. Tornato in Italia, nel 275 a.c. venne sconfitto dai Romani a Maleventum, ribattezzata Beneventum e si ritirò in Grecia dove morì. Nelle "Vite parallele" Plutarco paragonò Pirro a Gaio Mario. Nel 272 a.c. Roma conquistò Taranto e la Calabria, e poi anche la Puglia.



SIRACUSA

La città venne governata da Gerone II che venne eletto stratego nel 275 a.c. per le vittorie contro i cartaginesi, e tiranno nel 265 a.c.per le vittorie contro i Mamertini di Messina, alleati di Roma. Forse un po' troppo esaltato dalla vittoria si alleò coi Cartaginesi contro Roma.

RE PIRRO
Cartagine nel 279 a.c. per tema che Pirro cercasse di occupasse Racusa (Ragusa), inviò una flotta di 120 navi che si ancorò nel porto di Ostia per forzare i romani, in guerra con Pirro, a non mollare le ostilità.

Così Cartagine ebbe mani libere contro Siracusa e stipulò un trattato con Roma per spartire le zone di influenza.

Il patto, oltre a promesse di aiuto economico e militare di Cartagine contro i greci, garantiva a Roma che i punici non si accordassero con Pirro mentre Roma era impegnata in combattimenti con Sanniti, Lucani e Bruzi.

Era proibito ai romani sbarcare in Sicilia, ma l'anno successivo, Pirro sbarcò con 8.000 uomini a Catania e Taormina, e conquistò praticamente tutta la Sicilia riducendo i punici al possesso del solo Capo Lilibeo.
Due anni dopo dovette però rientrare in Italia e Cartagine si riprese le sue terre.



BELLUM IUSTUM

Nel 288 a.c. i Mamertini, mercenari campani al servizio del tiranno di Siracusa, alla morte di questi occuparono la città di Messana (Messina) uccidendo tutti gli uomini e prendendone le donne. Inoltre la guarnigione romana di Rhegium (Reggio Calabria) costituita da soldati campani, per prevenire una sollevazione, fece strage degli uomini, impossessandosi dei beni e delle donne. 

Allora i romani, sconfitto ormai Pirro a Maleventum, nel 270 a.c. inviarono un esercito con a capo il console Gneo Cornelio Blasione per riprendere Rhegium. Cornelio pose l'assedio alla città, aiutato dalla flotta siracusana, e quando la guarnigione si arrese deportò a Roma i sopravvissuti tra i 4000 che dieci anni prima avevano preso la città. Il senato chiese una punizione esemplare per quei soldati che si erano macchiati di crimini contro la popolazione facendoli fustigare e poi decapitare dal primo all'ultimo.
In Sicilia invece i mamertini saccheggiavano il territorio circostante Messana (Messina) e si scontrarono con la città indipendente di Siracusa. Il tiranno di Siracusa Gerione II nel 270 a.c. si scontrò con i mamertini vicino Mylae (Milazzo). I mamertini si rivolsero a Roma e pure a Cartagine per ottenere aiuto. Cartagine contattò Gerone per fermarlo e convinse i mamertini ad accettare una guarnigione cartaginese a Messana. I mamertini chiesero aiuto anche a Roma, ma se questa accettava entrava in guerra con Cartagine. 
Da un lato si riteneva ingiusta la causa dei mamertini, che si erano impossessati di una città, e pericoloso rompere il trattato con Cartagine che impediva si mettere piede in Sicilia; d'altra parte non si era favorevoli all'espansione del potere cartaginese che, dopo Messana, poteva passare a Siracusa, e alla Sicilia intera.

Il senato non seppe decidersi e si rimise all'assemblea popolare, dove contava molto la parte mercantile e popolare di Roma, che era anche interessata al grano di Sicilia e a fondare colonie per aprire nuovi mercati. L'Assemblea accettò la richiesta dei mamertini, venne posto il console Appio Claudio Caudice a capo di una spedizione militare con l'ordine di attraversare lo stretto di Messina, nel 264 a.c.

Si dice che Romani mandassero a Cartagine una lancia (simbolo di guerra) ed un caduceo (simbolo di pace) chiedendo ai Cartaginesi di scegliere quale volessero, e che i Cartaginesi rispondessero che i latori dei due simboli potevano scegliere di lasciare quello che volevano. Era stato un tentativo romano di intimidazione, al quale però i Cartaginesi risposero senza paura, a dire che nessuna delle due potenze temeva la guerra.



LA BATTAGLIA DI MESSINA - 264 a.c.

La battaglia di Messina fu il primo scontro tra forze romane e Cartaginesi, cioè l'inizio della I Guerra Punica e durò dal 264 a.c al 241 a.c..
I Mamertini occuparono Messina, uccisero gli uomini e presero le donne e usando Messina come base iniziarono i saccheggi dei territori vicini. Questo finchè Gerone, generale di Siracusa decise di stroncare la situazione:
«...addestrò in modo efficace le milizie cittadine, le condusse fuori, e si scontrò con i nemici nella pianura Milea nei pressi del fiume chiamato Longano. Inflitta loro una pesante sconfitta e presi vivi i loro capi, stroncò l'audacia dei barbari e, una volta tornato a Siracusa, fu proclamato re da tutti gli alleati.»
(Polibio, Storie, I, 9, BUR. Milano, 2001)

I Mamertini avevano chiesto aiuto a Cartagine e contemporaneamente anche a Roma. I Romani avevano appena condannato a morte i loro stessi concittadini (mercenari che come i Mamertini avevano combattuto per Reggio e poi l'avevano occupata). Tuttavia, non per i Mamertini, ma per ragioni di espansione, accettarono la richiesta e nel 264 a.c. Roma inviò a Messina uno dei due consoli, Appio Claudio Caudice, con le sue due legioni. Le altre due legioni vennero affidate a Marco Fulvio Flacco.

Cartagine intanto aveva occupato il porto messinese e il comandante cartaginese si era insediato nella rocca, ma Messina voleva essere romana.
Intanto i Cartaginesi posero la flotta nei pressi di Capo Peloro (la punta estrema nord orientale della Sicilia) e le forze terrestri vicino alle Sine (a nord di Messina). Gerone II di Siracusa si alleò con Cartagine contro i Mamertini, uscì con le sue truppe e si accampò a sud di Messina tentando una azione "a tenaglia".

Appio Claudio, in un primo momento cercò di evitare il combattimento; mediando fra i Mamertini e gli assedianti. Visto che tutto era inutile attaccò i Siracusani che dovettero cedere e ritirarsi nel loro accampamento. Ma nella notte Gerone e i suoi ritornarono a Siracusa. Il giorno successivo però Appio all'alba attaccò i Cartaginesi che dovettero fuggire nelle città vicine. Poi Appio tornò a Siracusa e l'assediò.

Gerone II venne poi sconfitto nel 262 a.c.dai successivi consoli Lucio Postumio Megello e Quinto Mamilio Vitulo, che posero la basi della permanenza romana in Sicilia, mentre Gerone divenne alleato romano.
«la maggior parte delle città, ribellandosi ai Cartaginesi e ai Siracusani, si unì ai Romani. Gerone concluse che le prospettive dei Romani fossero più brillanti di quelle dei Cartaginesi. Perciò, orientato in questo senso dalle sue riflessioni mandava inviati ai consoli parlando di pace e di amicizia. I Romani accettarono soprattutto per gli approvvigionamenti...»
(Polibio, Storie)

A Roma, quando si seppe dei brillanti risultati di Appio si decise di inviare in Sicilia entrambi i nuovi consoli Manio Otacilio Crasso e Manio Valerio Massimo Messalla (figlio di Marco Valerio Massimo Corvino) con tutte e quattro le legioni; 16.000 fanti e 1.200 cavalieri. I Fasti trionfali riportano che Messalla riportò delle grandi vittorie, conquistando 67 cittadine, tra cui Messina e Catania, e vincendo un'importante battaglia contro i cartaginesi ad Imera, un'importante colonia greca.



BATTAGLIA DI IMERA

Occorre ricordare che due secoli prima, assediata ed espugnata Selinunte, la cui popolazione fu o massacrata o ridotta in schiavitù, i Cartaginesi si rivolsero ad Imera, che la gente aveva in gran parte lasciato per scappare a Messina, ma circa 3,000 dei suoi abitanti, per lo più anziani, una volta caduta la città, vennero sacrificati, per ordine di Annibale, ai Mani del suo antenato, ucciso qui nel 480 a.c..

Dopo questi eventi la città venne rasa al suolo e disabitata. Due anni dopo, gli esuli di Imera, assieme a coloni libici, fondarono a 12 km ad ovest dello storico insediamento di Thermai Himeraìai, l'odierna Termini Imerese.

Nel 260 a.c. i Romani subirono presso la città una durissima sconfitta ad opera di Amilcare, ma successivamente riuscirono a riconquistarla, grazie a Manio Valerio Massimo Messalla e al suo esercito nel 253 a.c., e da allora la città rimase fedele a Roma, e fu tra quelle soggette a tributo.

I consoli accettarono la pace, Gerone dovette restituire i prigionieri senza ricevere il riscatto di 100 talenti d'argento, e si impegnò a supportare le attività belliche di Roma in Sicilia. Ora c'era il problema del controllo del mare della flotta cartaginese.



LA BATTAGLIA DI AGRIGENTO

Ratificato l'accordo dal popolo, Roma ridusse le truppe di occupazione a due legioni ma Cartagine, con Siracusa e Roma ormai nemiche, arruolò mercenari Liguri, Celti e Iberici per rinforzare le proprie guarnigioni e li concentrò ad Agrigento.

I successivi consoli Lucio Postumio Megello e Quinto Mamilio Vitulo, inviati in Sicilia nuovamente con quattro legioni (anzichè due) affrontarono la battaglia di Agrigento. Anzitutto si cercò da ambedue le parti di chiudere i porti principali al nemico, per impedirgli il rifornimento delle loro truppe, non possedendo basi militari in Sicilia. 

Poi Roma nel 262 a.c. assediò Akragas (Agrigento) con quattro legioni (circa 20.000 legionari e 2.000 cavalieri) ma la guarnigione cartaginese di Agrigento riuscì a chiedere rinforzi che giunsero, con una flotta che occupò il porto di Messina. 

I romani passarono quindi da assedianti ad assediati e, perso il supporto di Siracusa, dovettero costruire un vallo per la propria difesa, un po' come fece due secoli dopo Cesare ad Alesia. Vinsero i romani, le cui legioni erano più disciplinate ed efficienti delle armate mercenarie cartaginesi, anche perchè gli abitanti si ribellarono e aprirono le porte della città ai romani.

Immenso fu il bottino e il saccheggio del campo nemico che durò buona parte della notte. Se Annibale Giscone (300 - 258 a.c.), comandante delle truppe ad Agrigento, avesse disposto di forze sufficienti forse avrebbe potuto infliggere gravi perdite ai romani intenti al bottino ma i superstiti dopo sette mesi di assedio erano così sfiniti e sfiduciati che durante la notte, senza esser visti dai romani, uscirono dalla città e raggiunsero la flotta.

ARMAMENTO DI GUERRIERO CARTAGINESE

BATTAGLIA DELLE ISOLE LIPARI

Nel 260 a.c., dunque la flotta romana era stata costruita su modello cartaginese e fu affidata al console Gneo Cornelio Scipione Asina, mentre a Gaio Duilio, l'altro console, fu dato il comando delle forze di terra.

Scipione, dopo aver ordinato ai capitani delle navi di partire per Messina appena pronti, era partito in anticipo con 17 navi diretto allo Stretto. Passando vicino all'isola di Lipari, controllata da Cartagine, si accorse che la sua guarnigione aveva dimensioni ridotte, così decise di occupare le isole.
Infatti Gneo occupò la città e il suo porto, ma la notizia giunse velocemente a Palermo, dove il comandante Annibale Giscone, che era riuscito a fuggire da Agrigento, inviò Boode, un membro del Senato cartaginese con venti navi.

«Questi, compiuta la navigazione di notte, bloccò nel porto Gneo e i suoi. Quando sopraggiunse il giorno, gli equipaggi si dettero alla fuga nella terraferma e Gneo, che era terrorizzato e non poteva fare nulla, alla fine si arrese ai nemici
(Polibio, Storie, I, 21, BUR. Milano, 2001. trad.: M. Mari.)
Le navi cartaginesi, catturata la flottiglia nemica e il suo comandante che era anche console tornarono a Palermo.

Cornelio Scipione venne liberato probabilmente quando Marco Atilio Regolo (299 - 246 a.c.) sbarcò in Africa, ma la sua sconfitta non lo penalizzò, perchè venne eletto console per la seconda volta nel 254 a.c. con Aulo Atilio Calatino. Insieme i due consoli comandarono l'esercito in Sicilia e conquistarono Panormium (Palermo). Gneo Cornelio si era vendicato e per questa impresa gli fu concesso l'onore del trionfo (che non venne invece riconosciuto ad Atilio Calatino)



BATTAGLIA DI MILAZZO 260 a.c.

Fu la prima vittoria navale di Roma nei confronti dell'esperta flotta di Cartagine. Messina rinunciava all'indipendenza chiedendo di essere protetta contro i nemici dalla superiore forza militare romana. Ora Roma aveva il "diritto" di stare in Sicilia. Finalmente aveva il Iustum Bellum.

I Cartaginesi intanto crocifissero il loro comandante Annone perchè si era dimostrato vile e incapace, posero la flotta nei pressi di Capo Peloro (la punta estrema nord orientale della Sicilia) e le forze terrestri vicino alle Sine (a nord di Messina). Gerone II di Siracusa stipulò un trattato con i Cartaginesi, e si accampò a sud di Messina tentando una azione"a tenaglia".

Appio Claudio, in un primo momento cercò di evitare il combattimento mediando fra i Mamertini e gli assedianti. Quando capì che era inutile attaccò i Siracusani che dovettero cedere e ritirarsi nel loro accampamento. Durante la notte Gerone e i suoi ritornarono a Siracusa. Il giorno successivo Appio, all'alba attaccò i Cartaginesi e li vinse. Poi si diresse a Siracusa e l'assediò.

A Roma, visti i successi di Appio si decise di inviare in Sicilia entrambi i nuovi consoli, Manio Otacilio Crasso e Manio Valerio Massimo Messalla con tutte e quattro le legioni; 16.000 fanti e 1.200 cavalieri.
«la maggior parte delle città, ribellandosi ai Cartaginesi e ai Siracusani, si unì ai Romani. Gerone concluse che le prospettive dei Romani fossero più brillanti di quelle dei Cartaginesi. Perciò, orientato in questo senso dalle sue riflessioni mandava inviati ai consoli parlando di pace e di amicizia. I Romani accettarono soprattutto per gli approvvigionamenti...»
(Polibio, Storie)



RITORNO A ROMA

I siciliani, scontenti del governo dei cartaginesi e dei greci, non opposero resistenza all'arrivo dei romani.
Inoltre Gerone II di Siracusa offrì la propria alleanza e Messalla accettò facendogli firmare un trattato di pace che limitava la sovranità siracusana sulla Sicilia sud orientale.

Nonostante la coordinazione dei due consoli nelle operazioni, solo a Messalla venne concesso il trionfo «De Paeneis et Rege Siculorum Hierone» (Fasti).

Al suo ritorno a Roma, portò con sé la prima meridiana, presa a Catania, e la fece posizionare su una colonna nel Foro.

Fece dipingere un affresco nella Curia Hostilia raffigurante la battaglia tenutasi ad Imera, opera considerata da Plinio un antesignano dell'arte pittorica a Roma.

Attaccata da Roma e dai Mamertini, Siracusa alleata con Cartagine perse con Manio Valerio Massimo Messalla. Ottenne la pace versando 100 talenti, e divenne un fedele alleato di Roma cui fornirà aiuti, grano e macchine da guerra.



BATTAGLIA DI CAPO ECNOMO

Fra il 256 a.c. e il 255 a.c. Roma tentò di portare la guerra in Africa invadendo le colonie cartaginesi. Fu costruita una grande flotta sia per il trasporto delle truppe e dei rifornimenti sia per la protezione dei convogli. Cartagine cercò di fermare questa operazione ma venne sconfitta nella Battaglia di Capo Ecnomo dalle legioni di Attilio Regolo.
 

BATTAGLIA DI TUNISI

Cartagine chiese la pace ma le condizioni erano così pesanti che i negoziati fallirono e Cartagine, assunse il mercenario spartano Santippo per riorganizzare le proprie forze. Questi riuscì a fermare l'avanzata romana, sconfisse Regolo nella battaglia di Tunisi e lo catturò. 

Secondo Polibio circa cinquecento romani che, assieme al console, erano riusciti a fuggire furono in seguito catturati. Le perdite cartaginesi furono di 800 mercenari, quelli disposti all'ala sinistra e sgominati dai Romani. I  2000 componenti dell'ala destra romana, che li avevano messi in fuga, a causa dell'inseguimento si trovarono fuori dalla battaglia e si salvarono.

I sopravvissuti delle truppe romane si rifugiarono nella città di Aspide, dove era rimasta una guarnigione. Roma organizzò una flotta di soccorso di trecentocinquanta navi comandata da Marco Emilio Paolo e Servio Fulvio Petino Nobiliore.

I Cartaginesi, raccolto il bottino, assediarono Aspide che però resistette. Ora Cartagine doveva attaccare la flotta romana che veniva in soccorso, ed organizzò una flotta di duecento navi .
La battaglia si scatenò al largo del Capo Ermeo, la flotta cartaginese perse ben 114 navi, complete di equipaggio, che furono catturate dai romani. La flotta romana raccolse i superstiti di Aspide e fece vela verso la Sicilia.

Santippo lasciò Cartagine al massimo della gloria e tornò a Sparta, ben sapendo che non avrebbe potuto resistere a lungo al comando dell'esercito cartaginese, intriso di legami politici e familiari. Diodoro (XXIII, 16) afferma che i Cartaginesi, o alcuni di loro, fecero naufragare la nave che lo riportava in Grecia.

AMILCARE BARCA

AMILCARE BARCA

Verso la fine della guerra, nel 249 a.c. Cartagine inviò in Sicilia il generale Amilcare (il padre di Annibale). e Roma dovette creare un dittatore. Amilcare sbarcò immediatamente nella parte nord-ovest della Sicilia, con un corpo di mercenari. Asserragliato sul monte Pellegrino, e poi sul Monte Erice, riuscì a mantenere la posizione contro gli attacchi nemici, a difendere le città di Lilibeo (Marsala) e di Drepano (Trapani), e ad effettuare alcune incursioni sulle coste dell'Italia meridionale.

Amilcare non subì mai sconfitte in terra siciliana. A dimostrazione del suo valore, i Romani gli concessero, infine, l'onore delle armi: fatto assolutamente eccezionale per la consuetudine romana, non perchè i romani fossero avari di riconoscimenti ma perchè in genere i generali più intelligenti e generosi li ebbero loro.

Amilcare fu un generale davvero geniale e innovativo: perfezionò la manovra a tenaglia, ereditata dall'Oriente ellenistico e da Santippo (che verrà poi attuata e perfezionata da Scipione l'Africano a Zama), e inventò un metodo per frenare gli elefanti da guerra imbizzarriti, per evitare che si volgessero contro le proprie unità, dotando i cornac (i conducenti) di mazzuoli e grandi chiodi che, all'occorrenza, venivano conficcati nel cranio degli animali, uccidendoli.

Comunque non potè cambiare il corso della guerra, anche perchè ormai si combatteva per mare, e che terminò con la sconfitta dei Cartaginesi. Nonostante Roma l'avesse ammirato Amilcare la odiava, e si oppose sempre all'accordo con Roma, tanto che, nel momento in cui venne ratificato il trattato di pace, si allontanò dalla sala del Consiglio cartaginese.



BATTAGLIA DELLE ISOLE EGADI - 241 a.c.

Le battaglie con Cartagine avevano dissanguato l'erario di Roma. Non c'erano più soldi per sostituire le navi distrutte. Ma anche Cartagine era allo stremo. Si doveva affrontare un'ultima battaglia per vivere o morire.

«L'impresa fu, essenzialmente, una lotta per la vita. Nell'erario, infatti, non c'erano più risorse per sostenere quanto si erano proposti
(Polibio, Storie, I, 59, 6,)

Il senato si rivolse ai romani, soprattutto ai ricchi mercanti, annunciò che la situazione era grave, anzi gravissima, o si ricostituiva una flotta o Roma era perduta. 

Al contrario dei Cartaginesi che spesso uccidevano i loro migliori generali per invidie e competizioni di famiglia, i romani comprendevano che o si salvavano tutti o tutti perivano.

La classe più ricca, sia nobile che plebea rispose all'appello, col patto che in caso di vittoria avrebbero recuperato il proprio danaro. In caso contrario non c'era nulla da chiedere perchè tutti avrebbero perso tutto, conoscendo poi l'estrema crudeltà dei cartaginesi.

Così il popolo romano finanziò una nuova flotta di duecento quinqueremi complete di equipaggio sul modello di quelle puniche, migliori di quelle romane in quanto leggere e maneggevoli specie per le speronature.

La flotta romana comandata da Quinto Lutazio Catulo, viene inviata a Drepanon (Trapani), ultima roccaforte punica rimasta in Sicilia. I cartaginesi impiegano otto mesi per predisporre una nuova flotta che, al comando di Annone, doveva liberare Drepanon. La battaglia è in favore dei romani che catturano 70 navi cartaginesi e ne affondano 50: altre 50 navi cartaginesi vennero messe in fuga. La battaglia combattuta il 10 marzo del 241 a.c., segna la supremazia dei romani via mare e la definitiva sconfitta di Cartagine, nonchè la fine della I Guerra Punica.

Ma la battaglia decisiva avvenne sul mare. La battaglia delle Isole Egadi del 241 a.c. vinta dalla flotta romana, segnò la fine della prima guerra punica, dimostrando che i romani sapevano combattere egregiamente sia via terra che via mare.

Fu pace, ma una pace precaria. Sia Roma che Cartagine erano ormai le grandi potenze del Mediterraneo e due erano troppe, un di loro doveva soccombere.

SIDE (Turchia)

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La città di Side di cui trattiamo è posta sulla costa mediterranea della Turchia, quindi da non confondere con Side, città dell'antica Caria, nè con Side, città dell'antico Pontus.
Side era una città posta sulla costa mediterranea della Turchia meridionale che giace vicino Manavgat e il villaggio di Selimiye, a 78 km da Antalya inella provincia di Antalya. Essa è locata sulla parte orientale della costa Pamphylia, a 20 km a est del monte del fiume Eurymedon, su una piccola penisola che misura circa 1 km 400 m circa.

Strabone e Arriano narrano che Side venne fondata nel VII secolo a.c. da migranti greci da Cyme (o Cumae) in Eolia, una regione dell'Anatolia occidentale. La loro divinità tutelare era Athena, la cui testa ornava le loro monete. 

Dediti alla pirateria, a detta di Arriano dimenticarono rapidamente la propria lingua per adottare quella degli aborigeni, come dimostrano diverse iscrizioni scritte in questa lingua. Possedendo un buon porto per le barche di piccolo artigianato, la geografia naturale di Side ne ha fatto uno dei luoghi più importanti di Pamphylia e uno dei centri commerciali più importanti della regione. 



ALESSANDRO MAGNO

Alessandro Magno occupò Side senza lotte nel 333 a.c. lasciando solo una sola guarnigione per controllare la città. Ciò introdusse il popolo alla cultura ellenistica, che fiorì dal IV al I secolo a.c. Dopo la morte di Alessandro, Side cadde sotto il controllo di uno dei generali di Alessandro, Tolomeo I Soter, che si dichiarò re d'Egitto nel 305 a.c. 

La dinastia tolemaica controllò Side fino a quando non venne occupata dall'Impero Seleucide nel II secolo a.c.. Tuttavia, nonostante queste occupazioni, riuscì a conservare una certa autonomia, crebbe di prosperità e divenne un importante centro culturale.

Nel 190 a.c. una flotta della città-stato greca di Rodi, sostenuta da Roma e Pergamo, sconfisse la flotta del re seleucide Antioco il Grande al comando del fuggitivo generale cartaginese Annibale. La sconfitta di Annibale e di Antioco il Grande significò che Side si liberò dell'Impero Seleucide. Il Trattato di Apamea del 188 a.c. costrinse Antioco ad abbandonare tutti i territori europei e a cedere tutta l'Asia Minore a nord dei Monti del Toro a Pergamo.


Tuttavia, il dominio di Pergamo arrivò di fatto solo fino a Perga, lasciando la Pamfilia orientale in uno stato di libertà incerta. Questo portò Attalo II Filadelfio a costruire un nuovo porto nella città di Attalia (attuale Antalya), anche se Side possedeva già un importante porto proprio. 

Tra il 188 e il 36 a.c. Side coniò il proprio denaro, tetradracmi che mostravano Nike e una corona di alloro in segno di vittoria. Nel I secolo a.c., Side raggiunse l'apice quando i pirati ciliciani stabilirono la loro base navale principale e un centro per il loro commercio di schiavi. 

Erano stati proprio i pirati ad incrementare lo schiavismo tra Creta, il Medio Oriente ed il basso Mediterraneo e fu Roma che li distrusse. Pare che il bieco commercio l’avesse favorito anche Annibale, di casa sulle coste di Side, fino a che la sua flotta (o meglio la flotta di Antioco III di cui il cartaginese era il comandante) non fu sconfitta dai guerrieri Rodi che agirono per conto di Roma.

TEMPIO DI APOLLO

I ROMANI

I briganti di Side vennero sconfitti dal console Servilio Vatia nel 78 a.c. e successivamente dal generale romano Pompeo nel 67 a.c., portando Side sotto il controllo di Roma con un nuovo periodo di prosperità, quando stabilì e mantenne un buon rapporto politico e commerciale con l'Impero Romano.

Dopo il breve regno di Amyntas di Galazia tra il 36 e il 25 a.c. che Plutarco dichiara prima seguace e poi disertore di Marco Antonio dove passò dalla parte di Ottaviano. Proprio prima della battaglia (31 a.c.). l'imperatore Augusto pose Pamphylia e Side nella provincia romana della Galazia nel 25 a.c. e Side si rilanciò col suo commercio di olio d'oliva. 

Side si affermò anche come centro di commercio di schiavi nel Mediterraneo. La sua grande flotta commerciale era impegnata in atti di pirateria, mentre i ricchi mercanti pagavano le opere pubbliche, monumenti, giochi e lotte dei gladiatori. La maggior parte delle rovine esistenti a Side risalgono a questo periodo di prosperità.

INTERNI DEL TEATRO

IL DECLINO

Side ha iniziò il suo declino dal IV secolo con le invasioni di montanari dalle montagne del Toro. Si riprese come sede vescovile ma fu razziata da arabi, da zeloti cristiani e da terremoti finchè venne abbandonata dai residenti per trasferirsi nella vicina Antalya.

Side dette asilo ad Eustathius di Antiochia, del filosofo Troilo, dello scrittore ecclesiastico Filippo del V secolo; del famoso avvocato Triboniano..



LE ROVINE

I resti di Side sono tra i più pregevoli dell'Asia Minore e coprono un grande promontorio che un muro e un fossato separano dalla terraferma.

IL TEATRO

IL TEATRO

Il teatro di Side è il più grande di Pamphylia, molto simile a un teatro romano che si basa su archi per sostenere le mura verticali. Non potè essere scavato alla greca perchè a Side mancava una collina da scavare come era tipico dell'Asia Minore. Il teatro è meno ben conservato di quello di Aspendos, ma è quasi altrettanto grande, con 15.000-20.000 posti a sedere. Con il tempo il muro della scaena è crollato sopra il palcoscenico e il proscenio è un accumulo di blocchi sciolti. 

I resti del teatro, che fu utilizzato per i combattimenti dei gladiatori e più tardi come chiesa, e la porta monumentale risalgono al II secolo. Durante l'epoca bizantina (V o VI secolo) è stato trasformato in un santuario a cielo aperto con due cappelle. Da alcune iscrizioni si è potuto infatti appurare che all'epoca venne usato per cerimonie religiose, del resto i teatri erano stati aboliti come luoghi di peccato e perdizione.

PORTA PRINCIPALE DI SIDE

LE MURA

Le mura della città, ben conservate, introducono al sito attraverso la porta principale ellenistica (Megale Pyle) del II secolo a.c., purtroppo gravemente danneggiata. 



ANFITEATRO

A riprova della ricchezza di Side, la città godeva, di terme, teatro e anfiteatro, e in quest'ultimo si svolgevano i giochi o ludi gladiatori.



LA STRADA COLONNATA

Dalla porta della città si snoda la strada porticata, le cui colonne di marmo però non sono più esistenti; tutto ciò che rimane sono solo alcuni ceppi rotti vicino alle antiche terme romane, anch'esse distrutte. 



LE TERME 

La strada porticata conduce alle terme, ormai utilizzate come museo per esporre statue e sarcofagi del periodo romano. 

TEMPIO DI APOLLO

IL TEMPIO DI APOLLO

Il Tempio di Apollo, che sorgeva ai margini del porto antico, è stato parzialmente ricostruito negli anni Ottanta. È diventato il punto di riferimento del moderno Side, ancor più del suo teatro. Il Tempio di Apollo era uno dei due templi adiacenti costruiti nel II secolo d.c. 

L'altro era leggermente più grande ed era dedicato ad Atena. Il tempio di Apollo era decorato con teste di Medusa, simili a quelle del Santuario di Apollo a Didyma. Parti della decorazione sono state spostate al Museo Archeologico.

Il tempio fu costruito durante il regno dell'imperatore Antonino Pio, in un'epoca di grande ricchezza per Side, costruito interamente con l'utilizzo di marmo biancastro estratto sul Proconneso, un'isola nel Mar di Marmara. Per questo motivo e per il suo disegno a periptero (colonne su tutti i lati), simile al Partenone di Atene e al Santuario di Poseidone a Capo Sounion, il tempio assomiglia a quello greco antico.



TEMPIO DI ATENA

Proprio sulla costa si ergeva il tempio di Atena, una delle divinità più potenti del pantheon di Side.
Il suo tempio, come molto altro, fu abbattuto, più che dai terremoti, dalla smania iconoclasta dei cristiani prima e degli arabi poi.

Del resto al contrario delle religioni politeiste che ammettono anche Dei stranieri (Roma ne fu uno splendido esempio di tolleranza), le religioni monoteiste ammettono un solo Dio e pertanto il proprio.
Infatti le guerre di religione avvennero solo come affermazione delle varie religioni politeiste.

Del tempio restano sei colonne e vari pezzi dei cornicioni e dei frontoni che giacciono in terra in assoluta noncuranza.

TEMPIO DI TICHE
I resti del tempio giacciono in terra senza che nessuno abbia fatto qualcosa per sollevarli. Tiche era un'antica Dea della Fortuna, equivalente al Fatum (da cui le derivazioni "fata" e fatale) o Ananke, divinità greca del destino che in realtà non era molto seguita al di fuori dei Sacri Misteri. 

Ritenuta in alcuni ambiti superiore agli stessi Dei che non potevano opporsi all'inclinazione della sua bilancia nel determinare il destino delle vicende umane. Lo stesso Giove deve chinare il capo di fronte al verdetto della Tichè nelle vicende dell'Iliade.

L'AGORA'

L'AGORA'

Proseguendo si incontra l'agorà quadrata con i resti del tempio rotondo di Tyche e Fortuna (II secolo a.c.), peripterale con dodici colonne, al centro. In tempi successivi fu usato come centro commerciale dove i pirati vendevano schiavi.  Il primo tempio romano di Dioniso si trova vicino al teatro. La fontana che abbellisce l'ingresso è stata restaurata. Sul lato sinistro si trovano i resti di una basilica bizantina. È stato restaurato anche un bagno pubblico.

Le rovine rimanenti di Side comprendono:
- tre templi,
- un acquedotto
- un ninfeo. Il ninfeo di Side è una grotta con una riserva d'acqua naturale dedicata alle ninfe, in realtà una grotta artificiale o una fontana con molti decori.

SELEUCIA

SELEUCIA

C'è anche un sito praticamente sconosciuto, ma esteso, ai piedi delle colline del Toro, diverse miglia nell'entroterra, conosciuto localmente come Seleucia. sconosciuto anche su internet, è invece la fortezza romana, costruita da Marco Antonio per proteggere la città di Side e si estende per almeno un paio di chilometri quadrati

Dopo il 1947, anno in cui iniziarono i primi scavi, non è stata scavata quasi per nulla, a parte due settimane nel 1975, quando il governo turco finanziò due settimane di scavi. Il sito fu, a quanto pare, definitivamente abbandonato nel VII secolo, quando un terremoto fece prosciugare completamente la sorgente che alimentava il sito con acqua.

Molti degli edifici sono in ottime condizioni, soprattutto perché, a causa della mancanza di pietra disponibile, una quantità significativa di pietra del sito contiene blocchi di cemento a base di uova e ghiaia. Le squadre di scavi hanno trovato anche un antico bordello greco.

LEGIO I MAXIMIANA

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La Legio I Maximiana era una legione romana comitatense (soldati di fanteria pesante del tardo esercito imperiale romano), probabilmente fondata nel 296 o 297 dall'imperatore Diocleziano, insieme alla II Flavia Constantia, per difendere la parte meridionale dell'Egitto, la nuova provincia della Tebaide, dalle tribù vicine. Le unità gemelle erano di stanza nel quartiere di Tebe. La legione prende il nome da Massimiano, collega di Diocleziano come imperatore.

La legione è anche conosciuta come Maximiana Thebanorum o Thebaeorum ("dei tebani"): poiché nessuna I Massimiana è attestata a Tebe (Egitto) nella Notitia dignitatum, tale nome viene interpretato come un riferimento alla Tebaide. Il cognomen Maximiana è un riferimento all'imperatore Massimiano, collega tetrarchico di Diocleziano.

Nel 354 la I Maximiana era in Tracia, nelle vicinanze di Adrianopoli (oggi Edirne), ed all'inizio del V secolo era stanziata ancora lì. Probabilmente venne coinvolta nella grande battaglia di Adrianopoli (378), in cui i Tervingi di re Fritigern (Goti) sconfissero e uccisero l'imperatore Valente. 

LEGIONARIO DELLA I MAXIMIANA
La Notitia dignitatum (documento dell'inizio del V secolo) riporta la I Maximiana Thebanorum ancora in Tracia, sotto il comando del magister militum per Thracias, mentre la I Maximiana è posta dallo stesso documento a Filae (Egitto, a sud di Assuan), sotto il dux Thebaidos.

Secondo Eucherio, vescovo di Lione del V secolo, questa legione era composta interamente da cristiani e venne spostata da Tebe alla Gallia agli ordini di Massimiano. Quando questi ordinò di reprimere alcuni galli cristiani la legione si rifiutò e venne decimata (ucciso un legionario su dieci). 

Seguirono altri ordini che la legione rifiutò ancora di eseguire, ad opera di san Maurizio che ne era il comandante (ma non era il comandante il responsabile degli ordini? I legionari erano tenuti all'obbedienza!).

Venne quindi ordinata una seconda decimazione ed infine l'intera legione venne sterminata (6600 uomini). Il luogo del massacro fu Agaunum oggi San Maurizio in Vallese (Saint Morriz), sede dell'omonima abbazia e della stazione sciistica.

Eucherio, che la Chiesa fece santo, scrisse la "Passio Acaunensium martyrum": redatto in base alle informazioni fornitegli dal vescovo di Sion, Teodoro, e dal vescovo di Ginevra, Isaac, è il più antico documento sul martirio della Legione Tebea guidata da San Maurizio. Compose inoltre degli opuscoli, fra cui "Lode all'eremo" e "Sul disprezzo del mondo". 

L'esistenza di una Legio I Maximiana, anche nota come Maximiana Thebaeorum è riportata nella Notitia Dignitatum. Denis Van Bercham, della università di Ginevra, ha messo in dubbio la veridicità della leggenda della legione Tebea, notando che la decimazione era un anacronismo e che il servizio di cristiani in una legione prima di Costantino I era  raro. 

Secondo David Woods, professore alla University College Cork, i racconti di Eucherio di Lione sono una completa finzione



LA LEGIONE TEBEA
(Prima Maximiana Thebanorum)


Da: Avvenire.it - Roberto Beretta - 23 luglio 2010
EMBLEMA DELLA I MAXIMIANA


"Non è stato solo Voltaire a definire una "fola" la storia della falange di 6600 soldati romani, tutti di Tebe e tutti cristiani, che alla fine del III o all’inizio del IV secolo sarebbero stati martirizzati nel cantone svizzero del Vallese per aver rifiutato di sacrificare all’imperatore.

La storia viene riportata da Eucherio, vescovo di Lione circa un secolo e mezzo dopo i fatti, autore della Passio acaunensium martyrum: uno scritto per uso liturgico che da una parte attesta l’esistenza di un radicato culto dei tebani, dall’altra rimanda come fonte storica a Teodoro, vescovo di Martigny che nel 386 aveva rinvenuto i corpi di due sconosciuti che poi attraverso alcuni prodigi gli si erano rivelati come martiri: Gervaso e Protaso. 

 I saggi archeologici sotto l’abbazia hanno rivelato l’esistenza di sei tombe e qualche storico suppone anzi che vi si trovasse la fossa comune in cui vennero inumati i soldati romani morti in una battaglia del 56 a.c., se non addirittura alcuni cartaginesi di Annibale incappati in un’imboscata. 

Dunque: la scoperta di tombe militari avrebbe indotto il vescovo Teodoro a "inventare" la leggenda dei martiri, che gli poteva servire per evangelizzare una zona ancora pagana. Ma che bisogno c’era di aggiungere che quei martiri erano tebei, africani, insomma neri?

EMBLEMA DELLA I MAXIMIANA THEBAEORUM
Una legio thebaea nell’ordinamento militare romano esisteva davvero e fu di stanza in Italia verso la fine del IV secolo, allorché l’imperatore Teodosio venne in due riprese a contrastare due usurpatori con le sue truppe orientali. 

La data è contemporanea al vescovo di Martigny Teodoro: potrebbe essere che costui abbia retrodatato di un secolo una realtà a lui nota personalmente, immaginando che i "martiri" scoperti a Agaunum fossero tebani?

Uno studioso, David Woods vi aggiunge che il vescovo voleva invitare i soldati del Nord Italia ad appoggiare il vero imperatore (cristiano) e a non alzare le armi sui civili.

Nello stesso tempo esortava i barbari ad abbracciare la fede cristiana, grazie alla quale i loro predecessori erano stati risparmiati. Un’"invenzione" a scopo teologico-politico.


IL CANALE TRA PORTUS E OSTIA

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PORTO DI CLAUDIO
Porto, ovvero Portus, era un centro urbano situato a nord di Ostia, sulla riva destra del Tevere e sul litorale tirrenico. Esso era il porto dell'antica Roma, e corrisponde all'attuale Fiumicino.
Il primo scalo costiero di Roma fu appunto quello fluviale alla foce del Tevere presso Ostia, ordinato dall'imperatore Claudio per disporre di un porto più ampio e sicuro, individuando il sito a circa quattro km a nord di Ostia.
Questo complesso, chiamato appunto Portus, occupava un'area di circa 70 ettari ed era dotato di due lunghi moli aggettanti sul mar Tirreno, con un'isola artificiale ed un faro; per costruire quest'ultimo venne riempita la nave che aveva trasportato dall'Egitto il grande obelisco utilizzato per decorare la spina del Circo di Nerone, ora in Piazza San Pietro. 
Lo stesso imperatore provvide alla sistemazione della via Portuense come asse di collegamento tra il complesso portuale e Roma, lunga circa 15 miglia (24 km). Tuttavia il porto venne
terminato sotto l'imperatore Nerone, cui diede il nome di Portus Augusti.

Porto presentava diversi vantaggi rispetto ad Ostia: anzitutto era un porto marittimo e non fluviale, per cui consentiva l'attracco a navi di grande pescaggio, al contrario dello scalo ostiense, che necessitava di travaso di merci al largo; inoltre consentiva rapidi sbarchi e grandi immagazzinaggi indispensabili per commerci più estesi e più rapidi.

Il nuovo porto era riparato rispetto ai venti di sud-ovest, così da proteggere le imbarcazioni all'ancora, ma per contro l'ampiezza del bacino non consentiva una protezione completa, e la mancanza di un flusso interno comportava un precoce insabbiamento dello scalo, che quindi necessitava di frequenti ed onerose operazioni di dragaggio.
In questo porto è stato rinvenuto il più grande canale mai costruito dai romani.

SCAVI DI PORTUS

SCOPERTO IL PIU' GRANDE CANALE COSTRUITO DAI ROMANI

Uno dei più grandi canali costruiti dai romani in un antico porto importante come Cartagine o Alessandria è stato scoperto da archeologi britannici. Gli studiosi hanno scoperto un canale largo circa 90 metri a Portus, l'antico porto marittimo attraverso il quale le merci provenienti da tutto l'Impero furono spedite a Roma per oltre 400 anni.


Canale e mura romane scoperti il 2 ottobre 2005

"Conosciamo altri canali contemporanei che erano larghi 20-40 metri, e anche quello era grande. Ma era così grande che sembra esserci stata un'isola nel mezzo, e c'era un ponte che l'attraversava. Fino ad ora era sconosciuto. "

Gli archeologi, delle università di Cambridge e Southampton e della British School di Roma, credono che il canale collegasse Portus, sulla costa alla foce del Tevere, con il vicino porto fluviale di Ostia, a due miglia di distanza.

Il profilo sotterraneo del canale è stato trovato durante un'indagine del Prof. Martin Millett, dell'Università di Cambridge, utilizzando strumenti geofisici che hanno rivelato anomalie magnetiche sotterranee. Lo scavo, che viene svolto in collaborazione con archeologi italiani, sta facendo luce sulla straordinaria rete commerciale che i romani hanno sviluppato in tutto il bacino del Mediterraneo, dalla Spagna all'Egitto e all'Asia minore.

Il canale avrebbe consentito il trasferimento di merci da grandi navi oceaniche a navi fluviali più piccole e il fiume Tevere sarebbe stato portato ai moli e ai magazzini della capitale imperiale.
Fino ad ora, si pensava che le merci prendessero una via terrestre più tortuosa lungo una strada romana conosciuta come la Via Flavia.

"È assolutamente massiccio", ha dichiarato Simon Keay, direttore dello scavo triennale a Portus, il più completo mai condotto sul sito, che si trova vicino all'aeroporto di Fiumicino, a 20 miglia a ovest della città.

Gli archeologi hanno trovato prove del fatto che i collegamenti commerciali con il Nord Africa in particolare erano molto più estesi di quanto si credesse in precedenza. Hanno trovato centinaia di anfore che venivano usate per trasportare olio, vino e una salsa di pesce fermentato pungente chiamata garum, a cui i romani erano particolarmente parziali, da quella che oggi è la moderna Tunisia e la Libia.

Enormi quantità di grano furono anche importate da quelle che allora erano le province romane dell'Africa e dell'Egitto.
"Ciò che il recente lavoro ha dimostrato è che vi era una particolare preferenza per le importazioni su larga scala di grano dal Nord Africa dalla fine del II secolo d.c. fino al V e forse al VI secolo", ha affermato il prof. Keay.

La squadra britannica ritiene che Portus e Ostia avrebbero ospitato una grande popolazione espatriata di famiglie e agenti commerciali nordafricani, alcuni dei quali avevano il loro nome inciso su pietre tombali.

Portus è stato il porto principale dell'antica Roma per oltre 500 anni e ha fornito un condotto per tutto, dal vetro, alla ceramica, al marmo e agli schiavi, agli animali selvatici catturati in Africa e spediti a Roma per spettacoli nel Colosseo. I lavori sul massiccio progetto infrastrutturale iniziarono sotto l'imperatore Claudio. Fu inaugurato da Nerone e in seguito notevolmente ampliato da Traiano.

Il team britannico, finanziato dal Arts and Humanities Research Council, ha scoperto i resti di un grande magazzino romano, un edificio identificato come un palazzo imperiale e un piccolo anfiteatro che potrebbe essere stato utilizzato per combattimenti di gladiatori, lotte di bestie selvagge e persino mare finto con battaglie per l'intrattenimento privato di imperatori come Traiano e Adriano.

Hanno anche portato alla luce una dozzina di scheletri umani e una testa di marmo bianco del II o III secolo di un uomo barbuto che credono possa rappresentare Ulisse. Molto meno si sa di Portus che non della vicina Ostia, e gli archeologi sperano che ci siano molte scoperte in attesa di altre sorprese che potrebbero aumentare la comprensione della sofisticata rete commerciale dell'antica Roma.

Si aspettano che Portus, che doveva essere abbandonato dopo che iniziò a sciogliersi nel VI secolo, alla fine si schierasse accanto ad alcune delle città antiche più conosciute al mondo. "Portus deve essere uno dei siti archeologici più importanti del mondo", ha affermato il prof. Keay. "La cosa grandiosa di Portus è che la maggior parte è stata preservata e c'è molto altro da imparare sull'importante ruolo che ha avuto nel successo di Roma"


BIBLIO

- Smith  - "Canali romani" - Atti della Società Newcomen - vol. 49 - NAF - 1977/78 -
- Rodolfo Lanciani - I Commentarii di Frontino intorno le acque e gli acquedotti - silloge epigrafica aquaria - Roma - Salviucci - 1880
- Moore, Frank Gardner - "Tre Progetti di Canale, romano e bizantino" - American Journal of Archaeology , vol. 54, No. 2 - 1950 -
- KD Bianco - Tecnologia greca e romana - London - Thames and Hudson - 1984 -
- Charlotte Wikander -  "Canali" - in Wikander, Örjan ed. - Handbook of Ancient Water Technology - Tecnologia e cambiamento nella storia - vol. 2 - Leiden: Brill - 2000 -
- Lidia Paroli e Kristina Strutt - Portus: An Archaeological Survey of the Port of Imperial Rome - a cura di S. J. Keay e Antonia Arnoldus-huyzendveld - Roma - British School at Rome - 2006 -

MAGNENZIO - MAGNENTIUS (Usurpatori)

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Nome completo: Flavius Magnus Magnentius
Nascita: Samarobriva, 303
Morte: Lugdunum, 10 agosto 353
Predecessore: Costante
Successore: Costanzo II
Coniuge: Giustina
Regno: 350-353 d.c.


Flavio Magno Magnenzio, ovvero Flavius Magnus Magnentius è stato un usurpatore romano che regnò dal 18 gennaio 350 fino alla propria morte del 10 agosto 353. Magnenzio era un Laetus, cioè uno di quei barbari che avevano ricevuto il permesso di insediarsi sul territorio imperiale, ricevendo la proprietà delle zone occupate, in cambio dell'impegno a fornire reclute per l'esercito romano.



LA CARRIERA

Magnenzio, originario della Gallia, aveva ricevuto un'educazione latina e possedeva una discreta capacità oratoria. Entrato nell'esercito romano fece una buona carriera, divenendo protector, poi comes rei militaris, e comes delle legioni degli Herculiani (le legioni palatine anziane della guardia imperiale) e degli Ioviani (le legioni dei giovani), le due unità di guardia del corpo dell'imperatore Costante I, essendosi distinto come ottimo comandante.

Magnenzio revocò l'editto emanato da Costante nel 341 che vietava l'esecuzione dei sacrifici notturni, sembra perchè pagano visto che fu molto denigrato dai cristiani. Venne descritto di alta e robusta corporatura, con volto carnoso, bocca sottile, naso schiacciato, capelli folti. Di carattere a volte codardo a volte coraggioso, ma feroce e crudele.

Intanto l'imperatore Costante si era fatto molti nemici, tra i soldati cui cercò di dare una disciplina, tra i provinciali a cui aveva aggravato le tasse e a cui aveva dato governatori incapaci, e tra l'aristocrazia senatoria di Roma proclamandosi cristiano. Per giunta era omosessuale e amava troppo la caccia.



L'USURPAZIONE

Zosimo narra che Marcellino, comes rerum privatarum di Costante, presso Augustodunum organizzò una festa in occasione del compleanno dei propri figli, alla quale invitò funzionari e ufficiali superiori. Durante la festa, Magnenzio, per una rappresentazione teatrale, si rivestì da imperatore, e si fece chiamare Augusto. Le truppe presenti credettero a un colpo di Stato contro Costante, e acclamarono Magnenzio a imperatore (18 gennaio 350).

Immediatamente all'usurpatore si unirono l'esercito e gli abitanti di Augustodunum, poi i cavalieri venuti dall'Illirico come rinforzi. Nonostante Costante avesse a suo tempo salvato la vita a Magnenzio a seguito di una ribellione dei suoi soldati, lo fece uccidere mentre fuggiva verso i Pirenei. Magnenzio consolidò il suo potere nelle province della Britannia, della Gallia e della Spagna, revocando la legislazione antipagana di Costante.



L'IMPERATORE DI OCCIDENTE

Costanzo II, Augusto in Oriente e fratello di Costante, combattendo l'offensiva sasanide su Nisibis non potè intervenire e Magnenzio divenne imperatore della parte occidentale dell'impero. Tentò di assicurarsi anche l'Italia, ma a Roma Nepoziano, della famiglia di Costantino, con poche truppe conquistò Roma, venendo poi sconfitto se ucciso (1º luglio 350) da un esercito inviato da Magnenzio.

Quest'ultimo cercò di occupare anche l'Illirico, già di Costante, ma il comandante delle truppe della Pannonia, Vetranione, era stato acclamato imperatore dai suoi uomini a Mursa, con l'appoggio di Costantina, figlia di Costantino, sorella di Costantino II, Costanzo II e Costante I, moglie del «re» Annibaliano e del cesare Costanzo Gallo.

Magnenzio ottenne un patto di alleanza con Vetranione ma Costanzo, dopo aver stipulato la pace con i Sasanidi, incontrò l'ambasceria di Magnenzio e Vetranione che gli proponeva una preminenza della collegialità imperiale in cambio del riconoscimento di entrambi come cooreggenti. Costanzo però imprigionò gli ambasciatori e si mise d'accordo con Vetranione (25 dicembre 350) che gli giurò fedeltà, ritirandosi a vita privata a Prusa, in Bitinia; Magnenzio invece sposò Giustina, imparentata con l'imperatore Costantino ma la guerra era ormai inevitabile.



LA GUERRA

L'esercito di Magnenzio era formato da contingenti gallici e germanici, mentre quello di Costanzo erano truppe dell'Illirico, ma anche arcieri armeni, e una nutrita cavalleria. Magnenzio nominò un suo parente a difesa delle frontiere galliche, poi mosse verso l'Illirico, essendo riuscito ad arruolare anche Franchi e Sassoni

Costanzo, nominato Cesare il cugino Gallo a Sirmio (15 marzo 351), a cui aveva dato in sposa la sorella Costantina, gli affidò il governo delle provincie orientali, e si mosse per l'Italia, ma ad Atrans (odierna Trojane, in Slovenia) cadde in un'imboscata ordita da Magnenzio, e dovette ritirarsi a Siscia. Magnenzio invece avanzò in Pannonia, dove un inviato di Costanzo gli propose che gli avrebbe concesso il dominio della Gallia se egli avesse lasciato l'Italia e l'Africa.

Magnenzio respinse la proposta di Costanzo, gli inviò Fabio Tiziano col suo esercito che lo intimò di abdicare in favore di Magnenzio. Ottenuto un rifiuto andò a Siscia,e la rase al suolo, quindi puntò su Sirmio, ma qui Magnenzio fu respinto dagli abitanti e dai soldati a presidio della stessa e fu costretto a ripiegare a Mursa. Costanzo riuscì a far defezionare il tribunus scholae armaturarum Claudio Silvano, che mosse con tutti i suoi effettivi verso Mursa, che Magnenzio stava ancora assediando. Il 28 settembre 351 ci fu lo scontro decisivo.



LA BATTAGLIA DI MURSIA

Magnenzio schierò 36000 uomini, contro gli 80000 di Costanzo. La battaglia iniziò nel tardo pomeriggio e si protrasse fino a notte inoltrata. Costanzo accerchiò con la sua cavalleria l'ala destra dell'esercito nemico. Magnenzio fu costretto a fuggire travestito. Costanzo conquistò l'accampamento di Magnenzio e perdonò chi si era arreso, eccetto quelli implicati nell'assassinio di Costante.



IN HOC SIGNO

A Mursa Magnenzio perse circa 24000 uomini, i due terzi del suo esercito, mentre Costanzo ne perse circa 30000, una tragedia. La propaganda che voleva Costanzo combattere con il sostegno divino venne confermata perchè lasciò lo scontro per andare a pregare dentro la basilica dei martiri situata fuori dalla città insieme al vescovo di Mursa, Valente annunciò a Costanzo che un angelo gli aveva rivelato la sua vittoria contro Magnenzio. La storiografia paragonerà la battaglia di Mursa a quella di Ponte Milvio del 312, per assimilare Costanzo a Costantino.

Costanzo rinunciò a inseguire Magnenzio e presiedette un sinodo che condannò le dottrine del vescovo locale Photeinos. Magnenzio si rifugiòi ad Aquileia e riorganizzò il suo esercito. Cercò di concludere una tregua con Costanzo, che rifiutò. In Gallia, per la scarsità di soldati, non riusciva a contenere le scorrerie degli Alamanni, Un gran numero di Italici e di senatori si imbarcò per la Dalmazia per raggiungere Costanzo, per l'amnistia che questi aveva proclamato.

Costanzo infine nel 352 superò le Alpi, aggirando le fortificazioni di Magnenzio, e giunse ad Aquileia. L'usurpatore però era fuggito e riuscì a battere gli inseguitori. Costanzo, che fin dall'inizio aveva armato una grossa flotta, fece bloccare dalle sue navi il litorale veneto e fece sollevare quasi tutta l'Italia contro Magnenzio. E mentre le città del nord Italia gli si consegnavano spontaneamente, Costanzo sottrasse a Magnenzio il controllo della Sicilia e dell'Africa.



IN GALLIA

Perduta l'Italia, Magnenzio andò in Gallia per riorganizzare il suo esercito, ma Costanzo aveva fatto sbarcare una flotta a sud dei Pirenei per impedirgli di ricevere rinforzi dalla penisola iberica. Magnenzio tentò quindi di far assassinare Costanzo Gallo, ma il complotto fu scoperto e sventato. Costanzo il 3 novembre arrivò a Milano, ove pubblicò un editto che annullava alcune delle misure adottate da Magnenzio e incontrò una delegazione del Senato di Roma capeggiata dal senatore pagano Memmio Vitrasio Orfito, che si rallegrava della vittoria sull'usurpatore.



ECCIDIO E SUICIDIO

Nell'estate del 353, Magnenzio fu sconfitto nella battaglia di Mons Seleucus e si rifugiò a Lugdunum, alla notizia della sconfitta patita a Mons Seleucus, la città di Treviri si ribellò all'usurpatore.
Magnenzio allora uccise la propria madre e tutti i parenti e gli amici più stretti che erano a Lugdunum con lui, e poi si suicidò. La sua testa fece il giro delle città a dimostrare la sua sconfitta.



COSTANZO INCOSTANTE

Il 6 settembre Costanzo entrò a Lugdunum e promulgò un'amnistia assai clemente, ma che tradì perseguitando i seguaci di Magnenzio. Molti dei soldati che avevano militato per l'usurpatore furono redistribuiti per punizione lungo il limes persiano e renano, mentre altri si diedero alla macchia, vivendo di brigantaggio in Gallia, finché il lungimirante imperatore Giuliano con una sua amnistia li integrò nel proprio esercito. L'impero era di nuovo riunito sotto un solo imperatore, mentre nei confronti di Magnenzio fu dichiarata la damnatio memoriae.



IL GIUDIZIO SU MAGNENZIO

La rivolta capeggiata da Magnenzio fu la conseguenza del malgoverno di Costante. Magnenzio, per discostarsi da lui ripristinò il titolo di Imperator Caesar, in contrasto al titolo di Dominus Noster utilizzato dai Costantinidi,

Il giudizio della storiografia antica rispetto a Magnenzio fu piuttosto negativo, ma soprattutto in quanto pagano, e vennero inventati aneddoti totalmente inesistenti per poterlo denigrare:
- lo storico e teologo bizantino del XII sec. Zonara, scrive che prima della battaglia di Mursa, avrebbe consultato una strega e sacrificato una giovane donna, il cui sangue, mescolato al vino, sarebbe stato dato da bere ai suoi soldati;
- il vescovo e padre della chiesa Atanasio dichiara che consultasse abitualmente maghi e fattucchiere,
- lo storico bizantino di fede ariana Filostorgio lo descrisse addirittura dedito ai culti demoniaci.

Gli autori pagani furono invece più obiettivi:

- Giuliano ne condannò la crudeltà e la ferocia, che gli faceva apprezzare lo spettacolo della tortura;
- Eutropio lo ritenne un codardo, con l'accusa di aver oltraggiato più volte il senato di Roma, uccidendone molti degli esponenti influenti e tassandoli esageratamente.
- Libanio loda in Magnenzio l'osservanza delle leggii,
- Zosimo lo ritenne utile per lo stato sebbene non ben intenzionato.

Secondo alcuni studiosi Magnenzio possedette un certo talento politico, riuscendo ad ottenere in breve tempo il riconoscimento della sua autorità nelle provincie galliche, peraltro molto legate alla dinastia costantiniana, e sembra che la sua rivolta, che Zosimo narra nata casualmente durante una festa ad Augustodunum, era stata organizzata con anticipo e precisione, coinvolgendo i più importanti dignitari della Gallia.

Magnenzio fu un abile negoziatore dei trattati e pure della libertà religiosa molto disattesa da Costante che si era inimicato i pagani, ma soprattutto fu un ottimo generale, che spesso seppe vincere Costanzo, nonostante contasse di una inferiorità numerica rispetto a lui. 

C'è da aggiungere che non era assolutamente mosso dall'intento di migliorare lo stato della popolazione romana, e la sua ferocia escludeva qualsiasi buon proposito, perchè il suo unico e vero scopo era quello di ottenere il potere supremo. Ma non era diverso l'intento degli imperatori del suo tempo, perchè ormai gli ideali di patria che animarono gli imperatori del primo impero erano svaniti.


BIBLIO

- Ammiano Marcellino - Le storie -
- Atanasio di Alessandria, Apologia per Costanzo -
- Filostorgio - Storia Ecclesiastica -
- Giovanni Zonara - Epitome -
- Giuliano - I Cesari; Orazione I. Panegirico per Costanzo II; Orazione II. Panegirico per Eusebia imperatrice -
- Milena Raimondi - Modello costantiniano e regionalismo gallico nell'usurpazione di Magnenzio - in Mediterraneo antico 9 - 2006 -
- John Drinkwater - The revolt and ethnic origin of the usurper Magnentius (350–353), and the rebellion of Vetranio (350) - in Chiron 30 - 2000 -
- Stefano Conti - L'usurpazione di Magnenzio e Aquileia: testi letterari, monete, iscrizioni - in Aquileia nostra 77 - 2006 -

HATRIA - ATRI (Abruzzo)

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CISTERNA ROMANA
Hatria, oggi Atri, è una città posta in provincia di Teramo, anche se più vicina e meglio collegata con Pescara e la sua area metropolitana, nel comprensorio delle Terre del Cerrano, in Abruzzo. Secondo una leggenda vanne fondata da Diomede il quale, essendovi giunto in inverno ed avendovi tuttavia trovato una giornata di sole, la chiamò Haithria, cioè sereno, nome poi corrotto in Hatria.
Secondo altri le sue origini leggendarie risalirebbero alle migrazioni dalla Dalmazia del X sec. a.c., degli Illiri che, attraversato l'Adriatico, si stabilirono anche sulle opposte sponde del Piceno, spingendosi pure nelle valli interne e integrandosi con le primitive popolazioni indigene. 
Questa impronta illirico-sicula si evincerebbe anche dal nome Hatria, caratterizzata dalla stessa radice di Hatranus o Hadranus, divinità sicula raffigurata insieme al cane, animale ad essa sacro, sulle monete cittadine coniate, secondo molti studiosi, anteriormente ai primi contatti con Roma. Atri si contende con Adria veneta l'onore di aver dato il nome al mare Adriatico. Il territorio su cui era sorta Atri fu sottoposto successivamente alle migrazioni delle genti umbro-sabelliche, a loro volta soppiantate dai Piceni.


In antico la città ebbe floridi commerci con gli Etruschi, gli Umbri e con la Grecia alla quale esportava vino e olio. L'Ager Hatrianus si estendeva a nord dal fiume Tordino, comprendeva il Vomano, e finiva a sud fino al fiume Saline, dove aveva inizio il territorio dei Vestini, mentre il confine occidentale coincideva con le pendici del Gran Sasso.

Ad Hatria era molto viva anche l'oreficeria, segno del lusso della sua popolazione, ma pure oggetto di grande esportazione. Ad Hatria sono stati rinvenuti splendidi monili (secondo alcuni etruschi, secondo altri locali), conservati oggi nel museo archeologico nazionale di Campli o museo Paludi di
Celano, qui rinvenuti oppure sono conservati al British Museum di Londra.



L'ALLEATA DI ROMA

Il suo importante porto le permise di creare una nutrita flotta e di avere contatti commerciali floridi con la Grecia, nonostante le navi venissero spesso attaccate dai pirati Illirici. Infatti partecipò al fianco di Roma alla lotta contro i pirati che infestavano l'Adriatico, alla guerra illirica ed alla guerre puniche.

Molto probabilmente Annibale, dopo aver saccheggiato tutto il Piceno, si accampò con le sue truppe nel ricco e fertile Ager Hatrianus per ritemprare i suoi soldati e pure i suoi animali.


Atri rimase fedele a Roma, inviando soldati e vettovaglie anche quando la vittoria cartaginese sembrava vicina e per questo, insieme a Signa, Norba, Saticola, Fregelle, Lucera, Venosa, Brindisi, Fermo, Rimini, Ponza, Pesto, Cosa, Benevento, Isernia, Spoleto, Piacenza e Cremona, fu inserita in un decreto del Senato romano che rendeva pubblici i nomi delle città cui Roma doveva la sua salvezza. 
Divenuta colonia latina nel 289 a.c., comunque Hatria continuò comunque a battere la sua moneta e si distinse nelle ulteriori battaglie accumulando premi e privilegi. Anche durante la Guerra Sociale Atri si schierò a fianco di Roma, anche perchè godeva del diritto di voto nei Comizi essendo iscritta nella tribù Mecia. 

Nel periodo imperiale la città continuò ad essere un centro importante, diede origine alla famiglia dell'imperatore Adriano, che la riteneva sua seconda patria ed in essa ricoprì la carica di quinquennale a vita e di curator muneris pubblici. Dalla stessa famiglia, italica, trasferitasi in Spagna nacque anche l'imperatore Traiano, suo consanguineo.

LE GROTTE

LE GROTTE

Le Grotte, raggiungibili attraverso una ripida gradinata a circa 800 metri da porta Macelli, caratterizzano tutto il territorio delle Terre del Cerrano. L’ingresso è posto a Nord – Ovest; provenendo dal centro storico, in zona caserma dei carabinieri, si deve imboccare la prima strada a destra. Da lì è molto semplice continuare da soli grazie ai cartelli. 

 Secondo l’Archeoclub locale si tratterebbe di un enorme complesso industriale di età romana. Infatti, Atri era famosa in quel periodo soprattutto per il commercio del lino. Le pareti presentano anche i caratteristici cordoli, tipici delle cisterne romane. Le grotte non sarebbero altro che un’enorme vasca in cui si lasciava questo filato a macerare. 

Mentre, le piccole aperture in fondo, ai grandi saloni, non erano altro che sfoghi per le acque reflue dopo il complesso ed ingegnoso sistema di macerazione. Ai dubbiosi si ricorda che in altri siti cittadini si possono rinvenire sistemi di canalizzazione e raccolta del le acque di alta ingegneria, come le fontane archeologiche (kanat) ed il sistema di raccolta e trattamento di potabilizzazione rinvenuto recentemente presso il Palazzo D’Acquaviva. 


Oggi gli studiosi concordano che le grotte costituissero una grossa riserva d’acqua, mantenuta a bassa temperatura grazie alla posizione interrata. All’ingresso vi è una sala scavata nella viva roccia, collegata ad altre di eguale e minore ampiezza, intersecate da stretti cunicoli, sempre più bassi ed oscuri via, via che ci si allontana dalle aperture. 

Il complesso fin’ora esplorato ha una forma grosso modo trapezoidale, con una superficie di circa 700 mq disposto su tre piani. Particolarmente interessante risulta l’aspetto planimetrico con un corpo di gallerie più ampio (quattro navate e tre gallerie) ed uno ristretto (due gallerie principali e sette laterali, dette “le grotticelle”), che porterebbe denunciare successive riprese dei lavori e con buona probabilità la funzione collaterale di cava. 

La leggenda cristiana invece narra che le grotte, avendo cinque entrate e cinque uscite, sarebbero in realtà l’estensione della mano di S. Reparata che, durante un terribile terremoto, tenne fra le sue mani la Città di Atri impedendole di crollare. 

IL TEATRO

IL TEATRO

L'area archeologica è posta in via del Teatro, nei pressi di Palazzo Cicada, sec. III - II a.c. 
Nell'autunno 1993 sono iniziati gli scavi per riportare alla luce il monumento, ipotizzato da Giovanni Azzena, studioso dell'Istituto "Cardinal Cicada", come italico. 

Il teatro è stato in larga parte riportato alla luce, con un diametro di 70 metri, può contenere 10 000 persone a sede, nella zona della cavea si trova, nelle cantine del palazzo Cicada, al suo interno, dove il paramento dell'originale struttura è visibile, lo stato di conservazione risulta ottimo.

RESTI DEL TEATRO ROMANO
Al contrario i pavimenti non sono conservati, per un generalizzato abbassamento dei piani delle cantine del palazzo, senza un minimo rispetto per le antiche vestigia. Le volte parzialmente distrutte per permettere l'innalzamento dei soffitti moderni, erano costruite in calcestruzzo, con setti delimitati da nervature in laterizi tagliati, posti di coltello. 

Sono venuti alla luce anche parti dell'antico convento dei Gesuiti, sorto sempre sulle rovine di questo teatro nel XVII secolo, e resti di varie abitazioni; inoltre molti mattoni del teatro presentano la scritta PH, ossia Hatrianus Populus (popolo di Atri, oppure "Hatria").



LE MURA

A cingere l'orto del convento di Santa Chiara, nell'area del Belvedere, vi è un lungo e alto muro che, dalla parte che guarda Viale delle Clarisse, è in laterizio e risale al XV secolo, mentre sul tratto affacciato in Vico Mariocchi è costituito da grandi blocchi squadrati di epoca romana, per cui si presuppone che si tratti di una piccola parte delle fortificazioni della romana Hadria.



LE MURA CICLOPICHE

Dichiarate del VI secolo a.c., ma sicuramente più antiche, sono le mure della Atri picena, costituite da blocchi in pietra di varie dimensioni posti a secco e ad incastro. Si trovano presso la Fonte della Strega, poco fuori il centro storico.



IL PORTO ROMANO

«il torrente Matrinus, che scorre dalla città di Atri, con l'omonimo porto»
(Strabone - Geografia - V, 4, 2)  

Sulla costa antistante Atri, nei pressi della Torre di Cerrano (Pineto), su un fondale sabbioso tra 5 e 15 metri, dovrebbero estendersi le rovine sommerse dell'antico porto, con un molo a forma di "L", opere murarie, lastroni in pietra d'Istria, colonne e vari manufatti. Secondo l'opera di Luigi Sorricchio, che ripercorre la storia di Atri nel tempo, le rovine dell'antico porto si troverebbero nei pressi della foce del fiume Vomano precisamente tra Scerne e Roseto degli Abruzzi. 

Nel 2011 è stato ritrovato un antico mosaico di epoca romana durante dei lavori stradali, nel confinante comune di Roseto degli Abruzzi il che fa supporre che tutto ciò non sia solo una semplice supposizione.

Il porto di Cerrano-Matrinus esisteva già in epoca romana, ma alcune indicazioni mostrano che fosse già vivo in epoche anteriori. La successiva decadenza è documentata nella prima menzione medievale, risalente all'VIII secolo:
«In qua sunt civitates Firmus, Asculus et Pinnis et iam vetustate consumpta Adria, quae Adriatico pelago nomen dedit
(Paolo Diacono - Historia Langobardorum - II, 19)
dove appunto non si fa cenno al porto che probabilmente doveva essere già sparito da tempo.



BIBLIO

- Museo Nazionale Archeologico - Campli, in Musei e siti archeologici d'Abruzzo e Molise - Pescara - Carsa Edizioni - 2001 -
- Anton Ludovico Antinori - Annali degli Abruzzi - Vol. I -- Luigi Sorricchio - Hatria-Atri - I vol. - Roma - Tip. del Senato - 1911 -
- Giovanni Azzena - Atri - forma e urbanistica - Roma - L'Erma di Bretschneider - 1987 -
- Maria Cristina Mancinelli - L’Antico Porto di Hadria su Torre del Cerrano - Area Marina Protetta, Co.Ges. - Torre del Cerrano -

II GUERRA PUNICA ( 218-202 a.c.)

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ANNIBALE
«Si verum est, quod nemo dubitat, ut populus Romanus omnes gentes virtute superarit, non est infitiandum Hannibalem tanto praestitisse ceteros imperatores prudentia, quanto populus Romanus antecedat fortitudine cunctas nationes»

«Se è vero, cosa che nessuno mette in dubbio, che il popolo romano superò in valore tutte le genti, non si può negare che Annibale di tanto fu superiore in accortezza a tutti gli altri condottieri, di quanto il popolo romano supera in potenza tutte le nazioni.»

(Cornelio Nepote, Liber de excellentibus ducibus exterarum gentium, XXIII. Hannibal. 1-2)

Annibale fu uno dei più grandi condottieri della storia capace di previsioni sul comportamento altrui e di invenzioni nuovissime per situazioni intricate, paragonabile ad Alessandro Magno e a Giulio Cesare. essendo stato un nemico e un vero incubo per i romani, questi faticarono a riconoscergli queste grandi abilità, cosa che riconobbero a Giulio Cesare in quanto romano e ad Alessandro in quanto mai avuto come nemico e in quanto greco, pertanto molto affine ai romani.



LE CAUSE DELLA GUERRA

Secondo Polibio le cause principali della II guerra punica furono:
- lo spirito di rivalsa del padre di Annibale, Amilcare Barca, che ad Annibale bambino gli aveva fatto giurare di fronte agli Dei odio eterno a Roma,
- l'onta subita dai cartaginesi per la perdita della Sardegna e della Corsica
- l'esaltazione per i numerosi successi in Iberia delle armate cartaginesi.

Secondo Fabio Pittore invece deriverebbero:
- dall'assedio di Sagunto
- e dal passaggio delle armate cartaginesi del fiume Ebro.

Poichè Sagunto si trovava nei territori di competenza dei Cartaginesi e non dei Romani, Annibale dichiarò guerra alla città che chiese aiuto a Roma. Questa si limitò a inviare degli ambasciatori ma Annibale non li ricevette. Sagunto venne assediata nel 219 a.c. per otto mesi senza che Roma intervenisse.

«Dum Romae consulitur, Saguntum expugnatur» «Mentre a Roma si discute, Sagunto cade» commenta amaramente Livio. Infine Sagunto si arrese e venne rasa al suolo. Ora Roma da un lato teme la guerra coi cartaginesi, ma sa pure che se non interviene perde la faccia con le sue colonie. Non sa ancora se l'iniziativa sia cartaginese o solo di Annibale, e chiede che le venga consegnato il generale, oppure è guerra.

Ora sebbene Annone temesse molto la guerra con Roma, i cartaginesi rivogliono la Spagna e le sue ricchezze, così respingono le richieste romane, siamo nel 219 a.c., inizia la II guerra punica, detta anche guerra annibalica, che durerà dal 218 a.c. al 202 a.c., che si svolge per sedici anni in Europa e successivamente in Africa.

E' il conflitto armato più importante dell'antichità per le popolazioni coinvolte, per i costi economici e umani, ma soprattutto per le conseguenze storiche, politiche e sociali del mondo mediterraneo. Contrariamente alla I guerra punica, che fu combattuta e vinta soprattutto per mare, la II è una guerra via terra, con scontri in Spagna, Sicilia, Sardegna, Gallia cisalpina, Italia, Illiria, Grecia, Africa.

Il grande condottiero Annibale Barca è il grande protagonista della guerra, rimanendo nella penisola per oltre quindici anni senza essere sconfitto: «Di tutto quello che capitò ai due stati, Roma e Cartagine, il responsabile fu un solo uomo e una sola mente: Annibale»
(Polibio, IX, 22.1.)

ANNIBALE

CARTAGINE IN POVERTA'

Dopo la I guerra punica Cartagine era in una situazione finanziaria disastrosa. Enormi somme (3.200 talenti euboici in dieci anni) dovevano essere versate ai vincitori quale risarcimento, con la restituzione totale di tutti i prigionieri di guerra senza riscatto. La ricca Sicilia era passata sotto il controllo di Roma e Cartagine, non potendo pagare i i mercenari libici e numidi del suo esercito, dovette subire una sanguinosa rivolta che venne domata a stento da Amilcare Barca

Approfittando di questa rivolta Roma aveva occupato la Sardegna e la Corsica, obbligando Cartagine a un ulteriore indennizzo di altri 1.200 talenti. I ricchi commerci cartaginesi erano stati dirottati sui romani e a Cartagine l'aristocrazia che gestiva vaste proprietà fondiarie con un'agricoltura specializzata, entrò in conflitto con la "borghesia" commerciale e artigianale che mirava all'espansionismo sulle coste europee.



ROMA

Dopo la I guerra punica i Romani decisero la penetrazione nella Pianura Padana, per sbarrare la strada ai Liguri che cercavano la via del sud e per fermare definitivamente il pericolo dei Gallli, tanto più che dovevano consegnare le terre ai veterani che andavano in pensione.

Poichè la regina Teuta coi suoi pirati dell'Illiria, disturbava la navigazione nell'Adriatico, Roma si inserì nella politica delle città-stato della Grecia, della Macedonia, della lega etolica, sottoposte agli attacchi dei pirati. Approfittando poi della debolezza di Cartagine logorata dalla rivolta dei mercenari, occupò Sardegna e Corsica, sottraendole al dominio punico.



CARTAGINE 

Risolta la rivolta dei mercenari, Cartagine era divisa fra il partito dell'aristocrazia terriera, capeggiato dalla famiglia degli Annone che voleva l'accordo con Roma e l'allargamento del potere cartaginese verso l'interno dell'Africa, e il ceto imprenditoriale e commerciale che faceva riferimento ad Amilcare Barca e che vedeva nella Spagna la ripresa delle finanze puniche.

Vinse Amilcare, che, col figlio Annibale e il genero Asdrubale, non avendo navi per passare in Spagna, a capo dei reparti mercenari rimasti traversò nel 247 a.c. il Nordafrica fino a Gibilterra, attraversò lo stretto e seguendo la costa spagnola si diresse a oriente. Amilcare non solo rese autosufficiente la spedizione ma inviò a Cartagine molte merci e metalli requisiti alle tribù ispaniche. Morto Amilcare nel 229 a.c., gli subentrò Asdrubale per otto anni consolidando le conquiste e fondando Carthago Nova, oggi Cartagena.

I Romani fecero un trattato con Asdrubale nel 226 a.c., che poneva l'Ebro come limite all'espansione di Cartagine, ovvero al suo esercito di circa 50.000 fanti, 6.000 cavalieri numidi e oltre duecento elefanti da guerra. Nel 221 a.c.: Asdrubale venne ucciso da un mercenario gallo, l'esercito cartaginese scelse Annibale, il figlio maggiore di Amilcare di soli 26 anni, e Cartagine lo ratificò.

Pertanto Annibale assunse il comando supremo in Spagna; uno dei più grandi generali della storia; come scrisse lo storico tedesco Theodor Mommsen, perchè "nessuno come lui seppe accoppiare il senno con l'entusiasmo, la prudenza con la forza".
ANNIBALE PASSA IL RODANO

ANNIBALE

«[Magalo] consigliò [Annibale] di assalire l'Italia senza scontrarsi in battaglia [con Scipione], con le forze non ancora logorate da altre imprese. Il soldati [cartaginesi] erano spaventati dal nemico [romano], non essendo ancor cancellata la memoria della precedente guerra, ma lo era ancor di più della traversata delle Alpi, impresa spaventosa per fama, sprattutto per chi non l'aveva mai sperimentata
(Livio, XXI, 29.6.)

Nella primavera del 218 a.c., Annibale fece arrivare da Cartagine 15.000 uomini di cui 2.000 cavalieri numidi, facendo passare i soldati della Libia in Iberia e viceversa, per i vincoli di reciproca fedeltà tra le due province.

Lasciò, quindi, in Spagna, sotto il comando del fratello Asdrubale: 
- una forza navale di cinquanta quinqueremi, due quadriremi e cinque triremi; 
- 450 cavalieri tra Libi-Fenici e Libici, 
- 300 Ilergeti, 
- 1.800 tra Numidi, Massili, Mesesuli, Maccei e Marusi; 
- 11.850 fanti libici, 
- 300 Liguri, 
- 500 Balearici 
- e 21 elefanti.

A Cartagine vennero mandati di rinforzo: 
- 13.800 fanti,
- 1.200 cavalieri iberici, 
- 870 balearici, 
- 4.000 nobili spagnoli, ostaggi per assicurarsi la lealtà della Spagna. 

Intanto aspettava i messaggeri inviati ai Celti della Gallia Cisalpina, contando sul loro odio nei confronti dei Romani. Alle forze lasciate in Iberia e inviate a Cartagine, andavano sommate quelle della spedizione in Italia, vale a dire:
- 90.000 fanti, 
- 10.000-12.000 cavalieri, 
- 37 elefanti.



ROMA

Roma allestì:
- una flotta di oltre duecento quinqueremi;
- 24.000 fanti,
- 1.800 cavalieri (6 legioni) scelti tra i cittadini romani, 
- 45.000 fanti,
- 4.000 cavalieri scelti tra gli auxilia (9-10 legioni).

I due consoli si suddivisero i compiti: 
- Publio Cornelio a capo di 60 navi venne inviato in Iberia; 
- Tiberio Sempronio Longo venne mandato in Sicilia a Lilibeo con due legioni e alleati, in tutto 24.000 fanti e 2.000/2.400 cavalieri, con l'incarico di sbarcare in Africa, a bordo di 160 quinqueremi e di naviglio leggero, per attaccare direttamente Cartagine.

Negli anni successivi dovettero aumentare l'esercito Nel 216 a.c. schierarono:
- 80.000 fanti
- 9.600 cavalieri, pari a 16 legioni romane.

Nel 211 a.c. schierarono:
- 23 o 25 legioni, pari a 115.000 fanti e 13.000 cavalieri circa, 
- e 4 flotte di 150 navi.

SCIPIONE

SCIPIONE

A Publio Cornelio Scipione, padre dell'Africano, e al fratello Gneo Cornelio Scipione venne assegnata la Spagna con due legioni e le forze degli alleati: 22.000 fanti, 2.000 cavalieri e una sessantina di navi per attaccare Annibale in Spagna cercando l'aiuto delle popolazioni locali.

Si cercò in Spagna l'alleanza delle tribù Celtibere, da anni in lotta contro i Cartaginesi. Ma ricordando il mancato aiuto a Sagunto, rifiutarono di aiutare Roma innescando reazioni negative in Gallia. Roma poté contare solo sulle proprie forze e quelle dell'Italia appena conquistata, e non del tutto domata.
Fortificarono allora le città della Gallia Cisalpina e ordinarono ai coloni, 6.000 per ciascuna nuova città da fondare, di trovarsi nel luogo stabilito entro trenta giorni. La prima delle colonie venne fondata sul fiume Po e venne chiamata Placentia, l'altra a nord del fiume si chiamò Cremona
In Sicilia i Romani vennero a sapere dall'alleato Gerone II di Siracusa che i cartaginesi volevano occupare Lilibeo che venne pertanto fornita di valide difese. Lo scontro navale che ne seguì vide i Romani prevalere e respingere il nemico e occupando Melita (Malta).



ANNIBALE

Nel maggio del 218 a.c. Annibale lasciò la penisola iberica, con 90.000 fanti, 12.000 cavalieri, e 37 elefanti.onde evitare l'attacco a Cartagine. Passato l'Ebro, in due mesi sconfisse, perdendo però ben 22.000 uomini fra decessi e defezioni, le popolazioni che si frapponevano fra il territorio cartaginese e i Pirenei, dove lasciò a protezione 10.000 fanti e 1.000 cavalieri sotto il comando di Annone. Varcata la catena montuosa tra Iberia e Gallia in direzione del Rodano, gli erano rimasti 50.000 fanti e 9.000 cavalieri (da 90.000 fanti e 10.000-12.000 cavalieri).

Intanto Annibale spinse Galli Boi e Insubri alla rivolta, scacciando i coloni da Piacenza (Placentia)spingendoli fino a Modena (Mutina) che venne assediata ma non occupata. Allora Publio Cornelio Scipione dové tornare a Roma per arruolare una settima legione. Raggiunse Massalia (Marsiglia) per fronteggiare Annibale, che dovette farsi strada con le armi perdendo ancora 13.000 uomini di cui 1.000 cavalieri. Dopo la diserzione di 3.000 Carpetani permise ad altri 7.000 uomini, poco desiderosi di seguirlo, di ritornare a casa. Verso la metà di agosto arrivarono al Rodano 38.000 fanti e 8.000 cavalieri, truppe fedeli e sperimentate.

L'ATTRAVERSAMENTO DELLE ALPI

L'ATTRAVERSAMENTO DELLE ALPI

Annibale doveva fare passare il suo esercito sulla riva sinistra del Rodano, sconfitti i Volci, si rese conto di non potere passare in Italia per la strada costiera e si inoltrò fra le montagne nelle vallate del Rodano e dell'Isère. Per Polibio Annibale avrebbe seguito il corso dell'Isère, passando dal Moncenisio. Secondo altri avrebbe valicato il Piccolo S. Bernardo (Cremonis iugum), per altri il valico Monginevro, per Brizzi  il valico della Traversette.

In ogni caso l'attraversamento delle Alpi avvenne verso la fine del 218 a.c.; il freddo e la fatica penalizzarono fortemente uomini e animali ma raggiunsero la Pianura Padana prima che le nevi bloccassero i passi. Annibale arrivò in Italia dopo una ventina di giorni di aspri combattimenti con le popolazioni montanare finchè gli rimasero solo 20.000 fanti e 6.000 cavalieri.

Intanto Publio Scipione, inviato il fratello Gneo in Spagna con la flotta e parte delle truppe, era tornato in Italia, fermandosi a Piacenza. Tiberio Sempronio Longo dovette rinunciare allo sbarco in Africa. Annibale aveva traversato le Alpi e Roma aveva di che preoccuparsi.



SCIPIONE

A Piacenza, Scipione aggiunse i pochi rinforzi alle sue truppe e andò incontro ad Annibale. La battaglia del Ticino  diede la misura delle capacità belliche di Annibale che con la cavalleria numidica attaccò i fianchi del nemico, Scipione venne sconfitto e rischiò la morte in battaglia, eroicamente salvato dal figlio diciassettenne Publio Cornelio Scipione, il futuro Africano.

Scipione dovette ripiegare su Piacenza, mentre i suoi contingenti Galli passarono ad Annibale. Il console allora, all'avvicinarsi di Annibale si spostò sulla riva destra della Trebbia, ai piedi dell'Appennino. L'esercito cartaginese occupò anche Clastidium grazie al tradimento del comandante, acquisendo le grandi riserve di viveri ammassate nel villaggio.

L'esercito romano inviato a sud per attaccare Cartagine aveva intanto combattuto le navi puniche e conquistato Malta. Quando il Senato, allarmato dall'avanzata di Annibale, aveva ordinato a Sempronio Longo di portare aiuto al collega, questi era partito da Lilibeo, aveva risalito l'Adriatico ed era sbarcato a Rimini.

L'avvicinarsi di questo esercito spinse Annibale ad accelerare le operazioni e traversò il Po, mentre Scipione, in attesa dell'arrivo dei rinforzi di Sempronio Longo, era schierato dietro il fiume Trebbia, con le due ali coperte dagli Appennini e dalla fortezza di Piacenza.



SEMPRONIO LONGO

Ai primi di dicembre Sempronio Longo raggiunse Scipione; l'esercito romano contava 16.000 legionari e 20.000 alleati, mentre Annibale aveva 40.000 uomini. Sempronio Longo, che deteneva da solo il comando per le ferite di Scipione, volle rischiare la battaglia campale contro Annibale.

Contro il parere di Scipione, mandò all'attacco la cavalleria, poi fece attraversare il fiume a tutte le sue forze ancora prima che i legionari avessero avuto il tempo di mangiare. I Romani quindi entrarono in campo digiuni dopo avere attraversato le fredde acque del fiume mentre Annibale era pronto con il suo esercito ben nutrito e riposato.

L'esercito di Sempronio Longo, attaccato da tre lati, venne in gran parte distrutto sul campo; piccoli gruppi fuggirono attraverso il fiume, mentre circa 10.000 legionari riuscirono ad aprirsi un varco e ripararono a Piacenza.

Dopo la sconfitta sulla Trebbia Sempronio Longo tornò a Roma minimizzando la sconfitta, mentre Publio Scipione si trasferì in Spagna come proconsole per collaborare con il fratello Gneo. A Roma si procedette all'elezione dei consoli per il 217 a.c. e all'arruolamento di nuove legioni per un totale di undici legioni:: una venne inviata in Sardegna, due in Sicilia, due a difesa di Roma, due in Spagna. Rinforzi arrivarono alle quattro legioni nella Gallia Cisalpina.

In Spagna Gneo Cornelio Scipione aveva riconquistato Emporion, colonia greca di Massalia (Marsiglia), e si era diretto con i suoi 24.000 uomini verso l'Ebro, battendosi vittoriosamente contro alcune tribù locali e contro Annone che era rimasto a presidiare i Pirenei con 11.000 uomini e che venne catturato. Asdrubale, tornò a Nova Carthago (Cartagena) per svernare, mentre Gneo Scipione tornò a Tarraco (Tarragona), dove distribuì ai soldati il bottino e iniziò la costruzione delle mura ciclopiche.

Nel 217 a.c. i nuovi consoli, Gneo Servilio Gemino e Gaio Flaminio con le quattro legioni consolari e gli alleati, in tutto circa 50.000 uomini, si spostarono nella via ritenuta più logica per marciare verso Roma. Roma abbandonava la Gallia Cisalpina dove resteranno fedeli i Galli Cenomani e i Veneti. Annibale svernò fra i Galli Boi che, secondo Polibio, per nulla contenti di fornire mezzi e provviste all'esercito punico.

BATTAGLIA DEL TRASIMENO

BATTAGLIA DEL TRASIMENO

Nella primavera del 217 a.c. Annibale decise di scendere verso Roma con un esercito di 50.000 uomini, in massima parte Galli che si erano aggiunti ai superstiti della marcia dell'anno precedente. Per il freddo era rimasto vivo, ma per poco, un solo elefante da guerra.

Annibale decise di attraversare l'Appennino e scendere verso Pistoia in un terreno paludoso. Molti morirono e Annibale perse un occhio per un'infezione. Annibale non attese il ricongiungimento degli eserciti di Flaminio e Servilio e a sera si accampò sulle colline sopra il lago nascondendo in una gola la micidiale cavalleria; sulle rive del lago si accamparono gli ignari romani. Il giorno dopo iniziò la battaglia del Lago Trasimeno


In una mattinata nebbiosa i 25.000 uomini di Flaminio, non essendo a conoscenza della posizione del nemico, procedevano senza particolari accorgimenti difensivi; Annibale tese l'agguato e nella nebbia le legioni di Flaminio in marcia lungo il lago, furono bloccate frontalmente dalla fanteria pesante di Annibale quindi dalle colline a nord del lago discesero di sorpresa le truppe leggere, infine la cavalleria cartaginese chiuse la strada alle spalle dei romani. 

Le legioni furono distrutte dopo una mischia confusa nella nebbia; persero la vita lo stesso console Flaminio e 15.000 Romani; 6.000 furono i prigionieri. Il giorno dopo vennero sconfitti anche alcuni reparti di cavalleria di Servilio, appena arrivati, che si scontrarono con la cavalleria numida di Maarbale. Qualche migliaio di superstiti delle legioni si disperse in Etruria o riuscì a raggiungere Roma.



PRESSO LE MURA DI ROMA

Ora il pericolo era enorme: Annibale poteva attaccare Roma. Servilio assunse il comando delle forze navali, Regolo sostituì il defunto Flaminio al consolato e Roma nominò un dittatore: Quinto Fabio Massimo Verrucoso che passerà alla storia come Cunctator ("Temporeggiatore"). Annibale fece trucidare i prigionieri romani, ma inviò liberi e senza riscatto i prigionieri italici.

Ma gli italici alleati di Roma non tradirono per cui Annibale, non attaccò Roma ma traversò l'Umbria per raggiungere il Piceno devastandolo e saccheggiandolo dalle sue truppe. Verso l'Adriatico riorganizzò il suo esercito con le armi armi sottratte ai caduti romani quindi arrivò in Apulia sempre incontrando città ostili.

Intanto Roma aveva posto un blocco navale sulle coste del Tirreno. Al comando di Annone, una flotta cartaginese di circa 70 navi vicino alla Sardegna cercò di portare rinforzi sbarcando sulle coste dell'Etruria ma venne ricacciata dalla flotta romana, di 55 quinqueremi, che pattugliava il Tirreno comandata da Servilio.


Alla ripresa delle ostilità dopo l'inverno, Gneo Scipione riuscì a riconquistare il territorio fra l'Ebro e i Pirenei che l'anno precedente era stato occupato dai Cartaginesi. La flotta cartaginese di stanza in Spagna fu catturata da Scipione e i Romani arrivarono a saccheggiare il territorio vicino a Carthago Nova riuscendo anche a sottomettere le isole Baleari: Roma deteneva ora il controllo totale del Mediterraneo Occidentale.

Verso la fine dell'anno in Spagna arrivò anche il fratello di Gneo Scipione, Publio, con 30 navi e una legione. Roma schierava così due legioni, 10.000 alleati, 80 quinqueremi, 25.000 marinai. Le forze cartaginesi erano bloccate, non potevano passare per via terra senza aprirsi la strada con la forza e non potevano usare le navi.

FABIO MASSIMO

QUINTO FABIO MASSIMO

Quinto Fabio Massimo evitò tutti gli scontri diretti con Annibale che si diresse verso il Sannio e la Campania, per raggiungere Roma da sud. Ma, diretto verso Cassino, giunse per errore delle sue guide a Casilino, e rischiò di essere isolato da Fabio Massimo nell'area del fiume Volturno. 

Annibale fece appendere alle corna di una mandria buoi delle torce facendole apparire di notte come un esercito in marcia. Fabio seguì le luci lasciando aperta la strada di uscita ai cartaginesi; e Annibale marciò verso nord-est, devastò il territorio e giunse nella zona di Lucera. I cartaginesi si attestarono, alla fine, nel territorio di Geronio dove elevarono un campo con trincee.

Ora noi abbiamo riportato l'episodio come lo narra Cornelio Nepote nel suo "Liber de excellentibus ducibus exterarum gentium - XXIII - Hannibal", ma è poco credibile. Annibale ha sicuramente razziato dei buoi ma al massimo una decina, perchè gli rallentano la marcia. I buoi stanno sempre a mangiare durante il giorno e non camminano. Inoltre svegliarli di notte ed appendergli torce accese li atterrirebbe e muggirebbero senza sosta cercando continuamente di scappare. 

Per giunta era molto improbabile che un esercito marciasse di notte proprio perchè avrebbe dovuto usare le torce a meno che non ci fosse una luna piena. Con le torce un esercito è visibile a distanza e chiunque avrebbe potuto attaccarlo, soprattutto con la guerriglia, cioè attacca e fuggi.



I DETRATTORI DI FABIO

La tattica di Fabio Massimo non era approvata da molti Romani abituati alle notizie di vittoria, ma soprattutto era criticata da Marco Minucio Rufo, magister equitum, che giudicava la tattica ritenendolo troppo codarda. In assenza di Fabio Massimo, Rufo prese l'iniziativa e attaccò un reparto di Annibale ottenendo qualche limitato successo. A Roma giunse la notizia giunse ingigantita e Minucio Rufo venne innalzato a secondo dittatore.

Ora anziché comandare l'esercito a giorni alterni, come facevano i consoli, Fabio Massimo, che aveva ben compreso chi fosse Rufo, preferì dividere l'esercito. Annibale, profondo conoscitore di uomini, comprese la limitatezza di Rufo e lo attirò in una trappola. L'esercito di Rufo stava per essere distrutto ma Fabio intervenne a salvarlo ottenendo la riconoscenza dei soldati e di Rufo che riconobbe i suoi errori e rinunciò alla carica di dittatore.

Il racconto, basato su Polibio e Tito Livio, non è sembrato attendibile agli storici moderni che hanno pensato a un tentativo di esaltare la tattica poco brillante di Fabio, ma potrebbe invece rispondere a realtà. Quinto Fabio Massimo, alla scadenza del suo mandato semestrale, restituì le insegne e il comando tornò ai consoli Gneo Servilio Gemino e Marco Atilio Regolo che continuarono la tattica di Fabio Massimo, ma i romani si aspettavano vittorie e non tattiche.



I NUOVI CONSOLI

Nel 216 a.c., vennero eletti consoli Lucio Emilio Paolo e Gaio Terenzio Varrone. Emilio Paolo, sostenuto dall'aristocrazia e vincitore della guerra in Illiria, sosteneva, secondo Polibio, la tattica prudente di Quinto Fabio Massimo.
« Ordinò in modo esplicito a Gneo [Servilio] di evitare la battaglia, al contrario di esercitare le nuove leve con decise e frequenti scaramucce, per prepararli a un possibile scontro decisivo» (Polibio, III, 106, 4.)

Terenzio Varrone, di fazione popolare, venne denigrato, soprattutto da Polibio come per addossargli la disfatta del 216 a.c. per evitare responsabilità a Emilio Paolo, che era un avo di Publio Cornelio Scipione Emiliano, suo protettore.

Le legioni di Roma erano passate da 4 a 8 legioni, che, con gli alleati, diventarono 80.000 fanti e 6.000 cavalieri. Emilio Paolo osservò: « mai prima d'ora i due consoli hanno combattuto con tutte le legioni riunite» (Polibio, III, 108, 6)

I consoli, a luglio, mossero verso Annibale che si spostò in Apulia in cerca di viveri inseguito dall'esercito romano. A detta di Polibio, il 2 agosto 216 a.c. il comando toccava a Terenzio Varrone, le truppe romane erano circa il doppio delle cartaginesi.

BATTAGLIA DI CANNE

CANNE

Le legioni vennero disposte in schieramento chiuso, insolitamente profondo, in modo, secondo Varrone, da schiacciare le linee cartaginesi con il loro stesso peso. Annibale dispose al centro i Galli e gli Iberi; in una formazione a mezzaluna, con la convessità rivolta all'avversario, prevedendo che la fanteria degli ibero-galli non avrebbe resistito a lungo alla pressione dello schieramento romano ma sulle due ali aveva posto la fanteria pesante africana costituita da guerrieri esperti e veterani, con le armature sottratte ai romani.

Infatti i Galli e gli Iberi lentamente cedettero terreno e le forze romane avanzarono sempre più verso il centro dello schieramento nemico. Allora Annibale fece avanzare le ali scatenando la temibile cavalleria pesante. La cavalleria romana dovette ritirarsi e la cavalleria cartaginese attaccò alle spalle la cavalleria alleata che cedette a sua volta lasciando attaccare da dietro le legioni romane.

Le due formazioni di fanteria pesante africana attaccarono i fianchi del compatto schieramento delle legioni in combattimento contro gli Ibero-galli, che si ritrovò accerchiato e venne così annientato senza possibilità di fuga. Perì anche il console Emilio Paolo, che forse era contrario allo scontro frontale, insieme ai due consolari Servilio e Minucio che combattevano al centro dello schieramento, e a novanta ufficiali tra consolari, pretori e senatori.

I morti romani furono 70.000 e 10.000 furono presi prigionieri. Il console superstite, Varrone, ritenuto da Polibio il responsabile della sconfitta, con 10.000 sbandati si rifugiò a Venusia. Si salvò anche il giovane Publio Cornelio Scipione, tribuno militare, che seppur giovanissimo guidò gli scampati alla salvezza. Annibale perse tra 3.000 e 6.000 uomini, e alcuni centri cominciarono a passare dalla sua parte.



LE DEFEZIONI

Annibale inviò a sud nel Bruzio il fratello Magone con una parte delle sue forze, mentre lui con il grosso dell'esercito si diresse in Campania dove ottenne l'alleanza di Capua, promettendole di diventare capitale al posto di Roma, avendo già ottenuto l'alleanza della Daunia, esclusa Lucera, e dei Sanniti.

Il condottiero cartaginese inoltre decise che Magone, dopo essere giunto nel Bruzio, partisse per Cartagine dove avrebbe dovuto informare il senato dei brillanti successi raggiunti e chiedere rinforzi e sostegno. Magone arrivò in Africa e cercò di impressionare i politici cartaginesi mostrando gli innumerevoli anelli d'oro sottratti ai cavalieri romani uccisi in battaglia; la fazione di Annone tentò di sminuire i successi di Annibale ma alla fine venne deciso di inviare, nel 215 a.c., importanti rinforzi in Italia.

Roma venne sconvolta dalla notizia della catastrofe a Canne, sembrava che nulla potesse fermare l'avanzata di Annibale e la città si preparò all'inevitabile attacco. A Roma vennero eletti due dittatori in contemporanea: Fabio Buteone e l'ex censore Marco Giunio Pera. Appena eletto Buteone nominò 177 nuovi Senatori, a sostituzione dei senatori morti in guerra.

Venne abbreviato il lutto, limitati i lussi e sfruttato l'erario cittadino; si cercò di calmare la popolazione con cerimonie di espiazione e propiziazione per placare gli Dei, fino a giungere ai sacrifici umani rituali con il seppellimento nel Foro di una coppia di galli e una di greci, rappresentanti i nemici di Roma.

Si ricorse al tumultus, il richiamo in massa di tutti i riservisti, si arruolarono giovanissimi e uomini in età avanzata; si giunse al punto di immettere nell'esercito anche due legioni costituite da 8.000 schiavi a cui fu promesso l'affrancamento, e perfino criminali comuni furono annessi nell'esercito. In poche settimane Roma ricostruì sette legioni a difesa della Repubblica.

Per dimostrare ferrea risolutezza si decise invece di non riscattare i prigionieri come proposto dagli inviati di Annibale; inoltre il senato non mosse accuse al console Varrone che al contrario fu accolto da una delegazione alle porte di Roma e venne ringraziato ufficialmente "per non avere disperato della patria". Evidentemente non si era mosso così male come gli storici insinuano.

Ma Annibale non assediò Roma, probabilmente attese il collasso della federazione italica, che in parte avvenne: da Capua, a Siracusa, Taranto, Turi, Metaponto, Atella, Calatia, gran parte degli Apuli, tutti i Sanniti a eccezione dei Pentri, i Bruzi a esclusione degli Uzentini e l'intera Italia meridionale. Malgrado ciò, Roma non si arrese.

L'Italia tirrenica, tranne Capua, restò invece fedele a roma. Annibale, poiché tutti i generali di Roma si erano ormai allineati alla dottrina di Quinto Fabio Massimo Verrucoso, che evitava lo scontro diretto, vide il tempo scorrere lento senza una fine della guerra.

CAPUA

GLI OZI DI CAPUA

Le residue truppe romane al comando del pretore Marco Claudio Marcello si attestarono sulla linea del fiume Volturno in attesa dei rinforzi reclutati da Marco Giunio Pera, per organizzare la difesa di Roma. Annibale conquistò Nocera, incendiò e distrusse Acerra ma non gli riuscì di prendere Nola, allora occupò Casilinum, poi giunto ormai l'inverno del 216-215 a.c. stanziò il suo esercito a Capua dove rimase fino alla primavera.

Per giunta in Gallia Cisalpina due legioni romane vennero distrutte in un'imboscata nella Selva Litana e i Romani dovettero ritirarsi dalle colonie di Piacenza e Cremona. Ma i guai non erano finiti, nell'estate del 215 a.c. Cartagine ottenne l'alleanza con Filippo V di Macedonia. I Romani lo appresero grazie alla cattura degli inviati di Filippo V di ritorno con i documenti dell'accordo; iniziò così la Prima guerra macedonica. 

Roma, ordinò a Marco Valerio Levino di appoggiare la flotta di 55 navi del praefectus classis, Publio Valerio Flacco, con alcuni armati per difendere i possedimenti illirici: «.. per condurre la guerra macedonica, fu destinato il denaro che era stato inviato in Sicilia a Appio Claudio, perché fosse restituito a Gerone. Questo denaro venne invece portato a Taranto, al legato Lucio Antistio. Contemporaneamente il re Gerone inviò 200.000 moggi di frumento e 100.000 di orzo.» 
(Livio, XXIII, 38.12-13.)

- inverno 216/215 a.c. - morì a Siracusa l'anziano Basileus di Sicilia Gerone II e il nipote appena quindicenne, Geronimo prese contatti con Annibale, pretendendo che i cartaginesi acconsentissero al dominio assoluto di Siracusa su tutta la Sicilia in cambio della partecipazione diretta alla guerra contro Roma. La flotta di Siracusa si unì così alle navi cartaginesi contro la flotta romana con base a Lilibeo.
In Spagna dopo i successi del 217 a.c. gli Scipioni ritornarono a nord dell'Ebro, Asdrubale partì per l'Italia e una flotta al comando di Imilcone venne inviata in Spagna per sedare le continue rivolte antipuniche. La rivolta di Siface, re dei Numidi Massesili (215 a.c.), costrinse Cartagine a richiamare Asdrubale in Africa, indebolendo così l'esercito cartaginese in Iberia. Gneo e Publio poterono così concludere un'alleanza con i Celtiberi, arruolandone dei mercenari.

- primavera 215 a.c. - alcuni locali avvertirono Cartagine che Ampsicora, il capo indipendentista della Sardegna, stava organizzando una vasta sollevazione contro i romani, con la collaborazione del senatore Annone. I cartaginesi inviarono una spedizione sull'isola per appoggiare i rivoltosi.

214 a.c. - Filippo V attaccò le basi romane in Illiria e pose l'assedio ad Apollonia, ma Valerio Levino riconquistò Orico e liberò Apollonia costringendo Filippo a una disastrosa ritirata in Macedonia dopo averne incendiato le navi.



IL TEMPOREGGIAMENTO

- 215 a.c. - Quinto Fabio Massimo venne eletto console insieme a Tiberio Sempronio Gracco e tornò alle «tattiche di logoramento» che, di fronte all'impressionante abilità militare di Annibale, erano ormai ritenute l'unico modo per evitare la sconfitta di Roma. 

Nonostante la povertà dell'erario; e con in parte l'apporto di alcuni ricchi romani, vennero mantenute in mare circa 200 navi da guerra con 50.000 uomini di equipaggio, mentre numerosi eserciti legionari furono messi in campo al comando dei due consoli, Fabio Massimo e Sempronio Gracco, e del pretore Claudio Marcello, schierati a difesa a Cales, Nola e Cuma, rimaste fedeli a Roma. 

ANNIBALE

IL BRUZIO

Annibale aveva inviato nel Bruzio il luogotenente Annone e i Bruzi si sollevarono a favore dei cartaginesi ma le città della Magna Grecia, rivali di Cartagine, si opposero. Annone nel 215 a.c. riuscì a conquistare Locri e Crotone dove furono concentrati i Bruzi, e al porto di Locri avrebbero dovuto affluire i rinforzi che Annibale attendeva dalla madrepatria, poichè per l'accordo con Capua non poteva arruolare in Campania, e pure i rifornimenti attraverso i saccheggi gli stavano inimicando le popolazioni italiche prima favorevoli.

Tiberio Sempronio Gracco sconfisse Capua e Annibale venne respinto alle porte di Cuma fedele a Roma. Allora Annibale ripartì verso Nola per contrastare i romani contro le popolazioni alleate campane, sannitiche e irpine, ma venne respinto da Claudio Marcello. Annibale allora, seguito dall'esercito di Sempronio Gracco, andò a svernare ad Arpi; Sempronio pose il campo a Lucera mentre Fabio Massimo saccheggiava il territorio di Capua.



IN CAMPANIA

-  214 a.c. -  i nuovi consoli Quinto Fabio Massimo e Claudio Marcello, con quattro legioni, iniziarono a riconquistare la Campania; Roma, nonostante le grandi difficoltà finanziarie, aveva arruolato circa 200/250.000 soldati. Annibale ritornò sul monte Tifata nel territorio di Capua, mentre Annone, schierato nel Bruzio; sferrò senza successo un terzo attacco a Nola e a Puteoli.
I Romani riconquistarono Compulteria, Telesia, Compsa nel Sannio, Aecae in Apulia, Claudio Marcello conquistò Casilinum. Annone, in Lucania, venne sconfitto a Grumento (215 a.c.) e poi a Benevento a opera delle legioni di schiavi volontari di Sempronio Gracco (214 a.c.). Annibale fallì nella conquista di Taranto ed Eraclea per l'intervento della flotta romana di Brindisi. 



A ROMA

- 214 a.c. - A Roma a causa della povertà delle finanze, si stabilì che quelli che avevano provveduto alla manutenzione dei templi e la fornitura dei cavalli curuli, venissero pagati a guerra terminata, insieme a tutti coloro che erano stati padroni degli schiavi liberati dal proconsole Tiberio Gracco dopo la vittoria di Benevento. Molti romani prestarono denaro alla Res publica, finanziando le sostanze per gli orfani minorenni e per le vedove. Negli accampamenti militari, nessun eques o centurione accettò di riscuotere lo stipendium, rimproverando coloro che lo facevano chiamandoli "mercenari"




IN SARDEGNA

In Sardegna giunse un esercito punico di 15.000 uomini appena arruolati, ma Tito Manlio Torquato, con oltre 20.000 uomini, aveva già sconfitto Ampsicora e il figlio Josto. Nella battaglia fra sardi alleati dei Punici e romani, i Nuragici furono sbaragliati con 4.000 uomini fra caduti e prigionieri. I Cartaginesi si reimbarcarono verso l'Africa, ma la flotta venne sbaragliata dalla flotta romana di Tito Otacilio Crasso. Sconfitti Punici e Nuragici, seguì una dura repressione da parte romana. 

- autunno 216 a.c. - Asdrubale si mosse in direzione dell'Ebro con 25.000 uomini ma i fratelli Scipioni gli sbarrarono il passo vincendolo poi a Dertosa. Era previsto l'invio ad Annibale attraverso il porto di Locri di un esercito al comando del fratello Magone di 12.000 fanti, 1.500 cavalieri, venti elefanti e sessanta navi, ma la grave sconfitta di Asdrubale costrinse il senato cartaginese a dirottare queste forze nella penisola iberica per fermare l'avanzata di Gneo e Publio Scipione. 

- estate 215 a.c. - I fratelli Scipioni accorsero in aiuto della città alleata di Iliturgi, assediata da Asdrubale e Magone, e seppure in netta inferiorità numerica, vinsero brillantemente. Gli Scipioni ripresero l'offensiva nel 212 a.c. riuscendo a riconquistare Sagunto nonostante la presenza di tre eserciti cartaginesi in Spagna comandati da Asdrubale, Magone e Asdrubale Giscone.

MORTE DI ARCHIMEDE

IN SICILIA

In Sicilia il pretore del 216 a.c. imbarcato per l'Africa, gravemente ferito in un'operazione bellica, fu costretto a tornare a Lilibeo (Marsala); ai soldati e alla flotta non erano stati ancora pagati gli stipendia ma intervenne l'aiuto finanziario di Gerone II. Due legioni romane formate dai superstiti di Canne respinsero l'esercito siracusano appoggiato dai cartaginesi mentre la flotta di cento quinqueremi, sotto il comando di Appio Claudio Pulcro controllava i mari. Il nuovo re Geronimo venne assassinato e la guerra contro Roma venne sospesa. 


- 213 a.c. - a Siracusa i due inviati di Annibale Ippocrate e Epicide assunsero il potere e ben presto la guerra esplose in tutta la Sicilia soprattutto dopo il brutale saccheggio di Claudio Marcello giunto sull'isola con una legione per rinforzare i presidi romani. Siracusa venne assediata per terra e per mare dalle forze di Claudio Marcello e di Appio Claudio Pulcro ma vennero respinti grazie alle macchine da guerra progettate da Archimede; intanto i cartaginesi conquistarono Agrigento. I Romani persero il controllo di gran parte della Sicilia centrale dopo avere schiacciato brutalmente la rivolta di Enna. 

- 212 a.c. - sei legioni romane, al comando dei consoli Appio Claudio Pulcro e Quinto Fulvio Flacco, assediarono Capua con ben 250.000 soldati e Annibale marciò in soccorso di Capua. Le truppe di Sempronio Gracco schierate a Benevento vennero sconfitte e Gracco venne ucciso in un'imboscata.

Annibale entrò a Capua nel maggio del 212 a.c. mentre le legioni di Claudio Pulcro e Quinto Fulvio Flacco ripiegarono a Cuma. Una sconfitta bruciante per i romani. Per giunta Annibale sconfisse sul Silaro le milizie di Marco Centenio Penula che fu vinto e ucciso, e sconfisse a Erdonia il pretore Gneo Fulvio Flacco.

Annibale, preoccupato per la situazione a Taranto, ritornò in Apulia; nella primavera del 211 a.c. Claudio Pulcro e Quinto Fulvio Flacco ripresero l'assedio di Capua, cingendola con una doppia circonvallazione come farà un giorno Cesare con Alesia, la situazione era drammatica.

Annibale per distogliere l'assedio romano di Capua decise di marciare con il suo esercito contro Roma e arrivò a poca distanza dalla città (4 miglia il grosso dell'esercito, mentre i suoi cavalieri fin sotto le mura), si accampò in vista della città (nella località ancora oggi detta Campi d'Annibale), ma non assaltò le mura.

Il Senato di Roma, secondo Tito Livio, in segno di sfida, avrebbe messo in vendita i terreni intorno alla città su cui si era accampato l'esercito cartaginese, ma forse lo fece realmente per le finanze dell'erario. In realtà Annibale, ritenendo che il piano per distrazione fosse fallito, decise, dopo aver depredato il territorio intorno a Roma, di tornare in Campania. 

Annibale sconfisse le truppe romane che lo avevano seguito, ma non poté più impedire la caduta di Capua che si arrese ai romani. I nobili campani vennero in buona parte giustiziati e tutti gli abitanti furono venduti come schiavi; Capua, ridotta in rovina, venne trasformata in borgo agricolo. Annibale era ridisceso nel Bruzio, per congiungersi con le forze di Magone il Sannita.

« Non vi fu un altro momento della guerra nel quale Cartaginesi e Romani si trovarono maggiormente in dubbio tra speranza e timore. Infatti, da parte dei Romani, nelle province, da un lato in seguito alle sconfitte in Spagna, dall'altro per l'esito delle operazioni in Sicilia (212-211 a.C.), vi fu un alternarsi di gioie e dolori. In Italia, la perdita di Taranto generò danno e paura, ma l'avere conservato il presidio nella fortezza contro ogni speranza, generò grande soddisfazione (212 a.C.). 

L'improvviso sgomento e il terrore che Roma fosse assediata e assalita, dopo pochi giorni svanì per fare posto alla gioia per la resa di Capua (211 a.C.). Anche la guerra d'oltremare era come in pari tra le parti... Filippo divenne nemico di Roma in un momento tutt'altro che favorevole (215 a.C.), nuovi alleati erano accolti, come gli Etoli e Attalo, re dell'Asia, quasi che la fortuna già promettesse ai Romani l'impero d'oriente.

Anche da parte dei Cartaginesi si contrapponeva alla perdita di Capua, la presa di Taranto e, se era motivo per loro di gloria l'essere giunti fin sotto le mura di Roma senza che nessuno li fermasse, sentivano d'altro canto il rammarico dell'impresa vana e la vergogna che, mentre si trovavano sotto le mura di Roma, da un'altra porta un esercito romano si incamminava per la Spagna. 

La stessa Spagna, quando i Cartaginesi avevano sperato di portarvi a termine la guerra e cacciare i Romani dopo avere distrutto due grandi generali (Publio e Gneo Scipione) e i loro eserciti, la loro vittoria era stata resa inutile da un generale improvvisato, Lucio Marcio. E così, grazie all'azione equilibratrice della fortuna, da entrambe le parti restavano intatte le speranze e il timore, come se da quel preciso momento dovesse incominciare per la prima volta l'intera guerra

(Livio, XXVI, 37.)

- 210 a.c. - Annibale nella II battaglia di Erdonia, aveva sconfitto il proconsole Gneo Fulvio Centumalo Massimo, forte di ventimila uomini, ma Roma, nel 210 a.c. rioccupò la Daunia.

Ma in Africa il re numida Siface richiese l'alleanza con Roma (nel 210 a.c.); Filippo V di Macedonia fu ridotto sulla difensiva, con Elei, Spartani, Messeni, Attalo re d'Asia, Pleurato di Tracia e Scerdiledo d'Illiria. 

In Sicilia i Romani espugnarono ventisei città, tra cui Siracusa e Archimede venne ucciso durante i combattimenti. Siracusa, non più alleata, venne inglobata nella provincia di Sicilia. Poco prima della presa della città Tito Otacilio Crasso con ottanta quinqueremi si era impadronito di numerose navi piene di grano.

Quindi sbarcò e saccheggiò gran parte del territorio circostante tornando a Lilibeo con 130 navi da carico piene di grano e di bottino. 

Il grano fu subito inviato ai romani e siracusani perchè non morissero di fame. Marcello ottenne una nuova vittoria presso il fiume Imera contro le forze greco-puniche di Epicide, Annone e Muttine, e Valerio Levino occupò Agrigento (210 a.c.): la Sicilia era ormai romana.



IN SPAGNA

Mentre continuava la logorante guerra in Italia la campagna in Spagna era diventata per Cartagine la base economica e militare di tutta la guerra. Prelevava dalla Spagna le truppe mercenarie e l'argento e il rame, che sostenevano i costi crescenti della guerra, estesa ormai a tutto il Mediterraneo, ed era sulla Spagna che Cartagine doveva appoggiarsi per mandare aiuti ad Annibale. 

Intanto i due Scipioni, Publio e Gneo, dopo una serie di vittorie, erano riusciti ad assicurarsi l'amicizia del re di Numidia, Siface, che fu però sconfitto in Africa da Massinissa, re dei Massili nel 213 a.c.. Allora Cartagine rimandò in Spagna Asdrubale.

- 212 - 211 a.c. - I due eserciti degli Scipioni furono abbandonati dai mercenari celtiberi e separatamente distrutti in Andalusia.

Gli eserciti cartaginesi al comando di Asdrubale, Magone e Asdrubale Giscone erano ora in netta superiorità numerica ma gli Scipioni decisero di affrontare ugualmente la battaglia, inoltre molte truppe spagnole defezionarono; sia Publio Scipione che Gneo Scipione vennero attaccati e distrutti, insieme ai due generali. Solo piccoli reparti romani riuscirono a scampare a nord dell'Ebro al comando del coraggioso legato Lucio Marcio. Anche Sagunto era perduta.

SCIPIONE L'AFRICANO

L'ASTRO NASCENTE

Lucio Marcio riuscì a riorganizzare i reparti sopravvissuti alla disfatta e a fermare l'avanzata cartaginese, ottenendo un'insperata vittoria poco a nord del fiume Ebro. Dopo la resa di Capua (211 a.c.), Gaio Claudio Nerone venne inviato a difendere in Spagna la linea dell'Ebro con nuovi rinforzi, dove rimase fino al autunno del 210 a.c.. quando il giovane astro nascente, il venticinquenne Publio Scipione, dotato di un imperium proconsolare straordinario, lo sostituì con l'aggiunta di altri 11.000 uomini, e con una serie di brillanti operazioni belliche e diplomatiche restrinse sempre più il controllo cartaginese nella penisola iberica.

- 213-212 a.c. - Annibale, con l'aiuto di un traditore, prese la città di Taranto ma non la rocca che bloccava il porto, che, ancora in mani romane, poteva essere rifornita dal mare. Così Annibale non poteva usare lo scalo, più capiente di quello di Locri (già in suo possesso) per ricevere i necessari aiuti da Cartagine.

- 209 a.c. - Quinto Fabio Massimo, grazie anche all'aiuto dell'esercito proveniente dalla Sicilia, che era sbarcato a Brundisium, e a un tradimento, riconquistò Taranto. La rappresaglia fu dura, i Romani vendettero come schiavi 30.000 tarantini.

La perdita di Taranto fu un grave colpo per i rifornimenti di Annibale che venne confinato nell'estremo meridione della penisola. Intanto a Roma si inviarono ambasciatori a Tolomeo IV d'Egitto per i rifornimenti di grano. Sempre nel 209 a.c. dodici delle trenta colonie latine rifiutarono di fornire soldati agli eserciti di Roma, lamentando mancanza di uomini. Le altre diciotto li fornirono.

208 a.c. - in un agguato di cavalleria presso Venosa venne ucciso Claudio Marcello, in esplorazione con le sue avanguardie, e poco dopo cadde anche l'altro console per le ferite riportate. Annibale inflisse una pesante sconfitta alle truppe romane che stavano assediando Locri, ma poi rimase confinato nel Bruzio in attesa dei rinforzi del fratello Asdrubale. 

Asdrubale attraverso i Pirenei e le Alpi giunse in Gallia cisalpina agli inizi del 207 a.c. con 20.000 armati, oltre a 10.000 mercenari galli. Il console Marco Livio Salinatore si diresse a nord per fermare la marcia di Asdrubale, mentre l'altro console Gaio Claudio Nerone cercava di bloccare Annibale nel Bruzio, ma venne sconfitto nella battaglia di Grumento. Annibale raggiunse Venosa e Canosa, dove si fermò attendendo i piani del fratello Asdrubale.

Questi piani vennero però intercettati dai romani e appresero che il secondo esercito nemico era in marcia verso Fano. Il console Nerone a marce forzate raggiunse, con 6.000 fanti e 1.000 cavalieri Livio Salinatore a Sena Gallica (Senigallia), dove riuniti affrontarono Asdrubale vincendo la battaglia del Metauro; l'esercito cartaginese fu distrutto e Asdrubale, morì, venne decapitato e la testa venne gettata dai Romani nell'accampamento di Annibale che tornò nel Bruzio.

BATTAGLIA DEL METAURO

BATTAGLIA DEL METAURO

Lo scontro del Metauro vide Roma, per la prima volta, vincere una battaglia campale in Italia dall'inizio della guerra. Il tentativo di inviare rinforzi ad Annibale era fallito e Roma ne poteva solo beneficiare anche agli occhi degli alleati italici. Le forze cartaginesi erano guidate da Asdrubale Barca, fratello di Annibale, che portava rinforzi per l'assedio di Roma. L'esercito repubblicano era comandato dai due consoli Marco Livio Salinatore e Gaio Claudio Nerone.

Asdrubale schierò al centro, davanti ai 10 elefanti che era riuscito a portare, i Liguri Apuani, per ultimi, sulla sinistra, i disordinati Galli, coperti dal terreno dissestato davanti a loro. I romani avanzarono ordinatamente verso Asdrubale. Nerone ebbe il comando del fianco destro, per affrontare i Galli. Asdrubale concentrò il suo centro e l'ala destra contro le truppe di Livio, alla sinistra dello schieramento romano. 

All'inizio il combattimento fu favorevole ad Asdrubale, gli elefanti ruppero le linee romane confondendo le truppe di Salinatore. L'ala destra di Asdrubale resse all'assalto e anche i Liguri riuscirono a tenere la posizione.
Nerone raggiunse faticosamente i Galli sul fianco sinistro di Asdrubale, ma poi prese parte dei suoi uomini e li guidò via dai Galli, dietro a Salinatore e a Porcio, marciando all'estrema sinistra dello schieramento romano e scontrandosi con gli Spagnoli con una tale violenza, che questi furono presi dal panico e sopraffatti
Le uniche forze rimaste ad Asdrubale, i Galli, incapaci a combattere a causa dei bagordi della notte precedente, vennero decimati dai romani. Asdrubale, con un impeto di eroica disperazione caricò nel mezzo della battaglia, incontrando una fine gloriosa.
Intanto Annibale nel Bruzio schierò il suo esercito nel territorio tra Catanzaro, Cosenza e Crotone; sperando nell'aiuto da parte di Filippo V di Macedonia. Perse invece Locri ad opera di Scipione.

Vedi anche: BATTAGLIA DEL METAURO



SCIPIONE

Dopo avere trascorso l'intero inverno del 210/209 a.c. a preparare l'offensiva in Iberia, Scipione seppe che:
- Cartagena era l'unica città dell'Iberia a possedere un porto adatto a contenere un'intera flotta;
- che si trovava in una posizione strategica chiave per i Cartaginesi, i quali dalla Libia potevano fare una traversata diretta per mare;
- che i Cartaginesi avevano in questa città la maggior parte delle loro ricchezze e tutti i bagagli dei loro soldati, oltre agli ostaggi di tutta l'Iberia sottomessa;
- che i soldati a sua difesa erano soltanto un migliaio circa:
-  che la città era circondata da una palude, in buona parte poco profonda e traversabile in molti punti, e che ogni giorno, verso sera, le sue acque in parte si ritiravano.
Scipione arringò i soldati:
«Nessuno prima di me, subito dopo essere stato nominato generale, ebbe la possibilità di ringraziare i suoi soldati per i meriti conseguiti, prima di averli potuti utilizzare [in battaglia]. La fortuna invece ha fatto in modo che io, ancor prima di vedere la provincia o gli accampamenti, debba a voi esservi grato: prima di tutto, perché siete stati fedeli a mio padre e a mio zio, da vivi e poi da morti, in secondo luogo, perché grazie al vostro valore, sia per il popolo romano sia per me che succedo a dei generali caduti in combattimento, avete mantenuto intatto il possesso di questa provincia, che sembrava ormai perduto in seguito a una così grande disfatta
(Livio, XXVI, 41.3-5.)

Promise quindi una corona d'oro a coloro che fossero saliti per primi sulle mura di Cartagena, oltre ai soliti doni militari a coloro che si fossero distinti pubblicamente per valore. Aggiunse infine che questa idea gli era stata suggerita da Poseidone, in sogno. A queste ultime parole i soldati furono colti da un grande entusiasmo e ardore, pronti a combattere per il loro comandante.

Con cinquecento soldati che Scipione aveva condotto dalla parte dello stagno, riuscì in modo rapido a scardinare il portone ed a scalare le mura, poiché questa zona non era fortificata, in quanto i Cartaginesi la credevano protetta dallo stagno. Così, con una delle più audaci azioni della storia militare romana, Scipione, un genio delle tattiche di guerra, conquistò Cartagena. 

Grande diplomatico rovesciò molte delle alleanze fra Iberici e Cartaginesi, e riconquistò diverse colonie tra cui Sagunto. Il senato prorogò a Scipione il comando in Spagna e «finalmente giunse la notizia della brillante impresa del giovane Scipione a Carthago Nova. Tutto il quadro della guerra cambiò. Nuovo coraggio e nuove speranze animarono Roma e i suoi alleati. Era sorto il vincitore di Annibale».



ASDRUBALE

Nonostante le vittorie Scipione non riuscì a impedire che Asdrubale Barca organizzasse un nuovo corpo di spedizione con il quale sfuggì al controllo dei Romani e intraprese, verso la fine del 208 a.c., una seconda invasione dell'Italia attraverso i Pirenei e le Alpi per aiutare Annibale.
ASDRUBALE
- 206 a.c. - Scipione occupò Ilipa, Carmo (Carmona) e l'intera Andalusia. Le forze cartaginesi comandante da Asdrubale Giscone e Magone Barca, dovettero allora evacuare tutti i territori iberici e rifugiarsi a Cadice. Poi anche Cadice chiese la pace e Roma le concesse un'alleanza con condizioni favorevoli. Intanto la flotta romana si spingeva sotto il comando di Gaio Lelio fino a Carteias (Algeciras).
Giovanni Brizzi: «Scipione completò la sua opera. Tre anni appena gli erano bastati per abbattere l'impero punico in Spagna». Il genio di Annibale aveva incontrato il genio di Scipione che per una volta non disprezzò il generale nemico. Nel 206 Scipione lasciò la Spagna come provincia romana di Hispania».

- 209 - 206 a.c. - Ora Roma era regina incontrastata di tutti i mari a ovest di Malta.
- Sconfitti i pirati Illirici, controllava l'Adriatico;
- sconfitti i cartaginesi nella I guerra punica controllava il Tirreno a est e ovest della Sardegna;
- dalla Provincia di Sicilia controllava il canale di Sicilia e lo Ionio.
L'Egeo era greco ma Rodi e Pergamo erano buoni alleati di Roma mentre a Cartagine restava solo il Mediterraneo della costa africana e della costa spagnola. Con l'arrivo dei romani in Spagna, in pochi anni Cartagine perse anche quella costa.

- 208 a.c. - Marco Valerio Levino, venne attaccato da una flotta cartaginese di ottantasette navi che nello scontro ne perse ventuno (diciotto delle quali furono catturate) e si dovette ritirare.
Intanto Cartagine compiva scorrerie in Sicilia e mandava truppe in Calabria e Puglia, mentre Roma, per rappresaglia, devastava le coste della Libia e della Tunisia.

- 205 a.c. - Annibale aveva fatto incidere, secondo la tradizione dei condottieri ellenistici, un'iscrizione in bronzo al tempio di Era Lacinia a Capo Lacinio, non molto distante da Crotone, con le sue imprese in Italia.



MAGONE

- 205 - 203 a.c. - Cartagine inviò Magone in Liguria. Sbarcò a Savona 12.000 fanti, 800 cavalieri e sette elefanti., distrusse Genua (Genova), alleata di Roma, poi arruolò Liguri e Galli, con l'ordine di raggiungere Annibale, asserragliato fra Crotone e Locri. Ma a Rimini stazionavano la legione di Marco Livio e in Etruria due legioni con Lucrezio mentre i Galli non risposero al richiamo cartaginese. 

- 203 a.c. - Magone, con 30.000 armati, combattè presso Mediolanum (Milano) contro i Romani guidati dal proconsole Marco Cornelio Cetego e dal pretore Publio Quintilio Varo, provenienti da Ariminum. Ferito e sconfitto Magone ripiegò a Savona, dove aveva posto la base, ma venne richiamato in Africa per rinforzare le difese e morì per le ferite durante la traversata. Ancora una volta Annibale non riceveva aiuti.



FILIPPO V DI MACEDONIA

-212 - 211 a.c. - Filippo fu costretto a difendersi dall'alleanza che Marco Valerio Levino aveva scatenato contro di lui.
- 205 - 204 a.c. - Filippo V non poté mai recare aiuti ad Annibale perchè le legioni di Roma chiudevano il re e i suoi alleati in un cerchio composto da forze romane a ovest, dalla Lega Etolica a sud e da Attalo I di Pergamo a est. Alla fine Filippo fu costretto a firmare la pace di Fenice (205 a.c.), dove Roma si assicurava la tranquillità sul fronte orientale, ma soprattutto presentando Roma come garante nei confronti di coloro che ne avevano a suo tempo chiesto l'intervento.
- 205 a.c. - Scipione venne eletto console nel 205 a.c. e gli fu affidata la Sicilia con le "legioni Cannensi" e poche navi, ma con il diritto di reclutare volontari. Annunciò allora il suo programma di chiudere la partita con Cartagine, portando la guerra in Africa. Fu avversato dalla fazione temporeggiatrice di Quinto Fabio Massimo e del figlio. 

(INGRANDIBILE)
204 a.c. - per contrastare Filippo V di Macedonia, il re di Pergamo, Attalo I, consegnò agli inviati della repubblica la Magna Mater, la pietra iconica venerata a Pessinunte, secondo i Libri Sibillini, condizione indispensabile per cacciare il nemico cartaginese dall'Italia. La pietra nera di Pessinunte giunse a Ostia e venne consegnata a Publio Cornelio Scipione Nasica, cugino di Publio Scipione e figlio di Gneo Scipione morto in Spagna nel 211 a.c., scelto dal Senato per il prestigioso incarico in quanto considerato il "miglior cittadino" di Roma.

Il Senato di Roma, pressato dai Fabii, voleva prima sconfiggere Annibale in Italia e rifiutava di supportare Scipione, che in Sicilia aveva a sua disposizione solo le legioni "cannensi" e poche navi. Le legioni erano i sopravvissuti di canne Canne, ma mentre Varrone tornato a Roma era stato perdonato, i militari, come punizione era stati inviati in Sicilia con divieto di tornare a Roma fino a quando Annibale fosse rimasto in Italia. 

Le devastazioni del territorio da ambedue le parti avevano distrutto l'economia agricola della regione. Gli uomini rifiutavano di arruolarsi. Alla fine prevalse la posizione di Scipione: la guerra passava in Africa.

Scipione si rivolse agli alleati italici per avere uomini, armi, navi e vettovaglie, e grazie alla sua fama la risposta, fu entusiastica. Le città dell'Etruria e del Lazio fornirono ciurme per le trenta navi, tela per le vele, grano e farro e vivande di tutti i tipi, punte di frecce, scudi, spade, lance e uomini. In meno di due mesi Scipione aggiunse alle sue legioni "cannensi" circa 7.000 volontari italici e cominciò a preparare lo sbarco in Africa.
Convinto da alcuni locresi a riconquistare la città, Scipione accettò e dopo la sua caduta lasciò un luogotenente, Quinto Pleminio, a governare Locri, ma le malversazioni di questi vennero portate davanti a Scipione che però non credette ai locresi. Costoro allora si appellarono al Senato che inviò una commissione che appurò che il console non aveva avuto parte nel comportamento di Pleminio e poi, a Siracusa vide che l'esercito approntato da Scipione era perfettamente addestrato e rifornito. La commissione tornò a Roma lodando Scipione e le sue capacità di organizzazione e di comando. Però Scipione aveva perduto un anno. 
- 204 a.c. - Scipione ottenne la carica di proconsole in Africa, ma già nel 205 a.c. aveva inviato il fedele Gaio Lelio con la flotta sulle coste africane per ottenere un incontro con il giovane Massinissa, figlio del defunto Gaia (re della Numidia orientale).
Massinissa aveva combattuto contro Roma in Spagna sconfiggendo Siface che in un primo momento rimase alleato di Scipione ma poi si alleò con Cartagine, prendendo in moglie la figlia di Asdrubale, Sofonisba, e mettendo a disposizione del cartaginese altri 50.000 uomini e 10.000 cavalieri. Intanto Massinissa, che aveva conosciuto e apprezzato Scipione in Spagna,  si alleò con Roma, privando Annibale della terribile cavalleria numidica.



SCIPIONE AFRICANO

primavera 204 a.c. - Scipione lasciò la Sicilia per traghettare le proprie forze di 20 - 30000 uomini in Africa. Disponeva di 400 navi da carico, 40 navi da guerra, comandate da Gaio Lelio e da Marco Porcio Catone, per sbarcare nella parte occidentale del golfo delle Sirti a Emporia, grosso centro commerciale punico, ma il mare agitato e la nebbia lo obbligarono ad approdare presso Utica (a Porto Farina). 

Le forze cartaginesi erano appostate quasi tutte a Emporia, mentre 4.000 cavalieri, sotto il comando di Annone (figlio di Asdrubale) cercò di contrastare lo sbarco romano. Annone si scontrò con la cavalleria romana, ma venne battuto e ucciso. Caddero 1.000 uomini e 2.000 vennero presi prigionieri. Scipione conquistò Selica e si dedicò al saccheggio del territorio, inviando il bottino di guerra, tra cui 8.000 schiavi, a Roma che esultava.Scipione non riuscì a conquistare Utica, allora svernò nel suo territorio, mentre poneva l'assedio alla città e il proprio accampamento (i Castra Cornelia). 

- estate 204 a.c. - il console Publio Sempronio Tuditano attaccò Annibale a Crotone ma gli costò oltre 1.000 uomini. Venne inviato l'altro esercito consolare sotto il proconsole Crasso che aveva occupato la zona di Cosenza. In realtà Annibale manteneva il controllo della situazione e il Senato si convinse che la tattica di Fabio Massimo non doveva essere abbandonata.

- inverno 204-203 a.c. - Siface tentò di mediare la pace proponendo il ritiro dei Romani dall'Africa e dei Cartaginesi dall'Italia. Ma Scipione pretendeva il pagamento di tutti i danni subiti in quasi vent'anni di guerra, però prolungò i negoziati per poter visitare più volte gli accampamenti nemici, raccogliendone informazioni topografiche per la campagna dell'anno successivo. I due accampamenti in cui erano alloggiate, in modo disordinato, le truppe di Siface e Asdrubale stavano su due alture adiacenti, a circa 10 km dai Castra Cornelia di Scipione.

- primavera del 203 a.c. - La campagna riprese l'anno dopo, finite le trattative di pace. Siface e Asdrubale Giscone avevano un esercito di 100.000 uomini, Scipione meno della metà, ma con un attacco notturno improvviso, dividendo in due parti il suo esercito, mandò Gaio Lelio e Massinissa ad attaccare il campo di Siface, mentre egli si occupò di quello di Asdrubale. I due accampamenti nemici vennero incendiati, e al termine della battaglia solo poco più di 20.000 uomini erano i superstiti cartaginesi. Asdrubale si ritirò a Cartagine, mentre Siface tornò in Numidia dove trovò 4.000 mercenari celtiberii.

Quindi Scipione partì con 12.000 soldati, lasciando le restanti truppe ad assediare Utica, raggiunse l'esercito numidico-cartaginese (di 20.000 armati) e presso i Campi Magni, lungo il corso superiore del fiume Bagradas, a 120 km da Utica, lo distrussero completamente. Le truppe cartaginesi e numidiche poste alle ali cedettero completamente e solo l'eroica resistenza dei celtiberi, posti al centro, permise ad Asdrubale e a Siface di salvarsi con pochi uomini al seguito.

Asdrubale fu condannato a morte, ma riuscì a fuggire e a reclutare altri 10.000 uomini. Siface cercò rifugio nella sua terra, inseguito da Massinissa che cercava la rivincita, e fu catturato a Cirta. Intanto Scipione rinunciò a conquistare Utica e, dopo avere dato alle fiamme le sue macchine d'assedio, riuscì a espugnare Tunisi, che si trovava a soli 24 km dalla capitale punica. Cartagine non aveva scampo. 
Cartagine però volle la pace, ma intanto ordinò a Magone in Liguria di tornare immediatamente in patria, e così ad Annibale nel Bruzio. Scipione fissò le sue condizioni:
- Cartagine doveva rinunciare all'Italia e alla Spagna;
- consegnare la sua intera flotta, a eccezione di venti navi;
- pagare un'indennità di 5.000 talenti;
- riconoscere il regno di Massinissa (a ovest) e l'autonomia delle tribù di Libia e Cirenaica (a est).

- Inverno 203 - 202 - Cartagine accettò e fu conclusa una tregua, in attesa che il senato romano ratificasse il trattato. Le famiglie romane rivali di Scipione fecero ritardare la trattativa al punto che, Annibale sbarcò in Africa, riaccendendo le speranze dei Cartaginesi.

- autunno 203 a.c. - il senato cartaginese per l'invasione di Scipione, ordinò ad Annibale di tornare in Africa. Per la prima volta dopo ben trentaquattro anni, Annibale tornava nella patria che aveva lasciato da ragazzo per seguire il padre. Egli fece costruire una flotta con il legname della Sila. Prima di abbandonare l'Italia, procedette a distruzioni e saccheggi sul territorio per non lasciare bottino nelle mani dei Romani; massacrò i soldati italici che rifiutavano di seguirlo in Africa.

Partì dall'Italia insieme a circa 15.000-20.000 veterani delle campagne in Italia, senza alcun'opposizione da parte delle forze romane del console Gneo Servilio Cepione. Cartagine, al suo arrivo, interruppe le trattative e ruppe i trattati di pace. Scipione dovette annullare la tregua, Annibale raccolse gli uomini del fratello Magone e gli uomini di Asdrubale, e si diresse in Numidia per arruolare 3.000 cavalieri.

Scipione iniziò a devastare la vallata del fiume Bagradas e chiese a Massinissa, che stava combattendo nella Numidia occidentale di unirsi a lui. Intanto Annibale marciò da Zama, sperando di intercettare l'armata di Scipione prima che si congiungesse con la cavalleria numida. A Naraggara Scipione fu raggiunto da Massinissa e insieme marciarono fino a Seba Biar. Annibale cercò di evitare lo scontro trovandosi in uno stato di inferiorità.

I due più grandi condottieri del periodo si incontrarono di persona, ma la trattativa fallì, poiché Scipione pose condizioni tali da non lasciare alternative al suo avversario. Il Cartaginese avrebbe accettato l'evacuazione della Spagna, ma domandava a Roma di rinunciare all'indennità di guerra; Scipione rifiutò. Annibale sapeva anche che, un'ultima vittoria avrebbe dato voce a Roma al partito che chiedeva la pace.

BATTAGLIA DI ZAMA

- 202 a.c. - BATTAGLIA DI ZAMA

I due eserciti avevano più o meno la stessa consistenza numerica. Circa trentacinquemila Romani fronteggiavano quaranta/cinquantamila cartaginesi, quest'ultimi però con una cavalleria inferiore. Ma la differenza qualitativa era importante.
  - Annibale guidava: 12.000 fanti celti e liguri, 15.000 reduci dalle campagne italiche, 18.000 mercenari di varia provenienza, numidi, macedoni, iberici e qualche cartaginese. La cavalleria punica era composta da 4.000 uomini. Aveva a disposizione, inoltre, ottanta elefanti da guerra su cui contava molto.

- Scipione guidava due legioni addestrate, compatte e disciplinate (circa 23.000 fanti e 2.000 cavalieri). 7.000 fanti e 4.500 cavalieri forniti da Massinissa e dal suo alleato Damakas.
Entrambi gli schieramenti vennero disposti su tre file.

Annibale compì un capolavoro di tattica, ponendo gli elefanti davanti alla fanteria per lanciarli in una carica di sfondamento che avrebbe permesso alle altre forze di attaccare le linee romane scompaginate.
Dietro agli elefanti, le linee cartaginesi vedevano in prima fila i mercenari galli, mauritani, liguri e iberici (di cui si fidava poco), in seconda linea le forze terrestri libiche e cartaginesi, poi a circa 200 metri dietro, i veterani delle campagne d'Italia che dovevano attaccare le truppe nemiche quando fossero state stanche.
Le ali di cavalleria cartaginese erano poste a destra e quella numidica a sinistra.

Scipione dispose prima gli hastati, poi i princeps e dietro i triarii, ma con un'innovazione rispetto alla classica disposizione delle legioni. Evitò di offrire un fronte compatto lasciando spazio di manovra fra un manipolo e l'altro.
Le ali di cavalleria vedevano, a destra Massinissa e a sinistra la cavalleria italica comandata da Gaio Lelio.
Sembra volesse applicare la manovra a tenaglia per cui tanto aveva addestrato i suoi uomini che aveva eseguito con crescente abilità, nei successi a Baecula, a Ilipa e ai Campi Magni, grazie alla superiorità della sua cavalleria.

Annibale lanciò la carica degli elefanti, che in parte venne respinta dai Romani e in parte finì nei corridoi che il comandante romano aveva predisposto dietro la linea dei suoi velites. Fu quindi la volta delle cavallerie di Massinissa e Lelio a sospingere fuori dallo schieramento quelle nemiche, che fuggirono e si allontanarono dal teatro dello scontro principale tra le fanterie.
Subito dopo si scontrarono le fanterie. Scipione, visto che la terza linea di Annibale rimaneva ferma, non potè praticare la manovra a tenaglia. Gli hastati caricarono la prima linea dei mercenari di Cartagine, che ripiegarono verso le ali della seconda linea, che non si era aperta per accoglierli. Appoggiati dalla seconda fila romana dei principes, riuscirono a rompere anche il secondo schieramento cartaginese. A questo punto Scipione interruppe la battaglia, per riordinare il suo schieramento e per aspettare la cavalleria romana.
La situazione stava diventando critica per Scipione, ma le legioni di Canne, uomini sconfitti ed esecrati dai loro stessi concittadini tra speranza e rabbia, trassero la forza di resistere alle forze puniche che li sovrastavano. Dispersa la cavalleria avversaria Lelio e Massinissa tornarono con i loro cavalieri, e si avventarono alle spalle delle forze cartaginesi e le annientarono. Lo Scullard: «la cavalleria giunse in tempo per decidere, non solo il corso della battaglia, ma anche quello della storia del mondo».

- 29 ottobre 202 - Dalla distruzione dell'esercito cartaginese Annibale riuscì a scampare tornando ad Hadrumetum. Scipione accolse una delegazione di pace a Tunisi. La II guerra punica era terminata.

Vedi anche: LA BATTAGLIA DI ZAMA



IL TRATTATO DI PACE

Anche Scipione voleva la pace e l'Italia doveva ricostruire le sue città dopo quindici anni di distruzione. Venne conclusa una tregua di tre mesi, a condizione che Cartagine consegnasse degli ostaggi e fornisse frumento e salario alle truppe romane per tutta la durata della tregua.

Le condizioni della pace:
-  Cartagine  diventava cliente di Roma, che le vietava di prendere le armi senza il suo permesso; - conservava il territorio a oriente dell'attuale Tunisia,
- doveva evacuare i territori che separavano il territorio cartaginese da quello numida, favorendo Massinissa che se ne annesse larghe parti;
- Cartagine perdeva per sempre l'Iberia
- doveva versare un'indennità di guerra di 10.000 talenti, da pagare in cinquant'anni;
- doveva consegnare tutti gli elefanti e tutti i prigionieri di guerra;
- la flotta si riduceva a dieci sole triremi, appena sufficienti per frenare i pirati;
-  non poteva più arruolare truppe mercenarie in Gallia e Liguria.
- In cambio i Romani avrebbero abbandonato l'Africa entro cinque mesi.
 Le condizioni di Scipione furono ratificate dal senato che gli riconobbe il cognomen ex virtute di Africanus.

BATTAGLIA DI ZAMA

IL BILANCIO DI GUERRA

Annibale viene senza dubbio considerato uno dei più grandi condottieri di tutti i tempi per la sua capacità di comando e la grande abilità strategica e tattica in ogni situazione bellica. Egli non ebbe sufficiente supporto dalla madrepatria, e forse sottovalutò la struttura politica ed economica dell'alleanza romano-italica.

La II guerra punica fu il primo conflitto mondiale della storia, seppur nell'area del Mediterraneo. Oltre a Roma e Cartagine, furono coinvolti Celti, Italici, Iberi, Liguri, Numidi, il Regno Macedone e la simmachia greca, la Lega Achea, la Lega Etolica e così via, con più fronti attivi anche molto distanti fra loro, mentre molti italici si ribellarono a Roma: dalle popolazioni galliche della Cisalpina a quelle Osco-Sabelliche e i Greci della Magna Grecia.

Seppure vincitrice Roma pagò a caro prezzo il lungo conflitto contro Annibale, obbligando i Romani a ricorrere a tutte le risorse di uomini e di denaro, a partire dal 215 a.c. l'imposta sul patrimonio (tributum) fu raddoppiata. Per anni intere regioni italiche furono saccheggiate e devastate dalle continue operazioni militari, con danni enormi per l'agricoltura e per i commerci, che a lungo restarono bloccati, per la pressione dei Galli a nord e la presenza di Annibale a sud.

Appiano di Alessandria riferisce che ben quattrocento città furono conquistate da Annibale; alcune incendiate e rase al suolo, molte furono conquistate da entrambi gli schieramenti con le varie rappresaglie perchè molto poteva incidere la paura di tradire un popolo che effettuava pesanti ritorsioni e deportazioni di massa.

Nei 17 anni di guerra morirono tra i 200.000 e i 300.000 italici, su una popolazione di soli 4 milioni di abitanti, e i combattenti mobilitati da Roma raggiungeranno in alcuni anni il 10% della popolazione, senza scendere mai sotto al 6-7%,  «la confederazione italica perdette in questa guerra quasi un terzo dei maschi in età di portare le armi».

Il senato della Repubblica romana, al contrario di quello cartaginese, mostrò grande cura in ogni dettaglio organizzativo, come quello di stabilire l'entità dei contingenti da inviare nei diversi settori strategici e con essi i loro comandanti; ordinare le leve e richiedere ai socii le necessarie forniture militari.

Durante l'intero conflitto si ricorse al principio della proroga del comando per più anni consecutivi per coloro che si erano dimostrati particolarmente esperti in ambito militare, autorizzando l'accesso al consolato senza che in precedenza fosse stata ricoperta la pretura, e addirittura conferendo l'imperium proconsolare a chi mai prima di allora aveva ricoperto pretura o consolato, come nel caso di Publio Cornelio Scipione.

La grande capacità tattica di Annibale aveva messo in crisi l'esercito romano. Le sue manovre imprevedibili, repentine, affidate alle ali di cavalleria cartaginese e numidica, avevano distrutto numerosi eserciti romani, anche se superiori nel numero dei loro componenti, fino al disastro di Canne.

Fu Scipione l'Africano, il degno oppositore di Annibale, inviato nel 209-208 a.c. in Spagna Tarraconense ad apportare delle modifiche tattiche per una maggiore flessibilità in ogni battaglia. Introdusse per primo la coorte, elemento intermedio tra l'intera legione e il manipolo, riunendo i tre manipoli di hastati, principes e triarii per dare loro maggiore profondità, attribuendo a loro lo stesso ordine. Gli uomini della prima fila tornarono a dotarsi di lunghe lance da urto, ma addestrò l'esercito in modo da poter passare all'occorrenza da una disposizione di tipo manipolare a una coortale e viceversa.
Il genio di Annibale trovò nel genio di Scipione un fatale avversario.


 BIBLIO

- Santo Mazzarino - Introduzione alle guerre puniche - Rizzoli - 2003 -
- Gaetano De Sanctis - III.1 - L'età delle guerre puniche - Milano-Torino - 1916 -
- Gaetano De Sanctis - III.2 - L'età delle guerre puniche - Milano-Torino - 1917 -
- Gaetano De Sanctis - IV.1 - La fondazione dell'Impero: dalla battaglia di Naraggara alla battaglia di Pidna - Milano-Torino - 1923 -
- Roberto Bartoloni - Le guerre puniche: Roma contro Cartagine - Firenze - Giunti - 2006 -
- Giovanni Brizzi - Scipione e Annibale. La guerra per salvare Roma - Roma-Bari - Laterza - 2007 -
- Ettore Pais - Storia di Roma durante le guerre puniche - 2 voll. - Roma - Optima - 1927 -
- Giovanni Brizzi - Canne. La sconfitta che fece vincere Roma - Bologna - Il mulino - 2016 -

LA COLONNA SERPENTINA (Istanbul)

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La Colonna Serpentina o Τrikarenos Οphis "A tre teste di Serpente" o Tripode di Delphi, è una colonna greco-romana di bronzo che era posta nell'Ippodromo di Costantinopoli, e faceva parte di un complesso antichissimo che comprendeva un antico tripode greco.

Si definisce greco-romana in quanto edificata in epoca greca ma poi adottata, se non sequestrata dai romani per ornare l'ippodromo di Costantinopoli, secondo la volontà di Costantino I che trasferì la capitale dell'impero da Roma a Costantinopoli.

Il complesso riguardava la capacità oracolare della Pitia o Pitonessa, che vaticinava sul tripode sacro, o treppiedi, prima che gli invasori Dori abbattessero il santuario della Madre Terra, dove era il tripode e lo spostassero nel tempio di Apollo. L'immagine sopra mostra la colonna com'era, da una riproduzione del '700, e come è oggi da una foto attuale.

UNA DELLE TESTE DI SERPENTE ANCORA CONSERVATA
La colonna era serpentina in onore del serpente pitone, il serpente sacro, simbolo della Madre Terra nel cui nome oracolavano in versi le sacerdotesse, o pitonesse, del tempio prima che i nuovi seguaci del Dio Apollo abbatterono il tempio della Grande Madre costringendo le sacerdotesse ad oracolare per loro.

Originariamente la colonna locata a Delphi, creata per commemorare i greci che combatterono e sconfissero l'impero persiano nella battaglia di Platea del 479 a.c. venne trasferita a Costantinopoli da Costantino il Grande nel 324. La colonna rimase intatta fino alla fine del XVII secolo (una testa di serpente è in mostra presso il vicino Musei archeologici di Istanbul).

La colonna Serpentina ha una lunghissima storia di quasi 2500 anni, lunga come quello del suo originale tripode dorato e il suo calderone, che si dice fosse un trofeo, oppure l'offerta che ricordava una vittoria militare, dedicata all'Apollo di Delfi.

L'offerta venne fatta nella primavera del 478 a.c., diversi mesi dopo la sconfitta dell'esercito persiano nella battaglia di Platea (agosto 479 a.c) da quelle città-stato greche in alleanza contro l'invasione persiana del continente Greco, durante le guerre greco-persiane

Tra gli scrittori che menzionano la Colonna nella letteratura antica ci sono Erodoto, Tucidide, pseudo-Demostene, Diodoro Siculo, Pausania il viaggiatore, Cornelio Nepote e Plutarco; insomma la conoscevano tutti.

La rimozione della colonna dal imperatore Costantino per la sua nuova capitale, Costantinopoli, è descritto da Edward Gibbon, citando la testimonianza dei bizantini storici Zosimo, Eusebio, Socrate Scolastico e Sozomeno. .


BIBLIO

- Jordan, David - Gibbon e il suo Impero Romano - Urbana, IL - University of Illinois Press - 1971 -
- Fabrizio Fabbrini - Paolo Orosio: uno storico - Roma - Edizioni di storia e letteratura - 1979 -
- F. Paschoud Zosime - Histoire Nouvelle - Paris - 1971 -
- Paolo Orosio - Historiae adversus paganos - Coloniae - apud Maternum Cholinum - 1561 -
- Eusebio di Cesarea - Vita Constantini - ( La vita del Beato imperatore Costantino ) -
- Socrate Scolastico -  Pierre Maraval - nel Sources Chrétiennes collezione -

TAUCHEIRA - TOCRA (Libia)

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Tocra, Tukrah o Taucheira, era è un porto greco della Cirenaica, poi città libica situata nel distretto di al-Marj, in Cirenaica (regione della Libia Orientale). Secondo Erodoto di Alicarnasso, Taucheira era una delle cinque città greche della Cirenaica.

(INGRANDIBILE)
Fondata dai Greci con il nome di Taucheira (Ταύχειρα), entrò a far parte del Regno tolemaico d'Egitto e fu ribattezzata con il nome di Arsinoe, da Arsinoe II d'Egitto, mentre assunse il nome di al-Quriyah, o el-Agouriya, dopo la conquista araba.

Gli scavi della zona del porto degli anni '60, hanno rinvenuto ceramiche fin del VII secolo, quindi uno dei più antichi insediamenti greci dell'Africa.

La città, che era nominalmente indipendente ma che probabilmente apparteneva alla pentapoli della Cirenaica in modo informale, fu costruita lungo una strada principale da nord-ovest a sud-est. A sud-ovest c'era Euesperides (l'odierna Bengazi); ad est c'erano Barca e Tolomeo, Cirene e Apollonia.

BASILICA
Proprio di fronte alla porta nord-est si trovavano le cave di pietra dove è stata trovata la caratteristica pietra calcarea rossastra di Taucheira. Naturalmente, la città di Taucheira ebbe da sempre delle mura fortificate che furono restaurate e rinforzate in diverse occasioni. 

Un'iscrizione nel piccolo museo di Taucheira ricorda un uomo di nome Aleximachus figlio di Sostrato, che aveva fornito il denaro per migliorare le mura della città da qualche parte nel primo secolo a.c. Furono ricostruite dall'imperatore Giustiniano (r.527-565), che fortificò anche altre città della Libia e costruì la vicina Teodoria (il progetto complessivo è noto come Ananeosis).

Ci sono stati contatti commerciali tra Taucheira e il Peloponneso, Corinto e Atene. Tali contatti sono evidenziati dai reperti archeologici che ne mostrano gli scambi e le influenze reciproche.

PIATTO DA RODI

LA STORIA

Le città della Cirenaica si sottomisero ad Alessandro Magno nell'inverno del 332/331 ed entrarono a far parte della satrapia d'Egitto. Dopo la morte di Alessandro, uno dei suoi comandanti, Thibron, iniziò uno stato proprio nella Cirenaica, ma fu espulso da Ophellas, un vicecomandante al servizio di Tolomeo I Soter.

BOTTIGLIA
Ophellas fondò un nuovo porto, Ptolemais, che deve essere stato un concorrente molto serio per Taucheira. Gli successe un uomo di nome Magas, che rese nuovamente indipendente la Cirenaica, ma il nipote di Tolomeo, Tolomeo III Euergetes, riconquistò la regione e ribattezzò Taucheira Arsinoe, come la matrigna Arsinoe II.

Nel primo secolo a.c., quando il potere tolemaico si stava sgretolando e i Romani non avevano ancora stabilito il controllo di quest'epoca, le tribù native attaccarono i Taucheira. Un'iscrizione nel piccolo museo di Taucheira ricorda un uomo di nome Aleximachus figlio di Sostrato, che aveva fornito il denaro per migliorare le mura della città e per importare cibo durante una carestia.

Ophellas fondò un nuovo porto, Ptolemais, che doveva essere un concorrente molto serio per Taucheira. Gli successe un uomo di nome Magas, che rese nuovamente indipendente la Cirenaica, ma il nipote di Tolomeo, Tolomeo III Euergetes, riconquistò la regione e ribattezzò Taucheira Arsinoe, come la matrigna Arsinoe II.

RESTI DELLE MURA RICICLATE

LE MURA

Le massicce mura di Taucheira/Arsinoe hanno permesso al comandante bizantino Apollonio, assediato dalle forze musulmane che avevano invaso la Cirenaica nel 641, di resistere fino al 645. Doveva avere una trentina di torri, di cui ventitré sono state scavate. 

Per queste mura vennero riutilizzate delle pietre più antiche, come quella con un'iscrizione sulla quale si possono ancora leggere le parole "Autokrator" e  "Kaisar", la traduzione greca dei titoli latini "Imperator" e "Caesar".

Come si può vedere, le pietre sono gigantesche ed abbatterle era praticamente impossibile. Ancora ci si chiede come fosse possibile sollevarle.

GINNASIO COI NOMI DEI VITTORIOSI
A sud-ovest della strada principale (chiamata "decumano" dal decumanus latino) di Taucheira, si trova l'antica Palestra, cioè il Gymnasium, dove gli abitanti maschi della città si recavano se volevano fare esercizio fisico. 

Tuttavia, il Ginnasio era più di una semplice palestra nel nostro senso della parola. Il ginnasio preparava il corpo al combattimento per la salvezza della patria. Lo sport era inoltre riconosciuto come un'usanza molto greca; frequentare il Ginnasio era sottolineare la propria grecità. 

I Greci, come i Romani, reputavano barbari tutti gli altri popoli. Su una delle pareti sono stati commemorati i vincitori dei giochi del Panellenico. 

GINNASIO
Questi uomini non erano solo grandi atleti, ma avevano dimostrato al mondo greco (come riuniti ad Olimpia, Nemea, Delfi e Corinto, e più tardi anche in altri luoghi) che il popolo di Taucheira, pur vivendo sparso in tutto il Mediterraneo, era forte e veramente greco.

Un popolo legato ai propri costumi e alle proprie tradizioni, che donava loro un'identità e una fierezza particolare ovunque si trovassero.

PORTA SUD EST

PORTA SUD EST

Come la sua controparte nel nord-est, la porta bizantina a sud-ovest di Taucheira/Arsinoe era affiancata da due bastioni pentagonali - puntati in avanti come la prua di una nave - che dovevano servire da batterie per le catapulte. 

Tuttavia, le fondamenta sono quadrate, il che dimostra che il disegno delle torri è stato a un certo punto modificato. 

Il porto di Taucheira, dove approdarono le navi greche, egiziane, fenicie, cartaginesi, cartaginesi, tolemaiche, romane e bizantine, doveva essere un luogo vivace, chiassosa, piena di gente di ogni nazionalità, con abbigliamenti  completamente diversi tra loro, con commercianti e imprenditori, ma oggi è difficile da immaginare. Comunque a tutt'oggi, alcune delle strutture portuali possono ancora essere riconosciute.

Gli scavi operati negli anni '60 hanno portato alla luce ceramiche greche molto più antiche del previsto. Risalenti all'ultimo periodo del settimo secolo, hanno dimostrato che la Taucheira era una delle più antiche città greche della sponda meridionale del Mediterraneo.

LA BASILICA EST

LA BASILICA ORIENTALE

"Basilica orientale"è in realtà un termine un po' improprio perchè non si tratta della laica basilica romana nè dei un grande santuario cristiano, si tratta invece di una piccola chiesa, la più settentrionale di Taucheira/Arsinoe. 

Si presentava infatti come un piccolo edificio a tre navate, probabilmente contemporanea al forte bizantino, per cui risale forse al 619. Sono ancora visibili alcune tracce degli antichi mosaici sul pavimento.

CAVA DI ROCCIA E TOMBE
Ad est di Taucheira, proprio di fronte alla porta nord-orientale per la precisione, c'erano cave di pietra dove è stato trovato il caratteristico calcare rossastro di Taucheira. Non possono essere datate. È stato abbastanza facile convertire questi fori in cimiteri, e molte tombe sono state effettivamente trovate.

Nelle cave di roccia non era insolito che venissero scavate, oltre che per ricavarne massi squadrati da costruzione, per farne sepolture che potessero somigliare a edifici di pietra. Una volta scavate e riposti i defunti con riti e suppellettili vari, la tomba poteva essere richiusa con una porta di pietra in modo che gli animali non potessero cibarsi di quei corpi. 

FORTEZZA BIZANTINA

L'IMPERO ROMANO

I reperti archeologici documentano i culti di Demetra e Kore. Anche il culto della divinità libica Ammon è attestato, e sappiamo che anche Apollo, Dioniso e la dea frigia Cibele erano venerati. 

Arsinoe doveva mantenere il suo nome, anche se per breve tempo fu chiamato Cleopatra durante le guerre civili romane, quando Marco Antonio volle onorare la moglie Cleopatra VII Filopatore. 

Durante l'epoca romana, la città ricevette il rango di colonia, ma non sappiamo molto della sua storia. Si possono comunque identificare diversi edifici, come un luogo dove venivano dipinti i tessuti e la palestra.

Le caserme delle forze bizantine a Taucheira si trovavano nel centro della città, sul lato sud-est della strada principale. Si trattava di un edificio quadrato con torri agli angoli. Fu costruito nel VII secolo, forse quando l'Egitto fu brevemente occupato dalle truppe sasanide del re Khusrau II (nel 619). 

Le vecchie mura della città facevano naturalmente anche parte della difesa della città. Essendo per quell'epoca un forte moderno, il comandante bizantino Apollonio, quando le forze arabe invasero la Cirenaica nel 641, riuscì a resistere fino al 645. E poi fu la fine di tutto.


BIBLIO

- Strabone - Geografia - XVII. p. 836-838 - Sonzogno - 1835.
- E. Honigmann - Le Synekdemos d'Hierokles et l'opuscule geographique de Georges de Chypre - Brussels - 1939.
- Pomponio Mela - Geografia - libri III  - Torino - 1855.
 Arsinoe - William Smith (lexicographer) - ed. 1857.
- Plinio il Vecchio - Naturalis Historia - Liber V 5

LEGIO III PARTHICA

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La Legio III Parthica fu una legione creata, come indica il nome, per combattere contro l'impero dei Parti e sembra fu l'ultima legione usata per questo scopo. Secondo una moneta ritrovata ad Orange, l'emblema di questa legione era un centauro ma è noto anche quello del toro.

La legione venne fondata nel 197 dall'imperatore Lucius Septimius Severus (r. 193 - 211), insieme ad altre due legioni sorelle, la I Parthica e la II Parthica. Severus progettò di usarle contro l'Impero Partico.

La spedizione fu un successo e culminò col sacco della sua capitale Ctesifone (Ctesiphon). Secondo quanto scrive Cassius Dio, nelle sue "Storie Romane" la I e la III partica rimasero in questa regione, poichè Severus annesse la Mesopotamia (nord dell'Iraq) e convertì quest'area in provincia romana. Invece la II Parthica venne trasferita sui Colli Albani presso Roma, come riserva strategica dell'Impero.

La Mesopotamia non era una comune provincia, perché i suoi governatori erano prefetti dell'ordine equestre e non governatori senatoriali. Di conseguenza, il comandante della III Parthica non era un senatore, ma un cavaliere romano.

Il Prefetto della Mesopotamia era così un magistrato trecenario, in quanto il suo stipendio si attestava sui 300000 sesterzi annui, stipendio molto ragguardevole, al pari del Prefetto d’Egitto e del Prefetto del Pretorio, che erano le massime cariche della carriera equestre. Tale prefetto comandava sia la legio I che la legio III Parthica, avendo come subalterni i comandanti di queste due legioni, che però avevano anch’essi il titolo di prefetti.

Si pensa che Settimio Severo abbia voluto nominare un cavaliere piuttosto che un senatore per aumentare ulteriormente il prestigio del ceto equestre, e che desiderasse quindi bilanciare il potere dei governatori di Siria, Cappadocia, Palestina ed Arabia, facenti parte dell’ordine senatorio, per tema di uno strapotere del senato. Peraltro nella creazione della provincia Severo deve essersi ispirato all’organizzazione esistente in Egitto; forse ai senatori fu proibita l’entrata in Mesopotamia, così come era stata proibita in Egitto.

Secondo la Notitia Dignitatum (Est, 35), scritta all'inizio del V secolo, la III legione partica si trovava ad Apadna, a Osrhoene, vicino alla confluenza dei fiumi Chaboras ed Eufrate. La III Parthica venne stazionata in effetti in una fortezza chiamata Rhesaena sui Chaboras superiori (oggi Khabur). 

IL SACCO DI CTESIFONTE
Gli scavi archeologici, che potrebbero dare maggiori informazioni sulla storia della legione, sono improbabili perché il sito si trova nella zona militare tra la Siria e la Turchia. Infatti, la frontiera è quasi attraverso il sito, che ha, di conseguenza, un nome turco e un nome arabo: Ceylanpinar e Ras al-'Ayn. Esistono però monete con la leggenda LE III P S (Legio III Partica Severiana).

A Rhesaena, che è molto arretrata rispetto alla frontiera attuale, la III Parthica controllava la strada tra gli ex principati arabi Edessa e Nisibis, e difendeva l'impero contro i Parti o, dopo la caduta del loro impero, i persiani sasanidi.

PREFETTO DELLA MESOPOTAMIA
La III legio deve aver partecipato alle spedizioni del III secolo, come quella condotta dal figlio di Severo, Caracalla, e dal suo successore, Macrino (217), e alla guerra condotta da Severo Alessandro contro il nuovo impero persiano sasanide.

I sasanidi avevano invaso l'impero romano nel 230 e avevano insediato un imperatore ad Emessa, ma Alessandro Severo riuscì a ristabilire l'ordine e invase l'Iraq. Nel 243 questa guerra fu rinnovata e a Rhesaena la Terza legione, senza dubbio rafforzata, sconfisse l'esercito persiano.

Le monete con la leggenda L III PIA possono riferirsi a questa vittoria, dimostrando pure che l'unità aveva ricevuto il cognome Pia, "pio", per la virtù dimostrata nel combattimento e nei rituali dovuti. Tuttavia monete simili sono state coniate da Decio (249-251), che non è noto per una campagna orientale, per cui qualche dubbio rimane. Altre monete, provenienti da Sidone, suggeriscono che i veterani della III Parthica si stabilirono in quella città.

Nel 244 i Romani invasero nuovamente l'Iraq, ma il loro imperatore Gordiano III morì e gli successe Filippo l'Arabo, che doveva il suo trono al re sasanide Shapur I. La fortuna voltò le spalle all'Impero Romano e nel 256 Shapur catturò Satala (la fortezza di XV Apollinaris), e due anni dopo raggiunse il Mar Nero e saccheggiò Trapezio. 

Quando l'imperatore romano Valeriano cercò di ristabilire l'ordine e invase l'Iraq, fu sconfitto, catturato, maltrattato e ucciso. Ai soldati romani prigionieri fu ordinato di costruire un ponte nel moderno Shushtar. Queste sconfitte romane sono ricordate su diversi rilievi rupestri sasanidi.

E' stato ritrovato un pezzo d'oro nel teatro romano di Orange, coniato dall'imperatore gallico Vittorio Vittorino nel 271, e che cita la LEG III PARTHICA, ma forse si trattava di una vessillazione.

SETTIMIO SEVERO LAUREATO PER LA VITTORIA PARTHICA

IL RISVEGLIO DI ROMA

Comunque Roma non tardò a risorgere, soprattutto sotto gli imperatori Odaenato di Palmira (261-267) e Diocleziano (284-305), dove vinsero ripetutamente i persiani che nel 298 dovettero firmare un trattato di pace in cui rinunciavano ai territori della Mesopotamia settentrionale. Anche se non si hanno notizie, la III Parthica ha sicuramente partecipato a tali battaglie e con successo.



BIBLIO

- Catherine Wolff - Legio III Parthica - ed. Yann Le Bohec - in "Les Légions de Rome sous le Haut-Empire" tome I - 2000 -
- Joanne Berry, Nigel Pollard - The Complete Roman Legions - ed. Thames Hudson  - 2012 -
- Stephen Dando-Collins - Legions of Rome: The Definitive History of Every Imperial Roman Legion - Quercus - London - 2010 -


HELVIA RECINA (Marche)

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IL TEATRO
Helvia Recina, un centro abitato fin da tempi antichissimi, è situata nell'attuale frazione di Macerata detta Villa Potenza, situata a nord del capoluogo, sorta su una preesistente città italica probabilmente del III secolo a.c. abitata dai Piceni. Il suo nome è cambiato durante i secoli da Ricina a Recina e infine in Helvia Recina Pertinax. Oggi costituisce un sito archeologico della valle del fiume Potenza nelle Marche.
L'origine del nome è incerta anche se ci si è basati spesso su un'epigrafe che cita:
«Hic Veneris stabant Ericinae templa vetusto tempore... Quondam etiam templi nomine dicta fuint»
Questo epigramma fu riportato alla luce da Niccolò Peranzoni, umanista della corte di papa Leone X, nei primi anni del XVI secolo, per cui emerge che nella colonia romana stava un tempio dedicato a Venere ericina.

Il primo tempio dedicato alla Venere Ericina fu quello sul Monte Erice, in Sicilia, fondato da Enea, dopodiché il culto fu esportato nella penisola com'è testimoniato dai due templi romani: uno al Campidoglio (a fianco dell'Aedes Mentis) e uno al Quirinale, (appena all'esterno del Pomerio, nei pressi di Porta Collina).

Questo epigramma venne riportato anche in secoli successivi ad esempio da Pompeo Compagnoni nel suo tomo: La Reggia Picena. Ambedue gli autori però, il Peranzoni e il Compagnoni diffidarono dell'autenticità di questo epigramma, perché sia la forma grammaticale che i termini usati sono del periodo del Basso Impero. Nemmeno l'abate Colucci, storico e archeologo del XVIII secolo, nel suo tomo sulle antichità del Piceno, lo credette attendibile.
Sulla fondazione della di Helvia Recina sono state fatte diverse ipotesi suggestive: 
- una la vuole fondata da un mitologico Re Cino, il primo re d'Italia dopo il Diluvio Universale.
- un'altra narra che una delle legioni più importanti e temibili di Giulio Cesare, la "Fulminata", fosse formata da soli ricinesi.
- un'altra le attribuisce l'erezione di una statua in favore dell'imperatore Adriano completamente in oro, nonchè la presenza di piazze marmoree e fontane. Ma si tratta di suggestioni archeologiche di taluni eruditi, in maggioranza maceratesi, che senza appoggi documentari fantasticavano sulla antica colonia come di un paese di favola, per bellezza e ricchezza.

La zona di Ricina fu cristianizzata da San Giuliano l'ospitaliere che, intorno al I secolo, giunto in eremitaggio sulle rive del fiume Potenza, espiò il  matricidio e patricidio da lui commesso nelle Fiandre, traghettando i lebbrosi dall'una all'altra riva del fiume. 
"Secondo una leggenda, Giuliano nacque il 631 in Belgio da una nobile famiglia, ed era violento e facile all'ira. Durante una battuta di caccia un cervo moribondo gli predisse che avrebbe ucciso i suoi genitori.
In effetti alcuni anni dopo, quando i genitori giunsero al suo castello mentre lui era assente per una battuta di caccia, la di lui moglie, una nobile vedova spagnola, offrì loro il letto nuziale per la notte. Al mattino, Giuliano rientrò in casa e credendo che la moglie fosse con un amante estrasse la spada e li uccise.
Per espiare la colpa, si trasferì in Italia con la moglie e iniziò una lunga peregrinazione, dalla Sicilia ad Aquileia, fino alle rive del fiume Potenza, dove per tutta la vita traghettò viandanti e pellegrini offrendo loro assistenza.
Durante una traversata, la sua barca rischiò di capovolgersi e lui tenne la mano ad un lebbroso per non farlo cadere. Tale lebbroso, che passò la notte nel suo letto, si rivelò essere un Angelo mandato da Dio ad avvertirlo che la sua penitenza era stata accettata e presto avrebbe avuto il premio eterno insieme alla sua sposa.
" (il premio era la morte di entrambi).

Sembra che il primo vescovo di Helvia Recina fu Flaviano, martirizzato nel III secolo circa, ma econdo alcuni a Ricina non mancò la permanenza dello stesso San Pietro, proveniente dalla Dalmazia e in viaggio verso Roma. Il Moroni, sulla storia della chiesa lo dà per certo, ma non si sa su quali basi.
«L'evangelo era stato predicato nel Piceno dall'apostolo s.Pietro, reduce dalla Dalmazia. Essendo stato protomartire piceno San Catervo e san Giuliano che introdusse il cristianesimo a Ricina»
(Gaetano Moroni, Dizionario di erudizione storico ecclesiastica da S. Pietro sino ai nostri giorni, Vol. XLI, Venezia 1846, p.35)

LA REALTA'

La prima notizia certa dell'esistenza di Ricina è invece del I secolo d.c. di Plinio il Vecchio (Nat. Hist. III, 111) ma molti storici sono del parere che la città fosse più antica visto che Plinio ne parla come di uno dei centri maggiori del Piceno.

La città si trovava lungo la via Salaria Gallica; divenne importante per sua posizione strategica all’incrocio di rilevanti assi viari, e al tempo dell'alto Impero risalgono i monumenti più importanti.
Divenne municipio romano verso la metà del I secolo a.c., estendendosi prevalentemente lungo la riva sinistra del fiume Potenza.

A giudicare dai resti monumentali di edifici e opere pubbliche e private, e dai ritrovamenti di lapidi e iscrizioni, l'area abitata doveva estendersi per circa 60 ettari, in prevalenza sulla riva sinistra del fiume Potenza, l'antico Flusor.

Un'antica strada lastricata, il ponte romano sul fiume Potenza e i resti di ville decorate con mosaici pavimentali, rivelano l'importanza del municipio di Ricina che Settimio Severo (146 - 211) elevò  nel 205 al rango di colonia e la ribattezzò col nome di Helvia Recina Pertinax, in onore del suo predecessore l'Imperatore Publio Elvio Pertinace (126 - 193). 
E non manca la testimonianza di un'antica lapide marmorea, da tempi immemori conservata a Macerata, che ci conferma che la costruzione (o meglio la ricostruzione) della colonia di Helvia Recina è avvenuta sotto Settimio Severo:
«IMPeratori. CAESari. Lucii. VERi. AUGusti. FILio. Divi. PII NEPoti. D[ivi]. ADRIANI PRONEPoti. Divi. TRAJANI PARTHici. ABNEPoti. Divi. NERVAE ABNEPoti. Lucius. SETTIMIO SEVERO PIO. PERTINACi. AUGusto. PARTHico. MAXimo. TRIBunitiae. POTestatis. XIII. IMPerii. XI. CONSuli. III. PPosuit. COLONIA HELVIA RICINA CONDITORI SUO.»


La città era posta all'incrocio di due importanti vie, la Nuceria-Ancona e la Salaria Gallica, che univa Ascoli a Jesi. Creata come municipio intorno alla metà del I sec. a.c., Ricina possedeva importanti edifici, come il teatro, in età giulio-claudia, mentre al II sec. d.c. risalgono le abitazioni con mosaici.

Dell’antico insediamento esistono, oggi, poche tracce tuttavia interessanti, ubicate in prossimità delle rovine monumentali del teatro romano, datate tra la fine del I sec. a. c e la prima metà del I sec d. c. Nella suggestiva cornice del teatro sono esposti diversi reperti romani tra pietre, marmi e una serie di epigrafi funerarie.

La città di Ricina, fondata  nel I secolo, in età giulio-claudia,  mentre al II sec. d.c. risalgono le abitazioni con mosaici.divenuto un importante nodo viario ed uno dei centri principali del Piceno, ospitò in sé:
le terme, il foro, il senato, l'anfiteatro, il ginnasio, il castro pretorio, l’ateneo e l’acquedotto. 
L’anfiteatro e il pretorio vennero restaurati dall'Imperatore Aulo Helvio Pertinace che ne fece un rilancio urbanistico. In suo onore al toponimo originario di Ricina venne aggiunto l’appellativo “Helvia” nel 205 d.c.  

Oggi, oltre ai resti di monumenti sepolcrali e di una strada lastricata, emerge solo il teatro, tra i più grandi delle Marche, riportato alla luce nel 1938, ma buona parte dell'area dell'antica colonia di Helvia Recina è ancora da riportare alla luce. 
IL TEATRO

IL TEATRO

I resti del teatro romano, risalente al II secolo d.c., sono oggi la testimonianza più importante dell'antica città di Helvia. Il teatro misura 72 metri di diametro ed era costituito a tre ordini di gradinate con le quali poteva ospitare circa 2000 spettatori; probabilmente era ricoperto di marmi (reimpiegati come al solito durante il Medioevo) con capitelli dorici e corinzi. 

Ancora bene riconoscibili sono: l'orchestra, la cavea e il frontescena in laterizio secondo il modello del teatro romano classico. Questi resti danno l'idea di una città di medie proporzioni ma piuttosto florida a causa della prossimità al fiume, allora navigabile, che la poneva in comunicazione con il porto del municipio di Potentia, sulla foce del fiume omonimo, vale a dire a Porto Recanati in località Santa Maria in Potenza, dove gli scavi stanno riportando alla luce un'antica colonia romana.


SANTA MARIA IN POTENZA - GLI SCAVI

LE INVASIONI BARBARE

Nel IV o V secolo le invasioni dei Goti costrinsero la maggior parte degli abitanti di Recina a spostarsi sulle colline, dando vita così ai centri medievali di Macerata e di Recanati. Probabilmente il primo saccheggio dell'antica colonia romana è stata opera degli Ostrogoti sotto il comando di Radagaiso all'inizio del V secolo, che operò varie scorrerie e saccheggi in tutta la zona dell'antico Picenum. 

Radagaiso fu a capo di una vasta coalizione di tribù germaniche (Goti, Vandali, Suebi, Burgundi) e celtiche che invase l'Italia tra il 405 e il 406, per poi essere sconfitto dall'esercito romano nella battaglia di Fiesole, dopo però che aveva raso al suolo diversi centri.

Almeno fino al 393 Ricina ancora esisteva in quanto il suo nome è riportato nella Tavola Peutingeriana, disegnata appunto alla fine del IV secolo. Mentre nel 410 è testimoniata la presenza dell'ultimo vescovo ricinate Claudio, anche lui in seguito proclamato santo, che viene anche considerato il primo vescovo di Macerata.

Durante la guerra Greco-Gotica, della metà del VI secolo, le truppe di Teja, ultimo re degli Ostrogoti, distrussero completamente la città di Ricina, mentre le truppe bizantine di Belisario erano accampate nella nuova città sulla collina soprastante cioè Macerata.



BIBLIO
- L. Mercando - Helvia Recina - Villa Potenza, scavi e scoperte in Fasti archeologici, XXI, 1966- Giorgio Ravegnani - I Bizantini in Italia - Bologna - il Mulino - 2004 -
- M. Santoni - Il teatro dell'antica Recina - Camerino - 1877 -
- R.U. Inglieri - Il teatro romano di Helvia Recina in Dioniso, VII - 1939 -
- Delle Antichità Picene - Vol.II - 1788 -

NEPOZIANO - NEPOTIANUS (Usurpatori)

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Nome completo: Flavius ​​Iulius Popilius Nepotianus Constantinus
Nascita: -
Morte: Roma, 30 giugno 350
Predecessore: Costanzo II
Successore: Costanzo II
Dinastia: Costantiniana
Padre: Virio Nepoziano
Madre: Eutropia
Regno: 3 giugno - 30 giugno 350


Giulio Nepoziano, ovvero Iulius Nepotianus fu un membro della dinastia costantiniana e, per un breve periodo, divenne un usurpatore dell'Impero romano.

Egli era figlio di Eutropia, sorellastra dell'imperatore Costantino I, e di Virio Nepoziano, console dell'Impero per il 301, probabilmente morto nel 337 in occasione degli assassinii della famiglia imperiale per togliere di mezzo eventuali rivendicazioni al trono romano. 

Per via della madre Eutropia Nepoziano era inoltre nipote dell'imperatore Costanzo Cloro (imperatore nel 305-306 durante la tetrarchia) e di Flavia Massimiana Teodora. Fu probabilmente console nel 336.
Dopo la rivolta del'usurpatore barbaro Magnenzio, che regnò dal 350 al 353 e che morì suicida, Nepoziano, per nulla scoraggiato dalla fine precoce degli usurpatori, decise di farsi imperatore, conquistando Roma. Sicuramente contava sul plauso popolare, visto che una volta morto Costante I, ucciso da Magnenzio, egli era rimasto l'unico rappresentante della dinastia costantiniana in Occidente. 
NEPOZIANO
Con i pochi mezzi a disposizione raccolse un nutrito gruppo di gladiatori, predoni e altri personaggi fuorilegge e il 3 giugno 350 marciò verso Roma, paludato con le vesti imperiali. Il praefectus urbi Tiziano, alleato di Magnenzio, armò alcuni civili e li condusse fuori dalla città per attaccare Nepoziano ma le sue milizie erano incapaci e indisciplinate, per cui vennero messe in fuga dalle truppe di Nepoziano, più abituate allo scontro e alla lotta. 

Il prefetto, vedendo le sue truppe fuggire verso la città, rientrò precipitosamente e dette vilmente l'ordine di chiudere le porte, per paura che gli uomini di Nepoziano entrassero dietro di loro loro, dopodichè i cittadini lasciati a se stessi, vennero tutti massacrati dai pepoziani.

Magnenzio allora mandò rapidamente a Roma il suo fidato magister officiorum Marcellino che, giunto con un esercito, sconfisse rapidamente Nepoziano il(30 giugno 350, riconquistando la città e mandando a morte sia Nepoziano che sua madre Eutropia, sorellastra di Costantino I che però non c'entrava nulla.

Nepoziano non solo fu ucciso ma la sua testa fu posta in cima a una lancia e portata lungo le vie della città a monito di eventuali rivoltosi Nei giorni seguenti vi fu gran massacro della nobiltà, perchè ostile a Magnenzio.

La ribellione di Nepoziano e l'uccisione di esponenti della nobiltà della città di Roma sta a significare che l'usurpazione di Magnenzio, nata per rispondere allo scontento della corte imperiale e dei militari galli contro Costante, non ebbe però il sostegno del popolo romano: la casata di Costantino riscuoteva ancora la lealtà ottenuta dal suo fondatore e Magnenzio ne ebbe un'ulteriore prova con la sollevazione di Vetranione.

VETRANIONE

VETRANIONE

Esperto militare di umili origini, Vetranione servì sotto Costantino I diventando poi magister militum di suo figlio Costante I, imperatore dell'Italia e delle regioni danubiane.

Quando l'usurpatore Magnenzio uccise Costante nel 350, Costantina, sorella di Costanzo II e Costante I, chiese a Vetranione di proclamarsi augusto per proteggere la sua famiglia: le truppe danubiane potevano essere più fedeli ad un usurpatore che ad un imperatore nel lontano Oriente. 
Vetranione fu proclamato augusto a Sirmio il I marzo 350 in Illirico e Costanzo lo accettò di buon grado inviandogli un diadema, del denaro, e lo mise a capo delle truppe del Danubio, in modo da impegnare Magnenzio. Vetranione d'altronde manifestò sempre a Costanzo la sua lealtà.

Poi le loro relazioni deteriorarono e Vetranione passò dalla parte di Magnenzio. Insieme mandarono a Costanzo una proposta di pace che sarebbe stata suggellata con i matrimoni di Magnenzio e Costantina e di Costanzo e la figlia di Magnenzio, ma Costanzo rifiutò.

Allora Vetranione si incontrò con Costanzo a Serdica e poi a Naissus, dove Vetranione venne deposto il 25 dicembre 350. Costanzo e Vetranione montarono su di una piattaforma, e Costanzo riuscì a farsi acclamare imperatore dalle truppe, spogliò Vetranione della porpora, poi lo accompagnò giù dalla piattaforma e, chiamandolo padre, lo accompagnò alla tavola da pranzo.

Costanzo permise a Vetranione di vivere da privato cittadino con una pensione di stato a Prusa. Purtuttavia Vetranione si suicidò intorno all'anno 356.



BIBLIO

- Aurelio Vittore - De cesaribus - Pierre Dufraigne - Collection Budé - 1975 -
- C. G. Starr, Aurelius Victor - Historian of Empire - American Historical Review - 1955-56 -
- S. D'Elia - Ricerche sulla tradizione manoscritta e sul testo di Aurelio Vittore e dell'Epitome de Caesaribus - in « Rend. Acc. Napoli » - 1968 -
- Michael DiMaio - Nepotian (350 A.D.) -

TITO LARCIO - TITUS LARCIUS

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IL DITTATORE

Nome: Titus Larcius
Nascita: -
Morte: -
Gens: Larcia
Consolato: 501 a.C., 498 a.C.
Dittatura: 501 a.C.


Titus Larcius, di cui si ignorano la data e il luogo di nascita e morte, fu un politico romano del VI e del V secolo a.c., membro di una nobile famiglia etrusca insediata a Roma da molto tempo, la famiglia dei Lars di cui conosciamo Lars Tolumnius e Lars Porsena.

Secondo Dionigi di Alicarnasso, la gens Larcia (Lartii) portava il cognomen Flavus e in effetti in alcune iscrizioni, si trova il cognomen Rufus al posto di Flavus. Essendo fratelli Tito e Spurio, è possibile però che uno di essi, avendo i capelli biondi, fosse chiamato Flavus, mentre l'altro, per distinguerlo dal fratello e avendo i capelli di colore rosso, fosse chiamato Rufus.

Titus Larcius era fratello di Spurio Larcio, che fu accanto ad Orazio Coclite nella difesa del pons Sublicius contro gli Etruschi di Porsenna, in quanto Titus più che etrusco si sentiva ormai romano:
«....Quindi (Orazio Coclite) avanza a grandi passi verso l'ingresso del ponte, facendosi notare in mezzo alle schiere dei compagni che rinunciavano a scontrarsi e sbalordendo gli Etruschi con l'incredibile coraggio che dimostrava nell'affrontarli armi alla mano. Trattenuti dal senso dell'onore due restarono con lui: si trattava di Spurio Larcio e Tito Erminio, entrambi nobili per la nascita e per le imprese compiute. Fu con loro che egli sostenne per qualche tempo la prima pericolosissima ondata di Etruschi e le fasi più accese dello scontro. Poi, quando rimase in piedi solo un pezzo di ponte e quelli che lo stavano demolendo gli urlavano di ripiegare, costrinse anche loro a mettersi in salvo
(Tito Livio, Ab Urbe condita libri, Libro II, 10)

Tito Larcio, apprezzato e amato dal senato e dal popolo, venne eletto due volte console, e fu pure scelto come primo dittatore della storia romana, il massimo onore in tema di comando militare e civile.

FIDENATI
Venne scelto mentre era console nel 501 a.c. come dittatore di Roma, ed era la prima volta che fu attribuita questa carica, affinchè egli comandasse l'esercito contro le trenta città latine che avevano giurato di riportare Tarquinio il Superbo sul trono di Roma, temendo inoltre che vi si sarebbero alleati i Sabini. Come magister equitum, una specie di luogotenente, Tito scelse Spurio Cassio Vecellino, altro uomo di valore, famoso per il Foedus Cassianum, il trattato di pace stipulato nel 493 a.c. tra Romani e Latini, e per la prima proposta di legge agraria a Roma.

Si procedette ai preparativi per la guerra, e il dittatore tentò di recuperare qualche città latina alla causa romana, finchè due anni dopo nel 499 a.c. si scatenò la battaglia. Intanto tutti i romani si erano prontamente piegati ai suoi voleri, come il senato aveva sperato:

«Creato dictatore primum Romae, postquam praeferri secures viderunt, magnus plebem metus incessit, ut intentiores essent ad dicto parendum; neque enim ut in consulibus qui pari potestate essent, alterius auxilium neque provocatio erat neque ullum usquam nisi in cura parendi auxilium

«...Dopo l'elezione del primo dittatore della storia di Roma, quando la gente lo vide preceduto dalle scuri, provò una paura tale da obbedire con più zelo alla sua parola. Infatti non era più possibile, come nel caso dei consoli, i quali dividevano equamente il potere, ricorrere o appellarsi al collega, né esisteva altra forma di comportamento che l'obbedienza scrupolosa

(Tito Livio, Ab Urbe condita libri, Libro II, 18)

Tito Larcio venne eletto console di nuovo tre anni più tardi, nel 498 a.c. con il collega Quinto Clelio Siculo. Mentre il console collega curava la politica in città, Larcio, il brillante generale di sempre, condusse le forze romane contro Fidenae, città del Latium vetus.
Secondo quanto narra Dionigi di Alicarnasso, anche Quinto Clelio si fece onore dimostrando al tempo di Tito Larcio dittatore una notevole abilità nella battaglia contro i Latini.

Fidene aveva sfidato Roma uccidendo i coloni romani mandati sul suo territorio, un'offesa che andava lavata col sangue. Intanto ai fidenati si erano alleati i veienti e così si giunse ad una nuova battaglia, e Tito Larcio assediò Fidene. Lo scontro fu durissimo, ma alla fine i romani vinsero, presero la città, e ne ridussero gli abitanti in schiavitù. Ancora una volta Tito Larcio aveva mostrato il suo valore e il suo genio.

Ma non era finita, come si sospettava i Volsci, i Sabini e gli Equi si erano alleati tra loro per abbattere Roma e così nel 494 a.c. il senato romano affidò a Tito Larcio il controllo della città di Roma, mentre le dieci legioni romane in armi ne uscivano per affrontare i nemici.

A vittoria avvenuta Larcio si batté perchè i latini non venissero troppo penalizzati, intuendo che era un popolo da unire a quello romano integrandolo e non esasperandolo. Essendo non solo lungimirante ma anche di nobile animo, prese a cuore pure la causa plebea battendosi per migliorarne lo stato sociale.



BIBLIO

- Dionigi di Alicarnasso - Antichità romane - Libro V -
- Dionigi di Alicarnasso - Antichità romane - Libro VI -
- Livio - Ab Urbe condita libri - Libro II -
- Cicerone - De Re Publica - II -
- Lorenzo Quilici e Stefania Quilici Gigli - Fidenae, Latium Vetus - Roma - Consiglio Nazionale delle Ricerche - 1986 -
- Francesco di Gennaro - Fidenae. Contributi per la ricostruzione topografica del centro antico. Ritrovamenti 1986-1992 - Bullettino della Commissione Archeologica Comunale di Roma - CII - Roma - L'Erma di Bretschneider - 2001-

III GUERRA PUNICA ( 149-146 a.c.)

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CARTAGINE
La Terza Guerra Punica fu l'ultima delle tre guerre combattute fra le due grandi potenze del Mediterraneo: Cartagine e Roma, e si compì fra il 149 a.c. e il 146 a.c. Era già avvenuta nel 348 a.c. la stipulazione di due trattati con Cartagine riguardanti il possesso di Sardegna e Corsica, molto contestata dai loro abitanti.

Con la fine della I Guerra Punica Cartagine aveva perso definitivamente la Sicilia e la Corsica, con un'invasione romana nel 236 a.c. La rivolta dei mercenari contro i cartaginesi permise ai Romani di appropriarsi anche della Sardegna. 

Dopo Annibale, che era stato il signore della II guerra punica, Cartagine aveva dovuto cedere anche la ricchissima Spagna, con cui i cartaginesi avevano sostenuto le spese, sia del pagamento delle indennità del primo conflitto, sia per i quindici anni di guerra sostenuti da Annibale in Italia.
Per la sconfitta di Annibale, Cartagine stava inoltre pagando 200 talenti d'argento annui per 50 anni, costretta inoltre a prestare un contingente all'esercito di Roma nelle guerre contro Antioco III, Filippo V e Perseo. 
Peraltro i suoi commerci avevano avuto una viva ripresa e la loro agricoltura stava rifiorendo, soprattutto grazie alle coltivazioni di ulivo e vite che i cartaginesi sapevano produrre con nuove tecniche che davano un'alta resa, grazie al manuale agronomico di Magone che era subito stato tradotto e utilizzato anche dai romani..
I romani apprezzavano tutte le innovazioni da qualsiasi parte venissero e ciò aveva contribuito a farli grandi, e da Cartagine avevano copiato molto, soprattutto la costruzione delle navi.


CIVILTA' CARTAGINESE

Sorse dall'unione delle comunità berbere africane con i coloni dell'antica fenicia, la prima a creare una sorta di alfabeto scritto, forse come necessità nelle trattative commerciali. Al tempo delle prime installazioni fenicie, il Nord Africa è occupato da popolazioni libiche molto simili ai berberi. Secondo la tradizione venne fondata dalla principessa di Tiro Didone.

Sconfitti ad Himera nel 480 a.c. dai greci, loro rivali commerciali, la civiltà cartaginese si sviluppò in territorio africano. Qui sembra che le vie si sviluppassero con un sistema ortogonale, molto simile a quello greco e romano. Le strade erano lastricate e diritte ma fatte di argilla sulle colline, con rampe di scale quando necessitava. 

Le abitazioni venivano costruite per mezzo di una specie di cemento mescolato a pezzi di ceramica, e così il pavimento delle stanze o l'elevazione delle pareti. Le case avevano corridoi e scale di legno, erano alimentate da cisterne sotterranee che raccoglievano l'acqua piovana da un cortile centrale attraverso condutture. Non esisteva un sistema fognario ma una sorta di fossa biologica. I più abbienti avevano l'encausto come i romani con vasche nei bagni.

Tra gli elementi principali della città ci sono l'agorà, i templi, i porti mercantili e militari, varie taberne e bancarelle, magazzini, quartieri di artigiani alla periferia. soprattutto vasai, mercati, necropoli, di cui molti si trovano tra le case e la pianura, e altri più in alto sulle colline.

L'ASSEDIO DI CARTAGINE

ROMA NON DIMENTICA

Cartagine subiva le pesanti condizioni di sconfitta e si atteneva ai patti per tema di ritorsioni ma Roma non aveva dimenticato i costi economici e umani causati da Annibale nella precedente guerra. I territori a sud di Roma che avevano sopportato le scorribande, dei Cartaginesi prima e delle legioni poi, nel solo 214 a.c. registravano nove villaggi distrutti e 32.000 civili resi schiavi. 

Le sei legioni che Roma manteneva prima di Annibale, erano diventate 25 nel 212 a.c. a causa di Annibale. 

Roma doveva mantenere oltre 200.000 legionari, oltre alle navi con i loro costi e i loro uomini. Inoltre chi combatteva non produceva e non coltivava la terra, Roma non poteva perdonare ed aveva bisogno di rimpinguare le casse.

C'era soprattutto il moralista Marco Porcio Catone, non tanto preoccupato dai pericoli futuri, ma dal timore che i romani potessero apprendere i molli costumi orientali che terminava tutti i suoi discorsi con la famosissima frase «Ceterum censeo Carthaginem esse delendam» (e concludo affermando che Cartagine deve essere distrutta). 

Non tutti erano d'accordo, nemmeno il valoroso Scipione Nasica, cugino dell'Africano che rispondeva: «per me deve vivere». Ma i cavalieri, che gestivano molte attività commerciali erano dalla parte di catone per togliersi di torno il rivale commerciale.



IL CASUS BELLI

Intanto il re di Numidia e alleato dei romani Massinissa si era arbitrariamente annesso alcuni regni minori sulla costa dalla Tunisia all'Atlantico. Colpito dalla civiltà di Roma volle emularla trasformando pian piano il suo regno da pastorale con società nomade ad agricolo e stanziale. Fondò alcune città e poi mirò a Cartagine, al suo sapere, al suo porto e alle sue terre.

Così approfittò degli accordi di pace del 201 a.c. fra Roma e Cartagine, che vietavano alla città persino la difesa senza il consenso dell'Urbe, per sottrarre con la violenza alcuni suoi territori di confine. Così occupò la ricchissima Emporia nella Syrtis Minor, Cartagine protestò con Roma e il Senato inviò una delegazione comprendente Publio Cornelio Scipione, tra l'altro amico di Massinissa, che non decise nulla contro la Numidia.

Avendola fatta franca, nel 174 a.c. Massinissa occupò Tisca e il territorio circostante. Roma inviò in Africa Catone, il grande nemico di Cartagine, alla guida di un'altra commissione. Per tutta risposta Catone ribadì la necessità di distruggere Cartagine, portando il famoso aneddoto del cesto di fichi, portati da Cartagine ancora tanto freschi da far comprendere quanto Cartagine fosse pericolosamente vicina.

Intanto a Cartagine la fazione favorevole a Roma e a Massinissa perse il potere e 40 membri furono esiliati e si rifugiarono in Numidia, pressando il re a inviare a Cartagine i suoi figli per chiedere il rientro degli esuli. Cartagine rifiutò e Massinissa occupò la città di Oroscopa. Esasperata Cartagine, rompendo i patti, allestì un esercito di 50.000 uomini e cercò di riconquistare Oroscopa, ma perse la battaglia.

Ora Roma non temeva più Cartagine ma temeva che la Numidia la conquistasse assorbendone il grande potere. Roma finse di trattare con Cartagine chiedendo però che la parte della città sul mare fosse demolita e che nessun edificio sorgesse a meno di 5 km dal mare, il che significava toglierle tutti gli scambi commerciali via mare. Cartagine rifutò e Roma dichiarò guerra. Era il 149 a.c. aveva inizio la III Guerra Punica.



L'ESERCITO ROMANO IN AFRICA

Appena i consoli romani Lucio Marcio Censorino e Manio Manilio Nepote partirono per l'Africa dalle basi siciliane con un esercito di 80.000 uomini e 4.000 cavalieri, Cartagine si arrese e si rimise alle decisioni di Roma inviando 300 ostaggi scelti fra gli adolescenti della nobiltà punica.

L'esercito romano sbarcò presso Utica, che si arrese e dovette consegnare al campo romano di Utica ben 200.000 armature, 2.000 catapulte e altro materiale bellico. Ma secondo gli ordini ricevuti Marcio Censorino ordinò la distruzione di Cartagine: "Escano dunque dalle mura gli abitanti e vadano ad abitare ad ottanta stadi dal mare"

Per tutta risposta il popolo cartaginese uccise tutti gli Italici presenti in città, liberò gli schiavi perchè aiutassero nella difesa, e richiamò Asdrubale e gli altri esuli allontanati per compiacere Roma. Però finsero di volere un'ulteriore risposta di Roma per guadagnare altri 30 giorni.

In realtà sbarrarono le porte della città, rinforzarono le mura, poi i 300.000 Cartaginesi rimasti, fondendo ogni metallo recuperabile dagli edifici e dai templi, perfino oro e argento, riuscirono a produrre ogni giorno 300 spade, 500 lance, 150 scudi e 1.000 proiettili per le ricostruite catapulte. Le donne offrirono i loro capelli per fabbricare corde per gli archi. Quando i Romani, partiti da Utica per distruggerla, arrivarono alle mura di Cartagine le trovarono chiuse e con gli armati sulle mura. E fu assedio.

CARTAGINE A FUOCO

L'ASSEDIO

Ora a parte che furono armati perfino i vecchi e i giovinetti cartaginesi, Asdrubale era riuscito ad arruolare circa 50.000 uomini ben armati. Censorino tentò di bloccare il porto con la flotta senza riuscirvi. Le mura erano inespugnabili. Intanto come tribuno, Scipione Emiliano, figlio del console Lucio Emilio Paolo Macedonico, vincitore a Pidna, adottato nella gens Cornelia dal figlio di Scipione Africano, riuscì a portare nel campo dei romani Imilcone, uno dei capi della cavalleria cartaginese, con oltre 1.200 cavalieri.

Nel 148 a.c.vennero inviati in Africa i nuovi consoli ma si rivelarono ancora più incapaci dei predecessori facendosi battere dai difensori di due città vicine: Clupea e Ippona. Questi insuccessi romani galvanizzarono i Cartaginesi, Asdrubale prese il potere con un colpo di Stato rompendo la concordia precedente e fece esporre sulle mura i prigionieri romani, orrendamente mutilati, per intimorire i nemici. Ma non conosceva i romani che erano abituati da secoli alle atrocità dei barbari, che per questo odiavano e disprezzavano. Anzi, ottenne l'effetto contrario, più che mai i romani si decisero a distruggere la città e pure gli abitanti.
SCIPIONE EMILIANO

SCIPIONE EMILIANO

Siamo nel 147 a.c., Roma non si fida più dei suoi consoli ma si fida di Scipione Emiliano, perchè conosce il valore suo e della sua famiglia e viene nominato console pur senza aver raggiunto l'età prescritta. Ha come collega Gaio Livio Druso. 

Appena giunto sotto le mura di Cartagine Scipione deve correre a salvare Lucio Mancino che, isolato da un contrattacco rischia pure di morire di fame. Poi procede con l'attacco alla città, e di notte assale Asdrubale, che difendeva il porto con 7.000 uomini, costringendolo a riparare a Birsa.

Ora Scipione doveva bloccare le vettovaglie che giungevano a Cartagine. Fa costruire una diga di tre metri, e blocca il porto attraverso cui si riforniscono i Cartaginesi. Questi scavarono un tunnel-canale per rifornire la città e riescono addirittura a costruire cinquanta navi. Ma Scipione è rapidissimo, distrugge la flotta, chiude il tunnel-canale e lo fa presidiare.

Intanto la città di Nefari, presidiata da un grosso nucleo cartaginese, viene attaccata dalle truppe romane del legato Lelio e dal figlio di Massinissa, Golussa, che Scipione aveva convinto ad allearsi a Roma. Si parlò di 70.000 morti e 4.000 sfuggiti, forse un'esagerazione ma comunque caduta Nefari le altre città si arrendono. Ora toccava a Cartagine.



LA FINE DI CARTAGINE

L'agonia della città durò tutto l'inverno, senza viveri, con la pestilenza, vi furono casi di cannibalismo e di morte per gli stenti. Scipione conosceva benissimo le condizioni degli assediati e non forzò l'attacco.

Nel 146 a.c. infine dà l'ordine di salire sulle mura. Lelio e le sue truppe scelte conquistano il porto militare e il foro.I sopravvissuti si battono per le strade della città, di casa in casa, per circa quindici giorni. Gli ultimi soldati assieme a un migliaio di disertori romani, si rinchiusero nel tempio di Eshmun sull'acropoli, resistendo per altri otto giorni. Il tempio verrà poi dato alle fiamme dagli stessi Cartaginesi.

Per risparmiare le sue truppe Scipione emanò un bando che prometteva salva la vita a chi si arrendeva e usciva disarmato dalla cittadella; uscirono in 50.000 fra cui Asdrubale. La moglie di Asdrubale, fra sanguinose ingiurie e maledizioni al marito, gridò una preghiera a Scipione di punire il codardo indegno di Cartagine, poi salì al tempio incendiato, sgozzò i figli e si lanciò fra le fiamme.
Dopo aver recuperato alcune opere d'arte che i Cartaginesi avevano preso in Sicilia, fra cui il Toro di Agrigento e la Diana di Segesta, Scipione abbandonò la città al saccheggio dei suoi soldati. 


IL TORO DI AGRIGENTO

La sua creazione viene attribuita a Perillo di Atene, un fonditore di ottone, che propose a Falaride, tiranno di Agrigento, un nuovo sistema per giustiziare i criminali. Il toro vuoto aveva una porta sul fianco per introdurvi le vittime. Si accendeva un fuoco sotto al toro e si faceva così cuocere la vittima.

E' Paolo Orosio, discepolo di Agostino di Ippona, che lo racconta e ne realizza la riproduzione. il toro era costruito in modo tale che il suo fumo si levasse in profumate nuvole di incenso e la testa era dotata di un complesso sistema di tubi e fermi, che convertivano le urla dei prigionieri in suoni simili a quelli emessi da un toro infuriato.

Si narra anche che una volta riaperto lo strumento di morte, le ossa riarse delle vittime brillassero come gioielli e venissero trasformate in braccialetti. Naturalmente Orosio da buon cristiano si inventa di tutto per mettere in cattiva luce i pagani, anzi narra che diversi cristiani furono martirizzati in tal modo, ma non risulta da nessuna parte. Naturalmente il toro era solo uno stupendo modello di fonditura che doveva ornare il mercato cartaginese così come un altro toro ornava quello romano.



LA DIANA DI SEGESTA

Una statua stupenda, anch'essa di bronzo, con una fiaccola sulla mano destra e un arco sulla mano sinistra, si dice fosse bellissima.



CARTAGINE MUORE

Cartagine, la bella e potente regina del Mediterraneo che aveva fatto tremare Roma, fu data alla fiamme, rasa al suolo, e il suo porto venne distrutto. Lo storico greco Polibio narra che Scipione pianse vedendo quella rovina.

Leggenda vuole che sulle rovine della città fu passato l'aratro, ed i solchi furono cosparsi di sale in modo tale che nulla potesse più crescere sul suo suolo; però nessuna fonte dell'antichità cita questo rituale menzionato solo nel XIX secolo.

SCIPIONE

SCIPIONE PIANGE

Appiano: «Scipione  mirando Cartagine distrutta dalle fondamenta e tratta all’estrema rovina, si dice che abbia pianto manifestamente per i suoi nemici. Dopo aver a lungo meditato, raccolto in se stesso, pensando come le città, le nazioni e gli stati siano tutti soggetti a mutazione di fortuna al pari degli uomini, e che tal cosa era toccata ad Ilio, città una volta felice, agli Assiri, ai Medi, ai Persiani e ai Macedoni, avrebbe recitato o di proposito o gli sarebbero sfuggiti di bocca codesti versi: "Giorno verrà che il sacro Ilio rovini, Priamo e la gente del guerriero Priamo". Polibio avrebbe allora chiesto il significato delle sue parole, e si dice che Scipione non si guardasse dal nominare apertamente la patria sua, per la quale, considerata la natura delle cose, egli temeva». 



I CARTAGINESI

I circa 50.000 superstiti, in massima parte donne e bambini, furono venduti nei mercati degli schiavi; la città fu rasa al suolo, i territori divennero ager publicus e dati in affitto a coloni romani, italici e anche libici. La vicina Utica, rivale di Cartagine e alleata di Roma, divenne la nuova capitale della regione.



LA NUMIDIA

Onde evitare strane bramosie da parte della Numidia, tra essa e gli ex possedimenti di Cartagine fu scavato un fossato (poi Fossa Regia) che segnò il confine fra la Numidia (ancora indipendente) e la nuova Provincia romana d'Africa.
La Terza Guerra Punica era terminata e Cartagine era scomparsa.


Vedi anche:
I GUERRA PUNICA
II GUERRA PUNICA


BIBLIO

- A.E. AstinAnalisi - Scipio Aemilianus - Oxford - 1967 -
- Elena Caliri - Il pianto di Scipione Emiliano - Ricerche di Storia Antica - 2013 -
- Polibio - Storie -
- Sesto Aurelio Vittore - De viris illustribus Urbis Romae -
- Cicero - De republica -
- Velleio Patercolo - Historiae romanae ad M. Vinicium libri duo - 

HERACLEA LYNCESTIS (Grecia)

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Heraclea Lyncestis, detta pure Herakleia Lynkestis, fu un'antica città greca, le cui rovine giacciono a 2 km (1.2 mi) a sud dell'odierna città di Bitola, nel North della Macedonia. Essa venne fondata da Filippo II di Macedonia (regno 359 - 336 a.c.) verso la metà del IV secolo a.c., dopo che aveva conquistato la regione circostante della Lincestide e l'aveva inserita nel suo Regno di Macedonia.

La città venne così chiamata in onore del grande e mitico eroe Heracles (o Eracle, Ercole). Il nome Lynkestis invece originò dal nome di un antico regno, conquistato da Filippo, su cui la città venne costruita, e i cui abitanti venivano chiamati Lyncestae o Lynkestai.

ATHENA PARTHENOS
La regione di Lynchestia fu governata da re e capi indipendenti o semi-indipendenti fino a quando i sovrani Argead di Macedon (Aminto IV, Filippo II) neutralizzarono l'indipendenza di Lynchestia con alleanze dinastiche e la pratica di allevare i figli dei capi tribali nei palazzi di Filippo II.

I ricchi re di Lynkestis risalivano ai re Bacchiad che vennero espulsi da Corinto nel VII secolo a.c.. Durante la guerra del Peloponneso (431- 404 a.c.) Arrhabaeus, re di Lyncestis, mosse guerra contro Perdicca II di Macedonia (regno 451-413 a.c.) nella battaglia di Lyncestis nel 423 a.c..

Secondo Strabone, Irra era la figlia di Arrhabaeus e sua nipote era Euridice, madre di Filippo II, pertanto il trono era di diritto per lui.

Heraclea era una città importante dal punto di vista strategico nel periodo ellenistico, visto che si trovava al limitare del confine fra Macedonia ed Epiro a ovest e del mondo non-greco verso nord, fino a quando i Romani conquistarono la Macedonia nel II secolo a.c. e la divisero in 4 regioni. Heraclea si trovava nella IV regione, nella provincia di Macedonia Prima.

La principale strada romana della zona, la Via Egnatia, attraversava Eraclea, ed Eraclea era una città importante che molto si avvantaggiò per questa via di comunicazione che facilitava i viaggi e soprattutto il commercio. La prosperità della città si sviluppò principalmente a causa di questa strada. Gli oggetti scoperti dal tempo del dominio romano a Eraclea sono monumenti votivi, un portico, le terme, un teatro e le mura cittadine.

Inoltre, all'inizio del periodo cristiano, Eraclea era un'importante sede episcopale. Alcuni dei suoi vescovi sono menzionati nei sinodi di Serdica e in altre città vicine. La città fu gradualmente abbandonata nel VI secolo d.c. a seguito di un terremoto e di invasioni slave.

LA GRANDE BASILICA

I MONUMENTI ROMANI

La principale strada romana nell'area, la Via Egnatia, passava per Heraclea, e fu citata anche da Giulio Cesare nel De Bello Civili. L'imperatore romano Adriano, nella sua lunghissima visita ai possedimenti imperiali, fece costruire, per la romanizzazione del popolo, un teatro nel centro della città, su una collina, ordinando anche il restauro di molti edifici nella provincia romana della Macedonia.

Il teatro cominciò ad essere usato durante il regno di Antonino Pio. Nel 1931, venne rinvenuta una tavoletta che era un biglietto per un posto nella XIV fila (su XX file), cosa che fornì la prima prova all'epoca dell'esistenza del teatro. Infatti il teatro stesso non fu scoperto fino al 1968.

All'interno del teatro c'erano tre gabbie per animali (per gli spettacoli venatori) e nella parte occidentale c'era un tunnel per il loro transito fino all'arena. Il teatro andò in disuso durante la fine del IV secolo d.c., quando furono banditi i combattimenti dei gladiatori nell'Impero romano, a causa della diffusione del cristianesimo, della formulazione dell'Impero Romano d'Oriente e dell'abbandono di tutto ciò che allora venne percepito come pagano sia nei rituali, sia nell'arte, che negli spettacoli e nell'intrattenimento.


IL PERIODO BIZANTINO

All'inizio del periodo bizantino (dal IV al VI secolo d.c.) Eraclea conquistò una nuova importanza, divenendo un notevole centro episcopale. Il quest'epoca il potere e la ricchezza erano in gran parte nelle mani della Chiesa. I nobili non miravano più a diventare generali per arricchirsi ma si gettavano sulla redditizia carriera ecclesiastica. Alcuni dei suoi vescovi vengono ricordati negli atti dei Concili della Chiesa come Evagrius di Eraclea negli Atti del Concilio Sardica che si svolse dal 343 al 344 d.c.

Di questo periodo abbiamo resti notevoli: una piccola e una grande basilica, la residenza del vescovo, una basilica funeraria e la necropoli. Tre navate nella Grande Basilica sono ricoperte da complessi mosaici policromi con immagini umane, animali e floreali; questi mosaici ben conservati sono spesso considerati ottimi esempi del periodo dell'arte paleocristiana, anche perchè il resto di quest'arte degenerò dimenticando totalmente le prospettive e le forme.

Altri vescovi di Eraclea sono noti tra il IV e il VI secolo d.c. come il vescovo Quintilino menzionato negli Atti del Secondo Concilio di Efeso, dal 449 d.c. La città venne saccheggiata da Ostrogoti e Visigoti, comandata da Teodorico il Grande, re degli Ostrogoti dal 474 d.c. e, nonostante un grande dono che il vescovo della città gli fece, nel 479 d.c. fu nuovamente saccheggiata. La città fu restaurata verso la fine del V e il principio del VI secolo d.c.



TEODORICO IL GRANDE

I numerosi successi di Teodorico portarono l'imperatore Zenone a riconoscere al re ostrogoto lo stato di federato romano e a eleggerlo a console nell'anno 484 (alcuni anni dopo gli fu anche eretta una statua equestre a Costantinopoli), accettando così "corum populi" il predominio ostrogoto sull'area balcanica.

La presenza di Teodorico stava diventando però sempre più minacciosa per Zenone, ma nel contempo Odoacre in Italia si stava inserendo pericolosamente minacciando gli interessi di Bisanzio.
Così Zenone pensò di risolvere i suoi problemi mettendo in conflitto fra di loro i due re barbari, per cui, con l'aiuto di Bisanzio, nell'autunno del 488 Teodorico preparò la spedizione verso l'Italia, varcando le Alpi orientali nel 489 con al seguito un esercito di circa 100.000 Ostrogoti.

Condusse per 5 anni una guerra cruenta contro gli Eruli, un insieme di tribù germaniche che, entrate al servizio dell'Impero romano in qualità di mercenari, ne decisero infine la sorte infelice. I grandi legionari romani non esistevano più, tra la decimazione delle pesti e il nuovo credo cristiano per cui si dovevano amare i propri nemici. Così nel 476, fu il re Odoacre a deporre l'ultimo imperatore romano d'Occidente, Romolo Augusto, e assunse il controllo dell'Italia. Il regno degli Eruli fu però di breve durata, perchè nel 493 venne cacciato dagli Ostrogoti di Teodorico.

IL TEATRO
Teodorico, una volta conquistato il potere, lasciò ai Romani che gli si dimostrarono fedeli gli impieghi amministrativi e politici che già detenevano, riservando ai Goti i compiti di sicurezza e difesa. Inoltre riscattò i cittadini romani fatti prigionieri da altri popoli barbari e procedette alla distribuzione delle terre, mai suoi luogotenenti, non furono altrettanto onesti.

Venne varata una legge, presa dai costumi germanici, che permetteva ai contadini vittime di atti di schiavismo di uccidere i padroni come legittima difesa. Si scatenò l'eccidio dei proprietari terrieri latini che vennero uccisi e le terre passarono ai goti o a latini collaborazionisti.
Diminuì così la produzione agraria, perchè i barbari poco capivano dei sistemi di coltivazione e molti latini, per la crescente prepotenza degli Ostrogoti che avevano occupato i possedimenti agricoli, ripararono nell'Impero Bizantino. La popolazione si ridusse pian piano alla fame.
Quando un terremoto colpì Eraclea nel 518 d.c., gli abitanti abbandonarono gradualmente la città. Successivamente, alla vigilia del VII secolo, i Dragoviti, una tribù slava spinta dagli Avari verso il nord, si stabilirono nell'area. L'ultima emissione di monete risale a ca. 585, il che suggerisce che la città fu catturata dagli slavi. Di conseguenza la civiltà svanì completamente e al posto del teatro della città deserta furono costruite diverse capanne.



LA PICCOLA BASILICA

La cosiddetta Piccola Basilica è stata scoperta in scavi effettuati prima dello scoppio della Seconda Guerra Mondiale tra il 1936 e il 1938. All'inizio si pensava che fosse un antico palazzo, ma nelle ricerche successive, dal 1960 al 1964, si è capito che si trattava di una basilica paleocristiana.

All'interno della basilica era stato montato un mosaico pavimentale decorato ad "opus sectile", poi sono state scoperte diverse stanze dopo di quella. La prima sala veniva utilizzata per il battesimo, mentre la seconda sala aveva un altro mosaico pavimentale realizzato ad "Opus tessellatum".



LA GRANDE BASILICA

La Grande Basilica era un edificio monumentale con una sala di portici aperti, una sala di esonartece (un tipo di nartece rivolto verso l'esterno della chiesa), una di nartece (vestibolo porticato interno riservato ai catecumeni o ai fedeli), due annessi a nord e una sala di tre annessi a sud.

I pavimenti di queste sale hanno mosaici con disegni geometrici e floreali. Il mosaico del nartece è di arte protobizantina, una grande composizione a 100 m. con uccelli, alberi, cespugli, un cane rosso (secondo alcuni simbolo del paradiso, ma è molto opinabile) e altri animali della terra. Questo mosaico risale alla fine del VI secolo.

Dopo che il complesso della Grande Basilica era stato realizzato, la funzione di questi ambienti venne modificata. Con la scoperta delle pareti, la plastica architettonica e i pavimenti sono stati ricostruiti elettronicamente.

La Grande Basilica però è stata costruita sopra un'altra preesistente che si ritiene sia stata edificata tra il IV e il VI secolo. Il pavimento a mosaico della Grande Basilica è raffigurato sul retro dei denari macedoni.

Nella Basilica Maggiore, tre navate sono ricoperte di mosaici con iconografia a base di motivi floreali molto ricchi e figurativi; questi mosaici ben conservati sono spesso presi come bell'esempio del periodo iniziale dell'arte cristiana. Sono noti anche altri vescovi di Heraclea vissuti tra il IV ed il VI secolo d.c., come il vescovo Quintilinus menzionato negli Atti del Secondo Concilio di Efeso del 449 d.c..



LA RESIDENZA EPISCOPALE

La residenza episcopale è stata scavata tra il 1970 e il 1975. La parte occidentale è stata scoperta per prima e il lato sud è vicino alle mura della città. Le camere di rappresentanza si trovano nella parte orientale. La II, III e IV stanza hanno tutte pavimenti a mosaico. Tra la III e la IV stanza c'è un buco che portava all'ingresso orientale della residenza. Il foro è stato creato appositamente tra il IV e il VI secolo.


IL PERIODO BIZANTINO

Al principio del periodo bizantino (dal IV al VI secolo d.c.), dunque Heraclea fu un'importante sede episcopale. Alcuni dei suoi vescovi sono stati citati negli atti dei Concili della Chiesa, come il vescovo Evagrius di Heraclea negli Atti del Concilio di Sardica del 343 d.c.. Dove c'erano vescovi c'era potere e ricchezza e fiorivano le opere d'arte.

L'arte perse la prospettiva, la sinuosità dei movimenti, la capacità di ritrarre con pochi tratti i volti, i corpi, le espressioni e i movimenti, divenne statica e inespressiva, si colmò di ori e dette però degli ottimi mosaici. .

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